LIBRO VENTESIMOSECONDO
Morto re Carlo II nacque subito quella famosa quistione tra il zio ed il nipote sopra la successione del Regno; poichè dall'una parte il giovanetto Re d'Ungheria mandò Ambasciadori a Papa Clemente a dimandar l'investitura, non già come nipote, secondo l'error di Tiraquello[1], ma come figliuolo di Carlo Martello primogenito del Re Carlo II. Dall'altra parte Roberto Duca di Calabria, ch'era allora col Papa in Avignone, diceva, che l'investitura doveasi a lui, come a figlio, e più prossimo in grado al Re morto. Fu con molte discussioni avute innanzi al Collegio de' Cardinali esaminato il punto: nel che importò molto al Duca di Calabria l'opera di Bartolommeo di Capua Dottore eccellentissimo, ed uomo, che per aver tenuto il primo luogo molt'anni nel Consiglio di Re Carlo, era divenuto per molta isperienza prudentissimo in pratiche di Stato. Costui trattò con molto valore la difesa del Duca, e tra le opere di Luca di Penna, e di Matteo d'Afflitto[2] leggiamo le sue allegazioni ch'egli compose per questa causa. Scrisse ancora per Roberto, Niccolò Ruffolo valente Dottore di que' tempi, le cui allegazioni leggiamo impresse ne' volumi di Luca di Penna. E Gio. Vincenzo Ciarlanti[3] vuole, che Roberto avesse seco condotto ad Avignone anche Andrea d'Isernia pur famoso Giureconsulto, perchè insieme col Capua prendesse la sua difesa. Chi sostenesse le parti di Caroberto non abbiam memoria; e se dobbiamo prestar fede a ciò, che di questa contesa ne scrisse Baldo Perugino[4], non fu egli presso il Papa difeso, come ad una cotal difficile ed intrigata quistione si conveniva.
Ma ciò che sopra ogni altro rese al giudicio del Mondo, ed agli Scrittori giusta e prudente la decisione del Pontefice Clemente V a favor di Roberto, fu che Bartolommeo di Capua trattò questa causa non semplicemente da Dottore, ma dimostrò al Papa ed a' Cardinali, che oltre a quella ragione, che davano le leggi al Duca di Calabria, era necessario per l'utilità pubblica d'Italia, e del nome cristiano, che il Regno dovesse darsi a Roberto Signor savio ed espertissimo in pace ed in guerra, riputato un altro Salomone dell'età sua; e non più tosto al giovanetto Re, il quale senza conoscimento alcuno delle cose d'Italia nato, ed allevato in Ungheria, fra' costumi del tutto alieni dagl'Italiani, essendo costretto di governare il Regno per mezzo di Ministri e Baroni ungari, a niun modo avria potuto mantenerlo in pace, parendo ancora cosa non meno impossibile, che inconveniente, che il Duca di Calabria, il Principe di Taranto, ed il Principe d'Acaja zii del Re, e Signori nel Regno tanto potenti, avessero a star soggetti a' Baroni Ungari[5]; onde dopo molte discussioni, al fine fu sentenziato in favor di Roberto, ed al primo d'Agosto di quest'anno 1309 fu dichiarato in pubblico Concistoro Re di Sicilia ed erede degli altri Stati del Re Carlo suo padre; ed a' 26 del detto mese fu da Roberto in mano del Pontefice dato il giuramento di fedeltà e ligio omaggio, e ricevè dal medesimo l'investitura[6] non meno di questo regno di Puglia, che di quello di Sicilia[7]; poichè i Pontefici romani, avendo per intrusi i Re Aragonesi, che possedevano la Sicilia senza ricercarne da essi investitura, per non pregiudicare le loro ragioni, investivano gli Angioini, così dell'uno, come dell'altro, secondo l'antico stile ed usitate formole. Questa investitura, oltre essere stata raccolta dal Chioccarelli nel primo tomo de' M. S. giurisdizionali, si legge tra le Scritture del regale Archivio[8], ove fra i soliti patti e convenzioni, Roberto s'obbliga pagar ogni anno alla S. Sede nel dì di S. Pietro ottomila once d'oro per censo, in recognizione del Feudo: replicandosi ancora ciò, che nell'altre investiture era stabilito, che la città di Benevento restasse esclusa, e come fuori del Regno rimanesse per sempre in dominio utile e diretto della Chiesa romana. Così agli 8 di settembre nella città d'Avignone fu Roberto con tutte le solite cerimonie e con ogni pompa e celebrità incoronato Re[9]; ed il Papa a maggior dimostrazione di benevolenza, gli donò per autentica Bolla sottoscritta da tutto il Collegio, una gran somma di denari, che fu creduto passar trecentomila once d'oro, che dal Re Carlo suo padre e suo Avo, si doveano alla Chiesa romana per le spese fatte da Papa Bonifacio VIII, e suoi predecessori, nella spedizione di Sicilia[10].
Essendo tutte queste cose trattate in Avignone nel Ponteficato di Clemente V, è gran meraviglia, come dai nostri Professori si creda Autore di tal sentenza il Pontefice Bonifacio VIII, che più anni prima era stato fatto prigioniere in Anagni da' Colonnesi, e morto in Roma per dolor d'animo. Nel che non è condonabile l'error di Tiraquello, e di alcuni altri[11], che contro ciò che si legge in tutti i più gravi Storici[12], scrissero, che Bonifacio avesse sentenziato a favor di Roberto, ingannato forse da ciò che si legge ne' Commentari di Baldo[13], i quali secondo le edizioni vulgate, contenendo molte scorrezioni, sono stati cagione a lui ed agli altri di simili errori.
Fu tal sentenza commendata da Bartolo[14], e quel ch'è più da Cino da Pistoia[15], quel severissimo censore de' Pontefici e della Corte romana; e quantunque Baldo[16] una volta la riprovasse, dicendo che in ciò il Papa fuit magis partialis, quam talis qualis esse debuerat: nulladimanco esaminando altrove[17] la questione, e trovatala piena di difficoltà, e non così facile a determinare, tanto che fu costretto di dire, solvat Apollo, soggiunge, che avendo così determinato la Sede appostolica, esset ridiculum, et quasi haereticum disputare, quia injuriam facit judicio Reverendissimae Synodi, delle quali parole si valse anche il nostro Matteo d'Afflitto.
Fu ella poi, come rapporta anche Bzovio[18], confermata da Benedetto XII, il quale avendo per mezzo de' suoi Legati ricevuto il giuramento di fedeltà e ligio omaggio da Roberto, gli confermò il Regno e ne lo investì con le medesime condizioni, che erano nell'investitura del Re Carlo I suo Avo[19]. Nè sono mancati Giureconsulti gravissimi, che l'han sostenuta con ragioni e con esempli, come Cujacio[20], Ottomano[21], Morisco, Mariana[22], Arniseo[23] e tanti altri. Quindi avvenne, che Roberto per mostrare che egli, perchè nato prima e come più prossimo in grado di Caroberto, dovea godere, ad esclusione di costui, della primogenitura, s'intitolava: Robertus primogenitus, etc. come assai a proposito avvertì anche Gio. Antonio de Nigris[24] ne' suoi Commentarj.
Roberto adunque, favorito in tanti modi da Papa Clemente partì da Provenza per Italia, e quivi per mostrarsi grato al Pontefice, cavalcò per tutte le città, favoreggiando i Guelfi, e dichiarando, ch'egli sarebbe stato inimico a tutti coloro che cercassero d'infestare lo Stato ecclesiastico ed i partegiani suoi.
Giunse finalmente in Napoli, dove con pompa reale e con testimonio universale di gran contento il riceverono; poichè non solo ciascuna provincia del Regno, ma ogni Terra di qualche nome gli mandò Sindici a visitarlo e ad ossequiarlo: ed egli per mostrarsi meritevole del giudizio del Papa e della benivolenza de' Popoli, cavalcò per tutto il Regno riconoscendo i trattamenti de' Baroni e degli Ufficiali co' sudditi, con accarezzare quelli che si portavano bene; e per contrario riprese gl'ingiusti e tiranni, ordinando, che dovessero inviolabilmente osservare le leggi ed i Capitoli del Regno, che suo avo e padre aveano stabiliti. Tornato a Napoli, creò Duca di Calabria Carlo suo unigenito, ed onorò molti gran Baroni del titolo di Conte; e calcando le vestigia de' suoi maggiori, cominciò a far vie più bella e magnifica la città, non avendo ancor cagione alcuna di guerra. Diede in quest'anno 1310 principio al monastero di S. Chiara, luogo per Monache in ampio numero di quell'Ordine, con un separato Convento per molti Religiosi Conventuali, e piacquegli dichiarare questa magnifica chiesa, che fosse sua Cappella regia[25]. Fabbrica, che in magnificenza e grandezza non cede a niun altro edificio moderno d'Italia: ed è fama, che dal dì primo del suo Regno destinò tremila ducati il mese da spendersi, mentre e' vivea, prima in edificare la chiesa, e' Conventi, e poscia in comprare possessioni, de' cui frutti potessero vivere le Monache e' Frati. E vi è chi scrisse[26], che Roberto per ammenda della morte proccurata a Carlo Martello suo fratello, affin di succedere al Regno, avesse usata tanta profusione in opera così pietosa; quasi che bastasse a cancellare tanta scelleraggine (se fosse vero il sospetto, che s'ebbe di lui) un tal edificio; e come se agli uomini per purgare i loro misfatti, bastasse il fabbricar chiese e monasterj, ed arricchirgli d'ampie rendite e possessioni. Scipione Ammirato[27] ne' suoi Ritratti narra, essere stato ricevuto di mano in mano dalle memorie degli antichi in Napoli, che avendo Roberto condotta a fine la fabbrica di questa Chiesa, domandò al Duca di Calabria suo figliuolo quel che gliene paresse: a cui il Duca non per irreverenza, ma per non adular il padre, liberamente rispose, che gli parea, che fosse fatta a somiglianza d'una stalla. E ciò disse, perchè non avendo la chiesa ale, le piccole cappelle, che intorno son poste di mala grazia, che non continuano infino al tetto, rendono somiglianza di mangiatoje. Ma il Re, o come è natura di ciascuno, che senta con mal grado chi biasima le sue cose, o pur da divino spirito commosso: Piaccia a Dio, gli disse, o Figliuolo, che voi non siate il primo a mangiare in questa Stalla. E non è dubbio alcuno, il primo del Sangue Reale, che si seppellisse in S. Chiara, essere stato il Duca Carlo.
CAPITOLO I. L'Imperadore Errico VII collegato col Re di Sicilia nuove guerra al Re Roberto, e facendo risorgere l'antiche ragioni dell'Imperio, con sua sentenza lo priva del Regno; ma tosto lui morto, svanisce ogni impresa; e si rinova la guerra in Sicilia.
Passò Roberto i primi tre anni del suo Regno in questi esercizj di pace; favorendo altresì, nel miglior modo che potea, la parte Guelfa per tutta l'Italia; ma furono questi studj di pace interrotti per la morte accaduta gli anni a dietro dell'Imperadore Alberto d'Austria; poichè essendo stato in suo luogo rifatto Re de' Romani Errico VII, il primo Imperadore dell'illustre Casa di Lucemburgo, e coronato in Aquisgrana, tutti i Ghibellini d'Italia mandarono a sollecitarlo, che venisse a coronarsi in Roma; e poichè lo Stato suo in Germania era di poca importanza, e bisognava con le ricchezze d'Italia sostenere il decoro imperiale, fu convocata una Dieta, ove furono tutti i Principi di Germania, nella quale fu conchiuso, che la Nazione alemana pagasse ad Errico un esercito, col quale potesse venire a coronarsi in Italia. Papa Clemente che ciò intese, dubitando, che per la sua residenza in Avignone non venisse ad occupare tutto lo Stato Ecclesiastico, ed a ponere la Sedia dell'Imperio a Roma, creò Conte di Romagna e Vicario Generale di tutto lo Stato della Chiesa Re Roberto, affinchè se gli opponesse. Mandò per tanto Roberto, sentendosi ch'Errico dovea calar in Italia, l'anno 1312 D. Luni di Raona con cento Cavalieri in ajuto dei Fiorentini, siccome fece ancor l'altro anno a Roma, mandandovi Giovanni Principe d'Acaja suo fratello con seicento Cavalieri catalani e pugliesi per contrastar la coronazione dell'Imperadore[28].
Dall'altra parte Federico Re di Sicilia, che avea preso gran dispiacere, che 'l Regno di Puglia fosse rimasto a Roberto più tosto che al Re d'Ungheria, del quale per la distanza potea dubitar meno, e che avea pensato di battere in ogni occasione le forze del Re Roberto, pose molta speranza nella venuta dell'Imperadore, se bene nel principio non si discoverse. Ma offeso da Roberto per esser posto in acerbissima prigione (dove finì la sua vita) un suo Ministro, che avea mandato a Napoli a visitar Ferdinando figliuolo del Re di Majorica, fatto prigioniere in Grecia dal Principe di Taranto; da questa ingiuria pigliando occasione Federico non volle tardar più a scovrirsi; e giunto l'Imperadore in Italia, mandò Manfredi di Chiaramonte a visitarlo, ed a trattar lega con lui contra Re Roberto. L'Imperadore fe gran conto di quest'ambasciata e strinse la lega, e dichiarò Federico Ammiraglio dell'Imperio, e mandò a pregarlo, che con l'armata infestasse le marine del Regno, ch'egli presto sarebbe ad assalirlo per terra.
I Genovesi vedendo ora più gagliardo Errico per questa lega, lo riceverono come loro Signore, onde egli cominciò ad essere formidabile a tutta Italia; e giunto a Roma a' 29 di giugno di quest'anno 1312 fu con molta celebrità coronato in S. Gio. Laterano[29]; indi ripassato a Pisa, fece citar Roberto, come vassallo dell'Imperio, a comparir avanti di lui.
Gl'Imperadori d'Occidente, come s'è veduto nei precedenti libri di questa Istoria, pretendevano sovranità sopra questi Reami: l'investiture, come altrove fu detto, sono più antiche quelle degl'Imperadori d'Occidente che de' Romani Pontefici; onde è, che S. Bernardo, adulando l'Imperador Lotario, disse, che omnis, qui in Sicilia Regem se facit, contradicit Caesari; quindi, sempre che gli Imperadori ripigliavano forza in Italia, non tralasciavano quest'impresa. Errico cita Roberto, e questi non comparendo, lo dichiara contumace, indi a' 25 aprile del seguente anno 1313 fulmina contro lui la sentenza, colla quale lo sbandisce[30], lo priva del Regno e di tutti i suoi dominii, e come ribello dell'Imperio lo condanna ad esser decapitato. Questa sentenza si legge presso noi nel primo tomo de' MS. giurisdizionali compilati per Chioccarello, e la rapporta anche Alberico ne' suoi Commentarii[31].
(Questa sentenza è rapportata tutta intera da Lunig[32]; ma varia intorno al tempo della data, notandosi l'anno 1311. Rapporta eziandio alla pag. 1079 una lettera di Filippo Re di Francia scritta a Papa Clemente V, nella quale gl'incarica ad usar tutti gli sforzi per impedire gli attentati ed i progressi d'Errico contro Roberto suo parente, i quali potrebbero frastornar anche l'impresa di Terra Santa; onde Clemente fulminò una Bolla contro tutti i nemici del Re Roberto, dichiarandoli invasori del Regno, la quale si legge pag. 1086).
Nell'istesso tempo il Re Federico con potente armata infestava le Calabrie, e certamente le cose di Roberto sarebbero capitate male, se morte opportuna non l'avesse liberato; poichè mentre Errico se ne tornava in Toscana per quindi venire con gagliardo esercito a' danni del Re Roberto, per cammino cadde infermo, e arrivato a Buonconvento, castello del Contado di Siena, a' 24 agosto di quest'istesso anno 1313 se ne morì. Non mancano Scrittori che rapportano la sua morte essere stata proccurata da' Fiorentini, i quali avendo corrotto un Frate Domenicano nominato Pietro di Castelrinaldo, narrasi che questi gli dasse un'ostia attossicata nel tempo che gli richiese di voler prendere il Viatico.
(Il nome del Frate Domenicano che nell'Eucaristia attossicò l'Imperadore Errico VII non fu altrimente di Pietro di Castelrinaldo, ma di Bernardo di Montepulciano, e l'abbaglio d'alcuni Scrittori nacque d'aver confuso Frate Pietro, che presso il Re di Boemia Giovanni figlio d'Errico, prese la difesa di Frate Bernardo e del suo Ordine Domenicano, con Frate Bernardo imputato d'una tale scelleraggine nelle lettere apologetiche del Re Giovanni impresse dal Baluzio T. 1, Miscel., p. 162 si legge così: Nuper autem retulit nobis Religiosus Vir frater Petrus de Castro-Reginaldi, ordinis fratrum Praedicatorum, quod in magnum ipsius ordinis dedecus et contemptum facti sunt Romancii, Chronicae et Moteti, in quibus continetur, quod clarae memoriae Dominum et genitorem nostrum Imperatorem Henricum, Frater quidam Bernhardus de Montepeluciano, ordinis supra dicti, administrando ei Sacramentum Eucharistiae, venenavit; et propter hoc, ad defensionem veritatis, praedictus frater Petrus de Castro Reginaldi, habere super hoc litteram testimonialem humiliter supplicavit. E questo medesimo nome gli danno Tritemio Chron. Hirsaug. ad An. 1313 e Cuspiniano pag. 366. Parimente è da notarsi, che durando ancor a' tempi d'Errico VII il costume di darsi anche ai Laici la communione sub utraque specie, molti Scrittori antichi rapportano che il veleno non fu propinato nell'ostia, ma mescolato dentro il calice che se gli diede a bere: ed in questa maniera narra esser seguito l'avvelenamento Alberto Argent. pag. 118 dicendo: Dicebatur enim, quod ipse praedicator venenum sub ungue digiti tenens absconsum, post communionem potui Caesari immississet et illico discessisset. E lo stesso scrisse H. Stero ad A. 1313. Hic Imperator, ut communis fuit opinio, per penitentiarium suum, immixto veneno in Calice Domini, cum Imperator ab ipso Eucharistiam sumeret, extinctus fuit, et Pisis sepultus. Veggasi Martino Disembachio, il quale compilò una particolar dissertazione, de vero mortis genere, quo Henricus VII. obiit. Dove nel §. 39 sulla fede di Tritemio Cron. Hirsaug. ad Annum 1313 rapporta, che a que' tempi fu così comune e costante la credenza che Errico fosse stato avvelenato da un Frate Domenicano, che per questo misfatto fosse stata imposta pena a tutto l'ordine de' Predicatori, che i loro Monachi non potessero comunicare se non colla mano sinistra coloro, che s'accostavano all'altare. Veggasi parimente Burcardo Struvio Syntag. Hist. Germanor. Dissert. 25, §. 15, il quale rapporta le arti e gli sforzi che fecero i Domenicani presso Giovanni Re di Boemia, per purgarsi di questa imputazione; e la propensione di quel Re di favorirli, così perchè temeva che non gli concitassero l'odio del Clero, come anche perchè de' medesimi valevasi per Confessori e Consultori di sua coscienza, rapportando eziandio i sospetti che s'aveano, non quelle lettere apologetiche trascritte da Baluzio, fossero false o almanco estorte da Giovanni per loro importunità ed artificj).
Altri lo niegano, e dicono essersi ammalato per contagion d'aria e morto di febbre[33]. Checchè ne sia, la morte d'Errico pose in tanta confusione i Capi del suo esercito ed il Re Federico che, ciascuno tolse la sua via, e Federico mesto si ritornò in Sicilia; ma essendo il Re Roberto fieramente con lui adirato, il qual rotta la pace, che avea seco, s'era scoperto in su quella venuta amico dell'Imperadore; fatta un'armata di cento venti galee tra quelle di Provenza, del Regno e de' Genovesi, andò egli stesso in persona con Giovanni e Filippo suoi fratelli a danni di quell'isola. E furono i principj molto lieti, perciò ch'egli prese per forza Castello a mare, e posto l'assedio a Trapani, ebbe grande speranza d'averla; ma ingannato da' terrazzani che l'aveano tenuto in parole di concerto con Federico, l'indugio fu tale che vedendosi mancata la vettovaglia, ed andar tuttavia infermando il suo esercito, nè volere il Re Federico venire seco a battaglia, nè in mare, nè in terra, fu costretto far tregua co' Siciliani per tre anni, e tornossene il primo giorno dell'anno 1315 a Napoli molto peggiorato.
Fra questo mezzo Papa Clemente V, morto Errico, avendo ripreso vigore il suo partito, cavò fuori una sua Bolla, colla quale rivocò, ed annullò la sentenza fatta dall'Imperadore contro Roberto. Questa oggi la leggiamo tra l'altre decretali de' romani Pontefici, avendola i Compilatori del dritto Canonico inserita fra le Clementine[34], e si legge ancora nel primo volume dei MS. giurisdizionali del Chioccarelli.
Re Roberto convenendogli portarsi ora in Provenza, ora nell'impresa di Sicilia, sovente in Fiorenza, in Genova ed altrove, avea costituito Vicario del Regno, secondo il costume de' suoi maggiori, Carlo Duca di Calabria suo figliuolo, di cui perciò, come si disse, abbiamo molti Capitoli, fatti da lui mentr'era Vicario in assenza di suo padre. Ma Roberto non avendo altri figliuoli, pensò di casarlo e conchiuse il matrimonio con la figliuola dell'Arciduca d'Austria, onde mandò in Alemagna il Conte Camerlingo, e l'Arcivescovo di Capua Ambasciadori con onoratissima compagnia di Nobiltà. Costei ebbe nome Caterina, la quale condotta con grandissimo onore a Napoli, fu poco fortunata, perchè dopo non molto tempo morì senza lasciar figliuoli; tanto che da poi Re Roberto diede a Carlo la seconda moglie che fu Maria figliuola di Carlo Conte di Valois, della quale ebbe tre figliuole, come diremo più innanzi.
Intanto essendo finito il tempo della triegua co' Siciliani, il Re Roberto deliberò seguire l'impresa di Sicilia, ed avendo posto in acqua un buon numero di navi, afflisse tanto quell'isola, e le forze del Re Federico, che fu comune opinione che se Roberto avesse continuata la guerra in quel modo, avrebbe certamente ricoverato quel Regno; ma i Siciliani, essendo morto nel mese di aprile dell'anno 1314 Clemente V e rifatto in suo luogo Gio. XXII mandarono subito una imbasciata de' maggiori uomini dell'isola a rallegrarsi della creazione, ed a pregarlo, volesse trattare la pace o la triegua fra que' due Principi. Il nuovo Papa mandò perciò un Legato al Re Roberto, che lo indusse a far nuova triegua per cinque altri anni.
CAPITOLO II. L'Imperador Lodovico bavaro cala in Roma, e muove guerra al Re Roberto. Il Duca di Calabria si muore, onde s'affrettano le nozze di Giovanna sua figliuola con Andrea secondogenito del Re d'Ungheria.
Ma nuovo turbine interruppe i progressi, e turbò la quiete del Re Roberto: morto, come si disse, l'Imperadore Errico, essendosi gli Elettori adunati in Francfort l'anno 1314 si divisero sopra l'elezione del successore: gli uni elessero Lodovico di Baviera; gli altri Federico figliuolo d'Alberto Arciduca d'Austria. Giovanni XXII ricusò di confermare alcuno de' due eletti, e dichiarò vacante l'Imperio. I due Pretendenti fecero guerra insieme in Alemagna, ed i lor partigiani in Italia. In fine Federico restò sconfitto l'anno 1323 e preso prigione insieme con suo fratello Errico da Lodovico di Baviera. Il lor terzo fratello Leopoldo ricorse al Papa, che pronunziò una sentenza contro Lodovico di Baviera. Questo Principe se ne appellò al Concilio generale, ed al futuro Pontefice legittimamente eletto[35]; all'incontro il Papa non lasciò di continuare la sua azione, di scomunicar Lodovico di Baviera, e di dichiararlo eretico. L'Italia per conseguenza fu parimente turbata dalle fazioni de' Guelfi partigiani del Papa e de' Ghibellini partigiani dell'Imperadore; ma chi fra' Guelfi si segnalasse sopra tutti gli altri fu il nostro Re Roberto, e Carlo Duca di Calabria suo figliuolo. Il Papa lo chiamò, e fece levar delle truppe per far la guerra contro il partito di Lodovico. I Ghibellini veggendo, che i Guelfi per le forze di sì potente Re andavano tuttavia crescendo, sollecitarono che venisse in Italia il Bavaro. Lodovico calò in Italia, e giunto a Trento, andarono ad incontrarlo Cane della Scala Signor di Verona, Passerino Signore di Mantua, Azzo e Marco Visconte, Guido Tarlati Vescovo e Signore d'Arezzo, gli Ambasciadori di Castruccio Castracani e de' Pisani, e tutti i primi della fazione Ghibellina, tanto di Lombardia, quanto di Romagna e di Toscana. Fu celebrato un Parlamento, dove Lodovico promise e giurò di venir a Roma, e di favorire in tutta l'Italia il nome e la parte Ghibellina; ed all'incontro i Principi e gli Ambasciadori, che si trovarono al Parlamento, promisero dargli centocinquantamila fiorini d'oro, quando egli fosse giunto a Milano[36].
In questo Parlamento ancora Lodovico fece pubblicar un processo contro Papa Gio. XXII, nel quale per giudicio di quelli Vescovi e Prelati, ch'eran appresso di lui, fu dichiarato eretico, imputandosi al Papa, ch'errasse in sedici articoli di quelli, che negli altri Concilj era determinato, che si tenessero per la Chiesa cattolica, e fatto questo venne a Milano[37] e nel dì della Pentecoste si fece coronare dal Vescovo d'Arezzo della Corona di ferro nella chiesa di S. Ambrogio; ed invitato da' Romani intraprende di passare a Roma. Il Re Roberto vedendo quel che potea importare la venuta del Bavaro in Roma e che l'aiuto del Pontefice sarebbe stato debole e tardo, fece ogni sforzo per impedirgli la venuta. A questo fine mandò egli il Principe della Morea suo fratello con grossa cavalleria in Roma per tenere stretto il Bavaro; mandò anche nuova armata in Sicilia, essendo finita la triegua, per dar tanto da fare al Re Federico, ch'egli non potesse esser d'alcuno aiuto all'Imperadore; ma tutti questi sforzi non furono valevoli ad impedire, che il Bavaro non venisse tuttavia innanzi armato per coronarsi in Roma; onde il Re fu costretto rivocar il Duca di Calabria, il qual era al Governo di Fiorenza, e mandarlo a guardare le frontiere del Regno. Carlo a' 28 settembre di quest'anno 1327 con la moglie, e con tutti i Baroni ch'erano seco, partì di Fiorenza e per la via di Siena, Perugia e Rieti giunse all'Aquila il medesimo giorno, che il Bavaro fu coronato a Roma con molta celebrità: ciò che avvenne il dì 16 di gennaio del seguente anno 1328.
Ma l'indugio del Bavaro in Roma fu la salvezza del Re Roberto, essendo stata fama in que' tempi, che egli non avrebbe potuto sostenere l'impeto del Tedesco, il quale avea seco cinquemila buoni Cavalieri, se senza tardar punto in Roma, dopo aver presa la Corona dell'Imperio, fosse passato alla conquista del Reame. Ma l'aver egli voluto crear nuovo Papa, da cui la seconda volta volle esser coronato, ed occupatosi in far leggi, e dar altri ordini, fu cagione, che quando volle passar nel Regno, non fu più a tempo: anzi le genti del Re presero Ostia di nuovo ed Alagna, ed avendo fortificati i passi, costrinsero finalmente il Bavaro ad uscir di Roma, e tornarsene in Toscana[38].
Essendo riusciti vani i disegni del Bavaro e de' Ghibellini, Re Roberto non solo fu liberato dal pensiero della guerra, ma fatto assai maggiore di forza e di autorità per se stesso e per l'aiuto del Papa, divenne formidabile a tutti i suoi nemici; laonde ordinate le cose di Toscana, senza dubbio avrebbe finito felicemente l'impresa di Sicilia; ma come nelle maggiori felicità si conosce spesso la fragilità delle cose umane, accadde, ch'ammalandosi il Duca di Calabria in Napoli, al primo di novembre del medesimo anno 1328 morì la vigilia di S. Martino con incredibile dolore dell'infelice padre e di tutto il Regno, e con infinite lagrime fu sepolto nella chiesa di S. Chiara. Narrasi, che quando questo Principe fu portato alla sepoltura, l'infelice padre vedendosi tolto l'unico suo figliuolo, dicesse: Caduta è la Corona dal capo nostro. Come veramente seguì per le ruine e turbulenze, che poi vennero al Regno, perchè a Carlo, se bene mentr'era in Fiorenza Maria di Valois sua seconda moglie gli avesse partorito un figliuolo maschio, che nomossi Carlo Martello, questi non visse più che otto giorni; nè di Maria, che sopravvisse al marito, lasciò maschi, ma due figliuole già nate, ed un'altra nel ventre. La prima nominossi Giovanna, e fu quella, che poi successe al padre, e fu Regina di Napoli. La seconda fu chiamata Maria, la quale poco da poi morì, e fu seppellita in S. Chiara. Poco appresso la vedova Duchessa partorì un'altra figliuola, che fu anche chiamata Maria, la quale, come diremo, divenne Duchessa di Durazzo.
Carlo Duca di Calabria fu un Principe, se ben non molto bellicoso, adorno nondimeno di tutte le altre virtù convenienti a Re. Fu egli religiosissimo, giustissimo, clementissimo e liberalissimo, amatore de' buoni e nemico de' cattivi, e tale che il padre quasi dall'adolescenzia gli pose il governo di tutto il Regno in mano. Lo creò suo Vicario, ch'esercitò con tanta lode e prudenza, che il Re suo padre ne vivea molto contento e soddisfatto. Il Tribunal della Vicaria nel suo tempo era in somma floridezza e vigore. Egli vi creò Giustiziero Filippo Sangineto, con stabilirgli provisione di 150 once d'oro l'anno, e 90 once per diece uomini a cavallo e 16 a piedi per guardia e decoro di quel Tribunale. Ebbe in costume ogni anno cavalcare per lo Regno, per riconoscere le gravezze, che facevano i Baroni e Ministri del Re a' Popoli. Per mezzo di molti Capitoli da lui stabiliti, mentr'era Vicario del Regno, diede varie providenze, e sesto a molte cose appartenenti al buon governo e retta amministrazione della giustizia, della quale fu cotanto zeloso ed amatore, che nel suo sepolcro, per ispiegar questa sua virtù, si vede sotto i suoi piedi tener scolpita una conca d'acqua, nella quale pacificamente beve un lupo ed un agnello.
Celebrate l'esequie del Duca, il Re pose ogni studio in fare bene allevare la bambina, che avea da succeder al Regno, ed egli intanto, come Principe di grande e generoso animo, non lasciò nè il governo del Regno, nè il pensiero della guerra di Sicilia.
Ma passato alcun tempo, sentendosi già tuttavia invecchiare, pensò stabilire la successione del Regno, e benchè i Reali fossero molti nel medesimo Regno, come Roberto, Luigi e Filippo figliuoli del Principe di Taranto; Carlo, Luigi e Roberto figliuoli del Principe della Morea, ed altri, tra' quali avrebbe potuto eleggere alcuno abile alla successione e governo del Regno, dandolo per isposo alla picciola nipote; nulladimanco stimolato, come si crede, ed accenna Baldo[39], d'alcun rimorso di coscienza, perchè il Regno per più diritta ragione dovea toccare a suo Nipote Re d'Ungheria figliuolo di Carlo Martello primogenito, o per altra occulta cagione, che a far ciò lo stringesse; si risolse di far tornare lo Stato in quel ceppo onde si era partito, e per questo deliberò d'eleggere uno dei figliuoli del già detto Re d'Ungheria[40]: benchè i calamitosi successi, che ne seguirono, dimostrarono apertamente, quanto il giudizio umano sia spesse volte fallace.
Mandò a quest'effetto solenne ambasciaria a Caroberto Re d'Ungheria, il quale con molta allegrezza ricevè l'ambasciata, e fatta elezione d'Andrea suo figliuolo secondogenito, ne rimandò gli Ambasciadori con ricchi doni, dicendo loro, facessero intendere al Re Roberto, ch'egli fra pochi dì si sarebbe posto in viaggio collo sposo, e verrebbe a Napoli, come già fece non dopo molto indugio; perocchè partitosi d'Ungheria col picciolo figliuolo e gran compagnia di suoi Baroni per la via del Friuli, all'ultimo di luglio del 1333 giunse a Vesti città di Puglia, posta alle radici del Monte Gargano, dove da Giovanni Principe della Morea, mandato dal Re con molti Baroni e Cavalieri del Regno, fu onorevolmente ricevuto. Fu a' 26 settembre di quest'anno celebrato lo sponsalizio tra Andrea e Giovanna pari d'età, non avendo ambedue, che sette anni, e verso la fine d'ottobre, il Re d'Ungheria lieto d'aver lasciato un figliuolo così ben ricapitato, con la certezza di succedere a sì opulento Regno, si partì, e ritornò in Ungheria, lasciando alcuni de' suoi Ungari, che servissero il figliuolo, già intitolato Duca di Calabria, e tra gli altri lasciò con grande autorità un Religioso chiamato Fra Roberto, che avesse da essere Maestro di lettere e di creanza al picciolo Andrea.
CAPITOLO III. Si rinova la guerra in Sicilia; ma s'interrompe per la morte del Re Roberto.
Re Roberto essendo libero dal pensiero del successore, solo gli rimaneva quella cura, che perpetuamente dopo Re Carlo il Vecchio tenne travagliati tutti i suoi successori, cioè di racquistare il Reame di Sicilia; mandò per tal effetto nuova armata in quell'isola, dove benchè facesse molti danni, non acquistò però Terra alcuna murata. Ma morto che fu il Re Federico l'anno 1337, lasciando per successore Pietro suo primogenito, tosto mandò Roberto in Avignone a pregar Papa Benedetto XII, il quale a' 20 decembre dell'anno 1334 era succeduto a Gio. XXII, che avesse da mandar un Legato appostolico in Sicilia, a richiedere Re Pietro, che volesse cedere quel Regno, ed osservare la Capitulazione fatta in tempo di Carlo Valois della pace; e questo fece non con isperanza di ottenere per quella via l'isola, ma con disegno, che il Papa, vedendosi disprezzare da Re Pietro, entrasse in parte della spesa della guerra. Nè mancò di mandare a visitare la Regina Elionora sua sorella, ed a tentarla che avesse disposto il figlio a cedere quel Regno, promettendole, che l'avrebbe aiutato ad acquistar il Regno di Sardegna con molte maggiori forze di quelle, che erano state promesse nella Capitulazione; ma la Regina, ch'era savia, rispose, ch'ella non avea tale autorità col figlio, che bastasse a tanto, e che pregava il Re suo fratello, che volesse più tosto tenerlo per servidore e per figlio, e massime non trovandosi eredi maschi, ond'era certo di non potere lasciare nè il Regno di Napoli, nè l'altre sue Signorie a persona più congiunta di sangue, di quel che gli era Re Pietro. Così, siccome questa ambasceria fece poco effetto, molto meno fece il Legato appostolico, perchè gli fur date parole, nè potendo far altro, lasciò il Re e l'isola scomunicata: del che curandosi poco Re Pietro, si fece subito incoronare.
Rivolse perciò Roberto tutti i suoi pensieri alle armi, e a' 5 maggio del seguente anno 1338 mandò un'armata di settanta vele tra Galee ed Uscieri con 1200 Cavalieri per infestare quell'isola, e non molto da poi un'altra maggiore e meglio fornita; ma fuori dell'aver preso Termini per assedio, non vi fece cosa di momento. Il Re non trovandosi mai stanco di questa impresa, due anni da poi vi mandò Giufredi di Marzano Conte di Squillaci e suo G. Ammiraglio; la qual impresa fu meglio guidata, che nessun'altra, avendo il Conte preso Lipari, e sconfitti i Messinesi. L'aver acquistato Lipari fu cagione, che l'anno seguente, mandato con nuova armata Ruggiero Sanseverino in Sicilia, acquistasse Melazzo; e questa fu l'ultima impresa che il Re Roberto fece in Sicilia. Ma ciò che per tanti anni, e tante e sì ostinate guerre non s'era potuto porre in effetto, se morte non l'avesse impedito, si sarebbe veduto conseguire per una piccola contingenza: Re Pietro, ch'era succeduto al padre, non regnò se non che pochi anni; ed essendo morto, nè avendo lasciati altri, se non che Lodovico suo figliuolo fanciullo sotto il governo del zio; i Palizzi Baroni potentissimi in Messina con molti parenti loro e di Federico d'Antiochia, con quelli di Lentino, di Ventimiglia ed Abati, a' quali erano venuti più in odio i Catalani, che non furono agli antecessori loro i Franzesi, occuparono Messina, e mandarono da parte loro e di quella città a Napoli a giurare omaggio a Re Roberto; ma il messo trovò il Re che avea presa l'estrema unzione, e poco da poi morì. Esempio evidente de' giuochi, che fa la fortuna nelle cose umane, che avendo Re Carlo I e Re Roberto sessanta anni continui travagliato il Regno di Sicilia con sì potenti e numerosi eserciti, e mandato quasi ogni anno ad assaltarlo con tante potentissime armate, nè avendo mai potuto ricovrarlo, la fortuna avea riservato ad offerirglielo, quasi per beffa, al punto della morte; perchè non è dubbio, che se tal occasione fosse venuta due anni avanti, l'isola sarebbesi ricovrata, perchè con pochissime forze si poteano abbattere e spegnere quelle del pupillo Re, ed esterminar in tutto il nome dei Catalani da quell'isola.
Morì questo savio Re, non men oppresso dagli anni, che da gravi affanni e travagli, che in questi ultimi anni intrigarono l'animo suo in molestissime cure: vedea, che in sei anni che Andrea Duca di Calabria era stato nel Regno e nudrito nella sua Corte, Accademia e domicilio d'ogni virtù, non avea lasciato niente de' costumi barbari d'Ungheria, nè pigliati di quelli, che poteva pigliare, ma trattava con quegli Ungari che gli avea lasciati il padre, e con altri che di tempo in tempo venivano; tanto che il povero vecchio si trovò pentito d'aver fatta tal elezione, ed avea pietà grandissima di Giovanna sua Nipote, fanciulla rarissima, e che in quell'età, che non passava dodici anni, superava di prudenza non solo le sue coetanee, ma molte altre donne d'età provetta, avesse da passare la vita sua con un uomo stolido e da poco. Avea ancora grandissimo dispiacere, nell'antivedere, come Principe prudentissimo, le discordie che sarebbero nate nel Regno dopo la sua morte; perchè conosceva che il Governo verrebbe in mano degli Ungari, i quali governando con insolenzia, e non trattando i reali a quel modo, che gli avea trattati esso, gli avrebbe indotti a pigliare l'arme con ruina e confusione d'ogni cosa. E per questo, credendosi rimediare, convocò Parlamento generale di tutti i Baroni del Regno e delle città reali, e fece giurare Giovanna solo per Regina, con intenzione, ch'ella avesse dopo la sua morte da stabilirsi un Consiglio tutto dipendente da lei, e che il marito restasse solo in titolo di Consorte della Regina.
S'aggiungea a questo un'altra molestia poco minore, perchè a quel tempo che si vedea, che poco potea durare la sua vita, nè si sperava successore abile a tener in freno gl'insolenti, in tutte le città maggiori nacquero dissensioni civili, non senza grandissimo spargimento di sangue, nè valevano i Giustizieri (che così si chiamavano allora i Governadori delle province, che oggi appelliamo Presidi) a prevedere ed estinguere tanto incendio. Dalle quali discordie crebbe tanto il numero de' fuorusciti per tutto il Regno, che non potendosi sopportare, bisognò che il Re provvedesse a modo di guerra, mandando Capitani e soldati per le province per estinguergli; e non era possibile, sì perchè i colpevoli si spargevano per diversi luoghi, e non davano comodità a' Capitani del Re di potergli espugnare tutti insieme, come ancora perchè molti Baroni gli favorivano e ricettavano nelle terre loro. Con questi affanni e cure mordacissime essendosi infermato, trapassò questo grandissimo Re a' 16 gennajo l'anno 1343, avendo regnato anni trentatre, mesi otto e dì sedici; e fu sepolto dietro l'altar maggiore di S. Chiara in quel nobile sepolcro, che ancor si vede.
(Il Re Roberto nell'istesso dì 16 Gennaro nel Castelnovo di Napoli prima di morire fece il suo testamento, nel quale istituì erede universale in tutti i suoi Stati di Provenza e Regno di Sicilia, Giovanna sua nipote, figlia primogenita del Duca di Calabria premorto. E questo testamento estratto da' registri dell'Archivio reale di Provenza, fu impresso da Lunig ).
Lasciò Roberto nome del più savio e valoroso Re, che fosse stato in quell'età, ornato di prudenza, di giustizia, di liberalità, di modestia, di fortezza, ed altre virtù tanto militari, quanto civili. In quanto alla giustizia, mai non fu veduto il Regno così ben governato e con tanta prudenza, quanto che sotto di lui. Lo dimostrano le tante savie leggi che ci lasciò, l'ordine esatto de' Tribunali e de' Magistrati, e la cura che tenne d'elegger Ministri di somma dottrina e di costumi incorrotti. Proccurò che nel Regno fosse fra i Popoli una tranquilla pace e sommo riposo: tenne in freno gl'insolenti, e sterminò gli sbanditi e facinorosi che lo turbavano: ripresse la violenza degli Ecclesiastici, i quali sovente opprimevano i suoi vassalli: ed a questo Principe noi dobbiamo que' rimedj, onde ci facciamo scudo e difesa delle loro violenze e gravezze, che chiamiamo Regj Conservatorj, de' quali in questo luogo bisogna tenere un più lungo discorso.
CAPITOLO IV. De' Conservatorj regj.
Nel Regno di Carlo I e II essendo, per le cagioni dette altrove, i privilegj ed immunità de' Cherici cresciuti nell'ultimo grado; ed essendo (tranne le feudali) così nelle cause civili, che nelle criminali, stati sottratti dalla giurisdizione de' Magistrati regj: la loro licenza e libertà crebbe tanto, che colla sicurezza di non potere i loro eccessi e violenze essere emendati da' Giudici Laici, i Prelati, i Cherici ed insino i Monaci insolentivano sovente contro i Laici, ed alcune volte anche contro i Cherici stessi meno potenti. Erano invase le loro possessioni, angariavano le loro persone, l'affliggevano con ingiurie, danni, rapine ed altre molestie. Ci testimonia l'istesso Roberto, che nel suo Auditorio non risuonavano altre querele, nè si sentivano altri gemiti e clamori, che di queste violenze, ed oppressioni[41]. Il savio Re per darne compenso prescrisse a' suoi Giustizieri la norma, come dovessero reprimere tante insolenze, ed emendare le oppressioni. Stabilì in quel suo famoso Capitolo, che incomincia Ad Regale fastigium, istromentato dal celebre Giureconsulto Bartolommeo di Capua suo Protonotario, che i Giustizieri, sopra questi eccessi non procedendo per via giudiziaria, nè ricercando cognitionalia ordinare certamina, ma solamente facta de injuriis, rapinis, et damnis illatis informatione summaria, per facti notorium, vel rei evidentiam, famam publicam, aut designationem aliam attestantem commissam injuriam, la facessero correggere e prontamente emendare.
Prescrisse loro ancora, che per pruova della turbazione fossero solo contenti di proponere un general editto, nel quale senza specificar le persone perturbatrici, s'invitasse generalmente quicumque sua interesse putaverit, visurus accedat producendorum in causa testium juramenta, et oppositurus, quae circa rei substantiam voluerit allegare.
Chiunque leggerà in questo capitolo le tante ragioni che Roberto allega per giustificarlo, e per farlo apparire moderato, e non eccedente la sua regal potestà, non potrà non essere sorpreso di maraviglia, vedendo un Re, che non intende altro che di tener pacato ed in riposo il suo Regno, e di rimover perciò da quello le rapine e le violenze, perchè punto non s'offendesse la libertà ecclesiastica, parlar con tanta riserba e moderazione, e con tante clausole piene di sommo rispetto e riverenza; come se a' Principi non fosse permesso per quiete de' loro Stati stabilire più forti ed efficaci leggi per estirpar que' mali e que' disordini onde vengono afflitti. Egli si protesta in prima, che quantunque contro le persone de' Prelati e de' Cherici comunemente la sua potestà non s'estenda; nulladimanco per la protezione e difesa che deve tenere di tutti i sudditi del suo Regno, perchè non siano oppressi, questo faceva che s'innalzasse il potere dell'eminente suo braccio. Concede di vantaggio, che i suoi Magistrati non possano contro le persone de' Prelati e dei Cherici, e nelle loro cause procedere per via di cognizion giudiciaria, e con formati processi; e perciò vuole, che si proceda per via di summaria ed estragiudizial cognizione, con tante moderazioni e rispettose riserve. Si dichiara e si protesta ancora, che si muove a ciò fare unicamente per affetto di carità e di compassione. Allega perciò l'esempio del Re Davide, che soccorse gl'Isdraeliti oppressi: di que', che per loro scampo confuggono alle statue de' Principi: che sia legge di natura ripulsare dal congiunto o vicino l'ingiurie: allega finalmente l'esempio di Mosè, il quale vedendo un Ebreo essere malmenato ed oppresso da un Egizio, lo stese morto a terra.
Ma quello che maggiormente dimostra la sua moderazione, si è il considerare, che tutto ciò stabilì non per via di legge e di solenne editto, ma per forma di Lettera Regia di maniera che volle, che questo suo regolamento non si dovesse avere come sua Costituzione, in vigor della quale potessero i suoi Magistrati per se medesimi procedere, siccome regolarmente provedono in tutti gli altri casi, come esecutori delle leggi, senza aver bisogno, che il Principe lor dia altra spezial facoltà; ma ordinò, che i Giustizieri facendosi il caso, dovessero ricorrere al Principe, e da quello ricevere particolari lettere, onde si comunicasse loro questa autorità, intendendo per ciò che in questi casi avrebbero proceduto non per via d'ordinaria potestà, ma per quella comunicata loro dal Principe, a cui si appartiene unicamente, per la potestà economica di reggere i suoi Stati, e sovente per modi, ed espedienti estraordinarj, e non comunali, dipendenti dalla suprema potestà del suo eminente braccio. Quindi è, che Bartolommeo di Capua[42] istesso, per la di cui penna fu il Capitolo dettato, notò, che questo non era Capitolo, cioè Costituzione, ovvero Editto, sed forma literae Regiae Curiae, quae debet dirigi Officiali a Rege in pendenti, alias Officialis ipse non potest procedere secundum formam hujus Capituli: Et ita se habet consuetudo Magnae Curiae Vicariae, et omnium Civitatum Regni: ond'è, che niuno Ufficiale può procedere, nisi ex Regia commissione, come notò assai a proposito de Bottis[43].
E quindi nacque la pratica continuata di mano in mano insino a' tempi nostri, che senza spezial commessione del Re, niun Tribunale può procedere servata la forma di questo Capitolo. Nel Regno degli Aragonesi, e nel principio ancora del Regno degli Austriaci, nel quale, come vedremo, il Tribunal del Sacro Consiglio di S. Chiara era nella sua maggiore elevatezza e splendore, e superiore a tutti gli altri, procedeva sì bene senz'altra commessione regia; ma ciò avveniva, perchè questo Tribunale rappresentava in tutto la persona del Re e sotto il suo nome tutto si spediva; ond'è, che sovente, come attesta l'istesso Bottis, soleva rimettere queste cause alla Gran Corte della Vicaria, alla quale davasi autorità di poter procedere contro gli Ecclesiastici servata forma Capitulorum Regni. Quindi negli Archivj di questo Tribunale osserviamo perciò molti processi fabbricati a tenore de' medesimi Capitoli. Ma innalzato da poi a' tempi degli Austriaci sopra tutti gli altri Tribunali quello del Collateral Consiglio, ed avendo tratto a se le supreme preminenze, ed ogni potestà economica, e lasciata agli altri Tribunali l'independenza per ciò, che riguarda le cose di giustizia, quindi nacque quello stile, che ora riteniamo, che da questo Tribunale, come rappresentante la persona del Re, si spediscono lettere regie, per le quali si commette regolarmente al S. C. che procedesse servata la forma di questi capitoli, e prima anche solevan commettersi al Cappellano Maggiore. Non vi sarebbe niuna implicanza perchè queste lettere non si potessero ancora drizzare al Reggente della Gran Corte della Vicaria, ovvero ai Presidi delle province, che anticamente erano chiamati Giustizieri, e ad altri Ufficiali Regj. Abbiamo molte di queste lettere drizzate da Roberto istesso al Reggente della Vicaria e suoi Giudici, com'è quella, che si legge sotto il titolo de Spoliatis pro Laico contra Clericum, e che comincia: Omnis praedatio; e l'altra che leggiamo presso Chioccarello: a' Giustizieri di Appruzzo Ultru, et Citra flumen Piscariae: a' Giustizieri di Val di Crati, e Terra Giordana: a' Giustizieri di Terra di Lavoro, ed a coloro del Contado di Molise. L'istesso fece Carlo Duca di Calabria suo figliuolo, Carlo III di Durazzo, Alfonso I e gli altri Re successori, come vedremo più innanzi. Ma ne' nostri tempi e de' nostri avoli, essendo più che mai cresciuta l'audacia e temerità de' Prelati, si è riputato migliore, per non esponere questi inferiori Ministri ai loro fulmini, e non entrare perciò in cimenti, di dirizzarsi queste lettere al Tribunal supremo del S. C. il qual regolarmente perciò vi procede.
Ma tanta moderazione del Re Roberto, tanto suo rispetto, a niente giovò a questo Principe, perchè i Prelati ed i Canonisti non declamassero contro questo suo regolamento. Sin da' tempi di Luca di Penna[44], che scrisse sotto il Regno di Giovanna I: Hoc statutum, com'egli dice, multi Praelati, et Canonistae nitebantur infringere, dicentes, Principem Secularem nihil posse contra Clericos, et eorum causas directe, vel indirecte statuere, sed ipsi circa hoc inique loquuntur: tanto che bisognò ch'egli impugnasse la sua penna per confutare i loro errori. E ne' tempi posteriori, essendo più cresciuta la licenza degli Scrittori ecclesiastici, furon da essi sempre questi rimedi combattuti e riputati, com'essi dicono, offensivi alla immunità, ovvero libertà ecclesiastica. Nel decimoterzo tomo dei MS. giurisdizionali raccolti da Bartolommeo Chioccarelli, si legge una relazione delle tante controversie che sono state tra' Ministri del Re, e gli Ecclesiastici sopra questi Capitoli: si leggono ancora diverse allegazioni in jure fatte per difesa e per mostrar la giustizia de' medesimi: all'incontro quanto siansi affaticati gli Ecclesiastici per distruggere e far togliere la loro osservanza ed esecuzione; ma non ostante questi loro sforzi, per lo decorso di più secoli sono rimasti sempre stabili e fermi, e sono stati presso di noi sempre in uso, e praticati sotto quanti Principi mai da Roberto in qua hanno dominato questo Regno, e tuttavia sono nel lor fermo vigore ed inalterabil osservanza.
Di Roberto, oltre del Capitolo ad regale fastigium, ne abbiamo tre altri ordinanti il medesimo, drizzati secondo i casi accaduti a' suoi Uffiziali che si leggono impressi tra' Capitoli del Regno spediti da lui negli ultimi anni del Regno. Il primo è sotto la rubrica: Conservatorium pro Laico contra Clericum: che comincia: Charitatis affectus, drizzato a' Giustizieri d'Apruzzo Ultra, ad istanza di Ruggiero Conte di Celano per le molestie e turbazioni che gl'inferivano l'Abate, ed i Monaci del Convento di S. Maria della Vittoria. Il secondo, che comincia: Finis praecepti charitas ed è sotto il titolo, Conservatorium pro Clerico contra Clericum, fu drizzato al Giustiziere di Val di Crati e Terra Giordana, e fu spedito ad istanza di Giovanni Tavolaccio di Castrovillari Canonico Cosentino, per l'ingiuste molestie che gli venivan date da Guglielmo ed Oliviero Persona Cherici di Rossano, e da' loro congiunti e seguaci. Il terzo fu drizzato da Roberto al Reggente della G. Corte della Vicaria e suoi Giudici, e si legge sotto il titolo, de Spoliatis pro Laico contra Clericum, e comincia: Omnis praedatio: fu spedito ad istanza di Perotto Scalese di Napoli, il quale per essere stato con propria autorità, e violentemente spogliato della possessione d'un Territorio, ch'egli possedeva nelle pertinenze della città di Capua dal Vicario dell'Arcivescovo di Capua, ebbe ricorso a Roberto perchè vi dasse riparo. Oltre di questi che abbiamo impressi tra' Capitoli del Regno, furono da Bartolommeo Chioccarelli da' regi Archivi raccolte consimili lettere regie conservatoriali, spedite dal medesimo Roberto, da Carlo Duca di Calabria suo figliuolo, e da molti altri Re successori per quest'istesso fine e drizzate a' loro Ufficiali.
Carlo Duca di Calabria, mentr'era Vicario Generale del Regno, drizzò nell'anno 1322 consimili lettere al Capitano di Napoli, spedite ad istanza di Francesco Cannavacciolo di Napoli per le molestie che se gl'inferivano sopra la possessione d'una sua casa, situata dentro la Città di Napoli, dall'Abate Guglielmo Caracciolo con alcuni altri Cherici. L'istesso Carlo nel 1324 commette a' Giustizieri di Calabria, che a tenor del Capitolo di suo padre facciano purgar lo spoglio che avea patito Giovanni Canonico della maggior chiesa di S. Marco d'una vigna e certi buoi, da Guglielmo Malopere Primicerio di Napoli, e Vicario dell'Arcivescovo di Cosenza. Nel 1328 anno della morte del Duca di Calabria, il Re Roberto scrive alli Giustizieri di Terra di Lavoro e Contado di Molise, e d'Apruzzi Citra ed Ultra, che avendogli esposto Francesco Abate del Monastero di S. Maria di Cinquemiglia, che il Vescovo di Valve, pretendendo detta Badia appartenersi alla sua Chiesa, voleva di fatto spogliarlo della medesima, che mantenessero detto Abate nella possessione pacifica di detto monastero, nella quale lo ritrovavano, dunec justa causa possessionis duraverit. Roberto istesso nell'anno 1337 manda consimili lettere al Reggente e Giudici di Vicaria ed altri suoi Ufficiali, che juxta tenorem novi nostri Capituli, procedano su l'esposto fattogli da Tommaso Monsella di Salerno Maestro Razionale della Gran Corte, che stando egli in possesso del Castello di S. Giorgio situato in Calabria, il Vescovo di Melito, insieme con altri laici lo turbavano, e tentavano con violenza occupar i tenimenti del medesimo.
Il Re Carlo III d'Angiò nel 1383 scrisse al Gran Giustiziere del Regno o suo Luogotenente, ed alli Giudici della Gran Corte che rivocassero gli aggravi, e violenze fatte per l'Arcivescovo di Napoli, o suo Vicario per mezzo d'un Prete suo Cameriere in loro nome a Simone Guazza di Giugliano, in eseguirgli di fatto, e di propria autorità alcuni suoi beni mobili, pendente l'appellazione d'una sentenza data a favore di detto Cameriere, per un credito, che pretendeva conseguire in nome del suddetto Arcivescovo.
Il Re Alfonso I d'Aragona nel 1440 drizzò consimili lettere al Vescovo di Valenza Presidente del S. C. e Viceprotonotario del Regno, ed alli suoi regi Consiglieri, perchè a tenor di questi Capitoli emendassero lo spoglio, che Febo Sanseverino Vescovo di Cassano avea patito da Geliforte Spinello, il quale non ostante, che il Sanseverino era stato promosso a quel Vescovado da Bonifacio IX, e confermato da Papa Martino V, e per più anni l'avea pacificamente posseduto, asserendosi egli Vescovo, per forza, e fraude l'avea spogliato di fatto, e s'era intruso in detto Vescovado. Il medesimo Re nel 1478 scrisse al suo Vicerè, ed altri Ufficiali in Calabria, che avendogli esposto il Prete Guglielmo di Gambini di Mangano, pertinenza della città di Cosenza, che possedendo egli con altri Preti per più di venti anni alcuni beneficj, da certi altri Preti di fatto n'erano stati spogliati, perciò gl'incarica, che costando loro di questo spoglio, lo rivochino, e facciano mantenere il medesimo nel possesso con fargli corrispondere i frutti.
Il Re Ferdinando I nel 1481 scrive al Vescovo di Martorano, che non molesti in cosa alcuna Palamede di Landro Vescovo di Catanzaro, nè impedisca l'esazione de' frutti, e rendite del suo Vescovado, anzi se avesse alcune rendite, o ragioni nella diocesi del suo Vescovado glie le faccia corrispondere conforme e di giustizia: e nell'anno 1485 scrive al Castellano di Catanzaro che lo mantenga, e conservi nella pacifica possessione, nella quale era stato, e stava del suo Vescovado, facendogli corrispondere tutte le sue entrade e frutti spettanti a quello. Il medesimo Re nell'istesso anno scrive a Carlo Carafa Signore della terra di Montesarchio, dicendogli, che Fra Jacopo Sordella dell'Ordine di S. Gio: Gerosolimitano Commendatore della Commenda di detta Terra gli avea esposto, che possedendo detta Commenda concedutagli dalla sua Religione, ne era stato di fatto scacciato da Fra Ipolito d'Amelia in vigor di certe lettere ottenute surrettiziamente dalla Corte di Roma: perciò gli ordina che costandogli di questo spoglio per sommaria informazione, lo restituisca nella possessione.
Il Gran Capitano D. Consalvo di Cordua nel 1503 scrive ad un Ufficiale regio, che l'Abate Guglielmo Germano di Maratea, possedendo in vigor di Bolle appostoliche la Badia di S. Giovanni d'Abate Marco della diocesi di Cassano, n'era stato spogliato di fatto da Giovanni Caseo, gli ordina perciò, che servata la forma de' Capitoli del Regno restituisca detto Abate nella possessione, e gliela mantenghi, donec justa causa possessionis duraverit. Il medesimo Gran Capitano nell'anno 1506 ordina al Governadore di Calabria, che essendo vero, che l'Abate di S. Giovanni di Florio di Calabria sia stato spogliato di fatto dal Cherico Martino di Torponibus d'alcune Chiese, e Grancie annesse alla sua Badia, lo rimetta nella primiera possessione, e gliela conservi, donec etc.
Il Vicerè D. Giovanni d'Aragona Conte di Ripacorsa nel 1507 scrive al Governador di Calabria, ed agli altri Ufficiali di quella Provincia, che Fra Lodovico di Nicotera Vicario Generale di detta Provincia dell'Ordine di S. Francesco dell'Osservanza gli avea esposto, che da molti Prelati di quella provincia eran usate molte violenze a' Frati Osservanti del suo Ordine, che perciò ordina a detti ufficiali, che ad ogni istanza del detto Vicario procedano co' dovuti rimedi, che con effetto detti Prelati cessino ogni via di fatto, e di violenza contro detti Osservanti: ma se pretendono cos'alcuna, propongano le loro ragioni avanti Giudici competenti. Il medesimo Conte in detto anno scrive al Capitano di Cariati, dicendogli, che li giorni passati essendo stato spedito dal S. C. un editto, giusta la forma de' Capitoli del Regno, a favore di Tommaso Assagno Paleologo, il qual dicea essere stato turbato dal Vescovo di Cariati sopra la possessione del Casale di Belvedere, e territorj di Malapezza; dovendosi quello affiggere nelle porte della maggior Chiesa di Cariati, ed essendo ivi apparecchiato l'Algozino con l'editto in mano, ed il Giudice, Notajo e Testimonj per far l'atto dell'affissione; il Vicario del Vescovo colla maggior parte del Clero uscendo della Chiesa, levarono l'editto da mano dell'Algozino, e lo stracciarono, maltrattandolo insieme col Notajo, non senza grave offesa della dignità del S. C. comanda perciò al suddetto Capitano, che ordini al detto Vicario, ed a que' Preti, che v'intervennero, che fra quindici giorni debbiano venire in Napoli a presentarsi avanti il Vicerè, e non mai partire senz'espressa sua licenza.
Nell'anno 1574 Decio Caracciolo Abate della regal Cappella, ed Abadia di S. Pietro a Corte di Salerno, avendo dimandato al Vicerè esser conservato, e mantenuto nel quasi possesso d'esercitare alcune sue giurisdizioni spirituali e temporali, che teneva in detta Badia, nel quale era turbato dall'Arcivescovo di Salerno, che pretendeva di fatto spogliarlo di quelle; fu commesso l'affare al Regio Cappellan Maggiore, che provvedesse servata la forma di questi Capitoli, avanti del quale, speditosi il solito editto, comparve l'Arcivescovo, e formatosi processo, fu l'Abate mantenuto nella possessione delle giurisdizioni di detta sua Chiesa.
Nel 1593 avendo Giovanni Alfonso, Ferrante, ed altri della famiglia Buonuomo della città di Pozzuoli esposto al Vicerè, che tenendo essi nella maggior Chiesa una Cappella con un Sepolcro antico di loro Antenati, il Vescovo di Pozzuoli di fatto, e di notte avea fatto diroccare e levar detto sepolcro; dimandarono, che siccome di fatto s'era levato, così fosse riposto, e conservati nella possessione, nella quale erano. Fu il negozio dal Vicerè rimesso al Cappellan Maggiore, il quale, servata la forma di questi Capitoli, spedì il solito editto; ed ancorchè il Vescovo di quest'editto n'avesse avuto ricorso in Roma, e dalla Congregazione de' Cardinali fosse spedita lettera al Nunzio in Napoli, che facesse ordine al Cappellan Maggiore, che sotto pena di scomunica rivocasse l'editto, e che non tollerasse questa pratica, come pregiudiziale alla giurisdizione ecclesiastica, nulladimanco dal Cappellano Maggiore, e dal Collateral Consiglio fu fatta consulta al Vicerè insinuandogli, che non dovesse tener conto delle pretensioni di Roma, essendo l'osservanza di questi Capitoli antichissima nel Regno, e fondati a somma giustizia, per evitare gli spogli e le violenze.
Nel corso d'un altro secolo appresso, insino a' dì nostri, s'è tenuto questo stile sempre per fermo e costante, e gli Archivj del S. C. sono pieni d'innumerabili processi fabbricati sopra l'osservanza de' medesimi: tanto che oggi presso noi questa osservanza non riceve più contrasto, nè ammette più dubbio o difficoltà alcuna.
CAPITOLO V. Delle quattro Lettere Arbitrarie.
Fra' capitoli del Re Roberto, non sono meno celebri i Conservatori regj, che le quattro Lettere Arbitrarie: riconoscono per Autore anch'elle questo savio Principe, il quale usando ora rigore, ora clemenza, secondochè la quiete e tranquillità del suo Regno richiedevano, le drizzava alli Giustizieri delle province. Ne leggiamo ancora un'altra diretta a Giovanni di Haya Maestro Giustiziero e Reggente della Corte della Vicaria, la quale in alcuni esemplari va sotto la rubrica: Litera arbitralis; in altri sotto il titolo: De Praeminentia M. C. Vicariae, e comincia: Si cum sceleratis. Quest'ultima, come quella che contiene le grandi prerogative che furono solamente concedute al Gran Giustiziero e suo Tribunale, e non agli altri Giustizieri delle province, come di procedere contro i disrobatori di strade, omicidi, ladri, famosi ladroni ed altri, per loro gravi ed infami delitti, senza accusa e senz'ordine; e di poter procedere col solo processo informativo alla tortura de' rei (prerogativa, che unicamente s'appartiene al Tribunal della Vicaria): ciò che non essendo stato ad altri conceduto, siccome furono le altre quattro lettere arbitrali drizzate a' Giustizieri delle province; quindi avvenne, che questa non si annoverasse tra le quattro, ma la facessero passare sotto il titolo de Praeminentia M. C. Vicariae. Girolamo Calà[45] nel Trattato che compilò sopra questo soggetto, credette che tal prerogativa non dal Re Roberto fosse stata data a questo Tribunale, ma che prima l'avea già avuta da Carlo II suo padre per lo capitolo in accusatis; e che per questo capitolo si cum sceleratis, da Roberto le fosse stata tolta più tosto che conceduta, vedendosi essere stato quello drizzato a Giovanni di Haya, a cui unicamente fu conceduto tal arbitrio per le sue particolari ed eminenti virtù di fede, di giustizia e di zelo, e d'odio contro gli scellerati: dice però che da Roberto fu restituita tal preminenza a questo Tribunale per lo Capitolo juris censura, e per l'altro provisa juris sanctio. Ma non bisogna allontanarsi da quel che sentirono gli altri nostri Scrittori regnicoli, essere stata tal autorità ed arbitrio conceduto da Roberto a Giovanni, non già per le sue particolari virtù, ma come Gran Giustiziero della G. C. della Vicaria, per cui venne comunicata al suo Tribunale. Assai più s'ingannò quest'Autore, quando scrisse, che da Roberto le fosse stata restituita tal preminenza per li Capitoli juris censura, e provisa juris sanctio, come se quelle lettere fossero state drizzate al Gran Giustiziero di quel Tribunale. Il Capitolo juris censura, come si vedrà più innanzi, fu drizzato al Capitano di Napoli, Ufficiale, come si è detto, ch'era allora affatto diverso, e distinto dal Giustiziere della Vicaria: e l'altro conviene a tutti i Giustizieri delle province, non già unicamente al Giustiziere della G. C.
Furono chiamate Lettere Arbitrarie, non solo perchè Roberto le concedè rivocabili a suo volere e beneplacito; ma anche perchè si commetteva all'arbitrio degli Ufficiali di procedere ne' delitti in ogni tempo, o con tortura o senza, o con accusa, o per inquisizione, ovvero con composizione, usando clemenza, o con imporre le pene stabilite dalle leggi, usando rigore. Una di queste lettere porta perciò il titolo: De Arbitrio concesso Officialibus. L'altra, de Componendo, et Commutatione poenarum. La terza, Quod latrones, disrobatores stratarum, et piratae omni tempore torqueri possunt; e l'altra, de non procedendo ex officio, nisi in certis casibus, et ad tempus. Quella che fu drizzata a Giovanni di Haya pure fu detta Lettera Arbitrale; perchè nella fine si leggono queste parole: In his enim tibi plenam potestatem meri, et mixti Imperii, ac arbitrium competens duximus concedendum. È da credere che fosse stata dettata da Bartolommeo di Capua, come quella, che porta la data del 1313, quinto anno del Regno di Roberto.
Fabio Montelione da Girace in quel suo ridicolo Commento, che fece nell'anno 1555 sopra queste quattro Lettere Arbitrarie, dedicato da lui a Carlo Spinelli I, Duca di Seminara, portò opinione, che la prima lettera arbitrale fosse quella, che tra' capitoli del Regno leggiamo sotto la rubrica De non procedendo ex officio, ec. la qual comincia: Ne tuorum: ma se deve attendersi l'ordine de' tempi, dovrà quella riputarsi l'ultima, non la prima. Fu questa istromentata per Giovanni Grillo Viceprotonotario del Regno, dopo la morte di Bartolommeo di Capua, nel 1329 ventesimo primo anno del Regno di Roberto, come porta la sua data; la quale deve correggersi, ed in vece di Regnorum nostrorum anno 20 deve leggersi anno 21. In questa si dà arbitrio e potestà a' Presidi e Capitani di poter procedere ex officio in alcuni delitti, senza querela, o accusazione, cioè in tutti quelli, dove dalle leggi vien imposta pena di morte civile o naturale, ovvero troncamento di membra: ove si tratti d'ingiuria inferita a persone ecclesiastiche, pupille e vedove: e finalmente negli omicidj clandestini, ove non appaja accusatore alcuno.
Più antica certamente fu quella, che leggiamo sotto la rubrica de Arbitrio concesso Officialibus; che comincia: Juris censura. Quella fu dettata da Bartolommeo di Capua nel 1313 quinto anno del Regno di Roberto, come è chiaro dalla sua data somministrataci da Jacopo Anello de Bottis nelle sue addizioni a questo capitolo. A chi fosse stata drizzata, ce ne mette in dubbio l'edizione vulgata, nella quale si legge: Magistris Rationalibus etc. e Bottis, il quale riferisce in altre edizioni leggersi indrizzata Iustitiario Basilicatae. Ma dal corpo della lettera è facile conoscere, che quella fosse stata drizzata al Capitano di Napoli poichè si commette al suo arbitrio, e potestà, per li frequenti eccessi, che si commettevano nella città di Napoli e di Pozzuoli, e ne' loro distretti, dove erano insorti famosi ladroni, disrobatori di strade, incendiari, rattori violenti, ed altri autori d'enormi scelleraggini e d'infami delitti, che procedesse in quelli con ogni severità e rigore, postergato ogni ordine, non osservate le regole comuni prescritte ne' Capitoli del Regno; ma attendendo solamente alla pura e semplice sostanza della verità, col consiglio del suo Giudice, sterpi, e svella da que' luoghi questi reprobi, ed uomini sì rei, affinchè ritorni in quelli la quiete, nocendi facultas abeat, et pacis optata amaenitas suavius reviviscat. È noto, che al Capitano di Napoli s'apparteneva in quei tempi anche il governo di Pozzuoli, e suo distretto, come fu chiaramente dimostrato da Camillo Tutini nel Teatro de' Gran Giustizieri del Regno, e da noi altrove fu rapportato.
L'altra lettera arbitrale, che leggiamo sotto la rubrica: Quod latrones, disrobatores, etc., e che comincia: Provisa juris sanctio, non vi è dubbio, che pure fosse stata da Roberto scritta per mano di Bartolommeo di Capua; poichè sopra della medesima abbiamo di questo Giureconsulto alcune note. Si dà facoltà per la medesima a' Giustizieri del Regno, che contro gl'insigni ladroni, che nelle strade, nelle case ed in mare rubano, e contro altri malfattori notati di maggiori scelleraggini, possano procedere in ogni tempo a tormentargli, eziandio in giorno di Pasqua, senza accusatore, senza ricercar plegierie, a loro arbitrio e facoltà.
L'ultima si legge sotto il titolo, de Componendo, et Commutatione poenarum, e comincia: Exercere volentes benigne. In questa Roberto, temperando il molto rigore finora praticato, permette a' suoi Ufficiali, e dà loro potestà di poter componere, e commutare con multe pecuniarie le pene stabilite dalle leggi in questi delitti, cioè, d'asportazione d'armi, per gli omicidj clandestini; commutar le pene, che gli Ufficiali medesimi avranno imposte ne' loro banni, o che imponeranno nell'avvenire all'università o persone particolari: le pene delle difese, de parendo juri, e nell'altre arbitrarie, e nelle multe. In tutti questi casi loro si permette, avuto riguardo alla povertà, all'impotenza, ovvero ad altra ragionevol cagione, in certa quantitate pecuniae componere pro Curiae nostrae parte.
Fu per questa lettera arbitrale Roberto biasimato d'avarizia da' suoi detrattori, e che avesse perciò oscurata la fama delle altre virtù sue; e Scipione Ammirato ne' suoi Ritratti rapporta, che questo savio Re fosse stato perciò biasimato d'avarizia, e creduto essere stato cagione delle molte discordie e divisioni, che nacquero in molte città del Regno tra' lor Cittadini per le composizioni, ch'egli traea dagli misfatti de' suoi sudditi, più in danari che in sangue; e ch'egli era solito scusarsi con dire, che tutto ciò gli conveniva di fare per aver onde nudrire cotante armate, che quasi ogni anno era costretto di mettere in punto per la ricovrazione del Regno di Sicilia. Ma chiunque considererà, che Roberto queste composizioni le ristrinse a certi non gravi delitti con tanta riserva e moderazione, ed avuto ogni riguardo alla condizione delle persone, ed a molte altre circostanze, secondo l'arbitrio d'un uomo prudente e da bene, non lo condannerà certamente per sordido ed avaro.
Queste sono le cotanto presso di noi celebri e famose Lettere Arbitrarie, sopra le quali sin da' tempi della Regina Giovanna I, il Viceprotonotario Sergio Donnorso fece un Commento, del quale fa egli menzione nelle note a' Capitoli del Regno[46], e di cui fu anche ricordevole Pier Vincenti nel suo Teatro dei Protonotari del Regno[47]; le quali nell'investiture dei Feudi furon da poi concedute a' Baroni insieme col mero e misto imperio; non che Roberto avesse quelle a loro concedute, poichè esse furono drizzate a' Giustizieri, non a' Baroni, i quali allora non aveano giurisdizion criminale, nè il mero e misto imperio, siccome aveano i Giustizieri delle province. I Baroni insino al Regno d'Alfonso I d'Aragona, ovvero, come credettero alcuni, di Giovanna II, non aveano nelle loro terre e castella, che la giurisdizion civile. Non potevano prima d'Alfonso i Feudatari, che possedevano terre con Vassalli, esercitar altra giurisdizione, se non quella infima e bassa, indrizzata unicamente a sedar le liti e le discordie, che sogliono nascere tra gli abitatori de' luoghi, creando a questo fine alcuni Ufficiali annuali chiamati Camerlenghi, i quali non avean altra giurisdizione, che di conoscere e giudicare d'alcune cause minime e sommarie.
I Giustizieri delle province, ed il Tribunal della Gran Corte erano quelli Magistrati, che esercitavano l'alta e piena giurisdizione sopra tutti i castelli e luoghi del Regno[48]. Non altrimenti che praticavasi a' tempi de' Romani, i quali nelle loro città e terre aveano minori Magistrati, che s'eleggevano dal Corpo delle medesime chiamati Defensores, da' quali s'esercitava una bassa, ed infima giurisdizione, consistente nella cognizione delle cause minime, e sommarie civili.
In luogo di questi Difensori, secondo avvertì a proposito Andrea d'Isernia[49], succederono poi nel nostro Regno i Baglivi de' luoghi, i quali conoscevano delle cose civili, de' furti minimi, de' danni dati, dei pesi e misure, e d'altre cause leggieri, e di picciolo momento[50]. Ma le cose più gravi, e massimamente quelle, che riguardavano il mero imperio, e la giurisdizione criminale, secondo le leggi de' Romani, appartenevano a' Presidi delle province, in vece de' quali da poi nel nostro Regno furono costituiti i Giustizieri delle Regioni[51]. E però non è maraviglia, che le concessioni delle Terre con vassalli, portassero con esso loro quell'infima giurisdizione, come a loro coerente, e da esse inseparabile, e non il mero imperio e la giurisdizion criminale, che non poteva dirsi alla medesima coerente, siccome quella, che non da' proprj Magistrati, ma da' Presidi prima soleva esercitarsi, e da poi non da' Baglivi de' luoghi, ma da' Giustizieri delle regioni.
Marino Freccia[52] testifica perciò, che avendo egli letto il privilegio che fece Carlo I d'Angiò, quando donò al suo figliuolo unigenito la città di Salerno col titolo di Principato, con altre terre e città, come Ravello, Amalfi, Sorrento, Nocera e Sarno, gli concedè solamente in questi luoghi la giurisdizione civile, e fu notato per cosa rara, che nella città di Salerno gli concedesse ancora la giurisdizion criminale, circoscritta però dal circuito delle mura, e dentro quelle ristretta, e non oltre; ma ciò fu propter titulum suae dignitatis, come dice questo Scrittore, poichè in questi tempi i Baroni non aveano giurisdizion criminale. Chi cominciasse a concederla, vario e discorde è il parere dei nostri Autori. Matteo d'Afflitto[53], Grammatico[54], Caravita[55], il Presidente de Franchis[56], ed altri sostennero, che il primo fosse stato il Re Alfonso I d'Aragona; e quest'ultimo Scrittore dice non essersi ciò posto in uso, se non da' Re Aragonesi. Altri, come Francesco d'Amico[57], il reggente Capecelatro[58] e Capobianco[59], la riportano un poco più in dietro, cioè a' tempi della Regina Giovanna II; ma se dobbiamo credere a quel gravissimo istorico, Angelo di Costanzo[60], bisognerà dire, che il nostro Re Roberto fosse stato il primo. Favellando questo Scrittore della liberalità di questo Principe, narra, che per infiniti privilegi conceduti a' Baroni, a' Cavalieri particolari, tanto Napoletani quanto dell'altre terre del Regno, si vedea quanto fosse stato verso i medesimi liberalissimo, a' quali donò Titoli, Castella, e Feudi con giurisdizioni criminali, essendo fin a quel tempo costume, che rarissimi de' Conti del Regno avessero la giurisdizione criminale nelle lor terre; e questo Istorico medesimo rapporta ancora, che il Re Ladislao concedè la giurisdizione criminale ad Antonello di Costanzo sopra Tevarola, dov'egli ed i suoi per ottanta anni non avevano avuto altro che la civile[61].
Che che ne sia, se Roberto o altri suoi successori a qualche suo benemerito avesse usata questa insolita liberalità, egli è certo, che da Alfonso I e dagli altri Re aragonesi suoi successori, furon poste in uso; e con maggior frequenza fu, nelle concessioni fatte ai Baroni, data la giurisdizione criminale, o nell'investiture fu conceduto loro anche la potestà, ed arbitrio contenuto in queste quattro Lettere Arbitrarie, ed oggi si è ridotto a stile, e quasi formolario di tutte l'investiture, che si danno, di mettervi anche questa facoltà per clausola.
Da ciò n'è nato, che siccome prima queste lettere erano a beneplacito ed arbitrio del Principe, rivocabili e ristrette a certi confini; così per quel che riguarda le persone de' Baroni, per le concessioni, che ne tengono nelle loro investiture, sono irrevocabili; e maggiore si vide in ciò essere stata l'autorità, ed arbitrio dei medesimi, che degli Ufficiali regi, a' quali (come al Reggente e suoi Giudici della G. C. della Vicaria, a' governadori delle province, Capitani delle terre ed altri Ufficiali del Regno) fu prescritto dall'Imperador Carlo V per mezzo di sue prammatiche[62] il modo di componere i delitti e commutar le pene corporali in pecuniarie, e vietato di farlo senza suo consenso o del Vicerè del Regno, e senza rimession della parte offesa, o ne' casi che si dovesse imporre pena di morte naturale, o di troncamento di membra. E poichè a' Baroni si trovavano concedute quelle lettere, affinchè il loro arbitrio stasse ristretto fra' termini del dovere e di giustizia; quindi l'istesso Imperador Carlo V con altra sua particolar prammatica[63] stabilita per li Baroni e loro Ufficiali ordinò che non dovessero abusarsi della facoltà, che tenevano nella commutazion delle pene, ma servirsene fra' termini del giusto e con ragionevol modo: minacciandogli in caso d'abuso della privazione de' loro privilegi.
CAPITOLO VI. De' Riti della Regia camera.
Pure sotto il Regno di Roberto furono compilati i riti della Regia Camera. Questo Tribunale non solo in tempo dell'Imperador Federico II si reggeva dai maestri Razionali, ma anche nel Regno di questi Re angioini. Erano questi Ufficiali di grande autorità, e perciò vediamo i più distinti personaggi di que' tempi impiegati a queste cariche; e dalla Regina Giovanna I furono di maggiori prerogative e privilegi arricchiti. La principal loro incombenza era d'invigilare sopra i diritti e rendite fiscali, costringere i minori Ufficiali come Doganieri, Tesorieri, Credenzieri ed altri, a render ragione della loro amministrazione, ricevere da essi i conti dell'esazioni fatte, e raccogliere il denaro per mandarlo alla Camera del Re. Queste rendite per la maggior parte si cavavano da' dazi, gabelle, dogane, regalie e da altre ragioni fiscali, così antiche come nuove. Nel Regno de' Normanni queste esazioni restringevansi a poco numero, ed erano assai moderate, e particolarmente in tempo del buon Re Guglielmo; ma da poi che l'Imperator Federico I restituì le regalie, che s'erano quasi perdute in Italia, e che tutti gli altri Principi, al di lui esempio, vollero anche restituirle ne' loro Stati, s'accrebbe il di lor numero, e furono più pesanti. Così passato questo Regno dai Normanni a' Svevi, Federico II ve n'impose delle nuove: instituto, che fu poi dagli altri Re suoi successori continuato, come quello che conduceva molto all'abbondanza del loro erario, donde potevano sostenere più grandi eserciti e numerose armate. I Re della casa d'Angiò, ancorchè più volte ne' loro Capitoli promettessero moderarle, e di ridurle secondo erano al tempo del Re Guglielmo il Buono; con tutto ciò, per le lunghe ed ostinate guerre che soffrirono, e particolarmente per quella di Sicilia, non ne fecero nulla, anzi di tempo in tempo più crebbero. Furono per ciò queste ragioni fiscali divise in antiche e nuove.
Dell' antiche, cioè di quelle, che furono prima dall'Imperador Federico II nel Regno di Guglielmo, e suoi successori Normanni, abbiamo che Andrea d'Isernia[64] ne formò due Cataloghi: uno se ne legge nelle note, che fece alle Costituzioni del Regno sotto la rubrica de decimis: e l'altro tra i riti della Regia Camera, pure sotto il medesimo titolo[65]. In poche cose, e sol nell'ordine è l'uno vario dall'altro: ecco il novero, che ne fece nelle Costituzioni.
Jura vetera sunt haec, videlicet.
- Dohana.
- Anchoragium.
- Scalaticum.
- Glandium, et similium.
- Jus Tumuli.
- Portus, et Piscaria.
- Jus Affidaturae.
- Herbagium, Pascua.
- Passagium vetus.
- Jus Casei, et Olei non est ubique per Regnum.
Ecco l'altro che pose fra i Riti della Camera.
Jura vetera sunt haec.
- Jus Dohanae.
- Jus Anchoragii.
- Jus Scolatici , ovvero
- Jus Colli.
- Jus Tumuli.
- Jus Portus, et Piscariae vetus.
- Jus Bucceriae vetus.
- Jus Affidaturae herbagii, pascuorum, glandium, et similium.
- Jus Casei, et Olei, non est ubique per Regnum.
- Jus Passagii vetus.
Delle nuove parimente ne abbiamo del medesimo Autore ne' luoghi allegati due cataloghi. Furono queste introdotte da Federico II Principe appo gli Scrittori Guelfi, che scrissero sotto il Regno degli Angioini, riputato tiranno, e che angariasse in cento maniere i suoi sudditi: Andrea d'Isernia sopra gli altri l'ha sempre nelle sue opere malmenato, e dipinto per un crudele, e lo pone per ciò nel fuoco penace dell'Inferno: dice nelle Costituzioni[66], che perciò la Chiesa non vuole le decime di queste esazioni, come ingiuste, ed imposte da Federico contro Dio e la giustizia: De illis non vult Ecclesia decimas, tanquam de male oblatis, quae imposita fuerunt per illum contra Deum, et justitiam: per quod videtur ille Federicus quiescere in pice, et non in pace. E nel Rito I sotto il titolo de Jure Tinctoriae, et Celandrae, dicendo che questi dritti come nuovi ed odiosi non doveano stendersi per interpetrazione, ma più tosto restringersi, scrisse: Imposita fuerunt haec ab eo, qui depositus fuit a Regno, et Imperio: poena sua propterea in Inferno crescit semper, sicut poena Arii, ut Augustinus dicit. Ma queste erano vane querele, parole inutili e buttate al vento. S'incolpava, e detestava Federico per avergli introdotti, si declamavano per empj ed ingiusti; ma non per questo i Re Angioini, Roberto istesso, e Carlo suo padre, sotto i quali egli scrivea, gli tralasciarono; anzi Roberto per avergli rigidamente esatti ed accresciuti ne fu imputato d'avarizia.
L'istesso Andrea[67], che declamando dice, che la Chiesa nè men per quelli vuol decime, ci racconta, che Filippo Minutolo Arcivescovo di Napoli, mal soddisfatto della convenzione passata col Re Carlo II che si dovessero pagar le decime per le due terze parti, lasciandone una, che si credette poter importare per li nuovi ed illeciti diritti, tornò a moverne litigio, credendo essere stato ingannato; ma dopo un lungo contrasto, essendosi appurato che importava assai meno ciò che gli apparteneva, quando non voleva esigere per li nuovi dazj, i quali importavano somma assai maggiore dei vecchi, e che perciò bisognava restituir grosse somme, niente curandosi più dell'indebita esazione, nè di proseguirla per l'avvenire, pregò il Re che per grazia glie le accordasse, e continuasse ad esigere le due terze parti, come prima; e per togliere ogni scrupolo, il Re acconsentì, che per l'avvenire si pagassero a lui due parti intere; ma che ciò che gli veniva per questo suo dono, dovesse impiegarlo per l'edificio del Duomo di Napoli, e quello finito, se gli dovesse continuare il pagamento con peso di pregare Iddio per l'anime de' suoi genitori, e di dover ergere in quella Chiesa alcuni altari, siccome narra Isernia, che a suo tempo si faceva e si pagava[68].
Questi nuovi diritti, secondo il novero, che fa Isernia nelle Costituzioni del Regno, sono:
Nova sunt haec, videlicet.
- Jus Fundici Ferri.
- Azarii. Picis.
- Salis.
- Jus Staterae, seu Celandrae.
- Ponderaturae.
- Jus Mensuraturae.
- Riae de nove.
- Jus Setae. Jus Cambii.
- Saponis. Molendini.
- Bechariae novae.
- Imbarcaturae. Jus Sepi.
- Jus Portus, et piscariae novum.
- Jus Exiturae.
- Jus Decini. Tentoriae.
- Jus Marchium.
- Jus Balistrarum. Jus Gallae.
- Jus Lignaminum non est ubique.
- Jus Gabellae auripellis non est ubique per Regnum.
- Jus Resinae, seu reficae majoris, et minoris non est ubique, sed Neapoli.
L'altro Catalogo delle medesime, che pose fra i Riti è questo.
Jura nova sunt haec.
- Jus Fundici.
- Jus Ferri.
- Jus Azarii.
- Jus Picis.
- Jus Salis.
- Jus Staterae, seu ponderaturae.
- Jus Mensuraturae.
- Jus Exiturae.
- Jus Setae.
- Jus Tinctoriae, et Celandrae.
- Jus Cambii.
- Jus Bucceriae novum.
- Jus Imbarcaturae.
- Jus Sepi.
- Jus Partus, et Piscariae novum.
- Jus Decini.
- Jus Balistrarum.
- Jus Reficae majoris, et minoris.
- Jus Marium, saponis, molendini, et gallae, non sunt ubique, sed in Apulea.
- Jus Lignaminum, non est ubique.
- Jus Gabellae auripellis.
Di tutte queste ragioni fiscali, delle loro esazioni, delle persone che erano obbligate a pagarle, del modo di riceverne conto da' Doganieri, Credenzieri, Gabellotti, ed altri minori Ufficiali, delle loro colpe e difetti nell'amministrazione de' loro pleggi, degl'incanti, che doveano premettersi per gli affitti, e degli escomputi pretesi, e di tutte le quistioni e liti che insorgevano intorno a ciò tra le Parti e 'l Fisco, questo Tribunale della Camera de' Conti n'era il giudice competente. Veniva retto, oltre il Luogotenente del Gran Camerario suo Capo, da' Maestri Razionali, chiamati così, a rationibus quibus praesunt[69]. Era perciò questo Tribunale nomato Auditorium rationum: poi fa detto Audientia Summaria: e finalmente Camera Summaria[70]. Accadevano per conseguenza molto spesso de' dubbj intorno a tutte queste cose, ed i M. Razionali li decidevano, e secondo le loro decisioni, da quelle che furono in ogni tempo uniformi e costanti, ne sursero vari Riti e stili di giudicare, e varie norme e regole per potersi in casi simili, in decorso di tempo, valere. Prima d'Andrea d'Isernia questi Riti ed osservanze non si potevano ricavare, se non dai libri del Tribunale, ove erano notati: e poichè a tutti non era facile averne copia o comodità d'osservargli, non erano così universalmente noti e palesi. Furono, egli è vero, alcuni regolamenti a ciò attenenti fatti inserire nelle nostre Costituzioni, come sotto il titolo de Officio Magistrorum Fundicariorum, ed in alcuni altri; ma dice l'istesso Andrea nelle note a questa Costituzione, che gli altri statuti di Federico a ciò riguardanti, erano nelle dogane, nè furono uniti a quel volume delle Costituzioni: Sicut dicunt alia statuta Imperialia, quae sunt in Dohanis, nec sunt redacta in hoc volumine. Questo gravissimo Giureconsulto fu dunque, che trattigli da' registri delle dogane e degli Atti di quel Tribunale, gli compilò, e ridusse in quella forma che ora si leggono. Nè era da sperare che altri avessero potuto con tanta diligenza, ed esattezza por mano a quest'opra, con quanta da lui si fece. Era stato egli creato M. Razionale dal Re Carlo II, e poi visse tale in tutto il tempo che regnò Roberto, che vuol dire 34 altri anni, sin che dalla Regina Giovanna I non fosse innalzato al posto di Luogotenente; onde niuno meglio di lui poteva darci i Riti di questo Tribunale, e compilargli con tanta nettezza e dottrina, con quanta si vede.
Ch'egli ne fosse stato il Compilatore, non è da dubitare: abbiamo veduto per lo confronto fatto dei Cataloghi di queste ragioni fiscali, riconoscer quelli un medesimo Autore. È manifesto ancora da un altro confronto, che può farsi di ciò che scrisse l'istesso Andrea ne' Commentarj de' Feudi sotto il titolo, Quae sint regalia, in § vectigalia, in add. n. 14 e nelle note alla Costituzione suddetta de Officio Magistrorum Fundicariorum, e da ciò che si legge in questi Riti sotto la rubrica de jure fundici[71], ove si veggono ripetute ad literam l'istesse parole. Il medesimo Andrea nell'ultimo Rito de jure Dohanae nel fine cita se stesso; si rimette a quel ch'egli medesimo avea scritto in cap. unico, § Sacramentum, de consuet. rect. feud. Ce lo testificano ancora gli Autori suoi coetanei, o che fiorirono non molto dopo lui. Luca di Penna fu suo contemporaneo, perchè fu coetaneo di Bartolo, e quegli attesta, il Compilatore di questi Riti essere stato Andrea[72]. Goffredo di Gaeta, che nell'anno 1460 come e' dice nel Rito 2 de decimis, compose i Commentarj, ovvero letture sopra i medesimi, passa in più luoghi per cosa fuor d'ogni dubbio che Andrea ne fu l'Autore[73]. Il medesimo scrissero Liparulo nella di lui vita[74], e l'Anonimo[75] Autor delle Note a' Riti suddetti. E finalmente a lettere cubitali ciò si legge nel Codice di questi Riti, che si conserva nell'Archivio della Regia Camera, che porta in fronte questo titolo: Ritus Domini Andreae de Isernia super universis juribus Dohanarum, et aliarum Regni Siciliae Gabellarum.
Furono appellati da Andrea questi Riti Jura Imperialia, non perchè l'Imperador Federico nella maniera, che ora si leggono, gli avesse egli fatti compilare, come fece del libro delle nostre Costituzioni; ma perchè alcuni dritti, che si leggono in essi, furono nuovamente da Federico introdotti, e chiamati per ciò jura nova, ovvero Imperialia, a differenza degli antichi, chiamati jura vetera, ch'erano prima di lui nel Regno de' Normanni. Ancorchè Andrea d'Isernia, per privato studio e diligenza, avesse fatta questa Compilazione, non per pubblica autorità, siccome furono da poi fatti compilare i Riti della G. Corte della Vicaria dalla Regina Giovanna II, che per sua Costituzione diede loro forza e vigore; non è però, che i medesimi non abbiano avuta sempre, siccome ritengono ancora oggi, tutta l'esecuzione ed osservanza, e che non abbiano presso noi quel medesimo vigore, che hanno le leggi nostre scritte, come dipendenti da un non mai interrotto stile, e da un antico uso di questo Tribunale[76]. Egli è vero, che per lo corso poco men di quattro secoli, da che furono compilati, molte cose sono mutate, ed altre cose nuove introdotte, onde di questo Tribunale, oltre i Riti, abbiamo ora anche molti Arresti raccolti dal Reggente de Marinis; nulladimanco in ciò, che per nuova legge non fu mutato, o per contrario uso andato in dimenticanza, han tutta la forza e tutto il lor vigore.
Abbracciò Andrea in questa Compilazione tutti i dritti così antichi, come nuovi di sopra annoverati, divisegli con più distinzione in più rubriche, e collocò sotto ciascuna di esse più o meno Riti, secondo che la copia, o brevità del soggetto richiedeva. Trattò ancora, quasi per appendice, di molte cose appartenenti agli Ufficiali, che hanno l'amministrazione ed esazione de' medesimi, con rubriche separate, come si vede nella rubrica 1, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 37 e 38. Egli è da avvertire che fra questi si leggono alcuni Arresti fatti dai M. Razionali dopo la compilazione fatta da Isernia, e inseriti da poi ne' luoghi adattati al soggetto, com'è l'arresto, che si legge sotto la rubrica 11 de Tracta, fatta a settembre dell'anno 1382 e consimili. In oltre la rubrica 31 ch'è l'ultima, de jure Falangae, seu Falangagii, fu aggiunta dopo la Compilazione d'Isernia; perchè questo nuovo dritto o sia gabella, ch'è membro della Dogana, fu imposto nell'anno 1385 dal Re Carlo III di Durazzo: questo Principe l'impose dalla città di Gaeta insino a Reggio per quanto corre il Mar Tirreno[77]: da poi Alfonso I d'Aragona nell'anno 1452 lo stese per tutto il Regno, dal fiume Tronto insino a Reggio per quanto corre il Mar Adriatico: tra questi due Mari è collocato il Regno.
Il primo, che dopo un secolo e più anni commentasse questi Riti fu Goffredo di Gaeta figliuolo di Carlo, che fiorì sotto il Re Ladislao e la Regina Giovanna II, in qualità di Avvocato fiscale. Goffredo suo figliuolo emulando le virtù paterne, e calcando le medesime sue pedate, fu gran tempo nel Regno della Regina Giovanna II M. Razionale, da poi dal Re Alfonso I avendo questo Principe al Tribunale della Camera de' Conti aggiunti quattro Presidenti di toga, e due idioti, fu creato Presidente della medesima; la qual carica continuò nel Regno di Ferdinando I infino al tempo di sua morte, che accadde nell'anno 1463 è verisimile che cominciasse questa sua fatica nel Regno d'Alfonso, e la terminasse sotto Ferdinando, già che nel Rito 2 de decimis, dice, che a riguardo del tempo, nel quale egli scrivea, cioè nel 1460 i diritti imposti da Federico non si potevano dir più nuovi, ma antichi, essendo scorsi dal dì della sua deposizione (che la pone nel 1244) ducento e sedici anni. I suoi Commentarj sono dotti, gravi e proprj della materia che si tratta, senza divagarsi in quistioni inutili ed estranee, come allora correva il vizio degli altri Commentatori. Perciò furono dai Professori de' seguenti tempi tenuti in sommo pregio, e riputato l'Autore per uno de' maggiori Giureconsulti de' suoi tempi. Morì egli in Napoli nel 1463 come lo dimostra l'iscrizione del suo sepolcro, che si vede nella chiesa di S. Pietro Martire nella cappella della sua famiglia, ove giace sepolto insieme con Carlo suo Padre.
Dopo il corso d'un altro secolo abbiamo che fossero state fatte quelle note, che si leggono a questi Riti d'un Autore incerto ed Anonimo; poichè s'allegano dal medesimo decreti ed arresti della Camera degli anni 1554, come nel Rito primo de Jure Ponderaturae, del 1565 come nel Rito 14 de Jure Fundici, ed altrove allega molte scritture e consulte di quel Tribunale fatte in questi medesimi tempi. Allega spesso Goffredo di Gaeta, Matteo d'Afflitto, e sovente anche Autori del decimosesto secolo. Queste note sono proprie, dotte ed utilissime, ripiene di molte notizie degli atti del Tribunale, de' suoi arresti, lettere, consulte, carte regali, registri e ogni altro che poteva conducere alla vera intelligenza de' vocaboli, e de' sentimenti di questi Riti e delle mutazioni, aggiunzioni e variazioni ch'erano seguite insino a' suoi tempi, intorno alle nuove imposizioni d'altri diritti e gabelle, e delle loro origini, e progressi ed abusi; tanto che non meriterebbe il suo nome presso i posteri essere rimaso così oscuro e sepolto.
Abbiam veduto poi a dì nostri un altro Commento, ovvero come l'Autor gli chiama, nuove Addizioni su questi Riti, compilato per Cesare Nicolò Pisani Giureconsulto napoletano, il quale nell'anno 1699 insieme co' Commentarj di Gaeta, e note dell' Anonimo, gli diede in Napoli alle stampe. Sono indegne d'esser paragonate, e poste insieme colle fatiche di que' due insigni Giureconsulti; sono piene di cose vane ed inutili, ricolme di quistioni lontane ed estranee di quel che ricercava il soggetto: diffuse e goffe, ed unicamente poste insieme senz'ordine e senza metodo, per far crescere il volume.
CAPITOLO VII. Degli Uomini illustri per lettere, che fiorirono sotto Roberto, e sotto la Regina Giovanna sua nipote.
Fra gli altri pregi, che adornarono la persona di Roberto, fu l'essere stato amantissimo di tutti i Scienziati eccellenti de' suoi tempi, e gran letterato insieme e protettore delle lettere.
Di questo Principe veramente potè dirsi, che
Fur le Muse nudrite a un tempo istesso,
Ed anco esercitate.
Leggansi i tanti elogi di Giovanni Villani[78], del Petrarca[79], e del Boccaccio[80] suoi contemporanei, che per ciò con tante lodi innalzarono. Si legge di questo Re un trattato delle virtù morali composto da lui in varie rime toscane. Questo trattato lo fece imprimere in Roma l'anno 1642 insieme con alcune rime del Petrarca estratte da un suo originale, col Tesoretto di Ser Brunetto Latini, e con quattro canzoni di Bindo Bonichi da Siena, il Conte Federico Ubaldini, e porta questo titolo: Il trattato delle virtù morali di Roberto Re di Gerusalemme. Egli, come dice l'Ubaldini, cimentò le forze del suo ingegno nella vecchiaja, applicandosi a rimare, e volle più tosto per questa opera imitare i più saggi Re della terra come Salomone (onde perciò non volle al libro porre altra inscrizione, che di Re di Gerusalemme ), l'Imperador M. Aurelio Antonino, che lasciò scritti in greco dodici libri morali della sua vita (se non sono favolosi, come gli credette il Castelvetro), Basilio Macedone, Lione Isaurico, Emmanuel Comneno ed altri Imperadori greci, che ne composero de' simiglianti; che andar dietro a' suoi predecessori Re di Sicilia, come all'Imperador Federico II ed al Re Manfredi, ad Enzio, e simili, i quali tutti intesi a cose amorose, solamente di quelle vollero tesser canzoni. Scrisse ancora, oltre le suddette rime, alcune lettere latine in prosa, due delle quali sono volgarizzate presso Giovanni Villani, mandate, l'una nell'anno 1333 al Popolo fiorentino, e l'altra a Gualtieri Duca d'Atene, quando nell'anno 1341 pigliò la Signoria di Fiorenza.
Nel suo Regno fiorirono le lettere in guisa, che i Professori di qualunque condizione si fossero, ancorchè di bassa fortuna, gl'innalzava a' primi onori, e con umanità grandissima gli accoglieva ed accarezzava: andava a sentire in piedi i pubblici Lettori, che leggevano in Napoli, ed onorava gli Scolari.
Per tralasciar infiniti esempi, venendo il Petrarca di Francia per pigliare la Corona di lauro a Roma, mandò Gio. Barile, che in suo nome assistesse in Campidoglio quella giornata come suo Ambasciadore, scusandosi col Petrarca, che l'estrema vecchiezza era cagione, che non venisse in persona a ponergli la corona in testa di sua mano; ed ambiva, che l'Affrica composta da costui, a lui s'indirizzasse. Favorì grandemente i Teologi ed i Filosofi[81], tanto che nel suo Regno queste facoltà cominciarono a fiorire in Napoli.
La teologia Scolastica ridotta ne' suoi tempi in arte, e fatta pedissequa della filosofia d'Aristotele, secondo il metodo prescritto dagli Averroisti, vi pose piede, e si rese più considerabile per le famose fazioni de' Tomisti, e degli Scotisti sostenute da due Ordini allora considerabili de' Frati Predicatori e de' Frati Minori. I primi seguivano la dottrina d'Alberto Magno, e da poi di S. Tommaso, nomato il Dottor Angelico suo discepolo, che si rese poi Capo di questa Setta di Scolastici, detti perciò Tomisti. I secondi seguivano Alessandro de Ales del loro Ordine, e da poi il famoso Giovanni Duns, detto il Dottor Sottile, e Scoto, perch'era Scozzese, benchè alcuni l'abbiano creduto Inglese, ed altri Ibernese, il quale si rese Capo di questa Setta, donde i suoi seguaci furono chiamati Scotisti; onde nacque la divisione di queste due Scuole. Alcuni nondimeno fecero un terzo partito, seguendo un metodo nuovo, chiamati Nominali, ed uno de' principali Capi di questo partito fu Guglielmo Ocamo della Contea di Surrey in Inghilterra, il quale ancorchè dell'Ordine de' Minori, si divise dagli altri facendosi Capo di questa Setta, e perciò ne acquistò il titolo di Dottor Singolare. Si disseminarono le loro Scuole per tutta Europa ed in Napoli, ne' tempi di Roberto, essendo multiplicati i loro Maestri, la Teologia in cotal maniera trasformata, era pubblicamente e con sommo applauso ed ammirazione professata, ed i Teologi da questo Principe favoriti; poichè proccurava che molti Teologi eccellenti e di buona vita fossero provisti di Prelature e Vescovadi del Regno, e gli onorò sempre sopra tutti gli altri Baroni laici[82].
Nelle Calabrie ed in Terra d'Otranto, per lo gran numero de' Greci, e per lo continuo commercio d'Oriente, i Monaci de' Conventi fondati sotto la Regola di S. Benedetto non la ricevettero se non molto tardi: seguitavano le pedate de' Greci e la loro dottrina: e si distinse sopra tutti gli altri Barlaamo Monaco Basiliano di Calabria, nato in Seminara, assai dotto e sottile, il quale essendosi portato in Costantinopoli, entrato in somma grazia dell'Imperador Andronico, fu adoperato dal medesimo negli affari più gravi dello Stato, e per comporre, e riunire la Chiesa Greca alla Latina. Fu inviato da Andronico in Napoli al nostro Re Roberto per domandargli soccorso; ma perchè non poteva sperar d'ottenerlo se non col riunirsi le due Chiese, ne fu data a lui parimente la commessione. Fu la unione lungamente trattata, ma ogni progetto fu ributtato, e la sua opera rimase inutile ed infruttuosa.
Ebbe grandi ed ostinate contese con Palamas suo Antagonista, ma dopo varie vicende, vedendo finalmente approvata in un Concilio tenuto in Costantinopoli la dottrina di Palamas, e la sua condannata, partì da Oriente, e si ritirò in Occidente, e prese il partito de' Latini, onde fu fatto Vescovo di Geraci in Calabria[83]. Ci lasciò molte sue opere, che compose contro Palamas, e contro i Monaci Quietisti da lui perseguitati ed accusati come rinovatori degli errori degli Euchiti, e sopra altri soggetti.
Scrisse un libro de Primatu Papae: De Algebra; ed altre insigni opere, delle quali l'Allacci, ed il Nicodemo tesserono copiosi Cataloghi[84]. Instruì molti dei nostri nelle discipline, e nella lingua greca e latina, e fu Maestro di Giovanni Boccaccio, di Paolo Perugino Giureconsulto e Prefetto della Biblioteca del nostro Re Roberto, di Leonzio Tessalonicense e di molti altri[85].
In questi medesimi tempi fioriva in Otranto un monastero di Basiliani lontano da quella città non più che mille e cinquecento passi. Era dedicato a S. Niccolò, e i suoi Monaci professavano non men teologia, che filosofia, ed erano istruttissimi di lettere greche, ed alcuni anche di latine. Insegnavano la gioventù, e l'istruivano delle cose greche e della lor lingua. Vi andavano i giovani ad apprenderla da tutte le parti del regno, a' quali con somma liberalità, e magnificenza erano dati i Maestri senza mercede, domicilio e vitto: tanto che le discipline greche, che per la decadenza dell'Impero d'Oriente venivano a retrocedere e mancare, si sostentavano, e lor si dava per essi riparo in queste nostre parti. Narra Antonio Galateo[86], che a tempo de' suoi grand'avoli, che vengono a punto a cadere nel regno di Roberto e di Giovanna, quando ancora Costantinopoli non era passata in man de' Turchi, fu fatto Abate di questo Monastero il celebre Filosofo Niccolò d'Otranto, nominato Niceta: questi vi rifece una famosa Biblioteca, e fece ricercare senza risparmio libri da tutta la Grecia d'ogni genere, e quanto più ne potè raccogliere, tutti fece trasportare nel suo monastero, e fra gli altri molti di Filosofia, e di Logica. Fu, per la sua saviezza ed integrità di costumi, adoperato dagl'Imperadori d'Oriente e da' Sommi Pontefici in varie Legazioni, i quali nelle contese fra di loro nate, o per causa di religione o di Stato, si servivano della di lui persona per comporle, e spesse volte era mandato e rimandato da Costantinopoli a Roma dall'Imperadore, e da Roma in Costantinopoli dal Papa. In discorso di tempo di questi libri, per negligenza de' nostri Latini, e per lo disprezzo e poca cura, che fu presso de' nostri delle lettere greche, alcuni ne furono trasportati a Roma, al Cardinal Bessarione, e quindi a Venezia; ed il resto fu poi tutto consumato e perduto per lo memorabil sacco, che i Turchi calati in Otranto diedero nell'anno 1480 in quella città e monastero e suoi contorni.
Roberto, oltre di favorire i Teologi, non trascurò ancora i Filosofi e' Medici[87]. Nell'Università degli studj di Napoli proccurò che insegnassero queste scienze i migliori Professori dell'età sua; e perchè altrove così queste, come l'altre facoltà non si potessero apparare, ma solo in Napoli, rinovò gli editti dell'Imperador Federico II, e proibì le Scuole nell'altre città del Regno[88]; pose in maggior osservanza i privilegi che il Re Carlo II suo padre aveva conceduto al Collegio degli studj di Napoli, li quali egli inserì in quel suo Capitolo, che comincia Universis, che abbiamo tra i suoi Capitoli, sotto il titolo Privilegium Coll. Neap. Studii. Poichè ne' suoi tempi la filosofia d'Aristotele, secondo il metodo prescritto dagli Averroisti, era nelle Scuole universalmente insegnata, e quella sola teneva il campo, posposti tutti gli altri antichi Filosofi, per le cagioni dette da noi altrove; e la medicina non altronde, che da' libri di Galeno era tratta; quindi Roberto ad imitazione di Federico II deputò Niccolò Ruberto famoso Medico e Filosofo di que' tempi, e gli fece fare una traduzione del Greco in Latino dei libri d'Aristotele di Filosofia, e de' libri di Galeno di Medicina, come ricavasi da' regali registri rapportati dal Summonte[89].
Amò ancor Roberto, che la sua Corte e la sua Cancelleria fosse ripiena d'uomini dotti, ponendo sommo studio, che usassero in quella i più insigni letterati dell'età sua: il che, come ponderò assai a proposito il Costanzo[90], si conosce ancora dallo stile, e frase de' suoi Capitoli e privilegi, che sono più culti, ed ornati di molte clausole oratorie, per quanto comportavano i suoi tempi, ne' quali l'eloquenza e l'eleganza dello scrivere, non era arrivata in quell'elevatezza, che abbiam veduta da poi a' nostri tempi, e dei nostri avoli. E benchè, come soggiunge questo Autore, di tutte le discipline gli piacesse meno dell'altre la poetica, desiderò nientedimeno grandemente d'aver appresso di sè il famoso Petrarca, e che, come si disse, gli dedicasse il suo poema dell'Affrica[91]. Amò per questa cagione, sopra gli altri Cortigiani suoi, Giovani Barrile, al quale diede il governo di Provenza e di Linguadoca, e Guglielmo Marramaldo, ambedue letterati, ed amici del Petrarca; ed il Petrarca[92] e 'l Boccaccio[93] scrivono, che nella vecchiaja pentissi di aver tenuto tanto poco conto de' Poeti, e riputava come suo infortunio d'essersi tardi avveduto delle bellezze ed artificj di quelli; ond'è che in vecchiaja si pose a comporre in rima delle virtù morali.
Ma chi nel Regno di Roberto, e negli anni tranquilli del Regno di Giovanna I sua nipote fiorissero sopra tutti gli altri, furono i nostri Giureconsulti, elevati sempre a' primi onori del Regno, ed in somma stima e riputazione avuti. Fiorirono nella Corte di Roberto sopra tutti gli altri Legisti Bartolommeo di Capua, e Niccolò d'Alife. Di Bartolommeo non accade qui ripetere quanto di lui, e sotto il Regno di Carlo II, e sotto quello di Roberto fu detto; fu egli esaltato ad esser G. Protonotario del Regno e suo intimo Consigliere, reggendosi ogni cosa col suo consiglio e colla sua penna: oltre averlo innalzato a' primi onori del Regno, gli donò molte terre e castella col titolo di Contado d'Altavilla. Bartolo[94] famoso Giureconsulto di questi tempi lo cumula d'eccelse lodi, e dice che per le sue proprie virtù meritò, che fosse fatto da Roberto Gran Conte. Luca di Penna, Baldo[95], Guido Pancirolo[96], ed altri celebrano in mille luoghi le virtù e la dottrina di un tanto uomo. Ed Angelo di Costanzo[97] fin da' tempi ne' quali egli scrisse quella gravissima e saggia sua Istoria, ponderò, che veramente le tante remunerazioni fatte, e da Carlo e da Roberto a questo insigne Giureconsulto, bisognava dire, che fossero un gran indizio della bontà e virtù di quell'uomo; poichè si vede, che senza mai perdersi per niuna di tante revoluzioni, che da quel tempo in qua sono state nel Regno, ancora durano ne' descendenti suoi, e sono state cagione di fargli maggiori, accrescendovi poi col trattare onoratamente l'armi, i titoli del Principato di Molfetta, e di Conca, e del Ducato di Termoli; e se vedesse a' dì nostri la sua stirpe accresciuta, oltre questi Stati, di altri maggiori, chiari argomenti, non già indizj avrebbe, non men della giustizia e della virtù, che della bontà di sì insigne Giureconsulto.
Niccolò Alunno della città d'Alife fu ancor egli uno de' nostri famosi Legisti, che fiorissero nel Regno di Roberto, e di Giovanna I sua nipote. Pier Vincenti nel Teatro de' Protonotarj del Regno, lo fa dell'istessa famiglia di Giovanni d'Alife, che nel 1262 sotto il Re Manfredi fu G. Protonotario del Regno. Fu egli sotto il Re Roberto Secretario e Notajo della sua Regia Cancelleria, e da poi fu creato Maestro Razionale dalla Regina Giovanna I, non già da Roberto, come credette il Costanzo: fu fatto G. Cancelliere del Regno, mancato che fu il Vescovo Cavillocense, e l'esercitò fin alla sua morte, che accadde l'ultimo di dicembre dell'anno 1367. Giace sepolto in Napoli nella chiesa dell'Ascensione fuori la Porta di Chiaja, ch'egli in vita avea edificata a' Monaci Celestini, ove si vede il suo sepolcro con lunga iscrizione, rapportata anche dall'Engenio nella sua Napoli Sacra[98] Ebbe in dono dal Re alcune Terre nella provincia di Bari, che lasciò a' suoi figliuoli, uno de' quali da Urbano VI nell'anno 1284 fu promosso al Cardinalato, detto perciò il Cardinal d'Alife[99]. Non abbiamo di questo Giureconsulto, che lasciasse di se memoria per qualche opera legale, che avesse composta, siccome abbiamo di Bartolommeo di Capua, d'Andrea d'Isernia, di Niccolò di Napoli, di Luca di Penna, e d'altri suoi coetanei.
Fiorì ancora nel Regno di Roberto, e più in quello della Regina Giovanna sua nipote il famoso Andrea d'Isernia. Per la sua profonda dottrina legale, e particolarmente in materie feudali, fu nel Regno di Carlo II padre di Roberto fatto Avvocato fiscale, e poi Giudice della G. C., indi da Carlo istesso creato Maestro Razionale della Camera de' Conti: ufficio, come fu detto, in que' tempi di grande autorità: a cui donò ancora molte Terre, e fece altre remunerazioni. Roberto suo figliuolo lo mantenne nel medesimo posto di Maestro Razionale ch'esercitò per molti anni, sino che, morto Roberto, dalla Regina Giovanna non fosse stato innalzato ad esser suo Consigliere e Luogotenente della Camera Regia; Tribunale ove egli avea menati molti suoi anni in qualità di M. Razionale.
Alcuni seguitando gli errori del Ciarlante[100], credono contro ciò che fu a noi tramandato dagli antichi Scrittori, che Andrea sin nel Regno di Carlo I avesse cominciate le sue fortune, e fosse stato da lui creato Avvocato fiscale; e soggiungono, che dalla Regina Maria sua moglie, da Avvocato fiscale fosse stato fatto suo Consigliere e Maestro Razionale: ancorchè fosse costante presso tutti gli Autori, che e' morisse vecchio in età di settantatrè anni, lo vogliono con tutto ciò morto di morte naturale nel 1316 nel Regno di Roberto, non già nel 1357 nel Regno di Giovanna di morte violenta; imputando quella morte non già a questo Andrea, ma ad un altro Andrea suo nipote figliuolo di Roberto suo figliuolo, che, com'essi dicono, dalla Regina Giovanna fu parimente creato Luogotenente della Regia Camera, siccome suo avo fu creato da Roberto.
Questa opinione, oltre essere stata con manifesti argomenti confutata dall'incomparabile Francesco di Andrea in quella sua dotta disputazione feudale[101], è contraria a tutta l'istoria, e si convince favolosa per più ragioni. Primieramente, ciò che si narra della sua moglie, de' figliuoli e delle dignità, che costoro avessero avute dalla Regina Giovanna, è tutto favoloso, siccome fu dimostrato dal Vescovo Liparulo, che con molta diligenza ed esattezza tessè la vita di questo Giureconsulto. II se si voglia far Andrea Avvocato fiscale nel Regno di Carlo I, bisognerà dire, che fosse stato egli Dottore più antico di Bartolommeo di Capua, ciò ch'è falso. Bartolommeo fu non pur coetaneo di Bartolo, ma autore più antico di lui: Bartolo che nelle sue opere fa di questo Giureconsulto onorata memoria, morì in Perugia, secondo pruova Baluzio[102] nel 1357 di 46 anni[103], ventinove anni da poi della morte di Bartolommeo, il qual, come si è veduto, morì nel 1328. All'incontro Andrea fu coetaneo di Baldo, ebbe con lui dispute in materie feudali, dove Baldo restò vinto: furono poco amici, nè Baldo si ritenne dal malmenarlo, trattandolo da vario ed incostante, e che ora inchinava a destra, ora a sinistra[104]. Ed è a tutti noto, che Baldo fu discepolo di Bartolo, e visse molti anni appresso; ed anche, se si voglia seguitar Osmano, morì nel 1400: poichè, secondo vogliono altri[105], egli morì nel 1420 di età già decrepita, dopo avere per cinquantasei anni letto in Bologna ed in Pavia il jus civile. Donde si vede quanto di gran lunga vada errato il Consigliere de Bottis, il quale scrisse aver egli in un antico Codice d'Andrea d'Isernia letta una postilla a penna, mano di Bartolommeo di Capua; poichè tralasciando esser cosa molto difficile, che de Bottis dopo 250 anni, che egli scrisse, avesse potuto renderci testimonianza, che quella postilla fosse stata scritta di propria mano di quel Giureconsulto, si vede ancora essere affatto inverisimile, che un uomo sì grande ne' tempi del Re Roberto, per la cui autorità egli governava il tutto, avesse voluto scrivere postille ne' Commentarj d'Andrea, Dottore allora presso di lui di niuna, o di poca stima; oltrechè dicendo il medesimo de Bottis, aver veduta tal nota a penna ad Isernia, par che supponga che il libro d'Isernia fosse impresso, il che, se così fosse, non poteva quello essere stato in mano di Bartolommeo, di cui ne' tempi la stampa non per ancora era stata introdotta in Italia. III il voler fissare la morte d'Andrea nell'anno 1316, e per conseguenza prima di Bartolommeo di Capua, per riportarlo in dietro a' tempi di Carlo I ripugna a' più antichi monumenti, ed alle opere istesse di quello Giureconsulto. Abbiamo alcune note del medesimo, fatte a' Capitoli, del Re Roberto, istromentati per mano di Giovanni Grillo Viceprotonotario del Regno; questi dopo la morte di Bartolommeo esercitò quest'ufficio; poichè durante la vita di quello, che fu Protonotario, i Capitoli erano dettati da lui e non da Grillo. Abbiamo ancora che quest'istesso Andrea, nel proemio delle note, che fece sopra le nostre Costituzioni del Regno[106], parlando d'Innocenzio III autore della Decretale Cum interest, scrisse, che questo Papa era morto, erano già cento e più anni, allegando le Cronache, che disse potersi in ciò allegare per pruova della verità: avendo dunque egli esattamente vedute le Cronache, avea certamente trovato, che Innocenzio morì a Perugia nell'anno 1216 a' 16 di luglio; onde se nel tempo, nel quale Andrea scrivea, erano scorsi dal Pontificato d'Innocenzio cento e più anni, è chiaro ch'egli scrisse quelle note alle nostre Costituzioni dopo l'anno 1316. Di vantaggio in queste medesime note e nel proemio istesso, più volte allega Tommaso d'Aquino con titolo di Sunto: all'incontro nei Commentari de' Feudi compilati prima, allega questo Autore col solo titolo di Frate, come in più luoghi osservò Liparulo: Tommaso fu posto nel rollo de' Santi da Giovanni XXII nell'anno 1323; è dunque chiaro, ch'e' scrisse sopra le nostre Costituzioni dopo l'anno 1323.
Andrea adunque, ancorchè nato negli ultimi anni del Regno di Carlo I, verso il 1280, quattro anni prima della sua morte, cominciò a rilucere e dar saggio de' suoi talenti nel Regno di Carlo II suo figliuolo, da cui per lo profondo suo sapere e dottrina fu fatto Avvocato fiscale e Giudice della Gran Corte, ed indi Maestro Razionale della Regia Camera. Negli ultimi anni del suo Regno scrisse egli i suoi famosi Commentarj sopra i Feudi; e le note sopra le Costituzioni del Regno le compose sotto il Re Roberto, intorno al 1232, siccome dimostra lo scrittor della sua vita[107].
Baldo suo emolo, scorgendo qualche varietà ed incostanza d'opinioni tenute da lui ne' Commentari dei Feudi, che poi variò nelle Costituzioni, non potendo negare la profondità della sua dottrina, l'incolpava di questo vizio; ma non men Liparulo, che l'incomparabile Francesco d'Andrea ne penetrarono l'arcano ed il mistero. Il Re Roberto tutto preso d'amore verso Bartolommeo di Capua, non vedendo per altri occhi, nè reggendo il suo Regno che per i consigli di lui, attese sopra tutti gli altri ad ingrandirlo: Andrea non era ugualmente guardato, nè secondo il suo merito premiato; sotto il Regno di Roberto egli si trovò Maestro Razionale, e così vi rimase, ed in quest'istesso posto continuò in tutti gli anni di Roberto, carica conferitagli da Carlo suo padre, e nella quale l'avea Roberto confermato; all'incontro tutti gli onori erano del Capua, di che ardendo d'invidia Andrea, vedendo il suo emolo innalzato, e lui depresso, non potendo prender del Re altra vendetta, cominciò co' suoi scritti almeno ad abbassare le sue ragioni Fiscali, e quanto ne' Commentari de' Feudi, che compilò sotto Carlo II fu Regalista, altrettanto poi nelle note alle nostre Costituzioni, che compose nel Regno di Roberto, fuvvi avverso e contrario. Moltissimi documenti ed esempj di questo suo animo esasperato possono leggersi presso Liparulo[108], e presso il Consiglier Francesco d'Andrea[109]. Ed osservarono questi Autori, che ne' Commentarj de' Feudi, sempre che l'accadea far menzione (ciò che fece molto spesso) di Re Carlo I e II, non gli nominò, se non con elogi; all'incontro, scrivendo sotto Roberto le note sopra le Costituzioni, ancorchè avesse avuto ben cento occasioni, ed alcune volte necessità di allegarlo, non ci si potè mai indurre di nominarlo; tanto che Matteo d'Afflitto[110], parlando d'Andrea, pien di maraviglia ebbe una volta a dire: Et satis miror, quod non alleget Capitulum Regis Roberti, cum ipse fuerit eo tempore, et usque ad tempus Reginae Joannae I. Ed avendo una sola volta per dura necessità dovuto nominare quel Re, che a' suoi tempi fu riputato un altro Salomone, non fu d'altra maniera chiamato, che come un uomo del volgo, senza elogio, ancorchè scrivesse vivente Roberto, ivi: Et fuit determinatum in Consilio, quando Rex Robertus erat Vicarius patris sui[111].
Ma morto Roberto nell'anno 1343, e succeduta al Reame Giovanna sua nipote, non avendo altro competitore, gli fu facile entrare per la somma sua dottrina in grazia della medesima, dalla quale fu inalzato al posto di Luogotenente della Regia Camera, e fatto suo Consigliere; la qual carica continuò insino al 1353 anno della sua morte. Quando gli Scrittori moderni non ci portano se non leggieri indizi e deboli argomenti, non dobbiamo rimoverci da ciò, che lasciarono scritto gli antichi intorno a questa sua morte. Narrano questo infelice successo due autori gravissimi, che scrissero non più, che cento anni dapoi che avvenne, onde potevano averlo appreso da' loro maggiori: questi sono Paris de Puteo[112], che fiorì sotto Alfonso I di Aragona e fu maestro di Ferdinando suo figliuolo, che gli successe al Regno, e Matteo d'Afflitto[113], che scrisse i suoi Commentari a' Feudi sotto il medesimo Re Ferdinando, ciò che si ricava anche da' nostri registri; li quali scrissero, che avendo Andrea giudicato in una causa d'un Tedesco nomato Corrado de Gottis, contro il quale fu profferita sentenza, per cui gli fu tolta una Baronia che possedeva; questi fieramente sdegnato per la perdita, di notte accompagnato con alquanti suoi Tedeschi, mentre Andrea ritornava dal Castel Nuovo a sua casa, vicino porta Petruccia, l'assalì, dicendogli che siccome egli colla sua sentenza l'avea tolta la roba, così egli colle sue armi gli levava la vita; e da più fieri colpi de' suoi masnadieri fu miseramente ucciso. Ecco ciò, che di questo infelice successo ne scrisse Matteo d'Afflitto: Fuit autem interfectus praefatus Doctor insignis in civitate Neapolis die 11 octobris 12 Ind. 1353 etc. ed altrove: Et ego vidi privilegium Reginae Joannae I vindicantis mortem Andreae de Isernia ejus Consiliarii, occisi tarda hora noctis, dum veniret a Castro novo, prope Portam Petrutiam[114] per quosdam Teutonicos, acriter condemnatos de crimine laesae Majestatis. La Regina contro gli infami assassini prese aspra vendetta: furono puniti con supplicj, pubblicati i loro beni, diroccate le loro case e sentenziati a morte, non altrimenti che se fossero rei di delitto di Maestà lesa, per la dottrina dell'istesso Andrea, il quale quasi presago del suo fato infelice, avea insegnato che colui, che uccideva il Consigliere del Principe, era reo di delitto di Maestà lesa, e dovea punirsi con tal pena.
Ci lasciò questo insigne Giureconsulto i suoi incomparabili Commentarj sopra i Feudi, che e' compose negli ultimi anni del Re Carlo II, opera nella quale superò se medesimo, e che presso i posteri gli portò que' elogi, e que' soprannomi Princeps, et Auriga omnium Feudistarum, Evangelista feudorum, e simili rapportati dallo Scrittore di sua vita. Sopra la qual opera i nostri professori impiegarono da poi tutti i loro talenti, ed acquistò tanta autorità, che faceva forza non meno che le leggi feudali medesime. Bartolommeo Camerario[115] v'impiegò in leggerla ed emendarla quasi tutti gli anni di sua vita, ed egli stesso testimonia, che per lo soverchio studio che vi pose, ci perdette un occhio. Fu non solo appo noi, ma anche presso le nazioni straniere riputato il più gran Feudista, che avesse avuto l'Europa in que' tempi; confuse Baldo e l'obbligò in vecchiezza a darsi allo studio feudale[116]; e fu non meno da' nostri, che dagli esteri predicato per Principe de' Feudisti.
Scrisse ancora nel Regno di Roberto intorno l'anno 1323 e ne' seguenti, le nostre Costituzioni e sopra i Capitoli del Regno: compilò i Riti della regia Camera, e compose altre opere legali rapportate dal Toppi[117] nella sua Biblioteca. Narrasi ancora aver composte alcune opere di teologia e di legge canonica, onde ne riportasse dagli Scrittori, che lo seguirono, i titoli di Excelsus juris Doctor, Theologus maximus, e di Utrisque juris Monarca.
Egli è però vero, che più per vizio de' tempi, nei quali scrisse, che per proprio fu nello stile barbaro e confuso, e senza metodo: ciò che diede occasione ad Alvarotto[118] di dire, che fu egli commendabile più tosto per la abbondanza delle cose, che per lo metodo; e che il nostro Loffredo[119] si lagnasse, che quelle cose, ch'egli avrebbe potuto trattare con più distinzione e chiarezza, l'avesse esposte così oscuramente, e con poco ordine.
Fiorì ancora negli ultimi anni di Roberto, e vie più nel Regno di Giovanna I sua nipote, un altro insigne Giureconsulto, quanto, e qual fu Luca de Penna. Fu egli coetaneo di Bartolo, come ci testifica egli medesimo nelle sue opere[120]: fu questo Dottore presso la Regina Giovanna avuto in gran pregio, e nelle cose legali riputato di grande autorità. Compose pienissimi Commentari sopra i tre ultimi libri del Codice 10, 11 e 12[121]; ma il soggetto che e' si pose ad adornare in que' tempi scarsi d'erudizione, e ne' quali non vi eran molte notizie delle cose romane, de' costumi ed istoria loro, cose tutte necessarie, per quel lavoro, lo fecero cadere in moltissimi errori: non deve però non riputarsi l'impresa degna d'un grande ingegno e di un grande ardire. L'ordine e lo stile, fu un poco più culto di quello che comportava la sua età, e secondo il giudicio di Francesco d'Andrea[122], nel metodo di insegnare, e nella chiarezza si lasciò molto indietro Andrea d'Isernia. I Franzesi, non altrimenti, che i Germani tentarono per Pietro delle Vigne, cercarono di togliercelo, e volevano che fosse loro, e nato in Tolosa; ma egli è chiaro più della luce del giorno che fu nostro, e nato in Penna città d'Apruzzo, come Nicolò Toppi l'ha ben dimostrato nella sua Apologia. Nè i più gravi Autori franzesi ce l'han contrastato, fra' quali fu il celebre lor Papiniano Carlo Molineo[123], che nella sua glosa parisiense, ed altrove lo chiama Partenopeo, cioè del Regno di Napoli.
Ad Andrea d'Isernia e Luca di Penna bisogna unire anche il famoso Niccolò di Napoli, di cui abbiamo alcune note nelle nostre Costituzioni e Capitoli del Regno. Fu questi Niccolò Spinello detto di Napoli, ma di patria di Giovenazzo, cotanto favorito dalla Regina Giovanna I. Fu Conte di Gioia e G. Cancelliere del Regno ed adoperato dalla Regina ne' più gravi affari di Stato, e quando fu eletto Papa Urbano VI fu da lei mandato a Roma a rallegrarsi col Papa della sua assunzione, ed a dargli ubbidienza[124]. Questi tre Giureconsulti furono da Camerario[125] riputati di tanta autorità e dottrina, che non si ritenne di dire: Nos Andream de Isernia, Nicolaum de Neapoli, et Lucam de Penna, in nostri Regni juribus interpretandis, non aliter venerari, quam veluti humanam Trinitatem.
Fuvvi anche il Viceprotonario Sergio Donnorso M. Razionale della G. C. del quale abbiamo alcune chiose ne' Capitoli del Regno: scrisse anche, come disse, un Commento nelle quattro lettere arbitrarie, del quale fa egli menzione in detti Capitoli: fu egli Viceprotonotario, mentre era nel 1352 C. Protonotario del Regno Napolione Orsino. La famiglia Donnorso fu molto antica in Napoli, e diede il nome ad una delle porte delle città, detta negli antichi tempi Porta Donnorso, la qual era a piè del tempio di S. Pietro a Maiella, e fu poi trasferita presso la chiesa di S. Maria di Costantinopoli nell'ultima ampliazione della città[126].
A costoro deve aggiungersi il Giudice Blasio da Morcone della famiglia Paccona: fu egli sotto il Regno di Carlo II discepolo di Benvenuto di Milo da Morcone, il quale, come si disse, fu Lettore dell'Università degli Studj; ed occupò la Cattedra di legge civile. Fece progressi maravigliosi in questo studio, tanto che poi da Roberto successore di Carlo, per la sua dottrina, fu nel 1338 creato suo Consigliere, famigliare e Cappellano. Fu parimente tenuto in somma stima da Carlo Duca di Calabria, il quale in tempo, ch'era Vicario del Regno, gli diede facoltà d'avvocare, e lo costituì Avvocato nelle province di Terra di Lavoro, Contado di Molise, Apruzzo e Capitanata, e ne gli spedì nell'anno 1323 lettere molto favorite, e ripiene di molti encomj e commendazioni[127]. Ci lasciò molte sue opere, fra le quali la più insigne fu il Trattato, che e' compose delle differenze tra le leggi romane e longobarde, ed i pieni commentarj sopra quelle Leggi. Marino Freccia[128] ci testifica aver avuto egli quel Volume M. S. in poter suo, al quale sovente ricorre con citarlo. Questa opera ci ha resi certi, che in questi tempi le leggi de' Longobardi nel nostro Regno non erano ancora andate affatto in disuso. Ancorchè nell'Accademie d'Italia, ed in quella di Napoli le Pandette, e gli altri libri di Giustiniano fossero pubblicamente insegnati, e ne' Tribunali avessero cominciato a prendere forza e vigore, la loro autorità non fu tanta, che ne avesse discacciato affatto le longobarde, siccome avvenne nel Regno degli Aragonesi; nel quale pure, siccome nel Regno degli Spagnuoli, vi rimasero alcune reliquie, onde si diede occasione a Prospero Rendella di comporre quel suo libretto: In reliquias juris Longobardorum. Scrisse ancora alcuni altri Trattati, alcuni Singolari, le Cautele, e le Note sopra le nostre Costituzioni, e Capitoli del Regno[129]. Di queste sue fatiche gli Scrittori de' tempi, che seguirono, ne fanno onorata memoria. Francesco Vivio[130] lo chiama uomo di grande autorità nel Regno, e spezialmente per lo suo Trattato delle differenze tra le leggi romane e Longobarde. L'Autore della Chiosa alla Prammatica Dubitationi, De termino citandi auctorem in causa reali, lo loda non poco; e tutti coloro, che han fatto studio sopra le di lui opere, di molti encomj lo cumulano. Fu coetaneo, e molto amico di Luca di Penna, com'egli stesso ci fa conoscere, scrivendo nella Costituzione Majestati nostrae, de Adulteriis, ch'egli d'un dubbio, che avea sopra quella Costituzione, andò a dimandarne parere da Luca di Penna, il quale, come e' dice, a me interrogatus sic de verbo ad verbum respondit, etc. Passò per qualche tempo, nell'avversa fortuna, la sua vita in Cerreto, e fu sempre grato al suo Maestro Benvenuto di Milo Vescovo di Caserta; confessando nel titolo de Aedificiis dirutis reficiendis, che da niente l'avea fatto, e ridotto in quello stato, in cui si trovava.
Fiorì con lui nel medesimo grado di Consigliere del Re Roberto Giacomo di Milo suo compatriotto: fu anche costui, per la sua dottrina e saviezza, da questo Re fatto suo Consigliere, e glie ne spedì privilegio, che si vede ne' Registri degli anni 1337 e 1338 lit. B fol. 28, onde Morcone, Terra del Contado di Molise, si rese in questi tempi celebre per tre suoi famosi Cittadini, per un dottissimo Vescovo, e due insigni Consiglieri, e Giureconsulti. Intorno a questi medesimi tempi rilusse Filippo d'Isernia celebre Legista, e Lettore della prima Cattedra del Jus Civile nell'Università degli Studj di Napoli, nell'istesso tempo ch'era Consigliere, e famigliare del Re Roberto, il quale lo tenne in tanta stima, che non solo lo fece suo Consigliere, ma nell'anno 1320 l'elesse per Avvocato de' Poveri, e poi del suo Fisco[131]. Fiorirono ancora Bartolommeo di Napoli, contemporaneo di Dino[132], Bartolommeo Caracciolo, di cui si crede, che fosse la Cronaca pubblicata sotto il nome di Giovanni Villano, al sentire d'Agnello Ruggiero di Salerno[133], ed alcuni altri rapportati dal Toppi, de' quali a noi rara ed oscura fama è pervenuta, per non averci di loro lasciate opere, nè altra memoria si ha de' loro scritti.
Di Napodano Sebastiano, che fiorì sotto la Regina Giovanna I, famoso Chiosatore delle nostre Consuetudini, a bastanza fu da noi detto nel libro precedente: morì egli nel 1382, e possiamo dire in lui essersi quasi che estinto presso noi lo studio della giurisprudenza. I tempi torbidi, e pieni di rivoluzioni, che seguirono e che per lo corso d'un secolo intero continuarono insino al Regno placido e pacato d'Alfonso I d'Aragona, fecero tacere presso di noi non meno la giurisprudenza, che l'altre lettere. Da Napodano insino a Paris de Puteo, Goffredo di Gaeta, e Matteo d'Afflitto, nel tempo de' quali cominciò ella a risorgere, non abbiamo Scrittore, che ci lasciasse di quella monumento alcuno. E vedi intanto in queste regioni le vicende della nostra giurisprudenza, e quanto ella debba a' favori de' Principi letterali, ed all'amore della pace.
Nel tempo del Re Roberto, e ne' principj del Regno di Giovanna sua nipote, nell'Accademie, e negli altri Stati d'Italia fiorirono tanti insigni ed illustri Giureconsulti; nè l'Accademia di Napoli, e la Corte de' suoi Re furono inferiori a quelle.
In questo decimoquarto secolo cominciò in Italia quasi un nuovo periodo alla ragion civile, e surse l'età de' Commentatori; poichè dopo Accursio niuno più con Chiose, ma con pieni Commentarj cominciarono i Giureconsulti di questi tempi ad illustrarla. Si distinsero nelle altre città d'Italia Bartolo di Sassoferrato, Baldo Perugino suo discepolo, Angelo fratello di Baldo, e poi Alessandro Tartagna, Bartolommeo Saliceto, Paolo di Castro, Giasone Maino, Cino, Oltrado, Pietro di Bellapertica, Raffael Fulgosio, Raffael Cumano, Ipolito Riminaldo, e tanti altri, i quali al Corpo della ragion civile aggiunsero nuovi Commentarj. Noi in niente avevamo di che invidiargli per li nostri celebri Giureconsulti, che vi fiorirono ne' medesimi tempi, Bartolommeo di Capua, Andrea d'Isernia, Luca di Penna, Niccolò di Napoli, e gli altri di sopra riferiti. E veramente, siccome confessano anche gli stranieri[134], fu questa gran lode della nostra Italia, la quale sopra tutte le altre Nazioni in ciò si distinse. E quantunque per l'ignoranza dell'istorie, delle lingue, e dell'erudizione, ne' loro Commentarj sia molto che riprendere; nulladimanco ciò non dee imputarsi a lor difetto, ma al secolo infelice, nel quale scrissero. Ma ben lo compensarono colla perspicacia ed acume de' loro ingegni, e coll'ostinate e lunghe fatiche, in guisa che dove non eran assolutamente necessarie l'istorie e le lingue ovvero la lezione degli antichi, essi arrivarono, e diedero al segno col solo acume della ragione e della lor mente. Fu riserbato questo miglior rischiaramento al secolo seguente, quando, come diremo, per la ruina della città di Costantinopoli cominciarono a risorgere presso noi, ed a fiorire le buone lettere; e questo vanto pur deesi alla nostra Italia, e per la giurisprudenza, ad Andrea Aleiato di Milano, il quale in il primo a restituirla nel suo candore e pulitezza.
Ma siccome sotto il Re Roberto, stando il Regno in grandissima tranquillità, poterono i Cavalieri e' Baroni desiderosi d'acquistar onori e titoli, esercitar il loro valore nelle guerre, che fuori del Regno, ora in Sicilia ed in altre parti d'Italia, ora in Grecia ed in Soria si facevano, e servendo con molta virtù in presenza del Re, o de' suoi Capitani generali, meritare essere esaltati, ed arricchiti d'onorati premj, onde per questa via dell'armi sorsero le loro famiglie, le quali poterono mantenere il di loro splendore per molti secoli appresso: così gli uomini letterati e di governo servendo a' loro Principi, si videro esaltati a diversi, ed eminenti posti, ed adoperati in cose importantissime, de' quali insin'al dì d'oggi se ne vedono successori posti in altissimi gradi e titoli; ciò che ha fatto vedere, che non meno l'uso della spada, che della penna suol onorare, e far illustri le persone e le schiatte, e che questi soli siano i due fonti, donde ugualmente deriva la nobiltà e la grandezza nelle famiglie. Ma quando per la morte del savio Re Roberto senza figliuoli maschi, s'estinse la linea di que' Re potenti, e valorosi, e 'l Regno venne in man di femmina, tra le discordie di tanti Reali, che vi rimasero, e quelle arme, che fin qui s'erano adoperate in far guerra ad altri, a mantener il Regno in pace, ed in quiete, si rivolsero a danni e ruine del medesimo Regno; non pur ne nacquero mutazioni di Signorie, morti violente di Principi, distruzioni e calamità di Popoli. ma le discipline e le lettere tra i moti e dissensioni civili, vennero parimente a declinare; nè presso di noi risursero, se non quando, dopo tante rivoluzioni di cose, che saranno il soggetto de' seguenti libri, venne finalmente il Regno a riposarsi sotto la dominazione d'Alfonso primo d'Aragona, Re savio e magnanimo, che restituillo nella pristina sua pace e quiete.
CAPITOLO VIII. Politia ecclesiastica del XIV secolo, per quel tempo che i Papi tennero la loro sede in Avignone, insino allo Scisma de' Papi di Roma e d'Avignone.
Come suole avvenire nelle cose di questo Mondo, che qualora si veggono giunte al sommo, questo stesso tanto innalzarsi è principio del loro abbassamento: così appunto accadde al Pontificato romano in questo nuovo XIV secolo, la politia ecclesiastica del quale saremo ora a trattare. Bonifacio VIII calcando le orme dei suoi predecessori, credea aver ridotto il Pontificato in tanta elevatezza, che coronato di duplicate corone, e vestito del manto imperiale, volea esser riputato Monarca non meno dello spirituale, che del temporale, e che i maggiori Re e Principi della terra fossero a lui soggetti anche nel temporale, siccome, oltre la divisa presa de' due coltelli, lo dichiarò apertamente in quella sua stravagante Bolla Unam Sanctam. Prese per tanto a regolare le contese de' Principi, e fra gli altri quelle di Odoardo Re d'Inghilterra, e di Guido Conte di Fiandra con Filippo il Bello, Re di Francia. Entrò nell'impegno di distruggere affatto in Italia il partito de' Ghibellini e de' Colonnesi, e di far conoscere la sua potenza sopra tutti i Principi, vietando loro con sua Bolla d'esigere cos'alcuna sopra i beni degli Ecclesiastici. Queste ardite risoluzioni offesero grandemente l'animo di Filippo Re di Francia, il quale accortosi, che la proibizione, ancorchè generale, riguardava il Regno di Francia, vi s'oppose con vigore, e fece stendere un Manifesto contro la Bolla; e dall'altra parte seguitando Bonifacio a distruggere il partito de' Ghibellini e de' Colonnesi, questi furono costretti ritirarsi in Francia, dove furono dal Re accolti, onde maggiormente le contese s'inasprirono, le quali finalmente proruppero non pure in onte ed in contumelie, ma in esecuzioni di fatto; poichè portatosi il Signor di Nogaret Ambasciadore del Re in Italia, assistito da Sciarra Colonna entrò in Anagni, dove era il Papa, e lo fece prigione; e quantunque liberato da quel popolo fuggisse in Roma, fu tanta l'afflizione del suo animo, che non guari da poi se ne morì; e Dante ch'era Ghibellino, scrisse[135], che la sua anima era con impazienza aspettata nell'Inferno da Niccolò III per dargli luogo fra Papi simoniaci.
Queste liti, che nel principio di questo secolo furono tra il Re Filippo e Papa Bonifacio, e molto più le contese, che arsero da poi tra Lodovico Bavaro con Giovanni XXII e Benedetto XII, furono cagione, onde il Pontificato Romano venne a decader non poco dalla sua opinione e possanza: poichè, oltre dello scadimento per la trasmigrazione della Sede Appostolica in Avignone, e dello Scisma indi seguito, di che favelleremo più innanzi, coll'occasione di questi contrasti tra i Papi, ed i Principi intorno alla potestà temporale, si diede luogo a ben esaminare questa materia, quando che prima non era molto curata; e cominciando pian piano a risorgere le lettere anche presso i Laici, furono trovati ingegni, che secondo le fazioni cominciarono a disputarla, ed i Ghibellini ne compilarono particolari trattati, onde s'ingegnarono a far avvertiti gli altri delle usurpazioni, e a dimostrare, che la potestà spirituale non avea che impacciarsi colla temporale, la quale tutta era de' Principi.
Fra i primi deve noverarsi Dante Alighieri Fiorentino, il quale ne' suoi tre libri de Monarchia, scritti a' tempi di Lodovico Bavaro, quest'appunto sostenne. Intorno a' medesimi tempi si distinse per quest'istesso Guglielmo Occamo dell'Ordine de' Frati Minori, il quale ancorchè nato in un villaggio della Contea di Surrey in Inghilterra, fiorì nell'Università di Parigi nel principio di questo secolo, e compose un'Opera della Potestà Ecclesiastica e Secolare, per difendere Filippo il Bello contro Bonifacio; e da poi fu uno de' grandi Avversarj di Papa Giovanni XXII, che lo condannò sotto pena di scomunica a starsene in silenzio. Si dichiarò poi apertamente per Lodovico di Baviera, e per l'Antipapa Pietro di Corbaria, che si faceva chiamare Niccolò V, e scrisse contro Giovanni XXII, che lo scomunicò l'anno 1330. Allora uscì di Francia, e se ne andò a trovare Lodovico di Baviera, che favorevolmente l'accolse, e terminando nella Corte di quel Principe i giorni suoi, morì in Monaco l'anno 1347. Giovanni di Parigi Dottor in Teologia dell'Ordine dei Predicatori, cognominato il Maestro Parisiense, intorno all'anno 1322, compose ancora un trattato della Potestà Regia e Papale. Arnoldo di Villanova Catalano, Marsilio di Padova e Giovanni Jande impugnarono pure l'autorità de' Pontefici sopra il temporale de' Re; ma costoro non seppero tener modo, nè misura, dando in una estremità opposta: poichè Arnoldo espresse molte proposizioni contro l'autorità della Chiesa, contro i Sacramenti, contro il Clero e contro i Religiosi; e Marsilio e Giovanni troppo concedendo ai Principi, attribuirono loro una giurisdizione, che appartiene unicamente alla Chiesa. Radulfo Colonna Canonico Carnutense, Lupoldo di Babenberg, Raolfo di Prelles, e Filippo di Mezieres Giureconsulti insigni, sostennero parimente co' loro Trattati i diritti de' Principi; ma chi da poi in Francia sopra tutti sostenesse le ragioni del Re Filippo di Valois contro l'intraprese degli Ecclesiastici, fu Pietro di Cugnieres suo Avvocato generale nel Parlamento di Parigi. Costui nell'anno 1329 ebbe grandi contrasti con Niccolò Bertrando Vescovo d'Autun, e poi Cardinale, e cogli altri Prelati di Francia, sopra i diritti della giurisdizione spirituale e temporale. Il Clero di Francia lo calunniarono, facendo artificiosamente correre rumore, che sotto pretesto di risecare l'intraprese delle loro Giustizie, si voleva loro togliere la roba, ancorchè le proposizioni di Cugnieres di ciò non parlassero punto: tanto che il Re Filippo dubitando eccitare nuovi torbidi, e temendo dell'autorità, che il Clero avea allora in Francia, non potè affatto risecarle, siccome fu eseguito da poi per l'Ordinanza del 1438.
Non meno che i Franzesi ed i Germani cominciarono da poi gli Spagnuoli a riscuotersi dal lungo sonno; oltre d'Arnoldo di Villanova Catalano, Alvaro Pelagio di Galizia in Ispagna dell'Ordine de' Frati minori, e poi Vescovo di Silva in Portogallo, distese un Trattato de Plantu Ecclesiae; opera eccellente sopra la riforma della disciplina della Chiesa. Anche sul fine di questo secolo, e nel decorso del seguente, prima, e dopo il Concilio di Costanza, il Cardinal Francesco Zabarella Arcivescovo di Fiorenza, Teodorico di Niem, Niccolò di Cusa, e poi Enea Silvio, travagliarono sopra questo soggetto. Ed al di loro esempio molti altri, che seguirono appresso, ne compilarono diffusi trattati; onde si diede materia a Simone Scardio[136], delle loro opere farne Raccolta, e dappoi a Melchior Goldasto di farne un'altra più ampia ne' suoi volumi della Monarchia dell'Imperio.
Per queste contese si cominciò in Francia e nella Germania a contrastare agli Ecclesiastici il diritto di esercitar la giurisdizione temporale, e di giudicare sopra quelle cause, delle quali essi aveano tirata al Foro episcopale la conoscenza, di cui nel XIX libro di quest'Istoria si fece memoria. Fu lor contrastato di por mano in molte cause civili sotto pretesto di scomunica, di peccato e di giuramento; fu tentato ancora di assalire l'immunità de' Cherici e de' beni della Chiesa; e quantunque gli Ecclesiastici avessero gagliardamente difesi i loro diritti, nulladimeno fu rimediato a qualche abuso, e perdettero a poco a poco una parte della giurisdizione temporale; ed in Germania da questo tempo di Lodovico Bavaro cominciò il diritto Pontificio, spezialmente quello contenuto nelle Decretali, a perdere la sua autorità e vigore[137].
Ma non così avvenne nel nostro Regno sotto questi Re della Casa d'Angiò: non ebbero essi alcun contrasto co' Romani Pontefici, anzi furono ora più che mai a' loro cenni ossequiosissimi; e Roberto, assai più che i suoi predecessori, avea obbligo di farlo per li tanti favori che avea ricevuti da Clemente V, da Giovanni XXII, da Benedetto XII Papi d'Avignone che lo preferirono al nipote nella successione del Regno; e sempre gli diedero ajuti contro Errico VII e Lodovico Bavaro, nell'impresa di Sicilia, e contro tutti i suoi nemici. Quindi questo Principe, non seguendo in ciò l'esempio della Francia, mantenne intatta la loro giurisdizione ed immunità, anzi giunse a tale estremità, che, come fu rapportato nel XIX libro di questa Istoria[138], volle rendere immuni sino le concubine de' Chierici, lasciando il castigo di quelle alli Prelati delle Chiese[139]. Quindi avvenne, che nello stabilire i Rimedj contro le violenze degli Ecclesiastici, usasse tante riserbe, cautele e rispetti, perchè non venisse la loro immunità in parte alcuna offesa; e quindi avvenne ancora, che la traslazione della Sede Appostolica in Avignone non recò a noi verun cambiamento nella politia delle nostre Chiese: e che le querele di tutto il rimanente d'Italia per questo trasferimento non furono accompagnate da' nostri Regnicoli, i quali in ciò seguirono più tosto i desiderj de' Franzesi, che le doglianze degli Italiani: ciò che bisogna un poco più distesamente rapportare.
§. I. Traslazione della Sede Appostolica in Avignone.
Benedetto XI, che a Bonifacio successe, non tenne più il Pontificato che nove mesi; e morto egli in Perugia il dì 6 luglio dell'anno 1304, i Cardinali quivi ragunati in Conclave per eleggere il successore, vennero in tali contenzioni, che divisi in due fazioni, i loro contrasti fecero, che la Sede stette vacante per lo spazio d'undici mesi. Capo dell'una fazione era Matteo Orsini, e Francesco Gaetano nipote di Bonifacio; dell'altra era Napolione Orsino dal Monte, e Niccolò da Prato, il quale, innanzi al Cardinalato, era stato dell'Ordine de' Predicatori. Non potendo accordarsi sopra un soggetto, a cagione della lite, ch'era fra la fazione de' Franzesi e quella degl'Italiani, convennero finalmente che gl'Italiani proponessero tre Arcivescovi oltramontani, e che il partito de' Franzesi eleggesse de' tre colui che più gli piacesse. Gl'Italiani fra' tre proposti nominarono Bertrando Got Arcivescovo di Bordeos; onde il Cardinal di Prato sollecitamente avvisandone il Re di Francia Filippo il Bello, fece, che il Re chiamasse a se Bertrando, e dicessegli ch'era in sua potestà di farlo Papa, e che lo farebbe, se gli acconsentiva ad alcune condizioni: Bertrando cupidissimo di tanta dignità, gli accordò quanto volle; onde il Re rescrisse al Cardinal di Prato che dasse opera, che l'elezione cadesse sopra di costui, siccome a' 5 giugno del 1305 fu eletto Pontefice, e chiamato Clemente V. Narrasi, che fra le condizioni accordate fossero che cassasse ciò che Bonifacio aveva fatto contro di lui e del suo Regno, ed annullasse la sua memoria: che restituisse nel Cardinalato Jacopo, e Pietro Colonnesi privati da Bonifacio: che spegnesse l'Ordine de' Templarj, e che in Francia si facesse coronare. In effetto egli rivocò la Bolla Unam Sanctam, e l'altre Bolle di Bonifacio: ristabilì i Colonnesi nelle lor dignità: dichiarò nulle tutte le sentenze che quel Pontefice avea pronunziate: diede l'assoluzione a tutti coloro ch'erano stati da esso scomunicati, eccettuatine il Nogaret e Sciarra Colonna; ed ordinò a' Cardinali che venissero a Lione di Francia, perchè quivi voleva essere egli incoronato. I Cardinali Italiani ciò malamente intesero, e narra S. Antonino[140] Arcivescovo di Fiorenza, che l'apprese dall'Istoria di Giovanni Villani, che il Cardinal Matteo Orsini ch'era il più anziano, non si potè contenere di rimproverarne acremente il Cardinal di Prato, dicendogli: Assecutus es voluntatem tuam in ducendo Curiam ultra Montes, sed tarde revertetur Curia in Italiam.
Clemente, non ostante la repugnanza della maggior parte de' Cardinali, volle essere ubbidito; onde portatosi in Lione, fu quivi a' 14 di novembre incoronato, osservando al Re di Francia le promesse; e datosi in sua balìa, creò molti Cardinali, parte guasconi, e parte francesi, tutti uomini familiari del Re. Fermò per tanto la sua dimora in Francia, residendo ora in Lione, ora in Bordeos, ora in Avignone, dove nell'anno 1309 fermossi, e vi dimorò insino al Concilio di Vienna tenuto nell'anno 1311 e fin che resse il Pontificato; facendo varie dimore in diverse città della Francia, non pensò mai tornare in Italia. Venuto a morte in Carpentras nel mese di Aprile dell'anno 1314 entrarono i Cardinali nel Conclave, e vi dimorarono persino al dì 22 di luglio, senza poter accordarsi sopra l'elezione d'un Papa; poichè i Cardinali italiani volevano un Papa della loro Nazione che andasse a fare la sua dimora in Roma; i Guasconi volevano un Franzese, che facesse la sua residenza in Francia; e s'avanzaron tanto i contrasti, che essendosi ragunato il Popolo sotto la condotta dei nipoti del Papa defunto, si portarono armati al Conclave, domandando, che fossero dati in lor potere i Cardinali italiani, e che volevano un Papa franzese: ciò essendo lor negato, posero fuoco al Conclave: onde i Cardinali scappati via fuggirono chi qua e chi là, ed andaron per due anni dispersi[141]. Filippo il Bello fece quanto potette per adunargli, ma la sua opera riuscì vana. Morto Filippo, e succeduto nel Regno di Francia Lodovico Utino, questi mandò suo fratello in Lione, il quale chiamò a se i Cardinali, e gli fece chiudere nella Casa de' Frati Predicatori di Lione, e dicendo loro, che di là non sarebbero mai usciti e trattati con austerità, se non avessero tosto eletto un Papa: i Cardinali dopo essere stati rinchiusi per lo spazio di quaranta giorni, elessero finalmente nell'anno 1316 Giacomo d'Eusa, nativo di Cahors, prima Vescovo di Frejus, e poi d'Avignone, ed era allora Cardinale Vescovo di Porto. Questo Papa dopo la sua elezione prese il nome di Giovanni XXII, ed essendosi fatto coronare in Lione a' dì 5 di settembre del medesimo anno, partì subito per Avignone, dove fermò la sua residenza, nè vagò come Clemente per le altre città della Francia; ond'è, che i suoi successori ebbero per ordinaria lor sede Avignone; poichè avendo Giovanni tenuto il Pontificato 18 anni, stabilì maggiormente quivi la sua Sede: e morto egli in Avignone nel mese di decembre dell'anno 1334 i Cardinali nell'istesso mese elessero, e coronarono nella chiesa d'Avignone il Cardinal Jacopo Fournier Vescovo di Pamiers, nominato Benedetto XII il quale, ancorchè mostrasse intenzione di portarsi a far la sua dimora in Italia, avendo fatto chiedere a' Bolognesi, se lo avessero voluto ricevere nella loro città, e trovatigli mal disposti a farlo, fermò come il suo predecessore la sua residenza in Avignone, dove dimorò sin al 1342 anno della sua morte. Lo stesso fece Clemente VI suo successore, Innocenzio VI, Urbano V insino a Gregorio XI, il quale avendo voluto trasferire la sua Sede in Roma, malgrado de' Franzesi, fu cagione che dopo la sua morte, seguisse quello scandaloso scisma tra i Papi di Roma e d'Avignone che tenne lungamente travagliata la Chiesa, di cui avremo occasione di ragionare ne' seguenti libri di quest'Istoria.
Intorno a questa traslazione della Sede Appostolica in Avignone, vi è gran contrasto tra gli Scrittori nostri Italiani ed i Franzesi. Gli Italiani la chiamano Esilio Babilonico; poichè la Chiesa, mentre quello durò, stette sotto la schiavitù de' Franzesi, e spezialmente del Re Filippo il Bello: la chiamano prevaricazione della Casa di Dio: scandalo del Popolo cristiano, e ruina della Cristianità[142]. Che i Papi, che la ressero in quei tempi, furono più tosto mostri d'empietà e di scelleraggini, che Vicarj di Cristo: che non ad altro attesero, che a cumular denari, per nudrire la loro ambizione ed il fasto, vilmente servendo i Re di Francia. Dipinsero per ciò nelle loro opere i Papi d'Avignone per simoniaci, lussuriosi, crudeli, avari e rapaci; ed Avignone per una Babilonia. Dante nella sua Commedia[143] scrisse di Clemente V cose orribili. Giovanni Villani[144], e con esso lui Santo Antonino Arcivescovo di Fiorenza[145] gli tessè una satira inclementissima: che e' fosse un uomo avaro, crudele, simoniaco, lussurioso, e che si teneva per concubina Brunisinda Contessa Petragoricense, bellissima donna figliuola del conte Fuxense, e madre del cardinal Talairando. Il nostro Giureconsulto Alberico di Rosate scrisse che lo sterminio e le crudeltà, che egli praticò co' Templarj, lo fece contro giustizia, e per compiacere al Re di Francia; siccome egli se n'era reso certo da un esaminatore della causa che ricevè la deposizione de' testimonj, dicendo: Destructus fuit ille Ordo tempore Clementis Papae V ad provocationem Regis Franciae. Et sicut audivi ab uno, qui fuit Examinator causae, et testium, destructus fuit contra justitiam. Et mihi dixit, quod ipse Clemens protulit hoc: Et si non per viam justitiae potest destrui, destruatur tamen per viam expedientiae, ne scandalizetur charus filius noster Rex Franciae. Quindi molti Storici riputarono la condanna de' Templarj ingiusta, e che fossero stati falsamente imputati di tanti delitti, ed estorte le confessioni dalla violenza de' tormenti, e dal timore della morte: che Filippo il Bello da gran tempo era ad essi contrario, accusandogli di avere eccitata, e fomentata una sedizione contro esso: che era particolar nemico del gran Maestro; e che voleva trar profitto dalle loro spoglie insieme col Pontefice Clemente, ancorchè in apparenza mostrassero di voler servirsi de' loro beni per la spedizione di Terra santa.
Peggiore è quel che narrano di Giovanni XXII suo successore. Giovanni Villani[146] lo fa figliuolo d'un Tavernajo, che nudrito presso Pietro de Ferrariis Cancelliere del nostro Re Carlo II d'Angiò, ed educato nelle lettere, da lui riconobbe la sua fortuna: che giunto al Pontificato, niuno quanto lui fosse stato più intento a cavar denari d'ogni cosa, e ad inventar modi per cumular tesori. Egli divise in Francia molti Vescovadi, e vacando un beneficio ricco, usò di darlo a chi n'avesse un altro poco inferiore, dando quello, che vacava ad un altro, ed alle volte faceva sino a sei provvisioni, trasferendo sempre da un meno ricco, ad un più ricco, ed al minimo provvedendo d'un beneficio nuovo: sicchè tutti erano contenti, e tutti pagavano. Inventò anche le Annate, gravame sopra i beneficj, innanzi lui, non ancora udito: corruppe la disciplina della Chiesa colle tante dispense, onde con grandissimo scandalo congregò incredibil Tesoro; e con tutto che nello spendere, e donare non fu più ristretto de' suoi predecessori, pure alla morte sua lasciò più milioni[147]. E narra Giovanni Villani, che ad un suo fratello del Collegio de' Cardinali, dopo la morte del Papa, fu dato carico d'inventariar il denaro, che gli trovò 18 milioni in moneta coniata, e 7 milioni in vasi, e verghe da lui pesate. Lodovico Bavaro gli fè fabbricare addosso più processi, lo fece deponere, e dichiarar anche eretico. Le sue costituzioni dette Joannine furono riputate simoniache, ed anche eretiche. Egli è riputato l'Autore delle Regole della Cancelleria, dove si danno molti ingegnosi regolamenti per congregar denaro: in breve, ch'egli sopra ogni altro avesse corrotta la disciplina della Chiesa, riputando il patrimonio di Cristo esser i Regni, le città, le castella, le ricchezze e le possessioni; e li beni della Chiesa essere non già il disprezzo del Mondo, l'ardor della fede, e la dottrina dell'Evangelio, ma le obblazioni, le decime, le gabelle, le collette, la porpora, l'oro e l'argento.
Di Benedetto XII suo successore scrissero ancora, che fosse un Papa avarissimo, duro, crudele, diffidente e tenace: che si dilettava di buffoni, di conversazioni licenziose ed inoneste: che fosse lussurioso, che si giacesse con più meretrici, e che fortemente innamorato della sorella del Petrarca, tanto facesse, che l'ebbe a sua voglia, e che la stuprasse[148]: che fosse un gran bevitore di vino, tanto che da lui nacque proverbio nelle brigate, che quando volevano passar con allegria il tempo tra boccali e pransi, costumavano di dire: Bibamus Papaliter[149]. Quindi, essendo egli morto in Avignone nell'anno 1342 fu chi al suo sepolcro componesse questi versi.
Iste fuit Nero, laicis mors, vipera Clero,
Devius a vero, cuppa repleta mero[150].
Non meno che a Benedetto, imputavano a Clemente VI queste bruttezze, e che egli non meno, che il suo predecessore si contaminasse con meretrici. Ma assai più lo resero favola del Mondo per quella sua Bolla, che nel terzo anno del suo Pontificato pubblicò in Avignone, dove considerando la brevità della vita umana, restrinse il tempo del Giubileo a cinquanta anni; poichè per maggiormente animare qualunque sorta di persone da tutte le parti del Mondo a venire in Roma, anche senza richiedere licenza da' loro Superiori, gli assicurava, che se forse per istrada venissero a mancare, tanto avrebbero guadagnate le indulgenze e remission de' loro peccati, e le loro anime sarebbero state condotte subito in Cielo; e perciò comandava agli Angioli di Dio, che senza dimora alcuna gl'introducessero alla gloria del Paradiso: Et nihilominus (sono le parole della Bolla[151] ) prorsus mandamus Angelis Paradisi, quatenus animam illius a Purgatorio penitus absolutam in Paradisi gloriam introducant.
Quindi parimente s'avanzarono a dire, che per li Papi d'Avignone, e per la loro scellerata vita, fossero sorte in questo secolo tante eresie, e tanti errori; e che si fosse data occasione a Giovanni Oliva Frate Minore studiando l'Apocalisse farne un Comentario, e adattando quelle visioni al suo secolo, ed alla vita corrotta degli Ecclesiastici, d'aprire la strada a' suoi seguaci di riputare la Chiesa d'Avignone da Babilonia, e perciò di promettere una Chiesa nuova più perfetta sotto gli auspicj di S. Francesco, come colui, che avea stabilita la vera Regola Evangelica, osservata da Cristo, e da' suoi Appostoli; prorompendo da poi in altre bestemmie, pubblicando il Papa essere l'Anticristo, la Chiesa d'Avignone la Sinagoga di Satana, e che perciò non si dovea prestar più ubbidienza a Giovanni XXII, nè considerarlo più come Papa.
Dall'altra parte gli Scrittori franzesi, pur troppo amanti del lor paese, e degli uomini della loro Nazione, non possono senza collera sentire ciò, che i nostri Italiani scrissero di questa traslazione, e de' loro Pontefici avignonesi. Negli ultimi nostri tempi il più impegnato in lor difesa si vede essere Stefano Baluzio[152], il quale fa vedere quanto a torto gl'Italiani comparano quella traslazione all'Esilio Babilonico: che debba più tosto darsi la colpa a' Romani, i quali avendo ridotta Roma in una perpetua confusione piena di tumulti e di fazioni, costrinsero Clemente V a trasferire la sua Sede in Francia, la quale è stata sempre il sicuro asilo de' romani Pontefici: che agl'Italiani ciò non piacque, non per altro, se non perchè venivano ad esser privati de' comodi e guadagni, che lor recava la Corte di Roma; che se si dovesse in ciò dar luogo alle querele, più tosto la Francia dovrebbe dolersi di questo trasferimento in Avignone, la quale ne ricevè danni grandissimi, a cagion che li perversi Italiani, che quivi si portarono, corruppero i costumi de' Franzesi, i quali quando prima vivevano colla loro simplicità, menando una vita molto frugale, trasferita la Corte in Francia, appresero dagl'Italiani il lusso, le astuzie, le simonie, gl'inganni, ed i loro perversi costumi: tanto che Niccolò Clemange[153] soleva dire, da quel tempo essersi introdotta in Francia la dissolutezza.
Sostengono ancora i Franzesi, che la residenza dei Papi in Avignone non iscemò in conto alcuno la possanza della Santa Sede, anzi che quivi si conservò con sommo onore ed unione: e che non servitù, ma protezione e riverenza ebbero da' loro Re. Che la vita e costumi de' Papi avignonesi comparati a quelli de' Papi di Roma, che ressero ivi la Sede Appostolica prima di questa traslazione, e da poi che quella fu restituita in Roma, furono meno peggiori, e meno scandalosi. Non doversi prestar intera fede a Giovanni Villani ed agli altri Scrittori italiani, che lo seguirono come appassionati; nè doversi l'esterminio de' Templarj attribuire al disegno che Clemente V ed il Re Filippo il Bello fecero d'occupare i loro beni, ma ai loro enormi delitti, ed esecrande eresie provate con reiterate confessioni de' rei. Ed il Baluzio nelle Note da lui fatte alle Vite de' Papi Avignonesi, adopera tutti i suoi talenti in purgar Clemente V da ciò, che gl'imputa il Villani: difende parimente Giovanni XXII, assolve Benedetto XII dallo stupro, che se gl'imputa della sorella del Petrarca, e dalla vinolenza. Si studia di far apparire apocrifa la Bolla di Clemente VI del Giubileo, ed in brieve prende con ardore la difesa di tutti que' Papi, che in Francia dimorarono.
Ma quantunque gl'Italiani nudrissero sentimenti contrarj a quelli de' Franzesi, a' nostri Regnicoli però fu uopo seguitare l'esempio de' loro Principi, ed allontanandosi da tutto il resto d'Italia, secondare i Franzesi. I nostri Re della Casa d'Angiò, siccome si è potuto osservare da' precedenti libri di quest'Istoria, erano grandemente obbligati a' Papi d'Avignone, e per conseguenza gli furono ossequiosissimi, e come leggi inviolabili erano i loro voleri prontamente eseguiti. Appena Clemente V diede avviso al re Carlo II della risoluzione presa, ed eseguita in Francia contro i Templarj, con richiedergli ch'egli lo stesso facesse eseguire ne' suoi Dominj, che subito questo Re lo ubbidì, e di vantaggio scrisse al Principe d'Acaja, che eseguisse parimente egli nel Principato d'Acaja quanto il Papa avea ordinato, con carcerare incontanente tutti i Templarj, ed occupare i loro beni, e tenergli in nome della Sede Appostolica[154].
Il Re Roberto avea maggiori obbligazioni col Pontefice Clemente, come s'è detto, e non men col suo successore Giovanni XXII. Questo Papa, prima d'esserlo, fu nudrito in Napoli nella Corte di Roberto, e dopo la morte di Pietro de Ferraris succedè egli al posto di Cancelliere del Re[155], e da poi a sua istanza fu fatto Vescovo d'Avignone: ed asceso al Pontificato si mantenne fra loro una stretta amicizia e corrispondenza. Quindi ciò che la Germania, e gli altri Stati d'Europa, per la contenzione che Giovanni ebbe con Lodovico Bavaro, non potè soffrire di questo Pontefice, presso di noi fu legge inviolabile. Egli c'introdusse le Regole della Cancelleria, e tutti i modi da lui inventati per cumular danari, furono nel Regno di Roberto prontamente eseguiti. Per questa ragione a questi tempi il nome de' Nunzj, e Collettori Appostolici si legge più frequente nel Regno; e la lor mano stesa anche sopra i beni delle Chiese vacanti.
§. II. De' Nunzj, ovvero Collettori Appostolici residenti in Napoli.
Sin da' tempi del Re Carlo I d'Angiò hassi dei Nunzj della Sede Appostolica residenti in Napoli memoria, leggendosi ne' regali Archivi della Zecca, che il Re Carlo I nell'anno 1275 per supplica datagli da Maestro Sinisi Cherico della Camera del Papa, e Nunzio della Sede Appostolica, incaricò a Carlo Principe di Salerno, che facesse consegnare al Proccuratore del Nunzio suddetto alcune robe sequestrate, non ostante le pretensioni del Secreto di Terra di Lavoro e d'altri creditori, per essersi questi nella sua Curia concordati col Nunzio[156]. Consimili carte si leggono del Re Roberto, ove fassi menzione de' Nunzj a tempo di Clemente V; facendo questo Re nel 1311 dar il braccio a M. Guglielmo di Balacro Canonico della chiesa di S. Alterio, ed a Giovanni di Bologna Cherico della Camera del Pontefice Clemente V Nunzi deputati per due Brevi dal suddetto Pontefice ad esigere e ricevere i censi alla romana Chiesa dovuti per qualunque cagione, legati, beni, decime ed altro[157]. Siccome nell'anno 1335 fece dar il suo ajuto e favore a M. Girardo di Valle Diacono della maggior chiesa di Napoli, e Nunzio destinato dalla Sede Appostolica in questo Regno per eseguire alcuni affari commessili dalla medesima[158]; e nel 1339 si leggono altre lettere di questo Re, colle quali si dà il placito Regio, ed ogni favore al suddetto Nunzio per eseguire le sue commessioni[159].
Ma questi Nunzj erano destinati per Collettori delle entrade, che nel Regno teneva la Sede Appostolica, la quale sin da' tempi antichi, come si disse nel IV libro di quest'Istoria, avea in Napoli ed in alcune sue province particolari Patrimoni, i quali col corso di più secoli s'andarono sempre avanzando. Ma insino al Pontificato di Giovanni XXII non estesero la loro mano ne' beni delle sedi vacanti; poichè siccome fu altrove avvertito, anche nella investitura data a Carlo I ancorchè si proccurasse togliere a' nostri Re l'uso della Regalia, che avevano nelle loro Chiese vacanti, i Re di Francia e d'Inghilterra; nulladimanco, intorno a' frutti di tali chiese, niente fu mutato contro l'antica disciplina, leggendosi nell'investitura[160]: Custodia Ecclesiarum earumdem interim libere remanente penes personas Ecclesiasticas JUXTA CANONICAS SANCTIONES; le quali parole certamente importano, che i beni del morto Prelato o de' Beneficiati, dovessero conservarsi a' futuri successori, poichè così ordinano i Canoni. Ciocchè parimente stabilì Papa Onorio nella sua Bolla e ne' suoi Capitoli, siccome altrove fu rapportato. Nel Pontificato adunque di Giovanni, negli anni del Regno di Roberto, non volendo questo Principe contrastare alla cupidigia di colui sempre intento a cumular denari, stesero i Nunzj appostolici la lor mano anche ne' beni delle Chiese vacanti, ed in vece di lasciarli a' successori, gli appropriavano alla Camera Appostolica. Ciocchè una volta introdotto, fu poi continuato da Benedetto XII suo successore, a cui Re Roberto non era men tenuto, che a' suoi predecessori, avendogli questo Papa confermata la sentenza che riportò da Clemente V, colla quale l'avea preferito nella successione del Regno al Re d'Ungheria. Quindi è, che nel regal Archivio della Zecca leggiamo più carte di questo Re, per le quali a tali Collettori, in vece di fargli in ciò ogni ostacolo, si dà loro tutto l'ajuto e favore. Onde leggiamo, che questo Re a' 28 di novembre dell'anno 1339 ordinò a tutti gli Ufficiali del Regno, che a Guglielmo di San Paolo costituito dalla Sede Appostolica per Collettore delli frutti ed entrade delle Chiese e beni ecclesiastici vacanti de' Pastori, e Rettori nel Regno, gli diano ogni ajuto, e favore intorno al raccogliere, e ricuperare i suddetti frutti, ed entrade per beneficio della Chiesa romana. E nel 1341 a' 26 di giugno comandò parimente a tutti gli Ufficiali del Regno, che dessero ogni ajuto e favore a M. Raimondo di Camerato Canonico d'Amiens, ed a Ponzio di Paretto Canonico Carnutense, Nunzj deputati in Avignone dal Pontefice Benedetto XII per Commessarj per la Sede Appostolica a ricevere in nome della Camera Appostolica li beni mobili e tutti i lor crediti e ragioni, che aveano lasciati a tempo della loro morte Raimondo Vescovo Cassinense e Lionardo Vescovo d'Aquino[161].
Donde si scorge, che siccome era maggiore la soggezione, che ebbero i nostri Re angioini alli pontefici d'Avignone, che quella de' Re di Francia, così fecero valere assai più nel nostro Regno le loro leggi, che in Francia istessa. In Francia, come rapporta Tommasino[162], Clemente VII fu il primo, che sedendo in Avignone tentò introdurre in quel Regno gli Spogli e le incamerazioni de' frutti nelle vedovanze delle chiese per la morte de' Vescovi, e de' monasteri per la morte degli Abati; e ciò fece per mantenere la sua corte in Avignone, e trentasei Cardinali suoi partigiani, nel tempo dello Scisma, mentre in Roma sedeva Urbano VI[163]. Ma il Re Carlo VI con un suo editto[164] promulgato l'anno 1386 rendè vano questo sforzo. In conformità del quale furono spedite le patenti e lettere regie nell'anno 1385 e rinovate nel 1394, donde avvenne, che in Francia si fosse posto agli spogli affatto silenzio; ed ancorchè Pio II volesse rinovar in Francia le leggi degli Spogli, Luigi XI nel 1463 parimente le ripresse[165].
Ma presso di noi la legge degli Spogli fu più antica: ed i romani Pontefici molto tempo prima lo tentarono, leggendosi dalle Costituzioni di Bonifacio VIII, di Clemente V nel concilio di Vienna, e di Giovanni XXII che alle querele di molti, per gli abusi, ed inconvenienti deplorabili che seco recavano, furono costretti a proibirgli, donde si vede che molto prima s'erano cominciati a tentare; ma secondo la resistenza più o meno de' Principi, regolavano quest'affare. Dai nostri Re Angioini non vi ebbero resistenza veruna, anzi agevolavano l'impresa, e gli davano più tosto aiuto e favore. E quantunque dal pontefice Alessandro V nel concilio di Pisa e dal Concilio di Costanza, approvato poi da Martino V anche per concordia avuta colle nazioni che si opponevano, si fossero gli Spogli tolti; nulladimanco presso di noi non si rimediò all'abuso, se non nel Regno degli Aragonesi, come diremo al suo luogo.
Furono ancora i nostri Re Angioini e precisamente Roberto, ossequiosissimi a' Papi Avignonesi ed alle loro leggi, e quando la Germania poco conto faceva delle compilazioni, che sursero in questo secolo delle Clementine e delle Estravaganti, presso di noi però ebbero per le cagioni addottate, tutta la forza e vigore.
§. III. Delle compilazioni delle Clementine e delle Estravaganti.
Sursero in questo XIV secolo nuove compilazioni del diritto pontificio. Acciocchè i Papi d'Avignone non fossero, anche in ciò, meno che i Papi di Roma: Clemente V racchiuse in cinque libri le sue Costituzioni, e quelle stabilite nel Concilio di Vienna; e tenendo nel mese di marzo dell'anno 1313 pubblico concistoro nel castello di Montilio, vicino la città di Carpentras, gli fece pubblicare; ma infermatosi poco da poi e morto nel seguente mese d'aprile, non ebbe tempo di mandargli alle Università degli studj, perchè nelle scuole s'insegnassero, e per quattro anni rimasero sospese. Giovanni Aventino[166], per relazione avutane da Guglielmo Occamo, scrisse, che Clemente nel punto della morte, considerando, che quelle Costituzioni contenevano molte cose contrarie alla simplicità cristiana, ordinò che s'abolissero; ma il suo successore Giovanni XXII trovatele a proposito del suo genio di congregar tesori, le fece nel mese di ottobre dell'anno 1317 pubblicare; e le trasmise alle Università degli studj, ordinando per sua Bolla[167], che quelle si ricevessero non meno nelle scuole che ne' Tribunali. Sortirono due nomi di Clementine, e per non confonderle col sesto, furono anche chiamate settimo delle decretali, come le chiamarono Giovanni Villani[168], Aventino, Michel di Cesena ed altri[169].
Non soddisfatto appieno Giovanni XXII di questa compilazione, volle alle Costituzioni di Clemente aggiungere venti altre delle sue, le quali furono chiamate utili e salutifere, a cagion dell'utilità grande, che recavano alla sua Corte; e poichè senz'ordine vagavano fuori del corpo dell'altre raccolte, furono chiamate Joannine[170], come eziandio le chiamò Cuiacio[171]; ed intorno all'anno 1340 furono per privata autorità raccolte insieme, nè furono ricevute da tutti per pubblica autorità. Questo Pontefice vien riputato ancora autore delle regole della Cancelleria[172], inventore delle scandalose Annate, e d'altri sottili ed ingegnosi ritrovamenti per cumular ricchezze. Al di lui esempio gli altri Pontefici suoi successori, ne stabilirono delle altre, come Eugenio IV, Calisto III, Paolo II, Sisto IV ed altri; onde da poi per privata autorità se ne fece di tutte queste estrazioni raccolta, che fu al corpo del diritto pontificio aggiunta, ed ebbero non meno che le decretali i suoi Chiosatori e commentatori[173]. Ma non da tutte le nazioni furono ricevute: e Guglielmo Occamo, che fu coetaneo di Giovanni XXII testifica, che sin dal loro nascimento, furono da molti riprese e condennate come eretiche e false e ripiene di molti errori[174]. Presso i nostri Canonisti però ebbero credito e vigore; e mentre durò il Regno degli Angioini, non vi fu cosa, che i Pontefici avignonesi non facessero, che prontamente non fosse ricevuta; quindi avvenne che quando la Francia e la Germania cominciavano a toglier da' loro Regni gli abusi, presso di noi maggiormente si stabilivano; e li disordini che seguirono da poi nel Regno di Giovanna I, e de' seguenti Re angioini (dove non meno lo stato politico, per le tante revoluzioni, che l'Ecclesiastico per lo scandaloso Scisma, che surse, furono tutti sconvolti) posero le cose in maggior confusione, ed in altri pensieri intrigarono gli animi de' nostri Principi, sì che potessero pensare al rimedio, come vedrassi ne' seguenti libri di quest'Istoria.
FINE DEL LIBRO VENTESIMOSECONDO.
STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO VENTESIMOTERZO
Celebrate che furono l'esequie dell'inclito Re Roberto, la città di Napoli fece subito gridar per tutto il nome di Giovanna e d' Andrea; ma si vide in pochi dì, come scrive il Costanzo[175], quella differenza, ch'è tra il dì e la notte; poichè gli Ungheri, de' quali era Capo Fra Roberto, per mezzo dell'astuzia di lui, pigliarono il governo del Regno, cacciando a poco a poco dal Consiglio tutti i più fidati e prudenti Consiglieri del Re Roberto, per amministrar ogni cosa a volontà loro; onde la povera Regina, che non avea più di sedici anni, era rimasta solo in nome Regina, ma in effetto prigioniera di que' barbari, e quel che più l'affliggeva, era la dappocaggine del marito; il quale non meno di lei stava soggetto agli Ungheri. La Regina Sancia vedova del Re Roberto, vedendo in tanta confusione la Casa Reale, che a tempo del suo marito era stata con tanto ordine, fastidita del Mondo, andò a rinchiudersi nel Monastero di Santa Croce, edificato da lei presso al mare, dove appena finito l'anno morì con fama grandissima di santità. I Reali, che stavano in Napoli, vedendosi da Fra Roberto privi di tutto quel rispetto che solevano avere dal Re Roberto, andarono ciascuno alle sue Terre, ed in Napoli si vivea con grandissimo dispiacere. I Cavalieri napoletani, vedendo il Re Andrea dato all'ozio, e non esservi menzione alcuna di guerra, andarono ad offerirsi a Roberto Principe di Taranto, che quell'anno armava per passare in Grecia: ed accettati con molto onore dal Principe, andarono a servirlo con tutte le loro compagnie, e diedero esempio a molti Cavalieri privati del Regno che andassero a quell'impresa; e con questa milizia felicemente il Principe ricovrò fin alla città di Tessalonica; ed era salito in gran speranza di ricovrare la città di Costantinopoli, se dalle turbolenze del Regno, che si diranno, que' Capitani, con quasi tutta l'altra Cavalleria, non fossero stati richiamati alla difensione delle cose proprie. Frate Roberto pronosticando da questi andamenti, che i Reali di Napoli avessero da far ogni sforzo di precipitarlo dal colmo di quell'autorità, che si avea usurpata, mandò a sollecitare Lodovico Re d'Ungaria fratello maggiore d'Andrea, che venisse a pigliarsi la possessione del Regno, come debito a lui per eredità dell'avolo; ma Antonio Buonfinio Scrittore dell'Istorie d'Ungaria dice, che Lodovico Re d'Ungaria mandò Ambasciadori al Papa a proccurare, che mandasse a coronar Andrea suo fratello, e che gli facesse l'investitura, non come marito della Regina Giovanna, ma come erede di Carlo Martello suo avolo, e che questi Ambasciadori fecero a tal'effetto molto tempo residenza nella Corte del Papa, che allora era in Avignone, perchè vi trovarono gran contrasto; e Giovanni Boccaccio scrive, che appena poterono ottenere le Bolle dell'incoronazione. Giovanna intanto era stata già solennemente coronata in Napoli per mano del Cardinal Americo mandato dal Pontefice Clemente VI, il quale gl'inviò parimente l'investitura, e fu intitolata Regina di Sicilia e di Gerusalemme, Duchessa di Puglia, Principessa di Salerno, di Capua, di Provenza, e di Forcalqueri, e Contessa di Piemonte: la quale all'incontro nella Chiesa di Santa Chiara nel dì ultimo d'agosto di quest'anno 1344 in mano dello stesso Cardinale gli giurò omaggio, con promessa del solito censo, siccome si legge nell'investitura rapportata dal Summonte che l'estrasse dall'Archivio regio, ove si conserva[176].
Il Papa avea mandato il Cardinal Americo non solo per ricever il giuramento da Giovanna, ma l'avea anche creato Balio della medesima per la sua minor età: al quale parimente avea data potestà di revocare tutte le donazioni e concessioni fatte da Roberto, e da Giovanna in pregiudicio della Chiesa romana e del Regno[177]: ma questo baliato non ebbe alcun effetto[178], perchè Fra Roberto co' suoi Ungheri governavano ogni cosa. E sebbene i Pontefici romani avessero sempre avuta tal pretensione di mandar essi i Balj, non ebbero però mai parte alcuna nel governo.
Avea inoltre questa Regina, come donna savia mandato a chiamare Carlo Duca di Durazzo figliuolo primogenito del Principe della Morea, e datagli Maria sua sorella per moglie, dal qual matrimonio ne nacque un figliuolo chiamato Luigi, che non avendo compito un mese, se ne morì, e fu sepolto in Santa Chiara, dove ancora oggi si vede il suo Tumulo. Ed in quest'anno medesimo Luigi di Durazzo, figliuolo secondogenito del Principe della Morea e fratello di Carlo, tolse per moglie una figliuola di Roberto o sia Tommaso Sanseverino, dal qual matrimonio ne nacque poi Carlo III che fu Re di Napoli[179].
Saputosi intanto in Napoli che il Papa avea spedite le Bolle dell'incoronazione d'Andrea, e che gli Ambasciadori che le portavano, erano giunti presso a Gaeta: alcuni Baroni che desideravano impedirla, stimolati anche da' Reali che vi dissentivano, e sopra tutti da Carlo Duca di Durazzo, stante ancora la dappocaggine d'Andrea, e l'insolenza degli Ungheri, diedero la spinta a coloro che aveano congiurato d'ucciderlo, d'accelerar la sua morte, temendo che scoverti i loro disegni, non fossero per opera di Fra Roberto pigliati e decapitati, subito che fosse venuto l'ordine del Papa che Re Andrea fosse coronato. In fatti essendo andati il Re e la Regina alla città d'Aversa, ed alloggiati nel castello di quella Città, dove poi fu eretto il convento di S. Pietro a Majella[180], la sera de' 17 di settembre del 1345 quando stava il Re in camera della moglie, venne uno de' suoi Camerieri a dirgli da parte di Fra Roberto, ch'erano arrivati avvisi di Napoli di grande importanza, a' quali si richiedea presta provisione; ed il Re partito dalla camera della moglie, ch'era divisa per una loggia dall'appartamento ove si trattavano i negozj, essendo in mezzo di quella, gli fu gittato un laccio al collo e strangolato, e buttato giù da una finestra, stando gli Ungheri, perch'era di notte, sepolti nel sonno e nel vino[181].
La novità di questo fatto fece restare tutta quella città attonita, massimamente non essendo chi avesse ardire di volere sapere gli autori di tal omicidio. La Regina ch'era di età di diciotto anni, sbigottita non sapea che farsi: gli Ungheri aveano perduto l'ardire, e dubitavano d'essere tagliati a pezzi se perseveravano nel governo: talchè il corpo del Re morto ridotto nella chiesa, stette alcuni dì senza essere sepolto: ma Ursillo Minutolo gentiluomo e Canonico Napoletano si mosse da Napoli, ed a sue spese il fece condurre a seppellire nell'Arcivescovado di Napoli nella cappella di S. Lodovico, dove essendo stato sin all'età del Costanzo in sepoltura ignobile, Francesco Capece abate di quella Cappella, ed emulo della generosità di Ursillo, gli fece fare un sepolcro di marmo, e trasferita poi dall'Arcivescovo Annibale di Capua la sagrestia in quella Cappella, fu riposto nel muro avanti la porta della stessa sagrestia, dove oggi ancor si vede.
La vedova Regina si ridusse subito in Napoli, ed i Napoletani con que' Baroni, che si trovavano nella città andarono a condolersi della morte del Re, ed a supplicarla, che volesse ordinare a' Tribunali, che amministrassero giustizia; poichè Fra Roberto e gli altri Ungheri abbattuti non aveano ardire di uscire in pubblico. La Regina ristretta co' più savi e fedeli del Re Roberto suo avolo, perchè si togliesse il sospetto che susurravasi, d'aver ella avuta anche parte all'infame assassinamento, commise con consiglio loro al conte Ugo del Balzo, che avesse da provvedere ed investigare gli autori della morte del Re, con amplissima autorità di punir severamente quelli, che si fossero trovati colpevoli. Questi dopo aver fatti morire due Gentiluomini Calabresi della camera del Re Andrea ne' tormenti, fece pigliare Filippa Catanese col figlio e la nipote, e dopo avergli tutti e tre fatti tormentare gli fece tanagliare sopra un carro, e la misera Filippa decrepita morì avanti, che fosse giunta al luogo, dove avea da decapitarsi[182].
Dall'altra parte, essendo arrivata in Avignone la notizia di tal fatto al Pontefice Clemente, riputando, che s'appartenesse a lui ed alla Sede Appostolica la cognizione di questo delitto, cominciò a procedere anch'egli contro i colpevoli. In prima generalmente gli scomunicò, interdisse, dichiarò infami, ribelli e proscritti; (Questa prima Bolla di Clemente VI spedita in Avignone nel primo di febbraio 1346 si legge presso Lunig[183] ), ma per la lontananza del luogo riuscendo inutili tutte l'inquisizioni per liquidar le persone, diede con sua Bolla, spedita in Avignone nel 1346 quinto anno del suo pontificato, commessione a Bertrando del Balzo G. Giustiziere del Regno, Conte di Montescaglioso e d'Andria, con amplissima facoltà di procedere contro i colpevoli; ed in questa Bolla, ch'estratta dal regal Archivio vien rapportata da Camillo Tutini[184], si leggono fra l'altre queste parole: Nos nolentes, sicut nec velle debemus, tam horribile et detestabile, ac Deo, et hominibus odiosum facinus, cuius cognitio prima ad nos, et Romanam Ecclesiam in hoc casu pertinere dignoscitur, relinquere impunitum etc.[185] Ed avendo con permissione anche della Regina, fatta diligente inquisizione, trovò colpevoli, come complici, cospiratori ed autori del delitto, Gasso di Dinissiaco Conte di Terlizzi, Roberto di Cabano Conte di Evoli e gran Siniscalco del Regno, Raimondo di Catania, Niccolò di Miliezano, Sancia di Cabano Contessa di Morcone, Carlo Artus e Bertrando suo figliuolo, Corrado di Catanzaro, e Corrado Umfredo da Montefuscolo. E poichè alcuni di essi dimoravano nel Regno, la di cui presura era difficile, e per la protezione che vantavano de' Reali, e perchè s'erano afforzati nelle loro Terre; il Conte Bertrando ebbe ricorso alla Regina, perchè con suo general editto si comandasse all'Imperadrice di Costantinopoli, ed a Lodovico di Taranto suo figliuolo, che sotto fedele e sicura custodia gli trasmettesse Carlo, Bertrando e Corrado d'Umfredo; e similmente comandasse al Principe di Taranto, al Duca di Durazzo e loro fratelli, a tutti i Conti e Baroni, e spezialmente a' cittadini napoletani, che nel caso dall'Imperadrice suddetta non si fossero quelli trasmessi, che detti Regali e Conti, e tutti gli altri con tutte le loro forze si conferissero nelle Terre e luoghi ove coloro fossero, per imprigionargli, offerendo anche egli di andarvi in persona, affinchè di essi si prendesse la debita vendetta; e di vantaggio, che scrivesse a' Vescovi, Vicari e loro Ufficiali, che con effetto mandassero in esecuzione gl'interdetti e le scomuniche fulminate dal Papa contro di loro, con dichiarare le terre ove dimoravano interdette, i loro fautori e ricettatori scomunicati, e che gl'interdetti suddetti tenacemente si osservassero ed ubbidissero. La Regina a tenor di queste dimande a' 7 ottobre di quest'anno 1346 fulminò un severo editto, che fu istromentato per mano di Adenolfo Cumano di Napoli Viceprotonotario del Regno, di cui mandò più autentici esemplari per tutte le città e province del Regno, ed in Napoli gli fece affiggere ne' portici del Castel Nuovo e della G. C. perchè a tutti fosse noto e palese. L'editto è parimente rapportato dal Tutini, dentro di cui si vede anche inserita la riferita Bolla di Clemente.
Mandò ancora la Regina, perchè di lei si togliesse affatto ogni sospetto, il Vescovo di Tropea in Ungaria al Re Lodovico suo cognato a pregarlo, che volesse avere in protezione lei vedova, ed un picciolo figliuolo, che l'era nato dal re Andrea suo marito, di cui nel riferito editto fassi anche memoria, chiamato Caroberto Duca di Calabria[186]. Ma questa missione riuscì infruttuosa alla regina Giovanna; poichè re Lodovico persuaso già, che ella fosse consapevole e partecipe della morte d'Andrea, gli rispose, secondo che rapporta Antonio Buonfinio con una epistola di questo tenore: Impetrata fides praeterita, ambitiosa continuatio potestatis Regiae, neglecta vindicta et excusatio subsequuta, te viri tui necis arguunt consciam, et fuisse participem. Neminem tamen Divini, humanive judicii poenas nefario sceleri debitas evasurum.
CAPITOLO I. Seconde nozze della Regina Giovanna con Luigi di Taranto. Il Re d'Ungaria invade il Regno, e costringe la Regina a fuggirsene, e a ricovrarsi in Avignone: vi ritorna da poi, e coll'aiuto e mediazione del Papa ottiene dall'Unghero la pace.
Al ritorno del Vescovo, la Regina fece palese a tutti quelli del suo Consiglio la risposta, e tutti giudicarono, che l'animo del Re d'Ungaria fosse di vendicarsi della morte di suo fratello, e compresero ancora, dall'aver incolpata Giovanna, per aver ritenuta e continuata la potestà regia, ch'egli pretendesse, che il Regno fosse suo: siccome ne diede anche manifesti indizi, quando pretese dal Papa l'investitura del Regno per Andrea suo fratello, non già come marito della regina Giovanna, ma come erede di Carlo Martello suo avolo. Giudicarono perciò tutti, ch'era necessario che la Regina si preparasse alla difesa; e perchè la prima cosa che avea da farsi era di pigliar marito, il quale avesse potuto con l'autorità e con la persona ostare a sì gran nemico, Roberto Principe di Taranto ch'era venuto a Napoli a visitarla, propose Lodovico suo fratello secondogenito, essendo Principe valoroso, e nel fiore degli anni suoi. A questa proposta applausero tutti gli altri più intimi del Consiglio, ed essendo già passato l'anno della morte di Re Andrea, per le novelle che s'aveano degli apparati del Re d'Ungaria, si contrasse il matrimonio subito, senz'aspettare dispensa del Papa.
Ma la fama della potenza del Re d'Ungaria, e le poche forze del nuovo marito della Regina, e l'opinione universale che la Regina avesse avuta parte nella morte del marito, facevano stare sospesi gli animi della maggior parte de' Baroni e de' Popoli; e benchè Luigi di Taranto con gran diligenza si sforzasse di fare gli apparati possibili, non ebbe però quella ubbidienza, che sarebbe stata necessaria, e si seppe prima, che il Re d'Ungaria era giunto in Italia, che fosse fatta la quarta parte delle provvisioni debite e necessarie. Onde la Regina che fu veramente erede della prudenza del gran Re Roberto suo Avolo, volle in questo fiore della gioventù sua, con una resoluzione savia mostrar quello che avea da essere, e che fu poi nell'età matura; perchè vedendo le poche forze del marito, e la poca volontà de' sudditi, deliberò di vincere fuggendo, poichè non potea vincer il nemico resistendo; e fatto chiamare Parlamento generale, dove convennero tutti i Baroni, e' Sindici delle città del Regno, ed i Governatori della città di Napoli, pubblicò la venuta del Re d'Ungaria, e dolutasi lungamente d'alcuni, che la calunniavano a torto di tanta scelleratezza, disse ch'era deliberata di partirsi dal Regno, e gire in Avignone per due cagioni, l'una per fare manifesta l'innocenzia sua al Vicario di Cristo in Terra, com'era manifesta a Dio in Cielo: e l'altra per farla conoscere al Mondo, coll'ajuto che sperava certo di avere da Dio; e che tra tanto non voleva, che nè i Baroni, nè i Popoli avessero da esser travagliati, com'era travagliata essa; e però, benchè confidava, che tutti i Baroni e' Popoli, almeno per la memoria del padre e dell'avolo, non sarebbero mancati d'uscire in campagna a combattere la sua giustizia, voleva più tosto cedere con partirsi, e concedere a loro, che potessero andare a rendersi all'irato Re d'Ungaria; e però assolveva tutti i Baroni, Popoli, Castellani e stipendiarj suoi dal giuramento, ed ordinava che non si facesse alcuna resistenza al vincitore, anzi portassero le chiavi delle terre, e delle castella, senz'aspettare Araldi o Trombette. Queste parole dette da lei con grandissima grazia, commossero quasi tutti a piangere, ed ella gli confortò, dicendo che sperava nella giustizia di Dio, che facendo palese al Mondo l'innocenzia sua, l'avrebbe restituita nel Regno, e reintegrata nell'onore. S'imbarcò per tanto da Castel Nuovo per andare in Provenza il dì 15 gennajo del nuovo anno 1348, e con lei e col marito andò anche la Principessa di Taranto sua suocera che la chiamavano Imperadrice, e Niccolò Acciajoli fiorentino, intimo della Casa di Taranto ed uomo di grandissimo valore.
Intanto Lodovico Re d'Ungaria era col suo esercito entrato nel Regno, e ricevuto nell'Aquila, vennero ivi a trovarlo il Conte di Celano, il Conte di Loreto con quel di S. Valentino, e Napolione Orsino con altri Conti e Baroni d'Apruzzo, i quali gli giurarono omaggio, ed avendo presa e saccheggiata la città di Sulmona, a gran giornate, non trovando chi gli facesse ostacolo, se ne veniva in Napoli; onde i Reali, confidati nel parentado che avevano col Re d'Ungaria, si posero tutti in ordine per andare ad incontrarlo amichevolmente, sperando essere da lui umanamente raccolti, tanto più, che conducevano con loro, come Re, il piccolo Caroberto figliuolo del Re Andrea ch'allora era di tre anni; e così raccolta una Compagnia de' primi Baroni, si mossero da Napoli il Principe di Taranto e Filippo suo fratello, Carlo Duca di Durazzo, Luigi e Roberto suoi fratelli, ed incontrarono il Re d'Ungaria, che veniva da Benevento ad Aversa, il quale con molta amorevolezza baciò il nepote, ed accarezzò tutti; ma poichè fu giunto ad Aversa, concorse un gran numero di Cavalieri, e d'altri Baroni a riverirlo, e dimorato quivi cinque giorni, volendo il sesto andare in Napoli s'armò di tutte arme, e fece armare tutto l'esercito e cavalcò, e passando avanti il luogo dov'era stato strangolato Re Andrea, si fermò, e chiamò il Duca di Durazzo, dimandandogli da qual finestra era stato gittato Re Andrea; il Duca rispose, che no 'l sapea, e 'l Re mostrogli una lettera scritta da esso Duca a Carlo d'Artois, dicendogli che non potea negare suo carattere, e 'l fè pigliare, ed immantenente decapitare[187], comandando, che fosse gittato dalla medesima finestra, onde fu gittato Re Andrea; e rimaso il cadavere insepolto per ordine del Re sino al dì seguente, fu poi portato a seppellire in Napoli nella chiesa di S. Lorenzo, ove ancora oggi si vede il suo sepolcro. Questa fu la morte del Duca di Durazzo figliuolo di Giovanni quintogenito del Re Carlo II, il quale di Maria sorella della Regina Giovanna non lasciò figliuoli maschi, ma solo quattro femmine, Giovanna, Agnesa, Clemenzia e Margarita, delle quali si parlerà più innanzi. Gli altri Reali, volle il Re che restassero prigioni nel Castello d'Aversa, e di là a pochi dì gli mandò in Ungaria insieme col picciolo Caroberto; ed egli continuando il cammino verso Napoli rappresentava uno spettacolo spaventevole, facendosi portar avanti uno stendardo negro, dov'era dipinto un Re strangolato, e venutogli incontro gran parte del Popolo napoletano a salutarlo, egli con grandissima severità finse non mirargli, nè intendergli, e volle entrare con l'elmo in testa dentro Napoli, e rifiutando ogni rimostranza d'onore se n'andò dritto al Castel Nuovo, di cui il Castellano già gli avea portate le chiavi: onde nacque una mestizia universale e timore, che la città non fosse messa a sacco dagli Ungheri; perchè subito posero mano a saccheggiare le case de' Reali, e la Duchessa di Durazzo a gran fatica si salvò, e fuggì in un navilio, andando a trovare la sorella in Provenza. Nè volle il Re dare udienza agli Eletti della città, ma volle che fossero tutti mutati, e fu ordinato che i nuovi Eletti non facessero cos'alcuna, senza conferire col Vescovo di Varadino Ungaro. E poichè fu trattenuto due mesi in Napoli, se n'andò in Puglia, dove costituì suo Vicario Corrado Lupo Barone Tedesco, e dopo aver costituito Castellano Gilforte Lupo fratello di Corrado del Castel Nuovo, e fatte molte preparazioni in diversi luoghi del Regno, imbarcandosi in Barletta su una sottilissima galea passò in Schiavonia, ed indi in Ungaria, non essendo dimorato più che quattro mesi nel Reame.
In questo mezzo la Regina Giovanna, arrivata alla Corte del Papa in Avignone con Luigi suo marito, vi furono accolti benignamente da Clemente, il quale dispensò a' legami della consaguinità per lo matrimonio contratto[188], e la Regina ebbe Concistoro pubblico, ove con tanto ingegno e con tanta facondia difese la causa sua, ch'il Papa ed il Collegio, che aveano avuto in mano il processo fatto contro Filippa Catanese, e Roberto suo figliuolo, e conosciuto che la Regina non era nominata, nè colpata in cosa alcuna, tennero per fermo ch'ella fosse innocente, e pigliarono la protezione della causa sua, spedendo subito un Legato appostolico in Ungaria a trattare la pace. Questi trovò molto superbo il Re, o che fosse l'ira del morto fratello, o l'amore che avea conceputo di così bello ed opulente Regno, che già si trovava averlo tutto in mano, e lo teneva per suo, poichè il picciolo Caroberto, poco da poi che fu giunto in Ungaria era morto; ma non per la difficoltà del negoziare, il Legato volle partirsi da Ungaria, ma cercò di dì in dì, con ogni arte, mollificare l'asprezza dell'animo di quel Re.
Intanto i Napoletani, partito che videro il Re d'Ungaria, avendo intesa la buona volontà del Papa verso la Regina, e che si vedeano così maltrattati da Gilforte Lupo Castellano, e Luogotenente del Re in Napoli, cominciarono a sollevarsi, e molti di coloro che erano stati cortegiani di Re Roberto e della Regina, si partirono ed andarono a trovarla fin in Provenza ed a confortarla, che se ne ritornasse, perchè erano tanto indebolite le forze degli Ungheri, e tanto cresciuto l'odio contra i barbari costumi loro, che senza dubbio sarebbero cacciati con ogni picciol numero di gente che fosse condotta da Provenza. Non mancarono ancora di molti Baroni che con messi e lettere secrete la chiamavano; e questo giovò molto alla Regina, perchè mostrando queste lettere al Papa, gli fermarono più saldamente in testa l'opinione che tenea dell'innocenza sua, onde la Regina assicurata del favore del Papa, e della volontà degli uomini del Regno, cominciò a ricovrar insieme la fama e la benevolenza dei sudditi, a' quali pareva, ch'essendosi presentata innanzi al Papa, padre e giudice universale de' Cristiani, e da lui giudicata per innocente, e degna di esser rimessa nel suo Regno ereditario, pareva a ciascuno che fosse da riposarsi sovra quel giudicio, ed attender a far ufficio di buoni e fedeli vassalli: e da questo mossi i popoli di Provenza e degli altri Stati di là de' monti, fecero a gara a presentarla, e sovvenirla di danari, de' quali stava in tanta estrema necessità, che vendè al Papa la città d'Avignone[189], e col prezzo di quella, e co' danari presentatigli, fece armare dieci galee, e preso commiato dal Papa insieme con Luigi suo marito partissi. Angelo di Costanzo[190] narra, che nel partirsi donò, non vendè al Papa ed alla Chiesa la città d'Avignone, con la quale s'obbligò tanto l'animo del Papa, che conoscendo ch'ella il desiderava, donasse il titolo di Re a Luigi suo marito
(Non può ora più dubitarsi di questa vendita, avendone Lunig[191] impresso l'istromento stipulato in Avignone, dove è manifesto questa città col suo distretto essersi venduta non già donata, e stante la necessità, ed estremi bisogni della Regina bisognò ella contentarsi del prezzo offertogli, che non oltre passò la somma di ottantamila fiorini d'oro di Fiorenza; esprimendosi, che tutto il di più, che valesse, considerando la Regina quelle parole del Signor nostro Gesù, rammentate dall'Appostolo, beatius est dare, quam accipere, lo donava al Papa ed alla Chiesa romana, come pura, semplice ed irrevocabile donazione. Dee nell'istromento trascritto da Lunig emendarsi la data, poichè si porta stipulato in Avignone a' 12 giugno del 1358, quando molto tempo prima la Regina avea già da Avignone fatto ritorno in Napoli).
Nel dar a Luigi la benedizione il Papa lo chiamò Re; onde ambedue lieti e pieni di buona speranza andarono ad imbarcarsi in Marsiglia, e giunti a Napoli con venti prosperi, la città tutta uscì ad incontrarli nel Ponte del picciolo Sebeto, 200 passi lontano dalla città, perchè al Porto di Napoli non si poteano appressare le galee, poichè il Castel Nuovo, come tutte l'altre castella si teneano dagli Ungari. Discesi dunque a terra e ricevuti con allegrezza incredibile d'ogni sesso e d'ogni ordine e d'ogni età, furono condotti sotto il baldacchino in una casa apparecchiata per loro al Seggio di Montagna. Vennero fra pochi dì molti Conti e Baroni a visitarla, ed a rallegrarsi del ritorno, e ad offerirsi di servire a cacciare gli Ungheri. La Regina, ed il Re Luigi si voltarono a rimunerare, per quanto l'angustia delle facoltà loro a quel tempo comportava, tutti quelli, che aveano mostrata affezione al nome loro, con privilegi, titoli, onori e dignità e sovra tutto i Cavalieri giovani suoi coetanei, come coloro, che speravano più per amore, che per forza di stipendi far esercito abile a poter cacciare i nemici del Regno. Ed in questi tempi cominciò ad introdursi fra noi di darsi a' Baroni il titolo di Duca, perchè prima non era in usanza, che quello di Conte, ed il titolo di Principe, o di Duca, era de' soli Reali, ed il primo fu Francesco del Balzo, che dalla Regina Giovanna I fu fatto Duca d'Andria, ed il secondo fu il Duca di Sessa. Ordinò ancora Re Luigi una bella Corte, e fece Gran Siniscalco del Regno Niccolò Acciajoli Fiorentino; e perchè i Popoli del Regno erano in molte parti oppressi da Corrado Lupo, e da' suoi Ministri Capitani degli Ungheri, lasciò assediate le Castella di Napoli, e fatta una buona compagnia di Conti e Baroni ch'erano concorsi a Napoli, e del fiore della gioventù Napoletana, cavalcò contro il Conte d'Apici, e quello debellato, passò in Puglia e presa Lucera andò a Barletta. Fu lungamente con non minor ferocia, che ardire guerreggiato in Puglia, ed in Terra di Lavoro, e non meno queste province, che l'altre del Regno si videro ardere d'incendio marziale. Corrado Lupo tosto avvisonne il Re d'Ungaria, il quale ricevuto l'avviso fu tanto presto, che prima giunse in Schiavonia, e s'imbarcò per venire in Puglia, che si sapesse ch'era deliberato di venire; e giunto che fu in Puglia si trovò al numero di diecemila cavalli, e pedoni quasi infiniti. Si accese per ciò più fiera ed ostinata la guerra infin che stanchi l'un partito e l'altro, finalmente diedero apertura a Papa Clemente d'interporre fra i due Re trattati di pace. Spedì per tanto il Pontefice due Legali, i quali avendola maneggiata, non poterono allora ottener altro, che tregua per un anno, onde il Re Lodovico se ne tornò in Ungaria, lasciando presidio alle Terre, che si teneano con le sue bandiere. Ma poichè fu in Ungaria, o che fosse destrezza e prudenza del Legato appostolico, che gli fu sempre appresso; o che fosse, che disegnava di far guerra coi Veneziani, i quali aveano occupate alcune Terre di Dalmazia appartenenti al Regno d'Ungaria, concesse in fine la pace al Re Luigi ed alla Regina Giovanna, rilassando in grazia del Papa e del Collegio de' Cardinali tutte le sue pretensioni, e liberi i cinque Reali, ch'erano stati quattro anni carcerati al Castello di Visgrado. Fu conchiusa questa pace in aprile dell'anno 1351, ed alcuni aggiungono, che avendo condennato il Papa, come mezzo della pace, il Re Luigi e la Regina Giovanna a pagare trecentomila fiorini al Re d'Ungaria per le spese della guerra, egli magnanimamente ricusò di pigliarli, dicendo, ch'egli non era venuto al Regno per ambizione, nè per avarizia, ma solamente per vindicare la morte del fratello; nella quale avendo fatto quanto gli pareva, che convenisse, non cercava altro, e fu molto lodato e ringraziato dal Papa e dal Collegio.
Usciti da questi affanni Re Luigi e la Regina, mandarono ambasciadori a ringraziar il Papa ed il Collegio, ed a dimandargli un Legato appostolico che l'avesse incoronati: il che ottennero agevolmente, perchè dal Papa fu deputato a ciò il Vescovo Bracarense. Si fece per tanto in Napoli un gran apparato per la incoronazione, alla quale fu deputato il dì 25 maggio festa delle Pentecoste; e tutto il Regno assuefatto a travagli, ad incendj ed a rapine, cominciò a rallegrarsi; ed oltre i Baroni concorsero in Napoli da tutte le parti infiniti per vedere una festa tale, la quale parea, che avesse da fare dimenticare tutte le calamità passate. Nel dì stabilito essendo giunto il Legato nel luogo dove era l'apparato, con grandissima pompa e solennissime cerimonie, unse e coronò il Re e la Regina, e fur fatte molte giostre e molti giuochi d'arme e conviti. Ed appresso, dalla città e da tutto il Baronaggio fu solennemente giurato omaggio al Re ed alla Regina, i quali fecero general indulto a tutti quelli, che nelle guerre passate aveano seguite le parti del Re d'Ungaria; ed il Re Luigi in memoria di questa Coronazione ordinò, come si disse, la compagnia del Nodo, nella quale si scrissero da 60 Signori e Cavalieri napoletani di diverse famiglie, ed i più valorosi Campioni di que' tempi.
CAPITOLO II. Spedizione del Re Luigi di Taranto in Sicilia: pace indi seguita, e sua morte.
Siccome il nostro Regno di Puglia erasi ridotto in assai felice stato per la pace, e per la presenza e liberalità del Re Luigi, così all'incontro le cose della Sicilia ogni dì andavano peggiorando: perocchè crescendo, per la debolezza del picciolo Re Don Luigi, le discordie tra' Siciliani, ed essendo divisi tutti i Baroni ed i Popoli dell'isola, si lasciò la cultura dei campi, ch'è la principale entrata di quel Regno, e parimente tutti gli altri traffichi e guadagni, e s'attendea solo a ruberie, incendj ed omicidi; onde procedeva non solo la povertà e miseria di tutta l'Isola, ma la povertà e debolezza del Re, non potendo i Popoli supplire, non solo a' pagamenti estraordinarj, ma nè anco a' soliti ed ordinarj; quindi avvenne, che i Baroni dell'isola si divisero in due parti; dell'una erano capi i Catalani, che s'aveano usurpata la tutela del Re; e dell'altra quelli di Casa di Chiaramonte, ch'erano tanto potenti, che tenevano occupate Palermo, Trapani, Saragoza, Girgento, Mazara, e molte altre Terre delle migliori di Sicilia; e benchè non fossero scoverti nemici del Re, signoreggiavano quelle Terre d'ogni altra cosa, che dal titolo in fuora; e perchè coloro, che governavano il Re, possedendo la minor parte di Sicilia, bisognavano cacciare da quella tanto che potessero tenere il Re, e la Casa sua con dignità regia, e ch'essi potessero anco accrescere di ricchezze, molti Popoli sdegnati cominciarono ad alterarsi; e la Città di Messina, la quale era principale di queste, che il Re possedeva, non potendo soffrire l'acerbo governo del Conte Matteo di Palizzi, volti i cittadini in tumulto, andarono sin'al palazzo reale, e l'uccisero; e gli altri Baroni appena poterono salvare se stessi, e la persona del Re, ritirandosi in Catania. Con l'esempio de' Messinesi, Sciacca ancora uccise i Ministri del Re, che v'erano; e perchè di questo moto era stato autore il Conte Simone di Chiaramonte, e conosceva, che contro di se sarebbe voltata tutta l'ira del Re e del suo Consiglio, mandò a Re Luigi in Napoli, chiamandolo, non all'impresa di Sicilia, come aveano altre volte chiamato Re Roberto ma ad una certa vittoria, avvisandolo, che le cose di quel Regno stavano in tali termini, che con ogni poca forza si sarebbe conquistato.
Il Re Luigi, e 'l Regno per le passate guerre si trovavano non men disfatti, che i Siciliani, cominciando allora a cogliere i primi frutti della quiete e della pace; e quelle forze, che a tempo di Re Roberto erano potenti ed unite, ora per la presenza di tanti Reali, tra' quali era diviso il Regno, erano deboli e disunite; onde non potè mandarvi quel numero di gente e di vittovaglie, che sarebbe stato necessario a tanta impresa; nulladimanco vi mandò il G. Siniscalco Acciajoli con cento uomini d'arme, e Giacomo Sanseverino Conte di Melito con quattrocento fanti, sopra sei galee e molti vascelli grossi di carico, con la maggior quantità di vittovaglie, che fu possibile. Questi giunti in Sicilia, col favore del Conte Simone, se n'andarono a Melazzo, e l'occuparono, e postovi presidio e Governadore in nome del Re, andarono a Palermo con gran parte di vittovaglia, e furono ricevuti dai Palermitani, già ridutti all'estremo bisogno d'ogni cosa da vivere con infinita allegrezza; e que' di Chiaramente fecero alzare le bandiere di Re Luigi a Trapani, e Saragoza, ed a tutte l'altre Terre, che teneano essi; e benchè non avessero tante genti di guerra, che bastassero a tenerle con presidio di Re Luigi, era tanto più debole la parte del Re di Sicilia, che senza forza di arme si mantennero in fede del Re di Napoli, solamente con munizione di vittovaglia, che gli era mandata di Calabria.
Per questi successi i Governadori del Re Don Luigi, desiderosi di non fare annidare in Sicilia le genti del Re Luigi, avanti che crescessero più, fecero ogni sforzo per riavere Palermo; ma fu in vano, perchè i cittadini che avevano gustata la comodità delle vittovaglie si mantennero in fede del Re Luigi, servendo con molta fede e diligenza al G. Siniscalco, ed al Conte di Mileto, che difendevano la città onde furono costretti ritornarsene.
Il Re D. Luigi fra pochi dì venendo a morte, fu gridato Re Federico suo ultimo fratello, il quale non avendo che tredici anni, era sotto il governo de' Catalani, per opera de' quali essendo sbandito da Messina Niccolò Cesario, Capo di parte molto potente in quella città, egli ancora seguì la parte del Re Luigi, ed avuta intelligenza con alcuni de' suoi seguaci, di notte entrato in Messina con alcuni soldati e aderenti di casa di Chiaramonte, assaltò i suoi nemici. Il popolo essendosi levato a rumore, diede facoltà di poter intromettere ducento cavalli, e 400 fanti, mandati dal gran Siniscalco, e da' Conti di Chiaramonte, com'era stato stabilito tra loro, e cacciandone quelli della fazione contraria, s'alzarono le bandiere del Re Luigi. Questi subito, ch'ebbe l'avviso della presa di quella città, la quale tenea per veramente sua, poichè l'altre erano tenute più tosto da' Chiaramontesi, che dagli Ufficiali suoi, venne subito con la Regina Giovanna sua moglie a Reggio in Calabria, mandando al Gran Siniscalco supplimento di 50 altre lance, e 300 fanti a piedi, e buona quantità di vittovaglia a Messina, che ne stava in grandissima necessità. Fu tanta l'allegrezza de' cittadini, che giunti con quelle genti, ch'erano venute allora, assaltarono i castelli di San Salvatore, e di Mattagrifone, che furono stretti a rendersi con due sorelle del Re, Bianca, e Violante, le quali con onorevole compagnia furono mandate a Reggio alla Regina, e da lei furono con molta cortesia ed amorevolezza ricevute ed accarezzate. Parve al Re non indugiare più, e passato con la Regina il Faro, nella Vigilia della Natività del Signore del 1355 entrarono in Messina con grandissima pompa, e furono alloggiati nel palazzo reale, dove con le solite cerimonie fu giurato omaggio e fedeltà da tutti.
Pochi dì da poi vennero il Conte Simone e Manfredi e Federico di Chiaramonte, i quali il Re onorò molto, come Capi della famiglia, ed autori dell'acquisto di quel Regno; ma desiderando il conte Simone, che Re Luigi gli desse Bianca sorella del Re Federico per moglie, e persuadendosi, che non dovesse negarla per li meriti suoi, e quasi per prezzo d'un Regno, confidentemente ne parlò al Re. Questa richiesta parve di molta importanza, non per se stessa, ma per quelle conseguenze, che avrebbe potuto portar seco tal matrimonio, poichè essendo il Re Federico ultimo della stirpe de' Re di Sicilia della Casa d'Aragona, e di età e di senno tanto infermo ch'era chiamato Federico il Semplice, poteva agevolmente succedere, che aggiungendosi alla potenza del Conte Simone la ragione, che gli portava la moglie, n'avesse cacciato l'uno e l'altro Re; onde allora, nè volle negarlo, nè prometterlo; ma tra pochi dì gli offerse per moglie la Duchessa di Durazzo. Vedendosi dunque Simone con tale offerta escluso, ne prese tanto sdegno e rammarico (perchè presumea, che il merito suo col Re superasse ogni grazia, che se gli potesse fare) che se ne morì di là a pochi dì, e gli altri di quella famiglia, quasi fossero rimasti eredi dello sdegno di Simone, cominciarono a rallentarsi dall'affezione del Re Luigi. Questi intanto mandò ad assediare Catania, dove era il nuovo Re con tutte le poche forze sue; ma essendo state rispinte le sue genti e disordinate e rotte, fu fatto prigione ancora Raimondo del Balzo Conte Camerlengo, ed appena scampò il Gran Siniscalco Acciajoli. Questa nuova diede grandissimo dolore a Re Luigi, al quale tolti gli ornamenti della moglie andò a far danari per riscattare il Conte; ed avendo poi mandato l'Araldo al Re Federico con la taglia, che si dimandava del Conte, Federico non volle che si pigliasse taglia, ma mandò a dire, che non vi era altra via per la liberazione del Conte, che il cambio della libertà delle due sorelle. E perchè Luigi amava estremamente il Conte, si contentò di mandarne le sorelle onorevolmente accompagnate sin in Catania.
Tra questo tempo le novitadi, che successero nel Regno, sforzarono Re Luigi a tornare in Napoli, e per non abbandonare l'impresa di Sicilia, la quale per l'estrema povertà del nemico tenea per vinta, lasciato Capitan Generale in Sicilia il Gran Siniscalco Acciajoli, egli con la Regina se ne ritornò in Napoli. Cominciavano di bel nuovo in questo Regno a sorgere disordini e confusioni poco minori di quelli, che furono a tempo degli Ungheri; poichè il Principe di Taranto, che per essere fratello maggiore del Re, si tenea di poter governare il Re e 'l Regno insieme, avea pigliato in odio, e perseguitava molti Baroni, i quali volevano conoscere soli Re Luigi e la Regina Giovanna per Signori. Parimente Luigi di Durazzo cugino del Re, vedendosi stare nel Regno come povero Barone insieme con Roberto suo fratello, si giunse col Conte di Minervino, il quale era salito in tanta superbia, che avea occupato la città di Bari, e s'intitolava Principe di Bari e Palatino d'Altamura, oltre gli altri titoli de' quali andava molto altiero; e mantenea una banda d'uomini d'armi, con tanti cavalli, che gli parea poter competere col Principe di Taranto e col Re; e per poter mantenere quelle genti, andava discorrendo per le più ricche parti del Regno, e taglieggiando le Terre senz'aver rispetto alcuno al Re ed alla Regina. Si vide perciò Re Luigi impegnato a reprimere la superbia di costui, e dopo varj fatti d'arme, che posero sossopra molte province del Regno, finalmente ripresse i ribelli, e Luigi di Durazzo rimanendo solo e senza forza, per lo vincolo del sangue fu riconciliato col Re e colla Regina; e dato sesto per varj provvedimenti alla quiete del Regno, e ridottosi nella primiera tranquillità, tornò il Re col pensiero alla guerra di Sicilia.
Dall'altra parte que' di Sicilia, ch'erano del partito di Re Federico, vedendosi molto inferiori di forze, fecero, che il loro Re prendesse per moglie la sorella del Re d'Aragona, ma il novello parentado poco potè giovargli, poichè la Sposa poco da poi se ne morì; ed in questo mezzo per una parentela, che fecero i Chiaramontesi col Conte di Ventimiglia, Capo della parte di Federico, si cominciò a trattar la pace tra questo Principe, e 'l Re Luigi e la Regina Giovanna, la quale dopo varj maneggi, fu finalmente conchiusa con queste condizioni: Che Re Federico s'intitolasse Re di Trinacria: che pigliasse per moglie Antonia del Balzo figliuola del Duca d'Andria e della sorella di Re Luigi: che riconoscesse quel Regno dal Re Luigi e dalla Regina Giovanna, ed a tal segno dovesse pagare a loro nel giorno di San Pietro tremila once d'oro ogni anno: e quando il Regno di Napoli fosse assaltato, pagare cento uomini d'arme, e dieci galee armate in difensione di quello. All'incontro, che dal Re Luigi fossero restituite tutte le cittadi, terre e castella, che sin a quel giorno erano state prese, e si teneano colle bandiere sue.
(In esecuzione di questa pace, si legge presso Lunig[192] il mandato, ovvero Plenipotenza, che il Re Federico diede per stipularla, e perchè gli articoli accordati fossero confermati da papa Gregorio XI, come diretto Padrone dell'isola di Sicilia, nel qual mandato s'intitola Rex Trinacriae. Si legge ancora pag. 1123 una ben lunga Bolla di questo Papa, nella quale, dandogli la formula del giuramento di fedeltà, si prescrivono al Re Federico altre leggi e condizioni e così pesanti, specialmente intorno alle appellazioni di tutte le cause ecclesiastiche, di doversi portare in Roma; che se mai questa Bolla avesse avuto il suo effetto, non vi sarebbe rimaso in Sicilia vestigio alcuno del Tribunal della Monarchia).
Questo fu l'ultimo termine delle guerre di Sicilia, che durarono tanti anni, con tanto spargimento di sangue, e con spesa inestimabile. Ma è cosa veramente da notare, che il Regno di Sicilia, preteso dai romani Pontefici loro feudo, e che ad essi spettasse darne l'investitura, onde fecero tanti sforzi per levarlo dalle mani de' Re d'Aragona, ed a questi tempi reso ligio e tributario a' Re di Napoli, col correr degli anni si fosse totalmente sottratto, non men dalla soggezione degli uni, che degli altri, che ora vien riputato più libero e independente, che il Regno istesso di Napoli; poichè, dopo il famoso Vespro Siciliano, per le continue guerre sostenute co' Re angioini, i quali ebbero sempre a lor favore collegati i Pontefici romani, i Re d'Aragona non richiesero più investitura dalla Sede Appostolica per quell'Isola, ed anche da poi fatta pace co' Re di Napoli, nemmen la ricercarono; ed in fatti morto il Re D. Federico, non lasciando di se prole maschile, e succeduta in quel Regno nell'anno 1368 Maria sua figliuola, nè Regina di Trinacria volle essere nomata, nè investitura alcuna prese da' Romani Pontefici. Le stesse pedate furono calcate da Martino I d'Aragona, che nell'anno 1402 succedè a Maria, e da Martino II suo successore. E morto questi senza figliuoli, essendo stato nell'anno 1411 eletto Re d'Aragona, di Valenza e di Sicilia Ferdinando d'Aragona figliuolo di Giovanni Re di Castiglia, questi tramandò al suo figliuolo Alfonso, il quale nell'anno 1416 succedè in tutti i suoi Regni, anche coll'istesse condizioni il Reame di Sicilia, non ricercandone da' Pontefici romani investitura alcuna, siccome fecero da poi tutti gli altri loro successori; tantochè nel Regno di Sicilia, siccome per lo bisogno e circostanze di que' antichi tempi fu introdotto allora costume di prender l'investitura di quell'isola da' Romani Pontefici, così ora per desuetudine e per contrario uso si è quella affatto tolta ed abolita: tal che oggi quel Regno rimane totalmente libero ed indipendente.
Dall'altra parte, a questi tempi del Re Luigi di Taranto, si vide dependente e tributario de' Re di Napoli, secondo le riferite condizioni di questa pace; ma tali condizioni non furono mai adempite, nè ebbero alcuna esecuzione; poichè se bene in un diploma rapportato da Inveges[193] di Gregorio XI del 1373 spedito poco da poi conchiusa questa pace, fosse nominato il Regno di Napoli col nome di Regno di Sicilia, e quello di Sicilia, col nome di Trinacria, nulladimanco niuno de' Re di quell'isola ne' loro diplomi s'intitolarono Re di Trinacria, ma di Sicilia ultra Pharum, chiamando il Regno napoletano Sicilia citra Pharum, come si legge ne diplomi di Martino e degli altri Re di Sicilia suoi successori. Ed essendosi questi due Regni da poi uniti nella persona d'Alfonso I d'Aragona, egli fu il primo, che cominciò a intitolarsi Re dell'una e l'altra Sicilia. Nè si legge essersi riconosciuto quel Regno da' Re di Napoli, e che nel dì statuito di S. Pietro si fossero mai pagate per tributo le 3000 once d'oro, nè pagati i cento uomini d'armi e le dieci galee armate, convenute nelle Capitolazioni sudette; poichè i Re di Napoli, insino ad Alfonso I d'Aragona, furono in tante guerre distratti e per tante rivoluzioni interne del Regno agitati, che non poterono pensare ad altro, che alla propria loro salute e alla conservazione del proprio Regno, come diremo.
Terminata in cotal guisa la guerra di Sicilia, e ripressi i moti intestini del nostro Regno, ritornò a godersi la quiete; ma non durò guari, poichè nell'anno 1362 ammalatosi di febbre acutissima Re Luigi venne a morte, non avendo più che 42 anni. Fu questo Principe bellissimo di corpo e d'animo, e non meno savio, che valoroso; ma fu poco felice nelle sue imprese, perocchè ritrovandosi il Regno travagliato ed impoverito per tante guerre e per tante dissensioni, non ebbe luogo, nè occasione dì adoperare il suo valore, massimamente nell'impresa di Sicilia.
Narra Matteo Palmerio nella vita del Gran Siniscalco Acciajoli, che Innocenzio VI successore di Clemente s'era offeso e grandemente crucciato col Re Luigi, perchè non gli pagava il solito censo; e perciò il Re mandò Ambasciadori in Avignone per placarlo, e questi furono l'Acciajoli e l'Arcivescovo di Napoli Giovanni; ed il Bzovio aggiunge, che a Bertrando successor di Giovanni fu data facoltà da Innocenzio VI d'assolvere il Re Luigi in articulo mortis dalla scomunica ob non solutum Romanae Ecclesiae censum[194]. Regnò Luigi cinque anni prima che fosse coronato, e dieci dopo l'incoronazione. Fu mandato il suo cadavere nel Monastero di Monte Vergine presso Avellino 20 miglia lontano da Napoli, e fu sepolto appresso la sepoltura dell'Imperadrice Margherita sua madre, ove ancor oggi si addita il suo tumulo sostenuto da otto colonne colla sola sua effigie, senza iscrizione. Non lasciò figliuoli, perchè due femmine, che procreò con la Regina Giovanna, morirono in fascia.
Morì non molto tempo da poi in Napoli il Principe di Taranto, e fu sepolto nella chiesa di S. Giorgio maggiore, e lasciò erede del Principato e del titolo dell'imperio Filippo suo fratello terzogenito[195]. Questo Principe poco innanzi avea tolto per moglie Maria sorella della Regina, la quale poco da poi morì; onde tolse la seconda moglie, che fu Elisabetta figliuola di Stefano Re di Polonia, colla quale visse fin al 1368, anno della sua morte[196]. Morì egli in Taranto ove giace sepolto, nè lasciò di se figli, onde lasciò il Principato di Taranto, con il titolo dell'Imperio a Giacomo del Balzo figliuolo di Margarita sua sorella e di Francesco Duca d'Andria. Morì ancora Luigi di Durazzo Conte di Gravina e di Morcone, e fu sepolto nella Chiesa di Santa Croce, appresso il sepolcro della Regina Sancia, il quale lasciò un figliuolo chiamato Carlo, che, come si dirà, fu poi Re di Napoli, e poco appresso morì in Francia Roberto Principe della Morea, fratello del Conte, amendue figliuoli di Giovanni Duca di Durazzo; onde con esempio notabilissimo della fragilità delle cose umane, di così numerosa progenie del Re Carlo II non rimase altro maschio, che Lodovico Re d'Ungaria e Carlo di Durazzo nel Regno di Napoli, figliuolo del già detto Luigi di Durazzo. E non guari da poi si vide perduto tutto ciò, che questa progenie possedeva in Grecia; poichè ritenendosi per anche Corfù e Durazzo, avendo la Regina Margarita moglie del Re Carlo di Durazzo (mentre suo marito era in Ungaria, ed ella governava) fatta pigliare una nave de' Veneziani, nè volendola restituire, ma ritenendosela con tutte le mercatanzie che vi erano di molta valuta, diede occasione a' Veneziani, che dopo la morte del Re, con questa scusa occupassero il Ducato di Durazzo, nel quale finì di perdersi quanto la linea di Re Carlo I avea posseduto in Grecia[197].
CAPITOLO III. Altre nozze della Regina Giovanna, e ribellione del Duca d'Andria.
Rimasa vedova la Regina del Re Luigi di Taranto, perchè nel governo del Regno non s'intrigassero i Reali di Napoli, tanto i Napoletani, quanto i Baroni desideravano, ch'ella sola governasse, e perciò per mezzo di coloro, ch'erano più intimi nella Corte della Regina, cominciarono a confortarla, che volesse subito pigliar marito, non solo per sostegno dell'autorità sua reale, ma ancora per far pruova di lasciare successori per quiete del Regno; e così fu tosto destinato per suo marito l'Infante di Majorica, chiamato Giacomo d'Aragona, giovane bello e valoroso; onde parea ch'essendo anche la Regina d'età di 36 anni, si potesse ragionevolmente sperare ch'avessero insieme a far figliuoli, e conchiuso il matrimonio, venne lo sposo sulle Galee in Napoli in quest'anno 1363 e fu da' cittadini ricevuto come Re. Sposò egli la Regina, e da lei fu creato Duca di Calabria: ma l'avversa fortuna del Regno non volle; poichè questo matrimonio fu poco felice, perchè guerreggiando il Re di Majorica con quello d'Aragona suo cugino per lo Contado di Rossiglione, e di Cerritania, volle il nuovo marito della Regina andare a servire il padre in quelle guerre, ove prima fu fatto prigione, e poi riscosso dalla Regina, e tornandovi la seconda volta vi morì. Restò molti anni la Regina in veduità, e governò con tanta prudenza, che acquistò nome della più savia Reina, che sedesse mai in Sede reale; per la qual cosa quasi risoluta di non tentare più la fortuna con altri mariti, cominciò a pensare di stabilirsi successore nel Regno. Si aveva ella allevata in Corte Margarita, figliuola ultima del Duca di Durazzo e di Maria sua sorella; e questa pensò di dare a Carlo di Durazzo con dispensazione appostolica, poichè erano tra di loro fratelli cugini; ma questo suo pensiere fu per qualche tempo impedito, perchè avendo il Re d'Ungaria guerra con i Veneziani, mandò a chiamare Carlo di Durazzo dal Regno di Napoli, che avesse a servirlo in quella guerra. Questi ancor che fosse molto giovane, andò con una fioritissima compagnia di Cavalieri, e servì là molti anni; il che fece stare sospeso l'animo della Regina, sospettando, che nel cuore del Re d'Ungaria fossero rimaste tante reliquie dell'odio antico, che bastassero a far ribellare da lei Carlo; però al fine, come si dirà poi, riuscì pure la deliberazione fatta di tal matrimonio, dal quale per altra via ne seguì la rovina sua.
Ma dall'altra parte, parendo ad ogni uomo di potere agevolmente opprimere una donna, rimasta così sola col peso del governo d'un Regno tanto grande e di sì feroci province, se mancavano ora i Reali di perturbarlo, non mancarono i vicini ed i più potenti Baroni di quello. Fu turbato prima da Ambrosio Visconte figliuolo bastardo di Bernabò Signore di Milano, il quale entrato nel Regno per la via d'Apruzzo con dodicimila cavalli, ed occupate per forza alcune Terre di quelle contrade, camminava innanzi con incredibile danno e spavento; ma la Regina con quel suo animo virile e generoso, tosto lo represse, poichè unite come poté meglio sue truppe, sconfisse l'esercito nemico, e liberò il Regno da tale invasione.
Questa vittoria diede grand'allegrezza alla Regina, la quale trovandosi ora nel più quieto stato volle andare a visitare gli Stati di Provenza e gli altri che possedeva in Francia, ed andò principalmente in Avignone a visitare il Papa Urbano V, che ad Innocenzio VI, successor di Clemente, era succeduto; dal quale fu benignissimamente accolta e con grandissimo onore[198]. Poi essendo stata alcuni mesi a visitare tutti que' Popoli, e da loro amorevolmente presentata, se ne ritornò in Napoli molto contenta, per aversi lasciato il Papa benevolo ed amico.
Giunta in Napoli mandò in effetto il matrimonio di Carlo di Durazzo con Margarita sua nipote, mostrando a tutti intenzione di voler lasciare a loro, il Regno dopo la sua morte; ma non per questo Carlo di Durazzo lasciò il servizio del Re d'Ungaria, anzi con buona licenza e volontà della Regina tornò nella Primavera di quest'anno 1370 a servire quel Re contro i Veneziani, lasciando Margarita con una fanciulla di circa sei mesi chiamata Maria, come l'avola materna, e lei gravida, la quale nel principio del seguente anno partorì un'altra figliuola chiamata Giovanna, come la Regina sua zia, che poi, come diremo, fu Regina di Napoli.
Ma mentre il Regno stava per rifarsi, avendo tregua dall'invasioni esterne, fu tutto sconvolto per una guerra intestina, che fu cagione di molti mali; perocchè essendo spenti tutti gli altri Reali, rimase grandissimo Signore Francesco del Balzo Duca d'Andria, perchè, come si disse, colla morte di Filippo Principe di Taranto suo cognato, ch'avea lasciato erede Giacomo del Balzo suo figliuolo, come tutore di lui, possedeva una grandissima Signoria, e per questo era divenuto formidabile a tutti i Baroni del Regno: onde pretendendo, che la città di Matera appartenesse al Principato di Taranto, la quale era posseduta allora da un Conte di Casa Sanseverino, andò con genti armate, e la tolse di fatto a quel Cavaliero, minacciando ancora di torgli alcune altre Terre convicine. Per questo insulto i Sanseverineschi, che per numero di Personaggi e di Stato erano i più potenti Baroni del Regno, ebbero ricorso alla Regina, la quale subito mandò al Duca a dirgli, che si contentasse di porre la cosa in mano d'arbitri, ch'ella eleggerebbe non sospetti, e non volesse mostrare far tanto poco conto di lei. Ma il Duca rifiutando ogni partito, volle persistere nella sua pertinacia di voler la Terra per forza, onde la Regina dopo aver chiamati tutti i parenti del Duca ed adoperati più mezzi, desiderosa di tentare ogni cosa, prima che venire ad usare i termini della giustizia, poichè vide l'ostinazione del Duca, comandò, che fosse citato; e continuando il Duca nella solita contumacia, volle ella un dì a ciò deputato, sedere in sedia reale con tutto il Consiglio attorno, e profferire la sentenza contro del Duca come ribelle: fatto questo, ordinò a' Sanseverineschi, che dovessero andare ad occupare, non solo la Terra a lor tolta, ma quante Terre avea in Puglia il Duca in nome del Fisco reale, come giustamente ricadute alla Corona per la notoria ribellione di lui. Bisognò contrastar lungamente per debellare il Duca, il quale s'era posto in difesa; finalmente gli fu forza, debellato che fu, fuggirsene dal Regno, onde la Regina avendo occupati tutti i suoi Stati, ed essendosi a lei rese Tiano e Sessa, per rifarsi della spesa, che avea fatta in questa guerra, vendè Sessa a Tommaso di Marzano Conte di Squillaci per venticinquemila ducati, e Tiano per tredicimila a Goffredo di Marzano Conte d'Alifi; ma a Tommaso concesse il titolo di Duca sopra Sessa, e fu il secondo Duca nel Regno dopo quello d'Andria. Mandò ancora a pigliar la possessione del Principato di Taranto perchè il picciolo Principe, dopo la fuga del padre, s'era ricovrato in Grecia, dove possedeva alcune terre.
Ma non si ristette il Duca d'Andria di tentar nuove imprese; poichè essendo ad Urbano succeduto Gregorio XI suo parente, ebbe ricorso a costui, dal quale fu bene accolto, e parte con danari ch'ebbe da lui sotto spezie di sussidio, parte con alcuni, che n'ebbe dalle Terre, ch'egli possedeva in Provenza, se ne ritornò in Italia, dove se gli offerse gran comodità di molestare il Regno e la Regina, perchè trovandosi allora Italia universalmente in pace, molti Capitani di ventura oltramontani stavano senza soldo, tal ch'ebbe poca fatica con quella moneta che avea raccolta, ma con assai più promesse a condurgli nel Regno. Entrovvi egli con tredicimila persone da piedi e da cavallo, e con grandissima celerità giunse prima a Capua, che la Regina avesse tempo di fare provisione alcuna; onde non solo tutto il Regno fu posto in iscompiglio, ma la città di Napoli istessa in grandissimo timore e sospetto; contuttociò la Regina ch'era da tutti amata e riverita, si provide ben tosto per la difesa, e già s'apparecchiava di far la massa dell'esercito a Nola, quando il Duca avvicinandosi ad Aversa, andò a visitare Raimondo del Balzo suo zio carnale Gran Camerario del Regno, persona, e per l'età, e per la bontà venerabile e di grandissima autorità, il quale stava in un suo casale detto Casaluce. Questo grand'uomo, tosto che vide il Nipote, cominciò ad alta voce a riprenderlo e ad esortarlo, che non volesse essere insieme la ruina, e 'l vituperio di Casa del Balzo, con seguire un'impresa tanto folle ed ingiusta: perchè bene avea inteso, che le genti ch'egli conducea seco, erano ben molte di numero, ma pochissime di valore, nè potrebbe mancare che non fossero sconfitte dalle forze della Regina, e di tutto il Baronaggio del Regno, al quale egli era venuto in odio per la superbia sua insopportabile. Il Duca sbigottito, e pien di scorno alle parole del buon vecchio, non seppe altro che replicare, se non che quel che facea era tutto per riavere lo Stato suo, il quale non si potea altrimenti per lui recuperare, per molto che esso avesse pentimento della ribellione. Replicogli il zio, che questa via che avea pigliata, non era buona, anzi gli averia più tolta la speranza di ricovrare lo Stato per sempre, e che 'l meglio era cedere, e cercare, con intercessione del Papa, di placare l'animo della Regina. Valse tanto l'autorità di quello uomo, che 'l Duca vinto da quelle ragioni, prese subito la via di Puglia con le genti che avea condotte, sotto scusa di volere ricovrare le Terre di quella provincia; e come fu giunto alla campagna d'Andria proccurò, che gli fosse posto in ordine un naviglio, in cui, disceso alla marina, s'imbarcò, e ritornò in Provenza a ritrovare il Papa. Le genti, che avea condotte, trovandosi deluse, si volsero a saccheggiare alcune terre picciole, per indurre la Regina ad onesti patti; e perch'ella desiderava molto la quiete, patteggiò con loro, ch'uscissero fuor del Regno, pigliandosi sessantamila fiorini. Queste cose fur fatte fin all'anno 1375, nel qual morì Raimondo del Balzo Gran Camerario, lasciando di se ornatissima fama; la Regina ebbe gran dispiacere della perdita di un Baron tale, e creò in suo luogo Gran Camerario Giacomo Arcucci Signore della Cirignola.
La Regina in questi tempi, o che le fosse venuto in sospetto il troppo amore di Carlo di Durazzo verso il Re d'Ungaria, e che temesse di quel che poi successe, o che fosse istigata dal suo Consiglio per vedersi così sola a dover sempre combattere a' continui moti del Regno: determinò di togliere marito, perchè, ancora ch'ella fosse in età d'anni quarantasei, era sì fresca, che dimostrava molta attitudine di far figli: tolse dunque per marito Ottone Duca di Brunsuic, Principe dell'Imperio e di linea imperiale, Signor prudente e valoroso[199], e d'età conveniente alla sua e volle per patto che non s'avesse da chiamare Re, per riservar forse a Carlo di Durazzo la speranza della successione del Regno. Venne Ottone nel dì dell'Annunziata del seguente anno 1376 ed entrò in Napoli guidato sotto il Pallio per tutta la città con grandissimo onore sino al Castel Nuovo dov'era la Regina, ed ivi per molti giorni si ferono feste reali.
Questo matrimonio dispiacque assai a Margarita di Durazzo, la quale nel medesimo tempo avea partorito un figliuol maschio, che fu poi Re Ladislao, ed ella se ben credea per certo, che dalla Regina non fossero nati figliuoli, tuttavia dubitava, che introducendosi Ottone nel Regno con gente tedesca, si sarebbe talmente impadronito delle fortezze e di tutto il Regno, che sarebbe stato malagevole cacciarlo, ed ella ed il marito ne sarebbero rimasti esclusi. Ma la Regina con molta prudenza stette ferma in non volere dare il titolo di Re al marito, riserbandolo, se la volontà di Dio fosse stata di dargli alcun figliuolo; e sempre nel parlare dava segno di tenere cura, che 'l Regno rimanesse nella linea mascolina del Re Carlo II. E per mostrar amorevolezza e rispetto al marito gli fece donazione di tutto lo Stato del Principe di Taranto, ricaduto a lei per la ribellione di Giacomo del Balzo figliuolo del Duca d'Andria, il quale Stato era mezzo Regno. Dopo queste nozze si visse due anni nel Regno quietamente, e la Regina diede secondo marito a Giovanna dì Durazzo, sua nipote primogenita del Duca di Durazzo e della Duchessa Maria sua sorella, il quale fu Roberto Conte d'Artois figliuolo del Conte d'Arras.
CAPITOLO IV. Dello Scisma de' Papi di Roma e quelli d'Avignone.
Negli anni seguenti, si vide il Regno in maggiori confusioni e disordini per quel famoso scisma che nacque, e che durò poi fin al Concilio di Costanza. Avea Papa Gregorio XI trasferita la Sede Appostolica da Avignone, ov'era stata da Clemente V sin dall'anno 1305 traslatata, e dimorata settantadue anni, in Roma, ov'egli giunse il dì 17 di gennajo di questo nuovo anno 1377. Quivi egli morì a' 27 marzo del seguente anno 1378. I Romani, i quali in tanto tempo che la Sede Appostolica era stata in Francia, aveano patito infinito danno, vollero servirsi della occasione di ristabilire nella lor città la Corte del Papa, proccurando che dovesse eleggersi un Romano, o per lo meno un nativo d'Italia; all'incontro vedendo che in Roma non v'erano allora più che sedici Cardinali, de quali v'erano dodici oltramontani e quattro soli Italiani, dubitarono, e con ragione, ch'essendo maggiore il numero de' primi, non era verisimile che la pluralità de suffragi per l'elezione del Papa fosse in favore d'un Italiano; e per questo levato un tumulto, presero l'armi, e quando i Cardinali furono entrati in Conclave il dì 5 aprile di quest'anno 1378 concorsa ivi una moltitudine di Popolo, circondò il palazzo, e cominciò a gridare, Romano lo vogliamo. Questo grido durò tutta la notte: il giorno seguente il Popolo essendosi di nuovo adunato in maggior numero, andò con furia maggiore al Conclave, minacciando di rompere le porte, e di tagliare a pezzi i Cardinali franzesi, se non eleggevano un Papa, che fosse romano o almeno d'Italia. I Cardinali intimoriti lo promisero al Popolo, ma con protesta fra loro, che ciò sarebbe seguito per la violenza, che loro si faceva, non già che l'elezione in futuro dovesse valere. In fatti elessero tumultuariamente persona fuori del Collegio de' Cardinali, che per la sua poca abilità, potesse esser con facilità cacciata dal Papato. Questi fu Bartolommeo Prignano Arcivescovo di Bari, nato in Napoli, secondo Panvinio, da vili parenti; ma il nostro Giovanni Villani[200], e Teodorico di Niem[201], dicono esser nato nel castello d'Itri del Contado di Fondi[202]. Visse quasi sempre in Francia appresso la Corte del Papa nella Cancelleria Appostolica, indi fatto Arcivescovo d'Acerenza, passò poi a quello di Bari. Essendosi sparsa in Roma la voce, che l'Arcivescovo di Bari era stato eletto, il Popolo confondendolo con Giovanni di Bar francese, cameriere maggiore del Papa defunto, cominciò di nuovo le sue violenze. Il Cardinal di S. Pietro comparì alla finestra del Conclave per placare il tumulto, e molti vedendolo dissero: questi è il Cardinal di S. Pietro: subito il popolaccio credette, che quegli fosse il Cardinale ch'era stato eletto, e si pose a gridare, viva, viva S. Pietro. Alquanto da poi il Popolo ruppe le porte del Conclave, arrestò i Cardinali, e rubò i loro mobili, domandando sempre un Cardinal romano: alcuni domestici de' Cardinali avendo loro detto, non avete voi il Cardinale di S. Pietro? eglino lo presero, lo vestirono degli abiti Pontificali, lo posero su l'Altare, ed andarono all'adorazione, benchè gridasse, che egli non era Papa, ed esserlo non voleva. I Cardinali durarono molta fatica a salvarsi, chi nelle lor case, chi nel castello di S. Angelo. L'Arcivescovo di Bari divenuto in un tratto superbo ed austero e molto astuto, conoscendo l'intenzione de' Cardinali, si fece subito il giorno seguente acclamare da alcuni Cardinali, violentati a farlo da' Magistrati. Egli prese il nome d' Urbano VI e scrisse a tutti i Cristiani, notificando loro l'elezione fatta, e tenne per lo principio molto a freno i Cardinali, dubitando di quel che poi successe, cioè, che avrebbero pensato a cacciarlo dal Papato[203]. Dall'altra parte i Cardinali, ancorchè pubblicamente fossero stati costretti a riconoscerlo, scrissero però segretamente al Re di Francia, ed agli altri Principi cristiani, che l'elezione era nulla, e che non era stata lor intenzione, che e' fosse riconosciuto per Papa; e poco da poi sotto pretesto di fuggire i calori della state, i dodici Cardinali oltramontani uscirono l'un dopo l'altro da Roma nel mese di maggio, e si portarono in Anagni. Ma il Cardinale Ursino fratello del Conte di Nola, sotto scusa di venire a visitare i parenti nel Regno, impetrò da Urbano licenza, e venne a trovar la Regina; e su la certa credenza che i Cardinali avrebbero rivocata l'elezione, cominciò a pregarla, che in tal caso avesse voluto intercedere coi Cardinali provenzali, che avendosi da fare nuova elezione per soddisfazione del Popolo Romano, avessero creato lui.
La Regina, come donna savia e prudente, non si volle muovere per le richieste del Cardinale, anzi mandò a Roma Niccolò Spinelli di Napoli, ma di patria di Giovenazzo, quel nostro famoso Dottor di leggi Conte di Gioja, e Gran Cancelliero del Regno, a rallegrarsi con Urbano della sua elezione ed a dargli ubbidienza. Ma questo risalito Papa mostrò fare tanto poco conto di quest'ufficio della Regina, e della persona del Gran Cancelliere, trattandolo incivilmente[204], che questi che 'l conosceva nella vita privata per uomo di basso affare, e giudicandolo indegno del Papato per la natura ritrosa, se ne venne tanto mal soddisfatto di lui che si crede, che da quella ora pensò d'essere ministro della nuova elezione d'un altro Papa. A questo s'aggiunse che pochi dì da poi, essendo andato il Principe Ottone in Roma a visitarlo, alcuni dicono per avere l'investitura del Regno[205], altri per supplicarlo, ch'essendo restato il Regno di Sicilia per successione in man di donna, avesse fatta opera che quella fosse data per moglie al Duca Baldassarre di Brunsuich suo fratello; ma sia che si voglia, è cosa certissima, che non solo dal Papa non potè ottenere cosa che volle, ma fu anche mal veduto, e trattato poco onorevolmente: narrando Teodorico di Niem[206], che fu Segretario d'Urbano, che Ottone trovandosi col Papa quando era a pranzo, ed essendogli dato il bicchiere per dargli a bere, come è costume, il Papa, fingendo di ragionare d'altri negozj, il fece stare inginocchiato un gran pezzo senza bere, finchè uno dei Cardinali, che aveva maggior confidenza con lui, gli disse, Padre Santo è tempo che beviate; per la qual cosa il Principe se ne ritornò con molto maggiore scorno di quello ch'ebbe l'Ambasciadore.
Lo stesso Autore[207], e colui, che scrisse la vita d'Urbano, dicono ch'essendo stato più, che fosse mai uomo, avido di voltare tutte le forze del Papato in fare grandi i suoi, avesse pensato dall'ora di trasferire il Regno di Napoli nella persona di Carlo di Durazzo, tenendo per certo poter aver da lui più larghi partiti, e maggiori Signorie nel Regno per Butillo, e Francesco Prignano suoi nipoti che non avrebbe avuti dalla Regina Giovanna e dal Principe Ottone. Il Duca d'Andria che avea seguitato in Roma Papa Gregorio XI con isperanza che l'avesse fatto ricovrar gli Stati, si trovava allora in Roma in bassa fortuna; ed avendo dopo la morte di Gregorio conosciuto l'animo del nuovo Papa, poco amico della Regina, cominciò a trattar con lui, che si chiamasse Carlo di Durazzo all'impresa del Regno, dimostrandogli che agevolmente sarebbe successa felice, perchè già teneva avvisi da Napoli che tutto 'l Regno stava mal soddisfatto, ed in timore di restare sotto il dominio d'Ottone; e per contrario era gran desiderio tra' Baroni, e tra' Nobili Napoletani di vedere Carlo di Durazzo unico germe nel Regno della Casa d'Angiò; tanto più, quantochè nella milizia che avea esercitata in servizio del Re d'Ungaria, era diventato famoso nell'arte della guerra, non meno per valor di persona che di giudizio. Con queste persuasioni gli fu cosa leggiera persuadere al Papa quello, a che egli stava inclinatissimo, e però senza dimora mandò Urbano ad invitar Carlo che stava in Italia nel Trivigiano a guerreggiare con i Veneziani che venisse armato in Roma, perch'egli avea deliberato di privar la Regina Giovanna del Regno, e chiuderla in un Monastero, e dar a lui l'investitura e possessione del Regno[208]. Carlo per lo principio mostrò molta freddezza in accettare l'impresa, perchè dall'una parte lo stringea la pietà della Regina e li beneficj verso di lui, i quali erano meritevoli di gratitudine, e dall'altra la difficoltà di pigliar l'impresa, dubitando che se lasciava il Re d'Ungaria nell'ardore di quella guerra, non avrebbe avuto da lui favore alcuno.
Questa pratica non potè esser tanto secreta che la Regina non n'avesse avviso a Napoli, onde ristretta col suo Consiglio deliberò di provvedervi. Il nostro Giureconsulto Niccolò di Napoli ch'era il primo di valore e d'autorità nel Consiglio, ed era uomo di grande spirito, e portava odio particolare al Papa, propose non esservi altro miglior espediente per divertire il Papa da questa impresa, se non d'incitare i Cardinali a far nuova elezione: alla qual proposta applaudendo Onorato Gaetano Conte di Fondi, molto potente in Campagna di Roma, e che per essere stato Vicario Generale, e Governadore di tutto lo Stato ecclesiastico e di Campagna con grandissima autorità mentre la Sede Appostolica era stata in Francia, desiderava l'assenza della Corte da Italia, per tornare nel medesimo grado: la cosa fu subito conchiusa, e fu deliberato che si tenesse un Concilio nella città di Fondi. I Cardinali franzesi che si erano portati in Anagni, subito che ivi furono giunti, dichiararono che l'elezione d'Urbano era nulla, come fatta contro lor voglia, e contra il solito stile; onde subito che intesero il trattato fatto in Napoli, vennero tutti a Fondi, dove erano restati in appontamento di ritrovarsi insieme coi tre Cardinali Italiani; ed alfine entrati in Conclave il dì 20 settembre dopo essersi molto maneggiati per far cessare la contesa ch'era sopra l'elezione fra' Cardinali Italiani, dopo aver dichiarata nulla l'elezione d'Urbano, il Cardinal di Fiorenza propose d'eleggere Ruberto Cardinal di Ginevra di Nazione alemanna. Tutti i Cardinali, eccettuati i tre Italiani, gli diedero i loro suffragi[209]; prese egli il nome di Clemente VII e fu coronato il dì 21 del medesimo mese. Era egli fratello d'Amadeo Conte di Ginevra, ed era stato Vescovo di Tervana e poi di Cambray, indi da Gregorio XI era stato creato Cardinale, e di qua cominciò lo scisma. Urbano rimasto solo col Cardinal di Santa Sabina si mantenea nel possesso di Roma, ma il castel di Sant'Angelo stava per Clemente. I Romani l'assediarono, lo presero in fine e lo demolirono. Urbano fece subito nuova elezione di Cardinali, e scrisse a tutti i Principi e Repubbliche de' Cristiani, notificando la rebellione de' Cardinali per loro tristizia, e non già ch'egli non fosse stato legittimamente creato per Vicario di Cristo, e persuadeva ad ogni uno che dovesse tenere il Papa eletto da costoro per Antipapa, e loro tutti per Eretici e Scismatici, e privati d'ogni dignità ed Ordine sacro; divulgando ancora che questa ribellione avea avuta radice nel timore che i Cardinali aveano, per gl'inonesti costumi loro, della riforma ch'egli voleva fare. I Cardinali che egli creò furono la maggior parte Napoletani e di Regno, e tra gli altri Fra Niccolò Caracciolo Domenicano Inquisitore in Sicilia, Filippo Carafa Vescovo di Bologna; Guglielmo da Capua, Gentile di Sangro, Stefano Sanseverino, Marino del Giudice di Amalfi Arcivescovo di Taranto e Camerlengo della Sede Appostolica, e Francesco Prignano suo nipote; e per aver maggior parte in Napoli e nel Regno, conferì a loro, e ad altri loro aderenti tutte le chiese principali ed altre dignità ecclesiastiche nel Regno. In oltre per porre la città di Napoli in divisione, privò Bernardo di Montoro Borgognone dell'Arcivescovado di Napoli, e lo conferì all'Abate Bozzuto Gentiluomo di molta autorità, e di gran parentado nella città[210]; e per ultimo per mezzo del medesimo Duca d'Andria, mandò a chiamare Carlo di Durazzo, che a quel tempo si trovava nel Friuli. Carlo a questa seconda chiamata non fu sì renitente, come alla prima, perchè avea già avuto avviso da Napoli, che la Regina avendo preso sospetto di lui faceva grandi favori a Roberto di Artois, che era marito della sorella primogenita di Margarita, tal che entrato in gelosia, promise al Duca di venire, purchè si trattasse dal Papa, ch'il Re d'Ungaria gli desse buona licenza, e qualche favore ed aiuto, perchè da se non aveva altre forze che circa 100 cavalli napoletani che l'aveano sempre servito in quella guerra, ed intanto s'apparecchiava per venire in Roma, aspettando l'avviso del Re d'Ungaria.
Avendo in cotal guisa Urbano posta in divisione la città di Napoli ove meno sperava, tirò al suo partito molte altre province e Regni. Quasi tutte le città di Toscana e di Lombardia, insieme co' Romani, riconoscevano lui per Papa. L'Alemagna e la Boemia stette nel suo partito. Lodovico Re d'Ungaria pure lo riconobbe: la Polonia, la Prussia, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia seguirono l'esempio dell'Alemagna, ed in Inghilterra, essendo stati uditi i deputati de' due contendenti nel Parlamento, fu approvata l'elezione d'Urbano e rigettata quella di Clemente.
Dall'altra parte Papa Clemente era riconosciuto nella Francia, nella Scozia, in Lorena, in Savoia e nella Spagna, la quale quantunque prima stesse per Urbano, si dichiarò poi per Clemente; ma sopra tutti era riconosciuto e favorito dalla nostra regina Giovanna, la quale, partito che fu Clemente di Fondi, ed andato a Gaeta, e di là venuto a Napoli, lo ricevè con grandissimo apparato nel castello dell'Uovo, e per fargli onore gli fece far un ponte in mare di notabile lunghezza, dove egli venne a smontare. La Regina con tutti quei, che erano andati ad incontrarlo, si ridusse sotto l'arco grande del castello, il quale era adornato di ricchissimi drappi, ed ivi collocarono la sede pontificale nel modo solito, dove subito che fu Clemente assiso, la Regina col Principe Ottone suo marito andò a baciargli il piede, ed appresso Roberto d'Artois con la Duchessa di Durazzo sua moglie, dopo andò Agnesa, ch'era vedova, poichè fu già moglie del Signor di Verona, ed erasi ritirata in Napoli, e per ultimo Margarita sua sorella, moglie di Carlo di Durazzo, che si trovava in Napoli; seguì appresso a baciargli il piede un gran numero di Cavalieri e Baroni, e donne, e damigelle leggiadramente vestite; poi saliti su al castello, il Papa fu realmente alloggiato con tutti i Cardinali, e stettero alcuni dì in continui conviti e feste, ed a richiesta della Regina creò Cardinale Lionardo di Gifoni generale de' Frati Minori.
Ma mentre duravano queste feste nel castel dell'Uovo, il popolo Napoletano, che forse sarebbe stato quieto, se avesse visto, che la Regina con maggior sicurtà avesse ricevuto il Papa nella città, e fatto partecipare di queste feste la plebe avida di nuovi spettacoli; parendo a molti di natura sediziosi, che la Regina, come consapevole dell'error suo, non ardisse di fare quella festa in pubblico, cominciò a mormorare contra di lei, che per mal consiglio de' suoi Ministri, istigati da lor proprie passioni, volesse favorire un Antipapa di nazione straniero e nutrire uno scisma, con tanto scandalo di tutto il Mondo, contra la Sede Appostolica, sempre fautrice sua e de' suoi progenitori e contra un Papa napoletano, dal quale in universale, ed in particolare tutti potevano sperare onori e beneficj; e come è costume del vulgo, in ogni parte si parlava dissolutamente e con poco rispetto; ed un di que' giorni avvenne, che un artegiano alla piazza della Sellaria parlando licenziosamente contra la Regina, fu ripreso da Andrea Ravignano nobile di Porta Nova; ma persistendo colui in dire peggio che prima, Andrea gli spinse il cavallo sopra e lo percosse in un occhio, di cui restò cieco, onde quelli della strada mossi in grandissimo tumulto presero l'armi; e nel medesimo tempo dalla piazza della Scalesia si mosse un sarto chiamato il Brigante, nipote dell'artegiano offeso, uomo sedizioso ed insolente, il quale trovando gli animi degli altri sollevati, e raccolto un gran numero di popolo minuto, alzò le voci gridando: viva Papa Urbano: e seguito da tutti quelli, scorse per le parti basse della città, saccheggiando le case degli Oltramontani che vi abitavano. Allora l'abate Luigi Bozzuto, che, come si è detto, era stato creato da Papa Urbano, Arcivescovo di Napoli, e che per timore della Regina stava nascosto nella sua casa, nè avea avuto ardire di prendere il possesso dell'Arcivescovado, uscì fuori e tumultuariamente aiutato dal popolo prese il possesso della chiesa e del palagio Arcivescovile, cacciandone la famiglia dell'Arcivescovo Bernardo[211].
Questo tumulto di Napoli col sacco di tante case, ch'erasi disseminato ne' casali d'attorno, ancorchè fosse stato ripresso da' Nobili e da' gran Popolani, avendo prese l'armi, quietarono il romore e poi corsero al castello, per mostrarsi pronti al servigio della Regina e di Papa Clemente, pose in tanto timore il Papa, che non bastandogli tutto ciò ch'erasi fatto ed offerto da' Nobili, volle tosto imbarcarsi su alcune galee coi suoi Cardinali e gitone prima a Gaeta, di là poi passò ad Avignone, dove restituì la Sede pontificale, ed ivi per molto tempo fu ubbidito non men dalla Francia che dalla Spagna, Scozia, Lorena e Savoia.
La Regina, benchè fosse per questi rumori rimasta assai turbata, nulladimanco usando la solita virilità, confidata nella prontezza de' Nobili, che aveano raffrenato l'ira ed il furore del Popolo, ordinò a Raimondo Ursino figliuolo del Conte di Nola, ed a Stefano Ganga Reggente della Vicaria, che con buona banda di gente uscissero contro i ladroni del contorno, e da poi che n'ebbero tagliati a pezzi un gran numero e molti presi, che furono tenagliati e divisi in quarti entrarono nella città, e per ordine della Regina andarono alle case del Bozzuto, e non ritrovandolo, perocchè era scappato via, avendo veduto, che quei del Popolo aveano deposte l'armi, fecero diroccare le case paterne dell'Arcivescovo nel Seggio di Capuana, e poi fecero dare il guasto alle sue possessioni. Il Brigante con alcuni altri Capi di quel tumulto furono subito tutti insieme appiccati; tanto che il Popolo minuto per lo grandissimo timore conceputo, si stava rinchiuso nelle sue proprie case.
Non guari da poi si vide Napoli posta di nuovo tutta in armi e sconvolgimenti, per cagion d'una gara che in que' tempi passava tra' Nobili delle piazze di Capuana e Nido, con quelle di Portanova, Porto e Montagna, pretendendo que' di Capuana e Nido in vigor di una sentenza, che aveano riportata dal Re Roberto, d'esser preposti così negli atti, come ne' governi delle cose pubbliche a tutti gli altri Nobili dell'altre tre piazze, che per ischerno chiamavano Mediani, quasi che fossero un secondo stato, fra' Nobili ed il Popolo. All'incontro i Nobili de' tre seggi andavan tessendo genealogie delle altre famiglie, dando loro origini pur troppo basse, facendole originarie della costa d'Amalfi, de' Casali intorno e d'altri luoghi più ignobili, dove, a lor dire, i lor congiunti dimoravano esercitando ancora arti meccaniche a vili. Dalle contumelie si venne alle armi, e fu fatta strage grandissima per l'una parte e l'altra, e la città tutta posta in iscompiglio e disordine. La povera Regina, a cui premevano cose di maggior importanza, e che per riparare l'imminente tempesta che le soprastava, avea mandato il principe Ottone a S. Germano, non volle prender allora degli autori del tumulto e degli omicidiali castigo; ma importandole darvi presto riparo, cacciò fuori un indulto, col quale ordinando, che dato giuramento da ambe le parti in mano d'Ugo Sanseverino gran Protonotario del Regno di viver quieti, e di non vicendevolmente offendersi, indultava tutti que' Cavalieri, per le morti e contenzioni precedute, insino che col ritorno del principe Ottone suo marito, non si fossero quelle discordie intieramente terminate. L'indulto, di cui fa anche memoria Pier Vincenti[212] nel suo Teatro dei Protonotari, si legge impresso nella Storia del Summonte[213], e fu sotto li 3 settembre di quest'anno 1380 istromentato nel Castel Nuovo di Napoli, per mano di Facio da Perugia Giureconsulto, Viceprotonotario del Regno.
CAPITOLO V. Carlo di Durazzo è coronato Re da Papa Urbano, che depose la regina Giovanna, la quale adottossi per figliuolo Luigi d'Angiò, fratello di Carlo V Re di Francia. Invade Carlo il Regno, vince Ottone, e fa prigioniera la Regina, fatta poi da lui morire.
Intanto Margarita di Durazzo, sentendo per secreti avvisi, che il marito avea avuta già licenza dal Re di Ungaria, e che s'apparecchiava di venire in Roma, chiese commiato alla Regina, con dire che voleva andare nel Friuli a trovar suo marito; e la Regina, o che fosse per magnanimità, o perchè non sapesse certo l'intento di Carlo di venire contra lei, o per non volere provocarlo, le diede buona licenza e la mandò onorevolmente accompagnata: del che certamente dovette più d'una volta pentirsi, avendo potuto ritener lei, ed i due figliuoli Ladislao e Giovanna, che ambedue poi regnarono, e servirsene per ostaggi ne' casi avversi, che da poi le occorsero.
Carlo avuta licenza dal Re d'Ungaria, era finalmente giunto a Roma, ove avidamente fu accolto da Urbano. Avea questo Pontefice sin da luglio del passato anno 1379 pubblicata la sua Bolla[214], colla quale dichiarò scomunicata, scismatica e maladetta la regina Giovanna, privandola del Regno e di tutti i beni e feudi, che teneva dalla Chiesa romana e dall'Imperio, e da qualsivoglia altre Chiese e persone ecclesiastiche, con assolvere i suoi vassalli dal giuramento di fedeltà, e che più non l'ubbidissero[215]; onde giunto che fu Carlo in Roma, gli diede a primo giugno di questo anno 1381 l'investitura del Regno con ispedirgliene Bolla, e fu in Roma dichiarato Re di Napoli e di Gerusalemme, e quivi unto da lui ed incoronato[216].
(Presso Lunig[217] si leggono le lettere di Papa Urbano VI spedite in Roma nel 1381, colle quali dalla regina Giovanna trasferisce il Regno in Carlo Duca di Durazzo. E nella pag. 1150 si legge il diploma di Carlo, spedito nel suddetto anno, dove ricevè l'investitura datagli dal Papa, prestandogli giuramento di fideltà, e si obbliga a tutte quelle leggi e condizioni, contenute nell'investitura data da Clemente IV al Re Carlo I d'Angiò).
Co' denari ch'ebbe Carlo dal Re d'Ungaria soldò molta gente; ma il Papa non volle che partisse da Roma, se prima non desse il privilegio dell'investitura del principato di Capua e di molte altre terre a Butillo Prignano suo nipote. Urbano avuta l'investitura per suo nipote, mandò tosto a chiamare il conte Alberico Barbiano, che era allora in Italia Capitano di ventura, sotto il di cui stendardo teneva arrolata una gran compagnia di gente d'arme, e soldò questo Capitano con le sue truppe, che l'unì a quelle di Carlo; e volle anche, che con lui andasse per Legato appostolico il Cardinal di Sangro, sperando con l'acquisto del Regno avere gran parte di quello per gli altri parenti suoi.
Dall'altra parte la Regina accertata della coronazione di Carlo, mandò subito per Ottone suo marito che si trovava in Taranto, e fece chiamare al solito servigio tutti i Baroni del Regno; e chiamati gli eletti della città, pubblicò la venuta del nemico ed ottenne dalla città una picciola sovvenzione per porre in ordine e pagare le genti, che avea condotte da Puglia il principe Ottone. Ma si avvide in questa occasione, che i partegiani di Carlo eran molti nel Regno, e che le tante case principali, ingrandite e magnificate da Papa Urbano, le ostavano, e conobbe tardi non aver ella dato il conveniente antidoto all'artificio del Papa che sarebbe stato, quando Clemente fu in Napoli, fargli creare una quantità di Cardinali napoletani e del Regno, che avessero tenuta la parte sua, e non contentarsi di far solo Cardinale un Frate, da cui niente potea sperarsi. Venuta per ciò in diffidanza di potersi mantenere con que' presidj che avea, prese un espediente, che riuscì pur troppo funesto e lagrimevole per questo Reame, e che fu cagione di tante sue revoluzioni e calamità, che sostenne non meno che per due secoli seguenti[218]; poichè mandò il Conte di Caserta in Francia a dimandare aiuto al re Giovanni I di Francia, e per più incitarlo mandò procura d'adozione in uno de' figliuoli del Re, Duca d'Angiò, chiamato Luigi fratello di Carlo V Re di Francia successor di Giovanni, promettendo di farlo suo erede e legittimo successore del Regno e degli altri Stati suoi; ed ordinò al Conte, che procurasse in questa adozione il consenso del Papa Clemente; dal quale da poi a' 30 maggio del 1381 fu spedita Bolla, colla quale davasi l'investitura del Regno a Luigi ed alla regina Giovanna, cioè a costei mentre vivea, e a Luigi in perpetuo[219]; mandò anco in Provenza, ove tenea dieci galee, comandando, che s'armassero subito e venissero in Napoli, acciò ch'ella negli estremi bisogni avesse potuto usare il rimedio, che l'era ben succeduto nell'invasione del Re d'Ungaria.
(L'Istromento di questa adozione si legge presso Lunig[220], si legge il diploma della Regina Giovanna, col quale a Luigi d'Angiò, suo figliuolo adottivo, concede il titolo e le ragioni di Duca di Puglia. Parimente poco giù[221] si legge la Bolla di Clemente VII colla quale conferma l'adozione suddetta. È ben degno da riflettere ed ammirare il nuovo spettacolo, che ci presenta questo scisma, tra Papa Urbano e Clemente, dando un Papa per Re a Napoli Carlo di Durazzo, ed un altro Luigi d'Angiò fratello di Carlo V Re di Francia; ma ciò che merita maggior riflessione come cosa ben singolare e nuova si è, che Clemente VII per maggiormente interessar Luigi a' danni di Urbano, ed opporgli un Principe, che avesse un nuovo titolo di scacciarlo dallo Stato istesso della Chiesa romana, posseduto allora da Urbano, non ebbe difficoltà con sua Bolla d'ergere lo Stato romano in Regno, che chiamollo, Regnum Adriae, ed investirne Luigi, e suoi eredi, e successori. Questo nuovo Regno era composto di tali province, come si legge nella Bolla sud. §. 3. Videlicet, Provincias Marchiae Anconitanae, Romandiolae, Ducatus Spoletani, Massae Trabari nec non Civitates Bononiam, Ferrariam, Ravennam, Perusiam, Tudertum, cum eorum omnibus Comitatibus, territoriis et districtibus, et omnes alias et singulas terras, quas ad praesens habere debemus, per quoscumque et quacumque auctoritate possideantur, seu detineantur ad praesens, exceptis, dumtaxat, urbe Roma cum ejus districtu, et Provinciis Patrimonii S. Petri in Tuscia, Campania, et Maritima, ac Sabina, seu Rectoratibus dictarum Provinciarum (per Rectores regi solitis) quae terrae specialium commissionum vocantur, nostrisque successoribus, et Romanae Ecclesiae, expresse et specialiter retinemus, in unum Regnum erigimus ipsas provincias, et Civitates cum earum comitatibus, districtibus seu territoriis, dignitate Regia decoramus, ac Regnum Adriae ordinamus, statuimus, et decernimus perpetuo nuncupari. Di questo Regno ne fu investito Luigi, creandolo Re d'Adria, regolando Clemente i gradi, il sesso e l'ordine della successione, per tutti i suoi posteri e discendenti. Questa Bolla fu spedita in Aprile del 1382 primo anno del suo Pontificato in Sperlonga della diocesi di Gatta, ove Papa Clemente allor dimorava, la qual ebbe dalla Regina Giovanna per suo asilo, e ricovro. Giovanni Ludewig, come monumento molto singolare, tratta dal Codice di Leibnizio, part. 1 Codicis jurisgentium n. 106 pag. 239 volle anch'egli imprimerla tra le sue Opere Miscelle, Tom. 1 lib. 1. Opus. 1. Cap. 4 §. 6. pag. 108 della quale non si dimenticò Lunig, il qual pure tutta intera l'inserì nel suo Codice Dipl. Ital. Tom. 2 pag. 1167 ).
Questa deliberazione della Regina alienò gli animi di molti dalla fede e dalla benivolenza di lei; perchè sebbene in generale l'amavano grandemente, quando seppero l'andata del Conte di Caserta in Francia, ed il proposito della Regina, desideravano molto più avere per loro Signore Carlo di Durazzo, nato ed allevato in Regno, e congiunto di sangue a molti Signori Baroni principali del Regno, che vedere introdotto un nuovo Signore franzese al dominio di quello, il quale conducendo seco nuove genti oltramontane, pareva obbligato d'arricchirle degli Stati e delle facoltà de' Regnicoli. Quindi avvenne, che andando Ottone Principe di Taranto a San Germano, per opponersi a Carlo, che veniva per quella strada, fu seguìto da pochissimi Baroni, tal che senza vedere il nemico, fu costretto d'abbandonare il passo, e si ritrasse con tutti i suoi in Arienzo. Ma Carlo non volle per la via dritta andare in Napoli, giudicando assai meglio d'andare a trovare il nemico, con disegno, che rompendolo in campagna, avrebbe in un solo dì finita la guerra; ed andò a quest'effetto a Cimitino vicino Nola, ove dal Conte di Nola fu visitato, e ricevuto come Re. Il Principe Ottone mutando alloggiamento, si pose fra Cancello e Maddaloni, e benchè Carlo andasse co' suoi in ordinanza a presentargli la battaglia, non volle mai uscire dal campo; ma per la via d'Acerra, e del Salice si ritirò verso Napoli; e Carlo por la via tra Marigliano e Somma s'avviò pur verso Napoli, tal che a' 16 Luglio di quest'anno 1381 a 15 ore, giunse con tutto il suo esercito al Ponte del Selieto fuori la Porta del Mercato, nel medesimo tempo, che il Principe era giunto fuori Porta Capuana, e s'era accampato a Casanova. Erano questi due eserciti tanto vicini, che gli uni si discerneano dagli altri: nel Campo di Carlo era il Cardinal di Sangro Legato appostolico, il Conte Alberico Capitan Generale delle genti del Papa, il Duca d'Andria, il Nipote del Papa, che s'intitolava Principe di Capua, Giannotto Protogiudice, che per la sua gran virtù ed esperienza nell'armi, era stato creato da lui Gran Contestabile del Regno, Roberto Orsino figliuolo primogenito del Conte di Nola, e moltissimi altri Baroni e Cavalieri Napoletani[222], ed altra gente avventuriera: il Campo del Principe non avea tanti Baroni, ma gran quantità di gentiluomini privati napoletani, e molti altri di manco nome, perchè gli altri di maggior autorità, volle la Regina, che rimanessero in Napoli. Stettero i due eserciti per tre ore di spazio, aspettando l'uno qualche moto dell'altro, perchè Carlo allora stava sospeso, dubitando della volontà del Popolo di Napoli, la quale quando fosse stata inclinata alla fede della Regina, non era sicuro per lui d'attaccar fatto d'arme: ma quando s'intese, che nella città vi era grandissima confusione, perchè era divisa in tre opinioni, l'una voleva lui per Re, l'altra volea gridare il nome del Papa, e l'altra tenea la parte della Regina: allora si mossero due Cavalieri napoletani, Palamede Bozzuto, e Martuccio Ajes Capitani di Cavalli colle loro compagnie, e guidati da alcuni di quelli, ch'erano usciti fuori la città, si posero dalla banda del mare a passare a guazzo, ed entrarono per la porta della Conceria, la quale per la fidanza, che s'avea, ch'era battuta dal mare, non era nè serrata, nè avea guardia alcuna, e di là entrati levarono romore al mercato con gran grido, dicendo viva Re Carlo di Durazzo e Papa Urbano, e seguiti da quelli, ch'erano nel mercato, facilmente ributtarono quei, ch'erano dalla parte della Regina, che tutti si ritirarono nel castello, e si voltarono ad aprire la porta del mercato, per la quale entrò Carlo con tutto il suo esercito, e posto buon presidio di gente a quella Porta, andò alla Porta capuana, dove similmente vi pose buona guardia, e mandò a guardare anco quella di S. Gennajo, ed egli andò a Nido, e fece fermare il campo a S. Chiara, onde potea vietare l'entrata ai nemici per la Porta Donnorso e per la Porta Reale. Il Principe Ottone, poichè s'avvide la Cavalleria di Carlo esser entrata nella città, si mosse colle sue genti per dar sopra la retroguardia de' nemici; ma trovate chiuse le Porte se ne ritornò quella medesima sera con le sue genti a Sicciano villa appresso Marigliano.
Carlo il dì seguente pose l'assedio al Castel Nuovo, dove oltre li due nepoti della Regina, cioè la Duchessa di Durazzo, con Roberto d'Artois suo marito, erano concorse quasi tutte le più nobili donne della città, che per essere state semplicemente affezionate della Regina, dubitavano esser maltrattate; vi era ancora grandissima quantità di Nobili d'ogni età con le loro famiglie, i quali furono cagione di più presta rovina, perchè parte per benignità, parte per la speranza che la Regina avea, che le galee di Provenza venissero presto, furono tutti ricevuti, e nudriti di quella vittovaglia, ch'era nel castello, la quale avrebbe forse bastato per sei mesi a' soldati, che la guardavano, e si consumò in un mese. Durante quest'assedio il Principe, che cercava ogni via di soccorrer la moglie, ritornò alle Paludi di Napoli, tentando, che Re Carlo uscisse fuori a far fatto d'arme; ma i Capitani non vollero, che si movesse, ma che il corpo dell'esercito attendesse a guardar la città, e tener stretto il castello, dove sapeano, ch'era ridotta tanta gente, che in breve sarebbe stretta per fame a rendersi; onde il Principe vedendo, che niente giovavano i suoi tentativi, si ritirò in Aversa.
Intanto la Regina cominciava a patire necessità di vettovaglie, e non avea altra speranza, che nella venuta delle galee, con le quali disegnava non solo di salvarsi, ma con la presenza sua commovere il Re di Francia, ed il Papa Clemente a darle maggiori ajuti, per potere tornar poi, ed acquistare la vittoria insieme col figlio adottivo. Ma non vedendosi le galee, ed essendo venuto il castello in estrema penuria di viveri, la Regina mandò a' 20 agosto il Gran Protonotario del Regno Ugo Sanseverino a patteggiare con Re Carlo, ed a trattare per alcun tempo tregua, o alcuna specie d'accordo. Il Re ch'avea tutta la speranza nella necessità della Regina, benchè avesse accolto il Sanseverino con grande onore, perchè gli era parente, non però volle concedere maggior dilazione, che di cinque giorni, tra' quali se il Principe non veniva a soccorrere il castello e liberarlo dall'assedio, avesse la Regina a rendersi nelle mani sue; ed essendo partito con questa conclusione il Sanseverino, mandò appresso a lui nel castello alcuni servidori a presentare alla Regina polli, frutti, ed altre cose da vivere, e comandò, che ogni giorno le fosse mandato quel ch'ella comandava per la tavola sua, credendo con questo indurla a rendersi con più pazienza; anzi mandò a visitarla ed a scusarsi, che egli l'avea tenuta semplicemente per Regina, e così era per tenerla e riverirla; che non si sarebbe mosso a pigliare il Regno con l'armi in mano, ma avrebbe aspettato di riceverlo per eredità, o per beneficio di lei, se non avesse veduto, che il Principe suo marito, oltre di tenere fortificate tante Terre importanti del Principato di Taranto, nudriva appresso di se un potente esercito; onde si vedea chiaramente, ch'avrebbe potuto occuparne il Regno, o privarne lui unico germe della linea del Re Carlo I, e che per questo egli era venuto più per assicurarsi del Principe, che per togliere lei dalla sedia Reale, nella quale più tosto voleva mantenerla. La regina mostrò ringraziarlo, ma nell'istesso punto mandò a sollecitare il Principe, che infra i cinque dì l'avesse soccorsa; passarono i 24 del mese; e la mattina seguente, che fu l'ultimo giorno del tempo stabilito, il Principe venne d'Aversa con tutto il suo esercito per la strada di Piedigrotta, e passata Echia, cominciò a combattere le sbarre poste dal Re Carlo, per penetrare, e ponere soccorso di gente e di vettovaglia al castello; ma Re Carlo fu subito ad incontrarlo con l'esercito suo in ordine, e dato dall'una parte, e dall'altra il segno della battaglia, si combattè con tanto valore, che un gran pezzo la vittoria fu dubbiosa; all'ultimo il Principe, che non potea sopportare d'esser cacciato dalla speranza d'un Regno tale, si spinse tanto innanzi verso lo stendardo reale di Re Carlo, con tanta virtù, che non ebbe compagni, onde circondato da' Cavalieri più valorosi del Re, fu costretto a rendersi, e colla cattività sua il resto dell'esercito fu rotto. Il dì seguente la Regina mandò Ugo Sanseverino a rendersi, ed a pregare il vincitore, che avesse per raccomandati quelli, che si trovavano nel Castello. Il Re il dì medesimo insieme col Sanseverino entrò nel castello con la sua guardia, e fe' riverenza alla Regina, dandole speranza di tutto quel che l'avea mandato a dire, e volle che in un appartamento del castello, non come prigionera, ma come Regina si stesse e fosse servita da que' medesimi servitori che la servivano innanzi.
Finito il mese, il primo di settembre comparvero le dieci galee de' Provenzali condotte dal Conte di Caserta per pigliar la Regina, e condurla in Francia. Il Re Carlo andò a visitare la Regina, ed a pregarla, che poichè avea veduto l'animo suo, volesse fargli grazia di farlo suo erede universale, e cederli anco dopo la morte sua gli Stati di Francia, e che mandasse a chiamare que' Provenziali, che erano su le galee, e loro ordinasse, che scendessero in terra, come amici; ma la Regina dubitando, che questi buoni portamenti fossero ad arte, e ricordandosi ancora di quello, che avea trattato col Re di Francia, adottando Luigi Duca d'Angiò suo figliuolo secondogenito, volle ancora simulare, e disse che avesse mandato un salvo condotto a' Capi delle galee provenziali, ch'ella avrebbe loro parlato, e si sarebbe sforzata d'indurgli a dargli l'ubbidienza: il Re mandò subito il salvo condotto, ed ingannato dal volto della Regina, che mostrò volontà di contentarlo, lasciò entrare i Provenzali nella di lei Camera, senza volervi esser egli, o altri per lui. La Regina, come furono entrati disse loro queste parole: Nè i portamenti de' miei antecessori, nè il sacramento della fede ch'avea con la Corona mia il Contado di Provenza, richiedevano, che voi aveste aspettato tanto a soccorrermi, che io dopo d'avere sofferto tutte quelle estreme necessità, che son gravissime a soffrire non pure a donne, ma a soldati robustissimi, fin a mangiar carni sordide di vilissimi animali, sia stata costretta di rendermi in mano d'un crudelissimo nemico; ma se questo, come io credo, è stato per negligenza, e non per malizia, io vi scongiuro, se appresso voi è rimasta qualche favilla d'affezione verso di me, e qualche memoria del giuramento e de' beneficj da me ricevuti, che in niun modo, per nessun tempo vogliate accettare per Signore questo ladrone ingrato, che da Regina mi ha fatta serva; anzi se mai sarà detto o mostrata scrittura, che io l'abbia istituito erede, non vogliate crederlo, anzi tenere ogni scrittura per falsa, o cacciata per forza contra la mente mia: perchè la volontà mia è, che abbiate per Signore Luigi Duca d'Angiò, non solo nel Contado di Provenza, e negli altri Stati di là da' monti, ma ancora in questo Regno, nel quale io già mi trovo averlo costituito mio erede o Campione, che abbia a vendicare questo tradimento e questa violenza; a lui dunque andate ad ubbidire, e chi di voi avrà più memoria dell'amor mio verso la nazione vostra, e più pietà d'una Regina caduta in tanta calamità, voglia ritrovarsi a vendicarmi con l'armi, o a pregar Iddio per l'anima mia, del che io non solo v'ammonisco, ma ancora fin a questo punto, che siete pur miei vassalli, vel comando. I Provenzali con grandissimo pianto si scusarono, e mostrarono intensissimo dolore della cattività sua, e le promisero di fare quanto comandava, e se ne ritornarono su le galee, nè solo navigarono verso Provenza, ma il Conte di Caserta deliberato di seguire la volontà della Regina, come già avea seguita la sua fortuna, andò ancor esso a ritrovare il Duca d'Angiò. Il Re Carlo ritornato alla Regina per intendere la risposta de' Provenziali, e conosciuto che non riusciva il negozio a suo modo, cominciò a mutare stile, ponendo le guardie intorno alla Regina, ed a tenerla, come prigioniera, e di là a pochi dì la mandò al castello della città di Muro in Basilicata, che era suo patrimonio; ed il Principe Ottone fu mandato nel castello d'Altamura; e poichè egli ebbe ricevuto il giuramento dalla città di Napoli, e da tutti i Baroni, che vi erano concorsi nell'Arcivescovado, fece giuramento d'omaggio alla Sede Appostolica in mano del Cardinal di Sangro Legato. Scrisse da poi al Re d'Ungaria tutto il successo, domandandogli, che far dovesse di Giovanna, e n'ebbe risposta che dovesse farla finire di vivere nell'istesso modo, che era stato morto Re Andrea, il che con memorando esempio di grandissima crudeltà ed ingratitudine fu nell'anno seguente 1382 eseguito[223], avendo nel castello di Muro fattala affogare con un piumaccio[224], e fece da poi venire in Napoli il suo cadavere, che volle che stesse sette giorni insepolto nella chiesa di S. Chiara a tal che ogni uno lo vedesse, ed i suoi partigiani uscissero di ogni speranza; poi fu senza pompa sepolta in luogo posto tra il sepolcro del Duca suo padre, e la porta della Sacristia in un bel tumulo, che ancor oggi si vede.
Questo fu il fine della Regina Giovanna I donna senza dubbio rarissima, che allevata sotto la disciplina del Re Roberto, e dell'onesta e savia Regina Sancia, governò il Regno, quando fu in pace, con tanta prudenza e giustizia, che acquistò il nome della più savia Regina, che sedesse mai in sede reale: siccome dimostrano quelle poche sue leggi, che ci lasciò, tutte ordinate a restituire l'antica disciplina ne' Tribunali e ne' Magistrati, e la testimonianza di due celebri Giureconsulti, che fiorirono nell'età sua, cioè di Baldo ed Angelo da Perugia, i quali nelle loro opere grandemente la commendarono. Ed ancorchè dal volgo fosse stata imputata allora, e da poi da alcuni Scrittori, ch'avesse avuta ella parte nella morte d'Andrea suo primo marito; nulladimanco dalle tante prove, che ella diede della sua innocenza, gli uomini da bene e più saggi di que' tempi, la tennero per innocentissima; e chiarissimo argomento è quello, che Angelo ne addita in un suo consiglio[225] chiamandola santissima, onore del Mondo, ed unica luce d'Italia; di che, come ponderò il Costanzo[226], si sarebbe molto ben guardato un tanto famoso, ed eccellente Dottore di così chiamarla, se non fosse stata a quel tempo presso i savj tenuta per innocente; poichè ognuno avrebbe giudicato, che parlando per antifrasi, avesse voluto beffeggiarla. Ma tolta questa nebbia onde que' Scrittori pretesero offuscare il suo nome in tutto il resto della sua vita non s'intese di lei azione alcuna disonorata, ed impudica. Scipione Ammirato[227], oltre del Collenuccio, dice, che i tanti mariti, ch'ella prese, si fosse proceduto più per aver successori nel Regno nati da lei, che per vaghezza di vivere sotto le leggi del matrimonio, solita a soddisfare per altra strada alle sue libidini. Ma il gravissimo e savio Costanzo[228], come se volesse ripigliarlo, scrive, che anzi la quantità dei mariti, che tolse, fu vero segno della sua pudicizia. Perchè quelle donne, che vogliono saziarsi nelle libidini, non cercano mariti, i quali sono quelli, che possono impedire il disegno loro, e massime que' mariti, che tolse lei, non istolidi, come Re Andrea, ma valorosissimi ed accorti. In tutto il tempo, che regnò, non s'intese fama ch'ella avesse niuno cortigiano, nè Barone tanto straordinariamente favorito da lei, che s'avesse potuto sospettare di commercio lascivo. Solo il Boccaccio scrive, che nel principio della gioventù sua e del Regno fosse stato molto da lei favorito il figliuol di Filippa catanese balia del Duca di Calabria suo padre, e che avea cresciuta lei dalle fasce; anzi fu cosa mirabile, che nel resto della vita, dopo ch'ella cominciò a signoreggiare, si mantenne con queste arti, trattando ogni dì virilmente con Baroni, Capitani di soldati, Consiglieri ed altri Ministri, con tanto incorrotta fama, che nè gli occhi, nè le lingue dell'invidia videro mai cosa, che potessero calunniarla, ancorchè gli animi umani siano indicati a tirare ogni cosa a cattivo fine, ponendo in dubbio ogni sincera virtù. Nè il Collenuccio dice vero, trattando per impudica non men la Regina, che Maria Duchessa di Durazzo sua sorella, riputandola quella, per cui il Boccaccio scrisse que' due libri, il Filocolo e la Fiammetta, ed alla quale facesse mozzar il capo il Re Carlo; poichè Maria, come si vede nella sua sepoltura a Santa Chiara, morì alcuni anni innanzi, moglie di Filippo Principe di Taranto, ed il Boccaccio non iscrisse per lei il libro del Filocolo, ma per Maria figliuola bastarda del Re Roberto, della quale restò egli preso nella chiesa di S. Lorenzo, come appare nel principio del libro istesso del Filocolo; nè poteva esser questa Maria Duchessa di Durazzo, perchè il Boccaccio era d'età provetta nel tempo che quella era in fiore.
Fu Giovanna, come la qualifica Angelo da Perugia, religiosissima, ed i monumenti che di lei abbiamo in Napoli, dimostrano, quanta fosse stata grande la sua pietà e religione. Edificò ella la chiesa e lo spedale di S. Maria Coronata dal palazzo, ove prima si reggeva giustizia, e la diede in custodia a' PP. della Certosa: la chiesa e l'ospedale di S. Antonio di Vienna fuori porta Capuana, dotandola di ricchissime rendite; e magnificò ed ampliò la chiesa e monastero di San Martino su 'l monte di S. Eramo.
Sono alcuni Scrittori, i quali la biasimano per aver ella favorito lo scisma contro Urbano VI, ed aderito alle parti di Clemente. Ma se in ciò fu in lei alcun difetto, fu non già di religione ma di Stato; poichè dall'aversi in quella guisa acerbamente offeso l'animo d'Urbano e fattoselo suo implacabil nemico, le portò l'ultima sua ruina. Il non averlo riconosciuto per vero Pontefice, fu non error suo ma universale di quasi la metà d'Europa, che non lo riconobbe per tale. La sua elezione era da' più saggi Teologi riputata nulla ed invalida, come seguita per timore e per violenza usata dal Popolo romano a' Cardinali nel Conclave.
Ed ancorchè Baldo nostro Giureconsulto, trovandosi in Toscana, provincia ove era Urbano riconosciuto, avesse ne' principii di quella elezione, essendo stato ricercato, scritto quel suo famoso Consiglio per la validità dell'elezione; nulladimanco i migliori Teologi della Francia riputarono valida l'elezion di Clemente e nulla quella d'Urbano, siccome credettero la maggior parte degli Scrittori franzesi; ed a' nostri tempi Stefano Baluzio nelle note alle vite de' Papi Avignonesi[229] difende la causa di Clemente contro Urbano; e rendendo il cambio agli Autori italiani, rapporta quello stesso contro Urbano Papa di Roma, che coloro scrissero contro i Papi d'Avignone; che Urbano fosse un falso Papa, bugiardo, crudele, superbo, inesorabile e feroce; e che non volle mai commettere la sua causa dell'elezione al giudicio del Concilio generale[230]. Frossardo[231] celebre Scrittore delle cose di Francia, ancorchè non sia da seguitarsi nelle cose che narra del nostro Regno, delle quali, come straniero, non ebbe esatta contezza, narra, che il Re di Francia avuta notizia dell'elezione dell'altro pontefice Clemente, fece tosto convocare più Ordini, e principalmente quello de' Teologi, acciò esaminassero in questa contrarietà d'opinione, a qual de due Papi dovesse prestarsi ubbidienza; fu lungamente dibattuto l'affare, ed in fine i Magnati del Regno, gli Ecclesiastici, i fratelli del Re, buona parte de' Teologi conchiusero, che si dovesse riconoscere Clemente, non già Urbano, come eletto per forza. Piacque al Re la censura, che fu notificata e sparsa per tutto il Regno di Francia, affinchè quei popoli sapessero, qual de due Pontefici dovessero riconoscere per legittimo. La Spagna, ancorchè prima avesse riconosciuto Urbano, informata delle violenze usate nella sua elezione, riconobbe da poi per vero pontefice Clemente[232]. Lo stesso fecero il Conte di Savoia, il Duca di Milano e gli Scozzesi. E que' della provincia d'Annonia in Fiandra non vollero riconoscere nè l'uno nè l'altro. Cade per ciò a proposito quel che parlando dell'altro famoso scisma accaduto nel Regno del Re Ruggiero tra Innocenzio II ed Anacleto, fu detto nel XI libro di quest'Istoria; e quel che in simili dubbiezze per norma delle coscienze scrisse S. Antonino[233] Arcivescovo di Firenze, il quale non imputò ad errore a S. Vincenzo Ferreri d'aver seguitato le parti di Benedetto XIII successor di Clemente. Parimente Niccolò Tedesco, detto comunemente l'abate Panormitano[234], il Cardinal Zabarella[235], ed il Cardinal Gaetano[236], sostennero non doversi riputare scismatici coloro, che seguitarono le parti di Clemente; ed ultimamente Stefano Baluzio[237] e Lodovico Maimburgo[238] contro Odorico Rainaldo, fan vedere, che in questo gran dubbio gli uomini più savi, siccome non ardirono chiamare Urbano falso Papa, così nè meno osarono di nominare Clemente Antipapa.
(Se vogliono riguardarsi in ciò gli antichi esempi, famoso è quello rapportato da Teodoreto lib. 4 cap. 23 dello scisma tra Flaviano ed Evagrio, ambidue dalle lor fazioni riputati per veri e legittimi Patriarchi di Antiochia. Flaviano era ammesso generalmente da tutte le chiese di Oriente, Evagrio era sostenuto dal Vescovo di Roma e dalle chiese di Occidente; durante la controversia, ciascun partito senza scrupolo di coscienza seguitava quello, che credeva vero Patriarca, e ciascuno in ciò adempiva il tuo dovere; finchè non si fosse il dubbio deciso, e terminata la controversia, siccome saviamente avvertì Binghamo[239] ).
Fu Giovanna per giustizia simile al Duca di Calabria suo padre; proccurò per quanto comportavano i suoi tempi torbidi, che i Magistrati fossero severi ed incorrotti, scegliendo i più dotti ed integri che fiorissero nella sua età, e ne' dubbii, che accadevano sopra termini di giustizia e sopra qualche successione feudale tra' Baroni, oltre il consiglio de' suoi Savi, ricercava ancora il parere de' più insigni Giureconsulti forastieri, che fiorivano allora in Italia. Chiarissimo esempio di questo suo costume fu quando, dopo la morte d'Andrea d'Isernia, essendo insorto dubbio intorno alla successione feudale per li fratelli uterini, la Regina mandò a consultare il caso a que' due famosi Giureconsulti, che fiorivano allora in Italia, Baldo ed Angelo, richiedendogli, che per verità dessero il lor parere; sopra la di cui domanda diedero fuori un loro responso, che si legge tra' consiglj d'Angelo[240]. A tal fine fu ella amantissima degli uomini di lettere, ed ebbe sommamente a cuore i Giureconsulti e l'Università degli studi. Tutti coloro, che cominciarono a fiorire negli ultimi anni del Re Roberto suo avo, e che nel Regno suo, ancorchè turbato erano avanzati nelle lettere e nelle discipline, favorì ella con onori e pensioni; fra' quali sopra ogni altro innalzò Niccolò Spinello da Giovenazzo detto di Napoli, che oltre avergli dato il Contado di Gioia, lo fe' gran Cancelliere del Regno, e Siniscalco della Provenza e del quale si valse nelle cose di Stato più gravi e rilevanti, esercitandolo in Ambascerie, e ne' consiglj più secreti e di maggior confidenza. Ed in usare beneficenza e liberalità fu così savia e prudente, che soleva dire, che facean male que' Principi, i quali pigliando a favorire ed ingrandire alcuni, lasciavano tutti gli altri marcire nella povertà; e che si dovea nel ripartir delle mercedi e beneficj donar più tosto moderatamente a molti, che profusamente a pochi.
Ebbe gran pensiero di tener Napoli abbondante, non solo di cose necessarie al vitto, ma allo splendore ed ornamento della città. E perchè concorsero per ciò Mercatanti d'ogni nazione con loro mercatanzie, per molto che ella si fosse trovata in bisogno, mai non volle ponere sopra i Mercatanti gravezza alcuna, come si suole da' Re che sono oppressi da invasioni e da guerra. Restano ancor oggi i segni della providenza che usò, che i forastieri al suo tempo stessero ben trattati e quieti; perocchè ordinò la Ruga Francesca e la Ruga Catalana, acciò che stando quelle nazioni separate, stessero più pacifiche. Fece tra 'l Castel Nuovo e quello dell'Uovo una strada, per Provenzali, che ora resta disfatta, per essere occupata dall'edificio del palazzo regio, e fece la loggia per gli Genovesi, ove oggi è sol rimasto il nome. Fu nel vivere modestissima, e di bellezza più tosto che rappresentava maestà, che lascivia o dilicatura: ed in somma fu tanto graziosa nel parlare, sì savia nel procedere, e sì grave in tutti i gesti, che parve ben erede dello spirito del gran Roberto suo avolo.
FINE DEL LIBRO VENTESIMOTERZO.
STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO VENTESIMOQUARTO
Stabilito nel Regno Carlo III di Durazzo per la rotta data al Principe Ottone, e per la cattività del medesimo e della Regina, subito tutti i Baroni mandarono a dargli ubbidienza eccetto tre Conti, quello di Fondi, il Conte d'Ariano e l'altro di Caserta, i quali ostinatamente seguir vollero le parti della Regina: ma Carlo poco curandosi di loro, attese a purgare il Regno, cacciandone tutti i soldati stranieri che aveano militato per la Regina; poi per ordinare le cose di giustizia, mandò Governadori e Capitani per le province, e per le Terre della Corona. Era allora in grande stima il Conte di Nola Orsino, il quale persuase al Re, che chiamasse il Parlamento generale per lo mese d'aprile del seguente anno 1382 per trattare d'imporre un donativo, e 'l Re che ben conosceva esser necessario di fare qualche provisione, poichè sin d'allora si prevedeva, che il Duca d'Angiò adottato dalla Regina non avrebbe voluto abbandonare le sue ragioni, mandò per lettere chiamando tutti i Baroni a Parlamento; e per mantenersi l'amicizia di Papa Urbano, fece pigliar prigione il Cardinal di Gifoni creato da Clemente, e fece menarlo a Santa Chiara, dove fattogli spogliar in pubblico l'abito di Cardinale, e toltogli il cappello di testa, fece tutto buttare nel fuoco, che s'era perciò fatto accendere in mezzo della Chiesa; fecelo anche abiurare e confessar di sua bocca che Clemente era falso Papa, ed egli illegittimo Cardinale, e da poi fece restituirlo in carcere, riservandolo all'arbitrio di Papa Urbano[241].
Nel mese di novembre seguente, venne Margarita sua moglie, co' piccioli figliuoli Giovanna e Ladislao, e nel giorno di Santa Caterina con grandissima pompa fu coronata ed unta, e menata, secondo il costume, per la città sotto il baldacchino. E per levare in tutto una tacita mestizia che si vedeva universalmente per Napoli, per la ruina della Regina Giovanna, si fecero per più dì grandissime feste, giostre e giuochi d'arme, ne' quali il Re armeggiò più volte con molta lode; poi ad emulazione di Re Luigi di Taranto, volle istituire un nuovo ordine di Cavalieri che intitolò la Compagnia della Nave; volendo alludere alla nave degli Argonauti, affinchè i Cavalieri che da lui erano promossi a quell'ordine, avessero da emulare il valore degli Argonauti.
Venne in questo tempo il dì del Parlamento generale, nel quale adunati tutti i Baroni in Napoli, il Conte di Nola per vecchiezza e per nobiltà, e molto più per lo gran valore di Roberto e Ramondo suoi figliuoli, d'autorità grandissima, propose che ogni Barone ed ogni città suggetta alla Corona dovesse soccorrere il Re con notabil somma di danari, e per dare buon esempio agli altri, si tassò egli stesso di diecimila ducati; e perchè pareva pericoloso mostrare mal animo al nuovo Re, che stava ancora armato, non fu Barone, che rifiutasse di tassarsi, tal che si giunse sino alla somma di trecentomila fiorini, e celebrato il Parlamento, presero licenza dal Re tutti i Baroni, promettendo di mandare ogn'uno quel tanto che s'era tassato, e pareva con quel donativo, e con l'amicizia del Papa che Re Carlo potesse fortificarsi nel Regno, e temer poco l'invasione, che già di giorno in giorno si andava più accostando.
CAPITOLO I. Origine della discordia tra Papa Urbano, e Re Carlo. Entrata nel regno di Luigi I d'Angiò, e sua morte. Carlo assedia in Nocera Urbano, il quale coll'aiuto de' Genovesi, e di Ramondello Orsino, e di Tommaso Sanseverino scampa e fugge a Roma.
Papa Urbano dappoichè vide Re Carlo stabilito nel Regno, e che si tardava d'adempire il concordato fra loro, quando gli diede l'investitura, non volle aspettar più; onde gli mandò un Breve, esortandolo, che poichè le cose del Regno erano acquistate, dovesse consegnare a Butillo la possessione del Principato di Capua e degli altri Stati che gli avea promessi; ma il Re non si poteva in niun modo inducere a dismembrare la città di Capua dalla Corona, e però dava parole, menando la cosa in lungo, donde cominciarono fra loro quelle dissensioni, che poi risultarono in guerre aperte, con molta ruina e calamità del Regno; poichè Urbano vedendosi a questo modo deluso, cominciò a pensare di cacciar ancor lui dal Regno; e per avere un più numeroso partito, fece nuova creazione di Cardinali, tra' quali creò Pietro Tomacello di Napoli.
Ma mentre queste cose si facevano in Italia, Luigi Duca d'Angiò senza contrasto alcuno s'insignorì del Contado di Provenza, nel che ebbe i Provenzali favorevoli, i quali ubbidendo a quanto la Regina Giovanna avea loro comandato, non vollero riconoscere per lor Sovrano Carlo, ma sì bene Luigi, il quale favorito anche da Clemente fu da costui, approvando l'adozione della Regina, investito del Regno, e fatto gridare in Avignone Re di Napoli, con sovvenirlo ancora di buona somma di fiorini, e sperava che calando Luigi potente, non solo avrebbe ricuperata l'ubbidienza del Regno di Napoli, ma anche di tutta Italia.
(Morta la Regina Giovanna, e riconosciuto Luigi da' Provenzali per lor sovrano, e da Clemente per Re di Napoli, venendo con valido esercito per discacciar l'emolo dal Regno, Carlo di Durazzo per risarcir la sua fama, che riputava rimaner offesa da alcune parole contumeliose, dette da Luigi, lo sfidò a singolar duello, e scrissegli un biglietto in lingua franzese, dove rinfacciandogli la nullità dell'adozione, e che la Regina Giovanna non poteva cedergli il Regno, lo invita a battersi seco. Luigi rispose a Carlo con pari acrimonia, ed accettò il duello; anzi spedì salvo condotto a Carlo, per assicurar il luogo del campo destinato, affin di comparire con sicurezza egli ed i suoi. Si leggono presso Lunig[242], oltre il salvo condotto suddetto, quattro biglietti, scritti vicendevolmente due da Carlo e due altri da Luigi, nell'idioma stesso franzese; ma non si legge che il duello fosse seguito, poichè si venne a combattere, non già a solo a solo, a corpo a corpo, ma con eserciti armati).
Come questo si seppe nel Regno, molti Baroni che aveano promessa la tassa nel Parlamento, non solo non la mandarono, ma di più si deliberarono di alzare le bandiere d'Angiò, e tra costoro fu Lallo Camponesco in Apruzzo, e Niccolò d'Engenio Conte di Lecce in Terra d'Otranto.
Nel medesimo tempo Giacomo del Balzo figlio del Duca d'Andria, vedendo, che Ottone già Principe di Taranto era prigione, venne nel Regno, e ricovrò tutto il Principato, e prese per moglie Agnese sorella della Regina Margarita, la quale era vedova di Cane della Scala, Signor di Verona. Questa parentela offese tanto i Sanseverineschi, capitali nemici di Casa del Balzo, che sebbene erano di sangue e di parentela congiunti col Re, in poco tempo se gli scoversero nemici; onde il Re vedendo la revoluzione di tanti Baroni nelle più grandi ed importanti province del Regno, e sentendo che il Conte di Caserta di Francia scrivea, e tenea intelligenza con molti, cominciò a pensare a' casi suoi: al che s'aggiungeva, che il Duca d'Andria non si trovava niente soddisfatto del Re, perchè avea sperato, che subito dopo l'acquisto del Regno, avesse dovuto rimetterlo interamente in tutto il suo Stato di prima, il che il Re non avea fatto per la potenza di Casa Marzano che possedevano la città di Sessa, e quella di Teano. E per ultimo, trovandosi in queste angustie di mente, non mancarono di quelli che cominciarono a porgli sospetto, che Giacomo del Balzo Principe di Taranto, che s'intitolava ancora Imperadore di Costantinopoli, non volesse occupare il Regno di Napoli, pretendendo per la persona d'Agnesa sua moglie nipote carnale della Regina Giovanna, di maggiore età della Regina Margarita, che il Regno toccasse a lui di ragione. Questo sospetto ebbe tanto più presto luogo nella mente del Re, quanto che Papa Urbano di natura ritroso ed inquieto minacciava di volerlo cacciare dal Regno, alla qual cosa pareva abile suggetto la persona del principe di Taranto; e per questo il Re imbizzarrito, per assicurarsi di tutti coloro che potessero con qualche ragione pretendere al Regno, fece carcerare la Duchessa di Durazzo sorella maggiore della Regina Margarita, e cercò d'avere in mano il Principe di Taranto, lasciando la moglie in Napoli, la quale similmente Re Carlo fece carcerare, e poi mandò alla città di Muro.
Intanto Luigi d'Angiò, preso il possesso del Contado di Provenza e dell'altre Terre della Regina di là da' Monti, fu coronato da Papa Clemente Re di Napoli, e si pose in viaggio, mandando innanzi dodici galee nelle marine del Regno per sollevare gli animi di quelli del partito della Regina, e per accertarli della venuta sua per terra. Queste dodici galee comparvero alli 17 giugno di quest'anno 1383 nelle marine di Napoli, ed andarono a Castello a Mare, e 'l presero, ed all'improvviso la sera seguente vennero sin al Borgo del Carmelo, e 'l saccheggiarono, poi passarono ad Ischia. Il Re Carlo vedendo, che così poca armata potea far poco effetto, si pose in ordine per andare ad incontrare il Re Luigi, che veniva per terra, e ragunò sue truppe in numero di tredicimila cavalli. Ma questo numero era assai poco appetto dell'innumerabil esercito del Re Luigi; il quale essendo entrato nel Regno, per avergli dato il passo Ramondaccio Caldora, l'esercito suo, per lo concorso di que' Baroni, che giudicando le forze di Carlo poco abili a resistere, aveano preso il partito del Re Luigi, era cresciuto in numero di trentamila cavalli: perciò Re Carlo non volle allontanarsi da Napoli.
Quei che vennero di Francia col Re Luigi, furono il Conte di Ginevra fratello di Papa Clemente, il Conte di Savoja, ed un suo nipote, Monsignor di Murles, Pietro della Corona, Monsignor di Mongioja, il Conte Errico di Bertagna, Buonigianni Aimone, il Conte Beltrano tedesco, e molti altri Oltramontani di minor nome. Quelli del Regno, che andarono ad incontrarlo, furono il Gran Contestabile Tommaso Sanseverino, Ugo Sanseverino, il Conte di Tricarico, il Conte di Conversano, (ancora che fosse per l'Ordine della Nave obbligato a Carlo) il Conte di Caserta, il Conte di Cerreto, il Conte di Sant'Agata, il Conte d'Altavilla, il Conte di S. Angelo e molti altri Baroni e Capitani[243]. Finalmente essendo Re Luigi dalla via di Benevento giunto in Terra di Lavoro, perchè Capua e Nola si tenevano per Re Carlo, andò a ponersi a Caserta, la quale stava già con le bandiere sue, e da Caserta occupò anche Madaloni; ma consumandosi tuttavia lo strame e le vettovaglie per lo gran numero de' cavalli, fu forza che passasse in Puglia; il qual passaggio, ancorchè Re Carlo avesse proccurato d'impedirglielo, nientedimanco riuscì finalmente al Re Luigi di condurre il suo esercito sicuro nel piano di Foggia.
Il Re Carlo vedendosi rotto il suo disegno, ed avendo avuta novella, che Papa Urbano era partito di Roma e veniva verso Napoli, geloso, che quell'uomo di natura superbo e bizzarro non alterasse gli animi dei Napoletani, subito prese la via di Napoli a gran giornate; e giunse a tempo, che il Papa era a Capua, dove andò subito a ritrovarlo, ed insieme vennero ad Aversa: l'uno simulava coll'altro; ma giunti a Napoli il Re non volle permettere, che il Papa albergasse nel Duomo, ma sotto colore di amorevole rimostranza e di buona creanza lo condusse al Castel Nuovo: quivi trattarono delle cose a loro appartenenti: il Papa dimandò al Re il Principato di Capua, con molte Terre circostanti, come Cajazzo e Caserta, le quali furono già del Principato di Capua; dimandò ancora il Ducato d'Amalfi, Nocera, Scafati, ed un buon numero d'altre città e castella, e cinquemila fiorini l'anno di provisione a Butillo suo nipote; e per contrario promettea d'ajutare il Re alla guerra, e lasciarli a pieno il dominio del Regno tutto, con quelle condizioni, che l'aveano tenuto i Re suoi antecessori. Furono accordati e fermati questi patti con grand'allegrezza dell'una e dell'altra parte. Il Papa ottenne dal Re di uscire del castello, ed andare ad alloggiare al Palazzo arcivescovile, e con gran pompa fu accolto dall'Arcivescovo Bozzuto, che era stato rimesso in quella Cattedra dopo la ruina della Regina, dove il Re e la Regina andarono molte volte a visitarlo, e con intervento loro si fecero due feste di due nipoti del Papa, l'una data per moglie al Conte di Monte Dirisi, e l'altra a Matteo di Celano, gran Signore in Apruzzo; e la Vigilia di Natale il Papa scese alla chiesa, e furo cantati i Vespri con solennità Papale. Accadde in questi medesimi dì in Napoli un gran tumulto, poichè Butillo Principe di Capua nipote del Papa entrò violentemente in un monastero di donne Monache, e violò una delle più belle, che vi era dentro, e delle più nobili, del che si fe' gran tumulto per la città, e quelli del governo essendo andati al Re a lamentarsi, furono dal Re mandati al Papa, i quali avendo esposta con gran veemenza querela di quel fatto, il Papa, che com'era nell'altre cose severissimo, così all'incontro era nell'indulgenza e nell'amore verso i suoi mollissimo, rispose, che non era tanta gran cosa essendo il Principe suo nipote spronato dalla gioventù: e Teodorico di Niem, che scrive questo, si ride, che il Papa scusasse colla gioventù il nipote, il quale a quel tempo passava quarant'anni[244]. Venne il dì di Capo d'anno e perchè i progressi, che faceva Re Luigi in Puglia richiedevano, che Carlo andasse ad ostarli, il Papa volle celebrare la messa, e pubblicò Re Luigi, che ei chiamava Duca d'Angiò, per eretico, scomunicato e maledetto, bandì cruciata contro di lui, promettendo indulgenza plenaria a chi gli andava contro, e fe' Confaloniero della Chiesa Re Carlo, benedicendo lo stendardo, che il Re tenne con la man destra sin che si celebrò la messa.
Si pose per tanto in ordine Carlo per andare in Puglia a cacciar l'inimico, ed ordinò alla Cancelleria che scrivesse a tutti i Feudatari, che dovessero star pronti; e perchè il Papa non dava altro che parole, ed indulgenze, non già danari, fu astretto di pigliar dalla Dogana tutti i panni, che vi erano di Fiorentini, Pisani e Genovesi, per distribuirgli parte a' soldati ordinarj, e parte a' Cavalieri napoletani, che s'erano offerti di seguirlo; e venuto il mese d'aprile di questo anno 1384 si partì di Napoli per andare in Puglia, e giunse a Barletta; ed ancorchè il Re Luigi proccurasse venire a battaglia finita, Re Carlo approvando il consiglio del Principe Ottone (che a questo fine l'avea fatto sprigionare) non volle uscire, ma i due eserciti si trattenevano in far varie scaramucce; onde Luigi vedendo, che non potea venir più a fatto d'arme, si ritirò a Bari, dove venne a trovarlo Ramondello Ursino, a cui Luigi sposò Maria d'Engenio donzella nobilissima e ricchissima, poichè per via della madre era succeduta al Contado di Lecce.
Mentre queste cose si facevano in Terra di Bari, il Papa attediato in Napoli dalle lunghe promesse di Carlo (il quale in effetto andava estenuando quanto poteva le promesse fatte a' suoi parenti) si parti in fine mal soddisfatto di Napoli, e con tutti i Cardinali e suoi parenti ed amici andò a Nocera, la quale era stata già assegnata liberamente a Butillo suo nipote, ma non già Capua, nella quale si tenevano le fortezze in nome del Re. Il Papa come era persona iraconda e superba, lasciava scapparsi delle parole, che davano indizio del suo mal animo contra il Re, tal che faceva egli molto più paura a Carlo, che non gli faceva Re Luigi, e certamente l'avrebbe indotto a lasciar la guerra di Puglia, se la morte di Luigi accaduta opportunamente a' 20 settembre di quest'anno 1384 non l'avesse liberato da questa molestia; poichè i Franzesi rimasi senza Re, costernati in gran parte, ritornarono in Francia. Morì Luigi d'Angiò in Biscaglia; Principe assai valoroso, e savio, che fu il primo Luigi della Casa d'Angiò, che regnò in parte del Regno di Napoli, ancorchè in quanto al nome fosse secondo, a rispetto del Re Luigi di Taranto, che fu il primo.
(Re Luigi I nel precedente anno 1383 a 20 di settembre, fece in Taranto il suo solenne Testamento, che dettò in Lingua Franzese, nel quale istituiva erede nel Regno Luigi Duca di Calabria suo primogenito; ed a Carlo secondogenito lasciava altri Stati e Contee, facendo altre disposizioni, e Legati pii a molte chiese, ospedali e conventi. Leggesi il testamento presso Lunig[245] ).
Liberato adunque Re Carlo, per la morte di sì importante nemico, dalla guerra di Puglia, se ne venne in Napoli, ove giunto al dì 10 novembre, fu ricevuto da' Napoletani con grand'allegrezza; e riposatosi alcuni dì, mandò poi solenne ambasceria al Papa in Nocera, facendogli dire, che desiderava sapere per qual cagione era partito da Napoli, ed insieme a pregarlo di tornarvi, perchè aveano da conferire insieme molte cose. Il Papa ritroso, com'era il suo solito, rispose, che se avea da conferir seco, venisse il Re a trovar lui, essendo del costume, che i Re vadano a' Papi e non i Papi vadano a trovare i Re a posta loro; nè potè tanto frenare l'impeto dell'animo suo, che non dicesse agli Ambasciadori, che riferissero al Re, che se 'l voleva per amico, dovesse levare subito le gabelle, che avea poste nel Regno. Il Re udite queste cose dagli Ambasciadori, rispose, che sarebbe ben egli andato a trovarlo, ma armato, ed alla testa d'un fioritissimo esercito: che intorno all'imporre al Regno suo nuove gabelle, non s'apparteneva al Papa di vietarlo; ch'egli s'impacciasse solo de' Preti; perchè il Regno era suo, acquistato per forza d'arme, e per ragione della successione della moglie; e che il Papa non gli avea dato altro, che quattro parole scritte nell'investitura[246]. E replicando il Papa, che il Regno era della Chiesa, dato a lui in feudo, con animo, che avesse da signoreggiare moderatamente, e non iscorticare i vassalli, e che perciò era in elezion sua, e del Collegio dei Cardinali di ripigliarsi il Regno, e concederlo a più leale e più giusto Feudatario: venne la cosa a tale, che il Re mandò il Conte Alberico suo gran Contestabile ad assediarlo nel Castello di Nocera; e questo fu su 'l dubbio, ch'egli avea, che se per caso veniva a morte Papa Clemente in Avignone, Urbano avrebbe confermato a' figli di Luigi d'Angiò, già morto, il Regno. Il Papa vedutosi cinto d'assedio, cominciò a scomunicare, come il solito e maledire: scomunicò Re Carlo, e tre volte il giorno affacciavasi alla finestra, ed a suon di campanello, con torce di pece accese imprecava, maladiceva e scomunicava sempre l'esercito del Re, ch'era a sua veduta. I cinque Cardinali ch'erano seco, de' quali era capo il Cardinal Gentile di Sangro, vedendosi in tanto periglio, cominciarono a persuadergli, che volesse pacificarsi col Re, almeno finchè ritornasse a Roma, perchè parea cosa molto dura contrastare con sì potente nemico, senz'altre arme, che 'l suono del campanello: e perchè mostrarono in ciò troppo avidità della pace, il Papa gli ebbe tanto sospetti, che per una cifra, che fu trovata, che veniva ad uno de Cardinali, gli fè pigliare tutti cinque, e tormentare acerbissimamente senza rispetto; e Teodorico di Niem, che si trovava là suo Segretario, scrive, ch'era un piacere vedere il Papa, che passeggiava, dicendo l'Ufficio, mentre il Cardinal di Sangro, che era corpulento, stava appiccato alla corda, ed egli interrompendo l'ufficio, gridava, che dicesse, come passava il trattato; in fine, benchè non confessasse niuno di loro, gli fè tutti cinque morire. Il Collenuccio narra, che i Cardinali furon sette, e che quando Urbano scappò fuori da Nocera, navigando verso Genova, cinque d'essi fece porre dentro i sacchi, e gittare in mare, e gli altri due giudicialmente convinti in Genova, in presenza del Clero e del Popolo gli fece morire a colpi di scure, i di cui corpi fatti seccare ne' forni e ridurli in polvere, ne fece empire alcuni valigioni e quando egli cavalcava, se gli faceva portare innanzi sopra i muli co' cappelli rossi, per terrore di coloro, che volessero insidiargli la vita, E congiurar contra di lui. Il Panvinio, de' Cardinali carcerati e tormentati in Nocera ne annovera sei, i quali furono il Cardinal di Sangro, Giovanni Arcivescovo di Corfù, Lodovico Donati Veneziano Arcivescovo di Taranto, Adamo Inglese Vescovo di Londra, ed Eleazaro Vescovo di Rieti: vuole che i primi cinque fossero stati gittati in mare, ed il sesto lasciato in vita ad istanza di Riccardo Re d'Inghilterra, e del settimo non fa parola.
Il Pontefice Urbano vedendo sempre più stringersi l'assedio, mandò secretamente in Genova a pregar quella Signoria, che gli mandasse diece galee, la quale con intervallo di pochi dì le mandò, e comparvero alle marine di Napoli, senza sapere qual fosse l'intendimento loro. Allora i Napoletani, che sentivano grandissimo dispiacere della discordia tra 'l Papa e 'l Re, furono a supplicarlo, che volesse pacificarsi con Urbano, perchè tal discordia non potea partorir altro, che danno alla Corona sua ed a tutto il Regno; e 'l Re loro rispose, che esso non resterebbe di mostrarsi sempre ubbidiente figliuolo del Papa e di Santa Chiesa; ed in pruova di ciò non avrebbe egli ripugnanza di riporre in mano di quelle persone, che deputasse la città di Napoli, la potestà di concordarlo e di patteggiare col Papa in nome suo; ed in fatti, ancorchè non si trovi memoria de' nomi degli Deputati dell'altre Piazze, per la Piazza di Nido però si trova proccura di que' Nobili, i quali deputarono le persone di Niccolò Caracciolo, come scrive il Summonte o di Giovanni Carafa, secondo il Costanzo, e di Giovanni Spinello di Napoli, perchè in nome della lor Piazza avessero da intervenire a maneggiar questa pace. Intanto Papa Urbano, nell'istesso tempo, che mandò in Genova per le galee, mandò ancora in Puglia a chiamare Ramondello Ursino, acciocchè sforzando l'assedio, l'avesse potuto condurre alla marina ad imbarcare su le galee: venne Ramondello con ottocento cavalli eletti, ed arditamente a mal grado dell'esercito del Conte Alberico si fece la strada con l'armi; ed entrato nel castello di Nocera, fu dal Papa molto onorato e ringraziato; e poichè seppe l'intenzion sua, conoscendo, che le genti sue erano poche per cacciarlo di mano de' nemici, persuase al Papa, che mandasse un Breve a Tommaso Sanseverino, che venisse con le sue genti a liberarlo, e s'offerse egli di portare il Breve, e di condurli. Il Papa accettò il consiglio, fece stendere il Breve, e gli diede più di diecimila fiorini d'oro e lo benedisse; ed egli partito con molta diligenza, in capo di tredici dì ritornò insieme col Sanseverino, col quale erano tremila cavalli di buona gente, e per la via di Materdomini entrarono nel castello, e baciato il piede al Papa, lo fecero cavalcare, conducendolo per la strada di Sanseverino e di Gifoni al Contado di Buccino, e di là mandato ordine alle galee genovesi, che venissero alla foce del fiume Sele, condussero il Papa ad imbarcarsi, come fece. Donò allora il Papa, per usar gratitudine a Ramondello, la città di Benevento e la Baronia di Flumari, che consistea in diciotto castella. Il Sanseverino se ne ritornò in Basilicata, e Ramondello in Puglia, e 'l Papa giunse a Cività Vecchia salvo.
CAPITOLO II. Re Carlo è invitato al trono d'Ungaria. Sua elezione ed incoronazione a quel Regno, e sua morte.
Essendo morto Lodovico Re d'Ungaria, quegli che venne due volte nel Regno di Napoli per vendicar la morte di Re Andrea suo fratello, senza lasciar di se stirpe maschile; i Principi e Prelati d'Ungaria giurarono fedeltà ad una picciola fanciulla figliuola di lui primogenita, chiamata Maria[247]; e per mostrare, che in tal fanciulla vivea il rispetto e l'amore, che essi portavano al morto Re Lodovico, fecero decreto, che si chiamasse non Regina ma Re Maria e così fu gridato da tutti i Popoli: ma poichè Elisabetta madre della fanciulla, e sua balia e tutrice, governava ogni cosa ad arbitrio di Niccolò Bano di Gara (che a quel Regno è nome di dignità, poichè non vi sono nè Principi, nè Duchi, nè Marchesi) molti altri Baroni per invidia cominciarono a sollevarsi e pentirsi di aver giurata fedeltà al Re Maria; tanto maggiormente, che aveano inteso essere destinata per moglie a Sigismondo di Luxemburgo, figliuolo di Carlo IV Imperadore e Re di Boemia; e conoscendo il Re Carlo nella Corte del Re Lodovico morto, e nel campo quando guerreggiò per quel Re contra i Veneziani; giudicarono lui personaggio degno di succedere a quel Regno, per lo parentado che avea col Re morto. Mandarono per tanto per Ambasciadore il Vescovo di Zagrabia a chiamarlo, ed a pregarlo che avendo bisogno quel Regno d'un Re bellicoso, e non d'una fanciulla Regina, volesse venire, che gli porrebbero senz'alcun dubbio in mano la Corona di quell'opulentissimo Regno, e che non v'avrebbe contraddizione alcuna. La Regina Margarita, quando ebbe intesa la proposta dell'Ambasciadore, come presaga di quel che avvenne, cominciò a pregare il marito, che in niun modo accettasse tale impresa, che dovea bastargli, che da privato Conte, Iddio gli avea fatta grazia di dargli la possessione di questo Regno, nel quale era più savio consiglio stabilirsi in tutto, e cacciarne i nemici, che lasciare a costoro comodità, che potessero cacciarne lei ed i figli, mentre egli andava a spogliare quella povera fanciulla del Regno paterno, ad istanza di gente infedele e spergiura, la quale non avendo osservata fede alla Regina loro, figliuola di un Re tanto amato, e benemerito di quel Regno, non era da credere, che avessero da osservare fede a lui. All'incontro Re Carlo vedendosi ora in prospera fortuna, poichè di due nemici, che avea nel Regno, il Re Luigi era morto, e Papa Urbano fuggito, e considerando ancora, che per la puerizia de' figliuoli del Re Luigi, avrebbe tempo d'acquistare quel Regno, senza timore di perdere questo; finalmente si risolse di partire, ed a' 4 di settembre si pose in via con pochissima gente; per due cagioni, l'una per non volere mostrare agli Ungheri, che egli volesse venire ad acquistare il Regno per forza d'arme, ma solo per buona loro volontà; e l'altra per lasciare più gagliarda la parte sua contra quella del Re Luigi: ed imbarcato a Barletta, con felice navigazione arrivò in sei dì in Zagrabia, dove il Vescovo l'accolse con grandissima magnificenza, e si fermò là per alcuni dì, per far intendere agli altri Baroni della conspirazione la sua venuta, a tal che più scovertamente e senza rispetto, si movessero contra la Regina e con lettere a diversi amici suoi, ch'erano ancora sotto la fede della Regina, si sforzò d'ampliare il numero de' parteggiani suoi, con promesse non solo a loro, ma a tutto il Regno di rilasciare i tributi, e concedere nuovi privilegi, e far indulto a tutti i fuorusciti. E già con quest'arte in pochi dì gli parve d'aver guadagnato tanto, che potesse senza fatica andare a coronarsi Re, perchè non si vedea essere rimasti altri dalla parte della Regina, che il Bano di Gara; onde si mosse ed andò verso Buda.
Queste cose erano tutte notissime alla regina Elisabetta vecchia, ed al Re Maria, onde con molta prudenza mandarono subito per lo sposo, e fecero celebrare le nozze tra Sigismondo e Maria, dubitando, che re Carlo per agevolare più l'acquisto del Regno, pubblicasse da per tutto, che non veniva per cacciare il Re Maria dal Regno, ma per darla per moglie a Ladislao suo figliuolo Duca di Calabria, con la quale arte avrebbe senza dubbio tirato a se tutto il resto dei partigiani occulti del Re Maria, i quali per non volere Sigismondo Boemo, sarebbonsi più tosto contentati di lui; ma celebrate che furono le nozze, Sigismondo ch'intendea, che il re Carlo se ne veniva a gran giornate, se ne andò in Boemia.
La fama di queste nozze dispiacque molto a Re Carlo, perchè giudicava, che l'imperator Carlo IV[248] padre di Sigismondo non avrebbe mai sofferto, che il figlio fosse cacciato insieme colla moglie dal Regno, debito a loro, senza fare ogni sforzo di cacciarne lui; ma le due Regine dopo la partita di Sigismondo con grandissima arte dissimulando, mandarono a Re Carlo a dimandargli se veniva come parente o come nemico, perchè venendo come parente avrebbero fatto l'ufficio, che conveniva, nell'andargli incontro, e nel riceverlo con ogni dimostrazione di amorevolezza; se come nemico, il che non credevano, sariano venute a pregarlo come donne infelici ed abbandonate, che avesse loro qualche rispetto, non già per lo parentado, ma per non aver mai avuto da loro nè in fatti nè in parole offesa alcuna. Re Carlo dissimulando rispose, ch'egli veniva come fratello della Regina, la quale avea inteso in quanti travagli stava per le discordie del Regno, perch'egli era tanto obbligato alla memoria di Re Lodovico suo benefattore, che avea pigliata questa fatica di lasciare il Regno suo in pericolo, per venire ad acquietare le discordie e pacificare il Regno d'Ungaria, che potesse quietamente ubbidire al Re Maria, e che però l'una e l'altra stessero con l'animo quieto; e con questa risposta credendosi, che le Regine la credessero, andò in Buda con miglior animo, pensando che ancora l'Imperadore credendolo, non si movesse a richiesta delle due Regine a disturbare il suo disegno. Ma le Regine, ancorchè non si fidassero a tal risposta, vedendo che non potevano resistere con aperte forze, deliberarono guerreggiare con arti occulte, e dimostrando allegrezza della venuta del Re, come fratello, fecero apparecchiare nel castello una gran festa ed uscirongli incontro con grandissima pompa, con tanta dissimulazione, che veramente non pure Re Carlo, ma tutti gli Ungheri credevano, che stessero in quell'errore, e che quelle accoglienze fossero fatte non meno con l'animo che con l'apparenza; e per questo Carlo, quando le vide, discese da cavallo ad abbracciarle, e quando furono insieme entrati in Buda, per mostrare più modestia, non volle andare ad alloggiare in castello, ma ad un palazzo privato della città, fin che si fosse trovato modo di farsi pubblicare per Re. Il dì seguente entrato nel castello a visitare le Regine, furono con pari dissimulazione replicate le accoglienze vicendevolmente ed i ringraziamenti; e così in apparenza credeano ingannare l'uno l'altro; ma l'uno e l'altro stava sospetto e tenea secrete spie di quel che si facea.
Niccolò Banno di Gara fidelissimo servidore delle Regine, che conoscea, che tutto quel male era nato per cagion sua, non si partiva mai da loro, avendo cura, che nella guardia reale fossero tutte persone fidelissime, a tal che non fosse fatta forza alcuna. All'incontro Re Carlo facendosi chiamare Governador del Regno, stava aspettando il modo ed il tempo di occuparlo e d'entrare nel castello; e dall'altra parte le Regine si guardavano quanto più potevano. Ma da questa guardia delle Regine nacque più tosto comodità a Carlo che impedimento, perchè vedendosi dal volgo, che le Regine erano poco corteggiate, perchè le guardie non lasciavano entrare se non pochissimi personaggi; vennero subito in dispregio, e tutte le faccende si facevano in casa del Governadore; e per questo quelli, che si trovavano aver chiamato Re Carlo, andavano sollevando la plebe, con dire che il governo de' Regni non sta bene a donne, che son nate per filare, e per tessere, ma ad uomini valorosi e prudenti, che possono in guerra ed in pace difendere, ampliare e governare le nazioni soggette; e con queste e simili esortazioni commossero a grandissimo tumulto il Popolo; onde le Regine timide, non solo si teneano in pericolo di perdere il Regno, ma anche la vita. Comparvero Intanto alcuni Vescovi e Baroni veramente fautori di Carlo, e sotto spezie di volere acquietare il tumulto promisero alla plebe di voler trattare dell'elezione del Re; nè essendo per anche finito il tumulto, Re Carlo sotto colore di temerlo, entrò nel castello, e trovando sbigottite le guardie, lasciò in luogo loro alcuni Italiani, ch'erano venuti con lui: e salito alle Regine, disse loro, che stessero di buon animo; e poco da poi ritornato nel suo palazzo, trovò ch'era stato gridato Re dalla plebe, e confermato da molti Baroni, anzi da tutti, parte con parole, e parte con silenzio, perchè quelli ch'erano dalla parte del Re Maria, per timore del Popolo non ebbero ardire di contraddire; onde volle che si mandasse da parte di tutti i Baroni, Prelati e Popolo, uno, che dicesse al Re Maria, come per beneficio del Regno, che non potea essere ben governato da donne, aveano eletto nuovo Re, e comandavano, che ella lasciasse il Regno e la Corona, nè volesse contrastare alla volontà universale di tutto il Regno.
Le povere Regine a questa imbasciata per un pezzo restarono attonite; ma poi il Re Maria generosamente rispose: Io mai non cederò la Corona ed il Regno mio paterno; ma voi seguitate quella via, che avete presa, ch'io se non potrò contrastare spero, che quando vi pregherò per la memoria di Lodovico mio padre, che mi vogliate lasciare andare in Boemia a ritrovare mio marito, non sarete tanto discortesi, che avendomi levato il Regno ereditario, mi vogliate ancora levare la libertà, e questo poco d'onore, che vi cerco per ultimo ufficio della fedeltà, che mi avete giurata, della quale siete tanto poco ricordevoli. Ma la Regina Elisabetta per risarcire la risposta della figlia, più generosa di quel che il tempo richiedeva, pregò colui, che venne a far loro l'imbasciata, che rispondesse ai Signori del Consiglio, che poichè le donne sono in questo imperfette, che non possono, o senza molto pensare, o senza consiglio risolversi nelle cose di tanta importanza, gli pregavano, che dessero loro tempo di rispondere; e partito che fu, si levò un pianto da loro e da tutte le donne ed uomini della Corte, che s'udiva per tutta la città, per la quale ancora molte persone discrete, e da bene andavano meste, che parea, che fosse spenta la memoria di tanti e sì grandi beneficj ricevuti, e che Iddio ne mostrerebbe miracolo contro il Regno, che sopportava tanta scelleratezza. Ma tornando nuova imbasciata al castello a dimandare alle Regine la corona, e lo scettro, la Regina Elisabetta saviamente confortò la figlia, che poichè col contrastare non potean far altro effetto, che porre ancora in pericolo le vite loro, volesse cedere ed uscire del castello, avanti che il Popolo furibondo venisse a cacciarle: ammonendola, che Dio vendicatore delle scelleraggini l'avrebbe per qualche via sollevata, e ricordandole del costume efferato degli Ungheri, che un dì per furia sono crudelissimi e ferocissimi animali, e l'altro, mancata la furia, sono vili pecore, e come non pensano a quel che fanno, si pentono spesso di quel che hanno fatto: pigliata la corona andò a visitare Re Carlo, lasciando la figlia in amarissimo pianto; ed essendo ricevuta da Carlo con grand'onore, cominciò a dirgli queste parole: Poich'io veggio il Regno d'Ungaria, per l'aspra e crudele natura degli Ungheri, impossibile ad essere ben governato per mano di donne, ed è volontà di tutti, che mia figlia ne sia privata, io l'ho confortata, e per l'autorità, che ho con lei, come madre le ho comandato, che ceda alla volontà loro ed alla fortuna, ed ho piacere, che sia più tosto vostro, che discendete dalla linea di Re Carlo, che di altri; ma almeno vi priego, che ne lasciate andare in libertà. Il Re rispose cortesissimamente, che stesse di buon animo, che avrebbe lei in luogo di madre e la figliuola in luogo di sorella, e ch'era per contentarle di quanto desideravano, e fu tanta la prudenza e la costanza di questa donna, e seppe si ben dissimulare l'interno dolor suo e della figlia, che per la città si sparse fama, che di buona voglia avessero rinunziato il Regno al Re Carlo lor parente; e l'istesso Carlo ancora in questo ingannato, mandò a convitarle alla festa dell'Incoronazione, che avea da farsi in Alba, e le donne con mirabile astuzia vi andarono insieme con lui, come fossero esse ancora partecipi della festa, e non condotte là per maggior dolore e più grave loro scorno.
Venuto il dì della Coronazione, Re Carlo posto nella sedia regale, fu coronato dall'Arcivescovo di Strigonia, di cui è particolar ufficio coronar coloro, che i Baroni, Prelati e' Popoli eleggono per Re; e quando fu a quella cerimonia di voltarsi dal palco, e dimandare tre volte a' circostanti, se volevano per Re Carlo, quanto più alzava la voce, tanto con minor plauso gli veniva risposto, perchè in effetto la terza volta non risposero, se non quelli che aveano proccurata la venuta di Carlo; e senza dubbio la presenza delle due Regine commosse a grandissima pietà la maggior parte della turba, e massimamente quelli, che più si ricordavano dell'obbligo, che tutto il Regno avea alle ossa del Re Lodovico; e si conobbe subito un pentimento universale tra coloro, ch'erano condescesi alle voglie de' fautori di Carlo, ed un raffreddamento negli animi d'essi fautori, tanto più che successe una cosa, presa per pessimo augurio, che finita la Coronazione, volendo Re Carlo tornare a casa, colui, che portava innanzi, com'è solito, la bandiera, che fu di Re Stefano (quegli che per le virtù sue fu canonizzato per Santo) non avendo avvertenza nell'uscire della porta di abbassarla, la percosse nell'architrave della porta della chiesa; e com'era per vecchiezza il legno e la bandiera fragile, si ruppe e lacerò in più parti: e da poi nel dì medesimo, venne sì grave tempesta di tuoni e di venti, che gl'imbrici delle case andavano volando per l'aria, e molte case vecchie e debili caddero con grandissima uccisione; ed a questo s'aggiunse un altro prodigio, ch'una moltitudine infinita di corbi entrarono con strepito grandissimo nel palazzo reale, che fu una cosa molestissima a sofferire, massimamente non potendosi in niun modo cacciare, e per questo stavano gli animi di tutti quasi attoniti; del che accorto Re Carlo cominciò a dimostrare di farne poca stima, e di dire, che queste erano cose naturali, e l'averne paura era ufficio femminile.
Le due Regine ridotte nel castello non aveano altro refrigerio, che i buoni ufficj di Niccolò Bano di Gara, il quale con grandissima divozione fu loro sempre appresso, confortandole e servendole; e perchè già s'accorgevano del pentimento degli Ungheri, e della poca contentezza, che s'avea della coronazione di Re Carlo, cominciarono a rilevarsi d'animo; e ragionando un dì il Re Maria e la madre a Niccolò del modo, che potea tenersi di ricovrar la perduta dignità e '1 Regno, Niccolò disse loro, che quando a loro piacesse avrebbe fatta opera, che Re Carlo fosse ucciso: queste parole furono avidamente pigliate dalle due Regine, e ad un tempo risposero, che non desideravano cosa al mondo più di questa: e Niccolò pigliando in sè l'assunto di trovar l'omicida, diede a loro il carico di adoperarsi, che 'l Re venisse in camera loro, e mentre egli attese a far la parte sua, le Regine con la solita dissimulazione trovarono ben modo d'obbligare il Re a venire all'appartamento loro, perchè la Regina Elisabetta disse, che avrebbe fatta opera, che Sigismondo sposo della figliuola avesse ceduto, come avean esse ceduto al Regno, purchè il Re con alcuni non gravi patti ne avesse mandata la moglie in Boemia; e poichè Re Carlo ebbe inteso con molto suo piacere questo pensiero della Regina, la ringraziò molto, e la pregò, che conducesse questo trattato a fine, ch'egli era per conceder, non solo, che se n'andasse la Regina giovane al marito, ma che si portasse ancora tutti i tesori reali, occulti, e palesi: e dopo alcuni dì, avendo Niccolò trovato un valentissimo uomo chiamato Blasio Forgac, persona intrepida, che avea accettata l'impresa d'uccidere il Re, e condottolo nel castello, avendo ad una gran quantità de' suoi confidenti ordinato, che venissero parte nel castello e parte restassero fuori con armi secrete; le Regine mandarono a dire al Re, che aveano lettere da Sigismondo piene d'allegrezza, e 'l Re, che non desiderava altro, si mosse ed andò subito alla camera loro, e posto in mezzo nel tempo, che volevano mostrargli la lettera, entrò Niccolò sotto specie di volere invitare il Re, e le Regine alle nozze di una figlia sua, e con lui entrato Blasio, il quale subito con una spada ungara diede una ferita al Re in testa, che gli calò fino all'occhio. Il Re gridando cadde in terra; e gl'Italiani che 'l videro caduto, e versare una grandissima quantità di sangue, pensarono tutti a salvarsi; in modo, che Blasio non ebbe alcuna fatica per ponersi in sicuro, perchè subito concorsero i parteggiani di Niccolò, e se n'uscì dal castello colla spada insanguinata; e Niccolò accortosi della paura della guardia del Re, e degl'Italiani, senza contrasto pose le guardie al castello di persone tutte affezionate alle Regine. Poichè il Re fu ridotto ferito alla camera sua, e si conobbe dagli Italiani non essere speranza alcuna alla vita sua, cominciarono a fuggire e salvarsi col favore di alcuni Ungheri, che aveano tenuta la parte del Re Carlo; la notte poi grandissima moltitudine, non solo de' cittadini di Buda, ma delle ville convicine, concorsa al rumore di sì gran fatto, cominciò a gridare: Viva Maria figlia di Lodovico, viva il Re Sigismondo suo marito, e mora Carlo tiranno, e traditori seguaci suoi: e col medesimo impeto saccheggiarono le case di quanti mercanti Italiani erano in Buda. Le Regine allegre fecero portare il Re Carlo così ferito a Visgrado, simulando di fargli onore, con mandarlo a seppellire dove era solito di seppellirsi gli altri Re d'Ungaria, e sono alcuni che dicono, che per non aspettare che morisse della ferita lo fecero, o avvelenare o affogare, perchè s'intendea, che Giovanni Banno di Croazia, Capo de' fautori di Carlo, con gran numero di valenti uomini veniva a favore del Re per farlo governare. Il corpo del Re, poichè fu morto, fu condutto a seppellire alla chiesa di S. Andrea com'era costume di seppellire gli altri, ma poco da poi venne ordine da Papa Urbano, che fosse cavato da chiesa, essendo morto scomunicato e contumace di Santa Chiesa.
Questo fu il fine di Re Carlo III di Durazzo, del quale si potea sperare, che avesse da riuscire ottimo Principe, se non s'avesse fatto accecare dall'ambizione, e si fosse contentato di possedere quel Regno, che con qualche colorato titolo parea che possedesse. Fu, secondo che narra Paris de Puteo[249], di sua persona valoroso, anzi valentissimo ed amatore de' Letterati, ancorchè nel Regno suo torbido e fluttuante pochi ne fiorissero, affabilissimo con ogni persona e molto liberale; solo fu tacciato di crudeltà ed ingratitudine verso la Regina Giovanna e le cognate sorelle della moglie, del che solamente potea scusarlo la gelosia del Regno. Di lui non abbiamo leggi, che si lasciasse, come gli altri Re suoi predecessori. Visse anni quarantuno, e regnò in Napoli anni quattro e cinque mesi, da agosto 1381 fin a' 6 febbraio 1386. Lasciò di Margarita sua moglie due figliuoli, Giovanna già grandetta, e Ladislao ch'era di dieci anni.
CAPITOLO III. Di Re Ladislao e sua acclamazione. Nuovo Magistrato istituito in Napoli. Guerre sostenute col Re Luigi II d'Angiò competitore di Ladislao.
Giunta in Napoli l'infelice novella della morte di Re Carlo, la Regina Margarita, ancorchè per qualche tempo proccurasse tenerla occulta, nulladimanco, essendo poi venuta a Roma a Papa Urbano, non potendo ella celarla più, la pubblicò alla città; e con dimostrazione d'infinito dolore celebrò l'esequie, essendo rimasta vedova di trentotto anni ed afflitta, per la poca età del figlio, e per lo timore degli nemici. Furono molti, che le persuasero, che facesse gridare se stessa per Regina, poichè il Regno apparteneva a lei, come nipote carnale della Regina Giovanna I. Ma vinsero quelli che le persuasero, che facesse gridare Re Ladislao suo figlio, col dubbio che il Papa non avesse potuto dire, che la Regina Giovanna non potea trasmettere agli eredi il Regno, essendone stata privata in vita per sentenza, come scismatica. Fu per tanto gridato a' 25 febbraio 1386 per tutta Napoli Re Ladislao, che avea poco più di dieci anni; e la Regina la prima cosa che fece, mandò per Ambasciadore al Papa Antonio Dentice, per mitigarlo, supplicandolo umilmente, che con l'esempio di colui, del quale era Vicario in terra, volesse scordarsi dell'offese del padre, e pigliare la protezione dell'innocente fanciullo, prendendosi quelle Terre del Regno, ch'e' volesse, per darle a' suoi parenti. Il Papa parte mosso a pietà, parte sazio d'aver veduto morto Re Carlo, e parte per disegno di poter disporre di gran parte del Regno, rispose, fuor della natura sua, benignamente, e creò Gonfaloniero di Santa Chiesa Ramondello Orsino, e per un Breve Appostolico gli mandò a comandare che pigliasse la parte del Re Ladislao, e per lo Vescovo di Monopoli suo Nunzio gli mandò ventimila ducati, acciocchè potesse assoldare più genti di quelle che tenea, e con questo la Regina restò alquanto confortata.
Ma Margarita, come donna poco esperta ad un governo tale ed a tal tempo, essendo a lei detto dai suoi Ministri, che le maggiori armi e forze per mantener i Regni sono i danari, avea cari più degli altri quei Ministri, che più danari facevano, senza mirare, se gli facevano per vie giuste o ingiuste, nè dava udienza a coloro che venivano a lamentarsi. Oltra di ciò, avea abbracciata tanto volentieri, ed impressasi nella mente così tenace l'opinione di far danari, che le erano sospetti tutti coloro, ch'entrassero a consigliarla altramente, senza por mente alle persone, se fossero di autorità, e se fossero affezionate alla parte sua. A questo aggiunse di più, che trovandosi aver fatta mala elezione de' primi Uffiziali, e creando poi gli altri a relazione e voto de' primi, quelli non proponevano se non persone dependenti da loro, mirando poco se fossero abili o inabili, onde perderono ogni speranza i Dottori e gli altri uomini prudenti e di giudizio, di potere avere parte alcuna ne' Governi e negli altri Ufficj; e quindi ogni dì si vedean fatti mille torti tanto a' cittadini quanto a' nobili. Per questo i cinque Seggi uniti col Popolo deliberarono di risentirsi, e crearono un nuovo Magistrato che fu chiamato degli Otto Signori del Buono stato, che avessero da provedere, che da' Ministri del Re non si avesse a far cosa ingiusta. Questi otto furono Martuccello dell'Aversana per Capuana, Andrea Carafa per Nido, Giuliano di Costanzo per Portanova, Tuccillo di Tora e Paolo Boccatorto per Montagna e per Porto, Giovanni di Duca, nobili, ed Ottone Pisano, e Stefano Marsato popolani, i quali cominciarono con grandissima autorità ad esercitare il loro Magistrato, andando ogni dì un di loro a' Tribunali, a vedere quel che si facea, affinchè non fosse fatto torto ad alcuno. Talchè in breve parve, che fossero più temuti essi dagli Ufficiali, che gli Ufficiali dal resto della città; nè perchè la Regina col suo Supremo Consiglio facesse ogni sforzo, bastò ad abolire tal Magistrato; onde entrò in grandissimo timore di perdere Napoli, come in breve succedette.
Intanto la Regina Maria vedova del Re Luigi I e madre del picciolo Re Luigi, avendo la protezione di Clemente, era presso il Papa in Avignone a proccurare l'investitura, e lo ristabilimento del suo figliuolo nel Regno, e stante la minorità del medesimo, erasi dichiarata sua governatrice e balia; ma Clemente che non meno degli altri suoi predecessori, pretendeva il Baliato appartenere alla Sede Appostolica, non volle darla, se prima non si pensava il modo da tenere, per togliere questa difficoltà: onde concertato l'affare coi Cardinali e Ministri della Regina, fu risoluto, che la Regina Maria in pubblico Concistoro dimandasse al Papa ed al Collegio il Baliato, siccome fu fatto, e Clemente assentì; da poi il Re e la Regina diedero il giuramento di fedeltà ed omaggio, ed il Papa investì Luigi del Regno, dandogli in segno dell'investitura lo stendardo, e ne gli spedì Bolla nel mese di maggio dell'anno 1385[250].
La fazione Angioina riconoscendo altro Papa ed altro Re, e fra gli altri Tommaso Sanseverino Gran Contestabile, e Capo della parte Angioina, e della famiglia sua, subito che intese la disposizione in cui stava la città di Napoli, si usurpò il titolo di Vicerè per parte di Luigi II Duca d'Angiò ch'era assente, e convocò un Parlamento per lo ben pubblico ad Ascoli, nel quale vennero tutti i Baroni che aveano seguita quella parte, e con l'esempio di Napoli che avea creati gli Otto del Buono stato della Città, furono eletti in quel Parlamento sei Deputati per lo Buono stato del Regno. Questi furono Tommaso suddetto, Ottone Principe di Taranto, Vincislao Sanseverino Conte di Venosa, Niccolò di Sabrano Conte d'Ariano, Giovanni di Sanframondo Conte di Cerreto, e Francesco della Ratta Conte di Caserta. Nel Parlamento fu anche conchiuso, che avessero tutti i Deputati da unirsi a Montefuscolo con tutte le forze loro, e così fu fatto, perchè due mesi dopo il Parlamento comparvero tutti, e fatto un numero di quattromila cavalli, e duemila fanti, vennero a tentare Aversa, e non potendola avere, vennero a porre il Campo due miglia lontano da Napoli; e mandarono Pietro della Mendolea in Napoli a tentar gli animi degli Otto del Buono stato, ed a sollecitargli che volessero rendere la Città a Re Luigi II d'Angiò, erede della Regina Giovanna I. Gli Otto risposero che non erano per mancare della fede debita al Re Ladislao, ed andarono subito a trovar la Regina, e ad offerirsi d'intervenire alla difesa della città. La Regina adirata, lamentandosi, che tutto quel male era cagionato dal governo loro, stette in punto di fargli carcerare; ma se n'astenne per consiglio del Duca di Sessa, che allora era in Napoli e lor disse, che attendessero a guardar bene la città, perchè verrebbe presto il Confaloniere della Chiesa, ch'era al Contado di Sora a far genti per soccorrerla. Pietro ch'era stato in Napoli due giorni, se ne ritornò al campo con la risposta degli Otto, e disse che Napoli non poteva tardar molto a far novità perchè avea lasciata la plebe alterata, ed i padroni delle ville dolenti di non poter uscire a far la vindemia. Nè fu vano il pronostico, perchè fermandosi il campo dove stava, ad ogni ora correvano i villani ad annunziare a' padroni delle ville i danni che facevano i soldati agli arbusti; onde a' 20 settembre si mossero alcuni cittadini, ed andarono a S. Lorenzo a trovare gli Otto, e far istanza che provvedessero: questi davan loro parole e speranza che fra breve verrebbe il Confaloniere coll'esercito del Papa a liberargli; ma il Popolo minuto che a que' dì soleva uscire per le ville, e portarne uve ed altri frutti, vedendosi privo di quella libertà in tempo che più ne avea bisogno, corse con gran tumulto a S. Lorenzo, e, prese l'armi, sarebbe trascorso a far ogni male, se accorsi da una parte molti Cavalieri e Nobili in difesa degli Otto, e dall'altra interpostisi alcuni gentiluomini vecchi e popolani di rispetto e prudenti, non avessero sedato il rumore. Questi ponendosi in mezzo fra la plebe ed i nobili, cominciarono a trattare con gli Otto il modo d'acquetar il tumulto, ed infine gli Otto temendo che la plebe non corresse ad aprire la porta del mercato a' Deputati del Regno, vennero a contentarsi di trattar una tregua che i cittadini potessero uscire per le loro ville, ed i soldati de' Deputati potessero a trenta insieme entrare nella città, per quel che loro bisognava.
La Regina, che per l'odio che portava agli Otto, avea avuto piacere di questo tumulto, con isperanza, che la plebe gli avesse tagliati a pezzi, ebbe dispiacere quando intese, che n'era uscita questa tregua, per la quale tutti que' del suo Consiglio diceano che Napoli potea tenersi per perduta; onde per darci qualche rimedio operò, che l'Arcivescovo Niccolò Zanasio, che al Bozzuto era succeduto[251], l'Abate di S. Severino, ed alcuni altri Religiosi cavalcassero per la città, sollevando un'altra volta la plebe, con dire, ch'era vergogna, che un popolo così cristiano ed amato tanto da Papa Urbano vero Pontefice, sopportasse, che praticasser per Napoli i soldati dell'Antipapa scismatico; e mentre andavano predicando con simili parole, alcuni nobili di Portanova cominciarono a riprendergli, con dir loro, ch'era ufficio di mali Religiosi andar concitando sedizioni e discordie, e massimamente ad un popolo, al quale essendo una volta tolto il freno, poi non se gli può agevolmente riporre; e rispondendo l'Arcivescovo superbamente, e più gli altri, ch'erano con lui, fidandosi all'Ordine Sacro furono alcuni di loro malamente conci e feriti. Ma due dì da poi, essendo venuto avviso alla Regina che Ramondello veniva con molta gente, i Ministri della Regina senza fare stima degli Otto, si armarono con tutti coloro, ch'erano della fazione di Durazzo, sotto pretesto di voler cacciare i soldati, ch'erano entrati; ma poi corsero alle case d'alcuni Cavalieri, ch'erano reputati affezionati alla parte Angioina, i quali, prese l'armi, cominciarono gagliardamente a difendersi: gli Otto mandarono subito a dire all'una e all'altra parte che posassero l'armi, e non meno da questo comandamento, che dalla notte, che sopravvenne, la zuffa fu divisa. Ma il dì seguente essendo giunto l'avviso, che Ramondello era a Capua, gli Otto e quelli della parte Angioina temendo d'essere sterminati, mandarono a dire a Tommaso Sanseverino, che trasferisse il Campo alle Correggie, dove la sera venne. Vennero ancora in questo tempo di Provenza due galee, mandate dal Re Luigi con venticinquemila ducati per la paga de' soldati; il che inteso dalla Regina Margarita, si partì dal castel dell'Uovo, ove erasi ritirata, e disperando dello stato del figliuolo, se ne andò a Gaeta che fu a lei, ed a Ladislao sempre fedele, dove durando queste guerre, stette per tredici anni. Ma appena giunto la sera il campo nemico alle Correggie, la mattina seguente all'alba venne Ramondello, ed entrò come nemico nella città per la porta Capuana, che gli fu subito aperta, perchè la città fin a quell'ora stava nella fede del Re Ladislao, e fece gridare: Viva Urbano, e Re Ladislao. Gli Otto del Buono stato con la maggior parte de' Nobili, stavano a Nido armati, gridando: Viva Re Ladislao, e 'l Buono stato. Ma Ramondello, giunto che fu a Nido, diede sopra di essi, e gli ributtò con morte di molti, sin a' cancelli di S. Chiara; allora si mossero que' di Portanova e di Porto, ch'erano della parte Angioina, ed andarono ad aprire Porta Petruccia: onde entrato l'esercito de' Deputati, una parte corse a dar soccorso agli Otto e l'altra con gran furia diede sopra a' soldati di Ramondello, gridando: Viva Re Luigi, e Papa Clemente. Questi cominciando a cedere, obbligarono Ramondello a ritirarsi a Nola, onde la città venne interamente in mano di Tommaso Sanseverino, il quale rimasto vincitore, richiesto dagli Otto del Buono stato, provide con molti banni, che non fosse fatta violenza alle case della parte contraria, e 'l dì seguente fatto salvocondutto a tutti, fece giurare omaggio nella chiesa di S. Chiara in nome di Re Luigi II, del quale si faceva chiamare Vicerè, e lasciando pochi soldati dentro la città, distribuì gli altri per li Casali.
Poichè Tommaso Sanseverino a questo modo ebbe acquistata la città di Napoli, considerando, che non molto tempo potea tenerla contra le forze esterne; propose in un Parlamento de' Baroni della parte Angioina, e de' più nobili e potenti Napoletani, che si dovesse da parte del Baronaggio e della città mandare a Re Luigi ed a Papa Clemente, e far loro intendere, come s'erano ridotti all'ubbidienza loro con più affezione che forza, e ch'era necessario, che mandassero gagliardi ajuti per poter non solo assicurare la parte Angioina, ma ponere affatto a terra la parte della Regina e di Papa Urbano, contra i quali non potrebbero con le forze del Regno molto tempo resistere. Fu subito conchiuso, che si mandasse, e furono eletti più Ambasciadori, i quali navigando felicemente giunsero a Marsiglia, ove ritrovarono Luigi, e lo salutarono per Re, e n'ebbero gratissime accoglienze, e lo sollecitarono, o a venir subito, dov'era con gran desiderio aspettato, o che mandasse supplimento di gente e di danari. Ed essendosi trattenuti alcuni dì, conoscendo in fine, essere quel Signore di natura nell'azioni sue tepido e non così fornito di danari, che se ne potesse aver gagliardo e presto soccorso; andarono ad Avignone a trovar Papa Clemente, dal quale sapevano, che avrebbero migliori recapiti, per togliere l'ubbidienza a Papa Urbano suo nemico. Ebbe Clemente cara molto la venuta degli Ambasciadori, e pigliò molto piacere d'intendere da loro, quanto picciola parte del Regno era rimasta all'ubbidienza d'Urbano, e della speranza gli davano di torgli in breve il rimanente; e poichè in Concistoro pubblico ebbe sommamente lodata la città ed i Baroni, che conoscendo la giustizia della causa, s'erano partiti dall'ubbidienza del Papa scismatico (che così chiamava egli Urbano) ed erano venuti all'ubbidienza sua, ch'era vero e legittimo Papa, e che ricordevoli de' beneficj ricevuti dalla buona Regina Giovanna, avessero eletto di seguire la parte di Re Luigi suo legittimo erede, cacciando l'erede del tiranno ed invasore, che con tanta ingratitudine l'avea privata del Regno e della vita; promise grandissimi e presti ajuti, e che avrebbe fra pochi dì coronato Re Luigi e proccurato, che venisse con grand'esercito nel Regno.
Gli Ambasciadori, ancorchè vedessero con quanta veemenza il Papa avea parlato, pur avendo in quelli dì inteso per lettere, che la plebe di Napoli era impaziente degl'incomodi d'un assedio, e che Papa Urbano e la Regina Margarita si apparecchiavano di mandare ad assediare la città per mare e per terra, ringraziarono il Papa degli aiuti promessi, e lo pregarono, che fosse quanto prima era possibile; ed assicurandoli il Papa, che non avea cosa al Mondo più a cuore di questa, ed avendo ad alcuni di loro concesse riserve di beneficj per parenti loro, si partirono contentissimi. Giunsero costoro verso la fine dell'anno in Napoli e rallegrarono la città, con la speranza dell'apparato, che aveano lasciato, che si faceva in Marsiglia ed in Genova, e con la relazione della liberalità, clemenza e dolcezza de' costumi del Re Luigi, e della prontezza di Papa Clemente: tal che a tutti parea la guerra finita.
Mentre queste cose s'erano trattate in Provenza, dall'altra parte Ramondello Ursino e la Regina Margarita facevano ogni forzo per impedire a Napoli i viveri, acciocchè per fame la città dovesse rendersi; ma per la vigilanza del Sanseverino, liberata la città di questo timore, ed essendo giunte a Napoli alcune galee di Provenza, mandate da Papa Clemente con trentamila scudi d'oro per paga dell'esercito, e provista Napoli di vettovaglie; la Regina, disperata di non averla per fame, se ne ritornò a Gaeta. Pochi dì da poi che la Regina fu ritornata a Gaeta, giunse l'armata provenzale in Napoli, ed in essa venne con titolo di Vicerè e di capitan generale Monsignor di Mongioja, e da' Napoletani e da tutti coloro, che nel Regno seguivano la parte Angioina, ne fu fatta grand'allegrezza; non considerando quel che n'avvenne; poichè per la sua alterigia fu più tosto cagione di turbare che di stabilire il Regno al Re Luigi. Perchè Tommaso Sanseverino restò offeso, che il Re non gli avesse mandata la conferma di Vicerè, e per disdegno se n'andò alle sue terre, e pochi dì da poi trattando il Mongioja col principe Ottone, non con quel rispetto, che conveniva a tal Signore per la nobiltà del sangue, per essere stato marito d'una Regina, e per la virtù e valor suo nell'arme: il Principe si partì con le sue genti, e se n'andò a Santa Agata de' Goti. I Signori del Buono stato uniti andarono a ritrovare il Mongioja e gli dissero, che il modo ch'egli tenea, farebbe in breve spazio perdere il Regno, alienando gli animi de' più potenti Signori, e ch'era necessario, che in ogni modo cercasse di placare il principe Ottone: ed ancorchè il Mongioja avesse dato il pensiere ad essi di placarlo, nulladimanco furono inutili tutti i trattati, per li molti patti, che voleva il Principe, i quali non solo al Vicerè, ma a tutt'i Cavalieri parvero soverchi, e non degni d'essere conceduti. E da questo s'accorsero, che il Principe a quel tempo doveva esser in pratica di passarsene alla parte della Regina, il che si confermò poi, perchè si vide, che alzò subito le bandiere di Durazzo. Angelo di Costanzo per questo credette esser vero quel, che in un breve compendio scritto a penna di Paris de Puteo avea letto, che il Principe avea fatto disegno di pigliarsi la Regina Margarita per moglie, e che quella donna sagacissima per tirarlo alla parte sua, glie ne avea data speranza; ma poi con iscusandosi che Papa Urbano non volea dispensarvi, per essere stata la regina Giovanna prima moglie del Principe, zia carnale della regina Margarita, lo lasciò deluso a tempo, che per vergogna non poteva mutar proposito, e seguì fin alla morte quella parte; onde seguirono molte novità, e la parte di Durazzo cominciava ad entrare in isperanza di poter ricuperar Napoli ed il resto del Regno, che si teneva per Re Luigi;
CAPITOLO IV. Nozze tra il Re Ladislao e la figliuola di Manfredi di Chiaramonte. Morte d' Urbano, elezione in suo luogo di Bonifacio IX e venuta del Re Luigi II in Napoli.
Intanto la Regina Margarita, che stava in Gaeta con molti del suo partito, non potendo sopportar l'ozio nel qual parea, che si marcisse la speranza di ricovrar presto Napoli, non pensava ad altro, che a trovar modo di cavar danari per rifar l'esercito, con soldar nuove genti. Ma avvenne, che alcuni mercanti gaetani, ch'erano stati a comprar grani in Sicilia, dissero avanti la Regina gran cose delle ricchezze di Manfredi di Chiaramonte e delle bellezze di una sua figliuola; onde l'animo vagabondo della Regina si fermò col pensiere di mandare a chiedere quella figliuola per moglie al Re Ladislao suo figlio, ch'era già di quattordici anni; e con ciò sia ch'era nelle sue azioni fervida e risoluta, fece chiamare subito il Consiglio e disse, che dopo aver vagato colla mente per tutti i modi, che potessero tenersi per far danari, per rinovar la guerra, non avea conosciuto per certa via, che quella di questo matrimonio, dal quale voleva la ragione, che si potesse aver dote grandissima, e che però voleva mandar in Sicilia a trattarlo. Non fu persona nel Consiglio, che non laudasse la prudenza della Regina, e con voto ed approvazione di tutti, furono eletti il conte di Celano e Bernardo Guastaferro di Gaeta, per andare a trattare il matrimonio in Sicilia: il Conte, perch'era Signore ricco e splendido, e conduceva seco famiglia onorevole, e Bernardo per esser Dottor di legge ed uomo intendente. Questi con due galee partiti da Gaeta, il quarto dì giunsero felicemente in Palermo. Era Manfredi di Chiaramonte di titolo Conte di Modica, ma in effetto Re delle due parti di Sicilia, perchè per la puerizia del Re, e per la discordia de' Baroni avea occupato Palermo e quasi tutte l'altre buone terre dell'isola, avendo acquistato con le forze sue proprie l'isola delle Gerbe, dalla quale traea grandissima utilità, non solo per lo tributo, che gli pagavano i Mori, ma per l'utile che traeva dai mercatanti, che avean commercio e trafichi in Barberia; ed essendo di natura sua splendido e magnanimo, con grandissima pompa accolse gli Ambasciadori; e poichè ebbe inteso la cagione della lor venuta, la gran virtù e valore della Regina Margarita, la grande aspettativa, che si potea tenere del piccolo Re Ladislao, e la certezza di cacciare gli nemici del Regno, avendosi aiuto di danari, restò molto contento, vedendosi non solo offerta occasione di far una figlia Regina d'un ricchissimo Regno, ma di potere sperare coll'aiuto del genero di occupare il rimanente dell'isola, e farsi Re; strinse egli per tanto senza molto indugio il matrimonio; ed ancorchè i Napoletani facessero ogni sforzo per impedirlo, Manfredi non volle muoversi dalla determinazione ch'avea fatta; onde giunto in Palermo Cecco del Borgo, Vicerè del Re Ladislao, a condurne la sposa, Manfredi gli consegnò la figliuola Costanza, ed in compagnia di lei mandò alcuni suoi parenti con quattro galee, ed oltre alla ricca dote, le diede gran copia d'argento lavorato, gioie e tapezzerie. Partiti da Palermo con prospero vento arrivarono in pochi dì a Gaeta, dove la Regina ed il Re accolsero la sposa con grandissima allegrezza e con feste splendidissime, che furono per molti dì continovate.
Finite appena le feste, venne una maggior felicità a Ladislao, perchè morì Papa Urbano, che per lui era inutile; poichè per la sua natura bizzarra e ritrosa, era odiato non men dal Collegio, che da tutti i popoli di sua ubbidienza; ed avendo fatto morire molti Cardinali, ed altri privati del Cappello per diversi sospetti, non poteva attendere ad altro, che a guardarsi dalle congiure, che temeva fossero fatte contra di lui. Morì Urbano nel 1389, e fu creato in suo luogo il Cardinal Pietro Tomacello, e chiamato Bonifacio IX[252], che come si dirà appresso fu grandissimo protettore del Re Ladislao.
( Ladislao, avuta da Bonifacio l'investitura del Regno, simile a quella data a Carlo suo padre, gli spedì lettere nel 1390 nelle quali, prestandogli giuramento di fedeltà, dichiara, per beneficio della Sede Appostolica possedere il Regno. E Bonifacio mandò lettere ai Napoletani, perchè lo riconoscessero per vero e legittimo Re: siccome nell'anno 1398 conferma la pace stabilita fra Ladislao, e gli Ordini del Regno. Le quali lettere si leggono presso Lunig[253] ).
Lasciò Papa Urbano pochi al mondo che piangessero la sua morte, perchè benchè fosse d'integrità singolare, fu superbo, ritroso ed intrattabile di natura, ed alle volte non sapeva egli stesso quel che si volesse: fu sepolto in Roma in S. Pietro con rustico epitaffio; ma in Napoli nella chiesa di S. Maria la Nuova, nella cappella di Francesco Prignano, presso il sepolcro del B. Giacomo, gli fu eretto un famoso tumulo colla sua statua, che ancor oggi si vede. Il suo successore, che non avea più di 45 anni, fu creato Papa per l'opinione della buona vita; ma subito che fu incoronato, mostrò gran mutazione di vita, ponendosi per iscopo di tutti i suoi pensieri l'ingrandire i fratelli ed i parenti; e perchè potea aspettare gran cose dal Re Ladislao, per le grandi ricchezze degli avversari, che vincendo potrebbe distribuire a' partegiani suoi, deliberò d'incominciare a favorirlo, ed accolse benignamente Ramondo Cantelmo conte d'Alvito e Goffredo di Marzano conte d'Alifi, che vennero da parte di lui e della Regina a dargli l'ubbidienza e visitarlo, e promise di dargli l'investitura del Regno, che non avea potuto ottener mai da Papa Urbano. E pochi dì appresso mandò il Cardinal di Firenze a Gaeta a coronarlo, essendosi l'ottavo dì di maggio del 1390 celebrata la coronazione del Re e della Regina Costanza, e fu letta la Bolla dell'investitura simile a quella che fece Papa Urbano al Re Carlo III. Nel qual dì cavalcò il Re colla Regina per Gaeta, con la corona in testa e con gran solennità.
I Napoletani, vedendo questi prosperi successi del Re Ladislao, mandarono Baldassar Cossa, che poi fu Cardinale e Papa, a Re Luigi in Provenza, a dirgli che le cose comuni stavano in gran pericolo, ed ogni dì andavano peggiorando, per la gran superbia di Monsignor di Mongioja, che avea alienati gli animi di tutti i Baroni e più degli altri, de' Sanseverineschi, i quali tenean tutte l'armi e le forze del Regno, e ch'era necessario che venisse; poichè delle quattro parti del Regno, a quel tempo, tre n'erano sue, che col venire avrebbe mantenute in fede, e tolta la discordia tra' Ministri, poteva sperar in breve cacciar i nemici, ed ottener tutt'il Regno. Per questo ed a persuasione ancora di Papa Clemente, il Re Luigi, il quale nell'anno precedente era stato in presenza del Re di Francia solennemente coronato Re di Sicilia in Avignone[254],[255] raunati venti legni da remo, tra galee e fuste e tre navi grosse, nel mese di luglio si imbarcò in Marsiglia, ed a' 14 d'agosto giunse a vista di Napoli, dove levatasi una grandissima burrasca, a fatica con la galea capitana verso il tardi s'appressò a terra, e scese su 'l ponte ch'era apparecchiato nella foce del fiume Sebeto, ove trovò un numero grande di Nobili e di Popolo con alcuni Baroni, che a quel tempo erano in Napoli, che 'l ricevettero con applauso grandissimo, e cavalcando cominciò a camminare verso Formello, dove trovò gli Eletti di Napoli che gli presentarono le chiavi della città: arrivato avanti la porta, fu ricevuto da otto Cavalieri sotto il baldacchino di drappo ad oro, e passando per gli Seggi della città, creò Cavalieri molti giovani nobili, ed assai tardi tornò al castel di Capuana, avendo colla sua presenza soddisfatto molto a tutta la città, perch'era di bello aspetto, ed atto a conciliarsi l'aura popolare, e che a molti segni mostrava clemenza ed umanità. Il dì seguente tutti cinque i Seggi confermarono il giuramento dell'omaggio, fatto in mano di Tommaso Sanseverino allora Vicerè, e poi giurarono i mercatanti ed il Popolo. Cominciarono poi a venire i Baroni, ed i primi furono il Conte d'Ariano di casa Sabrano, Marino Zurlo Conte di S. Angelo, Giovanni di Luxemburgo Conte di Conversano, Pietro Sanframondo Conte di Cerreto, Corrado Malatacca ed altri Signori ed alcuni altri Capi di squadre stranieri che possedevano alcune castella in Regno. Questi condussero più di 1100 cavalli. Ma appresso vennero i Sanseverineschi, che vinsero tutti gli altri di splendidezza, di numero e di qualità di genti; poichè condussero con loro 1080 cavalli tutti in arnese, come se andassero a far giornata, perchè vollero mostrare al nuovo Re, quanto fosse importato alla sua Corona, e quanto potrebbe importare la potenza loro che parve cosa superbissima. Questi furono Tommaso Gran Contestabile, il Duca di Venosa, il Conte di Terra nuova, il Conte di Melito, il Conte di Lauria della medesima casa; venne poi Ugo Sanseverino d'Otranto con Gaspare Conte di Matera ed altri Sanseverineschi, che avean le Terre in quelle province; appresso a costoro vennero i Signori di Gesualdo, Luigi della Magna Conte di Boccino, Mattia di Borgenza, Carlo di Lagni, ed altri Baroni di minor fortuna. Ma d'Apruzzo venne solo Ramondaccio Caldora con alcuni altri di quella famiglia; poichè gli altri ubbidivano tutti al Re Ladislao.
Non voglio tralasciare ciocchè quel gravissimo Istorico Angelo di Costanzo lasciò scritto, in considerando la condizione di questi tempi, paragonandogli coll'età, nella quale compilò la sua Istoria, cioè sotto il Regno di Filippo II, che servirà per maggior nostra confusione e scorno; poichè se questo grave istorico in cotal maniera favella, paragonando que' tempi alla sua età; che dovremo dir noi de' nostri, ne' quali senza paragone i lussi sono infinitamente cresciuti? E' dice che vedendo ne' suoi tempi in ogni altra cosa felicissimi, e Napoli tanto abbondante di Cavalieri illustri, ed atti all'armi, ed all'incontro la difficoltà, che saria di porre in ordine una giostra; e l'impossibilità di poter fare in tutto il Regno mille uomini d'arme di corsieri grossi simili a quelli: stava quasi per non credere a se stesso questo ch'egli scriveva, di tanto numero di cavalli, ancorchè sapesse ch'era verissimo; ed oltrechè l'avea trovato scritto da persone in ogni altra cosa veridiche, l'avea anche veduto ne' registri di que' Re che gli pagavano. Ma tutto ciò, ei dice, dee attribuirsi al variar de' tempi che fanno ancora variare i costumi. Allora per le guerre ogni picciolo Barone stava in ordine di cavalli e di genti armigere, per timore di non esser cacciato di casa da qualche vicino più potente; ed in Napoli i Nobili vivendo con gran parsimonia, non attendeano ad altro che a star bene a cavallo e bene in armi: s'astenevano d'ogni altra comodità: non si edificava, non si spendeva a paramenti, nelle tavole de' Principi non erano cibi di prezzo, non si vestiva con molta pompa, tutte l'entrate consumavansi a pagar valent'uomini, ed a nudrir cavalli. Or per la lunga pace, s'è voltato ognuno alla magnificenza nell'edificare, ed alla splendidezza e comodità del vivere; e si vide la casa, che fu del Gran Siniscalco Caracciolo, il quale fu quasi assoluto padrone del Regno a' tempi di Giovanna II, che essendo venuta in mano di persone, senza comparazione di stato e di condizione inferiore a lui, aggrandita di nuove fabbriche, non bastando a costoro quell'ospizio, ove con tanta invidia abitava colui, che a sua volontà dava e toglieva le Signorie e gli Stati. Delle tappezzerie e paramenti non parlo; poichè già è noto, che molti Signori ne' paramenti d'un paio di camere, hanno speso quello che avria bastato a mantener 200 cavalli per un anno; ed avendo il Costanzo parlato della magnificenza de' Principi, con questo esempio non lascerò di dire anche de' privati, ch'erasi veduto di cinque case di Cavalieri nobilissimi essersene fatta una di un cittadino artista. Tal che si può credere per certo, che se fosse noto agli antichi nostri questo presente modo di vivere, si maraviglierebbono essi, non meno di quel che facciam noi di loro.
Se Angelo di Costanzo, che scrisse nel Regno di Filippo II si maravigliava che ad un semplice artista non bastavano cinque case di Nobili per farne una: che direbbe ora in veggendo che non bastano agli abitatori tutti quegli ampj ed immensi edificj, che, come tante altre nuove città, si sono aggiunti all'antica? e che direbbe se vedesse le tante pompe e fasti di quest'ultima nostra etade, i quali consumano in cotal guisa le rendite, che senza difficoltà si potrebbe mettere in piede una compagnia di cento cavalli? Ma lasciando al giudizio de' Lettori, se sia più laudabile attendere alle arme ed a' cavalli ed agli esercizi d'un rigido ed inclemente Marte, ovvero agli agi ed alla comodità del vivere, ritorneremo là donde siam dipartiti.
Dappoichè il Re Luigi ebbe ricevuto il giuramento dell'omaggio da tutti gli ordini della città e del Regno, fece convocare un Parlamento a Santa Chiara, nel quale Ugo Sanseverino Gran Protonotario del Regno propose, che si dovessero donare al Re mille uomini d'arme, e dieci galee pagate dal Baronaggio e da' Popoli a guerra finita, il che fu subito con gran volontà conchiuso e con grandissimo piacere del Re, perchè trovandosi la Francia a quel tempo afflitta, per le guerre degl'Inglesi, poca utilità traeva dal Contado di Provenza e dal Ducato d'Angiò. Luigi per tanto con buon consiglio cominciò a fornirsi la casa di nobili napoletani e del Regno, ordinando a tutti onorate pensioni, e con questo parve che alleggerisse il peso insolito e nuovamente imposto al Regno, ed acquistò in Napoli gran benevolenza.
Mentre in Napoli e nell'altre parti del Regno si facevan queste cose, la Regina Margarita fece chiamare tutt'i Baroni del suo partito, e mandò a soldare il Conte Alberigo di Cunio, desiderando di tentar la fortuna della guerra, avendo acquistata forza, e dalla dote della nuora, e dal favor del Papa. Convennero subito a Gaeta Giacomo di Marzano Duca di Sessa e Grande Ammirante del Regno, Goffredo suo fratello Conte d'Alifi e Gran Camerlengo, il Conte Alberigo Gran Contestabile, Cecco del Borgo Marchese di Pescara, Gentile d'Acquaviva Conte di S. Valentino, Berardo d'Aquino Conte di Loreto, Luigi di Capua Conte d'Altavilla, Giovanni d'Atrezzo Milanese Conte di Trivento, Giacomo Stendardo, Cola e Cristofano Gaetani, Gurrello e Malizia Carafa fratelli, Gurrello Origlia, Salvatore Zurlo, Florido Latro ed Onofrio Pesce, e trattarono da che parte si dovea incominciare a guerreggiare. Fu risoluto, che si andasse a debellare i Sanseverineschi, che teneano le lor genti disperse per diversi luoghi: e quindi attaccatisi varj fatti d'arme, finalmente i Sanseverineschi ne riportarono vittoria. Per la qual cosa il Castellano di S. Eramo Renzo Pagano, che si teneva ancora per Re Ladislao, avendo intesa questa vittoria, venne in pratica di render il castello al Re Luigi, e seppe ben farlo pagare a caro prezzo, perchè n'ebbe la Bagliva di S. Paolo, l'Ufficio di Giustiziere degli Scolari, la gabella della falanga e la gabella della farina. Ma Andrea Mormile Castellano del Castel Nuovo per molte offerte e grandi, che gli furono fatte, non volle mai rendersi, finchè non fu vinto da estrema necessità, e si rendette senz'altro premio, che la salute sua e dei compagni; e fu dal Re Luigi, quando entrò nel castello, sommamente lodato, non essendovisi trovato da vivere, che per un solo dì. Martuccio Bonifacio Governadore del castello dell'Uovo, ancor egli non potendo più resistere, si rendè con onorati patti. Per così prosperi successi si fecero gran segni d'allegrezza per tutta la città, perchè pareva a tutti, che la guerra fosse finita, nè avendosi nè danno, nè impedimento alcuno, come fino a quel dì aveano avuto dalle castella; e viveasi in Napoli con molta contentezza e benevolenza verso il Re Luigi.
CAPITOLO V. Divorzio del Re Ladislao colla Regina Costanza, e suoi progressi nell'impresa del Regno, che finalmente ritorna sotto il suo dominio.
Il Regno stette alquanti mesi quieto, concedendogli pace, dall'una parte la povertà del Re Ladislao, dall'altra la natura pacifica del Re Luigi. Ma in questo tempo nell'isola di Sicilia succedettero gran movimenti, perchè mancata la linea maschile, per la morte di Federico III, quel Regno era venuto in mano di Maria picciola fanciulla del morto Re d'Aragona, la quale nell'anno 1386 fu da' Baroni Siciliani collocata in matrimonio a Martino figliuolo del Duca di Monblanco, ch'era fratello di Giovanni Re d'Aragona e fu chiamato Re Martino. Questi venendo nell'anno 1390 insieme col padre in Sicilia con una buona armata, e giungendo a quel punto, che morì Manfredi di Chiaramonte, agevolmente ricovrò Palermo, e tutte l'altre Terre occupate da Manfredi; e nacque fama, che 'l Duca di Monblanco padre del Re avesse pratica amorosa con la vedova moglie di Manfredi. La Regina Margarita in Gaeta, o mossa da questa fama per istudio d'onore, o per avere speranza, dando altra moglie al Re suo figliuolo, di aver danari per rinovar la guerra, persuase al medesimo, ch'essendo cosa indegna del sangue e del grado suo, aver per moglie la figlia della concubina d'un Catalano, andasse al Papa, e cercasse d'ottener dispensa di separar il matrimonio; poichè prendendo altra moglie potrebbe aver dote e favore. Il Re per la poca età più inclinato all'ubbidienza della madre, che all'amor della moglie, cavalcò a Roma, dove fu onorevolmente, e con molte dimostrazioni d'amore ricevuto da Papa Bonifacio, ed ottenne non solo la dispensa del divorzio, ma ajuto di buona quantità di danari, per poter rinovar la guerra. Il Papa con nuovo esempio mandò con lui il Vescovo di Gaeta, che celebrasse l'atto del divorzio; e la prima domenica, che seguì dopo il ritorno del Re nel Vescovado di Gaeta, quando il Re fu venuto con la moglie, la quale credea di venir solamente al sacrificio della messa; il Vescovo avanti a tutt'il popolo lesse la Bolla della dispensa, e mosso dall'altare andò a pigliar l'anello della fede dalla Regina Costanza, e lo restituì al Re: e l'infelice Regina fu condotta con una donna vecchia e due donzelle ad una casa privata, posta in ordine a quest'effetto, ove per modo di limosina le veniva dalla Corte il mangiare per lei e per quelle che la servivano; nè fu in Gaeta, nè per lo Regno persona tanto affezionata alla Regina Margarita, che non biasimasse un atto tanto crudele ed inumano, e misto di viltà e d'ingratitudine, che avendola con sommissione cercata al padre pochi anni prima, in tempo della necessità loro, ed avutane tanta dote, l'avesse poi il Re ingiustamente ripudiata, a tempo che la casa e' parenti di lei eran caduti in tanta calamità, che si dovea credere, ch'ella più tosto come Regina potesse ricevergli e sollevargli, che ritornarsene a loro priva della corona e della dote; ma molto maggior odio si concitò contro Papa Bonifacio, per aver dispensato a tal divorzio per ambizione e particolari suoi disegni.
Fatto questo, il Re Ladislao comandò, che la seguente primavera tutti i Baroni si trovassero al piano di Trajetto, perchè essendo già in età di armarsi volea proceder contro a' nemici; ma per la rotta avuta l'anno avanti, stavano tutti i Baroni così mal provveduti, che passò tutt'il mese di giugno innanzi che fossero in ordine, ed appena al fin di luglio si trovarono tutti sotto Trajetto, accampati alla riva del Garigliano: e lasciate ivi le genti, i Baroni vennero in Gaeta a trovare il Re, con cui avendo tenuto parlamento di quello, che fosse da farsi, dopo molti discorsi fu conchiuso che a questa cavalcata non si facesse altra impresa che andare sopra l'Aquila, la quale sola tra le Terre d'Apruzzo mantenea pertinacemente la bandiera angioina; perchè da quella città, ch'era assai ricca, s'avrebbe potuto cavar tanto che nell'anno seguente accrescendo l'esercito, si sarebbero potuto mettere ad impresa maggiore, giacchè non trovavasi allora il Re avere più che 300 cavalli e 1600 fanti. Con questa deliberazione all'ultimo di luglio di quest'anno 1393 il giovine Re armato tutto fuor che la testa, scese insieme colla Regina Margarita al Vescovado alla Messa; e come l'ebbe udita, baciate le mani alla madre che lo benedisse, e con molte lagrime lo raccomandò a' Baroni, cavalcò arditamente sopra un cavallo di guerra bardato, e Cecco del Borgo Marchese di Pescara andò a porgergli il bastone, e gli disse: Serenissimo Re, pigli V. M. il bastone che indegnamente ho tenuto in suo nome molti anni, e priego Iddio che come oggi glielo rendo, così possa ponergli in mano tutti i ribelli ed avversarj suoi. Il Re prese il bastone, e licenziatosi un'altra volta dalla madre, salutando tutti i circostanti, si partì assai desideroso di gloria, tutto disposto a magnanime imprese, tra mille benedizioni del Popolo, che ad alta voce pregava Iddio che gli desse vita e vittoria. Giunto al Campo, la mattina seguente cavalcò con tutto l'esercito, contra il Conte di Sora, e 'l Conte d'Avito amendue di casa Cantelmo, togliendo lo Stato all'uno ed all'altro, perchè non aveano ubbidito all'ordine del Re, ed erano sospetti di tener pratica di passar, dalla parte di Re Luigi. Poi per lo Contado di Celano entrò in Apruzzo, ove fu gran concorso di genti che correan per vederlo e presentarlo, e fuvvi un gran numero di giovani paesani che invaghiti della presenza del Re, si posero a seguir l'esercito a piede ed a cavallo come avventurieri. Gli Aquilani avendo inteso che il Re verrebbe contro di loro, aveano ancora mandato al Re Luigi per soccorso, il quale, benchè avesse promesso di mandarlo, non potea però essere a tempo, perchè bisognava raunar le genti de' Sanseverineschi, ch'erano disperse per più province; onde accomodarono i fatti loro, come poterono il meglio, e pagando quattromila ducati per vietare il sacco ed altre ostilità militari, si rendettero a Ladislao. Avendo questo Principe pigliato spirito per questi primi successi, andò contra Rinaldo Ursino Conte di Manupello, il quale in pochi dì con tutto lo Stato venne in mano del Re. I Caldori si salvarono tutti nel castello di Palena, ed il Re non volendo perder tempo ad espugnargli, se ne scese per la strada dal Contado di Molise, e se ne ritornò a Gaeta, ricco di molte prede e di gran quantità di danari, avuti parte in dono, parte di taglie dalle Terre e da' Baroni contumaci, e diede licenza a tutti i Baroni che ritornassero al loro paese, dicendo loro che stessero in punto per la seguente Primavera. Ma la grave infermità che sopravvenne a Ladislao, mentre già posto in ordine in questo seguente anno 1394 erasi avviato verso Napoli, frastornò i suoi disegni: poichè come fu giunto a Capoa, s'ammalò sì gravemente che per tutto il Regno si sparse fama che fosse morto, e fosse stato avvelenato: pure con grandissimi rimedi guarì, ma restò per tutto il tempo della sua vita balbuziente, onde si differì l'impresa di Napoli e tornossene a Gaeta. Vi fu intanto qualche trattato di pace fra lui e 'l Re Luigi, ma niente fu conchiuso; poichè fu fama che alla poca volontà di Ladislao si aggiungesse anche il consiglio di Papa Bonifacio, perchè non la facesse. Fu perciò con maggiore ardore rinovata la guerra; dal Re Luigi fu investita Aversa, che si teneva per Ladislao, ma la fede degli Aversani, ed il pronto soccorso di Ladislao renderon vani gli sforzi di Luigi: Ladislao liberato dall'obbligo di soccorrere Aversa, andò in Roma a trovar il Papa, da cui sperava d'esser sovvenuto per l'anno avvenire. Fu da Bonifacio onorato e caramente accolto, e molto più ben veduto questa seconda volta: si trattò del modo che si avea da tener in proseguir la guerra; e fu conchiuso che il Papa dasse al Re venticinquemila fiorini, ed il Re all'incontro donò a' fratelli il Contado di Sora e di Alvito, del quale avea spogliato i Cantelmi e la Baronia di Montefuscolo, e molte altre buone Terre, con molta soddisfazione e contentezza di Bonifacio: perchè benchè due anni innanzi Ladislao gli avesse donato il Ducato d'Amalfi e la Baronia d'Angri e di Gragnano, non aveano però potuto averne il possesso, perchè il Ducato era stato occupato da' Sanseverineschi e la Baronia, dopo la morte di Pietro della Corona, Re Luigi l'avea conceduta a Giacomo Zurlo. Con questo esempio alcuni Cardinali più ricchi sovvennero il Re di danari, volendo promesse di terre e di castella per loro parenti, che allora erano possedute da' nemici ed il Re ne fece loro l'investiture. Con questi denari, e con larghe promesse del Papa, Ladislao partì di Roma, ed a' 19 novembre di quest'anno 1394 tornò a Gaeta con gran riputazione, perchè coloro ch'erano stati con lui avean divulgato che i danari che il Re avea avuti dal Papa, fossero assai più di quelli che erano in effetto.
Dall'altra parte il Re Luigi, subito ch'ebbe avviso di questi apparati, mandò Bernabò Sanseverino in Avignone a Papa Clemente a dirgli i grandi aiuti che dava Bonifacio al Re Ladislao, ed a cercargli soccorso, già che per la primavera seguente aspettava guerra gagliardissima per terra e per mare. Ottenne per allora Bernabò da Clemente, che soldasse sei galee e di più una quantità di danari. E questi furono gli ultimi soccorsi che potè dargli; imperocchè questo Papa essendosi impegnato di parola col Re di Francia, il quale studiavasi di toglier lo scisma, di voler entrare in qualche trattato, per proccurare anch'egli la pace della Chiesa; ed avendo l'Università di Parigi dato il suo parere sopra i mezzi più acconci per farlo cessare e proposta la via di un compromesso, quella della cessione de' due contendenti e la convocazione di un general Concilio: Clemente restò molto sorpreso da cotali proposizioni, e tanto più quando seppe, che i suoi Cardinali le riputavano giuste; ciocchè gli cagionò tanta afflizione che ne morì il dì 16 settembre di questo istesso anno 1394[256]. Ma non perciò finì lo scisma: i Cardinali, ch'erano in Avignone, tosto vennero mal grado del Re di Francia all'elezione del nuovo Papa, ed elessero il dì 28 dello stesso mese Pietro di Luna Aragonese Cardinal Diacono del titolo di S. Maria, che fu nomato Benedetto XIII. Questi non meno che 'l suo predecessore, mostrò subito grandissima inclinazione d'aiutare il Re Luigi; e perchè il Governadore di Provenza avea spedite a questo Principe tre galee di nuovo armate con alcuni denari, mandò esso ancora quindicimila altri ducati. Fu per tanto con maggior contenzione da amendue i Re, invigoriti da questi soccorsi d'amendue i Papi, rinovata la guerra, che Ladislao avea portata insino alle porte di Napoli. Ma il valore di questo Principe, ed il favore di Papa Bonifacio, che come in quella interessato insieme co' suoi fratelli non cessava di dargli continui e validi aiuti; ed all'incontro l'animo del Re Luigi più atto agli studi della pace, che all'esercizio della guerra; i rari e piccioli soccorsi, che gli venivano dalla Francia e la poca speranza d'averne maggiori, fecero, che il G. Contestabile del Regno Tommaso Sanseverino riflettesse al pericolo del Re Luigi, e per conseguenza alla irreparabile sua ruina e di tutta la famiglia, se non vi dava provvedimento, persuase perciò al Re, che poichè non potevano secondo si conveniva fortificar la parte loro, volessero fare ogni opera d'indebolire quella degli avversari, aggiungendo, che avea pensato di alienare il Duca di Sessa dal Re Ladislao; il che credea che venisse fatto, quando ci si disponesse di mandar a chiedere per moglie la figlia del Duca, perchè credea, che il Duca avrebbe anteposto un tanto splendor di casa sua, facendo la figlia Regina, all'amor che portava al Re Ladislao. Il Re perch'era di natura pieghevole, lodò il pensiero, e col parere di tutto il Consiglio mandò Ugo Sanseverino a trattar il matrimonio, il quale in pochi dì, parte coll'autorità sua ch'era grande, parte coll'aiuto della Duchessa, ch'era di casa Sanseverina, ambiziosissima, e desiderava farsi madre di Regina, e parte perchè il Duca si era ancor egli lasciato trasportare dal vento di tanta ambizione, conchiuse il matrimonio, e se ne ritornò in Napoli; e Luigi mandò subito Monsignor di Mongioia con doni reali a visitar la sposa, chiamandola nelle lettere Regina Maria. Papa Bonifacio, che con molto dispiacere avea intesa questa parentela ed alienazione del Duca, mandò Giovanni Tomacello suo fratello a tentare di farlo ritornare alla divozione del Re Ladislao: ma frapostovi molti impedimenti, non si potè allora far niente, dando il Duca sole parole, senza vedersene alcuno effetto: finalmente il Re Ladislao, vedendo la freddezza del Re Luigi, cavalcò contro il Duca di Sessa; ma Papa Bonifacio, che desiderava questa riunione, la quale avrebbe potuto più prestamente ridurre il Regno tutto alla divozione di Ladislao, mandò di nuovo Giovanni a trattar la pace, ed a persuadere al Re, che la facesse, siccome dopo cinque mesi fu fatta, con patto, che il Re ricevesse in grazia il Duca ed il fratello, e che gli rendesse le Terre tolte, e che quelli assicurati dal Papa andassero a giurar di nuovo al Re omaggio. Con questo trattato e riconciliamento furon anche disturbate le nozze di sua figliuola Maria, le quali rimasero senza effetto; e benchè poi si maritasse con altri, sempre però volle ritenere il titolo di Regina datole da Luigi, quando la mandò a presentare.
In questi tempi Re Ladislao mosso (non si sa, se da proprio spirito, o da ricordo della madre o d'altri) a pietade di Costanza di Chiaramonte già sua consorte, che con grandissima laude di pazienza, di modestia e di pudicizia, avea in bassa fortuna menata sua vita dal dì del repudio; la diede per moglie ad Andrea di Capua primogenito del Conte di Altavilla, coetaneo e creato suo assai diletto, e furon fatte le nozze molto onoratamente; ma non per questo restò quella gran donna di mostrare la grandezza dell'animo suo dignissimo della prima fortuna; imperocchè quel dì, che il marito la volle condurre a Capua, essendo posta a cavallo per partirsi, in presenza di molti Baroni e Cavalieri, ch'erano adunati per accompagnarla, e di gran moltitudine di Popolo, disse al marito: Andrea di Capua, tu puoi tenerti il più avventurato Cavaliere del Regno, poichè avrai per concubina la moglie legittima del Re Ladislao tuo Signore. Queste parole diedero pietà ed ammirazione a chi la intese; e quando furono riferite al Re, non l'intese senza rimordimento e scorno.
Intanto stringendo Ladislao l'assedio di Napoli per mare e per terra, fu consigliato Re Luigi ad uscire dalla città ed andare a Taranto. I Napoletani fastiditi da così lunga guerra, dopo vari trattati descritti così bene ed a minuto da Angelo di Costanzo, finalmente resero la città a Ladislao, il quale avendo loro accordati molti capitoli e patti, che volevano, entrato in Napoli per tener placati gli animi di tutti, fece molte più grazie di quelle, che avea promesse alla città; e diede agli eletti quella giurisdizione, che oggi hanno sopra coloro, che ministrano le cose necessarie al vivere[257].
Giunto l'avviso a Taranto al Re Luigi della resa di Napoli, ne intese estremo cordoglio, e disperando di riacquistarla, e tenendo per perdute anche l'altre parti del Regno, che restavano alla sua ubbidienza, deliberò partirsi ed andare in Provenza. Ramondello Orsino non bastò a fargli mutar proponimento, quantunque efficacemente ne 'l persuadesse, mostrandogli, che benchè Napoli si fosse resa, pur erano all'ubbidienza di sua Corona le due parti del Regno con tanti Baroni a lei divoti; che coll'armata, che avea allora per soccorso di Napoli mandata Papa Benedetto, e con unire di là a pochi mesi le forze di terra, era agevol cosa di riacquistar tutto il Regno; e ch'era gran vergogna, che la regina Margarita con Gaeta sola non si fosse disperata, senz'altro aiuto, di ricovrar il Regno al figlio, ed egli con tante Terre maggiori di Gaeta, e con tanto Stato in Francia, si partisse abbandonando tanto dominio. Ma il Re o fosse sdegnato di lui, che mai non volle moversi colle sue genti, e congiungerle con quelle del Gran Contestabile o fosse fastidito di questi andamenti, s'imbarcò nell'armata, e con lui se n'andò la maggior parte de' Cavalieri napoletani pensionari; ed avendo girata la Calabria, passò per la marina di Napoli, mirandola con gran dolore, e di là mandò a patteggiare col Re Ladislao, che facesse uscire di Castel Nuovo Carlo d'Angiò suo fratello, co' Franzesi e con tutte le suppellettili, ed a lui il castello si rendesse. Tutto ciò gli fu agevolmente accordato; onde avendo mandate le galee a levare gli usciti di castello, se ne andò in Provenza, lasciando grandissimo desiderio di se, e gran dolore a tutti coloro del suo partito. Così in quest'anno 1400 Napoli, e quasi tutto il Regno passò sotto la dominazione del Re Ladislao; e sotto le bandiere del Re Luigi rimase sol Taranto, che si mantenne lungo tempo nella sua fede.
CAPITOLO VI. Nozze di Ladislao, prima con Maria sorella del Re di Cipro, e poi con la Principessa di Taranto: sua spedizione nel Regno d'Ungaria, ch'ebbe infelice successo.
Dopo aver Ladislao fugato dal Regno il suo Competitore, repressi i Sanseverineschi, e posto a fondo la casa del Duca di Sessa, ed insignoritosi de' loro dominj, gli parve tempo di godere in pace il Regno, e veder di propagarlo ne' suoi discendenti; onde cominciò a pensare di prender moglie. Papa Bonifacio se ne prese il pensiero, e mentre ciò trattavasi, vennero in Napoli gli Ambasciadori del Duca d'Austria Leopoldo a dimandare Giovanna sua sorella per moglie del lor Signore; fu contento il Re di dargliela, e mentr'era in ordine per andare ad accompagnarla fino a' confini del Ducato d'Austria, fu l'andata differita, perchè Bonifacio aveva già conchiuso il suo matrimonio con Maria sorella di Giano Re di Cipro; onde Ladislao volle prima fare le sue nozze, e mandò subito in Cipri per la sposa Gurrello di Tocco, con l'Arcivescovo di Brindisi e molti altri Cavalieri. Venne questa Principessa in brevissimo tempo accompagnata dal Signore di Lamech, e dal Signor di Barut suoi zii carnali; e fu ricevuta in Napoli dal Re e dalla Regina Margarita sua madre, con amore ed onor grande nel mese di febbraio di quest'anno 1403 ed incontanente furon le nozze con ogni magnificenza celebrate.
A questo tempo gli Ungheri ritrovandosi mal soddisfatti del loro Re Sigismondo avean in quel reame mossa sedizione, ed una parte di que' Baroni lo carcerarono, ed alzate le bandiere di Ladislao, lo gridarono Re, come figliuolo ed erede di Carlo III. Ladislao avidissimo d'accrescere la sua potenza in diversi Regni, accettò la Signoria; ma considerando l'istabilità di quella nazione, e che se non riuscisse quanto i suoi aderenti gli aveano promesso, avrebbe dovuto tornarsene in Napoli con poca sua riputazione: col pretesto di voler accompagnare sua sorella in Austria, deliberò di partire; ed avendo lasciata Vicaria del Regno la Regina Maria sua moglie, con che dovesse governarlo col consiglio dell'Arcivescovo di Consa, di Gentile de Merolinis di Sulmona, di Gurrello Origlia e di Lionardo d'Affitto suoi Consiglieri[258], andò con Giovanna ad imbarcarsi a Manfredonia, donde passò al Friuli; ed avendo consegnata la sorella a molti Baroni del Ducato d'Austria, che quivi l'attendevano, egli se ne passò a Zara Terra del Regno d'Ungaria, con animo di tentar l'impresa di quel Regno. Zara senza contrasto aperse le porte, e parendo, che a questo viaggio avesse fatto assai, fortificò quella città, e lasciandovi il Signor di Barut con presidio bastante, se ne tornò in Napoli. Alcuni scrissero, che Ladislao prima di tornarsene fosse stato a' 5 agosto di questo anno coronato dal Vescovo di Strigonia Re di quel Regno, con soddisfazione di tutto il popolo, e di molti Baroni ungheri e Prelati, che vennero a trovarlo a Zara. Altri, che Papa Bonifacio lo facesse incoronare dal Cardinal Fiorentino, e gli rimettesse i censi che dovea alla Chiesa romana per lo Regno di Napoli, che erano più di ottocentomila fiorini, concedendogli anche le decime per tre anni in questo Regno, per sussidio della guerra; e che Ladislao finita la coronazione mandasse in Ungaria per suo Vicerè Tommaso Sanseverino Conte di Montescaggioso con cinquecento lanze, con intenzione di volerci poi passar egli. Alcuni altri, come il Costanzo, rapportano questi avvenimenti alquanti anni da poi, cioè dopo la morte della Regina Maria, dopo la morte di Papa Bonifacio seguìta nell'anno 1404, di cui ne fu successore Innocenzio VII e dopo le nuove nozze contratte da Ladislao con la Principessa di Taranto, stabilite nell'anno 1406 per riacquistare il principato di Taranto come prosperamente avvenne. Allora fu, narra il Costanzo, che vennero gli Ambasciadori d'Ungaria a fargli intendere, ch'essendo morta la Regina Maria, gli Ungheri non potendo soffrire la tirannide del Re Sigismondo, lo aveano posto in carcere ed innalzate le sue bandiere, che perciò l'invitarono, che si ponesse tosto in ordine, ed andasse a pigliar la possessione pacifica di sì ricco Regno, e che bisognava più tosto celerità che forza. Ladislao e per cupidità di regnare, e per desiderio di prender vendetta della morte del padre, con una compagnia di gente eletta andò con gli Ambasciadori ad imbarcarsi a Manfredonia, e con vento prospero navigando arrivò in pochi dì a Zara; ed avendo inviati gli Ambasciadori innanzi per far intendere a' Principi del Regno la sua venuta, di là a pochi dì intese, che il Re Sigismondo era liberato e raccoglieva un grande esercito di Boemi, per la qual cosa ricordevole della morte di suo padre, stette alcuni dì fermo in Zara, consultando quello che avesse a fare. Ma avvenne, che un dì essendo usciti alcuni soldati dalle galee e marinari a coglier uva per le vigne, i cittadini di Zara pigliarono l'arme, e ne uccisero venti, nè bastando ciò, così armati andarono nel palazzo ov'era il Re, e con arroganza barbarica gli dissero, che se egli non volea tener in freno le sue genti, non mancavano a loro nè arme, nè animo di fargli star a segno. Il Re sdegnato di tanta insolenza, cominciò a pensare, quanto doveano essere più efferati gli altri popoli di quel Regno più vicini alla Scizia, ed a' Monti Rifei, poichè quelli di Zara prossimi all'Italia erano tali; e sopra questo sdegno, essendo venuto nuovo avviso, che il Re Sigismondo era entrato in Ungaria col suo esercito, e che quelli della sua parte aveano messo in fuga e dispersi gli altri della parte contraria, deliberò far vendetta de' Zaresi, e lasciar quella impresa pericolosa.
Trattò per tanto con Francesco Cornaro, Lionardo Mocenigo, Antonio Contarino, e Fantino Michele Ambasciadori de' Veneziani, di vendere Zara a quella Signoria, della quale i Zaresi erano acerbissimi nemici, ed essendo la novella di questo trattato giunta a Venezia, quel Senato mandò centomila ducati di oro, e tante genti, quanto bastassero per presidio di quella città, ed il Re Ladislao ne fece loro la consegna. Da poi sdegnato con gli Ungheri, come narra Bonfinio nell'Istorie d'Ungaria, scrisse al Re Sigismondo, scusandosi che non avea egli di sua elezione pigliata quell'impresa, ma da altri chiamato, e per vedere se era volontà di Dio il quale dona e toglie i Regni, ch'egli sedesse nel Trono d'Ungaria: ma avendo conosciuto il contrario, ed esperimentata la natura instabilissima di quella gente, che ogni dì cangiar vorrebbe un nuovo Re, avea deliberato di cedergli, e di offerirsegli ancora buon amico, e amorevole parente, aggiungendo, che non avrebbe potuto fargli maggior piacere, che trattar i traditori com'essi avean cercato di trattar lui; e fatto questo se ne ritornò al Regno. Non è però, che Ladislao, siccome anche dopo la sua morte la Regina Giovanna II e tutti i Re di Napoli loro successori, avessero ne' loro titoli tralasciato quello di Re d'Ungaria, ma ne' loro diplomi ed atti s'intitolavano non meno Re di Sicilia e di Gerusalemme che d'Ungaria.
§. I. Spedizione del Re Ladislao sopra Roma.
La morte di Papa Bonifacio liberò Ladislao da tutte quelle promesse che gli avea fatte, e dal rispetto che gli portava, come suo gran fautore ed amico. Avrebbe questo Pontefice lasciato di se pel suo valore gran nome; ma il soverchio amore, che portava a' suoi, oscurò la di lui fama essendo arrivato, come scrive il Platina, insino a donar a' parenti le indulgenze plenarie, acciocchè le vendessero: questa impietà però ebbe poi molto vicina la punizione, perchè avendo Andrea suo fratello Duca di Spoleto e Giovanni Conte di Sora e di Alvito, fatto avere molte altre Terre a diversi altri suoi parenti, ne furono in brevissimo spazio privati, rimanendo in grandissima povertà.
Rifatto in suo luogo da' Cardinali Cosmato Migliorato da Sulmona Cardinal di Santa Croce che si fece chiamare Innocenzio VII si mostrò poco amico di Ladislao; questi all'incontro poco stimandolo, e vedendosi pacifico possessore del Regno, e non distratto in altra guerra, com'era di natura inquieto e cupido d'imperio e di gloria, deliberò d'insignorirsi di Roma. Il tempo non poteva essere più opportuno; poichè i Romani attediati per lo lungo scisma, e per l'odio che aveano portato al Pontefice Bonifacio, e portavano ad Innocenzio, per molti che ne avea fatto morire, eccitarono nel principio del suo Ponteficato gran turbolenze in Roma: poichè avendogli dimandato, che fosse loro restituita la libertà del Campidoglio e che avesse proccurato togliere lo scisma, Innocenzio sdegnato di tanta insolenza, chiamò Lodovico Marchese della Marca suo nipote, con molta gente per far de' Romani vendetta. Il Popolo si levò a rumore, e chiamò Ladislao in suo soccorso: tosto il Re venne a Roma, onde Innocenzio fu costretto uscire insieme col nipote dalla città e ricovrarsi a Viterbo. Ladislao ottenuta Roma, passò in Perugia, e l'occupò; ma i Romani in un subito rivoltatisi, richiamarono il Pontefice, e le genti del Re furono discacciate da Paolo Orsino. Intesa da Ladislao la leggerezza de' Romani, pien di stizza, lasciando ogni cosa in abbandono, ritornò nel Regno, per ordinare un poderoso esercito e prenderne vendetta; ma mentre il Re era tutto inteso a questa espedizione. Papa Innocenzio a' 6 novembre di quest'anno 1406 se ne passò a miglior vita.
(Prima di morire Innocenzio in quest'istesso anno 1406 nel mese di agosto si stabilì pace tra Ladislao ed Innocenzio; l'istromento della quale si legge presso Lunig[259]: anzi nell'istesso tempo Papa Innocenzio creò Ladislao difensore della Sede Appostolica e Confaloniere della Chiesa romana, il cui Breve si legge pure presso Lunig.[260] ).
Il Re di Francia, che tuttavia proseguiva nell'impegno di far cessare lo Scisma, proccurava di non far seguire nuova elezione; ma i Cardinali, che ubbidivano ad Innocenzio, trovatisi in Roma, in vece di sospendere l'elezione, immantenente a' 30 dello stesso mese elessero Angelo Cornaro Veneziano, che prese il nome di Gregorio XII. Tutti questi Cardinali prima dell'elezione aveano firmata una scrittura, colla quale s'impegnavano, che colui fra loro che fosse eletto rinunziarebbe il Pontificato, purchè dal canto suo facesse l'istesso Benedetto, e' suoi Cardinali, per proceder poi d'accordo all'elezione d'un legittimo Pontefice. Gregorio XII protestò di esser pronto a rinunziare, se lo stesso avesse fatto il suo Competitore. Il Re di Francia s'impegnò per far riuscire la rinunzia de' Contendenti, ma nè l'uno, nè l'altro aveano intenzione di farla, e la sfuggivano con finte proposizioni d'affettamento. Si convenne alla perfine dall'una, e dall'altra parte di portarsi in Savona per trattare l'unione. Vi andarono Benedetto e' suoi Cardinali, ma Gregorio ancorchè uscito di Roma per andarvi, sfuggiva con varie scuse la conferenza. Di questi imbarazzi approfittossi assai bene Ladislao, poichè quando vide in questo nuovo anno 1407 uscito di Roma il Papa, avendo intanto unito un esercito di quindicimila fanti, s'avviò verso Roma e mandò molte navi cariche di vittovaglie per l'esercito suo, con alcune Galee, che guardassero la foce del Tevere, per non farvi entrar vittovaglia in sussidio di Roma. Era allora in guardia di questa città Paolo Orsino uomo di molta autorità e molto amato e stimato da' Romani per la grande opinione, che si avea del valore suo. Costui con duemila cavalli e co' cittadini abili a maneggiar l'arme si pose a difesa della Patria, e poste ne' luoghi opportuni le guardie necessarie, tolse la speranza al Re di potervi entrare per forza; ma essendo le galee nel Tevere, ed avendo il Re pigliate tutte le castella della Teverina, e facendo con gran diligenza guardare, che per lo fiume non potesse a Roma scendere cos'alcuna da vivere, fu stretto di render se e la città al Re con onorate condizioni, e nel dì di S. Marco 25 aprile di quest'anno 1408 Ladislao entrò come Signore a Roma sotto il Baldacchino di panno d'oro portato da otto Baroni Romani, ed andò per quella sera al Campidoglio.
Il dì seguente un Fiorentino, che tenea il castello di S. Angelo per Papa Gregorio, patteggiò di renderlo, e n'ebbe Quarata, buona Terra in Puglia, e 'l Re passò ad abitar nel palazzo di S. Pietro in Vaticano. Fece Castellano Riccardo di Sangro e Senatore Giannotto Torto Barone di molte Terre in Abruzzo e stette in Roma fin a' 25 di luglio. Ecco come Ladislao si rendesse Signore di Roma. Egli fu il primo, che ai suoi titoli volle anche aggiunger questo di Re di Roma: onde è, che leggiamo ne' suoi atti, e diplomi Rex Romae, titolo che per l'addietro nè i Goti, nè i Longobardi, nè i Franzesi, ancorchè Re d'Italia, osarono di prenderlo, chi per riverenza, chi per timore degli Imperadori d'Oriente, i quali n'erano i loro Signori.
Ma Ladislao tirato forse, come dice il Costanzo, dall'amor delle donne, non volle più trattenersi in Roma e se ne ritornò in Napoli, ove si trattenne tutta l'està in piaceri e feste; e mentr'egli così lussureggiando trascurava mantenere questo nuovo acquisto, gli venne nuova che Roma era ribellata, perchè Paolo Orsino, parte sdegnato, che avesse anteposto Giannotto a lui nell'Ufficio di Senatore, parte non potendo soffrire, che Giannotto usasse molto rigore contra i Romani senza far conto di lui, indusse il Popolo romano a pigliar l'armi, ed andar al Campidoglio a far prigione il Senatore, ed egli co' suoi ruppe i Capitani del Re, che givano per soccorrer il Senatore, con morte di Francesco di Catania Nobile di Capuana, e di molt'altri buoni soldati, sicchè per tutto fu gridato: Viva la Chiesa Romana e muojano i Tiranni; essendosi le genti del Regno ritirate senza far altro contrasto. Di questa nuova sentì il Re grandissimo dispiacere; ma essendo prossimo il verno, non pensò fare per questo anno altro movimento.
§. II. Concilio convocato a Pisa per torre lo Scisma che ebbe infelice successo.
Mentre queste cose succedevano in Italia, il Re di Francia non tralasciava l'impresa di far rinunziare i due Contendenti, perchè si fosse eletto un legittimo Papa; ma Gregorio non voleva sentir parola di cessione, onde i suoi Cardinali sdegnati per la sua condotta, l'abbandonarono, si portarono in Pisa, e si appellarono delle sentenze ch'e' pronunziò contro di essi al futuro Concilio; ma non per tutto ciò astenevasi Gregorio di continuare i suoi procedimenti contro i medesimi. Dall'altra parte il Re di Francia fece dire a Benedetto che assolutamente voleva ch'e' rinunziasse ed acconsentisse all'unione, altrimenti si sarebbe sottratto dalla sua ubbidienza: ma Benedetto ostinato non men che Gregorio, stese subito una Bolla fulminante contro la sottrazione e la inviò in Francia. Vi fu mal ricevuta, e coloro che l'avevano portata furono arrestati ed ignominiosamente trattati; la Bolla fu lacerata ed in Francia fu pubblicata la neutralità. Benedetto ch'era in Avignone si ritirò in Aragona. Gregorio per dimostrare che non era per lui mancata l'unione, cominciò a discolparsi, e scrisse una lettera circolare, imputando a Benedetto la cagione perchè l'unione non fosse stata conchiusa, e convocò un Concilio in Aquileja. Benedetto che s'era ritirato in Aragona, fece la stessa protestazione, ed adunò un altro Concilio in Elba vicino a Perpignano. I Cardinali dell'uno e dell'altro partito, vedendo che per questa divisione parea che la Chiesa di Dio stesse senza Papa, perchè si faceva poco conto dell'uno e meno dell'altro, e lo Stato della Chiesa era occupato da diversi Tiranni, avuta fra loro secreta intelligenza, convocarono ancor essi un altro Concilio in Pisa. Così in quest'anno 1408 tre Concilj furon convocati il primo in Perpignano dalla Bolla di Benedetto che fu il più sollecito di tutti: il secondo in Aquileja dalla Bolla di Gregorio spedita a' 2 di luglio, per la quale s'intimava l'apertura del Concilio per la Pentecoste dell'anno seguente; ed il terzo in Pisa dalle lettere de' Cardinali d'amendue i partiti spedite in Livorno il dì 26 giugno, per le quali s'intimava l'apertura del Concilio a Pisa per lo dì 26 marzo dell'anno seguente. Benedetto fu il più sollecito, e fece cominciare il suo Concilio il primo di novembre. Vi si trovarono i Vescovi di Castiglia, di Aragona, di Navarra, e molti altri Prelati di Francia, di Guascogna e di Savoja in numero di 120 senza comprendere i quattro Arcivescovi onorati con titolo di Patriarchi. Quando si venne al punto dello scisma, i Vescovi per la maggior parte si ritirarono da Perpignano, e 'l Concilio si restrinse al numero di 18, i quali riconobbero Benedetto per legittimo Papa; lo consigliarono però di proccurare l'union della Chiesa per via di rinunzia, in caso che il Competitore rinunziasse o venisse a morte, ovvero fosse deposto; e d'inviar Legati a' Cardinali ch'erano in Pisa con piena potestà di stabilire il trattato.
Mentre ciò facevasi in Perpignano, i Cardinali dei due Collegi pensavano con serietà ad impegnar tutti i Principi a riconoscere il lor Concilio e ad approvare quanto avessero fatto. Aprirono dunque il Concilio il dì 25 marzo dell'anno 1409 giorno prefisso per l'apertura. Primieramente il Concilio citò Pietro di Luna ed Angelo Cornaro, che si dicevano Papi, e non essendo comparito alcuno, il Concilio gli dichiarò contumaci. Pronunziò, che il Collegio de' Cardinali unito avea potuto convocare il Concilio, e che il Concilio generale poteva procedere ad una sentenza diffinitiva. Comandò poi la sottrazione d'ubbidienza a' due pretesi Papi: ed infine dopo aver prese le informazioni sopra la loro condotta, gli dichiarò decaduti dal diritto che pretendevano al Pontificato, e gli depose con deffinitiva sentenza. I due Collegi de' Cardinali procedettero poi all'elezione d'un legittimo Pontefice, secondo il decreto del Concilio, ed elessero Pietro Filargio di Candia, nomato il Cardinal di Milano, dell'Ordine de' Frati Minori che prese il nome di Alessandro V. Egli presedette alle sessioni seguenti del Concilio che terminò il dì 7 agosto di quest'anno 1409. Era composto di 22 Cardinali, di 4 Patriarchi, e di 12 Arcivescovi, di 67 Vescovi in persona, di 75 Deputati, d'un grandissimo numero d'Abati, di Generali, di Procuratori d'Ordini, di Deputati de' Capitoli, e di 67 Ambasciadori di Re e d'altri Principi sovrani.
Alessandro V riputato dalla maggior parte de' Principi d'Europa per vero e legittimo Pontefice, ancorchè fosse Frate de' zoccoli, era stato molti anni Arcivescovo di Milano, e poi fatto Cardinale da Papa Innocenzio VII avea non poca esperienza delle cose del Mondo, onde presa ch'ebbe la corona voltò subito il pensiero a riporre la Sede Appostolica nel suo primiero stato e riputazione; e vedendo gli apparati del Re Ladislao, i quali eran tutti indrizzati per impadronirsi di Roma e del suo Stato, fece lega con i Fiorentini; a' quali era già resa sospetta la grandezza e l'animo di Ladislao; ed essendo favorito anche dalla Francia che lo riconobbe per vero Papa, mandò ivi a chiamar Re Luigi per opporlo a Ladislao, ed intrigarlo in una nuova guerra, acciocchè dovendo badar poi a' propri mali, non potesse pensare ad inquietare lo Stato della Chiesa romana.
Dall'altra parte Gregorio non avea mancato di aprir suo Concilio in Aquileja, ovvero in Udine, nel giorno della Festa del SS. Sacramento di quest'istesso anno 1409 ma non fu quello sì numeroso, nè vi si trovò che un picciolissimo numero di Prelati; nulladimanco vi fece dichiarare ch'egli ed i suoi predecessori erano stati canonicamente eletti, e che non solo Pietro di Luna, et quelli che l'aveano preceduto, ma eziandio Pietro di Candia nuovamente eletto, erano intrusi, e che non aveano avuto alcun diritto al Pontificato. Fece però una dichiarazione ch'era pronto a rinunziare al Papato realmente, e di fatto purchè Pietro di Luna e Pietro di Candia vi rinunziassero ancora personalmente e nel medesimo luogo. Creò nuovi Cardinali, non meno che avea fatto Benedetto: onde invece di due Papi, dopo il Concilio di Pisa se ne videro tre, da' quali miseramente era la Chiesa lacerata. Gregorio terminato il Concilio, non istimandosi sicuro in Udine, fuggì travestito in Apruzzo; onde Ladislao avendo scorti gli andamenti di Alessandro, mandò tosto Angelo Aldemarisco Gentiluomo con quattro galee a chiamarlo. Stava egli allora a Pietra Santa con due Cardinali che non aveano voluto abbandonarlo, il qual intesa la chiamata di Ladislao, scese molto volentieri ad imbarcarsi al Porto di Luna, e venne a Gaeta, ove fermò la sua residenza, ed ove il Re l'accolse con molta riverenza come a vero Pontefice, ed ordinò che per tale fosse tenuto nel Regno ed in tutti i suoi dominj. Avea Gregorio una picciolissima Corte: poichè non era riconosciuto per Papa, se non negli Stati del Re Ladislao. All'incontro Alessandro V era riconosciuto per legittimo Papa quasi in tutta la Cristianità, eccettuatene solo queste province che ubbidivano a Gregorio, ed i Regni di Aragona, di Castiglia, di Scozia, e gli Stati del Conte di Armagnac che riconoscevano Benedetto. L'Alemagna era divisa, perchè Roberto Re de' Romani ricusava che fosse riconosciuto Alessandro, per aver egli dato in molte lettere il titolo di Re de' Romani a Venceslao Re di Boemia.
CAPITOLO VII. Ritorno del Re Luigi II nel Regno per gl'inviti di Papa Alessandro, il quale scomunicò e depose Ladislao, dandone nuova investitura a Luigi.
Essendo le cose in questo stato, Re Luigi udita la chiamata di Papa Alessandro, e ricordandosi quanto importi l'amicizia d'un Papa a chi vuole acquistare o mantenere il Regno di Napoli, si pose subito in mare con alcuni legni, ch'erano nel porto di Marsiglia, e venne a Livorno, e di là a Pisa a baciar i piedi al Papa, dal quale fu ricevuto in Concistoro pubblico con grandissimo onore, ed esortato, che seguendo l'esempio de' suoi cristianissimi antecessori, volesse pigliar la protezione della chiesa; e perchè potesse più legittimamente procedere all'acquisto del Regno, in un altro Concistoro il Papa pronunziò per iscomunicato e scismatico Re Ladislao, e lo privò del Regno, e ne fece nuova investitura a Re Luigi, dicendo, che quella che avea avuta da Clemente, il quale non era vero Pontefice era invalida; e si conchiuse, che si soldasse Braccio da Montone Perugino, Sforza da Cotignola e Paolo Orsino, tutti Capitani a quel tempo di gran fama. Ma mentre Luigi si partì da Pisa ed andò in Fiorenza per ottener, che quella Repubblica per virtù della lega contribuisse al soldo de' tre Capitani, Papa Alessandro se ne andò in Bologna; e perchè quando fu eletto Papa, era settuagenario, ivi ammalatosi, se ne morì nel dì 3 maggio di quest'anno 1410. I Cardinali il terzo dì da poi che furono entrati in Conclave senza contrasto elessero Baldassare Cossa gentiluomo napoletano Cardinal di Bologna, il quale anche ebbe la raccomandazione del Re Luigi, e si fece chiamare Giovanni XXIII. Costui non meno di spirito fervido ed inquieto di quel, ch'era Ladislao, il primo disegno che concepì, fu di cacciar Ladislao del Regno; e perchè i Fiorentini stavano sospesi, e non volevano pagar danari, se non sapeano, se l'animo del nuovo Pontefice era di firmar la lega, Re Luigi andò in Bologna ad adorarlo, e lo trovò molto più pronto in favor suo, che non era stato Papa Alessandro; perocchè non solo concorse alle spese dell'esercito per terra, ma soldò anche un gran numero di galee di Genovesi, che giunte insieme col navilio franzese, che aspettavasi da Provenza, andassero ad assaltar il Regno per mare.
Intanto Re Ladislao non perdè tempo: avvisato che fu della malattia di Papa Alessandro, spinse incontanente dal Contado di Sora ov'era, il suo esercito a Roma, e parte per trovarsi quella città senza presidio, e parte perchè diceva di volerla ridurre all'ubbidienza di Papa Gregorio, ch'era in Gaeta, la pigliò senza contrasto: ed avendo inteso gli apparati de' suoi nemici, lasciò Perretto d'Ibrea Conte di Troia in Roma, e Gentile Monterano con tremila e secento cavalli, e distribuì il rimanente dell'esercito per alcune terre di Campagna, ordinando a' Capitani, che quando vedessero il bisogno andassero tutti a Roma a soccorrere il Conte di Troia, ed egli venne a Napoli a provveder di danari, ed attendere, che la città non si perdesse per assalto di mare. Accumulati per molte vendite di terre e di castelli, che fece a vilissimo prezzo, danari in gran numero, armò otto navi o sei galee, e provisto a questo modo alle cose di mare, chiamò tutti i Baroni con disegno di andare a Roma. Ma essendosi approssimato Re Luigi a Roma, il popolo romano sollecitato da Paolo Orsino, ch'era venuto alla Porta di S. Pangrazio, prese l'arme, e benchè il Conte di Troia facesse resistenza, all'ultimo fu forzato di cedere. Re Luigi fatto l'acquisto di Roma, e fermati quivi gli Ufficiali in nome di Papa Giovanni, desiderava d'entrare subito nel Regno e seguir la vittoria; ma Braccio per ricoverare alcune terre del patrimonio di S. Pietro, che si tenevano per Ladislao e poteano offendere le terre sue; e Paolo Orsino per ricovrare alcuni castelli di campagna, s'intertennero tanto, che Ladislao ebbe tempo di provvedere molto bene alle cose sue, e ponersi in ordine con gagliardo esercito. E qui assai a proposito ponderò Angelo di Costanzo l'infelicità dei Re di que' tempi che più tosto servivano, ch'eran serviti da' Capitani di ventura, i quali aveano per fine più il comodo proprio, che la vittoria di que' Principi che gli pagavano: ond'è, che Ladislao, il quale di ciò s'avvide, dopo che giunse in età di guerreggiare per se stesso, non se ne servì se non quando non se ne potea far altro, servendosi sempre di condottieri del Regno o di alcuno estero, che non avesse tante genti, che e' non avesse potuto senza pericolo svaligiarlo, quando non avesse voluto eseguir a punto quel che egli comandava.
Dopo che Paolo e Braccio ebbero cacciati i soldati di Ladislao da quelle terre, si mossero da Roma con Luigi, e vennero colle loro truppe per la via Latina verso il Regno. Dall'altra parte Ladislao si partì di Capua con tredicimila cavalli, e quattromila fanti, e giunse in campagna sotto Rocca Secca, a tempo che Luigi col suo esercito era a Ceprano; e procedendo un poco più avanti, venne Re Luigi ad accamparsi un miglio vicino a lui. L'una e l'altra parte dubitava, che consumando il tempo, sarebbero mancati i denari per pagar i soldati e si dissolverebbe l'esercito, onde vennero volentieri a giornata. Si attaccò il fatto d'arme a vespro, e durò fin a notte oscura con grandissima virtù dell'una parte e dell'altra; ma in fine l'esercito di Luigi restò vittorioso, e Ladislao, che fin all'estremo della battaglia avea fatto ogni sforzo possibile per vincere, al fine disperato della vittoria si ridusse a tre ore di notte a Rocca Secca e mutato cavallo, se ne andò a S. Germano, ove la medesima notte si ritrovarono tutti quelli, ch'erano scampati dalla rotta. Vinse Luigi, ma non seppe poi servirsi della vittoria; e fu gran maraviglia, che l'esercito suo vittorioso guidato da' più esperti Capitani d'Italia, non avesse seguita la vittoria, per la quale senza contesa avrebbe acquistato il dominio del Regno. I soldati del Re Luigi dopo la vittoria non vollero passar più innanzi senza la paga, sperando, che Papa Giovanni l'avesse mandata al primo avviso della vittoria; onde Luigi, in vece di passar innanzi, fu forzato a tornar a dietro, e cavalcò a trovare il Papa a Bologna insieme con Braccio e con Sforza. Scrive Pietro d'Umile, il quale si trovò a questa giornata, ch'era tanta la povertà dell'esercito di Luigi, che gli uomini d'arme, che avean fatti prigioni coloro dell'esercito del Re Ladislao, poichè gli aveano tolte l'armi ed i cavalli, e data la libertà, secondo l'uso di que' tempi, promettevano rendere ad ogn'uno l'arme, ed il cavallo per prezzo di otto e diece ducati. E che perciò Re Ladislao comandò a Tommaso Gecalese suo tesoriere, che prestasse danari a coloro, che non potevano averne di casa loro; e che durò molti dì, che si partiva il Trombetta di S. Germano con una schiera di ragazzi e tornavano armati a cavallo; tal che non molto tempo da poi si trovò l'esercito di Ladislao quasi intero. Si aggiunse ancora, perchè Ladislao fuor della sua espettazione restasse libero d'ogn'impaccio, che Re Luigi, essendo giunto a Bologna per ricever soccorso da Papa Giovanni, lo trovò molto travagliato di mente; imperocchè l'Imperatore Sigismondo mosso da zelo cristiano per estinguere lo scisma, ch'era durato tanti anni, parte con la sua persona, parte con Ambasciadori andò e mandò a confortare tutti i Principi cristiani, che volessero insieme con lui costringere Benedetto XIII che stava in Catalogna, Gregorio XII che stava in Gaeta, e Giovanni XXIII a venire ad un Concilio universale, ove si avesse da decidere chi di loro era vero Pontefice, e togliere l'ubbidienza a colui, che non andasse. Ed ottenuta la volontà di tutti, avea fatto congregare prelati d'ogni nazione nella città di Costanza, che avea deputata per lo Concilio, ed a quel tempo avea mandato a chiedere Papa Giovanni, che andasse al Concilio: per la qual cosa trovandosi il Papa in dubbio di se stesso, fu costretto di dire a Re Luigi, ch'era necessario attendere a' casi suoi, e di servirsi de' soldati suoi contra i Tiranni, che alla fama di questo Concilio erano insorti contra di lui, consigliandolo a differir la guerra del Regno a tempo più comodo; per le quali parole Re Luigi mal contento partì, e se ne andò in Provenza, e poco da poi morì, lasciando tre figliuoli, Luigi, Renato, ed un altro, dei quali si parlerà ne' seguenti libri di quest'istoria.
CAPITOLO VIII. Re Ladislao tenta nuove imprese in Italia: sua morte, sue virtù e suoi vizj; ed in che stato lasciasse il Regno alla Regina Giovanna II, sua sorella ed erede.
Ladislao, restando fuori della sua credenza libero da ogni sollecitudine, per la partita di Luigi, cominciò per vendicarsi di Papa Giovanni, ad infestar lo Stato ecclesiastico. Stava allora il Papa in grandissima confusione, perchè ristretto con gl'intimi suoi nel consultarsi dell'andata al Concilio, trovò diversi pareri; poichè molti consigliavano, che non andasse, e tra costoro uno era Cosmo di Medici fiorentino, uomo di grandissima prudenza, che gli disse, non convenire nè al decoro dell'autorità pontificale, nè alla dignità d'Italia, di andare comandato a sottomettersi in mano ed al giudizio di Barbari; ma essendo egli di grande spirito, e confidando nella giustizia, che gli parea di avere, essendo stato eletto Papa universale da quelli stessi Cardinali, che aveano rifiutato Benedetto e Gregorio, come Antipapi, deliberò di andare, opponendo alle ragioni contrarie una ragione assai probabile, dicendo che non era bene, che in contumacia sua, facesse fare un altro Papa in Germania; il qual calando poi col favor dell'Imperadore in Italia a tempo ch'egli era inimicato con Re Ladislao, l'avesse consumato e cacciato dalla sede. Prima però che si partisse, tentò di pacificarsi con Ladislao, mandando il Cardinal Brancaccio per questo effetto in Napoli, uomo per vita, e per età venerabile, il quale, benchè Ladislao, conoscendo la necessità del Papa stesse duro, pure con destrezza e diligenza l'indusse ad accettar la pace, per virtù della quale il Re liberava un fratello ed alcuni parenti del Papa, ch'erano prigioni, e riceveva dal Papa ottantamila fiorini.
In quest'anno 1412 la Regina Margarita, ch'era stata molti anni a Salerno, città data a lei per appanaggio, insieme con altre Terre e con la città di Lesina in Capitanata, partendosi da quella città per la peste che vi era, se n'andò all'Acqua della Mela, Casale di S. Severino, ove ammalatasi, nelle proprie braccia del Re suo figliuolo a' 7. agosto morì, e fu con onorevolissime esequie portato il cadavere nella chiesa di S. Francesco di Salerno, ove le fece fare un gran sepolcro di marmo con iscrizione secondo l'uso di que' tempi, che ancor oggi ivi si vede.
Papa Giovanni essendosi già risoluto d'andare al Concilio, avea lasciato Braccio Capitano della Chiesa, perchè debellasse Francesco di Vico, il qual era ribello della medesima, e s'intitolava Prefetto di Roma: Re Ladislao, che non sapeva star in ozio, intesa la partenza del Papa, soccorse il ribelle; per la qual cosa Braccio scrisse al Papa, che il Re avea rotta la pace. Ma le cose del Concilio andavano per Giovanni tanto travagliate, che l'avean fatto lasciare in tutto il pensiero delle cose d'Italia; onde Ladislao, lasciato ogni rispetto della pace l'anno seguente 1413 occupò Roma, e proccurò ancora con grande arte che oltre a Sforza, venisse al di lui soldo anche Paolo Orsino; poichè l'uso di que tempi era, che i Capitani di ventura finito il soldo con un Principe, solevano andare a servire un altro, senza che restasse rancore nel primo, che aveano servito; con tutto ciò Paolo conoscendo il Re di natura vendicativo, stava pur sospeso; e credendo che la sola di lui fede non gli bastasse, volle dal Re sicurtà, che li fu data. Vennero perciò Paolo, ed Orso Orsini con molte compagnie di genti d'arme bene in ordine, e 'l Re gli mostrò buon viso. Ma covando dentro il pensiero di fargli morire, volle farsi benevolo Sforza, al quale, ancorchè pure l'odiasse, siccome odiava tutti i Capitani di ventura, nulladimanco gli portava più rispetto, e dubitava più di romper la fede a lui, che agli altri. Erasi per tanto Ladislao apparecchiato per la guerra di Toscana; ed i Fiorentini sospetti della sua ambizione cercavano di prepararsi alla difesa della loro libertà. Ma Ladislao per sorprendergli mostrava altrove voler volgere le sue truppe; onde partito di Roma, ed avendo agevolmente occupate tutte le Terre della Chiesa, distribuì per quelle i Capitani e le genti ed egli si fermò a Perugia con disegno di non scoprire per alcuni dì l'animo suo, volendo tenere in timore tutte le Terre di Toscana, di Romagna e di Lombardia, per taglieggiarle: mandarono subito Ambasciadori, Fiorenza, Lucca, Siena, Bologna ed altre Terre, ed egli fece buon viso a tutti egualmente; ma nel parlare era ambiguo, mostrando segno talora di voler passare in Lombardia. Ma all'ultimo accettando dall'altre Terre l'offerte de' presenti, andava trattenendo in parola gli Ambasciadori fiorentini, i quali tennero per certo, che l'animo suo era di assaltar Fiorenza, e per questo presero un sottile ed industrioso partito; poichè avendo inteso, che'l Re stava innamorato della figliuola d'un Medico perugino, con la quale spesso si giaceva, è fama, che avessero con gran somma di denari subornato il Medico, acciocchè per mezzo della figliuola l'avesse avvelenato: che il Medico indotto dall'avarizia, anteponendo il guadagno alla vita della figliuola, l'avesse persuasa ad ungersi le parti genitali d'una unzione pestifera, quando andava a star col Re, dandole a credere, che quella fosse una composizione atta a dare tal diletto al Re nel coito, che non avrebbe potuto mai mancare dall'amor suo; e che per questo il Re si fosse infermato d'un malo al principio lento ed incognito; nel qual tempo essendo venuto Paolo ed Orso a visitarlo, fece prendere amendue, e porgli in carcere strettissimo; ed essendo tutti i Capitani venuti a pregarlo, che non volesse rompere la fede data, il Re loro rispose, che avendo saputo che, Paolo teneva pratica co' Fiorentini di tradirlo, era stato astretto per assicurarsi, di farlo arrestare; ma quando non fosse vero, l'avrebbe liberato. Fu questa istanza e trattenimento molto opportuno per la lor salute, perchè aggravandosi il male, e partendosi il Re da Perugia per venirsi ad imbarcare su le galee ad Ostia, quando volle condur seco i prigionieri, i Capitani elessero il Duca d'Atri, che andando sotto colore di far compagnia al Re, aresse da provvedere, che i prigioni non fossero gittati in mare. Giunto il Re ad Ostia si imbarcò assai grave del male, e quasi farneticando mostrava, che ogni suo intento non era in altro, se non che i prigioni non fuggissero; e giunto a Napoli a' 2 d'agosto di quest'anno 1414 fu dalla marina portato in lettiga al castello, e subito che fu messo in letto comandò, che Paolo fosse decapitato. Il Duca d'Atri parlò con Giovanna sorella del Re, che governava il tutto, perchè la Regina moglie stava più a modo di prigioniera, che di Reina, e dissele quanto potea pregiudicare all'anima ed allo Stato del Re, se un tal personaggio fosse stato senza legittima cagione fatto morire; ed operò, che la mattina seguente quelli, che vennero a visitar il Re, dissero, che a Paolo era stata mozza la testa ed il corpo tagliato in quarti. Nè perchè mostrasse il Re di questo grandissimo piacere, mancò un punto la violenza del male, per la quale giunto il sesto dì d'agosto uscì di vita con fama di mal Cristiano. Giovanna, perch'era morto scomunicato, lo mandò senza pompa a seppellire a S. Giovanni a Carbonara. Ma poi gli fece fare quivi un sepolcro per la qualità di que' tempi assai magnifico e reale, che ancor oggi si vede.
Morì Ladislao non avendo ancor compiti ventiquattro anni di Regno, come di lui cantò il Sannazzaro:
Mors vetuit sextam claudere Olympiadem: e visse trentanove anni. Nel suo regnare, come suole avvenire, che si siegua l'esempio del Principe, fiorirono le armi, e si diede bando alle lettere; perciò non leggiamo noi in questi tempi que' chiari Giureconsulti e tanti altri Letterati, che sotto il Regno di Roberto e di Giovanna sua nipote fiorirono. Le tante guerre in un Regno diviso, e dove sovente due regnavano, obbligavano i Popoli a tener più le armi in mano, che i libri; quindi non si vide, che per meglio stabilire il governo civile e politico, si pensasse a far nuove leggi, a riordinar i Tribunali e l'Università degli studj: di Ladislao solamente una legge abbiamo tra' Capitulari de' Re angioini; poichè i due Re contendenti, Luigi e Ladislao, tenea ciascuno la sua Corte ed i suoi Ufficiali; quindi nacque quella confusione, che osserviamo in questi tempi tra i sette Ufficiali della Corona, dei quali non potè tenersi certa e continuata serie e successione. Per quest'istessa cagione leggiamo ancora nello stesso tempo due G. Contestabili, due G. Protonotarj e così degli altri, e sovente mancare e poi esser l'Ufficiale rifatto e restituito, secondo mancavano o si restituivano nel dominio i Principi contendenti.
L'animo bellicoso ed invitto di Ladislao, siccome nel Regno restituì la disciplina militare, così l'accrebbe di Baroni, e non poco impoverì il regal patrimonio per tante vendite e concessioni di Feudi che fece; onde anche per questa parte si vide notabile cangiamento. Prima pochi erano i Baroni e molto più pochi i Conti. De' Duchi (poichè i Principati sol erano de' Reali, o di coloro al lor sangue congiunti) non s'intese altro, che quello d'Andria nella casa del Balzo e l'altro di Sessa nella casa Marzano: poi nel tempo, che corse dalla morte di Giovanna I al regno di Ladislao, alcuni Signori, che nutrivano genti d'arme, occupavano le Terre e si usurpavano i titoli a lor modo e tra costoro fra' Sanseverineschi fu Vincislao Sanseverino, il qual vedendo nella casa del Balzo e di Marzano questo titolo, s'usurpò anch'egli il titolo di Duca di Venosa. Tra' Signori Acquaviva l'istesso fece il Duca d'Atri, nella cui casa se bene il Marchese di Bellante, disceso da questo Duca, dicesse ad Angelo Costanzo, che nella Casa Acquaviva venisse il titolo di Duca per privilegio della Regina Giovanna II, che regnò alquanti anni da poi; nulladimanco prima di questo tempo scrive il Costanzo[261] trovar titolo di Duca in questa casa nel libro del Duca di Monteleone di carta e carattere tanto antico che si mostra che fu scritto a quelli tempi, siccome anche l'avea letto nelle Annotazioni di Pietro d'Umile che accuratamente scrisse le cose del Re Ladislao, e parte della Regina Giovanna II; ond'è che l'uno e l'altro sia verissimo, e che questo Duca d'Atri, che si trovò alla morte di Ladislao, e 'l padre, che fu Generale a Taranto, si fossero chiamati Duchi avanti, che ne avessero il privilegio dalla Regina Giovanna II. Ed è veramente cosa degna da notarsi, che tra le tante revoluzioni e cangiamenti, che per lo corso di più secoli abbiamo veduti in questo Regno, questa sola famiglia avesse ritenuto nella sua casa questo titolo, e col titolo anche il dominio di quelle medesime Terre, che li famosi gesti de' suoi illustri predecessori da tanti secoli s'aveano acquistate. Alcune altre, come quella di Sanseverino; i Ruffi del Contado di Sinopoli; i Capua del Contado d'Altavilla, ed altri, ritengono ancora questi titoli, cioè di Conti, come prima i loro antenati erano, non già di Duchi. Il Ducato di Andria, e l'altro di Sessa sono più antichi; ma da altre famiglie sono ora posseduti.
De' Marchesi, ancorchè nel resto d'Italia si cominciassero a sentire, nel nostro Regno non ve n'era alcuno; e solo nel Regno di Ladislao s'intese Cecco del Borgo Marchese di Pescara, e notò il Costanzo, che prima di costui non trovò, che altri avesse titolo di Marchese nel Regno di Napoli.
I Conti, ancorchè nel Regno, non meno degli Angioini, che de' Svevi e Normanni, fossero non pochi, ne' tempi di Ladislao si accrebbe molto il numero, de' quali il Summonte ne tessè lungo catalogo; ma per le tante concessioni di Feudi, che fece questo Principe, il numero di Baroni crebbe non poco. Oltre ad essere stato stretto sovente dal bisogno per mantener tante guerre, vendergli a prezzo vilissimo, era Ladislao fuor di misura liberalissimo; e quando aveva e quando gli mancava, non poneva mente nè a giusto, nè ad ingiusto per aver denari. Essendo amatore di uomini valorosi e dilettandosi spesso in continue giostre e giuochi d'arme, come quegli ch'era valentissimo in ogni spezie d'armeggiare; a colui, dal quale vedea qualche pruova, non si poteva mai saziare di donare e far onore. Quando la seconda volta trionfò in Roma, sentendo gli apparati di Re Luigi, che col favore del nuovo Pontefice Alessandro faceva per l'impresa del Regno, lasciando il Conte di Troja in Roma, se ne venne egli a Napoli a provveder di danari; e narra Angelo di Costanzo[262], che in quell'anno, secondo i registri che ritrovano, fece infinite vendite di terre e di castelli a vilissimo prezzo, non solo a Gentiluomini napoletani, ma a molti della plebe ed a Giudei poco innanzi battezzati. Vendè anche molti Ufficj ed insino al grado di Cavalleria, del che solea poi ridersi; e di alcune Terre faceva a persone diverse in un tempo diversi privilegi. Quando poi apparecchiossi alla guerra di Toscana, ritornò parimente in Napoli per far danari, e cominciò a vendere terre e castelli non solo di coloro, ch'erano giudicati e condennati per ribelli, ma di coloro eziandio, in cui non era una minima sospizione. Si vede nell'Archivio regio un registro grande di terre e castelli comprati da Gurrello Origlia per bassissimo prezzo, benchè il Re dicesse, che il più che valevano, il donava a conto di remunerazione. Ed è certamente cosa degna di ammirazione la grandezza di questo Gurrello, che in una divisione che fece tra' suoi figliuoli di quello che avea acquistato, si nominano tra città, terre e castelli più di sessanta, che di sei figli, non fu chi non ne avesse almeno otto; ma questa felicità ebbe pochissimo spazio di tempo, perchè la Regina Giovanna, che successe, gli spogliò d'ogni cosa. Parimente per farsi più benevolo Sforza donò a Francesco primogenito di lui Tricarico, Senisi, Tolve, Crachi, la Salandra e Calciano; la qual profusione si vide ancora praticata con gli Stendardi, Mormili ed altri, di cui Costanzo[263] fece lungo catalogo.
Per questa cagione avvenne, che quando prima pochi Conti erano, che possedevano Contadi e molti Baroni, allora si videro assai più Conti e moltissimi Baroni, non pur cittadini delle altre città principali del Regno, ma anche molte famiglie di Napoli, ancor che fuori de' Seggi, si videro aver Feudi e castelli; e quando prima della rovina di tanti gran Baroni sterminati da Ladislao, non erano più, che diciassette famiglie in tutti i Seggi, che avessero terre e castelli e quelle poche e piccole; nella morte sua si trovarono aggiunte più di ventidue altre famiglie, particolarmente di quelle di Porta Nova e di Porto; i gentiluomini de' quali Seggi furono da lui mirabilmente e quasi per istituto naturale favoriti; e ciò oltra di quelle che non erano ne' Seggi, le quali o per dono o per vendita si videro con Feudi e Baronie.
Di tre mogli ch'egli ebbe, Costanza di Chiaramonte da lui repudiata, Maria sorella del Re di Cipro e la Principessa di Taranto, con niuna generò figliuoli; perciò gli succedette nel Regno Giovanna sua sorella. Oltre a queste mogli, essendo un Principe libidinosissimo, ebbe ancora molte concubine, cioè la figliuola del Duca di Sessa, un'altra chiamata la Contessella, di cui il Costanzo non potè trovar nome, nè cognome; e queste le teneva nel Castel Nuovo, da dove non si partirono, nè tampoco quando si casò colla Principessa di Taranto, di ch'ella tanto mostrossi ingiuriata, non avendo fatto almeno tanto conto di lei, che avesse fatte appartare quelle e mandarle al Castel dell'Uovo, dove stava Maria Guindazzo altra sua concubina. Ne ebbe ancora altre di Napoli e di Gaeta, tenendo persone deputate a questo fine, che glie le provvedessero delle più vivaci e più belle a somiglianza de' Soldani d'Egitto e degl'Imperadori Ottomani d'oggi. Sua sorella Giovanna non volle in ciò essere riputata meno di suo fratello; onde da poi che rimase vedova del Duca d'Austria, si provvide anch'ella di concubini, tanto che possiam dire, che Carlo III di Durazzo e la Regina Margarita sua moglie avessero dati al mondo due portentosi mostri di libidine e di laidezza. Di tante concubine sol da una donna di Gaeta generò un figliuolo bastardo chiamato Rinaldo, che l'avea intitolato Principe di Capua, se ben senza dominio, il quale lo casò con una figliuola del Duca di Sessa. Costui nelle tante rivoluzioni, che avvennero nel Regno di Giovanna sua zia, non parendogli di stare più in Napoli si ritirò in Foggia, dove ben veduto dalla Regina menò i giorni suoi, e quivi morì e fu sepolto nella chiesa maggiore di quella città, nella stessa cappella, dove era stato in deposito il corpo del Re Carlo I ceppo della Casa d'Angiò. Rimasero di lui un maschio chiamato Francesco e molte femmine. Francesco ebbe un sol figliuolo, nominato anch'egli dal nome dell'avolo Rinaldo; il quale casato con Camilla Tomacella, poco da poi se ne morì e fu sepolto nella medesima cappella, dove il padre, che poco appresso lo seguì, gli fece ergere un sepolcro con epitaffio, trascritto dal Summonte[264], che ancor ivi si vede.
FINE DEL LIBRO VENTESIMOQUARTO.
STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO VENTESIMOQUINTO
La morte del Re Ladislao pianta amarissimamente da tutti i Nobili napoletani e del Regno, che seguivano l'arte militare, dissipò in un tratto tutta quella buona disciplina e que' buoni ordini di milizia, che subito si rivolsero in una confusione grandissima; poichè, mancando le paghe, quasi tutti i soldati, lasciando i Capitani proprj, si ridussero sotto Fabrizio e Giulio Cesare di Capua e sotto i Caldori e sotto il Conte di Troja, li quali se gli condussero nelle Terre loro, e quivi sostentandogli aspettavano d'esser soldati da altre potenze, come alcuni d'essi fecero da poi. Ed in questo modo si dissipò in breve tutto quel grand'esercito, che militava sotto l'insegne di questo valoroso Re. E di tante Terre prese nella Campagna di Roma, solo si tenne Ostia e Castel di S. Angelo in Roma, in nome di Giovanna vedova del Duca di Austria, che il dì medesimo della morte di Ladislao suo fratello era stata da' Napoletani gridata Regina, senza che per allora si richiedesse investitura alcuna al Pontefice. Sforza avendo intesa la morte del Re venne in Napoli a trovarla e fermò la sua condotta con lei.
La città di Napoli, benchè si trovasse meno gran numero di Nobili della parte Angioina, li quali erano in Francia, e que' ch'erano in Napoli rimasi in gran povertà, nullamanco mentre vi regnò Ladislao stette pur molto in fiore, non solo per l'arte militare che era in uso con onore di tanti personaggi, ed utilità di tanti Nobili, che onoratamente viveano con gli stipendj; ma molto più gli Stati che in dono o in vendita avea Ladislao compartiti per le famiglie di tutti i Seggi e fuori di quelli ancora. Ma si scoverse subito nel principio del Regno della Regina Giovanna II tal mutazione di governo, che molti savj pronosticarono che in breve la parte di Durazzo non starebbe niente meglio dell'Angioina, con universale distruzione del Regno; poichè Giovanna, essendo Duchessa, s'era innamorata d'un suo Coppiere o come altri vogliono Scalco, chiamato Pandolfello Alopo, al quale secretamente avea dato il dominio della persona; quando poi si vide Regina, rotto il freno del timore e della vergogna, gli diede ancora il dominio del Regno, perchè avendolo creato G. Camerario, l'ufficio del quale come altrove fu detto, è d'aver cura del patrimonio e dell'entrate del Regno, e lasciando amministrare ogni cosa a suo modo, gli era quasi soggetto tutto il Regno. Ma praticando Sforza in Castello per trattar la sua condotta con la Regina, scherzando ella con lui molto liberamente, riprendendolo che non pigliava moglie: Pandolfello entrò in gelosia, perchè Sforza se ben'era di quarant'anni, era di statura bella e robusta, con grazia militare, atta a ponere su i salti la natural lascivia della Regina: e senza dar tempo che potesse passar più innanzi la pratica, disse alla Regina, che Sforza era affezionato a Re Luigi, e ch'avea mandato a chiamare le sue genti nel Regno, con intenzione di pigliar Napoli e se poteva il castello ancora e lei; e che quest'era cosa, che l'avea saputa per vie certissime e bisognava prestar provisione. La Regina non seppe far altro, che dire a lui, che provedesse e gli ordinò; che la prima volta, che Sforza veniva nel castello, se gli dicesse che la Regina era nella Torre Beverella; onde Sforza entrato là trovò tanti che lo disarmarono e lo strinsero a scendere al fondo dove stava Paolo ed Orso.
Quando questa cosa si seppe per Napoli, diede gran dispiacere alla parte di Durazzo, e massime a coloro ch'erano stati del Consiglio del Re Ladislao, i quali andarono tosto a dire alla Regina, che molto si maravigliavano, che col solo parere del Conte Pandolfello avesse fatto imprigionare Sforza tanto famoso e potente Capitano, dov'era necessario averne consiglio da tutti i savj di Napoli e di tutto il Regno, non solo degli altri della Corte, perchè ciò importava l'interesse non solo della sua Corona, ma di tutto il Regno, che anderia a sangue ed a fuoco, se le genti di Paolo si unissero con quelle di Sforza, per venire a liberare i loro Capitani. La Regina rispose che avea ordinato al Conte, che l'avesse conferito col Consiglio e che colui non avea avuto tempo da farlo per lo pericolo, ch'era nella tardanza; ma che avrebbe ordinato, che si vedesse di giustizia se Sforza era colpevole, e trovandosi innocente il farebbe liberare. Quelli fecero di nuovo istanza che si commettesse la cognizione della causa a Stefano di Gaeta Dottor di legge, e così fu ordinato.
CAPITOLO I. Nozze della Regina Giovanna II col Conte Giacomo della Marcia de' Reali di Francia.
Questo risentimento pose in gran pensiero la Regina e più il Conte Pandolfello, e tanto più, quanto che tutti quelli del Consiglio uniti sollecitavano la Regina, ch'essendo rimasa sola della stirpe di Re Carlo e di tanti Re, che aveano regnato centocinquanta anni, dovesse pigliar marito per aver figliuoli ed assicurar il Regno di quiete; e che il Regno stando in quel modo non potria tardare a vedersi in qualche movimento. A questo s'aggiunse, che le Feste di Natale arrivarono in Napoli Ambasciadori d'Inghilterra, di Spagna, di Cipri e di Francia a trattar il matrimonio, che indussero la Regina a risolversi. E perchè parea più opportuno il matrimonio dell'Infante D. Giovanni d'Aragona, figliuolo del Re Ferrante, di tutti gli altri matrimonj, perchè Ferrante possedea l'isola di Sicilia, donde poteva più presto mandare soccorso per debellare gli emuli della Regina: il Consiglio persuase, che si mandasse in Catalogna Messer Goffredo di Mont'Aquila Dottore di legge e Frate Antonio di Taffia Ministro de' Conventuali di S. Francesco a trattar il matrimonio, i quali furon tantosto in Valenza e lo conchiusero con gran piacere di quel Re. Ma quando gli Ambasciadori tornarono in Napoli, e dissero che l'Infante D. Giovanni, che avea da essere lo sposo non avea più che diciotto anni, e la Regina n'avea quarantasette, si mandò a disciogliere tutto quel, che s'era convenuto e si elesse il matrimonio del Conte Giacomo della Marcia de' Reali di Francia, ma molto rimoto alla Corona; giudicando che potrebbe trattar con lui con più superiorità, che con gli altri, che verrebbero con più fasto e superbia, e patteggiò col di lui Ambasciadore, che s'avesse ad astenere dal titolo di Re, e chiamarsi Conte e Governador Generale del Regno, che del rimanente sarebbe tenuto da lei carissimo. Partì di Napoli l'Ambasciadore sollecitato da molti, che pregasse il Conte d'affrettarsi al venire, e con questo restarono gli animi di tutti quieti. Ma Pandolfello pensando, che fosse poco, che il marito della Regina si chiamasse Conte per la sicurtà sua, e conoscendo la moltitudine degl'invidiosi, che desideravano la rovina sua, pensò di fortificarsi di amicizie e di parentadi, e voltando il pensiero ad obbligarsi Sforza, scese a visitarlo nelle carceri, sforzandosi di dargli a credere, che la Regina l'avea fatto restringere ad instigazione d'altri, e ch'egli tuttavia travagliava per farlo liberare. Sforza ch'era di natura aperta e molto semplice, tenendolo per vero, il ringraziò, e gli promise ogni ufficio possibile di gratitudine, ed egli replicò, che stesse di buon animo, che vi avrebbe interposta Catarinella Alopa sua sorella favoritissima della Regina. Di là a pochi dì avendo conferito questo suo pensiero con la Regina, l'indusse a contentarsi di quanto egli faceva, e ritornato in carcere disse a Sforza, che avea proccurato non solo la libertà, ma la grandezza sua; ma che la Regina volea per patto espresso, che pigliasse per moglie Catarinella, che avea tanto travagliato per liberarlo, e che in conto di dote gli darebbe l'ufficio di G. Contestabile, con ottomila ducati il mese per soldo delle sue genti. Uscì Sforza da prigione, e fur celebrate le nozze con gran pompa; ma di ciò nacque un grandissimo sdegno ed odio contro la Regina, ed il Conte Pandolfello, in tutti quegli del Consiglio, parendo cosa indegnissima, che un semplice Scudiero (che così lo chiamavano) disponesse senza vergogna dell'animo e del corpo della Regina; ma molto più fremevano i servidori del Re Carlo III e del Re Ladislao che vedevano vituperare la memoria di due Re tanto gloriosi, e tra gli altri mostrava maggior doglia Giulio Cesare di Capua, il quale avendo condotto appresso di se gran parte de' soldati del Re Ladislao, aspirava a cose grandi, essendo Sforza carcerato; ma quando lo vide libero ed unito con Pandolfello, già pareva a tutti, che fosse ordinato un Duumvirato di Sforza e del Conte, che avrebbe bastato a poner in un sacco il Conte della Marcia, e partirsi il Regno; onde quando venne l'avviso, che il nuovo marito di Giovanna era in Venezia, e che fra pochi dì sarebbe a Manfredonia, Giulio Cesare si partì con alquanti altri Baroni senz'ordine, ed incontrato il Conte al piano di Troja, fu il primo, che scese da cavallo e lo salutò Re, e così fecero gli altri. Narrò poi in che miseria era il Regno, e quanta speranza avea d'esserne liberato dalla Maestà Sua, perchè la Regina impazzita d'amore, s'era vilmente data in preda d'un ragazzo, il quale avendo apparentato con un altro villano condottiere di gente d'armi, disponeva e tiranneggiava il Regno con gran vituperio della Corona e del sangue reale, e che però bisognava ch'egli con spirito di Re e non di Conte pigliasse la Signoria, e che non aspettasse che que' due manigoldi l'appiccassero, come in tempo di un'altra Regina Giovanna fu appiccato Re Andrea; perchè certamente la Regina, quando si vedesse impedita dal commercio amoroso di colui che amava tanto, non è dubbio che avrebbe posto insidie alla vita sua. Re Giacomo restò punto da doglia e da scorno, parendogli aver pigliata la speranza della Signoria dubbia, e il pericolo e la vergogna certa, perchè con lui non avea condotto esercito; pur lo ringraziò assai, e gli promise che in ogni cosa si sarebbe servito del consiglio e del valor suo. Il giorno seguente, quando il Re fu sei miglia presso Benevento, arrivò Sforza mandato della Regina ad incontrarlo con molta comitiva, il quale senza scender da cavallo lo salutò non da Re ma da Conte: il Re con mal viso non gli rispose altro, se non come stava la Regina; onde gli altri della sua compagnia, vedendo il Capo loro mal visto, ed intendendo che il Conte era stato gridato Re, andarono con tutti gli altri Baroni e cavalieri a baciargli le mani come Re. Ma venendo poi Sforza, Giulio Cesare che sapeva farne piacere al Re, quando l'incontrò alla scala gli disse, ch'essendo nato in un castello di Romagna, non dovea togliere a quel Signore il titolo di Re, che gli avean dato i Baroni nativi del Regno e rispondendo Sforza, che se era nato in Romagna, volea con l'arme in mano far buono ch'era così onorato come ogni Signore del Regno: e posto l'uno e l'altro mano alla spada con grandissimo tumulto, mentre gli altri Cavalieri che erano presenti si posero a spartire, uscì dalla camera del Re il Conte di Troia, che come gran Siniscalco avea potestà di punire gl'insulti che si fanno nella casa reale, e fece ponere in una camera Sforza, ed in un'altra Giulio Cesare tutti due sotto chiave ma con diversa sorte: perchè Giulio Cesare uscì la medesima sera, e Sforza senza rispetto fu calato in una fossa.
La Regina, che la notte medesima ebbe avviso di questo, la mattina mandò a chiamare gli Eletti di Napoli, e loro disse, che il dì seguente il marito era per far l'entrata nella città, che pensassero di riceverlo come Re. Fu ricevuto il Conte da' Napoletani, e salutato Re; il qual giunto che fu alla sala del Castello trovò la Regina, la qual dissimulando il dolore interno con quanta maggior dimostrazione di allegrezza potè, l'accolse; e trovandosi con lei l'Arcivescovo di Napoli con le vesti sacre, fu con le solite cerimonie celebrato lo sponsalizio; e l'una e l'altro andarono al talamo, ove erano due sedie reali; ivi come fu giunta la Regina, tenendolo per la mano si voltò verso le donne, e' Cavalieri e l'altra turba, e disse: Voi vedete questo Signore, a cui ho dato il dominio della persona mia, ed or dono del Regno: chi ama me, ed è affezionato di casa mia, voglia chiamarlo, tenerlo e servirlo da Re. A queste parole seguì una voce di tutti che gridarono: Viva il Re Giacomo e la Regina Giovanna Signori nostri. Da poi che fu consumato quel dì in balli e musiche, seguì la cena ed il Re giacque con la Regina.
Il dì seguente, che tornarono le donne ed i Cavalieri, credendo di continuar la festa reale, come si conveniva per molti giorni, conobbero nella faccia della Regina e del Re altri pensieri, che di festeggiare; perchè sopravvenne da Benevento Sforza incatenato, e con grand'esempio della varietà della fortuna, fu messo nel carcere, onde pochi dì avanti era con tanta grandezza uscito.
Il Re nel dì appresso fece pigliare il Conte Pandolfello, e condurre prigione al castel dell'Uovo, dove fu atrocissimamente tormentato, confessando tutto quello, che il Re volle sapere, e condennato a morte, e nel primo dì d'ottobre fu menato al mercato, ove gli fu mozzo il capo, e da poi il corpo fu strascinato vilissimamente per la città, ed al fine appiccato per li piedi con intenso dolore della Regina e con gran piacere di coloro, ch'erano stati servidori del Re Ladislao.
Avendo adunque il Re Giacomo trovato vero quanto avea detto Giulio Cesare di Capua della disonesta vita della Regina, deliberò di togliere a lei la comodità di trovare nuovo adultero, onde cacciò dalla Corte tutti i Cortigiani della Regina, ed in luogo di quelli pose altrettanti de' suoi Franzesi, e cominciò a tenerla tanto ristretta, che non poteva persona del Mondo parlare, senza l'intervento d'un Franzese vecchio, eletto per uomo di compagnia, il qual con tanta importunità esercitava il suo ufficio, che la Regina senza sua licenza non potea ritirarsi per le necessità naturali.
Il Re Giacomo, se dopo questa depression della Regina avesse saputo rendersi benevoli i Baroni, ogni cosa sarebbe sempre seguita per lui con ottimi successi: perchè tutti i Baroni abbominavano tanto la memoria del tempo di Pandolfello, e gli inonesti costumi della Regina atta a sottomettersi ad ogni persona vile, che avevano a piacere di vederla in sì basso stato; e volevano più tosto ubbidire al Re, che stare in pericolo d'esser tiranneggiati da qualch'altro nuovo adultero. Ma il Re, benchè si mostrasse piacevole a loro, dall'altra parte mettendo gli ufficj in mano dei Franzesi, gli alienò molto da se; tal che pareva, che fossero saltati dall'un male in un altro, ma tra tutti era il più mal contento Giulio Cesare di Capua; il qual essendo di natura ambizioso, ed avendo desiderato sempre uno de' sette Ufficj del Regno, essendo per questo stato autore, che il Conte avesse assunto il titolo di Re, non poteva soffrire, ch'essende vacato l'Ufficio del G. Contestabile, quel del G. Camerario e di G. Siniscalco, gli avesse dati a' Franzesi[265], non tenendo conto di lui, che credea meritarlo molto più degli altri. Dall'altra parte i Napoletani tanto Nobili, quanto del Popolo, sentivano gran danno e incomodità da questa strettezza della Regina, perchè non solo gran numero di essi, che vivevano alla Corte dì lei, si trovavano cassi e senz'appoggio; ma tutti gli altri aveano perduta la speranza di avere da vivere per questa via; oltre di ciò, era nella città una mestizia universale, essendo mancate quelle feste, che si facevano, ed il piacere che avevano in corteggiar la Regina, tanto i giovani, che con l'armeggiare cercavano di acquistar la grazia di lei, quanto le donne, che solevano partecipare de' piaceri della Corte; e per questo essendo passati più di tre mesi, che la Regina non s'era veduta, si mosse un gran numero di Cavalieri e cittadini onorati, ed andarono in castello con dire, che volevano visitare la Regina loro Signora; e benchè da quel Franzese uomo di compagna fosse detto, che la Regina stava ritirata a sollazzo col Re, e che non voleva che le fossero fatte imbasciate: tutti dissero, che non si partirebbero senza vederla. Il Re che vide questa pertinacia, uscì dalla camera, e con allegro e benigno volto, disse, che la Regina non stava bene, e che se venivano per qualche grazia, egli l'avria fatta così volentieri, come la Regina Allora gridarono tutti ad alta voce: noi non vogliamo da Vostra Maestà altra grazia, se non che trattiate bene la Regina nostra, e come si conviene a nata di tanti Re nostri benefattori, perchè così avremo cagione di tener cara la Maestà Vostra. Queste parole fecero restare il Re alquanto sbigottito, che parvero dette con grand'enfasi, e rispose, che per amor loro era per farlo.
Giulio Cesare di Capua informato di questo successo, mosso da sdegno e dallo stimolo d'ambizione, deliberò vindicarsi della ingratitudine del Re, e di tentare (liberando la Regina) occupare il luogo di Pandolfello, e dalla Terra di Morrone, ove dimorava, venne in Napoli; e da poi ch'ebbe visitato il Re con gran simulazione di amorevole servitù, disse che voleva visitar la Regina. I Cortigiani sapendo la confidenza che teneva col Re, l'introdussero nella camera di lei, e gli diedero comodità di parlare quel che gli piaceva. Allora con somma sciocchezza, fidandosi d'una femmina ch'egli avea così atrocemente offesa, gli disse che gli bastava l'animo di torre la vita al Re, e così liberarla dalla servitù e miseria presente. La Regina dubitò che non fosse opra del Re per tentar l'animo suo, poi si risolse per raddolcire il Re, e vendicarsi di Giulio di scoprirgli tutto, e risposegli che n'era contentissima. La Regina confidò il trattato al Re, e perchè lo sentisse colle proprie orecchie, concertò col medesimo che quando Giulio tornava, si fosse posto dietro la cortina. Tornò egli, ed il Re intese il modo che avea pensato per assassinarlo; ma quando uscì del cortile, volendo porre il piede alla staffa, fu pigliato, e con lui il suo Segretario e condotti nel Castel Capoano e convinti, furono di là a due dì nel mercato decapitati. Tutte queste cose fur fatte in cinque mesi dal dì che Re Giacomo era giunto in Napoli.
Il Re avendo con l'esperienza di Giulio Cesare conosciuto che cervelli si trovavano allora nel Regno, cominciò a guardarsi, e ad allargarsi da que' Baroni e Cavalieri che solevano trattare familiarmente seco; e dall'altra parte ogni dì andava allargando la strettezza, in che avea tenuto la Regina, e le mostrava d'esserle obbligato per la fede che avea trovata in lei; ma con tutto ciò non voleva che fosse corteggiata, e perseverava la guardia dell'importuno Franzese, con la quale perseverò ancora la mal contentezza della città, perchè pochissimi aveano adito al Re e niuno alla Regina; ed in questo modo si visse dal principio dell'anno 1415 sin al settembre seguente.
In questo mese avvenne che il Re avendo data licenza alla Regina d'andare a desinare ad un giardino d'un mercatante fiorentino; quando per la città s'intese che la Regina era uscita, vi accorse un gran numero di Nobili insieme e di Popolani che andarono a vederla, e la videro di maniera che a molti mosse misericordia; ed ella ad arte quasi con le lagrime agli occhi, e sospirando benignamente riguardava tutti e pareva che in un compassionevole silenzio dimandasse a tutti ajuto. Erano allora tra gli altri corsi a vederla Ottino Caracciolo, unito con Annecchino Mormile Gentiluomo di Porta Nova che avea grandissima sequela dal Popolo. Questi accordati tra loro di pigliar l'impresa di liberar la Regina, andarono a concitar la Nobiltà e la Plebe, e con grandissima moltitudine di gente armata ritornarono a quel punto che la Regina volea ponersi in Carretta, e fattosi far luogo da' Cortigiani, dissero al Carrettiere che pigliasse la via dell'Arcivescovado. La Regina ad alta voce gridava: Fedeli miei per amor di Dio non m'abbandonate ch'io pongo in poter vostro la vita mia ed il Regno: e tutta la moltitudine gridava ad alta voce: Viva la Regina Giovanna. I Cortigiani sbigottiti fuggirono tutti al Castel Nuovo a dire al Re il tumulto, e che la Regina non tornava al castello. Il Re dubitando di non essere assediato al Castel Nuovo, se ne andò al Castel dell'Uovo. Fu grandissima la moltitudine delle donne che subito andarono a visitar la Regina, ed i più vecchi Nobili di tutti i Seggi si strinsero insieme, e parendogli che non conveniva che la Regina stesse in quel palazzo, la portarono al castello di Capuana, e fecero che 'l Castellano lo consignasse alla Regina. La gioventù tutta amava questa briga, e gridava che si andasse ad assediare il Re; ma i più prudenti di tutti i Seggi giudicavano che questa infermità della città era da curarsi in modo che non si saltasse da un male ad un altro peggiore; perchè prevedevano che la Regina vedendosi libera d'ogni freno, darebbe se, ed il Regno in mano di qualche altro adultero più insopportabile. Perciò cominciarono a pensare del modo da tenersi, per reprimere l'insolenza del Re, e tenere alquanto in fren la Regina; onde fecero Deputati d'ogni Seggio, che andarono a trattare col Re l'accordo. Il Re non sperando da' suoi alcun presto soccorso, fu stretto di pigliarlo in qualunque maniera che gli fosse proposto, e fur conchiuse queste Capitulazioni: Che sotto la fede de' Napoletani venisse egli a starsi con la moglie: che concedesse alla Regina, come a legittima Signora del Regno che si potesse ordinare e stabilire una corte conveniente, e fosse suo il Regno, come era già stato capitolato dal principio che si fece il matrimonio: ch'egli stesse col titolo di Re ed avesse 40 mila ducati l'anno da mantener sua Corte, la quale per lo più fosse di Gentiluomini napoletani. E così fu fatto.
CAPITOLO II. Prigionia del Re Giacomo; sua liberazione per la mediazione di Martino V, eletto Papa dal Concilio di Costanza; sua fuga e ritirata in Francia dove si fece Monaco; ed incoronazione della Regina Giovanna.
La Regina Giovanna volendo ordinar sua Corte, pose l'occhio e 'l pensiero sopra Sergianni Caracciolo, e lo fece Gran Siniscalco: era Sergianni di più di quarant'anni, ma era bellissimo e gagliardo di persona e Cavaliere di gran prudenza. Fece Capo del Consiglio di Giustizia Marino Boffa, Dottore e Gentiluomo di Pozzuoli, al quale diede per moglie Giovannella Stendarda erede di molte Terre: diede l'Ufficio di Gran Camerario al Conte di Fondi di casa Gaetana; e si riempiè la Corte di belli e valorosi giovani, tra' quali i primi furono, Urbano Origlia ed Artuso Pappacoda, e fece cavare dal carcere Sforza, e lo restituì nell'Ufficio di Gran Contestabile; ed essendo innamorata di Sergianni, ogni dì pensava come potesse togliersi d'avanti il Re, per goderselo a suo modo. Ma Sergianni prudentemente le disse che usando ella violenza al Re così tosto, tutta Napoli saria commossa ad ajutarlo; poichè l'accordo era fatto sotto fede de' Napoletani, e che bisognava prima con beneficj e grazie acquistarsi la volontà de' primi di tutti i Seggi, perchè si dimenticassero con l'utile proprio di rilevare il Re; e così s'operava che ogni dì la Regina distribuiva gli Ufficj, in modo che ne partecipassero non solo i Seggi, ma i primi del Popolo. Con questo la città stava tutta contenta. Soli Ottino Caracciolo ed Annecchino Mormile stavano pieni di dispetto e di sdegno, e si andavano lamentando della ingratitudine della Regina ch'essendo stata liberata da loro di così dura servitù, non avesse fatto niun conto di loro; del che essendo avvisato Sergianni, proccurò che la Regina donasse ad Ottino il Contado di Nicastro che fu cagione di far venire Annecchino in maggior furore. E perchè Sergianni stava geloso di Sforza di ch'era maggior di lui di dignità e di potenza, e stando in Corte, poteva superarlo ne' Consigli e cacciarlo dalla grazia della Regina, la di cui lascivia gli era ben nota, cercò di allontanarlo dalla Corte con una occasione che Braccio da Montone Capitano di ventura famosissimo che avea occupata Roma, teneva assediato, per quel che s'intese, il castel S. Angelo, il qual si tenea con le bandiere della Regina; onde propose in Consiglio che si mandasse Sforza a soccorrerlo, forse con speranza che Braccio l'avesse da rompere e ruinare, e così ordinò la Regina che si facesse.
Toltosi davanti Sforza, determinò mandarne anche via Urbano Origlia che per la bellezza e valor suo, armeggiando, ogni dì saliva più in grazia della Regina, e sotto spezie d'onore lo relegò in Germania, mandandolo Ambasciadore della Regina al Concilio in Costanza, dove si trattava di toglier lo Scisma che era durato tant'anni, e dove avanti all'Imperador Sigismondo erano ragunati Ambasciadori di tutti gli altri Principi cristiani, a promettere di dare ubbidienza al Pontefice che sarebbe stato eletto in quel Concilio. Restato dunque Sergianni padrone della casa della Regina, cominciò a pensare di restar solo padrone ancora della persona, e fece opera che la Regina una sera cenando col Re, disse che volea che cacciasse dal Regno tutti i Franzesi; e 'l Re rispose che bisognava pagargli quel che l'aveano servito, seguendolo da Francia; e replicando la Regina in modo superbo ed imperioso che voleva a dispetto di lui che fossero cacciati, il Re non potendo soffrir tanta insolenza, s'alzò di tavola e se n'andò alla camera sua, e la Regina gli pose una guardia d'uomini deputati a questo. Il dì seguente fece fare bando che tutti i Franzesi nello spazio d'otto dì uscissero del Regno. Costoro vedendo il Re loro prigione, se ne andarono subito.
A questo modo restò il Regno e la Regina in mano di Sergianni, il quale volendosi servire del tempo, fece che la Regina restituisse lo Stato e l'Ufficio di Gran Giustiziere al Conte di Nola, purchè pigliasse per moglie una sua sorella, ed un'altra ne diede al fratello del Conte di Sarno; cosa che parve grandissima che due donne, le quali erano pochi dì avanti state in tratto di darsi a Gentiluomini di non molta qualità, fossero senza dote collocate sì altamente.
Questa così presta Monarchia di Sergianni concitò grande invidia a lui, e grande infamia alla Regina, spezialmente appresso quelli che erano della parte di Durazzo, e beneficati dal Re Carlo III e dal Re Ladislao, i quali vedevano vituperata la memoria di due gloriosissimi Re, ed il nome del più antico lignaggio che fosse al mondo, con sì nefanda scelleraggine; ed andavano mormorando, e commovendo i Seggi e la plebe dicendo, che non si dovea soffrire che un Re innocente fosse sotto la fede d'una sì nobile ed onorata città tenuto carcerato, in quella medesima casa, dove l'adultero si giaceva colla moglie, e che potrebbe essere che si movesse tutta la Francia a vendicar questa ingiuria fatta al sangue reale, e fra tutti il più veemente era Annecchino Mormile.
Ma Sergianni che fu il più savio e prudente di quelli tempi, fece distribuire tutte quelle pensioni che si davano a' Franzesi, a' Gentiluomini ed a' Cittadini principali delle Piazze; e per tenersi benevola la plebe ch'era la più facile a tumultuare, fece venire con danari della Regina gran quantità di vettovaglie e venderle a basso prezzo, e con questa arte fece vani tutti gli sforzi degli emuli suoi.
Solo gli restava il sospetto di Sforza, il quale avendo soccorso il Castel di S. Angelo, se n'era ritornato mal soddisfatto di lui, con dire, che Sergianni a studio non avea mandati a' tempi debiti le paghe a' soldati, per fare, che quelli ammutinati passassero dalla parte di Braccio; e per questo s'era fermato colle genti al Mazzone; e senza venire a visitare la Regina si partì di là, ed andò in Basilicata. Questa cosa diede a Sergianni segno del mal animo di Sforza, e per potersi fortificare, affinchè non tutte le genti d'armi, e forze del Regno stessero in mano di Sforza, fece, che subito venisse a soldo della Regina Francesco Orsino, il qual allora fioriva nella riputazion dell'armi; e fece ancor liberar Giacomo Caldora, e gli fece dar denari, acciocchè andasse in Apruzzo a rifar le compagnie; e fece anche sotto pretesto d'intelligenza collo Sforza carcerare Annecchino, il quale alla venuta di Sforza avrebbe potuto movere il popolo a riceverlo colle genti dentro la città.
Mentre queste cose accadevano nel Regno, nella Germania i Cardinali, ed i deputati nel Concilio dopo lungo dibattimento entrarono in Conclave, ed elessero tutti ad una voce il giorno di S. Martino dell'anno 1417 Odone Colonna Cardinal Diacono del titolo di S. Giorgio, che prese il nome di Martino V a cagion del giorno di sua elezione, il quale fu riconosciuto da tutta la cristianità, dandosi fine allo Scisma, che per tanti anni avea travagliata la chiesa. I Franzesi subito fecero istanza al nuovo Papa, ch'intercedesse colla Regina per la libertà del Re Giacomo; e da Urbano Origlia subito ne fu scritto alla Regina. Ma Sergianni non mancò per riparare a questo, di spedire subito Belforte Spinello di Giovenazzo Vescovo di Cassano suo grande amico, e Lorenzo Teologo Vescovo di Tricarico per ambasciadori al Papa a rallegrarsi in nome della Regina dell'elezione e ad offerirgli tutte le forze del Regno per la ricuperazione dello Stato e della dignità della chiesa, promettendo donargli, giunto che fosse in Roma, il Castel di S. Angelo ed Ostia.
Dall'altra parte Sforza tornò con le sue genti in Napoli, e postosi con le sue squadre ordinate alla porta del Carmelo, per dove essendo entrato fece gridare: viva la Regina Giovanna, e mora il suo falso Consiglio. Francesco Orsino all'incontro co' suoi pigliò l'arme, ed assaltò con tanto impeto il campo sforzesco, che lo strinse a ritirarsi, e per la via delle Grotte se n'andò a Casal di Principe, donde per messi e lettere mandava sollecitando tutti i Baroni suoi amici vecchi a liberarsi dalla tirannide di Sergianni. In effetto ne tirò molti al suo partito, ed a due d'ottobre venne con l'esercito alla Fragola, e di là cominciò a dare il guasto alle ville de' Napoletani; onde per Napoli si fè grandissimo tumulto, e crescendo tuttavia l'incomodità intollerabile di quelle cose, che sogliono dì per dì venir a vendersi nella città, ch'erano intercette dalli cavalli di Sforza; per riparare a' mali peggiori, alcuni vecchi proposero, che si creassero deputati, come furono creati a tempo della Regina Margarita, ch'avessero cura del buono stato della città; ed a questo i nobili ed i plebei ad una voce assentirono, e subito furono eletti venti deputati, dieci dei nobili ed altrettanti del popolo, i quali per pubblico istrumento giurarono perpetua unione tra 'l popolo ed i nobili. Questi deputati elessero tra loro dieci, cinque de' nobili e cinque del popolo, ch'andassero a sapere da Sforza la cagione di questa alienazione dalla Regina e dalla città, ove avea tanti che l'amavano, ed a pregarlo, che sospendesse l'offese, per alcuni dì, che si tratterebbe di soddisfarlo in tutte le cose giuste: furono accolti con grande onore da Sforza, il quale loro rispose con molta umanità, ch'egli era buono servidore della Regina, e che si reputava amorevole cittadino di Napoli, e ch'era venuto là per vendicarsi di Sergianni, maravigliandosi, che tanti signori potenti, tanti valorosi cavalieri, quanti erano a Napoli, potessero soffrire una servitù così brutta: ch'egli veniva per liberargli, ed all'ultimo conchiuse, che porrebbe in mano de' signori deputati le sue querele. Quelli replicarono che a queste cose onorate, ch'egli diceva, avria trovata la città grata e pronta a seguirlo; e fu destinato un dì, in cui s'aveano da trovare tutti i Deputati con lui, per trattare quel che s'avea da fare; ed intanto Sforza assicurò tutti i cittadini, che potessero venire alle loro ville e vietò le scorrerie.
Tornati ben soddisfatti nella città i Deputati, andarono alla Regina a pregarla, che concedendo quelle cose, che giustamente chiedea Sforza, liberasse la città di tanto pericolo, ed a' prieghi aggiunsero alcune proteste. La Regina sbigottita non seppe dir altro: andate a vedere, che vuole Sforza da me, e tornate. Quelli senza dimora andarono al tempo determinato a trovarlo, e pigliarono da lui i Capitoli e patti ch'egli voleva, tra' quali i principali furono questi: Che si cacciasse dal Governo e dalla Corte Sergianni: che si liberasse Annecchino ed alcuni altri prigioni: che se gli dessero le paghe, che doveva avere fin'a quel dì, e ventiquattromila ducati per li danni ch'ebbe per la rotta datagli da Francesco Orsino. La Regina pigliò i Capitoli e disse, che voleva trattare col Consiglio quel ch'era da fare, e risponderebbe fra due dì. Allora Sergianni, vedendo, che non poteva resistere alla città unita con Sforza, elesse prudentemente di cedere al tempo, più tosto che di ponere in pericolo lo Stato della Regina; ed innanzi alla medesima fece sottoscrivere la volontà di quella, condennando se stesso in esilio a Procida, e promettendo tutti gli altri patti, che Sforza voleva: esso fu il primo ad osservare quanto a lui toccava, perchè sapeva che Sforza non potea molto stare a Napoli, e che l'esilio non poteva molto durare; l'altre cose furono subito dalla Regina osservate.
Intanto Papa Martino V, sollecitato più volte dal Re di Francia e dal Duca di Borgogna, che trattasse la libertà del Re Giacomo, avea mandato in Napoli Antonio Colonna suo nipote a pregarne la Regina, più con modi d'inferiore, che di pari o maggiore; perocchè avea designato valersi delle forze della Regina, per ricovrar di mano de' tiranni lo Stato della chiesa. Sergianni oltre l'onore che le fece fare dalla Regina, in particolare gli fè tali accoglienze e promesse, che se l'obbligò in modo, che, come si dirà appresso, cavò di quell'obbligo grandissimo frutto; ma quanto alla liberazione del Re fece, che la Regina promettesse farlo liberare a tempo, che stesse in più sicuro stato, e che'l Papa fosse vicino, e la potesse favorire in tanti spessi tumulti.
Questo esilio così vicino di Sergianni, solo in apparenza, parve che gli avesse diminuita l'autorità, poichè in effetto non si faceva cosa nel Consiglio o nella Corte, che non si comunicasse con lui per continui messi: ed in questo mentre Antonio Colonna andò tanto mitigando l'animo di Sforza, che non stava più con quell'odio intenso per abbassarlo. Il Papa intanto da Mantova era venuto a Fiorenza; onde la Regina elesse Sergianni, che in suo nome andasse a dargli ubbidienza e a rassegnargli quelle Fortezze, che Re Ladislao avea lasciato con presidii nello Stato della Chiesa. Antonio Colonna andò insieme con lui, ed avanti che fossero a Fiorenza, Sergianni gli rassegnò la Fortezza d'Ostia, il Castel di S. Angelo e Cività Vecchia, e poi passò a Fiorenza. Così di quanto Ladislao avea conquistato nello Stato di Roma, ne fece Giovanna dono al Pontefice Martino; ma non per questo lasciò ella d'intitolarsi Regina di Roma, come suo fratello; ond'è, che ne' suoi diplomi e capitoli si legga anche fra i suoi titoli, Romae Regina[266].
(Negli altri Codici e diplomi, si legge Ramae, non già Romae, ed è più verisimile che la Regina Giovanna e Ladislao, intitolandosi Re d'Ungheria, si dicessero anche Re di Rama; poichè fra i titoli di quei Re si legge che esprimevasi anche quello di Re di Rama, ch'è una provincia della Dalmazia, così allora chiamata, posta tra la Croazia e la Servia. Così presso Aventino Annal. Boior. lib. 6 si legge in un diploma di Bela Re d'Ungaria: Bela, Dei gratia, Hungariae, Dalmatiae, Croatiae, Ramae, Serviae, Galliciae, Lodomeniae, Clumaniaeque, Rex; nè presso gli Autori di quel Regno mancano altri diplomi di altri Re, nei quali pur si legge lo stesso).
Giunto Sergianni a Fiorenza, fu dal Papa ricevuto con molta umanità, e nel trattare e discorrere della qualità del presente stato sì della Chiesa romana, sì del Regno, si fece Sergianni conoscere per uomo che dovea non meno per la prudenza, che per la bellezza aver la grazia della Regina. Fece veder al Papa che di tutti i Principi cristiani, niuno ajuto era più spedito, e pronto per li Pontefici romani che quello del Regno di Napoli; ed all'incontro niuna forza poter mantenere ferma la Corona in testa a' Re di Napoli più che i favori e la buona volontà de' Pontefici; e con quest'arte ottenne dal Papa, che mandasse un Cardinal Legato appostolico ad ungere e coronare la Regina, ed a darle l'investitura del Regno[267], la quale ancorchè Giovanna l'avesse ricercata a Baldassar Cossa che si faceva chiamare Giovanni XXIII[268], l'era stata sempre differita; e di più che si gridasse lega perpetua fra lei ed il Papa. Poi volendo particolarmente per se acquistare il favor del Papa, e l'amicizia di casa Colonna, promise al fratello, ed a' nepoti grandissimi Stati nel Regno, e si partì molto soddisfatto dell'opera loro; e perchè a quel tempo Braccio tenea occupato quasi tutto lo Stato della Chiesa di là dal Tevere, promise al Papa mandargli tutto l'esercito della Regina con Sforza Gran Contestabile, e pigliò per terra la via di Pisa, e di là poi andò ad imbarcarsi alle galee della Regina, ch'erano venute per lui a Livorno, e si fermò alquanti dì in Gaeta, fingendo d'esser ammalato, e scrisse alla Regina quanto avea fatto, e che ordinasse che si dessero danari a Sforza ed alle genti, acciò che potesse subito partire; perchè dubitava che ritornando di riputazione molto maggiore di quel ch'era partito, l'invidia non movesse Sforza a proccurare ch'egli andasse a finir l'esilio di Procida. La Regina per lo gran desiderio, che avea di vederlo, fece subito ritrovare tutti i denari che Sforza volle, e l'avviò in Toscana in favor del Papa; e Sergianni venne a Napoli ricevuto dalla Regina e da' suoi seguaci, con onore grandissimo che parea, che con questa lega trattata col Papa, avesse stabilito per sempre lo Stato della Regina e della parte di Durazzo; e da allora cominciò a chiamarsi e sottoscriversi Gran Siniscalco: e questo fu nel 1418.
L'anno seguente nel mese di gennajo entrò in Napoli il Legato appostolico che veniva per coronare la Regina, e con lui Giordano Colonna fratello ed Antonio Colonna nipote del Papa. Al Legato si uscì incontro col Pallio, ed a' Colonnesi la Regina ed il Gran Siniscalco fecero onori straordinarj. Questi per la prima cosa trattarono la libertà del Re Giacomo, per la qual dicevano che il Papa era molestato dal Re di Francia e dal Duca di Borgogna, ed all'ultimo l'ottennero; ed acciocchè il Re ricuperasse la riputazione perduta, i Colonnesi, quasi con tutta la cavalleria, l'accompagnarono per la città e poi la sera non volle ritornare al Castel Nuovo, ma a quel di Capuana, dicendo che bisognava, che quelli che si rallegravano della libertà sua, avessero da travagliar di mantenerlo in quella, e non farlo andare là, dove era in arbitrio farlo tornare in carcere, ogni volta che a lei piacesse: e con questo acquistò pietà appresso a' più prudenti.
Perseverando dunque il Re a starsi nel castello di Capuana, pareva a tutti colà inconveniente che 'l Re stesse senz'autorità alcuna, ed in Castel Nuovo si facesse ogni cosa ad arbitrio del Gran Siniscalco; e per questo per tutti i Seggi furono creati Deputati alcuni Nobili principali ad intervenire col Legato appostolico e co' Signori colonnesi, per trattare alcuno accordo stabile tra il Re e la Regina; e non mancarono di coloro che proposero che 'l Re dovesse coronarsi insieme colla Regina, e che se gli giurasse omaggio. Ciò che perturbò molto l'animo del Gran Siniscalco, perchè questa sola era la via di abbassar la sua autorità; e per questo deliberò di acquistar l'animo de' Signori colonnesi, con speranza di fare impedire per mezzo loro quella proposta; e fece che la Regina di man propria facesse albarani di dare ad uno d'essi il Principato di Salerno ed all'altro il Ducato d'Amalfi, con l'ufficio di Gran Camerario, subito che fosse coronata. Trattanto diede per moglie Ruffa ad Antonio Colonna ch'era Marchesa di Cotrone e Contessa di Catanzaro, la quale morì poi senza figli, e lo Stato rimase ad Errichetta sua sorella. Questi insieme col Legato fecero restar contenti i Deputati della città di questo accordo; che s'avesse da mutar Castellano, e cacciar dal Castel Nuovo tutta la guardia, e dare a Francesco di Riccardo di Ortona, uomo di molta virtù e di molta fede, il governo del castello con guardia eletta da lui, e che giurasse in mano del Legato appostolico di non comportar che la Regina al Re, nè il Re alla Regina potesse fare violenza alcuna; e come fu fatto questo, il Re andò a dormire con la Regina.
Ma di là a pochi dì, vedendo che avea solamente ricovrata la libertà, ma dell'autorità non avea parte alcuna; ed ancora vedendo che la Regina passava cinquanta anni ed era inabile a far figli, tal che non potea sperare successione, determinò d'andarsene in Taranto, e di là in Francia a casa sua; e così un dì dopo aver cavalcato per Napoli andò al Molo, e disceso di cavallo e posto in una barca, da quella saltò in una gran nave di Genovesi, ove erano prima andati alcuni suoi intimi, e con prospero vento giunse in pochi dì a Taranto, dove ricevuto dalla Regina Maria con onore, fece opera che il Re trovasse passaggio sicuro per Francia, e 'l provide liberalmente di quanto bisognava, e così se n'andò, dove dicono che al fine si facesse Monaco[269]. Liberata la Regina di quella a lei cotanto molesta compagnia, diede poi ordine per la sua incoronazione, la quale fu celebrata nel Castel Nuovo la domenica a' 2 ottobre sopra un pomposissimo talamo, ricevendo la corona per mano del Legato, e fu letta l'investitura mandata dal Papa, la quale essendosi per deplorabili esempi veduto quanto funesto fosse stato fra noi il Regno delle femmine, l'esclude dalla successione, sempre che vi siano maschi insino al quarto grado, siccome si legge in quella rapportata dal Chioccarello e dal Summonte[270], ed i Napoletani giurarono omaggio alla Regina loro Signora.
(Il Breve di Martino V spedito a Mantua l'anno 1418 col quale si dà facoltà al Legato della Sede Appostolica di coronare la Regina Giovanna, si legge presso Lunig[271] ).
CAPITOLO III. Spedizione di Luigi III d'Angiò sopra il Regno per gl'inviti fattigli da Sforza. Ricorso della Regina Giovanna ad Alfonso V, Re d'Aragona, e sua adozione; e guerra indi seguita tra Luigi ed Alfonso.
La Regina Giovanna rimasa libera per la partita del Re suo marito ed il Gran Siniscalco, a cui ora non mancava altro, che il titolo di Re, abusandosi del suo potere, e convertendo la sua prospera fortuna in disprezzo d'altri e della Regina istessa, furono cagione di maggiori perturbazioni e rovine nel Regno: poichè solo Sforza rimanea che potea, ed era solito di attraversarsi ed impedire la grandezza sua; ma per una occasione che se gli presentò, entrò il Gran Siniscalco in speranza di poterlo abbassare. Era stato Sforza, come si è detto, mandato dalla Regina contro Braccio che teneva invaso lo Stato della Chiesa per combatterlo; e venutosi ad un fatto d'arme, fu Sforza da Braccio rotto nel paese di Viterbo, con tanta perdita de' suoi veterani che parea, che non potesse mai più rifarsi, nè ragunar tante genti che potesse tornare in Regno, e far di quelli effetti che avea fatti prima; onde parea che con l'amor della plebe, con l'amicizia de' Colonnesi e con la rovina di Sforza, fosse lo Stato del Gran Siniscalco tanto stabilito che non avesse più che temere: divenne perciò oltremodo insolente, e cominciò a vendicarsi di tutti i principali de' Seggi della città ch'erano stati mediatori a proccurar l'accordo di Sforza con la Regina, tra' quali erano molti di Capuana. Ristrinse molto la Corte, e levò a molti pensionarj le lor pensioni, e riempiè la Corte di confidenti e parenti suoi: talchè avea acceso nella Nobiltà di Napoli un desiderio immenso del ritorno di Sforza; e benchè il Papa per Brevi spesso sollecitasse la Regina che mandasse danari a Sforza, perchè potesse rifar l'esercito, con diverse scuse si oppose, ed operò che in cambio di danari se gli mandassero parole vane; sperando di sentire ad ora ad ora la novella che Braccio l'avesse in tutto consumato, e per evitar lo sdegno del Papa, ogni volta che veniva alcun Breve o imbasciata, faceva che la Regina donasse qualche Terra di più al Principe di Salerno ed al Duca d'Amalfi.
Sforza essendosi di ciò accorto, e vedendosi marcire, ed essendo sollecitato per lettere da molti Baroni del Regno a venire in Napoli, mandò un suo Segretario a Luigi Duca d'Angiò figliuolo di Luigi II sollecitandolo che venisse all'acquisto del Regno paterno, dimostrando ancora l'agevolezza dell'impresa con la testimonianza delle lettere de' Baroni; e ciò, per quel che si vide poi, fu con saputa anche del Papa.
Il Duca accettò lieto l'impresa, e per lo Segretario gli mandò 39 mila ducati, e 'l privilegio di Vicerè e di Gran Contestabile, co' quali danari Sforza essendo rafforzato alquanto, si avviò a gran giornate; ed essendo entrato ne' confini del Regno, per la prima cosa mandò alla Regina lo stendardo e 'l bastone del Generalato; e poi confortati i suoi che volessero andare per viaggio con modestia grandissima, portando spiegato lo stendardo del Re Luigi III, che così chiamavano il Duca, e confortando i Popoli a star di buon animo, con grandissima celerità giunse avanti le mura di Napoli, e si avanzò nel luogo ov'era stato accampato l'altra volta, e cominciò ad impedire le vettovaglie alla città, ed a sollecitarla che volesse alzar le bandiere di Re Luigi lor vero e legittimo Signore.
( Luigi III perchè per l'impresa di Napoli non gli fossero d'impedimento le controversie che avea con Amadeo VIII Duca di Savoja, trattò pace col medesimo, la quale fu stabilita e firmata a' 15 ottobre del 1418, il cui stromento si legge presso Lunig[272] ).
Questo successo così impensato sbigottì grandemente la Regina, e l'animo del Gran Siniscalco, parendogli altri tumulti che li passati; poichè ci erano aggiunte forze esterne, ed introdotto il nome di Casa d'Angiò che avea tanti anni ch'era stato sepolto. Era nella città una confusione grandissima, perchè quelli della parte Angioina che dal tempo che il Re Ladislao cacciò Re Luigi II padre di questo, di cui ora si tratta, erano stati poveri ed abjetti, cominciarono a pigliar animo, e speranza di ricovrare i loro beni posseduti da coloro della parte di Durazzo, e tenere segrete intelligenze con Sforza, e molti da dì in dì uscivano dalla città e passavano al campo. Ma quel che teneva più in sospetto il Gran Siniscalco era che la parte di Durazzo, la qual trovavasi tra se divisa, non tenea le parti della Regina con quella costanza che richiedea il bisogno, perchè gran parte di essi trattava con Sforza di alzare le bandiere del Re Luigi, purchè Sforza gli assicurasse che il Re donasse il cambio di quelli beni degli Angioini, ch'essi possedevano, a' primi possessori, senza sforzar loro a restituirgli; oltracciò la plebe non avvezza ed impaziente de' disagi, andava mormorando e già si vedea inclinata a far tumulto. E quantunque il Gran Siniscalco proccurasse far introdurre nella città vettovaglie per via di mare, nulladimanco quando sopraggiunse da poi la nuova certa da Genova che fra pochi dì sarebbe in ordine l'armata del Re Luigi, al giunger della quale si sarebbe tolto ogni sussidio di vettovaglie che s'avea per mare, si tenne per imminente la necessità di doversi rendere la città.
Il Gran Siniscalco prevedendo l'imminente ruina, fece più volte ragunare il Consiglio supremo della Regina, e dopo molte discussioni di quel che si avea da fare, fu concluso che si mandasse un Ambasciadore al Papa, con ordine che se non potea aver ajuto da lui, passasse al Duca di Milano o a Venezia; ed a questa ambasceria fu eletto Antonio Carafa soprannomato Malizia, Cavaliere per nobiltà e prudenza di molta stima. Costui giunto a Fiorenza, espose al Papa il pericolo della Regina e del Regno, e supplicò la Santità Sua che provedesse; e se non poteva dar soccorso bastante con le forze della Chiesa, oprasse con l'altre Potenze d'Italia che pigliassero l'armi in difesa del Regno, Feudo della Chiesa; e poi con buoni modi gli dimostrò che facendolo avrebbe insieme mantenuta la dignità dello Stato ecclesiastico, e la grandezza della Casa sua; perchè la Regina per questo beneficio avria quasi diviso il Regno a' fratelli e nipoti di S. Santità. Il Papa rispose che si doleva che quelli mali Consiglieri che aveano o per avarizia o per altro tardato lo stipendio a Sforza, aveano insieme e tirata una guerra tanto importante sovra la Regina loro Signora, e tolto a lui ogni forza e comodità di poterla soccorrere; perchè qual soccorso potea dar egli a quel tempo che appena manteneva un'ombra della dignità Pontificale con la liberalità de' Fiorentini? o che speranza poteva avere d'impetrar soccorso dalle Potenze d'Italia alla Regina, se non avea potuto ottenerlo per se, e contra un semplice Capitano di ventura, com'era Braccio, che tenea occupata così scelleratamente la Sede di S. Pietro e tutto lo Stato ecclesiastico? Queste parole, benchè fossero vere, il Papa le disse con tanta veemenza, che subito Malizia entrò in sospetto, che la venuta del Re Luigi non era senza intelligenza del Papa; e però conobbe che bisognava altrove rivolgere il pensiero.
Alfonso Re d'Aragona avea a quel tempo apparecchiata un'armata per assalire la Corsica, isola dei Genovesi: il Papa gli avea mandato un Monitorio che non dovesse moversi contra quella Repubblica, la quale s'era raccomandata alla Sede Appostolica e contra quell'isola, la quale era stata data da' Pontefici passati a censo a' Genovesi; e 'l Re Alfonso avea mandato Garsia Cavaniglia Cavalier Valenziano Ambasciadore al Papa per giustificar la cagion della Guerra; il quale non avendo avuto niente più cortese risposta di quella che avea avuta Malizia, si andava lamentando co' Cardinali del torto che si faceva al suo Re; ed un di Malizia incontrandolo gli disse che alla gran fama che teneva Re Alfonso, era impresa indegna l'isola di Corsica, massimamente dispiacendo al Papa, e che impresa degna d'un Re tanto famoso saria girare quell'armata in soccorso della Regina, sua padrona oppressa e posta in tanta calamità, dalla quale impresa nascerebbe eterna ed util gloria, aggiungendo a' Regni che avea, non Corsica ch'era uno scoglio sterile e deserto, ma il Regno di Napoli, maggiore ed il più ricco di quanti Regni sono nell'Universo; perchè la Regina ch'era vecchia e senza figli, vedendosi obbligata da tanto e tal beneficio, non solo lo istituirebbe erede dopo sua morte, ma gli darebbe in vita parte del Regno, e tante Fortezze per sicurezza della successione. Tutte queste promesse faceva Malizia, perchè ogni dì era avvisato da Napoli che la necessità cresceva, e che la città non si potea tenere senza presto o speranza di presto soccorso. Il Cavaniglia disse che tenea per certo che il Re per la sua magnanimità, e per tante offerte avrebbe accettata l'impresa e lo confortò ad andar a trovarlo in Sardegna dove era. Non tardò punto di ciò Malizia ad avvisar la Regina, e mandò con una Fregata Pascale Cioffo Segretario di lei che avea condotto seco che se alla Regina piaceva ch'egli andasse a trattar questo, gli mandasse proccura ampissima e conveniente a tanta importanza; ed egli tolto commiato dal Papa andò ad aspettar la risoluzione a Piombino. Andò con tanta celerità la Fregata, e trovò con tanto timore la Regina ed i suoi che si spese poco tempo in consultare; onde Pascale in sette dì ritornò a Piombino con tutta la potestà che potesse avere o desiderare; e Malizia subito partito con vento prospero giunse in Sardegna e impetrata udienza dal Re Alfonso, gli espose i desiderj della Regina; e per maggiormente invogliarlo all'impresa, gli disse ch'egli avea avuta da lei potestà grandissima di trasferire per via d'adozione la ragione di succedere al Regno dopo i pochi dì ch'ella potrà vivere e consegnare ancora in vita di lei buona parte del Regno. Il Re rispose che gli dispiaceva degli affanni della Regina, e ch'egli teneva animo di soccorrerla per proprio istituto: e non già con animo di acquistar il Regno, avendone tanti che gli bastavano; ma che bisognava che ne parlasse con suoi Consiglieri; ed il dì seguente fece adunar il Consiglio. Que' del Consiglio tutti dissuasero al Re l'impresa; ma Alfonso senza dar segno della volontà sua, mandò a chiamar Malizia, e gli disse il parere de' suoi Baroni; ma che con tutto ciò voleva soccorrere la Regina, e che avrebbe mandate per allora sedici galee ben armate insieme con lui, e che avrebbe anche mandata una quantità di moneta, perchè si fossero soldati uomini d'arme italiani, e poi sarebbe venuto anch'egli di persona a veder la Regina. Malizia lodò il pensiero di Sua Maestà, e promise che la Regina ancora avrebbe aggiunto tanto del suo, che avessero potuto soldar Braccio ch'era in quel tempo tenuto il maggior Capitano d'Italia e fierissimo nemico di Sforza. Il dì seguente il Re fece chiamar il Consiglio e manifestò la volontà sua ch'era di pigliar l'impresa; poi ordinò a Raimondo Periglios ch'era de' primi Baroni della sua Corte, e tenuto per uomo di molto valore che facesse poner in ordine le galee per partirsi insieme coll'Ambasciadore della Regina. Malizia tutto allegro, per confortar gli animi degli assediati, fece partir subito Pascale con l'avviso che 'l soccorso verrebbe fra pochi dì; ed egli per acquetar gli animi dei Catalani che stavano malcontenti dell'impresa, per istrumento pubblico in nome della Regina adottò Re Alfonso, e promise assignargli il Castel Nuovo di Napoli, ed il Castel dell'Uovo, e la Provincia di Calabria col titolo di Duca, solito darsi a coloro che hanno da succedere al Regno, e fatto questo tolse licenza dal Re, e si pose su l'armata insieme con Raimondo.
Mentre questi apparecchi si facevano per la Regina, il Re Luigi colla sua armata all'improvviso giunse a Napoli, ed avendo poste le sue genti in terra, unite con quelle di Sforza strinse la città; la quale si sarebbe a lui resa, se opportunamente non fosse sopraggiunta l'armata aragonese comandata dal Periglios, che fu dalla Regina accolto con somma stima, la quale per mostrar la ferma deliberazione del suo animo, acciocchè Alfonso e que' del suo Consiglio non ne dubitassero, il dì seguente per atto pubblico ratificò l'adozione e tutti i capitoli stipulati in Sardegna, e fu dato ordine, che negli stendardi ed in molti altri luoghi fossero dipinte l'arme d'Aragona quarteggiate con quelle della Regina, e fu bandita per tutto l'adozione e la lega perpetua. Si mandò ancora a soldare Braccio da Perugia, il quale non volle venire, se, oltre il soldo, la Regina non gli dava l'investitura di Capua e dell'Aquila che avea dimandata.
Intanto Aversa erasi resa al Re Luigi, e crescendo tuttavia la parte angioina, fu mandato a sollecitar Braccio, il qual venuto con tremila cavalli, ruppe Sforza, che gli contrastava il passo e venne a Napoli, dove dalla Regina fu caramente accolto.
Re Alfonso ch'era passato in Sicilia, ancorchè fosse stato più volte sollecitato dalla Regina a venir presto, ed egli andava temporeggiando, avendo intesa la venuta di Braccio in Napoli, partì da Sicilia con l'armata e se ne venne ad Ischia. La Regina mandò il G. Siniscalco ad incontrarlo con alquanti Baroni, il qual dopo le lodi e grazie, resegli da parte di lei, l'invitò a passare coll'armata al Castel dell'Uovo, da dove la Regina voleva farlo entrare in Napoli con quella pompa ed apparato, che conveniva ad un tanto Re e suo liberatore. Il G. Siniscalco rimase poco contento, vedendo il Re così bello di persona, valoroso, magnanimo e prudente; ed oltre di ciò la compagnia di tanti onorati Baroni aragonesi, castigliani, catalani, siciliani ed altre nazioni soggette al Re, perchè dubitava che l'autorità sua in breve sarebbe in gran parte, e forse in tutto diminuita ed estinta, e si ricordava bene dell'esito del Conte Pandolfello, temendo, che tanto peggio potea succedere a lui, quanto che questo Re era di maggior ingegno, valore e potenza, che non era stato Re Giacomo; con tutto ciò ingegnossi coprire questo suo sospetto e fece disporre apparati magnifici per l'entrata d'Alfonso in Napoli. Il Re nel dì statuito, avendo cavalcato con gran pompa per la città, fu condotto al Castel Nuovo, dove la Regina discese sin alla porta, ricevendolo con ogni segno di amorevolezza e di letizia, e da poi che l'ebbe abbracciato, gli consignò le chiavi del castello, ed il rimanente di quel dì e molti altri appresso si passarono in feste e conviti, ed in questi dì in presenza di tanti Baroni, e di quasi tutta la nobiltà e popolo, dal Re Alfonso e dalla Regina si ratificarono l'adozione e tutti i capitoli poc'anzi ratificati con Periglios, e sotto il dì 8 di luglio di quest'anno 1421 se ne stipulò nuovo istromento, che, oltre Chioccarello[273], si legge presso il Tutino, che l'ha fatto imprimere nel suo libro de' G. Contestabili.
Giunto Alfonso colla sua armata in Napoli, s'accese più fiera la guerra in Terra di Lavoro col Re Luigi, il quale fortificato in Aversa, che se l'era resa, avea posta quella provincia in confusione. Alfonso dall'altra parte stimolato dal G. Siniscalco andò a porre l'assedio ad Acerra, che era allora posseduta da Giovanni Pietro Origlia nemico di Sergianni. E Braccio nel medesimo tempo avendo assaltato l'esercito di Sforza, faceva premurose istanze, che se gli dasse la possessione di Capua; ed andandosi dalla Regina temporeggiando, Braccio andò a lamentarsene col Re Alfonso, il quale per non disgustar quel Capitano Indusse la Regina a consegnargliela. Tenendo ancor Alfonso assediata Acerra, Martino V temendo, che finalmente Alfonso (di cui si era scoperto nemico, per la mano che avea avuta a far venire Re Luigi) non rimanesse superiore, spedì due Cardinali per pacificare questi due Re; e mentre trattavano col Re Alfonso le condizioni della pace, Alfonso dubitando che non fossero venuti per dargli parole, non volle tralasciar l'assedio di quella città, e cominciò a batterla più fortemente che prima, non ostante la gagliarda resistenza degli Acerrani.
I due Cardinali per la forte difesa di quella piazza vedendo la grande strage che ne seguiva e che sarebbe riuscito vano il disegno d'Alfonso, lo pregarono che non volesse esporre a tanto pericolo i suoi, promettendo che Papa Martino avria almeno presa in sequestro Acerra, sì che non avrebbe potuto nuocere allo Stato della Regina Giovanna, e, conchiudendosi la pace, l'avrebbe forse assignata a lei. Il Re piegato ai prieghi de' Cardinali levò l'assedio; e Luigi chiamò a se i presidii e fece consignare Acerra in deposito ai Legati appostolici; ed il Re Alfonso si ritirò a Napoli e Braccio co' suoi a Capua. Fu conchiusa tregua fra questi due Re per tanto spazio, quanto parea, che bastasse per trattare la pace; e poco da poi il Re Luigi andò a trovar Papa Martino, e lasciò Aversa e gli altri luoghi alli medesimi Legati; e Sforza ebbe per patto nella tregua di potersene andare a star a Benevento, ch'era suo.
Martino V era tenuto da Alfonso in freno, perchè sebbene col Concilio di Costanza fosse cessato lo scisma, e Gregorio XII e Giovanni XXIII avessero ubbidito a quello e deposto il pontificato; nulladimanco Benedetto XIII Antipapa ancor viveva ostinato, e s'era fatto forte in un luogo inespugnabile in Spagna, chiamato Paniscola, dove con pertinacia grandissima accompagnato da quattro Cardinali conservava ancora il nome e' contrassegni della pontifical dignità, e voleva morire col titolo di Papa, ancorchè da nazione alcuna non fosse ubbidito. Re Alfonso ponendo in gelosia Martino e dimostrando, che se non avesse favorito le parti sue, avrebbe fatta dare ubbidienza da tutti i suoi Regni all'Antipapa, ottenne pochi mesi da poi, che il Papa gli facesse consignare non pure Acerra ma tutte le terre, che i Legati tenevano sequestrate. In Napoli si fece grand'allegrezza, perchè parea, che la guerra fosse finita, tenendosi l'Aquila solamente per se alla divozione del Re Luigi; onde Alfonso per togliersi d'avanti Braccio, gli comandò che andasse ad espugnarla: Braccio ne fu molto contento; poichè per virtù de' patti, quando venne a servire la Regina ed Alfonso, gli era stata promessa. Così la provincia di Terra di Lavoro restò libera, ed in Napoli i partigiani della Regina viveano assai quieti.
CAPITOLO IV. Discordie tra Alfonso, e la Regina Giovanna, la quale rivoca l'adozione fattagli, e adotta Luigi per suo figliuolo.
Ma non durò guari nel Regno questa quiete, poichè nel mezzo della Primavera di quest'anno 1422 venne una peste in Napoli, che obbligò il Re e la Regina di andare a Castellamare; ma non potendo questa Città mantenere due Corti Regali, andarono amendue a Gaeta, dove appena giunti, furono visitati da Sforza, che partito da Benevento venne ad inchinarsi ad Alfonso. Fu Sforza da Alfonso accolto con grande umanità e cortesia: tanto che sorpreso da tanta gentilezza andava predicando la generosità e clemenza di un tanto Re. Ciò che diede esempio a gran numero di Baroni della parte Angioina, che facessero il medesimo; laonde molti che aveano offeso la Regina, ed il Gran Siniscalco, confidati alle parole di Sforza, andarono con grandissima fiducia ad inchinarsi ad Alfonso, e furono benignamente da lui accolti, giurandogli fedeltà, con dispiacere grandissimo della Regina.
Questa fu la cagione, che siccome sino a quel dì aveano governato ogni cosa con gran concordia, d'allora innanzi nacquero quelle sospizioni e discordie, che furono poi cagione d'infiniti danni; poichè il Gran Siniscalco, ch'era lo spirito e l'anima della Regina, non potea soffrire, che Alfonso s'avesse fatto giurare omaggio dalle Terre prese e da' Baroni ch'erano venuti a visitarlo perchè parea segno, che volesse pigliar innanzi il dì della morte della Regina la possessione del Regno contra i patti dell'adozione; e facendolo intendere alla Regina, avea venenato l'animo di lei di maggiore sospizione, ed obbligatala ad amarlo ogni dì più, vedendo la cura ch'egli tenea dello stato e della salute di lei, perchè le disse, che un dì Alfonso l'avrebbe pigliata, e mandatala in Catalogna cattiva, per occupar il Regno e con quello poi occupar tutta Italia. Per questo timore la Regina deliberò guardarsi quanto più potea, ed all'impensata si partì da Gaeta e venne a Procida: passò poi a Pozzuoli con determinazione di portarsi in Napoli, dove la peste dopo aver fatta gran strage, era cominciata a cessare. Il Re Alfonso che avea creduto, che la Regina avesse da tornare da Procida a Gaeta, quando intese che avea presa la via di Pozzuoli per andare a Napoli, portossi con pochissima compagnia a visitarla in Pozzuoli, credendosi levarle ogni sospezione; ma fu tutto il contrario, perchè la Regina timida entrò in maggior sospetto, onde subito che Alfonso fu partito da lei per andare a veder Aversa, ella se ne venne per terra a Napoli, nè volle entrare nel Castel Nuovo, ma se ne passò al castello di Capuana. Il Re trovandosi ad Aversa fu subito avvisato di questi andamenti della Regina, e conoscendo l'instabilità di costei, lo spirito, l'ambizione del G. Siniscalco, dubitando che non macchinassero qualche novità, venne subito a Napoli ed alloggiò al Castel Nuovo, e già si vedeano intermesse le visite tra lui e la Regina; onde ogni persona di giudizio era in opinione che la cosa non potrà tardare a venire in aperta rottura. Alfonso conoscendo, che quest'alterazione di mente della Regina era per suggestione del G. Siniscalco, credendo che levato di mezzo l'autore delle discordie, avrebbe ottenuto dalla Regina quanto voleva, a' 27 maggio dell'entrato anno 1423 lo fece carcerare; e poi cavalcò subito per andare a trovar le Regina, non si sa se con animo di scusarsi con lei della cattura di quello, o se andava per mettersi in mano anche la Regina, e quando vedesse di non poter piegarla a mutar vita, mandarla in Catalogna. Ma subito che il G. Siniscalco fu preso, ne fu avvisata la Regina, e vedendo il Re venire, gli fece chiudere in faccia le porte del castello; onde Alfonso rispinto sì bruttamente, ritornossene al Castel Nuovo, ed in Napoli fu gran confusione e disordine tra' Spagnuoli e Catalani da una parte, ed i Napoletani, che seguivano il partito della Regina, dall'altra.
In tanta costernazione, la Regina ristretta coi primi e più fedeli della sua Corte, consultò quello che si avea da fare, e con voto di tutti fu risoluto di mandare a chiamare Sforza, ed a pregarlo che per l'amicizia antica venisse a liberarla. Sforza che in quel tempo si trovava a Benevento molto povero, per essere stato molti mesi senza stipendio alcuno, ebbe grandissimo piacere di questo avviso, sperando gran cose, perchè si confidava o di far rivocare l'adozione fatta al Re Alfonso e di far chiamare all'adozione Re Luigi suo amico; o avere in arbitrio suo la Regina e 'l Regno per quanto ubbidiva a lei; e senza indugio alcuno, adunati i suoi veterani, a' quali erano arrugginite l'arme e smagriti i cavalli, con quelli si pose in via verso Napoli. Alfonso intendendo che Sforza veniva, inviò Bernardo Centiglia ad incontrarlo con tutti i Baroni catalani e siciliani e con tutti i soldati dell'armata; e fattosi un fatto d'armi vicino le mura di Napoli, Sforza ruppe l'esercito d'Alfonso, ed entrato dentro la città, assediò Alfonso dentro il Castel Nuovo; e dopo aver visitata la Regina, che l'accolse con grandi onori, chiamandolo suo liberatore, partì da Napoli ed andò ad assediare Aversa.
Alfonso trovandosi dopo questa rovina così solo e senza danari da poter fare nuovo esercito, stava in grandissima angoscia; due speranze però lo confortavano, l'una per aver egli molti mesi innanzi comandato, che si facesse un'altra armata in Catalogna, perchè non voleva, non ostante l'impresa del Regno, abbandonar quella di Corsica, ond'ora inviò subito a sollecitarla, che venisse a soccorrerlo: l'altra era nell'esercito di Braccio, che stava all'assedio dell'Aquila; ma in questo facea poco fondamento, sì per l'avidità di Braccio di pigliar l'Aquila, come ancora perchè non sperava che i soldati Bracceschi senza nuove paghe si movessero per soccorrerlo; con tutto ciò mandò a chiamarlo, e ne seguì quello che avea pensato. Ma quindici dì dopo la rotta, essendo arrivato in Gaeta Giovanni di Cardona Capitan Generale dell'armata, che consisteva in diece galee e sei navi grosse, avendo inteso in che stato stava il suo Re, venne subito verso Napoli. Furono molti che dissero che quest'armata era ordinata venisse, per lo disegno che avea fatto il Re, se gli riusciva, di pigliar la Regina per mandarnela cattiva in Catalogna; ed era da credere, poichè trovandosi a quel tempo il Regno quieto senza guerra, non bisognava che venisse armata.
Giunta l'armata vicino al molo di Napoli, il Re comandò, che i soldati smontassero; e trovandosi nella città gran parte dell'esercito di Sforza, che teneano assediato Castel Nuovo, s'accese dentro le mura di quella una crudele ed ostinata Guerra, che pose in iscompiglio e sconvolgimenti la città con miserabili saccheggi ed incendii, cotanto ben descritti dal Costanzo. La Regina, scorgendo nella città tante revoluzioni, entrò in tanto timore che le pareva essere ad ora in ora legata da' Catalani; onde spesso si raccomandava a molti Cavalieri, ch'erano concorsi al castello di Capuana, che avessero cura della guardia della sua persona e mandò subito a Sforza che stava ad Aversa a pregarlo, che venisse tosto a liberarla da quel pericolo assai maggiore dell'altro. Venne Sforza in Napoli, liberò la Regina e la condusse in Nola; e poi pigliata Aversa, la condusse là, dove fu maneggiata una nuova adozione, che valse a far perpetui e continui li travagli e sconvolgimenti di questo Reame.
Dall'altra parte le forze del Re Alfonso tuttavia crescevano; perocchè, essendosi alle sue truppe aggiunte quelle di Braccio, pensò Sforza di accrescere il partito della Regina, per potergli fare un più vigoroso contrasto; onde operò con la Regina che si dovesse valere delle forze degli Angioini; ed avendogli con solenne istromento a primo luglio di quest'anno 1423[274] fatto rivocare l'adozione prima fatta ad Alfonso, per cagion d'ingratitudine, che diceva averle usato quel Re, la persuase, che adottasse Re Luigi; e poichè la Regina si vedeva molto sola, e molti beneficati da lei, per invidia che aveano al G. Siniscalco, seguivano la parte del Re Alfonso o in secreto, o scovertamente, non solo s'inchinò a chiamare Re Luigi, ma fece ripatriare tutti gli Angioini, rendendo alla maggior parte di loro le cose, che aveano perdute.
Ma come la Regina compiacque a Sforza di accettar questo suo consiglio, così ancora Sforza che conoscea ch'ella ardea di desiderio di ricovrare il Gran Siniscalco, permise che trattasse lo scambio di lui con alcuni de' Baroni catalani ed aragonesi. La Regina, che non desiderava altro, ogni dì mandava a trattar il cambio con Alfonso: il quale conoscendo la sua pazzia, che senza vergogna alcuna avria riscosso il Gran Siniscalco, con togliersi anche la corona di testa, quando altramente non avesse potuto: mandò a dirle che non bastavano nè uno nè due, ma bisognavano darsi tutti i prigioni catalani ed aragonesi per Sergianni. La Regina donando molte terre a Sforza pigliò da lui tutti i prigioni che teneva che furono questi: Bernardo Centiglia, il qual fu Capitan Generale, Raimondo Periglios, Giovanni di Moncada, Mossen Baldassen, Mossen Coreglia, Raimondo di Moncada, Federico Vintimiglia, il Conte Enrique ed il Conte Giovanni Ventimiglia e gli mandò al Re in cambio del Gran Siniscalco, il quale fu liberato, e come fu giunto in Aversa, ricordevole delle cose passate tra lui e Sforza, cercò di farselo benevolo e stringerlo per via di parentado, facendo opera che Sforza desse Chiara Attendola sua sorella a Marino Caracciolo suo fratello. Sergianni ch'era entrato ora in maggior grazia della Regina che fosse mai, lodò la rivocazione dell'adozione fatta di Re Alfonso sotto titolo d'ingratitudine, ed insisteva anch'egli che s'adottasse Re Luigi d'Angiò, il quale si trovava ancora in Roma presso il Pontefice Martino; poichè come Cavaliere prudente pensava, che introducendosi un Re d'un sangue reale, avesse estinta l'invidia e tolta la calunnia che gli davano ch'egli volesse farsi Re; perciò furono mandati Ambasciadori in Roma a trattare col Re Luigi l'adozione, i quali trovarono tutta la facilità, e non solo conchiusero col Re l'adozione con que' patti che essi vollero; ma tirarono ancora Papa Martino a pigliare la protezione della Regina contra Re Alfonso, ed ebbero poca fatica a farlo, perchè il Papa, oltre di riputarsi gravemente offeso da Alfonso che sosteneva ancora, benchè secretamente, il partito di Benedetto XIII, desideroso di ponere la Chiesa nello stato e riputazione antica, desiderava che il Regno restasse più tosto in potere del Re Luigi ch'era più debole di forza, e che avrebbe avuto sempre bisogno de' Pontefici romani, che vederlo caduto in mano d'Alfonso Re potentissimo per tanti altri Regni che possedea, per li quali era atto a dar legge a tutta Italia, non solo a' Pontefici romani. Conchiusa dunque l'adozione, senza dilazione di tempo condussero gli Ambasciadori con esso loro Re Luigi, con capitolazione che avesse da tener solo il titolo di Re, poichè avea da competere e da contrastare con un altro Re: ma in effetto fosse sol Duca di Calabria co' medesimi patti ch'erano stati fermati nell'adozione del Re Alfonso.
Questa adozione fornì la Casa del Duca d'Angiò di questa seconda razza di doppio titolo, e doppia ragione sopra questo Reame; poichè a quello della Regina Giovanna I, dalla quale fu chiamato al Regno Luigi I d'Angiò avo del presente, s'aggiunse quest'altro della Regina Giovanna II, donde da poi i Re di Francia, a' quali furon trasfusi questi diritti, pretesero appartener loro il Reame per doppia ragione. Quindi sursero le tante ed ostinate guerre che i due Luigi, Carlo VIII e Francesco I mossero agli Aragonesi ed agli Austriaci, le quali miseramente per più secoli l'afflissero.
Re Luigi giunto ad Aversa, fu dalla Regina ricevuto con grande onore e dimostrazione d'amorevolezza, e dopo molte feste la Regina fece pagare un gran numero di denari a Sforza, perchè ponesse in ordine le sue genti per potere attendere alla recuperazione di Napoli. Il Papa mandò Luigi Colonna Capo delle genti ecclesiastiche, e molti altri condottieri minori in favor della Regina; e da poi proccurò ancora che Filippo Visconti Duca di Milano, (il quale a quel tempo era formidabile a tutta l'Italia, e ch'era entrato in sospetto della troppa potenza d'Alfonso) s'unisse con lui in difesa della Regina.
CAPITOLO V. Alfonso parte di Napoli, e va in Ispagna; e Napoli si rende alla Regina Giovanna. Insolenze del Gran Siniscalco; sua ambizione ed infelice morte.
Quando Re Alfonso ebbe intesa la nuova adozione del Re Luigi, e la confederazione del Papa e del Duca di Milano contro di lui, cominciò a dubitare di perdere Napoli, perchè fin a quel dì i Napoletani della parte Angioina erano stati tanto depressi e conculcati dal Gran Siniscalco, ch'erano divenuti Aragonesi, ed aveano piacere di vedere in rovina lo stato della Regina e del Gran Siniscalco; ma dappoichè intesero l'adozione del Re Luigi, saliti in isperanza di ricovrar le cose loro, erano per far ogni sforzo, acciocchè la città ritornasse in mano della Regina; e già s'intendeva che da dì in dì molti andavano in Aversa a trovare Re Luigi in palese, e molti che non aveano ardire di palesarsi, lo visitavano per secreti messi. Perciò Alfonso mandò a chiamar Braccio, il quale ancora penava per ridurre l'Aquila, che venisse colle sue genti a Napoli. Ma Braccio che confidava, che quella Piazza si rendesse fra pochi dì, rispose ad Alfonso, ch'era assai più necessario conquistar quella provincia bellicosa ed ostinatamente affezionata alla parte Angioina, che tener Napoli, la qual solea esser di coloro, che vinceano la campagna, e che perciò gli mandava Giacomo Caldora, che tenea il primo luogo nel suo esercito dopo lui, e Berardino della Carda, e Riccio da Montechiaro Colonnello di fanteria. Questi con mille e ducento cavalli, e mille fanti vennero subito a Capua, e da Capua, avendo inteso ch'erano venute alcune navi e galee con genti fresche da Barzellona, vennero in Napoli.
Dall'altra parte Sforza, avendo poste in ordine le sue genti, persuase a Re Luigi che andasse sopra Napoli, onde si partirono da Aversa il primo d'ottobre, e vennero per tentare di pigliar Napoli per la porta del mercato; ed essendo seguìto un fatto d'arme, nel quale restò Sforza vittorioso, Re Luigi entrò in grandissima speranza di pigliarla. Mentre Alfonso era in questi travagli, gli vennero lettere da Spagna con avvisi, che Giovanni Re di Castiglia suo cognato e cugino, che si governava tutto per consiglio di D. Alvaro di Luna, nemico alla Casa Aragona, avea messo in carcere D. Errico d'Aragona amatissimo fratello del Re Alfonso, perchè avea tolta per moglie D. Catarina sorella del Re di Castiglia, contro la volontà di lui; per la qual cagione Alfonso deliberò d'andar in Ispagna per liberar il fratello, ed ancora per dubbio, che il Re di Castiglia instigato da D. Alvaro, non tentasse di occupare il Regno di Aragona e di Valenzia, mentr'egli guerreggiava in Italia. Dunque postosi in ordine, lasciò D. Pietro suo ultimo fratello per Luogotenente Generale in Napoli, e partitosi con diciotto galee e dodici navi grosse, per cammino assaltò Marseglia, città del Re Luigi, all'improvviso e la prese e saccheggiò e ne portò in Ispagna il Corpo di S. Luigi Vescovo di Tolosa, e non volle tenere quella città, per non diminuire l'esercito lasciando i presidj, perchè credea aver di bisogno di gente assai per la guerra di Spagna, ove stette molt'anni impedito per liberare il fratello.
Nel principio dell'anno seguente 1424 venne l'armata di Filippo Visconti Duca di Milano, la quale presa Gaeta, che si tenea per Alfonso, navigò verso Napoli ove giunta, fu posto in terra l'esercito nella porta del Mercato; onde le cose del Re Luigi sempre più andando prospere, fur cagione che il Caldora passasse in questo modo alla sua parte. Vedendo il Re e la Regina che per l'assedio di Napoli bastavano le genti del Duca di Milano, mandarono Sforza col suo esercito a soccorrer l'Aquila, che ancora era assediata da Braccio; ma Sforza nel passar il fiume di Pescara si annegò: il Caldora ch'estinto Sforza, si confidava di ottenere il luogo di Gran Contestabile, ed esser il primo di quella parte, si voltò alla parte della Regina, rendendo la città di Napoli; e l'Infante D. Pietro con i migliori soldati che avea si ritirò al presidio del castello. La festa di tutta la città fu grandissima, il popolo concorse a saccheggiar le case degli Spagnuoli e de' Siciliani, e la Regina fece tornar le genti del Duca in Lombardia molto ben soddisfatte.
Restava solo nel Regno l'esercito di Braccio, che tenea le parti del Re Alfonso; ma il Re Luigi e la Regina dando il bastone di Capitan Generale al Caldora, lo mandarono a danno di Braccio; e come fu giunto al Contado di Celano trovò le genti di Papa Martino capitalissimo nemico di Braccio, e con quelle e col suo esercito diede una fiera rotta alle genti di Braccio, dove questi restò morto e Nicola Piccinino prigione.
Con tutto che il Re Alfonso fosse stato avvisato che Napoli s'era perduta, e che l'Infante si fosse salvato nel Castello, non volle però abbandonare le cose del Regno e mandò a soccorrere il castello; e pochi dì da poi comparve in Napoli Artale di Luna mandato dal Re a liberar l'Infante dall'assedio, il quale lasciati nel castello i migliori soldati, e grandissima munizione di vettovaglie, si pose in mare e se ne n'andò in Sicilia. Così la Regina ed il Re Luigi stettero alcuni anni assai quieti, mentre che Alfonso fu occupato nelle cose di Spagna: e benchè il Castel Nuovo si tenesse per Re Alfonso, come si tenne poi gran tempo, la Regina visse molti anni quieta, nel quali anni di riposo si diede a riformare il Tribunal della Gran Corte della Vicaria per mezzo de' Riti che fece compilare, ad istituire il Collegio de' Dottori, e ad applicare il suo animo agli studj di pace e di religione, come diremo.
Intanto il Gran Siniscalco vedendosi nel colmo di ogni felicità, perchè dubitava che Re Luigi nuovamente adottato dalla Regina non tenesse la medesima volontà che avea tenuta Re Alfonso di abbassarlo, non volle mai che Castel Nuovo si stringesse d'assedio; anzi più volte diede tregua ad Arnaldo Sanz che era rimaso Castellano in nome del Re Alfonso per tenere sospetto il Re Luigi, che sempre che volesse mostrarsi contrario alla grandezza sua, avrebbe richiamato il Re Alfonso. Ed in cotal modo si tenne il castello undici anni con le bandiere d'Aragona, fin alla morte della Regina Giovanna; e pareva cosa molto strana che il Castellano mandasse nel tempo di tregua a comprare nella città quel che gli bisognava e s'intitolasse Vicerè del Regno.
Il Re Luigi, ch'era di natura mansueta, stette sempre all'ubbidienza della Regina: onde il Gran Siniscalco operò con la medesima che donasse a quel Re il Ducato di Calabria, e gli diede tutte le genti sue stipendiarie che andasse a conquistarlo dalle mani de' Ministri del Re Alfonso; ed egli restò assoluto Signore di tutto il rimanente del Regno, nè avea altro ostacolo che Giacomo Caldera ed il Principe di Taranto ch'era nel Regno grandissimo Signore; onde per assicurarsi di loro, diede una delle sue figliuole per moglie ad Antonio Caldera figliuolo di Giacomo, e l'altra a Gabriele Orsino fratello del Principe, dandogli il Contado di Acerra quasi a titolo di dote. A questo modo stabilì le cose sue che non era chi potesse contrastare o resistere alla volontà sua; e così disfece molte famiglie, come gli Origli, li Mormili, li Costanzi e li Zurli, togliendo ad altri ed investendo i suoi de' loro Stati, e distribuì a molti di Casa Caracciolo terre e castelli. E quindi avvenne che mentre durò la guerra fra' tre Luigi d'Angiò, col Re Carlo III, Ladislao e la Regina Giovanna, si trovino privilegi ed investiture di molte terre in fra di lor contrarie fatte a diverse famiglie: e molti castelli che in un anno mutavano due Signori, secondo le vittorie che aveano que' Re ch'essi seguivano. Nè bastando al Gran Siniscalco tanta autorità, aspirando sempre a cose maggiori, dimandò alla Regina ch'essendo per la morte di Braccio ricaduto alla Corona il Principato di Capua che ne lo investisse; ed ella tosto ai 22 ottobre di quest'anno 1425 glie lo concedette; ma usò per allora questa moderazione, che non si volle intitolar mai Principe, ancorchè li parenti gliel persuadessero.
In questo medesimo anno, essendo nel precedente succeduta la morte di Benedetto XIII i due Cardinali ch'erano rimasi presso di lui elessero per Papa Egidio Munion Canonico di Barzellona che prese il nome di Clemente VIII, il quale creò de' Cardinali, e fece tutti gli atti da Papa; poichè ancora questo partito era sostenuto dal Re Alfonso, irritato, come si è veduto, contro il Pontefice Martino, perchè avea investito Re Luigi del Regno. Nè perchè Alfonso stasse distratto negli affari di Spagna, abbandonò mai le cose del Regno, e proccurò in cotal guisa tener il Papa in sospetto, sin che finalmente nell'anno 1429 non si rappacificarono insieme: per la qual cosa mandò Martino il Cardinal di Foix Legato in Ispagna, affinchè nelle mani di costui l'Antipapa deponesse la carica: e per ordine d'Alfonso fu Clemente costretto rinunziare il suo diritto, asserendo però, che non lo sacrificava, se non se per lo bene della pace. I Cardinali ch'egli avea creati rinunziarono anche volontariamente al Cardinalato, ed i due vecchi Cardinali che aveano eletto Clemente furono posti in prigione, dove morirono poco da poi di disgusto e di miseria. Così terminossi interamente lo Scisma, dopo aver durato per lo spazio di cinquanta uno anni; e Martino V restò solo ed unico Papa, riconosciuto da tutto l'Occidente.
Ma questa riconoscenza non durò più che due anni; poichè a' 20 febbraio dell'anno 1431 trapassò in Roma, ove fu sepolto in Laterano; ed in suo luogo il dì 4 del mese di marzo in eletto Michele Condolmerio Veneziano figliuolo d'una sorella di Gregorio XII che lo avea assunto al Vescovado di Siena ed alla dignità di Cardinale, e fu nomato Eugenio IV. Questi appena assunto al Pontificato cominciò a perseguitare i Colonnesi, perchè si dicea che aveano in mano tutto il tesoro del Papa morto: i Colonnesi fidati nello Stato grande che il zio loro avea dato in Campagna di Roma ed in quello che possedevano nel Regno di Napoli, si disposero di resistere alle forze del Papa, e soldarono genti di guerra per difendersi da lui. Ma il Papa avendo ciò presentito, rinovò subito la lega con la Regina co' medesimi capitoli che furono fatti nella lega di Papa Martino, e richiese la Regina che gli mandasse ajuto per debellare i suoi ribelli. Il Gran Siniscalco che non desiderava altro che l'abbassamento de' Colonnesi per potere sopra le loro ruine maggiormente ingrandire, gli mandò il Conte Marino di S. Angelo suo fratello con mille cavalli, e mandò a minacciare i Colonnesi di togliere loro le terre che aveano nel Regno, se perseveravano nella contumacia del Papa; e perseverando nell'ostinazione, furono dal Papa scomunicati e privati del Principato di Salerno e de' Contadi che tenevano nel Regno, con disegno d'avere la maggior parte de' loro Stati tolti e confiscati. Non contento adunque d'esser Duca di Venosa, Conte d'Avellino, Signore di Capua e di molte altre Terre, cominciò a dimandare alla Regina che gli donasse il Principato di Salerno ed il Ducato di Amalfi, con dire che se ben gli avea donata Capua, egli non se ne voleva intitolar Principe, perchè era certo che ogni altro Re che succedesse al Regno, se la toglierebbe come Terra che per l'importanza sua dev'essere sempre unita alla Corona.
Era allora la Regina divenuta assai vecchia per gli anni, ma molto più per una complessione sua mal sana, che parea al tutto decrepita e schifa; e per questo il G. Siniscalco, ch'era ancora incominciato ad invecchiare, avea lasciata la conversazione segreta, che avea con lei; onde s'era ancora in lei, non solo intepidito, ma raffreddato in tutto l'amore, e però alla dimanda fattale, negò di voler dare nè Salerno, nè Amalfi; per la qual cosa il G. Siniscalco turbato, cominciò in opere ed in parole, ad averla in dispregio ed in odio. In questo tempo era salita in gran favore della Regina Covella Ruffo Duchessa di Sessa, donna terribilissima e di costumi ritrosi, la quale per esser nata da una zia carnale della Regina, per l'antichissima nobiltà del suo sangue, e per essere rimasta erede di molte terre, era superbissima e non potea soffrire la superbia del G. Siniscalco; e per questo ogni dì, quando gli veniva a proposito, sollecitava la Regina che non sopportasse tanta ingratitudine in un uomo, che da bassissima fortuna e da tanta povertà, che avea quasi irrugginita la nobiltà, l'avea esaltato tanto; e perchè la Regina per la vecchiezza era divenuta stolida, ascoltava bene quel che dicea la Duchessa, ma non rispondea niente a proposito. Ma tornando il G. Siniscalco un giorno a parlare alla Regina, e con qualche lusinga dimandarle di nuovo il principato di Salerno e di Amalfi, vedendo che quella ostinatamente negava, venne in tanta furia, per la gran mutazione che scorgeva da quel ch'era stato per diciotto anni, ne' quali la Regina non gli avea mai negata cos'alcuna, che incominciò ad ingiuriarla e trattarla da vilissima femmina con villanie disoneste, tanto che la indusse a piangere: la Duchessa ch'era stata dietro la porta dell'altra camera, quando intese la Regina piangere, entrò con altre donne a tempo, che il G. Siniscalco se ne usciva, e vedendo la Regina sdegnata per l'ingiurie fresche, cominciò fortemente a riprenderla di tanta sofferenza, e che volesse tosto prender partito di raffrenare così insolente bestia, la quale un giorno si sarebbe avanzata sino a porle le mani alla gola e strangolarla. La Regina vedendo tanta dimostrazione d'amore e di vera passione, caramente l'abbracciò e le disse ch'ella dicea bene, e che in ogni modo voleva abbassarlo: la Duchessa conferì tutto con Ottino Caracciolo nemico del G. Siniscalco: Ottino poi lo conferì con Marino Boffa e con Pietro Palagano fieri nemici di Sergianni. Questi conchiusero di valersi del mezzo della Duchessa, e la persuasero, che sollecitasse la Regina, e che l'offerisse di trovar uomini che avrebbero ucciso il G. Siniscalco: la Duchessa non fu pigra a tal maneggio, perchè trattandosi a quel tempo nuovo parentado tra Giacomo Caldera ed il G. Siniscalco, che voleva dar per moglie a Troiano Caracciolo suo unico figliuolo, Maria figliuola del Caldora, avvertì la Regina che questo matrimonio per tutta Napoli si dicea, che si trattava con disegno di dividersi il Regno fra loro e privarne lei, onde pensasse a' casi suoi e lo facesse morire. La Regina rispose, ch'era ben determinata e disposta di volerlo abbassare e togliergli il governo di mano; ma non voleva che s'uccidesse, perch'era vecchia e ne avrebbe avuto tosto da render conto a Dio. La Duchessa, poichè non potè ottener altro, mostrò di contentarsi, che se gli levasse il governo di mano, e la pregò, che fosse presta a parlare con Ottino Caracciolo del modo, che s'avea da tenere. Conferito poi il tutto con Ottino, conchiusero di pigliar dalla Regina quel che poteano, ed ottener ordine di carcerarlo per poterlo uccidere, con iscusar poi il fatto, che avendosi voluto porre in difesa erano stati costretti ad ammazzarlo, e con questa deliberazione restarono. La Regina fece chiamare Ottino e gli disse, che lasciava a lui il carico di trovar il modo di porlo in carcere. Mentre queste cose si trattavano, il G. Siniscalco strinse il matrimonio del figliuolo colla Caldora, e per dar piacere alla Regina dispose di far una festa reale al castello di Capuana dove alloggiava la Regina, sperando per tal festa riconciliarsi con lei ed indurla di far grazia allo sposo ed alla sposa dei principato di Salerno, ch'esso desiderava tanto. Venuto il dì deputato alla festa, che fu a' 17 agosto di quest'anno 1432, e quello passatosi in balli e musiche, e parte della notte in una cena sontuosissima; il G. Siniscalco scese all'appartamento suo e postosi già a dormire, Ottino e gli altri congiurati, avendo corrotto un mozzo di camera della Regina chiamato Squadra, di nazione Tedesco, lo menarono con loro e fecero che battesse la porta della camera del G. Siniscalco e che dicesse, che la Regina sorpresa da grave accidente apopletico stava male, e che voleva che salisse allora. Il G. Siniscalco si levò ed incominciandosi a vestire, comandò che s'aprisse la porta della camera per intender meglio quello ch'era. Allora entrati i congiurati, a colpi di stocchi e d'accette l'uccisero. La mattina sentendosi per la città una cosa tanto nuova, corse tutta la città a veder quello spettacolo miserabile, non picciolo esempio della miseria umana: vedendosi uno, che poche ore innanzi avea signoreggiato un potentissimo Regno, tolti e donati castelli, terre e città a chi a lui piaceva, giacere in terra con una gamba calzata e l'altra scalza (che non avea potuto calzarsi tutto), e non essere persona che avesse pensiero di vestirlo e mandarlo alla sepoltura. La Duchessa di Sessa vedendo il corpo morto disse: ecco il figliuolo d'Isabella Sarda, che voleva contender meco; poco da poi quattro Padri di S. Giovanni a Carbonara, dov'egli avea edificata con gran magnificenza una cappella che ancor si vede, vennero, e così insanguinato e difformato dalle ferite, il posero in un cataletto e con due soli torchii accesi vilissimamente il portarono a seppellire. Troiano suo figliuolo, da poi nella cappella istessa gli fece ergere un superbo sepolcro colla sua statua; e Lorenzo Valla, famoso letterato di que' tempi vi compose quella iscrizione che ivi si legge. La Regina, ancorchè restasse mal contenta della sua morte, pur ordinò che fosser confiscati tutti i suoi beni come ribelle; e concedette ampio indulto a' congiurati, che fu dettato da Marino Boffa; e narrasi che quando innanzi a lei si leggeva la forma dell'indulto, quando si venne a quelle parole che dicevano, che per l'insolenza del G. Siniscalco la Regina avea ordinato che si uccidesse, avesse risposto in pubblico, che non mai ordinò tal cosa, ma solamente che si carcerasse.
CAPITOLO VI. Re Alfonso tenta rientrare nella grazia della Regina, ma in vano. Nozze di Re Luigi con Margarita figliuola del Duca di Savoia; sua morte, seguita poco da poi da quella della Regina Giovanna.
Quando il Re Luigi, che stava in Calabria, ed avea fermata la sua sede in Cosenza, intese la morte del G. Siniscalco, si credette che la Regina lo mandasse subito a chiamare; ma la Duchessa di Sessa, che con questa morte era divenuta potentissima, persuase alla Regina che non lo chiamasse, e per trattenerlo gli fè commettere nuovi negozi in quella provincia: e per questo si crede, che quel Re per poca ambizione avesse perduto per se e per gli suoi successori questo Regno; il contrario di quel che avea fatto Re Alfonso, che per troppa ambizione se ne trovava fuori. Era allora Alfonso in Sicilia, e quando intese la novella della morte del G. Siniscalco, si rallegrò molto e molto più si rallegrò quando intese, che la Duchessa di Sessa era quella che governava; e confidando molto in costei, venne in speranza di essere chiamato dalla Regina, ed essere confermato nella prima adozione. Per non mancare a questa prima opportunità, venne con alcune galee in Ischia, che si tenea per lui, e cominciò segretamente con messi a pregare e trattare con la Duchessa, che avesse indotta alle voglie sue la Regina; ed avrebbe forse questo trattato avuto il suo effetto, se il troppo desiderio di Alfonso non l'avesse guasto; poichè non contento del maneggio della Duchessa, mandò a trattar col Duca di Sessa suo marito finchè alzasse le sue bandiere, perchè di grande l'avrebbe fatto grandissimo; del che subito che fu avvisata la Duchessa, ch'era capital nemica del marito, non solo converse in odio l'affezione che avea col Re Alfonso, ma accusò il marito alla Regina del trattato che tenea di ribellarsi, e fece che Ottino Caracciolo e gli altri del Consiglio supremo mandassero genti d'arme per lo Stato del Duca, acciocchè non potesse mutarsi a favore d'Alfonso, il quale vedendosi usciti vani amendui i maneggi, fece tregua per diece anni colla Regina, e se ne tornò con poca riputazione in Sicilia.
Nel seguente anno 1433 Margarita figliuola del Duca di Savoia fu sposata col Re Luigi, la quale partita da Nizza, dopo una crudelissima tempesta, arrivò a Sorrento molto maltrattata dal viaggio; la Regina voleva farla condurre in Napoli, con quell'onore che si conveniva, e mandare a chiamare il Re da Calabria, per far celebrare con pomposità lo sponsalizio in Napoli; ma la Duchessa di Sessa la distolse, dandole a sentire, che si guardasse di farlo, perchè avrebbe conturbato lo Stato, e che per quel poco tempo che le restava di vita, volesse vivere e morire Regina senza contrasto. E per questo la Regina, che mutava d'ora in punto sempre pensiero, mandò solamente a visitare la sposa ed a presentare, e di là quella Signora andò in Calabria, dove si fece la festa in Cosenza con le maggiori solennità che si poterono. Ma ben tosto fu tal nodo disciolto; poichè nel mese di novembre del seguente anno 1434, dopo avere Re Luigi in quella state guerreggiato col Principe di Taranto, ritirato in Calabria, tra le fatiche durate in quella guerra, e tra l'esercizio del letto con la moglie, gli venne un accidente di febbre, del quale morì senza lasciar di se prole alcuna. Fece testamento, e lasciò che il corpo suo fosse portato all'Arcivescovado di Napoli, ed il cuore si mandasse in Francia alla Regina Violante sua madre, e questo fu eseguito subito; ma il corpo restò nella maggior chiesa di Cosenza, dove ancora si vede il suo tumulo; perchè non vi fu chi si pigliasse pensiero di condurlo in Napoli. Questo Re fu di tanta bontà, e lasciò di se tanto gran desiderio a' popoli di Calabria che si crede, che per questo sia stata sempre poi quella provincia affezionatissima del nome d'Angiò.
La Regina, quando ebbe la nuova della sua morte, ne fece grandissimo pianto, lodando la grandissima pazienza che quel Principe avea avuta con lei, e l'ubbidienza che l'avea sempre portata, e mostrò grandissimo pentimento di non averlo onorato e trattato com'egli avea meritato. E nell'entrar del nuovo anno 1435, travagliata da' dispiaceri dell'animo ed oppressa dagli anni e da' suoi mali, rese lo spirito nel dì 2 di febbrajo, giorno della purificazione di Maria Vergine, in età di sessanta cinque anni, dopo averne regnato venti e sei mesi: ordinò che fosse seppellita alla Chiesa della Nunziata di Napoli senza alcuna pompa, in povera ed umile sepoltura, ove ora giace.
Questa Regina fu l'ultima di Casa Durazzo: e non avendo nè col primo, nè col secondo marito concepiti figliuoli, durando ancor in lei l'odio contro il Re Alfonso, fece testamento nel quale istituì erede Renato Duca d'Angiò e Conte di Provenza, fratello carnale del Re Luigi, esprimendo in quello le cagioni, per le quali fu mossa a talmente stabilire. Ecco ciò che si legge in una particola di questo testamento, fatta imprimere dal Tutini nel suo trattato de' Contestabili del Regno: Praefata Serenissima, et Illustrissima Domina nostra Regina Joanna fide digna, et veridice informata, quod bonae memoriae Dominus Papa Martinus V per quasdam Bullas Apostolicas olim concessit clarae memoriae Domino Ludovico III Calabriae, et Andegaviae Duci, ipsius Reginalis Majestatis consanguineo, et ejus filio arrogato, et ejus fratribus haeredibus, et successoribus hoc Regnum Siciliae post ipsius Reginalis Majestatis obitum: nec non noscens omnes Regnicolas ejusdem Regni affectos, intentos, et inclinatos velle unum ex germanis fratribus dicti q. Domini Ludovici in Regem, et quod si secus fieret, vel evenerit, fieri non posset absque maxima aspersione sanguinis, miserabilique clade, et strage, et finaliter calamitate, et destructione hujus Regni. Nec minus et considerans, quod Serenissimus, et Illustrissimus Princeps Dominus Renatus Dux Bari, etc. ipsius Majestatis Reginalis consanguineus, praefatique quondam Domini Ludovici germanus frater ab inclita, et Christianissima Regia Stirpe domus Franciae, sicut ipsa Reginalis Majestas, suam claram trahit originem; volens praefatis futuris scandalis tacite providere, et salubriter obviare, et per consequens votis, et desideriis dictorum suorum Regnicolarum satisfacere, cupiensque praeterea, quod hoc Regnum potius perveniat ad suum clarissimum Francorum sanguinem, et inclitam progeniem, quam ad quamvis aliam nationem: Jam dictum Serenissimum, et Illustrissimum Principem Dominum Renatum ejus consanguineum, ac dicti q. Domini Ludovici ejus arrogati filii germanum fratrem, ejusdem Regnicolis ita gratum, desideratum et acceptum, in quantum ad ipsam Serenissimam Reginalem Majestatem spectat, et in ea est, et quod potest omni meliori via, modo et forma quibus de jure melius, et aptius potest et debet suum universalem haeredem, et successorem in hoc Regno Siciliae, et in omnibus aliis ejus Regnis, Titulis et Juribus, Actionibus, et cum omnibus Provinciis, Juribus, Jurisdictionibus, et omnibus pertinentiis suis quacumque vocabuli appellatione distinctis, et ad illam spectantibus, et pertinentibus, quovis modo, coram nobis, instituit, ordinavit et fecit, infrascriptis legatis, et fideicommissis, dumtaxat exceptis.
Lasciò cinquecentomila ducati alla Tesoreria che avessero da servire in beneficio della città di Napoli, ed in mantenimento del Regno nella fede di Renato, ed ordinò che sedici Baroni Consiglieri e Cortigiani suoi, governassero il Regno fin alla venuta di Renato.
CAPITOLO VII. Politia del Regno sotto i Governadori deputati da Giovanna. Governo che da poi vi tenne la Regina Isabella moglie e Vicaria di Renato d'Angiò. Guerre sostenute da costui col Re Alfonso: da cui in fine fu costretto ad uscirne ed abbandonare il Regno.
Non meno la morte che il testamento della Regina Giovanna pose in maggiori sconvolgimenti questo Reame; quando prima era combattuto da due Pretendenti, ecco che ora ne surge un terzo, cioè il Pontefice romano. Papa Eugenio intesa la morte della Regina, fece intendere a' Napoletani ch'essendo il Regno Feudo della Chiesa, non intendeva che fosse data ad altri che a colui ch'egli dichiarasse ed investisse; ed intanto che dovesse egli amministrarlo, e destinar il Balio par reggerlo. Alfonso lo pretendeva per se in vigor dell'adozione, e Renato in vigor di questo testamento.
(La Bolla d' Eugenio IV spedita del mese di giugno in Fiorenza nel 1445, colla quale si comanda ai Napolitani di non riconoscere per Re nè Alfonso, nè Renato, è rapportata da Lunig[275] ).
Ma i Napoletani ch'erano allora quasi tutti affezionati alla parte Angioina, sentendo la pretensione del Papa, se gli opposero fortemente, e si dichiararono che non volevano altro Re che Renato, ed insino a tanto che egli non venisse a reggerlo, dovesse eseguirsi il testamento della Regina; in effetto furono eletti per lo governo que' sedici Baroni destinati dalla Regina, li quali furono Raimondo Orsino, Conte di Nola: Baldassarre della Rat, Conte di Caserta: Giorgio della Magna, Conte di Pulcino: Perdicasso Barrile, Conte di Montedorisi: Ottino Caracciolo, Conte di Nicastro e Gran Cancelliere, Gualtieri e Ciarletta Caracciolo tutti tre Rossi: Innico d'Anna Gran Siniscalco: Giovanni Cicinello ed Urbano Cimmino, l'uno Nobile di Montagna e l'altro di Portanova: Taddeo Gattola di Gaeta ed altri che si leggono nel testamento della Regina. Questi dubitando che tal reggimento in fine non si convertisse in Tirannia, crearono essi venti uomini Nobili e del Popolo, i quali furono chiamati Balj del Regno. Da costoro fu sollecitato che si dovesse mandar tosto in Francia a notificar a Renato il testamento e volontà della Regina ed il desiderio della città, ed a sollecitarlo che venisse quanto prima; ed in effetto furono tosto mandati tre Nobili a chiamarlo, e fra tanto in lor difesa chiamarono Giacomo Caldora, al quale diedero denari, perchè assoldasse genti; soldarono ancora Antonio Pontudera con mille cavalli e Micheletto da Cotignola con altrettanti, per reprimere gl'insulti d'Alfonso: ed in cotal guisa quelli mesi che corsero tra la morte della Regina, fin alla venuta della Regina Isabella moglie di Renato fu governato il Regno; ond'è, che negl'Istrumenti che si stipularono in quel tempo, non si metteva altro Regnante, ma si diceva: Sub regimine Illustrium Gubernatorum relictorum per Serenissimam Reginam Joannam clarae memoriae.
Dall'altra parte il Re Alfonso avendo intesa la morte della Regina, persuaso che, secondo si dicea, quel testamento non fosse stato di libera volontà della medesima, si apparecchiò subito a far la guerra, e tirò molti al suo partito, come il Duca di Sessa, quello di Fondi, il Principe di Taranto ed alcuni altri; e sollecitato da costoro partì da Messina ove era, e venne a Sessa, indi si portò all'assedio di Gaeta. L'assedio di questa Piazza che durò lungo tempo, poco mancò che non recasse ad Alfonso l'ultima sua ruina, e se non fosse stata la magnanimità del Duca di Milano, la guerra sarebbe finita; poichè il Duca di Milano avendo sollecitati i Genovesi che soccorressero quella città, nè sopportassero che il miglior Porto del Mar Tirreno venisse in potere de' Catalani nemici loro: i Genovesi avendo posto in mare una potente armata, ed Alfonso all'incontro un'altra potentissima, nella quale vi erano personaggi cotanto illustri, quanto oltre Alfonso, erano il Re di Navarra, D. Errico Maestro di S. Giacomo, e D. Pietro suoi fratelli, il Principe di Taranto, il Duca di Sessa, il Conte di Campobasso, il Conte di Montorio, e grandissimo numero d'altri Baroni del Regno di Sicilia e d'Aragona: venutosi a' 5 agosto di quest'anno 1435 ad una battaglia nell'acque di Ponza che durò diece ore, finalmente i Genovesi ruppero l'armata d'Alfonso, e fecero prigionieri il Re istesso, il Re di Navarra, D. Errico, il Principe di Taranto ed il Duca di Sessa, con molti Cavalieri e Baroni, forse al numero di mille; solo si salvò fuggendo ad Ischia D. Pietro con la nave sua. Furono i prigionieri condotti a Savona, e poi portati a Milano, dove il Duca ricevè il Re Alfonso da ospite, non già da prigioniere, e fu tanta la magnanimità del Duca che non solo gli accordò la libertà; ma persuaso da Alfonso che la sicurezza del suo Stato, era l'aver in Italia Aragonesi e non Franzesi, perciocchè se Renato occupava il Reame di Napoli, non resterebbe di movere il Re di Francia a toglierli lo Stato, conchiusero insieme lega; e con cortesia che non ebbe altra simile al Mondo, donò la libertà a lui, a suo fratello ed a tutti gli altri prigionieri, e prima che si fossero firmati i Capitoli della lega, il Duca permise che il Navarra ed il Maestro di S. Giacomo andassero in Ispagna a far nuovo apparato per la guerra di Napoli, e che il Principe di Taranto, il Duca di Sessa e gli altri Baroni del Regno venissero in Napoli a dar animo ai partigiani del Re che credeano che mai più Alfonso potesse sperare d'avere una pietra nel Regno. Poco da poi fu firmata la lega, ed il Duca mandò in Genova ad ordinare che si preparasse l'armata, per andare col Re all'impresa di Napoli.
Mentre queste cose succedettero ne' nostri mari, gli Ambasciadori napoletani, ch'erano stati mandati in Francia a chiamar Renato, trovarono che il Duca di Borgogna, il quale in una battaglia l'avea fatto prigione, e che poi l'avea liberato sotto la fede di tornare, richiese a Renato che osservandoli la fede data fosse tornato a lui, e quando tornò lo pose in carcere: o fosse per invidia, vedendo ch'era chiamato a così gran Regno o fosse per far piacere a Re Alfonso: ciocchè diede materia di discorrere, qual fosse stata maggiore, la sciocchezza di Renato ad andarvi o la discortesia del Duca a porlo in carcere, la quale parve tanto più vituperosa e barbara, quanto che fu quasi nel medesimo tempo della cortesia che fece il Duca di Milano ad Alfonso. Gli Ambasciadori non ritrovandolo, operarono che con loro, come Vicaria del Regno, venisse a prenderne il possesso in vece del marito Isabella, la quale con due piccioli figliuoli Giovanni e Lodovico, sopra quattro galee Provenzali partì, e nel principio d'ottobre giunse a Gaeta, dove dai Gaetani fu ricevuta con molto onore ed ella lodò quei cittadini ch'erano stati fedeli, e loro fece molti privilegj. Passò poi a Napoli dove giunta a' 18 d'ottobre di quest'anno 1435 fu ricevuta con somma allegrezza di tutta la città, alla quale era venuto in fastidio il governo della Balìa e de' Governadori, e dal Conte di Nola le fu giurato omaggio, al cui esempio, quasi tutti i Baroni fecero il simile; ed ella come Vicaria del Re suo marito, cominciò a governare il Regno.
Questa Regina per la sua gran prudenza e bontà fra poco tempo s'avea acquistata presso tutti grandissima benevolenza, tanto che se la fortuna non avesse prosperate tanto le cose d' Alfonso, e attraversate quelle di Renato suo marito, avrebbe stabilito il Regno nella di lui posterità. Ma la lega pattuita col Duca di Milano quando men si credea, e la libertà data ad Alfonso ed a suoi fratelli con inaudita, e non creduta magnanimità, pose in grande spavento la Regina Isabella e tutta la parte Angioina. A questo s'aggiunse, che Gaeta la quale con tanti assalti, e con tante forze non avea potuto pigliarsi, per una tempesta occorsa a D. Pietro fratello d'Alfonso, venne in mano degli Aragonesi; perchè D. Pietro che stava in Sicilia, essendosi mosso con cinque galee per andare alla Spezie a pigliar il Re ch'era stato già liberato, essendo arrivato ad Ischia, fu ritenuto da una grave tempesta di mare nella marina di Gaeta; e perchè in quella città v'era la peste, ed i Gaetani più nobili e più facoltosi erano usciti fuori della Città, e per caso il Governadore era morto, alcuni Gaetani che teneano la parte del Re Alfonso andarono ad offerirsegli, e a dargli la città in mano. D. Pietro restò in Gaeta, e mandò Raimondo Periglio con le galee a Porto Venere, dove trovò il Re che avuta la novella della presa di quella Piazza, tosto si incamminò a quella volta, ed il dì 2 febbrajo del nuovo anno 1436 vi si portò, e passarono molti mesi che senza fare impresa alcuna andava e veniva da Gaeta a Capua che se gli era parimente resa. S'aggiunse ancora la ribellione del Conte di Nola, di quello di Caserta e di molti altri Baroni che vennero al suo partito.
Questa prosperità d'Alfonso fece pensare alla Regina, ed a coloro della sua parte di dimandar al Papa soccorso; e furono inviati Ottino Caracciolo e Giovanni Coffa al Pontefice Eugenio a chiederlo, il quale con molta prontezza il diede; perchè il Papa, sapendo l'ambizione del Duca di Milano che da se solo tentava di farsi Signore di tutta l'Italia, pensava ora che molto maggiore sarebbe stata l'audacia sua, essendogli giunta l'amicizia del Re d'Aragona e di tanti altri Regni; onde mandò Giovanni Vitellisco da Corneto Patriarca Alessandrino, uomo più militare che ecclesiastico, con tremila cavalli e tremila fanti in soccorso della Regina, e con questo si sollevò molto la parte Angioina; e tanto più quanto che acquistò l'amicizia de' Genovesi ch'erano diventati mortali nemici del Duca e del Re d'Aragona, li quali con grandissima fede favorirono quella parte fino a guerra finita.
Si guerreggiò per tanto con dubbio evento per ambe le Parti, e mentre ardea la guerra in molte parti del Regno, il Duca di Borgogna, ricevuta una grossa taglia, liberò Renato, il quale senza perder tempo si imbarcò in Marsiglia, e con vento prospero venne a Genova, ove a' 8 di aprile di quest'anno 1438 fu con sommo onor ricevuto; ed avute da' Genovesi sette altre galee sotto il governo di Battista Fregoso si partì, e navigando felicemente, a' 9 maggio giunse in Napoli.
(Prima di partir Renato da Marsiglia a' 20 gennaro dell'anno 1438 spedì Legati ad Eugenio, a' quali diede mandato di filial ubbidienza, e procura di poter transigere col Papa ogni controversia, ed in suo nome intervenire nel Concilio designato dal Papa, di doversi convocare in Ferrara o in altro luogo che piacerà ad Eugenio; il qual si legge presso Lunig[276] ).
Fu a Napoli con gran festa ricevuto Renato, cavalcando per la città con Giovanni suo primogenito con giubilo ed applauso grande, e per tutto il Regno sollevò molto gli animi della parte Angioina per la gran fama delle cose fatte da Luigi nelle guerre di Francia contro gl'Inglesi; la qual fama comprobò colla presenza e co' fatti; perchè subito che fu giunto, e dai Napoletani ricevuto come Angelo disceso dal Cielo, cominciò a voler riconoscere i soldati ch'erano in Napoli, e la gioventù napoletana e ad esercitargli; onde acquistò grandissima riputazione insieme e benevolenza. Mandò subito a chiamare il Caldora, col quale consultò di ciò che dovea farsi per l'amministrazione della guerra; e deliberarono, dopo essersegli resa Scafati, di passare in Abruzzo ed all'assedio di Sulmona.
Ma mentre che Renato era in Abruzzo colla maggior parte della gioventù napoletana, il Re Alfonso, al quale da Sicilia e da Catalogna eran venute molte galee per rinforzo, andò con quindicimila persone ad accamparsi a Napoli sopra la riva del fiume Sebeto. I Napoletani per l'assenza del Re loro, restarono per lo principio molto sbigottiti; ma non mancarono poi con l'ajuto de' Genovesi di far una valida difesa, tanto che Alfonso fu costretto a levar l'assedio e ritirarsi a Capua, nel quale vi perdè D. Pietro suo fratello, che vi rimase ucciso da una palla di cannone.
Renato, ridotte tutte le terre di Abruzzo a sua devozione, sentendo l'assedio di Napoli, per la via di Capitanata e di Benevento tosto venne a soccorrerla; e dopo aver tolto a' Catalani la torre di S. Vincenzo, entrò in speranza di ricuperare il Castello Nuovo che per tanti anni era stato in mano degli Aragonesi: ordinò per tanto al Castellano di S. Eramo che cominciasse a danneggiarlo, poich'essendogli cominciato a mancar la polvere ed il vitto, era impossibile potersi difendere, ed il soccorso che avrebbe potuto venirgli dal Castel dell'Uovo ch'era in mano d'Alfonso, era impedito dalle navi de' Genovesi. In questo arrivarono in Napoli due Ambasciadori di Carlo VI Re di Francia, il quale dubitando che Renato suo parente non ritornasse discacciato dal Regno per le poderose forze d'Alfonso, mandò a trattar la pace tra questi Re; e prima d'ogni altra cosa trattarono i patti della resa del castello. Ma il Renato che stava esausto per le spese fatte alla guerra, fece proponer ad Alfonso la tregua per un anno, offerse di contentarsi che 'l castello si ponesse in sequestro in mano degli Ambasciadori, e passato l'anno si restituisse al Re Alfonso munito per quattro mesi. Ma Alfonso che vedea le forze di Renato tanto estenuate, elesse di perdere più tosto il castello che dargli tanto spazio di respirare, e con nuove amicizie riassumere forze maggiori, talchè gli Ambasciadori franzesi se ne ritornarono senza aver fatto altro effetto che intervenire alla resa del castello, il qual si rese a' 24 agosto di quest'anno 1439, con patto che il presidio se ne uscisse con quelle robe che ciascun soldato potea portarsi, non senza dispetto d'Alfonso, il quale in faccia sua si vide perdere quel castello che s'era per lui tenuto undici anni, quando egli non possedeva una pietra nel Regno, ed ora perdersi in tempo che con sì grand'esercito possedeva le tre parti del Regno.
Compensò non però Alfonso questa perdita coll'acquisto che fece della città di Salerno, la quale se gli rese senza contrasto, e della quale ne investì con titolo di Principe, Ramondo Orsino Conte di Nola, al quale l'anno avanti avea data per moglie Dianora d'Aragona sua cugina col Ducato d'Amalfi, e poi subito tornò in Terra di Lavoro.
La morte improvvisa seguita a' 15 di ottobre di quest'anno di Giacomo Caldora celebre Capitano di quei tempi indebolì in gran parte le forze di Renato; poichè quantunque Renato avesse ad Antonio Caldora suo figliuolo confermati tutti gli Stati paterni, e l'Ufficio di G. Contestabile[277], e di più l'avesse mandato il privilegio di Vicerè in tutta quella parte del Regno che gli ubbidiva; nulladimanco essendo poi venuto in sospetto, che il Caldora tenesse secreta intelligenza con Alfonso lo fece imprigionare. Ciò che cagionò il maggior suo danno; poichè i soldati Caldoreschi levatisi in tumulto, con quella facilità che fu carcerato, colla medesima fu liberato. Antonio per questa ingiuria avendo ragunato il suo esercito, impetrò dal Re Alfonso tregua per 50 giorni, e venuti insieme a parlamento, il Caldora se gli offerse con tutte le sue genti. Intanto Acerra e poi Aversa nel 1421 si resero ad Alfonso; onde Renato rimasto molto debole per la partenza del Caldora, e vedendo in tanta declinazione lo stato suo, ne mandò la Regina Isabella sua moglie ed i figliuoli in Provenza; e cominciò a trattare accordo ed offerire di cedere il Regno al Re Alfonso, purchè pigliasse per figlio adottivo Giovanni suo primogenito, il qual dopo la morte d'Alfonso avesse da succedere al Regno. Ma i Napoletani che stavano ostinatissimi ed abborrivano la Signoria de' Catalani, il confortavano e pregavano che non gli abbandonasse, perchè Papa Eugenio, il Conte Francesco Sforza ed i Genovesi, a' quali non piaceva che 'l Regno restasse in mano de' Catalani, subito che avessero intesa la ribellione del Caldora, avrebbero mandati nuovi aiuti; e per questo lo sforzarono a lasciare la pratica della pace: e già fu così, perchè i Genovesi mandarono nuovi soccorsi, ed il Conte Francesco mandò a dire che avrebbe inviati gagliardi e presti aiuti.
Ma tutti questi aiuti non poterono far argine alla prospera fortuna d'Alfonso; poichè nel seguente anno 1442, quando meno 'l pensava, stando in Capua, venne un Prete dell'isola di Capri ad offerire di dargli in mano la Terra: Alfonso mandò subito con lui sei galee, e senza difficoltà il trattato riuscì, ed ebbe quell'isola, la quale se ben parea piccolo acquisto, tra poco si vide che importò molto: poichè una galea che veniva da Francia, avendo corsa fortuna e credendo che l'isola fosse a devozione del Re Renato, pose le genti in terra, le quali furono tutte prese dagli isolani e si perderono con la galea ottantamila scudi, che si mandavano a Renato per rinforzo: il che parve che avesse tagliato in tutto i nervi e le forze di Renato, poichè con quelli danari avria potuto prolungare buon tempo la guerra.
Così vedendo Re Alfonso, che la fortuna militava per lui, andò ad assediar Napoli dove accampato, vedendo quella città tanto indebolita di forze, che appena poteano guardare le porte e le mura, mandò parte delle genti ad assediar Pozzuoli, che dopo valida resistenza si rese con onorati patti; indi mandò a tentare la torre del Greco, che si rese subito: poi per tenere più stretta la città di Napoli fece due parti dell'esercito, una parte ne lasciò alle paludi che sono dalla parte di levante con D. Ferrante suo figliuol bastardo e l'altra condusse ad Echia, e s'accampò a Pizzofalcone. La città fece valida difesa, ma introdotte per un acquedotto le genti di Alfonso dentro la città di Napoli, a' 2 giugno di quest'anno 1442 fu presa; e benchè l'esercito aragonese, irato per la lunga resistenza, avesse cominciato a saccheggiar la città, il Re Alfonso con grandissima clemenza cavalcò per le strade con una mano di Cavalieri e di Capitani eletti, e vietò a pena della vita che non si facesse violenza nè ingiuria a' cittadini, sicchè il sacco durò solo quattro ore, nè si sentì altra perdita che di quelle cose, che i soldati poteano nascondere, perchè tutte le altre le fece restituire.
Renato, ridotto nel Castel Nuovo, permise a Giovanni Cossa, ch'era Castellano del castel di Capuana, che rendesse il castello per cavarne salva la moglie ed i figli; ed il dì seguente essendo arrivate due navi da Genova piene di vettovaglie, in una di esse montò con Ottino Caracciolo, Giorgio della Magna e Giovanni Cossa, e fatta vela si partì, mirando sempre Napoli, sospirando e maledicendo la sua rea fortuna, e con prospero vento giunse a porto Pisano, e di là andò a trovare Papa Eugenio ch'era in Fiorenza, il quale fuor di tempo gli diede l'investitura del Regno, confortandolo che si sarebbe fatta nuova lega per farglielo ricuperare: Renato, che non vide altro che parole vane, gli rispose, che voleva andarsene in Francia, acciocchè non facessero mercatanzia di lui i disleali Capitani italiani; e perch'era debitore di grandissima somma di denari ad Antonio Calvo genovese, che l'avea lasciato Castellano del Castel Nuovo di Napoli, poichè vide che da Papa Eugenio non avea avuto altro che conforto di parole, scrisse ad Antonio che cercasse di ricuperare quel che dovea avere, vendendo il castello al Re Alfonso, come fece.
Ecco il fine della dominazione degli Angioini in questo Reame, li quali da Carlo I d'Angiò insino alla fuga di Renato l'aveano governato centosettantasette anni. Ecco come fu trasferito in mano degli Aragonesi, che da poi lo tennero settantadue anni. Ma Renato partendo portò seco in Francia tali semi di discordie e di crudeli guerre, che lungamente turbarono il Regno; poichè i Re di Francia succeduti nelle di lui ragioni ed a quelle di suo figliuolo Giovanni, spesso lo combatterono; e quantunque sempre con infelice successo, non è però che non fossero stati cagione di grandissimi sconvolgimenti e disordini, come si vedrà ne' seguenti libri di quest'Istoria.
CAPITOLO VIII. De' Riti della Gran Corte della Vicaria; e de' Giureconsulti che fiorirono nel Regno di Giovanna II e di Renato: e da' quali fosse compilata la famosa prammatica nominata la Filingiera.
Quantunque durante il governo di questa Regina e di Renato fossesi veduto il Regno cotanto sconvolto e da crudeli guerre combattuto, a tal che le lettere e le discipline furon poco coltivate e molto meno esercitate, e Giovanna per suoi laidi ed instabili costumi, avesse contaminata la Sede Regale e posto in disordine tutto il Reame; non è però, che affatto presso di noi fossero mancate le lettere ed i Giureconsulti, e non rilucesse fra tante laidezze qualche raggio di virtù in quella Regina; poichè meritò molta lode e commendazione per essere stata tutta amante della giustizia e tutta intesa a riformare i Tribunali, e non permettere in quelli sordidezza alcuna ne' suoi Ministri e ne' loro Ufficiali minori. Ella col consiglio de' suoi savj tolse molti abusi, riformò molte cose, perchè la giustizia fosse ben amministrata, ed i litiganti non fossero angariati nelle spese degli atti e delle liti. A questo fine ridusse in miglior forma i Riti del Tribunale della Gran Corte, e molti altri ne stabilì di nuovo.
Questo Tribunale era riputato ancora supremo, non solo della città ma di tutto il Regno, al quale essendosi unito l'altro del Vicario, queste due Corti unite insieme componevano il più eminente pretorio del Reame. La città di Napoli, ancorchè avesse la corte del suo Capitano, nulladimanco non avendo questa, se non la cognizione delle sole cause criminali sopra le persone del suo distretto, nè potendo conoscere delle civili e molto meno delle feudali, di quelle di Maestà lesa e di molte altre più gravi[278]; e potendosi da quella appellare alla Gran Corte, siccome di tutte le altre Corti delle città del Regno, non era perciò in molta considerazione; e fu poi tanta la sua declinazione, che nel Regno degli Aragonesi s'estinse affatto, e la cognizione delle sue cause passò pure, e s'incorporò nel Tribunale della Vicaria.
Siccome fu rapportato nel 20 libro di quest'istoria, era composto questo Tribunale di due Corti, di quella del G. Giustiziere, detta Cura Magistri Justitiarii, e dell'altra chiamata Cura Vicarii ovvero Vicaria. Per le molte ordinazioni de' predecessori Re angioini, essendosi vicendevolmente comunicate le giurisdizioni di queste due Corti, venne col correr degli anni a farsene una, chiamata perciò come ivi si disse Gran Corte della Vicaria: riputandosi inutile considerarle come due Tribunali distinti, e dove dovessero impiegarsi più Ministri separati, i quali avessero la stessa cognizione ed autorità. Essendo capo della Gran Corte il Gran Giustiziere, per questa unione venne il medesimo a presiedere ancora a quella del Vicario; ond'è, che tutte le provisioni ed ordini, che dalla Gran Corte della Vicaria si spediscono tanto per Napoli, quanto per tutto il Regno, sotto il titolo del Gran Giustiziere siano pubblicate. Prima avea questi autorità di mettere suoi Luogotenenti ovvero Reggenti per amministrarla; ma da poi gli fu tolta, e fu riserbato al Re e suo Vicerè di creargli.
Componendosi adunque questo Tribunale di due Corti; quindi è, che in questi Riti sovente la Regina di lor parlando: In nostris Magnae et Vicariae Curiis[279]; ed altrove[280]: Judices ipsarum Curiarum. Parimente ne' privilegi che spedì nell'anno 1420 a' Napoletani registrati in questi Riti[281], volendo che di quelli potessero valersi in tutte le Corti, disse: Quod nulla Curia civitatis Neapolitanae, tam scilicet M. Curia Domini Magistri Justitiarii Regni Siciliae, seu ejus Locumtenentis, ac Regentis Curiam Vicariae, quam Capitaneorum, vel alienorum Officialium etc.
Questo modo di parlare fu ritenuto durante il Regno degli Angioini insino all'ultimo Re Renato; poichè Isabella sua Vicaria nel 1436 drizzando una sua legge a Raimondo Orsino G. Giustiziere del Regno, la quale pur leggiamo fra questi Riti[282], così favella: Magnifico Raymundo de Ursinis, etc. Magistro Justitiario R. Siciliae, et ejus Locumtenenti, necnon Regenti Magnam Curiam nostrae Vicariae etc.
Furono per tanto dalla Regina Giovanna dati molti provvedimenti per questo Tribunale intorno allo stile e modo di procedere nelle cause, così civili come criminali: ciò che bisognava osservare per la fabbrica de' processi, perchè gli atti fossero validi: la norma per la liquidazione degl'istromenti: per le citazioni: per l'incusa delle contumacie: per l'esame: per le pruove; e tutto ciò che riguarda la tela ed ordine giudiziario. Si prescrive il numero dei Giudici, de' Mastrodatti e loro Attuarj; si tassano i loro diritti ed emolumenti; e sopra tutto si raccomanda la retta amministrazione della giustizia, riformando molti abusi, in che questo Tribunale era caduto per li tanti disordini e rivoluzioni accadute nel Regno.
Merita riflessione il Rito 1235, che infra gli altri questa Regina fece divolgare; poichè quantunque nel Regno degli Angioini, e molto più nel suo, si proccurasse andar a seconda de' romani Pontefici; con tutto ciò non permise questa Regina, che si togliesse quell'antico costume praticato nella Gran Corte di conoscere ella del chericato e d'obbligare il preteso Cherico a comparire personalmente avanti i suoi Ufficiali, per pruovare i requisiti di quello, e sottoporsi intorno a ciò alla sua giudicatura: che che altramente ne disposero le decretali[283], come si dice nel Rito istesso[284]. E pure tutto ciò ne' seguenti tempi non bastò agli Ecclesiastici, perchè nel Pontificato di Pio V non intraprendessero di dover essi assumerne la conoscenza e d'abbattere il Rito, che per tanti anni erasi osservato; come si vedrà ne' seguenti libri di questa istoria, quando ci toccherà favellare del Governo del Duca d'Alcalà Vicerè di questo Regno.
Queste ordinazioni non furono in un tratto stabilite, ma di tempo in tempo, col consiglio de' suoi savii, Giovanna le dispose; e si crede che la maggior parte fossero state emanate dall'anno 1424 insino al 1431 che furono gli anni, che ebbe qualche tregua e riposo; poichè in tutto il resto del suo Regno fu per la sua instabilità travagliata tanto, e tanto distratta in altre pericolose cure ed affanni, sicchè non la fecero pensare, che alla propria difesa ed alla sua propria libertà.
Furono poi questi Riti uniti insieme, a' quali ella prepose una costituzione proemiale, per la quale loro diede forza e vigor di legge, comandando che quelli fossero inviolabilmente osservati non pure in Napoli nella Gran Corte della Vicaria e nelle altre Corti di questa città, ma in tutte le altre del Regno: ordinò ancora, che tutti gli altri Riti fuor di questi, che per l'addietro s'erano osservati, s'abolissero, si cassassero e non avessero nelle Corti niun vigore ed efficacia. Quindi presso i nostri Autori nacque quella comune sentenza, che ciò che s'osservava nel Tribunale della Vicaria fosse come una norma di tutti gli altri Tribunali inferiori del Regno, e che lo stile di quello dovesse praticarsi negli altri Tribunali inferiori.
Gli Scrittori, che o con picciole note o con ben lunghi commentarj impiegarono le loro fatiche sopra i medesimi, per maggior distinzione, e perchè allegati tosto si rinvenissero, gli divisero per numeri; onde ora il lor numero arriva a quello di trecento ed undici.
Fra essi vi collocarono un ordinamento, che la Regina Isabella moglie del Re Renato e sua Vicaria del Regno, stabilì nell'anno 1436 indrizzato, come fu detto, a Raimondo Orsino Gran Giustiziere[285]. Ella lo stabilì come Vicaria Generale di suo marito, come si legge nella iscrizione: Isabella Dei gratia Hierusalem, et Siciliae Regina etc. et pro Serenissimo et illustrissimo Principe, et Domino conjuge nostro Reverendissimo Domino Renato, eadem gratia, dictorum Regnorum Rege, Vicaria Generalis; con questa data: Datum in Regio, nostroque Castro Capuanae Neap. per manus nostrae praedictae Isabellae Reginae, A. D. 1436 die 14 mensis aprilis, 14 Indict. Regnorum vero dicti Domini Regis II. E questo è l'ultimo ordinamento, che a noi è rimaso de' Re dell'illustre casa d'Angiò.
È da notare ancora, che in questi ultimi tempi dei Re angioini, le leggi de' Longobardi non ostante di essere risorte le Romane, e restituite nella loro antica autorità, non erano nel nostro Regno affatto abolite ed andate in disusanza: vi erano per anche chi viveano secondo quelle leggi[286]: si davano perciò alle donne i Mundualdi, senza de' quali, così i giudicii, come i lor contratti eran invalidi[287]. Non si concedeva repulsa tra coloro, che viveano secondo la legge Longobarda, contro i loro sacramentali[288]; ed ancorchè Annibale Troisio e Prospero Caravita testificano, che que' Riti erano andati in disusanza, ciò era forse vero, riguardandosi a tempi, ne' quali scrissero i loro commentarj, non già nel Regno di Giovanna, la quale inutilmente si sarebbe posta a dar suoi regolamenti su di ciò, se non vi fossero stati nel Regno coloro che fosser vivuti sotto il Jus Longobardo. Anzi non sappiamo con quanta verità possa ciò dirsi, anche nell'età di questi Commentatori, quando fino a' nostri tempi in alcune parti del Regno i Notari ne' loro istromenti, quando intervengono donne, vi fanno intervenire anche per esse i Mundualdi; e quando ciò non sia, soglion perciò dire, che i contraenti vivono Jure Romano: ciò che altrove fu da noi avvertito.
Questi Riti per la loro utilità, e perchè contengono infiniti regolamenti, massimamente intorno alla fabbrica de' processi, e dell'ordine giudiciario, furono prima con picciole note, poi con pieni commentarj dai nostri Autori esposti.
Il primo fu Annibale Troisio, detto comunemente il Cavense, per essere stata la Cava sua patria, di cui non si dimenticò Gesneio nella sua Biblioteca. Fiorì egli nel principio del decimosesto secolo, e finì questi suoi commentarj al primo di novembre dell'anno 1542 com'egli testimonia nel fine dell'opera. Aggiunsero alcune picciole addizioni a' suoi commentarj, Cesare Perrino di Napoli, Giovan Michele Troisio e Girolamo de' Lamberti, e presso gli Autori del nostro Foro acquistarono non picciola autorità, e furon sempre riguardati con rispetto, ed onore. Giovan Francesco Scaglione Dottor napoletano, ma originario d'Aversa, parimente compose sopra i medesimi alcuni piccioli commentarj, ma non sopra tutti; e fece alcune osservazioni di ciò ch'egli avea veduto praticare nella Gran Corte mentre era Avvocato; ed i suoi commentarj furono la prima volta impressi in Napoli nel 1553.
Oscurò la fama di amendue Prospero Caravita di Eboli, il quale nello spazio d'un anno e mezzo, cominciando i suoi commentari in Eboli sua patria, nel mese di marzo del 1559, gli terminò felicemente in Agosto del 1560. Non vi era giorno, che non vi impiegasse i suoi studj, ora in Eboli, ora in Salerno, dove in quella Udienza esercitò la carica d'Avvocato fiscale. Riuscirono assai dotti e copiosi, tanto che presso i posteri fu riputato il Dottor più classico di quanti mai sopra questi Riti scrivessero.
Ultimamente a' dì nostri surse il Reggente Petra, il quale vi compose sopra ben quattro volumi: meritano piuttosto nome di magazzini che di commentarj:, poichè oltre di quel che bisognava per illustrargli, gli riempiè di tante e sì varie materie, che vi racchiuse quanto egli seppe, e quanto da altri apprese: divagossi in varie dispute ed articoli occorsi sopra cause recenti ed agitate a' suoi tempi; onde gli caricò di molte allegazioni e d'infinite e varie altre cose affatto estranee dal soggetto, che avea per le mani. Può aversene buon uso per li molti esempi di cause a' suoi dì decise, e per la moderna pratica e stile, non men della Gran Corte che degli altri nostri Tribunali.
§. I. De' Giureconsulti di questi tempi, e da' quali fu compilata la prammatica detta la Filingiera.
I Giureconsulti, che fiorirono nel Regno di Giovanna II e di Renato sino ad Alfonso, non sono da paragonarsi, così nel numero, come nel sapere con coloro, che vissero sotto il Re Roberto e sotto la Regina Giovanna I sua nipote. Essi non ci lasciarono niente delle loro opere e de' loro scritti. Solamente si rese in questi tempi celebre Marino Boffa da Pozzuoli, il quale adoperato dalla Regina negli affari più gravi del Regno, fu innalzato da lei al supremo Ufficio di Gran Cancelliere; ma poi entrato in gara col Gran Siniscalco Sergianni, questi operò tanto con la Regina, che a sua istanza nel principio dell'anno 1419 lo privò dell'Ufficio, surrogando in suo luogo Ottino Caracciolo[289]. Ciò che deve far cessar la maraviglia, che Toppi[290] avea, come Marino in tempo della prammatica Filingiera, che si stabilì nell'anno 1418 era Gran Cancelliere e poi quando fu instituito il Collegio de' Dottori nel 1428 non lo era.
Fiorirono ancora Giovanni di Montemagno e Pietro di Pistoja Giudici della Gran Corte e Giovanni Arcamone Giudice d'appellazione di detta Corte. Ebbero ancor fama di gravi Dottori Biagio, Cisto, Carlo di Gaeta, Gorrello Caracciolo, Carlo Mollicello, il Giudice Giacomo Griffo e l'Abate Rinaldo Vassallo di Napoli. Fiorirono ancora in questi medesimi tempi Bartolommeo Bernalia di Campagna, di cui presso Toppi[291] hassi onorata memoria, ed altri di men chiaro nome. Questi furono i Giureconsulti de' quali la Regina nelle deliberazioni più gravi solea valersi.
Costoro furono adoperati nella cotanto celebre prammatica detta la Filingiera, stabilita dalla Regina a richiesta del Gran Siniscalco Sergianni, per l'occasione che diremo. Avea Sergianni per moglie Caterina Filingiera figliuola di Giacomo Conte d'Avellino: questi nel suo testamento istituì eredi ne' beni feudali Gorrello suo figlio primogenito, e ne' burgensatici Caterina e tre altri suoi fratelli, Alduino, Giovannuccio ed Urbano; ed oltracciò, a Caterina avanti parte lasciò ottocento once, le quali si diedero in dote a Sergianni. Gorrello morì poi senza figli, e gli altri tre suoi fratelli, che rimasero, parimente l'un dopo l'altro, morirono in età pupillare. Aspiravano alla successione Filippo lor zio paterno fratello di Giacomo; Ricciardo Matteo Filingiero figlio, ed erede di Ricciardo fratello di Filippo, il Fisco che pretendeva essersi il Contado devoluto, e Caterina moglie di Sergianni. Costei supplicò la Regina, che avendo riguardo a' servizj di lei, de' suoi antecessori e di suo marito, non la facesse litigare co' suoi parenti, nè col Fisco; ma si compiacesse la cognizione di questa causa commetterla alla perizia di que' Dottori, che Sua Maestà stimava più idonei, i quali senza figura di giudicio, esaminando le ragioni delle Parti, determinassero chi dovesse succedere nel Contado d'Avellino, se lei, o pure i suoi congiunti, ovvero dovesse dirsi il Contado devoluto. La Regina aderì alle sue preci, ed elesse per la decisione della causa il Gran Cancelliero Marino Boffa, e gli altri di sopra riferiti Dottori, li quali avendo ben discusso ed esaminato il punto, giudicarono, che Caterina dovesse succedere, non ostante, che fosse stata dotata dal fratello; poichè la dote non le fu costituita de' beni del medesimo. La Regina non solo s'uniformò alla loro determinazione, ma la fece passare per legge generale del Regno, e nell'anno 1418 sopracciò ne fece emanar prammatica, per la quale fu stabilito, che fra coloro, che vivono jure Francorum, la sorella maritata, ma non dotata de' suoi beni, non dovesse escludersi dalla successione del fratello; tutto al contrario in coloro, che vivono jure Longobardorum dove la sorella vien esclusa, bastando che fosse stata dotata, o dal comun padre o dal fratello. Questa è quella prammatica cotanto fra noi rinomata, detta la Filingiera, che porta la data de' 19 gennaio del suddetto anno 1418, e fu istromentata nel Castel Nuovo; la quale si vede ora racchiusa nel secondo volume delle nostra prammatiche sotto il titolo de Feudis[292]; intorno alla quale s'è poi tanto scritto e disputato da' nostri Scrittori Forensi.
CAPITOLO IX. Istituzione del Collegio de' Dottori in Napoli.
L'Università degli Studj di Napoli, che fiorì tanto sotto il Re Carlo I e II, e di Roberto suo figliuolo, li quali l'adornarono di molte prerogative e privilegi, teneva prima il suo Rettore, ch'era uno de' primi Dottori, allora chiamati Maestri dell'Università, al quale Carlo e Roberto diedero ampia giurisdizione sopra gli scolari di quella. Teneva ancora questa Università il suo Giustiziere a parte, ed altri Ufficiali minori. Da poi, come altrove si disse, la Prefettura degli Studi fu conceduta al Cappellan Maggiore, il quale come Prefetto n'avea la cura e soprantendenza. L'università dava i gradi del Dottorato, di Licenziato, ovvero Baccalaureato, siccome oggi giorno si pratica nell'Università degli Studj di Francia, e nell'altre città d'Europa. Anzi la potestà di conferire i Gradi fu da alcuni riputata cotanto necessaria, e sustanziale dell'Università degli Studj, che senza quella non meritavano essere l'Accademie chiamate Università[293]. Questo Dottorato nella maniera, che si conferisce ora, non era riconosciuto da' Romani: nè molti secoli appresso sino al Pontificato d'Innocenzio III. Ed il Conringio[294], osserva, che a' tempi d'Alessandro III che fiorì 20 anni prima d'Innocenzio, non vi era Dottorato, e si permetteva a tutti, che mostravano erudizione ed idoneità, di reggere gli Studi delle lettere e le scuole; ed il primo, che tra i Cancellieri di Parigi fosse onorato col titolo di Maestro (che in quel tempo l'istesso era ciocchè noi chiamiamo Dottore) fu Pietro di Poitiers, il qual fiorì sotto Innocenzio III[295]. Ed il Mulzio e Vitriario portarono opinione, che nel duodecimo secolo questi Gradi si fossero introdotti. Regolarmente le Università degli Studi gli conferivano, ed in Napoli ed in Salerno, prima che regnasse la Regina Giovanna, quelle Università gli davano; nè fu questa Regina, che prima gl'istituisse, perchè dall'istesso suo privilegio si vede, che nell'Università v'erano i Dottori ed il Rettore, destinati per la creazione degli altri.
La Regina Giovanna II volle farne un Collegio separato con trascegliergli, parte dall'Università degli Studi e parte dagli altri Ordini, al quale unicamente attribuì il potere di dar i gradi di Licenziatura e di Dottorato. I primi Dottori, che si trascelsero, e che sono nominati nel privilegio della istituzione, istromentato nel Castel di Capuana nell'anno 1428, furono il Dottor Giacomo Mele di Napoli, che fu creato priore del Collegio. Andrea d'Alderisio di Napoli Dottor di leggi: Marino Boffa, che privato del posto di Gran Cancelliere, si vide come Dottore ascritto con gli altri in questo Collegio: Gurrello Caracciolo di Napoli Dottor di leggi: Giovanni Crispano di Napoli Vescovo di Tiano Dottor di leggi: Goffredo di Gaeta di Napoli Milite e Dottore: Carlo Mollicello di Napoli Dottor di leggi e Milite: Girolamo Miroballo di Napoli Dottor di leggi: e Francesco di Gaeta di Napoli parimente Dottor di leggi. Concedè ancora nell'istesso privilegio la sovrantendenza e giurisdizione così nelle cause civili, come nelle criminali de' Dottori e Scolari, al Gran Cancelliere del Regno, che allora era Ottino Caracciolo, non intendendo però pregiudicare alla giurisdizione del Giustiziere degli Scolari[296]; e sottopose il Governo del Collegio al Gran Cancelliere o suo Vicecancelliere, ch'egli volesse eleggere, assegnandogli i Bidelli, il Segretario ed il Notaro.
La prima e principal prerogativa che gli diede, fu di conferire i gradi di Dottorato o Licenziatura nelle leggi civili e canoniche. Si prescrissero i doni, ovvero sportule che gli Scolari doveano prestare così al Vicecancelliere, come agli altri Dottori del Collegio quando si dottoravano; e fra l'altre cose comandò, che all'Arcivescovo di Napoli, se si trovasse presente all'atto del Dottorato, se gli dovesse dare una berretta ed un par di guanti[297]: ciò che in decorso di tempo andò in disusanza, perchè gli Arcivescovi di Napoli saliti in maggior fasto e grandezza, sdegnarono di più intervenire a queste funzioni, niente curandosi d'un sì picciol dono. Stabilì in fine il numero de' Collegiali, la loro Elezione ed il modo da doversi tenere nel Dottorare e si disposero le Precedenze, così nel sedere, come nel votare, e si diedero altri particolari provvedimenti, li quali si leggono nel privilegio della fondazione, che fu tutto intero impresso dal Reggente Tappia ne' suoi volumi[298], e ne fece anche menzione Matteo degli Afflitti[299]; ed il Summonte[300] rapporta in più occasioni essersi il di lui transunto presentato nel S. C., ed ultimamente Muzio Recco[301] lo stampò anch'egli insieme con le sue chiose, che vi compose, piene di molte cose puerili, e d'inutili quistioni.
Questo Collegio non era che di Dottori dell'una e l'altra legge; era ancor di dovere che se ne formasse un altro di Filosofi e di Medici, e la Regina a richiesta del Gran Cancelliere Caraccioli non fu pigra a stabilirlo. Ella dopo un anno e nove mesi, nel 1430 a' 18 agosto spedì altro privilegio per la sua fondazione. Lo sottopose parimente al Gran Cancelliere, volendo che ne fosse egli il Capo ed il Moderatore o in sua vece il suo Luogotenente. Gli diede il suo Priore, e trascelse a questa carica il Priore del Collegio di Salerno, Salvatore Calenda, il qual era anche Medico della Regina. L'assegnò un Notaro, ed un Bidello; e volle che i Collegiali fossero, oltre Salvator Calenda Priore, Pericco d'Attaldo d'Aversa Medico e Lettore di Medicina nell'Università degli Studj di Napoli: Raffaele di Messer Pietro Maffei della Matrice, Medico e Lettore nell'Università suddetta: Antonio Mastrillo di Nola, Medico: Battista de Falconibus di Napoli, Medico e parimente Lettore in Napoli: Angiolo Galeota di Napoli, Medico e Lettore in detta Università: Nardo di Gaeta di Napoli, Milite e Medico della Regina: Luigi Trentacapilli di Salerno, Milite e Dottore in Medicina: Maestro Paolo di Mola di Tramonti, Medico: Roberto Grimaldo d'Aversa Medico: e Paolino Caposcrofa di Salerno, suo familiare e Medico.
Avendo parimente posto questo Collegio sotto la giurisdizione del Gran Cancelliere, ordinò che questi fosse il Giudice competente nelle cause, così civili come criminali de' Medici Collegiali; prescrisse parimente i doni che i Dottorandi dovean dare: ordinò che l'esperienza, che doveva farsi dell'abilità del Dottorando, si facesse sopra gli Aforismi d'Ippocrate e ne' libri della Fisica e de' Posteriori d'Aristotele. Pure all'Arcivescovo di Napoli, intervenendo alla funzione, stabilì che se gli dasse la berretta ed un par di guanti: a' Teologi pure un par di guanti e così anche agli altri nella forma che si legge nel privilegio. Stabilì il modo di dottorare, e prescrisse anche il numero, l'elezione e le precedenze de' Collegiali.
Egli è da notare che ad amendue questi Collegi dalla Regina furono ammessi non pure gl'oriundi ed i cittadini napoletani, ma anche gli oriundi del Regno, i quali per quattro anni continui avessero nella città di Napoli pubblicamente insegnato nelle scuole. Di questo privilegio fece parimente menzione Afflitto[302]; ed il Summonte[303] anche attesta, essersi il suo transunto presentato in occasion di liti nelle Banche del S. C. ed il Reggente Tappia lo fece anche imprimere nel suo Jus Regni.
A questi due fu poi unito il Collegio di Teologia, composto di Teologi, e per lo più di Reggenti e di Lettori Claustrali. Dottorano anch'essi in teologia e danno lettere di Licenziatura. È parimente sotto la giurisdizione del Gran Cancelliere che lo riconosce per suo Capo e Moderatore. Così oggi il Collegio di Napoli vien composto di tre ordini di Dottori, di coloro di legge civile e canonica, di Dottori di filosofia e di medicina e dell'altro di teologia: essi danno i gradi e le licenziature nelle leggi, nella filosofia e medicina e nella teologia. Collegio che ancorchè ceda a quello di Salerno per antichità, si è però innalzato tanto sopra di quello, che secondo portano le vicissitudini delle mondane cose, non pur contese, per la maggioranza, ma ora, e per lo numero e per dottrina de' Professori, tanto egli s'è reso superiore, quanto l'una città è sopra l'altra più eccelsa e più eminente.
Da' successori Re Aragonesi, e più dagli Austriaci intorno all'amministrazione e governo di questo Collegio, circa i requisiti richiesti ne' Dottorandi, e per la sua forma e durata, furono stabiliti più ordinamenti, che si leggono nel volume delle nostre prammatiche; ed il Reggente Tappia[304] ne unì insieme molti sotto il titolo De Officio M. Cancellarii. Giovan Domenico Tassone[305] ne trattò anche nel suo Magazzino De Antefato e finalmente Muzio Recco[306] nel 1647 ne stampò un volume, ove anche vi tessè un ben lungo Catalogo di tutti i Dottori di questo Collegio dall'anno 1428 sino al 1647, il qual Catalogo fu poi dagli altri continuato sino a' nostri tempi.
CAPITOLO X. Politia delle nostre Chiese durante il tempo dello Scisma, insino al Regno degli Aragonesi.
Le revoluzioni accadute dopo la morte del savio Re Roberto insino al Regno placido e pacato del Re Alfonso, conturbarono non meno lo Stato politico e temporale di questo Reame, che l'Ecclesiastico e spirituale delle nostre Chiese. Lo Scisma, che surse per l'elezione d' Urbano IV e di Clemente VII, ci fece conoscere in un medesimo tempo non pure due Re, ma due Papi; e diviso il Regno in fazioni, siccome miseramente afflissero l'Imperio, così anche il Sacerdozio rimase in confusione ed in continui sconvolgimenti e disordini. Colui era fra noi riputato il vero Pontefice, il quale avea il favore e l'amicizia de' nostri Re; e siccome la fortuna sovente mutava il Principe, così variavasi fra noi il Pontefice. L'indisposizione del capo faceva languire tutte le altre membra; onde i Prelati delle nostre Chiese si videro ora intronizzati, ora cacciati dalle loro Sedi, secondo la varia fortuna de' Principi contendenti. Urbano VI nel principio della sua intronizzazione, che avvenne nel 1378, fu da noi riconosciuto per Papa; ma scovertisi poi i difetti della sua elezione e l'animo de' Cardinali di dichiararla nulla, e di crearne un, altro, la nostra Regina Giovanna I per le cagioni rapportate nel XXIII libro di questa Istoria, gli diè favore, ed agevolò l'impresa, e diede mano, che l'elezione si facesse ne' suoi Stati e propriamente a Fondi, dove nello stesso anno s'elesse il nuovo Papa Clemente VII, il quale fu da lei accolto ed adorato in Napoli come vero Pontefice. Nacquero perciò nelle nostre Chiese disordini grandissimi, e sopra ogni altra in quella di Napoli, poichè sedendo quivi l'Arcivescovo Bernardo, avendo costui aderito alle parti della Regina e di Clemente, fu da Urbano deposto e creato in suo luogo Arcivescovo l'Abate Lodovico Bozzuto, il quale concitando il Popolo avea occupata la sede, e cacciata la famiglia di Bernardo. Ma la Regina avendo sedato il tumulto, fugò il Bozzuto, fece abbattere le sue case, ruinare le possessioni[307], e richiamò Bernardo, il quale resse questa Chiesa insino che Napoli non fu occupata da Carlo III di Durazzo. Questi invitato da Urbano, il quale avea scomunicata la Regina, e data a lui l'investitura del Regno, fece strozzare la Regina, s'impossessò del Reame, ed afflisse inumanamente tutti i suoi partigiani, spogliandogli de' loro Feudi, delle dignità e di tutti i loro beni. Dall'altra parte Urbano, per vendicarsi di coloro, che aveano aderito a Clemente, mandò tosto per Legato nel Regno il Cardinal Gentile di Sangro, il quale superando di gran lunga le crudeltà di Carlo, perseguitò barbaramente tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Abati, Preti, in fine tutti i Cherici del Regno partigiani di Clemente, imprigionandogli, tormentandogli e spogliandogli di tutte le dignità, beneficj e beni, non perdonando nè ad età, nè ad onore, nè allo stato di qualunque persona; ed Urbano lodando il rigore del suo Legato, per accrescere maggior miseria agli spogliati, e tor loro ogni speranza, diede ad essi tosto i successori e per cosa assai portentosa si narra, che in un sol giorno creasse trentadue tra Vescovi ed Arcivescovi per lo più Napoletani, e singolarmente favorisse coloro, i quali aveano dato ajuto a Carlo per l'acquisto del Regno, non richiedendo altro merito che questo[308]. Nè di ciò soddisfatto il Legato, fece un dì nella chiesa di S. Chiara al cospetto del Re Carlo, de' suoi principali Signori e di tutto il Popolo napoletano, ignominiosamente condurre Lionardo di Gifoni Generale dell'Ordine de' Minori di S. Francesco, già stato eletto Cardinale da Papa Clemente: Giacomo de Viss franzese, Arcivescovo di Otranto e Patriarca di Costantinopoli Cardinale eletto da Clemente, e mandato nel Regno per suo Legato: Casello Vescovo di Chieti, ed un certo Abate nominato Massello, ch'erano stati affezionati alla Regina, e gli costrinse ad abjurare Clemente, e professare Urbano: da poi gli fece spogliare degli abiti e del Cappello Cardinalizio, del manto e della cocolla episcopale, ed accesa una pira, fece quelle spoglie tutte ardere al cospetto del popolo: dopo questo gli fece di nuovo condurre in oscuro carcere, dove per lungo tempo dimorarono[309]. E narra Teodorico di Niem[310], che le crudeltà, che usò il Cardinal di Sangro nel Regno contro tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Abati, Preti e Cherici partigiani della Regina e che avean aderito a Clemente, furono tali, che non si possono senz'orrore ascoltare.
Ma furono non guari da poi disturbati i partigiani d'Urbano; perchè Luigi I d'Angiò chiamato al Regno da Giovanna, ed investito da Clemente, calò nel 1382 per riacquistarlo. Si oppose Urbano, ed usò ogni arte ed ingegno per render vano il suo disegno; e venuto in Napoli lo dichiarò scismatico, lo scomunicò, gli bandì contro la Cruciata, concedendo indulgenza plenaria e remission di ogni peccato a tutti coloro, che contro lui pigliavano l'arme; e creò Confaloniere di S. Chiesa il Re Carlo, benedicendogli lo stendardo, che gli diede nel Duomo di Napoli nella solennità della Messa. Perchè mancava il denaro per sostenere una sì aspra e crudel guerra, egli diede facoltà a Filippo Gezza e Poncello Orsino suoi Cardinali di poter vendere e pignorare li fondi e le robe di tutte le chiese, ancorchè i Prelati ed i Capitoli dissentissero; ed allora le nostre Chiese patirono un guasto terribile de' loro beni, perchè Carlo, premendo il bisogno della guerra, gli faceva vendere a vilissimo prezzo[311]. Mentre Carlo visse, la parte Angioina quasi in niente prevalse; ma costui morto, Re Luigi invase il Regno, ne discacciò Margarita, vedova del morto Re, col suo figliuolo Ladislao; e nell'anno 1387 gli confinò a Gaeta.
Risorta perciò nel Regno la fazione di Clemente, gli partigiani d'Urbano furono tutti a terra. Clemente intanto, morto Bernardo nell'anno 1380 avea rifatto in suo luogo per Arcivescovo di Napoli Tommaso de Amanatis, il quale, mentre durò l'intrusione del Bozzuto e la fazione d'Urbano, dimorò sempre in Avignone, dove Clemente lo creò pure Cardinale e dove morì; variando gli Scrittori non meno intorno l'anno della sua promozione, che della sua morte[312]; e Clemente tosto gli diede l'Arcivescovo Guglielmo per successore. Dall'altra parte Urbano, morto Bozzuto nell'anno 1384 non mancò di dargli Niccolò Zanasio per successore; ma costui, non meno che Tommaso, seguendo le parti della Regina Margarita, morì esule della sua Chiesa, da lui già resignata, in Cremona nell'anno 1389 avendogli intanto Urbano prima di morire nell'anno 1386 dato per successore l'Arcivescovo Guindazzo, il quale seguitando con molta costanza le parti d'Urbano; e prevalendo a' suoi tempi la parte Angioina, non potè godere la possession pacifica della sua Chiesa: poichè confinata la Regina Margarita e Ladislao in Gaeta, ed ubbidendo Napoli ed il Regno al Re Luigi ed al Pontefice Clemente, l'Arcivescovo Guglielmo era riconosciuto da' Napoletani[313].
Papa Clemente non volle essere riputato meno di Urbano in opporsi a' disegni di Ladislao che fatto adulto s'accingeva all'Impresa del Regno, per discacciarne Luigi suo competitore; onde pure egli residendo in Avignone, diede licenza al Re Luigi ed a coloro che governavano il Regno suoi partigiani, che per la guerra contro Ladislao potessero valersi di tutti i vasi d'argento e d'oro delle chiese per coniar moneta per stipendio de' soldati: e così fu fatto, perchè tutti i vasi delle chiese furono parte coniati e parte venduti, con inestimabile danno di quelle[314]. Non si legge però essersi praticate da Clemente contro i Vescovi ed Abati, partigiani del suo Competitore, quelle crudeltà che usò Urbano per mezzo del Cardinal di Sangro.
Rimase il partito di Clemente in fiore per tutto l'anno 1389 quando Ladislao rinvigoritosi, e prendendo forza il suo partito riacquistò buona parte del Regno; ed allora li disordini si viddero maggiori nelle nostre Chiese, poichè ardendo la guerra, al variar della fortuna de' Principi contendenti, variavano le condizioni ed i Prelati delle Chiese. Nè bastò, per far cessare lo Scisma, la morte d'Urbano seguìta dopo di quella di Clemente; poichè siccome i Cardinali della fazione d'Urbano elessero per suo successore Bonifacio IX, così morto Clemente in Avignone nell'anno 1394 i suoi Cardinali tosto vi rifecero Benedetto XIII, e siccome Bonifacio favoriva il Re Ladislao, così Benedetto prese le parti di Luigi, al quale confermò la Corona del Regno, concedendogli nuova investitura. E stando il Regno diviso, Bonifacio era da' suoi riconosciuto, e Benedetto che resisteva in Avignone avea sotto la sua ubbidienza tutti coloro che seguitavano la parte Angioina; ed i prelati erano sempre in forse ed in timore di non esserne cacciati; onde è che Ladislao per accrescere il suo partito assecurava i timidi, che i loro parenti non sarebbero stati scacciati dalle Sedi: come fece a Galeotto Pagano, assicurandolo che Niccolò Pagano suo fratello ch'era nell'ubbidienza di Benedetto XIII non sarebbe stato cacciato dalla Chiesa di Napoli, ma ch'egli l'avrebbe ad ogni suo costo fatto mantenere; siccome parimente promise a Giacomo di Diano di far rimanere in Arcivescovo di Napoli Niccolò di Diano suo fratello, e di là non farlo rimovere o transferire per qualunque occasione o tempo; siccome si legge ne' diplomi di questo Re rapportati dal Chioccarello[315]. E per tutto quel tempo che la parte Angioina potè contrastare a Ladislao, furono non meno che le città, combattute le nostre Chiese, insino che abbassata la parte Angioina, e tornato il Re Luigi in Francia, Bonifacio IX, Innocenzio VII e Gregorio XII suoi successori, affezionati del Re Ladislao non ripigliasser nel Regno maggior forza e vigore.
Mentre in Avignone sedeva Benedetto XIII, ed in Roma Gregorio XII, i Cardinali d'amendue i Collegi, per togliere lo Scisma, presero espediente d'unirsi in un Concilio a Pisa, e crear essi un nuovo Papa, e deporre Benedetto e Gregorio e così fecero, creando Alessandro V; ma questo Concilio ebbe per noi inutile successo, perchè ciò non ostante, il Re Ladislao continuò nell'ubbidienza di Gregorio e l'accolse nel Regno; ordinò a' suoi sudditi che lo riconoscessero per vero Pontefice, e gli assegnò la Fortezza di Gaeta per sicuro suo asilo, dove dimorò per lungo tempo, malgrado d'Alessandro, il quale perciò gli mosse contro Baldassar Cossa Cardinal Diacono, che trovò ben presto il modo d'impadronirsi di Roma, di cacciare gli Ufficiali di Ladislao, e stabilirvi Paolo Orsino. Ma Alessandro, che quando fu eletto Papa era settuagenario, non sopravvisse gran tempo alla sua elezione: morì egli in Bologna l'anno 1410, ed in suo luogo fu rifatto Baldassar Cossa, fiero nemico di Ladislao, che prese il nome di Giovanni XXIII. Costui che nella sua elezione ebbe il favore e la raccomandazione del Re Luigi II d'Angiò emolo di Ladislao, il primo disegno, che concepì giunto al Pontificato, fu di spogliar Ladislao del Regno di Puglia: ed in effetto pose in piedi un esercito contro lui, andò verso Capua, lo sconfisse, e ritornò trionfante in Roma. Ma Ladislao, ch'era un Principe d'animo invitto, tosto si ristabilì, sicchè ridusse il Papa a voler pace con lui, la qual si fece con condizione che cacciasse da' suoi Stati Gregorio, e facesse in quelli riconoscer lui come vero Pontefice. Ladislao eseguì il trattato: onde Gregorio cercò il suo rifugio nella Marca d'Ancona sotto la protezione di Carlo Malatesta, dove dimorò sino al Concilio di Costanza. Così discacciato Gregorio, il quale insino all'anno 1412 era stato adorato in Napoli, fu da poi riconosciuto per Pontefice Giovanni insino all'anno 1415 quando dal Concilio di Costanza fu egli deposto; il quale finalmente acquetandosi alla sentenza di quel Concilio si spogliò l'abito pontificale.
Non riconobbe poi il nostro Reame niun altro Pontefice per tutto il tempo che corse dalla deposizione di Giovanni, insino all'elezione fatta dal Concilio di Costanza di Papa Martino V, seguita in novembre dell'anno 1417, tanto che quasi per due anni e mezzo si riputò appresso noi vacare la Sede Appostolica: onde nelle scritture fatte in Napoli in questo tempo, non si metteva nome d'alcun Pontefice, ma si diceva, Apostolica Sede vacante[316]; poichè siccome dopo deposto dal Concilio Giovanni, non fu riputato Pontefice, molto più deposti Gregorio e Benedetto, non furono da noi per niente riconosciuti. Ma eletto dal Concilio Martino V, siccome questi fu riconosciuto da quasi tutto il Mondo cattolico per vero e legittimo Pontefice, così da' nostri Principi e da tutte le Chiese e Popoli del Regno, in Napoli, e da per tutto fu adorato ed avuto per solo e vero Pontefice; e quantunque il Re Alfonso per tener in freno il Pontefice Martino sostenesse ancora il partito di Benedetto XIII, e costui morto nell'anno 1424, quello di Clemente VIII suo successore, eletto da due soli Cardinali ch'erano rimasi appresso di esso; nulladimanco ciò presso di noi non apportò alterazione alcuna, così perchè Alfonso non impedì a suoi sudditi il riconoscer Martino, come anche perchè si sapeva il fine che lo spingeva a proteggere il partito di Clemente: essendosi ancora Alfonso sdegnato con Martino, perchè avea investito Luigi III del nostro Regno suo emolo e competitore. Ma cessate infra di loro le discordie e rappacificati, Alfonso mandò il Cardinal di Foix Legato in Ispagna, perchè Clemente cedesse, il quale nell'anno 1429 fu costretto nelle mani del Legato renunziare ogni suo diritto, siccome i Cardinali ch'egli avea creati, anche volontariamente rinunziarono al Cardinalato; ed in cotal maniera terminossi interamente lo Scisma che per lo spazio di cinquantuno anni avea miseramente lacerata la Chiesa; e Martino V restò solo ed unico Papa, riconosciuto da tutto l'Occidente.
Fu data perciò pace alle nostre Chiese, le quali non furono in niente turbate per lo Scisma rinovato dal Concilio di Basilea, il quale nell'anno 1439 avendo deposto Eugenio IV successor di Martino, avea confermata l'elezione fatta da' suoi Commessarj d'Amedeo Duca di Savoja, che si faceva chiamare Felice V poichè sebbene Alfonso per le cagioni, che si diranno nel seguente libro, lo favorisse, non fu mai dalle nostre Chiese riconosciuto per Pontefice, rimanendo sempre nell'ubbidienza di Papa Eugenio: siccome dopo la di lui morte, accaduta nel 1447, di Niccolò V successore, per l'elezione del quale finì anche lo Scisma, perchè essendo costui un uomo mite e pacifico, ascoltò volentieri le proposizioni d'accordo che gli furono fatte da' Principi cristiani; e dall'altra parte Felice, ed i suoi aderenti trovandosi parimente disposti alla pace, s'indusse a rinunziare alla pontifical dignità, e gli fu accordato che sarebbe egli rimaso il primo fra' Cardinali e Legato perpetuo della Santa Sede in Alemagna.
Il Concilio di Costanza rimediò ancora a' disordini preceduti delle nostre Chiese; poichè, per lo ben della pace e per togliere le dissensioni fra due partiti, sul dubbio di chi de' due Contendenti dovesse riputarsi il vero e legittimo Pontefice, e per conseguenza quali elezioni e provisioni da essi fatte dovessero rimaner ferme, previde che i Cardinali, Vescovi, Abati, Beneficiati e tutti gli Ufficiali delle due Ubbidienze fossero mantenuti nel possesso de' loro posti, e che le dispense, indulgenze e l'altre grazie concedute da' Papi delle due Ubbidienze, come pure i decreti, le disposizioni ed i regolamenti che avessero fatti, dovessero avere la loro sussistenza[317]. In cotal guisa rimasero le nostre Chiese in pace; siccome la Chiesa di Roma dopo l'elezione di Niccolò V insino alla fine di questo secolo fu in pace; ed i Pontefici furon da poi occupati più nelle guerre d'Italia, e nella cura di sostenere la lor potenza temporale, e di stabilire la propria famiglia, che negli affari ecclesiastici. Erano ancora occupati per cagion di coloro, che d'ordinario si portavano in Roma per le Canonizzazioni de' Santi: per ottener privilegi a' monasterj: per gli affari degli Ordini di tante e sì varie religioni: per ottener indulgenze e dispense: per le liti fra le Chiese e gli Ecclesiastici che si tirarono tutte a Roma, dove parimente si tirarono le collazioni di tutti i beneficj, colle riserve, grazie, aspettative, prevenzioni, annate e tutte l'elezioni de' Vescovadi e Badie, ed altre provisioni di beneficj; per i litigj fra Curati e Religiosi sopra l'amministrazione de' Sacramenti e sopra tante altre faccende; onde lor si diede occasione di stabilire tante Bolle e lettere, le quali col correr degli anni crebbero in tanto numero, che ora se ne veggono compilati ben cinque volumi, sotto il titolo di Bullario Romano[318].
§. I. Monaci e beni temporali.
Le nostre Chiese, durante il tempo dello Scisma, non fecero notabili acquisti di beni temporali, poichè l'Ordine chericale era in poco credito; anzi le ostinate guerre che insorsero, sovente obbligarono i nostri Principi, con permissione de' romani Pontefici, di dare a' loro beni guasti terribili, insino a venderli e impegnargli, ed a valersi, per gli stipendj de' soldati, de' loro vasi d'oro e d'argento. I Monaci vecchi avendo già perduto il credito di santità, non erano più riguardati. Tutta la devozion de' popoli era rivolta verso i novelli Ordini di nuove religioni, che s'andavano alla giornata ergendo; e siccome altrove fu osservato, nel Regno degli Angioini, i più accreditati erano i Mendicanti, e fra questi i più favoriti furono i Frati Predicatori ed i Frati Minori. La Regina Giovanna II in ammenda delle sue lascivie diedesi pure a favorirgli, e a disporre il suo animo ad opere di pietà. Oltre di aver fondato un nuovo ospedale nella chiesa dell'Annunziata di Napoli, dotandolo di ricchissime rendite, e d'aver ampliato l'ospedale e la chiesa di S. Niccolò del Molo, riparò in grazia de' Frati Minori il monastero della Croce di Napoli, ed ordinò che tutti coloro ch'aveano rubato in tempo suo e della Regina Margarita e di Ladislao suo fratello al Fisco regio, fossero assoluti, con pagar il due per cento delle quantità rubate ed occupate: ed a tal effetto avea posta una cassa dentro il monastero di S. Maria della Nuova, dove i ladri doveano portar il denaro, ch'ella avea destinato per reparazione di quel monastero[319]. Donò ancora al monastero di S. Antonio di Padova, ora disfatto, molti poderi, a contemplazione di Suor Chiara già Contessa di Melito; e confermò al monastero di S. Martino sopra Napoli, li privilegi e concessioni fatte al medesimo dalla Regina Giovanna I di governare lo spedale dell'Incoronata da lei fondato e dotato, facendo franca la chiesa e sue robe d'ogni ragion fiscale, affinchè gl'infermi fossero ben trattati; ora i beni donati e le franchigie concesse son rimase, ma lo spedale, come dice il Summonte[320], è dismesso; e dove si governavano gl'infermi, ora vi sono magazzini di vino.
Favorì ancora questa Regina Giovanni da Capistrano, Terra posta nell'Apruzzo Ultra, Frate Minore e discepolo di S. Bernardino di Siena, il quale datosi nella sua giovanezza agli studii legali, vi riuscì eminente e fu creato Giudice della Gran Corte della Vicaria; ma da poi abbandonando il secolo, si fece religioso di S. Francesco, e fu più celebre per le sue spedizioni, che per li suoi trattati di legge e di morale che ci lasciò, de' quali il Toppi[321] fece catalogo. Egli si fece capo d'una Crociata contro i Fraticelli e gli Ussiti, ed andò in persona alla testa delle truppe che guerreggiavano contro i Boemi. La Regina Giovanna gli diede anch'ella commessione di proibire ai Giudei del nostro Regno l'usure, e che potesse costringergli a portare il segno del Thau, perchè fossero distinti da' Cristiani. Fu ancor rinomato per lo spaventoso soccorso, che diede alla città di Belgrado assediata da Turchi, e per gli altri impieghi marziali, ch'ebbe in Ungheria, dove nell'anno 1456 finì i giorni suoi.
(La morte di Giovanni da Capistrano, secondo che rapporta Gobellino[322], bisogna riportarla ne' seguenti anni; poichè questi lo fa intervenire nel Concilio di Francfort, celebrato nell'anno 1454, scrivendo ancora, che le sue prediche poco profittarono nella guerra contro a' Turchi. Aderat et Johannes Capistranus ordinis minorum Professor vitae sanctimonia, et assidua verbi Dei praedicatione clarus, quem populi velut prophetum habebant, quamvis in bello contra Turcas suadendo paucum proficeret).
Un nuovo Ordine, che surse a questi tempi fra noi, diede occasione a nostri Principi Aragonesi, perchè non fossero riputati meno degli Angioini, di accrescere anch'essi gli acquisti de' Monaci. Fu questo l'Ordine di Monte Oliveto istituito in Italia da tre Sanesi, i quali ritiratisi nel contado di Monte Alcino a menar vita solitaria in un Monte chiamato Oliveto, essendo stati accusati al Pontefice Giovanni XXII come inventori di nuove superstizioni, fur costretti giustificare il loro instituto a quel Pontefice, il quale diede commessione al Vescovo d'Arezzo, nella cui Diocesi era Monte Oliveto, che prescrivesse loro la regola, colla quale dovessero vivere: il Vescovo gli fece vestire di un abito bianco, dando loro la regola di S. Benedetto; ed avendo essi edificato in quel Monte un monastero ch'ora è rimaso capo di questa Congregazione, fra poco tempo se ne edificarono in Italia degli altri: onde nel 1372 Papa Gregorio XI approvò il nuovo Ordine, e Martino V parimente lo confermò. In Napoli furono questi novelli Religiosi introdotti da Gurrello Origlia Cavalier di Porto, Gran Protonotario del Regno, e molto familiare del Re Ladislao, il quale nel 1411 dai fondamenti gli edificò chiesa e monastero, dotandolo di 133 once d'oro l'anno per vitto di 24 Monaci e 14 Oblati. Assegnò loro anche molti poderi e censi, e fra gli altri li feudi di Savignano, di Cotugno e di casa Alba nel territorio d'Aversa: li territorii d'Echia colle grossissime rendite che da quelli si traggono, non riserbandosi altro per se e suoi successori, se non che i Monaci gli dovessero ogni anno nel dì della Cerajuola, presentare un torchio di cera d'una libbra, in segno del padronato che e' si riserbava, come fondatore di quella chiesa[323].
Ma da poi ne' tempi de' nostri Re Aragonesi crebber assai più gli acquisti e le lor ricchezze; ed Alfonso II sopra gli altri affezionatissimo di quest'Ordine, gli arrichì estraordinariamente; poichè oltre d'aver loro donate molte preziose suppellettili e vasi d'argento, ed ingrandite le loro abitazioni, ed adornate con dipinture eccellenti, donò loro anche tre castelli cioè Teverola, Aprano e Pepona, con la giurisdizione civile e criminale. Ciò che fu imitato anche dagli altri Re Aragonesi, il Regno de' quali saremo ora a narrare:
FINE DEL LIBRO VENTESIMOQUINTO.
STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO VENTESIMOSESTO
Il Regno di Napoli trasferito dagli Angioini in mano d'Alfonso Re d'Aragona, ancorchè passasse sotto la dominazione d'un Re potentissimo per tanti Regni ereditari, che possedeva, per Aragona, Valenza, Catalogna, Majorica, Corsica, Sardegna, Sicilia, il Rossiglione e tant'altri floridissimi Stati: e nuove famiglie, nuovi costumi, e molti istituti portati da Spagna si fossero in quello introdotti; nulladimanco fortunatamente gli avvenne, che da questo magnanimo Re non fosse trattato come Regno straniero, nè reputato forse, come una provincia del Regno di Aragona; ma l'ebbe, come se fosse suo avito Regno, e nazionale; anzi vi erse in Napoli un Tribunal così eminente, che ordinò che a quello dovessero per via d'appellazione portarsi non solo le cause di queste nostre province, ma di tutti gli altri suoi vastissimi Regni.
Sia la sua amenità o grandezza, il tanto numero de' grandi Baroni, la sua eminente nobiltà, siano gli amori della sua cara Lucrezia Alagna egli è evidente, che lo preferì a tutti gli altri suoi dominj, e non si vide mai in tanta floridezza e splendore, quanto negli anni del suo Regnare. Egli fermò in Napoli la sua sede regia, e quivi volle menar il rimanente di sua vita, e finire quivi i suoi giorni: e quasi dimenticatosi degli altri suoi paterni Regni, tutte le sue cure, e tutti i suoi pensieri furono verso questo Reame drizzati. La Sicilia vicina, che divisa dal Regno fin dal famoso Vespro siciliano, ora s'unisce, a lui accrebbe parimente utilità e grandezza. Quindi avvenne che per essersi nella sua persona riuniti questi Regni, cominciò a chiamarsi Re dell'una e l'altra Sicilia, ut et hinc, come dice il Fazzello[324], Pontificum Romanorum authoritatem non improbare, et vetustam observationem non negligere videretur, non ignarus, cum eruditissimus esset, illius usurpatam esse, et novitiam vocem. Ciocchè poi usarono gli altri Re suoi successori che dominarono l'uno e l'altro Reame. Ma la principal cagione, onde anche dopo la di lui morte questo Regno mantenesse la sua propria dignità, e che conservasse i suoi proprj Re, e non dipendesse da Principi stranieri, li quali tenendo altrove collocata la Regia loro sede, per mezzo de' loro Ministri soglion governare, come avvenne dal tempo di Ferdinando il Cattolico in poi; fu l'avere Alfonso proccurato per via di legittimazione, d'investiture e acclamazione de' Popoli che il Regno di Napoli, mancando egli senza figliuoli legittimi, non passasse con tutti gli altri Regni ereditarj sotto la dominazione di Giovanni suo fratello e degli altri Re d'Aragona, ma ne fosse investito ed acclamato per suo successore Ferdinando d'Aragona suo figliuolo bastardo, il quale sino a Federico d'Aragona ultimo Re di questa linea, perpetuò per molti anni nella sua discendenza questa successione in guisa che il Regno ebbe insino al Re Cattolico proprj Principi, anzi più che Nazionali; poichè non avendo essi in altre parti altri Stati e dominj, il Regno di Napoli era la loro unica sede e la propria Patria.
Molto dunque deve Napoli ed il Regno ad Alfonso, il quale posponendo gli altri suoi Regni, in questa città fermò il suo soglio, ed all'antica nobiltà normanna, sveva e franzese aggiungendovi altra nuova ch'e' portò di Spagna, di nuove illustri famiglie l'accrebbe e adornò. Egli vi portò i Cavanigli, i Guedara, i Cardenes, gli Avalos e tante altre, che ancora ci restano, e che rischiarano colla nobiltà del loro sangue questo Regno: oltre a' Villamarini, Cardona, Centeglia, Periglios, Cordova e tante altre famiglie nobilissime che son ora tra noi estinte. Egli riordinò il Regno con frequenti Parlamenti, con nuove numerazioni e con migliori istituti e nuovi Tribunali.
Non è mio proponimento, nè sarebbe dell'istituto della mia opera, voler in questa Istoria narrare i magnifici ed egregj suoi fatti: ebbe quest'Eroe particolari Autori, che di lui altamente e diffusamente scrissero, due Antonj, Zurita e Panormita, Bartolommeo Facio, Enea Silvio, poi Papa Pio II, il celebre Costanzo, Spiegello, Gaspare Pellegrino e tanti e sì illustri che empierono le loro carte de' suoi famosi gesti. A noi, perciò che richiede il nostro istituto, basterà rapportare ciò che appartiene alla politia, colla quale questo Principe governò il Regno: che cosa di nuovo fuvvi introdotto, e quali fossero le sue vicende e mutazioni nello stato, così civile e temporale, come ecclesiastico e spirituale.
CAPITOLO I. De' capitoli e privilegi della città e Regno di Napoli e suoi Baroni.
Da poi ch'ebbe Alfonso interamente sconfitti coloro della parte Angioina, ed in tutte le parti del Regno fatto correre le sue bandiere, pensò convocare un general Parlamento per dar sesto a molte cose che le precedute guerre avean poste in disordine e confusione. Lo intimò a Benevento, e per questo mandò per tutte le province lettere a' Baroni ed alle Terre demaniali che ad un dì prefisso ivi si trovassero; ma i Napoletani mandarono a supplicarlo che trasferisse il Parlamento nella città di Napoli ch'era capo del Regno, e così fu fatto: v'intervennero due Principi, poichè in questi tempi non ve n'eran più nel Regno, il Principe di Taranto Balzo e quello di Salerno Orsino, il primo Gran Contestabile e l'altro Gran Giustiziere: v'intervennero tutti gli altri cinque Ufficiali della Corona: quattro Duchi, quel di Sessa Marzano, il Duca di Gravina Orsino, il Duca di S. Marco Sanseverino, ed il Duca di Melfi Caracciolo (poichè il Duca d'Atri Acquaviva ed altri Baroni che aveano seguita la parte di Renato, ancorchè chiamati, non s'assicurarono venire innanzi al Re): due Marchesi, quel di Cotrone Centeglia e l'altro di Pescara Aquino: molti Conti, e moltissimi Baroni e Cavalieri dei quali il Costanzo ed il Summonte fecero lungo catalogo.
In questo Parlamento propose il Re che avendo liberato il Regno dall'altrui invasioni, per poterlo nell'avvenire mantener in pace e difenderlo da chi cercasse turbarlo, era di dovere che si stabilisse per tutto il Regno un annuo pagamento per mantenere uomini d'arme per la difensione di quello: consultarono sulla richiesta, e si conchiuse di costituirli un pagamento d'un ducato a fuoco, da pagarsi ogni anno per tutto il Regno, con che il Re dovesse all'incontro dar ad ogni fuoco un tomolo di sale, e levar ogni colletta, colla quale prima si vivea[325]. Si fece al Re l'offerta con chiedergli ancora alcune grazie. Alfonso l'accettò, promise tener mille uomini d'arme pagati a pace ed a guerra, e diece galee per guardia del Regno, e concedè magnanimamente quelle grazie che gli furon dimandate.
Molti furon i privilegi che si veggono ora impressi in un particolar volume: fra gli altri fu stabilito di dar udienza pubblica in tutti i venerdì a' poveri e persone miserabili: fu lor costituito un Avvocato con annuo soldo da pagarsi dalla Camera del Re: che nella Gran C. della Vicaria in luogo del Gran Giustiziere dovesse continuamente assistere il suo Luogotenente, ovvero Reggente con quattro Giudici per l'amministrazion della giustizia: che alli Baroni si conservassero li privilegj delle giurisdizioni a loro conceduti: che fossero sciolti da ogni pagamento d'adoa: che pagandosi per ciaschedun fuoco carlini diece, se gli somministrasse un tomolo di sale: che s'assegnasse a spese del regio Erario un avvocato a' poveri: ed altri privilegj e grazie concedette non meno alla città di Napoli che a tutte l'Università e Terre del Regno.
L'orme d'Alfonso furon da poi calcate dagli Re suoi successori, i quali in occasioni simili, avendo dal Regno richieste, ed essendo loro state accordate o nuove imposizioni o donativi di somme considerabilissime, concederon essi altre grazie alla città e Regno. Molte se ne leggono di Ferdinando I, d'Alfonso II, di Ferdinando II, di Federico, di Ferdinando il Cattolico, o del suo Plenipotenziario Gran Capitano, di Carlo V e di Filippo II. Tanto ch'essendo nell'anno 1588 cresciuto il lor numero, ebbe il pensiero Niccolò de Bottis di raccoglierle in un volume che fece imprimere in Venezia, e lo dedicò al Presidente de Franchis, allora Consigliere.
Ma in decorso di tempo, essendone state altre concedute dal Re Filippo II, da Filippo III e IV, da Carlo II e ne' nostri tempi dall'Imperador Carlo VI con grande utilità del pubblico si è proccurato nei passati anni, farne altra raccolta in un altro volume che si è fatto imprimere in Napoli (ancorchè portasse il nome di Milano) nell'anno 1719, dove sono stati impressi li rimarchevoli privilegi e segnalatissime grazie concedute ultimamente alla città e Regno dal nostro augustissimo e clementissimo Principe; delle quali secondo l'opportunità se ne farà in quest'Istoria ricordanza.
CAPITOLO II. Successione del Regno dichiarata per la persona di Ferdinando d'Aragona figliuolo d' Alfonso. Pace conchiusa col Pontefice Eugenio IV da cui vengono investiti del Regno.
Fu ancora in questo Parlamento dichiarata la succession del Regno per la persona di Ferdinando figliuolo d'Alfonso; poich'essendo notissimo a' più intimi Baroni del Re l'amore che e' portava a questo suo figliuolo, ancorchè naturale, al quale avea spedito privilegio di legittimazione[326] dove lo dichiarava abile a potergli succedere in tutti i suoi Stati e particolarmente nel Regno di Napoli; e sapendo di far gran piacere al Re, proposero agli altri di cercargli grazia che volesse designare D. Ferdinando suo futuro successore, col titolo di Duca di Calabria, solito darsi a' figliuoli primogeniti de' Re di questo Regno: onde col consenso di tutti, Onorato Gaetano che fu eletto per Sindico di tutto il Baronaggio, inginocchiato avanti al Re lo supplicò, che poichè S. M. avea stabilito in pace il Regno, e fatti tanti beneficj, per fargli perpetuare, volesse designare per Duca di Calabria e suo futuro successore, dopo i suoi felici giorni, l'illustrissimo Signor D. Ferdinando suo unico figlio[327]; e 'l Re con volto lieto fece rispondere dal suo Segretario in di lui nome queste parole: La serenissima Maestà del Re rende infinite grazie a voi illustri, spettabili e magnifici Baroni della supplica fatta in favore dell'illustrissimo Signore D. Ferrante suo carissimo figlio, e per soddisfare alla domanda vostra, l'intitola da quest'ora, e dichiara Duca di Calabria immediato erede e successore di questo Regno, e si contenta se gli giuri omaggio dal presente dì. Fu subito con gran giubilo gridato Ferdinando Duca di Calabria e successore del Regno, e da tutti gli Ufficiali e Baroni suddetti gli fu giurato omaggio e ligio di fedeltà ore et manibus; e ne fu fatto pubblico istromento in presenza di molti Baroni in quest'anno 1443 che si legge impresso nel volume de' privilegj suddetti. Nel seguente giorno, il Re con Ferdinando accompagnato dal Baronaggio andò nel monastero delle Monache di S. Ligoro, e poichè fu celebrata con pubblica solennità la messa, diede la spada nella man destra di Ferdinando, e la bandiera nella sinistra, e gl'impose il cerchio Ducale su la testa, e comandando che tutti lo chiamassero Duca di Calabria, e lo tenessero per suo legittimo successore: di che anche ne fu fatto pubblico istromento che parimente ivi si legge.
Ma tutto ciò non bastava per assicurar la successione del Regno nella persona d'un figliuolo bastardo, ancorchè legittimato, se questo giuramento e dichiarazione non fosse stata approvata dal Papa, il quale per l'inimicizia che teneva con Alfonso non gli avrebbe data mai l'investitura; ed il mal animo del Papa era evidente, poichè avendo tutti i Potentati di Italia mandato a congratularsi con lui della vittoria, e della quiete e pace del Regno, solamente il Pontefice Eugenio non vi mandò; anzi mostrò dispiacer grandissimo della ruina di Renato e della sua uscita dal Regno. Perciò Alfonso, che avea bisogno di lui, non solo per istabilire più perfettamente la pace, ma per ottenere l'investitura del Regno per lo Duca di Calabria, rivoltò tutti i suoi pensieri per riconciliarsi con lui, e adoperò ogni mezzo por conseguirlo.
Avea prima Alfonso, come si disse, vedendo l'avversione d'Eugenio, tenuto secreto trattato con Amedeo duca di Savoja Antipapa, e non per altro che per ottenere da quello ciò che dal vero Pontefice non potea conseguire. Lo Scisma che s'era rinovato nella Chiesa dopo la morte di Martino V per lo Concilio di Basilea, avea posto in disordine ogni cosa. Ciò che il Papa Eugenio stabiliva, il Concilio dichiarava nullo; ed all'incontro il Papa tenendo per Conventicola quella radunanza, tuttociò che in quella si determinava, lo dannava ed anatematizzava. Il Concilio citò il Papa e non comparendo, lo dichiarò contumace; finalmente que' Prelati ch'eran rimasi in Basilea, de' quali componevasi il Concilio, lo deposero il dì 25 giugno dell'anno 1439 e deputarono alcuni Commessarj per eleggere un nuovo Papa. I Commessarj elessero Amedeo Duca di Savoja, che, come fu detto, s'era ritirato nella solitudine di Ripaglia, nella Diocesi di Ginevra, dove vivea come Romito. La sua elezione fu confermata dal Concilio, e fu nomato Felice V, il quale tosto portossi in Basilea a presiedere in quello. Papa Eugenio ne teneva aperto un altro in Fiorenza, e vicendevolmente si condennavano l'un l'altro. La Francia continuò a riconoscere Eugenio per Papa. L'Alemagna però cominciava a vacillare, e propose di tenere un nuovo Concilio per giudicare sopra il diritto de' due eletti. Il Re Alfonso durando nell'inimicizia d'Eugenio, per dargli di che temere, mandò Luigi Cescases per suo Ambasciadore appresso Felice, e permise che alcuni Prelati suoi sudditi l'ubbidissero e riconoscessero per vero Pontefice. All'incontro Felice per tirar scovertamente Alfonso nel suo partito, e tutti i sudditi de' di lui Regni alla sua ubbidienza, offeriva a Luigi suo Ambasciadore ch'egli avrebbe confermata l'adozione fattagli dalla Regina Giovanna II, conceduta l'investitura del Regno, ed oltre ciò gli offeriva ducentomila ducati d'oro[328]. Ma il prudentissimo Re scorgendo che di giorno in giorno il Concilio di Basilea andavasi debilitando, e che Felice erasi a' 20 novembre dell'anno 1442 con una parte de' suoi Cardinali ritirato in Lausana, e che a lungo andare si dissolverebbe ogni cosa: pensò destramente di rivoltarsi alla parte d'Eugenio, e per tenere intanto a bada Felice, fece rispondere dal suo Ambasciadore alla profferta fattagli che li ducentomila ducati d'oro bisognava che se gli pagassero in una paga: che si contentava di ritenersi la città di Terracina per la somma di 305 mila ducati di Camera in parte di ciò che se gli dovea per la guerra mossagli dal Patriarca Vitellesco, quando gli ruppe la tregua, e che allora vi fu condizione che dovesse aver Terracina fin che ne fosse interamente soddisfatto: che se Felice era contento di ciò ed adempiva a queste condizioni, egli non avrebbe mancato di difenderlo e di prestargli co' suoi fratelli ubbidienza; ed oltre a ciò che avrebbe inviati al Concilio suoi Ambasciadori, e proccurato che i Prelati de' suoi Regni ancor vi venissero; ed anche si studierebbe che il medesimo facessero il Re di Castiglia ed il Duca di Milano, e co' suoi fratelli si sarebbe confederato ancora con la Casa di Savoja.
Questi trattati teneva egli aperti con Felice, prolungandogli con destrezza, perchè non si venisse a veruna conchiusione; ma nell'istesso tempo avea dato incarico al Vescovo di Valenza D. Antonio Borgia, che fu Cardinale e poi Papa, detto Calisto III che s'adoprasse con Eugenio per la sua riconciliazione, il quale incominciò a sollecitare il Papa, che si degnasse trattare di pace e ricevere il Re per suo buon figliuolo e buon feudatario. Agevolò ancora il trattato, ed ammollì l'animo d'Eugenio Lodovico Scarampo Patriarca d'Aquileia Cardinal di S. Lorenzo in Damaso suo Camerlengo, con cui solea egli conferire de' più gravi ed importanti affari; onde Eugenio mosso dalle loro insinuazioni, e considerando altresì che non poteva giovare al Re Renato, e che l'inimicizia del Re Alfonso gli poteva nuocere, voltò l'animo alla pace; ed a' 9 aprile di quest'anno 1443 spedì una Bolla di legazione e commessione in persona del Cardinal suddetto, inviandolo a trattare col Re della pace e dell'investitura del Regno da concedersi al medesimo. La Bolla di questa legazione è rapportata dal Chioccarello, e si legge nel primo volume de' suoi M. S. giurisdizionali.
Trovavasi allora il Re a Terracina, dove ricevè il Legato con molto onore; e dopo molti dibattimenti fu a' 14 giugno del detto anno la pace conchiusa con questi patti.
Che il Re con dimenticanza perpetua di tutte l'ingiurie ed offese passate, e con rimessione di quelle, riconoscesse Eugenio per se e per tutti i suoi Regni per unico, vero e non dubbioso Pontefice e Pastor universale di S. Chiesa, e che come a tale gli prestasse egli ed i suoi Regni ubbidienza.
Che dovesse tenere per Scismatici tutti i Cardinali aderenti all'Antipapa Amedeo.
Che all'incontro il Papa dovesse dar l'investitura al Re Alfonso del Regno di Napoli, con la conferma dell'adozione ed arrogazione, che la Regina Giovanna II aveale fatta con clausola, che non gli ostasse avere acquistato il Regno colle proprie armi.
Che trasferisse in Alfonso tutta quella autorità che era stata conceduta da' Pontefici passati agli antichi Re di Napoli; e che abilitasse D. Ferrante Duca di Calabria alla successione dopo la morte del padre. E dall'altra parte il Re si farebbe vassallo e feudatario della chiesa, con promettere d'aiutarla a ricovrare la Marca, la quale si tenea occupata dal Conte Francesco Sforza.
Che quando il Papa volesse far guerra contra Infedeli, avesse il Re da comparire con una buona armata ad accompagnare quella del Papa.
Che il Re dovesse ritenere in nome della chiesa la città di Benevento e di Terracina in governo per tutto il tempo di sua vita, e per lo medesimo tempo lasciava il Re al Papa Città ducale, Acumoli e la Lionessa, terre importantissime della provincia d'Abruzzo.
Che il Re dovesse servire al Papa con sei galee per sei mesi nella guerra contro il Turco. E per ricuperare le città e fortezze che teneva occupate nella Marca il Conte Francesco Sforza, si convenne, che il Re dovesse inviare quattromila soldati a cavallo e mille a piedi.
Che il Papa dovesse concedere la Bolla di legittimazione per D. Ferdinando suo figlio che fosse abilitato per l'investitura, in guisa che tanto egli, quanto i suoi eredi potessero succedere al Regno.
Che al censo, che dovea pagar il Re per l'investitura, s'avessero da scomputare le spese, che si facessero nelle sei galee e nella gente d'arme, che dovean andare alla Marca.
Che le città di Benevento e di Terracina si darebbero in governo a D. Ferdinando e suoi successori perpetuamente, e dell'istesso modo avesse la chiesa in governo la Città ducale, Acumoli e la Lionessa.
Questi capitoli di pace furono a' 14 giugno di quest'anno 1443 conchiusi in Terracina dal Re e dal Legato appostolico Cardinal d'Aquileia; nella conchiusion de' quali intervennero solamente Alfonso Covarruvias famoso Giurista e Protonotario appostolico e Giovanni Olzina Segretario del Re; e sono rapportati dal Chioccarello nel tomo I de' M. S. giurisdizionali.
Papa Eugenio con sua particolar Bolla spedita a' 6 luglio del detto anno, parimente rapportata da Chioccarello, confermò i capitoli suddetti, ed in esecuzione di quelli, in questo medesimo anno, spedì più Bolle rapportate anche dal medesimo Autore.
Primieramente a' 13 luglio diede fuori una Bolla preliminare, colla quale assolvea il Re ed i suoi Ministri da tutte le scomuniche e censure, nelle quali fossero incorsi per le guerre ed offese fatte alla chiesa romana nel tempo dello Scisma, e per l'invasione dei beni ecclesiastici. Dopo tutto ciò, residendo Eugenio in Siena, a' 15 del detto mese spedì la Bolla dell'investitura, per la quale concedè al Re Alfonso l'investitura del Regno di Napoli per se, suoi eredi mascoli e femmine legittimi discendenti dal suo corpo per retta linea.
Di questa investitura variamente parlarono i nostri Autori: Scipion Mazzella[329] dice, che abbracciava ancora il Regno d'Ungheria, di cui il Papa ne investì Alfonso per le ragioni di Giovanna sua madre adottiva; e che nella medesima si concedeva ancora, che Ferdinando suo figliuol naturale potesse succedere nel Regno. Il Cardinal Baronio[330] credette, che per questa Bolla il Re Alfonso fosse stato da Eugenio investito non solo del Regno di Napoli, ma anche di quello di Sicilia. Ma non men l'uno che l'altro vanno di gran lunga errati. L'investitura non fu che del solo Regno di Napoli, chiamato nelle Bulle pontificie, Regnum Siciliae et Terram citra Pharum. Nè della Sicilia ultra Pharum, e molto meno dell'Ungheria si fece parola, come nè tampoco dell'abilitazione di Ferdinando. Ciò è evidente dalla Bolla, che ora leggiamo impressa nel III tomo del Summonte, e che manuscritta fu dal Chioccarelli ancor inserita fra l'altre di questo Papa nel tomo primo de' suoi M. S. giurisdizionali: dove Eugenio, numerando le cagioni, che lo moveano a dar l'investitura, cioè l'adozione della Regina Giovanna II, li travagli d'Alfonso sofferti in tanti anni per mettersene in possesso, la vittoria riportata de' suoi nemici, la pace data al Regno, la volontà dei Baroni che lo consideravano e che l'aveano ricevuto per loro Re e Signore, datogli ubbidienza e prestatogli il giuramento solito di fedeltà (cose tutte riguardanti il solo Regno di Napoli), i meriti proprj e del Re Ferdinando suo padre, per tutte queste ragioni l'investiva del Regno colle clausole solite, che furono apposte in quella conceduta al Re Carlo I con il censo di ottomila once d'oro l'anno: e che i Baroni e popoli del medesimo Regno non potessero gravarsi di nuove taglie, ma godessero quella libertà, franchigia e privilegi che goderono a tempo del Re Guglielmo II.
Non poteva in questa investitura parlarsi del Regno di Sicilia ultra Pharum, di cui i Re di Sicilia predecessori d'Alfonso, sin dal famoso Vespero Siciliano, non ne richiesero mai investitura; ed Alfonso era a quello succeduto per la morte del Re Ferdinando suo padre sin dall'anno 1416, e di cui era in possesso prima della sua adozione. Lo convincon ancora le parole della Bolla dell'investitura, conceduta pro Regno Siciliae, et tota terra ipsius, quae est citra Pharum, usque ad confinia terrarum ipsius Ecclesiae. Ciò che si conosce più chiaramente dal giuramento di ligio omaggio, che Alfonso poi nell'anno 1445 diede ad Eugenio con queste parole: Ego Alphonsus dei gratia Rex Siciliae plenum homagium, ligium, et vassallagium faciens vobis Domino meo Eugenio Papae IV et Ecclesiae Romanae, pro Regno Siciliae, et tota terra ipsius, quae est citra Pharum[331].
Mette poi la cosa in maggior evidenza, e non lascia punto da dubitare la data di questo giuramento, dove per lo Regno di Sicilia, et tota terra citra pharum, non si denota, che questo solo Regno di Napoli. Ecco ciò che ivi leggiamo: Datum Neapoli per manus nostri praedicti Regis Alphons, anno a Nativitate Domini 1445, die vero secundo mensis Junii octavae Indictionis. Regnum nostrorum trigesimo; hujus vero SICILIAE, ET TERRAE CITRA PHARUM anno Regni XI. Non è dunque da dubitare, che questa investitura fu del solo Regno di Napoli, siccome per cosa fuor di dubbio scrissero il Costanzo, il Summonte, il Chioccarelli, e tutti i più rinomati e gravi nostri Autori.
Oltre di questa investitura, nel medesimo anno furono da Eugenio spedite altre Bolle in favor d'Alfonso; nel dì 4 di settembre ne diè una per la quale gli rimette e dona il pagamento di non picciole somme di marche sterline, che era tenuto pagare alla Camera Appostolica per cagion della concessione, ed investitura del Regno di Napoli. E nel dì 29 del medesimo mese con altra Bolla gli rimise tutta la somma di denari, che gli dovea per li censi passati del Regno di Napoli; e tutta la somma, che il Re, e suoi Ufficiali e Ministri in suo nome aveano esatta insino al detto dì, da qualunque ragioni, e crediti della Camera Appostolica, ovvero da prelature e dignità, beneficj e persone ecclesiastiche di qualsivoglia modo. Parimente nel medesimo giorno ne spedì un'altra, colla quale promette al Re di mandargli il Cardinal di S. Lorenzo in Damaso, o altra persona per coronarlo solennemente quando e dove il Re vorrà; ma questa coronazione poi non si fece, non essendo stato Alfonso mai coronato[332].
Poi in un medesimo giorno de' 13 decembre del suddetto anno furono spedite nove altre Bolle in favor del medesimo. Per la prima, si concede che la pena della privazione del Regno in caso di contravenzione alli patti dell'investitura, possa permutarsi in pena pecuniaria di ducati 50 mila da pagarsi dal Re alla Camera Appostolica; durante però la vita d'Alfonso. La seconda, gli proroga per due altri anni il tempo di dare il giuramento alla Sede Appostolica per l'investitura del Regno, non ostante, che in quella si dica, doversi dare fra sei mesi, se il Papa sarà in Italia ed essendo fuori d'Italia, fra un anno. La terza, gli rimette le 8 mila once d'oro l'anno, che gli doveva per lo censo, durante però la vita d'Alfonso. La quarta gli dà facoltà di non ricevere i suoi ribelli nel Regno, e di cacciargli, con confiscare i loro beni, non ostante il giuramento dato dal Re per osservanza dell'investitura fattagli, di ricevere detti ribelli nel Regno e di restituire a' medesimi i loro beni, assolvendolo dal detto giuramento. Per la quinta, se gli concede, che se bene nell'investitura vi sia patto, che non possa imponere taglie e collette alle chiese, monasterj, luoghi pii e religiosi, cherici e persone ecclesiastiche, e loro beni, eccetto che ne' casi permessi de jure, ovvero per antica consuetudine di detto Regno, tuttavia che possa il suddetto Re per tutto il tempo della sua vita imponere taglie e collette a detti luoghi e persone ecclesiastiche, essendovi necessità, non ostante li patti di detta investitura. Nella sesta, si dice, che essendosi dal Re Alfonso esposto, che per antica consuetudine del Regno poteva imponer taglie e collette alle chiese, monasterj, Luoghi pii, religiosi, cherici e persone ecclesiastiche e loro beni, e che non era tenuto ricevere, nè ammettere Prelati eletti, nominati e provisti in detto Regno, se probabilissimamente gli eran sospetti di Stato: il Papa gli concede, che possa imporre dette taglie e collette, e non ricevere detti Prelati, se per consuetudine del Regno gli era lecito, non ostante li patti apposti in detta Investitura. Per la settima, ad istanza del detto Re se gli concede e dispensa, che possano anche succedere nel Regno i trasversali, non ostante li patti di detta Investitura, che chiamava solo li mascoli nati e nascituri, legittimamente discendenti per linea retta dal detto Re. Per l'ottava, se gli conferma l'adozione, ovvero arrogazione per figlio e successore nel Regno di Napoli fattagli dalla Regina Giovanna II. L'ultima, rimette al Re li 300 soldati armati, che avea da tenere in campagna, e che avea promesso alla Sede Appostolica a sue spese per tre mesi per cagione dell'Investitura concessagli.
Da poi nel seguente anno 1444 a' 14 Luglio in esecuzione de' capitoli accordati col Cardinal Legato in Terracina, spedì Eugenio la Bolla della legittimazione a favor di Ferdinando Duca di Calabria, per la quale lo legittimò e l'abilitò a succedere nel Regno di Napoli; ed a primo Aprile dell'anno seguente con altra Bolla si commette a Don Giovanni Abate del monastero di S. Paolo di Roma, a ricercare dal Re Alfonso in nome della Sede Appostolica il giuramento ch'era tenuto dare per cagion dell'Investitura, il quale fu dato in mano del medesimo con quelle parole di sopra riferito.
(La formola del giuramento di fedeltà prestato da Alfonso, siccome i Brevi, ed altre Bolle d'investitura e sua estensione a' collaterali, di remission di debiti alla Camera Appostolica, di riunione nel Regno dei Beni distratti e di conferma dell'adozione fatta dalla Regina Giovanna II in favor d'Alfonso, sono rapportate anche da Lunig[333], il quale trascrive eziandio una bolla d' Eugenio, spedita in Roma nel mese d'Ottobre del 1443 per la quale gli concede facoltà di potere per tutto il futuro anno 1444 impor taglie e collette, ed esigere sopra tutti i frutti de' Beni degli Ecclesiastici de' suoi Regni la somma di ducentomila fiorini d'oro di Camera; cioè da' Regni d'Aragona, Valenza, Catalogna, Majorica e Minorica fiorini cento quarantamila; dal Regno di Napoli trentamila e da quello di Sardegna diecimila. Comanda, che niun Ordine regolare o secolare sia da ciò esente; ma tutti gli Ecclesiastici, ospedali ed altri luoghi pii debbano contribuire, eccettuandone i soli Cardinali, per quella ragione che Eugenio esprime nella suddetta sua Bolla, dicendo: Venerabilibus Fratribus nostris S. R. E. Cardinalibus, qui in partem nostrae sollicitudinis, divina miseratione vocali, grandia ad eorum statum decenter tenendum expensarum onera quotidie subire noscuntur dumtaxat exceptis ).
CAPITOLO III. Nozze tra Ferdinando Duca di Calabria con Isabella di Chiaramonte nipote del Principe di Taranto. Morte di Papa Eugenio, ed elezione in suo luogo del Cardinal di Bologna chiamato Niccolò V, che conferma ad Alfonso quanto gli aveva conceduto il suo predecessore Eugenio.
Re Alfonso dopo aver stabilita la pace col Pontefice Eugenio, fu tutto inteso non meno ad assicurare la successione del Regno nella persona del Duca di Calabria, che a soddisfare il Papa di quanto ne' capitoli della pace erasi convenuto. In adempimento del primo capitolo fece prestargli ubbidienza da tutti i Sudditi e Prelati; e poichè il famoso Canonista Panormitano avea assistito al Concilio di Basilea, ed avea avuta gran parte a quanto ivi fu fatto contro il Pontefice Eugenio, in ricompensa di che era stato nominato Cardinale da Felice V Antipapa, lo fece richiamare e l'obbligò a cedere il Cardinalato, e a ritornare nel suo Arcivescovado di Palermo, dove morì di peste l'anno 1445. Ma vedendo che D. Ferdinando non era molto amato da' suoi vassalli, per essere di natura dissimile a lui, siccome colui che s'era scoverto superbo, avaro, doppio e poco osservatore della fede, cominciò a dubitare non il Regno dopo la sua morte venisse in mano aliena; onde trovandosi averlo destinato per successore, cercò di fortificarlo di parentadi, ed inteso che il Principe di Taranto teneva in Lecce una figlia della Contessa di Copertina sua sorella carnale, giovane di molta virtù e da lui amata come figlia, mandò a dimandarla per moglie del Duca di Calabria; ed il Principe ne fu contentissimo, e la condusse molto splendidamente in Napoli. Parve al Re di avergli con ciò acquistato l'ajuto del Principe di Taranto; e per maggiormente fortificarlo, cercò di stringerlo anche di parentado col Duca di Sessa che era pari di potenza al Principe: e diede a Martino di Marzano, unico figliuolo del Duca, D. Lionora sua figlia naturale, assegnandogli per dote il Principato di Rossano con una parte di Calabria.
Ma mentre Alfonso è tutto inteso a stabilire la successione del Regno per suo figliuolo, a soddisfare il Papa di quanto ne' capitoli della pace erasi convenuto: ecco che Eugenio, infermatosi gravemente, venne a morte il dì 23 di febbraio di quest'anno 1447. Per questa morte si levarono in Roma grandi tumulti, perchè gli Orsini dall'una banda ed i Colonnesi dall'altra, sforzavano i Cardinali che avessero creato Papa a volontà loro; ma ritrovandosi il Re a Tivoli, spedì tosto suoi Ambasciadori al Collegio de' Cardinali ad esortargli che nell'elezione non s'usasse alcun maneggio, perch'egli non avrebbe fatta usare alcuna violenza, ma che procedessero a farla con tutta la libertà senza passione o timore. Assicurati i Cardinali da Alfonso, tosto con gran conformità elessero il dì 6 marzo il Cardinal di Bologna uomo mite e pacifico, il quale si può porre per uno de' rari esempj della fortuna, perch'essendo figliuolo d'un povero medico di Sarzana, castello piccolo posto ne' confini di Toscana e di Lunigiana, in un anno fu fatto Vescovo, Cardinale e Papa che nomossi Niccolò V. Il Re di questa elezione restò molto contento, e mandò quattro Ambasciadori che si trovassero alla coronazione, e gli dassero da parte di lui ubbidienza.
Mutossi in un tratto lo stato delle cose d'Italia; poichè ad un Papa di spiriti bellicosi essendone succeduto un altro tutto amante di quiete e di pace, in breve tempo si vide il riposo d'Italia e della Chiesa di Roma; poichè subito cominciò a trattare la pace tra' Veneziani, Fiorentini ed il Duca di Milano. Estinse tosto ogni reliquia di Scisma, che eravi rimasa, poichè ascoltò volentieri le proposizioni d'accordo che gli furono fatte da' Principi cristiani. L'Antipapa Felice ed i suoi aderenti, trovandosi parimenti disposti alla pace, facilitarono l'accordo, il qual fu fatto con condizioni vantaggiose per amendue i partiti, cioè che Felice avrebbe rinunziato alla pontifical dignità; ma che sarebbe il primo fra i Cardinali, e Legato perpetuo della Santa Sede in Alemagna: che sarebbero rivocate dall'una e dall'altra parte tutte le scomuniche e l'altre pene fulminate da' Concilj o dai Papi contendenti contro quelli del partito opposto: che i Cardinali, i Vescovi, gli Abati, i Beneficiati e gli Ufficiali delle due ubbidienze, sarebbero mantenuti ne' loro posti: che le dispense, indulgenze e l'altre grazie concesse da' Concilj, ovvero da' Papi delle due ubbidienze, come pure i decreti, le disposizioni ed i regolamenti che avessero fatti, avrebbero sussistenza: in fine che Niccolò V adunerebbe un Concilio generale in Francia sette mesi dopo l'accordo: e tutte queste condizioni, alla riserva dell'ultima, furono eseguite. Felice rinunziò il Pontificato, e Niccolò fu da tutti riconosciuto per Papa, il quale impiegò il rimanente del suo Pontificato ad acquietare le turbulenze d'Italia, e da questo tempo, fino alla fine del secolo, si vide in pace la Chiesa di Roma.
Col Re Alfonso fu tutto mite e pacifico; non pur confermò quanto erasi pattuito col suo predecessore, ma per le molte spese che il Re avea sofferte nella guerra della Marca, e per altri soccorsi somministratigli pochi giorni dopo il suo ingresso al Pontificato, a' 22 marzo di quest'istesso anno gli spedì Bolla, colla quale gli restituì le Terre d'Acumulo, Cività Ducale e Lionessa nella Montagna dell'Amatrice[334], date da Alfonso ad Eugenio in iscambio della città di Benevento e di Terracina, con rimanere le suddette città ad Alfonso e suoi successori nel Regno (toltone il tributo di due sparvieri l'anno) senza pagamento di censo alcuno; assolvendolo anche nell'anno 1452 con altra particolar Bolla dal suddetto tributo di due sparvieri, che detto Re dovea alla Sede Appostolica in quell'anno, e per tutto il tempo passato, per le città suddette di Benevento e Terracina.
Confermò poi a' 14 gennajo dell'anno 1448 con altra Bolla tutte le grazie e concessioni che tanto ad Alfonso, quanto a Ferdinando suo figliuolo erano state da Eugenio concedute; ed a' 27 aprile del seguente anno con altra Bolla confermò, e di nuovo concedè la legittimazione e successione del Regno di Napoli fatta dal detto Papa Eugenio a Ferdinando Duca di Calabria, con ampliarla di più che detto D. Ferdinando potesse succedere negli altri Regni d'Alfonso suo padre.
(Oltre i suddetti privilegj e concessioni, Niccolò V spedì da Assisi nell'anno 1454 Bolla ad Alfonso, per la quale gli concede il dominio d'un'isola nell'Arcipelago, vicina all'isola di Rodi, con un castello diruto che s'apparteneva alla religione de' Cavalieri di S. Giovanni, affinchè potesse fortificarlo, empir d'abitatori l'isola e valersi del suo porto, per far argine alle incursioni de' Greci e de' Saraceni. Leggesi la Bolla presso Lunig[335] ).
Così Alfonso, secondandolo la fortuna in ogni cosa, disbrigato da tutte le cure della guerra, e riposando in una placida e tranquilla pace, dopo avere scorsa la Toscana, ritornò in Napoli, dove giunto trovò che la Duchessa di Calabria sua nuora avea partorito un figliuolo che poi fu Re Alfonso II, che nel tempo del parto apparve in aria sopra il Castel Nuovo un trave di fuoco, che fu presagio della terribilità che avea da essere in lui. I Napolitani fecero molti segni d'allegrezza per lo ritorno del Re, il quale fermatosi in questa città, quivi lungamente si stette, attendendo parte a' piaceri, parte a fabbriche e parte a riordinare i Tribunali di giustizia.
CAPITOLO IV. Origine ed istituzione del Tribunale del S. C. di S. Chiara, ora detto di Capuana.
Fra i molti fregi che adornarono la persona del Re Alfonso, il più celebrato sopra ogni altro fu quello d'avere avuto in somma stima, non meno gli uomini d'arme, che quelli di lettere e di consiglio. Egli ammiratore della grandezza de' Romani, delle loro magnanime imprese e della loro saviezza e prudenza non meno civile che militare, non avea altro diletto che leggere le loro istorie; e la sua ordinaria lezione era sopra Livio, di cui fu tanto adoratore che da Padova, ove giaceano le sue ossa, proccurò da' Veneziani che in memoria di sì grande Istorico gli dassero un osso del suo braccio, il qual fece con gran religione trasferire in Napoli. Conferiva ciò che vi leggeva con uomini dottissimi, che tenne sempre appresso di se, favorendogli con molti segni di stima e di onore.
Essendo a' suoi dì caduta Costantinopoli sotto il giogo de' Turchi, ed estinto l'Imperio greco, molti grand'uomini, che fiorirono in quella città, per iscampare dalla loro barbarie, fuggirono in Italia dove portarono le lettere e la greca erudizione. Si videro perciò fiorire Gaza, Argiropilo, Fletone, Filelfo, Lascari, Poggio, Valla, Sipontino, Campano, Bessarione e tanti altri[336]: tanto che alla caduta di Costantinopoli si deve, essersi in Italia restituite l'erudizione e le lettere più culte e tolta la barbarie. Alfonso nella sua Corte n'accolse molti, in guisa che quella fioriva non meno d'eccellenti professori Latini che Greci. Tenne presso di se il famoso Trapezunzio, Crisolora, Lascari e dei Latini il celebre Lorenzo Valla, Bartolommeo Facio, Antonio da Bologna detto il Panormita, Paris de Puteo e tanti altri. Ebbe pur anche presso di se uomini di fina prudenza e consiglio, e fra gli altri il famoso Alfonso Borgia Vescovo di Valenza: questi nato in Xativa nella diocesi di Valenza, coltivò nell'Università di Lerida i suoi studj, dove avendo fatti mirabili progressi, prese il Dottorato e ne divenne eccellente Cattedratico. Fu poi eletto Canonico di quella città, e per la fama della sua dottrina entrato in somma grazia del Re Alfonso, fu da costui creato suo intimo Consigliere e Cappellano; non molto da poi fu eletto Vescovo di Valenza; e mentre reggeva questa chiesa, avendo Alfonso intrapresa l'espedizione del Regno di Napoli, lo condusse seco, della di cui opera, come si è detto, molto giovossi, quando mandato in Roma, fu impiegato nel gravissimo affare della pace col Pontefice Eugenio, la quale felicemente condusse a fine.
Quando Alfonso, dopo tanti travagli si rese pacifico possessore del Regno, e voltò i suoi pensieri a ristabilirlo, ad introdurvi miglior forma di governo e a riordinare i nostri tribunali, il suo principal Ministro e Consigliere era il Vescovo di Valenza: costui nelle deliberazioni più gravi v'avea la maggior parte, ed il Re da' suoi consigli pendea più che da qualunque altro. Diedero occasione all'erezione di questo Tribunale del S. C. gli abusi, che si vedeano introdotti in Napoli per cagion de' ricorsi, che dalle determinazioni del Tribunale della Gran Corte della Vicaria si facevano al Re. Questo Tribunale composto, come s'è detto, di quello della Gran Corte e dell'altro del Vicario, era in Napoli e nel Regno il Tribunal supremo, ed i suoi Giudici che lo componevano, erano i Magistrati ordinarj: dalle determinazioni di quello non vi era appellazione, poichè sopra di lui non si riconosceva altro Tribunale superiore ove potesse ricorrersi per via d'appellazione. Non avea la retrattazione, che ora appelliamo reclamazione, e la quale presso i Romani era solamente del Prefetto Pretorio; onde per riparare alle gravezze non vi restava che un rimedio, fuori dell'ordine de' giudizj ordinarj, e questo era ricorrere al Re per via di preghiere e di memoriali. Il Re soleva alle volte destinar certe persone, alle quali rimetteva i memoriali ad esso portati, perchè gli riconoscessero, e fattogliene informo, di sua autorità emendassero le gravezze; e queste persone erano chiamate Giudici d'appellazioni della Gran Corte, ond'è, che prima dell'erezione di questo Tribunale, nelle scritture di quei tempi spesso di questi Giudici fassi memoria. Più frequentemente però i Re, senza legarsi a certa persona, mandavano i memoriali ora ad uno ora ad un altro Giureconsulto per sapere il lor parere, i quali da poi ch'aveano inteso il lor consiglio e letto il voto, determinavano essi, e la decisione usciva sotto il nome regio[337]. Questo costume portava degli abusi e de' disordini; poichè sovente affari importantissimi erano risoluti secondo il parere d'un solo. Crescevano ancora i ricorsi, venendo non pur da' Tribunali della città di Napoli, ma ancora dalle province del Regno; onde si vedea gran disordine, che senza una particolar ragunanza di più savj, avessero da emendarsi le tante gravezze per voti di particolari Giureconsulti.
In altra guisa praticavasi nel Regno di Valenza, dove vi era particolar Consiglio assistente presso il Re, di cui egli era capo, dove i ricorsi che da tutti i Tribunali ordinarj di quel Regno erano al Re portati, s'esaminavano in quel Consiglio, da cui procedevano le ammende e le retrattazioni. A somiglianza dunque del Consiglio di Valenza, il Re Alfonso, guidando ogni cosa il Vescovo Borgia, pensò stabilirne un consimile in Napoli, il quale si componesse di più insigni Giureconsulti e di più gravi e savj uomini, che assistendo presso la sua regal persona conoscessero sopra tali ricorsi, e volle dichiararsene egli capo, siccome ne fu autore.
Il Cardinal di Luca[338] portò opinione, che il Vescovo Borgia, poi Cardinale e Papa, formasse questo Consiglio non pure secondo l'idea di quello di Valenza, ma anche essendo egli dimorato lungo tempo in Roma, molti istituti e modelli prendesse dal Tribunale della Ruota romana, che allora era in fiore e che alla formazione di questo Senato vi ebbe parte, non meno il Consiglio di Valenza, che la Ruota di Roma; ed in effetto, siccome questo Tribunale da quello di Valenza prese il nome di Consiglio, così ancora il luogo ove si tenne, prese da Roma il nome di Ruota; e siccome nella Ruota romana non v'è uso di libelli, o come ora diciamo d'istanze, ch'è de' Magistrati ordinarj, ma di preci o suppliche o memoriali, che si drizzano al Papa, il quale per mezzo del Prefetto della Signatura di giustizia, le segna e commette; così ancora in questo Tribunale non vi han luogo libelli, siccome negli altri Tribunali inferiori della città e del Regno, ma le suppliche che si drizzano al Re, il quale per mezzo del Presidente del Consiglio, le segna e commette.
Fu adunque questo Tribunale del Consiglio eretto in Napoli principalmente per li ricorsi, che al Re portavansi dalle determinazioni della Gran Corte della Vicaria e delle altre Corti inferiori, non meno della città che delle province del Regno. Fu detto perciò il Tribunale delle appellazioni; poichè costituito supremo a tutti gli altri, poteva in conseguenza da questi a lui appellarsi. Questo Tribunale riconoscendo per suo capo il Re istesso, e le sue membra essendo di persone per nobiltà e dottrina illustri, venne ad acquistare le maggiori prerogative e preminenze sopra tutti gli altri. Quindi, come s'è detto, non cominciano in esso le cause per via di libelli, ma di suppliche che bisogna indirizzare al Re, le quali poi segnate e commesse acquistano forza di libelli. Quindi nasce, che dalle sue determinazioni non si dà appellazione, ma solamente retrattazione, ovvero come chiamiamo reclamazione, a somiglianza del Prefetto Pretorio. Quindi acquistò il nome di Sacro per la sacrata persona del Re, che se ne dichiarò capo, e per esser suo proprio e particolar Consiglio presso la sua regal persona assistente: onde avvenne, che per consimil cagione all'Audienza d'Otranto si diè anche il nome di Sacra Audienza, perchè un tempo presedè a quella il Re Alfonso II d'Aragona[339]; e perocchè questa provincia fu poi divisa in due, cioè d'Otranto e di Bari, quindi anche quella di Bari si disse Sacra[340]. Quindi le sentenze si promulgano sotto il nome del Re, e si veggono ancora molte sentenze sottoscritte dall'istesso Re Alfonso; onde se accade in quelle nominarsi il Vicerè e alta persona illustre, non altro titolo se gli dà, se non quello con cui dal Re vien chiamata[341]. Quindi in questo sacro Auditorio non è permesso, nè tampoco a' Nobili entrare cinti di spada o d'altre arme, nemmeno a coloro, che possono portarle sin dentro il gabinetto del Re. Quindi egli solo tien la campana, e conosce delle cause di tutti i Tribunali della città e del Regno; le sue sentenze s'eseguono manu forti et armata; e vien adornato di tante altre prerogative e preminenze, di cui il Tassoni[342] ed il Toppi[343] ne tesserono lunghi cataloghi: e a' dì nostri il Dottor Romano[344] ne compose un ben grosso volume.
Ma infra l'altre sue prerogative, la maggior fu quella di conoscere per via d'appellazione delle cause di tutti i Tribunali della città e del Regno, ed in questi principj a quello s'appellava, anche de' decreti interposti dalla Regia Camera della Summaria, siccome testificano Marino Freccia[345], e Giovan Battista Bolvito in un breve discorso latino, che compose sopra questo Tribunale, che M. S. si conservava nella Biblioteca de' SS. Appostoli di questa città, il qual fu dal Summonte trascritto nella sua Istoria[346]; ed apparisce ancora da una lettera[347] del Re Alfonso rapportata dal Toppi, il quale Autore fa vedere ancora, che qualora nel Tribunale della Summaria dovea decidersi qualche articolo di ragione, s'avea ricorso al Consiglio di S. Chiara, che vi giudicava per via d'appellazione[348].
Ma ciò, che deve riputarsi degno d'ammirazione, si è il vedere, che questo inclito Re pose in tanta eminenza questo Tribunale, che ordinò, che anche le cause degli altri suoi numerosi Regni e province, potessero riportarsi a quello per via d'appellazione. Ecco ciò, ch'egli dice in una sua regal carta de' 13 agosto del 1440 rapportata dal Toppi[349], parlando di questo Consiglio e de' suoi Ministri: Quibus decrevimus omnes causas Regnorum nostrorum Occiduorum et Regni nostri Siciliae ultra Pharum, esse remittendas. E siccome si è veduto, possedeva questo gran Re in quel tempo i Regni d'Aragona, di Valenza, di Majorica e di Sardegna, possedeva la Corsica, il Contado di Barzellona, e 'l Rossiglione e la Sicilia di là dal Faro; e finch'egli visse, avendo fermata la sua sede regia in Napoli, insino da sì remote parti si portavano per via d'appellazione le cause in questo Consiglio; e ci restano ancora i vestigj di molti processi, donde appare questo Tribunale essere stato in quel tempo Giudice d'appellazione di tutti que' Regni e Signorie. Donde si convince quanto sia vano il credere, che questo Regno sin da' tempi d'Alfonso fossesi reso dipendente dalla Corona d'Aragona. Si perdè poi questa prerogativa, quando succeduto Ferdinando figliuolo d'Alfonso nel solo Regno di Napoli, non ebbe più che impacciarsi negli altri Regni di Spagna, ne' quali succedè Giovanni d'Aragona fratello d'Alfonso.
Teniamo l'origine, il nome e l'occasione per cui fu questo Tribunale istituito; teniamo ancora il tempo e l'Autore; ma intorno a quest'ultimo, pare, che la prammatica 2 collocata sotto il titolo de Ufficio S. R. C. ce ne metta in dubbio. Il Surgente[350] su tal appoggio credette, che non già Alfonso ne fosse stato l'autore, ma Ferdinando I suo figliuolo: ma questa prammatica o è apocrifa o scorretta; ripugnando ciò alla testimonianza degli Autori contemporanei e ai pubblici documenti.
Michiel Riccio[351] celebre Giureconsulto ed Istorico, Autor prossimo ad Alfonso, che fiorì nel Regno di Ferdinando I, e fu Presidente e Viceprotonotario di quest'istesso Tribunale, lo testifica nella sua grave e dotta Istoria, che compose de' Re di Napoli e di Sicilia; ecco le sue parole: Alphonsus, etc. reddendi juris adeo studiosus, ut Consilium constituerit, quod omnes appellarent ex toto suo Regno; cui praefecit Episcopum Valentiae (qui postea Nicolao V successit, et Calistus est appellatus) cum prius ad Vicariae Tribunal, aliosque minores Regni Judices confugere cogerentur, et inde jus petere.
Il nostro famoso Matteo d'Afflitto[352] che fiorì nei medesimi tempi, e che sotto l'istesso Ferdinando fu Consigliere di questo Consiglio pur dice: Sic fuit sententiatum in Sac. Consilio tempore immortalis memoriae Regis Alfonsi I de Aragonia, tempore quo praesidebat Episcopus Valentiae, qui postea fuit Papa Calistus III. Marino Freccia[353] colle stesse parole di Michiel Riccio rapporta il medesimo: e così tennero i più appurati Scrittori delle nostre memorie, il Summonte[354], il Chioccarello[355], il Reggente Tappia[356], il Tassone[357] e tutti gli altri insino al Toppi[358], che fu l'ultimo, che scrisse dell'istituzione di questo Tribunale.
I diplomi d' Alfonso I inseriti nelle loro opere da questi Autori, ne' quali questo Re fa menzione di questo Tribunale da lui instituito, convincono il medesimo: il Chioccarello[359] ne rapporta tre, due in novembre e dicembre dell'anno 1449, l'altro in febbrajo del 1450; il Summonte[360] due altri, uno de' 23 novembre del 1450, l'altro de' 2 agosto dell'anno 1454, e molti altri possono vedersi presso Toppi ne' luoghi allegati.
La prammatica, che s'attribuisce a Ferdinando I, Toppi[361] credette che fosse apogrifa e supposta; poichè in niuno degli antichi volumi impressi delle Prammatiche si vede, e sol si legge senza giorno ed anno nell'ultime edizioni; testificando in oltre quest'Autore, che per esatta diligenza ch'egli avesse fatta in Cancellaria, ove sono notate tutte le prammatiche del Regno, non la ritrovò mai. Comunque ciò sia, egli è più tosto da credere, che questa prammatica per errore de' compilatori o degl'impressori, in vece di portar in fronte il nome d' Alfonso, se gli fosse dato quello di Ferdinando. E veramente chiunque considera le parole di quella, non possono a patto veruno convenire a Ferdinando, ma sì bene tutte acconciamente si adattano ad Alfonso. Questo Re poteva nominare i Re d'Aragona suoi predecessori, non già Ferdinando, il quale non fu mai Re d'Aragona, nè succedè ne' Regni paterni di Spagna, ma solo nel Regno di Napoli per ragion d'investitura, della legittimazione fattagli dal padre e per l'acclamazione de' Napoletani. Molto meno possono a lui convenire quelle parole: Igitur cum Neapolis Siciliae Regnum, jure quodam legitimo, et haereditario nobis debitum nostrae nuper ditioni restitutum sit, idque non armis tantum nostris, quantum immortalis Dei beneficio, etc. Ciò che s'avvera d'Alfonso, che più per le arme, che per lo titolo d'adozione se ne rese padrone. Ferdinando ebbe a guerreggiare co' suoi Baroni più tosto che con nemici stranieri, e mal si godette il Regno acquistato colle armi e sudori di suo padre. Non è dunque da dubitare, che Alfonso fosse stato l'Autore di sì illustre Tribunale, e che tutta la sua disposizione e forma si debba al Vescovo di Valenza, a cui meritamente Alfonso ne diede la cura e sopraintendenza.
§. I. Del luogo ove fu questo Tribunale eretto; della dignità e condizione delle persone, che lo componevano, e del lor numero; e come fosse cresciuto tanto, che in conseguenza portò la multiplicazion delle quattro Ruote, delle quali oggi è composto.
Essendo già per lungo tempo Napoli stabilita Sede Regia, e costituita metropoli e capo di tutto il Regno, non in altra città che in quella dovea collocarsi un Tribunal sì supremo, ove doveano riportarsi tutte le cause del Regno, e del qual il Re istesso se n'era dichiarato capo, e che fosse suo Consiglio Collaterale. Quindi Alfonso nella riferita prammatica[362] disse: Sacrum eodem in Regno, supremumque Consilium ordinavimus, cui sedem, locumque in Urbe Neapolitana, et Regni Urbium omnium suprema, ac Metropoli constituimus. Le contrade della città, nelle quali questo Tribunale fu retto non furon sempre le medesime, ma si variarono secondo la condizione de' tempi e de' Presidenti, che lo ressero. Sovente Alfonso lo tenne nell'ospizio di Santa Maria coronata, chiesa regia, ove i Re suoi predecessori con solenne pompa solevansi coronare. Alcuna volta nel castel Capuano, e più frequentemente nel Castel Nuovo, e vi sono lettere del 1449 del Re Alfonso riferite dal Toppi[363], nelle quali si prescrive, che si dovesse congregare nel Castel Nuovo, essendo egli in Napoli: ed in sua assenza nelle case del suo Vicecancelliere, ovvero in altro decente luogo a suo arbitrio. Spessissime volte si ragunava nelle case de' Presidenti di quello: così leggiamo, che nel 1457 fu retto nelle case del Patriarca d'Alessandria Vescovo di Urgello, che n'era Presidente, poste nella regione di Porto. Altre volte nel Palazzo Arcivescovile, siccome fu in tempo d'Oliviero Caraffa Arcivescovo di Napoli, e poi Cardinale che fu parimente Presidente di questo Tribunale: nel 1468 sendone Presidente D. Giovanni d'Aragona figliuolo di Ferdinando I, perchè questi teneva il suo palazzo nel Monastero di Monte Vergine, di cui n'era Abate Commendatario, si vide questo Tribunale anche nella di lui casa essere stato retto. Matteo d'Afflitto[364] ci testifica ancora, che ai suoi tempi questo Tribunale soleva anche reggersi nel convento di S. Domenico Maggiore di questa città. E così trasportato in varj luoghi, che piacque al Toppi troppo sottilmente ricercare, finalmente nel 1474 fu trasferito nel monastero di Santa Chiara, ove sino all'anno 1499 fu tenuto. Ma da poi il Cardinal Luigi d'Aragona Luogotenente del Regno lo volle nel suo palazzo; fin che nell'anno 1501 restituito di nuovo in Santa Chiara, quivi lungamente durò insino all'anno 1540. Per questa lunga dimora fatta quivi acquistò il nome di Consiglio di S. Chiara, che lungo tempo ritenne. Finalmente nel suddetto anno 1540 trasferito da D. Pietro di Toledo con tutti gli altri Tribunali nel Castel capuano, lungamente quivi durando, ed ove ancor oggi s'ammira, acquistò presso noi il nome di Capuana.
Diede Alfonso a questo Gran Consiglio un Presidente[365], al quale diede la soprantendenza del Tribunale. L'adornò, tanto egli, quanto i suoi successori Re aragonesi, di molte prerogative, delle quali il Tassoni[366] ed il Toppi[367] ne fecero lunghi cataloghi. Trascelse sempre a tal carica uomini insigni non meno per dottrina, che per gravità di costumi, per chiarezza di sangue e d'eminenti posti adorni. Vi furono de' Vescovi ed Arcivescovi ed altri insigni Prelati della Chiesa. Il primo fu il famoso Alfonso Borgia Vescovo di Valenza, che lo resse insino al 1444, nel qual anno fu creato Cardinale, e poi nel 1455 Papa, chiamato Calisto III. In suo luogo fu rifatto Gaspare di Diano Arcivescovo di Napoli, Giureconsulto di quei tempi, prima Vescovo di Tiano, indi Arcivescovo di Consa, e finalmente nel 1437 di Napoli. Fu costui da Alfonso creato Presidente nel 1446, e durò il suo Presidentato fin che morì nell'anno 1450[368]. A costui succedette Arnaldo di Roggiero Patriarca d'Alessandria e Vescovo di Urgell. Fuvvi ancora creato da Ferdinando I nel 1465 il famoso Oliviero Caraffa Arcivescovo di Napoli, il quale ancorchè da Paolo II fosse stato nel 1467 creato Cardinale, non lasciò la presidenza di questo Tribunale, finchè, chiamato dal Papa, non gli convenne andare in Roma[369]. Ad Oliviero succedette Don Giovanni d'Aragona figliuolo di Ferdinando I Arcivescovo di Taranto, Commendatario perpetuo de' monasteri di M. Cassino, della Cava e di Monte Vergine, e poi Cardinale ed Arcivescovo di Salerno. Fuvvi ancora nel 1499 Don Lodovico di Aragona nipote del Re Ferdinando I Vescovo d'Aversa e poi Cardinale.
Ma ciò, che ridonda in maggior splendore di questo Tribunale, è il vedersi essere stati eletti Presidenti di quello i propri figliuoli de' Re ed i primi Baroni del Regno.
Il Duca di Calabria Primogenito del Re Alfonso fu Presidente del S. C. col titolo di Luogotenente generale del Re suo padre nell'anno 1454, siccome vi furon Giovanni d'Aragona figliuolo di Ferdinando I poi Cardinale, Lodovico d'Aragona suo nipote già detti, e Ferdinando d'Aragona figlio di Ferdinando, fratello del Re Federico. De' primi Baroni vi fu nel 1550 Onorato Gaetano Conte di Fondi e Ferdinando d'Aragona nel 1479 figliuolo naturale di Ferdinando I Conte di Nicastro: oltre tanti altri di chiarissima stirpe nati.
Furonvi ancora eletti i migliori Giureconsulti e letterati di que' tempi, che o colle opere o colla gravità de' costumi, o colla prudenza civile se l'aveano meritato. Michiel Riccio famoso Giureconsulto ed Istorico, Giovan Antonio Caraffa gran Dottore di que' tempi, cotanto celebrato da Matteo d'Afflitto; Luca Tozzoli, di cui presso lo stesso Autore fassi sovente onorata memoria; il famoso Antonio d'Alessandro, Andrea Mariconda, Antonio di Gennaro, Francesco Loffredo, Giacomo Severino, Tommaso Salernitano, Gio: Andrea di Curte, Antonio Orefice, Gio: Antonio Lanario, il cotanto rinomato Vincenzo de Franchis, Camillo de Curte, Marc'Antonio de Ponte, Pietro Giordano Ursino, Andrea Marchese, Francesco Merlino, ed altri, de' quali il Summonte[370], e poi più accuratamente il Toppi[371] fecero distinto e minuto catalogo.
Oltre il Presidente, tenevano il secondo luogo in questo Consiglio due gran Baroni del Regno, che da Alfonso furono aggiunti a' Consiglieri Dottori per Assistenti a questo Tribunale; poichè sovente in quello non pur dovea trattarsi di cose appartenenti alla Giustizia, ma di cose di Governo e di Stato. Questi erano per lo più eletti dell'Ordine di Baroni, non eran Giureconsulti, ma militari, de' quali il maggior soldo era di ducati mille l'anno, quando agli altri Consiglieri Togati non era più, che di cinquecento. Eran chiamati Consiglieri Assistenti; e finchè durò il Regno degli Aragonesi, il S. C. si vide anche adorno di questa prerogativa, e ne' suoi Consiglieri vide il pregio della nobiltà migliore.
Furonvi ne' tempi d'Alfonso per Consiglieri Assistenti, oltre Onorato Gaetano Conte di Fondi, che ora come Gran Protonotario, ora come Presidente, ed ora come Consigliere Assistente illustrò questo Tribunale; il famoso Petricone Caracciolo Conte di Burgenza; Niccolò Cantelmo Conte d'Alvito e di Popoli e poi Duca di Sora; Marino Caracciolo Conte di Sant'Angelo, e Giorgio d'Alemagna Conte di Pulcino, li quali furon creati Consiglieri Assistenti da Alfonso nell'anno 1450.
Nel 1458 a' 23 gennaio leggiamo ancora Francesco del Balzo Orsino Duca d'Andria, figliuol del Principe di Taranto, essere stato creato da Alfonso Consigliere Assistente[372], e nel medesimo anno a' 5 novembre fu da Ferdinando I fatto Consigliere Innico d'Avalos. Orso Ursino de' Conti di Nola fu parimente da Ferdinando nel 1473 fatto Consigliere Assistente[373], e per ultimo Pietro Bernardino Gaetano Conte di Morcone figliuolo del Conte di Fondi nel 1485 dei quali lungamente ragiona Toppi nel suo secondo volume dell'Origine de' Tribunali.
Tra le persone, che componevano questo gran Tribunale, vi era ancora il Viceprotonotario. Questo è un punto d'Istoria molto intrigato e tanto difficile, che il Toppi[374] non se ne seppe sviluppare. Il Re Alfonso nell'erezione di questo Tribunale e nella scelta che fece de' Consiglieri, che dovean comporlo, si protestò sempre, che egli per questo nuovo Consiglio non intendeva recare alcun pregiudicio alle preminenze del Gran Protonotario del Regno: ecco come egli dice in un diploma rapportato dal Chioccarelli[375] e dal Toppi[376] spedito a' 20 novembre dell'anno 1449. Postquam reformationi nostri Sacri Consilii debito libramine moderavimus, in quo salva praeminentia officii Logothetae, et Prothonotarii Regni huius, et praesidentiae Rev. in Christo P. Gasparis Archiepiscopi Neapolitani ejusdem S. C. Praesidentis, nonnullos famosissimos U. J. D. fideles nostros elegimus, et deputavimus, ec. Ed altrove in un altro diploma[377] de' 12 agosto del medesimo anno: Salva tamen in omnibus, et per omnia praerogativa, et praeminentia Officii Logothetae, et Protonotarii hujus citra Farum Siciliae Regni, vel Reverendo Archiepiscopo Neapolitano, cum in Curia praesentes fuerint. Il Toppi pien di maraviglia dice, che cosa avea che fare in questo nuovo Consiglio il Gran Protonotario, ovvero il suo Luogotenente, e che vi era di comune fra di loro? ma gli nacque tal maraviglia, perchè il Toppi riguardava questo ufficio secondo l'aspetto, che teneva ne' tempi, ne' quali scrisse e che ancor oggi ritiene, non già ne' tempi d'Alfonso e degli altri Re aragonesi suoi successori. Presentemente il Gran Protonotario è un nome vano e senza funzione: ed al suo Viceprotonotario, che nè meno è creato da lui, ma a dirittura dal Re, delle tante prerogative che teneva, non gli è rimaso altro, come fu detto altrove, che la potestà di crear i Notari ed i Giudici a' contratti, chiamati dal dritto de' Romani, Giudici cartularj: di visitare i loro protocolli, ed invigilare a tutto ciò, che appartiene al loro ufficio: aver la cognizione delle loro cause, così civili come criminali: e legittimare i figliuoli naturali, secondo che per le nostre novelle prammatiche fu stabilito[378].
Ma nel Regno de' Normanni, de' Svevi, Angioini ed Aragonesi, l'Ufficio e potestà del Gran Protonotario era pur troppo ampia: la principal sua cura era non già della creazione de' Notai e Giudici, ma, come altrove si disse, di ricevere i memoriali e le suppliche che si davano al Re: per le sue mani passavano tutti i Diplomi, ed egli gl'istromentava: tutte le nuove leggi, Costituzioni, editti e prammatiche, che si stabilivano, eran da lui formate ed istromentate: ciocchè il Principe, o nel suo Concistoro o in ogni altro suo Consiglio sentenziava o statuiva, egli riduceva in forma o di sentenza, o di diploma, o di privilegio: ed in mano del famoso Bartolommeo di Capua si vide quanto quest'Ufficio fosse ampio ed eminente.
Per questa cagione avvenne, che avendo Alfonso istituito questo nuovo Tribunale, ove di molte cose dovea trattarsi, che toccavano l'Ufficio del Gran Protonotario, come di riceversi le preci, ch'erano drizzate al Re, d'istromentar le sentenze, che da sì alto Pretorio uscivano, e di molti affari al suo ufficio appartenenti; ancorchè Alfonso avesse conceduta al Presidente ugual potestà di poter egli da se solo spedirgli, nulladimanco non volle, che perciò si pregiudicassero le preminenze del Gran Protonotario o suo Luogotenente, quando interveniva nel Consiglio: talchè trovandosi in quello presente il Gran Protonotario ovvero il Luogotenente, non loro s'impediva che far non potessero tutto ciò ch'era della loro potestà ed incumbenza. Quindi è che sovente negli antichi diplomi leggiamo Onorato Gaetano Conte di Fondi aver preseduto a questo Tribunale, come Gran Protonotario, o come Presidente di quello, e sovente ancora esservi intervenuto come Consigliere Assistente. Quindi eziandio leggiamo, che nel proferirsi delle sentenze v'eran presenti insieme co' Consiglieri il Gran Protonotario o suo Luogotenente. Così, secondo la testimonianza che ce ne dà l'istesso Toppi[379], in una sentenza del S. C. proferita a' 29 gennaio del 1452 v'intervennero Onorato Gaetano Conte di Fondi Gran Protonotario del Regno e Giorgio d'Alemagna Conte di Pulcino Consigliere Assistente; anzi l'istesso Conte di Fondi, come Gran Protonotario, non già come Presidente, che non lo era allora, nel 1474 commise una causa a Lucca Tozzoli suo Viceprotonotario. Parimente nel 1485 il Conte di Morcone Gran Protonotario col suo Viceprotonotario e Consiglieri intervenne nelle sentenze profferite in questo Tribunale nel dì 20 settembre del medesimo anno.
Da questo costume nacque ancora, che quando il promosso all'Ufficio di Gran Protonotario dovea prendere il possesso della sua carica, poichè i Gran Protonotari nel S. C. facevano le loro maggiori e più solenni funzioni, in questo Tribunale pigliavano il possesso con intervenire nelle sentenze, che dal medesimo si profferivano: e questo era l'atto del loro possesso. Così leggiamo, che Don Ferdinando di Toledo essendo stato creato Gran Protonotario dall'Imperador Carlo V, ne prese il possesso a' 22 maggio del 1537 nel S. C., ed in quella giornata intervenne a tutte le sentenze, che profferì il Tribunale; ed Antonio di Gennaro, che si trovava allora Presidente del Consiglio fece una molto dotta ed elegante orazione in sua commendazione[380]. Parimente Don Ferdinando Spinelli Duca di Castrovillari e Conte di Cariati, quando dall'Imperador Carlo V fu fatto Gran Protonotario nell'ultimo di Giugno del 1526, come rapporta il Passero[381], ovvero a' 26 aprile, come dice il Rosso[382], ne prese il possesso nel S. C. ed intervenne insieme col Presidente e tutti gli altri Consiglieri in tutte le sentenze, che si profferirono quella giornata.
Quindi nacque ancora il costume che ora abbiamo, e che fu introdotto fin da' tempi de' nostri Avoli, che nella persona del Presidente del S. C. siasi ora indissolubilmente unito il posto di Viceprotonotario; poichè i Gran Protonotari, personaggi d'alta gerarchia, non volendo più intervenire di persona a risedere nel S. C. come ad altri affari implicati, e che cominciavan a sdegnarlo, mandavano i loro Viceprotonotari al Tribunale, i quali così bene che il Presidente adempivano le sue veci, tanto che il Consigliere Matteo d'Afflitto[383] in più sue decisioni ci assicura, che il famoso Antonio d'Alessandro, ancorchè allora non fosse Presidente, come Viceprotonotario interveniva nel Consiglio, ed insieme con gli altri Consiglieri votava nelle cause, e reggeva il Tribunale. Michiel Riccio non ancor Presidente, come Viceprotonotario commise varie cause a' Regj Consiglieri[384]. Di Luca Tozzoli pur si legge il medesimo, e così di molti altri. Quindi avvenne, che potendosi da un solo ciò adempire, essendo nel S. C. pari d'autorità, l'ufficio di Viceprotonotario venga ora sempre unito nella persona del Presidente.
Egli è però ancor vero, che prima non era così, poichè portando il posto di Viceprotonotario la creazion de' Notari e Giudici, funzione totalmente distinta ed independente dal S. C. e per conseguenza grandissimi emolumenti, alcuni, ancorchè non Presidenti, se lo proccuravan per essi, e molti Reggenti l'ottennero. Così il Reggente di Cancellaria Girolamo Colle ottenne, non essendo Presidente, nel 1540 questo ufficio, che l'esercitò fin che nel 1549, creato Vicecancelliere in Ispagna, ivi si portasse[385]. E vacato in cotal guisa questo posto, fu poi provveduto nella persona di Girolamo Severino, che allora era Presidente. Ma avendo questi per la sua vecchiaia e continue indisposizioni deposta la carica di Presidente, si ritenne quella di Viceprotonotario, come più utile e men faticosa, la quale ritenne finchè visse nel 1558, dopo la di cui morte fu provveduta in persona d'Alfonso Santillano allora Presidente, che la ritenne finchè morì nel 1567.
Ma morto Santillano, il Duca d'Alcalà allora Vicerè la provide per interim al Reggente Villano; ed essendo stato rifatto Presidente del S. C. in luogo del Santillano Tommaso Salernitano, questi vedendo che l'Ufficio di Viceprotonotario era esercitato dal Reggente Villano, mandò in Ispagna al Re sue allegazioni, colle quali studiossi fondare, ch'essendo il Viceprotonotariato ufficio unito e congiunto a quello di Presidente, non dovesse da quello separarsi, e nella sola persona del Presidente dovesse sempre unirsi. Mentre egli aspettava dal Re la determinazione, venne a morte il Reggente Villano, ed egli ottenne il posto; ma poi da Presidente essendo stato creato Reggente della Cancellaria, si ritenne il Viceprotonotariato, lasciando Gio. Andrea de Curte, che gli succedette nel Presidentato l'anno 1570 senza quello. Il Presidente de Curte ebbe ricorso in Ispagna valendosi dell'allegazioni istesse formate dal Salernitano suo competitore; e dal Re ottenne la riunione, avendo l'allegazioni suddette al Consiglio di Spagna fatta gran forza, sicchè reputò doversi questi due ufficj unire; ond'è, che fin da quel tempo insino ad ora si siano veduti sempre congiunti in una medesima persona. Egli è vero, che il Re nel regal diploma gli concede ambedue al provisto, non bastando, che se gli spedisca il privilegio di Presidente per potersi dire, che vada in quello inchiuso anche il Viceprotonotariato. Sono due ufficj che s'uniscon sì bene insieme in una persona, ma fra di loro sono distinti, avendo diversa natura e varia funzione, almeno per quel che riguarda la creazione dei Notai e Giudici: ond'è, che negli ultimi nostri tempi, essendosi dalla nuova Cancellaria dal Re spedito privilegio di Presidente al Reggente Aguir, senza in quello nominarsi l'ufficio di Viceprotonotario, fu d'uopo al medesimo ricorrere di nuovo al Re, che glie lo concedette.
Abbiamo adunque In questo nuovo Tribunale il Presidente, due Consiglieri militari Assistenti, e sovente ancora il Viceprotonotario: sieguono ora i Consiglieri Dottori, che per la maggior parte lo componevano, dei quali il numero era maggiore. Si trascelsero sempre per Consiglieri di questo Senato i migliori Giureconsulti, che fiorissero in ogni età. Alfonso, Ferdinando suo figliuolo e tutti gli altri Re loro successori in questa elezione vi usavan ogni scrutinio e diligenza. Vollero che fossero i più dotti Giureconsulti: Viri juris insignibus decorati, docti, graves, severi, insontes, mites, justi, faciles, lenique, qui in judicibus exercendis, non precibus, non pretio, non amicitia, non odio, neque denique ulla re corrumpantur, come sono le parole d'Alfonso[386]. Quindi è, che fin dal tempo della sua istituzione leggiamo, che vi sedettero uomini dottissimi e savissimi, un Michiel Riccio, un Francesco Antonio Guindazzo, un Nicol'Antonio de' Monti, un Paris de Puteo, un Antonio d'Alessandro, un Gio. Antonio Caraffa, un Matteo d'Afflitto, un Giacomo d'Ajello, un Antonio Capece, un Loffredo, un Salernitano, un Tappia, un Gamboa, un Miroballo e tanti altri, dei quali presso Toppi[387] si legge numeroso catalogo, e de' quali, secondo che ci ritornerà l'occasione, faremo ne' tempi che fiorirono, onorata memoria.
In questi principj, sino al Regno degli Austriaci, non eran perpetui, ma ad arbitrio del Re[388], il quale fidando nella loro dottrina, integrità e prudenza civile nel medesimo tempo ch'eran Consiglieri, gli creava Presidenti di Camera, adempiendo con molta esattezza ambedue le loro cariche. Severino di Diano, Pietro Marco Gizzio, Bartolommeo di Verico, Andrea e Diomede Mariconda e moltissimi altri, siccome osservò Toppi,[389] nell'istesso tempo ch'erano Consiglieri, furon creati Presidenti di Camera, ed esercitavano amendue queste cariche. Ciò che non deve parere impossibile, poichè in questi tempi solamente tre dì della settimana, cioè il martedì, giovedì e sabbato si reggeva Consiglio[390].
Sovente i pubblici Cattedratici eran creati Consiglieri; ma non perciò lasciavano le loro Cattedre, ed i loro talenti gl'impiegavano non meno nell'Università degli Studj, che nel Senato. Tale fu il Consigliere Matteo d'Afflitto, tale Camerario e moltissimi altri, che possono vedersi presso Toppi[391].
Intorno al lor numero, fu fin dal suo nascimento sempre vario ed incerto, da poi si stabilì certo e determinato. Alfonso I quando istituì questo Tribunale, oltre del Presidente, scelse nove Dottori per Consiglieri[392]. Poi nell'anno 1449 riformandolo in miglior forma, istituì due Titolati per Consiglieri Assistenti, e riformò il numero de' Dottori; ordinando che non fossero più che sei. Poco da poi, rivocando tal proibizione, v'aggiunse il settimo. Ma in decorso di tempo, nel 1483 ed 84 il lor numero era di diece e sovente arrivò a dodici. S'univan tutti in una Sala; onde è, che spesso nelle decisioni del Consigliere Afflitto, leggiamo essersi talora qualche causa concordemente decisa per totum Sacrum Consilium.
Carlo V fu il primo che con suo diploma, spedito in Bologna, sotto li 26 febbrajo dell'anno 1533, ordinò, che si dividesse in due Ruote, in ciascheduna delle quali, oltre il Presidente, dovessero assistere quattro Dottori Consiglieri, determinando in cotal guisa il lor numero ottonario[393]: ciò che nel castel di Capuana fu eseguito dal suo Vicerè D. Pietro Toledo. Ma crescendo tuttavia il numero delle cause, fu dal medesimo a preghiere della città e Regno conceduto a' 2 marzo del 1536, che vi s'aggiungessero due altri Consiglieri, da dovere assistere cinque per ciascheduna Ruota. Ne furon poi aggiunti due altri, i quali dovessero assistere a' Giudici criminali della Vicaria, mutandosi a vicenda in ogni biennio, con rimaner sempre nelle due Ruote del Consiglio cinque per ciascheduna[394].
Da chi da poi fosse stato accresciuto il lor numero, ed aggiunta la terza Ruota, niente può recarsi di certo. È verisimile, che ciò accadesse nel Regno di Filippo II, giacchè egli in sue regali carte, spedite a Madrid li 24 decembre del 1569, fa menzione di questa terza Ruota[395].
Ma chi avesse aggiunta la quarta, è troppo chiaro che fu il Re Filippo II, il quale alle preghiere fattegli ne' Parlamenti dell'anno 1589 e 1591 dalla città, per lo maggior disbrigo delle cause, con sue regali lettere spedite a' dì 7 settembre del 1596, accrebbe il numero de' Consiglieri, ed ordinò che alle tre s'aggiungesse la quarta Ruota, dove parimente dovessero assistere cinque altri Consiglieri. In guisa che restò il numero de' Consiglieri a ventidue, de' quali venti si dovessero distribuire per le quattro Ruote del Consiglio, e due assistere nella Ruota criminale della Vicaria, per raddolcire il rigore di quel Tribunale, come ora tuttavia si osserva. Ve ne sono due altri, che non risiedono in Napoli, uno è preposto al governo di Capua che di biennio in biennio si muta; l'altro, o è destinato in Roma per assistere in quella Corte per affari di giurisdizione, o al governo di qualche provincia, ovvero per altre incombenze, che al Re piacesse di altrove loro commettere. Questo al presente è il numero ordinario de' Consiglieri, due parti de' quali doveano esser Regnicoli, e la terza ad arbitrio del Re[396]. Ma ora per le novelle grazie[397] sei solamente sono riservati al beneplacito Regio. I Re alcune volte gli han tolti e ridottigli al numero ordinario, secondo che han portato le contingenze, il favore o il merito di qualche eminente soggetto.
Questi sono i Ministri, che compongono un tanto Tribunale. Ebbe ancora, siccome ancor ritiene, i suoi Ufficiali minori, un Secretario, un Suggellatore, tredici Mastrodatti, molti Scrivani, sedici Esaminatori, un Primario, nove Tavolarj e quattordici Portieri.
Da questo Tribunale, che fu quasi sempre composto di Giureconsulti assai celebri, nacquero quelle tante decisioni, delle quali ora abbiamo tanti Compilatori. Le sue decisioni, fin dal suo nascimento ebbero tanto applauso ed autorità, che non pur appo i nostri, ma anche presso i Giureconsulti stranieri acquistarono somma stima e venerazione, di che ne può essere buon testimonio infra gli altri, Filippo Decio. Il primo, che le compilasse, fu il famoso Matteo d'Afflitto, il quale per questo solo merita essere sopra tutti celebrato; perchè egli fu il primo in Italia che introducesse questo instituto di notare le decisioni de' Tribunali, e farne particolari raccolte. Il Cardinal de Luca[398] portò opinione, che questo Giureconsulto avesse in ciò imitato lo stile della Ruota romana, le di cui decisioni prima dell'erezione di questo nuovo Tribunale del S. C. eransi rese già celebri, ed erano allegate da molti Scrittori. Ciò che ne sia, non può dubitarsi ch'egli fu il primo che introducesse questa nuova maniera di scrivere, e queste private collezioni. Il di lui esempio seguiron da poi, non meno gli altri nostri Autori regnicoli, che i Giureconsulti d'altre nazioni. Fra' nostri i più vicini a lui furono, Antonio Capece, due Tommasi, Grammatico e Minadoi, ed il famoso Vincenzo de Franchis. Seguiron poi gli altri, de' quali il Toppi[399] tessè lungo ed acculato catalogo. Onde dopo gli antichi Glossatori, dopo i Commentatori, i Repetenti, gli Addenti, i Trattanti ed i Consulenti, surse fra noi un'altra classe di Scrittori chiamati per ciò Decisionanti: di che altrove ci tornerà occasione di ragionare.
CAPITOLO V. Alfonso riordina il Tribunal della regia Camera; e come si fosse riunito col Tribunale della regia Zecca retto da' M. Razionali.
Fra le molte virtù d'Alfonso non tralasciarono i nostri Scrittori[400] notare un vizio, nel quale la stessa troppa sua liberalità e magnificenza lo fecero cadere. Egli donando profusamente ed innalzando pur troppo alcune famiglie, ridusse il regio Erario in angustie tali, sicchè gli fu duopo per supplire agli eccessivi doni e spese, pensare a nuove imposizioni e ad inventare altri gravosi mezzi per congregar tesori. Volse per tanto i suoi pensieri a riordinare il Tribunale della regia Camera, perchè i suoi Ministri stessero più accorti ed intenti a procacciar danari.
Questo Tribunale, non meno di quello della Gran Corte della Vicaria, lo compongono due Tribunali che prima divisi, poi col correr degli anni s'unirono e ne formarono un solo, dove si tratta del patrimonio del Re, nella maniera che oggi si vede. I M. Razionali, come fu da noi rapportato ne' precedenti libri di questa Istoria, formavan il lor Tribunale che si chiamava il Tribunal della Zecca, ed essi erano anche chiamati Razionali della Gran Corte[401]. Qual fosse la loro autorità ed incombenza fu a bastanza da noi esposto altrove. Era una dignità assai onorevole, e per ciò veniva conferita per lo più a' Nobili, ed a' primi Giureconsulti di que' tempi. Fu alcun tempo, che i M. Razionali reggevano questo lor Tribunale nel castello di S. Salvatore a Mare, che ora diciamo il castello dell'Uovo, come si vide nel Regno di Carlo I d'Angiò; ed il di lor numero fu assai maggiore di quello che ora si vede. Sotto il Re Ladislao se ne contavano sino a sessantacinque; sotto Alfonso il di lor numero fu ridotto a trentasei, e poi nel 1585 non eran più che diciotto[402].
La Regina Giovanna I nel 1350 spedì loro ampissimo privilegio, che vien rapportato dal Reggente Capece Galeota[403]; ma poi i Razionali di quello abusandosi, e volendo stender la loro giurisdizione nelle cause, le quali non eran della loro incombenza, narra il Sargente[404], che l'istessa Regina nell'anno 1370 ristrinse la loro autorità, proibendo loro d'impacciarsi nelle cose altrui, e di stender le mani più di quello che comportava il di lor posto.
Oltre a questo Tribunale, eravi sin da' tempi antichissimi l'altro, in cui parimente trattavasi del patrimonio regale, chiamato regia Camera ovvero regia Audientia, Curia Summaria, e finalmente nomossi la regia Camera della Summaria, nome che anche oggi ritiene[405]. Era amministrato da' Magistrati, i quali prima erano chiamati Auditori (onde fu il Tribunale anche detto regia Audientia ) e poi si dissero Presidenti della regia Camera.
Poichè gli Ufficiali di questi due Tribunali, per trattar d'un medesimo soggetto, riconoscevano un sol Capo, qual'era il G. Camerario o suo Luogotenente, e sovente doveansi assembrar insieme, divenne perciò più facile l'unione, e che di due si fosse fatto un sol Tribunale, e che le prerogative degli uni con facilità passassero agli altri.
La maniera colla quale questi Ufficiali trattavano gli affari del regal patrimonio, così nel Regno degli Angioini come degli Aragonesi, ce la descrive l'istesso Re Alfonso in un suo diploma rapportato dal Toppi[406], oltre il Surgente[407] e gli altri Scrittori del Regno che lo seguirono. Tutti coloro che amministravano le ragioni fiscali ed esigevano le rendite regali, eran obbligati portare i conti in particolari quinterni nella Camera regia. Questi conti portati in Camera, doveansi vedere da' Presidenti e Razionali insieme aggiunti, ma sommariamente, cioè separar tosto le partite dubbie dalle liquide, e ciò che rimaneva di debito liquido, mandar subito in esecuzione l'esazione, onde si spedivan dal Gran Camerario e Presidenti lettere significatoriali dirette al Tesoriere ch'esigesse tosto da' debitori le somme in quelle significate. Le partite dubbie si rimettevano a' M. Razionali, affinchè pienamente le rivedessero, le discutessero, riassumessero i dubbj e finalmente le determinassero. Solamente quando occorrevan delle difficoltà intorno al dritto, le comunicavano a' Presidenti, i quali anche sommariamente doveano giudicarle: Hinc evenit (come ben a proposito scrisse il Surgente[408] ) ut Camera Summariae sit appellata, cum prius Audientia Rationum appellaretur.
Nel Regno del Re Ladislao cominciò ad introdursi, che i Presidenti, non meno che i Razionali dovessero anch'essi pienamente discutere e determinar i dubbj e spedir le quietanze. Ma Alfonso in questo suo diploma dato nel Castel Nuovo a' 23 novembre dell'anno 1450 comandò, che i conti riportati nella regia Camera si dovessero da' Presidenti non pur sommariamente, ma pienamente discutere, e finalmente terminare, senza che i M. Razionali s'intromettessero nella decisione, e determinazione di quelli; trasfondendo a' Presidenti tutta l'antica autorità che in ciò tenevano, e tutte le loro prerogative e preminenze, succedendo essi in luogo di coloro; onde avvenne, che poi solamente il di lor ministero si restringesse in riferire e proporre i dubbj ed aspettarne da' Presidenti la decisione. Quindi è nata la gran differenza, che ora si vede tra' M. Razionali antichi ed i moderni dei nostri tempi.
Prima a' M. Razionali s'apparteneva interamente la cura del regal patrimonio, ma poi Carlo I d'Angiò la commise alla Camera regia[409]. Ed Alfonso innalzò poi sopra tutti gli altri Re questo Tribunale, poichè stese la sua cognizione a molte cause, che prima si appartenevano al Tribunale della G. Corte, o al sagro Consiglio. Ordinò, secondo che narra il Costanzo[410], che avesse cura non solo del patrimonio regale, ma che conoscesse delle cause feudali. Quindi avvenne, che imitando gli altri successori Re l'esempio d'Alfonso, favorissero tanto questo Tribunale, con estendere la sua giurisdizione in tutte le cause, ove il Fisco, attore o reo, v'avesse interesse; di conoscere delle Regalie, delle cause giurisdizionali quando si tocasse il suo interesse, dell'investiture de' Feudi, delle cause di successioni feudali, de' giuramenti di fedeltà e di ligio omaggio, de' relevj, di adoe, delle devoluzioni de' Feudi; de' padronati regj, delle dignità ecclesiastiche ed altri beneficj di collazione, o presentazione regia: d'aver la soprantendenza sopra tutti gli ufficj vendibili: la cura delle regie galee, de' regj castelli, delle torri, delle loro provvisioni così da bocca come da guerra, de' cannoni, della polvere, del nitro, e di tutto ciò che riguarda il provvedimento degli arredi militari: la soprantendenza dell'amministrazione dell'Università del Regno, delle tratte, de' dazj, delle gabelle e delle risulte del Cedulario. Conoscere de' conti di tutti i Ministri regj, della dogana, delle miniere, de' tesori, delle strade, de' ponti, de' passi: in breve di tutto ciò che tocca il suo regal patrimonio e sue ragioni fiscali.
Tenendo la conoscenza e giurisdizione sopra tutto ciò, quindi avvenne che soprastasse a molti altri Tribunali inferiori, i quali alla regia Camera sono perciò subordinati, come alli Tribunali dello Scrivano di Razione, del Tesoriere generale del Regno, della dogana grande e di tutte l'altre dogane del Regno: del Montiere maggiore: del Portolano di Napoli, e di tutti gli altri Portolani delle province, de' Vicesecreti, de' Fondachi del sale e di tutti gli altri del Regno; della regia zecca: delle monete, de' pesi e misure: dei Capitani della grassa: della custodia de' passi e dei Consulati delle nobili arti della seta e della lana. Conoscesse di tutti i Percettori, ovvero Tesorieri del Regno, de' Commessari proposti all'esazioni fiscali, de' Maestri di Camera, de' Segretari, delle regie Audienze, del Percettore della Gran Corte della Vicaria e del Segretario del Sagro Consiglio: soprastasse alli Tribunali dell'Arsenale, della regia cavallerizza, della gabella del vino, del giuoco; e ad infinite altre cose a ciò attenenti soprantendesse.
Angelo di Costanzo[411] narra che avendo il Re Alfonso stesa cotanto la giurisdizione di questo Tribunale, avessegli perciò costituiti quattro Presidenti Legisti, o due Idioti ed un Capo, il qual fosse Luogotenente del Gran Camerario, e che il primo Luogotenente fosse stato Vinciguerra Lanario Gentiluomo di Majori, del quale s'era servito avanti in molte cose d'importanza. Ciò che non concorda co' cataloghi dei Luogotenenti e Presidenti che tessè il Toppi[412]; poichè prima d'Alfonso era questo Tribunale governato dal Gran Camerario, ovvero dal suo Luogotenente che n'era Capo; e Vinciguerra Lanario vi fu Luogotenente molto tempo prima d'Alfonso. Il primo Luogotenente nel Regno d'Alfonso, si porta in quest'istesso anno della riforma di questo Tribunale 1450. Niccolò Antonio de' Monti patrizio di Capua che fu Luogotenente di Francesco d'Aquino Conte di Loreto Gran Camerario, il qual in niun conto volle assistere al Tribunale, pretendendo, che come persona illustre potesse servire per mezzo del Luogotenente suo sustituto, e l'ottenne[413]; onde fu creato Luogotenente Niccolò Antonio, e da questo tempo in poi i Gran Camerarj non assisterono più nel Tribunale, ma i loro Luogotenenti, de' quali insino a' suoi tempi Niccolò Toppi tessè lungo catalogo; quindi in discorso di tempo, i Gran Camerarj non molto impacciandosi di questo Tribunale, avvenne che i Re creassero i Luogotenenti, ed a' Gran Camerarj non rimanesse se non questo nome vano senza funzione, e sol per titolo d'onore e di preminenza.
Il numero de' Presidenti, non meno che quello dei Consiglieri, fu sempre vario, ed erano parimenti amovibili ad arbitrio del Re, passando vicendevolmente gli uni nel Tribunale degli altri. Secondo che narra il Costanzo, in tempo d'Alfonso non eran più che quattro Togati e due Idioti; poi crebbe a meraviglia il di lor numero, tanto che nel 1495 si videro reggere questo Tribunale ventisei Presidenti tutti uomini insigni non men per nobiltà di sangue, che per lettere[414].
Questo eccesso fece pensare alla riforma; onde nel medesimo anno 1495, sotto Ferdinando II, fu riformato il Tribunale, e si lasciarono solamente cinque Presidenti, i quali in una Ruota, come costumavano i Consiglieri di S. Chiara s'univano. Ma in discorso di tempo, crescendo tuttavia nel Regno l'entrate regali, fu bisogno ampliar il numero, e per conseguenza non capendo in una Ruota, il Re Filippo II con sua carta de' 24 dicembre del 1596 drizzata al Conte d'Olivares Vicerè[415], ordinò che il Tribunale si dividesse in due sale, in ciascheduna delle quali assistessero tre Presidenti Togati ed uno Idiota, e il Luogotenente ora in una, ora in altra, secondo la maggior gravità ed occorrenza del negozio, vi soprastasse. Nè ciò bastò all'immensità degli affari del Tribunale; ma fu d'uopo che nel 1637, per la più pronta spedizione di quelli, il Conte di Monterey Vicerè aggiungesse la terza Ruota. Ora il di lor prefisso numero è di dodici, otto Togati, e quattro Idioti, i quali, toltane la dignità della toga, e d'astenersi al votare nel caso che s'abbia a decidere qualche punto di ragione, hanno le medesime prerogative che i Togati, e siedono dopo di questi. Filippo II, nel 1558, ne' privilegi conceduti alla città e Regno, dispose che de' Presidenti di Camera due parti fossero Nazionali; e la terza ad arbitrio del Re[416]: ma nel Regno degli altri Austriaci s'è veduto sempre questo Tribunale essere stato governato da quattro Italiani, e quattro Spagnuoli; ed ancorchè i Presidenti Idioti fossero stati per lo più Nazionali, pure sovente se ne videro Spagnuoli. Ora per le novelle grazie[417], tre Togati ed uno Idiota sono rimasi ad arbitrio del Re.
Tiene questo tribunale un Avvocato fiscale, ed un Proccuratore che alla gran mole degli affari appena basta, tanto che il Tassone desiderava fin da' suoi tempi, che almeno fossero due Fiscali. Fu a' dì nostri ciò posto in effetto, ma da poi si ritornò ad uno, come ora si vede. Egli è vero, che in parte fu provveduto a questo difetto, per essersi con nuova provvisione aggiunto un Fiscale detto de' Conti, che chiamiamo di Cappa corta, il quale siede dopo l'Avvocato fiscale togato, e tien soldo di mille ducati[418]. Teneva ancora questo Tribunale venti Razionali; ma ora il di lor numero è ristretto a quindici: dodici destinati per gli affari delle dodici province: due per lo regal patrimonio, ed uno per la dogana di Foggia; l'autorità de' quali, ancorchè sia molto diminuita, e per la maggior parte sia stata trasferita a' Presidenti, pure nella relazione e discussione de' Conti è grande. Sono non meno che i Presidenti e l'Avvocato e Proccuratore fiscale, creati dal Re, ed è lor facile l'ascendere da Razionali a Presidenti Idioti, ciocchè, siccome ci testimonia Toppi[419], si praticava ancora in tempo degli Aragonesi e di Carlo V, e godono tutte le prerogative, preminenze ed esenzioni, che tutti gli altri Ufficiali del Tribunale.
Tiene il suo Notajo, ovvero Segretario, che quantunque sia ufficio vendibile, nulladimanco la confirma pure dipende dal Re. Tiene tre Archivarj secondo i tre archivi che vi sono: quello della regia zecca, l'altro de' Quinternioni, ed il terzo del Gran Archivio, de' quali e delle loro preminenze il Toppi[420] tessè lunghi discorsi e copiosi cataloghi.
Tiene parimente il Suggellatore, gl'Ingegnieri, che fanno le veci de' Tavolarj e quattro principali Mastrodatti, i quali han facoltà di creare otto Attuarj, due per ciascheduno, oltre dodici altri, che ne crea il Luogotenente, tutti nazionali: molti Scrivani ordinarj approvati con decreto del medesimo, precedenti debiti requisiti: moltissimi estraordinari e più portieri; sopra de' quali tutti il tribunale tiene la cognizione delle loro cause, così civili come criminali.
Ecco in qual'eminenza oggi sia questo Tribunale, arricchito di tanti privilegi e prerogative non meno da' Re aragonesi, che da' successori Principi austriaci, tanto che si è reso per se stesso Tribunal supremo, ed indipendente da qualunque altro per ciò che riguarda l'amministrazione del regal patrimonio. È assomigliato al Procurator di Cesare de' Romani. Ha la retrattazione, come il S. C. in guisa che non può dalle sue determinazioni appellarsi ad altro Tribunale, ma per via di reclamazione, egli stesso le rivede, non impedita l'esecuzione. Non meno che il Tribunal del S. C. da esso escono le decisioni, e gli arresti, ed i decreti generali che nel Regno han forza non inferiore alle leggi ed a' riti e costumanze degli altri Tribunali supremi. Quindi oltre i riti, gli arresti ed i decreti generali, de' quali abbastanza fu da noi discorso nel libro XII di quest'Istoria, tiene particolari Scrittori che compilarono le sue decisioni, come il Reggente Revertera, Ganaverro, Moles, Ageta ed altri. E nel Regno degli Aragonesi, prima che nel 1505 si fosse da' Spagnuoli eretto il Consiglio Collaterale, teneva questo Tribunale il secondo luogo dopo quello del S. C. di S. Chiara, da cui in ogni tempo ed in ogni luogo, fuor che in casa propria, dove i Presidenti siedono al lato destro ed i Consiglieri al sinistro, è stato sempre preceduto.
CAPITOLO VI. Disposizione e numero delle province del Regno sotto Alfonso, ed in che modo fossero dalla Regia Camera amministrate; e come fossero numerati i fuochi di ciascuna città e terra che lo compongono.
Io non veggio donde Marino Freccia[421] abbiasi appreso che il Re Alfonso avesse diviso questo Regno in sei province. Sin da' tempi dell'Imperador Federico II, siccome si vide nel XVII libro di quest'Istoria, era diviso in otto province. Il Principato, che per la sua estensione si divise poi in due, citra ed ultra. La Calabria, che per la sua ampiezza bisognò poi dividerla parimente in due, in Terra Giordana, che diciamo ora Calabria ultra, e Val di Crati che Calabria citra oggi s'appella. La Puglia divisa poi parimente in due, Terra d'Otranto e Terra di Bari, e l'Apruzzo, che pur fu diviso in due province; onde a queste otto aggiunte l'altre quattro, cioè Terra di Lavoro, Basilicata, Capitanata e Contado di Molise, venne il di lor numero ad arrivare a dodici, come è al presente. Ed è tanto lontano che Alfonso avesse ristretto il di lor numero, che fu costante opinione de' nostri Scrittori, ch'egli avesse diviso l'Apruzzo in due province per toglier le brighe che solevan insorgere fra' Questori per l'esazion delle tasse e dei dazj[422]. Ma niun'altra scrittura più manifestamente convince nel Regno d'Alfonso il numero di queste province essere di dodici, quanto la general Tassa delle Collette che furono nuovamente imposte per l'entrata trionfale di Alfonso, che fece in Napoli nel 1443, e per la quale fu anche tassato il popolo napoletano. Fu questa scrittura impressa de Camillo Tutini[423] nel suo libro de' sette Ufficj del Regno, ch'egli estrasse dall'Archivio maggiore della Regia Camera. Mancavi solamente la provincia di Terra d'Otranto, non sappiamo se per la voracità del tempo, ovvero perchè possedendosi questa provincia per la maggior sua parte dal Principe di Taranto, parente del Re, ne fosse stata perciò eccettuata; e nel novero delle città e terre di tutte le altre province mancano ancora le città demaniali, per le quali bisogna credere che si fosse fatta tassa separata. I registratori però commisero errore in notarne la rubrica, perchè in vece di dire: Triumphi Regis Alphonsi, dissero: Tassa Collectarum felicis Coronationis Regis Alphonsi noviter imposita ad recolligendum a Baronibus Provinciarum Regni, ultra Terras demaniales; poichè ancor che Alfonso nel 1445 avesse ottenuta Bolla da Papa Eugenio, per la quale se gli prometteva di mandargli il Cardinal di S. Lorenzo o altra persona per solennemente coronarlo; nulladimanco non fu mai questa solennità celebrata in tutto il tempo che visse. Si registrano in questa cedola, toltane Terra d'Otranto, tutte l'altre undici province, colle città e terre baronali ed i loro baroni con quest'ordine e nomi: Principato citra, et ultra: Basilicata: Terra di Lavoro e Contado di Molise: Apruzzo citra: Apruzzo ultra: Provincia Calabriae Vallis Cratis: Provincia Calabriae ultra: Capitanata: Provincia Terrae Bari.
Ecco dunque che nel Regno d'Alfonso le province del Regno non erano minori di quel che vediamo ora. Nel che si convince parimente l'errore del Guicciardino[424], il quale scrisse che Alfonso avesse variata la denominazione antica delle province, ed avendo rispetto a facilitare l'esazioni dell'entrate, avesse diviso tutto il Regno in sei province principali; cioè, in Terra di Lavoro, Principato, Basilicata, Calabria, Puglia ed Apruzzi; delle quali la Puglia era divisa in tre parti, cioè in Terra d'Otranto, Terra di Bari e Capitanata. Errore quanto degno di scusa a questo Scrittore, che come forestiere non potè averne esatta notizia, altrettanto da non condonarsi a Marino Freccia Scrittor nazionale e regio Ministro di Napoli.
Ma ciò che dovrà notarsi nel tempo di questo Re, sarà il vedere che non pure tutte le isole a queste province adjacenti, delle quali si parlerà più innanzi, ma anche l'isola di Lipari, non già alla Sicilia, ma alla Calabria era attribuita.
Accrebbe ancora questo Principe la provincia del Principato ulteriore, col nuovo acquisto della città di Benevento, e distese sopra lo Stato della Chiesa romana li confini di Terra di Lavoro più di quello che ora sono; ed aggiunse parimente al Regno la Sovranità sopra lo Stato di Piombino.
La città di Benevento, come si è potuto vedere ne' precedenti libri di quest'Istoria, per le cagioni ivi rapportate, fu lungamente posseduta da' Pontefici romani; ed ancorchè sovente fosse stata interrotta la loro possessione da Roberto Guiscardo, da Ruggiero I Re di Sicilia, da Guglielmo II, dall'Imperador Federico II e da altri Re, secondo che le congiunture della guerra o d'inimistà portarono; nulladimanco sempre poi ne' trattati di pace fu alla Chiesa restituita, riputandosi questa città come fuori del Regno; poichè quando di queste province se ne formò un Regno, si trovava già da quella divisa e separata, e sotto l'ubbidienza de' romani Pontefici; ond'è, che in tutte le investiture fu sempre quella eccettuata. Nel Regno di Carlo III di Durazzo, Urbano VI la diede in governo a Ramondello Orsino, che fu poi Principe di Taranto, per averlo liberato dalle mani di Carlo, quando lo teneva assediato in Nocera. Chiamato Alfonso alla conquista del Regno per l'adozione della Regina Giovanna II essendo insorti que' contrasti che finalmente proruppero in sanguinose guerre; Alfonso che tenne contrarj due Papi, occupò Benevento, senza che pensasse di doverla mai restituire, come avean fatto gli altri Re suoi predecessori. Ne' trattati di pace che si s'ebbero in Terracina col Legato di Papa Eugenio, fa molto dibattuto sopra la sua restituzione, la quale non fu accordata dal Re; e sol si convenne che insieme con Terracina dovesse ritenerla in nome della Chiesa per tutto il tempo di sua vita: ma che all'incontro si lasciassero sotto il governo del Papa Città Ducale, Acumoli e la Lionessa, terre importantissime della provincia d'Apruzzo ulteriore. Ma da poi essendo ad Eugenio succeduto Niccolò V, furono ad Alfonso restituite le suddette Terre della Montagna dell'Amatrice; ond'è che il Contado di Acumoli, confinando con quello di Norcia, perchè si togliesse ogni occasione di controversia di confini fu dal Conte di Miranda, nell'anno 1389, pubblicata prammatica[425], colla quale fu proibita ogni sorte d'alienazione de' territorj d'Acumoli, che sono ne' suddetti confini, a' forestieri, e specialmente a' Norcesi; e rimasero parimente Benevento e Terracina in potere del Re, assolvendolo ancora dal tributo de' due Sparvieri, che per dette due città dovea alla Sede Appostolica: onde la provincia di Principato ultra in tutto il tempo che regnò Alfonso, riconobbe, anche perciò che riguarda la politia temporale, Benevento per suo capo e metropoli. Nè dopo la morte d'Alfonso fu restituita alla Chiesa, ma Ferdinando I suo successore parimente la ritenne per lungo corso di tempo: in appresso dopo varj trattati avuti col Pontefice Pio II la restituì al medesimo; dal qual tempo in poi, con non interrotta possessione, insino ad ora si vide sotto il dominio della Sede Appostolica, e riputata città fuori del Regno. Della medesima avea a' tempi de' nostri avoli tessuta una esatta e piena istoria Alfonso di Blasio gentiluomo Beneventano; ed il quarto volume conteneva quest'ultimo stato, nel quale giacque suddita a' Papi. Secondo una sua epistola del 1650 rapportata dal Toppi[426], nella quale ci dà l'idea di quest'opera, egli v'avea travagliato trent'anni, e secondo i varj suoi stati (prima d'essere stata soggiogata da' Romani, nel tempo che fu dominata da' medesimi in forma di Colonia, sotto i suoi Duchi e Principi, e finalmente sotto i Papi) l'avea divisa in quattro volumi. Sosteneva che l'antichissima città di Sannio fosse stata Benevento, rifiutando l'opinione di Cluverio e di Salmasio che negarono la sussistenza della città di Sannio. Ma morto al piacere dell'immortal suo nome che senza dubbio per cotal opera avrebbesi acquistato, non potè vederne il fine; ed i suoi manuscritti con tanta trascuraggine non curati, giacciono ora sepolti in profonda caligine, senza che vi fosse stato chi se ne avesse presa cura o pensiere di fargli imprimere.
La provincia di Terra di Lavoro nel Regno d'Alfonso distese molto più i suoi confini sopra lo Stato della Chiesa romana che ora non tiene. Li Pontefici romani pretesero che la città di Gaeta s'appartenesse allo Stato della lor Chiesa; e fondavano questa lor pretensione, come si disse ne' precedenti libri di quest'Istoria, nella liberalità di Carlo M. quando pretese toglierla a' Greci per farne un dono alla Chiesa di Roma, siccome avea fatto di Terracina e dell'altre spoglie de' Greci. Ma essendosi in que' tempi opposto Arechi Principe di Benevento, frastornò ogni lor disegno, e proccurò che tosto questa città ritornasse sotto la dominazione degl'Imperadori d'Oriente, i quali vi mandavano i Patrizj loro Ufficiali per governarla. Ma non per ciò si astennero i Pontefici romani, quando le congiunture lo portavano, di far dell'intraprese, e quando vedevano non poterle mantenere, ne investivano un Principe più potente. Così leggiamo che Giovanni VIII la concedè a Pandolfo Conte di Capua, che morì nell'anno 882[427]; e Lione Ostiense[428] scrive, che Gaeta in que' tempi serviva al Papa; ma ritornò ben tosto sotto gl'Imperadori d'Oriente, e ne' tempi seguenti, avendo i Normanni spogliati i Greci di ciò che loro era rimaso in queste nostre province, essi se n'impadronirono; ond'è che s'intitolavano ancora Duchi di Gaeta. A' Normanni essendo succeduti i Svevi, e poi gli Angioini, ed a questi ora Alfonso, e poi gli altri Aragonesi e finalmente gli Austriaci, questa città fu con continuata e non interrotta possessione da' nostri Re ritenuta, e come una delle città di questa provincia fu sempre riputata.
Ma la medesima sorte non ebbe Terracina se non a' tempi d'Alfonso. Questa città pure come spoglia de' Greci fu da Carlo M., avendola tolta a' medesimi, donata alla Chiesa romana[429]; ma i Normanni, discacciati i Greci, in lor vece la pretesero[430]. Non l'abbandonaron con tutto ciò i Pontefici e la riebbero: tanto che con interrotta possessione ora da Papi, ora da' nostri Re fu occupata e sempre combattuta, finchè solamente Alfonso per via d'accordo e di capitolazioni avute con due Pontefici, stabilmente non la unisse a questa provincia; e per lungo tempo i confini del Regno verso quella parte si distesero sino a questa Città. Eugenio IV come si è veduto, in iscambio d'Acumoli, città Ducale e Lionessa, diede in governo ad Alfonso, Benevento e Terracina per tutto il tempo di sua vita; da poi s'ampliò la concessione a Ferdinando ed a' suoi successori perpetualmente. Niccolò V suo successore confermò quanto Eugenio avea fatto; anzi restituì ad Alfonso quelle Terre, e volle che Benevento e Terracina rimanessero a lui senz'alcuna obbligazione di censo. Fu Terracina nel Regno d'Alfonso, e ne' primi anni di Ferdinando suo figliuolo ritenuta. Ma poi Ferdinando per tenersi amico Pio II, che gli diede l'investitura, negatagli da Calisto, bisognò che la restituisse[431] insieme con Benevento; onde i romani Pontefici di nuovo l'incorporarono al loro Stato, donde mai da poi potè divellersi: sursero quindi le tante controversie ne' confini tra la Sede Appostolica ed i nostri Re, i quali conservarono sempre queste ragioni per riaverla secondo che le congiunture portassero; ed il Chioccarello nel ventesimoprimo tomo de' suoi M. S. Giurisdizionali di tutte queste ragioni ne fece particolare ed accurata raccolta[432].
Non trascurò Alfonso le sue ragioni sopra altri luoghi di quest'istessa provincia pur pretesi ed invasi da' romani Pontefici. Il Castello di Pontecorvo, non più che otto miglia lontano da Monte Cassino[433], dove ora risiede il Vescovo d'Aquino, era certamente dentro il distretto di questa provincia di Terra di Lavoro. Fu edificato nel tenimento d'Aquino presso un ponte curvo, onde prese il nome, da Rodoaldo Castaldo, ne' tempi dell'Imperador Lodovico, siccome narra Lione Ostiense[434]. Il monastero Cassinense, a cui fu poi nel 1105 conceduto da Riccardo Principe di Benevento, per lungo tempo lo tenne[435]: ma gli Abati di questo monastero eran in que' tempi entrati in pretensione di posseder tutte le terre del loro monastero, come Signori assoluti, senza dipender da altro Principe, nè riconoscere altro supremo ed eminente dominio: perciò independentemente ne infeudavano gli altri con farsi prestare il giuramento di fedeltà e di ligio omaggio, de' quali giuramenti l'Abate della Noce[436] ne porta due formole. Porta ancora questo Autore l'investitura, che l'Abate Oderisio fece della metà di questo castello a Giordano Pinzzast durante la sua vita solamente, ma che dopo la sua morte tornasse al monastero. Questa pretensione certamente in que' tempi se la fecero valere, poichè eran entrati in tanta alterigia, che poser eserciti armati in campagna, e mosser guerre in que' tempi turbolentissimi, difendendosi i loro castelli con mano armata. Ma in decorso di tempo, sterminati da queste province tanti piccioli Signori e ridotte quelle in forma di Regno sotto il famoso Ruggiero I Re di Sicilia, le Terre di questo Monastero furono trattate da' Re normanni, da' Svevi ed Angioini non meno che l'altre Terre degli altri Baroni, delle quali i Re aveano il supremo ed eminente dominio ed alta giurisdizione. Quindi noi leggiamo, che gli Abati di Monte Cassino nel Regno di Carlo I d'Angiò, volendo tornar all'antiche pretensioni fur ripressi da questo Principe, il quale nell'anno 1275 scrisse a' suoi Ufficiali, dicendo loro, che le Terre che possedeva il monastero Cassinense erano soggette al Re, come tutte l'altre Terre e vassalli del Regno, e che quel monastero e suo Abate non v'aveano altro che il vassallaggio: onde ordina ad essi, che non facciano aggravare i suddetti vassalli dall'Abate. Carlo II suo successore, nel 1292, mentre questo Monastero era amministrato nel temporale e spirituale dal Vescovo di Tripoli, mandò due Commessari a distinguere i confini de' Territori tra le Terre di Rocca Guglielma e Pontecorvo, e porvi i termini: e nel 1307 scrisse al Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado di Molise, che rendesse giustizia all'Abate e monastero suddetto di non fargli molestare nella possessione d'alcuni beni stabili, ragioni e vassalli, che tenevano nel distretto di Pontecorvo, spettanti al suddetto monastero, ma che gli mantenesse nella possessione, nella quale si trovavano.
Il Re Roberto nel 1311 ordinò all'abate Cassinense che tenesse ben guardate le fortezze e luoghi di detta Badia esposti all'offesa de' suoi nemici, e spezialmente S. Germano e Pontecorvo; e nel 1324 essendo di nuovo insorta lite de' confini tra Rocca Guglielma e Pontecorvo, commise al Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado di Molise, che dividesse i confini dei territorj delle Terre suddette e vi ponesse i termini.
La Regina Giovanna I nel 1343 ordinò al Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado di Molise, che non procedesse ex officio contra agli uomini della Terra di Pontecorvo vassalli del monastero Cassinense negli loro delitti, eccettuatine quelli, che de jure spettano. E la Regina Giovanna II, nel 1431, creò Capitano di Pontecorvo per lo rimanente di quell'anno Niccolò di Somma di Napoli Milite.
Ancora dagli antichi Cedolarj regj si ricava, che la Terra di Pontecorvo, dalli tempi del Re Carlo I insino alla Regina Giovanna II, fu sempre tassata nelle tasse generali a pagar le collette alla Regia Corte, conforme tutte l'altre Terre del Regno, come nell'anno 1274, 1275, 1292, 1295, 1304, 1306, 1309, 1316, 1319, 1320, 1321, 1322, 1323, 1324, 1328, 1333, 1335, 1339, 1395 e 1423, li quali documenti furon tutti raccolti dal Chioccarello nel tomo 18 de' suoi M. S. Giurisdizionali.
Ma il monastero Cassinense, avendo patite varie mutazioni, e dalla Corte romana ora dato in Commenda a qualche Vescovo o Cardinale, ora restituito nel suo primiero stato, disponendone i Pontefici romani a lor talento, fu molto ben da essi estenuato con appropriarsi buona parte de' suoi dominj, tanto che Pontecorvo tolto a' Monaci, finalmente pervenne in mano della Sede Appostolica. I Papi non vollero riconoscere i nostri Re per supremi Signori della Terra, come prima gli riconoscevano gli Abati di quel monastero, ma s'usurparono sopra quella ogni diritto. Ma il Re Alfonso in tempo dell'inimicizia, che ebbe con Eugenio IV gli tolse colle armi Pontecorvo, e fin che regnò, lo tenne, e dopo la sua morte lo trasmise al Re Ferdinando suo successore. Nella guerra poi, che questo Re ebbe con Giovanni figliuol di Renato, cotanto ben descritta dal Pontano, gli fu tolto da Giovanni; ma avendo Ferdinando fatta lega col Pontefice Pio II, il quale contro Giovanni pose in piedi un fioritissimo esercito, l'esercito del Papa discacciò Giovanni da que' luoghi che avea presi, e Pontecorvo ritornò in questa guerra a Ferdinando suo vero padrone[437]. Ma i Pontefici Romani, che mai trascurano il tempo e l'occasioni di riacquistar ciò, che una volta possederono, vegghiaron sempre per riaverlo, e secondo le congiunture portarono, con non picciola trascuraggine de' Ministri de' nostri Principi, se n'impossessarono di nuovo, e con non interrotta possessione lo tennero lungamente, ed in fine giunsero, che nell'investiture del Regno se l'han riserbato, non meno che fecero di Benevento[438]; ed ultimamente, perchè il Vescovo d'Aquino dimorasse in più sicuro luogo, han mutata la sua residenza, ed in vece di farlo risiedere in Aquino antica Sede Cattedrale, oggi risiede in Pontecorvo, Terra da essi pretesa fuori del dominio de' nostri Re[439]. Anzi rinovando l'antiche contese de' confini, intrapresero estendergli sopra Rocca Guglielma, tanto che nel Ponteficato di Paolo V fu d'uopo al Vicerè D. Pietro Conte di Lemos, mandar in S. Germano il reggente Fulvio di Costanzo Marchese di Corleto, il quale coll'Arcivescovo di Chieti Commessario appostolico mandato dal Papa, composero queste differenze, ed a' 31 maggio 1762 ne fu in S. Germano stipulato istromento tra il suddetto Arcivescovo e 'l Reggente per la distinzione de' confini suddetti tra Pontecorvo e Rocca Guglielma, nel quale furono inserite le loro commissioni sopra di ciò ricevute[440].
Vindicò Alfonso da' Pontefici romani non meno Pontecorvo, che le picciole isole adiacenti ne' mari di Gaeta. Sono in questo mare quattro isolette chiamate Ponza, Summone, Palmerola e Ventotene. In alcune carte Summone e Palmerola, son dette S. Maria e le Botte. Pure sopra quest'isole i Pontefici romani tentarono dell'intraprese, ancorchè comprese nel Regno di Napoli, e fossero riputate sempre della diocesi di Gaeta, e da' nostri Re sempre dominate.
Il Re Carlo I nel 1270 ordinò a' suoi Ufficiali di Terra di Lavoro, che non facessero molestare l'Abate e Convento del monastero di S. Maria dell'isola di Ponza dell'ordine Cisterciense della diocesi di Gaeta, sopra alcuni beni che possedeva nella diocesi di Sessa; ed il nostro Re Alfonso, avendo Fr. Marcellino d'Alvana ottenuto da lui sorretiziamente un ordine, che fosse posto in possesso della Badia del monastero di S. Maria di Ponza, scoverto l'inganno, ordinò che se gli levasse tosto il possesso e la riscossione de' frutti di detta Badia.
Seguendo in ciò l'esempio d'Alfonso, li successori Re mantennero in quest'isole il lor possesso; e, regnando l'Imperador Carlo V, abbiamo, che il Conte di S. Severina Vicerè del Regno nel 1525 spedì più ordini a' Castellani di Ponza e Ventotene, che le guardassero attentamente, e con vigilanza contro i Turchi.
Ma nel Regno di Filippo II i Pontefici romani avanzarono le loro pretensioni, e oltre averne spedite concessioni al Cardinal Farnese ed al Duca di Parma, i Romani attentarono di fare alcuni Forti nell'isola di Ponza, di che avendone il Duca d'Ossuna avvisato il Re, Filippo nel 1584 gli rescrisse, che stasse in ciò con molta avvertenza, in non permettere, che alcuno usurpi la sua giurisdizione, e che perciò voleva che pienamente l'informasse di tutto con suo parere. Il Vicerè fece far consulta dalla Regia Camera, nella quale fu con molta esattezza dimostrato, che l'isola di Ponza con altre Isole convicine, cioè Summonte, Palmerola e Ventotene erano comprese nel Regno, nè il Papa poteva avervi alcun dritto, nè il Duca di Parma, il quale non era che un semplice e nudo affittatore, avendosele nel 1582 affittate per scudi 13000 per ventidue anni: onde il Re con altra sua carta de' 3 novembre del medesimo anno 1584 in vista di detta consulta gli ordinò, che continuasse a conservare le ragioni che egli vi tenea, nè permettesse che altri sopra quelle facessero innovazione alcuna.
Succeduto poi al governo del Regno il Conte di Miranda, il Cardinal Farnese mosse trattato col Re Filippo, per mezzo del Conte d'Olivares allora Ambasciadore in Roma, che queste isole si concedessero in feudo al Duca di Parma suo fratello cugino: ed inclinando il Re per le condizioni di que' tempi a farlo, scrisse al Conte nel 1587, che l'informasse con particolarità di ciò che poteva occorrere in contrario, ma che fra tanto non permettesse in dette isole vi si facesse fortificazione alcuna, nè molo nè porto nè cosa simile, insino che informata del tutto potesse risolvere quel che più conveniva al suo regal servigio. Ed avendogliene il Conte di Miranda fatta piena relazione, risolvè il Re d'infeudarle al Duca di Parma con darne avviso al Vicerè di questa sua risoluzione; ed a' 22 settembre del 1588 ne scrisse anche al Conte di Olivares suo Ambasciadore in Roma, che in conformità di quel che avea scritto al Vicerè, veniva a concedere dette isole in feudo al Duca di Parma con ergerle in Contado[441].
Accrebbe finalmente Alfonso il Regno colla sovranità, che acquistò sopra lo Stato di Piombino (posto presso il mare tra il Pisano ed il Sanese), e coll'acquisto della picciola isola del Giglio, di Castiglione della Pescara e di Gavarra. Nella guerra che Alfonso mosse in Toscana per indurre i Fiorentini alla pace, ed a richiamare le loro truppe dall'assedio di Milano, essendogli da' Senesi dato il passo, pensò, che non per altra parte potesse più utilmente muovere le sue forze contro i Fiorentini, se non per lo Stato di Piombino, nel cui Porto potesse far venire da Sicilia la sua armata di mare. Rinaldo Orsino erane allora Signore, il quale se ben prima avesse seguita la parte d'Alfonso, cominciò da poi ad aver intelligenza coi Fiorentini, co' quali finalmente si unì contro il Re. Fece per tanto che Alfonso deliberasse di fargli guerra; onde dopo aver per tutta la primavera dell'anno 1488 guerreggiato in Toscana, nel principio di luglio andò a poner il campo contro Piombino, cingendolo di stretto assedio. Rinaldo chiamò i Fiorentini che venisser tosto a soccorrerlo, i quali non furon pigri a farlo[442]; ed azzuffatesi le due armate, riuscì ad Alfonso di batter in mare i Fiorentini, ed introdurre le sue navi nel Porto di Piombino, le quali s'impadronirono ancora della vicina isola del Giglio. Fece dar l'assalto alla città per ridurla; ma sopraggiunta in quell'està una gran pestilenza nel suo esercito, fu d'uopo levar l'assedio: trattatasi poi la pace tra 'l Re ed i Fiorentini, con gli altri Potentati d'Italia, Alfonso l'accettò con queste condizioni, che rimanessero sotto il suo dominio Castiglione della Pescara, il Giglio, lo Stato di Piombino e Gavarra: ciò che gli fu accordato; ma i Fiorentini vollero, che in questa pace si includesse anche Rinaldo Orsino, e fu accordato che Rinaldo rimanesse Signore di Piombino, con riconoscere il Re per sovrano, a cui pagasse per tributo ogni anno un vaso d'oro di 500 scudi.
Era questo Stato della nobilissima famiglia Appiano, e Gherardo Lionardo Appiano ne fu l'ultimo Signore. Questi essendosi casato con Paola Colonna, dal cui matrimonio non essendone nati maschi, ma una sola femmina chiamata Catterina Appiana, ordinò che nello Stato succedesse non Catterina, ma Emmanuele suo fratello, nel caso, che Giacomo altro suo fratello morisse, come avvenne, senza figli maschi. Ma morto Gherardo, Paola sua moglie, avendo casata Catterina sua figliuola con Rinaldo Orsino, proccurò che Rinaldo suo genero si fosse reso Signore dello Stato, escludendone Emmanuele e per mezzo de' Fiorentini ottenne, che Alfonso gli lasciasse lo Stato col tributo del vaso d'oro, come si è detto.
( Gherardo a Roo[443], e per la costui testimonianza, Struvio Syntag. Hist. Germ. dissert. 30 §. 22 rapportano, che gli Orsini collo sborso di quindicimila ducati, che pagarono all'Imperadore Federico III, ebbero dal medesimo il Principato di Piombino; il quale Alfonso rese a se tributario).
Essendone da poi morto Rinaldo, Catterina sua moglie mandò Oratori al Re Alfonso, pregandolo a non darle travagli per li misfatti del marito; poichè ella seguiterebbe a riconoscerlo per sovrano con prestargli ogni ubbidienza e pagargli il tributo. Il Re ne fu contento, e fin che visse Catterina rimase Signora dello Stato; ma quella poco da poi morta, i Cittadini di Piombino chiamaron subito Emmanuele, e come loro legittimo Signore l'invitarono allo Stato. Ritrovavasi questi in Troja città del Regno, posta nella provincia di Capitanata, ove erasi ricovrato sotto la protezione d'Alfonso: il ricevette molto contento dell'invito fattogli da' suoi vassalli[444], e per tenerlo più fermo in suo servizio, quando bisognasse contro i Fiorentini, inviò un suo Segretario a coloro dello Stato, dichiarando il contento, che teneva così per aver essi fatto il lor debito in richiamarlo, come anch'egli avea molto caro, che quello Stato fosse ricaduto ad Emmanuele, che avea sempre tenuto sotto la sua protezione sopra a qualunque altro; onde Emmanuele, avendogli giurato omaggio, e promesso di pagare a lui e suoi successori ogni anno un vaso d'oro di 500 scudi, fu stabilito ancora con coloro dello Stato, che tutti gli altri, che succedessero in quella Signoria, fosser obbligati di riconoscere il Re e suoi successori nel Regno per lor sovrano con restar esenti e liberi d'ogni altro vassallaggio. Giunto Emmanuele a Piombino fu salutato e riconosciuto da tutti per lor Signore, il quale governò i suoi popoli con molta prudenza ed amore, e fu sempre carissimo al Re Alfonso; e morto che fu, lasciò suo successore Giacomo suo figliuolo, e per molti anni in appresso si vide la Gente Appiana signoreggiare questo Stato. Ma poi quella estinta, insorsero varie contese fra' Pretendenti, nella determinazione delle quali vi ebbero sempre gran parte i nostri Re, come successori di Alfonso, a' quali s'appartenevano le ragioni di sovranità, onde narra il Summonte[445], che a' suoi tempi il Vicerè di Napoli mandò a sequestrarlo e tenerlo in nome del Re Filippo II. Quindi son derivate le ragioni a' nostri Re sopra la sovranità di questo Stato, e le investiture, che poi di quello si fecero a varie altre famiglie.
Lo Stato adunque delle province ond'ora si compone il Regno, ne' tempi d'Alfonso, si vide nel suo maggior vigore ed ampiezza; e poichè la soverchia sua generosità l'avea portato ad invigilar pur troppo ad accrescere il regal patrimonio, il Tribunale della regia Camera, che soprastava all'esazione de' regali diritti, ed avea la soprantendenza sopra i Doganieri, Tesorieri e sopra tutti gli altri Ufficiali minori delle Province destinati a questo fine, si vide più numeroso, e d'affari più carico. Quindi nacque lo stile, che ancor oggi dura, di distribuire le province fra' Presidenti e Razionali della medesima, acciò ciascheduno ne avesse particolar pensiero, e di mandare un Presidente in Foggia a sopraintendere al governo della regia dogana della mena delle pecore, donde il Re ne ricava somme immense di denaro, e che oggi vien riputata per una delle maggiori rendite del regal patrimonio.
Accrebbe parimente Alfonso il regal Patrimonio coll'esazione del ducato a fuoco, onde s'introdusser nel Regno le numerazioni. Prima sotto i Re normanni l'entrate del Fisco si riscuotevano per apprezzo; cioè per ogni dodici marche d'entrate si pagavano tre fiorini[446], e quest'esazione per licitazione soleva affittarsi a' Pubblicani; il che durò fin al tempo dell'Imperador Federico II. Questo Principe, acciocchè i poveri non fossero oppressi da' più ricchi e potenti, proibì l'esazione in questo modo; ed avendo nel 1218 nel castel dell'Uovo convocato un general Parlamento di tutt'i Baroni e Feudatari del Regno, con i Sindici delle città e Terre, stabilì, che per l'avvenire l'entrate regie si riscuotessero per collette, in guisa, che chi più possedesse roba, più pagasse; chi meno, meno, chi nulla, nulla. Furono imposte in cotal maniera le prime collette assai moderate; ma poco appresso, non bastando a sovvenire alle necessità del Regno, si venne alle seconde, e così di mano in mano insino alle seste collette chiamate pagamenti fiscali ordinarj, secondo ci testificano Andrea d'Isernia[447], Luca di Penna[448], Antonio Capece[449], e Fabio Giordano nella sua Cronaca.
Durò questo modo fino al tempo d'Alfonso, il quale, siccome fu detto, nel primo Parlamento, che convocò in Napoli nel 1442, stabilì, che in iscambio delle sei collette, si riscuotessero da ogni fuoco carlini diece. Nell'anno poi 1449 come si nota ne' Registri della regia Camera[450], resedendo Alfonso nella Torre del Greco, fece radunare un altro Parlamento, ed avendo proposto, che mantenendo egli grossi eserciti così terrestri come marittimi per custodire il Regno, non essendo l'entrate regie bastanti, era forzato quelle accrescere; onde avea pensato, che per beneficio universale fosse bene, che s'imponessero cinque altri carlini al fuoco, oltre a' diece, e che all'incontro e' promettea di dare a tutti i fuochi del Regno un tomolo di sale per ciascheduno: ciò che fu con consentimento di tutti stabilito.
Furono perciò nel Regno introdotte le numerazioni, e la prima cominciò dall'istesso Alfonso nell'anno 1447, la qual si trova intera nel grande Archivio. Le altre si fecero ne' tempi de' Re suoi successori, e la seconda fu fatta nel 1472, la terza nell'anno 1489, la quarta, che non fu compita, si fece nel 1508, la quinta nel 1522, la sesta nel 1532, la settima nel 1545, e l'ottava nel 1561, le quali si trovano, ancor che alcune non intere, nel grande Archivio. Seguirono da poi le altre, che si conservano presso i Razionali, cioè degli anni 1595, 1642, 1648 e 1699 ch'è l'ultima, che ora abbiamo[451]. Oltre di questi pagamenti ordinari, che ad esempio d'Alfonso furon da' suoi successori da tempo in tempo sempre accresciuti, tiene il Re moltissimi altri fonti perenni, onde riscuote dalla città di Napoli, dalle province e Baroni grandissime entrate, delle quali il Mazzella tessè lungo catalogo; le quali, ora dopo un secolo che lo scrisse, sono cresciute in immenso; ma in gran parte dalla Corona distratte ed alienate, avendo gli Spagnuoli invogliati i Nazionali istessi a comprarsi le proprio catene, perchè non potessero mai disciorsene.
CAPITOLO VII. Alfonso accrebbe il numero de' Titoli e de' Baroni, a' quali diede la giurisdizion criminale. Sua morte, e leggi che ci lasciò.
Rese Alfonso più di quel, che era, il Regno assai numeroso di Baroni e di Titolati. Prima non vi erano, che due Principi, quel di Taranto e di Salerno, e poi s'aggiunse quello di Rossano; cinque Duchi, e pochi Marchesi; de' Conti ve n'era qualche numero e più di Baroni; ma Alfonso gli accrebbe al doppio, siccome dice il Summonte[452], e si vede dal catalogo che ne fece. In alcuni Seggi di Napoli non vi eran Titolati, ed i primi furono al seggio di Nido il Conte di Borrello ed il Conte di Bucchianico della famiglia Alagna. Questi furono due fratelli della famosa Lucrezia d'Alagno figliuola d'un Gentiluomo di Nido, la quale fu amata tanto da Alfonso, che avea tentato di aver da Roma dispensa di ripudiare la moglie, che era sorella del Re di Castiglia, per pigliar costei per moglie; e tra le altre cose notabili, che fece per lei, subito che l'ebbe a' suoi piaceri, fece questi due fratelli l'un Conte di Borrello e Gran Cancelliere, e l'altro Conte di Bucchianico: e scrive Tristano Caracciolo nel libro De varietate fortunae, rapportato dal Costanzo[453], che questi furono i primi Titolati del seggio di Nido.
Ma quello di che non s'ebbero molto da lodare i secoli seguenti, fu d'aver Alfonso conceduto a' Baroni il mero e misto impero. Avendo questo Principe per la sua sterminata liberalità resi esausti tutti gli altri fonti, cominciò ad esser profuso anche delle più supreme regalie, che non doveano a verun patto divellersi dalla sua Corona, quando i Re suoi predecessori erano stati di ciò cotanto gelosi, che il Re Carlo I d'Angiò avendo donato al suo figliuolo unigenito la città di Salerno, col titolo di Principe, con alcune altre città e terre d'intorno, gli concedè sopra quelle solamente la giurisdizione civile, e solo in Salerno per quanto si distendeva il circuito delle sue mura e non oltre, gli concedè la giurisdizione criminale[454]; e gli altri Re, siccome s'è veduto ne' precedenti libri, molto di rado, e solo in premio d'una eminente virtù a qualche loro benemerito ed a qualche segnalato Barone, solevano concederla; ond'era, che le concessioni ed investiture, fatte prima che regnasse Alfonso, non abbracciavano la giurisdizione criminale, essendo delle cose eccettuate e riservate; poichè l'uso di que' tempi era, che i Feudatari, che possedevano Terre con vassalli, non potevano esercitare, se non quella bassa ed infima giurisdizione indrizzata a sedar le liti e le discordie, che sogliono nascere tra gli abitatori de' luoghi; e perciò i Baroni ed i Feudatari, non eleggevano se non Camerlenghi annuali, i quali esercitavano giurisdizione in conoscere e giudicare di quelle brevi liti e cause sommarie[455]: poichè la G. C. esercitava la giurisdizione sopra tutti i luoghi e Terre del Regno. E la ragione era, perchè, siccome fu saviamente considerato dal Consigliere Giuseppe di Rosa nostro acutissimo Giureconsulto[456], nelle città e Terre con vassalli, era solamente quella giurisdizione, che infima si chiama e che, secondo il diritto de' Romani, s'amministrava da' minori Magistrati, che si chiamavano Defensores, e consisteva nella cognizione delle Cause civili: in luogo de' quali, secondo notò Andrea d'Isernia[457], nel nostro Regno succederon poi i Baglivi de' luoghi, i quali conoscevano delle cause civili, dei furti minimi, de' danni, de' pesi e misure, e d'altre cause leggiere e di picciolo momento[458]; ma le cose più gravi e massimamente quelle, che risguardavano il mero imperio e la giurisdizion criminale, s'appartenevano, secondo il diritto de' Romani, a' Presidi delle province, in luogo de' quali nel nostro Regno furono, come si è veduto ne' precedenti libri, costituiti i Giustizieri[459], che ora pur Presidi appelliamo, da' quali per via d'appellazione si riportavano alla G. C. della Vicaria, Tribunale supremo sopra tutti i Giustizierati del Regno. Così le investiture, che prima d'Alfonso eran concedute a' Baroni delle città e Terre con vassalli, abbracciavan solo quell'infima giurisdizione come a loro coerente e da esse inseparabile, e non il mero imperio e la giurisdizion criminale, che non poteva dirsi alle medesime coerente, siccome quella, che non da' proprj Magistrati, ma da' Presidi prima soleva esercitarsi, e da poi non da' Baglivi de' luoghi, ma da' Giustizieri delle province.
Ne' tempi d'Alfonso e degli altri Re aragonesi suoi successori, cominciò a porsi in uso nell'investiture de' Feudi la concessione della giurisdizion criminale[460] e delle quattro lettere arbitrarie ancora, come fu da noi altrove rapportato. Quindi in decorso di tempo fu veduto quel che ancor oggi si vede, che qualunque, benchè picciol Barone, abbia ne' suoi Feudi il mero e misto imperio, con non picciol detrimento delle regalie del Re, e danno de' suoi sudditi. Ben Carlo VIII Re di Francia, in que' pochi mesi che vi regnò, pensò di toglierlo affatto a' Baroni, con ridurgli all'uso di Francia[461]; ma il poco tempo, che vi ebbe, e per le difficoltà che s'incontravano, non potè mettere in esecuzione questo suo disegno; molto meno oggi è ciò da sperare, che il male è antico, e che senza grandi ravvolgimenti e scompigli non potrebbe ridursi ad effetto.
Dopo avere questo Principe in cotal guisa riordinato il Regno, ancor che negli ultimi suoi anni si fosse rinovata la guerra co' Fiorentini, ed ultimamente per non aver voluto far restituire alcune navi predate dai suoi legni a' Genovesi, se gli avesse resi nemici; nulladimanco invilito negli amori di Lucrezia d'Alagno proccurò tosto pace co' primi, nè molto curò de' secondi, ed attese il rimanente tempo di sua vita in cacce, conviti, giostre ed altri piaceri; e mentre era già vecchio, il Duca di Milano mandò Ambasciadori a trattare doppio matrimonio con la sua casa regale, perchè dubitava molto, che il Re di Francia non pigliasse a favorire il Duca d'Orleans, che pretendeva, che il Ducato di Milano toccasse a lui per esser figlio di Valentina Visconte legittima sorella del Duca Filippo[462]; ed in tal caso gli parea di non potere avere più fedele ajuto che da Alfonso, il quale avea sempre in sospetto Re Renato, che ancor teneva in Italia molte pratiche. Così in breve fu conchiuso matrimonio doppio, ed Ippolita Maria figliuola del Duca fu data per moglie ad Alfonso primogenito del Duca di Calabria; e Lionora figliuola del Duca di Calabria fu promessa a Sforza figliuolo terzogenito del Duca di Milano, e tanto gli sposi, come le spose, non passavano l'età di otto anni.
Successe in questo anno 1455 la morte di Papa Niccolò V, e dopo 14 dì, che vacò la Sede Appostolica, fu nel mese d'aprile eletto in suo luogo il Cardinal di Valenza Alfonso Borgia, che, come si disse, era stato molti anni caro al Re Alfonso e suo intimo Consigliere, che Calisto III nomossi. Costui, benchè fosse d'età decrepita, fece gran disegno di fare cose che avrebbono ricercata un'età intera d'un uomo. Come suole avvenire che i più confidenti ai Principi, quando sono elevati al Papato, sogliono divenire i più fieri loro nemici; così Calisto assunto al trono cominciò a pensar nuove cose, e ad opporsi ai disegni d'Alfonso: e non piacendogli questo nuovo parentado conchiuso col Duca di Milano, fece ogni sforzo per disturbare le nozze; ma Alfonso, avendo conosciuto l'animo del Papa, tanto più lo sollecitava: onde nel principio dell'anno seguente 1456 furono solennemente celebrate, ed Elionora fu condotta a Milano al suo sposo Sforza.
A questi tempi medesimi Giovanni Re di Navarra, fratello secondogenito del Re Alfonso, stava in gran discordia con D. Carlo suo figliuolo primogenito che s'intitolava Principe di Viana; e la cagione della discordia era, perchè il Regno di Navarra era stato dotale della madre del Principe ch'era già morta, ed il Re Giovanni avea tolta per seconda moglie la figliuola dell'Ammirante di Castiglia. Il Principe non poteva soffrire di vedere la Regina sua matrigna sedere, dove avea veduta sua madre, ed esso vivere privatamente; perchè la matrigna s'era in tal modo fatta Signora del marito, già vecchio, che tanto nel Regno di Navarra, quanto in Aragona, dove il padre era Vicerè, non si faceva altro che quel che volea la matrigna, e per questo avea tentato nel Regno di Navarra farsi gridare Re, perchè era molto amato per le virtù sue e per la memoria della madre, Regina naturale di quel Regno. Il disegno non gli riuscì, onde venne ad accostarsi col Re Alfonso suo zio, il quale gli costituì dodicimila ducati l'anno pel vivere suo; ma perchè vedeva ch'era di corpo bellissimo e di costumi amabili ed atto ad acquistare benevolenza, non gli piaceva che dimorasse molto in Napoli; ma lo mandò al Papa a pregarlo, che pigliasse assunto di ridurlo in concordia col padre. Il Principe andò, ed il Papa lo ricevè con gusto, e gli diede trattenimento da vivere; ma poichè vide che Calisto per l'età decrepita era tardo a trattare la riconciliazione sua col padre, e che Re Alfonso era assai declinato di salute, e non potea molto vivere, si fermò in Roma, con speranza che i Baroni del Regno che stavano mal soddisfatti delle condizioni del Duca di Calabria, chiamassero lui per Re dopo la morte di Alfonso. Intanto Alfonso ne' principj di maggio di quest'anno 1458 cominciò ad ammalarsi, e peggiorando tuttavia, s'incominciò a pubblicare che il suo male era pericoloso, di che avvisato il Principe di Viana venne tosto da Roma a visitarlo, ciò che rese più travagliato il fine di così gran Re; perchè giunto il Principe a Napoli tre giorni avanti che morisse, essendo già disperato da' Medici, gli raddoppiò l'agonìa della morte, sapendo ch'era venuto per tentare d'occupar Napoli; e perchè conosceva che morendo al Castel Nuovo, donde non potea cacciare il Principe, avria potuto il Castellano più tosto ubbidire al Principe, che al Duca di Calabria massimamente essendo la guardia del Castello tutta di Catalani che restavano vassalli del Re Giovanni, il qual avea da succedere ne' Regni d'Aragona e di Sicilia; fece subito dire ch'era migliorato, e che i medici lodavano che si facesse portare al Castello dell'Uovo per la miglioranza dell'aria, il che s'eseguì subito, lasciando al Duca di Calabria la cura di guardarsi il Castel Nuovo; e da poi giunto al Castello dell'Uovo il dì seguente morì a' 27 giugno di quest'anno 1458, essendo giunto all'anno 64 di sua vita[463].
Questo fu il fine di sì gran Re; Principe celebratissimo per infinite virtù che l'adornavano, e sopra tutto per liberalità e magnificenza. Egli liberalissimo arricchì molti con preziosi doni, ed ingrandì altri assai, donando loro grandissimi Stati. Fu magnificentissimo nel dare al Popolo spettacoli, ne' quali si sforzò di emulare la magnificenza de' Romani, come si vide quando ricevè in Napoli Federico III, designato Imperadore e Lionora figliuola del Re di Portogallo, e di sua sorella, che dovea sposarsi con Federico.
(Il matrimonio tra Federico III e Lionora, fu trattato in Napoli da Alfonso suo zio, da' Legati mandati dal Re di Portogallo e da Enea Silvio Piccolomini, poi Papa Pio II, dove dopo quaranta giorni fu conchiuso; siccome narra Gobellino, lib. 1, p. 16. Quam rem, e' dice, diebus quadraginta tractatam, cum denique conclusissent coram Rege, Cardinale Morinensi Apostolico Legato, Clivensi, Calabriae, Suesae, Silesiaeque Ducibus, et Magna Praelatorum, Comitumque multitudine, in Curia Novi Castri Neapolitani; Aeneas Sylvius de Nobilitate, virtuteque contrahentium orationem habuit, quae postmodum a multis transcripta est. Lo stesso narra Nauclero pag. 1056 e Fugger. lib. 5, c. 7, n. 1. Anzi Enea Silvio stesso Hist. Friderici p. 82 rapporta che, dopo i travagliosi viaggi della sposa, accolta da Alfonso in Napoli, nella dimora, che quivi fecero gli sposi, fu il matrimonio consumato, siccome scrisse anche Struvio Syntag. Hist. Germ. Diss., 30, § 22. Invitatus inde ab Alphonso Siciliae Rege cum nova nupta, et reliquo comitatu suo Neapolim venit, ubi matrimonium demum fuit consummatum ).
Si conobbe ancora Re Alfonso nelle alte gran feste, cacce, giostre e conviti, dando spesso diletto al Popolo napoletano vaghissimo di simili divertimenti. Tenne il palazzo abbondantissimo di tappezzerie di lavoro d'oro e d'argento, e d'arredi ricchissimi e preziosi. Splendidissimo ancora negli edificj, onde adornò Napoli a pari di qualunque altra illustre città del Mondo: fece ingrandire il molo grande, e diede principio alla gran sala del Castel Nuovo, che senza dubbio è delle stupende macchine moderne che sia in tutta Italia: fortificò il castello con quelle altissime torri che ora s'ammirano: fece ampliare l'Arsenale di Napoli, la Grotta onde da Napoli vassi a Pozzuoli, e fece un fondaco reale e molti altri edificj per diversi usi.
La sua morte fu amaramente pianta da' Napoletani, come quella che non solo gli privò di tante grandezze e felicità, e che disturbò la pace del Regno; ma che poi dovea recar loro una lunga guerra, e porgli in nuove calamità e disordini. Non abbastanza compianto, fu il suo cadavere, con funerale superbissimo, rinchiuso dentro un forziere che rimase in deposito nel Castello dove morì; e benchè nel suo testamento avesse ordinato che fosse portato alla Chiesa di S. Pietro Martire, e di là quanto prima si mandasse in Ispagna al monastero di Santa Maria a Pobleto, ove sono sepolti gli antichi Re d'Aragona; nulladimeno restò il suo deposito in Napoli, ov'era additato da' Padri Domenicani nella Sagrestia della lor chiesa di S. Domenico Maggiore di questa città con molti segni di stima e di venerazione.
Non avendo avuti figliuoli dalla Regina Maria, figliuola d'Errico III Re di Castiglia, nel suo testamento, che fece il dì avanti di morire, istituì e nominò per successore nel Regno di Napoli D. Ferdinando Duca di Calabria suo figliuolo naturale, legittimato; e ne' Regni della Corona d'Aragona e di Sicilia D. Giovanni Re di Navarra suo fratello secondogenito e suoi discendenti, conforme avea anche disposto nel suo testamento D. Ferrante suo padre, che si conservava nell'Archivio reale di Barcellona, donde prima di morire avea voluto Alfonso che se gliene inviasse copia; ed ordinò in quello molti legati indrizzati ad opere di pietà[464]. Narra S. Antonino Arcivescovo di Fiorenza, che prima di morire non lasciava di ricordare al Duca di Calabria, ch'egli gli lasciava il Regno di Napoli, ma che per potervi quietamente regnare, bisognava che tenesse lontani, e s'alienasse da tutti gli Aragonesi o Catalani ch'egli avea esaltati, e che in lor vece si servisse d'Italiani e di questi componesse la sua Corte, e principalmente amasse quelli del Regno, a' quali conferisse gli ufficj e non gli riguardasse, come faceva, di mal viso e come sospetti. Che egli conosceva avere gravato il Regno con nuove gravezze ed esazioni, alterando anche le antiche, e ch'eran tante che i Popoli non potevano sopportarle: che però l'ammoniva che le levasse tutte e le riducesse all'usanza antica. E finalmente che coltivasse la pace, nella quale egli l'avea lasciato colle Repubbliche e Principi d'Italia, e sopra tutto si tenesse amici i Pontefici romani, da' quali in gran parte dependeva la conservazione o la perdita del suo Regno: soffrisse con pazienza il lor fasto ed alterezza, e loro si mostrasse per non isdegnarli, sempre umile e riverente, perchè egli non avea conosciuti altri mezzi per rintuzzare la loro ambizione.
( St. Antonino in Chron. part. 3, tit. 22, cap. 16 ad A. 1458 scrisse così: Rex vero Aragonum graviter infirmatus Neapoli in fine mensis Junii ejusdem anni diem clausit extremum; qui ante mortem Ferdinandum filium suum, etsi illegitimum, jam uxoratum, et filios habentem, dimisit haeredem, et Regni Apuliae successorem, cum maximo thesauro congregato. Quem etiam ut regnare posset quietius, et obstacula non haberet, admonuit, ut viam, quam in Regno tenuerat, non sequeretur in tribus, sed oppositum. Prima quidem, ut omnes Aragonenses et Cathalanos, quos ipse exaltaverat; et totum se eis crediderat, exosos hominibus, a se abjiceret, et in curia sua Italicos, et praecipue Regnicolas, diligere ostenderet, et ad officia promoveret, quos tamen ipse, ut suspectos non laeta facie respiciebat. Secundo, ut nova gravamina et exactiones, quas instituerat, et antiqua auxerat, quae tanta erant, ut homines respirare non possent, omnia removeret, et ad morem antiquum deduceret. Nimiae enim fuerunt extorsiones ejus ab hominibus Regni, et (ut de caeteris taccam) beneficia vacantia etiam minora nullus obtinere valebat in curia, nisi prius manus Regis implesset et quantitate non modica. Tertio ut pacem confectam per se cum Ecclesia, et aliis communitatibus, et Principatibus ipse servaret, nec a pacis foederibus declinaret ).
Re Alfonso, oltre d'averci lasciate tante illustri memorie, e tanti buoni istituti e nuove riforme, ci lasciò anche alcune leggi. Secondo che narrano alcuni Autori, questo Principe dopo tante e sì lunghe guerre, che sostenne in vita della Regina Giovanna II, e dopo la costei morte con Renato suo competitore, avendo finalmente trionfato de' suoi nemici, resosi pacifico possessore del Regno, pose tutto il suo studio a riordinarlo ed a dargli ristoro de' passati danni e disordini che le succedute guerre aveanvi recati. Stabilì pertanto molte Costituzioni, cominciando dall'erezione del Tribunale del S. C. alle quali da poi molte altre ne aggiunse. Queste Costituzioni, che, come dice Toppi[465], prima si vedeano in Napoli, ora non l'abbiamo, ma per sinistro fato si sono perdute. Ne sono solamente a noi rimase alcune che ora si leggono sparse ne' registri del G. Archivio e ne' volumi delle nostre Prammatiche[466]. La prima si legge sotto il titolo de Possessoribus non turbandis, che in altre edizioni porta questa epigrafe: Edictum Pentimae Gloriosissimi, et Divi Alphonsi Regis clementissimi. Fu questo editto promulgato da Alfonso nel secondo anno del suo pacifico Regno nel 1443, dopo finita la guerra con Renato, per cui comandò, che per la preceduta guerra, essendo insorte molte liti fra suoi sudditi intorno al possesso de' loro feudi e beni, non si turbassero i possessori, ma che si lasciassero possedere come si trovavano, nè i Giudici si proccurassero commessioni di queste cause, senza consultarne prima lui. Nè procedessero in quelle, se non precedente sua commessione. Ciò che fu steso anche nelle moratorie prima a' medesimi possessori concedute[467]. Fu questa legge data nel campo di Pentima, luogo posto in Apruzzo presso Sulmona[468].
Un'altra consimile, ch'estratta dal registro de' Capitoli d'Alfonso, si vede anche impressa nelle nostre prammatiche[469] fu da questo Re stabilita nel 1446 nel Mazzone delle rose presso lo Spedaletto, non molto da Capua lontano; e letta e pubblicata con gli altri capitoli nel castel Capuano, dove ordinò che non dovessero inquietarsi coloro, che innanzi la morte del Re Ladislao aveano continuamente per se e per loro legittimi antecessori posseduto e possedevano terre, castelli ed altri beni; nè astringersi a portare originalmente i loro titoli, e vedere ed esaminare i loro antichi diritti, che sarebbe sovvertire diversi stati e condizioni di molti nel Regno; della qual legge fu anche ricordevole Capece nelle suo decisioni[470]. La prammatica 2 che leggiamo sotto il tit. de Off. S. C. pure fu d'Alfonso, non di Ferdinando, come si è detto.
L'altra[471] che parimente si legge nelle nostre prammatiche è quella notissima che tratta de' censi, nella quale Alfonso inserì la Bolla di Niccolò V, stabilita a sua richiesta dal medesimo per li suoi Regni, in Roma nel 1451, per regolare i censi. Questo Re per mezzo di tal prammatica confermò la Bolla, e volle che ne' suoi Regni avesse forza e vigore non meno che le altre sue leggi e statuti, aggiungendo altri suoi ordinamenti intorno alla validità e modo da tenersi nella costituzione de' censi suddetti. Fu questa statuita nella Torre del Greco, ove il Re dimorava negli ultimi anni di sua vita per avere più dappresso la sua Lucrezia d'Alagno, e porta la data de' 20 ottobre dell'anno 1451. Altri editti, privilegi e diplomi d'Alfonso si veggono ne' suoi registri nel Gran Archivio, de' quali alcuni, secondo il soggetto, che aveano per le mani, furono impressi nelle loro opere da diversi Autori: molti ne fece imprimere Toppi nei suoi tomi dell'Origine de' Tribunali: alcuni altri, gli Reggenti Moles, Tappia, Galeota ed altri moltissimi: ma i riferiti, come posti nel corpo delle prammatiche hanno fra noi forza e vigor di legge: degli altri può aversene buon uso, per quanto conduce all'istoria dei tempi, all'istituzione de' Tribunali, alle riforme dei medesimi e per illustrazione dell'altre sue leggi ed editti.
FINE DEL VOLUME SESTO.
TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI NEL TOMO SESTO
LIBRO VENTESIMOSECONDO pag. 5
Cap. I. L'Imperador Errico VII collegato col Re di Sicilia muove guerra al Re Roberto, e facendo risorgere l'antiche ragioni dell'Imperio, con sua sentenza lo priva del Regno; ma tosto lui morto, svanisce ogni impresa; e si rinova la guerra in Sicilia 12
Cap. II. L'Imperador Lodovico Bavaro cala in Roma; e muove guerra al Re Roberto. Il Duca di Calabria si muore, onde s'affrettano le nozze di Giovanna sua figliuola con Andrea secondogenito del Re d'Ungheria 19
Cap. III. Si rinova la guerra in Sicilia; ma s'interrompe per la morte del Re Roberto 25
Cap. IV. De Conservatorj Regj 30
Cap. V. Delle quattro lettere Arbitrarie 42
Cap. VI. De' Riti della Regia Camera 52
Cap. VII. Degli uomini illustri per lettere, che fiorirono sotto Roberto, e sotto la Regina Giovanna sua nipote 64
Cap. VIII. Politia Ecclesiastica del XIV secolo per quel tempo, che i Papi tennero la loro sede in Avignone, insino allo scisma de' Papi di Roma e d'Avignone 89
§. I. Traslazione della Sede Appostolica in Avignone 95
§. II. De' Nunzj, ovvero Collettori Appostolici residenti in Napoli 106
§. III. Delle Compilazioni delle Clementine, e delle Estravaganti 110
LIBRO VENTESIMOTERZO 113
Cap. I. Seconde nozze della Regina Giovanna con Luigi di Taranto. Il Re d'Ungheria invade il Regno, e costringe la Regina a fuggirsene, ed a ricovrarsi in Avignone: vi ritorna da poi, e coll'aiuto e mediazione del Papa ottiene dall'Ungaro la pace 121
Cap. II. Spedizione del Re Luigi di Taranto in Sicilia: pace indi seguita, e sua morte 131
Cap. III. Altre nozze della Regina Giovanna, e ribellione del Duca d'Andria 143
Cap. IV. Dello Scisma de' Papi di Roma, e quelli d'Avignone 150
Cap. V. Carlo Di Durazzo è coronato Re da Papa Urbano, che depose la Regina Giovanna, la quale adottossi per figliuolo Luigi d'Angiò, fratello di Carlo V Re di Francia. Invade Carlo il Regno, vince Ottone, e fa prigioniera la Regina, fatta poi da lui morire 163
LIBRO VENTESIMOQUARTO 183
Cap. I. Origine della discordia tra Papa Urbano e Re Carlo. Entrata nel Regno di Luigi I d'Angiò, e sua morte. Carlo assedia in Nocera Urbano, il quale coll'aiuto de' Genovesi e di Ramondello Orsino e di Tommaso Sanseverino, scampa, e fugge a Roma ivi
Cap. II. Re Carlo è invitato al trono d'Ungheria. Sua elezione ed incoronazione a quel Regno, e sua morte 197
Cap. III. Di Re Ladislao, e sua acclamazione. Nuovo Magistrato istituito in Napoli. Guerre sostenute col Re Luigi II d'Angiò competitore di Ladislao 209
Cap. IV. Nozze tra il Re Ladislao e la figliuola di Manfredi di Chiaramonte. Morte d'Urbano, elezione in suo luogo di Bonifacio IX e venuta del Re Luigi II in Napoli 220
Cap. V. Divorzio del Re Ladislao colla Regina Costanza, e suoi progressi nell'impresa del Regno, che finalmente ritorna sotto il suo dominio 230
Cap. VI. Nozze di Ladislao, prima con Maria sorella del Re di Cipro, e poi con la Principessa di Taranto: sua spedizione nel Regno d'Ungheria, ch'ebbe infelice successo 240
§. I. Spedizione del Re Ladislao sopra Roma 244
§. II. Concilio convocato a Pisa per torre lo Scisma, ch'ebbe infelice successo 248
Cap. VII. Ritorno del Re Luigi II nel Regno per gl'inviti di Papa Alessandro, il quale scomunicò e depose Ladislao, dandone nuova investitura a Luigi 253
Cap. VIII. Re Ladislao tenta nuove imprese in Italia: sua morte, sue virtù e suoi vizj; ed in che stato lasciasse il Regno alla Regina Giovanna II sua sorella ed erede 258
LIBRO VENTESIMOQUINTO 269
Cap. I. Nozze della Regina Giovanna II col Conte Giacomo della Marcia de' Reali di Francia 272
Cap. II. Prigionia del Re Giacomo; sua liberazione per la mediazione di Martino V eletto Papa dal Concilio di Costanza; sua fuga e ritirata in Francia, dove si fece Monaco, ed incoronazione della Regina Giovanna 282
Cap. III. Spedizione di Luigi III d'Angiò sopra il Regno per gl'inviti fattigli da Sforza. Ricorso della Regina Giovanna ad Alfonso V Re d'Aragona, e sua adozione; e guerra indi seguìta tra Luigi ed Alfonso 294
Cap. IV. Discordie tra Alfonso e la Regina Giovanna, la quale rivoca l'adozione fattagli, e adotta Luigi per suo figliuolo 305
Cap. V. Alfonso parte da Napoli, e va in Ispagna; e Napoli si rende alla Regina Giovanna. Insolenze del G. Siniscalco, sua ambizione, ed infelice morte 313
Cap. VI. Re Alfonso tenta rientrare nella grazia della Regina, ma invano. Nozze di Re Luigi con Margarita figliuola del Duca di Savoja; sua morte, seguita poco da poi da quella della Regina Giovanna 324
Cap. VII. Politia del Regno sotto i governadori deputati da Giovanna. Governo che da poi vi tenne la Regina Isabella moglie e Vicaria di Renato d'Angiò. Guerre sostenute da costui col Re Alfonso; da cui in fine fu costretto ad uscirne ed abbandonare il Regno 328
Cap. VIII. De' Riti della Gran Corte della Vicaria; e de' Giureconsulti, che fiorirono nel Regno di Giovanna II e di Renato; e da' quali fosse compilata la famosa Prammatica nominata la Filingiera 340
§. I. De' Giureconsulti di questi tempi, e dai quali fu compilata la Prammatica detta la Filingiera 348
Cap. IX. Istituzione del Collegio de' Dottori in Napoli 351
Cap. X. Politia delle nostre Chiese durante il tempo dello Scisma, insino al Regno degli Aragonesi 357
§. I. Monaci e beni temporali 367
LIBRO VENTESIMOSESTO 372
Cap. I. De' Capitoli e Privilegj della Città e Regno di Napoli e suoi Baroni 375
Cap. II. Successione del Regno dichiarata per la persona di Ferdinando d'Aragona figliuolo d'Alfonso. Pace conchiusa col Pontefice Eugenio IV, da cui vengono investiti del Regno 378
Cap. III. Nozze tra Ferdinando Duca di Calabria con Isabella di Chiaramonte nipote del Principe di Taranto. Morte del Papa Eugenio, ed elezione in suo luogo del Cardinal di Bologna chiamato Niccolò V, che conferma ad Alfonso quanto gli avea conceduto il suo predecessore Eugenio 390
Cap. IV. Origine, ed istituzione del Tribunale del S. C. di S. Chiara, ora detto di Capuana 395
§. I. Del luogo ove fu questo Tribunale eretto: della dignità e condizione delle persone, che lo componevano e del lor numero; e come fosse cresciuto tanto, che in conseguenza portò la moltiplicazion delle quattro Ruote, delle quali oggi è composto 403
Cap. V. Alfonso riordina il Tribunal della Regia Camera, e come si fosse riunito col Tribunale della Regia Zecca retto da M. Razionali 421
Cap. VI. Disposizione e numero delle province del Regno sotto Alfonso, ed in che modo si fossero dalla Regia Camera amministrate; e come fossero numerati i fuochi di ciascuna Città e Terra, che le compongono 431
Cap. VII. Alfonso accrebbe il numero de' Titoli e de' Baroni, a' quali diede la giurisdizion criminale. Sua morte e leggi che ci lasciò 451
FINE DELL'INDICE.
NOTE:
1 . Tiraq. qu. 40 n. 167 tract. de primogen. 2 . Affl. in tit. de Success. Feud. et decis. 119 n. 3. 3 . Hist. de Samnio. lib. 4 cap. 23. 4 . Costanzo lib. 5. 5 . Costanzo lib. 5. 6 . Chioccar. in M. S. giurisd. tom. 1. 7 . Scip. Ammirato ne' Ritratti, pag. 292. 8 . Archiv. lib. 1 lit. H. ann. 1309. Indict. 7 fol. 1. Summont. l. 3 pag. 370 tom. 2. 9 . Baluz. Vitae Papar. Aven. tom. 1 cap. 15, 34, 70, 104. 10 . Scip. Ammir. ne' Ritratti, pag. 292. 11 . Ursino de sucess. feud. pag. 1 qu. 5 art. 1 num. 19, 22. 12 . V. Baluz. loc. cit. Sabell l. 7. Ennead Costan. l. 5. 13 . Baldo in l. cum in antiqu. Cod. de jur. delib. 14 . Bartolo in Auth. post fratres, Cod. de legit. haered. 15 . Cin. in l. si viva matre, C. de bon. mater. 16 . Baldo nella l. liberti libertaeq. C. de oper. lib. num. 25. 17 . Baldo in l. cum in antiquiorib. C. de jur. delib. 18 . Bzovio ann. 1355. Ann. Eccl. 19 . Chiocc. t. 1. M. S. reg. jurisd. 20 . Cujac. de Feud. lib. 2 tit. 11. 21 . Ottom. quaest. illust. qu. 3. 22 . Mariana lib. 13. Hist. Hisp. cap. 9 in fir. et lib. 14 cap. 8. 23 . Arnis. t. 1 cap. 2 sect. 10. 24 . Nigris in Comment. ad capit. Rober. incip. privilegia, cap. 1. 25 . Costanzo lib. 5. Engen. Nap. Sacr. di S. Chiara. 26 . Giannettas Hist. Neap. l. 2. 27 . Ammirat. Ritratti pag. 302. 28 . Ammirato: Ritratti, pag. 292. Baluz. Vitae Papar. Aven. tom. 1 pag. 18, 21, 44, 45, 48. 29 . Baluz. loc. cit. pag. 48, 93. 30 . Baluz. pag. 51. 31 . Alberic. in l. quisquis, num. 11, C. ad L. Jul. Majest. 32 . Tom. 2 p. 1035. 33 . Baluz. pag. 21, 53, 94, 614. 34 . Clement. pastoralis, de sent. et re judic. 35 . Baluz. Vitae Papar. Aven. tom. 2 p. 478 dove porta quest'appellazione. 36 . Costanzo l. 5. 37 . V. Baluz. l. c. tom. 2 p. 512, 522. 38 . Ammir. Ritrat. pag. 298. 39 . Baldo in l. si viva matre, C de bonis mater. V. Ammirat. Ritratti pag. 299. 40 . Frossardo nel lib. 2 della sua Istor. prende molti abbagli in narrando questo casamento di Giovanna. 41 . Cap. Robertus, etc. Ad Regale fastigium. Sane in Adjutorio nostro inculcatione frequenti lata plurium querela perstrepuit, et clamor validus tumultuosa quadam vociferatione perduxit, quod Praelati Regni nostri Siciliae, Hospitalarii, Monachi, aliique Clerici, etc. 42 . In notis ad dictum cap. in princ. 43 . Bottis ad d. capit. 44 . Lucas de Penna in not. ad cap. ad regale fastigium. 45 . Calà de Praemin. M. C. V. cap. 2. 46 . Tit. de tormentis, fol. 27. 47 . P. Vinc. ann. 1352 p. 90. 48 . Constitut. Ea quae ad speciale decus. Franc. de Amic. de his qui feud. dar. poss. in c. sumus modo, fol. 43 numer. 2. Rosa in praelud. feud. lect. 11 numer. 10. 49 . Andr. in Constit. locor. Bajuli. 50 . Constitut. locor. Bajuli, et ad officium Bajuli. 51 . Constit. Justitiarii nomen, et normam. Constit. Justitiarii per Provincias. Constitut. Praesides, et Constit. Capitaneorum. 52 . Freccia de subfeud. l. 2, auth. 2 num. 21. 53 . Affl. in Constitut. contingit 3 notab. et in Constit. ea quae ad speciale decus 4 notab. 54 . Gramat. voto 28. 55 . Caravita ritu 49. 56 . Franchis decis. 510 nu. 4 et decis. 370 num. 2. 57 . Franc. de Amic. ad tit. de his, qui feud. dar. pos. fol. 43 n. 8. 58 . Capecelatr. cons. 41 num. 10. 59 . Capibl. de Baron. prag. 8 par. 1 n. 63 et 84. 60 . Costanzo lib. 6. 61 . Costanzo Hist. lib. 12 in fin. 62 . Pragm. In sperata delictorum venia pragm. Et quia, etc. 63 . Pragm. mandamus etiam. 64 . Andr. in Constit. quanto caeteris, de decimis. 65 . Rit. 1 de decimis, etc. 66 . Andr. Constit. quanto de caeteris, de decimis. 67 . Rit. 2. R. Cam. de decimis. 68 . V. Chioccar. de Archiep. Neap. ann. 1288 pag. 188. 69 . L. fin. C. si propter pubblicas pensitationes. 70 . Auctor, Anonym. in notis Rit. R. C. rub. 36. 71 . Rit. 18. 72 . Luc. de Penna in l. si tempora. C de fid. instrum. et host. fisc. lib. 10. 73 . Goffred. de Gaeta de jure Dohanae, n. 179 et 181 et in rubr. de non positis, aut subtract. in quater. etc. num. 2. 74 . Lipar. in vita Andr. vers. Invenimus etiam Andream compilasse, etc. 75 . Auth. in annot. ad rubr. 1. 76 . Rov. it. decis. 18 n. 4. Galeot. resp. Fiscal. 15 num 5. Philippis diss. Fiscal. 1 n. 147. 77 . Annot. in rub. ult. de jure Falangae. 78 . Villan. lib. 11 hist. et lib. 12. 79 . Petrar. rer. memor. lib. 23. 80 . Boccac. in Genealog. Deor. lib. 14 cap. 9 et 22 et lib. 15 c. 13. 81 . Petrarc. Rer. memorand. lib. 2. Sacrar. Scripturar. peritissimus: Philosophiae charissimus alumnus. 82 . Costanz. lib. 6. 83 . Alacci de Eccl. Occid. etc. lib. 2. cap. 17. 84 . V. Alacci l. c. V. Nicod. in Addit. ad Bibliot. Toppi. 85 . Boccac. Genealog. l. 5 c. 6. Nicod. l. c. 86 . Galat. de Situ Japigiae. 87 . Petrar. l. c. Philosophiae charissimus Alumnus: Orator egregius: incredibili Physicae notitia. 88 . Cap. Robertus, etc. Grande fuit. 89 . Summon. t. 2 l. 3 p. 411. 90 . Costanzo lib. 6. 91 . Boccac. Gen. Deor. lib. 15 cap. 13. 92 . Petrarc. Rer. memor. l. 2. 93 . Boccacc. in Genealog. Deor. l. 14. 94 . Bart. in Auth. Presbyteros, C. de Episc. et Clericis. 95 . Bald. l. properandum in fin. C. de Judiciis. 96 . Pancirol. de Clar. II. interpr. l. 2 c. 48. 97 . Costanzo l. 6. 98 . Caesar. Engen. Nap. Sacra, p. 657. 99 . P. Vincenti de' Protonot. Ciarlanto del Sannio l. 4 c. 29. 100 . Ciarl. del Sannio l. 4 c. 24. 101 . Andreys disp. feud. An fratres, etc. 102 . Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. to. 1 pag. 971. 103 . Boxornius in Monum. vir. illustr. pag. 102. Pancirol. de Cl. inter lib. 2 cap. 67. 104 . Lipar. in vita Andreae. 105 . Arthur. Duck l. 1 cap. 5 § 15. 106 . Andr. in prooem. Constit. 20 col. in fin. 107 . Liparul. in vita Andreae. 108 . V. Liparul. in vita Andreae. 109 . Andreys in disp. feud. cap. I § 6 num. 33, 34. 110 . Affl. in Constit. hostici, Cap. si Comes, aut Baro, numer. 26. 111 . Andr. in Constit. Sancimus, de offic. Magistr. Justitiar. verb. miserabilium, in principio. 112 . Paris de Puteo de Sindicatu, tit. de excessib. Consiliar. in fin. 113 . Afflict. Com. in feud. Quae sint Regalia, § et bona, nu. 43. 114 . Costanzo lib. 6 dice la Porta Petruccia essere stata tra la Chiesa di S. Giorgio de' Genovesi, e l'Ospedale di S. Gioachimo, il qual a' suoi tempi era dirimpetto a quella Chiesa. 115 . Camer. cons. 371 post Cannetium. 116 . Card. de Luca de emphyt. disc. 117 . Toppi in Biblioth. De Jure Prothomiscos, seu de Jure Congrui. Super. auth. habita, ne filius pro patre. Et in primo Codicis. 118 . Alvarot. in praelud. feud. 119 . Loffred. in tit. Si contentio sit inter dom. et agn. § si quis per 30 in fin. fol. 31. 120 . Luc. de Penna in l. unic. C. de his, qui se deferunt, lib. 10. 121 . Vedi Toppi de orig. Trib. pag. 1 lib. 3 cap. 11. 122 . Andreys disp. feud. cap. 1 § 8 num. 41 pag. 45. 123 . Molin. glos. Paris. tit. de feud. in princ. 124 . Costanzo lib. 6. 125 . Camerar. tit an agnat. num. 152. 126 . Pier Vincenti de' Proton. ann. 1352 pag. 90. 127 . Ciarlan. lib. 4 cap. 26. 128 . Freccia de Subfeud. 129 . Conrad Gesnero in Bibliotheca. Autore dell'Indice de' libri legali. V. Toppi in Biblioth. pag. 40. 130 . Viv. decis. 163. 131 . V. Toppi in Biblioth. p. 400. 132 . V. Gesner. in Biblioth. fol. 105. Toppi in Biblioth. fol. 40. 133 . Aguel. Rug. Orat. Literar. Theatrum. 134 . Arthur. Duck de Auth. etc. lib. 1 c. 5 § 15. Struv. de Hist. Jur. Justin. restaur. cap. 5 § 14. 135 . Dant. infer. canto 19. 136 . Simon. Schard. Syntagma Tractatuum, de Imperiali Jurisd. 137 . V. Struvium Hist. Jur Canon, c. 7 § 36. 138 . Lib. XIX cap. ult. n. 3. 139 . V. Chioccar. M. S. giurisd. to. 10. 140 . S. Antonin. par. 3 tit. 21 cap. 1 141 . Baluz. vita PP. Aven. tom. 1 pag. 112. 142 . Blondus Flavius. Anton. Campus l. 3 Hist. Cremon. Odor. Raynald. ann. 1314. 143 . Dant. Infern. cant. 19. 144 . Villan. l. 9 c. 58. 145 . S. Antonin. tit. 21 c. 3 § 21. 146 . Villan. l. 9 c. 79. 147 . V. Struv. Histor. Jur. Can. c. 7 § 28. 148 . V. Baluz. in Notis PP. Aven. t. 1 p. 825. 149 . Vita 8 Bened. XII apud Baluz. t. 1 p. 240. 150 . Vita 7 Bened. XII apud Baluz. l. c. 151 . Questa Bolla si legge presso Baluz. in 5 vita Clement. VI to. 1 p. 312, presso Cornelio Agrippa, ed altrove. 152 . Baluz. in Praefat. ad vitas PP. Aven. 153 . Nicol. de Clemang. cap. 27 de corr. Ecol. statu. 154 . Chiocc. M. S, giurisd. tom. 8. 155 . Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. I p. 796. 156 . Registr. Car. I ad ann. 1275. 157 . Registr. R. Robert. ann. 1311. 158 . Registr. R. Robert. ann. 1335. 159 . Registr. R. Robert ann. 1339. 160 . Rainald. ann. 1253 num. 3 et ann. 1265. 161 . Chioc. M. S. giurisd. tom. 3 de Nuntio Apost. 162 . Tomasin. de benefic. par. 3 lib. 2 cap. 57 n. 5. 163 . Pruove della libertà Gallic. cap. 22 num. 6. Tomasin. loc. cit. 164 . Le parole dell'Editto si leggono nel c. 22 num. 8 delle Pruove della Liber. Galic. 165 . Pruove, etc. n. 22 dove si legge l'Editto di Luigi XI. 166 . Avent. Ann. Bojor, l. 7 c. 15 n. 18. 167 . Bulla Jo. XXII praefixa Clementinis. 168 . Villan. Histor. Flor. l. 9 c. 2. 169 . V. Baluz. in Not. ad Vitas PP. Aven. tom. 1 p. 682 Struv. Hist. Jur. Can. c. 7 § 27. Bonifac. de Amanatis in prooem. Clement. 170 . V. Struv. l. c. § 18. 171 . Cujac. in C. ad audientiam 4 de Spons. et Matr. 172 . Ludov. Gomes. in prooem. Comment. ad Regul. Cancel. 173 . V. Mastricht. Hist. Jur. Can. n. 283. 174 . V. Struv. Hist. Jur. Can. c. 7 § 28 et § 36. 175 . Costanzo lib. 6. 176 . Summonte t. 2 l. 3 pag. 417. Baluz. Notae ad Vitas Papae. Aven. tom. 1 p. 842. 177 . Baluz. loc. cit. 178 . Prima Vita Clem. VI apud Baluz. tom. 1 pag. 246. Sed circa regimen, et administrationem Regni memorati modicum facere potuit, per dictam Joannam jam doli capacem impeditus. 179 . Costanzo lib. 6. 180 . Grammat. decis. 1 n. 27. 181 . Giovanni Villani lib. 12 cap. 50, 78, 98. Matteo Villani lib. 1 cap. 11. Petrarca lib. 6 rer. fam. epist. 6. V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 pag. 860. 182 . Cost. lib. 6. 183 . Tom. 2 pag. 1111. 184 . Tutin. de' M. Giustizieri, fol. 62. V. Baluz. loc. cit. 185 . Prima Vita Clem. VI apud Baluz. tom. 1 pag. 247. Contra alios vero dictus Papa fecit processus, et fulminavit sententias quantum ratio dictabat, et justitia suadebat. 186 . Baluz. tom. 2 Vitae PP. Aven. pag. 689 e 690 rapporta due epistole di Clemente scritte alla Regina, che lo richiese di levar al fonte il parto; ed il Papa commise agli Arcivescovi di Napoli, di Bari e di Brindisi, o altro Prelato ad elezione della Regina di farlo in suo nome, siccome fu tenuto al fonte dal Vescovo Cavillocense Cancelliere di Giovanna. 187 . II. Vita Clem. VII apud Baluz. tom. 1 pag. 271. 188 . II. Vita Clem. apud Baluz. loc. cit. Misericorditer dispensavit, quoniam in secundo consanguinitatis gradu se invicem ex duobus stirpibus contingebant. 189 . II. Vita Clem. apud Baluz. loc. cit. pag. 272. Civitatem Avenionensem, etc. emit a Regina praedicta pretio invicem concordato. 190 . Costanzo lib. 6. 191 . Tom. 2 pag. 182. 192 . Tom. 3 pag. 1119. 193 . Inveges tom. 3. Histor. Paler. 194 . V. Chiocar. de Archiep. Neap. ann. 1359. Ughell. de Archiep. Neap. pag. 195, 196. 195 . Costanzo lib. 7. 196 . Tristan. Caracc. in Geneal. Car. I. Summ. tom. 2 lib. 3, p. 446 e 447. 197 . Summonte tom. 2 lib. 3 pag. 446 et 447. 198 . IV. Vita Urb. V. apud Baluz. tom. 1 pag. 424. 199 . Theodoric. b Niem lib. 1 de Schismate, cap. 6, 6, 34, 65. 200 . Villan. lib. 12 cap. 17. 201 . Theodoric. lib. 1 de Schismate, cap. 9. 202 . V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 pag. 1333. 203 . V. Baluz. loc. cit. pag. 1176 et seqq. 204 . V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 p. 1125. 205 . V. Baluz. loc. cit. et pag. 1124. 206 . Theodor. a Niem de Schism. lib. 1 loc. cit. V. Baluz. loc. cit. pag. 1124 207 . Theodor. lib. 1 cap. 7, 8. 208 . Theodor. a Niem loc. cit. cap. 21. Baluz. loc. cit. pag. 1127. 209 . V. Baluz. loc. cit. pag. 1098, 1207 et 1398. 210 . V. Chioccar. de Archiepisc. Neap. ann. 1378. 211 . V. Chioccar. de Archiep. Neap. ann. 1378. 212 . Vincenti in Teatr. Ugo Sanseverin. 213 . Summonte part. 2 c. 3 pag. 457. 214 . È rapportata da Chioccarel. in M. S. giurisd. tom. 1. 215 . Rainald. ann. 1380 § 4. 216 . Costanzo l. 7. 217 . Tom. 2 p. 1147. 218 . Scip. Ammir. ne' Ritratti parlando della Regina Giovanna Prima. 219 . Chioc. M. S. Giurisd. tom. 1. 220 . Lunig, pag. 1140 e seqq. 221 . Pag. 1146. 222 . Sono rapportati dal Costanzo lib. 7. 223 . V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 pag. 1157. 224 . Felyn. Epito de Regno Apuliae, et Siciliae, c. 2. Grammat. decis. 1 num. 23 et 27. 225 . Angel. cons. 110. 226 . Costan. lib. 7. 227 . Ammirat. nei Ritratti. 228 . Costanzo lib. 7. 229 . Baluz. tom. 1 pag. 1093 et seqq. usq. ad 1104 et pag. 1182 usque ad pag. 1192. 230 . V. Baluz. to. 1 pag. 1278, 1459, 1036, 1101, 1126, 1369 et 1474. 231 . Paul. Aemil. l. 9 de reb. in Gal. gest. Fross. hist. lib. 2. 232 . Paul. Aemil. l. 6 de reb. in Gallia gest. 233 . S. Antonin. par. 3 tit. 22 cap. 2 § 2. 234 . Panorm. in prooem. Decretal. 235 . Zabarell. Tract. de schismate, p. 569. 236 . Cajet. Tract. de auth. Papae, et Conc. cap. 8. 237 . Baluz. in Praefat. ad Vitas Papar. Aven. tom. 2. 238 . Maimburg. Istoria del grande Scisma d'Occidente, l. 1 et 3. 239 . Bingamo, de Orig. Eccl. l. 16 c. 1 § 6. 240 . Angel. cons. 110. 241 . Costanzo lib. 8. 242 . Tom. 2 pag. 1182 et 1183. 243 . Tutini de' Contestabili, pag. 123. Costanzo lib. 8. 244 . Costanzo lib. 8. 245 . Tom. 2 pag. 1192. 246 . Costanzo lib. 8. 247 . Bonfinio Hist. d'Ungaria, Costanzo lib. 8. 248 . Se dovranno attendersi gli Scrittori rapportati da Struvio Syntag. Hist. Germ. Dissert. 24 § 35 l'Imperatore Carlo IV a quei tempi era già morto; poichè narrano esser accaduta la sua morte in Praga la vigilia di Sant'Andrea Apostolo nell'anno 1378. 249 . Paris de Puteo lib. de Duello, cap. 14 lib. 9. 250 . V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 pag. 1253. 251 . Ughell. tom. 5. Ital. sacr. de Archiep. Neap. pag. 207. 252 . I. Vita Clem. VII apud Baluz. t. 1 p. 254. 253 . Tom. 1 pag. 1210 et 1215. 254 . I. Vita Clem. VII apud Baluz. loc. cit. 255 . La celebrità, ordine e processo della solenne incoronazione, fatta in Avignone da Papa Clemente VII al Re Luigi II d'Angiò, con tutte le sue cirimonie, riti e funzioni; siccome le orazioni, benedizioni e cirimonie, che s'usarono nell'imbarcarsi il Re Luigi nel porto di Marsiglia, per l'impresa di Napoli, colla formula della benedizione data alla Galea, sulla quale dovea navigare il Re, e sua Compagnia; si leggono presso Lunig in una pienissima relazione, dettata in Lingua Franzese p. 1186. 256 . Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 2 pag. 1397. 257 . Costanzo lib. 11. 258 . Summon. tom. 2 pag. 534. 259 . Tom. 2 pag. 1220. 260 . Pag. 1326. 261 . Costanzo lib. ii. 262 . Ang. Cost. lib. II in fin. 263 . Costan. lib. II. 264 . Summont. lib. 4 to. 2 pag. 602. 265 . Tutin. de' Contestab. pag. 130. 266 . In prooem. MC. V. et Rit. ult. ann. 1420. 267 . Chiocc. M. S. Giurisd. to. 1 ann. 1418. 268 . Chioccar. loc. cit. 269 . Costanzo l. 13 in fin. 270 . Summonte l. 4 tom. 2 p. 585. 271 . Tom. 2 p. 1234. 272 . Pag. 1226. 273 . Chiocc. M. S. giur. tom. 1. 274 . Chioccarel. tom. 1. M. S. giurisd. 275 . Tom. 2 pag. 1235. 276 . Pag. 1238. 277 . Tutin. de' Contest. pag. 145. 278 . Rit. 55 et ult. 279 . In prooem. et Rit. 1. 280 . Rit. 14, 34, 39, 46, 50. 281 . Rit. 311. 282 . Rit. 289. 283 . Cap. si Judex Laicus de sentent. Excomm. in 6. 284 . Rit. 235. Quamvis Jura Canonica his praedictis videantur aliquantulum refragari. 285 . Rit. 289. 286 . Rit. 280. 287 . Rit. 292. 288 . Rit. 293. 289 . V. Summonte p. 583 to. 2. 290 . Toppi tom. 1 de Orig. Tribun. p. 182. 291 . Toppi Biblioth. 292 . Pragm. 1 de Feud. 293 . V. Jacopo Bern. Mulzio repraesent. Majest. Imper. p. 2 c. 33 § 2. Ant. da Wood. hist. et antiqu. Academ. Oxoniens. lib. 1. Reinardo Vitriario G. C. Olandese Instit. jur. pub. Rom. Germ. l. 4 tit. 11 § 9. 294 . Conringio Antiqu. Acad. dissert. 4. 295 . Claud. Emerico de Acad. Paris. p. 115. Naudeo de antiq. Scholae Medic. Paris. pag. 17. 296 . Privil. Reg. Jo. II. Non quod per hoc, nec per infrascripta tollatur privilegium Justitiario Scholarium ab antiquo concessum. 297 . V. Chioccar. de Archiep. Neap. in Nicolao de Drano, fol. 271. 298 . Tappia, Jus Regni, lib. 2 de Offic. M. Cancellarii, pag. 407. 299 . Affl. decis. 41. 300 . Summ. tom. 2 lib. 4 pag. 608. 301 . Recco super privileg. Jo. II. 302 . Afflict. decis. 41. 303 . Summ. Tappia loc. cit. 304 . Tappia Jus Regn. lib. 2 de Offic. M. Cancell. pag. 417 ad 423. 305 . Tasson. de Antef. vers. 3 observ. 3 num. 255. 306 . Recco in Privilegio Jo. II. 307 . V. Chioccar. de Archiep. Neap. in Bozzuto, anno 1378. 308 . V. Ciaccon. in Urbano VI et in Cardinali Gentili de Sangro. 309 . Ciaccon. loc. cit. Diar. Ducis Montisleon. Jo. Baptista Carafa. Hist. Neap. lib. 6. 310 . Teodoric. de Schism. lib. 1 cap. 26. 311 . Ciaccon. in Urbano VI. 312 . V Chiocc. in Archiep. Neap. in Thom. ann. 1380. 313 . Chioc. in Archiep. Guglielmo ann. 1380. 314 . S. Antonin. in 3 p. Hist. lit. 12 cap. 2 § 14. Collenuc. lib. 5. Comp. Regn. 315 . Chiocc. de Archiep. Neap. ann. 13, 9 fol. 257 et ann. 1412 fol. 266. 316 . Chioc. de Archiep. Neapol. fol. 256. 317 . V. Baluz. in Praefat. ad Vitas Papar. Aven. 318 . V. Struv. Hist. Juris Canon. c. 7 § 32. 319 . Summon. tom. 2 lib. 4 cap. 620. 320 . Summ. loc. cit. 321 . Toppi de Orig. Tribunal. part. 1. 3 c. 10 pag. 107 et segg. 322 . Lib. 1 p. 23. 323 . V. Engen. Nap. Sacr. di M. Oliveto. 324 . Fazzel. de Reb. Siculis, decad. 1 lib. 1 c. 3. 325 . Michael Riccius lib. 4 de Regib. Neap. et Sic. Cum prius unaquaeque Civitas, Oppidumve pro numero, amplitudineque, et opibus, stipendia penderet pro collectas, ut ajunt. 326 . Vien rapportato da Chioccar. tom. 1. M. S. giurisd. 327 . Capit. Reg. Alphonsi. 328 . Zurita Annali d'Aragona. 329 . Mazzel. Descriz. del Regno. 330 . Baron. Ann. Eccles. discurs. de Monarchia Siciliae, tom. 11. 331 . Vien rapportato dal Chioccar. tom. 1. M. S. Giurisd. 332 . Tutin. de' M. Giustiz. pag. 78. 333 . Tom. 2 pag. 1239, 1246, 1248 e 1249. 334 . Chioc. l. 1. M. S. giurisd. 335 . Tom. 2 pag. 1254. 336 . V. Giovio negl'Elogj degl'uom. illustr. 337 . V. Tappia Jus Regni, in rubr. de Off. S. R. C. num. 6. 338 . Card. de Luca Relat. Cur. Rom. lib. 13 disc. 32 n. 13. 339 . Tappia loc. cit. n. 10. 340 . Tasson. de Antef. vers. 3 obs. 7 p. 111. 341 . Tasson. l. c. n. 75 et vers. 7 obs. 3 n. 70. 342 . Tasson. de Antefato loc. cit. 343 . Toppi de Orig. S. R. C. lib. 1 cap. 4. 344 . Roman. de praeem. S. R. C. 345 . Freccia lib. 1 de Subfeud. de Offic. M. Camerar. n. 15 et 16. 346 . Summon. tom. 3 pag. 99. 347 . Litera R. Al. apud Toppi, pag. 442 tom. 2 de Orig. Tribunal. 348 . Toppi tom. 2 de Orig. Trib. lib. 1 cap. 4 n. 34 et 35 ivi: in quibus de jure disceptabitur, etc. 349 . Toppi tom. 2 p. 442 et 496. 350 . M. A. Surg. de Neap. illust. cap. 17 n. 45. 351 . Ricc. lib. 4 de Reg. Neap. et Sicil. 352 . Afflict. decis. 291 n. 3. 353 . Freccia de Subfeud. lib. 1. cap. de Antiq. Statu. Regni n. 38. 354 . Summonte tom. 3 lib. 5 p. 69. 355 . Chiocc. de Episc. Neap. in Gaspare de Diano p. 277. 356 . Tappia in rub. de Offic. S. R. C. in Jur. Reg. 357 . Tasson. de Antef. loc. cit. 358 . Topp. tom. 2 de Orig. Trib. lib. 1 cap. 1. 359 . Chiocc. loc. cit. 360 . Summ. loc. cit. 361 . Toppi loc. cit. cap. 2. 362 . Prammatica 2 de Offic. S. R. C. 363 . Toppi loc. cit. cap. 3. 364 . Affl. decis. 304 in princ. 365 . Pramm. v. de Offic. S. R. C. ivi: Ubi praesidebit unus. 366 . Tasson. de Antef. vers. 3 rub. 3. 367 . Toppi de Orig. Trib. tom. 2 lib. 2 cap. 6. 368 . V. Bartol. Chiocc. de Episcop. et Arch. Neap. pag. 277. 369 . V. Chiocc. de Archiep. Neap. in Oliverio, pag. 287. 370 . Summ. lib. 5 tom. 3 pag. 190. 371 . Topp. tom. 2 de Orig. Trib. lib. 3 cap. 1. 372 . Alphonsi diploma penes Toppi de orig. Trib. tom. 2. 373 . Ferdinandi diploma penes Toppi loc. cit. 374 . Toppi lib. 2 cap. 5 num. 1. 375 . Chiocc. de Archiep. Neap. pag. 297. 376 . Toppi tom. 2 de orig. Trib. 377 . Questo diploma si legge presso Toppi tom. 2 de orig. Trib. p. 441. 378 . V. Tasson. de antef. vers. 3 obs. 3 pag. 168. 379 . Toppi tom. 2 de orig. Trib. fol. 483. 380 . Toppi tom. 2 de orig. Trib. 381 . Passer. in diar. Reg. Neap. 382 . Giornali di Gregorio Rosso, pag. 3 ann. 1526 alli 25 d'Aprile lo Duca di Castrovillari pigliò possesso nel S. R. C. di S. Chiara dell'Ufficio di Protonotario, e Logoteta del Regno con molta solennità, ed accompagnato da tutta la nobiltà e signoria. 383 . Afflict. decis. 1. 384 . V. Toppi lib. 2 de Off. S. R. C. pag. 165. 385 . Toppi lib. 2 de Off. S. C. Cap. 5 num. 5 et seq. fol. 111. 386 . Prammatica 2 de Off. S. R. C. 387 . Toppi lib. 1 de Orig. Trib. cap. 7. 388 . V. Toppi lib. 2 cap. 1 num. 112. 389 . Toppi loc. cit. cap. 11. 390 . Pragmatica 6 de Off. S. B. C. 391 . Toppi lib. 4 cap. 1. 392 . Pragm. 2 de Off. S. R. C. 393 . Prag. 4 de Off. S. C. 394 . Pragm. 2 de off. S. C. n. 5. 395 . Pragm. 68 de off. proc. Caesar. 396 . Pragm. 1 de Offic. Prov. 397 . Grazie dell'Imp. Carlo VI tom. 2 pag 255. 398 . Card. de Luca Rel. Cur. Rom. lib. 15 disc. 32 num. 13 et seq. 399 . Topp. lib. 1 cap. 15 tom. 2. 400 . Michel Riccio lib. 4 de Reg. Neap. et Sic. Fazzello de Reb. Sicul. decad. 2 lib. 7 in Alphonso. 401 . Surg. de Neap. illustr. cap. 7 n. 1, 2. 402 . V. Topp. de Orig. Trib. tom. 1 lib. 4 cap. 3 num. 8 et 11. 403 . Reg. Cap. Galeot. resp. fiscal. 1 num. 51. 404 . Surg. loc. cit. Reg. Cap. Galeot. loc. cit. num. 37. 405 . Topp. loc. cit. cap. 1 num. 12. 406 . Questo diploma si legge presso Toppi de Orig. Trib. tom. 1 pag. 259 407 . Surg. loc. cit. num. 2. 408 . Surg. loc. cit. num. 2. 409 . Surg. loc. cit. num. 3. 410 . Costanzo lib. 16. 411 . Costanzo lib. 18. 412 . Toppi tom. 1 de Orig. Tribunal. cap. 7 et 8. 413 . V. Tasson. de Antel. vers. 3 obs. 3 nu. 142. 414 . Toppi tom. 1 de Orig. Tribunal. cap. 2 lib. 4 n. 3 et cap. 14 n. 1 et 3. 415 . Si legge nel tom. 1 del Toppi de Orig. Tribunal. pag. 97. 416 . Tasson. de Antef. vers. 3 obs. 3 n. 140. 417 . Grazie dell'Imper. Carlo VI tom. 2 p. 255. 418 . V. Capece Galeot. resp. fisc. 2 nu. 7. 419 . Toppi tom. 1 de Orig. Trib. lib. 4 cap. 7 num. 11. 420 . V. Toppi loc. cit. lib. 2 cap. 2 ad 9. 421 . Freccia lib. 1 de subfeud. tit. de Prov. et Civ. Reg. num. 16. 422 . Mazzella nella descrizione del Reg. Prov. d'Apruzzo ultra. 423 . Tutin. de' M. Giustiz. pag. 80. 424 . Guicciard. lib. 5. Istor. 425 . Pragm. 10 de empt. et vendit. 426 . Toppi Biblioth. Neap. fol. 356. 427 . Erchemp. num. 63. 428 . Ostiens. lib. 1 cap. 43. 429 . Hadrian. epist. 64 et 72. 430 . Camill. Pelleg. fines Duc. Ben. ad merid. p. 27. 431 . Summ. tom. 3 pag. 249. 432 . Chiocc. loc. cit. de Juribus, quae antiqui Neapolitani Reges habuerunt in Civitate Terracina, quam nunc Apostolica Sedes possidet. 433 . Abb. de Nuce in Not. ad Cron. Cass. lib. 1 cap. 38. 434 . Lione Ostiense lib. 1 cap. 38. 435 . Cron. Cass. lib. 4 cap. 25. 436 . Abb. de Nuce in Chron. Cass. lib. 3 cap. 52. 437 . Summ. tom. 3 lib. 5 pag. 421. 438 . Chioccar. loc. cit. 439 . Abb. de Nuce loc. cit. lib. 1 cap. 18. 440 . Chioccar. loc. cit. tom. 18. 441 . Chiocc. tom. 18. M. S. Giurisd. 442 . Summ. tom. 3 lib. 5 pag. 88. 443 . Lib. 5 pag. 188. 444 . Summ. loc. cit. pag. 91. 445 . Summ. loc. cit. pag. 91. 446 . Mazzel. tratt. dell'entrade, etc. 447 . Andr. in cap. 1 § et extraordinaria, in princ. et num. 2. Quae sint regal. 448 . Luc. de Pen. l. 1 n. 3. C. de indebit lib. 10. 449 . Ant. Capec. Invest. Feud. claus. vers. collectis, col. 5 in fin. et in princ. 450 . Registro intitolato Literarum Curiae secundi anni 1451 fol. 133 riferito dal Mazzel. loc. cit. 451 . V. Toppi de orig. Trib. tom. 1 lib. 2 cap. 6 n. 3. 452 . Summ. tom. 3 lib. 5 cap. 1 pag. 18 et 229. 453 . Costanzo Ist. Nap. lib. 18. 454 . Freccia lib. 2 auth. 2 nu. 21. 455 . Franc. de Amic. ad tit. de his, qui feud. dar. poss. in cap. sumus modo, fol. 43 n. 2 et seqq. 456 . Rosa in praelud. feud. lect. 11 num. 10. 457 . Andr. in Constit. locorum Bajuli. 458 . Constit locor. Baju. et ad officium Bajul. 459 . Const. Justitiarii nomen, et normam Constit. Justitiarii per Provincias Constit. Praesides. Constit. Capitaneorum. 460 . Franchis decis. 510 nu. 4. 461 . Affl. in prooem. Constit. 462 . Costanzo lib. 19. 463 . Ricc. de Reg. Neap. et Sic. lib. 4. 464 . V. Summon. tom. 3 lib. 5 pag. 121. 465 . Toppi de Orig. Trib. par. 2 lib. 2 cap. 2. num. 12. 466 . Prag. 1 tit. 129 de Possessorib. non turban. 467 . Prag. 2 cit. tit. 468 . Costanzo lib. 20. 469 . Pragm. 3 cit. tit. 470 . Capec. decis. 86 num. 13. 471 . Pragm. 1 de Censib.