ISTORIA CIVILE DEL
REGNO DI NAPOLI
VOLUME IV

ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

DI

PIETRO GIANNONE

VOLUME QUARTO

MILANO PER NICOLÒ BETTONI M.DCCC.XXI

INDICE

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO DUODECIMO

Il Regno di Guglielmo I non tanto per le forze d'esterior nemico, quanto per l'interne rivoluzioni dei suoi Baroni, fu tutto perturbato e sconvolto, e si rese memorabile più per le congiure e sedizioni contro la sua persona, e de' maggiori personaggi della sua Corte, che per guerre e battaglie. Cagione di tanti mali fu l'aver voluto questo Principe dispregiare le azioni dell'ottimo padre, e permettere che lo stato della Corte, con tanta industria da colui riformato in meglio, andasse in ruina, avendo egli que' personaggi, che Ruggiero avea tenuti per suoi famigliari, parte condennati in esilio, e parte imprigionati. Ma assai più che conveniva, avendo innalzato Majone di Bari a' primi onori del Regno, e fattolo suo Grand'Ammiraglio, pose anche in sua mano tutto il governo del Regno: e gli fu sì caro, che dove agli altri era cupo ed austero, a costui solo era aperto e trattabile: di che offesi i principali Baroni s'alienarono da lui in maniera, che gli posero sossopra il Regno, come di qui a poco diremo.

Egli, morto il padre, ancorchè poco men, che quattro anni avesse regnato in sua compagnia, fece tosto convocare tutti i Prelati e Baroni del Regno, e si fece di nuovo solennemente incoronare in Palermo nel giorno di Pasqua di quest'istesso anno 1154. E non guari dopo tanta celebrità, succederono le pompe e le feste per la nascita di Guglielmo suo secondo figliuolo, natogli in questo medesimo anno dalla Regina Margherita sua moglie, figliuola che fu di Garzia II Re di Navarra; poichè Ruggiero suo primogenito era nato già in vita dell'avolo[1]. Così nella Casa regale non v'erano altri Principi del sangue, che Ruggiero e Guglielmo II ancor lattanti. Costanza loro zia, postuma di Ruggiero, ancor era bambina. Tancredi e Guglielmo figliuoli di Ruggiero Duca di Puglia ancor giovanetti, erano per ragion di Stato tenuti carcerati e custoditi nel regal palazzo in Palermo: restò adunque solo Guglielmo in età di 34 anni, senz'appoggio di parenti al governo, non meno de' Regni di Puglia e di Sicilia, che dell'altre province e città della Grecia e dell'Affrica.

S'aprì pertanto largo campo al Grand'Ammiraglio Majone di porsi in mano il cuore del Re, e di governare con assoluto arbitrio i suoi Reami, essendo egli dotato di tutte quelle prerogative, che possono innalzar un privato al Principato. Egli era di pronto e vivace ingegno, ed abile a qualunque più dura e difficile impresa: assai facondo nel dire, dotato di liberalità regia, simulatore e dissimulatore espertissimo ed avidissimo di dominare; per la qual cosa rivolgea continuamente in se stesso varj pensieri divisando, come giunger potesse al sommo delle dignità e degli onori; ma celava il tutto con una gran serenità e allegrezza di volto: trattava col Re gl'interi giorni degli affari del Regno, ed escluso ogni altro, a lui solo si comunicavano i secreti più riposti di Stato, e le sue parole, e suoi consigli erano solo fedeli ed accettati. Nè mancava egli, per l'autorità che avea, d'acquistarsi da per tutto amici e partegiani, donando a suo talento i governi delle province, le guardie delle Fortezze, ed i carichi della milizia, essendogli Guglielmo tanto alla mano, che mai cos'alcuna, ancorchè grande e malagevole, purchè da lui gli fosse chiesta, non gli negò: corruppe ancora (per torsi via ogni ostacolo, che aver potesse) l'onestà della Regina, di cui si finse innamorato, e trasse parimente dalla sua parte tutti gli Eunuchi saraceni custodi del palazzo reale. In breve egli era il Moderatore del Regno, e seppe cotanto ingrandir la sua Casa, che un suo fratello, ed un suo figliuolo, chiamati ambedue Stefani, innalzò a' primi gradi della milizia, ed il figliuolo d'una sorella, nominato Simone, lo fece Gran Siniscalco del Regno; ed una sua figliuola la casò con Matteo Bonello uno de' principali Baroni del Regno; e Lione e Curazza suoi parenti, persone per l'innanzi vilissime, vennero a sì fatta grandezza, ch'essendo morti in vita del figliuolo, da' Monaci di Monte Cassino furono registrati i giorni de' loro transiti in un libro, nel quale notavano solamente la morte de' Papi, Imperadori, Re, Duchi di assoluto dominio e simili personaggi, con quelle parole: Curazza mater Madii Magni Admirati Admiratorum obiit VII. Kal. Aug. Et Leo pater Admirati Admiratorum obiit VI. Id. Septembris[2]. Ed il Cardinal Laborante, che in questi tempi era riputato il più dotto, ed uno de' migliori Letterati, che fiorisse in Roma, avendo composto un libro de Justi, et Justitiae rationibus, che ancor oggi si ritrova diviso in quattro parti, lo dedicò a questo nostro Majone, come ad un personaggio in questi tempi il più illustre e rinomato in tutta Europa.

Vedutosi perciò in tanta sublimità vennegli pensiero, come finalmente potesse giungere al disegno di usurpare il Regno; e scorgendo non restargli ora altro che fare, se non torsi dinanzi tutti coloro, che potevano impedire il suo disegno, a questo solo drizzò tutti i suoi talenti ed i suoi pensieri.

Temea egli più degli altri in tal impresa Simone Conte di Policastro figliuolo bastardo, come si disse, del Re Ruggiero, Roberto di Bassavilla Conte di Loritello consobrino di Guglielmo, ed Eberardo Conte di Squillace, la cui virtù era assai nota a ciascuno, e sapea certo non potersi nè con premio, nè con fraude corrompere la lor fede, e conoscea, che salvi costoro, egli s'affaticava indarno. Incominciò adunque a maneggiar la lor ruina, e conoscendo essergli mestiere aver per compagno de' suoi consigli Ugone Arcivescovo di Palermo, acciocchè col suo ajuto potesse recar più agevolmente a fine il suo intendimento, essendo l'Arcivescovo uomo avveduto e di grande animo, ed atto a qualsivoglia grande affare, ed anch'egli avido di comandare: cominciò primieramente l'Ammiraglio, a scoprirgli pian piano il suo pensiere, dandogli a vedere, che tolta la vita al Re, come uomo non atto al governo e malvagio, sarebbe poscia agevolmente venuta in lor potere la cura de' piccioli figliuoli, per la qual cosa sarebbero essi stati Signori del tutto, insin che que' fanciulli fossero a perfetta età pervenuti. Non volle scoprirgli l'animo, ch'egli avea di usurparsi il Regno, acciocchè colui non si smarrisse per la grandezza della malvagità, sperando, se potesse divenir Tutore de' figliuoli del Re, non potergli niuna cosa più impedire il suo desiderio. Strinse per tanto l'amistà con l'Arcivescovo con strettissimo giuramento d'ajutarsi l'un l'altro egualmente in ogni fortuna, e fece sì che egli divenne prestamente amico e famigliare del Re, acciocchè approvasse, e difendesse appo lui qualunque cosa, ancorchè scellerata, ch'ei facesse.

Questi furono i fondamenti, che gettò Majone per dovervi sopra appoggiare le fabbriche eccelse della sua ambizione: intanto surser nuove occasioni, delle quali seppe l'Ammiraglio opportunamente valersi per ruinare i suoi emoli, e coloro che potevano fargli ostacolo nel suo disegno. Era, come s'è detto, morto in Roma Papa Anastagio, e creato in suo luogo Adriano IV inglese. Questi offeso, che Guglielmo erasi fatto incoronare Re in Palermo senza richiedernelo, secondo ciò che i Pontefici pretendevano nelle nuove incoronazioni de' Principi loro Feudatarj, avendogli il Re, intesa la sua elezione, mandati suoi Ambasciadori per confermar con lui la pace, che avea avuta col suo predecessore, egli glieli rimandò in dietro senza conchiuder niente. Onde passato poi Guglielmo da Palermo a Messina, e di là a Salerno, avendogli Adriano, mentre dimorava in questa città, mandato il Cardinal Errico con sue lettere, non solo il Re non volle riceverlo, ma gli fece ordinare, che tantosto sgombrasse dal suo Regno, ed in Roma ne ritornasse; irritato ancora perchè nelle lettere, che a lui recava, il Papa non gli dava il titolo di Re, ma solo di Signore di Sicilia, pretendendo che non potesse egli nomarsi Re, essendosi dopo la morte di suo padre fatto incoronare senza sua concessione ed autorità[3]. Ma Guglielmo riputando a suo scorno, che dovesse richiedere da lui ciò ch'era in suo arbitrio, fieramente sdegnato, dopo aver celebrata la Pasqua in Salerno in quest'anno 1155, avendo creato suo Gran Cancelliero Asclettino Arcidiacono di Catania, gli diede il governo della Puglia, con ordine di ragunare un grosso esercito per campeggiare Benevento, e dar il guasto al suo territorio, e di sorprender quella città ad onta del Pontefice. All'incontro Adriano scomunicò il Re, il quale, oltre d'aver comandato al Gran Cancelliere l'assedio di Benevento, ordinò ancora, che niun Vescovo de' suoi Regni riconoscesse il Papa, nè che alcuno ricercasse da lui più la consecrazione. Indi partissi da Salerno, e con Majone in Palermo fece ritorno.

Intanto il Cancelliero, dopo aver dato il guasto al territorio di Benevento sino alle mura della città, tentò di sorprenderla: ma difesa con molto valore da' Beneventani, i quali uccisero il lor Arcivescovo per averlo scoverto amico e partegiano di Guglielmo, obbligarono il Cancelliero a cingerla di stretto assedio; il quale tuttavia durando, alcuni Baroni mal contenti del governo presente, istigati ancora dal Papa, si ribellarono da lui, ed entrarono dentro Benevento, ed altri senza tor commiato si partirono dal campo; per la qual cosa dividendosi l'esercito, si tolse l'assedio[4]. Il Conte Roberto di Bassavilla pieno d'ira e di mal talento ritornossene a dietro in Puglia, poich'essendo stato, mentr'era il Re in Salerno, per visitarlo, fu per opra di Majone sì mal veduto ed accolto, che il Re nè meno volle parlargli. Onde il Cancelliero con la gente che gli era rimasa, e con altra che assoldò nuovamente, passossene in Campagna di Roma, dove prese e brugiò Cepparano, Bacucco, Frusinone, Arce, ed altri luoghi vicini; e poscia ritornando nel Regno fece abbattere le mura d'Aquino, Pontecorvo, ed altre Castella de' Padri di Monte Cassino[5] partegiani del Papa, e cacciatine altresì tutti i Frati, eccetto dodici, che vi lasciò alla cura della Chiesa, fece ritorno in Capua, ove fermossi in compagnia del Conte Simone, con intenzione di star colà in guardia del Regno, così per impedire ogni movimento, che avesser potuto fare i Baroni, i quali eran da pertutto fieramente turbati dalla potenza dell'Ammiraglio, non ben discernendo se egli, o Guglielmo era Re di Sicilia; ma più ancora per impedire un nuovo turbine di guerra, che soprastavagli, poich'era precorsa voce, che l'Imperador Federico Barbarossa con grande oste di Alemagna calava in Italia.

§. I. L'Imperador Federico I, fa lega con Emanuele Comneno Imperadore d'Oriente, e move guerra col Papa al Re Guglielmo.

Era Federico non altrimenti, che i suoi Predecessori inimico implacabile de' Normanni, e non meno che furono Lotario, Errico e Corrado contro Ruggiero, così egli avea drizzati i suoi pensieri per discacciar Guglielmo dalla Puglia e dalla Sicilia, riputandolo come usurpatore delle province dell'Imperio. Niun Imperadore ebbe sì alti concetti dell'Imperio restituito da Carlo Magno in Occidente, quanto costui: egli si reputava un altro Ottaviano Augusto; e che tutte le province, ch'erano prima di quel vasto Imperio, fussero pure nell'Asia, o nell'Affrica, o in qualunque altra più remota parte del Mondo, appartenessero al suo Imperio, e che perciò avesse bastante dritto di cacciarne gl'invasori; e si vide chiaro, quando avendo il Saladino occupati molti luoghi della Siria, non si ritenne, prima di movergli guerra, di minacciarlo se non restituiva que' luoghi, con una terribile lettera, che volle scrivergli, rapportata negli Annali d'Inghilterra di Ruggiero e di Matteo Paris, nella quale fra gli altri vanti e rodomontate gli scrisse: ch'egli non poteva dissimular di sapere, come ambedue l'Etiopie, la Mauritania, la Persia, la Siria, la Parzia, ove Marco Crasso (che lo chiama suo Dittatore) morì, la Giudea, la Samaria, l'Arabia, la Caldea e l'istesso Egitto, ove Antonio effeminossi con Cleopatra, l'Armenia ed innumerabili altre province, erano soggette al suo Imperio. Ma il Saladino gli rispose con non minor arroganza ed orgoglio del suo, siccome si vede dalla risposta, che vien anche rapportata da' medesimi Scrittori. Conobbesi ancora, che niun'altro Imperadore prima di lui ebbe quella fantasia di creare tanti Re onorari, come fece egli, il quale inviò la spada e la Corona regale a Pietro Re di Danimarca, attribuendogli il nome di Re, al Duca d'Austria, ed al Duca di Boemia, come abbiam narrato nel precedente libro.

E fu cotanto a lui perniziosa questa boria di credersi Signore di tutto il Mondo, anche delle città e luoghi particolari, che per aver, secondo queste idee (fomentate ancora dal lusingator Martino nostro Giureconsulto) voluto imporre leggi e condizioni molto rigorose alla Nobiltà ed alle città d'Italia, se gli ribellò contro tutta la Lombardia, onde nacque la ruina di Milano, come qui a poco vedremo.

Per queste massime egli reputava Guglielmo invasore, ed ingiusto usurpatore non meno della Puglia, che della Sicilia, proccurava perciò tutti i mezzi, ed impiegava tutti i suoi sforzi per discacciar questo inimico della sua sede; ma considerando che per se solo non poteva conseguirlo; poichè se bene per la conquista del Regno di Puglia potesse unire un conveniente esercito, e far l'impresa per terra; nulladimanco, non avendo armate di mare, era impossibile tentar l'impresa di Sicilia: perciò sin dall'anno precedente 1154, dopo aver intimata una Dieta a Ratisbona, avea mandati Ambasciadori all'Imperador Emanuele Comneno, affinchè conchiudesse con esso lui la lega contro Guglielmo[6]. Questi non meno che Federico mal soffriva l'ingrandimento de' Re normanni, i quali non contenti d'avergli tolta la Sicilia, ponevan anche nella Grecia il lor piede; ed insino alle porte di Costantinopoli s'erano stesi. Guglielmo si vide in mezzo a due potenti inimici insieme uniti e collegati. Ed era cosa veramente da ammirare, che Federico da un canto millantava al suo Imperio d'Occidente appartenersi i Regni di Guglielmo; e dall'altra parte Emanuele minacciava, ch'egli ed i suoi Romani non si sarebbero mai astenuti di portar guerra in Italia, insino che quella e l'intera isola di Sicilia non saranno restituite al suo Imperio, donde furon divelte[7]. Proccurò ancora Federico collegarsi co' Pisani potenti allora in mare, che parimente contro Guglielmo si mossero; il qual implicato ancora nella guerra, che avea mossa al Papa, ed insospettito della fedeltà dei suoi Baroni, si vide in tanta costernazione e malinconia, che abborrendo chiunque veniva da lui, stava sempre solo racchiuso nel suo palazzo, trattando solamente con Majone e con l'Arcivescovo, da' quali intendeva gli affari del Reame, non come conveniva, ma come meglio a' loro disegni si confaceva. E Majone intanto vedendo non potersi aspettar miglior tempo, che quello che correa per condurre a fine i suoi lunghi divisamenti, fece credere al Re, che il Conte erasi ritirato in Puglia pien di mal talento, non per altro, se non perchè aspirava al Regno in virtù di certo testamento di Ruggiero, ove dicea che succedesse costui in caso che il figliuolo Guglielmo non fosse stato atto a governare i suoi Regni; e perciò scrisse ad Asclettino, che lo chiamasse a Capua, e giuntovi il facesse prigione, inviandolo sotto buona custodia a Palermo. Ma insospettito prima il Conte di tal chiamata, e poi avvedutosi dell'inganno, resistè al Cancelliero, che in nome del Re gli comandava, che avesse consignati tutti i suoi soldati al Conte Boemondo, dicendogli tutto cruccioso, che quel comandamento era di matto o di traditore, e non volendone far nulla, si partì di Puglia, e con tutta la sua gente n'andò in Apruzzi. Proccurò ancora Majone nell'istesso tempo, non bastandogli questo, che il Conte Simone parimente ruinasse; poichè fatta ad arte insorgere tra lui, ed il Cancelliere gara, e nato tumulto fra i soldati, tal avvenimento in Corte non com'era stato, ma come a lui piacque, descrisse, aggiungendovi, che il Conte era cagione di que' disturbi, e che ei trattava negozi di molta importanza col Conte Roberto, a cui egli mandava perciò secreti messi: queste lettere bastarono a Majone di far credere al Re che il Conte Simone insieme col Conte Roberto con molti altri congiurassero contro la sua persona per torgli il Regno; onde Guglielmo, ch'era sempre in sospetto de' suoi più stretti parenti, chiamò il Conte in Palermo, e senza dargli tempo da potere addurre cosa alcuna in difesa della sua innocenza, lo fece imprigionare con indignazione di tutti contro l'Ammiraglio, per opera di cui ogni malvagità si vedeva avvenire.

Accadde in questo medesimo tempo, che il Re, o per grave infermità sopraggiuntagli, o per altra cagione, si racchiuse in modo nel regal palazzo, che per alcuni giorni non si faceva nè vedere, nè parlare da niuno, se non dall'Arcivescovo e da Majone: il perchè si sparse fama per li suoi Regni, ch'egli fosse morto avvelenato dall'Ammiraglio. Questa fama divolgata in Puglia cagionò sì gravi movimenti, che si videro in un subito molte province sconvolte; poichè Papa Adriano non si lasciando scappar tal congiuntura sollevò tosto i Baroni della Puglia contro il Re, e quelli che Guglielmo avea discacciati[8]. Nel che, per l'alienazione ed abborrimento che aveano col Re per cagion di Majone, non vi volle molta industria per tirargli alla ribellione. Si videro perciò in un subito ardere la Calabria, la Puglia e Terra di Lavoro in una crudelissima guerra, e piene di tumulti e di sedizioni. Il Conte Roberto, avendo tosto ragunato un numeroso esercito ne' contorni d'Apruzzo, sorprese molte città della Puglia poste in riva del mare, insino a Taranto: e presa Bari, fece, col consentimento dei suoi cittadini, spianar la Rocca fattavi non molti anni prima edificar dal Re Ruggiero; ed avendo altresì insieme col Pontefice allettato l'Imperador Emanuele ad accompagnare le sue forze contro Guglielmo, ponendolo in sicura speranza di ricuperar la Puglia, e sottoporla come prima al suo Imperio d'Oriente, ne ottenne molta gente guidata da nobilissimi Capitani, e molta moneta, che gli inviò sino a Brindisi, a' quali si rese quella Piazza assai considerabile pel suo porto, ove Emanuele designava mandar più numerosa armata.

Nè minori sconvolgimenti cagionò la fama della morte del Re in Terra di Lavoro; poichè il discacciato Principe di Capua Roberto, che sinora avea menati i suoi giorni in Sorrento in vita privata, dissimulante Ruggiero, onde per ciò lo dissero ancora Roberto di Sorrento[9], non avendo bisogno che il Papa lo stimolasse, subito se ne venne in Capua, ed occupò tantosto la sua antica Signoria, e poco da poi non solo interamente si sottopose tutti i luoghi del suo antico Principato, ma, passato anch'egli in Puglia, avea soggiogato quasi tutto il rimanente, eccetto Melfi e Troja. E ne' Picentini ed in Terra di Lavoro andaron le cose del Re così male, che non era rimasto in sua balia altro, che Amalfi, Napoli e Salerno, ed alcuni altri pochi forti e muniti castelli; perciocchè Riccardo dell'Aquila Conte di Fondi avea presa Sessa e Tiano, e 'l Conte Andrea da Rupe Canina il Contado d'Alife.

S'accrebbe il timore di disordini maggiori; perchè in quest'istesso tempo Federico Imperadore di Alemagna era giunto in Roma, ove era stato da Papa Adriano ricevuto con molta pompa, ed in S. Pietro solennemente coronato; ed il Papa, prima della sua coronazione, s'avea da lui fatto promettere, oltre di calar in Puglia contro Guglielmo, che senz'il suo invito per sua propria inimicizia che avea con lui lo avrebbe fatto, di deporre ancora i Senatori in quella città creati, e di ridurla, come prima, all'ubbidienza del Pontefice. Ma Federico per nuove cagioni non potè eseguirlo; perchè sopraggiunta nel suo esercito una gran pestilenza, bisognò tornarsene in Alemagna, e fu d'uopo partirsi ancora, per sedare nel passaggio i disordini nati in alcune città di Lombardia, senza che, dopo essere stato coronato, avesse voluto far nulla di quanto al Papa avea promesso; se non solo di aver affrettato il soccorso e spinta l'armata de' Pisani contro Guglielmo.

Il Papa, ancorchè deluso da Federico, non per questo volle perdersi d'animo ora che il tempo era a lui cotanto favorevole; poichè avendo ragunato, come potè meglio, un grosso esercito, postosi alla testa di quello, entrò nel Regno, e tosto s'unirono a lui il Conte Andrea di Rupe Canina, e i mal soddisfatti Baroni: se gli unisce ancora Roberto, che poc'anzi avea occupato il Principato di Capua, il quale giunto in Terra di Lavoro, passò poi a Benevento, ove fu a grande onore ricevuto da' Beneventani: dall'altra parte l'Imperador Emanuele volendosi vendicar dell'ingiurie ricevute da Ruggiero, nel figliuolo Guglielmo, avea mandati in Puglia Paleologo, Cominato, Sebasto ed altri illustri e valorosi Capitani con grosso stuolo di armati, e con molta moneta in soccorso del Conte Roberto; ed avea altresì mandato a dire al Pontefice, che l'avrebbe aiutato a disfare interamente Guglielmo, purchè avesse poi lasciate in suo potere tre città poste in riva del mare di quella provincia, con li cui soccorsi il Conte Roberto faceva aspra guerra in Puglia, e n'avea già buona parte occupata[10].

Ecco in quale stato deplorabile si ridussero queste nostre province in quest'anno 1155 ed in quanti sconvolgimenti; la novella de' quali pervenuta a Palermo, non bastò a scuotere l'infingardaggine del Re, il quale rincrescendogli d'uscir dagli agi del palazzo, avea data occasione alla falsa voce della sua morte; perchè Majone coprendo con la tranquillità del volto l'interno affanno, non fece accorgere nè il Re, nè altri del suo timore, onde reputò allora non esservi di bisogno d'altro se non che il Re scrivesse a coloro, che ancor duravano nella sua fede, ch'era stata falsa, ed inventata da' suoi rubelli la fama uscita fuori della sua morte, e che fossero con gente armata usciti contro di loro.

Ma se non bastarono i tumulti di queste province, per opra di Majone, a torre il Re da quel sì lungo e profondo letargo, furono bensì sufficienti que' che vide nella Sicilia, e nell'istessa città di Palermo poco da poi: poichè ribellatosi il Conte Giuffredi, e scoverta da lui la congiura di Majone, ancorchè il Re non la credesse; e per la tirannia dell'Ammiraglio sollevatisi i Siciliani, occuparono Butera; e tumultuando gravemente il Popolo della città istessa di Palermo contro Majone per l'ingiusta prigionia del Conte Simone: tutte queste cose, ed altre unite insieme, finalmente trassero il Re dagli agi del palazzo, destandolo in maniera, che con impeto a' maggiori pericoli esponendosi racchetò il tumulto di Palermo con far sprigionare il Conte Simone, ricuperò Butera, ed avendo restituita quell'isola nell'antica quiete, si risolvette di venire egli in Puglia a debellare i suoi ribelli, e porre quiete a questo Regno; passò perciò immantenente a Messina per valicar il Faro; e portatosi colà in quel mentre il Cancelliere, gli furono date gravi querele dal Conte Simone, per non aver difesa come si conveniva Terra di Lavoro; e volendo egli audacemente difendersi, non fu inteso, anzi fu di presente chiuso in prigione ove di là ad alcuni anni miseramente finì sua vita. Ragunata Guglielmo come potè meglio una armata, partitosi da Messina, venne in Regno, ed a Brindisi accampossi in questo nuovo anno 1156[11], ed avendo mandato l'Eletto di Catania al Pontefice per chiedergli pace, con offerirgli vantaggiose condizioni, fu per opra d'alcuni Cardinali partegiani dell'Imperador Federico rimandato indietro senza conchiuder nulla; laonde il Re veggendosi escluso d'ogni speranza d'accordo, senza far più parole, campeggiò virilmente Brindisi, ove erano i Greci, ed ove s'eran ragunati la maggior parte de' Baroni rebelli; e la strinse sì fattamente, che Roberto di Bassavilla ch'era in sua difesa, sgomentato fuggì via a Benevento; e travagliando il Re quella città con continui assalti, così dal lato di mare, come da quello di terra alla fine la prese a forza, facendo prigionieri tutti i Capitani più stimati de' Greci con molti altri di minor conto, e buona parte de' Baroni di Puglia con altri lor seguaci, de' quali molti fece morire impiccati per la gola, ed altri fece abbaccinare, conquistando parimente tutte le ricche spoglie de' Greci e grossa somma di moneta, che ivi avean condotta per gli bisogni della guerra[12].

Passò poi il Re col vincitor esercito a Bari, ed i Baresi vedendo che il Papa ed il Conte, che avean proccurata la ribellione, non mandavan loro soccorso alcuno, pensarono di rendersi alla pietà del Re; e per mitigar la sua ira gli andarono incontro disarmati a chiedergli mercè; ma Guglielmo vedendo le ruine della Rocca, che colà il padre Ruggiero avea edificata, la quale non guari prima i Baresi avean fatta abbattere, rispose: Io non perdonerò alle vostre case, non avendo voi avuto rispetto alla mia[13]; indi comandò, che fra due giorni con tutti i lor beni si partissero; la qual cosa posta immantenente in esecuzione, fece primieramente il Re diroccar le mura della città sino dai fondamenti, indi disfar tutti gli edificj sì fattamente, che ogni cosa fu ridotta in rovina, ed adeguata al suolo. Così rimase affatto distrutta Bari, la qual città per la ricchezza e nobiltà de' suoi cittadini, per lo numeroso suo Popolo, per la bellezza de' suoi palazzi e per la fortezza delle mura, fra tutte le altre di Puglia, era potentissima, e riputata un tempo la sede de' più gran personaggi della Grecia. Quindi si convince l'error di coloro, che vogliono Bari, in tempo della Regina Costanza e di Manfredi, essere stata riputata sede regia, dove questi Principi furono incoronati; poichè Bari, dopo quest'avvenimento, si ridusse in più ville, nè se non molto tempo da poi riprese forma di città. E vedi intanto l'incostanza delle mondane cose, e come tutte queste vicende servirono ad innalzar Napoli sopra tutte le altre città di questo Reame; poichè, se allora vi rimase Salerno, non dovranno passar molti anni, che vedremo ancora questa città parimente ruinata e distrutta per l'ira ed indignazione d'Errico marito di Costanza.

Prese da poi il Re Taranto con tutti gli altri luoghi di quella provincia, che il Conte Roberto, ed i Greci aveano occupati; e di là si condusse a Benevento, ov'era il Papa Adriano co' suoi Cardinali; e buon numero d'altri Baroni, che v'erano fuggiti; e cingendola di stretto assedio, afflisse di modo quella città, che il Papa, scordatosi affatto de' Baroni del Regno, che avea posti in tanti travagli e pericoli, veggendo il periglio, in ch'era incorso per non essersi in prima, quando gli offeriva vantaggiose condizioni, pacificato con Guglielmo, gl'inviò tre Cardinali per suoi Legati a chiedergli pace. Furono questi Ubaldo Cardinal di Santa Prassede, Giulio Cardinal di S. Marcello, e Rolando Cancellier di Santa Chiesa e Cardinal di S. Marco[14], i quali non altrimente che fece Gregorio II quando scrisse tre lettere a Pipino in nome di S. Pietro, così essi in nome del Principe degli Appostoli gli chiesero, che cessasse dai danni, che faceva al romano Pontefice, e che conservasse le ragioni della Chiesa di Dio.

§. II. Articoli di pace stabiliti con Papa Adriano, ed investitura data dal medesimo al Re Guglielmo: e pace indi seguita coll'Imperadore Emanuele.

Furono i Legati dal Re cortesemente ricevuti, ed intendendo da essi di buon animo le proposte di pace, destinò egli dal suo canto cinque altri suoi Plenipotenziarj per accordare gli articoli di quella. Questi furono il Grand'Ammiraglio degli Ammiragli Majone, Ugone Arcivescovo di Palermo, Romualdo Arcivescovo di Salerno, Guglielmo Vescovo Calano e l'Abate Cavense Marino; i quali unitisi con i tre Cardinali fermarono gli articoli di pace, che nella maniera, che di qui a poco diremo, si leggono presso il Baronio: nella qual pace non furon compresi i Baroni, ma tutti esclusi, e sol fra il Papa ed il Re fu quella conchiusa.

Venuto poi Guglielmo alla chiesa di S. Marco posta fuori le mura di Benevento, s'inchinò a' piedi d'Adriano, da cui essendo stato assoluto dalle passate censure, egli all'incontro in presenza di molti Cardinali e Baroni, ed altra gente in gran numero ivi concorsa, gli fece l'omaggio del Regno, e giurogli fedeltà, recitando le parole del giuramento Ottone Frangipane, ed il Papa ponendogli la Corona l'investì, prima con dargli uno stendardo del Regno di Sicilia, e poscia con dargliene un altro del Ducato di Puglia, ed un altro del Principato di Capua.

L'investitura, che in quest'occasione fu dal Papa Adriano conceduta a Guglielmo, fu la più ampia e di gran lunga vantaggiosa di quante mai fossero dagli altri Pontefici concedute a' Principi normanni; fu non solo del Regno di Sicilia, del Ducato di Puglia e Principato di Capua con tutte le sue pertinenze, come furono le precedenti; ma ciò che Gregorio VII e gli altri suoi successori non vollero in modo alcuno fare, fece Adriano, perchè anche l'investì di Salerno, di Amalfi e di Napoli colle loro pertinenze, della Marca e di tutte le altre terre che possedeva. Questa investitura fu conceduta non pure a Guglielmo ma anco a Ruggiero suo figliuolo, che nell'anno precedente 1155 mentr'era di quattro anni l'avea il padre creato Duca di Puglia e di Calabria, ed a tutti i suoi eredi; i quali per volontario suo ordinamento avrà egli destinati per suoi successori nel Regno come sono le parole della scrittura rapportata anche dal Baronio: Profecto vos nobis, et Rogerio Duci filio nostro, et haeredibus nostris, qui in Regnum pro voluntaria ordinatione nostra successerint, concedetis Regnum Siciliae, Ducatum Apuliae, Principatum Capuae, cum omnibus pertinentiis suis; Neapolim, Salernum, et Malphiam cum pertinentiis suis; Marchiam, et alia quae ultra Marsicam debemus habere, et reliqua tenimenta, quae tenemus a predecessoribus nostris hominibus Sacrosanctae Romanae Ecclesiae jure detenta, et contra omnes homines adjuvabitis honorifice manutenere. All'incontro promise il Re pagargli il censo per la Puglia e per la Calabria seicento schifati l'anno, e per la Marca cinquecento.

(Questa Bolla dell'investitura e concordato tra Adriano IV con Guglielmo I è rapportata anche da Lunig[15] ).

Furono in quest'occasione accordati ancora molti articoli intorno alle appellazioni, elezioni ed altre cose appartenenti alla politia e governo ecclesiastico di questo Regno di Puglia. Per l'appellazioni fu convenuto, che se alcun Cherico nella Puglia e nella Calabria e nell'altre terre vicine, contro alcun altro Cherico avrà querela intorno alle cause ecclesiastiche, e dal Capitolo o dal Vescovo, Arcivescovo, o da altra persona ecclesiastica di quella provincia non possa emendarsi, gli sia lecito, se vorrà, appellarne alla Chiesa romana. Che se la necessità, o utilità della Chiesa lo ricercasse, possano farsi la translazioni da una in altra Chiesa. Che la Chiesa romana possa liberamente far le visite e le consecrazioni nelle città della Puglia e di Calabria e luoghi adjacenti, eccetto però in quelle città, nelle quali sia presente la persona del Re, o de' suoi eredi senza volontà de' medesimi. Che nella Puglia e nella Calabria e nelle regioni vicine possa la Chiesa romana liberamente aver suoi legati, i quali però debbano portarsi con ogni moderazione senza invadere e devastare le possessioni della Chiesa.

Che anche nella Sicilia abbia la Chiesa romana le visite e le consecrazioni; e che se il Re o suoi successori chiamerà dalla Sicilia le persone ecclesiastiche, o per ricever la Corona o per altro bisogno, debbano quelle ubbidir alla chiamata, e possa fargli restare e ritener quelli che stimerà dover ritenere. Intorno all'altre cose, avrà la Chiesa romana nella Sicilia tutto ciò, che tiene nelle altre parti del suo Regno, eccetto che le appellazioni ed il poter mandar Legati, li quali non si permetteranno, se non a petizione del Re e suoi eredi. Nelle Chiese e monasterj del suo Regno possa ritenere la Chiesa romana ciò, che ritiene nell'altre Chiese, come le solite consecrazioni e benedizioni, alla quale pagheranno i soliti e stabiliti censi.

Intorno alle elezioni fu stabilito, che li Cherici ragunati debban eleggere la persona che riputeranno degna, la quale terranno in secreto, insino che al Re sarà palesata; il quale darà il suo assenso, quando però non la giudicasse o del partito de' suoi traditori o de' suoi nemici e de' suoi eredi, o pure non sia a se odiosa, o per altra cagione, per la quale non la stimasse degna del suo assenso.

Tali furono gli articoli di questa pace firmati presso Benevento nel mese di giugno dell'anno 1156, de' quali, come appartenenti allo Stato ecclesiastico, ci tornerà altrove occasione di parlare.

I Baroni del Regno di Puglia, vedendosi contro ogni lor credenza abbandonati dal Pontefice, e lasciati in preda all'ira del Re, sbigottiti di tale avvenimento, prestamente fuggirono. Il Conte Roberto da Bassavilla, ed il Conte Andrea da Rupe Canina, con alcuni altri ne andarono in Lombardia, ricovrandosi colà sotto la protezione dell'Imperador Federico, il quale gli adoperò nella guerra che allor tenea co' Milanesi; ma Roberto Principe di Capua volendo anch'egli con altri suoi partigiani uscir del Reame, essendosi avviato per lo Stato di Riccardo dell'Aquila Conte di Fondi suo vassallo, per dove credea poter sicuramente passare, fu per ordine del Conte insidiato, e con tutti i suoi preso al valicar del Garigliano, e dato prigioniere in poter del Re[16]; con la qual malvagità il Conte Riccardo ritornò in grazia di Guglielmo, ma non potè fuggire l'infamia del tradimento. Fu il Principe insieme con un suo figliuolo ed una figliuola, di volontà dell'Ammiraglio, inviato prigione a Palermo ed ivi fu abbaccinato, ove poco da poi in carcere morì. Ed ecco il fine di Roberto figliuol di Giordano II Principe di Capua, nato di nobilissima schiatta di sangue normanno, dopo aver tante volte perduto e ricuperato il suo Principato, che in lui affatto s'estinse, rimanendo unito col Reame di Puglia, come è ancora al presente; un altro suo figliuolo chiamato Giordano, dopo questo infortunio del padre scappò in Costantinopoli, e sotto la protezione dell'Imperador Emanuele si mise, il qual Imperadore lo mandò da poi Legato ad Alessandro III nell'anno 1166 come di qui a poco diremo[17].

Dopo le quali cose il Papa ne andò in Campagna di Roma, ed il Re avendo vinti i Greci, e parte dei suoi nemici cacciati via dal Reame, e parte posti in prigione, ed altri o fatti morire, o ritornati in sua grazia, diede il governo della Puglia a Simone Gran Siniscalco cognato di Majone, ed egli avendo in cotal guisa sedati i tumulti del Regno in Palermo ritornossene.

Non minor felicità sperimentò Guglielmo nella guerra, che poco da poi mosse all'Imperador Emanuele, poichè avendo ragunata una grande armata sotto il comando di Stefano fratello di Majone, questi alle riviere del Peloponeso combattè con tanta felicità quella del Greco, che n'ottenne piena vittoria. Per la qual cosa sbigottito Emanuele proccurò aver pace con Guglielmo, ed avendogli mandati suoi Ambasciadori, alla fine l'ottenne, e furon riposti in libertà tutti i Greci, ch'erano in Sicilia; ed Emanuele, ciò che prima egli ed i suoi predecessori non vollero in conto alcuno mai fare, da questo tempo in poi riconobbe e chiamò Guglielmo Re[18]; e fu fra di loro stabilita pace sì ferma e costante, che da ora innanzi non si sentiranno più guerre tra i nostri Re normanni e gl'Imperadori d'Oriente.

Così Guglielmo racchetati i tumulti del Regno, e pacificatosi col Papa e coll'Imperador d'Oriente, si acquistò in questi principj del suo Regno il titolo di Magno; e poteva sperarsi, che lungamente durar dovesse questa pace, se Majone non la avesse turbata; perchè attribuendo il Re tutti questi felici successi alla sua condotta e prudenza, era giunto l'Ammiraglio a tanta potenza, che sembrava più tosto egli il Re, che Ammiraglio di Sicilia; onde diessi nuovo fomento a' mal soddisfatti Baroni di porre in campo quelle sedizioni e tumulti, che più innanzi saremo a narrare.

CAPITOLO I. L'Imperador Federico sdegnato col Papa della pace fatta con Guglielmo cala di nuovo in Italia: tiene una Dieta in Roncaglia, e restituisce in Italia le regalie.

Intanto l'Imperador Federico informato dal Conte Roberto, dal Conte Andrea, e dagli altri ribelli del Re, li quali dopo la pace fatta nel precedente anno, erano fuggiti in Lombardia, come il Papa con occulte condizioni avea conchiusa la pace con Guglielmo, ed avea esclusi tutti gli altri: s'adirò fortemente contro Adriano, ed anco se ne querelò con tutti i Principi e Prelati tedeschi; donde i Vescovi di Germania non si trattennero sopra di ciò scrivere una lettera al Papa, ove fra l'altre cose gli rimproverarono questa pace[19].

Nè tralasciò l'istesso Imperadore con altra sua lettera dolersene con Eberardo Arcivescovo Salesburgense[20]; e perciò da quest'anno 1158 l'Imperadore si dichiarò nemico del Papa, siccome lo era di Guglielmo; e temendo che questi due insieme uniti estinguessero affatto in Italia l'autorità del suo Imperio, cominciò ad esser più terribile colle città di Lombardia, onde deliberò di passar tosto in Italia, come fece; ma con spiriti molto elevati e bizzarri; e calato in Lombardia, avendo vinti i Milanesi, e sottopostesi le città della medesima, assegnò secondo il costume dei suoi maggiori, una Dieta in Roncaglia per fermare gli articoli della pace, e per dare alcuni provvedimenti intorno allo stato di quelli provincia. Allora fu, che incontrandosi per via ad un bel castello, avendo dimandato di chi quello fosse, ed essendogli stato detto il padrone, alcuni adulatori gli risposero ch'era suo, poichè dell'Imperadore era il dominio di tutto il Mondo, e delle cose particolari ancora: altri, che erano della comitiva di Federico, non potendo soffrire una adulazione così sfacciata, si opposero a tal risposta: per lo che fra loro ne nacque un gran contrasto: l'Imperadore ordinò che in Roncaglia si fosse decisa tal disputa da' Sapienti e Giureconsulti della città di Lombardia, che doveano intervenire a quella Assemblea.

Dell'essersi negli anni precedenti, imperando Lotario, ritrovate le Pandette in Amalfi, e trasportate in Pisa, e l'aver Irnerio, come si disse, in Bologna impiegati tutti i suoi talenti sopra di quelle, con esporle, e pubblicamente insegnarle, ne avvenne che dalla sua Scuola ne fossero sorti molti, i quali seguitando le sue pedate a null'altro intesero, che allo studio delle medesime, e degli altri libri di Giustiniano. Quindi nacque, che nelle città d'Italia, molti tratti dalla novità, e dalla eleganza e sapienza di quelle leggi, v'impiegavano tutto il loro studio per apprenderle; onde dalla scuola d'Irnerio n'uscirono, come dal cavallo trojano, molti Giureconsulti, e lo studio della giurisprudenza romana era frequentatissimo non meno por gli ascoltatori, che per coloro che l'insegnavano; ma perchè questo studio surse in un secolo pur troppo incolto, e che senza l'ajuto degli altri libri latini, e dell'istoria romana, e dell'erudizione, non potevano queste leggi ben intendersi: quindi nacque, che i primi che l'insegnarono, a cui mancavano tanti ajuti, in molti errori e puerilità incorsero: vizio loro non già, ma del secolo: poichè all'incontro alcuni di essi furono d'ingegno meraviglioso; e se mancò l'erudizione e l'istoria, si vede che gl'ingegni al Mondo non sono mai mancati, perchè la natura con costante tenore serba le sue leggi, ed ha ugualmente a tutti distribuiti i talenti.

Per queste cagioni leggendo essi in alcune leggi delle Pandette, che l'Imperador Antonio[21] si chiamava Signore dell'universo Mondo: e che Ulpiano[22] scrisse, che siccome il Popolo romano poteva dar la libertà a' servi de' particolari, così anche poteva farlo l'Imperadore; e leggendo ancora nel Codice[23] quel che Giustiniano disse, che tutte le cose erano del Principe: credettero che l'istesso potesse dirsi di Federico; onde fu cosa molto facile di persuadere, essere egli Signore del Mondo, e delle cose ancora de' privati. Erano in questi tempi dalla scuola d'Irnerio usciti molti Giureconsulti. Surse Placentino in Montepessulo, il quale fu il primo che da Italia propagò lo studio della giurisprudenza romana in Francia. Fiorivan in Bologna Bagarotto e Giovanni Basiano ed in Padova Antonio Lyo; ma sopra tutti a questi tempi si distinsero in Bologna, dove insegnavano, quattro Giureconsulti, i quali eransi resi per la loro dottrina così celebri e rinomati, che l'Imperador Federico nelle deliberazioni più gravi gli chiamava al suo Consiglio, ed aveagli per suoi Assessori, come scrive Radevico[24], non altrimenti che fecero gl'antichi Imperadori romani de' nostri Giureconsulti.

Furono questi Bulgaro, che nato in Pisa, insegnò nel principio legge in Bologna, dove poi dall'Imperador Federico fu creato Prefetto di quella città: Ugolino, che fiorì parimente in Bologna, Autore della decima Collazione, e Collettore de' libri de' Feudi e delle Costituzioni di Corrado, Lottario e Federico, le quali aggiunse alla nona Collazione dell' Autentico, come di qui a poco diremo: Martino ancor celebre in questo istesso tempo, il quale scrisse alcune chiose alle Pandette, le quali però furon sovente da' posteri rivocate in dubbio e rifiutate; e Giacomo, che Federico pur ebbe nel suo Consiglio. Ebbene ancor in Milano in questi tempi due altri: Oberto de Orto grand'Avvocato nella Curia di Milano, e Gerardo Negro, ovvero come altri lo chiamano Cagapisto, da' quali le Consuetudini feudali furon compilate, e ridotte in iscritto con altre leggi degl'Imperadori attenenti a' Feudi, come diremo.

Giunto l'Imperadore Federico in Roncaglia, Bulgaro e Martino furono deputati nella Dieta per sostenitori di quella disputa: Bulgaro condannò i lusingatori; ma all'incontro Martino sia per timore, o per amore, sostenne le parti di Federico con dire che l'Imperadore era Signore non meno del Mondo, che di tutte le cose particolari; ed in fatti appigliandosi Federico alla sua opinione, fu la disputa decisa a favor di Martino[25]. Ne nacque perciò che i Giureconsulti de' tempi posteriori sostennero l'opinion di Martino, e Bartolo arrivò in tale estremità, che disse esser eretico chi teneva altrimenti.

Questa disputa, che s'avrebbe potuto facilmente decidere con quel che dice Seneca, distinguendo il dominio privato, dalla dominazione pubblica ed eminente, decisa così assolutamente a favor di Federico cagionò a lui, ed a tutta la Lombardia perniziosissimi effetti; poichè secondo questa massima in quella Dieta impose leggi e condizioni molto rigorose alla Nobiltà, ed alle città di Lombardia. Proibì loro ogni Assemblea, e corpo di città, e sopra tutto tolse loro il potere, che aveano di crear Magistrati, mettendo in quelle Ufficiali del suo partito contro ciò, che per l'addietro si praticava: impose molte pene alle città, ed uomini che violassero queste leggi: e loro concedette una molto dura e gravosa pace, come si vede dalla sua Costituzione che stabilì in Roncaglia, e che noi abbiamo al quinto libro de' Feudi[26].

Ma non potè molto godersi di quella pace, ch'egli intendeva stabilire con condizioni sì dure; poichè appena ritornato in Alemagna, si rivoltò la Lombardia ben presto, onde fu obbligato di nuovo calar in Italia, ed assediar Milano, la quale dopo un lungo assedio, in cui valorosamente si difesero i Milanesi, finalmente fu presa; la ruinò Federico da' fondamenti riducendola in ville, ed insignoritosi affatto di tutta Lombardia, la pose perciò in una grandissima servitù.

Fu ancora in questi tempi, che oltre di aver più rigorosamente, che non fece Lotario, proibita l'alienazion de' Feudi per quella sua Costituzione[27], che ancor leggiamo ne' libri feudali: volle restituire in Italia le Regalie, e le ragioni sue fiscali, che gran tempo s'eran perdute, ed andate in disuso; costringendo perciò i Vescovi, i Proceri, e le città d'Italia a metterle in piede, ed a lui restituirle[28].

Tutto ciò, che presso i Romani si conteneva in quella divisione di beni, che altri fossero comuni, altri pubblici, altri delle Università, ed altri di niuno, si stabilì che s'appartenessero al Principe; restando solo agli altri que' beni, che a ciascuno singolarmente s'appartengono. Perciò i Principi s'hanno attribuito la proprietà del mare, de' fiumi navigabili, delle strade, dei campi, delle muraglie, e fossi della città, e generalmente ogni cosa, ch'è fuori del commercio, ed ancora quello ch'è nel commercio, ma che non ha padrone. E Federico, se bene non annoverasse tutto ciò nella sua Costituzione de Regalibus, noverò bensì le più segnalate e rilevanti regalie, come le fabbriche, e pubbliche armerie, che chiamò Armannie, le strade pubbliche, i fiumi navigabili, e quelli da' quali si fanno gli altri navigabili, e tutta l'utilità che perviene dal decorso di essi. I porti: i ripatichi: i vectigali: le monete: le multe: i beni vacanti: le pene: gli angarj: i parangarj: le prestazioni di navi e di carri: le estraordinarie collette: le miniere d'argento: le saline: le miniere, dalle quali si cava la pece, poichè anche, secondo scrive Plinio[29], si trova la pece fossile: le pescagioni: le caccie: i tesori: il crear Magistrati per amministrar giustizia, ed altre ragioni sue fiscali, le quali non nominò tutte in questa sua Costituzione, ma solamente quelle, ch'erano le più principali, e le quali in Italia per lungo tempo erano già andate in disusanza.

Dal che ne nacque, che quel che Federico fece nelle città sue d'Italia, vollero da poi imitare gli altri Principi ne' loro Reami, ed in alcune cose usarono maggior rigore, come fece il nostro Guglielmo, il quale non bastandogli ciò che Federico avea stabilito de' tesori, conforme alla Costituzione d'Adriano, che trovati in luogo pubblico o religioso per casualità, fosse la metà dell'inventore: stabilì una più dura legge, che in qualunque luogo, e in qualsivoglia modo ritrovati, tutti s'appartenessero al Re, come da una sua Costituzione, della quale, parlando delle altre leggi di questo Principe, farem parola.

In tale servitù avendo Federico ridotta la Lombardia, e nudrendo sì alte e bizzarre idee, disgustatosi col Papa per la pace, che questi avea fermata con Guglielmo: avvenne, che questi disgusti prorupper poi in una più grave discordia; poichè mentre ritornava da Roma in Alemagna l'Arcivescovo di London, fu per ordine dell'Imperadore questi preso: Adriano, che non men che teneva Federico dell'Imperio, avea egli del Ponteficato alti concetti, intesa la cattura dell'Arcivescovo, gli scrisse alcune lettere, che gliele fece recare dal Cardinal Rolando Cancellier di S. Chiesa, e da Bernardo Cardinal di S. Clemente, nelle quali l'ammoniva, che dovesse riporre in libertà l'Arcivescovo, e fra l'altre cose, rammentandogli i beneficj, che da lui avea ricevuti, gli scrisse ancora ch'egli l'Imperio lo dovea riconoscere dalla Chiesa di Roma, come beneficio di quella. Ciascuno può immaginarsi con quanto stomaco e stizza Federico sentisse tal proposizione: se ne sdegnò in maniera, ed entrò in tanta rabbia, che non solo non volle far nulla di quanto se gli domandava, ma rimproverò con tanta acerbità il Pontefice, che fu questi obbligato mandargli due altri Cardinali per placarlo; e bisognò che si ritrattasse di quanto avea scritto, con dire, ch'egli non avea per quelle parole inteso, che l'Imperio fosse Feudo della Chiesa, ma avea presa quella parola beneficio, pro bono, et facto junctum[30]. Infatti que' Cardinali ebbero molto che fare per racchetarlo; e sebbene poco da poi fossero di nuovo disgustati per cagion che Federico sovente impediva a' Ministri del Papa di raccor le rendite ecclesiastiche, volendo di più che s'eleggesse per Vescovo di Ravenna un tal Guidone, al che il Papa non voleva consentire, nulladimanco dopo varj trattati, furono un'altra volta pacificati.

Ma Adriano poco da poi, mentr'era in Alagna, finì i giorni suoi nel primo del mese di settembre di quest'anno 1159[31]. La di cui morte recò gravi incomodi e sconvolgimenti in Roma per lo scisma, che accadde nell'elezione del suo successore; poichè avendo la maggior parte de' Cardinali eletto Papa il Cardinal Rolando Cancelliere di S. Chiesa, che si nomò Alessandro III, di patria Senese, nel medesimo tempo coll'ajuto di Ottone Conte di Piacenza, e di Guido Conte Broccarense Ambasciadori di Federico, che allor dimoravano in Roma, Giovanni pisano Cardinal di S. Martino, e Guidone da Crema Cardinal di S. Calisto, crearono Antipapa Ottaviano di S. Cecilia, e gli poser nome Vittore IV, e passò tanto innanzi la loro arroganza, che assediarono Alessandro col Collegio de' Cardinali dentro la torre di S. Pietro, avendosi l'Antipapa con molta moneta, che lor diede, e col favor dell'Imperadore acquistato molti partigiani in Roma: onde Ottone Frangipane, con altri Nobili romani, sdegnati dell'indegnità di tal fatto, cavarono salvi di colà il Papa ed i Cardinali, e condottigli fuor di Roma in luogo sicuro, secondo il solito costume coronarono solennemente Alessandro; ed Ottaviano rimase in Roma: ove ritornato poi nel secondo anno del suo Ponteficato Alessandro, e vedendo non potervi dimorar sicuro per la potenza dell'Antipapa, lasciato in sua vece Legato in quella città Giulio Vescovo Prenestino, se ne andò a Terracina per navigare in Francia.

CAPITOLO II. I Baroni del Regno di Puglia cospirano contro Maione: Matteo Bonello l'uccide: e s'ordisce nuova congiura contro il Re Guglielmo per torgli il Regno, e darlo a Ruggiero suo figliuolo di nove anni.

Intanto il Re Guglielmo per opporsi a' disegni dell'Imperador Federico suo inimico, subito che ebbe udita l'elezion d'Alessandro, mandò suoi Ambasciadori a dargli ubbidienza, e riconoscerlo per vero e legittimo Pontefice; ed intendendo poi che il Papa voleva andare a Terracina per passare in Francia, fece trovare in quella città quattro galee ottimamente armate; acciocchè si fosse servito di quelle a suo piacere, nelle quali appena fu salito insieme co' Cardinali, che turbatosi il mare, sofferse tempestosa procella. Fu questa alleanza ed amicizia di Guglielmo con Alessandro sì profittevole al Re, che lo liberò da un grave intrigo, nel quale cercava porlo Majone, poichè questi meditando sempre come potesse porre in effetto i suoi ambiziosi disegni, tentò per mezzo d'uomini malvagi corrompere per via di molto denaro Alessandro, perchè ad esempio di Zaccaria, rimovesse dal Regno Guglielmo come Re inutile e malvagio, odioso a' Popoli, e non atto a tanto peso, e ne avesse investito lui, non altramente che fu fatto di Childerico in Francia, il quale fu deposto di quel Regno, ed in sua vece surrogato Pipino[32]. Ma il Pontefice Alessandro scorgendo la cupidigia di regnare, e la malvagità di Majone, detestò l'ardimento: e sparsasi la fama di tale scelleratezza, ch'avea tentato di commettere, e divolgata per la Sicilia e per la Puglia, gli accelerò la ruina; poichè dicendosi pubblicamente, che l'Ammiraglio, o avrebbe fatto morire il Re dentro il proprio palagio; o l'avrebbe posto in prigione, o confinatolo in qualche isola, per torgli il Regno: fu cagione, che cominciassero, fieramente sdegnate di tal fama, a tumultuare molte città in Puglia[33]. La prima fu Melfi, alla quale non molto da poi s'unirono le altre città, ferme di non volere più ubbidire nè lettera, nè cos'alcuna ordinata da Majone, e di non voler nè anche ricevere nelle terre i Capitani, che egli vi spediva. Fecero la medesima risoluzione molti Conti e Baroni, a' quali era sospetta la potenza del Tiranno, promettendosi l'un l'altro di proccurare con li maggiori loro sforzi di far morire l'Ammiraglio, e di non racchetarsi mai fin ch'egli non fosse o morto o mandato in bando. Unirono a quest'effetto grosso stuolo d'armati, scorrendo per tutta la Puglia e Terra di Lavoro, per obbligare tutte le altre città a doversi con esso loro unire, come fecero in effetto. Capi di tal congiura furono Gionata di Valvano Conte di Consa, Boemondo Conte di Manopello, Filippo Conte di Sangro, Ruggieri da Sanseverino Conte di Tricarico, Riccardo dell'Aquila Conte di Fondi, Ruggieri Conte della Cerra, e 'l Conte Gilberto cugino della Regina, a cui avea novellamente donato il Re il Contado di Gravina[34]. Vi fu anche Mario Borrello uomo di maravigliosa eloquenza, il qual vi trasse la città di Salerno, ove egli albergava, e vi avea grosso numero di partigiani, e vi concorse ancora la città di Napoli. Il Conte Andrea di Rupe Canina, il qual dimorava in Campagna di Roma, coll'occasione di tali rumori entrò con molti soldati in Campagna, e prese Aquino, Alife e San Germano, città poste alle falde di Monte Cassino, e salito il Monte combattè aspramente il monastero; ma ne fu ributtato da' suoi difensori[35].

Era pervenuta intanto alla notizia del Re la congiura de' Baroni, e delle città del Regno di Puglia, il quale se ne adirò grandemente, poichè amando teneramente Majone, ed avendo gran confidenza in lui, non poteva mai persuadersi tanta malvagità, ch'egli volesse dislealmente torgli la vita e 'l Regno. Per la qual cosa con particolari messi, e con sue lettere comandò espressamente a' Baroni e città tumultuanti, che si togliessero da tal proponimento: imperocch'egli tenea l'Ammiraglio per uomo a lui fedelissimo, e che altro non procacciava che il suo servigio; ma questi messi e queste lettere non partorirono effetto alcuno, poichè credutele dettate dall'Ammiraglio, si dichiararono apertamente col Re, di non volere a verun patto soffrire, che Majone avesse di lor governo o più gli comandasse. Nè minore era l'odio de' Siciliani, i quali come più prossimi al pericolo, non osavano ancora di discoprirsi, ancorchè avessero molto a grado i rumori de' Baroni di Puglia.

Or l'Ammiraglio, vedendo contro il creder suo, che le forze de' Congiurati ricevevano ogni giorno nuovo accrescimento, cominciò per tutti i lati a darvi rimedio: fece scrivere dal Re alle città d'Amalfi e di Sorrento, che ancor dimoravano in fede: il simile fece fare alle città di Taranto, Otranto, Brindisi e Barletta, ammonendole, che non si movessero per tali rumori, nè credessero alle dicerie di que' falsi Conti, nè si mischiassero perciò fra la turba de' suoi rubelli. Ma nè anche cotai lettere furono ricevute, riputandole fatte per mano di traditori, e che si scriveva in quelle l'intendimento di Majone, e non l'utile e 'l servigio del Re. Scrisse ancora l'Ammiraglio a Stefano suo fratello, ch'era al presidio della Puglia, che si opponesse valorosamente a' moti del Conte Roberto, e che proccurasse con larghe promesse acquistarsi partigiani. Inviò di più il Vescovo di Mazzara Ambasciadore a Melfi di Puglia in nome del Re per racchetar quel Popolo; ma il Vescovo fece tutto il contrario, perchè l'animò a mantenersi nel lor proponimento contro il Tiranno, narrando di lui scelleraggini assai maggiori di quelle ch'essi sapevano. E cominciando in questo la Calabria a tumultuare anch'ella con l'esempio della vicina Puglia, pose maggior terrore in Majone; laonde giudicò inviar colà uomo di tanta stima, che gli fosse stato agevole con la sua autorità sedar que' rumori, ed avendovi maturamente pensato, giudicò esser buono per tal bisogno Matteo Bonello. Era costui per nobiltà di sangue assai chiaro, e splendido per molte ricchezze; ma ciò che più in lui s'ammirava era la beltà del volto, la robustezza del corpo e più il valor del suo animo. Il perchè non solo in Sicilia, ma ancora in Calabria, ove avea nobilissimi parentadi, era assai chiaro e famoso; ed era per sì lodevoli parti grandemente amato dall'Ammiraglio, dal quale per ciò era stato destinato per marito d'una sua figliuola ancor fanciulla[36]. Ma adombravano queste sue eccelse doti, l'esser d'animo inconstante ed agevolissimo a cangiar pensiero, audace e temerario a promettersi di se qualunque cosa; e benchè fosse egli cotanto amato dall'Ammiraglio, l'odiava nondimeno acerbamente per cagion, che per volere dargli per moglie sua figliuola, gli aveva sturbate le nozze, che intendeva di fare (sdegnando l'ignobilità di Majone) con Clemenzia Contessa di Catanzaro, figliuola bastarda come si disse, del Re Ruggiero, e rimasa vedova di Ugone di Molino Conte di Molise, la quale per esser di vago e gentile aspetto, era da Bonello focosamente amata, ed egli vicendevolmente riamato da lei; onde impedendo Majone il lor concorde volere, ne era tanto maggiormente da entrambi odiato.

Ricevuti intanto il Bonello gli ordini opportuni per la sua partita, e accommiatatosi dal Re, valicato il Faro se n'andò in Calabria, ed abboccatosi colà in un giorno statuito co' Baroni della provincia, si sforzò con molte ragioni (simulando altro di quel che avea nel pensiero) di persuader loro, che l'Ammiraglio era innocente di tutto quel male, che se gli opponeva. Ma surto fra que' Baroni Ruggiero di Martorano della famiglia Sanseverino, uomo savissimo, e di grande stima, gli rispose in nome di tutti con tanta forza ed energia, che non solo lo trasse al suo partito; ma di vantaggio inanimandolo, che niun altro meglio di lui poteva porre tutti in libertà con toglier la vita al Tiranno, colla certezza che gli diedero, che tutti si sarebbero adoperati, morto Majone, acciocchè avesse per moglie la Contessa di Catanzaro: s'unì per tanto strettissimamente con loro, e promise fermamente di dar morte fra breve spazio all'Ammiraglio.

Ma accidente più grave accelerò la ruina di Majone; poichè avendo egli disposte tutte le cose per mandar ad effetto la morte del Re, avvicinandosi già il giorno di sì funesta tragedia, prima d'eseguirla volle concertare con l'Arcivescovo Ugone del modo che avean da tenere, perchè il Popolo non tumultuasse quando il caso si fosse divulgato, ed insieme del modo che avean da tenere per reggere per l'avvenire il Regno[37]; sopra di che insorse fra di loro grave discordia, poichè l'Ammiraglio pretendea, che la tutela dei piccioli figliuoli del Re, e la custodia de' tesori, e di tutto il palagio reale a lui commetter si dovesse: all'incontro l'Arcivescovo la pretendea per se, perchè dicea, che in tal maniera il Popolo non avrebbe tumultuato, siccome avrebbero fatto certamente, se avessero veduto l'Ammiraglio prender la cura della casa regale, di cui di leggieri avrebber sospettato, che i figliuoli dovessero capitar male, già che da tutti si teneva per cosa sicura, ch'egli aspirava al Regno: la qual cosa non si poteva dubitare de' Prelati, nè di altre persone di Chiesa, che a ciò non potevan aspirare; il perchè era di dovere, che in lor potere si desse la custodia de' figliuoli, e de' tesori del morto Re; ma contraddicendo apertamente l'Ammiraglio, come a cosa, ch'era affatto contraria al suo intendimento, con dire ch'egli ciò non meritava da lui, il quale per sua opera era pervenuto a tanta grandezza, finalmente dopo altre assai acerbe parole, si dipartirono scovertamente nemici. Cagione che non passò guari, che l'Ammiraglio il pose in disgrazia del Re, che credea tutto quel che Majone dicea, al quale avendo persuaso che si facesse pagar dall'Arcivescovo 700 oncie d'oro, di cui gli era debitore, il Re, essendo oltre modo avaro, agevolmente acconsentì; onde l'Arcivescovo riconoscendo il tutto da' mali ufficj di Majone, cominciò seriamente ad odiarlo, e di stretti amici, che prima erano, divenuti veri nemici, cercavano entrambi di far l'un l'altro mal capitare. L'Ammiraglio propose di avvelenar l'Arcivescovo, e l'Arcivescovo sospettando di ciò se ne guardava con gran diligenza, e nel medesimo tempo confortava la plebe, i soldati e gli uomini illustri a far movimento contro Majone e dargli la morte. Intanto Matteo Bonello ritornato in Palermo, ed assicurato l'Ammiraglio, che erasi già di lui insospettito, dandogli ad intendere che avea composti felicemente i moti della Calabria, se ne andò secretamente a ritrovar l'Arcivescovo Ugone, il qual dimorava infermo in letto, e gli diè conto di ciò, che si era fatto insino allora, e l'Arcivescovo il consigliò, che di presente avesse posto ad esecuzione il fatto, perciò che sì importante negozio malagevolmente si potea più differire senza grave pericolo di scoprirsi; onde il Bonello, già al tutto risoluto, cercava con molta diligenza tempo opportuno per compirlo; e la fortuna volendo accelerar la morte dell'Ammiraglio, non guari passò, che gliene porse opportuna occasione.

Avea già Majone, per opra d'un famigliar dell'Arcivescovo da lui corrotto con doni e con larghe promesse, fattogli dare il veleno, dal quale era stato cagionato il suo male; ma perch'era stato leggiero dubitava, che per mezzo d'opportuni rimedi ricovrasse sua salute; ed impaziente ch'ei tardasse tanto a morire, ne fece preparare un altro assai più potente e di presta operazione, del quale empiuto un vasello, recandolo seco andossene a ritrovar l'Arcivescovo, ed assisosi vicino al letto, in cui giaceva, cominciò amorevolmente a domandargli della sua salute: indi soggiunse, che se e' creder volesse al consiglio de' suoi amici, agevolmente guarirebbe del suo male con torre una medicina ottima per la sua indisposizione, che egli in sua presenza per l'amor, che gli portava, avea fatto comporre, e seco recata avea; ma l'Arcivescovo accortosi dell'inganno, rispose esser tanto infiebolito dal male, ed il suo stomaco così debilitato, che non solo abborriva qualunque bevanda, ma il cibo ancora, che con gran difficoltà prendea; e sollecitandolo sfacciatamente l'Ammiraglio, non ostante tal risposta, a prender il medicamento, per non dargli ad intendere, che s'era avveduto del tradimento, rispose che si serbasse quella medicina per un altro giorno che l'avrebbe presa: indi ragionando insieme parole di molta confidenza ed amore, cercava l'un l'altro tradire e condurre a morte con sfacciata simulazione, e volle la fortuna, che amendue ottenessero il lor volere; poichè Majone per opera dell'Arcivescovo fu la medesima sera ucciso, come ora diremo, e l'Arcivescovo non guari da poi morì per lo veleno datogli prima per opra dell'Ammiraglio, benchè fosse in ciò Ugone più felice, perchè vide morire il suo nemico prima di lui. Avea l'Arcivescovo, mentre teneva in parole l'Ammiraglio, inviato per mezzo del Vescovo di Messina, che gli sedeva a lato presso al letto, a dire a Matteo Bonello, che quella sera era il tempo opportuno, nel quale poteva porre felicemente in effetto il suo disegno; per la qual cosa il Bonello, già risoluto al misfatto, raunò prestamente alquanti uomini armati, e quelli rincorati a tale affare in vari luoghi dispose, acciocchè non avesse potuto da parte alcuna scampar Majone, ed egli con buon numero di quelli si pose su la porta di Santa Agata, di dove più ragionevolmente dovea passare per ritornar nel palazzo reale: ed avendo significato all'Arcivescovo esser tutto all'ordine, essendo già sopravvenuta in notte oscura, attendeva il ritorno dell'Ammiraglio il quale alla fine togliendo commiato dall'Arcivescovo, di colà si partì. Ma in questo, passando per lo luogo, ove avea tese l'insidie il Bonello, alcuni del suo seguito s'avvidero della sua intenzione, ed incontanente girono a ritrovar Majone, ed incontrandolo per lo cammino, che verso là veniva, gli narrarono tal fatto; onde egli smarrito del prossimo periglio comandò, che si dicesse al Bonello, che venisse a lui, il quale conoscendo esser già scoverto, e non esser più tempo da fingere, cavata fuori la spada, valorosamente l'assalì dicendo: Traditore, son qui per ucciderti, e per metter fine colla tua morte alle tue malvagità, e tor via dal Mondo l'adultero del Re; ed avendo sviato l'Ammiraglio il primo colpo che gli trasse Bonello, cadde a terra moribondo trafitto dal secondo, e di presente finì i suoi giorni[38], ponendosi vergognosamente in fuga, senza dargli aiuto veruno, la folta turba de' suoi partigiani, che lo seguiva. Ecco dove andarono a terminare gli ambiziosi desiderj di Majone da Bari, Grand'Ammiraglio di Sicilia, il quale nato di vilissima schiatta, fu dalla fortuna a grande altezza sollevato, e se ne sia lecito alle grandi le piccole cose paragonare, fu egli assai simigliante a Sejano. L'uno e l'altro umilmente nato, per mezzo del favor de' padroni in grande stato lungamente visse: amendue colmi di grandissime malvagità afflissero il real legnaggio, ed i nobili uomini de' Reami de' loro Signori; amendue essendo adulteri della casa reale procacciarono con il consentimento delle mogli de' padroni, il primo di far morire, come in effetto avvenne, il figliuolo del suo Imperadore, e l'altro (benchè nol potesse recare a fine) il proprio Re; amendue tentarono d'usurparsi la Signoria che governavano, ed amendue alla fine morirono di malvagia morte; diversi sì bene furono nel modo del morire; imperocchè Sejano, essendosi Tiberio per la sua sagacità avveduto del tradimento, fu fatto morire per man di boia, e Majone per la stupidità di Guglielmo, che di nulla curava, morì ucciso da' congiurati, che le sue scelleraggini soffrir più non potevano.

Intanto il Bonello, non sapendo quel che s'avrebbe fatto il Re, nè tenendosi perciò sicuro in Palermo, si ricovrò a Cacabo suo castello, e colà con tutti i suoi si fortificò; ed il Popolo palermitano intesa la morte dell'Ammiraglio, scoprendo apertamente il gravissimo odio, che gli portava, cominciò a straziare vilmente il suo cadavero, rinovandogli altri le ferite, ed altri facendogli mille ignominiosi scherni. Il Re Guglielmo, essendo già molte ore della notte passate, si maravigliava dell'inusitato tumulto, che dal suo palagio nella città s'udiva; ma essendogli da Odone Maestro della stalla reale, che perciò a lui veniva, narrato il tutto, si sdegnò gravemente di tale avvenimento, dicendo, che se l'Ammiraglio avea contro lui fallato, toccava a lui, e non ad altri di dargli castigo; e la Regina più gravemente del Re sdegnata per l'amore, che portava all'adultero, si accese di gravissima ira contro il Bonello e gli altri congiurati. Ma il Re, temendo non succedesse maggior rivoltura per tale cagione nel Popolo palermitano, e che non malmenassero i parenti del morto, e mandassero a ruba le lor case, e quelle del medesimo Ammiraglio, fece tutta la notte da grosso stuolo d'armati circuir la città e guardarla con molta diligenza. Venuto poi il nuovo giorno il Re diede la cura d'esercitar l'Ufficio d'Ammiraglio, sin ch'egli avesse altro disposto, ad Errico Aristippo Arcidiacono di Catania suo famigliare[39], uomo di piacevole e mansueto ingegno, ed assai dotto nelle latine e nelle greche scritture, col cui consiglio cominciò a guidar gli affari del Regno; ed avendogli il nuovo Ammiraglio ed il Conte Silvestro palesata la congiura, che avea fatto contro di lui Majone, cercarono con varie persuasioni raddolcire il suo animo fieramente sdegnato contro il Bonello, benchè giammai poterono indurlo a perdonargli, fin che fra i tesori del morto non fur trovati lo scettro, il diadema e le altre insegne reali: le quali facendo manifesta fede della sua scelleraggine, fur cagione, ch'ei racchetasse il suo sdegno, e facesse tantosto porre in prigione i due Stefani, l'un fratello e l'altro figliuolo di Majone, e Matteo Notaio suo strettissimo amico, facendo parimente condurre nel reale Ostello tutti i tesori del morto, che ritrovar si poterono, e facendo collare Andrea Eunuco, e molti altri famigliari dell'Ammiraglio per rinvenire ove erano ascosi gli altri, e spaventare insiememente con gravi minacce il figliuolo Stefano, se non palesava anch'egli quel che ne sapea; per detto del quale fu ritrovata grossa somma di moneta in balia del Vescovo di Tropea, che richiestone dal Re prestamente glie la recò. Dopo la qual cosa inviò Guglielmo suoi messi a Cacabo a dire al Bonello, che per le malvagità che dell'Ammiraglio novellamente avea udite, gli era stata a grado la morte a lui data, e che perciò ne venisse sicuramente a lui. Ricevuta Bonello tale imbasciata, confidato ancora nell'amor de' Baroni e del Popolo, e nel presidio di molti suoi soldati, che seco condusse, tantosto venne in Palermo, dove entrando se gli fece all'incontro innumerabil turba così d'uomini, come di donne, che con gran festa l'accolsero, ed insino al palazzo reale l'accompagnarono, ove fu lietamente accolto dal Re, che il ricevette in sua grazia. E da lui partendosi, fu da' maggiori personaggi della Corte con la medesima frequenza di Popolo insino a sua casa onorevolmente condotto, e non solo in Palermo, ma per tutta la Sicilia, e per gli altri Stati ancora del Re Guglielmo, si rese così chiaro e famoso il Bonello, che acquistonne l'amore e 'l buon volere di tutti.

Ma vedi l'incostanza delle cose mondane: questa istessa grande sua felicità, prestamente si convertì in sua grave ruina; poichè gli Eunuchi del palazzo reale, ch'erano stati compagni di Majone nel congiurar contro il Re, insieme con la Regina, dispiacendogli grandemente tanta grandezza di Bonello, e temendo non alla fine contro a loro si convertisse, cominciarono in varie maniere a porlo in odio al Re, con fargli sospetta la potenza di lui; dicendogli che apertamente aspirava a farsi Signor di Sicilia, e che perciò l'amor de' Popoli e de' Baroni s'acquistava; nè ad altro fine esser stato da lui ucciso innocentemente l'Ammiraglio, che per torre di mezzo colui, che sempre vigilava per la sicurezza e grandezza del Re, essendo state manifeste falsità tutte le cose, che se gli erano apposte; e che il diadema e l'altre regie insegne, che s'erano ritrovate fra' suoi tesori, l'avea fatte fare il morto, per donarle a lui nel principio del prossimo mese di gennaio per offerta[40]. Era il Re, fra gli agi del real palazzo, ed il lungo ozio, venuto in tale infingardaggine e stupidezza, che toltone la cura, alla quale era dalla sua avarizia stimulato, di cumulare tesori, imponendo perciò gravezze intollerabili a' suoi vassalli, onde riportonne il titolo di Malo, era assai diverso da quel di prima divenuto; e già cominciava a sentir dello scemo, onde di poca levatura avea mestiere perchè fossero credute da lui tutte quelle cose che s'imputavano a Bonello, onde cominciò ad odiarlo, ed a credere, che non per altro avesse tolto di vita Majone, che per potere anche poi uccidere più liberamente lui. E benchè e' fosse facile ad incrudelire, pure soprastette in procedere contro Bonello, temendo dell'amor, che gli portava il Popolo di Palermo, il qual vedeva ancor tumultuante, e non bene racchetato. Incominciò sì bene a richiedere al Bonello grossa somma di denaro, del quale era per addietro debitore alla real Corona; ma come genero di Majone, non sapendolo il Re, non s'era riscosso. Il perchè il Bonello vedendosi chiedere improviso un debito vecchio, e già dimenticato, e di rado chiamare in Corte, e non esser colà ricevuto con le primiere accoglienze, cominciò a maravigliarsi, ed a gir ripensando onde sì fatta mutazione cagionar si potesse, accrescendogli il sospetto e 'l timore il veder molto favorito dal Re Adinolfo Cameriero già carissimo a Majone, e tanto costui, quanto gli altri suoi nemici mostrargli con molta audacia apertamente l'odio, che gli portavano. Ed essendo in que' giorni morto l'Arcivescovo Ugone per lo veleno datogli per opra dell'Ammiraglio, rimasto privo del suo consiglio e del suo aiuto, era più scovertamente perseguitato dagli emuli suoi; le quali cose giudicava esser segno assai chiaro, che l'animo del Re era cangiato verso di lui, e che perciò i suoi nemici avean presa audacia d'insidiargli anche la vita. Per la qual cosa si risolvè di significare il tutto a Matteo Santa Lucia suo consobrino, ed a molti altri Baroni siciliani, i quali chiamati per sue lettere eran venuti a Palermo, dando loro a vedere, che in vece d'esser largamente premiato, per aver con la morte data all'Ammiraglio salvata la vita al Re, veniva ora da costui, per aggradire alla Regina sua moglie, ed agli Eunuchi del palazzo, costretto a pagare i debiti vecchi, e in molte altre guise gravemente perseguitato e condotto a periglio di dover perderne la vita; onde gli pregava, che non l'avessero abbandonato in sì gravi travagli, perchè se fossero stati uniti strettamente insieme, non gli sarebbe mancato il modo da far generosamente difesa contro chiunque gli avesse voluto offendere. Queste parole di Bonello cagionarono negli animi di que' Baroni effetti molto più vantaggiosi di quel che s'avrebbe egli mai potuto promettere, perchè trovandogli molto disposti a' suoi desiderj, dopo vari discorsi alla fine conchiusero di tor via il Capo di tanti mali e congiurarono contro il Re, con intendimento d'ucciderlo, o di porlo in prigione, e crear Re il suo figliuolo, nomato Ruggieri, fanciullo ora di nove anni, il quale per la memoria dell'avolo, e per la virtù, che in quella tenera età dimostrava, stimavano dover riuscire ottimo Principe[41]; ma perchè non giudicavano convenevole porsi essi soli a così gran fatto, trassero parimente nella congiura Simone figliuol bastardo del Re Ruggieri, che odiava fieramente il fratello per avergli costui tolto il Principato di Taranto lasciatogli dal padre, e datogli in vece il Contado di Policastro. Vi trassero ancora Tancredi figliuolo di Ruggiero Duca di Puglia, uomo benchè alquanto cagionevole della persona, dotato nondimeno di grande avvedimento, e di sommo valore, il quale era d'ordine di Guglielmo tenuto a guisa di prigioniero dentro il palazzo reale; e Ruggieri dell'Aquila Conte d'Avellino parente anch'egli del Re per cagione dell'avola Adelasia; ed era il loro intendimento di crear Re il fanciullo Ruggieri, acciocchè si vedesse da' Popoli di Sicilia, che non volean torre il Regno alla schiatta di Guglielmo, ma torlo a lui, che con tirannide il reggea. Infatti avendo corrotto Gavarretto, che avea in suo potere le chiavi delle prigioni, e che sovente da Malgerio era lasciato in suo luogo alla guardia del castello, rimasero seco d'accordo, che in uno statuito giorno ponesse in libertà tutti i prigioni, che essi volevano che fosser nella congiura, e provedutigli d'arme, avesse lor significato, con un segno fra di loro ordinato, essere il fatto in ordine. Dopo la qual cosa Matteo Bonello ne andò a Mistretto suo castello non guari da Palermo lontano, per riporvi vittovaglie e munirlo di soldati insieme con alcuni altri suoi luoghi, acciocchè avesser potuto ricovrarsi in quello in ogni sinistro avvenimento, dicendo a suoi compagni, che sino al suo ritorno non avesser fatto nulla ed avessero il segreto con prudenza custodito, e se cosa alcuna importante fosse improvisamente avvenuta, l'avessero con lor lettere chiamato, che sarebbe di presente ritornato alla città con grosso stuolo d'armati. Or dimorando nelle sue terre il Bonello avvenne che un de' congiurati palesò il negozio ad un soldato suo amico, cercando di trarlo nella congiura, e 'l soldato avendo con molta diligenza raccolto il tutto gli rese grazie, e prese tempo a dargli risposta di quel, che avesse risoluto di fare insino al seguente giorno; indi se ne andò a ritrovar un altro suo amico, che era uno de' congiurati, al quale con indignazione comunicò tal fatto, con risoluzione di doverlo rivelare al Re per impedire tanta scelleraggine, che avrebbe portata grand'infamia a' Siciliani, dove in sì fatta guisa facessero mal menare il lor Signore. Questi dissimulando il fatto, e mostrando anch'egli sdegnarsi di tal cosa, tosto andò a ritrovar il Conte Simone, e gli altri Capi del trattato, e gli riferì tutto quel che per poca accortezza de' compagni era avvenuto, con dirgli che deliberato avessero quella notte di quello che a fare aveano, perchè la mattina senza fallo Guglielmo avrebbe avuto contezza di tutto. Il perchè smarriti del vicin pericolo, conchiusero di porre prestamente ad esecuzione il negozio, non essendovi tempo di fare venire il Bonello. Avvisato dunque il custode delle carceri, che nel seguente giorno, già che non si potea attendere il prefisso tempo, avesse posti in libertà i prigioni, ebber da lui risposta essere all'ordine per eseguire il tutto nella terza ora del dì, mentre il Re fuori delle sue stanze in un luogo particolare, ove solea dare audienza, sarebbe stato trattando con l'Ammiraglio Arcidiacono di Catania degli affari del Regno, ed ivi senza tumulto ed impedimento alcuno si potea, o uccidere, o far prigione, come meglio avesser voluto; laonde con la certezza di tal fatto dettogli così fedelmente dal Gavarretto, rinfrancarono i congiurati gli animi già in parte smarriti, sì per l'assenza di Bonello e degli altri, che n'erano seco giti a Mistretto, come ancora perchè bisognava far frettolosamente quel che con maturo consiglio e con opportuno tempo avean conchiuso di fare.

Or venuto il nuovo dì il Gavarretto nell'ora destinata eseguì con molta accortezza la bisogna a lui commessa, cavando di prigione Guglielmo Conte di Principato con tutti gli altri uomini nobili che colà erano, i quali avea prima proveduti d'armi, e gli condusse nel luogo ove introdotti avea di fuora i lor compagni, li quali postisi appresso al Conte Simone, ch'era lor guida, che per essere allevato colà dentro sapea tutte le vie dell'Ostello, giunsero ove il Re Guglielmo stava ragionando con Errico Aristippo. Ma il Re veggendo venire il Conte Simone suo fratello e Tancredi suo nipote, si sdegnò, che senza sua licenza gli venissero innanzi, maravigliandosi come le guardie gli avesser lasciati entrare; pure come s'avvide ch'eran seguiti da grossa schiera d'armati, immaginandosi quel che veniano per fare, spaventato dal timor della morte si volle porre in fuga, ma sovraggiunto prestamente da molti di essi, rimase preso, e mentre gli era da loro con acerbe parole rimproverata la sua tirannide, vedendo venirsi sopra con le spade sfoderate Guglielmo Conte di Lesina, e Roberto Bovense uomini feroci e crudeli, pregò coloro che lo tenevano, che non l'avessero fatto uccidere, ch'egli avrebbe incontanente lasciato il Regno; tenendo per sicuro, che i congiurati gli volesser torre la vita; la qual cosa gli sarebbe agevolmente avvenuta, se Riccardo Mandra ponendosi in mezzo non gli avesse raffrenati, rimanendo per sua opera in vita il Re, il quale fu posto strettamente in prigione; ad avendo fatta anche in una camera guardare onestamente la Reina ed i figliuoli, si posero a ricercare i luoghi più riposti del palagio, ponendo il tutto a ruba, e predando le più pregiate gemme e le più preziose suppellettili che v'erano, non risparmiando nè anche l'onore delle vaghe damigelle della Regina[42]. Uccisero parimente tutti gli Eunuchi, che loro alle mani capitarono, ed usciti poscia nella città saccheggiarono molte ricche merci de' Saraceni, che teneano nelle lor botteghe o nella real dogana. Dopo i quali avvenimenti il Conte Simone, ed i suoi seguaci presero Ruggiero Duca di Puglia primogenito di Guglielmo, e cavandolo fuori del palagio il ferono cavalcar per Palermo sopra un bianco destriere, e mostrandolo al Popolo, il gridarono con allegre voci Re, essendo lietamente ricevuto da tutti per la memoria dell'avolo Ruggiero, e sovrastettero a coronarlo solennemente, sin che giungesse il Bonello, che a momenti s'aspettava. Gualtieri Arcidiacono di Ceffalù maestro del fanciullo, biasimando in questo mentre la crudeltà e le altre malvagità di Guglielmo pubblicamente, e convocando le brigate dicea loro, che giurassero d'ubbidire al Principe Simone, che così esso il chiamava, il quale avrebbe retto e governato il Regno insino che il fanciullo Re fosse giunto all'età idonea; per opera del qual Gualtieri fecero molti tal giuramento, ed altri negarono costantemente di farlo, benchè niuno avesse ardimento d'opporsi a' congiurati; perciocchè de' Vescovi, ch'erano allora nella città, ed avean molta autorità nel governo del Reame, alcuni lodavano tai cose apertamente, ed altri l'approvavano col tacere, stando cheta la plebe per intendere, che il tutto era avvenuto per opra del Bonello. Ma tardando esso a venire, si partirono di Palermo Guglielmo Conte di Principato, e Tancredi Conte di Lecce, e ne girono a Mistretto per condurlo nella città con suoi soldati armati, temendo non alla fine, come appunto avvenne, cominciasse il Popolo palermitano a favoreggiare il Re, e lo riponesse in libertà.

Essendo intanto passati tre giorni in cotai pratiche, e che il Re dimorava in prigione, non comparendo altrimenti il Bonello, cominciarono Romualdo Arcivescovo di Salerno, Roberto Arcivescovo di Messina, Riccardo Eletto di Siracusa e Giustino Vescovo di Mazzara a persuadere a' Parlamenti, che facessero sprigionar il Re, dicendo ch'era laida e sconvenevol cosa a soffrire, che il lor Signore fosse così obbrobriosamente tenuto in prigione, e che i tesori acquistati con molta fatica per la diligenza d'ottimo Re, e bisognevoli per la difesa del Reame fossero in sì fatta guisa rubati e ridotti a nulla[43]. Queste parole dette, ed ascoltate primieramente fra pochi, si sparsero poscia tantosto fra tutto il volgo; onde come fossero stati a ciò chiamati da divino oracolo, o se seguitassero un fortissimo capitano, armatisi tutti, assediarono il palagio, richiedendo con fiere voci a coloro ch'eran colà entro, che avessero prestamente liberato il Re. I congiurati attoniti e smarriti per sì subita mutazione, cominciarono da prima valorosamente a difendersi, ma conoscendo tutto esser vano, non essendo bastevole il lor numero a difendersi contro moltitudine sì adirata, costretti da dura necessità ne girono al Re, e trattolo di prigione patteggiarono con lui, che gli avesse lasciati gir via liberi, ed indi il condussero ad un verone a vista di tutti. Ma veduto i Palermitani in tale stato il loro Re, vennero in maggior rabbia, volendo in tutti i modi gittar le porte a terra, ed entrar a prender vendetta de' congiurati, i quali vi sarebbero senza fallo mal capitati, se Guglielmo facendo lor cenno con mano, non gli avesse racchetati, dicendogli aver bastevolmente fatto conoscere la lor fedeltà, con averlo fatto porre in libertà, e che riponessero l'armi, e ne lasciassero gir via liberi coloro, che l'avean preso, avendo così loro promesso: alle cui parole ubbidendo, tutti andarono via, lasciando libera l'uscita del castello, ed i congiurati uscendo di là, tantosto si partirono da Palermo, e ritiraronsi a Cacabo.

CAPITOLO III. Il Re Guglielmo posto in libertà ripiglia il governo del Regno: morte di Ruggiero suo primogenito; e nuovi tumulti in Palermo ed in Puglia, che finalmente si quietano per la morte del Bonello e degli altri congiurati.

Apportò questo avvenimento in breve tempo asprissime calamità alla Sicilia; perciocchè non solo molti nobilissimi Baroni per tal cagione mal capitarono, e ne andarono a male buona parte de' tesori reali, ma ne morì parimente il Duca Ruggieri, che sin d'allora dava chiari segni d'aver a riuscir ottimo Principe, il quale mentre nel tumulto fatto dal Popolo con poco avvedimento sporgendo il capo in fuori d'una finestra guardava coloro, che assediavano il palazzo, fu ferito d'una saetta tirata, siccome fu allora costante fama, da Dario portiero del Re; la ferita però non sarebbe stata bastevole a farlo morire, se il padre Guglielmo veggendoselo gir lieto dinanzi dopo esser stato posto in libertà, sdegnato, che l'avesser anteposto a lui, non badando, che il figliuolo non vi aveva colpa alcuna, non l'avesse sconciamente nel petto d'un fiero calcio percosso; onde raccontando Ruggiero quel che gli era col Re avvenuto alla Regina sua madre, non guari da poi uscì di vita.

Ravveduto Guglielmo della vergogna del misfatto, e degli altri mali che patiti avea, dimenticatosi d'esser Principe, e deposta la veste reale vilmente piangendo traea dolorosi guai, ed uscito quasi di se stesso non faceva, che dolersi amaramente, e con le porte aperte a chiunque entrar volesse, raccontava la sua sciagura; onde traeva lagrime eziandio da' suoi nemici medesimi. Ma alla fine avvertito da' famigliari e da' molti Prelati, ch'eran venuti a consolarlo, fece un giorno convocar il Popolo nella Corte del suo palazzo ove egli disceso, rese primieramente lor grazia della fedeltà dimostrata: indi gli esortò a durar nella medesima fede, e riputando essergli tutto ciò accaduto da giusto castigo, che gli dava meritamente Iddio, sarebbe da indi innanzi altrimenti vivuto; nè potendo, impedito dal dolore e dalle lagrime, dir più oltre; Riccardo Eletto di Siracusa, uomo di somma dottrina e di maravigliosa eloquenza, manifestò a quelle turbe più apertamente quanto il Re avea detto, e per testimonianza del suo buon volere concedette allora a' Palermitani molti privilegi e franchigie; la qual cosa tanto più fu lor gratissima, quanto che ottenuta in tempo, che men se 'l pensavano.

Avea intanto il Bonello intesa la novella della liberazion del Re, e se bene simulando il contrario mostrasse al medesimo il suo dispiacere, e che egli non vi avea tenuto parte, ed il Re parimente accomodandosi al tempo, lo dissimulasse; pure l'unione scoverta a Cacabo di molti Baroni insieme con lui, non potè più dissimularsi, poichè il Conte Simone, Tancredi Conte di Lecce, Guglielmo Conte di Lesina, Alessandro Conte di Conversano, Ruggieri Sclavo, e tutti gli altri che avean posto il Re in prigione, si erano uniti a Cacabo con Bonello, ed avean con loro grosso numero di gente armata: il perchè Guglielmo inviò messi al Bonello a dimandare che volea dinotar quell'unione e que' soldati, e se egli non s'era mischiato co' consigli de' congiurati, come poi gli avea albergati nel suo castello: alla qual ambasciata egli rispose, che sarebbe stata gran crudeltà la sua a scacciar tanti Grandi del Regno, ch'erano ricorsi da lui per non esporsi alla sua indignazione, e che non poteva lasciare di dirgli, che se ben esaminasse i fatti suoi si sarebbe maravigliato, come potessero tanti uomini illustri soffrire il giogo di tante leggi gravose, che avea imposte, per opprimere la loro libertà: e fra l'altre, come potessero soffrire vedersi le loro figliuole in tutto il tempo della lor vita rimanere nelle loro case con perpetua virginità, non dando loro il permesso di poterle maritare, se non quando fossero senza speranza di prole, acciocchè i feudi ricadessero a lui: laonde se voleva ch'egli insieme con li congiurati vivessero seco in pace, che togliesse via le tante leggi, che nuovamente avea fatte per opprimere la loro libertà e restituisse le lodevoli costumanze, che furono nel Regno introdotte dagli avoli suoi Ruggiero Conte di Sicilia e dal famoso Roberto Guiscardo, e quelle osservasse, perchè altrimenti essi avrebbero procacciato di fargliele osservare per forza d'armi[44]. Dispiacque al Re sì ardita risposta, facendo loro incontanente significare, ch'egli prima si sarebbe contentato perdere il Reame e la vita appresso, che per tema di loro avesse a far cos'alcuna di quel che chiedevano; ma se deposte le armi, e rimessisi al suo arbitrio, dimandassero cose ragionevoli, egli agevolmente glie le avrebbe accordate. Al che non volendo essi in modo alcuno consentire, s'avviarono armati verso Palermo, ponendo que' cittadini in grandissimo terrore per la tema, ch'aveano non impedissero il venire delle vettovaglie nella città. All'incontro il Re ragunati molti soldati, deluse ogni loro sforzo; pure volendo ad ogni modo racchetar tal rivoltura, inviò di nuovo al Bonello Roberto da S. Giovanni Canonico di Palermo, uomo di chiaro nome e d'incorrotta fede, il quale colla sua efficacia e destrezza, pose il tutto in concordia, perdonando il Re a coloro, e dando loro galee armate, con le quali potessero liberamente uscir fuori del Regno, onde alcuni d'essi, ed il Conte Simone ne girono in Grecia, ed altri oltre mare in Gerusalemme. Ricevè in sua grazia Bonello: perdonò altresì a Ruggiero dell'Aquila Conte d'Avellino, sì per essere assai giovanetto, e per ciò più meritevole di perdono, sì anche per li prieghi, e per le lagrime dell'avola Adelasia consobrina del Re, la quale, non essendole rimasto altro erede di questo Conte, teneramente l'amava; e Riccardo Mandra che lo campò da morte, volle tenerlo presso di se, creandolo Gran Contestabile di Sicilia[45]. Ma non per ciò i mali della Sicilia ebbero fine, poichè Ruggiero Selavo figliuolo del Conte Simone, e Tancredi Conte di Lecce, con molti altri lor partigiani, i quali non aveano voluto concordarsi col Re, cominciarono ad occupare molte terre, ed a far danni gravissimi ne' vicini territori di Siracusa e di Catania. La novella del qual fatto capitata a Palermo, empiè tantosto di nuovo terror la Corte, onde persuaso il Re, che non senza intendimento del Bonello tutti questi travagli accadevano, lo fece porre in prigione; ed ancorchè da prima il Popolo palermitano per tal prigionia tumultuasse, e cercasse di liberarlo; nulladimanco tantosto, come è la natura del volgo varia ed incostante, cominciò a perdersi d'animo, ed a non curar più di lui, temendo l'ira del Re, il quale fatto porre Bonello in una oscurissima prigione sotterra, lo fece da poi abbacinare, e tagliatigli i nervi sopra i talloni, fu condannato a perpetua carcere, ove non guari da poi, piangendo invano la sua sventura, tutto dolente se ne morì. Debellò anche il Re gli altri congiurati, ed in breve rassettò non meno le cose di Palermo, che di tutta quell'isola.

Ma restava ancora a Guglielmo di sedare le revoluzioni della Puglia mosse per opra d'alcuni Baroni partigiani, che furono dell'ammiraglio Majone, e sopra tutti da Roberto di Bassavilla conte di Loritello, il quale unitosi col Conte Giliberto, e 'l Conte Boemondo, cominciò ad occupare in Puglia molte terre del Re sino ad Oriolo, castello posto tra i confini di Puglia e di Calabria. Passò poi in terra di Lavoro, dove tentò d'occupar Salerno; ma non essendogli riuscito il suo disegno passò a Benevento, che tantosto se gli diede; ed indi ritornato in Puglia prese Taranto. Travagliavasi parimente in Calabria, ove tutti i più potenti Baroni erano aperti nemici del Re, ed aderivano al Conte Roberto, fra quali Clemenzia Contessa di Catanzaro avea afforzato Taverna di grosso presidio per far contro l'armi del Re lunga e gagliarda difesa. Ma intendendo Guglielmo tutte le province del Regno di Puglia in tale stato esser ridotte, pensò non altrimenti poter racchetare queste turbolenze, che unendo numerosa armata di presente in persona passarvi, e porsi alla testa di quella: e prima del suo partire, per torsi dinanzi un grande ostacolo, fece venir a se, sotto altro pretesto, Ruggiero Sanseverino detto di Martorano Barone di molta stima in Calabria, il quale egli tenea per suo fiero inimico, per aver grandemente aderito al Bonello ne' passati tumulti, e senza altra pruova di fellonia il fece prestamente porre in prigione e cecare.

Passò intanto Guglielmo in Calabria, e assediò strettamente Taverna per tutti i lati, e benchè la Contessa Clemenzia con sua madre e con Alferio e Tommaso suoi zii, si difendessero insieme co' terrazzani valorosamente: e' pure finalmente la prese a forza e distrusse, ed essendo venute in suo potere la Contessa e sua madre, le mandò prigioniere a Palermo, ove fece di presente impiccar per la gola Tommaso ed Alferio. Il Conte Roberto risaputa la presura di Taverna, se n'andò tantosto in Taranto, e confortati quei cittadini alla difesa, e munitigli di nuovo presidio, passò prestamente in Apruzzi per dilungarsi dalle forze di Guglielmo. Ma questi gitone immantenente in Taranto, s'impadronì prestamente di quella città, e fece impiccar per la gola alcuni soldati del Conte Roberto, che colà ritrovò. Ricuperò poi con la medesima agevolezza, con la quale perduti gli avea, tutti i luoghi di Puglia e di Campagna. Intendendo poi, che Roberto di Bassavilla se n'era con parte di sua gente andato in Apruzzi, inviò incontanente con grosso stuolo d'armati Riccardo di Soria per farlo prigione; ma il Conte avendolo penetrato, uscì dal Regno, e se ne andò in Alemagna a ritrovare l'Imperador Federico. Gli altri Baroni vedendo le continue vittorie del Re, si fuggirono tantosto via, alcuni in Romagna ed altri in Apruzzi. Salvossi anche con la fuga Ruggieri dell'Aquila Conte d'Avellino, il quale benchè gli avesse in prima perdonato il Re, temea al presente di lui per un nuovo errore, che commesso avea, essendosi senza sua licenza ammogliato con la sorella di Guglielmo da Sanseverino, il quale anche egli per paura dello sdegno del Re fuggì via per tal cagione. Andò dopo questo il Re alla città di Salerno, che afflisse grandemente, riscotendo da' Salernitani grosse somme di moneta; e quindi imbarcatosi su le galee, in Palermo fece ritorno. Così Guglielmo avendo col suo rigore racchetati i suoi Stati, stanco de' passati travagli, si diede poscia a più tranquilla e riposata vita: ed avendo data la cura del Governo del suo Regno a Matteo Notajo di Salerno, e ad Errico Vescovo di Siracusa, inglese, tra gli agi ed ozio, nel Palagio tutto intento a' piaceri si nascose, senza volere udire più nulla degli affari del Regno.

CAPITOLO IV. Papa Alessandro III riconosciuto da tutti per vero Pontefice, morto l'Antipapa Vittore, ritorna in Roma; ed il Re Guglielmo, dopo aver sedati nuovi tumulti accaduti nel suo palazzo, se ne muore in Palermo l'anno 1166.

Intanto mentre questi avvenimenti accaddero nelli Regni di Sicilia e di Puglia, altri assai più notabili avvennero in Francia ed in Italia fra il Pontefice Alessandro, e l'Imperador Federico; poichè Alessandro, dopo esser dimorato in Alagna, passò a Genova, ed indi imbarcatosi se ne andò in Provenza: la di cui partita intesa dall'Antipapa Vittore, che dimorava a Segna, fu cagione, che se ne passasse prestamente in Lombardia a ritrovar Federico, col quale per alcun tempo dimorò, a fargli sapere, Alessandro esser già passato in Francia: l'Imperadore ciò inteso, temendo non fosse colà ricevuto da Lodovico Re di Francia come vero Papa, v'inviò il Conte Errico suo Ambasciadore, perchè trattasse tra di loro un abboccamento presso la città d'Avignone per potere dar sesto e riforma agli affari della Chiesa. Cercava l'Imperadore con quest'occasione, vedendo che l'Antipapa non avea quel seguito che Alessandro, almeno che si dovesse deporre l'uno e l'altro, e creare un nuovo Pontefice, acciò che Alessandro suo scoverto inimico non fosse alla fine stato come vero Papa da tutti adorato; ed avendo persuaso al Re francese, uomo d'animo schietto, e facile ad esser ingannato, il ridusse con pochi de' suoi a venir per tale effetto al luogo destinato, e Federico con grande esercito vi giunse il giorno seguente; e pose col suo venire così poderoso di soldati in grave angustia il Pontefice ed il Re, che si avvidero tardi del suo ingannevol pensiero; e sarebbero mal capitati, se Errico Re d'Inghilterra prode e cristianissimo Principe, presentiti i disegni di Federico, non fosse accorso in Francia con grossa armata a soccorrere Alessandro ed il Re Lodovico. La cui opportuna venuta pareggiando le forze di Federico, fece che il suo pensiero non ebbe effetto alcuno, onde dopo vari trattati, sdegnato l'Imperadore d'esser riusciti vani i suoi pensieri, se n'andò col suo Antipapa in Alemagna; ed Alessandro rimasto libero di così grave periglio, fu dal Re d'Inghilterra, e dal Re Lodovico, e da tutti i lor Reami, come vero Pontefice riconosciuto e riverito. E passato poi in lor compagnia a Parigi, racchetò e compose alcune differenze, ch'eran tra quelli Re, facendogli far insieme lega e compagnia. Celebrò parimente in quest'anno 1163 un general Concilio in Turone, ove intervennero tutti i Prelati d'Inghilterra, di Scozia, di Francia, di Spagna e di Ibernia, con alcuni Prelati tedeschi, e riordinò in esso molte cose, e tolse altri abusi appartenenti al governo della Chiesa. Intanto l'Antipapa, non ostante l'impegno di Federico, gito con lui in Alemagna, non potè nemmeno essere ubbidito da que' Vescovi; onde ritornossene in Italia, ed andato a Lucca ivi dimorò insino alla sua morte, che poco da poi gli sopravvenne. Ma non per questo s'estinse lo scisma: poichè per opra di Rinaldo Cancellier di Federico, che colà dimorava, gli fu subito dato successore, e fu rifatto in suo luogo Guido da Crema, che Pascale III nomossi. I Romani avendo udita la morte dell'Antipapa, inviarono prestamente loro Ambasciadori in Francia a richiamare Alessandro, pregandolo che se ne fosse ritornato in Roma, che l'avrebbero con ogni amor ricevuto; onde il Pontefice conoscendo esser utile alla sua Chiesa, ch'egli risedesse nella sua principal sede, imbarcatosi su i vascelli di Francia, campando dalle insidie, che tra via per opera di Cesare gli aveano con lor galee tese i Pisani per farlo prigione, giunse a salvamento con tutti i suoi Cardinali, e con l'Arcivescovo di Magonza, che 'l seguiva, alla città di Messina: la cui venuta significata al Re Guglielmo, che allor dimorava a Palermo, il mandò prestamente a visitar per suoi Ambasciadori, che gli recarono in suo nome ricchi doni, e cinque galee armate, su le quali imbarcatosi il Pontefice, andò prima a Salerno, e di là ne venne colle stesse galee sino al Tevere, ed alla chiesa di S. Paolo, ove gli uscirono all'incontro tutto il Popolo, e i Cherici di Roma, i quali con nobil pompa al Laterano il condussero[46].

Ma ecco che il Re Guglielmo, mentre si credea esser d'ogni parte sicuro, per cagione che men si pensava, corse gravissimo periglio di perder la vita; perciocchè alcuni pochi prigioni, disperando di poter più ricuperar la loro libertà per la malvagità di Matteo Notaio, che s'era scoverto non men crudele e tiranno di Majone; e fastiditi della noia, che lor recava l'orror delle prigioni, tentarono di mettersi in libertà, ovvero di dar fine con la morte a i lor mali. Per la qual cosa, corrotti i custodi, quando era men frequentato il palagio, uscirono fuori, e benchè fossero picciol numero, diedero nondimeno con disperato ardimento sopra i custodi delle porte, ed entrati più a dentro nel palagio, posero in iscompiglio tutto l'Ostello regale, con intendimento d'aver in loro mani il Re, ovvero i suoi figliuoli; ma al rumore essendo accorso grosso numero di soldati con Odone Maestro della stalla del Re, furono dopo qualche resistenza, alla fine tutti l'un dopo l'altro uccisi, ed i lor cadaveri d'ordine della real Corte dati a mangiare a' cani, vietando che lor si dasse sepoltura. Si smarrì grandemente il Re di tal caso, e considerando che due fiate i prigioni del castello l'avean condotto a gran rischio di perder la vita; fece tantosto cavar di là que' che vi eran rimasi, e trasferì le carceri in altra Rocca presso al mare, ed in altre Fortezze dell'isola. E dopo questo si diede sì fattamente all'ozio ed alla quiete, che vietò espressamente a' suoi famigliari, che non gli significassero cosa alcuna, che noia e travaglio recar gli potesse; onde da questo suo non volere udir nulla degli affari del Regno si cagionò, che Gaito Pietro, e gli altri Eunuchi del palagio con molti lor partigiani afflissero, con rapine e con straziargli nelle persone, grandemente i Siciliani; onde presso i medesimi acquistò il nome di Guglielmo il Malo, che tanto più si rese divolgato, quanto che sperimentarono poi il suo successore altrettanto buono. Il Re tutto intento a' suoi piaceri, ripensando che suo padre Ruggiero avea edificato due palagi di diporto in Palermo, volle egli fabbricarvi il terzo, superando di gran lunga quegli del padre non solo nella magnificenza e ricchezza dell'ostello, ma anche ne' vaghi giardini e ne' dilettevoli fonti e peschiere, che da tutti i lati il cingevano. Ma appena fu terminata quest'opera, che gli fu vietato il goderne da quella, che tutti gli umani disegni termina ed interrompe; poichè nel principio di quaresima di quest'anno 1166 si ammalò di flusso, che grandemente il travagliò, il qual crescendo tuttavia, presi con divozione i Sacramenti della Chiesa, fece liberare molti di coloro, che tenea in prigione, e levò via parimente una nuova imposta di moneta, che avea fatta porre sopra la città e terre di Puglia; ed avendo a se chiamati tutti i Magnati della Corte, e gli Arcivescovi di Salerno e di Reggio, dettò, essi presenti, il suo testamento, nel quale lasciò erede del Reame Guglielmo suo maggior figliuolo, e confermò all'altro nomato Errigo il Principato di Capua, del quale già prima avealo investito[47]; ed alla Reina sua moglie lasciò la cura ed il baliato del Regno, finchè i figliuoli fossero giunti a perfetta età; e l'impose, che si fosse in tutti gli affari di quello valuta del consiglio del Vescovo di Siracusa, di Gaito Pietro e di Matteo Notaio; e crescendo tuttavia il male fece venire a se Romualdo Guarna Arcivescovo di Salerno suo stretto parente, ch'era secondo l'uso di que' tempi assai dotto in medicina, il quale, benchè gli ordinasse molti rimedi valevoli al suo male, e' nondimeno non ponea in opera se non quelli, che a lui parevano; per la qual cosa s'accelerò il morire, poichè il sabato che va innanzi all'ottava di Pasqua[48], fu assalito da una grave febbre, per la quale non guari da poi uscì di vita d'età di 46 anni, dopo averne regnato sedici, due mesi e tre giorni, da che in vita del padre fu incoronato Re di Sicilia.

La Regina temendo, che sparsa tra' Palermitani la novella improvisa della sua morte, non cagionasse alcun periglioso movimento, il fece segretamente riporre entro il palagio, simulando che ancor vivea, sin che fossero giunti i Baroni, ch'erano stati già chiamati, e ch'eran di mestiere per incoronare il novello Re. La qual cosa posta in effetto fra pochi giorni, si pubblicò poscia in un medesimo tempo, che Guglielmo era morto e che 'l figliuolo regnava; e tolto il cadavero con molto onore il portarono alla cappella di S. Pietro, ed ivi gli celebrarono per tre giorni continui nobili e pompose esequie, ove intervennero tutti i Baroni e Vescovi, che in Palermo si trovarono; ed in processo di tempo fu trasportato il suo corpo dentro la chiesa di Monreale, ch'edificò poscia il Re suo figliuolo, ove la Regina sua moglie gli eresse un ricco avello di porfido, il qual sino ad oggi si vede senza iscrizione alcuna.

Fu Guglielmo, come narra Romualdo, un Principe di nobile, e signorile aspetto, oltre modo cupido di onori e valorosissimo in guerra: vinse più volte in mare ed in terra i suoi nemici; ma nella pace fu di poco avvedimento, ed oltre modo amico dell'ozio ed infingardo. L'aver inclinato alla crudeltà, e l'essere stato troppo bramoso d'accumular denaro, ed avaro in ispenderlo, lo fece parer cattivo appresso i Popoli; del rimanente stimò e careggiò i suoi amici, e gli esaltò a grandi onori, e largamente premiò: ed all'incontro perseguitò aspramente i suoi nemici, de' quali molti fece crudelmente morire, ed altri cacciò fuori e sbandì da' suoi Stati: fu assai religioso ed amator del culto Divino, e riverente a' Pontefici romani, coi quali, toltone Adriano nel principio del suo Regno, non ebbe con altri contese.

CAPITOLO V. Leggi del Re Guglielmo I.

Le leggi di questo Principe, ancorchè alcune sembrassero gravose a' suoi sudditi per l'avidità di cumular tesori, nulladimanco tutte l'altre furon assai provide ed utili, tanto che Federico II le inserì nel volume delle sue Costituzioni, che fece compilar da Pietro delle Vigne, e volle che insieme con quelle di Ruggiero s'osservassero. Ventuna ne abbiamo di questo Principe nel volume delle Costituzioni, le quali bisogna separare da quelle, che promulgò da poi Guglielmo II suo figliuolo, non confonderle, come han fatto i nostri Scrittori, che tutte le riputarono di Guglielmo I.

Quella che leggiamo nel libro primo sotto il titolo de Usurariis puniendis, e che porta in fronte in alcune edizioni il nome di Ruggiero, ed in alcune altre quello di Guglielmo, non è, come si disse, nè di Ruggiero, nè, come credettero Andrea d'Isernia, Afflitto, e gli altri nostri Scrittori, di questo Guglielmo I. Fu quella promulgata molto tempo da poi da Guglielmo II suo figliuolo; perciocchè ivi si stabilisce, che tutte le quistioni, che s'agiteranno nella sua Corte appartenenti alle usure, s'abbiano nella medesima a diffinire e terminare secondo il decreto del Papa novellamente promulgato in Roma; intendendo Guglielmo II del decreto, che nel Concilio lateranense, celebrato in Roma da Alessandro III, fu stabilito contro gli usurai, inserito anche da Gregorio IX ne' suoi Decretali[49]; onde non potè esserne Autore Guglielmo I, poichè questo Concilio fu celebrato da Alessandro in Roma nell'anno 1180 come rapporta Antonio d'Agostino, o come i più accurati Scrittori nell'anno 1179, nel qual tempo era già morto Guglielmo il Malo, che finì i giorni suoi, come si è veduto, fin dall'anno 1166, e regnava in Sicilia Guglielmo II, il quale tutto diverso dal padre, abbominando l'avidità degli usurai, ed i loro detestabili acquisti, volle che le quistioni d'usure si terminassero non già secondo la ragion civile de' Romani, ma secondo i canoni del Concilio di Laterano. Merita riflessione che in questi tempi i delitti d'usura erano conosciuti da Giudici secolari, nè apparteneva la cognizione de' medesimi agli Ecclesiastici, come pretesero da poi, avendo solo Guglielmo comandato che dovessero i suoi Giudici terminar tali controversie non già colle leggi romane, ma secondo quel decreto, il quale senza questa Costituzione non avrebbe potuto obbligare i sudditi dei suoi Regni, non avendo ancora i regolamenti ecclesiastici acquistato ne' Tribunali quella forza ed autorità che da poi col lungo uso acquistarono ne' nuovi dominj de' Principi cristiani; ma perchè s'osservassero nel Foro, ed in vigor de' quali le liti si decidessero, era bisogno che il Principe lo comandasse.

Parimente l'altra Costituzione, che leggiamo nel medesimo libro primo, sotto il titolo, Ubi Clericus in maleficiis debeat conveniri, al II Guglielmo, non già al I, dee attribuirsi. Fu quella insieme con un'altra, che si legge nel libro terzo sotto il titolo De adulteriis coërcendis, stabilita da Guglielmo II a richiesta di Gualtieri Arcivescovo di Palermo[50], colla quale furono, intorno a' delitti, le persone de' Cherici del suo Regno, sottratte dalla giurisdizione laicale, ordinando per quella, che la cognizione de' medesimi, per quanto s'attiene alle loro persone, sia della Chiesa, e che debbano da lei esser giudicati secondo i canoni e secondo il dritto ecclesiastico; eccettuando solamente i delitti di fellonia e quelli che per la loro atrocità spettassero alla Maestà del Re, ne' quali volle che la cognizione fosse della sua Corte.

Sono sì bene di Guglielmo I le altre, che seguono nell'istesso libro primo sotto vari titoli collocate. La prima si legge sotto il titolo 59, per la quale vien proibito agli Ufficiali esercitar per altri le loro cariche, togliendosi a' M. Giustizieri ed agli altri Giustizieri minori il poter per mezzo de' loro Vicari esercitare i loro Uffici, imponendo con sommo rigore pena capitale a chi contravenisse a tal divieto. La seconda è sotto il titolo De juramentis non remittendis a Bajulis, ove punisce con pena pecuniaria d'una libbra d'oro gli eccessi de' Baglivi, i quali per favore o per denaro rimettessero i giuramenti, ed altre pruove nelle liti, che i Giudici sentenziassero doversi prestare. La terza sotto il titolo De Officio Magistri Camerarii, fu stabilita per togliere le confusioni tra gli Ufficiali, e distribuisce a ciascuno d'essi ciò che sia della sua incumbenza. Vuol perciò che i Maestri Camerari possano conoscere delle cause civili solamente, e non delle feudali, che s'appartenevano alla Gran Corte, ed a' Gran Giustizieri; e diffinire le cause che nascessero tra Baglivi, e Gabelloti alla sua giurisdizione soggetti, e che ad essi si riportassero le appellazioni delle cause decise da' Giudici ordinari in presenza de' Baglivi, li quali possano confermare, o rivocare i loro decreti o sentenze; siccome il dritto loro detterà: da' quali poi possa appellarsi, non già come prima al Gran Giustiziero, ma al Re solamente.

La quarta, posta sotto il medesimo titolo, ordina ai Maestri Camerari delle Regioni a se commesse che col Consiglio de' Baglivi mettano essi l'assise delle cose venali per ciascuna città e luoghi a se soggetti.

La quinta che si legge sotto il titolo de Officio Secreti, è locale, e riguarda la provincia della Calabria, per la quale è stabilito che in quella provincia l'Ufficio di Secreto e di Questore, per l'avvenire s'eserciti da Camerari della medesima. E nella sesta che siegue, si dà particolare incumbenza a' suddetti Secreti e Questori d'invigilare a' tesori che si ritrovassero per incorporargli a comodo del Fisco, e di conoscere sopra i naufragj che accadessero, perchè essendo morti i padroni, nè lasciando legittimi successori, possano le robe appropriarsi al Fisco. Come ancora dà loro incumbenza d'invigilare e conoscere sopra i beni vacanti di coloro, che morendo senza far testamento non abbiano successori legittimi, ordinando che la terza parte del prezzo delle robe ereditarie si dispensi ai poveri per l'anime de' defunti, e tutto il resto s'applichi al Fisco.

La settima, posta sotto il medesimo titolo, comanda a' Giustizieri, Camerari, Castellani e Baglivi che siano solleciti in prestar ogni aiuto e consiglio a' suddetti Secreti e Questori in tutto ciò, che concerne il comodo della sua Corte.

L'ottava che si legge sotto il titolo, De praestando Sacramento Bajulis, et Camerariis, merita tutta la riflessione; poichè in essa si prescrive a' Camerari ed a' Baglivi il modo di dover amministrar giustizia ai suoi sudditi. Comanda che debbano amministrarla secondo le sue Costituzioni e quelle di Ruggiero suo padre, ed in difetto di quelle, secondo le Consuetudini approvate ne' suoi Stati, e finalmente secondo le leggi comuni, longobarde e romane; onde si convince, che a' tempi di questo Principe le leggi longobarde erano in tutto il vigore, ed osservanza in questo Reame, e riputate leggi comuni, non meno che le romane. Quindi avvenne, che le prime fatiche, che abbiamo de' nostri Giureconsulti fossero indrizzato alle medesime, e che Carlo di Tocco, contemporaneo di questo Guglielmo, da cui nell'anno 1162 fu fatto Giudice della G. C.[51], si prendesse il pensiero e la cura di commentarle: nel che fare servissi delle Pandette ed altri libri di Giustiniano, non perchè questi avessero acquistata forza alcuna di legge in questo Regno, ma perchè non si riputassero le longobarde cotanto barbare ed incolte, giacchè molte di esse eran conformi alle leggi delle Pandette, le quali avendo tirato a se lo studio di molti, questi cominciavano ad aver in disprezzo le longobarde. Nè Guglielmo intese altro per le leggi comuni romane, se non quelle, che prima d'essersi ritrovate le Pandette in Amalfi, erano rimaste come per tradizione presso i nostri provinciali; poichè insino a questi tempi, se bene nell'altre città d'Italia, come che pubblicamente insegnate nelle loro Accademie, cominciassero ad allegarsi nel Foro; nulladimanco in queste nostre parti, non essendovi ancora pubbliche Scuole introdotte, se non a' tempi di Federico II, non solo non aveano acquistata autorità alcuna di legge, nè s'allegavano nel Foro, ma nè meno erano insegnate ed esposte come in Bologna e Milano e nell'altre città d'Italia: e le liti per lo più decidevansi secondo le leggi longobarde, siccome è chiaro da quelle due sentenze rammentate da noi, e rapportate dal Pellegrino, una in tempo di Ruggiero, l'altra di Guglielmo II. Ed è ciò così vero, che non era lecito nè meno ricorrere alle leggi delle Pandette in difetto delle longobarde; come è chiaro da Commentari del medesimo Carlo di Tocco[52], ove dimandando se, siccome il figliuolo succedeva alla madre, così potesse ancor la madre succedere a' figliuoli: dice che le leggi longobarde di ciò niente stabilirono, onde la madre come cognata dovrebbe escludersi, poichè secondo quelle succedono i soli agnati; e che perciò vi sarebbe bisogno d'una nuova legge, che l'ammettesse alla loro successione, non altramente di quello praticavasi presso i Romani, appo i quali perchè la madre potesse succedere, fu mestier che il Senatusconsulto Orficiano lo stabilisse. Che bisogno dunque vi sarebbe stato di questa nuova legge, se s'avesse alla legge de' Longobardi potuto supplire colle leggi delle Pandette? Ne' tempi dunque di questo Guglielmo le leggi comuni de' Romani non eran quelle, ch'eran comprese nelle Pandette, ma quelle, ch'erano rimaste presso i Popoli, che dopo estinto l'Imperio romano, le ritennero più tosto come antiche costumanze, che per leggi scritte, non essendo stati i libri di Giustiniano in queste parti, se non dopo molti secoli conosciuti, e molto tardi riacquistarono in esse l'antica loro autorità e vigore, per l'uso più, che per qualche Costituzione di Principe, che lo comandasse, come si vedrà chiaro nel corso di questa Istoria.

La nona Costituzione di Guglielmo, che si legge sotto lo stesso titolo, tutta si raggira intorno all'incumbenza de' Maestri Camerari e de' Baglivi. Si prescrive il numero de' Baglivi e de' Giudici in ciascuna città e luogo delle province; e s'impone a' Camerari di non rendere venali questi Uffici, ma di distribuirgli a persone meritevoli e fedeli: che invigilino sopra i medesimi con vedere i loro processi; e dà altre providenze attinenti alla retta amministrazione della giustizia, ed al buon governo delle province.

La decima, che abbiamo sotto il titolo de quaestionibus inter Fiscum, et privatum, prescrive a' Maestri Camerari che eccettuatene le cause feudali, abbiano a conoscere di tutti i giudicj, così reali, come personali tra il Fisco ed i privati, colli Giustizieri aggiunti, e coll'intervento dell'Avvocato fiscale.

L'undecima, sotto il titolo de cognitione causae coram Bajulis, dà facoltà a' Baglivi di poter conoscere ne' luoghi dove sono preposti, di tutte le cause civili così reali, come personali, eccettuatene le cause feudali: di conoscere ancora de' furti minimi e d'altri minori delitti, che non portano pena di mutilazion di membra. La duodecima che si legge sotto il titolo de fure capto per Bajulum, prescrive a' Baglivi, che prendendo qualche ladro forastiero, l'abbiano insieme colla roba rubata a consignar in mano de' Giustizieri: se sarà del luogo, ove sono preposti, parimente lo debbiano consegnare a' Giustizieri, ma le robe mobili del medesimo dovranno essi applicarle al Fisco di quel luogo.

La decimaterza, sotto il titolo de Officio Bajulorum impone a' Baglivi di dover invigilare intorno al giusto prezzo delle cose venali; e la loro incumbenza particolare essere, d'esigere irremissibilmente le pene a quei che venderanno contro l'assise, o pure se troveranno mancanti i loro pesi e misure. La decimaquarta, che segue sotto il titolo de Poena negantis depositum vel mutuum, punisce severamente i depositari, e que' che o per mutuo, o per comodato negheranno a' padroni di restituire la loro roba.

La decimaquinta, che si legge sotto il titolo de Clericis conveniendis pro possessionibus, quas non tenent ab Ecclesia, merita maggior riflessione che tutte l'altre. In essa si determina, che se i Cherici saranno convenuti per qualche eredità, tenimento, o altra roba di lor patrimonio, che non dalla Chiesa, ma da altri sia ad essi pervenuto: la cognizione di queste cause spetti alla Corte secolare del luogo, nel distretto del quale sono le lor possessioni, e quivi dovranno essi rispondere in giudizio, se avran cosa in contrario: proibendosi solamente a' Giudici secolari di poter prendere le loro persone, ovvero carcerarle: ma non già eseguire in vigor della sentenza, che la lor Corte proferirà, le robe dedotte in giudicio. Questa legge di Guglielmo nel tempo, che fu promulgata, non parve niente irregolare e strana, siccome ancora da poi nei tempi di Marino di Caramanico antico Glossatore di queste Costituzioni, che glossandola, niente trovò che riprendere. Ma ne' secoli posteriori, quando il diritto canonico de' decretali cominciò a stabilire nelle menti de' nostri Giureconsulti altre massime, parve assai strana e mostruosa. Andrea d'Isernia, che scrisse in questi tempi, non ebbe per ciò difficoltà di dire che tal Costituzione niente valesse, anzi dovesse reputarsi nulla e vana, come quella ch'è contro le persone ecclesiastiche, e contro l'ecclesiastica libertà. Aggiugne ancora essersi ingannato il Legislatore, che vuol che si dovesse attendere la qualità o condizione delle robe, non delle persone, quando tutto il contrario, le robe prendono qualità dalle persone, e queste sono convenute, non quelle. Chiama eziandio imperiti coloro, che dicono aver il Papa e la Chiesa romana approvate queste Costituzioni; poichè dice non apparirne la conferma, e se pure apparisse generalmente fatta, non perciò si dee aver per approvata questa Costituzione dal Papa, il quale se fosse stato richiesto di particolarmente confermarla, non l'avrebbe conceduto. Ma da quanto si è detto ne' precedenti libri, quando della politia ecclesiastica ci toccò favellare, ben si potrà comprendere, quanta poca verità contenga questo discorso d'Isernia.

La decimasesta, ch'è l'ultima di questo Principe, collocata da Pietro delle Vigne nel libro primo delle Costituzioni del Regno sotto il titolo de Officio Castellanorum, non contiene altro, se non che si comanda a' Castellani ed altri loro subalterni, che niente esigano da' carcerati, che non pernotteranno nelle carceri; ma se arriveranno a pernottarvi, nel tempo della lor liberazione non esigano più che un mezzo tarino.

Nel libro secondo non abbiamo leggi del Re Guglielmo, ma nel terzo la decimasettima, che prima si incontra, è quella sotto il titolo de Dotariis constituendis, ove s'impone alle mogli, dopo la morte dei loro mariti, di dovere assicurare gli eredi di quello del dotario, che tengono nella Baronia, e prestar giuramento di fedeltà a colui, che sarà rimasto padrone della medesima.

La decimaottava, che abbiamo sotto il titolo de Fratribus obligantibus partem feudi pro dotibus sororum, permette a' fratelli, se non avranno mobili, o altri beni ereditarj, di poter costituire in dote alle loro sorelle, e obbligare perciò parte del Feudo; e di vantaggio, se avranno tre o più Feudi, che possano uno d'essi darne in dote alle medesime: ma che in tutti i casi suddetti, e quando s'obbliga il Feudo, e quando s'aliena, o si costituisce in dote, sempre s'abbia da ricercare la licenza del Re. E di vantaggio, che i matrimoni non possan contraersi senza suo permesso ed assenso, ed altrimenti facendosi, tutte le convenzioni siano nulle, e invalide: ciocchè, come si disse, diede motivo a' Baroni del Regno di doglianza, che per queste leggi, per le quali senza licenza della sua Corte non potevano collocar in matrimonio le lor figliuole o sorelle si era loro imposto duro giogo; ma Federico, ciò non ostante, volle confermarla per quelle ragioni, che si sono dette, quando delle leggi di Ruggiero parlossi; poichè la legge non era gravosa per quello, che ordinava, ma per lo mal uso, che d'essa Guglielmo faceva, il quale per avidità, che i Feudi ritornassero al Fisco, era inflessibile a dar il suo permesso nei matrimoni, onde si mossero quelle querele de' Baroni e quei disordini, che nel Regno di questo Principe si sono raccontati.

Merita la decimanona legge di Guglielmo, posta sotto il titolo de Adjutoriis exigendis ab hominibus, tutta la considerazione; poichè in essa più cose degne da notarsi s'incontrano. Primieramente si raffrena l'avidità de' Prelati delle Chiese, de' Conti, de' Baroni, e degli altri Feudatari, i quali per qualunque occasione estorqueano da' lori vassalli esorbitanti adjutorj; onde volendo togliergli da questa oppressione, stabilisce i casi ne' quali possano i medesimi giustamente pretendergli. I casi sono: I Se si trattasse di redimere la persona de' loro padroni dalle mani de' nemici, da' quali fossero stati presi militando sotto le insegne del Re. II Se il Barone dovesse ascrivere un suo figliuolo alla milizia. III Per collocare la sua figliuola, o sorella in matrimonio. IV Per compra di qualche luogo, che servisse per servizio del Re, o del suo esercito. Merita ancora riflessione ciò, che si stabilisce per li Prelati delle Chiese, a' quali anche si prescrivono alcuni casi, ne' quali possano legittimamente cercar gli adjutorj da' loro vassalli: I Per la loro consecrazione. II Quando dal Papa saranno chiamati ad intervenire in qualche Concilio. III Per servizio dell'esercito del Re, se essi saranno in quello. IV Se saranno chiamati dal Re; ove è da notare, che in questi tempi non cadea dubbio alcuno, se i Principi potessero chiamare i Prelati, nè questi facevano difficoltà d'ubbidire alle chiamate, come si cominciò a pretendere negli ultimi tempi; se bene nel Regno i nostri Principi sempre si siano mantenuti in questo possesso, con discacciar i renitenti dal Regno nel caso non ubbidissero. V Se il Re per suo servigio gli mandava altrove, siccome indifferentemente soleva fare, impiegandogli sovente negli affari della Corona; e per ultimo se l'occasione portasse, che il Re dovesse ospiziare nelle loro terre. In tutti questi casi si permette a' Prelati poter riscuotere da' loro vassalli gli adjutorj, ma si soggiunge nella medesima Costituzione, che debbano farlo moderatamente.

Quell'altra, che si legge sotto il titolo de novis edificiis, se bene in alcune edizioni portasse in fronte il nome di Ruggiero, ed in altre quello di Guglielmo, è chiaro però, che non sia nè dell'uno, nè dell'altro. L'Autore della medesima fu Federico II come è manifesto da quelle parole, ab obitu divae memoriae Regis Gulielmi consobrini nostri, intendendo Federico di Guglielmo II, che fu suo fratello consobrino, come nato da Guglielmo I, fratello di Costanza madre di Federico.

La vigesima è sotto il titolo de servis, et ancillis fugitivis. Proibisce per quella Guglielmo, ritenere i servi fuggitivi; ed ordina nel caso sian presi, che immantenente si restituischino a' padroni, se si sapranno: se saranno ignoti, impone che debbano consegnarsi a' Baglivi, i quali tosto dovranno trasmettergli alla sua Gran Corte e facendo altrimenti, s'impone pena ai trasgressori, anche agli stessi Baglivi, della perdita di tutte le loro sostanze da applicarsi al Fisco: ma Federico nella Costituzione de Mancipiis, dà un anno di tempo a' padroni di ricuperargli, da poi alla Gran Corte saranno trasmessi.

L'ultima è quella che si legge sotto il titolo de pecunia inventa in rebus alienis. Se l'altre leggi di Guglielmo sinora annoverate mostrano l'avidità, che ebbe questo Principe di cumular denari, e d'imporre tante pene pecuniarie, onde s'arricchisse il suo erario, maggiormente lo rende manifesto questa, che siamo ora a notare. Guglielmo sin dall'anno 1161 avea stabilita legge, che chi trovasse un tesoro, lo trovava per lo Re[53]. In questa, ora ordina che chiunque ritrovasse oro, argento, pietre preziose ed altre simili cose, che non siano sue, debba immantenente portarle a' Giustizieri, o Baglivi del luogo, ove saranno trovate, i quali tosto debbano trasmetterle alla sua Gran Corte, altrimente come ladro sarà punito. Dichiarando ancora generalmente, che tutto ciò che nel suo Regno sarà trovato, del quale non apparisca il padrone, al suo Fisco spezialmente s'appartenga. Vuol che alla sua pietà si debba ciò che soggiunge, cioè che se fra lo spazio d'un anno taluno proverà esserne di quelle il vero padrone, debbansi a lui restituire, ma quello trascorso, stabilmente al Fisco s'ascrivano. Federico II, nella seguente Costituzione approva la legge, e questo solo aggiunge, che le robe trovate s'abbiano a conservare da' Giustizieri e Baglivi delle regioni, ove si trovarono, non già trasportarsi nella Gran Corte, non parendogli giusto, che i padroni di quelle per giustificare e provare esser loro, e per ricuperarle, da lontani luoghi abbiano con molto loro dispendio e travaglio da ricorrere alla Gran Corte da essi remota.

Queste sono le leggi del Re Guglielmo I, che a Federico piacque ritenere, e che volle unire colle sue e con quelle di Ruggiero suo Avo; poichè l'altra, che si legge sotto il titolo de adulteriis coercendis, dove, quando non vi sia violenza, si commette a' Giudici ecclesiastici la cognizione dell'adulterio, a cui uniformossi l'Imperadrice Costanza per una sua carta rapportata dall'Ughello, non è, nè di Ruggiero, nè di questo Guglielmo: ella è di Guglielmo II, suo figliuolo, come si vedrà chiaro quando delle leggi di questo Principe farem parola.

Fassi ancora da alcuni Guglielmo autore della Gran Corte, e ch'egli fosse stato il primo a stabilir questo Tribunale; nè può dubitarsi, che nell'anno 1162 uno de' Giudici di questa Gran Corte fosse stato Carlo di Tocco Commentatore delle nostre leggi longobarde. Ma siccome ciò è vero, così non potrà negarsi, che la Gran Corte a' tempi di Guglielmo era quella eretta in Palermo, ove tenea collocata la sua sede regia, non già quella, che a' tempi di Federico II, e più di Carlo I d'Angiò, veggiamo stabilita in Napoli. In tempo di Guglielmo, Napoli non era riputata più di qualunque altra città del nostro Reame, anzi Salerno, e (prima d'averla egli così mal menata) Bari sopra le altre estolsero il capo. E se bene alcuni rapportano, che questo Principe di due famosi castelli avesse munita Napoli, cioè di quello di Capuana contro gli aggressori di terra e dell'altro dell'Uovo, per que' di mare, ancorchè altri ne facessero pure autore Federico: niun però potrà negare, che questa città da Federico II, cominciasse pian piano a farsi capo e metropoli di tutte l'altre, così per l'Università degli studi, che v'introdusse, come per li Tribunali della Gran Corte e della Zecca, chiamato poi della Camera Summaria; e che non prima de' tempi di Carlo I di Angiò fosse sede regia, ove si riportavano tutti gli affari del Regno, e che finalmente la resero capo e metropoli di tutte le altre, come si vedrà chiaro nel corso di quest'Istoria. Ne' tempi di quest'ultimi Re normanni, non vi era in queste nostre province città, che potesse dirsi capo sopra tutte l'altre. Ciascuna provincia teneva i suoi Giustizieri, Camerari ed altri particolari Ufficiali, nè l'una s'impacciava degli affari dell'altra. Nè in questi tempi il numero delle medesime era moltiplicato in dodici, come fu fatto da poi (se debbiamo prestar fede al Surgente)[54] nei tempi di Federico; ma le nostre regioni erano divise secondo i Giustizieri, che si mandavano a reggerle, onde presero il nome di Giustizierati e poi di province, governandosi da' Presidi, come s'intenderà meglio ne' libri che seguiranno di questa Istoria.

FINE DEL LIBRO DUODECIMO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO DECIMOTERZO

La morte di Guglielmo I, e l'innalzamento al Trono di Guglielmo II suo figliuolo fece mutar tantosto in tranquillità lo stato delle cose del Regno; poichè l'avvenenza del fanciullo e la sua benignità trasse di modo a se l'amore e la benevolenza di tutti, che ancor quelli, ch'erano stati acerbi nemici del padre, fecero proponimento di essergli fedelissimi, dicendo bastare con la morte del vecchio Re essersi tolto di mezzo l'autor di tutti i mali, nè doversi all'innocente fanciullo imputar la colpa della tirannia del padre. Intanto la Reina Margherita sua madre, fatti convocar tutti i Prelati e Baroni del Regno, lo fece solennemente coronare nel Duomo di Palermo da Romoaldo Arcivescovo di Salerno: alla qual celebrità, oltre i Prelati ed i Baroni, fuvvi innumerabil concorso del Popolo della città, che accompagnollo, finita l'incoronazione, insino al palagio reale con molti segni d'amore e d'allegrezza. E la Reina, la quale per la tenera età del figliuolo, che appena dodici anni compiva e non era atto a governare il Regno, avea di quello presa la cura, volendo, come saggia, accrescere l'amor dei Popoli verso di lui, fece porre in libertà tutti i prigioni, e rivocò dal bando quelli, che v'erano stati mandati dal Re Guglielmo, richiamando Tancredi Conte di Lecce, e togliendo parimente via molte gravezze imposte da lui, scrisse a tutti i Maestri Camerarj della Puglia e Terra di Lavoro, che per l'avvenire non esigessero più quell'insopportabile peso, chiamato redemptionis, che avea ridotte all'ultima disperazione quelle province[55]. Restituì i Baronaggi a cui erano stati tolti, e ne concedè molti altri di nuovo a diverse persone, donando ancora con larga mano molti beni a varie Chiese.

Ma l'aver ella voluto, contro quel che suo marito avea disposto nel suo testamento, innalzar soverchio Gaito Pietro, e farlo superiore nel Governo a Matteo Notajo, ed all'Eletto di Siracusa, dandogli tutto il Governo nelle mani, cagionò nuovi disturbi nel palazzo reale; poichè gli altri Cortigiani invidiosi della sua grandezza, presa baldanza dalla fanciullezza del Re, e poco stimando il non fermo imperio della donna, cominciarono di nuovo a porre in rivoltura la Casa del Re, consigliere della quale fu Gentile Vescovo d'Agrigento, il quale, resosi carissimo all'arcivescovo di Reggio, cominciò a tender insidie all'Eletto di Siracusa, ed a corrompere insieme Matteo Notajo; e portarono la cosa in tale sconvolgimento, che obbligarono ancora a Gaito Pietro di fuggirsene in Marocco sotto la protezione di quel Re. Ma sedati (dopo varj avvenimenti, che ben a lungo vengon narrati dal Falcando) questi rumori, ed essendo rimaso l'Eletto nel suo luogo, come prima era, giunsero poco da poi in Palermo gli Ambasciadori mandati da Emanuele Imperadore d'Oriente, il quale avendo avuta contezza della morte di Guglielmo, inviò a rinovar la pace col nuovo Re, ed offerirgli per moglie l'unica sua figliuola con l'Imperio in dote: li cui Ambasciadori furon lietamente accolti, e rinovossi di presente la pace; ma il parentato non si potè conchiudere allora per le molte difficoltà, che occorsero nel trattarlo.

Passarono nel secondo anno del Regno di Guglielmo, non meno in Sicilia, che in Puglia alcune turbolenze cagionate, non da forze esteriori, ma dalle discordie di que' del Palazzo, e di alcuni Baroni del Regno, che obbligarono al Gran Cancelliere, ch'era allora Stefano di Parzio, figlio del Conte di Parzio parente della Regina (che lo chiamò di Francia, ed a cui la somma del Governo dopo molti avvenimenti era caduta) di persuadere al Re, che partisse da Palermo, e lo fece andare a Messina, ove più dappresso potesse por quiete alle cose di Puglia. Ma questi moti del Regno, a riguardo di que' maggiori, che si vedeano in Lombardia, ed a petto di ciò, che allora passava tra il Pontefice Alessandro III coll'Imperadore Federico Barbarossa, erano di piccola considerazione, e riputati come di facile componimento: siccome non passò guari, che il tutto fu posto in pace e tranquillità. Erano gli occhi di tutti rivolti all'Imperadore Federico, il quale con grande e poderosa oste era calato in Italia, per far guerra al Pontefice Alessandro, ed a' Romani, i quali avendo voluto combattere senz'ordine alcuno, e con troppa baldanza, furono da Federico posti in rotta, uccidendone, e facendone prigioni grosso numero, essendosi gli altri appena potuto con la fuga salvare entro le mura della loro città. Il Papa e tutto il Popolo si vide in grande afflizione, e l'Imperadore avuta contezza del felice successo, avendo già presa Ancona, e stando in pensiero di passare in Puglia sopra gli Stati del Re Guglielmo, venne prestamente anch'egli col rimanente del suo esercito a Roma[56], ed avendo dato un gagliardo assalto alla porta del Castel S. Angelo, combattè poscia la chiesa di S. Pietro, e non potendola agevolmente prendere vi fece attaccare il fuoco: il perchè smarriti i defensori, la diedero in sua balia, ed Alessandro temendo della furia di lui, abbandonato il palagio di Laterano, si ricovrò nella casa de' Frangipani, e colà si afforzò con tutti i Cardinali entro una torre della Cartolaria.

L'Imperadore nella vegnente domenica fece dal suo Antipapa Guidone da Crema cantar solennemente la messa nella chiesa di S. Pietro, e fece coronarsi colla Corona reale, e 'l lunedì, in cui si celebrò la festa di S. Pietro in Vincula, si fece dal medesimo Antipapa con nobil pompa coronare Imperadore insieme con Beatrice sua moglie.

Il nostro Guglielmo, che seguitando in ciò l'esempio di suo padre continuava con Alessandro la medesima corrispondenza ed unione, tanto che costui non s'offese punto, che Guglielmo si fosse fatto incoronare Re senza sua saputa, come gli altri suoi predecessori avean preteso: avendo inteso l'angustie nelle quali si ritrovava il Papa, e saputo il pensiero di Federico di passare in Puglia sopra i suoi Stati, ritrovandosi, come si è detto in Messina, mandò tosto ad Alessandro due sue galee con molta moneta, acciocchè avesse potuto sopra esse partir di Roma, le quali giunte improvviso al Tevere, consolarono estremamente con la lor venuta Alessandro; il quale non volendo per allora partirsi dalla città, trattenuti seco gli Ambasciadori del Re otto giorni, gli rimandò indietro, rendendo molte grazie al loro Signore di così opportuno soccorso, e diede parte della moneta a' Frangipani, e parte a Pier Leoni, acciocchè con maggior costanza, e valore avesser difesa la città. Ma vedendo poscia, che l'Imperadore tentava di farlo deporre dal Papato, e che i Romani cominciavano a mancargli di fede; vestitosi da peregrino, uscì con pochi de' suoi assistenti di Roma, e si ricovrò a Gaeta, ove essendo prestamente seguito da' Cardinali, ripreso l'abito ponteficale, se n'andò a Benevento.

Ma non passò guari, che Federico fu obbligato tornarsene in Alemagna; perciocchè essendo stato assalito il suo esercito da mortifera pestilenza, fra lo spazio di otto giorni morirono quasi tutti i suoi soldati, e i suoi maggiori Baroni che avea seco, fra' quali furono Federico Duca di Baviera, il Conte di Vastone, Bercardo Conte d'Arlemonte, il Conte di Sesia, Rinaldo Arcivescovo di Colonia con un suo fratello, ed il Vescovo di Verdun; ond'egli con pochi de' suoi arrivò in Alemagna.

Intanto nella Sicilia eran accadute nuove turbolenze, e nuovi tumulti, pure per le medesime cagioni di cortigiani, e degli antichi familiari della Casa del Re, che per non appartenere all'istituto dell'Istoria presente molto volentieri le tralasciamo; tanto più che minutamente furono alla memoria de' posteri tramandate da Ugone Falcando, e modernamente con molta diligenza raccolte da Francesco Capecelatro nella sua Istoria de' Re normanni, e da Agostino Inveges nella sua Istoria di Palermo. Seguì ancora in questi medesimi tempi la famosa congiura fatta da' Siciliani contro il Cancellier Stefano di Parzio, che finalmente l'obbligarono a partirsi da Palermo, e ricovrarsi in Palestina, ove morì, scritta in più luoghi da Pietro di Blois Arcidiacono di Battona, uomo chiarissimo, il quale da Francia passò con lui nell'isola, ed insegnò per un anno lettere al Re Guglielmo, e fu suo Segretario e Consigliere, ed essendo stato eletto Arcivescovo di Napoli per opera de' suoi nemici per allontanarlo con sì fatta cagione dalla Corte, rinunciò il Vescovado. E dimorato per cagion della sua infermità, dopo la partita del Cancelliere, per alcuno spazio in Sicilia, quantunque pregato da Guglielmo a restarvi per sempre, promettendogli di tenerlo in grande stima, perchè avea preso in orrore i costumi de' Siciliani per ciò che aveano fatto al Cancelliere Stefano; non volle a patto alcuno rimanervi. Di lui abbiamo oggi giorno molte sue opere, ed un volume di epistole, e fu uno de' maggiori Letterati, che fiorissero in questo secolo[57]. Fin qui distese la sua famosa Istoria Ugone Falcando siciliano, il quale avendo cominciato la sua narrazione dalla morte del Re Ruggiero seguita nel principio del 1154, e dandole fine nel presente anno 1170, egli ordì un'erudita istoria di 15 anni, con tanta eleganza, ch'è veramente cosa da recar maraviglia, come in tempi così incolti, egli sì politamente la scrivesse.

Era in questo mentre morto in Roma Guido da Crema Antipapa, detto Pascale III, ch'era stato creato in luogo d'Ottaviano per opera dell'Imperador Federico; e perchè non vollero i suoi seguaci cedere al Pontefice Alessandro, ne crearono in quest'anno 1170 tantosto il terzo, che fu un tal Giovanni Ungaro Abate di Strumi, che Calisto III chiamarono; benchè Alessandro che dimorava a Benevento, fosse stato intanto riconosciuto come vero Pontefice da tutti i Cristiani, fuor che da Cesare, e da alcuni suoi Tedeschi. Partissi poscia Alessandro da Benevento per andar in Roma; ma li Romani sdegnati con lui, perchè avea ricevuto in sua grazia il Conte di Tuscolo loro scoverto nemico, non lo vollero ricevere, laonde ritornò in dietro a Gaeta, e quivi molto tempo si trattenne; indi si partì per Alagna, ove fermò sua residenza.

Inviò in questo l'Imperador Emanuele nuovi messi a Guglielmo, i quali conchiusero con lui il maritaggio di sua figliuola nomata Icoramutria, e statuirono il tempo da condurla per mare in Puglia; ed il Re poco stante col fratello Errico Principe di Capua, se ne passò a Taranto per ricever colà la novella sposa; ma il perfido Greco, non sapendosi la cagione, spregiando le pattovite nozze, non curò d'inviar la fanciulla. Altri[58] niente scrivono di questo fatto, anzi rapportano, che Guglielmo per non disgustarsi col Papa, ricusò queste nozze. Che che ne sia, Guglielmo partissi da Taranto, e gitosene a Benevento inviò il Principe suo fratello, ch'era infermato gravemente, a Salerno, acciocchè imbarcandosi sulle galee passasse più agiatamente a Palermo per ricuperar sua salute, la qual cosa non gli giovò; perciocchè gli si aggravò di modo il male, che giuntovi appena, se ne morì nel decimoterzo anno della sua vita, e nell'anno 1172 dell'umana Redenzione. Fu con nobil pompa seppellito nel Duomo presso il sepolcro dell'Avolo Ruggiero, e di là poi trasportato nella chiesa di Monreale, ove si vede sinora il suo avello[59].

In questo Errico finirono i Principi di Capua normanni, i quali tennero questo Principato 114 anni, incominciando dal primo, che fu Riccardo Conte d'Aversa nell'anno 1058, insino ad Errico figliuolo di Guglielmo I in quest'anno 1172, nel quale mancò la lor successione, poichè non essendo a Guglielmo II nati figliuoli, non potè ad esempio di suo padre, e del suo Avolo Ruggieri continuar quest'istituto, che coloro tennero di crear uno de' loro figliuoli Principe di Capua; e quantunque del Re Tancredi, che a Guglielmo II succedette, si dovesse credere, che avrebbe continuato il medesimo costume; nulladimanco, stando questi sempre implicato in continue guerre, e mancandogli figliuoli maggiori, prevenuto egli poco da poi dalla morte, non potè praticarlo. E gli altri Re posteriori estinsero affatto questo Principato, e Dinastia; poichè sebbene ne' pubblici Atti avessero serbato il nome del Principato, come s'osserva essersi praticato insino all'anno 1435 nel Regno di Giovanna II[60], nulladimanco, toltone questo nome, fu in tutto il resto il Principato estinto, e coloro che ne' seguenti anni tennero Capua, non devono così nella dignità, come nel dominio esser paragonati a questi Principi a' quali furono di molto intervallo inferiori.

La morte d'Errico recò a Guglielmo gravissimo cordoglio, il quale poco da poi portossi anch'egli in Sicilia, donde nell'anno 1174 avendo ragunata una grossa armata, la inviò in Alessandria d'Egitto contro il Saladino, per favoreggiare i Cristiani, che colà militavano, sotto il comando di Gualtieri di Moac, che pochi anni da poi fu creato suo Ammiraglio[61]. E volendo il medesimo Re nella pietà superare i suoi maggiori, parte de' tesori, che aveano essi accumulati, impiegò nella fabbrica d'un superbo tempio non guari da Palermo lontano in un colle chiamato Monreale, che ornollo di superbi lavori di marmo e di mosaico; ed avendolo arricchito di grosse rendite consistenti in molte città e castelli, ed in ricchi poderi, e fornitolo di arredi regali e preziosi, lo dedicò a nostra Signora, sotto il nome di S. M. Maria Nuova, dandolo a' PP. dell'Ordine di S. Benedetto. Nè qui deve tralasciarsi, che i primi ch'ebbero la cura di questo tempio furono i Monaci del monastero della Trinità della Cava, che da Guglielmo furono da queste nostre parti richiamati in Sicilia; perchè per la fama della lor santità, essendo sparsa da per tutto, erano da' Principi normanni, e sopra tutti da Guglielmo, in sommo pregio tenuti. Crebbe poi il Santuario, poichè oltre la santità de' Monaci ivi adoperati per li divini Uffici, per consiglio di Matteo Gran Protonotario di Sicilia, creato, come scrive Riccardo da S. Germano, già Vicecancelliere del Regno, Guglielmo impetrò da Papa Alessandro III, che la chiesa suddetta non fosse sottoposta a niuno Arcivescovo, Vescovo o altra persona ecclesiastica, ma solamente al Pontefice romano, ed indi da Lucio III la fece ergere in Arcivescovado. Il tutto si fece da Matteo per dispetto di Gualtieri Arcivescovo di Palermo, nella cui giurisdizione ella era, il quale per le gare solite della Corte era suo fiero nemico, e Gualtieri in processo di tempo ben seppe vendicarsene, e gliene rese il contraccambio, come diremo. Il primo Arcivescovo, che fu creato di Monreale fu Fr. Guglielmo Monaco del monastero della Cava, che n'era stato in prima Priore. Questo luogo, per cagion del famoso tempio quivi edificato, concorrendovi ad abitare molta gente, divenne in breve una famosa e ricca città, ed ora il suo Prelato per le numerose rendite, ch'egli tiene, è un de' maggiori e più stimati della Sicilia.

CAPITOLO I. Nozze del Re Guglielmo II con Giovanna figliuola d' Errico II Re d'Inghilterra. Sconfitta data dai Milanesi all'esercito dell'Imperador Federico; e pace indi conchiusa dal medesimo con Papa Alessandro III.

Intanto l'Imperador Federico di Svevia era calato di nuovo in Italia con grande e poderoso esercito, ed avea cominciata crudel guerra in Lombardia; e mentre quella con varj avvenimenti seguiva, considerando Federico di quanta potenza fosse il Re di Sicilia, tentò di distorlo dall'amicizia e confederazione del Pontefice, e trarlo dalla sua parte; onde per mezzo di Tristano suo Cancelliere gl'inviò in quest'anno 1176 ad offerire la figliuola per moglie, ed a persuadergli, che avesse fatta parimente con lui perpetua lega e compagnia[62]. Ma il Re considerando, che questo maritaggio e questa pace non sarebbero piaciute ad Alessandro, ed avrebbero recato grave danno agli affari della Chiesa, ributtando l'offerta dell'Imperadore non ne volle far nulla. Sdegnato sommamente Federico del rifiuto, tosto scrisse in Alemagna per nuovo soccorso di gente da guerra per domare i Lombardi, che gli facevano valorosa resistenza, e sollecitò Tristano suo Cancelliere, che calasse col suo esercito ad assalire il Reame di Puglia. Giunsero nel principio della state Filippo Arcivescovo di Colonia, con molti altri gran Baroni tedeschi, e grosso stuolo di valorosi soldati, co' quali unitosi Cesare presso l'Alpi, calò nel Milanese per danneggiar que' luoghi; ed affrontatosi con l'esercito de' Collegati, che gli andò all'incontro, vi cominciò crudele ed ostinata battaglia, nella quale furon rotti ed uccisi per la maggior parte gli Alemanni, e Federico abbattuto da cavallo corse gran rischio di lasciarvi anch'esso la vita, e si salvò a gran fatica, fuggendo con pochi de' suoi dentro Pavia, ove giunto consolò l'Imperadrice sua moglie, che per quattro giorni, non avendo di lui novella, l'avea pianto come morto[63]. Tristano, ch'era già venuto con un altro esercito ad assalire il Reame, ed avea campeggiata la Terra di Celle, essendogli giti all'incontro Tancredi Conte di Lecce, che rivocato dall'esilio, era stato già ricevuto in grazia del Re, e Ruggiero Conte d'Andria con molti altri Baroni, e buona mano di soldati Regnicoli, ributtato da loro se ne ritornò anch'egli addietro senza poter far effetto alcuno.

Intanto Guglielmo, non avendo avuto alcun effetto il matrimonio maneggiato colla figliuola dell'Imperador d'Oriente, ed avendo rifiutato l'altro della figliuola di quello d'Occidente, trovandosi in età di ventitrè anni e solo, pensò seriamente a non dover differire di vantaggio il suo ammogliamento: onde per consiglio del Papa inviò Elia Vescovo di Troja, Arnolfo Vescovo di Capaccio e Florio Camerota Giustiziero, ad Errico II Re d'Inghilterra a chiedergli Giovanna sua figliuola per moglie; li quali ricevuti lietamente dal Re, e ragunata un'Assemblea de' suoi Baroni con il di loro consiglio gradì la dimanda degli Ambasciadori, e conchiuse il parentado[64]. E tantosto dall'Arcivescovo d'Eborace, e da altri Signori inglesi fece condurre la figliuola insino alla città di S. Egidio, ove si trovarono presti a riceverla Alfano Arcivescovo di Capua, Riccardo Vescovo di Siracusa e Roberto Conte di Caserta con venticinque galee condotte dall'Ammiraglio Gualtieri di Moac, e la condussero a Napoli, ove celebrarono la Pasqua di Resurrezione. Ma infastidita la fanciulla dal mare, per la via di Salerno e di Calabria n'andò per terra, e passato il Faro, in Palermo si condusse, dove fu pomposamente accolta dal Re suo marito, e fatte le nozze fu coronata Regina di Sicilia.

Allora fu, che Gualtieri Arcivescovo di Palermo, per mano di cui passarono queste funzioni, presentandosegli sì opportuna congiuntura richiese al Re, che i delitti d'adulterio fossero castigati da' Vescovi nella diocesi ove eran commessi, e che i delitti dei Cherici fossero conosciuti da' loro Prelati; ond'è, che a sua richiesta fosse stata da Guglielmo fatta quella Costituzione, che ancor oggi leggiamo nel volume delle nostre Costituzioni sotto il titolo de Adulteriis coërcendis, la quale con errore de' nostri s'attribuisce a Guglielmo I suo padre. Ma se deve prestarsi fede ad Inveges[65], questi rapporta un privilegio di Guglielmo fatto alcuni anni prima colla data in aprile dell'anno 1172 e drizzato Comitibus, Justitiariis, Baronibus, et universis Bajulis, qui sunt de Parochia, et Dioecesi Archiepiscopatus Panormi, ove il Re comanda, che il delitto dell'adulterio sia della giurisdizione di Gualtieri Arcivescovo di Palermo. Ed in fatti nel Regno della Regina Costanza vedesi, che la conoscenza di questo delitto per privilegio de' nostri Re s'apparteneva agli Ecclesiastici, ciocchè poi andò in disuso, e solamente loro rimase la conoscenza sopra i delitti de' Cherici delle loro diocesi.

Era a questi tempi costume, che anche i Re soleano costituire i dotarj alle loro mogli, onde Guglielmo costituì alla Regina Giovanna il suo; e nelle addizioni fatte dall'Abate Giovanni alle Cronache di Sigeberto abbiamo la scrittura, nella quale questo dotario[66] fu costituito[67], concedendosi alla Regina a questo nome la città di Monte S. Angelo, la città di Vesti con tutti i suoi tenimenti e tutte le loro pertinenze; ed in suo servigio le concedè ancora de' tenimenti del Conte Gaufrido, Lesina, Peschici, Vico, Caprino, Varano, Ischitella e tutto ciò che il Conte suddetto teneva del Contado di Monte S. Angelo. Di vantaggio le concedè Candelaro, Santo Chierico, Castel Pagano, Bisentino e Conavo. In oltre il monastero di S. Giovanni in Lama, ed il monastero di S. M. di Pulsano con tutti i tenimenti che i suddetti monasteri tenevano del Contado suddetto di Monte Sant'Angelo.

L'Imperador Federico, dopo ricevuta sì grande sconfitta da' Milanesi, seriamente pensando, che mal poteva sostenere la guerra contro i Lombardi nell'istesso tempo, che avea per suoi nemici il Papa ed il Re Guglielmo, si dispose, esortato anche da' suoi Baroni, che si protestavano non volerlo più seguire, se non si riconciliava col Pontefice, di chiedere schiettamente, e senza fraude alcuna la pace ad Alessandro; e poichè i maneggi di questa pace, e l'andata del Papa in Vinegia, variamente sono stati narrati da' moderni Scrittori, i quali avendo di molte favole riempiute le loro istorie, diedero anche la spinta a' dipintori di prendersi queste licenze; però seguitando le orme de' più diligenti Scrittori, e sopra tutto degli accuratissimi Capecelatro ed Agostino Inveges, i quali con più diligenza degli altri rintracciarono questi successi dagli Autori contemporanei, e spezialmente dall'Istoria di Romualdo Arcivescovo di Salerno, il quale a tutto personalmente intervenne come Ambasciadore del Re Guglielmo, non dovrò aver rincrescimento di partitamente narrargli, quali realmente avvennero, giacchè non saranno riputati estranei e lontani dal nostro istituto, anzi a quello molto proprj e confacenti.

Disposto pertanto Federico d'unirsi con Alessandro, inviò ad Alagna, ove dimorava, suoi Ambasciadori a chiedergli la pace: questi furono il Vescovo di Maddeburg, l'Arcivescovo di Magonza, l'Eletto di Vormazia, e 'l Protonotario dell'Imperio, uomini tutti quattro di grandissima stima e più volte adoperati da lui in simili affari. Questi avendo esposto le loro commessioni al Papa, dopo vari trattati, che durarono quindici giorni continui, finalmente diedero qualche sesto alle differenze tra il Papa, ed il loro Signore; ma premendo assai più per la pace d'Italia, che si accomodassero gli affari de' Milanesi e delle altre città di Lombardia, il quali non era convenevole, che si trattassero in loro assenza; e considerandosi ancora, che non potevasi dar perfetto compimento ad una sicura pace senza la persona dell'Imperadore e de' Deputati di quelle città, che v'aveano da intervenire; fu perciò conchiuso, che il Papa passasse tantosto in Lombardia, per abboccarsi con Federico, e che perciò si dasse libero il passaggio e salvocondotto da ciascuna delle parti di potere chiunque volesse liberamente andare ove dovea ragunarsi tal Assemblea e dimorarvi e partirsi a suo piacere. A tal effetto inviò il Papa il Cardinal Ubaldo Vescovo d'Ostia, Rinaldo Abate di Monte Cassino Cardinal di S. Marcellino, e Pietro del lignaggio de' Conti di Marsi a ricevere il giuramento di serbar tal sicurezza da Cesare e dagli altri Collegati, e ad eleggere il luogo, ove s'avea a far l'abboccamento; e fu stabilito di consentimento di ambe le parti, che fosse la città di Bologna. Inviò anche il Papa suoi messi al Re Guglielmo a significargli, che avesse mandati alcuni de' suoi Baroni per assistere a tal bisogno in nome di lui; perciocchè non intendeva conchiudere pace alcuna con l'Imperadore, ove non fosse compreso anch'egli, che così costantemente avea sempre favoreggiati gli affari della Chiesa[68]; la quale ambasciata udita dal Re, v'inviò di presente Romualdo Arcivescovo di Salerno, autore di questa relazione, e Ruggiero Conte d'Andria Gran Contestabile; acciocchè intervenissero in suo nome a tutto quello, che fosse stato mestiere. E dopo questo partì il Pontefice d'Alagna, e per la via di Campagna venne a Benevento e di là passò a Siponto ed a Vesti, ove s'imbarcò su le galee fattegli apprestare dal Re Guglielmo con molti Cardinali, che girono in sua compagnia, e con i suddetti Ambasciadori navigò felicemente a Vinegia, ove a grand'onore ricevuto, albergò nel monastero di S. Niccolò del Lito, e nel seguente giorno fu dal Doge e dal Patriarca e da numeroso stuolo di Vescovi con gran concorso di Popolo condotto nella chiesa di S. Marco, e di là se ne passò al palagio del Patriarca, ch'era stato apprestato con gran pompa per suo alloggiamento.

L'Imperador Federico intesa la venuta del Pontefice a Vinegia inviò colà il Vescovo di Maddeburg, l'Eletto di Vormazia, e 'l suo Protonotario a chiedergli, che gli fosse a grado di stabilire altro luogo per l'appuntato abboccamento, avendo la città di Bologna sospetta, per esser colà entro molti suoi nemici. Alla qual dimanda rispose Alessandro, ch'essendosi quel luogo statuito non solo da lui, ma da' comuni Ambasciadori e da tutti i Collegati lombardi, non poteva senza il voler di ciascuno d'essi cambiarlo in altro; ma che non perciò s'impedirebbe la comune concordia; onde prestamente fece convocar i Deputati di tutte le parti a Ferrara e gitovi anch'egli ragunò una Assemblea entro la chiesa maggiore di quella città dedicata a S. Giorgio, ove convennero tutti, ed egli ragionò lungamente sopra gli affari della pace. Ed essendo sopraggiunti sette Legati da parte di Cesare, si deputarono dal Pontefice altri sette Cardinali; e per la Lega de' Lombardi furon destinati il Vescovo di Turino, e quelli di Bergamo e di Como, l'Eletto d'Asti, Gerardo Pesce milanese, Goezzo Giudice da Verona ed Alberto Gammaro bresciano, i quali dopo vari contrasti, intervenendovi parimente gli Ambasciadori del Re Guglielmo, di comun consentimento statuirono che l'abboccamento si facesse a Vinegia.

Il Pontefice prestamente spedì Ugone da Bologna e Ranieri Cardinali con alcuni altri Lombardi al Doge ed al Popolo vinegiano (essendo a questi tempi la potestà pubblica presso i Nobili ed il Popolo insieme, non come oggi ne' soli Nobili ristretta[69] ) a chieder loro, che avesser data sicuranza che potesse egli, e tutti gli altri, ch'eran seco per lo detto trattato di pace entrar nella loro città e dimorarvi, ed uscirne a lor talento senza ricever noia alcuna, aggiungendo che non consentissero, che Cesare contro il voler del Papa vi potesse venire; ed avendo i Vinegiani senza molto riflettere a quest'ultima dimanda conceduto ad Alessandro quel che chiedeva, si partì egli immantenente da Ferrara ed a Vinegia ritornò. Si diede quivi per tanto principio a' negoziati della pace, ma riuscendo per le molte difficoltà e differenze insorte, malagevole a potersi conchiudere, perchè non andasse a vuoto tutto ciò, che fin allora erasi adoperato, pensò Alessandro, che almeno dovesse conchiudersi una triegua, che durasse sei anni con i Lombardi, e quindici col Re di Sicilia; nel che essendo venuti gli altri, s'attendeva solo il consenso di Cesare per istabilirla; e gito il Cancelliere all'Imperadore con tal proposta, prima si sdegnò; ma da poi acconsentì con condizione, che il Papa restituisse all'Imperio lo Stato della Contessa Matilde; ma questa proposta non fu accettata da Alessandro; onde dilungandosi l'affare, perchè l'Imperadore era a Pomposa, luogo di piacere presso Ravenna, e vi voleva molto tempo ad andare e ritornare i messi, che gli s'inviavano per gli affari, che occorrevano in tal bisogno si contentò Alessandro per agevolare il trattato a richiesta del Cancelliere e degli altri Deputati di Cesare ch'esso venisse insino a Chiozza luogo quindici sole miglia lungi da Vinegia e che di là non passasse avanti senza espressa sua licenza. Ma venuto che vi fu Federico, ne girono alcuni de' popolani di Vinegia a ritrovarlo, e dirgli che non indugiasse ad entrare nella città, perchè colla sua presenza avrebbero sicuramente fatta la pace in suo vantaggio, ed essi avrebbero adoperato ogni sforzo per farlo entrare.

Aveva mandato in questo mentre Alessandro a Chiozza suoi Legati a dire a Cesare, che se egli era risoluto di far triegua per sei anni con i Lombardi e per quindici col Re Guglielmo, il giurasse nelle lor mani, perchè poscia con la sua benedizione sarebbe potuto entrar nella città. Ma Federico a cui eran piaciute l'offerte de' popolani, ed aspettava, che l'avesser recate ad effetto, simulando essergli nuovo il trattato, e consumando il tempo in varie consulte, trasportava di giorno in giorno la risposta; onde sospettando i Cardinali che l'Imperadore macchinasse qualche inganno, erano entrati in gran confusione, nè sapean che farsi: ed i popolani di Vinegia volendo porre in opera la promessa fatta a Federico, si ragunarono insieme nella chiesa di S. Marco, e tumultuando contro il Doge, gridavano ch'era cosa molto biasimevole, che Cesare dimorasse travagliato dal calor della stagione, da' pulci e dalle zanzare senza potere entrare in Vinegia, la qual ingiuria riserbando egli nel suo animo, l'avria poscia sfogata a più opportuno tempo contro di loro e contro i lor figliuoli; perlocchè volevano, che invitatovi dalla Repubblica, e di voler di tutti loro v'entrasse di presente: le quali cose avendo con molta baldanza significate al Doge, fu da lui risposto, che s'era giurato al Pontefice di non far entrare l'Imperadore senza sua licenza: ma nulla giovandogli presso il Popolo tumultuante questa scusa, alla fine bisognò cedere, e mandare alcuni de' medesimi a dire al Papa, ch'era loro intendimento di far entrare Cesare in Vinegia, i quali ritrovandolo che dormiva, senza voler soprastare menomo tempo, irreverentemente lo svegliarono ed espostagli con arroganza l'ambasciata, a gran pena si contennero per le parole del Pontefice d'indugiare fino al vegnente giorno a farlo venire.

Sparsasi di repente per la città la novella di tal fatto, temendo i Lombardi e gli altri, ch'erano ivi per lo trattato della pace, che se Federico entrasse contro il voler del Papa, non gli facesse prigioni, avendo già sospetta la corta fede de' Vinegiani, sgombrarono tantosto via, e ne girono a Trivigi. Ma gli Ambasciadori del Re Guglielmo niente spaventati di tal fatto, furono prestamente a ritrovare il Papa, ad avvalorarlo e dargli animo, che di nulla temesse, poich'essi avean quattro galee ben armate; su le quali l'avrebbero eziandio contro il volere de' Vinegiani trasportato ove gli fosse stato a grado, e avrebber saputo farsi attendere la fede data da' Vinegiani; dopo di che ne girono a casa del Doge, e ritrovandolo con molti Vinegiani, cominciarono a rinfacciargli i beneficj, che il loro Signore avea lor fatti, che non meritavano questo tratto, e che se sapessero, che essi permettevano di far entrare Federico nella lor città senza licenza del Pontefice, essi non avriano attesa tal venuta, ma che subito se ne sariano andati via in Sicilia, ed avriano detto al lor Principe ciò che ne conveniva per vendicar questi torti. Ma non montando nulla tai parole col Doge, ancor ch'egli con dolci risposte s'ingegnasse di trargli al suo volere, con assicurargli, che non avesser niun timore della venuta dell'Imperadore, sdegnosamente ritornarono al loro albergo e dissero sul partire dal Doge, che avrebber procacciato, che il lor Signore si vendicasse con convenevol castigo dell'ingiuria che riceveva; e fecero apprestare i legni per partirsi nel seguente mattino. La qual cosa sparsasi tra' Vinegiani, recò loro grandissima paura, temendo, se costoro si fossero andati via così sdegnati, non avesse con tal cagione il Re Guglielmo fatti prigionieri tutti i Vinegiani, che dimoravano nel suo Reame. Il perchè grosso stuolo di coloro, ch'eran congiunti di sangue a que' ch'erano in Puglia, mossi a tumulto ne girono al Doge a dirgli che non era convenevole, che per aggradire a Cesare, dal quale mai non avean ricevuto comodo alcuno, si facesse nimistà, sdegnando in cotal guisa i suoi Legati, col Re Guglielmo, da' cui Stati traean continuamente tante utilità, arrischiando di più la vita ed i beni de' lor parenti che colà dimoravano; e che lor palesasse chi erano stati coloro, ch'avean consigliato a far entrar l'Imperadore in Vinegia prima di conchiudere la pace col Pontefice, ch'erano apparecchiati con l'armi alle mani di farne vendette.

Vedendo il Doge ed il Senato sì ostinata risoluzione e temendo non si movesse grave sedizione e si venisse dentro la città all'armi, inviarono prestamente persone di molta stima a pregare il Papa che lor perdonasse la noia, che gli avean data e che facesse ogni sforzo con gli Ambasciadori di Guglielmo, di non fargli partire: ma mostrando di star saldi nel loro proponimento non ostante le preghiere del Papa e del Doge, fur cagione, che nel seguente mattino si pubblicasse una grida in Rialto d'ordine della Repubblica, che niuno avesse più ardito di favellar dell'entrata di Cesare nella città, se in prima non l'avesse comandato il Pontefice.

Pervenuta a Federico in Chiozza questa novella, vedendosi fallita ogni speranza, cominciò a parlar benignamente co' Cardinali, che colà dimoravano, degli affari della pace; ed essendogli altresì apertamente detto dal suo Cancelliere, e dagli altri Baroni tedeschi, che bisognava finirla con Alessandro e riconoscerlo per legittimo Pontefice, finalmente alle persuasioni de' medesimi s'indusse ad inviar addietro a Vinegia co' Cardinali il Conte Errico da Diessa a prometter con giuramento, che tosto ch'egli vi fosse entrato avrebbe giurata e confermata la triegua con la Chiesa, col Re di Sicilia, e co' Lombardi nella stessa guisa appunto, ch'era stata trattata per li Deputati d'ambe le parti.

La qual cosa posta ad effetto dal Conte, ne girono d'ordine del Pontefice i Vinegiani con sei galee a levar l'Imperadore, e 'l condussero insino al monastero di S. Niccolò, e nel seguente giorno, avendo Alessandro udita la sua venuta, se n'andò con tutti i Cardinali, con gli Ambasciadori del Re, e co' Deputati de' Lombardi alla chiesa di S. Marco, ed inviò tre Cardinali con alcuni altri a Federico, i quali assolvettero lui e tutti i suoi Baroni dalle censure della Chiesa. Dopo questo andarono il Doge e 'l Patriarca, accompagnati co' primi Nobili di Vinegia, a S. Niccolò, e fatto salir l'Imperadore sopra i loro legni con molta pompa il condussero insino a S. Marco; ove per veder sì famoso spettacolo era ragunata immensa moltitudine di Popolo: e Federico disceso dalla nave n'andò tantosto a' piedi d'Alessandro, il quale coi Cardinali e con molti altri Prelati era pontificalmente assiso nel portico della Chiesa e deposta l'alterigia della Maestà imperiale, levatosi il mantello, si prostrò innanzi a lui con il corpo disteso in terra, umilmente adorandolo: dal qual atto commosso il Pontefice lagrimando, da terra il sollevò, e baciandolo il benedisse: e poi cantando i Tedeschi il Te Deum entrarono ambedue in S. Marco, donde l'Imperadore, ricevuta la benedizione dal Papa, ne andò ad albergare al palagio del Doge, ed il Papa con tutti i suoi ritornò al solito ostello.

Così ne' principj d'agosto di quest'anno 1177 fu conchiusa e confermata la triegua[70] data da Federico a' Lombardi per sei anni, ed a Guglielmo per quindici, che fu giurata da Federico, ed anche dal Conte di Diessa, e da dodici Baroni dell'Imperio in nome di Errico suo figliuolo. La giurarono ancora dalla lor parte l'Arcivescovo Romualdo e Ruggiero Conte di Andria, Ambasciadori del Re, promettendo, che fra due mesi l'avrebbe Guglielmo confermata, e fatta altresì giurare da diece altri suoi Baroni: siccome per tal effetto furono da Federico mandati suoi Ambasciadori in Sicilia, i quali giunti il nono giorno di agosto di quest'anno 1177 a Barletta, quindi si portarono in Palermo, ove furono lietamente accolti dal Re, il quale per Ruggiero dell'Aquila in nome di lui, e per undici altri suoi Baroni diede compimento al dovuto giuramento: e fatto simigliante giuramento dai Deputati delle città di Lombardia, scioltasi l'Assemblea, ritornò ciascuno lieto al suo albergo.

Stabilita in cotal guisa la concordia fra il Papa e Federico, ne corse tantosto la novella a' seguaci dell'Antipapa, i quali anch'essi cedendo, ne vennero ai piedi d'Alessandro, rinunciando lo scisma, e furon da lui benignamente ricevuti in sua grazia: e Giovanni da Struma Antipapa, detto da' suoi seguaci Calisto III nell'anno seguente 1178, uscendo da Monte Albano, ove s'era ricoverato, essendo già il Papa Alessandro partito da Vinegia, ed andato a Tuscolo, venne anche egli a porsi a' suoi piedi, e l'adorò come vero Pontefice, dando fine allo scisma, che per diciassette anni continui era durato, e ne fu Giovanni dal Papa creato Arcivescovo e Governador di Benevento, ove poco da poi morì di dolor d'animo.

Ed intanto il Papa e l'Imperadore erano già partiti da Vinegia, essendosene Cesare, che fu il primiero, andato a Ravenna, ed il Pontefice sopra quattro galee de' Vinegiani passato a Siponto, e di là per lo cammino di Troia e di Benevento portossi ad Alagna: e poco da poi chiamato da' Romani nella lor città, vi entrò il giorno della festa del B. Gregorio, e vi fu con nobil pompa ricevuto. E l'Imperadore dimorato non guari a Ravenna, se n'andò in Lombardia, e di la passò in Alemagna.

Ed in cotal guisa terminarono questi successi, che variamente scritti da' moderni Istorici, e particolarmente da alcuni Siciliani, a' quali l'istesso Agostino Inveges da Palermo non potè prestar fede alcuna, aveano di mille favole riempiuto i lor volumi. Noi intorno a ciò non potevamo aver miglior testimonio, che Romualdo Arcivescovo di Salerno della regal schiatta de' Normanni, e Prelato di grande stima, il quale come Ambasciador del Re Guglielmo personalmente intervenne a tutto, e che nella sua Cronaca lo tramandò alla notizia de' posteri, al quale più che ad ogni altro Scrittore deve prestarsi indubitata fede.

§. I. Dominio del Mare Adriatico.

Favola dunque è tutto ciò, che si narra d'esser Alessandro gito a Vinegia sotto mentito abito di peregrino, e quel ch'è più degno di riso, che quivi per molto tempo si fosse trattenuto, e nascosto con far il mestiere di cuoco. Favola parimente dee riputarsi ciò, che scrissero delle parole dette da Alessandro quando Federico fu ad inchinarsegli, e le risposte da costui date al medesimo. La pugna navale, che si figurò tra l'armata de' Vinegiani con quella finta di Federico, che non avea allora armata di mare, e quel ch'è più, di avervi preposto per capitano Ottone suo figliuolo, che secondo il Sigonio, non potea aver più che cinque anni, e mille altri sognati avvenimenti, infelicemente sostenuti da Cornelio Francipane in quella allegazione, che si vede ora impressa nel sesto tomo dell'opere del P. Paolo Servita.

Ma non meno deve riputarsi vano quel che parimente scrissero, che in quest'incontro Papa Alessandro avesse conceduto a' Vinegiani amplissimi privilegi della superiorità e custodia del Mare Adriatico, e che quindi sia nata quella celebrità, che ogni anno costumasi in quella città nel dì dell'Ascensione di sposar il mare; quasi che ad Alessandro appartenesse conceder il dominio de' mari, siccome gli altri Pontefici lo pretesero della terra. Dalla moderazione d'Alessandro tali esorbitanze non doveano credersi, e gran torto si è fatto alla memoria di quel Pontefice, che conosceva i confini della sua potestà, e se Federico gli fu avverso, e sovente ebbe a contender con lui, non fu per altro, se non perchè a torto non voleva riconoscerlo per vero Pontefice, della qual discordia approfittandosi le città di Lombardia, quindi fu, che sursero le tante contese e travagli che 17 anni tennero miseramente afflitta la Chiesa di Roma.

Conobbe questa verità quel bravissimo istorico Francesco Guicciardino[71], il qual parimente scrive di tal concessione d'Alessandro non apparire nè in istorie, nè in iscritture memoria o fede alcuna, eccetto il testimonio de' Vinegiani, il quale in causa lor propria, e sì ponderosa deve esser pur troppo sospetto. Ma i Vinegiani stessi più saggi, ed intesi delle memorie andate, ben anche han riprovata questa falsa credenza de' loro compatrioti; ed il lor famoso Teologo e Consiglier di Stato, Fr. Paolo Servita, nel Dominio del Mar Adriatico, si è sforzato ben a lungo di pruovare, che i Vinegiani siano padroni del Golfo non già per concessione d'Alessandro, o d'altri Pontefici o Imperadori, ma, come nato insieme colla Repubblica, per altro titolo, che da' nostri Giureconsulti verrebbe chiamato pro derelicto: pretendendo egli, che gli ultimi Imperadori d'Oriente distratti in varie imprese, non avendo potuto per mancanza d'armate mantener la custodia del Golfo, l'abbandonarono, nulla curando che altri l'occupasse, e quindi essere avvenuto, che i Vinegiani resisi da poi potenti in mare, trovando il possesso vacuo; e non essendo allora il Golfo sotto il dominio d'alcuno, se ne fossero impadroniti, e contrastatolo da poi contra chiunque ha voluto tentare di disturbargli.

Ma se mai, siccome della terra, potesse acquistarsi dominio alcuno del mare, e non ripugnasse la natura istessa, come ben a lungo provò l'incomparabile Ugon Grozio in quel suo libro che a tal fine intitolò Mare liberum; e volesse ammettersi ciò che in contrario scrisse Giovanni Seldeno in quell'altro suo libro, che per opporlo a quello di Grozio intitolò Mare clausum; pure con maggior ragione pretesero i nostri maggiori, che il dominio del Mare Adriatico dovesse più tosto appartenere a' nostri Re di Sicilia, che alla Repubblica di Vinegia; non per quel titolo al quale invano ricorrono i Vinegiani; poichè niun Principe ebbe quel Golfo per abbandonato, tenendo sempre in animo di racquistarlo, quando le forze potevan somministrargli il modo; ma per ragion di conquista, che i nostri Normanni fecero sopra i Greci, i quali, declinando l'Imperio di Oriente, furono padroni di tutti questi Golfi, che circondano queste nostre regioni; non potendo (secondo che s'è potuto notare ne' precedenti libri di questa Istoria) porsi in dubbio, che sino a' tempi di Carlo M. gl'Imperadori Greci eran Signori dell'Adriatico, e che quivi spesso mandavano le loro armate per mantenere in Puglia la lor dominazione, contro l'invasione delle Nazioni straniere; anzi sovente i Vinegiani s'univano co' Greci contro gli sforzi di Carlo M. e di Pipino suo figliuolo, che cercavano disturbargli dal dominio dell'Adriatico; di che una volta sdegnato fieramente Pipino, per essere i Vinegiani concorsi a favorire, e soccorrere di denaro, e di gente li Greci: dopo avergli scacciati dall'Adriatico, e distrutta la loro armata, si inoltrò negli ultimi recessi del Golfo contro i Vinegiani, e prese una gran parte della loro città, che si componeva allora di molte isolette; ed avrebbero i Vinegiani patito l'ultimo sterminio, e sarebbero passati sotto la dominazione di Pipino Re d'Italia, se Carlo M. suo padre non avesse tosto riprovato il fatto, e data loro pace, incolpando i Duci loro d'essersi uniti coi Greci, non già i Vinegiani[72]. La qual guerra però fu a' medesimi profittevole, perchè una gran parte di quelle genti, che per tutti que' stagni, e lidi diversi abitavano (ch'erano pure a Vinegia soggette, e come parte, e membri di questa città) lasciando le stanze loro, se ne vennero ad abitare sopra sessanta isolette picciole, ch'erano intorno a Rialto, giungendole insieme con ponti, alle quali poi fu dato aspetto d'una grande e magnifica città, e stabilitavi la presidenza de' Duchi, ed il Consiglio pubblico.

Ed avendo da poi i Normanni discacciati i Greci dalla Sicilia, dalla Puglia e dalla Calabria, non può dubitarsi, che i nostri Principi scorrevano a lor posta con poderose armate l'Adriatico, e tralasciando cento altre occasioni, ch'ebbero di navigarvi con armate, nell'anno 1071, quando il famoso Duca Roberto Guiscardo fu chiamato in ajuto da Ruggiero suo fratello mentr'era nell'assedio di Palermo, v'accorse egli con poderosa armata di 58 navi traversando l'Adriatico, come scrisse Lupo Protospata[73]. E ne' tempi, che seguirono, essendo passate sotto la dominazione di essi Normanni tutte queste province, il famoso Ruggiero I Re, non contento di tanti e sì sterminati acquisti, resosi potente in mare assai più che non erano gl'Imperadori istessi d'Oriente, portò le sue vittoriose insegne non pur in Dalmazia, nella Tracia, e fin alle porte di Costantinopoli, ma corsero le sue poderose armate insino all'Affrica, ove fece notabili conquiste di città e di province. Nè vi fu Principe al Mondo in questi tempi, che lo superasse per forze marittime, e d'armate navali, le quali sovente combattendo con quelle dell'Imperadore d'Oriente, anche potente in mare, ne riportò sempre trionfi e piene vittorie. Ciò si è potuto anche conoscere dalle tante armate, che mantenevano, tanto che non bastando un Ammiraglio per averne cura; fu d'uopo crearne molti, a' quali prepose un solo, che perciò fu chiamato Admiratus Admiratorum; siccome era appellato Giorgio Antiocheno Grand Ammiraglio ne tempi di Ruggiero, e Majone ne tempi di Guglielmo suo figliuolo. E fu ne' tempi di questi Re normanni così grande la loro potenza in mare, che non vi era lido, o porto ne' loro dominj, che (oltre d'esser provista ciascuna provincia d'Ammiraglio) non avessero questi ancora altri Ufficiali minori a lor subordinati, alla cura de' quali si apparteneva la costruzione de' vascelli e delle navi, di reparargli, e disporgli per mantener libero il commercio e di tener li Porti in sicurezza, e ciò in tutta l'estensione de' loro Reami, e in tutti i lati marittimi, ed avendo l'Adriatico molti Porti nella Puglia, e per tutta quell'estensione, ch'è la più grande di quel Golfo (ne' quali sovente anche l'armate, che venivano da Sicilia solevano ricovrarsi) nel Regno di Ruggiero, dei due Guglielmi, e degli altri Re suoi successori, fu quel Golfo sempre guardato, e ripieno di navi e d'armate de' Re di Sicilia; anzi in congiunture di viaggi e di espedizioni navali, i Porti più frequentati e scelti a tal fine erano que' di Vesti, di Barletta, Trani, Bisceglia, Molfetta, Giovenazzo, Bari, Mola, e di Monopoli, oltre a quelli di Brindisi, d'Otranto, di Gallipoli, e di Taranto posti quasi tutti nell'Adriatico; ed i pellegrinaggi per Terra Santa in Soria, sovente per l'Adriatico si facevano. L'armate di Federico, e d'Errico Imperadori indifferentemente ne' Porti dell'Adriatico si fermavano: per l'Adriatico si trasportava l'oste per Soria, ed in fine tutte l'altre imprese della Grecia, e di Levante per questo Golfo si disponevano.

E se bene nel Regno degli Angioini non fosse stata tanta la potenza in mare de' Re di Sicilia, nulladimanco non è, che i due Carli d'Angiò, e gli altri Re di quella stirpe, non avessero mantenute poderose armate di mare, tanto che non avessero potuto disporre di quel Golfo a loro arbitrio e piacere, siccome quando dall'occasione si richiedeva il facevano.

Ne' tempi posteriori, e particolarmente sotto gli Aragonesi, per essere a' nostri Re mancate tante forze di mare, ed all'incontro cresciute quelle de' Vinegiani, nacque, che navigando essi nel Golfo a lor piacere, senza temer d'armata di Principe vicino, avessero essi preteso il dominio di quel Golfo, ed avessero da poi preteso d'impor legge a coloro, che vi navigavano: di non permettere che entrassero in quello armate navali: di vendicar le prede, che in esso si facevano, e con loro licenza permettersi il trasporto delle merci; e per la debolezza de' Principi vicini, giunsero insino a non permetter che altre armate potessero navigare il Golfo, siccome con non piccol scorno de' Spagnuoli avvenne, quando essendosi casata Maria con Ferdinando Re di Ungheria figliuolo di Cesare, sorella del Re Filippo IV e con numeroso stuolo di galee, e con pompa degna di tanti Principi, giunta a Napoli, per passare per l'Adriatico a Trieste con la stessa armata Spagnuola: i Vinegiani per non pregiudicare al loro preteso dominio di quel Mare, s'opposero con tal ostinazione, che si dichiararono, che se gli Spagnuoli non accettavano la loro offerta, di condurla essi colla loro armata, stassero sicuri, che converrebbe alla Reina tra le battaglie, ed i cannoni passare alle nozze; tanto che bisognò vergognosamente cedere, e la Reina per la strada d'Abruzzi giunta in Ancona, fu ricevuta da Antonio Pisani con tredici galee sottili, che la sbarcò a Trieste[74]. In tanta declinazione si videro le nostre forze marittime a tempo degli ultimi Re di Spagna; ma se si voglia aver riguardo a' secoli andati, e spezialmente a questi tempi de' Re Normanni con maggior ragione potevano vantar il dominio di quel Mare i Re di Sicilia, che i Vinegiani. Quindi è che presso di noi, tra' manuscritti della regal giurisdizione rapportati dal Chioccarello[75], si trovi notato per uno de' punti controvertiti, se il dominio del Mare Adriatico sia dei Vinegiani, o più tosto de' Re di Napoli.

(Si conferma tutto ciò dal vedersi, che le scritture che uscirono a' tempi del Re Filippo III de' Veneziani per sostenere questo dominio, siccome quella del P. Paolo Servita (dove nell'ultima parte si risponde a' Dottori napolitani, infra i quali al Reggente de Ponte ) e del Francipane, furono composte per rispondere ad alcune Scritture date fuori in contrario da' Napolitani; siccom'è manifesto dall'ultima Edizione dell'Opere del P. Paolo stampate in Venezia in 4.º ancorchè colla data di Halmstat, dove nel frontispizio nell'Allegazione del Francipane si legge: contra alcune scritture de' Napolitani).

§. II. I Veneziani sono stati Soggetti degli Imperadori d'Oriente e d'Occidente.

Chiunque attenderà lo stato delle cose di quei tempi, secondo che ce lo rappresentano non meno gli antichi Annali, e Monumenti estratti dalla voracità del tempo, che gli Storici contemporanei, si accorgerà, che le province di Venezia e d'Istria col seno del mare Adriatico, che le bagna, nella decadenza dell'Imperio di Occidente, ubbidivano agl'Imperadori di Oriente. Quando Giustiniano Imperadore riunì al suo Imperio di Oriente tutta l'Italia per lo valore di quei due celebri Capitani Belisario e Narsete, non è dubbio, che l'Istria e le regioni de' Veneti erano appartenenze dell'Orientale Imperio. Le Regioni marittime de' Veneti dall'Istria si stendevano sino alla città di Ravenna: siccome ce n'assicura Procopio scrittor contemporaneo, il quale descrivendo queste regioni, così ne parla[76]: Sequitur, cui Dalmatiae nomen, et quae cum ipsa Occidentalis Imperii finibus comprehenduntur: proxima Liburnia, huic Istria; dein Regio Venetorum, ad Ravennam urbem porrecta.

Quando la prima volta i Franzesi sotto que' loro famosi Capitani Leutario, e Buccellino invasero questa parte d'Italia, ed occuparono i luoghi terrestri dei Veneti, tenendo i Greci i luoghi marittimi, siccome ci rende testimonianza lo stesso Procopio[77]; Narsete mandato da Giustiniano in Italia in luogo di Belisario gli scacciò da tutti que' luoghi terrestri del tratto Veneto, siccome fece anche dalla Liguria, avendo sconfitto interamente i Franzesi; a segno che in Italia non gli restò nè pur un picciolo castello.

Queste province dopo la morte di Giustiniano passarono al suo successor Giustino: e questi avendo istituito in Italia l'Esarcato di Ravenna, non vi è dubbio, che gran parte del territorio Veneto fosse porzione dell'Esarcato, giacchè Procopio ci descrive, che la Region Veneta si distendeva fin alla città di Ravenna: Regio Venetorum ad Ravennam urbem porrecta. Ciocchè per antichi monumenti fin'all'ultima evidenza dimostrano Girolamo Rubeo[78] e Ludewig[79], il quale nella vita di Giustiniano M.[80], non ebbe difficoltà di dire esser cosa chiara: Venetum agrum vel territorium portionem fuisse Exarchatus non infimam.

Ma avendo da poi Carlo M. interamente scacciati da questa parte d'Italia non meno i Greci, che i Longobardi, e fatto Re d'Italia Pipino suo figliuolo, le Venezie sottratte dall'Imperio d'Oriente, furon rese province del Regno Italico, siccome con verità scrisse Costantino Porfirogeneta[81], dicendo, che d'indi in poi le Venezie non soggiacquero all'Oriente, ma furon fatte Provincia Italici Regni. Quindi gl'Imperadori di Oriente per reintegrare all'Imperio, da questa parte, i lor confini, ebbero con Carlo M. or guerre, or tregue, or convenzioni e paci, per le quali finalmente, siccome rapporta Eginardo[82], fu convenuto, che a Carlo fossero aggiudicate le due Pannonie, l'Istria, le Venezie, la Liburnia, e la Dalmazia, lasciandosi all'Imperadore costantinopolitano le città marittime della Puglia, la Calabria e la Sicilia. Carolus, scrive Eginardo, utramque Pannoniam, et appositam in altera Danubii ripa Daciam, Histriam quoque et Liburniam, atque Dalmatiam, exceptis maritimis Civitatibus, quas ob amicitiam, et junctum cum eo foedus Constantinopolitanum Imperatorem habere permisit, adquisivit.

Ma per i luoghi terrestri di quelle province rimasti a Carlo, e per le città marittime lasciate a gl'Imperadori greci; non durò fra medesimi ed i Re francesi lungo tempo buona armonia; poichè nell'anno 806. Paolo Principe di Zara, ed i Legati di Dalmazia, non meno che i Duchi di Venezia, che riconoscevano per loro Sovrani gl'Imperadori di Oriente, mal sofferendo la potenza de' Francesi, come troppo lor vicina, ricorsero all'Imperadore Niceforo, perchè gli prestasse ajuto per non essere da quelli oppressi, siccome leggesi negli Annali Laurisheimensi ad An. 806 de' quali non si dimenticò Simone Stanh. Histor. Germ. in Carolo M. che ne rapporta varj pezzi: Statim post Natalem Domini (si legge ne' medesimi) venerunt Wilharius et Beatus Duces Venetiae; nec non et Paulus Dux Jaderae, atque Donatus, ejusdem civitatis Episcopus, Legati Dalmatorum, ad praesentiam Imperatoris cum magnis donis, et facta est ibi ordinatio ab Imperatore de Ducibus et Populis tam Venetiae, quam Dalmatiae.

Ed in effetto l'Imperadore Niceforo non tardò in gennaro del seguente anno 807 di mandar una classe marittima ne' porti di Venezia sotto il comando di Niceta, per ricuperar la Dalmazia, siccome si aggiunge negli Annali stessi: Classis a Nicephoro Imperatore, cui Niceta Patricius pracerat, ad recuperandam Dalmatiam mittitur. Ma giunta che fu questa flotta ne' porti di Venezia, Pipino costituito Re d'Italia da Carlo suo padre, fatta tregua con Niceta fino al mese d'agosto, tanto fece sicchè l'indusse a ritornarsene, come soggiungono gli Annali stessi ad An. 807 Niceta Patricius, qui cum Classe Costantinopolitana in Venetia se continebat, pace facta cum Pipino Rege, et induciis usque ad Augustum constitutis, regreditur.

Ma i Veneziani e i Dalmatini, che desideravano, che sempre fosse accesa guerra tra' Greci e' Franzesi, per profittare nel torbido, nutrendo per ciò fra di loro gare e contenzioni, indussero l'Imperadore Niceforo nel 809 che mandasse la seconda volta in Dalmazia e Venezia un'altra armata sotto Paolo: la quale spedizione ebbe varj successi: nel principio giunta l'armata a Venezia, si rese padrona dell'Isola di Comiaclo, ma attaccata poi l'armata da Pipino e fugata; fu obbligata ritirarsi ne' Porti di Venezia, come dicono gli Annali suddetti Laurisheimensi ad An. 809 Classis de Constantinopoli missa, primo Dalmatiam, deinde Venetiam adpulit, cumque ibi hiemaret pars ejus Comiaclum Insulam accessit, commisso praelio, victa atque fugata Venetiam recessit.

Paolo Prefetto dell'armata, vedendo non poter resistere alle forze di Pipino, cominciò a trattar di pace col medesimo; ma i Duchi di Venezia Wilhario, e Beato, i quali di mala voglia soffrivano, che Paolo volesse trattar di pace con Pipino, fecer ogni sforzo per impedirla, anzi con frodi ed inganni tentarono d'insidiar la di lui persona: sicchè avendo Paolo conosciute le loro insidie e frodi l'obbligarono a partire; come soggiungono gli annali stessi: Dux autem, qui Classi praeerat, nomine Paulus, cum de pace inter Francos et Graecos constituenda, quasi sibi hoc esset injunctum, apud Pipinum, Italiae Regem, agere moliretur, Wilhario et Beato Venetiae Ducibus, omnes conatus ejus impedientibus, atque ipsi etiam insidias parantibus, cognita illorum fraude discessit.

Il Re Pipino conosciuta la perfidia de' Duchi di Venezia, i quali proccuravano fomentar gare e guerre irreconciliabili tra Greci e Franzesi per sottrarsi in questi torbidi dagli uni, e dagli altri, si risolse di soggiogarli affatto; e mossa la sua armata per mare, ed il suo esercito per terra; soggiogata Venezia, li obbligò a rendersi, e di passare, come tutti gli altri Popoli d'Italia, sotto il suo dominio, come narra il Monaco Egolismense pag. 63 scrivendo Pipinus Rex, perfidia Ducum Venetiarum incitatus, Venetiani bello, terra marique jussit adpetere subjectaque Venetia, ac Ducibus ejus in deditionem acceptis etc.

Ma il generoso e magnanimo Carlo suo padre, non volendo rompere gli antichi patti e convenzioni per le quali s'erano lasciati questi luoghi marittimi di Dalmazia e di Venezia all'Imperio greco, trattò egli la pace coll'Imperadore Niceforo, e nel seguente anno 810 gli ristituì Venezia, siccome rapportano gli annali di Francia ad An. 810 Carolus pacem cum Nicephoro Imperatore fecit, et ei Venetiam reddidit. E di vantaggio, avendo fatto imprigionare, e privato di tutti gli onori Wilhario per la sua perfidia, dovendo mandare suoi Legati in Costantinopoli a confermar questa pace, nell'anno seguente 811 co' Legati suddetti fece condurre Wilhario Duca di Venezia all'Imperadore, perchè come suo Signore il riconoscesse, siccome portano gli Annali Laurisheimensi ad An. 811 dicendo: Pacis confirmandae gratia Legati Costantinopolim mittuntur.... et cum eis.... Wilharius, Dux Venetorum... qui propter perfidiam honore spoliatus, Constantinopolim ad Dominum suum duci jubetur.

Quindi è, che degl'Imperadori d'Oriente successori di Niceforo, e spezialmente di Lione V Armeno restano ancora monumenti d'aver esercitata la loro piena sovranità sopra i Veneziani, ridotti ad abitare in quelle Isolette negl'ultimi recessi di quelle Lagune: i quali sebbene avessero loro Duchi, che gli governavano, questi però non eran riputati, che Ufficiali dell'Imperadore, decorati dell'onore d' Ippato, ch'era una dignità Imperiale; e tutte quelle insegne, come il Manto, il Corno ducale, e gli altri ornamenti, onde sono fregiati, tutti erano onori, che gli provenivano dalla Corte di Costantinopoli.

Quindi i Veneziani vestivano alla greca con abiti talari, che ancor ritengono, a differenza degli altri popoli d'Italia, come all'Imperio d'Oriente sottoposti.

Onde quel Monumento, che prima si conservava nell'Archivio del Monasterio delle Monache di S. Zaccheria di Venezia, e che ora insieme con altri consimili leggiamo impresso in un libro stampato in Venezia stessa con licenza de' superiori nell'anno 1678 intitolato, il silenzio di S. Zaccheria snodato: non dee sembrar cotanto ingiurioso a' Veneziani: sicchè severamente, proibiscano il tenerlo proccurando di sopprimerlo, perchè non ne resti vestigio.

In questo Libro si legge un Attestato di Giustiniano Participatio Doge di Venezia, a' tempi dell'Imperadore Lione V Armeno, che sedè nell'Imperio d'Oriente dopo Niceforo intorno l'anno 813, nel quale la fondazione, o sia ampliazione di quel Monasterio si attribuisce a Lione, chiamato dal Doge suo Signore, con obbligo alle Monache d'incessantemente pregare Dio per la salute dell'Imperadore, e suoi Eredi: Eccone le parole: Cognitum sit omnibus CHRISTI, et Sancti Romani Imperii Fidelibus tam praesentibus, quam ex illis, qui post nos futuri erunt, tam Ducibus quam Patriarchis, atque Episcopis, seu caeteris Primatibus. Quod ego Justinianus Imperialis Hippatus et Venetiarum Dux, per revelationem Domini nostri Omnipotentis, et jussione Domini Serenissimi Imperatoris pacis seu, et Conservatoris totius Mundi LEONIS: Post multa nobis beneficia concessa, feci hoc Monasterium Virginum hic in Venetia, secundum quod ipse jussit edificare de propria Camera Imperiali, et secundum quod iussit mihi, statim cuncta necessaria auri, sive argenti dari jussit. Tum etiam nobis Reliquias Sancti Zaccariae Prophetae, et lignum Crucis Domini, atque Sanctae Mariae pannum, sive de vestimentis Salvatoris et alias reliquias Sanctorum nobis ad Ecclesiam Sanctam consecrandam dari fecit. Ad necessaria hujus operis etiam Magistros tribuit, ut citius opus explerent, et expleto opere congregatio sancta incessanter pro salute Serenissimi Imperatoris et suorum heredum orarent. De Thesauro vero, quod manifestat sua carta cum litteris aureis, et totum donum, quod in hoc loco ipse transmisit, in ipsa Camera salvum esse statuimus: Tamen ipsam cartam in Camera nostri Palatii volumus, ut semper permaneat, et ut non valeat aliquis hoc dicere, quod illud Monasterium Sancti Zaccariae de alicujus Thesauro esset constructum, nisi de Sanctissimi Domini nostri Imperatoris LEONIS.

Nè l'aver mandato l'Imperadore quelle reliquie, perchè si riponessero nella Chiesa, adombra punto l'autenticità della scrittura, come se ciò non potesse attribuirsi a Lione V creduto Iconoclasta; perchè i Greci aveano tutta la venerazione a reliquie cotanto insigni; ma volevano, che per ciò non segli prestasse Culto Religioso; oltre che dopo il Concilio II di Nicea celebrato nell'anno 787 favorevole alle Reliquie e Imagini, i Greci furon divisi, e chi stava per lo Concilio Costantinopolitano, che le proibiva, chi per questo II Niceno; e Lione si adattò al costume d'Italia, dove non soleva consecrarsi Chiesa senza qualche Reliquia di Martire, o di Santo.

I savj e dotti Veneziani, che non si lasciano trasportare dall'enfatico stile de' loro moderni Storici, e singolarmente del Nani, con quelle ampollose frasi di Libertà nata colla Repubblica stessa, non riputano tali monumenti apocrifi, o strani, anzi riguardandosi ai passati tempi, sono ben proprj e conformi allo stato delle cose d'allora: poichè ad una Repubblica nuova stabilita negli ultimi tempi, non può certamente adattarsi quella innata Libertà, che vantano: se non fosse caduto dal Cielo in Terra un pezzo di Luna, o di altro Pianeta, sopra il quale da' nuovi uomini si fosse stabilita libera; ma sempre che si parla di nuova Repubblica fondata nell'Imperio, duopo è che riconoscano i loro maggiori la subordinazione degl'Imperadori sian d'Oriente, ovvero d'Occidente.

Anzi i Veneziani non meno degli uni che degli altri devono confessarla; poichè in decorso di tempo sempre più decadendo le forze dell'Imperio Greco in Italia, i successori di Carlo M. profittando della sua ruina, tornarono ad aggiunger Venezia al Regno Italico, sicchè Lodovico e Lotario, se ne reser padroni, e v'esercitarono sovranità, sino a far battere le loro monete col nome di Venecias, come facevano delle altre città d'Italia da lor possedute.

Di queste Monete più Musei ne conservano le originali d'indubitata fede, ed antichità. L'Autore dello Squittinio della Libertà Veneta, nella Giunta non se ne dimenticò. Il Sig. Petau Consigliere nel Parlamento di Parigi, fece imprimere quella dell'Imperadore Lodovico il Buono, dove da una parte si legge HLVDOVICUS IMP. e dall'altra VENECIAS. Il Sig. le Blanc ha altresì fatto stampare una moneta di Lotario, che porta da una parte VENECIAS. Ecco quella di Lodovico.

Moneta

Ma da poi nella decadenza dell'Imperio d'Occidente ne' Successori di Carlo M. i Veneziani cominciarono, non essendo chi potesse resistergli, a stabilire la Sovranità sopra la lor città, e luoghi marittimi intorno sopra le ruine dell'Imperio d'Oriente, non meno che di Occidente, decaduto ed avvilito anche esso ne' successori di Carlo M. prima che facesse passaggio a' Germani sotto il grande, e poderoso Ottone.

Questo Imperadore ristabilendo l'Imperio d'Occidente nello stato primiero, e volendo essere riputato non meno che Carlo M. Signore di tutte quelle Province, che costituivano il Regno Italico: sopra i Veneziani esercitò pure la Sovranità, e tutte le alte ed Imperiali sue preminenze: concedendo privilegj ed immunità alle loro Chiese co' loro precetti, chiamati a que' tempi Mundiburdj, a richiesta de' Veneziani stessi.

Quindi non dee sembrargli strano, se nel Libro medesimo del Silenzio di S. Zaccheria snodato, si leggono de' consimili Mundiburdj, conceduti a petizione di quelle Monache da varj Imperadori Germani d'Occidente, continuati da Ottone I sino all'Imperadore Federico Barbarossa. Trascriveremo solamente quello di Ottone, istromentato nell'anno 963 poichè gli altri susseguenti non sono che conformi di questo primo, secondo il costume di que' tempi, che le Chiese secondo si rifaceva un nuovo Imperadore, ricorrevano dal medesimo per ottener la conferma de' precedenti: Eccone le parole.

In nomine Sanctae et individuae Trinitatis. Otto, divina favente Clementia, Imperator Augustus.

Si petitionibus Servorum, et Ancillarum, justis et rationalibus acquiescimius, ad animae nostrae salutem proficere non diffidimus. Idcirco omnium fidelium Sanctae Ecclesiae nostrorum praesentium, ac futurorum devotio noverit. Qualiter Joanna Abbatissa de Monasterio Sancti Zachariae in finibus Venetiarum constructo, prope Palacium de Rivoalto, et Joannes Presbyter, et Monachus noster Fidelis suggesserunt nostrae Clementiae, quatenus pro Dei amore, et remedio animae nostrae, cum cunctis facultatibus, rebusque mobilibus, et immobilibus, seu familiis utriusque sexus ad eundem Monasterium Sancti Zachariae juste pertinentibus, scilicet infra ditionem Regni nostri consistentibus, tam per loca denominata, quae ibi contulit per Cartulas offeritionis Ingelfredus Comes Filiusque Grimaldi, et Ildeburga Comitissa Uxor Adalberti Comitis, cum suis haeredibus, sicut in textu ipsorum Cartulae legitur: Videlicet, Curtem unam cum omnibus suis pertinentiis, in finibus Montis Siricani positam in villa quae Petriolo nuncupatur, similiter, et in Cona, et in Sacco, et in Lupa, et in Liquentia, et Laurentiaca, una cum Terris, Vineis, Campis, Olivetis, Pratis, Massaritiis, Piscariis, Silvis, Casis, Capellis, Pascuis, Aquis, aquarumque decursibus, Montibus, Vallibus, Servis, et Ancillis, ad ipsam Curtem de Petriolo aspicientibus in integrum, ut pars praedicti Cenobii, cui nunc Joanna Ravennalis Venerabilis Abbatissa praeesse videtur, cum omni integritate in usu, et sumptu Monacharum inibi per tempora Deo famulantium perpetualiter permaneant, et sub nostrae tuicionis, ac defensionis Mundiburdio consistant.

Nos autem saluberrimas earum petitiones inspicientes hoc nostrae immunitatis praeceptum fieri jussimus, per quod sancimus, ut jam dictum Monasterium; cum suis rebus mobilibus, et immobilibus, omnibusque mancipiis, et Colonis, Idventitiis et Peregrinis, Servis et Ancillis, super terram ipsius praedicti Monasterii, infra Regni nostri fines residentibus, sub nostra maneat immunitatis defensione; ita ut nullus Marchio, Comes, vel quislibet pubblicus Actionarius, seu alia, magna, parvaque persona, ex rebus saepe dicti Monasterii modo juste, et legaliter vestita esse videtur, aut in antea ibidem divina pietas amplificare voluerit, abstrahere aliquod, aut minuere, quandoque praesumant; sed liceat supradicti Monasterii Abbattissae, ejusque Successoribus in perpetuum res ejusdem Monasterii, sub nostrae immunitatis defensione, quieto ordine possidere, cum omnibus ad se pertinentibus, vel aspicientibus, tam rebus, quamque et mancipiis liberis, et servis, super res jam dicti Monasterii residentibus. Nullusque audeat eas injuste distringere, neque ab eis ullas illicitas redibitiones, aut publicas angarias exigere. Ante omnia autem Abbatissa ejusdem Monasterii, ejusque Successores, et omnes Monachae ibidem Deo servientes, sub nostrae defensionis quiete perenni vivere permaneant. Nullusque Reipublicae Minister eas per placita ventilare pertemptet, nisi in praesentia Abbatissae quae per tempora ibi praeesse visa fuerit, quatenus ipsas Ancillas Dei, quae ibidem Deo famulantur, pro nobis statusque Regni nostri jugiter exorare delectent. Si quis igitur hoc nostrae auctoritatis praeceptum et Mundiburdium infregerit, sciat se compositurum auri optimi libras centum, medietatem Camerae nostrae, et medietatem praedictae Abbatissae Joannae, vel ejus Successoribus. Quod, ut verius credatur, et diligentius ab hominibus observetur, manu propria roborantes, Annulo nostro sigillari jussimus. Signum Domini Ottonis Invictissimi, ac Magni Imperatoris Augusti.

Sigillo

Lyurtgerius Cancellarius ad vicem Vidonis Episcopi Barda Cancellarii recognovi et subscripsi.

Acta 7. Kal. Septembris. Anno Dominicae Incarnationis 963. Indictione 6 Anno Imperii Ottonis Magni Imperatoris Augusti secundo; Actum Monte Feretrano ad Petrum S. Leonis.

Dopo gli Ottoni, sotto gli Errici, come sono varie le vicende mondane, cominciò l'Imperio occidentale altra volta a decadere. L'Imperadore Federico Barbarossa, pensava ristabilirlo; ma distratto nella guerra di Soria, e dalle brighe, che gli diedero le città di Longobardia, ed i Pontefici romani, non potè ridurre a fine la magnanima impresa; e molto meno poteron tentarla i di lui successori, Errico e Federico II per le gare e contenzioni, ch'ebbero colle città medesime, e co' Papi, e co' loro Emoli dell'Imperio.

Morto Federico II, e contrastando i Germani fra di loro per l'elezione del successore si vide nell'Imperio quel lungo interregno, che ciascun sa; ed allora i più Potenti, e più città d'Italia cominciarono a scuotere il giogo, e porsi in libertà, poichè non era chi potesse validamente opporsi. Così i Veneziani che ne aveano gettati già i fondamenti, stabilirono la sovranità sopra la loro città e luoghi marittimi intorno, la quale poi col correr degli anni con lunga prescrizione se la resero più stabile e ferma, non altrimente che fecero gli altri Principi d'Italia sopra le ruine dell'Imperio d'Occidente. Queste mondane vicende recarono a' Veneziani la loro libertà, non già patto, o convenzione alcuna, siccome alcuni sognarono, esser seguita tra gl'Imperadori greci, e que' di Occidente della linea di Carlo M., dicendo, che questi per porre fra di loro un confine stabile e fermo, avessero dichiarati immuni, e liberi i Veneziani dall'uno, e dall'altro Imperio, siccome scrisse il Sigonio[83]; Venetos inter utrumque Imperium positos, liberos atque immunes, et ab utroque Imperatore securos vixisse: e nell'anno 812 novo pacto libertati atque immunitati Venetorum imprimis cautum. Nè fin qui è stato chi avesse potuto mostrarci documento alcuno di questa nuova convenzione e patto. Nè tante Collezioni, Cronache, ed antichi annali, che a' tempi nostri sono stati impressi; nè Scrittore alcun contemporaneo fa memoria d'una tal convenzione passata tra gl'Imperii d'Oriente e que' di Occidente; nè si sa il Sigonio onde l'abbia tratta.

CAPITOLO II. Spedizione de' Siciliani in Grecia: nozze tra Costanza ed Errico Re di Germania; e morte del Re Guglielmo e sue leggi.

Ma ritornando al nostro Guglielmo, molto poco ci rimane da notare de' fatti di questo savio Principe; poichè terminando qui l'istoria dell'Arcivescovo Romualdo, e non essendovi altri autori di que' tempi, fuor che la Cronaca dell'Anonimo Cassinense, che si conserva in Monte Cassino, alla quale Camillo Pellegrino fece alcune note, l'altra di Riccardo da S. Germano, Roberto del Monte, e Niceta autor Greco, che alcune cose brevemente scrivono di Guglielmo, rimangono tutti gli altri avvenimenti del Reame con l'opere di sì buono e glorioso Re per lo spazio di undici anni poco men che nascose fra le tenebre dell'antichità. Alcune cose andarono rintracciando con somma diligenza Capecelatro, e l'accuratissimo Inveges, l'orme de' quali come più sicure, a noi piace di seguitare.

Intanto il Pontefice Alessandro ristabilito in Roma, volendo dare a' disordini passati qualche riparo, nel seguente anno 1179 come notarono l'Anonimo Cassinense e 'l Pellegrino[84], fece convocare in Roma un general Concilio nella chiesa di S. Giovanni Laterano, ove intervennero ben trecento Vescovi, oltre agli Abati e grosso numero d'altri Prelati[85]. Si dannarono in esso molte eresie, che eran surte fra' Cristiani: si fecero molti decreti attinenti a reprimere l'avidità di coloro, che davano denari in prestanza con pattuir grosse usure, stabilendo i modi legittimi in queste contrattazioni; ed altri decreti furon statuiti bisognevoli a ristorar delle passate confusioni la Chiesa di Roma.

Ma nell'anno seguente 1180 ad impresa più gloriosa rivolse Alessandro i suoi pensieri: egli scrisse a tutti i Principi cristiani, ed a' Vescovi e Prelati della Chiesa, esortandogli a passar in Palestina, e contrastar con l'armi in que' santi luoghi al Saladino Soldano di Babilonia, Principe non men savio, che valoroso, ch'era al padre Saracone nella Signoria succeduto, e travagliava i Cristiani che colà dimoravano. I primi, che si disposero con grande e poderosa oste a passar oltre mare, furono Errico Re d'Inghilterra, e Filippo Re di Francia; ma Alessandro, che così lodevolmente avea mossi i Principi cristiani a quest'impresa, non potè vederne i successi; poichè verso la fine dell'anno seguente 1181 il settimo giorno di settembre passò di questa vita in Roma, dopo aver per ventidue anni retto il Ponteficato. Fugli tantosto dato il successore, che fu Ubaldo da Lucca Cardinal d'Ostia, il quale si nomò Lucio III.

Era poco prima in Costantinopoli accaduta parimente la morte dell'Imperador Emmanuele, e gli succedette nell'Imperio il suo figliuolo Alessio. Ed intanto il nostro Guglielmo avendo per l'occasione, che rapporta Roberto del Monte[86], fatta tregua per dieci anni col Re di Marocco, se ne passò nell'anno 1183 da Palermo in queste nostro parti, ed avendo visitato Monte Cassino, ritornando in S. Germano, andò da poi in Capua, donde poi a Palermo restituissi[87].

Intorno a questi tempi nacque in Assisi città della Umbria da Pietro Bernardone, uomo d'umil condizione, Francesco, quegli che acquistossi fama d'un gran Santo, e diede stabile fondamento alla Religion de' Frati minori, e che fu pianta così fertile, che in progresso di tempo empiè il nostro Reame di tanti monasteri di Frati del suo Ordine, che non fu il lor numero inferiore a quelli che vi si erano già fondati per la fama e santità de' Monaci di S. Benedetto; di che ci sarà data occasione di ragionare, quando della politia ecclesiastica di questo secolo tratteremo.

Morì poco tempo da poi in Palermo nell'istesso anno 1183 la Reina Margherita, la quale essendo stata donna di molto avvedimento, ebbe gran parte nel governo del Reame, così mentre visse il marito, come da poi che gli succedette il figliuolo. Fu ella con nobil pompa fatta seppelire dal Re Guglielmo in Monreale nella chiesa novellamente da lui edificata a lato alle sepolture de' suoi due figliuoli Ruggiero ed Errico. Donna d'incomparabile pietà, che oltre aver fondato una Badia in Sicilia alle falde del Monte Etna, che arricchita di molti beni diede a' Padri di S. Benedetto, accolse caramente in Palermo i compagni di Tommaso Arcivescovo di Cantuaria, i quali erano stati dal Re d'Inghilterra sbanditi dal suo Regno.

Intanto il Saladino stringeva aspramente i Cristiani in Palestina avendogli con la continua guerra ridotti in pessimo stato; onde vennero in Roma il Patriarca di Gerusalemme e l'Arcivescovo di Tiro, con altri Ambasciadori del Re Baldovino e degli altri Principi, che colà dimoravano, a chieder presto e potente soccorso contro sì fiero nemico. Questi essendo stati caramente ricevuti dal Pontefice Lucio, furono da lui con altre sue lettere inviati per tale effetto ad Errico Re d'Inghilterra, ed a Filippo Re di Francia, i quali avendo presa la Croce bandita dal Papa per opra sì pia, si posero di presente all'ordine con Guglielmo Re di Scozia, e con altri gran Signori e Baroni di Francia e d'Inghilterra per passare in Siria. Ma mentre il Papa sollecitava ciascun giorno frettolosamente il passaggio, sorpreso da grave infermità passò da questa vita in Verona li sette di dicembre del 1183, e fu nel Duomo di quella città onorevolmente sepolto, essendo stato tantosto eletto per suo successore Uberto Crivello milanese, il quale si nomò Urbano III.

Erano seguiti intanto nella città di Costantinopoli gravi movimenti e revoluzioni contro i Latini, che vi albergavano, per opra di Andronico tiranno, il quale tolto di voler de' Greci l'Imperio ad Alessio, entrando con oste armata dentro la città, investì furiosamente i Latini, facendene strage grandissima, ed incendiando i loro alberghi, ove perirono crudelmente abbruciate le donne, i vecchi, ed i fanciulli, senza perdonar nemmeno alle chiese, nè a' Preti, nè a' Frati, il tutto mandando indifferentemente a fuoco ed a fiamma. Questi avvenimenti ed oltraggi fatti dal Tiranno a' Latini, mossero il nostro Guglielmo a prender vendetta d'Andronico, il quale non contento di ciò, aggiungendo fallo a fallo, avea fatto morire strangolato con una corda d'arco il giovanetto Alessio, e n'avea occupato l'Imperio; perciò Guglielmo in quest'anno 1185 ragunò una ben grande armata in Sicilia, e v'ordinò Capitano il Conte Tancredi, che fu il quarto Re di Sicilia[88], inviandolo a' danni della Grecia sotto la scorta di Margaritone suo Ammiraglio, il quale prese e saccheggiò Durazzo e Tessalonica con molti altri luoghi[89], ove gli adirati Siciliani commisero ogni sorta di crudeltà senza aver riguardo a cos'alcuna, non avendo ardire Andronico d'uscir loro all'incontro, e porger alcun riparo a tanti danni. I Greci vedendosi così crudelmente da' Siciliani assaliti, e che Andronico mostrava di non molto curarsi de' loro travagli, cominciarono ad odiarlo in maniera, che tumultuando in Costantinopoli, tosto lo deposero dall'Imperio, e l'irata moltitudine, che non sa rattenersi fino che non pervenga all'ultima estremità, non contenta d'averlo deposto, avventossegli furiosamente sopra, e con gravi tormenti obbrobriosamente l'uccise. Surse tosto ad occupar la Signoria Isaac Angelo, il quale ragunate, come potè meglio, le forze de' Greci, diede sopra i Siciliani con tanto impeto, che postigli in fuga, gli discacciò alla fine da quelle regioni, come rapporta Niceta Coniate lor Scrittore.

Trovavasi però il Re Guglielmo assai più afflitto, ch'essendo già passati nove anni da che sposossi la Regina Giovanna, nè per la di lei sterilità vedendo di quella prole alcuna, cominciò a pensar seriamente ai mali, che dopo la sua morte, sarebbero accaduti nel Reame, se anticipatamente non provedesse, e pensasse al successore. Non vi era altro del suo sangue legittimo de' Re normanni, che Costanza postuma del Re Ruggiero suo avolo, poichè di Tancredi, ch'egli molti anni prima avea richiamato dalla Grecia, ed investito del Contado di Lecce, che fa di Roberto suo avolo materno, non si teneva alcun conto, riputandolo bastardo, come nato da Ruggiero figliuolo sì del Re Ruggiero, ma d'illegittimo matrimonio, come si è detto. Perciò questa Principessa era da molti ricercata; e narra il Sigonio, che a quest'istesso anno 1185 Federico Imperadore, il quale fin dall'anno 1177 avea con Guglielmo fermata per 15 anni la pace, mandò a richiederla per Errico suo figliuolo, e Re di Germania. Guglielmo, che si vedea senza speranza d'aver figliuoli, piegò l'animo alla dimanda, confortato ancora da Gualtieri Arcivescovo di Palermo; il quale covando odio grandissimo contro Matteo Vicecancelliere della Sicilia, per la cui opera era stata sottratta dalla sua giurisdizione la chiesa di Monreale dal Re Guglielmo, come dicemmo, pensò non d'altra maniera potergli venir fatto di porre a terra la potenza di Matteo suo emolo, come scrive appunto Riccardo da S. Germano, se non che dovendo il dominio del Regno passare ad altra famiglia per mezzo di Costanza, a cui di ragion toccava di proccurare che le nozze già diliberate, si conchiudessero con Errico di Svevia Re d'Alemagna figliuolo dell'Imperador Federico, acciocchè avendo egli a succedere nella Sicilia, riconoscesse tal beneficio da lui, e ponesse a terra la potenza di Matteo. In effetto si adoperò egli tanto, che finalmente indusse Guglielmo a pattovir le nozze con Errico, ed in quest'anno 1186 stando Costanza custodita nel palagio reale, non avendo più che trentuno anno, fu fatta partir da Palermo, e condotta in Milano, ove era Errico, ivi con nobil pompa furono le nozze celebrate.

Ma essendo questo un passo d'istoria, che gli Scrittori moderni l'han intralciato di molte favole, sarà bene, che per maggior chiarezza si scuoprano qui tutti i loro errori. Alcuni narrano, che Costanza fu Monaca lungo spazio d'anni nel monastero di San Salvatore in Palermo, postavi dal padre Ruggiero per una profezia fattale dal cotanto famoso Abate Giovachino calabrese, alla quale, essendo ella ancor fanciulla, disse che per cagion di lei si sarebbe acceso un gran fuoco in Europa, e che sarebbe stata la ruina della sua schiatta.

Altri[90], considerando, che questo racconto mal si adattava a ciò che gli Autori di quei tempi concordemente scrissero, che Costanza nacque dopo la morte di Ruggiero, onde non poteva l'Abate Giovachino predir nulla di lei a richiesta di Ruggiero, quando non era ancor nata: dissero, che il presagio fu fatto non già a richiesta del padre, ma di Guglielmo I suo fratello, il quale atterrito dell'infausto vaticinio, pensò per ischivarlo di chiuder la fanciulla nel soprannomato monastero.

Bernardo Giustiniano[91] nipote del Beato Lorenzo, pur disse, che il Re maritò Costanza con Errico per instigazione e comandamento di Alessandro III quando Alessandro era già morto sin dall'anno 1181. S. Antonino Arcivescovo di Fiorenza[92], non ostante che Clemente III non era ancor Papa, e cominciò a seder l'anno 1188 scrisse, ch'essendo Costanza invecchiata nel monastero, il Pontefice Clemente III per escluder Tancredi dalla successione del Regno, e gratificar Errico, l'avesse fatta cavar di furto dal monastero, e dispensando al monacato, l'avesse maritata già vecchia con Errico per torre il Regno a Tancredi. Peggiore fu l'error del Fazzello, che rapporta, nell'Archivio romano, e ne' pubblici decreti, leggersi ancora i diplomi, ed i decreti di Celestino Papa, co' quali dispensò al monacato, e voto di virginità fatto da Costanza; quando Celestino ascese al Ponteficato nell'anno 1191, ed il Papa favorì sempre Tancredi contro Errico, come diremo da qui a poco. Ma questi favolosi racconti ben si convincono di menzogna dal considerare, che niuno degli Autori di que' tempi fan menzione di questi fatti, per altro da non tacersi.

Ugone Falcando, favellando due volte di Costanza, in un luogo parla di lei come educata e nudrita nel regal palagio, non già in alcun monastero: Sic et Constantia primis a cunabulis in deliciarum tuarum affluentia diutius educata, tuisque instituta doctrinis, et moribus informata, tandem opibus suis barbaros ditatura ditescit. E nell'altro luogo della sua istoria, narrando che i Messinesi credevano, quando si rivoltarono contro Odone Querello, e gli dieder morte, che i partiggiani del Cancelliere Parzio la volessero dare per moglie a Gaufrido Parzio fratello del Cancelliere, per dargli convenevol cagione di occupare il Reame, dice: Et Constantiam Rogerii Regis filiam uxorem ducere, inde sibi dandam occasionem existimans, ut videretur Regnum justius occupare; nè dice cos'alcuna del Monacato, del quale se fosse stato, era mestiere favellare in amendue i luoghi.

Arnaldo Abate Autor di que' tempi, che scrisse particolarmente la magnificenza, con che fur celebrate queste nozze in Milano, nemmeno ne fa parola. L'Arcivescovo Romualdo, il Neubricense, le Appendici all'Abate Uspergense, Papa Innocenzio nel 3 libro delle sue Epistole, ove più volte fa menzione di Costanza, di ciò non ne dicon parola; e pure come cosa sconvenevole, nè mai intesa, che una Monaca prendesse marito, era mestieri, che ne favellassero. Al quale fatto apertamente anche repugna il dire, che si facesse il matrimonio di voler del Pontefice, ritrovandosi tutto in contrario; perciocchè il Pontefice favoreggiò Tancredi all'acquisto del Regno; e non disapprovando il fatto de' Siciliani, che l'incoronarono Re, gliene diè tosto l'investitura, come innanzi vedremo.

Goffredo da Viterbo Autor di veduta, parlando di Costanza, per cagion della pace fatta tra Cesare ed i Lombardi, dice esser nata postuma del Re suo padre, ed essersi maritata di trenta anni con Errico: ecco i suoi versi:

Fit Regis Siculi filia sponsa sibi.

Sponsa fuit speciosa nimis, Costantia dicta.

Posthuma post patrem materno ventre relicta,

Jamque tricennalis tempore virgo fuit.

E fatto il conto dall'anno, nel qual morì Ruggiero, che fu di Cristo il 1154 come scrive Roberto Abate ed il Fazzello, vedesi, ch'essendo ella nata dopo la morte del padre, quando prese marito, che fu in quest'anno 1186 non poteva avere, che trentuno anno in circa. E secondo il conto d'Inveges, che nell'anno 1185 dice esser conchiuse queste nozze, non avea più che trent'anni.

E finalmente Riccardo da S. Germano, la cui Cronaca non capitò alle mani del Baronio, parlando di tal maritaggio, dice chiaramente Costanza esser dimorata nel real palagio e non nel monastero di S. Salvatore, nè favella cos'alcuna del Monacato; e dice essere stata data ad Errico per opera dell'Arcivescovo Gualtieri, e non del Papa: ecco le sue parole: Erat ipsi Regi amita quaedam in Palatio Panormitano, quam idem Rex, de consilio jam dicti Archiepiscopi, Henrico Alamannorum Regi filio Federici Romanorum Imperatoris in conjugem tradidit. Il qual Autore aggiunge, che per consiglio dell'istesso Arcivescovo Gualtieri anche si stabilì la dote, che fu l'indubitata successione del Regno di Sicilia: Quo etiam procurante factum est, ut ad Regis ipsius mandatum, omnes Regni Comites Sacramentum praestiterint, quod si Regem ipsum absque liberis mori contingeret, amodo de facto Regni tanquam fideles ipsi suae Amitae tenerentur, et dicto Regi Alemanniae viro ejus. Onde il Re mandò Costanza da Palermo a Rieti, accompagnata con gran corteggio di Conti e Baroni, ove il Re Errico per suoi Ambasciadori pomposamente la ricevè, e condotta a Milano, fu ivi dall'Imperador Federico suo suocero ricevuta, e negli orti di S. Ambrogio con splendidissimo apparato fecero celebrare le nozze in quest'anno 1186.

Così avendo Guglielmo conchiuse queste nozze con Errico, credette aver dato qualche sesto alle cose del suo Reame; ma d'altra più remota parte venner queste disturbate coll'infauste novelle de' progressi, che Saladino faceva nella Siria. Questi avendo ragunata un'immensa moltitudine di soldati prese a forza la città di Tiberiade; ed indi affrontandosi con l'esercito cristiano il ruppe e pose in fuga, e prese il santo legno della Croce. Fece prigioniero il Re di Gerusalemme con orribil uccisione di Cavalieri Templari, e dell'Ospedale, e di altri soldati minori, campando a gran fatica con la fuga Fr. Terrico Gran Maestro dei Templari, il Conte di Tripoli e Rinaldo da Sidone, con alcuni altri pochi soldati. Col favor della quale vittoria prese il Soldano Accone[93], Cesarea, Nazarette, Bettelemme e tutti gli altri circonvicini luoghi, ed assediò strettamente la città di Tiro; ed indi a poco diviso il suo esercito, n'andò con una parte di esso sopra la città santa di Gerusalemme e quella prese il secondo giorno d'ottobre dell'anno di Cristo 1187. Ed ecco come i giudizj del Signore sono inarrivabili: questa città, che da Goffredo Buglione, con altri illustri Capitani italiani, tedeschi e francesi erasi con tanta gloria sottratta dall'indegna servitù degl'Infedeli, ora dopo lo spazio d'ottanta sette anni, ritorna di nuovo in man de' Barbari, senza che abbiasi speranza mai più liberare dalla loro dura e crudele dominazione.

Nè terminarono qui i mali d'Oriente ma, per maggior danno de' Fedeli, si collegò Saladino con Isaac Angelo Imperadore di Costantinopoli, il quale ricevendo in dono da lui tutta la Terra di promissione, gli promise all'incontro d'aiutarlo nella guerra con cento galee armate, e di dare impedimento a tutti i Latini che passavano per guerreggiare in Siria: onde il Pontefice Urbano udita la rea novella della perdita del Sepolcro di Cristo e del santo legno della Croce, della presura del Re di Gerusalemme e della Lega del Soldano coll'Imperador di Costantinopoli, si afflisse sì gravemente, d'esser ciò avvenuto a' suoi tempi, che ne cadde perciò in una grave malattia, della quale in breve si morì in Ferrara il decimo sesto giorno di novembre[94], 44 giorni appunto dopo la perdita di Gerusalemme, e nel dì seguente fu tosto in suo luogo creato Papa Alberto Cardinal di S. Lorenzo in Lucina e Cancelliere di Santa Chiesa, nato in Benevento della famiglia Mora, che si volle nomare Gregorio VIII. Fu questi un uom santissimo, nè altro fece in quel breve tempo, che e' visse Papa, che sollecitare i Principi cristiani, che con grossa armata gissero in Palestina a soccorrere i Latini; e mentre era tutto rivolto a così lodevole opera si morì anche egli in Pisa, ove dimorava, avendo men di due mesi retto il Ponteficato; e venti giorni dopo la sua morte fu eletto Pontefice nella medesima città Paolino Scolari romano, nato d'umil condizione, Cardinal di Palestrina, che fu detto Clemente III.

Questo Pontefice, calcando le medesime orme dei suoi predecessori, s'adoperò efficacemente, che con effetto si gisse al soccorso di Terra Santa, confermando l'indulgenze, che per tal cagione concedute avea Papa Gregorio; laonde, e per la sua diligenza, e per quella di Guglielmo Arcivescovo di Tiro, che era andato in Francia, si ragunò un'Assemblea tra Gisorzio e Trie, ove convennero Filippo Re di Francia ed Errico Re d'Inghilterra co' Prelati e Baroni de' lor Regni, e Filippo Conte di Fiandra, i quali presa dalle mani dell'Arcivescovo Guglielmo la Croce, subito nell'anno 1188 s'incamminarono per così santa e lodevol impresa, e per conoscersi fra di loro con particolar segno, presero il Re Filippo ed i suoi Franzesi la Croce rossa, il Re Errico e gl'Inglesi la bianca, ed i Fiamenghi con Filippo lor Conte la preser verde. L'Imperador Federico, che non meno degli altri volle in quest'occasione mostrar la sua pietà, racchetatosi col Papa, col quale era stato in qualche discordia, prese anch'egli per mano d'Errico Cardinal di Albano la Croce, per passare in Palestina, e si apprestò al passaggio sì frettolosamente, che fu il primiero a girvi.

Nè deve altrui recar maraviglia, se fra tanti Principi illustri, ch'erano esortati da' Pontefici a gire in Gerusalemme, non s'annovera mai il nostro Re Guglielmo[95], il quale per la ricchezza de' suoi Reami e per la vicinanza d'essi alla Grecia, donde si facea comunalmente il passaggio, e più per le sue poderose armate di mare, era sopra ogni altro atto a passarvi potentissimo; perciocchè (siccome disse di lui l'Arcivescovo Romualdo favellando in Vinegia a Cesare) attendeva egli continuamente a così lodevole opera, aiutando con sue galee i peregrini, che givano al Sepolcro, e porgendo soccorso a' Fedeli, che colà militavano; onde non era mestieri sollecitarlo a tal bisogna, alla quale egli continuamente badava.

Con tale occasione narrasi che Federico, prima di passare in Palestina, avesse scritto quella lettera minatoria al Saladino, ordinandogli con gravi e pesanti parole, che restituisse tosto i luoghi da lui ingiustamente occupati in Siria; e che all'incontro il Soldano con non disugual orgoglio gli avesse risposto, burlandosi di lui, e de' suoi Collegati, e de' suoi vanti e minacce, ond'era ripiena la sua lettera. Amendue queste epistole si leggono negli Annali d'Inghilterra di Ruggiero e di Matteo Paris; e furono anche inserite da Capecelatro nella sua Istoria de' Re normanni. Che che sia della lor verità, egli è costante che Cesare avendo ragunato un grande esercito, che giungeva a cento cinquantamila soldati con un armata di mare di cinquantacinque navi, s'avviò in Terra Santa nel seguente anno 1189, ma per le frodi dell'Imperador greco (che oltre alla Lega fatta col Soldano, temea, siccome gli era stato falsamente predetto da Dositeo Monaco, che Federico fingendo d'andare in Palestina, non poscia si volgesse sopra Costantinopoli, ed occupasse quella città) dimorò a giungervi un anno intero, avendo sofferto nel passar per le regioni de' Greci, secondo i lor costumi rapaci e senza fede, danni ed ostacoli gravissimi.

Ma ecco che nuovo ed inaspettato turbine pose in gravi sconvolgimenti e rivolture i Reami del Re Guglielmo. Questo Principe, che appena giunto a perfetta età avea con tanta prudenza e giustizia governato i suoi Regni, assalito in Palermo da grave malattia nel più bel fiore di sua età, non giungendo più che a trentasei anni, vien a noi rapito da troppo acerba ed immatura morte nel mese di novembre di quest'anno 1189[96] dopo ventitrè anni di Regno. Fu egli con nobil pompa sepolto nella chiesa di Monreale a piè della tomba del Re suo padre. Nè si può esprimere quanto fosse stato grande il dolore de' suoi vassalli, i quali per le molte e lodevoli virtù ch'erano in lui, aveano nel suo Regno goduto con rara felicità una ben tranquilla e lieta pace. A ciascuno fu lecito intender le cose come volle, e dirle come l'intese: nè eran gravati d'esorbitanti ed eccessive taglie, come in tempo del Re Guglielmo suo padre; tanto che non solo Federico II, ma, ne' tempi posteriori, Carlo II d'Angiò volendo dar tranquillità e pace al suo Regno, non seppe farlo in altra forma, se non di comandare, che si vivesse senza gravezze, siccome al tempo di questo buon Guglielmo. Egli trapassò per le sue egregie virtù non solo tutti gli altri Re, che allora furono, ma parimente Roberto Guiscardo e Ruggiero suoi Avoli, Principi di fama magnifica. Era, come scrive Riccardo da S. Germano, i! fiore de' Re, corona de' Principi, specchio de' Romani, onore dei Nobili, confidanza degli amici, terrore de' nemici, vita e virtù del Popolo, de' poveri e de' peregrini salute, e fortezza de' travagliati: il culto della legge e della giustizia nel suo tempo fioriva nel Regno, ognuno era della sua sorte contento, in ogni parte vi era pace e sicurtà, il viandante non temeva le insidie de' ladroni, nè il navigante i pericoli de' corsari. Ma assai più deplorabile e funesta sperimentarono i suoi Regni la di lui acerba morte, perchè mancando egli senza prole, si videro assorti da infinite calamità, che sotto il governo d'Errico Svevo soffrirono, onde tanto maggiormente apparve chiara, e si fece desiderabile la sua bontà. Non avendo egli generato prole alcuna da Giovanna figliuola d'Errico Re d'Inghilterra, lasciò che gli succedesse nella Signoria Costanza sua zia[97] la quale, da ch'egli era in vita, avea fatta giurare erede insieme col marito Errico in un'Assemblea tenuta per tal cagione a Troja di Puglia.

§. I. Leggi del Re Guglielmo II.

Poche leggi di questo Principe ci lasciò Pietro delle Vigne nella compilazione, che fece d'ordine di Federico delle nostre Costituzioni, ma tutte sagge e prudenti.

La prima è quella, che si legge nel libro primo sotto il titolo de Usurariis puniendis, ove si comanda, che tutto le quistioni attinenti a' contratti usurarj s'abbiano a diffinire secondo i decreti modernamente stabiliti in Roma dal Pontefice Alessandro nel Concilio, che tenne in Laterano; ond'è, che tal Costituzione non a Guglielmo I ma a lui ed alla sua pietà debba riferirsi, come abbiamo sopra notato trattando delle leggi di suo padre.

La seconda, che leggiamo nel medesimo libro sotto il titolo Ubi Clericus in maleficiis debeat conveniri, riconosce parimente questo Guglielmo per suo Autore. Fu quella, come si è detto, da Guglielmo stabilita a richiesta dell'Arcivescovo di Palermo, colla quale ordinò, che la cognizione de' delitti de' Cherici, per quanto s'appartiene alle lor persone, sia degli Ordinarj, i quali possano giudicargli secondo i canoni ed il diritto canonico, eccettuando i delitti di fellonia ed altri atroci, la cognizione de' quali fosse riserbata al Re ed alla sua Gran Corte.

La terza ed ultima, che abbiamo di questo Principe è quella che si legge nel libro terzo sotto il titolo de Adulteriis coërcendis. Fu questa insieme colla precedente ordinata da Guglielmo a richiesta parimente dell'Arcivescovo di Palermo. Si concedeva per quella la cognizione de' delitti d'adulterio, quando non vi era violenza, parimente agli Ordinarj de' luoghi; la quale ebbe per lungo tempo il suo vigore ed osservanza in ambedue i Reami di Sicilia; e nel Regno di Costanza abbiamo una carta della medesima rapportata dall'Ughello, nella quale s'ordina il medesimo. Ma in progresso di tempo con disusanza venne quella a mancare, ed oggi presso noi i delitti d'adulterio vengono indifferentemente, o vi sia violenza o non vi sia, conosciuti da' Giudici secolari, e nemmeno si concede agli Ecclesiastici di riputargli come di misto Foro, come più a lungo vedrassi, quando della politia ecclesiastica degli ultimi secoli parleremo.

Queste poche leggi sono a noi rimase di così saggio e buon Principe, nel Regno del quale nemmeno le leggi delle Pandette di Giustiniano ebber forza ed autorità di legge, ma duravano ancora nel lor vigore le leggi longobarde, a tenor delle quali nel Foro venivano le cause decise. Bella testimonianza, siccome altrove fu notato, ce ne somministrò a noi il diligentissimo Pellegrino, il quale tra le reliquie dell'antichità cavò fuori un istromento di sentenza, siccome allora praticavasi, profferita a' tempi di questo Guglielmo nell'anno 1171 sopra una controversia insorta tra i cittadini di Sessa, ed il Vescovo e cittadini di Teano per un corso d'acqua; la quale si decise a favor de' Suessani, secondo le leggi longobarde, le quali l'accuratissimo Pellegrino si prese la cura additare nella margine di quella.

Fu la morte di Guglielmo non guari da poi seguita da quella dell'Imperador Federico, il quale dopo aver superati i tanti ostacoli frappostigli da' Greci, e dopo aver più volte felicemente combattuti i Turchi, e notabilmente sconfittigli, prese per forza d'arme, e diede a ruba la città d'Iconio; ma pervenuto poi nella minore Armenia, ed albergato un sabato da sera in un luogo detto Jaradino, s'avviò poi verso il fiume Calep, ove a gran disagio per asprissimi monti giunse la vegnente domenica nel quarto giorno di giugno; ed avendo desinato in riva del fiume, dove trovò una piacevole valle, fastidito dalla noja delle continue battaglie e del viaggio, che per un mese intero patito avea, volle ristorarsi alquanto con bagnarsi nuotando; il perchè entrato ignudo nel fiume, che rapido e profondo correva, miseramente vi s'affogò; ed il suo corpo raccolto dall'acque, fu in processo di tempo condotto da' suoi in Alemagna, ed ivi onorevolmente sepolto. Ma l'Arcivescovo di Tiro, seguitato dal Sansovino[98], rapporta in una maniera più verisimile questa morte; che volendo Federico passare quel fiume, inciampò il cavallo, ed essendo egli vecchio, cadde giù con tanta ruina, che fu portato in braccio da' suoi, ed indi a poco morì, e fu sepolto in Tiro; non avendo niente del verisimile, che un Imperadore così grave d'anni, deposto il suo decoro, si spogliasse, ed andasse a nuotare nel fiume per rinfrescarsi, e s'affogasse.

(Le varie relazioni degli Scrittori intorno a questa morte di Federico, possono leggersi presso Struvio[99] ).

Ecco come muore questo glorioso Principe: muore per maggior danno de' Cristiani di Palestina, e della nostra religione in quelle parti; e vedi intanto quanto siano incomprensibili i divini giudizj. Egli con felicissimo corso di vittoria, siccome avea già incominciato, avrebbe agevolmente ricuperati dalle mani del Saladino tutti que' santi luoghi, che novellamente avea presi, ed avrebbe fatto correr la Croce di Cristo in più remote regioni ove non era adorata; all'incontro quando favoreggiava lo scisma contro Alessandro III e perseguitava gli altri romani Pontefici, visse per incomodo della Chiesa di Dio, ed ora, ch'era rivolto a così pietoso passaggio, e così giovevole al Cristianesimo, per morte pur troppo acerba ed immatura venne a' Fedeli involato.

Fu Federico (toltane quella boria, nella quale l'avean posto i nostri Giureconsulti, d'essere Signore del Mondo, non altrimente che vantavano essere gli antichi Imperadori romani, ciò che fece parer gravoso e duro il suo Imperio alle città di Lombardia, ed a' Pontefici romani) un grande e valorosissimo Principe, e sopra tutto amator delle lettere e degli uomini letterati di que' tempi. Quindi fu, che col suo favore s'accrebbe in Italia lo studio della giurisprudenza, e sursero quei tanti Giureconsulti, che cominciarono, tratti dalla novità ed eleganza delle Pandette e degli altri libri di Giustiniano, ad esporle nelle loro Accademie; e scrive Ulrico Uber[100] che Federico Barbarossa fosse stato il primo, che all'Accademie, oltre la nozione, avesse conceduto anche la giurisdizione, ed imperio ne' suoi[101]. E furono da lui i Giureconsulti favoreggiati in guisa, che ad esempio degli antichi Imperadori romani, erano fatti partecipi delle maggiori deliberazioni ed assunti al suo Consiglio, e sovente preposti al Governo e Consolati di molte città d'Italia.

CAPITOLO III. Della compilazione de' libri feudali; e loro Commentatori.

In questi tempi si fece da' Giureconsulti di Milano quella compilazione de' libri feudali, che con progresso di tempo acquistò in Europa, ed in tutte l'Accademie e Tribunali del Mondo cristiano tanta autorità e vigore, che fu riputata, come una delle parti della ragion civile; essendo stati aggiunti i libri de' Feudi alle leggi romane, i quali dopo le Novelle di Giustiniano, costituiscono oggi la decima Collazione: non che veramente i libri feudali fossero del corpo della ragion civile, e perciò se ne fosse formata la decima collazione, come reputarono Giasone e Bartolo, ed altri nostri Dottori, ripresi perciò da Molineo[102]; ma perchè la loro autorità fu tanta, che meritarono essere uguagliati a' libri delle leggi civili de' Romani.

Ma poichè da' nostri Scrittori questa parte non fu trattata con tutta quella diligenza e dignità che si conveniva, tanto che infinite controversie sono perciò in fra di loro poscia nate; perchè non bene han saputo distinguere i tempi, ne' quali questi libri acquistarono vigor di legge in queste nostre province; perciò, essendo ciò particolar nostro istituto, sarà bene, che qui se ne ragioni con tutta quella maggior esattezza, che possono promettere le nostre deboli forze, con l'avvertenza, che per non tornar di nuovo a favellar dell'uso e della varia fortuna di questi libri, qui si porrà insieme tutto ciò, che anche ne' tempi posteriori avvenne de' medesimi.

Da' precedenti libri di quest'Istoria ha ciascuno potuto comprendere, che introdotti in Italia i Feudi, non vi fu per essi, prima di Corrado il Salico, alcuna legge scritta, che regolasse le loro successioni, la lor naturalezza, e tutto ciò che ad essi s'apparteneva. Essi secondo gli usi e costumi introdotti nella città, così si regolavano; e poichè, siccome nell'altre cose, i costumi delle città sono varj e diversi, così ancora avvenne de' Feudi, che in una città d'Italia si regolavano d'una maniera; ed in un'altra, di un altro modo. Così in Cremona, Pavia e Milano il vassallo senza la volontà del Signore poteva alienare il Feudo, ma in Mantua, in Verona, ed in alcuni altri luoghi non poteva farlo senza il consenso del padrone[103].

In Piacenza colui, che investiva alcuno d'un Feudo con questa legge, che passasse al successore, non poteva, essendo vivo il vassallo, senza la sua volontà di quel medesimo Feudo investirne un altro; ma in Milano, ed in Cremona si praticava altrimenti.

Ne' Regni di Sicilia e di Puglia, aveano pure i nostri Re particolari Consuetudini intorno a' Feudi differenti da' costumi dell'altre città di Lombardia. Erano queste Consuetudini notate in certi libri, che chiamavansi con corrotto vocabolo Defetarj; ed erano conservati dal Re nel suo regal palagio; e quando a' tempi di Guglielmo I tumultuò Palermo, e fu dato a ruba il regal palazzo, fra l'altre perdite, che deplorava il Re Guglielmo, fu quella che si era fatta di questi libri: e perchè Matteo Notajo era di essi espertissimo, e quasi gli avea in memoria, fra l'altre cagioni, per le quali fu egli tratto di prigione, fu questa, ch'essendo pratico degli affari della Corte e della Camera del Re, poteva con facilità rifar que' libri, ne' quali, come dice Falcando, Terrarum, Feudorumque distinctiones, ritus, et instituta Curiae continebantur: siccome in fatti si rifecero. Ed Inveges[104] per l'autorità dello stesso Falcando rapporta, che i famigliari del Re Guglielmo I che trattavano gli affari della sua Corte, li quali erano allora Riccardo Eletto Vescovo di Siracusa, Silvestro Conte di Marsi, ed Errico Aristippo Arcidiacono di Catania, non avendo cognizione della distinzione delle Terre e de' Feudi, de' riti, ed istituti della Corte, nè de' libri delle Consuetudini feudali, che appellavano Defetarios, essendosi tutte queste scritture e libri smarriti dopo il sacco del palazzo, persuasero al Re, che Matteo Notajo fosse scarcerato e reintegrato nel primo Ufficio; poich'essendo egli antico Notajo, ed avendo sempre assistito al fianco di Majone, avea gran perizia delle Consuetudini del Regno; e che poteva comporre novos Defetarios.

Ed in questa maniera insino a questi tempi di Federico I si era vivuto nelle città di Lombardia, e nei Regni di Sicilia e di Puglia. A queste costumanze furono aggiunte da Corrado il Salico, e da altri Imperadori alcune loro Costituzioni appartenenti a' Feudi, come abbiamo di sopra notato, le quali non ancora erano state raccolte in certo volume. Venne dunque in pensiero a' tempi di Federico ad alcuni Giureconsulti di Milano, con privato studio di ridurre insieme queste Consuetudini e Costituzioni, e così unite, alla memoria de' posteri tramandarle; e raccogliendo, ancorchè alla rinfusa e con molta confusione, gli usi di varie città di Lombardia, ne formarono in prima due libri a' quali, secondo che quelle costumanze venivano o approvate o ampliate o moderate dalle Costituzioni imperiali, promulgate insino a' loro tempi intorno ai Feudi, così essi vi aggiunsero le sentenze, o il contenuto di quelle colle loro interpretazioni, non già le intere Costituzioni.

Chi fossero stati questi Giureconsulti, e quale il lor nome, non è di tutti conforme il sentimento. Prima di Cujacio comunemente da' nostri Scrittori si credea principal Autore di questa Compilazione Oberto de Orto grand'Avvocato del Senato di Milano, e Console di quella città[105], il quale coll'aiuto di Gerardo del Negro, altrimente detto Capagisto, anch'egli Console di Milano e Giureconsulto non ignobile, si fosse accinto a quest'impresa.

Ma l'incomparabile Cujacio ha ben provato, che Oberto non fu Autore del primo libro, poichè in quello alcune sentenze si leggono, che dispiacquero, e furono riprovate da Oberto stesso. E perchè quelle sentenze s'attribuiscono a Gerardo del Negro, ha egli per questa conghiettura reputato, che del primo libro ne fosse stato autore, non già Oberto, ma Girardo. Alcuni, e fra gli altri il nostro Montano[106], non ben persuasi della conghiettura di Cujacio, dicono sì bene non esser di quello Autore Oberto, ma che resti ancora dubbio ed incerto se veramente fosse stato Gerardo, o pure altro Autore anonimo, il quale dalle sentenze di Gerardo l'avesse compilato. Che che ne sia, non si è dubitato da niuno, che il secondo libro fosse di Oberto, il quale lo compilò per privata istruzione di Anselmo suo figliuolo.

Ma poichè questo secondo libro, secondo l'antica divisione, abbracciava non pur le sentenze d'Oberto, ma di altri Giureconsulti di questi tempi, le quali erano contrarie a quelle d'Oberto, onde non era credibile, che di tutto quel libro Oberto ne fosse il solo Autore; perciò molto dobbiamo noi all'industria, e somma diligenza di Cujacio, che togliendo questa confusione, l'abbia diviso in più libri. Ciò fu anche avvertito dai nostri Giureconsulti antichi, ma s'astennero di mutargli per timore, che nelle citazioni si sarebbe poi cagionata maggior confusione; imperocchè trovandosi già questa compilazione in due libri distinta, volendo il secondo in più altri dividerlo, non avrebbero le citazioni corrisposto all'antica divisione.

Ma per sì lieve cagione non dovea lasciarsi così confuso, ond'è che Cujacio saviamente reputò di distinguergli, e dividere il secondo in quattro libri. Così secondo la divisione del medesimo, il primo libro è di Gerardo. Il secondo insino al vigesimo quinto titolo è di Oberto. I rimanenti titoli egli divide in due altri libri, cominciando il terzo libro dal titolo 23 ivi: Obertus de Orto, Anselmo filio suo salutem. Il quarto, che comincia dal titolo 25 ivi: Negotium tale est, è chiaro dall'istesso titolo 25 che sia compilato da vari ed incerti Autori, nel che e Cujacio e Montano consentono. E nel quinto unì tutte le Costituzioni degl'Imperadori attenenti a' Feudi, di che più innanzi ci tornerà occasione di favellare.

§. I. Dell'uso ed autorità di questi libri nelle nostre province.

La compilazione di questi libri fatta da' Giureconsulti milanesi non ebbe in queste nostre province niuna autorità di legge, siccome in questi tempi nemmeno l'ebbe nell'altre parti d'Europa; ma dopo il corso di molti anni, più tosto per uso e Consuetudine de' Popoli, che per Costituzione d'alcun Principe, acquistò quell'autorità, che oggi vediamo. Ma l'autorità, che acquistarono questi libri feudali, non fu assoluta, ma solamente in quelle cose, che non ripugnavano alle proprie leggi delle Nazioni, ed a' particolari loro costumi.

Certamente presso di noi quest'autorità non l'acquistarono nel Regno di Guglielmo, nè degli altri suoi successori normanni. Seguì questa compilazione intorno l'anno 1170 come ben pruova l'accuratissimo Francesco d'Andrea[107], non già circa l'anno 1152 che fu il primo dell'Imperio di Federico I, come scrisse Arturo Duck[108], quando tra il nostro Re Guglielmo, e Federico ardeva crudele ed ostinata guerra, e quando tra noi, ed i Lombardi era interdetto ogni commercio per le guerre intestine, che sin da' tempi di Lotario ebbero sempre i nostri Principi con gl'Imperadori di Alemagna. Nè prima dell'anno 1177 si conchiuse tra Guglielmo e Federico quella tregua, della quale si è parlato, che non fu pattovita, che per soli quindici anni; ed avendo questi Regni proprie e particolari Consuetudini notate in que' libri chiamati Defetarii, non vi era questa necessità di ricorrere a' costumi dei Lombardi, quando vi erano i propri, per li quali i Feudi si regolavano.

Egli è credibile, che questa compilazione cominciasse a farsi nota a' nostri Giureconsulti dopo l'anno 1187 quando il nostro buon Guglielmo per quiete de' suoi sudditi conchiuse le nozze di Costanza sua zia con Errico Re di Germania; onde vennero a cessare le occasioni delle discordie con gl'Imperadori di Occidente. Ma questo non bastò, perchè più fiere ed ostinate guerre non seguissero, poichè morto poco da poi Guglielmo, i Baroni del Regno abborrendo la dominazione d'Errico come forastiero, elessero in loro Re Tancredi, il quale anche dal Pontefice romano ottenne l'investitura del Regno, come diremo. Per la qual cosa è da credere che questi libri cominciassero ad esser conosciuti da' nostri da poi che Errico nell'anno 1194 discacciati i Normanni, si rese padrone del Regno per le ragioni dotali di Costanza sua moglie.

Furono ben presso di noi conosciuti, ma non già acquistarono allora autorità alcuna di legge. Nemmeno l'acquistarono quando Federico II suo figliuolo promulgò le sue Costituzioni fatte compilare da Pietro delle Vigne; nè quando, ad esempio dell'altre città d'Italia, avendo ristabilita in Napoli l'Università degli studj, introdusse, che nelle nostre Scuole si leggessero le Pandette, e gli altri libri di Giustiniano; poichè non è vera la costante opinione de' nostri Autori, che questi libri da Federico II acquistassero forza ed autorità, e che questi fosse il primo Imperadore che gli approvasse, mandando il libro in Bologna a' Professori di legge di quella città affinchè ivi pubblicamente nelle Scuole si leggesse, e ch'egli fosse stato l'Autore, per comandamento datone ad Ugolino, della decima Collazione, nel che vaglionsi della testimonianza d'Odofredo[109].

A torto i nostri Scrittori ciò imputano ad Odofredo, il quale non mai scrisse, che Federico mandasse il libro de' Feudi in Bologna; e qual bisogno vi era mandar questo libro in Bologna, quando in questa città da molti anni era conosciuto, e non pur letto da' Bolognesi, ma anche molto prima vi avea scritte le sue glose Bulgaro, che per più anni professò legge in Bologna sin ne' tempi di Federico I, da chi anche fu fatto Prefetto di quella città? Quando parimente era notissimo in tutte l'altre città di Lombardia, come in quelle nato, e molti Scrittori d'Italia più antichi di Federico II aveano già cominciato a farvi le glose, come oltre a Bulgaro, fece Pilco, ed altri rapportati da Arturo[110], e notati anche dal nostro Andrea d'Isernia[111].

Odofredo nel luogo additato non scrisse altro, se non che Federico II mandò a' Dottori bolognesi, non già il libro de' Feudi, ma le Costituzioni sue, e di quelli Imperadori d'Occidente, che furono dopo Giustiniano, affinchè siccome Irnerio dalle Novelle avea inserito nel Codice ciò, che parvegli essersi per quelle di nuovo aggiunto o corretto: così essi anche facessero di quelle Costituzioni, e l'aggiungessero al Codice, non già al libro de' Feudi, sotto que' titoli, che pareva loro convenire; siccome in fatti ragunati a S. Petronio da quelle Costituzioni estrassero molte cose, che aggiunsero, e adattarono alle leggi del Codice sotto i titoli convenienti; e quindi è che nel Codice, oltre all' Autentiche d'Irnerio, si leggano ancora l' Auth. cassa, et irrita, C. de Sacr. Eccl. presa dalla Costituzione dell'istesso Federico de Statut. et Consuet. L' Auth. Sacramenta puberum, C. si adver. vendit. cavata dalla Costituzione di Federico I de pace tenenda. L' Auth. habita, C. ne filius pro patre, presa da un'altra Costituzione del medesimo Federico I de privil. bonor. art. ed alcune altre[112]. E questa fu l'incumbenza data da Federico ai Professori di Bologna e non altra. Ma soggiunge Odofredo, che da poi Ugolino, uno di que' Professori, di suo capriccio al corpo delle Novelle di Giustiniano, già diviso in nove collazioni, onde veniva chiamato la nona Collazione, aggiunse il libro feudale, e raccolte insieme tutte quelle Costituzioni degli Imperadori, che s'appartenevano a' Feudi, l'inserì in quel libro, secondo l'ordine che oggi abbiamo, e che i nostri antichi chiamarono per ciò, sin da' tempi d'Odofredo, decima Collazione, il qual parimente testifica, che ai suoi tempi pochi erano coloro, che aveano quelle Costituzioni così ordinate, come le avea disposte Ugolino.

Così mal credono i nostri, che Federico II avesse data autorità e forza di legge al libro de' Feudi, e che sino da' suoi tempi avesse acquistato tal vigore nel nostro Regno e negli altri Reami: comunemente tutti i più eruditi Scrittori han dimostrato, che non fosse stato quello ricevuto per qualche Costituzione di Federico, o di qualche altro Principe: ma che non altrimenti che avvenne de' libri di Giustiniano, tutta la forza l'avesse molti anni da poi acquistata per l'uso e consuetudine de' Popoli, e per connivenza de' Principi, i quali permisero che nell'Accademie pubblicamente s'insegnasse, da' loro Giureconsulti con Commentarj s'illustrasse e ne' loro Tribunali per le controversie forensi s'allegasse; come ben provò Molineo[113], riputato il Papiniano della Francia, il qual però a torto riprende Odofredo, quasi ch'egli avesse data occasione agli altri d'errare, quando questo Autore mai disse, che Federico avesse data forza di legge a quel libro, nè che quella compilazione d'Ugolino si fosse fatta per suo ordine: siccome ancora a torto riprende Bartolo[114], quasi ch'egli fosse stato il primo, che quella raccolta di Ugolino avesse appellata decima Collazione. Questo nome è pur troppo antico e più di cento anni prima di Bartolo così era dal comun uso chiamata, come lo testifica il medesimo Odofredo, e la chiamarono tutti gli altri Scrittori prima di Bartolo.

Nè perchè fosse appellata decima Collazione, ed in progresso di tempo per l'uso e consuetudine dei Popoli avesse cominciato ad acquistare qualche vigore negli dominj de' Principi cristiani, era la sua autorità tanta, che potesse abbattere e derogare i propri instituti e le particolari leggi di quelle Nazioni; poichè fu ricevuta ed approvata in quanto non s'opponeva alle proprie leggi e costumi. Così Cujacio attesta del Regno di Francia, che ricevè quelle leggi feudali, delle quali si vale l'Italia, ma in ciò che non ripugnava alle leggi e costumi di quel Regno; non altrimenti che usavano i Romani della legge Rodia, la quale nelle cose nautiche era da essi abbracciata, nisi qua in re juri publico Pop. Rom. adversaretur, come testificò l'Imperador Antonino. E nel nostro Regno più d'ogni altro, ancor che fosse una delle più ampie e preclare parti d'Italia, non si cominciò di questa Collazione ad aver uso, se non da poi, che Federico ebbe promulgate le sue Costituzioni fatte compilare da Pietro delle Vigne, dove furono molte Costituzioni da lui stabilite riguardanti a' Feudi, alla lor successione, ed a tutto ciò che stimò a quelli convenire. Ma non ricevè, nè approvò ciò che in quella veniva compreso, se non quanto non ripugnasse alle Costituzioni, o non fosse stato per quelle provveduto, ma omesso; in maniera, che presso di noi fu prima l'autorità delle Costituzioni, e da poi quella de' libri de' Feudi, non altrimenti che prima fu l'autorità delle leggi longobarde, che quella de' libri di Giustiniano; anzi osserviamo che dopo pubblicate le Costituzioni nell'anno 1231 vi fu tra' nostri Giureconsulti gran litigio nella Gran Corte, se questi libri feudali, anche in quelle cose, che non ripugnavano alle nostre Costituzioni, avessero presso noi forza di legge, siccome lungamente disputò la glosa[115]: donde si raccoglie, che anche a questi tempi era dubbio, se questi libri aveano acquistata forza di legge, e se ciò era incerto, per quest'istesso, non potevan riputarsi di tanta autorità, che avessero uguagliata quella delle leggi. E se Roffredo[116] nostro Beneventano, che fiorì in questi medesimi tempi di Federico II parlando di queste Consuetudini feudali, disse, servari in Regno Apuliae, non fu per altro, se non perchè egli portava quest'opinione opposta agli altri Periti del Regno, che sostenevano il contrario; oltre che non si niega, che in questi tempi si fossero osservate, non già per autorità di legge, ma di ragione e per quanto non si opponevano e non erano contrarie alle nostre Costituzioni.

Ma siccome ciò è vero, così anche è verissimo, che dopo Federico ne' tempi degli altri Re suoi successori e degli Angioini più d'ogni altro, non si fosse più di ciò disputato, essendo chiaro, che avessero acquistata da poi nel nostro Regno tutta la lor forza ed autorità, in ciò che non s'opponevano alle nostre Costituzioni, siccome l'acquistarono in tutti gli altri dominj de' Principi d'Europa; ed anche i Pontefici romani ne' loro Tribunali ecclesiastici, gli diedero pari autorità e vigore; anzi in decorso di tempo fu lo studio di questa parte di giurisprudenza presso di noi cotanto coltivato, e tenuto in pregio, che i nostri superarono tutti i Giureconsulti dell'altre Nazioni, così d'Italia, come d'oltre i monti; ed oggi giorno questo è particolar vanto del nostro Regno, che in niun'altra parte si sia saputo, e si sappia tanto della dottrina feudale, quanto da' nostri Giureconsulti. Testimonio ben chiaro ne fu il contrasto, ch'ebbe il nostro Andrea d'Isernia con Baldo, il quale chiamato a Napoli dalla Regina Giovanna I a consiglio in concorso d'Isernia, mostrossi così ignaro della materia feudale, che non senza discapito della sua fama, bisognò che nella vecchiaja s'applicasse a questo studio, per ristorare la sua perduta stima[117]. E si vide da poi colla sperienza, che le quistioni più ardue e difficili, che mai avessero potuto insorgere in questa materia, non si siano trattate più sottilmente, e con tanta accuratezza e dottrina, quanto da' nostri Autori. Nè niun'altra Nazione può vantarsi aver avuti tanti Scrittori, intorno a questo soggetto, quanto il Regno di Napoli.

§. II. Autori che illustrarono i libri feudali.

Cominciarono prima ad illustrar questi libri con semplici glose, Bulgaro, Pileo, Ugolino, Corradino, Vincenzo, Goffredo, ed altri[118]: ma poi Giovanni Colombino superò tutti, in guisa che dice Giasone[119], che dopo lui niun altro ebbe ardimento di scriver glose sopra que' libri.

Altri si presero la briga di comporre Somme, e particolari trattati de' Feudi, ed i primi furono Pileo, Giovanni Fasoli, Odofredo, Rolandino, i due Giovanni, Blanasco e Blanco, Goffredo, Giovanni Lettore, Martino Sillimano, Giacomo d'Arena, Giacomo de' Ravanis, Ostiense, Pietro Quessuael e Giacomo Ardizone, seguitati poscia da Zasio, da Rebuffo, da Annettone, da Rosental e da infiniti altri moderni.

Ma tra quelli, che con pieni Commentarj illustrarono questa parte, s'innalzarono sopra tutti i nostri Giureconsulti. È vero che Giacomo di Belviso fu il primo, ma da poi il nostro Andrea d'Isernia oscurò il costui vanto, il quale negli ultimi anni del Regno di Carlo II che morì nel 1309 scrisse sì copiosi Commentari sopra i Feudi, che oscurò quanti mai prima di lui s'eran accinti a quest'impresa. Scrisse ancora, dopo aver professato quaranta sette anni di legge civile, i Commentari sopra i Feudi Baldo da Perugia, e poco da poi Giacomo Alvarotto da Padova, Giacobino di S. Giorgio e Francesco Curzio juniore, ma sopra gli altri surse il nostro Matteo degli Afflitti, il quale oscurò la costoro fama. Scrisse egli i Commentari sopra i Feudi sotto Ferdinando I, allora che con pubblico stipendio ed universale applauso insegnava nella nostra Accademia gl'interi libri feudali co' Commentari d'Isernia, ciò che niuno ardì di farlo nè prima, nè dopo lui; e cominciò a scrivergli nell'anno 1475 com'egli medesimo testifica[120], quando era di trentadue anni: ciò che è stato necessario avvertire per non lasciarci ingannare da Camerario, da cui furono ingannati i nostri Autori, che credette Afflitto avere scritto questi Commentari, quando era già vecchissimo e che perciò non bene avesse penetrato la mente d'Isernia. Taccia per tutti i versi da non comportarsi di quell'insigne Giureconsulto; poichè oltre che gli scrisse nella età sua più verde e florida niente anche vi sarebbe stato che riprendere, se pure gli avesse scritti in età di 80 anni, nella quale morì. Egli trapassò nell'anno 1523 e fu sepolto in Napoli nella Chiesa di Monte Vergine, ove ancora s'addita il suo sepolcro, nel qual ancora si legge, che ancorchè carco d'anni, fu però in età senile cotanto vigoroso di mente che potè sostenere tanti studj insino all'ultima vecchiaja. Ciocchè i suoi domestici, che ebbero la cura d'ergergli quel sepolcro, vollero fare scolpire in quel marmo, per manifestare essere stato tutto livore de' suoi nemici, i quali dando a sentire al Re cattolico, che in quella età decrepita sentisse dello scemo, fecero sì che il Re lo privasse della dignità di Consigliero di S. Chiara, della quale era adorno, e morisse senza toga; ond'è, che nel suo testamento non si vegga nominato Consigliero, ma semplice Dottore. E quanto sopra gli altri s'innalzasse in commentando i Feudi, non è da tralasciarsi il giudicio che ne diede il nostro incomparabile Francesco d'Andrea[121], il quale non ebbe difficoltà di dire, che fra tutti coloro, che prima e da poi scrissero i Commentari sopra i Feudi, pochi sono coloro, che potranno con lui compararsi, ma niuno che a lui si possa preporre.

Sursero, dopo questi lumi della giurisprudenza feudale, fra noi, altri Scrittori un Camerario, un Sigismondo Loffredo, un Pietro Giordano Ursino, un Bammacario, un Revertero, un Pisanello, un Montano e tanti altri, de' quali nojosa cosa sarebbe tesserne qui lungo catalogo; tanto che niun'altra Nazione può vantar tanti Scrittori in materia Feudale, quanti il Regno di Napoli.

Ma non possiamo infra gli esteri fraudar della meritata lode l'incomparabile Cujacio. Egli fu il primo, che rifiutando gli altri come barbara questa parte della nostra giurisprudenza, l'accolse e le apparecchiò una abitazione più elegante, e quando prima tutta squallida ed incolta andava, egli coll'aiuto de' libri più rari, e degli Scrittori di que' tempi, le diede altra più nobile ed elegante apparenza; tanto che gli altri Eruditi, che prima come barbara la discacciarono, s'invogliarono dal suo esempio ad impiegarvi ancora i loro talenti, come fecero Duareno, Ottomano, Vultejo ed altri nobili ingegni; ond'è che oggi la vediamo esposta ed illustrata non meno dagli uni, che dagli altri Professori.

Cujacio accrebbe in prima i libri feudali co' frammenti e capitoli, che furono prima restituiti da Ardizone e da Alvarotto, e gli divise in cinque, in quella maniera che si è detto di sopra. Prima di lui Antonio Mincuccio di Prato vecchio, Giureconsulto bolognese, per comandamento di Sigismondo Imperadore intorno l'anno 1436 avea disposto questi libri in altra forma; ed avendogli divisi in sei, gli offerì all'Università di Bologna, perchè proccurasse da Sigismondo la conferma di questa sua Raccolta; ma non costa, che l'Imperadore l'avesse loro data; onde non essendo stata da tutti ricevuta, richiesero i Bolognesi di nuovo la conferma dall'Imperador Federico III, il quale loro la diede; onde avvenne, che questi libri nell'Accademia di Bologna pubblicamente si leggessero, ma non acquistarono giammai autorità pubblica; la qual Raccolta fu da poi data alla luce da Giovanni Schiltero[122]. Un'altra tutta nuova ne fece Cujacio, il quale non solo con somma diligenza diegli altro miglior ordine e ridusse que' libri alla vera lezione; ma anche con pellegrina erudizione gli commentò, spiegando il vero sentimento di quelli. E sopra tutto accrebbe di molte Costituzioni imperiali il quinto libro, le quali da Ugolino furono tralasciate, dandogli miglior ordine e disposizione.

§. III. Costituzioni imperiali attenenti a' Feudi e legge di Federico I.

Il primo che promulgasse leggi riguardanti la successione feudale, fu, come più volle si è detto, Corrado il Salico. Errico IV ne stabilì dell'altre; sieguono in terzo luogo quelle di Lotario III ma sopra gli altri Imperadori niuno ne stabilì tante, quante Federico Barbarossa; e colle Costituzioni di questo Imperadore Cujacio termina il libro; onde se bene nelle vulgate edizioni se ne leggono anche di Federico II, dovrebbero quelle togliersi; poichè di Federico II come Imperadore non abbiamo Costituzioni attenenti a' Feudi; ne abbiamo sì bene moltissime nelle Costituzioni del Regno, ma queste non han che farvi, non essendo Augustali, ma furono da lui stabilite come Re di Sicilia, e solo per questi suoi Regni ereditarj non per altri. Quelle Costituzioni di Federico II che si leggono nella fine del libro secondo de' Feudi, secondo l'antica compilazione, sotto il titolo de Statutis, et Consuetudinibus circa libertatem Ecclesiae editis, etc. non han niente che fare co' Feudi; onde a torto furono quivi aggiunte, e per questa cagione dice Cujacio[123] non averle egli unite coll'altre feudali, come affatto impertinenti; siccome per l'istessa cagione le due altre di Errico VII poste sotto il titolo di Estravaganti, come non appartenenti a' Feudi, non meritano quel luogo.

Di questi Imperadori niuno quanto Federico I promulgò tante Costituzioni feudali, del quale otto se ne leggono.

La prima è sotto il titolo de Feudis non alienandis, ove tre o quattro cagioni si propongono, per le quali si perde il Feudo, proibendosi con maggior rigore di quello avea stabilito Lotario, le alienazioni dei Feudi. La seconda sotto il titolo, de Jure Fisci, ovvero de Regalibus, ristabilisce in Italia le regalie, le quali per disusanza andavano mancando, di che abbiam parlato nel libro precedente. La terza, sotto il titolo de pace tenenda, appartiene alla pubblica pace di Germania, onde da' Germani volgarmente s'appella Fried-brief, cioè Breve di pace; e fu promulgata in Ratisbona dopo sedate le intestine guerre tra' Principi di Germania, i quali lungamente aveano infra di lor guerreggiato per lo Ducato di Sassonia e di Baviera tolto da Corrado Imperadore ad Errico il Superbo, e poich'in essa alcune cose attenenti a' Feudi ed a' Baroni, ed alla pubblica pace si stabiliscono, perciò tra le Costituzioni feudali di questo Principe fu annoverata. La quarta, sotto il titolo de incendiariis, et pacis violatoribus, che Cujacio prese dall'Abate Uspergense, parimente appartiene alla pubblica pace di Germania, ed alcune cose de' Feudi dispone; oltre che anche se de' Feudi non parlasse, i nostri maggiori, come ben osserva Cujacio, han tenuto costume di congiungere co' Feudi tutte quelle Costituzioni, che trattavano della pace pubblica, per motivo, che quella non mai potrà aversi, se non dalla fede e costanza de' vassalli. La quinta sotto il titolo de pace componenda et retinenda inter subjectos, appartiene alla pubblica pace d'Italia, e fu stabilita in Roncaglia co' Milanesi nella prima guerra, che ebbe Federico co' medesimi, della quale abbiam parlato nel precedente libro. La sesta sotto il titolo de pace Constantiae, appartiene anch'ella alla pace d'Italia. La precedente fu promulgata in Roncaglia, questa nell'anno 1183 in Costanza: poichè Federico già stanco delle tante guerre avute co' Lombardi, volle intimare a tutti una Dieta in Costanza per poter quivi componere questi affari. Vi intervennero molti Principi e Baroni; ed i Deputati delle città di Lombardia, de' quali in detta Costituzione si legge un ben lungo catalogo. Furono in essa accordati molti articoli e stabilite le condizioni delle città di Lombardia intorno a' servizj, che devono prestare all'Imperadore, oltre a' quali non potessero esser gravati di vantaggio: concedè Federico per questa Costituzione alcune regalie alle città suddette ed alcune altre egli si ritenne, massimamente Fodrum et investituram Consulum, et Vassallorum, ed aggraziò Opizo Marchese di cognome Malaspina.

Sieguono per ultimo dell'istesso Imperadore due Costituzioni de Jure protimiseos, il qual diritto al sentir di Cujacio (che che ne dica il nostro Reggente Marinis[124] ) competendo non meno agli agnati, che a' padroni de' Feudi; perciò egli volle anche inserirle nel quinto libro de' Feudi; alle quali parimente aggiunse una Novella greca dell'Imperador d'Oriente Romano Lecapeno, che tratta del medesimo diritto, donde Federico prese ciò che si vede stabilito nella prima sua Costituzione attenente al Jus protimiseos. Nel che non possiamo tralasciar di notare, che questa Costituzione Sancimus, de Jure protimiseos, dai nostri Dottori con gravissimo errore è creduta, che fosse Costituzione di Federico II, e sopra tal supposizione disputano, se abbia a reputarsi come sua Costituzione Augustale, ovvero come una delle Costituzioni del nostro Regno, stabilita solo per li Regni di Sicilia e di Puglia; ed alcuni sostengono, che come tale abbia forza di legge nel nostro Regno. E l'errore è nato, perchè la veggono unita insieme coll'altre Costituzioni e Capitoli del nostro Regno[125]; ed anche perchè han veduto, che il nostro Matteo d'Afflitto, che commentò le nostre Costituzioni, fece anche sopra la detta Costituzione un particolar Commento, tratto nella sua maggior parte da un altro non impresso, che ne fece prima di lui Antonio Caputo di Molfetta, dal quale, come dice Giovan-Antonio de Nigris[126], soppresso il nome, Afflitto prese tanto, sì che ne distese quel suo trattato; onde vedendola commentata da' nostri antichi Scrittori, la riputarono come una Costituzione del Regno nostro. L'errore è gravissimo ed indegno di scusa; onde non possiamo non maravigliarci esservi incorso anche il Cardinal di Luca[127], il quale da questa credenza, che tal Costituzione fosse di Federico II, fa nascere mille inutili quistioni, le quali cadono per se stesse, come appoggiate sopra un falso fondamento; poichè non Federico II, ma Federico I la promulgò, il quale niuna autorità avea di far leggi ne' Reami di Sicilia e di Puglia; onde non poteva obbligar con quella i sudditi di Guglielmo ad accettarla. Acquistò ella sì bene da poi presso di noi forza di legge, non già per autorità del Legislatore, ma per l'uso e consuetudine dei Popoli, i quali dopo lungo corso di tempo la ricevettero, non altrimente che fu fatto delle istesse Pandette, e degli altri libri di Giustiniano, e di questi libri ancora de' Feudi; ond'è, che oggi abbia tutto il suo vigore nel Regno, ma non già nella città di Napoli, ove intorno a ciò si vive con particolare e propria Consuetudine. Le altre leggi di Federico I, così le Militari, stabilite nel 1158 in Brescia nell'Assemblea de' Principi dell'Imperio, come le Civili; non appartenendo punto a' Feudi, nè a noi, volentieri tralasciamo, potendo ciascuno osservarle presso Goldasto[128], che le raccolse tutte ne' suoi volumi.

FINE DEL LIBRO DECIMOTERZO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO DECIMOQUARTO

Quanto la morte di Guglielmo il Malo, e l'innalzamento al trono del suo figliuolo, fece quietare i disordini e i mali, onde il Regno era involto, altrettanto l'acerba e dolorosa perdita di Guglielmo II, recò al medesimo molto maggiori e più fiere turbulenze. Non videro queste nostre regioni tempi più miserabili di quelli, che corsero dalla morte di questo buon Principe insino a Federico II, il quale colla sua virtù e grandezza d'animo seppe abbattere i perturbatori del Regno, e dar a quello una più tranquilla riposata pace.

L'esser Guglielmo mancato senza lasciar di se prole alcuna, pose molti nella pretensione di succedere al Reame. Ancorch'egli avesse dichiarata erede del Regno Costanza sua zia, ed in vita in un'Assemblea tenuta per tal cagione in Troja avesse fatto giurar da' suoi vassalli fedeltà a Costanza e ad Errico suo marito; nulladimanco abborrendo i Siciliani la dominazione d'Errico, come di Principe straniero, e ritrovandosi costui lontano in Alemagna colla sua moglie Costanza, cominciarono i Siciliani a pensare di sorrogar altri al soglio di quel Reame, ed a Tancredi Conte di Lecce erano gli occhi di tutti rivolti. I Baroni del Regno, ed i famigliari della Casa reale erano perciò entrati in grande discordia; perciocchè tutti coloro ch'erano del regal legnaggio, o che possedevano grossi Baronaggi, non volendo l'uno all'altro cedere, aspiravano alla Corona[129], e que' ch'erano in minore stato, aderendo a' più potenti, posero il tutto in rivolta e contrasto, dimenticandosi tosto del giuramento di fedeltà fatto a Costanza e ad Errico in Troja.

Vi è ancora chi scrive[130], che il Pontefice Clemente III, vedendo mancata la stirpe legittima dei Normanni, avesse preteso, che il Reame come suo Feudo fosse devoluto alla Chiesa romana, e che a questo fine avesse unite sue truppe per ridurvelo. Ma questa è una favola molto mal tessuta: non erano a questi tempi i Pontefici romani entrati ancora in simili pretensioni: essi a passi corti e lenti s'inoltravano, e per allora eran contenti dell'investiture, le quali in progresso di tempo, secondo le congiunture propizie, che si sarebbon offerte, ben conoscevano, che potevan lor recare maggiori vantaggi, come ben se ne seppero profittare da poi Innocenzio IV e Clemente IV. La situazione presente delle cose non permetteva di farlo, essendo i pretensori per forze formidabili, come Errico: gli animi de' Siciliani erano tutti rivolti a Tancredi, ed i principali Baroni tutti aspiravano per se stessi al Regno. Non v'era chi potesse somministrare al Papa aiuto, e per se medesimo era pur troppo debole, e di soldati, e di denari, in modo che avesse Clemente potuto imprender questa novità. Ed era ciò tanto lontano da' pensieri di Clemente, che subito ch'egli ebbe la notizia d'aver i Siciliani innalzato al trono ed incoronato Tancredi, tosto gli mandò la solita investitura: rendendo a lui miglior conto, che al Reame di Sicilia fosse acceduto Tancredi, che Errico Re di Germania.

Ma i Siciliani, e que' particolarmente, che seguivano il partito di Matteo Vice-Cancelliere contro l'Arcivescovo Gualtieri, liberi dal timore de' Ministri reali, cominciarono a gridar per loro Re Tancredi: ed essendosi ad essi unita la fazione del Vice-Cancelliere, per abbattere l'Arcivescovo Gualtieri e suoi seguaci, che favorivano Costanza, innalzarono al trono Tancredi, onde finalmente ottennero, che si chiamasse al Regno Tancredi Conte di Lecce, il qual venuto in Palermo, ne fu prestamente con pubbliche acclamazioni gridato Re, ed incoronato con solenne celebrità nel principio di quest'anno 1190[131]. Nè tutto ciò essendo bastato a' Siciliani, spedirono prestamente in Roma al Pontefice Clemente, il quale per maggiormente stabilirlo nel Trono, gli mandò la solita investitura: come per cosa indubitata scrissero il Neubrigense, Riccardo da S. Germano e la Cronaca, che si conserva in Monte Cassino: il perchè fu Matteo dal grato Re creato Gran Cancelliero del Regno, e 'l suo figliuolo Riccardo, Conte d'Ajello.

Nacque Tancredi di illegittimo, come si disse, da Ruggiero Duca di Puglia figliuolo primogenito di Ruggiero il Vecchio, I Re di Sicilia, e da una figliuola di Roberto Conte di Lecce; perciocchè usando il Duca Ruggiero in casa del Conte Roberto, gli venne per avventura veduta la figliuola, bella ed avvenente giovane, della quelle s'innamorò focosamente, ed ella similmente di lui, nè guari di tempo passò, che al desiderato fine del loro amore pervennero; ed andò di modo la bisogna, che ingravidando colei due volte, ne partorì Tancredi e Guglielmo[132]. Ma continuando troppo Ruggiero negli amorosi diletti con l'amata sua donna, cadde per questo in una grave malattia: perlaqualcosa il padre il fece ritornare a lui, e risaputa la cagione del suo male, s'adirò grandemente contro il Conte, credendosi, che il tutto fosse stato sua opera; e poco da poi essendo Ruggiero morto, nel prese sì fattamente a perseguitare, che fu forzato il Conte a fuggirsene in Grecia, ritenendosi seco il Re Ruggiero, racchiusi nel suo Palagio a guisa di prigionieri, i due fanciulli, ove dimorarono finchè succedette la congiura del Bonello contro il primo Guglielmo, ed iti in Grecia, essendo quivi morto Guglielmo suo fratello, fu da poi Tancredi richiamato da Guglielmo II, e graziosamente accolto e rinvestito del Contado di Lecce, che fu di Roberto suo avolo materno.

Non è mancato chi scrisse[133], che il Duca Ruggiero avesse finalmente ottenuto dal Re suo padre licenza di sposarsi la sua amata donna, ma che prevenuto dalla morte non potè eseguirlo, e che niente altro vi mancasse per render legittimo questo congiungimento, che la celebrità della Chiesa essendovi già preceduto il vero e legittimo consenso; onde è che Tancredi dovesse reputarsi non bastardo, ma legittimo; e quindi esser avvenuto che da Guglielmo il Buono fosse stato rinvestito del Contado di Lecce, che fu del suo avolo, e che Clemente gli avesse perciò data la solita investitura del Regno. Ma questi racconti, come non appoggiati a verun fondamento, meritamente da' più gravi e diligenti Scrittori sono stati reputati favolosi; e Clemente per opporlo ad Errico fu mosso a concedergli l'investitura, non già che lo reputasse legittimo. Quindi è che Federico II reputasse sempre gli atti di questi Principi, cioè di Tancredi e di Guglielmo III, suo figliuolo, per nulli e illegittimi, e come di Principi intrusi ed invasori del Regno, che dopo la morte di Guglielmo II, a Costanza sua madre per successione e per volontà di Guglielmo II, si dovea.

Nè faceva ostacolo a Costanza esser donna; poichè se bene in Italia prima di Federico II, le femmine, non altrimenti che i mutoli ed i sordi, venivan escluse dalla successione de' Feudi, ne' quali solamente i maschi succedevano, per quella ragione, acciocchè il Feudo dalla lancia non passasse al fuso; nondimeno nella succession de' Regni presso i Normanni (che che altrimenti avessero reputato i Longobardi) le femmine non si stimavano incapaci della Corona; tanto maggiormente perchè, regolandosi la successione secondo l'investiture de' Pontefici romani, nelle quali venivano compresi così i maschi, come le femmine, dandosi le investiture per gli eredi e successori indifferentemente: venivan perciò ammessi alla successione così i maschi, come le donne, in mancanza di quelli; e la prima investitura d'Innocenzio II, fatta a Ruggiero così fu conceputa: Rogerio illustri, et glorioso Siciliae Regi, ejusque haeredibus in perpetuum; ed in quella data da Adriano IV, a Guglielmo I, chiaramente si concede haeredibus nostris, qui in Regnum pro voluntaria ordinatione nostra successerint; siccome da poi seguirono tutte le altre. Tanto che perciò Federico II, soleva chiamar sempre il Regno di Sicilia ereditario, e che a lui era dovuto come ereditario per le ragioni di Costanza sua madre: nè la successione de' Regni si è giammai regolata colle massime e con quelle leggi, colle quali si regolano i Feudi, come ha bene provato l'incomparabile Francesco d'Andrea in quella sua dotta scrittura della successione del Brabante: e quindi è nato che a' Regni di Sicilia indifferentemente sian succeduti così i maschi, come le donne, e salvo che negli ultimi tempi del Re Alfonso e degli altri Re aragonesi, per li mali cagionati a questo Regno dalle due Regine Giovanna I e II, non si pensò a darvi rimedio, come al suo luogo noteremo. Fu questo costume non solo in Sicilia ed in Puglia da lunghissimo tempo introdotto; ma in quasi tutti gli altri Regni d'Europa, la quale perciò dagli Asiani e dalle altre Nazioni del Mondo vien chiamata il Regno delle femmine; non solo perchè alle medesime rendiamo quegli onori ed adorazioni, come se fossero nostri idoli, contro il costume degli Orientali, ma ancora perchè le veggono innalzate sopra i più alti sogli delle Monarchie e de' Reami. Anzi presso i Normanni, se bene le medesime erano escluse dalla successione dei Feudi, non era però, che sovente i Re non le investissero di Baronie e di Contadi, siccome presso Ugone Falcando abbiamo veduto di Clemenzia figliuola naturale di Ruggiero I, la quale fu investita del Contado di Catanzaro da suo padre.

Tancredi adunque non altro titolo più plausibile poteva allegar per se, se non la volontà de' Popoli, i quali l'aveano proclamato Re ed innalzato al trono di Sicilia; ma molti Baroni per opra dell'Arcivescovo Gualtieri gli negavano ubbidienza, e particolarmente quelli del nostro Regno di Puglia; onde bisognò a Tancredi usar tutte le arti per ridurgli alla sua parte. Teneva egli per moglie Sibilia, sorella di Riccardo Conte della Cerra[134]; onde mandò al medesimo grossa somma di denaro, acciocchè ragunasse gente armata per debellar chi gli avesse contrastato, e procacciasse insieme amichevolmente, e con preghiere, e con premi di trarre il maggior numero de' nostri Regnicoli dalla sua parte. Fu l'opera del Conte Riccardo così efficace, che in breve tempo, posto insieme grosso esercito, sottopose al Re quasi tutti i Baroni del Principato e di Terra di Lavoro, e pose a ruba ed a ruina i castelli del monastero di Monte Cassino, infinchè Roffredo Abate di quel luogo non gli giurasse fedeltà anch'egli. Ma ciò non ostante gli fecero resistenza le città di Capua e di Aversa. E Ruggiero Conte di Andria e Gran Contestabile (colui che da Guglielmo, come abbiam detto, fu mandato suo Ambasciador in Vinegia) non cedendo di nulla a Tancredi, e sdegnando, che gli fosse stato anteposto nella corona del Regno, con Riccardo Conte di Calvi, e con molti altri suoi partigiani, e con grosso stuolo d'armati ne andò a fronteggiar le genti del Conte Riccardo, acciocchè non avesse occupata la Puglia; e scrisse ad Errico in Alemagna, che venisse ad acquistarsi il Regno di Sicilia, che a sua moglie di ragion perveniva, togliendolo al Conte di Lecce, che l'avea ingiustamente occupato. Scrisse ancora ad Errico l'Arcivescovo Gualtieri dandogli parte di quanto era accaduto in Sicilia: ma soprastando Errico a venire ed a mandar gente, Tancredi tosto personalmente venne a queste nostre province, e felicemente soggiogò la maggior parte della Puglia, non ostante il contrasto fattogli dal Conte Ruggiero.

Intanto Errico avea spedito per Italia con numeroso esercito Errico Testa Maresciallo dell'Imperio, il quale giunto in Italia dopo i progressi fatti da Tancredi in Puglia, per lo cammino dell'Aquila entrò in Terra di Lavoro con abbruciare, dar a saccomanno tutti i luoghi, ch'e' prese; e congiuntosi col Conte Ruggiero passò prestamente in Puglia, ove disfecero altresì molti castelli, tra' quali abbatterono sino dai fondamenti Corneto, luogo sottoposto all'Abate di Venosa, in dispetto di costui, perchè avea aderito a Tancredi. Intanto l'esercito del Re non volendo arrischiarsi a far giornata in campagna con i soldati tedeschi, s'afforzò entro la città d'Ariano, ed in alcuni altri castelli circonvicini, ed avvedutamente temporeggiando, vide in breve disfarsi l'oste nemica; perciocchè Errico Testa, assediato per alcun tempo Ariano, essendo il maggior fervor della State, tra per la noia del caldo, e per lo mancamento delle cose da vivere, infermando e morendo i suoi soldati, fu costretto alla fine dal timor di non rimaner del tutto disfatto a partirsi di là, e senza aver fatto alcun progresso notabile a ritornarsene indietro in Alemagna.

Ma Ruggiero Conte d'Andria, troppo nelle sue forze confidando, volle mantener la guerra; onde munita la Rocca di S. Agata, si ritrasse in Ascoli per difendersi colà entro dal Conte della Cerra; il quale, ripreso ardire per la partita de' Tedeschi, gli era andato addosso, e cintolo d'uno stretto assedio, nè potendolo recare al suo volere, nè con preghiere, nè per forza, si rivolse agl'inganni; onde chiamatolo sotto la sua fede un giorno a parlamento fuori della Terra, ove tese gli avea l'insidie, il fece prigione, e poco stante il privò crudelmente di vita. Dopo la qual cosa andò a campeggiar Capua; i cui cittadini, smarriti per la morte del Conte Ruggiero, se gli resero con troppo precipitoso consiglio, perciocchè Errico Re d'Alemagna, le cui parti seguivano, era già con grande e potente esercito entrato in Italia per l'acquisto del Reame.

Erano in questo mentre, essendo morto Errico suo padre, Riccardo Re d'Inghilterra e Filippo Re di Francia con grossa armata partiti da' loro Stati per andare in Palestina; e giunti, benchè per diverso cammino amendue a Messina su la fine del mese di settembre, sopraggiunti ivi dal verno, fu di mestiere, che v'albergassero sino alla vegnente primavera per potere proseguire la navigazione. Il Re Riccardo vi si trattenne ancora per dar sesto ad alcune differenze, che eran nate fra la Reina Giovanna sua sorella vedova del Re Guglielmo, e Tancredi Re di Sicilia, ed avendole composte, Tancredi promise di dar per moglie ad Arturo Duca di Brettagna nipote del Re inglese e successor nel Reame, per non aver Riccardo prole alcuna, una sua figliuola ancor fanciulla, venuta che fosse all'età convenevole al maritaggio, con ventimila oncie d'oro di dote[135].

(Le differenze eran insorte per lo Dotario della vedova Regina, e per alcuni tumulti accaduti in Messina fra gl'Inglesi ed i Messinesi, mentre Riccardo fu di passaggio a Messina; e l'istromento di questa pace stipulato nell'anno 1190 è rapportato da Lunig[136]; dove si leggono pattuiti gli sponsali tra Arturo e la figliuola di Tancredi, e costituita la Dote di ventimila oncie d'oro).

Era in questi tempi disseminata per tutta Europa la fama di Giovacchino Calabrese Monaco Cisterciense, ed Abate di Curacio, riputato comunemente per Profeta, onde venne curiosità al Re Riccardo di favellargli, il quale dalle sue parole s'avvide incontanente, ch'era un cianciatore, e quello ch'egli disse dovere fra pochi anni avvenire in Terra Santa, succedette tutto al contrario. Fu egli però di uno spirito molto vivace, accorto e scaltro, e sopra tutti que' della sua età, intendentissimo delle sacre scritture, e dalla somma perizia, che avea delle medesime col suo gran cervello pronto e vivace, imposturava la gente facendosi tenere per Profeta. Dagl'infiniti libri che compose tutti con titoli speziosi e stravaganti, ben si conosce, che sopra i Teologi di que' tempi fu riputato d'alto e di sottile accorgimento e dottrina[137]. Se la prese con Pietro Lombardo, uomo anch'egli rinomato in questi tempi, detto il Maestro delle Sentenze, trattandolo con molta acerbità, nè ebbe riparo di chiamarlo in un suo libro, che gli scrisse contro, eretico e pazzo; ma perchè la dottrina di Pietro era tutta cattolica, che non meritava tali rimproveri dal Calabrese, Innocenzio III, nel Concilio che celebrò in Laterano, condannò il libro dell'Abate, e trattò come eretici coloro, che ardiranno di difendere la sua dottrina in questa parte contro il Lombardo.

Non è però, che per la sua grande perspicacia e talento, non fosse stato anche da uomini dotti riputato saggio e dotato di spirito, se non di profezia, almeno d'intelligenza, come scrisse di lui Guglielmo parisiense Vescovo di Parigi, che fiorì intorno all'anno 1240. Ed il nostro Dante non ebbe difficoltà di metterlo nel Paradiso e di celebrarlo ancora per Profeta:

Raban è quivi, e lucemi da lato,

Il Calabrese Abate Giovacchino

Di spirito profetico dotato[138].

Siccome la Cronaca di Matteo Palmieri, Sisto Sanese, Errico Cornelio Agrippa, il Paleotto e moltissimi altri riportati dall'Autor della Giunta alla Biblioteca del Toppi.

Intanto Errico Re d'Alemagna, essendogli in questo mentre arrivata la novella della morte di Federico Barbarossa suo padre, che, come si disse, morì nella minore Armenia, volendo acquistarsi il buon volere de' Tedeschi, restituì ad Errico Duca di Sassonia, ed a ciascun altro, ciò che l'Imperadore suo padre gli avea tolto; e racchetati in cotal guisa gli affari di Alemagna, inviò suoi Ambasciadori in Roma al Pontefice Clemente ed a' Senatori della città, dando loro avviso, che egli era per calare in Italia a torre la Corona imperiale nella prossima Pasqua; ed entrato l'anno di Cristo 1191, mentre si stava attendendo la sua venuta, morì Papa Clemente, il quarto giorno di aprile, e sopraggiunto intanto il Re Errico in Roma, fu creato suo successore Giacinto Bubone romano nato di nobil sangue e vecchio di 85 anni, il quale si nomò Celestino III. Con questo nuovo Pontefice fu accordata l'incoronazione d'Errico, il quale nella chiesa di S. Pietro con la solita pompa insieme con la moglie Costanza fu coronato Imperadore[139].

Il Re Tancredi era da Palermo passato di nuovo in Puglia, ove ragunato un Parlamento di suoi Baroni a Termoli, e dato sesto a molti affari del Regno, se n'andò poi in Apruzzi; e debellato il Conte Rainaldo il costrinse venire alla sua ubbidienza. Indi passato a Brindisi conchiuse il maritaggio tra Ruggiero suo figliuolo primogenito, ed Ircoe, detta ancora talvolta Urania, figliuola d'Isaac Imperador greco[140]; e poco stante, venuta da Costantinopoli a Brindisi, si celebrarono nella medesima città pomposamente le nozze. Fece ancora Tancredi coronar quivi Ruggiero Re di Sicilia; onde riflette Inveges[141], che questo fu il primo Re coronato fuori di Palermo; e fatta l'incoronazione se ne tornò Tancredi lietamente a Palermo, avendo conceduto prima del suo partire a Roffredo Abate di Montecassino la Rocca di Evandro e la rocca di Guglielmo.

Ma l'Imperador Errico, tosto che fu coronato in Roma raccolse il suo esercito, ed accompagnato da Costanza sua moglie per la via di Campagna assalì il Reame per conquistarlo; ma Celestino fece tutti i suoi sforzi per frastornarlo dall'impresa, e si sdegnò assai, che per tal cagione movesse guerra a Tancredi, quando del Regno n'era investito da Clemente suo predecessore[142]. Niente però valse l'opera di Celestino, poichè i Tedeschi pervenuti alla Rocca d'Arce, luogo fortissimo posto alle frontiere dello Stato della Chiesa, lo presero per forza d'arme in un subito: il qual avvenimento, siccome rincorò, e diede baldanza a' soldati dell'Imperadore, così all'incontro scemò in gran parte il valor de' Regnicoli; onde Sorella, Atino e Colle, sbigottite, senza aspettar altro assalto, se gli diedero; e Roffredo Abate di Monte Cassino, che gravemente era infermo in letto, con quelli di S. Germano, inviarono a giurargli fedeltà anch'essi; e poco stante Cesare e Costanza ne girono a quel monastero a visitar quel Santuario. Seguitando poi il lor cammino, se gli diedero il Conte di Fondi, e quel di Molise, e passando in Terra di Lavoro si rivolse alla lor parte Guglielmo Conte di Caserta, e le città di Teano, Capua ed Aversa; nè ritrovarono resistenza alcuna sino a Napoli, ove essendosi ricovrato il Conte della Cerra, e non volendo que' cittadini mancar di fede a Tancredi, s'apprestarono francamente alla difesa. Si governava allora questa città da Aligerno, di cui fu quel privilegio spedito agli Amalfitani, come si disse; e sebbene riconoscesse per suo Signore Tancredi, siccome conobbe tutti gli altri Re normanni suoi predecessori, riteneva però quella forma stessa di Governo, che avea prima, che da Ruggiero fosse manomessa. Entrato ora in sua difesa il Conte Riccardo, potè far valida resistenza ad Errico; il quale inviata l'Imperadrice Costanza a Salerno, che in questo mentre era passato sotto la sua dominazione, cinse Napoli d'uno stretto assedio da tutti i lati; ma non perciò fu bastevole a prenderla a patto alcuno, così per la valida difesa del Conte e de' Napoletani, com'ancora perchè negli eccessivi ardori di quella state, infermando per lo soverchio mangiar de' frutti, e per l'intemperie dell'aria in que' luoghi paludosi, i Tedeschi, ne cominciarono a morire in grosso numero, fra' quali morì l'Arcivescovo di Colonia, il cui corpo portarono i famigliari a seppellire in Alemagna; ed ammalatosi alla fine il medesimo Imperadore, veggendo non poter venire a capo della sua impresa, dato a saccomanno tutto il Contado, ed abbruciato ogni sorta d'alberi fruttiferi, lasciò la città libera dall'assedio. Ed avendo lasciata Costanza in Salerno, ed un suo Capitano chiamato Mosca in Cervello, alla guardia del castel di Capua, Diepoldo Alemanno alla Rocca d'Arce, e Corrado di Marlei alla Terra di Sorella; e presi gli ostaggi da que' di S. Germano, i quali recò seco con l'Abate Roffredo, per lo cammin delle terre di Pietro Conte di Celano uscì dal Reame, e s'avviò verso Lombardia per girsene in Alemagna.

Riccardo Conte della Cerra avendo intesa la partita d'Errico, uscì prestamente con suoi soldati da Napoli, e con molti Napoletani, che parimente li seguirono, ed essendo andato a Capua, que' cittadini tosto se gli diedero, uccidendo grosso numero di Tedeschi, che in essa dimoravano, ed assediato il castello, non potendovisi Mosca in Cervello mantenere per difetto di vettovaglie, glielo rese, uscendone libero con tutti i suoi[143]. Indi prese il Conte Atino, Aversa, Teano, e S. Germano con tutte le terre della Badia di Monte Cassino; e richiesto Adenolfo da Caserta Decano del monastero, che v'era rimasto in guardia per l'assenza di Roffredo, a darsegli, non potè a patto alcuno, nè con preghiere, nè per forza recarlo al suo volere. Soggiogò poscia Riccardo Mandra Conte di Molise, e pose in guardia di S. Germano, e di S. Angelo Teodico Masnedam. Per li cui felici progressi sgomentato Riccardo Conte di Fondi, il quale avea comperato dall'Imperadore Sessa e Teano, abbandonando il suo Stato si fuggì in Campagna di Roma: e Tancredi volendo gratificar Aligerno napoletano per li servigi resigli nella difesa di Napoli, donogli il Contado di Fondi, che a Riccardo era stato confiscato.

Ma tutti questi progressi niente sbigottirono Adenolfo Decano Cassinense, il quale non ostante, che Papa Celestino l'avesse perciò scomunicato, ed avesse parimente interdetto il suo monastero[144], pur volle ostinatamente co' suoi Monaci mantenersi nella parte imperiale. Tutto al contrario de' Salernitani, i quali volendo ricuperar la grazia del Re Tancredi, gli dieron presa la Imperadrice Costanza, la quale egli con animo generoso avendo a grand'onore raccolta in Palermo, non molto da poi a richiesta del Papa in libertà la ripose, e con molti doni in compagnia d'Egidio Cardinal d'Aragona al suo marito in Alemagna la rimandò[145].

Fu però con dubbia sorte lungamente guerreggiato in Terra di Lavoro; poichè Adenolfo Decano di Monte Cassino, unite alquante truppe de' suoi, e de' Tedeschi, ricuperò tutte le terre sottoposte al suo monistero; ed avendo da poi l'Imperadore Errico rimandato in Italia l'Abate Roffredo col Conte Bertoldo, e buona mano di soldati Tedeschi, si congiunse l'Abate col Decano, ed insieme uniti fecero notabili progressi; ed entrato poscia il Conte Bertoldo nel Reame con molti soldati Alemanni e Fiorentini, che 'l seguirono, pose sossopra questa provincia, ed il Contado di Molise, con distruggere la città di Venafro, e gli altri castelli intorno, ove fecero prigionieri molti soldati del Re Tancredi.

Mentre in cotal guisa si travagliava nel Regno, Riccardo Re d'Inghilterra, il quale con Filippo Re di Francia era passato in Soria, ed avea preso Accone[146], venuto in discordia col detto Re Filippo, fu di tutti il primiero a concordarsi col Saladino, facendovi tregua per tre anni: il che conchiusero nell'anno 1192. E dato il titolo di Re di Gerusalemme al nipote Errico, ed a Guido da Lusignano, invece del detto Reame, che a lui apparteneva, l'isola di Cipri, sciolse l'armata da que' lidi per ritornare al suo paese; ma sopraggiunto da grave tempesta nel mare Adriatico, corse rischio di sommergersi, ed appena con pochi de' suoi giunse a salvamento in terra. E camminando occultamente per Alemagna per passare in Inghilterra, fu vicino Vienna per revelazione de' suoi familiari conosciuto, e da Leopoldo Duca d'Austria fu dato prigioniere in poter dell'Imperadore, ch'era suo nemico, dal quale, dopo varj avvenimenti, essendo dimorato un anno, e poco men che due mesi prigione, per mezzo di molta moneta, ch'egli pagò, fu riposto in libertà, e rimandato nel suo Regno. Non aveva intanto mancato il Pontefice Celestino per tal presura scomunicare così l'Imperadore, come il Duca d'Austria, pretendendo non poter essere da quella assoluti, se non restituivano i denari, che per isprigionarlo aveano estorti dal Re; onde non volendo quelli rendergli a patto veruno, amendue così scomunicati com'erano si morirono.

Ma ritornando agli avvenimenti del nostro Reame, il Conte Bertoldo proseguendo i suoi acquisti in Terra di Lavoro e Contado di Molise, e concorrendo a lui ogni giorno grosso numero di Regnicoli, che bramavano il dominio de' Tedeschi, tutte queste cose obbligarono il Re Tancredi per dubbio, che non si mettesse in rivoltura tutto il Regno, di passare da Palermo di nuovo in Puglia; onde avendo ragunato numeroso esercito, andò a fronteggiar il Conte[147]; ed affrontatosi amendue sotto Montefuscolo, furono per venire a battaglia; ma consigliato il Re, che non era convenevole arrischiar la sua persona reale in un fatto d'arme contro Bertoldo, che non era che un semplice condottiere, sfuggì di combattere[148]; la qual cosa al Conte, che avea gente men di lui, sommamente aggradì, e partitosi da Montefuscolo ritornò nel Contado di Molise, dove campeggiando il castel di Monte Rodano, fu, mentre il combattea, ucciso da una palla scagliata da que' di dentro con una manganella, ch'era una macchina da trar pietre, che in vece dell'artiglierie s'usava in que' tempi, e fu in suo luogo eletto lor Duca da' Tedeschi Mosca in Cervello. E Tancredi partito anch'egli da Montefuscolo riprese la Rocca di S. Agata, e tutti i luoghi di quella provincia, e passato poscia in Terra di Lavoro tosto a lui si resero Guglielmo Conte di Caserta, e la città d'Aversa con alcuni altri luoghi. Ed avendo in cotal guisa ridotti in pace i confini di Puglia e di Campagna ritornò in Sicilia, con aver prima del suo partire con ogni suo potere, ma invano, tentato di trarre alla sua parte Roffredo Abate Cassinense, che quasi presago di quel che poi avvenne, nè per le preghiere del Re, nè per le minaccie del Pontefice volle a patto alcuno scompagnarsi da' Tedeschi.

Ma tosto si rivoltarono in lutto questi fortunati avvenimenti di Tancredi; poichè non guari dopo questo suo ritorno in Palermo, s'infermò Ruggiero suo figliuol primogenito, dal quale, quando attendeva numerosa prole, avendolo ammogliato con Irene, per esser sano, ed ajutante della persona, essendo fallaci i disegni di questa vita, con pur troppo acerba ed immatura morte fugli involato. Una perdita cotanto grave trafisse sì amaramente l'animo del Re suo padre, che poco stante, avendo fatto coronar Re Guglielmo suo secondo figliuolo[149], infermò anch'egli per grandissimo dolor d'animo, nè ritrovando rimedio valevole a superar la forza del male, uscì medesimamente di vita in Palermo l'anno 1193 secondo Riccardo da S. Germano Scrittor contemporaneo, e fu con pompose esequie nel Duomo sepolto nello stesso avello, ove era in prima stato seppellito il figliuolo Ruggiero, siccome egli, avanti che morisse, comandato avea.

Fu il Regno di questo Principe non men breve, che pieno di travagli e di rivolture; nè gli fu dato spazio, che avesse potuto d'altre leggi in miglior forma ristabilirlo, non permettendogli gli affari più premurosi della guerra di poter pensare a quelli della pace; perciò leggi di questo Principe non abbiamo; nè se pure ne avesse promulgate, avrebbe sofferto Federico II d'unirle colle sue, e con quelle di Ruggiero, e de' due Guglielmi. Riputò egli così Tancredi, come Guglielmo suo figliuolo che gli succedette, per intrusi, e volle che qualunque concessione, privilegio o donazione, che si trovasse de' medesimi, come di tiranni ed invasori, non avessero niun vigore, nè fermezza[150]; non altrimenti che stabilì Giustiniano Imperadore dei Re goti, il quale approvò tutti gli atti e le gesta di Teodorico, e d'Atalarico suo figliuolo, ma non già quelli di Teodato, Vitige e degli altri Re successori, i quali reputò tiranni, ed invasori del Regno d'Italia.

Ebbe Tancredi, di Sibilia di Medania figliuola di Roberto Conte della Cerra fratello uterino di Ruggiero da Sanseverino figliuolo di Trogisio normanno, i due maschi che di sopra abbiam mentovati, ed alquante femmine; delle quali sopravvissero al Re solamente Albirnia e Mandonia, che col fratello Guglielmo, e con la madre Sibilia languirono lungo tempo in Alemagna prigioniere di Errico, come appresso diremo; e secondo che rapporta Inveges[151], ebbene una altra chiamata Costanza moglie di Pietro, zio del Doge di Venezia.

CAPITOLO I. Guglielmo III Re di Sicilia succede al padre Tancredi. L'Imperador Errico gli muove guerra, gli toglie il Regno e lo fa suo prigione.

Succeduto adunque al morto padre il figliuol Guglielmo, III di questo nome nell'ordine de' Re normanni, che dopo la morte di Ruggiero suo fratello avea Tancredi in sua vita fatto incoronare Re di Sicilia, e pervenuta di ciò la novella in Alemagna, mosse immantenente Errico a calar di nuovo in Italia per conquistar il Regno, giudicando (morto Tancredi) non aver altro ostacolo per recare a fine il suo intendimento. Inviata adunque l'armata nelle maremme del Reame, egli vi venne per lo cammino di S. Germano, ed andossene a Monte Cassino, ove fu a grande onor accolto dall'Abate Roffredo, essendo parimente stato incontrato sino a' confini dello Stato della Chiesa da' suoi Tedeschi, e dal Conte di Fondi, e da molti altri Baroni regnicoli suoi partigiani[152].

Passato in Campagna, ed avute in balia tutte le terre circonvicine, fuor che Atina, Rocca Guglielmo, Capua ed Aversa, le quali nè si resero, nè furono assalite, n'andò sopra Napoli. Avea questa città, prima che vi giungesse Errico, patteggiato co' Pisani, che con buona armata Errico v'avea mandati, di rendersi, onde appena vi sopraggiunse Errico, che subitamente gli aprì le porte.

Indi campeggiò Salerno, che si volle difendere, temendo della ira di Cesare, che sdegnato per la prigionia di Costanza, non la distruggesse: ma non potendo resistere a tante forze, fu da Errico presa e crudelmente saccheggiata; e degli abitatori alcuni uccise, altri fece porre in cruda prigione, ed altri mandò in esilio, lasciando in cotal guisa desolata quella nobil città in vendetta dell'ingiuria a lui fatta. Così delle città più magnifiche di questo Regno, Benevento, essendo pervenuta in poter della Chiesa romana, perdè tutto il suo lustro, e cadde dal suo antico splendore; e quando prima era capo d'un vasto Principato, da poi il suo territorio non si stese più che poche miglia fuori delle sue mura. Bari per l'indignazione di Guglielmo I abbattuta: Salerno ora va in desolazione; e Capua tuttavia scadendo, avea perduta la sua antica magnificenza. Non dovrà dunque parere strano, se per la declinazione di quelle illustri città, qui a poco vedremo Napoli sorgere sopra tutte le altre del Regno, che col favore di Federico II e più per Carlo I d'Angiò si rese capo e metropoli di sì vasto e nobil Reame.

Così Errico, trionfando felicemente in queste province, con non minor felicità entrò nella Puglia, la quale, senza trovar alcun contrasto, soggiogò tutta; indi spedì in Sicilia l'Abate Roffredo suo fedelissimo, dandogli autorità di poter ricevere in suo nome tutti i luoghi, che se gli volessero dare. Questi passando per la Calabria, a gara tutte le città e castelli di quella regione gli aprirono le porte, e valicato il Faro, se gli diedero anche Messina, Palermo, e quasi tutte le altre terre di quell'isola senza trovar alcuno, che se gli opponesse.

La Reina Sibilia veggendo l'infedeltà de' Siciliani e temendo di se stessa, e de' suoi figliuoli, uscita dal regal palagio, si ricovrò nel castel di Calatabellotta luogo fortissimo, ed atto a far lunga difesa; ed intanto i Palermitani prestamente invitarono l'Imperadore, che in questo mentre era passato anch'egli in Sicilia, ad entrar nella loro città. Ma Errico non volendo perder tempo in combatter Calatabellotta, si dispose di voler con frode ottener il suo intendimento; onde inviati suoi Messi alla Regina, patteggiò con lei che cedendogli ella le ragioni del Regno, egli a lei darebbe il Contado di Lecce, ed al figliuolo Guglielmo il Principato di Taranto; la quale, vedendosi abbandonata da ciascuno, si contentò di tale accordo; ed essendo Cesare entrato con gran pompa in Palermo, non guari da poi venne a' suoi piedi l'infelice Guglielmo a cedergli la Corona di Sicilia, come appunto scrivono la Cronaca che si conserva in Monte Cassino, e Riccardo da S. Germano.

Ecco come questi Regni da' Normanni passarono ai Svevi, non per conquista, come passarono da' Greci e da' Longobardi a' Normanni, ma per successione, per la persona di Costanza ultima del legnaggio legittimo de' Normanni. Egli è vero, che niente avrebbe giovato ad Errico questa ragione, se non l'avesse sostenuta colle armi; ma non potrà negarsi, che Federico suo figliuolo, non per altro titolo, che per quello, sovente nelle sue Costituzioni si dichiara esserne egli padrone. Perciò il Regno di Sicilia lo chiama suo Regno ereditario[153]; ed altrove[154] eredità sua preziosa.

Errico avendo trionfato de' suoi nemici, e posto in cotal guisa sotto la sua dominazione i Regni di Puglia e di Sicilia, con imprudente consiglio si volse, per meglio stabilirsi in quelli, alla crudeltà ed al rigore; poichè avendo prima rimunerato l'Abate Roffredo con donar al suo monastero il castel di Malveto, e concedergli di nuovo Atino, e la Rocca di Guglielmo, congregò nel giorno di Natale nel regal palagio di Palermo una general Assemblea, ove avendo a coloro, che ivi s'erano ragunati, esposto, che per lettere di Pietro Conte di Celano, era stato avvertito d'una congiura, che si meditava contro di lui, contro il tenor dell'accordo, e della fede data, fece prigionieri il giovanetto Guglielmo, la Reina Sibilia, e le sue figliuole, Niccolò Arcivescovo di Salerno, con Riccardo Conte d'Ajello, e Ruggiero suoi fratelli, tutti e tre figliuoli di Matteo Gran Cancelliero, da lui fieramente odiato, per essere stato cagione, come si disse che fosse da' Siciliani creato lor Re Tancredi; ma ritrovandosi Matteo già di questa vita passato, il mal talento, che contro il padre avea conceputo, volle sfogarlo co' suoi figliuoli. Prese parimente i Vescovi di Ostuni e di Trani con altri molti Prelati, Conti e Baroni. E vie più infierendo; con crudeltà barbara fece molti di loro abbruciare, ed altri impiccar per la gola, e fece abbacinare, e tagliare i testicoli all'infelice Guglielmo. Ebbe Papa Celestino notizia di queste crudeltà, e gli spedì un Legato appostolico, affinchè si trattenesse di tante crudeltà, a preghiere anche di Eleonora Reina d'Inghilterra, madre della nostra vedova Regina Giovanna, che scrisse all'istesso Celestino[155]; ma l'Imperadore dispregiò questi avvisi; ed aggiunge Ruggiero ne' suoi Annali, che non bastandogli l'aver co' vivi sfogata la sua barbarie, non volle nemmeno perdonare a' morti; poichè fece trar di sotterra i cadaveri del Re Tancredi, e del figliuolo Ruggiero, e fece lor torre le corone reali, con le quali erano stati sepolti, dicendo che l'avean prese illegittimamente. Non difformi sentimenti ebbe l'Imperador Federico suo figliuolo, il quale per ciò annullò tutti gli atti, privilegi, concessioni, ed ogni altro contratto fatto sotto nome di questi Principi, riputandogli per Tiranni, ed invasori del Regno, non già per Principi legittimi, come all'incontro ebbe Ruggiero, ed i due Guglielmi, i quali soli perciò chiama sempre suoi predecessori.

Ma mentre in quest'anno 1195 tal cose s'adoperavano da Errico in Sicilia, Costanza, che da Alemagna era partita per trovar suo marito, per essergli consorte anche nel Regno, eredità sua paterna, giunta in Italia e propriamente in Esi città posta nella Marca d'Ancona, partorì un figliuol maschio, al quale per presagio forse di quel che dovea riuscire, ovvero per maggior stimolo di virtù, posero due nomi de' suoi grand'avi, e lo chiamarono Federico Ruggiero, ed altri Ruggiero Federico. Nacque quest'Eroe in quest'anno 1195[156], ed in questa oscura città della Marca anconitana, come scrivono la Cronaca, che si conserva in Monte Cassino, Riccardo da S. Germano, ed Alberto Abate di Stada; ed in ciò fu eguale il destino del luogo della nascita, a quello della morte, che fu Fiorentino, città parimente oscura della Puglia. Inveges[157] come che per tutti i versi lo vuol nato nel suo Palermo, ha voluto seguitar l'opinione de' moderni contro l'autorità di Riccardo da S. Germano, e de' più antichi Scrittori; e sopra un falso supposto, che Costanza insieme con Errico fossero stati incoronati in Palermo l'anno 1194 gli par incredibile, che avesse di questo parto potuto sgravarsi in Esi nell'anno seguente. E certamente direbbe vero; ma Costanza non passò in Sicilia, se non in questo anno 1195 come questi antichi Autori rapportano. Egli nacque mentre Costanza sua madre non avea che 37 o al più 39 anni; e nato tra gl'incomodi del viaggio, per non esporlo a maggiori perigli, fu dalla madre dato ad allevare alla Duchessa di Spoleti, e lasciato sotto la cura della medesima, e d'Alberto, da altri chiamato Corrado, Duca di Spoleti e Conte d'Assisi suo marito[158], il quale tre anni da poi lo fece battezzare solennemente nella città d'Assisi in presenza di quindici Vescovi, e di molti Cardinali, e fu nominato Federico Ruggiero, in memoria de' suoi grand'avoli. E questa celebrità così tardi usata nel suo battesimo con tanto concorso di Cardinali e di altri Prelati, e la voce che vanamente era insorta nel volgo, che vi fosse stata frode nel parto, e che fosse stato supposto, diede cagione alla favola scritta dal Cranzio nel libro composto da lui della metropoli di Sassonia, e seguitato poi da altri moderni Scrittori, che per la vecchiezza dell'Imperadrice, non essendo atta a generar figliuoli, per essere, secondo ch'egli scrisse, di 55 anni, o come altri han detto di sessanta, quando generò Federico, partorisse in mezzo la piazza entro un padiglione, in presenza di tutte le donne della terra, che vi vollero intervenire, e ch'ella poi per la città di Palermo, per tor via ogni sospetto, andasse con le mammelle nude e discoverte distillando latte, come non si è ritenuto di scrivere l'Autor della prefazione de' Capitoli del Regno di Sicilia. Per togliere tra il volgo questo sospetto d'essere il parto supposto, bisognò, che il Pontefice Celestino, prima d'investir Federico del Regno di Sicilia, ricercasse da Costanza, ch'ella giurasse, che l'avea procreato dal suo marito Errico; e la cagion di questo giuramento non fu perchè non era riputata allora abile per vecchiezza a generar figliuoli, ma per torre tra il volgo la fama disseminata di supposizion di parto; e quando Malcovaldo da Menuder, guerregiando contro Federico in Sicilia, scrisse perciò a Papa Innocenzio, a Celestino succeduto, che volea tal frode far chiaramente provare: il buon Pontefice, che giudicò pruova bastante il giuramento della madre, non volle far mettere tal cosa in giudicio, e rifiutò l'offerta di Marcovaldo. E quindi ebbe poscia origine la novella, che Costanza era d'età canuta, e non atta a generare quando partorì Federico, e che per essere stata, mentr'era fanciulla, ne' primi anni, educata nel monastero delle Monache greche Basiliane di Palermo, fosse stata Monaca sacrata, con altre favole, che abbiam riprovate di sopra.

Intanto l'Imperador Errico avendo investito del Contado di Molise Mosca in Cervello, che tolto avea a Ruggiero Mandra, il quale scacciato dal Reame poco da poi se ne morì, volendo tornarsene in Alemagna, giunto in Puglia fece ivi convocar un'Assemblea, ove anche intervenne Costanza, la quale poco da poi passò in Sicilia, ed Errico prese il cammino per Alemagna, conducendo seco Guglielmo, e tutti gli altri prigionieri nomati di sopra, per la cui liberazione s'era adoperato indarno il Pontefice Celestino. Portossi ancor seco tutto l'oro e le gemme che potè raccogliere; avendo rapiti i tesori ed il mobile della casa regale consistente in vasi d'oro e d'argento purissimo, e panche e lettiere e tavole dell'istesso metallo, e panni intessuti di porpora e d'oro, ragunati in molti anni dalla magnificenza de' passati Re; de' quali caricò centocinquanta somieri con grave rammarico de' Siciliani, che vedeano in cotal guisa condur via le spoglie del soggiogato Reame da genti nemiche e rapaci nella lor terra straniera. Questi mali de' Siciliani, ed altri maggiori, che poscia gli avvennero per opera de' Tedeschi e d'Errico lor Signore, ben a lungo descrisse e compianse Ugone Falcando nel proemio della sua istoria, che indirizzò a Pietro Arcivescovo di Messina.

Partito che si fu Errico per Alemagna, Riccardo di Medania Conte della Cerra, cognato del morto Re Tancredi, volendo passar in Campagna di Roma per campar dalla crudeltà di lui, fu in cammino per tradimento d'un Frate fatto prigione da Diepoldo Alemanno, il quale, fattolo custodire strettamente nella Rocca d'Arce, attendeva il ritorno dell'Imperadore in Italia per darlo in poter del medesimo[159]. Aveva intanto Errico mandato nel Regno per suo Legato il Vescovo di Vormazia, il quale venuto in Napoli con l'Abate Roffredo, e con molti soldati regnicoli e tedeschi fece abbattere a terra le sue mura, ed il simigliante fece alla città di Capua, siccome scrive Riccardo da S. Germano. E ragunata poi Cesare una grande e poderosa oste in Alemagna di Svevi, Bavari e Franconi, e di altre Nazioni, di ben sessantamila soldati, sotto pretesto d'inviargli all'impresa d'oltre mare, ma in effetto, secondo che dice Arnoldo Lubecense, per isterminare tutti i Normanni, e particolarmente quelli, che avean favoreggiato contro di lui il Re Tancredi, se ne calò in Italia; e dimorato alcuni giorni a Ferentino, ne andò poi a Capua, dove essendo ragunati tutti i Baroni regnicoli per celebrare una generale Assemblea, gli fu dato in balìa da Diepoldo Alemanno il Conte Riccardo, il quale egli fece obbrobriosamente legare alla coda d'un cavallo, e strascinare per tutte le strade più fangose, ed alla fine impiccar per i piedi; nel qual tormento vivuto il Conte due giorni, gli fu per ordine dell'Imperadore da un suo buffon tedesco legato al collo una fune, da cui pendeva una grossa pietra, ed in cotal guisa fu iniquamente strangolato[160]. Celebrato poi il Parlamento, impose una taglia a tutti i Popoli del Reame, e creò Diepoldo Alemanno Conte della Cerra, ed inviò Oddo fratello di Diepoldo ad espugnar Roccasecca, ove si eran ricoverati Rinaldo e Landolfo due fratelli della famiglia Aquino per difendersi da così crudo nemico, ed egli se ne passò in Sicilia, ove fece aspramente morire con inaudite maniere di morte, non perdonando nè anche a' fanciulli di tenera età, tutti i Normanni, e que' particolarmente ch'eran di più stima, e di real sangue, ad alcuni de' quali, in vendetta, che avean fatto coronar Re Tancredi, fece porre una corona in testa, e conficcarla con chiodi di ferro acutissimi, privandogli in cotal guisa acerbamente di vita. Fece anche imprigionare Margaritone famoso Capitano, Duca di Durazzo, Principe di Taranto, e Grand'Ammiraglio, e gli fece cavar gli occhi, e tagliare i testicoli.

L'Imperadrice Costanza, veggendo le cattività barbare usato dal marito contro i suoi Normanni, ed il suo mal talento di voler estinguere il suo real legnaggio, non potendo più cotal malvagità soffrire, se gli rivolse contro[161]; e collegatasi co' Grandi del Regno, se n'andò a Palermo, e posto mano a' tesori reali ragunò soldati contro di lui, onde divenuti perciò più animosi i Baroni suoi partigiani, fatta scoverta rivoltura uccisero tutti i Tedeschi, che lor capitarono alle mani; e sarebbe stato anche l'Imperadore ucciso, se fuggendo non si fosse salvato in una forte Rocca. Ma volendo di là girsene in un luogo più sicuro, fu di maniera da tutti i lati cinto d'assedio da' Siciliani, che non potendo in guisa alcuna campare, gli convenne, per torsi da quel pericolo, ricever le condizioni, che sua moglie dar gli volle; che furono, che egli uscendo libero, posta dall'un de' lati la marital concordia, ne gisse via prestamente in Alemagna. Ma non volendo poi con la guerra intestina impedir l'imprese straniere, ch'egli intendea di fare, s'adoperò in guisa tale, che alla fine si racchetò con sua moglie e co' sollevati Baroni; onde imbarcato il suo grande esercito sopra molti navili per passar in Soria, pose grandissimo timore ad Alessio Angelo, il quale avendo tolta la Signoria ad Isaac, era divenuto Imperador di Costantinopoli; perciocchè fattogli dire da' suoi Ambasciatori, che voleva che gli desse tutte le terre, che avea già conquistate in Grecia il Re Guglielmo, che contenevano da Epidauro a Tessalonica, ovvero gli pagasse un tributo che gli voleva imporre, il Principe greco non osando rifiutar, per tema della sua potenza, la condizione offertagli, pregò solo moderarsegli la grossezza del pagamento chiestogli per ciascun anno; ed inviò per tutto il suo Imperio uomini sagacissimi per ragunare tutto l'oro, che aver potessero, togliendolo non solo da' particolari uomini, ma anche da vasi sacri delle chiese e da' sepolcri de' morti, ove secondo l'uso di que' tempi non piccola somma in onor di coloro che vi giacevano, si soleva riporre; e questo per mettere insieme sedici talenti, che tanti ne volea Errico per tributo.

E mentre tal cosa si trattava in Grecia partì da Messina l'armata imperiale verso Oriente, essendo suo General Capitano Corrado Vescovo d'Idelma, e Cancelliere dell'Imperio, il quale in assenza di Cesare avea governata la Sicilia; e con felice navigazione giunse in Palestina, e prese porto in Accone[162].

Nel medesimo tempo andò l'Imperadore a campeggiare Castel Giovanni, il quale con Guglielmo Monaco, che l'avea in governo, se gli era ribellato, e colà gravemente infermato si ritirò a Messina, ove se gli aggravò di modo il male, che poco stante, e propriamente a' 29 di settembre dell'anno 1197 passò di questa vita[163], liberando con la sua morte dal gravissimo timore, che s'aveva della sua crudeltà, non solamente l'Imperador di Costantinopoli, ma anche tutti i Popoli di Sicilia e di Puglia.

Morì Errico VI nel 1197 non senza sospetto, che la Regina Costanza sua moglie lo avesse fatto avvelenare, siccome narrano Giovanni Vito Durano Chron. pag. 5 ed Alberico ad An. 1197. Ma Corrado Wespergense pagin. 318 ciò rifiuta, dicendo: Quod tamen non est verisimile. Et qui cum ipso eo tempora erant familiarissimi hoc inficiabantur. Audivi ego idipsum a Domino Chunrado, qui postmodum fuit Abbas Praemonstratensis, et tunc in seculari constitutus, in camera Imperatoris extitit familiarissimus. Vedasi Struvio[164]. In questo anno si rapporta da Goldasto[165] una Costituzione del medesimo tratta da Giovanni Monaco, per la quale unì all'Imperio la Sicilia e la Puglia; ed ottenne da alcuni Principi assenso, che l'Imperio fosse ereditario, come la Sicilia e la Puglia, e si deferisse per successione; ma ripugnando i Principi della Sassonia, non ebbe tal Costituzione alcun effetto, talchè l'istesso Errico assolvè que' Principi, che gliene avean dato consenso, e gli sciolse dal giuramento, come rapporta Gobelino Persona riferito da Struvio[166]. E Lunig rapporta un Diploma de' Principi di Germania, dato in Francfort nell'anno 1220 col quale dichiarano, che il Regno di Sicilia non fu mai annesso all'Imperio: Ita quod Imperium nihil cum dicto Regno habeat unionis, vel alicujus jurisdictionis in illo: come sono le parole del Diploma, che si legge Tom. 2 Cod. Ital. Diplom. pag. 814.

Fu Errico, secondo che scrive Goffredo da Viterbo, di vago e signoril sembiante; ma per quel che dalle sue laide opere si vede, di costumi oltre modo biasmevoli e crudeli, spergiuro, e senza fede, ed avidissimo di moneta, e sopra tutto nemico de' romani Pontefici, da' quali scomunicato per la presura di Riccardo Re d'Inghilterra, e per la moneta tolta dal medesimo per riporlo in libertà, e per la presura di Niccolò d'Ajello Arcivescovo di Salerno, e morto perciò in contumacia della Chiesa, non si voleva dar sepoltura in terra sacra. Ma dal testamento che poi si trovò di lui, e dall'aver egli subito che cominciò ad ammalarsi inviato il Vescovo di Bettane al Re Riccardo a portargli la ricompensa de' denari, che gli aveva pagati[167], si rese da poi manifesto, ch'esso si pentisse de' passati misfatti.

L'Imperatrice Costanza, morto suo marito, inviò subito l'Arcivescovo di Messina al Pontefice, a chiedergli, che avesse data licenza, che si fosse potuto sotterrare il suo cadavero in chiesa; e di più, che avesse fatto tor l'assedio d'attorno a Marcovaldo da Menuder tedesco, e Gran Giustiziero dell'Imperio, il quale era stato strettamente assediato da' Romani in una terra detta la Marca di Guarniero; e che avesse fatto parimente coronar il figliuolo Federico Re di Sicilia, con dimandargli la solita investitura[168]. Alla primiera delle quali domande rispose il Papa, che non fosse data sepoltura al corpo dell'Imperadore insino a tanto, che si fosse accomodato il tutto col Re d'Inghilterra. Alla seconda, rispose, che non potea far liberar Marcovaldo senza il voler de' Romani; ed alla terza, ch'egli avrebbe fatto coronar Federico Re di Sicilia, purchè i suoi fratelli Cardinali vi avesser parimente dato il lor consentimento; i quali non ripugnando, fu l'incoronazione accordata con pagar mille marche d'argento per servigio de' Cardinali; e volle di più il Pontefice, che giurasse Costanza sopra i Santi Evangelj, che Federico era nato di legittimo matrimonio contratto tra lei ed Errico.

Fece l'Imperadore prima del suo morire testamento, parte del quale pone ne' suoi Annali il Cardinal Baronio; il quale dice averlo cavato dalla vita di Papa Innocenzio inviatagli dal Cardinal Carlo de' Conti, da lui ritrovata nell'Archivio d'Avignone, mentr'era colà Legato, scritta da antichissimi tempi, nella quale scrittura si narra, che nella fuga di Marcovaldo, in una rotta che da' Romani gli fu data, non già nella Marca d'Ancona, ma in una battaglia, della quale avremo occasione di favellare nel libro che siegue, tra gli arredi suoi fu tal testamento trovato. È questo testamento molto pio; e' mostra pentirsi delle passate sue colpe, le quali non potendo ricompensar d'altra maniera in quell'estremo di sua vita, mostra volontà, che almeno fossero emendate dal suo erede. In virtù del qual testamento fu, dopo sua morte, restituita da sua moglie Costanza alla Chiesa, siccome scrive Ruggiero ne' suoi Annali d'Inghilterra, la maggior parte di Toscana, la quale egli, ed i passati Imperadori le avean tolta, cioè Acquapendente, Santa Crispina, Monte dei Falisci, Radicofano e S. Quirico con tutti i lor Contadi, e più altri luoghi appartenenti alla giurisdizione del Pontefice.

Narra ancora Matteo Paris, che Errico lasciò ai Frati del Monastero Cisterciense tremila marche d'argento de' denari pagati dal Re Riccardo per farsene incensieri del medesimo metallo per tutto il lor Ordine; ma che l'Abate di quel luogo rifiutasse tal dono, come di moneta acquistata con cattivo modo.

E finalmente avendo il Papa data licenza, per essersi composti gli affari d'Inghilterra, che si desse sepoltura al cadavere di lui, fu trasportato al Duomo di Palermo, ed ivi riposto in un ricco avello di porfido, il qual sinora si vede: e la sua gente, ch'era non guari prima del suo morire giunta in Soria sotto la condotta del Vescovo Corrado, avendo avuta contezza, ch'egli era morto, e ch'era giunto in Palestina contro di loro il figliuolo del Saladino, smarriti per sì cattive novelle, si posero tutti i Principi dell'oste vergognosamente in fuga, non ostante, che i lor soldati fosser disposti a valorosamente combattere, rimanendo soli fermi nel campo i Vescovi di Verdun e di Magonza; de' quali poscia quel di Magonza n'andò d'ordine del Pontefice a coronar il Re d'Armenia, che avea tal cosa instantemente richiesta.

Ma ecco, che dopo questi avvenimenti Papa Celestino, che sette anni avea governata la Chiesa, si morì in Roma l'ottavo giorno di gennajo dell'anno 1198, ed in suo luogo fu eletto Giovanni Lotario Cardinal di S. Sergio e Bacco, di nobilissima stirpe, giovane di non più che trenta anni, ma di grande avvedimento, ed il maggior Letterato, e Giureconsulto di que' tempi, che Innocenzo III nomossi.

CAPITOLO II. L'Imperadrice Costanza prende il Governo del Regno. Sua morte; e fine del regal legnaggio de' Normanni.

Intanto l'Imperadrice Costanza, vedendo quanto erano odiati dai suoi vassalli i soldati tedeschi, ed il lor Capitano Marcovaldo, uomo di perduta vita, ed oltre modo crudele e rapace, volendo tener in pace il suo Regno, loro diede bando, con ordine che tantosto sgombrassero la Puglia e la Sicilia, nè ardissero d'entrarvi senza sua licenza[169]; onde tutti ne girono via, e Marcovaldo passato al Contado di Molise, che morto Mosca in Cervello, gli era stato donato da Errico, con lettere di salvo condotto dell'Imperadrice, acciocchè non fosse offeso dagli adirati Regnicoli, ed assicurate anche da Pietro Conte di Celano e da' Cardinali, che dimoravano in Regno, lasciati suoi Castellani nelle Rocche del suddetto Contado, se n'andò alla Marca d'Ancona, della quale era stato fatto Marchese da Errico, e colà dimorò fin che morì Costanza, ritornando poscia in Puglia, ove poi, come diremo, commise gravissime malvagità.

Innocenzio III tosto che fu coronato Pontefice, impegnossi con ogni suo potere, che si riponessero in libertà la Regina Sibilia, suo figliuol Guglielmo, e le figliuole, l'Arcivescovo Niccolò di Salerno, i suoi fratelli, e gli altri Baroni siciliani e regnicoli, che benchè fosse morto l'Imperadore, erano ancor sostenuti nelle prigioni d'Alemagna, e si leggono perciò tre sue epistole, la prima indrizzata agli Arcivescovi di Spira, d'Argentina e di Vormazia, ove dice loro, che debbiano scomunicare tutti coloro, che teneano in prigione l'Arcivescovo di Salerno, se nol rimettean di presente in libertà, inviandolo onorevolmente a Roma, ed anche tutta la provincia, ove egli fosse stato imprigionato; la seconda al Vescovo di Sutri, ed all'Abate di S. Anastagia, ordinando loro, che assolvessero Filippo Duca di Svevia, e fratello d'Errico, dalla scomunica, nella quale era incorso per aver assalito, ed occupato lo Stato della Chiesa, pur ch'egli procacciasse di riporre in libertà il Prelato suddetto; e la terza a' medesimi Vescovi ed Abati, imponendo loro, che se non fossero posti in libertà la Reina Sibilia, Guglielmo e le sorelle, e tutti gli altri prigioni, dovessero scomunicare tutti coloro, che gli avesser sostenuti ed interdire i loro Baronaggi[170]. Per la qual cosa il Duca Filippo, che avea per moglie Irene greca, vedova già del giovanetto Ruggiero Re di Sicilia, mosso a pietà di quelle donne illustri così acerbamente trattate dalla fortuna, e per obbedir parimente ad Innocenzio, essendo poco innanzi morto in prigione Guglielmo, le ripose in libertà e le inviò a Roma al Pontefice; ma di quel che poscia avvenne loro, ed al Duca Gualtieri di Brenna, che si ammogliò con una di quelle fanciulle, ed entrò ostilmente con grosso stuolo d'armati in Terra di Lavoro, scriveremo nel seguente libro di quest'Istoria. Furono ancora posti in libertà l'Arcivescovo Niccolò, il Conte Riccardo e Ruggiero suoi fratelli, che tornati in Salerno vissero poi lungamente.

Intanto l'Imperadrice Costanza, dimorando ancora il suo figliuol Federico in poter di Corrado Duca di Spoleti, lo fece condurre dal Conte di Celano e da Bernardo Conte di Loreto nel Reame, ed indi in Sicilia; e non guari dapoi dimandò al Papa l'investitura, per se e per Federico, la quale gli fu molto contrastata, non volendo darla nella maniera, che Papa Adriano la diede a Guglielmo I, e con tutto che Costanza gli avesse offerte larghe ricompense, non fu possibile piegarlo, se non si cassassero quattro capitoli, de' quali parleremo appresso, accordati prima con Guglielmo, onde rivocati questi, ottenne dal Papa per lei, e per lo figliuolo l'investitura del Regno per mano del Cardinal d'Ostia, che andò a Palermo, Legato di Santa Chiesa a coronargli amendue, e riceverne il giuramento di fedeltà, e la promessa del censo annuo di 600 schifati per la Puglia e per la Calabria, e di 400 per la Marsia. L'investitura la rapporta il Baronio, ove si leggono le seguenti parole: Quoniam Regnum Siciliae in Apostolicae Sedis fide adhuc permansit, et Rogerius quondam pater tuus, et Willelmus frater, et Willelmus nepos Reges Apostolicam Sedem, et praedecessores nostros summa constantia coluerunt, etc. concedimus Regnum Siciliae, Ducatum Apuliae, et Principatum Capuae, Neapolim, Salernum, Amalfim, Marsiam cum iis, quae ad horum singula pertinent. Viene anche rapportata dal Chioccarelli[171], e da Rainaldo[172], e riferita dall'istesso Innocente III in una sua epistola[173]. Scrisse ancora Innocenzio all'Imperadrice una sua epistola, o sia Breve, prescrivendogli il modo, che osservar si dovea nell'elezione de' Vescovi in tutti i suoi Stati, restringendogli molto quell'autorità, che in vigore di antichissimi privilegi e de' concordati che passarono fra Guglielmo I ed il Pontefice Adriano, ebbero nell'elezione de' medesimi i Re di Sicilia; di che ci tornerà occasione di far parola più innanzi trattando della politia ecclesiastica; perlaqualcosa soleva dolersi Federico II, che Innocenzio trattando con una donna, mentr'egli era fanciullo, avea saputo ingannarla, ma che egli non avrebbe sofferto, che si fosser in minima cosa derogate l'antiche ragioni e privilegi de' Re di Sicilia; onde avvenne, che si rese odioso ai Pontefici romani, e che fosse ciò una delle cagioni delle tante discordie e guerre, che lungamente travagliarono l'Europa, come diremo, quando di tali avvenimenti ne' seguenti libri dovremo ragionare.

Ma ecco finalmente l'Imperadrice Costanza, ultima degli eredi legittimi del Re Ruggiero, ammalandosi gravemente in Palermo, passò di questa vita il quinto giorno di dicembre di quest'anno 1198. Fu sepolta nel Duomo della stessa città in un sepolcro di porfido a canto a quello del marito, le cui iscrizioni, secondo che scrive il Baronio[174], fatte novellamente scolpire da un tal Ruggiero Paruta Canonico palermitano poco inteso della verità di questi avvenimenti, contengono la favola del Monacato di Costanza, che sacrata e canuta divenisse moglie d'Errico.

Lasciò ella nel suo testamento, che fece due giorni prima della sua morte, il figliuol Federico, ed il suo Reame sotto la cura e baliato d'Innocenzio III[175] con pessimo e pernizioso consiglio, poichè questo fatto, oltre d'aver partoriti disordini gravissimi e d'essersi aperta ben larga strada a' Pontefici romani d'intraprendere molte cose sopra il Reame, come si vedrà nel seguente libro, fece nascere l'altra pretensione dei medesimi, in congiuntura di minorità, di dover essi assumere il governo e l'amministrazione del Regno, anche se nel testamento dell'ultimo defunto non fosse loro conferito il Baliato, pretendendo che di ragione, come diretti padroni, a loro si appartenga durante la minorità del Re, siccome in fatti Clemente IV ciò pose per ispezial patto nell'investitura, che diede a Carlo d'Angiò; e nel corso di quest'Istoria si leggeranno molti disordini, e contese accadute in questo nostro Regno per queste pretensioni.

Ecco come in Costanza ebbe fine il real legnaggio de' Normanni, i quali da che Ruggiero prese la Corona in Palermo nell'anno di Cristo 1130 avean sessantotto anni con titolo reale dominato gloriosamente il Regno di Puglia e di Sicilia: Principi per le lor degne e lodevoli azioni meritevoli di chiara ed immortal memoria, i quali in mezzo a due Imperi stabilirono in Italia il più possente e nobil Regno, che vi fosse in que' tempi in tutta Europa, e che sotto Ruggiero, e i due Guglielmi fece tremar non men l'Occidente, che l'ultime parti dell'Oriente. Ma non perciò s'estinse in queste nostre province il sangue normanno. Rimasero molti Baroni e Conti normanni, che per lunga serie d'anni trasmisero co' Contadi l'illustre lor sangue nei posteri; nè senza fondamento a' dì nostri vantano alcuni Baroni trarre la lor origine da sì illustre e generosa prosapia. E vedi intanto come sì nobil Reame da' Normanni per diritto di successione non già per ragion di conquista, passasse a' Svevi dopo la morte di Costanza ultima di quell'illustre legnaggio. Noi colla morte della medesima, dopo aver narrata la politia ecclesiastica di questo secolo, daremo fine a questo libro, già che l'alte e generose gesta di Federico suo figliuolo richiamandoci a più nobili e magnifiche imprese, daranno ben ampio e luminoso soggetto a' libri seguenti di questa Istoria.

CAPITOLO III. Politia ecclesiastica di queste nostre province per tutto il duodecimo secolo, insino al Regno de' Svevi.

Lo Stato ecclesiastico si vide in questo secolo in un maggior splendore e floridezza. I Pontefici romani innalzati sopra tutti i Re della terra stendevano la lor mano in ogni Regno e provincia: ed i Re istessi rendevansi a sommo favore dichiararsi loro ligi, e rendere i loro Regni tributari alla Sede Appostolica. Stabilirono in questo secolo la loro sovranità in Roma, e la lor independenza dall'Imperadore; e fecero valere la lor pretensione di concedere la Corona imperiale. Roma erasi renduta la Reggia universale, dove si riportavano non solo tutti gli affari delle Chiese di Europa, ma ancora i più rilevanti interessi delle Corone di quella, dipendendo i Principi con gran sommessione da' cenni de' romani Pontefici; e sotto Innocenzio III il Ponteficato si vide nella sua maggior grandezza. I Concilj per la maggior parte erano convocati da essi, ovvero da' loro Legati, dove vi stabilivano regolamenti, che giudicavano più confacenti per la loro grandezza; ed a' Vescovi niente altro era rimaso, che di prestarvi il loro consenso. Le appellazioni di tutte le sorte di cause e d'ogni sorta di persone erano divenute tanto frequenti, che non v'era affare alcuno, che subito non fosse portato a Roma. I Papi s'aveano appropriata gran parte nel conferire i Vescovadi, perch'erano Giudici della validità dell'elezioni, ancorchè queste si fossero lasciate al clero, e le ordinazioni ai Metropolitani. A questo fine si proccurò innalzare la dignità de' Cardinali, elevandogli a tal grado, che furono considerati, non solo superiori a' Vescovi, ma eziandio a' Patriarchi ed a' Primati; e sopra tutto ristringendo ad essi il potere d'eleggere il Papa. Per mostrare maggiormente la loro sterminata potenza, e ricavarne insieme profitto, non vi era cosa, che ricorrendosi in Roma, con facilità non si dispensasse, onde la disciplina ecclesiastica venne ad indebolirsi; ciocchè mosse S. Bernardo a declamare contro l'abuso di queste dispense, come uno de' gran disordini introdotti nella Chiesa.

Ma quello che sopra ogni altro rendè il Ponteficato sublime, si fu perchè non accadeva contesa fra' Principi d'Europa, nè controversia d'ampj Stati e di grandi preminenze, che non si ricorreva a Roma, con sottoporsi i litiganti alla decisione del Pontefice, di che ne possono essere ben chiari documenti le tante epistole, e le tante decretali d'Innocenzio III. I Re di Inghilterra, que' di Francia e di Spagna rispettavano quella Sede con profondo ossequio: ed i nostri Re normanni sopra tutti gli altri erano loro ossequiosissimi. Gli affari più grandi de' loro Stati si maneggiavano da' Prelati. Si è veduto che ne' Reami di Puglia e di Sicilia, gli Arcivescovi di Palermo, di Salerno, di Messina, di Catania, e tante altre persone ecclesiastiche trattavano i maggiori, e più rilevanti interessi della Corona. L'ambascerie più cospicue ad essi erano appoggiate; e la Casa regale si reggeva da loro. Essi erano del Consiglio regale, e nelle deliberazioni più serie e gravi si ricercavano i loro pareri.

Le maggiori loro occupazioni non erano perciò più per lo governo spirituale delle loro Chiese, ma tutti i loro pensieri erano negli affari di Stato, ed indirizzati ad ingrandire le loro Chiese di giurisdizione, di prerogative e d'onori, e sopra tutto di beni temporali.

Crebbe perciò, per lo favore de' Principi, la loro conoscenza nelle cause; poich'essendo i Vescovi per lo più assunti per Consiglieri del Re, fu cagione di accrescere in immenso l'autorità del Foro episcopale; ed abbiam noi veduto, che l'Arcivescovo di Palermo ottenne dal Re Guglielmo di potere i Giudici ecclesiastici conoscere del delitto d'adulterio e l'Imperadrice Costanza, Regina di Sicilia, drizzò un editto ai Conti, Giustizieri, Baroni, Camerarj ed a' Baglivi della diocesi del Vescovo di Penne, nel quale espressamente proibisce loro di procedere ne' delitti d'adulterio, ma che lascino procedere in quelli la Giustizia ecclesiastica; e quando accadesse che negli adulterii, si fosse usata violenza, il Giudice ecclesiastico conoscerà dell'adulterio, ed il Magistrato secolare della violenza, siccome si legge nell'editto dato in Palermo l'anno 1197, e rapportato dall'Ughello nella sua Italia sacra[176]. A questo s'aggiunse, che gli Ecclesiastici, come quelli che meglio de' laici s'intendevano di lettere, erano riputati migliori, e più sufficienti ad amministrar giustizia, onde con facilità s'inducevano ad avergli per Giudici, e di vantaggio, non potendo la Chiesa condennare a pena di sangue, nè anche all'ammenda, ciascuno, per essere più dolcemente trattato, non solo non sfuggiva, ma desiderava sottoporsi al giudicio di quella. Ma sopra ogni altro si accrebbe la loro conoscenza, perchè i Re e i Signori temporali, ed i loro Giudici non badavan molto allora a mantenere la lor giurisdizione nelle cause, le quali non erano lucrative, e di gran rendita per essi, com'è oggi, ma più tosto eran loro di peso, perchè le loro cariche erano esercitate gratuitamente, e senza poter dalle Parti esigere emolumento alcuno. Ed oltre a ciò quando s'entrava in contenzione di giurisdizione con gli Ecclesiastici, le scomuniche fulminavano, di che eravi presso di noi vestigio, che tutte le domeniche ne' sermoni delle Messe parrocchiali si scomunicavano coloro, che impedivano la giurisdizione della Chiesa.

Questo accrescimento dell'autorità del Foro episcopale, e l'applicazione de' Vescovi in cose maggiori e più rilevanti, fece che quando prima per ufficio caritatevole erano essi impiegati per via d'amicabile composizione a decidere i piati tra' Fedeli, e vennero poi ad acquistare per privilegio de' Principi la giurisdizione, esercitando da se stessi la giustizia a' litiganti: finalmente se n'esentarono in tutto, e cominciarono a crear Ufficiali per amministrarla; onde eressero Tribunali con particolari Giudici, ed in decorso di tempo a crear anch'essi Notaj, che avessero il pensiero, e la cura degli atti e de' processi. Quindi sgravandosi ancora del peso d'insegnare i misterj della nostra fede, stabilirono Professori di teologia per insegnare nelle Chiese cattedrali la teologia, e tenendo a vile gli esercizj delle cose sacre, tutta la loro applicazione era nelle cose del secolo, e negli affari politici e di Stato. Da ciò nacque, che bisognò provvedere il Foro episcopale d'un nuovo Corpo di leggi ecclesiastiche, onde surse il decreto di Graziano, per istabilir meglio la giustizia ecclesiastica, e la grandezza Pontificia.

§. I. Nuove collezioni de' canoni, e del decreto di Graziano.

Le raccolte, che si fecero nel precedente secolo, furono delle prime dove i canoni si videro distribuiti per via di materie; ma quasi tutte furon contaminate dalle varie cose suppositizie d'Isidoro, che in quelle furono inserite. Burcardo Vescovo di Vormes ne distese una divisa in venti libri, che intitolò Magnum Canonum Volumen[177]. Ad Anselmo Vescovo di Lucca se ne attribuisce un'altra; ma quantunque porti il suo nome, si vede altri esserne stato l'Autore, poichè vi sono racchiusi alcuni decreti d'Urbano II, e d'altri Pontefici suoi successori, li quali vissero dopo Anselmo[178]. Ve n'è un'altra di Adiodato Cardinale del titolo di S. Eudossia fatta intorno l'anno 1087 per comandamento di Vittore III.[179] L'altra del Prete Gregorio, intitolata Policarpus; siccome quella di Bernardo di Pavia, che s'intitola Populetum, non han mai veduta la luce del Mondo, ma manuscritte si conservano nella Biblioteca Vaticana[180]. Ma quella che compilò Ivone di Sciartres nel fine del precedente secolo, oscurò tutte l'altre. Egli la divise in diciassette parti, e l'intitolò Decretum. Dell'altra intitolata Pannomia ovvero Panormia attribuita al medesimo Ivone, sono alcuni, che ne fanno autore Ugone catalano[181]. Queste Collezioni erano a quei tempi le più rinomate, e delle quali valevansi le nostre Chiese, insino che surgesse quella cotanto famosa di Graziano, che tolse lo splendore a tutte l'altre, e che ricevuta con applauso da' Canonisti, meritò d'essere insegnata nelle pubbliche Scuole, ed in poco tempo ebbe tanti Commentatori, che fu riputata la principal parte della ragion canonica.

Graziano fu un Monaco dell'Ordine di S. Benedetto, il quale nel Ponteficato d'Alessandro III insegnò teologia in Bologna. E' nacque in Chiusi città della Toscana, e fu fama che fosse procreato d'adulterio insieme con Pietro Lombardo chiamato il Maestro delle sentenze, e con Pietro Comestore Scrittore dell'Istoria Scolastica, creduti suoi fratelli; narrasi ancora, che la loro comune madre non potè mai ridursi ad aver pentimento degli adulterj commessi quando gli generò, dicendo esserne ben paga, per aver dato al Mondo tre preclari e grandi uomini; e corretta dal suo Confessore, non potè ridurla, imponendole alla fine, che almeno si pentisse di questo suo non potersi pentire. Ma Guido Pancirolo[182] rifiutò come favole questi racconti, massimamente, perchè non fu una la patria di coloro, essendo Graziano di Chiusi, Pietro Lombardo di Novara, e 'l Comestore fu Franzese.

Compilò egli questa Raccolta in Bologna nel monastero di S. Felice intorno l'anno 1151 nel Ponteficato d'Eugenio III[183], e l'intitolò Concordia discordantium Canonum. La divise in tre parti. La prima contiene i principj, e ciò che riguarda il diritto canonico in generale, ed i diritti e ragioni delle persone ecclesiastiche, sotto il titolo di Distinzioni. La seconda, la decisione di diversi casi particolari, coll'occasione de' quali si risolvono molte quistioni; ed è intitolata le Cause. La terza ha per titolo della Consecrazione perchè riguarda quanto appartiene al ministerio ecclesiastico, a' sacramenti, a' riti, alle ordinazioni, e consecrazioni. La presentò egli a Papa Eugenio, ma non costa, che ne avesse da costui ottenuta conferma alcuna: ma non perciò che da' Pontefici non si fosse con pubblica legge approvata, rimase ella senza autorità e vigore. Fu ricevuta con tanto applauso, che gl'istessi romani Pontefici se ne valsero, e tacitamente per innalzare la loro autorità, ed abbassare quella dell'Imperadore e degli altri Principi la promossero; quindi sotto Federico Barbarossa sursero i Decretisti di fazione Guelfa, i quali difendendo le ragioni del Papa, si opponevano a' Ghibellini[184]. Ed ancor che quest'opera contenesse infiniti errori, fosse fatta senz'ordine, ed in una somma confusione, in guisa che fu d'uopo poi emendarla, nè bastò l'industria e la diligenza di tanti insigni Professori per poterla affatto pulire[185], con tutto ciò acquistò tanta autorità, che tirò a se tutti i Letterati, i maggiori Teologi di que' tempi ad impiegarvi i loro talenti in farvi glosse e commenti; e nel Foro ebbe gran peso la sua autorità nelle decisioni delle cause; tanto che Graziano era comunemente appellato il Maestro; e nell'Accademie il suo Decreto era pubblicamente insegnato, e coloro, che l'insegnavano erano decorati col titolo di Dottore, prendendo tal dignità per mezzo d'una bacchetta, onde si dissero Baccellieri[186]. Accrebbe ancora la sua autorità la fama dell'Accademia di Bologna, la quale in que' tempi sopra tutte l'Accademie d'Italia e di Francia teneva il vanto; ed il gran numero de' Glossatori.

I primi furono Lorenzo da Crema, Vincenzo Castiglione di Milano gran Canonista, ed Ugone da Vercelli. Seguitarono le costoro vestigia Tancredi da Corneto Arcidiacono di Bologna, il quale intorno l'anno 1220 vi fece le chiose; Sinibaldo Fieschi, il quale innalzato al Ponteficato fu detto Innocenzio IV e Giovanni Semeca detto il Teutonico. Costui reformò tutte le chiose prima fatte ed aggiungendo le sue, fece al Decreto, ciò che Accursio fece alle Pandette[187]. Sursero da poi infiniti altri Glossatori, Bernardo Bottone, Goffredo, Egidio da Bologna ed altri; fra' quali s'estolse Bartolomeo da Brescia discepolo di Vincenzo Castiglione, il quale intorno l'anno 1256 aggiunse le sue chiose a quelle di Giovanni Teutonico, le corresse, le riformò ed in gran parte le mutò. Quando Gregorio XIII ordinò l'emendazione del decreto di Graziano, i romani Espurgatori ebbero molto che fare, non solo in pulendo il corpo del decreto, ma anche per espurgarlo dagli infiniti spropositi ed assurdi, che questi Canonisti Glossatori v'aveano aggiunti; tanto che surse quel proverbio: Magnus Canonista, magnus Asinista[188].

Si credette a questi tempi, che il Decreto di Graziano bastasse per innalzare l'autorità pontificia al sommo dove potesse ascendere; ma in decorso di tempo, mutate le cose, questa compilazione non fu riputata sufficiente; onde al Decreto successe il Decretale, che poi anche non ha soddisfatto: ma secondo, che di tempo in tempo li Pontefici si sono andati avanzando in autorità, si sono formate nuove regole, onde ad emulazione del Corpo delle leggi civili, perchè si vedesse come, ed in qual maniera dentro un Imperio potesse fondarsene un altro, alle Pandette opposero il Decreto: al Codice, il Decretale: alle Novelle, il Sesto, le Clementine, e le Estravaganti; e perchè niente mancasse, Paolo IV comandò a Gio. Paolo Lancellotto che ad imitazione delle Istituzioni di Giustiniano compilasse anche le Istituzioni Canoniche, come fu fatto.

§. II. Elezione di Vescovi ed Abati.

Ebbe in questo secolo grande incremento la potestà de' Pontefici romani intorno alla creazione de' Vescovi ed Abati; ed ancorchè al Clero ed a' Monaci si lasciasse l'elezione, nè apertamente s'impedisse a' Principi il loro diritto che v'aveano per gli assensi; nulladimanco essendosi i Pontefici resi Giudici della validità d'ogni elezione, inventò la Corte romana altri modi, co' quali spesse volte la collazione de' Vescovadi e Badie si tirassero a Roma. Furono stabilite perciò molte condizioni da dover'essere necessariamente osservate prima di venirsi all'elezione; altre nella celebrazione di essa; ed infinite qualità erano ricercate nella persona dell'eletto; aggiungendo che quando alcuna di quelle non fosse osservata; gli elettori fossero privati allora della potestà d'eleggere, la quale si devolvesse a Roma. Accadeva perciò e per diversi altri rispetti e cagioni, che sovente nascevano difficoltà sopra la validità dell'elezione; il perchè una delle parti appellava a Roma, dove per lo più si dava il torto ad ambedue; ed era l'elezione invalidata e tirata la collazione del Vescovado o Badia per quella volta a Roma.

Quando ancora si sapeva in Roma vacare qualche buon Vescovado o Badia, era spedita subito una Precettoria, ordinandosi in quella, che non si procedesse all'elezione senza saputa del Papa; e con onesto colore di aiutare o prevenire i disordini, che potessero occorrere, si mandava persona che assistesse e presedesse all'elezione, per opera della quale con diverse vie e maneggi, si faceva cader l'elezione in colui che dovea essere di maggior beneficio di Roma. Per queste cagioni poche elezioni di Vescovadi e Badie erano celebrate, che per alcuni di questi rispetti non fossero esaminate in Roma; onde i Pontefici romani quasi in tutte s'intromettevano, coprendosi ciò con onesto titolo di devoluzione per servizio pubblico: perchè gli elettori ordinari mancavano di quello, ch'era debito loro. Questi modi usati variamente secondo l'esigenza de' casi, non furono a questi tempi stabiliti in maniera, che avessero forza di legge, ma più tosto di consuetudini o di ragionevolezza; insino che Gregorio IX ridotti in un corpo tutti li rescritti, che servivano alla grandezza romana, ed esteso ad uso comune quello, che per un luogo particolare e forse in quel solo caso speziale era statuito, cacciò fuori il suo Decretale, che principiò di fondare e stabilire la Monarchia romana.

Questa medesima soprantendenza si pretese da' Pontefici romani esercitare nelle nostre Chiese e monasteri, e metter mano a quella parte che nell'elezioni s'apparteneva a' nostri Principi, e si tentò escludergli anche dall' assenso ricercato in quelle. Ma il Re Guglielmo I nella pace fatta con Papa Adriano, volle ciò pattuire con Capitolazione particolare, in vigor della quale, siccome altrove fu narrato, fu l'assenso del Re stabilito per necessario in tutte l'elezioni delle nostre Chiese, in guisa, che se l'eletto non fosse piaciuto al Re, o perchè fosse persona a lui odiosa e che per qualunque altra cagione non volesse assentire, non potesse quegli intronizzarsi e consecrarsi[189].

Ma non mancarono in Roma di dire, che quelle Capitolazioni accordate da Guglielmo con Adriano, fossero state estorte per violenza e colle armi alle mani; tanto che quando lor veniva in acconcio, abusandosi della bontà o debolezza di qualche Principe, sotto onesto colore di prevenire i disordini o che i nostri Re s'abusassero di questa facoltà, si facevano i Papi ben sentire, pretendendo di più, che riconoscendo tal prerogativa per beneficio e privilegio lor conceduto dalla Sede Appostolica, avvertissero a ben servirsene perchè altrimente sarebbe stata lor tolta. E nel Regno di Guglielmo il Buono, essendosi questo Principe valso di questa ragione nell'elezione del Vescovo d'Agrigento, pure incolparono quell'innocente Principe d'eccesso; ed oggi giorno si legge una epistola tra quelle di Pietro di Blois[190], dirizzata al Cappellano regio di Sicilia, dove dolendosi che nella Chiesa d'Agrigento, il Re, dissentendo il Capitolo, vi avea posto per Vescovo il fratello del Conte di Loritello, l'inculca, che per l'ufficio suo ammonisca il Re a non darlo a persona indegna.

Ma caduto il Regno di Sicilia in mano di femmina sotto la Reina Costanza, allora parve ad Innocenzio III tempo opportuno di alterare i patti accordati da Papa Adriano con Guglielmo I. Egli si dichiarò in prima, che non avrebbe conceduta l'investitura del Regno, se non si moderassero que' Capitoli, ed in effetto bisognò a Costanza di contentarlo, e nell'investitura che diede a lei ed al suo piccolo figliuolo Federico, ancorchè serbasse loro l'assenso, nulladimanco quasi lor impose necessità di darlo, sempre che ne fossero ricercati, e l'elezione si fosse canonicamente fatta[191].

Ma ciò non bastando ad Innocenzio, volle egli regolare e dar norma all'elezioni che dovean farsi in questi Regni, prescrivendo per un suo particolar Breve spedito a' 19 novembre dell'anno 1198 e drizzato a Costanza il modo da tenersi, il qual era che nella sede vacante il Capitolo denunzierà al Re la morte del Prelato, e congregatosi insieme procederà all'elezione di persona idonea, la quale eletta, la denunzieranno al Re, e ricercheranno da lui l'assenso; e prima che il Re non sarà ricercato dell'assenso, non s'intronizzi l'eletto, nè si canti la solennità delle laudi; nè avanti che dal Papa sarà confermato ardisca d'intromettersi nell'amministrazione[192]. Consimile Breve inviò poi a tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Prelati e Cleri delle Chiese del Regno, perchè stassero informati di quanto egli avea stabilito sopra l'elezioni con Costanza, il qual Breve si legge pure fra le epistole d'Innocenzio[193].

Morta Costanza nell'anno 1199 lasciando Federico suo figliuolo infante, ed il Regno sotto il Baliato di Innocenzio stesso, unendosi nella sua persona ambo le potestà papale e regia, dal suo cenno pendevano tutte l'elezioni; ma non per ciò nel tempo del suo Baliato fu pregiudicato all'assenso, perchè Innocenzio lo dava in tutte l'elezioni, spiegandosi che lo faceva vice regia, cioè come Balio, ch'era del fanciullo Re Federico, siccome si vede chiaro dalle sue epistole dirizzate al Capitolo e Canonici di Capua per l'elezione del lor Vescovo: al Capitolo di Reggio: al Capitolo di Penne e ad altri[194]. E finchè Federico stette sotto il suo Baliato e quando ancor giovanetto cominciò egli ad amministrare e che fu in pace con Innocenzio, si continuò il medesimo istituto; anzi presso Rainaldo[195] si legge un suo diploma dirizzato ad Innocenzio, ed istromentato a Messina nell'anno 1211 ove prescrive il modo dell'elezioni nell'istessa guisa appunto, che Innocenzio avea prescritto a Costanza. Oltre Rainaldo, è rapportato il Diploma suddetto anche da Lunig[196].

Ma adulto Federico e reso più accorto di quello, che avrebbero voluto i Pontefici romani, cominciò a conoscere l'alterazioni fatte da Innocenzio a' Concordati stabiliti tra Papa Adriano con Guglielmo I, e principiò a dolersi del torto fatto alle sue preminenze, e che Innocenzio trattando con una donna, come fu Costanza e nel tempo del suo Baliato, con un fanciullo, avea proccurato l'assenso ricercato di necessità in tutte l'elezioni, di ridurlo ad una cerimonia e che bastava che sol si ricercasse, perchè si dovesse dare, pretendendo di dover'egli conoscere le cause, che si allegavano di non assentire.

Gli eccessi così d'Innocenzio e molto più de' suoi successori in far valere queste loro pretensioni, come di Federico in pretendere il contrario, di poter negare l'assenso quando gli piaceva, ed a suo arbitrio rifiutar l'elezioni fatte, furono una delle cagioni, non meno de' contrasti ed acerbe contese che insorsero poi tra questo Principe e Gregorio, Onorio, Celestino e sopra tutti Innocenzio IV, successori d'Innocenzio, che di gravi disordini nelle nostre Chiese; poichè Federico abusandosi sovente di questa prerogativa, rifiutando l'elezioni fatte, non si rimaneva fin che finalmente non quelle cadessero sopra le persone da lui promosse. I Pontefici dall'altro canto declamavano contro tali abusi e con molta acerbità biasimavano Federico, che a modo suo voleva disporre delle Prelature del Regno, quando l'elezioni doveano esser libere e non forzate; ed alcuni resistendo apertamente a' desiderj del Re, s'opponevano con vigore e quindi accadeva, che le nostre Chiese venivano lungamente a vacare: altri Papi più arrischiati s'avanzavano, ad onta dell'Imperadore, d'annullare l'elezioni fatte a suo modo, ed a provedere essi, indipendentemente da lui le Chiese. Nel Ponteficato d'Innocenzio III, vacando la Chiesa di Policastro, Federico rifiutò tutte l'elezioni prima fatte, affinchè quella cadesse in persona di Giacomo suo Medico, siccome dagli elettori già stanchi ed importunati ottenne. Ma avutosi ricorso a Papa Innocenzio, questi dichiarò invalida l'elezione fatta in persona di Giacomo, e fece restar ferma la prima sortita in persona d'altri, scrivendo perciò sue lettere al Vescovo di Capaccio ed all'Abate della Cava, che così eseguissero[197]. Papa Gregorio IX per queste istesse cagioni con molta acrimonia riprendeva l'Imperadore, e declamava con incessanti querele contro il medesimo[198]. Ma con Onorio III le discordie sopra ciò maggiormente s'inasprirono; poichè vacando molte Chiese di queste province, che lungo tempo erano per tali contrasti rimase vedove, Federico volle in tutte le maniere provederle di Pastori; se ne offese il Papa e gli scrisse riprendendolo con molta acerbità ed acrimonia; ma l'Imperadore con pari vigore e fortezza disprezzò sue lettere[199]; onde Onorio, senza tener conto di lui e del suo assenso provide egli le sedi vacanti: a Capua e Salerno, vi mandò per Arcivescovi, i Vescovi di Patti e di Famagosta: a Brindisi, l'Abate di S. Vincenzo a Vulturno: a Consa, il Priore di S. Maria della Nova di Roma: e ad Aversa, l'Arcidiacono d'Amalfi[200]. Federico rifiutò costantemente i nuovi Prelati, non permise, che senza il suo assenso fossero intronizzati, e gl'impedì il possesso delle sedi loro assignate.

Quindi gli animi maggiormente s'inasprirono e proruppero poi in tanti eccessi e disordini, ed in così strani avvenimenti, che saranno ben ampio soggetto de' seguenti libri di quest'Istoria.

FINE DEL LIBRO DECIMOQUARTO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO DECIMOQUINTO

I Svevi, Popoli della Germania, che abitarono quella parte di qua del Reno tra la Franconia e la Baviera e la Valle dell'Eno, e da' quali il Ducato di Svevia prese il nome, non vennero a noi a guisa di assalitori, come i Longobardi, o come peregrini, ed a truppe a truppe, come i Normanni; i quali non altro diritto ebbero di conquistarci, se non quello, che lor somministrava la spada, e la ragion della guerra; ma vi comparvero sotto il lor Duca Errico Imperadore, il quale avendo presa in moglie Costanza, ultima del sangue legittimo de' Normanni, portò per successione questi Regni al suo figliuolo Federico. Trae la sua origine questo invitto Eroe da Federico Stauffem di famiglia nobilissima tra' Svevi, e Cavaliero valorosissimo, al quale per la sua nobiltà e valore, non disdegnò l'Imperador Errico IV dare la sua figliuola Agnesa per moglie, e con lei il Ducato di Svevia per dote[201]. È fama che la Svevia ne' tempi antichi fosse Regno, ma che da poi fosse stata ridotta in Ducato; ed a' nostri dì pur perdè questo titolo, poichè ora in Alemagna niun Principe s'adorna del titolo di Svevia; perchè parte è aggiunta alla Casa d'Austria per eredità, e parte ne occupa il Duca di Wirtemberg; e le città che vi sono, molte sono libere ed imperiali, e molte al Duca di Baviera sottoposte. Giunge ella a' gioghi dell'Alpi, ed in parte è recinta da' Boarj, Franconj ed Alsatensi. Da Federico con Agnesa nacque Corrado II Imperadore, da cui nacque Federico I detto Barbarossa, e da costui Errico, il quale, avendosi sposata Costanza figliuola del Re Ruggiero, diede al Mondo Federico II che per retaggio materno, Re di Sicilia e di Puglia divenne. Per questa cagione, fra tutte le Nazioni, vantano i Svevi il più legittimo e giusto titolo sopra questi Reami; ed a ragione si dolsero, che per la potenza e disfavore de' romani Pontefici fossero stati a lor tolti, e trasferiti a' Franzesi della Casa d'Angiò.

Il Pontefice Innocenzio III calcando le medesime pedate de' suoi predecessori, avea per la sua eccellente condotta fatti progressi maravigliosi sopra questi Reami; ed oltre al diritto dell'investiture, pretendeva esser riconosciuto come diretto Signore di quelli, non altramente che gli altri Principi fanno sopra i Feudi de' loro Baroni e Vassalli; ed in conseguenza di ciò esercitare in quelli le più supreme regalie. Egli apertamente nelle sue epistole dichiarò, che la proprietà di questi Reami s'apparteneva alla Sede Appostolica, e perciò, mettendo da parte il testamento di Costanza credette, che independentemente da quello a lui si dovesse il Baliato del picciolo Re, e de' suoi Regni. Ma nel principio, a cagion di Marcovaldo e de' Siciliani, tenne celati questi pensieri, e simulò prenderne la cura come Balio in vigor del testamento di Costanza; per la qual cagione saputa la morte dell'Imperadrice, ed il suo testamento, accettò con allegria la tutela, ed immantenente si pose ad esercitarla, scrivendo all'Arcivescovo di Palermo, ed a quelli di Reggio e di Monreale, ed al Vescovo di Troja famigliari del Re, che egli non tanto colle parole, quanto co' fatti, avea accettato il Baliato a lui lasciato dall'Imperadrice Costanza[202]. Ma i fatti furono tali, che dopo la morte di Costanza si conobbe, che non tam tutelae nomine, come dice il Nauclero[203], quam sui juris tuendi causa, Siciliam et Apuliam administrabat.

Mandò per tanto Innocenzio per suo Legato in Sicilia Gregorio da Galgano Cardinal di S. Maria in Portico, acciocchè con Riccardo della Pagliata Vescovo di Troja, e Gran Cancelliero di quel Regno, con Caro Arcivescovo di Monreale, e con gli Arcivescovi di Capua e di Palermo, che dall'Imperadrice erano stati lasciati per famigliari del picciolo Re, avesse preso il Governo dell'isola; ed il Cardinale colà giunto prese da' famigliari suddetti il giuramento di fedeltà in nome d'Innocenzio. Ma ciò non molto piacendo al Gran Cancelliero Riccardo, ed agli altri del suo partito, i quali non volevano colà superiore alcuno, vennero tantosto a scoverta nemicizia col Legato, e trattando i proprj comodi, non l'utile del Re, furon cagione, che di là a poco il Cardinal Gregorio facesse ritorno in Roma, avendo prima inviato ordine per tutta la Sicilia e la Puglia, che ciascun riconoscesse il Pontefice per suo Governadore, e Balio del Re fanciullo.

Dall'altra parte Marcovaldo, che, come si disse, era stato da Costanza con tutti i suoi Tedeschi scacciato dal Reame, intesa la di lei morte, ragunò prestamente un numeroso esercito di suoi amici e partigiani, ed altri ch'egli assoldò; ed ajutato da alcuni Baroni regnicoli, e da Guglielmo Capparone, Federico, e Diopoldo Alemano, e da altri Tedeschi, a cui avea donato Errico Stati e Baronaggi in Puglia ed in Sicilia, entrò ostilmente nel Reame, ed in prima assalì il Contado di Molise (ove molte Rocche ancor per lui si guardavano) e senz'alcun contrasto se 'l pose sotto il suo dominio. Inviò poi a richiedere a Roffredo Abate di Monte Cassino, che si fosse con lui congiunto, riconoscendolo per Balio di Federico, secondo ch'era stato, com'egli diceva, lasciato dall'Imperador Errico; ma l'Abate scorgendo l'intendimento di Marcovaldo essere non di custodire, ma di rapire l'eredità del fanciullo, ributtò i suoi messi, nè volle far nulla di quel ch'egli chiese, iscusandosi, che avea già prestata ubbidienza al Pontefice ed accettatolo per Balio del Regno: il perchè sdegnato gli mosse aspra guerra, ed entrato ostilmente nelle terre della Badia in quest'anno 1199, prese in un subito e bruciò molti luoghi della medesima, ed indi venne a campeggiar S. Germano, alla cui difesa era accorso già l'Abate Roffredo[204]. Avea intanto Innocenzio inviato in Terra di Lavoro Giovanni Galloccia romano Cardinal di S. Stefano in Montecelio, e Gerardo Allucingolo da Lucca Cardinal di S. Adriano con seicento soldati condotti da Landone da Montelongo Governador di Campagna di Roma, i quali avuta contezza, che Marcovaldo dovea assalir S. Germano, raccolsero altro buon numero di soldati da Capua, e dalle circonvicine castella per opporsegli; siccome uniti coll'Abate Roffredo, alla difesa di quella Terra furon tutti rivolti. Ma venuto non guari da poi Diopoldo con buon numero di Tedeschi in ajuto di Marcovaldo occupando il monte, che sovrasta alla città, obbligò i difensori ad abbandonar la difesa, ed a ritirarsi dentro il monastero di Monte Cassino; per la qual cosa Marcovaldo entrato nell'abbandonata città, incrudelì fieramente cogli abitatori, e bruciando la terra, e con varj tormenti barbaramente affliggendo gli uomini e le donne, scorse poi per gli altri luoghi di S. Benedetto, e quegli aspramente danneggiati, cinse d'assedio l'istesso monastero di Monte Cassino, ed il vallo, ove s'era fortificato Landone con gli abitatori, tentando a forza di prendergli con assalir le mura e lo trincee; ma invano, perchè fu più volte dall'uno, e dall'altro luogo con molto suo danno valorosamente ributtato da' difensori.

Narra nella sua Cronaca Riccardo da S. Germano[205] autor di veduta, che cangiatosi nel dì di S. Mauro l'aere di chiarissimo ch'era, in torbido e tempestoso, venne in un subito così gran tempesta di pioggia mista di gragnuola e folgori e tuoni spaventevoli, accompagnata da impetuoso vento, che inondando sopra i Tedeschi attendati fra quelle rupi alpestri del monte, e gittando a terra, e rompendo i lor padiglioni, gli costrinse a torsi via frettolosamente dall'assedio; ma Marcovaldo niente perciò deponendo del suo furore, nel discender giù del monte bruciò il Castel di Plumbarola e di S. Elia, e ritornando a S. Germano, vi fè abbatter le mura, le porte, e' migliori casamenti, ch'erano rimasi in piedi, con usar strage grandissima in tutti que' contorni, permettendo a' Tedeschi il sacco anche nelle chiese senza niuna riverenza, e timor di Dio e de' Santi, a cui eran dedicate.

Queste calamità afflissero sì fattamente il Pontefice Innocenzio, che per darvi alcun rimedio, scomunicò prima solennemente Marcovaldo con tutti i suoi seguaci[206], e scrisse poi agli Arcivescovi di Reggio, Capua, Montereale e Troja, che ragunassero esercito bastante per opporsi a Marcovaldo, ed impedire i mali, che commetteva, descrivendogli in queste sue lettere minutamente. E lo stesso scrisse al Clero, Baroni, Giudici, Cavalieri, ed al Popolo di Capua, dicendo loro di più, che avea inviati suoi Legati con molta moneta a Pietro Conte di Celano, del lignaggio dei Conti di Marsi, a Riccardo Conte di Teano, e ad altri Baroni regnicoli, ch'assembrasser soldati per tal cagione; e che se d'uopo ne fosse stato, avrebbe bandita la Crociata contro di lui, acciocchè tutti coloro, che gli prendean l'armi contro, avessero il general perdono de' lor peccati, come se gissero oltre mare a guerreggiare con Turchi; e lo stesso scrisse a' Vescovi, Abati e Priori di Calabria; ordinando ancora, che ciascheduna domenica ed altri giorni festivi, si maledicessero pubblicamente Marcovaldo, e i suoi seguaci e parimente a' Vescovi, e ad altri Prelati di Sicilia, ed a tutti gli altri Baroni, Conti e Popoli d'amendue i Reami.

Ma non finivano per questo i soldati di Marcovaldo di far continui danni a' luoghi di Monte Cassino, e di porre a saccomanno le chiese, e rubare gli ornamenti degli altari: il perchè l'Abate Roffredo, non parendogli dover più soffrire tante calamità, avendogli offerto una buona somma di moneta, alla fine concordossi con lui, il quale ricevuto denaro uscì dalle sue Terre senza dargli più noja, e n'andò a guerreggiare altrove.

Nell'istesso tempo Riccardo dell'Aquila Conte di Fondi, veggendo di non poter in altra guisa difendere il suo Stato, si concordò co' Tedeschi, non ostante quello, che gli avea in contrario di ciò scritto Innocenzio, dando per moglie una sua figliuola al fratello del Conte Diopoldo nomato Sigisfredo, a cui avea commesso Marcovaldo la guardia di Pontecorvo, S. Angelo e Castelnuovo, luoghi importanti a' confini del Reame. Ma non guari passò, che Diopoldo, mentre discorrea per lo Reame procacciando di accrescer partigiani a Marcovaldo con minor cura della sua persona, che conveniva, fu fatto prigione da Guglielmo S. Severino Conte di Caserta, il quale, così avendogliene scritto Innocenzio, non volle mentre visse, rimetterlo mai in libertà. Nondimeno venuto egli tra poco a morte, il di lui figliuolo nomato anch'esso Guglielmo, concordatosi co' suoi il trasse di prigione prendendo una sua figliuola per moglie: la qual cosa recò gravissimo danno agli affari del Regno per le malvagità, che poscia Diopoldo per lungo tempo commise.

Avea intanto Marcovaldo (secondo che si legge in una Cronaca d'incerto Autore, che si conserva nella libreria del Duomo della città di Fois in Francia, ridotta in istampa, ed unita col registro dell'Epistole d'Innocenzio) tentato di concordarsi col Papa per opera di Corrado Arcivescovo di Magonza, il quale nel ritorno di Terra Santa era capitato in Puglia, promettendo, pur che non l'avesse molestato nella conquista, ch'egli intendeva fare del Regno, ventimila once d'oro, col dovuto giuramento di fedeltà solito a farsi da' Re di Sicilia a' romani Pontefici, significandogli ancora, che non dovea essergli d'impedimento a far ciò l'aver preso sotto la sua protezione Federico; perciocchè gli avrebbe fatto veramente toccar con mani, che quel fanciullo era stato supposto, nè era altramente nato di Costanza e di Errico.

Ma l'accorto Pontefice conoscendo l'ingordigia di regnare, e la malvagità di Marcovaldo, non diede fede alcuna alle sue menzogne; il perchè Marcovaldo senza far più menzione di tal fatto, tentò con altri mezzi pacificarsi con Innocenzio, e d'esser assoluto dalla scomunica. Il Pontefice gl'inviò Ottaviano Cardinal d'Ostia, Guidone di Papa Romano Cardinal di S. Maria in Trastevere, ed Ugolino de' Conti suo Nipote Cardinal di S. Eustachio; acciocchè comandandogli prima in suo nome di ubbidire a tutto quel ch'egli avesse ordinato intorno a' capi, per i quali era stato scomunicato, e fattogli di ciò prestare il dovuto giuramento, l'avesse poscia assoluto dalle censure, ricevendolo in grazia di S. Chiesa; ma quel Tedesco, che avea altro in pensiero, tentò in varie guise di distorre con prieghi e con minaccie i Cardinali di ordinargli tal cosa, adoperandovi per mezzo Lione di Montelongo consobrino del Cardinal d'Ostia, ma invano; perciocchè il Cardinal Ugolino, pubblicamente gli comandò in nome del Pontefice, ch'egli più non molestasse i Regnicoli, nè tentasse intrigarsi nel lor governo, come Balio di Federico: che restituisse tutti i luoghi occupati in Puglia ed in Sicilia, e ricompensasse i danni avvenuti per opra di lui alla Chiesa romana ed all'Abate di Monte Cassino; e che più non travagliasse i Prelati, e l'altre persone ecclesiastiche. Alle quali cose rispose, che non potea far per allora sì fatto giuramento, ma che avrebbe di presenza nelle mani del Pontefice in Roma giurato di osservare il tutto; ed accomiatati onorevolmente i Cardinali, ritornò alle cattività primiere, procacciando per suoi Messi dare a divedere a' Regnicoli, ch'era convenuto col Pontefice, e ch'egli l'avea confermato per Balio del Regno.

Ma pervenuta ad Innocenzio tal novella, chiarì tosto per sue particolari lettere esser ciò bugia, e ritrovamenti di Marcovaldo; laonde veggendo essergli chiusa in Puglia ogni strada di recare il suo proponimento ad effetto, conchiuse di passare in Sicilia, ove giudicava poter più agevolmente, e con minor contrasto adoperare le sue malvagità. Ma prima di ciò fare, assediò Avellino, la qual città non potendo egli prender così presto per la valorosa difesa de' cittadini, pago della molta moneta, che gli diedero per uscir di tal molestia, si tolse via dall'assedio. Prese poscia a forza Vallata, e la diede a sacco a' soldati, e procedendo a far danni maggiori gli venne incontro Pietro Conte di Celano con buon numero di soldati da lui raccolto nel Contado di Marsi, co' quali non volendo Marcovaldo venire a battaglia, tornò nel Contado di Molise, ove per non poter difendere la città d'Isernia, che allora avea in suo potere, tolse tutti i lor beni a' cittadini, e passato sopra Teano per esercitar le sue forze contro quella città, ne fu ributtato. Alla fine per mantener in fede i suoi partigiani in Terra di Lavoro, ed in altri luoghi di Puglia, lasciato Diopoldo, Ottone e Sigisfredo suoi fratelli, Corrado di Marlei Signore di Sorella, Ottone di Laviano, e Federico di Malento, con buona mano di soldati tedeschi, passò a Salerno, che seguiva la sua parte, e quivi imbarcatosi su l'armata apprestata per tal effetto, navigò felicemente in Sicilia.

Significata intanto a' Governadori del Regno di Sicilia la navigazion di Marcovaldo, per reiterati Messi, chiesero soccorso di soldati al Pontefice, e persona di stima per potersegli opporre, il quale spedì a quella volta Cintio Cincio romano Cardinal di S. Lorenzo in Lucina, e Giacopo Consiliario suo consobrino e Maresciallo con 400 cavalli assoldati a sue spese, e con essi Anselmo Arcivescovo di Napoli, ed Angelo Arcivescovo di Taranto, uomini di molto avvedimento, acciocchè si valessero del lor consiglio. Costoro passati in Calabria ne scacciarono Federico tedesco, che quella provincia aspramente travagliava, e poi valicato il Faro ne girono a Messina città fedelissima a Federico, e che in que' tumulti di Marcovaldo seguitò sempre costantemente il suo nome.

CAPITOLO I. Spedizione di Gualtieri Conte di Brena sopra il Reame di Sicilia per le pretensioni di sua moglie Albinia.

Ma non perchè Marcovaldo sgombrasse di questo nostro Reame, fu questo libero da altre calamità: surse nuovo pretendente, che con forze di genti straniere tentò parimente d'acquistarlo. Fu questi Gualtieri Conte di Brenna franzese, le cui pretensioni avean questo fondamento. La Regina Sibilia, che come si disse, per opra del Pontefice Innocenzio fu da Filippo di Svevia liberata dalla prigionia d'Alemagna, era passata con Albinia e Mandonia sue figliuole in Francia; ed ivi avea maritata Albinia sua primogenita con Gualtieri nato di chiaro e nobilissimo sangue, e di alto valore ed avvedimento. Questi verso la fine di quest'anno 1199 con la moglie già gravida e con la suocera se ne venne in Roma a piè d'Innocenzio, chiedendogli, che gli facesse ragione di quel che apparteneva ad Albinia nel Reame. Esagerò, esser noto a ciascuno, che l'Imperador Errico avea dato a Guglielmo, in vece della Corona di Sicilia e di Puglia, che rinunciato gli avea, il Contado di Lecce, ed il Principato di Taranto, i quali poscia glie li avea tolti senza cagione alcuna. Pose tal richiesta in gran dubbio e pensiere il Pontefice, il quale giudicò esser di gran pericolo il far entrare nel Reame il Conte, temendo, non l'ingiurie fatte alla suocera ed al cognato del morto Imperadore, volesse allora che agio glie ne dava la tenera età di Federico, nel figliuolo vindicare con porre sossopra il Regno; ed all'incontro parevagli, che se del tutto avesse chiusi gli orecchi alla dimanda, sdegnato il Conte, si sarebbe agevolmente congiunto co' nemici del Re, e gli avrebbe mossa aspra e crudel guerra: il perchè giudicò convenevole di fargli dare il Contado di Lecce e 'l Principato di Taranto, ricevendo in prima da lui in pubblico Concistoro giuramento di non molestare in altra cosa il Reame, nè dar noia alcuna a Federico; ma prima che tal cosa ponesse ad effetto, volle significarlo a' Governadori di Sicilia, che reggevano la tenera età del Re, e loro scrisse perciò quella lettera, che si legge nel registro delle sue epistole, ed è quella appunto, che comincia: Nuper dilectus filius noster nobilis vir, etc.

Ma pervenuta cotal lettera alle mani di Gualtieri Arcivescovo di Palermo gli apportò gravissima noia, temendo del Conte più esso, che il Re Federico; perciocch'essendo stato egli con tutti i suoi congiunti aspro nemico di Tancredi e gran partigiano d'Errico nella conquista del Regno, giudicava, che se il Conte fosse entrato in esso, avrebbe procacciato aspramente contro di lui vendicarsi dell'antica offesa; perlaqualcosa biasimando apertamente il Pontefice, che da Balio e Tutore del Regno qual era, attentava di disponere de' Contadi e Principati di quello, come se ne fosse egli il Signore, a suo talento ed arbitrio, con gravissimo danno e diminuzione della Corona, avendo convocato il Popolo di Messina, cominciò con ogni suo potere a contraddire a tal fatto, biasimando Innocenzio, e concitando i Siciliani ad opporsi con tutte le lor forze a quest'attentati. La qual cosa risaputa dal Conte, e veggendo non poter far nulla col solo favore del Pontefice, ma esser mestieri di adoperar le armi, lasciata la suocera e la moglie in Roma, ritornò in Francia a raccor soldati per assalire il Reame.

Intanto Marcovaldo, che passato in Sicilia avea tirati prestamente dalla sua parte i Saraceni dell'isola, avea occupato col loro aiuto molte città e castella della medesima, e giunto a Palermo, quello strettamente assediò per ventidue giorni continui, onde convenne al Cardinal Legato, ed all'Arcivescovo Gualtieri, che dimorava a Messina, co' soldati già ragunati affrettarsi al soccorso di quella città, ed ivi giunti si attendarono nel giardino costrutto con molta magnificenza dal Re Guglielmo I, con pensiero di venire nel seguente giorno a battaglia con Marcovaldo, il quale conosciuto il loro intendimento, avvisò di disfargli con tenergli a bada senza arrischiarsi a combattere; e conoscendo patire i soldati papali mancamento di moneta e di vettovaglia, inviò Ranieri Manente a trattar di pace con molte parole a ciò convenevoli. Ma i soldati avvedutisi del suo ingannevol pensiero concordemente ributtarono il Messo. Pure ciò non ostante i famigliari del Re davano orecchie alle dimande di lui, ed inchinavano a concordarsi seco; ma Bartolommeo famigliare del Pontefice uomo accorto e zelante dell'onor del suo Signore, volendo sturbare così dannoso accordo, fattosi in mezzo a quella adunanza, presentò lettere del Papa, per le quali espressamente vietava e proibiva il far convenzione, e pace alcuna con Marcovaldo.

Laonde Gualtieri, l'Arcivescovo di Messina, Caro Arcivescovo di Monreale e l'Arcivescovo di Ceffalù, che con Ranieri Manente stavan per conchiuder la pace, quando udirono il voler del Pontefice, videro che i soldati dell'esercito, ed il Popolo palermitano non volevan la pace in guisa alcuna, anzi stavan per far tumulto e rivoltura contro di loro, posto da parte ogni trattato d'accordo, diedero libertà di venir a battaglia co' Tedeschi. Azzuffati adunque fra Palermo e Monreale ch'era stato già preso da Marcovaldo, e di soldati munito, si combattè con incredibil ferocia dalla terza insino alla nona ora del giorno: ma alla fine con morirvene grosso numero d'ambedue le parti, vinsero i soldati del Pontefice per lo valor particolarmente di Giacomo Maresciallo, il quale con avere rimessa due volte in piedi la battaglia, e ributtati gli Alemani ed i Saraceni, che avean poste in volta le prime squadre del suo esercito, adoperandosi non meno da valoroso soldato, che da avveduto Capitano, fu principal cagione della vittoria. Perirono grosso numero di soldati e de' più stimati del suo esercito, e fra essi il sopraddetto Ranieri Manente: presero ancora i nemici alloggiamenti, e vi fecero ricca e copiosa preda, indi assalirono Monreale e l'espugnarono in un subito, uccidendo la maggior parte de' difensori; e Marcovaldo, perduto ogni suo avere, fuggì in guisa tale, che per alcun tempo non s'udì novella alcuna de' suoi. Allora fu, che fra gli arredi suoi, si trovò il testamento dall'Imperador Errico bollato con Bolla d'oro, parte del quale vien trascritto dal Baronio nei suoi Annali. Significò tutto questo avvenimento al Pontefice per una sua particolar lettera Anselmo Arcivescovo di Napoli, che dimorava come abbiam detto nell'esercito; e volendo i famigliari del palagio reale, la cui dignità era in fatti l'esser Governadori del Regno e della persona del Re, rimunerare il valor di Giacomo Maresciallo, gli concedettero in nome di Federico il Contado d'Andria, il qual poi fu lungamente da lui posseduto: così costoro come Governadori del Reame credeano esser della loro autorità il poter investire, siccome dall'altra parte non trascurò far Innocenzio, del quale come Balio si leggono ancora alcune investiture, come del Contado di Sora in persona di suo fratello e di alcun'altre, delle quali non ci mancherà occasione di favellare in più opportuno luogo.

Ma i soldati papali cominciavano tra per lo calore della state, e per gli disagi della guerra ad infermare e morire in gran numero, onde convenne al Conte Giacomo di colà partirsi e ritornare in Puglia. Dopo la qual cosa essendo morto l'Arcivescovo di Palermo, Gualtieri della Pagliara Cancellier di Sicilia e Vescovo di Troja si adoperò di maniera, che si fece da' Canonici di quella città crear Arcivescovo (non facendosi a questi tempi difficoltà d'unire due Cattedre in una medesima persona) ed ammettere dal Cardinal Legato con tale elezione, prendendone l'insegne ed il possesso prima di riceverne il pallio e la confermazion del Pontefice; dal quale fu per tal atto acerbamente ripreso il Legato[207], onde sdegnato perciò maggiormente Gualtieri scrisse, e parlò più liberamente contro di lui nell'affare di Gualtieri Conte di Brenna, secondo che appresso diremo.

Avea in questo mentre, essendo già entrato il nuovo anno di Cristo 1200, Diopoldo commesse infinite malvagità nel Reame; perciocchè quantunque collegatosi con l'Abate Roffredo gli avesse promesso in Venafro con giuramento sopra i Santi Vangeli di non molestar niuno degli abitatori delle terre della Badia: nondimeno una notte assalì improviso que' di S. Germano, e presa la Terra senz'alcun contrasto, la pose a sacco ed a ruina, e l'Abate Roffredo e Gregorio suo fratello, che colà dimoravano fuggirono in Atino, donde passati poscia nel Contado de' Marsi chiesero soccorso a Pietro Conte di Celano, che loro il negò; ma Sinibaldo e Rinaldo ch'eran del medesimo legnaggio de' Conti de' Marsi, che ora si dice di Sangro, loro inviarono tutto il vasellamento d'argento e danaro, che in pronto aveano; co' quali assoldò l'Abate alcuni soldati, e se n'entrò chetamente con essi di notte tempo in Monte Cassino. Del cui arrivo avuta contezza Diopoldo, temendo non avesse condotto maggior numero di persone, prestamente si partì via, lasciando affatto voto di Popolo S. Germano, nella qual città rientrato l'Abate, la fornì di nuove mura e di torri. E Diopoldo, non guari da poi che partì venne a battaglia presso Venafro col Conte di Celano, e 'l ruppe e fugò, facendo prigioniero Berardo suo figliuolo, che con gli altri prigionieri di S. Germano nella Rocca d'Arce rinchiuse.

Venuto poscia l'anno di Cristo 1201 Gualtieri Conte di Brenna, che era ito in Francia a raccor soldati, ritornò in Roma, conducendone seco picciol numero, ma di provato valore; co' quali volendo entrar nel Reame, fu da molti giudicato matto e arrogante, perchè con sì picciola compagnia volesse porsi a così grande impresa. Ed il Conte Diopoldo avuta contezza del suo venire, convocò numeroso esercito di Tedeschi e di altri suoi partigiani per farsegli all'incontro, e scacciarlo dal Regno. Il Pontefice temendo non mal capitasse Gualtieri, con accrescersi ardimento a' Tedeschi, diede al medesimo cinquecento oncie d'oro, perchè potesse ragunar più soldati[208], e parimente scrisse molte sue lettere dirette a' Conti, Baroni e Popoli del Reame, acciocchè il ricevessero nelle lor città e castella, e 'l favoreggiassero contro Diopoldo. Con tali aiuti il Conte menando seco Albinia sua moglie entrò valorosamente in Terra di Lavoro, e congiuntosi con l'Abate Roffredo, che con buon numero di gente venne in suo aiuto, assediò Teano, e prestamente il prese; ed indi per lo favor di Riccardo Arcivescovo di Capua, ch'era figliuol di Pietro Conte di Celano, ebbe anche il castello della città di Capua; presso del qual dimorando, gli venne all'incontro Diopoldo con numeroso esercito, e venuti a battaglia, divisando Diopoldo di porlo subito in rotta per esser assai più potente di lui, gli avvenne tutto il contrario; perciocchè combattendo Gualtieri ed i suoi soldati con insolita fortezza, urtarono sì fattamente ne' Tedeschi, che con farne grandissima strage gli posero in rotta ed in fuga, e saccheggiarono dopo la vittoria le lor ricche tende, insieme co' Capuani, che uscirono anch'essi a partecipar della preda. Unitosi poscia con Gualtieri il Conte di Celano, girono con l'Abate e con l'Arcivescovo Riccardo ad assediar Venafro, che subito presero ed abbruciarono; e fatti altri maggiori progressi, si vide Gualtieri in brevissimo tempo aver presa la maggior parte de' luoghi del Contado di Molise, e l'Abate Roffredo ricuperò anch'egli dalle mani di Diopoldo, Pontecorvo, Castelnuovo e Frattura, luoghi della sua Badia.

Intimoriti perciò i Tedeschi, si racchiusero nella lor Fortezza; onde entrato il nuovo anno 1202 girono il Conte Gualtieri, il Conte di Celano e l'Abate Roffredo, che insieme col Cardinal Galloccia facea l'uffizio di Legato in Puglia, a conquistar il Principato di Taranto e 'l Contado di Lecce; i quali Stati insieme con Brindisi ed altri luoghi di quel Principato tosto loro si resero, e lo stesso fecero di là a poco Lecce col suo castello, Melfi e Montepiloso: assediando Monopoli e Taranto, che non s'eran voluti rendere.

Ma questi progressi del Conte di Brenna, che faceva in Puglia, non eran ben appresi da' Siciliani, e particolarmente da Gualtieri della Pagliara Arcivescovo di Palermo, il quale s'avea usurpata tutta l'autorità del Governo in quell'isola, e facendosi partigiani gli altri familiari del Re, dava a' medesimi a suo piacere i Contadi, le Baronie, i Governi delle città e delle province, e gli altri Magistrati e dignità per afforzar meglio il suo partito. Disponeva altresì come meglio a lui parea de' tesori e delle rendite reali, non ostante l'ordine del Pontefice, che non voleva, che si facesse cosa veruna senza il voler di tutti, con riservare anche in alcuni più importanti affari il suo consentimento; e per poter egli più agevolmente recare ogni suo intendimento a effetto, fece venire in Sicilia suo fratello Gentile della Pagliara Conte di Manopello, alla grandezza del quale continuamente badava, avendo in pensiero, secondo che scrive la Cronaca di Fois, di farlo, tolto dal Mondo il fanciullo Federico, crear Re di Sicilia, e lo stesso, scrive, che rimproverò Marcovaldo, quando divenuti fra di loro aspri nemici s'infamarono l'un l'altro di cotal malvagità.

Fu Gentile tosto creato famigliar regio, il quale cominciò a trattar di concordia con Marcovaldo, ancorchè scomunicato, e nemico del Pontefice, come in effetto si fece, costituendolo sopra tutti i famigliari, e dividendosi i Governi del Reame, acciocchè l'uno regnasse in Sicilia e l'altro in Puglia. Strinsero l'amicizia col parentado, dando Marcovaldo al figliuolo del Conte Gentile una sua nipote; ed ordinò Gualtieri a tutti i Popoli soggetti in nome del Re fanciullo, che ciò ch'esso avea stabilito dovessero compiutamente ubbidire; ed egli lasciata sotto la cura di suo fratello in Palermo la persona di Federico, e 'l palagio reale, se ne passò in Calabria ed in Puglia, ove con incredibile rapacità tolse tutti i sacri vasi ed i preziosi arredi delle chiese, e taglieggiò i particolari uomini, ed i Comuni delle città e castella, logorando poi inutilmente la rapita moneta, come colui che di pari avido in raccorla, era prodigo in donarla e buttar via. Declamava ancora contro il Pontefice, che diceva, di Balio esser divenuto crudel nemico del Re e del Regno, per aver dato aiuto al Conte Gualtieri, che ostilmente travagliava la Puglia per torla al Re fanciullo, e che in vece di fargli ostacolo gli avea somministrata gente e denaro. E proccurando con tutti i suoi sforzi far lega e compagnia con diversi Baroni del Reame, s'accingeva di mover guerra a Gualtieri ed al Pontefice, per discacciar l'uno dalla Puglia, e l'altro perchè non avesse parte alcuna nel Governo di questi Reami.

Il Pontefice Innocenzio, a cui erano state significate le opere di costui, non tralasciò tosto provedervi di rimedio, poichè fattolo ammonire più volte, che si astenesse da tali imprese, nè volendolo ubbidire, finalmente lo scomunicò, privandolo dell'Arcivescovado di Palermo, del Vescovado di Troja e dell'Ufficio di Cancellier di Sicilia, e creò altri Prelati in suo luogo nelle Chiese, che tolte gli avea, ordinando a tutti i Siciliani e Regnicoli, che non ubbidissero sotto pena di scomunica in niuna guisa i suoi ordini. Percossero questi fulmini in maniera l'Arcivescovo, che perdendo in un subito ogni autorità presso i suoi sudditi, i quali, e perchè comunalmente l'odiavano, e per le censure lanciate non volendo più ubbidirlo, ne divenne in breve la favola di tutti. Il perchè vedendo ciò gli altri famigliari, ch'eran suoi partigiani, cominciarono a temere grandemente di lor medesimi: onde scrissero umilmente in nome del Re al Pontefice, pregandolo per Gualtieri, ed escusandosi essi; a cui Innocenzio rispose con quella lettera, che tolta, dalla Cronaca di sopra allegata, si legge nel registro delle sue epistole[209], la quale merita, che altri la leggano per favellar particolarmente dell'entrata nel Regno del Conte Gualtieri, la quale è stata assai confusamente scritta da coloro, che han trattato delle nostre memorie.

Intimidito per tanto Gualtieri, cercò di concordarsi col Pontefice, e venendo in Puglia a' piedi del Cardinal Legato giurò d'ubbidirgli in tutto quello, che gli avesse comandato; ma come il Legato gli ordinò, che non si fosse opposto al Conte di Brenna nell'acquisto del Principato di Taranto, e del Contado di Lecce, arditamente gli rispose, che se Pietro Appostolo inviato da Cristo fosse venuto a comandargli tal cosa, non gli avrebbe nè anche ubbidito ancorchè fosse stato certo d'avere ad esserne condannato alle pene infernali; e bestemmiando e maledicendo il Pontefice in presenza del Legato, tutto sdegnato da lui si partì, e se ne andò a congiungersi col Conte Diopoldo[210].

Era Diopoldo in questo mentre passato in Puglia insieme col Conte di Manieri suo fratello, e col Conte di Laviano, ed avea ragunato grosso esercito per discacciar il Conte Gualtieri da' luoghi, che vi avea occupati, animando tutti gli altri Baroni a quest'impresa contro Gualtieri, che come nemico del Re, veniva, com'ei diceva, per torgli il Regno. Ma venuto di nuovo con lui a battaglia nel sesto giorno d'ottobre nel famoso luogo di Canne, ove Annibale cartaginese diede la memorabil rotta a Flaminio e M. Varrone Consoli romani, con tutto che il Conte per essere stato colto improviso avesse assai minor numero di soldati, che Diopoldo, ciò non ostante, si portò co' suoi soldati sì valorosamente, che gli pose in rotta, con ucciderne, e far prigionieri la maggior parte, fra' quali furono Sigisfredo fratello del Conte Diopoldo, ed il Conte Ottone di Laviano, salvandosi a gran fatica Riccardo col Conte di Manieri nella città di Salpe, e Diopoldo nella Rocca di S. Agata[211].

Intanto il Conte Gentile, che dicemmo esser rimaso in Palermo alla cura di Federico, corrotto da molta moneta pose in poter di Marcovaldo non sol la città di Palermo, ma tutta l'isola di Sicilia, fuor che Messina; il quale avrebbe agevolmente fatto morire il Re, ed usurpatane la regal Corona, se non avesse temuto del Conte di Brenna, il quale per ragion di sua moglie, se moriva quel fanciullo, avrebbe preteso, che a lui per ragione perveniva il Reame. Soprastette adunque a ciò fare, attendendo tempo più opportuno per porre il suo cattivo intendimento ad effetto; procacciando intanto per mezzo di molta moneta, non ostante la repulsa, che un'altra volta ne avea avuta, di distorre Innocenzio dal favoreggiar Federico, e di far ritornar in Francia senza tentar altro il Conte Gualtieri. Ma ecco, che furono dissipati i suoi disegni da colei, che tutte l'umane speranze confonde ed abbatte; perciocchè non guari da poi, patendo egli di difficoltà d'orinare, cagionatagli da una pietra, che se gli era generata nelle reni, gli sopraggiunsero così acerbi dolori, che non potendogli soffrire si fece tagliar da basso per cavarnela, secondo che comunalmente si usa, ma non riuscito il taglio si morì subito scomunicato verso la fine di quest'anno 1202, terminando con la vita la sua vasta ambizione ed avidità di regnare. L'Autor delle gesta d'Innocenzio, lo fa pure morir di taglio; ma Riccardo di S. Germano[212] lo fa morire di dissenteria.

In Puglia il Conte Diopoldo non si rimanendo di usare le solite malvagità, venuto l'anno di Cristo 1203 fu per opra de' partigiani del Conte Gualtieri posto in prigione dallo stesso Castellano della Rocca di S. Agata, in cui s'era salvato; nulladimeno poco giovò a Gualtieri tal prigionia, poichè il Castellano medesimo, poco stante, corrotto da lui con premj e promesse il ripose di nuovo in libertà.

Intanto in Sicilia la morte di Marcovaldo cagionò nuove rivolture; poichè Guglielmo Capparone, anche egli Capitano tedesco, saputa la di lui morte, incontinente andò a Palermo, ed occupò il palagio reale colla persona del Re, e cominciò a intitolarsi Custode del Re, e Governadore di Sicilia: la qual cosa dispiacendo a' seguaci del morto Marcovaldo, negarono di ubbidirgli, e formarono un altro partito, con grave danno degli affari dell'isola.

Gualtieri della Pagliara, giudicando esser questo il tempo opportuno di rimettersi in istato, scrisse al Pontefice con chiedergli l'assoluzione della scomunica, perch'egli l'avrebbe ubbidito in tutto quel che gli avesse comandato, e che in queste rivolture avrebbe impiegato tutti i suoi talenti per servigio della S. Sede: Innocenzio non differì di accordargliela, onde passato in Sicilia, e ripreso l'Ufficio di Gran Cancelliero, che niuno gliel vietò, scrisse sue lettere ad Innocenzio, nelle quali mostrando di procacciar solo l'utile di Federico, chiedea che inviasse colà per lo ben di quel fanciullo un Cardinal Legato, che ponesse fine all'autorità di tanti Tiranni, e governasse egli solo il tutto[213]. Alla qual cosa acconsentendo il Pontefice vi inviò prestamente Gerardo Allucingolo da Lucca Cardinal di S. Adriano uomo di gran stima, e nipote del Pontefice, in mano di cui avendo giurato in Messina Guglielmo Capparone di riconoscer per Balio del Reame Innocenzio, e lui per suo Legato, e che l'avrebbe ubbidito in ciò che gli comandasse, fu assoluto dalla scomunica, nella quale come partigiano di Marcovaldo era insieme con lui incorso.

Andò poi il Legato a Palermo, ove poco prima era andato anche Guglielmo, e cominciando a trattare insieme i negozj del Regno, vennero tosto in aperte discordie, perchè Guglielmo deludendo il Legato, non faceva nulla di quanto questi gli dicea, onde il Legato stimando, che non era convenevole star in Palermo sprezzato in cotal guisa, significato il tutto al Pontefice, se ne ritornò a Messina.

Era in questo mentre il Cancellier Gualtieri andato in Puglia, e mandate sue lettere e messi al Pontefice con mezzi di persone potenti e grandi che vi adoperò, tentò ogni possibil modo di esser restituito all'Arcivescovado di Palermo, o almeno al Vescovado di Troja; ma Innocenzio fu sempre a ciò costante di non voler togliere l'Arcivescovado di Palermo a Parisio Vescovo di Messapa, nè quel di Troja ad un altro Prelato, a cui dati gli avea.

Dall'altra parte in Puglia Diopoldo teneva in terror quelle province, onde il Papa inviò in ajuto al Conte Gualtieri Giacomo Conte d'Andria suo Maresciallo, che lo creò ancora Maestro Giustiziero di Puglia, e di Terra di Lavoro; e nell'anno seguente 1204 collegatisi insieme i Conti Gualtieri di Brenna, il Conte Giacomo S. Severino di Tricarico, ed il Conte Ruggiero di Chieti, dopo altre minori imprese, posero l'assedio a Terracina di Salerno, del qual luogo a' nostri tempi non appare vestigio alcuno, e prestamente la presero[214]; ma sopraggiunto immantenente Diopoldo, con l'ajuto de' Salernitani suoi partigiani, e coll'esercito che seco menò, vi assediò dentro il Conte Gualtieri, e sì fattamente con varj assalti il travagliò, che restò ferito Gualtieri con un colpo di saetta in un occhio, in guisa tale che ne perdette la vista di esso: ma venuti in suo soccorso i sopraddetti Conti di Tricarico, e di Chieti, fu Diopoldo vergognosamente scacciato dall'assedio, e da tutto il territorio di Salerno, restando egli assediato in Sarno dal Conte Gualtieri.

Ma mentre essendo già entrato il nuovo anno 1205 il Conte di Brenna mal si guardava da' pericoli della guerra, esponendo men cautamente la sua persona, ed il suo esercito, avvenne che avvertito Diopoldo di tal trascuraggine e baldanza, uscì di buon mattino improvviso con suoi soldati sopra l'esercito nemico, nè trovando in esso quella vigilanza, che conveniva, l'assalì e ruppe in un subito[215], con ucciderne grosso numero, e fatto prigione il Conte in più parti ferito da lance e da saette, mentre ignudo con la spada in mano valorosamente si difendeva, il condusse dentro di Sarno, ove non guari da poi per le ricevute ferite, di questa vita trapassò; come narrano Riccardo da S. Germano, e l'Autore della Cronica di Fois, amendue Autori di que' tempi[216].

L'infelice Albinia vedutasi, morto suo marito, sola e rimasa di lui gravida, si maritò prestamente col soprannomato Giacomo Sanseverino Conte di Tricarico, il quale soprastette a congiungersi con lei sin che partorì un figliuolo maschio, che in memoria del padre fu nomato parimente Gualtieri, e fu poscia Conte di Lecce; dalla cui progenie derivò la Regina Maria d'Engenio, e Brenna moglie del Re Ladislao II che appresso diremo.

La morte di Gualtieri Conte di Brenna sollevò in maniera il partito di Diopoldo, e de' suoi Capitani tedeschi, e pose in tanta costernazione il Conte Pietro di Celano, ed i suoi partigiani, che finalmente fu duopo ad Innocenzio istesso di pacificarsi con Diopoldo, e co' suoi partigiani tedeschi, e commetter ad essi la custodia del Regno; per la qual cosa nel seguente anno 1206 ricevette in sua grazia Diopoldo co' suoi, ed avendolo fatto giurare in mano d'un Fra Rinieri (secondo che scrive l'Autor della Cronaca di Fois) e di Maestro Filippo Protonotario Appostolico, che convennero per tal affare in Terra di Lavoro, di ubbidir liberamente il Pontefice e i suoi Legati, come a Balio del Regno, fu dalle censure assoluto; e nella stessa maniera giurando Marcovaldo di Laviano e Corrado di Marlei Signori di Sorella con tutti i lor partigiani e vassalli, furono parimente questi ricevuti in grazia del Pontefice, siccome tutti i tedeschi, che dimoravano in Puglia ed in Sicilia. Andò poi Diopoldo in Roma a piè del Pontefice, e fu da lui onorevolmente accolto, e ragionato insieme degli affari del Regno, ritornò con sua licenza a Salerno, ed indi sopra alcuni vascelli, per ciò apprestati, navigò a Palermo[217].

Giunto Diopoldo a Palermo, narra Riccardo da S. Germano, fece sì, che si pose in mano la persona del Re, e la guardia del suo palagio reale: ma ciò non potendo tollerare Gualtieri della Pagliara G. Cancelliero, in un convito, che di notte tempo fece apparecchiare a questo fine, lo fece dalle sue genti imprigionare con un suo figliuolo: ma perchè nol guardavano com'era mestiere, di là a poco, dalla notte favorito, fuggì via, ed imbarcatosi in un vascello ritornò di nuovo in questo seguente anno 1207 in Salerno, e di là passò in Terra di Lavoro, ove combattendo co' Napoletani, fece di essi strage sanguinosissima[218].

§. I. Cuma distrutta, e la sua Chiesa unita a quella di Napoli.

Ma qui non bisogna tralasciare ciò che un antico Scrittor napoletano, e l'Autor dell'Ufficio di S. Giuliana, che scritto da antichissimi tempi in pergameno si conserva nel monastero di Donnaromita, narrano in quest'anno della destruzione di Cuma, e di alcuni combattimenti ch'ebbero i Napoletani co' Tedeschi, ed Aversani con successi particolari, taciuti all'intutto da gravissimi Scrittori, e contemporanei a' fatti che si narrano.

Essi raccontano[219], che in questi tempi essendo la città di Cuma quasi che disfatta, e perduto per la malvagità degli abitatori il nome di città, divenne ricetto di ladroni e di corsari, che per mare, e per terra infestavano i viandanti e le vicine regioni, oltre alle continue scorrerie de' Tedeschi, i quali sovente nella Rocca di quella città ricovrando, tutta Terra di Lavoro, e particolarmente i tenimenti di Napoli, e di Aversa in varie guise aspramente travagliavano: il perchè per ovviare a questi mali, convenuti a parlamento i Cavalieri e popolani di Napoli, conchiusero concordemente, che si dovessero porre diverse squadre di soldati in guardia de' passi, donde per lo più solevano i ladroni tedeschi venire: la qual deliberazione risaputasi da' circonvicini Conti e Baroni, furon da questi i Napoletani grandemente incorati a sì lodevole opera con offerta d'aiutargli con le loro persone e con ogni lor avere. Posto adunque sì buon pensiero ad effetto e distribuite in più luoghi le guardie, stavano attendendo, che i nemici venissero per assalirgli. Or mentre in tale stato eran le cose, Goffredo di Montefuscolo Capitano di sommo valore, ed aspro nemico de' Tedeschi, essendo già il mese di marzo ne andò una sera con alcuni suoi famigliari a Cuma, ove fu dal Vescovo d'Aversa, che allora nel castello albergava, cortesemente accolto. Pose la venuta di Goffredo così di notte tempo in gran sospetto gli Aversani, temendo non gli volesse il Vescovo tradire, ed avesse ricevuto colà entro Goffredo per farlo fortificare a lor danni, com'era altre volte avvenuto. Pure perchè di ciò non poteano aver alcuna certezza, inviarono a Cuma alcuni lor cittadini ad informarsene, e con ogni diligenza, e secretezza a porsi in guardia del castello, acciocchè Goffredo occupar nol potesse. Goffredo intanto veggendo la loro venuta cadde nella stessa sospizione, nella quale erano in prima gli Aversani caduti, dubitando non il Vescovo gli avesse chiamati per farlo prigione; il perchè prendendo anch'esso a guardarsi di loro, si fortificò insieme co' suoi compagni in un particolar casamento. Or mentre gli uni dagli altri, e temevano e si guardavano, sospettando Goffredo non per lo picciol numero de' suoi fosse alla fine sopraffatto dagli Aversani, inviò prestamente in Napoli a chieder soccorso, ed a pregar i Napoletani, che non indugiassero a liberarlo dal pericolo, ed a far del castello quel che fosse lor paruto il meglio. A tal novella messosi a cavallo il Conte Pietro di Lettere, parente di Goffredo, velocemente a Giuliano se ne andò, e tolti seco molti soldati, che ivi eran posti in guardia de' Napoletani contro i Tedeschi, senz'alcuno indugio a Cuma se ne passò; della cui venuta lieto Goffredo gli uscì all'incontro e gli fece giurare, che se il castello si prendesse, avrebbero consignati a lui e mobili e gli uomini, che vi eran dentro; e così convenuti entrarono insieme nella città. Poco stante sopravvennero per l'ambasciata di Goffredo buon numero di Cavalieri e popolari napoletani, ond'egli veggendosi fuor di pericolo, tenuto consiglio con essi Napoletani e col Conte Pietro, fece conchiudere, che prima di partirsi di là avessero in ogni modo il castello nelle mani, e che la città da' fondamenti disfacessero, perchè così si sarebbero per sempre liberati da ogni timore d'essere infestati da' ladroni e da' Tedeschi. Richiesero perciò agli Aversani, ed al lor Vescovo, che fuori ne uscissero; ma gli Aversani ricusando d'uscirne; e fattesi sopra ciò molte parole, veggendo i Napoletani e Goffredo, che non era più da indugiare, accostatisi per mare e per terra, cominciarono a combattere valorosamente le mura, e poco dopo il castello, ed accesovi il fuoco, a gran fatica il Vescovo, e gli Aversani, che vi eran dentro, fuggendo camparono; ed i Napoletani fatta distrugger la città, ed abbatter la Rocca lietamente, e con gran trionfo a Napoli se ne ritornarono; onde Cuma essendo stata interamente distrutta, la sua Chiesa, ch'era prima suffraganea a quella di Napoli, riunì alla medesima con tutte le sue ragioni e beni[220].

Allora fu, come narra il soprannominato Autor dello ufficio di S. Giuliana, che Anselmo Arcivescovo di Napoli, e Lione Vescovo di Cuma, deliberarono, che si trasferissero dalla maggior chiesa della città disfatta i Corpi de' SS. Martiri Massimo, a cui era dedicata la chiesa, e di S. Giuliana, e d'un fanciullo di tre mesi, che si diceva Massimo aver fatto miracolosamente parlare alla presenza di Fabiano Prefetto; acciocchè da altre genti straniere rubati non fossero: spinti ancora da Brienna allora Badessa del monastero di Donnaromita, la quale con tutte le sue Suore ardentissimamente bramava il Corpo di S. Giuliana; il perchè andato a Cuma il detto Lione, Pietro Frezzarnolo Subdiacono del Duomo di Napoli, e gli Abati di S. Pietro ad Ara, e di S. Maria a Cappella, e buon numero di Cavalieri e popolani napoletani, aperte le casse dove le reliquie erano riposte, indi le tolsero, e con gran riverenza ed onore, via seco le portarono alla chiesa di S. Maria a piè di Grotta. Trovarono ivi la Badessa, e molte altre Monache del suddetto monastero di Donnaromita, e con esse buon numero di nobili madrone e donzelle, che l'attendevano, e con grand'allegrezza ricevettero. Dimorate poi là insino il seguente mattino, ritornò il nominato Vescovo Lione con molti Cavalieri del Seggio di Nido, nel cui quartiero è il suddetto monastero, ed altra innumerabil turba di Cavalieri e popolari napoletani con rami d'ulivi in mano, e tolte le reliquie cantando inni e salmi le portarono ad una chiesa che era sopra l'isola di S. Salvatore, ov'è al presente il Castel dell'Uovo. Giunse co' Canonici e con tutto il Clero l'Arcivescovo Anselmo, e nella città processionalmente entrati collocarono in Donnaromita il corpo di S. Giuliana, ed il suo quadro, che di Cuma recato aveano, e le reliquie di S. Massimo e del fanciullo nel Duomo, ove ora ancor si adorano, riposero.

Ecco ciò che scrivono questi Autori; all'incontro non mi par di tacere per la fede dovuta all'istoria, ciò che ritrovo scritto da gravi e veritieri Scrittori. Raccontano adunque Riccardo da S. Germano, e l'Autore della Cronaca, che si conserva in Monte Cassino, che il Conte Diopoldo in quest'istesso anno 1207 che si narrano questi successi, da Salerno venuto in Terra di Lavoro a battaglia co' Napoletani, diede loro una notabil rotta, con farne crudelissima strage[221]; aggiungendovi ancora Riccardo, che sostenne, e menò seco prigioniero nelle sue castella esso Goffredo di Montefuscolo, senza far menzione alcuna della distruzion di Cuma. Puossi nondimeno per concordar queste relazioni dire e credere, che dopo la distruzion di Cuma, la quale avvenne nel mese di marzo, irato Diopoldo, o per tal cagione, o perchè fossero stati i suoi Tedeschi malmenati da' Napoletani, che s'eran posti in guardia contro di loro, ne gisse sopra Napoli, e che uscitigli all'incontro i Napoletani con Goffredo di Montefuscolo fosser stati in battaglia rotti, ed uccisi con rimaner prigione Goffredo secondo che quegli Autori scrivono; ma come ciò avvenuto fosse il rimetto al giudicio di chi legge.

CAPITOLO II. Papa Innocenzio naviga in Sicilia: conchiude le nozze di Federico con Costanza figliuola d' Alfonso II Re d'Aragona; e difende il Regno dall'invasione d' Ottone IV Imperadore.

Intanto in Palermo il Cancellier Gualtieri avea eccitati torbidi gravissimi nel palagio reale, poichè trattando con ogni suo studio, che Guglielmo Capparone gli dasse in balia il palagio e la persona del Re, e non potendo ciò ottenere, pose tutto in rivolta; onde essendo i maggiori Ministri del Regno fra lor divisi con grosso numero di partigiani, porsero occasione ai Saracini dell'isola, che senza niun timore di gastigo prendessero l'armi, e non solo si togliessero dall'obbedienza del Re, ma anche danneggiassero malamente i Cristiani, con prendere a forza il castel di Coriglione, e minacciare di far altri danni più gravi.

Non minori erano i disordini, che cagionava nel Regno di Puglia Corrado di Marlei creato dal morto Imperadore Conte di Sora, il quale infestava non solamente Terra di Lavoro, e gli altri circostanti luoghi, ma anche lo Stato del Pontefice. Di sì miserabile stato d'ambi i Reami a pietà mosso Innocenzio, determinò navigar in Sicilia, come in fatti nel dì 30 del mese di maggio del nuovo anno 1208 arrivò egli in Palermo con molti Cardinali, Arcivescovi ed altri Prelati, e ritrovando già cresciuto, e d'età di 13 anni il Re Federico, il persuase ad accasarsi; e propostagli per isposa Costanza sorella di Pietro Re d'Aragona, nè Federico ripugnando, cominciò a trattar egli con Sancia madre della sposa il parentado: indi partissi da Palermo, ed a' 23 di giugno venne in S. Germano[222].

Quivi giunto, ragunò un'Assemblea di Baroni, giustizieri e Governadori delle città e castella: statuì con loro, che ciascuno badasse a soccorrere il Re Federico, inviando per tal effetto in Sicilia a loro spese 200 cavalli, i quali dovessero dimorar colà per un anno intero. Creò altresì maestri Giustizieri e Capitani nel nostro Regno Pietro Conte di Celano, e Riccardo dell'Aquila Conte di Fondi, commettendo al Conte di Celano la Puglia e Terra di Lavoro, ed al Conte di Fondi la città di Napoli, e l'altre parti di esso. Diede in oltre assetto agli affari della Giustizia, che per le continue guerre, e per la baldanza de' Tedeschi poco era conosciuta, con dar altri provvedimenti per lo suo buon governo, come raccontano Riccardo da S. Germano, e la Cronaca di Fois. Comandò, che tutti dovessero osservar fra di loro pace, e se alcuno sarà offeso, che ricorresse a' soprannominati Conti ad esporre le loro querele: impose gravi pene, e dichiarò che fosse tenuto per pubblico inimico colui, che avesse ardire di opporsi a quel che avea ordinato, e di turbar la quiete del Regno[223].

E terminata l'Assemblea, non contento di quanto in essa avea stabilito, scrisse parimente sopra di ciò a tutti i Conti, Baroni e Popoli di esso Reame, che non eran venuti al parlamento, esortandogli ad osservar quel che avea statuito, ed ubbidire a tutto quel, che loro avrebbe in suo nome imposto Gregorio Crescenzio romano Cardinal di S. Teodoro suo Legato in campagna di Roma, e Riccardo suo consobrino (al quale in guiderdone d'aver disfatto, e preso Corrado di Marlei, avea investito in quest'istesso anno 1208 del Contado di Sora, avendolo tolto a Corrado[224] ) li quali sarebbero passati in Puglia per non potervi esso passare, stante il gran calore della stagione, come il tutto potrà vedersi nella sua lettera, che va tra l'altre epistole di questo Pontefice[225].

Ed avendo a questo modo ordinato il Governo di questo Reame, salì a Monte Cassino, e visitando quel sacro luogo, gli confermò tutti i privilegi concessigli da' Pontefici suoi predecessori, e glie ne concesse altri di nuovo. Ma mentre ancora quivi si tratteneva, ecco che gli viene avviso, come Filippo Re di Germania e zio del Re Federico da' suoi era stato ucciso; onde per soccorrere più da vicino a' bisogni dell'Imperio d'Occidente, per la via di Sora ed Atino partendo di Terra di Lavoro, con tutti i Cardinali ch'eran seco venuti, ritornò in Campagna di Roma[226].

Dopo la morte d'Errico Imperadore, ancorchè l'Imperio s'appartenesse al suo figliuolo Federico, tanto più che l'istesso Errico in vita avea proccurato, che quasi tutti li Principi della Germania lo eleggessero in Re e gli giurassero fedeltà, come dice l'Abate Uspergense[227], nulladimanco, morto Errico sursero due fazioni infra di lor contrarie per l'elezione del successore e la maggior parte degli Elettori elessero Filippo Duca di Svevia fratello del morto Imperadore, e dalla sua fazione fu coronato Re di Germania in Magonza nell'anno 1197: altri d'inferior numero elessero Ottone Duca di Sassonia e lo coronarono in Aquisgrana. Ma con tutto che Innocenzio III favoreggiasse il partito d'Ottone ed avesse confermata la sua elezione[228], nulladimanco prevalse il partito di Filippo, il quale per dieci anni tenne l'Imperio, ed al quale finalmente cedè l'istesso Ottone, con cui dopo una crudel guerra venne a concordia, e nel 1207 Filippo diede Beatrice sua figliuola per moglie ad Ottone, con patto che morto Filippo, al Regno di Germania egli vi succedesse. Tenendo adunque l'Imperio Filippo, in quest'anno 1208 fu ucciso a tradimento entro il proprio palagio nella città di Bamberga da Ottone Conte Palatino suo fiero inimico: onde Ottone Duca di Sassonia aspirò di nuovo all'Imperio, nel che ebbe anche questa seconda volta il favore d'Innocenzio, che nell'anno seguente, calato egli in Italia lo incoronò in Roma, ed Ottone IV fu nomato.

Ma dopo la partenza del Papa da Terra di Lavoro, nacquero in questa provincia nuovi disordini, poichè Riccardo dell'Aquila Conte di Fondi unitosi col Conte Diopoldo s'insignorì della città di Capua, chiamatovi dagli stessi Capuani, togliendola al Conte Pietro di Celano[229] sotto il cui governo si trovava, perciocchè suo figliuolo Riccardo, che vi era Arcivescovo, era fieramente odiato da que' cittadini.

Aveva intanto il Pontefice Innocenzio chiuso già il parentado tra il Re Federico e Costanza vedova di Alberico Re d'Ungheria figliuola d'Alfonso II Re di Aragona e di Sancia sua moglie. Narra il Zurita avveduto ed incorrotto Istorico negli Annali d'Aragona che la Reina Sancia, dopo la morte del Re suo marito, inviò in Roma un suo Secretario detto Colombo, offerendo ad Innocenzio, se tal matrimonio si conchiudesse, d'inviar 200 cavalli a sue spese in Sicilia in soccorso del genero; ovvero se così fosse paruto convenevole, di condurgliela ella stessa con 400 cavalli, purchè fosse assicurata che le sarebbero rifatte le spese, che farebbe guerreggiando in quel Regno, in caso che il parentado fosse impedito da' Siciliani, che tenevano in lor podere la persona del Re; chiedendo in oltre, che se Federico fosse morto prima di effettuare il matrimonio con Costanza, dovesse investire de' suoi Reami D. Ferdinando fratello di Costanza, che il padre avea dedicato alli sacri Ordini[230]. Innocenzio dopo tal imbasciata inviò suoi Ambasciadori in Aragona, e questi insieme con quelli, che parimente inviò Federico, dopo vari trattati conchiusero il parentado. Ma prima, che Costanza partisse da Aragona, morì la Regina Sancia; ed ella fu poi in Sicilia nel mese di febbraio del nuovo anno 1209 da D. Alfonso Conte di Provenza suo fratello su le galee de' Catalani accompagnata da grosso numero di Cavalieri spagnuoli e provenzali; ma queste nozze mentre con pompose feste si celebravano in Palermo, furono sturbate per la morte di D. Alfonso e di molti di que' Cavalieri, che seco avea portati; poichè attaccatosi per le malvagità dell'aria un contagioso male in Palermo, avea menati molti al sepolcro; tanto che costrinse il giovanetto Re, che non avea più che 14 anni, tra le allegrezze dello sponsalizio, e tra le lagrime del morto cognato ad uscir da Palermo, ed andar girando per molte città di quell'Isola.

Or mentre il contagioso male costringeva il Re Federico a far dimora fuori di Palermo, il Conte Pietro di Celano per opra dell'Arcivescovo suo figliuolo riebbe Capua; e nell'istesso tempo Ottone Re di Germania per la morte di Filippo suo socero, anelando all'Imperio d'Occidente venne in Italia con poderoso esercito, e giunto in Roma, ricevuto dal Pontefice Innocenzio gli fu nella chiesa di S. Pietro a' 7 settembre di quest'anno data la Corona imperiale; e narra Riccardo da S. Germano, che il coronò praestito juramento de conservando Regalibus S. Petri, et de non offendendo Regem Siciliae Fridericum. Ma dimorando in Roma Ottone col suo esercito, avvenne, che s'attaccò grave briga fra' suoi soldati ed i Romani, i quali, prese da per tutto le armi, uccisero gran quantità di Tedeschi: sdegnato di ciò Ottone partissi da Roma, e ne andò nella Marca ove per alcun tempo dimorò, danneggiando e prendendo a forza, non ostante il giuramento fatto, le terre e le città della Chiesa.

Intanto l'Abate Roffredo, avendo per molti anni governata la Badia di Monte Cassino, passò di questa vita l'ultimo giorno di maggio in S. Germano[231]; dopo la cui morte il Conte Diopoldo e Pietro Conte di Celano rappacificatisi insieme ed uno fatto Signor di Capua, e l'altro di Salerno ambedue persuasero Ottone, ch'era in Toscana, che venisse ad occupare il Reame con dargli in suo potere Diopoldo Salerno ed il Conte di Celano Capua, sicchè l'Imperadore, non ostante il giuramento fatto al Pontefice di non travagliar Federico, accettata lietamente l'impresa ed assembrato il suo esercito entrò per la via di Rieti e di Marsi in Appruzzi, donde passato in Terra di Lavoro, Pietro Abate di Monte Cassino, ch'era succeduto al morto Roffredo, temendo delle terre della sua Badia, contro il voler de' suoi Padri, gli inviò per suoi messi a chieder pace, e poco stante egli medesimo andò riverentemente ad incontrarlo, ponendosi in suo potere; per la qual cosa non furono i suoi luoghi, nè i beni del monastero in menoma parte da' Tedeschi danneggiati.

Giunto poscia a Capua creò Duca di Spoleto il Conte Diopoldo[232], il quale oltre all'avergli dato Salerno, s'era congiunto seco con tutti i suoi partigiani. Andarono indi amendue ad assediare Aquino, ma ne furono con lor notabil danno ributtati da Tommaso, Pandolfo e Ruberto Signori di quella Piazza. Napoli in onta degli Aversani si rese ad Ottone; il quale ad istanza de' Napoletani andò a porre l'assedio ad Aversa; ma gli Aversani con pagargli molta moneta, e raccorlo amichevolmente entro la lor città, sottoponendosi al suo dominio, non riceverono altro danno[233]. Passò poscia Ottone in Puglia, ove tra per lo timore e per la forza, buona parte ne occupò, e lo stesso fece nella Calabria, ponendo a sacco ed a ruina i luoghi, che gli facean resistenza.

Il Pontefice Innocenzio vedendo in cotal guisa perdute le più belle province di questo Reame, tentò prima con ogni suo potere di distorre Ottone dall'impresa: inviò per tanto ben cinque volte l'Abate Uspergense, com'e' narra, da Roma a Capua, a trattar con l'Imperadore tal concordia, ma invano; poichè Ottone, reputando che tutte queste province, siccome tutto il resto d'Italia s'appartenessero all'Imperio, non solo a patto alcuno non volle lasciar ciò che avea conquistato contro il Re di Sicilia, ma tentò di occupare tutto il rimanente d'Italia.

I Pontefici romani aveano già in questi tempi preso il costume, non pur di scomunicare gl'Imperadori, ma deporgli anche dall'Imperio, con assolvere i vassalli dal giuramento, e di vantaggio di deporgli non pur per cagion d'eresia, ma anche per cagioni meramente temporali, se essi tentassero d'occupare i beni della Chiesa, o di qualche altro Principe lor amico e federato. In fatti Innocenzio in questa occasione, conosciuta l'ostinazione d'Ottone di non voler lasciare ciò ch'avea occupato nella Marca delle terre della Chiesa, e ciò che avea conquistato contro il Re Federico lo scomunicò, e lo dichiarò nemico di S. Chiesa. Interdisse ancora la Chiesa di Capua, perchè que' ministri aveano avuto ardimento di celebrare i divini Uffici in sua presenza[234], e scomunicò ancora tutti i di lui fautori: e convocato un Concilio in Roma il privò dell'Imperio; ma perchè questi fulmini invano si lanciano, se non vengono accompagnati e sostenuti dai Principi Elettori, scrisse perciò Innocenzio in questo medesimo anno 1210 sue lettere a' Principi tedeschi, nelle quali esagerando i danni fatti da Ottone alla Chiesa contro il tenor dell'accordo e del giuramento da lui fatto, quando l'incoronò in Roma, gli esortava per ciò, ch'essendo egli spergiuro e scomunicato, e caduto dall'Imperio, ne creassero un altro in suo luogo. Il perchè mossi molti di loro a prendergli l'armi contro, si cagionò guerra e rivoltura in Alemagna, della qual cosa avuta contezza Ottone, prestamente di Puglia partitosi, ritornò in Germania; ma non fu perciò bastevole a frastornare l'elezione; poichè gli Arcivescovi di Magonza e di Treveri, il Re di Boemia, Ermanno Conte di Turingia, i Duchi di Austria, di Sassonia e di Raviera ed altri molti Signori tedeschi, i quali oltre all'esser suoi scoverti nemici, si ricordavano dell'elezione fatta di Federico in Re de' Romani, mentr'era ancor fanciullo in vita del padre e del giuramento datogli, crearono Imperadore il Re Federico, che in quest'anno non era più che di quindici anni.

CAPITOLO III. Il Re Federico vien eletto Imperadore da' Principi della Germania. Va in Alemagna, ed in Aquisgrana è coronato: ed Innocenzio intima un general Concilio in Laterano.

Fatta da' Principi della Germania l'elezione di Federico, prestamente inviarono due Legati, Anselmo ed Errico, a significargli cotal fatto e per condurlo in Alemagna; i quali arrivati in campagna sino a Verona, si rimase colà Errico per fare favorevoli al novello Cesare i Longobardi, e particolarmente i Veronesi[235]; ed Anselmo venne in Roma ove di consentimento del Pontefice fece opera, che da' Romani fosse ancor dato l'Imperio a Federico: indi passato in Sicilia, con difficoltà ottenne, che Federico passasse in Alemagna; perciocchè Costanza gelosa della salute del marito, con molti altri Baroni di Sicilia, temendo non fosse colà da' suoi nemici fatto fraudolentemente morire, con ogni lor potere glielo dissuaderono. Ma finalmente dispregiato ogni pericolo ed incoraggiato dai particolari messi d'Innocenzio, lasciata Costanza in Sicilia con un figliuolo, che di lei generato avea, in memoria del padre, nomato Errico, imbarcato su i vascelli de' Gaetani con felice viaggio arrivò a Gaeta; poscia di nuovo messosi in mare, in aprile di questo nuovo anno 1211 pervenne a Roma[236], ove dal Pontefice, dal Senato, e dal Popolo romano lietamente accolto, passò similmente per mare in Genova; e caramente ricevuto da' Genovesi, fu da loro, per tema che i Milanesi gran partigiani di Ottone non l'assalissero tra via, e cercassero d'impedirgli il cammino, accompagnato insino a Padua, e nella stessa guisa fu poi da' Paduani e Cremonesi insieme uniti, non per la diritta via, ma per la Valle di Trento e per luoghi asprissimi delle Alpi, temendo l'insidie di Ottone, per lo paese de' Grisoni condotto, e con ogni onor raccolto dal Vescovo e dall'Abate di S. Gallo, pervenne con essi a Costanza.

Ma Ottone, che intanto avea con asprissima guerra travagliato i partigiani di lui, intesa la sua venuta, prestamente di Turingia, ove dimorava, partitosi, venne ad Uberlingh presso Costanza per uccidere o far prigione Federico prima che prendesse maggior potere in Alemagna, ma abbandonato da molti de' suoi seguaci che al suo nemico passarono, non potè porre in effetto il suo intendimento. E Federico mentr'era in Costanza ebbe tosto in suo aiuto grosso numero de' suoi Svevi, oltre a molti altri Baroni tedeschi dai quali per la memoria del padre e dell'avolo era grandemente amato. Il perchè Ottone vedutosi ciascun giorno mancar di forze, il nuovo anno di Cristo 1212 ne andò a Brisac città di stima posta in riva del Reno, ed ivi tentò con ogni industria di accrescere il suo esercito; ma perchè da' suoi soldati erano gravemente afflitti i cittadini di quella città, coloro per torsi dattorno cotal noia, concordemente e con furia il cacciarono via dalla città, uccidendogli e ponendogli in rotta tutto l'esercito; onde gli convenne, per non avere altra strada al suo scampo, con poca compagnia ricovrarsi colla fuga in Sassonia. Sparsasi questa fama tra' Tedeschi, tosto ciascun concorse a favorir Federico; il quale, discendendo per le rive del Reno, fu amichevolmente da tutti raccolto nell'Annonia; ma alcuni di que' Popoli, come fedelissimi ad Ottone, chiuse le porte, cominciarono a contrastargli il passo; pure costretti fra pochi giorni a cedere, passò ad Aquisgrana, ove concorsa la maggior parte de' Principi di Alemagna, che contro il creder di Federico passarono lietamente dalla sua parte, fu coronato Imperadore per mano degli Arcivescovi di Magonza e di Treveri[237] l'anno di Cristo 1213, il ventesimo della sua età secondo l'Abate Uspergense, il Baronio e 'l Bzovio, ma secondo Inveges il decimottavo.

Così il deposto Ottone vedendosi abbandonato dai Signori dell'Imperio, rivolse l'armi contro Filippo Re di Francia, dal quale vinto e messo in fuga, il vittorioso Franzese, per più abbatterlo fece tregua coll'Imperador Federico[238], il quale non volendo perdere sì propizia occasione, con ogni prestezza assaltò le città imperiali, che favorivano ad Ottone ed in maniera le travagliò, ut Urbes ad deditionem, et Othonem ad veniam petendam impulerit, come dice Gordonio.

Il Pontefice Innocenzio vedendo depresso Ottone, e l'Italia e gli Stati de' Cristiani già pacificati e che le cose dell'Imperio d'Occidente pigliavan buona piega ed andavan a seconda del suo impiego, avendo ancora in questi medesimi tempi ricevuta la lieta novella della famosa vittoria ottenuta ne' campi di Toledo sopra il Re di Marocco e suoi Mori dal Re di Castiglia, da D. Pietro II Re d'Aragona fratello dell'Imperadrice Costanza e da Sancio Re di Navarra, rivolse l'animo a più gloriose imprese: e veggendo che non solo in Ispagna, ma che anche in Terra Santa i Turchi aspramente molestavano i Cristiani, prendendo ogni giorno colà possanza, rivolse l'animo alla ricuperazione di Terra Santa; onde con sue lettere invitò tutti i Principi cristiani che deponendo le loro particolari discordie prendessero la Croce, incorandogli alla guerra sacra, ed inviò due Cardinali Legati, che adunassero le genti per passare in Soria. Scrisse parimente al Saladino Soldan di Babilonia e di Damasco, che restituisse Gerusalemme a' Cristiani, con liberar tutti que' che avea prigioni in suo potere offerendogli all'incontro, che sarebbero anche liberati da' nostri i Turchi, ch'erano in nostro potere; ma ciò non servì per nulla, poichè quel Principe si curò poco de' messi e delle lettere del Pontefice. Intimò ancora Innocenzio un general Concilio da tenersi in Roma in S. Giovanni Laterano nell'anno seguente 1215, siccome in effetto nel primo di novembre di quest'anno si cominciò a celebrare, nel quale v'intervennero 70 Arcivescovi, 412 Vescovi e 800 Abati e Priori. Vi accorsero ancora gli Ambasciadori di tutti i Principi cristiani, ed in nome di Federico fuvvi Berardo Arcivescovo di Palermo[239]. I Milanesi, ch'eran ostinati partigiani d'Ottone, non tralasciarono ancora mandarvi un lor cittadino per difendere in quest'Assemblea le ragioni d'Ottone: furono dibattuti in questa radunanza molti punti, ed esaminati con molta contenzion d'animo.

Il principale fu l'espedizione di Terra Santa, e del modo da tenersi per ricuperar Soria, ch'era ricaduta in mano d'Infedeli, e di comporre perciò le discordie tra' Principi cristiani, nel che concorsero tutti gli Ambasciadori de' Principi a prometter in nome de' loro Signori ogni aiuto.

Fu ancora molto dibattuto sopra la deposizione di Ottone, ed incoronazione di Federico in Aquisgrana; ed il Legato milanese orò lungamente per Ottone, il quale fece nel Concilio proporre di voler tornare alla ubbidienza della Chiesa, e che perciò dovesse esser restituito nell'antica sua dignità imperiale, e cancellarsi ciò ch'erasi fatto per Federico. Ma surse dall'altra parte il Marchese di Monferrato per Federico, e declamando non doversi sentire alcuno che parlasse in nome di Ottone, recò in mezzo sei capitoli d'accuse contro il medesimo[240]. Primieramente, non dovea sentirsi, perchè Ottone ruppe, e violò i giuramenti fatti alla Chiesa romana di non invadere le sue Terre, e gli Stati del Re Federico. II Perchè non avea restituito quelle Terre, per le quali era stato scomunicato, ed avea giurato di restituire. III Perchè favoriva un Vescovo scomunicato. IV Perchè carcerò un Vescovo Legato della Sede Appostolica. V Perchè in disprezzo della Chiesa romana chiamava il Re Federico Re dei Preti[241]. VI Perchè distrusse un monastero di Monache, e 'l ridusse in Fortezza. Poi rivoltandosi contro i Milanesi, che ivi presenti, cominciò a declamar contro di loro, come nemici di Federico; ma questi di nulla atterriti, volendo dargli risposta, il Pontefice facendo cenno colla mano, si alzò dal trono, ed uscì dalla Chiesa lateranense. Fu questo gravissimo affare di Federico e di Ottone, come narra Riccardo, con grandissima contenzione combattuto nel Concilio dalla festività di S. Martino insino al giorno di S. Andrea; nel qual dì finalmente il Papa approvando l'elezione fatta dai Principi d'Alemagna in Aquisgrana, confermò Federico in Imperador romano, e fu deliberato di doversi invitare a prender la Corona in Roma, secondo il costume de' maggiori.

Non minori furono le discussioni intorno a' Sacramenti della Penitenza e dell'Eucaristia, e sopra tutto intorno alla condannagione dell'eresia degli Albigensi, i quali favoreggiati dal Conte di Tolosa, e da altre persone di stima avean preso molto potere in Francia.

CAPITOLO IV. Origine dell'Inquisizione contra gli Eretici; e morte di Papa Innocenzio III.

Il particolar uffizio dell'Inquisizione contra gli Eretici ebbe a questi tempi il suo principio. Prima gli Appostoli per rimedio di questo male non adoperavano altro, che d'ammonire una, e due volte l'eretico; il quale se perseverava nell'ostinazione, era scomunicato, e s'imponeva a' Cattolici, che si separassero dal suo consorzio. Nè si passò più oltre, sino ai tempi, che Costantino Magno abbracciò la religione cristiana. Allora tra le altre cose furono da' Padri della Chiesa, Costantino e suoi successori ammaestrati, che portando essi due qualità, l'una di Cristiani, l'altra di Principi, con ambedue erano obbligati a servir Iddio. In quanto Cristiani, osservando i precetti divini, come ogni altro privato; ma come Principi, servendo S. D. M. con ordinar bene le leggi, indirizzando bene i sudditi alla pietà, onestà e giustizia, castigando tutti gli trasgressori de' precetti divini e del decalogo massimamente. Ma essendo quelli, che peccano contra la prima Tavola, che riguarda l'onor divino, assai peggiori di quelli, che peccano contra la seconda, la qual ha rispetto alla giustizia tra gli uomini: perciò erano più obbligati i Principi a punir le bestemmie, l'eresie e gli spergiuri, che gli omicidj e i furti. Per questa cagione stabilirono diverse leggi contro gli Eretici, e con maggior severità contro i loro Dottori, e contro coloro, i quali eccitano perciò turbe e sedizioni nella Repubblica. Costantino Magno ne fece due[242]. Costanzo suo figliuolo non ne stabilì, perch'egli fu eretico. Valentiniano il vecchio una[243]. Valente non ne fece, perchè ancor egli era eretico. Graziano ne promulgò due[244]. Teodosio Magno quindici[245]. Valentiniano il giovane tre[246]. Arcadio dodici[247]. Onorio diciotto[248]. Teodosio il giovane dieci[249], e Valentiniano III tre[250].

Le pene, che contro coloro stabilirono non furono uguali, ma secondo le circostanze, ora il rigore era cresciuto, ora mitigato; nè vi fu legge, che punisse di pena di morte tutti generalmente. I Manichei, i Priscillianisti, i loro Dottori, ch'eccitavano turbe, erano più aspramente puniti. Le più comuni ed usate erano d'essere sbanditi, esiliati, dichiarati infami, privati della milizia, e di tutti gli onori e dignità. Essere dichiarati intestabili, proibiti di donare, di vendere e di far altri contratti. D'essere multati, e confiscate le loro robe, o in tutto o in parte secondo le circostanze de' loro delitti; la pena dell'ultimo supplicio in alcuni casi singolari era solamente dagl'Imperadori minacciata, come contro i Manichei, i concitatori di sedizioni e di turbe, e contro altri Eretici, secondo la gravità delle circostanze, e loro protervia ne' casi rapportati nel Codice Teodosiano[251], e noverati da Giacomo Gotofredo ne' suoi Paratitli in quel titolo.

Ma poichè in ogni giudicio criminale sono considerate tre parti, che lo compongono: la cognizione della ragione del delitto; la cognizione del fatto; e la sentenza; perciò nel giudicio dell'eresia, la cognizione del diritto, cioè se tal opinione sia eretica o no, fu riputata sempre ecclesiastica, nè per alcun rispetto apparteneva al Magistrato secolare; onde a que' tempi quando nasceva difficoltà sopra qualche opinione, gli Imperadori ricercavano il giudicio de' Vescovi, e se bisognava, congregavano Concilj. Ma la cognizione del fatto, se la persona imputata era innocente o colpevole, per darle le pene ordinate dalle leggi, siccome la sentenza d'assoluzione o condannazione, tutta apparteneva al Magistrato secolare.

Appartenendo dunque al Magistrato secolare la cognizione del fatto, quindi fu, che gl'Imperadori stabiliron molte leggi prescrivendo alcuni mezzi, e ricerche per questo fine. Dichiararono l'eresia delitto pubblico, e perciò ammisero tutti ad accusargli, particolarmente quando il giudicio criminale era indirizzato contro i Manichei, i Frigj ed i Priscillianisti. Ammisero i delatori; ed in alcuni casi, per iscoprire gli Eretici occulti, ed i loro Dottori anche ordinarono gli Inquisitori. E Gotofredo[252] osserva, che l'istituto di dar in questo delitto Inquisitori fu prima introdotto da Teodosio Magno imitato da poi da Arcadio ed Onorio; ma soggiugne questo Scrittore, che gl' Inquisitori non erano dati comunemente contro tutti gli Eretici, ma ne' casi più gravi, e che meritavano maggior asprezza e rigore, come contro i Manichei, i Dottori, ed Autori delle Sette, contro gli Eunomiani, ed altri Cherici autori di esecrande superstizioni ed eresie. Per maggiormente favorir la pruova di questo delitto permisero a' servi accusare i loro padroni[253]; non si perdonò nè alle mogli, nè a' proprj figliuoli; ed in fine i processi erano dal Magistrato secolare fabbricati secondo il prescritto delle leggi degl'Imperadori; nè i Vescovi dopo aver dichiarato l'opinioni eretiche, e separati dalla Chiesa come scomunicati ed anatematizzati quelli, che tali opinioni tenevano, s'intrigavano più oltre, nè ardivano darne notizia a' Magistrati, temendo che fosse opera di non intera carità.

Ma alcuni altri vedendo, che il timor del Magistrato vinceva la pertinacia degli ostinati, ed operava ciò che non poteva far l'amore della verità, riputavano che fosse debito loro di denunciare a' Giudici secolari le persone degli Eretici, e le loro operazioni cattive, ed eccitargli ad eseguire le leggi imperiali. Ma poichè alle volte occorreva di doversi procedere contro qualche Dottore eretico, il quale per la sua perversa dottrina cagionava turbamenti e sedizioni, ovvero a procedersi in qualche altro consimil caso, ove la pena, per le gravi circostanze del delitto, poteva stendersi all'ultimo supplicio: gli Ecclesiastici in questi casi s'astenevano di comparire al Magistrato, anzi sempre facevano ufficj sinceri co' Giudici, che non usassero co' delinquenti pena di sangue. S. Martino, in Francia, scomunicò un Vescovo, perchè avea accusati certi Eretici a Massimo occupatore dell'Imperio, i quali da lui furono fatti morire: e S. Agostino ancorchè per zelo della mondezza della Chiesa facesse frequentissime, e molto sollecite istanze a' Proconsoli, Conti ed altri Ministri imperiali in Affrica, che eseguissero le leggi de' Principi, notificava loro i luoghi, dove gli Eretici facevano conventicoli e scopriva le persone; contuttociò sempre che vedeva alcun Giudice inclinato a procedere contro la vita, lo pregava efficacemente per la misericordia di Dio, per l'amor di Cristo, o con altri simili scongiuri, che desistesse dalla pena del sangue; ed in un'epistola a Donato Proconsole dell'Affrica gli dice apertamente, che se egli persevererà in castigar gli Eretici nella vita, li Vescovi desisteranno di denunciargli, e non essendo notificati da altri, resteranno impuniti, e le leggi imperiali senza esecuzione; ma procedendo con dolcezza, e senza pene di sangue, essi avrebbero vegliato a scoprirgli, e denunciargli per servizio divino, ed esecuzione delle leggi.

In questa maniera furono trattate nella Chiesa le cause d'eresia sotto l'Imperio romano sin all'anno della nostra salute ottocento; quando diviso l'occidentale Imperio dall'orientale, questa forma rimase nell'orientale sino al suo fine, com'è manifesto dal Codice di Giustiniano, e dalle Novelle degli altri Imperadori d'Oriente suoi successori.

Ma nell'occidentale fu tutta variata, così perchè non fu bisogno, che i Principi facessero leggi, ovvero avessero molto pensiero a questa materia, atteso che per trecento anni, che passarono dall'800 sino al mille e cento, rari Eretici si trovarono in queste parti; come anche perchè, quando avveniva caso alcuno, i Vescovi vi mettevan mano; poich'essendosi la loro conoscenza nelle cause molto stesa per non curanza de' Principi, il delitto dell'eresia come Ecclesiastico se l'appropriarono, e siccome procedevano contro gli altri delitti ecclesiastici, come contra violatori di feste, trasgressori di digiuni, ed altri tali, giudicandogli, e castigandogli essi medesimi in que' luoghi dove da' Principi era loro concesso esercitar giurisdizione, e dove non l'aveano invocavano il braccio secolare, che gli castigasse: così ancora, e per le medesime vie, e forme ordinarie procedevano ne' delitti d'eresia contra gli Eretici.

Dopo il mille e cento, per le continue dissensioni e contrasti, che per cinquanta anni innanzi erano stati tra li Pontefici e gl'Imperadori, e per quelli che durarono tutto il secolo seguente sino al mille e ducento con frequenti guerre e scandali, e poco religiosa vita degli Ecclesiastici, nacquero innumerabili Eretici, l'eresie de' quali più comuni erano contro l'autorità ecclesiastica, chi attaccando i loro corrotti costumi, chi la potenza, e la loro ricchezza, sostenendo con gli Arnaldisti, che gli Ecclesiastici non poteano posseder niente di proprio; e chi anche penetrando più addentro, condennava il battesimo de' bambini, e ribattezzava gli adulti; faceva abbattere le chiese e gli altari, e spezzava le croci; e chi non approvava la celebrazion della messa, ed insegnava che le limosine, e le orazioni nulla servono a' morti. Eran perciò a questi tempi cresciuti, gli Eretici in gran numero, i quali o da' nomi de' loro Dottori, che furono autori dell'eresie, ovvero da' luoghi ove più fiorirono, o dai costumi che affettavano, presero varj e diversi nomi; ma nel secondo tutti convenivano nel Manicheismo. E siccome sotto l'Imperio romano, da Costantino Magno sino ai tempi di Valentiniano III ve ne furono innumerabili, denominati per i loro Autori sotto i nomi d' Ariani, di Macedoniani; Pneumatomachi, Appollinariani, Novaziani, ovvero Sabaziani, Eunomiani, Valentiniani, Paulianisti, Papianisti, Montanisti, Marcianisti, Donatisti, Foziani, e di tante altre Sette, che possono vedersi nel Codice di Teodosio[254]: così ancora a questi tempi si nominavano gli Arnaldisti da Arnaldo da Brescia lor famoso Capo, i Leonisti, gl' Insabbataiti, i Valdesi, gli Speronisti, i Pubblicani, i Circoncisi, i Gazari, i Patareni, che disposti ad ogni oltraggio e patimento, affettando incredibile costanza, vollero esser chiamati Patareni, per opporsi a' Cattolici, i quali siccome quando per la religione patiscono stragi e morti son chiamati Martiri, così essi esponendosi per la loro credenza con egual costanza a simili pericoli, vollero esser nomati Patareni[255]. Ma i più considerabili in questi tempi erano gli Eretici Albigensi denominati così da Albi, luogo dove essi si ritirarono, i quali per la protezione che aveano del Conte di Tolosa, aveano sparsa la lor dottrina in molte province della Francia.

Ma all'incontro in questi medesimi tempi a favor della Chiesa romana sursero que' due gran lumi Domenico e Francesco, i quali colla lor santità resisi chiari per tutto, fondarono le religioni de' Predicatori e dei Frati minori, e furono piante così fruttifere, che i loro rampolli moltiplicarono in guisa, che in breve si vide piena Europa di tanti valorosi commilitoni, i quali non risparmiando nè fatica, nè travaglio esponendosi ad ogni periglio, combatterono valorosamente per li romani Pontefici. Francesco imitando la severa e rigida povertà proccurò ad imitazion di Cristo ridurre la sua religione e gli uomini, che a quella s'ascriveano, alla antica disciplina ed a' suoi principj, e come fondata su l'umiltà e povertà pensò di riportarla indietro, e vestirla di quegli antichi abiti; ed in cotal maniera più coll'esemplarità della vita, che colle prediche e sermoni, toglier gli errori. Dall'altra parte Domenico di nazione Spagnuola, della città di Calagorra, del chiaro, e nobil lignaggio de' Gusmani, in altra guisa si rivolse co' suoi Frati ad abbattere le nascenti eresie. I Vescovi non erano sufficienti ad estirparle, così per lo gran numero, come perchè tanto essi, quanto i loro Vicarj erano poco atti, e meno diligenti di ciò che li Pontefici Romani desideravano, e sarebbe stato necessario; perciò Innocenzio III scorgendo il zelo di questi nascenti commilitoni diede loro incumbenza che andassero a predicare agli Eretici la vera credenza per convertirli: esortassero i Principi ed i Popoli cattolici a perseguitare gli ostinati, e per informarsi in ciascun luogo del numero e qualità degli Eretici, del zelo dei Cattolici, e della diligenza dei Vescovi, e portar relazioni a Roma; dal che acquistarono nome d' Inquisitori. Domenico sopra gli altri si adoperò con tanto zelo contro gli Eretici Albigensi, che fu dichiarato dal Pontefice Innocenzio Inquisitor generale contro di loro; il quale scorgendo non giovare con quegli ostinati le dispute e le concioni, stimò più opportuno mezzo per estirparli di ricorrere agli ajuti del Conte di Monforte, e di molti altri Signori spagnuoli, tedeschi e franzesi, i quali uniti insieme con grosso numero di Prelati, prendendo contro di loro la croce, nella provincia di Narbona, ed in altri luoghi gli vinsero e distrussero. Ma multiplicando essi sempre come idre, Domenico venne in Roma, e nel Concilio, che in quest'anno si teneva in Laterano, in più sessioni orò contro gli Albigensi, e fece condennar per eretica la lor dottrina. Si condennarono ancora in questo Concilio que' libri che l'Abate Giovacchino avea scritti contro il Maestro delle sentenze Pietro Lombardo, e s'approvò la dottrina del medesimo, che tenne intorno al mistero della Trinità. E furono parimente dati in quest'Assemblea molti provvedimenti intorno la riforma de' costumi degli Ecclesiastici, che per orrendi e sacrileghi venivano da' competitori eretici predicati, ed in cotal maniera terminossi il Concilio; onde datosi perciò maggior lena ai novelli Inquisitori proseguirono con molta alacrità ed intrepidezza d'animo la loro incumbenza. Non aveano però a questi tempi Tribunale alcuno; ma ben alle volte eccitavano i Magistrati secolari a sbandire, o punire gli Eretici che trovavano: sovente eccitavano il Popolo mettendo una croce di panno sopra la veste a chi voleva dedicarsi a questo, ed unendogli insieme talora, gli conducevano all'estirpazione degli Eretici.

Fu da poi molto ajutata l'impresa di questi Padri Inquisitori dal nostro Imperadore Federico II, il quale nel 1224 in Padova promulgò quattro editti sopra questa materia, ricevendo gl' Inquisitori sotto la sua protezione, ed imponendo pena del fuoco agli Eretici ostinati, ed a' penitenti di perpetua prigione, commettendo la conoscenza agli Ecclesiastici, e la condennazione a' Giudici secolari. E questa fu la prima legge, che generalmente desse pena di morte agli eretici, di che altrove ci tornerà occasione di ragionare: ma ancorchè Federico avesse preso sotto la sua protezione gl' Inquisitori, non ebbero essi però Tribunale alcuno. L'ebbero poi nel Ponteficato d'Innocenzio IV, il quale rimasto per la morte dell'Imperador Federico quasi arbitro in Lombardia, ed in alcune altre parti d'Italia, applicò l'animo all'estirpazione dell'eresie, le quali avevano fatto gran progresso nelle turbazioni passate. E considerate l'opere, che per l'addietro aveano fatte in questo servizio i Frati di S. Domenico e di S. Francesco con la loro diligenza, e senza aver rispetto a persone ed a pericoli: ebbe per unico rimedio il valersi di loro, adoperandogli, non come prima, solo a predicare e congregare Crocesignati, e far esecuzioni estraordinarie, ma con dar loro autorità stabile, ed ergendo per essi un fermo Tribunale, il quale d'altra cosa non avesse cura. Ecco i principj del Tribunale dell' Inquisizione; ma come poi ed in queste nostre province avesse esercitata la sua autorità, e come finalmente presso di noi fossesi reso cotanto odioso ed abborrito, sicchè non si soffra nemmeno sentirne il nome, sarà a più opportuno luogo lungamente narrato.

Intanto Papa Innocenzio terminato il Concilio, essendo partito da Roma, e gito in Perugia, infermando quivi d'una grave malattia, dopo aver per 18 anni retto il Ponteficato, e nella fanciullezza di Federico questo nostro Reame, passò di questa vita nel dì 16 luglio di quest'anno 1216. Fu la sua morte, per le cose, che qui a poco si narreranno, alla Chiesa romana luttuosissima, e molto grave all'Imperadore Federico, il quale co' suoi successori ebbe pur troppo avversa fortuna. Pontefice a cui molto deve la Chiesa romana, perchè colla sua accortezza, e molto più per la sua dottrina, la ridusse nel più alto e sublime stato, e che avea saputo soggettarsi quasi tutti gli Stati, e Principi d'Europa, i quali da lui come oracolo dipendevano. E cotanta era la riverenza del suo nome, che ridusse Alfonso Re d'Arragona a rendergli tributario il suo Regno, e di farsi uomo ligio della Chiesa romana, e volle da lui essere in Roma incoronato, il che a sua imitazione fecero anche altri Principi. Egli come dottissimo in giurisprudenza chiamò in Roma i maggiori personaggi a comprometter a lui le lor differenze, ed a contentarsi, che dal suo giudicio fossero terminate: quindi le più gravi e rinomate controversie di Stati e di Prelature in Roma si riportavano. Quindi abbiamo tante sue epistole Decretali, delle quali sin da questi tempi ne fu fatta Raccolta, e data a leggere a' studenti in Bologna[256]; onde potè da poi Gregorio IX fondare più stabilmente la Monarchia Romana. Fu studiosissimo delle leggi romane, e particolarmente delle Pandette; e fu perciò riputato uno de' più grandi Giureconsulti di questi tempi, che fiorivano in molte città di Italia, e particolarmente in Bologna, resa sopra tutte le altre illustre per la famosa Accademia di leggi, e più per Ugolino ed Azone, che in questi tempi vi fiorivano. Affettava però soverchio imitare i Giureconsulti antichi, e sovente, dalle leggi delle Pandette volendo fondare le sue epistole Decretali, prese de' grandi abbagli, molti de' quali ne furono da poi da Cujacio, da Ottomano e dagli altri eruditi ripresi. Ebbe idea altissima del Ponteficato, e riputava non altrimente di Gregorio VII, e di molti altri de' suoi predecessori, che fosse in sua balia deporre altri, o innalzare al Trono imperiale, come fece deponendo Ottone, ed innalzando Federico.

Governò nell'adolescenzia di questo Principe i Reami di Sicilia con assoluto imperio e dominio, più di quello comportavano le ragioni d'un Balio, come era stato lasciato nel testamento di Costanza; e per questa ragione si rapportano di lui nel registro del Vaticano alcune investiture fatte di Feudi nel nostro Reame, e quella del Contado di Sora per suo nepote; ancorchè l'Autor delle gesta d'Innocenzio scrivesse, che Federico l'investisse per mezzo di suoi Governadori che reggevano la sua Corte, e Casa regale in Sicilia. Per questa cagione ancora sovente Innocenzio nelle sue Decretali parlando di Capua, di Reggio, e di alcune altre città del nostro Regno, dice esser di lui il governo delle medesime così nello spirituale come nel temporale; e quindi s'intende ciò, che i nostri per l'ignoranza dell'istoria non arrivarono a capir mai, come Innocenzio confermando l'elezione de' Vescovi fatta dal Clero delle città del nostro Regno, e dandovi il suo assenso, dice di farlo Vice-regia; poichè quantunque, come altrove s'è narrato, il medesimo Pontefice avesse con Costanza alterato molto l'accordo fatto tra Adriano IV e Guglielmo I intorno all'elezione de' Vescovi; nientedimanco, che dovesse nell'elezione de' Prelati ricercarsi l'assenso del Re, non fu a questi tempi posto in disputa; e l'istesso Innocenzio essendo Balio del Regno l'osservò inviolabilmente; quindi è che scrivendo al Capitolo e Canonici di Capua, ch'eleggessero per quella Cattedra persona idonea, lor dice ancora, che dopo eletta mandassero da lui, perchè Vice-regia potesse dargli l'assenso[257]. Il medesimo leggiamo, che fece quando si ebbe ad elegger il Vescovo di Penne e quello di Reggio[258].

Non ebbe questo Pontefice, adulto che fu Federico, se non che leggieri contese con lui, anzi proccurò sempre, per opporlo ad Ottone, i maggiori suoi avanzi, ed all'incontro Federico fu di lui, e della Chiesa romana così ossequioso e riverente, che Ottone suo emolo soleva perciò chiamarlo il Re de' Preti. Ecco come durante il Ponteficato d'Innocenzio era creduto e riputato Federico; ma questa fortuna non ebbe dapoi co' Pontefici suoi successori, co' quali passò sì strane e varie vicende, che partorirono avvenimenti tanto portentosi, che bisognerà per la loro grandezza riportargli a' due seguenti libri di questa Istoria.

FINE DEL LIBRO DECIMOQUINTO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO DECIMOSESTO

Morto in Perugia il Pontefice Innocenzio, tosto in questa medesima città unitosi il Collegio de' Cardinali, crearono per successore Cincio Savello Cardinal di San Giovanni e Paolo ch'era stato prima Cancellier di S. Chiesa, ed il quale nella fanciullezza di Federico per quattro anni era stato in Palermo suo Ajo, che Onorio III nomossi. Fu osservazione de' più diligenti investigatori de' costumi e delle azioni umane, appoggiata sopra antichi e moderni esempj, che i Pontefici maggiori nemici, che hanno avuti i Principi, sono stati quelli, che in tempo della lor privata fortuna furono di lor famigliari, e domestici: Innocenzio IV essendo Cardinale fu grand'amico di Federico: ma questi quando intese la sua elezione se ne accorò, e previde quanto accadde a lui di male. Il Re Alfonso d'Aragona sperimentò lo stesso con Calisto III ed a Carlo V Imperadore pur intervenne il medesimo. Non altramente accadde al nostro Federico; poichè Onorio nuovo Pontefice non guari dopo la sua elezione tornato a Roma, e con sommo onore, come lor cittadino, da' romani accolto, la prima cosa, che pensasse, fu di significare a Federico per sue lettere, senza molta consolazion di parole, che lasciasse la possession de' Regni di Sicilia e di Puglia a sua disposizione, perciocchè non voleva, ch'essendo Imperadore, e Re di que' Regni si giudicasse, che andasser uniti con la Imperial dignità, e non fosser Feudi della Chiesa, tanto maggiormente, che gli Imperadori d'Occidente, e fra gli altri ultimamente Ottone IV, aveano questa pretensione, che almeno il Regno di Puglia fosse dipendente dall'Imperio d'Occidente.

Federico a tal dimanda rispose col maggior rispetto e riverenza; che per ubbidirlo, se così gli fosse piaciuto, avrebbe emancipato il suo figlio Errico, e cedutigli i Reami di Sicilia e di Puglia, ed in cotal maniera sarebbero cessati tutti i sospetti; e mandò suoi Ambasciadori in Roma per tale affare, e per dargli ubbidienza. Onorio raccolsegli onorevolmente, e non potendo non accettar la giustificata, e ragionevol offerta di Federico, gli rispose, che avrebbe destinato un Legato in Sicilia, acciocchè avesse dato compimento a tal negozio, e che in questo mentre, come doveva, fosse stato fedele, ed ubbidiente al romano Pontefice.

Intanto Ottone dopo la vittoria, che riportò di lui il Re Filippo di Francia, fuggendo col misero avanzo de' suoi in Sassonia, uscito già di ogni speranza di ritornar nella perduta grandezza, s'ammalò in Brunsuich, ove in quest'anno 1218 fu da mortifera febbre tolto a' mortali. Federico vedendosi libero, e senz'alcuno ostacolo in Alemagna, fece convocare in Magonza una Assemblea di tutti i Principi e Prelati dell'Imperio, e racchetate del tutto quelle regioni, cominciò a maneggiar con Onorio la sua coronazione in Roma. Ma il Pontefice non così volentieri venne ad accordargliela, volendone esiger da lui pur troppe gravi e pesanti ricompense, siccome in fatti assai caro costò a Federico questa cerimonia; poichè siccome narra il Fazzello[259], non volle concedergli, che venisse a Roma per riceverla, se prima non gli promettesse il Contado di Fondi; e fattosi ciò promettere, si contentò, che venisse a prenderla; onde Federico ricevuto tal avviso cominciò ad apparecchiarsi, ed unire un conveniente esercito per passare in Italia; e scrisse intanto a Giacomo Conte di S. Severino, che carcerasse Diopoldo ch'era suo suocero, il qual venuto nel Reame cagionava nuove rivolture e rumori, siccome colui eseguì, tenendolo custodito in stretta prigione. Inviò ancora lettere in Sicilia all'Imperadrice Costanza sua moglie, che venisse in Alemagna, la quale partendosi da quell'isola passò per mare a Gaeta, e di là in Lombardia ed in Verona, ed in altre Città amiche, con sommo onor ricevuta, e giunse in questo nuovo anno 1219 in Germania, ov'era suo marito.

In questo mentre, avutisi nuovi avvisi della necessità che vi era in Soria di soccorso, scrisse Onorio a Federico ed a tutti gli altri Principi e Popoli crocesignati, che s'apparecchiassero tantosto al passaggio di Terra Santa. Federico ricevute queste lettere confermò il giuramento fatto d'andar in Soria, e scrisse al Pontefice, che seguita la sua coronazione in Roma, avrebbe intrapreso quel viaggio. Il perchè Onorio mandò a richiedere ad Errico Conte di Brunsuich, ed al Duca di Sassonia (li quali col pretesto che Federico non fosse stato legittimamente incoronato, ritenevano tuttavia la corona, la lancia, e l'altre insegne imperiali) che subito sotto pena di censure gliele restituissero. Federico, lasciato in Alemagna il suo figliuol Errico sotto la cura di Corrado suo Coppiero, essendo ancor fanciullo di undici anni, calò coll'Imperadrice Costanza sua moglie in Italia, e richiesti invano i Milanesi, antichi nemici della Casa di Svevia, e gran partigiani del morto Ottone, di poter esser coronato in Monza della Corona di ferro, secondo il costume degli antichi Imperadori, proseguì il viaggio, e giunto a Mantova fu incontrato dal Legato del Pontefice, il quale prima di farlo passare innanzi, non parendogli di perdere sì opportuna occasione, per mezzo di questo Legato volle esiger da lui quanto potette; prima gli fece giurare di difender la giurisdizione della Chiesa romana, d'ubbidire a quella, ed a' suoi Ministri, e di cedere i Reami di Puglia e di Sicilia al figliuol Errico.

(La promessa di questa cessione fatta da Federico, si legge presso Lunig[260] ).

Da poi proccurò che annullasse tutte le Costituzioni, e consuetudini contro la libertà ecclesiastica introdotte: indi gli fece restituire il Ducato di Spoleto, le Terre della Contessa Matilda, Ferrara, Villamediana, Monte Fiascone, e le città di Toscana appartenenti al Patrimonio. Fecegli far ordini rigorosissimi, che si prendessero gli Spoletani, e i Narniesi ribelli della Chiesa; e volle, che con effetto gli donasse il Contado di Fondi, che nell'anno 1218 s'avea fallo promettere.

(La pretensione del Papa sopra il Contado di Fondi nasceva dal testamento di Riccardo Conte di Fondi, il quale in gennaro dell'anno 1211 ne avea disposto per suo testamento in beneficio della Chiesa romana; ed in aprile del seguente anno 1212 il Papa ne avea proccurato anche assenso da Federico. Così il testamento di Riccardo, come l'assenso di Federico si leggono presso Lunig[261] ).

Da Mantova passato da poi in Modena, accompagnato dagli Ambasciadori di quasi tutte le città, entrò coll'Imperadrice sua moglie in Roma, ed a' 22 novembre di quest'anno 1220 nella Chiesa di S. Pietro fu da Onorio con magnifica pompa insieme colla moglie incoronato Imperadore, e nell'istessa messa papale in mano del Pontefice giurò di difender la giurisdizione e Stato della Chiesa, e di passare con potente armata in Soria alla conquista di Terra Santa; e nell'istesso punto per mano d'Ugolino Cardinal e Vescovo d'Ostia, che fatto poi nell'anno 1227 Pontefice, fu detto Gregorio IX, fu segnato colla Croce. Intervennero in questa incoronazione molti Prelati e Baroni del nostro Reame, Stefano Abate di Monte Cassino, Ruggieri dell'Aquila Conte di Fondi, Giacomo Conte di S. Severino, e Riccardo Conte di Celano, ed altri Baroni noverati da Riccardo di S. Germano.

Allora fu, che Federico, per gratificare ad Onorio, promulgò in Roma dopo la celebrità della sua incoronazione quelle sue augustali Costituzioni, che leggiamo oggi nel libro secondo de' Feudi, secondo la volgare ed antica divisione, sotto il titolo de statutis, et Consuetudinibus contra libertatem Ecclesiae, etc. continenti più capitoli, rivocandosi nel primo tutti gli Statuti e Consuetudini introdotte contro la libertà ecclesiastica; stabilendosi nel secondo gravi pene contro i Gazari e Patareni ed altri Eretici; e negli altri dandosi alcuni provedimenti sopra l'ospitalità e testamenti de' peregrini, e sopra la sicurtà degli agricoltori; i quali si veggono confermati da Onorio. Nè dovrà dubitarsi, che in tal occasione, ed in quest'anno si siano promulgate queste Costituzioni in Roma da Federico; poichè oltre il testimonio di Riccardo da S. Germano[262], l'istesso Federico, nel proemio delle medesime, dice averle promulgate in die qua de manu sacratissimi Patris nostri summi Pontificis (intendendo d'Onorio) recipimus Imperii diadema. Tre capitoli delle quali furono da poi inseriti nel Codice di Giustiniano sotto il titolo de Haereticis[263]; ed un altro sotto il titolo de Sacr. Eccles. dal quale se ne formò l' Auth. Cassa, et irrita. Ciò che abbiam voluto avvertire, affinchè queste Costituzioni augustali non si confondano coll'altre, che promulgò da poi Federico per li soli Regni di Sicilia e di Puglia, com'è quella che comincia Inconsutilem, e l'altre, che si leggono nelle nostre Costituzioni del Regno. Queste sono le Costituzioni regie, non augustali, ovvero imperiali, e furono promulgate da poi per questi Regni, quando i Patareni erano penetrati in queste nostre parti, ed in Napoli particolarmente, dove Federico nell'anno 1231 ne fece molti imprigionare e punire, come diremo più innanzi.

Ma non perchè Federico avesse con tanto suo svantaggio e diminuzione delle ragioni dell'Imperio e del Regno, proccurato soddisfar il Pontefice, fu ciò bastante per averlo amico; poichè, come scrive Orlando Malavolta nell'Istoria di Siena, dimorando ancora Federico in Roma, s'avvide, che gli ordini, ch'egli avea dati per mettere in assetto le cose di Lombardia, erano mal eseguiti dalle città Guelfe aderenti alla Chiesa, e ciò avveniva per opera di Onorio, che voleva che gli fosse resa così poca ubbidienza da' suoi partigiani, studiandosi di tener così irreconciliabili e divise queste fazioni, per tema, che non passando queste città nel partito di Federico, egli poi non fosse sopraffatto dalla sua potenza.

§. I. Delle fazioni Guelfe e Ghibelline.

Qui bisogna per maggior chiarezza della istoria ricordare da capo il principio e la cagione di queste divisioni di Guelfi e Ghibellini, delle quali dovrà molto spesso favellarsene, per essersi in esse sovente intrigati i Re del nostro Reame.

(Delle varie opinioni intorno all'origine di queste fazioni, son da vedersi que' Scrittori, che raccolse Struvio[264]; dove rapporta la più vera, ch'è quella scritta da Andrea Prete, nella Cronaca di Baviera pag. 25, di cui ne adduce le parole).

Queste famose fazioni non nacquero, come si diedero a credere alcuni, ne' tempi del nostro Federico, ovvero ch'egli ne fosse stato autore, come a torto ne l'imputa il Fazzello; ma sursero molto tempo prima; egli le trovò già introdotte in Italia, nella quale aveano messe profonde radici. Cominciarono in Alemagna sino dall'anno 1139 ne' tempi di Corrado III, Imperadore, e nel Regno di Ruggiero I, Re di Sicilia[265]. I Ghibellini, che furon sempre Imperiali, presero il nome da Gibello città, ove nacque Errico figliuolo di Corrado. I Guelfi, che furon sempre Papalini, presero il nome da Guelfo Duca di Baviera. Vennero da poi questi nomi da Alemagna in Italia, per un accidente sopravvenuto in Firenze, che propagò in Italia le divisioni; poich'essendo in quella città un gentiluomo, il cui nome fu Messer Buondelmonte de' Buondelmonti, giovane vago, e molto avvenente, costui avea promesso di torre per moglie una donzella degli Amadei, nobili anch'essi; ma cavalcando un giorno per Firenze passò avanti il palagio d'una gentil donna della famiglia Donati, la quale essendosi invaghita delle maniere avvenenti del giovane, avea proposto di dargli per moglie una sua figliuola, la quale, perchè unica era nata al padre, avea redato una buona e ricca dote. Costei adunque fattasi in su l'uscio della sua casa trovare, mentre di colà passava Messer Buondelmonte ed amichevolmente salutatolo, incominciò donnescamente a proverbiarlo della donna, che preso avea, dicendogli che non era meritevole di così degno giovane, com'egli era, con soggiungere: io vi avea serbata questa mia figliuola di voi assai più degna, che quella, che presa avete; le cui parole udendo Messer Buondelmonte, e veggendo la fanciulla di nobilissima presenza e di maravigliosa bellezza, di lei incontanente innamoratosi, rispose, che sarebbe stato troppo sciocco a rifiutar così cortese offerta, e tosto la prese e sposò. Significato tal fatto agli Amadei, gli accese di grandissima ira contro Messer Buondelmonte, che così schernendogli era lor venuto meno della promessa del pattuito parentado, e mentre insieme uniti trattavano di che guisa si dovessero di lui vendicare, se con batterlo, o con ferirlo, un Messer Moscadi Lamberti, uomo, che di poca levatura avea mestiere, disse che egli avrebbe trovato un miglior modo che tutti gli altri; e non guari da poi la mattina di Pasqua di Resurrezione incontrando a cavallo Messer Buondelmonte al Ponte vecchio dell'Arno, assalitolo con alcuni altri suoi congiunti di sangue, e con molte ferite atterratolo da cavallo l'uccise appunto a piedi del pilastro, che sosteneva la statua di Marte antico Idolo de' Fiorentini. Sì fiera novella sparsasi per la città, fu cagione, che si levasse tutta ad arme e a rumore, dividendosi i Nobili di essa in due fazioni, che si chiamarono poi Guelfi, e Ghibellini; dell'una delle quali parti furono in Firenze Capi i Buondelmonti, insieme con molti altri, e si nomarono Guelfi; e dell'altra, che si nomò de' Ghibellini furono capi gli Uberti collegati con gli Amadei, e con altre molte famiglie; la qual fiera pestilenza si sparse poscia in breve tempo per la maggior parte dell'altre città d'Italia con grande lor disfacimento e rovina. Poichè nelle discordie nate tra Pontefici e gl'Imperadori, quelli del partito, che seguirono l'Imperadore furon detti perciò Ghibellini, gli altri del contrario, che seguirono le parti del Papa si dissero Guelfi; ed i Papi proccuravano mantener le fazioni, per così deprimere, o almen bilanciare le forze imperiali. Questo istesso intendeva fare Onorio con Federico, non ostante d'esser stato così ben da lui corrisposto. Ma questo Principe ciò dissimulando, lasciato in Toscana Corrado Vescovo di Spira e Cancelliero imperiale d'Italia, acciocchè mantenesse in fede i vecchi amici, e ne gli acquistasse altri di nuovo, partitosi di Roma venne in Terra di Lavoro, richiamato anche per reprimere alcune novità, che alcuni Baroni macchinavano nel Regno, e giunto a S. Germano fu a grand'onor raccolto dall'Abate Stefano; indi tolse al Conte di Fondi Sessa, Teano e la Rocca di Mondragone, che ne' passati tumulti avea occupati.

§. II. Della Corte capuana.

Non guari da poi Federico, da S. Germano, passò a Capua, ove formatosi convocò un general Parlamento, nel quale diede molti provedimenti per la quiete e comun bene del nostro Reame. Allora fu, che per consiglio di Andrea Bonello da Barletta celebre Giureconsulto ed Avvocato fiscale della sua Corte si ristabilì in Capua un nuovo Tribunale, chiamato la Corte capuana[266], nella quale ordinò, che i Baroni ed i Comuni delle città e terre, ed ogni altra persona, dovessero presentare tutte le concessioni e privilegi delle lor castella, e di altre cose, che tenevano da lui e da' passati Re suoi predecessori (ad esclusion però di Tancredi e suoi figliuoli, che gli ebbe per intrusi) per riconoscergli se stavan bene, o fossero stati illegittimamente conceduti in tempo di turbolenze; ingiungendo, che coloro che non gli presentassero, si tenessero caduti dalle concessioni, che in essi si contenevano e s'applicassero alla sua Camera; rivocando altresì alcune di esse, ch'erano state fraudolentemente estorte. Di che oltre di quel che ne scrisse Riccardo di S. Germano[267], ne abbiamo anche nelle nostre Costituzioni del Regno un intero titolo: De privilegiis a Curia Capuana revocatis. Ciò che abbiam voluto avvertire, perchè non si creda, che Federico questa Corte l'avesse istituita in Napoli, come si diedero a credere Camillo Salerno[268] e 'l Tutini[269], essendo stata quella eretta in Capua, e perciò chiamata Capuana. Napoli fu da poi da questo Principe innalzata sopra tutte le altre per l'Accademia degli Studi, che vi fondò, e per lo Tribunal della Gran Corte, di che più innanzi ci sarà data occasione di favellare.

Ma ne fu grandemente biasmato il Bonello nostro Giureconsulto autor di tal Corte; poichè quella apportò danno gravissimo a molti, a' quali, o i loro privilegi furon rivocati, o pure, perchè non presentati in tempo, non fu di essi poi tenuto conto; onde i nostri Commentatori sopra quella Costituzione mal sentono di questa istituzione, e ne parlano con istrapazzo, come stabilita senza legge e senza ragione, e che sappia di tirannide; ma Marino da Caramanico antico Glossatore ben la difende contro tutti gli sforzi di costoro.

Ordinò ancora Federico in questo general Parlamento, che si abbattessero tutte le Rocche e Fortezze, che novellamente alcuni Baroni aveano edificate per lo Reame; di che l'istesso Federico in un'altra Costituzione, che abbiamo sotto il titolo de novis aedificiis, ne fece anche menzione[270]; e dopo aver dati altri provedimenti, che, come dice Riccardo da S. Germano, in venti capitoli erano contenuti, compita l'Assemblea, da Capua, essendo entrato l'anno 1221, se ne andò a Sessa, ove fece torre a Riccardo fratel del morto Pontefice Innocenzio il Contado di Sora, che in suo nome gli aveano donato i Governadori del Regno, mentre era egli ancor fanciullo, come si è di sopra narrato[271]. Comandò ancora a Ruggiero dell'Aquila, che assediasse il castello d'Arce difeso da Stefano Cardinal di S. Adriano, e l'ottenne; ed a preghiere de' Tedeschi sprigionò il Conte Diopoldo, che sin dall'anno 1218 avea fatto carcerare.

Nel medesimo tempo concedette il Contado della Cerra a Tommaso d'Aquino, e 'l creò Maestro Giustiziero di Puglia e di Terra di Lavoro[272]. Passò poi sopra Bojano con molti altri Baroni, ch'erano in sua compagnia, per reprimere la fellonia del Conte di Molise e d'alcuni altri Baroni; ed avendogli abbassati e posta in tranquillità quella provincia, discorse anche per la Calabria e per la Puglia, ancor tumultuanti; poichè molti Prelati e Baroni, che per la sua fanciullezza eran avvezzi a vivere a lor talento, non intendevano ubbidirlo, se non quando lor piaceva: a reprimer queste rivolture v'accorse immantenente; ed avendo discacciati alcuni Baroni, ed altri costringendogli alla fuga, questi si ricovrarono in Roma sotto il presidio del Pontefice Onorio; di che si doleva Federico, che Onorio accogliesse i suoi nemici e ribelli, e fomentasse con ciò le ribellioni ne' suoi Stati, istigando ancora molti Vescovi a far il medesimo; onde fu egli costretto per sicurezza dello Stato discacciarne alcuni dalla Puglia, e sustituire altri Vescovi in luogo loro; e, per sostenere il suo esercito, di taglieggiare indifferentemente così le Chiese come i Cherici per li suoi bisogni[273].

CAPITOLO I. Prime origini delle discordie tra l'Imperadore Federico II, con Papa Onorio III.

Questi furono i primi fomenti dell'inimicizie tra Federico ed Onorio. Federico portava le doglianze contro Onorio, che oltre di mantenergli le città Guelfe avverse, ricovrava sotto il suo presidio i suoi nemici e ribelli, fomentando ancora molti Prelati del Regno a questo fine. All'incontro Onorio vedendo discacciati alcuni Vescovi, taglieggiate le Chiese, ed in lor luogo sustituiti altri da Federico, altamente si querelava di lui, che così violasse l'immunità e libertà della Chiesa, ch'egli medesimo dopo la sua coronazione avea giurato di conservare, e stabilite perciò più Costituzioni. Declamava ancora, come s'arrogasse tanta autorità d'investire i Prelati del Regno e discacciar quelli rifatti da lui; onde per questo inviò suoi Legati all'Imperadore, affinchè gli restituisse nelle loro Sedie.

Ma Federico costantemente gli rispose, che fu sempre in balìa de' Principi discacciar da' loro Stati i Prelati a se sospetti e diffidenti, e che sin da Carlo M. era stato lecito agl'Imperadori d'investire i Vescovadi ed altre dignità coll'anello e collo scettro, e che fu antica autorità, anche de' Re di Sicilia nella elezione de' Prelati dar l'investiture e gli assensi: che questo lor privilegio non poteva derogarsi da Innocenzio III, come fece con una donna, mentr'egli era ancor fanciullo; e che prima si lascerebbe torre la Corona, che derogar in un punto a questi suoi diritti[274].

Dall'altra parte il Papa scrisse una molto forte lettera, rapportata da Pirro[275], a tutti i Ministri regj di Sicilia, perchè non permettessero l'esazione de' tributi contro i Cherici ed altre persone ecclesiastiche, ma gli lasciassero immuni, come erano sotto Guglielmo II. Alcuni scrissero, che fra questi contrasti, Federico, prima di passare in Sicilia, avesse celebrato un altro Parlamento in Melfi, come nell'anno precedente avea fatto in Capua, e che quivi avesse fatto pubblicare il volume delle sue Costituzioni, compilato per suo ordine da Pietro delle Vigne. Ed in vero se dovesse attendersi la data, che quelle portano, dovrebbe dirsi, che in quest'anno 1221 quella compilazione seguisse, così leggendosi nelle vulgate: Actum in solemni Consistorio Melfitensi, Anno Dominicae Incarnat. M.CC.XXI. Ma perchè Riccardo di S. Germano non fa menzione di tal Parlamento in Melfi in quest'anno, ma ben nell'Anno M.CC.XXXI dice, che fu tenuto in quella città, ove si stabilirono queste Costituzioni, perciò noi differiamo a parlar di questa compilazione nel tempo posto da Riccardo, ove con manifesti argomenti dimostreremo non altrimenti in quest'anno, ma in quello essersi pubblicato quel volume; e che per isbaglio degl'impressori, che era facilissimo ad accadere, in vece del 1231 siasi impresso 1221.

Pubblicò egli è vero in questo medesimo anno alcune sue Costituzioni, ma non già nel Parlamento di Melfi ma in quello che tenne in Messina, quando composte le cose di Puglia passò in Sicilia, le quali da Pietro delle Vigne furono poi anche inserite in quel volume, insieme con quelle, che pubblicò in Capua, e con altre, che stabilì altrove per varie occasioni, come ben a lungo, quando di questa compilazione ci toccherà favellare, diremo.

Intanto Federico terminato questo Parlamento in Messina passò a Palermo, ove fece raccorre per tutti i suoi Regni una general taglia della ventesima parte delle rendite degli Ecclesiastici, e della decima de' Laici, non già per avarizia, come pure a torto ne fu incolpato, ma per soccorso della guerra di Terra Santa, e particolarmente per soccorrer Damiata, la quale era strettamente assediata dal Soldano d'Egitto. Inviò pertanto colà la raccolta moneta per Gualtieri della Pagliara Gran Cancelliero, e per Errico conte di Malta Grand'Ammiraglio di Sicilia; ma giunto costoro in Damiata fu per colpa del Cardinal Pelagio, e di tutti gli altri Principi, che colà militavano, perduta quella città, che con tanti travagli si era acquistata, restituendola vergognosamente al Soldano d'Egitto: di che fieramente sdegnato Federico contro il Gran Cancelliero ed il Grand'Ammiraglio, ch'eran con gli altri concorsi a così vergognosa resa, imprigionò il Conte, e lo spogliò di tutte le terre ed ufficj che possedea, ed il Cancelliero se ne fuggì a Vinegia, dove forse in esilio morì, non facendosi di lui più menzione alcuna nelle scritture di que' tempi. Morì in questo medesimo tempo in Bologna Domenico di Gusman, che fu poi chiamato Santo.

Nel nuovo anno 1222, mentre Federico teneva Corte in Catania, giunse in queste nostre parti, e propriamente nel mese di febbrajo, la nuova al Papa della caduta di Damiata; onde questi da Roma portatosi in Anagnia, cominciò, secondo il suo costume, ad aspramente dolersi di Federico, che ponendo le mani nelle ragioni della Chiesa taglieggiava i Frati ed i Preti: che avea scacciato dalla Chiesa di Aversa il Vescovo legittimamente eletto per porvene un altro di sua testa, ed il medesimo avea fatto in Salerno, ed in Capua: che dal mandar in lungo l'espedizione da lui solennemente in voto promessa di passare in Terra Santa, i Cristiani aveano perduta Damiata, imputandogli che se fosse colà andato, non si sarebbe perduta quella città con tanto danno e vergogna. Federico volendosi purgar di queste accuse, partì da Sicilia, ed andò a ritrovar il Pontefice, ch'era passato in Veruli, ed ivi abboccatisi insieme, dimoraron colà quindici giorni continui, e pacificatisi ora a cagion de' gravi bisogni di Terra Santa, statuirono, che s'avesse a convocar una general Corte di tutti i Principi in Verona per trattare d'andare a soccorrere i Cristiani di Soria, promettendo di nuovo Federico di passarvi senz'altra dimora fra certo prefisso tempo con potente esercito.

Composte in cotal guisa le cose del Papa, passò Federico in Puglia, ove dato assetto a quella provincia, bisognò, che ritornasse subito in Sicilia, a cagion che i Saraceni gli avean mossa ribellione; e mentre egli valorosamente gli combattè, ecco che l'Imperadrice Costanza si muore nella città di Catania, avendogli partorito Errico, ed un altro figliuolo chiamato Giordano, che se ne morì fanciullo[276].

Era a questo tempo l'Imperador Federico non più che d'anni 25, e vedendosi nella sua giovanezza privo di moglie, e con il solo figliuolo Errico ch'era in Germania, proccurò dopo la morte dell'Imperadrice farlo dichiarar suo successore, e lo fece coronar Re di Germania in Aquisgrana; ed aggiunge Bzovio, che Federico affrettò tal coronazione, poichè perduta Damiata, il Papa il sollecitava alla navigazione di Terra Santa: e perciò affrettò anche le nozze del fanciullo con Margherita figliuola di Leopoldo Arciduca d'Austria.

Dopo aver Federico trionfato de' Saraceni, e di Mirabetto lor Capo, fece ritorno in Puglia, ove ebbe nuovi disgusti col Papa, per cagion che gli Ufficiali regj esigevan indifferentemente le collette dalle Chiese, e dagli Ecclesiastici: di che offeso Onorio, spedì all'Imperadore il Priore di S. Maria la nuova, perchè glie lo proibisse: onde Federico mosso dalle dimande del Papa, mentr'era in Veruli subito scrisse a' suoi Ufficiali, che non più taglieggiassero le Chiese e gli Ecclesiastici.

CAPITOLO II. Unione della Corona di Gerusalemme a quella di Sicilia.

Fra gli altri pregi onde Federico ornò il Regno di Sicilia, sotto il qual nome in questi tempi venivan comprese queste province e l'isola di Sicilia, fu quello della Corona di Gerusalemme; onde da lui i successori Re di questo Regno riconoscono questo spezioso titolo, e godono i patronati e le preminenze nel tempio di quella città, e nel sepolcro di Cristo: unico e misero avanzo di ciò che ci è rimaso oggi, da poi che quel Regno passò sotto la dominazione de' Turchi. E poichè da' nostri Scrittori questo soggetto non vien trattato con quella dignità e chiarezza che merita, fa di mestieri che partitamente se ne ragioni.

Due unioni della Corona di Gerusalemme a quella di Sicilia vengono da' nostri Scrittori rapportate. La prima avvenne in quest'anno 1222 nella persona dell'Imperadore Federico II Re di Sicilia, per le ragioni di Jole sua seconda moglie; ed è la più ben fondata, e della quale ora favelleremo. L'altra nel 1272 nella persona di Carlo I d'Angiò per la cessione di Maria figliuola del Principe d'Antiochia, la quale, come diremo a suo luogo, tenendo un principio alquanto torbido, non è molto riguardata.

Il Regno di Gerusalemme dopo la morte di Balduino fratello del famoso Goffredo Buglione, che ne fu eletto prima Re, pervenne nel 1118 a Balduino II suo fratel cugino, il quale non avendo figliuoli maschi, per assicurare la successione in quel Regno alla sua primogenita Melisinda, la diede in matrimonio a Folco Conte d'Angiò, ch'ebbe il titolo di Re di Gerusalemme l'anno 1131.

Balduino III suo figliuolo gli succedette, e poi suo fratello Amorico. Quest'ultimo lasciò un figliuolo nominato Balduino IV in età di tredici anni, il quale regnò dodici anni sotto la reggenza di Raimondo Conte di Tripoli.

Questo Balduino non lasciò di se alcuna prole, ma solo due sorelle, figliuole d' Amorico. La prima fu chiamata Sibilla, la seconda Isabella. Sibilla era stata data in moglie a Guglielmo Marchese di Monferrato, dalle quali nozze era nato un figliuolo chiamato Balduino; e morto Guglielmo, rimasa Sibilla vedova, Balduino IV suo fratello Re di Gerusalemme, la diede in Matrimonio a Guido di Lusignano, destinandolo parimente per suo successore; ma poi usando giustizia a suo nipote, mutò sentimento, e fece coronare Re Balduino V suo Nipote, e gli diede il Conte di Tripoli per Tutore.

Dopo la morte di Balduino IV e di Balduino V suo nipote, che non lasciando prole lo seguì poco da poi, il Conte di Tripoli, e Guido di Lusignano contesero fra loro la Corona. Sibilla però la fece dare al suo marito Guido: di che mal soddisfatto il Conte, ebbe dell'intelligenze secrete con Saladino Califa di Egitto, il quale colle sue conquiste essendosi reso Signore dell'Egitto, dell'Affrica, dell'Assiria e di tutta l'Affrica, ed avendo dichiarata la guerra a' Cristiani della Siria, venne tosto ad assediar Tiberiade. Guido Re di Gerusalemme venne in soccorso; ma la necessità avendo costretti i Cristiani alla battaglia, avendogli abbandonati il Conte di Tripoli, restarono perditori. Il Re di Gerusalemme fu fatto prigione, e l'esercito cristiano interamente disfatto. La rotta fu seguita dalla perdita di quasi tutto il Regno di Gerusalemme: Tiberiade, e l'altre città vicine furono prese: Acra, Berito ed Ascalona furono rese con condizione, che il Re Guido fosse posto in libertà. Saladino in fine assediò la città di Gerusalemme, e la prese a composizione, di modo che non restò altro a' Cristiani in Asia, che tre Piazze, cioè Antiochia, Tripoli e Tiro. Tutte queste disavventure successero a' Cristiani l'anno 1187.

Intanto Corrado Marchese di Monferrato, morta Sibilla senza lasciar di se prole, si sposò Isabella sua sorella, per le cui ragioni pretendeva egli il Regno di Gerusalemme già perduto, onde con vigore si pose a difender la città di Tiro; poichè si era Tripoli data a Balduino Principe di Antiochia dopo la morte del Conte, il qual poco sopravvisse al suo tradimento, essendo morto d'afflizione, perchè Saladino non gli aveva mantenuta la parola, che gli avea data di farlo Re di Gerusalemme.

Vedendo il Papa ed i Principi d'Europa lo stato deplorabile, nel quale erano ridotti i Cristiani d'Oriente, s'accinsero alcuni di essi ad andare in Oriente in lor soccorso; e risoluta nell'anno 1188 la Crociata, vi si trovarono pronti i Re di Francia e d'Inghilterra, i quali partirono co' loro eserciti nell'anno 1190, e giunsero felicemente in Palestina, e combatterono con Saladino, a cui tolsero la città d'Acra. Ma il Re di Francia venendo molto incomodato da una grave infermità, risolvette di ripassare il mare, lasciando una parte delle sue truppe in Palestina; e prima di partire compose col Re d'Inghilterra le contese, che trovarono insorte con pregiudicio de' Cristiani tra Guido di Lusignano, e 'l Marchese di Monferrato per lo Regno di Gerusalemme. Fu secondo alcuni deciso, che Guido riterrebbe in tutto il corso di sua vita il titolo di Re di Gerusalemme, e dopo la sua morte il Marchese di Monferrato, ovvero i di lui figliuoli avrebbero la Corona. Fu parimente deciso, che le città di Tito, di Sidone e di Berito restassero al Marchese.

Da Isabella moglie di Corrado di Monferrato non ne nacquero maschi, ma quattro figliuole femmine. La primogenita fu Maria, che si maritò con Gio. Conte di Brenna: Alisia secondogenita, maritata secondo il Summonte con Ugo Re di Cipro: Sibilla terzogenita, maritata con Livone Re d'Armenia; e Melisina quartogenita, la quale, secondo il medesimo Scrittore, fu maritata col Principe d'Antiochia, dal cui matrimonio ne nacque Maria, la quale per le ragioni della madre pretendeva il Reame di Gerusalemme appartenersi a lei.

Nella posterità adunque d'Isabella figliuola d' Amorico, e sorella di Balduino IV Re di Gerusalemme erano trasfuse le ragioni sopra quel Reame; e ciascheduno vi avea le sue pretensioni; ma niuno la possessione, poichè il Regno era sotto la dominazione di Saladino. Fra' più legittimi pretensori era riputato Giovanni di Brenna, il quale per cagione della sua moglie Maria figliuola primogenita d'Isabella, si faceva chiamare Re di Gerusalemme: ed avendo di questo matrimonio procreata una figliuola chiamata Jole, o come altri dicono Joalanta, o Violanta; questa per la morte di Maria sua madre rappresentava le ragioni sopra quel Reame.

Or a' questi tempi, resa che fu Damiata, l'armata de' Cristiani se ne tornò di Soria in Puglia, con la quale venne anche in Italia il Gran Maestro de' Cavalieri Teutonici, nomato Ermanno Saltza[277], il quale andò a ritrovar Federico, ed a spingerlo, che andasse alla conquista di Terra Santa, e per indurlo al suo parere gli propose, ch'essendo egli già vedovo, doveva proccurar di sposarsi con Violante, detta comunalmente Jole, bella ed avvenente giovane, ed unica figliuola di Giovanni di Brenna, e della già defonta Maria Reina di Gerusalemme sua donna, alla qual Jole, come erede di sua madre, spettando queste ragioni, glie le avrebbe recate in dote; e ch'egli poi con la sua potenza avrebbe facilmente tolto quel Regno dalle mani del Soldano, insignorendosi parimente di tutte le altre fertilissime regioni d'Egitto, come possedute da genti imbelli, e di poco valore, ed agevolissime a debellarsi con le forze d'Alemagna e di Sicilia. Aggradì molto questa proposta all'Imperadore, onde rispose, che avrebbe lietamente il parentado conchiuso: così il Gran Maestro, presosi il carico di guidar tal affare, se ne passò in Roma al Pontefice, e da lui cortesemente accolto, dopo varj discorsi delle cose di Soria, gli richiese Onorio qual sicura via più tentar si potrebbe per sottrar di servitù que' santi luoghi: ed il Gran Maestro che ciò attendea, prestamente disse che il modo più agevole era, interessar l'Imperadore in quegli Stati, in guisa tale, che non solo per osservargli la promessa, e per lo suo onore, ma anche per propria utilità passasse a guerreggiarvi; e quando Onorio ripigliò, come ciò far si potrebbe, rispose con darli per moglie la figliuola del Re Giovanni, e procacciare che quel Re per la dote glie ne cedesse le ragioni, che vi avea per cagion di sua moglie: piacque sommamente al Pontefice tal risposta, e replicandogli che modo tener si potrebbe, acciocchè col voler d'ambe le parti cotal parentado si conchiudesse, allor rispose Fr. Ermanno, ch'egli poteva scrivere al Re, ed a Fr. Guerino di Monteaguto, col cui consiglio per lo più il Re governava i suoi affari, che fossero amendue venuti in Roma, perchè avea a trattar con loro un importante negozio, per la difesa e conquista di quei paesi; e che venuti gli persuadesse cotal parentado, ch'egli dall'altra parte vi avrebbe senza fallo fatto concorrer l'Imperadore. Stette da prima dubbio il Pontefice, che l'assenza di tai due personaggi da Palestina, cagionasse alcun notabil danno; ma persuaso da Fr. Ermanno, che ciò avvenir non potea, per la pace novellamente fatta col Soldano, il Pontefice concorso nel voler di lui, significò prestamente con sue lettere al Re, ed al Fr. Guerino, che per importanti bisogni degli affari di Terra Santa, a Roma venissero. Le cui lettere capitate in potere del Re Giovanni, per ubbidire al Pontefice, tosto s'imbarcò col Patriarca di Gerusalemme, e col Vescovo di Bettelemme, ed in breve tempo giunto a Roma, andò a ritrovare Onorio, il quale caramente accoltolo e favellandogli del parentado, tosto col suo voler concorse; onde fatto di ciò consapevole Federico da Fr. Ermanno, incontanente di Sicilia partitosi ne venne a S. Germano; e di là chiamato da alcuni Cardinali andò in Campagna di Roma, ove poco stante sopraggiunto il Papa, s'abboccarono in Ferentino, e concordata di nuovo ogni lor differenza si conchiuse il maritaggio, promettendo solennemente Cesare in presenza del Papa, de' Cardinali, e de' Maestri dell'Ospedale, e dei Cavalieri Teutonici di prender Jole per moglie colla dote delle ragioni sopra il Regno di Gerusalemme, e di passar fra due anni con potente armata oltremare a conquistar Terra Santa: qual avvenimento esser in cotal modo seguito, oltre al Bzovio e Riccardo da S. Germano, vien parimente scritto da Onorio in una sua epistola a Filippo Re di Francia, esortandolo in essa a passar anch'egli a guerreggiare in que' santi luoghi.

Conchiuso in cotal guisa il parentado, si mandò tosto in Palestina a far condurre Jole in Italia, ed il Re Giovanni se ne passò in Ispagna a visitar la chiesa dell'Appostolo S. Giacomo in Galizia, ed ivi ammogliatosi con Berengaria, figliuola d'Alfonso IX Re di Lione, per Francia ove possedea ricchi Stati, a Vienna sua patria ritornò; e Federico partitosi da Ferentino venne nel Regno, e per le strade di Sora andò a Celano, indi passato in Puglia, dimorò per qualche tempo in Bari, donde poi navigò di nuovo in Sicilia.

Così dunque il Re Giovanni di Brenna, che per 27 anni per ragion della Regina Maria sua moglie si aveva goduto il titolo di Re di Gerusalemme, ma senza Stato, poichè Terra Santa era passata già sotto la dominazione del Soldano d'Egitto, in quest'anno dotando Jole sua figliuola, a cui queste ragioni spettavano, com'erede di sua madre, diede il titolo e le ragioni suddette in dote all'Imperadore e suoi eredi legittimi, onde avvenne che i Re di Sicilia si dissero anche Re di Gerusalemme. Egli è vero, che Federico non in questo anno, che si conchiuse questo maritaggio cominciò ad intitolarsi ne' Diplomi, ed altrove Re di Gerusalemme, ma cominciò ad usar questo titolo nell'anno 1225 quando venuta Jole in Italia, celebrate con molta pompa le nozze, e consumato in Brindisi già il matrimonio, volle incoronarsi colla Corona di quel Regno; ed in oltre volle, che il Signor di Tiro, e molti altri Baroni di Palestina, ch'erano in compagnia del Re Giovanni gli giurassero fedeltà, ed inviò in Tolemaida il Vescovo di Molfetta con due Conti, e 300 soldati siciliani, acciocchè da ciascuno in suo nome ricevessero il dovuto omaggio, e giuramento, confermando per Vicerè e Governadore di quel Regno Ugo di Monte Beliardo Cavalier francese, che l'avea governato prima in nome del Re Giovanni; onde da quest'anno, come osservò Inveges, si veggono i privilegi di Federico col titolo di Rex Hierusalem. Ma non è già vero ciò che scrive il medesimo Autore, che Federico costantemente preferisse sempre questo titolo a quello di Sicilia, per doppia ragione, com'e' dice, così per onore di quella città santa, com'anche per essere più antica la Corona di Gerusalemme, che quella di Sicilia; nel che (se non si voglia andar tanto indietro ne' tempi degli antichi Tiranni di quell'isola) dice vero, avendo Gerusalemme sin da' tempi d'Urbano II nell'anno 1099 quando Goffredo Buglione conquistolla, avuta tal prerogativa; e la Sicilia nell'anno 1130 ne' tempi di Ruggiero I Re normanno, come abbiam narrato nell'undecimo libro di questa Istoria; poichè al contrario si vede in molti diplomi preposto il titolo di Re di Sicilia, a quello di Gerusalemme; e nel proemio delle nostre Costituzioni i suoi titoli si leggono in cotal guisa disposti: Italicus, Siculus, Hierosolymitanus. Quindi deriva ancora, che i nostri Re nelle loro arme inquartino la croce di Gerusalemme, e meritamente si pregino di questa bella prerogativa.

Ma Frate Stefano Lusignano nella sua Cronaca di Cipri, oppone a' Re di Sicilia quelli di Cipro, e vuol che a costoro s'appartenga questa ragione, come più prossimi eredi; e narra che perciò i Re di Cipro solevano prima in Nicosia prender la Corona di Cipro, e dopo a Famagosta quella di Gerusalemme; ma egli di gran lunga va errato, poichè dalla genealogia dei Regi gerosolimitani, ben si vede, che la Regina Maria madre di Jole era la più prossima erede, come primogenita d' Isabella figliuola d' Amorico Re di Gerusalemme.

§. I. Trasmigrazione de' Saraceni di Sicilia in Lucera di Puglia, e de' Pagani.

Dimorando ancora l'Imperador Federico in Sicilia, preso dall'ameno sito di Napoli, dirizzò i suoi pensieri in favorirla sopra tutte l'altre città del Regno di Puglia. Coloro, che non vogliono farne autore il Re Guglielmo, narrano, che nel seguente anno 1223 facesse Federico edificar in Napoli il castello capuano scrivendo che quelli dell'Uovo, e di S. Eramo solamente fossero stati edificati da' Normanni. Questo Principe fu il primo che gettò le fondamenta, onde col correr degli anni, divenuta questa città capo e metropoli d'un sì bel Regno, s'ergesse sopra tutte le altre; poichè nel seguente anno 1224 avendo quivi istituiti gli studj generali, fu cagione che si rendesse più numerosa d'abitatori, concorrendo in quella non pur gli scolari di tutte le altre province, ma di Sicilia istessa, secondo gl'inviti ch'e' ne fece, come diremo più innanzi.

Guerreggiò ancora in quest'anno 1223 di nuovo co' Saraceni di Sicilia, assediandogli e combattendogli in diversi luoghi, come molesti e perturbatori della quiete de' Siciliani; e da poi che gli ebbe soggiogati temendo lasciargli in quest'isola, come troppo vicina all'Affrica, donde spesso ricevevano soccorsi, ne trasportò in Puglia un grosso numero, e lor diede ad abitare la città di Lucera, e questa fu la prima loro trasmigrazione di Sicilia in Lucera, fatta Colonia dei Saraceni. La seconda fu fatta nell'anno 1247 quando Federico il misero avanzo, che d'essi era rimasto in quell'isola, lo trasportò nell'altra Lucera detta perciò de' Pagani; ed avendo a' primi, che trasportò in Puglia, dato in processo di tempo in lor potere tutta la Japigia, ora detta Capitanata, portarono molto incomodo a questa provincia, non cessando d'affliggerla con infinite cattività e licenze militari, essendo lor sofferto il tutto da Federico, e poi da Manfredi, poichè come valorosi, d'essi si servivano assai utilmente in diverse guerre contro i Pontefici romani, e contro altri Signori o città d'Italia; infinchè Carlo I d'Angiò dopo l'acquisto del Regno, con una lunga guerra, e con poderosi eserciti non gli scacciasse, secondo che nel progresso di quest'Istoria racconteremo.

CAPITOLO III. Degli Studj generali istituiti da Federico in Napoli.

Napoli come città greca ebbe sin da' suoi natali le Scuole, ove la gioventù nelle buone lettere istruivasi; ma Federico in quest'anno 1224 le ristabilì e ridusse in forma d'Accademia. Non fu egli il primo autore degli Studj in Napoli, come si diedero a credere alcuni: egli gl'ingrandì, e ridusse in una più nobile forma, e da' Studj particolari, che prima erano, destinati per la città sola, gli rese generali per tutto il Regno di Sicilia, e trascelse Napoli, dove da tutte le province del nostro Regno e della Sicilia doveano i giovani portarsi per apprender le discipline.

Da più cagioni fu mosso questo savio Principe a ristabilir in Napoli sì illustre Accademia, com'egli medesimo ne rende testimonianza nelle sue epistole, che si leggono presso Pietro delle Vigne suo Secretario e Consigliero[278]. In prima, dall'essere stata riputata sempre questa città antica madre, e domicilio degli studj; per secondo, dall'amenità del suo clima; e per ultimo, dall'esser collocata in parte comoda, e vicina al mare, dove per la fertilità così del terreno, come del traffico marittimo, era abbondanza di tutte le cose bisognevoli per l'uman vivere, e dove con facilità da tutte le parti così terrestri, come marittime, si potevan conducere i giovani a studiare.

Ci testifica Riccardo da S. Germano, Scrittor contemporaneo, che Federico nel mese di luglio di quest'anno 1224 ordinò quest'Accademia, mandando per tutte le parti del Regno, così di Puglia, come di Sicilia sue lettere a questo fine: Mense Julio ci dice, pro ordinando studio Neapolitano Imperator ubique per Regnum mittit litteras generales. Alcune di queste lettere si leggono ne' sei libri dell' epistole scritte da Pietro delle Vigne, nelle quali si prescrive la forma di quest'Accademia, alla quale di molti privilegi e prerogative fu liberalissimo. Primieramente furono da lui costituiti chiarissimi ingegni con grossi stipendj per Maestri di quest'Università in ciascuna facoltà; egli chiamò da parti anche remote Professori insigni che insegnar dovessero in quest'Accademia le discipline, proibendo loro, che in altra privata scuola, nè fuori, nè dentro il Regno insegnar potessero, se non in questa Accademia[279]. V'invitò con grossi stipendj i Maestri Pietro d'Ibernia, e Roberto di Varano assai noti e celebri Dottori in quella età (poichè Maestro in que tempi valeva l'istesso, che al presente Dottore) uomini, come Federico istesso gli qualifica, civilis scientiae professores, magnae scientiae, notae virtutis, et fidelis experientiae[280]. V'invitò ancora tutti gli altri Professori di ciascuna facoltà, perchè niente vi mancasse, com'ei dice nell'undecima epistola: In primis, quod in Civitate praedicta Doctores, et Magistri erunt in qualibet facultate.

Vi ebbero, oltre i Professori di legge, onorato luogo i Teologi; vi furono invitati perciò, o i Monaci del monastero di Monte Cassino, celebri in questi tempi per dottrina, o i Frati dell'Ordine di S. Domenico, ovvero i Frati Minori di S. Francesco; due religioni di fresco allora surte, che s'aveano acquistata molta stima per la santità non meno, che per la dottrina de' loro Religiosi. E quando nell'anno 1240 per le fazioni, che proccuravano mantener questi Frati contro Federico nelle discordie insorte tra lui e Gregorio IX, tanto che fu obbligato questo Principe a discacciargli tutti dal Regno, come perturbatori della pubblica quiete, mancando perciò in quest'Accademia i Professori di teologia, l'Università degli studj di Napoli scrisse una lettera ad Erasmo Monaco Cassinense Professore di teologia, invitandolo a venire in Napoli per riparare colla sua dottrina questo difetto, che per la mancanza di que' Frati pativa il napoletano studio. Questa lettera oggi giorno si conserva nella Biblioteca Cassinense, e vien rapportata dall'Abate della Noce[281], e porta in fronte quest'iscrizione: Honestissimo, et peritissimo viro Magistro Herasmo Monacho Casinensi Theologicae scientiae Professori; Universitas Doctorum, et Scolarium Neapolitani Studii salutem, et optatae felicitatis augumentum.

Ebbe ancora quest'Università Professori di legge Canonica; ed il Summonte rapporta, nel regio Archivio di Napoli nel registro dell'Imperador Federico II al fol. 21 leggersi una scrittura, che parla dell'istituzione di questo generale Studio, che comincia: Scriptum est Clero, Baronibus, Militibus, Bajulis, Judicibus, et universo Populo Neapolitano: nella quale tra l'altre cose s'ordina, che non fossero ricevuti in questo Studio gli uomini nati nelle città, che poco prima se gli erano ribellate nella Lombardia; e tra gli altri Dottori, che v'invitò, fu Bartolomeo Pignatello di Brindisi famoso Canonista, chiamato a leggere ivi il jus canonico.

Non vi mancarono ancora i Professori di Medicina; tanto che Napoli cominciò allora a contendere di pari col Collegio de' Medici di Salerno, ordinando Federico in una sua Costituzione[282], che niuno ardisse leggere nel Regno medicina o chirurgia, se non in Salerno o in Napoli; nè che potesse alcun ricever grado di Medico o di Chirurgo, se prima non fosse stato esaminato da' Medici di queste due Università; il quale dopo aver ricevuto da' medesimi le lettere d'approvazione, non avesse l'esercizio di medicare, se prima non si presentasse innanzi a' suoi Ufficiali e Professori di quell'arte, da lui per tal effetto deputati: e da costoro quantunque dichiarato abile ed idoneo, nemmeno potesse esercitar il mestiere senza espressa licenza del Principe, ovvero, essendo quello assente dal Regno, del suo Vicario[283]. Ond'è che Luca di Penna ed Agnello Arcamone dissero, che prima nel nostro Regno il solo Re approvava i Medici, e dava la licenza di curar gl'infermi[284]. Ciò che poi, secondo che scrisse Andrea d'Isernia[285], fu variato per le nuove ordinazioni de' Regnanti, per le quali fu stabilito, che coloro che volevano esser graduati in medicina, dovessero presentarsi innanzi a colui, che il Re avea ordinato sopra la cura degli studj; ed oggi in Napoli, questa prerogativa di graduare in medicina ed in tutte l'altre professioni, è presso al Gran Cancelliero del Regno, e suo Collegio, che in vece del Re dottora, ed in Salerno per la medicina presso quel Collegio; quindi è che presso di noi l'Università degli studj di Napoli non abbia, come nell'altre Università d'Europa, la facoltà di dar grado di Dottore, ma solo lettere d'approvazione, avendosi il Re riserbata questa prerogativa, e conceduta al Gran Cancelliere, che l'esercita in suo nome.

Oltre d'aver Federico fornita quest'Accademia di Professori in ciascuna facoltà, e d'averle conceduta potestà di spedir lettere d'approvazione a coloro, che volevano in quelle graduarsi, le concedè ancora, così per quel che riguarda le persone de' Professori, come degli Scolari, molto nobili prerogative.

Perchè quest'Accademia si rendesse più celebre e numerosa, ordinò che solamente in quella potessero i Professori insegnar le scienze, e che gli Scolari in niun'altra città così di questo Regno, come di quello di Sicilia, nè fuori potessero andare ad apprender lettere, che in Napoli[286]. Nel che si procedeva con tanto rigore, che per essersi così severamente vietati gli studj in tutte le parti del Regno si dubitò dal Giustiziero di Terra di Lavoro, se s'intendessero proibite anche le scuole di grammatica, delle quali non doversi intendere il suo editto, dichiarò Federico in una sua lettera, che pur leggiamo ne' sei libri dell'epistole di Pietro delle Vigne[287].

Concedè parimente a quest'Università e suoi Dottori e Maestri, giurisdizione di poter conoscere delle cause civili degli scolari, come si legge in quell'epistola, che drizzò agli scolari medesimi, invitandogli a questo Studio: Item omnes scholares in civilibus, sub eisdem doctoribus, et Magistris debeant conveniri[288]. E per renderla vie più numerosa, ordinò a tutti i Moderatori delle province, che sotto severe pene costringessero gli scolari di quelle a venire a studiare in Napoli, con proibir loro d'andare altrove, o dentro, o fuori del Reame[289]. Mandò ancora altri pressanti ordini al Capitano di Sicilia, d'invitare i giovani di quell'isola a voler venire a studiare in Napoli, ove avrebbero godute molte prerogative, franchigie ed immunità[290]. E nell'anno 1226 essendosegli ribellata Bologna, ordinò che gli scolari, che ivi erano, venissero a studiare in Napoli, o in Padoa; e nell'anno 1233 avendo per le turbolenze accadute nel Regno a cagion delle discordie tra Federico ed il Papa, patito questi studj danni gravissimi, Federico gli ristorò, e nella pristina forma gli ridusse[291].

Ed infatti, per invitare questo Principe la gioventù allo studio delle lettere, concedè a' scolari moltissimi privilegi. Si dichiarò voler tenere de' medesimi particolar cura e protezione, in maniera, che stassero sicuri, che ne' loro viaggi, o dimore, che dovessero far in Napoli, sarebbero ben trattati, e così nelle loro persone, come nelle loro robe non riceverebbero molestia, nè danno veruno. Che le migliori case, che fossero nella città sarebbero loro date in affitto a piacevol mercede; nè nelle cause civili fossero riconosciuti da altri, che da Maestri dell'Università. Che troverebbero persone, che ne' loro bisogni loro darebbono danari in prestanza. Che sarebbe loro provvisto di grano, vino, carni, pesci, ed ogni altro appartenente al loro vitto, siccome ad ogni altro cittadino napoletano; ed oltre di quelle altre prerogative, che si leggono in una sua epistola registrata da Pietro delle Vigne nel libro terzo[292], moltissimi altri provvedimenti diede Federico per questa Università, dei quali, secondo l'opportunità, farem parola. Manfredi suo figliuolo seguitò le pedate di suo padre; ed appresso il Baluzio[293] si leggono alcune sue epistole, dove mostra la sua particolar cura e pensiero di provvedere quest'Università di valenti Professori, perchè vi fiorissero le lettere.

L'avere Federico in questa città istituita Accademia sì illustre, per la quale concorrevano a quella gli scolari del Regno dell'una e l'altra Sicilia, fece che Napoli cominciasse ad estollere il capo sopra tutte le altre città di queste nostre province: e questa fu la prima fondamental pietra, onde poi si rendesse metropoli del Regno.

L'altra pure, che dobbiamo a quest'inclito Principe, e' la gettò quando gli piacque fare spesse dimore in Napoli: poichè avendo egli innalzata tanto la sua Gran Corte, Tribunale a questi tempi il più supremo, ed al quale erano riportate le più gravi cause: questo fece, che per le frequenti sue dimore, Napoli si rendesse più frequentata; e se bene a' tempi di Federico non acquistasse quella superiorità sopra tutte le cause d'altre Corti dell'altre città di queste province, in guisa, che ogni lite potesse a lei riportarsi per via d'appellazione, tenendo ciascuna provincia il suo Giustiziero, innanzi al cui Tribunale si finivano le liti; nulladimanco Federico accrebbe questa Gran Corte d'altre conoscenze sopra le cause criminali, di Maestà lesa, feudali, e di tutto ciò, che si vede stabilito nelle sue Costituzioni[294], sopra le quali non potevan impacciarsi l'altre Corti.

Favorì ancora Napoli di maggior numero di Giudici, che non erano nell'altre città d'altre province. In queste il lor numero non poteva sormontare quello di tre Giudici, ed un Notajo; ma in questo Reame, in Napoli solo, e in Capua, siccome in Messina in quello di Sicilia, furono stabiliti cinque Giudici, ed otto Notai[295].

CAPITOLO IV. De' Giureconsulti, che fiorirono fra noi a questi tempi.

Si rese ancora più celebre Napoli, per la sapienza e dottrina de' nostri Giureconsulti, e de' Giudici, che Federico prepose alla Gran Corte. Pietro delle Vigne, Taddeo da Sessa, e Roffredo Beneventano, famosi Giureconsulti di questa età, la illustrarono sopra tutte le altre. Abbiamo ancora tra l'epistole di Federico, una scritta a Roffredo, per la quale l'invita ad andar tosto a Napoli a regger la sua Corte, di cui egli l'avea eletto Giudice[296]. E Riccardo di S. Germano[297] narra, aver Federico impiegato questo Giureconsulto in affari assai più rilevanti, avendolo mandato a Roma, perchè lo difendesse dalle censure che Gregorio IX aveagli scagliate contro. Così da questo tempo Napoli, per l'eccellenza di quest'Accademia, e per gl'illustri Professori, che in quella istruivano la gioventù, per lo Tribunale di questa Gran Corte, e per li Giudici, che vi presiedevano insigni Giureconsulti, cominciò a distinguersi sopra tutte le altre città del Regno, onde meritò poi, che Carlo I d'Angiò collocasse quivi la regia sua sede, tal che resa capo e metropoli di tutte le altre fosse divenuta col lungo correr degli anni tale, quale oggi tutti ammirano.

Quindi avvenne ancora, che le leggi longobarde cominciassero nel nostro Reame a cedere alle romane, e pian piano cedendo andar poi ne' secoli seguenti in disuso ed in oblivione; poichè avendo istituito Federico quest'Accademia in Napoli, ed avendo già in tutte l'altre Università d'Italia, come in Bologna, Padova, ed in altre posto gran piede le Pandette, e gli altri libri di Giustiniano, tal che pubblicamente ivi si leggevano, ed i Professori tratti dall'eleganza dell'orazione, e dalla sapienza di quelle leggi, abborrendo come barbare le leggi longobarde, si diedero allo studio di quelle, onde oltre a coloro, che fiorirono a' tempi di Federico I si renderono a questi tempi di Federico II celebri Accursio fiorentino, e tanti altri: così ancora avvenne presso di noi, dove in quest'Accademia i Professori di legge, non meno che nell'altre città d'Italia, spiegavano que' libri nelle loro Cattedre. E dalle Cattedre per conseguenza si passò poi a' Tribunali, i Giudici de' quali instrutti in quella Scuola, ricevevano molto volentieri quelle leggi, e così pian piano si cominciarono ad allegar nel Foro, e ad acquistar presso di noi forza e vigor di legge. Non è però, che le longobarde allora affatto mancassero, già che Andrea Bonello da Barletta Avvocato fiscale di Federico II in questi tempi compilò quel suo trattato delle differenze dell'une e l'altre leggi, di che a bastanza si è discorso nel libro decimo di quest'Istoria.

Fiorirono presso noi in questa età, oltre Andrea Bonello, altri insigni Giureconsulti, secondo che comportavano questi tempi; d'alcuni de' quali ci sono rimasti ancora vestigi delle loro opere. Di Pietro d'Ibernia, di Roberto da Varano, e di Bartolommeo Pignatello Professori di leggi e di canoni nell'Università di Napoli, non abbiamo altro riscontro di quello, che Federico istesso ce ne dà, d'essere stati civilis scientiae professores, magnae scientiae, notae virtutis, et fidelis experientiae[298].

Il famoso Pietro delle Vigne da Capua, chi non sa essere stato un insigne Giureconsulto di questi tempi, e che per la sua eminente dottrina, ingegno ed eloquenza, ancorchè nato in Capua da umili parenti, fosse stato innalzato da Federico a' gradi più sublimi del Regno, di suo Consigliero, e intimo Secretario, di Giudice della Gran Corte, di Protonotario dell'Imperio e Luogotenente d'amendue i Reami di Puglia e di Sicilia; e, quel ch'è più, reso degno della sua privanza? I Germani tentarono d'involarci questo Giureconsulto, facendolo non già capuano, ma tedesco (non altrimenti che i Franzesi fecero da poi del nostro Lucca di Penna ), e Giovanni Tritemio[299] chiaramente lo scrisse, ingannato forse dal suo cognome, che credette averlo preso da Vigna celebre monastero di Svevia, posto non molto lungi da Ravenspurgo. Ma egli è chiaro più della luce del giorno, che fosse nato in Capua, com'è manifesto dalle sue medesime lettere[300], e da una scritta a lui dal Capitolo capuano, che veggiamo inserita ne' sei libri delle sue epistole[301].

(Fra i Codici Filosofici MS. che si conservano nell'Augusta Biblioteca Cesarea di Vienna n. 179 pag. 80 si legge una epistola d'Errico d'Isernia Notajo d'Ottocaro Re di Boemia, il quale per aver seguito le parti di Corradino, essendo stato scacciato dal Regno, scrive al Vescovo Blomucense, pregandolo, che interceda per lui presso il Re Carlo I d'Angiò, ed infra l'altre cose gli dice: Si autem ad aetatis modernae tempora nostrae mentis aciem convertemus, inveniemus equidem, quod Magistrum Petrum de Vineis exilibus Parentibus editum, et fama reconditum obscura, ad ipsius Petri postulationem Panormitanus Archiepiscopus apud Imperatorem promovit Fredericum, eumque splendore clari nominis titulavit. E nell'Epistola scritta dell'istesso affare ad un tal Frate Bonaventura, che si legge alla pag. 82 pur gli raccorda, quod Panormitanus Archiepiscopus Petrum de Vinea olim egregium Dictatorem, et totius Linguae Latinae jubar, pro unica tantum Epistola, quam eidem misit Archiepiscopo, Imperatori affectuosissime commendaverit Federico, licet nunquam prius ipsius Petri habuisset notitiam, et jaceret tunc temporis mole inopiae consternatus.)

Fu egli peritissimo nelle leggi romane, e tutto inteso a restituirle nel loro antico splendore; onde avvenne, che in queste nostre parti cominciasse a piacere lo studio delle Pandette e del Codice, e ne' Tribunali cominciassero ad allegarsi le leggi in que' volumi comprese. Ecco ciò, che di lui ne disse l'istesso Federico[302]: Nam legis armatus peritia, digesta digerit, et Codicis scrupolositates elimat. Ond'è, che presso i nostri Autori de' tempi più bassi, fu riputato uno de' più dotti e sublimi Giureconsulti di questi tempi, come lo qualificano Matteo d'Afflitto[303], ed altri.

Quindi fu, che Federico commise a lui la compilazione delle nostre Costituzioni del Regno, della quale più innanzi farem parola; e che della di lui opera si servisse nelle cose più ardue e difficili, e che per la sua fedeltà l'impiegasse negli affari più gravi e riposti dello Stato, onde Dante nella sua Comedia introducendolo a parlare gli fe dire:

Io son colui che tenni ambo le chiavi

Del cuor di Federico, ec.

Compose, oltre i libri delle nostre Costituzioni, sei libri d' Epistole, così in nome suo, come del suo Signore, scritte con molta eleganza, per quanto comportava l'uso di quest'età; nelle quali vi sono molte cose utili e commendabili, e quel ch'è più, danno molto lume all'istoria di questi tempi; e Giovanni Cuspiniano chiarissimo Istorico e Poeta ci testifica, che da questi suoi libri si cavano con molta chiarezza quasi tutte le azioni di Federico, e gli avvenimenti di questi tempi; ond'è che i più diligenti e accurati Istorici, come Teodorico di Niem, Nauclero, ed altri non solo di quelle vaglionsi nella descrizione delle gesta di Federico, ma spesso le citano per gli altri punti della istoria d'altri successi. Stettero questi libri in obblivione per molto tempo, insin che Simone Scardio dalle tenebre gli cavò fuori alla luce del Mondo, e nell'anno 1566 gli fece imprimere in Basilea, dei cui esemplari oggi si è resa ancor rara la notizia.

Scrisse ancora questo Giureconsulto un libro Apologetico intitolato: De Potestate Imperatoris et Papae, in difesa delle ragioni imperiali contro i romani Pontefici; e narrasi che Innocenzio IV s'avesse presa la briga di confutarlo[304]. Compose molte Orazioni in difesa di Federico contro le scomuniche, che si lanciavano contro di lui da' romani Pontefici, e ne recitò in Padua una assai dotta ed elegante, su la scomunica, che Gregorio IX avea fulminato all'Imperadore. Compose anche alcune vaghe Canzoni italiane, che ancor oggi si leggono con quelle di Federico, ed Enzio suo figliuol bastardo Re di Sardegna.

Alcuni anche credettero, che fosse stato egli l'Autore del libro De tribus Impostoribus; ma questa è un'impostura, anzi vi è ancor chi dubita, se mai questo libro vi fosse stato, o sia al Mondo, tanto è lontano, che Federico per opra di lui l'avesse fatto comporre.

Ma l'infelice fine, ch'ebbe questo insigne Giureconsulto, sarà un chiaro documento dell'istabilità delle mondane cose, del quale ci toccherà ragionare più innanzi nell'anno 1243 come in proprio suo luogo.

Fiorì ancora in questi tempi Taddeo da Sessa, che cotanto si distinse nel Concilio di Lione, pur egli chiaro Giureconsulto e Giudice della Gran Corte ed adoperato da Federico, non meno che Pietro, negli affari dello Stato; ma di costui niente abbiamo, che lasciasse alla memoria de' posteri.

Non così fece Roffredo Epifanio da Benevento. Fu questi famosissimo Dottore, ed uomo così insigne, che nella Corte di Federico, di cui era Giudice, tra tutti i dotti avea il vanto. Compilò molti trattati, che in questi tempi grandemente illustrarono la disciplina legale; compose un trattato De libellis, et ordine Judiciorum; il quale divise in questo modo: I De Praetoriis actionibus. II De Interdictis. III De Edictis. IV De Actionibus civilibus. V De Officio Judicis. VI De Bonorum possessionibus. VII De Senatusconsultis. VIII De Constitutionibus. Nelle stampe moderne vi sono aggiunti, Libellorum opus in Jus Pontificium, ac quinquaginta quatuor Sabbatinae quaestiones. Oltre di queste opere, il Vescovo Liparulo[305] afferma ne' Commentari alla somma di Odofredo che appresso il famoso legista Bartolommeo Camerario si conservavano dodici grossi volumi di materie civili e canoniche, composti da Roffredo, e per quanto si credea, scritti di propria sua mano, i quali il Camerario teneva pensiero di mandargli in luce.

Egli dalla sua giovanezza portossi per apprender leggi in Bologna, dove per la celebrità di quell'Accademia concorrevano tutti i giovani delle città d'Italia; ed ebbe per maestri i principali Dottori, che fiorissero in questi tempi. Il primo, per quel che rapporta Odofredo, il quale lo commenda cotanto, fu Ruggieri, uno de' primi Chiosatori delle nostre Pandette. Appresso fu Azone, e poi Kiliano, Ottone Papiense, e Cipriano, tutti famosi legisti, com'egli in più luoghi afferma. Fatti maravigliosi progressi in questi studj, fu nell'anno 1215 (com'egli stesso testimonia nella prima delle sue quistioni Sabatine) invitato in Arezzo per interpretar le leggi. Ed avendo conosciuto, che le Quistioni di Pileo, che si recitavano in Bologna per ammaestrare i giovani alla difesa delle cause, poco profitto facevano, lasciate queste in disparte, pensò di esporre a' suoi scolari quelle quistioni, che alla giornata accadevano nel Foro, le quali per averle recitate in ogni sabato, pose loro nome di Quistioni sabatine. Tornato poi nel Reame, fu nell'anno 1227 trascelto da Federico per suo Avvocato, e mandato in Roma per le contese insorte con Gregorio IX. La sua fama presso i posteri crebbe tanto, che sulla credenza, che Papiniano fosse di Benevento, gli diedero perciò nome di secondo Papiniano. Giace egli sepolto in Benevento, ove, per quel, che ne scrive il moderno Scrittor di Sannio[306], s'addita il suo tumulo nella chiesa di S. Domenico, che quivi egli fece edificare.

Fiorì ancora negli ultimi tempi di Federico Andrea di Capua Avvocato fiscale della sua Corte, che fu padre di Bartolommeo, grande e famoso Dottor dei suol tempi, che con la sua virtù e valore pose il suo legnaggio in quella fortuna e grandezza, nella quale ai presente il veggiamo.

CAPITOLO V. Onorio III sollecita l'Imperador Federico per l'espedizione di Terra Santa, ma è prevenuto dalla morte.

Intanto il nostro Federico dopo avere in cotal maniera illustrata Napoli con sì famosa Accademia, non tralasciava in Sicilia di combattere i Saraceni per isnidargli da quell'isola, per cagion della qual guerra impose una taglia per tutto il Reame, con la quale raccolse gran somma, essendosi cavato solo dalle terre della Badia di S. Benedetto, per un certo Urbano da Teano, destinato suo Commessario a raccorle, ben 300 oncie d'oro, somma notabile per que' pochi luoghi in que' tempi; e perchè Onorio si chiamava gravemente offeso, che nel taglieggiare, e nell'imporre delle gabelle non risparmiava gli Ecclesiastici, nè le Chiese, Federico per racchetare in parte il suo sdegno, ed averlo amico, inviò sue lettere nel Reame dirizzate al Giustiziero di Terra di Lavoro, colle quali ordinò, che nel raccor le collette, taglie, dazj, ed in ogni altro pagamento, facessero esenti i Frati ed i Cherici, e tutte le altre persone, territorj, castelli, e beni delle Chiese, secondo ch'erano a tempo del buon Re Guglielmo suo consobrino[307].

Ma premendo tuttavia il bisogno della guerra contro i Saraceni di Sicilia, fu costretto imporre un altro pagamento per lo Reame, ed affinchè, quanto più potesse, meno s'offendesse Onorio, comandò, che si raccogliesse dalle terre sottoposte a' Frati di S. Benedetto l'istessa somma di 300 oncie d'oro, che s'erano in prima raccolte, ma sotto nome di prestanza e non di pagamento. Qual sottil ritrovato, fu ne' tempi che seguirono imitato da molti Principi, per non dover spesso per ciò contendere co' romani Pontefici, che pretendono, che non possa il Principe ne' bisogni più gravi dello Stato taglieggiar le Chiese e gli Ecclesiastici, secondo le nuove massime, ch'erano state da poco introdotte, le quali mal poterono sofferirsi da Federico, come contrarie alla antica disciplina della Chiesa, ed alle supreme regalie de' Principi.

Venne poscia, nel seguente anno di Cristo 1225, di Francia nel nostro Reame il Re Giovanni di Brenna con Berengaria sua moglie di lui gravida, e gitone a Capua vi fu d'ordine dell'Imperadore onorevolmente raccolto, e poco stante colà dimorando nel mese di aprile partorì una fanciulla, ed indi ne girono amendue in Melfi di Puglia ad attender colà Federico, che in breve dovea passarvi da Sicilia.

Federico adunque, lasciato in quell'isola un numeroso esercito a guerreggiar contro i Saraceni, passò in Regno; e nello stesso tempo commise a Lodovico Duca di Baviera la cura degli affari d'Alemagna, e del figliuol Errico, il quale aveva fatto creare Re dei Romani, e prendere moglie Agnesa d'Austria, oltre all'avergli ceduto il Regno di Sicilia, per osservar la promessa fatta al Pontefice.

Intanto Onorio travagliato in Roma per gli tumulti e rivolture, che vi cagionava Parenzo Senatore, uscito da quella città, erasi a Tivoli ritirato[308], ove Federico gl'inviò il Re Giovanni di Brenna, ed il Patriarca di Gerusalemme a chiedergli maggiore spazio di tempo di quel, che gli avea conceduto per passare in Palestina, per cagion che gli affari del Reame, e la ribellione de' Saraceni di Sicilia glie le impedivano, ed anche perchè dubitava, che i Milanesi e i Bolognesi nella sua assenza non fossero per sollevargli la Lombardia. Ottennero il Re, ed il Patriarca favorevol risposta dal Pontefice, la quale significata a Federico, questi insieme co' Prelati del Regno, a' 22 luglio portatosi in S. Germano[309], ricevette colà Pelagio Calvano Cardinal Albano, e Giacomo Gualla di Biccheri da Vercelli Cardinal di S. Silvestro, e Martino inviatigli da Onorio, acciocchè giurasse di nuovo in man loro di passare in Terra Santa: fecero que' Cardinali nella stessa chiesa di S. Germano leggere a Federico i capitoli fatti da Onorio per tal passaggio, i quali fra l'altre cose contenevano, che senz'altra dimora, di là a due anni, che avean da compire nel mese d'agosto dell'anno 1227, andasse a guerreggiare in Soria, con portar seco e sostenere a sue spese per due anni mille soldati, cento Chelandri[310], nome di naviglj che in que' tempi si usavano, e cinquanta galee ben armate e provvedute di ciò, che avean mestiere, e che dovesse dar passagio sopra i suol legni a due altri mila soldati con le lor famiglie, che dovean parimente colà valicare, contando tre cavalli per ogni soldato, con altre cose, secondo scrive Riccardo. Uditisi questi capitoli da Federico, promise compiutamente sotto pena di scomunica osservargli, in presenza di molti Prelati, ed altri Signori tedeschi e Baroni regnicoli, che v'intervennero[311], e così in suo nome gli fece giurare da Rinieri Duca di Spoleto, e dopo tal atto fu assoluto da' Cardinali predetti dell'altro giuramento, che in Veroli aveva fatto: e ritornato prestamente in Puglia inviò sue lettere a' Signori di Lamagna, ed a quelli d'Italia, significando loro, che nella vegnente Pasqua di Resurrezione venir dovessero in Cremona[312], ove intendea di celebrare una general assemblea. Raccolse egli poi di nuovo, pur sotto nome d'imprestanza, altra grossa somma di moneta per tutto il Regno, facendo particolarmente riscuotere nelle terre di Monte Cassino ben 1300 oncie d'oro da Pietro Signor d'Evoli, e da Niccolò di Cicala Giustiziero di Terra di Lavoro.

Non guari da poi nacquero alcuni disgusti tra Federico ed Onorio, perchè, secondo scrive Riccardo da S. Germano[313], vacando le Chiese di Consa, di Salerno, d'Aversa e di Capua, e la Badia di S. Vincenzo a Volturno, Onorio, inscio et irrequisito Imperatore, previde da Roma cinque Prelati per occupar quelle Chiese: questi furono il Prior di S. Maria della Nuova di Roma per Vescovo di Consa: il Vescovo di Famagosta per Arcivescovo di Salerno: il Cantor d'Amalfi per Vescovo d'Aversa: il Vescovo di Patti per Arcivescovo di Capua: ed un Frate di S. Benedetto, nomato Giovanni di S. Liberatore per Abate di S. Vincenzo a Volturno. Federico, sdegnato del torto fattogli d'essere stati quelli eletti senza sua saputa e consentimento, con tanto pregiudizio de' suoi diritti, non volle, che alcun di loro fosse ammesso nelle Chiese ottenute[314]; e gitone poscia in Sicilia fece il simigliante a Fra Niccolò da Colle Pietro, creato Abate di S. Lorenzo di Aversa, non ostante che recasse lettere particolari di Onorio; e Federico mandò perciò Legati al Papa a querelarsene[315].

Intanto la novella Imperadrice Jole sposa di Federico imbarcatasi sulle galee, con felice viaggio pervenne a Brindisi, ove di Sicilia tornato l'Imperadore l'attendeva, e con nobilissima pompa furono ivi a' 9 novembre le nozze celebrate: ed in memoria di questa celebrità fece coniare quivi nuove monete, chiamate Imperiali, annullando l'antiche[316].

Nacque in quest'anno a Federico, Enzio suo figliuol bastardo, il quale egli da poi nell'anno 1239 coronò Re di Sardegna; e divertendosi l'Imperadore alle caccie di Puglia, in quest'istesso anno 1225 per occasione d'un cignale ucciso da lui di smisurata grandezza, fece apprestar una cena in quel luogo stesso, dove fu poi edificata una Terra, chiamata perciò sino a' nostri tempi Apricena.

Nel nuovo anno 1226 mandò Onorio a sollecitar Federico, che dopo gli sponsali celebrati in Brindisi era passato in Troja di Puglia, perchè s'apprestasse alla spedizione di Terra Santa; onde l'Imperadore comandò a' suoi Baroni, che si trovassero all'ordine a Pescara, per accompagnarlo in Lombardia per la Dieta di Cremona, intimata nell'anno precedente. Passato indi in Terra di Lavoro, e lasciata sua moglie in Terracina castello vicino a Salerno, ora disfatto; ritornò in Puglia, e commesso il Governo del Reame ad Errico di Morra Gran Giustiziero, passò a Pescara, e di là con tutto il suo esercito nel Ducato di Spoleto, ove ordinò a' Spoletini, che il seguissero armati in Lombardia[317]; la qual cosa negando coloro di fare senz'ordine del Pontefice, comandò di nuovo sotto gravi pene, che ubbidissero; ma costoro avendo mandate le lettere di Federico al Papa, questi, che per altre cagioni stava crucciato con Federico, così per lo fatto de' Prelati, a' quali non volle dar possesso delle loro Chiese, come per essersi Federico collegato con Ezzelino, e per aver pubblicata una sua Costituzione, per la quale voleva che i Frati e i Preti, che gravi omicidj, o altri enormi delitti avessero commesso fosser castigati da' suoi Magistrati secolari, e per non osservar loro dovuta franchigia, ch'e' pretendeva per gli Ecclesiastici nelle gabelle e dazj: acceso da ira gravissima scrisse asprissime lettere a Federico, dolendosi acerbamente con lui di queste cose. Federico riputando troppo arroganti queste lettere, gli rispose con pari ardimento; onde Onorio montato in maggior stizza gli scrisse di nuovo con maggior asprezza ed arroganza e con gravi minacce.

(Si legge presso Lunig[318] questa lunga lettera esprobratoria d'Onorio III scritta a Federico).

Federico, che non voleva ora brighe col Papa, per placare il suo animo gli rescrisse umilmente in omni subjectione, come dice Riccardo: onde rappacificatisi insieme, il Papa gli mandò per Legato Cinzio Savello Cardinal di Porto per trattar di comporre le lor contese, affinchè non s'impedisse perciò l'espedizione di Terra Santa, e si quietassero le cose di Lombardia. Indi Federico partito di Spoleto ne andò a Ravenna, ove celebrò la Festa di Pasqua di Resurrezione, e scrisse ad Errico suo figliuolo in Alemagna, che ragunata potente armata fosse venuto a ritrovarlo in Lombardia, e lasciato il cammin di Faenza, ch'era città sua nemica, ne andò col suo esercito nel castel di S. Giovanni, ne' tenimenti di Bologna, ed indi ad Imola, ed entrando ne' confini di Lombardia, solo que' di Modena, di Reggio, di Parma, di Cremona, di Asti e di Pavia, gli mandarono Ambasciadori, e s'offerirono pronti al suo servigio. L'altre città, non solo non gli usarono cortesia alcuna, ma d'avantaggio contro di lui si collegarono: queste furono, secondo scrive Riccardo, Milano, Verona, Piacenza, Vercelli, Lodi, Alessandria, Trivigi, Padua, Vicenza, Torino, Novara, Mantua, Brescia, Bologna e Faenza, con Goffredo Conte di Romagna, e Bonifacio Marchese di Monferrato, ed altri luoghi della Marca Trivigiana, le quali con formato esercito ne andarono incontro ad Errico per vietargli il passo a piè dell'Alpi, acciocchè non fosse entrato in Italia. Passò poscia l'Imperadore a Cremona, e vi fu da que' cittadini con grande onor ricevuto, e vi celebrò l'Assemblea già statuita, ma con poca gente, non vi essendo gito niun Barone, nè Ambasciador delle città collegate contro di lui.

Ritornato poscia a Parma fu da molti Conti e Cavalieri di quelle regioni, e da' Lucchesi e Pisani, e particolarmente da' Marchesi Malespini visitato e riverito, molti de' quali armò Cavalieri di sua mano, onoranza di molta stima in que' tempi, ed indi nel Borgo di S. Donnino si congiunse col Legato del Pontefice, da lui richiesto perchè gli agevolasse la sua incoronazione della Corona di ferro, come intendea di fare.

Conservavasi questa Corona di ferro in Monza in poter de' Milanesi; co' quali non fu bastevole qualunque mezzo, che vi si adoperasse, a disporgli per introdurlo per far cotal atto nella lor città, memori delle antiche ingiurie ricevute dall'avolo Barbarossa: il perchè reggendo Federico di non potere nè coloro, nè alcuna dell'altre città contro di lui unite, rivocare al suo partito con preghiere e cortesie, venuto in grandissimo sdegno, diede a tutte il bando imperiale, dichiarandole rebelle, e le fece interdire dal Legato, e togliendo lo Studio da Bologna, quello in Napoli, ed in Padova trasferì, ordinando a tutti gli Scolari, che da Bologna partissero, ed in quelle due città andassero a studiare; ma rapporta il Sigonio, che il suo comandamento non fosse stato da niuno ubbidito.

L'Imperadore, non potendo per allora far altro progresso in Lombardia, partitosi di là andò a Rieti a ritrovare il Pontefice, e querelatosi con lui della contumacia de' Lombardi, se ne passò nel nostro Reame di Puglia; da dove inviò nuovo soccorso di soldati in Terra Santa; ed avendo rinunziato l'Ufficio di Giustiziere di Terra di Lavoro Pietro Signor d'Evoli, e Niccolò di Cicala, furono creati in lor vece Ruggiero di Gallura, e Marino Capece napoletano. Allora fu, che essendo già pacificato col Pontefice, diede il possesso delle lor Chiese a tutti que' Prelati, che il Papa avea creati, cioè agli Arcivescovi di Capua, di Consa e di Salerno, al Vescovo d'Aversa, ed all'Abate di S. Lorenzo di quella città[319].

Bramava ardentemente il Pontefice, che si facesse il passaggio in Terra Santa, il qual veniva frastornato, ed impedito per nemistà, ch'era tra l'Imperadore, e le città collegate: e Federico avea perciò fatto pubblicare un editto, col quale faceva noto, che per la discordia d'Italia, s'impediva l'impresa di Terra Santa; ed avendo inviato suoi Ambasciadori al Papa per tal affare, Onorio vi s'adoperò in guisa tale, che alla fine per allora gli accordò; onde l'Imperadore per compiacere al Pontefice, promise d'inviar prestamente altri quattrocento soldati in soccorso de' Cristiani in Soria. Passò da poi Federico con Jole sua moglie in Sicilia; ed il Pontefice vedendo, che il Re Giovanni di Brenna, per la nemistà, che avea col genero, onde era stato costretto a partire da' suoi Reami, vivea con molta strettezza, gli concedette in Governo tutto quello spazio di paese, che è da Viterbo a Monte Fiascone; ed in tanto l'Imperadore per mezzo d'Errico Morra suo Gran Giustiziero, pubblicò nuovi Ordini e Statuti da lui fatti, per la quiete e tranquillità de' suoi sudditi, rapportati da Riccardo di S. Germano. Morì ancora in quest'anno Francesco, chiaro per miracoli e santità di vita, il quale fondò la religione de' Frati Minori in Assisi sua patria, e fu in processo di tempo ascritto al numero de' Santi.

Il Pontefice Onorio, secondo la Cronaca di Riccardo, nel mese di marzo di questo nuovo anno 1227 trapassò in Roma, dopo aver governata la Chiesa di Dio dieci anni, sette mesi e tredici giorni, e fu in Roma sepolto nella chiesa di S. Maria Maggiore in umil sepolcro.

Le discordie, ch'ebbe questo Papa con Federico, ancorchè gravi e spesse, nulladimanco non furono così atroci, che obbligassero questo Pontefice di scomunicarlo, come falsamente scrissero alcuni. I primi, che scagliarono contro Federico questi fulmini furono Gregorio IX ed Innocenzio IV suoi successori, come più innanzi diviseremo.

CAPITOLO VI. Spedizione di Federico per Terra Santa.

Morto il Pontefice Onorio, nel seguente giorno fu da' Cardinali eletto in suo luogo Ugolino de' Conti, figliuol di Tristano d'Alagna fratello d'Innocenzio III de' Conti di Segna, a cui posero nome Gregorio IX. Questi tantosto che fu eletto, inviò lettere per tutto il Mondo della sua promozione, e della morte del suo predecessore, ed inviò Fra Guglielmo Frate Dominicano all'Imperadore, dandogli contezza per sua lettera della sua elezione, esortandolo a riverire e difendere la Chiesa di Dio, ed a badare al buon governo dei Popoli a lui soggetti, e ad abbracciare la guerra di Terra Santa, chiedendogli parimente che gli facesse da' Regnicoli portar vettovaglie ed altre cose bisognevoli per fornire le sue galee, che intendea inviare in Palestina, ciocchè Federico per mezzo d'Errico Morra Gran Giustiziero prestamente fece eseguire[320]. Simone Scardio rapporta una lettera, scritta da Gregorio in questo primo anno del suo Ponteficato all'Imperador Federico, ripiena di molti encomj ed eccelse lodi, che questo Pontefice dava a quel Principe, il quale avendo convocati tutti i Giustizieri delle province de' suoi Regni di Sicilia diede lor contezza di ciò, che Gregorio gli avea scritto, acciocchè s'apparecchiassero al passaggio d'oltremare; per la qual cagione impose una general taglia a' suoi vassalli, ed indi significò ad Errico suo figliuolo in Alemagna, che dovesse ragunare una Dieta in Aquisgrana, per dar contezza a' Baroni tedeschi del general passaggio, che egli intendea fare in Soria nella metà del vegnente mese d'agosto: giorno in cui si celebra la salita al cielo di Nostra Signora, acciocchè coloro, che gir seco volessero, postisi all'ordine, fossero venuti in Puglia, ove sopra i navilj per ciò apprestati s'aveano ad imbarcare, ed ei gli attendea. Inviò di là al Pontefice l'Arcivescovo di Reggio, e Fra Ermando Saltza Gran Maestro de' Cavalieri teutonici, a significargli, che egli era all'ordine per imbarcarsi, ed a condurgli le vettovaglie, ed ogni altra provigione, che per le galee gli avea chiesto.

Intanto convocatasi da Errico l'Assemblea in Aquisgrana, secondo il comandamento del Padre, per invitare i Tedeschi al passaggio d'oltremare, vi convennero Signori e Prelati in gran numero, fra' quali furono Sifridio Arcivescovo di Magonza, Teodoro Arcivescovo di Treveri, Errico Arcivescovo di Colonia, con gli Arcivescovi di Salsburg, di Magdeburg e di Brema, e con tutti i Vescovi a loro soggetti. Vi furono i Duchi d'Austria, di Baviera, di Carintia, di Brabante e di Lorena: Errico Conte Palatino del Reno, Lodovico Lantgravio di Turingia, e Ferdinando Conte di Fiandra, quello stesso, che preso dal Re Filippo nella battaglia di Tornay, dopo esser dimorato ben dodici anni nella prigione di Parigi, per opra del Pontefice, e d'altri Signori, che il favorivano, n'era alla fine uscito. Tutti costoro per esortazione di Errico Re d'Alemagna, e per la pietà cristiana, s'apprestarono prontamente a così pietosa impresa; onde tra per questi che in buona parte vi vennero, e per gli altri invitati da diversi Frati ed altri Ecclesiastici inviati dal Pontefice per la Cristianità ad esortare i Popoli, che prendessero la Croce nel tempo stabilito, infinito numero di Fedeli concorse in Brindisi, e nelle circostanti regioni, in guisa tale, che solo dall'isola d'Inghilterra, scrive l'Abate Uspergense, che ne vennero ben sessantamila. Ma sopraggiunto intanto il calor grande della state in quegli aridi siti di Puglia, cominciarono, non avvezzi a ciò, e sofferendo ogni sorte di disagio, ad infermare e morire i soldati oltramontani a migliaja, insieme co' quali di questa vita passarono i Vescovi d'Angiò e d'Augusta, ed il Lantgravio di Turingia, onde afflitti da così gravi mali, s'avviarono per ritornare indietro a' lor paesi, ma invano, perciocchè la maggior parte per lo cammino perirono[321].

Intanto Federico coll'Imperadrice Jole da Sicilia era passato in Otranto nel mese d'agosto, donde, avendo quivi lasciata l'Imperadrice, passò in Brindisi, ove era l'esercito de' Crocesignati, e quantunque fosse rimasto con picciol numero di soldati per la mortalità seguita, e per lo ritorno di molti, fece imbarcar nell'armata apparecchiata molta gente nel stabilito giorno dell'Assunzione per dover egli da poi seguirla; e ritornato in Otranto, ove avea lasciata l'Imperadrice, per prender da lei congedo, quivi infermossi[322]: ma non ostante la sua infermità, riavutosi appena, tornò in Brindisi, ed ivi imbarcossi: ed avendo navigato tre giorni, non potendo soffrire per la sua convalescenza l'agitazione del mare, volse le prore addietro, e a Brindisi ritornò. Il Fazzello narra, che Federico giugnesse in questa sua navigazione sino allo Stretto dell'isole della Morea e di Candia, e che da' venti contrarj, e dalla sua infermità fosse stato costretto con coloro, che eran in Lacedemonia far ritorno a Brindisi insieme con quarantamila persone di quelle, che si erano imbarcate, se diam credenza a ciò, che ne scrive il Sigonio.

(Sigonio seguitò la fede di Matteo Paris, il quale ad An. 1227, pag. 286 scrisse: Animo nimis consternati, in eisdem navibus, quibus venerant, plusquam XL armatorum millia sunt reversi).

Gregorio IX dimorando in Anagni, avendo inteso il ritorno di Federico, attribuendolo a poca volontà del medesimo, trasportato da fiero sdegno, il penultimo giorno di settembre, in cui si celebrava la festa della dedicazione di S. Michele Arcangelo, dichiarò esser Federico incorso nella scomunica, che da Onorio in S. Germano gli era stata minacciata, se non passava in Soria, fulminando contro di lui la censura[323], la cui sentenza vien riferita dal Bzovio e da Carlo Sigonio, che comincia: Imperatorem Federicum qui nec transfretavit, etc.

Aggiunge lo Bzovio, che Gregorio, non solamente per lo sturbato passaggio di Terra Santa, ma per molte cagioni ancora avea motivi di sdegno contro Federico; poichè oltre all'aver rapiti i beni degli Ecclesiastici da' suoi Regni, con far loro pagare tutte le taglie e gabelle, che egli imponeva, aveva di vantaggio, per vendicar suo privato sdegno, con la cagione del passaggio d'oltremare, fatto gir per forza in Soria il Vescovo d'Aversa e Ruggieri Conte di Celano suoi nemici, e posto il figliuolo del Conte in una stretta prigione, con altri mali che di Federico racconta Gio. Villani; ma perchè quest'Autore non rapporta, onde ciò ricavato se l'abbia, se non l'autorità del detto Villani, non merita veruna fede; poichè il Villani come straniero negli avvenimenti del Reame e massimamente in quelli di Federico, come Guelfo e di fazione a lui nemica, o per poco avvedimento o per mal talento infiniti errori commise, scrivendo cose che non mai avvennero, per non favellarne niuno degli altri Autori che allora vissero, come furono Riccardo ed altri che con molta diligenza le cose de' lor tempi raccolsero.

Federico recandosi a gravissima ingiuria cotal sentenza, partendosi di Puglia, ove ancor dimorava per dar più chiare pruove, che egli era infermo, ne andò a' bagni di Pozzuoli, secondo scrive Riccardo, per curarsi dalla sua infermità, e di là inviò a Roma, ove il Papa da Anagni era passato, l'Arcivescovo di Reggio e quel di Bari con Rinaldo Duca di Spoleto ed Errico di Malta per suoi Ambasciadori al Pontefice a scusarsi perchè non era passato oltremare, significandogli la cagione della dimora: ma fu tutto vano, perciocchè il Pontefice non dando credenza alcuna a tutto ciò che egli in sua difesa addusse, ragunando in Roma i Prelati oltramontani e quanti del Regno unir potè, nell'ottavo giorno dopo la festa di S. Martino lo dichiarò di nuovo pubblicamente scomunicato, interdicendo i suoi Regni, e mandò lettere generali per tutto l'Occidente a tutti i Principi e Signori della Cristianità pubblicandolo per tale. La qual cosa risaputasi da Federico, scrisse anch'egli a Lodovico Re di Francia del torto fattogli da Gregorio, come si legge nell'epistole di Pietro delle Vigne ed in Carlo Sigonio, con le seguenti parole: Gregorius IX sub ea occasione quod nos in termino nobis dato, infirmitate gravati, transire nequivimus ultramare, contra justitiam primitus excomunicationi subjecit. Dal che si vede, che essendo la primiera volta stato scomunicato da Gregorio, è vanità e bugia tutto quel ch'hanno scritto il Villani ed altri Autori, che Onorio l'avesse un'altra volta scomunicato, contro quel che ne riferisce Riccardo. Scrisse ancora a' Cardinali, dolendosi aspramente con loro, che non fossero stati in nulla uditi i suoi Ambasciadori. Scrisse a tutti i Principi e Signori d'Alemagna; e mandò un'altra sua epistola a tutti i Re e Principi del Mondo, gravandosi di cotal scomunica, con scusarsi de' falli imputatigli e narrando la cagione, perchè l'avea il Pontefice scomunicato, e gl'impedimenti che l'avean trattenuto dal non passare in Soria, dolendosi di tutti i Prelati e ministri della Chiesa, riprendendo acerbamente i Romani, che a cotal sentenza non s'erano opposti. Ordinò parimente a tutti i Giustizieri di Sicilia e di Puglia, che facesser celebrar da' Preti e da' Frati le messe nelle lor province e che non gli facessero partir dal Regno, nè gire da un luogo ad un altro senza loro licenza, nelle quali scritture si serviva della penna di Pietro delle Vigne suo Secretario: uomo, come si è detto, in quei tempi di somma dottrina ed avvedimento, e a lui carissimo, secondo che si scorge nel libro delle sue epistole che più volte abbiamo nomato.

Dopo la qual cosa convocò un general Parlamento a Capua di tutti i Baroni del Regno, a cui impose, che ciascun di loro pagar gli dovesse per ogni Feudo che possedea, otto oncie d'oro, e per ogni otto Feudi un soldato, acciocchè ragunar potesse esercito per passare in Terra Santa nel seguente mese di maggio, nel qual tempo intendeva andarvi, posposta ogni altra dimora. Statuì ancora un'altra Assemblea da ragunarsi per tal cagione a Ravenna nel prossimo mese di marzo, ove convocò tutte le città e signori d'Italia e suoi partigiani; ed indi inviò in Roma Roffredo Epifanio da Benevento, famoso Giureconsulto di que' tempi, con le discolpe, che egli in suo favore adducea, le quali Roffredo, come si disse, fece pubblicamente leggere in Campidoglio di volontà del Senato e del Popolo romano.

Federico nel principio del seguente anno 1228 convocò in Puglia tutt'i Prelati e Baroni, che seco avea per passare in Palestina, e venuto il giorno di Pasqua, quella celebrò con grandissima pompa ed allegrezza in Barletta; perciocchè aveva avuta contezza, che Tommaso d'Aquino Conte dell'Acerra, che dimorava per suo Maresciallo in Soria, venuto a battaglia con Corradino Soldano di Damasco l'avea vinto e ucciso, e ritornando dopo questo il Conte nel Reame, inviò per soccorso in Terra Santa Riccardo di Principato, parimente suo Maresciallo, con altri cinquecento soldati che imbarcatisi in Brindisi passarono felicemente in que' paesi.

In questo mentre i Francipani e gli altri partigiani di Federico in Roma, essendo Gregorio, dopo aver celebrata la Pasqua in S. Gio. Laterano, passato nella chiesa di S. Pietro, per rinovar le censure contro Federico, gli mossero contro il Popolo, mentre faceva quell'atto, con grave sedizione e tumulto, e dopo averlo oltraggiato con molte ingiuriose parole, lo scacciarono dalla città e 'l costrinsero a ricovrar fuggendo a Perugia, ove per alcun tempo dimorò.

Federico intanto raccolta per l'espedizione di Terra Santa molta moneta dalle Chiese e dalle persone ecclesiastiche, non ostante che il Pontefice avesse ordinato per sue lettere, che nulla pagassero, s'avviò verso Barletta, ove intendea celebrare un general Parlamento, e giunto ad Andria, l'Imperadrice, che era seco partorì ivi un fanciullo, a cui fu posto nome Corrado, il quale fu dal padre, più di ciascun degli altri suoi figliuoli teneramente amato, ed indi a non molto, come sovente avvenir suole, se ne morì per li travagli del parto nella medesima città[324].

La morte di questa Imperadrice vien da Gio. Villani e da altri moderni Autori, che l'han seguito, descritta con molte favole e novelle, le quali non meritano fede alcuna; perciocchè Riccardo il veritiere Cronista di que' tempi, altro non racconta, salvo che la morte dell'Imperadrice nel parto; e lo stesso scrisse il Corio nell'istorie di Milano e Carlo Sigonio ed il Frate di Santa Giustina, e niun degli altri Autori, che con la dovuta diligenza scrissero gli avvenimenti di que' tempi, fan menzione, che ella morisse in prigione battuta dall'Imperadore come dice il Villani, e pur quelli non tacendo l'altre malvagità commesse da lui, avrebbero registrata ancor questa, se fosse stata vera; oltre che pare impossibil cosa aver potuto Federico amar tanto il figliuolo Corrado, come nel progresso di quest'Istoria si vedrà, se avesse in prima così acerbamente odiata la madre, che l'avesse ridotta a morire, come costoro raccontano.

Federico dopo la morte di Jole celebrò il Parlamento in Barletta, ed intento al passaggio di Terra Santa, prima di partire, volle provedere a' suoi Regni nel caso, che venisse egli a mancare; onde in presenza de' Prelati e Grandi del Regno, ed infinita moltitudine accorsavi, fece ad alta voce leggere i seguenti capitoli formati da lui in modo di testamento rapportati da Riccardo. Primo, voleva che tutti i Regnicoli tanto Prelati, quanto Signori e loro sudditi vivessero in quella pace e tranquillità, ch'eran soliti di vivere al tempo del buon Re Guglielmo II, e perciò lasciava per suo Vicario e Balio del Regno Rinaldo Duca di Spoleti. Secondo, se egli nella guerra che intendea di fare in Soria, fosse mancato di vita, gli succedesse nell'Imperio e nel Regno il suo maggior figliuolo Errico, al quale, se fosse morto senza prole, succedesse Corrado suo minor figliuolo e se costui ancor senza figliuoli fosse mancato, succedessero gli altri figliuoli da esso Imperadore procreati di legittima moglie, facendo giurare a Rinaldo Duca di Spoleti, ad Errico Morra, ed agli altri più stimati di coloro, che erano ivi adunati che se non fosse venuto a morte, ed altro testamento non avesse da poi fatto quel che allora avea statuito compiutamente osservassero. Terzo, che niuno del Regno per dazio, ovvero colletta fosse obbligato dare alcuna cosa, se non per l'utilità del Regno, e per le necessità che potevano occorrere.

Letti questi capitoli e fattigli giurare in suo nome dal Duca di Spoleti e da Errico Morra suo Gran Giustiziero, l'undecimo giorno del mese di giugno si imbarcò in Brindisi sopra venti galee, secondo che il Bzovio e l'Abate Uspergense scrivono, ed avendo in prima comandato, che tutti i vassalli che con lui navigar dovevano, si fossero assembrati a S. Andrea dell'Isola, ivi con lor si congiunse, e passò ad Otranto, ed indi in Terra Santa, dove di là a poco felicemente giunse ed a nobili imprese si accinse.

Gregorio IX ch'era in Perugia, udita la partenza dell'Imperadore, senza che prima da lui fosse stato assoluto dalle censure, come pretendea, si accese di tanto sdegno, che scrisse lettere al Patriarca di Gerusalemme ed al Maestro dello Spedale del Santo Sepolcro in Soria, colle quali premurosamente gl'incaricava, che si guardassero di Federico, nè loro prestassero aiuto, poichè era partito scomunicato, e che potea perciò apportar loro grave danno; di vantaggio stimolò in Italia i Milanesi nemici di Federico a collegarsi con lui a' suoi danni, dividendo l'Italia in fazioni, onde crebbero in maggior numero i Guelfi; e medita intanto per l'apparecchio d'una nuova espedizione sopra il Regno di Puglia, per toglierlo a Federico nell'istesso tempo, che questo Principe era lontano ed inteso all'impresa di Terra Santa.

Dall'altra parte Rinaldo Duca di Spoleti lasciato da Federico per Vicario del Regno, per impedire i disegni del Papa ed intricarlo con una guerra ne' propri Stati, invase col suo esercito la Marca, ed il suo fratello Bertoldo assalì da un altro lato i tenimenti di Norcia e distrusse il castello di Brusca, che si era a lui ribellato, dando gli abitatori in potere de' Saraceni, che seco di Puglia avea condotti, i quali con vari tormenti gli fecer tutti crudelmente morire[325].

Questi avvenimenti significati a Papa Gregorio, e come il Duca era entrato ostilmente nello Stato della Chiesa, e fatti quivi gravissimi danni, lo ammonì, che via si partisse, lasciando in pace i suoi sudditi; ma il Duca facendo poco conto di cotal ordine, irato il Pontefice lo scomunicò con tutti i suoi seguaci: e vedendo che nulla giovavano le censure, ragunò grosso esercito con gli aiuti de' Milanesi, e di tutte l'altre città della Lega di Lombardia, e chiamata la milizia di Cristo, l'inviò contro il Duca Rinaldo creandone Capitano Giovanni di Brenna già Re di Gerusalemme ed inimico di Federico, ed il Cardinal Legato Giovanni Colonna.

CAPITOLO VII. Spedizione di Gregorio IX sopra il Regno di Puglia.

Papa Gregorio scorgendo, che questi sforzi non eran bastevoli ad impedire i progressi del Duca, il quale avea già sottoposta la Marca al dominio dell'Imperadore insino a Macerata, deliberò di muover guerra nel Reame di Puglia e spinger le sue armi contra queste province, acciocchè postele in isconvolgimento, dovesse per lor difesa prestamente accorrere il Duca, e lasciar liberi i suoi Stati. Congregati adunque nuovi soldati, ne creò Capitani Pandolfo d'Alagna suo Legato, Ruggieri dell'Aquila Conte di Fondi e Tommaso Conte di Celano ribelli e nemici di Federico.

Questi Capitani a' 18 gennaio del nuovo anno 1229 per la strada di Cepparano, entrarono in Terra di Lavoro co' loro soldati, che eran nomati Chiavesegnati; ed assalirono ed espugnarono in un subito il castello di Ponte Solarato, che era allora la Porta del Regno ed il primo luogo forte da quella parte a' confini dello Stato della Chiesa, e l'aveva in guardia, per l'Imperadore, Adenolfo Balzano. La caduta di questo castello cagionò sì fatto timore in Bartolommeo di Supino Signore di S. Giovanni in Carrico, ed in Roberto dell'Aquila Signore del castello di Pastena, che senza far altra difesa, di lor volere anch'essi si resero; indi passato il fiume di Telesa s'avviarono li soldati papali verso il Contado di Fondi.

Intanto Errico Morra Gran Giustiziero, avuta contezza della mossa di cotal guerra, ragunati in un subito molti soldati, ne venne a San Germano per contrastare colle genti del Pontefice, ed impedire di far altro acquisto. Ma queste opposizioni poco valsero per impedire i felici progressi dell'esercito del Pontefice, il quale scorrendo per molti luoghi di questa provincia avea occupato molte Rocche e castelli insino a Gaeta. Questa città, mentre si rendeano tanti luoghi al Legato del Papa, fu sempre fedele all'Imperadore, resistendo agli sforzi del Legato, apparecchiandosi valorosamente alla difesa, per la qual cosa fu dal Cardinal Pelagio, Vescovo d'Albano e Legato del Pontefice sottoposta all'interdetto. Si resero parimente al Legato Pontecorvo con tutte l'altre Terre di Monte Cassino, la Rocca d'Evandro, Trajetto, e Sugio e finalmente fu forza che si rendesse anche la città di Gaeta, nella quale fu abbattuto e spianato il castello, che l'Imperadore con molta spesa vi avea edificato, essendosene partiti, per non poter far altro molti fedeli di Federico, che non vollero rimaner sudditi del Pontefice; ed i Beneventani avuta contezza de' felici successi dell'esercito Papale, rompendo anch'essi da quel lato la guerra, ne andarono a far gravi danni e prede in Puglia di bovi ed altri animali, e nel lor ritorno ruppero, e posero in fuga il Conte Raone di Valvano, che lor s'era opposto; per la qual cosa il Gran Giustiziero con tutt'i Baroni fedeli all'Imperadore andarono con lor soldati contra quelli di Benevento e guastarono e distrussero molti lor poderi dalla banda di Porta Somma, ove era posta la lor Rocca.

Non tralasciavano ancora i Frati Minori ed i Monaci di S. Benedetto portar lettere del Papa ed ambasciate a molti Baroni, Prelati e Comunità delle città e castella, acciocchè si ribellassero dal lor Signore e passassero dalla banda del Pontefice, pubblicando falsamente, che Federico era morto e che però in Puglia non sarebbe più tornato[326]; la qual novella fermamente creduta da molte di quelle città, da lui si ribellarono, come avrebbono ancor fatto tutte l'altre, secondo che scrive l'Abate Uspergense con uccidere quanti Oltramontani vi dimoravano, se non l'avesse trattenuto l'essersi scoverta la frode, e che Federico era per ritornar presto nel Reame; per la qual cosa furono dal Duca di Spoleti scacciati dal Regno e da' loro monasteri tutti i Frati Minori e tutti i Monaci Cassinensi, de' quali parte andarono via, altri buttando l'abito si nascondevano, vivendo da secolari.

Intanto aveano il Re Giovanni ed il Cardinal Colonna, dopo vari conflitti, costretto il Duca di Spoleto ad uscir dalla Marca, e ricovrare in Apruzzi, dove da coloro seguito, era stato dentro la città di Sulmona strettamente assediato: della qual cosa fatto consapevole il Cardinal Pelagio significò al Re Giovanni che prestamente fosse venuto a congiungersi seco per far con maggior sforzo la guerra in Terra di Lavoro; il perchè il Re Giovanni, sciolto l'assedio da Sulmona, per la Valle di Sangro venne nel Contado di Molise, e prese per istrada Alfidena col suo castello, prese parimente Paterno con altri luoghi, ed abbrugiò Castel di Sangro; e nello stesso tempo il Conte di Campagna con buona mano di fanti e cavalli, assoldati novellamente dal Pontefice per supplimento della guerra del Regno, gitone improviso sopra Sora in un subito la prese, rimanendo però la Rocca in poter degl'Imperiali: ed indi partito, colla stessa agevolezza, prese Arpino, Fontana e la Valle di Sora con tutto il paese de' Marsi; e dall'altra parte il Re Giovanni col Cardinal Colonna giunto in Terra di Lavoro e valicato il fiume Volturno, si congiunse con l'esercito del Cardinal Pelagio, che l'attendea presso Telesa, e così uniti andarono a campeggiare sopra Cojazza.

Nel medesimo tempo, che Gregorio travagliava il Regno, Federico in Soria impiegava le sue forze per quella santa impresa; poichè giunto non molto dopo la sua partenza nel mese di settembre in Accone[327], indi passato in Cipro, dopo varie imprese, ne andò in Soria, e giunse coll'esercito de' Crocesignati in Joppe a' 15 novembre del passato anno, e fortificò quella città, che era disfatta. Dimorò in cotal opera tutta la quaresima, nella quale corse pericolo d'aver da abbandonar l'impresa, ed andarsene per terra a Tolemaida, per mancamento di vettovaglie, essendo dalla tempesta del mare impediti a condurvele i suoi vascelli, che colà dimoravano; ma tranquillatosi poi ne ebbe in gran copia. Pure, dopo aver fortificata Joppe, andò in Tolemaida, indi passò al castel di Cordana, ove dimorando inviò Bagliano Signor di Tiro ed il Conte di Lucerna per suoi Ambasciadori al Soldano d'Egitto, che era attendato col suo esercito presso Napoli, avendo seco suo fratello, a cui gli Ambasciadori, dati preziosi doni da parte dell'Imperadore, esposero in cotal guisa la loro imbasciata; che Federico il volea per fratello ed amico, se così di grado gli fosse, e che non era passato in Soria per torgli niun luogo del suo Stato, ma solo per ricuperare il Reame di Gerusalemme col Sepolcro di Cristo, il quale era stato già posseduto da' Cristiani, ed ora per cagione di Jole sua moglie, che n'era stata legittima Reina, spettava di ragione a Corrado lor comune figliuolo. Alla quale proposta rispose il Soldano, che considerato il tutto, avrebbe per suoi messi risposto all'Imperadore; ed onoratigli con altri convenevoli doni gli accommiatò. In questo punto giunsero al Patriarca di Gerusalemme le lettere, che Papa Gregorio gli mandava per due Frati Minori, nelle quali gli ordinava, che dichiarasse scomunicato Federico, e mancator di fede, per non esser passato in Terra Santa nello stabilito tempo, nè col convenevole apparecchio, proibendo a' Cavalieri dell'Ospedale e del Tempio, ed a' Teutonici, che non l'ubbidissero in cosa alcuna.

Il Soldano ancorchè avesse contezza, che l'Imperadore avea mancamento di vittovaglia, e che per essere in grave discordia col Pontefice, era stato novellamente dichiarato scomunicato, e che era poco ubbidito da' Peregrini (così chiamavano que' soldati, che stavan continuamente militando in Soria) pure temendo grandemente l'armi ed il valor de' Cristiani, gli inviò suoi Ambasciadori con parole cortesi, e con multi elefanti, camelli e cavalli arabi, ed altri nobilissimi presenti, senza però veruna conclusione d'accordo, con dirgli, che gli avesse di nuovo mandati alcuni suoi Baroni, che non avrebbe mancato di conchiudere con loro quel, che giusto e convenevol sarebbe; onde l'Imperadore gli spedì i primi uomini di sua Corte, i quali arrivati che furono in Napoli, il ritrovaron di colà partito, con ordine, che l'avesser seguito a Gaza, ma essi non volendo far ciò, se ne tornarono a dietro all'Imperadore. Or come Cesare conobbe essere stato con astuzia barbara deluso dal Soldano, che gli dava parole per menar la bisogna in lungo, convocati in Tolemaida i primi della città, ed i Peregrini e soldati, disse che voleva assalire il Zaffo per esser più presso a Gerusalemme, ove potevan anch'essi venire. A tal proposta di Federico risposero i Maestri dello Spedale e del Tempio in nome di tutti gli altri, che non ostante, che dal Pontefice romano, al quale dovevano ubbidire, fosse stato lor proibito il trattar seco, e secondarlo, pure per l'utile di Terra Santa e del Popolo cristiano, eran pronti a far con lui quell'impresa; ma volevano, che le grida e gli ordini, che nel Campo si aveano a fare, si facessero in nome di Dio, e della Cristiana Republica, senza che in essi di Federico sotto alcun titolo sì facesse menzione; della qual cosa sdegnato Federico, non volle in guisa alcuna consentirvi, e senza lor compagnia procedette avanti sino al fiume Monder, che corre tra Cesarea ed Artus; significato ciò a' Cavalieri dello Spedale ed a' Templarj, ed agli altri Peregrini, considerando quel che conveniva al pubblico bene, e temendo non fosse l'Imperadore offeso dal Soldano, che avea ragunato innumerabile esercito, cominciarono alquanto da lontano a seguirlo, attendandosi sempre a vista di lui per potere, se il bisogno il richiedesse, prestamente soccorrerlo; ma l'Imperadore accortosi più chiaramente del pericolo, che correa per tal divisione, da dura necessità fu costretto a cedere al lor volere, e si contentò che senz'esser lui nominato, le grida far si dovessero, in nome di Dio, e della Repubblica Cristiana; onde con lor si congiunse ad un rovinato Castello, mentre cominciavano a riedificarlo.

Era, quando queste cose successero, nel mezzo del verno, ed ecco che sopraggiunse a Federico un veloce navilio, con un messo, rapportandogli la novella che il Reame di Puglia era da' Capitani del Pontefice tutto sconvolto, e che molte province erano state da coloro occupate, e che l'altre correan gran pericolo di perdersi.

Questa rea novella fece precipitare le cose di Soria; poichè Federico prestamente s'indusse a concordarsi col Soldano per tornare al soccorso de' suoi Stati in Italia; onde a ragione scrisse Riccardo da S. Germano: Verisimile enim videtur, quod si tunc Imperator cum gratia, et pace Romanae Ecclesiae transiisset, longe melius et efficacius prosperatum fuisset negotium Terrae Sanctae, sed quanta in ipsa sua peregrinatione adversa pertulerit ab Ecclesia, cum non solum ipsum Dominus Papa excommunicaverit, verum etiam quod ipsum excommunicatum scirent et tanquam excomunicatum vitarent eundem Patriarco Jerosolimitano mandavit. E l'Abate Uspergense[328] non potè parimente, considerando questi fatti, non esclamare, e dire: Quis talia facta recte considerans non deploret, et detestetur, quae indicium videntur, et quoddam portentum, et prodigium ruentis Ecclesiae?

La pace conchiusa col Soldano, ancorchè fatta in tempo, che men si conveniva per le cagioni già dette, fu nondimeno per quanto si potè, per Federico vantaggiosa; essendosi accordati i seguenti capitoli. Si conchiuse fra loro triegua per dieci anni, in virtù della quale il Soldano restituiva a Federico la città di Gerusalemme con tutti i suoi tenimenti; e si convenne, che il Sepolcro di Cristo dovesse essere in custodia de' Saraceni: perchè quelli lungamente aveano usato ivi orare, ma che ciò non ostante, il Sepolcro fosse esposto a' Cristiani, i quali similmente potessero con tutta la lor libertà andar ivi per adorarlo; gli restituì ancora la città di Bettelemme e di Nazzaret; e tutte le ville, che sono per lo dritto cammino sino a Gerusalemme, e la città di Sidone e Tiro, ed alcun'altre castella possedute già da' Cavalieri del Tempio, con condizione, che potesse l'Imperadore fortificare, e munire Gerusalemme con muri e torri a suo talento; fortificare il castel di Joppe, e quel di Cesarea, Monteforte, e castel Nuovo. Che fossero restituite a Federico tutte quelle cose, che erano state in potestà di Balduino IV, e che gli furono tolte dal Saladino; e che si ponessero senz'altra taglia in libertà tutti i prigionieri.

(Contro questa pace declamò tanto Gregorio IX che Federico trattasse meglio i Maomettani, che i Cristiani; e da Lunig[329] si rapporta la Bolla, che istromentò in quest'anno 1228 in Roma, dove vien imputato Federico di molti delitti. All'incontro questo medesimo Collettore rapporta alla pag. 879 le risposte, che i Vescovi e Principi di Germania, e d'Italia fecero alle accuse di Gregorio, confutando una per una le imputazioni ingiustamente fattegli. Questa pace si appartiene solamente al Regno di Gerusalemme; poichè Federico nell'anno 1230 ne conchiuse un'altra col Soldano, che riguarda la libera negoziazione tra Cristiani e Maomettani in Corsica, Marsilia, Venezia, Genova e Pisa, e la libera navigazione ne' porti d'Affrica, d'Egitto, ed altre regioni adiacenti al mare Mediterraneo; l'istromento della quale vien anche rapportato da Lunig[330] ).

In cotal maniera fu conchiusa questa pace da Federico, contro il quale non mancò chi lo dannasse, e biasimasse, perchè avesse lasciato il sepolcro di Cristo in mano de' Saraceni, per cui era stata impresa questa guerra: lo biasimarono ancora alcuni altri più moderni Autori trattandolo da timidissimo e vile, opponendogli, che sofferse dal Soldano, e da' suoi soldati mille obbrobriosi scherni. Ma la Cronaca di Riccardo da S. Germano Scrittor contemporaneo a que' successi, ben convince le costoro bugie e malignità contro quel Principe. Ed i nostri Italiani, come ancora il Patriarca di Gerusalemme nelle sue lettere, per esser stati la maggior parte Guelfi suoi nemici e partigiani, ed aderenti del Pontefice, non meritano in ciò credenza alcuna. In fatti per quel, che s'attiene al sepolcro di Cristo, Riccardo da S. Germano attesta la necessità, che ebbe di lasciar la custodia di quello in mano dei Saraceni, rapportando la cagione di questo articolo: Quia, parlando de' Saraceni, diu consueverant orare ibidem, et ut liberum introitum, et exitum habeant illuc accedentes orationis causa: ma si convenne ancora, che a' Cristiani fosse in libertà far il medesimo, et Christianis similiter orationis causa sit expositum; donde si convince quanto sfacciata sia la menzogna insieme, e l'adulazione del Bossio[331], che nell'istoria della religione di Malta, dice, che fu proibito a' Cristiani di potervi entrare. Ed il voler accagionare Federico di timidezza e viltà, è contro tutta l'istoria; poichè fu egli un Signor grande e valoroso, e di cuor feroce e magnanimo, come per tant'imprese, che egli fece, chiaramente si scorge; nè par verisimile, anzi è impossibil cosa l'aver voluto soffrire dagli effeminati Popoli d'Egitto, e da' vilissimi Arabi quei dispregi ed oltraggi, che non sofferì, nè da' Lombardi, nè dai Tedeschi, nè da tante valorose Nazioni, delle quali ottenne più volte nobilissime vittorie per tutto il tempo di sua vita.

Federico adunque, dopo la pace fatta, volendo partir di Soria, e tornare al soccorso de' suoi Stati d'Italia e della Puglia, propose di voler prima prender la possessione, e la Corona regale dell'acquistato Regno di Gerusalemme; fece adunque, che Ermanno Saltza significasse per sue lettere al Patriarca di Gerusalemme, che fosse andato per tal affare insieme con lui in quella città; ma il Patriarca partigiano del Pontefice, gli rispose, che ciò non potea farlo, se prima non vedesse le capitolazioni dell'accordo seguito tra l'Imperadore ed il Soldano. Il Maestro Ermanno tosto glie le inviò per un Frate di S. Domenico. Veduto che ebbe l'accordo il Patriarca, negò d'intervenirvi, dicendo, che non avea sicurezza alcuna di porsi nelle mani di quei barbari, non facendosi nell'accordo menzione del Clero, nè essendo giurato dal Soldano in Damasco, a cui quel Regno di ragione appartenea, e che perciò non era nè sicuro, nè durabile: anzi col pretesto, che il tempio ed il sepolcro di Cristo fosse rimasto in custodia dei Saraceni, e per impedire, che Federico in quello si incoronasse, mandò l'Arcivescovo di Cesarea per suo Legato, e fece dal medesimo di suo ordine interdire tutta la città santa di Gerusalemme, e spezialmente sottopose all'interdetto il sepolcro istesso di Cristo, vietando, che non potessero ivi celebrarsi i divini Uffici.

(È singolare ciò, che Giovanni Vito Durano nella Cronaca al 1243 scrisse parlando della coronazione di Federico in Gerusalemme, dicendo, che non ostante l'interdetto vi si cantò messa, e che il Soldano, che stava a lato di Federico gli dimandò, che voleva dire quel pane in mano del Sacerdote, e ch'egli adorava: udito che l'ebbe, mossesi ad un sorriso, e con uno scipito motto schernì il Mistero. Seguitando la fede di Durano rapporta ancora questo fatto il diligentissimo Aulisio[332] ).

Onde Federico in cambio in questa impresa di riceverne benedizioni, ebbe maledizioni, come dice Riccardo: Primitias recuperationis ipsius, non benedictione, sed anathemate prosecutus; ma l'Imperadore poco di ciò curando entrò a 17 marzo a Gerusalemme, e nel vegnente mattino con convenevol pompa accompagnato dal Maestro Ermanno, e da tutti i suoi famigliari ne andò alla chiesa del sepolcro, e dopo aver lungamente orato, e dato grazie al Signore, scorgendo, che per l'interdetto niuno ardiva celebrar la messa, nè si poteva far altro ufficio a ciò bisognevole, non avendovi voluto intervenire nè anche gli stessi Prelati tedeschi, che egli avea richiesto di ciò, con rispondergli, che non volean per tal atto essere scomunicati dal Papa: prese egli colle proprie mani la Corona dell'altare ove ella era, e se ne incoronò; ed il Gran Maestro dei Teutonici orò lungamente in lode di Federico, esagerando, che col suo avvedimento e valore quella città, ed il suo Reame a' Cristiani restituito avea[333]; e coronato che fu, diè subito provedimenti per fortificar Gerusalemme, e rifar le sue mura, che da Corradino Soldano di Damasco erano state abbattute e disfatte. Dopo la qual cosa, camminando velocemente per la novella del Reame di Puglia invaso dal Papa, passò al Zaffo, e di là a Tolemaida, ove creò due Capitani della gente, che avea a rimanere in presidio de' luoghi acquistati; e de' Tedeschi, che aveano a navigar seco in Puglia, creò Capitano il Maestro de' Teutonici, ed avendo in questo ritorno sofferte e superate molte ostilità fattegli dal Patriarca di Gerusalemme, e dai Maestri Ospitalieri e Templari, finalmente con felice viaggio capitò prima di tutti gli altri, che seco venivano, nel mar di Brindisi.

Giunto appena Federico in Brindisi, inviò suoi Ambasciadori al Pontefice Gregorio, che furono gli Arcivescovi di Reggio e di Bari, col Gran Maestro Ermanno, i quali andati prima a Cajazza, ove erano ad assedio il Cardinal di S. Prassede, ed il Cardinal Albano, ed avute da amendue lettere per lo Pontefice, a Roma da lui n'andarono; e datogli conto di quel, che s'era fatto in Palestina, gli chiesero poi in nome dell'Imperadore, che l'avesse assoluto dalla scomunica, e si fosse pacificato seco.

Ma Gregorio adirato di quel, che contro l'Imperadore gli avea scritto il Patriarca di Gerusalemme, dicendo, che l'accordo col Soldano era fatto in pregiudizio de' Cristiani, non volle far nulla di quanto gli chiesero gli Ambasciadori; per la qual cosa rimastosi in Roma il Gran Maestro, ritornarono gli altri due Arcivescovi nel Reame.

Intanto si resero all'Imperadore per opera di Adinolfo, e di Filippo d'Aquino le castella d'Atino e di Celio; ed essendo Federico col suo esercito de' Crocesegnati venuto in Terra di Lavoro contro il Re Giovanni, ed i Cardinali Legati, che stavano coll'esercito de' Chiavesegnati all'assedio di Cajazza, pose sì fatto timore colla sua venuta, che sciolto l'assedio, ed abbruciate le macchine, si ritrassero frettolosamente a Teano, andandone in Roma il Cardinal Colonna a chieder moneta al Pontefice per pagare i soldati, e l'Imperadore ne venne a Capua, ove alloggiato il suo esercito, passò a Napoli e chiese, ed ottenne da' Napoletani soccorso d'armi e di soldati[334].

Racconta ancora Riccardo, che il Cardinal Pelagio non avendo modo per sostener l'esercito, si prese tutto il tesoro, ed ogni altro suppellettile d'argento e d'oro, che era in Monte Cassino, per farne moneta, ed intendendo fare il medesimo nella chiesa di S. Germano, gli Ecclesiastici di quel luogo si composero in una certa somma di danari, perchè il Cardinal Pelagio non si pigliasse il tesoro della lor chiesa: ed intanto l'Imperadore ritornato da Napoli a Capua, n'andò poi a Calvi, la qual città prese a forza, e molti soldati del Pontefice che la difendevano, fece crudelmente morire impiccati per la gola, e quantunque il Re Giovanni cercasse impedirgli il cammino, passò per Riardo a S. Maria della Ferrata, ove per tre giorni dimorato, ebbe in sua balia Vairano, Alife, Venafro e tutto lo Stato de' figliuoli di Pandolfo, per li cui felici progressi sgomentato il Re Giovanni col Cardinal Pelagio, per la strada di Venafro se n'andò a Mignano, ed indi con veloce cammino se n'andò a S. Germano; ma sentendo che l'Imperadore frettolosamente veniva a quella volta, tosto fu disciolto l'esercito papale, e passò frettolosamente in Campagna di Roma, e tutti gli altri Prelati partigiani del Pontefice eran passati col Re Giovanni a Roma.

L'Imperadore intanto entrato col suo esercito nelle Terre della Badia di Monte Cassino, prese, e diede a sacco a' soldati la villa di Piedemonte, con dar la sua Rocca a' Signori d'Aquino. Tentò poi di prender Monte Cassino, ma ne fu ributtato da' difensori; e mentre colà dimorava, per opra di Taddeo di Sessa Giudice della sua Gran Corte, se gli rese la città di Sessa. Se gli rese ancora Presenzano, la Rocca d'Evandro, Isernia, Arpino, e Fontana, con tutte l'altre Terre di S. Benedetto; alla fine se gli rese anche S. Germano colla sua Rocca. E volendo dar poi sesto agli altri suoi affari d'Italia, e trattare di concordarsi col Pontefice, fece chiamare tutti i Potestà e Comuni delle città di Lombardia, significando loro la sua venuta nel Reame, e le sue vittorie con una sua lettera scritta da San Germano, che si legge presso Riccardo, nella quale fra l'altre cose si leggono queste parole: Nos de ultramarinis partibus prospere per Dei gratiam redeuntes, de inimicis nostris, qui Regnum nostrum invaserant foeliciter triumphavimus, dum audientes nos contra eos in manu valida, et potenti venturos, non expectatis, aut expertis viribus nostris, in Campaniae finibus, fugae sibi praesidium elegerunt. Sicque Domino cooperante, et nos comitante justitia, qui de coelo prospexit, quod ipsi de Regno nostro, nobis absentibus, per anni dimidium occupaverant, nos brevi dierum spatio recuperavimus, et revocavimus ad demanium, et dominium nostrum.

Dopo la qual cosa se gli rese la città di Teano, con patto, che il suo Vescovo potesse a suo talento o partirsi, o colà rimanere. Inviò altresì ducento soldati ne' Marsi, con Bertoldo fratello del Duca di Spoleto, ed ottenne agevolmente tutta quella regione; e dopo essersi trattenuto sette giorni in S. Germano passò ad Aquino, donde scrisse sue lettere a tutti i Signori e Principi della Cristianità, per difendersi dalla sinistra opinione, che di lui s'era conceputa e divulgata intorno all'accordo fatto col Soldano, dando lor conto degli affari di Terra Santa, con mostrare ch'eran passati altrimenti di ciò, che figurati gli avea il Patriarca di Gerusalemme al Pontefice, chiamandone in testimonio i Vescovi di Vintona, e di Lancastro, i Maestri dello Spedale e de' Teutonici, e di molti altri Cavalieri degl'istessi Ordini, ed ancora dei Frati Predicatori, che intervennero in quell'accordo. Nell'istessa città andarono a ritrovarlo alcuni Ambasciadori romani, per rallegrarsi seco del suo ritorno, da parte del Senato e del Popolo, e per trattare d'altri loro affari, i quali dopo tre giorni a Roma di nuovo se ne ritornarono. E fatto in miglior forma fortificare S. Germano, si partì d'Aquino, ed andò ad assediar Sora, la quale per essersi voluta difendere prese a forza ed abbruciò con morte e ruina de' suoi cittadini.

Intanto Ermanno Saltza, ch'era restato in Roma per trattar la pace col Pontefice, partito di là, insieme con Giovanni Cardinal di Santa Sabina, e con Tommaso Cardinal di Capua Legati del Pontefice, andarono tutti e tre a ritrovar l'Imperadore in Aquino, ove era da Sora ritornato il quarto giorno di novembre, e dopo aver favellato con lui, la stessa sera passarono a Monte Cassino, e persuasero al Cardinal Pelagio, che di colà partisse co' soldati, che vi aveva introdotti senza ricever noja alcuna. Fu ancora conceduto a' Vescovi il ritornar senza molestia alcuna alle loro sedi. Restituì ancora Federico tutt'i luoghi tolti all'Abate di Monte Cassino Adenolfo, commettendone però la cura al Gran Maestro Ermanno, sinchè si fosse compiuto il trattato della pace col Pontefice; ed Ermanno dovendo ritornare in Perugia, ove di nuovo andò col Cardinal Pelagio per accordare alcuni capitoli della pace, vi sostituì un tal Fra Lionardo Cavalier teutonico insino al suo ritorno. E Federico passato indi a Capua, ove celebrò la festa del Natal di Cristo, diede libertà a molti cittadini di Sora, che avea fatti imprigionare dopo la presa di quella città.

Con tai successi compiuto l'anno di Cristo 1229 nel seguente anno 1230 nel mese di gennajo comandò l'Imperadore al suddetto Fra Lionardo sustituito Governador della Badia, che da quelle Terre raccogliesse eletti soldati, e gli ponesse in guardia di Monte Cassino, facendogli dare il giuramento d'averlo a custodire, e difendere con tutt'i beni, ed i Frati che vi eran dentro, nè consignarlo ad altri, che al Gran Maestro Ermanno. E poco da poi l'Arcivescovo di Reggio, il Gran Maestro de' Teutonici, ed il Cardinal Pelagio, dopo esser più volte andati e tornati da Roma in Puglia per lo trattato della pace, celebrarono finalmente un'Assemblea in S. Germano, ove parimente convennero il Patriarca d'Aquileja, i due suddetti Legati, Giovanni Cardinal di Santa Sabina e Tommaso Cardinal di Capua, e Eberardo Arcivescovo di Salsburg, Sifrido Vescovo di Ratisbona, Leopoldo Duca d'Austria e di Stiria, Bernardo Duca di Moravia, con Fra Lionardo Cavalier Teutonico, nella quale, dopo varj discorsi, diedero cominciamento alla pace, che poco da poi, come diremo, si conchiuse fra l'Imperadore ed il Papa. Ed intanto si diedero all'Imperadore alcune città della Puglia, le quali nei passati tumulti se gli erano ribellate, come Civitate, Larino, S. Severo, Casal nuovo e Foggia. Nè si dee dar fede all'Autor della scrittura intitolata Itinerario dell'Imperador Federico, perchè è piena di favole e di sogni, convincendosi di sfacciata menzogna sin dal suo incominciamento; poichè Federico dimorò in Terra Santa solo sei mesi, e non tre anni; non assediò Gerusalemme, perchè il Soldano glie la diede subito; non fu in Sicilia quando tornò d'oltremare, ma solo a Brindisi, la qual città non fu mestieri soccorrere, perchè non era altrimenti cinta d'assedio, nè per tal cagione assoldò Saraceni nell'isola de' Gerbi, mentre potea averne di vantaggio in Sicilia ed in Puglia.

Intanto mentre l'Imperadore celebra in Foggia la Pasqua del Signore, Gregorio nel giovedì santo scomunica Rinaldo Duca di Spoleto, ed il suo fratello Bertoldo, come assalitori della Marca, ed altri luoghi della Chiesa.

Dopo tutto questo ritornarono di Roma, ove erano andati dopo l'Assemblea tenuta in S. Germano, tutti quei Prelati e Signori, che abbiam nominati nel trattato della pace, e con essi i Cardinali Legati, per assolvere l'Imperadore della scomunica, i quali commisero al Maestro de' Teutonici, che significasse all'Imperadore, che venisse a Capua, ove essi perciò l'averiano atteso con tutt'i Prelati, che per timor di lui s'eran fuggiti dal Reame; ma avendo poscia avuta contezza, che egli avea fatto abbattere le mura di Foggia, S. Severo e Casal nuovo, e che partitosi di Puglia veniva a Capua con intenzione, che tra gli articoli della pace s'accordasse ancora, che Gaeta e S. Agata ritornassero sotto il suo dominio, e non già rimanessero in balia della Chiesa, come pretendea il Pontefice: fecero ritornare tutti i Prelati regnicoli a Cepparano, ed essi se ne girono coll'Abate Adinolfo a Capua, nella qual città a' 30 maggio arrivò poscia Federico, con cui abboccatisi i Cardinali, disconvenendo nell'articolo di Gaeta e S. Agata passarono a Sessa, ed avendo trattato con quelli di Gaeta, fecero venire da loro Pietro delle Vigne, e Filippo di Citro Contestabile di Capua; ma non potendo effettuar la pace, per le nuove cagioni e difficoltà, che ogni giorno sopravvenivano, fu mestiere, che l'Arcivescovo di Reggio ed il Maestro de' Teutonici più volte andassero, e ritornassero da Roma a Cesare; onde alla fine, per l'opera d'un tal Fra Gualdo dell'Ordine dei Predicatori, essendo il Pontefice venuto al monastero di Grotta-Ferrata, e l'Imperadore a S. Germano, per esser più da presso, si conchiuse con comune letizia la pace, e se ne fecero dimostrazioni d'allegrezza in S. Germano, e ne' circonvicini luoghi, e per darvi compimento, vennero il nono giorno di luglio i Cardinali Legati nella maggior chiesa di S. Germano, ove parimente convennero il Patriarca d'Aquileja, l'Arcivescovo di Salisburg, il Vescovo di Ratisbona e quel di Reggio, i Duchi di Carintia e di Moravia, Principi dell'Alemagna; e del nostro Reame v'intervennero gli Arcivescovi di Palermo, quel di Reggio di Calabria, e quel di Bari, l'Abate di Monte Cassino, ed altri molti Prelati, ch'eran via fuggiti in Roma, Rinaldo Duca di Spoleto, Tommaso d'Aquino Conte della Corra, Errico di Morra Gran Giustiziero con altri Baroni e Ministri imperiali in gran numero, in presenza de' quali promise l'Imperadore di soddisfare alla Santa Romana Chiesa in tutte quelle cagioni per le quali era stato scomunicato, facendolo così giurare da Tommaso Conte della Cerra, e da tutti quei Prelati e Signori Alemani, i quali fecero la scrittura colle Capitolazioni dell'accordo, che vien inserita da Riccardo nella sua Cronaca, la qual contiene i seguenti Capitoli.

I. Che per quel che s'attiene alle città di Gaeta e S. Agata fra un anno s'abbia da trovar modo da comuni arbitri eliggendi, di dar compimento a questo articolo; e di trattar la forma, affinchè facciano ritorno all'ubbidienza dell'Imperadore Gaeta e S. Agata e tutti i Regnicoli, co' loro beni nel Regno; ed intanto l'Imperadore non offenderà le città predette, nè gli uomini di quelle; nè permetterà farle offendere dai suoi.

II. Che l'Imperadore rimetterà ogn'offesa a' Teutonici, Lombardi, a coloro della Toscana, e generalmente a tutti gli uomini de' Regni di Sicilia, ed ai Franzesi, i quali hanno aderito alla Chiesa romana contro di lui, nè permetterà che siano per detta cagione offesi da' suoi.

III. Il suddetto Imperadore rimetterà tutte le sentenze, costituzioni e bandi contro di loro promulgati coll'occasione della suddetta guerra.

IV. Promette ancora, che le terre della Chiesa nel Ducato di Spoleto e nella Marca, ed in altri luoghi del patrimonio della medesima, non saranno invase, nè devastate per se, o per altri.

Promettendo i suddetti Principi d'Alemagna, essere mallevadori di quanto ne' suddetti articoli s'era convenuto.

Dopo la qual cosa l'Arcivescovo di Salisburg favellò lungamente del buon voler dell'Imperadore verso la Chiesa romana, con iscusarlo dalle passate discordie, a cui rispose con pari eloquenza il Cardinal di Santa Sabina. E nell'istesso giorno i Cardinali Legati in nome del Papa fecero giurare all'Imperadore di restituire ciò, ch'egli avea occupato, o fatto occupare da' suoi Capitani nella Marca, e nel Ducato di Spoleto, ed in ogni altra parte del patrimonio della Chiesa, e tutt'i territori e castelli de' monasteri, o Badie, e particolarmente del monastero di S. Chirico d'Introducco, e tutt'i beni de' Cavalieri del Tempio e dello Spedale, e di qualsivoglia altro Barone, e d'altri Nobili del Reame, che fossero stati aderenti e partigiani del Pontefice, e di rimettere parimente nelle loro sedi l'Arcivescovo di Taranto, e tutti gli altri Vescovi e Prelati, che avea scacciati dal Reame. E di vantaggio gli fecero giurare; Ut de caetero nullus Clericus in civili, vel in criminali causa conveniatur, et quod nullas talleas, vel collectas imponat Ecclesiis, Monasteriis, Clericis, et viris Ecclesiasticis, seu rebus corum; et quod electiones, postulationes, et confirmationes Ecclesiarum, ac Monasteriorum libere fiant in Regno secundum statuta Concilii Generalis[335].

Dopo questo, d'ordine del Papa fu tolto l'interdetto da Frate Gualdo, con dar libertà di celebrare i divini Ufficj alle Chiese di S. Germano, ed all'altre Terre della Badia di Monte Cassino, e di tutti gli altri luoghi, ove dal Cardinal Pelagio era stato posto, escludendo però di potere esser uditi come scomunicati dal Duca di Spoleto, e da tutti gli altri, che in sua compagnia avevano guerreggiato nella Marca. E l'Imperadore, per eseguire il concordato fatto, restituì indi a poco Trajetto e Suggio col Contado di Fondi a Ruggieri dell'Aquila, ed il monastero di Monte Cassino, e Rocca Janola all'abate Adinolfo, con patto sì bene, che detta Rocca dovesse esser custodita da Rinaldo Belenguino di Sant'Elia insinattanto, che fosse l'Imperadore assoluto dalle censure. E passato Federico alla Rocca d'Arce, fece restituire all'Abate Adinulfo da' Signori d'Aquino, a cui commessi gli avea, Ponte Corvo, Piedemonte, e Castel Nuovo, e di là passò a Cepparano con buon numero di suoi soldati, e quivi nella cappella di S. Giustina il dì di S. Agostino nel mese di agosto, fu Federico assoluto dalla scomunica dal Cardinal di Capua Vescovo Sabinense, e nell'ultimo del detto mese andò a trovar Gregorio, che in Alagna l'attendea, avendo nello stesso tempo inviato per lo Reame sue lettere favorevoli per la libertà de' monasteri e delle Chiese, delle persone Ecclesiastiche, e dei beni di quelle, ordinando a' Conti, Baroni, Giustizieri, Camerarj e Baglivi del Regno di Sicilia, che niuno Monasteriis, Ecclesiis, personis Ecclesiasticis, aut rebus eorum talleas, vel collectas praesumat imponere, salvis illis servitiis, ad quae certae Ecclesiae, vel personae tenentur nobis specialiter obligatae, come dal suo diploma trascritto da Riccardo nella sua Cronaca.

Federico attendatosi col suo esercito fuori delle mura d'Alagna, il primo giorno di settembre vi entrò, accolto, ed incontrato con ogni onore da' Cardinali, e da tutti gli altri Prelati e famigliari del Pontefice, dal quale fu invitato a mangiar seco, e per tre continui giorni dimorarono insieme favellando de' loro importanti affari in presenza solo del Maestro de' Teutonici. Accommiatato poscia caramente da Gregorio ritornò a' suoi alloggiamenti, ove dimorando diede a Gio. di Poli il Contado d'Albi in luogo del Contado di Fondi, che gli avea tolto, per restituirlo a Ruggieri dell'Aquila; ed allora l'Abate di S. Vincenzo, ed i Prelati, che si trovavano scomunicati per aver aderito all'Imperadore, furono a preghiere del medesimo dal Papa assoluti. Ed intanto i Vescovi di Tiano, d'Alife, di Venafro, e tutti gl'altri Prelati, ch'erano usciti del Regno, alle proprie sedi ritornarono, e li Prelati e Principi d'Alemagna ritornarono a' loro paesi. Aggiunge il Bzovio ne' suoi annali, che alcuni Autori tedeschi scrivono, che l'Imperadore per pacificarsi col Pontefice gli pagasse per gli danni, che con la guerra avea patiti, cento e ventimila oncie d'oro. Girolamo dalla Corte nell'istoria di Verona, dice non essere stati più che dodicimila ducati; ma Riccardo, che particolarmente scrive questo fatto, non favella in guisa alcuna di tal pagamento.

Conchiusa dunque in cotal maniera questa pace, l'Imperadore partito d'Alagna ritornò a S. Germano, e di là per la strada di Capua passò in Puglia, e nella città di Melfi fermossi, e disbrigato dagli affari di questa guerra, quietato il Regno, pensò poi nel seguente anno 1231 a ristabilirlo con varj provedimenti, e ad ordinar nuove leggi per la quiete e tranquillità del medesimo, e per ristorarlo da' passati danni.

(Nell'anno stesso 1230 fu questa pace confermata da' Principi di Germania, i quali n'entrarono mallevadori; e l'istromento della garantia è rapportato da Lunig[336] ).

CAPITOLO VIII. Delle Costituzioni del Regno.

Niuna parte delle nostre patrie leggi è stata per l'ignoranza dell'istoria da' nostri Professori tanto confusamente trattata, e con minor diligenza, che quella che concerne la compilazione di queste nostre Costituzioni. Non è chi non sappia, che l'Imperador Federico l'avesse a Pietro delle Vigne commessa, e che per suo comandamento questi la facesse; ma come, ed in qual tempo si pubblicasse, di quali Costituzioni e di qual Principe; qual uso ed autorità presso di noi avesse, e come da poi a noi fossero le leggi, che contiene, state esposte e commentate da' nostri Scrittori, evvi un profondo silenzio. Molti perciò confusero le Costituzioni, e ciò ch'è d'un Principe, l'attribuiscono ad un altro, come si è osservato ne' precedenti libri di quest'Istoria, ove molte leggi di Ruggiero furono, o a' due Guglielmi, o a Federico attribuite; ed all'incontro molte Costituzioni di quest'Imperadore, o a' Guglielmi, o al riferito Ruggiero. Molti altri, non intendendo la lor forza, nè l'uso di que' tempi, stranamente a noi l'esposero, e fuvvi ancora chi riputasse alcune di esse empie e sacrileghe.

Federico adunque savissimo Principe, che non meno nell'armi, che nelle leggi volle imitare i più savj Re della terra, in quest'anno 1231 avendo conchiusa la pace col Pontefice Gregorio, e resi tranquilli i suoi Reami di Sicilia e di Puglia, rivolse i suoi pensieri alle leggi, per dar a' Popoli a se soggetti più stabile e fermo riposo. Non è però, che egli in questo solo anno promulgasse tutte quelle Costituzioni, che si leggono in questo volume diviso in tre libri. La compilazione si fece in quest'anno, ma le leggi si stabilirono, e prima, e da poi, essendosi molte altre Costituzioni aggiunte dopo la compilazione fatta in quest'anno 1231 ond'è, che quelle portino in fronte l'inscrizione, Nova constitutio. Egli in questo Codice volle, che si inserissero le Costituzioni de' Re di Sicilia suoi predecessori, e tra quelle ne scelse molte di Ruggiero I Re suo avolo: alcune di Guglielmo I suo zio, e poche di Guglielmo II suo fratel cugino, delle quali a bastanza fu ragionato ne' precedenti libri. Non volle tener conto di ciò, che s'avessero fatto Tancredi e Guglielmo III come quelli, che furon riputati da lui per Re illegittimi ed intrusi, come si è altre volte notato. Oltre delle Costituzioni di questi Principi suoi predecessori, volle che s'inserissero le sue promulgate già in diversi tempi, in varie occasioni, ed in varie città de' suoi Reami di Sicilia e di Puglia, stabilendo che cassate ed annullate le antiche leggi e consuetudini, che a tali Costituzioni fossero contrarie, queste sole s'osservassero, e queste così ne' giudicj, come fuori, avessero tutt'il vigore ed autorità nel suo Regno di Sicilia, ch'egli chiama credità preziosa[337]. Ed egli è da notare, che per Regno di Sicilia comprende non meno quello, che propriamente è detto di Sicilia, ma oltre di quell'isola, anche questo nostro, che ora Regno di Puglia, ora di Sicilia di qua del Faro, ed ultimamente Regno di Napoli fu detto; onde siccome di gran lunga andarono errati coloro, che riputarono le presenti Costituzioni essersi solo ordinate per l'isola di Sicilia, così anche non merita scusa il Ramondetta, che scrisse, queste leggi non essere state stabilite per coloro di quell'isola, ma solo per quello di Napoli. Errore così manifesto, che non vi è Costituzione, che nol convinca per tale.

Molte Costituzioni prima di quest'anno 1231 avea Federico per lo governo di questi Reami già stabilite[338]; e fin da' primi anni del suo Regno, dopo il Baliato d'Innocenzio III cominciò in varj Parlamenti tenuti in Puglia, o in altre città del Regno a stabilirne. Oltre di quelle fatte in Roma dopo la sua incoronazione per mano d'Onorio, delle quali si è discorso nel libro precedente, e che non han che far con le nostre, nell'anno 1220 essendosi dopo la sua incoronazione, da Roma portato nel nostro Regno e passato a Capua, quivi resse un Parlamento generale per bene del Regno, e promulgò suoi ordinamenti contenuti in venti capitoli, come narra Riccardo da S. Germano[339]: Et se recto tramite Capuam conferens, et regens ibi Curiam generalem pro bono Statu Regni suas assisias (cioè regolamenti, che nelle Corti generali per pubblico bene, e comodo de' vassalli solevansi stabilire[340] ) promulgavit, quae sub viginti capitulis continentur.

Vi è chi scrive, che nel seguente anno 1221 anche in Melfi avendo ragunata una general Assemblea, avesse promulgate altre sue Costituzioni; ma non facendone menzione alcuna Riccardo, non ci assicuriamo di dirlo; coloro, che lo scrissero, furono ingannati dalla data, che porta questa compilazione, nella quale, nelle vulgate edizioni, in cambio di notarsi l'anno 1231 si trova con error manifesto impresso 1221. Ne furono sì bene in quest'anno non in Melfi, ma in Messina promulgate dell'altre, le quali oggi pur veggiamo inserite in questo volume, come ce ne rende testimonianza l'istesso Riccardo: Imperator per Apuliam, et Calabriam iter habens, feliciter in Siciliam transfretat, et Messanae regens Curiam generalem, quasdam ibi statuit assisias observandas contra lusores etc., le quali ora pur leggiamo in questa compilazione nel libro terzo sotto i titoli; de his qui ludunt ad dados, etc. de Blasphemantibus Deum, etc.

Nell'anno 1222 narra l'istesso Riccardo, che Federico sua Statuta per Regnum dirigit in singulis Civitatibus et Villis; e nell'anno 1224 molte leggi furono da lui pubblicate intorno allo stabilimento dello studio generale eretto in Napoli, come altrove abbiam notato; e nella Costituzione nihil veterum[341] si parla della spedizione fatta da Federico in Lombardia per frenare la ribellione de' Lombardi, e del suo presto ritorno in Puglia, ciocchè, siccome scrissero Riccardo[342], ed Errico Sterone[343], amendue Scrittori di quel tempo, avvenne nell'anno 1226, e così di mano in mano anche dopo il ritorno fatto da Soria nell'anno 1229 altre ne promulgò in varie occorrenze[344]; e nel principio di quest'istesso anno 1231 nel mese di gennajo narra Riccardo[345], che mandasse Federico a Stefano di Anglone suo Giustiziero di Terra di Lavoro suoi ordinamenti riguardanti le concessioni e privilegi fatti da lui, e da Rinaldo Duca di Spoleti dopo il suo passaggio in Soria, comandando, che dovessero quelli presentarsi alla sua imperial Corte fra certo tempo: altrimenti, che d'essi non dovesse tenersi alcun conto, nè tenessero fermezza alcuna, ciò che pur lo vediamo inserito in questo Codice sotto il titolo de privilegiis al libro 2.

Nel medesimo tempo proibì a' Baroni, che nelle lor terre e castelli potessero far nuovi edificj di muri e torri, come narra Riccardo, ciò che anche leggiamo nel libro terzo sotto il titolo de novis Aedificiis: diede parimente altri provedimenti intorno alle sovvenzioni, che dovean prestare i Conti, Baroni e Prelati, che tenevan Feudi, de' quali ci restano ancora i vestigi nei tre libri di queste Costituzioni. E forti argomenti abbiam di credere, che quella cotanto famosa e rinomata Costituzione Inconsutilem, piena di tanto rigore ed asprezza contro i Patareni e gli altri Eretici di questi tempi, nel mese di febbrajo di quest'istesso anno 1231 avesse Federico promulgata, per accorrere a' mali, che il numero de' medesimi, il qual tuttavia andava crescendo, potevano apportare a questi Regni. Narra Riccardo essere in Italia cresciuto tanto il numero de' Patareni, che ne fu anche Roma, sede della religione, contaminata ed infetta, bisognando per estirpargli usar molto rigore; in guisa che molti, i quali ostinati non vollero lasciare i loro errori, furono fatti ardere nelle fiamme, e gli altri più docili, furono mandati a carcere nel monastero di Monte Cassino, ed a quello della Cava per dovervi stare insino che abjurassero, e facessero penitenza de' loro falli. E crebbe il lor numero in guisa che, oltrepassando Roma, cominciarono anche a contaminare le città di questo nostro Reame, ed in Napoli particolarmente multiplicavano assai più, tanto che Federico per estirpargli mandò quivi l'Arcivescovo di Reggio, e Riccardo di Principato suo Maresciallo, perchè severamente gli punissero, siccome in fatti molti ne furono trovati e posti in carcere: e questa fu l'occasione che mosse Federico a punir questi Eretici, ed i loro recettatori e fautori con pene sì terribili e severe, come appunto e' dice in quella sua Costituzione[346]: Et tanto ipsos persequamur instantius, quanto in evidentiorem iujuriam fidei Christianae, prope Romanam Ecclesiam, quae caput aliarum Ecclesiarum omnium judicatur, superstitionis suae scelera latius exercere noscuntur. Adeo quod ab Italiae finibus, et praesertim a partibus Lombardiae, in quibus pro certo perpendimus ipsorum nequitiam, amplius abundare, jam usque ad Regnum nostrum Siciliae, suae perfidiae rivulos derivarunt. Quod acerbissimum reputantes, statuimus, etc. Narra ancora Riccardo, che nel mese di giugno di quest'istesso anno si fossero nuove altre Costituzioni da Federico stabilite in Melfi: Constitutiones novae, quae Augustales dicuntur, apud Melfiam, Augusto mandante, conduntur. Siccome nell'istesso tempo fu fatta inquisizione de campangiis, falsariis, aleatoribus, tabernariis, homicidis, vitam sumptuosam ducentibus, prohibita arma portantibus, et de violentiis mulierum; e puniti i rei secondo quelle pene, che furono da lui stabilite in varie sue Costituzioni, che oggi sotto questi titoli leggiamo in questo Codice.

Da tutte queste Costituzioni sinora da lui stabilite ne' precedenti anni in varie occasioni, e da quelle dei Re di Sicilia suoi predecessori fu in quest'anno da Pietro delle Vigne compilato questo nuovo volume delle nostre Costituzioni, che oggi diciamo del Regno; e terminata tal compilazione, nel mese d'agosto del suddetto anno 1231 nel solenne Concistoro tenuto in Melfi furono, tutte unite insieme, pubblicate a' Popoli, perchè cassate l'antiche, queste dovessero osservare. Ecco come Federico ne favella: Accipite gratanter, o Populi, Constitutiones istas, tam in judiciis, quam extra judicia potituri. Quas per Magistrum Petrum de Vineis Capuanum Magnae Curiae nostrae Judicem, et fidelem nostrum mandavimus compilari[347].

Che tal pubblicazione si fosse fatta in agosto di quest'anno 1231 ce lo testifica Riccardo nella sua Cronaca a tal mese, ed anno: Constitutiones Imperiales Melfiae pubblicantur. Ed a quel che ne scrive Riccardo, sono concordi l'edizioni antiche e corretta, che portano questa data: Actum in solenni Consistorio Melfiensi, anno dominicae incarnationis M.CC.XXXI. mense Augusti, indictionis quartae. Ed in tal guisa ancora leggevasi nell'antica edizione, della quale si valse il nostro Matteo d'Afflitto, quando a quelle fece il suo gran Commento, non ponendosi allora in dubbio, che in quest'anno fossero state pubblicate, come scrisse quest'Autore[348]: Ex quo istae Constitutiones editae fuerunt mandante dicto Imperatore per doctissimum virum Petrum de Vinea in anno Domini 1231. Onde si scorge con evidenza, che nell'edizioni nuove e vulgate, che oggi vanno attorno, vi sia errore manifesto, portando altra data, cioè dell'anno 1221.

Egli è da notare ancora, che dopo questa pubblicazione, furono negli anni seguenti da Federico in varj tempi fatte altre Costituzioni, le quali da Taddeo di Sessa, da Roffredo Beneventano, ed ultimamente da Andrea e Bartolommeo di Capua furon sotto i loro dovuti titoli fatte inserire in questo Codice, ond'è, che si appellino Novae Constitutiones. Così Federico nel mese di febbrajo del seguente anno 1232 fece pubblicar in S. Germano le sue Costituzioni de Mercatoribus, Artificibus, Medicis, Alcatoribus, Damnis, Militibus, Notariis, etc., come si legge nella Cronaca di Riccardo, ov'è d'avvertire, che Ferdinando Ughello, il qual nel terzo volume della sua Italia Sacra fece imprimere questa Cronaca, mal fece inserire, dopo queste parole: Post mundi machinam providentia Divina firmatam, etc. quest'altre: Harum aliquot Richardus Author historiae ponit, sed nos remittimus lectorem ad librum Constitutionum Regni Siciliae; dalle quali parole si conosce, che questa fu una postilla fatta da qualche studioso alla Cronaca di Riccardo; onde non meritava, che si confondesse col testo della Cronaca. Queste Costituzioni pubblicate a S. Germano le vediamo ancora inserite nel volume delle nostre Costituzioni, come sotto il titolo de Mercatoribus, sotto il titolo de Fide Mercatorum, sotto il titolo de Medicis, sotto il titolo de Alcatoribus ovvero de his, qui ludunt ad dados, ed altre, che si leggono nel libro terzo. E nel mese d'ottobre del medesimo anno nell'istesso luogo di S. Germano ne pubblicò altre attenenti all'annona, a' pesi e misure, ed altre che si leggono nella citata Cronaca, e delle quali ne restano ancora a noi i vestigj ne' libri delle nostre Costituzioni: Mense Octobri in S. Germano hujusmodi sunt Imperiales Assisiae publicatae. Ed essendo l'Imperador Federico nel seguente anno 1233 passato in Sicilia, tenendo nel fine di quest'anno in Siracusa un general Parlamento, stabilì quella famosa Costituzione: Ut nulli, come dice Riccardo, liceat de filiis, et filiabus Regni matrimonia cum externis, et adventitiis, vel qui non sint de Regno, absque ipsius speciali requisitione, mandato, seu consensu Curiae suae contrahere, videlicet, ut nec aliquae de Regno nubere alienigenis audeant, nec aliqui alienigenarum filias ducere in uxores, poena apposita omnium rerum suarum amissione. Costituzione che noi leggiamo sotto il titolo de uxore non ducenda sine permissione Regis, dopo quella, che comincia Honorem nostri diadematis, nella quale si leggono quasi le medesime parole di Riccardo, e per essere promulgata in questo anno dopo la pubblicazione fatta in Melfi, perciò porta in fronte: Nova constitutio. Fu la medesima da Federico stabilita non senza forte ragione, poichè avendo invitate le femmine alla successione de' Feudi, perchè queste maritandosi non trasferissero i Feudi alle famiglie a se ignote, e forse non a se fedeli, volle perciò, che senza consenso della sua Corte non potessero casarsi; della qual Costituzione abbastanza fu da noi scritto, quando ci toccò favellare delle leggi di Ruggiero, riprovando l'error d'Andrea d'Isernia, che la reputò restrittiva della libertà de' matrimonj. La quale durata per lungo tempo, fu poi da Carlo II d'Angiò riformata in questo Regno, ed in Sicilia abolita affatto dal Re Giacomo.

Ci diede ancora Federico altre leggi ne' seguenti anni per render più tranquilla la quiete di questi suoi Regni; e dopo avere nell'anno 1234 stabilite le Fiere in alcune città delle sue province, delle quali si parlerà a suo luogo, per quanto noi possiamo raccorre da Riccardo, insino all'anno 1243 ove termina la sua Cronaca, troviamo essersi da lui varie altre Costituzioni pubblicate; e nel mese di settembre del suddetto anno abbiamo, che in Grossetto quadam edidit Sanctiones, come dice Riccardo, contra judices, Advocatos, et Notarios, quas per totum Regnum publicari praecepit, et tenaciter observari, quarum initium tale est, nihil veterum authoritati detrahitur, etc. che sono l'ultime sue Costituzioni, che ancor vediamo inserite nel nostro volume nel libro primo sotto il titolo de Officio Magistri Justitiarii, et Judicum Magnae Curiae, che perciò porta l'iscrizione di Nova Constitutio; e sotto il titolo de Advocatis ordinandis, co' due seguenti. Tutte queste Costituzioni, come riguardanti a' Regni di Puglia e di Sicilia, non bisogna confonderle, come altrove fu avvertito, colle Augustali stabilite in Roma, ovvero con quelle pubblicate in Germania, come in Egra nell'anno 1213, in Francfort nell'anno 1234, in Magonza nell'anno 1235 ed altrove, delle quali Goldasto[349] ne fece raccolta, e si leggono ne' suoi volumi, le quali non furono per questi Regni stabilite, e perciò appresso di noi non ebbero forza, nè vigor alcuno di legge.

§. I. Dell'uso ed autorità di queste Costituzioni durante il Regno de' Svevi; e de' loro Spositori.

Le Costituzioni di questo Principe nel tempo, che furono promulgate, e mentre durò il Regno nella sua persona, ed in quelli della Casa di Svevia, furono universalmente riputate savissime, giustissime e ricolme d'ogni prudenza, nè eccedenti la potestà d'un Principe. Non parve allora strano d'aver in questo volume fatte inserire quelle Costituzioni di Ruggiero e di Guglielmo I, delle quali si parlò ne' precedenti libri. Nè ch'egli ne avesse poi rifatte moltissime attenenti ai matrimonj, a' beni delle Chiese, proibendo gli acquisti degli stabili agli Ecclesiastici, come vietò per sua Costituzione, che leggiamo al libro terzo sotto il titolo de Rebus stabilibus Ecclesiis non alienandis, e cose simili. Ma da poi che per gli impegni de' romani Pontefici, nemicissimi della Casa di Svevia, il Regno passò a quella de' Duchi d'Angiò e Conti di Provenza, come diremo, ancorchè Carlo I comandasse, che fossero osservate nel Regno, ed il medesimo avesse ordinato Carlo II suo figliuolo[350]; nulladimanco i nostri Professori, che fiorirono sotto i Re angioini, per accomodarsi a' tempi, che allora correvano, tutti favorevoli a' romani Pontefici, da' quali questi Principi riconoscevano il Regno, cominciarono a malmenare alcune Costituzioni di questo savio Principe, riputandole, in quanto al lor credere, e secondo quelle massime, che allor correvano, che fossero contrarie a quelle della Corte romana; e però strane, inique, ingiuste, offensive dell'ecclesiastica immunità, della libertà de' matrimonj e cose simili; tanto che la Costituzione de Rebus stabilibus Ecclesiis non alienandis, non trovò chi volesse commentarla, come sacrilega, per la libertà ecclesiastica, che si credeva, che s'offendesse: e Matteo d'Afflitto, che brevemente l'espone, si protesta sul bel principio, con dire: Haec Constitutio nihil valet, quia Imperator non potuit contra libertatem Ecclesiae, et personarum Ecclesiasticarum prohibere, quod non relinquantur res stabiles Ecclesiae inter vivos, vel in ultima voluntate; quasi che Federico fosse stato il primo a stabilirla; e pure egli, come si dichiara in quella, non fece altro, che ristabilire ciò, che i suoi Predecessori avean fatto, e ciò che a tutti gli altri Principi fu permesso, e dovrà sempre permettersi ne' loro Reami e Signorie.

Per questa cagione Marino di Caramanico, il più dotto Glossatore di queste Costituzioni, ancorchè fiorisse sotto Carlo I d'Angiò, perchè le chiose, che vi fece, le dettò poco da poi, che si fossero pubblicate, nel Regno de' Svevi[351], perciò fu più moderato di tutti gli altri. Fiorì egli nel principio del nuovo governo degli Angioini, e fu sotto Carlo I nell'anno 1269 Giudice presso il Capitano di Napoli[352]. Le sue chiose sono sobrie e dotte, tanto che presso i posteri s'acquistò il nome d'approvato glossatore, come lo qualifica Matteo d'Afflitto[353]. A costui le riferite Costituzioni di questo Principe non parvero cotanto strane ed esorbitanti, come agli altri, che successero. Egli non muove dubbio alcuno, se come promulgate da Federico, che fu deposto dal Regno e dall'Imperio, dovessero osservarsi, ed aver forza e vigor di legge; egli dice del sì; ed ancorchè si muova da leggier cagione, cioè perchè Federico le fece compilare e pubblicare, antequam Imperio privaretur, et de Regno[354]; nientedimeno parla della potestà de' nostri Principi, sebben non quanto si dovrebbe, almeno il meglio, che comportavano i suoi tempi, ne' quali bisognava andar a seconda de' Pontefici romani, da' quali si riconosceva il Regno. In tali o somiglianti termini si contennero due altri antichi Glossatori, che a Marino successero, i quali furono Bartolommeo di Capua e Sebastiano Napodano, e molto più fece Andrea da Barletta, che fu il primo a glossarle, come si raccoglie da Andrea d'Isernia[355], siccome quegli, che fiorì nell'età di Federico istesso loro Autore, e Francesco Telese Avvocato fiscale nel 1282 che scrisse pure sopra le Costituzioni del Regno, e del quale non si dimenticarono Gesnero, ed il Toppi nelle loro Biblioteche.

Ma ne' tempi susseguenti mettendo più profonde radici le nuove massime della Corte di Roma, e succeduto Andrea d'Isernia, che volle prendersi la briga di commentarle; costui, come se fosse un capital nemico di Federico, non tralascia di dannar la memoria di questo Principe, quando gli vien fatto: biasima molte sue Costituzioni, ed infra l'altre quella stabilita per li matrimonj de' Baroni da non contraersi senza licenza del Re, e non si ritien di dire, che quella portasse destructionem animae istius Federici prohibentis per obliquum matrimonia instituta a Deo in Paradiso.

Egli ingrandisce quanto può le pretensioni de' romani Pontefici, riputando questo Regno come vero Feudo della Chiesa[356], e nudrito colle massime degli Ecclesiastici empiè i suoi Commentarj d'errori pregiudizialissimi alle supreme regalie de' nostri Re, veri ed independenti Monarchi di questo Reame.

Più sobrj furono Luca di Penna, Pietro di Monteforte, Diomede Mariconda, Biagio di Marcone, Pietro Arcamone, Giacopo e Niccolò Ruffo, Sergio Domini Ursonis, Argentino, Pamfilo Mollo, Niccolò Caposcrofa, Pietro Piccolo di Monforte, Lallo di Toscana, Giovanni Grillo, Cesare de Perinis, il Vescovo Giovanni Crispano e Niccolò Superanzio, ed alcuni altri, i quali si contentarono far alcune brevi chiose e piccole note alle Costituzioni suddette, insin che nel Regno degli Aragonesi non venisse voglia a Matteo d'Afflitto, mentr'era di età già cadente, ancorchè di vivacissimo spirito, nell'anno 1510 d'intraprendere di adornarle di più ampj e voluminosi Commentarj, ch'è gran meraviglia, come in tre soli anni, che vi pose, avesse potuto tirargli a fine.

Erano queste Costituzioni, ancorchè in gran parte rivocate, e molte andate in disusanza per li nuovi Capitoli fatti da' Re angioini, ne' tempi degli Aragonesi nella lor fermezza e vigore; e Ferdinando I d'Aragona con sua particolar Costituzione data in Foggia a' 25 dicembre dell'anno 1472 stabilì doversi quelle osservare nel Regno suo[357]; perciò Matteo d'Afflitto reputò non dover impiegar invano le sue fatiche, adornandole d'un più pieno Commentario. Si mosse ancora, come e' ci testifica, che nel corso di 40 anni e più, da che furono commentate da Andrea d'Isernia insino a' suoi tempi, erano occorse, mentr'egli fu prima Giudice della Gran Corte della Vicaria, e poi Consigliere, nuove altre quistioni non trattate da Andrea.

Ma per vizio del secolo non seppe allontanarsi dai triti e comuni sentieri, ed empiè i suoi Commentarj di quistioni vane ed inutili, le quali oggi non hanno il loro uso. Egli fra le altre cose pose in disputa, se Federico, ancorchè avesse pubblicate queste Costituzioni prima della sua deposizione, avesse potuto dar loro forza e vigor di legge, in guisa che da' suoi sudditi dovessero osservarsi, giacchè era stato già scomunicato da Gregorio IX, e come leggi d'uno scomunicato non avrebbero dovuto aver vigore alcuno. Queste dispute sono all'intutto vane, non solo per la ragione, ch'e' rapporta dell'accettazione de' Popoli, ma perchè Federico quando le pubblicò nell'anno 1231 era stato già assoluto da Gregorio, ed era in pace colla Chiesa romana, come si è detto. Ma non bisogna ammettere nemmeno per vera questa ragione, perchè Federico fu scomunicato la seconda volta da Gregorio nell'anno 1239, e sebbene il volume delle sue Costituzioni si trovava già sin dall'anno 1231 pubblicato; nulladimanco, come si è di sopra narrato, egli dopo il suddetto anno 1239 ne pubblicò alcune altre, come nell'anno 1243 e negl'anni seguenti, le quali furono inserite in detto volume, nel tempo che si trovava già scomunicato da Gregorio questa seconda volta. Quindi è che i più sensati riputan esser improprio, ed affatto lontano, ed estraneo il vedere, se il Principe quando stabilisce le sue leggi si trovi scomunicato, perchè avessero vigore o no; e tralasciando il considerare, di qual sussistenza fossero state le censure scagliate da Gregorio IX a Federico; le scomuniche non han niente, che fare colla potestà, che tengono i Principi in istabilir le leggi, ch'è una delle loro supreme regalie inseparabilmente attaccata, ed annessa alla lor Corona, che non può torsi dalla scomunica, la quale non ha altra forza ed effetto, quando che sia legittimamente fulminata, che separare il Fedele dalla Comunione della Chiesa, rendendolo incapace de' Sacramenti, de' suffragi, delle orazioni, e di tutto ciò ch'ella può dare a' suoi Fedeli, non già di disumanar gli uomini, e torgli dalla società civile, e molto meno i Principi da' loro Reami, e di tutto ciò che riguarda la promulgazion delle leggi e l'amministrazione, ed il loro governo, come si ponderò altrove nel corso di quest'Istoria.

Ed i nostri Dottori, che trattano ancora della deposizione di Federico fatta da Innocenzio IV nel Concilio di Lione, con dire, che se queste Costituzioni si fossero da lui stabilite dopo questa sua deposizione, che seguì nell'anno 1246 non avrebbero avuto forza nè vigore alcuno, sono degni di scusa; poichè allora passava per indubitato, che potessero i Pontefici romani deponere gl'Imperadori, ed i Re dall'Imperio, e da' Regni loro, con assolvere i vassalli dal giuramento, secondo le massime, che allora aveano ingombrate le menti degli uomini; ma ora abbastanza da valenti Teologi e Giureconsulti si è posto in chiaro, che nè il Papa, nè la Chiesa istessa ha questa potestà di deporre i Principi da' loro Regni, e molto meno gli Imperadori dall'Imperio, ed assolvere i vassalli dal giuramento prestato, non essendo ciò della potestà della Chiesa, la quale è sola ristretta nelle cose spirituali, e di privare i Fedeli di quello, ch'ella può dare, non già degl'Imperj e de' Reami, i quali i Principi riconoscono non dalla Chiesa, nè dal Papa, ma da Iddio, unico e solo lor Signore; ciò che ben a lungo infra gli altri, fu dimostrato da quell'insigne Teologo di Parigi Dupino[358], e più innanzi da noi se ne discorrerà, quando della deposizione di Federico ci toccherà favellare.

Dopo questi Commentarj di Matteo d'Afflitto, così ampj e voluminosi sopra le Costituzioni, gli altri nostri Professori, che a lui succedettero, si contentarono d'impiegare i loro talenti intorno alle medesime, con far solamente alcune piccole note ed alcune addizioni al Commento d'Andrea d'Isernia, come fecero il Consigliero Giacopo-Anello de Bottis, Giovanni Angelo Pisanello, Fabio Giordano, Bartolommeo Marziale, Marco Antonio Pulverino, ed alcuni altri. Ed essendo da poi agli Aragonesi succeduti gli Austriaci, li quali con nuove leggi e prammatiche, variarono in gran parte le Costituzioni suddette; si fece sì che i nostri Professori impiegassero altrove le loro fatiche, come si dirà a suo luogo; nè si attese più allo studio delle medesime, e restano così, come le lasciarono Matteo d'Afflitto, e quegli altri pochi, che a lui successero; ed oggi in quelle cose, che non sono state rivocate, o che per lungo disuso non si trovano antiquate, hanno presso di noi tutto il vigore, e tutta la forza di legge, a differenza delle longobarde, l'autorità delle quali è presso noi affatto estinta ed andata in dimenticanza.

FINE DEL LIBRO DECIMOSESTO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO DECIMOSETTIMO

La pace poc'anzi conchiusa col Pontefice Gregorio, siccome si previde, fu non guari da poi per nuove cagioni rotta e violata; e pochi anni appresso di bel nuovo si venne ad una più fiera ed ostinata guerra, che lungamente afflisse Italia, de' cui perniziosi effetti furono anche tocche queste nostre province, ancorchè non l'avessero veduta ardere nelle proprie regioni. Federico, se bene si fosse pacificato con Gregorio, vivea però con continui sospetti, che non gli movesse nuova guerra nel nostro Reame; ed a tal fine in quest'anno 1232 fece egli fortificare, e munire tutti i castelli a' confini di Campagna; e nell'entrar del nuovo anno 1233 fece con maggior numero di Saraceni munire e fortificar Lucera in Puglia, ed all'incontro fece abbattere le mura di Troja, città, che ne' passati tumulti s'era mostrata quanto amica del Pontefice, altrettanto poco a lui fedele[359]. Fece ancora fortificar i castelli di Trani, di Bari, di Napoli e di Brindisi; e nel seguente anno fece ampliar in Napoli il castel Capuano; ed in Capua mandò Niccolò Cicala a presedere alla nuova fabbrica del castello di quella città, ch'egli di sua mano avea designato farsi sopra il monte. Ed avendo ripressa la fellonia di Bertoldo fratello del Duca di Spoleto, con intendimento del quale s'era contro di lui afforzato in Introducco, discacciò ambedue dal Regno, e furon mandati in Alemagna. Riebbe ancora la città di Gaeta; la qual prestò così a lui, come a Corrado suo figliuolo, giuramento di fedeltà; ed avendovi mandato Ettore di Montefuscolo Giustiziero di Terra di Lavoro, questi per ordine di Federico vi istituì la dogana, e privò quella città del Consolato, che insino allora vi s'era mantenuto, e togliendole la potestà di crear i Consoli, vi mise egli gli Ufficiali, che la governassero in suo nome, e di trenta torri la fortificò.

Ma non perchè avesse egli con tanta previdenza munito il Regno, era fuor di timore che il Pontefice per altre vie non avesse potuto frastornare i disegni ch'e' nudriva di sottoporre alla sua ubbidienza Milano, e l'altre città Guelfe d'Italia a se ribellanti. Egli per lunga esperienza erasi accorto che tutt'i disegni de' romani Pontefici erano di tener divise queste città, e fomentar le fazioni Guelfe contro le Ghibelline, acciocchè agl'Imperadori, sottoponendosi tutta l'Italia, non loro venisse voglia sottoporsi ancora Roma, e lo Stato della Chiesa, sottratto dall'Imperio di Occidente. Ed ancorchè Gregorio in queste prime mosse di Federico contro le città rubelle di Lombardia, proccurasse per mezzo de' suoi Legati porle in concordia, e più volte si fosse affaticato mostrando zelo di pace, di quietarle; nulladimanco tutti questi maneggi non ebbero niun buon effetto; poichè il Papa nelle condizioni d'accordo tirava a vantaggiar sempre quelle, che potevan giovare alle città nemiche della casa di Svevia, onde non si potè mai conchiuder niente. Faceva di ciò gravissime querele Federico, che a ragione si doleva di lui, il quale mal corrispondea a ciò, ch'egli avea per lui operato, di rendergli benevoli i Romani, i quali più volte avendo tumultuato in Roma contro di lui, ed avendolo costretto ad uscire con poco suo onore da quella città, egli non solo avea proccurata la pace tra i Romani, e que' di Viterbo, ma avea ancora ridotti i Romani alla sua ubbidienza, e fattolo ricevere in Roma con tanti segni di stima e d'ossequio con tutti i Cardinali.

CAPITOLO I. Errico Re di Alemagna si ribella contro l'Imperadore Federico suo padre: vinto, s'umilia; e Federico move guerra a' Lombardi in Italia, al che s'oppone Papa Gregorio, da chi finalmente ne fu di nuovo scomunicato.

Per queste procedure di Gregorio, pur troppo inclinate a favorir le città nemiche di Federico, diede egli sospetto, che essendosi in quest'anno 1234 rubellato Errico contro l'Imperador suo padre, fosse ciò proceduto per opera del Pontefice, e Berardino Corio seguitato da' moderni Scrittori lo narra come cosa indubitata, dicendo ch'Errico primogenito di Federico e di Costanza d'Aragona, che ancor fanciullo era stato per opera del padre creato Re de' Romani, e poi casato con Agnesa d'Austria figliuola del Duca Leopoldo; per opera di Gregorio si collegasse co' Milanesi, e con l'altre città della Lega di Lombardia contro suo padre, e che gli avesser promesso i Milanesi, giunto ch'e' fosse in Italia, di farlo coronare colla Corona di ferro.

Il Sigonio in altra guisa narra il fatto, e dice che la ribellione d'Errico non cominciasse in Italia, ma in Alemagna (nel che va d'accordo con Riccardo da S. Germano[360] ) ove con alcuni Baroni congiurò contro l'Imperadore, e trasse dalla sua parte, tra per amore e per forza, molte città di quelle regioni, onde i Milanesi, e l'altre città collegate della Lombardia, volendo valersi di sì buona occasione, mandarono ad offerirgli la Corona di ferro, che avean negata al padre, e grosso ajuto di soldati e d'armi, se fosse venuto in persona a guerreggiar in Italia.

Il Campo nell'Istoria di Cremona aggiunge, che vennero in Italia il Maresciallo Anselmo Isticense, e Valcherio Tanvembro Arcidiacono d'Erbipoli per ricevere in nome d'Errico, come Re de' Romani, il giuramento di fedeltà; e che giunti in Milano a' 19 dicembre, convocarono un'Assemblea, ove convennero i Milanesi, il Marchese di Monferrato, e Bresciani, Bolognesi, Lodegiani, e Novaresi, e congiurarono tutti contro Federico, e contro Cremona, Padova, e l'altre città sue partigiane, lasciando da parte solamente di far dare il giuramento ad Errico Re de' Romani, e conchiusero, che sarebbero stati fedelissimi a lui. Ma nè il Sigonio, nè il Campo adducono cagion alcuna di tal discordia tra Errico e l'Imperadore; ed essendo tutti questi Autori moderni, bisogna rinvenir la certezza di cotal fatto in più antico Scrittore. Riccardo da S. Germano, accennando solamente tal sedizione d'Errico, non rapporta nemmeno egli le cagioni, le quali però si leggono nella Cronaca del Monastero di S. Giustina di Padova fatta da un Frate di quel monastero, che visse a tempo di Federico, e scrisse con molto avvedimento le sue gesta, e gli avvenimenti d'Italia insino all'anno di Cristo 1270, la qual Cronaca si conserva nel detto monastero, e si vede impressa nel volume dell'Istorie dette Rerum Germanicarum. Narrasi in questa Cronaca, che la cagione, la qual mosse Errico a far tal rivoltura contro il padre, fu follia, e disdegno per invidia, che Federico amava Corrado suo secondo figliuolo partoritogli di Jole, più che lui, e con effetto negli scritti di Riccardo, ed in altri Autori di que' tempi si scorge, che Federico amasse teneramente Corrado, e facesse più stima di lui, che di tutti gli altri suoi figliuoli[361].

Federico intanto, essendo entrato il nuovo anno 1235, avuta contezza della ribellion del figliuolo, e come tentava di movergli guerra in Italia, s'inviò verso Alemagna, e giunto a' confini di quella fu incontrato da alcuni Signori tedeschi, e ragunato un competente esercito, ebbe grave guerra col figliuolo, il quale era da molti Baroni e città seguito; ma abbandonato poscia da quelli, e quasi che solo rimasto, gitone agli alloggiamenti del padre, piangendo a' piedi di lui si gittò, chiedendogli mercede. Federico lo ricevè, ma fatto accorto per gli passati successi del suo feroce ingegno, il condusse seco prigione in Vormazia[362], ove, o che con effetto tentasse ciò fare, o oppostogli, che avesse voluto avvelenar Federico, fu in più stretta prigione dal padre sostenuto, dandolo prima in custodia al Duca di Baviera, e poscia, volendo affatto torlo da que' paesi, al Marchese Lancia di Lombardia, che con Margherita sua moglie, e co' suoi figliuoli d'ordine di lui il condusse in Puglia, e nella Rocca di S. Felice il racchiuse[363], la cui disavventurata morte a suo luogo racconteremo.

Dopo la qual cosa l'Imperadore prese per moglie Isabella figliuola del Re d'Inghilterra, colla quale, condottala in Vormazia, a' 13 agosto magnificamente si sposò: ciò che avvenne sett'anni appunto dopo la morte di Jole. Ben è vero, che Giovanni Cuspiniano, Autor tedesco di molta stima, nel suo libro de Caesaribus, atque Imperatoribus Romanorum, dice che Federico ebbe sei mogli legittime, riponendo fra Jole, e questa Isabella, Agnesa figliuola d'Ottone Duca di Moravia, la quale da lui ripudiatasi maritò con Udalrico Duca di Carintia; Rutina figliuola d'Ottone Conte di Wolhertzhausen in Baviera; ed Isabella figliuola di Lodovico Duca di Baviera; e di niuna di queste tre, dice, aver generato figliuoli.

Ma che si fosse di ciò, fece imporre Federico, dopo questo suo matrimonio, una general colletta nel Reame, e fatto creare, e coronare in Colonia Re de' Romani Corrado suo secondogenito in luogo del deposto Errico, e lasciato in Alemagna l'Imperadrice, calò col Re Corrado in Italia, ed andatone a Rieti dove era il Pontefice, volle Federico, ch'il figliuolo alla sua presenza giurasse al Papa d'esser sempre fedele ed ubbidiente a Santa Chiesa; e premendo col Pontefice, che l'ajutasse contro i Lombardi suoi fieri nemici, contro i quali era disposto a mover guerra; Gregorio, che non gli volea domati, lo dissuadea, dandogli grandissime speranze, che l'avrebbe egli accordati, e postigli sotto la sua ubbidienza; ed essendo già scorsi otto anni della tregua, che Federico avea conchiusa col Soldano per dieci anni, Gregorio, che voleva rinovar questa guerra, e con ciò distornar Federico da quella contro i Lombardi, rinovò gli ordini, comandando, che ciascuno dovesse prender la croce per così santa impresa di là a due anni, con significarlo per sue lettere particolari de' 9 settembre a tutt'i Principi e città del Cristianesimo. Ma Federico bramoso di guerreggiare in tutti i modi in Lombardia, appena giunto nel Reame, ritornò di nuovo in Alemagna all'esercito per tosto ricondursi in Lombardia, come scrive il Sigonio. Riccardo di S. Germano senza far menzione di cotal andata dell'Imperadore a Rieti, dice, che in quest'anno 1236 Federico lasciato il figliuolo e la moglie in Alemagna, con convenevole esercito, valicate l'Alpi, venisse a Verona, il che parimente fu vero; ma Riccardo scrivendo con particolar diligenza gli avvenimenti di Federico nel Reame, va solo accennando gli stranieri; onde per questi, è mestieri seguire il Sigonio[364], il quale raccolse cotai notizie da più altri antichi Scrittori, e particolarmente da Pietro Girardo padovano, Autor di veduta nella vita di Ezelino.

Narra adunque il Sigonio, che Federico, oltremodo sdegnato per la pertinace ribellione fatta contro di lui dalla maggior parte d'Italia, scrisse sin da Alemagna al Pontefice, non poter più sostenere l'ingiurie continuamente fattegli da' Lombardi; onde il pregava, che o avesse proccurato comporre tai rumori con fargli pacificare onorevolmente coll'Imperio, o che gli avesse prestato ajuto contro di loro, e particolarmente contro i Milanesi autori di tutt'i mali, e favoreggiatori degli Eretici, e dell'altre persone di mal affare, essendo ben giusto, che egli lo corrispondesse di quello, che avea più volte fatto a favor della Chiesa contro i Romani e i Viterbiesi, e gli altri suoi ribelli, i quali per sua opera eransi ridotti alla sua ubbidienza. Ma Gregorio, che avea fini all'intutto contrarj a quei di Federico, ricevuta la lettera, rispose al medesimo, che non dovea pensare di guerreggiare in Italia, ma più tosto disporsi alla guerra di Terra Santa, e non frastornare con ciò il passaggio, che allora ardentemente si preparava di fare da' Lombardi in Soria; e che notificasse a lui le querele, che contro i Lombardi avea, perciocchè gli avrebbe fatta compiuta giustizia; e lo stesso gli significò di là a poco per Giacomo Pecorari di Pavia Cardinal di Preneste. Federico sdegnato di questa risposta, e conoscendo più apertamente i disegni del Papa, gl'inviò una forte lettera rapportata dal Sigonio[365], che comincia, Italia haereditas est mea, etc., e non facendo conto delle parole del Papa, scrisse ancora il medesimo ad un altro Principe suo amico, aggiungendo voler nell'està vegnente passar in Italia, e tenere nel giorno di San Giacomo general Corte in Parma, e rendere il compenso a ciascuno delle passate ingiurie. Nè fur diverse l'opere dalle parole; perciocchè nel proposto tempo con potentissimo esercito di Tedeschi, Regnicoli, Siciliani, e Saraceni di Puglia, che avea assembrato in Alemagna, venne in Augusta, ove fu incontrato da Ezelino, che maggiormente l'accese a far guerra; e valicate le Alpi, il cui passo tentarono invano impedirgli i Milanesi, giunse a Trento, e di là a Verona[366]. Indi passò nel Mantovano, e quivi congiuntisi seco i Cremonesi, Modanesi, ed altri Popoli a lui fedeli, venne a' confini de' Bresciani, e dopo avergli posto a sacco ed a fuoco ne andò a Cremona nel mese d'agosto, e di là a Parma, ove ragunò l'Assemblea di tutti i Principi e città amiche, e veggendo che i suoi nemici voleano fermamente persistere nella Lega, si conchiuse nel Parlamento, che far loro si dovesse aspra guerra. Fu presa Vicenza, e data a sacco ed alle fiamme, con morte e ruina di buona parte de' Vicentini suoi nemici: devastati poscia i campi di Padova, assediò Trivigi, ma non potè allora conquistarla, perciocchè fu da Pietro Tiepolo suo Podestà valorosamente difesa, e Salinguerra Signor di Ferrara cognato di Ezelino, lasciata la parte de' Lombardi, co' quali era in lega, passò all'ubbidienza di Cesare.

In questo vennegli avviso, che in Alemagna s'era contro di lui ribellato Federico detto il Bellicoso, Duca d'Austria, onde temendo non potesse ciò recargli alcun grave danno, lasciato a' suoi Capitani convenevole esercito in Italia, tornò prestamente in Alemagna, ove secondo che scrive Giovanni Cuspiniano nella sua Austria, dopo breve guerra, tolse al Duca Vienna, e tutti gli altri più importanti luoghi del suo Stato, con l'ajuto d'Ottone Duca di Baviera, del Vescovo di Bamberga, e di molti altri Prelati e Baroni tedeschi; ed il figliuol Corrado navigando all'ingiù per lo Danubio con nobilissima compagnia venne a ritrovar il padre, e seco tre mesi in Vienna dimorò; e veggendo, che al Duca ribello non rimanevano, che alcuni pochi luoghi del suo dominio, creò Vienna città imperiale, e le diede per insegna l'aquila d'oro coronata in campo negro, la qual fin oggi ancor usa. Celebrò poi una general Corte in Ratisbona; ed il Duca Federico dopo varj avvenimenti, avendo ricovrato in processo di tempo il suo Stato, venne con ducento ben armati Cavalieri a Verona, e gittatosi a piè dell'Imperadore, fu da lui non solo caramente accolto, perdonandogli i commessi falli, ma anche di nuove dignità e prerogative ornato, come nel privilegio rapportato da Cuspiniano si vede.

Ezelino intanto co' Capitani di Federico prese Pavia e Trivigi con altri luoghi di Lombardia e della Marca, usando orribilmente in tutti que' luoghi crudelissime stragi contro i nemici di Cesare, scacciando ancora dalle lor Chiese Giordano Prior di S. Benedetto, ed Arnaldo Abate di Santa Giustina.

Questi progressi dell'armi di Federico dispiacquero grandemente al Pontefice, il qual vedendo ogni giorno debilitarsi le forze de' Collegati, ed all'incontro elevato l'Imperadore in maggiore alterigia per la vittoria, che avea riportata del Duca d'Austria, pensò rattener il corso di tante vittorie con frappor trattati d'accordo; ed in fatti mandò a Federico il Protonotario Gregorio da Montelongo, perchè gli significasse, che se avea cara la pace della Chiesa, e la sua grazia, ricevesse sotto la sua fede i Lombardi, con le stesse condizioni, con le quali l'avolo suo Federico nella pace fatta a Costanza, ed il padre Errico ricevuti gli aveano, e che a sua richiesta dovesse lor cortesemente rimettere alcuna delle ragioni che vi avea. Ma Federico pien di cruccio, veggendo, che quando dal Pontefice dovea aspettar più tosto ajuto contro i Milanesi nel suo ritorno in Italia, ora usasse intercessione a lor beneficio, non ostante d'esser quelli nemici, non pur suoi, ma della Chiesa istessa, come macchiati la maggior parte di varie eresie, non volle sentire gli progetti fattigli dal suo Messo; onde Gregorio composti, come potè meglio i rumori e tumulti contro di lui eccitati in Roma per opera di Pietro Frangipane, per potere con maggior forza attendere alla difesa di Lombardia, assai più chiaramente si scoverse nemico di Federico: ed ancorchè un'altra volta si ripigliassero questi trattati, e per parte dell'Imperadore si trattassero per mezzo del Gran Maestro de' Teutonici, e Pietro delle Vigne; e per quella del Pontefice, per mezzo del Cardinal Rinaldo de' Conti nipote di Gregorio, e del Cardinal Tommaso di Capua destinati dal Papa Legati per trattar questa pace fra l'Imperadore ed i Lombardi: fu però ogni trattato vano, perciocchè gli animi d'amendue le parti erano così pieni di baldanza e d'orgoglio, che non solo nulla si conchiuse, ma anco di là a poco si cominciò fra di loro quella rinomata e crudel guerra, nella quale succedette la famosa battaglia di Cortenuova con total ruina de' Milanesi, e dell'altre città collegate, descritta da molti Autori[367], e perciò da noi volentier tralasciata, della quale Federico avendo riportata piena vittoria si gloriò, e più d'ogni altro, d'avervi fatto prigione Pietro Tiepolo figliuolo di Giacomo Doge di Venezia suo crudel nemico, ch'era Podestà e Governadore di Milano; ed in Cremona, a guisa degli antichi Romani volle entrar in trionfo, e nel Carroccio, che prese a' Milanesi, ove in que' tempi stava riposta la gloria della vittoria[368], fece legar ad un legno il Podestà Tiepolo con un laccio alla gola, che poco da poi fece impiccare.

Questa vittoria, siccome recò a Federico grandissima riputazione, così diede a tutta la Lombardia tale spavento, che da Milano e Bologna in fuori, tutte le altre città di quella al suo dominio si sottoposero, sgomentandosi ancora gli scolari dello Studio di Bologna, i quali contro l'ordine dell'Imperadore, che d'indi partir dovessero ed andare a Napoli, pur vi dimorarono, per trovarsi in cattivo stato ridotto lo Studio di quella città a cagion delle continue guerre.

Mentre l'Imperadore era in Lodi, venne a lui di Napoli nobile Ambasciaria a pregarlo in nome sì del Comune, come de' Maestri e Scolari, che dovesse far con effetto riformare e riporre detto Studio in quel lodevole stato, che conveniva; a' quali Ambasciadori lietamente di ciò, che gli chiesero compiacque, e comandò di nuovo a' suoi Ministri, che il tutto ordinassero, vietando sì bene il poter ivi venire i Milanesi, Bresciani, Piacentini, Alessandrini, Bolognesi e Trivigiani, rubelli suoi e dell'Imperio, e che dalla Toscana, dalla Marca, dal Ducato di Spoleti e da Campagna di Roma quelli solo vi potessero andare, che erano stati seguaci e partigiani d'Enzio Re di Sardegna suo figliuolo da lui creato General Vicario in Italia, come si scorge da alcune scritture del registro di Federico, ch'è l'unico di detto Imperadore, che si conserva nel reale Archivio; poichè fra le poche memorie, che de' Principi svevi si ritrovano nei reali Archivi di questa città per essere stati da' vincitori franzesi a tempo di Carlo I tolte vie e mandate a male, vi è solamente rimaso un intero Registro di Federico dell'anno di Cristo 1239 in cui si favella delle lodi della nostra città e delle franchigie degli scolari, e de' modi particolari, come esso Studio s'avea da governare.

Comandò ancora la stessa riforma dello Studio per una sua particolar lettera al Capitano del Regno di Sicilia, rapportata da Pietro delle Vigne[369]; ed avendo parimente ordinato, che si dismettessero nel Reame ed in Sicilia ogni altro Studio pubblico, scrive poi per altre sue lettere al Giustiziero di Terra di Lavoro, che non dia per cotal ordine molestia alcuna a' Maestri, che leggeran grammatica, i quali come bisognevoli a' primi ammaestramenti de' fanciulli, non volea, che in esso ordine fossero compresi.

Nel medesimo tempo per aver dimostrato Ezelino nella battaglia di Cortenova e nell'altre guerre avvenute in Italia sommo valore e fede, seguitando le parti dell'Imperadore, Federico per essergli grato, il volle per suo genero e gli diede per moglie una sua figliuola bastarda nomata Selvaggia.

Federico ancorchè vittorioso, ed a cui quasi tutta l'Italia erasi resa ubbidiente, meditava però soggiogarla all'intutto e conquistar Milano, Piacenza, Bologna, Faenza, ed alcune altre città, che ancor duravano nella ribellione; onde partito da Italia ritornò di nuovo in Alemagna per ragunare colà di nuovo grosso esercito e ritornare nella seguente Primavera in Italia.

Il Pontefice Gregorio amaramente soffriva questi disegni di Federico, e temea non la sua potenza in Italia ponesse anche lo Stato della Chiesa in sconvolgimento; onde pensò, non avendo a chi ricorrere in Italia, d'implorare l'aiuto de' Principi stranieri: inviò perciò suoi Ambasciadori a Giacomo Re d'Aragona, detto il Conquistatore, Principe sopra ogn'altro di grandissima stima in questi tempi per le magnifiche e valorose imprese da lui fatte in discacciando i Mori da molti Regni di Spagna, acciocchè il richiedessero in nome di lui e delle città collegate sopraddette, che venisse a guerreggiare con Federico, che l'avrebbero creato Signore di Lombardia, con pagargli tutte quelle rendite e fargli tutti quegli onori che si solevano fare agl'Imperadori. Dimorava allora il Re Giacomo all'assedio di Valenza tenuta da' Mori e sdegnato con Federico per la prigionia del suo figliuolo Errico, il quale per cagion della madre Costanza gli era fratello consobrino concorse nel voler del Pontefice e promise di venire in suo soccorso con dumila cavalli e con altre condizioni, le quali vengono rapportate da Girolamo Zurita; ma poscia, qual che se ne fosse la cagione, il Re Giacomo non venne mai in Italia, ma sì bene da poi ci venne il Re Pietro suo figliuolo, benchè contro la volontà de' seguenti Pontefici e con le ragioni della Casa di Svevia che la sua moglie Costanza gli avea recate, dal quale, secondo che appresso diremo, fu la Sicilia valorosamente signoreggiata.

Federico intanto, assoldata gross'armata in Alemagna, commise al figliuol Corrado che a Verona con essa il seguitasse; ed egli passato innanzi soggiogò senz'alcun contrasto Vercelli, Torino e tutte l'altre città e luoghi circostanti; e nel seguente mese di luglio, passate l'Alpi, venne il Re Corrado con molti Prelati, e Signori tedeschi e numeroso esercito a Verona, dove il padre l'attendea e di là passò a Cremona, ed indi a Padova, ove tenne una general Corte. I Milanesi spaventati per tant'apparati, per vedersi rimasti con poca compagnia, pregarono il Pontefice, che per loro s'adoperasse appresso l'Imperadore: inviarono Ambasciadori a chiedergli umilmente la pace, con offerirgli diecimila soldati, per mandargli in soccorso di Terra Santa, purchè egli avesse conservata la città in quella libertà, nella quale allor vivea. Della cui proposta facendosi beffe Federico allor rispose, che egli gli avrebbe ricevuti, purchè senza alcun patto essi e la lor città se gli rendessero a suo arbitrio e volontà; ma i Milanesi temendo della ferocia di Federico, risolvettero morir meglio sotto l'armi in campo combattendo da valorosi soldati, che o bruciati, o di fame in prigione, o impiccati per la gola; onde ostinati alla difesa rinforzarono le mura ed i fossi della città, e la munirono di soldati e di armi, collegandosi con chiunque poterono. Ma Federico, compiuta ch'ebbe l'Assemblea, divise in due parti l'esercito, e con una assediò Brescia e l'altra inviò sopra Alessandria, ed amendue con continui assalti travagliando distrusse e rovinò il lor territorio; e mancandogli denaro per sostenere sì crudel guerra per mezzo di suoi Ministri imponeva taglie e dazj sopra i beni delle Chiese e degli Ecclesiastici, di che isdegnato Gregorio, mentre l'Imperadore dimorava in quest'assedio gli significò, che lasciasse stare in pace le ragioni della Chiesa: onde Federico stimò per racchetarlo e per difendersi da tali accuse, mandare in Alagna, ove allor dimorava, l'Arcivescovo di Palermo, il Vescovo di Reggio, Taddeo da Sessa e Ruggiero Porcaprello suoi Ambasciadori: i quali favellando col Pontefice il ritrovarono oltremodo crucciato; onde rimandarono in Lombardia l'Arcivescovo di Palermo a significare a Federico quel che bramava Gregorio, il quale, non ostante tante rivolture in Italia, che obbligavano Federico a non partirsi da quella, non tralasciava però di promuovere in questi tempi l'espedizione di Terra Santa, con invitare al passaggio molti Principi; e Federico al contrario intento alle cose d'Italia, non volea intricarsi in tale impresa; anzi compiuto il tempo della tregua col Soldano, la rinnovò per altri dieci anni, ed ordinò a Rinaldo di Baviera suo Vicario in quel Regno, che in guisa alcuna non movesse l'armi contro i Saraceni. Nè per questo si rimase Gregorio, poichè mandò molti Frati in diverse province della Cristianità ad esortare i Popoli a prender la Croce per passare in Soria, laonde s'assembrò grosso numero di Fedeli così d'Alemagna, come d'Italia e di Francia; ma quest'espedizione fu molto infelice, poichè, ancorchè Federico l'avesse dato libero il passaggio per lo suo Reame, non essendovi armata di mare, nè navi sufficienti per così gran numero di persone, la maggior parte dell'esercito s'avviò per terra, ove di disagi quasi tutti perirono.

Nel medesimo tempo sopravvenne una nuova cagione di disturbo tra il Pontefice e Federico: Enzio suo figliuol bastardo, secondo che racconta Riccardo da S. Germano, si casò in Sardegna, per cagione del qual maritaggio occupò poi il Giudicato di Torre e Galluri: se n'offese Gregorio, il quale pretendea anch'egli que' luoghi esser per antiche ragioni della Chiesa; onde allegando per messi particolari più volte il diritto, che vi pretendea, richiese Federico, che quelle ragioni fossero restituite alla Chiesa; ma l'Imperadore replicava, che quell'isola appartenea all'Imperio e che l'avolo suo Barbarossa, riconoscendone il dominio n'avea investito con titolo di Principe Guelfo suo zio materno, e poi con titolo di Re Barisone Judice d'Arborea, ed indi in processo di tempo i Pisani, e' Genovesi; sicchè non solo non glie le volle rendere, ma ne creò allora Re Enzio suo figliuolo, il quale tolta la Corona di quel Regno, operò, che alcuni potenti Baroni dell'isola occupassero molti territori e castella, che i Vescovi di quel Regno s'aveano appropriate. Per queste nuove cose, mal sofferendo il Pontefice, che Cesare divenisse più potente, entrato il nuovo anno 1239 inviò sue lettere a Federico, esortandolo a lasciar stare in pace le ragioni della Chiesa; ma avendogli risposto l'Imperadore che infino da che fu coronato, avea proposto di riporre in piedi le ragioni dell'Imperio e che perciò avea fatto occupare que' luoghi a se spettanti, e che ciò non dovea aver egli a male, essendo lecito a ciascuno ricuperar il suo. Gregorio sdegnato gravemente gli comandò di restituirgliele sotto pena di scomunica, la qual parimente dispregiata da Federico, fu cagione che nel giovedì santo di quest'anno lo scomunicasse pubblicamente in Roma alla presenza di tutti i Cardinali, e di numeroso Popolo a cotal atto ivi concorso. Questa scomunica, che contiene molte accuse contro Federico, vien rapportata da Carlo Sigonio[370], e dagli Annali del Bzovio e comincia: Excommunicamus et anathematizamus ex parte Dei Omnipotentis, etc. Dopo aver Gregorio con terribili formole dichiarato scomunicato l'Imperadore, diede contezza di cotal scomunica a Balduino Imperador di Costantinopoli, a Giacomo Re d'Aragona, a Ferdinando Re di Castiglia, a Lodovico Re di Francia, ad Errico Re d'Inghilterra, al Re di Scozia ed a tutti gli altri Re e Principi cristiani, inviando altresì ordine a tutti i Prelati, e particolarmente a quelli d'Alemagna, che nelle loro Chiese pubblicassero per iscomunicato l'Imperadore, assolvendo i sudditi dal giuramento di fedeltà, e sottoponendo all'interdetto tutti coloro, che l'ubbidivano. E narra Matteo Paris[371], che Gregorio dopo aver assoluto i sudditi dell'Imperadore dalla sua ubbidienza, scrisse a Roberto fratello di Lodovico Re di Francia, offerendogli l'Imperio; ed il Re di Francia su quest'offerta, fece convocare a consiglio tutti i Principi della Francia, per risolvere ciò che dovesse farsi, i quali detestando questo sforzo del Pontefice in pubblica Assemblea così esclamarono: Quo spiritu vel ausu temerario Papa tantum Principem, quo non est major inter Christianos, non convictum, et confessum de objectis sibi criminibus exheredavit, et ab Imperiali apice praecipitavit? Scimus quod Domino Jesu Christo fideliter militavit, moriens, et bellicis se periculis confidenter opponens, tantum religionis in Papa non invenimus. Imo qui eum debuit promovisse, et Deo militantem protexisse, eum conatus est absentem confundere, et nequiter supplantare. Nolumus nos metipsos in tanta pericula praecipitare, ut ipsum Federicum tam potentem impugnemus, quem tot Regna contra juvabunt, et causa justa praestabit adminiculum. Quid ad Romanos de prodiga sanguinis nostri effusione, dummodo irae suae satisfecerimus, si enim per nos, et alios devicerit omnes Principes mundi, conculcabit sumens cornua jactantiae, et superbiam, quoniam ipsum Federicum Imperatorem Magnum contrivit.

Era l'Imperadore nella città di Padova, celebrando ivi con gran festa la Pasqua di Resurrezione, quando gli venne novella il lunedì d'essa, come il giovedì santo era stato dal Pontefice pubblicamente scomunicato; ed ancorchè espressamente se ne dolesse nell'interno, pure simulò il contrario, e riputando la censura ingiusta, tantosto convocò un'Assemblea de' più stimati cittadini padovani, ed altri Signori italiani e tedeschi nel palagio del Comune, ed ivi, secondo scrive Pietro Girardo, favellò Pietro delle Vigne suo Gran Cancelliero lungamente in difesa di lui, lagnandosi di Gregorio, con cominciare il suo discorso da questa sentenza: Leniter ex merito quidquid patiere ferendum est: quae venit indigne poena, dolenda venit; dicendo che Federico governando sì giustamente il suo Imperio, n'era in sì fatta guisa oltraggiato dal Pontefice, e che non perchè l'avea egli scomunicato così iniquamente dovesse riputarsi fuori del grembo di Santa Chiesa, essendo egli prontissimo a sottoporsi alla Sede Appostolica in tutte quelle cose, che ricerca la divina giustizia, non già al capriccio d'un uomo, essendo egli vero e fedel Cristiano[372]. Per la qual cosa niente curando di quella scomunica, partito da Padova con nobilissima compagnia di Baroni n'andò a Trivigi, ove onorevolmente ricevuto scrisse sue lettere a' Cardinali ed a' Romani, rampognandogli, come avean consentito, che Gregorio ingiustamente lo scomunicasse.

(Queste Lettere di Federico scritte nel 1239 si leggono presso Lunig. Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 887, 889 e 898, siccome in contrario un Breve di Gregorio IX drizzato al Card. Ottone pag. 895).

Scrisse ancora a tutti i Re e Principi di Cristianità, purgandosi delle malvagità oppostegli dal Pontefice, gravando lui di gravissime colpe con tutti i Cardinali; e veggonsi sin ad oggi l'epistole di Federico ne' libri di Pietro delle Vigne, per le quali egli mostra, quanto a torto fosse stato così oltraggiato dal Pontefice. E ritornato poscia a Padova ingegnossi con ogni suo potere farsi partigiani ed amici i più stimati Signori d'Italia, per valersene contro il Pontefice, ed alla guerra d'Italia pose tutti i suoi pensieri.

Ma poichè il Pontefice, dopo questa scomunica per mezzo di Monaci e Frati, tentava di sconvolgergli questo Reame, Federico ancorchè intrigato nella guerra di Lombardia, vi diede però riparo, per mezzo di vari ordinamenti, che vi drizzò, discacciando dal monastero di Monte Cassino tutti que' Monaci, a riserba di solo otto Frati, che sopra il Corpo di S. Benedetto i divini Uffici celebrassero, mandandovi per custodia di quel monastero molti soldati a guardarlo: ed il munì a guisa di forte Rocca, con toglierne l'antico tesoro ed i sacri vasi d'argento e d'oro, che dopo molt'anni vi furono riposti per la previdenza de' Frati, e per la magnificenza de' passati Re ed altri Signori e Baroni del Regno. Tolse parimente a' Padri Pontecorvo e Rocca Janala. Ordinò ancora che tutti i Regnicoli, che si trovavano nella Corte romana partir dovessero da Roma, fuorchè quelli, che dimoravano a' servigi del Cardinal Tommaso e di Giovanni da Capua suoi vassalli. Discacciò dalle loro Chiese e dal Regno i Vescovi d'Aquino, di Carinola, di Teano e di Venafro. E da tutte le Chiese cattedrali, e dal monastero Cassinense, e da' suoi sudditi fece esigere un adjutorio per l'Imperadore, dando la cura a Ruggiero di Landolfo ed a Giacomo Gazzolo, a ciò eletti per lo Giustizierato di Terra di Lavoro, di raccorre la metà delle loro rendite, con parte delle quali sostentò i soldati, che dimoravano a guardia di Monte Cassino e di Pontecorvo.

E nell'istesso tempo furono da Federico ordinati gl'infrascritti Capitoli da doversi pubblicare nel Regno, e da osservarsi irremissibilmente, rapportati da Riccardo[373].

Primo, che tutt'i Frati di S. Domenico ed i Frati Minori di S. Francesco, nativi delle terre rubelle di Lombardia, uscissero prestamente da' suoi Stati, e da tutti gli altri Religiosi si togliesse sicurezza di non trattar cos'alcuna in disservigio di lui. II Che tutt'i Baroni e Cavalieri, che per l'addietro avessero seguito le parti del Pontefice, e particolarmente quelli, che aveano le loro Baronie a' confini d'Apruzzo e di Campagna, dovessero andare in ordine con armi e cavalli in Lombardia per servirlo in Campo a loro spese, e quegli che non eran agiati di moneta, col soldo, che egli avrebbe lor fatto pagare. III Che dalle Chiese cattedrali s'esigesse per lui, e s'imponesse per l'imperial Corte un adjutorio secondo il modo e potere delle loro ricchezze, e parimente da' Canonici e Preti sudditi di quella diocesi e da' Cherici ancora, secondo le loro facultà: ed il medesimo si dovesse esigere dagli Abati, Monaci negri e bianchi. IV Che tutti quei che sono nella Corte romana, eccetto gli esclusi ed i sospetti debbiano ritornare tosto nel Regno, e facendone il contrario, i loro beni saranno confiscati e dopo la citazione, se non ubbidiranno, non si permetterà loro più ritornare. V Che i beni ed i beneficj di quelli Cherici, che non sono del Regno, debbiano tutti confiscarsi. VI Ordinò, che niuno potesse nè gire dal Regno in Roma, nè venir da Roma nel Regno senza licenza de' Giustizieri delle province d'Apruzzi e di Terra di Lavoro. VII Che si stabilissero esploratori acciocchè niuno, sia mascolo o sia femmina, entrando nel Regno, portasse lettere, o altre scritture del Papa contro di lui, e che se fossero trovati, fossero fatti morire o Chierico o Laico che egli si fosse.

Ma non perchè queste ostilità fra di loro si praticassero, tralasciò Federico di mandare a Roma li Vescovi di S. Agata e di Calvi per trattar co' Cardinali di trovar modo di composizione; ma tosto che Gregorio seppe la lor venuta in Roma, furono da lui discacciati, e ritornarono indietro nel Reame senza conchiuder cosa alcuna[374].

CAPITOLO II. Si rompe aperta guerra tra Federico e Papa Gregorio, il quale in mille guise oltraggiato dall'Imperadore, se ne muore di dolor d'animo.

Inasprisconsi per tali cagioni gli animi d'ambedui, e mentre per opera del Papa si rubella Ravenna dall'Imperadore, e si dà in mano de' Veneziani, che la difendono, Federico richiama in Italia il Re Enzio suo figliuolo, il quale venuto di Sardegna, con grosso numero di soldati pugliesi, tedeschi, siciliani e saraceni invade la Marca d'Ancona, rompendo la guerra al Pontefice. Gregorio gl'inviò contro per suo Legato il Cardinale Giovanni Colonna, acciocchè difendesse que' luoghi, e nel mese di novembre di quest'istesso anno 1239 confermò le censure già fulminate contro Federico, e scomunicò il Re Enzio con tutti i suoi seguaci, per essere entrati ostilmente nella Marca, quam Juris esse dicebat Ecclesiae, come narra Riccardo.

Sollecitò anche il Pontefice i Veneziani, perchè movesser guerra a Federico, i quali scovertisi già di costui nemici, assalirono con la loro armata la Puglia, ed avuta Federico notizia d'essersi per queste mosse ribellati alcuni suoi Baroni, risolse di passar nel Reame per la qual cosa munite di soldati tutte le più importanti città di Lombardia, e passati gli Appennini pervenne a Lucca ed a Pisa, ove dimorato alcuni giorni s'adoperò a fare, che i Pisani movessero aspra guerra a' Genovesi partigiani del Pontefice, e che molti Popoli di Toscana con lui si collegassero. Nello stesso tempo Frate Elia, uno de' discepoli di S. Francesco d'Assisi, sdegnato col Pontefice, per essersi dimostrato più favorevole ad alcuni Frati del suo Ordine, co' quali avea nimistà, ed aspramente il travagliavano, che a lui, anch'egli aderì a Federico, divenendo suo gran partigiano e difensore: onde si veggono alcune lettere scritte dall'Imperadore a suo favore, e particolarmente una d'esse al Re di Cipri, nella quale lodandolo di somma bontà, dimostra averlo in molta stima.

Racconta Bernardino Corio, che prima di partir Federico da Lombardia, per trattato de' Milanesi, congiurarono di torgli la vita nell'istesso suo esercito, Pietro delle Vigne, Guglielmo di S. Severino, Teobaldo Francesco Siniscalco del suo palagio, Andrea di Cicala, Pandolfo della Fasanella e Jacopo di Morra, con altri molti de' suoi maggiori e più stimati Baroni, e che avvedutosi l'Imperadore della lor fellonia, facesse cavar gli occhi a Pietro, e gli altri in varie guise aspramente morire: nel qual racconto prende il Corio un manifesto errore, per seguir forse alcun Autore, che ciò con poco avvedimento scrisse prima di lui, non leggendosi tal fatto, nè in Riccardo da S. Germano, nè in altri Scrittori di que' tempi; anzi Andrea di Cicala, eletto dopo la morte d'Errico di Morra Gran Giustiziero, per lungo tempo appresso fedelmente il servì, e la ribellione de' S. Severini, di Teobaldo Francesco, e di coloro della Fasanella, e d'altri Baroni, con la rovina di Pietro delle Vigne, succedette in progresso di tempo nel Reame, e con altra cagione di quella che il Corio racconta, secondo che appresso diremo.

Federico adunque avendo creato il figliuolo Enzio suo Vicario in Italia, ed inviatolo con grosso numero di soldati ad occupar la Marca d'Ancona, egli entrò col rimanente del suo esercito per un altro lato nel Ducato di Spoleto, e negli altri luoghi del Patrimonio, essendo già l'anno di Cristo 1240, e se gli diede in un subito Fuligno, Viterbo, Orta, Civita Castellana, Corneto, Sutri, Montefiascone, e Toscanella con molt'altre castella; il perchè sbigottito grandemente il Pontefice ricorse alle orazioni, e cavate fuori le teste di S. Pietro e S. Paolo, col legno della Croce di Cristo, con tutt'i Cherici, Prelati, e gran parte del Popolo romano, gli condusse in processione da S. Giovanni in Laterano insino a S. Pietro, ed ivi largamente favellato delle miserie, che pativa la Chiesa di Dio per la malvagità, com'egli diceva, di Federico, pubblicò contra di lui la Croce, come di crudelissimo nemico di Dio e de' suoi Ministri, infiammando parimente con le sue parole molti degli astanti a prenderla. Infatti ragunatisi di loro un convenevole esercito con gli altri soldati del Pontefice, uscirono contro all'Imperadore, e vennero più volte a battaglia; della qual cosa Federico aspramente sdegnato, quanti dei Crocesignati faceva prigionieri, tanti faceva loro o fendere in quattro parti la testa, o con ferro infocato segnare in fronte una croce; e dati a sacco, ed abbruciati i territorj di Roma, se ne passò nel Reame, ove poco innanzi avea inviata l'Imperadrice sua moglie in compagnia dell'Arcivescovo di Palermo, ed andato egli in Puglia proccurò discacciar da que' liti i Veneziani, i quali con venticinque galee scorrendo per quelle riviere presero, e saccheggiarono Termoli, Campomarino, Vesti, Rodi, ed altre castella. Anzi incontrata appresso Brindisi una nave, che carica di soldati imperiali ritornava da Soria, dopo averla aspramente combattuta, ma non presa, per averla ostinatamente difesa coloro, che vi eran dentro, l'abbruciarono. A tai danni non potendo porger rimedio Federico, fece in vendetta morire obbrobriosamente impiccato per la gola in Trani in una torre presso la marina, Pietro Tiepolo figliuolo del Duce a vista dei Veneziani, i quali danneggiarono quelle contrade sino al mese d'ottobre, quando carichi di preda, senza ricever molestia alcuna, addietro a Vinegia si tornarono.

Nell'istesso tempo per opra de' Cardinali, Papa Gregorio pensò di convocare un general Concilio in Laterano nel giorno di Pasqua del seguente anno, per trovar opportuno rimedio a' travagliati affari della Chiesa, ed al soccorso di Soria, e spedì perciò Giacomo Pecoraro di Pavia Cardinal di Preneste, ed Ottone Bianco de' Marchesi di Monferrato suoi Legati in Ispagna, Francia, Inghilterra e Scozia a convocare i Vescovi, ed i Prelati di que' Regni, che venissero al Concilio a difendere le ragioni della Chiesa contro l'Imperadore con dar loro contezza delle guerre e persecuzioni che ciascun giorno sofferiva. Ciò inteso Federico, procacciò per ogni via di distorre i Prelati oltramontani dal venirvi, scrivendo nel mese di settembre al Re d'Inghilterra, che in guisa alcuna non avesse fatti partire i Vescovi del suo Regno, e con gravi minacce tentò parimente di non farvi intervenire gli Alemanni e gli Franzesi; ed acciocchè i fatti non fossero stati dissimili dalle parole, inviò Enzio suo figliuolo con un potente esercito nelle riviere di Genova, acciocchè proccurasse di non far passare i Prelati, e facesse prigionieri tutti quelli, che alle mani gli capitassero, e travagliasse con ogni suo potere i Genovesi seguaci del Pontefice. Era allora Federico in grande e felice stato, e potentissimo di gente e di denaro; tenendo al suo soldo cinque numerosi eserciti.

( Matteo Paris, pag. 493 e 495 scrive, che fossero sei eserciti, dicendo: Habuit enim sex exercitus magnos, populosos, et formidabiles; ed annovera i luoghi, ov'eran posti, ed i Generali che li comandavano. Vedasi Struvio Syntag. Hist. Germ. dissert. 20 § 15 pag. 658).

Perciocchè oltre a quello, che campeggiava in Faenza, e l'altro, che avea inviato in Liguria, teneva il terzo nella Marca d'Ancona e nella Valle di Spoleto, del quale, come si vede nelle Pistole di Pietro delle Vigne, era general Capitano Marino d'Evoli. Era il quarto in Palestina a difesa di que' luoghi, governato da Rodolfo suo Maresciallo, e del quinto era Capitano suo figliuol Corrado, in Alemagna ragunato per andare in soccorso di Bela Re d'Ungheria contro i Tartari, ch'eran poco innanzi usciti dagli ultimi confini della Scizia, ed aveano a guisa d'un diluvio scorsa e soggiogata la maggior parte dell'Asia: e così vittoriosi e potenti si divisero in più eserciti, uno dei quali passato in Europa avea vinto i Polacchi, i Russiani ed i Bulgari; onde il Re Bela, chiedendo soccorso a Federico, fu cagione, che non sol facesse dal figliuolo Corrado assembrar grosso esercito di Tedeschi per aiutar quel Re, e scacciare i Tartari da' confini di Lamagna, ma ancora, che ne scrivesse a' Senatori di Roma, dolendosi, che la discordia fra se e Gregorio il distogliea dall'andar di persona a così importante impresa, richiedendogli, che procacciassero di porlo con lui in concordia, come a pieno si scorge nel primiero libro delle Pistole di Pietro delle Vigne.

Intanto, entrato l'anno 1241, Federico per togliere ogni sospetto, che il Papa potesse per mezzo de' Frati rendere insidie nel Reame, fece scacciare di suo ordine da quello tutti i Frati Cordeglieri, e quei di S. Domenico, rimanendone sol due di loro, naturali del medesimo Reame, per monastero, e la città di Benevento fu prestamente assediata, siccome scrive Riccardo, la quale avendo per nove mesi continui sostenuto valorosamente l'assedio, alla fine da fame costretta si rese, e furono per ordine dell'Imperadore abbattute le sue mura e le torri insino al suolo, e tolte l'armi a' cittadini.

Nello stesso tempo Giovanni Colonna Cardinal di S. Prassede Legato di Gregorio nella Marca, venuto con lui in discordia, divenne partigiano di Federico, e gli sottopose buon numero delle sue castella presso Roma. Erano, mentre ancor durava l'assedio di Faenza, ritornati di là da' monti, e d'Inghilterra e di Scozia in Genova i Cardinali con grosso numero di Vescovi, Arcivescovi, ed altri Prelati per venire al Concilio, e trovarono in quella città Gregorio di Romagna, parimente Legato del Pontefice, da lui inviato a' Genovesi per lo stesso affare del Concilio. Or questi Prelati temendo di gire per terra a Roma per le gravi minacce di Federico, conchiusero di far cotal passaggio su le galee de' Genovesi condotte da Guglielmo Ubriachi loro Ammiraglio, non ostante, che Federico gli avesse invitati a venire a lui; perciocchè bramava, o fargli consapevoli delle sue ragioni riversando la colpa della discordia al Pontefice, o distorgli da gire nel Concilio; onde imbarcati su la detta armata de' Genovesi ebbero all'incontro il Re Enzio con venti ben armate galee, tra quelle del Reame, e quelle de' Pisani, che vennero in suo soccorso sotto il comando di Ugolino Buzaccherini da Pisa espertissimo Capitano di mare[375]; ma venute alle strette le due armate il giorno terzo di maggio tra Porto Pisano, e l'isola di Corsica non lungi dall'isoletta della Meloria (per non aver voluto li Capitano de' Genovesi allargarsi in mare, con più lungo viaggio sfuggendo l'incontrarsi co' nemici, giunger senz'altro intoppo in Roma) per lo valor de' soldati Regnicoli e de' Pisani, e del lor Capitano ne ottenne Enzio notabil vittoria. Furono in quell'occasione fatti prigionieri i tre Legati, e tutti i Prelati, che eran colà convenuti, e grosso numero d'Ambasciadori di diversi Principi e città, che anch'essi andavano al Concilio, con mettere a fondo tre galee nemiche, e prenderne ventidue, tredici delle quali fur particolarmente prese da vascelli regnicoli, e l'altre da' Pisani, e con fare altresì ben quattromila Genovesi prigioni, essendo stato fra i Prelati cattivi l'Arcivescovo di Roano con altri molti Vescovi inglesi e francesi, ed altri Prelati minori: alcuni de' quali furono crudelmente mazzerati in mare presso la Meloria, ed altri posti in prigione in Napoli, in Salerno, ed in altri luoghi della Costa di Amalfi, ove molti di essi di fame e di stento miseramente perirono, e gli altri furono rimessi in libertà ad istanza di Lodovico Re di Francia, del Re d'Inghilterra e di Balduino Imperadore di Costantinopoli. Vedesi ancora un'epistola[376] di Federico scritta ad alcuni suoi Baroni, ove particolarmente favella della presa di Faenza, e di cotal vittoria ottenuta dalle sue galee, la quale così comincia: Adaucta nobis continuae felicitatis auspicia, etc.

Dopo il quale avvenimento, Andrea di Cicala, che era Gran Giustiziere e General Capitano del Reame, d'ordine del suo Signore convocò tutti i Prelati regnicoli a Melfi di Puglia, e da loro volle consignati in suo potere tutti gli arredi delle loro chiese, così i vasi d'argento ed oro, come le gemme, e le vesti di seta, di porpora, e l'altre cose destinate al culto divino, gran parte delle quali condotta in una chiesa di S. Germano, fu data in custodia a dodici uomini de' più agiati, e migliori di quella terra, essendosi particolarmente tolte due tavole, una d'oro e l'altra d'argento purissimo dall'altar di S. Benedetto in Monte Cassino, con altri preziosi abbigliamenti ornati d'oro e di gemme, e vasellamento d'argento, e danari contanti in grosso numero; ma di queste sì profanamente ragunate spoglie, alcune furono ricomprate da' luoghi onde erano state tolte, e l'altre fur condotte a Grottaferrata per farne moneta in servigio dell'Imperadore; il quale soggiogata Faenza, e tutti gli altri luoghi di Romagna, e lasciato il figliuolo Enzio suo Vicario in Lombardia passò nella Marca, ed assalito Fano, Assisi, e Pesaro, non potè insignorirsene; onde posti a ruina i lor territorj, ne andò a Spoleti, che con Narni, ed altri luoghi dell'Umbria tantosto se gli diedero, mentre il Conte Simone di Chieti suo Capitano con un'altra parte dell'esercito avea parimente preso Chiusi, e Viterbo; poi verso Roma prese e distrusse Monte Albano, Tivoli ed altre castella, sollecitatone dal Cardinal Colonna, che come detto abbiamo, era divenuto ribello e nemico del Pontefice, il quale afflitto da tanti mali, dopo aver creato Senatore di Roma Matteo Rosso uomo d'avvedimento e valore, acciocchè s'opponesse a' moti del Cardinal Giovanni e dell'Imperadore, poco stante infermando d'una grave malattia, per affanno e per dolore trapassò di questa vita a' 21 agosto, secondo scrive Riccardo da S. Germano.

Morto il Pontefice Gregorio, Federico scrisse sue particolari lettere al Re d'Inghilterra, e ad altri Re e Signori di Cristianità, dicendo che sperava per la morte di Gregorio d'impor fine alle discordie, che avea avute con la Chiesa, e gire in lor compagnia contro i Tartari, che, come abbiam detto, in quei tempi travagliavano l'Ungheria, l'Alemagna ed altri luoghi de' Cristiani. E ragunati dopo la morte di Gregorio i Cardinali per creare il nuovo Papa, non essendo più che dieci, spedirono Ambasciadori a Federico, perchè si fosse contentato di mandare con quelle condizioni che gli fossero parute convenevoli i due Cardinali, che teneva prigioni; il perchè fattigli condurre a Tivoli da Teobaldo di Dragone, gl'inviò liberi in Roma con giuramento, siccome scrive il Sigonio, d'aver a ritornare in prigione fatta la novella elezione, fuorchè, se alcuno di loro fosse creato Pontefice. Così, lasciato buon numero di soldati in Tivoli, per la via di Campagna venne nel Regno, e fermatosi all'Isola, comandò che s'edificasse una nuova città all'incontro di Cepparano, e ne diede la cura a Riccardo di Monte Negro Giustiziero di Terra di Lavoro, comandando agli uomini d'Arce di S. Giovanni in Carico, dell'isola di Ponte Scellerato, e di Pastena, che dovessero colà andare ad albergare; e per operarj del nuovo edificio volle, che vi andasse certo numero d'uomini de' vassalli di Monte Cassino, e di quello di S. Vincenzo a Vulturno, del Contado di Fondi, di Comino, e del Contado di Molise, scambiandosi in giro settimana per settimana. Ma Riccardo, che ciò scrive, non fa menzione nel detto luogo del nome imposto alla novella città, se non che, per quanto egli poco appresso dice, e per quel, che si legge nella Cronaca del Re Manfredi, fu nominata Flagella, quasi volesse con tal nome inferire, che era fondata per travagliar Cepparano, e gli altri circostanti luoghi della Chiesa; nondimeno di tal città non appare oggi reliquia, nè vestigio alcuno, nè trovo essere stata altra volta menzionata ne' tempi appresso, o perchè non finisse d'edificarsi, o perchè fosse disfatta poco dopo il suo cominciamento.

Mentre Federico per S. Germano, Alifi e Benevento se n'andò in Puglia, con aver comandato, che tutti i mobili raccolti dalle Chiese fossero a lui condotti a Foggia, elessero i Cardinali, ch'eran ragunati al Conclave in Roma, trenta giorni dopo la morte di Gregorio, per nuovo Pontefice Goffredo Castiglione milanese Cardinal Vescovo Sabinense, vecchio ed infermo, ma di somma bontà, a cui poser nome Celestino IV, il quale appena diciassette giorni dopo la sua elezione passati, e prima di consegrarsi, di questa vita trapassò; onde i Cardinali venuti fra di loro in discordia, non crearono per lungo tempo altro Papa, con grave danno della Chiesa, anzi molti di loro temendo della fierezza di Federico, fuggitisi nascostamente di Roma, in Alagna, ed in altri luoghi si ricoverarono.

Venuto poscia il mese di dicembre, l'Imperadrice Isabella dimorando coll'Imperador suo marito in Foggia, soprappresa da improviso male, in breve tempo morì, e fu sepolta in Andria.

Nel seguente anno 1242 Federico impose un'altra grossa taglia di moneta nel Regno, e tolto l'Ufficio di Giustiziero di Terra di Lavoro a Riccardo di Monte Negro, vi fu creato in suo luogo Gisulfo da Narni. Fece poscia abbatter tutte le torri, ch'erano in Bari, per aver sospetta la fede de' Baresi, e mandò suoi Ambasciadori a Roma a comporre la pace fra' Cardinali, che colà erano, e trattar dell'elezione del nuovo Pontefice, il Gran Maestro de' Teutonici, l'Arcivescovo di Bari e Maestro Ruggiero Porcastrello.

Nello stesso tempo Errico, che lungamente fu prigione in Puglia nel Castel di S. Felice, e poi condotto in Calabria nella Rocca di Nicastro, e di là a Martorano, morì quivi in prigione di natural morte, secondo che scrive Riccardo da S. Germano. Ma Giovanni Boccaccio Autore vicino a quei tempi, e chiaro per la dottrina e per l'altre virtù, che in lui fiorirono, ne' casi degli uomini illustri, dice, che mentre Errico era ancor sostenuto in Martorano, fu dal Padre, mosso oggimai a compassion di lui, ordinato, che gli fosse innanzi condotto per riporlo in libertà: onde Errico, che di ciò nulla sapea, temendo non il padre avesse mandato a prenderlo per saziare in più fiera guisa la sua crudeltà contro di lui, mentre da' suoi Custodi era a cavallo menato all'Imperadore, al valicar d'un ponte del fiume, che tra via ritrovò, di suo volere con tutto il cavallo in esso si gittò, e prestamente affogato morì: della cui morte, comunque ella s'avvenisse, certa cosa è che Federico grandemente si dolse, piangendo morto colui, che mentre visse avea così acerbamente travagliato. Tal dimostrazione appunto ne fece egli con sue lettere appo tutti i Prelati del suo Regno, dolendosi della morte di lui, e dicendo loro, che celebrassero pompose esequie per un mese con Messe ed altri sacrificj a Dio, in emenda de' falli del morto figliuolo, rapportate da Riccardo, che cominciano: Fridericus, etc. Abbati Cassinensi, etc. Misericordia, etc.

Lasciò Errico, di Margherita figliuola di Leopoldo Duca d'Austria, detto il Glorioso, sua moglie, secondo che scrive Giovanni Cuspiniano, due figliuoli gemelli, cioè Errico e Federico: a' quali, ed alla madre Margherita non volendo Iddio, che alcuno di cotal disavventurata Casa sopravvivesse, i medesimi infortunj di Errico avvennero, perciocchè i figliuoli in età di dodici anni furono col veleno fatti morir da Manfredi, e Margherita sopravvivuta al padre, al marito, ed a' suoi fratelli, che tutti senza prole finirono, e rimasta erede del Ducato d'Austria, come unico germe di quel lignaggio, si rimaritò con Ottochiero figliuolo del Re di Boemia, col quale non generò figliuoli; anzi venuta seco in processo di tempo in grave discordia, fu da lui repudiata; ed Ottochiero sotto pretesto d'averne avuta dispensa dal Pontefice, il quale avea egli con molti doni ed offerte invano a ciò sollecitato, s'ammogliò di nuovo con Cunigonda nipote di Bela Re d'Ungheria, e confinata Margherita in Austria nella Terra di Krembs, poco stante ne la fece anche col veleno morire, per la qual cosa succedute gravissime guerre, venne alla fine il Ducato d'Austria in potere della Casa de' Conti d'Aspurg, da' quali preso il cognome d'Austria, fino a' nostri tempi col dominio di altri Regni e province, è felicemente posseduto.

CAPITOLO III. Sinibaldo Fieschi è eletto Pontefice sotto nome d' Innocenzio IV, il quale non meno, che il suo predecessore Gregorio, prosiegue con Federico la Guerra; ed intima il Concilio a Lione di Francia.

Federico intanto, a cui premea l'elezione del nuovo Pontefice, andò amichevolmente verso Roma, sollecitando i Cardinali all'elezione, come si vede per una sua epistola nel libro di Pietro delle Vigne; e nello stesso tempo morì di natural morte nel Reame il Gran Giustiziero Errico di Morra.

Succeduto poi l'anno di Cristo 1243, e non risolvendosi i Cardinali a crear Papa a suo piacimento, entrò irato ne' tenimenti di Roma, e quelli abbattè e distrusse, siccome scrive Riccardo; anzi perchè i Romani rovesciaron ne' Cardinali l'indugio dell'elezione, non solo occupò le lor Chiese, ma distrusse le lor ville e poderi, con rimaner distrutto per man de' Saraceni Albano, ch'era d'un Cardinale. Fece torre dalla Badia di Grotta Ferrata due statue di bronzo, e portarle a Lucera di Puglia, e rappacificatosi poi coi Romani, rimise in libertà e rimandò onoratamente in Roma il Cardinal di Preneste, che avea fatto sin allora strettamente sostenere in Rocca Janola, avendo parimente alcun tempo prima rimesso in libertà il Cardinal Ottone, ed a Roma inviatolo, perchè intervenisse alla creazion del Papa; i quali due Cardinali per serbar la fede promessa, erano dopo la creazione di Celestino ritornati di lor volere in prigione. Il perchè assembrati di nuovo tutti i Cardinali in Alagna a' 24 giugno nella festa di S. Giovanni Battista crearono Papa Sinibaldo Fieschi genovese, de' Conti di Lavagna, Cardinal di S. Lorenzo, il quale fu consegrato il giorno de' SS. Apostoli Pietro e Paolo, e nomato Innocenzio IV.

Era questi stato carissimo, e particolar amico di Federico, il perchè significatane prestamente la novella, come di cosa, che si giudicava dovergli essere carissima, comandò, che si rendessero grazie a Dio per tutto il Regno, ed inviò l'Arcivescovo di Palermo, Pietro delle Vigne, e Taddeo da Sessa suoi Ambasciadori a rallegrarsi con sue amorevolissime lettere della di lui assunzione al Ponteficato[377]: per la qual cosa i Popoli d'Italia giudicarono, che sarebbero senza fallo pacificamente vivuti, togliendosi insieme le discordie, che gli avean così acerbamente afflitti; ma Federico, che conoscea l'animo d'Innocenzio, rispose agli amici, che seco di ciò si rallegravano, che egli avea fortissima cagione di dolersi, perciocchè avea perduto un suo carissimo amico Cardinale, ed era stato creato un Papa, che gli sarebbe stato fierissimo nemico, come appunto addivenne; perciocchè appena che Innocenzio si vide sul trono, fece significare a Federico, che egli col Ponteficato avea parimente presa la cura di difendere le ragioni della Chiesa, ed inviò Pietro Arcivescovo di Roano, Guglielmo Vescovo di Modena, e Guglielmo Abate di S. Facondo ad intimargli, che dovesse purgarsi di tutte l'accuse, che gli erano state apposte, e che se in alcuna cosa avesse egli offesa la Chiesa, n'avesse avuto tosto a far l'emenda ad arbitrio d'alcuni, che egli avrebbe per ciò eletti[378]. Federico udite le insolenti proposizioni fattegli dal Papa, le ributtò immantenente, e fece guardare i porti e le strade, acciocchè Innocenzio non scrivesse lettere sopra cotali affari a' Signori ed a' Popoli di là dell'Alpi; ed accortosi, che Innocenzio per mezzo d'alcuni Frati Cordiglieri inviati da lui per messi in detti luoghi, proccurava tirar a se l'inclinazione di que' Signori e Popoli, fece tendere insidie a' detti Frati, e trovatigli, gli fece impiccar tutti per la gola.

Il Pontefice intanto nel mese d'ottobre di Alagna, ove era stato eletto, ed ancor dimorava, se ne passò in Roma, e fu con grandissima pompa ed onor ricevuto; nè guari da poi andò da lui il Conte di Tolosa, che era d'alcun tempo prima venuto in Puglia a ritrovar Federico, per proccurare, se potesse, di concordargli insieme.

Qui termina la sua Cronaca Riccardo da S. Germano, senza la cui guida per alcuni anni non avremo sì fatta chiarezza, come per addietro, dell'opere di Federico, e degli altri avvenimenti di que' tempi.

Entrato poscia il nuovo anno di Cristo 1244, Federico ritornò col suo esercito nello Stato della Chiesa; ma nondimeno mosso dalle preghiere degli amici, e dalle continue ammonizioni degli altri Principi cristiani, si dispose a voler accordarsi col Pontefice; onde inviò di nuovo il Conte di Tolosa, Pietro delle Vigne, e Taddeo di Sessa per suoi Proccuratori ed Ambasciadori in Roma, per mezzo de' quali nel giorno di Pasqua di Resurrezione in presenza di Baldovino Imperador di Costantinopoli, che colà dimorava, promise, che si sarebbe rimesso al prudente arbitrio d'Innocenzio, e che avrebbe lasciato in pace le ragioni, ed i luoghi della Chiesa; onde datosi cominciamento al trattato, il Pontefice, perchè da vicino l'affare potesse trattarsi, passò con molti Cardinali a Civita Castellana, e di là a Sutri. Federico prima d'ogni altro pretendeva, che fosse assoluto dalla scomunica ingiustamente fulminatagli da Gregorio suo predecessore; ma Innocenzio all'incontro non voleva in guisa alcuna assolverlo, se prima non restituiva tutto ciò, che egli diceva aver tolto alla Chiesa; per la qual cosa rottosi ogni trattato, Federico incominciò apertamente a minacciarlo, ed a trattar parimente d'averlo in suo potere; del che accortosi il Papa proccurò partir di colà prestamente per iscampar le sue insidie. Significò dunque per mezzo d'un Frate Cordigliere a Filippo Vicedomini Podestà di Genova, che con galee armate, e co' suoi nipoti del Fieschi venisse a levarlo nella più vicina riviera del mare, ed il Senato di ciò fatto consapevole dal Podestà, conchiuse, che con 22 galee si dovesse soccorrere Innocenzio. Apprestatosi il navilio, vi s'imbarcò sopra Alberto, Jacopo, ed Ugone del Fiesco, figliuoli del fratello d'Innocenzio, fingendo altra cagione al navigare, per non dar sospetto alla fazion, che Federico avea in Genova: si partirono dal porto di Genova a' 11 giugno, e con felice viaggio pervennero a Civita Vecchia senz'altro intoppo, ove trovarono Innocenzio, il quale montato sulla loro armata, giunse a Porto Venere, ed indi a Genova, ove fu con sommo onore ricevuto, e gli altri Cardinali, ch'eran rimasti a Sutri, poco stante sconosciuti per diversi cammini, col favor de' Milanesi, salvi anch'essi a Genova pervennero. Ma Federico risaputa la certa partita del Pontefice, munì e fortificò tutti i luoghi del Patrimonio, ch'avea in suo potere, e poscia se n'andò a Pisa, donde inviati suoi Ambasciadori a Parma (ove sapea aver molti parenti Innocenzio, per avervi maritate alcune sue sorelle) acciocchè provvedessero, che non vi succedesse qualche rivoltura e tumulto, ed i Parmegiani nella sua fede confermassero, partì da poi da Toscana, e ritornò nel Reame.

Innocenzio intanto giunto a Genova, ed accertatosi maggiormente, che Federico non intendea di lasciare cos'alcuna, se non era prima dalle censure assoluto, al che in niun modo voleva egli venire: per movere più fiera procella contro Federico, pensò allontanarsi da Italia, ed accompagnato da' Cardinali, e da altri Prelati e Baroni romani co' Marchesi di Monferrato e del Carretto n'andò ad Asti, e di là felicemente pervenne a Lione di Francia. Ivi dal Re Lodovico IX con ogni onor raccolto, incontanente intimò il Concilio, che Gregorio tanto avea bramato di ragunare, senza aver potuto ottenerlo: citando tutti i Prelati di Cristianità a venirvi nel giorno del natale di S. Giovanni Battista; e per dare più speziosa apparenza al Concilio, appoggiava la cagione di farlo per lo soccorso, che dovea darsi a' Cristiani, che guerreggiavano in Terra Santa, ove per le discordie con Federico erano ridotti a mal partito; si soggiungeva ancora, che in esso dovea trattarsi del modo di ridurre in pace i travagliati affari della Chiesa in Italia; ma il vero era di doversi trattare della deposizione di Federico. Questi all'incontro avendo penetrati i disegni d'Innocenzio, non mancò nel medesimo tempo di scrivere una sua lunga lettera a tutti i Principi del Mondo, con iscovrire i disegni del Pontefice, rappresentando loro, ch'erano questi pretesti, e che non poteva non conoscersi chiaramente, non esser tempo per lui d'attendere al soccorso di Soria, quando Innocenzio proccurava sconvolgergli con sedizioni li suoi Stati d'Italia, e che tutto il male e la ruina di Gerusalemme dovea incolparsi al Pontefice; poichè la discordia, che era in que' Santi luoghi fra i Templarj e gli Spedalieri, era fomentata da lui, per esser questi seguaci del Pontefice e suoi Ministri.

Con questi avvenimenti passato l'anno 1244 nel quale l'Italia era stata miseramente travagliata, oltre alla guerra, da fame e peste crudelissima, nel principio del seguente anno 1245 vedendo Federico, che il Concilio convocato in Lione era contro di lui, propose di tornar in Lombardia per opporsi nel miglior modo, che potea a' disegni del Pontefice; e giunto a Verona convocò ivi un general Parlamento, nel quale convennero molti Baroni italiani e tedeschi, e fra di essi Corrado figliuolo di Balduino Imperadore di Costantinopoli, il Duca d'Austria, ed il Duca di Moravia con Ezellino; e dato assetto a diversi affari d'Italia, si dolse acerbamente d'Innocenzio, purgossi dalle colpe che gli opponeva, e deliberò mandar suoi Legati al Concilio Pietro delle Vigne, e Taddeo di Sessa, acciocchè s'opponessero agli attentati del Pontefice, siccome in effetto andarono in Lione, dove anche intendea condursi Federico; onde partito di Verona s'avviò per passare oltra i monti, e gire al Concilio; ma giunto a Torino intese, come a' 27 luglio il Papa avea dato contro di lui sentenza, privandolo del Reame di Puglia e di Sicilia, e della Corona imperiale, come rubello, nemico, e persecutor di Santa Chiesa.

§. I. Istoria del Concilio di Lione, e della deposizione di Federico.

Narrano Matteo Paris ed altri gravissimi Scrittori, che congregato il Concilio nel Duomo di Lione, sedendo Innocenzio nel soglio, ed alla sua destra Balduino Imperador di Costantinopoli, primieramente ornò del Cappello rosso i Cardinali, volendo dimostrar con tal colore, che doveano esser pronti sino allo spargere del sangue in servigio della Chiesa contro Federico. Aggiunse loro per maggior ornamento di tal dignità la valigia, e la mazza d'argento quando cavalcavano, volendo, che alla regia dignità fosse la loro agguagliata. Ciò fece ancora ad onta, e per l'impegno che teneva contro Federico, il quale diceva, che i Prelati doveano imitar Cristo e gli Apostoli, ed andar scalzi, e a piedi, e che bisognava ridurgli alla povertà primitiva della Chiesa[379]. Favellò poi d'altri affari della Chiesa e del soccorso, che intendea dare a Terra Santa, e della difesa da farsi contro i Tartari, che l'Ungheria e l'Alemagna con gravissimi danni avevano assalita; cominciò poi ad esagerare le malvagità di Federico, le persecuzioni, che continuamente dava ai romani Pontefici, ed agli altri Ministri della Chiesa di Dio, mandando in esilio i Vescovi, con privargli d'ogni avere, imprigionando i Cherici, con fargli anche spesse fiate crudelmente morire, e commettendo continuamente queste, ed altre simiglianti cattività. Ma surto in mezzo con molta intrepidezza Taddeo di Sessa, uno degli Ambasciadori di Federico, rispose in faccia del Pontefice e di tutti coloro del Concilio, che di tutte quest'accuse, delle quali si caricava il suo Signore, era quegli innocente, e che la colpa delle passate guerre dovea addossarsi a' Pontefici romani, e che egli fidando nella giustizia del suo Signore avrebbe dileguate tutte quelle accuse; e che Federico, se Innocenzio avesse voluto riconciliarlo con la Chiesa, avrebbe proccurato unire la Chiesa greca con la latina, ricuperare Terra Santa, e restituiti i beni tolti alla Chiesa romana, e che di queste promesse egli ne offeriva per mallevadori i Re di Francia, e d'Inghilterra; ma il Pontefice burlandosene come vane ed illusorie, ributtò l'offerte; co' quali discorsi si diè compimento per quel giorno a questa prima sessione del Concilio.

Ragunatosi poi nella seguente settimana, nella seconda sessione si cominciò di nuovo a trattar dello stesso affare, e dopo aver il Pontefice orato di nuovo intorno alle malvagità di Federico, surse in mezzo il Vescovo di Carinola, Frate che fu dell'Ordine Cisterciense, il quale era uno de' Prelati, che l'Imperadore avea fatti cacciare del Reame: questi, mostrando in voce afflitta e mesta gli strazj, che avea sofferti da Federico, cominciò a fare un racconto della costui mala vita da che era stato fanciullo, caricandolo di molte, e gravissime ingiurie, dicendo, che Federico non credea nè a Dio, nè a' Santi: che tenea in un medesimo tempo più mogli; che favoreggiava continuamente i Saraceni: che tenea particolar familiarità col Soldano di Babilonia: che sovente si contaminava con illeciti concubiti di donne saracene; e che menando vita epicurea e tutta mondana, mostrava non credere a niuna legge, solito a repetere quelle parole d'Averroe, che tre persone avevano ingannato tutto il Mondo, il Salvator nostro Gesù i Cristiani, Moisè gli Ebrei, e Maometto gli Arabi; e dopo aver soggiunto il Vescovo altre simiglianti accuse, terminò il suo discorso col dire, che Federico intendea di ridurre i Prelati a quella bassezza e povertà della primitiva Chiesa, come per le sue opere, e per molte sue lettere potea chiaramente conoscersi. Dopo costui surse un Arcivescovo Spagnuolo, e confermando le cose, che avea dette il Vescovo di Carinola, ve n'aggiunse dell'altre, accusandolo d'eretico, di sacrilego, di spergiuro, confortando il Pontefice a procedere contro di lui, e deporlo dall'Imperio, ed offerse d'assisterlo con l'avere, e con la persona in tutto quel che fosse stato necessario con tutt'i Prelati della sua Nazione, i quali in maggior numero, e con più magnificenza degli altri eran venuti al Concilio.

Ma Taddeo di Sessa impaziente per le parole ingiuriose del Vescovo di Carinola rispose intrepidamente, che egli in tutto ne mentiva, declamando che ei non per zelo della giustizia, ma per odio particolare favellava in cotal guisa, opponendogli molti gravissimi falli, per li quali lui, ed i suoi fratelli erano stati dall'Imperadore convenevolmente puniti; che mentiva chiunque volesse imputar Federico d'eresia; e che se egli fosse stato quivi presente colla sua propria bocca avrebbe professata la vera fede non meno di tutti i più fini e fedeli Cristiani; che della sua vera e cristiana religione poteva egli mostrare un incontrastabile argomento, di non aver voluto tollerare ne' suoi dominj gli usuraj, e d'avergli severamente puniti; in hoc Curiam Romanam reprehendens (come dice Matteo Paris) quam constat hoc vitio maxime laborantem; ed avendo risposto a tutte le accuse fatte da que' Prelati, pregò instantemente il Pontefice a soprastare a ragunar la terza volta il Concilio, perchè Federico era giunto a Torino, e fra poco tempo sarebbe colà venuto di presenza per purgarsi de' delitti, che se gli opponevano; ma il Pontefice negò alla prima di volergli dare questa dilazione, anzi soggiunse, che se Federico veniva, egli subito si sarebbe partito; ma il seguente giorno a richiesta dei Proccuratori de' Re di Francia e d'Inghilterra, fu costretto a dar la dimandata dilazione; la quale non potè esser più lunga, che di due settimane.

Federico scorgendo essere inevitabile la sua condannazione, riputando miglior partito di non essere presente, ed innanzi a Giudice a se sospetto, recusò di venire; e non ostante che Taddeo di Sessa si protestasse, che di ciò, che s'avea a trattar contro l'Imperadore n'appellava al futuro Concilio, passate le due settimane, tosto ragunò Innocenzio di nuovo i Prelati, e pubblicate da lui prima alcune Costituzioni fatte per lo soccorso di Terra Santa, diede non sine omnium audientium, et circumstantium stupore, et horrore, come scrive Paris, la sentenza contro Federico, per la quale lo pronunciò privato dell'Imperio, e di tutti gli onori e dignità, e di tutti gli altri suoi Stati, assolvendo i sudditi del giuramento, ed ordinando loro sotto pena di scomunica, che non gli dovessero più ubbidire, ordinando agli Elettori dell'Imperio, che dovessero eleggere il successore, e che niuno lo riconoscesse più per Imperadore o Re. Questa sentenza vien rapportata dal Bzovio negli Annali ecclesiastici, e si legge ancora tutta intera nella vita di Federico, che Simone Scardio prepose a' libri dell'epistole di Pietro delle Vigne; ed abbiamo, nel raccontar la deposizione di Federico, voluto seguitare più tosto ciò, che se ne scrive nel quarto volume de' Concilj universali e negli annali di Matteo Paris, che il Sigonio, ed alcuni altri Autori, giudicando con tali scorte meglio potersi incontrar la verità.

Diede contezza il Pontefice immantinente per sue particolari lettere di cotal sentenza a tutti i Principi cristiani, ed inviò Filippo Fontana Vescovo di Ferrara a' Principi d'Alemagna, ed agli Elettori, perchè creassero nuovo Imperadore, esortandogli ad esaltare a cotal dignità Errico Langravio di Turingia.

Federico intesa la novella di cotal fatto mentr'era a Torino, acceso di gravissimo sdegno rivolto a' suoi Baroni così disse: Il Pontefice mi ha privato della Corona imperiale, veggiamo se così è; e fattasela recare innanzi, se la pose in testa, dicendo queste parole, che nè il Pontefice, nè il Concilio avean potestà di togliernela; ed ancorchè riputasse vana ed ingiusta cotal sentenza, nulladimanco considerando di quanto detrimento potea essergli cagione, non tralasciò far ogni sforzo per riconciliarsi col Pontefice; onde per mezzo del Re di Francia fece offerire al Papa satisfactionem facere competentem (narra Paris): obtulit etiam quod in Terram Sanctam irrediturus obiret, quoad viveret Christo ibidem militaturus; ma il Papa ridendosi di queste cose rispose al Re, che Federico tante volte queste, e cose maggiori avea promesse, e poi niuna attesa; al che replicò il Re: Septuagies septies pandendus est sinus, peto, et petens consulo, tam pro me, quam pro multis aliis millium millibus peregrinaturis prosperum exitum expectantibus, imo potius pro Statu Universalis Ecclesiae, et Christianitatis accipite, et acceptate tanti Principis talem humilitatem, Christi sequentes vestigia, qui se usque ad crucis patibulum humiliasse legitur; il che quando vide il Re di Francia rifiutarsi ostinatamente dal Papa, adirato contro di lui andò via sdegnato grandemente, ed ammirato, che quella umiltà, che avea conosciuto in Federico Imperadore, non avea egli potuto trovare nel servo de' servi. Ed ancorchè il Pontefice per mezzo di sue lettere avesse fatto volar per lo Mondo questa sentenza; nulladimanco, come scrive l'Abate Stadense, quidam Principum cum multis aliis reclamabant, dicentes, ad Papam non pertinere Imperatorem instituere, vel destituere: sed electum a Principibus, coronare. E fu così vana, e di niun effetto cotal deposizione, che narra Tritemio, che Federico in tutto il tempo che visse da poi, per annos ferme sex contra eum, nec Papa, nec aliquis Principum praevalere potuit; sed non advertens sententiam Papae, quam frivolam, et injustam esse dicebat, se Imperatorem gessit, magnamque Principum nobiliorum, et Civitatum usque ad mortem aderentiam habuit. Perlaqualcosa vedendo Federico niente giovargli la sua umiltà, fu tutto rivolto a disingannare il Mondo di quanto proccurava opporgli Innocenzio; onde fece scrivere più sue lettere a tutti i Principi di Cristianità purgandosi dall'accuse, che gli erano opposte, facendo nota la nullità di tal deposizione, come quella, che procedeva da chi non avea potestà alcuna di farla, onde si leggono perciò ne' libri di Pietro delle Vigne molte epistole, fra le quali è da leggersi la prima del primo libro, che comincia: Collegerunt Pontifices et Farisaei consilium in unum, etc. e l'altra: In exordio nascentis Mundi, e molte altre di consimile tenore.

(Presso Lunig[380], si leggono le vicendevoli imprecazioni, querimonie, ed accuse d'Innocenzio IV e di Federico, che nell'anno 1245 seguirono fra di loro; ed infra gli altri delitti Innocenzio imputava a Federico, che all'usanza de' Saraceni facesse castrare in Capua alcuni, destinandoli per custodia delle sue donne nel serraglio).

E fu da valenti Teologi dimostrato[381], non essere della potestà del Pontefice, nemmeno del Concilio il deporre i Principi; e tanto meno può dirsi di questo Concilio di Lione, il quale oltre di non essere stato generale, siccome per tale non l'ebbero Matteo Paris, Alberto Stadense, Tritemio, Palmerio, Platina ed altri, per mancarvi tutte le condizioni de' Concilj generali, e per esservi intervenuti pochi Prelati, nemmeno di tutte le province d'Occidente, la sentenza non fu profferita dal Concilio, ma dal solo Pontefice, non Sacro approbante Concilio, ma solamente Sacro praesente Concilio, come si legge negli atti di quel Concilio, e rapportano Dupino, ed altri insigni Scrittori ecclesiastici.

Per la qual cosa quasi tutti i Principi e Popoli d'Europa, anche dopo questa deposizione tentata da Innocenzio, lo riconobbero per Imperadore e Re. Nè Federico permise, che in cos'alcuna fosse Innocenzio ubbidito da' suoi sudditi ne' suoi dominj, e ne' Regni di Sicilia; anzi ordinò per sue lettere al Gran Giustiziere di Sicilia, che desse aspro castigo, privandogli di tutti i beni, e scacciasse dal Regno tutti i Frati e Preti, che per ordine del Pontefice, e suo interdetto non avesser voluto in quell'isola celebrare i divini Ufficj, e ministrare i Sacramenti a' Popoli; e che niuno Religioso potesse trasferirsi da luogo a luogo senza espressa licenza, e testimonianza donde ei venisse.

Scrisse parimente consimili lettere al Giustiziere di Terra di Lavoro, e gl'impose strettamente, che dovesse esigere da' Cherici la terza parte dell'entrate, che possedevano di Chiesa, e gli facesse pagare tutte le altre imposte, che pagavano i Laici, comandandogli altresì, che coloro, i quali avessero negato di ciò fare, gli avesse prestamente imprigionati.

§. II. Infelice fine di Pietro delle Vigne.

Dall'aver così bene adempiute le sue parti nel Concilio di Lione Taddeo da Sessa, ed all'incontro dal vedersi, che Pietro delle Vigne pur ivi mandato Ambasciador di Federico, non avesse in quella Assemblea fatto nè pur minimo atto a difesa del suo Signore, fu cagione, che gli emoli di Pietro cominciassero a preparargli quella ruina, che poco stante gli sopravvenne; perciocchè gli apposero appresso l'Imperadore, che essendo in esso Concilio suo Legato con Taddeo di Sessa, fosse stato corrotto o dalle parole, o da' premj d'Innocenzio, e perciò avesse tralasciato di fare quel, che gli convenia per suo servigio; non trovandosi così negli atti del Concilio, come negli Annali ecclesiastici del Bzovio, ed in tutti gli altri Autori, che scrissero di tal avvenimento, fatta menzione d'altri, che di Taddeo di Sessa: indizio chiaro, che, Pietro in nulla si volesse intrigare, ancorchè vi fosse anch'egli presente, per la qual cosa, fatto credere cotal fallo all'Imperadore da' suoi emoli, in gran parte intepidirono il grande amore, che prima gli portava, e venne in sospetto non gli ordisse qualche tradimento; onde ammalatosi Cesare poco da poi in Puglia, consigliato da Pietro, che per ricuperar sua salute dovesse purgarsi il ventre, e poi entrare in un bagno per ciò apprestato, fece da un Medico famigliare d'esso Pietro, e che altre volte in cotal mestieri l'avea servito, comporre il medicamento, e mentre s'apprestava di torlo, gli fu data contezza, che Pietro corrotto dai doni del Pontefice, per insinuazione del medesimo tentava avvelenarlo; onde appresentandosegli il Medico colla bevanda, rivolto a lui, ed a Pietro, che colà era, disse loro: Amici, io ho fede in voi, e so che non mi darete il medicamento per veleno; e Pietro gli rispose: o Signore, spesse volte questo mio Medico vi ha dato giovevol rimedio, perchè ora più del solito temete? e l'Imperadore guardando con torvo aspetto il Medico disse, dammi cotesta bevanda; il perchè atterrito colui, fingendo di sdrucciolare col piede, ne versò la maggior parte, per la qual cosa venendo in maggior sospetto, fattigli prendere ambedue, fece trar di prigione alcuni condennati a morte, i quali bevuto d'ordine di Federico quel poco della medicina, che rimasto vi era, prestamente gli uccise; e si scoperse, che di violentissimo veleno insieme col bagno era composta, sicchè chiarito Cesare del tradimento, fece appiccar per la gola il Medico: e Pietro (non volendolo far morire) fu abbaccinato, e spogliato di tutt'i beni, e d'ogni ufficio ed autorità ch'egli avea, e condotto a vivere miserissima vita. Ma Pietro non potendo soffrire la caduta di tanta grandezza, informatosi da colui, che il guidava, che era presso d'un muro, o d'una colonna di marmo, come scrive il Sigonio[382], vi battè così fortemente la testa, che rottosegli il cerebro, in un subito morì. Altri dicono essersi precipitato da una finestra della sua casa nella città di Capua, ove acciecato dimorava, mentre colà di sotto passava l'Imperadore, ed esser di repente per tal caduta morto nell'anno 1249. Ed in quest'anno rapportano cotal morte Matteo Paris Monaco di Monte Albano in Inghilterra negli Annali di quel Regno, che visse nell'anno di Cristo 1250, Carlo Sigonio, ed altri più antichi Autori. Non mancarono ancora di quegli, che scrissero esser egli morto innocente, e sol per invidia de' Cortigiani, che della di lui grandezza capitali insidiatori, postolo in odio di Federico con dargli a divedere, che per opera del Papa gl'ordiva tradimento, gli cagionassero così sventurato fine; fra' quali fu Dante Alighieri, stimatissimo Poeta di quel secolo, il quale nel 13. canto dell'Inferno, essendo di tal opinione, fa da Pietro così favellare in sua difesa.

Io son colui, che tenni ambo le chiavi

Del cuor di Federico, ec.

Da' quali versi, qualunque si fosse la cagion di sua morte, chiaramente si scorge, ch'egli venuto in odio del suo Signore, di proprio volere per gravissimo sdegno si uccise. Scrive ancora Matteo Paris, che l'Imperadore acerbamente si dolse del tradimento, che Pietro commetter pensava e della sua morte, dicendo (come sono le parole di questo Autore) Vae mihi, contra quem saevire coactus.

Ma dalle insidie tese da Innocenzio contro Federico per mezzo d'altri personaggi di conto, ben si conosce, che siccome per la sua potenza tirò al suo partito molti Principi e Signori, che prima erano partigiani di Federico, con facilità potè anche abbattere la costanza e fedeltà di Pietro delle Vigne; poichè corruppe ancora con doni, e con danari per mezzo del Vescovo di Ferrara alcuni Principi d'Alemagna, i quali non tenendo conto di Corrado suo figliuolo, per compiacere al Pontefice elessero Re de' Romani Errico di Turingia, il quale dopo la sua elezione cominciò in quei Paesi con varj successi a fare aspra guerra contro Corrado.

Corruppe ancora molti suoi Baroni, così di quelli, ch'erano con lui nel suo esercito, i quali se gli erano congiurati contro per ammazzarlo, come anche molti di quelli, che dimoravano nel nostro Reame in prima suoi fedeli, i quali tentarono con sedizioni sconvolgergli il Regno di Puglia: tanto che bisognò interrompere la guerra contro i Milanesi, e di lasciare il Re Enzio suo Vicario in Lombardia, ed accorrere contro i Baroni alla difesa del Regno, i quali aveano contro di lui manifestamente prese l'armi, ed occupato Capaccio ed altre castella di quella provincia.

I Baroni, che per opra del Pontefice contro di Federico si congiurarono erano in prima de' suoi più cari partigiani ed amici: questi furono Teobaldo Francesco, Pandolfo, Riccardo, e Roberto della Fasanella, con tutta la lor famiglia, tutti i Sanseverini, Capo de' quali era il Conte Guglielmo, Jacopo e Goffredo di Morra; Andrea Cicala General Capitano nel Reame; Gisolfo di Maina, con molt'altri, di cui non sappiamo i particolari nomi.

Costoro, che contro di lui congiurarono per torgli la vita, mentre stavano attendendo di porre ad effetto il loro intendimento, furono scoverti a Federico dal Conte di Caserta, che, come scrivono alcuni Autori, di tutto gli diè conto per un suo fedele famigliare nomato Giovanni da Presenzano, sin da ch'egli era in Lombardia; onde alcuni d'essi fur fatti prestamente imprigionar da Federico, ed alcuni altri si salvarono con la fuga, fra' quali fu Pandolfo della Fasanella, e Jacopo di Morra; e pervenuta agli altri la novella della scoverta congiura, Teobaldo Francesco, Guglielmo Sanseverino ed Andrea Cicala occuparono di furto Capaccio e Scala, e colà si ricovrarono, fortificando, e munendo que' luoghi quanto poterono, per difendersi; ma assalita Scala da' fedeli dell'Imperadore, fu combattuta con molto valore, e prestamente espugnata; e fur sostenuti in essa Tommaso S. Severino, ed un suo figliuolo.

Giunto poi nel seguente anno di Cristo 1246 l'Imperadore nel Reame, fu assediato Capaccio; ed ancorchè i suoi difensori sentissero estrema carestia di acqua, non essendosi ripiene le cisterne per mancamento di pioggia, pure con molto valor si mantennero sino a' 28 di luglio, quando furono a forza presi i difensori, con rimaner prigioni Teobaldo Francesco, e la maggior parte degli altri congiurati; i quali furono dall'adirato Imperadore con atrocissimi tormenti fatti morire, incrudelendo altresì contro tutti i loro legnaggi, con farne uccidere grosso numero, ed agli altri dar bando dal Regno. Allora dovette succedere quel che Matteo Spinello scrive di Ruggieri Sanseverino, che salvato da Donatello Stazio suo famigliare, fu per opera poi di Polisena Sanseverina sua zia inviato al Pontefice, da cui fatto con paterno affetto allevare, divenne poi prode ed avvenente giovane, il quale con esso Pontefice nel Regno, e con più felice fortuna con Carlo I d'Angiò divenne Capo de' forusciti napoletani a ricovrare il suo Stato; perciocchè la rotta di Canosa, che Matteo Spinello racconta, non fu vera, nè Federico, che scrisse particolarmente questo fatto in due sue epistole, quando avesse combattuti e debellati i Sanseverineschi nel piano di Canosa, l'avrebbe taciuto; se pure il primo trascrittore di Spinello, in luogo di voler dir la presa di Capaccio, non avesse detto la rotta di Canosa; ovvero ve l'avesse di sua testa aggiunto, come in molti altri luoghi di quell'Autore si è fatto, facendogli scrivere quel, che mai non successe, e ch'egli mai non ebbe intendimento di dire.

CAPITOLO IV. Federico prosiegue la guerra contra i Lombardi nell'istesso tempo, che Corrado suo figliuolo è travagliato in Alemagna da Errico di Turingia, e da Guglielmo Conte d'Olanda. Muore in Fiorentino, e gli succede Corrado.

Intanto il Re Enzio seguitava a travagliar con aspra guerra la Lombardia: ed in Alemagna non minori e men crudeli erano le battaglie tra Corrado ed Errico di Turingia, il quale ancorchè avesse data una gran rotta a Corrado, fu poi ucciso da un colpo di saetta mentre combattea la città d'Ulma: onde Innocenzio saputa la morte d'Errico, inviò di nuovo quattro altri suoi Legati ad istigare i Principi tedeschi contro Federico; e per essere stato dal Re Enzio d'ordine del padre fatto morir impiccato per la gola un parente d'esso Pontefice, di nuovo amendue scomunicò, e tanto operò co' Tedeschi, che fu eletto in nuovo Re de' Romani Guglielmo Conte d'Olanda, il quale incamminatosi dopo la sua elezione a prendere la Corona in Aquisgrana, se gli oppose intrepidamente col suo esercito Corrado, il quale occupata e munita quella città lungamente dentro d'essa da Guglielmo, e dai suoi si schermì. Non avea il Pontefice trascurata ogni opera di far ribellare Corrado istesso contro il suo padre, e per mezzo del Cardinal Ubaldino suo Legato, dell'Arcivescovo di Colonia, e di molti altri Baroni alemani, faceva continuamente insinuare al medesimo a non seguire l'imprese e le dannate vestigia, com'essi diceano, di suo padre: ma Corrado Principe pio e costante gli rispose, che avrebbe difese le sue parti insino all'ultimo spirito di sua vita.

Federico intanto racchetati i rumori del Regno partì di Puglia, e passò a Pisa, e di là per li confini dei Parmegiani a Cremona. Quivi essendo, fugli da alcuni insinuato di dover trovare qualche modo di riconciliarsi colla Chiesa, e conchiuse perciò di conferirsi di persona in Lione per umiliarsi al Pontefice; sicchè tolto in sua compagnia onesto numero di famigliari, passò da Cremona a Torino, e celebrata quivi un'altra Assemblea, partiva già per Lione; ma giunto appena alle radici dell'Alpi gli fu per particolar messo significato, per opra d'Innocenzio essergli stata dai suoi partigiani ribellata Parma; onde accorse immantenente per riaverla, ed intrigato col Re Enzio suo figliuolo in questa guerra, ampiamente scritta da Sigonio, passò quivi tutto quest'anno, e nel seguente anno 1248 per occasione di questa guerra, nella quale ora perdente, ora vincente, perdè Vittoria città novellamente da lui edificata a fronte di Parma, nel qual fatto i suoi nemici uccisero, e fecer prigioni la maggior parte degli assediati, fra' quali morì Taddeo di Sessa, quel celebre nostro Giureconsulto, e che in questi tempi avea anche avuto l'onore d'essere stato fatto General Capitano in quell'esercito. E mentre con tali successi era afflitta Italia, Guglielmo Conte d'Olanda creato Re de' Romani, dopo un lungo contrasto, presa la città d'Aquisgrana, era stato in essa dall'Arcivescovo di Colonia incoronato nel dì primo di novembre di quest'anno; e poco stante azzuffatosi con Corrado, ch'era col suo esercito di nuovo sopra detta città venuto, il ruppe e pose in fuga.

Nel seguente anno 1249 Federico lasciato il Re Enzio suo Vicario in Lombardia, se ne passò in Toscana, ove giunto, se creder vogliamo a Giovanni Villani, non volle entrare in Firenze, perchè per vana predizione di Michele Scoto grande Astrologo e Mago di que' tempi, gli era stato detto, che aveva da morirvi dentro, e fermatosi ad un luogo ivi vicino, poco da poi passò l'Imperadore in Puglia, ove finchè visse, che fu molto poco, dimorò.

In questo medesimo anno avendo i Bolognesi data una terribile rotta al Re Enzio, lo fecero prigione; onde crebbe oltremodo la fortuna e potenza de' Bolognesi, e per la fama dell'acquistata vittoria per sì riguardevole personaggio, e per la nobiltà del suo aspetto, e per la fiorita età, che non passava 25 anni, e per la grandezza del padre; e avendolo condotto con gran trionfo prigioniero a Bologna, diede manifesto esempio dell'incostanza ed infelicità delle cose umane, ed i Bolognesi statuito con pubblico decreto, che mai non s'avesse a riporre in libertà, regiamente a spese del Pubblico, mentre egli visse lo sostennero, non si movendo a liberarlo, nè per le minacce del Padre, che sopra di ciò scrisse loro una sua lettera, nè per offerta di grossa somma d'oro in suo riscatto. In tal maniera ventidue anni, e nove mesi dimorato, come scrive Cuspiniano, fu poi venendo a morte con nobilissima pompa sepolto da' Bolognesi nella chiesa di S. Domenico in un ricchissimo avello di marmo con la sua statua indorata, ove sino al presente, secondo che scrive Stradero, si legge l'inscrizione in una piastra di bronzo.

Ricevette, non molto tempo dopo tal successo, l'Imperadore lettere da' Modanesi, ove significandogli la ricevuta sconfitta si dolevano della prigionia del figliuolo, a' quali egli rispose magnanimamente ringraziandogli del loro ben volere, con minacciare aspramente i Bolognesi, e tutti i partigiani della Chiesa. Ma questi col favor dell'ottenuta vittoria, dopo aver soggiogate molte città e castelli di Lombardia e di Romagna, e fra essi Modana, che per alcun tempo strettamente assediarono, mossero Federico per non perdere affatto il dominio di quei paesi, essendo già entrato l'anno di Cristo 1250 a raccorre soldati, e moneta per rinovar la guerra, e tentare di riporre il figliuolo in libertà, e mentre a ciò badava, ammalò del suo ultimo male nel castel di Fiorentino, ora disfatto, in Capitanata di Puglia, sei miglia lungi da Lucera, e come scrive Cuspiniano, non senza sospetto, che Manfredi Principe di Taranto suo figliuol bastardo l'avesse avvelenato, o come è più verisimile, perchè aspirando al dominio del Reame, voleva torsi dinanzi il padre, per tentare di porre il suo pensiero ad effetto, come si conobbe da poi.

L'Imperadore aggravato dal male, pentitosi de' suoi falli, e chiedendone a Dio perdono, si confessò a Bernardo Arcivescovo di Palermo, e da lui ricevette l'assoluzione, ed il sacramento dell'Eucaristia, se creder dobbiamo ad Alberto Abate di Strada; e persuaso dall'istesso Arcivescovo fece il suo testamento, il qual tutto intero, come quello, che contiene più notabili cose, addurremo.

Soggiunge Cuspiniano, che mentre superando la forza del veleno o della malattia, o per la sua robusta complessione, o per la diligente cura de' Medici, stava per riaversi, Manfredi aggiungendo fallo a fallo per tema non il padre campasse, di notte tempo, postogli un piumaccio alla bocca crudelmente il soffocò; alla qual opinione di violenta morte par che concorra lo Scrittor di Giovennazzo, quando dice, che a tempo si sparse voce, che l'Imperadore era già guarito, e che il seguente giorno voleva uscir di letto, per aver mangiato la sera certe pera cotte con zuccaro, si ritrovò poi il mattino morto nel letto, verificandosi il vaticinio fattogli (se tai vanità son degne di fede) che aveva a morir in Fiorenza, ma secondo le solite anfibologie degl'Astrologi non in Fiorenza di Toscana, ma in Fiorentino di Puglia; se bene l'Anonimo[383] Autor della Cronaca di Manfredi, come troppo appassionato di questo Principe, passa sotto silenzio le circostanze di questa morte violenta, per non incolpar Manfredi suo Eroe.

Cotal fu dunque il fine di Federico II Imperador romano, il quale morì in età di cinquantasei anni, e nel trentesimo ottavo del suo Imperio, lo stesso giorno, che fu eletto a cotal dignità in Alemagna, dopo aver cinquantatre anni dominato il Reame di Napoli e di Sicilia, e 28 quello di Gerusalemme, Principe degno di chiara ed immortal memoria, per le molte e singolari virtù, che così nell'animo, come nel corpo di pari in lui fiorirono; perciò, lasciando star da parte quello, che alcuni Scrittori italiani di lui con troppa malevoglienza, e alcuni altri tedeschi con troppa adulazione scrissero: egli è certo, che fu un savio ed avveduto Signore, valoroso e prode di sua persona, e di nobile, e signoril presenza: fu liberale e magnanimo, perchè premiò ampiamente coloro, che l'aveano servito, così nell'opere di pace, come nella guerra, ed onorò i Signori dell'Imperio di grandissime prerogative e privilegi; poichè primieramente creò Federico, detto il Bellicoso, di Duca, che in prima egli era, Arciduca d'Austria[384], e gli diede l'insegne reali per quel, che ne scrive il Cuspiniani; ma nel sesto libro delle Pistole di Pietro delle Vigne appare, che nel creò Re, benchè secondo il Zurita, di cotai titoli di Re, e d'Arciduca non si servì niuno de' suoi seguenti Signori, che quella provincia dominarono fin all'Imperador Federico III ch'il concedette di nuovo a Filippo suo nipote, quando stava trattando d'ammogliarsi con una delle figliuole di Ferdinando Re di Castiglia e d'Aragona, detto poi il Re Cattolico, nell'anno di Cristo 1488.

Fu nella militar disciplina espertissimo, per la quale ottenne nobilissime vittorie de' suoi nemici; e mostrò non men fortezza ne' casi avversi, che temperanza e continenza ne' prosperi. E provvido ne' consigli, e prudente nel riordinare i suoi Regni di molte utili e giuste leggi.

Per aver avuti nemici tre romani Pontefici, Onorio, Gregorio ed Innocenzio, e le città Guelfe partigiane dei medesimi, acquistò egli presso i posteri nome di spergiuro, e di crudele con tutti i Prelati e Ministri della Chiesa; e per averne perseguitati molti, e scacciati dalle loro sedi, altri imprigionati, e fatti morire in esilio, ed avere in altre strane guise fatto impiccare grosso stuolo di Frati e Preti; e per aver taglieggiate le chiese, i monasterj, e gli Ecclesiastici, con torre loro i beni e facoltà: pose timore a tutti gli Ecclesiastici, non volesse ridurgli alla strettezza e povertà della primitiva Chiesa, tanto maggiormente ch'era lor riferito, che l'Imperadore soleva avere spesso in bocca cotali voci; onde Matteo Paris, che prima che Federico fosse stato deposto, avea sempre nella sua Cronaca aderito al suo partito, quando da poi intese, che Federico soleva dir queste parole, come che egli si trovava Abate di Monte Albano d'Inghilterra, e ricco di molti Beneficj e Commende, dispiacendogli tal proponimento, cominciò a mutar stile e scrivere contro di lui in altra maniera, che prima avea fatto.

Se questo fece Paris, ognun può credere, che cosa mai facesser gli altri Scrittori italiani partigiani dei Pontefici romani, e tutti Guelfi: e particolarmente i Frati. Paolo Pansa nella Vita d'Innocenzio IV rapporta, che Fr. Salimbene da Parma Frate Minore, che visse in que' tempi, e conobbe Federico, in una sua Cronaca a penna lasciò scritto, che Federico in quest'ultima sua infermità fu afflitto da' vermi, che scaturivano dalle sue carni, e che morto che fu, usciva tal puzza da quel cadavere, che non si poteva in alcun modo tollerare, e che per allora non gli si potè dar sepoltura: ch'era poco cattolico, anzi epicureo, come quegli, che non credea trovarsi altra vita, che questa; soggiungendo, che quando e' fu in Oriente, e vide la Terra, che si chiama di Promissione, si pose a ridere, e facendosene beffe, ebbe a dire che se il Dio de' Giudei avesse veduto il Reame di Napoli, e massimamente Terra di Lavoro, non avrebbe fatto sì gran conto di quella sua terra di Promissione.

(Oltre a ciò i Monaci nelle loro Croniche anche scrissero, che Federico passando un giorno col suo esercito vicino alcuni campi di formento, che avea le spiche già mature, e danneggiando i Soldati coi loro cavalli le spiche, e rapportato ciò a Federico, avesse motteggiando risposto, che se ne astenessero, e le portassero rispetto, poichè un giorno i grani di quelle spiche potevano divenire tanti Cristi. Le parole sono rapportate da Simone Hanh, Hist. Germ. in Friderico II ).

Lo dipinsero perciò, ch'egli fosse ateo, e che negando l'immortalità dell'anima avesse posto ogni suo intendimento ne' diletti del corpo, godendosi, e sollazzandosi con quel, che più gli aggradiva, e che perciò si contaminasse con ogni sorte di lussuria, tenendo sempre, oltre alla moglie, uno stuolo di concubine attorno, alcune delle quali erano anche Saracene; della quale opinione mostra essere stato anche Dante[385], ancorchè Ghibellino, ponendolo a patire le pene dell'Inferno, in un luogo, ove era simil peccato d'eresia punito, con il padre di Guido Cavalcanti, e Farinata degli Uberti Cavaliere Fiorentino, e col Cardinale Ottavio degli Ubaldini, facendo dall'istesso Farinata dire:

Qua entro è lo secondo Federico,

E 'l Cardinale, e degli altri mi taccio.

Ma da ciò, che s'è in questi libri veduto, si conosce, che Federico quando fu corrisposto da' Pontefici, fu cotanto attaccato alla Chiesa romana, ed ai suoi Ministri, che Ottone soleva perciò chiamarlo il Re de' Preti. E si vede ancora dalle tante sue Costituzioni promulgate tutte favorevoli alla giurisdizione della Chiesa, le quali insino oggi s'osservano. Quanto perseguitasse gli Eretici ben si è di sopra veduto, e ben lo dimostrano le severe sue Costituzioni, che promulgò contro i medesimi, non meno per estirpargli da Italia, che dalla Germania[386]. E se dobbiam credere a Capecelatro[387], Inveges[388], e ad alcuni Scrittori, egli fu, che per osservar la promessa fatta al Pontefice Innocenzio III istituì nell'anno 1213 il Tribunal dell'Inquisizione in Sicilia.

In questo nostro Reame si è ancor veduto quanto fosse grande il suo zelo in estirpargli; poichè oltre d'aver pubblicata quella celebre Costituzione Inconsutilem, avendo preinteso, che in queste nostre province, e particolarmente in Napoli, era penetrata l'eresia de' Patareni, mandò l'Arcivescovo di Reggio, e Riccardo di Principato suo Maresciallo a carcerargli. Non istituì però (che che si facesse in Sicilia, di che alcuni anche ne dubitano, non essendovi Scrittor contemporaneo, che lo rapporti) per queste nostre Province particolar Tribunale d' Inquisizione contro i medesimi. Solo comandò a' suoi Ufficiali, che contro di loro, ancorchè non accusati, procedessero ex inquisitione, siccome si costumava negli altri enormi e gravi delitti, e con molto più rigore di quello, che si praticava ne' delitti di lesa Maestà umana. Perciò stabilì, che gl'indiziati, ancorchè per leggieri sospetti, si dovessero portare ad esaminarsi avanti i Prelati e persone ecclesiastiche, come coloro, a' quali appartiene, ed è della lor perizia di conoscere se le opinioni deviano dalla fede cattolica in qualche articolo; i quali Prelati se evidentemente, e con manifeste e chiare pruove conosceranno essere i rei convinti d'eresia, era solamente della loro incumbenza di ammonirgli pastorali more, affinchè lasciassero gli errori, e l'insidie del Demonio; e se, così ammoniti, pertinacemente s'ostineranno ne' loro errori, e costantemente vorranno in quelli perseverare, era terminata la loro incumbenza[389]; e de' rei in cotal guisa convinti, prendevano cura i Magistrati secolari, i quali a tenore di quella sua Costituzione gli sentenziavano a morte, e ad esser bruciati vivi nel cospetto del Popolo. Stabilì ancora che nelle Corti generali, che due volte l'anno doveano tenersi nel Regno, i Prelati dovessero denunciar gli Eretici al suo Legato, ed agli Ufficiali, che componevano quella Corte[390], affinchè ne prendessero severo castigo. E quantunque presso di noi non istituisse particolar Tribunale, volendo, che que' medesimi suoi Ufficiali, a' quali era commessa la punizione di tutti gli altri delitti, procedessero anche in quello: i modi però, che prescrisse di procedere contro gli Eretici, e le pene, ed i mezzi per iscovrirgli, furono troppo diligenti e rigorosi. Egli fu il primo, che generalmente gli condennò a pena di morte: egli castigava severamente i loro recettatori, e coloro, dai quali erano ajutati: favoreggiò le pruove, e volle, che contro di quelli si procedesse anche ex inquisitione, come in tutti gli altri enormi delitti, e che a somiglianza di questi, per inquisirgli bastassero leggieri indizj: separò con ben fermi e chiari confini le conoscenze, che gli Ecclesiastici, ed il Magistrato secolare doveano avere intorno a questo delitto. La conoscenza del diritto, se tal opinione era eretica, o no, tutta intera la lasciò agli Ecclesiastici; e perciò volle, che gl'imputati d'eresia fossero esaminati da persone ecclesiastiche, perchè non altronde poteva conoscersi se l'errore era dannabile o no, se s'opponeva alla nostra Fede, ed a' suoi Dogmi, o non s'opponeva. Essi doveano ricercarli, essendo ciò della lor perizia, non altrimente che negli altri delitti, ne' quali accade richiedersi il giudicio de' periti. La conoscenza del fatto, e la condanna era del Magistrato secolare, non potendo la Chiesa, come altrove fu notato, in questi delitti, toltone di separargli dal consorzio de' Fedeli, condennar a morte, nè a mutilazion di membra, nè d'affliggere i rei con altre temporali pene.

A torto adunque vien lacerata la fama di Federico da' nostri Scrittori italiani, per lo più tutti Guelfi. E se egli fu crudele contro alcuni Prelati, e più contro i Frati e Monaci, ben nel corso di questo libro si sono vedute le cagioni di tanta severità, e delle occasioni dategli d'usarla. Nè deve riputarsi estraneo dalla potestà del Principe, quando si mova con giuste cagioni, e precisamente se lo faccia per ragion di Stato, d'esiliare i Vescovi, discacciargli dalle loro sedi, imprigionare i Frati, ed incrudelire contro di essi, quando sono perturbatori dello Stato, e della pubblica quiete. E molto meno deve parer cosa strana di taglieggiare i beni degli Ecclesiastici, quando il bisogno del Principe e della Repubblica lo richieda.

I Principi, sempre che il bisogno de' loro Regni il richiedeva, sono stati soliti imporre alle Chiese e Monasterj certo tributo, che esigevano unitamente dalle città e Feudatarj; e come altrove fu notato, li Patrimonj delle nostre Chiese pagavano il tributo agli Imperadori d'Oriente.

Carlo M., discacciato Desiderio, e resosi padrone del Regno d'Italia, lo impose alle Chiese e Monasterj d'Italia, come lo testimonia il Sigonio[391]. E coloro, che sotto il nome di Principi di Benevento ressero la maggior parte di queste province, che oggi compongono il nostro Regno, han sempre esatto questi tributi dalle Chiese e monasterj che si tassavan a proporzione, dal valore delle robe, che possedevano. Così quando nell'anno 851 sotto Lotario Imperadore, e Lodovico Re d'Italia suo figliuolo, fu diviso il Principato di Benevento, ed eretto in Principato di Salerno tra Radelchiso Principe di Benevento e Siconolfo Principe di Salerno, abbiamo, che fra l'altre cose, che furono accordate tra questi due Principi, fu che di tutte le robe de' Vescovadi e monasterj, ovvero Xenodochii, se ne prendesse conto, e secondo il valore delle medesime si tassasse il censo solito a contribuirsi al Principe: nel che furono solamente eccettuati i monasterj di Monte Cassino, e l'altro di S. Vincenzo a Vulturno, i quali perchè stavano sotto l'immediata protezione dell'Imperador Lotario, e del Re Lodovico, furono esentati per li privilegi e prerogative, che ne tenevano. Siccome ne furono anche eccettuate le robe degli Abati e d'altri Ecclesiastici, che servivano al Principe nel proprio palazzo[392]. Ma poi mutate le cose ed innalzato da' Papi l'Ordine ecclesiastico in più sublime stato, sottraendogli, così per ciò che riguarda le loro persone, come le loro robe, dalla potestà e giurisdizione del Principe; sembrava Federico empio e tiranno, il quale seguendo gli antichi esempj, si studiava restituire l'antiche ragioni, e preminenze sopra le loro persone e beni.

Del rimanente, tolte da lui queste false accuse, fu Federico un Principe, in cui di pari gareggiavano la giustizia, la magnificenza e la dottrina. Egli ci lasciò molte sagge ed utili leggi; ed a cui molto deve questo Regno, e Napoli più d'ogni altra città del medesimo. Egli amantissimo delle lettere vi fondò una famosa Accademia, ove chiamò gli scolari da tutti i suoi dominj. Egli ancora dottissimo in filosofia, ed in ogni altra scienza, pose in grande onoranza lo studio pubblico di Salerno per la medicina, e ne fondò un altro di nuovo in Padova, togliendolo da Bologna città sua inimica, ordinando, che in questi Studj non dovessero gire a studiare i cittadini delle città Guelfe sue nemiche di Lombardia, di Toscana e di Romagna.

E ciò che è da ammirare, in un secolo, nel quale, come dice l'Anonimo[393], erant Literati pauci, vel nulli, egli non solo fu amante delle buone lettere, ma come studiosissimo di filosofia e d'ogni altra scienza compose un libro de Natura, et Cura Animalium[394]. Egli spinse Giordano Ruffo Maestro della sua Manescalchia reale a comporre un Trattato della cura e medicamenti de' cavalli, il quale nel fine del libro, che si conserva in S. Giovanni a Carbonara, fra i libri, che furono del Cardinal Seripando, dice, che egli di quanto avea scritto n'era stato istrutto da Federico suo Signore.

Fece dal Greco e dall'Arabico traslatare molti libri in linguaggio latino, come l' Almagesto di Tolomeo, l'opere di Aristotele, e molti altri di medicina, e di altre scienze, de' quali, siccome scrive Giovanni Pontano, inviò a donare con sua particolar lettera, che si legge nel terzo libro dell'epistole di Pietro delle Vigne, alcune opere d'Aristotele a' Maestri e Scolari dello Studio di Bologna, prima che divenissero suoi nemici.

Fece parimente comporre da Michele Scotto famoso Medico ed Astrologo di que' tempi, e suo carissimo famigliare molti libri di filosofia, di medicina, e di astrologia, come testifica l'istesso Michele in alcuni d'essi, che li dedica, e Corrado Gesnero nel suo Compendio; ond'è, che le cose filosofiche e le matematiche cominciarono ad aver vita: e per essersi queste opere d'Aristotele, e libri di Galeno, e degli altri Medici arabi lette nelle nostre Scuole, e favorite da Federico, quindi la filosofia d'Aristotele, e la medicina di Galeno, acquistarono appresso di noi, e fecero quei progressi nelle Scuole, che insino a' nostri tempi abbiam veduto.

Fece ancora ridurre in ordine quelle sue Costituzioni, donde furon prese molte Autentiche ed inserite nel Codice di che altrove abbiam ragionato; siccome i libri delle nostre Costituzioni pur a lui li dobbiamo che fece compilare da Pietro delle Vigne celebre Giureconsulto di questi tempi. Compose ancora un libro della Caccia de' Falconi, della quale non s'avea allora notizia alcuna; e Manfredi suo figliuolo vi aggiunse poscia molte altre cose.

E se in sì gran Principe questo anche annoverar si dee, fu egli versatissimo in molte lingue, così nella latina, come nella greca, nella italiana, nella francese ed anche nella saracena, oltre della tedesca sua natia; e si dilettò di poesia italiana, e vagamente molti Sonetti e Canzoni compose, che insino ad ora si leggono unite con quelle di Pietro delle Vigne, di Enzio suo figliuolo e d'alcuni altri Poeti di que' tempi, quando la nostra lingua italiana surta dal mescuglio di tante altre lingue e dalla latina precisamente, cominciava a diffondersi, e che raffinata poi da valenti Scrittori, meritò d'esser paragonata alla latina, ed alla greca istessa, anzi contendere con quelle di maggioranza, ed al suo genio verso la poesia deve questo secolo tanto numero di Poeti antichi, de' quali Lione Allacci[395] tessè lungo catalogo; e fra noi l' Abate di Napoli: Giacomo dell'Uva di Capua: Folco di Calabria: Guglielmo d'Otranto: Guezolo da Taranto: Ruggiero e Giacomo Pugliesi: Cola d'Alessandro, e tanti altri antichi Rimatori nell'infanzia della lingua italiana.

Principe magnificentissimo, che ornò Italia e questo nostro Reame di molti nobili edifici, e particolarmente Capua e Napoli, avendo in questa ampliato e ridotto in miglior forma il castello Capuano; ed in quella rifatto con gran magnificenza l'antico ponte di Casilino sopra il fiume Vulturno con due fortissime torri, ove fece porre la sua statua di marmo, che ancora oggi ivi s'addita.

Fondò molte città in questi suoi Reami, le quali furono Alitea e Monte Lione in Calabria; Flagella in Terra di Lavoro a fronte di Cepparano e Dondona in Puglia, delle quali due oggi non vi è vestigio, essendo subito dopo il lor principio disfatte; Augusta ed Eraclea in Sicilia; e l'Aquila in Apruzzi a' confini del Regno per fronteggiare allo Stato della Chiesa.

Ma quello, di che questo nostro Reame è principalmente debitore a questo Principe, si è il vedere, che sotto di lui con miglior ordine e distinzione si videro divise queste nostre province: ciocchè bisogna minutamente notare, per lo rapporto, che si tiene ancora oggi di questa divisione.

CAPITOLO V. Disposizione e novero delle province, delle quali ora si compone il Regno.

La presente divisione delle nostre province in dodici, che ora compongono il Regno di Napoli, dal Surgente[396], dal Mazzella[397], e comunemente da tutti gli Scrittori s'attribuisce a Federico II Imperadore, le quali non con nome di province, ma di Giustizierati erano dinotate. Ma questa loro opinione non è in tutto vera, poichè nè Federico fu il primo a far cotal divisione, nè a' suoi tempi il lor numero arrivava a dodici ma era minore; onde non al solo Federico, ma a Carlo I d'Angiò, ad Alfonso I d'Aragona ed a Ferdinando il Cattolico, cioè a tutti insieme dee attribuirsi, siccome molto a proposito avvertì il Tassone[398].

Nè questo numero fu sempre costante: poichè in alcun tempo per le novelle prammatiche[399] alcune province (per ciò che riguarda il lor governo ed amministrazione) furono unite, e da poi di nuovo divise in dodici e poste nello stato, nel quale oggi si trovano; nè in tutti i tempi ebbero le medesime città per loro metropoli e sedi de' Presidi.

Sortirono tal divisione tutta difforme dall'antica dei tempi d'Adriano, o di Costantino M. e degli altri Imperadori suoi successori; poichè mutata prima la vecchia descrizione da Longino, indi succeduti i Longobardi, avendo sotto il Ducato, e poi Principato di Benevento comprese parte intere, parte diminuite, la Campagna, la Puglia e la Calabria, la Lucania, e' Bruzi ed il Sannio; variarono in tutto l'antica divisione delle province d'Italia. Sortì ancora questa nostra cistiberina Italia altra divisione, quando di più Principati e Ducati ella si componeva: del Principato di Benevento, che fu poi diviso in altri due, in quello di Salerno, e nell'altro di Capua: indi del Principato di Bari e di quel di Taranto: de' Ducati di Napoli, di Sorrento, di Amalfi, di Gaeta, ed ultimamente di Puglia e di Calabria, siccome ne' precedenti libri di quest'Istoria si è potuto osservare.

Ma la più immediata cagione ed origine di quella divisione che oggi abbiamo di queste nostre province non deve attribuirsi ad altro, che a' Castaldati e Contadi, che v'introdussero i Longobardi; poichè avendo essi diviso il Ducato di Benevento in più Castaldati, come in province, siccome manifesto dal Capitolare del Principe Radelchi rapportato dal Pellegrino, quindi avvenne, che molti di quelli ne' tempi de' Normanni passaron in Giustizierati e da poi in Province.

Quanto fosse il numero di questi Castaldati in tempo de' Longobardi, tutta la diligenza ed accuratezza di Camillo Pellegrino non bastò per diffinirlo; poichè dalla divisione fatta del Principato di Benevento da Radelchi con Siconolfo Principe di Salerno non può certamente sapersi se tanti fossero, quanti se ne veggon in quella nominati. L'accuratissimo Pellegrino[400] ne novera alcuni, de' quali i più insigni furono, quello di Capua, che verso Occidente si distendeva insino a Sora. L'altro di Cosenza, che si stendeva insino a S. Eufemia e Porto del Fico, che sono ancora oggi i confini della provincia di Calabria Citra, di cui tiene Cosenza anche ora il primato, ed è sede de' Presidi, e quello di Cassano. Il Castaldato di Chieti, che abbracciava molte città e terre, e che poi fu detto anche la Marca Teatina. Il Castaldato di Bojano, che co' luoghi adjacenti, posseduto prima da Alezeco Bulgaro sotto nome di Castaldo, passò poi dopo 200 anni a Guandelperto, di cui presso Erchemperto hassi memoria: la qual prerogativa da Bojano essendo passata a Molise, castello a Bojano vicino, sotto nome di Contado, quindi avvenne, che prima fosse detto Contado di Molise e poi provincia del Contado di Molise, il qual nome oggi ritiene.

Fuvvi ancora il Castaldato di Telese e di Sant'Agata: quello d'Avellino; e l'altro d'Acerenza. Fuvvi il Castaldato di Bari, assai celebre presso i Longobardi; onde avvenne, che a' tempi de' Normanni ottenne questa città il primato di tutta la Puglia e fosse riputata sua capo e metropoli. L'altro di Lucera e di Siponto città in Capitanata assai illustri, sotto il di cui Castaldato comprendevansi tutte quelle città e terre, che erano tra il Castaldato di Bari e quello di Chieti. Fuvvi il Castaldato di Taranto, quello di Lucania, ovvero Pesto, e l'altro assai rinomato di Salerno. In questa forma o poco dissimile divisero i Longobardi il Ducato beneventano, che in que' tempi abbracciava nove intere province di quelle, che oggi compongono il Regno di Napoli, e che sortirono questi nomi, cioè di Terra di Lavoro, toltone alcune poche città marittime, come Napoli e Gaeta; del Contado di Molise; di Abruzzo-Citra; Capitanata; Terra di Bari; Basilicata; Calabria-Citra; e l'uno e l'altro Principato; e parte ancora delle province di Terra d'Otranto, di Calabria e d' Abruzzo Ulteriore. E se presso gli Scrittori di questi tempi, e forse anche nel sermon popolare furono ritenuti gli antichi nomi di Campagna; di Calabria e di Puglia; di Lucania e Bruzj e del Sannio, non è, che secondo questi nomi serbassero gli antichi confini e la distribuzione antica; ma chi per ostentar erudizione, chi per dinotare ove erano i Castaldati collocati, d'essi valevansi, non altrimenti che presso di noi ancor rimane l'antico nome di Puglia, ancorchè niuna delle dodici province del Regno si nomini di Puglia, ma di Bari, o di Capitanata.

Succeduti a' Longobardi i Normanni, colla nuova Nazione presero nuovi nomi; e siccome presso i Longobardi, dal nome del Magistrato, al quale era commesso il governo di quelle regioni, ch'essi chiamarono Castaldo, acquistarono il nome di Castaldati: così parimente commettendo i Normanni il governo di quelle province a' loro Ufficiali; ch'essi chiamavano Giustizieri, presero parimente il nome di Giustizierati, onde sursero i nomi del Giustiziero, e Giustizierato di Terra di Lavoro, d'Apruzzo, di Puglia, di Terra di Bari, e simili. E siccome i nomi di queste province furono variati, e da Castaldati, passarono in Giustizierati; così anche ciascheduna di loro, a riserba di alcune, prese nuovo nome, ed alcune altre anche nuova divisione, come si scorgerà chiaro noverandole una per una, secondo la disposizione ed ordine, che oggi tengono presso i nostri più moderni Autori.

§. I. Terra di Lavoro.

Il Castaldato di Capua, non si disse Glustizierato di Capua, ma di Terra di Lavoro. Ma in qual tempo e donde questa provincia prendesse questo nuovo nome di Terra di Lavoro, e lasciasse quello di Campagna, o di Capua, non è di tutti conforme il sentimento. Alcuni credettero, che molto prima de' Normanni avesse questa provincia acquistato tal nome, ingannati dal passo d'una lettera di Martino Romano Pontefice scritta ad Elitterio, nella quale narrando egli ciò che patì nel viaggio, che nell'anno 650 per ordine di Costanzo Imperador greco gli convenne da Roma fare in Oriente, dice: Pervenimus Kalendis Julii Misenam, in qua erat navis, id est carcer; non autem Misenae tantum, sed in Terra Laboris, et non tantum in Terra Laboris, quae subdita est magnae Urbi Romanorum (cioè a Costantinopoli) sed et in pluribus Insularum, ec. Ma siccome ben avvertì l'accuratissimo Camillo Pellegrino[401], chi non vede, che in quella epistola per imperizia de' librari, in vece di dirsi Terra Liparis, siasi con errore scritto Terra Laboris? Perchè secondo il viaggio, che il Pontefice da Roma intraprendeva per Oriente, da Miseno dovea passare in Lipari, siccome da Lipari nell'altre isole, di Nasso, ed altre per condursi in Oriente. Parimente se intendeva di Terra di Lavoro, non dovea separar Miseno da questa provincia, come fece, per esser quella città compresa in quella nè porla tra le altre isole; già che Terra di Lavoro non è isola, ma Terra continente, la quale non era allora tutta sottoposta all'Imperador greco di Costantinopoli.

Non dissimile fu l'error di Narcisso Medico[402], il quale presso Sebastiano Munstero, credette che Terra di Lavoro fosse stata un tempo chiamata anche Terra Leporis; quando gli antichi monumenti, ch'egli allega parlano non già della Campagna, oggi detta Terra di Lavoro, ma della Terra di Lipari: poichè prima così tutte l'isole di Lipari erano nomate: non altrimente che presso Erchemperto[403] si legge, Barium Tellus ed altrove Rhegium Tellus; e noi anche diciamo perciò Terra di Bari, Terra d'Otranto, Terra di Lavoro, ec.

Più sconci, e da non condonarsi furono gli errori presi su ciò dal Biondo, e dal suo seguace Leandro Alberto, e da' nostri moderni Scrittori, che il seguitarono. Credette il Biondo nella descrizione della Campania, che essendo Capua per l'antico odio dei Romani, e per le desolazioni patite, resa infame, i Popoli delle città e terre convicine, reputando il nome de Campani ignominioso insieme e pericoloso, lasciarono di nomarsi più tali, e vollero esser chiamati non più Campani, ma Leborini: e che indi dalla loro ostinata perseveranza nacque, che tutta quella regione nella quale prima eran poste le città e luoghi della Campagna, si nomasse Terra di Lavoro.

Ma esser tutti questi sogni, appieno l'ha dimostrato il non mai a bastanza lodato Pellegrino nella sua Campania[404], il quale ci ha data la vera origine di tal nome, il suo Autore, ed il tempo quando fu a questa provincia imposto. E' narra, che non prima acquistasse tal nome, se non intorno l'anno di Cristo 1091, e non da altri prima il ricevesse, che dal Principe di Capua Riccardo II e da' suoi Normanni in quell'anno, i quali da' Capuani longobardi discacciati da Capua nell'entrar di quest'anno 1091, come abbiam narrato nel nono libro di quest'Istoria, furono i primi, che disusarono nel parlare il nome del Capuano Principato, ed introdussero in suo cambio quello di Terra di Lavoro, preso dalla dolcezza del terreno atto ad ogni travaglio, e lavorio; il qual nome fu da essi ritenuto, benchè di Capua avesser poi di nuovo fatto acquisto nel 1098, sicchè quel primo sol rimase in bocca di pochi, e nelle pubbliche scritture; non in altra maniera, ch'oggi con la stessa varietà, ancor questo Regno ritiene due nomi.

Così questa provincia, che dall'oriente ha per confine il fiume Silari, dall'occaso il Garigliano, già detto Liri, da settentrione il Monte Appennino, e da mezzogiorno il mar Tirreno, acquistò non meno questo nome, che sì ampia estensione, ed oggi infra l'altre tiene nel Regno il primo luogo, non meno per le tante città che l'adornano, e per l'ubertà ed abbondanza de' suoi campi, quanto per Napoli capo già e metropoli del Regno. Ne' tempi, ne' quali siamo di Federico II questa provincia era anche per una annoverata, detta Terra Laboris, come si legge presso Riccardo di S. Germano; e ne' tempi de' Re così normanni, come svevi fu governata dal suo Giustiziero che risedeva ora in Capua, ora in Napoli, ora in altre città di quella, presso di cui erano i Giudici, e gli altri Ufficiali di Giustizia coll'Avvocato fiscale. Egli amministrava l'intera provincia, ancorchè ciascuna delle città avesse suoi particolari Capitani, da cui immediatamente eran rette, dalle determinazioni dei quali per via d'appellazione si ricorreva al Giustiziero della provincia. Anche Napoli, non dico Pozzuoli, e l'altre città, ebbe in questi tempi il suo Capitano, il quale co' suoi Giudici amministrava giustizia in Napoli, e suoi borghi[405]. E poichè ne' tempi di Federico cominciava ad ingrandirsi, volle questo Imperadore, che a pari di Capua, e di Messina, il suo Giustiziero, o sia Capitano potesse presso di se tener tre Giudici, e più Notai; ciò che non era permesso all'altre città minori. E narrasi, che Giudice appresso questo Capitano nell'anno 1269 fosse stato Marino di Caramanico valente Dottore di que' tempi[406].

§. II. Principato citra. §. III. Principato ultra.

L'altra provincia ovvero Giustizierato fu detta, ed ancora oggi ritiene il nome di Principato. Donde prendesse tal nome è assai chiaro; ed in ciò tutti i Scrittori concordano. Arechi quando, come si è narrato nel sesto libro di quest'Istoria, da Duca ch'era di Benevento, volle incoronarsi Principe, fece, che quello che prima era detto Ducato di Benevento prendesse nome di Principato; ed abbracciando allora il Ducato di Benevento, prima della divisione fatta da Radelchi con Siconolfo, anche Salerno, fatta che fu tal divisione, sursero due Principati, e quindi avvenne, che il nome di Principato convenisse ad ambedue, e questa provincia abbracciasse tante immense e spaziose regioni; in maniera che da poi per la sua estensione bisognò dividerla in due; onde surse il nome di Principato citra (l'Appenino) detta ancora Picentina, con parte della Lucania; e Principato ultra (l'Appennino) ovvero il Sannio degl'Irpini.

Il Principato citra, che abbraccia la regione, che fu anticamente abitata da' Picentini, e parte da' Lucani, si divide da Terra di Lavoro col fiume Sarno dall'occaso: da settentrione lo divide dagl'Irpini l'Appennino: dall'oriente il fiume Silario lo divide con la Basilicata; e da mezzogiorno ha per termine il Mar Tirreno, e tiene Salerno per suo capo e metropoli.

Il Principato ultra è quella provincia, che sola delle altre del Regno si allontana dal mare, essendo posta fra' monti nelle viscere dell'Appennino. Ella è nel capo del Sannio, ove furono anticamente gl'Irpini. Si divide dal Principato citra co' gioghi dell'Appennino verso mezzogiorno: da Terra di Lavoro, e Contado di Molise è partita col detto Monte Appennino sopra Nola, e con le Forche Caudine sopra Arpaja verso ponente, e col principio del Monte Matese verso settentrione, col quale ancora si divide da Capitanata verso tramontana; ma più da oriente col medesimo Appennino, col quale si parte ancora da Basilicata. Contiene una contrada detta Valle Beneventana, che fu prima parte principale del Sannio; ed avea prima per metropoli la città di Benevento: ma da poi che quella passò sotto il dominio della Chiesa di Roma, ebbe altre città per sede de' suoi Presidi.

Quindi avvenne, che i Normanni succeduti a' Longobardi nomassero questa provincia col nome di Principato; e l'Abate della Noce[407], trascrivendo nelle sue note alla Cronaca Cassinense le parole del privilegio conceduto da Niccolò II R. P. all'Abate Desiderio, facendolo suo Vicario sopra i monasterj e Monaci di queste nostre province, tra l'altre, novera questa col nome di Principato, come sono le parole del Privilegio: per totam Campaniam, Principatu quoque, et Apuliam, atque Calabriam etc. E Lione Ostiense[408], che scrisse quella Cronaca poco da poi della morte dell'Abate Desiderio; e poi Papa, detto Vittore III pur disse per totam Campaniam, et Principatum, Apuliam quoque, atque Calabriam, etc.

Ne' tempi del nostro Federico II, secondo che Riccardo di S. Germano, parlando delle Corti generali instituite da Federico nel Regno, rapporta, perchè questa provincia non fosse ancor divisa in due, come fu fatto da poi, perchè statuendo Salerno per città, ove dovea tenersi la general Corte, e dove doveano ricorrere le altre province, dice: In Principatu, Terra Laboris, et Comitatu Molisii usque Soram, apud Salernum.

§. IV. Basilicata.

Siegue, secondo quest'ordine, la Basilicata, che occupa molta parte dell'antica Lucania, e parte della M. Grecia. Vien circondata in parte anch'ella dall'Appennino, col quale si divide da Principato ultra, e col medesimo da Principato citra. In questa provincia si divide l'Appennino in due capi principali intorno a Venosa: con quel che va a Brindisi è partita Basilicata da Terra di Bari sino ad Altamura: e con l'altro da Calabria citra infin alla metà del fiume Crati, ove entra Corianello; distendesi un poco al mare, e tocca Terra d'Otranto nel golfo di Taranto nel lido del suo mare piccolo. Confina ancora per breve spazio con Capitanata, dalla quale è divisa con una parte del fiume Ofanto fra Ascoli di Puglia, e Lavello. Ebbe questa provincia Pesto, Venosa, Acerenza, Melfi, ed altre chiare città: ora ha Matera, Potenza, Lavello, ed altre città minori, e delle antiche appena serba vestigio.

Donde questa provincia pigliasse il nome di Basilicata, ed in qual tempo, non ben seppero i nostri Scrittori rintracciarlo: ma sarà molto facile rinvenirlo, se si porrà mente a ciò che nel fine del decimo secolo avvenne a queste nostre province, per le tante spedizioni, e conquiste fattevi da' Greci, i quali siccome per un nuovo Magistrato introdotto da essi in Puglia detto Catapano, diedero nome ad una gran parte della medesima, detta ora perciò Capitanata: così ne' tempi di Basilio Imperador greco, o di qualche suo Capitano, ch'ebbe il medesimo nome, acquistò questa parte di Lucania nome di Basilicata; essendosi veduto nel libro ottavo di quest'Istoria, che nell'anno 989 mentre in Oriente imperava Basilio con Costantino suo fratello, i Greci per la famosa vittoria, che riportarono sopra Ottone II Imperador d'Occidente, non solo dominarono per lungo tempo, insino che da' Normanni non ne fossero discacciati, tutta la Puglia e la Calabria; ma anche questa parte della Lucania fu da Basilio occupata, la quale fu amministrata dagli Ufficiali greci da lui mandati, alcuni de' quali, come è manifesto nella Cronaca di Lupo Protospata, anche tennero di Basilio il nome; onde questa provincia Basilicata fu detta. Giovanni Pontano anche credette, che in questi tempi de' Greci acquistasse questa provincia tal nome; ma donde così si denominasse, soggiunse, jure anceps est, ac dubium[409].

Ne' tempi di Federico II fu da Riccardo da S. Germano la Basilicata anche annoverata per una delle province del Regno, dicendo questo Scrittore, che Federico avea designata la città di Gravina per reggervi la Corte generale, ove doveano ricorrere queste tre province, cioè Apulia, Capitaniata, et Basilicata apud Gravinam.

§. V. Calabria citra. §. VI. Calabria ultra.

La Calabria secondo la denominazione, che prese dagli ultimi Imperadori greci, ne' tempi di Federico era divisa in due; non già come ora diciamo in Calabria citra, ed ultra, ma in Terra Jordana, e Val di Crati, come rapporta Riccardo di S. Germano, in Calabria, Terra Jordane, et Vallis Gratae apud Cusentiam: e questi nomi anche s'osservano nelle scritture, non solo nel Regno degli Angioini, ma anche degli Aragonesi; ed in tempo del Re Alfonso I il Tutino[410] fa vedere, che valevansi di questi medesimi nomi; e si dissero così dal fiume Crati, che irriga quella Valle, come rapporta il Pellegrino[411]; e oggi Terra Jordana diciamo la provincia di Calabria ultra, che riconosce Catanzaro per capo; e Val di Crati Calabria citra, che ha ora Cosenza per sede de' Presidi. Ambedue queste province se ne vanno dall'una e dall'altra parte dell'Appennino al Jonio ed al Tirreno. Si dividono fra loro ne' Mediterranei sopra Cosenza, andando per dritta riga all'uno ed all'altro mare, nel Jonio presso a Strongoli, e nel Tirreno al golfo Ipponiate. La Calabria citra include parte della M. Grecia, termina fra terra con Basilicata e con Principato citra, e nel monte Appennino da Ponente, e si distende all'uno, e all'altro mare; finchè dalla parte, che mira a Levante, si giunge con Calabria ultra. La Calabria ultra (ove furono i Bruzj) ha questi soli confini, dalla parte che ella riguarda Tramontana; ma nel rimanente è per tutto circondata da' mari; da levante, dal Jonio: da mezzogiorno, dal Siciliano: e da ponente, dal Tirreno.

§. VII. Terra di Bari. §. VIII. Terra di Otranto.

La Puglia (secondo che pure i Greci la denominarono) la quale abbracciava ancora parte dell'antica Calabria, ora detta Terra d'Otranto, ne' tempi di Federico non era divisa, com'oggi, in due province, cioè in Terra di Bari, e Terra d'Otranto; e siccome si reputava per una provincia, così anche si denotava coll'istesso nome d' Apulia, come la chiama Riccardo. Egli è però certo, siccome anche rapporta il Pontano[412], che questi nomi di Terra di Bari, e di Terra d'Otranto, nacquero ne' medesimi tempi, ne' quali Basilicata, e Capitanata acquistarono tali nomi: e presso Erchemperto[413] ancor leggiamo: Barium Tellus, e nei diplomi a' tempi de' Normanni anche si legge la provincia di Terra d'Otranto. L'una di queste province fu tale appellata da Bari sua antica ed illustre metropoli, e che fu capo di quella regione. L'altra da Otranto città pur ella chiara e rinomata ne' Salentini.

Terra di Bari, già detta Puglia Peucezia, dalla parte, ch'ella è volta a ponente riceve il suo principio dal fiume Ofanto, e distendendosi per lungo, si contiene fra il lido del mar Adriatico, ch'ella ha da tramontana, e l'Appennino, che da mezzogiorno la divide da Basilicata, ov'ella termina verso levante. Si divide da Terra d'Otranto nel territorio d'Ostuni fra terra, e tra Monopoli e Brindisi nel lido del mare a Villanova, già porto d'Ostuni.

Terra d'Otranto quivi riceve il suo principio, e fu inclusa ancor'ella dagli antichi fra la Puglia, e chiamata ancora Calabria, Japigia e Salentina. Questa provincia forma quell'estremo capo di Terra, ch'è uno de' triangoli d'Italia, ove ha per fine l'uno di que' due principali capi, ne' quali si parte l'Appennino. Finisce ancora ivi il mare adriatico, e si mesce col Jonio; ed è toccata solamente fra terra da ponente con Terra di Bari, e con Basilicata. La circondano poi da Settentrione l'Adriatico, da Levante il fine di questo mare, e 'l principio del Jonio, e da mezzogiorno il golfo di Taranto nel mare Jonio. Ha nelle spiagge marittime Brindisi, Otranto, e Gallipoli e Taranto già fortissime città, e comodissime di Porto.

§. IX. Capitanata.

Quella provincia, che ora diciamo di Capitanata, e che fu anticamente chiamata Puglia Daunia, e che abbracciava la Japigia nel Monte Gargano, acquistò tal nome da' Greci ne' tempi del maggior loro vigore, e quando in Bari tenevano la loro principal sede. Essi, che pensavano mantener le conquiste novellamente fatte, credendo, che col timore potessero mantener in fede que' Popoli, vi mandarono un nuovo Governadore per tener in freno la Puglia, chiamandolo non più Straticò, come gli altri di prima, ma con nome greco Catapano, cioè che ogni cosa potesse. Fra i Catapani, de' quali Lupo Protospata tessè lungo catalogo fuvvi nell'anno 1018 Basilio Bugiano, che da Guglielmo Puliese[414] vien chiamato Bagiano. Questi fu, che per lasciar di se nome in Italia, tolta dal rimanente della Puglia una parte verso il Principato di Benevento, e fattane una nuova provincia, vi fabbricò ancora nuove terre e città, una delle quali nomò Troja per rinovar la memoria dell'antica: l'altre Dragonaria, Firenzuola, ed altre terre: indi la provincia, siccome altrove fu narrato, acquistò nome di Capitanata, il qual ancor oggi ritiene.

Questa provincia è divisa dal Contado di Molise col Monte Matese, e col fiume Fortore, nella foce del quale si tocca con Abruzzo citra, lasciandosi per se Termoli; e girando il monte Gargano, da Siponto pel lido del mare viene insino al fiume dell'Ofanto, col corso del quale si parte da Terra di Bari, lasciandole quelle ville, che sono nel territorio di Barletta, che arriva fin presso al lago di Versentino; col detto fiume Ofanto nel suo principio si divide da Basilicata, e coll'Appennino in Crepacuore, ed in Sferracavalli ha i suoi confini con Principato ultra.

Ne' tempi di Federico fu pure reputata una provincia; onde Riccardo la novera coll'altre del Reame col nome di Capitaniata. Egli è però vero, che ancorchè queste province di Puglia ne' tempi di Federico fossero divise, perchè tutte tre, cioè Capitanata, Terra di Bari e Terra d'Otranto, erano comprese nella Puglia, presa nel più ampio suo significato, un solo Giustiziero le governava, detto perciò il Giustiziero di Puglia.

§. X. Contado di Molise.

Il Contado di Molise, che succedette al Castaldato di Bojano, diede nome ad un'altra picciola provincia, che ancor oggi il ritiene[415]; e 'l prese da Molise città antica del Sannio, non altramente che Isernia, Bojano, ed altri luoghi, che ne' tempi de' Longobardi componevano quel Contado, il qual diede anche nome alla famiglia Molise, oggi estinta. Anche ne' tempi di Federico fu questo Contado distinto dall'altre province, e Riccardo infra l'altre la ripone, col nome istesso di Comitatus Molisii: ond'è che sia stata riputata sempre, e sia ancor oggi la più ristretta provincia di tutte l'altre, nè ritenga sedi di Presidi, ma il di lei governo sia commesso a quel di Capitanata, colla quale si congiunge.

§. XI. Abruzzo ultra. §. XII. Abruzzo citra.

Il Giustizierato d'Abruzzo ne' tempi di Federico II era riputato come una sola provincia, e quest'Imperadore costituì Sulmona per doversi ivi reggere la Corte generale, come narra Riccardo: in Justitiariatu Abrutii, apud Sulmonam. Alfonso I d'Aragona fu quegli, che per togliere i litigi, che spesso sorgevano tra i Questori delle gabelle, la divise in due parti. Fu un tempo questa regione assai chiara, e rinomata per tanti valorosi Popoli, che l'abitarono, i Preguntini, i Marrucini, Amiternini, Marsi, Vestini, Irpini, ed altri. I Longobardi vi costituirono un Castaldato, che nomarono promiscuamente ora d'Abruzzo, ora di Teramo, come si legge presso Pietro Diacono[416]: Castaldatus Teramnensis; poichè Teramo, detta dagli antichi Interamnia, fu la città metropoli de' Preguntini. Donde questa provincia prendesse il nome d'Abruzzo, ancorchè se le assignassero più derivazioni, chi dall'asprezza de' monti, altri dall'abbondanza de' cignali; il vero è ch'ella tale si nomasse da Teramo, che fu chiamata anche Abruzzo per esser metropoli de' Preguntini, dai Latini detti Praegutii, onde con corrotto vocabolo furon da poi chiamati Abrutii[417].

Ebbe quella regione, che ora diciamo Abruzzo ultra (cioè di là dal fiume Pescara) oltre Teramo, Amiterno (dalle ruine della quale è surta l' Aquila, sede oggi de' Presidi) Forcone, Valeria, ed altre chiare città ne' Marsi. Ebbe nella regione de' Maruccini e Ferentani, oggi chiamata Abruzzo citra (cioè di qua dal fiume Pescara) Chieti, detta da Strabone Theate, che fu capo e metropoli de' Marrucini, e che oggi ancor è sede de' Presidi, Ferentana, Orione, Lanciano, Sulmona, Aterno, ed altre insigni città, delle quali alcune ancor oggi sono in piedi. Per queste province d'Abruzzo si divide il Regno dallo Stato della Chiesa romana suo confine mediterraneo, e quasi tutti i confini onde da quello si parte, si fanno con queste province, e con un poco di quella di Terra di Lavoro.

Ecco come a' tempi del nostro Federico erano disposte queste province, che oggi compongono il nostro Reame, chiamate Giustizierati, da Giustizieri, a' quali era commesso il di lor governo. Secondo il conto, che ne fa Riccardo di S. Germano Scrittor di que' tempi, non eran più che diece. Calabria, divisa in due, cioè Terra Jordana, e Val di Crati. Puglia divisa in due, Terra di Otranto, e Terra di Bari. Capitanata. Basilicata. Principato, diviso in due. Terra di Lavoro. Contado di Molise. Giustizierato d'Abruzzo, poi diviso in due.

Non ad ogn'una era destinato il Giustiziero, ma sovente un solo governava più province, come leggiamo di Giacomo Guarna Conte di Marsico, che fu Giustiziero di Puglia e Terra di Lavoro[418], e di Tommaso d'Aquino, che fu Giustiziero di Puglia, sotto la cui amministrazione era tutta la Puglia, che oggi è divisa in tre province; ed anche a' nostri tempi si vede, che il Preside di Capitanata, che tiene la sua sede a Lucera, governa anche la provincia di Contado di Molise. Alle volte due Giustizieri amministravano una provincia, siccome nell'anno 1197. Roberto di Venosa, e Giovanni di Frassineto furono Giustizieri di Terra di Bari; e nell'anno 1225 Pietro d'Eboli, e Niccolò Cicala di Terra di Lavoro[419]. Nel Regno degli Angioini un solo Giustiziero si mandava a più d'una provincia; e così ancora si praticò sotto gli Aragonesi; e fino a' tempi del Re Filippo II per quello, che rapporta Alessandro d'Andrea[420], il quale scrisse, e fu nella guerra, che questo Re ebbe col Pontefice Paolo IV, non vi erano che sei Governadori, chiamati prima Giustizieri, e poi volgarmente Vicerè, e congiungendosi intorno al governo per conto della giustizia alcune province insieme, siccome ne' due Abruzzi vi era allora un sol Preside, nel Contado di Molise, e Capitanata un altro, siccome è ancor oggi. Principato ultra ne avea un altro. Principato citra e Basilicata un altro. Uno terra di Bari, e terra d'Otranto, ed un altro le due Calabrie. Ma da poi al numero de' Ministri dell'entrate regali, chiamati Tesorieri, ovvero Percettori, a comodo de' quali, e per cagion di più diligente esazione fu fatta la divisione, fu pareggiato quello de' Governadori, onde ora, toltone il Contado di Molise, ciascuna provincia tiene il suo proprio e particolar Preside.

CAPITOLO VI. Corti generali, e Fiere istituite da Federico in queste nostre province: suoi figliuoli, che rimasero; e suo testamento.

Tutti questi Giustizieri eran subordinati al Gran Giustiziero del Regno, che in tempo de' Normanni per aver que' Re collocata la loro sede regia in Palermo, quivi risedeva appresso il Re nella sua Gran Corte; ma Federico, che non seppe star fermo in alcun luogo ma per accorrere a' bisogni scorreva sempre per tutte le province de' suoi Reami, presso di lui in ogni città ove si fermava, era la sua Gran Corte, ed il Gran Giustiziero ed i Giudici, che la componevano. E questo savio Principe per meglio riordinare queste province, come amante della giustizia, avendo nell'anno 1233 convocato in Messina un general Parlamento, statuì, che due volte l'anno in certe province del nostro Regno si dovesse tener Corte generale[421], ove qualunque persona, che si sentisse gravata, o mal soddisfatta de' Giustizieri, o di qualunque altro suo Ufficiale esponesse le sue querele ad un suo Nunzio, quivi a quest'effetto da lui mandato, il quale dovesse le querele di tutti porre in iscrittura, e questa ben suggellata con suo suggello, e di quattro altre persone ecclesiastiche di provata fama e probità, dovea presentarla alla sua imperial Corte.

Le querele poi date contro coloro, che non erano Ufficiali, doveano i Giustizieri delle regioni deciderle. Doveano intervenire in queste Corti generali quattro persone di ciascuna città di quella provincia delle migliori, di buona fede ed opinione, come anche di ciascuna terra o castello. E quando non gli scusasse qualche giusto impedimento, stabilì ancora, che vi dovessero assistere i Prelati di que' luoghi, i quali o per essi, quando v'intervenivano, o per altri, quando non erano presenti, dovessero denunciare se nella loro provincia vi erano Patareni, o altri infettati d'eretica pravità, affinchè fossero esterminati e severamente da lui puniti. Doveano queste Corti durare otto dì, e quando occorreva di doversi trattar negozio di momento, poteva prorogarsi il tempo per quindici giorni.

I luoghi, ove doveano celebrarsi, erano in Sicilia, Plazza. In Calabria, Cosenza, ove doveano comparire le due province, cioè Terra Jordana e Valle di Grati, oggi dette Calabria ultra, e Calabria citra. Nella città di Gravina convenir doveano le province di Puglia, Capitanata e Basilicata. Nella città di Salerno, ambedue le province Principato, Terra di Lavoro e Contado di Molise, insino a Sora. E nella città di Sulmona convenir doveano le due province d'Abruzzo.

Il tempo nel quale doveano congregarsi i Ministri per tener queste Corti, era il primo di maggio, ed il primo di novembre. Ed in esse doveano assistere in presenza del Legato, o Nunzio dell'Imperadore, il Maestro Giustiziero, i Giustizieri delle province, il Maestro Camerario, i Camerari, i Baglivi e gli altri Ufficiali della Corte ed i Prelati, i Conti, i Baroni, e' cittadini di que' luoghi e di quella provincia, che secondo erasi stabilito, doveano convenire a quella città designata per la Corte.

In questo medesimo general Parlamento tenuto in Messina, per provedere all'abbondanza di questo nostro Reame, stabilì in sette parti di quello le Fiere generali[422], ove dovessero i mercatanti portar le loro merci, e sin tanto che quelle durassero, non fosse lor permesso portarle altrove. Le prime le stabilì in Sulmona, e volle che durassero, dal dì di S. Giorgio insino alla festa dell'Invenzione di S. Arcangelo. Le seconde in Capua, e volle che durassero, da' 22 di maggio, insino alli 8 di giugno. Le terze in Lucera e duravano, dal dì del B. Giovanni Papa per otto giorni. Le quarte in Bari e duravano dal dì di S. Maria Maddalena, insino alla festa di S. Lorenzo. Le quinte in Taranto, e duravano, dal dì di S. Bartolommeo, insino alla festività della Nascita della Beata Vergine. Le seste in Cosenza, e duravano dalla festa di S. Matteo, insino a quella di S. Dionigi. Le settime in Reggio, e duravano, dal dì di S. Luca, insino al primo di novembre, giorno di tutti i Santi.

Ecco come questo saviissimo Principe pose in miglior ordine lo stato di queste nostre province, alla di cui providenza e saviezza molto debbono; e se non fosse stato nel meglio de' suoi progressi tolto a' mortali, di molte altre provide leggi, e di molti altri pregi, ed utilità avrebbele fornite; ma la sua morte pur troppo immatura, troncò il corso della sua felicità, ed in istato pur troppo lagrimevole da poi si videro, quando per l'ambizione di dominare furono da più invasori combattute e perturbate, e miseramente afflitte, insino che estinta la regal stirpe degli Svevi, ad altra Gente non fossero trasferite; ciò che sarà il soggetto del libro seguente.

Lasciò Federico di varie mogli, e d'alcune concubine, molti figliuoli. Ebbe egli, secondo scrive Giovanni Cuspiniano, sei mogli. La I fu Costanza figliuola del Re Alfonso II d'Aragona e della Regina Sancia di Castiglia; dalla quale generò Errico Re di Alemagna, che morì in prigione, e Giordano, che morì fanciullo. La II fu Jole figliuola di Giovanni di Brenna, Re di Gerusalemme, la quale gli recò in dote le ragioni di quel Reame, pervenute a Jole per cagione della madre Maria, e con lei generò Corrado Re de' Romani. La III fu Agnesa figliuola d'Ottone Duca di Moravia, la quale da lui ripudiata, si maritò ad Udelrico Duca di Carintia. La IV fu Rutina figliuola d'Ottone Conte di Wolffenshausen in Baviera. La V fu Isabella figliuola di Lodovico Duca di Baviera; e di niuna di queste tre generò prole alcuna.

La VI fu pure nomata Isabella, ovvero Elisabetta nata di Giovanni Re d'Inghilterra, sorella del Principe di Galles, poi Re d'Inghilterra e detto Errico III. E notasi negli Atti pubblici di quel Regno, fatti ultimamente stampare dalla Regina Anna, che Federico per trattar questo matrimonio inviò in Inghilterra Pietro delle Vigne; dal qual matrimonio essendone nato Errico, che poi si credette essere stato fatto avvelenar da Corrado, ne nacquero que' disturbi tra il Re d'Inghilterra zio di Errico con Corrado che si noteranno appresso; dalla quale Isabella ebbe anche alcune figliuole femmine oltre Errico; onde mal credette Cuspiniano, che scrisse non esservi nato alcun maschio di questo matrimonio; poichè i più appurati Autori, e fra essi Girolamo Zurita, con più verità dicono, che di lei gli nacque Errico, a cui lasciò il padre il Reame di Gerusalemme, e centomila oncie d'oro; e fu fatto poi avvelenar da Corrado, siccome diremo nel seguente libro. Delle figliuole femmine la primiera nominata Agnesa si maritò con Corrado Langravio di Turingia, e la seconda detta Costanza con Lodovico Langravio d'Assia.

Ebbe anche di Beatrice Principessa d'Antiochia (la quale egli, come dice lo stesso Zurita, tolse illegittimamente per moglie) Federico Principe d'Antiochia, e Conte d'Albi, di Celano, e di Loreto, dal padre intitolato Re di Toscana, secondo che alcuni Autori scrivono: da costui nacque Corrado d'Antiochia, che ammogliatosi con Beatrice figliuola del Conte Galvano Lancia generò Federico, Errico e Galvano d'Antiochia; il cui legnaggio durò alcun tempo chiarissimo in Sicilia.

Generò ancora l'Imperador Federico dalla sorella di Goffredo Maletta Conte del Minio e di Trivento, Signor del Monte S. Angelo, e Gran Camerlengo del Regno, Manfredi Principe di Taranto, e poi Re di Napoli e di Sicilia, e Costanza, che si maritò in vita del padre con Carlo Gio. Vatasio Imperador di Costantinopoli scismatico e nemico della Chiesa romana, siccome appare nel reale Archivio: ciocchè gli rimproverò Innocenzio IV, quando lo privò dell'Imperio; e dal testamento di Federico si raccoglie, che Manfredi da Federico fosse stato reputato, come nato da legittimo matrimonio, giacchè, non altrimenti che Errico, vien invitato Manfredi alla successione de' suoi Stati, in mancanza de' figliuoli di Corrado, e di Errico, e così credettero alcuni Scrittori, che reputarono Manfredi figliuolo legittimo, non bastardo di Federico; ed in ciò ha preso errore Matteo Paris, mentre nella sua istoria crede, che Manfredi sia nato di Bianca Lanza, e che con lei l'Imperadore avesse celebrato il matrimonio, stando infermo poco prima di morire. E dalla detta Bianca Lanza Marchesana, come alcuni dicono, di Monferrato, e da altre donne, gli nacquero Errico Re di Sardegna, nominato comunalmente Enzio, che morì prigioniero in Bologna, ed alcune altre figliuole femmine, delle quali Selvaggia fu moglie d'Ezzelino Tiranno di Padova, un'altra di Tommaso d'Aquino Conte dell'Acerra, ed un'altra del Conte Caserta.

Federico prima di morire fece il suo testamento, nel quale lasciò erede dell'Imperio, e di tutti gli altri suoi Stati, e particolarmente del Reame di Puglia, e di Sicilia Corrado Re de' Romani suo figliuolo; e questi mancando senza figliuoli ordinò, che dovesse succedere Errico altro suo figliuolo, e questi pure morendo senza figliuoli, che gli dovesse succedere Manfredi Principe di Taranto, parimente suo figliuolo; e dimorando Corrado in Alemagna, o in qualsivoglia altro luogo, statuì per suo Balio in Italia, e particolarmente in Puglia ed in Sicilia, Manfredi con amplissima autorità. Lasciò al detto Manfredi il Principato di Taranto con li Contadi di Montescaglioso, di Tricarico e di Gravina, ed il Contado di Monte S. Angelo, con il titolo ed onor suo, che gli aveva in vita donati, con tutte le città, terre e castella, a' detti luoghi appartenenti, con riconoscere Corrado come Sovrano Signore.

Lasciò a Federico suo nipote il Ducato d'Austria, e di Stiria, con condizione, che dovesse egli riconoscerlo da Corrado, e di più diecemila once d'oro.

(Chi fosse questo Federico suo nipote, ce lo additta Matteo Paris ad An. 1251 pag. 102 il quale raccorciando il Testamento di Federico, scrisse: Item Nepoti meo, (scilicet Filii mei Henrici) relinquo Ducatum Austriae, et decem millia unciarum auri ).

Lasciò a Errico per suo figliuolo il Regno di Gerusalemme, o Arelatense ad arbitrio del Re Corrado (non com'altri credettero il Regno di Sicilia, di cui insieme con quello di Puglia ne fu Corrado erede; onde mal fece d'Inveges a dividere da ora questo Regno in due, e quel ch'è peggio, chiamare la Puglia Regno di Napoli) e centomila once d'oro; ed altre centomila ne lasciò da spendersi in sussidio di Terra Santa per la salute della sua anima, secondo che avesse ordinato il medesimo Corrado, ed altri nobili Crocesegnati.

Ordinò che si restituissero tutti i beni tolti a' Templarj, ed a tutte l'altre Chiese e Religiosi, de' quali avessero da godere la solita libertà e franchezza che lor si dovea.

Lasciò ordinato, che i suoi vassalli del Reame di Napoli e di Sicilia fossero liberi ed esenti da tutte le generali Collette, secondo che erano a tempo del buon Re Guglielmo; e che tutti i Conti, Cavalieri, Baroni e Feudatarj de' suoi Regni godessero delle loro giurisdizioni, privilegi e franchezza, come goder soleano al tempo del detto Re Guglielmo.

Ordinò, che si rifacessero i danni fatti da' suoi Ministri alle Chiese di Lucera e di Sora, ed a ciascun'altra, che nell'istessa guisa fosse stata danneggiata.

Ordinò, che si ponessero in libertà tutti i prigioni, fuorchè quelli dell'Imperio e del Reame, ch'eran sostenuti per la congiura fatta contro di lui.

Ordinò parimente, che si soddisfacessero tutti coloro, che doveano aver da lui alcuna somma di moneta, e che si restituisse alla Santa Romana Chiesa tutto ciò che s'apparteneva alle ragioni dell'Imperio.

Ordinò, che il suo corpo si dovesse trasportare in Sicilia, e sepellire nel Duomo di Palermo (siccome da Manfredi suo figliuolo fu eseguito) ove eran parimente sepolti il Padre Errico, e la madre Costanza, alla qual Chiesa lasciò cinquecento once d'oro da spendersi in suo servigio per l'anima del padre, e della madre sua, secondo il parere di Bernardo Arcivescovo di Palermo, con alcune altre cose, che nel suo testamento si leggono, fatte non già come eretico o cattivo uomo, ma come buono e fedel Cristiano: il qual testamento, e per queste e per l'altre cose, che contiene degne di memoria abbiam voluto far qui imprimere, essendo l'istesso, che si vedea gli anni addietro nel regale Archivio, siccome scrive Matteo d'Afflitto nelle Costituzioni del Regno, e se ne fa menzione dal Bzovio negli Annali Ecclesiastici, e da altri Scrittori regnicoli, e che da Capece-Latro fu tolto da un original Cronaca scritta da antichissimo tempo degli avvenimenti dell'Imperador Federico, e di alcuni altri de' seguenti Re, che si conservava in suo potere: e si vede esser lo stesso, del quale han fatta menzione il Costanzo, il Summonte, il Tutini[423], e gli altri Autori, che ne han favellato.

(Questo Testamento di Federico è stato anche impresso da Lunig[424] il qual dice averlo trascritto ex Editione P. Octavii Cajetani in sua Isagoge ad Historiam Sacram Siculam; collatum et suppletum ex vetusto Codice Manuscripto Bibliothecae Marchionis Jurattanae.)

Testamento di Federico II.

In Nomine Dei aeterni, et Salvatoris nostri Jesu Christi. Anno ab Incarnatione ejus millesimo ducentesimo quinquagesimo primo, et primo anno Regni Domini nostri Corradi gloriosissimi Romanorum, Hierusalem, Siciliae, et Italiae Regis, mense Januarii, 9 Indictione. Dum in Archiepiscopali Salernitano Palatio, in praesentia Domini Caesaris, Dei gratia Venerabilis Salernitani Archiepiscopi essemus nos Philippus, Matthaeus, Romoaldus, et Philippus Judices, praesentibus Matthaeo de Vallone Straticoto Salerni Philippo Greco, et Gulielmo Curiali Notariis ad hoc specialiter rogatis: Illustris Vir Dominus Bertoldus Marchio de Hohenburch Dei, et Domini nostri Regis Corradi gratia, Dominus Montis fortis, et Argentii, Castri S. Severini, et honoris ejus, ostendit, et praesentavit praedicto Domino Archiepiscopo testamentum, sive ultimam voluntatem quondam Domini nostri Serenissimi Imperatoris Friderici II cerea, et pendente Bulla ejusdem Domini Imperatoris insignitum, quod vidimus, et legimus, et omni vitio, et suspicione carebat, et erat continentiae talis.

In Nomine Dei aeterni, et Salvatoris nostri Jesu Christi, Anno ab Incarnatione ejus millesimo ducentesimo quinquagesimo, die Sabati, decimoseptimo Decembris, nonae Indictionis. Primi parentis incauta transgressio sic posteris legem conditionis indixit, ut eam nec diluvii proclivis ad poenam effugio effrenis adduceret, nec Baptismatis tam celebris, tam salubris unda lineret, quin fatalitatis cu..... mortalibus senescentis aevi.... lascivia transgressionis in poenam culpae transfuga tanquam cicatrix ex vulnere remaneret. Nos igitur Fridericus II Divina favente Clementia Romanorum Imperator semper Augustus, Hierusalem, et Siciliae Rex, memor conditionis humanae, quam semper comitatur humana fragilitas, dum vitae nobis instaret terminus, loquelae, et memoriae in nobis integritate vigentibus, aegri corpore, sani mente, sic animae nostrae consulendum providimus, sic de Imperio, et Regnis nostris duximus disponendum, ut rebus humanis assumpti videamur, et filiis nostris, quibus nos Divina Clementia faecundavit, quos praesenti dispositione sub poena benedictionis nostrae volumus esse contentos, ambitione sublata, omnis materia scandali sopiatur. Statuimus itaque Conradum Romanorum in Regem electum, et Regni Hierosolymitani haeredem dilectum filium nostrum, nobis haeredem in Imperio, et in omnibus aliis... et quoquo modo acquisitis, et specialiter in Regno nostro Siciliae: quem si decedere contingeret sine liberis, succedat ei Henricus filius noster, quo defuncto sine liberis succedat ei Manfredus filius noster: Corrado vero morante in Alemannia, vel alibi extra Regnum, statuimus praedictum Manfredum Balium dicti Corradi in Italia, et specialiter in Regno Siciliae, dantes ei plenariam potestatem omnia faciendi, quae persona nostra facere posset, si viveremus, videlicet, in concedendis Terris, Castris, et Villis, parentelis, et dignitatibus, beneficiis, et omnibus aliis juxta dispositionem suam, praeter antiqua demania Regni Siciliae, quod Corradus, et Henricus praedicti filii nostri, et eorum haeredes omnia, quae ipse fecerit firma, et rata teneant, et observent. Item concedimus, et confirmamus dicto Manfredo filio Principatum Tarenti, videlicet, a Portu Rositi, usque ad ortum fluminis Brandani, cum Comitatibus Montis Caveosi, Tricarici, et Gravinae, prout Comitatus ipse protenditur, a maritima Terrae Bari usque Palinurum, cum Terris omnibus a Palinuro per totam maritimam usque ad dictum Portum Rositi, cum Comitatibus, Castris, et Villis infra contentis cum omnibus Justitiis, pertinentiis, et rationibus omnibus tam ipsius Principatus, quam Comitatuum praedictorum. Concedimus etiam eidem Comitatum Montis S. Angeli, cum titulo, et honore suo, et omnibus Civitatibus, Castris, Villis, Terris, Pertinentiis, Justitiis, et rationibus eidem Comitatui pertinentibus, videlicet, usque de demanio in demanium, et quae de servitio in servitium. Concedimus, et confirmamus eidem quidquid sibi in Imperio etiam a nostra majestate concessum, ita tamen quod praedicta omnia a praefato Corrado teneat, et recognoscat. Item statuimus, quod Federicus nepos noster habeat Ducatus Austriae, et Stiriae, quos a praefato Corrado teneat, et recognoscat, cui Federico judicamus duri pro expensis suis decem millia unciarum auri. Item statuimus, ut Henricus filius noster habeat Regnum Arelatense, vel Regnum Hierosolymitanum, quorum alterum dictus Corradus praefatum Henricum habere voluerit, cui Henrico judicamus dari centum millia unciarum auri pro expensis. Item statuimus, ut centum millia unciarum auri expendantur pro salute animae nostrae in subsidium Terrae Sanctae secundum ordinationem dicti Corradi, et aliorum nobilium Crucesignatorum. Item statuimus, quod omnia bona Militiae Domus Templi, quae Curia nostra tenet restituantur eidem, ea videlicet, quae de Jure debent habere. Item statuimus, ut Ecclesiae, et Domibus Religiosis restituantur jura earum, et gaudeant solita libertate. Item statuimus, quod homines Regni nostri sint liberi, et exempti ab omnibus generalibus collectis, sicut consueverunt esse tempore Regis Gulielmi II Consobrini nostri. Item statuimus, quod Comites, Barone, et Milites, et alii Feudatarii Regni gaudeant juribus, et rationibus, quae consueverunt, habere praedicti Regis Gulielmi in collectis, et aliis. Item statuimus, ut Ecclesiae Luceriae, Sorae, et si quae aliae Ecclesiae laesae sunt per Officiales nostros, reficiantur, et restituantur. Item statuimus, ut tota massaria nostra, quam habemus apud S. Nicolaum de Aufido, et omnes proventus ipsius deputentur ad reparationem, et conservationem Pontis ibi constructi, vel construendi. Item statuimus, ut omnes captivi in carcere nostro detenti liberentur, praeter illos de Imperio, et praeter illos de Regno, qui capti sunt ex proditionis nota. Item statuimus, quod praefatus Manfredus filius noster omnibus benemeritis de Familia nostra provideat vice nostra in Terris, Castris, et Villis, salvo demanio Regni nostri Siciliae, et quod Corradus, et Henricus praedicti filii nostri, et haeredes corum ratum, et firmum habeant quicquid idem Manfredus super hoc duxerit faciendum. Item volumus, et mandamus quod nullus de proditoribus Regni aliquo tempore reverti debeat in Regnum, nec alicui de eorum genere succurrere possint, imo haeredes nostri teneantur de eis vindictam sumere. Item statuimus, quod Mercatoribus creditoribus nostris debita solvantur. Item statuimus, ut Sanctae Romanae Ecclesiae Matri nostrae, et aliorum nostrorum fidelium jura restituantur, si ipsa Ecclesia restituat jura Imperii. Item statuimus, ut si de praesenti infirmitate nostra mori contigerit, in majori Ecclesia Panormitana, in qua Divi Imperatoris Henrici, et Divae Imperatricis Constantiae parentum nostrorum, memoriae recolendae tumulata sunt corpora, corpus nostrum debeat sepeliri; cui Ecclesiae dimittimus uncias auri quingentas pro salute animarum dictorum parentum nostrorum, et nostrae, per manus Berardi Venerabilis Panormitani Archiepiscopi, familiaris, et fidelis nostri, in reparatione ipsius Ecclesiae erogandas. Praedicta autem omnia, quae acta sunt in praesentia praedicti Archiepiscopi, Bertoldi Marchionis de Hohenburch dilecti consanguinei, et familiaris nostri, Riccardi Comitis Casertani dilecti generi nostri, Petri Ruffi de Calabria Marescallae nostrae Magistri, Riccardi de Monte Nigro Magnae Curiae nostrae Magistri Justitiarii, Magistri Joannis de Idrunto Notarii nostri, Fulconis Ruffi, Magistri Joannis de Procida, Magistri Roberti de Panormo Imperii, et Regni Siciliae, et Magnae Curiae nostrae Notarii, meorum fidelium, quos praesenti dispositioni nostrae mandavimus interesse, per praedictum Corradum filium, et haeredem nostrum, et alios successive sub poena benedictionis nostrae tenaciter disponimus observari, alioquin haereditate nostra non gaudeant. Ita autem universis fidelibus nostris praesentibus, et futuris sub sacramento fidelitatis, qua nobis, et haeredibus nostris tenentur, injungimus, ut praedicta omnia illibata teneant, et observent. Praesens autem testamentum nostrum, et ultimam voluntatem nostram, quam robur firmitatis volumus obtinere, per praedictum Magnificum Nicolaum de Brundusio scribi, et signo Sanctae Crucis propriae manus nostrae sigillo nostro, et praedictorum subscriptionibus jussimus communiri. Actum apud Florentinum in Capitanata, anno, mense, die, et indictione praedicta. Anno Imperii nostri XXXII. Regni Hierusalem XXVIII. et Regni Siciliae LI. Signum Sanctae Crucis propriae manus praedicti Domini Imperatoris Federici. Qui supra Berardus Panormitanus Archiepiscopus Domini Imperatoris familiaris. Ego Bertoldus Marchio de Hohenburch iis interfui, et subscripsi. Ego Riccardus Comes Casertae iis interfui, et me subscribi feci. Ego Petrus Ruffus de Calabria Imperialis Maresciallus Magister interfui his, et subscribi feci. Ego Riccardus de Monte Nigro Magnae Imperialis Curiae Magister Justitiarius. Ego Magister Robertus de Panormo, qui supra Judex. Ego Joannes de Idrunto, qui supra interfui. Ego Fulcus Ruffus de Calabria his interfui, et subscripsi. Ego Joannes de Procida Domini Imperatoris Medicus testis sum. Ego, qui supra Notarius Nicolaus de Brundusio, quia omnibus praedictis interfui, praesens testamentum propria manu subscripsi, et meo signo signavi.

Cum autem testamentum praedictum a nobis lectum fuisset, idem Dominus Archiepiscopus tunc nos rogavit, ut quia quaedam in dicto testamento continentur, quae ad utilitatem Salernitanae Ecclesiae Matris nostrae pertinere noscuntur, ipsum insinuare, seu publicare deberemus, ut ex insinuatione, seu publicatione ipsius possit inde fidelis assumi. Nos autem preces juri consentaneas admittentes ipsum testamentum totum per ordinem de verbo ad verbum nihil in eo addito, vel subtracto in hanc scripturam publicam per manum Thomasii publici Salerni Notarii transumi fecimus, et transcribi, quod scripsi Ego praedictus Thomasius publicus Salerni Notarius, qui rogatus interfui, vidi, et legi, et illud in hanc scripturam redigens publicam, meo signo signavi, quod autem superius nititur virgulas scriptum, et legitur nostra, et quod disturbatum est, legitur, recognoscat..... Adest signum. Ego qui supra Philippus Judex. Ego qui supra Matthaeus Judex. Ego qui supra Romoaldus Judex. Ego qui supra Philippus Judex.

FINE DEL VOLUME QUARTO.

TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI NEL TOMO QUARTO

LIBRO DUODECIMO pag. 5

§. I. L'Imperador Federico I fa lega con Emanuele Comneno Imperadore d'Oriente, e move guerra col Papa al Re Guglielmo 12

§. II. Articoli di pace stabiliti con Papa Adriano, ed investitura data dal medesimo al Re Guglielmo; e pace indi seguita coll'Imperadore Emanuele 22

Cap. I. L'Imperador Federico sdegnato col Papa della pace fatta con Guglielmo cala di nuovo in Italia: tiene una Dieta in Roncaglia, e restituisce in Italia le regalie 28

Cap. II. I Baroni del Regno di Puglia cospirano contro Majone: Matteo Bonello l'uccide, e s'ordisce nuova congiura contro il Re Guglielmo per torgli il Regno, e darlo a Ruggiero suo figliuolo di nove anni 37

Cap. III. Il Re Guglielmo posto in libertà ripiglia il governo del Regno: morte di Ruggiero suo primogenito; e nuovi tumulti in Palermo ed in Puglia, che finalmente si quietano per la morte del Bonello e degli altri congiurati 57

Cap. IV. Papa Alessandro III riconosciuto da tutti per vero Pontefice, morto l'Antipapa Vittore, ritorna in Roma; ed il Re Guglielmo, dopo aver sedati nuovi tumulti accaduti nel suo palazzo, se ne muore in Palermo l'anno 1166 63

Cap. V. Leggi del Re Guglielmo I 69

LIBRO DECIMOTERZO 84

Cap. I. Nozze del Re Guglielmo con Giovanna figliuola d'Errico II Re d'Inghilterra. Sconfitta data da' Milanesi all'esercito dell'Imperador Federico; e pace indi conchiusa dal medesimo con Papa Alessandro III 94

§. I. Dominio del Mare Adriatico 108

§. II. I Veneziani sono stati Soggetti degli Imperadori d'Oriente e d'Occidente 115

Cap. II. Spedizione de' Siciliani in Grecia: Nozze tra Costanza ed Errico Re di Germania; e morte del Re Guglielmo e sue leggi 128

§. I. Leggi del Re Guglielmo II 143

Cap. III. Della compilazione de' libri Feudali; e loro Commentatori 148

§. I. Dell'uso ed autorità di questi libri nelle nostre province 158

§. II. Autori che illustrarono i libri feudali 160

§. III. Costituzioni imperiali attenenti ai Feudi, e leggi di Federico I 164

LIBRO DECIMOQUARTO 169

Cap. I. Guglielmo III Re di Sicilia succede al padre Tancredi. L'Imperador Errico gli muove guerra, gli toglie il Regno, e lo fa suo prigione 188

Cap. II. L'Imperadrice Costanza prende il Governo del Regno. Sua morte; e fine del regal legnaggio de' Normanni 203

Cap. III. Politia ecclesiastica di queste nostre province per tutto il duodecimo secolo, insino al Regno de' Svevi 209

§. I. Nuove Collezioni de' Canoni; e del decreto di Graziano 213

§. II . Elezione de' Vescovi ed Abati 217

LIBRO DECIMOQUINTO 225

Cap. I. Spedizione di Gualtieri Conte di Brenna sopra il Reame di Sicilia per le pretensioni di sua moglie Albinia 235

§. I. Cuma distrutta, e la sua Chiesa unita a quella di Napoli 251

Cap. II. Papa Innocenzio naviga in Sicilia: conchiude le nozze di Federico con Costanza figliuola d'Alfonso II Re d'Aragona; e difende il Regno dall'invasione d'Ottone IV Imperadore 256

Cap. III. Il Re Federico viene eletto Imperadore da' Principi della Germania. Va in Alemagna, ed in Aquisgrana è coronato; ed Innocenzio intima un general Concilio in Laterano 265

Cap. IV. Origine dell'Inquisizione contra gli retici; e morte di Papa Innocenzio III 271

LIBRO DECIMOSESTO 284

§. I. Delle fazioni Guelfe e Ghibelline 290

§. II. Della Corte Capuana 293

Cap. I. Prime origini delle discordie tra l'Imperador Federico II con Papa Onorio III 297

Cap. II. Unione della Corona di Gerusalemme a quella di Sicilia 302

§. I. Trasmigrazione de' Saraceni di Sicilia in Lucera di Puglia, e de' Pagani 310

Cap. III. Degli Studj generali istituiti da Federico in Napoli 312

Cap. IV. De' Giureconsulti, che fiorirono fra noi a questi tempi 319

Cap. V. Onorio III sollecita l'Imperador Federico per l'espedizione di Terra Santa ma è prevenuto dalla morte 327

Cap. VI. Spedizione di Federico per Terra Santa 336

Cap. VII. Spedizione di Gregorio IX sopra il Regno di Puglia 347

Cap. VIII. Delle Costituzioni del Regno 369

§. I. Dell'uso, ed autorità di queste Costituzioni durante il Regno de' Svevi, e dei loro Spositori 379

LIBRO DECIMOSETTIMO 387

Cap. I. Errico Re d'Alemagna si ribella contro l'Imperadore Federico suo padre; vinto, s'umilia; e Federico move guerra a' Lombardi in Italia, al che s'oppone Papa Gregorio, da chi finalmente ne fu di nuovo scomunicato 389

Cap. II. Si rompe aperta guerra tra Federico, e Papa Gregorio, il quale in mille guise oltraggiato dall'Imperadore se ne muore di dolor d'animo 409

Cap. III. Sinibaldo Fieschi è eletto Pontefice sotto nome d'Innocenzio IV, il quale non meno, che il suo predecessore Gregorio prosiegue con Federico la guerra; ed intima il Concilio a Lione in Francia 421

§. I. L'Istoria del Concilio di Lione, e della deposizione di Federico 427

§. II. Infelice fine di Pietro delle Vigne 434

Cap. IV. Federico prosiegue la guerra contro i Lombardi nell'istesso tempo, che Corrado suo figliuolo è travagliato in Alemagna da Errico di Turingia, e da Guglielmo Conte d'Olanda. Muore in Fiorentino, e gli succede Corrado 440

Cap. V. Disposizione, e novero delle Province, delle quali ora si compone il Regno 455

§. I. Terra di Lavoro 460

§. II. Principato Citra 463

§. III. Principato Ultra ivi

§. IV. Basilicata 465

§. V. Calabria Citra 467

§. VI. Calabria Ultra ivi

§. VII. Terra di Bari 468

§. VIII. Terra d'Otranto ivi

§. IX. Capitanata 470

§. X. Contado di Molise 471

§. XI. Abruzzo Ultra 472

§. XII. Abruzzo Citra ivi

Cap. VI. Corti Generali, e Fiere istituite da Federico in queste nostre province: suoi figliuoli, che rimasero, e suo testamento 475

Testamento di Federico II 483

FINE DELL'INDICE

NOTE:

1. Inveges lib. 3 hist. Paler.2. Libro mortuale di Monte Cassino.3. Romual. Arc. di Saler. Eo quod in Literis Apostolicis, quas Regi portabat, Papa eum non Regem, sed Willelmum Dominum Siciliae nominabat.4. Ugo Falcan. Capecelatr. lib. 2.5. Anon. Cassin. in Chr. fol. 141.6. Sigon. de Regn. Ital. p. 287.7. Jo. Cinuamus hist. Comnena, lib. 4.8. Inveges lib. 3 hist. Paler.9. Camill. Pell, in Stem.10. Capecelatr. lib. 2.11. Inveges lib. 5 hist. Pal.12. Capecelatr. hist. lib. 2.13. Anonim. Cassin. ann. 1156.14. Gugl. Trio apud Baron.15. Lunig Cod. Ital. Diplom. pag. 850. Ugo Falcan.16. Camill. Pell. ad Anon. Cass. ann. 1156.17. Acta ejusdem Pontificis apud Baron. Camill. Pell. in Stemm.18. Jo. Cinnam. de reb. gestis Jo. et Emanuel. Comm. lib. 4. Paulo post, et Regem eum appellavit, cum prius non esset.19. Epist. apud Inveges lib. 3 hist. Paler. Haec, et alia utpote de concordia Rogerii, et Willelmi Siculi, et aliis quae in Italia factae sunt conventionibus, quae ab ore Imperatoris audivimus, etc.20. Inveges loc. cit. Neque eam pacem tenere, neque ea teneri vellemus; quoniam ipse prior violasset in Siculo, cum ipse sine nobis reconciliari non debuisset.21. L. de precario, D. ad L. R. de jactu.22. Ulp. l. Barbarius, D. de off. Praetor.23. L. bene a Zenone, C. de Quadrien. praescript. omnia Principis esse.24. Radevicus l. 2 de gest. Fed. c. 5. Cujac. lib. 1 de Feud. tit. 12. Alteserra lib. 3 cap. 14.25. Glos. in l. bene a Zenone, et in praefat. dig.26. Constit. hac edictali de pace tenenda, l. 5. Feud.27. Const. Fed. de Feud. non alien. lib. 5.28. Guntherus Abbas Uspergensis Radevicus 3 c. 41 et 4 c. 5.29. Plin. hist. lib. 16 cap. 12.30. V. Sigon. de Regn. Ital. l 12 ann. 1158.31. Gugl. Tir. de bello sacr. lib. 18 Radevic. de vita Frid. Imp.32. Ugo Falcand. Ut amoto Rege Siciliae, Almiratus in ejus loco succederet. Baron. ad ann. 1160.33. Ugo Falcand.34. Capecelatro lib. 2.35. Ugo Falcand.36. Ugo Falcand.37. Ugo Falc.38. Ann. 1160. Camil. Pell. in Castigat. ad Anon. Cassin.39. Ugo Falc.40. Ugo Falc. ut eadem in Kal. Januarii strenarum nomine, juxta consuetudinem ei transmitteret.41. Ugo Falc. Majorem ejus filium Rogerium Dacem Apuliae, novennem fere puerum Regem crearent.42. Ugo Falcand.43. Ugo Falcand. Indignum esse, satisque miserabile, Regem a paucis praedonibus turpiter captum, in carcere detineri, neque Populum id dobere pati diutius.44. Ugo Falc. Ut his, aliisque perniciosis legibus antiquatis, eas restituat Consuetudines, quas avus ejus Rogerius Comes a Roberto Guiscardo prius introductas, observari praeceperit.45. Ugo Falc. Panormi retinens militibus suis Comestabulum praefecit.46. Romuald. Arciv. di Salern. Cronic. apud Baron.47. Pellegr. in Castigat. ad Anonymum Cassin. ann. 1172 ex Ugone Falcando, et Romualdo.48. La Cronica di Fossanova dice, che fu il mese di maggio. Fazzello a' 9 maggio.49. Decret. lib. 5 tit. 16 cap. 6.50. Tutini degli Ammir. pag. 41.51. Top. de orig. M. C. c. 10.52. Carol. de Tocco in l. si sorores 25 verb. si propinqui in fin. de succes. l. 2 tit. 14.53. Bardi tom. 3. Cron. fol. 333.54. Surg. Neap. Illustr. cap. 24 n. 2.55. Ug. Falcan.56. Baron. ad ann. 1167.57. V. Chioccar. de Archiep. Neap. ann. 1168. P. Tirin. tom. 3 in S. Script. in indice Auct.58. Pirri rapportato da Inveges lib. 3 hist. Pal. Rex nec Emanuelis Graeci Imperatoris filiam, Icoramutriam nomine, ducere voluit.59. Camil. Pellegrin. in Stem. Princ. Cap. Nortm. et in Castig. ad Anonym. Cassin. ann. 1172.60. Camill. Pellegr. in dissert. in 3 par.61. Capecelatr. hist. lib. 3.62. Romual. Arciv. di Salern. apud Baronium: Ut ipse Imperatoris filiam in uxorem acceptans, cum eo pacem perpetuam faceret.63. Sigon. de R. Ital. ann. 1176.64. Ruggiero Hoveden in Annal. Anglican.65. Inveg. hist. Palerm. tom. 5 ann. 1172.66. Questo istromento del dotario costituito alla Regina da Guglielmo II si legge parimente nel Tom. 2 di Lunig Cod. Ital. Diplomat. pag. 838.67. V. Hoveden. Ann. d'Inghilterra. Capecelatr. hist. lib. 3.68. Romual. Arciv. di Saler. Nequaquam cum Imperatore sine Rege Will. pacem facere.69. Vedi lo Squittinio della libertà Veneta di M. Velsero.70. L'istromento di questa triegua accordata per quindici anni tra l'Imperatore Federico I e Guglielmo II, è rapportato da Lunig Tom. 2. Cod. Ital. Diplom. pag. 859.71. Guicc. lib. 8 hist. Ital.72. V. Paul. Aemil. de reb. Franc. l. 3.73. Ann. 1071 mense Julii, Dux transmeavit Adriatici Maris pelagum, perrexitque Siciliam cum 58 navibus.74. Nani istor. Veneta, l. 8. An. 1630.75. Chioccar. in Indice to. 21 var. 5.76. Lib. 1 de bello Goth. cap. 15.77. Lib. 4 de bello Goth. cap. 24 et 26.78. Lib. 4. Hist. Ravennat. pag. 195.79. In Singularibus Jur. Publ. Tom. 1 cap. 2 § 17 p. 215 et 216.80. Cap. 8 § 46 in not. 944.81. De Administrat. Imp. Orient. cap. 28.82. Cap. 15.83. Lib. IV de Regno Italiae pag. 100 et 103.84. Pellegr. in Castig. ad Anon. Cassin. ann. 1179.85. Guiglielm. Tirio lib. 21 cap. 26.86. Roberto de Monte ad ann. 1180.87. Pell. Cast. ad Anon. Cassin. ann. 1183.88. Cronica di Fossanova tom. 1. Ital. Sacr. col. 470.89. Niceta in Isac. Imper.90. Gio. Villani ist. lib. 4 c. 19. Franc. Petrarca in lib. Augu. Boccaccio de Clar. mulier. Tolomeo di Lucca, Fr. Alberto, Paolo Reggio, Fazzello, Maurolico, S. Antonino Arciv. di Fiorenza, ed altri rapportati da Inveges ann. 1154 et 1185.91. In Vita B. Laur. apud Surium in 8. Januar.92. Antonin. par. 3 tit. 10 cap. 6.93. Acri.94. Inveges lo fa morire a' 20 dell'ottobre del 1187.95. Il Sigonio de Regn. Italiae, con manifesto errore v'annovera anche Guglielmo, dicendo: Praeter Fridericum Imper. Philippus Rex Franciae, Henricus Angliae, et Guilelmus Siciliae Reges, etc.96. In quest'anno fissano la sua morte Riccardo da S. Germano, il quale cominciò la sua Cronaca: A tempore quo Gulielmus Rex Siciliae obiit, Pontificatus Clem. an. 2. Guglielmo Neubrigense Inglese: Gulielmus Siciliae Rex mortuus est ann. 1189.97. Ruggiero in An. Anglic. apud Baron.98. Sansovino delle cose di Costantinopoli, lib. 5 dopo Niceta Coniate, fol. 74 a ter.99. Struv. Syntag. Hist. Germ. Dissert. 17 § 53 p. 573.100. Ulric. Uber. l. 3 de Jur. Civit. c. 3.101. Auth. habita, C. Ne filius pro patre.102. Molin. ad Consuet. Paris. tit. des Fiefs, n. 24.103. Cujac. l. 1 de Feud.104. Inveges ann. 1162 hist. Palerm. tom. 3.105. Otho Frising. de reb. gest. Frid. cap. 12. Lib. 2 feud. tit. 35 juxta antiquit. compilat.106. Montan. in Praelud. feud. ad l. Imperialem, num. 3.107. Andr. in disp. Feud. cap. 2 § 5.108. Artur. de Jus et author. Jur. civ. l. 1 cap. 6 num. 5.109. Odofr. in Auth. cassa, C. de Sacros. Eccl.110. Artur. l. 1, c. 6 n. 13.111. Andr. in Praelud. num. 25.112. Pancirol. Thes. var. lect. lib. 1, c. 50 Auth. omnes peregrini, C. comm. de succes. Auth. item quaecumque communitas, et Auth. statuimus, C. de Episc. et Cleric. et alia quae postea remota fuere.113. Molin. Consuet. Paris. tit. 8 rubr. n. 103.114. Bart. in l. si quis vi 17 § differentia, n. 4. D. de adqu. posses.115. Gloss. in Constitut. Ut de successionibus, de success. Nobil. verb. iujuriam nullus, vers. Nec dicant aliqui.116. Roffr. Benev. in sua quaest. Sabatina.117. V. Card. de Luca de emphyteusi, disc. 70 num. 18.118. Pancirol. Thes. var. lect. lib. 1 c. 90.119. Jason in Praelud. Feud.120. Afflict. tit. de Feud. dat. in vim leg. commiss. lib. 1 tit. 22 numer. 49.121. Andr. in disput. Feud. pag. 47.122. V. Struv. hist. jur. Feud. c. 8 § 23.123. Cujac. lib. 5 de Feud.124. Marinis l. 1 c. 233 n. 8.125. Si vede unita tra' Capitoli di Roberto, verso il fine.126. De Nigris in Comment. ad Capitul. Regni in fine, in Constit. Sancimus.127. De Luca de Servitutib. disc. 68.128. Goldast. tomo I. pag. 268 et tom. 3 pag. 330.129. Ric. di S. Germ. Post Regis obitum, omnes inter se coeperunt de majoritate contendere, et ad Regni solium aspirare, et obliti Jurisjurandi, quod fecerant, etc.130. Platin. ad Clem. III. Gio Vill. lib. 4 c. 19.131. Ric. da S. Germ. Tunc vocatus Panormum Tancredus est, et per ipsum Cancellarium coronatus in Regem: Romana Curia dante assensum.132. Ugo Falc. Nobilissima matre genitus, ad quam Dux ipse consuetudinem habuerat.133. Giacomo Antonio Ferrari referito dal Summonte.134. Ricc. di S. Germ.135. Epist. Regis Angl. ad Clem. III apud Baron.136. Lunig Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 859.137. V. Nicod. nell'Addiz. alla Bibliot. del Toppi.138. Dante Parad. canto 12.139. Chron. di Fossanova.140. Ricc. da S. Germ.141. Inveges lib. 3, Istor di Pal.142. Ricc. da S. Germ. Imperator Regnum intrat mense Martio, Papa prohibente, et contradicente. Arnaldo Lubbecense pure scrive, ch'Errico con questa sua andata in Puglia, animum D. Papae non parum offenderat, quia Rex Tancredus a Sede Apostolica jam ibi ordinatus fuerat.143. Ricc. da S. Germ.144. Ricc. da S. Germ. Adenulphus Casertanus Decanus Cassinensis, pro eo quod in partes non cessit Regis, a Coelestino Papa excommunicatus est, et monasterium suppositum interdicto.145. Ricc. da S. Germ. Ruggiero in Annal. Anglor. Chron. di Fossanova apud Baron.146. Acri, come alla pagina 138.147. Pellegr. Cast. in Anon. Cassin.148. Ricc. da S. Germ. Quod honor sibi non erat cum Bertholdo congredi.149. Riccardo da S. Germ. Rex ipse in Siciliam remeavit; ubi ordine naturae praepostero Rogerius filius ejus, qui coronatus in Regem fuerat ann. 1191 viam est universae carnis ingressus, et frater ejus Gulielmus in Regem successit ei.150. Constit. instrumenta, tit. 27 et Constit. privilegia, tit. 28 lib. 2.151. Inveg. lib. 3 hist. Paler.152. Ric. da S. Germ.153. Constit. Cum haereditarium Regnum nostrum Siciliae, cujus praeclara nobis haereditas, etc. lib. 3 tit. 23.154. Lib. 1 in Prooem. Cum igitur Regnum Siciliae nostrae Majestatis haereditas pretiosa, etc.155. Epist. apud Baron.156. Pellegr. in Cron. Cass. ann. 1195.157. Inveg. lib. 3 hist. Paler.158. Atti d'Inn. III apud Baron. ann. 1197. Conrado nomine Svevo, qui antea creatus fuerat Dux Spoleti, et Comes Assisii, uti fidelissimo sibi subdito, et amico, gentili suo atque Ducissae ejus conjugi.159. Riccardo da S. Germ.160. Cronica di Fossanova.161. Rugg. in Ann. Anglor.162. Acri.163. Ric. da S. Germ. Rug. Ann. d'Inghil. Cron. di Fossanova. Pirri In festo S. Michaelis.164. Struv. Syntag. Histor. Germ. dissertat. 18 § 11 pag. 590.165. Goldast. Constit. Imper. Tom. I pag. 281.166. Struv. Syntag. Jur. Publ. Germ. cap. 1 n. 3 pag. 267.167. Rug. Ann. Angl.168. Rug. Ann. Angl.169. Ric. da S. Germano.170. Gesta Inn. III. V. Baluz. Epist. Inn.171. Chioc. tom. 1. MS. giur.172. Raynal. ad ann. 1198 num. 67.173. Inn. Ep. tom. 1 lib. 1. Ep. 410.174. Baron. ad ann. 1198.175. Riccardo da S. Germ. Inn. Epist. lib. 1. Epist.176. Ughel. in Appendice, tom. 7 de Episc. Pennens. pag. 1327. Judicetur ab ipsa Ecclesia de ipso adulterio, quod spectat ad judicium ipsius Ecclesiae; et de eo quod spectat ad judicium Curiae nostrae, de insultu, et violentia, judicetur ab ipsa Curia nostra, etc. Dat. Panormi ann. 1197.177. V. Mastricht hist. Jur. Canon. num. 254.178. V. Anton. August. de Emend. Grat. part. post. cap. 5 et ivi Baluz. § 19.179. V. Mastric. n. 273.180. V. Mastric. n. 274.181. Anton. Augustin. lib. 2 dial. 5. Stephan. Baluz. in praefat. num. 20. V. Struv. hist. Jur. Canon. § 16.182. Pancirol. de clar. leg. Interpr. lib. 3 cap. 2 pag. 405.183. V. Mastric. nu. 304. Struv. hist. Jur. canon. § 17.184. V. Struv. l. c. § 19.185. V. Anton. August. de emendat. Grat.186. Pancir. l. 2 c. 5.187. V. Pancir. lib. 2 c. 3.188. Struv. l. c. § 21.189. Istromento di pace tra Guglielmo ed Adriano, presso Capecelatro histor. Napol. fol. 75. Si persona illa de proditoribus, aut inimicis nostris, vel haeredum nostrorum non fuerit; aut magnificentiae nostrae non extiterit odiosa, vel alia in ea causa non fuerit, pro qua non debemus assentire, assensum praestabimus.190. Petr. Blesensis epist. 10.191. L'Investitura è rapportata da Rainaldo anno 1198 num. 67 e vien riferita da Innocenzio III epist. tom. 1 lib. 1 ep. 410 dove parlandosi dell'elezioni si leggono queste parole: Electiones autem secundum Deum per totum Regnum canonice fiant, de talibus quidem personis, quibus vos, ac haeredes vostri requisitum a vobis praebere debeatis assensum.192. Il Breve d'Innocenzio drizzato a Costanza si legge fra le sue epist. tom. 1 lib. 1 epist. 411 e vien anche rapportato da Chioccar. to. 4 de' MS. giurisd. tit. de reg. exequatur; e nel tom. 19 var. ed è tale: Sede vacante Capitulum significabit vobis, et vestris haeredibus obitum decessoris: deinde convenientes in unum, invocata Spiritus Sancti gratia, secundum Deum eligent canonice Personam idoneam, cui requisitum a vobis praebere debeatis assensum, et electionem factam non different publicare. Electionem vero factam, et publicatam denunciabunt vobis, et vestrum requirent assensum. Sed antequam Assensus Regius requiratur, non inthronizetur electus, nec decantetur laudis solemnitas, quae inthronizationi videtur annexa: nec antequam auctoritate Pontificali fuerit confirmatus, administrationi se ullatenus immiscebit. Sic enim honori vestro voluimus condescendere, ut libertatem canonicam observemus, nullo prorsus obstante rescripto, quod a Sede Apostolica fuerit impetratum.

È rapportato ancora questo Breve da Lunig. Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 862.

193 . Epist. Innoc. tom. 1 lib. 1 epist. 412. 194 . Epist. Inn. ad C. Capuan. tom. 1 lib. 2. epist. ad C. Rhegin. 195 . Raynald. ad ann. 1211 num. 5. 196 . Cod. Ital. Diplom. tom. 2 pag. 866. 197 . Ughell. tom. 7 de Episcop. Policastr. num. 3 fol. 789. 198 . Gregor. IX epist. 165 lib. 1. 199 . Raynald. ad annum 1221. numer. 32 et ann. 1223 num. 15. 200 . Raynald. ann. 1225 num. 45. 201 . Collen. dec. 2 l. 8 c. 1. 202 . Innoc. epist. lib. 1. Por effectum operum poteritis evidenter cognoscere, quod Tutelam Regis, et Regni Bajulum nobis a Constantia Imperatrice relictum, non tam verbo, quam factis recipimus. 203 . Naucler. generat. 34. 204 . Ricc. da S. Germ. 205 . La Cronaca di Riccardo si legge impressa nel to. 3 dell'Italia Sacra dell'Ughello. 206 . Bzovio tom. 1 ann. 1199. Anathematizamus Marcovaldum, et omnes fautores ejus. 207 . In Epist. apud Bzov. ann. 1199 n. 12 et in Antiq. col. Decr. 3 tit. de Offic. Deleg. cap. nisi specialis. 208 . Riccardo da S. Germano. 209 . Epist. Innoc. III che comincia: Utinam puerilibus annis virilem animum Dominus inspiraret, etc. 210 . Ricc. da S. Germ. 211 . Cron. di Ric. da S. Ger. Cum ipso campestre bellum inierit ad Cannas: At Cancellarius cum Diopuldo, per ipsum Comitem 6 octobris devicti sunt, et fugati. Cron. di Fois. Cron. di Fossanova. 212 . Cron. Ric. Cassinensis Abbas Legatus vadit in Siciliam, ubi Marcovaldus superveniens, dysenteria miserabiliter expiravit. 213 . Inveges ann. 1203 tom. 3 hist. Paler. 214 . Cron. di Ric. da S. Germ. 215 . Pell. ad Anon. Cassin. ann. 1205. 216 . Cron. di Ric. da S. Ger. Diopuldus in eum cum suis diluculo irruens, Comes captus ab eo est, et custodiae traditus carcerali, ubi modicum post diem clausit extremum. 217 . Ric. da S. Germ. Inn. Papa Romam vocat Diopuldum ad se, ipsumque, et suos a vinculo excommunicationis absolvit, et tunc cum ipsius licentia Salernum reversus est. 218 . Ricc. da S. Ger. Tandem nocturno tempore fugae praesidio liberatus, veniens per mare Salernum, inde in Terram Laboris se confert, ubi cum Neapolitanis iniens pugnam, devicit, strage magna facta ex eis. 219 . V. Chioccar. de Archiepisc. Neap. in Anselmo, ann. 1192. 220 . V. Chioccar. loc. cit. de Episcopali Ecclesia Cumana Neapolitanae unita. 221 . Riccardo da S. Germ. Ubi cum Neapolitanis iniens pugnam, devicit, strage magna facta ex eis. 222 . Ricc. da S. Ger. ann. 1208 Innocentius Papa in vigilia S. Jo. mense Junio venit ad S. Germanum, ubi ab Abate Rofrido magnifice receptus est, tam ipse, quam fratres sui Domini Cardinales. 223 . Ric. da S. Ger. Qui autem ordinationem istam recipere noluerint, vel recusaverint, tamquam hostes publici habeantur, et a caeteris impugnentur. 224 . Di quest'investitura ne fa anche menzione il Tutini, nel libro de' Contestabili del Regno, fol. 38. Se bene l'Autore contemporaneo delle gesta d'Innocenzio scriva, che questa investitura fosse stata data dal Re, non da Innocenzio. 225 . Epist. Inn. che comincia Affectum dilectionis, et gratiae, etc. 226 . Cron. di S. Germ. Per Atinum iter faciens Soram contulit, indeque in Campaniam versus est. 227 . Ab. Uspergensis: Henrico VI eoque procurante, Principes Alemanniae pene omnes filium parvulum ipsius Fridericum II adhuc in cunis vagientem assumpserunt in Regem, eique fidelitatem juraverunt, et literas de hoc facto cum sigillis suis Imperatori transmiserunt. 228 . Cap. venerabilem de Elect. Ab. Usper. 229 . Ric. da S. Ger. In odium Celani Comitis. 230 . Zurit. Quem pater sacro Ordini dicaverat. 231 . Cronaca di Fossanova tom. 1 Ital. Sacr. col. 488. 232 . Cronaca di Fossanova Ducem Spoleti fecit illum. 233 . Ricc. da S. Germ. 234 . Ricc. da S. Germ. Illum excommunicat, et Ecclesiam Capuanam sub interdicto ponit, pro eo quod ausi sint celebrare ipso praesente in Octavis B. Martini. Excomunicat etiam omnes Fautores ipsius. 235 . Abb. Usperg. 236 . Ricc. da S. Germ. 237 . Ric. da S. Germ. Aquis. per Antistites Moguntinum, et Treverensem coronam accepit. 238 . Abb. Uspergense. 239 . Ric. da S. Germ. 240 . Ric. da S. Germ. Sex in medium Capitula protulit. 241 . Ric. da S. Germ. Quia in contemptum R. Ecclesiae Regem Federicum Regem appellavit Presbyterorum. 242 . Cod. Th. l. 1 et 2 de Haereticis. 243 . L. 3 C. eod. tit. 244 . L. 4 et 5. 245 . L. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 16, 17, 19, 21, 22, 23. 246 . L. 5, 18, 20. 247 . L. 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 36. 248 . L. 35, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 51, 52, 53, 54, 55, 56. 249 . L. 48, 49, 50, 57, 58, 59, 60, 61, 65, 66. 250 . L. 62, 63, 64. 251 . Cod. Th. l. 9 l. 34, 36, 38, 43, 44 de Haeret. 252 . Goth. in l. quisquis 9 C. Th. de Haeretic. 253 . Goth. in Paratitl. ad tit. C. Th. de Haereite. 254 . Cod. Th. tit. de haeret. l. 16. 255 . Questa etimologia Pietro delle Vigne, e Federico gli danno nella Constit. Inconsutilem. 256 . Bosquet. in Notis ad epist. Inn. I. 1. epist. 71. 257 . Cap. cum inter 18 de Electionib. 258 . Cap. qualiter eod. tit. de elect. Episc. 232 lib. 2 Epist. 242. Gesta ejusd. Inn. pag. 10 et 20. Ughellus tom. 9 pag. 405 e fu anche avvertito da Florente ad tit. de Elect. 259 . Fr. Tommaso Fazzello dec. 2 lib. 8 cap. 2. 260 . Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 866. 261 . Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 p. 864, 865. 262 . Riccardo, Romae quasdam edidit Sanctiones pro libertate Ecclesiae, et Clericorum, confusione Patarenorum, Testamentis Peregrinorum, et securitate Agricultorum. 263 . Cod. Just. de Haereticis. Cap. si vero dominus. Cap. Credentes praeterea. Cap. Gazaros, Patarenos. 264 . Syntag. Histor. Germ. Dissert. 17 § 4 p. 510. 265 . Inveges an. 1232 hist. Paler. tom. 3. 266 . Camill. Salern. in Praefat. ad consuet. Fr. And. p. 156 disp. feud. 267 . Ricc. di S. Germ. Capuam se conferens, et regens ibi Curiam generalem pro bono Statu Regni, suas Ascisias promulgavit, quae sub 20 capitulis continentur. 268 . Camillo Saler. nel proemio delle consuet. di Napoli, num. 3. 269 . Tutin. de' M. Giustizieri, in princip. 270 . Lib. 3 de novis aedific. Prout. in Capuana Curia per nos extitit stabilitum. 271 . Ricc. da S. Germ. 272 . Ricc. da S. Germ. Tunc etiam Thomas de Aquino factus Acerrarum Comes, et Magnus Justitiarius Apuliae, et Terrae Laboris. 273 . Gordonio in Chron. che cita l'Abate Uspergense, Nauclero, Biondo, Platina. 274 . Fazzel. dec. 2 lib. 8 c. 2 fol. 448. 275 . Pirro in Chron. Ne Clericos, et Ecclesiasticas personas tributorum erogatione premerent, sed immunes eos haberent, ut olim sub Willelmo II. 276 . Zurita Annal. d'Arag. Catanae moritur, in Panormi Æde maxima sepelitur. 277 . Bossio nella Storia di Malta. 278 . Lib. 3 epist. et 10 epist. 11, 12 et 13. 279 . Lib. 3 ep. 11. 280 . Lib. 3. epist. 10 et 11. 281 . Ab. de Nuce in notis in prolog. l. 4 Chron. Cass. 282 . Constitut. in Terra qualibet. 283 . Constitut. Frid. Utilitati Glos. et Affl. in dicta Constit. 284 . Luc. de Penna in l. contra publicam, col. 2 C. de re milit. lib. 12 Arcamon. in dicta Constitut. 285 . Andr. de Isern. in dicta Constit. Utilitati. 286 . Lib. 3. ep. 11. Besold. in dissert. de jure Accadem. cap. 2 in fine. 287 . Lib. 3 epist. 13. 288 . Lib. 3 ep. 11. 289 . Lib. 3 cit. ep. 11. 290 . Lib. 3. ep. 12. 291 . Ricc. da S. Germ. Studium, quod Neapoli per Imperatorem statutum fuerat, quod extitit turbatione inter Ecclesiam, et Imperium secuta; penitus dissolutum; per Imperatorem Neapoli reformatur. 292 . Lib. 3 epist. 11. 293 . Baluz. Miscellan. p. 483, 86 et 87. V. Nicod. in Bibliot. Top. v. Manfredi. 294 . Constit. Statuimus, tit. 38 lib. 1 et seqq. 295 . Constitut. Occupatis, tit. 95 lib. 1. 296 . Lib. 3 epist. 81. 297 . Riccar. ann. 1227. Tunc prudentem virum Roffredum de Benevento misit ad Urbem cum excusatoriis suis, quas idem Magister publice legi fecit in Capitolio de voluntate Senatus, Populique Romani. 298 . Lib. 3 epist. 11. 299 . Jo. Trit. lib. de script. Eccl. 300 . L. 3 epist. 45. 301 . L. 3 epist. 43. 302 . L. 3 epist. 45. 303 . Affl. in praelud. Constit. in princ. 304 . Simon. Schard. in Vita P. de Vineis. 305 . Lipar. in Usib. feud in praeludiis. 306 . Ciarlant. l. 4 c. 14. 307 . Ric. di S. Germ. 308 . Ric. di S. Germ. 309 . Ric. di S. Germ. ann. 1225. 310 . Ricc. di S. Germ. Et decet secum centum Chelandros. V. Dufresne in Glossar. v. Chelandrum. 311 . Ricc. Promisit Imperator se publice servaturum excommunicatione adjecta in se, et terram suam, si haec non fuerint observata. 312 . Ric. di S. Germ. 313 . Ric. di S. Germ. mense Septembri. 314 . Ric. di S. Germano: Quos tamquam in suum praejudicium promotos, recipi Imperator in ipsis Ecclesiis non permisit. 315 . Ricc. Imperator pro facto Praelatorum, quos Papa creaverat, suos ad eum nuncios mittit. 316 . Ric. di S. Germ. 317 . Ricc. di S. Germ. 318 . Cod. Ital. Diplom. T. 2 p. 867. 319 . Ricc. di S. Germ. 320 . Ricc. di S. Germ. 321 . Ricc. da S. Germ. 322 . Ricc. da S. Germ. Et ipse tunc etiam Imperator, sicut disposuerat, superveniente aegritudine, non transivit. 323 . Ricc. da S. Germ. 324 . Ricc. da S. Germ. 325 . Ricc. da S. Germ. 326 . Ricc. da S. Germ. 327 . Acri. 328 . Abb. Usper. ann. 1228. 329 . Lunig. Cod. Ital. Diplom. Tom. 2. pag. 875. 330 . Lunig. Cod. Ital. Diplom. Tom. 2. p. 878. 331 . Bossio lib. 16. 332 . Aulisio delle Scuole Sacre L. 2. c. 12. pag. 60. 333 . Bzov. Histor. Rel. Rod. 334 . Ricc. di S. Germ. 335 . Ricc. da S. Germ. 336 . Lunig. Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 p. 875. 337 . Constit. de legib. in princ. lib. 1 § praesentes: Regnum Siciliae sanctiones et nostras, etc. 338 . V. Andreas disp. Feud. cap. 1 num. 1 che dice la Costitut. Ut de successionibus, essersi stabilita nel 1221. 339 . Ric. ann. 1220. 340 . V. Dufresne in Glossar. v. Assisa. 341 . De Officio Magistr. Justit. v. sicque nuperrim. 342 . Ric. ann. 1226. 343 . In Chron. ann. 1229. 344 . Constitut. cum concessiones de privilege. lib. 2. 345 . Ricc. ann. 1231. 346 . Constit. Inconsutilem Const. de Receptoribus, etc. lib. 1. 347 . Tit. ult. l. 3. Const. 348 . Affl. in praelud. qu. 1 n. 1. 349 . Goldast. to. 1 p. 77, 289, 290, 293 et to. 2 p. 51 et seqq. 350 . Cap. quod incipit, Constitutiones, p. 29 Cap. quod incipit, ad perpetuam, pag. 36. Affl. in praelud. Const. qu. 1 num. 2. 351 . V. Andreys disp. Feud. cap. 1 § 1 num. 2. 352 . Fab. Jordan, in addit. ad Prooem. Constit. 353 . Afflict. in praelud. in princ. n. 2. 354 . Marin. de Caram. in Prooem. Constit. 355 . Isern. in Const. l. 3 de Jur. Balii. 356 . Andr. in Prooem. Constit. num. 10 et 20. 357 . Afflict. in Praelud. qu. 1 n. 2. 358 . Dupin. de Antiq. Eccl. Discipl. 359 . Ricc. da S. Germ. 360 . Ricc. ad ann. 1234. Hoc anno, quod Henricus Rex contra Imperatorem patrem suum seditionem in Alemannia fecerit, fama fuit. 361 . Cron. Monast. S. Justin. Eodem anno ad petitionem Regis Henrici filii Federici Imperatoris, Mediolanenses, et alii odientes Imperium, Legatos in Alemanniam direxerunt, et cum ea contra Imperatorem societatem firmissimam statuerunt; concepit enim Rex dolorem, et peperit iniquitatem contra proprium genitorem, ideo quod videbatur quod Imperator plus eo puerum Corradum diligeret, et foveret. 362 . Sigon. de Reg. Ital. lib. 17 in fine. 363 . Riccardo da S. Germ. 364 . Sigon. de Regno Italiae l. 18. 365 . Sigon. loc. cit. lib. 18 ann. 1236. 366 . Ric. da S. Germ. 367 . Ricc. da S. Germ. Cronaca del Fr. di S. Giustina. Epistole di Pietro delle Vigne, fol. 304 et 237. Sigon. de Regn. Ital. lib. 18. 368 . V. Dufresne in Glossar. v. Carrocium. 369 . Epist. Pet. de Vineis, fol. 399 che comincia: Solicitude continua, etc. 370 . Sigon. de Reg. Ital. l. 18. 371 . Matth. Paris. in Enric. III. 372 . Sigon. loc. cit. 373 . Ricc. ad ann. 1239. 374 . Ricc. ann. 1239. 375 . Sigon. de Reg. Ital. l. 18 ann. 1241. 376 . Petr. de Vineis epist. fol. 107. 377 . Alcune clausole di queste lettere vengono rapportate da Paolo Pansa nella vita d'Innocenzio IV. 378 . Pansa nella vita d'Innoc. IV. 379 . Pansa nella Vita d'Innoc. IV. 380 . Lunig. Cod. Ital. Diplom. p. 900, 907. 381 . V. Dupin. de Antiq. Eccl. disc. diss. ult. 382 . Sigon. de Reg. Ital. lib. 18 ann. 1249. 383 . Anonymus de reb. Federici, etc. Mortuus est autem ipse Imperator apud Florentinum in Capitanata Apuliae, die mensis Decembris 9. Indict. 384 . (Struvio Syntag. Histor. Germ. dissert. 30 § 61 p. 1114 riferisce varie opinioni intorno a questo titolo d'Arciduca, ch'egli crede, che non cominciasse a mettersi in uso stabilmente, che a' tempi di Federico III nella presente Famiglia austriaca). 385 . Dante Inf. canto 10. 386 . Le Costituzioni stabilite da Federico in Francfort nell'anno 1234 contro gli Eretici di Germania, si leggono presso Goldasto tom. 1 p. 77, 292, 293 tom. 2 pag. 51 et seqq. e presso Schiltero tom. 2 Inst. Juris Publici tit. 15 pag. 110 et tit. 16 pag. 117. 387 . Capecelatro Istor. de' Norm. 388 . Inveges histor. Palerm. tom. 3. 389 . Constit. de Haeretic. et Patarenis. 390 . Riccard. da S. Germ. 391 . Sigon. de Reg. Ital. lib. 4. ann. 774. Feudatariis autem, Civitatibus, Ecclesiis, ac Monasteriis certa tributorum genera imposuit, foderum, paratam, et mansionaticum appellata, quae advenienti potissimum in Italiam Regi persolverent. 392 . Capitul. Princ. Radelgh. apud Pellegr. Hist. Princ. Longob. 393 . Anonymus de Reb. Federici Imperatoris. 394 . Anonym. Librum composuit de Natura et Cura Animalium. 395 . Allacc. de' Poeti antichi, tom. 1 sol. 1, 43, 50, 52, 57, 288, 372, 373. 396 . Surg. de Neap. Illust. c. 24 n. 2. 397 . Mazzella nella Descrizione del Reg. di Nap. in princ. 398 . Tassone de Antef. vers. 2 observ. 1 n. 14. 399 . Pragm. 1 de Offic. ad Reg. Majest. ejusque Vic. coll. Spect. 400 . Pellegr. in Dissert. ult. de fin. Duc. Benev. 401 . Camil. Pereg. diss. 5. Duc. Benev. 402 . Narcis. apud Munsterum in Cosmographia, lib. 2 ubi de Campania, etc. 403 . Erchemp. apud Pellegr. n. 29 et 81. 404 . Camil. Pelleg. della Campania nell'Aggiunta, pag. 701. 405 . Tutin. de' Maestri Giustiz. in princ. 406 . Fab. Jordan. in addit. ad prooem. Constit. Ursin. de success. Feud. par. 2 q. 2 art. 1 n. 43 vers. secundo respondetur. Andreys qu. Feud. c. 1 § 1 n. 2. 407 . Ab. de Nuce ad Chron. Cass. lib. 3 cap. 13 num. 1277. 408 . Ostiens. lib. 3 cap. 13. 409 . Pont. lib. 2 de bello Neap. 410 . Tutin. de' M. Giustiz. fol. 97. 411 . Camill. Pellegr. in Castig. in Anonym. Cassin. pag. 141. Sic. n. dicta olim, atque etiam nunc dicitur Vallis, regioque percelebris in Calabria citeriori supra Consentiam ad Septentrionem, Tarentinum ad usque sinum potrecta, quam praeterfluit flumen Crathis Vulgo Grati, unde illi nomen, Regiisque frequentissime Tabulariis, nec non Riccardo a S. Germano ad ann. 1234 memorata. 412 . Pont. lib. 2 de bello Neap. 413 . Erchempert. num. 29. apud Pellegr. 414 . Gul. Ap. lib. 1. 415 . Camill. Pellegr. p. 89. B. 416 . Petr. Diac. in Auct. ad Ostien. lib. 4 cap. 22. 417 . Camill. Per. in diss. ul. de Duc. Benev. 418 . Tutin. de' M. Giustizieri, in princ. 419 . Tutin. de' Contestab. p. 6. 420 . And. Ragionam. 2. 421 . Ric. a S. Germ ad ann. 1233. 422 . Ricc. a S. Germ. 423 . Tutini de' Contestabili del Reg. fol. 44. 424 . Lunig Cod. Ital. Diplom. pag. 910.