CECCO D'ASCOLI

CECCO D'ASCOLI.

RACCONTO STORICO DEL SECOLO XIV

DI

PIETRO FANFANI.

EDIZIONE ACCONSENTITA DALL'AUTORE.

Non cuivis lectori auditorive placebo:

Lector et auditor nec mihi quisque placet.

LEIPZIG: F. A. BROCKHAUS. — 1871.

INDICE

CENNI SOPRA PIETRO FANFANI.

Il nome di Pietro Fanfani è già tanto noto e venerato nella repubblica delle lettere, che temo quasi di venir tacciato di arroganza intraprendendo a scrivere alcune poche parole che devono servire in tal qual modo di introduzione ad un suo libro. Onde scansare questa taccia mi sia lecito di recare anzi tutto alcuni cenni sulla storia della presente edizione dell'eccellente romanzo del gran filologo italiano.

Verso la metà dell'anno 1870 il Fanfani, cui piace onorarmi della sua amicizia, mi era cortese di un esemplare della edizione del suo Cecco d'Ascoli fatta nell'anno medesimo a Firenze. Dopo averlo letto e riletto non potei fare a meno di giudicare che questo del Fanfani fosse un romanzo da porsi allato ai pochi buoni della letteratura romanzesca italiana, e da porsi in ischiera coi Promessi Sposi del Manzoni, colla Margherita Pusterla del Cantù, col Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio e con altri romanzi di questo genere. Anzi, io non dubitai un momento il Cecco d'Ascoli essere in diversi riguardi assai più bello dei romanzi or' ora nominati. Per dirne soltanto una, quella lingua tanto bella, semplice, pura e schietta nella quale è scritto il Cecco tu la cercheresti invano altrove. In me si risvegliò adunque il desiderio di veder stampato il libro in questa nostra Biblioteca d'autori italiani, alla quale esso sarebbe stato di non lieve ornamento. Ne scrissi adunque al Fanfani, il quale con quella sua amabile modestia che è propria soltanto degli uomini veramente grandi mi rispose: «Che quel libro sia ristampato a Lipsia lo terrei per grande onore; e però le dò carta bianca rispetto alle condizioni da porsi all'editore; il guadagno è sempre l'ultima cosa ch'io cerco. Faccia dunque e disfaccia, certo di piacermi in qualunque modo.» I patti furono stipolati senza veruna difficoltà, e stipolati che furono il Fanfani mi scriveva di nuovo: «Avrei caro che la edizione la curasse Lei; e che mi proponesse quelle altre correzioni che le paressero bisognare, facendo poi sull'opera tutte le annotazioni, discorsi ecc. che crederà meglio.» Quantunque occupato assai di altri miei lavori letterarii accettai nondimeno prontamente la proposta di curare la stampa, lieto di poter così in certo modo mostrare la mia gratitudine verso l'egregio autore. Correzioni da proporre io poi non ne aveva, neppur trovai che ci fosse uopo di annotazioni o discorsi. Ben si avrebbe potuto fare un discorso storico e critico sopra l'infelice Cecco d'Ascoli, l'eroe principale del romanzo; senonchè l'autore stesso nel suo libro ne dice assai per i lettori dello stesso, e i dotti non andranno a cercare ammaestramenti critici o scientifici in un libro che vuol essere ed è popolare. Soltanto mi parve, che alcuni fra i lettori del libro che non conoscono più che tanto la moderna letteratura e filología italiana, avrebbero forse caro di fare un po' di conoscenza col celebre autore del Cecco d'Ascoli, e che perciò alcuni brevi cenni biografici non sarebbero fatica gittata al vento. Communicai quest'idea all'autore e ne ebbi la sua approvazione; soltanto egli mi pregava di non voler scrivere sopra lui in modo tale da offendere la sua modestia. Questo desiderio m'indusse a premettere le osservazioni qui sopra, dalle quali si vede che il Fanfani non richiese lui nè che il suo libro si stampasse nella Germania, nè che vi si aggiungessero cenni biografici, ma che egli condiscese soltanto amichevolmente al desiderio da me espresso.

Tanto basti della storia della presente edizione. Intorno all'edizione stessa vi spenderò alcune brevi parole alla fine del presente discorso. Sopra la vita e le opere dell'autore trascrivo imprima quanto ne dice il Pitrè a pag. 65-70 dei suoi Profili biografici di contemporanei italiani (Palermo 1864)[1], su cui il Fanfani medesimo così mi scriveva: «Non so chi fornisse i materiali al sig. Pitrè, ma sono assai esatti.» Il Pitrè dunque scrive:

«Nacque il Fanfani a Pistoja nel 1817, da famiglia piuttosto agiata anzichè no. Maschio unico, fu educato assai amorosamente, e le carezze gli nacquero a segno che nella prima età diede cattivi indizi della sua riuscita, e fu pessimo scolare. Il padre si vide necessitato a metterlo per castigo sotto la custodia di un suo fratello prete in campagna, dove il lasciò un intiero anno. Tornato, e messo sotto a privati maestri, imparò assai bene, ma la sua indole era sempre irrequieta e riottosa. Finiti gli studi di grammatica, e passato a quelli di lettere sotto il canonico Giuseppe Silvestri, grande rettore, eccellente scrittore latino e valente scrittore italiano e l'unico che ridestasse in Toscana lo studio della Divina Commedia, passava a quelli di filosofia sotto il Mazzoni. Prima dei diciott'anni si volle mettere allo studio delle scienze mediche nella scuola dell'ospedale di Pistoja; ma più che alla medicina, badava a coltivare le lettere, nelle quali trovava il suo vero elemento, senza però far senno; cosichè il padre di lui, che per disgrazie patite volgeva a povertà, fu costretto a cercargli una situazione nella milizia, e lo mise a fare il soldato, dove stette venti mesi, nella segreteria di un colonnello. Morto il genitore ed avuto il congedo, riprese gli studi medici, ma senza frutto, e li abbandonò nel 1838, per darsi solo alle amene lettere.

«Nel 1847 incominciò a Pistoja un giornale intitolato Ricordi filologici che ebbe buon successo e fu da molti applaudito; ma lo interruppe un anno dopo, per andare coi volontari toscani in Lombardia, dove preso colle armi alla mano (ed armi non istate oziose[2] ), e fatto prigioniero degli Austriaci, il 29 maggio fu cogli altri suoi compagni condotto a Mantova, e poscia a forza di marciate assai penose nel forte di Theresienstadt, sull'estremo confine della Boemia, donde uscì nel settembre, al concludersi dell'armistizio solasco. Ritornato in patria ripigliava lo studio delle lettere e, amico del Gioberti, era da lui chiamato in Piemonte, nel Ministero di Pubblica Istruzione; ma salito al potere il Pistojese Franchini, si avea da lui ufficio onorato nel Ministero di Toscana. Dopo la restaurazione del Lorenese era mantenuto in ufficio, ma guardato sempre con sospetto. Non ostante qualche opposizione, dava mano a un nuovo giornale di Filologia, Letteratura, Istruzione Pubblica e Belle Arti, cui metteva il titolo di Etruria, bene a ragione encomiato dal Gioberti. Nel 1859 veniva eletto bibliotecario della Marucelliana, e poi nel 1861 con decreto del principe di Carignano, chiamato a reggere la Biblioteca Nazionale di Napoli, carica che non volle il Fanfani accettare[3].

«Moltissime sono le opere di lui, ma non tutte del medesimo interesse[4]. Aspettando che egli, nella età in cui si trova, regali alle lettere lavori veramente degni della sua dottrina, come gli ultimi dati fuori, ci facciamo ad enumerare i principali: 1º. Il Vocabolario della lingua italiana (Firenze, Le Monnier 1856), lavoro pensato e coscienzioso dove in mezzo a tanti difetti (alcuni dei quali già stati notati dal Viani) risplendono pure pregi infiniti[5]. 2º. I Diporti filologici (Napoli 1858), dialoghi già pubblicati in vari periodici, e benchè dispaiano gli uni dagli altri negli speciali argomenti, veggonsi tuttavolta assai bene congiunti insieme per tendere a quell'unico scopo di scrivere bene l'italiano[6]. 3º. Le Osservazioni sui primi fascicoli della quinta impressione del vocabolario della Crusca (Modena 1849). Questa scrittura fu causa di molti dispiaceri al Fanfani, e diede argomento perchè tra lui e gli accademici della Crusca s'impegnasse una disputa che si mantenne viva per qualche tempo e venne acquistando molta celebrità in Toscana. Il Fanfani avea colla sua natural franchezza dichiarato, che i sette fascicoli di quella impressione erano erronei, anzi un vero plagio, una rapsodia, e lo avea solennemente espresso in una dedicatoria di quel suo scritto al Parenti. La Crusca se l'ebbe per male, e invitò uno dei suoi socii a rispondere. Il Salvi fu quello che volle mettersi a battagliare col filologo pistoiese, scrivendo le più orribili villanie. L'Arcangeli, imitando il Salvi, nelle ultime parole di un Apatista disse vituperii del Fanfani, suo amicissimo e confidente, quando afflitto da domestiche sciagure non poteva, com'era conveniente, rispondere. Con tutto questo pochi mesi dopo i Cruscanti diedero ragione al sagace critico, e quei fascicoli sui quali si era aggirato la disputa giudicati roba da nulla, furono messi da parte per dar luogo a una ristampa in altra maniera[7]. 4º. Il Vocabolario dell'uso toscano (Firenze, Barbèra. 2 vol. 1863), e 5º. il Vocabolario della pronunzia toscana (Firenze, Le Monnier, 1863), opere indispensabili a studiarsi da chi attende a curare il nostro bello idioma, per la molta conoscenza che l'autore mostra della lingua italiana e della pronunzia toscana, e per la straordinaria erudizione che sempre vi s'incontra: erudizione solida, abbondante, provata. Molti furono i critici che ripresero questi lavori e ai più non piacque quella mescolanza che il Fanfani spesso fa di parole che figurano sempre diversamente nelle diverse città toscane, come per la pronunzia. Assai sono gli errori, a vero dire[8], e tali che dovrebbe egli correggere in un appendice o in una seconda edizione, facendo suo pro delle osservazioni degli onesti e coscienziosi linguisti; ma non sappiamo trovar parole che bastassero a lodare il compilatore pel bene che arrecò alle lettere con questi nuovi libri, che gli costarono parecchi anni di studii indefessi.

«Le opere del Fanfani, che diremo minori, sono: le Lettere precettive di eccellenti scrittori; il Decamerone del Boccaccio; la Fiera e la Tancia di Buonarroti il Giovane; le Novelle e le Commedie di Grazzini detto il Lasca; le Poesie burlesche de' più illustri autori classici, libri tutti annotati e postillati. Oltre a questi ve ne sono degli altri editi per sua cura, tali sarebbero: l' Aiace del Buonarroti; i Conti di antichi Cavalieri; il Gazzettino di Girolamo Gigli; il Dialogo della bella creanza delle Donne di A. Piccolomini; l'Attila, Flagellum Dei, romanzo cavalleresco; i Marmi di Anton Francesco Doni; il Pome del Bel Fioretto, poema di Domenico da Prato; Lorenzo e Lorenzino dei Medici, ecc. le quali pubblicazioni, toltane alcuna, sono state tirate in numero scarsissimo di esemplari, collo intendimento di lasciarle come rarità bibliografiche; e finalmente poche traduzioni dal latino e dal francese, tra le quali stupenda ci pare quella dagli Anabbatisti di Monforzio.

«Pietro Fanfani, ingegno carissimo, adorno di tanto e si squisito gusto è dei pochi, per servirci delle parole del Deputato Bruto Fabbricatore, i quali nella felice Toscana mantengono in pregio ed onore la buona lingua ed i classici studii, ritraendo bellamente in sè quello che ad altrui va inculcando; questo attestano le molte opere finora ricordate, e lo comprovano le varie prose da lui composte per la Rivista di Firenze, pel Passatempo e pel Piovano Arlotto, periodici diretti da quel raro ingegno che è Raffaele Foresi, e che non perdonarono ad offesa di sorta fatta alla nostra lingua.

«Il Fanfani dirige in Firenze il Borghini, rivista mensuale di filologia e lettere: il solo che si occupi seriamente degli studii della vera lingua italiana, che Egli vorrebbe veder propagata e abbracciata dall'universale; e dei pochi che servano di addentellato a nuovi e più vasti lavori sul nostro idioma.»

Sin qui il Pitrè. Ulteriori notizie biografiche non ne aggiungo. Chi vuol conoscere più addentro le vicende di questo principe dei moderni filologi italiani leggerà un giorno con interesse e con diletto la Vita che il Fanfani sta scrivendo, e che senza dubbio riuscirà un libro importantissimo. Là sarà pure svolta la storia dei combattimenti da quel profondo ingegno sostenuti. Chè come a tutti i grandi uomini non mancarono neppure al Fanfani persecuzioni ed inimicizie. Di sopra si è già potuto vedere quanto indegnamente egli fu perseguitato dagli Accademici della Crusca. Per altro la Crusca, dopo averlo perseguitato a morte, vedendo riuscir vani tutti i suoi attacchi, giudicò bene ravvedersi e riparare come si poteva ai torti fattigli. Il perchè non solo mandava alla cartería quei fascicolacci sul cui valore si era disputato, ma faceva pure suo socio ed Accademico quel medesimo Fanfani che essa aveva tanto fieramente perseguitato. Così alla fin dei conti la guerra letteraria fece grande onore al Fanfani e gran disonore alla Crusca. Assai fieramente e, non dubito aggiungerlo, assai puerilmente scrisse contro il Fanfani Vincenzio Nannucci nella prefazione al primo volume della seconda edizione del suo Manuale, dove egli te lo acconcia proprio pel dì delle feste. «Ma, sai che è?» dirò col Di Giovanni; «il Nannucci soffriva di bile, e se la pigliava contro chi fosse. Po' poi, sapeva tanto il merito del Fanfani in fatto di studii filologici, che il pregava fra le tante di correggergli a suo modo uno scrittarello sull'Arcangeli; e in stampa diceva all'Arcangeli e a tutta l'Accademia, che delle origini della lingua egli, il Fanfani, ne sapesse mille volte più di loro.» — Et de hoc satis! Oggi la polemica ed i vituperii del Nannucci sono intieramente dimenticati, nè la gloria del Fanfani ne ha sofferto un jota. E pure il Nannucci era un Grande! Potrebbe servir di esempio, ma non servirà, a certi letteratucci d'oggidì che van cercando gloria e reputazione nelle brighe e nei vituperii che vomitano contro chi è le cento e cento volte da più di loro. Le male lingue ponno bensì oscurare per un'istante la vera gloria, ma sono come le nuvole che si dileguano presto dinanzi al sole.

Se il Fanfani fu perseguitato egli uscì alla fine vittorioso da tutte le persecuzioni, e non vi è oggi chi ardisca negargli la gloria di essere egli il principe dei filologi italiani. Egli occupa in Italia il medesimo posto che i celebri fratelli Grimm nella Germania. Nonostante le persecuzioni accennate ed altre non gli venne pertanto meno la riconoscenza dei buoni e non gli mancarono gli onori dovuti al suo ingegno ed al nobile suo carattere. L'Istituto veneto e tutte le principali accademie d'Italia si recarono ad onore di ascrivere il Fanfani fra i più distinti loro socii. Il Ministero di Agricoltura industria e commercio lo eleggeva Presidente della Commissione del vocabolario tecnologico; Vittorio Emanuele lo faceva di suo proprio moto prima cavaliere, e poi ufficiale de' SS. Maurizio e Lazzaro. Tanti onori avrebbero per avventura reso altri superbi, ma non il Fanfani, che è un vero esempio di modestia. Chi già ebbe relazioni secolui sa quanto egli sia alieno da qualsiasi orgoglio. E qual meraviglia? Non sono che i ciarlatani che hanno grande opinione di sè stessi e presumono di esser gran cosa subito che hanno accattato un qualche onoruccio, fosse pure un decreto di cittadinanza. Ma i veri dotti, i profondi scienziati da Socrate in qua si distinsero sempre colla loro umiltà e modestia.

Delle opere del Fanfani abbiamo già parlato. Ma soltanto in parte. Ci resta a ragionare di quelle che il celebre letterato pubblicò dopo che il Pitrè scrisse i suoi Profili. L'eccellente giornale Il Borghini finiva di vivere, non so perchè, dopo soli tre anni di vita. I suoi lavori lessicografici il Fanfani li aumentava pubblicando l'insigne Vocabolario dell'uso toscano (Firenze, Barbèra). «Questo Vocabolario contiene quella parte del volgar toscano, la quale non si trova, se non in piccola parte ne' vocabolari che abbiamo; e che forse e senza forse è la più bella e la più efficace. Vi si assegna la ragione di parecchi idiotismi comuni al popolo, di vari singolari costrutti e proprietà di lingua. Si pongono spesso dei riscontri tra l'uso corrente e l'uso degli scrittori antichi; e nulla si trascura di ciò che può illustrare la soggetta materia. Per non far poi un magro registro di voci, ed un lavoro uggiosamente uniforme, si dà varia forma ai diversi temi, quando venga il bello, e recasi ancora qualche composizioncella inedita, dove serva comecchesia di illustrazione.» Quantunque l'edizione di questo utilissimo libro fosse già da alcun tempo esaurita non se ne fece sinora una seconda, per colpa non già dell'autore, che pur desiderava di farla, bensì dell'editore Barbèra, che non reputò opportuno di farla per ora. Lo perchè il Fanfani pubblicava nel 1870 le sue non meno insigni Voci e Maniero del parlar fiorentino (Firenze, Polverini), che sono una Giunta al vocabolario suddetto.

Oltre all'essere principe dei moderni filologi il Fanfani è pure dantista insigne. Moltissimo devono a lui gli studii danteschi, massimamente in ciò che concerne la critica del testo della Divina Commedia. Quel suo secondo dialogo dei Diporti filologici che discorre di lezioni dantesche è proprio oro di coppella. Lo stesso è a dirsi dei suoi numerevoli lavori danteschi pubblicati nell' Etruria, nel Piovano Arlotto, nel Borghini ed in altri giornali. Convien proprio deplorare che al Fanfani non sia riuscito di eseguire un suo vasto disegno onde dare una edizione di Dante ridotta alla sua vera lettura. «Aveva disegnato», dice egli, di «metter su un giornale, ordinato solamente a preparare un'ottima edizione della Divina Commedia. Volevo aprire, per mezzo di esso, corrispondenza con tutti gli studiosi di Europa: chi aveva varie lezioni da mandare, interpretazioni da proporre, notizie insomma ed erudizioni da illustrare il Poema, dovesse farmele ricapitare: ogni cosa si dovesse stampare e discutere nei fogli del giornale: discusso e ventilato ogni cosa, si dovesse stampare, come lambiccato di queste discussioni e ventilazioni, un canto col suo commento: su questa stampa dovesse, chi voleva, far le sue censure ed osservazioni; dopo esaminate le quali, un consiglio a ciò deputato, composto di uomini più reputati negli studi danteschi, dovesse fermarne stabilmente il testo, approvarne il commento, e licenziarne la divulgazione.» Ognun comprende facilmente quanto di bene questo gigantesco disegno avrebbe recato agli studii danteschi. Ma perchè dunque il Fanfani non diede mano all'esecuzione? Fattelo dire da lui: «Ma poi mi misi a pensare si res mihi lecta esset potenter; e tutto il mio disegno fu cancellato da una bella risata, considerato ch'io ebbi la mia piccola sufficienza, e che sì fatta impresa potrebbe solo compiersi col favore efficacissimo di un Governo, o di qualche ricchissimo e generoso signore.»

La più eminente pubblicazione dantesca del Fanfani è sinora il Commento alla Divina Commedia d'Anonimo Fiorentino del secolo XIV, che si cominciò a stampare a Bologna nel 1866, e di cui ne uscirono già due grossi volumi, contenenti l'Inferno ed il Purgatorio, mentre il terzo ed ultimo volume si pubblicherà in breve. Il discorrere del valore scientifico, critico e letterario di questa esimia pubblicazione non è di questo luogo. Basti osservare che mediante essa il gran filologo occupa un posto eminentissimo fra i moderni dantisti, e non solo fra i moderni ma eziandìo fra i futuri, appo i quali il nome del Fanfani sarà ricordato con venerazione e gratitudine, quando certi frannonnoli che oggidì con millantería goffa e ridicola pretendono sostener loro «il peso erculeo della Letteratura dantesca», soltanto perchè sciupano carta ed inchiostri senza fine, saranno del tutto posti in obblío.

Tanto numerevoli sono le pubblicazioni del Fanfani che non mi è possibile di farne una enumerazione compiuta, nonchè di parlare di cadauna. Non voglio per altro passar qui sotto silenzio un paio di lavori che in tal qual modo si ponno considerare come i precursori del Cecco d'Ascoli. Il primo di essi è La Paolina. Novella in lingua fiorentina italiana (Seconda edizione. Firenze, Polverini. 1868). Propriamente questa graziosa Novella è diretta a confutar co' fatti la sentenza del Manzoni che l'Italia non abbia una lingua nazionale. Il Fanfani dunque, che già aveva combattuto contro il Manzoni nel suo dotto opuscolo: La lingua italiana c'è stata, c'è, e si muove (Faenza, 1868), fece una Novella nella quale «non si legge una parola che fiorentina non fosse, e che non fosse ad un'ora stessa italiana.» La Novella è dunque un lavoro assai artificioso, eppure è scritta in una lingua tanto bella e naturale che ogni fanciullo la può intendere senza qualsiasi difficoltà. Un'altro lavoro di questo genere è il grazioso romanzo: Una Bambola. Romanzo per le bambine (Firenze, Polverini. 1869). È questo uno dei più bei libretti per le bambine che io mi conosca nella letteratura italiana. «Il fine dell'autore è morale e educativo: facendo la storia di una bambola, ne piglia occasione a trattare i punti principali della educazione femminile, e a dimostrare qual è il vero ufficio della donna nella Società: il tutto con linguaggio e pensieri semplicissimi e adattati alla intelligenza delle bambine.» Su questo ed alcuni altri scritti morali ed educativi del Fanfani si può confrontare un mio articolo nel Magazzino di Letteratura estera di Berlino (1870. pag. 436 e seg.).

Chiuderò questi brevi Cenni esclamando col Prudenzano: «E dove porremo quell'ingegno carissimo di Pietro Fanfani, adorno di tanto e sì squisito gusto, di spontaneità e grazia soavissima nell'italico idioma?» ed augurando che gli sia concesso di arricchire la scienza e le lettere di nuovi parti del profondo suo ingegno. In ogni modo il nome di Pietro Fanfani vuol dire una nuova epoca nella storia della filologia e letteratura italiana.

Il Cecco d'Ascoli è fuor di dubbio uno dei più bei romanzi che orna la moderna letteratura d'Italia. Vi fu chi lo pose allato ai Promessi Sposi, all' Ettore Fieramosca, all' Assedio di Firenze ed al Marco Visconti. Io non dubito un momento di porlo al disopra di tutti questi romanzi. Della lingua non giova parlarne; in merito ad essa nessuno attinse giammai tanta purità bellezza e perfezione come il Nostro. Ma anche la tessitura del romanzo ed il carattere delle persone non teme mica il paragone coi più insigni lavori di tal genere. I caratteri di Dino del Garbo e di Cecco d'Ascoli sono forse forse un pochettino esagerati. Ma le sono queste quistioni di dotti e però non mi ci fermo sopra. Aggiungerò solo che a me sembra degno di considerazione quanto sopra il Cecco e la sua Acerba scrisse il cav. Palermo nel secondo volume della sua opera: I Manoscritti Palatini (pag. 163 a 258). Ritornando al nostro romanzo dico che alcuni caratteri che in esso ci si fanno incontro, sono veramente impareggiabili. Quanto amabile quella Bice! Essa vale due buone Lucie; e quel prete di Settimello colla sua Simona paragonato al buon don Abbondio colla sua Perpetua! Ma io non mi fermerò ulteriormente a commendare un libro che non ha certo bisogno delle povere mie lodi, e mi contenterò di presentare dinanzi agli occhi de' lettori un piccolo florilegio di giudizii che sul Cecco d'Ascoli si stamparono in Italia.

Antonio Zaccaria pubblicava a proposito del Cecco d'Ascoli un'opuscolo intitolato: Del romanzo dei romanzieri e del signor Pietro Fanfani, ove dopo aver ragionato di parecchi dei più celebri romanzi italiani il ch. autore continua:

«Ma un nuovo scrittore di romanzi ha oggi fatto capolino in sulle scene letterarie d'Italia, e questi è il signor Pietro Fanfani, già noto alla repubblica delle lettere per i suoi lavori filologici. Esso col suo racconto intitolato Cecco d'Ascoli ha fatto vedere d'intendere meglio di ogni altro, come voglia essere usato il romanzo in Italia, e a quale scopo rivolto. Esso ha conosciuto che il romanzo, com'è usato dagli stranieri, non può adattarsi ai popoli di stirpe latina, qual è l'italiano, stirpe esquisitamente sociale. Dietro l'esempio degli uomini dotti di tutte le età, egli usa la favola per propagare le utili cognizioni. Dipinge i costumi e le vicende dell'umana vita, dimostra gli errori in cui siamo tratti dalle nostre passioni, in fine rende amabile la virtù e odioso il vizio. La maniera sua è romantica, ma accomodata all'indole della letteratura d'Italia, conciosiachè si avvicini al fare della novella, componimento più nostrale e che deve all'Italia il suo vero splendore. Quello però che, a parer nostro, forma il più alto pregio del racconto del Fanfani, si è che ogni regola d'arte vi si trova scrupolosamente osservata. In vero se tu riguardi all'orditura del Cecco d'Ascoli vi scorgi quell'unità d'azione che i nostri buoni vecchi ci predicarono tanto; poichè nel Cecco il subbietto figura sempre principale, e tutte le cose che delle altre persone si vanno discorrendo si intrecciano ed annodano ad esso. Se poi osservi i costumi, li trovi dipinti co' loro colori naturali non solo, ma ancora con colori che non fanno l'un coll'altro alcun contrasto. Ivi non ti avvieni a quei costumi esageratissimi che o non s'incontrano in natura, o sono aberramenti non imitabili della natura. E quanto al dettato mal potresti desiderare cosa migliore: nel che vuol esser tanto più encomiato il chiarissimo Autore, quanto ha dovuto vincere difficoltà tragrandi; non si potendo dire a mezzo quanto arduo sia l'acconciare bene ad un lavoro più o meno di finzione il linguaggio della prosa, meglio fatto per l'espressione della realtà. Qui (o c'inganniamo), è dove il Fanfani toglie di leggieri la palma a tutti: perciocchè lo stile del Bresciani, per chi ha buon gusto, quantunque adorno sia d'ogni più vaga venere dell'idioma toscano, sente assai dello studiato e si dilunga da quella cara ingenuità che rende così amabili i nostri antichi. Per contrario nel Fanfani hai un dettato piano, semplice, vario, elegante, affettuoso, lucido, aggraziato, che ti porge diletto e scende al cuore. Trovi poi ritratte al vivo le usanze del tempo; e con esse le virtù, i vizi, le superstizioni ed ogni altra cosa che valga a dartene una piena cognizione. Insomma il lavoro del Fanfani è opera classica e degna de' maggiori encomi.»

In un lungo articolo stampato nella Gazzetta di Pinerolo (Nº. 33. 14. Agosto 1870) il dottore C. Giambelli fra altro così si esprime:

«Questo racconto (il Cecco d'Ascoli ) è d'un'infinita bellezza riguardo alla lingua, e molte notizie di quei tempi, sebbene le conosciamo già per diverse fonti, pure qui raccolte in breve fanno maggior effetto e più ne piacciono.»

F. Lanza chiudeva un suo ragguaglio sul Cecco d'Ascoli pubblicato nella Piccola stampa (Nº. 60. 29 Agosto 1870) colle seguenti parole:

«Mi resta ora a parlare della condotta del lavoro, dello stile, della lingua, ed in tutto ciò nulla ho a dire che non sia in lode dell'autore. Ben delineati i caratteri ideali, e specialmente quello della Bice, e del vecchio Geri, ben tratteggiati e conservati quelli storici. Benissimo immaginato l'intreccio della favola, e bene svolto, bello e naturale lo scioglimento. Dello stile e della lingua che dirò quando l'autore si chiama Pietro Fanfani? Stile elegante, terso, chiaro; lingua (cosa rara al giorno d'oggi) veramente Italiana e purissima. Questi e molti altri pregi che troppo lungo sarebbe enumerare, compensano sì largamente quelle piccole mende ch'io ho creduto scorgervi, che il signor Fanfani può andar superbo del suo lavoro, che avrà certo un posto eminente fra le opere letterarie italiane.»

Con questi critici son pure d'accordo molti altri, il cui giudizio non riferiremo qui per non istancare il lettore. Chiuderemo pertanto esclamando col Fruscella: «il Cecco d'Ascoli è gloria novella delle lettere nostre.»

Ci resta a dire due parole della presente terza edizione del celebre romanzo. Allorquando si trattava di farla, l'egregio autore mi scriveva: «Correzioni non ce ne saranno, se non lievissime, avendovi posto molta cura nella seconda edizione.» Di fatti in ciò che concerne la materia ed i concetti la presente edizione è invariata, conforme alla seconda. Le correzioni ed i miglioramenti sono di lingua e di stile, e di questi ne ritroverai, quantunque per lo più lievi, in ogni pagina, essendosi l'insigne autore nuovamente affaticato a ripulire il suo esimio lavoro ed a condurlo per quanto possibile fosse alla perfezione. Questa è conseguentemente una edizione riveduta e migliorata dall'autore quantunque nel frontespicio non lo abbiamo detto. Del mio non vi ho aggiunto nulla, tranne tre o quattro brevissime notarelle che come tali sono contrassegnate. Ho poi posto ogni cura perchè la stampa riuscisse corretta quanto possibile. Se tuttavia errori vi sono rimasti spero di trovar scusa appo chi consideri che il libro non solo si stampò in Germania e da Tedeschi, ma eziandio molto lontano del mio presente luogo di dimora, lo che doveva necessariamente rendere di molto più difficile a me il curarne la stampa.

G. A. Scartazzini.

ORIGINE E PROPOSITO DI QUESTO LIBRO.

Una mattina, là sullo spirare del 1868, venne da me un compitissimo giovine e di bella maniera, il quale, dopo le cerimonie di uso, garbatamente mi disse:

— Vorrei un favore da lei.

— Due, potendo.

— Io son uno dei Direttori del Diritto; e vorrei che la ci scrivesse un romanzo.

— Un romanzo io? ma le pare? Io che non leggo mai romanzi; che non ho mai tentato nulla di simil genere; come vuole che possa fare un romanzo? Mi rincresce; ma questo appunto è uno di quei favori che non posso farle.

— Badi: il compenso che il Diritto le darebbe, non dovrebbe essere indegno nè di lei nè delle Lettere.

— Mio caro signor Mussi (era appunto il signor Mussi que' che parlava meco), la quistione non è codesta: è che io romanzi non ne so fare, e non ne vo' fare.

— Ma ci pensi..... provi..... O almeno ci illustri un periodo di storia a modo suo. Insomma, vogliamo qualche lavoro di lei per l'appendice del Diritto.

— Ci penserò; ma non le prometto.

— A rivederla.

— A rivederla.

Io non aveva voglia per niente di pensare a questa faccenda; ma, capitatomi a mano in questo mezzo tempo un codice, dove era la sentenza di Cecco d'Ascoli; mi balenò in mente che nel fatto di questo illustre sventurato ci fosse materia da farci qualcosa: ripensai tutto quel periodo di storia, che è bellissimo: almanaccai per immaginare accessorj; e passando di un pensiero in un altro, mi trovai scritto nella mente un disegno, che mi parve da potersi colorire con qualche buon effetto. Allora mi venne voglia di provarmi; e scrissi al signor Mussi, che passasse da me, come fece senza indugio.

— Ho pensato a quell'affare: il soggetto sarebbe Cecco d'Ascoli: le piace?

— Mi piace; e poi, basta che piaccia a Lei.

— Le condizioni?

— Le dissi che non sarebbero indegne nè di lei nè delle Lettere. Le scriveremo una lettera, ed ella spero risponderà che accetta.

— Badi: ella compra gatta in sacco: per me questi sono lavori nuovi; e potrei far cosa che non piacesse; tanto più che io non potrò mai indurmi a scrivere le esagerazioni di molti fra gli odierni romanzieri, perchè le credo artifizio e non arte, e poi perchè ciò ripugna alla mia natura.

— Faccia come le pare; chè noi saremo sempre contenti.

Il giorno appresso mi venne la promessa lettera dalla Direzione del Diritto: le condizioni erano quali il signor Mussi le aveva promesse: le accettai senza esitare: furono mantenute scrupolosamente da ambe le parti; e il racconto del Cecco d'Ascoli si pubblicò tutto intero dal marzo al giugno dell'anno passato.

Così nacque il presente racconto. Adesso il lettore di questa ristampa è bene che sappia con qual proposito lo dettai; e glielo dirò, riportando la lettera che io, nella soggetta materia, scrissi già al signor Ugo Bassani di Venezia, e che in questi giorni si è veduta stampata in varj giornali.

«Firenze, 12 Giugno 1870.

«Mio caro Ugo,

«Quel mio racconto del Cecco d'Ascoli, di cui leggesti i primi capitoli, quando testè fui a Venezia, e del quale mi chiedi adesso ragguaglio, non è un romanzo nel proprio significato che ora suol darsi a tal voce. Io ho voluto solamente fare un racconto, che desse qualche diletto non senza istruzione. Narrando il compassionevole caso di Cecco d'Ascoli, ho avuto per proposito di render familiare tra il popolo quel periodo di storia fiorentina, di metter in veduta, come suol dirsi, la vita intima dei Fiorentini, le usanze e i costumi di quel tempo, ed anche di descrivere in parte com'era allora Firenze. Il racconto è molto variato di avventure, di guerre, di piacevolezze e di amori; ma ho fuggito a disegno ciò ch'è pascolo più ghiotto ai volgari lettori di romanzi, dico le esagerazioni di ogni maniera, passioni violente, lascivie ed oscenità, orribili colpe e delitti, tutto quell'apparecchio insomma dell'arsenale de' romanzieri, per mezzo del quale si turba e si sconvolge l'animo e la mente dei lettori; tenendomi invece alla temperanza in ogni cosa, e ingegnandomi di toccare il cuore per altra via, acciocchè il mio libro possa lasciarsi leggere, anche alle fanciulle più gelosamente guardate, senza un pericolo al mondo, ed il lettore se ne senta placidamente commosso, e provocato al bene, anzi che al mal fare. Mi sono studiato pure di scriverlo con quella maggior diligenza della quale son capace; e se, avendo alle mani personaggi del trecento, ho dovuto fargli parlare al modo del loro tempo, mi conforto che tutto insieme il dettato del mio libro debba sembrare anche ai più schizzinosi, sciolto e non punto affettato: e perchè nulla rimanga oscuro, anche ai lettori meno esperti, alcune voci e modi oramai fuor d'uso, o usati in altro significato, che necessariamente debbono usare i miei personaggi, si troveranno registrati e spiegati in fine del racconto. Insomma io mi sono ingegnato di fare quel meglio che ho potuto, acciocchè l'opera non riesca uggiosa, o dannosa; la qual sarà anche più accetta al pubblico, se il nostro valentissimo Tessarin metterà in musica, come mi fa sperare, le serventese che fo cantare ad un menestrello al convito del Duca di Calabria, e che farò stampare in fine volume.

«Ecco quel ch'io posso dirti sommariamente del mio Cecco d'Ascoli, il quale uscirà fuori nel prossimo mese di luglio, e per il quale non ti nego d'avere qualche affetto, e di starne colla tremarella per il dubbio che possa trovare poco amorevole accoglienza.

«Basta, speriamo. Intanto io lavoro di forza. Addio, e voglimi bene».

Al Lettore parrà strano questo star con la tremarella per la pubblicazione, dopo che il mio racconto ha già sperimentato il giudizio del pubblico, e dopo aver'io detto che spero non abbia in tutto a dispiacere. Ma pensi il Lettore che altra cosa è il pubblicare un lavoro spezzatamente per appendice a un giornale politico, dove i lettori leggono a intervalli[9] e non sempre attentamente; ed altro il veder raccolto ogni cosa in un libro, dove ad una occhiata si vede se tutto è al suo posto, se l'una cosa risponde all'altra, se il disegno è corretto, se il colorito è quale lo richiede il soggetto. Pensi che, se io spero di non dispiacere a que' pochi, i quali ne posson giudicare secondo i precetti dell'arte, manca a questo racconto tutto ciò che è più ghiottamente richiesto dai lettori volgari: amori lascivi, atroci delitti, maledizioni e improperj scandalosi di frati e di preti: furibonde declamazioni politiche; tutte quelle pazzie insomma, che piacciono al volgo cieco, il quale va in brodo di succiole leggendole, ed urla bravo e batte furiosamente le mani, se le vede rappresentate, o se le ode briacamente declamate da qualche Cetègo Prefetto o da qualche Bruto Commendatore. Ma del giudizio del volgo, mi dirà qualcuno, non è da curarsi. È vero; ed io non dicevo che me ne importasse nulla: solo volevo dire che temo di fallire al fine a cui miro, di avvezzare il popolo a letture, che lo educhino alla virtù piuttosto che al vizio.

Odo farmi un'altra domanda: Il tuo libro potrà essere un libro popolare?

Io non prenderò per denaro contante quello che del mio Cecco d'Ascoli scrisse il signor Zaccaria nel suo opuscolo intitolato De' Romanzieri e del signor Pietro Fanfani; anzi quell'encomio, non mosso certo da affetto speciale, perchè il signor Zaccaria me non conosceva nè io lui, lo reputo effetto di particolari impressioni, e disposizione di animo: ricorderò solo quello che ne scrisse la Rivista Bolognese, la quale appunto toccò l'argomento della popolarità. A pag. 417 dell'anno 1.º si legge: «Il romanzo del Fanfani, per quanto deliziosamente scritto (grazie: è troppo), non otterrà vanto di popolare. Mettere dinanzi gli occhi del popolo costumanze e avvenimenti di secoli addietro, parmi non saggio consiglio. Il vero popolo quello, che lavora, e suda, e patisce, ed è tutto immerso nelle dure realtà del presente, non li comprende e non li gusta; egli non trova là dentro la propria immagine, non si muovono là que' sentimenti, quelle passioni che riscaldano oggi il suo cuore». Mi perdoni il valente autore di quello scritto: a me sembra che la popolarità delle scritture si debba ripetere da altri principj; ma come questa sarebbe discussione lunghissima, nè qui può aver luogo, dirò solo che, se popolarità è quella che egli dice, io non ho certo avuto una intenzione al mondo di fare un libro popolare. Per altro gli domanderò: sono popolari in Inghilterra i Romanzi di Walter Scott? Bene: o non sono appunto di quelli che mettono dinanzi agli occhi costumanze e avvenimenti di secoli addietro? non hanno mirabilmente servito a render popolare in Inghilterra l'antica storia, e le antiche costumanze inglesi? E non è questo servizio utilissimo e popolarissimo? Mi dica piuttosto che il popolo inglese è troppo diverso dall'italiano, ed allor dirà bene. Poi aggiungo io, sorga fra noi un Walter Scott, e allora anche i romanzi che mettono dinanzi agli occhi avvenimenti, e costumanze de' secoli addietro, diventeran popolari, cioè efficacemente utili alla educazione del popolo. Ma già, che parlo io di Walter Scott? o i Promessi Sposi, o l'Assedio di Firenze, o la Battaglia di Benevento, Niccolò de' Lapi, la Margherita Pusterla ec. ec. non sono essi popolari, benchè la loro materia sia di secoli addietro? Quanto al presente libro ed a me, sarò contento che mi sia valutata la buona intenzione.

Ora due sole parole circa la tela del mio racconto. L'orditura è scrupulosamente storica, e storici sono i fatti principali: è storico tutto ciò che riguarda le azioni pubbliche del personaggio principale, e del duca di Calabria: la Bice, la Badessa, Guglielmo, frate Marco, il prete di Settimello con la Simona sua serva, gli amori, e ogni altro fatto privato di essi, ogni cosa è trovato della fantasía. Dino del Garbo è disegnato secondo gli accenni che ne lasciò il Villani, storico contemporaneo; e così il vescovo d'Aversa cancelliere del duca.

Le descrizioni di feste, di conviti, di cerimonie sacre; le ordinanze militari, la forma dei giudizj e delle sentenze, tutto è ritratto secondo le usanze di quel tempo, e quasi copiato da documenti autentici.

Della lingua che dirò? Dirò che ci ho speso attorno ogni più amorosa cura; studiandomi di essere italiano, senza abuso di toscanità. Dovendo far parlare personaggi del trecento, sono stato un pezzo infra due, se dovessi far loro usare voci e modi speciali del loro tempo, o farli parlar tutti al modo odierno. Pensando però essere una ridicolezza il sentir dire a un trecentista colazione e non asciolvere; far le barricate e non asserragliare; capitolo di una chiesa, e non chericía; projettili e non saettamento e simili; ed essendo stretto mio dovere il nominare col loro nome proprio gli ufficii, e le dignità, e i titoli del cerimoniale, o come direbbero i nostri, della etichetta di allora, presi partito, tanto più che la lingua italiana ha poco cambiato da sei secoli in qua, di far parlare i miei personaggi nella lingua del loro tempo; ma ingegnandomi di scegliere solo da essa quella maggior parte che è tuttora viva; salvochè, dovendo significare cose speciali, modi di salutare, titoli, nomi di uffici ec., ho usato i modi di allora, diversi dai presenti, dandone la dichiarazione in un glossarietto in fine del volume, per comodo di que' pochi lettori che non ne sapessero il vero significato. Mi sono ingegnato insomma di scrivere in modo che coloro i quali conoscono l'arte, veggano esser questa la lingua non dell'avvenire, ma la italiana secondo l'uso buono degli scrittori e del popolo; e gl'indòtti non ci trovino nulla di affettato e d'insolito, fuor che quelle voci e modi detti di sopra, da me postici per necessità.

P. Fanfani.

INDICE.

Pag.

Cenni sopra Pietro Fanfani V

Origine e proposito di questo libro XXIII

Cap. I. L'entrata del duca di Calabria in Firenze 1

» II. Un poco di storia. — Cecco d'Ascoli, maestro Dino del Garbo, e l'inquisitore 5

» III. L'omaggio e l'amore 10

» IV. Il duca e il gonfaloniere 13

» V. Guglielmo e Dino del Garbo 16

» VI. L'ajuto di Cecco 21

» VII. Il giardino di casa Cavalcanti 23

» VIII. La quarta cerchia e i contorni di Firenze 27

» IX. La scomunica 31

» X. La invidia 37

» XI. La gelosia 41

» XII. Il convito 43

» XIII. Accortezza femminile 50

» XIV. L'addio 56

» XV. La partenza per il campo e il monastero 60

» XVI. Le logge de' grandi, e specialmente quella de' Gherardini 65

» XVII. La guerra 72

» XVIII. Lo sgomento 81

» XIX. La cena di Settimello 84

» XX. Da Settimello a Prato 93

» XXI. In città, e in palagio 97

» XXII. Nelle case de' Cavalcanti 102

» XXIII. Da Firenze a Prato 109

» XXIV. Da Settimello in Mugello 111

» XXV. La Bice e il prete; la badessa e il cavaliere 116

» XXVI. La confidenza 121

» XXVII. Si vedono 125

» XXVIII. La lettera e il commiato 137

» XXIX. Il ritorno 140

» XXX. L'amor paterno 143

» XXXI. Maestro Cecco abbandona la corte 149

» XXXII. La Bice si parte dal monastero 154

» XXXIII. Torna a Firenze 158

» XXXIV. Gli apparecchi di guerra e la tassa della ricchezza mobile 162

» XXXV. Il parto 164

» XXXVI. La congiura di Lucca 168

» XXXVII. Le feste di s. Giovanni 170

» XXXVIII. La seconda guerra 177

» XXXIX. In Firenze, e nelle case de' Cavalcanti 183

» XL. La vendetta si matura 192

» XLI. Suocero e genero 196

» XLII. Convito ed esequie 201

» XLIII. La festa d'amore, e lo sposalizio 204

» XLIV. Cecco resta al laccio 209

» XLV. La denunzia 218

» XLVI. L'amicizia alla prova 223

» XLVII. Gli sposi in Mugello 228

» XLVIII. La Simona 234

» XLIX. La dipartenza 240

» L. La trama piglia corpo 247

» LI. Cecco è preso 253

» LII. L'esame di frate Marco 261

» LIII. Il processo 266

» LIV. La sentenza 270

Glossario 285

CAPITOLO I. L'ENTRATA DEL DUCA DI CALABRIA IN FIRENZE.

Il dì 26 di luglio del 1326[10] tutta Firenze era in festa: le torri e le logge de' grandi, le residenze delle arti maggiori e minori, i sestieri e i nobili palagj, sventolavano di pennoni, di gonfaloni e di bandiere; le vie erano gremíte di popolo, che si accalcava specialmente intorno al palagio del podestà; e molta gente avviavasi verso porta S. Gallo, la cui torre era stata edificata di fresco con disegno di Arnolfo di Cambio, ed era tutta adorna delle bandiere di parte guelfa, del popolo fiorentino, della repubblica, del papa e del re Roberto di Napoli. Doveva entrare solennemente in città Carlo duca di Calabria, figliuolo di esso re Roberto. A costui Firenze aveva data la signoría per dieci anni, con provvisione di 200,000 fiorini d'oro l'anno; ed egli già fino dal maggio precedente vi aveva mandato in suo nome, con 400 cavalli, quel Gualtieri di Brienne duca d'Atene, che in questo medesimo giorno 26 di luglio, diciassette anni dopo, fu cacciato a furia di popolo da Firenze, di cui si era fatto con male arti signore. Il gonfaloniere di giustizia, che era Geri Soderini, con tutti i priori; il vescovo, il podestà ed i capitani del popolo, erano iti ad aspettarlo fuori di porta, sotto un nobile padiglione di sciámito rosso seminato di gigli. Messi andavano e venivano, per vedere se nulla si scoprisse o si udisse: ogni picciol romore che veniva da quella parte, facea volgere in là tutti i volti, e tosto udivasi da mille bocche: il duca, il duca. Finalmente, in sul mezzogiorno, un lontano squillar di trombe annunziò che il duca arrivava davvero. Tre fumate di sulla torre della porta ne diedero avviso alla città, e tutte le campane cominciarono a sonare a distesa: il popolo si versava a torrenti per le vie dove il signore doveva passare, mal contenuto dai provvigionati del duca d'Atene, e dai fanti del podestà: ed era un continuo ondeggiare di turba affollatissima; l'uno con le mani sulle spalle all'altro, rizzarsi in punta di piedi ansiosi di vedere se spuntava nulla a capo delle vie; bambini levati in alto dai babbi e dalle mamme; spinte, gomitate, strida, motteggi e scroscj di risa da varie parti, che alquanto scemavano la noja dell'aspettare. Intanto, arrivato il duca alla porta, il vescovo prima di tutti fece riverenza a lui ed al legato del papa che cavalcavagli a destra: poi andarono il gonfaloniere e i priori, presentandogli le chiavi della città su un bacile d'argento, le quali furono da lui rifiutate con atto urbanissimo; ma non restò per questo che non entrasse in Firenze armato di tutte armi, e con la lancia in pugno, con quel piglio ed atti che sogliono i conquistatori e padroni.

Firenze non aveva mai veduto sì ricca, e sì nobile cavalcata. Dinanzi a tutti andavano il duca e il legato del papa: il duca aveva sopransegne reali, e rispondeva con lievi cenni del capo, e con sorriso lievissimo, agli evviva e alla letizia del popolo. Seguitava appresso al duca Maria di Valois, sua moglie, con sei damigelle, l'una più vaga dell'altra, ricchissimamente vestite; e poscia il gonfaloniere di giustizia con tutti i priori, i collegj, i capitani di parte guelfa; e dopo essi tutti i principi e baroni di sua compagnía, tra i quali eran principali M. Giovanni fratello del re Roberto, il Prenze della Morea, M. Guglielmo Lostendardo, monsig. Giuffrè di Gioinville, il Despoto di Romania, ed altri infiniti signori e cavalieri francesi, provenzali, catalani e napoletani, che furono da millecinquecento, cento dei quali erano cavalieri a spron d'oro: bella e fioritissima gente, le cui armi ed arnesi, racconta Giovanni Villani che furon ben millecinquecento some di muli a campanelli: cosa di gran maraviglia e stupore.

E quel luccicar d'armi e di gioje; quello splendore di vestimenti e di arredi; il grazioso salutare della duchessa e delle sue damigelle; quel vedere tanti segnalati signori e cavalieri raccolti insieme, avevano per modo inebbriato i Fiorentini, che in mille guise significavano la loro letizia, e non restavano di applaudire. Come il duca fu giunto sulla piazza di San Giovanni, entrò nel tempio, splendidamente addobbato, dove era a riceverlo la chericía della cattedrale in abiti solenni. Fatta breve preghiera ed assai ricca offerta, uscì di chiesa per la porta di mezzo, e volle fermarsi un poco ad ammirare la nuova fabbrica di Santa Reparata[11], che già era molto innanzi: guardò con molta compiacenza la graziosa loggia del Guardamorto[12]; e parve fargli mirabile effetto il corso degli Adimari[13] con tutti quei palagj, e torri, e logge, adorne di festoni, di ghirlande e di bandiere.

Doveva egli risedere nel palagio del Podestà da Badía: e quivi la gente era accalcata su per le logge, per le scalee, sui tetti, per tutto; e non si può dire a parole il clamore di voci e il batter palma a palma che fu fatto quando il signore sboccò sulla piazza.

— Viva il duca e la duchessa.

— Viva la chiesa e parte guelfa.

— Muoja Castruccio e i ghibellini.

— Viva il re Roberto.

— Viva il popolo, vivano i ghibellini, gridò una voce.

E più di mille voci: No, viva il signore; e furono addosso al mal capitato gridator ghibellino, che ne andò mezzo pesto ed infranto.

In sulla porta di Badía stavano a mirar lo spettacolo un frate Minore ed un vecchio di alta statura, che all'abito si conosceva per medico; niuno dei due pareva compreso da quella gioja di cui il popolo dava tanti segni; e udendo tante grida, e vedendo il caso del povero ghibellino, disse il vecchio con sorriso di scherno:

— Come ben disse il nostro Dante che il volgo grida spesso: Viva la sua morte e muoja la sua vita! Avete sentito? Viva il signore! E questa città si regge a popolo! Viva il signore!... Si vede che questi sciagurati non lo sanno che cosa sono i signori: eppure son sempre aperte le piaghe che lasciò sulla povera Firenze Carlo Senzaterra. Oh! benedetto il mio Dante, che sì potentemente lo folgorò.

— Eh, maestro, pur troppo dite vero; e Dio voglia che questo signore qui, non faccia anche peggio di quell'altro a Firenze, tanto sinistro aspetto mi par ch'egli abbia!

In questo mezzo il duca e la duchessa erano già montati in palagio, e già i cavalieri si avviavano verso le case loro assegnate, quando il frate Minore:

— Oimè! maestro, guardate, se Dio vi ajuti, quel vecchietto tutto vestito di nero su quel cavallo leardo. E' mi par tutto Cecco d'Ascoli, processato già per eretico e per negromante a Bologna.

— Come! Il detrattore del nostro divino Dante, e di messer Guido Cavalcanti? Colui che presume di esser fisico, filosofo, astrologo, poeta, ogni cosa? Ed ha fronte tanto sicura che osi di venire a Firenze? Non è possibile, frate Accorso: guardate meglio, accertatevene; io sono di vista troppo inferma.

Ma intanto i cavalieri si erano già allontanati: e però i due personaggi, affine di accertarsene, la diedero per un chiassuolo, e riuscirono appunto alle case dei Macci là da Orsammichele, dove tutti dovevano far capo; nè prima si furono un poco appressati, che il frate riconobbe Cecco, e non potè tenersi che non dicesse ad alta voce:

— Ah pateríno dannato! è lui daverro: è il negromante! E il duca viene accompagnato da certa gente? Maestro, lo dicevo che di questo duca ne speravo poco bene?

— Ed anche mi pare che sia un oltraggio a Firenze il venirci accompagnato da un eretico, che ha, per di più, vituperato i due più illustri figliuoli di questa patria.

— Maestro — disse un popolano accostandosi — che dite voi di scomunicato e di negromante?

— Nol vedi — soggiunse il frate — quel vecchietto nero che smonta or da cavallo? È un eretico, è un negromante.

E intanto la gente faceva capannello accosto ai due che parlavano.

— Sarebbe da cacciargli a furore di popolo.

— È Cecco Diascolo — (il popolo chiamava così Cecco) ripigliò il maestro; — il beffeggiatore di Firenze e di Dante; non si vorrebbe comportare che la nostra città fosse contaminata da gente sì obbrobriosa.

Cecco diascolo? muora, muora, — cominciarono tutti a gridare: e gli avrebbero messo le mani addosso, se Cecco, veduta la mala parata, non si fosse rifugiato tosto in casa, la quale era guardata dai provvigionati del duca di Atene.

Smontati che furono tutti, la gente cominciò a dileguarsi; ed a poco a poco la città aveva ripreso il suo aspetto grave, e la sua quiete. — Ma perchè si faceva tanta festa da un popolo libero alla venuta di un novello signore? E chi erano quel frate e quel maestro, i quali aizzavano il popolo a levar rumore contro Cecco d'Ascoli? Il lettore mi segua, e lo saprà in quest'altro capitolo.

CAPITOLO II. UN POCO DI STORIA. — CECCO D'ASCOLI, MAESTRO DINO DEL GARBO, E L'INQUISITORE.

La città di Firenze reggevasi a popolo, e godeva della sua libertà, dicono i vagheggiatori dei governi popolari, ricordando le cose fiorentine, specialmente del secolo XIV. Ma di che sapore era ella questa libertà, e quali erano i frutti che dava? Fino dal principio del secolo Firenze, come dice Dante, rinnovava genti e modi; e più che mai la straziavano le maledette parti de' Bianchi e de' Neri, trapiantatevi da Pistoja; e diventava un Marcello, per usare la mirabil frase di Dante medesimo, ogni villano che venía parteggiando. Tutta la gloria e tutto il desío di quegli sciagurati consisteva nel sopraffare, anzi nel disfare la parte contraria, ardendo case, dichiarando ribelli, e confiscando i beni dei vinti. Non si trattava più di Guelfi e di Ghibellini, perchè questi ultimi non si erano più rifatti dopo la rotta di Benevento e il crudele supplizio di Corradino, e solo i Guelfi signoreggiavano, come quegli che avevano il favore del papa e de' reali di Napoli, tenendo gli altri sotto gravi pesi, per modo che non ardivano di alzar la fronte; tanto più che i loro capi erano dichiarati ribelli. Ma i Guelfi stessi erano discordi tra loro, e si erano partiti, come diceva, in Bianchi e Neri, riscaldata l'una parte e l'altra dall'ambizione de' grandi e specialmente de' Cerchi e de' Donati; onde la città stessa era non di rado campo di battaglia; i palazzi si munivano e si assaltavano come fortezze; le vie si asserragliavano; esempj di crudeltà e di ferocia erano frequenti; un continuo mutar di leggi e di ufficj: e Firenze poteva bene agguagliarsi, come appunto l'agguagliò Dante, a un'inferma, che non trova riposo sopra un letto di piume, e fa schermo al dolore dando volta di continuo.

Quando le cose riducevansi agli estremi, che proprio non si poteva andar più avanti, allora si cercavano rimedj. Prima il papa mandò il cardinale di Acquasparta, che, giunto a Firenze, chiese balía di riformare la terra, di rappacificare le parti e accumunare gli uffizj: ma i Cerchi se ne risero, ed egli partì lasciando la città interdetta. Poi vi mandò Carlo di Valois, detto Senzaterra: fu gran disputa se dovesse riceversi; ricevuto, gli si diè balía di riformare la città con pace e senza disordine; ed egli, dopo averlo giurato, con la gente francese che aveva seco corse la terra per sua; e nacque uno dei più terribili tumulti che mai si udissero, per cui seguirono morti ed esilj, tra' quali quello di Dante.[14] Durissima prova di questa verità: che quando un popolo ha bisogno di ricorrere a protezione e ajuto di stranieri, questi gliela concedono solo per aver predominio e per avvantaggiarsene, a scapito della dignità e della libertà di chi li chiama o gli accetta: durissima prova, che Firenze fece tante e poi tante volte senza impararne mai nulla.

Dopo la partenza di Carlo Senzaterra si provò ad eleggere con piena balía un ufficiale forestiero col titolo di Bargello; e chiamato a ciò M. Fulcieri da Calvoli, uomo feroce e crudele, questi manomise spietatamente la vita e le facoltà dei più nobili cittadini, e disertò la città per modo che Dante, nel XIV del Purgatorio, là dove Guido del Duca profetizza a M. Ranieri da Calvoli, zio di questo Fulcieri, gli fa dire:

Io veggo tuo nipote, che diventa

Cacciator di quei lupi in sulla riva

Del fiero fiume, e tutti gli sgomenta.

Vende la carne loro essendo viva;

Poscia gli ancide come antica belva;

Molti di vita, e sè di pregio priva.

Sanguinoso esce della trista selva:

Lasciala tal, che di qui a mill'anni,

Nello stato primajo non si rinselva;

dove i lupi s'intende per i Fiorentini, e il fiero fiume per l'Arno.

E veramente Firenze non si riebbe per molto tempo, e sempre mutava ordini e modi; sempre travagliata di dentro dalle discordie, seguite da uccisioni e da arsioni; e di fuori da' fuorusciti e dai signori capi dei Ghibellini; prima da Uguccione della Faggiuola, e poi più terribilmente da Castruccio; talchè doveva sempre stare a discrezione del papa o dei reali di Napoli, che la dissanguavano per mezzo dei loro vicarj.

Solo nel 1322 poterono i Fiorentini liberarsi dalla signoría del re Roberto, durata molti anni; ma tanti furono i travagli che ebbe poscia la repubblica, massimamente per le armi di Castruccio, il quale corse e ricorse più volte il loro contado, ardendo castella, disfacendo ponti e strade, e devastando e mettendo a saccomanno ogni cosa, rafforzato ancora dalle armi del vescovo De' Tarlati di Arezzo; e a tale estremo venne per la rotta di Altopascio, la quale condusse Castruccio fin presso Firenze, attorno alle cui mura fece correre un palio a scherno dei Fiorentini; che questi non ebbero altro scampo da tanta furia, se non ricorrere da capo al re Roberto, il quale gli mandò per signore di Firenze Carlo duca di Calabria suo figliuolo, la cui entrata abbiamo veduto sul principio di questo racconto.

Resta ora che io faccia far conoscenza al lettore coi tre personaggi nominati in sul fine del precedente capitolo.

Il vecchietto vestito di nero, osservato da quei due che stavano a veder l'entrata del duca sulla porta di Badía, era di fatto Cecco d'Ascoli, famoso scienziato e astrologo, e in voce di mago e di negromante, come erano tenuti in simile concetto a quei tempi tutti coloro che coltivavano la filosofía e le scienze. Il suo vero nome fu Francesco, figliuolo di maestro Simone Stabili da Ascoli, nato nel 1257, o in quel torno: si diè nella primissima età a coltivare con ardore le lettere, le matematiche e tutte le arti, come allor si diceva, del trivio e del quadrivio, tantochè di bonissima ora acquistò fama di solenne scienziato, e fu chiamato a insegnare astrología nello studio di Bologna, dove stette molti anni, esercitando il suo nobile ufficio con gran lode e riputazione. Il gesuita Appiani d'Ascoli, apologista di questo sventurato, sparge sul conto di lui varie favole, come quella che si fosse profferto di condurre il mare Adriatico sotto le mura di Ascoli; che fosse medico di papa Giovanni XXII, e che perciò si trattenesse parecchio tempo alla corte d'Avignone; che avesse per suo nemico personale in Firenze Guido Cavalcanti; e che, tornato d'Avignone, facesse amicizia con Dante: cose tutte chiarite false dai fatti e dalla cronologia. Molti parlano di Cecco d'Ascoli come di uomo vano e presuntuoso, ma privo di vera scienza; altri invece lo rappresentano per uomo di gran sapere, e che a forza di studio e di osservazione, fosse giunto a scoprire de' nuovi fatti nella scienza astronomica e nella meteorología, i quali poi furono accettati dalla scienza per verità irrepugnabili; e tra questi il Libri nella sua Storia delle Scienze matematiche conchiude parlando di lui: «sarebbe tempo che gli Italiani ristorassero la memoria d'un uomo, che ha ben altri pregj che quello d'essere una vittima illustre della Inquisizione.»

Compose nella sua gioventù[15] un poema in lingua italiana da esso intitolato l'Acerba, quasi che fosse come un acervo, e indigesta raccolta di cose scientifiche; o che volesse accennare con quel modesto titolo la imperfezione del suo lavoro, chiamando tal opera del suo ingegno, non matura e dolce, ma imperfetta ed acerba[16]; ed infatti quest'opera trovasi in alcuni testi a penna col titolo: Liber acerbae aetatis. L' Acerba è divisa in cinque libri, che in alcune edizioni sono ridotti a quattro: è in terza rima, con le rime concatenate in modo diverso dalla terza rima di Dante; ed è assai rozza e strana nella forma, benchè qua e là bellezze vere rifulgano. Frequenti sono le riprensioni che Cecco ivi fa alle dottrine di Dante; e contro Dante inveisce fieramente verso il fine del suo lavoro; comecchè non paja improbabile che Cecco avesse commercio di lettere con lui, secondo che può argomentarsi da un luogo dell' Acerba stessa, il quale dice: «Ma qui mi scrisse dubitando Dante ec.». Ad un altro celebre fiorentino si mostrò avverso fieramente Cecco d'Ascoli, dico a Guido Cavalcanti, amico di Dante, sommo filosofo allora, e nobile poeta, scrivendo un lungo commento alla canzone di lui:

Donna mi prega, perch'io voglia dire,

D'un accidente, che sovente è fero,

e combattendo virilmente le sue dottrine filosofiche; contro al qual commento di Cecco, fece altro commento maestro Dino del Garbo, pigliando risolutamente a difendere quelle dottrine che Cecco aveva combattute.

Mentre questi era nello studio di Bologna, vi lesse negli ultimi anni la Sfera del Sacrobosco con un commento fattovi da lui, e fioritissima era la sua scuola: tal commento parve all'Inquisizione che peccasse contro la dottrina cattolica del libero arbitrio, e fu comandato a Cecco che cessasse di spiegarlo; ma, non rimanendosene, fu accusato, processato, e condannato a gravissima sentenza; e dovè giurare che mai più avrebbe insegnato tali dottrine. Ciò avvenne nel 1324;[17] e da quel tempo, non trovandosi più a suo agio in Bologna, vagò per diverse città, e all'ultimo se ne venne a Firenze, per astrologo forse, e forse anche per medico, alla corte del duca di Calabria.

I due personaggi di sulla porta di Badía, l'uno era frate Accorso da Firenze, inquisitore dell'eretica pravità nella provincia di Toscana; e l'altro era maestro Dino del Garbo. Questi fu medico eccellentissimo del suo tempo. Datosi a studiare in Bologna, valse tanto nelle arti liberali, nella filosofía e nella dottrina di medicina che, di volontà di tutto lo studio, fu promosso alla cattedra, dove insegnò molto tempo con fama grandissima. La invidia per altro fece ben presto sue arti verso di lui; nè poco gli si adoprò contro Cecco d'Ascoli, che leggeva allora appunto a Bologna; il perchè Dino fu costretto partirsene, e andò a leggere a Siena; nè a Bologna più volle tornare, con tutto che i Bolognesi solennemente lo richiamassero.

Fece parecchie opere di gran lode, che lo resero famoso in tutta l'Italia e fuori: tra le altre vuolsi notare più specialmente il commento latino sopra la famosa canzone di Guido Cavalcanti, la quale dei movimenti, cagioni, costumi e natura di amore, con ragioni, dice Filippo Villani, filosofiche e morali sì cautamente e mirabilmente dimostra; contro la qual canzone aveva, come dissi poco fa, scritto acerbamente Cecco d'Ascoli.

Dino, già vecchio, era tornato da qualche anno a Firenze, per finirvi quel tanto di vita che poteva tuttora restargli.

Adesso continuiamo il racconto: che oramai n'è il tempo.

CAPITOLO III. L'OMAGGIO E L'AMORE.

Il palagio del Podestà, chiamato poi del Bargello, non era condotto per anco all'ultima sua perfezione, dacchè non era ancora merlato; non era ancora stato messo in volta il tetto di sopra; non era costruita la maravigliosa scala del cortile; ma, con tutto ciò, era il più magnifico palazzo di tutta Firenze; e tanti erano stati i restauri e gli addobbi fatti per ricevere degnamente il novello signore, che sarebbe potuto servire di reggia a qualunque gran re: e il duca e la duchessa si mostrarono contentissimi di sì nobile residenza, che fecero anche più splendida con arredi proprj.

Il giorno seguente alla venuta de' principi, il gonfaloniere con tutti i priori, i capitani del popolo e i collegj, andarono a fare l'omaggio solenne al novello signore ed alla sua donna. La gran sala del palagio era mirabilmente ornata di pitture a fresco, e molta parte delle pareti coperta di nobilissimo corame messo a oro con bullettoni dorati: erano appiccati su in alto, e disposti in ben intesi gruppi, i gonfaloni del re Roberto, di parte guelfa, della repubblica fiorentina, della chiesa, dei sestieri e delle arti: panche, sedie ed altri mobili, il tutto di noce finissimamente intagliati, e ricoperti, quelli che il comportavano, di corame messo a oro, con bullettoni dorati: una edícola di gentil disegno e lavoro, con un'immagine della Vergine, opera di Giotto, era collocata nella parete di tramontana; nella parete di levante erano due nobili sedie sotto un baldacchino ricchissimo di sciámito rosso, seminato di gigli d'oro, e sormontato dalle armi della Chiesa e del re Roberto.

Introdotti il gonfaloniere, i priori e tutti gli altri, il duca e la duchessa, che erano seduti sotto a quello che potea dirsi trono reale, si alzarono, e si mostrarono benigni in atti e in parole: ambedue per altro avevano sulla faccia un certo non so che di altero e di soverchiante, che forte dispiacque ai Fiorentini; e quella stessa mostra di magnificenza, quell'essere attorniati com'erano di armati, e di tanti nobili cavalieri, teneva sospesi gli animi di molti, che si misero in apprensione per la libertà del comune. Il duca era assai giovane: scarso piuttosto della persona, sparuto nel volto e con rada barba; ma con due occhi così mobili, di così acuto sguardo e terribile, che davano segno, non solo della mobilità, ma anche di altra peggior qualità dell'animo suo. La duchessa al contrario era di persona ben formata, di gentile aspetto, se non quanto aveva del virile: vicina ai trent'anni, ma pur sempre bellissima, la sua beltà era rifiorita in modo maraviglioso dalle ricche ed elegantissime vesti.

La magnificenza di quell'addobbo, lo sfoggio di armi, di gioje, di vestimenti, così dei principi come de' tanti cavalieri che loro stavan d'attorno, faceva strano contrasto colle semplici vesti de' cittadini fiorentini, i quali rimasero sopraffatti da tanto splendore e da tanta magnificenza; per modo che il gonfaloniere durò fatica a spiccicare poche parole del complimento d'uso, alle quali il duca rispose quello che sogliono rispondere tutti i novelli signori, fermandosi sulle bellezze della città, sulla virtù dei cittadini, sulla buona volontà con cui vengono di rispettare usi e consuetudini, e di spendere vita ed averi per l'utilità del popolo e per il buono stato e per la libertà del comune, e ben presto diede loro commiato. Come il gonfaloniere fu vicino alla porta, gli si fe' presso Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, e sotto voce gli disse:

— Il signore vuol conferire con voi per cose che importano al buono stato della terra; piacciavi di trattenervi un poco qui in palagio.

A che il gonfaloniere rispose che il farebbe, non senza essere contristato da funesto presentimento.

Dopo tal cerimonia, altra se ne preparava non tanto solenne, ma gentilissima se mai ne fu: sei fanciulle fiorentine, tutte de' grandi, venivano a presentar la duchessa di un canestro di fiori, ed a farle omaggio in nome delle matrone e donne fiorentine. Prima tra queste era la Bice dei Cavalcanti, una fanciulla di meravigliosa bellezza, oramai su' 24 anni, il cui volto era sempre dipinto di una certa mestizia, che non poteva esserci cuore umano il quale non si sentisse tratto ad amarla. A lei toccò di offrire a nome di tutte quel grazioso presente alla duchessa, e disse parole così gentili, così semplicemente garbate, e con voce così angelica, che Maria di Valois, risposto cortesi parole di ringraziamento, non potè fare che, voltasi a lei specialmente, non le dicesse:

— Gentile damigella, se Dio vi conceda ogni vostro piacere, che è quell'aria di mestizia che portate sul vostro bel volto? essa mal si conviene con la vostra bellezza, e con la letizia di questo giorno.

— Madama, le sventure della mia terra... La fresca perdite della mia diletta madre... — rispose Bice tutta smarrita; e non trovando altre parole da aggiungere.

— Ah, voi celate qualche cosa: siete bella, e non può fallire che abbiate gentil cuore; e sapete che il vostro Dante scrisse:

Amore a cor gentil ratto si apprende;

e così dicendo la prese caramente per mano. La fanciulla fece il viso come di fuoco, e tutta vergognosa chinò gli occhi a terra. In questo eccoti entrare nella sala Guglielmo d'Artese, un leggiadro e nobile cavaliere, biondo, di gentile aspetto, e di maniere e portamento dignitoso, se altri ne fu, che recava alla duchessa un foglio da parte di suo marito. Come prima egli fu dinanzi alla duchessa, e in un bacile d'argento le presentava il foglio, gittò gli occhi sulla fanciulla, che tuttora era tenuta per mano da lei, e che, senza accorgersi, si voltò anch'essa verso di lui: e non prima i loro sguardi si furono incontrati, Guglielmo si senti il cuore come passar da una lancia, e non potè governare tanto sè stesso che non esclamasse: Bice! La fanciulla si coperse di un pallore simile a quel della morte, e rimase immota come una statua, se non quanto si vedeva un moto convulso delle labbra, e pioverle dal volto abbondantissime lagrime.

Come rimanesse la duchessa è facile indovinarlo, nè qui lo dichiaro: con cenno severissimo intimò a Guglielmo di uscire; e lasciata la Bice a cura delle sue damigelle, si ritirò stizzosamente nelle sue stanze.

CAPITOLO IV. IL DUCA E IL GONFALONIERE.

In un'altra sala del palagio seguiva intanto altra scena. Il gonfaloniere di Firenze era già a stretto ragionamento col duca, il quale stava seduto sopra sedia magnifica, accanto ad un tavolino, su cui era il suo elmo e la sua spada; e senza preambolo incominciò:

— Messer lo gonfaloniere, questa nobile terra è malata forte dentro di sè, e minacciata di peggio da' nemici di fuori. Bisogna provvedere.

— Valorosissimo signore, e per questo appunto il Comune di Firenze è ricorso alla vostra virtù e alla vostra potenza.

— Virtù e potenza! Ma queste sono poco efficaci là dove non sieno secondate, e non possano liberamente operare. La potenza di Castruccio è più grande che mai, dopo la dolorosa rotta dell'Altopascio; e la parte Ghibellina se ne è rialzata maravigliosamente; nè a combatterlo bastano le genti che abbiamo. Bisogna mandar tosto per le amistà, e raccogliere il meno 800 cavalli, e far senza indugio la cerna del contado.

— Monsignore, come può il Comune sopportare tanta spesa? Come si possono trapassare i patti...

— I patti? — esclamò il duca accerito, e stendendo la mano alla spada, che era sul tavolino, come per brandirla: — i patti sono che io provveda al buono stato di questa terra; ed io debbo volere, e voglio, tutte quelle cose che a ciò conducono più speditamente. Si ricordi la vostra magnificenza, che io son figliuolo di re, e signore di Firenze.

A queste superbe parole il gonfaloniere non ebbe cuor di rispondere. E il duca, più baldanzoso:

— Quando un Comune è ridotto a tali estremi, una volontà sola è necessario che governi il tutto; ed a voi Fiorentini, coi vostri modi di squittinj, con tanti ufficj così strani e diversi, in opera di guerra e di ricomporre lo stato, non è possibile far cosa che sia buona.

— Monsignore, disse timidamente il gonfaloniere, rompere gli ordini del Comune, questo non si può fare.

— Tutto si può fare, chi voglia. Ma io non vo' rompere ordini nè altro: bisogna solo che la somma del potere sia tutta in mia mano: bisogna che i priori si facciano a mia volontà; e simile ogni signoría, e ufficj, e guardia di castella, così in città, come in contado; che a mia volontà possa fare pace e guerra; rimettere sbanditi e ribelli, ed ogni altra cosa fare, che a me paja utile a quello perchè sono stato chiamato qua.

— Questo è molto, signore, e dubito forte se il Comune voglia farlo.

Voglia! C'è per avventura chi abbia balía di dir questo motto, dove io son signore? Messere, pensateci bene: adunate signoría, capitani del popolo, capitani di parte guelfa, collegj; adunate chi volete: a me basta che l'effetto sia quello da me voluto. Anzi darò la cura a monsignor Gualtieri di Brienne, di secondarvi quanto può in quest'opera che vi commetto, e che dee rassodare la libertà e il buono stato di questa nobile e a me cara terra, e ristorare in qualche modo la dolorosa rotta dell'Altopascio.

E fatto venire a sè il duca d'Atene:

— Mio bel cugino, gli disse, strizzando un poco l'occhio e accennando lievemente col capo, farete che siano in arme i vostri cavalli, e seconderete con tutte le vostre forze il magnifico gonfaloniere in quello che vi richiederà.

Qui il gonfaloniere fece atto di voler parlare; ma Carlo gli tagliò le parole in bocca, dandogli cortese commiato in questa forma:

— A Dio v'accomando, messere: gravi cure mi vietano il poter più lungamente ascoltare i vostri savj ragionamenti. Spero farete in modo ch'io possa tenervi sempre per carissimo padre e per amico leale.

Quel venerando uomo fece profonda riverenza, e amaramente accorato, uscì dalla sala.

Gualtieri sapeva già il disegno del duca; e come prima furono rimasti soli, domandò:

— Signore, trovaste voi molto ritroso il gonfaloniere?

— Questi mercanti fiorentini, rispose il duca, restano facilmente abbagliati dalla maestà regale. Non trovò modo di rispondere. Ora bisogna senza indugio dar forma alla cosa, e a te ne commetto la cura; fa che la signoría mi sia confermata per 10 anni, e che i 200 mila fiorini si portino a 400,000.

— I grandi e i potenti sono per noi: ed io farò il rimanente.

— Parmi più savio consiglio tenere col popolo: esso mi diede la signoría, esso me la confermi; e tu lusingalo quanto più puoi. Tieni per altro bene edificati anche i grandi: insomma usa tutte le arti, purchè il voler mio si faccia; e dove queste non giovino, non rifuggir dalla forza, e corri la terra per mia.

— Riposate sulla mia fede. — E dette queste parole, Gualtieri, chiesto ed ottenuto commiato, partì.

Non era passato molto tempo che i Fiorentini avevano fatto in tutto e per tutto la volontà del duca, tanto erano oppressi i loro animi, un poco dalle patite sciagure, e un poco dalla paura delle forze del duca d'Atene. Anzi andossi anche più in là; i grandi e i potenti si erano radunati insieme per dare a Carlo la signoría libera e senza termine; non mica per amore o per fede che avessero a lui, nè che a loro piacesse tal signoría, ma solo per disfare il popolo e gli ordini di giustizia. E la cosa avrebbe avuto effetto, se al duca non fosse piaciuto di tenersi piuttosto col popolo che altrimenti.

CAPITOLO V. GUGLIELMO E DINO DEL GARBO.

Ma per procedere con ordine nel mio racconto, sarà bene informare il lettore, chi fosse quel Guglielmo che si incontrò con la Bice Cavalcanti dinanzi alla duchessa, e perchè i due giovani, vedendosi a quel mo' all'improvviso, rimasero così sopraffatti. Guglielmo d'Artese, gentilissimo cavaliere provenzale, era stato a Firenze nel tempo della prima signoría di Roberto re di Napoli, la quale terminò nel 1322. Giovanissimo allora, ricco, e di alta progenie, bello e di bella maniera quanto altro giovane ci fosse al suo tempo, era cercato e accarezzato da tutti; e quella fanciulla che avesse potuto gloriarsi del suo amore, sarebbe stata dalle compagne reputata felicissima di tutto il mondo. Altero e disdegnoso per natura; e forse spregiatore in cuor suo di quei Fiorentini, buoni solo a mercanteggiare, e che la libertà loro appigionavano ora a questo ora a quell'altro signore, poco curavasi più d'una dimostrazione che di un'altra, ed agognava solo allo splendore ed agli onori della corte angioina; e forse aveva lasciato a quella corte la donna del cuor suo, ed a lei sola pensava.

Occorse caso per altro che egli una volta accettò di far parte di una splendida cavalcata che alcuni grandi avevano ordinato, per andare poi a sontuoso convito in una villa de' Cavalcanti a poche miglia dalla città: in questa occasione vide la Bice; e preso da subito amore a quella maravigliosa bellezza, ed avutane corrispondenza, pose ogni cura a piacerle, e ben tosto fu diventato un altro uomo, nè più qua o più là pensava di lei, che riamollo di puro, ma di ardentissimo amore. Se non che bisognava farlo celatamente, perchè il padre di lei era avversissimo a tale amore, e fremeva al solo pensiero che la sua Bice dovesse ire sposa ad un cavaliere straniero.

Cessata nel 22 la signoría del re Roberto, Guglielmo fu obbligato di ritornare alla corte; nè si può dire quanto fosse dolorosa a' due amanti questa separazione. Promise l'uno all'altro fede inviolabile ed amore costante: promise Guglielmo che le avrebbe fatto pervenire novelle di sè ogni volta che il destro se ne porgeva; ma, qual se ne fosse la cagione, dopo il primo anno la Bice non seppe più nulla di Guglielmo; della qual cosa la povera fanciulla se ne accorò tanto, che non fu più mai lieta. Sicchè può facilmente indovinare il lettore qual debba essere stato il cuore di ambedue, ritrovandosi inaspettatamente, dopo cinque anni, l'uno sì presso all'altro; e può con pari facilità immaginarsi qual tempesta di pensieri dovesse tormentare il cuore di essi, tornati che furono alla quiete delle loro case. La povera Bice ne rimase smemorata per parecchie ore, ed a fatica potè celare il suo turbamento a Geri suo padre, uomo assai risentito, e che sarebbe montato su tutte le furie, benchè alla figliuola volesse un bene dell'anima, se avesse saputo il fatto. Il trovarsi per altro così vicino il suo diletto, che erale paruto sempre più bello; quello sguardo suo così amoroso; il modo di quella sua esclamazione, gli rimisero la quiete e le speranza nel cuore; e dove fino allora aveva tenuto quel giovane per infedele e dimentico di lei, ora a tutt'altra cagione si studiava di recare il suo lungo silenzio, e solamente stava dubbiosa e timida del come poterlo vedere d'allora innanzi e parlargli.

Guglielmo dall'altra parte non istava punto meglio della Bice: l'aveva creduta infedele, perchè mai, se non una volta sola, avevagli scritto. Ito negli ultimi due anni a corte di papa in Avignone, ed in altre nobili ambasceríe, sempre portava seco il rammarico del perduto amore, nè poteva consolarsene; e come giunse in Firenze, tremavagli il cuore o di trovarla maritata, o forse anco morta, come qualche volta eragli balenato alla mente. Ed anch'egli, quando fu tornato in sè dallo smarrimento che lo colse a piè della duchessa, si riconfortò del vederla, non pur viva, ma tuttora fanciulla (sapendo che tutte fanciulle dovevano essere le presentatrici dei fiori); e gli parve altresì di poter indovinare che sempre l'amava, tanto teneri furono i pochi sguardi ch'ella potè dargli, e tanto abbondanti le lacrime che poi versava; le quali non potevano essere di chi avesselo tradito, perchè i traditori non piangono.

Ma perchè la duchessa andò stizzosamente nelle sue stanze? Ecco un'altra curiosità del lettore; ed eccomi a tosto levargliela. La duchessa si accorse subito che i due giovani dovevano amarsi fin da quando Guglielmo era stato l'ultima volta a Firenze: egli era bello, gentile e prode in arme: non lo avrebbe detto neanco a se stessa, nè gliene avrebbe fatto segno veruno, a costo della vita, perchè mai avrebbe mancato di fede al duca; ma essa lo amava in cuor suo; e in quel punto sentì fiera gelosía, e sdegno ad un tempo, che sì nobile e gentil cavaliere avesse posto il suo cuore in sì basso luogo, come, secondo lei, era la figliuola d'uno di questi mercanti fiorentini: e pensò fin d'allora di attraversare con tutte le sue forze tal cosa. Il giovane, da talune parole tronche, e da qualche atto involontario, non che avesse conosciuto, ma eragli parso d'intravedere come la duchessa nol vedea di mal'occhio; ma bene era lunge dal darsene per inteso, leale come egli era verso il suo signore: anzi, anche per ciò non gli rincrebbe che fosse avvenuto dinanzi a lei quanto avvenne con la Bice, sperando che il saperlo amante di un'altra le caverebbe dal cuore ogni pensiero di amore se pur ce l'avesse avuto; e non pensò ad altro, se non a trovar modo di poter vedere la sua donna.

La prima cosa aveva cercato d'informarsi che cosa fosse avvenuto di una fida cameriera, consapevole del loro amore mentre egli stette in Firenze; ma seppe esser morta: poche, anzi niuna conoscenza familiare aveva in città, nè sapeva qual via tenere per giungere agli intenti suoi; quando gli corse alla mente Dino del Garbo, che, per averlo curato anni addietro, avea con lui molta dimestichezza, ed era parimenti tutto di casa Cavalcanti. Non mise tempo in mezzo; ed in meno che non si dice fu a casa Dino, il quale, vedutolo, gli fece meravigliosa festa. Ma Guglielmo senza altre parole:

— Maestro, sono alla mercè vostra; mi salvaste altra volta, salvatemi adesso.

— Cosa ch'io possa, bel cavaliere; che vi piace?

— Non cerco ajuto dall'arte vostra; ma dal vostro affetto e dal vostro consiglio.

— E l'una cosa e l'altra son tutte vostre: parlate.

— Sono innamorato, e vengo da voi per soccorso.

— Qui, figliuolo, nè l'arte mia, nè l'affetto, nè il consiglio ci possono nulla; e dall'altra parte io spero che non vorrete farmi Prenze Galeotto, soggiunse ridendo maestro Dino.

— Oh, maestro, è troppa la riverenza in che vi tengo, e il grato animo che mi vi lega, da formare così vile pensiero di voi... Ma voi siete famigliare ed amico dei Cavalcanti...

— Intendo, cavaliere, dove volete riuscire. Fin da quando vi curai del vostro malore mi accorsi del vostro amore per la Bice de' Cavalcanti; e dopo che foste partito, ne presi certezza dal modo che essa teneva, dalla grave mestizia che la occupò, e da certe parole tronche di M. Geri, il quale per altro non me ne disse mai nulla direttamente.

— Come! la Bice si accorò del mio partire, e ne fu sempre dolente?

— Non ebbe mai più bene di sè; ed era la maraviglia e il rammarico di tutti il vedere colei che era stata il fiore e la letizia delle donzelle fiorentine, ridotta una cosa tanto scura e tanto mesta.

— Maestro, se Dio vi ajuti, non mi abbandonate. Io vivo solo per la Bice: l'amo, dopo Dio, sopra ogni cosa umana; fate che io le parli: sono cinque interi anni che mi consumo di lei: cinque interi anni che nulla ne ho più saputo: l'ho creduta infedele; l'ho creduta sposa di un altro: l'ho creduta perfin morta. E ora l'ho riveduta sempre più bella, sempre più angelica, sempre amante... Maestro, ajutatemi, consigliatemi.

E qui non potè fare che allo scongiuro non tenesse dietro uno scoppio di pianto.

— Figliuolo — disse maestro Dino — che io vi procuri il modo di parlare alla Bice non è onesto nè a me nè a lei. Posso bene parlarne con M. Geri suo padre, ed esortarlo efficacissimamente che secondi gli onesti vostri desiderj.

— Suo padre! è inutile, maestro: fu avverso al nostro amore fin da principio.

— Io non so altra via che sia buona.

— Oh Dio, voi mi uccidete: io son diserto... da chi troverò consiglio?... Ah!... maestro Cecco! esclamò Guglielmo, a modo di chi si mostra lieto di aver trovato un sicuro ripiego.

Al nome di maestro Cecco, Dino si fece in volto come di bragia, e con atto di strana maraviglia dimandò:

— Maestro Cecco! Intendereste forse di Cecco d'Ascoli?

— Sì, rispose Guglielmo, esso è uomo di tanta sapienza, che...

— Di tanta sapienza? — interruppe Dino, — esso è un eretico scomunicato; è nimico del nome fiorentino; e i due più illustri figliuoli di questa patria ha scherniti e vituperati, dico Dante e Guido Cavalcanti, zio appunto del padre di quella Bice che voi amate. E voi ora vorreste che, siccome egli vituperò il zio, ora vituperasse il nipote, facendo da mezzano agli amori della sua figliuola...

— Maestro Dino, io sono leale cavaliere...

— I Fiorentini, messere, si chiamano ciechi, ma non sono: e i grandi di questa terra sono e leali e generosi e valenti in arme quanto cavaliere o francese o provenzale; nè loro si fa vergogna che non si paghi col sangue, o con lacrime amare.

— Maestro Dino! — riprese da capo Guglielmo — se voi non foste quell'uomo che siete, e se non aveste codesti capelli bianchi, non so s'io comporterei sì fatte parole.

— Nè io, così canuto, ho paura di voi e de' pari vostri. Maestro Cecco!... E il Duca stesso, che sapeva l'avversione di lui a Firenze, e come egli abbia cercato di offuscare le glorie maggiori nostre, chi sa che non lo abbia condotto qua seco per ischerno e per oltraggio di noi e della nostra terra. Ma, se questa è ora oppressa dalla sventura, e i suoi cittadini ora dormono, potrebbero un giorno destarsi, e far pagar caro a' superbi stranieri, ed ai truci tiranni lo scherno e l'oltraggio.

Tali parole diceva Dino tutto infiammato nel volto, e vinto assolutamente dall'ira. Tanto era l'odio che aveva per Cecco, che il solo nominarlo, ed il sentire che godeva fama di sapienza, gli aveva tolto il lume degli occhi; e chi sa fino a qual punto sarebbe arrivata la cieca furia di lui, se Guglielmo, tra per la riverenza in che lo teneva, per il rispetto alla sua canizie, e per non sentirsi tirato pe' capelli ad oltraggiare quel vecchio in sua casa, pensò bene di partirsene, dicendogli sole queste parole: «Maestro, io non sono troppo letterato; ma ricordomi bene di aver letto che un antico savio latino disse questa sentenza: Ira est initium insaniae

CAPITOLO VI. L'AJUTO DI CECCO.

Aveva Guglielmo fatto pochi passi fuori dell'uscio, che, sboccando da via del Garbo, dove erano le case dei Cavalcanti, nel Corso degli Adimari, si abbattè in Cecco d'Ascoli, a cui raccontò minutissimamente quel che gli era accaduto in casa maestro Dino; e fermandosi sul fatto della Bice, ed esortandolo a consigliarlo e ad ajutarlo, Cecco rispose, cercando di coprire il suo sdegno con una certa tinta di gravità.

— Messere, la ira e i vituperj di Dino contro di me non vi diano maraviglia: leggemmo insieme per molti anni nello studio di Bologna; e come egli si reputa il primo scienziato del mondo, e la mia scuola era più frequentata e più lodata che la sua, così ne prese fierissima invidia, e per me egli era sempre sparso di livore. Combattei gli errori di quel Dante Alighieri, di cui questi Fiorentini vanno tanto alteri, e massimamente questo maestro del Garbo, che, tra le altre cose, lo appella Divino. Scrissi contro alle false dottrine contenute in una certa canzone di altro loro poeta e filosofo, amico singolarissimo di questo Dante e di questo Dino; ed anche di ciò prese fiero sdegno, e riscrisse un commento a quella canzone, contrario tutto alla mia sentenza: cosa meschina e debole se altra ne fu... Ma tal sia di quel tristo vecchio. Voi, messere, mi chiedete ajuto e consiglio nel fatto vostro; e debito mio sarebbe invece il disajutarvi.

— Oimè, maestro, ch'è quello che mi dite?

— Dopo il vostro incontro con la Bice dinanzi alla duchessa, questa mi volle a sè, e la trovai accesa di tanto sdegno e di tant'ira, che quasi mi fece paura. Messere, mi parlò per forma che io vi intravidi la gelosía: mi sono io apposto?

Qui Guglielmo non rispose parola, e Cecco continuò:

— Ma sia l'una cosa o l'altra, poco rileva. Vero è che la duchessa vuole ad ogni modo sapere come sta la cosa di questo amor vostro; vuole che ad ogni modo si rompa; e vuole che io le dia ajuto e consiglio in questa opera, ricorrendo alla magía, se per altro modo non è possibile.

— E voi le avete promesso?

— Promesso formalmente no; ma negato nemmeno, chè mi sarebbe costato caro. Io per altro son ben lungi dal voler secondare le feroci voglie di lei; anzi vo' far ogni mia possa per ajutar voi. I Cavalcanti gli conosco da un pezzo; e troppo mi piace che voi amiate una fanciulla di quella casa. Eccomi qua tutto vostro: e il modo di contentarvi non è per avventura troppo difficile.

— Dolce mio maestro, voi mi rendete la vita.

— Io ho promesso di leggere la Sfera del Sacrobosco ad alcuni studiosi che mi udirono a Bologna: tra questi ci ha un frate Marco de' predicatori, tutto cosa mia, e familiare de' Cavalcanti. Egli forse... Lasciatene il pensiero a me.

Gli occhi di Guglielmo sfavillarono di speranza e di gioja; e il suo grato animo a Cecco lo significò baciandogli affettuosamente la mano. E come già erano presso al luogo dove Cecco per la prima volta andava a fare le sue letture, ripetute a Guglielmo parole di conforto, gli diede commiato promettendogli che quella sera medesima avrebbe potuto dirgli qualche cosa.

CAPITOLO VII. IL GIARDINO DI CASA CAVALCANTI.

La duchessa aveva di fatto chiamato a sè maestro Cecco, e questi avevale di fatto dovuto promettere che farebbe ogni opera per frastornare e per rompere tale amore di Guglielmo e di Bice; ma ora che da Guglielmo aveva udito il rifiuto fattogli da maestro Dino, e la fiera avversione che questi avea mostrato a sì fatta cosa; e come anche Geri Cavalcanti fosse contrario; vedendo di potere ad un colpo ferire il suo acerbo nemico, e Geri nipote di Guido Cavalcanti, statogli già avversissimo, mutò proposito, e si diede a secondare con ogni studio il desiderio di Guglielmo; nè prima ebbe finita la sua lettura che, avuto a sè frate Marco, ed accompagnatosi con esso, dopo ragionato di cose diverse:

— A proposito, Frate Marco, disse Cecco, voi potreste se vi piace, fare un'opera buona.

E frate Marco, domandatogli come; Cecco, fattosi da principio dell'amore di Guglielmo, gliene raccontò capo per capo ogni minimo che, e conchiuse così:

— Voi vedete che messer Guglielmo ha oneste intenzioni verso la Bice, e non potrete negare che i Cavalcanti dovrebbero tenersi assai da più, se potessero imparentarsi con sì nobile cavaliere come lui. Ambedue que' giovani ardono di rivedersi... la cosa è onesta, perchè conduce a buon fine... voi siete domestico di messer Geri...

— Maestro, che domandereste voi?

— No, frate Marco, nulla di men che onesto, vi dico. Guglielmo parli alla fanciulla, al cospetto della sua matrona. Voi, so che questa matrona ben conoscete...

— È mia devota...

— Sì, sì, vostra devota; ed appunto per ciò consigliatela a fare quest'opera pietosa e santa. Su, bel frate: e se altro non potete, fate che almeno la vostra devota si abbocchi essa col cavaliere, che da lei si lascierà in tutto e per tutto governare.

Il frate si lasciò vincere a questi e ad altri più calzanti argomenti di Cecco; e senza indugio andò a casa Cavalcanti. Vide la devota sua, la quale, sapendo tutte le smanie della Bice, aveva già studiato ogni via da consolarla, e non le parve vero che gli se ne porgesse ora occasione; il perchè si proferse quasi da sè di parlare con Guglielmo, e pregò il frate che a lui desse la posta per la mattina di poi nel chiostro nuovo di Santa Maria Novella. La cosa fu condotta con tanta cura, che, non solo la matrona parlò il giorno di poi col cavaliere, ma potè recare la Bice a riceverlo nel giardino la sera del giorno medesimo. Chi intende amore per prova può facilmente immaginare la smania che ebbero i due amanti nel rimanente di quella giornata; i momenti parevano loro secoli; ciascuno ripeteva mille volte a se stesso le parole che avrebbe detto all'altro; ogni opera loro era fatta sbadatamente; non trovavano luogo; non potevano attendere a nulla; chè su qualunque cosa fermassero il pensiero, sempre risdrucciolava nel beato momento che gli aspettava la sera: e quanto più questa si appressava tanto più frequenti battevano i loro cuori. La posta era data alle quattro ore di notte, e non si domanda se Guglielmo fu puntuale; la Bice, nello scendere in giardino con la matrona, tremava come una foglia, e sentivasi venir meno le forze, tanto era sopraffatta, un poco dalla gioja, un poco dal timore e dalla novità dell'uscir di casa a quell'ora.

Era una delle più quiete sere d'estate, e la luna era quasi in pieno, che ci si vedeva come di giorno; a Guglielmo era stata data la chiave di un usciolo segreto; e come le due donne sentirono che quell'uscio si apriva, si fecero in là, e si trovarono dinanzi a lui, il quale, riconosciuta tosto la sua Bice, bramosamente la corse ad abbracciare, e presole il capo tra le palme delle mani, e baciatole e ribaciatole i capelli e la fronte, che tutta bagnolle di lacrime dolcissime, non potè per qualche momento articolar parola. La Bice anch'essa piangeva lacrime di dolcissima gioja, e la piena dell'affetto rendea muta anche lei, che soavemente appoggiava il bel capo sul petto del suo cavaliere; e solo dopo qualche tempo riavutisi da quella tanta commozione, Guglielmo ruppe primo il silenzio:

— Bice mia, quanti sospiri! quanti pianti! e mi avevi dimenticato?

— Guglielmo, non dire: mai mai non ho fatto un pensiero che non fosse di te in questi lunghissimi quattro anni; non preghiera alla nostra Donna, se non per te... quasi dimentica del mio buon padre. Ed ogni giorno, ogni momento sperava udir tue novelle, e questa sola speranza mi teneva in vita. E mai più nulla... e dubitavo... e piangevo...

— Ed io ebbi novella come tu eri ita sposa ad un altro.

Qui la Bice diventò rossa come di fuoco, e con amaro sorriso, scioltasi da lui, esclamò:

— Povero mio cuore, come lo hai mal compreso!...

— Che vuoi? mia diletta: io non restava mai, o vicino o lontano, di pensare a te: in guerra, nelle ambascerie, alle corti dei grandi, tu sempre mi eri nel pensiero; nè vittoria, nè plausi mi piacevano senza di te, e lettere mandava ogni volta che se ne porgeva occasione; nè mai dopo il primo anno ebbi veruna risposta, se non la novella del tuo matrimonio!...

— Ma io sospettai spesso quel medesimo; e se volessi dirti lo strazio che provava il mio cuore, non troverei parole che potessero significarlo a mille miglia. Mio padre, che sai non può acconciarsi a vedermi amare un straniero, mio padre aveva appostato vedette per tutto; e così vegliava ogni mio atto ed ogni mia opera, che gli venne fatto di aver per le mani così i fogli che tu scrivevi a me, come quelli che io a te scriveva. E forse ti si mandò ad arte la novella del mio sposalizio. Questo si seppe pur ieri da quel frate, che fu alimento principale della gelosía di mio padre; e che non so come a un tratto si diede così efficacemente a secondare il nostro amore.

— Opera di maestro Cecco d'Ascoli, di cui frate Marco è discepolo.

— Oh Dio! Chi è questo maestro Cecco? Quello per avventura che il popolo nostro chiama Cecco Diascolo? Ah mio Guglielmo, perchè mescolare un negromante nelle cose nostre? Io ho paura.

— Negromante lo crede il volgo, perchè fa cose di gran prodigio; ma queste sono frutto del suo lungo studio, e della sua altissima scienza. Pon giù, Bice mia, ogni timore: pensiamo solo ad amarci: forse tuo padre rimetterà a poco per volta da quella sua troppa avversione; il cuore mi dice che saremo felici.

— Ah! e il mio cuore no...

— Che cosa sono codesti tristi presentimenti? Bice mia, non turbiamo con foschi pensieri la nostra presente gioja. Amiamoci; speriamo. Anche lassù non può dispiacere il nostro amore così grande, così puro: Dio stesso sarebbe crudele, se lasciasse che si turbi o si rompa.

— Guglielmo, tu bestemmi. Dio è buono, e vuole sempre il bene. Speriamo dunque, come tu dici, speriamo in lui: a lui ci raccomandiamo, e tutto avrà buon fine.

La Bice in questo momento prese un'aria più lieta, e tono più familiare; e non sarebbero più finite le domande che l'uno faceva all'altro delle più piccole cose dette, o fatte, o pensate da ciascuno in quei cinque anni; se la matrona non gli avesse interrotti, addimostrando il pericolo e la sconvenienza di più trattenersi insieme fuori di casa. E però, amorosamente preso e dato commiato, non senza promessa di spesso rivedersi, la Bice tornò in casa, e Guglielmo uscì per la medesima porticina ond'era entrato, rimanendo ambedue col cuore traboccante di consolazione e di gioja. Ma ritorniamo alle cose pubbliche.

CAPITOLO VIII. LA QUARTA CERCHIA E I CONTORNI DI FIRENZE.

La quarta cerchia di Firenze (che è quella atterrata ora per far la quinta), già incominciata nel 1284, ed interrotta più volte, era quasi compiuta nel tempo che qui si descrive; e il duca, messosi a pensar di proposito alla guerra contro Castruccio, volle andare a visitarne le parti principali, a fine di appostare i luoghi e i modi più opportuni alla difesa della città in caso di bisogno: il perchè ordinò a questo effetto una nobile cavalcata col proposito di stendersi anche a diporto per le ridenti colline che circondano Firenze. Vi furono col duca e con la duchessa tutti i più segnalati cavalieri e savj di guerra della sua corte; e maestro Cecco d'Ascoli ancora, che di rado mancava colà dove il duca comparisse in pubblico.

Usciti la mattina a terza dalla porta Guelfa, la più vicina al Palagio, e passato l'Arno da S. Niccolò, e ripassatolo poi dalla porta a Verzaja, ora detta di S. Frediano, fecero la intera cerchia; e tutti non si saziavano di ammirare quella stupenda muraglia tutta di pietra, così grossa e così vaga a vedersi, con quei merli guelfi; e più che altra cosa maravigliarono i signori stranieri le grandi moli che si vedevano alle porte, ciascuna delle quali aveva un gran torrione larghissimo, e alto più di sessanta braccia, simili a quello che tuttora è in essere alla porta S. Niccolò; ciascuno dei quali era abile a contenere armi ed armati, da poter ribattere qualunque assalto nemico.

In ciascuno di questi torrioni, dalla parte della campagna, erano quattro scudi di pietra, in uno dei quali lo stemma del comune di Firenze, nell'altro quello della parte guelfa, donata alla repubblica da papa Clemente IV, e questo è un drago verde in campo bianco, a cui poi aggiunsero un giglietto rosso sul capo dell'Aquila[18]; sugli altri due vi era scolpita l'arme del popolo, una croce rossa in campo bianco; e nell'ultimo lo stemma del re Roberto. Nè questi soli torrioni si vedevano nella cerchia; ma altre torri vi erano di tratto in tratto; forti e merlate, tra le quali era maravigliosa una tra porta a Pinti e porta alla Croce, che era detta la Torre del Massajo, celebrata anche da Giovanni Villani. Compiuta che fu dalla nobile cavalcata tutta quanta la cerchia; volle il Duca salire un poco sopra le colline dalla parte di Fiesole; ma fu supplicato di accettare prima una colazione fattagli preparare da messer lo gonfaloniere e dai signori alla Badía fiesolana, a che il duca benignamente assentì. Il convito fu degno di chi lo dava e di chi l'accettava; e tutti quei signori francesi rimasero ben edificati non meno della cortesia fiorentina che delle maraviglie di quel monastero, il quale fu già l'antica cattedrale di Fiesole, e che è insigne per tanti santi da cui fu governata, e per tanti monumenti dell'arte.

Preso commiato da quei monaci, il Duca lasciò loro, partendo, un magnifico donativo; e poi con tutta la compagnia salirono su in alto del colle, da dove si scorge tutta quanta la città; nè può descriversi lo stupore di tutti al vedere quella selva sterminata di palagj e di torri; e mentre tutti erano silenziosi, Cecco fatidicamente esclamò:

« — Firenze, sei bella e grande; e bene, parlando di te, cantò maestro Dante là dove disse che il tuo Uccellatojo aveva vinto Montemario; e bene profetizzò, che, sì come è stato vinto nel montar su, così sarà vinto nel calo; dacchè per molto e molto tempo sarai lacerata dalle maledette parti; sarai poi soggiogata alla tirannía: sarai conculcata e vilipesa dagli stranieri, e ne perderai molto del tuo splendore; sarai invidiata e derisa da altri snaturati figliuoli d'Italia; e questo ti verrà in pena del tuo fallire, e dell'odio che hai già mostrato, e che mostrerai ancor più contro i propugnatori della scienza, e della verità, per saziare la feroce rabbia dei falsi sacerdoti.[19] Ma veggo nel corso dei secoli che tu ripiglierai la presente e molto maggiore grandezza, quando la scienza avrà vinto la superstizione, quando la verità avrà illuminato il mondo, e tu avrai fatto ammenda di ogni tuo fallo, accogliendo e propagando prima fra le città italiche queste due faci dell'umana perfezione.»

Di questa apostrofe improvvisa di Cecco rimasero tutti meravigliati, e molti gli furono attorno, domandando con molta instanza che gli chiarisse di alcune parti di questa sua predizione. Ma egli, che era stato fino allora come assorto in estasi, e che ai prieghi e alle istanze di quei signori erasi come desto dal sonno, mostravasi smemorato, e in tutto nuovo alle parole che gli dicevano, accertandogli che non sapeva di che profezia parlassero, e che non ricordava di avere detto nulla a proposito di Firenze. Essi un poco il credettero, e un poco pensarono che Cecco volesse farsi beffe di loro: e si diedero ad ammirare le circostanti colline, nè si saziavano di celebrarne l'amenità e la vaghezza; dopo di che la nobile comitiva s'avviò verso Firenze, tutti, e forse più di tutti il duca e la duchessa, satisfattissimi di questa lieta giornata. Non creda ora il lettore che quello che io ho detto di Firenze e dei suoi contorni sia un abbellimento oratorio, come la profezia di Cecco. Le memorie antiche ci rappresentano Firenze quale io la descrivo, e la stessa apostrofe di Dante:

Non era vinto ancor Montemalo

Dal vostro Uccellatojo....

mostra aperto quale dovea esser Firenze in quanto a palagj e a monumenti, se, veduta dall'Uccellatojo, che è il punto dove prima scorge Firenze chi viene da Bologna, faceva più bella mostra che Roma veduta da Montemario. E che i contorni siano stati sempre amenissimi, e popolati di case e di nobili edifizj, ce lo attesta il Villani là dove dice: «Intorno alla città sei miglia avea più di abitúri ricchi e nobili, che riunendoli insieme, due Firenze avrien fatte»; ribadito dall'Ariosto due secoli dopo con questi versi:

Se dentro a un mur, sotto un medesmo nome

Fosser raccolte tue bellezze sparte,

Non ti sarian ad agguagliar due Rome.

Qual poi fosse la ricchezza e l'industria di Firenze circa que' tempi si raccoglie da un documento di pochi anni posteriore, registrato dal Pagnini nella Decima, dove si legge che vi erano 280 botteghe di arte di lana dentro la città, 83 botteghe d'arte di seta, magnifiche e di gran pregio, che facevano drappi di seta, e broccati d'oro e d'argento, e dammaschi e velluti e rasi; e queste botteghe aveano la seta dalle galeazze medesime fiorentine, senza aver bisogno di capitare alle mani de' veneziani e de' genovesi; aveva 33 banchi grossi che cambiavano e facevano mercanzia per levante, per ponente, per Bruggia, per Londra, per tutto il mondo.[20]

Ma io mi accorgo, e non vorrei che il lettore avesse a dire: te ne sei accorto un po' tardi, che l'affezione alla mia città mi porta un poco lontano dal proposito; e senza indugio ripiglio il filo del racconto.

CAPITOLO IX. LA SCOMUNICA.

Castruccio dal canto suo non rimaneva punto d'infestare i fiorentini, anzi imbaldanziva sempre più, essendosi unito a lui contro Firenze il vescovo d'Arezzo; ambedue i quali, benchè avessero promesso al legato del papa di venire agli accordi, tenevanlo in parole. Laonde bisognò cominciare a pensare di opporsi loro con le armi; al quale effetto il Duca, affine di apparecchiarsi alla guerra, di sua propria autorità mise un'imposta di 60 mila fiorini d'oro a tutti i cittadini potenti, la quale bisognò pagare su due piedi. Il legato dall'altra parte cercava d'indebolire Castruccio e il vescovo Tarlati con le armi spirituali; e il dì 30 di agosto, con grande solennità, pubblicò aspri processi contro Castruccio e contro il vescovo, minacciando che fra due giorni avrebbe solennemente scomunicato ambidue nella piazza di Santa Croce, come fece veramente. A tal solenne cerimonia volle essere il duca con la duchessa e tutta sua gente; vi furono anche infiniti e fiorentini e forestieri.

E come tanto se ne era parlato i giorni innanzi, così anche la Bice si raccomandò a suo padre che ve la conducesse, mostrandosi vaga di vedere il legato del papa e il duca con tutta la sua corte; ma in cuore pensando solo al suo Guglielmo, il quale aveala sollecitata celatamente che facesse di esservi, e che egli pur vi sarebbe così e così. Nè quel buon vecchio di Geri le volle questa volta disdire, avendo caro anch'egli di veder quella cerimonia, dove si fulminava il più acerbo nemico del nome fiorentino; e non pensando nemmen per sogno che col duca fosse venuto in Firenze Guglielmo: e di fatto ve la condusse. Geri con la figliuola erano in un punto della piazza non molto lontano da dove era il duca con la duchessa, e dove per conseguenza era anche Guglielmo.

Assettatosi il duca e la duchessa con tutta la corte nel luogo loro assegnato, cominciò senza indugio la cerimonia, che qui non è fuor di proposito il descrivere. Nel mezzo della piazza era stato rizzato un altare posticcio, dinanzi a cui sul faldistorio sedeva il legato del papa, parato di ammitto, stola, piviale violetto e mitra semplice, assistito da dodici preti con le pellicce, tutti, anche il legato, con candele accese in mano; e quivi pronunziò la scomunica contro Castruccio in questa forma:

«Perchè Castruccio degli Antelminelli, istigato dal diavolo, non dubita di perseguitare santa Chiesa e la parte guelfa, disertare i beni di lei, e violentemente opprimere i poverelli di Cristo; per questo, solleciti noi, che per la nostra pastoral negligenza non ruini quello, di che siamo tenuti a rendere stretto conto nel tremendo giudizio finale, secondo la terribile minaccia di Dio stesso, là dove dice: Se non denunzierai all'empio la sua empietà, ricercherò da te il sangue di lui; lo ammonimmo la prima, la seconda, la terza e la quarta fiata, per convincere la sua malizia, e richiamarlo all'emenda, alla satisfazione ed alla penitenza, con riprensioni paternamente amorevoli. Egli nondimeno, lo sciagurato!, dispregiando le salutari ammonizioni della chiesa di Dio, cui tanto offese, enfiato dallo spirito di superbia, è ritroso contro di lei. Ci informano pertanto i precetti divini e apostolici, come sono da trattare siffatti prevaricatori, posciachè il Signore dice: Se la tua mano o il tuo piede ti scandalizza; e tu lo taglia e lo getta via. E l'Apostolo dice: Cacciate il tristo di tra voi. E Giovanni, il discepolo prediletto di Cristo, ci vieta fino di salutare tal uomo nefario, dicendo: Nol ricevete in casa, nè gli dite buon giorno; perchè chi il saluta comunica con le sue triste opere.

«Adempiendo per tanto i precetti divini ed apostolici, questo membro putrefatto ed insanabile, che più non patisce medicina, amputiamolo col ferro della scomunica dal corpo della Chiesa, acciocchè da tanto pestifero morbo non siano contaminate le altre membra di esso. Laonde, perchè dispregia le ammonizioni nostre, e le spesse esortazioni; perchè, invitato tre volte all'emenda e alla penitenza, non si diè cura di venire; perchè non riconobbe il peccato suo, nè lo confessò, nè mise innanzi veruna scusa per suoi messi, nè chiese perdonanza; ma, indurandogli il cuore il diavolo, sta pertinace nella malizia sua, per ciò, per giudizio di Dio onnipotente, del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, e del beato Pietro principe degli apostoli, e di tutti i santi; come altresì per l'autorità della mediocrità nostra, e della nostra podestà di legare e di sciogliere in cielo ed in terra, concedutaci da Dio stesso; Castruccio Antelminelli separiamo dalla percezione del sacro corpo e sangue di nostro Signore, e dalla compagnia di tutti i cristiani, e lo discacciamo dalle porte della santa madre Chiesa, così in cielo come in terra, e lui decretiamo essere scomunicato ed anatemizzato; lo priviamo di ogni sua dignità, e che ogni uomo lui e sua gente possa offendere in avere e in persona senza peccato; e lo condanniamo al fuoco eterno col diavolo e con gli angeli suoi, finchè ritorni al cuor suo, e si liberi di esso diavolo, facendo penitenza, e satisfacendo alla Chiesa di Dio, di cui tanto fece strazio, dandolo in podestà di Satana fino alla morte del corpo, acciocchè lo spirito di lui si salvi al dì del giudizio.»

E qui tutti i preti risposero:

— Sì, sì, sì.

Dopo ciò il legato ed i preti gettarono a terra le candele accese che avevano in mano, e così finì il rito; che si ripetè con poco divario, per la qualità diversa della persona, contro il vescovo d'Arezzo, il qual fu privato dello spirituale e del temporale.

Il legato del papa, la solennità della cerimonia, il tono enfatico col quale fu letto l'atto di scomunica, il bisbigliare e l'applaudire della gente, nulla non fu udito dalla Bice, che gli occhi e il pensiero aveva sempre a Guglielmo; e poco più vide e udì Guglielmo per la cagione medesima.

La duchessa ben si accorse di tutto, e celando la gelosia, meditava vendetta.

Geri vedeva la Bice stare come smemorata, ed a tutt'altro badare che alla festa; e continuamente volger gli occhi verso la corte, nè sapea che pensare; se non quando gli balenò il dubbio di quel che era; e subito fatta alzare la Bice, la ricondusse a casa senza risponder verbo alle dolci parole che quella povera figliuola gli andava dicendo.

Mentre il legato leggeva enfaticamente il solenne atto di scomunica, accadde cosa che va qui ricordata, perchè si rannoda in gran maniera coll'ultimo sventurato fine di Cecco. Questi era nel mezzo alla piazza in un capannello di suoi discepoli, e quando il legato arrivò a quel punto dove si diceva che il papa privava Castruccio di ogni sua dignità, e dava balía a ogni uomo di offenderlo senza peccato, non potè fare ch'ei non mostrasse di ridersene, e non esclamasse con tanto o quanto scherno:

— Ben altro ci vuole a privar Castruccio che quattro parole d'un prete: sarebbe ben capace Castruccio di privare il papa di tutte le sue dignità.

E coloro che facevangli corona non poterono non ridere alle parole di lui. Vicino ad essi per altro stava un frate minore, che udì bene quelle parole; e come colui che ben conosceva Cecco, gli disse, acceso di santo zelo:

— Maestro, codeste sono parole da eretici; chè ponete in dubbio la efficacia delle scomunicazioni papali.

— Eh, messer lo frate, non pongo nulla in dubbio io; il fatto parla da sè. Credete voi che, pronunciate con tanta solennità quelle parole, Castruccio abbia perduta ogni sua dignità? Credete che sia cosa agevole a chicchessía il potere offenderlo in avere e in persona? Provatevi un po' voi, messere, ad andare ad offenderlo; e vedrete a che giovano le parole di quella scomunica.

Il frate, che non era gran loico, non seppe che rispondere agli argomenti di Cecco; e però si stizzì maggiormente contro di lui, e tutto iroso gli disse:

— Cane paterino! codeste parole sono degne del tuo impuro labbro. Tu, condannato per eretico: tu, che dopo aver giurato di non insegnar la tua falsa scienza, porti in trionfo lo spergiuro insegnandola qui pubblicamente, tu devi parlar del papa come ne parli. Ma la mano di Dio non è abbreviata su gli empj; e proverai alla fine che cosa vuol dire il provocar l'ira sua. Va, maledetto: e ricordati che il riso degli empj è di breve durata.

E con atto di disprezzo e di abominazione si allontanò.

Cecco avrebbe risposto come si meritava a quella bestia di frate; ma cane scottato dall'acqua calda ha paura della fredda; e però si ritenne, perchè, essendo stato una volta nelle ugne dell'Inquisizione, e scampatone come per miracolo, non voleva trovarcisi la seconda.

Quel tafferuglio per altro aveva fatto nascere un certo tal movimento fra la gente d'attorno, e aveva dato nell'occhio al duca ed alla duchessa, che tosto mandarono a sapere che cosa fosse; nè poterono fare che non biasimassero acerbamente Cecco, a cui il duca volea farne duro rimprovero: se non che la duchessa si interpose, dicendo che ella stessa nel voleva rampognare, avendone pure un'altra cagione.

Mentre che queste cose si facevano in piazza S. Croce, eccoti levarsi voce in Firenze, che fosse fallita la compagnía degli Scali e Filipetri; la voce si fece ben presto certezza; e corsane la novella fra il popolo adunato a vedere la cerimonia della scomunica, distrasse da ogni altra cosa le menti di tutti, e ciascuno se ne commosse come di pubblica calamità.

La detta compagnía era durata, secondochè dice il Villani, più di centoventi anni, e trovossi a dare fra cittadini e forestieri più di quattrocento migliaia di fiorini d'oro; e fu a' fiorentini maggiore sconfitta, senza danno di persone, di quella dell'Altopascio, perciocchè chi aveva denari in Firenze perdè con loro; e molte altre buone compagníe, per il fallimento di quella furono sospette, con gran danno della città, la quale se ne sgomentò non poco. Uno di coloro che rimasero più danneggiati da questo avvenimento fu Geri Cavalcanti padre della Bice, che molta parte del suo avere, anzi la parte maggiore, avea in quella ragione; per modo che in tal giorno, tra per il fondato sospetto che Guglielmo doveva essere tornato a Firenze, e per questa sventura, fu il più disperato e deserto uomo del mondo, e nessuno poteva accostarsegli. La povera Bice, addolorata già molto dell'essere stata così bruscamente condotta via di piazza S. Croce, è facile a pensare come il dolor l'opprimesse alla novella della così grande sciagura del fallimento. Sapeva che suo padre caramente l'amava, e che essa, unica figliuola, doveva essere anco l'unica consolazione in tanta angoscia di lui, ma, benchè non uscissegli mai d'attorno, non si attentava per altro a profferire parola, avendolo veduto già così sdegnato contro di sè nel venir via da S. Croce, prima ancora che sapesse la cosa degli Scali; e mostrandosi, ora che lo sapeva, così acerbo e salvatico con tutti coloro che gli venivano dinanzi. Pure alla fine si fece animo:

— Mio dolce padre, ma tu stai male... — e non ebbe cuor di dir altro.

Geri stava seduto dinanzi a una tavola, col capo appoggiato sul palmo della mano, e con gli occhi socchiusi; nè ripose nulla alle timide parole della figliuola.

— Dunque non mi vuoi più bene... — riprese la Bice dolorosissima, e inginocchiandosegli dinanzi.

A questo amoroso rimprovero Geri, che l'amava più de' suoi occhi, sentì vincer la sua durezza, e rispose:

— Ah! non ti voglio più bene! Tu mi vuoi bene tu, che mi lasceresti qui solo, senza chi mi chiuda gli occhi alla mia morte, per andar dietro ad uno straniero, ad uno degli oppressori della libertà fiorentina!

— Babbo mio.... Guglielmo è buono....

— Dunque ho ben indovinato — disse Geri, alzandosi tutto in furia — Egli è da capo in Firenze; e per lui tu eri così smemorata là in piazza S. Croce. Sciagurata! così ami tuo padre? Amareggiandogli gli ultimi giorni della vita, e mostrandoti disubbidiente e ritrosa alla sua volontà! Povero vecchio! eccomi qui, oppresso dalla sventura, ridotto ora quasi alla miseria, con questa figliuola, che dovrebbe essere la mia consolazione e conforto, e che invece la sventura mi accresce a mille e mille doppj...

E chiudendosi il volto tra le palme, e scotendo desolatamente le testa, fremeva e piangeva ad un tempo.

La povera Bice, atterrita dalle dure parole del padre, e pietosissima dell'angoscia di lui, piangeva anch'essa amaramente, e chiedeva perdono.

— Perdono! — riprese il vecchio con voce più umana: — dunque sei pentita; dunque mi prometti di levare il cuore dal cavaliere straniero...

— Babbo mio buono, io ti amo sopra ogni cosa creata; io voglio essere sempre la tua buona Bice: voglio esser io la tua consolazione e il conforto della tua canizie e de' tuoi dolori.

— Dunque a Guglielmo non penserai più?

— Ma egli ama anche te, ed ha per te tanta riverenza... Se egli promettesse di non partirsi più mai da Firenze?...

Qui Geri fece un moto di violenta ira, e diede alla Bice una guardata così terribile che l'atterrì, tanto che singhiozzando esclamò:

— Dio mio, abbiate pietà di me! — Ed aggiunse con accento di disperazione: — Non posso disamare Guglielmo...

— Toglimiti dinanzi agli occhi, snaturata figliuola; e fa che più non ti vegga, se prima non sei pentita davvero...

E come la Bice faceva atto di voler dire:

— Va, sciagurata — le disse con cenno risoluto quel fiero vecchio — va, e vantati che farai morir di dolore tuo padre.

Quella povera fanciulla non ebbe cuor di rispondere, e uscì della stanza più morta che viva.

CAPITOLO X. LA INVIDIA.

Messer Geri Cavalcanti era l'unico della sua casa rimasto a Firenze, essendosene usciti gli altri suoi consorti fino dal 1311: pendeva a ghibellino; ma era temperatissimo, ed avrebbe amato i guelfi, e avrebbe fatto parte con essi, se loro fosse venuto fatto di ritornare Firenze nel suo antico buono stato, lieta, ricca, e libera veramente.

Aveangli pertanto mosso sempre fierissimo sdegno tutti gli stranieri che ad ogni mutar di vento ci piovevano, o a nome dell'impero o a nome della chiesa, vedendo pur troppo chiaro che la libertà di un popolo non può mai avvantaggiarsi per opera di stranieri; i quali, anche quando vengono con essa sulle labbra, in cuore non hanno altro che la sete di predominio e di guadagno.

Più che con altri poi si era sdegnato con questo Duca e sua gente, come quegli che aveva turbato gli ordini della repubblica; vilificato il supremo ufficio del gonfaloniere; ridotti a nulla tutti gli altri ufficj; e che, avendo in dispetto e popolo e grandi, ogni potestà aveva recato a sè solo, e ridotto Firenze umile ancella, di matrona nobilissima che era stata per addietro. Non dee dunque far meraviglia la grande avversione che aveva all'amor della Bice con uno dei seguaci di Carlo; e che tale avversione fosse tanto potente da sopraffare il bene stragrande che voleva all'unica sua figliuola; e che fosse più potente ora che mai, inasprita com'era dal turbamento che aveva preso messer Geri dal caso della compagnía degli Scali, per cui riducevasi quasi a povertà. Combattuto questo povero vecchio da tanti diversi affetti, parvegli che anche la sanità gli si turbasse; e come fu uscita la Bice dalla sua stanza, lo prese un tremito così fiero, e fu oppresso da tal debolezza, che in fretta e in furia mandò per maestro Dino del Garbo, il quale non indugiò un momento a venire da lui.

— Maestro, disse Geri appena lo vide, sono un uomo morto.

Il maestro, che aveva buon occhio nell'arte sua, e che sapeva per avventura le cagioni dell'alterazione di Geri:

— State di buon animo, messere, subito gli rispose, chè ogni vostro malore passerà presto.

E veduto il segno[21], ripetè:

— State di buon animo: non è nulla. Forse il turbamento prodotto dalla disgrazia incòltavi degli Scali.... Ma tutto passerà di corto. Questo lattovaro ritorneravvi tosto in salute.

E intanto scriveva la ricetta. E datala ad un famiglio che andasse tosto per essa, continuò:

— Quel fallimento è stata gran rovina, non solo per voi, ma per la città tutta quanta, oppressa già da tante sventure.

— Maestro, ed io vi accerto che questo mi cuoce meno che altra sciagura a me dolorosissima.

— Della Bice, eh?

— Come! voi sapete?...

— E chi nol sa in Firenze? Guglielmo vide la Bice qui in casa vostra; e a quest'opera di vostra vergogna diede mano Cecco d'Ascoli.

— Quel negromante, di cui già suona tutta Firenze, venuto qua col duca di Calabria?

— Sì, quell'eretico e scomunicato, che, non contento di vituperare le onorate case de' grandi fiorentini, va poi spargendolo, e pavoneggiandosene per ogni dove.

Tanta era l'invidia di maestro Dino contro Cecco, che non pensò e non curò quanto siffatti discorsi potevano aggravare il leggero malore di Geri; e quanto poco dicevole fosse a gentiluomo e scienziato il dir quelle cose, men che onorevoli ad una gentile e dabbene fanciulla. E di fatto quel povero vecchio se ne alterò mirabilmente, e tutto acceso di sdegno esclamò:

— Ah! cane pateríno! Vedete a posta di chi è l'onore dei gentili e probi uomini! Vedete i bei presenti che fa ai cittadini di Firenze questo duca novello. Alla croce di Dio! non voglio avere più bene di me, se di tale onta non mi vendico.

— Acquetatevi, messer Geri — disse qui il maestro, accorgendosi che il vecchio si accendeva troppo nel volto — la vendetta si farà, e pronta. Ad ognuno puzza già questo barbaro dominio; ed è ito tanto in là il costui cieco furore di signoría, che tratta i fiorentini come un branco di pecore, e Firenze dispregia come un vilissimo ovile. E sempre pone nuove taglie; e se alcuno contraddice ne' consigli, è ruinato, come intervenne l'altro ieri a Giovanni Alfani nobile cittadino, il quale, dolendosi di certe imposte, fu fatto ribello, e arsogli le case. Sì, messer Geri, la vendetta si farà, e pronta; chè Firenze si duol tutta, e quando si duol tutta si muove anche lei. Del negromante poi lasciatene a me il pensiero: egli va colla testa alta, e corre quasi Firenze per sua; ma non sa, lo sciagurato, che già si fa la ragna per carpirlo. Intanto voi attendete alla vostra sanità.

E come in questo tempo era tornato il famigliare col lattovaro, lo porse tosto a messer Geri, il quale in brevissimo spazio si sentì tutto riconfortato.

Allora maestro Dino, studiandosi di temperar sempre più l'effetto che potessero aver fatto sull'animo, e per conseguenza sulla sanità di Geri, le sue parole, lo esortò da capo a non alterarsi più in questo modo; gli diè a vedere come cosa certissima la prossima vendetta della sua onta, ed il ritorno di Firenze nella sua libertà; nè si partì da lui prima che lo vedesse più quieto e men tristo.

E la povera Bice? la povera Bice struggevasi in pianto; nè bastarono a consolarla le amorevoli cure e le dolci parole della sua buona cameriera. Il disubbidire al suo caro babbo, e il vedernelo sdegnato, era dolor sì cocente a quel cuore, che non potea comportarlo; e lasciar di amare il suo Guglielmo, questo, non che le fosse possibile, ma non poteva nemmeno pensarlo. Che fare? Vinta dall'angoscia, si coricò; nè potendo in modo veruno prender sonno, le passarono per la mente mille e mille partiti da rendersi benigno suo padre senza abbandonare Guglielmo; ma niuno ne vedea riuscire a cosa che buona fosse. All'ultimo la sua mente, stanca di passare per tante ore di pensiero in pensiero, cominciò ad essere vinta dalla fantasía, che le dipingeva un modo efficace al suo desiderio, ma vago e indeterminato; poi le si rappresentava il suo buon padre sorridere tutto benigno a lei ed a Guglielmo, e benedire la loro unione; e con questi dolci fantasmi, vinta dalla stanchezza, si addormentò in tale amoroso pensiero. Povera creatura! preghiamole lungo questo dolce sonno; ed intanto ritorniamo in palagio.

CAPITOLO XI. LA GELOSIA.

La duchessa, da quel momento che scoprì l'amore di Guglielmo per la Bice, non cessava mai di spiare ogni andamento di lui, e per questo effetto misegli a' panni un suo fidato familiare, che nol perdeva mai d'occhio, e che riferivale punto per punto ogni atto e detto di lui; nè Guglielmo si accorse mai di avere questo osservatore de' suoi fatti, tanto accortamente faceva egli il suo ufficio. Solo quella sera che parlò con la Bice, all'uscire del giardino, gli parve di vedere uno rincantucciato là da un uscio, e ne prese qualche ombra; ma non ci si fermò tanto o quanto, nè più poi pensò a nulla. La duchessa sapeva per conseguenza, non solo il colloquio de' due amanti, ma sapeva altresì che Cecco ne aveva lastricata la via a Guglielmo; e però, quando sulla Piazza di S. Croce il duca volea rampognare l'Ascolano per le parole dette a conto della scomunica, ella s'interpose dicendo che lo avrebbe garrito lei, avendone altra cagione. E difatto il giorno di poi fe' significare a Cecco che tosto le comparisse davanti; il quale venuto, senza tanti preamboli, accigliatamente uscì in queste parole:

— Valente scienziato che tu se', quando la scienza ti condusse a fare il mezzano d'amori! Dimmi, non avevi promesso a me che ti ingegneresti di frastornare l'amor di Guglielmo con quella tale de' Cavalcanti?

Cecco si turbò forte in cuor suo di tali parole; ma, come colui a cui non mancavano mai ripieghi, senza mostrar nulla di fuori, rispose:

— Mia signora, lo promisi, è vero; ed è vero che io additai al cavaliere come potesse vedere la sua donna: ma l'una cosa non è all'altra contraria.

— Ti faresti tu scherno di me? disse con signorile atto la duchessa.

— No, madama: l'effetto sarà quale voi desiderate. Procedendo così, io attengo la promessa fatta alla vostra signorìa, e vendico me. Sappiate, madama, che maestro Dino del Garbo è mio fierissimo nemico, e mio nemico è parimenti il padre della donna amata da Guglielmo. Ora questo Dino si era proferto a Guglielmo di rendergli benigno il padre di essa, che è fieramente avverso a questo amore; ed io, trovando modo di fare che Guglielmo vegga la Bice nel suo giardino, ho in qualche maniera fatto onta al padre di lei, mio nemico; ed ho chiuso la via a Dino di poterlo abbonire. E la cosa è a termine, e la furia di messer Geri Cavalcanti contro la figliuola è così ardente, che io penso di non aver mai servito sì efficacemente verun signore, quanto ho servito voi, madama, in questa bisogna. Resta solo che per la parte vostra operiate sull'animo del vostro Guglielmo.

La duchessa mostrò di acquetarsi a questo mendicato ripiego di maestro Cecco; ma ben si accorse che il fatto dovea stare altrimenti. Come poi era rimasta punta da quel vostro Guglielmo, così disse a Cecco, con amaro ghigno:

— Maestro, ben dicevi, vostro Guglielmo. Quel cavaliere è a me troppo caro; di nobilissima prosapia, e leggiadro e prode quanto altro cavaliere che sia, quando venne alla mia corte fummi strettamente raccomandato dalla madre di lui, a cui promisi che gli avrei fatto io come da madre: ed ora mi sa male il vederlo mescolato in così bassi e volgari amori.

— Codesto avevo udito dire, e per codesto appunto ho detto vostro Guglielmo; il quale certo — aggiunse con tono di piacevole cortesía — ha molto e molto guadagnato nel cambiar madre; e di una madre così nobile, così gentile, così giovane, e maravigliosamente bella come la vostra signoría, ne sarà invidiato da ogni cavaliere di Provenza e di Francia.

La duchessa comprese la finissima ironía di quella apparente lode; ma la dissimulò, premendosela nel cuore. Anzi con modo umano e piacevole disse a Cecco:

— Ma ora, bel maestro, ti ho da fare acerba rampogna anche a nome del duca, perchè là in piazza S. Croce, mentre il legato del papa leggeva la scomunica, tu dicesti parole di dispregio alla chiesa, e ne avesti briga con un frate minore.

— Madonna, parole di dispregio alla chiesa? Così Dio mi ajuti, come io mai non le dissi. Dissi bene che le parole del legato non sarebbero sufficienti a disfare Castruccio, se non ci mette le mani il potentissimo e valorosissimo duca mio signore; nè questo parmi un dispregio alla chiesa. E che sia vero quel ch'io dico, monsignor lo duca e questi fiorentini si apparecchiano potentemente di armi e di gente per far guerra a Castruccio; a cui quelle parole del legato non hanno torto nemmeno un capello. Del rimanente, come io sento diritto nella fede cattolica ciascuno può vederlo nel mio poema dell' Acerba, più sacro senza fallo della Commedia di questo Dante, massimamente nelle parole colle quali gli do fine.

— Basti ch'io te l'ho detto; poi acconciatevi come volete tra voialtri scenziati, e azzuffatevi quanto vi è in grado, chè io non vo' brigarmene. Oggi è giorno di festa e di letizia, e non vo' parlare di cosa che non sia tutta lieta; anzi tu devi, chè il puoi, rendere anche più bella la festa con uno de' prodigj dell'arte magica, per la quale vai così famoso appresso la gente.

— Madama, questa non è virtù mia. Florone è quello che opera in me: se ad esso piacerà ch'io vi serva, ed io il farò di gran cuore.[22] Vi piace altro, madama?

— A Dio ti accomando.

CAPITOLO XII. IL CONVITO.

Quel giorno vi era proprio festa in palagio, e tale ne era la cagione. Le donne fiorentine usavano già, per dirlo con le parole del Villani «un loro speciale e disonesto ornamento di trecce grosse di seta gialla e bianca, le quali portavano in luogo di trecce di capelli dinanzi al viso; il quale ornamento, che spiaceva a' fiorentini, perchè era disonesto e contrario a natura, avevano tolto alle donne, e fatti capitoli intorno a ciò, e altri disordinati ornamenti.» Ora esse donne fiorentine mossero preghiera alla duchessa, la quale faceva loro spesso conviti splendidi e gran feste in compagnía di quei signori francesi, che quell'ornamento delle trecce si rendesse loro, e il duca ai prieghi di lei lo concedè; il perchè la duchessa, per festeggiare quel giorno, volle far gran convito, dove tutte dovevano comparire con quelle trecce sopradette, ed ella altresì. Doveva esservi ancora il fiore de' cavalieri provenzali e francesi del regno, venuti qua col duca di Calabria, e sino dalla mattina ciascuno di essi era tutto occupato del come porgersi più leggiadro e più adorno, per avere il pregio della cortesía in quella giornata, che la regina della festa soleva dare, e consisteva in una sciarpia di seta coi colori angioíni, vagamente trapunta dalle mani stesse della duchessa.

Il convito fu veramente suntuoso; e porta il pregio che ne facciamo una minuta descrizione per saggio della magnificenza e delle usanze di quei tempi.

In capo della sala, e dai due lati, le mura furono coperte di finissimi drappi d'oro o di seta dal tetto infino al solajo; nel mezzo, di dietro alla sedia dove doveva stare il duca, fu una ricchissima pezza di sciámito vermiglio, che teneva dal solajo al colmo del tetto, e poi rivoltata sopra la sedia, più d'una canna; che fu nobilissima cosa e del più fine colore che mai si vide. Tutto il rimanente della sala era coperta di finissimi e grandi capoletti, o come or si direbbe arazzi, con nuove e diverse storie; e così pancali, e tappeti sotto i piedi. Le tavole furono coperte di finissime tovaglie, con ricchi vasellamenti d'oro e d'argento. Vi furono nove vivande triplicate, che furono ventisette, di tante diversità, che a descriverle sarebbe lunga opera; basta che vi fu ogni cosa che si può pensare fosse cara e preziosa: e servirono a tavola ventiquattro scudieri, ciascuno vestito della divisa angioína, di panno cupo partito vermiglio.

In sul dar l'acqua alle mani, eccoti entrar nella sala maestro Cecco, al qual fu fatta meravigliosa festa; e la duchessa, tutta lieta in volto, gli disse:

— Maestro, che novelle del tuo Florone?

— Buone, madama: egli è oggi tutto mio. Ma innanzi tratto vorrei che messer lo duca comandasse a qualcuno de' suoi prodi cavalieri che venga in mio soccorso contro i suoi e miei nemici.

E il duca, a' prieghi della duchessa, comandò a quattro nobili cavalieri che andassero con maestro Cecco, il quale gli condusse seco: e parve loro di andare sulla piazza di S. Croce; e il popolo fiorentino esservi tutto in arme gridando muoja muoja contro Cecco, e contro la signoría del duca: fanti e cavalli venire sotto il comando dei quattro cavalieri, e la battaglia tosto cominciare e il popolo fiorentino dopo lunga tenzone essere sconfitto, ed i cavalieri correr la terra in nome del duca; e il giorno appresso pigliare essi la signoría, e crear nuovo gonfaloniere e nuovi priori, riformando la terra a loro senno. E quando la impresa fu compiuta, disse Cecco a' quattro cavalieri:

— Signori, fia buono tornare al palagio, dove il duca e la duchessa ci aspettano al convito delle donne fiorentine.

— Maestro, disse l'uno de' cavalieri, voi vi gabbate di noi. Il convito fu bene l'altrieri, e noi rimanemmo a denti asciutti, per obbedire al comando del duca, e venire a combattere. Ora resta solo che sia ragguagliato il duca della nostra impresa.

E tra questi ed altri ragionamenti erano già ritornati nella sala, dove trovarono tutti i cavalieri e tutte le dame, che si davano l'acqua alle mani, appunto come gli avevano lasciati. E tutto ciò era stato per arte magica.[23]

I quattro cavalieri trasognarono, nè potevan rinvenire dalla maraviglia: il duca e le dame gli fecero più volte raccontare la novella, e ne fu fatta maravigliosa allegrezza, e lietamente si assettarono a tavola. Dopo le tre vivande, delle nove sopraddette, venne per inframezzo un castello molto grande, dove furono selvaggine, solamente di bestie, un gran cervo che pareva vivo ed era cotto, un cinghiale, capriuoli, lepri, che tutti parean vivi, ed eran cotti. Fu recato e guidato dagli scudieri, ed accompagnato da cavalieri con istrumenti di diverse maniere, e il rumore degli strumenti, e il rallegrarsi della gente ne andavano al cielo. Alla quarta vivanda entrarono nella sala valletti del comune di Firenze, e l'uno dei cavalieri disse al duca: «Messere, egli è giù un destriere bianco, bellissimo e nobilissimo, ed ecco due anella e un nappo coperchiato col suo piede. Messer lo gonfaloniere di Firenze e i priori, vi supplicano che vi piaccia di prendere queste cose».

E il duca prese l'anello, che fu un grosso zaffiro e un grosso topazio, e miseselo in dito; e prese il nappo; e comandò che fosse preso il destriero. Venne appresso la quinta vivanda, e dopo questa fu recata da quattro uomini una fontana, che nel mezzo avea una torricella, sopra cui era una colonna che gettava da cinque parti vino, vernaccia, greco, vino renese[24], ed altri vini finissimi. Sulla sponda della fontana eranvi pavoni cotti che parevan vivi, con la coda a padiglione; fagiani, pernici, e altre selvaggine. E anche questo accompagnato da canti e da suoni. Dopo la sesta e settima vivanda vennero nella sala sei grandi destrieri, a uno a uno, montati da sei cavalieri armati; il primo, armato leggermente aveva in mano una bandiera con l'arme del popolo fiorentino, e come furono nella sala, tutti cominciarono a ferire un torneamento, ed ebbe il pregio un cavaliere che aveva un'insegna coll'aquila del re Roberto. Questi cavalli erano congegnati in questo modo: sei uomini portavano una macchina leggerissima con forma di cavallo, ed erano covertati fino a terra, che non si vedea che fossero uomini; e sopra a que' cavalli erano vere selle, e veri uomini armati di tutte armi. Compiuta l'ottava vivanda vennero sei schermidori, vestiti ad una assisa; e dinanzi al duca e alla duchessa cominciarono una fiera ed aspra zuffa, che a' suoni dei diversi e spessi colpi pareano più di trenta uomini che combattessero. Per inframezzo della nona vivanda fu udito un cantare di uomini e di donne, ma non veduti, con voci di soavissima dolcezza, che rendevano muta tutta quanta la sala, venuta quasi fuori di sè per la soave melodía.

Qui entrò nella sala un bellissimo giovane, biondo e di aspetto gentile, vestito alla foggia dei menestrelli, che, fatte alcune ricercate sopra il liuto, inchinatosi al duca ed alla duchessa, e salutate cortesemente le dame e i cavalieri, con lieta e chiara voce incominciò a cantare:

»Prodezza e cortesía

»Non perdon mai balía,

Tu sei, mia dolce terra,

Stretta da cruda guerra;

Ma un prode cavaliero

Cinge spada e brocchiero,

E te, Fiorenza mia,

Ritorna in signoría.

Il fiero capitano

Ti corse il colle e il piano;

Ma vinto fia da lui

Egli e' seguaci sui.

Prodezza e cortesía,

Non perdon mai balía.

Di lui ne andranno alteri

Le donne e i cavalieri:

Per lui la Chiesa santa

Fiorisce, e osanna canta;

E tu, Fiorenza mia,

Riprendi signoría.

Castruccio e i Ghibellini

Dentro da' lor confini

Con onta e con dispetto

Cercheranno ricetto.

Prodezza e cortesía

Non perdon mai balía.

Carlo, glorioso sire,

Darà lor gran martire,

Finchè gli abbia distrutti,

Ed al niente condutti,

E te, Fiorenza mia,

Rimessa in signoría,

Or voi, donne e signori,

Ciascun l'ami e l'onori;

Salute è di Fiorenza;

Chè, certa è la sentenza:

»Prodezza e cortesía

»Non perdon mai balía.

Finito il canto, la sala risonò tutta di lieti evviva al signore ed alla duchessa, e di lodi al gentile cantore, a cui fu donata da Carlo ricchissima veste.

Levata finalmente la nona vivanda, vennero frutte di diverse maniere; ed in sulla tavola del duca e della duchessa furono portati due alberi, l'uno che pareva tutto d'argento, con mele, pere, fichi, pesche, e uve d'oro; l'altro tutto verde a modo d'alloro con altri frutti d'ogni colore: e quei frutti erano tutti finissimi confetti. Stando le frutte ancor sulla tavola, venne il maestro cuoco del duca con una brigata di suoi compagni cogli strumenti innanzi, con moccoletti artificiali, e con sonagli, ed entrarono danzando allegrissimamente per la sala; e così, intorniate le tavole tre o quattro volte, si partirono; e ciascuno si levò da sedere.

Non vi fu dama o cavaliere che non rimanesse stupefatto da tanto splendida magnificenza; e tutti si apparecchiavano ad andarsene; quando maestro Cecco, fatti suoi incantamenti, la sala tramutò in vaghissimo giardino con fontane, pergolati, e fiori vivi di ogni maniera; e non solo ciascuno dei comitati presentò di un mazzo odorosissimo; ma, fattosi alla finestra, alla plebe affollata dinanzi al palagio gittò e fiori e confetti abbondantissimamente, per la qual cosa le risa, le grida e gli applausi empivano mezza Firenze. Il pregio della cortesía fu dato quel giorno a messer Guglielmo d'Artese, a cui la duchessa di propria mano volle cinger la ciarpa.

Ma i lettori penseranno dentro di sè: «O che questo scrittore ci ha preso per isbalorditi affatto, dandoci per vere sì strane cose, e vuol farsi beffe di noi; o che egli è un gran semplicione egli stesso.» Nè l'una cosa nè l'altra, o lettrici e lettori miei. Nella descrizione del convito non ci ha nulla di esagerato nè d'inventato: se ne trovano in quel secolo delle descrizioni anche più maravigliose di questa; e ciascuno le può vedere. Circa alle magíe di Cecco, io ne ho recata qualcuna, perchè, siano strane quanto si vogliono, mostrano intorno ad esso il tradizionale e comun concetto della magía.

È tradizione popolare che Cecco da giovane andasse in Calabria, e che in una ostería alcuni pastori lo invitassero a cercar di un tesoro; che, arrivati a una profonda cisterna e secca, ve lo calarono, ed egli vi trovò un bigonciuolo d'oro: i pastori, tirato su l'oro, vi lasciarono Cecco, il quale, rimasto solo, vedendo un libro ai suoi piedi, lo ricolse, l'aprì, e ad un tratto un diluvio di spiriti gli furono attorno con queste parole: COMANDA, COMANDA. Volle tornare all'ostería, e vi fu in un attimo; poi viaggiò mezzo mondo, e per tutto faceva meraviglie. Queste magíe recate da me, ed altre che ne recherò, mostrano solo che nella credenza del popolo era che Cecco fosse mago; anzi è tuttavía creduto appresso il volgo fiorentino; ed uno dei tanti codici laurenziani, assicurati nei banchi con catene, si dice che fosse incatenato così per essere appunto quel libro diabolico di Cecco Diascolo, che il popolo chiama libro del comando. E laggiù sui confini dell'Abruzzo da Teramo vi è un ponte, che si dice costruito da Cecco, e chiamasi il ponte del Diavolo, perchè si tenea fatto in una notte: il quale non molti anni addietro fu murato per impedire il passaggio dei viandanti, dacchè fra il volgo era comune credenza, che ogni anno il diavolo voleva per sè un'anima tra coloro che quel ponte valicavano. A mia scusa maggiore dirò altresì che molte cose veggiamo fare ai nostri giorni dai prestigiatori, anche di più meraviglia che alcune di quelle operate da Cecco, il quale, scienziato come era, poteva bene aver l'arte che questi hanno: la moltiplicazione dei fiori, per esempio, che già abbiamo veduto; e il mostrar la propria testa recisa dal busto, come vedremo più qua, son cose, le quali si veggono alla giornata, nè più ci fanno veruna maraviglia. Queste poche parole credo che bastino a mia giustificazione; e come la digressione è stata già assai lunga, così ritorno senz'altro al filo del racconto.

CAPITOLO XIII. ACCORTEZZA FEMMINILE.

Finita la festa, la duchessa riprese i suoi pensieri di vendetta contro Cecco e di gelosía contro la Bice; e il duca, che anche durante la festa era stato sopra pensiero, cercò di affrettare con ogni sua forza gli apparecchj di guerra, perchè Castruccio si faceva sempre più minaccioso, e teneva in gran pensiero così lui come tutta Firenze. Prima cosa si pensò di riedificare ed afforzare il castello di Signa, preso pochi mesi innanzi da Castruccio, il quale, in onta dei fiorentini, vi fece battere certe monete piccole, con l'impronta dell'imperatore, che volle si chiamassero Castruccini. Ma poi, non parendogli agevole nè troppo sicuro il tenere quel castello così vicino a Firenze, fu da esso abbandonato, dopo averlo fatto ardere e tagliare il ponte sull'Arno. Ed ora i fiorentini, a spese del comune, lo murarono di belle mura e alte, con belle torri e forti, e fu fatto certa immunità e grazia a qualunque terrazzano vi rifacesse delle case. Dalla sua parte il duca mandò significando alle amistà, che vuol dire ai comuni alleati con lui, che spedissero ciascuna il loro soccorso: e ben tosto i Senesi mandarono trecentocinquanta cavalieri, i Bolognesi dugento, gli Orbetani cento, i signori Manfredi di Faenza cento, e il conte Ugo ci venne in persona con trecento fanti; e si fè la cerna dei pedoni per il contado fiorentino. Trattò parimente con Spinetta marchese Malaspina che entrasse nelle sue terre di Lunigiana, per guerreggiare da quella parte Castruccio, e soldò per esso in Lombardía trecento cavalieri: e il legato gliene diè dugento di quelli della chiesa. Insomma fu grande apparecchiamento: e tanto il duca quanto i fiorentini ne stavano a buona speranza, che avrebbero vinto e disfatto Castruccio con tutta la sua gente.

La duchessa intanto, come ho accennato nel principio di questo capitolo, pensava il modo di colorire i suoi fieri disegni contro la Bice; e questi apparecchj gliene diedero propizia occasione. Guglielmo era prode cavaliere, e molto savio di guerra; è necessario allontanarlo da Firenze, e mandarlo a combattere per il suo signore: nè indugiò un momento a correre dal duca per ottenere da lui che a Guglielmo fosse data nobile parte nella prossima impresa di guerra; a che il duca consentì tosto, disegnando di farlo guidatore della schiera de' feditori, che si chiamavano così, perchè erano quelli che prima ingaggiavano la pugna.

Paga pertanto la duchessa, volle da se stessa annunziar la cosa a Guglielmo, per iscrutare anche qual effetto facesse tal cosa sull'animo di lui; e fattoselo venire alla presenza, gli disse:

— Lieta novella, bel cavaliere: il duca mio signore e vostro, conosciuta la lealtà e la prodezza vostra, vi dà la più onorevole prova di estimazione e d'affetto che cavaliere possa sperare. Aspetta grande ajuto da voi nella guerra che domani si intimerà; e vi fa guidatore della schiera de' feditori.

Guglielmo a queste parole rimase come percosso da fulmine; ma, celando quanto poteva il suo turbamento:

— Madonna, rispose, grande è l'onore che il mio signore vuol farmi; e mi studierò di non mostrarmene indegno. Ma quanti non ha egli tra' suoi cavalieri più savj e più prodi di me? Che diranno essi, vedendosi a me posposti? Fate madama...

— Cavaliere, tanto è riconosciuta appresso ciascuno la prodezza e la saviezza vostra, che invidia non può averci luogo. Ben mi pare essere soverchia la modestia vostra, e pajonmi strane certe vostre parole, che accennano come a mala contentezza di tale impresa. Viltà di cuore non può essere; chè ne' vostri pari, ed in voi specialmente, non cade: vuol essere dunque alcun'altra cagione; e forse la indovino. So dell'amor vostro.... Ma ricordatevi dei compagni di Ulisse.

— Madama, all'onore non ho fallito, nè fallirò mai per veruna cagione; ma per questa meno che per qual'altra si voglia. La mia donna stessa sarebbe la prima a garrirmene, e a disamarmi.

— La vostra donna!.... Guglielmo, non so chi la vostra donna sia; so solo essere una di queste fiorentine, niuna delle quali certamente non è degna di voi. Voi prode in arme; voi della più gentile stirpe di Provenza; voi bello della persona, e di bellissima maniera; a voi si conviene donna che pareggi i vostri pregj infiniti. Anche una regina di corona si onorerebbe di essere la donna del vostro cuore.

E la duchessa diceva queste parole con tale accento, con occhi così scintillanti, che Guglielmo vide doversi spengere tosto il nascente fuoco, e disse risolutamente:

— Madama, la donna del mio cuore è a me più che regina di corona; a lei mi sono donato, e tutto, fuor che l'onore, terrò per da meno nel mondo.

La duchessa si morse le labbra dell'essersi troppo lasciata andare nel discorso, e rimase punta fieramente da queste parole; e secca secca accomiatò Guglielmo così:

— A Dio v'accomando, cavaliere: domani moverete con la vostra schiera. Ricordatevi che molto si spera dalla vostra prodezza e dalla vostra saviezza.

— Potrà fallirmi la fortuna; ma il buon volere e la lealtà non mai.

E fatta riverenza, uscì.

Maria, come prima fu uscito Guglielmo, diede sfogo alla sua gelosa rabbia:

— Ah, disleale e villan cavaliere! Ed io sono stata sul punto di palesargli il secreto del mio cuore!.... o forse egli lo ha già compreso, e me dispregia così.... Maria di Valois posposta a una vile mercantessa italiana!.... La donna del mio cuore è a me più che regina! No, no, non godrai, villan cavaliere, del tuo malnato amore. Forse egli già s'incammina da questa più che regina per darle l'addio....

Qui fece un atto di violenta impazienza, e chiamato a sè colui che avea deputato a spiare tutti gli andamenti di Guglielmo, gli disse:

— Siedi, e scrivi:

E sedutosi, la duchessa gli dettò:

«Messer Geri,

«In questo punto medesimo entra in casa vostra il cavaliere provenzale che donnea con la vostra figliuola. Provvedete all'onore dei Cavalcanti.

«Un amico vostro».

E piegatala, e fatto il recapito, aggiunse:

— Fa che tu non perda mai d'occhio Guglielmo; e se vedi che egli entri nelle case de' Cavalcanti; e tu trova tosto modo che questo foglio sia dato nelle proprie mani di messer Geri. Va.

E da capo ritornò nelle smanie.

— E questo pateríno scomunicato di maestro Cecco, che promise a me di attraversare tal pratica, egli invece è stato colui che ha trovato modo che si veggano e si parlino. E presume ancora di schernirmi, dandomi a vedere che il fece per secondare la mia volontà, giungendo per altra via al medesimo fine. Sciagurato! Ma poco ha andare che tu sarai pagato di ogni tua rea opera, tali parole disse ieri al duca il suo cancelliere rispetto a te. — E chiamato un valletto, gli comandò che fosse al cancelliere, pregandolo che gli piacesse di venire da lei. Era questo cancelliere del duca un frate minore, vescovo d'Aversa, che appunto il precedente giorno aveva dato a conoscere al duca quanto fosse disdicevole il tenere presso di sè maestro Cecco, condannato già per eretico, in voce di negromante, e mancatore al fatto giuramento di non insegnar più le sue pestilenti dottrine; ma il duca non aveva dato cenno di volersi risolvere a nulla contro di lui, cui egli riputava scienziato solennissimo, ed era anzi ambizioso di tenerselo appresso. Esso frate avea disegnato di tentare a questo proposito l'animo della duchessa, per modo che ricevè lietamente l'invito di recarsi da lei, parendogli che veramente dovesse venirgli la palla al balzo, e tosto le fu dinanzi. La duchessa accolselo dolcemente; e fattolo sedere appresso di sè, con accorto parlare gli disse:

— Messere, io sto in un forte dubbio circa la mia coscienza, e non trovo bene di me; consigliatemi voi.

— Madama, rispose il frate, gli anni migliori miei gli ho passati nello studio della loica e della teología, e tutto quel poco di frutto che posso aver fatto, mi recherei a gran merito il poterlo spendere per voi.

— Sapete che il duca, mio e vostro signore, ha qui nella sua corte maestro Cecco d'Ascoli, cui egli in gran maniera riverisce per sommo scienziato e letterato. Non so se questa scienza di lui sia così grande; ma so, che egli fu condannato per eretico a Bologna: e benchè chiedesse perdonanza, e l'ottenesse mediante un giuramento di più non insegnare false dottrine, nondimeno si dice che al giuramento sia venuto meno, e che professi la eresía come prima. Se questo fosse vero, s'intende egli che sia come non fatta la perdonanza? può un buon figliuolo di santa chiesa tenerlo appresso di sè, e comunicare con lui? oppure si intende che partecipi alla scomunica chi nol fugge e caccia via?

Il frate, che vedeva essergli la palla venuta al balzo da sè inaspettatamente, non vi so dire se ne fosse lieto; ma, celando la letizia, e componendo il volto a solenne gravità:

— Madama, non ci ha dubbio che sia eretico relasso chi, condannato e perdonato, ritorni da capo al vomito; nè ci ha dubbio che partecipi alla scomunica chi, sapendolo, comunica con esso lui; nè può non tenerne gravata la coscienza chi nol caccia da sè, e nol denunzia alla santa inquisizione. Fino da ieri, sapendo di questo sciagurato ascolano, ne parlai con monsignore lo duca, pregandolo che cessasse da sè tanto scandalo, nè volesse incorrere nello sdegno e nelle censure di santa chiesa; ma egli non fece segno che gli piacessero le mie parole; e non posso dire quanto io ne sia addolorato per esso.

— Il duca ha troppo gran concetto della scienza di Cecco, e troppo gli sta a cuore di aver nella sua corte un astrologo così valente com'esso è: nè può, se non in casi estremi, risolversi a cacciarlo da sè.

— Non è scienza quella che contrasta alle sante dottrine della fede cattolica; ma è istigazione diabolica, che mette nella bocca del peccatore eretico parole e sentenze che a' volgari pajono scienza, e molti ne sono condotti a perdizione; e Dio voglia, che anche monsignor lo duca non sia sopraffatto da questo maledetto da Dio....

— Messere, voi mi spaventate....

— Ma lasciamo per ora star questo. Altro pericolo, e non lieve, porta con sè il favor dato a Cecco. Egli è ben noto a Firenze, perchè in quella sua sciagurata Acerba, fieramente si mostra avverso a Dante Alighieri, di cui questa terra tanto, e tanto degnamente, si onora; nè dubita di profferir parole di scherno contro di lui e della sua Commedia; e non dubitò parimente di scriver contro a messer Guido Cavalcanti, un altro illustre figliuolo di questa città. Il perchè pochi sono quei fiorentini che nol vedano di mal occhio, e che non si tengano come scherniti dal duca, accusato da parecchi di aver condotto seco, e di accordare il suo favore a Cecco per dispetto de' fiorentini e di Firenze. E il mal talento de' fiorentini si accresce alla giornata, perchè, non contento questo tristo di quello che contro al nome fiorentino ha scritto per addietro, studia ogni modo da accumular vituperj; ed è giunto a tale che, per via di amorazzi, cerca di svergognare le case de' grandi, come ha fatto di quella de' Cavalcanti.

— Ah! lo sapete anche voi?

— Sì, madama. Maestro Dino del Garbo mi ha informato di ogni cosa punto per punto.

— E come sta, se vi piace, questo fatto, del quale anche a me è giunto qualche odore?

— Messer Guglielmo d'Artese fu a Firenze per la signoría del potentissimo re Roberto, e pose amore a una dei Cavalcanti; tornato qua adesso, ha voluto riaccenderlo, e lo ha potuto fare per intermezzo di Cecco; di che messer Geri, padre della fanciulla, è grandemente sdegnato, per l'onta, che ne riceve la sua casa; e ne sono sdegnati molti amici di lui. Senza che, madama, questo Ascolano ha voce tra il popolo di esser negromante, e di avere continue pratiche col diavolo; e vedendolo caro al duca, pensano che anche il duca possa operare a suggestione diabolica: e hanno tanto orrore di ciò, che l'altrieri quando, dalle finestre del palagio, Cecco gettò alla gente quei fiori da lui maravigliosamente moltiplicati, cominciò a spargersi che erano fiori del diavolo, e tutti a furore corsero alla piazza di san Pulinari, e fattone un gran monte, gli arsero, maledicendo loro e Cecco, e non so se altri... Madama, il popolo fiorentino è buono: si guida, come dicesi, con un filo di seta; ma, provocato troppo, ferito nelle sue glorie e nella sua religione, potrebbe risentirsi; e l'ira del popolo è terribile.

La duchessa si mostrò molto impensierita di queste parole del frate, il quale, vedendo il momento propizio, tutto ardente di zelo:

— Madama, riprese, voi siete della cristianissima casa di Francia, e vostro avolo fu il santo re Luigi; monsignor lo duca è figliuolo di re cattolicissimo, e figliuolo prediletto della chiesa: fate di non oltraggiare la nostra santa fede. Per questa fede adunque, per l'onore, e anche per la sicurezza di voi e di monsignore, fate che cessi un tanto scandalo.

— Messere, voi avete udito come già mi garriva la coscienza per questa cosa di maestro Cecco, e i vostri savj ricordi mi hanno sempre più infiammata ad essere buona e divota figliuola di santa chiesa; e vi prometto che pregherò con quelle più efficaci parole che io posso il duca mio signore a fare altrettanto, e a togliersi da dosso questa vergogna. Solo mi parrebbe di dover procedere con qualche riguardo, amando egli troppo Cecco, ed aspettare il momento opportuno, che non può fallire, assicurandosi quel perduto sull'amore del duca, e pigliandone troppa baldanza. Pare a voi che si possa fare?

Il vescovo provò con sue ragioni teologiche potersi differire, quando si faceva perchè l'effetto fosse più certo; e rimasti d'accordo che ciascuno dalla sua parte si studierebbe per ogni via di affrettar la pena delle scelleraggini di Cecco: senza accorgersi il vescovo che ajutava un disegno della duchessa dove la religione non aveva nulla che fare, si separarono.

CAPITOLO XIV. L'ADDIO.

La duchessa avea bene indovinato che Guglielmo non sarebbe mosso per il campo, se prima non diceva addio alla Bice; e di fatto non indugiò, uscito che fu dalla sua presenza, a correre da frate Marco, pregandolo con le man giunte, che trovasse modo di fargli vedere tosto la Bice. Il povero frate si porgeva di mala voglia a questo ufficio, che a lui non pareva dicevole alla sua qualità; ma, accettato per una parte da maestro Cecco che faceva opera, non solo onesta, ma buona e meritoria; e dall'altra non avendo cuor di disdire a sì prode e gentil cavaliere, si chiamò pronto al suo desiderio, e senza indugio mosse alle case de' Cavalcanti, e seppe sì ben fare che Guglielmo potè in breve tempo parlar con la cameriera, e aver poi la posta per la sera medesima.

La povera Bice, dopo quell'amaro rabuffo di suo padre, era stata parecchi giorni che non aveva potuto vederlo; e quando consentì che andasse a lui per pochi momenti ogni giorno, non cessava mai di rampognarla, inducendola sempre a levare il cuor da Guglielmo. Quel giorno la visita di essa a suo padre era stata più lunga del solito, e le parole di lui assai meno amare, lasciando da parte ogni acerbo motto contro Guglielmo, e solo cercando di toccare il cuor della figliuola col mostrar quasi gelosía per l'amore ch'ella portava al cavalier provenzale, come se quello fosse diminuzione del bene che essa dovea voler al suo babbo. La fanciulla dal canto suo, tutta riconfortata dal modo umano di Geri, ne disse al buon vecchio mille dolci parole; e tanto abbondantemente e tanto caramente gli parlò del bene che gli voleva, che egli ne lacrimò, e non potè tenersi di dare un affettuoso bacio alla figliuola quand'essa uscigli di camera, della qual cosa la Bice fu oltre modo lietissima, e ne prese buona speranza per l'avvenire: e tanto avea pieno il cuore di queste liete speranze, che, venuto a lei il suo Guglielmo, le prime sue parole furono queste:

— Guglielmo mio, buona novella: il mio buon babbo oggi mi ha parlato tutto amoroso, e mi ha detto addio con un bacio. Chi sa che Dio non gli abbia intenerito il cuore, e che presto...

— Mia diletta — interruppe Guglielmo tutto smarrito — ed io vengo per dire addio a te.

— Addio! esclamò atterrita la Bice: ma dove?

— Il duca mi ha onorato di farmi guidatore della schiera de' feditori; e tu sai che domani tutta la gente nostra e delle amistà debbono muovere chi verso Pistoja, chi verso la montagna.

— Oh, Guglielmo, questo è troppo fiero colpo. Alla guerra! Ed io rimarrò qui desolata, temendo sempre per la tua vita...

E come Guglielmo fece atto di voler parlare:

— Lo so, continuò quella dolente; tu sei prode, tu sei leale, sei amante della gloria, sei geloso dell'onore e del dovere, e a questo posponi ogni altro affetto; ed io te ne lodo, e più me ne piaci; ma t'amo troppo, Guglielmo mio.

— La mia lontananza sarà breve: nel campo e nella mischia il tuo adorato nome mi darà cuore a magnanime imprese; i fiorentini mi saluteranno loro campione; e forse lo stesso tuo padre si unirà con essi, e sarà ambizioso di dar la figliuola a chi combattè e vinse per l'onore e per il buono stato della sua terra.

— Oh dolcissime parole! Io ti veggo tornare tutto lieto della vittoria: vedo la gente che ti si accalca d'attorno; odo gli applausi, le voci di esultanza, i viva del popolo. Va, va, Guglielmo: sii prode come suoli: e se Firenze ti saluterà suo campione, non dubito che anche mio padre ammollirà la durezza sua. Ma alla guerra si muore, e se tu pure... — nè ebbe cuore di finire.

— Si muore, sì; e troppo me ne dorrebbe, solo per dovermi partire per sempre da te. Ma Dio non mi abbandonerà; combatto per la parte di santa Chiesa contro uno scomunicato; combatto per la franchezza di una nobile terra, figliuola di S. Chiesa; e si alzeranno al cielo per me i prieghi della più santa e angelica creatura che sia nel mondo.

E qui amorosamente guardò la Bice, e le pose timidamente le labbra sulla fronte.

— Mio dolce signore, così Dio secondi le tue speranze, come io non resterò di pregarnelo.

In questo punto i due amanti, che stavano abbracciati in dolce estasi d'amore, udirono il rumor di una porta che si apriva, e videro messer Geri con un torchio acceso in mano appressarsi verso di loro. La fanciulla volle fuggire; ma ritenuta da Guglielmo, chinò il capo a terra: Guglielmo aspettò a fronte alta il vecchio, che veniva diritto verso di lui, disposto già a sopportare senza risentimento ogni rampogna di esso, che bene si aspettava dovessero essere e molte e grandi; ma disposto del pari a frenare gli effetti dell'ira di lui, se mai accennassero di cadere sopra la povera Bice, alla quale non era rimasto sangue nelle vene.

Giunto il vecchio presso i due giovani, nulla disse alla Bice, e solo comandò alla cameriera, già avvicinatasi ad essa, che la conducesse nelle sue stanze; e singhiozzando ella pietosamente, e volendo cominciare a parlare, Geri gli gelò le parole sulle labbra con un terribile sguardo, e con un cenno risolutissimo le intimò di partire, al che non ebbe cuor di resistere, e si mosse tutta desolata, voltandosi solo indietro quando fu sulla soglia, per dare un ultimo sguardo al suo diletto. Partita la Bice, Geri, infilato il torchio nel suo bocciuolo, si voltò a Guglielmo che stava immoto, in atto più di rispetto che di minaccia, e gli disse con un sorriso di scherno:

— Ecco valenti cavalier provenzali! prodi solo a conquistare inesperte fanciulle, ed a svergognare le case dei gentili ed onorati cittadini.

— Messere, i cavalieri provenzali sono e prodi e leali quanto altro cavaliere o di Francia o d'Italia. Con me voi siete troppo crudo; io amo la vostra Bice, ma la venero come una delle santissime cose; e non che svergognare la casa vostra, io sono tale, e per legnaggio e per onorate imprese, che potrei e vorrei onorarla, diventando vostro parente.

— Mio parente! Chi? uno straniero? uno degli oppressori della mia terra? E tu non esiti di proporlo?

— Oppressori della vostra terra! Ma, e non siamo noi qui appunto per francare questa nobile terra dalle minaccie di Castruccio e della parte imperiale? E non mettiamo noi in servigio di essa le persone e gli averi?

— È ragione che all'onta si aggiunga lo scherno. Gli stranieri non combattono nè mai combatteranno per l'altrui franchezza e libertà; ma solo se l'acconciano sulle labbra per addormentare gli stolti che ad essi ricorrono, per poi tenere soggetti coloro cui vennero ad ajutare, ed avvantaggiarsene in qualunque tristo modo venga loro fatto. E tu, sleale cavaliere, tu mi parli di libertà e franchezza di questa terra, tu, che sei de' più accosti seguaci di questo duca, che la libertà fiorentina ha ucciso barbaramente, che ha turbato e disfatto i buoni ordini della repubblica, ha travolto nel fango la suprema dignità del gonfalonierato, manomessi i cittadini nell'onore e nella persona? E tu dici di amare la mia figliuola? Oh villan cavaliere! Ed ella ama te?.... Alla croce di Dio! prima vorrei vederla morta..... la ucciderei anche colle mie proprie mani, piuttosto che vederla nelle tue braccia. Va, non contaminar più lungamente con l'odiato tuo aspetto le case de' Calvacanti; e fa che più non ripassi queste soglie, chè vivo non usciresti; e sappi grado alla mia canizie, alla mia mal ferma sanità, se ti lascio ir salvo questa volta.

E con fiera guardatura gli additò la uscita del giardino.

Guglielmo sentiva montarsi le vampe al viso, udendo quelle furenti parole, e quelle fiere villaníe del vecchio Geri; e più volte si era sentito acceso a fargliele costar care; ma sempre se ne ritenne pensando alla Bice, e rimase sempre immobile e silenzioso. Solamente quando il vecchio ebbe finito quel suo violento sfogo, senza curarsi di nulla rispondergli, stiè contento ad esclamare:

— Bice mia, dono a te la vita di questo malnato vecchio — ed uscì dal giardino lasciandolo così vinto dal furore e dall'ira.

CAPITOLO XV. LA PARTENZA PER IL CAMPO E IL MONASTERO.

La mattina appresso, Firenze risonava tutta d'armi e d'armati: le strade e le piazze erano ingombre di salmeríe: le masnade dei tedeschi, bella e fiorita gente che teneano a soldo i fiorentini, erano raccolti sulla piazza S. Croce, ai quali erano stati aggiunti altri cento cavalli con cinquecento pedoni tutti in assetto di combattere: ed a questi comandava M. Biagio de' Tornaquinci da Firenze. La schiera dei feditori, giovani tutti e di franco cuore, bene armati di schiette armature, erano sulla piazza di S. Giovanni lungo la nuova fabbrica di S. Reparata, ed erano guidati come sappiamo da Guglielmo d'Artese, il quale aveva una nobilissima armatura con fregi d'oro, e montava il più bel destriero che si potesse guardar con due occhi; e facevano così bel vedere, tutti raccolti insieme a quel modo, che la gente si accalcava dinanzi a loro, e tutti non facevano altro che dire, e ciascuno fondava sopra di essi il buon esito della guerra. Le amistà, le genti del duca, erano in altri luoghi della città, già in punto per muoversi; e non altro si aspettava che il comando di lui, il quale aspettava per darlo, che maestro Cecco d'Ascoli facesse le sue osservazioni astrologiche e desse egli il punto, col pronostico di questa impresa di guerra. Finalmente il punto fu dato da Cecco, e le trombe squillarono immantinente, e la gente si mosse.

Il pronostico di Cecco fu, che messer lo Duca avrebbe grande onore di questa guerra, e Firenze se ne rifarebbe. E tra questo e la baldanza che ciascuno prendeva di così nobile e potente esercito, i fiorentini stavano a buona speranza e viveansi lieti; e salutarono le schiere che partivano con ogni modo di applausi e di lieti augurj.

Ma lasciamoli andare, chè non ci mancherà tempo di raggiungerli; ed intanto vediamo che cosa in questo mezzo avvenisse in Firenze, rifacendoci dalla nostra buona Bice, per la quale, non senza ragione, i lettori staranno in gran pensiero, in tanto travagliata condizione la lasciammo.

Messer Geri, rimasto solo nel giardino, e punto acerbamente dalle ultime parole di Guglielmo, durò per qualche tempo a andare da sù e giù con passo concitato, sbuffando e sfogando in modi strani lo sdegno e il furore; e tornato che fu nelle sue stanze, si coricò, nè potè chiuder occhio in tutta la notte. La povera fanciulla non è da domandare se struggevasi in pianto, e se anch'ella passò notte travagliatissima col doppio coltello nel cuore del suo Guglielmo che doveva allontanarsi da lei, e dello sdegno e del furore di suo padre, ch'ella si aspettava terribile; nè s'ingannava.

Egli nella notte avea preso partito della infelice figliuola; e come fu giorno, senza fiatarne a persona, si fece sellare un cavallo, e preso seco un valletto, uscì dalla porta S. Gallo, nè si fermò sino a che fu in Mugello ad un monastero di donne, dove era badessa una de' Cavalcanti suoi consorti. Smontato quivi e conferito con lei, come prima si fu un poco ristorato ed ebbe riposato i cavalli, cavalcò di nuovo e la sera medesima fu tornato in Firenze.

La Bice era stata un'intera giornata senza vedere o sentir altro, nè sapeva che cosa pensare; ma non ne pigliava punto buon augurio: domandava la sua fida cameriera che cosa ella ne pensasse; si provava a mandarla domandando qualcosa ad alcun famigliare; ma nulla potè raccogliere, se non che messer Geri era fin dalla mattina montato a cavallo, nè più si era veduto; ed essa ingegnavasi d'indovinare, perchè dopo la tanto fiera battaglia della sera innanzi, suo padre, così turbato come dovea essere, cagionoso e vecchio a quel modo, fosse uscito di Firenze a cavallo con un solo valletto: e qualunque pensiero le venisse alla mente, non era se non triste e di sinistro presagio.

Che tra Guglielmo e lui non c'era stato nulla di grave da doversi allontanare dalla sua casa per paura del duca lo sapeva, perchè la sua cameriera era rimasta a spiare il tutto; Guglielmo dovea partire quel giorno stesso per il campo, e Geri sapevalo; nè la sua gita poteva riferirsi a cosa che toccasse Guglielmo; e ne inferiva che lei sola poteva riguardare, e ne stette in continuo tremore tutto quel giorno e la notte appresso, ed i più orribili sogni turbarono quel brevissimo sonno ch'ella potè pigliare.

Come prima fu fatto giorno, messer Geri mandò per la cameriera della Bice, garrendola con fiere parole dell'aver secondato l'amore di lei; e datale assai quantità di denaro, le comandò che, senza metter tempo in mezzo, dovesse uscirgli di casa, senza nemmeno rivedere la Bice; ed alla Bice mandò dicendo che mettessesi in assetto per uscir di Firenze il giorno di poi, deliberato di non più rivederla; o per vero sdegno, o forse per timore che le lacrime e le preghiere di quella angelica creatura potessero vincere il suo fiero proposito.

Pensi, chi ha cuor gentile, l'angoscia e la disperazione della sventurata! Intanto anche messer Geri metteva tutto all'ordine per la partenza della figliuola: le diede tosto una nuova cameriera; fece il suo testamento, nel quale la diseredava, se non quanto concedevale la legge, lasciando per rimedio dell'anima sua tutto ciò che eragli rimasto dal fallimento degli Scali: e la mattina di poi per tempissimo, la Bice, accompagnata da un vecchio famigliare, e dalla nuova cameriera, uscì di Firenze, avendo fatto pregare e ripregare invano quel fiero vecchio, che almeno le concedesse di rivederlo e di baciargli la mano.

Povera innocente! qual cuore doveva essere il suo! Quante lacrime, quanti sospiri! Per tutta la strada stette col volto coperto di un velo nero, nè si saziava di piangere, ed era straziata da mille pensieri, uno più doloroso dell'altro. Quel vecchio che erale stato dato per guida sapeva essere tutto cosa di suo padre, e di animo come lui ritroso e acerbo, nè si attentava di domandargli nulla: la cameriera non sapeva chi fosse, nè mai le volse una parola. Ma all'ultimo, straziata dall'incertezza, domandò al famigliare dove mai l'avesse a condurre; e questi con parole benigne più che la sua natura non comportava rispose che dovevano andare in Mugello, non sapeva a che fare; e solo poteva dirle che avea in commissione di fermarsi al monastero di S. Piero in Luco per recapitare una lettera a quella badessa. La povera Bice comprese tutto; e dato un gran sospiro, volse gli occhi al cielo, rassegnandosi alla sua sventura, e rimettendosi nella misericordia di Dio; nè più fece una parola in tutto il non breve cammino, pensando solo alla spietata crudeltà di suo padre, e tribolandosi col pensiero che forse non avrebbe più mai potuto riveder il suo Guglielmo. Il monastero di S. Piero in Luco fu il primo monastero di donne dell'ordine di Camaldoli, fabbricato nel secolo undecimo dal beato Rodolfo Camaldolese in un luogo a piè dell'Apennino, dove per antico fu un oratorio dedicato a S. Pietro. Circondato da fitta selva di abeti, e chiuso per ogni parte da aspre montagne, era orrido mirabilmente, e faceva strano contrasto col ridente paese che si percorreva prima di giungervi. Appena i tre arrivarono in vista del monastero, il vecchio disse alla fanciulla: Madonna, là dobbiamo andare. Bice alzò il capo, e veduto quell'orrore, sentì stringersi il cuore, e fu quasi smarrita; e come scese da cavallo poteva appena reggersi in sulla persona, ed a stento fu condotta nel monastero. La badessa non si fece aspettare lungamente, e mosse incontro alla fanciulla con parole ed atti di somma benignità, che furono balsamo alle gravi ferite onde sanguinava il suo cuore: per che baciolle affettuosamente la mano, e lasciò cadersele sul seno, dando in un dirottissimo pianto. La badessa, come dissi, era della casa Cavalcanti, una donna sui quarantacinque anni, di aspetto nobilissimo, e di bella maniera: le si vedeva tuttora nel volto gran parte di quella bellezza, che doveva averla fatta ammirare tra le fanciulle del suo tempo; e benchè avesse voce di santità tra quelle suore, tuttavia si sapeva che un amore contrariato l'aveva condotta a seppellirsi in quel chiostro; e non era stata più lieta; ma nel suo volto era sempre dipinta la mestizia e il dolore. Vedendo pertanto la disperazione della Bice, e sapendone la cagione, perchè Geri le aveva detto minutamente ogni cosa, se non quanto avevalo foscamente dipinto, e taciuto il nome del cavaliero, ritornò col pensiero agli anni suoi giovanili: nella giovane de' Cavalcanti ritrovò se stessa al tempo della sua giovinezza, e se ne intenerì per modo che le lacrime le piovevano dagli occhi più abbondanti per avventura di quelle della Bice. Quando ambedue ebbero dato ampio sfogo a' diversi affetti che le combattevano, la badessa, presa per mano la Bice, la condusse nella cella, e quando furono sole le disse:

— Figliuola mia, fatti cuore, il Signore ti perdonerà.

— Madre mia dolce, ma perchè mi hanno condotta qui?

— Messer Geri tuo padre vi fu....

— Ah, il mio diletto padre: mi amava tanto....

— E ti ama tanto anche adesso; ma tu lo hai disubbidito: hai fatto onta alla casa di lui....

— Ah, madre mia; egli è il più leal cavaliere, il più gentile, il più bello, onde si onori tutta Provenza; il suo amore è puro come quello degli angioli: non vuol far onta, ma vuole onorare la casa dei Cavalcanti; e mio padre riverisce ed onora quanto è degno. Io non posso disamarlo.... Ah voi non conoscete le forze d'amore; e però condannate me come figliuola disubbidiente, nè sapete avermi compassione come amante.

A queste parole la badessa si commosse tutta quanta; e dimentica della sua età e della sua qualità, stava per dire alla Bice, come pur troppo ella avesse provato le forze d'amore, e come le avesse tenerissima compassione; ma seppe vincer sè stessa, e le disse:

— Figliuola, non dire che io non ho compassione di te: ma la disubbidienza al padre è troppo gran colpa.

— Speravo che il mio smisurato affetto di figliuola; che la riverenza in che lo ha Guglielmo; la sua prodezza, la sua cortesia, il suo profferire la vita per la libertà della nostra terra, dovessero ammollire il cuor di mio padre.

— Ma intanto lo accoglievi presso di te: e questo non è dicevole a gentil fanciulla.

— Madre mia, doveva partire per la guerra; come poteva non dirgli addio?

La badessa sempre più sentiva commuoversi, e volle troncare ogni ragionamento, non assicurandosi di poter conservare a lungo la sua gravità, e continuare le sue ammonizioni: il perchè, confortata come meglio seppe la Bice, la condusse nella cella assegnatale, chiedendole solo che pregasse il Signore di ricondurre a pensieri più miti suo padre.

CAPITOLO XVI. LE LOGGE DE' GRANDI, E SPECIALMENTE QUELLA DE' GHERARDINI.

A Firenze frattanto la duchessa avea già saputo questo fatto della Bice, ed era tutta lieta che la sua arte fosse riuscita a fine così desiderato: già era ita la novella per tutta la città; e per le logge de' grandi non si faceva altro che dire, chi biasimando, e chi lodando la crudeltà di messer Geri. Ma siccome il lettore ha sentito spesso parlare di logge de' grandi, ed un fatto che si lega in gran parte al soggetto di questo racconto avvenne appunto in una di tali logge, così sarà buono il dare qualche breve notizia di esse, che sono cosa singolare nell'antico viver de' fiorentini, e che sarà cosa nuova per un gran numero di lettori. Le logge erano o accanto o vicino ai palagj, ed erano segno di nobiltà; e solo poteano aver loggia le famiglie de' grandi, che vi solevano stare, come si direbbe, a conversazione, parlandovi o di negozj, o di cose di stato, o trattenendovisi per puro diletto. Fu tempo che le logge si tenevano in tanto rispetto, che fin la giustizia era in qualche modo trattenuta da esse, dacchè servivano come di asilo a' rei; e si legge nell'Ammirato, che nella loggia degli Elisei, se gli fosse venuto fatto di rifugiarvisi uno condotto al supplizio, si intendeva esser subito salvo. Ma quando il popolo minuto venne al governo della repubblica, mal sofferse questi privilegj; e rinforzati gli statuti ordinati ad abbassare l'autorità de' grandi, si racconta che uno de' Buondelmonti fu condannato in trecento fiorini d'oro per aver fatto difesa in salvare un tale, che si era ricoverato nella loro loggia di Borgo Santi Apostoli, dicendogli l'esecutore che sotto il governo di popolo i privilegi de' magnati non avevano più luogo.

A mostrar poi che queste logge servissero all'uso detto qua dietro, ricorderò che in quella de' Rucellai fu conchiuso da Giovanni di Paolo Rucellai, che la fece fare, il matrimonio di tre sue figliuole ad un tempo; e ricorderò le parecchie disfide di giuoco a tavola reale ed a scacchi che vi si facevano; specialmente nel secolo XIII e XIV, fra le quali è famosa quella di quel Saracino, detto Buzzeca, il quale, venuto a Firenze circa al tempo che Carlo d'Angiò fu coronato re a Napoli, fece prova di giocar pubblicamente agli scacchi dinanzi al conte Guido Novello, vicario in Toscana per il re Manfredi, co' più valenti giocatori della città ed in un tempo medesimo su tre scacchiere diverse, su due a mente e sulla terza a veduta. Altra testimonianza di queste pubbliche giocate l'abbiamo ancora appresso il Sacchetti, là dove racconta che Guido Cavalcanti, giocando alli scacchi, diè uno scappellotto ad un ragazzo che gli mandava tra' piedi una sua trottola, e che il ragazzo se ne vendicò, inchiodandogli la guarnacca sulla panca.

Tornando alle logge, esse erano parecchie in Firenze, tra le quali principalissime la loggia degli Adimari, e anche de' Cavicciuli alla fine del Corso degli Adimari, oggi Via Calzaiuoli, dalla parte della piazza della Signoria; e questa dall'Ammirato si dice essere stata chiamata la Neghittosa: la loggia degli Agli, sulla loro Piazza: la loggia degli Alberti in capo di Borgo S. Croce, nel luogo detto le Colonnine, dove ora è un caffè: de' Buondelmonti in Borgo Ss. Apostoli: de' Bardi sulla via che prende nome da essi: de' Cavalcanti in Baccano: de' Cerchi in Via de' Cimatori: de' Canigiani in via de' Bardi: de' Frescobaldi a piè del ponte a S. Trinità, di là d'Arno: de' Gherardini in Por S. Maria, ora Mercato Nuovo: de' Guicciardini nella via che da loro si nomina: de' Peruzzi sulla piazza del loro nome: de' Rucellai nella Vigna, la qual loggia fu fatta con disegno di Leon Battista Alberti, e si vede tuttora, sol che ha gli archi murati: de' Tornaquinci sul canto loro: degli Albizzi nel borgo che ha il loro nome; e così degli Elisei, degli Agolanti, de' Medici, degli Uberti, dei Pulci, de' Giandonati, de' Pilli, de' Macci, de' Giugni; e de' Pazzi, Pitti, Tornabuoni, Gianfigliazzi, Spini, Soderini.

Altro segno di nobiltà nelle case de' grandi erano i fanali di ferro, o lumiere, come già si dicevano, che si scorgono tuttora alle cantonate di alcuni palagj; ed oltre all'essere segno di nobiltà, era pure di celebrità o nella toga o nelle armi o nelle lettere.

Fra tutte le lumiere che vedonsi ancora in Firenze son degne di essere osservate con attenzione quelle del palazzo Strozzi, lavorate con tanta industria e con tal magistero che non hanno pari; dacchè le belle parti che entrano in una nobile fabbrica sono state in esse divisate, veggendovisi le mensole, le colonne, le cornici, i capitelli fatti con meravigliosa diligenza, e messi insieme con tanta cura che pajono tutte d'un pezzo. Sono opera di Niccolò Grasso fiorentino, e si raccoglie dalle memorie di quel tempo che costarono cento fiorini d'oro l'una, che, ragguagliati alla nostra moneta, sarebbero circa a due mila lire.

In una delle nominate logge, ed appunto in quella de' Gherardini, là in Por S. Maria, sul canto di Borgo Ss. Apostoli dalla parte del Ponte Vecchio, stavano raccolti quel giorno parecchi cittadini di Firenze, parte sollazzando, e chi ragionando delle speranze quasi certe della vittoria. Fra questi era maestro Dino del Garbo, tutto attento ad un giuoco di scacchi; e mentre l'uno diceva una cosa e l'altro un'altra, eccoti passar di lì Cecco d'Ascoli con frate Marco, nel momento appunto che il discorso era caduto sul fatto della Bice de' Cavalcanti: e come si era sparso che a questo amore aveva prestato favore maestro Cecco, così un bell'umore fiorentino, assai conoscente di lui, lo ammiccò che andasse là, col proposito di ridere alle sue spalle.

Cecco tenne l'invito, ed andò nella loggia col frate, e tosto si cominciò a entrare nei ragionamenti della guerra.

— Ma dunque, maestro, la vittoria è sicura — disse il bell'umore; un giovanotto tutto azzimato e leggiadro, quasi sbarbato, se non quanto una lieve lanugine bionda gli fioriva le guance e il labbro di sopra.

— Quanto promettono le stelle, e il valor della gente di messer lo duca, è sicura.

— Ah le stelle.... E voi ragionate con le stelle come con le persone, è vero? Ed esse vi odono così in alto come sono? Ma non è sola la gente di messer lo duca che combatte, vi ha pure la gente de' fiorentini....

— Anche i fiorentini vi sono, e son valorosi; ma e' sono troppo pochi al bisogno, e a molti di essi suona un poco pauroso il nome di Castruccio, e hanno pensato meglio di restare a Firenze, comecchè giovani ed aitanti.

Il bell'umore intese la bottata, e la ingollò con un po' di stizza; ma altri giovani che erano nella loggia la intesero pur essi, e un di loro si volse come un aspide a Cecco.

— Eh, bel maestro, che dite voi di paura e di Castruccio? I fiorentini non hanno paura nè di Castruccio, nè di duchi, nè di imperatori; e voi fareste senno a non insultare di più questa città.

— Bel messere, lo so, che i fiorentini non hanno paura nemmeno degli imperatori; e mi ricordo bene di Enrico di Lussemburgo, che dovè levare l'assedio da questa nobile città. Io volli solo mordere dolcemente quel donzello che motteggiava con me: se ho detto qualcosa di men che onorevole ai fiorentini, me ne chiamo in colpa.

E quegli che dicea prima:

— Su, su, maestro Cecco non lo ha detto per male, e gli vuol bene a' fiorentini.

Intanto maestro Dino del Garbo si era accorto che Cecco era nella loggia; e udendo dire che esso voleva bene a' fiorentini, ruppe le parole in bocca a quell'altro, e continuò con voce non tanto bassa che Cecco nol sentisse:

— E alle fiorentine, se fa anche da mezzano ai loro amori.

Cecco dissimulò questa bottata, nè rispose verbo; ma disse così di traverso e a modo di sentenza questi due versi di Dante, torcendoli al suo proposito:

Superbia, invidia e avarizia sono

Le faville che ti hanno il cuore acceso:

poi, come rispondendo al suo difensore:

— Non ci ha dubbio che loro vo' tutto il mio bene, che amo la loro gloria e il loro buon stato, e che vorrei pur vedere alcuno dei prodi e gentili cavalieri di messer lo duca onorare di loro parentado le case nobili fiorentine; e ciò sarebbe potuto cominciare ad essere per opera mia, se la invidia e il mal talento non avessero fatto ogni sforzo contro il proposito mio, conducendo un ottimo vecchio quasi alla disperazione e all'odio della propria figliuola; e la più bella e gentile fanciulla di questa terra ad essere sepolta viva in un orrendo chiostro.

Queste parole disse Cecco per temperare la mala impressione che sull'animo degli uditori potesse aver fatto maestro Dino, quando toccò del suo fare il mezzano; e le disse con tono alquanto concitato, acciochè Dino comprendesse che gli erano note tutte le arti da esso usate contro l'amore della Bice, per odio e per invidia che aveva a lui.

Maestro Dino comprese il veleno di quel discorso, e come colui che era di ardentissima natura e di primo impeto, e l'odio che aveva con Cecco era veramente mortale, sentì accendersi di subita ira, e rittosi dalla sua panca, andò contro di esso tutto infuriato; e se non fosse stato trattenuto, avrebbe certo fatto cosa disdicevole alla sua gravità ed alla sua dottrina. Le esortazioni degli amici lo calmarono un poco; ma non potè fare che, rivolto a Cecco, non gli dicesse con piglio di minaccia:

— Tu ami la gloria dei Fiorentini? ed hai faccia di dire tal cosa, quando da te sono stati beffati Dante e Guido Cavalcanti, che sono le glorie maggiori di questa terra? quando l'amore di una de' Cavalcanti con un cavaliere straniero tu secondi per questo solo, che alle beffe dette contro di Guido, vuoi aggiungere il vituperio di messer Geri suo congiunto? E osi parlare di invidia e di mal talento tu, che sei consumato da queste abominande passioni, che informano ogni atto, ogni parola tua? Firenze è ben generosa che comporta di vedersi in seno i tuoi pari.

E come Dino diceva tali cose con voce alta e molto concitata, così la gente cominciava a radunarsi attorno alla loggia. Cecco sapeva quanta autorità avesse egli in Firenze, e vedeva bene che questo non era nè il tempo, nè il luogo da rispondere per le rime a quel vecchio insensato; il perchè si frenava quanto più poteva, e da ultimo temperatamente rispose:

— Maestro Dino, io non ho mai beffato, ho solo combattute le dottrine teologiche e filosofiche di Dante e di Guido; questa è cosa comune fra gli scienziati, nè è mossa da verun maltalento; e dovete anche sapere che in più luoghi delle mie opere io riconosco e celebro il sommo ingegno di Dante; e dovete sapere che Dante stesso non isdegnava di aver meco commercio di lettere. Io non ho nè invidia, nè odio a veruno. Leggemmo pure ambedue insieme a Bologna pochi anni addietro; e ben vi dee ricordare come la mia scuola fosse gremita di uditori e la vostra quasi deserta. Se fossi stato invidioso di voi, me ne sarei rallegrato in cuor mio; ed invece vi giuro che me ne addolorava come di cosa che toccasse me proprio.

Questo non potè tenersi di dire Cecco per mordere maestro Dino, e per vendicarsi in parte delle acerbe cose dette innanzi da lui. Come Dino ne montasse sulle furie è facile l'indovinarlo.

— Ben mi ricordo, o sciagurato, che leggemmo insieme a Bologna, dove co' tuoi aggiramenti ti venne fatto di essere tenuto e di farti chiamare maestro; ma ricordami ancora che ti ajutavi più che con altro con la negromanzia e con la magía; e che le pestilenti dottrine da te insegnate in opera di fede ti diedero in podestà dell'inquisizione, la quale solennemente ti condannò per eretico: mi ricordo che per esserne assoluto, facesti ipocritamente ogni penitenza; che solennemente giurasti di non più mai leggere quel tuo libro condannato; e so io, e sanno tutti, come hai attenuto il giuramento; chè qui nella propria Firenze, nella città più devota alla santa chiesa, quelle medesime dottrine eretiche insegni pubblicamente, e non cessi di usare le tue arti magiche e negromantiche, stando in continuo commercio col diavolo dell'inferno, dove non andrà molto che traboccherai in eterna dannazione.

Intanto la gente si accalcava sempre più, e udendo quelle fiere parole di un uomo a cui aveva tanta riverenza, cominciava a mormorare cupamente, e molti accennavano Cecco con atti non troppo benigni; il quale, vedendo il mare in burrasca, avrebbe voluto essere in tutt'altro luogo che in quello. Però alle invettive del maestro non rispose nulla, se non queste parole con tono temperatissimo:

— Maestro, non istà bene il desiderare altrui la morte temporale ed eterna; e a voi massimamente, perchè è scritto lassù che la vostra morte sarà pochi giorni dopo la mia.

E Dino con atto di spregio:

— Ah vil paltoniere! qui non hanno luogo i tuoi vani augurj: il diavolo, a cui ti sei dato in corpo ed anima, può ben fare in persona tua qualche prodigio; ma non può nulla sulla anima e sulla vita degli ubbidienti figliuoli di santa chiesa. Va, maledetto da Dio; ben mi maraviglio — disse accennando con atto di spregio la gente raccolta attorno alla loggia — ben mi maraviglio come questi ciechi di fiorentini comportino che la loro città sia contaminata da tanta puzza. E, voi, disse rivolto a coloro che erano nella loggia, cacciate di tra voi questo eretico scomunicato.

Il popolo, sempre più crescente, sempre più si accendeva per le furenti parole di maestro Dino; e levatosi una voce, non si sa di dove, muoja il negromante, muoja l'eretico, mille voci ad un tratto ripeterono quel medesimo; e alcuni della loggia, istigati da Dino, facevano forza di cacciar Cecco fuori di essa, combattendosi egli potentemente per non vi andare. E già si vedeva al perso, quando ricorse all'arte per liberarsi da tal frangente. Contraffece orribilmente il volto, prendendo aria da invasato; gridò terribilmente: Io morrò, e morrete tutti con me; snudò la spada che aveva allato, fece atto di tagliarsi la testa, e questa fu veduta da tutti a' suoi piedi[25]; poi la loggia, e tutto Por Santa Maria, si empì di orribile e puzzolente fumo. Tutto il popolo e la gente della loggia, compreso maestro Dino, furono vinti dallo spavento, e cacciando urli orribili, e facendosi segni di croce e invocando il nome di Dio, fuggirono tutti quanto ne avevano nelle gambe, lasciando solo maestro Cecco, il quale, vedutosi fuor del pericolo, guardossi bene d'attorno, e senza dir che ci è dato, tra pauroso e ridente, andò difilato a palagio.

CAPITOLO XVII. LA GUERRA.

Torniamo ora alle cose della guerra.

Abbiamo accennato qua dietro come il duca Carlo avesse ordinato con Spinetta Malaspina, il quale era in Verona appresso messer Cane della Scala, che egli entrasse nelle sue terre di Lunigiana a guerreggiare da quella parte Castruccio; e soldògli in Lombardía trecento cavalieri, e il legato di Lombardía gliene diè dugento di quelli della Chiesa, e cento ne menò da Verona di quelli di messer Cane; e varcò da Parma le Alpi, e posesi ad assedio al castello della Verruca, che Castruccio gli aveva tolto. Dall'altra parte gli usciti di Pistoja, a petizione del duca, senza saputa o consiglio di niun fiorentino, ribellarono a Castruccio due castella della montagna pistojese Cavinana, e Mammiano: e la gente che abbiam veduta uscir di Firenze, era avviata in diversi punti per secondare questo disegno di guerra; e ad essa gente, che non era poca, ben presto si aggiunse il conte Beltramo del Balzo, zio del duca, con cento cavalli, il quale era stato capitano dell'armata, che allor fu mandata in Sicilia; cui esso, non essendo più tempo di navigare, aveva dal golfo della Spezia mandato a Napoli, ed egli, smontato in Maremma, se n'era venuto a Firenze per trovarsi a questa guerra. Ora le genti fiorentine, che meglio si chiameranno le genti del duca, perchè Firenze era il duca, furono spartite così: la masnada dei tedeschi, in tutto dugento cavalieri, con gli altri cento cavalieri e co' cinquecento pedoni, guidati da messer Biagio de' Tornaquinci da Firenze, dovevano ire a soccorrere le castella ribellate della montagna pistojese; e l'altra gente si avviava a Prato, per esser pronta a qualunque bisogno, o verso la montagna, o verso Pistoja. Ed il bisogno poteva venire da un momento all'altro, perchè Castruccio, vedendosi minacciato da tante forze, benchè tutto l'agosto fosse stato malato a morte, di una sua ferita alla gamba destra, come valente signore, vigorosamente e con gran sollecitudine si dispose al riparo, e tosto fece porre campo e battifolli molto forti alle castella ribellate; ed egli in persona col più della sua cavallería venne a Pistoja, per provvedere ad ogni bisogno, e per tener fronte al duca ed ai Fiorentini, che quelle castella non potessero fornire. Furono così pronti ed efficaci gli apparecchj di Castruccio, che al duca e al suo consiglio parve tosto di aver fatta non savia impresa; ma oramai bisognava continuarla, e fare ogni sforzo che riuscisse a buon fine.

Guglielmo co' suoi feditori era tra la gente che doveva fermarsi a Pistoja; e dove i caporali delle altre schiere si porgeano tutti lieti e baldanzosi, e quasi certi della vittoria, egli solo era triste, e non dava segno veruno di baldanza; e ne aveva troppa cagione. Il pensiero della sua Bice non lo abbandonava un momento: Che sarà stato di lei? Come avrà potuto reggere alla furia di suo padre? E tanto si tribolava di questi e simili pensieri, che era una pietà a vederlo. Anche le cose della guerra, come ho detto, nol teneano tranquillo; chè sapeva quanto valoroso e savio condottiero fosse Castruccio; quanto agguerrita la sua gente, avvezza a tante vittorie; e quanto per contrario fosse male accozzata la gente del duca; quanto scorati i Fiorentini dalle toccate sconfitte, e come il nome solo di Castruccio facesse loro paura. E veramente Castruccio mostrò anche in questa fazione quanto fosse abile capitano, tanti e tanto sicuri furono i provvedimenti che prese, massimamente per le castella ribellate della montagna, alle quali aveva posto grosso assedio, e impediva con ogni possa che la gente del duca potesse fornirle. Ed anche il tempo gli fu propizio in questa impresa, dacchè i passi fortificati degli Apennini, e le grandi nevi cadute in quei giorni, spaventarono i pedoni del Tornaquinci e i Tedeschi dallo ascendere a fornir le castella. Saputosi ciò dal duca, comandò che della gente raccolta in Prato, la schiera di messer Tommaso di Squillace, e mille pedoni condotti da messer Amerigo Donati e da messer Giannozzo Cavalcanti, salissero alla montagna per vedere di riuscire ad ogni costo nella impresa di soccorrere Mammiano e Cavinana; ed il rimanente cavalcasse fino alle porte di Pistoja, per tentare se Castruccio uscisse a battaglia: e tra questi erano i feditori, alla cui guida sappiamo già essere stato posto il nostro Guglielmo. Mossero tutti con perfetto ordine; e giunti presso alla città, si formarono in battaglia nel modo allora usato, che era il seguente:

Tutto il corpo dell'esercito si partiva in quattro schiere. La prima era de' feditori, così chiamati perchè primi doveano appiccar la battaglia; e stavano in mezzo a due ali ordinate in forma di mezza luna: e queste erano di pavesari, detti così per essere armati di picconi e pavesi; e di balestrieri, e questi erano armati di gran balestroni, che lanciavano quadrella e verrettoni, cioè lunghe lance. La seconda era detta la schiera grossa, che veniva subito dopo i feditori; e questa subentrava ai primi con pari e maggior vigore. La terza era chiamata la salmería, e questa era in tutti gli eserciti con molti pedoni, destinata a contenere le altre, se rinculassero all'urto nemico. La quarta erano moltissimi pedoni, separati dal grosso della gente; e questi stavano pronti per sovvenire a que' bisogni che nel combattimento potessero occorrere. Fra le dette schiere stava collocato il carro della campana detta Martinella, che mentre si combatteva non restava mai di sonare, dal qual suono i combattenti erano infervorati alla pugna. Nel mezzo parimente a tutte le schiere stava il Carroccio, diligentemente e con ogni gelosia guardato, essendo come la tramontana dell'esercito, perchè su vi sventolava il pennone del comune; e se quello si fosse perduto, l'esercito ne andava in tal confusione, che non se ne sarebbe potuto sperare cosa alcuna, ma ogni soldato si sbandava, e poneva l'ultima speranza nella fuga.[26]

Castruccio, che era, come dicemmo, in Pistoja, veduto l'esercito del duca e dei Fiorentini venirlo così provocando fin sotto le porte, come valente signore uscì fuori animosamente, ordinando la sua gente in due battaglie, che l'una uscì da porta Caldatica e l'altra da porta S. Marco, per assaltare da ambidue i lati i nemici, schierati appunto tramezzo a queste due porte. E i Castrucciani venivano con tanto furore e con tanta tempesta, che i nostri ebbero appena tempo di ordinarsi alla pugna, la quale fu acerba e terribilissima. I nostri, vedutisi assalire da due parti, bisognò che si partissero in due grandi schiere, per tener fronte alle due schiere nemiche; e come la schiera Castrucciana uscita da porta Caldatica si vedea essere la più forte, e guidata in persona da Castruccio, colà si volse Guglielmo coi suoi feditori, e la battaglia fu tosto ingaggiata. Le trombe, che squillavano da ogni parte, il suono continuo della Martinella, il gridar de' combattenti di qua e di là, il nitrir de' cavalli, l'urtarsi essi petto con petto, i colpi che crosciavano le mazze ferrate sopra le armature, il battersi delle spade, le strida e le pietose parole de' morenti, facevano un tumulto che in tutta la circostante campagna vi pareva l'inferno. La pugna fu combattuta virilmente, e con prodigj di valore dall'una parte e dall'altra; e già Castruccio, mal resistendo all'impeto dei feditori di Guglielmo, accennava di piegare, e di volersi ritirare in città, quando Gugliemo fu ferito da un verrettone in una gamba, e non potè più stare a cavallo. Qui si mutò la fortuna dei combattenti; chè dove i nostri, vedutosi mancare la loro guida, perderono l'animo, i nemici lo ripresero, e con tal furore, che gli forzarono a retrocedere: tanto più che anche la schiera di Porta S. Marco travagliava fieramente la nostra gente; ed a lungo non avrebbe potuto resistere. Castruccio non volle seguitare la vittoria, per non mettere in compromesso la sua impresa; parendogli necessario sopra tutto di riacquistare le ribellate castella della montagna: e però i ducali co' Fiorentini poterono senza molestia ritirarsi, e si attendarono al Montale, castello allora assai ben munito, a mezza strada tra Prato e Pistoja. Guglielmo, la cui ferita non era grave, benchè da principio paresse gravissima, fu portato a medicarsi a Prato, non curando punto i dolori del corpo, ma la perduta battaglia, e il non potere chi sa per quanto tempo pigliar parte ad impresa di guerra. E più lo accorava il pensiero della sua Bice, che tanto aveala udita compiacersi nel pensiero di vederlo tornar vittorioso, ed acclamato dal popolo[27].

Come Castruccio si vide assicurato dalla parte di Pistoja, non dubitando punto che i nemici volessero ritentar l'impresa, con tutta la sua gente cavalcò senza metter tempo in mezzo alla montagna, e rafforzò la sua oste, e prese i passi che andavano a Cavinana e a Mammiano, acciocchè la gente del duca non potesse in verun modo fornirle; la quale però non avrebbe potuto farlo in modo alcuno, dacchè per il gran freddo e per le nevi appena potevano vivere, e mancava loro la vettovaglia, e le vie erano assolutamente inaccessibili. Il conte di Squillace vide ben tosto che quella impresa era folle, e che in verun modo poteva condursi a termine; tanto più che la sua gente mormorava fieramente, essendo mal riparati dal freddo: e chi potè rannicchiarsi in quei poveri e vili casolari, vi stavano ammassati come le sardine. Alcuni però, come sempre avviene negli eserciti, anche nei più gravi momenti, si ingegnavano di passar mattana, e di temperare il malumore comune con motti, con giuochi e con esercizj di ogni maniera; massimamente i Fiorentini, che sempre sono stati piacevoli e celioni. Quelli, fra tutti, che meno si acconciavano ai rigori del freddo e agli stenti d'ogni maniera, erano i provenzali, i quali bestemmiavano maledettamente e il papa e l'Italia e Firenze e ogni cosa; ed i Fiorentini ora ne gli motteggiavano, or ne gli garrivano: nè passava si può dir giorno, che non ne seguisse qualche zuffa tra loro. Una volta tra le altre si abbatterono in uno di quei miseri casolari, che serviva come di bettola, tre caporali, l'uno provenzale, l'altro tedesco, e il terzo fiorentino, asciugando tutti e tre d'amore e d'accordo certo vino, giunto allora allora dalle prime colline di Pistoja; e già ne avevano mandato giù più d'un fiasco, e data una buona stretta al secondo, quando il tedesco esclamò:

— Quando ero a casa mia sentivo dire che in Italia non ci è freddo; che ci è quasi primavera eterna; che il suo cielo è puro e sereno, e tante altre belle cose. Ma freddo così eccessivo non l'ho sentito nemmeno nella Magna; e questo vento indiavolato, con questo nevischio che gela ed accieca, ne' nostri paesi non si sogna nemmeno. È questa proprio una bella primavera!

E il provenzale rincarando: — E a me la Italia mi pare il più sciagurato paese che sia sotto il sole. Vedi qui a che siamo condotti! Assiderati, mal pagati, senza vettovaglie!

— Gnaffe! disse il fiorentino; se volete giudicare dell'Italia da queste montagne, con questa stagione, mi pare che v'anfaniate a secco. Anche le rose hanno le loro spine; ma chi dalle spine volesse dar giudizio delle rose, farebbe segno di aver dato il cervello a rimpedulare. Andate per tutto il restante dell'Italia, e poi parlatene.

— Io, riprese il provenzale, l'ho veduta tutta quanta, e non mi disdico. E anche quei luoghi che tanto vantate voi altri Italiani, sono una morte a rispetto della mia Provenza; e la vostra stessa Toscana, appetto ad essa, è un campo di erbacce, paragonato al più ridente giardino: nè so proprio su che fondiate, specialmente voi Fiorentini, il gran vanto della vostra Città. Ma anche quando fosser vere tutte queste cose che del vostro paese andate dicendo, sarebbe sempre da reputarsi un obbrobrio, così scarso com'è di valore o di cortesía; così partito in se stesso, che i suoi cittadini l'uno si rode coll'altro; che da sè soli a nulla valgono; e anche per guerreggiarsi fra loro, ricorrono all'ajuto di fuori. Le donne sole sono cortesi — e dicendo questo, mandava giù un gran nappo di vino, strizzando prima l'occhio, con maligno sorriso, al tedesco, che gli sedeva accanto, e che rispose:

— Oh, cortesi, cortesi le italiane! E le fiorentine... Ah, monna Lapa, tu sei più dolce del vino. — E qui trincò un bel gotto: poi seguitò. — Ma nè Italia, nè Toscana, non sono il paradiso, come alcuni vanno dicendo.

Al fiorentino qui scappò la pazienza, e tutto inviperito, rispose:

— Tu, lurco tedesco, chi ti ci ha fatto venire in Italia? la sete dell'oro, e il fastidio dei vostri deserti strani, che sono degne tane delle bestie tue pari. E tu, leggiadro provenzale, potevi stare ne' tuoi deliziosi giardini, se questi campi d'erbacce ti facevano afa: ma il fatto sta che di queste erbacce vi mostrate tutti più ghiotti del dovere, e quando piovete su queste contrade, siete peggio delle cavallette. Dell'esser noi Italiani tutti partiti, e del rodersi l'un l'altro, e ricorrere sempre agli ajuti di fuori, avete ragione; ma la colpa è dei signori, che sperano di trovare amore e fede in cuori venali, e non vedono che follía è quella di cercare e di gradir gente, che vende l'anima a prezzo. Ma l'antico valore non è morto ne' cuori delli Italiani; e potrebbe anche darsi che, o prima o poi, ci levassimo da dosso queste vituperose some.

Il tedesco, che era un tozzotto accerito, con du' occhi che gli schizzavan di testa, biondo di capelli e di barba, ed in sostanza una buona pasta di uomo, non rispose; e solo si mise a tentennare il capo come in atto di negare ciò che il fiorentino diceva; ma il francese, un giovanotto mingherlino, biondo anch'egli, con due grand'occhi azzurri, e leggiadro e azzimato, come se fosse in mezzo alle brigate sollazzevoli della città; ma insolente e di mal animo contro la Italia:

— Ah ah! disse ridendo beffardamente: l'antico valore! Voi italiani avete sempre in bocca l'antico valore; ma codeste le son novelle: è necessario il valore presente. Roma signoreggiò a tutto il mondo: guardatela ora, se non è una pietà e una derisione: abbandonata dal papa, che se ne è venuto a stare a casa nostra, per fastidio di queste contrade, ricorda sempre anche essa l'antica grandezza, e si è ridotta quasi un deserto, lacerata anch'essa dalle parti, il ludibrio delle nazioni.

— Il valore presente mi pare che a voi altri francesi, o provenzali che siate, mi pare che gli italiani ve lo abbian fatto sentire a buono anche ne' presenti tempi; e dovreste ricordare il muora muora di Palermo, e quella città che fe' di voialtri sanguinoso mucchio. A te che pizzichi un po' di poeta, e che i poeti nostri ti sento spesso rammentare, basterà il dirti così, senza farti una lunga storia di questi due fatti.

— I fatti di Palermo e di Forlì sono prove appunto del presente valore di voialtri italiani, che sta nell'assassinio e nel tradimento.

Il tedesco alzò il capo a queste parole, e volto al francese:

— Oh, compagnone, no no, non dire: questo è troppo. Ricordiamoci almeno che il signore contro cui combattiamo è italiano, e che ci fa sudar molto, e che molte volte ci ha veduto fuggire; e se sono vere le novelle venute testè giù dal piano, anche sotto Pistoja Castruccio ha volto in fuga la gente del duca.

Il fiorentino per altro, che aveva perduto affatto la pazienza, disse quasi furente:

— Che il tradimento e l'assassinio sia l'unico valore presente, tu ne menti per la gola, vil paltoniere: voi francesi per contrario, il vostro valore sta nell'insolenza e nel dispregio di ogni altra nazione; e se tu non istessi ritto a cotesta maniera per la scommessa, e se tu non mi paressi più una femminuccia che un soldato, ti farei veder io che cosa ci vorrebbe a ricacciarti in gola codeste villane e vituperose parole.

Qui il francese si alzò tutto acceso d'ira e mise mano alla spada: il fiorentino non fu men lesto, e lo assalì con tanta furia e maestría che in un batter d'occhio gli ebbe fatto schizzar la spada dal pugno. Il fiorentino tutto contento di ciò, andò a ricòrre la spada, e con atto amichevole e con umane parole:

— Te', bel compagno, gli disse: era mio debito il mostrarti che un fiorentino vale un provenzale; ora son contento, e spero che torneremo amici.

Ed in questo gli offerse un gotta di vino. Ma il provenzale, vinto dalla stizza e dalla vergogna, rifiutò con atto dispettoso, e si mosse per andarsene; se non che il tedesco, fermatolo:

— No, compagno, non fare: il fiorentino ha operato come leale e prode cavaliere, nè tu hai operato villanamente; le leggi della cortesía ti comandano di tornare amico con lui. Beviamo tutti insieme alla salute di ogni prode e di ogni leal cavaliere, o sia tedesco, o francese, o italiano.

Non avevano i tre bevitori votato ancora il lor gotto, che tutta la montagna risonò di un lungo squillare di trombe; ed essi tutti e tre ad un tratto si alzarono, e messosi la celata in capo, disse il tedesco:

— Su! alle castella, alle castella! messer lo Conte vuol fornire finalmente quello perchè siamo venuti quassù in questo indiavolato paese.

E pagato l'oste, andarono via tutti animosi e anelanti di combattere.

Ma il fatto era ben diverso: anzi era al tutto contrario da quel che pensava il tedesco. Il Conte di Squillace aveva già conosciuto, come qua dietro accennai, che l'impresa del fornire i castelli era folle; e di fatto Castruccio aveva proceduto con tanta astuzia e con tanta maestria di guerra, che fu vicino a rinchiudere la gente del duca, per modo che non ne sarebbe campato neppure uno, se il Conte non si fosse accorto a tempo della mala parata, e non avesse presa la subita risoluzione di abbandonare quell'impresa, studiandosi solamente di tornare sano e salvo egli ed i suoi: e quel sonare a raccolta era appunto a tale effetto. La ritirata fu disagiosissima, e condotta con gran senno, e con grande accortezza. Tutti i passi della montagna eran guardati da Castruccio: lo scendere verso Pistoja era di troppo periglio, dopo che i nostri ne erano stati rincacciati; bisognò pertanto ritornarsene per il contado di Bologna, cavalcando aspre montagne e piene di neve: il perchè, oltre il disagio e il gran travaglio delle persone, convenne loro di lasciare su per que' greppi molti cavalli e molti somieri.

Partita la gente del duca, le due castella ribellate si videro al perso, e quelli che vi erano dentro, di notte si fuggirono, e molti furono morti e presi, e Castruccio le riebbe senza colpo ferire. Dopo di ciò, come sollecito e valoroso che egli era, senza tornare in Pistoja, o andarne a Lucca, traversò con la sua oste le montagne di Garfagnana e di Lunigiana, per tòrre il passo e le vettovaglie a Spinetta Malaspina, che lo infestava da quella parte; ma Spinetta, come prima sentì la venuta di lui, e udì che aveva riprese le due castella, si ritrasse con tutta sua gente, e lasciò l'impresa, e ripassò l'Apennino riparandosi a Parma; chè, se più avesse dimorato, vi sarebbe stato preso egli e tutta la sua gente.

La gente del duca, che avea cavalcato a Pistoja, e che vedemmo essersi accampata al Montale, quando vi furono stati tre giorni, si levò un tempo così strano e rovinoso di venti e d'acqua, e di neve ai monti, che per necessità, non potendo tenere le tende tese, si levarono dal campo riparandosi a Prato; e lo fecero senza niuno ordine di guerra, per modo che, se fosse stato in Pistoja Castruccio, sarebbero forse capitati tutti male. E da Prato, sapute le infelici sorti di quei della montagna, e di messere Spinetta, tornarono anche essi a Firenze, lasciandovi Guglielmo, la cui ferita era tuttora aperta, con altri feriti. E così la prima impresa del duca, per poco savio consiglio, tornò invano, e con vergogna. Castruccio si giovò della facil vittoria, facendo disfare in Lunigiana le più belle fortezze che v'erano, perchè non gli si ribellassero; tornò in Lucca con gran trionfo, e fece poi ardere il castello di Montefalcone sulla Guisciana, e quello del Montale sopraddetto, per aver meno da guardare, e perchè la gente del duca non gli potessero riprendere.

CAPITOLO XVIII. LO SGOMENTO.

Come prima giunse a Firenze qualche sentore di questa rotta, la città tutta quanta se ne attristò; e il duca più di tutti. Da principio se ne parlava vagamente e sotto voce, e si vedevano qua e là capannelli ragionarne, e domandarne l'uno all'altro; e gente accalcarsi intorno ad essi, e massimamente sulla piazza de' Signori.

— Che novelle? Che vuol dir questa gente?

— Non so, ma qualche cosa di grave debb'essere.

— La nostra gente è stata sconfitta a Pistoja.

— No, Castruccio è stato vinto: le castella sono state fornite.

— È morto messer Amerigo Donati, e messer Giachinozzo Cavalcanti.

— E messer Guglielmo d'Artese è morto altresì.

— No, ho sentito dir ora che è solamente ferito.

Queste ed altre diverse dicerie si udivano da varie bocche; quando eccoti altra gente gridando: alla riscossa, alla riscossa! armiamoci tutti. E tutti appressarsi domandando:

— Che novelle del campo?

— Tutti morti e presi.

E molte donne dolersi, e pianger perduto chi il marito, chi il fratello, chi il figliuolo. E di nuovo gridarsi da altra frotta di popolo:

— Fiorentini, su! tutti in armi: al riparo, al riparo. Castruccio viene fulminando sopra Firenze.

In questo si udì per il corso degli Adimari un sono di trombetta, che interruppe i discorsi di tutti; e tutti si fecero da quella parte.

Poco di poi si vide sboccare in piazza un comandatore del duca, a cavallo, con trombetta innanzi, il quale, fermatosi in mezzo alla piazza, lesse ad alta voce una carta di questo tenore:

«Monsignore lo duca Carlo, signore di questa nobile terra, manda significando che la sua gente ita contro Castruccio, sarà tosto in Firenze: non è stata vinta da Castruccio, ma dalla diversità del freddo e della tempesta. A Pistoja messer Guglielmo d'Artese aveva messo già in fuga i nemici; ma fummo traditi, e dovemmo ritirarci. De' nostri, pochi morirono, non molti furono feriti o presi; de' caporali fiorentini niuno morì. Messer Guglielmo fu ferito. La vittoria di Castruccio non fu allegra; nè pensa ad assaltarci. Che questo nobile popolo ponga giù ogni timore: di armarsi per ire al riparo non fa bisogno: monsignore lo duca studia egli il riparo, e si argomenta alla vendetta».

E senz'altro, dato il cenno alla tromba, continuò suo cammino per Vacchereccia e Mercato nuovo, lasciando il popolo più quieto e più temperato. Intanto la gente ita contro Castruccio incominciava a tornare, e il popolo si avviava tutto verso la porta. Tornavano a drappelli, senza ordine veruno, e senza caporali: molti della gente a cavallo venivano a piedi, laceri e rifiniti: i cavalli mezzi disfatti; era una pietà a vedere come fosse ridotta tutta quella gente, così fiorita e baldanzosa quando si mosse. E quando qualcuno del popolo riconosceva o amici o parenti, era un abbracciarsi, un ammazzar di domande, e un rispondere cose di gran maraviglia e paura.

Alla corte del duca non vi era meno confusione e meno smarrimento; i più segnalati caporali erano tornati, e riferivano cosa per cosa gli avvenimenti principali della campagna, dando tutti solenni testimonianze della grande saviezza e prodezza e maestría di Castruccio, contro il quale bisognava argomentarsi di fornire grande esercito, e nuovi ordini di guerra. Però il duca volle che senza indugio si mettesse il pensiero a ciò; e ordinò che nella primavera futura si dovesse ripigliare la guerra. Avea creduta troppo sicura la vittoria, da non doversi accorare, come faceva, della sconfitta; e molto gli coceva ancora, e alla duchessa più che a lui, il caso di messer Guglielmo, e che la ferita sua fosse tanto grave da non poterlo condurre a Firenze: insomma erano ambedue i principi di malissimo umore. E ricordandosi la duchessa della favorevole predizione di Cecco, il quale era lì presente con gli altri signori, gli disse con aria di scherno:

— Maestro Cecco, voi prediceste che la vittoria sarebbe per noi. Ecco la verità della vostra scienza! — E così dicendo accennò i caporali tornati con l'annunzio della rotta.

— Madama, rispose Cecco, la scienza non è fallace. Firenze è fondata sotto il segno dell'Ariete, e Lucca sotto quello del Granchio; la guerra fu mossa quando l'Ariete avea ascendente sul Granchio; e però dissi che i fiorentini dovevano vincere Castruccio lucchese. Il mal successo di questa prima fazione è proceduto da ciò, che il condottiero della nostra gente aveva contraria influenza celeste; e non poteva in verun modo tornar vittorioso. Ma la guerra, madama, non è finita; e non può dirsi ancora che la predizione mia sia venuta meno: anzi qui la rinnuovo; e come monsignor lo duca si apparecchia da capo alla guerra, così non dubito punto che la vedremo ben tosto adempiuta.

Tale era veramente la dottrina che professava Cecco rispetto alle influenze celesti; ma, anche prese le sue parole come un sotterfugio, questo si può dire che fosse assai abilmente trovato, e fece buon effetto sull'animo di molti, e su quello del duca specialmente, che della sapienza di Cecco aveva concetto altissimo. Anzi, perchè gli rincresceva senza modo la ferita di messer Guglielmo, e che fosse dovuto rimanere lontano da Firenze, volto a Cecco, gli disse:

— Maestro, ci grava troppo il fatto di messer Guglielmo d'Artese, e che noi non possiamo visitarlo e assisterlo vicino. Vi piaccia di cavalcare fino a Prato; di recargli salute in nome nostro, e avergli tutte quelle cure che a sì prode e gentil cavaliere si convengono.

— Monsignore, l'ubbidire alla vostra signoría mi è sempre di grandissimo contento; ma questa fiata mi è di maggiore, tanto io pregio e riverisco ed amo il cavaliere a cui mi mandate.

La duchessa per altro non vedeva bene in cuor suo questa andata di Cecco presso Guglielmo, perchè ne aveva certezza che gli avrebbe parlato molto, e datogli notizia della Bice; ma non osava contradire al duca, e dissimulò il suo sdegno, contentandosi di dire a Cecco:

— Maestro, monsignor lo duca ama gelosamente messer Guglielmo: abbiatene tutta la cura, come è degno; voi non aspettate certo da me verun precetto dell'arte vostra; ma non posso non ricordarvi qui, che il recare alla mente di esso certe cose fiorentine, le quali commovessero troppo il suo gentile animo, potrebbe essere cagione che il mal si aggravasse.

Cecco intese il veleno di questo argomento, e tutto umile in volto rispose:

— Che monsignor lo duca ami gelosamente Guglielmo mi è noto, e so ch'egli il vale; e so che la sua sanità è cosa preziosa, non pure a monsignore, ma a molti cuori gentili che battono per la costui beltà e leggiadría. Siate certa, madama, che quanto so della mia arte, tutto lo spenderò per Guglielmo; con tutto che qui non faccia mestieri grande studio, certo com'io sono che alle sue ferite porterà sanità istantanea un balsamo che io tengo segreto.

La duchessa dettegli di furto una feroce occhiata; e con maggior calma che potè gli diè commiato dicendo: Andate, e siate savio.

CAPITOLO XIX. LA CENA DI SETTIMELLO.

Maestro Cecco, senza metter tempo in mezzo, si dispose a cavalcare verso Prato, lieto in cuor suo che il duca gli avesse così dato modo di riveder Guglielmo, il quale s'immaginava dovere stare in grande angoscia per la sua Bice; e come sapeva fino ad un puntino in che modo erano ite le cose, e già aveva pensato un suo disegno, così, per aver modo più agevole di colorirlo acconciamente, volò da frate Marco:

— Frate Marco, ho mestieri del vostro ajuto.

— Cosa ch'io possa...

— Sareste acconcio di cavalcar meco sino a Prato? Io sono poco pratico delle vie.... e poi potreste giovarmi molto in cosa di gran momento.

— Salva la volontà del mio prelato, eccomi qui tutto per voi.

E chiesta ed ottenuta la licenza dal priore, montarono tosto a cavallo ambedue, e mossero da Firenze verso mezzo giorno, facendo assegnamento di essere a Prato non prima di nona, perchè sapevano che le vie erano male agiate, e per la tempesta dei giorni passati, e per i guasti che aveva fatto la gente del duca, col fine di trattenere più che fosse possibile Castruccio, se mai avesse avuto intenzione di venire contro Firenze, come molti temevano. Ma quando furono a un terzo di cammino, si levò da capo un vento così furioso, e un nevischio così fitto e sodo, che i due cavalcatori doveano far gran forza per andare innanzi, ed appena potean tenere gli occhi aperti, tanta era la furia di quel nevischio che dava loro nel viso; ed i cavalli medesimi s'impennavano e ritrosivano; e spesso dovevano fermarsi per cansare un poco il furore di quel tempo indiavolato. Laonde, arrivati con grande stento a poche balestrate di là da Sesto, si erano veduti quasi al perso; e se non che frate Marco si ricordò che il priore di Settimello era suo conoscente, non avrebber saputo proprio come fare, e sarebbero dovuti riparare in uno di que' miseri casolari di lavoratori, con poca sicurezza per avventura dell'avere e della persona, essendo allora quelle campagne infestate da' malandrini.

La ricordanza del priore di Settimello richiamò le smarrite forze ne' due viandanti; e vincendo stenti e disagj, arrivarono alla chiesa dopo vespro. Settimello era, come è anche adesso, un piccolo borgo di poche case con una prioría, posto lungo la via di Barberino di Mugello, alla base occidentale del poggio ora detto le Cappelle, e che forma uno degli sproni meridionali di Monte Murello, presso dove termina, o meglio incomincia, la fertile pianura di Sesto. Questa piccola terra non è ricordata nella storia per niun fatto notevole: solo gli ha dato fama l'essere stata patria del più valente poeta latino del risorgimento delle lettere, dico quell'Arrigo o Arrighetto da Settimello, lodato scrittore della fine del secolo XII, noto specialmente per un poemetto elegiaco, intitolato: De diversitate fortunae, et philosophiae consolatione, operetta stata un tempo in gran pregio, che serviva nelle scuole per esempio di buona latinità, e della quale ce ne ha una pregevolissima traduzione italiana del secolo XIV.

Era priore di Settimello nel tempo che qui discorriamo ser Giovanni da Vicchio; un ometto di quarant'anni, o poco più, piccolo assai della persona, ma atticciato e rubizzo: acceríto naturalmente, che gli si sarebbe potuto accendere uno zolfanello sul viso: sciatto assai nel vestire: pronto e vivacissimo parlatore, benchè di piccola dottrina; amante del viver lieto; vago del vino e dei buoni bocconi; ma poi buona pasta d'uomo e buon prete. Aveva costui una fante, che si chiamava la Simona, vecchia oramai, cerpellina, secca spenta, e un poco zoppa da un piede: scrupolosa e divota per modo che non sarebbe mai uscita di chiesa: svenevole negli atti e nella voce; seccatora ed uggiosa quanto ne può entrare in una donna; ed oltre a questo, essendo oggimai vent'anni che stava col prete, aveva preso in casa tal padronanza, che quel pover uomo alle volte ne avrebbe rinnegata la pazienza, e levatasela d'attorno. Ma, come la Simona avea le man benedette, e gli sapea fare certe pietanzine ghiotte e appetitose da far risuscitare anche un morto, così piuttosto si rassegnava a ingollare qualche amaro boccone, e molte volte chiudeva gli occhi, e figurava di non sentire, per non trovarsi a perdere così valente cuoca.

E quella sera appunto la Simona era in gran faccenda per una cenetta più allegra del solito; frutto di certo grasso mortorio, che il sere ci aveva avuto il giorno innanzi: e già incominciava a preparare tutto il bisognevole per la cucina, quando i due viandanti entravano in paese.

Settimello a quell'ora e a quel freddo pareva un deserto; e maestro Cecco con frate Marco non si abbatterono in anima viva. Arrivati alla canonica e picchiato all'uscio, nè alla prima nè alla seconda niuno rispose, e già i due assiderati temevano di dover avere la mala notte; ma picchia e ripicchia, si udì un vocione di terreno gridare:

— Chi è costà?

Il frate riconobbe la voce del sere, e non fu tardo a rispondere:

— Son io, sere Gianni, son frate Marco di S. Maria Novella; aprite, per l'amor di Dio, chè si spirita dal freddo.

Il prete, riconosciuta la voce del frate, aprì senza indugio, e fatta a lui e al suo compagno lieta accoglienza, li fece passare di là, ed acceso prima di tutto un bel fuoco, e dato loro un bicchier di vernaccia, gli riconfortò tutti.

— Che gran cagione, frate Marco, vi muove a uscir da Firenze con questa furia di tempo? E, se vi piace, chi è cotesti che vi accompagna, e che all'abito sembra persona di gran qualità e di scienza? domandò sere Gianni.

— Questi, rispose il frate, è veramente uomo di gran qualità e solenne maestro; egli è maestro Cecco d'Ascoli, poeta, filosofo, astrologo, medico, e tutto quel che volete. Egli si è mosso veramente per grave cagione da Firenze; chè deve ire a Prato, a medicare per comando di monsignore lo duca Carlo, un gran signore provenzale, rimasto ferito nella battaglia sotto Pistoja; ed io son venuto solamente per compagnía di esso, chè da lui imparo astrología.

Il prete era, come ho detto, uomo di non molta dottrina, anzi era piuttosto idiota che no, e forse, o non aveva mai sentito mentovare Cecco, o ben poco ne sapea; ma, udendolo tanto celebrare da frate Marco, incominciò a giocar d'inchini e di riverenze; e fattogli un monte di profferte, condusse ambedue in una camera, che si riposassero un poco, ed allogati i cavalli alla meglio, chiamò la Simona, ordinandole che facesse la cena più abbondante, ed ammazzasse di più quattro piccioni da fare arrosto, chè voleva farsi onore coi nuovi arrivati: egli poi penserebbe a trovar giù in cantina un par di fiaschi di quello proprio pisciato dagli angeli.

— Messere, disse la Simona, abbiate un poco di discrezione; io or ora son vecchia, e ho un par di braccia sole: è già passato vespro da un pezzo: come si fa così su due piedi a far quasi una cena di sana pianta?

— Va, va, monna Simona: sii buona, via, per istasera; non mi fare scomparire: eppure a frate Marco gli vuoi bene anche tu!... e quell'altro, sai, è un gran teologo, un mezzo santo.

La Simona, scotendo il capo, andò al lavoro; e il prete ritornò dai forestieri, e mostrò a Cecco la chiesa e tutta la canonica, infino alla cantina e al pollajo e alla piccionaja. Egli era quella sera più lieto del solito, e lo mostrava nel parlare e negli atti; per modo che a Cecco gli piacque assai, e studiatolo per tutti i versi, conobbe poter essere uomo acconcio al proposito suo.

Intanto fra una cosa e l'altra, e tra il motteggiar del frate, e tra le spesse visite, che or l'un or l'altro dei tre facevano in cucina a monna Simona, la quale ne mostrava assai fastidio, venne l'ora della cena; e si misero tutti a tavola. La Simona era ritrosa e brontolona, come ho detto; ma al padrone era affezionata, e aveva caro che si facesse onor cogli amici, ed era ambiziosa di far vedere la sua perizia nel far da cucina; e però la cena riuscì veramente gustosa, e lo stesso prete ne la lodò assai, unendo le sue alle lodi dei forestieri. Non mancarono i lieti ragionari, e i motti, così del prete come di maestro Cecco, il quale era alle volte di umore piacevolissimo.

— Sere, disse Cecco tra l'altre, pare che la vostra chiesa vi renda assai bene, se potete apparecchiare così gustosi mangiari, ed avete nella cella di questi vini così squisiti.

— Maestro mio, rispose il prete, e che altra satisfazione abbiamo noi che in queste tre dita? — e misurossi con tre dita della mano la gola. — Qua le leggi sopra i conviti non ci arrivano; e un bocconcíno buono, e un buon gotta di vino, ci tengon luogo di tutti gli spassi e di tutti i sollazzi che si hanno per le città. E come qua non arrivano neppure le leggi sopra i mortorj, e ieri vi fu un assai ricco mortorio d'un gran cittadino di Firenze, che ha una gran possessione qui presso, così oggi ho voluto fare un po' di rialto, e son proprio lieto che siate capitati voi altri; chè, la roba mangiata in buona compagnía ha miglior sapore il doppio; e approda più, e fa miglior sangue. Ho detto in buona compagnía, perchè quella che mangiai anno in compagnía di altri, mi mise veleno, e mi par di averla sempre qui alla gola.

E domandandogli maestro Cecco ed il frate che cosa volesse dire con quelle parole, il prete continuò:

— Dovete pur ricordarvi che nel passato anno Castruccio disertò quasi tutto il contado pistojese, e tutto il contado fiorentino, correndo fino sotto le mura di Firenze; e dovete ricordarvi che tra le castella corse e distrutte da lui vi fu Calenzano a poche balestrate di qui; ed io reputo a miracolo del mio Santo, se io e la Simona siam vivi tuttora. Ma la vita la comprai cara: mi si piantarono qui in casa tre caporali della gente di Castruccio; e quei maledetti da Dio facevano del mio come del loro; e per maggiore scherno volevano che io mangiassi con loro, perchè avessi anche il martoro di vederli gavazzare con quella grazia di Dio che avevo in casa.

E diceva queste parole con gli occhi così stralunati, e con atto di tanta stizza, che un poco era una compassione, ed un poco una festa a vederlo.

— Comprendo anch'io, rispose Cecco, deve essere stato un grande strazio per voi. Ma oramai acqua passata non macina più; e stasera non si deve parlare se non di cose liete. Oh! a proposito — soggiunse, quasi gli tornasse in mente cosa lasciata indietro, ma per entrare a trattare del proposito — questa non è la strada che mena in Mugello?

— È, rispose il prete.

— Ditemi, se Dio vi dia bene, il monastero di S. Piero è molto lungi di qui?

— Oh! è assai di lungi: tre ore di cammino bastano a fatica per giungervi. Pensate se io lo so! Sono familiare di madonna la badessa, che è una dei Cavalcanti, la quale fa sempre capo a me per ogni suo bisogno.

Se maestro Cecco fu lieto di apprender ciò, non è qui bisogno di dirlo; ma, dissimulando la sua letizia:

— Sentite, frate Marco? Ed appunto voi dovete conferire con quella badessa per cosa che importa. Il sere qui potrà efficacemente ajutarvi.

E così dicendo, ammiccò al frate che lo secondasse. Ma il frate, non indovinando se non così in nube a che cosa si riferissero le parole di lui, si teneva sulle generali:

— Eh sì, il sere può efficacemente ajutarmi, ed io ne lo pregherò.

— Eccomi qua tutto per voi, disse il prete, e per maestro Cecco, il quale tanto mi piace, che mi pare di essere suo amico da cento anni in qua.

E il maestro, per sempre più farselo suo:

— Proprio vero che i sangui s'incontrano; ed anch'io, vedete, sere Gianni, mi pare di essere vecchio amico vostro, tanto schietta e tanto piacevole, e tanto benigna persona voi siete. Ma, tornando al monastero, è molto tempo che non siete stato colà?

— La cosa è fresca fresca: ne venni due sere sono.

Frate Marco, che cominciava a indovinare il pensiero di Cecco, per agevolargli la via alle sue richieste, domandò egli al prete:

— Oh Dio! quanto mi piace che siate conoscente della badessa! Voi sapete com'io sono famigliare de' Cavalcanti di Firenze, e forse potete aver saputo come messer Geri de' Cavalcanti abbia in quel monastero rinchiusa una sua figliuola.

— Potete aver saputo? Ho veduto, voi avete a dire. Povera fanciulla! Vi accerto che fa pianger le pietre. Ma perchè fu rinchiusa così?

— Vi dirò, questa fanciulla ama un cavaliere provenzale....

— Il più nobile, più gentile e più cattolico cavaliere di tutta Provenza — interruppe Cecco.

E il frate, continuando al primo detto:

— Un cavaliere provenzale, che, siccome ben dice il maestro, è il fiore de' gentili cavalieri; e questi arde di pari amore per lei, e vorrebbe torsela per donna. Ma il padre non vuol sentirne parlare nemmeno, e piuttosto che vederla a lui maritata, l'ha, si può dire, seppellita viva così.

— Debb'essere un padre ben crudo quel messer Geri, esclamò il prete.

— E però vedete, bell'amico, sarebbe opera da vero cristiano l'ajutare il buon esito di questo amore: e voi lo potreste; chè siete familiare della badessa, la quale è de' Cavalcanti, come avete detto dianzi, e debb'essere parente di messer Geri.

— I Cavalcanti, dei quali è la badessa, sono per avventura consorti della case onde esce messer Geri, ma assai alla lontana — entrò qui a dire frate Marco.

— Ma, ripigliò Cecco, voi che foste ier l'altro a quel monastero, come si porge umana la badessa inverso la sventurata fanciulla?

— Una madre, disse il prete, può arrivare fin lì; e quando essa è lontana ne parla con tanto affetto e con tal pietà, che si stenta a comprendere qual di loro due sia più addolorata.

Cecco aveva compreso quanto bastava; e però senza moltiplicar domande, provò a venir a mezza spada così:

— Sere Gianni, fate quest'opera pietosa; venite con esso noi di qui a qualche dì fino al monastero, e vediamo se fra tutti si riconduce alla vita quella povera fanciulla.

E il prete, che, siccome ho detto, era meglio del pane, non solo disse che sarebbe stato sempre disposto al piacere di Cecco, ma se ne mostrò invogliato quanto lui.

Dopo ciò ricominciossi a parlare di cose piacevoli ed a motteggiare, quando tutta rossa nel viso, unta e bisunta, entrò la Simona co' quattro piccioni arrosto, così ben crogiolati, e con un odore così ghiotto che dicevano mangiami, mangiami. Posato il tagliere sulla tavola, ed invitato maestro Cecco a spezzargli, come prima fu per infilar la forchetta in uno di essi, si vide rimpennato e levare il volo per la stanza; a che il maestro disse ridendo:

— Monna Simona, se Dio vi dia bene, come volevate voi che mangiassimo il piccione vivo?

La povera Simona, non che avesse balía di rispondere, ma rimase stralunata ed a bocca aperta, nè sapeva che si pensare; e il prete non fu meno stupefatto di lei. Anche frate Marco, benchè sapesse quanto maestro Cecco fosse valente in opera di prodigj, pure, non aspettandosi allora quello, ne rimase un po' stupito; mentre maestro Cecco, come se non toccasse a lui, tirava a spezzare gli altri piccioni; e finito che ebbe, porse il tagliere al prete che si facesse la parte sua. Ma il prete, il qual fino allora aveva accettato ogni cosa portagli da lui, questa volta non aveva cuore di accettare, e ci andava come la serpe all'incanto. Pure alla fine si vinse; e a tutti, fuorchè alla Simona, che sempre era rimasta lì insensata, riuscì il prendere la cosa in giuoco. Riavutasi un po' la Simona, fu anche ella cercata di persuadere che del piccione non era stato se non un giuoco: e la cosa sarebbe rimasta lì, se maestro Cecco non avesse voluto burlarsi un altro poco del prete e della serva. Venute le frutte, e presentatone un tagliere a maestro Cecco, come prima egli ci ebbe messo le mani, spariron tutte: preso il fiasco del vino per mescere, nel bicchiere suo il fiasco versò il solito vino, e in quello del prete acqua limpidissima: la lucerna cominciò a dare una luce rossa come di sangue; per modo che il prete e la Simona spaventati fuggirono, l'una chiudendosi in camera, l'altro correndo in chiesa per armarsi de' suoi paramenti, ed esorcizzare maestro Cecco. Frate Marco andò dietro al prete, e con quelle parole più efficaci che poteva lo accertò non essere i prodigj operati dal maestro opera diabolica, ma frutto di lungo studio e della sua grande scienza; ed alle parole del frate si aggiunsero quelle di Cecco stesso, che anch'egli era venuto dal prete, facendogli vedere come il piccione volato era uno di quelli di piccionaja, da lui preso nel girar la canonica, e nascostoselo dentro una manica; e come fece le altre cose glielo mostrò, e glielo spiegò minutamente.

Il sere rimase chiarito quasi del tutto; ma, siccome era di già parato, ed ogni dubbio non gli era uscito ancora affatto dal cuore, così volle fargli l'esorcismo in tutte le regole, per vivere del tutto sicuro, alla qual cosa Cecco si prestò di buon animo: e dette le orazioni preliminari, e fatte le aspersioni dell'acqua santa secondo il rito della chiesa, venne a chiedere il nome dello spirito maligno con questa orazione:

«Spirito immondo, che occupi questo corpo, qualunque tu sia, per i meriti della gloriosa passione, resurrezione e ascensione del nostro signore Gesù Cristo; per la missione dello Spirito Santo e per l'avvento di lui, ti comando, qualunque tu sia, che mi manifesti e mi dica il tuo nome, il giorno e l'ora della tua uscita dal corpo col segno dello spegnere il lume. Da capo ti comando per i meriti della gloriosa Vergine Maria madre di Dio, di san Zenone, di sant'Ambrogio e di san Gimignano, di tutti i santi e sante di Dio, che tu mi manifesti e mi dica il tuo nome, e il giorno e l'ora della tua uscita, col segno dello spegnere il lume.»

E ripetè questa intimazione con poca varietà anche la terza volta. Lo spirito naturalmente non rispose nulla, e il prete badava a dire con più fervore tutte le lunghe orazioni del rituale, aspettando se nulla uscisse di corpo al maestro. Il quale mal si potea tenere di non ridere, e ne avrebbe fatta qualcuna delle sue da fare spiritare quel buon sere; ma se ne ritenne per timore di sdegnarlo, e di non poter poi giovarsene più per la faccenda del monastero di s. Piero. All'ultimo, vedendo che il diavolo non rispondeva, e vinto dalle parole di frate Marco e del maestro stesso, fu persuaso che questi non era il diavolo, nè aveva diavoli addosso; e accompagnati i due ospiti nella camera loro assegnata, andò a letto anche lui.

Se il prete per altro era persuaso che Cecco fosse un uomo come gli altri, non era persuasa per niente la Simona, la quale, serratasi in camera, si mise in ardente orazione, tirando giù tutti i santi del paradiso: rifrustò per il soppidiano tutte le reliquie, che ne aveva un subisso, e l'appiccicò tutte all'uscio della sua camera, perchè il diavolo si spaventasse di accostarsi; e prima di entrare nel letto, altre di esse ne mise sotto il capezzale; e si rannicchiò tutta sotto le lenzuola, biasciando avemmaríe, e ripensando ai prodigj di Cecco, e con la paura addosso di sentir qualcosa per casa. Insomma stette tutta quanta la notte con l'animo sollevato, e non potè chiuder occhio.

CAPITOLO XX. DA SETTIMELLO A PRATO.

La mattina per tempo maestro Cecco e frate Marco erano già in piedi; la stagione si era rimessa al buono, ed era una delle bellissime giornate di ottobre, che in questo piano e colline di Firenze sono deliziose. Il prete era stato anche più sollecito di loro, e già aveva detto messa, e stava ordinando con la Simona un poco d'asciolvere; la quale vi si prestava di mala voglia, certa come parevale d'essere, che ella preparava il pasto per il diavolo, e dichiarando assolutamente che in tavola non avrebbe portato, e che non voleva più vedere in viso maestro Cecco: non senza aggiungere parole di corruccio e di maraviglia contro frate Marco, come egli non avesse paura di andare in compagnía di quel negromante. Nè valsero a smuoverla le assicurazioni del prete, che qui la magía non aveva nulla che fare; che quel piccione era della sua piccionaja così e così; che le altre cose operate da Cecco erano secondo scienza naturale: non ci fu verso che la ne volesse sentir parlare; e se vollero far l'asciolvere, bisognò che il prete mettesse in tavola e servisse da sè. Mangiato che ebbero, fecero a un lavoratore del prete sellare i cavalli, e rinnovate le preghiere per il fatto della badessa di San Piero, e rimasti d'accordo che egli sarebbe ito con loro, e fatto per loro ogni opera, quando paresse loro opportuno, i due lo ringraziarono della sua cortese ospitalità e montarono a cavallo, deviando un poco dalla strada mugellana per rientrare nella strada maestra, che mena a Prato.

Non erano iti molto innanzi, che si scoperse a' loro occhi il castello di Calenzano, le cui mura alte e merlate, e il cui maestoso aspetto diedero assai maraviglia a Cecco, il quale chiese al frate:

— Frate Marco, che è quel castello lassù? accennando col dito.

— È il castello vecchio di Calenzano: lo fabbricarono i fiorentini anni ed anni sono; ed era riputato uno dei belli e fortissimi arnesi di tutto il contado. Tuttavía non potè resistere alla furia indiavolata de' Ghibellini, che ci vinsero a Monteaperti, i quali lo presero e lo disfecero; e non potè resistere anno, benchè riedificato ed afforzato mirabilmente, alla furia di Castruccio, che lo vinse, e lo arse, come vedete che le mura sono mezze diroccate, e si vede fin di quaggiù che le sono arsicce.

— Ma questo Castruccio è proprio un diavolo dell'inferno; ed è vero martello di voi altri poveri fiorentini.

— Castruccio è valoroso signore, e savio di guerra più che capitano d'Italia o di Francia; e noi fiorentini non abbiamo chi potergli mettere a fronte.

— Monsignor lo duca ha seco valenti capitani, e non può fallire che egli fiacchi le corna a questo altero lucchese.

E così di ragionamento in ragionamento arrivarono a Prato là in sulla nona. Prato era fin d'allora una terra assai grossa, non di gran conto, ma già ricordata come castello di dominio de' conti Alberti fino dal principio del secolo XI; la quale andò sempre prosperando per modo che verso la fine del secolo XII troviamo accresciuto il paese di borghi, e quel comune aver fatto provvisione di circondarlo di più larga cerchia, e di fortificare con torri le nuove porte. Per molto tempo i pratesi furono governati da un vicario imperiale; e l'imperadore Federigo II vi fece edificare la fortezza, parte della quale è in essere tuttora, che fu chiamata il Castello dell'imperatore.

In sul principio del secolo XIV per altro Prato abbandonò la parte imperiale, e consegnò a un capitano guelfo il castello, che lo prese a nome de' fiorentini: e in questo anno 1326 gli otto difensori della terra di Prato dettero liberamente il governo di essa al duca di Calabria, che, siccome vedemmo, vi avea mandato la sua gente.

Guglielmo era albergato nelle case dei Guazzalotri, trattatovi con ogni riguardo dicevole alla gentilezza di lui; nè fu difficile a Cecco e al frate di farsi guidare colà. Appena il cavaliere scorse sull'uscio di camera maestro Cecco, stese le braccia verso di lui come se avesse veduto un angelo del paradiso; e Cecco lo corse subito ad abbracciare, domandandogli come egli stesse della sua ferita; ed il medesimo fece frate Marco, che già erasi avvicinato al letto. Egli per altro non rispose nulla a questa domanda; ma con atto e con voce di efficacissima esortazione:

— Maestro, se ogni vostro desío si compia, che è della Bice?

— Della Bice vostra ne sarebbe male, se la fortuna non ci apparecchiasse già un rimedio che io credo efficace. Testè ne parleremo; ma prima fate ch'io veda la vostra ferita; chè il duca e la duchessa ne aspettano da me subito ed esatto ragguaglio.

— Deh! no: la ferita mia della gamba è per poco guarita; pronta ed efficace medicina la chiede la ferita del cuore, che avete fatta più acerba con le vostre parole. Siate pietoso di me: come ne sarebbe male della mia Bice?

Cecco, vedendo che non sarebbe stato possibile il parlar con esso di altra cosa prima di avergli detto il tutto della sua donna, rifattosi da capo, narrò al cavaliere come si fosse messer Geri mostrato crudo verso di lei, e come l'avesse fatta rinchiudere nel monastero di Mugello; come poi, essendosi dovuti fermare dal prete di Settimello, non solo ne avessero raccolto che la badessa era tenerissima della fanciulla, ma avevano avuto promessa da lui, il quale della badessa era famigliare, che avrebbe fatto di tutto per renderla benigna al fatto loro:

— Sicchè — continuò Cecco — state a buona speranza; io ho pensato cosa che vi farà lieto per avventura, e la letizia vostra sarà letizia mia, tanto ora mi sento infervorato in questa impresa, alla quale nel cominciare andai tanto freddo. E l'esser meco qui frate Marco, dovete pensare che non sia senza un perchè.

— Oh, maestro mio dolce, voi mi rendete la vita; e voi, bel frate, non so come rendervi grazia per grazia. Ma deh! fate che io sappia il vostro disegno.

— Messere, disse il frate, qual sia il pensiero del maestro non so: solo mi chiese che io venissi qua seco per cosa che importava, ed io venni a far tutto quello che egli m'imponesse; ed ora il faccio anche più lietamente, quando veggo esser cosa che piace a voi.

E maestro Cecco seguitò:

— Sire Guglielmo, che fa a voi il sapere questo disegno? Esso per ora ha a rimanere nella mia mente; e ciò, credetelo, sarà buono a voi ed alla Bice. Voi attendete a guarire; chè, per colorire tal disegno, è mestieri che siate sano, ed aitante della persona.

— Sano ed aitante della persona? Maestro, monto a cavallo anche adesso....

— Adesso non è tempo di montare a cavallo; ma per voi di attendere a curarvi, affine di maturar bene il mio disegno. Intanto fate che vegga la vostra ferita, acciocchè io possa esser certo dello stato vostro, e riferirne tosto a Firenze.

E Guglielmo, senza più contradire, si fece visitare tutto attentamente. La ferita, che da principio pareva gravissima, perchè si credeva fosse reciso un grosso tronco arterioso, non era infine di assoluta gravità. La saetta del verrettone avea accarnato assai a fondo, e avea fatto grande lacerazione nella coscia; ma arterie grosse non erano state recise; per forma che la cosa procedeva regolarmente, e la margine si era quasi tutta formata, il che dava certezza di perfetta guarigione di lì a pocchi giorni; ad affrettar la quale maestro Cecco applicò sopra la ferita un cotal suo cerotto di meravigliosa virtù, non solo a rimarginare, ma a dar forza e vigore alle membra. Fatto questo, si mise a scrivere la lettera al duca per ragguagliarlo di tutto, e per assicurar lui e la duchessa rispetto a messer Guglielmo, il quale, tra per l'assidua cura che Cecco e frate Marco gli avevano, e per la speranza che Cecco stesso aveagli messo nel cuore, andava si può dire, ogni ora di bene in meglio; e se non di montare a cavallo subito, come avea detto di voler fare, pure dava certo segno che avrebbe potuto montarvi di lì a pochi giorni. Il maestro non lo abbandonava quasi mai, ed era sempre da lui tenuto in parole, o ragionando della sua Bice, o raccontando spesso tutte le vicende di quella sventurata battaglia dov'era stato ferito, e del gran valore di Castruccio; e facendosi raccontare da esso tutto ciò che aveva udito dire delle altre fazioni di guerra; e come il duca fosse stato colpito del mal successo; e come i Fiorentini ne accogliessero la novella: e se pensavasi a ripigliar l'armi da capo.

Ma lasciamo per un momento che Guglielmo e il maestro Cecco ragionino a lor senno; e ritorniamo in questo mezzo a Firenze, dove pure vi ha de' personaggi che il lettore potrebbe credergli essere stati dimenticati da noi.

CAPITOLO XXI. IN CITTÀ, E IN PALAGIO.

La città di Firenze durava sempre nel suo smarrimento, anzi ogni giorno che passava portava seco la scoperta di nuovi danni patiti. Il contado quasi tutto disertato, e sossopra per modo che era inutile quasi il pensare alle semente: infestato da malandrini, e sempre in sospetto di nuove scorreríe di Castruccio. Dopo il fallimento degli Scali, il commercio fiorentino aveva, come dicemmo, sofferto grave caduta; e più grave erasi fatta dopo l'infelice esito di questa impresa: molte case facevano corrotto per la perdita de' loro cari; tutti erano disfatti, e non sapevano veder modo di riparare a tanta rovina. Come ciò poi fosse poco, si aggiunse che il re Roberto mandò al comune di Firenze, che, oltre a' primi patti che i fiorentini aveano fatto col duca, voleva che stessero a pagare la taglia di ottocento cavalieri oltramontani, per i quali aveva già mandato in Provenza, in Valentinese e in Francia, invitando a ciò le altre potenze amiche di Toscana, come i perugini, i senesi e le altre terre d'intorno, acciocchè il duca fosse meglio accompagnato nella guerra: e se ciò non si facesse dai fiorentini, comandò al duca che si partisse da Firenze e tornasse a Napoli. I fiorentini di tal richiesta molto si turbarono, così per il non portabile carico, come per questo continuo rompere di patti; e parea loro dall'altro canto di aver troppo mal partito a lasciare andar via il duca da Firenze; laonde bisognò rassegnarsi anche a questo, e portarne quasi intero il carico, dacchè le terre vicine non vollero concorrere alla spesa.

Per la qual cosa fecero composizione col duca di dargli trentamila fiorini d'oro per i detti cavalieri, e parte ne diedero, ma piccola, i senesi; ma nè i perugini, nè le altre terre non vollero dar nulla. E così in quei pochi mesi che Carlo era stato signor di Firenze, tra per la sua provvigione e le altre spese che fece fare ai fiorentini, il comune si trovò speso più di quattrocento migliaja di fiorini d'oro, ritratti, come dice il Villani, da gabelle, imposte, libbre e altre entrate, che fu tenuto gran caso e maraviglioso, e ciascuno se ne sentiva dolente. E oltre a ciò, per il consiglio de' suoi savj, il duca recò in tutto a sè la signoría di Firenze dalle piccole cose alle grandi, e avvilì per forma l'ufficio de' priori che non osavano di fare la più piccola cosa, nè anche eleggere un messo; e sempre stava coi priori uno dei suoi savj; onde a' cittadini, ch'erano avvezzi a signoreggiare la città, ne parea molto male. Ma, conchiude qui il buon Villani, grande sentenza di Dio fu che per le loro sette passate fosse avvilita la loro signoría per più vile gente e men savj di loro.

Queste cose avvenivano appunto in sullo spirare dei due mesi del gonfalonierato di Daldo di Tingo de' Marignolli; e dovendosi eleggere la nuova signoría, il duca comandò al duca d'Atene che operasse in modo, o per amore o per forza, che si creassero gonfaloniere e priori de' suoi amici, e si lasciasse il vecchio e troppo lungo modo della elezione, facendogli a mano; e il duca d'Atene seppe tanto dire e fare, ed i fiorentini tanto erano impecoriti, che la cosa andò come voleva il duca. Il modo di eleggere il gonfaloniere di giustizia mostrava il senno e la previdenza de' fiorentini, e la gelosía che avevano del comune e della repubblica; e le onoranze che si facevano ad esso e ai priori, mostrano quanto stesse nel cuore di tutti la esaltazione del comune di Firenze.

Nè sia discaro al lettore che qui più brevemente che posso lo accenni; non solo come lume della storia di quel tempo, ma come esempio da meditare, se non da seguitare, anche nel modo di tante elezioni de' tempi odierni, nelle quali prevale quasi sempre la setta e la combríccola.

Nel medesimo giorno che veniva fatta la elezione, i priori allora sedenti facevano intimare le capitudini delle dodici arti maggiori, che fossero avanti di loro in quel luogo che ad essi signori fosse parso più comodo, siccome ancora due buonomini di qualunque Sesto; ai quali era dato giuramento di far bene e con ogni lealtà questa tale elezione. Di poi facevasi una nominazione o brevetto del Sesto da cui doveva eleggersi il gonfaloniere; e quando il Sesto era nominato, eleggevano del Sesto medesimo sei uomini popolari ed artefici, facendone di ciascheduno di essi segretissimo squittinio, eccettuando però da esso le capitudini ed i savj di quel Sesto, da cui il gonfaloniere doveva essere eletto. Quel tale che per questa sublime dignità veniva squittinato dalle arti maggiori ed artefici della città di Firenze, doveva essere persona che fosse dello stato, pacifico e tranquillo, amatore di giustizia, e di sincera e specchiata purità d'animo; e che sopra ogni cosa non fosse stato magnate, o elettore di quelli e quello che nello squittinio precedente restava più numeroso di voti, e per conseguente costituito in tal grado. Non poteva essere gonfaloniere chi fosse stato consorte, o della famiglia o casato di alcuno de' priori, che nel tempo della sua elezione fosse riseduto in tal magistrato. E quando aveva finito l'uffizio, si veniva a eleggere in modo simile un altro, che doveva essere di un Sesto diverso: e così di due in due mesi, per modo che a capo dell'anno ogni Sesto aveva il suo gonfaloniere. Finito l'uffizio, aveva divieto dal magistrato suddetto per tre anni. Il gonfaloniere di giustizia, che risedeva in palazzo insieme coi priori, doveva tenere nella abitazione propria uno stendardo bianco di buono e sodo zendado, entrovi una croce rossa, che lo abbracciava tutto; e gli era consegnato pubblicamente dal capitano di giustizia, dopo preso il giuramento, essendo presenti i priori vecchi ed i nuovi; ma questo si fece solo per la elezione del primo gonfaloniere di giustizia, che fu nel 1292 nella persona di Baldo Ruffoli; chè, per il tempo vegnente, il gonfaloniere, finito l'uffizio, consegnava di sua propria mano al suo successore lo stendardo, rogandosene ogni volta un contratto. Oltre allo stendardo, dovea tenere in palazzo cento pavesi, ovvero targhe; cento elmi, o celate, dell'insegna del suo stendardo dipinte, cento lance, venticinque balestre coi quadrelli e tutti i fornimenti, ed altri simili materiali in grande abbondanza. Alla sua guardia, e a quella de' priori e del suo palazzo, si destinarono da principio mille pedoni, che poi furono condotti a duemila; ed erano tutta gente popolare ed artefici della città, scelti tra gente buona e pacifica; e questi nella loro elezione giuravano di star sempre pronti, e prestamente correre, nel sollevarsi dei rumori o tumulti, verso detto palazzo, ed ancora di essere presti ogni volta che fossero per pubblico bando, o per suon di campana, o per qualche mosso addomandati dai signori priori o dal gonfaloniere di giustizia; e dovevano seguitar sempre il gonfaloniere, e star sempre seco, mentre era fuori per esercizio del suo uffizio. E ciò facevasi per far apparire l'onore che a tanta dignità si doveva; e tutto per esaltazione del comune di Firenze.

Ci erano altresì compagníe di picconieri, e maestri di pietra e legname, e mille pedoni, tutta gente scelta e gagliarda, eletti dal gonfaloniere e dai priori: quattrocento de' quali erano armati di una specie di lancia, detta gualda; e gli altri di archi e balestre. Le loro armi dovevano essere perfette, ed erano forniti di molto saettame.

Quando occorreva per diverse faccende al gonfaloniere di giustizia uscir fuori di palazzo, stavano serrate tutte le botteghe; ed era sotto gravi pene vietato ai magnati di andare in que' luoghi dove fosse stato o andato egli. Nè meno gli era permesso di andar fuori collo stendardo e soldati armati, senza che prima ne fosse fatta deliberazione in palazzo da' priori, dichiarandosi dove fosse voluto andare, e che gente intendesse condur seco, e quanta, e di qual Sesto. Al gonfaloniere poi erano destinati sei consiglieri popolani, ed artefici della città, uno per Sesto: ed erano scelti da lui medesimo e dai priori; e potevano a loro volontà avere appresso di sè altri uomini prudenti, per giovarsi del loro consiglio.

Di così fatta maestà voleva Firenze che fosse circondato il suo magistrato supremo; ma, come ho detto qua dietro, avendo il duca ridotto ogni cosa piccola e grande in sua potestà, quasi tutte simili magnificenze eransi tolte, rimanendovi solo l'apparenza: e questa volta ne anche gli squittini si fecero al modo usato, e la novella signoría fu tutta quale la voleva il duca e non altrimenti. E vanno qui ricordati i nomi di ciascuno di coloro, che si rassegnarono la prima volta a tanta ignominia. Priori furono: Rosso Aldobrandini, Giotto d'Arnaldo Peruzzi, Tommaso Dietajuti della Badessa, Nerone di Nigi Dietesalvi, Falconieri Baldesi, Leone di Simone; e gonfaloniere fu messer Covone di Naddo Covoni. E questi, tra per la paura e per essere tutti uomini del duca, nè più nè meno facevano che quello che al duca piacesse.

In palagio dall'altro lato, mentre si volea mostrare baldanza, e certezza di vittoria per l'avvenire, si stava nel fatto molto paurosi e molto pensierosi, ed all'un consiglio succedeva l'altro; e si cercava di pigliare giorno per giorno quei temperamenti, che sembravano migliori alla difesa, dove ne occorresse bisogno, ed alla offesa quando fosse tempo da ciò; e come tutte le arti si tengono buone contro il nemico, il duca tanto fece che tenne trattato in Lucca con messer Guerruccio Quartigiani, quel medesimo che diede già la signoría a Castruccio, per ora ritorgliela, come dirassi più qua.

E il duca e la città per altro incominciarono a ripigliar cuore e baldanza quando arrivarono gli altri ottocento cavalieri oltremontani; e al duca specialmente tornò lietissima la lettera di maestro Cecco, dove si dava ragguaglio della malattía di Guglielmo, con la certezza che fra pochi dì sarebbe sanato del tutto e ritornato a Firenze; e ad incorare sempre più così il duca come i fiorentini si aggiunse, che, avendo i ghibellini e i tiranni di Toscana e di Lombardía mandato loro ambasciatori a sommuovere Lodovico di Baviera eletto re de' romani, per contrastare alla forza del duca e della chiesa, il papa dal canto suo fulminò esso Lodovico, e di nuovo Castruccio, con le sue folgori spirituali, e la sentenza di scomunica fu solennemente pubblicata in Firenze dal legato del papa nella chiesa di S. Giovanni.

CAPITOLO XXII. NELLE CASE DE' CAVALCANTI.

Nelle case de' Cavalcanti, che il lettore oramai ben conosce, era per altro maggiore desolazione che in città e in palagio.

Dal momento che allontanò da sè così spietatamente la sua Bice, messer Geri non ebbe più bene; e tra gli acciacchi suoi abituali, che erano diventati vere malattíe, e il rimorso e il rammarico che lo straziavano continui dell'essere stato così spietato con quella cara sua Bice, era ridotto una cosa tanto dolorosa, che faceva pietà a vederlo; nè consigli e conforti di amici potevano sull'animo di lui: nè a richiamare presso di sè la figliuola voleva condursi a niun patto, così per non dar segno di debolezza, chè era alterissimo, come per odio contro Guglielmo.

Aveva scritto spesso alla badessa, e le aveva spesso mandate uomini a posta, pregando che alto alto interrogasse la Bice, e spiasse più che poteva l'animo di lei, se ci fosse speranza, non appunto di levargli dal cuore l'amore di Guglielmo, ma almeno di poter far prevalere a quello l'amor filiale; ma, dove la Bice si mostrava sempre tenerissima verso suo padre, dava però sempre segno che l'amore di Guglielmo non avrebbe potuto a niun patto lasciare.

Maestro Dino del Garbo non passava giorno che non andasse a visitarlo, e vedeva chiaro che la vita del vecchio poteva durar poco più; ma, dove avrebbe potuto o tanto o quanto allungargliela, e raddolcirgliene almeno gli ultimi giorni, ingegnandosi di rappacificarlo con la figliuola, e dipingendogli la felicità del vedersela attorno, del vederla altamente maritata, e del vedersi pargoleggiare dinanzi i figliuoli di lei, tanto era l'odio che egli aveva a Cecco, favoritor dell'amor di Guglielmo, ed a Guglielmo stesso dopo il colloquio avuto con esso, che inacerbiva sempre più l'animo di messer Geri, il quale per conseguenza ne peggiorava di sanità. Ed un giorno fra gli altri ebbero insieme questo ragionamento, che lasciò dolorosissimo quel padre sventurato:

— Maestro, la vostra arte si affatica invano per me; io sento ogni giorno scemarmisi le forze, e vedo prossimo il fine. E non avrò chi mi chiuda gli occhi....

— Messere, non dite; l'arte mia ha tanta virtù, e voi avete sempre tanto vigore, che siete ben lungi ancora da quell'estremo che paventate.

— Ch'io pavento? Ah, mio dolce amico, ch'io desidero, dovevate dire. E che ha più altro di attrattivo la vita per me? La patria perduta la signoría di se stessa, e datala a gente straniera, che la schernisce e la strugge di ricchezze e di ogni suo bene, e conduce i suoi figliuoli al macello e alla vergogna della fuga. In casa eccomi qui solo e deserto: l'unica mia figliuola, che amava più dei miei occhi, ritrosa alla mia volontà, posporre l'affetto del padre all'amore di uno straniero, ed uccidermi quasi colle proprie mani.

— Non avete amico che più di me vi compianga, e che si spaventi, quasi, della durezza di questa vostra figliuola. Ma il male non deve proceder tutto da lei; è impossibile a una figliuola essere snaturata così; questo debb'essere l'effetto di qualche filtro, di qualche incantamento. Voi sapete che in sì fatto innamoramento ha le mani Cecco d'Ascoli....

E questo diceva maestro Dino, non perchè lo credesse, chè troppo era scienziato da prestar fede a fole siffatte, ma per accattar sempre più odiosità a Cecco, e per valersi, al bisogno, anche di quest'arme contro di lui.

— Ohimè! maestro — interruppe qui Geri — e veramente credete che la mia Bice sia ammaliata?

— Credolo, perchè parmi contro a natura che una figliuola disami e dispregi tanto suo padre.

— Ah maledetto sia il negromante! e maledetto questo duca, che ha ricondotto a Firenze quello sleal cavaliere; e maledetta la mia città, che tanta vergogna patisce! Oh Dio! ma come riavere tutto l'amore della mia figliuola? Come liberarla dalle mani del diavolo? Insegnatemelo, maestro: ardo di rivederla tutta mia, tutta amorosa. Povero vecchio! non ho altra consolazione al mondo. Ajutatemi.

— L'arte mia qui non può nulla. Ci vogliono medicine spirituali: intanto esortate la badessa che la tenga ben guardata; che preghi per lei, affinchè Dio le tocchi il cuore, e la ritorni figliuola obbediente e amorosa.

Povera Bice! e quando aveva ella cessato di essere figliuola amorosa? Mai: neppur quando il padre avevala trattata così duramente, gli aveva scemato di nulla l'immenso bene che volevagli; e non sapeva discernere ella stessa, se più le doleva lo stare lontana dal suo Guglielmo e il sospetto di averlo perduto per sempre, o il vedere sdegnato il suo caro babbo. Sepolta, si può dire, viva da lui, per lui ascendevano le sue più pure preghiere al Signore; e il desiderio suo era pari tanto per Guglielmo quanto per il padre. Erano già passati molti giorni che stava rinchiusa nel monastero di S. Piero, dove si struggeva in continue lagrime, trovando solo un poco di conforto nella compassione e nell'affetto che mostravale la buona badessa; e viveva solo della speranza che un giorno o l'altro dovesse venire novella da Firenze che suo padre avesse mutato il fiero proposito, e la richiamasse fra le sue braccia.

Messer Geri era rimasto così vinto e così dolente delle parole di maestro Dino, e tanto gli era parsa grave quella faccenda dell'ammaliamento, che non sapea qual partito pigliarsi. Scrisse tosto alla badessa informandola del fatto, e pregandola che facesse tutte le più devote orazioni per liberare la figliuola da sì fatta sventura; e sovvenutogli a un tratto frate Marco, di cui Geri faceva grande stima, ed era assai valente teologo, mandò tosto per esso.

Frate Marco era appunto la sera innanzi cavalcato a Firenze per bisogno del suo convento, promettendo a maestro Cecco che sarebbe tornato a Prato fra due o tre giorni, disposto ad ogni suo piacere e di messer Guglielmo: ed era appunto in sull'uscir dal convento per andar alle case de' Cavalcanti, a scoprir paese, come ne lo aveva sollecitato maestro Cecco, quando venne il messo di messer Geri, il cui invito, se fu accolto lietamente dal frate, ciascuno lo può pensare da sè, indovinando esso, qui doverci essere qualcosa che riguardasse la Bice. Arrivato dunque alle case dei Cavalcanti, entrò tosto da messer Geri, e con parole umanissime gli disse:

— Dio vi dia salute, messere. Che vi piace, chè mandaste per me?

— Bel frate, cosa non piccola vi chiedo, alla quale abbisogna e la vostra scienza, e l'affetto che sempre avete mostrato per me e per la mia casa.

— Purchè il volere non sia vinto dal non potere, son tutto vostro.

— Voi sapete quanto sia straziato il mio povero cuore dalla ritrosía e dalla disubbidienza della mia Bice, che mi son gravi e dolorose anche a doppio, vedendola perduta nell'amore di un cavalier forestiere, un di coloro che hanno fatta serva la mia terra, e sfiorato barbaramente il giglio fiorentino.

— Lo so, e ne vivo dolorosissimo. Io vi ho sempre riverito ed amato per uno dei probi e discreti e gentili uomini di questa terra; e la vostra figliuola ho sempre conosciuta per la più gentile e più bella di tutte le fanciulle fiorentine, e per figliuola buona ed amorosissima; e sempre ch'io capitavo qui da voi, mi sentivo dolcemente compreso dalla domestica felicità vostra, la quale solea ricordarsi per esempio da tutta la città, e molti e molti ve la invidiavano. E vi accerto, messere, che il rammentarmelo ora, ed il veder tanta felicità, prima avvelenata, e poi così spietatamente rotta, per opera forse della malignità e della invidia, mi accuora proprio come se tale sventura toccasse me.

A queste parole, che riduceangli a memoria le sue contentezze e le sue gioje domestiche, il vecchio si sentì tutto commuovere, e, asciugandosi le lacrime che gli piovevano dagli occhi, rispose:

— Ed ora vedete come sono ridotto!... Ma che parlate voi di malignità e d'invidia? L'amore al cavaliere straniero, e la ritrosía e disubbidienza della Bice non sono opera d'invidia.

— Il fatto non è certamente opera d'invidia; ma la invidia e il mal talento ve lo hanno colorito sinistramente. Al cuore, lo sapete, non gli si comanda; e sapete che l'amore ripara sempre al cuore gentile, come cantò il vostro Guido; e se vi ricorda con quanta sapienza egli parlò in quella sua nobile canzone della qualità e della forza d'amore, non parmi ragionevole che vi abbia a parer grave colpa, se la Bice vostra è stata vinta dalla forza di amore. Che poi voi teniate la infelice fanciulla per disubbidiente e disamorata, questa può essere opera tutta, ed è, d'invidia e di maltalento; chè io, quanto a me, la ho sempre saputa figliuola tenerissima ed ubbidiente.

— Ohimè! frate Marco; non vi par grave fallo l'aver posto il cuor suo nell'amore di uno straniero, e il contrastrare alla volontà del padre che lo divieta? e non vi pare figliuola snaturata quella che il padre comporta di veder morire per dolore, e che lo abbandona alla desolazione piuttosto che obbedirlo?

— Non approvo la disubbidienza; ma nego che avesse portato a questa conseguenza, dove non fosse stata dipinta troppo malignamente; e nego che la Bice vostra non vi ami più, e più di voi ami il cavalier provenzale. L'amore filiale è tutto diverso dall'altro, benchè forte quanto esso; ed io, invece che condannarla, compiango la Bice quanto compiango voi, perchè me la immagino combattuta fieramente da questi due affetti, il contrasto dei quali non potrà fare che all'ultimo non ispenga quella gentile vita.

Geri a queste parole si sentì correre un gelo per le ossa, e disse tutto smarrito:

— Che! pensate voi per avventura che la Bice sia veramente dolorosa dello star lontana da me, e che la sua sanità ne possa troppo peggiorare?...

— Credo — rispose il frate.

— Ah! frate Marco, anche me cruccia da un pezzo codesta paura, e per riparare a tanto danno ho appunto mandato per voi. Anch'io da poco in qua compiango la mia Bice; non perchè approvi il suo amore, o scemi la bruttezza della sua disubbidienza; nè perchè io riconosca vero quel che voi avete detto della invidia e del maltalento; ma perchè un savio e discreto uomo testè mi accertava che questa era tutta opera di malía, operata in lei da quel negromante, che si chiama qui Cecco Diascolo. E però, vorrei, bel frate, faceste ogni opera che la mia Bice fosse liberata da siffatta malía, e ritornasse tutta mia, e consolasse questi pochi momenti che tuttora mi restano di vita.

Frate Marco, udendo tali parole, gli parve di essere il più lieto uomo del mondo per due capi: sì perchè vedeva porgerglisi il destro di servire efficacissimamente maestro Cecco e messer Guglielmo, e sì ancora perchè gli pareva di intravedere tanta pietà negli atti e nel parlare di Geri, che non dovesse poi esser tanto difficile il ricondurlo a più temperati consigli. Laonde, non volendolo al tutto contrariare, volendo anzi tirarlo ad agevolargli più che fosse possibile la via per venire al suo proposito, rispose:

— Messere, maestro Cecco d'Ascoli non è quell'uomo tristo, nè quel negromante, che alcuni dicono essere, non si sa da qual passione mossi, ma senza fallo da men che onesta; egli è astrologo e filosofo molto solenne, e la sapienza sua non condurrebbe sì basso che si desse a malía o incantesimo veruno. Può bene alcuna malía essere stata fatta per opera altrui; ed io mi ci adopererò con tutta la sollecitudine. Dite dunque che cosa vi piace che io faccia.

— Quello che in simili casi prescrive la santa madre chiesa.

— Ma la Bice è assai di lunge di qui, ed è chiusa in un monastero.

— Cavalcherete per amor mio fino in Mugello, e vi accompagnerò con una mia lettera alla badessa, acciocchè vi faccia vedere la Bice. Parlatele a lungo e con tutta attenzione; accertatevi bene del fatto suo, e salvatemela. In poco d'ora tutto sarà fatto: non vi gravi l'aspettare tanto che io torni.

E così dicendo entrò in un piccolo suo scrittojo, e lasciò il frate ad aspettare; il quale, vedendosi avere occasione così propizia, diceva fra sè:

— Mi par proprio che questa sia opera della divina provvidenza. E come potea offrirsi occasione più propizia al proposito di maestro Cecco e di messer Guglielmo?... e vo' dire anche al proposito mio; dacchè tanto mi par degna di compassione la sventurata figliuola di messer Geri, e tanto puro e tanto degno il suo amore, che darei anche la vita per vederla contenta. E chi sa che non possa nascer cosa che ammollisca l'animo di questo vecchio, certamente inacerbito dalla malizia altrui, e forse di maestro Dino? Basta, io non so appunto qual sia il disegno di maestro Cecco, il quale ha fissato il priore di Settimello per andare al monastero; ma, se questo disegno non potesse colorirsi, non dispero di trovar la via del cuore di messer Geri, e di fare opera veramente degna di un sacerdote di Dio, riunendo padre e figliuola, e santificando col matrimonio l'amore di questi due cuori gentili.

Mentre frate Marco era tra questi pensieri, ritornò nella sala messer Geri:

— Ecco, bel frate, questa è la lettera per la badessa: fate che l'indugio non sia troppo lungo.

— Messere, domattina all'alba sarò a cavallo.

— E Dio vi accompagni nel cammino, e vi conceda perfetta fine alla santa opera vostra.

E come il frate prendeva commiato, il vecchio, sopraffatto da un pensiero di paterno affetto e di desiderio della figliuola:

— A Dio v'accomando, frate Marco. Oh quanta invidia vi porto! voi vedrete la mia Bice: le parlerete; ed io debbo viverne in continuo desiderio, piangendo perduto il suo amore per quello di uno strano! Deh, se ogni vostro desío si compia, rendetemi l'affetto della mia diletta Bice, spiantatele dal cuore quel maledetto e diabolico amore. Sento prossimo il mio fine, e morrei disperato, se più non avessi a vederla....

— Messere, la vostra Bice potete pure richiamarla quando vi aggrada.

— Ma voglio la mia Bice di prima: voglio quella dolcissima Bice che tanto mi faceva lieto del suo angelico affetto. Questa, e non altra io voglio; e questa spero che dobbiate ridonarmela voi. Fate ch'io abbia questa consolazione, che io l'abbia tosto: la mia vita e la mia felicità l'aspetto da voi: l'esser solo mi spaventa.... Oh Bice mia, abbi compassione di questo sventuratissimo vecchio!....

E qui diede in un pianto dirotto. Il frate fu sempre più certo dell'amore svisceratissimo che il vecchio portava alla figliuola; e gli crebbe per conseguenza la speranza che il tutto si sarebbe potuto trovar modo di acconciare: per la qual cosa, promesso a messer Geri, che nulla avrebbe lasciato a fare per ricondurre la Bice al suo affetto, prese commiato da lui, e tutto lieto in cuor suo, dispose in modo le cose da poter montare a cavallo la mattina appresso.

CAPITOLO XXIII. DA FIRENZE A PRATO.

E di fatto era appena spuntata l'alba che il frate montava a cavallo, e spronava di santa ragione, pensando alla contentezza che prenderebbero messer Guglielmo e maestro Cecco, quando sapessero che il padre stesso della Bice porgeva loro occasione da compiere il desiderio loro. Parlo di questa consolazione di messer Guglielmo e di maestro Cecco, perchè il lettore si sarà già immaginato da sè che frate Marco non sarebbe ito in Mugello prima di tornare a Prato per conferire ogni cosa co' suoi amici, e prendere con essi que' temperamenti che paressero migliori.

Egli dunque arrivò a Prato di poco passato terza, e fu tosto a messer Guglielmo, il quale già si era alzato da letto ed era sanato del tutto; e come vide il frate gli fece maravigliosa festa, ed il frate a lui. Maestro Cecco non era in casa; ma fu tosto mandato un valletto che lo trovasse, e il pregasse di esser tosto da messer Guglielmo, che persona arrivata testè da Firenze doveva conferir con lui per cosa di momento; e il valletto si fu tosto sdebitato del suo ufficio, dacchè, fatti pochi passi fuori dell'uscio, si abbattè in maestro Cecco che tornava a casa, per modo che i due avevano fatto poche parole insieme che egli fu a loro, e come vide il frate, esclamò:

— Oh, frate Marco, che buona novella? come siete tornato prima del tempo posto?

— Questa fiata porto veramente la buona novella — rispose il frate: e fattosi da capo, raccontò minutamente ogni cosa del colloquio avuto con messer Geri, della Bice creduta da esso ammaliata, della lettera della badessa, ogni cosa insomma, e concluse con queste parole:

— Su, dunque, maestro Cecco, e voi messer Guglielmo, qui non c'è da metter tempo in mezzo: bisogna battere il ferro ora che è caldo; e non dubito che tra l'una cosa e l'altra non dobbiamo arrivare al nostro fine, col beneplacito anche di messer Geri; sol che a sere Gianni riesca, ajutato da me, di tirar dalla nostra la badessa.

— Che messer Geri possa cambiar natura lo spero poco, disse Guglielmo.

— Non dite cambiar natura, messere; chè quel buon vecchio ama perdutamente la sua Bice, e non può vivere lontano da lei; e sol che gli uscisse d'attorno qualcuno che lo inasprisce contro di lei e di voi, e potesse ascoltar parole persuasive d'amore e di concordia da persone a lui care e degne di riverenza, vi dico che tornerebbe il più amoroso e benigno padre del mondo.

Maestro Cecco, udendo qui parlare il frate di persone che inacerbivano il vecchio, disse alzando il dito e scotendolo:

— Eh! lo so io chi sono coloro che inacerbiscono messer Geri; niun altro che l'invidia rabbiosa di maestro Dino del Garbo. Ma, alla croce di Dio! potrebbe darsi caso.... — e qui mordendosi le labbra con atto stizzoso: — Ma parliamo del fatto nostro. Anch'io dubito un poco che quel vecchio indiavolato del padre della Bice possa per cagione veruna venire a più benigno proposito; e però avevo fatto disegno che, andando al monastero, studiassimo tutte le vie di tirar dalla nostra la badessa, o riuscendoci, pigliar consiglio del come governarsi; non riuscendoci, vedere se si può di furto levar la Bice dal monastero.

— Codesto, maestro Cecco, parrebbemi poco savio consiglio; e nemmeno la Bice per avventura, e nemmeno messer Guglielmo ci consentirebbe: e poi, non passerebbe senza grave pericolo di tutti.

Guglielmo fe cenno col capo di assentire alle parole del frate, il quale continuò:

— In questo per altro sono d'accordo col maestro, che per ogni via si tenti di far nostra la badessa; e di ciò io non dispero, perchè l'opera in sè è onesta e meritoria; e poi ancora perchè quella donna è di animo gentilissimo, e si sa che anch'ella fu nella sua gioventù rinchiusa per una violenta passione d'amore; e naturalmente, come non ignara del male, deve avere imparato a soccorrere e ad aver compassione de' miseri. Ma non c'è tempo da perdere: facciamo dunque di metterci tosto in cammino, chè messer Geri me ne ha gravato strettamente.

Rimasero pertanto che la sera medesima sarebbero tutti e tre insieme (perchè anche Guglielmo poteva ben montare a cavallo) andati dal prete di Settimello, e che la mattina appresso sarebbero difilato andati in Mugello; e ciascuno, chi per un conto e chi per un altro, faceva assegnamento quasi certo sul buon esito di questa impresa.

CAPITOLO XXIV. DA SETTIMELLO IN MUGELLO.

Sere Gianni, priore di Settimello, era in quel giorno nel suo piccolo orto dietro la canonica con la sua brava Simona, e stavano ambedue sollecitamente curando gli erbaggi e le piante, nettando qui, mozzando là, sbarbando, sarchiettando e facendo tutte quelle diligenze che sogliono i buoni e diligenti cultori.

— Guarda, Simona, insalatína gentile che è questa! svèlline un par di cesti, chè ce la mangiamo stasera con quegli anitroccoli arrosto.

— Ecco fatto, messere! ci va unito un pochino di pepolino, che sarà la mano di Dio, massimamente con quell'aceto che abbiamo noi. Oh! quello è proprio una delizia. E non fo per dir che l'ho fatto io, ma un aceto come quello, sfido il primo signor di Firenze ad averlo.

— Tu l'ha' fatto tu fino a un certo segno. È che nel caratello ci si è messo del vino buono.

— E il caratello chi l'ha ridotto in quel modo? e la madre dell'aceto chi l'ha saputa conservare? e tutte le seccature che ci vogliono per condurre a bene la cosa chi l'ha sofferte? Non lo sapete che un caratello d'aceto bisogna avergli una cura come a un figliuolo?

La Simona dicea queste parole con alquanta stizza; e il prete, benchè quel paragone del figliuolo gli paresse un po' strano e da riderne, e benchè gli paresse troppo esagerato quel vanto dell'aceto buono, tuttavía si guardò bene dal ridere e dal rimbeccare quelle millanteríe della Simona, perchè sapeva che contraddicendola non l'avrebbe finita più; e cercò di mutare adagio adagio discorso:

— Sicuro, gua', lo dico anch'io che senza molta diligenza può guastarsi e caratello ed aceto, ed a me questo graverebbe troppo; chè un po' d'aceto buono in una casa è un gran che. Dunque, viva le mani della mia Simona: ce ne faremo onore quando ritorna qui frate Marco con maestro Cecco...

— Chi? quel negromante?

— Ma che negromante! Frate Marco non è uomo da bazzicar negromanti..... E sì che, a quel che mi dissero partendo, e' dovrebbero a quest'ora esserci già ritornati.

— Ah! non è un negromante e un mago, è vero? O quel piccione cotto che rimesse le penne e volò? o quel vino che diventò acqua? o quella roba che sparì dal tagliere? ditemi un pò, messere, poteva essere altro che opera del diavolo?

— Ti ho detto un'altra volta, e ora te lo ripeto, che il piccione era di quelli della piccionaja, e che le altre cose si possono fare per iscienza comune. E poi, o non gli feci anche tutti gli esorcismi nelle regole?

— Gli esorcismi son belli e buoni; ma spesso lasciano il tempo che trovano. Alle volte il diavolo ne sa più del prete, e sta duro, e gli ride sul muso: alle volte il prete è impeccatito, e allora gli esorcismi non attaccano.

— Ma io non era impeccatito! Simona, questo non è onesto a dirsi da te.

E la Simona, che quel giorno era in vena, e che voleva rifarsi un po' del prete, perchè le aveva negato l'abilità dell'aceto, e garritala di non so che per il desinare della mattina, le cominciò a sfilar la corona così:

— Messere, non dico che siate un peccatoraccio come questi mondani; ma ecco, non credo nemmeno, a dirla qui tra noi, che vo' siate uno stinco di santo, da dovere i diavoli scappar via al solo udir la vostra voce. I' v'ho sentito tante volte predicare a' vostri popolani contro il peccato della gola, e portare a cielo le astinenze e' digiuni: e con loro ve lo potresti anche risparmiare, perchè, povera gente! hanno tanto a fatica da cavarsi la fame; e voi poi vi vedo continuamente studioso de' meglio bocconi, e ghiotto dei migliori vini che sappiano fare le viti di queste colline; e se qualcosa non è fatta a vostro modo la povera Simona lo sa.... E poi, messere, che sono que' presentuzzi che spesso mandate facendo alla Costanza, moglie del lavoratore qui accosto, ora il moccolo benedetto, ora un bel mazzo di agli freschi, ora il panier dei baccelli; e quando la domenica la sentite in chiesa, vo' cantate un Kirie ed un Sanctus che parete un galletto marzuolo....

In questa si sentì un calpestío di cavalli presso alla canonica, per la qual cosa il prete, affacciatosi al muro dell'orto: — E' son dessi, — esclamò; e proprio non gli parve vero, se non chi sa dove andava a parare la Simona con quella sua catilinaria. Allora il prete, rivoltosi a lei:

— Simona mia buona, fa' di mostrarti quella valente femmina che tu se'....

Qui la Simona cominciò a scuotere il capo, in atto di stizzosa negativa; e il prete:

— No, via, non mi fare arrossire; massimamente che frate Marco ha seco questa volta un gran cavaliere provenzale, prode e gentile quanto altro cavaliere di tutto il mondo.

E come gli ospiti erano già in sulla piazzetta della canonica, e si potevano dell'uscio dell'orto vedere tutti e tre comodamente, così appena la Simona ebbe veduto messer Guglielmo, rimase presa in maniera del suo gentile e nobile aspetto, che ne fu tutta compunta, e accettò il prete che si porterebbe da sua pari; e però il prete corse tutto lieto incontro ai tre arrivati, e la Simona mise il cervello a partito per fare una cena degna di sè e del bel cavaliere. Le feste che il prete fece ai suoi ospiti, e gli ospiti a lui furono maravigliose: e sere Gianni non cessava di fare riverenza a Guglielmo, e di fargli con quel miglior garbo che sapeva un monte di domande su Castruccio e sulla guerra, alle quali il cavaliere rispondeva con parole cortesissime. Ed anche la Simona, alla quale quel bel giovanotto aveva ferito la fantasía, si struggeva di vederlo da vicino e di udirlo parlare: il perchè, trovata la scusa di domandare al prete alcuna cosa, entrò nella sala dove tutti erano raccolti. Maestro Cecco, appena vide la Simona, non potè tenersi che non le dicesse così mezzo ridente:

— Monna Simona, che è di voi? Siete più adirata meco?

— Maestro, rispose la Simona, di me n'è bene, e con voi non sono stata mai adirata: ben mi rincresce dell'anima vostra.

E maestro Cecco, dubitando ch'ella non uscisse contro di lui in qualche poco misurata parola, sapendola donna di pochi riguardi, e petulante la parte sua, prese la via delle lusinghe; e volto a Guglielmo, gli disse:

— Vedete, messere, questa è valentissima femmina; saccente, piena di senno; e ha le mani così benedette per fare i più delicati bocconi, che mai cuoco delle più nobili corti seppe forse fare altrettanto.

E Guglielmo, volgendo il suo parlare alla Simona proprio:

— Invidio la fortuna del sere, che abbia al suo governo una valente donna pari vostra: fortuna che certamente non tocca a noi, che siamo sempre tra le armi e nelle guerre.

La Simona, udendosi dire così dolci parole da tanto gentile e tanto bel cavaliere, se ne ringalluzzì tutta, e studiava una conveniente risposta; ma del trovar le parole non era nulla, ed appena potè dire confusamente:

— Sire cavaliere.... siamo povere fanti.... da poco più che da fare una peverada.... voi siete tanto gentile.... il mio sere vuole che mi faccia onore.... e poi il maestro là si fa beffe di me.... Messere, perdonatemi, non so che io mi dica.... vorrei....

Guglielmo, veduta la confusione della povera Simona, cercò di farle cuore meglio che potè:

— La vostra umiltà accresce il vostro merito; e maestro Cecco non vi beffa, ma vi pregia tanto, che da quella sera che fu qui a cena non ha fatto altro sempre, se non ricordare la vostra abilità, e additarvi per valentissima femmina.

La Simona non capiva nella pelle dalla consolazione, udendosi così encomiare dal cavaliere; e finì di riconciliarsi anche col maestro, sapendo ch'egli faceva di lei così buona testimonianza. Pose dunque l'ingegno a far vedere tutta quanta la sua bravura, e andò in cucina col proposito di farsi onore veramente; e vi riuscì. La cena non fu abbondante, ma fu veramente squisita; e la Simona n'ebbe gran lode da tutti, e specialmente dal cavaliere, per la qual cosa quella sera la si teneva da più che il despoto di Romanía.

Dopo cena il prete co' suoi ospiti trattarono maturalmente come dovesse condursi questa specie di spedizione al monastero, affinchè la cosa avesse il desiderato effetto. Guglielmo avrebbe voluto andar per le corte: cercar d'intendere dalla Bice se consentisse, e vedere ad ogni modo di liberarla senza indugio da quel sepolcro di vivi; e Cecco non era alieno al tutto da questo disegno; ma non voleva venire ad atti troppo arditi, se prima non tornavano a nulla tutti gli assalti dati alla badessa. Frate Marco e il sere, di ratto non ne volevano sentir parlare, nè in caso veruno ci si sarebbero prestati; prima, perchè non consentivalo il loro ministero, e poi perchè, oltre all'essere cosa troppo pericolosa verso di sè, non poteva avere se non conseguenze tristissime.

— Ed io ho tanto in mano — continuò il frate — che non dubito punto che messer Geri debba ammollire il suo cuore, dove tutti ci adopriamo a questo, e la badessa altresì; della quale non par da dubitare, se vere sono quelle cose che di essa ci disse il sere qui l'altra sera, del grande affetto ch'ella ha per la Bice, e della pietosa compassione ch'ella sente per la sventura di quella povera fanciulla. A me pare dunque, se pare anche a voi, che alla badessa andassimo tosto, con la lettera di messer Geri, io e il sere: che col pretesto di disincantare la Bice, cercassimo d'informarla di ogni cosa minutamente; che il sere tentasse poi il cuore della badessa, ajutato da me; e se la badessa si mostra benigna, come spero, fare un passo ardito più in là (il quale, fatto con accortezza, potrebbe condurci dove vogliamo), pregandola di unirsi con noi per secondare il nostro disegno; e vedendo il bello, far che ella si abbocchi con maestro Cecco e col cavaliere. Se possiamo giungere a tanto, siamo a cavallo.

La proposta piacque a tutti; e la mattina appresso si misero in cammino per il Mugello, dove furono a mezza terza. Poco discosto dal monastero, dove la Bice era sepolta, forse trecento metri o poco più, vi era la chiesa di S. Niccolò, posta sopra un poggetto, che allora faceva cura da sè, il cui prete era molto amico di sere Gianni: quivi pertanto si fermarono prima di andare al monastero, e quivi rimasero maestro Cecco e Guglielmo, ad aspettare di sapere a che riuscissero il frate e il sere presso la badessa.

CAPITOLO XXV. LA BICE E IL FRATE; LA BADESSA E IL CAVALIERE.

Arrivati i due al monastero, e picchiata la porta, come a gente nota fu tosto a loro la badessa, che ambedue cortesemente salutò, domandando loro che buon vento gli avesse portati colà.

— Madonna, disse il frate, io vengo mandato da messer Geri Cavalcanti, e reco a nome suo questa lettera.

La badessa prese la lettera, e scioltala, lesse sotto voce:

«Madonna,

«Senza la mia Bice non posso più vivere: il rimorso, la desolazione, la certezza della morte vicina mi straziano, e mi spaventano; il pensiero di aver perduto l'amore di tanto diletta figliuola mi condurrà alla disperazione. Come vi significai per altra mia, un savio e discreto uomo accertommi, dovere la mia Bice essere ammaliata; e però mando a voi frate Marco de' predicatori, vostro conoscente, e solenne teologo, che guardi di liberarmela da ogni malía. Fate che la Bice parli con esso; e voi non restate anche di pregare in quel punto efficacemente messere Domeneddío e messere santo Piero apostolo, che l'opera del frate abbia ogni buono effetto.

« Geri vostro ».

— Mi manda dicendo messer Geri — disse la badessa com'ebbe letto la lettera — che faccia abboccarvi con la sua figliuola, da esso creduta ammaliata, come ne lo accerta un savio e discreto uomo. Ma a me, nè ora nè mai, quella fanciulla non mi ha dato verun segno di ciò; nè so che qualità di uomo savio e discreto sia colui, che, così da lontano, e senza altro segno, va mettendo tali dubbj nel cuore di un povero padre, straziato già da tanti dolori.

— La qualità dell'uomo savio e discreto, la so ben io: egli è maestro Dino del Garbo, il quale sfoga il suo odio e la sua invidia contro maestro Cecco d'Ascoli, sopra questa sventurata famiglia.

— E chi è, se vi piace, maestro Cecco d'Ascoli? E che cosa ha egli a fare in questa facenda? — disse la badessa, che, lontana com'era dal mondo, non aveva notizia veruna di Cecco.

— Maestro Cecco è dei valentissimi maestri, e dei savj filosofi che oggi sieno: lesse a Bologna con maestro Dino, che l'odia ferocemente e l'invidia; e questo amore della giovane Cavalcanti nimica quanto può, solamente perchè maestro Cecco è amico del cavaliere che ama la Bice, e favorisce tale amore.

— Oh mondo sempre tristo e fallace! Quanto ringrazio Dio di esserne al tutto lontana! Ma venite meco e parlerete alla Bice.

Il sere di Settimello non sapeva se dovesse o no andare insieme con loro; e domandatane la badessa, questa lo pregò di aspettare tanto ch'ella tornasse, che sarebbe tempo brevissimo, e voleva conferire con lui di una certa cosa.

Come frate Marco fu in una piccola saletta, presso alla cella della badessa, questa lo lasciò solo un momento, e tornò ben tosto con la Bice. La fanciulla vestiva una cioppa di lana bigia, senza verun ornamento, se non quanto aveva alla vita un'assai nobile cintura, da cui pendeva una piccola e molto leggiadra scarsella; e come era assai freddo, aveva di sopra un guarnelletto di monachíno foderato di vajo, ed in capo una piccola benda, semplicemente, ma gentilissimamente ricamata dalle sue proprie mani: al collo una piccola croce d'oro, pendente da un cordoncino di seta nera; cara memoria della sua diletta madre. Il dolore e il piangere quasi continuo aveanla affranta in gran maniera, ed era assai scaduta; ma quell'aria di profonda mestizia, quel viso affilato, quello schietto vestire le davano tanto e tanto delle più gentili attrattive, che ne parea anche più bella, e non si potea guardare senza sentirsi tutto intenerire dalla compassione e dalla meraviglia. Com'ella vide il frate, ebbe gran consolazione, e gli occhi le scintillarono di gioja inusitata, tanto buon presagio le fu.

— Frate Marco, che grave cagione vi ha qui condotto? Il mio cuore mi dice che siete messo di Dio.

— Messo del padre vostro, damigella.

— Che io amo e riverisco dopo Dio. Consolatemi tosto: si è ammollito il suo cuore? mi rende egli tutto il suo amore?

E siccome ella diceva ciò tutta accesa nel volto, e con atto di ardentissima impazienza:

— Tempera, le disse la badessa, tempera codesta tua smania. Messer Geri ti ama in cuor suo come sempre ti ho detto, ma vuol saperti buona ed obbediente; e manda appunto qui frate Marco per ricondurti al cuore, e per vincere la tua ritrosía.

— Oh, madre mia dolce, che sono codeste parole? Perchè appunto oggi vi porgete meco men benigna dell'usato?

E la Bice aveva ragione. La badessa, mentre eran sole, parlava sempre alla fanciulla le più amorose parole del mondo, e non si teneva anche dal darle qualche speranza; ma ora che il frate l'udiva, voleva mantenere la sua gravità, nè parer troppo molle con essa, alla quale rispose:

— No, figliuola mia, non sono men benigna teco; ma voglio solo ricordarti, come spesso ho fatto, che la disubbidienza e la ritrosía verso un padre non si giustifica per veruna ragione, ed ho voluto ricordartelo era appunto che il buon frate Marco viene qui a nome del padre tuo.

— O a che vi manda mio padre? — disse con pauroso atto la Bice.

— Il buon padre vostro vuol vedervi tornare figliuola amorosa; rivuole tutto l'amor vostro; arde di riabbracciarvi, nè può vivere senza di voi; ma....

— E quando ho io cessato di amarlo? — interruppe la Bice — io, che darei per esso la vita?

— Ma egli vuol tutto quanto l'amor vostro...

— Messere — disse la fanciulla, guardando il frate con occhi pieni di lagrime e supplichevoli — abbiate pietà del povero mio cuore. Amo, e disamare non posso. Ma a che vi manda mio padre? Fate che io il sappia tosto.

— Il buon messer Geri non può più vivere lontano da voi; vuole riabbracciarvi; ma vuole che scelghiate tra il suo affetto e quel d'altri, e si dà continuo cruccio per voi: e come non gli par possibile che l'abbiate a disamare, e pur lo crede, così si è lasciato persuadere che voi dobbiate essere ammaliata; e mi ha mandato perchè da tale incantamento vi liberi.

— Ammaliata? Oh, bel frate, e voi lo credete? Amo, sì, il gentil mio cavaliere, e l'amo di ardentissimo amore, ma non pertanto disamo mio padre.

— Figliuola, — disse qui la badessa, — dimenticate di essere in un monastero di sante donne, e che qui si disdice il parlare d'amore mondano?

La Bice chinò gli occhi a terra, facendosi rossa; e il frate riprese:

— No, damigella, io non credo a veruna malía; nondimeno parrebbemi, che, almeno per contentare il buon vostro padre, io facessi sopra di voi quelle orazioni e quelle cerimonie che si usano. Piacevi egli?

— Non mi dispiace, quando lo fo per satisfazione del padre mio.

La badessa pertanto disse alla Bice che andasse nel privato oratorio del monastero, o si mettesse in orazione, mentre frate Marco si fosse preparato alla cerimonia; al che la Bice ubbidì: e la badessa ed il frate tornarono là dov'era ad aspettargli il buon prete di Settimello, il quale come gli vide, non fu lento a chieder novelle della gentil figliuola del messere fiorentino, com'egli soleva chiamarla, e se veramente fosse ammaliata.

— Della fanciulla n'è bene, — rispose la badessa, — nè ammaliata la credo, nè credo — disse volgendosi a frate Marco — che le vostre orazioni cambieranno quel cuore, oggimai troppo occupato dall'amore del suo cavaliere.

— E questo pare anche a me, madonna, disse il frate; ma tuttavía proviamo: e preghiamo tutti che il Signore ci apra una via da veder consolato quel buon vecchio di Geri, e quell'angelica creatura della sua figliuola.

— Voi, madonna, potreste in questa bisogna essere di grande aiuto, disse il prete.

— Io? E che ne posso io?

— Madonna, entrò qui il frate, voi degnamente siete tenuta da messer Geri per santissima e prudente donna: la Bice so che amate teneramente qual diletta figliuola; e il val senza dubbio, perchè mai non si vide quaggiù la più gentile e angelica fanciulla. Che ella dimentichi l'amore al suo cavaliere, dicevate anche voi testè essere cosa non isperabile: qual'opra dunque più santa e più accetta a Dio che studiarsi di veder tutti consolati?... Messer Geri vive desolatissimo per la lontananza della Bice; una parola detta da persona cui egli veneri e stimi potrebbe richiamare a più umani consigli quel cuore già volto a ciò.... Se gli scriveste confortandolo....

— Oh, frate Marco, dimenticate forse chi son io? — disse la badessa, guardandolo fieramente e con piglio severo.

Frate Marco non potè reggere a quello sguardo, e chinò gli occhi a terra tutto confuso, senza trovar parola da rispondere. Ma il prete che naturalmente era più ardito, e con la badessa aveva più familiarità, rispose lui per quell'altro:

— A voi, anzi, madonna, sarebbe dicevole un atto di così sublime carità, che renderebbe la quiete a tante care e segnalate persone; dico anche segnalate, perchè messer Guglielmo è dei più belli, dei più nobili, gentili e prodi cavalieri di Provenza....

La badessa sapeva che il cavaliere amante della Bice si chiamava Guglielmo, e che era forestiero, ma altro non ne sapeva; e quando sentì esser egli del più gentil sangue di Provenza, il cuore le sobbalzò nel petto; e dimentica di sè, domandò con tal accento di curiosità che a frate Marco parve soverchia:

— Di Provenza, diceste, sere Gianni? E, se vi piace, di che sangue è egli?

— Io nol so così appunto, rispose il prete, ma frate Marco qui può informarvi di ogni cosa punto per punto.

Alle quali parole frate Marco, senza aspettare altra domanda, continuò:

— Il cavaliere è il più prode e il più leale di ogni cavaliere: nell'ultima battaglia sotto Pistoja fece miracoli di prodezza, e rimase ferito in una gamba; ed ora che è risanato volle venir qui con noi in Mugello per vedere almen da lontano le mura di quel monastero, che chiudono in sè la donna del suo cuore. Egli è messer Guglielmo di Artese, delle prime casate di Provenza.

A questo nome di Artese la badessa diventò bianca come un panno lavato; e se non che potè sorreggersi ad una sedia, sarebbe caduta in terra di colpo. Tuttavia fece tanta forza a se stessa, che, ricompostasi alla meglio, disse altre poche parole al frate, additandogli come dovesse andare in cappella dalla Bice, ed ella intanto conferirebbe alcuna cosa di sua bisogna col sere di Settimello; e fatto cenno a questo che la seguisse, uscì della stanza.

CAPITOLO XXVI. LA CONFIDENZA.

Al frate non era fuggito nulla del turbamento della badessa; e mulinava per la mente quale ne potesse essere stata la cagione:

— Quel nome d'Artese senza un fallo al mondo — diceva tra sè — e qualche gran segreto ci dev'essere sotto questo nome.... e non so indovinare che altro possa essere, se non amore.... Amore?.... uhm! Ma come? ma quando?.... Ben si ragiona da qualcuno che questa badessa venisse a chiudersi qui per amore.... Ma allora messer Guglielmo poteva appena esser nato.... Figl.... Eh! andiamo, frate Marco, che pensieri ingiuriosi sono codesti? una donna così gentile, così santa!... Eppure qualche cosa ci debb'essere.... Basta, qualche novità conviene che si vegga: e potrebbe anche essere che tornasse a pro di questi poveri ragazzi. — E così dicendo, si avviò verso la cappella dove la Bice aspettavalo facendo preghiere accesissime a Dio, che la consolasse in questa sua tribolazione. Intanto la badessa, recatasi in cella sere Gianni[28], e serratala diligentemente, ebbe con lui sì fatto ragionamento:

— Sere Gianni, io sono per confidarvi cosa, che non l'avrei detta ad alta voce nemmeno essendo sola; ma le ultime parole di frate Marco, mi hanno messo tal fuoco nel petto, e tal dubbio nel cuore, che ne morrei se tacessi. Voi dall'altro lato da parecchi anni siete mio familiare, e sempre vi ho esperimentato discreta persona e di me parzialissima; e però non dubito che, se io vi domando, prima di compatimento alla mia fragilità, e poi strettissimo segreto di ciò che sono per palesarvi, non mi rifiuterete l'una, e mi osserverete fedelmente l'altro. Me lo promettete?

Il prete, ansioso di ascoltare quel che mai dovesse dirgli la badessa, promise sulla fede di sacerdote di Cristo che mai non avrebbe detto a persona viva quanto le uscisse dalla bocca; e allora essa incominciò:

Voi sapete ch'io sono de' Cavalcanti: uno di que' tanti rami della famiglia, che lasciarono Firenze per cagion delle parti. Mio padre fu Filippo de' Cavalcanti, il quale erasi riparato a Napoli, dove acquistò gran favore alla Corte di Carlo II, e poscia del re Roberto. Io era giovanissima, mi dicevano bellissima, e il fiore di tutta Napoli: nè vi era gentil donzello, o cavaliere o barone, che non si tenesse beato di un mio sorriso. Mi piaceva vedermi così careggiata da quanto Napoli aveva di leggiadro, di gentile, e di prode; e come più era in me la vaghezza che il senno, così ne andava lieta vanamente; senza per altro mancar mai di un sol punto al dovere di nobile e ben creata fanciulla. E se qualche leggiero segno d'affetto l'avevo dato ad alcuno, dei molti che mi vagheggiavano, su niuno mi era fermata giammai, nè di fermarmici mai aveva fatto proposito; quando giunse alla corte un cavalier provenzale, che tutti celebravano per il più prode e per il più leggiadro cavaliere che vestisse armi, e pulcelle e maritate non parlavano se non di lui. Io lo vidi; e mi parve, ed era, più bello a mille doppj che non dicevano tutti; e come egli ebbe veduta me, in me volse ogni suo desiderio ed ogni suo affetto. Il rimanente non vogliate che il dica, lo indovinate da voi. Quell'amore, vel giuro, sere Gianni, fu sempre puro ed intemerato; ma la invidia e la gelosía seppero tanto fare, che se ne cominciò a parlare con poco onore, non solo per la corte, ma anche per la città; e le maligne arti di queste due furie dell'inferno furono menate così bene che mio padre, quasi vergognoso di me, mi condusse fin qua da se stesso, e del cavaliere non seppi più nulla mai. Quel cavaliere si chiamava Ramondo d'Artese.

— D'Artese! — esclamò il prete maravigliato — come il cavaliere della damigella fiorentina.

— Per lunghi anni piansi il perduto amore, e mi consumai nel dolore e nelle incertezze; e sperai anche... Ah! sere Gianni, ma la speranza fu vana: non seppi nè vidi più nulla mai!... Il tempo aveva quasi del tutto saldato le piaghe del mio cuore, e viveva, se non lieta, almeno più tranquilla, col pensiero quasi tutto alla patria celeste, quando venne la povera Bice. In essa mi parve di vedere un'altra me stessa: ne fui tutta commossa, e da capo mi sentii agitata da passioni diverse, che non mi lasciavano aver bene; tuttavía le potevo signoreggiare. Ma quando frate Marco ebbe nominato sire Guglielmo di Artese, quel nome vinse ogni mia forza ed ogni mia facoltà; mise nel mio cuore un fuoco che mi arde tutta; nè spero refrigerio veruno, se non dalla vostra pietà.

— Madonna — disse il prete tutto compunto — cosa ch'io possa.

— Voi siete buono, siete discreto; non irridete la mia fragilità: la vergogna non mi dà balía di guardarvi in faccia; ma voi non l'accrescete col garrirmene o con lo schernirmi: compiangetemi, consolatemi.

— Garrirvi! schernirvi! Madonna, questo non sarebbe della riverenza che sempre ebbi per voi, nè dell'affetto che sempre mi mostraste; e cagione o di garrirvi, o schernirvi, nè io, nè altri può avere. Prima di essere votata al signore foste nel mondo; foste bella; amaste e foste riamata, nè mai vi partiste dalla onestà....

— Ma ora sono sacrata a Dio; sono preposta a governo di donne sacrate a Dio; sono sul confin della vecchiezza, e sono consumata da una smania che è tutta mondana.

— Non colposa però. Fatevi cuore: che posso o debbo io fare per servirvi?

— Bisogna che io vegga questo cavaliere d'Artese, che io sappia chi è il padre suo, chi i suoi parenti e consorti; e tutto questo salvo il mio decoro e la dignità mia, ed in modo che nulla si appalesi di quanto chiudo nel cuore: a ciò mi bisogna l'opera vostra.

— Rispetto al veder messer Guglielmo è agevole cosa, chè egli è qua alla chiesa di San Niccolò con maestro Cecco a adorare le mura di questo monastero. Il farlo salvo il decoro e la dignità vostra richiede molta accortezza e molta prudenza. Del non appalesarsi nulla, sta tutto in voi, madonna, e nel come vi sentite forte di ascoltare senza commuovervi troppo, quello che il cavaliere potesse dirvi.

— Preparata come io sono, e vinto questo primo commovimento d'animo, io mi sento forte abbastanza. Pensate voi al rimanente.

E il prete, stato un poco sopra pensiero, e veduto che questo era il modo certo da assicurare il buon esito dell'amore della Bice, disse:

— A fare quanto chiedete bisogna che vi porgiate benigna all'amor della Bice.

La badessa guardò il prete con quello stesso sguardo di quando le parlava frate Marco; ma questa volta il prete aveva buono in mano, e non gli venne meno il coraggio come allora; il perchè continuò:

— Madonna, voi confessate che nella Bice vedete un'altra voi, ed ora anch'io ce la vedo. Non vi sentite dunque volta al suo bene?

— Sì, — disse la badessa con profondo sospiro, — ma....

— E che vi ritiene? Non è egli ufficio di santa e prudente donna il salvare dalla disperazione tre cuori gentili? Altro non si richiederebbe che scrivere una lettera a messer Geri, per ora, e tenere a buona speranza i due giovani. E se no, che altra via c'è egli da condur qui Guglielmo?

— E quel maestro Cecco, che qualità di persona è egli? — domandò la badessa.

— La più sapiente, discreta e amorevol persona che mai conoscessi: ha onorato luogo alla corte di monsignor lo duca, e di messer Guglielmo è amicissimo. Uomo da confidargli ogni gran segreto.

— Confidar segreti no — disse la badessa guardando il prete con atto risoluto — ricordatevi bene della promessa vostra.

E qui il prete chinò il capo ed alzò la mano, in atto di togliere ogni dubbio alla badessa, la quale continuò:

— Ma giovarsi al bisogno del suo consiglio. Dite dunque il disegno vostro.

— Io direi di significare ai tre miei compagni, come voi, vinta dalle mie preghiere, consentite di essere benigna alla Bice, e di interporvi con suo padre, sì veramente che vi accertiate prima delle qualità, della nobiltà e della lealtà del cavaliere suo amante, e che l'amore di lui sia solo a buono e ad onesto fine; che il cavaliere volete vedere ed interrogarlo, per voler esser certa di ciò. Egli verrà; lo interrogherete minutamente: e così servirete voi stessa e la Bice ad un'ora, senza che altri possa trapelar nulla; dove per altro non vi lasciate vincere da voi medesima, mostrando di fuori le passioni che dentro possono turbarvi nel colloquio che avrete con Guglielmo.

— Di ciò posso assicurarmene; chè già la prossima speranza di essere tolta da ogni dubbio dal cavaliere, ha temperato molto l'ardore che mi fece quasi delirare. Ora ardo solo d'impazienza; e però, sere Gianni, fate che la cosa abbia pronto effetto.

CAPITOLO XXVII. SI VEDONO.

In questo mezzo tempo frate Marco aveva fatto le sue orazioni sopra la Bice, le quali, com'era naturale, aveano lasciato il tempo che trovarono; e mentre usciva dall'oratorio, dove la fanciulla rimase aspettandovi la badessa, come essa avealo imposto, s'abbattè nel prete, che giusto veniva in cerca di lui: ed appena lo vide, gli disse tutto lieto nel volto:

— Frate Marco, la badessa è nostra....

— Come è questo? Come avete operato tanto miracolo?

— Di ciò non vi caglia. Andiamo tosto dagli amici che aspettano là nella chiesa di S. Nicolò — e mossi senza indugio, furono a S. Piero in meno che non si dice.

Come furono giunti, maestro Cecco esclamò verso frate Marco:

— La malía della damigella di messer Guglielmo doveva essere molto tenace, se tanto indugio ci è bisognato a vincerla. Ma che diavolo avete fatto sino ad ora? Noi stavamo per rinnegar la pazienza.

E messer Guglielmo nel tempo medesimo verso il prete:

— La Bice la vedeste? che è di lei? parlovvi di me?

— Ben altra malía abbiam vinto che quella della damigella; e abbiamo fatto cosa che messer Guglielmo e voi, maestro, ce ne vorrete bene a tre doppj, rispose qui il prete.

E il frate, a compimento delle parole di lui:

— La badessa è tutta per noi.

— Ma la Bice — ribattè Guglielmo — frate Marco, voi la vedeste? pensate che io ne muojo dal desiderio.

— La Bice piange e sospira; ma ogni speranza è adesso rinverdita. Dite voi, sere.

— Madonna la badessa, vinta dalle mie strette preghiere, ha consentito di scrivere a messer Geri per confortarlo a perdonare alla figliuola e consolarla del suo amore; nè dubito punto che la lettera di lei non abbia a essere efficace ed accesissima; e, unita alle persuasioni di frate Marco, non abbia a commuovere il cuore del vecchio, già disposto al perdono, e già troppo doloroso della sua desolazione e della lontananza della sua diletta Bice. Solamente vuole esser certa che messer Guglielmo ami veramente la gentile damigella, e che egli sia veramente de' più chiari lignaggi di Provenza; e vuole, prima di far nulla, conferire con esso lui. Voi dunque, bel sire, apparecchiatevi di vedere la badessa; chè forse potreste vedere anche la vostra donna, dove sappiate guadagnarvi l'animo della buona suora, che è della Bice tenerissima, e di cuore oltre ogni credere gentile ed affettuoso. Non so se nella vostra famiglia vi sieno esempj d'amori infelici; ma, se ci fossero, fate con bel modo di fargli entrare nel discorso quando la ragguaglierete del vostro lignaggio.

Il prete sapea bene che esempj di amori infelici dovevano esserci, a quel che le aveva detto la badessa del suo Ramondo d'Artese; e mise così in via il cavaliere di parlarne, non solo perchè la buona religiosa si intenerisse più del caso della Bice, ma ancora per darle modo di essere chiarita dei casi del suo cavaliere di quando era al secolo, senza che ella ne dovesse fare domande tali, che destassero qualche sospetto negli altri.

— Su dunque, disse maestro Cecco, tutti al monastero; e veggiamo se per opera del nostro sere si arriva ai desiderj nostri. Ma quella badessa convertita così presto mi sa troppo di miracolo: ci deve essere qualche gran cosa sotto. Deh, sere, se vi piace, ne dite come faceste tal miracolo, e ditene la vera cagione.

— Maestro, il cuore veramente gentile della badessa, il caso della Bice tanto pietoso, ed anche l'efficacia del mio ragionare....

— Veggo che avete credenza.... e ve ne lodo, nè più vi sollecito di ciò....

— La badessa aspetterà.... disse il cavaliere.

— Ah, la badessa aspetterà — ripetè Cecco sorridendo; e tutti si mossero verso il monastero, dove la badessa stava veramente nella più grande ansietà, e cercava di fortificare con ogni argomento l'animo suo, che si mantenesse saldo al primo vedere Guglielmo, ed a tutto ciò che potesse udire da lui. Essa stava aspettandogli nella sala del parlatorio comune, ed aveva ordinato alla portinaja che, tornando frate Marco e sere Gianni con due altri cavalieri, gli conducesse tosto da lei; e di fatto non andò molto che giunsero, e la portinaja gli conduceva al parlatorio. Ma il prete gli arrestò nella sala precedente, e volle prima passar solo per avvisare la badessa, la quale, come il vide entrar solo, esclamò tutta smarrita:

— O il cavaliere?

— Il cavaliere è qui, madonna: vengo prima io solo, per avvisarvi intanto della sua vicinanza, e scemarvi così la impressione della veduta improvvisa; vengo per ricordarvi che siate forte, che pensiate alla vostra dignità, alla vostra età....

Qui la badessa si fece rossa nel viso; e abbassando gli occhi:

— Grazie, disse, sere Gianni, del vostro gentile pensiero; e grazie ancora dell'avermi ricordato ch'io sono presso alla vecchiezza: avrei potuto obliarlo per un momento, ed apparire schernevole presso il cavaliere ed il maestro.

Il prete aveva ricordato gli anni alla badessa, perchè, sebbene di poca istruzione, era però accortissimo, e sapeva che questo argomento sarebbe il più efficace di tutti a frenar l'impeto della sua passione, come fu veramente.

Ora alle ultime parole della badessa non rispose nulla; ma, chiesto solo licenza di introdurre i suoi compagni, ed ottenutala, si fece all'uscio, ed accennò che entrassero.

La badessa era seduta appunto dirimpetto all'uscio, e là teneva teso avidamente lo sguardo; primi si mostravano maestro Cecco ed il frate; ma, come Guglielmo gli sopravanzava di tutto il capo, così ella vide benissimo prima di ogni altra cosa l'elmo, che per cimiero aveva un dragone verde con tre penne di tre colori diversi, bianca, azzurra, vermiglia. La vista di quel cimiero fu il colpo più forte al cuore della buona religiosa, perchè era in tutto e per tutto simile a quello che già portava Ramondo, e ne cominciò a sudar freddo freddo: e fu bene che il vedesse così da discosto, e prima che i tre le fossero vicini; altrimenti non avrebbero potuto non accorgersi del suo turbamento. Ben videlo il prete, che erasele fatto appresso, e le disse sotto voce:

— Madonna, vi tradite....

Ella a queste parole si scosse tutta; e riprese il meglio che potè la sua gravità, se non quanto si cambiò di colore quando scorse da vicino l'aspetto di Guglielmo; ma non ne diede altro segno; e niuno, se non forse maestro Cecco, si accorse di ciò. Fattale per tanto riverenza da tutti, e presentatole maestro Cecco e messer Guglielmo, maestro Cecco le disse queste parole:

— Madonna, il caso pietoso di questo cavaliere e della Bice, voi lo sapete: siete di gentil sangue e di animo gentilissimo; siete ancella di Cristo, e non potete non essere informata dello spirito di carità, onde sono pieni i santi vangeli; voi potreste, volendo, essere grande ed efficace ajuto a ricondurre la quiete in una desolata famiglia, a render felici due nobili cuori; e che il vogliate ce ne dava speranza testè il buon prete di Settimello. Il perchè, io, che amo e riverisco quanto carissimo figliuolo il prode cavaliere che qui vedete, per me e per lui vengo a rendervi care grazie del vostro cortese assentire, ed a pregarvi altresì di perseverare nella santa e caritatevole opera vostra.

La badessa, mentre Cecco parlava, non restava di volger gli occhi verso Guglielmo, e intese a fatica il concetto delle parole di lui; al quale rispose così per le generali:

— Il caso della Bice è pietoso; e non si disdice a me il fare alcuna cosa per vedere di rammollire l'animo di suo padre. Questo però non si può nè si dee, se prima non sono certa che il grave sdegno di messer Geri non abbia fondata ragione; e che il cavaliere sia di quel nobile lignaggio che si dice, e che l'amore di lui sia solo a buono e lecito fine.

— Madonna — disse qui Guglielmo — che messer Geri sia stato inacerbito dalla maligna e insidiosa istigazione di maestro Dino del Garbo, ve lo giuro sulla mia fede, e ve lo accerta qui frate Marco, il quale non mente: del mio amore per la Bice vi dirò solo che l'adoro come si farebbe di una immagine della Vergine: del mio lignaggio basti dire che è di quelli d'Artese.

— Vivono i vostri genitori? — domandò con voce tremante la badessa; nè ebbe balía di dir altro.

— La dolce mia madre, che fu della casa di Angiò, mi lasciò dolente della sua morte dieci anni sono; mio padre vive in verde vecchiezza, ed ebbe già onorato luogo alla corte di re Carlo, e l'ha ora onoratissimo alla corte del gran re Roberto.

A queste parole la povera religiosa sentì come passarsi il cuore da un coltello, pensando tra sè — Alla corte di Roberto? Ramondo forse....; e domandò quasi balbettando:

— Il nome e l'ufficio di lui?

— Sire Gilberto, gran siniscalco.

All'udir questo nome la badessa riprese un poco di cuore; ma non sapeva che via tenere per fare altre domande, che la conducessero a sapere, senza dar verun indizio, che cosa fosse stato di Ramondo; e se fosse stretto parente o consorto del cavaliere. Sere Gianni ben si accorse di ogni cosa; e ben indovinava il desiderio di lei, a certe occhiate che essa gli dava; onde entrò egli in ragionamento col cavaliere, per vedere se riuscisse a qualche cosa; ma a nulla di certo lo potè trarre; sicchè la povera suora, perduta quasi ogni speranza, conchiuse il colloquio così:

— Cavaliere, pregio altamente e il lignaggio e la cortesía, e il gentile animo vostro; farò appresso messer Geri ogni mia opera in vostro servigio.

— Madonna — riprese timidamente il cavaliere — daretemi voi commiato, senza che io possa vedere la donna del mio cuore?

— Parvi cortesía — disse con dignitosa gravità la badessa — il fare a me codesta domanda?

Guglielmo vedeva bene che la badessa aveva ragione: a lei aveva messer Geri affidata la Bice, ed ella avrebbe fatta villanía a consentire che la vedesse e ci parlasse col suo beneplacito; e però, sentendosi rimproverare di scortesía, rispose:

— Perdonatemi: l'amore mi ha sopraffatto, e però feci tal domanda: ma il vostro rifiuto, benchè giusto, mi ucciderà. Esserle così presso, sotto un tetto medesimo; dopo tanto tempo; dopo i pericoli della guerra; dopo la speranza già concepita di rivedere quel caro volto, di riudire quell'angelica voce; e dovere abbandonare questo luogo senza vederla! Sì, madonna, io ne morrò di dolore, come fece messer Ramondo mio zio.

Qual divenisse il cuore della badessa a questo nome non si può dir con parole; fu tale e tanta la sua commozione, che non potè tenersi di non esclamare, tutta infiammata nel volto:

— Messer Ramondo!...

Ma tosto accorgendosi del suo fallo, cercò di temperarsi al possibile, e continuò:

— E chi fu, se vi piace, codesto messer Ramondo; e come dite che morì per amore?

— Io era tuttor fanciullo, e mi ricordo di aver più volte sentito narrare da' miei, di un gentiluomo fiorentino, che riparò a Napoli al tempo dei Bianchi e dei Neri, dove ebbe gran favore alla corte del buon Carlo II: aveva questo gentiluomo una figliuola unica, la più bella e gentile che a memoria d'uomo si fosse veduta alla corte; nè v'era cavaliere o barone, che non ardesse d'amore per lei. Ella per altro fra tutti prescelse messer Ramondo di Artese, fratello di mio padre, il più leggiadro e prode cavaliere che mai portasse arme; e si amarono di ardentissimo amore, e pareva loro di essere la più felice coppia d'amanti di tutto il mondo. Ma ben tosto la felicità tornò in troppo amaro pianto. Un giorno che la sua Gismonda (tale era il nome della fanciulla) doveva venire alla corte col padre, e parlare col suo cavaliere, la Gismonda non vi fu: al balcone, come spesso solea vederla, Ramondo non la vide per più giorni; ed alla fine si seppe, come suo padre, avverso fieramente all'amor della figliuola col cavaliere, l'aveva condotta fuori di Napoli; ma niuno potè mai trapelar dove. Le inchieste del cavaliere furono senza numero; andò per molte parti d'Italia, se potesse avere niuno indizio, fuorchè in Firenze, dove il padre della sua donna non sarebbe potuto andare, essendovi condannato per rubello; ma ogni domanda ed ogni viaggio tornò invano; chè nulla più seppe della bella damigella. Tanto dolore si pose al cuore messer Ramondo di tal perdita improvvisa e crudele, che la sanità gli se ne alterò in gran maniera, e struggeasi proprio come una candela; e ben tosto gli entrò addosso una febbre lenta lenta, che lo condusse in poco più d'un anno al sepolcro.

La badessa ascoltava questo racconto con evidente commozione; e quando udì il suo Ramondo esser morto per lei, non potè non dare sfogo all'affanno con pianto abbondantissimo. Il prete non si meravigliò, perchè ne sapea troppo bene la cagione; si meravigliò ben frate Marco e messer Guglielmo delle lagrime della suora, nè sapevan trovar la cagione di tanto amaro pianto. Maestro Cecco per altro, il quale era di coloro, di cui dice Dante, che non vedono l'opera solamente, ma per entro i pensier miran col senno, bene sospettò che messer Ramondo doveva essere stato quel cavaliere, per il cui amore la badessa fu già rinchiusa, come sapevasi per il paese; e di ciò prese certezza al buon esito della loro impresa; e volendo pur profittare del momento, disse rivolto a lei:

— Madonna, il caso di messer Ramondo è molto compassionevole, nè può un cuor gentile come il vostro non esserne pietosamente commosso; pensando massimamente alla vita infelice, che dee aver condotto la povera Gismonda della cui sorte noi tutti rimaniamo col desiderio.

— Oh, potessi io — riprese qui il cavaliere — potessi sapere ove ripara, se vive tuttora, la donna del mio buon parente! L'amerei come seconda madre, la condurrei qui ai piedi vostri, madonna, che mi impetrasse ella la grazia che io vi domando, dipingendovi ella stessa lo strazio del suo cuore in questi lunghi anni, e pregandovi di non volere rendere infelice al pari di lei una gentil fanciulla come la Bice, e condurre il nipote alla morte disperata che fece lo zio.

— Messere, vedete che il racconto di messer Ramondo ha molto ammollito il mio cuore — disse la badessa, asciugandosi le lagrime — perchè volete anche straziarlo con parole, che hanno per me dell'acerbo? Temperate il vostro ardore: siate certo del mio efficace ajuto; e sperate.

Dette queste parole con voce tremante, e non potendo più reggere alla piena della passione, uscì dalla sala, accennando al prete che la seguisse.

Come la badessa fu uscita, maestro Cecco si volse ai compagni, e disse a mezza voce, e con quell'aria di chi dice cosa strana, ma vera:

— La badessa è madonna Gismonda di messer Ramondo....

— Maestro, rispose il cavaliere, che dite voi?

— In tutto il tempo di questo colloquio io non le ho mai levato un momento gli occhi da dosso, e ne ho studiato ogni atto, ogni volger di ciglio, ogni sospiro. È lei; e il sere di Settimello per avventura sa tutto. Vedete? Ella era sopraffatta dalla passione: si è involata da noi per darle sfogo; e il prete ha chiamato con sè. State di buon animo, messere; tosto vedrete l'effetto del vostro racconto: vedrete la Bice; e forse il prete lo ha condotto seco per questo.

Maestro Cecco si apponeva.

La povera badessa, appena fu sola col prete, diede ampio sfogo al suo dolore con pianto dirotto, nè il prete volle interrompere il corso alla piena dell'affetto, e se ne stava muto dinanzi a lei. Dopo il primo sfogo, a poco a poco la ragione cominciò a riprendere il suo dominio. Il saper morto per lei il suo cavaliere, davale pietoso martorio; ma tuttavía (mala cosa! ell'era donna come l'altre) le dava anche qualche conforto la certezza che altra donna non aveva più amata: erale pure di alcun conforto l'avere così vicino il nipote di lui, che di lui ritraevale l'aspetto e la gentilezza; e sentiva tutta consolarsi, ricordando le parole di Guglielmo, quando disse della Gismonda, che l'amerebbe come una seconda madre, se fosse viva tuttora; e sentivasi volta ad amar lui come suo dolce figliuolo; e si spaventava al solo pensiero che questo amore contraddetto dovesse condurlo a morte immatura: laonde propose ad ogni costo di volerlo veder felice. Tutti questi varj affetti combattevano nel cuore e nella mente della badessa, e ne fecero quasi subitamente un'altra donna. Riprese ben tosto la sua tranquillità d'animo; e si fissò tutta nel solo pensiero di consolare messer Guglielmo.

— Donno Gianni, gran tempesta ha sofferto il mio cuore, ma la calma ritorna. La sventura del mio Ramondo mi ha colpita; ma bisogna rassegnarsi al volere di Dio; chè ad ogni modo l'uno era già morto all'altro da lunghi anni. È gran conforto per altro l'essere uscita da tanta dura incertezza. Un affetto nuovo ha ora occupato il mio cuore, che ora è tutto pieno di messer Guglielmo, e lo amo per figliuolo tenerissimo: il solo pensiero di vederlo disperato del suo amore per la Bice mi spaventa, e mi sta paurosamente dinanzi agli occhi il compassionevole caso di messer Ramondo. Non ho cuore di lasciarlo partire, senza che veda la Bice; e veggo dall'altra parte esser villanía, se, avuta in così gelosa custodia una fanciulla, io la faccio abboccare con l'amante: sento che un tal atto troppo si disdice a chi governa un monastero di donne. Che ne pare a voi? Consigliatemi in questa crudele incertezza.

— Madonna, il caso è tanto nuovo e tanto singolare, e la cosa è in sè tanto onesta, che niuno potrebbe con ragione darvene biasimo, anche sapendosi. Ma chi il saprà? Niuno, ve l'accerto io; chè sulla fede dei tre compagni miei non è da dubitare minimamente. Circa poi all'essere dicevole o no alla qualità vostra, di ciò, madonna, non ve ne gravate: prima perchè niuno il saprà, e poi perchè le opere sante e caritatevoli, come questa è, si addicono a qualunque santa e caritatevole persona.

Queste ragioni del prete, massimamente quella del non si saprà, non reggono in tutto e per tutto al martello della stretta morale; e la badessa forse in parte lo vedeva da sè; ma l'affetto prevalse, e si lasciò convincere. Solo volle che la cosa si facesse con ogni possibile riguardo, e in modo da non offendere minimamente la più severa onestà, e però disse al prete:

— Le vostre ragioni mi convincono: la Bice dunque parlerà col cavaliere; ma qui al cospetto mio, e senza altri testimoni che voi. Se ci fosse o frate Marco o messer Cecco, arrossirei dinanzi a loro; voi dovete esserci, chè oramai tutto vi è noto, e sapete compatirmi; ed anche per far testimonianza del modo severamente onesto che intendo tenere.

A queste parole della badessa il prete rispose:

— Madonna, parmi anzi che e frate Marco e maestro Cecco dovessero esserci, prima perchè la cosa non è in sè biasimevole; ma anche perchè il farne mistero potrebbe in essi ingenerare sospetti e fargli pensare al peggio.

— Se così vi pare, e così sia, replicò la badessa. Io vado dalla Bice per prepararla; acciocchè l'improvviso veder Guglielmo non l'abbia troppo a commuovere; voi fate il medesimo con Guglielmo, e che egli non si porti altrimenti che come si conviene dinanzi ad una donna consacrata al Signore in un monastero di sante donne. Io sarò qui tosto con la Bice, e vi chiamerò io stessa.

Così l'una andò via da una parte e l'altro dall'altra: e mentre la badessa preparava la Bice alla commozione che l'aspettava, confortandola che non si lasciasse vincere alla passione e non si scordasse mai chi era e dov'era, e ch'ella sarebbele accanto; il prete corse dai compagni, e, voltosi tosto a Guglielmo, gli disse senz'altro:

— Testè vedrete la Bice vostra....

Gli occhi del cavaliere sfavillarono di subita gioja, e corse tutto lieto ad abbracciare il prete: ma poscia, come dubbioso:

— Sere Gianni, non vi gabbereste voi di me?

— Messere, gabbarmi di voi, e specialmente in questo fatto, sarebbe non pur villanía, ma crudeltà. Vedrete testè la Bice vostra.

E come il cavaliere agli atti e alle parole si mostrava quasi fuori di sè dal contento, il prete continuò:

— Ma fa di bisogno che temperiate molto cotesto vostro ardore. Madonna la badessa consente che la veggiate; ma vuole fede di leal cavaliere che vi porterete in quel modo dinanzi a lei, che si conviene ad una donna religiosa e della sua qualità; nè vi esca dalla bocca parola, o facciate verun atto, che sia disdicevole al santo luogo dove siete, e per il quale ella abbia da pentirsi di avervi concesso tanto benefizio: e vuole che mentre parlate alla Bice, sia presente ancor io, come colui che debbo rispondere della vostra fede.

— Prometto e giuro ogni cosa; andiamo.

— No, messere, bisogna aspettare che la badessa ci chiami.

Qui entrò a parlare maestro Cecco, e disse al prete:

— Sere Gianni, m'ingannerò; ma questa badessa è nè più nè meno che quella Gismonda, di cui fu amante messer Ramondo d'Artese.

— Maestro, è egli possibile questo?

— Possibile è, tali riscontri ho io fatto, e tali atti ho veduto fare alla badessa mentre messer Guglielmo raccontava il caso del suo zio. E voi, che da tanto tempo siete familiare di lei; che vi ha dato testè segni di tanta confidenza: voi, sere Gianni, dovete sapere ogni cosa.

E il cavaliere tutto ansioso.....

— Deh! sere Gianni, diteci ogni cosa: mi parrebbe di aver trovata una madre.

— Maestro — rispose il prete — io non ho mai potuto accorgermi che la badessa sia quella che dite: ma è santa e prudente donna....

A questo punto si fece sull'uscio la badessa in persona, e chiamato il sere, accennogli che venisse col cavaliere, e si ritirò. Il prete esortò il cavaliere a ricordarsi della data fede, ed entrarono là dov'era la badessa con la Bice. La suora stava seduta su nobile scranna, ed accanto sedeale la Bice; nè si può accertare chi più di loro due fosse agitata, e il cui cuore battesse più ansiosamente: entrò primo maestro Cecco, poi il frate e il prete, e per ultimo Guglielmo, il quale, mentre gli altri passavano, non lasciava di allungare il collo per vedere se scorgeva la sua donna. Entrati che furono tutti, e come i due giovani si furono veduti, senza accorgersene e senza volere, esclamando ciascuno il nome dell'altro, la Bice si rizzò e Guglielmo mosse verso di lei tutto desioso di abbracciarla: ma uno sguardo della badessa fermò tosto la Bice, ed a fermare Guglielmo bastò una parola del prete, che gli ricordava la data fede. I volti dei due amanti per altro erano accesi di tanta gioja e di tanto desire, e tanto abbondanti le loro lacrime che ciascuno ne sentiva pietà, e più di tutti la badessa, che mal poteva celare la commozione e il turbamento dell'animo; nè veruno era in grado di articolar parola; quando maestro Cecco, per troncare questa comune confusione, ruppe egli il silenzio:

— Madonna la badessa, voi messer Guglielmo, e voi gentil damigella, ha consentito che vi veggiate dinanzi a lei, non per ajutare un mondano amore, ma perchè sa che l'amor vostro è virtuoso e ordinato a buono e santo fine. Voi, Bice, essa ama come figliuola, e sente pietà della vostra sventura; e voi, cavaliere, ha preso certezza che siete da pregiare ed amare, e quasi sente per voi un affetto di madre....

Queste parole disse Cecco a disegno, e ficcò gli occhi nell'aspetto della badessa, la quale ne cambiò stranamente di colore, che a lui non isfuggì; e senza darsene per inteso continuò:

— Per questo ella si mostra tutta benigna verso di voi altri; e farà di tutto con messer Geri, acciocchè vinca la sua avversione, e consenta alla vostra unione.

Qui Guglielmo prese animo, e ruppe anch'egli il silenzio, prendendo occasione di dir parole di affetto alla Bice, col parlare alla badessa.

— Madonna, gran mercè, non pure dell'aver consentito ch'io rivegga qui colei che adoro, dopo Dio, sopra ogni cosa; ma della benignità altresì che voi mostrate per me; ed anch'io vi accerto, madonna, che al primo vedervi mi sentii volto ad amarvi, non so perchè, come tenerissima madre. Deh! abbiate misericordia di noi!

A queste parole la Bice s'inginocchiò dal lato dove sedeva, accanto alla badessa, e appoggiato il capo sulla gamba di lei la bagnava tutta di lacrime. La povera suora era combattuta da tanti affetti che stava per esserne sopraffatta; ma nondimeno potè riprendere tanta signoría di se stessa che disse con bastante fermezza e gravità:

— Figliuoli, quanto lo consente la mia qualità, farò ogni cosa per vedervi contenti; ma tu, Bice, fa di non iscordar mai la riverenza ai genitori; e voi, Guglielmo, non vi esca mai di mente, come leal cavaliere che siete, che l'amor vero debb'esser cosa tutta pura e gentile; e fate di non obliare un solo momento quale è la santità del luogo ove la Bice si custodisce, e il debito di lealtà e di cortesía che avete meco.

Guglielmo accertò la badessa che al suo onore non fallirebbe giammai; ed ella, che non vedeva l'ora di restar un poco sola, fatto cenno alla Bice che la seguisse, e detto al frate, che tra poco gli darebbe un foglio per messer Geri, salutati gentilescamente gli altri due, uscì della sala con passo piuttosto frettoloso, e forse lo fece a disegno, acciocchè la Bice rimanesse un poco discosta da lei; per modo che Guglielmo potè appressarsele, e dandole un ardentissimo bacio sulla fronte, dirle con gli occhi sfavillanti di gioja:

— Addio, mia dolcissima Bice: tra poco saremo felici.

Alle quali parole la Bice rispose alzando gli occhi al cielo; e guardando poi il suo diletto con amoroso sorriso, aggiunse:

— Addio, mio dolce signore. Aspetto sospirando e pregando.

E senz'altro seguitò la badessa.

CAPITOLO XXVIII. LA LETTERA E IL COMMIATO.

I quattro compagni furono assai lieti del buon avviamento che prendeva la cosa, e maestro Cecco non ebbe più un dubbio al mondo che la badessa era nè più nè meno che madama Gismonda, amante dello zio di Guglielmo: della qual certezza non parlò agli altri tre; ma ne prese sicurtà al buon esito della cosa, anche quando Geri fosse stato fermo nel suo duro proposito; a rimuoverlo dal quale forte dubitava che fosse sufficiente la lettera della badessa, e le poco efficaci parole di frate Marco. Ma, non fermandosi per ora con la mente sopra nulla di determinato, si misero tutti insieme a ragionare di cose diverse, per aspettare che fosse scritta la lettera. Lasciamogli per un momento confabulare a bell'agio, e veggiamo che cosa faceva la badessa. Ella aveva detto alla Bice che tornasse nella cella, ed essa come prima fu rientrata nella sua, si gittò sull'inginocchiatojo col capo fra le mani, sfogando in abbondanti lacrime la passione che empievale il cuore, e facendo spesso invenie alla immagine del Redentore Crocifisso che le stava dinanzi; e quando si sentì un poco calmata, si mise al tavolino, e presa la penna, scrisse a messer Geri la lettera, che fu di questo tenore:

«Carissimo fratello e padre, per reverenza del dolcissimo Sacramento in Cristo dolce Gesù. Io, suor Anna, scrivo a voi nel prezioso sangue suo, con desiderio di vedervi alluminato di vero e perfettissimo lume, acciocchè conosciate quello che più fa alla quiete e contentezza vostra, ed alla vostra salute, così dell'anima come del corpo. Frate Marco vi significherà a bocca, come la Bice vostra non è ammaliata, nè disamorata di voi; che vi ama anzi tenerissimamente, e si addolora del dovere star lontana da voi; e questo ve lo accerto io nel nome del nostro Signore Gesù. Messere, lei esorto sempre alla obbedienza, e sempre studio di persuaderla che le bisogna spiantarsi dal cuore ogni altro affetto che contrasti al volere del padre; ma a voi è debito mio il parlare in altro modo. Le forze d'amore sono grandi; e nei cuori gentili le usa esso formidabilmente: la povera Bice è stata vinta da lui, nè sa nè può contrastargli, perchè ciò è sopra ogni umana possanza. Che colpa o peccato ne ha dunque la vostra figliuola? Parmi piuttosto, messere, che peccato facciate voi, quando per siffatta cagione quel cuore gentile straziate in tanto spietata maniera, ed a colei date tanta afflizione, la quale così caramente vi ama e vi tiene in riverenza.

«Il cavaliere che la vostra figliuola ama, so essere della più nobile progenie della Provenza; lo so essere prode in arme, e strenuo difensore della vostra terra, per la cui libertà e buono stato non dubita di dare il sangue e la vita; voi so che ama e còle per padre dolcissimo, e che si accuora troppo duramente di non potervi anche egli appellare col dolce nome di padre. E voi, sordo alle voci della natura, istigato per avventura dall'invidia e dal maltalento, volete essere micidiale della vostra figliuola, e vivere quasi disperato nella desolazione, piuttosto che consolarvi nell'affetto di una carissima fanciulla, che tutta si strugge di rivedervi, di abbracciarvi le ginocchia, di usarvi ogni più amorosa cura che possa essere richiesta dalla vostra età e dalla mal ferma sanità vostra. A voi parrà troppo strano il mio ragionare, io che ho accettato la custodia della vostra Bice; ma, se a lei mi porgo grave, severa, e le consiglio sempre obbedienza e rassegnazione al vostro volere; non posso però non sentirne pietà, vedendola consumarsi come fa, e peggiorarne ogni giorno; non posso non condannare la vostra durezza, contraria alla carità e alla giustiza. Deh! messere, a così parlarvi mi inspira il nostro benignissimo messere Gesù Cristo: per il suo sangue prezioso adunque, per l'amore che il condusse a morte per noi ricomprar dal peccato, prendavi misericordia della povera Bice vostra: perdonatele; consolatela del suo innocente amore: ne sarete lodato da ogni cuore gentile; tornerete a gustare la ineffabile dolcezza della gioja domestica; la vostra estrema vecchiezza sarà consolata dall'amore dei vostri figliuoli, e rallegrata dai figliuoli dei vostri figliuoli, e chiuderete gli occhi, a modo degli antichi patriarchi, tra le benedizioni di tutti e circondato dai vostri più cari; dove, stando pertinace, sarete straziato dal rimorso, spaventato dalla desolazione, e morrete abbandonato da tutti, se non disperato».

Questa lettera sembrerà al lettore un poco troppo accesa, e mal dicevole alla qualità di chi la scriveva; e forse e senza forse è ciò vero; ma la meraviglia cesserà, chi ripensi un poco al punto nel quale suor Anna la scrisse; chè certo doveva essere sopraffatta dalla passione, e solo aveva dinanzi agli occhi il pensiero di veder felice il nipote di colui che per lei era morto di amore.

Suggellata che l'ebbe, stette un pezzo fra 'l sì e 'l no del mandare per frate Marco, o dall'andare essa stessa a portargliela; l'un cuore le diceva non istar bene ad una donna di santità com'ella era il presentarsi da capo a coloro a cui aveva dato commiato; ma l'altro pur la spingeva a volere per l'ultima volta rivedere il cavaliere; e questo la vinse, persuadendola per di più che parole di commiato non si erano cambiate fra loro, e che pure era atto di cortesía il farle. Laonde, vinto ogni rispetto, andò là dove i quattro aspettavano, e fattasi incontro a frate Marco:

— Questa, frate Marco, è la lettera per messer Geri.

E volta al cavaliere con atto donnescamente benigno:

— Messere, gli disse, così Dio ammollisca il cuore al padre della Bice, come io ardentemente lo desidero.

E Guglielmo, chiestole, ed ottenutolo, di baciarle la mano per atto di grato animo:

— Madonna, le disse baciandogliela, tanto sono dolci le vostre parole che non possono fallire all'effetto loro; nè può esserci cuore tanto duro che ad esse non si ammollisca; e non può fare che per opera vostra io non sia consolato del tutto, così caro e così buono mi parve il vostro aspetto al primo vedervi, tanto che non dubitai di reputarvi il mio angelo custode.

Quanto soavi sonassero queste parole a suor Anna, non penerà a indovinarlo il lettore, che abbia seguito con attenzione il mio racconto, e sappia per conseguenza qual fosse il cuore della badessa verso Guglielmo; la quale, per non intenerirsi troppo, risposto qualche tronca parola alle gentilissimo di Guglielmo, e dato a tutti cortese commiato, ritornò nella cella più tranquilla e più quieta; ed i quattro compagni, ristoratisi un poco dal prete di S. Niccolò, e montati poscia a cavallo, non restarono finchè furono a Settimello, dove cenato e dormito, la mattina maestro Cecco, frate Marco e Guglielmo cavalcarono a Firenze, e vi giunsero a mezza terza.

CAPITOLO XXIX. IL RITORNO.

Maestro Cecco e Guglielmo andarono diviato al palagio dove il duca e la duchessa gli aspettavano ansiosamente, perchè Cecco aveali per uomo apposta avvisati che il tal dì ci sarebbero e alla tal ora. Le feste che il duca, e la duchessa, e tutti i cavalieri della corte fecero a Guglielmo non potrebbero descriversi a parole. Il duca volle sapere ogni fatto della battaglia sotto Pistoja, e più che altro, rispetto alla qualità della persona di Castruccio, di fronte a cui si era trovato personalmente Guglielmo, il quale cavallerescamente lo celebrò dinanzi a tutti per valentissimo e prode signore. La duchessa non cessava di domandargli come fosse andato il fatto della sua ferita; come essa fu grave; quanto egli soffrì, e come ora si sentiva. A che rispose il cavaliere che della ferita poco calevagli, ma solo era rimasto accorato dell'impresa fallita; che ora si sentiva aitante della persona come mai fosse; e che ardeva solo del desiderio di poter dare a monsignore lo duca novella prova della sua devozione ed affetto: aggiungendo che tutto doveva a maestro Cecco il suo buono stato presente, per amore delle tanto assidue ed amorose cure prestategli.

Sentendo la duchessa attribuire alle assidue cure di Cecco quasi tutto il merito del buono stato del cavaliere, fece un atto di dispetto, e guardò sinistramente esso Cecco, il quale, avendole appunto gli occhi addosso, se ne accorse benissimo, e le disse con atto umile quanto più si può:

— Madonna, la guarigione del nobile cavaliere non si deve attribuire a niuna virtù mia propria, ma alla virtù che le stelle influiscono su certe erbe: io ho il solo pregio di avere studiato ogni via ed ogni modo da servire con tutto amore monsignor lo duca, e voi massimamente, madonna, che tanto efficacemente mi raccomandaste messere Guglielmo.

La duchessa non diede a Cecco veruna risposta; e niuno si accorse dell'atto stizzoso ch'ella fece, perchè nel tempo stesso tutti gli altri cavalieri della corte erano intorno a Guglielmo, opprimendolo di mille domande, informandolo degli apparecchj che si facevano per la prossima guerra, e un monte di altre simili cose.

Mentre tutti erano occupati attorno a Guglielmo, si accostò a maestro Cecco messer Gualtieri di Brienne duca di Atene, e sotto voce gli disse che per parte di monsignor lo duca avea a conferire con esso cosa di gran momento, e che fosse da lui senza indugio, a che Cecco rispose che vi sarebbe; e il duca frattanto con la duchessa uscirono della sala, facendo prima invitare tutti i cavalieri al convito, che quel giorno stesso egli dava in onore di messer Guglielmo. Il lettore avrà senza dubbio notato l'atto dispettoso della duchessa verso Cecco, e il modo più duro dell'usato ch'ella teneva verso di lui; e forse vorrà saperne la cagione. La cagione c'era, e gravissima. Come prima il duca ebbe comandato al maestro che andasse a Prato alla cura del cavaliere, essa comandò al suo fidato ministro che cavalcasse tosto anch'egli, e nol perdesse mai d'occhio; e quegli vide bene essersi Cecco accompagnato col frate, uscendo da Firenze: gli seguitò ambedue fin passato Sesto; ma gli perdè d'occhio quando voltarono verso Settimello, perchè egli, sapendo che dovevano andare a Prato, continuò la strada per Prato. Poi vide che il frate tornò a Firenze e ritornò a Prato; ma non potè spiare il rimanente fino in Mugello; dacchè quando vide Guglielmo risanato, cavalcare per partirsi da Prato insieme cogli altri due, e fare le dipartenze coi Guazzalotri suoi ospiti, non dubitando ch'e' non tirassero diritti per Firenze, non si diè cura di seguitargli passo per passo, ma tornò difilato a informar la duchessa di quello che aveva veduto. La quale da principio non prese gran sospetto, se non quanto non sapeva indovinare il perchè di quell'aver Cecco condotto seco frate Marco. Ma quando al ritorno del suo messo non vide tosto seguitare il ritorno degli altri due, allora cominciò il sospetto ad entrargli nel cuore, e si fece poi grande e gravissimo, vedendogli indugiare due interi giorni.

— Da Prato sono usciti, — pensava tutta smaniosa la duchessa, — e da qui a Prato è cammino di due ore: perchè indugiano? dove sono andati? La Cavalcanti è in Mugello.... Ma da che parte è Mugello? — e tosto fa in modo di sapere con certezza da che parte è; e saputo che appunto la via di Mugello è verso Prato:

— Ah maledetto pateríno, esclamava, lo ha condotto in Mugello!... Ma a che fare? La Cavalcanti è chiusa in monastero: la badessa la custodirà gelosamente.... E' ricorrerà all'arte della magía.... Eh, bisogna che questo tristo uomo faccia tosto la fine di cui è degno.

Fra tali pensieri passò la duchessa due interi giorni; e non ristette che da capo non riparlasse col vescovo d'Aversa, a proposito di Cecco, e allo stesso duca non facesse liberamente intendere il pericolo, e la sconvenienza di tenerselo appresso ed in tanto onore, in onta di santa chiesa e della città di Firenze.

Il duca parve esser rimasto quasi persuaso alle parole della sua donna; ma non volle venire a niuna risoluzione, perchè troppo faceva assegnamento sulla sapienza di Cecco, e perchè dall'altra parte nelle sollecitazioni del cancelliere e della duchessa gli pareva di scorgere che qualcos'altro ci dovesse essere, oltre lo zelo della religione e della sicurezza di signoría. Carlo era guelfo e cattolico; ma circa alle scomuniche papali, e circa all'autorità che la chiesa si arrogava su' principati, avea certe sue particolari opinioni, nè si rassegnava a vedersi quasi dettar leggi in casa sua: circa alle paure della duchessa di tumulti in Firenze per amor di Cecco o d'altro, e' se ne rideva, tanto vedea avviliti i fiorentini, e tanta sicurtà aveva della sua forza. Tuttavía dissimulò, e promise alla moglie che penserebbe di proposito a quanto le aveva detto; aspettando intanto occasione da allontanar Cecco da Firenze qualche poco di tempo, per togliere esca al fuoco dell'ira che contro di lui accendeva i cuori dei frati e della duchessa; e in questo mezzo pigliar consiglio. Ed a ciò appunto si riferisce l'invito che il duca d'Atene avea fatto a Cecco da parte del duca. Ma prima di entrare in altro, veggiamo che cosa ha fatto frate Marco appresso Geri dei Cavalcanti.

CAPITOLO XXX. L'AMOR PATERNO.

La mattina che i tre compagni tornarono a Firenze, messer Geri era molto più melanconico dell'usato. La notte aveva passata travagliatissima: nei brevi sonni, che ogni tanto prendeva, sempre gli appariva la sua Bice, ora supplichevole di perdono, ora tutta desolata e piangente; ed in sul mattino gli parve di vederla moribonda, e di udirla, nel delirio di morte, amaramente rimproverar suo padre dell'averla ridotta alla disperazione, e spirare col nome di Guglielmo sulle labbra. In questo punto si destò di sobbalzo tutto spaventato, e grondante di sudore; e stato un gran pezzo che non si raccapezzava se sognasse o se fosse desto, alla fine vide dagli spiragli della finestra essere già chiaro il giorno, e si rizzò a sedere sul letto, come per ripigliar fiato liberamente; e, tergendosi il sudor della fronte, esclamò tutto doloroso:

— Dio, che spavento!

E stato un altro poco pensoso con le braccia incrociate sul petto:

— Questo sogno orribile l'ho fatto sul mattino, che allora i savj dicono sognarsi del vero. Ahi, tristo me! La mia Bice.... fosse ella malata davvero?.... imprecasse davvero alla crudeltà di suo padre?....

E preso da subita paura, fece il segno al suo fante, che dormivagli nella stanza allato, il qual giunto:

— Cavalca, gli disse, senza metter tempo in mezzo, in Mugello; e torna tosto a dirmi che è della Bice mia.

E il fante, senza ripetere, ubbidì. Intanto il vecchio scese dal letto, non chiamando altri appresso di sè; e, vestitosi alla meglio, si sentiva in una estrema debolezza, per forma che, fattosi recare la solita bevanda cordiale, si pose sopra una gran sedia a bracciuoli, allato al suo tavolino, comandando che niuno il dovesse venire a turbare, se non fosse frate Marco, che egli aspettava da un momento all'altro; e continuò a vagar di pensiero in pensiero:

— Malata forse non sarà: frate Marco mi scrisse pur ier l'altro, nè mi accennava a verun malore; solo accertava non essere ammaliata. Ma ora che tarda questo benedetto frate Marco? Nol sa per avventura con che batticuore debbo star io? Già e' son frati.... tutti per se.... — O forse il sogno era un avvertimento datomi da messer Domeneddío che la mia Bice, continuando a star là sepolta, farebbe quel fine.... Ah no, Bice mia, no, ti voglio qui da me: lo vedi, povero vecchio! quanto sto doloroso della tua lontananza? Non posso più vivere senza di te.... — Ma ella vuol bene a Guglielmo più che a me! — Snaturata figliuola! Vuol vedermi morire disperato! Anche a maestro Dino pare stranamente impossibile questa snaturatezza.... — Ed anch'io non sono stato giovane? non amai perdutamente una fanciulla, contro la volontà e gli amorosi ricordi della mia buona madre? eppure anche lei amavo tenerissimamente quanto la donna del mio cuore: dunque l'uno amore non contrasta l'altro.... Ah! sì, sì, la Bice ama teneramente anche me.... — Ma quello straniero.... — Sì! e i fiorentini che cosa son eglino adesso? Un branco di pecore matte, dimentichi di sè, dell'onore della loro terra, tremanti al nome sol di Castruccio: gente, che piglia atti e modi di leone contro chi fugge, e si placa poi come un agnello a chi mostra i denti o la borsa; orgogliosi d'altra parte, e senza misura in nulla.... E questo ti avviene, o Firenze, per la gente nuova e per i subiti guadagni dei tuoi cittadini; perchè la tua cittadinanza è ora mista di villani rifatti, di barattieri, di ogni mala gente. Che genero potrei io trovare adesso in Firenze degno della mia casa, della mia Bice?.... — Ma perchè entrarci anche Cecco d'Ascoli in questa faccenda? E' non lo può fare se non per odio dei Cavalcanti.... dunque il danno e l'onta mia ci debbe essere.... No, no: mai....

E così continuò ad essere combattuto da varie volontà e da varj affetti per assai tempo, sempre per altro prevalendo l'affetto alla sua Bice, senza la quale oggimai non poteva più vivere; quando un fante venne a dirgli che frate Marco era giunto:

— Venga, venga tosto....

E come il frate era nell'anticamera, udite le parole di Geri, entrò subito. Geri si era rizzato da sedere per ire incontro al frate, e come prima lo vide:

— Che è della Bice mia?....

— N'è bene, messere.

— Ma quando la vedeste?

— Ieri.

— E era sana?

— Sana in quanto non aveva propriamente alcun malore; ma sana per altro come può essere colei, che vive nella desolazione, quasi sepolta viva, lontana dal padre, che ella adora....

— Mi adora? E il cavaliere?.... Oh Dio, frate Marco: ho avuto un tristo e spaventoso sogno. Mi pareva vederla morente; la udii imprecare al mio nome: la vidi spirare....

— Fu visione codesta, ad ammonirvi per avventura che tanto avverrebbe della vostra Bice, se non ammollite il cuor vostro.

— Oh, frate Marco, io l'amo tanto! non posso più vivere senza di lei.... Ma proprio non è ammalata?

— No, messere.

— E la badessa che dice? Mi manda ella dicendo nulla?

— La badessa è tenerissima della buona vostra figliuola: la esorta alla obbedienza; ma la compatisce molto, e la compiange. Partendo dal monastero, mi ha dato per voi questa lettera.

Geri prese la lettera di mano al frate con atto di ardentissimo desiderio; e mentre la leggeva vedevasi spesso cambiar di colore, e quando cadergli sul foglio una lacrima: arrivato poi all'ultime parole, dove la badessa il garriva della troppa sua durezza, esortandolo a perdonarle; e dove gli dipingeva l'orrore della desolazione, e la gioja celeste del vedersi fra' suoi, e del morire benedetto da tutti a modo dei patriarchi, ricadde sulla sedia, preso da una vera convulsione di pianto, e serrato il capo fra le palme, non faceva se non esclamare pietosamente:

— Bice, Bice mia, torna all'amor di tuo padre.... Abbi compassione di me....

Il frate stava immoto dinanzi a Geri, senza dir parola, lasciando ch'e' desse ampio sfogo al suo affetto; e quando lo vide un poco calmato:

— Messere, gli disse, la Bice vostra è al par di voi desolata; vi ama teneramente, e spero ve lo debba avere scritto anche la badessa.

— Ed anche la badessa scusa l'amor della Bice per il cavaliere provenzale... Una santa donna sua pari!...

— Ma l'amore non è peccato, messere, quando è puro e gentile, e ordinato a onesto fine: e però io, e la badessa, ed ogni santa e veneranda persona, non solo può scusarlo, ma anche approvarlo e secondarlo.

— Ed anche la badessa parla d'invidia e di maltalento....

— E ne parla a ragione, messere; ed anch'io, ministro di quel Signore che è tutto bontà, tutto carità e tutto misericordia, vi dirò a viso aperto che il vostro presente dolorosissimo stato, e la sepoltura e la desolazione della povera vostra figliuola, sono il frutto dell'invidia e del maltalento, che si cela sotto l'aspetto di zelo amichevole. E colui che ha condotto voi e la vostra figliuola a questo stato di disperazione è maestro Dino del Garbo.

— Frate Marco, che dite voi?

— Dico la verità, e lo giuro — disse ponendosi la mano al cuore — per la mia qualità di sacerdote. Messer Guglielmo d'Artese, come prima fu tornato a Firenze, fece capo a maestro Dino, perchè lo ajutasse a condurre a buon fine l'amor suo con la Bice; e rifiutando egli, si volse per il fine medesimo a maestro Cecco d'Ascoli....

— Allo scomunicato — disse Geri, accendendosi in viso — all'eretico, al negromante, al nemico dei Cavalcanti, che non si vergognò di fare il mezzano per onta alla cosa nostra....

— Maestro Cecco non è nè eretico, nè negromante, se non quando chiamasi così da' nemici suoi, perchè lo sanno più sapiente di loro; nè ai Cavalcanti è nemico. Contraddisse a certe dottrine filosofiche di messer Guido vostro nella sua canzone dell'Amore, ma queste tra' filosofi sono cose comuni, nè generano nimicizia; e vi dirò anzi che maestro Cecco, piuttosto che per onta della vostra casa, favorì l'amor di messer Guglielmo per temperare la mala impressione che la sua disputa con messer Guido potesse aver lasciato nell'animo dei suoi consorti e dei Fiorentini, tanto prode e tanto gentile e tanto dovizioso è il cavaliere che egli vorrebbe veder vostro genero. Ma quel maestro Dino, che, trovatosi a leggere insieme con Cecco a Bologna, si vide essere sopraffatto da lui in opera di scienza, e la sua scuola più fiorito della sua, e lui acclamato e celebrato da tutti, ne prese tanta invidia e tant'odio, che per opera sua fu accusato di eresía a Bologna; e qui adesso, non solo si studia continuamente di farlo còrre in fallo di eretico, e di accumulargli odio addosso in tutti i modi che può; ma è tanto accecato dalla passione, tanto è dimentico della propria dignità, e del proprio debito suo, che, dove egli dovrebbe adoperare ogni argomento dell'arte per sanar voi di ogni male dell'animo e del corpo, quei mali accresce a mille doppj, facendovi veder le cose tutte diverse da quel che sono, ed uccidendo voi e la figliuola, sol perchè in questa faccenda ha le mani maestro Cecco.

— Non posso pensar tanto male di maestro Dino....

— Pensate a mente quieta, se è ufficio di amico vero, e di medico buono, l'amareggiare piuttosto che addolcire i dolori dell'amico e del malato, e ben tosto vi persuaderete. Voi, messere, per opera di costui, siete in peggior condizione che non vi lasciai; e la povera Bice vostra non potrà molto lungamente durare a far quella vita così tribolata, e orrendamente desolata.... Deh! vi muovano le sante ed accese parole della badessa; abbiate pietà di quella angelica creatura, che più d'ogni altra cosa si accuora dell'essere lontana da voi, e del sospetto che non le vogliate più bene: abbiate pietà di voi stesso....

A queste parole il vecchio si commosse da capo: da capo rilesse la lettera della badessa; stette un pezzo sopra di sè, ed all'ultimo risolutamente disse:

— Frate Marco, son vinto. La mia Bice tornerà a Firenze: la vita senza di lei è per me peggio assai che la morte....

— Ma questo, messere, non è sufficiente, se non alla contentezza vostra....

— Intendo, e consentirò anche alla contentezza della dolcissima figliuola mia, quando per altro ed ella e il suo cavaliere giurino di osservare le condizioni che io porrò loro. Ora si sta apparecchiando nuova guerra contro il mortale nemico del nome fiorentino: il cavaliere vi sia, e si porti in modo che tutta Firenze debba lodarsene, e salutarlo suo campione; e fino a guerra finita, giuri sulla fede di leal cavaliere, che alle case dei Cavalcanti non si appresserà ad una balestrata; e la Bice accetti anch'essa tal patto, e giuri che fino a quel giorno più non vedrà il cavaliere. E più giuri il cavaliere che fino che tengo io gli occhi aperti, egli non allontanerà da Firenze la mia figliuola.

— Sono duri patti; ma non è da dubitare, che così l'uno come l'altra gli accetteranno.

— Ora, bel frate, correte tosto al cavaliere a sapere il suo pensiero; e poi, per amor vio, cavalcate da capo in Mugello a dar la novella alla Bice, recando anche risposta alla lettera della badessa. Dio ve ne renderà merito: ed io ne farò alla vostra chiesa un buon presente per rimedio dell'anima, mia.

E il frate senza metter tempo in mezzo si mosse, essendo prima rimasto con Geri che la sera stessa avrebbe portato la risposta di messer Guglielmo, e presa la lettera per la badessa.

Non erano passate molte ore che messer Guglielmo, e maestro Cecco sapevano il tutto; e non è da domandare se ne fossero lieti; se non quanto pareva troppo dura al cavaliere quella promessa di più non veder la sua donna fino al termine posto dal padre di lei: ma non esitò un momento ad accettarla, anche per consiglio di maestro Cecco, il quale esortò i compagni al più rigoroso segreto, facendo loro vedere quanti e quanto gravi pericoli correrebbe la cosa, dove si trapelasse dalla duchessa e da maestro Dino:

— Ora, continuò Cecco, debbo andare innanzi a monsignor lo duca, che vuol conferir meco non so che cosa; ma in sulla prima vigilia sarò da voi, frate Marco, e volentieri sarò vostro compagno fino in Mugello.

— Ed io, soggiunse il cavaliere.

— No, messere, voi non potete esservi, e male comincereste ad attenere la data fede; nè io farei buona opera, se vi accettassi a compagno.

Il cavaliere si fece rosso nel viso, e disse al frate:

— Avete ragione: resterò.

CAPITOLO XXXI. MAESTRO CECCO ABBANDONA LA CORTE.

Il lettore si ricorderà senza dubbio, che quando maestro Cecco era alla presenza del duca con Guglielmo, gli si accostò messer Gualtieri di Brienne dicendogli che subito fosse da lui, perchè aveva da conferir seco da parte del duca cosa di gran momento: e sarà entrato in curiosità di sapere qual mai potesse essere tal cosa. Ecco per tanto di che si trattava:

Il duca, come già dissi, era stato sollecitato così dal suo cancelliere, come dalla duchessa a levarsi d'attorno Cecco; ma non si era lasciato vincere alle loro istanze; e pensò piuttosto, per levare ogni nuova occasione da rinfocolare sdegni, e per lasciare sfogare i già conceputi, di allontanarlo con qualche colorata cagione da Firenze; e l'invito fatto da Gualtieri al maestro era appunto per ragguagliarlo di questa fiera persecuzione, che gli si ordiva contro, la quale era tanto potente, che il duca stesso dubitava di poterla fermare, per esortarlo a governarsi in modo da non accrescerne le ragioni, e per significargli la volontà del duca di trovare qualche acconcia via da stornare la burrasca. Si tenesse per avvisato, ed aspettasse i comandi di monsignore, che non tarderebbero.

Cecco, benchè sospettasse per molte cagioni che l'odio di maestro Dino e la stizza della duchessa gli dovessero macchinar contro qualcosa, tuttavía non ne stava in grande apprensione, certo come era del favore e della protezione del duca. Ma ora che aveva udito da messer Gualtieri, come lo stesso duca si teneva insufficiente a difenderlo apertamente, se ne turbò in gran maniera e ne rimase afflittissimo; nè vedeva l'ora di sentire che cosa mai dovesse comandargli esso duca: quando un donzello venne appunto dicendogli che dovesse essere alla presenza di monsignore un'ora innanzi vespro.

Maestro Cecco volò tosto da messer Guglielmo, narrandogli del suo pericolo, dell'invito del duca, e raccomandandosegli quanto più poteva; e Guglielmo se gli profferse amico e difensore fin che il comportasse la sua qualità di onorato e cattolico cavaliere, le quali profferte gli rimisero l'anima in corpo per modo che quando venne frate Marco a raccontare il suo colloquio con messer Geri, non si accorse punto del turbamento di lui.

Ma già era sonata nona, e si appressava l'ora che il maestro doveva essere dal duca.

— Che vorrà egli dirmi? — pensava tra sè. — Allontanarmi dalla sua corte? Sarei diserto.... — Chè! non è possibile: egli ha concetto altissimo di me: fida nella mia scienza astrologica, nè farebbe impresa veruna, se prima io non dessi il punto... — Ma ha dintorno quel frate... Egli in fondo del cuore è cattolico.... — Basta: sarà quel che sarà, andiamo. — E avviatosi alla sala del duca, fu tosto introdotto. Il duca passeggiava con passo piuttosto concitato su e giù per la sala; maestro Cecco, dopo aver fatta profonda riverenza, stava fermo presso la soglia dell'uscio, aspettando che cosa il signore dovesse dirgli; quando a un tratto il duca fermatosi, e fatto cenno al maestro che si avvicinasse:

— C'è chi vuol vedere la tua morte, maestro.

— Sotto la protezione del grande scudo angioíno, monsignore, io vivo sicuro.

— Ci ha delle armi, contro le quali non ne può neanche lo scudo angioíno: e che meglio è cansarle con la prudenza e con l'arte: e questo è da fare adesso. Fia buono che tu per alcun tempo vada lungi dalla mia corte.

— Monsignore, come vivrò io senza l'ajuto vostro?

— L'ajuto mio non ti fallirà; ed appunto per aiutarti dai tuoi avversarj voglio allontanarti da Firenze, dandoti nel tempo stesso prova apertissima di affezione e di fiducia, in caso grave e di gran gelosía.

— Ed io vi ubbidirò rassegnato, e vi servirò con tutte le forze dell'ingegno e dell'animo.

— La cosa è grave, ti ripeto; e della credenza[29] e della fedeltà tua me ne è pegno il tuo capo.

— Quello ch'io vivo, e quello ch'io valgo, monsignore, è vostro da lungo tempo. Imponete.

— I Lucchesi cominciano ad essere stanchi della tirannía di Castruccio; e novellamente uno de' Quartigiani, grandi assai in quella città, mi ha dato lontano cenno, che, dove fossero ajutati da qualche potente signore, sarebbero disposti a far novità, dandomi a vedere, che, se quel signore fossi io, la città di Lucca volentieri si darebbe alla mia signoría. Io non risposi, se non vagamente; ma veggo per altro quanto ajuterebbe i miei disegni una novità fatta in Lucca, mentre fosse raccesa la guerra contro il suo signore. Importa dunque che sia colà per me una persona di gran senno e di grande accortezza: che mi studj così in generale l'animo dei Lucchesi; la condizione di quella città; e si intenda con messere Guerruccio Quartigiani, ordinando con esso il disegno di questa impresa, il tempo più acconcio, e il modo di colorirla; e questa persona ho proposto che debba essere tu.

— Grande e gelosa impresa, monsignore, voi volete affidare alle mie piccole forze; ma io son vostro per la vita e per la morte, e quando mi basta la forza e l'ingegno vi servirò lealmente.

— E sopratutto celatamente, e accortamente. Niun fiorentino lo sappia, nè niuno della mia corte, nè niuno più stretto amico tuo. La cosa è passata solo tra me e te. — E qui tacque un poco, fissando gli occhi in modo sul volto di Cecco, che egli comprese senz'altra parola quel che gliene andrebbe, se di questa cosa uscisse qualche odore.

Poi continuò:

— A Lucca, o non sei conosciuto, o solo vi sei conosciuto per astrologo e per medico; e per medico anzi tu vi anderai. Messere Guerruccio è forte malato di gotte: fingerà di averti chiamato a sè per curarlo sapendo che tu eri caduto in disgrazia di me: il tutto scriverò io stesso a messer Guerruccio in una lettera che gli recherai. Ma anche co' Quartigiani fa di star bene avvertito: essi furono già guelfi, e con tutto ciò tradirono la loro parte, ajutando con ogni lor forza la rea impresa di far Castruccio signore di Lucca; e se ora vogliono disfare la costui signoría, non sono mossi certamente dall'amore della loro terra; ma o dalla utilità propria, o da qualche torto che loro abbia fatto Castruccio. Gente vile e spregiata, senza fede e senza onore, che muta parte dalla state al verno, gridando viva oggi, chi ieri gridarono muoja. De' così fatti bisogna giovarsene a' proprj disegni; premiarli anche; dar loro onori; ma in cuore dispregiarli, pensando sempre che, come hanno tradito il primo signore, posson tradire il secondo; e come hanno voltato la casacca per un verso, possono voltarla da capo per l'altro: procedere appresso di loro con accortezza e astuzia; e quando per opera loro siamo giunti dove vogliamo, pagargli come merita di essere pagata la dislealtà ed il tradimento.

— Codeste son parole degne di un signore così potente e cattolico come la vostra signoría: ed io me le scriverò nella mente e nel cuore per modo che una sola non si cancellerà.

— Domani partirai tosto per Lucca; e prima verrai qui da me per la lettera. Qui in palagio, ed anche coi tuoi più cari amici, e con messer Guglielmo altresì, porgiti afflitto e dolente, come se tu fossi venuto quasi in disgrazia mia, e ti avessi comandato di uscire per alcun tempo da Firenze a modo di punizione. Così i tuoi avversarj si addormenteranno; e potrai servir me come a leale e buon servitore si appartiene. Va.

Cecco fece umile riverenza al duca, ed uscì tosto di palagio per ragguagliare frate Marco e messer Guglielmo, come egli non potesse più andare in Mugello; ma dovesse invece, per comando del duca, abbandonare Firenze: nè farsi vedere accompagnato con lui pareagli prudenza. L'uno e l'altro dei due amici lo ammazzarono di domande per sapere onde movesse questa subita risoluzione del signore; e Cecco, tenendo pur sempre strettamente celata la commissione avuta dei Quartigiani di Lucca, riferì ad ambedue quel che il signore avevagli detto delle persecuzioni onde egli era fatto segno, e della necessità di allontanarsi da Firenze, della quale si mostrò, ed era veramente, dolentissimo: e rinnovellò al cavaliere preghiera efficacissima d'ajuto e di protezione, che da lui gli fu promessa da capo in ogni possibile evento.

Intanto si era sparso per il palagio che maestro Cecco per comandamento del duca doveva uscire di Firenze, e si aggiungeva che avesse perduta del tutto la grazia di lui; e la duchessa medesima credeva che ciò fosse avvenuto per le sollecitazioni sue e del cancelliere. E così ella come il cancelliere, se furono lieti per una parte che Cecco uscisse dalla Corte, dall'altra però ne erano malcontenti, il cancelliere specialmente, perchè avrebbero voluto vederlo nelle mani dell'inquisitore; e quando Cecco andò a prendere umile commiato dalla duchessa, glielo diede con queste agre parole:

— Addio, maestro Cecco; perdeste la grazia di monsignor lo duca; ma questa è la vostra salute. L'aria di Firenze, a lungo andare, vi sarebbe stata micidiale. Andate; e siate più cauto d'ora innanzi.

— Madonna, una parola vostra potrebbe ridonarmi la grazia perduta, — rispose Cecco con esagerata umiltà, e volendo confermare la duchessa nella sua credenza — ma non oso pregarvene.

E Maria con aria alteramente grave, senz'altro gli ripetè:

— Andate: siate più savio d'ora innanzi.

CAPITOLO XXXII. LA BICE SI PARTE DAL MONASTERO.

Frate Marco era già stato la mattina per tempo da messer Geri a prendere la lettera per la badessa; ma trovò assai più che la lettera; chè il buon Geri, non vedendo l'ora di riabbracciar la figliuola, mandò insieme col frate quel fante medesimo che la Bice aveva accompagnata al monastero, perchè, dov'ella non disdicesse alle condizioni poste, e ciò non era da dubitarsi, dovesse ricondurla tosto a Firenze. Mentre egli, accompagnato dal fante di messer Geri, usciva da porta al Prato per cavalcare in Mugello, maestro Cecco usciva dalla Porta S. Niccolò per andare a Lucca. Noi lo lasceremo andare, e seguiteremo il frate sino al monastero di S. Piero, per aver occasione di trattenersi un po' colla nostra buona Bice. Egli dunque, passando da Settimello, fece motto a sere Gianni, che volle essere suo compagno, e fu lietissimo del buono avviamento del fatto della povera fanciulla figliuola del messer fiorentino. Come per altro l'ora era già tarda, e in Mugello non avrebbe potuto esser se non di notte, così il sere persuase il frate a passar la nottata da lui, il quale difatto accettò; e la mattina a giorno partirono per Mugello, dove furono poco innanzi sesta. Il dire che l'accoglienza della badessa a' due sacerdoti fu lieta oltre misura, tornerà inutile al tutto, immaginandolo forse il lettore da sè; ma non sarebbe inutile il descrivere, se avessi parole convenienti al soggetto, qual fu la gioja della buona suora nel leggere la lettera di messer Geri: basti che fu maravigliosa, e la significò con un vero diluvio di lacrime.

La lettera scritta da essa a messer Geri vedeva che aveva fatto l'effetto, ajutata dalle efficaci parole di frate Marco: quel povero vecchio dipingeva con pietose ed accesissime parole la sua risoluzione, il desiderio di rivedere la sua cara Bice, l'amore immenso che le portava, il perdono che le accordava, e chiudeva la lettera con le condizioni che già il lettore conosce, pregando la badessa a confortare la Bice di non mostrarsene ritrosa, ringraziandola carissimamente delle tante e tanto amorose cure avute per la figliuola, con un mondo di altre cose, uscite tutte dall'intimo del suo cuore, e tutte spiranti contentezza ed affetto. La badessa tosto volle far venire a sè la Bice per dare anche a lei questa consolazione; ma il frate e sere Gianni la confortarono a prepararcela prima un poco, affinchè la subita allegrezza non avesse a portare qualche tristo effetto sull'animo così gentile e così delicato della fanciulla. Andasse ella medesima a significarle che era qui frate Marco e sere Gianni, e che pareva avessero buone novelle da darle; le tacesse assolutamente che con essi era venuto anche il fante di suo padre; la conducesse poscia da loro, che a poco per volta le avrebbero detto ogni cosa.

E così fu fatto: per modo che quando comparve la Bice, quasi presaga di quello che era, si mostrò tutta lieta in volto, e con dolce sorriso rivoltasi a frate Marco:

— Frate Marco, gli disse, quando veniste l'altra volta qui da me, parvemi, vedendo voi, di vedere un angelo del paradiso; e della vostra visita ebbi non picciol conforto. Ora il vedervi tornar qua mi empie tutta di sì fatta consolazione, che certo non debbe essere a caso. Ma prima d'ogni altra cosa, che novelle del mio dolce babbo; e?...

Avrebbe senza fallo domandato del suo Guglielmo; ma da uno sguardo della badessa si accorse che a lei non sarebbe piaciuto; e frate Marco, il quale indovinò quel che taceva la fanciulla, e quel che significava lo sguardo della badessa, senza indugio rispose:

— Messer Geri vostro padre è quegli appunto che qui mi ha mandato con una lettera per madonna la badessa, nella quale mi penso dovere essere cose di molta consolazione per voi. La sanità di quel buon vecchio è troppo infralita, e già si accorge che medicina unica per lui sarebbe il vostro affetto e la vostra presenza.

— Dubita egli tuttora del mio affetto? E che cosa più lo ritiene, che egli mi chiami a sè? Oh quante cure tenerissime io gli avrei! Raddoppierei, se fosse possibile, il bene che gli voglio, per compensarlo in qualche modo dell'affanno datogli fin qui; e non potrebbe fare che non ritornasse buono ed affettuoso come già fu, e che si piegasse a rendere compiuta la mia felicità.

— Figliuola, disse la badessa, tu hai sempre pregato il Signore di questo, e le preghiere degli innocenti a lui sono accette. Chi sa?...

— Oh madre mia dolce, come mi confortano codeste benigne parole! sarebbe egli possibile?

— Madonna la badessa — entrò qui a dire sere Gianni, a cui già pareva tempo di parlare un po' più chiaro — vi ha sempre amata come cara figliuola, e scrisse già parole accesissime a messer Geri per farlo pietoso del fatto vostro; e messer Geri, che è padre, e padre amoroso, ha finalmente consentito...

La Bice, con tutto che non potesse comprendere fino a che punto fosse giunto suo padre, pure comprese che la durezza sua si era ammollita per opera principalmente della badessa; e però, senza aspettare che il prete finisse, si gettò al collo della buona suora, e le coprì il volto di amorosi baci; e, dimentica della riverenza che le si doveva e per l'età e per il grado, i baci tramezzava con queste e simili parole:

— Mamma mia buona, a voi debbo la vita: per voi rivedrò il mio caro babbo.... per voi....

— Figliuola — interruppe la badessa tutta commossa — non ti abbandonare tanto alla gioja: messer Geri pone al tuo ritorno delle condizioni un poco dure...

— Ma dunque io torno a Firenze? dunque lo rivedrò? rivedrò Guglielmo?

— Tornerai e vedrai tuo padre; ma il cavaliere non devi vedere.

— O dunque in che si è ammollito il cuor di mio padre? — disse la fanciulla mezza tramortita.

— Voi, frate Marco, entrò qui la badessa, voi che la parte più efficace aveste in quest'opera di riconciliazione, voi dite il tutto alla Bice.

E il frate, fattosi da principio, raccontolle minutamente come era andata la cosa, e le condizioni poste da Geri — Le quali, se voi accettate, soggiunse il frate, è qua il fante di vostro padre che ricondurravvi tosto a Firenze.

Come la Bice udì essere venuto il fante di suo padre, ritornò tutta lieta; e benchè la condizione di non più veder Guglielmo paressele dura troppo, tuttavía, sapendo aver consentito anche il cavaliere, soggiunse:

— Seconderò scrupolosamente la volontà di mio padre, e ne starò tranquillissima, non dubitando punto che il mio cavaliere non torni acclamato dall'impresa contro il nemico di Firenze, che voi, bel frate, dite essere prossima.

E poi volta alla badessa:

— Mamma mia dolce; ed ora debbo partirmi da voi! e la gioja di riabbracciare il mio babbo, e di rivedere le mie case, non disacerba il dolore ch'io sento. Vi amo proprio come facevo la mia povera mamma.

La buona suora a queste parole si commosse tutta, e tergendosi le lacrime, rispose:

— Bice mia, ed io avevo appreso ad amarti come figliuola carissima. Va: sii buona figliuola ed obbediente; e Dio ti conceda di essere presto felice, e di essere degna moglie del prode e gentil cavaliere che vidi qui. Io sono sacrata a Dio; egli è il mio sposo, e lui adoro con tutto il mio cuore. Tu ricordati spesso di questa povera donna, che rimane qui alla vita, per essa dolce oramai, di penitenza; che sempre a te ripenserà con affetto caldissimo: e questo priego che ora ti fo non ti dispiaccia appagare quando sarà il tempo. Tu sarai tra non molto, il cuore mel presagisce, sposa al tuo cavaliere. Fate allora, figliuoli miei — e così dicendo le lacrime le piovevano abbondantissime dagli occhi — fate che io vi rivegga uniti col sacro vincolo del matrimonio, e sempre più amanti l'uno dell'altro: e dopo ciò morrò volentieri.

La Bice non piangeva meno della badessa; nè i due sacerdoti stavano ad occhi asciutti. Ella, non solo promise alla badessa che sarebbero da lei come prima fossero sposati; ma aggiunse che la gioja del rivederla, e del darle tal consolazione sarebbe di poco minore alla gioja dell'essere moglie a Guglielmo; poi, datesi tutte a mettere in assetto le robe per la partenza, e rinnovellati tre o quattro volte gli addii più amorosi, le lacrime, gli abbracciamenti ed i baci, mossero tutti verso Firenze. La buona suora dal più alto luogo del monastero gli seguitò con l'occhio fin che potè; ed appena gli ebbe perduti di vista si gettò spossatamente sopra una sedia che erale appresso, e levati gli occhi al cielo, fece questa preghiera:

«Signore Dio mio, concedi a me la tua grazia, acciocchè quello solo mi piaccia che piace a te, e la tua volontà sia la mia. Sopra tutte le cose dammi che io mi riposi in te, e che il mio cuore diventi pacifico in te. Se tu non soccorri, Signore Dio mio, la, presente desolazione mi vince; non fare che il diavolo vinca la battaglia sopra di me».

E postasi in ginocchio dinanzi alla sedia col capo tra le palme, e dato ampio sfogo al dolore, a breve andare si sentì un poco riconfortata, e si ricondusse come potè meglio alla cella, dove, raccoltasi tutta in Dio, non andò molto tempo che si rassegnò al volere di lui.

CAPITOLO XXXIII. TORNA A FIRENZE.

La Bice intanto con la sua compagnía cavalcavano di buon passo verso Firenze, avendo lasciato sere Gianni alla sua prioría. Secondo che si avvicinavano alla città il cuore della fanciulla batteva più forte; e come se ne cominciarono a scorgere le torri, sentì così balzarselo in petto, che a fatica ripigliava fiato. Avrebbe voluto aver l'ali per tosto consolare il suo diletto padre, e pensava altresì che prima di arrivare alle case de' Cavalcanti le potesse venir veduto il suo Guglielmo; e così, tra l'un pensiero e l'altro, arrivarono a porta San Gallo assai innanzi vespro. Qui fu creduto opportuno da frate Marco l'andare egli prima da messer Geri per prepararlo un poco, dacchè con quella salute mal ferma un subito eccesso di gioja avrebbe potuto anche ucciderlo; e confortata la Bice, il fante e la cameriera a cavalcar lentamente, egli di buon trotto si avviò innanzi, e fu tosto da messer Geri, il quale, appena lo vide, corsegli, come poteva, incontro. Nulla gli disse, ma facevasi tutto ansioso verso la porta, cercando cogli occhi se vi fosse la sua Bice; ed il frate che se ne accorse:

— Messere, la Bice vostra sarà qui tra non molto.

— L'amore di figliuola pareva dover essere più pronto e desioso che l'amicizia — disse Geri con accento di un qualche dispiacere.

— Sarebbe stato molto e molto più pronto, rispose il frate, se non si fosse lasciato frenare, per non mettere un sì caro capo come il vostro alla prova spesso perigliosa di una subita gioja. Ma — continuò egli, vedendo che il vecchio oramai era preparato, e facendo ragione che la Bice dovesse già esser giunta — tosto sarete consolato.

Ed uscito della stanza, non fu prima in capo alla scala che la Bice la saliva tutta ansiosa: e dacchè il vecchio indovinava che ella dovesse esser vicina, si fece anch'egli verso l'uscio, e prima ch'e' non si aspettava, si trovò innanzi la sua dolce figliuola che gli si avventò al collo, e stettero per buon pezzo abbracciati, senza poter far una parola, e solo versando dagli occhi tenerissimo pianto.

Prima a rompere il silenzio fu la Bice:

— Mio caro babbo, mi hai perdonato davvero?

E poi, fissandogli gli occhi sul volto:

— La tua sanità ne è peggiorata; e tutto per colpa mia! — aggiunse, abbracciandolo da capo; e posandogli il capo sul petto.

— Ma ora che tu se' tornata; ora anche la sanità e la consolazione mi rallegreranno questo avanzo di vita.

— Oh! babbo mio dolce, io non ti lascerò un momento; compenserò il dolore che per me hai avuto sin qui col volerti bene a mille doppj. Tu se' stato tanto buono per me....

La Bice voleva in qualche modo far entrare nei loro ragionamenti l'amor suo per Guglielmo; ma non le bastava l'animo di trovare il verso, ed ogni tanto volgeva l'occhio a frate Marco, cercando di fargli intendere questo suo desiderio; e accennando, come poteva, che le venisse in ajuto. Il frate intese alla fine, e come prendendo commiato disse:

— Messer Geri, non voglio che la presente gioja e consolazione vostra sia più lungamente frastornata dalla mia presenza; vi lascio pertanto; e vi accerto che non è minor della vostra la consolazione mia, pensando che in qualche modo ci ho avuto parte anch'io. Voi, messer Geri, attendete ora alla sanità vostra; ma pensate che adesso il medico lo avete in casa — e qui accennò la Bice — e ricordatevi che le medicine di maestro Dino sono state fin qui veleno per voi — e questo lo disse con accento piuttosto risentito. — E voi, Bice, non dimenticate mai quanto è stato benigno con voi il dolce vostro babbo, e che voi sola potete abbellirgli e consolargli la sua vecchiezza. Resta che presto possiate anche essere in grado da presentarvegli innanzi con un'angelica creaturina in collo, che faccia a lui pregustare la eterna beatitudine con l'angelico suo sorriso, e col dolce pargoleggiargli d'attorno. Ad ambedue poi faccio una preghiera: quando sarà quel momento (e non può essere lontano) che il cavaliere debba essere consolato del suo amore, deh! fate ch'io sia quello che ponga il suggello alla vera felicità di tutti, dando io l'anello alla Bice.

La Bice non rispose; ma stava tutta intenta a ciò che rispondesse suo padre, il quale volto al frate:

— L'essermi lasciato vincere anche rispetto al cavalier provenzale vi dica quant'è l'amore che io porto alla mia figliuola; ma si rammenti, ed ella e messer Guglielmo, quali sono le condizioni poste da me. Mancatane una sola, niuno speri più di piegarmi; quando sieno tutte attenute, voi, bel frate, sarete colui che darà l'anello alla Bice.

Il frate, fatte poche altre parole col padre e con la figliuola, tornò al convento. Noi non seguiteremo passo per passo nè la Bice, nè messer Geri: basti il dire che tanto l'una quanto l'altro vivevano consolatissimi, ed era tra loro una tacita gara a chi si desse prove maggiori di svisceratissimo affetto. Il vecchio pareva ogni giorno ringiovanire, e la sua sanità era per modo rifiorita, che pareva a tutti un miracolo; e con la sanità gli tornava ancora l'antica giojalità, e il riso, che da tanto tempo più non l'avea rallegrato. La Bice anche essa mostravasi lieta e contenta, se non quanto erale una spina al cuore il dover essere priva del vedere il suo diletto; e solo la speranza rendeva meno acerba quella angoscia.

Degli altri nostri conoscenti, Dino del Garbo era lieto da una parte che Cecco avesse perduta la grazia del Duca; ma dolente dall'altra che fosse fuggito alla sua vendetta: era altresì rimasto maravigliato dell'improvviso ritorno della Bice, e del vedersi da messer Geri trattato più freddamente dell'usato; fuggire ogni ragionamento che riguardasse la figliuola; e non più essere chiamato alla cura della sua malattía.

La duchessa per il ritorno della Bice era inviperita mirabilmente, e quanto più le costava il dover celare la sua ira, tanto più le rincresceva che maestro Cecco, il quale ne era stato principal cagione, le fosse uscito di mano. E forse avrebbe fatto ogni opera di nuocergli anche lontano, se non fosse stata molto in là con la gravidanza, e la gravidanza non fosse di qualità che la faceva stare assai male, ed anche per molto tempo allettata.

Il più sconsolato era Guglielmo, il quale non aveva nemmeno con chi sfogare il suo dolore; ed era pur dolorosissimo della partenza di Cecco, che egli credeva aver proprio perduto la grazia del duca. Alla data fede non voleva mancare, nè di vedere o di parlare con la sua Bice cercava in modo veruno; tanto più che messer Geri ne avrebbe potuto pigliar cagione a disdir la promessa; e solo ogni tanto poteva saper qualche cosa da frate Marco, il quale però procedeva in ciò con sommo riguardo, parendogli disdicevole il fare altrimenti: per modo che il cavaliere non vedeva l'ora che incominciasse di nuovo la guerra, conoscendo che da essa sola poteva nascere pronta occasione da venire all'ultimo della contentezza.

CAPITOLO XXXIV. GLI APPARECCHI DI GUERRA E LA TASSA DELLA RICCHEZZA MOBILE.

E la guerra di fatto si preparava con tutto l'ardore, tanto dalla parte di Castruccio quanto dalla parte del duca. Toccammo qua dietro come Castruccio e la parte ghibellina, per opporsi alla potenza del duca di Calabria, mandarono ambasciatori a Lodovico di Baviera, eletto re de' romani, sommovendolo a passare in Italia, per la qual cosa il papa scomunicò da capo e Castruccio e lo stesso Lodovico, che comunemente chiamavasi il Bavaro.

Ora esso Lodovico era venuto con poca gente e col duca di Chiarentana a un parlamento a Trento, dove furono messer Cane della Scala signore di Verona, messer Passerino signore di Mantova, uno dei marchesi d'Este, e messer Azzo e messer Marco Visconti, e il deposto vescovo d'Arezzo Guido Tarlati, e ambasciatori di Castruccio e di ogni altro signor di parte ghibellina e d'impero: e il Bavaro promise e giurò di passare in Italia e venire a Roma senza tornare nella Magna, per la qual cosa i detti signori e gli ambasciatori dei romani ghibellini promisero di dargli cento cinquanta mila fiorini d'oro come fosse a Milano.

E in quel medesimo parlamento si pubblicò che Giovanni ventiduesimo era eretico e non degno papa, apponendogli sedici articoli contro; e ciò fu fatto col consiglio di più vescovi, e altri prelati e frati minori e dei predicatori; e pubblicamente, benchè fosse scomunicato egli e i suoi prelati, il Bavaro faceva di continuo celebrare gli ufficj sacri, e scomunicava il papa, che per dispregio il chiamavano papa prete Giovanni. Pochi giorni appresso il detto Lodovico si partì da Trento con sua gente, poveramente e bisognoso di danari; e andato prima a Como, poi a Milano, il dì 31 di maggio del 1327 si fece coronare della corona di ferro per mano del deposto vescovo di Arezzo, e di un altro vescovo di Brescia, deposto pur esso, non avendo voluto esservi l'arcivescovo di Milano.

La sua venuta fe' nascere molte novità in Italia; i romani si levarono a rumore, e fecero governo di popolo, non avendo nè corte di papa, nè corte d'imperatore, e tolsero la signoría agli Orsini e a Stefano Colonna, per paura non la dessero al re Roberto: e chiamato capitano del popolo Sciarra Colonna, mandarono ambasciatori al papa che tornasse a Roma, o se no riceverebbero per loro signore Lodovico di Baviera già eletto re dei romani: e nel tempo stesso tenevano trattato con esso re Lodovico e col re Roberto. Ma il re Roberto non si addormentò sulle costoro promesse; e temendo troppo di questa venuta del Bavaro, pensò di muovere contro Roma con la sua gente.

Il duca di Calabria per parte sua non dormiva nè anch'egli, dacchè là sul primo avvicinarsi dal Bavaro, non restava di sollecitare maestro Cecco per messi a posta, che quanto più poteva studiasse di conchiudere il trattato co' Quartigiani: si apparecchiava potentemente alla guerra, e già qualche principio se ne vedeva, perchè Castruccio, avendo tentato di tòrre ai pisani Vico Pisano, que' terrazzani, con l'ajuto de' pisani e col favore del duca, poterono respingerlo e liberarsi; ed il conte Beltramo con ottocento cavalieri della miglior gente del duca cavalcarono fino alle porte di Pistoja, che era sotto la signoría di Castruccio, e ruppero l'antiporto e guastarono le mulina, levando molta preda con grave danno de' pistojesi. E in quel tempo medesimo crebbe d'assai la potenza del duca, perchè i pratesi, i sanminiatesi, quei di Colle e di San Gimignano gli diedero la signoría a certo tempo e sotto certi patti; salvo che i pratesi, per loro discordia, si diedero in perpetuo al duca e a' suoi eredi.

A far la guerra per altro occorrevano denari: e però il duca ricorse da capo a quello che sogliono riccorrer tutti, a nuove tasse; e il modo che fu allora tenuto lo faremo raccontare da Giovanni Villani storico contemporaneo:

«Nell'anno 1327, del mese di aprile, si trasse in Firenze un nuovo estimo, ordinato per lo duca, e fatto con ordine, per uno giudice forestiere per Sesto, all'esaminazione di sette testimonj segreti e vicini (cittadini di Firenze), stimando ciò che ciascuno aveva di stabile e di mobile e di guadagno; pagando certa cosa per centinajo dello stabile, e così del procaccio e guadagno. L'ordine si cominciò bene; ma gli detti giudici, corrotti, cui puosono a ragione, e a cui fuori di ragione; onde grande rammarichío n'ebbe in Firenze; e così mal fatto, se ne ricolse ottantamila fiorini d'oro».

Dalle quali semplici e schiette parole del buon Villani raccoglierà facilmente il lettore che suppergiù tutte le signoríe sono eguali; che tutto si riduce a tosare e scorticare i popoli, o col pretesto della libertà, e col pretesto della sicurezza, o della religione, o di altre sonanti cagioni, secondo i venti che tirano; e vedrà che le stesse corruzioni, le stesse ingiustizie e parzialità son sempre usate; e vedrà parimente che quella delizia della tassa della ricchezza mobile, che ora fa tanto lieta l'Italia presente, non è niente affatto odierna invenzione; ma è antica di più che sei secoli qui proprio in Firenze. Queste parole del Villani mi darebbero materia a molte e gravi considerazioni; ma non voglio uscir troppo dal soggetto; nè vo' mettermi a rischio di dir cose troppo risentite ed acerbe: e però ripiglio senz'altro il racconto.

CAPITOLO XXXV. IL PARTO.

La gravidanza della duchessa era quasi al suo termine, dando sempre novelli segni che il parto dovesse essere laborioso, per la qual cosa, oltre la continua assistenza della ricoglitrice, passava buona parte del giorno in palagio anche maestro Dino del Garbo, per esser pronto a qualunque caso potesse avvenire; e spesso trovavasi in colloquio col cancelliere del duca, con quel frate minore vescovo d'Aversa, che il lettore già conosce, e quasi sempre i ragionamenti loro battevano sopra maestro Cecco, odiato mortalmente da ambedue.

— Ma per la buona mercè di Dio, — esclamò Dino un giorno, dopo che avevano parlato lungamente delle nequizie dell'Ascolano, — monsignor lo Duca ha finalmente aperto gli occhi, ed ha purgata la sua Corte da tanta puzza: duolmi solamente che quello sciagurato abbia fuggito la degna pena che meritava la sua tristizia e la sua empietà.

— Eh! maestro, disse il vescovo, o ch'io veggo troppo torto con gli occhi della mente, o che sotto questa disgrazia del duca si cela qualche grave cosa. Troppo era accecato monsignor lo duca nel fatto di quel tristo, e troppo grande stima faceva di ciò che e' chiamava sua scienza, da dover credere che a un tratto lo abbia disamato, e toltogli la sua grazia.

— E che ne pensereste voi, messere?

— Che pensarne non so; ma parmi quasi certo che una cosa si veda di fuori, e dentro ce n'abbia un'altra contraria. Ho avuto certa spia che Cecco è presentemente a Lucca. Sarebbesi egli posato cotanto vicin di Firenze, quando veramente avesse perduto la grazia di un signore così potente come il duca nostro? E che recapito può egli trovare in Lucca? Presso Castruccio no certamente, perch'egli dispregia l'astrologia e gli astrologi, nè presso lui trovano favore se non persone valorose e cortesi. Altri mi accerta che sta colà per medico appresso uno dei grandi cittadini di quella terra....

— Medico? interruppe qui Dino. E quando mai seppe di medicina? Egli ha spacciato e va spacciando tuttora certe sue strane dottrine sulle virtù che dagli astri influiscono nelle erbe, e secondo esse pretende anche sanare certi malori; ma dell'arte nostra non ha nemmeno le prime e più semplici notizie; e guaj a quel misero che gli capitasse sotto.

— O faccia l'una cosa o l'altra colà a Lucca, io, vi torno a dire, son fermo nel pensiero che tutto sia una mostra; e non dubito che o prima o poi lo rivedremo qui in Firenze.

— Lo credete davvero? E credete che egli punto non sospetti che, ritornando qua, verrebbe in bocca al lupo.

— E' pretende di leggere negli astri e di veder nel futuro, e gli sciocchi gli credono; ma ha la veduta più corta di una spanna, per le cose che gli stanno dinanzi; e se ne sta a baldanza del duca, e di quel messer Guglielmo, che al duca è tanto caro.

— E anche alla duchessa — disse con maligno sorriso maestro Dino.

— Madonna la duchessa, — rispose gravemente il vescovo — è di sangue reale; è moglie del signore di questa terra e nostro; ed è castissima donna: nè di lei vuolsi parlare, se non con parole di riverenza.

— Ed io quelle parole ho dette, non ch'i' le creda: ma perchè Cecco d'Ascoli le andava spargendo per Firenze, e mi pensava che lo sapeste. E le ho dette quasi per recarvi a memoria anche quest'una delle tante nequizie di quel malnato.

— Maestro, Dio non paga il sabato, ma a otta e tempo; ed a cui Dio vuol male gli toglie il senno. Cecco ritornerà a Firenze; e non penerà molto a pagare degnamente la pena della sua iniquità; sol che i buoni cattolici e figliuoli di santa chiesa non vengano meno del loro zelo e del debito loro.

Questo colloquio fu interrotto da un donzello del duca, il quale chiamava maestro Dino che fosse subito da madama la duchessa, che sentivasi troppo di mala voglia. E ne aveva ben onde, perchè di lì a poco vennero i dolori del parto, che la travagliarono assai; benchè poi partorì senz'altra operazione, e nacque un fanciullo.

Il duca e tutta la corte ebbero di ciò contento grandissimo, perchè la duchessa al primo suo parto aveva fatto una femmina, quella Giovanna che fu poi troppo famosa regina di Napoli. Se ne spedì tosto al re Roberto particolare ambasciata, e se ne mandò formale avviso a tutte le signoríe amiche d'Italia, ed al re di Francia.

Il gonfaloniere, che era Luigi de' Mozzi, con tutti i priori, non furono tardi ad andare solennemente a rallegrarsene col duca, domandandogli per grazia che non gli dispiacesse che lo facesse battezzare il comune; la qual domanda essendo accettata benignamente da lui, furono fatti sindachi a ciò dal comune di Firenze messer Simone della Tosa, e messer Salvatore Manetti dei Baroncelli, che lo lavarono al sacro fonte in S. Giovanni, battezzandolo con gran solennità il vescovo di Firenze, che era allora Francesco di Baldo Savestri da Cingoli della Marca, dottore di ambedue le leggi, ponendosegli nome Carlo Martello per volontà espressa del Duca; a cui forte dispiacque che non fosse in Firenze maestro Cecco, da potergli fare la natività, o come or dicesi, l'oroscopo. Per volontà poi e a spese del comune, si festeggiò per tutta la città con quella letizia e con quello splendore che si fosse mai fatto, anco nei tempi della sua maggior quiete e ricchezza: tra le quali feste fu nobilissima una giostra fatta sulla piazza di S. Croce, dove tutti que' cavalieri francesi, provenzali e italiani fecero ogni bella prova di prodezza e di cortesía: e monsignor lo duca volle che, per segno della sua letizia, dopo la giostra fosse apparecchiato a sue spese un assai nobile convito, in sulla propria piazza di Santa Croce, a duegento popolani della città, tanti per Sesto, scelti da' capi di ciascun'arte; e nel tempo di esso convito giullari rallegravano i convitati co' loro giuochi e co' loro motti; e trovatori cantavano le lodi e le gesta di casa d'Angiò.

In questa occasione volle il duca fare un atto di generoso perdono, col ribandire Sennuccio del Bene, uno dei chiari poeti d'allora. Questo Sennuccio nella giovinezza si trovò con Dante Alighieri e con altri ghibellini: fu segretario di Stefano Colonna, ed amico del Petrarca, il quale l'onorò del titolo di signore e lo chiama in un sonetto metà di sè stesso; ed aveva co' suoi versi acquistata assai chiara fama. Lo consumava il desiderio di ritornare in patria; ed il cardinal Gaetano, che era stato suo protettore, e in quel tempo era legato a Firenze, più volte avea supplicato il duca che gli piacesse di ribandirlo, nè mai l'aveva potuto ottenere; ed ora, tornatagli in mente la cosa, da sè proprio volle concedergli il tornare in patria, a maggior dimostrazione della gioja che aveva preso di questo figliuolo.

Ma la gioja fu breve, chè in capo a otto giorni il piccolo Carlo Martello morì, e fu sepolto in S. Croce, tra le lacrime del duca e della duchessa, che ne stettero dolenti per molto tempo. Il duca però da questo fatto ne prese cagione a richiamare a sè maestro Cecco, pensando che, dove egli fosse stato a Firenze, e ne avesse fatta la natività, non avrebbe, nè egli nè la sua donna, fondate tante speranze su quel fanciullo, sapendo di doverlo perdere così tosto; e alla perdita si sarebbero preparati, e così sarebbe loro stata meno amara.

Noi invece, che nell'astrología giudiciaria non abbiamo fede veruna, penseremo essere stata una fortuna per maestro Cecco il non essere in Firenze; dacchè forse egli avrebbe, per piacere al duca, presagito chi sa che gran cose di quel fanciullo, ed avrebbe troppo presto perduta gran parte dell'affetto e dell'estimazione del signore e degli amici.

CAPITOLO XXXVI. LA CONGIURA DI LUCCA.

Passati pochi giorni adunque il duca Carlo mandò significando per un uomo a posta a maestro Cecco, che quanto più tosto poteva menasse a fine il trattato coi Quartigiani, e fosse a lui in Firenze; ed esso vi si diede con tutto l'ardore, per il desiderio che lo struggeva di ritornare alla Corte. Ma nemmen fino allora aveva esso dormito; e il trattato aveva menato con la più fina astuzia. Arrivato a Lucca, e postosi al più ricco albergo, diede voce di essere venuto per curare messer Guerruccio Quartigiani della gotta; domandò dove fossero le case di lui; dicendo di avere lasciato Firenze anche per paura di capitar male, essendovi oggimai conosciuto per ghibellino, e per poco credulo alle ipocrisíe papali. E volle altresì andare a fare riverenza a Castruccio, col quale ebbe un singolarissimo colloquio; perchè, mentre quel capitano, sapendolo venir da Firenze, si studiava di metterlo in ragionamenti delle cose del duca Carlo, e scoprire, se riuscivagli, quello che mulinasse contro di lui; Cecco, fingendo di lasciarsi tirar nella rete, immaginò di suo capo certi falsi disegni di Carlo, per distrarre Castruccio dall'investigare altrimenti quali fossero i veri. E seppe colorire così bene le sue parole, che egli ne fu persuaso; e non che ponesse nessun sospetto sopra di lui, ma quasi quasi avrebbegli confidato i disegni suoi. Per forma che il maestro viveva sicuro per questo lato; ed alle case dei Quartigiani poteva andare senza niun sospetto, e trattava con suo agio quello per che era stato mandato. Il trattato fu lungo, dacchè messer Guerruccio voleva molto per sè, e Cecco aveva in commissione dal duca di tenersi piuttosto stretto a promettere; ma tuttavía, ricordevole del consiglio dato da Guido di Monforte a papa Bonifazio, si lasciò andare, col proposito di nulla attenere: e restarono alla fine in concordia nel modo seguente: il duca doveva uscire fuori di Firenze con l'esercito, sotto nome di mettersi intorno a Pistoja, e che di fatto vi si ponesse a oste con tanto sforzo e possanza, che verisimilmente Castruccio fosse costretto di andare a soccorrerla, se non la voleva perdere; e allora i Quartigiani con tutti i loro amici, e con molti pennoni e bandiere delle armi della chiesa e del duca, le quali si dovessero mandare celatamente da Firenze, correre la città di Lucca, chiamando gli amici, i consorti, e tutto il popolo a libertà, sforzandosi, quand'altro non venisse lor fatto, di occupare una delle porte della città; e che nel medesimo tempo, senza muoversi pur un soldato da Pistoja, quella gente che teneva il duca a Fucecchio e nelle terre di Valdarno, dovesse volando, avuto un cenno tra lor convenuto, cavalcare a Lucca, e correr la terra.

Riuscita la cosa, messer Guerruccio avrebbe avuto dal duca grandissima quantità di denaro (chi disse diecimila fiorini d'oro), e sarebbe suo vicario colà, che veniva a dire quasi assoluto signore dei suoi cittadini. Da che si movesse messer Guerruccio, e la sua famiglia, a far congiura contro Castruccio, che per volontà e per maneggio di loro era stato fatto signore di Lucca, non è ben chiarito: forse fu il vedere che Castruccio era riuscito troppo diverso da quel che avevano pensato, e il non poter sostenere gli aspri modi di lui; e chi dice, messer Guerruccio si pensasse di acquistare gloria appresso i posteri, se per opera sua si restituiva la libertà alla patria; ma quello che fu più facilmente creduto, ei si lasciò abbagliare dalle larghe profferte del duca, e dall'ambizione di essere quasi principe della sua città.

Posti e bene dichiarati questi patti, maestro Cecco cavalcò senza indugio a Firenze, e fu ben tosto alla presenza del duca, il quale confermò tutte le condizioni poste, ne lo lodò, ne lo premiò altamente, disponendosi a colorire tal disegno. Ma la cosa per altro non procedeva con quell'ardore e con quella prontezza che avrebbe dovuto, per avere certa riuscita, come non pareva da dubitare; il perchè, veggendo che, passa una settimana e passane due, la gente del duca non usciva sopra Pistoja, uno dei Quartigiani, preso dalla paura, scoprì la congiura a Castruccio; ed egli, che non era in siffatti casi avvezzo a smarrirsi, comandato che si serrassero le porte della città, montò con tutte le sue masnade subitamente a cavallo, e fatti prigioni ventidue della casa dei Quartigiani, e fra essi Guerruccio, nelle cui case furono trovate le bandiere della chiesa e del duca celatamente venute da Firenze; senza mettere tempo in mezzo, nel giorno stesso, avendo prima fatto trascinare quelle insegne per terra, il detto Guerruccio, con tre suoi figliuoli e con le stesse bandiere a ritroso, fece impiccare, ed una parte comandò che fossero propagginati[30]: tutto il resto della casa, nella quale si dice che fossero più di cento uomini atti a portare le armi, che non potette avere nelle mani, bandì e giudicò per traditori e ribelli. Feroce, ma meritata giustizia, della quale non si turbarono molto i lucchesi, ricordandosi che la medesima famiglia dei Quartigiani, guelfa di origine, come già dissi, aveva tradito anni addietro gli amici e partigiani suoi, dando la signoría di Lucca a Castruccio.

E così vada pure chiunque, o sotto un colore o sotto un altro, vien meno alla fede e alla lealtà.

Se il duca fu dolente di questo non è da domandare; e ne aveva spesso dolorose parole con maestro Cecco, il quale per altro sempre avealo confortato a tor via ogni indugio, ricordandogli che il buon esito delle imprese sta le più volte nella prontezza e nella audacia.

CAPITOLO XXXVII. LE FESTE DI S. GIOVANNI.

Veggendo intanto Castruccio che i nemici suoi non dormivano, e tenevano ogni giorno diverse vie da levarselo dinanzi, si diede con ogni sollecitudine a procacciare la venuta del Bavaro, sperando col suo mezzo di potere in poco spazio di tempo metter il giogo ai Fiorentini e ai Pisani; ai Fiorentini come a naturali nemici suoi, ai Pisani, un poco perchè gli teneva mal fidi, un altro poco per il desiderio di signoreggiare, e finalmente perchè non si mostravano troppo favorevoli alla venuta di esso Bavaro. Anche il duca Carlo si apparecchiava potentemente a combatter Castruccio; ma faceva ogni cosa più celatamente che poteva: e per meglio coprire i disegni suoi, cessato il gonfalonierato di Lapo de' Buonaccorsi, nominò gonfaloniere per i due mesi dal 15 giugno al 15 agosto Bernardo di Lapo Ardinghelli, tutto cosa sua; e volle che si facessero le feste di San Giovanni magnifiche quanto mai fossero fatte per innanzi, della qual cosa tutti i cavalieri provenzali e francesi furono lietissimi, avendo udito tanto celebrare queste feste fiorentine, e desiderando ardentemente di vederle. E come i cavalieri ne furono lieti, così spero non sia per riuscire mal gradito al lettore il dar qui breve ragguaglio di ciò che si fece, specialmente quest'anno, e si faceva per antico quasi sempre in tali feste, che poi scaderono molto, e che si sono cessate di celebrare in questi ultimi anni.

Molti giorni innanzi il potestà di Firenze fece bandire e notificare la festa del Santo ai nobili del contado, siccome ad ogni altra persona, che dovesse offerir ceri, paliotti o altra cosa. Quando mancavano otto giorni comandò altresì a' consoli di Calimala ed agli operai di S. Giovanni che eleggessero sei Buonomini della medesima arte, che la mattina della festività stessero in S. Giovanni a ricevere tali offerte, dove significò che avrebbe mandato alcuni suoi fanti, acciocchè non si facesse alcuna insolenza, o, come allor dicevasi, niuno soperchio.

La piazza di S. Giovanni si coperse tutta di tele azzurre, piene di gigli grandi, fatti di tela gialla cucitivi sopra, e nel mezzo vi si posero in alcuni tondi, parimente di tela, e grandi dieci braccia, l'arme del popolo e del comune di Firenze, quella dei capitani di parte guelfa, quella della casa d'Angiò e quella del re Roberto.

Intorno intorno negli estremi di detto cielo, che pigliava tutta la piazza, pendevano drappelloni dipinti di varie imprese, di armi di magistrati, delle arti, e molti marzocchi; chè il marzocco era l'insegna della città, ed è quel leone che regge uno scudo col giglio, come si vede tuttora dinanzi al palazzo della signoría, là presso alla fontana dell'Ammannato. Tali tende furono armate con mirabile congegno di assi e di funi, per modo che il Vasari, il quale ne parla nella vita del Cecca ingegnere, le ricorda con parole di vera maraviglia.

Oltre di queste tende, che si misero sulla piazza di S. Giovanni, si coprirono ancora le vie di Calimala, oggi Calimara e Calimaruzza. Il giorno della viglia, la mattina di buon'ora, tutte le arti fecero la mostra fuori delle loro botteghe, di tutte le ricche cose, ornamenti e gioje; e fu cosa tanto mirabile che uno storico contemporaneo, dal quale traggo queste notizie[31], esclama qui enfaticamente: «Quanti drappi d'oro e di seta si mostrano, che adornerebbero dieci reami! quante cose d'oro e d'ariento, e capoletti e tavole dipinte e intagli mirabili, e cose che si appartengono ai fatti d'arme, che sarebbe lungo a contare per ordine!»

Poi in sull'ora di terza si fece per la città una solenne processione di tutti i chierici, preti, monaci e frati, che furono in gran numero di regole, con tante reliquie di santi, che fu gran divozione, oltre alla maravigliosa ricchezza de' loro ornamenti, con nobilissimi paramenti d'oro e di seta, e di figure ricamati; e poi molte compagníe di uomini secolari, che andavano ciascuno innanzi alla regola dove tali compagníe si radunavano, con abito d'angioli, e suoni e strumenti d'ogni ragione, e canti soavissimi, facendo bellissime rappresentazioni di que' santi e di quelle reliquie a cui onore lo facevano.

Là sull'ora di vespro le arti si ragunarono, ciascuna sotto il suo gonfalone, che erano sedici, l'un gonfalone dopo l'altro, e sotto ciascun gonfalone tutti i suoi cittadini a due a due, andando innanzi i più degni, e così fino a' garzoni, tutti riccamente vestiti, a offrire alla chiesa di San Giovanni una candela di libbra per uno; e la maggior parte di essi gonfaloni avevano dinanzi a sè uomini con giuochi di onesti sollazzi, e belle rappresentazioni. Le vie per dove passavano erano tutte adorne, alle mura e su' muriccioli, di capoletti, di spalliere e di pancali di fino zendado, e per tutto era pieno di donne giovani e fanciulle vestite di seta, e ornate di gioje e di perle. Finita l'offerta, ciascun cittadino si tornò a casa a dar ordine per la mattina seguente.

Chi fu la mattina di S. Giovanni sulla piazza dei Signori, gli pareva di vedere, dice uno storico contemporaneo, una cosa trionfale, magnifica e meravigliosa; e il duca, che vi fu con tutta la sua corte, su alle finestre del palazzo della signoría, e tutti que' cavalieri provenzali, non facevano altro che dire di tanta ricchezza e magnificenza.

Intorno alla piazza erano infinito numero di torri che parevano d'oro, portate quali con carri, e quali con portatori, che si chiamavano i ceri, fatti di legname, di carta e di cera, con oro e con colori, e con figure rilevate, vuoti dentro, per forma che vi stavano uomini che facevano volgere continuamente tali figure, le quali rappresentavano imprese d'armi e d'amore, animali, uccelli, diverse sorte di alberi, e tutto ciò che diletta il vedere ed il cuore. Dinanzi al palagio poi vi erano molti palj con le loro aste appiccate in anelli di ferro, ed erano delle varie città e castella che davano tributo al comune, ed erano ad esso raccomandate; i quali palj erano di velluto doppj, federati quali di vajo, quali di drappi di seta, o d'altri drappi.

I palj erano i tributi delle terre acquistate dai fiorentini, e de' loro raccomandati, e i ceri erano censi delle più antiche terre de' fiorentini medesimi, e gli uni e gli altri poi si andavano a offerire per ordine di dignità a S. Giovanni nel tempo medesimo che si facevano le altre offerte: la prima delle quali fu quella de' capitani di parte guelfa, con tutti i cavalieri, i signori, ambasciatori e cavalieri forestieri; e andarono con loro gran numero de' più onorevoli cittadini di Firenze, col gonfalone della parte guelfa innanzi, portato da uno de' loro donzelli, vestito di sopravvesta di drappo, che montava un palafreno covertato sino in terra di drappo bianco, col segno della parte guelfa. La seconda offerta furono i detti palj, portati ciascuno da un uomo a cavallo, e l'uomo e il cavallo erano covertati di seta; e dopo i palj si offerirono i ceri, i quali poi il giorno dopo solevano appiccarsi intorno alla chiesa, dalla parte di dentro, dove stavano fino all'anno appresso, al qual termine si spiccavano i vecchi e se ne faceva paramenti e paliotti da altari, e parte si vendevano all'incanto.

Dopo altre offerte di ceri, più grandi e più piccoli, andarono a offerire i signori della zecca, con un magnifico cero portato da un ricco carro, adorno e tirato da un par di buoi covertati col segno ed arme della zecca: e que' signori erano accompagnati da circa quattrocento venerabili uomini, tutti della matricola dell'arte di Calimala e dei cambiatori, ciascuno con piccoli torchi di cera in mano. Per ultimo andarono a offerire i signori priori e i loro collegi, con i loro ufficiali, podestà, capitano ed esecutore, con tanto ornamento e tanti famigliari, e pifferi e trombe, che pareva risonarne tutta Firenze. Tornati che furono i signori, andarono a offerire tutti i corsieri (ora barberi) che erano venuti per correre il palio, e dopo loro tutti i Fiamminghi e Brabanzoni che erano in Firenze, tessitori di panni di lana; ed in fine si offerirono dodici prigioni, i quali si scarcerarono a onore di San Giovanni, secondo un'antica costumanza. Fatte queste cose, ciascuno tornò a casa a desinare, e quel dì per tutta la città, per dire come dice lo storico altre volte citato, «si fece nozze e gran conviti, con tanti suoni, canti, balli, feste e letizia e ornamento, che parve che questa terra fosse il paradiso».

La sera in sul vespro si corse il palio, in quel modo medesimo che è durato fino agli ultimi tempi.

Si fece poi uno spettacolo nuovo. Il duca, per gratificarsi il popolo minuto, e addormentarlo sempre più, immaginò di creare alcune compagníe di popolani minuti, dando loro il nome di potenze, le quali, vestite ciascuna della medesima assisa, andarono per la città dilettandosi in armeggiamenti, in feste e in altre gare, che diedero luogo a qualche zuffa, ma che poi finirono in un solenne convito. Ciascuna di queste potenze ebbe un'insegna e un capo, che chiamavano col nome d'imperatore, di monarca, di re, di duca, e simili titoli d'onore. L'imperatore del Prato, per esempio, ebbe un'aquila con l'ali spiegate: il gran monarca della città rossa un campo bianco entrovi una cittadella di color rosso; e tuttora si vede uno stemma di questa città rossa in una lastra piccola di marmo sulla cantonata di S. Ambrogio: il gran signore de' Tintori una caldaja con fuoco sotto acceso; e così gli altri, che lungo sarebbe a tutti noverargli[32]. In quell'anno per altro volle il duca che si rinnovellasse altresì una bella festa, simile a quella che fu fatta nel 1283, quando, secondo che racconta anche il Villani, essendo la città in buono stato, si fece la nobile e ricca compagnía, della quale furono capo i Rossi d'oltrarno; salvo che questa volta se ne fecero capo i più segnalati tra' cavalieri francesi e provenzali, formando una magnifica brigata, nella quale si accolsero, per volontà del duca, anche molti popolani grassi, e tutti erano vestiti di robe bianche con un signore detto dell'Amore; e non intendeva ad altro che a giuochi, a sollazzi, a balli di donne e di cavalieri, andando per la città con trombe e con molti strumenti, stando in gioja ed in allegrezza a conviti di desinari e di cene, a modo di corte bandita; la quale durò bene otto giorni, e ci vennero di diversi paesi molti uomini di corte, e giocolatori, e tutti furono ricevuti e trattenuti onorevolmente.

Tra tutti i cavalieri della compagnía era stato ordinato, a suggestione della duchessa, che Guglielmo dovesse essere il signore dell'Amore; ma egli non volle a niun patto acconsentire, e si tenne alieno da ogni festa e da ogni falò. Molti de' cavalieri francesi e provenzali altamente si meravigliarono com'egli, tanto vago per addietro di ogni opera di cortesía e di cavallería, avesse ora così mutata sua natura; nè sapevano a che cosa recarne la cagione: ma la sapea ben la duchessa, e i pochi suoi stretti amici; e la indovina senza dubbio alcuno il lettore.

Guglielmo era certo che la sua donna non sarebbe andata a veruna festa, prima perchè la sanità di suo padre nol consentiva, e poi anche perchè messer Geri non la avrebbe condotta, pure essendo sano: sapeva che la Bice, lieta per una parte di esser vicina a suo padre, vivea malissimo contenta per l'altra di non dovere nè poter rivedere più il suo cavaliere, dolentissimo anch'egli di ciò, ma pur fermo nella fede: tanto che non si era avvicinato più alle case de' Cavalcanti; e tanto solo, in questo non breve tempo che la Bice era tornata, l'uno amante aveva saputo dell'altro, quanto ne avevano potuto raccogliere dai discorsi di frate Marco, il quale però non avrebbe mai risposto ad una interrogazione diretta su questa materia, per non dare nemmeno l'ombra di fare il mezzano; ed a fatica si lasciò vincere a' prieghi ed anche ai pianti di Guglielmo, che trovasse modo di far sapere alla sua Bice (perchè spesso andava da messer Geri) com'egli nel tempo delle feste non si mostrerebbe mai a veruna di esse. E di fatto in tutti que' giorni egli usciva dalla città la mattina per tempo, e andava visitando tutti i contorni di Firenze, più spesso recandosi a quella villa de' Cavalcanti, dove sei anni fa avea veduto la prima volta la Bice; e quivi sentivasi tutto riconfortato: tornava poi a Firenze così dopo sesta, nè più usciva di casa, dove andava maestro Cecco fino alla sera, dacchè anche egli, per consiglio del duca, si teneva lontano dalle feste, acciocchè non potesse nascere occasione da far rivivere lo sdegno e la persecuzione de' suoi nemici.

Ma i suoi nemici non dormivano. La duchessa era informata punto per punto di ciò che faceva messer Guglielmo e maestro Cecco. Circa a messer Guglielmo, ella si era temperata molto; aveva conosciuto quanto ad ogni onesta donna, ma specialmente ad una sua pari, si disdicesse il porre amore in altri che nel suo marito; e non solo avea proposto di abbandonare tale affetto, ma quasi vedea volentieri il matrimonio del cavaliere con la Bice, come quello che avrebbe in tutto e per tutto strappatole dal cuore ogni pensiero di ciò; tuttavía l'amore c'era stato, e non poteva fare che la non spiasse ogni atto del cavaliere, mossa per avventura, più che dalla gelosía, dalla curiosità innata in ciascuna donna. Circa al maestro Cecco poi era un'altra cosa; ella l'odiava a morte, perchè fin da principio si era accorta che aveva indovinato il suo amore per Guglielmo, e sempre sentiva al cuore la puntura di quei motti, che il maestro avevale gettato, sotto colore di riverenza e di cortesía. Senza che, quell'essere egli sempre attorno al cavaliere, lo prendeva quasi come una provocazione, e quasi un atto di ribellione, come se lo facesse per dispetto a lei; e però il suo sdegno se ne accendeva sempre più, d'accordo col cancelliere, di trovare il momento di perderlo, prima che uscisse da capo dalla città. E Cecco, senza accorgersene gliene dava materia, così per il continuo stare attorno a Guglielmo, come dicemmo; e poi per la baldanza che aveva preso dopo il geloso mandato affidatogli dal duca, e dopo essere stato richiamato a Firenze con modi e con parole, che chiaramente dimostravano quanta estimazione avesse il duca di lui, e quanto caramente lo tenesse presso di sè.

CAPITOLO XXXVIII. LA SECONDA GUERRA.

Mentre per altro la città di Firenze impazziva tra le feste, il duca e i suoi maestri di guerra studiavano come poter dare un fiero colpo a Castruccio, prima che il Bavaro si fosse avvicinato alle parti di Toscana; ma innanzi di assaltarlo risolutamente ed alla scoperta, fu pensato, se per maestría di guerra gli si fosse potuto guadagnare qualche fortezza, e dopo maturo consiglio fu dato il carico di tutta l'impresa al conte Beltramo.

L'oste del duca e dei fiorentini si componeva di ottomila pedoni; poi della gente del duca vi erano mille trecento a cavallo, e de' fiorentini vi furono cento de' principali cittadini tra nobili e popolani con due, e molti con tre compagni ciascuno, tutti a cavallo; e di tutta la gente a cavallo fu fatto guidatore Guglielmo, il quale avealo chiesto da sè al duca, ed ottenutolo con molta soddisfazione di ambedue. I pedoni si rassegnarono tutti nell'isola dietro a S. Croce, e i cavalieri sulla piazza dinanzi alla chiesa, alla presenza del legato del papa, che dette loro la benedizione; e avute le insegne dalle proprie mani del duca, si mossero, e andarono a posarsi a campo a piè di Signa, dove stettero fermi tre giorni. Niuno poteva indovinare dove l'oste si avesse a andare, e i fiorentini massimamente si maravigliavano dell'indugio; ma il conte lo fece ad accorto disegno, acciocchè Castruccio non si guardasse, là dove l'oste si dovesse porre, o a Pistoja o sul contado di Lucca, e acciocchè gli convenisse partir la sua gente in due battaglie. E Castruccio di fatto rimase colto all'inganno: egli stette un pezzo in dubbio qual cammino dovessero prendere i nemici; e non parendogli in numero tale che dovessero tentare l'impresa di Lucca o di Pistoja, dubitò di Carmignano; e benchè egli tenesse tutte le sue castella molto bene munite, nondimeno in questo caso gli parve di aggiungere dugento cavalieri a quel castello, i quali tolse dal presidio di Santa Maria a Monte, giudicando che quegli che rimanevano fossero sufficienti per ogni caso, essendo quel castello molto forte; nè dubitando di perderlo per mancanza di vettovaglie, perchè lo aveva di fresco fornito per tre mesi.

Vedendo pertanto il conte Beltramo che tutto andava secondo il disegno fatto insieme col duca, a capo di tre giorni che era stato fermo a Signa, si mosse la notte tacitamente con tutta l'oste, non volendo che si levassero le tende insino alla mattina a terza, affinchè le spie di Castruccio non si potessero accorgere della partita; e facendo la via di Montelupo, il giorno appresso, innanzi l'ora di nona, passarono la Guisciana al passo detto del Rossajuolo, per un ponte che egli vi aveva fatto gettare la notte medesima poco innanzi l'alba; e giunto a S. Maria a Monte, dov'erano arrivati prima quattrocento cavalieri di quelli che stavano in Valdarno, subito fece alloggiare il suo campo ne' luoghi opportuni; nel quale concorrendo, secondo che prima era stato deliberato, trecento cinquanta cavalieri che aveva mandato il comune di Bologna, il legato del papa ed altre amistà sotto la condotta di messer Vergiù di Landa, il dì seguente si trovò l'oste essere cresciuta infino a dodicimila fanti e due mila cinquecento cavalli; nè più si indugiò a metter mano all'impresa contro il castello.

Questo castello di Santa Maria a Monte è nel Valdarno di sotto, ed è posto su uno degli sproni che si avvicinano verso l'Arno, alle estreme colline occidentali del piccolo gruppo detto le Corbaje, tra il lago di Bientina e il canale della Guisciana.

Esso è molto antico, e si trova ricordato fino dall'anno 768. Per molto tempo fu sotto la giurisdizione quasi feudale del vescovo di Lucca, al quale lo tolsero i Ghibellini, reduci da Monteaperti nel 1261: poi tornò sotto il governo guelfo di Firenze; ma per tradimento de' maggiori della terra si diede alla signoría di Castruccio, che lo afforzò molto più che non era prima, benchè già fosse fortissimo; per forma che, al dire anche del Villani, era il più forte castello di Toscana, con tre cerchi di mura, e con ròcca munitissima.

Questo però non ispaventò il conte, che si apparecchiò tosto ad espugnarlo; ma prima di dar l'assalto, fece intendere a que' di dentro, che era contento di dar loro tre giorni di tempo per consultare se si avevano a arrendere, affinchè conoscessero che il duca e i fiorentini movevano le armi per la salute e non per la distruzione dei popoli; ma che se, passato quel termine, essi volevano far piuttosto esperienza della forza che della clemenza, egli protestava loro che non si sarebbe usata niuna pietà: ma che sarebbero trattati come crudelissimi nemici, e posti tutti quanti al taglio della spada. I terrazzani per altro, giunto il termine, mandarono a dire, che difenderebbero la terra, finchè avessero spirito, per Castruccio loro signore, e facessero essi quel che tornava lor comodo, perchè per viltà e per paura non commetterebbero mai cosa indegna di allievi di sì gran capitano.

Allora il conte comandò senz'altro che si desse l'assalto con quella maggior ferocia che fosse possibile, incorando così i suoi soldati:.

«È tempo oramai che si ponga un freno all'orgoglio e alla baldanza di Castruccio, e liberare parte guelfa e santa chiesa dalle minaccie dello scomunicato Lodovico di Baviera. Nol sapete, compagni miei, che il re Roberto nostro signore ha mandato un'armata di settanta galee in Sicilia contro Federigo d'Aragona, perchè questo re posticcio ha favorito la venuta di quel falso imperatore? Il principe della Marca, tuttochè non sia entrato in Roma, non ha egli guasto tutto il contado di Orvieto e prese molte terre? La città di Rieti non è già in guardia del duca d'Atene? Anche noi dunque facciamo alcuna lodata impresa per rintuzzare l'orgoglio di Castruccio, braccio potente di questo tedesco, ed ormai non più comportabile per i favori immoderati della fortuna. Egli si gloria di averci vinti, ingannati e derisi; e, solo a pensarlo arrossisco! ha avuto la tracotanza di dire che vuol tornare trionfante in Lucca col duca di Calabria innanzi prigione, e che vuol menarlo col torchio in mano a offerire a S. Martino, come fece di messer Ramondo da Cardona. Egli, che cercò invano un ricapito, mendicando per tutta la cristianità; egli vil provvigionato di Uguccione della Faggiuola; egli che dalla prigione uscì, non si sa come, condottiero di eserciti: egli ardisce sperare di menar legato dinanzi il suo carro il figliuolo del re Roberto, e tutta la nobiltà del reame, ed il fiore della cittadinanza fiorentina! E noi comporteremo cotanto vituperosa tracotanza? Io, in quanto a me, ho preso partito, o di morire intorno a queste mura, o che stasera abbiamo ad alloggiar tutti dentro a questa terra. Se ciascuno è del mio pensiero, io non dubito punto della vittoria, perchè agli uomini risoluti tutte le cose sono piane ed agevoli. Ma nel volto di tutti voi già veggo dipinto lo sdegno, il furore, e la insofferenza d'ogni indugio; e come lo stare a cavallo a noi altri cavalieri oggi non ci è per giovare in maniera alcuna, perchè non abbiamo a temere che quegli di dentro vengano ad assalire il campo, essendo io il primo a smontar da cavallo, mostrerò quel che debba fare ciascuno di voi».

E così balzò giù da cavallo egli il primo, e tosto seguì il suo esempio messer Guglielmo guidatore della cavallería, e tutti in un momento furono a terra; e dato subito il segno dell'assalto, si cominciò la più aspra battaglia che per molti anni addietro fosse stata giammai fatta in castello alcuno di Toscana; dacchè nel tempo medesimo altri attendevano con le saette a votar le mura di difensori, altri correndo alle scale, le appoggiavano al muro, e con quel maggior impeto e ardire che ciascuno poteva si sforzava di salir su.

Maravigliosa fu soprattutto l'animosità di messer Guglielmo, il quale col pavese in braccio e con l'elmo in capo, pareva che fosse per tutto: e attorno le mura, e per i fossi, combattendo, rizzando scale egli stesso, e incorando gli altri col suo esempio, correva ruinosamente contro le armi e contro le ferite. Que' di dentro erano molto e molto incalzati; nondimeno, ricordandosi dell'ardita risposta fatta al conte; e certi com'erano che con essi non si sarebbe usata veruna pietà, si difendevano con grande ostinazione, non essendo men pronti i terrazzani de' soldati; e agli uni e agli altri porgendo ogni ajuto possibile le donne medesime. La ferocità di questa gente, oltre alla cagione de' soprastanti mali, procedeva altresì dalla coscienza delle cose passate; perchè quelli di Santa Maria a Monte erano stati sempre di parte guelfa, e poi avevano tradita la terra, e datala a Castruccio; e gli usciti di Lucca, con assai di loro parte, e de' migliori che fossero nel castello, furono da essi dati presi nelle mani di Castruccio; ed oltre a ciò, da poi che si rendè a lui, era stata spelonca di tutte le ruberíe, omicidj e più tristi peccati fatti in Valdarno nel tempo della detta guerra: onde erano divenuti feroci, e per la lunga pratica esercitati nel sangue; e la disperazione del perdono gli facea più che fiere. Laonde, se la virtù degli oppugnatori era grande, non era minore la costanza de' difensori; benchè continuatamente ne cadessero morti a terra parecchi, per il mirabile saettamento, specialmente de' balestrieri genovesi. Ciò vedendo messer Guglielmo, parendogli momento opportuno da tentare un'impresa, che il rendesse degno della sua donna, gli accattasse la benignità del padre di lei, e le lodi del duca e dei fiorentini, tutto infiammato da questo pensiero, fatta una piccola schiera de' più animosi suoi cavalieri, e tolta una insegna dalle mani d'un banderajo, invocando il nome della sua Bice, fu il primo ad avventarsi alle mura della prima cerchia; ed essendosi dopo lungo contrasto attaccato ad un merlo, e con l'asta della bandiera abbattuti quelli che v'erano a difesa, con mirabile ardire balzò sulle mura, dimostrandosi a tutti con la insegna in mano; e dando animo con altissime voci che tutti montassero su, fu tosto seguitato da molti, i quali presero animo contro i difensori, sbigottiti del vedersi i nemici in casa; e dopo averne uccisi assai, presero il primo giro, essendosi quegli rimasti, per le vie a lor note, rifuggiti al secondo cerchio.

Allora Guglielmo:

— Non basta, gridò, quel che abbiamo fatto, se noi non passiamo oltre: — e tuttavía inanimiva i compagni, che senza riposo si misero a combattere l'altro girone, e con iscale e con fuoco; nè fu minore la fatica e il travaglio di questa seconda battaglia della prima; perchè, sebbene i difensori erano molto scemati, era anche scemato lo spazio che si aveva a difendere; e il veder dalle mura con gli occhi proprj scannarsi i figliuoli, i padri e le mogli, che non avevano potuto rifuggire al secondo cerchio, aveva loro tolto ogni sentimento di pietà. Vedevano ardere le proprie case, e la loro terra non essere altro che sangue, fuoco, urli e pianti amarissimi; onde, disprezzato ogni pericolo, attendevano solo a fare in modo di non morire senza vendetta. Ma non potendo nulla il furor loro contro la virtù di messer Guglielmo e de' suoi, furono discacciati anche dalla seconda cerchia, e pochi ne rifuggirono alla ròcca, la quale era compresa dal terzo cerchio della terra. Uccisione veramente grandissima, perchè quanta gente rimase nella cerchia seconda, tanta, piccoli e grandi, racconta il Villani, «misero alle spade; e il castello ardendo da più parti per lo fuoco prima messo per gli nostri; e poi la gente nostra rubando la preda, e togliendola gli oltramontani ai nostri, acciocchè non l'avessero salva, innanzi mettevano i nostri fuoco alle case e nella preda».

Dopo che la gente del duca ebbe il castello; la ròcca si tenne otto giorni, aspettando soccorso da Castruccio, il quale non credè prudente con la sua gente di uscire da Vivinaja, dov'era a campo; e quelli che erano nella ròcca ne uscirono salve le persone, per intercessione di Guglielmo, dacchè il conte voleva fargli tutti mettere al filo della spada: ma non potè disdire ad esso Guglielmo, che tutti si accordarono a riconoscere essere stato egli il vero espugnatore di sì munito castello[33].

Avuta la ròcca, la gente del duca vi stette di fuori a campo otto giorni, per rafforzare la terra e rifare le bertesche, e torri e case, e lasciarla poi guarnita di cento cavalieri, e di cinquecento pedoni. Poi passarono la Guisciana, e accamparonsi a Fucecchio, dove si fermarono due giorni, affinchè Castruccio non potesse addarsi dove l'oste volesse andare, o nel contado di Lucca o in quel di Pistoja: poi ripassarono la Guisciana presso Vivinaja, e vi stettero tre giorni, schierandosi, e sonando le trombe, e richiedendo di battaglia Castruccio; e sarebbero andati forse verso Lucca, se non che vi occorreva troppo dispendio e fornimento; sicchè, per miglior partito, tornarono da capo di qua dalla Guisciana, e senza restare posersi ad assedio al castello di Artimino, il quale era rimurato e rafforzato da Castruccio, e stettervi ad assedio tre giorni.

Al termine dei quali, si diede la più aspra battaglia che si ricordasse, e co' migliori cavalieri dell'oste, che durò da mezzodì fino al primo sonno, ardendo gli steccati e la porta del castello; per la qual cosa quelli di dentro molto impauriti, e i più sconciamente feriti, chiesero misericordia, e che si volevano arrendere salve le persone.

Anche questa impresa di Artimino era stata condotta da messer Guglielmo d'Artese, ed egli si mostrò molto misericordioso e benigno ai vinti, concedendo ad essi ogni loro domanda; ma non rimase per questo che, partiti da loro i cavalieri che gli accompagnavano, parecchi ne fossero morti. Messer Guglielmo, condotta sì gloriosamente a termine questa seconda impresa, confortava il conte a seguitar la vittoria ed a combattere Carmignano e Tizzano; ed il conte volentieri lo avrebbe fatto, e senza dubbio avrebbe preso anche quelle castella: ma il duca mandò comando improvviso che l'oste tornasse a Firenze.

CAPITOLO XXXIX. IN FIRENZE, E NELLE CASE DE' CAVALCANTI.

Le prime imprese di questa seconda guerra erano andate così prospere che avean vinto anche la speranza del duca: la duchessa poi dal canto suo, maturava in Firenze guerra ben diversa. L'odio che portava a maestro Cecco, rinfocolato dal vescovo di Aversa, e da maestro Dino, che, dopo la gravidanza, era chiamato spesso alla Corte, si faceva nel cuore di lei sempre più grande, tanto più che ben si era accorta, essere stata tutta una finzione quella di allontanarlo da Firenze; e non che perdere la grazia del suo signore, essergli anzi sempre più caro. Laonde studiava ogni via da tirarlo in qualche laccio che il dovesse perdere, e appostava ogni occasione, o provocandolo, o facendolo tentare comechessía, da farlo venire in disgrazia al duca. Maestro Cecco dall'altra parte sapeva l'odio che gli portava la duchessa, e che cosa trescavano essa e i suoi nemici per perderlo: il perchè stava guardingo da ogni verso, mostrandosi umile quanto poteva, ogni volta che si trovava dinanzi a lei. Ma fidava però sempre molto nell'affetto del duca: della qual cosa prendeva alle volte troppa baldanza; e questa baldanza si accrebbe quando giunse a Firenze la novella della vittoria, e dei gloriosi fatti di Guglielmo.

Ma su questo fermiamoci un poco.

Come prima furono giunte al duca sicure novelle della vittoria di S. Maria a Monte, non istarò a dire quanto ne fu lieto: e tosto avvisatone il gonfaloniere e i priori, mandò poscia un comandatore per tutta la città ad annunziare il lieto avvenimento a tutti quanti i fiorentini, significando che tutto l'onore dell'impresa si doveva a messer Guglielmo d'Artese.

Il comandatore, com'è naturale, passò anche dalle case de' Cavalcanti: e come messer Geri l'udì, si fece alla finestra per meglio accertarsi della cosa; e tanto gli sonò dolce quella novella, che non pure si sentì ringiovanito, ma sentì anche una certa ambizione in cuor suo, che un cavaliere così prode, e così acclamato, lo avesse ricercato di essere suo genero. Nondimeno tacque ogni cosa alla Bice (la quale, stando nella parte più remota della casa, non aveva udito nulla) per informarsi prima di ogni minuto particolare. Quando per altro di lì a pochi giorni venne la novella dell'impresa d'Artimino, e anche di quella si seppe, e si gridò pubblicamente, essere tutto quanto l'onore di messer Guglielmo, Geri ne fu così meravigliosamente lieto che l'antica avversione al cavaliere si mutò in affetto, e nel desiderio di tosto vederlo suo genero; tanto più quando si seppe, il re Roberto avergli dato per questi fatti novello titolo di signoría là nel reame, e il comune avergli pubblicamente decretato il titolo di difensore della libertà fiorentina. Allora non potè più stare alle mosse; e chiamata a sè la Bice, che pur qualche cosa avea saputo, per parte della cameriera, del buon esito della guerra, tutto lieto in volto le disse:

— Bice mia, buona novella: l'orgoglio di Castruccio si incomincia a rintuzzare efficacemente, e il buono stato della nostra terra potrebbe tosto ritornare.

— Amo anch'io la mia terra, e codesta novella tutta mi riconsola, e più ancora perchè veggo che tu ne prendi tanta letizia, — rispose la Bice, che non si attentava di entrare in altro; ma pigliava però ottimo augurio dal vedere quel vecchio così allegro.

— E non c'è proprio altra cagione che ti consoli? — continuò il vecchio guardandola amorosamente con viso benignissimo.

— Babbo mio!... — esclamò allora la fanciulla abbracciandolo, e posandole il capo sul seno.

— Sì, avrai il tuo Guglielmo. Quel cavaliere è degno di te; e come il nostro comune gli ha decretato solennemente titolo di alto onore, così io voglio, per amor della mia Bice — e qui la baciò in bocca amorosamente — così io voglio dargli tal guiderdone, che il faccia più lieto dì ogni altro.

Era tanta la gioja di quella fanciulla, che ne rimase sopraffatta, nè sapeva trovar pure una parola da significare a suo padre quanto le fosse grata; e solo sfogavasi a baciargli le mani ed il volto, e ad abbracciarlo, piangendo lacrime di dolcissima consolazione. In questo si udì battere lievemente la porta; e ricompostisi alquanto ambedue, Geri esclamò:

— Chi è di là? entrate.

E tosto si fe' innanzi il suo fante dicendo esser venuto frate Marco de' Predicatori; a che il vecchio prontamente:

— Ben venga.

E poco dopo entrò frate Marco, tutto lieto nell'aspetto; ma che tosto si turbò, parendogli di intravedere qualche cosa di strano nel volto di Geri e della sua Bice, il che procedeva dal voler ciascuno de' due celare la commozione che gli agitava. Messer Geri si accorse di questo turbarsi del frate; e com'egli era rimasto fermo in mezzo alla stanza, nè dopo il saluto avea più fatto parola, così gli disse con benigno sorriso:

— No, frate Marco, no; l'alterazione che appare ne' nostri volti non ha veruna cagione che non sia di letizia e di contentezza. Sapete pur le novelle della guerra....

— So le novelle della guerra, rispose, e so per avventura ciò che voi ancor non sapete. L'oste vittoriosa sta per ritornare a Firenze, ed il comune vuol che entri come in trionfo, e che sieno altamente onorati il conte e messer Guglielmo vostro genero.

— Mio genero? — disse con sorriso di compiacenza il vecchio, mentre la Bice guardava tutta sfavillante di gioja suo padre — mio genero messer Guglielmo non è.

— Ma sarà ben tosto; e voi ne sarete invidiato da tutti i padri di Firenze, e ne proverete ineffabile contentezza.

— Sì, frate Marco; sì, mia dolcissima Bice; — disse Geri abbracciando la figliuola, e baciandola affettuosamente — saremo tutti consolati. Ma quando dite che torna la nostra gente?

— Ero venuto appunto per questo. Doman l'altro in sull'ora di sesta la gente sarà qui; piacevi egli, messere, di vedere la solenne entrata di essa? Potreste venire meco in luogo acconcissimo.

— Piacemi; e sarovvi con la Bice, se la Bice può esservi anche essa.

— E lo domandate, messere? E la festa non si fa per il suo cavaliere? E volete che sia priva della consolazione di vederlo acclamato da un popolo intero, salutato difensore della sua terra, e il più prode fra tutti i cavalieri che portano armi?

La povera Bice, vedendo suo padre così cambiato ad un tratto, udendo le parole del frate, per lei così dolci, e sentendo essere così vicino il momento di rivedere il suo Guglielmo (e come rivederlo!) e di essere sua sposa, non sapeva raccapezzarsi se era desta o se sognava; non trovava il verso di articolare parola, e se ne stava avvinghiata a un braccio di suo padre, guardandolo spesso amorosamente, ed ora volgendosi a frate Marco con sì soave sorriso, che dava idea quaggiù della beatitudine degli angeli.

— Su, via, su Bice, — disse il vecchio, svincolandosi dalla figliuola, — pensa a mostrarti donna: pensa che si disdice alla sposa di un prode cavaliere ogni molle femmineo affetto: ricordati che sei dell'antico sangue fiorentino, e mostrati degna di esso.

A queste parole la Bice si ricompose tutta, e umilmente rispose:

— Perdonami, babbo mio dolce: non mi aspettavo così ad un tratto sì grande consolazione: sapevo che mi volevi il più caro bene del mondo; ma non credevo averne così tosto una prova tanto cara e solenne. Ma ripiglio la signoría di me stessa: e non vedrai atto, e non udrai parola da me, che non sia degna dei Cavalcanti, del mio cavaliere, e di una figliuola di questa nobile e cara terra.

Il vecchio abbracciò e baciò da capo la Bice: ringraziò caramente frate Marco della profferta fattagli, promettendo che due mattine appresso sarebbe ito con la Bice al luogo dov'esso diceva di volergli condurre, per vedere il ritorno della gente fiorentina; e pregandolo che il tenesse ragguagliato in questo mezzo, se nulla occorresse che, o a lui o alla gloria e buono stato di Firenze si riferisse. Frate Marco lo accertò che tutto sarebbe fatto secondo il piacer suo: ricordògli la promessa fatta che egli sarebbe stato colui che avrebbe benedetto l'anello del matrimonio; e tutto consolato, si partì dalle case dei Cavalcanti, per andare ad informar d'ogni cosa maestro Cecco.

Il duca frattanto, il comune di Firenze, e la città tutta quanta si preparavano a ricevere degnamente l'esercito vittorioso, e a degnamente onorare il conte Beltramo e messer Guglielmo. Le vie per le quali dovevano passare erano sino dal dì innanzi parate a festa, e tutti i palagj adorni con drappelloni e bandiere: le compagníe di tutte le arti si affaccendavano con ogni studio a mettersi in punto di comparire onorevolmente: la piazza poi dei signori, dove il conte Beltramo, e messer Guglielmo con i suoi cavalieri, dovevano fermarsi, era una festa a vederla, tanto riccamente era adorno il palagio dei signori, e gli altri palagj da parte di tramontana. Sulle gradinate era ordinato un nobilissimo e ricchissimo padiglione di sciamito rosso, seminato di gigli d'oro, e a destra di esso un trono reale per il duca e per la duchessa. Dalla parte di S. Piero Scheraggio, dove ora sono gli Uffizj e le logge de' Lanzi, siccome c'era uno spazio vuoto e sassoso, quasi un greto dell'Arno, e case poverissime, che avrebbero fatto brutto contrasto alla ricchezza della piazza, fu rizzato un palancato altissimo, e ricoperto tutto quanto con capoletti e pancali oltremodo ricchi, che fu tenuta una meraviglia. La sera medesima era cominciata ad avvicinarsi la gente dell'oste, e si posava ciascun drappello dove meglio pareva opportuno a' lor caporali per passarvi la notte, ed entrar poi tutti insieme a Firenze la mattina appresso; e già molti fiorentini erano usciti la sera stessa fuori di porta a S. Frediano per vedergli arrivare; come altri moltissimi fin dalle prime ore dopo mezzanotte erano andati a prender posto ne' luoghi più opportuni a meglio vedere il passaggio della gente e dei capitani.

Come prima spuntò il giorno poi, la gente si affollava sempre più per le vie e per la piazza della signoría, dove i fanti del podestà potevano contenerla a fatica dentro il termine ad essa assegnato; e molto tempo prima dell'ora stabilita all'entrata, le finestre di tutti i palagj e di tutte le case erano adorne di capoletti, e qua e là di bandiere; e fiorite di belle e ben adorne donne e fanciulle. Il conte Beltramo con messer Guglielmo erano giunti fin dalla sera, e fermatisi al monastero di S. Donato a Scopeto, dove il duca ed i signori mandarono a salutarli e far loro onore: per parte del duca andò messer Gualtieri di Brienne; e per i signori priori, andò messer Caroccio di Lapo degli Alberti, uno di essi; e tanto fece maestro Cecco, che potè andare insieme col duca d'Atene, e parlare e salutare prima di ciascun altro messer Guglielmo, il quale, come il lettore s'immagina, trovò modo di domandargli della sua Bice, e di essere informato di ogni cosa minutamente, e dove sarebbe stata a veder la festa, sapendolo Cecco da frate Marco: di che Guglielmo prese meravigliosa letizia.

La buona Bice era così sopraffatta dalla gioja che tutto il giorno ne stette come smemorata, e di nulla sapeva pensare, se non della sua vicina felicità; e in tutta la notte non potè prender sonno quasi mai, chè sempre mulinava col cervello, e le pareva ogni ora mille di poter rivedere il suo cavaliere; e le si dipingeva alla fantasía, prima anche di vederla con gli occhi del corpo, la solennità della mattina appresso: vedeva il suo Guglielmo su nobile palafreno, acclamato e celebrato da tutti, di nulla curarsi, ma cercare con gli occhi desiosi se vedesse lei a qualche balcone; gioiva tutta, pensando quanto l'avrebbero invidiata le altre donzelle fiorentine; nè l'ultima delle sue contentezze era quella di veder contento anche il suo caro babbo.

Come prima cominciò a farsi giorno, ella, chiamata la sua cameriera, saltò il letto, e volle subito metter mano ad acconciarsi: non che la fosse ambiziosa e troppo vana, chè anzi nelle acconciature era semplicissima e schietta; ma perchè parevale, affrettandosi ella, che, anche il tempo dovesse affrettare il suo corso: e parevale, acconciata che fu, il tempo invece esser più lento, e spesso spesso facevasi alla finestra per vedere quanto montava il sole, e lo accusava di pigro e di neghittoso. Poi mandò sentendo se messer Geri fosse ancora desto; e dettole di no, se ne tribolava, dubitando che si facesse tardi; e chiamava il fante di lui che andasse a svegliarlo; nè egli attentandosi a farlo, almeno il pregò che facesse del rumore presso alla camera, per vedere se si svegliava da sè. E come poi Geri si fu levato, la Bice, già messa tutta in punto, erale sempre d'attorno, amorosamente sollecitandolo, sempre agitata dal dubbio che l'ora passasse, ed ogni momento parevale un giorno: tanto che quel buon vecchio per contentarla, uscì di casa assai di buon'ora, ed arrivarono al luogo detto loro da frate Marco, che neppur egli era per ancora arrivato, benchè poco indugiasse. Il detto luogo era un'assai nobile casa dei Malespini, posta sulla piazza de' signori, dalla parte di tramontana, il più bel punto, fuorchè il palazzo della signoría, da poter vedere la festa.

La piazza, come dissi poco fa, torno torno era gremita di popolo; i balconi tutti pieni di belle donne, e per tutto appeso ghirlande, festoni e bandiere: i tetti di tutte le case, anch'essi pieni zeppi di gente; alle finestre del palazzo de' signori erano i cavalieri della corte con le loro dame, e tutti aspettavano il segno che la gente fosse alla porta, e scendessero dalla scalinata il duca ed il gonfaloniere co' priori. La Bice era ad un balcone, accanto a suo padre, e dall'altro lato stavale frate Marco; era vestita schiettissimamente, e senza altro ornamento, che una piccola ghirlanda, ed una ricca cintura con una graziosa scarsella; e quella semplicità contrastava mirabilmente col grave addobbo di vesti, di trecce e di gioje delle altre donne. Ella però a nulla guardava e nulla vedeva; e sbadatamente rispondeva anche alle domande di suo padre e del frate, con gli occhi sempre intenti al luogo donde il segno doveva venire: e benchè fosse poco più di mezz'ora che erano lì, le pareva di esserci già stata ore ed ore.

Il segno finalmente fu dato, ed il cuore stette per uscirle dal petto, tal balzo esso fece: poco appresso comparve dal palagio della Signoría il duca e la duchessa, salutati da uno scoppio d'applausi, e dalle solite grida, forse fatte fare, di Viva il duca, Viva il signore: assettaronsi sul loro trono, da un lato del quale era messer Gualtieri di Brienne, col cancelliere vescovo d'Aversa, e dal lato opposto un altro dei principali cavalieri della corte con maestro Cecco d'Ascoli, che fu voluto altamente onorare dal duca, come colui che aveva presagito l'esito felice di questa impresa, e confermato così certamente il presagio, anche dopo la prima sventura.

L'entrata della nostra gente era ordinata così: innanzi a tutti cavalcava il conte Beltramo, guidatore di tutta l'oste, e cavalcavagli allato messer Guglielmo d'Artese: seguitava ad essi, a distanza di forse cinquanta passi, la prima schiera de' cavalieri, che erano stati ajuto principalissimo alla espugnazione di S. Maria a Monte e di Artimino; poi altre schiere di cavalieri, e per ultimo la gente a piedi: dovevano entrare tutti quanti per la porta medesima; salvo che la gente a piedi, arrivata che fosse dinanzi alla chiesa del Carmine, doveva volgere verso la chiesa e la piazza, e spargersi quindi in piccoli drappelli per le varie parti della città, passando il fiume dal ponte alla Carraja: la schiera de' cavalieri dovevano, facendo capo al ponte a S. Trinità, per passar quivi il fiume, andar poi difilato sulla piazza della signoría, schierandosi ordinatamente nel mezzo di essa, lasciata vuota a bella posta.

A un tratto si udì da coloro che erano in piazza un lontano suono di trombe dalla parte di Vacchereccia, e tutti quanti si voltarono da quella parte, e si levò da ogni lato tal bisbiglio e tal mormorío che dimostrava la comune impazienza. La Bice quanto più il suono si appressava tanto più forte e più frequente sentiva battersi il cuore: e non levava mai l'occhio dal canto di Vacchereccia, là donde sarebbe spuntato il suo Guglielmo; nè messer Geri era meno ansioso e meno attento di lei.

Le trombe già sono in Vacchereccia, e la povera Bice tremava per modo che mal si reggeva sulle gambe e sudava fil filo: i trombettieri già sono in piazza: da Vacchereccia e da Mercato Nuovo si udivano tuoni di applausi, e di festose voci: Viva messer Guglielmo d'Artese, viva il conte Beltramo, viva i difensori della libertà fiorentina; le voci rinforzano; e cominciano per la piazza gli applausi e i viva a Guglielmo; ed eccolo, egli ed il conte, entrar da Vacchereccia.

Come prima la Bice scorse il noto elmo ed i notissimi colori delle piume del cimiero, e lo udì salutato ed acclamato da mille e mille voci, prima diventò rossa come il fuoco, poi aperse le labbra a dolcissimo sorriso, seguíto da lacrime di gioja ineffabile, e appoggiato il capo sulle spalle di suo padre, che anch'egli lacrimava dalla consolazione; nè disse altre parole, se non:

— Babbo mio dolce, ogni cosa riconosco da te!

L'atto della Bice e le lacrime di lei e di messer Geri, non si videro nemmeno dai più vicini, perchè ciascuno era atteso a ciò che facevasi in piazza: solamente frate Marco fece accorto il vecchio e la fanciulla che si ricordassero dov'erano; e le poche parole di lui bastarono a ricomporre quegli spiriti così turbati.

Intanto da ogni parte era un continuo squillar di trombe, anche per le altre vie di Firenze donde passavano le genti a piede: come prima il conte e messer Guglielmo furono a mezzo la piazza, il duca con tutta la corte, il gonfaloniere co' priori, si alzarono in piedi, levandosi il duca ed i suoi cavalieri la berretta, e il gonfaloniere ed i priori il cappuccio; e mentre la gente a cavallo si schierava con bell'ordine intorno alla piazza, i due campioni si erano appressati alle scalinate, smontando da cavallo per andare a far riverenza così al duca, come alla signoría, da' quali tutti furono trattenuti con benignissime parole, ed ebbero pari donativi: il duca donò a ciascuno dei due un nobilissimo palafreno; e, in nome del re Roberto suo padre, la carta che dava a ciascuno di loro titolo e rendita di signoría nel reame, ed un nobilissimo anello di inestimabile prezzo; il gonfaloniere, a nome del comune, diè loro carta che conteneva il titolo di difensori della libertà fiorentina, un gonfalone con l'arme del comune, ed una spada ricchissima per materia e per lavoro, creandoli ambidue cavalieri di popolo: e tutto questo si faceva tra il continuo applauso della gente, e tra lo squillar delle trombe, che mai erasi veduta una festa ed una letizia sì fatta.

Mentre Guglielmo usciva dalle scalee per rimontare a cavallo non trascurò di fare atto di umile riverenza a madonna la duchessa, che gli corrispose con sorriso, e con saluto benignissimo; ma quel sorriso si spense ben tosto quando il cavaliere, veduto maestro Cecco, non molto lunge dal baldacchino del duca, si fece verso lui, e parlarono insieme non so che cosa; e quando vide che il cavaliere cercava con gli occhi ansiosamente i balconi di quelle case dove era la Bice; la quale vedeva pure ogni cosa, e sentiva struggersi dall'amore e dal desiderio che gli occhi del suo Guglielmo si incontrassero coi suoi, il che se avveniva, non poteva nè l'uno nè l'altro discernere per la troppa lontananza.

Finita ogni cerimonia, il conte e Guglielmo rimontarono a cavallo e si avviarono al palagio, dove il duca aveva mostrato desiderio che andassero per conferire con essi; e la gente si avviò tutta alle proprie case, per ripigliare ben tosto la gioja e il sollazzo, come si fè tutto il giorno per la intera città.

CAPITOLO XL. LA VENDETTA SI MATURA.

Alla corte del duca era per quel giorno ordinato un grandissimo convito, e dovevano esservi, col conte e con Guglielmo a cui onore si faceva, il gonfaloniere di Firenze con tutti i priori; ma prima volle il duca conferire co' due capitani le cose della guerra; perchè, se il popolo e la città vedevano solo quel che appariva di fuori, egli sapeva quel che celavasi dentro, e comprendeva bene che, se erano state veramente splendide le recenti vittorie, Castruccio non era per questo abbattuto, e ci bisognava molta forza e molta arte a sì grande effetto; tanto più che erano venute sicure novelle come il Bavaro si avvicinava con la sua gente alle parti di Toscana; e questa era la cagione perchè aveva comandato al conte di ritornare a Firenze con tutta l'oste, che male sarebbe stata sufficiente contro al Bavaro ed a Castruccio.

Di queste cose che il conte e Guglielmo ignoravano, come ignoravale ciascun altro, fuorchè il duca d'Atene, informò il duca i due capitani; e come lo stesso duca d'Atene era presente a questo colloquio, si deliberò lungamente che partito fosse da prendere, e si prese, come è naturale, quello di fare uomini e denari quanti più si poteva: benchè il poter aver denari dai fiorentini era cosa assai malagevole, dacchè il comune di Firenze in un solo anno di signoría si trovò speso più di cinquecento migliaja di Fiorini d'oro, che per quel tempo sarebbe stato gran cosa ad un gran reame; e tutti erano usciti dalle borse de' fiorentini: onde ciascun cittadino si doleva forte.

Per la qual cosa si propose di pensare maturamente ad ogni occorrenza, e che così il conte come Guglielmo sarebbero stati spesso a consiglio col duca per questa cagione.

Dopo ciò il duca e gli altri ritornarono nella gran sala, dove il gonfaloniere e tutti i più segnalati uomini della Corte stavano raccolti, trattenuti cortesemente dalla duchessa; e senza dar nulla a conoscere, continuarono i lieti ragionamenti e le lodi a' due capitani vittoriosi. Lodi molte non mancarono a maestro Cecco d'Ascoli per la sua predizione avverata; e il duca stesso; un poco perchè veramente il credea, e dal buon esito di questa impresa argomentava l'ottimo fine della guerra; ed un poco per dargli in cospetto degli avversarj suoi un pegno d'affetto e di estimazione, acciocchè si temperassero contro di lui, si volse ad esso dicendogli parole di gran bontà e di grande affetto, e lodandolo per il più grande scienziato di quel tempo.

L'esempio del duca fu ben tosto seguitato da parecchi cavalieri, e dal conte stesso; e più che da tutti da Guglielmo, a cui non pareva vero di avere questa occasione di parlare a lungo con maestro Cecco, il quale ebbe agio di accertarlo che messer Geri ardeva di vederlo suo genero, poco men che la Bice di vederlo suo sposo; e che facesse di trovar tosto frate Marco, come prima avesse un poco di tempo libero, il quale gli avrebbe detto molte e molte cose.

Se la duchessa e il cancelliere si rodessero dentro del vedere così carezzato dal duca e dagli altri Cecco d'Ascoli è facile l'indovinarlo; e benchè la duchessa, come accennai qua dietro, non avesse più vera gelosía per l'amor di Guglielmo con la giovane Cavalcanti, nondimeno tanto la indispettiva quel veder Guglielmo sì affezionato all'Ascolano, e tanto dall'altra parte si sdegnava della baldanza che esso mostrava dinanzi a lei, che non avea bene di sè, e non pensava se non a veder di condurlo all'estrema rovina.

E non stette molto, come prima uscì dalla sala, che volle veder il vescovo di Aversa, il quale fu a lei immantinente.

— Vi eravate apposto, messere, quando diceste che l'Ascolano sarebbe tornato qua: e con che baldanza è tornato, l'avete veduto anche voi, dopo l'avventuroso successo di questa guerra; quasi ne fosse stata cagione la sua profezía; e dopo le lodi avutene dal duca stesso. E' deve per certo averlo incantato; e parimente quel messer Guglielmo....

— Madama, lasciatelo scorrazzare a suo senno; e siate certa di questo: ora che è tornato qua, non uscirà dalle nostre mani. Fia buono per altro l'addormentarlo quanto più si può; e però voi stessa, porgetevi con esso lui non tanto acerba: dissimulate più che potete; se vi riesce, simulate altresì, dicendogli qualche lusinghevole parola. Così vi sarà più agevole il tirarlo a far cosa, che possa dispiacere anche a monsignore lo duca, la cui protezione, non che possa impedire il corso della giustizia divina, la quale si sta preparando per opera della S. Inquisizione; ma potrebbe ben tardarla, o temperarla.

— E che cosa posso io indurlo o a dire o a fare?

— Che cosa appunto non saprei nè dirlo, nè pensarlo; ma è senza dubbio più agevole che capiti il bello, quanto maggiori occasioni gli porgete di starvi attorno, e ingolfarlo in quella sua pazza astrología.

— Parmi il vostro savio consiglio, e il seguirò.

— Ad ogni modo poi il disegno nostro sarà colorito. Maestro Dino del Garbo, così buon cattolico com'egli è, si tiene gravata la coscienza del più indugiare a denunziarlo; e l'avrebbe già fatto, se non fosse stato che alla vostra signoría piacque si aspettasse; e lo farà tosto che a voi paja opportuno.

— Non andrà molto che maestro Dino, e voi, e tutti i buoni figliuoli di santa chiesa vedranno cessare questo obbrobrio della mia corte; e piacemi il vostro consiglio di sempre più affidarlo, simulando con esso benignità, per dar materia alla sua vana baldanza di sbizzarrirsi anche più.

— Egli vive pure a fidanza di messer Guglielmo d'Artese, che, dopo le ultime imprese massimamente, ha grande autorità presso monsignor lo duca, e che ama Cecco maravigliosamente, come colui per la cui arte sottilissima messer Geri dei Cavalcanti ha richiamato appresso di sè la figliuola, e consentito che il cavaliere sia suo genero.

— Che un sì prode e gentil cavaliere, e di sì grande lignaggio quale è messer Guglielmo, abbia a essere sposo a questa pulzelletta di tanto piccola nazione, parmi troppo peccato; egli che avrebbe potuto fare ambiziosa di sè quasi una donna di casa reale!

— Madama, i Cavalcanti per altro sono di sangue gentilissimo, e la figliuola di messer Geri è quanta bellezza e quanta gentilezza può trovarsi in tutta Firenze, dove pure sono belle donne e gentili.

La duchessa a queste parole fece un atto di alto dispregio, e rispose:

— Chi così vuol così s'abbia, nè di ciò vo' che mi caglia gran fatto. Pensiamo solo al proposito nostro, per il quale seguiterò il vostro consiglio. Domani si fa l'esequie di quel cavalier provenzale, che fu ucciso a S. Maria a Monte, mentre insieme con messer Guglielmo montava sulle mura del primo cerchio. Fate che maestro Cecco sia vigilato; avvertitene anche maestro Dino; e se caso si desse da poterlo tirare in qualche imprudenza, fate che non si trascuri.

E il vescovo d'Aversa uscì tosto, per andare a conferire la cosa con Dino del Garbo.

CAPITOLO XLI. SUOCERO E GENERO.

Mentre il vescovo di Aversa teneva questo colloquio con la duchessa, Guglielmo, accompagnatosi con Maestro Cecco, lo cominciò a domandare di ogni minimo che circa alla sua Bice ed a messer Geri, ed egli lo accertò così in generale che il vecchio era al tutto cambiato, e non vedeva l'ora di farlo suo genero; ma che per più minuti particolari era da far capo a frate Marco, il quale avrebbe senza dubbio trovato allora al convento, quando a lui piacesse l'andarvi. E come Guglielmo non desiderava altro, così egli vi fu in meno che non balena. Frate Marco, vedutolo e salutatolo, entrava in ragionamenti della guerra, delle lodi sue, del suo valore, delle sue glorie; ma il cavaliere:

— Deh! bel frate, lasciate stare adesso codeste cose. Voi meglio di me sapete per cui l'ho fatto, se ho fatto qualche cosa, che meriti lode. Parlatemi di essa, se Dio vi dia bene; ditemi di messer Geri.

— Le case de' Cavalcanti sono albergo della gioja e della contentezza, che solo è menomata dal desiderio di vedervi la persona vostra; e se il desiderio della Bice è grande, grandissimo è adesso il desiderio di messer Geri; a cui ho promesso pur dianzi che vi avrei condotto a lui come prima vi fosse dato l'andarvi.

— Così vi potessi esser tosto?

— E tosto vi saremo, soggiunse il frate.

E messisi senza mezzo in cammino, furono alle case de' Cavalcanti, dove messer Geri e la Bice stavano nella più grande ansietà, aspettando l'uno e l'altro di momento in momento che comparisse loro dinanzi il cavaliere. E l'ansietà di messer Geri era maggiore per avventura di quella della Bice, tanto era rimasto preso dalle prove fatte dal cavaliere, e tanto era rimasto abbagliato dagli onori, e dalle acclamazioni fattegli così dai signori come dal popolo. Egli non aveva terreno che lo reggesse: passeggiava su e giù per la stanza: mettevasi a sedere, e tosto rialzavasi, per farsi alla finestra, e vedere se spuntasse nessuno dal capo della via; ed appunto mentre era alla finestra, benchè la vista avesse mal ferma, gli parve aver veduto metter piede in casa sua un cavaliere con altra persona, che ben non potè discernere, ma gli parve frate Marco; e non avendo un dubbio al mondo che fossero dessi, fecesi egli medesimo all'uscio della stanza, nè prima furono in capo alla scala che Geri, scorto il cavaliere, gli si fece incontro, e stesagli la mano:

— Cavaliere, ora non siete più straniero, ma figliuolo dilettissimo di questa terra; e non può nè dee, chi questa terra ama, non amare e non riverir voi; ed io vi amo e vi riverisco quanto altro fiorentino.

— Messer Geri — riprese il cavaliere, baciando riverentemente la mano al vecchio — anche quando voi mi tenevate per istraniero io vi amava, e vi riveriva come padre carissimo; nè poteva non farlo, se a colei siete padre, la quale, dopo Dio, amo sopra ogni cosa quaggiù, e per cui sola mi è cara la vita e la gloria. Pensate dunque che debbo fare adesso, che più straniero non mi tenete, e per poco mi amate qual caro figliuolo.

— Più che caro figliuolo, dovete dire; chè per voi rifiorisce il giglio fiorentino, sfiorito da parecchi anni in qua tante e tante volte. Ma voi, disse sorridendo, voi cercate qualcosa con gli occhi; e senza fallo parvi che qui manchi qualcuno.

Guglielmo non rispose, se non quanto troppo bene significò il suo desiderio con un lieve assentire del capo, e con un sorriso tenerissima: frate Marco però, stato muto fino allora, per iscrutar bene l'animo dei due, ed accortosi che l'uno era tenerissimo dell'altro, non dubitò di dire:

— Messer Geri, se il cavaliere cerca con gli occhi quel che certo sapete, e lo desidera ardentemente, dovete desiderar voi di consolarlo, e di consolare la vostra dolce figliuola, e voi stesso.

— E voi altresì, che tanto amore portate alla casa nostra, e tanto pregiate il cavaliere. Or'ora saremo lieti tutti quanti.

E sì dicendo uscì dalla stanza.

Il cavaliere e il frate rimasero con la certezza che il vecchio sarebbe tosto ritornato insiem con la Bice; e veramente egli fu di subito alla figliuola, alla quale detto con parole e con atti di vera contentezza che il cavaliere l'attendeva, la prese caramente per mano, e andarono colà dov'erano il frate e Guglielmo. Qual fosse, ne' pochi momenti che precederono il loro incontro, il cuore de' due amanti, quanto dolci i pensieri, quanto il desiderio, io nol significo qui, perchè le più efficaci parole ch'io potessi trovare, sarebber sempre minori del vero; e chi ha cuor gentile, ed ha amato davvero, può da sè stesso immaginarlo. Quando poi messer Geri comparve sulla soglia dell'uscio con la Bice per mano, e i due amanti si furono veduti, non poteron tenersi che l'uno non corresse desiosamente incontro all'altro e castamente si abbracciassero, dandole Guglielmo un amoroso bacio sulla fronte, non senza un sorriso del vecchio Geri, che palesava tutta la contentezza dell'animo suo; e:

— Figliuoli, esclamò tutto commosso, così Dio vi benedica di lassù, come qui vi benedico io; e vi conceda lunga e prospera vita, con adempimento d'ogni desiderio vostro.

— Primo e più vivo desiderio mio e del mio Guglielmo è il vedere contento te per lunghi anni, te, che della felicità nostra sei l'unico autore.

E volta a Guglielmo:

— Guglielmo mio, quanto sono felice!

— E perchè, se testè indovinasti così bene il mio cuore, rispetto al tuo buon padre, ed hai parlato per me, non lo hai indovinato anche adesso, e non hai detto: Quanto siamo felici!

La Bice si volse a lui con amoroso sorriso, quasi in atto di ringraziarlo del gentile pensiero, quando messer Geri tutto lieto:

— Frate Marco, ecco venuta anche la vicenda vostra: vi promisi che benedireste voi l'anello alla mia Bice: fate adunque di averne licenza da messer lo vescovo, chè in capo a otto giorni si hanno a fare le sponsalizie.

La Bice e Guglielmo si guardarono amorosamente; e quasi mossi da una forza medesima, abbracciarono ambedue il buon vecchio, a cui frate Marco rispose:

— Messere, sempre ho mirato a questo santo fine dell'amore della Bice vostra; e potete immaginare con che ambiziosa gioja io compirò il sacro ufficio. Ma più efficacemente di me ci ha avuto che fare un altro, a cui senza dubbio parrebbe troppo doloroso il non partecipare alla gioja comune; il non potere accertarvi della sua osservanza per voi, e per la casa dei Cavalcanti...

— Parlereste voi di Cecco d'Ascoli? — disse rivoltandosi come un aspide messer Geri.

— Sì messere, di maestro Cecco d'Ascoli.

— Ma dimenticate voi ch'egli è eretico, negromante e nemico del nome mio? Non voglio in modo veruno che le sponsalizie di questi figliuoli miei sieno contaminate così, nè abbiano così triste augurio.

— Padre mio e mio signore, disse Guglielmo, maestro Cecco è savia e discreta persona: credetelo a me, che più d'ogni altro lo conosco, e che meno d'ogni altro vorrei aver tristi augurj alle mie sponsalizie.

— Voi messer Geri, continuò il frate, voi avete sempre negli orecchi le dicerie di maestro Dino del Garbo contro il savio maestro; ma da che sieno mosse le sue ebbre parole voi pur il sapete; e avete pur toccato con mano quanto è forsennato il suo sdegno, e la sua invidia. Maestro Cecco, siatene certo, è, come dice messer Guglielmo, savia e discreta persona; filosofo e scienziato de' più solennissimi; e il nome dei Cavalcanti riverisce ed onora; e Firenze ama come sua seconda patria....

— Ed io stesso, ritoccò Guglielmo, io stesso l'ho udito, nella presenza di monsignor lo duca, celebrare questa nobile terra, e raccomandare ad esso la libertà e il buono stato di lei.

E come Geri scoteva il capo in segno di dubbio; ma agli atti del volto accennava di lasciarsi piegare; così anche la Bice volle dire una parola:

— Sì, babbo mio dolce, maestro Cecco è buono, e ama tanto il mio Guglielmo, e te onora....

— E tu, che sai tu di maestro Cecco? — rispose Geri, rompendole le parole in bocca — e quando lo hai tu veduto o uditolo, che sei stata fin qui sotto la custodia di suor Anna in Mugello?

La Bice si era dimenticata che del fatto di Mugello quando erano stati colà Guglielmo e maestro Cecco, suo padre non ne sapeva e non doveva saperne nulla, e tardi si accorse di essersi lasciata andare un po' troppo, nè trovava a un tratto che cosa rispondere; il perchè, accortosi frate Marco del costei titubare, la tolse egli d'impaccio:

— Messere, io sono stato per commissione vostra due volte in Mugello, e come ho parlato in bene a voi di maestro Cecco, così ne ho sempre parlato anche con la damigella. E qui vi ripeto che egli è savio e discreto; e vi riprego che vogliate dare ad esso la consolazione di esser presente anch'egli alle sponsalizie, e di partecipare alla contentezza comune, soddisfacendo al lungo suo desiderio di far riverenza a voi, e di profferirvisi.

E dacchè alle preghiere del frate unirono le loro messer Guglielmo e la Bice, messer Geri, che oramai aveva cominciato a dir sì, ed in sostanza era di ottima natura, si lasciò piegare anche a questo, con gran soddisfazione del frate e del cavaliere.

Non istarò qui a riferire i varj ragionamenti fatti tra tutti, e le dolci parole e i dolci atti de' due amanti: basta che Geri concedè al cavaliere che venisse ogni giorno alle case de' Cavalcanti, dicendogli che, dove a lui piacesse il giorno da esso stabilito per il matrimonio, si desse dal canto suo ogni pensiero di porsi in assetto, com'egli avrebbe fatto per sè e per la Bice: a frate Marco disse che fosse da messer lo vescovo di Firenze ad impetrargli licenza che le sposalizie si facessero in casa sua, e a chiedergli per sè facoltà di benedire l'anello. E restati in concordia che tutto sarebbe fatto, i due compagni, lasciando padre e figliuola consolatissimi, e pieni di consolazione essi stessi, si avviarono l'uno al convento e l'altro al palagio, dove l'attendevano ancora nuovi festeggiamenti, per lui senza veruna attrattiva, avvezzo da tanto tempo a dispregiare ciò che non fosse la sua Bice.

CAPITOLO XLII. CONVITO ED ESEQUIE.

Il convito fu oltre ogni dire splendido e suntuoso, e i festeggiamenti d'ogni maniera, i suoni, i canti e le danze, e le prove di leggiadria e di cortesía vi furono infinite.

Basti il dire che vi furono cinquanta donne bene e riccamente vestite, e similmente trenta donzelli da far festa, anch'essi riccamente vestiti: e chi volesse raccontare il numero e la squisitezza delle vivande, e il vasellame d'argento lavorato, e i finissimi vini, e i confetti, recati, sempre rinnovellando, in nobili e pregiate confettiere d'argento; e i cantari de' giullari, e i giuochi e i sollazzi continuati fino a gran notte, avrebbe troppo lunga tela alle mani e sarebbe infinito, non senza noja per avventura di quei non pochi lettori, che scambio di dilettarcisi, aborrono le descrizioni minuziose. Questo per altro non è da tacere, che, in sul dar l'acque alle mani, la duchessa ebbe a sè maestro Cecco; e simulando l'antica benignità, il pregò cortesemente che la nobile compagnía dovesse far meravigliare con alcuno de' suoi prodigi; ma Cecco, al quale la benignità della duchessa parve insolita troppo, ne prese sospetto; ed allegando che Florone per quel giorno non concedevagli il suo ajuto, se ne scusò, non senza apparente rammarico, e con celata ira di lei.

Alla festa allegrissima del convito, doveva succedere la mattina appresso, come qua dietro accennai, la pietosa opera delle esequie di un cavaliere segnalatissimo, ucciso all'assalto di S. Maria a Monte, mentre accanto a Guglielmo era per metter piede sulle mura del primo cerchio.

Fu questi messer Guccio da Casale, guidatore della prima schiera della gente a cavallo, uno de' più pregiati cavalieri d'Italia. Il corpo, recato con quel maggiore onore che si potè da' suoi compagni fino ad una chiesetta vicino a Firenze, doveva essere andato a levar di colà, per accompagnarsi a S. Croce, da tutti i più pregiati cavalieri dell'oste, dalla signoría di Firenze, dalla chericía di S. Reparata, e da molte regole di frati; onorato quanto più si potesse a spese del comune. E l'ordine fu questo. Prima gli fu posto sulla bara un drappo d'oro, e sopra vi fu fatto appiccare tre scuddicciuoli ricamati, che furono il giglio, la croce del popolo, e l'arme della parte guelfa, con ventiquattro drappelloni, con varie altre armi del comune, del popolo, di parte guelfa, della chiesa e del re Roberto; più gli si donarono, per portare intorno alla bara, quaranta doppieri; e un gran pennone del popolo, con la targa, vestito di zendado l'uomo e covertato il cavallo: due altri erano dietro a questo, uno de' quali a cavallo, con un cimiero del Marzocco in capo, ed una spada in mano tenuta per la punta; e poi due uomini a cavallo, con due bandiere quadre dell'arme del comune, con due scudi alla catelana, tutti vestiti i fanti, e covertati i cavalli, di zendado.

Dopo di ciò donò il comune un pennone di parte guelfa, grandissimo e bello, che uscì dal palagio della parte guelfa, e la targa con esso: ed oltre a ciò un cimiero di parte guelfa, con una spada in mano dal cavaliere tenuta per la punta; e ciascuno di loro era vestito, ed i cavalli erano covertati, di zendado.

Tutti i detti sei cavalli ed uomini, erano vestiti e covertati, come dicemmo, e i 40 doppieri accesi erano tenuti in mano da quaranta fanti de' priori. Dietro la bara seguiva la schiera onde messer Guccio era stato guidatore, con il suo cavallo innanzi, covertato di gramaglia, e tenuto per il freno dal suo scudiero: quindi le regole dei frati, la chericía, e in ultimo tutti i più nobili cavalieri della corte, il gonfaloniere coi priori, ed in nome di monsignor lo duca, Gualtieri di Brienne, il vescovo di Aversa suo cancelliere, e maestro Cecco altresì, benchè con visibile cruccio del detto cancelliere.

Arrivata la processione a S. Croce, tutta la gente a cavallo si schierò sulla piazza, sonando continuamente le trombe in tuono lugubre, e gli altri tutti si avviarono in chiesa dietro la bara: e già erano sulla soglia il duca d'Atene, il cancelliere, messer Guglielmo e maestro Cecco, quando un frate minore con sacri paramenti (quel frate medesimo, che in sul principio di questo racconto si rammenterà il lettore aver avuto briga col maestro, per conto di certe parole dell'atto di scomunica di Castruccio), e quasi agitato da divino furore gli si parò dinanzi:

— In nome del Padre del Figliuolo e dello Spirito Santo; ed in nome del reverendo padre inquisitore della eretica pravità, che qui ha sede e giurisdizione, comando a te Francesco Stabili, scomunicato, ed eretico relasso, che non sii presuntuoso di porre il profano tuo piede in questo tempio, sacro al Signore delle vendette.

Il cancelliere non si mostrò punto turbato nè meravigliato da sì strano atto del frate; ma, soffermatosi con gli altri, non mutò aspetto nè poco nè assai, come se fosse stato una statua di marmo, e stava col capo piegato sopra la spalla sinistra, senza articolar parola. Non così per altro messer Gualtieri e messer Guglielmo, i quali si mostrarono fortemente sdegnati di tanto fanatiche parole; e messer Gualtieri, temperandosi quanto più potè, non potè fare per altro che ei non dicesse:

— Bel frate, io non posso, nè voglio, entrare giudice degli atti della sacrosanta Inquisizione; ma, quanto posso conoscere io del benigno modo col quale essa suol procedere, innanzi di venire a quello che voi dite in nome di messer l'inquisitore, parmi che voi vi siate lasciato portare da eccesso di zelo, piuttostochè dalla cristiana carità; e dubito assai che messer l'inquisitore vi abbia dato veramente siffatto mandato. Io qui sono in persona di monsignore lo duca: e se prima non sono accertato che il sacro tribunale dell'inquisizione voglia veramente procedere in tal forma, non patirò che sia fatta questa ingiuria ad un così pregiato famigliare di monsignore lo duca, e per conseguente al duca medesimo.

E voltosi al vescovo d'Aversa:

— Voi messere, siete cancelliere di monsignor lo duca, e siete vescovo e frate minore; parvi egli che quel frate abbia operato saviamente, e che io debba comportare questa onta fatta al mio e vostro signore in persona di uno de' suoi familiari?

L'atto di quel fanatico frate era veramente fuori d'ogni diritto, e di ogni consuetudine della inquisizione; ma tutto per altro era ordinato tra esso e maestro Dino con tacita approvazione del cancelliere e dell'inquisitore, per vedere se da ciò nascesse occasione di qualche grave scandalo, dove maestro Cecco uscisse tanto dai termini della temperanza, da offrir materia di mettergli le mani addosso; e lo scandalo sarebbe nato senza dubbio, se messer Gualtieri di Brienne non avesse egli proprio così accortamente preso da quel lato la quistione, rompendo le parole in bocca a maestro Cecco, il quale, già acceso nel volto, stava per rispondere al frate; e accennando anche a messer Guglielmo che si temperasse, il quale voleva parimente rintuzzare la tracotanza di quell'invasato.

Ora il cancelliere, veggendo che il disegno di maestro Dino era fallito; ed accorgendosi che per lo migliore era da troncare ogni cosa; a messer Gualtieri rispose che savie erano le sue parole, e lodevole il suo zelo per l'onore di monsignore lo duca; e volto poscia al frate minore:

— E voi pure, bel frate, è lodevole lo zelo che vi accende per la santa religione nostra; ma ogni cosa vuole modo e tempo: vi piaccia dunque di aspettare tempo migliore ad esercitarlo, e non rompete l'ordine di questa pia cerimonia.

Con tali parole il cancelliere stornò ogni rampogna che potesse venir dal duca, senza condannare il frate; il quale, fingendo di rassegnarsi alle preghiere di lui, rientrò in chiesa, nè altro se ne seppe. La gente di piazza e quella di chiesa si accorse ben di questo tafferuglio, ma, essendo esso durato così poco, nè sapendosene quasi da veruno i particolari, la cerimonia continuò senz'altro inconveniente.

CAPITOLO XLIII. LA FESTA D'AMORE, E LO SPOSALIZIO.

La mala riuscita di quell'alzata d'ingegno del frate Minore là sulla porta di Santa Croce, se per un lato frastornò momentaneamente i disegni di maestro Dino e del cancelliere e per conseguenza fu come un trionfo per Cecco d'Ascoli, dall'altro servì mirabilmente agli avversarj di lui, perchè egli ne prese maggior baldanza e maggior sicurtà, certo come gli pareva d'essere che il duca e messer Guglielmo lo avrebbero in ogni caso difeso; ed essi, lungi da perdersi d'animo, pensando appunto all'effetto che doveva aver fatto sopra di lui l'averla avuta vinta questa volta, posero il cuore a maturare la loro vendetta; ed erano continui i colloquj tra maestro Dino e l'inquisitore, tra l'inquisitore e il cancelliere del duca, e tra questo e la duchessa, ordinandosi poi di comune accordo, che alla prima opportunità maestro Dino avrebbe fatto la denunzia formale.

Di ciò per altro sospettava tanto poco il povero Cecco, che non dubitava nemmeno di continuare le sue letture sulla sfera del Sacrobosco: nè di darsi palesemente gran faccenda per il matrimonio di messer Guglielmo, vantandosi ancora che gran parte ci aveva avuto egli. Frate Marco e messer Guglielmo lo avevano introdotto appresso il vecchio Cavalcanti; e Cecco tanto accortamente seppe dire e seppe fare, che lo stesso messer Geri restò preso dalla costui sapienza e dalla sua squisita gentilezza, per modo che non dubitò più punto che tutto quel male sparso per Firenze sul conto di lui, non fosse tutto per opera di Dino del Garbo.

Ma già ogni cosa era ordinata per la celebrazione delle nozze, già la Bice era stata impalmata, e due giorni appresso doveva farsi lo sposalizio, quando Guglielmo volle fare, con licenza di messer Geri, una nobile festa alla Bice, la più ordinata e la più magnifica che mai si facesse in Firenze; il cui ordine era il seguente:

Messer Guglielmo ebbe in sua compagnía otto gentili giovani, quattro provenzali, e quattro fiorentini, ciascuno dei quali a un'ora di notte si partì dalle sue case, e andarono a casa di Guglielmo, a cavallo molto magnificamente, con tutti i fornimenti de' cavalli di seta, e tutti i giubboni di broccato d'argento e chermisi; e ciascuno aveva seco trenta giovani con calze alla divisa, e con gonnellini della divisa del giovane che accompagnava, e avevano un torchio acceso per uno. Arrivati alla casa di Guglielmo, diedergli il bastone come a signore e capitano di essa compagnía, il quale con gran trionfo diede loro da cena, com'era ordinato; e poi a tre ore di notte, si mossero tutti insieme, e andarono alla casa della sposa novella, e con loro avevano un trionfo d'amore, portato da più uomini, alto venti braccia, composto in modo che, guardandolo, si rimaneva abbagliato, con molti spiritelli d'amore con archi in mano e con saette su' fianchi, e in ogni parte l'arme degli Artese, tramezzate dalle armi de' Cavalcanti, con campanelletti e sonagli d'argento.

Appresso a questo trionfo erano i pifferi ed altri suoni e canti, e due magnifici cavalli covertati di seta rossa, foderate le coperte dei cavalli, e i vestimenti de' paggi, di zibellini, e ricamati di argento. Veniva quindi Guglielmo, capitano e signore della compagnía, su un cavallo che la natura non lo potrebbe fare più bello, con fornimenti, sella e briglia tutta di chermisi, ricamata d'argento ricchissimamente quanto far si poteva; ed egli vestito delle sue armi, con sopravvesta ricamata di perle e di gioje.

Dintorno gli stavano quindici gentili giovani a piede, tutti con gonnellini di raso chermisi, foderati di ermellini, con calze paonazze; ed oltre a questi, aveva attorno molti altri giovani, vestiti tutti a sua divisa. E così tutti insieme si condussero alla casa della sposa novella, senz'altra gente a cavallo, avendo la signoría di Firenze fatto metter bando, sotto gravissima pena, che quella notte nessun altro potesse ire a cavallo, per non guastare tal festa. Giunti colà, fecero la mostra, e appresso ciascuno corse ritto sulla sella, secondo uso di armeggeríe; e di poi ciascuno corse una lancia vuota dorata, rompendola a piè della finestra, dov'era la Bice in mezzo di quattro torchj accesi, che si mostrava con tanta graziosa onestà, che innamorava tutti di sè.

Rotte le lancie, s'appiccò fuoco al trionfo, come era ordinato, ed arse con tante grida e suoni che il romore andava fino alle stelle; e i razzi erano artificiati in modo, che parve che quelli spiritelli d'amore, con l'arco che avevano in mano, gli saettassero, e così accesi per l'aria volavano appresso alla Bice. Fatto questo, Guglielmo partendosi con tutta la compagnía, per non volger le spalle alla donna sua, fece che sempre il cavallo andava indietro, finchè più non la potè vedere; e andati a rompere le lance, e armeggiare, in varj altri luoghi, tornarono all'ultimo alle case della sposa novella, a farle una mattinata con moltissimi suoni e grandi magnificenze; dopo di che si partirono e accompagnarono Guglielmo a casa, il quale convitò tutti quanti con grande splendidezza.

La festa durò dalle due ore di notte alle undici; e Guglielmo donò a tutti i ministri della signoría calze alla sua divisa, e ciascuno disse che giammai in Firenze non si era fatta la più magnifica nè la più ordinata festa[34].

La quale però fu l'unica che si facesse per lo sposalizio di Guglielmo e della Bice; chè messer Geri ci aveva consentito, appunto perchè voleva che ogni rimanente fosse cosa tutta di famiglia, e senza veruna mostra o solennità, che la domestica gioja potesse o frastornare o turbare; il perchè pochissimi furono gli invitati, e solo i più stretti amici, tra i quali, come è naturale, non mancò maestro Cecco; e molto meno frate Marco, che doveva sposargli. La Bice fino dalla sera innanzi aveva posto in assetto ogni cosa con le sue proprie mani, e pareva tutta un'altra: non ch'e' fosse scemato l'ardentissimo amore per il suo Guglielmo, no; ma aveva esso preso nuova dolcezza: e temperatosi assai l'ardente desiderio che aveva fin qui consumato il cuore della buona fanciulla, la cominciava già a rallegrare il pensiero della maternità, della famiglia e del suo governo, e non restava mai di parlarne con messer Geri, domandandogli informazioni e consigli. E messer Geri, più lieto e più consolato della figliuola, davale i più amorevoli e savj ricordi; ed anch'egli per parte sua non restava un momento di ordinar qui, di attendere là, con una prontezza e di corpo e di mente che faceva meravigliare ciascuno.

Il matrimonio era stabilito che si celebrasse a mezza terza: ad accompagnar la Bice nella capella vi furono due matrone de' Frescobaldi, i più prossimi parenti dei Cavalcanti: Guglielmo andò accompagnato da due pregiati cavalieri, ambedue fiorentini, la qual cosa fu a Geri carissima; e poco dopo di lui arrivò maestro Cecco e frate Marco. La cappella de' Cavalcanti era assettata molto ricamente, e l'altare e i paramenti del prete, e i sacri vasi, erano tutti di materia preziosa, resto dell'antica grandezza dei Cavalcanti. La Bice andò all'altare vestita semplicissimamente tutta di bianco, col velo fino in terra, e con una ghirlandetta di elettissimi fiori, senza niuno ornamento, fuor che lo scaggiale col quale la rivide Guglielmo in Mugello, e la crocellina d'oro, ch'essa non lasciava mai, perchè era memoria della sua carissima madre: Guglielmo poi venne vestito con semplicissimo abito civile fiorentino, col cappuccio a gote, per sempre più piacere a messer Geri, il quale lo ebbe per bene in modo maraviglioso.

La cerimonia fu breve e semplicissima; ma tanta contentezza si vedeva sui volti dei due giovani, e di messer Geri, e delle altre poche persone che erano nella cappella; e tanta era la quiete e la solennità di essa cappella; e di tante fiaccole splendeva, che proprio si sarebbe detto esser quel luogo una delle mansioni di paradiso.

Nè la gioja fu minimamente turbata da quello che suole turbarla in casi simili, quando la novella sposa abbandona la casa sua, dacchè la Bice con Guglielmo dovevano stare in quelle medesime case dei Cavalcanti, se non quanto il quartiere loro era separato da quello di messer Geri dal pianerottolo di una scala.

Il convito stesso di nozze fu senza straordinaria sontuosità, e senza grande invito, non passandosi quello che comandavano le leggi suntuarie d'allora; ma grandissima fu l'allegrezza di tutti; e più di tutti si mostrarono lieti messer Geri e maestro Cecco, il quale fu in quel giorno piacevole più che fosse stato giammai. In sul levar delle tavole comparve nella sala un fante, annunziando esser giunto un messo della signoría e due donzelli del duca, i quali recavano donativi; e fattogli entrar tosto nella sala, uno dei donzelli disse di aver recato in nome di monsignor lo duca a messer Guglielmo un nobilissimo palafreno con tutti i fornimenti di seta, ed un elmo di fino argento con cimiere d'oro; l'altro donzello disse di aver recato in nome della duchessa a madonna Bice una collana nobilissima con diamanti, rubini e perle: il messo della signoría recava a messer Guglielmo una spada e una targa nobilissima, ricchissima per la materia, mirabile per il lavoro; ed a madonna Bice un giojello per in testa con un grande balascio e perle. Accettato ogni cosa con segni di gratissimo animo, al messo e ai donzelli si diedero confezioni e vini finissimi, e un pajo di calze per uno alla divisa degli Artese e dei Cavalcanti; dopo di che maestro Cecco, prendendo commiato a nome degli altri, fece un lieto pronostico di questa unione, e ciascuno se ne andò alle sue case.

CAPITOLO XLIV. CECCO RESTA AL LACCIO.

Il lettore si sarà certamente maravigliato del vedere come anche la duchessa mandasse un presente alla sposa di Guglielmo; ma la maraviglia cesserà tosto, s'egli ricorda quel che fu da me toccato qua dietro, che la duchessa, non solo avea temperata molto la sua gelosía, ma anzi vedea volentieri, per le ragioni quivi accennate, il matrimonio di Guglielmo. Senza che era stato anche espresso desiderio del duca che la sua donna si unisse con lui, e com'egli faceva un presente a Guglielmo, così ella il dovesse fare alla donna di esso; ed a queste due cagioni si aggiunse ancora la terza, di addormentare sempre più maestro Cecco, e di accertarsi se egli era al convito, e come vi era trattato, e qual fosse il modo di esso convito, e la letizia degli sposi, ed ogni minimo che. Al quale effetto ella mandò a recare il presente un suo fidato donzello; e questi, ritornato in palagio, riferì ogni cosa per appunto, e come Cecco fosse trattato, non pure onorevolmente da tutti, ma anche amorevolmente da messer Geri; e del lieto pronostico ch'egli fece.

E veramente il povero Cecco restò colto in certa maniera all'artifizio della duchessa, perchè parvegli così nuovo questo amorevol procedere di lei con la Bice, che ebbe per certo, o essere diventata così benigna per secondare l'umore del duca, il quale benignissimo si mostrava con Guglielmo, a cui molto aveva commendato il suo matrimonio con la Cavalcanti; o essere veramente venuta meno in lei ogni gelosía. Laonde a poco a poco gli usciva il sospetto dal cuore; e non che già tenesse per sicura la benignità della duchessa; ma non credeva poi celarvisi sotto tanta iniquità, quanta credeva dapprima; e alla Corte e' si mostrava più spesso dell'usato: già avea ripreso l'antico suo fare disinvolto e sicuro, piacevoleggiando alle volte, ed ancor motteggiando, se capitavane il bello, con apparente soddisfazione di Maria, la quale appostava pur sempre l'occasione di farlo rimaner colto a qualche laccio. Quando l'occasione venne anche senza troppo cercarla.

L'argomento di tutti i ragionamenti, per più giorni appresso lo sposalizio, era quello, su in palagio, del matrimonio di messer Guglielmo, lodando chi la bellezza, chi la bontà, chi la gentilezza della sposa novella; e celebrando altri il valore e la cortesía di Guglielmo. La duchessa, udendo tante lodi della Bice, mostrò desiderio di rivederla, e di accertarsene ella stessa; e chiamato a sè maestro Cecco, benignamente gli disse:

— Tu, maestro, che questa novella sposa di messer Guglielmo conosci così bene, e che del suo matrimonio sei stato sì gran parte, sembrati egli che la sia di qualità che si accosti volentieri alla Corte?

— Madama, rispose Cecco, non saprei qual sia l'intimo pensiero di madonna Bice degli Artese; ma, a quel che ne posso inferire, parmi di cuor gentilissimo, capace degli affetti più soavi; ma aliena da ogni fasto, e da ogni rumoroso sollazzo.

Quando Cecco nominò la Bice per il cognome degli Artese, la duchessa torse lievemente le labbra con atto di stizzoso dispregio; e poi con altero piglio:

— Io ho parlato della mia Corte, e non di rumorosi sollazzi....

Ma accorgendosi che si scostava da quella benignità che voleva simulare; continuò con volto ridente:

— Oimè! maestro; parmi che un uomo del tuo senno e della tua sapienza, dovesse parlare con più certezza. Io so del bel pronostico che facesti rispetto al matrimonio di messer Guglielmo: dammi ora ad intendere come mai tu vedi le cose future, e nelle cose che ti sono presenti sei così incerto, che dici non so, parmi, o simili dubitazioni?

— Vedo nel futuro, madama, leggendo nelle stelle; ma del conoscere l'animo di madonna Bice d'Artese, le stelle non possono dirmi nulla.

— Come può essere codesto? Fa che l'intenda.

— Madama, è cosa questa di altissima speculazione e di ascosa sapienza, nè potrei senza troppo tediarvi farlo comprendere alla vostra signoría. Bastivi che parlino i fatti; e i fatti, voi e monsignor lo duca gli avete veduti spesso: e il pronostico della guerra, che voi stessa, madama, credeste fallito, e che vedeste poi così abbondantemente avverato, di tali fatti è il più solenne.

— Così ti avessi avuto presso di me quando mi nacque l'ultimo figliuolo! — disse qui la duchessa, fingendo rammarico di ciò, e fiducia nell'arte astrologica di Cecco — come io e monsignore lo duca saremmo stati certi per tempo del prossimo danno; e non ci saremmo trovati a doversi por giù delle liete speranze che avevamo prese di lui.

E ad un tratto, come se le venisse in mente cosa di grande importanza:

— Oh Dio! bel maestro; e nemmeno la mia dolcissima figliuola, il primo pegno di amore che io diedi or fa due anni a monsignor lo duca, quando tu non eri per anco venuto alla corte, neppure ad essa fu fatta la natività. Piacerebbeti egli, bel maestro, che io ne fossi contenta per opera tua?

— A me piace, madama, quello che piace alla signoría vostra.

— Fa dunque che tu sia di qui a due ore appresso di me e di monsignor lo duca, per soddisfare a' nostri desiderj.

E detto che vi sarebbe, continuarono i varj ragionamenti de' cavalieri e delle dame, finchè non venne il momento che ciascuno tornò alle sue case.

Cecco non sospettava più tanto, come dissi qua dietro, del maltalento della duchessa verso di lui; ma nondimeno questo desiderio ch'e' facesse la natività della piccola Giovanna, dopo due anni della sua nascita, gli sapeva un poco di strano, e non vi andava troppo di buone gambe. Ma poi ripensava fra sè:

— E che può ella farmi la duchessa, quando io parli secondo scienza; posto ancora che alcuna cosa spiacevole io leggessi nelle stelle? Ella mostra di dar fede alla scienza di astrología, e non potrà certamente accagionarne me. E poi, monsignor lo duca ha temperato in altre occasioni l'ardore della sua donna, ed anche in questa il tempererebbe.... Quel suo cancelliere per altro mi guarda troppo di mal occhio: egli ha l'orecchio del duca, e il duca gli crede.... è de' frati minori, che qui hanno il governo dell'Inquisizione.... Ah spaventosa parola! Quante orribili stragi in nome della religione! Qual furore infernale sotto nome di santo zelo!... E questo è egli per necessità di influenze celesti?.. Quanto può insegnarmi la scienza, no... O dunque?... La mia mente ci si smarrisce; e solo raccapriccio al pensiero che una religione di tanta misericordia debba avere così spietati e feroci ministri.... Ed io fui già nelle costoro mani, donde campai per miracolo! E qui per avventura si studia di ricondurmivi! nè il duca avrebbe, neppur egli, autorità di liberarmene, tanto hanno saputo questi preti e questi frati sopraffare i signori temporali, e porsi loro sopraccapo, e così vilmente essi il comportano. Fin qui ho avuta fidanza e nel duca, ed in messer Guglielmo, e ne stava in piena sicurtà; ed ora, non so indovinare il perchè, ogni speranza di sicurtà mi abbandona ad un tratto, ed un presentimento funestissimo mi occupa tutto. E la mia scienza non può ella darmi ora verun conforto?

Qui Cecco stette un pezzo meditabondo; e poscia, scotendo desolatamente il capo:

— Ah! vanità di vanità! la scienza nel mio maggiore uopo è al tutto muta!.... Nelle più alte speculazioni della filosofía, e dell'astrología, là nella mia età novella, era sovente tratto fuor di me stesso: e mi parve che meco venisse a ragionare, e fossemi guida, un benefico spirito, come già ebbe il divino Platone; e più e più volte mi è stato lume e scorta nelle mie dubbiezze. Dove sei ora, Florone? Soccorri al presente bisogno mio: i miei nemici sono congregati contro di me... — Florone? Ma l'ho io mai veduto questo Florone? o non è piuttosto un fantasma della mia mente, datogli forma e corpo, ingannando prima me stesso, e poi gli altri?... — Ricordo sempre le amare parole della duchessa quando tolsi commiato per Lucca: « A Firenze non c'è più buon'aria per te: va, e sii più savio da qui innanzi ». Sì, lascerò Firenze, dove la scienza è così vilipesa e perseguitata: non voglio far contento quel vilissimo Dino del Garbo e il fanatico furore de' frati minori. Si vada intanto dalla duchessa, e si dissimuli quanto più si può, finchè non venga il momento opportuno.

E senza indugio fu alla stanza del duca che stava aspettando con la sua donna, la quale come prima lo vide con atto benigno gli disse:

— Maestro, piaceti egli il farne lieti della tua alta sapienza, alla quale nulla è nascoso delle cose della natura, e che vede il futuro come se fosse presente? — Al maestro parvero troppo esagerate queste parole; e come quegli che oramai era entrato in sospetto, comprese tutto il veleno di cui erano piene, e forse lo vide maggiore; il perchè, celando il suo sdegno, rispose con quella umiltà che potè più grande.

— La mia scienza, madama, è cosa degli uomini, e non può vincere gli arcani della natura, e veder nel futuro chiaramente; chè questo può solo fare il creatore. Ma, come il creatore ha posto certe leggi, e dato certe qualità e certi influssi alle stelle, che sempre sono i medesimi, così la scienza umana può, guidata da questi e ajutata dalla grazia, non dirò vedere chiaramente nel futuro come fa il creatore; ma tanto apprenderne quanto gli dia modo d'argomentarne gran parte della verità. E questa piccola scienza che io posso avere, e la mia vita altresì, io son pronto a spendere in servigio vostro, madama, e di monsignore lo duca mio signore.

— Lasciamo stare, disse qui il duca, tutte codeste diceríe. Tu sai che te e la scienza tua conosco ed apprezzo, e non vi ha mestiere d'altre prove o attestazioni. Madama la duchessa ti ha chiamato per la natività della nostra diletta figliuola: andiamo dunque a lei, e tu fa l'opera tua come si conviene.

— Monsignore, rispose Cecco, prima ch'io vegga la regale figliuola vostra, fate ch'io sappia il giorno, l'ora e il punto che ella nacque.

Il duca mandò tosto a sapere dal vescovo di Aversa, suo cancelliere, quello che facea di bisogno al maestro; nè stette molto che venne carta del cancelliere medesimo, dove e il giorno e l'ora e il punto della nascita della piccola Giovanna era segnato con tutta esattezza. Avuta la carta, fu condotto là dove la bambina era con la sua balia: e dopo averla attentamente considerata, pregò che il lasciassero solo, acciocchè potesse fare riposatamente e senza veruna distrazione sua arte.

Rimasto solo il maestro, che pure credeva nella sua scienza astrologica, si mise a studiare per ogni modo il soggetto che aveva alle mani, provando e riprovando per più e diverse volte. E come il risultamento dello studio suo era spiacevole troppo per il duca e per la duchessa, così egli aveva fatto proposito di tacerlo, componendo piuttosto una favola di suo capo, la quale il duca e la duchessa dovesse anzi lusingare che sdegnare; e già stava pensandola, e mezza l'aveva composta, quando, facendo un atto di sdegno:

— No, esclamò, non vo' mentire alla scienza. Ad ogni modo, che cosa mi profitterebbe il lusingare adesso quella fiera donna? Me ne vorrebbe essa più bene? Il suo odio è mortale; ed io o prima o poi dovrei provarne l'effetto. Si parli dunque senza velo: darò una coltellata in quel cuore tristo ed ambizioso, e gusterò almeno per un poco il piacere della vendetta ancor io; poi abbandonerò la corte, Firenze, e forse l'Italia.

Presa questa risoluzione, fu tosto colà dove il duca e la duchessa aspettavano, i quali, come prima il videro, quasi ad una voce esclamarono:

— Dunque, bel maestro?

— Monsignore, madama, ho potuto vedere assai chiaramente il corso della vita della vostra reale figliuola....

E qui esitava a continuare; al che sollecitandolo la duchessa, Cecco rispose:

— Madonna, non tutte le mie parole saranno liete e piacevoli: volete voi ascoltarle? Mi date voi sicurtà che io possa dirle senza che ne pigliate sdegno meco?

La duchessa e il duca si turbarono visibilmente; ma pure, non volendo rimanere col dubbio nel cuore, confortaronlo che dicesse senza verun sospetto; e la duchessa ne lo confortò più accesamente del duca, perchè, udendo aver egli cose spiacevoli da dire, e prestando poco fede alle predizioni astrologiche, sperava che ne potesse nascere qualche occasione favorevole al proposito suo. Laonde maestro Cecco, tra per l'avuta sicurtà, e per pigliare un poco di vendetta della duchessa, cominciò:

— Monsignore e madama, la regale vostra figliuola è nata in quel punto che Marte aveva l'ascendente su Venere, ed in quella dolce stagione che Giove suole allegrarsi nel mirare la sua figliuola. Ella sarà reina di possente e fiorito reame, morto che sia il presente re....

— Qual reame, maestro.... — interruppe qui il duca atterrito; perchè, essendo figliuolo unico del re Roberto, e per conseguente suo successore, quando il reame di cui parlava Cecco fosse stato quello di Napoli, ne seguitava che a suo padre egli non succederebbe.

— Qual reame non dicono le stelle; e reina dall'altro canto può interpretarsi moglie di possente re — rispose Cecco per calmare l'apprensione del duca.

La duchessa per parte sua ebbe carissima la mala impressione che fecero sull'animo di suo marito le parole del maestro; a cui senza far dimostrazione veruna, ella disse:

— Continuate, bel maestro.

E Cecco continuò;

— Sarà regina di un possente e fiorito reame, e donna di altissimo senno; ma si lorderà le mani del sangue de' suoi; e nell'opera di lussuria resterà famosa tra coloro che chiameranno antico questo tempo.

— Sciagurato! — esclamò il duca, tutto infiammato d'ira e mettendo mano alla spada — dimentichi tu dove sei, ed a chi parli?

La duchessa, vedendo il duca così montato in furore, le parve già di essere a buon porto del suo desiderio: ma celò quanto potè la letizia sua; anzi, per accrescere il mal talento del duca, simulò estrema afflizione, e vergognoso orrore delle parole di Cecco, coprendosi il volto con le palme, e facendo segno di piangere. Questi ben presto si accorse della sua troppa imprudenza; e rimase veramente atterrito dal furibondo sdegno del duca, perchè così vedea dileguarsi ogni sua speranza ed ogni rifugio; il perchè tentò di abbonirlo con queste umili parole:

— Monsignore, parlai a sicurtà della fede datami da voi; ma la mia vita è vostra: se ho fallato, fate di me a senno vostro. Morrò volentieri per quella scienza, che voi già deste così benigne prove di tener in pregio.

— Alla data fede non ho mai fallito, nè fallirò questa volta; ma il vederti qui più a lungo ora, potrebbe farmene dimenticare. Va, dunque, se brami ir salvo.

Cecco partissene tanto confuso che non sapeva più dove fosse, nè dove s'andasse; ed a fatica trovò la via di uscir di palagio. Rimasti soli il duca e la duchessa, questa usò tutta l'arte onde era maestra per destare sempre più in esso la compassione verso di lei, e l'ira e lo sdegno contro il povero Cecco: mostravasi compresa della grande afflizione; piangeva e sospirava; e tra' sospiri diceva:

— Mio dolce signore, e fia possibile tanta nequizia in una figliuola nostra? nella dilettissima nostra Giovanna, che somiglia un angiolo del paradiso?

Il duca sopraffatto dall'inaspettato prognostico, e affollato da diversi e strani pensieri, poco attendeva alle parole della duchessa; e senza rispondere ad essa:

— Micidiale de' suoi! — esclamava tra sè — Rotta al vizio di lussuria!... Regina di possente e fiorito reame!... E qual reame più fiorito e più ricco del reame di Napoli?... Ed io?... Oh malnato Ascolano! tu ne menti per la gola: son bugiarde le tue stelle.

— Monsignore — disse allora la duchessa, volendo battere il ferro mentre era caldo, ma pigliando altra strada, poichè le precedenti parole sue aveva il duca mostrato di non intenderle — le stelle, io mi penso che sieno sempre state un pretesto per il vostro diletto astrologo. E ripensando bene a tanto impudente suo procedere, vedo che l'ha fatto per isfogo del suo maltalento contro di me, perchè sempre mi sono addimostrata poco credula della sua scienza, e perchè non ho cessato mai di consigliarvi a rimuovere da voi tanto scandalo, quanto è quello di tenerlo alla vostra corte.

— Ed oserebbe egli di oltraggiare così fieramente la moglie del suo signore, e il suo signore stesso ad un'ora?

— E d'onde, mio dolce signore, donde prendete voi cotanta fiducia della costui lealtà? Egli vi è noto solo da pochi anni in qua; e con meraviglia di tutti i buoni, vi siete lasciato prendere alla costui astuzia, e falsa scienza. Ma chi il conosce fino dalla sua gioventù, chi sa le nequizie sue, le brighe avute con santa chiesa per conto delle sue eresíe, le sozzure onde va brutta la sua vita; chi sa queste e tante altre cose di lui, l'una più vituperosa dell'altra; ne fa giudicio ben diverso da quello che ne fate voi: e tutti coloro che vi riveriscono, che vi amano, e sono desiderosi della vostra grandezza, gemono in cuor loro e si attristano, vedendo costui tanto onorato a questa corte, con vergogna e periglio vostro e di noi tutti.

— Pericolo? e che pericolo ci può essere?

— Lasciamo andare che i fiorentini tutti veggono troppo di mal occhio esser tanto onorato appresso di voi questo negromante, nemico loro e della loro città: voi de' fiorentini non temete, nè delle loro querele vi date briga; con tutto che la signoría che non si fonda sull'amore e sulla estimazione del popolo, sia sempre di vetro, che ogni piccolo urto può romperla....

— Madonna, voi siete troppo accorta maestra di reggimenti di popoli — disse il duca con lieve sorriso; ma celando a fatica la mala impressione di tali parole di sua moglie.

— L'amore è sempre accorto e buon consigliere — disse la donna con amoroso sorriso — Ma lasciamo stare i fiorentini, e le signoríe temporali. Voi siete qui capo della parte guelfa, e prediletto figliuolo di santa chiesa: parvi egli dicevole, non solo il comportare che uno, già condannato per eretico, la eresía insegni qui pubblicamente; ma anche il tenerlo appresso di voi; l'onorarlo, il promettergli difesa contro qualunque de' suoi nemici?

— Insegna la eresía? Gli ho promesso difesa?

— Sì, mio signore, egli legge — dee pure avervelo detto altra volta il cancelliere vostro — egli legge, colà in Calimara, un certo suo libro eretico, per il quale fu condannato a Bologna; e lo legge mancando altresì al giuramento solenne che fece di più non leggerlo: per la qual cosa non può fallire che di corto non debba renderne ragione al tribunale della santa Inquisizione. Volete voi allora mettervi a contrasto con santa chiesa per difendere un così vil paltoniere...?

— Ma io difesa non gli promisi....

— Egli però mena orgoglio di questa vostra promessa: e fidando in essa, ogni dì cresce la sua baldanza, e ne fa prova, come vedeste non ha guari, contro la donna medesima del suo signore, e contro il suo stesso signore. E voi comporterete più tal tracotanza, ed onta sì grande?

Il duca, che per l'addietro non aveva mai ascoltato, se non sbadatamente, le querele fattegli contro Cecco e dal cancelliere e dalla duchessa, questa volta le udiva attentamente, e gli parvero molto gravi, e molto vere; tanto più poi perchè aveva già l'animo mal disposto contro di lui a cagione del prognostico sulla figliuola; nel quale, se parvegli gravissima l'onta fatta a sè ed alla sua casa, rispetto alla scandalosa vita della piccola Giovanna, più che altra cosa gli rimase fitta nel cuore quella predizione ch'ella sarebbe regina d'un potente e fiorito reame, perchè c'intravvedeva, la morte sua dover precedere quella del re Roberto suo padre, e dover succedere nel regno questa sua figliuola, come veramente poi fu. Di sorte che ne stava troppo di mala voglia: e non solo per il pensiero del non dover succedere nel regno; ma perchè Cecco fosse stato così ardito da dirglielo in viso. Laonde, stato un pezzo sopra di sè, volsesi alla duchessa, e baciandole caramente la mano:

— Mia dolcissima donna, gran mercè: le vostre parole sono savie; e mi danno certezza del vostro amore per me.

E senz'altro uscì della stanza. Come il duca fu un poco discosto, la donna, mandando un alto sospiro di compiuta satisfazione, esclamò con voce ed atto di gioja feroce:

— La vendetta è vicina.

E senza indugio, mandò dicendo al vescovo d'Aversa cancelliere del duca, che fosse da lei.

CAPITOLO XLV. LA DENUNZIA.

Il cancelliere, nel tempo che maestro Cecco faceva la natività della piccola Giovanna, si struggeva come la cera di esservi anch'egli, per appostare se nulla uscisse malaccortamente di bocca all'astrologo, che potesse dar presa a querele o ad accuse formali contro di lui; e poter poi metter la duchessa sulla via di giungere speditamente là dove volevano. Ma, non avendo saputo trovar via da andarvi, se ne tribolava assai, dubitando di perdere la più propizia occasione che mai potesse capitare. Quando però il donzello della duchessa fu a dirgli, che fosse da lei senza perdere un punto di tempo, egli ne indovinò qualche cosa di propizio, e corse sollecitamente dalla sua signora, la quale vedendolo, nulla disse a parole, ma lo accolse con un ghigno di tal feroce satisfazione, che il frate comprese il tutto, e disse:

— Madonna, voi siete senza fallo più valente di me, e di messer lo Inquisitore.

— Ah, ah — rispose ridendo la duchessa, che pareva pazza dalla gioja — non lo sapete, messere, che noi donne, quando ci mettiamo di proposito a volere una cosa, avanziamo qualunque gran dottore e scienziato? Lo scellerato ascolano è rimasto nel laccio; e il duca è vinto. Ma non bisogna addormentarsi; chè Cecco è accortissimo, e il duca mutabilissimo. Fate che maestro Dino si metta tosto d'accordo con messer lo Inquisitore: faccia tosto la denunzia; e purghiamo una volta il mondo e la corte da tanto obbrobrio.

— Farò di essere senza indugio a maestro Dino, e ci studieremo di non mostrare meno zelo e meno accortezza che abbia fatto in questa bisogna la signoría vostra.

E veramente uscì immantinente di palagio, e corse da maestro Dino, che fu ragguagliato da lui di ogni cosa, e prese di ciò smisurata contentezza, esclamando come fuori di sè dalla gioja:

— Ah cane pateríno! finalmente vedrò la vendetta mia! Ora si parrà che cosa ti gioveranno le tue diaboliche arti: or si vedrà che cosa è questa tua gran sapienza astrologica — e dando in un infernale scroscio di risa, si volse al cancelliere — E' legge il futuro lassù nelle stelle, e non vi ha letto questo suo meritato fine! — E ridendo da capo, anche più sgangheratamente — Che bel falò, messer lo cancelliere! mi par già di vederlo dibattere tra le fiamme — e come era proprio ebbro dalla gioja, nè sapeva nemmeno quel che si dicesse, concluse: — Voglio essere io quello che appiccherà il fuoco al capannuccio, per più suo martorio, e perchè vegga che cosa gli sono costati all'ultimo gli scherni e le villaníe fatte a un mio pari. E' mi predisse ch'io morrei poco appresso di lui... Sciagurato! intanto falla tu la morte degli eretici, e de' negromanti. Al resto ci penserà la provvidenza; e ad ogni modo sarà quel che sarà: morirò contento dopo aver gustato la vendetta.

Al cancelliere stesso parvero troppo feroci tali parole, e messo amorevolmente una mano sulla spalla al maestro:

— No, bel maestro, non vi lasciate vincer troppo dall'ira, che potrebbe parere odio. Lodevole è lo zelo vostro; ma santo è quello zelo che avvampa i cuori misuratamente. Cecco d'Ascoli pagherà senza dubbio col fuoco le sue scelleraggini; e qualunque degno figliuolo di santa chiesa dee procacciare quanto è da lui che così sia, dove il peccatore rimanga nella sua perfidia; ma l'esultarne come voi fate passa i termini dello zelo, piglia faccia di odio e di bestiale vendetta; e forte mi dispiace il vedere così acceso da tali volgari passioni un uomo di tanta riverenza come voi siete.

Che gran divario di ferocia vi sia tra il santo zelo allegato qui dal Frate, tra quel santo zelo che pur dee procacciare quanto è da lui di far che gli eretici sieno arsi, e la esultanza di maestro Dino, che pur voleva quel medesimo, io veramente nol so comprendere, e nol saprà comprendere per avventura nemmeno il lettore, che, al pari di me, sia ignorante delle sottigliezze della teología scolastica, nella quale era il cancelliere solenne maestro, ed al quale riverentemente mi levo il cappello. Noi volgari chiameremmo ipocrisía quella del vescovo d'Aversa, e odio infrenabile quello di Dino; il quale per altro pare che alle parole del vescovo desse quel valore che loro diamo noi, perchè risposegli senza tante cerimonie in questa forma:

— Messere, o zelo santo, o odio senza termine, tutti e due vogliamo veder Cecco arso per eretico. Non facciamo dispute teologiche; ma pensiamo piuttosto a far sì che il solenne astrologo, il medico, il filosofo d'Ascoli non ci esca dalle mani.

— Bisogna, rispose il vescovo, incominciare dalla formale denunzia al sacro tribunale dell'Inquisizione. Piacevi egli il farla tosto?

— Se a voi pare che sia da far tosto, si farà: sol che non vi gravi l'assistermi.

E come il cancelliere assentì, così maestro Dino si pose a scrivere, parlando quel ch'egli scriveva, per istarne alla correzione del cancelliere; e cominciò in questa forma:

«Reverendo padre in Cristo Signore Gesù. — Io, maestro Dino, di maestro Taddeo del Garbo, medico e cittadino fiorentino, indegno figliuolo della santa chiesa cattolica, come colui che più non posso sopportare i garriti della mia coscienza, nè voglio andare incontro alle pene che il santo tribunale della sacra Inquisizione minaccia a coloro che i rei di eretica pravità non denunziano ad esso, acciocchè si possano revocare a penitenza, e, perfidiando nel loro peccato, dargli nelle mani della giustizia secolare, che gli metta alla pena del fuoco, come ordinano le sue leggi; denunzio a voi con tutta verità, e con ogni solenne giuramento, il nomato Francesco Stabili da Ascoli, per negromante ed eretico pestilentissimo. Affermo e giuro come, essendo in Bologna, fece un trattato sopra la Sfera, ammettendo che nelle sfere di sopra sono generazioni di spiriti maligni, i quali si possono costringere per incantamenti sotto certe costellazioni a poter fare molte meravigliose cose, mettendo ancora in quel trattato necessità alle influenze del corso del cielo.

«Affermo e giuro ch'egli insegnava come Cristo venne in terra, accordandosi il volere di Dio colla necessità del corso di astrología; e che doveva, per la sua natività, essere e vivere co' suoi discepoli vile e dispetto, e morire della morte che egli morì; e come l'Anticristo doveva venire per corso di pianeti in abito ricco e potente.

«Affermo e giuro che quel suo libello fu riprovato in Bologna, ed egli si ebbe sentenza e penitenza d'eretico, promettendo e giurando che più non l'userebbe: e che nondimeno, dispregiando la benignità del sacro tribunale della Inquisizione, e il fatto giuramento, e' lo ha seguitato ad usare in Firenze; dove altresì ha pubblicamente dette parole di dispregio contro i frati minori; schernito e vilipeso la efficacia delle papali scomuniche; esercitato la negromanzía e le arti magiche; vituperate le case de' grandi cittadini di Firenze, ajutando per opera di magía illeciti amori; e bestemmiato e deriso sempre le cose più reverende e più sante. — Tutto questo affermo e giuro nel nome della santa e individua Trinità, a gloria maggiore della santa madre Chiesa, per satisfazione della mia propria coscienza, per il formale debito di ubbidiente e fedele cattolico».

Terminato che ebbe messer Dino di scrivere, si volse al cancelliere, domandandolo:

— Parvi egli, messere, che questo sia il debito modo?

— Se l'aveste pensata maturamente, e studiatala su' nostri libri, non avreste potuto dire più appunto. Solo nella conchiusione sarebbe da aggiungere che a questa denunzia fare, vi mosse il puro e santo zelo della religione, e non verun privato rancore, nè odio, nè spirito di vendetta.

— Ah! — disse qui sorridendo maestro Dino — quel santo zelo che dicevate dianzi.... Ma avete pur detto voi stesso che io sono mosso da odio e da spirito di vendetta; e qui a quattr'occhi non so negarvelo. Ora, debbo io mentire al cospetto del sacro inquisitore?

— Per la esaltazione di santa madre chiesa, che aborre dagli odj e dalle vendette, è necessario sieno poste quelle dichiarazioni.

— Ma la menzogna?

— Cerchisi prima di tutto che la divina giustizia abbia il luogo suo, e che i ministri di essa sieno altrui di edificazione; le altre imperfezioni, messer Domeneddio le perdonerà egli. Resta ora che voi siate a messere l'inquisitore.

E maestro Dino già si avviava, quando, stato un poco in atto pensoso, ritornò al cancelliere:

— Ma saronne io infamato ne' secoli avvenire?

— Che dite voi, maestro Dino? le cose fatte per zelo di Dio, giusto riguardatore degli altrui meriti, non solo hanno premio nel cielo, ma lode anche in terra da tutti i santi uomini e discreti. Ad ogni modo per altro non potrete aver biasimo da veruno, perchè niuno il saprà, essendo il segreto cosa formalissima nelle cause del sacro tribunale dell'Inquisizione. Andate senza verun sospetto, e con la benedizione del Signore.

E queste parole disse facendo l'atto che fanno i vescovi quando danno la benedizione.

Messer Dino baciògli la mano in atto di riverenza, e si avviò con ogni fretta a S. Croce, dove aveva sede ed ufficio l'inquisitore.

CAPITOLO XLVI. L'AMICIZIA ALLA PROVA.

Nel tempo che i due feroci avversarj di maestro Cecco affrettavano con ogni lor possa la rovina di lui, egli si argomentava per parte sua alla propria salvezza.

Uscito di palagio, come già il vedemmo, tutto spaurito dall'ira del duca, e così confuso della mente che non sapeva qual partito pigliare lì su quel subito; o di ripresentarsi al duca domandandogli perdonanza, e temperando il presagio con artificiate spiegazioni; o di fuggir subito: nè l'uno nè l'altro partito gli piacque, perchè il primo lo vedeva forse più pericoloso che utile; e il secondo parevagli inefficace preso così tosto, dacchè, potendolo indovinare i suoi avversarj, gli avrebbero messo i loro scherani alla posta in più luoghi, e acciuffatolo; e bisognava farlo con molta arte, e senza che veruno il sospettasse. Nè l'infelice maestro dall'altra parte si pensava che la tempesta potesse coglierlo così tosto. Primo suo pensiero fu quello dunque di correre da frate Marco, per pigliarne consiglio con esso. Andò; e il frate appena lo vide così spaurito, e con gli occhi stralunati, gli domandò ansiosamente che ciò volesse dire; e il povero Cecco, con parole di grande sgomento gli raccontò ogni cosa dal principio alla fine.

A questa notizia il frate rimase colpito come da un fulmine, e vide ben tosto quanto grande era il pericolo di maestro Cecco; nè stette senza pensiero nemmeno per sè medesimo, che di lui era amico e discepolo; e sapeva che, ricadendo Cecco nelle mani dell'Inquisizione, avrebbe avuto anche egli qualche briga con quel tribunale, della qual cosa ne aveva più orrore che della morte. E come gli uomini pensano generalmente più a sè che agli altri; e molti, per non soffrire danno lievissimo, e anche per sospetto di poterlo soffrire, chiudono il cuore a' più dolci affetti e postergano dovere e lealtà, così frate Marco, non tristo in fondo del cuore, ma debolissimo e pauroso, non ch'e' volesse abbandonare Cecco del tutto, ma avrebbe voluto vederlo da qui innanzi lontano da sè e dal convento, per non entrare in brighe. Il perchè gli diceva, così tra il compassionevole e il pauroso:

— Maestro, il caso vostro mi empie il cuore di amarezza: ma forse non sarà così grave..... Io, d'altra parte, che volete ch'io possa appresso i duchi, e gente sì fatta?... E poi sono frate: questo mio priore è uomo di cuore durissimo; ed egli e molti frati qui mi hanno garrito più volte del venire ad ascoltare le letture vostre. Potrei rovinar me, senza salvar voi.

Ma, accorgendosi che queste sue parole facevano troppo amara impressione sull'animo del maestro, prese tono un poco diverso:

— E poi, bel maestro, ma dove sono questi pericoli che andate dicendo? Badate che la paura non vi sopraffaccia. Monsignore lo duca non può così ad un tratto aver perduto l'affezione e la stima che ha sempre avuta per voi; e se gli avete parlato secondo che dettava la scienza, ed egli vi ha dato licenza di parlare, e sicurtà che qualunque cosa diceste non sarebbe per venirvene male, non so davvero su che si fondino i vostri timori di così presente pericolo.

— Frate Marco — disse Cecco tutto dolente — la paura ha sopraffatto voi, ed ha soffocato nel cuor vostro l'amicizia e la gratitudine.

— Ohimè! maestro: e potete voi credere tanto male di me?... E che ne può un povero frate nelle cose delle corti?...

— Ma io non voleva ajuto da voi, voleva solo consiglio....

— Eccomi qui tutto vostro — rispose il frate confuso e smarrito — dicevo solo che la sicurtà datavi dal duca....

— La fede dei signori tanto è ferma quanto ad essi profitta; e questo è dei signori buoni. Nei tristi essa è mantello delle loro prave voglie e ree intenzioni. O buono o tristo che sia il duca, voi vedete, bel frate, che della sua fede non è da far capitale.

— Ma voi non dubiterete però della lealtà e della amicizia di messer Guglielmo d'Artese....

— Oh no: egli è il più leal cavaliere che vesta arme.

— Ed è grandissimo appresso monsignor lo duca, e ben veduto in gran maniera dalla duchessa, che ad esso non saprebbero nulla negare. Siate a lui senza indugio, e come egli è leale e di voi amorevolissimo; e come egli vi promise ajuto e protezione in ogni bisogno vostro, così vi aiuterà efficacemente ora nella dura presente necessità.

Il frate ben sapeva che messer Guglielmo con la sua Bice la mattina medesima a buon'ora doveva essersi partito da Firenze; ma e' non aveva ben di sè, tanto l'avea vinto la paura, finchè Cecco non gli si fosse levato d'attorno, parendogli ad ogni momento vedersi apparire i messi dell'Inquisizione, i quali, trovandolo con esso, dovessero prendere ambedue, e condurgli legati là a S. Croce. Ed aveva già fatto proposito, come prima il maestro si fosse dilungato tanto o quanto dal convento, di uscirne egli tosto, chiedendo licenza al priore di andare non so a che chiesa, colà nel Casentino, per evitare così l'occasione di più vederselo attorno, e di entrare in brighe con la Inquisizione, il cui solo nome facevagli orrore. Il perchè badava a persuadere maestro Cecco ch'e' non dovesse indugiare ad essere da Guglielmo:

— E in questo mezzo, continuava, studierò anch'io, se può trovarsi modo acconcio a salvarvi dalla tempesta, se caso avvenisse, che la tempesta vi venga veramente sul capo, com'e' non pare tanto da sospettare, quanto ne sospettate voi.

E maestro Cecco, ben conoscendo la paura del frate, e come la sua amicizia era per venirgli meno nel maggior bisogno, addolorato fino alla morte, si partì dal convento senza profferir parola, mandando solo un alto sospiro e battendosi la fronte col palmo della mano.

Appena ebbe Cecco messo il piede fuori della soglia, frate Marco si vergogno seco medesimo, e sentì un certo rimorso di procedere con lui così poco amichevolmente, abbandonandolo in quella sua desolazione; e diceva tra sè:

— Egli mi ha pur dato amorevolmente il latte della scienza; mi ha sempre tenuto per il più diletto fra suoi discepoli; ed ora lo pago di questa bella moneta! Sarò agguagliato a Giuda, che tradì il suo divino maestro... — Io però nol tradisco.... nè piglio moneta... — Sì! e poi s'ha un bel dire! S'io potessi salvarlo, darei un bicchier del mio sangue; ma che ci posso io fare? L'amicizia e il grato animo son belli e buoni; ma la paura chi la vince? Io son fatto così.... — Già ci vorrei vedere anche questi uomini, che si chiamano di gran cuore ed animosi, nel caso mio. Io sono un povero frate che vivo dell'altare: il maestro, mi par di vederlo, sarà accusato di eretico e di negromante, tali parole udii dire anche ier sera da un frate minore, tutto cosa dell'inquisitore. Se me lo trovassero qui nel convento, o se sapessero che io studio comecchessía di sottrarlo alla giustizia umana?... Dio mio! non ho coraggio nemmeno di pensarci: tanto più ch'io sono andato quasi sempre a udirlo leggere. Oh meschino di me! E se per questo altresì il sacro tribunale facesse richiedermi?... — «Messere lo inquisitore, io non ne sapevo nulla: no, Cecco d'Ascoli parlò meco sempre da cattolico; ma io ad ogni modo me ne sto alla correzione vostra; condanno quello che voi condannate; credo quello che voi credete....». — Dio! mi pareva già di essere dinanzi all'inquisitore. — E vi potrei pur dover essere, se alcuno ricorda ch'io andavo a udirlo leggere. — E poi, o non è a tutti nota in Firenze la familiarità nostra, e più che a tutti a' nemici di maestro Cecco?... Eh, non si scansa: almeno per testimonio è certa ch'io sarò citato. E allora che ho a dire? Ho a accusare il maestro? e' mi daranno del Giuda.... E se mi mettono alla colla, come reggerò io al tormento? — Se messer Domineddío non mi ajuta, io sono un uomo morto. — Ma, o frate Marco — disse a un tratto come riscotendosi da un vaneggiamento — ma chi t'ha detto che maestro Cecco andrà certamente nelle mani dell'Inquisizione? Su, su, fatti coraggio; codeste le sono vane apprensioni.

Ma il coraggio non tornava al povero frate; e quegli occhi stralunati di Cecco; il racconto da lui fattogli dello sdegno della duchessa e del duca, e le parole dette da quel frate minore la sera innanzi, gli erano fitte nella mente per forma, che quanto più ci ripensava, tanto più presente e più certo vedeva il pericolo di maestro Cecco. E dacchè egli era ito alle case dei Cavalcanti, per gettarsi nelle braccia di messer Guglielmo; e il frate sapea troppo bene che messer Guglielmo non avrebbe trovato, perchè era ito in Mugello, la paura gli si rinfrescò tosto nel cuore:

— Ora il maestro è ito a casa di Guglielmo, dove gli diranno che il cavaliere è cavalcato con la sua donna in Mugello; e c'è da vederselo ritornare al convento. Qui non c'è tempo da perdere, bisogna ch'io pensi a' casi miei.

E senza dare indugio al fatto, la prima cosa andò dal portinajo e gli disse:

— Se mai tornasse qui or ora maestro Cecco d'Ascoli — lo conosci tu? quel vecchietto magro e canuto che è uscito di qui dianzi, e che ci avrai veduto venire spesso — — dira'gli che frate Marco, per comandamento del priore di questo luogo, è uscito fuori per cavalcare non sai dove.

E il portinajo, dettogli che maestro Cecco ben conosceva, e che, tornando lui, gli avrebbe risposto secondo il comandamento, frate Marco andò diviato al priore, chiedendogli licenza di andare nel Casentino da un prete suo conoscente, che il voleva a predicare; ed ottenutala senza contrasto veruno, erano appena passate due ore che cavalcava per la via di Arezzo.

Come bene aveva indovinato frate Marco, maestro Cecco, saputo là alle case dei Cavalcanti come Guglielmo con la Bice erano iti in Mugello, ritornò a S. Maria Novella per informarne il frate, e per conferire con esso il modo più certo da uscir salvo di Firenze, e senza dare sospetto a veruno. Come restasse però all'udire dal portinajo che anche frate Marco si era partito dalla città, sarebbe difficile significarlo a parole. Già aveva intraveduto che l'affetto e l'amicizia di lui sarebbegli venuta meno alla prova; ma quando ne ebbe certezza come ora l'aveva, e considerando il modo vilmente spietato che egli aveva tenuto, si vide proprio mancare il terreno sotto i piedi, nè sapeva più oggimai a che Santo votarsi; e lo sgomento suo era pietosamente amareggiato dalla vile sconoscenza del frate. Al portinajo egli rispose con amaro sorriso:

— Ah, frate Marco si è partito per comandamento del priore di questo luogo?

E scotendo il capo con atto tra di sgomento e di dispregio, esclamò:

— Maledetto quell'uomo, dice il Signore, che confida nell'uomo: — e voltò le spalle al convento, avviandosi verso il palagio, col proposito di partirsi il giorno appresso, o sotto un colore o sotto un altro.

Ma prima di entrare nelle orribili carceri della Inquisizione, rallegriamoci un poco nella conversazione della buona nostra Bice, e del suo diletto Guglielmo, e ritorniamo in Mugello dalla badessa, la quale il lettore spero che rivedrà non senza qualche soddisfazione.

CAPITOLO XLVII. GLI SPOSI IN MUGELLO.

Primo e più soave pensiero de' novelli sposi, dopo le gioje domestiche, era stato quello di mantener la promessa fatta a suor Anna, che sarebbero iti a rivederla appena fossero marito e moglie: e di fatta la seconda mattina dopo lo sposalizio montarono a cavallo di buon'ora, accompagnati da un loro fidato donzello, e dalla cameriera della Bice, per essere al monastero almeno due ore innanzi vespro. Sarebbe andato volentieri anche messer Geri; ma lo star molto a cavallo, dopo gli ultimi acciacchi, non sarebbe stato senza grave suo danno; e però, confortatone anche dalla Bice e da Guglielmo, rimase a Firenze, stando contento a scrivere alla badessa una amorevole lettera, dove la ragguagliava della presente sua contentezza, che in gran parte diceva riconoscer da lei, e mandavale salute con protestazioni di grato animo e di riverenza.

In tutto quanto il viaggio la Bice si mostrava di lietissimo umore; chè il ricordarsi quanto fu doloroso il viaggio fatto mesi addietro in Mugello, quasi maledetta da suo padre; col dubbio che più non avrebbe riveduto il suo Guglielmo; senza sapere per molto tratto di via dove la conducesse il suo fante; e poi colla disperazione nel cuore dell'andare ad essere sepolta in un eremo, lontana da ogni cosa e da ogni persona diletta: e l'andarvi ora col suo Guglielmo, a rivedere e riabbracciare colei che amava per madre carissima; le era cagione di tal contentezza, che proprio il cuore gliene traboccava, e non restava un momento di fare in confronti tra il viaggio passato ed il presente: di ricordare la badessa e il monastero; di significare il desiderio di arrivarvi presto; ed un monte di simili cose, alle quali Guglielmo non era sufficiente a rispondere, e ad alcune rispondeva accompagnando le sue parole con quel risettino che palesa ad un tempo stesso e l'affetto, ed una benigna censura a chi si risponde. Il proposito era quello di andare di buon trotto, per essere a buon'ora in Mugello; ma ad ogni nuovo pensiero che venivale in mente, la Bice rallentava, e mettendosi al passo, entrava in ragionamento con Guglielmo:

— Vedi, Guglielmo mio, queste nobili castella, che fanno sì pompose e superbe le nostre colline, e che ora tanto mi diletta il vederle, così contornate di giardini e di graziosi boschetti? L'altra volta mi parevano spelonche di fiere, in boschi aspri e selvaggi. Tu, mio dolce signore, e il tuo amore, fa ridere a me così allegramente queste colline; le quali per altro insieme con te, mi riderebbero così — disse rivolta a lui con amoroso sorriso — anche se fossero aspri boschi e selvaggi.

E Guglielmo, presale la mano, caramente gliela baciò, con uno sguardo amorosissimo, confortandola a studiare più il passo, per non arrivare troppo tardi: e la Bice spronava; ma fatta poca via:

— Qui al passo di questo ponticello il mio cavallo ombrò, e poco mancò non mi traboccasse nel torrente, che allora era gonfio e riottoso. Non impaurii; chè la morte non mi sarebbe dispiaciuta, credendo averti perduto per sempre. Ora al solo pensarci me ne spavento. Non avrei goduto la presente beatitudine!

E così, ora trottando ed ora ragionando, là poco innanzi vespro arrivarono in veduta del monastero.

— Ah, Guglielmo, ecco là il monastero! Mira sacro e venerabile orrore! Studiamo, studiamo più il passo, chè tosto vi possiamo essere. Credi, mio diletto, poco minore fu la gioja del rivedere le torri della mia Firenze, dopo essere stata quaggiù, che quella di rivedere adesso questo sacro recesso. La buona nostra suor Anna, come sarà adesso la sua sanità? Penserà ella che possiamo esserle così vicini? Oh che consolazione sarà per lei e per noi il rivederci! Sprona, sprona, Guglielmo.

E Guglielmo ridendo, spronava, e così la Bice; per modo che in un baleno furono al monastero. Il valletto smontò per andare a picchiare alla porta; ma la Bice lo fece accorto ch'e' non dicesse il nome nè di lei nè di Guglielmo alla portinaja. La portinaja per altro, che era sempre quella medesima di quando la Bice era colà, non penò molto a ravvisarla, e le fu attorno facendole un monte di riverenti carezze, e di timide domande, alle quali la Bice rispose con tutta benignità; ma, struggendosi di riveder la badessa, troncò ogni ragionamento, e disse alla suora:

— Che è della badessa?

— Ne è assai bene, madonna; se non quanto è stata sempre tristissima da quando voi ci lasciaste. Vi voleva tanto bene!

— Fa d'essere tosto da lei; non le dir così subito che siamo noi; ma solo che c'è un cavaliere ed una dama, che domandano di vederla; forse lo indovinerà....

E la portinaja corse tosto a far quello che la Bice dicevale. La badessa non era nella sua cella; ma, come soleva tutte le sere sul vespro, era scesa giù in chiesa a fare le sue usate preghiere, nelle quali mai non dimenticava la Bice e il suo cavaliere; ed appunto per loro pregava, e sentiva al cuore, pregando, una insolita consolazione, quando entrò a lei tutta affannata la portinaja:

— Madonna, è di là un cavaliere con una dama che domandano di poter vedervi e parlarvi.

A queste parole suor Anna balzò di sull'inginocchiatojo, esclamando:

— Son dessi; — e accennata a mala fatica una genuflessione all'altare, corse là con maggiore ansietà e con maggior fretta che la sua dignità non avrebbe comportato: e come vide proprio essere dessi, e come la Bice vide lei, l'una si avventò al collo dell'altra con baci e lacrime senza fine. Volta quindi la badessa a Guglielmo:

— Messere, gran mercè: ora muojo contenta.

— Madonna, soggiunse Guglielmo, non mescolate sì triste parola tra la celeste gioja presente. Il primo pensiero di me e della Bice, appena fummo sposati, fu quello di venir qua da voi; e il contento nostro del rivedervi, e dell'essere con voi, non è minore, credetelo, a quello dell'essere noi l'uno in possesso dell'altro.

— Vedi, mamma mia dolce — entrò qui la Bice — manca qui il nostro amoroso padre, che ardeva anch'egli del desiderio di esserci; ma, povero vecchio, e' non sarebbe potuto star tanto a cavallo!....

— E che n'è di messer Geri?

— N'è bene assai per quell'età; e poi la contentezza lo ha ringiovanito che pare un altro.

— Ma, Bice, disse Guglielmo, non ti diè egli una lettera per madonna la badessa?

— Oh! pazzarella! — disse la Bice, scotendo il capo — è vero, eccola qui — cavandola dalla scarsella e porgendola alla badessa. — Perdonami, mia cara mamma: che vuoi? la felicità di esserti vicina mi fa anche smemorata.

E suggellò queste parole con un saporitissimo bacio. La badessa lesse con palese soddisfazione la lettera di messer Geri, e lettala:

— Oh, che buono e santo uomo è questo nostro messer Geri! attribuisce in gran parte anche a me la presente contentezza sua, e di voi, ch'ei chiama suoi dolci figliuoli.

— E non l'attribuisce egli a gran ragione? Ed io e la Bice non pensiamo anche noi il medesimo? La vostra lettera fu quella che mutò affatto il cuore di messer Geri.

— E il veder voi, bel cavaliere, e l'udirvi parlare — disse qui la badessa guardandolo e mal frenando un sospiro — fu la cagione che indusse me a scrivere quella lettera. E poi molto giovarono appresso messer Geri le parole di frate Marco. Che è di lui? E quel maestro Cecco, che parvemi uomo di tanta sapienza e di tanto senno?

— Di frate Marco n'è bene; e fu egli medesimo colui che benedisse l'anello: e maestro Cecco, lietissimo anch'egli, è sempre tenuto in pregio maggiore alla corte, massimamente dopo le fresche vittorie di monsignore lo duca, da esso predette per virtù della sua scienza astrologica.

Queste parole diceva Guglielmo alla badessa, alla quale erano giunte a fatica le novelle dell'ultima guerra; e dei particolari, nè delle prodezze di Guglielmo nulla sapeane; quando la Bice, quasi continuando il discorso di Guglielmo:

— E le vittorie furono gloriose, sai, mamma mia dolce: e tutto l'onore lo sai di chi fu? Eccolo qui — disse, abbracciando con amoroso sorriso Guglielmo, e dandogli un bacio.

E come la badessa sentì a quell'atto commuoversi tutta, e ne diede segno, la Bice, credendo di scorgere nel volto di lei aria di dolce rimprovero, disse ridendo:

— Ma ora si può anche dinanzi a te dar questi baci: l'amor nostro è ora santificato dal matrimonio.

E la badessa, tergendosi una lacrima:

— Sì, sì, figliuoli miei, questi baci ora sono santi, nè si disdicono anche in luogo santo. Se tu scorgesti qualcosa sul mio volto, non era altro che segno della gioja, che tutta mi commuove per la contentezza vostra.

E la Bice, continuando al primo discorso:

— Sì, tutto l'onore fu del nostro Guglielmo; egli vinse due castella fortissime, per la prodezza massimamente della sua propria persona: coi vinti fu umanissimo; per lui rifiorì il giglio fiorentino; e ne ebbe lodi ed onori; e nobili donativi da monsignor lo duca, dal comune di Firenze, e titolo di signoría là nel reame, e titolo di difensore della libertà fiorentina dal comune nostro, e fu fatto cavaliere; e ora è tutto mio, e per sempre.

La Bice diceva queste cose con una vivacità ed una allegría che pareva altra donna da quella che era, tanto era sopraffatta dalla contentezza. A Guglielmo parve insolita cosa questa sua vivacità, e cercò di temperarla:

— Bice mia, tempera codeste mie lodi; che nè a te mia sposa, nè dette in presenza mia, sono troppo dicevoli. Accerta solo madonna la badessa che quello che ho fatto, se qualcosa ho fatto, l'ho fatto inspirato dal tuo amore, e che ogni rimanente è per me vanità e nient'altro.

La badessa a queste amorose parole sentì tutta quanta intenerirsi, e disse con accento visibilmente commosso:

— Voi, bel cavaliere, con la prodezza vostra e con la vostra cortesía, e con la vostra umiltà, e con l'alto concetto che avete dell'amore, vi mostrate degno del nobile sangue degli Artese; e degno nipote di quel messere Ramondo, la cui pietosa storia mi narraste, e che fu cagione principale ch'io scrivessi quella lettera.

— E a me, disse Guglielmo, è rimasto sempre nel cuore un pietoso desiderio di sapere che cosa avvenne di quella madonna Gismonda....

— Ah! ma ora lasciamo pure ogni altra cosa che non sia lieta e piacevole — interruppe la badessa, a cui troppo non piaceva l'entrare in sì fatto ragionamento, che avrebbe potuto troppo commuoverla da palesarsi innanzi tempo.

E allora Guglielmo:

— A proposito di cose piacevoli, che è di sere Gianni da Settimello, che tanto fece anch'egli per noi, e che sì cortesemente ci albergò là in casa sua? Venendo in qua non ci siamo fermati da lui, perchè troppo eravamo infiammati dal desiderio di riveder voi, ma ci fermeremo tornando.

— Ah codesta non è cosa piacevole! Voi non troverete più a Settimello il povero sere: Dio lo chiamò a sè non molti giorni dopo che la Bice si fu partita di qua.

Così la Bice come Guglielmo si mostrarono dolentissimi della morte del buon prete, e ne dicevano parole di alto rammarico, alle quali teneva bordone la badessa, che, perdendo sere Gianni, aveva perduto un suo amorevole e caro familiare, ed anche un fedelissimo consigliere. Guglielmo poi si compiaceva nel ricordare i diversi tratti di bontà e di accortezza, onde era stato testimonio ne' pochi momenti che era stato con esso lui; e l'affetto che egli portava alla badessa, e le parole di riverenza con cui sempre l'aveva udito parlarne: e qui, tornatogli in mente la Simona, e quella sua schietta semplicità, domandò a suor Anna:

— E quella sua buona fantesca, così piacevole femmina, e così valente cuoca, che è essa divenuta appresso la morte del suo buon sere? Saprestelo voi per avventura?

— La povera Simona, è tornata qua in Mugello, ov'essa è nata; ed abita vicino di qui a poche balestrate. Essa è rimasta senza un bene al mondo, e vive dall'assiduo lavoro, e dell'altrui carità: spesso capita anche qui, dove io la adopero in qualche servizio del monastero, e l'ajuto come posso, affinchè governi meno miseramente la sua vecchiaja.

Guglielmo mostrò gran desiderio di rivedere la povera Simona, che tanto gli aveva ferito la fantasía quando fu là a Settimello; e suor Anna promisegli che la mattina appresso l'avrebbe fatta venir qua al monastero. Ma di un ragionamento in un altro il tempo passava, e già si faceva notte, quando la badessa, invitati gli sposi ad entrare nelle stanze che solevano riservarsi a' prelati e ad altre segnalate persone che venissero di fuori, vi andarono insieme con lei, che vi avea fatto apparecchiare quella cenetta che si potè più onorevole a tal ora e in tal luogo; e mangiato con essi, e trattenutasi fino a gran notte, gli lasciò; e tanto essa quanto gli sposi, andarono a letto col cuore pieno di consolazione.

CAPITOLO XLVIII. LA SIMONA.

La mattina per tempissimo la badessa fu in piedi, e ordinato il tutto da sè medesima per l'asciolvere, mandò dicendo alla Simona che fosse tosto al convento, che c'era un nobil messere venuto da Firenze, e suo conoscente, il quale aveva mostrato desiderio di vederla: facesse pertanto di venirci il meglio assettata che poteva. Quella povera donna, avuta l'ambasciata, entrò tutta sottosopra: cercò nel soppidiano le migliori vesti ch'ella avesse tra le sue robicciuole: si ripicchiò tutta; si lisciò quanto più potè; e mentre andava di qua e di là per la povera sua stanzuccia, o cercando questa cosa, o appuntandosi quell'altra, diceva fra sè:

— Un nobile messere venuto di Firenze? Chi può egli essere costui? Eh, il mio sere, buona memoria, conosceva tanti nobili messeri di Firenze che spesso venivano da lui... E vuol veder me? E perchè vuol veder me? Si ricorderà di qualche manicaretto... Non sarebbe egli il negromante?.... Eh, da lui non ci vado io. E poi il negromante dalla badessa! una così santa donna!... Nè lei il chiamerebbe un nobil messere. Il bel cavaliere per avventura? Eh, andiamo, Simona, ti par egli che un sì nobile, sì ricco e sì segnalato uomo quanto il sere mi diceva essere quel cavaliere, volesse ricordarsi di te, e desiderar di vederti?

E pur ringalluzzandosi tutta, continuava:

— Sì! o non mi disse il bel cavaliere tante cose benigne? o non mostrò d'invidiare anche il sere, perchè avesse al suo governo una valente femmina mia pari? — proprio disse così: valente femmina; me ne ricordo come se fosse ora, e ho tuttora nelle orecchie il dolce suono di quelle parole.

E tra questa e altre diverse congetture, che tutte però ritornavano in questa, compiutasi di mettere in punto, tutta bella che pareva una sposa, si avviò al monastero, dove arrivò appunto in quella che Guglielmo e la Bice avevan fatto l'asciolvere, e stavano nel cortile dinanzi alla porta, respirando quell'aria pura e balsamica. Guglielmo era vestito con l'abito civile alla fiorentina, e col capuccio in capo; e la Simona, che appunto in quell'ora infilava in un assai lungo viale di alberi che metteva nella corte, vide il cavaliere molto da lontano; ma quell'abito alla civile, quella donna che vedevale accanto, le cancellarono tutte le sue illusioni, e diceva tra sè e sè:

— È quello laggiù per avventura? Semplice ch'io fui! e io mi pensavo che fosse il bel cavaliere colui che ha mandato per me? — E tutta indispettita: — E mi son messa addosso quella po' di robicciuola dalle feste per comparirgli innanzi più appunto ch'io potevo? E poi chi sa chi è! Qualcuno forse di quei morti di fame di fiorentini che tanto spesso venivano dalla buona memoria del mio sere a levare il corpo di grinze.... E quella femminuccia che ha seco, che la par proprio una rocca sconocchiata?

E sempre andava innanzi ogni passo più di mala voglia. Quanto per altro più si appressava, e più le appariva gentile di aspetto e di persona il cavaliere, e più bella e più aggraziata la donna. Intanto Guglielmo avea ben riconosciuto la Simona, ed avviossole incontro insieme con la Bice; nè le si furono troppo avvicinati, che anche la Simona ravvisò il cavaliere, e ne rimase quasi interdetta diventando di mille colori. Guglielmo, accortosi della costei confusione, si studiò di farle quel più di coraggio che potè:

— Monna Simona, riconoscetemi voi? Non vi ricordate di quel cavaliere che fu a Settimello con frate Marco de' predicatori? Mi ricordo ben io di quella così garbata cena che voi ci faceste; nè, venendo in queste parti, e sapendo che voi ci eravate, ho voluto partirmene che prima non vi riveda. Che è dunque di voi? In quanto a sanità, vedo che n'è bene; che mi parete più giovane di quando vi vidi la prima volta...

— Sire cavaliere — rispose la Simona, cui le benigne parole di Guglielmo avevano tolta ogni peritanza: e fatto prima un riverente inchino alla Bice, — ora vi ravviso, e son tutta confusa che un gran messer vostro pari si sia ricordato di una povera fantesca... Ah! ma neanche fantesca son più! — disse riprendendosi, e asciugandosi una lacrima con la cocca del grembiale.

— Povera Simona! ho saputo la disgrazia del vostro buon sere, e quanto dolore ne avete preso.

— Oh sì, donno Gianni era un buon prete: aveva anch'egli i suoi difetti (il solo Dio senza difetti), mi faceva alle volte un poco disperare; ma in fondo era una pasta di miele: e poi vederselo portar via a quel modo?

— O di che morte morì donno Gianni, chè alla badessa non ne domandai?

— Sentite! era là sul finire del giugno; e c'era un ricco mortorio laggiù alla chiesa di Sesto: era un caldo che non si respirava; e lui, scambio di scegliere delle prime messe per andar così a bruzzico, e' scelse delle ultime, facendo ragione di tornare a otta di desinare, che appunto quella mattina mi aveva comandato uno de' suoi più cari manicaretti. Che volete dire? tornò trafelato e con la lingua fuori come i cani: — Simona, un bicchier d'acqua Donno Gianni, vo' siete così accaldato, l'acqua vi ucciderebbe Un bicchier d'acqua fresca, ti dico — e io l'acqua fresca; che se la tirò giù con una brama che non vi so dire, e volle il secondo bicchiere — Oh! ora mi sento riavere: il desinare è all'ordine? — ed io misi in tavola di lì a pochi momenti. Mangiò e bevve con un appetito che non l'avevo mai visto; ed un fiasco di quel buon vino che lodaste tanto anche voi, sire cavaliere, e' se lo mise all'anima tutto da sè; chè ne aveva sin perso la erre. Arrivati alla sera — Simona, mi sento un certo non so che... — E poco appresso: — mi viene un ribrezzo come di febbre: è in assetto la camera? — e si avviò in camera per andare a letto. Non aveva messo il piede sulla soglia dell'uscio che gli cascò la gocciola, e rimase sul tiro...

E qui diede in un pianto dirotto.

— Su, via, monna Simona, — disse la badessa, che era venuta fuori mentre la Simona raccontava la morte del prete — mostrati quella valente femmina che sei; il cavaliere ha voluto vederti, ricordando la piacevolezza tua, e la tua valentía nel cucinare: fa dunque di non lo rattristar troppo; e se non ti grava, fa che oggi tu cuocia tu il desinare a lui, e alla sua gentile sposa.

La Simona, lusingata da queste parole, e dall'assentire del cavaliere e della Bice, riprese ben tosto il suo lieto umore.

— Oh Dio, madonna la badessa, io, una povera villana cuocere per sì nobili e gentili persone? — e poi volta alla Bice con garbatissimo inchino... — Madonna, voi siete la donna del bel cavaliere? Siete la più bella dama e la più gentile che abbia veduto a' miei giorni: messere Domeneddío vi dee avere assortito egli proprio con le sue mani; ed egli senza fallo vi prospererà sempre per lunghi e lunghi anni.

— Gran mercè, buona Simona, del vostro lieto augurio: vedo proprio che il mio Guglielmo aveva ragione a parlar così bene di voi, ed ho caro molto ch'egli vi abbia qui fatto venire.

Se la Simona si pavoneggiasse di queste dolci parole, e di tutte le altre dimostrazioni, non è da domandare; e fatti altri pochi ragionamenti di questa natura, la badessa, voltasi alla buona femmina:

— Su via, monna Simona, ora metti il cervello a partito per mostrarti anche a madonna Bice qui a S. Piero, quella valente cuoca che già ti mostrasti al suo messer Guglielmo laggiù a Settimello.

E la Simona, biasciate alla meglio poche parole di scuse smorfiose, si avviava in cucina, quando, come sovvenendosi di qualche cosa:

— Madonna la badessa, ma la suora che cuoce qui per il monastero mi guarderà ella a traverso?

— Va va! suor Taddea l'è bonaria femmina, ed anzi te ne vorrà bene. Pensa solo a far vedere chi è la Simona.

La buona femmina, tutta rassicurata, si mise all'opera col tal volontà e con tal gioja nel cuore, che non avrebbe cambiata la sua condizione con quella delle più nobili donne fiorentine. Entrò in cucina, dove tutto era ordinato per cuocere, e dove trovò suor Taddea che l'accolse con viso lietissimo; ed ella, trattasi di dosso, e il benduccio di bucato e la cioppa delle feste, e messasi un largo grembiale e uno sciugatojo sulle spalle, sceglieva questa pentola, quell'altra rifiutava; questo vaso reputava acconcio, quell'altro no; comandava che si facesse questa cosa, che si mettesse all'ordine quell'altra; vedeva tutto, pensava a tutto: faceva insomma rimanere a bocca aperta quelle converse, non avvezze a modi e preparativi sì fatti. Nel tempo che la Simona governava con tanta bravura la cucina, i due sposi con la badessa andavano attorno per i viali più ombrosi del bosco dietro al convento: nei quali, benchè fosse uno de' più cocenti giorni d'agosto, si sentivano ricreati da un fresco soavissimo, e tutti i loro ragionamenti erano di contentezza e di amore, non solo comportati, ma uditi volentieri per avventura da suor Anna, alla quale le pareva di rivivere nelle più dolci illusioni della sua gioventù, obliando, povera sventurata! che quella sua gioja doveva essere troppo breve; e non potendo indovinare che atroce ferita sarebbe al suo cuore il vedersi così tosto abbandonare, e forse per sempre, dal cavaliere e dalla Bice.

Arrivata l'ora del desinare, che si apparecchiò onorevolmente nella sala dei forestieri, vi furono soli gli sposi e la badessa, a cui sarebbe parsa minore, e meno schietta e men soave la gioja, dove qualcun altro fosse stato presente. La Simona si portò da sua pari; e benchè il convito non fosse soverchiamente abbondante, nè sontuoso troppo, tuttavía, seppe così ben fare quelle cose ch'ella fece, che e la badessa e Guglielmo non facevano altro che dire: all'ultimo comparve lei proprio in persona, pulita come un dado, portando in tavola una torta parmigiana, fatta apposta, disse ella, per la bella donna del bel cavaliere; e la presentò con tanto garbo, che la Bice stessa ne restò presa, e ne la ringraziò con queste parole amorevolissime:

— Gran mercè, buona Simona, della cortesía vostra — e dopo avere assaggiata la torta, e gustatala per due volte:

— Il vostro garbato presente è degno veramente di chi tante lodi ha meritato dal mio Guglielmo. Piacciavi, valente femmina, di accettare questo piccolo presente per memoria di me, e per segno di grato animo dell'affetto che mostrate al mio dolce sposo ed a me, ed a madonna la badessa, che noi amiamo e abbiamo in riverenza quanto carissima madre.

E toltasi un piccolo anelletto di dito, il porse alla Simona, la quale, stupefatta da tanta bontà, si smarriva, non sapeva che rispondere, e non si attentava di stender la mano per prender l'anello; ma, confortandola Guglielmo, ed ancor la badessa, il prese, e tutta confusa:

— Madonna, disse, quest'anello, avvezzo a codesta mano così gentile, come potrà adattarsi a stare su una mano così rustica e vile come quella di una povera fantesca? io lo serberò gelosamente nel soppidiano; ma in dito non avrò mai cuore di mettermelo. Gran mercè, madonna; io vorrei dirvi tante e tante cose: ma non so trovar parole degne delle pari vostre....

— Ed io ti dico, la interruppe Guglielmo, che le tue parole sono più gentili e più dolci di quelle di tante cittadine....

— Le vengono dal cuore — disse tosto la Simona — e Guglielmo continuando:

— E ti prometto che, se tu fossi a Firenze, così nella cucina come in ogni altra cosa, avanzeresti tutte le tue pari di lunghissima mano.

— Ed io, soggiunse la Bice, mi parrebbe gran mercè, se tra le mie fantesche, ne avessi una che ti somigliasse.

La povera Simona proprio non istava più nella pelle dalla consolazione; e quando Guglielmo le disse:

— Bene, Simona, verresti tu volentieri a Firenze con noi?

Le parve proprio di sognare: guardava ora la badessa, ora la Bice, ora il cavaliere:

— A Firenze? Io? Si gabberebbero di me quelle cittadine.... E poi son così vecchia.... Se potessi vedere spesso voi, madonna, e il bel cavaliere, mi parrebbe di essere in paradiso; ma sì!....

E la Bice, che la Simona avea proprio conosciuto esser valente femmina, e che pure avea compassione di lei, e le pareva di far peccato a lasciarla colà priva di ogni bene, e ridotta quasi a vivere di elemosina, la strinse quanto più potè ad accettare:

— Me vedrai spesso ed il cavaliere: ti metterò a governo de' panni lini, acciocchè tu stia vicina a me. Piaceti egli il farmi contenta di questo mio desiderio?

La Simona guardava fissa la badessa, quasi interrogandola che cosa avesse a rispondere; e la badessa che intese:

— Monna Simona, che pensi tu più? Messer Domeneddío ti mette dinanzi il maggior dono che mai tu potessi sperare, ed esiti ancora? Tu starai sempre vicina alla bella donna del bel cavaliere, come suoli dir tu, che io stessa te ne porto grande invidia: questo solo dovrebbe bastarti.

E la Simona, fattasi cuore, si volse alla Bice, e baciandole con atto di riverenza la mano, disse:

— Madonna, io son vostra; fate di me a vostro senno e del nobile vostro sposo.

Allora Guglielmo:

— Brava monna Simona: fa dunque di essere più tosto che puoi a casa, e di essere in assetto per partire domani dopo terza.

La Simona accennò che il farebbe, e partì; e la badessa con alto sospiro esclamò:

— Domani dopo terza? Così per tempo?

— Mia dolce mamma, rispose la Bice, io starei volentieri qui sempre teco, insieme con Guglielmo.....

— Ed io, continuò Guglielmo, lo farei pur di gran cuore; ma, non che starvi sempre, non mi è dato nemmeno allungare la mia stanza di un solo giorno; chè monsignor lo duca mi gravò strettamente che dovessi essere nel giorno di domani a Firenze.

La badessa non rispose, se non con alto sospiro, e da quel momento si spense in lei ogni letizia; ed alle amorose parole della Bice, che studiava ogni via da rallegrarla, rispondeva brevemente, e solo carrezzavale o le mani, o il volto, o i capelli, con quel lieve sorriso che tanto eloquentemente significa e il grave dolore dell'animo e l'ardentissimo affetto; e così passò tutta la giornata!

CAPITOLO XLIX. LA DIPARTENZA.

La nottata poi fu travagliatissima per la povera badessa, e quanto si avvicinava il giorno tanto si faceva più grave la sua mestizia. La Simona, lieta quanto suor Anna era trista, picchiò alla porta del monastero che il sole non era per anco levato; e come la badessa era alzata anche essa, così vi andò tosto, mostrando la sua letizia con parole ed atti accesissimi, ringraziandola altresì dell'essere ella stata gran cagione di questa sua lieta ventura.

— Codesta è veramente grande ventura, buona Simona; ed io, credilo a me, te ne porto invidia.

— Madonna, scherzate voi forse? voi invidiare una misera fantesca?

— Ah, povera Simona! tu non comprendi i segreti del mio cuore.... — e accorgendosi che era per dir cosa, che alla Simona sarebbe parsa strana troppo in una donna della sua qualità, si riprese così: — tu non puoi comprendere quanto sia l'affetto che io posi alla Bice mentre fu qui al monastero: ancora tu non puoi conoscere che angelo essa è. Verrà giorno che forse tutto comprenderai: e non potrà fare che allora tu non dica: Suor Anna aveva gran ragione d'invidiarmi.

Mentre la Simona stava per replicare alle parole della badessa, entrarono Guglielmo e la Bice, già preparati per cavalcare; ed anch'essi mostravano apertamente nel loro aspetto il dolore della partenza. Suor Anna allora, voltasi alla fantesca:

— Va, buona Simona, va a sollecitare anche tu la cavalcatura, che già terza è sonata, ed i tuoi novelli signori non è dicevole che aspettino te.

E come prima la Simona fu uscita dalla stanza, tirati i due sposi nella sua cella, si volse a loro con occhi tutti lacrimosi:

— Figliuoli miei, questi due giorni che siete stati qui da me, la presenza vostra mi ha fatto rivivere nella mia gioventù, quando tutto mi arrideva, quando da tutti ero acclamata e desiderata. Ma questa è stata la luce vivissima che precede lo spegnersi d'una lucerna. Io non vi vedrò più: di accompagnarvi fino alla porta del monastero non mi regge il cuore, nè mi reggerebbero le gambe. Addio: siate felici per lunghi anni; e ricordatevi qualche volta della povera Gismonda di messer Ramondo.

La badessa disse queste parole con tale accento di sfinitezza, e così pallida nel volto, che que' poveri giovani ne rimasero accoratissimi. Guglielmo poi al dolore aggiunse gran meraviglia per le ultime parole di suor Anna, e accostandosele, disse sotto voce:

— Gismonda voi?

E la suora, prendendogli strettamente la mano, rispose tutta commossa:

— Sì.

E si gettò abbandonatamente sopra una sedia.

La Bice di queste ultime parole nulla comprese, perchè la storia della Gismonda non sapeva, e non sapeva che cosa pensare; nè di domandarne le parve opportuno; e però, vedendo il suo Guglielmo esserne restato muto e pensoso, ella si ingegnava di dire alla badessa quelle più amorevoli cose che sapeva, promettendole che a non lungo andare sarebbero tornati a rivederla, alle quali la povera suora non rispose se non queste parole:

— Allora io sarò morta....

E poi alzandosi, e facendo un grande sforzo:

— Andate, figliuoli, l'ora si fa tarda, ed il più stare è troppa commozione anche per me.... addio, mia diletta — disse baciando teneramente la Bice; e poi con atto risoluto, e quasi disperato, fattasi a Guglielmo:

— La madre, disse, può baciare il figliuolo — e datogli un ardentissimo bacio in bocca — addio, figliuolo mio dolce, ci rivedremo lassù.

E lasciatasi cader boccone attraverso al letto, non disse altre parole.

La Bice e Guglielmo rimasero stupefatti, e volevano pur dire; ma la suora accennava pur con la mano ch'e' si partissero; il perchè, tutti dolorosi, si mossero, e ben tosto furono a cavallo. Tutte le potenze dell'anima di suor Anna avevano concorso con isforzo mirabile a questa violenta dimostrazione di affetto; e la povera donna rimase così vinta e così sfinita, che a mala pena potè, dopo lungo spazio di tempo, levare il capo di sul letto; e allora, mal reggendosi sulla persona, cominciò a volgere attorno lo sguardo smarrito, e a tendere l'orecchio, se nulla per avventura udisse. Silenzio per tutto! Onde ella esclamò dolorosamente: — Nol rivedrò mai più!.... È tutto il mio Ramondo.... e mi ha dato pur egli un ardentissimo bacio! e quel bacio mi ha messo l'inferno nel cuore!...

E si coprì il volto colle palme delle mani, quasi vergognandosi di sè stessa; poi, gittatasi con grande sforzo in ginocchio:

— Signore Dio mio, perdonatemi. — E posato il capo sulla sponda del letto così ginocchione, appoggiandolo sulle mani incrocicchiate, stette alquanto tra piangendo e pregando. All'ultimo, come meglio potè, si alzò, e si pose seduta sopra la sua sedia, e prese un libro dei salmi per tentare se trovava pace e conforto nella preghiera; ma sentivasi tanto spossata che nè la mente nè gli occhi le consentivano il loro ufficio; ed ella, tutta sgomenta, non aveva bene di sè: — Che cosa è mai questo? Come potrò io sopportare tanta passione?

In quella udì qualcuno che passeggiava nel corridore dinanzi alla sua cella, e il cuore le sobbalzò stranamente:

— Dio mio! sarebbe egli?.... e fissò avidamente gli sguardi alla porta, quando udì la voce della conversa che soleva farle i servigj della camera, la quale domandava se era lecito entrare. A questo la suora cercò di ricomporsi meglio che potè; e detto alla conversa che entrasse, ella rimase sbalordita vedendo la badessa così cambiata nel volto che pareva un corpo morto; ed amorosamente le disse:

— Ohimè! madonna, voi state male.

— Sì, buona Geltrude — rispose la meschina con un filo di voce.

E suor Geltrude, ponendole una mano sulla fronte, e poscia sul cuore:

— Madonna, voi abbisognate di riposo: lasciatevi assettare il letto, e coricatevi; e poi farò che vi si rechi tosto una bevanda cordiale.

E la buona suora, lasciandosi governare come una bambina, consentì ad ogni cosa; e solo dopo otto giorni, mercè le assidue cure della sua buona Geltrude, potè riaversi un poco.

Ma raggiungiamo adesso gli sposi che da qualche tempo cavalcano per ritornare a Firenze.

Guglielmo e la Bice sul principio ch'e' si mossero, andarono un buon tratto di via innanzi alla Simona ed al fante, parlando, com'è naturale, del fatto della badessa, che alla Bice pareva, come veramente doveva parerle, stranissimo.

— Povera mia suor Anna! vedi come l'abbiamo lasciata!.... Ma ecco, Guglielmo, che vollero dire quelle ultime parole di lei: «Ricordatevi della Gismonda di messer Ramondo?» E poi quel bacio che ti ha dato, e che le hai renduto.... Ho visto, sai? E' m'è sembrato più che da madre; e quasi quasi....

— Saresti gelosa di suor Anna? — disse con dolce sorriso Guglielmo.

E la Bice con pari sorriso:

— Oh, no, mio dolce signore.... — e poi, riprendendo il primo ragionamento: — Su, via, Guglielmo, dimmi chi è quella Gismonda.

Il cavaliere combattè un pezzo per non palesare alla Bice il segreto di suor Anna; ma poi, vedendo che ella se ne addolorava, e che avrebbe potuto pensare a chi sa che cosa; e persuaso che alla fine non c'era nulla di male; raccontolle tutto il pietoso fatto dell'amore della badessa con messer Ramondo suo zio; e come l'aver ella conosciutolo per nipote del suo antico cavaliere, era stata cagione principalissima della loro presente felicità. La Bice si commosse teneramente, e ne amò di più la badessa, e si fece promettere da Guglielmo che ogni tanto sarebbero iti a rivederla.

Intanto i cavalcatori si erano avvicinati a Settimello, e la povera Simona, che fin lì si era mostrata tutta lieta e festosa col fante di messer Guglielmo, come vide il campanile della chiesa di Settimello, diede in un grande scoppio di pianto, dicendo che volea scavalcare, e fermarsi qualche momento. Il fante la predicava come ciò non si potea fare: Vuoi tu che messer Guglielmo sosti per te? e la Simona: Sì che sosta. E come questo sì e no era piuttosto animato, non potè fare che la Bice e Guglielmo, i quali avevano già rallentato il passo, non ne sentissero qualcosa; e però si soffermarono per sapere che fosse.

— Sire cavaliere — disse con le lacrime agli occhi la Simona — mirate là Settimello: vi è sepolto il buon sere: passar di qui senza visitarlo...

— Hai ragione, la interruppe Guglielmo; scavalcheremo tutti, e tutti pregheremo per l'anima di lui.

Come di fatto, giunti alla chiesa, scavalcarono tutti quanti, e il nuovo prete, sentendo giù questo scalpiccío di cavalli, e veggendo poi sì nobile coppia e così bene accompagnata, non sapendo a che pensare, scese giù per domandare che cosa piacesse al cavaliere e alla dama. Guglielmo significogli il pietoso desiderio loro, al quale il prete si porse volonterosamente, e aperse loro la chiesa, dove la povera Simona si sentì tanto consolata e tanto addolorata ad un'ora per la ricordanza e del suo buon sere, e di quei luoghi dov'essa era stata quasi come padrona, che piangeva come una vite tagliata, e non sarebbe mai uscita di lì. Ma fattane accorta dal fante di messer Guglielmo, si levò di ginocchione, ed uscì con gli altri di chiesa, non senza voltarsi e rivoltarsi indietro a guardare il luogo dove sere Gianni era sepolto. Dopo questo pietoso atto, il cavaliere e la Bice, ringraziato il prete della sua cortesía, e lasciatogli buona limosina per l'anima di donno Gianni, seguitarono il loro cammino, e furono ben tosto a Firenze, dove messer Geri gli aspettava a braccia aperte, così per il desiderio di rivedergli, come per sapere novelle della badessa. Della storia di madonna Gismonda e del cavaliere Ramondo, Guglielmo aveva confortato la Bice che non ne parlasse a suo padre; il perchè, recatogli salute da parte della badessa, e dettogli come ne era assai bene, e come era stata lietissima del vedergli e del trattenergli, dopo altre poche parole si ritrassero nelle loro stanze a prender cibo e riposo. Ma qui mi bisogna tornare un passo addietro.

La Simona, che mai alla sua vita non era stata a Firenze, e che non si pensava poterci essere al mondo stanza più magnifica di Calenzano, e delle castella del suo Mugello, come prima scorse da lontano le torri, onde allora la città nostra era piena, rimase stupefatta, e domandò al fante:

— Che è quella cosa laggiù che pare come una selva di grossi cipressi?

— È Firenze — rispose il fante; e la Simona:

— Ohimè! e com'è ella Firenze? e che sono quelle cose tanto alte?

— Sono le torri dei palagj fiorentini.

— E anche il palagio di madonna Bice è come quelli? e noi dovremo star chiusi in quelle torri?

— Eh! monna Simona, troppo agiato abituro ti vorranno parer quelle torri! Aspetta di essere a Firenze, e vedrai.

E di fatto, come la buona Simona fu entrata in Firenze, non sapeva raccappezzarsi se sognava o se era desta, così nuovo miracolo gli pareva tutto ciò che vedea; e quella tanta frequenza di popolo, e logge e palagj, e piazze, ed allegre brigate qua e là, e botteghe ricchissime di panni e di seta, le avevano proprio fatto un capo come un cestone, chè, arrivata alle case dei Cavalcanti, non sapeva più in che mondo si fosse. E quivi forse la meraviglia si accrebbe al vedere la magnificenza di quella nobil magione; e riavuta che si fu un poco, le pareva d'essere da quanto una regina; e più che regina le parve di essere quando la Bice, chiamatala a sè e condottala essa medesima nella stanza ove si custodivano i panni lini, le disse con atto e voce benignissima:

— Ecco, monna Simona, ch'io ti mantengo la promessa: qui tu starai a custodia di tutta questa roba — e si mise ad aprire casse, cassapanche ed armadi, tutti pieni di panni lini — e qui — disse aprendo un assai recipiente stanzetta — qui tu starai a dormire, vicina, come vedi, alla camera mia. Ci starai tu volentieri?

La povera Simona, che mai non aveva veduto tanta grazia di Dio, e che, sebbene la sua camera fosse decente e nulla più, a lei pareva sontuosa e nobilissima, col cuore proprio nello zucchero rispose:

— Madonna, voi e il vostro bel cavaliere, troppo gran mercè fate ad una vil femminuccia mia pari. Ma sarò io sufficiente fantesca a una vostra pari? vecchia oggimai e dappoco....

— Il mio Guglielmo ti disse valente femmina, e non può fallire che tale tu non ti mostri sempre. Ma anche quando tu fossi da nulla, non che da poco, sta di buon animo: qui appresso di me avrai sempre buono ed onorato recapito, quando il mio dolce sposo ti ha reputata degna della sua casa.

— Madonna, gran mercè — rispose la Simona baciandole la mano. — Io non ho le parole soavi e gentili come le vostre: vorrei potervi mostrare il cuore.... il vostro bel cavaliere, me ne innamorai.... voleva dire gli volli bene.... no, mi piacque come prima lo vidi.... E voi, madonna, siete la più gentile e bella donna che mai abbia veduta.... io, povera vecchiarella.... ma, non so.... direi....

La Bice, accortasi troppo bene dello smarrimento della Simona, la confortò e le fece animo con amorevolissime parole. Non andò molto però che la Simona, vinta la prima peritanza, riprese tutta la balía di se stessa, e tanto ben seppe fare, che diventò come la massaia di casa: nè la Bice moveva foglia, in opera di masserizia, se prima non ne aveva conferito con la Simona.

CAPITOLO L. LA TRAMA PIGLIA CORPO.

Nel mezzo tempo che Guglielmo con la Bice erano stati in Mugello, le cose di maestro Cecco aveano mutato faccia del tutto; e già vedemmo come, di careggiato da tutti, di protetto dal duca, di amico a potenti signori, ed a persone di qualche conto, era precipitato nell'abisso della miseria, fallitagli alla prova quella amicizia che egli reputava la più fidata; e lo lasciammo che aveva fatto proposito di involarsi, o sotto un colore o sotto un altro, da Firenze il giorno di poi.

— Ma che colore si trova? — ruminò egli tutto quel giorno e la notte appresso — che non metta in sospetto il cancelliere e gli altri nemici miei?

Gli venne in mente sulle prime di andare alla presenza del duca con atto umilissimo, ricordandogli con bel garbo la data fede, e supplicandolo almeno a concedergli compagnía che lo scorgesse fino su quel di Genova, dov'egli aveva disegnato di andare a posarsi; ma non si attentò.

Finalmente gli tornò a memoria quell'atto del duca di Atene quando là sulla porta di S. Croce garrì quel fanatico frate; e si pensò che egli, mostratosi così aperto e spontaneo difensore suo in quella congiuntura, non isdegnerebbe di procacciargli modo di uscir salvo da Firenze. E di fatto, appostando l'ora che messer Gualtieri si levava, fu tosto a lui, e gittatoglisi ginocchioni dinanzi:

— Monsignore, salvatemi! i nemici miei sono congregati contro di me.

Messer Gualtieri di Brienne sapeva tutto, e sapeva molto più che non sapesse il povero Cecco; e come quegli che di frati e preti non era tenerissimo, e sapeva dall'altra parte le arti scelleratissime che si erano usate per tirar Cecco nell'ultima rovina, e torgli in tutto e per tutto l'affetto del duca; se avesse potuto trovar modo di salvarlo dal furore fratesco, senza per altro mancare un punto alla lealtà verso il duca suo signore, e far cosa che ad esso dovesse troppo dispiacere, lo avrebbe fatto di gran cuore; il perchè, voltosi a Cecco:

— Maestro, gli disse, che i vostri nemici vi cercano a morte lo so; e so, che monsignor lo duca non può, anche se volesse (chè di volere non accenna), non può apertamente difendervi. Ed il farlo io mi sarebbe attribuito a slealtà, nè passerebbe senza pericolo gravissimo. Nondimeno il fatto vostro mi dà grande passione: e voglio studiare come potervi salvare. Andate là nella mia camera, dove niuno oserà di entrare; intanto penserò al modo più acconcio, e sarò tra non molto da voi.

Cecco baciò la mano in atto di grato animo a messer Gualtieri, e questi si mise a investigare a che termine appunto fossero le cose, per vedere se trovasse modo di salvare quell'infelice dalle ugne dell'Inquisizione.

Ho detto qua dietro che il duca d'Atene sapeva molto più che non sapesse il povero Cecco, il quale, dappoi che ebbe scoperto il vile abbandono di frate Marco, si era rintanato in palagio, nè più era uscito dalla sua camera. Ma i suoi nemici non avevano dormito. Già vedemmo come, prima che Cecco sospettasse di nulla, il cancelliere avea fatto far la formale denunzia a Dino del Garbo. Ora esso cancelliere impose a maestro Dino, che fosse subito all'inquisitore, al quale esso lo accompagnò con una lettera del seguente tenore:

«Reverendo in Cristo fratello — Maestro Dino del Garbo, vinto da santo zelo, viene a voi per denunziare formalmente a cotesto tribunale il pestilente eretico Francesco Stabili. Se il processo si farà senza veruno indugio, ne loderà Dio anche madama la duchessa mia signora, ed io insieme con lei. A' vostri piaceri presto.

« Il Vescovo d'Aversa ».

L'inquisitore sapeva troppo bene a che cosa veniva maestro Dino; e però, dopo il saluto, prese la sua denunzia, e lettala:

— Ottimamente, disse; resta ch'io ne conferisca con messer lo vescovo.

E maestro Dino:

— Messer lo cancelliere mi ha dato per voi questa lettera.

L'inquisitore la prese e lettala tosto, replicò:

— Dite a messer lo cancelliere, che la cosa di questo eretico maledetto tocca più me che lui, che la duchessa, e che voi stesso — soggiunse sorridendo.

— Messere, state avvertito: quell'eretico fa anche professione di magía, ed è per arte e per natura accortissimo. Vi fuggirà dalle mani.

— Qui, siatene certo, maestro Dino, l'arte e la magía non gli serviranno a nulla. Esso sta chiuso da tre giorni in palagio; ma non può uscirne che ei non sia appostato e codiato da' miei berrovieri e da fra Cherubino, il quale, come sapete, ben lo conosce, ed ebbe briga con lui là sulla piazza di Santa Croce, e l'altro dì sulla porta di Chiesa.

— Tuttavía, messere, nè madonna la duchessa, nè messere lo cancelliere, nè io, saremo lieti compiutamente, finchè quel maledetto da Dio non sia proprio giù di sotto nelle vostre fedeli carceri.

— Più tosto che non credete sarà sazio il desiderio vostro ed il mio. Io vo senza indugio dal vescovo; e voi, maestro, fate di spiare appresso la duchessa, ed appresso il cancelliere, che cosa mai può ruminare l'eretico.

E come disse così fece. In pochissimo d'ora il frate era stato dal vescovo: e dopo lunga discussione presero per miglior consiglio di significare al duca come quel maestro Cecco, suo familiare, fosse eretico relasso, denunziato già al sacro tribunale, e di chiedergli che egli stesso il dovesse far consegnare nelle mani de' suoi ministri, sotto quelle pene che le leggi di santa chiesa ha posto. E l'inquisitore, senza dar tempo al tempo, tornato che fu a Santa Croce, scrisse una lettera al duca, la quale cantava così:

«Noi frate Accorsio da Firenze, inquisitore della eretica pravità, significhiamo a voi, invittissimo e potentissimo signore, monsignore duca Carlo di Calabria, signore della città e comune di Firenze, come il nomato Francesco Stabili da Ascoli, il quale ripara alla corte della vostra invittissima signoría, già condannato per eretico a Bologna, è ora stato solennemente denunziato dinanzi al nostro tribunale per eretico relasso da persone probe e discrete, e come noi sappiamo altresì di nostra certa scienza. Ricordiamo pertanto alla vostra invittissima signoría l'obbligo strettissimo che ha ciascun figliuolo di santa chiesa di denunziare non solo i così fatti al tribunale nostro, ma anche di secondare l'opera nostra, acciocchè il reo sia dato nelle mani dei nostri ministri; e ricordiamo altresì le pene di gravissima scomunica che si minacciano a coloro che fanno il contrario. Laonde, non volendo noi mandare i ministri nostri in palagio a prendere il reo, per quel rispetto che ciascuno deve avere alla dignità e persona vostra, vi preghiamo che vi piaccia di essere voi quello che per vostri fanti il mandiate preso al nostro tribunale, acciocchè questo misero sia revocato a penitenza, se il Signore gli tocca il cuore; o punito con le pene temporali ed eterne, se perfidia nell'errore».

Piegata e suggellata la lettera, andò fra Cherubino dal cancelliere che tosto la recasse a monsignore lo duca; e non era passata mezz'ora che già il vescovo era alla presenza del duca. Il quale, letta la lettera dell'inquisitore, stette un poco sopra pensiero, e poi esclamò:

— No, farei troppa villanía della mia fede. Diedi balía a maestro Cecco che parlasse senza ritegno, e nulla temesse da me. E ora dovrò darlo io stesso in mano de' suoi nemici?

— Che nemici dite voi, monsignore? quel maestro Cecco è eretico, ed eretico relasso. Voi potete bene perdonargli gli scherni e le vituperose ingiurie fatte a voi, e a madonna la duchessa; ma, pensate, che messer lo inquisitore ha, in materia d'eresía, tutte quelle facoltà che ha il papa, e che il difendere un eretico, e sottrarlo al tribunale dell'Inquisizione, vi chiama addosso l'ira di messer Domeneddio, e la scommunica maggiore.

Il duca, a cui il sentirsi ricordare le villaníe e gli scherni di Cecco aveva fatto ribollire il sangue, e che la scomunica temeva, se non per altro, per i tristi effetti civili che allora portava con sè, disse al cancelliere:

— Difendere maestro Cecco, o sottrarlo alla giustizia, no: solo non voglio essere io quegli che il dà preso ai ministri della Inquisizione. Io gli comanderò che mi esca di palagio: faccia il rimanente l'inquisitore.

Il cancelliere, che sapeva le diligenze fatte dall'inquisitore, perchè Cecco non potesse uscirgli dalle ugne, non volendo tirar troppo, per paura che la corda non si strappasse, si mostrò contento, e disse di sperare che anche l'inquisitore vi si acquieterebbe. Il perchè il duca, avuto a sè tosto messer Gualtieri di Brienne:

— Bel cugino, gli disse, fa che tu comandi in mio nome a maestro Cecco d'Ascoli che si parta dal palagio e dalla città di Firenze di qui a domani; e tu dara'gli quella moneta che crederai sufficiente al suo viatico. Fa che il mio comandamento sia tosto eseguito.

E il duca d'Atene, detto che ogni cosa sarebbe fatto secondo la volontà di lui, fatta riverenza, uscì della stanza; e poco appresso anche il cancelliere tolse commiato; nè fu lento a correr prima dalla duchessa a ragguagliarla del tutto, e poi a Santa Croce dall'inquisitore per quel fine medesimo, e per ordinare le cose in modo che la preda fosse più che sicura.

All'inquisitore bastò che il duca non assumesse apertamente la difesa di Cecco, e fosse indotto a comandargli di abbandonare il palagio e Firenze; e parendogli cosa fatta, non pensò più ad altro che a raddoppiare le poste alla caccia di lui, ed a tenere ragguagliato e ben desto fra Cherubino, a cui era commessa l'impresa; ed a preparare il processo, ordinando insieme col cancelliere quali potrebbero essere i testimoni più acconci da potere interrogare in questa bisogna, incominciando da coloro che gli si erano mostrati più affezionati, ed erano stati seguaci suoi, per avere occasione di far loro pagar cara l'amicizia all'eretico ponendogli al tormento.

Il primo che venne alla mente di ambedue fu frate Marco de' predicatori; e se non fosse che al cancelliere parve inopportuno, l'inquisitore voleva involgerlo qual reo nel processo medesimo di Cecco, come colui che, a quel mo' sacerdote, e consapevole che Cecco era già stato condannato per eretico, tuttavía andò sempre a udirlo leggere, e le sue pestilenti dottrine tenea per autentiche: ma si contentò di udirlo per testimonio, a' conforti, come ho detto, del cancelliere, il quale temeva che ne nascesse troppo scandolo tra' frati predicatori.

Avrebbe voluto l'inquisitore che si udisse pure Guglielmo, il quale di Cecco si era mostrato sempre amico e difensore; ma anche qui il cancelliere fece veduto al furibondo frate, che era pericolo manifesto a stuzzicare tal vespaio, dacchè, essendo messer Guglielmo così grande, non solo appresso il duca, ma anche presso il re Roberto; così ben voluto e careggiato dal comune e dal popolo di Firenze; e così prode e animoso e disdegnoso, c'era il caso che se ne levasse gran rumore, che il duca stesso ci mettesse le mani, e così nascer tal subbuglio che Cecco stesso ne potesse uscir salvo. Il perchè, pesato maturamente ogni cosa, si propose di citare alcuni testimoni volgari, più per apparenza che per altro, e tra' seguaci di Cecco di qualche qualità, citare il solo frate Marco de' predicatori: al qual effetto l'inquisitore mandò tosto significando al priore di Santa Maria Novella che, dovendo uno de' suoi frati, frate Marco da Prato, essere udito per testimonio in un processo così e così, fosse contento di comandargli che si appresentasse al sacro tribunale della Inquisizione per tutto il giorno di domani. Frate Marco, come sanno i nostri lettori, erasi riparato nel Casentino per paura appunto di non esser involto nel processo di Cecco; e però il priore corse ed avvisare di ciò messere lo inquisitore, e che domani frate Marco non avrebbe potuto esserci; e l'inquisitore, indovinando, per qualche parola altresì che ne aveva udita, il frate dover essere uscito da Firenze per questa paura; e temendo che, se il priore lo richiamava per questo, egli potesse mancare alla obbedienza; avvertì il priore di tale pericolo, e che, dove frate Marco non comparisse, ne sarebbe appresso la sacra Inquisizione gravato egli; e però nella lettera non gli accennasse, neppur lontanamente, nulla di questo fatto, e solo strettamente gli comandasse di tornare, sotto colore di una gravissima bisogna dell'ordine, che gli sarebbe facile l'immaginare, come veramente fece il priore.

CAPITOLO LI. CECCO È PRESO.

Ogni cosa oggimai si accordava all'ultima rovina del povero Cecco.

Il duca d'Atene, che forse per una via o per l'altra avrebbe trovato modo di farlo uscir salvo da Firenze, benchè fosse troppo malagevole, per la sollecita guardia che facevano il cancelliere e l'inquisitore, dopo che fu stato alla presenza del duca Carlo, e sentito che, lì, udendo il cancelliere, comandò che Cecco uscisse dal palagio e da Firenze, e che gli fosse data moneta per il viatico, si pensò che questa fosse l'unica pena da doversi dare al maestro, consenziente anche il cancelliere, e che il processo d'eresía più non si avesse a fare. Laonde tutto lieto, andò in camera sua, dove Cecco stava appiattato, e gli disse:

— Su, maestro, fatevi animo; i vostri nemici, è vero, volevano farvi il processo di eretico; ma pare che monsignor lo duca abbia potuto stornare questa fiera burrasca, e che voglia star solo contento a discacciarvi dalla corte e dalla città: ed io debbo, in nome suo, farvi questo comandamento, che il facciate per tutto domani, e darvi anche moneta sufficiente al viatico vostro, secondo dove volete andare a riparare.

Cecco respirò un poco a queste parole; ma non furono per altro sufficienti a levargli la paura da dosso.

— Sire Gualtieri; ma monsignore lo duca e il cancelliere, hanno proprio detto apertamente che il processo non si farà?

— Non lo hanno detto; ma quando il duca vuol che usciate da Firenze e vi fa dare moneta per il viatico, mi pare che se n'abbia a inferire che processo non si farà.

— Parrebbe che così dovesse essere; ma troppo sono feroci i nemici miei, da contentarsi di pena sì piccola; e troppo sono potenti e dispregiatori delle signoríe temporali, da pensare che questo debole freno, o gli faccia volgere indietro, o nemmeno gli arresti nel furibondo corso del loro fanatismo. Fate, sire Gualtieri, ch'io esca salvo di qui: vestitemi l'arme d'uno de' vostri provigionati; e stanotte....

— Maestro, il vestir l'arme de' miei provigionati, quando veramente fosse vero ciò che sospettate, non si può fare, chè ne sarei degnamente garrito da monsignore lo duca e ne entrerei in brighe con la Inquisizione; nè di notte sarebbe buono l'uscir di palagio, chè senza fallo ogni passo troveresti chiuso, e come i provigionati la notte non vanno per la città, così ne sareste preso, se non da' vostri nemici, da' fanti del podestà. A me parrebbe più sicuro che partiste domani per tempissimo; e se pure avete paura di essere appostato, e non volete andare co' vostri panni, io darovvi quelli di un mio fidato cameriere, che vi somiglia nella persona e nel volto, sol che vi facciate radere la barba.

Cecco si acquetò a tal consiglio, e ne ringraziò caramente il duca d'Atene, che per quella notte il fece dormire in una stanzetta vicina della sua camera; dicendogli che allo spuntar del giorno sarebbe andato egli stesso a dirgli il momento opportuno da poter uscir di palagio. Che il povero Cecco potesse prender sonno in tutta la notte non fu possibile, tra per la paura che aveva di ricascare nelle mani dell'inquisitore, e per i disegni che faceva infiniti, l'uno diverso dell'altro, del dove riparerebbe; e come, potendo uscire salvo da Firenze, prender vendetta comecchessía de' suoi nemici. Ma all'ultimo fermò che sarebbe ito o da qualche potente signore ghibellino, o alla corte stessa del Bavaro, il quale accennava già di portare strage e rovina alla parte guelfa, della quale e il re Roberto, e il duca di Calabria, erano i più potenti sostegni.

Come prima fu dì, messer Gualtieri fu a maestro Cecco co' panni del suo cameriere, i quali erano di foggia francese; e Cecco, vestitosene tosto, il duca gli die' dodici fiorini d'oro per suo viatico, e raccomandatogli prudenza, ed osservato prima, se per la via fosse alcuno, gli disse che poteva uscire. Quando l'infelice maestro passò la soglia dell'uscio, provò tal passione al cuore, che fu per cader tramortito: poi, richiamati tutti i suoi smarriti spiriti, cercò di farsi quella più forza che potè, e si mise in via, su verso la porta Ghibellina; ma andava come la serpe all'incanto, e da principio faceva, come suol dirsi, un passo innanzi e due indietro: poi, fatto un animo risoluto, cominciò a tirare innanzi animosamente. Non avea fatto per avventura dieci passi, quando vide sbucare da un canto un frate minore, che e' non penò a riconoscere per quel frate medesimo il quale ebbe parole acerbe con lui il giorno che si pubblicò la scomunica contro Castruccio, e voleva cacciarlo di chiesa il giorno delle esequie di messer Guccio da Casale.

Gli si ghiacciò il sangue, e tennesi morto. Fuggire? ma sarebbe uno scoprirsi: e poi dove? Tirò dunque innanzi, con quella maggior franchezza che potè, rimanendogli pure un fil di speranza, che quell'abito, e quell'essersi raso la barba, potesse celarlo all'acuto sguardo del frate; il quale di fatto non aveva sospettato che quel così vestito alla francese potesse esser lui.

Tuttavía, com'esso gli andava incontro, cercò di passargli più appresso che potè, col proposito di entrare in parole con esso, che vedeva essere uscito di palagio, per tentare se poteva ritrarne qualcosa a proposito dell'ascolano; e quando gli fu accosto:

— Dio vi dia il buon dì, messere; venite voi di palagio?

Cecco tremava come una foglia, e simulando alla meglio accento francese, rispose ch'e' veniva di palagio, e che andava con gran fretta per certa bisogna di monsignor lo duca d'Atene suo signore.

Al frate non riuscì nuovo il suono di quella voce, e cacciandogli ben gli occhi addosso, tosto lo ebbe riconosciuto; ma senza farne alcuna dimostrazione:

— Volevo domandarvi, continuò, se alla corte ripara sempre quell'eretico maledetto di Cecco d'Ascoli, che noi cerchiamo per mandato del sacro tribunale dell'Inquisizione; ma — disse qui con ghigno infernale — ma dacchè vedo che quel maledetto da Dio sei tu stesso — e qui lo afferrò per un braccio — mi risparmio di domandarne, e ti impongo di seguirmi dal reverendo inquisitore.

Il frate era forzutissimo; e Cecco, oggimai vecchio ed a quel mo' scarso della persona, era fievolissimo, nè poteva in modo veruno sghermirsi dalle fiere mani del frate: il perchè mise mano a uno stiletto che aveva a cintola per liberarsene così; ma il frate fu più lesto di lui, chè, veduto appena l'atto, il serrò fortemente tra le braccia, che non poteva nemmeno alitare; e fatto il segno, uscirono d'una casa dirimpetto molti berrovieri e mascalzoni, e legategli le mani dietro, il menarono preso al vescovado, tra' più vili scherni di fra Cherubino, a' quali Cecco mai non rispose, nè diede segno veruno di turbarsene. Se l'inquisitore, che tosto il seppe, fu lieto del felice esito di tale impresa è agevole l'immaginarlo. Andò senza metter tempo in mezzo al vescovado per conferire col vescovo il modo del processo; nè vollesi tosto vedere il reo, ma comandarono che fosse chiuso nella più sicura prigione; e mandò tosto significando della duchessa, al cancelliere ed a maestro Dino che gli zelanti figliuoli di santa chiesa potevano star lieti, dacchè finalmente il pestilente eretico era nelle sue prigioni.

La prigione, dove fu chiuso il misero maestro Cecco, era la più orribile di tutte le altre. Posta giù ne' sotterranei del vescovado, pigliava tanta luce da un piccolo pertugio quanta era sufficiente a scorgerne tutto quanto l'orrore; piccola per ogni verso quanto un uomo potesse misurare sei passi; con pareti non ben finite di intonacare; dove l'intonaco era intiero disegnatovi grossamente col carbone stranissime figure di diavoli, che tormentavano anime dannate, con certe scritte che dicevano quelli esser diavoli, e i tormentati da loro essere tutti quanti eretici; in un canto era una grossa tavola di legno su quattro zampe, che doveva servire per letto, più là un vilissimo trespolo con uno sgabello; e questa era tutta la masserizia: il pavimento non era ammattonato, ma distesovi inegualmente uno smalto, in più parti screpolato; un puzzo di tanfo, che vi si respirava a fatica.

Pochi momenti dopo che Cecco fu chiuso in questo sepolcro, venne colui che era deputato alla custodia della prigione (allora dicevasi il prigioniere ) recando un fastello di paglia da stendersi sul pancone; un grosso pezzo di pane nerissimo, ed una brocca d'acqua, con un altro vaso per le necessità corporali; e poste queste cose al lor luogo senza aprir bocca, uscì, e richiuse la prigione con terribile ruggíto del chiavistello, e con tre gravissimi giri di chiave. Come il povero Cecco fu rimasto solo, stette muto per lungo tempo, seduto sullo sgabello, e con le braccia congiunte sul petto:

— I miei nemici hanno vinto! sarà contento Dino del Garbo; sarà sazio il furore della duchessa e di questi frati.

E alzandosi tutto infocato, battendo il pugno su quel misero tavolino, che traballò e fu per andare in pezzi:

— Ma benedetto Dio! non gli farò lieti del mio pianto, nè di verun atto di fievolezza. So la spaventosa morte che mi aspetta, ma niuno vedrammi impallidire; e i miei feroci giudici stessi, e quel ribaldo di maestro Dino, e tutti coloro che mi odiano avranno paura di me, e non si attenteranno di pur fissare i loro occhi nei miei. Troppo vile e povera cosa sarebbe la scienza, se dovesse spaurire dell'ipocrisía e del fanatismo, e spaventarsi della morte. Venga, venga essa pure: niuno mi vedrà mutar aspetto; nè disdirò mai un punto solo di quella scienza che ho professato tanti anni. Mi uccideranno, ma la verità non uccideranno; questa sarà o prima o poi la regina del mondo, che sarà rinnovellato da lei; ed allora, ed io e coloro che andarono per essa al supplizio prima di me, e che vi anderanno dopo, saranno lodati e benedetti da tutti.

Queste parole disse con tanto sentimento e con tanta forza di volontà, che si sentì a un tratto un altro uomo; e non che egli stesse più in veruna apprensione del fatto suo, ed avesse orrore del suo stato presente, ma quasi se ne sentiva più forte e più degno, e non vedeva l'ora di provocare i più fieri tormenti e la morte, a trionfo della verità e della scienza, ed a confusione dei suoi nemici.

Tutte queste cose avvennero nei tre giorni che Guglielmo e la Bice erano stati in Mugello, tornati in Firenze la sera stessa del giorno in cui maestro Cecco era stato messo in prigione; e già tutta la città era piena di tale novella, chi compiangendo, come suole avvenire sempre, l'infelice ascolano, e chi rallegrandosene, e vituperandolo a più potere. Guglielmo non ne aveva sentito nulla finchè stette nelle case de' Cavalcanti, perchè neanche a messer Geri non n'era venuta notizia veruna; ma, uscito di casa per andare a corte di monsignore lo duca, prima di arrivare a palagio udì in varj capannelli che qua e là si erano raccolti sulla piazza della Signoría, parlare di presura di maestro Cecco, di inquisitore, di maestro Dino; ma non poteva sospettare di quello che pur troppo era vero, dacchè quando egli andò in Mugello, maestro Cecco era sempre careggiato alla corte e tenutovi in più onore che mai. Veduto però tra la gente uno dei suoi famigliari, lo chiamò a sè, e da lui seppe punto per punto tutto il fatto, del quale prese tal cordoglio e tale amarezza, che la maggiore non ricordava per avventura di aver provato ai suoi dì; e cominciò a pensare che via si potrebbe tenere per sottrarre a sì grave pericolo colui, che tante prove gli aveva dato di leale servitù ed affetto, e che era stato cagione prima e più efficace del lieto fine del suo amore con la Bice; e si tribolava di non essere stato in Firenze egli mentre si ordiva e si portava a capo la infame trama dai nemici di lui, che forse avrebbe potuto in qualche modo scompigliarla. Fra questi pensieri arrivò a palagio, dove il duca aspettavalo; e che, accortosi del suo grave turbamento, domandogliene con qualche sollecitudine la cagione.

— Monsignore, tristissima novella, testè saputa da me, hammi turbato per modo, che la morte mi sarebbe poco più amara. Un mio amorevole familiare; un solennissimo scienziato e filosofo; uno da cui in gran parte riconosco la mia domestica felicità, è nelle prigioni dell'Inquisizione, e per opera della gelosía, del maltalento, e dell'invidia.

— Voi parlate, bel cavaliere, di maestro Cecco d'Ascoli?

— Sì, monsignore, di colui che fu vostro familiare, che la vostra corte onorava con la sua scienza; che voi amava e riveriva quanto verun signore è stato amato e riverito dal più leale suo familiare; che del vostro buono stato fu sempre gelosissimo....

— E che, dovete aggiungere, me e la mia donna schernì ed ingiuriò vituperosamente; che non dubitò di predirmi, nel proprio mio cospetto, che non succederei nel regno a mio padre. — E qui narrogli il fatto della natività fatta alla piccola Giovanna, accendendosi grandemente nel volto, quando venne alla predizione che sarebbe regina di un possente e fiorito reame.

— Monsignore — continuò allora Guglielmo, gettandosegli ginocchioni dinanzi — se meritai di voi e della gloria vostra assai o poco; se può nulla appresso di voi una mia preghiera, fate che maestro Cecco sia liberato: non si dica che qui non avete autorità sufficiente a proteggere uno de' più onorati uomini della vostra corte; non abbiate sì piccol pensiero della vostra dignità, che un frate o un prete si possano vantare di fare e disfare a lor senno dove voi siete signore.

— Alzatevi, bel cavaliere, che non è atto codesto da farlo i vostri pari. Voi sapete quanto vi amo e vi pregio, e di quanto vi sono tenuto; sapete non esserci cosa al mondo che io vi potessi negare. Ora della domanda vostra non voglio altro giudice che voi medesimo. Maestro Cecco, siccome avete inteso da me, ha troppo bene meritata la mia disgrazia, e la morte: ma, cavandone anche questo, non sono io capo della parte guelfa in Toscana, e figliuolo amatissimo della chiesa? Maestro Cecco è preso per eretico, ed eretico relasso: le leggi del tribunale dell'Inquisizione sono terribilissime, ed a cadere nel peccato d'eresía è sufficiente per essa il non denunziare l'eretico: e molte brighe ebbi già da parte dell'inquisitore, perch'io teneva alla mia corte l'ascolano, e nol dava preso nelle sue mani. Ora esso è nella forza dell'Inquisizione; nè altro che per forza d'arme potrei liberarlo; e questa forza non salverebbe per avventura il reo, e certamente chiamerebbe sopra di me la scomunica maggiore.

E come qui messer Guglielmo fece bocca da ridere scotendo lievemente il capo:

— Guglielmo — continuò il duca, voi ora non misurate quanta sia la gravezza di una scomunica papale. Lasciamo andare le cose dell'anima: qui potremmo per avventura trovarci d'un pensiero medesimo; ma la scomunica porta con sè lo scioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà, e la minaccia del fuoco eterno a coloro che lo scomunicato non fuggono e non rompono con esso ogni legame di parentela e d'affetto. Parvi egli che ciò, nel presente momento che sta per ricominciare la guerra, sarebbe cosa di picciol danno per me? Senza che, anche qui in Firenze ci ha molti e molti ai quali par grave la nostra signoría; e come questa città è guelfa tutta quanta, non passerebbe un giorno dopo la scomunica che ne sarei cacciato a furia di popolo, col caldo ed ai conforti del legato del papa, che pure ha qui in città parecchi cavalieri de' suoi. Son noti gli esempj di due invittissimi imperatori, Enrico IV e Federigo Barbarossa, che non poterono contrastare alla forza della scomunicazione papale, e doverono andare alla misericordia del papa, chiedendo perdonanza come il più vile degli uomini; ed Enrico dovè indugiare tre giorni a essere introdotto dal papa, stando ad aspettare nel cuor del verno, e con la neve alta, fuori del Castello di Canossa, in abito da penitente, e con la corda al collo: e il Bavaro stesso e Castruccio si accorgeranno ben presto anch'essi di che sapore sieno le scomunicazioni. Aggiungete l'autorità di monsignore il potentissimo re Roberto mio padre, il quale me ne condannerebbe fieramente, e consigliatemi voi stesso se debbo o no, per tentare di salvare la vita a chi per di più mi ha schernito e vituperato, se debbo mettere in compromesso la mia signoría, e forse la mia vita medesima.

Il cavaliere restò vinto da questi irrepugnabili argomenti, e disse:

— Cessi Dio, monsignore, che mai io vi domandi cosa, la quale possa tornare in pregiudizio vostro e della vostra signoría. È ben doloroso per altro che le signoríe temporali debbano stare a posta di preti e di frati.

— Verrà tempo per avventura che la punta di queste armi spirituali sarà rintuzzata quando gli uomini avranno bene aperto gli occhi; ma il mondo ora è cieco, e noi, che viviamo in questa età, bisogna pure acconciarvisi buono o malgrado nostro.

In questa si annunziò che il conte ed altri savj di guerra erano giunti, secondo l'invito precedente del duca stesso; i quali furono tosto fatti entrare, e lì cominciarono tutti insieme a ragionare delle cose di guerra, e dei ripari da ordinarsi contro Castruccio e contro il Bavaro, il quale sempre più si avvicinava alle parti di Toscana, e trovava assai seguito.

CAPITOLO LII. L'ESAME DI FRATE MARCO.

Avuto fine il parlamento de' savj di guerra, Guglielmo se ne tornò diviato alle case sue, pensando sempre alla sventura del povero maestro Cecco, e sempre ruminando come potesse salvarlo. La Bice, vedutolo appena, si accorse del costui turbamento, e paurosa nella faccia, il domandò che avesse. Anch'ella rimase dolorosissima del fatto, e come ad un tratto si sparse la novella per casa, anche a messer Geri ne parve male, ed alla stessa Simona; la quale, se avealo creduto un negromante laggiù a Settimello, dopo le assicurazioni del suo prete e del bel cavaliere, la seconda volta che vi fu, e dopo le dolci parole che Cecco quella seconda volta le disse, lo aveva discreduto non solo, ma gli aveva anche cominciato a volere un certo che di bene, tanto che, sapendo che erano stati i frati di S. Croce quelli che l'avean preso, non solamente con licenza, ma con approvazione e conforti di Guglielmo e della Bice, si mise ad andare tutte le mattine alla prima messa alla loro chiesa, se mai, facendosi devota d'un di que' frati potesse raccogliere qualcosa del fatto e dello stato del maestro.

Ma prima di dire altro, andiamocene un po' a sapere che avea trescato frate Marco, frugato come lo vedemmo dalla paura. Egli erasi avviato là nel Casentino, non troppo lungi da Arezzo, presso un prete suo vecchio amico; ma strada facendo, pareva che quella gran paura gli scemasse quanto si allontanava da Firenze, risolvendosi quasi affatto che o l'Inquisizione non avrebbe fatto il processo di Cecco, o che quegli sarebbe riuscito a fuggire da Firenze celatamente: e, non che e' fosse tornato subito addietro; ma, se avesse avuto qualche altro conoscente più vicino, si sarebbe anche fermato a mezza strada, per attingere più agevolmente novelle, e per aver più agevole la tornata. Non avendo per altro dove posarsi, arrivò fino lassù dal suo prete, il quale lo accolse amorevolmente, ed a cui colorì in certo suo modo quella improvvisa andata, allegando che era dovuto venire ad Arezzo per comandamento del suo priore, e che, con licenza di esso, non era voluto tornare a Firenze, che non avesse visitato lui suo antico amico. Ma era passato appena il primo giorno, che eccoti il messo del priore di Santa Maria Novella, il quale intimavagli a nome della santa obbedienza che tosto cavalcasse a Firenze, dove al luogo loro si dovevano trattare bisogne gravissime della regola, e dovevano esserci tutti quanti i frati.

Frate Marco non sospettò di nulla per questa chiamata: ma tuttavía non la ebbe troppo per bene; e a Firenze non tornava di troppo buona voglia, finchè non avesse saputo altro della sorte di maestro Cecco: tuttavía il voto di ubbidienza voleva che andasse e andò, e appena giunto fu subito dinanzi al priore, il quale senz'altro preambolo:

— Frate Marco, che frutto avete voi fatto colla vostra predica là, in Casentino?

E poichè queste parole disse severamente accigliato, a modo di chi vuol fare acerba rampogna, egli tutto timido rispose:

— Messere, quel prete mio amico.... gli avevo promesso....

— Chetatevi, non mentite anche al vostro prelato per giunta alle altre peccata.... Quante volte vi aveva io ammonito di lasciar andare la pratica di quel maestro Cecco come pericolosa a chicchessía, e troppo disdicevole a un frate? Ora esso è preso per eretico; e l'inquisitore richiede voi per testimone.

— O Dio, messere, liberatemi voi....

E così dicendo gli cadde ginocchione dinanzi, abbracciandogli le ginocchia, e piangendo amaramente. Ma il priore con tono ed atto gravissimo:

— Osereste voi richiedermi di essere contumace alle leggi della Santa madre Chiesa, e di frastornare l'opera della santa Inquisizione contro l'eresía? Fate di essere tosto al vescovado, e fate di non mostrarvi indegno dell'abito che portate.

E datogli per compagno un converso, furono tosto al vescovado, che appunto il vicario dell'inquisitore stava esaminando altri testimoni nel processo di Cecco, la maggior parte de' quali, essendo fatti fare ad arte ed a prezzo, avevano tirato ad aggravare il reo; e più di tutti, come il lettore crederà senza ch'io troppo mi affatichi a dirglielo, lo aggravò Dino del Garbo, che fu udito il primo, come colui che avea fatta la denunzia, e dovea confermarla in qualità di testimonio. Ma come il vicario fu avvisato da un familiare dell'Inquisizione essere giunto frate Marco de' predicatori, e' lasciò stare ogni altro testimonio, e si fece venire innanzi lui, al quale, datogli il giuramento di dir la verità cominciò l'interrogatorio in questa forma:

— Sai tu per avventura, o frate Marco de' predicatori, la cagione che io ti ho citato a questo presente esame?

— Se voi, reverendo padre in Cristo, non me lo dite — rispose tremando il frate — io non so nulla.

— Conosci tu verun eretico, o negromante, o che per eretico sia stato condannato, o che di eresía sia in qualche modo sospetto?

— Cessi Dio che de' casi fatti io ne conosca mai niuno!

— E Francesco Stabili da Ascoli, che si fa chiamare maestro Cecco, nol conosci tu?

— Ah! si, messere, il conosco.

— E non sai tu che egli fu già condannato per eretico?

— Ma so che fece penitenza, che ricredè i suoi errori, e che fu perdonato.

— E non andavi tu a udirlo leggere là in Calimara?

— Sì padre: vi andava.

— E non vi leggeva egli quel suo comento alla Sfera, che fu condannato ed arso per libro ereticale? e cui egli con tutto ciò continua ad insegnare, spregiando il fatto giuramento che più non lo leggerebbe?

— Messere, il maestro insegnò sempre dottrina cattolica.

— Ti metti tu innanzi al tribunale della S. Inquisizione, che quel libro e il suo autore condannò? — rispose il vicario tutto acceso nel volto.

E il povero frate, che per lo spavento già cominciava a perdere il discorso:

— Cessilo Iddio! cessilo Iddio!

— Udisti tu mai ch'egli insegnasse, gli uomini nascere sotto necessità delle influenze del corso del cielo; e anche messer Jesu Cristo non essere da tale necessità ito esente; potersi per virtù di scienza astrologica indovinare le cose avvenire, e tutto il corso della vita umana, con altre ed altre proposizioni pazze ed ereticali?

— No, messere, no.

— Ricorditi tu che hai giurato sopra le Sante Dio Guagnele[35] di dire la verità?

— Lo giurai e la dico.

Allora il vicario, fatto cenno al tormentatore, frate Marco fu preso, legatogli ambedue le mani dietro, e messo alla còlla, fu tirato su e datogli un tratto. Quell'infelice mise uno strido acutissimo, e cominciò ad esclamare:

— Spiccatemi, spiccatemi, chè dirò la verità.

E spiccato che fu, lasciatogli per altro le mani sempre legate, tutto piangente disse:

— Messere, Cecco d'Ascoli insegnava tutto quello che dite voi: io credo tutto quello che mi dite ch'io debba credere: condanno tutto quello che mi dite essere da condannare.

— Udisti tu mai che Cecco impugnasse la libertà dell'umano arbitrio?

— Sì, udii.

— Che facesse incantesimi e natività?

— Sì, udii.

— Vedesti che per forza di magía si fe' cadere a' piedi la sua propria testa?

— Vidi.

— Che per forza di magía e con filtri ajutasse illeciti amori?

— Codesto, messere, no.

— Ricorditi tu, frate Marco, che giurasti di dire la verità.

— E la dico, messere.

E il vicario, fatto cenno da capo, il tormentatore prese il frate e accennava di far l'ufficio suo.

— No, messere, no: dirò tutto. Udii e vidi quello che voi dite.

— Udisti che egli si facesse beffe delle scomunicazioni papali, e ne impugnasse la efficacia?

— Udii.

— E perchè non denunziasti le predette cose alla santa Inquisizione?

— Per non ricordarmi di esserne tenuto, come ho avvertito adesso che me lo ricordate voi.

Le quali cose udite e registrate, gli fu letta e fatta firmare la sua deposizione; gli fu fatto giurare che terrebbe stretta credenza, e fu licenziato.

Ma non era finita lì. Quel povero diavolo, tutto rotto della persona, e con le braccia e quel mo' scarrucolate, uscito appena dalla sala del tribunale, gli si fe' incontro un famigliare della Inquisizione che il doveva menare alla presenza dell'inquisitore, dove giunto, quel terribile uomo gli disse con severo piglio:

— Sappine grado al priore del tuo monastero ed all'abito che tu vesti, se anche te non ho compreso nel processo di questo pateríno maledetto da Dio, di cui tu, a vituperio del tuo ordine, e a grave scandolo de' buoni cattolici, fosti uditore e seguace. Ma bada, un'altra fiata nè priore, nè abito, nè ordine, nè altra umana considerazione ti salveranno; e se ora hai trovato misericordia appresso questo sacro tribunale, allora pagheresti gravissimamente anche le pene presenti.

Frate Marco, che aveva assaggiato la tortura, e come dicevan gli antichi, non avea più osso che ben gli volesse, pensò che cosa dovesse essere l'ira e il furore del sacro tribunale, se quella usata con lui era misericordia; e tutto umile rispose:

— Reverendo in Cristo padre, della misericordia vostra ho avuta tal prova, che mai la dimenticherò. Gran mercè, messere.

— Togli, soggiunse l'inquisitore senza neppure badargli, recherai al tuo priore questa carta. Va, e il signore ti illumini.

E frate Marco, presa la carta e baciata la mano all'inquisitore, si strascicò alla meglio al convento, e fu al priore. La carta scritta dall'inquisitore diceva che frate Marco, a sua intercessione escluso dal processo, era per altro degno di pene gravissime; e però rilasciava a lui, suo prelato, il dargli quelle che gli paressero più acconce, così per esempio agli altri, come per l'obbligo strettissimo che ciascun prelato ha di non lasciare impuniti peccati simili: il perchè, il priore comandò che frate Marco fosse messo tosto nella prigione loro, e quivi sostenuto fino a comando contrario.

CAPITOLO LIII. IL PROCESSO.

Eran già passati otto giorni che maestro Cecco fu chiuso nella orribile sua prigione, e nè egli era stato mai chiamato a veruna disamina, nè niuno per la città avea potuto saper nulla di lui, con tutto che Guglielmo specialmente, confortatone anche dalla Bice, studiasse ogni modo da saperne qualcosa. Era stato a Santa Maria Novella per cercare frate Marco; ma solo potè raccogliere che frate Marco stesso era stato esaminato e posto alla còlla, e che ora era in prigione per comandamento del priore.

La Simona andava tutte le mattine a Santa Croce; e avvezza alle usanze della chiesa: e sapendo come bisogna bazzicare co' frati e coi preti, la s'era già addimesticata, ora domandandogli una cosa, ora un'altra, di messe, di congreghe, di laudesi ed altri simili, la s'era addimesticata, diceva, col sagrestano, un fratone lungo e secco che pareva la quaresima, il quale per altro era, per dir come allora si diceva piacevoleggiando, il miglior brigante di questo mondo: ed un giorno che le parve, lui essere di migliore umore del solito, la s'attentò a entrare così alla larga in materia:

— Fra Luca (il sagrestano si chiamava fra Luca) e' mi diceva il mio sere, buon'anima sua, che qui alla vostra Regola e' si ardono gli eretici. È egli vero poi?

— Eh, monna Simona, che dite voi? parvi egli luogo questo da ciò? Qui sta messere lo inquisitore.

— E chi è, se vi piace, messere lo inquisitore?

— Egli è colui che nelle cose de' pateríni ha tanta balía quanto il papa; e condanna tutti gli eretici.

— Oh, venerando e santo uomo! E dove gli ardete gli eretici? e quando ha che non ne avete arsi?

— Noi non ardiamo nulla: no, la santa Chiesa non ha così fiere pene temporali. Bene gli diamo ad ardere alla podestà secolare, che ha posto queste leggi. E di corto si farà una bella giustizia d'uno eretico.

— Oh! E si può egli esservi? E chi è, se Dio vi conceda l'essere prelato de' vostri frati, chi è colui che sarà arso? E quando sarà arso?

— Si può esservi; e chi ci va con spirito di umiltà, e per darne lode a messer Domeneddio, messere lo inquisitore concede indulgenza di colpa e di pena. La giustizia si farà da qui a pochi giorni; e si farà sopra un pestilentissimo eretico, che si faceva chiamare maestro Cecco di Ascoli, e che qui a Firenze lo chiamano Cecco Diascolo.

— Gran mercè, frate Luca, fate ch'io sappia il dì posto, chè non vo' perdere l'indulgenza. Ma l'eretico dov'è egli ora? e come sono gli eretici?

— Cecco Diascolo è nelle prigioni della Inquisizione là al vescovado, e oggi si dee fare la sua prima disamina.

La Simona, contenta di quanto avea raccolto da fra Luca, uscì tosto di chiesa per ragguagliare di ogni cosa Guglielmo e la Bice, che pur desideravano sapere che fosse stato di maestro Cecco.

Questi, come aveva detto il frate alla Simona, doveva quel giorno stesso avere la prima disamina, e veramente in sull'ora di vespro il vicario mandò per esso, incominciando così l'interrogatorio.

— Qual'uomo se' tu, e che dottrina è la tua?

E il maestro rispose benignamente la sua dottrina essere quella della verità.

Allora il vicario, cominciò a domandargli, se fosse vero ch'egli professasse e avesse insegnato certe proposizioni ereticali, che ad una ad una esso gli significava; e maestro Cecco rispondeva sempre:

— Sì, le ho professate, le ho insegnate, e le credo: ma non sono ereticali.

Il vicario da queste sue confessioni ne tirava false conseguenze, e il maestro impavidamente le riprovava; e come il notajo scriveva tutta la sua confessione, il maestro protestò molte volte che esso non scrivesse altro che quello che gli diceva; e sulla fine della confessione protestò e disse:

— Se mai dicessi il contrario a questo, lo farei per paura della morte; ma non che questa non sia la verità.

Allora il vicario lo rimandò alla prigione. L'altro dì il vescovo fe' raunare il collegio dei maestri di teología; e mandato per Cecco, fu tratto fuori, e menato dinanzi a loro: e dopo molte ingiurie e scherni ricevuti da loro, fu letta la sua confessione del dì innanzi, alla quale erano aggiunte molte false conseguenze, alle quali rispondendo disse:

— Perchè avete scritto il falso, e quello che io non ho detto? chè n'avete a rendere ragione al dì del giudicio.

E quei farisei si facevano beffe delle sue parole: e fecero grandi disputazioni, alle quali esso rispondeva temperatamente, ma con grave sentimento. Ma essi ne peggioravano ogni volta più, e con gran furore fu fatto rimettere in prigione coi pie' nei ceppi; dove il maestro stava senza dolersi e dispostissimo a qualsivoglia tormento. Venuto il quarto giorno, raunossi il consiglio nella chiesa di S. Salvadore, che vi si tenevano i banchi del vescovado, ed ivi in presenza di molti secolari, e al banco fu letto il processo tutto quanto, e la sua confessione; ma corrotta ed alterata per aizzargli il popolo contro. Ed egli sempre andava ripetendo:

— Voi avete scritto quello che io non ho detto; e ponete le falsità per acciecare il popolo.

Dopo ciò fu recato dal notaio il calamajo e la penna e il foglio dov'era scritto quel loro processo, e disse ch'egli scrivesse ciò che volea dire, di sua propria mano, capitolo per capitolo infra tre dì; infra il qual termine, se volesse rendersi in colpa, sarebbegli perdonato, se no, ch'e' sarebbe dato alla signoría secolare, e sarebbe arso. Accettato il calamajo, il foglio e la penna, il maestro chiese i suoi libri per torne quello che volea dire contro al processo; ma non glieli vollero dare, dicendo che sapea tanto a mente che bastava; ed egli scrisse a mente. Fatta la scritta, il notajo la prese, e mai più non la vide il maestro: e nel processo che lessero quando lo diedero alla signoría secolare non la misero, e solo leggevano quello che erasi scritto innanzi. Venuto l'ultimo dì del termine, il vicario mandò per il reo, domandandogli se voleva ritrattare le dottrine professate ed insegnate per addietro; e Cecco, rispondendo alteramente di no, e che la verità mai non disdirebbe, fu rimandato alla prigione, e mentre ritornava indietro, essendo sul terrazzo del vescovado, l'inquisitore chiamollo dicendo:

— Io non voglio del fatto tuo essere accusato dinanzi a Dio; vuoi tu ancora pentirti dei tuoi errori?

E Cecco rispose:

— Errori non sono, ma certissime veritadi...

E l'inquisitore infocato di stizza:

— Non sono per disputare oltre; menatelo giù.

Mentre il maestro era per rientrare in prigione, si vide dinanzi maestro Dino del Garbo, senza fallo venutovi per gustare l'infernal piacere della vendetta; ma buon per lui se non vi fosse venuto!

Cecco si fermò; e ficcatogli con terribile sguardo gli occhi nel volto:

— Sciagurato! gli disse, non credere che la tua vendetta sia per essere allegra. Io, così legato in mezzo a questi berrovieri, mi sento più nobile e più degno di te. Io ti guardo in volto senza impallidire e senza arrossire; guarda tu me, se ti regge il cuore.

Dino stava veramente cogli occhi a terra, sopraffatto da questa inaspettata invettiva, e oppresso per avventura dal rimorso e dalla vergogna, nè gli bastò l'animo di alzarli in faccia al maestro; il quale con tono solenne e quasi di vaticinio:

— Domani sarò condotto all'orribile supplizio; ma nè tu, nè gli altri nemici miei che a questo mi avete condotto, non sarete lieti di un minimo lamento mio, nè di verun atto di fievolezza. La mia morte a me sarà gloria, a te vituperio nei secoli che verranno; e tu non penerai troppo a seguitarmi.

Maestro Dino era diventato bianco come un panno lavato, nè sentivasi più balía di rifiatare, non che di rispondere verbo, e non sapeva che cosa si fare o dove si andare. Molti di coloro che udirono le parole di Cecco, e sapevano veramente la invidia di maestro Dino essere stata principal cagione della presente sventura di lui, mossi da compassione per una parte e da sdegno per l'altra, dissero a Dino parole d'infamia e di villanía; e forse sarebbero iti anche più là, se i familiari dell'Inquisizione non lo avessero riparato nella chiesa di San Salvadore; e i berrovieri non avessero tosto rimesso in prigione il reo.

CAPITOLO LIV. LA SENTENZA.

Guglielmo e la Bice erano informati dalla Simona, che gliel avea detto frate Lucca, di tutto quello che alla giornata accadeva; e già sapevano che due giorni appresso maestro Cecco sarebbe stato arso; nè, per quanto si fosse argomentato in più e più modi di trovar via da sottrarlo a tanto orribile giudizio, vedeva proprio non essercene veruna, se non la forza aperta, alla quale non era da pensarci nemmeno; e se ne accorava pietosissimamente.

All'ultimo pensò:

— E se si levasse rumore nel tempo che è condotto al supplizio, e in quel subbuglio si potesse trarlo dalle mani della famiglia?

Ed avuto a sè un suo valletto, fidato più che la morte, conferì il tutto con esso, che gli promise di essere senza indugio a certi suoi amici pronti ad ogni sbaraglio, e ordinerebbe le cose in modo che si dovesse chiamarsene per contento.

La mattina di poi si radunò da capo il collegio dei maestri, e mandato per Cecco, appena giunse fu domandato se si voleva pentire; ma esso rispondendo con altero atto che alla sua scienza non fallirebbe mai, nè mai disdirebbe alla verità, il vicario dell'Inquisizione, con tutti i maestri teologi d'attorno, il quale era parato solennemente, e con luminari da lato, comandò che si leggessero i processi, e se pur durasse nella perfidia sua, si leggesse anche la sentenza.

Nel tempo che si leggeva il processo maestro Cecco non cambiò aspetto, nè mostrò di fuori passione alcuna; solo, udendo che non avevano scritto quasi nulla, se non a lor modo, della confessione fatta; e udendo cominciare quella lettura Francesco Stabili, uomo di mala condotta e fama, egli disse quasi continuando, appresso i tristi e gli invidiosi; e spesso rimproverando il notajo perchè avesse scritto in modo diverso da quel che egli aveva detto. Finito che ebbe il notajo di leggere, fu invitato a porre il suo nome; e domandatogli per l'ultima volta se voleva pentirsi, rispose con ferma voce queste parole:

«Il pentirsi sta a te, vicario dello inquisitore, ed a voi falsi maestri; sta allo inquisitore, che, sotto mentito colore di zelo della santa religione, congiurati co' miei più fieri nemici, mandate me al più orribile di tutti i supplizj, me che di nulla son reo, se non d'aver combattuto gli errori vostri, e di vincervi tutti nello studio della verità e nell'esercizio della scienza. Il pentirsi sta allo sciagurato Dino del Garbo, che la sua molta sapienza ha vituperato, facendosi accusatore falso e carnefice di me, cui egli avrebbe dovuto onorare ed amare: sta a questo duca, che qui ora signoreggia, il quale non dubita di lasciare nelle unghie di queste belve feroci dell'Inquisizione, il più fido de' suoi familiari, che la sua corte onorava, nè si vergogna di lasciarsi sopraffare da preti e da frati. Ma io non ho di che mi abbia a pentire; nè disdico verbo di quello che ho detto, scritto, e insegnato. Alla morte andrò con faccia e cuore sicuro, perchè so che frutterà gloria a me, bene al mondo, infamia a voi tutti».

Avrebbe per avventura seguitato a dir cose anche più gravi, se non che la sua voce fu sopraffatta dalle villaníe e dagli scherni, così del vicario e dei maestri come dei loro mascalzoni: ed il vicario coi maestri si ritrassero in altra stanza per dare alla sentenza l'ultima forma; e stati un buon pezzo, tornarono poscia tutti quanti coll'inquisitore altresì; e il notajo lesse solennemente la sentenza, che fu in questa maniera:

« Al nome di Dio, amen.

«Noi frate Accorso da Firenze, per autorità apostolica inquisitore dell'eretica malignità nella provincia di Toscana, a tutti i fedeli in Cristo vogliamo che sia noto, come per fama pubblica, anzi infamia, e per fede di probi e discreti uomini, maestro Cecco, figliuolo già di maestro Simone degli Stabili da Ascoli, spargeva diverse eresíe per la città di Firenze, e quello che è più detestabile, certo suo libello sopra la Sfera, profano ed eretico, il quale compose dettandogli il diavolo per sua dannazione, e contro la promessa o giuramento suo proprio, lo dettava come maestro per le scuole. Laonde, non volendo noi per debito di ufficio, e salva la coscienza, mancare di ritrovar la verità delle cose predette, e trovato che tutte le dette cose erano vere, facemmolo condurre alla nostra presenza, ed esaminatolo con giuramento corporale di dire la verità, da lui fatto senza veruna oppressione di forza, per sua libera e spontanea volontà disse e confessò ch'egli avea detto e dommatizzato, pubblicamente leggendo:

«Che un uomo poteva nascere sotto la costellazione di essere appiccato o decapitato, se Iddio non ritenesse l'ordine della natura, benchè per potenza di Dio assoluta potesse essere altrimenti.

«Ancora che avea detto che nella quarta ed ottava sfera erano uomini felici di divinità, i quali si chiamano Dii Naber, che mutano le leggi naturali più o meno, come fu Moisè, Ermete e Simon Mago.

«Ancora avea dommatizzato che Cristo avea avuto la libra per ascendente, e però per predestinazione dovea morire di quella morte che morì, la quale fu giusta; e perchè Cristo ebbe il Capricorno nell'angolo della terra, però nacque in una stalla; e perchè ebbe lo Scorpione, però dovea esser povero; e perchè ebbe Mercurio in Gemini nella nona parte del cielo, però doveva avere scienza profonda, sotto metafore. E più, che l'Anticristo verrebbe non in forma di poltrone, come Cristo, nè accompagnato, come lui da poltroni[36].

«Ancora confessò che dinanzi a fra Lamberto da Cingoli, da cui fu processato a Bologna, maledisse ogni eresía ed ogni credenza degli eretici astrologi; e giurò di essere cattolico, e fece penitenza degli errori dei quali fu allor condannato.

«Disse e confessò che dopo la predetta abjurazione aveva insegnato a Firenze tutti gli errori e le eresíe abjurate; e come per iscienza di astrología si poteva sapere il corso di tutta la vita degli uomini, e se un principe o capitano sarebbero felici o no nelle loro imprese.

«Disse e confessò che avea predetti molti eventi della guerra con Castruccio, e della passata del Bavaro, e tutto per iscienza astrologica e per osservazione del corso de' cieli.

«Disse e confessò aver usato prodigj per arte magica e negromantica a fini illeciti e perversi.

«Ancora disse e confessò, come, interrogato da un certo fiorentino, rispose esser vere le cose che si contengono nell'arte magica e negromantica; e replicando il fiorentino: se fosse vero, i potenti uomini acquisterebbero tutto il mondo; ed esso rispose: perchè non sono nel mondo tre astrologhi che si sappiano servire di quell'arte. E questo disse aver detto per sè, che fece più in arte di astrología che verun altro da Tolomeo in qua.

«Disse ancora e confessò che, secondo il corso delle stelle crede che nascano i costumi, le operazioni e fini degli uomini; e che, pregato da un certo Fiorentino che gli esponesse il libro che tratta dei segni e congiunzioni degli uomini, gli insegnò trovare un certo commento ch'egli avea fatto sopra esso libro.

«Confessò altresì di aver composto certo suo libello sopra la sfera del mondo, asserendo che detto libello era stato corretto dopo la sua abjurazione da frate Lamberto inquisitore predetto.

«Ma qual cosa più falsa che l'asserire non essere state cassate da quel libro, se l'inquisitore l'avesse corretto, tante cose infeste, orribili, sciocche e contrarie alla salute umana, eretiche e nemiche della cattolica verità? Qual cosa più inimica a Dio e agli uomini, che sottoporlo alla necessità delle stelle, il quale per noi ricomperare la morte, e lavare i nostri peccati, volle morir sulla Croce? Qual più pestilente dottrina che quella da lui insegnata, la quale nega la libertà dell'arbitrio? Nè si scusa col dire che il libello sulla sfera è stato corretto dall'inquisitore di Lombardía, il che non è vero, nè verosimile; anzi piuttosto si trova il contrario per lettere del medesimo inquisitore; ma, dato che fosse corretto, un altro non corretto ne tenne e lo usò, nella qual cosa è peccato maggiore. Nè lo difende quello che è scritto nella fine di detto libro; che, se vi fossero scritte alcune cose non bene dette, se ne rimette alla correzione della santa madre chiesa, perchè nel medesimo libro si sono trovate eresíe manifeste, insegnate anche dopo che abjurò l'eresía; e basta ch'egli abbia ingannato una volta la chiesa, per ritenere che essa protestazione è direttamente contraria al fatto, la quale non alleggerisce, ma piuttosto aggrava il protestante.

«Laonde noi inquisitore predetto, vista e considerata la sentenza data per il predetto frate Lamberto inquisitore di Lombardía, sedente a Bologna, con la dichiarazione che ricevette la penitenza; e viste le altre cose che abbiamo sapute dal medesimo inquisitore; visto ancora i testimoni e le testimonianze per noi ricevute e formate contro di lui, e le confessioni che ha fatto; e il termine assegnatogli, dopo che gli fu approvato il processo e datogli le difese; e benignamente aspettato tre giorni; e anzi dopo il tempo assegnatogli, dinanzi al venerabile padre e signore cardinale Giovanni legato della sede apostolica, di messere lo vescovo e altri insigni prelati, letti al medesimo maestro gli errori, la confessione ed abjurazioni predette, egli di sua spontanea volontà le confessò e riconfessò essere vere; visto ancora ogni e qualunque altro atto del processo, e i nomi dei detti testimoni pubblicati, secondo il modo debito, e per ordine dimostrati e dichiarati al nobile e religioso uomo messer Cante da Gubbio, vicario generale del venerabile messer Francesco vescovo fiorentino, e di molte altre persone probe e discrete, e dottori di leggi, chiamati per consultare se sia da procedere a sentenza contro il maestro degli errori, siccome contro a relasso in eresía abjurata: e tutti i nominati, ed altri assaissimi religiosi, lettori di sacra teología, dopo maturo consiglio, e avuta insieme con noi matura deliberazione;

«Invocata la grazia di Dio e dello Spirito Santo; sedendo pro tribunali, di consenso del venerabile padre, signore, vescovo fiorentino, pronunziamo in questi scritti, il predetto maestro Cecco, eretico costituito in nostra presenza, essere ricaduto nell'eresía abjurata, ed essere stato relasso; e per questo doversi rilasciare al giudizio secolare, e lo rilasciamo al nobile soldato e cavaliere messere Jacopo da Brescia, vicario di monsignore lo duca Carlo, presente e recipiente, che lo debba punire con debita considerazione; e sopra ciò, che il libello suo superstizioso, pazzo e negromantico, fatto dal detto Cecco sopra la sfera, pieno di eresía, falsità, inganno; e un certo altro libello volgaro, intitolato Acerba, il nome del quale esplica bene il fatto, avvenga che non contenga maturità o dolcezza cattolica, ma vi abbiamo trovate molte acerbità eretiche; e principalmente quando c'include molte cose che si appartengono alle virtù e costumi, che riduce ogni cosa alle stelle, come in causa; con ogni altra sua opera, scritto o dottrina, deliberiamo e comandiamo per sentenza doversi abbruciare; e all'eretico desiderando tagliare le vene della fonte pestifera, per qualunque meato derivino, vietiamo che si possano leggere e ritenere da veruno, sotto pena di scomunicazione e altre pene corporali, secondo le leggi canoniche.

«La detta sentenza fu data e pronunziata, e la promulgazione e la rilassazione fu fatta per il detto inquisitore, sedente pro tribunali, nel coro della chiesa de' frati minori di Firenze, presente il detto messer vicario e suoi assessori, soldati e famiglia, riceventi il detto maestro Cecco sotto gli anni dell'Incarnazione del Signore 1327, indizione decima, il dì 20 di settembre, presente il detto Cecco rilassato, e gli infrascritti testimonj:

«Bernardo de Ricci, compagno dell'inquisitore — Ser Antonio Graci — Ser Lore da S. Maria Novella — Borghino di maestro Chiarito da Prato — Dinco Ducci — Neri Giovannini — Manovello di Jacopo».

Maestro Cecco fu menato al detto messer Jacopo da Brescia, legato colle mani dietro; e con molta furia di parole ed atti irosissimi gli fe' mettere i ferri in gamba, e per quella notte rinchiudere in strettissima prigione. La mattina seguente fu menato dinanzi a messer Jacopo, il quale aveva avuto il processo, che gli fece leggere da capo, e il maestro raffermò quello che aveva detto dinanzi all'Inquisitore. Allora messer Jacopo disse:

— Vedi, maestro, o tu fai quello che io voglio, condannando i tuoi errori, e le tue eresíe, o io ti spaccerò.

E il maestro:

— Stolte sono le tue parole; la invidia e la ignoranza mi hanno condotto qui; ma la verità non si muta, e troppo è più forte di esse.

Intanto già era cominciato a sonare, come dicevano, a condannagione, e poste fuori le bandiere, e armavasi la famiglia, quando venne un messo dell'Inquisizione, dicendogli:

— Maestro Cecco, tu vedi che la famiglia si arma per menarti alla morte. Io non so che uomo tu sei: perchè non credi quello che credono gli altri? Il Vescovo e l'Inquisizione mi hanno mandato qui, che io ti venga a dire, se vuoi ritornare alla chiesa e rimanerti dei tuoi errori, acciò che vegga il popolo che la chiesa è misericordiosa fino all'ultimo.

E il maestro senza verun segno di apprensione:

— La morte mi veggo dinanzi agli occhi, e non temo. Credo quel che è vero, ed i miei nemici sanno che io nol discrederò mai; e simulano adesso misericordia e benignità per ingannare il popolo come sempre hanno fatto.

Allora la famiglia lo trasse con grande impeto fuori della porta, e rimaso tutto solo tra berrovieri e mascalzoni, scalzo, con una gonnelluccia in dosso, parte de' bottoni sfibbiati, senza nulla in capo; e andava con la testa alta, senza verun segno di paura o terrore. Vi era tanto popolo che appena si poteva vedere; e a molti increscendone, gli dicevano:

— Non voler morire: pentiti; rimanti dei tuoi errori.

Ed altri:

— Sciagurato! tu hai il diavolo addosso, che ti trascina alla morte.

E così in più punti del suo ultimo doloroso cammino chi gli diceva una cosa, e chi un'altra: esso rispondea sempre più costantemente che mai, e sempre mostravasi più impavido.

Quando fu in sulla piazza de' Priori (oggi della Signoría) quivi era andato a vederlo passare anche monna Simona, la quale, tra gente e gente, erasi ficcata molto innanzi; e sulla piazza medesima era appostato il valletto di messer Guglielmo coi suoi compagni, per tentar di levar rumore, e vedere se in quel subbuglio venisse lor fatto di liberar il maestro. La vecchia a cui maestro Cecco passò molto da vicino, vedendolo a quel modo lacero e malconcio, si sentì proprio serrare il cuore, ricordandosi in quanta stima l'avea veduto tenere dal suo sere, ed anche dal bel cavaliere; sicchè non si potè tenere che la non facesse un acuto strillo; e poi non dicesse ad alta voce:

— Oh Dio! come l'hanno condotto! che strazio hanno fatto di un tanto maestro!

E voltasi poscia a lui proprio:

— Maestro Cecco, riconoscetemi voi? Deh! maestro, non vogliate morire! fuggite dalle mani di cotesti cani.

Il maestro le si volse benignamente, dicendo:

— Buona Simona, il vederti mi è consolazione. Non piangere su me, piangi sopra i miei nemici.

Il popolo d'attorno alla Simona, udendo le sue parole, e vedendo i suoi atti così disperati, e la temperata e grave risposta del maestro, se ne commosse; e seguitando ella il maestro, o volendo pur dire, la famiglia del vicario del duca, volle metterle le mani addosso. Allora si levò un poco di rumore tra la gente d'attorno, e la Simona strillava orribilmente, che non voleva lasciarsi menar presa. A un tratto si ode dal lato opposto una voce:

— Muora la famiglia del vicario.

Ed in un altro punto:

— Viva maestro Cecco d'Ascoli: su, brigate, liberiamolo da costoro.

E molti del popolo già levavano il rumore. La famiglia del vicario, udendo tali grida, si mise in forte sospetto, e tutti si volsero verso là dove il rumore si faceva, e pensarono prima di tutto ad assicurarsi del reo, il quale non dava segno veruno nè di speranza, nè di paura: ed in questo fru fru della famiglia, potè la povera Simona, un poco da sè e un poco ajutata, svignare dalle unghie di uno de' famigliari dei vicario che già l'avea ghermita, e ritrarsi salva alle case de' Cavalcanti, di lì poco discoste. Il rumore intanto si faceva grande, benchè molto popolo per la paura fuggisse chi qua chi là; e la famiglia avea gran fatica a schermirsi dalla furia dei non pochi assalitori, i quali a lungo giuoco l'avrebbero sopraffatta, e toltogli Cecco dalle mani, se tosto non accorrevano parecchi fanti del podestà, all'apparir de' quali coloro che avevano levato il rumore, vedendo di non potere in modo veruno resistere, fuggirono chi per un verso e chi per un altro; ed il rumore fu tosto acquetato, e il maestro riprese il doloroso viaggio.

Venuto alla piazza del Grano[37], essendovi molte donne alla finestra, e tavolieri, e gente che giocava, gli dicevano:

— Pentiti, pentiti.

E Cecco senza ira e senza paura:

— Pentitevi voi de' peccati, delle usure e degli altri brutti vizj.

E uno fra gli altri gli andò dando molta briga per più d'una balestrata, dicendogli:

— Tu se' martire del diavolo: credi tu di saperne più che tanti maestri?

Con altre simili parole e vituperosi motti e scede, alle quali Cecco o non rispondeva, o rispondeva solo parole sentenziose o gravissime. Egli per altro era così vinto dalla fatica, così oppresso dal caldo, ed aveva tanta seccagione che spesso volle chiedere da bere, ed allora ripigliava forza, in modo che pareva un altro uomo, e poteva bene rispondere a coloro che continuamente gli volgevano parole o di compassione, o di preghiera o di scherno. Volto il canto da Santa Croce per andare alla porta della giustizia, gli dette molta briga un suo antico famigliare con molte parole:

— Maestro, non vogliate morire: pentitevi; sarete perdonato; non siete però tra' pagani.

— Peggio che pagani: io voglio morire per la verità.

— Poniamo che sia codesta la verità; non dovete morire per ciò.

— Per la verità morì S. Pietro; e a S. Paolo fu tagliato il capo.

— O, negò San Pietro.

— E se ne pentì.

— Or bene, tu lo potrai fare anche tu, però che, se S. Pietro fosse qui, e' negherebbe.

— No, nol farebbe; e se il facesse farebbe male.

Uscito dalla porta della giustizia[38] era serrata la chiesa di Santa Maria del Tempio, che lo avevano comandato i nemici di Cecco, acciocchè paresse che non credesse in Cristo. Quando finalmente fu sul luogo della giustizia, il banditore bandì, e fecero un cerchio di cavalli attorno al capannuccio, onde poca gente potè entrare nel cerchio; e molti saliron sul muro dell'Arno, che era lì presso, tanto che si potesse vedere molto bene.

Arrivato maestro Cecco dinanzi al capannuccio non mutò aspetto neppur là; ma arditamente vi entrò dentro: ed essendo già legato alla colonna, alcuni misero il capo dentro, pregandolo che si pentisse. Ed egli stava sempre forte; e ad uno che pur il pregava, spesso dicendogli:

— Perchè vuoi tu morire così?

Egli rispose:

— Questa è una verità che ho sempre albergato in me, della quale non si può rendere testimonio se non dopo morto.

Allora, per ispaurirlo, fecero molte volte fumo attorno il capannuccio, e molti altri spaurimenti; infine, dopo molte battaglie, dategli sempre invano, misero fuoco al capannuccio; e com'egli lo sentì appiccato, volgendosi col capo, che con la persona non potea, verso Firenze, disse con gran voce:

— Firenze, questo supplizio è tua grande vergogna; la tua obbrobriosa servitù a' signori stranieri, a' frati ed a' preti, ti farà per molti secoli cieca, e ferma incontro al tuo bene: il tribunale che mi ha condannato...., qui fece un atto come se starnutisse, nè disse se non l'ultima parola; che fu:

— Maledetta sie tu...

E essendo arsi i legami che il tenevano legato alla colonna, cadde in terra ginocchione, con la faccia volta verso il cielo, e la bocca tonda già morto.

CONCLUSIONE.

Il fiero caso di Cecco d'Ascoli e la sua meravigliosa costanza sbalordì tutti; e molti se ne addolorarono in Firenze e fuori, che il tenevano solenne scienziato; e c'è chi racconta[39] come papa Giovanni XXII, saputa in Avignone la novella di questa morte, dicesse publicamente al cospetto di tutta la corte: I frati minori hanno perseguitato ed ucciso il principe dei filosofi peripatetici.

Il giudizio, che della scienza e dottrina di Cecco fu fatto nei secoli posteriori, è vario e diverso, chi dicendolo filosofo nobilissimo, come tra gli altri, ai dì nostri, Guglielmo Libri; altri un volgare astrologo, un ingegno balzano, e vanamente ambizioso.

Leggendo attentamente l'Acerba e il Commento alla Sfera del Sacrobosco per altro, si raccoglie che un carattere scientifico assai largo lo avesse, benchè il fondamento sia falso: rinnovare la vita umana nel suo triplice aspetto intellettuale, morale, religioso. Il suo nuovo scibile era la necessità universale, e l'antivedere: le intelligenze sono cagioni: le stelle organi loro proprj; sotto la luna ogni cosa effetti necessitati; dall'uomo alla pietra una sola catena obbediente alla forza. Ma l'uomo, mediante la scienza, costringe le intelligenze astrologiche e demoniache a palesargli il futuro; il qual potere della scienza lo vendica, se nol sottrae, dall'assoluta necessità, e quasi lo divinizza. La onnipotenza sola di Dio può sottrarre l'uomo alla legge della necessità; ma solo alterando l'ordine della natura. Questa dottrina non poteva naturalmente trovarsi d'accordo con la dottrina della chiesa cattolica; e come il papa e i preti e frati avevano in mano la forza, ed il tribunale dell'Inquisizione era allora accettato e favorito e temuto altresì generalmente da principi e da repubbliche, era necessario che maestro Cecco d'Ascoli pagasse col fuoco queste sue strane dottrine.

Non senza gran ragione gli uomini saggi e amanti del vivere civile hanno sempre mostrato orrore di questo barbaro ed inumano supplizio; meravigliando come una religione tutta amore e carità si porgesse in questi casi tanto spietata e crudele. La chiesa per altro era accorta: non erano leggi sue quelle che condannavano al fuoco gli eretici; erano leggi degli imperatori di Germania, e massimamente di Federigo II, nemico pur esso del papa, ed anche eretico nel concetto dei cattolici d'allora; e queste leggi furono accettate come diritto comune: per forma che la chiesa ne usciva a bene, e levava come suol dirsi, la carne dalla pentola bollente, con la zampa degli altri. I suoi tribunali non condannavano al fuoco; dichiaravano solamente il tale essere eretico; e lo consegnavano al braccio secolare, che gli eretici condannava al fuoco.

Del rimanente questa era colpa più dei tempi che d'altro: ed anche qualcuno di coloro, che si celebrano per vittime del furore papale, e per apostoli di libertà e di viver felice, vagheggiavano questo supplizio, tra' quali mi basterà il ricordare fra Girolamo Savonarola — il cui supplizio è anche dopo quattro secoli cagione di fremito a' suoi devoti — il quale nel suo opuscolo contro gli astrologhi esclama: «O stolti, empii ed insensati astrologhi! contro di voi non è da disputare altrimenti, che col fuoco». E ciascuno sa come Calvino stesso ricorse a questa sentenza contro chi non la pensava come lui in opera di religione. Intorno poi agli ultimi momenti della vita di Cecco vanno attorno delle tradizioni plebee, e senza verun fondamento storico; le quali tuttavía mi pajono qui da ricordare secondo che le racconta il Manni, nelle sue Veglie piacevoli. Si dice dunque, che un tale, chi che si fosse, aveva già avvertito Cecco d'Ascoli, che, se aveva cara la vita, stesse lontano dall'Affrico e dal Campo di Fiore; il perchè, mai non volle andare a Roma, dove è Campo di Fiore, nè mai alla sua vita uscì fuor di casa, allorchè spirava il vento Affrico. Ora, essendo egli condotto al supplizio, séguita la tradizione, e vedendo esser vana ogni speranza di campar la morte, domandò se forse quel luogo si chiamasse Affrico, a che fugli risposto, quel luogo chiamarsi Campo di Fiore, ed Affrico essere il nome di un piccolo fiumiciattolo che scorrea lì poco lungi. Udito ciò maestro Francesco, vide di esser morto, ed esclamò: Actum jam de me est (sono spacciato). L'altra favola è questa: Che quando maestro Cecco era per essere abbruciato diventava un fastello, o un covone di paglia, e così usciva dalle mani dei ministri della giustizia; ma che, dopo essere succeduta questa beffa più volte, mentre era ricondotto alla morte, affacciossi ad una finestra della chiesa di Santa Maria Maggiore d'onde doveva passare[40], una persona, che sapeva il suo incantesimo e gridò: Non gli date bere; perchè, avendo egli formato tal patto col diavolo, per esser lui liberato in quel mo' dalla morte, bevendo, non si sarebbe potuto farlo morire. Ed aggiungesi che per tal fatto nel muro laterale della chiesa si pose l'effige in marmo di colui che così parlò.

Ora diasi fine al presente lavoro, raccogliendo in poche parole come cessò la signoría del duca di Calabria, e come capitarono le persone di nostra conoscenza.

Il tribunale dell'Inquisizione, dopo la sentenza e il supplizio, prese sempre maggior piede e maggior baldanza; ma per contrario ne scadè molto la signoría del duca Carlo, il quale ben tosto ebbe rimorso di aver lasciato far sì atroce giustizia di maestro Cecco, e perdendo lui, gli era parso di rimanere smarrito. Il Bavaro dall'altra parte avanzava sempre di più: e sentendo il duca, com'egli, partito da Pisa, era già entrato in Maremmo, il dì 24 di dicembre, cioè tre mesi dopo la morte di Cecco, fece un gran parlamento su in palagio, dove furono i priori, i capitani di parte guelfa, e tutti i collegj, e gran parte della miglior gente della città grandi e popolani; e quivi per suoi savj, solennemente e con belle diceríe, annunziò la sua partita, la quale diceva essergli di necessità per guardare il suo regno, e per contrastare alle forze del Bavaro; e confortando i Fiorentini che rimanessero fedeli a parte di santa chiesa: e che lasciava loro per loro capitano messer Filippo da Sanguineto, e per suo consiglio messer Giovanni di Giovannozzo e messer Giovanni da Cività di Rieti, e gente d'armi di mille cavalieri, pagandogli 200 mila fiorini d'oro, come se ci fosse, promettendo che verrebbe egli in persona, dove bisognasse, con tutte sue forze, in ajuto di Firenze; alle quali cose tutte acconsentirono i Fiorentini. Il duca il giorno dopo, che fu il dì di Natale «fece, come scrive Giovanni Villani, gran corredo (oggi si direbbe fece gran ricevimento), e diè mangiare a molti buoni cittadini, e gran corte di donne, con grande festa e allegrezza; e poi il dì 28 di dicembre si partì di Firenze con tutti i suoi baroni; e poi morì l'anno appresso per una febbre presa a caccia».

Maestro Dino del Garbo, dopo le ultime parole che dissegli maestro Cecco, e dopo il romore che per esso accennò di levarsi, non ebbe più bene di sè; e, o fosse lo strazio del rimorso, e forse anche la paura della predizione, si ammalò gravissimamente, e pochi giorni dopo la morte di Cecco, a dì 30 di settembre, morì anch'egli.

Frate Marco, dopo la tortura e dopo la prigionía, fu mandato a un monastero di strettissima osservanza, dove fece vita di continua penitenza.

La badessa visse poco più, consumata da una lenta febbre; nè più la poterono rivedere Guglielmo e la Bice, che vissero lunghi anni: e dopo la morte di messer Geri, tornato messer Guglielmo in Puglia, colà nella signoría datagli dal re Roberto, da loro ebbe principio una delle più nobili famiglie di quella regione. Della Simona non ho trovato che cosa ne fosse.

Qui finisce il racconto, e non ho cuore di domandare a' lettori ed alle lettrici se ne hanno preso tanto o quanto diletto, ovvero uggia e fastidio. La volontà mia era quella di evitare così le noje, e le minuziosità e le lungaggini degli uni, come le convulsioni epilettiche degli altri.

Se non mi è riuscito, i lettori e le lettrici me lo perdonino;

«Chè non può tutto la virtù che vuole».

GLOSSARIO.

Altro ieri. Bene l'altrieri. Più giorni addietro, o come ora si dice L'altro giorno.

Asciolvere. Il primo pasto della mattina, la colazione.

Assisa. Ad una assisa. Tutti ad un modo, co' medesimi colori, e colle medesime armi.

Asserragliare. È ciò che ora si dice, con modo francese, Far le barricate, o Barricare.

Banderajo. Ora si dice il Portabandiera.

Battifolle. Bastione forte, e ben munito.

Bello. Mio bel cugino, Bel frate, e simili. Erano modi amorevoli ed affettuosi. Ora si dice: Mio caro cugino, Caro frate.

Benedetto Dio. Modo di affermare risolutamente.

Buonomini. Erano un antico ufficio della repubblica; deputato al consigli della signoría.

Caldo. Istigazione, Favore dato segretamente.

Calze. Era tutto il vestimento della gamba fino alle anche; e si facevano di materia e colori diversi.

Capannuccio. Così chiamavasi la catasta dove si bruciavano i condannati al fuoco: i Latini la dissero Pira.

Capitudini. Così chiamavansi i collegj delle arti maggiori in Firenze; ed anche i Capi di tali collegj.

Capoletto. Panno di nobil materia, e lavoro, da adornarne le pareti della camera, specialmente a capo del letto. Si disse anche in generale per ciò che ora dicesi Arazzo.

Caporale. Comandante di una schiera militare, come or si direbbe Generale, o chiunque ha alto grado militare.

Castellare. Castello non forte nè munito.

Cavalcare. Far viaggio a cavallo. Andare in un luogo facendo il cammino a cavallo.

Cella. Cantina, stanza sotterranea dove si serba il vino.

Cerna. Fare la cerna era il Raccogliere, lo scrivere milizie; o come or dicesi Chiamar sotto le armi coloro che per legge hanno tal debito.

Cessi Dio. Cessilo Iddio. Dio mi guardi, Dio me ne guardi. Dio non voglia, e simili.

Chericía. Tutti i cherici addetti a una chiesa o cattedrale, o collegiata; e si dice anche dei preti in generale; oggi Clero.

Cioppa. Era una specie di sopravveste che, stretta alla vita, scendeva in piccole falde.

Còle. Voce del verbo latino Colere, allora usitatissima; e vale Riverisce, Onora, e simili.

Còlla. La corda con la quale si tormentavano i testimoni e i rei per costringergli a dire il vero.

Collegj. Erano un magistrato da cui la signoría pigliava consiglio ne' casi gravi e dubbj.

Compagnía. Società di commercio, come dicesi ora, o Ditta commerciale, o Casa.

Conforto. Fu comunissimo il dire a' conforti di alcuno, per dire secondo i consigli e le suggestioni di esso, o incoraggiato da lui.

Consorto. Parente, che ha qualche grado di parentela con qualcuno.

Cosa ch'io possa. Modo comune ne' secoli passati per dimostrare la buona volontà di soddisfare a chi dice di voler un favore da noi.

Correre. Correre un paese. Lo scorrerlo con forza armata, o per pigliarne possesso, o per saccheggiarlo.

Credenza. Segreto, Cosa da tenersi segreta. § Aver credenza, vale Essersi stata confidata cosa da tenerla segreta.

Cuocere. Fu usato comunemente per Cucinare, Far da cucina.

Cuore. Di gran cuore. Volentierissimo, Di bonissima voglia.

A Dio v'accomando. Era modo comune per dare altrui commiato; e anche per prenderlo. Ora è rimasto solo un mozzicone; e dicesi Addio; che è pure una reticenza dell'antica formula.

Divisa. Arme o Scudo gentilizio; così detta da' varj colori onde è composta.

Donneare. Ora si direbbe Fare all'amore.

Doppiere. È ciò che ora si dice Torcia di Venezia.

Ferire un torneamento. Combattere in un torneo.

Gabbarsi di alcuno. Farsene beffe, Schernirlo.

Giubbone. Sopravvesta a vita, elegante e di lusso.

Lattovaro. Composto di varie materie medicinali ridotte a consistenza di manteca, e che ha per fondamento lo zucchero o il miele.

Leggiadro. Fu detto anche per Svenevole, Affettato, Lezioso, e simili.

Libbra. Fu detto anche per Imposizione, Gravezza, Imposta.

Madama. Fu titolo che si dette alle gran dame, ed anche alle Regine.

Maestro. Era il titolo che davasi comunemente a' medici; e dicendosi assolutamente il Maestro, si intendeva il Medico.

Monachino. Colore scuro tendente al rossiccio, come erano generalmente le cappe e le tonache de' frati.

Monsignore. Titolo d'onore che soleva darsi a' principi, specialmente della casa reale di Francia; ed anche a' grandi personaggi.

Natività. L'oroscopo, La predizione astrologica fatta alla nascita, per sapere qual sarà la vita di alcuno.

Oste. L'esercito in campagna; e il campo stesso ove è l'esercito pronto a combattere.

Pancale. Panno con fregi di nobile lavoro per distendere sopra le panche come ornamento.

Partito. T. arald. A strisce, come or si direbbe. Panno cupo partito vermiglio. Panno cupo a strisce vermiglie.

Pateríno. Si chiamarono con tal nome alcuni eretici del secolo XII; ma si durò ad usarlo per Eretico in generale.

Peverado. Brodo; così detto perchè vi si soleva mettere del pepe.

Piacere. Che vi piace? Cortese modo di rispondere a chi ci si fa innanzi in atto di domandare qualcosa. Ora si dice: Che vuoi? o Che vuole? In che posso servirti? Che desideri? ec.

Piacere. Se vi piace. Formula di pregare altrui cortesemente che faccia una data cosa: simile al s'il vous plaît francese. Allora fu usitatissima anche fra noi. Ora si dice: Di grazia, o Per favore.

Poltrone. Uomo vile e spregiato, di bassa condizione.

Posta. A posta di. In balía di, A discrezione di.

Provvigionato. Soldato, Persona che serve militarmente per una data quantità di tempo e di denari.

Punto. Dare il punto. Indicare, dopo osservazioni di astrología, qual è il punto più favorevole a cominciare un'impresa.

Puzza. Veramente significò Marcia, e quel che i medici chiaman tuttora Pus. Ma si usò anche per Obbrobrio, Vitupero o simili.

Rimedio. Per rimedio dell'anima sua. Era questa la formula dei lasciti che si facevano alle chiese.

Rubello. Fare rubello. Dichiarare che uno è ribelle, ed è incorso nelle pene contro i ribelli.

Saettame. Lo stesso che Saettamento.

Saettamento. Projettili, Frecce, Dardi, e tutto ciò che si scagliava da archi, balestre, e macchine da lanciare.

Savio di guerra. Uomo pratico e valente in cose di guerra; come or si direbbe Strategico.

Scaggiale. Cintura con fibbia; e si disse tanto di quelle di cuojo semplice, quanto di quelle di materia nobilissima, e preziosamente fregiate.

Sciámito. Drappo nobilissimo simile al velluto, che prende il nome dal fiore Sciámito, che è quello detto anche Fior velluto.

Sciugatojo. Si disse per ciò che ora chiamasi fisciù; che è quel panno con cui le donne si cuoprono il seno e le spalle, più o meno adorno e guarnito, secondo i gusti.

Scuro. Si disse per Oppresso dal dolore, Mal ridotto o simile. E così Scurità per Stato dolorosissimo, e pericoloso, di oppressione.

Se di buon augurio.

Se Dio vi ajuti. È particella che si premetteva alle formule di augurar bene a qualcuno: simile al Sic dei Latini.

Segno. Così chiamavasi la orina che si mostrava al medico: perchè dal guardarla attentamente se ne pigliava criterio a giudicar della malattía.

Sere. Si diede già questo titolo ai parochi, ed ai curati.

Sestiere. Firenze allora era divisa in sei parti, e si chiamavano Sestieri; e Sestieri si chiamavano anche le case dove risedevano i capi di ciascun Sestiere.

Signore. Detto assolutamente voleva significare Principe con potestà assoluta.

Sire. Fu titolo d'onore che si dava a' gran cavalieri, e personaggi di grande affare.

Soppidiano. Era una cassa di legno, assai bassa che soleva tenersi a piè del letto, per riporvi bianchería, abiti, gioje ec.

Sopransegna. Veste di seta, coi colori della propria divisa, e spesso collo scudo sul petto, che si portava da' cavalieri sopra l'armatura, e cinta alla vita. Si disse anche Soprasberga.

Tavoliere. La Tavola sopra cui si giuoca a Tavola reale, e come dissesi a tavole.

Terra. Si disse per Città, anche nobile e grande.

Uomo di corte. Così chiamavansi i Giullari, i Trovatori, e i Menestrelli, ed altri che frequentavano le corti de' Signori, esercitando quella che allor dicevasi la gaja scienza.

Viatico. Ciò che serve per sostentarsi nel viaggio. Ora si usa solo spiritualmente per l'Eucaristia che si dà a' moribondi quasi per sostentamento dell'ultimo viaggio per l'altro mondo.

COI TIPI DI F. A. BROCKHAUS, LEIPZIG.