LIBRO VENTESIMOSETTIMO
Quanto gli ultimi anni del Regno d'Alfonso furono tutti placidi e sereni, altrettanto quelli di Ferdinando suo figliuolo furono pieni di turbolenze e di confusioni. Si rinnovarono le antiche calamità, e si vide il Regno di bel nuovo ora con rivoluzioni interne tutto sconvolto, ora da esterni nemici combattuto ed invaso. Carlo Principe di Viana fece pratiche co' Napoletani perchè lo gridassero Re. Il Papa lo pretendeva devoluto alla sua Sede. I Baroni congiurati invitano alla conquista del Regno il Re Giovanni, come acquistato con le forze della Corona di Aragona, e non senza gran sua fatica. Rifiutato da costui l'invito, ricorrono a Giovanni d'Angiò figliuolo di Renato, che per le paterne ragioni lo pretendeva, e Duca di Calabria si facea perciò chiamare; e riusciti anche vani questi loro sforzi, congiurano di nuovo, ed il Pontefice Innocenzio VIII lor s'unisce, e gli move guerra. Tante procelle, tanti fastidiosi e potenti nemici ebbe a superar Ferdinando per mantenersi nella possessione del Regno.
Appena morto il Re Alfonso, il Principe di Viana, come si è detto, era venuto in Napoli a questo fine, per mezzo di molti Baroni catalani e siciliani, ch'erano stati intimi del Re Alfonso, tentò far pratiche co' Napoletani perchè lo gridassero Re. Come figliuolo del Re Giovanni pretendeva, che egli fosse il legittimo successore del Regno, e che Re Alfonso non poteva lasciarlo a Ferdinando suo figliuol bastardo, per essere stato acquistato con le forze della Corona di Aragona. Era ancora entrato in qualche speranza per l'alienazione del Papa da Ferdinando, e per l'avversione ed odio d'alcuni Baroni, che portavano al medesimo: ed all'incontro per l'affezione, che il Principe s'avea guadagnato co' medesimi per la sua umanità e mansuetudine. Ma la città di Napoli, e molti Baroni, ricordevoli del giuramento, e delle promesse fatte ad Alfonso gridarono subito: Viva Re Ferrante Signor nostro; il quale cavalcando per la città, e per li Seggi ricevè le acclamazioni di tutto il Popolo. Quando il Principe vide questo, si risolvè tosto di abbandonar l'impresa, e salito in una nave, che stava in ancora nel Porto, partì per passar in Sicilia, e con lui s'imbarcarono tutti quei Catalani, che dal Re Alfonso non aveano avuti Stati nel Regno.
Ma quantunque Ferdinando s'avesse tolto davanti quest'ostacolo, non era però sicuro dall'insidie di Papa Calisto; egli ancorchè proccurasse per via di messi e di lettere piene di sommessione e di rispetto renderselo amico, con tutto ciò trovò sempre nel Papa somma ostinazione. Avea Calisto fatta deliberazione di non confermare nella successione il nuovo Re, e di dichiarare il Regno esser devoluto alla sua Sede. Diceva, che il Re non poteva darlo a D. Ferrante, che non gli era figlio, nè legittimo, nè naturale: che s'era fatto gran torto al Re Giovanni suo fratello, levando dall'eredità il Regno di Napoli, che come conquistato con la forza della Corona d'Aragona, e non senza gran fatica del Re Giovanni, non dovea smembrarsi dagli altri Regni d'Aragona e di Sicilia. Tutte queste cose erano indrizzate al fine, ch'egli teneva, togliendo il Regno a Ferdinando, ed investendone altri, di far grande in questo Regno Pier Luigi Borgia suo nipote, da lui già fatto Duca di Spoleto[1]. Ma Ferdinando con l'avviso di tutte queste cose non si perdè mai d'animo, ed attese ad insignorirsi del Regno, e chiamò a Parlamento generale i Baroni e' Popoli, i quali essendo subito in gran parte comparsi, gli giurarono omaggio senza dimostrazione di mal animo. In questo Parlamento si trovarono ancora due Ambasciadori del Duca di Milano, i quali in pubblico e in privato persuasero a' Baroni d'osservar la fede, e godersi quella pace, ch'aveano in tempo d'Alfonso goduta sedici anni continui, per la quale il Regno era venuto in tanta ricchezza, e dissero pubblicamente che l'animo del Duca di Milano era di porre lo Stato e la vita in pericolo, per favorire le cose del Re. Con questo i Sindici delle Terre e i Baroni se ne tornarono a casa con speranza di quiete.
Ma dall'altra parte Papa Calisto, a' 12 luglio di questo medesimo anno 1458, diede fuori una Bolla, colla quale rivocando la Bolla di Papa Eugenio dichiarava il Duca di Calabria affatto inabile a succedere al Regno, dicendo, che quella fu sorrettiziamente impetrata, perchè il Duca era supposto, e non figliuol vero del Re Alfonso; e perciò dichiarava il Regno devoluto alla Chiesa romana: assolveva dal giuramento quelli, che avevano giurato a Ferdinando, ed ordinava a tutti i Prelati, persone ecclesiastiche, Baroni, città e Popoli del Regno, che sotto pena di scomunica e d'interdetto non l'ubbidissero, non lo tenessero per Re, nè gli dassero il giuramento di fedeltà, ed in caso si trovassero averglielo dato, da quello gli assolveva; e fece affiggere Cartoni per diversi luoghi del Regno, dove tutto ciò si conteneva[2]. Narra Angelo di Costanzo[3], che questa Bolla non solo nel Regno, ma per tutta Italia diede gran maraviglia, vedendosi (come se il Papato trasformasse gli uomini) che Calisto, il quale era stato tanto tempo tra gl'intimi servidori e Consiglieri d'Alfonso, e col favor di lui era stato fatto Cardinale e poi Papa, usasse ora tanta ingratitudine a Ferdinando suo figliuolo. Altri cominciavano a dubitare, che potesse esser vero quel che il Papa diceva, che Ferdinando non fosse figlio vero d'Alfonso, ma supposto; poichè niun meglio di lui, che fu suo intrinseco famigliare, poteva saperlo, e che per ciò fosse mosso da buon zelo di voler far pervenire il Regno in mano di Re Giovanni. In effetto questi Cartoni, dice questo Scrittore, furono gran cagione di confermare nell'opinione quelli Baroni, che si volevano ribellare, e d'invitarvi altri, che ancora non ci avevano pensato; e che senza dubbio, se non fosse opportunamente successa la morte di Papa Calisto, Re Ferrante avanti che fosse coronato avrebbe perduto il Regno.
Non tralasciava intanto il Re opporsi a' disegni di Calisto: in presenza del suo Nunzio lo ricusò come a lui sospetto; appellò dalla dichiarazione d'esser devoluto il Regno alla Chiesa[4], e gli scrisse in risposta della Bolla ch'egli era Re per la grazia d'Iddio N. S., per beneficio del Re Alfonso suo padre, per acclamazione e consentimento de' Baroni e delle città del Regno che lo riconoscevano per tale; e che se mal vi si fosse ricercato altro, pure egli avea lo concessioni di due Papi suoi predecessori, Eugenio e Niccolò; e ch'egli possedendo il Regno con tanti giusti titoli non si sarebbe sgomentato per le sue minacce e per li suoi irragionevoli fulmini. Scrisse ancora con molto ossequio al collegio de' Cardinali, pregandogli ch'essendo di tanta prudenza, dovessero proccurare la quiete d'Italia e di placar il Pontefice, e ridurlo in buona via: che pensassero che era pur troppo vergognoso ad un Principe d'animo vigoroso lasciar un Regno, se non unito colla vita. S'interposero alcuni Cardinali per la pace, ma riuscì vana ogni loro opera. Il Duca di Milano mandò ancor egli a pregarlo, con fargli ancor sentire, che facendo altramente si vedea obbligato di prender la difesa del Re, non solo per ragione della parentela, ma anche per le condizioni della lega ch'era tra loro. Calisto però sempre implacabile ed ostinato, rifiutò ogni mezzo ed intercessore, tanto che il Re Ferdinando co' suoi partigiani deliberarono di mandar Ambasciadori al Papa in nome del Regno, perchè interponessero alla dichiarazione fatta un'altra consimile appellazione come quella del Re. A costoro Ferdinando aggiunse i suoi, li quali portatisi in Roma furono ricevuti come Ambasciadori del Re e del Regno. Trovarono il Papa infermo, onde non furono ammessi alla sua udienza; ma non patendo l'affare molta dilazione, ciascheduno degli Ambasciadori in nome di chi gl'inviò, fece ciò che gli conveniva. Ricusarono per pubblici atti la persona di Calisto, come sospetto al Re ed al Regno; appellarono nuovamente dalla dichiarazione fatta da lui; e dichiararono in nome del Regno, che così come tenevano il Re Ferrante per loro Re e Signore, così pregavano il Papa, che come legittimo Re, secondo il costume de' loro maggiori, gli dasse l'investitura del Regno.
Mentre queste cose si facevano, il Papa tuttavia andava peggiorando, onde il Re determinò non moversi punto infin che vedesse l'esito della sua infermità: ma la lunga età, i tanti dispiaceri sofferti, e più la malinconia nella quale erasi posto, per aver inteso che il Re Giovanni non voleva che Ferdinando si turbasse nella possessione del Regno, gli fecero finir la vita a' 6 d'agosto di quest'anno 1458, dopo tre anni e quattro mesi di Pontificato. Così i suoi vasti pensieri e la sua albagia di voler innalzare tanto Pier Luigi suo nipote finirono colla sua morte.
Il Re pien di contento insinuò tosto a' suoi Ambasciadori, ed a que' del Regno ed all'Arcivescovo di Benevento, che si trovavano in Roma, ed agli altri che vi mandò poi, che facessero ogni opera che l'elezione del nuovo Pontefice sortisse in persona di sua affezione, come cosa tanto importante al suo Stato; ed entrati i Cardinali in Conclave, crearono a' 27 dello stesso mese d'agosto Enea Silvio Piccolomini Sanese, che fu chiamato Pio II, uomo letterato, siccome mostrano le sue opere che ci lasciò: ancorchè la condizione del Pontificato gli fece mutar poi sentimenti, poichè in altra guisa scrisse quando fu privato Segretario dell'Imperador Federico III, d'altra maniera fece essendo Papa. Con tutto ciò fu egli amator di pace ed affezionato del Re Alfonso, perchè essendo Segretario dell'Imperador Federico III, e con lui venuto in Napoli, partecipò de' favori e della munificenza di quello. Il Re intesa la creazione mandò subito Francesco del Balzo Duca d'Andria a rallegrarsi, ed a dargli ubbidienza, il quale trovò il Papa tanto benigno, che ottenne quel che volle: fu poi spedito Antonio d'Alessandro, quel nostro celebre e rinomato Giureconsulto per domandargli l'investitura; ma il Papa in questa congiuntura non volle trascurare gl'interessi della sua Sede: gli fu accordata ma con molti patti cioè, che si pagassero i censi non pagati; si dasse volentieri al Papa aiuto sempre che ne facesse istanza; restituisse alla Chiesa Benevento e Terracina; ed alcuni altri patti furono accordati in nome del Papa da Bernardo Vescovo di Spoleto ed in nome del Re da Antonio d'Alessandro. Fu da Pio II a' 2 novembre di quest'anno 1458 spedita Bolla, colla quale confermò li Capitoli accordati da' suddetti Cardinali destinati dal Papa e dal Re circa l'investitura del Regno, del suo censo e coronazione, e circa la restituzione di Benevento e Terracina. Fu poi a' 10 dello stesso mese istromentata la Bolla dell'investitura del Regno di Napoli al Re Ferdinando, che fu consultata in maggior parte e dettata da Antonio d'Alessandro. Se ne spedirono poi due altre[5] a' 2 decembre: nella prima il Pontefice avvisava Ferdinando, che gli mandava il Cardinal Latino Legato apostolico a coronarlo del Regno di Napoli, al quale il Re dovesse dare il solito giuramento di ligio omaggio; nella seconda rivoca la Bolla di Calisto III, per la quale s'era dichiarato il Regno devoluto, e dice le ragioni onde si movea a rivocarla. Spedì ancora un'altra Bolla di commessione al Cardinal Latino per la detta coronazione, il quale partito di Roma venne in Puglia, e Ferdinando in sue mani diede il giuramento e fu coronato.
(Le convenzioni stabilite tra 'l Papa ed il Re; la Bolla colla quale si rivoca quella di Papa Calisto; il Breve di Pio al Cardinal Latino, per la coronazione di Ferdinando; e la Bolla dell'investitura colla formola del giuramento di fedeltà, si leggono pure presso Lunig[6] ).
Il Zurita vuole, che il Re si coronasse in Bari; ma il Costanzo e gli altri più accurati Scrittori[7], narrano che la coronazione si fece in Barletta a' 4 febbraio del nuovo anno 1459, in presenza di quasi tutti i Baroni con solennità e grandi apparati. Il P. Beatillo[8] per mostrarsi costante nella favolosa coronazione di ferro, che credette per antico uso farsi in Bari, dice che in Bari nella chiesa di S. Niccolò fu coronato colla corona di ferro, poi in Barletta con quella d'oro; ma siccome da noi fu altrove detto, questa coronazione di ferro in Bari è tutta sognata e favolosa.
Furono coniate nuove monete da Ferdinando in memoria di questa celebrità, che si chiamarono per ciò coronati.
(Fra le monete del Regno di Napoli, impresse dal Vergara in Roma l'anno 1715 nella tavola XXIII si vedono anche impressi questi coronati di Ferdinando, in uno de' quali n. 3 da una parte mirasi la croce di Gerusalemme (che il Summonte tom. 3 lib. 5 cap. 2 la suppone Arme della provincia di Calabria) ed intorno FERDINANDUS D. G. R. SICILI. IER. VNG. e dall'altra ha l'immagine del Re sedente collo scettro ed il mondo nelle mani, alla destra il Cardinale ed alla sinistra un Vescovo che l'incoronano, coll'iscrizione intorno CORONATUS: Q. LEGITIME: CERTAVI).
Ferdinando non s'intitolava, come suo padre, Re dell'una e l'altra Sicilia, ma e nelle monete e nei diplomi, usava questo titolo: Ferdinandus Dei gratia Rex Siciliae, Hierusalem, et Ungariae: poichè i Regni di Gerusalemme e di Ungaria s'appartenevano alla Corona di Napoli. Nel dì di questa coronazione si mostrò con tutti molto splendido e liberale; poichè non fu persona di qualche merito, che non se ne tornasse a casa ben soddisfatta; co' Baroni e nobili trattò amichevolmente, donando loro titoli, ufficj e dignità, e fece Cavalieri quasi tutti i Sindici delle terre del Regno. Ornò ancora Cavalieri molti vassalli di Baroni; il che come notò il Costanzo e si conobbe poi, lo fece per astuzia, per tenere spie ed aver notizia per mezzo di essi della vita ed azioni de' Baroni. Concesse a' popoli del Regno nuovi beneficj, sgravandogli di molte gabelle. Agli Spagnuoli che vollero appresso di se rimanere, promise la sua buona grazia e familiarità: a coloro che vollero ritornare in Ispagna, accompagnati con molti doni, onoratissimamente diede licenza. Fu riconoscente de' favori del Papa, poichè nel 1461 sposò Maria sua figliuola naturale ad Antonio Piccolomini nipote di Pio, dandogli in dote il Ducato d'Amalfi con il Contado di Celano, e l'ufficio di Gran Giustiziere, vacato per morte di Raimondo Orsini[9]; onde pareva, che con questa amicizia del Papa, colla parentela del Duca di Milano, e con aversi resi con queste rimunerazioni benevoli molti Baroni e' popoli, gli animi di molti, che stavano sollevati, si quietassero.
CAPITOLO I. I Principi di Taranto e di Rossano con altri Baroni, dopo l'invito fatto al Re Giovanni d'Aragona, che fu rifiutato, chiamano all'impresa del Regno Giovanni d'Angiò figliuolo di Renato: sua spedizione, sue conquiste, sue perdite e fuga.
Ma non durò guari nel Regno questa tranquillità poichè, se bene alcuni Baroni, che non più a dentro penetrarono l'animo ulcerato di Ferdinando, credevano che il suo Regno dovess'essere tutto placido e benevolo; nulladimanco molti altri, che sapevano la natura sua maligna e coperta, giudicavano questa clemenzia e liberalità, che fosse tutta finta e simulata, e tra questi, i primi erano i Principi di Taranto e di Rossano parenti del Re, i quali per la grandezza loro stavano sospetti, e dubitavano, che 'l Re, ch'avea veduto vivere suo padre tanto splendidamente con l'entrate di tanti Regni, vedendosi rimaso solo con questo Regno, sempre avria pensato d'arricchirsi con le ricchezze loro e per questo non osavano di venire a visitare il Re; anzi il sospetto crebbe tanto nel Principe di Taranto, che ogni dì pensava a qualche nuovo modo d'assicurarsi; e per estenuare le forze del Re, ed accrescere la potenza sua con nuovi amici e parenti, cercò al Re, che volesse rimettere nello Stato il Marchese di Cotrone, a cui avea promesso di dare per nuora una figliuola: e cercò ancora di far ricoverare lo Stato a Giosia Acquaviva Duca d'Atri e di Teramo, padre di Giulio Antonio Conte di Conversano ch'era suo genero. Il Re, ancorchè la dimanda fosse arrogante, pure colla speranza, che tanto il Principe, quanto il Duca ed il Marchese con questo beneficio mutarebbono proposito, ne gli compiacque e mandò due Commessarj, l'uno in Apruzzo, l'altro in Calabria a dar la possessione di quelli Stati, che si tenevano ancora per lo Fisco, al Duca ed al Marchese, e rimandò gli Ambasciadori del Principe, che allora dimorava in Lecce, molto ben regalati, ed il Principe con grandissima dissimulazione mandò a ringraziare il Re, e da allora cominciarono ad andare dall'uno all'altro spesse visite e lettere. Ma il Principe, che conosceva aver offeso il Re, avendolo stretto a porre l'armi in mano a' suoi capitali nemici, quanto più erano amorevoli le lettere del Re, tanto più entrava in sospetto, perchè sapeva la sua natura avara, crudele e vendicativa, ed attissima a simulare tutto il contrario di quello, che avea in cuore. E per questo cominciò a disponersi di voler venire più tosto a guerra scoperta, non fidandosi di stare più sicuro delle insidie del Re, se non toglieva le pratiche de' servidori di Ferdinando in casa sua, per le quali temeva di qualche trattato di ferro, o di veleno. Determinossi per tanto, essendo d'accordo col Marchese di Cotrone, col Principe di Rossano e col Duca Giosia, di mandar segretamente al Re Giovanni d'Aragona a sollecitarlo, che venisse a pigliarsi quel Regno, che gli spettava per legittima successione dopo la morte di Re Alfonso suo fratello. La gran ventura di Ferrante fu, che Giovanni si trovava allora in grandissima guerra in tutti i suoi Regni, e massimamente in Catalogna, ed in Navarra, perchè non potevano i Catalani ed i Navaresi soffrire, che 'l Re istigato dalla moglie, che era figliuola dell'Ammirante di Castiglia, trattasse così male e tenesse per nemico il suo figlio primogenito, Principe tanto ben amato da tutti, e mostrasse di volere i Regni per l'Infante D. Ferrante figliuolo della seconda moglie; poichè se fosse stato sbrigato da quelle guerre, avria certamente in brevissimo tempo cacciato Re Ferrante da questo Regno: onde il Re Giovanni rispose a questi Baroni, che desiderava, che per allora osservassero la fede a D. Ferrante suo nipote, ch'egli non curava di lasciare le ragioni, che ci aveva, purchè questo Regno stesse sotto la bandiera d'Aragona. Dall'altra parte il Re Ferrante, avendo qualche indizio di questa pratica, mandò subito in Ispagna Turco Cicinello Cavaliere prudentissimo, ed il famoso Antonio d'Alessandro pur Cavaliere e Dottore eccelentissimo, che avessero a pregare il Re Giovanni, che non volesse mancare del favor suo al Re suo nipote, e che potea dire, che fosse più suo questo, che i Regni della Corona d'Aragona. Questi non ebbero molta fatica a divertire quel Re dal pensiero di volere il Regno di Napoli, perchè se ben forse quel vecchio ne aveva volontà, gli mancavano le forze. Ma ebbero fatica in saldare un altra piaga, perchè pochi dì innanzi la Regina Maria, che fu moglie del Re Alfonso morì in Catalogna, e lasciò erede Re Giovanni delle doti sue, ch'erano quattrocentomila ducati, e il Re Giovanni dicea, che doveano cavarsi dal Regno di Napoli e dal tesoro ch'avea lasciato Re Alfonso; ed ebbero questi due Cavalieri fatto assai, quando accordarono di darglieli in diece anni, dicendo ch'era tanto quanto togliere il Regno, volendo così grossa somma di danari a questo tempo, che si sospettava certa e pericolosa guerra.
Il Principe di Taranto vedendo riuscir vano il suo disegno, tentò un altra impresa, nella quale, oltre i riferiti Baroni, volle avervi anche per compagno il Principe di Rossano, che odiava il Re mortalmente, perchè s'era sparsa fama che il Re avea commesso incesto colla Principessa di Rossano sua sorella carnalmente, e moglie del Principe onde mandò a richiederlo per mezzo di Marco della Ratta, che poichè non era successo l'invito fatto al Re d'Aragona, che pigliasse l'impresa del Regno, mandassero ad invitare Giovanni d'Angiò Duca di Calabria, che ancora si trovava in Genova.
Era questo Principe venuto in Genova prima di morire Alfonso, quando per la pertinacia sua di non voler restituire a Genovesi le loro navi predate, gli costrinse disperati (poichè non trovarono nelle Potenze d'Italia alcuno ajuto) a darsi a Carlo VII Re di Francia il quale mandò a governargli Giovanni figliuolo del Re Renato, che, come si disse, s'intitolava Duca di Calabria per le ragioni di suo padre; deliberarono per tanto unitamente di mandare il medesimo Marco della Ratta a chiamarlo. Avea costui per moglie una figliuola di Giovanni Cossa, il quale, come fu detto nel precedente libro, si partì da Napoli col Re Renato, e da quel tempo era stato sempre in Francia con grandissima fama di lealtà e di valore; e per questo il Re Renato l'avea dato, come maestro, al Duca Giovanni suo figliuolo; e fu cosa leggiera ad ottenere, che il Duca venisse a quest'impresa non meno per volontà sua, che per consiglio e conforto di Giovanni Cossa, che desiderava dopo un esilio di diciannove anni ritornare alla Patria; onde nell'istesso tempo che mandò a Marsiglia al Re Renato per l'apparato della guerra, fece ponere in ordine galee e navi in Genova, e dall'altro canto il Principe di Taranto, che come Gran Contestabile del Regno avea cura di tutte le genti d'armi, pose Capi tutti dipendenti da lui, e cominciò a dar loro denari per ponersi bene in ordine, e tuttavia dalla Marca e da Romagna faceva venire nuovi soldati, ed accresceva il numero, e già pareva che in Puglia ed in Apruzzo le cose scoppiassero in manifesta guerra, e dall'altra parte nella Calabria per opra del Marchese di Cotrone le cose si trovavano ancor disposte a prorompere in tumulti e disordini. E mentre Re Ferrante era tutto inteso a reprimere questi moti, ecco che s'ebbe l'avviso, che il Duca Giovanni con ventidue galee e quattro navi grosse era sorto nella marina di Sessa tra la foce del Garigliano e del Vulturno; onde per tutte le parti si vide in un baleno arder tutto il Regno d'intestina e crudel guerra.
Tutta questa guerra, che seguì ne' primi anni del Re Ferrante, fu scritta da Gioviano Pontano, celebre letterato di que' tempi e scrittor contemporaneo, poichè fu secondo Segretario del Re Ferrante istesso. Michele Riccio, pur egli autor coetaneo, parimente trattonne, ancorchè ristrettamente Angelo di Costanzo[10] poi più a minuto e con maggior esattezza ce la dipinse, protestando, che se egli s'allargava in molte cose, che il Pontano non scrisse, o non espresse, era per relazione di Francesco Puderico, quegli, che insieme col Sannazaro gli diedero la spinta, e l'infiammarono a scrivere la sua istoria, che morì nonagenario, e di alcuni altri Cavalieri vecchi, che furono prossimi a quel tempo. Antonio Zurita, che seguì per la maggior parte il Fontano, il Summonte ed altri, anche ampiamente ne scrissero; onde essendosi questa guerra cotanto divulgata da questi Autori, nè essendo ciò del mio istituto, volentieri mi rimetto all'istorie loro.
In breve fu ricevuto il Duca Giovanni dal Principe di Rossano; e spinse la sua armata fino al Porto di Napoli, ed invase gran parte di Terra di Lavoro. Passò poi in Capitanata, e trovò Baroni e Popoli tutti inclinati a seguire la sua parte. Lucera subito aperse le porte, e Luigi Minutolo rese il castello: il simile fece Troja, Foggia, Sansevero, e Manfredonia e tutte le castella del Monte Gargano: ed Ercole da Este, ch'era stato Governadore di quella provincia per lo Re, vedendo tutte le Terre della sua giurisdizione ribellate, passò a servire il Duca. Vennero anche a giurargli omaggio Giovanni Caracciolo Duca di Melfi, Giacomo Caracciolo suo fratello Conte d'Avellino, Giorgio della Magna Conte di Bucino, Carlo di Sangro Signore di Torre Maggiore, Marino Caracciolo Signore di Santo Buono, li quali aveano in Capitanata e nel Contado di Molise molti e buoni castelli; e l'Aquila a persuasione di Pietro Lallo Camporesco alzò le bandiere d'Angiò. Il Principe di Taranto, che si trovava a Bari uscì fino a Bitonto ad incontrare il Duca e lo condusse in Bari, dove fu ricevuto con apparato regale. Il Principe di Rossano tentò insidie e tradimenti per assassinare il Re; ma fu il suo esercito rotto presso Sarno. Tutto Principato, Basilicata e Calabria fin a Cosenza alzò le bandiere angioine, e l resto di Calabria l'avea fatto già ribellare il Marchese di Cotrone; e chi legge l'istoria di questa guerra scritta dal Fontano, può giudicare in che opinione di perversa natura stasse il Re Ferrante appresso i Baroni ed i Popoli, che non solo tutti quelli che con grandissima fede e costanza aveano seguita la parte di Re Alfonso suo padre, o i figliuoli d'essi cospirarono a cacciarlo dal Regno, ma gli stessi suoi Catalani, cominciando da Papa Calisto III che fu suo precettore.
Le cose di Ferdinando si ridussero in tanta declinazione, che fu fama, la quale il Fontano tiene per vera, che la Regina Isabella di Chiaramonte sua moglie, vedendo le cose del marito disperate, si fosse partita da Napoli con la scorta d'un suo confessore in abito di Frate di S. Francesco, e fosse andata a trovare il Principe di Taranto suo zio e buttatasegli a' piedi l'avesse pregato, che poi che l'avea fatta Regina, l'avesse ancora fatta morire Regina, e che il Principe l'avesse risposto, che stesse di buon animo, che così farebbe.
Il Duca di Milano, che era entrato in questa guerra in ajuto del Re Ferrante e che correva la medesima fortuna che il Re, per la pretensione del Duca di Orleans sopra lo Stato di Milano, sentendo le cose di Ferdinando in tale stato, pensò se per via di pace e di riconciliazione potesse salvargli il Regno, e mandò Roberto Sanseverino Conte di Cajazza, ch'era figliuolo di sua sorella, in soccorso del Re con istruzione di consigliarlo, che proccurasse di riconciliarsi i Baroni, e ricovrare a poco a poco il Regno; e perchè sapeva, che il Re per la natura sua crudele e vendicativa era noto a' Baroni, che non osservava mai patti, nè giuramenti, per saziarsi del sangue di coloro, che l'aveano offeso; mandò una proccura in persona di Roberto, che sotto la fede di leal Principe potesse assicurare in nome suo quelli Baroni, che volessero accordarsi col Re[11]. Questa venuta del Conte di Cajazza sollevò molto le cose del Re, perch'essendo parente del Conte di Marsico e di Sanseverino trattò con lui, che avesse da tornare alla fede del Re, siccome venne ad accordarsi accettando volontieri l'onorati partiti che gli fece il Re, fra' quali fu la concessione della città di Salerno con titolo di Principe; di poter battere moneta; che i beni de' suoi Vassalli devoluti per fellonia, fossero del Fisco del Principe, e non del Fisco regale, ed altri onoratissimi patti rapportati dal Costanzo. Il Conte di Marsico, che da questo tempo innanzi fu chiamato Principe di Salerno, mandò subito al Pontefice Pio per l'assoluzione del giuramento, che avea fatto in mano del Duca Giovanni, quando lo creò suo Cavaliere, rimandando al medesimo l'ordine della luna crescente, del quale l'avea ornato Cavaliere e molti altri seguirono quest'esempio; ed il Chioccarello[12] rapporta la Bolla di Pio II fatta a' 5 Gennajo dell'anno 1460 colla quale assolve dal giuramento tutti coloro, che aveano dal Duca Giovanni preso l'ordine della luna crescente e disfece questa Confrateria, ch'era chiamata de' Crescenti.
L'accordo del Principe di Salerno col Re fu gran cagione della salute di Ferdinando, perchè non solo gli diede per le Terre sue il passo, e gli aperse la via di Calabria; ma andò insieme con Ruberto Orsino a ricuperarla; e perchè di passo in passo, da Sanseverino fino in Calabria erano Terre sue, o del Conte di Capaccio, o del Corte di Lauria, o di altri seguaci di casa sua, quanto camminò fino a Cosenza, ridusse a divozione del Re. Fu presa Cosenza e saccheggiata: Scigliano, Martorano e Nicastro si resero: Bisignano fu preso a forza, ed in breve quasi tutta quella provincia tornò alla fede del Re.
Il Pontefice Pio mandò Antonio Piccolomini suo Nipote in ajuto del Re con mille cavalli e cinquecento fanti, che gli ricuperò Terra di Lavoro. Nel medesimo tempo il Duca di Milano mandò nuovo soccorso, col quale nell'Apruzzo ridusse molte Terre alla sua ubbidienza. Il Re passò in Puglia per dare il guasto al paese di Lucera, ove era il Duca Giovanni con buon numero di gente, aspettando il Principe di Taranto. Si resero a lui Sansevero, Dragonara e molte altre Terre del Monte Gargano: e finalmente prese S. Angelo, dove trovò ridutte tutte le ricchezze della Puglia. Fu saccheggiato con ogni spezie di avarizia e di crudeltà, ed il Re sceso alla Chiesa sotterranea di quel famoso Santuario, trovò gran quantità d'argento e di oro, non solo di quello, ch'era stato donato per la gran devozione al Santuario, ma di quello, ch'era stato portato ivi in guardia da Sacerdoti delle Terre convicine. Il Re fattolo annotare se lo prese, promettendo dopo la vittoria restituire ogni cosa, e di quell'argento fece subito battere quella moneta, che si chiamava li Coronati di S. Angelo; che gli giovò molto in questa guerra.
(Questa moneta pur trovasi impressa dal Vergara Tab. XXIII n. 4, nella quale da una parte è l'immagine di Ferdinando e dall'altra quella dell'Arcangelo Michele, col motto IVSTA TVENDA: per iscusarsi, che la necessità di difendere lo Stato l'obbligò a valersi degli Argenti di quel Santuario).
Sopraggiunse ancora in questo stato di cose al Re Ferdinando un altro improviso ajuto, poichè venne da Albania a soccorrerlo con un buon numero di navi, con settecento cavalli e mille fanti veterani Giorgio Castrioto cognominato Scanderbecch, uomo in quelli tempi famosissimo per le cose da lui adoperate contra Turchi. Costui, ricordevole, che pochi anni avanti, quando il Turco venne ad assaltarlo in Albania, dove e' signoreggiava, Re Alfonso gli avea mandato soccorso; avendo inteso, che Re Ferdinando stava oppresso da tanta guerra, volle venire a questo modo a soccorrerlo, e la venuta sua fu di tanta efficacia che fece diffidar i suoi nemici d'attaccarlo.
Il Cardinal Rovarella Legato appostolico, che stava in Benevento, fece pratica di tirare dalla parte del Re Orso Orsino; e poco da poi il Marchese di Cotrone si riconciliò col Re, ed il simile fece il Conte di Nicatro.
Alfonso Duca di Calabria primogenito del Re, che non avea più che quattordici anni, fu mandato dal padre sotto la cura di Lucca Sanseverino ad interamente sottomettere la Calabria, il quale mostrandosi dalla sua puerizia quello, che avea da essere nell'età perfetta, con somma diligenza ed audacia perfezionò l'impresa. Dall'altro canto il Re debellò i suoi nemici in Capitanata, prese Troja e ridusse quella provincia interamente alla sua fede; onde gli altri Baroni, vedendo posta in tanta grandezza la casa del Re, ed in tanta declinazione la parte Angioina, venivano a trovarlo e rendersegli, come fece Giovanni Caracciolo Duca di Melfi.
Il Principe di Taranto vedendo finalmente, che non restava altro di fare al Re, che venire ad espugnarlo, deliberò di mandare a domandargli pace[13]: Ferdinando non la ricusò, e mandò Antonello di Petruccio suo Segretario col Cardinal Rovarella Legato del Papa a trattare le condizioni con gli Ambasciadori del Principe, fra le quali fu convenuto, che il Principe avesse da cacciare da Puglia e da tutte le Terre sue il Duca Giovanni. Il Principe si ritirò in Altamura, dove poco da poi morì, non senza sospetto, che il Re l'avesse fatto strangolare.
Solo rimaneva da ridurre Terra di Lavoro di là dal Vulturno e l'Apruzzo, ove il Duca Giovanni s'era fortificato ed il Principe di Rossano. Fu pertanto guerreggiato a Sora, dove le genti del Papa, ancorchè sollecitate da Ferdinando per l'assalto, non si vollero movere; con iscoprire la cagione, dicendo, che il Papa non gli avea mandati a dare ajuto al Re, perchè più non bisognava, essendo tanto estenuato lo stato del Duca d'Angiò, ma solamente perchè pretendeva, che 'l Ducato di Sora, il Contado d'Arpino e quello di Celano, essendo stati un tempo della Chiesa romana, dovessero a quella restituirsi. Il Re per non intrigarsi a nuove contese, prese espediente di dare in nome di dote il Contado di Celano ad Antonio Piccolomini nipote del Papa, e suo genero, con condizione, che riconoscesse per supremo Signore il Re; e morto poi Papa Pio, con la medesima condizione diede il Ducato di Sora ad Antonio della Rovere nipote di Papa Sisto. Finalmente il Principe di Rossano mandò pure a trattare la pace, e per mezzo del Cardinal Rovarella fu conchiusa, con condizione per maggior sicurtà, che si dovesse fermare con nuovo vincolo di parentado, cioè, che il Re desse a Giovan Battista Marzano figliuolo del Principe, Beatrice sua figliuola, che poi fu Regina d'Ungheria, la quale fu subito mandata a Sessa ad Elionora Principessa di Marzano come pegno di sicurtà e di certa pace. Ma non passò guari, che il Principe fu fatto incarcerare dal Re, il quale avendo mandato a pigliar subito il possesso di tutto il suo Stato, fece venire in Napoli la Principessa, e li figli insieme con la figliuola sua, ch'avea promessa per moglie al figliuol del Principe.
Il Duca Giovanni vedendosi tolti i suoi partigiani, s'accordò col Re d'andarsene dove gli parea, e gli fu data sicurtà, e se n'andò in Ischia; ed il Re, dopo avere interamente ridotta tutta la Puglia, l'Aquila e tutto l'Apruzzo a sua divozione, non gli restava altro, che l'impresa d'Ischia, ove erasi ritirato il Duca d'Angiò, che veniva guardata da otto galee, le quali ogni dì infestavano anche Napoli; nè potendo il Re venirne a capo, fu necessitato mandare in Catalogna al Re Giovanni d'Aragona suo zio, per far venire Galzerano Richisens, con una quantità di galee di Catalani per finire in tutto queste reliquie di guerra; onde il Duca vedendo tutti i partigiani suoi, o morti o prigionieri o in estrema necessità, deliberò partirsi dal Regno, ed imbarcato con due galee, se n'andò in Provenza: dopo la di cui partita essendo venuta l'armata de' Catalani, fu dal Toreglia, che comandava l'Isola, proposto trattato per mezzo di Lupo Ximenes d'Urrea Vicerè di Sicilia, di renderla; ma perchè il Re Alfonso avea fatta Ischia colonia de' Catalani, dubitando il Re Ferdinando, che costoro non alzassero le bandiere del Re d'Aragona suo zio, e lo facessero pensare all'impresa del Regno, si contentò fare larghissimi patti al Toreglia, con liberar Carlo suo fratello, che poc'anzi avea fatto prigione, e dargli cinquantamila ducati, e restituirgli due galee, che avea prese: ciò che fu subito eseguito, e Ferdinando rimase padrone dell'isola.
Scrive Giovanni Pontano, che nel partir il Duca Giovanni dal Regno, lasciò ne' Popoli, e massimamente appresso la Nobiltà un grandissimo desiderio di se, perch'era di gentilissimi costumi, di fede e di lealtà singolare, e di grandissima continenza e fermezza, ottimo Cristiano, liberalissimo, gratissimo, ed amatore di giustizia, e sopra la natura de' Franzesi grave, severo e circospetto. Per tante virtù di questo Principe si mossero molti Cavalieri del Regno a seguire la fortuna sua, ed andare con lui in Francia, tra' quali furono il Conte Nicola di Campobasso, Giacomo Galeotto, e Roffallo del Giudice: e questi due salirono in tanta riputazione di guerra, che 'l Galeotto fu generale del Re di Francia alla battaglia di S. Albino, dov'ebbe una gran vittoria[14]; e Roffallo nella guerra del Contado di Rossiglione Generale del medesimo Re in quella frontiera contra 'l Re d'Aragona, dove fece molte onorate fazioni; ed il Re gli diede titolo di Conte Castrense.
Ma il Duca Giovanni, come fu giunto in Provenza, non stette in ozio, perchè fu chiamato da' Catalani, ch'erano ribellati al Re Giovanni d'Aragona, il che aggiunse felicità alla felicità del Re Ferdinando I, perchè s'assicurò in un tempo di due emoli, del Duca Giovanni e del Re Renato suo padre e del Re d'Aragona, che si tenea per certo, che se non avesse avuto quel fastidio del Duca Giovanni, avria cominciato a dare al Re Ferdinando quella molestia, che diede poi al Re Federico il Re Ferdinando il Cattolico, che a lui successe. Il Contado di Barzellona erasi ribellato contro Re Giovanni, ed avea chiamato Re Raniero per Signore, nato da una sorella del Re Martino d'Aragona, il quale avea le medesime ragioni sopra quello Stato, e sopra i Regni d'Aragona e di Valenzia, che avea avuto il padre del Re Alfonso e di esso Re Giovanni, ch'era nato dall'altra sorella. Il nostro Re Ferdinando avvisato di ciò, mandò alcune compagnie di uomini d'arme in Catalogna in soccorso del zio, ed il Duca Giovanni da poi che partì dall'impresa del Regno, arrivato in Francia, subito andò a quella impresa, come Vicario del padre, e signoreggiò fino all'anno 1470, nel qual anno morì in Barzellona, e perchè non finissero qui di travagliare i Franzesi questo Regno, trasfuse le sue ragioni, nella maniera che diremo più innanzi, a Luigi ed a Carlo Re di Francia.
CAPITOLO II. Nozze d' Alfonso Duca di Calabria con Ippolita Maria Sforza figliuola del Duca di Milano; di Elionora figliuola del Re con Ercole da Este Marchese di Ferrara; e di Beatrice altra sua figliuola con Mattia Corvino Re d'Ungheria. Morte del Pontefice Pio II, e contese insorte tra il suo successore Paolo II ed il Re Ferrante, le quali in tempo di Papa Sisto IV successore furon terminate.
Da poi che il Re Ferdinando ebbe trionfato di tanti suoi nemici, e ridotto il Regno sotto la sua ubbidienza, pensò ristorarlo da' preceduti danni, che per lo spazio di sette anni di continua guerra l'aveano tutto sconvolto e posto in disordine, ma prima d'ogni altro, per maggior precauzione, volle fortificarsi con nuovi parentadi, e mandare in esecuzione il trattato, che molti anni prima avea tenuto col Duca di Milano, di sposare il Duca di Calabria con Ippolita sua figliuola; onde nella primavera di quest'anno 1464 inviò Federico suo secondogenito con 600 cavalli in Milano a prender la sposa.
Federico giunto a Milano sposò in nome del fratello Ippolita, che dopo partita da Milano, e dopo essersi trattenuta per due mesi a Siena, passata indi a Rema, giunse finalmente in Napoli, ove con molta pompa fu ricevuta da Alfonso suo marito, e si fecero dal Re celebrare molte feste e giuochi. Alcuni anni appresso fu conchiuso il nuovo parentado con Ercole da Este Marchese e poi Duca di Ferrara, al quale il Re sposò Elionora sua figliuola, e fu dal Duca mandato a Napoli Sigismondo suo fratello a pigliar la sposa, che il Re mandò accompagnata dal Duca d'Amalfi e sua moglie, dal Conte d'Altavilla Francesco di Capua, e dalla Contessa sua moglie, dal Conte e Contessa di Bucchianico, dal Duca di Andria e da altri Signori.
Fu poi conchiuso anche il matrimonio di Beatrice con Mattia Re d'Ungheria; e venuto il tempo, che la sposa dovea essere condotta al marito, fu ordinata la sua coronazione avanti la Chiesa dell'Incoronata, ove eretto un superbissimo teatro, vi venne il Re con veste regali, e corona in capo accompagnato da' suoi primi Baroni: poco appresso vi giunse Beatrice, la quale con gran pompa fu coronata Regina d'Ungheria per mano dell'Arcivescovo di Napoli Cardinale Oliviero Caraffa accompagnato da molti Vescovi; ed il dì seguente, avendo la nuova Regina cavalcato per tutti i Seggi della città colla corona in testa accompagnata da tutto il Baronaggio, partì poi da Napoli in comitiva de' Duchi di Calabria e di S. Angelo suoi fratelli, e giunti in Manfredonia, imbarcatisi su le Galee di Napoli, si condussero in Ungheria. Con questi Signori s'accompagnarono ancora alcuni nostri Avvocati, li quali, siccome narra Duareno, colli loro intrighi e sottigliezze invilupparono l'Ungheria d'inestricabili liti: tanto che bisognò pensare d'allontanargli da quel Regno, perchè si restituisse nel primiero stato di pace e di quiete.
Tutte queste feste furono interrotte da' lutti, che portò la morte della Regina Isabella, donna d'esemplare vita e di virtù veramente reali. Fu compianta da tutti, e con pomposissime esequie fu il cadavere portato in S. Pietro Martire, ove ancor si vede il suo sepolcro.
Ma maggiori disturbi avea recato al Re Ferdinando la morte del Pontefice Pio, accaduta a' 14 agosto del 1464, la quale nel medesimo anno fu accompagnata da quella del Duca di Milano, e poi seguìta da quella di Giorgio Castrioto Signor d'Albania, suoi maggiori amici e grandi fautori; poichè rifatto in luogo di Pio il Cardinal di S. Marco Veneziano, che Paulo II volle chiamarsi; questi di natura avarissimo cominciò a premere il Re Ferdinando, che gli pagasse tutti i censi decorsi, che dovea alla sua Chiesa, li quali per più anni non s'eran pagati; e Ferdinando, il quale aggravato per le eccessive spese della passata guerra, era rimase esausto di denari, non solo si scusò di potergli pagare, ma richiese al Pontefice di doverglieli rilasciare. E da quest'ora si sarebbe venuto a manifesta discordia, se il Papa volendo abbassare i figliuoli del Conte dell'Anguillara, non avesse avuto bisogno del Re, al quale ebbe ricorso, perchè gli mandasse le sue truppe, ciò che Ferdinando fece assai volentieri. Ma terminata l'impresa con li fratelli dell'Anguillara, queste differenze, che per alcun tempo erano rimase sopite, risursero di bel nuovo; poichè il Papa tornando a richiedere con maggior acerbità i censi di quello che avea fatto prima, obbligò il Re a dichiararsi, che non solo pretendeva, che i censi si dovessero rilasciare, anche per cagion delle spese, che ultimamente avea fatte in dargli soccorso; ma che per l'avvenire il censo, che prima importava ottomila once l'anno, si dovesse minorare; poichè prima questo censo si pagava non meno per lo Regno di Napoli, che per quello di Sicilia: onde possedendosi la Sicilia dal Re Giovanni d'Aragona suo zio, e non da lui, non era dovere ch'egli pagasse l'intero censo. Il Papa dall'altra parte esagerava gli ajuti, che il Re avea avuti dal suo predecessore, il quale gli avea salvato il Regno, ed allegava l'investiture date con questa legge, ed i tanti meriti della Chiesa[15]. E portandosi le querele or dall'uno ora dall'altro, ciascheduno aspettava congiuntura di coglier il tempo opportuno per far valere le sue ragioni; ma Ferdinando per farlo piegare a' suoi voleri, pose in campo un'altra pretensione, e faceva premurose istanze che se gli restituissero quelle Terre, che il Papa possedeva, le quali erano dentro i confini del Regno, cioè, Terracina in Terra di Lavoro e Cività Ducale, Acumoli e Lionessa nell'Apruzzo a' confini dello Stato della Chiesa; e ciò in vigore dell'accordo fatto nel 1443 da Papa Eugenio IV col Re Alfonso suo padre; come ancora pretese la restituzione di Benevento, la quale egli avea restituita al Pontefice Pio suo buon amico, e non volea che di vantaggio se la godesse ora un Pontefice a se sospetto ed odioso. Il Papa vedendo inasprito l'animo del Re, nè potendo colle forze e con altri maneggi resistergli, mandò subito in Napoli il Cardinal Rovarella suo Legato a placare il Re, il quale adempì così bene la sua incumbenza, che per allora non si parlò più di censi decorsi, nè di restituzione di quelle Terre.
Sursero poi fra di loro alcune altre contese per la difesa de' Signori della Tolfa, perchè il Papa pretendendo, che l'alume di rocca, che quivi nasce, fosse sua, assediò quel luogo: ma sopraggiunto l'esercito del Re, si posero subito le genti del Papa in fuga, lasciando l'assedio[16]. Le contese ch'ebbero i nostri Re co' Pontefici romani intorno quest'alume, furon sempre acerbe e continue; non pure nella Tolfa, ma anche ne' campi di Pozzuoli e d'Agnano, ebbero i Papi pretensione, che l'alume, che si fa in questi luoghi, spettasse alla Sede appostolica, delle quali controversie trattò il Chioccarello nel volume 21 de' suoi M. S. Giurisdizionali. La morte poi seguìta a 25 luglio del 1471 del Pontefice Paolo, e l'esaltazione in quella Cattedra a' 9 agosto del Cardinal Francesco della Rovere, che fu chiamato Sisto IV fece cessare tutte queste discordie; poichè Papa Sisto, purchè non si parlasse più delle pretensioni di Ferdinando, spedì al medesimo nel 1475 una Bolla, rapportata dal Chioccarello[17], nella quale gli rimette tutti i censi, e che durante la sua vita non fosse obbligato pagarglieli; ma, invece del censo, fosse obbligato mandargli ogni anno, per cagion dell'investitura, un palafreno bianco e ben guarnito[18], e conoscendo quanto questo Pontefice fosse di grande spirito, volle il Re apparentar con lui, e diede il Ducato di Sora (che avea tolto a Giovan Paolo Cantelmo) ad Antonio della Rovere, col quale poi collocò Caterina figliuola del Principe di Rossano, nata da Dionora d'Aragona sua sorella.
CAPITOLO III. Splendore della Casa Reale di Ferdinando, il quale, pacato il Regno, lo riordina con nuove leggi ed istituti: favorisce li Letterati e le lettere; e v'introduce nuove arti.
Ferdinando, calcando le medesime pedate del Re Alfonso suo padre, ora che si vide il Regno tutto placido e tranquillo, non trascurò in questi anni di felicità e di pace, di ordinarlo, di arricchirlo di nuove arti, di fornirlo di provide leggi ed istituti, e d'uomini letterati ed illustri in ogni sorte di scienze, e sopra tutto di Professori di legge civile e canonica; onde avvenne, che nel suo Regno, oltre lo splendore della sua casa Regale, cotanto presso di noi fiorissero i Giureconsulti e le lettere. E certamente Napoli videsi a questi tempi in quella floridezza che fu nel regno di Carlo II d'Angiò, per li tanti Reali, che adornavano il suo Palazzo. Ebbe Ferdinando non meno che Carlo, molti figliuoli, che illustrarono la sua Casa reale. Dalla Regina Isabella di Chiaramonte, oltre Alfonso Duca di Calabria, destinato suo successore nel Regno, ebbe Federico Principe tanto buono e savio, che il padre lo fece Principe di Squillace, indi Principe di Taranto e poi Principe d'Altamura. Ebbe Francesco, che lo creò Duca di S. Angelo al Gargano. Ebbe Giovanni, che da Sisto IV fu fatto Cardinale, ed era nomato il Cardinal d'Aragona[19]; ma questi due premorirono al padre. Ebbe ancora Eleonora, e Beatrice sue figliuole, che maritò una col Duca di Ferrara e l'altra col Re d'Ungheria.
Il Re Ferdinando rimaso vedovo della Regina Isabella nel 1477 si casò la seconda volta con Giovanna sua cugina figliuola del Re Giovanni d'Aragona suo zio, dalla quale ebbe una sola figliuola che chiamò col nome della madre pur Giovanna. Oltre di questi ebbe D. Errico e D. Cesare suoi figliuoli naturali, ed oltre alle femmine che maritò co primi Signori e Baroni del Regno.
A tanti Regali di Napoli s'aggiungeva ancora la famiglia del Duca di Calabria, il quale casato, come si è detto, con Ippolita Sforza figliola del Duca di Milano, avrà con lei procreati tre figliuoli, Ferdinando primogenito, che poi gli successe nel Regno, Pietro ed Isabella; ma Pietro premorì non meno al padre, che all'avo, e Isabella fu data in moglie a Giovanni Galeazzo figliuolo di Galeazzo Duca di Milano, il quale morto il padre fu sotto il baliato e tutela di Lodovico suo zio: quegli, che, come si dirà, pose in Italia tanti incendj, e fu cagione di tante rivoluzioni e disordini. La Casa regale di Napoli non avea in questi tempi da invidiare qualunque Corte de' maggiori Principi d'Europa; e narra Camillo Tutini, deplorando la sua infelicità nel supplemento della varietà della fortuna di Tristano Caracciolo, che un giorno in un festino celebrato in Napoli comparvero più di cinquanta persone di questa famiglia, tal che non si credea che si potesse estinguer mai; ed era sostenuta colla maggior splendidezza e magnificenza, così nelle congiunture delle celebrità, che si facevano per tante nozze ed incoronazioni, come per riguardo di tante Corti, che questi Reali tenevano e per tanti Ufficiali maggiori e minori della Casa e dell'ostello regale, li quali con molto fasto, mentre fu Napoli Sede Regia, si mantennero.
Non solo fu mantenuto il fasto e lo splendore della Casa regale, ma Ferdinando volle anche ristabilire nel Regno gli Ufficiali della Corona, i di cui uficj esercitati per la maggior parte da que' ribelli Baroni, che egli avea spenti, eran per le precedute rivoluzioni e disordini, rimasi vacanti. Per la morte del Principe di Taranto, dovendosi provvedere l'uficio di Gran Contestabile, egli n'investì Francesco del Balzo Duca di Andria. Vacando ancora per la ruina del Principe di Rossano il G. Ammirante, lo diede a Roberto Sanseverino Principe di Salerno. Per la ribellione di Ruggiero Acclocciamuro fece G. Giustiziere Antonio Piccolomini Duca d'Amalfi e Conte di Celano. Elesse per G. Protonotario Onorato Gaetano Conte di Fondi: per G. Camerario Girolamo Sanseverino Principe di Bisignano: per G. Cancelliere Giacomo Caracciolo Conte di Brienza e per G. Siniscalco D. Pietro di Guevara Marchese del Vasto. Questi Ufficiali durante il Regno degli Aragonesi erano nell'antico loro splendore e preminenza; anzi si videro ora più rilucere, quanto che Ferdinando non avea altri Stati e perciò proccurava ingrandire le loro prerogative per porre in maggior lustro il suo unico Regno.
Ancorchè questo Principe fosse stato terribile coi suoi Baroni per le precedute ribellioni, e s'avesse perciò acquistato nome di crudele e d'inumano; nientedimeno non tralasciava per acquistar benevolenza presso i suoi aderenti di innalzarli con onori e dignità. Accrebbe per ciò il numero de' Titoli e di Conti sopra ogni altro, creandone molti, come nel 1467 fece con Matteo di Capua, che lo creò Conte di Falena, con Scipione Pandone, facendolo Conte di Venafro, con D. Ferrante Guevara, che lo creò Conte di Belcastro e con tanti altri; ond'è che accrebbe il numero de' Titoli nel Regno assai più, che non fece il Re Alfonso, siccome si vede chiaro dal catalogo, che ne tessè il Summonte, numeroso assai più degli altri, così ne' tempi d'Alfonso, come degli altri Re angioini suoi predecessori.
Egli ancora, come si disse, fra gli altri Ordini di Cavalleria istituì nel Regno un nuovo Ordine, chiamato dell' Armellino di cui soleva molti ornare. L'istituì per le gare ch'ebbe col Principe di Rossano, il quale, come s'è detto essendosi dato alla parte del Duca Giovanni d'Angiò, non potendo colla forza vincere il nemico, rivoltossi agl'inganni, ed a' tradimenti, perchè nell'istesso tempo che, per via di nuove parentele col Re, erasi con lui pacificato e mostrava aver lasciato il partito di Giovanni, ordinò contro al Re nuovi trattati col Duca: di che accortosi Ferdinando lo fece pigliare, e mandato prigione a Capua, lo fece poi condurre a Napoli. Molti consigliavano il Re, che lo facesse morire; ma non vi consentì Ferdinando, dicendo, che non era giusto tingersi le mani nel sangue di un suo cognato, ancorchè traditore. Volendo poscia dichiarar questo suo generoso pensiero di clemenza, figurò un armellino, il qual pregia tanto il candor della sua politezza, che più tosto da' cacciatori si fa prendere, che imbrattarsi di fango, che coloro sogliono spargere intorno alla sua tana per pigliarlo. Si portava per ciò dal Re una collana ornata di gemme e d'oro coll'Armellino pendente, cui motto: Malo mori, quam foedari. Per opporsi al Duca Giovanni ed alla sua Compagnia de' Cavalieri detta de' Crescenti, istituì perciò egli quest'altra detta dell' Armellino, ornando di questa collana molti, facendogli Cavalieri; ed il Pigna[20] rapporta che fra gli altri, fece di questa Compagnia Ercole da Este Duca di Ferrara suo genero, al quale per Giovan Antonio Caraffa Cavalier napoletano mandò una di queste collane.
Oltre d'aver Ferdinando in tante maniere illustrato il Regno, come Principe provido ed amante dell'abbondanza e delle ricchezze de' suoi sudditi, egli facilitò i traffichi a' mercatanti, ed agevolò il commercio in tutte le parti non meno d'Occidente che d'Oriente; ma sopra tutto (di che Napoli deve confessar molto obbligo a questo Principe, e porre per una delle cagioni della sua grandezza, ed accrescimento de' suoi cittadini e delle ricchezze) fu l'avervi introdotte ed accresciute molte arti, e particolarmente l'arte di lavorar seta e tessere drappi e broccati d'oro.
Erasi quest'arte cominciata già ad introdursi in molte città d'Italia, ond'egli dopo la morte della Regina Isabella sua moglie nel 1456 pensò introdurla anche in Napoli, e fattosi da diversi luoghi chiamare più periti di quella, finalmente scelse Marino di Cataponte veneziano di quest'arte sperimentato maestro, il quale ricevuti dal Re in prestanza mille scudi per servirsene per lavorare, fece qui tessere drappi di seta e d'oro: e per maggiormente accrescerla fece franco ed immune d'ogni dogana e gabella tutto ciò che serviva per questo lavoro, concedendo che la seta, oro filato e la grana, ed ogni altra cosa bisognevole per servizio di quest'arte tanto per tingere quanto per tessere e far broccati e tele d'oro fosse esente da ogni pagamento[21]. Di vantaggio stabilì, che i lavoratori di quelli dovessero esser trattati e reputati in tutto come Napoletani: che nelle loro cause tanto civili, quanto criminali non possano essere riconosciuti da niuno Tribunale o Ufficiale, eccetto che da' loro Consoli: che tutti quelli di qualunque nazione si fossero, che in Napoli venissero ad esercitar quest'arte siano guidati ed assicurati e franchi e liberi da ogni commesso delitto, nè da altri potessero essere riconosciuti se non da' loro Consoli: che tutti coloro, che vorranno fare esercitare, o eserciteranno quest'arte, siano mercatanti, maestri, scolari o ajutanti, si debbano far scrivere nella matricola, o sia libro della lor arte, nel quale scritti che saranno, debbano godere di tutti i privilegi e capitoli conceduti o che si concederanno dal Re e suoi successori nel Regno: che in ogni anno nel dì di S. Giorgio, assembrati, dovessero eleggere tre Consoli per lo reggimento e governo di quella, i quali ogni Sabato dovessero tener ragione con amministrar loro giustizia. Molti altri privilegi furono da Ferdinando conceduti a quest'arte ed a Marino Cataponte. Altri ancora ne concedè a Francesco di Nerone fiorentino, al quale promise pagargli ducati trecento l'anno di provisione, acciò assistesse e la esercitasse in Napoli. Altri a Pietro de Conversi genovese, ed altri a Girolamo di Goriante pur fiorentino[22]. Li successori Re parimente nobilitarono quest'arte con nuove altre prerogative, tanto che si eresse perciò in Napoli un nuovo Tribunale, che si chiama della nobil arte della seta. Lo compongono i Consoli, il Giudice, ovvero loro Assessore e l'Avvocato fiscale di Vicaria vi puol anche intervenire[23]. Da' suoi decreti non dassi appellazione, se non al S. C. dove il Giudice fa le relazioni stando in piedi e con capo scoverto, nè se gli dà titolo di Magnifico, come rapporta il Tassoni nel suo universale magazzino.
Non è da tralasciare ciò che ponderò il Summonte[24] nella sua istoria di Napoli scritta, come ogni un sa, sono più che cento anni, che per quest'arte fu cotanto accresciuta Napoli e nobilitato il Regno, che concorrendo da tutte le parti molti a professarla, ed i naturali dandosi a quella, si vide la città accresciuta d'abitatori, e vivere la metà degli abitanti col guadagno d'essa, venendovi non pure dalle città e Terre convicine del Regno, ma anche intere famiglie da diverse parti d'Europa, tanto che a' suoi tempi, e' dice, che avea preso tanta forza, che per ciò la città si vide ampliata ed ingrandita forse un terzo più, che non era.
Così scrive quest'Autore quando i lussi e le pompe non erano arrivate a quella grandezza ed estremità, che abbiam veduto a' tempi nostri dopo un secolo e più ch'e' scrisse. Ora le cose sono ridotte al sommo e non vi è picciola donnicciuola, o vil contadino o artigiano, che non vestano di seta, quando ai tempi di questi Re d'Aragona, come ce n'è buon testimonio il Consigliere Matteo d'Afflitto, gli abiti serici non erano, che di Signore e Gentildonne[25].
Non pure quest'arte introdusse Ferdinando fra noi, ma pochi anni appresso, nel 1480, v'introdusse l'arte della lana e quasi gl'istessi privilegi concedè a' suoi Consoli. Volle che i professori si scrivessero nella matricola e che non fossero riconosciuti se non da' Consoli[26]. Surse per ciò un altro Tribunale, detto dell'arte della lana, che si compone di Consoli e loro Giudice ovvero Assessore; ed ove, sempre che voglia, può intervenire l'Avvocato fiscale di Vicaria. Parimente da' suoi decreti non s'appella, che nel S. C. ove si fanno le relazioni, e tiene molta conformità col Tribunale della nobil arte della seta.
Parimente negli anni 1458 e 1474 innalzò Ferdinando l'arte degli Orafi, istituendo il lor Consolato, a cui diede la facoltà d'aver cura de' difetti, che si commettessero nell'arte[27] e prescrisse il modo e la norma per evitar le frodi; ed ugual vigilanza praticò in tutte le altre arti, perchè maggiormente fiorissero, e le fraudi si togliessero.
CAPITOLO IV. Come si fosse introdotta in Napoli l'arte della stampa e suo incremento. Come da ciò ne nascesse la proibizione de' libri, ovvero la licenza per istampargli; e quali abusi si fossero introdotti, così intorno alla proibizione, come intorno alla revisione de' medesimi.
Ma quello di che Napoli e 'l Regno, e tutti gli uomini di lettere devono più lodarsi di questo Principe, fu d'essere stato egli il primo che introdusse in Napoli l'arte della stampa. Ferdinando fu un Principe non pur amante delle lettere, ma fu egli ancora letteratissimo; onde è, che nel suo Regno fiorissero tanti letterati in ogni professione, come diremo. Erasi l'arte dello stampare trovata nel principio di questo secolo verso l'anno 1428. Ma se deve prestarsi fede a Polidoro Virgilio, fu inventata nel 1451 da Giovanni Gutimbergo Germano, il quale in Erlem città d'Olanda cominciò ad introdurla. Si divolgò poi nelle città di Germania e nella vicina Francia. Due fratelli alemani, secondo scrive il Volaterrano, la portarono in Italia nell'anno 1458; uno andò in Venezia, l'altro in Roma, ed i primi libri che si stamparono in Roma, furono quelli di S. Agostino De Civitate Dei, e le Divine Istituzioni di Lattanzio Firmiano. Non guari da poi fu fatta introdurre in Napoli dal Re Ferdinando. Il Passaro narra, che nell'anno 1473 Arnaldo di Brassel Fiammengo la portasse, il quale accolto dal Re con molti segni di stima, gli concedè molte prerogative e franchigie. Altri rapportano che nell'anno 1471 fra noi l'introducesse un Sacerdote d'Argentina chiamato Sisto Rusingeno[28]. Che che ne sia, Ferdinando accolse i professori, e fece porre in opra la loro arte, onde s'incominciarono in Napoli a stampar libri. Fra i primi libri che qui s'imprimessero, furono i Commentarj sopra il secondo libro del Codice del famoso Antonio d'Alessandro; ed i libri di Angelo Catone di Supino, Lettor pubblico di Filosofia in Napoli, e Medico del Re Ferrante, il quale avendo emendato ed accresciuto il libro delle Pandette della medicina di Matteo Silvatico di Salerno dedicato al Re Roberto, lo fece stampare in Napoli nel 1474 da questo tedesco, che poco prima avea quivi da Germania portata la stampa[29]. Indi di mano in mano se ne stamparono degli altri, come l'opere d' Anello Arcamone sopra le Costituzioni del Regno e di tanti altri.
(Di queste prime stampe fatte in Napoli non se ne dimenticò l'Autore degli Annali Tipografici, rapportandole alla pag. 454).
Venne poi Carlo VIII in Italia ed avendo conquistato il Regno di Napoli, dimorando qui per sei mesi, quanto appunto lo tenne, alcuni Maestri francesi esperti in quest'arte subito vi si condussero e la ripulirono assai, riducendola in miglior forma, e rimase non così rozza com'era prima. Così tratto tratto, come suole avvenire di tutte le altre arti, si ridusse fra noi in forma più nobile, siccome si vede dall'impressione di alcuni libri fatti a questi tempi e fra gli altri dell' Arcadia del Sannazaro, che Pietro Summonte suo amico, mentre l'Autore seguendo la fortuna del Re Federico suo Signore dimorava in Francia, essendosi in Venezia due volte stampata piena d'errori e scorrettissima, la fece ristampare in Napoli in carta finissima e di buoni caratteri; e pure il Summonte si scusava col Cardinal d'Aragona a cui la dedicò, se la stampa non era di quella bellezza, la qual altra volta vi solea essere, e secondo per l'altre più quiete città d'Italia si costumava allora; poichè trovandosi Napoli per le rivoluzioni di guerra difformata, appena avea potuto avere comodità di quel carattere.
Ma venuto da poi in Napoli l'Imperador Carlo V ai conforti ed istanze del famoso Agostino Nifo da Sessa celebre Filosofo e Medico dell'Imperadore e suo famigliare, fu questa arte favorita molto più, e posta in maggior polizia e nettezza; poichè questo Imperadore nel 1536 concedè alla medesima, ed a' suoi professori grandi privilegi e franchigie, facendogli esenti da qualunque gabella, dogana o altro pagamento, tanto per la carta bianca che serve per la stampa de' libri e figure, quanto per tutte quelle cose che bisognano a perfezionarla; del qual privilegio, oltre il Summonte[30], ne rendono testimonianza fra' nostri Scrittori, Toro[31] ed il Consigliere Altimari[32]. Tanto che per li favori di questo Principe s'accrebbero in Napoli le stamperie: ed i letterati, vedendosi cotanto favoriti, s'ingegnarono mandare i parti de' loro ingegni in istampa; ed imprimendosi i libri degli Antichi, che prima scritti a penna, ed in membrane erano rari e non per tutti, recò ad essi grandissimo giovamento, non solo per aver libri con facilità, ma anche ben corretti. Quindi si videro fiorire per l'Accademie e crescer il numero de' letterati non solo in Napoli, ma nelle altre città del Regno, ove furon ancora introdotte le stamperie, come nell'Aquila, in Lecce, in Cosenza, in Bari, in Benevento ed in alcune altre. E l'edizioni riuscivan perfettissime in carte finissime e d'ottimi caratteri, come si può vedere da alcuni libri stampati in quei tempi, e fra gli altri dalle poesie di Bernardino Rota, dall'opere legali di Cesare Costa Arcivescovo di Capua e di tante altre, delle cui prime edizioni se ne veggono moltissime nella libreria di S. Domenico Maggiore di questa città.
Siccome la invenzione di quest'arte fu riputata a questi tempi la più utile e necessaria per lo commercio delle lettere, così ancora ne' susseguenti tempi venne ad apportarci danno; poichè gli uomini dati alla lezione di tanti libri che uscivano, caricavano sì bene la lor memoria d'infinite erudizioni, ma la riflessione mancava; onde non si videro, se non rari uomini di ingegno grande, e che facendo buon uso de' loro talenti, avessero potuto per se medesimi stendere le cognizioni e le scienze. Ancora presso di noi, nel precedente secolo, cominciò a recarci degli altri incomodi e delle confusioni: poichè tutti pretendendo esser dotti e savj, vedendo la facilità della stampa e la poca spesa che vi bisognava, venne uno stimolo universale agli uomini di lettere di stampar ciò che loro usciva di capo di penna in qualunque professione: onde nel secolo 17 si videro in istampa infiniti volumi impressi per la maggior parte da' Frati e da' Legisti, per lo più insipidi e pieni di cose vane ed inutili. Gli Stampatori davano loro fomento, e fecero, per non isgomentargli della spesa, fabbricar una carta d'inferior qualità, della quale regolarmente si servivano nella impressione de' loro libri, che poi chiamarono carta di stampa. Ma perciò non si tralasciarono da' più culti le edizioni in carte finissime e di ottimi caratteri. Tanto ha bastato all'avidità ed ingordigia de' pubblicani de' nostri tempi, che con tutto che l'Imperador Carlo V avesse conceduto privilegio di franchigia agli Stampatori per la carta bianca che dovea lor servire per uso di stampa, di pretendere che questa franchigia di dogana e d'ogni altra gabella dovesse ristringersi per la carta di stampa, non già ad altre carte di miglior qualità: quasichè in queste non si potesse stampare, ovvero prima d'introdursi questa diversità di carte, non si fosse stampato in carta finissima, ed in tutti i tempi dai più culti letterati non si fosse quella adoperata.
§. I. Abusi intorno alle licenze di stampare e di proibire i libri.
Il buon uso della stampa, che produsse al Mondo tanti comodi ed utilità, per la pravità degli Autori, e per la facilità e prontezza che molti aveano di pubblicare ciò che loro usciva dalla penna, si converti da poi in un altro mal uso. L'eresia di Lutero che sparsa per la Germania minacciava le altre parti di Europa, per questa via della stampa si disseminava per varj libri: onde bisognò che i Principi vi ponessero occhio, e regolassero colle loro leggi l'uso di quella. I Pontefici romani vi badarono assai più e con maggiore oculatezza, come quelli che colla libertà della stampa potevano ricevere maggior danno che i Principi secolari: per ciò, e dagli uni e dagli altri, furon in diversi tempi, dopo essersi quest'arte introdotta, fatte molte proibizioni e divieti.
Ma i Pontefici romani tentarono anche da poi sopra ciò far delle sorprese; poichè pretesero che di lor sulamente fosse il proibire le stampe, anche con pene temporali, e conceder le licenze per le impressioni. Il Cardinal Baronio nel XII tomo de' suoi Annali, scrivendo per la propria causa, quando da Filippo III gli fu proibito il suo tomo XI nel quale, quando men dovea, volle combatter la Monarchia di Sicilia, fu il primo a dirlo arditamente[33]. Ma essendosegli dato da quel Principe conveniente gastigo, niuno ardì difendere l'impresa del Cardinale; poichè, siccome fu da noi rapportato nel secondo libro di quest'istoria, l'antica disciplina della Chiesa era, che trattandosi di Religione, la censura apparteneva a' Vescovi, ma la proibizione al Principe. Gl'Imperadori, dopo la censura de' Vescovi o del Concilio, proibivano con pene temporali i libri degli Eretici e gli condennavano al fuoco: di che nel Codice Teodosiano abbiamo molti esempj. l Padri del Concilio Niceno I dannarono i Codici d'Ario; e poi Costantino M. fece editto proibendogli, e condennandogli ad essere bruciati; e lo stesso fu fatto de' libri di Porfirio[34]. I Padri del Concilio Efesino dannarono gli scritti di Nestorio, e l'Imperadore promulgò legge proibendone la lezione e la difesa[35]. Il Concilio di Calcedonia condennò gli scritti d'Eutiche: e gl'Imperadori Valentiniano e Marciano feron legge, dannandogli ad esser bruciati[36]. Il medesimo fu praticato da Carlo M.[37], e così dagli altri Principi ancora ne' loro dominj. E per non andar tanto lontano, Carlo V nel 1550 promulgò in Brusselles un terribile editto contro i Luterani, nel quale, fra le altre cose, proibì rigorosamente i libri di Lutero, di Giovanni Ecolampadio, di Zuinglio, di Bucero e di Giovanni Calvino, li quali da 30 anni erano stati impressi, e tutti quelli di tal genere che da' Teologi di Lovanio erano stati notati in un loro Indice a questo fine fatto[38]; poichè a' Principi appartiene che lo Stato non solamente da' libri satirici, sediziosi e scostumati o pieni di falsa dottrina non venga perturbato, ma anche da perniziose eresie. E siccome a' Vescovi s'appartiene la censura, perchè la disciplina o la dottrina della Chiesa non sia corrotta; così a' Principi importa che lo Stato non si corrompa, e che li suoi sudditi non s'imbevino d'opinioni, che ripugnino al buon governo: nel che ora più che mai è bisogno, che veglino per le tante nuove dottrine introdotte contrarie all'antiche ed a' loro interessi e supreme regalie; poichè da quelle ne nascono le opinioni, le quali cagionano le parzialità che terminano poi in fazioni, e finalmente in asprissime guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza han sovente tirati seco eserciti armati.
Nel nostro Regno i nostri Re ributtaron sempre con vigore questi attentati, e si lasciò a' Vescovi la sola censura, ma non che sotto pene temporali potessero vietar le stampe: nè che queste proibizioni s'appartenessero ad essi unicamente, ma furon anche dai nostri Re fatte o da' loro Vicerè, ed in cotal guisa fu mai sempre praticato.
Papa Lione X a' 4 maggio del 1515 pubblicò una Bolla, che fece approvare dal Concilio Lateranense, colla quale proibì che non si potessero stampare libri senza licenza degli Ordinarj ed Inquisitori delle Città e Diocesi, dove dovranno stamparsi: ponendovi pena che quelli che gli stampassero senza questa approvazione, perdessero i libri, li quali dovessero pubblicamente bruciarsi. Di vantaggio impose pena pecuniaria, di doversi pagare da trasgressori ducati cento alla fabbrica di S. Pietro di Roma, e che gli Stampatori per un anno restassero sospesi dall'esercizio di stampare: gli dichiara ancora scomunicati, e persistendo nella censura, che siano gastigati conforme i rimedj della legge.
Ma questa Bolla, per quello che s'attiene alla pena pecuniaria e sospension dell'esercizio e perdita dei libri, non fu fatta valere nel nostro Regno, e sol ebbe vigore nello Stato della Chiesa.
Il Concilio di Trento nella sessione 4[39], che fu celebrata a' 8 Aprile del 1546, ancorchè avesse proibito agli Stampatori di stampare senza licenza de' Superiori ecclesiastici libri della Sagra Scrittura, annotazioni e sposizioni sopra di quella: e che non si stampassero libri di cose sagre senza nome dell'Autore, nè quelli si vendessero o tenessero, se prima non saranno esaminati ed approvati dagli Ordinarj, sotto quelle pene pecuniarie e di scomunica apposte nell'ultimo Concilio Lateranense; nulladimanco questo capo, per ciò che riguarda la pena pecuniaria, non fu ricevuto nel Regno, ed agli Ordinarj si è lasciato di poter solo imporre spiritual pena, non già pecuniaria o temporale.
Si mantennero ancora i nostri Re, ovvero i loro Vicarj nel possesso di proibirli, stabilendo molte prammatiche e editti, colle quali proibirono le stampe senza lor licenza; ed abbiamo che D. Pietro di Toledo Vicerè, mentre regnava l'Imperador Carlo V, diede ancor egli provvedimenti intorno alla stampa de' libri, ed a' 15 ottobre del 1544 promulgò una prammatica, colla quale ordinò che i libri di teologia e sagra scrittura, che si trovassero stampati nuovamente da 25 anni in quà, poichè per la pestilente eresia di Lutero sparsa per la Germania, cominciava a corrompersi la dottrina e disciplina della Chiesa romana, non si ristampassero, e quelli stampati non si potessero tenere nè vendere, se prima non si mostrassero al Cappellan maggiore, acciò quelli visti e riconosciuti potesse ordinare quali si potessero mandar alla luce. Di vantaggio, che quelli libri di teologia e sagra Scrittura, che fossero stampati senza nome dell'autore, e quegli altri ancora, i di cui Autori non sono stati approvati, che in nessun modo si potessero vendere nè tenere. E poi nel 1550 a' 30 novembre stabilì un'altra prammatica, colla quale generalmente ordinò, che non si potesse stampare qualsivoglia libro senza licenza del Vicerè, nè stampato vendersi.
Il Duca d'Ossuna Vicerè, nel medesimo tempo che il Pontefice Sisto V stabilì in Roma la Congregazione dell' indice, a' 20 marzo del 1586, regnando Filippo II, promulgò altra prammatica colla quale ordinò, che gli autori del Regno o abitanti in esso, non facessero stampar libri nè in Regno, nè fuori senza licenza del Vicerè in scriptis. E finalmente il Conte d'Olivares, che fu Vicerè nel Regno di Filippo III, a' 31 agosto del 1598 fece anche prammatica, proibendo agli Stampatori di poter aprire stamperie nè casa per istampare, senza espressa licenza del Vicerè in scriptis.
Quindi nacque presso noi il costume di destinarsi dal Vicerè, Ministro o altra persona per la revisione de' libri: e ciò vedesi praticato sin da' tempi del Duca d'Alcalà Vicerè, il quale a' 23 novembre del 1561 spedì commessione, che fu poi rinovata a' 8 maggio 1562, al P. Valerio Malvasino persona da lui ben conosciuta d'integrità e dottrina, deputandolo Regio Commessario a vedere e riconoscere i libri, che venivano da Germania, dalla Francia e da altre parti nel Regno di Napoli, perchè trovatili infetti d'eresia proibisse di venderli o di tenerli[40]. Fu da poi destinato Ministro regio di sperimentato zelo verso il servizio del Re, e d'eminente dottrina: questo costume l'abbiam veduto continuato sin a' tempi de' nostri avoli; ma ora queste revisioni soglionsi commettere anche ai privati, e sovente a persone di poca buona fede e di molto minor dottrina: ciò ch'è un abuso, che meriterebbe un conveniente rimedio.
Si è ritenuto ancora presso noi il costume di proibirli, quando o contra i buoni costumi, o contra i diritti del Principe della nazione, ovvero contra la fama e riputazione d'alcuni, siansi composti; siccome a dì nostri dal Vicerè e suo collateral Consiglio fu proibito un libro, per altro sciocchissimo e pieno di inezie, che il Marchese Gagliati diede alle stampe sotto il titolo di capricciose fantasie.
Queste proibizioni erano praticate, siccome tuttavia si pratica sopra qualunque libro o scrittura anche dei Prelati o altre persone ecclesiastiche, che venisse preteso di stamparsi. Nel Regno di Filippo II il Nunzio del Papa residente in Ispagna portò querela al Re Filippo contro il Duca d'Alcalà suo Vicerè in Napoli, il quale avea proibito agli Stampatori d'imprimer cosa alcuna senza sua licenza, e che perciò l'Arcivescovo di Napoli e tutti gli altri Prelati del Regno non potevano far stampare cosa alcuna, anche concernente al loro uficio: di che il Re Filippo ne scrisse al Duca, il quale a' 17 aprile 1569 l'informò di ciò che occorreva con piena consulta, dicendogli che egli avea fatto quell'ordine, perchè il Vicario di Napoli, siccome tutti gli altri Prelati del Regno, stampavano molti editti pregiudiciali alla regal giurisdizione, e sovente facevano imprimere Bolle, alle quali non era stato conceduto l' Exequatur Regium[41]. Quindi postosi silenzio alle pretensioni del Nunzio, nacque che poi i Vescovi quando volevano stampare i loro Sinodi, i loro editti, insino i calendarj circa l'osservanza delle loro diocesi, anche i Brevi dell'indulgenze concedute dal Papa alle loro chiese e cose simili, ricorrevano al Vicerè e suo collateral Consiglio per la licenza. Così leggiamo, che volendo l'Arcivescovo di Napoli Annibale di Capua stampar un Concilio provinciale, cercò licenza di farlo, e dal Collaterale, a primo febbrajo del 1580, gli fu data con riserba, che se in quello vi era alcuna cosa contro la regal giurisdizione, si avesse per non data nè consentito a quella in modo alcuno. L'Arcivescovo di Capua per mezzo del suo Vicario chiese il permesso di poter far stampare un nuovo Calendario circa l'osservanza delle feste della sua Diocesi, e rimessane la revisione al Cappellan maggiore, questi a' 5 novembre del 1582 fece relazione al Vicerè, che poteva darsi la licenza. Il Vescovo d'Avellino dimandò l' Exequatur Regium e la licenza di poter far stampare un Breve d'indulgenze concedute dal Papa alla sua Chiesa nel dì di S. Modestino, e commessosi l'affare al Cappellan maggiore, questi a' 26 aprile del 1577 fece relazione al Vicerè che potevasi dare l' Exequatur al Breve e la licenza di stamparlo[42]. Ciò che poi si è inviolabilmente osservato, sempre che i Ministri del Re han voluto adempire alla loro obbligazione ed aver zelo del servigio del loro Signore.
§. II. Abusi intorno alle proibizioni de' libri che si fanno in Roma, le quali si pretendono doversi ciecamente ubbidire.
Bisognò ancora rintuzzare un'altra pretensione della Corte di Roma intorno a quest'istesso soggetto della proibizion de' libri. Pretendevano, che a chiusi occhi i Principi cristiani dovessero far valere ne' loro dominj tutti i decreti che si profferivano in Roma dalle Congregazioni del S. Ufficio o dell' Indice, per li quali venivano i libri proibiti, e che non stassero soggetti questi decreti a' loro Regj placiti, onde dovessero da noi eseguirsi, senza bisogno d' Exequatur Regium. Della cui necessità e giustizia, sarà da noi diffusamente trattato ne' seguenti libri di quest'Istoria.
Ma non meno in Francia che in Ispagna, in Germania, Fiandra ed in tutti gli altri Stati de' Principi cattolici, che nel nostro reame (sempre che s'abbia voluto usare la debita vigilanza) fu lor ciò contrastato, e come ad un attentato pregiudizialissimo alla sovranità de' Principi, se gli fece valida l'esistenza; tanto che siccome tutte le Bolle, rescritti ed altre provisioni che vengono di Roma, non si permettono, che si pubblichino e si ricevano senza il placito Regio; così ancora i decreti fatti sopra la proibizione de' libri soggiacciano al medesimo esame. Anzi se mai i Principi ed i loro Ministri devono usar vigilanza nelle altre scritture che vengono di Roma, in questi decreti devono usarla maggiore; così perchè si sa la maniera, come in Roma i libri si proibiscono, come ancora il fine perchè si proscrivono, ed i disordini e scandali che potrebbero cagionare ne' loro dominj, se si lasciassero correre a chiusi occhi.
Si sa che i Cardinali che compongono queste due Congregazioni onde escono tali decreti, non esaminano essi i libri: alcuni per la loro insufficienza, altri perchè distratti in occupazioni riputate da essi di maggiore importanza, non possono attendere a queste cose, e molto meno il Papa, da chi sarebbe impertinenza il pretenderlo. Essi commettono l'esame ad alcuni Teologi che chiamano Consultori, ovvero Qualificatori, per lo più Frati, i quali secondo i pregiudicj delle loro scuole regolano le censure. Ciò, che non consente colle loro massime, riputano novità, e come opinioni ereticali le condannano. I Casuisti, che s'han fatta una morale a lor modo, giudicano pure secondo que' loro principj. Ma il maggior pregiudicio nasce quando si commette l'affare a' Curiali istessi ed agli Ufficiali e Prelati di questa Corte per esaminar libri attenenti a cose giurisdizionali; può da se ciascun comprendere, quanto in ciò prevaglia l'adulazione in ingrandire l'ecclesiastica e deprimere la temporale. Si sa quanto da costoro s'estolle sopramodo l'autorità del romano Pontefice sopra tutti i Principi della terra, insino a dire che il Papa può tutto, e la sua volontà è norma e legge in tutte le cose: che i Principi ed i Magistrati siano invenzioni umane; e che convenga ubbidir loro solamente per la forza; onde il contraffar le loro leggi, il fraudar le gabelle e le pubbliche entrate, non sia cosa peccaminosa, ma solo gli obbliga alla pena, la quale o colla fuga o colla frode non soddisfacendosi, non per ciò restano gli uomini rei innanzi la Maestà Divina, compensandosi col pericolo che si corre: ma per contrario, che ogni cenno degli Ecclesiastici, senza pensar altro, debbia esser preso per precetto divino ed obblighi la coscienza. Sono tanti arghi e molto solleciti e vigilanti, perchè non si divulghi cosa contraria a queste loro mal concepite opinioni. Ed è ormai a tutti per lunga esperienza noto, che la Corte di Roma a niente altro bada più sollecitamente che di proscrivere tutti i libri che sostenendo le ragioni de' Principi, i loro privilegj, gli statuti, le consuetudini de' luoghi e le ragioni de' loro sudditi, contrastano queste nuove loro massime e perniziose dottrine.
Fatte che hanno questi qualificatori le censure le portano a' Cardinali, i quali senza esaminarle in conformità di quelle condannano i libri. E lo stile d'oggi in formar tali decreti è pur troppo grazioso: si condanna semplicemente il libro, senza censura e senza esprimersi o designarsi niuno particolar errore, che avrebbe forse potuto dar occasione alla proibizione; ma generalmente come continente proposizioni ereticali, scismatiche, erronee contro i buoni costumi, offendenti le pie orecchie e cose simili, e senza impegnarsi a spiegare quali siano l'ereticali, l'erronee etc. se ne liberano con una parola respective, lasciando l'autore ed i lettori nell'istessa incertezza ed oscurità di prima. L'esperienza ha poi mostrato, che per queste sorti di proibizioni ne siano nate presso i Teologi stessi gravi contrasti, li quali sovente han perturbato lo Stato, perchè accaniti i Frati di opinione contraria, non han mai finite le risse e le contese.
Parimente a questi decreti sogliono andar congiunte alcune clausole penali contro i lettori e detentori dei vietati libri che sovente toccano la temporalità de' sudditi o conturbano i privilegj ed i costumi delle province. Sovente per alcuni errori che si trovano sparsi in un libro, che a' Professori ed alla Repubblica sarà utilissimo, si proibisce interamente il libro; onde lo Stato viene a riceverne incomodo e danno.
Per tutte queste ed altre ragioni, non meno i più saggi Teologi[43], che la pratica inconcussa di tutte le province d'Europa, han fatto vedere che si appartenga al Principe, non meno che fassi nell'altre provisioni che vengono da Roma, d'invigilare sopra questi decreti. Qualunque decreto che venga da Roma da queste Congregazioni o editto che si faccia dal Maestro del Sagro Palazzo, onde vengono i libri vietati, non è stato mai esente dal placito regio ma fu sempre sottoposto ad esame: siccome lo stile di tutte le province cristiane il quale ebbe il suo principio, sin che da Roma cominciarono ad uscire queste proibizioni, lo dimostra. E ben si vide praticato nell' Indice stesso volgarmente detto Tridentino, fatto compilare dal Pontefice Pio IV poco da poi terminato il Concilio.
Secondo l'antica disciplina della Chiesa, la censura de' libri s'apparteneva a Concilj, siccome il Concilio Niceno, Efesino e di Calcedonia fecero de' libri d'Arrio, di Nestorio e d'Eutiche. Volendo i PP. del Concilio di Trento seguitare le medesime pedate, da poi che quello fu ripigliato sotto il Pontefice Pio IV, proposero in una Congregazione tenuta in Trento a' 26 gennaio del 1562 che dovessero esaminarsi i libri dati fuori dopo l'eresie nate in Germania ed altrove, e sottoporsi alla censura del Concilio, acciò che determinasse quello, che gli parrebbe: fu conchiuso, che si commettesse ad alcuni PP. la cura di farne Catalogo, ovvero Indice di quelli e de' loro Autori; siccome da' Presidenti di esso fu data la commessione a diciotto Padri, a' quali poi con decreto del Concilio fu incaricato, che diligentemente esaminassero i libri riferendo poi al Sinodo ciò che aveano notato, per darvi providenza[44]. Essendosi da poi affrettata la conchiusione del Concilio, di quest'affare dell' Indice non se ne trattò altro, ma solamente nell'ultimo giorno che quello ebbe fine, essendosi letto il decreto della sessione 18 fu risoluto, che non essendosi potuto dal Concilio porre a quest'affare l'ultima mano per tanta moltitudine e varietà di libri, ordinava per ciò che tutto quello, che i Padri destinati alla cura di quest'Indice avean fatto, che lo presentassero al Pontefice, dalla cui autorità e parere si determinasse l' Indice e fosse divulgato.
In conformità di ciò, essendosi disciolto il Sinodo fu da que' Padri presentato al Pontefice Pio IV un Indice, ove aveano notati gli Autori ed i libri, che riputavano doversi proscrivere. Il Pontefice, come egli testimonia nella sua Bolla pubblicata per ciò in forma di Breve, che incomincia: Dominici gregis, fece esaminar da altri dotti Prelati l' Indice, e dice averlo anche egli letto; onde lo fece pubblicare con alcune Regole, che si dicono perciò dell' Indice, dando fuori quella Bolla, nella quale comanda, che quell' Indice con le Regole ivi aggiunte, debba da tutti riceversi, ed osservarsi sotto gravissime pene e censure. Minacciansi tutti coloro, che leggeranno, o riterranno quei libri in quest'Indice contenuti: dichiara, che questa proibizione, dopo tre mesi, da che sarà la Bolla pubblicata ed affissa in Roma, obbligherà tutti in maniera, ac si ipsismet hae literae editae, lectaeque fuissent[45].
Fu quest'Indice diviso in tre classi. Nella prima, non i libri, ma i nomi degli Autori solamente s'esprimono, perchè tutti conoscessero, che venivano proibite non solo le opere già stampate, ma anche quelle da stamparsi da loro. Nella seconda, si riferiscono i libri, i quali per la non sana dottrina, o sospetta che contengono, si ributtano, ancorchè gli Autori non fossero separati dalla Chiesa. La terza abbraccia quei libri, che senza nome d'Autore uscirono alla luce e che contengono dottrina, che, come contraria a' buoni costumi ed alla Chiesa romana, si è riputato dannarla.
Ma siccome pubblicati che furon in Roma i decreti del Concilio, non per ciò nell'altre regioni d'Europa furono quelli attinenti alla disciplina ed alla riforma universalmente ricevuti, come al suo luogo diremo; così ancora pubblicato che fu quest' Indice in Roma, non ostante la Bolla di Pio, non fu senz'esame ricevuto, nè accettato in tutte le sue parti in Francia, in Spagna, nelle Fiandre ed in altre province cristiane.
Diedesi l'Indice ad esaminare a' Collegi, alle Università e ad uomini dottissimi di ciascun paese. In Francia, la cosa è pur troppo nota, che quelle Università vi vollero la lor parte, nè lo ricevettero in tutto secondo il suo vigore.
In Spagna parimente il Re Filippo II lo fece esaminare dalle sue Accademie ed Università, nè fu in tutto ricevuto; poichè fra gli altri libri, l'opere di Carlo Molinco, arrolate nell'Indice Tridentino fra gli Autori di prima classe, non tutte furono vietate, alcune furono permesse, altre con piccola espurgazione parimente permesse. Quindi sursero in Spagna, ed altrove gl' Indici Expurgatorj; poichè i Prelati e le Università ed i Collegj di ciascuna provincia vollero in ciò avervi anche la lor parte e credettero, che la lor censura fosse più esatta per le province ove dimorano, ed il Principe sa meglio ciò che nel suo Stato possa apportar quiete, o incomodo, o disordine, che non si sa di fuori. Così in Spagna s'è introdotto stile di farsi questi Indici. E dall' Indice Expurgatorio fatto compilare per comandamento del Cardinal Gaspare di Quiroga Arcivescovo di Toledo e General Inquisitore di Spagna, ed impresso nel 1601, manifestamente si vede, che in Spagna l' Indice Tridentino non fu giammai in tutto e secondo il suo rigore ricevuto.[46]
Parimente l'istesso Filippo II non solo ne' suoi Regni di Spagna, ma in tutti gli altri suoi dominj, volle che l'istessa vigilanza si fosse usata; e siccome fece de' decreti del Concilio, con maggior ragione dovea premere, che per quest'Indice Tridentino si facesse. Nella Fiandra divulgato che fu, non per ciò fu ciecamente ricevuto; ma per autorità Regia si diede ad esaminare. Essendosi osservato, che in quello si proscriveano molti libri in ogni facoltà e scienza, i quali gastigati e purgati da alcuni errori e false opinioni, poteva di quelli aversi buon uso e leggersi con utilità e profitto: narra Van-Espen[47], dotto Prete e gran Teologo dell'Università di Lovanio, che il Duca di Alba, allora Governatore di quelle province, in nome del Re Filippo II comandò, che si fossero conservati que' libri proscritti dall'Indice Romano, e solamente fece bruciare l'opere degli Eresiarchi. Ma perchè da que' riserbati non si cagionasse danno, commise a' Prelati ed alle Università ed agli uomini letterati di quelle province che esaminassero que' libri, notassero gli errori e gli espurgassero, con farne particolari Indici. Fu con ogni diligenza ciò eseguito e presentati poi al Duca gl'Indici, instituì egli in Anversa un Collegio di Censori, al quale per l'Ordine ecclesiastico presedè un Vescovo, ed in nome del Re vi fu proposto il famoso Teologo Arias Montano, quel medesimo, ch'era intervenuto al Concilio in Trento. Questi Censori con ogni diligenza e maturità esaminarono di nuovo i libri contenuti in que' Cataloghi, conferirono i luoghi notati da' primi Censori con gli esemplari, e ne formarono un'esatta Censura; dando poi fuori un libro, al quale diedero questo titolo, Index Expurgatorius. Quest'Indice poi nel 1570, per ispezial diploma del Re Filippo II, fu approvato, e per sua regal autorità fu comandato, che s'imprimesse, come fu fatto e di quello si servirono poi tutte quelle province, non già del Romano. Erano questi due Indici fra loro differenti: in questo Expurgatorio di Fiandra, più libri, che per l'Indice romano erano assolutamente proscritti, furono ritenuti e permessa la lor lezione, essendosi solo in alcuni usata qualche espurgazione ed emendazione: siccome, per tralasciarne molti, fu fatto dell'opere istesse di Carlo Molineo, affatto proscritte e totalmente condannate dall'Indice Romano, le quali con piccola emendazione furono permesse. Il Commentario alle Consuetudini di Parigi dello stesso Molineo, fu senz'alcuna correzione ritenuto, dicendosi: In hoc opere nihil est, quod haeresim sapiat, quapropter admittitur. De' suoi trattati De donatione, et inofficioso testamento, pur si disse: Nihil habent, quod Religioni adversetur, aut pias aures offendere possit, quapropter admittitur. E così di molte altre sue opere fu giudicato.
Questa fu la pratica, che cominciò ne' Dominj dei Principi cristiani, nell'istesso tempo che da Roma si cominciarono a far Indici proibitorj di libri. Molto più fu ne' seguenti tempi continuata, quando i Principi s'accorsero, che in Roma si badava molto a questo affare, e ch'era entrata in pretensione di poter sola proibire i libri, e che senza altra promulgazione ed accettazione, che di quella fatta in Roma, nelle altre province dovesse valere ciò che in Roma veniva stabilito. Fondossi a tal effetto nel Pontificato di Sisto V una nuova Congregazione di Cardinali, chiamata per ciò dell' Indice: e così questa, come l'altra del S. Uficio, ed il Maestro del Sagro Palazzo Appostolico, non badavano ad altro. Ma non perciò s'arrestarono i Principi ne' loro Reami far valere le loro ragioni e preminenze, così di non permettere impressione di libro alcuno senza lor licenza, nè senza il consueto exequatur regium far osservare le proibizioni di Roma, come anche di proibire essi i libri, come si è detto di sopra.
La loro vigilanza vie più crebbe, quando s'accorsero, che in Roma erano più frequenti, che prima le proibizioni; e che qualunque libro che usciva, nel quale si difendevano le regalie di qualche Principe, o si facevano vedere le intraprese della Corte di Roma sopra la loro autorità e giurisdizione a' diritti delle Nazioni, erano pronti i decreti della Congregazione dell'Indice, e gli editti del Maestro del Sagro Palazzo a proibirlo.
Per questa cagione furono avvertiti di non permettere, che simili proibizioni fossero ne' loro Reami ricevute. I Re di Spagna, come dice Salgado[48], non meno che i Re di Francia, avendo avvertito, che in Roma erano questa sorte di libri affatto vietati, solo perchè in quelli si fondavano le regalie e la giurisdizione de' Re e le ragioni de' loro sudditi; per riparare ad un così grave pregiudizio, ordinarono, che i Brevi appostolici e consimili decreti o editti fossero portati alla suprema Inquisizione di Spagna, e secondo il costume usitatissimo ne' Regni di Spagna, fossero ritenuti, nè permessa la loro pubblicazione e molto meno l'esecuzione, affinchè non allacciassero le coscienze de' sudditi per queste proibizioni, non ad altro fine procurate, che per annientare le ragioni de' Principi e delle Nazioni.
Questo medesimo fecero valere nelle province di Fiandra, e quel ch'è da notare, nel nostro Regno di Napoli ancora, cotanto a Roma vicino, ed al quale sovente gli Spagnuoli, per vantaggiar le condizioni dei Regni loro di Spagna, permisero, che molti aggravj dalla Corte di Roma sofferisse.
Il Pontefice Clemente VIII, dopo la Giunta di Sisto V, accrebbe l'Indice Romano e fatto di nuovo imprimere e pubblicare, in tutto il tempo del suo Pontificato tenne così esercitata la Congregazione dell'Indice ed il Maestro del Sagro Palazzo, che non vi fu anno, che da Roma non uscissero decreti e editti proibitorj. Dal primo anno del nuovo secolo 1601, e per li seguenti anni insino alla sua morte, non uscivano altro da Roma, che questi decreti e editti, per li quali furono successivamente proibiti molti libri di quasi tutte le professioni e scienze, sol perchè o gli Autori erano separati dalla Chiesa, o perchè sostenevano le regalie, o altre ragioni di Principi, o perchè qualche errore fosse in quelli trascorso. Furono proibiti molti libri legali, fra gli altri con molto rigore l'opere di Molineo, li trattati di Alberico Gentile, di Giovanni Corasio, di Scipione Gentile e di tanti altri.
Infra questi il nostro reggente Camillo de Curte, che, come diremo, fu uno de' più rinomati nostri Professori di que' tempi, diede in Napoli, nel 1605, alle stampe una sua opera intitolata: Diversorii juris Feudalis Prima, et Secunda Pars: nella seconda parte della quale trattò de' remedj, che sogliono praticarsi nel Regno per difesa della giurisdizione regale, affinchè nè i diritti regali ricevano oltraggio, nè i suoi vassalli siano oppressi da' Prelati, usurpando la regal giurisdizione: dichiara in questo libro il modo solito e per lungo uso stabilito di resister loro: cioè nel principio di farsegli una, due e tre ortatorie: quando queste non bastano, di chiamargli: non obbedendo alla chiamata, di sequestrar loro le temporalità e carcerare i parenti più a lor congiunti, i servidori, anche gli amici: e per ultimo, non volendo obbedire, di cacciargli dal Regno. Modi legittimi, permessi ed approvati da una inveterata pratica di tutti i Regni d'Europa. Ma il libro appena fu dato alla luce, che ecco si vide nel medesimo anno uscir da Roma un editto, col quale fra gli altri libri venne anche severamente proibito questo, con tali parole: Camilli de Curtis secunda pars Diversorii, sive Comprensorii juris Feudalis, Neapoli apud Constantinum Vitalem 1605 omnino, et sub anathemate prohibetur[49].
Il Conte di Benavente, che si trovava allora Vicerè in Napoli, intesa la proibizione, non volle a patto veruno concedere Exequatur all'editto; anzi a' 14 decembre del medesimo anno, scrisse una grave consulta al Re Filippo III, nella quale fra l'altre cose occorsegli in materia di giurisdizione, gli diè raguaglio di questa proibizione fatta del libro del Reggente in Roma, sol perchè in questo si dichiaravano que' rimedj ed i diritti di S. M. che ha in simili occorrenze, rappresentando al Re, che contro questo abuso bisognava prendere risoluti e forti espedienti, perchè altramente ciò soffrendosi, non vi sarebbe chi volesse difendere la regal giurisdizione[50].
Parimente nel 1627, sotto il Pontificato di Urbano VIII, dalla Congregazione dell'Indice uscì un decreto sotto la data de' 4 febbrajo di quell'anno, dove oltre la proibizione fatta d'alcune opere legali di Treutlero, di Ugon Grozio e dell'Istoria della giurisdizion pontificia di Michele Roussel, fu anche proibito un libro che D. Pietro Urries avea allora pubblicato in Napoli in difesa del Rito 235 della nostra G. C. della Vicaria, intorno a' requisiti del Chericato, da riconoscersi da quel Tribunale; e perchè quel Rito, ancorchè antico, non mai però interrotto, si oppone alle nuove massime della Corte di Roma, fu tosto il libro proibito in Roma: Petri de Urries liber inscriptus: Aestivum otium ad repetitionem Ritus 235 M. C. Vicariae Neapolitanae[51]. Ma il Duca d'Alba Vicerè non fece valere nel Regno quel decreto, e ne scrisse al Re, da cui ne ricevè risposta sotto li 10 agosto del detto anno, maravigliandosi della proibizione fatta in Roma di quel libro dove non si difendeva, che un Rito antichissimo della Vicaria del Regno[52].
Questa vigilanza si tenne presso di noi, quando si volevano far valere i nostri diritti e le nostre patrie leggi ed istituti; poichè noi, affinchè non si ricevano bolle, brevi, decreti, editti ed in fine ogni provisione di Roma senza l' Exequatur Regium, ne abbiamo legge scritta stabilita dal Duca d'Alcalà nel 1561, quando vi era Vicerè, e che leggiamo ancora impressa nei volumi delle nostre Prammatiche[53]: requisito che in conformità della legge era necessario, e si praticava anche ne' decreti che venivano da Roma, per li quali si proibivano i libri: ed in ciò il Regno nostro non ha che invidiare (quando si voglia) nè a Francia, nè a Spagna, nè a Fiandra, nè a qualunque altro Principato più ben istituito e regolato del Mondo Cattolico.
In Francia è a tutti noto che non han forza alcuna simili Bolle o Decreti proibitorj di Roma: sono quelli ben esaminati, e se si trovano a dovere, si eseguiscono, altrimente si rifiutano. Ciò che non potrà più chiaramente dimostrarsi, se non per quello che accadde nella proibizione dell'opere di Carlo Molineo. Avendo la Corte di Roma saputo, che non ostante l'indice Romano, per cui erano state affatto quelle proibite, venivano lette in tutti i Regni d'Europa, particolarmente in Francia ed in Fiandra, le cui Università e Censori, avendole solamente espurgate d'alcuni errori, le permettevano, tanto che giravano per le mani di tutti i Giureconsulti e d'altri Letterati, e tenute in sommo pregio; Clemente VIII riputando ciò a gran dispregio della Sede Appostolica, a' 21 Agosto del 1602, cavò fuori una terribile Bolla, colla quale sotto gravissime pene e censure proibì di nuovo assolutamente tutti i suoi Libri, anche gli Espurgati, dicendo, che non aliter quam igne expurgari possint. Rivocò per tanto tutte le licenze date, e volle che per l'avvenire affatto non si concedessero. Quindi nacque il moderno stile delle Congregazioni del S. Officio e dell'Indice, che nelle licenze, che si concedono, quantunque ampissime di legger libri, anche laidissimi e perniziosi, si soggiunga sempre: Exceptis operibus Caroli Molinei. Fu pubblicata questa Bolla, secondo il solito, in Roma a' 26 agosto di quell'anno 1602, ed affissa ad valvas Basilicae Principis Apostolorum in acie Campi Florae, soggiungendosi che tutti ita arctent, ac afficiant, perinde ac si omnibus, et singulis intimatae fuissent.
Ma che pro? niente valse questa Bolla, nè in Francia, nè nelle Fiandre, nè altrove: l'opere di questo insigne Giureconsulto niente perderono di pregio, nè erano meno stancate da' Professori ora di prima: tutti i Giureconsulti, ed ogni Pratico l'ebbe tra le mani, ed era più studiato quest'Autore, e più frequentemente allegato nel Foro che Bartolo e Baldo; e resesi così necessario, che, come dice Bertrando Loth[54], nella Francia ed in Fiandra niuno insigne Pratico o Avvocato può starne di senza, particolarmente nell'Artesia, dove le Consuetudini di quella Provincia essendo simili a quelle di Parigi, gli scritti di questo Autore sono stimati più di tutti gli altri, e molta autorità ha ottenuto ne' loro Tribunali.
I Prammatici franzesi gli hanno così famigliari che non vi è arringo o scrittura che si faccia, che non sia ripiena di allegazioni tratte da quelli in qualunque materia, sia di ragion civile o canonica. Ma niun argomento più convince non essere stata in Francia ricevuta questa Bolla, e di non essersi di tal proibizione tenuto alcun conto, quanto quella magnifica ed esatta Edizione fatta modernamente di tutte le Opere di questo Autore in Parigi, e proccurata per opera ed industria di Francesco Pinson il giovane, celebre Avvocato di Parigi, il quale oltre avervi aggiunte alcune sue note molto erudite ed accomodate alla moderna pratica, aggiunse ancora alle suddette opere alcune altre appartenenti alla materia ecclesiastica, che compongono il quarto e quinto tomo. Fu divolgata questa edizione in Parigi in cinque volumi, con espresso privilegio del Re, perchè più chiaramente si conoscesse nel Regno di Francia non essersi tenuta in niun conto la proscrizione di Roma.
Ed in vero non meritavan tanta abbominazione l'Opere di questo Autore, che dovesse portar tanto orrore, il quale, ancorchè non bene sentisse in vita colla Chiesa romana, morì poi Cattolico; e se si permettono, come bene a proposito osservò Van-Espen[55], l'opere de' Gentili, ancorchè piene di lascivie e di laidezze, che possono con facilità corrompere i costumi dei giovani; perchè non s'avran da permettere l'opere d'un così insigne Giureconsulto per la loro gravità, dottrina ed erudizione, dalla lezione delle quali possono ritrarre gran frutto? Tanto maggiormente che se bene in quelle vi siano mescolate alcune cose che non bene convengono colla dottrina della Chiesa romana, hanno a ciò rimediato colle loro note, ed avvertimenti Gabriele de Pineau e Francesco Pinson, in maniera che ora è più facile di poter essere contaminati i giovani dalla lezione de' libri lascivi de' Gentili, che il Giureconsulto cristiano possa essere in pericolo, leggendolo, di deviare dalla dottrina della Chiesa Cattolica.
Altri esempi non meno illustri potrebbero raccorsi dalla Francia e dalle province di Fiandra, che convincono il medesimo: come delle proscrizioni fatte in Roma del Libro di Cornelio Giansenio Vescovo d'Iprì, intitolato Augustinus, e della Bolla per ciò emanata dal Pontefice Urbano VIII nel 1643, che comincia: In Eminenti; delli decreti profferiti in Roma dalla Congregazione del S. Ufficio sotto li 6 settembre del 1657 per li quali, fra l'altre, furono proscritte le Lettere volgarmente chiamate Provinciali; della Bolla d'Alessandro VII promulgata in Roma nel 1665, per la quale furon proscritte due Censure della Facoltà di Parigi, non fatte valere nè in Francia, nè in Fiandra: e di tante altre delle quali Van-Espen trattò diffusamente[56].
Solo non abbiam riputato tralasciare in quest'occasione di notare, che per tutti i Regni d'Europa i Principi hanno invigilato soprammodo, che da Roma non si proscrivano libri che difendono la loro giurisdizione e le prerogative de' loro Popoli; e con tutto che fossero da quella Corte stati proibiti, non han fatta valere ne' loro Stati la proibizione, nè permesso che i decreti fossero ricevuti, tanto che senza scrupolo vengon letti, nè la proibizione curata; poichè hanno essi scoverto l'arcano di Roma, e quanto importa, che i loro sudditi non s'imbevino d'opinioni che ripugnano al buon governo.
Ne' Regni di Spagna, come si è detto, i decreti venuti di Roma, onde si proibiscono i libri che difendono l'autorità regia, sono ritenuti e si sospende l'esecuzione[57].
In Francia la cosa è notissima, e tra le prove della libertà della Chiesa gallicana[58], si legge un arringo fatto dall'Avvocato del Re Domenico Talon nel Consiglio regio, per occasione d'un consimile decreto emanato dalle Congregazioni del S. Ufficio e dell'Indice, dove fa vedere che simili decreti non debbono pubblicarsi, come pregiudizialissimi alla Corona ed allo Stato; ed avverte che far il contrario cagionerebbe gravi disordini; poichè da quelle Congregazioni tuttavia l'Indice proibitorio ed espurgatorio di libri si va accrescendo, ed alla giornata prende augumento, e si proscrivono libri in diminuzione delle Regalie del Re e libertà della Chiesa gallicana, siccome eransi avanzati di proibire sino agli Arresti del Parlamento contra Giovanni Castelli, l'opere dell'illustre Presidente, Tuano, le libertà della Chiesa gallicana ed altri Libri concernenti la persona del Re e la sua regal giurisdizione.
In Fiandra dal Consiglio di Brabante co' medesimi sensi ne fu avvertito l'Arciduca Leopoldo, a cui nel 1657 dirizzarono que' Consiglieri una Consulta, nella quale l'ammonirono, che trascurare questo punto sarebbe l'istesso che rovinar l'imperio; perchè già con lunga esperienza s'era veduto, che Roma non fa altro, che proscrivere que' libri che difendono la Regia autorità, tanto che ricevere quelli decreti senz'esame e senza il Placito Regio, è il medesimo che permettere che il Papa possa proscrivere ed interdire al Re di far editti o far imprimere libri o scritti, per li quali sono difese le ragioni sue regali e de' suoi vassalli. E confermando tutto ciò con esempj di fresco accaduti, gli raccordarono che intorno a quattro anni furono in Fiandra impressi due scritti, uno sotto il titolo: Jus Belgarum circa Bullarum receptionem; l'altro: Defensio Belgarum contra evocationes, et peregrina Judicia. In quelli non si toccava niun dogma o articolo di fede, ma unicamente si difendevano le ragioni di S. M. di non ammettersi Bolle senza il Placito Regio: ciò non ostante, erano stati da Roma con decreto Pontificio proscritti: tanto che bisognò che il Consiglio del Brabante con suo decreto facesse cassare ed annullare la proibizione, come si legge dell'arresto rapportato da Van-Espen nel suo Trattato De Placito Regio[59].
Questa medesima vigilanza tennero anche un tempo i nostri Vicerè, e sopra tutti, come vedremo ne' seguenti libri di quest'Istoria, il Duca d'Alcalà: la tennero ancora il Conte di Benavente ed il Duca d'Alba, per la proibizione fatta a libri del Curte e d' Urries; ma ora par che in ciò siasi perduto quel vigore e zelo che si dovrebbe tenere del servigio Regio e del Pubblico; e siansi alquanto i Ministri del Re raffreddati in un punto cotanto importante: ciò che hammi mosso a far questa digressione. Non solo si veggono uscir da Roma libri pregiudizialissimi alle ragioni del Re e de' suoi vassalli, ma si permette che s'introducano nel Regno, e la loro lezione non è vietata; ma quello che merita più tosto riscotimento che ammirazione, è il vedersi che all'incontro si proibiscono in Roma ogni dì colla maggior facilità tutti i libri, ove si difendono, contro gli attentati di quella Corte, le ragioni del Re e delle Nazioni; e senza che i Decreti o Bolle siano qui ricevute, senza che vi s'interponga Regio Exequatur, che presso noi è per legge scritta indispensabile a tutte le provisioni che vengano da Roma, niuna eccettuata, si permette l'effetto, non si puniscono chi le osserva, e si crede il suddito peccare leggendogli contro il divieto di Roma, e non peccare rompendo la legge del Principe, per la quale queste provisioni, quando non siano avvalorate di Regio placito, si riputano nulle e di niun vigore, ed in effetto, è come se non vi fossero. E qual maggiore stupidezza fu quella ne' trascorsi anni tra noi usata, che contendendosi tra la Corte di Roma, e 'l nostro Re intorno a' Benefici che giustamente si pretendono doversi conferire a' Nazionali, ed il Principe l'avea con suo Editto comandato; appena uscite tre nobili Scritture, che difendevano l' Editto, e lo dimostravano conforme non meno alle leggi, che a' canoni, si videro tosto in Roma con particolar Bolla di Clemente XI proscritte e condannate alle fiamme, e noi taciti e cheti non farne alcun risentimento; ed all'incontro le contrarie girar attorno libere e franche, senza che si fosse lor dato il minimo impedimento? Anzi siam ridotti a tal vano timore, che non s'ardisce di dar alle stampe opere per altro utilissime, sol perchè si temono queste proscrizioni di Roma.
All'incontro non avviene così de' libri di Roma, che sono stampati e cento volte ristampati, e corrono sempre per le mani di tutti, donde la gente viene universalmente imbevuta di quelle opinioni pregiudizialissime all'autorità del Re ed alle ragioni de' Popoli. Forse altri dirà, non doversi di ciò molto curare, e non piatire in ogni passo per vane parole: non l'intende però così Roma. Sono parole sì, ma, come altri disse, parole che tirarono alle volte eserciti armati: parole che istillate continuamente agli orecchi dei Popoli, gli rendono persuasi di ciò che scrivono, onde nasce l'avversione, la contumacia e l'indocilità di non potergli poi più ridurre alla diritta via: condannano perciò nelle occasioni la parte del Principe, stimano noi miscredenti, e che si voglia colla forza solo sopraffargli. Empiono di false dottrine le coscienze degli uomini, e sovente pregiudizialissime allo Stato; onde nasce che si creda da alcuni potersi usar fraude ne' pagamenti de' dazj e delle gabelle; e se siano imposte senza licenza della Sede Appostolica, credono che non siano dovute, perchè così leggono nella Bolla in Coena Domini, e così ne' loro Casuisti e Teologi. Quindi s'apprendono i tanti alti concetti della potenza e giurisdizione ecclesiastica, ed all'incontro i tanto bassi della potestà del Principe[60]. Ma di ciò sia detto abbastanza e prendane chi può e deve di ciò cura e pensiero. Di questa mia qualsisia opera ben prevedo che l'abbia da intervenire lo stesso; ma io che, nè per odio, nè per altrui compiacenza ho intrapreso a scriverla, ma unicamente per amor della verità, e per giovare a coloro che vorranno prendersi la pena di leggerla, se ciò l'avverrà, rivolto al Signore che scorge i cuori di tutti ed a cui niente è nascoso, lo pregherò vivamente che la benedica egli, ed istilli negli altrui petti sensi di veracità e d'amore.
CAPITOLO V. Re Ferdinando I riforma i Tribunali e l'Università degli Studj: ingrandisce la città di Napoli e riordina le province del Regno.
Non solo a questo Principe deve la città e Regno di Napoli, per avervi introdotte tante buone arti e di tante prerogative averlo fornito, ma assai più gli deve per la particolar vigilanza, che tenne nel riordinare i Tribunali di questa città, e di provvedergli di dotti ed integri Ministri, perchè la giustizia fosse in quelli ben amministrata. Egli accrebbe i Tribunali del S. C. e della Regia Camera con nuovi e migliori istituti, e in forma più ampia gli ridusse di ciò che Alfonso suo padre aveagli lasciati. Riordinò il Tribunale della G. C. della Vicaria, ed a' suoi Riti aggiunse nuovi regolamenti intorno al modo d'istituire le azioni e l'accuse, e in miglior forma prescrisse l'ordine giudiziario ed i compromessi, siccome si vede da' suoi editti che pubblicò nel 1477[61], donde poi i nostri più moderni Pratici, e fra gli altri Bernardino Moscatello Lucerino, preser la norma ch'è quella, che tuttavia in gran parte regola oggi i giudicj ne' nostri Tribunali.
Fu tutto inteso a fornir questo Tribunale d'ottimi Giudici; onde si narra che non ben soddisfatto d'alcuni Dottori ch'erano in Napoli, mandò a cercargli per le province del Regno, e presso il Summonte[62] si legge una sua pistola drizzata ad un suo famigliare in Apruzzo, dove gli dice che avea caro d'avere da quella provincia due Dottori che fossero persone da bene per mettergli per Giudici nella Vicaria, e che facesse opera che dall'Aquila venisse Messer Jacopo de Peccatoribus, e che vedesse ancora se in Cività di Chieti ve ne fosse un altro, perchè gli piacerebbe averlo più presto da quella città che d'altra parte.
Nel suo Regno cominciarono a fiorire le lettere, onde si videro sorgere tanti uomini illustri nella giurisprudenza e nell'altre scienze, de' quali più innanzi faremo parola; e per essere egli gran fautore delle scienze, proccurò, che nell'Università di Napoli fossero uomini illustri, che da tutte le parti invitava a leggere in quella Università. V'invitò nel 1465 con buoni stipendi Costantino Lascari, che da Milano, ove in quella Università avea letto sei anni, lo fece venire in Napoli a leggere lingua greca[63]. Leggiamo ancora, che nel 1474 v'invitò Angelo Catone di Supino celebre Filosofo o suo Medico, facendolo leggere Filosofia ne' pubblici Studj di questa città. Quel famoso Antonio d'Alessandro, che da questo Principe fu adoperato negli affari più rilevanti di Stato, e che per la gran perizia della giurisprudenza acquistò il soprannome di Monarca delle leggi, pure nel 1483 volle che la leggesse in questa Università. Antonio dell'Amatrice celebre Canonista di questi tempi fu da Ferdinando nel 1478 posto in questi Studj per Cattedratico, ove insegnò con grand'applauso e concorso la legge Canonica. E nel 1488 v'invitò per Lettori Bartolommeo di Sorrento, Girolamo Galeota, Giuliano di Majo, Francesco Puzzo, Antonio Feo ed altri famosi Professori, li quali illustrarono quest'Università e la resero non inferiore alle altre Università d'Italia[64].
Per le tante utili arti quivi introdotte e per la grandezza de' Tribunali, per la celebrità di quest'Accademia e per tanti altri pregi onde ornò questo Principe Napoli, concorrendovi da tutte le città e Terre del Regno, e da più remote parti gran numero di persone: avvenne, che il numero degli abitatori crescesse a tal segno, che fu d'uopo a Ferdinando ingrandir la città, ed allargare il giro delle sue mura. Avea Carlo I d'Angiò, dopo le antiche ampliazioni, di cui ben a lungo favella il Tutini[65], dato principio ad allargare le sue mura, riducendo il mercato (quel miserabil teatro ove rappresentossi l'orribil tragedia dell'infelice Corradino) dentro la città, edificando le mura con torri avanti la chiesa del Carmelo, tirandole per dritto incontro al mare insino all'antico porto della città che si chiama piazza dell'Olmo, e racchiuse dentro di esse le strade, che oggi si appellano della Conciaria, la Ruga de' Franzesi, la Piazza, detta Loggia de' Genovesi, la Piazza delle Calcare e la Ruga de' Catalani. Carlo II suo figliuolo nel 1300 l'ampliò dalla parte di Forcella, e la Regina Giovanna II nel 1425 erse le nuove mura dalla dogana del sale, insino alla strada delle Corregge. Ma Ferdinando dilatò il suo circuito in più ampj e magnifici spazj, e con augusta celebrità si diede ad ingrandirla, buttando la prima pietra con gran solennità e pompa a' 15 giugno dell'anno 1484 dietro il Monastero del Carmelo, ove edificò una Torre, che oggi giorno è in piedi, ed è nomata la torre Spinella, per essere stato Francesco Spinello Cavalier napoletano dal Re destinato Commessario a questa nuova fabbrica delle mura di Napoli. Venne perciò racchiuso dentro la città per queste nuove mura il monastero del Carmelo, e si tolsero via i ponti di tavole, ch'erano avanti a ciascheduna porta della città, poichè attorno all'amiche mura v'erano i fossi; ed a lato della chiesa suddetta si fece quella porta, che ancor oggi si vede adornata di pietra travertina. Camminano queste mura da questo luogo, e rinserrano la strada del Lavinaro, l'altra della Duchesca (così appellata, perchè ivi anticamente era il giardino d'Alfonso Duca di Calabria e della Duchessa sua moglie) e la piazza chiamata Orto del Conte; e si trasferì la porta di Forcella dall'antico luogo a quello dove è al presente, donde vassi a Nola, onde Nolana appellossi. Così ancora fu trasportata la porta Capuana, ch'era vicina al castello di Capuana, a fianchi della Chiesa di S. Caterina a Formello, ove ordinò Ferdinando, che magnificamente si costruisse, e fece scolpire in marmo la sua coronazione per collocarla sopra la medesima; benchè poi, non sapendosene la cagione, non vi fu posta, se non che da poi proseguendo l'Imperador Carlo V di cinger Napoli di nuove mura, abbellì ed adornò questa porta di finissimi marmi e maravigliose sculture con quella magnificenza, che ora si vede. Furono da Ferdinando continuate queste mura, insino al monastero di S. Giovanni a Carbonara, per le quali così questo, come quello di Formello vennero a rinserrarsi dentro la città. Ma rimase interrotto ogni lavoro per le turbolenze, che seguirono, e per le nuove guerre, ch'ebbe a sostenere nella nuova congiura orditagli da' Baroni, cotanto ben descritta da Camillo Porzio. La fabbrica è ben intesa: ella è tutta di piperno, e da passo in passo vi sono molti Torrioni della stessa pietra, il cui Architetto fu Messer Giuliano Majano da Fiorenza[66]. Sopra ciascuna porta vi fu scolpita in marmo l'effigie del Re sopra un destriere con l'iscrizione: Ferdinandus Rex nobilissimæ Patriæ. Carlo V poi finì il disegno, poichè nel 1537, quando egli venne a Napoli, rinovò ed abbellì la porta Capuana con quella magnificenza, che ora si vede, e togliendo l'effigie di Ferdinando vi pose le sue imperiali insegne; e tirando le mura dalla parte di dietro del Monastero di S. Giovanni a Carbonara le continuò sino alla porta di S. Gennaro, e poi le stese insino alle falde del Monte di S. Martino, nella maniera, ch'ora si vedono; ma le fabbricò non già di piperno, ma di pietra dolce del monte del paese con nuovo modo di fortificazioni, non con torri, ma con Baloardi: e questa fu l'ultima ampliazione per ciò che riguarda il giro delle mura, poichè da poi si fabbricò tanto intorno ad esse, che i suoi borghi nello spazio di 150 anni sono divenuti ora tante ampissime e vastissime città.
Non pure il Re Ferdinando ne' suoi anni di pace inalzò cotanto Napoli capo di un sì floridissimo Regno; ma ebbe ancora particolar pensiero delle sue ampie province, che lo compongono. Non volle, che d'un Regno se ne formasse una città sola, con ispogliar le altre delle loro prerogative; ma le città principali delle province le fece Sedi de' Vicerè. Quando prima i Presidi, che si mandavano a governarle, eran chiamati Giustizieri, ne' suoi tempi cominciarono a chiamarsi Vicerè. Quindi ne' tempi di questi Re Aragonesi leggiamo i Vicerè d'Apruzzo e di Calabria. Quindi leggiamo concedute alle città ove risedevano grandi prerogative, come all'Aquila, Bari, Cosenza ed a molte altre.
Ma sopra ogni altra provincia innalzò quella d'Otranto, e particolarmente la città di Lecce, dove ristabilì con ampissimi privilegi e prerogative quel Tribunale. Quando questo Contado, dì cui Lecce era capo, fu sotto i Principi di Taranto dell'illustre famiglia del Balzo e poi Orsino, questi Principi tenevano il lor Tribunale, ch'era chiamato il Concistoro del Principe; quindi ancor oggi vediamo alcune sentenze profferite in Lecce in Consistorio Principis, dove s'agitavano le cause di quel Contado, ed avea il suo Fisco; onde si diceva il Fisco del Principe, a differenza del Fisco del Re. Questo Concistoro era composto di quattro Giudici Dottori, d'un Avvocato e d'un Proccuratore fiscale, d'un Maestro di Camera, o sia Camerario, d'uno Scrivano e d'un Mastrodatto. Fu istituito nel 1402 da Ramondello Orsino e da Maria d'Engenio genitori del Principe Giovanni Antonio[67]: ed avea la cognizione delle cause così civili, come criminali, sopra tutto il Contado e sopra tutte quelle città e Terre, che i Principi di Taranto aveano occupate alla Regina Giovanna I.
Quando per la morte dell'ultimo Principe, accaduta in Altamura, il Principato di Taranto venne in mano del Re Ferdinando, ancorchè il Duca Giovanni d'Angiò tentasse i Leccesi perchè si mantenessero sotto le sue bandiere, nulladimanco furon costanti sotto la fede del Re, al quale si diedero, subito che intesero esser morto in Altamura il Principe[68]. Ed oltre ciò, venuto il Re in Lecce nel 1462 dopo la morte del Principe, gli presentarono tutto il tesoro del Principe, che teneva serbato nel castello di quella città, ricchissimo di vasi d'oro e d'argento e di preziosissime suppellettili: ciò che oltremodo fu accettissimo a Ferdinando, il quale, per le spese della guerra, che sosteneva col Duca Giovanni, era rimaso molto esausto di denaro. Concedè per tanta fede e per un sì opportuno soccorso a Leccesi privilegi ampissimi: confermò loro tutte le concessioni e contratti di terre demaniali e burgensatiche, che aveano avuti col Principe. Confermò il Concistoro co' Giudici, che lo componevano, e gli stipendj che tenevano situati sopra le entrate d'alcuni Casali della città: concedè loro privilegio, che quel Tribunale dovesse sempre risedere in Lecce: lo ingrandì d'altre più eminenti prerogative, costituendolo Tribunal d'appellazione sopra tutte le altre città e Terre della provincia così dei Baroni, come demaniali: che potesse conoscere delle cause feudali, anche de' feudi quaternati: potesse dare i balj ed i tutori a pupilli feudatarj: potesse ravvivare l'istanze perente, che noi diciamo insufflazion di spirito: che le sentenze potessero proferirsi in nome del Re, e potesse farle eseguire, non ostante l'appellazione interposta. Vi costituì per Capo D. Federico suo figliuolo secondogenito, il qual vi dimorò fin che per la morte di Ferdinando II, suo nipote non fosse stato chiamato alla successione del Regno. Volle perciò, che non meno del S. C. di Santa Chiara, fosse nomato ancor egli Sacro Consiglio provinciale, e che dopo quel di Napoli fosse il più eminente sopra tutti gli altri Tribunali del Regno. Quindi avvenne, che la Puglia, essendosi divisa in due Province, in Terra di Bari e Terra d'Otranto, avendo ciascheduna il suo Tribunal separato, ambedue s'usurpassero il titolo di Sacra Audienza; ma ora molte delle riferite prerogative sono svanite, e toltone questo spezioso nome ed alcuni altri privilegi di picciol momento, sono state uguagliate alle Udienze di tutte le altre province del Regno.
Forse il Re Ferdinando in maggior splendore ed in una più perfetta polizia avrebbe ridotto il Regno di Napoli, se avesse avuti nel suo regnare più anni di pace e di tranquillità; ma ecco che contro di lui sorgono nemici più fieri e terribili, ed i Baroni più ostinati che mai, tornano di nuovo a perturbargli il Regno. Egli è vero, che se Ferdinando le virtù medesime ch'esercitò nel principio del suo Regno e tra le avversità della sua fortuna, l'avesse continuate nella prospera, sarebbe certamente stato un Principe de' più saggi che abbiano regnato in terra; ma il vedersi ora, dopo aver trionfato de' suoi nemici in un Regno vastissimo e floridissimo, tutto pacato ed in pace; o che non potesse resistere all'impeto della dominazione, o che prima covrisse i suoi naturali costumi, fu poi notato di poca fede, e di animo fiero e crudele. Dice Francesco Guicciardino[69] gravissimo istorico, essere stato Ferdinando un Principe certamente prudentissimo e di grandissima estimazione, che colla sua celebrata industria e prudenza, accompagnato da prospera fortuna, si conservò il Regno acquistato nuovamente dal padre contra molte difficoltà, che nel principio del regnare se gli scopersero, e che lo condusse a maggior grandezza, che forse molt'anni innanzi l'avesse posseduto Re alcuno; e che sarebbe stato un ottimo Re, se avesse continuato a regnare con le arti medesime, con le quali avea principiato; ma da poi, siccome ponderò Angelo di Costanzo[70], non men di quello, savissimo Scrittore, il vedersi in tanta prosperità, mutò maniera e costumi; poichè non ricordandosi de' beneficj che Iddio gli avea fatti, cominciò a regnare con ogni spezie di crudeltà ed avarizia, non solo contra quelli, che alla guerra passata aveano tenuta la parte contraria, ma anche contra coloro che l'aveano più servito, perchè rivocò tutti i privilegi che loro aveva fatti in tempo di necessità. Ma quel, che più d'ogni altro gli facesse acquistare l'odio universale, fu Alfonso Duca di Calabria suo primogenito, il quale seguendo il medesimo stile lo superava di crudeltà ma assai più di libidine, disonorando molte case principali, pigliandosi pubblicamente dalle case de' padri le figliuole, e togliendole a' mariti illustri a cui erano promesse, e poi maritandole a Nobili, e sovente contro lor volere. Accumulò per tanto Alfonso tanto odio all'odio che s'avea acquistato il padre, che non solo da' sudditi del Regno, ma da altri Potentati d'Italia fu desiderata la sua ruina.
Conoscendo tanto Ferdinando, quanto Alfonso la mala volontà universale, pensarono di vivere sempre armati, tenendo molte genti di guerra, perchè potessero tenere in freno i soggetti che non si ribellassero. E Ferdinando per aver occasione di nutrire il suo esercito in paesi d'altri, fatta lega con Papa Sisto, mosse guerra ai Fiorentini, e mandò il Duca di Calabria all'impresa di Toscana. Reggeva allora la Repubblica fiorentina Lorenzo de' Medici, cittadino tanto eminente sopra il grado privato nella città di Fiorenza, che per consiglio suo non pur si reggevano le cose di quella Repubblica, ma era per tutta Italia grande il nome suo, poich'invigilava con ogni studio che le cose d'Italia non in modo bilanciate si mantenessero che più in una che in altra parte non pendessero, e sovente l'aiuto dell'uno si ricercava per far contrappeso all'altro. I Fiorentini per ciò, per tema che il Re Ferdinando non stendesse oltre i suoi confini e non venisse ad insignorirsi della Toscana, impegnarono i Venegiani ad entrar in lega contro Ferdinando. I Vinegiani temendo ancora, che presa la Toscana, non venisse a farsi Signore della Lombardia, s'unirono prontamente co' Fiorentini, li quali non potendo dalle potenze cristiane conseguire che travagliassero Ferdinando, si girarono a quella del Turco che avea suo imperio nell'Albania, e parte nella Schiavonia dirimpetto al Regno[71]; onde i Fiorentini per divertire l'arme di questo Re dalla Toscana, ed i Vinegiani quelle del Turco da' loro proprj Stati, invitarono Maometto II alla conquista del Regno di Napoli. Gli avvenimenti della qual impresa, siccome quella de' Baroni congiurati, bisogna riportare al seguente libro di questa istoria.
FINE DEL LIBRO VENTESIMOSETTIMO.
STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO VENTESIMOTTAVO
Insino ad ora fra tante nazioni che invasero queste nostre province, non s'erano ancora intesi i Turchi; ma perchè niuna ne mancasse, ecco, che ne sorge una più potente e più terribile dell'altre. Gl'Imperadori Ottomani non è, come volgarmente si crede, che al lor fasto ed alterigia, ed all'immoderata sete di dominare unicamente appoggino la pretensione che vantano tenere sopra il nostro Reame. Eglino pretendono, che dopo la presa di Costantinopoli, e d'aver vinto e morto l'Imperador Costantino Paleologo ultimo Imperador Greco, essendosi ad essi trasferito l'Imperio di Oriente, possano con ragione riunire a quell'Imperio tutto ciò che ora si trova da altri occupato, ed in mano di stranieri Principi. Pretendono, che l'Italia e molto più le nostre province, particolarmente la Puglia e la Calabria, loro s'appartenga, come a veri e legittimi successori di Costantino M. e degli altri Imperadori d'Oriente. Essi vantano, e così han mostrato di essere colle opere, d'imitare i Romani; e forse se si riguardano le loro ampie conquiste ed i progressi che han fatti dall'anno 870 in qua, gli acquisti loro non sono stati minori di quelli de' Romani, ed han mostrato sempre, che non men che fecero i Romani, si nutrisce in loro la pretensione di farsi Signori d'Italia e del Mondo.
Scipione Ammirato[72] fa vedere, che i progressi fatti da' Turchi dall'anno 870, quando chiamati dai Persiani, dal Monte Caucaso, dove primieramente abitavano, incominciarono a metter piede nell'Asia, insino a' tempi suoi, cioè nel 1585, che non erano scorsi più che 715 anni, furono assai maggiori di quelli, che in altrettanto spazio di tempo aveano fatti i Romani. E quantunque non si fossero resi Signori dell'Italia e della Francia, come furono i Romani; nulladimanco erano Signori dell'Egitto e dell'Armenia e d'altre province nell'Asia che non ne furono i Romani, e dell'Illirico e della Pannonia non è alcun dubbio, che posseggono parte molte maggiore che non possedevano i Romani. Essi a gran passi s'ingegnarono sempre di camminare alla Monarchia del Mondo, e resi padroni di tante e si sterminate province, altro ad essi non restava di sottoporre alla loro dominazione, che Costantinopoli capo dell imperio, e così estinguere affatto i Greci, che insino a tempi del Re Alfonso aveano seduto in quella sede. Furono perciò rivolti tutti i loro pensieri a quest'impresa, la quale finalmente fu riserbata a Maometto X Re de' Turchi e della famiglia ottomana di quel nome II, il quale essendo succeduto nel 1451 a' Regni paterni, pose ogni studio di venire a capo dell'impresa. Con formidabili eserciti e stupende armate cinse finalmente nel 1453 per mare e per terra la città di Costantinopoli: Costantino Paleologo che n'era Imperadore, non potendo resistere a tante forze erasi, per difender la sua persona, chiuso nella città. Invano si cercavano aiuti da' Principi cristiani, li quali fra di lor guerreggiando, poca cura prendeansi della ruina dell'Imperio d'Oriente, non ostante che i Pontefici romani gl'incoraggiassero e scongiurassero a prenderne la difesa. Solo il nostro Re Alfonso offerì soccorsi, perchè quella città sede dell'imperio non cadesse in mano d'Infedeli; ma mentre Alfonso s'affanna e gli affretta, ecco che Maometto a' 29 maggio di quell'anno 1453 espugna la città, prende e fa morire in quella l'Imperador Costantino e tutta la nobiltà, ed in un istante si rende Signore non meno della città che dell'imperio di Costantinopoli. Così finì l'Imperio greco, che era durato 1127 anni. Non meno che il Romano, che sotto Augusto cominciò e finì in Augustolo; così il Greco cominciò sotto Costantino M. figliuolo d'Elena e venne a mancare sotto Costantino Paleologo figliuolo parimente di Elena.
Trasferito in cotal guisa l'Imperio da' Greci a' Turchi, Maometto fu gridato Imperadore de' Turchi. I progressi da lui fatti da poi furono stupendi e portentosi, lasciando stare da parte l'altre cose di minor conto, egli nel 1460 occupò l'Imperio di Trebisonda, e fece mozzare il capo al Re David. Nel 62 s'insignorì dell'isola di Metelino. L'anno 70 tolse a' Vinegiani l'isola di Negroponte. Nel 73 vinse in battaglia Usum Cassano Re di Persia, come ch'egli altre volte fosse stato vinto da lui. L'anno 75 tolse a' Genovesi Caffa. Nel 77 costrinse i Vinegiani a dargli Calcide e Scutari, ed a pagargli un censo l'anno per lasciargli navigare ne' suoi mari. Ed avendo per tante vittorie pieno l'animo di concetti vasti e smisurati, e sopra tutto acceso di desiderio ardentissimo di mettere piè nell'Italia, pretendendo che l'Imperio di quella a se, come a vero e legittimo Signore s'appartenesse, per virtù dell'Imperio costantinopolitano da lui acquistato, i Vinegiani per divertirlo da' loro Stati, e perchè maggiormente non gli angustiasse, gl'insinuarono che lasciata l'impresa dell'isola di Rodi, dove stava allora impegnato Maometto per toglierla a' Cavalieri gerosolimitani, verso la Puglia nel Regno di Napoli drizzasse la sua armata; poichè in vece di un'isola avrebbe acquistato un floridissimo e vastissimo Regno[73]. Angelo di Costanzo rapporta, che Lorenzo de' Medici per mezzo d'alcuni mercatanti che negoziavano ne' paesi del Turco, invitasse Maometto che venisse nel Regno. E può esser vero l'uno e l'altro, che non meno i Vinegiani, che i Fiorentini, nemici allora di Ferdinando, l'avessero stimolato.
Dimostrarono a Maometto, come l'alterigia ed ambizione d'Alfonso era, se non al presente, nel tempo a venire per dover nuocere non meno ad esso che a loro; anzi molto più a lui, essendo l'impresa più giusta rispetto alla religione, più agevole per lo poco tratto del mare Jonio, che divide ambi i loro Regni, e più favorita da' Principi cristiani. Maometto ancora per diverse cagioni era contra il Re Ferdinando oltramodo sdegnato, e vie più d'ogni altra cosa per aver porto quella State medesima soccorso a Rodi, ch'egli indarno avea oppugnato; sicchè non fu difficile a Fiorentini disporlo all'impresa[74].
Lasciata adunque Maometto l'impresa di Rodi, nel 1480 navigò sino alla Velona, da dove mandò Acubat suo Bassà per questa spedizione, il quale nella fine di giugno di quell'anno giunse in Puglia con un'armata poderosissima, e posti a terra, oltre della fanteria, cinquemila cavalli di gente bellicosissima, cinse di stretto assedio la città d'Otranto. In questa città non vi eran di guarnigione che mille combattenti, ed altri 500 ne avea portati allora da Napoli Francesco Zurolo. I cittadini più che i soldati fecero valorosa difesa, ma contro sì potente e numeroso esercito nulla valse la loro costanza. In men di un mese fu presa la città per assalto, dove entrati furiosamente quei Barbari non vi fu crudeltà che non praticassero: incendj, ruberie, morti, violazion di vergini e quanta immanità usarono nella presa di Costantinopoli, altrettanta in Otranto vi fu praticata. Molti cittadini furon fatti passare a fil di spada, come si fece in Costantinopoli, ma con sorte disuguale; poichè l'ossa di coloro rimasero per sempre in suol nemico esposte alla pioggia e mosse dal vento, nè furon curati; ma le ossa di questi d'Otranto, scacciati dopo un anno i Turchi, e tornata sotto la dominazione di Ferdinando, furono a gara onorate non meno da' paesani, che da Papa Sisto e dal Duca di Calabria Alfonso.
Presa questa città, avendo Maometto richiamato a se Acmet, questi, ubbidendo al suo Signore, lasciò in suo luogo Ariadeno Baglivo di Negroponte con settemila Turchi e 500 cavalli, ed egli con dodici galee, con la preda fatta nel sacco di quella città, s'avviò per Costantinopoli. Ariadeno volendo proseguire le conquiste pensava d'occupar Brindisi e porre l'assedio ad altre città, tanto che si vide il Regno in grandissimo pericolo di perdersi.
Ferdinando, vedendosi in tali angustie, scrisse a quasi tutti i Principi d'Europa per soccorso, e mandò subito a chiamar Alfonso da Toscana, perchè lasciata quella impresa venisse tosto a soccorrere il Regno. Il Duca di Calabria abbandonò la guerra di Toscana, e lasciò in pace i Fiorentini, e giunto in Napoli a' 10 di settembre di quest'anno, avendo raccolta un'armata di 80 galee, con alcuni vascelli, ne diede il comando a Galeazzo Caracciolo, il qual giunto coll'armata ne' mari d'Otranto diede molto spavento all'esercito nemico, e poco appresso vi venne il Duca di Calabria accompagnato da gran numero di Baroni napoletani. Il Re d'Ungheria cognato del Duca vi mandò 1700 soldati con 300 cavalli Ungari; ed il Papa v'inviò un Cardinale con 22 galee de' Genovesi: tanto che l'esercito del Duca si pose in istato di fronteggiare con quello de' Turchi, li quali, dopo molte scaramucce, finalmente furon ridotti a ritirarsi dentro Otranto, dove per molto tempo intrepidamente si difesero. Ma la morte opportunamente accaduta a' 3 maggio dell'entrato anno 1481 dell'Imperador Maometto, liberò il Regno da questi travagli: poichè Ariadeno giudicando, che per la morte di Maometto il soccorso che aspettava sarebbe giunto molto tardi, si risolvè a render la Piazza in poter d'Alfonso; ed essendogli stati a' 10 agosto accordati onorati patti, rese la piazza che per un anno era stata sotto la lor dominazione, ed imbarcatosi con le truppe sopra la sua armata, prese il cammino di Costantinopoli.
Questa opportuna morte non solo diede spavento a' Turchi d'Otranto, ma anche ad un esercito di 25m. uomini che appresso la Velona erano venuti a danno d'Italia, i quali se ne ritornarono tutti addietro. Alfonso lieto di sì buon successo, licenziò i soldati Ungari, e vittorioso ritornò in Napoli, dove trovò il soccorso che gli era venuto da Portogallo e da Spagna, l'uno di 19 caravelle ed una nave, e l'altro di 22 navi, e, regalati i lor Comandanti, gli licenziò tutti. Vi morì in questa guerra il fiore de' Capitani e dei Cavalieri del Regno veterani e famosi, perchè vi morì Matteo di Capua Conte di Palena Capitano vecchio, e per tutta Italia riputato insigne; vi morì Giulio Acquaviva Conte di Conversano, il quale avea avuti i supremi onori della milizia dal Re Ferdinando: morì ancora D. Diego Cavaniglia, Marino Caracciolo ed un gran numero di Cavalieri molto onorati[75]. Nel sacco che fu fatto da' Turchi in Otranto passarono a fil di spada più di 800 cittadini, l'ossa de' quali fur fatte da Alfonso seppellire con molto onore e religione, e ne portò molti in Napoli, che, come scrive il Galateo[76], fece riporre nella chiesa di Santa Maria Maddalena, donde poi furon trasferite nella Chiesa di S. Caterina a Formello, ove ora si adorano come reliquie di Martiri.
E per non venire a parlar di nuovo de' disegni che han sempre, insino a' dì nostri tenuti i Turchi sopra la conquista di questo Regno, degl'inviti che sono loro stati fatti da' nostri Principi cristiani medesimi, i quali infra di loro guerreggiando, sovente per divertire le armi del nemico, ricorrevano al Turco: dico ora, che mi si presenta l'occasione, che quantunque nel Regno di Ferdinando e de' successori Re aragonesi, non tornassero ad inquietare queste nostre province, non era però che per gli acquisti grandi che nelle vicine parti faceano, da tempo in tempo non ci portassero spavento e timore.
Morto Maometto II, che per avere acquistati due Imperi e dodici Regni, e preso più di ducento città de' Cristiani, fu gridato I. Imperadore de' Turchi; Bajazet II suo figliuolo che gli succedette nell'Imperio, con non interrotto corso di fortuna, fece altri progressi; poichè nel 1484 prese la Valacchia, e nel 92 occupò i monti Cerauni e tutto il tratto dell'Albania, e si sottomise tutte quelle genti che viveano libere. Quindi molte famiglie, per non vivere in ischiavitù, fuggirono da que' luoghi, e si ricovrarono nelle più vicine parti ed alcune nel nostro Regno. Vi vennero perciò i Castrioti ed i Tocchi che possedevano in quelle province buone Signorie. Vi venner molti Albanesi; ond'è che da nostri Re fur loro assignate varie Terre per luogo d'abitazione e tuttavia ancor vi dimorano. Sottomise poi Bajazet al suo Imperio nel 1499 Modone e Corone città della Morea, e nell'anno seguente tolse a' Vinegiani Mero città. Selim I figliuolo di Bajazet nel 1514 vinse in battaglia Ismaele Re di Persia, e 'l cacciò nelle campagne Calderane. L'anno seguente ruppe e fece prigione il Capitan Generale d'Aladola Re della Cappadocia, a cui mozzò il capo, ed il mandò a' Vinegiani per segno della vittoria. Nel 1516 superò combattendo Campsone Soldano d'Egitto, e messolo in fuga il costrinse a morirsi; nel corso della qual piena e gloriosa victoria, vinto ed impiccato l'altro Soldano, prese il Cairo, soggiogò Alessandria, e fattosi Signore dell'Egitto, acquistò anche Damasco capo e sede del Regno di Soria.
Solimano II figliuolo di Selim tolse nel 1521 agli Ungheri Belgrado; nel 22 cacciò la religione di S. Giovanni dall'isola di Rodi, ed acquistò all'Imperio suo quell'isola nobilissima. Nel 26 diede di nuovo una terribil rotta agli Ungheri, nella quale restò morto il misero lor Re Lodovico. Nel 29 occupò Buda, e nel 24 tolse il Regno al Re di Tunisi. Nel 37 oltre molti danni fatti a' Vinegiani, a' quali saccheggiò il Zante e Citera, spianò ancora Egina, prese Paro e fece tributaria Nasso. Nel 39 prese Castel Nuovo, ove tagliò a pezzi la miglior milizia che avessero mai avuta gli Spagnuoli. Selim II figliuolo di Solimano, tolse ai Vinegiani il deliziosissimo Regno di Cipro, dopo avere con potentissima armata cercato di soggiogare Malta nuova Residenza de' Cavalieri gerosolimitani. Con tal occasione ne venne a noi la famiglia Paleologa, di cui si legge in Napoli il tumulo nella chiesa di S. Giovanni Maggiore rapportato dall'Engenio[77]. Amurat III figliuolo di Selim, ancorchè per le continue guerre ch'egli ebbe a sostenere col Persiano, non inquietasse le province cristiane, tennele però in grandissimo timore. Ma i suoi successori Maometto III ed Acmet tolsero a' Vinegiani Candia, gran parte della Dalmazia, la Bosnia, la Schiavonia; ed in breve quasi tutto il lido del mare superiore, che diciamo ora Adriatico, opposto a' mari d'Otranto e della nostra Puglia, passò sotto la lor dominazione. Caddero questi sterminati acquisti, e s'estinsero tanti Reami e Ducati. Caddero i Duchi d'Atene, i Duchi di Durazzo, i Despoti dell'Arta Principi della Morea nella Grecia, i Duchi d'Albania, i Principi d'Achaja e tanti altri Signori e Baroni che lungo sarebbe a raccontargli. Ed essendo ne' loro Dominj succeduto un sì potente e terribile nemico pur troppo a noi vicino, e che non altro tratto ci divide, se non che il golfo di Vinegia e quello di Otranto; quindi nacquero i continui timori, e le spesse scorrerie e saccheggi d'alcune Città e Terre della Puglia e della Calabria.
Quindi si diede occasione a spessi ricorsi, che da Principi disperati e da Baroni malcontenti, si faceva a loro, con sovente sollecitargli, offerendo facile la conquista del Regno. Quando, come diremo appresso, il Re Ferdinando fermò la pace col Pontefice Innocenzio VIII alcuni Baroni, temendo della poca fede del Re, consultarono per loro quiete di doversi mandare Ambasciadori a Bajazet, acciò che loro somministrasse pronto soccorso, invitandolo alla conquista del Regno. Furono perciò sovente invasi i nostri mari, e quelli di Gaeta furono scorsi e dati sacchi funestissimi a quella città. E nei seguenti anni, Paola e S. Lucido in Calabria, Sorrento e Massa incontro Napoli, furono da' Turchi con lagrimevol strage saccheggiate, e gli abitanti fatti schiavi[78].
Nell'Imperio di Carlo V, il Principe di Salerno profugo da' suoi Stati, non trovando udienza in Francia, ebbe ricorso a Turchi, a' quali dipinse facile l'impresa del Regno, e fece mettere in mare una potente armata per invaderlo.
Nel Regno di Filippo II suo figliuolo le spedizioni contra Turchi furono assai spesse e strepitose; onde cotanto rilusse la fama di D. Giovanni d'Austria, che in mare gli vinse e debellò: ed essendosi accesa fiera ed ostinata guerra tra questo Re col Pontefice Paolo IV, questi non contento d'aver fatta lega col Re di Francia e con altri potentati, chiamò anche l'armata del Turco in suo aiuto per assaltare il Regno. E fra noi è ancor rimasa memoria della congiura che Tommaso Campanella con altri Frati domenicani Calabresi nel 1599 avea ordita per dar le Calabrie in man de' Turchi; li quali da poi nel 1621 con buona armata vennero ad invadere Capitanata e occuparono Manfredonia, e dopo averla tenuta per qualche tempo, datole un fiero sacco, abbandonarono l'impresa. Infinite scorrerie fecero ne' nostri mari, riducendo molti nostri Regnicoli in ischiavitù. Ed in quest'anni 1716 e 1717 se non avessero avute in Ungheria due strane rotte dalle vittoriose armi imperiali colla perdita di Temisvar e di Belgrado, minacciavano l'Italia e queste nostre province, che corsero gran pericolo. Ma fattasi ora col Turco tregua per venti anni, si è veduta cosa che non videro mai i nostri maggiori, cioè traffico e commercio aperto fra noi ed il Turco. Se durasse, ci vedremmo almeno per quanto corre il mare Adriatico, liberi da corsari e non esposti que' lidi a tanti danni e riscatti; poichè dall'aver vicino sì potente nemico, e per poco tratto i nostri lidi divisi dai suoi, si è ricevuto ancora l'incomodo di spesse scorrerie da' corsari barbareschi nelle terre poste ne' lidi dell'Adriatico e delle Calabrie, e la desolazione di molte famiglie, che per redimere dalle loro mani i loro parenti, si sono impoverite, dovendo pagare grosse somme per gli riscatti. Carlo V per tener guardati da quei pirati i nostri lidi fece costruire molte torri per le marine del Regno, gravandolo d'eccessive spese per le provvisioni che bisognò somministrare a' Torrieri. Quindi per sovvenire a questi bisogni sursero le religioni della Redenzione de' cattivi, che da Spagna a noi ci vennero, e molti altri luoghi Pii che tengono destinate le loro rendite per lo riscatto.
L'opera non può negarsi che non sia molto pietosa, ed in Spagna, che patisce i medesimi travagli da' pirati Algerini e dell'altre coste di Tunisi e di Barberia e da' corsari Mori, è soprammodo cresciuta, vedendosi per ciò eretti grandi Conventi di religiosi destinati a quest'opera della redenzione, e ricchissimi di rendite; ma non può negarsi ancora, che per questo istesso i Turchi esercitino l'arte piratica, riuscendo ad essi molto utile e fruttuosa; onde quasi tutti vi si applicano perchè sanno, che ridotti i cristiani in servitù, vengono tosto immense somme per redimergli. All'incontro essi non riscattano niuno di loro, se avviene che capitino essi in mano de' cristiani; gli lasciano stare, nè se ne prendon pensiero; e quindi i cristiani non s'invogliano a far prede e corseggiare i loro mari, com'essi fanno de' nostri. Se noi non curassimo di riscattar i nostri, certamente che si dismetterebbe presso loro il corseggiamento, e forse si vivrebbe assai meglio, senza sospetti e senza timori ed in maggior quiete. Ma di ciò sia detto a bastanza, richiamandoci il nostro istituto a parlar di Ferdinando, e d'una nuova e più insidiosa congiura orditagli ora da' suoi Baroni.
CAPITOLO I. I Baroni nuovamente congiurano contra il Re. Papa Innocenzio VIII unito ad essi gli fa guerra: pace indi conchiusa col medesimo, e desolazione ed esterminio de' congiurati.
Alfonso Duca di Calabria ritornato in Napoli dopo l'impresa d'Otranto tutto glorioso e trionfante, pieno d'elati pensieri ed istigato dal genio suo crudele ed avaro, pensò abbassare i Baroni, de' quali se ne mostrava mal soddisfatto, e teneva sempre in sospetto. Tutti i suoi pensieri erano a ciò rivolti, nè potè tanto coprire questi suoi disegni che coloro non se ne insospettissero; poichè sovente co' suoi confidenti soleva dire, che giacchè i Baroni non avean mai avuto riguardo in tante guerre ed in tanti bisogni, ne' quali s'era il Re veduto soccorrere il regio erario di denaro, voleva egli insegnar loro, come i sudditi trattar dovessero col loro Signore. Non si potè ancora contenere co' suoi famigliari d'assicurargli che stessero allegri, che fra breve gli farebbe divenire gran Baroni senza dar loro Stato, poich'egli avrebbe tanto abbassati i grandi che sarebbero essi divenuti primi; e di vantaggio non si ritenne di porre nel suo elmo una scopa per cimiero, ed alla sella del suo cavallo certe taglie, per dimostrare volergli tutti sterminare.
Il Re Ferdinando, ancorchè Principe prudentissimo, nulladimanco per l'affetto grande che portava al Duca D. Alfonso, per la sua vecchiaia e per gli amori della novella sposa, s'era invilito tra gli affetti di padre e di marito; e perchè fidava molto nel valore del Duca suo figliuolo, aveagli quasi che cedute le redini del governo, e sol ne' casi estremi scosso, riparava i disordini colla sua prudenza. I Baroni che aveano concepito odio grande verso Alfonso, atterriti da queste minacce, cominciarono a pensare il modo da potersene liberare.
Era in quest'anno 1484 a' 13 d'agosto trapassato il Pontefice Sisto, ed a' 29 dello stesso mese era stato rifatto in suo luogo il Cardinale Giovan Battista Cibo genovese, che Innocenzio VIII chiamossi. Questo Pontefice ebbe pensieri diversi da' suoi predecessori Pio e Sisto, e bramando occasione d'ingrandir Franceschetto suo figliuol naturale, vedendo gli animi dei Baroni disposti alle novità, cominciò a darvi mano; e mostrandosi mal soddisfatto del Re Ferdinando, il quale gli avea richiesto, che per le grandi spese sofferte nella guerra d'Otranto, e per quelle che faceva in mantenere tante genti d'arme per opporsi al Turco, e per tenere ben difeso il Regno ch'era contra Turchi quasi il propugnacolo d'Italia, gli rilasciasse il censo solito da pagarsi alla chiesa, come avean fatto i suoi predecessori, i quali s'erano contentati del solo palafreno; egli non solo non volle rilasciarglielo, ma avendo il Re a' 29 giugno del seguente anno 1485, giorno stabilito al pagamento, mandato secondo il solito Antonio d'Alessandro per suo Oratore in Roma a profferirgli il palafreno in vigor dell'investitura, il Papa non volle riceverlo; tanto che fu obbligato Antonio di farne pubblica protesta, che ancor si legge presso il Chioccarello ne' suoi volumi M. S. della regal giurisdizione.
Dall'altra parte i Baroni, vedendo la mala soddisfazione del Papa, pensarono di ricorrere a lui per essere sostenuti. Li Capi ed Autori di questa congiura, che è stata tanto bene scritta da Camillo Porzio, furono Francesco Coppola Conte di Sarno ed Antonello Petrucci Segretario del Re. Il Conte di Sarno, ancorchè d'antica e nobil famiglia del Seggio di Portanova, seguendo i vestigi del suo genitore, erasi dato tanto a' traffichi, ed a mercatantare, in cui v'avea un'abilità grandissima, che il Re istesso allettato anch'egli dal guadagno, gli diede molto denaro, entrando in società ne' negozj, che colui tenea[79], tanto che divenne ricchissimo: il Re medesimo lo creò Conte di Sarno, ed il suo nome tanto in Levante, quanto in Ponente avea tanto credito, che i mercatanti di quasi tutte le Piazze d'Europa gli fidavan somme e merci rilevantissime. Antonello Petrucci nato in Teano, città presso Capua, di poveri parenti, ed allevato in Aversa da un Notajo, mostrando molto spirito e grande applicazione alle lettere, fu da costui portato in Napoli, dove lo pose a' servigi di Giovanni Olzina Segretario del Re Alfonso. L'Olzina, conosciuti i talenti del giovane, dimorando in casa sua il famoso Lorenzo Valla, lo diede a lui perchè lo ammaestrasse: ed avendo Antonello sotto sì eccellente Maestro in poco tempo fatti miracolosi progressi, fu dall'Olzina posto nella Cancelleria regia, il quale quando gravato d'affari non avea tempo d'andare egli dal Re, soleva mandarvi Antonello. Piacquero anche al Re Ferdinando le virtù e' tratti modesti d'Antonello, onde per questa famigliarità entrò in somma sua grazia; tanto che morto poi l'Olzina lo creò suo Segretario, nè vi era affare, ancorchè gravissimo, che non passasse per le sue mani, per la confidenza grandissima, che teneva col Re. Acquistò per tanto ricchezze grandissime e parentadi nobili: poichè prese per moglie la sorella del Conte di Borrello Agnello Arcamone del Seggio di Montagna, dalla quale generò più figli, e tutti col favore del Re pose in grandezza. Il primo fu Conte di Carinola, l'altro di Policastro, il terzo Arcivescovo di Taranto, il quarto Prior di Capua, e l'ultimo Vescovo di Muro.
Le tante ricchezze, ed i cotanti estraordinarj favori, che il Re faceva a questi due personaggi, gli fecero entrare nell'odio ed invidia di molti, e massimamente del Duca di Calabria, il quale sovente non poteva contenersi di dire in pubblico, che suo padre per arricchir costoro avea se stesso impoverito: ma ch'egli non avrebbe mandato a lungo quel che suo padre per tanto tempo avea dissimulato. Essendo pertanto tutte queste cose sapute dal Conte e dal Segretario, pensarono unirsi co' Baroni mal soddisfatti, co' quali, tenuto consiglio, deliberarono ricorrere al Papa per ajuto. I Baroni, che congiurarono, furono il Principe di Salerno Antonello Sanseverino Gran Ammirante del Regno, il Principe d'Altamura Pietro del Balzo Gran Contestabile, il Principe di Bisignano Girolamo Sanseverino, il Marchese del Vasto Pietro di Guevara Gran Siniscalco, il Duca d'Atri Andrea Matteo Acquaviva, il Duca di Melfi, il Duca di Nardò, il Conte di Lauria, il Conte di Melito, il Conte di Nola e molti altri Cavalieri[80]. Questi uniti insieme a Melfi, coll'occasione delle nozze di Trojano Caracciolo figliuolo di Giovanni Duca di Melfi, mandarono al Pontefice Innocenzio perchè col suo favore li ajutasse; ed il Papa volentieri accettò l'impresa. Egli considerò, che non vi era altra miglior congiuntura di questa per innalzar suo figliuolo; e per far questo si rivoltò alle solite cose praticate da' Papi, cioè d'invitar altri all'acquisto del Regno con prometterne l'investitura. Giovanni Duca d'Angiò si trovava sin dal 1470 morto in Catalogna, e Renato suo padre era parimente morto: non vi restava, che un altro Renato figliuolo di Violanta figliuola di Renato, ch'era Duca di Loreno; mandò pertanto in Provenza a stimolarlo, che venisse tosto all'acquisto del Regno, del qual egli ne l'avrebbe investito, purchè in ricompensa dì sì grande beneficio avesse arricchito Franceschetto suo figliuolo di onori e Signorie.
Intanto Alfonso Duca di Calabria avendo scoverti questi movimenti de' Baroni, perchè la cosa non procedesse più avanti, pensò tosto romper loro i disegni, e si impadronì all'improvviso del Contado di Nola, e presa Nola, con carcerare due figliuoli del Conte con la madre, gli fece condurre prigioni nel Castel Nuovo di Napoli. Quando gli altri congiurati intesero questa risoluzione di Alfonso, temendo che parimente i loro Stati non fossero occupati, tolto ogni rispetto, cominciarono scovertamente ad armarsi, e da per tutto a tumultuare. In un tratto si vide il Regno sossopra, le strade rotte, tolti i commerci, serrati i Tribunali, e ciascun luogo pieno di confusione. Re Ferdinando scosso da questi rumori cercava sedarli, ed il Principe di Bisignano, per dar tempo che gli altri Baroni s'armassero, cominciò a trattar di pace col Re: Ferdinando in apparenza si mostrò molto disposto, ma con animo, cessati que' sospetti, di non osservar cos'alcuna. L'uno cercava con simulazione ingannar l'altro: proposero al Re condizioni di pace impertinentissime, ma dal Re furon loro tutte accordate: quando poi si venne a firmarle, s'andavano dal Principe di Salerno frapponendo difficoltà, ed essendosi intanto gran parte de' Baroni ritirati in Salerno, fece egli sentire al Re, che per maggior sicurezza voleva, che mandasse in Salerno D. Federico suo secondogenito, che in suo nome le firmasse e ne proccurasse l'osservanza. Il Re glielo mandò, e Federico fu ricevuto dal Principe e dai Baroni, che ivi erano, con molti segni di stima, e salutato non altramente che a Re si conveniva. Federico era un Principe dotato di rare ed incomparabili virtù, avvenente e di maniere dolcissime, moderato e modesto, in modo che s'avea tirato l'amore di tutti. Di costumi opposti al Duca di Calabria suo fratello, e se la fortuna, siccome lo fece nascere secondogenito, l'avesse favorito di farlo venir primo al mondo, certamente che il Regno avrebbe continuato nella posterità de' nostri Re nazionali aragonesi; e tante revoluzioni e disordini, che si sentiranno nel seguente libro, non avrebbe certamente patiti e sofferti.
Entrò per tanto Federico in Salerno con ferma speranza di conchiuder la pace; ma un dì il Principe di Salerno avendo fatto nel suo palazzo convocare i Baroni, e fatto sedere Federico nel consesso in una eminente e pomposa sede, cominciò con molta forza ed energia a persuadergli, che prendesse dalle lor mani il Regno, ch'essi gli offerivano, affinchè discacciato Alfonso crudelissimo Tiranno, quello riposasse sotto la sua clemenza: ch'essi lo difenderebbero con armi e danari sino allo spargimento dell'ultimo sangue: che avendo dal loro canto il Papa, renderebbesi giusta l'impresa, il quale tosto ne lo investirebbe, e se gli altri romani Pontefici, e' diceva, poterono per lo bene della pace permettere ad Alfonso, che ne privasse il Re Giovanni suo fratello, a cui di ragione questo Regno s'apparteneva, quanto più ora sarà riputata azione giusta e gloriosa del presente Pontefice Innocenzio, che togliendo il Regno dalle mani d'un Tiranno, lo riponga nelle vostre, che tanto dissimile siete da lui, quanto il lupo dall'agnello, quanto un crudele ed avaro, da un Principe tutto clemente, tutto buono e tutto virtuoso: nè certamente se ne offenderà il vecchio vostro padre Ferdinando, il quale son sicuro, che seconderà la volontà degli uomini e d'Iddio, anzi si terrà del tutto padre felice, che tra' suoi figliuoli abbiane generato uno, che per giudicio universale sia stato riputato degno dello scettro e della regal Corona. Doversi rammentare esser nato fra noi in questo Cielo ed in questa preclara parte d'Italia per nostro scampo: dovere la pietà del vostro cuore esser mossa dalle nostre miserie, abbracciare i nostri innocenti figliuoli, sollevare le spaventate madri, e finalmente non soffrire, che, cacciati dalla necessità, ricorriamo per aver salute in grembo di genti barbare, come senza fallo avverrà, non accettandoci per servi vostri[81].
Orò il Principe con tanto ardore ed efficacia, che ciascuno de' circostanti credeva, che Federico non dovesse rifiutare il dono: ma questo Principe, cui non movea nè ambizione, nè immoderata sete di dominare, ma sola virtù, dopo aver rese le grazie dell'offerta, con molta placidezza rispose loro, che se il concedergli il Regno stasse in lor mano, volentieri accetterebbe il dono, ma non potendolo egli acquistare, se non con violare tutte le leggi, il volere paterno e la ragion di suo fratello, non voleva, che per mantenerselo poi con la forza, fosse costretto usar maggiori fraudi e scelleratezze. Essere il Regno pieno di tante fortezze e presidj, che appena la vita di due Re valorosi e sempre vittoriosi, basterebbe a vincerli ed espugnarli, massimamente, che buona parte de' Baroni avvezzi alle armi seguivano l'insegne del Duca, il quale, ancorchè da Popoli fosse mal veduto, era però da' soldati, co' quali s'avrebbe a far la guerra, molto amato, anzi adorato. Che s'ingannavano nel paragone ch'essi facevan tra le sue maniere con quelle del Duca: non esservi proporzione tra un uomo privato, qual egli era, ad un Principe. Nè dover loro recar meraviglia, se per aver egli coltivati gli studj delle buone lettere, fosse divenuto di natura piacevole, ed all'incontro il Duca nutrito tra le armi, terribile e feroce: che se divenisse Re, sarebbe forzato lasciare i suoi antichi costumi, e prendere quelli del fratello per confermazione dello Stato regale, maneggiando le guerre, imponendo nuove gravezze, assicurandosi de' malcontenti, ed in brieve adoperando tutto quello, per cui egli era odiato. Talchè quando da lui erano assicurati, che gli articoli accordati sarebbero stati religiosamente eseguiti, doveano lasciar questi pensieri, ed appigliarsi alla pace, ch'egli loro offeriva.
Quando i Congiurati intesero la resoluzione di Federico, cambiati di volto e impalliditi, presaghi del futuro, che di quella congiura resultar dovea, vinti dalla disperazione diedero in furore ed in mille enormità. In cambio di farlo Re, lo fecero prigione; e per invigorir l'animo del Papa, scosso svelatamente il giogo, alzarono con biasimo non men loro, che del Pontefice, le bandiere colle Papali insegne e si scovrirono non meno aperti, che ostinati nemici del Re.
Ferdinando vedendo tanta indegnità, per abbattere non meno la loro fellonia, che l'ambizione del Papa, si risolvè movergli guerra, e senza riguardo alcuno assaltar lo Stato della Chiesa per costringerlo a lasciar l'indegna impresa; onde voltò i suoi pensieri a far ogni provisione di guerra, e mandò il Duca di Calabria con un floridissimo esercito a' confini del Regno. Prima di mandarlo, perchè molti di debile spirito si sbigottivano in sentire, che si dovesse maneggiare una guerra contro il Pontefice, onde mal si disponevano ad intraprenderla, per togliergli di questo inganno, fece egli a' 12 novembre di quest'anno 1485 nel Duomo di Napoli ragunar la Nobiltà e 'l Popolo, con molti Capitani e Baroni, ed in loro presenza fece pubblicamente leggere una protesta, colla quale dichiarava, che egli non avea, nè voleva alcuna guerra contra la Santa Sede: che tutto quell'apparato di guerra non era per offendere, nè occupar l'altrui, ma solo per difender se, e conservare il suo Stato e liberarlo d'altrui insidie: che del rimanente egli era stato e sarà sempre ubbidientissimo figliuolo alla Sede Appostolica.
Fece ancora pubblicar bando, col quale s'ordinava a tutti Prelati e persone Ecclesiastiche del Regno, che tenevano Vescovadi, Arcivescovadi e beneficj nel Regno, e che dimoravano nella Corte romana, che fra 15 giorni numerandi dal dì della pubblicazione del bando, venissero tutti nella sua presenza, ed a risedere nelle loro Chiese, altrimenti gli privava del godimento de' frutti di quelle, li quali sarebbero stati da lui fatti sequestrare; e non avendo voluto ubbidire al bando l'Arcivescovo di Salerno, i Vescovi di Melito e di Teano, che risedevano nella Corte romana, sequestrò i frutti delle loro Chiese e destinò Economi per l'esazione[82].
Ragunò anche un altro esercito, del quale ne diede il comando a D. Ferrante Principe di Capua suo nipote, primogenito del Duca di Calabria, al quale, per moderare la giovanil età del Principe, diede per compagni i Conti di Fondi di Maddaloni e di Marigliano; e mandò anche in Puglia con altro esercito il Duca di S. Angelo suo quartogenito a guardar quelle Terre.
Papa Innocenzio atterrito da' tanti apparati di guerra, e non vedendo comparire Renato Duca di Lorena da lui invitato all'acquisto del Regno, si voltò al soccorso de' Vinegiani potenti allora in Italia, e proccurava con ogni sforzo di far con esso loro lega per la conquista del Regno, offerendo loro buona parte di quello; ma i Vinegiani, avendo preveduta la riuscita, che doveano fare i Baroni congiurati, non vollero entrare in manifesta lega contro il Re, nè abbandonar il Papa, ma per vie segrete ajutarlo, come fecero.
Intanto il Duca di Calabria avendo invaso lo Stato del Papa, ed avendo più volte combattuto gli Ecclesiastici, era arrivato fino alle porte di Roma, cingendo di stretto assedio questa città. Ed il Principe D. Federico, per opera d'un Capitano de' Corsi, che teneva stipendiato il Principe di Salerno, era fuggito di prigione e venuto a Napoli, ove dal padre, e da tutti gli Ordini della città fu con grande giubilo accolto, commendando la sua virtù; onde il suo nome andava glorioso per le bocche di tutti.
Il Re Ferdinando non tralasciava ancora dall'altra parte con astuzie ed inganni tirar alla sua parte alcuni de' Baroni congiurati; onde il Papa, ch'era più atto alla pace, che alle cose di guerra, non vedendo comparir il Renato, nè grandi soccorsi venirgli dai Vinegiani, molestato ancora dal Collegio de' Cardinali e da' lamenti di molti; perchè i soldati de' Baroni del Regno, per non aver le paghe, rovinavano lo Stato della Chiesa, vedendosi ancora per tre mesi assediato in Roma, venne finalmente a trattar di pace, ed a persuadere a' Baroni, che volessero accordarsi col Re, perchè avria trattato di fargli avere buone condizioni. I Baroni per non poter far altro, da dura necessità costretti inclinarono all'accordo, cercandolo con le maggiori cautele, che fossero possibili e vollero, che il Re Giovanni d'Aragona, e 'l Re Ferrante, detto poi il Cattolico, suo figliuolo, ch'era allora Re di Sicilia, ed avea per moglie la Principessa di Castiglia, che poi ne fu Regina, mandassero Ambasciadori, che promettessero in nome loro la sicurtà della pace[83]. Fu in fine quella fermata a' 12 agosto dell'anno 1486 intervenendovi l'Arcivescovo di Milano ed il Conte di Tendiglia Ambasciadori del Re di Spagna e di Sicilia; e fu accettata in nome del Re Ferdinando da Giovanni Pontano famoso letterato di quei tempi. Fu per quella conchiuso, che il Re riconoscesse la Chiesa romana, pagandogli il consueto censo; e rimanesse di molestare i Baroni.
Papa Innocenzio fermata ch'ebbe questa pace, fu nel resto di sua vita amico del Re, lo compiacque in tutto ciò, che gli chiedeva. Spedì a sua richiesta a' 4 giugno del 1492 una Bolla, nella quale dichiarava, che dopo la sua morte, dovesse succedere nel Regno Alfonso d'Aragona Duca di Calabria suo figlio primogenito, per osservanza delle Bolle di Papa Eugenio IV e di Pio II suoi predecessori: che se occorresse morire il Duca di Calabria, vivente il Re, dovesse succedere nel Regno Ferdinando d'Aragona Principe di Capua figliuolo del Duca di Calabria. A questo fine fu mandato il Principe di Capua in Roma, al quale Alfonso suo padre fece mandato di proccura, perchè in suo nome dasse il giuramento di fedeltà e ligiomaggio in mano di Papa Innocenzio, siccome lo diede tanto in nome suo proprio, quanto in nome d'Alfonso suo padre, giusta l'investitura, che questo Papa gli avea conceduta[84].
I Baroni, ancorchè assicurati dal Papa e da' Re di Spagna e di Sicilia, sapendo la crudeltà d'Alfonso e la poca fede di Ferdinando, rimasero grandemente afflitti. Pietro di Guevara G. Siniscalco, prevedendo la ruina, di dolore ed estrema malinconia se ne morì. Gli altri infra di lor uniti, si fortificarono nelle loro Rocche, e non tralasciavano ancora per vie segrete di mandar uomini diligenti in Roma, Vinegia e Firenze per implorar ajuti, nè mancarono di quelli, che consultarono di doversi mandar al Turco per soccorso; ma il Duca di Calabria ed il Re Ferdinando, per avergli in mano, si portavano con gran simulazione, gli offerivano sicurezza e mostravan loro umanità: molti ingannati s'assicurarono; ma il Principe di Salerno loro non credè mai, e sospettando quel che ne dovea avvenire, uscì di nascosto dal Regno e si portò a Roma; e vedendo, che il Papa era affatto alieno di rinovar la guerra, se ne passò in Francia: andata, che se bene per varj impedimenti non partorì allora niente, non passarono molti anni, che cagionò effetti grandissimi; poichè, come diremo, col favore del Re di Francia afflisse non solo il Re ed il Duca, ma estinse tutta la loro progenie.
Intanto Ferdinando ed il Duca suo figliuolo covrendo i loro disegni, andavan assicurando gli altri; e risoluti di disfare il Conte di Sarno ed il Segretario Petrucci co' loro figliuoli (poichè gli altri Baroni, scusandosi, ributtavano la colpa della guerra su le spalle di costoro) pensarono un modo, per assicurarsi di tutti, il qual fu di congregarli insieme. Ed affrettando le nozze che s'erano appuntate tra Marco Coppola figliuolo del Conte di Sarno con la figliuola del Duca d'Amalfi nipote del Re oprarono che il Duca si contentasse, e vollero che nella sala grande del Castel Nuovo splendidamente si celebrassero. Mentr'erano tra balli e feste ivi tutti ragunati, fu convertita l'allegrezza in estremo lutto ed amaro pianto; poichè niente curando del luogo e di funestare quella celebrità, niente ancora stimando l'autorità del Papa, nè de' due Re di Spagna padre e figlio, ch'erano stati assicuratori della pace, fece Ferdinando imprigionare il Conte di Sarno, Marco ch'era lo sposo e Filippo suoi figliuoli, il Segretario Petrucci, i Conti di Carinola e di Policastro suoi figliuoli. Agnello Arcamone cognato del Segretario, e Giovanni Impoù catalano. Fece ancora spogliare le case de' prigioni, così a Napoli come a Sarno; e perchè il fatto era detestato da tutti, che ne parlavano con orrore e biasimo, non volle farli morire da se, ma destinò una Giunta di quattro Giudici, acciocchè ne fabbricassero il processo e gli condennassero come felloni e rei di Maestà lesa, secondo il rigor delle leggi. Trattando questi la causa, dovendosi proferir la sentenza contro Baroni, e disponendo le nostre Costituzioni che nell'interposizione della sentenza debbano intervenire i Pari della Curia, furono anche eletti quattro Baroni per Pari, li quali furono Giacomo Carracciolo Conte di Burgenza Gran Cancelliere, Guglielmo Sanseverino Conte di Capaccio, Restaino Cantelmo Conte di Popoli e Scipione Pandone Conte di Venafro. Fu proferita la sentenza dai Commessarj, i quali congregati di nuovo co' Pari nella sala grande del Castel Nuovo, sedendo col Reggente della Gran Corte della Vicaria pro Tribunali, fecero leggere e pubblicar la sentenza, presenti tutti quattro i rei che furono il Segretario, e due suoi figliuoli ed il Conte di Sarno, i quali furono condennati alla privazione di tutti gli onori, titoli, dignità, ufficj, cavalleria, contadi, nobiltà e d'esser loro troncata la testa, ed i loro beni incorporati al Fisco. Non volle il Re che in un dì morisser tutti: fece prima giustiziare sopra un palco nel mezzo del mercato i figliuoli del Segretario; alcuni mesi da poi dentro la porta del Castel Nuovo, avendo fatto erger un palco altissimo, perchè fosse veduto dalla città, fece mozzare il capo al Conte ed al Segretario. Ciò che si fece a' 11 maggio del 1487.
Ciò eseguito fece poi il Re a' 10 di ottobre imprigionare il Principe d'Altamura, il Principe di Bisignano, il Duca di Melfi, il Duca di Nardò, il Conte di Morcone, il Conte di Lauria, il Conte di Melito, il Conte di Noja e molti altri Cavalieri; e stimolato poi dal Duca di Calabria, in varj tempi e diversità di supplicj gli fece tutti segretamente morire: anche Marino Marzano Duca di Sessa che per venticinque anni era stato prigione, perchè la tragedia fosse compita, fu fatto morire; ed il Re per far credere al Mondo che fossero vivi, mandò loro per molto tempo la provisione di vivere; ma la verità fu che poco da poi, vedendosi in potere del boja una catenella d'oro che portava nel collo il Principe di Bisignano, si disse ch'erano stati scannati e gettati dentro sacchi in mare. Furono poco appresso presi i figliuoli e le loro mogli, sotto pretesto che cercassero di fuggire per concitar nuova guerra, e confiscati tutti i loro beni. Solo Bandella Gaetana Principessa di Bisignano, donna non men d'origine che per virtù romana, salvò i suoi figliuoli, che di soppiatto imbarcatigli in una picciola nave, fuggì con loro, e giunta in Terracina, gli condusse nelle Terre de' Colonnesi stretti parenti de' Sanseverini; onde avvenne che estinta la progenie di Ferdinando, in tempo del Re Cattolico ricuperassero i paterni Stati.
Una tragedia sì crudele e spaventevole diede orrore a tutto il Mondo; onde Ferdinando e molto più il suo figliuolo Alfonso, acquistaron fama di crudeli e di tiranni. Gli Scrittori di que' tempi e molto più i Franzesi gli detestarono, e Filippo di Comines Monsignor d'Argentone, Scrittor contemporaneo[85], gli descrisse per ciò per empj ed inumani. Ma non mancò Ferdinando di difendere la sua fama nell'opinione del Mondo, e di purgarsi dalla crudeltà che se gl'imputava. Fece porre in istampa il processo fabbricato contra il Segretario e 'l Conte di Sarno, che corre ancora oggi per le mani di alcuni, e gli altri processi fabbricati contra gli altri Baroni, e gli mandò non solo per tutta Italia, ma sino in Inghilterra, acciò gli fossero scudo a quietare gli animi de' Principi. Si scusò ancora per lettere dirette a tutte le Potenze cristiane, scrivendo loro, com'egli l'aveva carcerati, non per farli morire, ma per assicurarsi di loro, perchè già tentavano cose nuove. Ma tutte queste sue dimostranze niente gli giovarono, e molto meno col Re di Spagna, appo il quale egli più d'ogni altro studiava di purgarsi.
Era a questi tempi già morto il Re Giovanni d'Aragona, zio di Ferdinando e succeduto in que' Reami Ferdinando suo figliuolo, il quale s'avea sposata Elisabetta Principessa di Castiglia, sorella d'Errico Re di quel Regno, al quale ella poi succedette. Re Ferdinando, che fu detto il Cattolico, e che alla sua Corona per ragion della moglie avea anche unita la Castiglia, avendo inteso, che s'era mancato alla sua fede, cominciò a lamentarsi col Re Ferdinando; e con tal pretesto a pensare all'acquisto del Regno di Napoli. Re Ferdinando, a cui ciò molto premeva, avendo intesa la poca soddisfazione del Re Cattolico, inviò tosto in Ispagna Giovanni Nauclerio ad escusarsi con quel Re che non avea potuto far altro, perchè quei Baroni inquieti cominciavano a macchinare cose nuove contra di lui, e che il Principe di Salerno fuggito in Roma, coll'intelligenza de' Baroni rimasi nel Regno, meditava nuova impresa. E vedendo che il Re Cattolico non stava soddisfatto con quella ambasceria. per meglio assicurarsi, cominciò a trattar matrimonio per mezzo della Regina Giovanna sua moglie, ch'era sorella del Re Cattolico, del Principe di Capua figliuolo primogenito del Duca di Calabria, con una delle figlie del detto Re Cattolico; ma fu opinione di molti, ch'Elisabetta Regina di Castiglia moglie del Re Cattolico non avesse voluto che s'effettuasse, perchè stava in quel tempo con la cura e col pensiero tutta rivolta all'acquisto di questo Regno; ma con tutto ciò non essendo venuta ancora l'ora destinata alla rovina della Casa del Re Ferrante, essendosi in quel medesimo tempo ribellata l'isola di Sardegna, ed i Mori di Granata avendo cominciato a tumultuare contra i Regni di Castiglia, la cosa fu differita, nè si pensò ad altro.
CAPITOLO II. Morte del Re Ferdinando I d'Aragona; sue leggi che ci lasciò: e rinovellamento delle lettere e discipline che presso di noi fiorirono nel suo Regno e de' suoi successori Re Aragonesi.
Il Re Ferdinando, dissipati i suoi nemici, ed arricchito dalla rovina di tanti gran Signori, da' quali ebbe un tesoro inestimabile, continuò ne' sei altri anni, che visse, a regnare con somma quiete e pace: e le cose della città e del Regno si ridussero in un tranquillo e sicuro stato. Egli cominciò, per maggiormente stabilirsi in un più sicuro e continuato riposo, a tenere al suo soldo i migliori Capitani di quel tempo, de quali il primo era Virginio, appresso Gio. Giacomo Trivulzio ed i due Colonnesi Prospero e Fabrizio, e 'l Conte di Pittigliano ed altri: e si diede a fortificar di nuovo le fortezze della città e quelle del Regno, ed a ben munirle di necessari presidj, e con la prudenza sua e col valore del Duca di Calabria sperava di non avere a temere nè del Re di Spagna, nè di quello di Francia. Invigilava ancora a questo fine, per la quiete comune d'Italia, concorrendo nella medesima inclinazione di Lorenzo de' Medici, per mantenervi la pace; e quantunque in quello tempo fosse molto stimolato dal Duca di Calabria, il qual mal volentieri tollerava che Giovanni Galeazzo Sforza Duca di Milano maggiore già di venti anni, ritenendo solamente il nome Ducale, fosse depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio, il quale avendo più di dieci anni prima presa la di lui tutela, e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le genti d'arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello Stato, perseverava nel governo, non come Tutore o Governatore, ma dal titolo di Duca di Milano in fuori, con tutte le dimostrazioni ed azioni di Principe; nondimeno Ferdinando avendo innanzi agli occhi più l'utilità presente, che l'indignazione del figliuolo, benchè giusta, desiderava che Italia non s'alterasse; o perchè, come ponderò Francesco Guicciardini[86], avendo provato pochi anni prima con grandissimo pericolo l'odio contra se de' Baroni e de' popoli suoi, e sapendo l'affezione che per la memoria delle cose passate molti de' sudditi aveano al nome della casa di Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessero occasione d'assaltare il suo Regno, e perchè conoscesse essere necessaria l'unione sua con gli altri, e spezialmente con gli Stati di Milano e di Fiorenza, per far contrappeso alla potenza dei Vinegiani, formidabile allora a tutta Italia; ed in questa tranquillità si visse per alcuni anni.
Ma la morte accaduta nel mese d'aprile dell'anno 1492 di Lorenzo de' Medici, la quale pochi mesi appresso fu seguitata da quella d'Innocenzio VIII fece mutare lo stato delle cose, e che si preparassero più occasioni alle future calamità d'Italia e del Regno; poich'essendo succeduto ad Innocenzio Roderigo Borgia, nominato Alessandro VI, ed a Lorenzo, Pietro de Medici; e nate tra Pietro, che continuò la medesima alleanza col Re Ferdinando, e tra Lodovico Sforza aspre ed irreconciliabili discordie, ne procedè l'invito fatto da Lodovico a Carlo VIII Re di Francia per la conquista del Regno, e le altre calamità e disordini, che saranno il soggetto del seguente libro.
Il Re Ferdinando, che insino all'anno 1493, colla sua prudenza e consiglio, avea proccurato mantenere la quiete non meno del Regno che dell'Italia, sentendo queste mosse ed i grandi apparati di guerra, che si facevano in Francia, non tralasciò di far ogni opera e con Lodovico Sforza e coll'istesso Re Carlo per rimovergli dall'impresa; nulladimanco mostrandosi il Re di Francia alienissimo dalla concordia con Ferdinando, ed avendo comandato agli Oratori del medesimo, che come Oratori di Re nemico si partissero subito dal Regno di Francia; si vide incontanente il tutto ingombrato da grandi timori d'una crudele e nuova guerra. Ed a Ferdinando intanto per aver dovuto prepararsi a resistere ad un così potente inimico, affaticandosi più dell'ordinario a provvedere l'esercito che apparecchiava, gli sopravvenne un gran catarro, ed a questo essendo sopraggiunta la febbre, nel decimoquarto giorno di sua infermità lo tolse di vita in Napoli al 25 gennajo del 1494, sopraffatto più da' dispiaceri dell'animo che dall'età. Morte pur troppo funesta e luttuosa, e che portò seco la ruina, non pure della sua progenie e del Regno, ma ricolmò di infiniti mali e calamità l'Italia tutta; poichè la sua prudenza e celebrata industria era tanta, che si tenea per certo, che se fosse più vivuto, avrebbe tentato qualunque rimedio per impedire la passata de' Franzesi in Italia, ed avrebbe tollerato qualunque incomodo ed indegnità per soddisfare a Lodovico Sforza in tutto quello desiderasse per distaccarlo da' Franzesi, da lui invitati alla conquista del Regno.
Egli lasciò un Regno, che colla sua virtù avea condotto alla maggior grandezza, che forse molt'anni innanzi l'avesse posseduto Re alcuno. Oltre della buona disciplina militare, lo riordinò con provide e sagge leggi che ancora ci restano, e che sono le più culte che abbiamo di tutte l'altre, che vi stabilirono i Re angioini suoi predecessori, per le quali sin ad ora si governano i nostri Tribunali. Egli riordinò gli studj nella città di Napoli, donde ne uscirono molto valenti uomini in ogni scienza, tanto che i Napoletani fra i privilegi e grazie, delle quali cercarono la conferma al G. Capitano, una fu questa che ad esempio di Ferdinando, il Re Cattolico mantenesse questi studi[87] Ebbe ancora il pregio, che nel suo regnare si rinovellassero presso noi i buoni studj e le discipline e le lettere riacquistassero la loro stima e riputazione, e che il Regno fiorisse non meno di famosi Giureconsulti che d'insigni letterati: che la giurisprudenza, la quale quasi per un secolo fra noi da pochi era professata ed era in declinazione, si ristabilisse, ed in maggior splendore si vedesse illustrata da tanti celebri Scrittori che nel suo Regno rilussero: che le leggi delle Pandette e del Codice fossero più adoperate, e con sommo studio la giurisprudenza romana abbracciata e commendata, donde nacque in noi la total dimenticanza delle leggi longobarde: che il Regno fosse più culto e la barbarie non fosse cotanta, così nelle scuole, come ne' nostri Autori.
§. I. Rinovellamento delle buone lettere in Napoli.
L'origine di tal rinovellamento, non solo al favore di questo Principe, ma deve principalmente attribuirsi alla caduta di Costantinopoli. Passata questa città sotto la dominazione di Maometto II primo Imperador dei Turchi, ed invaso l'Imperio d'Oriente da questi barbari nemici delle buone lettere, molti uomini dotti che in Grecia ed in Costantinopoli dimoravano[88], per non rimanere in ischiavitù, si ritirarono co' loro libri in Italia, e molti nel nostro Regno, come quello che era lor più vicino. Oltre a tanti, di cui ora è il lor nome oscuro, vi vennero Emanuel Crisolora, Bessarione, Costantino Lascari Bizantino, che fu invitato da Ferdinando a legger lingua greca nell'Università degli studi di Napoli[89], Trapezunzio, Gaza, Argiropilo, Fletonte, Filelfo e molti altri, de' quali Giovio tessè accurati elogi.
Prima di questo tempo, come s'è potuto vedere nei precedenti libri di quest'Istoria, nelle Università degli studi d'Italia, le facoltà e le discipline erano insegnate, ma non con molto candore e polizia, nè molto s'attendeva allo studio delle lettere umane, e quantunque il Petrarca ed il Boccaccio avessero nel secolo precedente rilevata questa sorte di studi, non aveano ancora presso che niente avanzato.
La giurisprudenza, ancorchè nell'Accademie d'Italia ed in questa nostra di Napoli, s'insegnasse su i libri di Giustiniano e molti Professori vi faticassero attorno, chi in commentando le loro leggi, chi in glossandole e chi in altra maniera sponendole; nulladimanco poichè l'ignoranza del latino e della istoria romana impediva loro lo intender bene i testi, tutti si rapportavano ai Sommarj ed alle Chiose di coloro che credeansi esserne i meglio intesi; e quelli che non aveano il soccorso d'altri libri, non facevano altro che spiegare un luogo del Digesto o del Decreto per mezzo d'un altro luogo, collazionandolo insieme quanto più esattamente potevano, nel che Accursio sopra le Pandette riuscì maraviglioso. I difetti di tali maestri trassero in errore facilmente gli scolari; ed alcuni abusando la loro credulità, tramischiarono nelle loro Chiose etimologie ridicole e favole stravaganti, come fra gli altri in più luoghi fecero Accursio ed i Chiosatori del Decreto[90].
O perchè non comprendessero, non potersi praticare le leggi se non s'intendono, o perchè disperassero di meglio capirle, la loro applicazione più grande era di ridurle in pratica, trattando quistioni sopra le conseguenze, che deduceano da' Testi, e dando consigli e decisioni. Quando poi si volle applicare la legge romana sì mal intera, e sì lontana da' nostri costumi, ed istituti totalmente diversi da quelli de' Romani, ai nostri affari, e conservare nello stesso tempo le nostre usanze, le quali era impossibile di cangiare, le regole della giustizia divennero molto più incerte di prima, e s'intrigavano in quistioni sopra conseguenze, ch'essi credean dedurre da' Testi. Tutta la Giurisprudenza perciò si ridusse in dispute di scuola, e nelle opinioni de' Dottori, li quali non avendo cavati a bastanza i principj della morale, e della equità naturale dalle leggi romane, che ben, se l'avessero comprese, potevan apprendersi, sovente o cercavano i loro interessi particolari, ovvero si sposavano co' loro mal regolati ed ostinati pareri. Quelli pure, che cercavano la giustizia, non sapevano altri mezzi per proccurarla, che i rimedj particolari contro la ingiustizia: il che fece loro inventare tante clausole per li contratti e tante formalità per li Giudici.
Non così avvenne in questi medesimi secoli nella Grecia ed in Costantinopoli, così per ciò che riguarda le lettere umane e l'altre facoltà, come la Giurisprudenza; ed in quanto alle lettere umane, in Grecia gli Studi s'erano molto ben conservati, ed il solo Commento d'Eustazio sopra Omero dimostra esservi rimasta sino agli ultimi secoli infinità di libri e personaggi di grand'erudizione. In quanto alla giurisprudenza, il Corpo delle leggi e de' canoni raccolti da Leunclavio, e da Marquardo Freero, fanno vedere, che in Costantinopoli insino a' tempi del suo eccidio si conservava intatta. Le opere poi de' Giureconsulti greci, che fiorirono sino agli ultimi secoli, dimostrano ancora il medesimo: lo dimostrano le opere di Michele Attaliota, che fiorì nel 1077, di Michele Psello, che visse intorno a' medesimi tempi, di Costantino Armenopolo, che fiorì nel 1143, di Antioco Balsamone, di Giuseppe Tenedo, d' Eustazio Antecessore, ed altri Chiosatori Greci rapportati da Giovanni Doujat[91], e da Giovanni Leunclavio, e Marquardo Freero, il quale ne tessè una Cronologia, dalla morte di Giustiniano insino alla perdita di Costantinopoli[92].
Caduta per tanto Costantinopoli, e passata la Grecia sotto la dominazione di que' Barbari, si vide nella metà di questo secolo decimo quinto improvvisamente apparire una folla d'uomini letterati in queste nostre parti d'Occidente Ma la prima fu la nostra Italia: ella tiene il vanto essere stata la prima ricevitrice delle lettere: d'Italia l'apprese la Francia, poi passarono di mano in mano all'altre province d'Europa.
Que' dotti, che si ritirarono coi loro libri in Italia invogliarono gli altri allo studio delle buone lettere: questi con incredibile ansietà s'applicarono a leggere tutti i libri degli antichi, che potevano trovare, ed a scrivere in latino con maggior purità; poichè non mancava chi loro insegnasse il greco, si posero ad impararlo, e per far maggior profitto, così nell'una, come nell'altra lingua, si posero a tradurre in latino gli Autori greci, de' quali n'avean copia. L'arte dello stampare trovata, come si è detto, in questo medesimo tempo, fu loro di grandissimo ajuto per avere libri con facilità, ed averli anche ben corretti. Molti anche attendevano a fare edizioni eccellenti di tutti i buoni Autori sopra i manoscritti migliori, ricercando i più antichi e raccogliendone molti insieme. Altri fecero dizionari e gramatiche perfettissime; altri Commenti sopra Scrittori difficili; altri Trattati di tutto ciò, che può servire ad intenderli, come delle loro Favole, della Religione, del Governo e della Milizia. E nei tempi seguenti, poichè non tutto si fece in un tratto, questi studi furon coltivati tanto, che si discese sino alle menome particolarità de' loro costumi, de' loro vestiti, pranzi e divertimenti, tal che han fatto tutto lo sforzo necessario per farne intendere, dopo sì lungo intervallo di tempo, tutti i libri antichi greci, o latini, che ci restano. Ma poichè è difficile agli uomini il restringersi in una giusta mediocrità, si vider poi alcuni troppo fermati in questi studj che non sono che istromenti per gli studj più serii; perocchè vi furono molti curiosi, che passarono la loro vita studiando il latino ed il greco, e leggendo tutti gli Autori solamente per la lingua, o per intendere gli Autori medesimi, e spiegarne i luoghi più difficili, senz'arrivare più oltre, nè farne alcun altro buon uso. Furonvi tra quelli alcuni, che si fermarono nella sola mitologia e nelle antichità: altri che ricercarono le iscrizioni, le medaglie e tutto ciò che poteva illustrare gli Autori, ristringendosi nel solo diletto, che recavano queste curiosità.
Certi passando più avanti, studiarono negli antichi le regole delle belle arti, come della eloquenza e della poesia, senza mai praticarle, donde avvenne, che noi abbiamo tanti trattati moderni di poetica e di rettorica, ancorchè vi siano stati tanti pochi veri Oratori; e tanti trattati di politica fatti da' privati, che non sono stati giammai a parte degli affari pubblici.
Finalmente l'applicazione di leggere i libri antichi produsse in molti un rispetto sì cieco, che vollero più tosto anzi seguitare i coloro errori, che darsi la libertà di farne giudicio. Così si credette, che la natura fosse tale, quale è stata descritta da Plinio, e che ella non potesse operare, salvo che secondo i principj d'Aristotele. Ma il peggio si fu, che alcuni ammirarono troppo la lor morale, senza avvedersi quanto ella sia inferiore alla religione, che sin da' fanciulli aveano appresa: altri, benchè in picciol numero, diedero nell'eccesso opposto, affettando di contraddire agli antichi, e di allontanarsi da' loro principj.
Ma fra quelli, che ammirarono gli antichi, il più ordinario difetto era la cattiva imitazione. Si credette, che per iscrivere com'essi facevano, bisognava scrivere nella lor lingua, senza considerare, che i Romani scriveano in Latino, non già in Greco; e che i Greci scrivevano in Greco, non già in Egiziaco, o in Siriaco, Quindi avvenne, che la lingua toscana, che dal Petrarca, Boccaccio, e da alcuni altri del decimoquarto secolo si era rilevata tanto, cadesse in questo decimoquinto secolo, perchè tutti i Letterati d'Italia la disprezzarono come lingua del volgo; tanto che se nel seguente secolo Pietro Bembo e gli altri Letterati, che lo seguirono, non v'avessero fatto argine, e coll'esempio e colla ragione non avessero mostrato, che si poteva, così bene ed in ogni materia, scrivere nell'una, che nell'altra, sarebbe affatto rovinata[93]; ma a questi tempi i dotti la disprezzavano, e s'appigliavano al Latino ed alcuni anche al Greco, dettando le loro composizioni in verso, o in prosa in questa lingua, con pericolo di non essere intesi da alcuno.
Cominciarono adunque in questo secolo presso noi a risorgere le lettere, le quali accolte da' favori del Re Ferdinando, Principe ancor egli letterato, fecero nel suo Regno non piccioli progressi. Alfonso suo padre avea accolti, come si è detto, nella sua Corte alcuni Letterati di que' tempi, Lorenzo Valla, Antonio Panormita ed alquanti altri, i quali invogliarono questo Principe a proteggerle; gli scoprirono le bellezze, la gravità e la prudenza dell'istoria romana; gli posero tanto a cuore i libri di Livio, che divennero perpetua sua lezione; e fecero educare il suo figliuolo Ferdinando, ch'egli avea destinato per successore del Regno di Napoli, non meno nell'esercizio delle armi, che delle lettere. Lo provide perciò Alfonso di buoni Maestri, oltre al Vescovo di Valenza Borgia, Cardinale e poi Papa, detto Calisto III, al Valla, e Panormita celebri al Mondo, ebbe anche Ferdinando per Maestro Paris de Puteo e Gabriele Altilio famoso Poeta di que' tempi e versatissimo nella lingua latina, che poi fu creato Vescovo di Policastro, de' quali appresso ragioneremo[94].
Allevato questo Principe tra' Letterati, divenne ancor egli non pur amante de' Letterati, ma letteratissimo. Di Ferdinando ancor si leggono alcune Epistole ed Orazioni elegantissime, donde si scorge il buon gusto, ch'egli avea delle buone lettere: di lui ancora non men che del Re Roberto potea dirsi, che
Fur le Muse nutrite a un tempo istesso,
Ed anco esercitate.
Furono queste sue Epistole ed Orazioni impresse nel 1586, e porta il libro questo titolo: Regis Ferdinandi, et aliorum Epistolae, ac Orationes utriusque militiae, etc.[95].
Non men che suo padre avea di lui fatto, fece egli de' suoi figliuoli: toltone Alfonso Duca di Calabria, che nato e cresciuto in mezzo alle armi, di genio feroce e guerriero, non ebbe alcuna inclinazione agli studi; Federigo secondogenito e gli altri suoi figliuoli furono dati alle discipline; Federigo fu letteratissimo, e D. Giovanni quartogenito vi fu parimente, tanto che dal padre fu destinato per la Chiesa, e dal Pontefice Sisto IV fu creato Cardinale, detto il Cardinal d'Aragona.
I suoi Segretarj e gli Ufficiali della sua Cancellaria non erano se non letterati: Antonio Petrucci suo primo Segretario fu discepolo di Lorenzo Valla, da cui apprese la purità della lingua latina e le lettere umane, e divenne uom dotto e versato in molte scienze. Giovanni Pontano suo secondo Segretario, che dopo la morte del Panormita occupò il suo luogo, niun è che non sappia quanto fosse celebre e rinomato in tutte le scienze e nella perizia della lingua latina. Quindi osserviamo, che le Prammatiche e gli Editti, che leggiamo del Re Ferdinando I, particolarmente quelli che si stabilirono nell'anno 1477 di cui più innanzi farem parola, poichè dettati da questi due politissimi Scrittori, siano i più culti e scritti in buon latino, ciò che non si vede negli altri de' nostri Re. Quindi ancora si vede, che non valendosi la Cancellaria de' nostri Re aragonesi d'altra lingua, che della latina ed italiana, i diplomi e l'altre scritture, che n'uscivano, quegli dettati in latino fossero tanto più culti, quanto quelli in italiano (per essere questa lingua disprezzata) rozzi e plebei.
Oltre della sua Cancellaria, si è di sopra veduto, che invitò all'Università degli Studj di Napoli i migliori Professori di que' tempi; ed è notabile per conferma di tutto ciò, quel che si legge in un suo diploma impresso dal Toppi[96], drizzato nel 1465 a Costantino Lascari di Bizanzio, dove mosso dalla fama d'un sì celebre Letterato, l'invita con grosso stipendio a leggere lingua greca nell'Università degli Studj di Napoli: Decrevimus vos ad lecturam graecorum Auctorum, Poëtatum scilicet, et Oratorum in hac Urbe Neapolis ad pubblice legendum praeficere, freti moribus vestris, et literis etiam confisi, per vos graecarum litterarum doctrina, ad frugem aliquam nostrorum dilectissimorum studentium ingenia perventura.
CAPITOLO III. Degli Uomini letterati, che fiorirono a tempo di Ferdinando I e degli altri Re aragonesi suoi successori.
Fiorirono per tutte queste cagioni nel Regno di Ferdinando insino a Federigo ultimo Re della sua discendenza, presso noi uomini illustri per lettere e per dottrina. Non meno che Roma e le altre città d'Italia si gloriavano in questi tempi d'un Pico della Mirandola, di Marsilio Ficino, Bartolommeo Platina, Raffael Volaterrano, d'Ermolao Barbaro, de' Poliziani, Ursini e di tanti altri[97], che Napoli ancora dei suoi, li quali e per numero e per dottrina non erano a quelli inferiori.
Oltre al Panormita[98] e gli altri già detti, ebbe Gabriele Altilio celebratissimo Poeta e versatissimo nella lingua latina. La Basilicata lo produsse e per la fama del suo nome fu da Alfonso, come si è detto, dato per Maestro al suo figliuolo Ferdinando: fu adoperato, non meno che il Pontano, negli affari di Stato in Roma col Pontefice Innocenzio VIII ed altrove. Il Pontano suo coetaneo ne fece molta stima, dedicandogli il suo libro, De magnificentia, dove lo cumula di grandi lodi; e morto, gli tessè un culto Epitaffio che si legge nel libro primo de' suoi Tumuli. Non men che il Pontano, fu ammiratore della sua Musa il Sannazaro e nel primo libro de' suoi Epigrammi, si legge il Natale dell'Altilio: De Natali Altilii Vatis, e nelle sue Elegie non lascia di commendarlo per i suoi dotti carmi. Molti altri Scrittori insigni di questo famoso Poeta ne fanno illustre ed onorata memoria, che possono vedersi presso Toppi e Nicodemo[99]. Ci restano ancora le sue Poesie latine, l' Epitalamio, alcune Elegie ed Epigrammi, che furon raccolte dal Ruscelli, da Giovanni Matteo Toscano e da altri.
Fiorì ne' medesimi tempi Antonio Campano nato in Cavelli, Terra presso Capua, da vili parenti. I suoi talenti gli fecero trovar sommo favore presso il Pontefice Pio II, da cui fu creato Vescovo di Teramo nell'Apruzzo. Fu celebre Oratore, Istorico e Poeta, ed ancorchè niente fosse istrutto di lettere greche, fu delle latine intendentissimo. Ci lasciò molte opere: La Storia d'Urbino: La Vita di Braccio: L' Epistole Latine, e moltissime altre, di cui Nicodemo[100] tessè un ben lungo catalogo. Alcune di queste sue opere dedicò ad Alfonso Duca di Calabria, da cui fu tenuto in somma stima. Fu molto celebrato da' suoi coetanei e da altri Scrittori de' tempi seguenti, di che è da vedersi Nicodemo. Morì, secondo il Volaterrano[101], non avendo più che quaranta anni, in Teramo in questo secolo 15 intorno l'anno 1477. Il Possevino ed il Toppi rapportano il suo Epitaffio, che sono da vedersi.
Non men celebre fu il suo coetaneo Angelo Catone famoso Filosofo e Medico del Re Ferdinando I. Questi nacque in Supino nel Contado di Molise: per la sua dottrina fu da' Napoletani ricevuto nella lor città con molta stima, e tenuto in gran pregio; ed il Re Ferdinando, oltre averlo fatto suo Medico, nel 1465 lo invitò ad insegnare nell'Università degli Studj di Napoli Filosofia ed Astrologia, ove lesse molti anni. Emendò il libro delle Pandette di medicina, che Matteo Silvatico di Salerno avea composto e dedicato al Re Roberto: egli l'accrebbe, e nel 1473 lo fece imprimere da quel Tedesco, che poco prima avea in Napoli introdotta la stampa, e fu un de' primi libri che si stampassero in questa città[102]. Lo dedicò al Re Ferdinando, dove gl'indrizza una Orazione, celebrando l'amenità e bellezza del Regno, e ciò, che più di raro si trova in quello. Furonvi due altri Angeli Catoni, uno di Benevento molto caro al Re Carlo VIII di Francia, da cui per la sua dottrina fu creato Arcivescovo di Vienna: l'altro di Taranto, Medico ed Elemosiniere di Lodovico XI Re di Francia, a persuasione di cui scrisse i Commentarj delle cose di Francia, per quel che ne scrive Filippo di Comines Monsignor d'Argentone.
Ebbe il famoso Pontano Poeta anch'egli illustre, Istorico, Oratore e Filosofo eminente, come dimostrano le sue opere, a tutti non men note, che celebrate. Nacque egli nell'Umbria in Cerreto, ovvero, secondo che altri scrissero, in Spelle, donde, essendo stato ucciso suo padre, venne in Napoli giovanetto: e da Antonio Panormita, conoscendolo di vivace ingegno, fu caramente accolto e posto nella Corte del Re Ferdinando: diede gran saggio de' suoi talenti, onde il Panormita fece, che il Re lo deputasse per Maestro e Segretario del Duca di Calabria suo figliuolo. Crebbe tanto nella grazia di Ferdinando, che morto Panormita sottentrò nel suo luogo per secondo Segretario del Re. Fu poi fatto cittadino napoletano, e da Ferdinando creato Presidente della Regia Camera, e poi anche Luogotenente del G. Camerario[103]. Fu adoperato nei più gravi e rilevanti affari dello Stato, e per sua opera fu conclusa, come si è detto, la pace col Pontefice Innocenzio. Narra Camillo Porzio[104], ch'avendo il Pontano per sua industria e diligenza recata a fine quella pace, era entrato in speranza, caduto Antonello Petrucci, di succedere egli nel suo luogo ed autorità, fidando ne' buoni ufficj del Duca di Calabria che gli avrebbe fatti col padre; ma il Duca, ch'era poco amico delle lettere, e de' beneficj ricevuti sconoscente, non lo favorì appresso il padre, come dovea ed avrebbe potuto; da che provocato l'ambizioso vecchio, compose il Dialogo della Ingratitudine, dove introducendo un Asino delicatamente dal Padrone nudrito, fa ch'egli in ricompensa lo percuota co' calci. Non è però che Alfonso, morto il Re Ferdinando, non l'avesse tenuto in somma stima, e non gli avesse renduti i più grandi onori: poichè nel suo magnifico palagio, che egli edificò presso il castello Capuano (che, come si è detto, per la sua abitazione e per quella della Duchessa sua moglie finora ritiene quel luogo dov'era fabricato, il nome di Duchesca ) tra gli altri arredi nobili e preziosi, ed una famosa Biblioteca, vi fece ergere una statua di rame del Pontano[105], che non senz'encomi era dal Re Alfonso mostrata a coloro, che venivano a vedere le ricchezze di quell'edificio.
Per essere stato sì grandemente esaltato da questi due Re, fu non poco biasimato, quando entrato Carlo VIII in Napoli, volendo prima di tornarsene ricevere solennemente nella chiesa Cattedrale, secondo il costume de' Re di Napoli, l'insegna reale egli onori, ed i giuramenti consueti prestarsi a' nuovi Re; orando in questa celebrità in nome del popolo il Pontano parve che o per servare le parti proprie degli Oratori, o per farsi più grato a' Franzesi, si distendesse troppo nella vituperazione di que' Re, da' quali era sì grandemente stato esaltato. Tanto ch'ebbe di lui a dire il Guicciardini[106], che qualche volta è difficile osservare in se stesso quella moderazione e que' precetti, coi quali egli ripieno di tanta erudizione, scrivendo delle virtù morali, e facendosi per l'universalità dell'ingegno suo in ogni spezie di dottrina maraviglioso a ciascuno, avea ammaestrati tutti gli uomini.
Quanto fossero insigni e celebrate l'opere che ci lasciò questo Scrittore, così in prosa, come in verso, ben è a tutti palese; e quanti laudatori avessero così de' nostri, come de' forastieri, ben ciascuno potrà vederlo presso il Vossio[107], e fra' nostri presso Nicodemo[108], che di questo Autore e delle sue opere tratta ben a lungo.
Gli fu falsamente imputato, che nella Biblioteca di Monte Cassino, la quale siccome da noi fu narrato ne' precedenti libri di quest'istoria, fu dall'Abate Desiderio arricchita di molti antichi volumi, avesse trovate alcune opere di Cicerone e datele fuori per sue; ma di ciò è da vedersi il Vossio e lo Schootkio.
Al Pontano deve Napoli la gloria, che acquistò per l' Accademia cotanto celebre da lui quivi eretta, dove a gara vollero ascriversi molti Nobili de' nostri Seggi ed i maggiori Letterati di que' tempi.
Del Seggio di Nido furono Trojano Cavaniglia Conte di Troja e di Montella: Ferdinando d'Avalos Marchese di Pescara: Belisario Acquaviva Duca di Nardò: Andrea Matteo Acquaviva Duca d'Atri; e Giovanni di Sangro.
Del Seggio di Capuana, il Cardinal Girolamo Seripando, se bene altri dicono aver questa famiglia goduto nel Seggio di Nido: Girolamo Carbone e Tristano Caracciolo.
Del Seggio di Montagna Francesco Puderico. Del Seggio di Porto, Pietro Jacopo Gianuario ed Alfonso Gianuario suo figliuolo. Del Seggio di Portanova, Alessandro d'Alessandro ed il Sannazaro.
Fuori de' Seggi, i Napoletani furono Antonio Carlone Signor di Alife: Giovanni Elia ovvero Elio Marchese: Giuniano Maggio, ovvero Majo, precettore del Sannazaro: Luca Grasso: Giovanni Aniso: il Cariteo (di cui non si sa il nome): Pietro Compare: Pietro Summonte: Tommaso Fusco: Rutilio Zenone: Girolamo Angeriano: Antonio Tebaldo: Girolamo Borgia e Massimo Corvino, poi Vescovi di Massa e di Isernia.
De' Regnicoli: vi furono Gabriele Altilio della Lucania Vescovo di Policastro: Antonio Galateo di Lecce e Giovanni Eliseo, d'Anfratta in Puglia.
De' Forastieri vi furono, Lodovico Montalto di Siracusa, Segretario di Carlo V: Pietro Gravina di Catania, Canonico Napoletano: M. Antonio Flaminio di Sicilia: Egidio Cardinal di Viterbo: Bartolommeo Scala di Firenze: Basilio Zanchi di Lucca: Jacopo Cardinal Sadoleto di Modena: Giovanni Cotta di Verona: Matteo Albino: Pietro Cardinal Bembo, e M. Antonio Michieli Vinegiani: Giovan Pietro Valeriano di Bellun di Francia: Niccolò Grudio di Roano: Giacomo Latomo della Fiandra: Giovanni Pardo, filosofo Aragonese. Michele Marcello di Costantinopoli e molti altri chiarissimi Letterati, de' quali il Pontano, come Principe dell'Accademia era capo. Secondo l'uso dell'Accademia di Roma di mutarsi il nome (onde il Poggio e Bartolommeo Platina patì tanto) se lo cambiavano ancor essi; onde il Pontano mutossi in Jovianus, Sannazaro in Actius Sincerus e così gli altri.
Morì il Pontano già vecchio in Napoli nel 1503 ne' primi anni del Regno di Ferdinando il Cattolico, e giace sepolto nella cappella di S. Giovanni, ch'egli vivendo s'avea costrutta presso la chiesa di S. Maria Maggiore ove si legge il suo tumulo, ch'egli stesso s'avea in vita composto.
Fiorirono ancora negli ultimi anni del Re Ferdinando, di Alfonso e di Federico, molti altri insigni Letterati che toccarono il decimosesto secolo. Fiorì il famoso Michele Riccio nostro non men insigne Giureconsulto che istorico[109]. Questi ancorchè originario di Castel a Mare di Stabia fu gentiluomo Napoletano del Seggio di Nido, e rilusse non meno nel Foro che nella Cattedra, essendo stato un gravissimo Giureconsulto ed eminente Avvocato ne' nostri supremi Tribunali. Il Re Ferdinando lo fece Lettor primario di legge ne' pubblici studj di Napoli e suo Consigliere. Quando poi Carlo VIII venne in Napoli, e s'impadronì del Regno, aderì a costui, il quale nel 1495 lo fece Avvocato fiscale del regal Patrimonio. Ma fugati i Franzesi, tornando il Regno sotto il Re Ferdinando II, rimase il Riccio molto depresso, insino che passando di nuovo a' Franzesi sotto Lodovico XII Re di Francia, non fosse stato da questo Re innalzato a primi onori[110]. Fu egli nel 1501 da Lodovico creato Vice-protonotario del Regno, presidente del S. C. ed aggregato colla sua posterità nel Seggio di Nido. Lo fece poi Consigliere del suo gran Consiglio e del Parlamento di Borgogna, Senator di Milano e Presidente di Provenza. Entrò in tanto favore presso questo Principe che era adoperato negli affari più rilevanti dello Stato; poich'essendo nata contesa fra il Re Cattolico ed il Re Ludovico intorno alla divisione del Regno per la provincia di Capitanata, diede egli fuori molte allegazioni a favor di Lodovico[111], difendendo con tanto vigore e fortezza le sue ragioni, che dal Zurita[112] fu notato di soverchia arroganza. Ma finalmente essendo stati pure discacciati i Franzesi dal Regno da Ferdinando il Cattolico, Michele volle seguire le parti di Lodovico, ed abbandonando tutti i suoi beni e la famiglia, andò in Francia a dimorare dove dal Re fu caramente accolto, onorandolo de' primi posti. Lo mandò nel 1503 per Ambasciadore in Roma a congratularsi in nome di quel Re con Giulio II ch'era stato allora assunto al pontificato, dove si trattenne per alcuni anni, nei quali trattò con Giulio della recuperazione del Regno di Napoli per Lodovico; ma lo stato e la condizione di que' tempi avendo fatto riuscire inutili tutti i suoi negoziati, con tutto ciò lo fece il Re trattenere in Roma, dove avendo maggior ozio compose la sua Istoria. Ritornò poi in Francia, da dove nel 1506 fu mandato dal Re Ambasciadore in Genova, e poi nel 1508 in Firenze[113]. ✠ In fine dopo essere stato adoperato dal medesimo ne' più rilevanti affari della sua Corona, morì a Parigi nel 1515, non senza sospetto di veleno. Accoppiò alle lettere umane una profonda cognizione di dottrina, e sopra tutto di Giurisprudenza nella quale fu così eminente, che Giano Parrasio non fece difficoltà d'uguagliarlo a' Sulpicj, a' Pomponj, Paoli ed agli Scevoli. Fu eloquentissimo, e scrisse la sua Istoria con non minor gravità che prudenza: il suo stile, secondo il giudizio del Parrasio fu candido, puro e faticato, nè la sua brevità partorisce oscurezza. Egli scrisse: De Regibus Francorum lib. III. De Regibus Hispaniae lib. III. De Regibus Hierusalem lib. I. De Regibus Neap. et Siciliae lib. IV. Se ne veggono di questi libri molte edizioni fatte in diversi tempi, rapportate dal Toppi[114]. Fu celebrato da' più illustri Scrittori di que' tempi; e Giano Parrasio gli dedicò un libro, ch'egli fece imprimere a Milano nel 1501 che conteneva il Carme Pascale di Sedulio Poeta cristiano da lui fra' M. S. antichi trovato, ed i Poemi di Aurelio Prudente, dove nell'epistola dedicatoria con grandi encomj celebra la costui virtù e dottrina. Scrisse a' tempi de' nostri avoli la Vita di sì insigne letterato Carlo de Lellis, che la premise al volume de' suddetti libri d'Istoria, impresso in Napoli nel 1645.
Non men celebre fu in questi medesimi tempi il famoso Poeta Giacomo Sannazaro, il quale non altrimenti che il Riccio, volle seguire in Francia la fortuna del suo Signore. Non bisogna che di lui facciam molte parole, come di uomo pur troppo noto ed illustre, di cui e delle sue opere è stato tanto scritto e tanto ammirato. Egli nacque in Napoli, come di se medesimo dice nell'Arcadia, negli estremi anni del Re Alfonso I, intorno l'anno 1458, e fu Cavaliere del Seggio di Portanova, di costumi cotanto gentili e politi che Federigo, secondogenito del Re Ferdinando, l'ebbe sommamente caro, tanto che il Sannazaro così nella prospera che nell'avversa fortuna, non volle mai abbandonarlo: lo seguì in Francia, ove dimorò molto tempo: ritornò poi in Italia, e dopo essersi fermato alcuni anni in Roma, tornò in Napoli, dove alcuni scrissero che morisse l'anno 1532. Ma vi è gran contesa fra' Scrittori intorno al luogo ed all'anno della sua morte.
Giovan-Battista Crispo che scrisse la sua vita con molta esattezza, per la testimonianza che egli rapporta di Ranerio Gualano e del Costanzo, lo fa morire in Napoli, siccome anche scrisse l'Eugenio[115]. Ma l'autorità di costoro deve cedere a quella di Gregorio Rosso scrittor contemporaneo, il quale ne' suoi Giornali rapportando in due luoghi[116] la morte di questo insigne Poeta, accaduta nel tempo ch'egli andava stendendo que' suoi Componimenti, dice che morì nel mese di agosto in Roma, senza veder più Napoli, poco da poi della morte del Principe d'Oranges, della quale si compiacque tanto che nell'estremo di sua vita non tralasciò di dire che Marte avea fatto vendetta delle Muse, alludendo alla sua Torre di Mergoglino diroccata per ordine del Principe: e che li suo corpo fu trasferito a Napoli, e seppellito nella sua chiesa di Mergoglino nel seguente mese di settembre di quell'anno, che fu il 1530.
L'anno parimente viene chiarito da questo Scrittore, al quale concorda l'Iscrizione del suo sepolcro, nella quale non vi è errore alcuno, come credettero il Crispo e l'Engenio: poich'essendo nato nel 1458, e concordando quasi tutti col Giovio, che morì di 72 anni, viene a cadere la sua morte appunto nel suddetto anno 1530. La morte, accaduta del Principe di Oranges, a 3 agosto del detto anno, conferma lo stesso, essendo poco innanzi preceduta a quella del Sannazaro[117].
Suo contemporaneo e fido amico fugli Francesco Poderico famoso letterato anch'egli di questi tempi. Era gentiluomo del medesimo Seggio e della stessa Accademia del Pontano; ancorchè fosse cieco di corpo, non già dal nascimento, era uomo d'esquisitissimo giudicio, tanto che il Sannazaro, mentr'era tutto inteso al lavoro del suo Poema de Partu Virginis, non tralasciava mai pur un giorno di andarlo a ritrovare e conferire con lui que' versi, ne' quali il Poderico era tanto critico che il Sannazaro, per poterne sciegliere un verso degno di quelle purgate orecchie, assai sovente ne recitava diece composti d'un medesimo sentimento, e così per lo spazio di venti anni, seguendo questo tenore di studio, pervenne al fine di quell'opera[118]. Il Pontano l'ebbe ancora in grande stima; a lui dedicò il quarto de' suoi libri, de Rebus Coelestibus; l'onorò sempre nelle sue opere, e nel libro primo de' suoi Tumuli si legge ancora quello del Poderico. Pietro Summonte l'ebbe pure in grande venerazione ed in una sua pistola d'eccelse lodi lo cumula, dedicandogli ancora il Dialogo del Pontano intitolato, Actius.
A questi due insigni uomini dobbiamo noi l'istoria di Napoli del famoso Costanzo: confessa egli, che fu confortato a scriverla dal Sannazaro e dal Poderico, che benchè fosse degli occhi della fronte cieco, ebbe vista acutissima nel giudicio delle buone arti e delle cose del mondo. Questi due buoni vecchi, dic'egli[119], che nell'anno di N. S. 1527 s'erano ridotti a Somma, dove io era, fuggendo la peste che crudelmente infestava Napoli, in aver veduti tanti errori nel Compendio di Collenuccio, che allora era uscito, mi coortarono ch'io avessi da pigliare la protezione della verità, ed alle persuasioni aggiunsero ancora ajuti, perchè non solo mi diedero molte scritture antiche, ma ancora gran lume, onde poter trovare delle altre: e certo, se tre anni dopo non fosse successa la morte dell'uno e dell'altro, dic'egli, che la sua Istoria sarebbe più copiosa ed elegante, perchè avrebbe avuto più spazio d'imparare e ripulirla nella conversazione di così prudenti e dotte persone
Fiorirono ancora in questi medesimi tempi dell'istessa Accademia del Pontano il tante volte nominato Pietro Summonte, ancor egli letteratissimo, come si vede dalle sue pistole, ed a cui dobbiamo l'edizioni dell'opera del Pontano e dell'Arcadia del Sannazaro, da' quali ne' loro carmi vien cotanto celebrato, e da Ambrosio di Lione cognominato il dotto[120]. Il famoso Tristano Caracciolo, di cui l'istesso Sannazaro cantò:
Ma a guisa d'un bel Sol fra tutti radia
Caracciol che 'n sonar sampogne e cetere
Non trovarebbe il pari in tutta Arcadia.
Il cotanto celebrato da' carmi di Pontano e dal Sannazzaro Cariteo famoso Poeta di que' tempi[121]. Ambrogio di Leone di Nola: Vir, come di lui scrisse il Vossio[122], Latine, Graeceque doctissimus, Philosophus idem, ac Medicus insignis. Fu egli amicissimo d'Erasmo, come si vede dalle loro vicendevoli lettere; dal quale fu cotanto stimato, che 'l priega insino a volerlo nominare nelle sue opere, delle quali il Nicodemo fece lungo ed accurato Catalogo[123]. Il famoso Alessandro d'Alessandro, la di cui opera de' Giorni Geniali, ebbe il favore d'avervi impiegati intorno i loro talenti tre famosi Scrittori Franzesi, non pure il Tiraquello ed il Colero, ma anche il chiarissimo Giureconsulto Dionigi Gotofredo. Fu egli in Napoli ed in Roma nudrito fra' Letterati di questi tempi ed uscì dall'Accademia del Pontano: conversò con Francesco Filelfo, Giorgio Trapezunzio, Bartolommeo Platina, Giovanni Pontano, Teodoro Gaza, Niccolò Perotti, Domenico Calderino, Ermolao Barbavo, Paolo Cortese e Raffael Volaterrano. Ascoltò alcuni di questi in Roma, con altri visse familiarmente, onde divenne erudito: mentr'era giovane intese in Roma Filelfo ch'essendo già vecchio spiegava in quell'Università le Tusculane di Cicerone: ascoltò ivi ancora Perotti e Calderino che spiegavan Marziale. Egli di professione era Avvocato, e ne' nostri Tribunali ed in que' di Roma si diede a difender cause. Poi lasciato il Foro si diede a' studj men severi ed alle lettere umane tutto intese. Vi è chi lo nota d'ingratitudine, che avendo composti i suoi Giorni Geniali a similitudine delle Notti Attiche d'Agellio e de' Saturnali di Macrobio, e preso da varj Autori tutto ciò che vi scrive, non siasi mai ricordato di lodarli, dissimulandoli, come se tutto fosse stato dettato di suo capo.
Fiorirono ancora intorno a questi medesimi tempi Pietro Gravina Poeta assai celebre, Girolamo Carbone, Girolamo Massaino, Giuniano Majo, celebre Gramatico, Maestro del Sannazaro e tanti altri insigni Letterati: tanto che l'Accademia del Pontano fu uguagliata dagli Scrittori al Cavallo Trojano, donde uscirono tanti bravi guerrieri.
Ma ove lascio il famoso Andrea Matteo Acquaviva Duca d'Atri e di Teramo, insigne non men nell'armi che nelle lettere? Dal cui esempio tutta la sua posterità e la lunga serie de' Duchi d'Atri, seguendo i suoi vestigi, si adorna di simili virtù, e di esser perpetua fautrice delle discipline e de' letterati. Fra tanti pregi onde questa famiglia si è presso di noi resa eminente sopra tutte le altre, fu senz'alcun dubbio questo, che la rese celebratissima presso tutti gli Scrittori. Sin da questo principio nel risorgimento delle lettere in Italia ed in Napoli, fu questo Duca come di lui scrisse il Puntano[124]: Princepem Virum et in mediis philosophantem belli ardoribus, et Philosophorum inter libros, naturaeque ratiocinationes tractantem Ducum artes, muneraque Imperatoria, utrumque cum dignitate, neutrum sine suo, et decore, et laude. E quanta stima facesse di lui questo Scrittore si vede, che oltre i tanti elogi, che si veggono sparsi per le sue opere, gli dedica i due libri de Magnanimitate, ed il primo de Rebus Coelestibus. Tutti gli altri Letterati dell'Accademia del Pontano di questi tempi gli resero estremi onori: Pietro Summonte fece lo stesso che il Pontano lodandolo e dedicandogli le sue opere; i libri degli Epigrammi del Sannazaro[125] sono di sue lodi. Alessandro d'Alessandro gli dedicò i suoi libri de' Giorni Geniali. Il Minturno[126] nel libro de' suol Epigrammi, il Giovio[127] in quello de' suoi Elogj e tanti altri rapportati dal Nicodemo[128], non finiscono d'altamente lodarlo. Ci restano ancora di quest'Eroe i suoi Commentarj, ed i quattro libri delle Disputazioni Morali, che impresse in Napoli sin dal 1526, furon da poi ristampate in Germania nel 1609. Ci testifica ancora il Toppi[129], che questo libro si trovava anche M. S. in pergameno nella Biblioteca de' PP. Agostiniani di S. Giovanni a Carbonara; ma non sappiamo se dopo il sacco ultimamente datovi, sia ora rimase fra quei miseri avanzi.
Fu con non interrotta successione continuata la cognizione delie migliori lingue e di tutte le discipline liberali nella di lui posterità. Gio. Antonio Acquaviva suo figliuolo fu, secondo testimonia l'Atanagio, assai dotto e buono. Giovan Girolamo suo nipote, per giudicio di questo istesso Scrittore, fu nella poetica ed in tutte le discipline liberali gran Maestro; al quale egli per ciò dedicò le poesie di Bernardino Rota. Ed ultimamente Giosia Acquaviva XIV Duca d'Atri, che emulando le virtù paterne, non men nelle armi che nelle lettere, fu celebratissimo, favorì cotanto i Letterati, che volle avere per direttore de' suoi studj l'incomparabile Cattedratico Domenico Aulisio pregio di questa Università e suo maggior splendore, il quale l'ebbe in tanta stima, che gli dedicò quel suo libro intitolato; la Sfinge, ovvero l'Interprete dell'Affrica Occidentale con le sue isole, il quale M. S. presso noi si conserva.
CAPITOLO IV. Stato della nostra giurisprudenza in questi ultimi anni del Regno degli Aragonesi; e leggi, che da Ferdinando furono stabilite.
Cotanto le lettere umane eransi rialzate nella fine di questo secolo, e tale fu il numero de' Letterati, che vi fiorirono; ma la nostra giurisprudenza, ancorchè cominciasse in questi tempi per li favori e per le leggi di Ferdinando a sollevarsi, non fece però, come nel secolo seguente que' progressi che si sentiranno ne' seguenti libri di questa Istoria. Insino ad ora andavan di pari i Legisti e' Canonisti, come i Teologi. Le altre facoltà furon tutte, come s'è veduto riformate e ridotte nel loro splendore: le lingue, la gramatica, la poesia, la oratoria, la politica ed in gran parte la filosofia, e la medicina. Ma le gare insorte tra i Professori di queste facoltà, con i Dottori e Teologi, fecero che questi ostinatamente seguitassero la tradizione, e lo stile delle loro scuole e de' Tribunali, anteponendo l'utile al dilettevole. I Dottori e' Teologi tenevano questi nuovi Letterati, ch'e' chiamavano Umanisti, come Grammatici, Retori e Poeti, per uomini da poco, li quali trattenevansi ne' giuochi de' fanciulli ed in vane curiosità. Gli Umanisti al contrario allettati dalla bellezza degli Autori antichi e sorpresi dalle loro invenzioni, sprezzavano il comune de' Dottori, che seguitavano la tradizione delle Scuole, trascurando lo stile per attaccarsi alle cose, e per parlare col linguaggio proprio delle Scuole[130]. Essi si facevano ben sentire, e perchè scrivevano con tutta la pulitezza, e perchè aveano appreso colla lettura degli antichi a guadagnarsi in tal guisa la buona grazia da tutti. Questi loro sforzi, ancorchè, come si è detto in questo cadente secolo non molto riscotessero i Giureconsulti ed i Teologi, nulladimanco nel secolo seguente fecero effetti maravigliosi; poiché nell'entrar di quello s'incominciarono gli studi sopra le Pandette e gli altri libri di Giustiniano con modo diverso, cioè coll'aiuto delle lingue e dell'istoria romana, di quello che si era fatto per lo passato. Si cominciarono a spiegar le leggi in altra guisa ed a commentarle in miglior lingua, ed a penetrarne i veri sensi; ed il primo che nella nostra Italia rompesse il guado fu Andrea Alciato Professore di legge nell'Università di Milano. D'Italia questa nuova maniera passò in Francia, dove prima di ogni altro Guglielmo Budeo e Carlo Molineo vi impiegarono i loro talenti; ma in decorso di tempo non si può negare, che la Francia superasse in ciò i Professori d'Italia; poichè vi rilussero tanti Giureconsulti insigni, fra' quali l'incomparabile Cujacio, che oscurò la fama di tutti.
L'eresia di Lutero, che poco da poi alzò il capo, diede occasione di portar anche simile cangiamento alla teologia[131]. Pretendeva egli del pari riformare gli Studi, che la Religione. Melantone suo fedele discepolo v'impiegò tutte le sue belle lettere e tutto il suo talento; onde si diedero i pretesi Riformatori con grande ardore a studiare le lettere umane, vedendo che la eloquenza ed il credito d'una scelta erudizione a se chiamava gran numero di seguaci: consideravano questi studi, come mezzi necessari alla riforma della Chiesa; e facendosi ammirare dagl'ignoranti, davan lor facilmente ad intendere che i Teologi cattolici non più sapevano della Religione che delle Belle Lettere: obbligarono perciò i Cattolici ad impiegarsi a questi studi per combattergli con le lor proprie armi: si diedero a questo fine alla cognizione delle lingue originali e degli Autori antichi secondo le lor proprie edizioni: incominciossi adunque di nuovo a studiare i Padri sì greci come latini, troppo poco conosciuti ne' secoli precedenti. Si studiò la Storia ecclesiastica, i Concilj, gli antichi Canoni, penetrando per sino nella origine della tradizione, e deducendo la dottrina dalla sua propria fonte; ed il senso letterale della Scrittura fu ricercato col soccorso delle lingue e della critica.
Ma tutti questi avanzi così nelle leggi e ne' canoni, come nella teologia, si videro nel seguente secolo decimosesto. Nel Regno di Ferdinando e de' suoi figliuoli, presso di noi le buone lettere cominciavan sì bene a restituire la giurisprudenza in qualche lustro, ma in questi principj non fu tanto. Nell'Università nostra si proseguiva lo stesso stile, ancorchè i Professori come i migliori di que' tempi, vi ponessero maggiore studio. Ma se non fu restituita la giurisprudenza nel suo antico candore, la saviezza di questo Principe, la perizia delle lingue de' suoi Secretarj e la dottrina de' nostri Professori che cominciavano, più di quel ch'erasi fatto ne' precedenti secoli, ad impiegar i loro talenti in questi studi, produssero leggi non men savie e prudenti, che culte. La legge romana avea preso piede non pure nell'Accademie ma anche nel Foro; onde avvenne, che la longobarda affatto mancasse.
Fra le nostre leggi patrie, quelle di Ferdinando, come di Principe più illuminato e dotto, e che teneva la sua Cancelleria adorna d'uomini letteratissimi, si videro più prudenti e più culte. Furono consultate da gravissimi Giureconsulti, in fra gli altri da Luca Tozzolo, Antonio d'Alessandro, Paris de Puteo e da Agnello Arcamone, e dettate in latino per la maggior parte da Antonello Petrucci e Giovanni Pontano grandi Letterati, come si è detto di que' tempi.
Le leggi de' nostri Re normanni e Svevi furon appellate Costituzioni: quelle de' Principi angioini, all'uso di Francia, Capitularj, ovvero Capitoli: queste de' Re Aragonesi, come da poi anche degli Austriaci, si dissero Prammatiche; di queste ne furon fatte più compilazioni, come di tempo in tempo andremo notando.
Abbiam veduto quanto poche ne stabilisse il Re Alfonso, vedremo ancora quante meno ne facessero Ferdinando II e Federico ne' brevi e tumultuosi anni del loro regnare: Ferdinando I però fu quegli, che fra' Re Aragonesi ci lasciasse più leggi e le più sagge e le più culte.
Ne' primi anni del suo Regno furono stabilite quelle, che ora leggiamo sparse nel terzo volume delle prammatiche, sotto il titolo De Offic. S. R. C. eccettuatane la prammatica 2 che, come fu ne' precedenti libri notato, a torto s'attribuisce a Ferdinando, essendo d'Alfonso, istitutore di questo Gran Tribunale: sono di questo Principe, di cui anche portano in fronte il nome, la prammatica 4, 5, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 32, 33, 34, 35, 36, 37, nelle quali si danno molti regolamenti intorno all'amministrazione e governo del S. C., del numero e qualità de' Ministri, così maggiori, come minori, che lo compongono, del modo d'istituir i giudicj, delle recusazioni e d'ogni altro riguardante alla riforma e buona istituzione di questo Tribunale.
Nel 1462 ne promulgò una sotto li 9 Ottobre, per la quale si permette agli Ufficiali di procedere ex officio ne' delitti, ancorchè non vi fosse querela della parte offesa, o questa desistesse, rivocando il privilegio che su di ciò avea conceduto ad alcune Università del Regno, la quale per questo fine fu collocata nel tom. 3, delle prammatiche, sotto il titolo de Privilegiis Universitatibus concessis.
Nel 1466 ne promulgò due, una sotto li 23 luglio, che si legge sotto il titolo de Baronibus[132], per la quale si vieta a' Baroni di cercar sussidj da' Vassalli, fuor de' casi dalle leggi e costituzioni permessi, e d'impedire il vendere le loro robe, come lor piaccia; l'altra a' 15 agosto pure sotto il medesimo titolo, colla quale si conferma la precedente sotto rigorose pene.
Nel 67 a' 19 novembre ne fu stabilita un'altra drizzata a Renzo d'Afflitto Commessario delle province di Principato ultra, e Capitanata, colla quale si prescrive il modo, come debba farsi l'estimo, o sia apprezzo de beni di ciascuno per regolare i pagamenti fiscali: noi ora la leggiamo sotto il titolo de Appretio, seu bonorum aestimatione.
Nel 68 a' 2 novembre ne promulgò altra, con cui ordina, che i delinquenti si mandino a' loro Giudici competenti, nè alcuno abbia ardimento di dar loro ricovero ed alimento[133].
Nel 69 ne furon pubblicate sei, la prima a' 27 marzo, la seconda a' 25 maggio, per le quali si vieta agli Ufficiali ricever doni e pranzi e si prescrivono a' Mastrodatti e ad altri Ufficiali minori i loro diritti facendosene tariffa[134]; tre altre nel medesimo mese e la sesta nel seguente di giugno.
Nel 1470 ne' mesi di marzo, aprile ed ottobre, tre altre; e nel 71 un'altra in giugno.
Nel 1472 ne stabili un'altra a' 13 settembre, per la quale fu deputato Bernardo Striverio Avvocato fiscale per Inquisitore Generale del Regno contro gli Usurarj e contro altri malfattori, che nelle moderne edizioni si legge sotto il titolo de Usurariis, ma con data scorrettissima de' 9 ottobre 1462, quando quella, secondo l'edizioni antiche, fu promulgata nel decimo quinto anno del suo Regno, come ivi si legge: Dat. 13 septembris 1472, Regnor. nostror. A. 15.
Nel 73 in marzo ed aprile due altre, e nel 74 nel mese di marzo, una.
Nell'anno poi 1477 furono stabilite quelle tante leggi intorno all'ordine giudiciario, delle quali si è altrove fatta memoria; ne' seguenti anni 1479, 80, 81, 82, 83, 84, 86, 87, 88, 90 insino al 1492 ne furono molte altre da questo Principe promulgate, le quali possono con facilità vedersi, secondo l'ordine de' tempi, nella Cronologia di queste leggi prefissa al tomo primo nelle nostre prammatiche secondo l'ultima edizione dell'anno 1715.
Furono queste prammatiche di Ferdinando nel seguente secolo raccolte in un volume insieme con alcune altre di Ferdinando il Cattolico e di Carlo V, ed impresse nel 1558. Da poi unite colle Costituzioni, Riti e Capitoli del Regno furono ristampate in Vinegia nel 1590. V'impiegarono i loro studi in quel secolo molti nostri Professori, chi con Note, chi con diffusi Commentarj ed altri con particolari Trattati. Annibale Troisio della Cava, nominato perciò il Cavense, commentò tutte quelle, che nel 1477 s'erano pubblicate, per le quali furono i giudicj riordinati e molte altre ancora: Giovannangelo Pisanello, Marc'Antonio Polverino e Giacomo de Bottis vi fecero delle piene Note. Orazio Barbato sopra la prammatica Assistentium, vi stese un Trattato. Gio. Bernardino Moscatello di Lucera stese la sua Pratica de' nostri Tribunali, che ora si vede ristampata colle addizioni del Consigliere Prato, sopra le suddette leggi di Ferdinando promulgate nel detto anno 1477. Altri sopra la prammatica Odia inter conjunctos, stesero i loro trattati e le varie dispute intorno a compromessi. Cotanto le leggi di questo Principe furono non pure in que' tempi, ma anche ne' seguenti secoli riputate savie e dotte.
CAPITOLO V. De' Giureconsulti, che fiorirono fra noi a questi tempi.
Dopo Luca di Penna e Sebastiano Napodano, era quasi che intermesso fra' nostri Professori l'uso di scrivere, e la nostra giurisprudenza era in declinazione; ma nel Regno di Ferdinando e de' suoi figliuoli, sursero alcuni eccellenti Giureconsulti, de' quali bisogna farne qui memoria.
Surse Paris de Puteo, il qual nato in Pimonte nel Ducato d'Amalfi, due miglia lontano da Castell'a Mare[135], venne giovanetto in Napoli, dove nell'Università de' nostri Studi apprese la legal disciplina. Non contento de' nostri Cattedratici, girò per tutte l'Università d'Italia, dove ascoltò i più insigni Dottori di quei tempi. Fu in Roma, a Pavia, Milano, in Firenze, in Bologna, Perugia e nell'altre città più rinomate, ed ebbe per maestri, com'egli stesso ci testifica[136], Andrea Barbatia, Angelo Aretino, Alessandro de Tartagnis d'Imola ed Antonio de Pratoveteri di Bologna. Ritornato a Napoli fu per la sua gran dottrina dal Re Alfonso, gran favoreggiatore delle Lettere, caramente accolto, facendolo suo Consigliere. Da poi, essendo già adulto Ferdinando suo figliuolo Duca di Calabria, lo deputò per maestro del medesimo non meno nelle lettere umane, che nella giurisprudenza o nell'altre scienze[137]. Per molti anni Ferdinando fu suo discepolo, da cui apprese le leggi civili e le altre discipline[138]. Era Paris non pur eccellente Giureconsulto, ma versato (per quanto comportavano que' tempi) nelle Sacre carte e nella lettura de' Padri e nelle opere d'Aristotele; ed era secondo l'uso di que' tempi, inteso anche d'Astrologia. Dell'Istoria non fu cotanto ignaro, e sopra i libri di Tito Livio v'avea fatto molto studio. Entrò pertanto in somma grazia del Duca di Calabria, e da lui era tenuto in molta stima, e quando Alfonso dovendo partire da Napoli per la spedizione di Toscana, fece Luogotenente generale del Regno Ferdinando suo figliuolo, questi nel 1446 creò Paris suo Auditore Generale in tutto il Regno; la quale carica per due anni, che il Re fu assente, esercitò con molto applauso ed universale ammirazione.
Morto nel 1458 Alfonso, Ferdinando che gli successe, lo decorò assai più di dignità e d'onori: lo fece Inquisitor Generale di tutto il Regno contra i facinorosi: nel 1459 lo creò Consigliere, ed in tutti gli anni che regnò, si valse della sua opera e de' suoi consiglj, così nel promulgar delle leggi, come negli altri rilevanti affari della sua Corona. Perchè a quei tempi non era riputata cosa incompatibile a' Ministri del Re di patrocinar cause, non altrimente, che non si stimava cosa strana di leggere nelle Cattedre; si diede ancora Paris all'avvocazione, nella quale riuscì il primo; e per essere gran Giureconsulto e peritissimo Feudista, tutte le cause de' primi Signori del Regno eran da lui patrocinate, onde acquistò grandi facoltà. Ma sopra tutto, quello che lo rese arbitro de' più potenti Signori non pur di Napoli, ma di molte città d'Italia, fu, che stando a que' tempi in Italia in fiore il costume, e presso noi da' Longobardi introdotto, del duello, non vi era punto di Cavalleria, che dovesse per quella via decidersi, che non era Paris consultato, come in ciò versatissimo sopra tutti gli altri. Venivano non pur i nostri, ma i più remoti Principi da lui, donde gli fu data occasione di compilare un Trattato de Duello, che scritto prima da lui in latino, egli stesso poi lo tradusse in volgar materno[139]. Carico di tanti onori e dignità e della familiarità regia di Ferdinando, divenuto già vecchio, morì poco prima del Re Ferdinando nel 1493 d'età maggiore di ottanta anni in Napoli, ove nella chiesa di S. Agostino giace sepolto.
Egli fu il primo, che rinovò l'istituto, tralasciato da molti anni, di giovare il pubblico con lo scrivere; onde altri mossi dal di lui esempio, ci lasciarono molti insigni volumi delle loro opere legali. Compose egli un libro de Syndicata Ufficialium; opera, che nel Foro acquistò molta autorità, tanto che il Consiglier Matteo d'Afflitto[140] non lasciò ne' suoi scritti di commendarla. Fu la prima, che nell'istesso tempo del Re Ferdinando fosse stata impressa; ma perchè non era in tutto perfezionata, l'Autore la ripulì ed emendò, e così corretta fu di nuovo in appresso mandata alle stampe. Fu da poi ristampata, ed in Vinegia, ed in Lione, ed oggi si legge tra' volumi de' Trattati[141].
Scrisse ancora un libro de Reintegratione Feudorum de finibus, et modo decidendi quaestiones confinium, territoriorum, etc. che fu stampato in Napoli, e poi in Francfort. Opera anch'ella da' nostri Scrittori molto lodata, ancorchè Carlo Molineo vi desiderasse miglior ordine, parendogli quel trattato assai confuso.
Compilò anche un altro libro de Reassumptione instrumentorum; ed alcuni han creduto, che quel trattato de Liquidatione, et Praesentatione instrumentorum, che fu impresso in Vinegia l'anno 1590 fosse pure opera sua; ma altri dubitano non sia apocrifo.
Compose ancora varie Allegazioni intorno alle Collette imposte innanzi di Luca di Penna, delle quali fece menzione Antonio Capece[142]; ma queste non sono pervenute all'età nostra; siccome alcune altre sue fatiche sopra alcuni titoli delle Pandette. De in integrum restit. De eo, quod met causa. De dolo malo, et de receptis arbitris.
Il libro De Re Militari, ovvero De singulari certamine, fu da lui dedicato all'Imperador Federico III. Matteo d'Afflitto[143] narra, che gli diede anche occasione di scriverlo, un libretto De Duello, che prima di lui avea composto Goffredo antico Dottore. Fu quel suo libro prima impresso a Milano nell'anno 1515 ed ora lo leggiamo ancora fra' Trattati. Egli stesso, come fu detto, lo tradusse in volgar materno, il quale fu poi stampato in Napoli nel 1518.
Scrisse finalmente un altro libro De Ludo, del quale Afflitto[144] fece anche memoria lodandolo, ed ora pur lo vediamo impresso tra' volumi de' Trattati
Non men, che si questioni della Patria di Pietro delle Tigne e di Luca di Penna, fu disputato della Patria di Paris. Giulio Claro[145] d'Alessandria del Ducato di Milano, lo vuole Alessandrino. Ma Toppi[146], non men di quel che fece per Luca di Penna, dimostra esser nostro, siccome han per fermo tenuto non meno i nostri Scrittori, che i forastieri, come Molineo, che lo chiama Dottor napoletano, siccome chiamò ancora Luca di Penna Partenopeo.
Fiorì anche intorno a' medesimi tempi Antonio d'Alessandro Cavaliere napoletano, ed ancor egli insigne Giureconsulto. Fu sin dalla sua giovanezza dato allo studio delle leggi nell'Università di Napoli: non ben pago de' nostri Professori ne cercò altri nell'altre Università d'Italia. Fu in Ferrara ed in Siena, dove ascoltò Francesco Aretino famoso Giureconsulto di quei tempi, sotto la cui disciplina fece maravigliosi progressi, e fu ancora discepolo di Alessandro d'Imola, come narra Matteo d'Afflitto[147]. In Bologna prese il grado di Dottore, e dapoi ritornò in Napoli. Appena giuntovi fu da Ferdinando invitato a leggere Giurisprudenza in questa Università, dove per più anni insegnò con tanto plauso ed ammirazione, che tirò a se Uditori dalle più remote parti. Fu egli di acuto e grande ingegno, piano e facile nello spiegare, chiaro e copioso: tanto che dalla sua scuola, non meno che dall'Accademia del Pontano, uscirono innumerabili Giureconsulti e dotti Ministri.
Nell'istesso tempo che insegnava nelle Cattedre, non tralasciava esercitarsi nel Foro, dove riuscì famoso Avvocato; e fu egli non men dotto ch'eloquente: difese cause de' primi Baroni e non meno orando, che scrivendo si rese celebre. Scrisse egli un dotto responso in materia feudale nella causa d'Antonia Tommacella, che ora leggiamo tra' Consiglj d'Alessandro d'Imola[148], dopo quelli di Sigismondo Loffredo[149], e per la sua prudenza, dottrina, perizia dell'istorie e gravità de' costumi, s'acquistò presso il Re Ferdinando somma grazia e stima: fu per ciò adoperato dal Re ne' maggiori e più importanti suoi affari. Lo mandò nel 1458 Oratore in Roma al Pontefice Pio II per ottener da quel Papa l'investitura del Regno: superò gli ostacoli, che s'eran frapposti per parte del Duca d'Angiò, ed in fine entrò in tanta buona grazia del Papa e del Collegio de' Cardinali, ch'egli consultò e dettò la Bulla dell'investitura. Maneggiava affari di Stato con molta destrezza, felicità e prudenza, onde fu in appresso da Ferdinando mandato due volte per suo Ambasciadore in Ispagna al Re Giovanni d'Aragona suo zio col quale trattò le nozze del Re colla costui figliuola Giovanna. Lo inviò ancora due altre volte in Francia suo Legato a quel Re; ed altrettante a' Pontefici successori di Pio, Innocenzio VIII ed Alessandro VI, nelle quali legazioni si portò con tanta prudenza e destrezza, che tutte ebbero felice successo. Fu per ciò da Ferdinando innalzato a sommi onori; oltre averlo cinto Cavaliere, lo fece Presidente della regia Camera, da poi nel 1465 Consigliere, indi nel 1480 Viceprotonotario e Presidente del S. C, nel qual Tribunale presedè non pure in tutto il tempo che visse Ferdinando, ma anche vi fu mantenuto da Alfonso II suo successore, da Ferdinando II, da Carlo VIII istesso e da Federico ultimo Re, nel cui Regno, essendo già vecchio, trapassò in Napoli a' 26 ottobre del 1499. Gli furon fatti pomposi funerali nella chiesa di Monte Oliveto, dove vi recitò l'Orazion funebre Francesco Puccio Fiorentino famoso Letterato di que' tempi, in presenza di Ferdinando d'Aragona Duca di Calabria, e dove al presente giace sepolto.
Ci lasciò questo insigne Dottore molti monumenti della sua dottrina. I dotti Commentarj fatti a quelle leggi, ch'egli spiegava nell'Università de' quali pochissimi furono mandati alle stampe. Quelli che furono impressi sono i Commentarj sopra il secondo libro del Codice, che portano questo titolo: Reportata Clarissimi U. J. Interpretis Domini Antonii de Alexandro super II Codicis, in florenti studio Parthenopaeo sub aureo saeculo, et augusta pace Ferdinandi, Siciliae, Hierusalem, et Ungariae Regis invictissimi. Fu il libro impresso in Napoli nel 1474 nella stamperia di Sisto Riessinger Alemanno, che fu il primo, come si disse, che introdusse l'arte della stampa in questa città.
Niccolò Toppi ci rende testimonianza aver egli veduti gli altri Commentarj sopra altre leggi, manuscritti, nelle librerie d'alcuni, ed in quella del Consigliere Felice di Gennaro averne osservati più volumi. Alcuni altri supra l' Inforziato ed il Digesto nuovo, in quella del Presidente di Camera Vincenzo Corcione. Altri sopra il Digesto vecchio, in quella del Consigliere Ortensio Pepe. Alcune Letture sopra il secondo del Digesto vecchio in pergamena, le conservava il Dottor Giovanni Battista Sabatino. Gio: Luca Lombardo conservava ancora un libro intitolato: Recollectae D. Antonii de Alexandro in tit. Soluto matrimonio. De liberis, et posthumis, et de vulgari, et pupillari, etc. collectae per Franciscum Miroballum ejus scholarem, dum idem Antonius in Neapolitano Gymnasio, anno 1466 publico Regio stipendio conductus, legeret, concurrens Domini Andreae Maricondae in lectione extraordinaria. Toppi istesso afferma che ebbe anche in suo potere alcune note M. S. fatte da questo Giureconsulto nel corpo di Bartolo.
Alcune Note ed Addizioni fatte da lui nella Glosa di Napodano ancor oggi si leggono: Grammatico[150] allega le Addizioni che fece a Bartolo ed a Baldo; allega ancora con Antonio Capece[151] quelle altre che fece ad Andrea d'Isernia sopra le Costituzioni del Regno; e si vedono queste Addizioni alle Costituzioni ancor oggi impresse insieme colle Chiose e Commentarj di Napodano, di che è da vedersi Camillo Salerno[152] nell'Epistola alle Consuetudini di Napoli.
Fiorì ancora in questi medesimi tempi un altro Giureconsulto illustre, il qual fu Giovan-Antonio Caraffa non men famoso Legista che Canonista. Fu caro ad Alfonso e più al Re Ferdinando suo figliuolo, da cui fu creato Consigliere. Fu ancora Professore nella Università degli studi non men di legge civile, che canonica, e finalmente fu innalzato nel 1463 al posto di Presidente del S. C. Ci restano di questo insigne Dottore molte sue opere. Un trattato de Simonia, impresso a Roma, un altro de Ambitu, allegati da M. Afflitto[153] nelle Costituzioni e nelle Decisioni e l'altro de Jubileo. Scrisse ancora alcune Prelezioni sopra il Codice, allegate da Afflitto. Lorenzo Valla[154] gli tessè quest'elogio: Joannes Antonius Carafa Jureconsultus pari nobilitate, et scientia proximus, Princeps Jureconsultorum. Morì egli di morte improvvisa in Napoli a' 25 decembre del 1486 e fu sepolto nel Duomo, come rapporta Giuliano Passaro ne' suoi Giornali.
Luca Tozzolo ancorchè romano, esule però dalla sua Patria[155], venuto in Napoli, qui finì i suoi giorni, e per la sua erudizione e gran perizia delle leggi, fu da Ferdinando accolto con molto onore. Era stato egli discepolo di Giovanni Petrucci di Monte Sperello Perugino famoso Giureconsulto de' suoi tempi[156]: fu egli fatto nel 1466 Consigliere, nel medesimo tempo leggeva anche Giurisprudenza nell'Università degli Studj di Napoli. Poi nel 1468 fu innalzato all'onore di Viceprotonotario, e presedè ancora per qualche tempo nel S. C. come Afflitto rapporta ne' suoi Commentarj e decisioni, dove si leggono in più luoghi le sue lodi[157].
Andrea Mariconda del Seggio di Capuana fiorì pure in questi medesimi tempi ed acquistò fama di celebre Giureconsulto. Fu dalla giovanezza dato allo studio delle leggi, e prese il grado di Dottore in Napoli ai 25 d'ottobre del 1460. Riuscì nel Foro celebre Avvocato, e dalla Regina Isabella Luogotenente Generale del Re suo marito, fu creato Consigliere nel 1461. Da Ferdinando poi fu fatto Presidente della Regia Camera e Razionale della G. C. della Zecca, e nel 1477 fu rifatto Consigliere: fu celebre ancora nell'Università de' nostri studi, ove insegnò giurisprudenza insieme con Antonio d'Alessandro nel 1466. Di lui si leggevano alcune Letture M. S. sopra l' Inforziato e Digesto nuovo. Fu lungo tempo Consigliere e per l'assenza ed impedimenti d'Antonio d'Alessandro esercitò anche in sua vece più volte l'ufficio di Viceprotonotario. Poi per la sua età decrepita fu licenziato con la ritenzione della metà del soldo finchè visse. Morì egli in Napoli intorno l'anno 1508, e lasciò Diomede e Niccolò suoi figliuoli non men dotti che gravi Giureconsulti. Matteo d'Afflitto suo Collega non è mai satollo di lodarlo nelle sue decisioni ed altrove[158].
Fiorirono ancora intorno a' medesimi tempi Niccolò Antonio de Montibus di Capua celebre Giureconsulto, Avvocato, Regio Consigliere, Presidente e Luogotenente della regia Camera: Pontano[159] lo chiama Vir Juris Romani consultissimus. Questi ancora fu adoperato dal Re Ferdinando negli affari di Stato, inviandolo per suo Oratore in Roma, ove nel 1467 dimorò tre mesi; e si legge ancora la sua soscrizione, come Luogotenente del Gran Camerario in alcune Prammatiche del Re Alfonso e di Ferdinando[160]. Agnello Arcamone del Sedile di Montagna, Presidente di Camera nel 1466, poi nel 1469 regio Consigliere, fu anch'egli dal Re Ferdinando adoperato negli affari di Stato, inviandolo nel 1474 per suo Ambasciadore in Vinegia ed in Roma al Pontefice Sisto IV per negozj gravissimi[161]. Disbrigato dall'Ambasceria con felice successo, fu dal Re nel 1483 fatto Conte di Borrello, investendolo ancora delle Terre di Rosarno e di Gioja in Calabria. Ma da poi la sua fortuna mutò sembiante: poichè nella congiura de' Baroni, perchè sua sorella era moglie d'Antonello Petrucci, fu dal Re insieme con gli congiurati imprigionato, e fin che Ferdinando visse, lo tenne con gli altri in carcere[162], donde poi insieme con tutti gli altri ne fu da Ferdinando II nel 1495 liberato[163]. Ci lasciò egli alcune Addizioni sopra le Costituzioni del Regno che ora abbiamo. Morì in Napoli nel 1519, e giace sepolto nella chiesa di S. Lorenzo, ove si vede il suo tumulo.
Fiorirono ancora Antonio dell'Amatrice celebre Canonista e Lettore de' Canoni nella nostra Università nel 1478. Antonio di Battimo napoletano, Dottore anch'egli rinomato di legge non men civile che canonica. Compose egli nel 1475 un volume, che M. S. avea Toppi[164] veduto che portava questo titolo: Reportata, et tradita per Dominum Antonium de Battimo Partenopaeum U. J. D. A. D. 1475. Lallo di Tuscia napoletano, di cui abbiamo ancora alcune Note nella nostre Costituzioni del Regno[165]. Stefano di Gaeta parimente napoletano, famoso Canonista, fiorì nel Regno di Ferdinando nel 1470. Scrisse un'opera molto stimata de Sacramentis, che la drizzò a Giovan-Battista Bentivoglio Consigliere del Re Ferdinando, e molto vien commendata dall'Abate Tritemio[166].
Non men celebre Giureconsulto fu nella fine di questo secolo, per tralasciar gli altri d'oscuro nome, Antonio di Gennaro del Sedile di Porto. Fu egli figliuolo di Masetto e di Giovanella d'Alessandro sorella del famoso Antonio: negli studi legali fece miracolosi progressi, tanto che nell'Università di Napoli fu reputato il miglior Cattedratico de' suoi tempi. Fu poi dal Re Ferdinando nel 1481 creato Giudice della G. C. ed indi a poco Regio Consigliere. Ancor egli era adoperato dal Re ne' più importanti affari di Stato; fu inviato da Ferdinando nel 1491 per suo Oratore al Duca di Milano, e nell'istesso anno in Ispagna al Re Ferdinando il Cattolico, ed alla Regina Isabella sua moglie, e nel 1493 fu di nuovo mandato in Milano ed a Roma. Morto Ferdinando, dal Re Alfonso II suo successore fu la terza volta mandato al Duca di Milano. Il Re Federico l'inviò di nuovo nel 1495 suo Legato in Ispagna al Re Cattolico e poi al Duca di Milano. Estinta la progenie di Ferdinando, sotto il Regno di Ferdinando il Cattolico fu ancora in somma grazia del G. Capitano, da cui nel 1503 fa creato Viceprotonotario e Presidente del S. C. nel cui ufficio lungamente visse: essendo poi d'anni già grave, depose il posto, e fu contento che in suo luogo sottentrasse Francesco Loffredo allora Consigliere, ma con legge che fin che vivea non assumesse il nome di Viceprotonotario o di Presidente, ma fosse sol contento dell'esercizio. Morì finalmente nel 1522 in Napoli e fu sepolto nella Chiesa di S. Pietro Martire, ove si vede la sua statua e si legge l'iscrizione ai suo tumulo.
Chiuda in fine la schiera il cotanto presso di noi celebre e rinomato Matteo degli Afflitti, quel perpetuo splendore del nostro S. C. il quale, secondo il giudicio che ne diede l'incomparabile Francesco d'Andrea[167], fu omnium nostrorum quotquot ante, et post ipsum scripserunt, proculdubio doctissimus. Nacque egli in Napoli intorno l'anno 1443, ma i suoi maggiori furono della città di Scala, com'egli stesso ci testifica[168]. Ebbe ancor egli la vanità di tirar la sua schiatta dai Patrizj romani, e da S. Eustachio Martire (non meno di ciò, che si diceva di Sebastiano Napodano e del Sannazaro; il primo che traesse sua origine da S. Sebastiano; il secondo da S. Nazario): perciò nell'invocazione de' Santi, che premette nelle sue opere, fra gli altri invoca S. Eustachio suo gentile. Non si ritenne perciò egli di scrivere ne' Commentarj alle Costituzioni del Regno, essere stati i suoi maggiori Romani, i quali vennero, nella decadenza dell'Imperio, ad abitare nella città di Scala, donde poi si trasferirono in Napoli, ove furono nel Seggio di Nido aggregati. Che che ne sia, si diede egli nella giovanezza allo studio delle leggi, dove riuscì eccellente, e nell'anno 1468 prese in Napoli il grado di Dottore[169]. Si diede poi all'avvocazione, e divenne nel Foro famoso Avvocato: da' Tribunali passò alla Cattedra e nell'Università de' nostri studi spiegò non solo il Jus civile e canonico, ma anche il feudale e le nostre Costituzioni, nel che riuscì ammirabile ed oscurò la fama di quanti lo precedettero. Egli consumò venti anni in questa lettura con applauso universale ed ammirazione di tutti. Ne' primi anni sotto il Re Ferdinando spiegò in quest'Università tutti i libri feudali co' Commentarj di Andrea d'Isernia, secondo l'ordine di que' titoli: fatica veramente grande e nuova, che nè prima, nè dopo lui, alcun si confidò di farla, e la ridusse felicemente a fine[170]. Incominciò egli a scrivere questi suoi Commentarj de' Feudi nel 1475 nel trentesimosecondo anno di sua età, e li terminò nel 1480, come egli stesso ne rende testimonianza[171]. Ciò che convince l'error di coloro, i quali ingannati da Bartolommeo Camerario[172], che credette avere Afflitto stesi questi Commentarj essendo già vecchio, e perciò non aver ben capita la mente d'Andrea d'Isernia, scrissero inconsideratamente il medesimo[173], mostrando con ciò non aver ben letti questi suoi Commentarj, i quali potevano disingannargli di quest'errore, e fargli apprendere, l'opera essere stata dettata nel suo maggior vigore, e di essere la più sublime e dotta di quanti mai intorno a' Feudi scrivessero.
Interpretò ancora nella nostra Università le leggi del Codice ed i libri delle Istituzioni, e negli ultimi, anni vi spiegò le Costituzioni del Regno con indefessa ed instancabile lena.
La fama del suo sapere, l'esser nelle leggi sublime cotanto, e, secondo comportava quel secolo, la perizia che mostrava avere della Sagra Scrittura, delle opere di S. Tommaso e di Niccolò di Lira, lo resero assai rinomato. I Nobili di Nido lo aggregarono al lor Seggio: il Re Ferdinando I ed il Duca di Calabria suo figliuolo cominciarono ad innalzarlo a pubblici Ufficj; prima lo elessero Avvocato de' Poveri, ma egli non volle accettarlo, come egli stesso lo scrisse[174]: poi il Re Ferdinando nel 1489 lo fece Giudice della G. C. della Vicaria: indi dall'istesso Re fu nel 1491 creato Presidente della regia Camera. La morte del Re Ferdinando, siccome pose in disordine tutto il Regno, così non solo troncò le ali alla sua fortuna, ma con varie vicende fu dall'avversa afflitto. Non trovò il suo merito ne' Principi successori quella mercede, che si conveniva: fu trasferito ora in uno, ora in un altro Tribunale, e sotto il Re Cattolico la fortuna gli fu pur troppo avversa. Dal Re Ferdinando II nel 1496 fu fatto Consigliere, e vi stette sin all'anno 1502, nel qual anno fu di nuovo trasferito in Camera. Carlo VIII lo levò, ma poi fu rimesso[175]. Fece da poi nel 1503 ritorno in Consiglio, ove sedette insino all'anno 1507. Ma il livore de' suoi Emoli potè poi tanto presso Ferdinando il Cattolico, che datogli a sentire, che la sua decrepita età sovente lo portava a delirare, fecion sì, che quel Re lo levasse dal Consiglio, e si ridusse a menar vita privata, di che egli nelle sue opere cotanto si duole, e si querela. Ma in questa sua vacazione non intermise i suoi studi, ed ancorchè vecchio perfezionò in questa età in pochi anni i suoi Commentarj sopra le Costituzioni, che avendoli cominciati nel 1510 li ridusse a fine nel 1513 nel settuagesimo anno di sua età[176].
Fu da poi nel 1512 di nuovo fatto Giudice di Vicaria, ma per un sol anno, onde quello terminato, tornò a' suoi studi, ed a finire i suoi giorni in riposo, ed in privata quiete. Quindi è, che nel suo testamento, che e' fece poco prima di morire a' 27 settembre del 1523 non si legge decorato d'altro titolo, che di semplice Dottore. E quindi ancora è avvenuto, che morto in questo anno 1523, avendo ordinato in questo suo testamento, che il suo cadavere si seppelisse nella Chiesa di Monte Vergine, Diana Carmignano sua seconda moglie, donna molto savia, e d'incorrotti costumi, per togliere quella taccia, che da' suoi emoli era stata data a suo marito d'alienazione di mente, nella iscrizione, che fece ponere quivi al suo tumulo, vi facesse scolpire queste parole: Ad extremam senectutem integra, et animi, et corporis valetudine pervenit
Lasciò della sua prima moglie Ursina Caraffa, Marino suo figliuolo, che fattosi Sacerdote, fu Canonico del Duomo di Napoli; e di Diana Carmignano più figliuoli, che istituì eredi, tre de' quali, come e' dice, generò dopo aver passati i sessanta anni[177]. Sottopose la sua casa, che possedeva nel quartiere di Nido, ed un podere nella Villa di Centore presso Aversa, ad un perpetuo fedecommesso, al quale, mancando tutta la sua discendenza maschile, chiamò il Collegio de Dottori dell'una e l'altra legge di Napoli (del quale egli era) con peso al Priore di quello, di dovere della sua casa formare un Collegio, dove dai frutti di quel podere dovessero alimentarsi ed allevarsi diece Studenti, la cui elezione si dà al Priore; e nel caso venisse a distruggersi il Collegio, invitò in luogo di quello cinque Nobili del Seggio di Nido, dei quali il più giovane dovesse avere l'istesso peso, che avea imposto al Priore, di mantenere il collegio, ed i diece Studenti, affinchè niente loro mancasse per attendere agli studi: ne raccomanda efficacemente l'osservanza, quia scit, come sono le parole del suo testamento, quantum viri scientifici sint utiles Reipublicae, et toti saeculo.
Tali erano le disposizioni degli uomini saggi e prudenti di questi tempi, mancata la loro posterità, non invitare monasteri e chiese al godimento de' loro patrimonj, ma sovvenir poveri, e provvedere a' bisogni delle lettere, e proccurare, che nelle Repubbliche quelle s'avanzassero, e si dasse a' bisognosi modo d'apprenderle. Durano ancora oggi i suoi posteri, i quali devono a questo insigne Dottore non solo il pregio, ch'essi godono degli onori di Nido, ma molto più, perchè possono pregiarsi d'avere un sì glorioso progenitore per Autore della loro Casa.
Durano ancora via più luminose le insigni opere, che ci lasciò. De' suoi Commentarj sopra i Feudi (ancor che altrimenti ne sentissero i suoi emoli Sigismondo Loffredo[178] e Camerario[179] ) ecco ciò che ne lasciò scritto l'incomparabile Francesco d'Andrea[180]: inter omnes, qui post Afflictum integra Commentaria in fenda edidere, pauci sunt, qui cum illo possint comparari; qui praeferri, certe nullus. Non potè in vita aver il piacere di vedere in stampa tutti i suoi volumi, che compose; toltone le Decisioni ed i Commentarj sopra le Costituzioni, tutti gli altri furon impressi dopo la sua morte. Avea in vita disposto con Niccolò Agnello Imparato Stampatore in Napoli, e s'era con costui convenuto per la stampa, e nel suo testamento avea designato soddisfar le doti e monacaggi d'alcune sue figliuole, col denaro che dovea ritrarsi da questi libri da imprimersi: ma la morte ruppe i suoi disegni. Questi Commentarj sopra i Feudi furono da poi stampati in Vinegia del 1543 e 1547 e poi in altri tempi e luoghi più volte.
Egli fu il primo che pensasse di raccorre le decisioni, che nel corso di più anni erano nate nel nostro S. C. e le distendesse in quella maniera, che ora si leggono, nelle quali rapportò non pur le diffinizioni di questo Tribunale e della regia Camera profferite in tempo, che e vi sedette, ma ancora quelle, che e' stimò degne di memoria, e che s'interposero poco prima, fin dal tempo, che il S. C. dal Re Alfonso fosse stato istituito. Opera non pur fra' nostri, ma anche presso i Forestieri celebratissima, dal cui esempio presero l'altre Nazioni a distender le decisioni de' loro Tribunali, onde surse la nuova schiera de' Decisionanti.
Furono queste impresse in Napoli la prima volta nel 1509 vivente l'Autore, e furono dedicate alla città di Napoli sua patria[181]. Egli stesso nel suo testamento lo dice: poichè volle, che della legittima lasciata a D. Marino suo figlio s'escomputassero ducati venticinque, prezzo di ventisette corpi di decisioni, che costui s'avea presi. Quanto fossero commendate dai nostri Professori, ben si vede dalle fatiche che vi fecero intorno Tommaso Grammatico, Giovannangelo Pisanello, Marc'Antonio Polverino, Prospero Caravita, Cesare Ursillo e Girolamo de Martino, i quali l'illustrarono colle loro note ed addizioni, che ora insieme col corpo di quelle si vedono impresse, nel che Ursillo sopra tutti fu eminente. Non tralasciarono però i suoi emoli Loffredo e Camerario di screditarle e vilipenderle, scrivendo nelle loro opere non doversegli dare tanta fede, ex quo, come dice Loffredo[182], aliter judicatum fuit, quam Afflictus dicit: e Camerario[183], nemo a Sacri Consilii auctoritate commoveatur ex iis Afflicti decisionibus, cum sint Afflicti verba, qui cum homo fuerit potuit errare. Ma il livore di costoro niente oscurò la lor fama; poichè nelle età seguenti corsero per tutta Europa luminose e commendate non men da' nostri, che da' più eccellenti Giureconsulti di straniere Nazioni; e Tesauro[184] l'antepone a quante mai decisioni uscissero da tutti gli altri Tribunali del Mondo.
Ci lasciò ancora i suoi Commentarj sopra le Costituzioni del Regno: opera, per la condizione di quei tempi, assai dotta e copiosa, la quale fu avuta in sommo pregio non men da' nostri, che dagli esteri. Giacomo Spiegelio[185] grandemente lodolla, e narra, che Cassaneo ne' suoi Commentarj alle Consuetudini di Francia, trasportò molte cose da quelli d'Afflitto; onde da molti è ripreso, che con somma ingratitudine non si degnasse nè pure nominarlo. Questi anche furono impressi in vita dell'Autore nel 1517, e reimpressi poi in Milano nel 1523 ed altrove.
Insegnando egli nella nostra Università le Costituzioni del Regno compilate dall'Imperador Federico II su la credenza, che fosse ancor sua la Costituzione Sancimus de jure prothomiseos, prese egli a spiegarla nella Cattedra nel 1479. Era veramente quella di Federico I e non s'apparteneva punto alle nostre Costituzioni, siccome fu da noi altrove avvertito; ma perchè questo Scrittore per la condizione di que' tempi non fu molto inteso d'istoria, come di lui disse Marino Freccia, prese per tanto tal'abbaglio. Non è però, che il Commentario che vi fece, non fosse avuto in sommo pregio; anzi ebbe il favore, che dall'incomparabile Cujacio[186] venga citato ne' suoi libri de' Feudi. Fu più volte impresso, e si legge ancora fra' Trattati. Da poi Francesco Rummo Giureconsulto napoletano vi fece copiose addizioni, che stampato da lui con queste sue fatiche in Napoli nel 1654 l'abbiam veduto ora ristampato in quest'ultimi nostri tempi.
Molte altre sue Opere che compilò, ce l'ha tolte l'ingiuria del tempo; e siccome si raccoglie dal suo testamento, molti libri avea egli destinato di far imprimere ad Imparato suo Stampatore: ma la sua morte e la peste indi seguìta in Napoli nel 1527, per iscampar la quale fu obbligata Diana Carmignano a fuggire in Aversa, fece sì, che si perderono non meno i suoi M. S. che i libri, ch'egli avea lasciati a' suoi figliuoli. Pure presso Gabriele Sariana nella raccolta, che fece di diversi M. S. di Dottori, che stampò nel 1560, leggiamo di questo Autore alcune Letture sopra il settimo libro del Codice[187].
Nell'iscrizione del suo tumulo leggiamo ancora: multa scitissima consiglia reliquit: ma ora non sono: sovente però egli nelle sue opere impresse allega questi consigli e fra gli altri uno, che e' compilò nel Regno di Sardegna[188].
Scrisse ancora molti Commentarj sopra alcune leggi del Codice e sopra le Istituzioni, de' quali toltone la memoria ch'egli ce ne dà nelle sue opere citandogli, non se ne ha altra notizia.
Compose parimente un Trattato de Consiliariis Principum, et de Officialibus eligendis ad justitiam regendam, ac eorum qualitatibus, et requisitis, che dedicò a Ferdinando I. Compose anche a richiesta del Cardinal Oliviero Caraffa, l' Ufficio della Traslazione del corpo di S. Gennaro[189], coll'occasione della traslazione, che si fece del medesimo Corpo nel 1497 dal monastero di monte Vergine in Napoli; delle quali opere non è a noi rimalo altro vestigio, se non nelli suoi libri, dove si citano. Scrisse pure un libro de Privilegiis Fisci, di cui fece menzione Giovan Battista Ziletto[190].
Cotanto nel Regno di Ferdinando I e de' suoi figliuoli, per li favori di questo Principe, e per li tanti e sì illustri Professori, erasi la nostra giurisprudenza innalzata e salita in pregio assai più, che non si vide ne' precedenti secoli. E siccome nell'altre Università d'Italia tutto lo studio e tutta l'applicazione delle Cattedre era sopra i libri di Giustiniano, così ancora nella nostra questo studio crebbe per li tanti Professori, che vi s'impiegarono; e poichè, come si è veduto, per lo più i Cattedratici erano insieme Magistrati ed altri Avvocati, quindi avvenne, che siccome que' libri nelle Cattedre avean molti anni prima presa forza e vigore, così poi tratto tratto si vide, che il medesimo vigore ed autorità acquistassero ne' nostri Tribunali. Quindi avvenne, che in questo secolo la legge Longobarda fosse non men dalle Cattedre, che dal Foro affatto sterminata ed abborrita, e che finalmente cedesse alla Romana. I Cattedratici, gli Avvocati ed i Magistrati si diedero allo studio di questa, e di coloro che l'avean commentata, allegandola non men nelle Scuole, che ne' Tribunali. E narra l'istesso Matteo d'Afflitto[191], che se bene dagli Avvocati vecchi avea inteso, che la legge Longobarda nel Foro avesse alcun tempo prevaluto alla Romana, nulladimanco, che a' suoi tempi e quando fu Giudice di Vicaria e quando poi fu Presidente di Camera e Consigliere nel S. C. non mai ciò vedesse, anzi tutto il contrario, che la Romana prevaleva alla Longobarda.
In questi tempi fu adunque, ed in questo rialzamento non meno delle buone lettere che delle altre discipline, che presso noi le leggi longobarde cedessero alle romane; onde poi avvenne, che presso i nostri Causidici fosse appena noto il lor nome. Ecco il periodo ed il fine delle leggi longobarde, e di qua innanzi non sentirete di lor più favellare.
Non è però, che abolite queste leggi non rimanessero ancora presso noi alcuni vestigi de' loro costumi. In Apruzzo si ritengono molti istituti intorno a' Feudi che si regolano secondo le leggi longobarde, e ritiene ancora quella provincia i beni gentilizj. In Bari, poi che le loro consuetudini per lo più sono fondate sopra quelle leggi, si ritengono ancora non meno i vocaboli che gl'istituti. Negl'istromenti, che in molte altre province si stipolano, i Notari anche a' tempi nostri, se vi sono donne, vi fanno intervenire per esse il Mundualdo. Ancora dura lo stile, che negl'istromenti si metta la clausula Jure Romano etc. per denotare, che i contraenti vivevano sotto quella legge e non longobarda. Durano ancora le voci di Vergini in capillo, di Meffio e Catameffio e moltissime altre, delle quali fu da noi fatto lungo catalogo nel quinto libro di quest'istoria. E perchè di loro affatto ogni memoria non mancasse, Giovan Battista Nenna di Bari non ignobile Giureconsulto di que' tempi, Autore del trattato della vera nobiltà, che intitolò il Nennio, e dedicò alla Regina Bona di Polonia e Duchessa di Bari, trovando tra' libri de' suoi antenati un voluminoso Commentario M. S. sopra le leggi de' Longobardi di Carlo di Tocco per la ricerca che ne avea da molti, l'abbreviò e fattevi alcune postille, con una esplicazione per alfabeto delle parole oscure de' Longobardi, il fece stampare in Vinegia nel 1537 con grande utilità de' legisti, e come dice Beatillo[192], con non minor comodità della città di Bari ed altri molti luoghi del Regno, dove ancor oggi si vive con l'osservanza delle leggi longobarde.
Di quest'opera oltre i nostri[193], ne fanno memoria anche gli Scrittori forestieri, come il Pignoria[194] e quel ch'è più strano, sino i Germani come Lindenbrogio[195], e Burcardo Struvio[196]. A questo medesimo fine Prospero Rendella Monopolitano distese quel suo trattato: In Reliquias Juris Longobardi: impresso in Napoli l'anno 1609, perchè molti luoghi del Regno serbano ancora alcune loro usanze; ma perchè ora il Regno universalmente si regola con altre leggi, e le longobarde sono andate in disusanza, chi per se allega questi particolari usi, si carica del peso di provarli[197].
Le leggi adunque, onde universalmente fu governato il nostro Regno, erano quelle racchiuse nelle Pandette di Giustiniano, secondo l'antica partizione di Pileo e di Bulgaro, della quale si valse Accursio e tutti gli altri Repetenti e Glossatori: il Codice di repetita prelezione: le Istituzioni e le Novelle, secondo il numero d'Agileo. Seguirono le Costituzioni del Regno, ove sono racchiuse le leggi de' nostri Re Normanni e Svevi. I Capitolarj, ovvero Capitoli del Regno, che racchiudono le leggi de' Re Angioini. I Riti della Camera e della G. C. Le Consuetudini particolari così di Napoli come dell'altre città del Regno; e finalmente le novelle Prammatiche, che s'incominciarono dal Re Alfonso I, e furon da poi accresciute dagli altri Re Aragonesi ed Austriaci, insino a quel numero che ora si vede. Per quel che riguarda la legge Feudale, i libri de' Feudi colle Costituzioni, Capitoli e novelle Prammatiche stabilite da poi a quelli appartenenti.
Ancorchè in questi tempi i libri de' Dottori non fossero cresciuti in quell'infinito numero che si vede ora; e non si vedessero tanti volumi di Trattati, di Consiglj, di Controversie, di Allegazioni, di Discettazioni, di Resoluzioni e di Decisioni; nulladimanco, perchè per l'uso della stampa cominciavano ad apparire più del solito, quindi nacque la massima, che i Giudici, quando le leggi mancassero dovessero seguire o l'autorità delle cose giudicate o la opinione più comune de' Dottori, e più i loro Commentarj che i Consiglj; onde mancando le leggi, le consuetudini, i riti e lo stile di giudicare, non si rimetteva al loro arbitrio e prudenza il decidere, ma che dovessero seguire il più comune insegnamento de' Dottori. Ed in ciò pure si prescrissero molte regole e cautele. I se gli Interpreti saranno fra' loro varj e discordanti, il Giudice dovrà seguire quella parte dove sia maggior numero, ed il detto di costoro dovrà riputare la più comune opinione. II dovranno i Giudici attenersi più tosto alla sentenza di coloro, li quali di proposito e profondamente avranno discussa ed esaminata la materia che di quelli, che di passaggio senza punto esaminarla, vanno dietro agli altri. III che debbiano più tosto seguire i loro commentarj ed i trattati, che i consiglj o i loro responsi ed allegazioni. IV ove si tratti di cause appartenenti al Foro ecclesiastico, debbano seguitare i canonisti, siccome i legisti in quelle del Foro secolare. V invecchiando non meno, che tutte l'altre cose umane, le opinioni; ed il corso del tempo, il lungo uso e la nuova esperienza delle cose, ammaestrando gli uomini in maniera, che sovente fanno loro abbandonare gli antichi dettami; quindi è dovere, che i Giudici debbiano seguire più tosto le nuove, che le vecchie opinioni degli Interpreti. Moltissime altre regole vengono da' nostri Autori prescritte intorno a ciò, delle quali lungamente scrissero, per tralasciar altri, Dionigi Gotofredo[198], ed il savissimo Arturo Duck[199].
Ecco in fine lo stato nel quale Ferdinando I di Aragona lasciò questo Regno, per quel che riguarda la sua politia e governo: lo vedremo ora nel seguente libro tutto sconvolto e disordinato, in maniera che in pochissimi anni vide sette Re che lo dominarono; nella revoluzione delle quali cose rimase cotanto sbattuto, fin che poi non riposasse sotto la Monarchia dell'inclito Re Ferdinando il Cattolico.
FINE DEL LIBRO VENTESIMOTTAVO.
STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO VENTESIMONONO
La guerra, che per invito di Lodovico Sforza mosse Carlo VIII Re di Francia, ad Alfonso II, il quale, morto suo padre, fu subito in Napoli con grande celebrità incoronato Re per mano del Cardinal Borgia[200], è stata cotanto bene scritta da Filippo Comines Signor d'Argentone, Scrittor contemporaneo e che fu da Carlo adoperato ne' maneggi più gravi di quella spedizione, da Francesco Guicciardino e da Monsignor Giovio, che a ragione potremmo rimetterci alle Istorie loro: ma poichè non fu da Principe savio mossa guerra alcuna, che insieme non si proccurasse farla apparire giusta, non avendo i nostri Scrittori palesate le ragioni, onde i Franzesi per tale la dipinsero al loro Re; perciò non ci dee rincrescere di scoprirle ora, che ce ne vien somministrata l'occasione. Prima di muoverla, e dopo gl'inviti del Moro, furono esaminate le pretensioni del Re con solenne scrutinio, e trovatele a lor credere, sussistenti, persuasero al Re esser dal suo canto somma giustizia di poter unire alla Corona di Francia il Regno di Napoli. Essi appoggiavano la pretensione sopra questi fondamenti. Renato d'Angiò, che, come si è veduto ne' precedenti libri, perduto il Regno avea lasciato a Giovanni suo figliuolo la speranza di ricuperarlo dalle mani di Ferdinando I d'Aragona, mentre visse Giovanni, non potè vedere alcun buon esito di quella guerra; poichè Ferdinando, sebbene dopo la morte del padre Alfonso fosse stato assaltato e da lui e da' principali Baroni del Regno, nondimeno con la felicità e virtù sua, non solamente si difese, ma afflisse in modo gli avversari, che mai più, nè in vita di Giovanni, nè di Renato, che sopravvisse più anni al figliuolo, ebbe nè da contendere, nè da temere degli Angioini. Morì finalmente Renato, e non lasciando di se figliuoli maschi, ma solamente una figliuola femmina, da chi nacque il Duca di Lorena, fece erede in tutti i suoi Stati e ragioni Carlo figliuolo del Conte di Maine suo fratello[201].
(Questa figlia era Violante, la quale si maritò con Ferry II di Lorena Conte di Vaudemont, dal qual matrimonio nacque Renato Duca di Lorena, che fu invitato da Innocenzio VIII all'impresa del Regno. Lasciò sì bene Renato padre di Violante un'altra figliuola femmina, Margherita vedova del Re d'Inghilterra, alla quale nel suo testamento lasciò le rendite del Ducato di Bar; ma a Renato figliuolo di Violante lasciò il Ducato stesso di Bar, siccome si legge nel suo Testamento, fatto in Marsiglia nell'anno 1474, che dettò in lingua franzese, trascritto da Lunig Tom 2 p. 1278. Anzi in questo istesso suo Codice Diplomatico pag 1291 si legge ancora un Istromento di donazione che fece la vedova Regina d'Inghilterra Margherita al suddetto Renato suo Padre, di tutte le sue ragioni, che avea nel Ducato di Bar, le quali furono trasferite a Renato di Lorena suo nipote in virtù dei detto suo testamento, e poichè allegava, che suo avo non potesse negli altri suoi Stati posporlo a Carlo Conte di Maine, ch'era collaterale, come figlio di suo fratello, quando era egli nella linea discendente, essendo figliuolo di sua figlia: perciò pretendeva appartenersegli non meno il Ducato d'Angiò, ed il Contado di Provenza, che il Regno stesso di Napoli e di Gerusalemme. E per questa pretensione i Duchi di Lorena discendenti da Renato fra gli altri loro titoli presero ancor quello di Duchi di Calabria, e nelle loro arme inquartarono eziandio quelle di Sicilia e di Gerusalemme; siccome può osservarsi dalle lor monete impresse da Baleicourt nel Traité Historique et Critique sur l'origine, et Généalogie de la Maison de Lorraine. Il qual Autore notò assai a proposito p. 28 Explication des Monnoies, che i Duchi di Lorena prima di questo maritaggio di Violante con Ferry di Lorena Conte di Vaudemont, non inquartavano le armi di Sicilia e di Gerusalemme, nè s'intitolavano Duchi di Calabria, siccome fecero da poi i suoi discendenti, e proseguono tuttavia fino al presente a fare; senza che mai i Re di Spagna glielo avesser contraddetto; anzi a' tempi nostri, essendo accaduta nel mese di marzo del 1729 la morte del Duca di Lorena Leopoldo padre del presente Duca Francesco regnante, nelle pompose esequie, che l'Imperadore Carlo VI fecegli celebrare nell'Imperial Chiesa di Corte degli Agostiniani in Vienna, nel Mausoleo e nelle iscrizioni fra le sue armi, si vedevano inquartate quelle di Sicilia e di Gerusalemme, e fra i suoi titoli si leggeva anche a lettere cubitali quello di DUX CALABRIAE).
Non fu già questo Carlo figliuolo di Giovanni, come con errore scrissero alcuni moderni[202], fu sì bene nipote di Renato, ma di fratello, non di figliuolo. Carlo morì poco da poi parimente senza lasciar figliuoli, e lasciò per testamento la sua eredità a Lodovico XI Re di Francia, ch'era figliuolo d'una sorella di Renato[203]. Molte clausole di questo testamento, che fu fatto da Carlo in Marsiglia a' 10 decembre del 1481, si leggono nel primo tomo della Raccolta dei Trattati delle Paci tra' Re di Francia con altri Principi, di Federico Lionard, stampato in Parigi l'anno 1693, dove istituisce suo erede universale Lodovico, che chiama perciò suo consobrino, e dopo lui Carlo il Delfino di Francia figliuolo di Luigi, al quale non solo ricadde, come a supremo Signore, il Ducato di Angiò, nel quale, per esser membro della Corona, non succedono le femmine, ma entrò nel possesso della Provenza, e per vigore di questo testamento potea pretendere essergli trasferite le ragioni, che gli Angioini aveano sopra il Reame di Napoli. Ma Luigi fu sempre avverso alle cose d'Italia e, contento della Provenza, non inquietò il Regno. Morto Luigi, essendo continuate queste ragioni in Carlo VIII suo figliuolo, giovane avido di gloria, entrò, a' conforti d'alcuni che gli proponevano questa essere occasione d'avanzar la gloria de' suoi predecessori, nella speranza d'acquistar coll'arme il Regno di Napoli.
Ma in questi principi surse il Duca di Lorena per suo competitore; poichè essendo il Re per coronarsi nell'età di 14 o 15 anni, venne da lui il Duca a dimandare il Ducato di Bar ed il Contado di Provenza. Appoggiava la sua pretensione per essere egli nato da una figliuola di Renato, e per conseguenza non aver potuto Renato preporre Carlo ch'era nato da suo fratello a lui, ch'era nato d'una sua propria figliuola. Ma replicandosi in contrario, che nella Provenza non potevan succeder le femmine, gli fu renduto il Ducato di Bar, ed intorno alla pretensione della Provenza, fu stabilito che fra quattro anni si avesse a conoscere per giustizia delle ragioni d'amendue sopra quel Contado. Narra Filippo di Comines che fu uno del Consiglio destinato all'esame di queste ragioni, che non erano ancora passati i quattro anni che si fecero avanti alcuni Avvocati provenzali, cavando fuori certi testamenti del Re Carlo I fratello di S. Lodovico e d'altri Re di Sicilia della Casa di Francia, in vigor de' quali diceano, non solo appartenersi al Re Carlo il Contado di Provenza, ma il Regno ancora di Sicilia, e tutto ciò che fu posseduto dalla Casa d'Angiò; e che il Duca di Lorena non vi potea pretendere cos'alcuna, non solo perchè Carlo ultimamente morto Conte di Provenza figliuolo di Carlo d'Angiò Conte di Maine e nipote di Renato, avea per suo testamento istituito erede Lodovico XI, ma ancora perchè Renato l'avea preferito al Duca di Lorena, ancorchè nato di sua figliuola, per eseguire le disposizioni de' suddetti testamenti fatti da Carlo I d'Angiò e dalla Contessa di Provenza sua moglie. Aggiungevano parimente che il Regno di Sicilia ed il Contado di Provenza, non potevano esser separati: nè potevano in quelli succeder le donne, quando v'erano maschi della discendenza. E per ultimo che oltre Re Carlo I, coloro che a lui successero nel suddetto Regno, fecero consimili testamenti, come fra gli altri Carlo II d'Angiò suo figliuolo.
Per questi ricorsi de' Provenzali, e per avere il Re Carlo insinuato a que' del Consiglio, che s'adoperassero in modo ch'egli non perdesse la Provenza, finiti i quattro anni, il Consiglio portava in lungo la deliberazione per istancare il Duca, e non potendolo più trattenere, finalmente il Duca, scoverta la volontà del Re e di coloro del suo Consiglio, si partì dalla Corte mal soddisfatto e molto adirato con loro.
In questi tempi, quattro o cinque mesi prima di questa sua partenza dalla Corte, gli fu fatto l'invito, che nel precedente libro si è narrato, dal Papa e dai Baroni ribelli per la conquista del Regno, del quale se egli se ne avesse saputo ben servire, s'avrebbe potuto mettere in mano il Regno di Napoli; ma la sua lentezza e tardanza fa tale che il Papa ed i Baroni resi già stanchi e fuori di speranza, per averlo sì lungamente aspettato, s'accordarono con Ferdinando: onde il Duca con molto rossore ritornossene al suo paese, nè da poi ebbe egli mai alcuna autorità appresso il Re.
Intanto crescendo il Re Carlo negli anni, vieppiù cresceva nel desiderio di passare in Italia alla impresa del Regno; nè mancavano i suoi Consultori tutto dì stimolarlo, dicendogli, che il Regno di Napoli s'apparteneva a lui. In questo mentre capitò a Parigi il Principe di Salerno, il quale non fidandosi delle parole di Ferdinando, uscì, come si disse, dal Regno, e prima con tre suoi nepoti, figliuoli del Principe di Bisignano, andò a Vinegia, dove egli avea molte amicizie. Quivi prese consiglio da quella Signoria, dove le paresse meglio ch'eglino si ricoverassero o dal Duca di Lorena, o dal Re di Francia, o da quello di Spagna. Filippo di Comines, che mostra nelle sue Memorie aver tenuta grande amicizia col Principe di Salerno, narra che avendo di ciò tenuto discorso col Principe, gli disse che i Viniziani lo consigliavano che ricorresse al Re di Francia; poichè dal Duca di Lorena, come uomo morto, non era da sperarne cos'alcuna. Il Re di Spagna non bisognava allettarlo a quella impresa, ma doveasene guardare, poichè se egli avesse il Regno di Napoli con la Sicilia e gli altri luoghi nel golfo di Vinegia, essendo già molto potente in mare, in breve porrebbe in servitù tutta Italia: onde non vi restava che il Re di Francia, dal quale, e dall'amicizia ch'essi v'aveano, s'avrebbero potuto promettere un Regno placido e soave. Così fecero, e giunti in Francia furono con lieto viso ricevuti, ma poveramente trattati. Penarono per due anni interi, assiduamente insistendo che si facesse l'impresa del Regno; ma poichè il partito di coloro che dissuadevano il Re, era de' più prudenti e solamente alcuni favoriti che vedendo la sua inclinazione, per adularlo, l'instigavano al contrario, perciò erano menati in lungo, un giorno con isperanza e l'altro senza.
Quello che poi gli fè dar tracollo fu, come s'è detto, l'invito di Lodovico Sforza, il quale vedendo che non in altra guisa avrebbe potuto rapire al nipote il Ducato di Milano, se non con porre sossopra il Regno ad Alfonso, che s'opponeva a' suoi disegni per gli continui ricordi che ne avea dalla Duchessa di Milano moglie del Duca e sua figliuola, trattò efficacemente questa venuta, ed inviandovi Ambasciadori per affrettarla, finalmente rotto ogni indugio, si dispose Carlo al passaggio d'Italia.
(Le convenzioni ed articoli accordati tra Carlo e Ludovico Sforza, si leggono presso Lunig[204] ).
Partì il Re da Vienna nel Delfinato a 23 agosto del 1494, tirando diritto verso Asti: passò a Torino, indi a Pisa, donde partitosi venne a Fiorenza, per passare a Roma[205].
(Giunto in Fiorenza il Re Carlo, diede fuori un Manifesto, nel quale dichiarava a tutti ch'egli veniva per conquistar il Regno di Napoli, non solo per far valere le sue ragioni che vi avea: ma perchè conquistato avesse più facile e pronto passaggio per invadere gli Stati del Turco, e vendicare le devastazioni e le stragi che sopra il sangue Cristiano facevano que' crudeli e perfidi Maomettani; cercando perciò a tutti passaggi, ajuti e vettovaglie per le sue truppe, per le quali avrebbe soddisfatto i loro prezzi. Leggesi il manifesto presso Lunig[206] ).
Intanto Re Alfonso intesa questa mossa avea disposto un esercito in campagna nella Romagna verso Ferrara, condotto da Ferrandino Duca di Calabria suo figliuolo, ed un'armata per mare a Livorno e Pisa, di cui ne fece Generale D. Federico suo fratello; ma quando intese che Re Carlo a grandi giornate con tanta prosperità, secondandogli ogni cosa, s'approssimava a Roma, mandò ivi Ferrandino a trattar col Papa per la salute del Regno. Ma non erano minori l'angustie nelle quali, approssimandosi l'esercito di Carlo alle mura di Roma, si trovava Papa Alessandro, poichè vedendolo accompagnato dal Cardinal di S. Pietro in Vincoli, e da molti altri Cardinali suoi nemici, temeva che il Re, per le persuasioni de' medesimi, non volgesse l'animo a riformare, come già cominciava a divulgarsi, le cose della Chiesa: pensiero a lui sopra modo terribile che si ricordava con quai modi fosse asceso al Pontificato, e con quai costumi ed arti l'avesse poi continuamente amministrato[207]. Ma il Re che sopra ogni altra cosa non desiderava altro più ardentemente che l'andata sua al Regno di Napoli, lo alleggerì di questo sospetto, mandandogli Ambasciadori a persuadergli, non essere l'intenzione del Re mescolarsi in quello che apparteneva all'autorità pontificale, nè dimandargli se non quanto fosse necessario alla sicurtà di passare innanzi; onde fecero istanza che potesse il Re entrare col suo esercito in Roma, perchè entrato che fosse, le dissensioni state fra loro si convertirebbero in sincerissima benivolenza. Il Papa giudicando che di tutti i pericoli questi fosse il minore, acconsentì a questa dimanda; onde fece partire di Roma il Duca di Calabria col suo esercito, il quale se n'uscì per la porta di S. Sebastiano l'ultimo di decembre di questo medesimo anno 1494, nell'istesso tempo, che per la porta di S. Maria del Popolo v'entrava coll'esercito franzese il Re armato.
Dimorò Carlo in Roma da un mese, non avendo intanto cessato di mandar gente a' confini del Regno, nel quale già ogni cosa tumultuava, in modo, che l'Aquila e quasi tutto l'Apruzzo avea, prima che 'l Re partisse di Roma, alzate le di lui bandiere: nè era molto più quieto il resto del Reame, perchè subito che Ferdinando fu partito da Roma, cominciarono ad apparire i frutti dell'odio, che i popoli portavano ad Alfonso: laonde esclamando con grandissimo ardore della crudeltà e superbia d'Alfonso, palesemente dimostravano il desiderio della venuta de' Francesi[208].
Alfonso, intesa ch'ebbe la partita del figliuolo da Roma, entrò in tanto terrore, che dimenticatosi della fama e gloria grande, la quale con lunga esperienza avea acquietata in molte guerre d'Italia, e disperato di poter resistere a questa fatale tempesta, deliberò di abbandonare il Regno, e dettando l'istromento della rinunzia Giovanni Pontano, coll'intervento di Federico suo fratello, e de' primi Signori del Regno[209], rinunziò il nome e l'autorità reale a Ferdinando suo figliuolo, con qualche speranza, che rimosso con lui l'odio sì smisurato, e fatto Re un giovane di somma espettazione, il quale non avea offeso alcuno, e quanto a se era in assai grazia appresso a ciascuno, allenterebbe peravventura ne' sudditi il desiderio de' Franzesi. Questo consiglio, pondera il Guicciardino, che se si fosse anticipato, forse avrebbe fatto qualche frutto, ma differito a tempo che le cose non solo erano in troppo gran movimento, ma già cominciate a precipitare, non ebbe più forza di fermar tanta rovina.
Ceduta ch'ebbe Alfonso al figliuolo Ferdinando (il quale non passava l'età di 24 anni) la possessione del Regno, e fattolo coronare e cavalcare per la città di Napoli, non trovando nè giorno, nè notte requie nell'animo, entrò in sì fatto timore, che gli pareva udir che tutte le cose gridassero Francia, Francia; onde deliberò partir subito da Napoli e ritirarsi in Sicilia, e conferito quel ch'avea deliberato solamente con la Regina sua matrigna, nè voluto a' prieghi suoi comunicarlo, nè col fratello, nè col figliuolo, nè soprastare pur due o tre giorni solo per finir l'anno intero del suo Regno, si partì con quattro galee sottili cariche di molte robe preziose, dimostrando nel partire tanto spavento, che pareva fosse già circondato da' Franzesi. Si fuggì por tanto a Mazara Terra in Sicilia della Regina sua matrigna, stata a lei prima donata da Ferdinando Re di Spagna suo fratello, la quale volle anch'ella accompagnarlo.
Narra Filippo di Comines, che allora si trovava Ambasciadore del Re di Francia in Vinegia, che con meraviglia di ciascuno si sparse per tutto il Mondo, specialmente in Vinegia, cotal novella. Alcuni dicevano, ch'egli fosse ito al Turco; altri per dar favore alle cose del figliuolo, il quale non era odiato nel Regno così com'esso. Ma colui, che de' Re aragonesi scrisse con molto biasimo e molta acerbità, e forse più di quel che meritavano, non tralasciò di dire, che fu sempre d'opinione, ch'egli ciò facesse per vera pusillanimità. Giunto in Sicilia, dopo essere stato alquanto a Mazara, passò a Messina, ove ritirossi a menar vita religiosa, servendo in compagnia de' Frati a Dio in tutte l'ore del giorno e della notte, con digiuni, astinenze e limosine; e narra ancora lo stesso Autore, che se morte non l'impediva, avea deliberato di far sua vita in un monastero di Valenza, e quivi vestirsi da Religioso. Ma non avendo ancor finito dieci mesi dopo il suo ritiramento in Sicilia, fu egli assalito da una crudele infermità d'escoriazione e da renella, che incessantemente gli dava acerbissime punture e tormenti, tollerati però da lui con maravigliosa costanza e pazienza; e finalmente aggravato dal male, con grandissimo rimordimento delle sue colpe, finì i giorni suoi a' 19 novembre dell'anno 1495 del 47 anno, e quattordici giorni di sua età, dopo aver regnato un anno meno due giorni. Fu con reali esequie seppellito nella maggior Chiesa di Messina, ove ancora s'addita la di lui tomba.
Di questo Principe, e per lo suo corto regnare, e perchè era tutto dedito alle armi, non abbiamo tra le nostre prammatiche alcuna sua legge, ancorchè non impedisse il progresso delle lettere nel suo Regno; ma come nudrito in mezzo alle armi, non fu cotanto quanto suo padre amante de' Letterati; e Giovanni Pontano, come si è veduto nel precedente libro, non ebbe molta occasione d'esser appagato di lui, anzi agramente si vendicò della di lui ingratitudine con quell'Apologo dell'Asino, che trasse de' calci a chi gli porse ajuto. Fu però insieme magnifico e pietoso. Edificò due famosi palagi di diporto nella regione Nolana ed in Poggio reale: amò assai i Frati bianchi di S. Benedetto dell'Ordine di Monte Oliveto, al di cui Monastero in Napoli donò, come altrove fu detto, molte entrate. Diede anco principio alla nuova chiesa dei Monaci Cassinesi di S. Severino, non parendogli convenevole, che due Corpi di Santi così insigni, Sossio e Severino, dovessero giacere in due piccole Chiesette; e se le narrate disavventure non l'avessero impedito, le avrebbe dato quel fine e posta in quella magnificenza, nella quale oggi si vede.
CAPITOLO I. Ferdinando II è discacciato dal Regno da Carlo Re di Francia. Entrata di questo Re in Napoli, a cui il Regno si sottomette.
Ferdinando, il quale dopo la partita di Roma si era ritirato ne' confini del Regno, essendo stato per la fuga del padre richiamato in Napoli, da poi ch'ebbe assunto l'autorità ed il titolo regale raccolse il suo esercito, e s'accampò a S. Germano per proibire, che i nemici non passassero più innanzi. Ma avanti che il Re di Francia giungesse a S. Germano, Ferdinando con grandissimo disordine abbandonò la Terra ed il passo; ond'entrato il Re in S. Germano, Ferdinando si ritirò a Capua, dov'entrò accompagnato con poca gente, non avendovi i terrazzani voluto introdurre alcuna banda de' suoi soldati. Quivi fermatosi poche ore, e pregata quella città a mantenersi a sua divozione, promettendole di ritornare il dì seguente, se n'andò a Napoli, temendo di quello che gli avvenne, cioè di ribellione. L'esercito lo dovea aspettare a Capua; ma quando egli vi tornò il giorno seguente non trovò nessuno. Intanto Re Carlo da S. Germano era giunto a Tiano, ed alloggiò a Calvi vicino due miglia a Capua. I Capuani tosto l'introdussero nella loro città con tutto il suo esercito; indi passato in Aversa, i Napoletani seguendo l'esempio di Capua, trattavano di mandargli Ambasciadori ad incontrarlo e rendersi a lui, sotto condizione, che gli fossero conservati gli antichi privilegi.
Allora fu, che Ferdinando, veduti tali andamenti, e che il Popolo e la Nobiltà era in manifesta ribellione, e con l'armi alla mano, vedendo di non poter ripugnare all'impeto cotanto repentino della sua fortuna, deliberò uscire della città, e convocati in su la piazza del Castel Nuovo molti gentiluomini e popolani, gli disciolse dal giuramento ed omaggio, che pochi dì avanti gli avean dato, e gli diede licenza di mandare a prendere accordo col Re di Francia, con sentimenti cotanto compassionevoli ed affettuosi, che espresse in quella sua orazione, cotanto ben descritta dal Guicciardino[210], che udita con compassione a molti commosse le lagrime. Ma era tanto l'odio in tutto il popolo, e quasi in tutta la nobiltà, del Re suo padre, e tanto il desiderio de' Franzesi, che per questo non si fermò il tumulto, anzi sfacciatamente alla sua presenza il popolo cominciò a saccheggiar le sue stalle, onde uscito dal castello per la porta del Soccorso, montò su le galee sottili, che l'aspettavano nel Porto, e con lui s'imbarcò anche D. Federico suo zio e la Regina vecchia moglie dell'avolo, con Giovanna sua figliuola; e seguitato da pochi de' suoi navigò all'isola d'Ischia, detta dagli antichi Enaria, replicando spesso con alte voci, mentre che aveva innanzi agli occhi il prospetto di Napoli, il versetto del Salmo di Davide: Nisi Dominus custodierit Civitatem, frustra vigilat qui custodit eam.
Per la partita di Ferdinando da Napoli ciascuno cedeva per tutto, come ad uno impetuosissimo torrente, alla fama sola de' vincitori; ed intanto gli Ambasciadori napoletani trovato Carlo in Aversa, gli resero la città, avendo egli conceduto alla medesima con somma liberalità molti privilegi ed esenzioni. Entrò Carlo in Napoli, secondo il Guicciardino, il dì vigesimo primo di febbrajo di quest'anno 1495, ricevuto con tanto applauso ed allegrezza da ogn'uno, che vanamente si tenterebbe esprimere, concorrendo con festeggiamento incredibile, ogni sesso, ogni età, ogni condizione, ogni qualità, ogni fazione d'uomini, come se fosse stato padre e fondatore di quella città. E ciò che fu più di stupore, quegli stessi o i loro maggiori ch'erano stati esaltati o beneficati dalla casa d'Aragona, non mostrarono minor giubilo degli altri, e Gioviano Pontano istesso, che partito Alfonso era stato da Ferdinando rifatto suo Segretario, nell'Orazione che gli fece, quando fu incoronato Re nel Duomo di Napoli, non si ritenne di distendersi soverchio nella vituperazione dei Re di Casa d'Aragona, da' quali era stato sì grandemente esaltato.
Fu Carlo condotto ad alloggiare in Castel Capuano, poichè Castel Nuovo si teneva per Ferdinando dal Marchese di Pescara; e si videro in breve tempo tutte le province del Regno passare sotto la dominazione de' Franzesi. Toltone Ischia e Gaeta, tutta Terra di Lavoro fu sottomessa. La Calabria tosto si diede a Carlo, dove furono mandati Monsignor d'Aubignì, e Perone del Baschie senz'esercito. L'Apruzzo si rivoltò da se stesso e la prima fu la città dell'Aquila, che fu sempre di fazione franzese. La Puglia fece il simigliante, eccetto il Castello di Brindisi e Gallipoli, che fu conservata dal presidio che v'era dentro, altrimenti il popolo si sarìa sollevato. Nella Calabria tre luoghi solamente si mantennero alla divozione di Ferdinando. I due primi furono Amantea e Tropea antichi Angioini, i quali avendo innalzate le bandiere di Carlo, vedutisi poi esser donati a Monsignor di Persì, tosto le tolsero e vi riposero l'insegna d'Aragona: il terzo fu Reggio, che sempre si stette costante al suo Principe. E narra il Signor d'Argentone, che tutto ciò che rimase in fede, fu per difetto di mandarvi gente, poichè in Puglia ed in Calabria non ne andò pur tanta, che fosse stata bastante a guardare una sola terra. La città di Taranto s'arrese insieme colla fortezza. Il medesimo fecero Otranto, Monopoli, Trani, Manfredonia, Barletta e tutto 'l rimanente. Venivano le città ad incontrare i Franzesi tre giornate lontane per darsi al Re Carlo, e poi ciascuna mandava a Napoli i loro Sindici a renderle.
Tutti i Signori e Baroni del Regno concorsero a Napoli per fargli omaggio: toltone il Marchese di Pescara, lasciato da Ferdinando alla guardia del Castel Nuovo, anche i suoi fratelli e nipoti v'andarono. Il Conte d'Acri ed il Marchese di Squillace fuggirono in Sicilia; perchè il Re Carlo avea donato lo Stato loro a Monsignor d'Aubignì: si trovarono anche in Napoli il Principe di Salerno, il Principe di Bisignano suo fratello co' figliuoli, il Duca di Melfi, quel di Gravina ed il vecchio Duca di Sora, il Conte di Montorio, il Conte di Fondi, il Conte della Tripalda, quel di Celano, il Conte di Troja il giovane, nodrito in Francia e nato in Scozia, ed il Conte di Popoli, che fu trovato prigioniere in Napoli: il Principe di Rossano, dopo essere stato lungo tempo in carcere col padre, era stato liberato, e se n'andò o volentieri, o forzato con Ferdinando. Vi si trovarono eziandio il Marchese di Venafro e tutti i Caldoreschi: il Conte di Metallina ed il Conte di Marigliano, ancorchè questi ed i loro predecessori avessero servito sempre la casa d'Aragona. In brieve vi furono in Napoli a dar ubbidienza al Re Carlo tutti i Signori del Regno, salvo que' tre di sopra nominati.
Ecco, come saviamente ponderò il Guicciardino, che per le discordie domestiche, per le quali era abbagliata la sapienza tanto famosa de' nostri Principi italiani, e per la leggerezza e pazzo amore alla novità de' Napoletani, si alienò con sommo vituperio e derisione loro e della milizia italiana, e con grandissimo pericolo ed ignominia di tutti, una preclara e potente parte d'Italia, dall'Imperio degli Italiani all'Imperio di gente oltramontana trapassando; perchè Ferdinando il vecchio, se ben nato in Ispagna, nondimeno perchè insino dalla prima gioventù era stato o Re o figliuolo di Re continuamente in Italia, e perchè non avea altro Principato in altra provincia, ed i figliuoli e nipoti tutti nati e nutriti a Napoli, erano meritamente riputati italiani. E quantunque la dominazione dei Franzesi sparisse come un baleno, non fu però, che il Regno stabilmente ritornasse di nuovo sotto Ferdinando o Federico suo zio, buono e savio Principe, che avrebbe potuto cancellare ogni memoria dell'odio, che portavano i popoli ad Alfonso; poichè vedutisi questi da dura necessità costretti di ricorrere agli aiuti e soccorsi di Ferdinando il Cattolico Re di Spagna, se sottrassero il Regno dalla dominazione de' Franzesi, lo videro poi con estremo lor cordoglio cadere sotto l'imperio degli Spagnuoli, e riconoscere non più Principi nazionali ma stranieri, che da rimotissime parti amministrandolo per mezzo de' loro Ministri, quanto perdè di dignità reale e di decoro, altrettanto si vide malmenato ed abbietto.
CAPITOLO II. Carlo parte dal Regno, e vi ritorna Ferdinando, che ne discaccia i Franzesi coll'aiuto del G. Capitano; viene acclamato da' popoli, ed è restituito al Regno: suo matrimonio e morte.
I Franzesi, che non sapendo reprimere la violenza della prospera fortuna, si resero vie più altieri ed ambiziosi, oltre d'aversi alienati gli animi de' popoli, dando sospetto a' Principi d'Italia, ed a coloro medesimi che ve gli aveano invitati, se gli alienarono in guisa, che finalmente congiurati gli discacciarono interamente d'Italia. Resi ormai padroni del Regno, e per intelligenza e pratica avuta co' Tedeschi che lo guardavano, resi ancor padroni del Castel Nuovo, e poi del castello dell'Uovo e di Gaeta; non restava loro altro di maggior rimarco, che impossessarsi d'Ischia. Tanto che Ferdinando perduta ogni speranza, lasciando quell'isola in guardia ad Innico d'Avalos fratello del Marchese di Pescara, partì e se ne passò in Sicilia, dove a' 20 marzo di quest'istesso anno 1495 fu da' Messinesi con amor grande ricevuto, e quivi, consultando con Alfonso suo padre che ancor vivea, del modo come ricuperar potessero, e con quali aiuti il perduto Regno, dimorava.
Intanto Re Carlo mal sapendo co' suoi Capitani governarsi in un Regno nuovo, e per soverchio orgoglio de' suoi, nulla soddisfazione dandosi alla nobiltà, in brevissimo spazio vide mutarsi quella gloria e quella fortuna, che cotanto l'avea favorito. Narra il Signore d'Argentone, allora suo Ambasciadore in Vinegia, che il Re dopo essere entrato in Napoli, infino alla sua partita, non attese ad altro che a' piaceri ed a' sollazzi; ed i Franzesi suoi Ufficiali a rapine, ed a ragunar denari: alla nobiltà non fu usata nè cortesia nè carezzo alcuno; anzi con difficoltà erano introdotti nella sua corte. Gli Caraffa furono i meno maltrattati, ancorchè fossero veri Aragonesi. A niuno lasciarono ufficj, nè dignità, e peggio trattarono gli Angioini che gli Aragonesi. E Matteo d'Afflitto[211] rapporta, che Carlo istigato da' suoi, che lo stimolavano a ridurre i Baroni del Regno nello stato, nel quale sono i Baroni di Francia, fece consultare il modo come potesse toglier loro il mero e misto imperio, che sin dal tempo del Re Alfonso I d'Aragona esercitavano ne' loro feudi. Non si spedivano privilegi ed ordinazioni del Re, che i Ministri, per le cui mani passavano, non ne riscuotessero denari. Tutte le autorità e carichi furono conferiti a due o tre Franzesi. Si levavano i Ministri dai loro posti, e non senza denari poi si restituivano. Così i Napoletani (gente naturalmente più d'ogni altra mutabile) quel pazzo amore, che prima aveano ai Franzesi, lo cominciarono a mutar in odio.
Intanto giunto Ferdinando in Sicilia, consultando con Alfonso suo padre di trovar qualche riparo alla loro rovina, aveano deliberato di ricorrere agli aiuti di Ferdinando il Cattolico, come ad un Principe non men potente, che a lor congiunto di sangue; ma sopra tutto, perch'essendo padrone della Sicilia, avrebbe presa la loro protezione, non tanto per la strettezza del sangue, quanto che a' suoi propri interessi importava, che il Regno di Napoli non fosse in mano dei Franzesi, i quali dominando un Regno così possente e ricco, e cotanto alla Sicilia vicino, forte dubitar si poteva, che finalmente non s'invogliassero d'invaderla, ed a quel di Napoli non pensassero d'unirla. Mandarono per ciò in Ispagna al Re Cattolico, Bernardino Bernaudo Segretario di Ferdinando, perchè ne pigliasse la protezione, e con validi soccorsi gli riponesse nel possesso del perduto Regno. Missione per gli Aragonesi di Napoli pur troppo infelice; e se la necessità, che allora li premeva non gli scusasse, fu questa una deliberazione pur troppo mal regolata ed imprudente, non solo perchè s'esposero all'ambizione degli Spagnuoli, che per aver la Sicilia vicina facilmente potevano invogliarsi alla occupazione del Regno di Napoli, come l'evento lo dimostrò; ma ancora perchè Ferdinando il Cattolico figliuolo di Giovanni Re d'Aragona fratello d'Alfonso I riputava il Regno di Napoli essersi ingiustamente tolto alla Corona d'Aragona, a cui spettava, e che Alfonso non poteva lasciarlo a Ferdinando suo figliuol bastardo, ma che in quello vi dovea succedere Giovanni, siccome succedette nella Sicilia, nell'Aragona e negli altri Regni posseduti da Alfonso. E le cose succedute appresso dimostrarono, che agli Aragonesi di Napoli sarebbe stato più facile e maggiore la speranza di ricuperare il Regno, se fosse rimaso nelle mani de' Franzesi, che cadendo in potere degli Spagnuoli perder affatto ogni speranza di riaverlo.
Ferdinando il Cattolico ricevè molto volentieri l'invito ed accettò l'impresa; onde mandò tosto in Sicilia con sufficiente armata Consalvo Ernandez di casa d'Aghilar, di patria Cordovese, uomo di molto valore ed esercitato lungamente nelle guerre di Granata: il quale nel principio della sua venuta in Italia, cognominato dalla jattanza spagnuola il Gran Capitano per significare con questo titolo la suprema podestà sopra loro, meritò per le preclare vittorie ch'ebbe da poi, che per consentimento universale gli fosse confermato e perpetuato questo soprannome, per significazione di virtù grande e di grande eccellenzia nella disciplina militare. Giunto Consalvo in Messina colle sue truppe, fu con incredibile allegrezza accolto da Alfonso e da Ferdinando; ed avendo confortato que' Re a star di buon cuore, sbarcò le sue genti in Calabria, ove riportò sopra i Franzesi rimarchevoli vantaggi.
Dall'altra parte i Principi d'Italia, ed il Duca istesso di Milano conchiusero in Vinegia a danni del Re Carlo una ben forte lega, nella quale oltre i Vinegiani, v'entrarono ancora il Re de' Romani e Ferdinando Re di Castiglia. Il Papa Alessandro VI vi volle ancor egli essere incluso, per liberarsi da continui timori, e dalle violenze che temeva da' Franzesi: era egli entrato in diffidenza di Carlo, e cominciavano ad alienarsi, e l'alienazione a scoppiare in manifeste inimicizie; poichè avendo il Re Carlo più volte ricercato il Papa, che l'investisse del Regno, e gli destinasse un Legato che lo incoronasse, Alessandro non volle acconsentirvi; onde Carlo sdegnato lo minacciò, che avrebbe fatto congregare un Concilio per farlo deporre; di che dubitando il Papa, e temendo la minaccia non fosse posta in effetto a cagion che teneva nemici molti Cardinali, e fra gli altri il Cardinal della Rovere, che poi fu Papa Giulio II, fu da dura necessità costretto mandargli l'investitura ed il Legato per l'incoronazione la quale seguì a' 20 maggio di questo anno 1495, con grande pompa e celebrità nel Duomo di Napoli.
Ma pubblicata che fu la lega di questi Principi, i quali per renderla più plausibile pubblicarono ancora i fini, per li quali essi furon mossi a firmarla, cioè per difesa della Cristianità contra il Turco, per difesa della libertà d'Italia, e per la conservazione degli Stati propri; allora entrò il Re in tanto sospetto che non fu possibile a' suoi Capitani di quietarlo, ed essendo precorsa voce, che Francesco Gonzaga Marchese di Mantova, eletto Generale dell'esercito della lega, lo minacciava, o d'ucciderlo o di prenderlo prigione, deliberò partir da Napoli, risoluto di ritornarsene in Francia per la medesima strada, dond'era venuto, benchè la lega s'apparecchiasse di vietarglielo. Si ritirò per tanto appresso di se le migliori truppe, e lasciò per guardia del Regno assai debole sostentamento, non più che cinquecento uomini d'arme franzesi, duemila cinquecento Svizzeri, ed alcune poche fanterie Franzesi. Vi rimase per Capitan Generale Monsignor di Monpensieri della Casa di Borbone, in Calabria Eberardo Stuard Monsignor d'Aubignì di nazione Scozzese, il quale era stato da lui eletto Gran Contestabile del Regno, ed al quale avea donato il Contado di Acri, col Marchesato di Squillace. Lasciò Stefano di Vers, Siniscalco di Beaucheu, Governadore di Gaeta, fatto da lui Duca di Nola e d'altri Stati e Gran Camerario, per le cui mani passavano tutti i denari del Regno. Monsignor D. Giuliano di Lorena, creato Duca della città di S. Angelo, restò alla difesa del proprio Stato. In Manfredonia vi rimase Gabriello da Montefalcone: in Taranto Giorgio de Sully: nell'Aquila il Rettor di Vietri; ed in tutto l'Apruzzo Graziano di Guerra. Lasciò i Principi di Salerno e di Bisignano, che l'aveano ottimamente servito, molto ben contenti ed in buono e ricco stato.
Partì per tanto il Re, dopo aver ordinato in così fatta guisa la guardia del Regno, nell'istesso mese di maggio di quest'anno 1495 con tanta velocità, che pareva esser seguitato da innumerabile esercito, e giunto a Roma, non trovandovi il Pontefice, il qual per tema, o per non vederlo, erasi ritirato in Orvieto e poi in Perugia, proseguì avanti il suo cammino, fin che giunto al fiume Taro, fu incontrato dall'esercito de' Vineziani, dove seguirono fieri combattimenti, perchè i Vineziani cercavano impedirgli il passaggio, e Carlo aprirsi il passo con le armi alle mani. Si pugnò ferocemente, e resta ancor oggi fra' Scrittori in dubbio, se fossero rimasi più tosto vincitori i Franzesi, che, malgrado dell'opposizione, finalmente passarono, o i Vineziani, che saccheggiarono il campo e le bagaglie di Carlo, di che, oltre l'Argentone, ampiamente scrissero il Guicciardino e Paolo Paruta nei suoi Discorsi.
La partita di Carlo dal Regno portò tanto cangiamento negli animi de' Popoli, che si videro mutar tosto le inclinazioni, ed i desiderj insieme con quella fortuna, che due mesi prima gli era stata cotanto favorevole. I Napoletani, mentre il Gran Capitano stava guerreggiando in Calabria co' Franzesi, mandarono sino in Sicilia con grandissima fretta a chiamar Ferdinando. Questi partì tosto con 60 grossi legni e 20 altri minori, ed ancorchè le sue forze fossero picciole, era però grande per lui il favore e la volontà de' Popoli; per ciò arrivato alla spiaggia di Salerno, subito questa città, la Costa d'Amalfi e la Cava alzarono le sue bandiere. Volteggiò da poi per due giorni sopra Napoli, e finalmente s'accostò coll'armata al lido per porre in terra alla Maddalena; ma uscito fuori della città Mompensieri con quasi tutti i soldati per vietargli lo scendere, i Napoletani, presa tale opportunità, si levarono subito in arme e cominciarono scopertamente a chiamare il nome di Ferdinando; ed occupate le porte lo fecero a' 7 luglio di quest'istesso anno 1495 entrare in Napoli, con alcuni de' suoi a cavallo, e cavalcando per tutta la città con incredibile allegrezza di ciascuno, fu da tutti ricevuto con grandissime grida; nè si saziando le donne di coprirlo dalle finestre di fiori e d'acque odorifere, molte delle più nobili correvano nella strada ad abbracciarlo e ad asciugargli dal volto il sudore. Seguitarono subito l'esempio di Napoli, Capua, Aversa e molte altre Terre circostanti, e Gaeta parimente cominciò a tumultuare. In Puglia la città d'Otranto sin da che intese la lega, vedutasi senza provvedimento di gente di guerra, e vicina a Brindisi e Gallipoli, aveva alzate le bandiere d'Aragona; onde Federico ch'era in Brindisi, la fornì tosto d'ogni cosa necessaria.
Nel tempo istesso che Ferdinando entrò in Napoli, l'armata vineziana accostatasi a Monopoli e fattovi sbarco, prese per forza la città, e poi, per accordo, Pulignano. Taranto fu difesa con valore da Georgio di Sully, e la conservò sotto l'insegne di Carlo infin che la fame non lo costrinse a renderla, dove poi egli si morì di peste. Ma Gabriello di Montefalcone, che avea in guardia Manfredonia, la rese subito per mancamento di vettovaglie, ancor che avesse egli ritrovata quella piazza copiosa di tutte le cose. Molte altre città tosto si resero per mancanza di viveri, e narra l'Argentone, che molti vendettero tutto ciò che trovarono dentro le Piazze commesse alla loro fede, e perciò eran costretti di subito renderle. S'aggiungeva ancora che tutte le Terre e Fortezze del Regno restarono mal fornite di denari, perchè stando assignati i soldi sopra le rendite delle Province, queste mancando, tosto vennero quelli a mancare, e la Calabria era stata quasi che tutta manomessa dal Gran Capitano. Fu fama che Alfonso poco innanzi alla sua morte, la qual accadde in questo tempo, avendo inteso, che il Regno erasi restituito sotto l'ubbidienza di Ferdinando suo figliuolo, avesse fatta istanza al medesimo di ritornare in Napoli, ove l'odio già avuto contra di lui credeva essersi convertito in benevolenza, e si dice che Ferdinando, potendo più in lui (com'è costume degli uomini) la cupidità del regnare, che la riverenza paterna, non meno mordacemente, che argutamente gli rispondesse, che aspettasse insino a tanto, che da lui gli fosse consolidato talmente il Regno, ch'egli non avesse un'altra volta a fuggirsene[212].
Poco adunque restando a Ferdinando a fare per discacciare interamente qualche reliquia de' Franzesi, ch'erano rimasi in Aversa ed in Gaeta, egli per maggiormente corroborare le cose sue con più stretta congiunzione col Re di Spagna, tolse per moglie, con la dispensa del Pontefice, Giovanna sua zia, nata di Ferdinando suo avo, e di Giovanna sorella del Re. E proseguendo con non interrotto corso di benigna fortuna a discacciare i suoi nemici dal Regno, non mancandogli quasi altro, che Taranto e Gaeta, si vide collocato, in somma gloria, ed in speranza grande d'avere ad esser puri alla grandezza de' suoi maggiori; ma ecco, mentre colla novella sposa si diverte a Somma, Terra posta nelle radici del Monte Vesuvio, che, o per le fatiche passate, o per disordini nuovi, gravemente infermatosi, vien disperato di salute, e portato a Napoli, finì fra pochi giorni in ottobre di questo anno 1496 la sua vita, non finito ancora l'anno della morte di Alfonso suo padre, e fu seppellito nella Chiesa S. Domenico, dove si vede il suo tumulo.
Lasciò per la riportata vittoria, e per la nobiltà dell'animo, e per molte virtù regie, le quali in lui risplendevano, non solo in tutto il Regno, ma eziandio per tutta Italia grandissima opinione del suo valore; ed ancorchè non avesse regnato che un solo anno ed otto mesi, pure ci lasciò alquante leggi savie e prudenti, le quali si leggono infra le prammatiche de' Re aragonesi. Morì senza figliuoli nell'età di 28 anni, e però gli succedette D. Federico suo zio, avendo questo Reame nello spazio di soli tre anni veduti cinque Re; Ferdinando il vecchio, Alfonso suo figliuolo, Carlo VIII Re di Francia, Ferdinando il giovine, e Federico suo zio
CAPITOLO III. Regno breve di Federico d'Aragona: sue disavventure, e come cedendo a' Spagnuoli ed a Franzesi fosse stato costretto abbandonarlo, e ritirarsi in Francia.
Federico Principe cotanto savio e molto caro alle Muse, appena morto suo nipote, fu in Napoli con allegrezza di ciascuno gridato Re; e la Regina vecchia sua matrigna, ancor che molti dubitassero, non lo volesse ritenere per Ferdinando Re di Spagna suo fratello, gli consignò subito Castel Nuovo; nel quale accidente si dimostrò egregia verso Federico, non solo la volontà del Popolo di Napoli, ma eziandio de' Principi di Salerno e di Bisignano e del Conte di Capaccio, i quali furono i primi in Napoli che chiamarono il suo nome, lo salutarono Re, contenti molto più di lui che del Re morto, per la mansuetudine del suo ingegno, e perchè già era nata non picciola sospizione, che Ferdinando avesse in animo, come prima fossero stabilite meglio le cose sue, di perseguitare ardentemente tutti coloro che in modo alcuno si fossero dimostrati fautori de' Franzesi; onde Federico per riconciliarseli interamente, restituì a tutti liberamente con molta lode le loro Fortezze; e per dimostrar maggiormente questo suo animo, fece coniare una sorte di moneta, la quale da una banda avea un libro con una fiamma di fuoco, col motto: Recedant vetera, e dall'altra una Corona, col motto: A Domino datum est istud.
(Sebbene questa moneta così descritta, come la rapporta il Diario di Silvestro Guarino presso il Pellegrino, non siasi ancor veduta; nulladimanco il Vergara nel suo libro delle monete de' Re di Napoli alla Tav. XXII, num. I se non porta la stessa, ne portò una simile, la quale da una parte ha il libro tra fiamme di fuoco, col motto intorno: Recedant vetera: e dall'altra non già la Corona, il motto A. Domino etc. ma l'immagine di Federico coronato col suo nome e titolo FEDERICUS DEI GR. SI. HI. ed a ragione riprova l'interpretazione che le diede Giovanni Luchio Sylloge Nunismat. Elegant. il qual rapportando pure questa moneta, sognò che fosse fatta coniare da Federico in tempo che non avea un palmo di terra, cioè allora che scacciato e ramingo, passò in Francia appresso il Re Ludovico XII per dinotare la lealtà della sua fede; ed essersi dimenticato delle ingiurie da lui ricevute, quando fatta lega col Re Cattolico, e divise le sue spoglie, lo discacciarono dal Regno).
Fugli parimente da Alessandro VI sotto li 7 giugno del seguente anno 1497 spedita Bolla d'Investitura per la morte di suo nipote; e per mostrare la sua contentezza che ne avea, glie la mandò accompagnata con una sua lettera tutta affettuosa e cordiale. Parimente a' 9 del medesimo mese ne gli spedì un'altra, per la quale l'avvisava aver destinato il Cardinal Cesare Borgia suo figliuolo e suo Legato appostolico per coronarlo[213];[214] e poichè in questo tempo Napoli era travagliata da una mortifera pestilenza, deliberò di far la cerimonia e pompa della incoronazione nella città di Capua, alla quale Federico scrisse un'affettuosa lettera, che si legge presso il Chioccarello, dove le dava avviso dell'investitura mandatagli dal Papa e dell'incoronazione ch'egli per mano del Cardinal Borgia intendeva far seguire in quella città. Camillo Pellegrino[215] rapporta una scrittura cavata dagli atti della Cancellaria regia, ed un passo del Diario di Silvestro Guarino Aversano, non ancor impresso, che lo scrisse a que' tempi, dove si descrive la celebrità e pompa fatta di questa incoronazione. Si fece alli 10 d'agosto nella Chiesa cattedrale di Capua per mano del Borgia Legato, e v'intervennero l'Arcivescovo di Cosenza allora Segretario del Papa, con molti Arcivescovi, Vescovi ed altri Prelati, e gli Ambasciadori di vari Principi. Vi fu l'Ambasciadore del Re de' Romani, quello del Re di Spagna, di Vinezia e del Duca di Milano. Vi assisterono Prospero Colonna Duca di Trajetto, Fabrizio Colonna Duca di Tagliacozzo, Alfonso d'Aragona de' Piccolomini Duca d'Amalfi, Ferdinando Francesco Guevara Marchese di Pescara, Trojano Caracciolo Duca di Melfi, Alberigo Caraffa Duca d'Ariano, Andrea di Altavilla Duca di Termoli, Francesco de Ursinis Duca di Gravina, Petricono Caracciolo Conte di Polcino, Giovanni Tommaso Caraffa Conte di Madaloni, Trojano Cavaniglia Conte di Montella, Bellisario Acquaviva Conte di Nardò, Marcantonio Caracciolo Conte di Nicastro, Giovanni Caraffa Conte di Policastro, Vito Pisanello Segretario Regio, Antonio Grifone Regio Camerario, Roberto Bonifacio Milite, cum aliis Donnicellis Baronibus, et Militibus, etc. Ed il Guarino nel suo Diario rapporta, che sebbene fra questi Baroni in questo dì dell'incoronazione non vi fu nullo Barone di Casa Sanseverino, nulladimanco al convito che fece il Re il giorno seguente al Cardinal Legato ed a tutti i Baroni, vi si trovò il Principe di Bisignano.
Il Regno di Federico, Principe cotanto savio, sarebbe stato più lungo e placido, se la morte di Carlo VIII seguita in aprile del seguente anno 1498 non avesse ogni cosa conturbata e poste in su nuove pretensioni: poichè Carlo tornato in Francia, ancorchè alle volte pensasse al riacquistare il perduto Regno, ed incessantemente ne fosse stimolato da' suoi, nulladimeno l'età sua giovanile lo trasportava a' piaceri e sollazzi, e narra il Signor d'Argentone, che fermato nella città di Lione si diede tutto a tornei, giostre, e dopo il principio dell anno 1496, che si portò di là de' monti insino al 98, poco pensiero si prendeva delle cose d'Italia: nutriva sì bene egli desiderj grandi, ma bisognava pensare a mezzi, nel che egli non voleva fastidio, nè noia tale, che lo potessero divertire da' suoi spassi. Mostrò più premura di rappacificarsi col Re e Regina di Castiglia, i quali gli davano gran molestia per mare e per terra, e gli mandò Ambasciadori per trattare fra di loro una lega.
Sin da questo tempo in vita di Carlo si cominciarono i trattati col Re di Castiglia della divisione del Regno di Napoli a danno de' Principi d'Aragona, poichè narra il medesimo Argentone[216], essersi in nome del Re di Castiglia proposto, che dovessero insieme mover l'arme contra Italia a spese comuni, e che il Re di Spagna, insieme col Re di Francia, dovessero ambedue in persona porsi alla testa de' loro eserciti; e che gli Spagnuoli per ogni loro pretensione si contentavano, del Regno di Napoli aver quella parte ch'è più vicina alla Sicilia, cioè la Puglia e la Calabria, di cui n'aveano in potere quattro o cinque Fortezze, delle quali Cotrone n'era una città buona e forte; ed i Franzesi Napoli e tutto 'l rimanente. Ma eravi sospetto, che tutti questi trattati non si proponessero per frastornare la lega, e fossero tutte dissimulazioni del Re di Castiglia, il quale aspirava a cose maggiori, e non era verisimile, che dovessero venire nè personalmente alla guerra, nè volesse di pari portare col Re di Francia il premio e la spesa della guerra. Niente pertanto fu concluso, e toltone una brieve triegua, le cose rimasero così come erano prima. Ma l'improvvisa morte di Carlo cagionò nuovi movimenti. Nel fiore de' suoi anni, essendo in Ambuosa, mentre stava a vedere giuocare alle palle ne' fossi del castello, il settimo giorno d'aprile di quest'anno 1498 fu sorpreso da un accidente di gocciola, detta da' Fisici apoplesia, e cadendo all'indietro perdè la parola, ed in poche ore la vita. Non avendo lasciato figliuoli, il Duca di Orleans, a cui s'apparteneva, come a più vicino, succedè alla Corona di Francia e fu chiamato Luigi XII.
Ciascuno riputava, che la morte dovesse liberare Italia d'ogni timore della Francia, perchè non si credeva, che Luigi nuovo Re avesse nel principio del suo Regno ad implicarsi in guerre di qua da' monti Ma non rimasero gli animi degli uomini, consideratori delle cose future, liberi dal sospetto, che 'l mal differito non diventasse in progresso di tempo più importante e maggiore; poich'era pervenuto a tanto imperio un Re maturo d'anni, sperimentato in molte guerre, ordinato nello spendere e senza comparazione più dependente da se stesso, che non era stato l'antecessore; ed al quale non solo appartenevano, come a Re di Francia, le medesime ragioni al Regno di Napoli, ma ancora pretendeva, che per ragioni proprie se gli appartenesse il Ducato di Milano, per la successione di Madama Valentina sua avola, della quale ben a lungo scrissero il Giovio e 'l Guicciardino[217].
Divenuto pertanto Luigi Re di Francia, niun desiderio ebbe più ardente che d'acquistare, come cosa ereditaria il Ducato di Milano ed il Regno di Napoli. Però pochi dì dopo la morte del Re Carlo, con deliberazione stabilita nel suo Consiglio, s'intitolò non solamente Re di Francia, ma ancora per rispetto del Reame di Napoli, Re di Gerusalemme, e dell'una e l'altra Sicilia e Duca di Milano. E per far noto a ciascuno qual fosse l'inclinazione sua alle cose d'Italia, scrisse subito lettere congratulatorie della sua assunzione al Pontefice, a' Vineziani ed a' Fiorentini: e mandò uomini propri a dare speranza di nuove imprese, dimostrando espressamente prima d'ogni altro di voler fare l'impresa di Milano, indi quella di Napoli.
Trovò Luigi maggiori opportunità che non ebbe Carlo: poichè oltre di alcuni Principi odiosi allo Sforza, che ardentemente desideravano la sua ruina, il Pontefice Alessandro stimolato dagl'interessi propri, li quali conosceva non poter saziare stando quieta Italia, desiderava che le cose di nuovo si turbassero. E disposto di trasferir Cesare suo figliuolo dal Cardinalato a grandezze secolari, alzò l'animo a maggiori pensieri, e di stringersi perciò col Re di Francia, sperando di conseguir per mezzo suo non premj mediocri ed usitati, ma il Regno di Napoli. Non avea mancato Alessandro nella bassa fortuna de' Re aragonesi, innanzi che totalmente deliberasse d'unirsi col Re di Francia, di tentar tutti i modi per aprir la strada al Cardinal Borgia suo figliuolo al trono di Napoli; egli dimandò al Re Federico la sua figliuola per moglie del Cardinale, il quale era già apparecchiato di rinunziare alla prima occasione il Cardinalato, come già poi fece, e pretese che in dote se gli desse il Principato di Taranto, persuadendosi, che se 'l figliuolo grande d'ingegno e d'animo, s'insignorisse d'un membro tanto importante di quel Reame, potesse facilmente, avendo in matrimonio una figliuola regia, avere occasione con le forze e con le ragioni della Chiesa, spogliar del Regno il suocero debole di forze ed esausto di danari.
Federico intanto sentendo l'apparato di tanta guerra minacciata da Lodovico sopra il suo Regno, si vide posto in gravissime angustie; ma con tutto ciò, ancorchè grave gli fosse l'alienarsi dal Papa, ricusò sempre ostinatamente queste nozze; e benchè il Duca di Milano, a cui parimente dispiaceva la congiunzione del Papa col Re di Francia, avesse proccurato con ragioni efficaci persuaderlo a consentirvi; nondimeno Federico ricusò sempre, confessando, che l'alienazione dal Papa era per mettere in pericolo il suo Reame; ma che conosceva anche che 'l dare la figliuola col Principato di Taranto al Cardinal di Valenza, lo metteva parimenti in pericolo; e però de' due pericoli, volere più presto sottoporsi a quello, nel quale s'incorrerebbe più onorevolmente, e che non nascesse dà alcuna sua azione.
Intanto il Re di Francia, calato in Italia con felicissimi progressi, discacciò il Duca di Milano dalla sua sede; fecelo prigione, e nell'anno del giubileo 1500 fine del decimoquinto secolo s'impadronì interamente di quel Ducato.
Ma molto più importanti mutazioni si videro per noi nell'entrar del nuovo secolo; poichè Federico sgomentato della prigionia del Duca di Milano e della sua ruina, temendo non sopra di lui, Principe senza appoggio, debole di forze, ed esausto di denaro, cadessero le medesime sciagure, non sapeva ove volgersi per aiuti. Avea egli sì bene pensato di ricorrere agli aiuti del Turco, al quale avea con grandissima istanza dimandato soccorso, dimostrandogli, dalla vittoria del Re di Francia presente nascere quel medesimo, anzi maggior pericolo di quello, che avea temuto dalla vittoria del Re passato; ma i ricorsi riusciron vani e gli aiuti sperati mancarono: del Re di Spagna era entrato in gravissimi sospetti, poichè gli erano note le sue pretensioni sopra il Reame ed i suoi ardenti desiderj, che copriva con pazienza e simulazione spagnuola. Con tutto ciò la dura necessità lo costrinse a ricorrere agli aiuti di costui, il quale con incredibile celerità e contento rimandò tosto il Gran Capitano in Sicilia, perchè eseguisse i suoi disegni. Ma tuttavia temendone, si narra ancora, che nell'istesso tempo mandasse il Bernaudo al Re di Francia ad offerirgli, pur che lo lasciasse regnare, di render il Regno a lui tributario, ed egli far suo uom ligio.
Ma Lodovico avendo voltato tutti i suoi pensieri all'impresa del Regno, alla quale temeva non se gli opponesse il Re di Spagna, riputò meglio di rinovare con Ferdinando quelle stesse pratiche cominciate a tempo del Re Carlo della divisione del Regno. Ferdinando Re di Spagna, come si è veduto nei precedenti libri, non meno che suo padre Giovanni, pretendeva il Regno di Napoli a se appartenere, non altrimenti che il Regno di Sicilia, di cui era in possesso; poichè se bene Alfonso I Re d'Aragona l'avesse acquistato per ragioni separate dalla Corona d'Aragona, e però come di cosa propria ne avesse disposto in Ferdinando suo figliuolo naturale, nondimeno in Giovanni suo fratello, che gli succedette nel Regno d'Aragona, ed in Ferdinando figliuolo di Giovanni, era stata insino allora querela tacita, che avendolo Alfonso conquistato con l'arme e co' danari del Reame d'Aragona, apparteneva legittimamente a quella Corona. Questa querela avea Ferdinando lungo tempo tenuta coperta con astuzia e flemma spagnuola, non solo non pretermettendo con Ferdinando I, e poi con gli altri che succederono a lui, gli uffici debiti tra parenti, ma eziandio augumentandoli con vincolo di nuova affinità; poichè a Ferdinando I dette per moglie Giovanna sua sorella, e consentì poi, che Giovanna figliuola di costei si maritasse a Ferdinando II, ma con tutto ciò non avea conseguito, che la cupidità sua non fosse stata molto tempo prima nota a questi Principi. Concorrendo adunque in Ferdinando, e nel Re di Francia la medesima inclinazione, l'uno per rimoversi gli ostacoli e le difficoltà, l'altro per acquistare parte di quello, che lungamente avea desiderato, poichè a conseguire il tutto non appariva per allora alcuna occasione, facilmente convennero per la divisione. Il Giovio[218] aggiunge, che Ferdinando venne ancora a tal partito, perchè ebbe molto a male, che Federico pensasse di farsi uom ligio e tributario de' Franzesi a lui cotanto nemici. Fu per tanto infra di lor conchiuso e pattuito.
Che da amendue si dovesse assaltare in un tempo medesimo il Reame di Napoli, il quale tra loro si dividesse in questo modo.
Che al Re di Francia toccasse la città di Napoli, la città di Gaeta e tutte le altre città e terre di tutta la provincia di Terra di Lavoro: tutto l'Apruzzo e la metà dell'entrate della dogana delle pecore di Puglia: avesse i titoli regj, in guisa che oltre di nominarsi Re di Francia e Duca di Milano, si chiamasse ancora Re di Napoli e di Gerusalemme.
Che al Re di Spagna Ferdinando si dasse il Ducato di Calabria e tutta la Puglia, e l'altra metà delle entrate della dogana, col titolo ancora di Duca di Calabria e di Puglia.
Che ciascuno si conquistasse da se stesso la sua parte, non essendo l'altro obbligato ad aiutarlo, ma solamente non impedirlo; e sopra tutto convennero, che questa concordia si tenesse segretissima sin a tanto che l'esercito, che 'l Re di Francia mandava a quell'impresa, fosse arrivato a Roma, al qual tempo gli Ambasciadori d'amendue, allegando essersi fatta per beneficio della cristianità questa convenzione, e per assaltare gl'Infedeli, unitamente ricercassero il Pontefice, che concedesse l'investitura secondo la divisione convenuta, investendo Ferdinando sotto il titolo di Duca di Puglia e di Calabria, ed il Re di Francia sotto titolo non più di Sicilia, ma di Re di Gerusalemme e di Napoli. L'intero trattato di questa pace e confederazione tra Luigi XII Re di Francia, e Ferdinando ed Isabella Re di Spagna che porta la data in Granata de' 11 novembre del 1500 si legge nel primo tomo della raccolta di tutti i trattati delle paci, tregue ec. fatte da' Re di Francia con altri Principi di Federico Lionard, impresso a Parigi l'anno 1693, ed alcuni capitoli di quello si leggono parimente presso Camillo Tutini[219] nel trattato degli Ammiranti del Regno; dove è degno da notare, che questi due Re, oltre delle loro pretensioni, che dicono avere ciascuno sopra il Reame, e che a niun altro poteva appartenere se non ad uno di essi, allegano ancora un'altra cagione, onde furono mossi a tal divisione, ed a discacciare Federico dal Regno, che fu, perchè era a tutto il Mondo notissimo, Regem Fredericum saepe Turcarum Principem christiani nominis hostem acerrimum, Literis, Nunciis, ac Legatis ad arma contra populum Christianum capessenda sollicitasse, ac in praesentiarum sollicitare, qui ad ejus maximam instantiam cum ingenti classe, ac validissimo terrestri exercitu ad christianorum terras invadendas, vastandasque jam movisse intelligitur: igitur tam imminenti periculo, ac damno Christianae Reipublicae obviari volentes etc.
Così i Principi quando loro veniva in acconcio proccuravano coprire la loro immoderata sete di dominare col manto della religione, per coonestare al Mondo, e rendere meno biasimevoli le loro intraprese. Pure Carlo VIII dipinse l'impresa di Napoli col colore di religione, protestando che i suoi sforzi erano per conquistar quel Regno, non ad altro fine che per passare in Macedonia contra al Turco. Nel che Ferdinando il Cattolico fu eccellentissimo sopra tutti gli altri, il quale s'ingegnava coprire quasi tutte le sue cupidità sotto colore d'onesto zelo della religione, per la qual cosa ne acquistò il soprannome di Cattolico, e n'avrebbe anche dal Papa ottenuto quello di Cristianissimo, se non si fossero opposti i Cardinali franzesi per non soffrire il torto che si sarebbe fatto al loro Re[220]. E narra Bacone di Verulamio nell'istoria dei Regno d'Errico VII Re d'Inghilterra, che Ferdinando quando ricuperò Granata, da molti secoli posseduta da' Mori, ne diede con sue lettere avviso a quel Re con tanta affettazione di zelo di religione, che sino gli scrisse le solennità sagre che si celebrarono nel dì, ch'egli prese il possesso di quella città.
Fermata che fu da' due Re questa capitolazione, il Re di Francia cominciò scopertamente a preparare l'esercito, e destinò il Generale Obignì con mille lance e diecemila fanti all'impresa di Napoli, il quale già a gran giornate s'incamminava a questa volta. L'infelice Principe Federico, che per essersi la capitolazione tenuta segretissima, niente ne sapeva, sentendo questi movimenti de' Franzesi, sollecitava il G. Capitano (il quale colla sua armata era fermato in Sicilia sotto simulazione di dargli aiuto) che tosto venisse a Gaeta; ed intanto niente sapendo, che le armi Spagnuole sotto spezie d'amicizia fossero preparate contra lui, gli avea messe in mano alcune terre di Calabria, che Consalvo, sotto colore di volerle per sicurtà delle sue genti, gli avea dimandate; ma la verità era, che le richiese per farsi più facile l'acquisto della sua parte. Sperava per ciò Federico, che congiunto che fosse Consalvo con l'esercito suo, e coll'aiuto de' Colonnesi, con tutto che gli mancassero gli aiuti del Turco, di potere in campagna resistere all'esercito franzese, e per ciò avendo prima mandato Ferdinando suo primogenito ancora fanciullo a Taranto, più per sicurtà del medesimo, se caso avverso succedesse, che per difesa di quella città, si fermò egli con l'esercito suo a S. Germano, ove aspettando gli aiuti degli Spagnuoli, e le genti che conducevano i Colonnesi, sperava con più felice successo d'aver egli a difendere l'entrata del Regno, che non avea nella venuta di Carlo fatto Ferdinando suo nipote. Ciascuno riputava che questa impresa avesse ad essere principio di grandissime calamità in Italia per la contenzione acerbissima che vi dovea nascere fra Principi sì potenti; ma si dileguò ogni timore, subito che l'esercito franzese fu giunto in Terra di Roma, perchè gli Oratori franzesi e spagnuoli entrati insieme nel Concistoro, notificarono al Pontefice ed a' Cardinali la lega e la divisione del Regno fatta tra loro Re, per potere attendere (come dicevano) all'espedizione contra i nemici della Religion cristiana, e gli dimandarono per ciò l'investitura secondo il tenor della convenzione ch'erasi fatta.
Papa Alessandro non men per odio concepito contra Federico per le niegate nozze, che per la confederazione pattuita col Re di Francia, senza dilazione alcuna concedè tosto l'investitura, e sotto i 25 giugno di quest'anno 1501 ne spedì Bolla che si legge presso il Chioccarelli[221], con la quale privando il Re Federico del Regno di Napoli, e dividendo detto Regno in due parti secondo la convenzione pattuita, d'una ne investì Lodovico Re di Francia con titolo di Re di Napoli e di Gerusalemme, e dell'altra Ferdinando il Catolico, ed Elisabetta sua moglie Re di Spagna, con titolo di Duca e Duchessa di Calabria e di Puglia; concedendo di vantaggio nel seguente anno ai detti Re di Spagna, che non fossero tenuti, nè essi nè loro eredi e successori venire di persona a dar il giuramento al Pontefice romano per la parte del Regno a lor toccata, ma che lo dassero in mano di persona che sarebbe destinata dal detto Pontefice[222].
(Vien'anche rapportato questo Breve d'Alessandro, spedito in Roma nel mese di maggio del 1505, dove rimette a Ferdinando ed Isabella il doversi portare personalmente a dargli il giuramento di fedeltà, da Lunig p. 1335.)
Narra il Guicciardino[223], che non dubitandosi più quale avesse da essere il fine di questa guerra, non cessavano gli uomini prudenti di sommamente maravigliarsi, come il Re di Francia avesse voluto più tosto, che la metà di questo Regno cadesse nelle mani del Re di Spagna, e introdurre in Italia, (dove prima era egli solo arbitro delle cose) un Re suo emolo, al quale potessero ricorrere tutti i nemici mal contenti di lui, e congiunto oltra questo al Re de' Romani con interessi molto stretti; anzi che comportare, che il Re Federico restasse padrone del tutto, riconoscendolo da lui, e pagandogliene tributo, come per vari mezzi avea cercato d'ottenere.
E dall'altra parte non era nel concetto universale meno desiderata l'integrità e la fede di Ferdinando, che la prudenza di Luigi, maravigliandosi tutti gli uomini, che per cupidità d'ottenere una parte del Reame, si fosse congiurato contra ad un Re del suo sangue, e che per potere più facilmente sorprenderlo, l'avesse sempre pasciuto di promesse false d'aiutarlo, oscurando lo splendore del titolo di Re Cattolico pochi anni innanzi conseguito dal Pontefice, e quella gloria, con la quale era stato esaltato insin al cielo il suo nome, per avere non meno per zelo della religione, che per proprio interesse, cacciati i Mori dal Reame di Granata.
Alle quali accuse date all'uno ed all'altro Re, non si rispondeva in nome del Re di Francia, se non che la possanza franzese era bastante a dar rimedio, quando fosse il tempo, a tutti i disordini. Ma in nome di Ferdinando si diceva, che se bene da Federico gli fosse stata data giusta cagione di moversi contra lui, per sapere, ch'egli molto prima avea tenute pratiche segrete col Re di Francia in suo pregiudizio; nondimeno non esser da ciò stato spinto, ma dalla considerazione, che avendo quel Re deliberato di fare ad ogni modo l'impresa del Reame di Napoli, si riduceva in necessità, o di difenderlo o d'abbandonarlo: pigliando la difesa, era principio d'incendio sì grave, che sarebbe stato molto pernizioso alla Repubblica cristiana, e massimamente trovandosi l'arme de' Turchi sì potenti contra i Vineziani per terra e per mare; abbandonandolo, conoscere, che il Regno suo di Sicilia restava in grave pericolo, e senza questo risultare in danno suo notabile, che il Re di Francia occupasse il Regno di Napoli appartenente a se giuridicamente, e che gli poteva anche pervenire con nuove ragioni, in caso mancasse la linea di Federico; laonde in queste difficoltà aver eletto la via della divisione, con speranza, che per li cattivi portamenti de' Franzesi, gli potesse in brieve tempo pervenire medesimamente la parte loro; il che quando succedesse, secondo che lo consigliasse il rispetto dell'utilità pubblica, alla quale sempre più che all'interesse proprio avea riguardato, o lo riterrebbe per se, o lo restituirebbe a Federico, anzi più presto a' suoi figliuoli, perchè non negava d'aver quasi in orrore il suo nome, per quello ch'e' sapea che insino innanzi, che 'l Re di Francia pigliasse il Ducato di Milano, avea trattato co' Turchi[224].
La nuova di questa concordia spaventò in modo Federico che ancor che Consalvo, mostrando di disprezzar quello che s'era pubblicato in Roma, gli promettesse con la medesima efficacia di andare a suo soccorso, si partì dalle prime deliberazioni, e si ritirò da S. Germano verso Capua; e Consalvo avendo inteso che l'esercito franzese avea passato Roma, scoperte le sue commessioni, mandò a Napoli sei galee per levarne le due Regine vecchie, sorella l'una, e l'altra nipote del suo Re. Allora Federico deliberato di ridursi alla guardia delle Terre, intesa la ribellione di S. Germano e degli altri luoghi vicini, determinò di fare la prima difesa nella città di Capua. A guardia di Napoli lasciò Prospero Colonna, ed egli col resto della gente si fermò in Aversa. Ma Obignì non trovando alcuna resistenza ne' luoghi dove passava, occupò tutte le Terre circostanti alla via di Capua; onde Federico si ritirò in Napoli, abbandonando Aversa, la quale insieme con Nola, e molti altri luoghi, si dette a' Franzesi. Capua fu presa per assalto, ed al 25 luglio di quest'anno 1501 fu saccheggiata da' Franzesi, nella quale diedero l'ultime pruove della loro crudeltà, avarizia e libidine. Con la perdita di Capua fu troncata ogni speranza di poter più difendere cos'alcuna. Si arrese senza dilazione alcuna Gaeta, ed essendo venuto Obignì con l'esercito ad Aversa, Federico abbandonata la città di Napoli, la quale s'accordò subito, con condizione di pagare sessantamila ducati a' vincitori, si ritirò in Castel Nuovo; e pochi giorni dapoi convenne con Obignì di consegnargli fra sei dì tutte le Terre e le Fortezze, che si tenevano per lui, della parte, la quale, secondo la divisione fatta, apparteneva al Re di Francia, ritenendosi solamente l'Isola d'Ischia per sei mesi: nel quale spazio di tempo gli fosse lecito d'andare in qualunque luogo gli paresse, eccetto per lo Regno di Napoli, e di mandare a Taranto cento uomini d'arme, potesse cavare qualunque cosa di Castel Nuovo, e dal Castel dell'Uovo, eccetto l'artiglierie che vi rimasero del Re Carlo: fosse data venia a ciascuno delle cose fatte da poi che Carlo acquistò Napoli, ed i Cardinali Colonna e d'Aragona godessero l'entrate ecclesiastiche che aveano nel Regno.
Si videro veramente nella Rocca d'Ischia accumulate con miserabile spettacolo tutte le infelicità della progenie di Ferdinando il vecchio, perchè oltre Federico spogliato nuovamente di Regno sì preclaro, ansioso ancora più della sorte di tanti figliuoli piccoli, e del primogenito rinchiuso in Taranto che della propria; era nella Rocca Beatrice sua sorella, la quale, avendo, dopo la morte di Mattia Re d'Ungheria suo marito, avuta promessa di matrimonio da Uladislao Re di Boemia col fine d'indurla a dargli aiuto a conseguire quel Regno, era stata da lui, da poi ch'ebbe ottenuto il desiderio suo, ingratamente ripudiata e celebrato con dispensa di Alessandro Pontefice un altro matrimonio: eravi ancora Isabella già Duchessa di Milano, non meno infelice di tutti gli altri, essendo stata quasi in un tempo medesimo privata del marito, dello Stato e dell'unico suo figliuolo.
Ma Federico risoluto, per l'odio estremo, che e' portava al Re di Spagna, di rifuggire più tosto nelle braccia del Re di Francia, mandò al Re a dimandargli salvocondotto, ed ottenutolo, lasciati tutt'i suoi nella Rocca d'Ischia, sotto il governo del Marchese del Vasto, se n'andò con cinque galee sottili in Francia. Consiglio, come saviamente dice il Guicciardino[225], certamente infelice; perchè se fosse stato in luogo libero, avrebbe forse nelle guerre che poi nacquero tra i due Re, avute molte occasioni di ritornare nel suo Reame; ma eleggendo la vita più quieta, e forse sperando questa essere la via migliore, accettò dal Re il partito di rimanere in Francia, dandogli il Re la Ducea d'Angiò, e tanta provvisione che ascendeva l'anno a trentamila ducati; ond'egli comandò a coloro che avea lasciati al governo d'Ischia che la dessero al Re di Francia.
Dall'altra parte il Gran Capitano nel tempo medesimo ora passato in Calabria, dove benchè quasi tutto il paese desiderasse più presto il dominio dei Franzesi; nondimeno non avendo chi gli difendesse, tutte le Terre lo riceverono volontariamente, eccetto Manfredonia e Taranto; ma avuta Manfredonia con la Fortezza per assedio, si ridusse col campo intorno a Taranto, dove appariva maggior difficoltà; nondimeno l'ottenne finalmente per accordo, perchè il Conte di Potenza D. Giovanni di Guevara, sotto alla cui custodia era stato dato dal Padre il piccolo Duca di Calabria, e Fra Lionardo Napoletano, Cavalier di Rodi, Governadore di Taranto, non vedendo speranza di poter più difendersi, convennero di dargli la città e la Rocca, se in tempo di quattro mesi non fossero soccorsi, ricevuto da lui giuramento solennemente in su l'Ostia consegrata di lasciar libero il Duca di Calabria; il quale avea segreto ordine dal padre di andarsene, quando più non si potesse resistere alla fortuna, a ritrovarlo in Francia. Ma nè il timor di Dio, nè il rispetto dell'estimazione degli uomini poterono più che l'interesse di Stato; perchè Consalvo giudicando che potrebbe importare assai il non essere in podestà del Re di Spagna la persona del Duca, sprezzato il giuramento, non gli dette facoltà di partirsi, ma come prima potè lo mandò bene accompagnato in Ispagna, dove dal Re accolto benignamente, fu tenuto appresso a lui nelle dimostrazioni estrinseche con onori quasi regj, ma in realtà in una splendida ed onorata prigione[226].
Ecco, come, discacciato Federico, fu partito il Regno in due parti, e con nuova politia governato dagli Ufficiali di due Re. In Napoli il Re di Francia vi teneva per Vicerè Luigi d'Armignac Duca di Nemors il quale reggeva Terra di Lavoro e l'Apruzzo, e tutta quella parte a lui spettante. In Calabria e Puglia, province alla Sicilia vicine, governava il Gran Capitano, come Vicerè e Gran Plenipotenziario di Ferdinando Re di Spagna.
CAPITOLO IV. Origine delle discordie nate tra Spagnuoli e Franzesi, e come finalmente cacciati i Franzesi, tutto il Regno cadesse sotto la dominazione di Ferdinando il Cattolico.
Non così subito, in vigor della convenzione pattuita, si vide diviso il Regno tra questi due potentissimi Re e due emule Nazioni, che in questo stesso anno 1501 sursero infra di loro gravi discordie intorno al prefiggere i termini della accordata divisione. L'origine di queste contese nacque, perchè nella divisione non furono espressi bene i confini, ed i termini delle province; in quella non si espresse, se non generalmente, che al Re di Francia fosse aggiudicata Terra di Lavoro ed Apruzzi, ed al Re di Spagna la Puglia e la Calabria. Vi erano alcune Province come Capitanata, Contado di Molise, e Val di Benevento, Principato e Basilicata, le quali chi pretendeva che dovessero comprendersi nella sua metà, e chi nell'altra parte a se appartenente.
S'accrebbero le discordie in questo stesso anno 1501 per l'esazione della dogana del passaggio delle pecore in Puglia, nella provincia di Capitanata[227]. I Capitani franzesi pretendevano, che questa Provincia dovesse appartenere ali Apruzzi, fondando questa lor pretensione in una ragione, secondo che la rapporta il Guicciardino, affatto vana, cioè di non doversi stare alla moderna divisione fatta da Alfonso, di cui a bastanza si è discorso ne' precedenti libri, ma doversi nel dividere aver rispetto all'antica. Allegavano, che Capitanata essendo contigua all'Apruzzi, e divisa dal resto della Puglia dal fiume dell'Osanto, già detto Aufido, dovea a loro aggiudicarsi: o che non si comprendesse sotto alcuna delle quattro Province nominate nella divisione, o che più tosto fosse parte dell'Apruzzi, che della Puglia. La premura, che ne mostravano era grandissima, poichè non gli moveva tanto quello, che in se importasse il paese, quanto perchè non possedendo Capitanata, essendo privato l'Apruzzi e Terra di Lavoro de' frumenti, che nascono in Capitanata, potevano ne' tempi sterili esserne facilmente quelle province ridotte in grandissima estremità, qualunque volta dagli Spagnuoli fosse proibito loro il trarne dalla Puglia e dalla Sicilia. Il Guicciardino rapporta ancora, che per altra cagione loro premeva aver quel paese, perchè non possedendolo, non apparteneva a loro parte alcuna dell'entrate della dogana delle pecore, membro importante dell'entrate del Regno. Ma se è vera la carta rapportata da Federico Lionard e dal Tutino di questa divisione, com'è verissima, si vede che questa cagione non potè allora muovergli; poichè in quella fu espressamente convenuto, che queste rendite dovessero per metà fra di loro dividersi; e l'istesso Guicciardino confessa, che in questo primo anno per togliere l'altercazioni, erano stati contenti di partire in parte uguale l'entrate della Dogana, la quale divisione, com'egli crede, fu in vigor di questa concordia, non già della prima convenzione; tanto che nel seguente anno, non contenti della medesima divisione, ne avea ciascuno occupato il più che avea potuto.
Ma in contrario, per parte de' Capitani Spagnuoli, forse con maggior ragione, s'allegava non poter Capitanata appartenere a' Franzesi, perchè l'Apruzzi terminando ne' luoghi alti, non si stende nelle pianure, e perchè nelle differenze de' nomi e confini delle province, s'attende sempre all'uso recente; s'aggiungeva che sebbene Capitanata fosse contigua alli Apruzzi, e divisa dal resto della Puglia dal fiume Ofanto, nulladimanco la Puglia essere stata sempre divisa in tre parti, cioè in Terra d'Otranto, Terra di Bari e Capitanata; onde dovea riputarsi questa compresa sotto la Puglia, una delle quattro province nominate nella convenzione.
S'aggiunsero da poi nuove contenzioni, nutrite insino allora più per volontà de' Capitani che per consentimento de' Re; poichè gli Spagnuoli pretendevano che il Principato e Basilicata si comprendesse nella Calabria; e che il Val di Benevento che tenevano i Franzesi, fosse parte di Puglia: e però mandarono Ufficiali a tenere la giustizia nella Tripalda, vicina a due miglia ad Avellino, dove dimoravano gli Uffiziali de' Franzesi.
Queste dissensioni essendo moleste a' principali Baroni del Regno, per mezzo delle loro interposizioni proccurarono che si componessero da Consalvo, e dal Duca di Nemors Vicerè del Re di Francia; ed essendo venuti per opera loro il Duca a Melfi e Consalvo ad Atella, Terra del Principe di Melfi, dopo le pratiche di qualche mese, nelle quali anche i due Capitani parlarono insieme; non trovandosi tra loro forma di concordia, convennero aspettare la determinazione de' loro Re, e che in questo mezzo non s'innovasse cosa alcuna. Ma il Vicerè franzese insuperbito, perchè era molto superiore di forze, avendo pochi dì da poi fatta altra dichiarazione, protestò la guerra a Consalvo, in caso non rilasciasse subito Capitanata: e da poi immediatamente fece correre le genti sue alla Tripalda, dalla quale incursione che fu fatta il decimo nono dì del mese di giugno di quest'anno 1501 ebbe principio la guerra, la quale continuamente proseguendo, i Franzesi cominciarono senza rispetto ad occupar per forza in Capitanata ed altrove le Terre che si tenevano per gli Spagnuoli: le quali cose non solamente non furono emendate dal loro Re; ma avendo già notizia che il Re di Spagna era determinato a non gli cedere Capitanata, voltato con tutto l'animo alla guerra, mandò loro in soccorso per mare duemila Svizzeri, e fece condurre agli stipendi suoi i Principi di Salerno e di Bisignano, ed alcuni altri de' principali Baroni. Venne, oltra questo, il Re a Lione per potere di luogo più propinquo fare le provvisioni necessarie all'acquisto di tutto il Reame, al quale, non contento de' luoghi della differenza, già manifestamente aspirava, con intenzione di passare, se bisognasse, in Italia.
Portatosi con effetto Re Luigi a Milano, rivolse tutti i suoi pensieri alle cose di Napoli, le quali pareva che insino allora succedessero prosperamente, e si sperava per l'avvenire maggiore prosperità, perchè il Vicerè Duca di Nemors, che avea già, toltone Manfredonia e S. Angelo, occupata tutta Capitanata, coi nuovi soccorsi avuti dal Re, avea occupate molte terre di Puglia e di Calabria; ed eccetto Barletta, Andria, Gallipoli, Taranto, Cosenza, Gerace, Seminara e poche altre città vicine al mare, tutto era passato sotto le bandiere de' Franzesi: tanto che il Gran Capitano, trovandosi molto inferiore di gente, si ridusse coll'esercito in Barletta senza danari, e con poca vettovaglia.
Queste prosperità, mentre che il Re era in Italia, non solo lo fecero negligente a continuare le debite provisioni, nelle quali continuando sollecitamente avrebbe facilmente cacciati i nemici da tutto il Regno, ma come se l'impresa fosse finita lo fecero deliberare di tornarsene in Francia: onde le cose de' Franzesi dopo la sua partita d'Italia, non procederono più così prosperamente; poichè essendo passato da Messina in Calabria D. Ugo di Cardona con 800 fanti spagnuoli; e poco da poi arrivate di Spagna a Messina nuove truppe guidate da Emmanuele di Benavida, col qual passò allora in Italia Antonio di Leva, che salito poi di privato soldato per tutti i gradi militari al Capitanato Generale, acquistò in Italia molte vittorie; cominciarono gli Spagnuoli a prender vigore, e venutosi a vari fatti d'armi, ne' quali gli Spagnuoli rimasero superiori, sempre più andavan riprendendo animo, ed all'incontro s'andava diminuendo l'ardire de' Franzesi.
Ma assai più si videro costernati e pieni di rossore, quando per alcune parole ingiuriose vicendevolmente dette da' Franzesi contro agl'Italiani, e da questi contra quegli, s'accesero gli animi in guisa, che ciascuno di loro per sostenere l'onore della propria Nazione, si convennero, che in campo sicuro, a battaglia finita, combattessero insieme tredici uomini d'arme franzesi e tredici uomini d'arme italiani. Fu eletto per luogo del combattimento una campagna tra Barletta, Andria e Quarato. Ciascuno de' Capitani confortava i suoi; ma come fu dato il segno, combattendo ciascuno con grandissima animosità ed impeto, finalmente i Franzesi furon vinti, e chi da uno e chi da un altro degli Italiani furono fatti tutti prigioni; questo abbattimento de' Franzesi cotanto ben descritto dal Guicciardino[228] e dal Giovio[229], siccome riempì di coraggio gli Italiani, che militavano sotto il G. Capitano, così è incredibile quanto animo togliesse all'esercito franzese e quanto n'accrescesse all'esercito spagnuolo, facendo presagio da questa isperienza di pochi del fine universale di tutta la guerra.
Il Re di Francia Luigi vedendo per questi progressi degli Spagnuoli, che non vi era speranza di liberarsi da questa guerra, se non tentando con varie pratiche l'animo del Re di Spagna, di ridurlo ad una pace, non cessava di proccurarla; e mentre che tra l'uno e l'altro Re erano questi trattati, s'offerse assai opportuna congiuntura di ridurle ad effetto.
Filippo figliuolo di Massimiliano Imperadore, Arciduca d'Austria, Principe di Fiandra e più prossimo alla successione de' Regni di Spagna, per Giovanna sua moglie (unica figliuola, ed erede di Ferdinando e di Elisabetta) essendo dimorato lungamente in Spagna tra le carezze de' suoceri, deliberò tornare in Fiandra, e far il viaggio per terra traversando la Francia: e benchè i suoi suoceri glielo sconsigliassero, nulladimanco stando sicuro della fede e lealtà del Re Luigi, volle intraprendere quel cammino: e con tal occasione venendo sollecitato dal Re di Francia per la pace, proccurò, che i suoi suoceri gli dassero ampia facoltà e libero mandato di conchiuderla nel passaggio di Francia con quel Re; ed oltre a ciò, perchè fosse stabile ciò, ch'egli avrebbe conchiuso, proccurò che fosse accompagnato da due loro Ambasciadori, senza la participazione de' quali non voleva egli nè trattare, nè conchiudere cos'alcuna. Partito Filippo di Spagna, ed entrato in Francia, fu incredibile con quanta magnificenza ed onore fosse per ordine del Re ricevuto per tutto il Regno di Francia, non solo per desiderare di farselo propizio nella pratica dell'accordo, ma per conciliarsi per ogni tempo l'animo di quel Principe giovane, ed in espettazione di somma potenza, perchè era il più prossimo alla successione dell'Imperio romano, e de' Reami di Spagna con tutte le loro dipendenze: furono colla medesima liberalità raccolti, e fatti molti donativi a quegli ch'erano grandi appresso a lui: alle quali dimostrazioni corrispose Filippo con magnanimità reale; perchè avendo il Re, oltre la fede datagli, che e' potesse sicuramente passare per Francia, mandato per sua sicurtà a far dimorare in Fiandra, sin ch'egli fosse passato, alcuni de' primi Signori del Reame, Filippo come fu entrato in Francia, per dimostrare di confidarsi in tutto della sua fede, ordinò che gli Statichi fossero liberati. Nè a queste dimostrazioni d'amicizia tanto grandi succederono, per quanto fu in loro, effetti minori, perchè convenutisi a Bles, dopo la discussione di qualche giorno, conchiusero la pace con queste condizioni:
Che il Reame di Napoli si possedesse secondo la prima divisione: ma lasciarsi in deposito a Filippo le province, per la differenza delle quali s'era venuto alle armi.
Che fin dal presente Carlo figliuolo di Filippo e Claudia figliuola del Re, tra' quali si stabiliva lo sposalizio altre volte trattato, s'intitolassero Re di Napoli e Duchi di Puglia e di Calabria.
Che la parte che toccava al Re di Spagna, fosse in futuro governata dall'Arciduca Filippo, quella del Re di Francia, da chi deputasse il Re, ma tenersi l'una e l'altra sotto nome de' due fanciulli, a' quali, quando consumavano il matrimonio, il Re consegnasse per dote della figliuola la sua porzione.
Fu questa pace, secondo il Guicciardino, pubblicata nella chiesa Maggiore di Bles, e confermata con giuramento del Re e di Filippo, come Proccuratore de' Re suoi suoceri: ma il trattato di questa pace che tutto intero si legge nel secondo tomo di Federico Lionard della sua Raccolta, porta la data di Lione a' 5 aprile del 1502. Pace certamente, se avesse avuto effetto, di grandissimo momento, perchè si sarebbero posate le armi tra' Re tanto potenti.
(Gli Articoli concessi in questa Pace si leggono in Lingua franzese presso Lunig tom. 2, pag. 1331 ed hanno la stessa data de' 5 aprile 1502).
Ma avendo subito il Re e Filippo mandato nel Regno di Napoli ad intimarla ed a commandare a' Capitani che insino a tanto venisse la ratifica de' Re di Spagna, possedendo come possedevano, s'astenessero dall'offese, offerse il Capitan Franzese d'ubbidire al suo Re; ma lo Spagnuolo o perchè più sperasse nella vittoria o perchè l'autorità sola di Filippo non gli bastasse, rispose, che infino non avesse il medesimo comandamento da' suoi Re, non poteva omettere di fare la guerra. Così Consalvo che, vedendo ora i suoi vantaggi, non gli parve trascurar le opportunità, sperando, prima che venisse la commessione del suo Re, aver fatto tanto acquisto che non si sarebbe la pace ratificata, proseguì con maggior fervore che mai a molestare i Franzesi, co' quali venuto a battaglia, interamente li ruppe e disperse, talchè abbandonando ogni cosa, si ritirarono tra Gaeta e Trajetto. Ottenuta Consalvo tanta vittoria, non allentando il favor della fortuna, si dirizzò coll'esercito a Napoli, ove come cominciò ad accostarsi, i Franzesi che v'erano dentro si ritirarono in Castel Nuovo. I Napoletani abbandonati mandarono Ambasciadori ad incontrar Consalvo, ed a pregarlo che li accettasse in fede: il che egli fece molto volentieri sottoscrivendo i privilegi dei Re passati, ed il quartodecimo giorno di maggio di quest'anno 1503 entrò in Napoli, ove fu ricevuto con gran pompa e giubilo, ed il giorno seguente si fece giurar fedeltà in nome del Re Ferdinando: e nel medesimo tempo l'istesso fecero Aversa e Capua.
Pervenute al Re di Francia le novelle di tanto danno in tempo che più poteva in lui la speranza della pace che i pensieri della guerra, commosso gravissimamente per la perdita d'un Reame tanto nobile, per la ruina degli eserciti suoi, ne' quali era tanta nobiltà e tanti uomini valorosi, per li pericoli, ne' quali rimanevano l'altre cose che in Italia possedeva; come ancora per riputarsi grandissimo disonore d'essere vinto da' Re di Spagna, senza dubbio meno potenti di lui; e sdegnato sommamente d'essere stato ingannato sotto la speranza della pace, deliberava d'attendere con tutte le forze sue a ricuperare l'onore ed il Regno perduto, e vendicarsi con l'armi di tanta ingiuria. Ma innanzi procedesse più oltre si lamentò efficacissimamente con l'Arciduca, che ancora non era partito da Bles, dimandandogli facesse quella provvisione ch'era conveniente, se voleva conservare la sua fede ed il suo onore, il quale essendo senza colpa, ricercava con grandissima istanza i suoceri del rimedio: dolendosi soprammodo che queste cose fossero così succedute con tanta sua infamia nel cospetto di tutto il Mondo.
Ferdinando innanzi alla vittoria avea con varie scuse differito di mandare la ratifica della pace, allegando, ora non trovarsi tutti due, egli e la Regina Elisabetta sua moglie in un luogo medesimo, com'era necessario, avendo a fare congiuntamente l'espedizione; ora l'essere occupati molto in altri negozi. Eran essi mal soddisfatti della pace, o perchè il genero avesse trapassate le loro commessioni, o perchè dopo la partita sua di Spagna avessero conceputa maggiore speranza dall'evento della guerra; o perchè fosse paruto loro molto strano, ch'egli avesse convertita in se medesimo la parte loro del Reame, e senza certezza alcuna, per l'età tanto tenera degli Sposi, che avesse ad avere effetto il matrimonio del figliuolo, e nondimeno non negando, anzi sempre dando speranza di ratificare, ma differendo, si avevano riservato più tempo che potevano a pigliare consiglio secondo i successi delle cose; ma intesa la vittoria de' suoi, deliberati di disprezzare la pace fatta, allungavano nondimeno il dichiarare all'Arciduca la loro intenzione; perchè quanto più tempo ne stasse ambiguo il Re di Francia, tanto più tardasse a fare nuove provvisioni per soccorrere Gaeta e l'altre Terre che gli restavano; ma stretti finalmente dal genero, determinato di non partire altrimente da Bles, vi mandarono nuovi Ambasciadori, i quali dopo aver trattato qualche giorno, manifestarono finalmente non essere la intenzione de' loro Re di ratificare quella pace, la quale non s'era fatta in modo che fosse per loro, nè onorevole, nè sicura; anzi venuti in controversia con l'Arciduca, gli dicevano essersi i suoceri maravigliati assai, ch'egli nelle condizioni della pace avesse trapassata la loro volontà, perchè, benchè per onor suo il mandato fosse libero ed amplissimo, egli si aveva a riferire alle istruzioni ch'erano state limitate. Alle quali cose rispondeva Filippo non essere state meno libere le istruzioni che 'l mandato; anzi avergli nella partita sua efficacemente detto l'uno e l'altro de' suoceri che desideravano e volevano la pace per mezzo suo; ed avergli giurato in sul libro dell'Evangelio ed in su l'Immagine di Cristo Crocifisso che osserverebbono tutto quello che da lui si concludesse; e nondimeno non avere voluto usare sì ampia e libera facoltà, se non con partecipazione ed approvazione de' due uomini che seco aveano mandati.
Proposero gli Oratori con le medesime arti nuove pratiche di concordia, mostrandosi inchinati a restituire il Regno al Re Federico: ma conoscendosi essere cose non solo vane ma insidiose, perchè tendevano ad alienare dal Re di Francia l'animo di Filippo, intento a conseguire quel Reame per lo figliuolo; il Re proprio in pubblica audienza fece loro risposta, denegando volere prestare orecchi in modo alcuno a' nuovi ragionamenti, se prima non ratificavano la pace fatta, e davano segni che fossero loro dispiaciuti i disordini seguiti; aggiungendo parergli cosa non solo maravigliosa, ma detestanda ed abbominevole che quelli Re, che tanto si gloriavano d'avere acquistato il titolo di Cattolici, tenessero sì poco conto dell'onor proprio, della fede data, del giuramento e della religione: nè avessero rispetto alcuno all'Arciduca, Principe di tanta grandezza, nobiltà e Virtù, e figliuolo ed erede loro; con la qual risposta avendo il dì medesimo fattigli partire dalla Corte, si volse con tutto l'animo alle provvisioni della guerra, disegnando farle maggiori, e per terra e per mare che già gran tempo fossero state fatte per alcuno Re di quel Reame.
Deliberò dunque di mandare grandissimo esercito, e potentissima armata marittima nel Regno di Napoli; e perchè in questo mezzo non si perdesse Gaeta e le castella di Napoli, mandarvi con prestezza per mare soccorso di nuove genti e di tutte le cose necessarie; e per impedire che di Spagna non v'andasse soccorso (il che era stato cagione di tutti i disordini) assaltare con duo eserciti per terra il Regno di Spagna, mandandone uno nel Contado di Rossiglione, l'altro verso Fonterabia e gli altri luoghi circostanti; e con un'armata marittima molestare nel tempo medesimo la costiera di Catalogna e di Valenza.
Mentre che il Re Luigi con grandissima sollecitudine preparava queste spedizioni, il Gran Capitano non tralasciava proseguire l'espugnazione delle Castella di Napoli, e riuscendogli con prospera fortuna ogni impresa, finalmente fu tutto rivolto all'espugnazione di Gaeta, ed a discacciare interamente i Franzesi dagli altri luoghi del Regno.
Ma quello che fece a' Franzesi uscir totalmente di speranza di ristabilirsi, fu la morte accaduta in questi tempi del Pontefice Alessandro, al quale sebbene fosse succeduto Pio III, questi non avendo tenuto più quella Sede che 20 giorni, fu rifatto in suo luogo Giulio II, il quale, contro l'espettazione di tutti, riuscì il più fiero nemico che avessero avuto mai i Franzesi, onde le imprese cominciate con tanta speranza dal Re di Francia, erano ridotte in molta difficoltà: tanto che Re Luigi mal volentieri inchinava alla guerra di là de' monti, e datasegli apertura di pace facilmente vi diede orecchio.
Colui, che vi s'interpose, fu il nostro discacciato Re Federico, il quale trovandosi in Francia appresso quel Re, lusingato dalle finte promesse del Re di Spagna, che gli dava intenzione di consentire alla restituzione sua nel Regno di Napoli, e sperando che avesse parimente a consentirvi il Re di Francia, appresso al quale, indotta a compassione, si affaticava molto per lui la Regina di Francia, avea introdotto tra loro pratiche di pace, per le quali, mentre che ardeva la guerra in Italia, andarono in Francia Ambasciadori del Re di Spagna, governandosi con tanto artificio che Federico si persuadeva che la difficoltà della sua restituzione (contraddetta estremamente da' Baroni della parte Angioina) consistesse principalmente nel Re di Francia. Ma mentre con questi artifici si trattava di pace, il Gran Capitano non tralasciava vieppiù che mai di molestare i Franzesi; ed essendogli riuscito dargli una memorabil rotta appresso il Garigliano, cotanto ben descritta dal Giovio e dal Guicciardino, oltre d'essergli stata dai Franzesi consegnata Gaeta e la Fortezza; il primo giorno del nuovo anno 1504 se n'uscirono finalmente dal Regno, il quale in quest'anno cadde interamente sotto la dominazione di Ferdinando, e sotto il governo ed amministrazione del Gran Capitano suo Plenipotenziario.
Non si rallentavano in questo tempo medesimo i trattati di pace tra il Re di Francia ed i Re di Spagna, i quali simulatamente proponevano che il Regno si restituisse al Re Federico o al Duca di Calabria suo figliuolo, a' quali il Re di Francia cedesse le sue ragioni; e che al Duca si maritasse la Regina vedova nipote di quel Re, ch'era già stata moglie di Ferdinando il giovane d'Aragona. Nè era dubbio, il Re di Francia essere alienato tanto con l'animo dalle cose del Regno di Napoli che per se avrebbe accettata qualunque forma di pace; ma nel partito proposto lo ritenevano due difficoltà: l'una, benchè più leggiera, che si vergognava abbandonare i Baroni che per avere seguitata la parte sua erano privati de' loro Stati, ai quali erano proposte condizioni dure e difficili; l'altra che più lo movea, che dubitando, che se i Re di Spagna, avendo altrimenti nell'animo, proponessero a qualche fine con le solite arti questa restituzione, temeva che consentendovi, la cosa non avesse effetto, e nondimeno alienarsi l'animo dell'Arciduca, il quale desiderando di avere il Regno di Napoli per lo figliuolo, faceva istanza che la pace fatta altre volte da se andasse innanzi; però rispondeva generalmente, desiderarsi da se la pace, ma essergli disonorevole cedere le ragioni che avea in quel Regno ad un Aragonese; e dall'altra parte continuava le pratiche antiche col Re de' Romani e con l'Arciduca: le quali, come fu quasi certo dovere avere effetto, per non l'interrompere con la pratica incerta de' Re di Spagna, licenziò gli Ambasciadori Spagnuoli, ed a Blois nel mese di settembre del 1504 si conchiuse la pace con Massimiliano e l'Arciduca, con istabilirsi prima di ogni altro, che il matrimonio prima trattato di Claudia sua figliuola con Carlo Duca di Lucemburgo primogenito dell'Arciduca, avesse effetto; ed intorno al Regno di Napoli fu convenuto, che niuno delli contraenti potesse trattare co' Re di Spagna, e col Re Federico d'Aragona sopra questo Regno senza volontà e sapere di tutti, dandosi tre mesi di tempo ai suddetti Re di Spagna se volessero entrare in questa pace ed essere in quella compresi; purchè però rimettessero il Regno, per quanto si apparteneva ad essi, a Carlo Duca di Lucemburgo; e per quanto si apparteneva al Re di Francia, a Claudia sua figliuola; ma dovesse amministrarsi dal Re di Castiglia insino che sarà consumato il matrimonio tra detto Duca e Claudia[230].
In questo stato di cose morì a' 9 di settembre di quest'anno 1504 nella città di Tours il Re Federico, privato di speranza d'avere più per accordo a ricuperare il Regno di Napoli, benchè prima ingannato (com'è cosa naturale degli uomini) dal desiderio, si fosse persuaso, essere più inclinati a questo i Re di Spagna, che il Re di Francia, non considerando, come assai a proposito ponderò il Guicciardino[231], essere vano sperare nel secolo nostro sì magnanima restituzione di un tanto Regno, essendone stati esempj sì rari, eziandio ne' tempi antichi, disposti molto più che i tempi presenti, agli atti virtuosi e generosi: nè pensando essere alieno da ogni verisimile che chi avea usato tante insidie per occupare la metà, volesse ora che l'avea conseguito tutto, per liberalità privarsene; ma nel maneggio delle cose s'era finalmente accorto, non essere minore difficoltà nell'uno che nell'altro: anzi doversi più disperare, che chi possedeva restituisse, che chi non possedeva consentisse.
Questo fu l'ultimo Re discendente da Alfonso I ultimo ancora degli Aragonesi di Napoli, e con lui il nostro Regno perdè il pregio d'avere Re propri e nazionali; perdè ancora la città di Napoli essere sede regia, e quel pregio, col quale tanti Re suoi predecessori, per averla eletta per loro residenza, l'avean illustrata ed ornata di tanti splendori, quanto seco ne porta una Corte regale. Morì nell'età di cinquanta due anni, avendone regnato meno di cinque. Principe cotanto saggio e di molte lettere adorno, che a lui, non men che a Ferdinando suo padre deve Napoli il ristoramento delle discipline e delle buone lettere. Ci restano ancora di lui alcune savie e prudenti leggi che nel volume delle nostre prammatiche si leggono.
Non meno infelice fu la sua progenie: egli ancorchè di se e della Regina Isabella sua legittima moglie lasciasse cinque figliuoli, tre maschi e due femmine, ebbero tutti infelicissimo fine. Il Duca di Calabria, Ferdinando suo figliuol primogenito, fu mandato prigione in Ispagna, dove finchè visse Ferdinando il Cattolico, fu tenuto assai ristretto, e ben guardato. Gli fu data da Ferdinando per moglie Mencia di Mendozza sterile, perchè non ne nascesse prole. Innalzato al trono l'Imperador Carlo V, per aver Ferdinando ricusato d'esser Capitano della sedizione seguita in Ispagna l'anno 1522, lo richiamò nella sua Corte, ove lo tenne con grande amore: e gli diede non molto da poi, essendo morta Mencia, per moglie Germana di Fois figliuola d'una sorella del Re Lodovico di Francia, quella che nel 1505 fu maritata col Re Cattolico. Era costei molto ricca, ma sterile; onde per questo si pensò congiungerla con Ferdinando, acciò che in lui, ultima progenie de' discendenti d'Alfonso, il vecchio Re d'Aragona, s'estinguesse quella famiglia, siccome nel 1550, nel qual anno morì Ferdinando, affatto s'estinse.
Era egli rimaso l'ultimo, perchè due altri figliuoli d'età minore, erano già prima morti, uno in Francia, l'altro in Italia: imperocchè Isabella stata moglie di Ferdinando, licenziata da quel Re dal Regno di Francia, per aver ricusato di mettere questi due figliuoli in potestà del Re Cattolico, se n'andò a Ferrara, dove l'anno 1533 morì, avendo veduto prima morire questi due suoi figliuoli. Le due figliuole femmine nate di questo matrimonio parimente morirono senza lasciar di se prole alcuna.
Alcuni Scrittori rapportano, che Federico colla prima moglie Anna di Savoja procreasse una figliuola nominata Carlotta d'Aragona Principessa di Taranto; ed i Franzesi scrivono che questa fosse stata maritata in Francia nel 1500 a Guido XVI Conte di Lavalla, essendo poi morta nel 1505. Nacquero da queste nozze Caterina ed Anna di Lavalla: la posterità di Caterina restò estinta per la morte senza prole di Guido XX Conte di Lavalla, morto nel 1605. Anna di Lavalla fu maritata nel 1521 a Francesco della Tremoglia, da' quali nacque Luigi Duca della Tremoglia; onde essendo estinta la famiglia de' Lavalli in Francia, e nelle di lui ragioni succeduta la Casa de' Duchi della Tremoglia, discendenti da Luigi nipote di Carlotta; si pretende ancora oggi che le ragioni di Carlotta sopra il Reame di Napoli si fossero trasferite a' Duchi della Tremoglia; e ne' tempi di Filippo IV per le note revoluzioni accadute nel regno, avendo il Re di Francia Luigi XIV, per non perder quell'occasione, voluto anch'egli entrarvi in parte, per le pretensioni che vi teneva, come discendente di Luigi XII che fece divolgare per più manifesti; si vide ancora uscir fuori nel 1648 una scrittura in nome del Duca della Tremoglia di quel tempo, in lingua franzese, che fu anche tradotta in Italiano, portando in fronte questo titolo: Trattato del jus, e de' diritti ereditarj del Signor Busa della Tremoglia sopra il Regno di Napoli. Parimente nel tempo medesimo se ne fece imprimere un'altra latina in Parigi: De Regni Neapolitani jure pro Tremollio Duce. Pretendeva il Duca per le ragioni di Carlotta appartenere a se il Regno, e ne fece allora tanto rumore, che nell'Assemblea tenuta in detto anno 1648 nella città di Munster per la pace generale, il Duca fece presentar nell'Assemblea la scrittura latina a' Mediatori della pace dall'Abate Bertault in suo nome, ove fece più proteste e pubblici atti per questa pretensione. Il libro tradotto in Italiano, con tutti questi atti e protesti, ebbi io opportunità di leggerli nella Biblioteca de' Brancacci al Seggio di Nido, ove si conserva.
(Oltre ciò nella pace di Nimega trattata e conchiusa nel 1678 Carlo Duca della Tremoglia spedì pure Giovanni Gabriele Sanguiniere per suo Messo al Nunzio appostolico straordinario Bevilacqua, residente, con lettere di 7 luglio del suddetto anno, di dover proteggere in quell'accordo la sua pretensione, e dal medesimo fece presentare a 16 agosto nel Congresso per man di Notajo una simile protesta, la quale colle suddette lettere si legge presso Lunig Tom. 2. pag. 1395. Di vantaggio, nella pace di Risuich, trattata nel 1697 fece altra simil Protesta narrata da Struvio Syntag. Hist. Germ, diss. 37 § 87 pag. 1811, il qual scrive: Tremouillus Dux contra Hispanorum possessionem Regni Neapolitani; extant haec scripta in Actis et M. Tom. III. pag. 319)
Per le stesse ragioni il Principe di Condè vanta pure aver pretensione sopra questo Reame, traendo sua ragione da Carlotta Caterina della Tremoglia, figliuola di Luigi, che si maritò con Errigo di Borbone Principe di Condè, della quale non si dimenticò Camillo Tutini nel suo trattato degli Ammiranti del Regno[232].
Ecco in qual maniera fu il Reame di Napoli trasferito al Re di Spagna Ferdinando il Cattolico, il quale pretendeva, che gli s'appartenesse per successione del Re Giovanni suo padre, erede d'Alfonso I suo fratello, e per ciò non volle esser chiamato Ferdinando III, o che foss'egli obbligato ad osservare i privilegi e promesse fatte da'predecessori Re Ferdinando I e II, Alfonso II e Federico. Gli reputò sì bene Re legittimi e non ingiusti usurpatori, intrusi, stante le investiture, che coloro aveano avute da romani Pontefici e la legittimazione, che Alfonso I avea fatta a Ferdinando suo figliuol bastardo, non essendo questa legittimazione stata mai contrastata a' nostri Aragonesi, e l'Autor del suddetto Trattato fa vedere con più esempi, che non meno in Napoli, che ne' Regni di Spagna, han succeduto i bastardi; ancorchè non risponda a quello, di che veniva imputato Ferdinando, d'esser figliuol supposto e non naturale d'Alfonso.
Per questa cagione trovandosi in questi medesimi tempi Ferdinando nella città di Toro, a' 18 febbraio del nuovo anno 1505 promulgò una prammatica[233] colla quale chiamandoli legittimi Re, e suoi predecessori, confermò tutti i loro atti, concessioni e privilegi, comandando, che i possessori delle città, castelli, Feudi e di qualunque ragione, o roba, sia burgensatica o feudale, che si trovassero possedere in vigore delle loro concessioni, non fossero in quelle turbati, nè inquietati, nè in giudicio, nè fuori, ma in esse mantenuti e conservati. Solo permise, che contro gli atti, decreti e concessioni fatte ne' turbolentissimi anni del Regno di Alfonso II, di Ferdinando II e di Federico, potesse ciascuno richiamarsi; ma ciò con sua licenza, prescrivendo loro il modo di ricorrere al suo Vicerè del Regno, il quale intese le querele, col voto e parere del Viceprotonotario e del Luogotenente del Gran Camerario, presa informazione, ne facesse a lui relazione, acciò, che secondo stimerà egli più giusto, potesse darvi la dovuta providenza; ma che intanto niuno si molestasse nella possessione, nella quale erano in vigor delle concessioni, che ne aveano da que' Re ottenute.
Parimente con altra sua Prammatica data nella stessa città di Toro, cassò, annullò e revocò tutte le concessioni, privilegi, convenzioni, atti e qualsivoglia altre scritture, che si fossero fatte dal Re Federico dopo li 25 di luglio del 1501 in avanti, quando perduta Capua, essendo per lui disperate le cose del Regno, mandò Ambasciadori a' Capitani del Re di Francia per capitolare la resa di Napoli e suoi Castelli con le altre Terre e castelli del Regno: le quali, per essere state estorte con importunità da diversi in quella disperazione e rivoluzione di cose, credette di poterla rivocare, valendosi di quel proverbio, che allegò in quella prammatica: Quod importunitate concessimus, consulto revocamus[234].
Quindi presso i nostri Giureconsulti è nata quella distinzione, che, sempre che colui, il qual allegava il privilegio di questi Re, si trovi, che per lungo tempo abbia avuta detto privilegio la sua esecuzione ed esserne in possesso, debba esserne quello mantenuto, bastandogli quel titolo, per non essere vizioso, ma procedente da' Re legittimi e per tali riputati dall'istesso Re Ferdinando il Cattolico. Quando però si tratti, o che il privilegio, o concessione non abbia avuto mai il suo effetto, tantochè chi l'allega non mostrasse per se il possesso; ovvero fosse stato espressamente dal Re Ferdinando, o dagli altri Re austriaci suoi successori rivocato: in questi casi, perchè non vogliono essere obbligati ad osservare ciò che quelli promisero o concederono, perchè al Regno sono succeduti non già come loro eredi, ma come successori d'Alfonso I per la persona del Re Giovanni, a cui il Regno s'apparteneva; per ciò resti in loro arbitrio di far ciò, che ad essi piacerà e parerà, siccome ampiamente ne discorrono i Reggenti Loffredo, e Moles rapportati dal Reggente Marinis[235], e dall'Ageta[236] ne' loro volumi.
Ancorchè Ferdinando il Cattolico proccurasse di non alterare la forma e politia del Regno, ma di lasciarlo nella maniera, che lo trovò, nulladimanco dovendo essere da ora innanzi governato non da' Re, propri, che vi dovessero risedere collocando quivi la lor sede regia, come per lo passato, ma da' loro Ministri, dovea per necessità introdursi nuova forma di governo; come si scorgerà ne' seguenti libri di quest'Istoria, dove si vedrà cangiata non meno la civile, che l'ecclesiastica politia, introdotti nuovi magistrati, nuova nobiltà di sangue spagnuolo e nuovi istituti e costumi.
FINE DEL LIBRO VENTESIMONONO.
STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO TRENTESIMO
Trasferito il Reame di Napoli al Re di Spagna Ferdinando, e governato in nome del medesimo dal Gran Capitano, fu, durante il Regno suo, libero da straniere invasioni: poichè il Re Luigi di Francia alienato dalle cose del Regno, rivolgeva tutte le sue cure per la conservazion sola del Ducato di Milano: e la morte della Regina Elisabetta accaduta a' 26 novembre di quest'istesso anno 1504, ancorchè turbasse non poco il riposo della Spagna, e sopra ogni altro affliggesse il Gran Capitano, dalla quale riconosceva ogni grandezza, nulladimanco quest'istesso cagionò, che nel Regno non vi accadesse mutazione alcuna.
Apparteneva a questa Regina (donna d'onestissimi costumi, ed in concetto grandissimo ne' Regni suoi di magnanimità e di prudenza) propriamente il Regno di Castiglia, parte molto maggiore e più potente della Spagna, pervenutale ereditaria per la morte d'Errigo suo fratello, ma non senza sangue e senza guerra; perchè se bene era stato creduto lungamente, ch'Errigo fosse per natura impotente alla generazione, e che per ciò non potesse essergli sua figliuola la Beltramigia, partorita dalla moglie, e nutrita molti anni da lui per figliuola e che per questa cagione Elisabetta, vivente Errigo, fosse stata riconosciuta per Principessa di Castiglia, titolo di chi è più prossimo alla successione; nondimeno levandosi in tempo della di lui morte, in favore della Beltramigia molti Signori della Castiglia, ed aiutandola con l'arme il Re di Portogallo suo congiunto, venute finalmente con le parti alla battaglia, fu approvata dal successo della giornata per più giusta la causa d'Elisabetta, conducendo l'esercito Ferdinando d'Aragona suo marito, nato ancora esso della Casa de' Re di Castiglia, e congiunto ad Elisabetta in terzo grado di consanguinità; ed il quale essendo poi socceduto per la morte di Giovanni suo padre nel Regno d'Aragona, s'intitolavano Re e Reina di Spagna, perch'essendo unito al Regno d'Aragona quello di Valenza ed il Contado di Catalogna, era sotto l'imperio loro tutta la provincia di Spagna, la quale si contiene tra i monti Pirenei, il mare Oceano e 'l mare Mediterraneo; e sotto il cui titolo, per essere stata occupata anticamente da molti Principi Mori, ciascun de' quali della parte occupata essendosi intitolato Re, viene per ciò a comprendere il titolo di molti Regni; eccettuato nondimeno il Regno di Granata (che allora posseduto da' Mori, fu da poi gloriosamente ridotto da loro sotto l'Imperio di Castiglia) ed il picciol Regno di Portogallo, e quello di Navarra molto minore, che avevano Re particolari.
Ma essendo il Regno d'Aragona con la Sicilia, la Sardegna e l'altre isole appartenenti a quello, proprio di Ferdinando, si reggeva da lui solo, non vi si mescolando il nome o l'autorità della Regina. Altrimenti si procedeva in Castiglia, perch'essendo quel Regno ereditario d'Elisabetta e dotale di Ferdinando, si amministrava col nome, con le dimostrazioni e con gli effetti comunemente, non eseguendosi cos'alcuna, se non deliberata o ordinata, e sottoscritta da amendue. Comune era il titolo di Re di Spagna: comunemente gli Ambasciadori si spedivano: comunemente gli eserciti s'ordinavano, le guerre comunemente s'amministravano, nè l'uno più che l'altro si arrogava della autorità e del governo di quel Reame.
Ora per la morte di Elisabetta senza figliuoli maschi, apparteneva la successione di Castiglia per le leggi di quel Regno (che attendendo più alla prossimità che al sesso, non escludono le femmine) a Giovanna figliuola comune di Ferdinando e di lei, moglie dell'Arciduca Filippo, perchè la figliuola maggiore di tutte ch'era stata congiunta ad Emanuello Re di Portogallo, ed un piccolo fanciullo nato di quella, erano molto prima passati all'altra vita; onde Ferdinando, non aspettando più a lui, finito il matrimonio l'amministrazione del Regno dotale, avea da ritornare al piccolo Regno suo d'Aragona: piccolo a comparazione del Regno di Castiglia per la strettezza del paese e dell'entrate, perchè i Re aragonesi non avendo assoluta l'autorità regia in tutte le cose, sono in molte sottoposti alle costituzioni ed alle consuetudini di quelle province, molto limitate contra la potestà de' Re. Ma Elisabetta quando fu vicina alla morte, nel testamento dispose che Ferdinando, mentre vivea, fosse Governadore di Castiglia: mossa, o perchè essendo sempre vivuta congiuntissima con lui, desiderava si conservasse nella pristina grandezza, o perchè, secondo diceva, conosceva essere più utile a suoi popoli il continuare sotto il governo prudente di Ferdinando, non meno che al genero ed alla figliuola; a' quali, poichè alla fine aveano similmente da succedere a Ferdinando, sarebbe beneficio non piccolo, che insino a tanto che Filippo nato e nutrito in Fiandra (ove le cose si governavano diversamente) pervenisse a più matura età ed a maggior cognizione delle leggi, delle consuetudini, delle nature e de' costumi di Spagna, fossero conservati loro sotto pacifico ed ordinato governo tutti i Regni, mantenendosi in questo mezzo come un corpo medesimo, la Castiglia e l'Aragona.
Rimosse adunque la morte di questa Regina tutte le difficoltà che prima aveano impedita la pace tra 'l Re di Francia e Ferdinando; ma partorì nuovi accidenti tra Ferdinando e Filippo suo genero. Rimosse il rispetto dell'onore del Re di Francia, e 'l timore di non alienare da se l'animo dell'Arciduca; perchè il Re di Francia, essendogli molestissima la troppa grandezza sua, era desideroso d'interrompergli i suoi disegni; ed il Re di Spagna, avendo notizia che l'Arciduca, disprezzando il testamento della suocera, aveva in animo di rimuoverlo dal Regno di Castiglia, era necessitato a fondarsi con nuove congiunzioni; però si contrasse matrimonio tra lui e Madama Germana di Fois, figliuola d'una sorella del Re di Francia, con condizione, che il Re gli desse in dote la parte che gli toccava del Reame di Napoli, obbligandosi il Re di Spagna a pagargli in diece anni 700 mila ducati per ristoro delle spese fatte, ed a dotare in 300 mila ducati la nuova moglie[237]: col qual matrimonio essendo accompagnata la pace, fu quella conchiusa in Bles a' 13 del mese d'ottobre di quest'anno 1505 in cotal maniera[238].
Che i Baroni angioini e tutti quelli ch'avevano seguitata la parte franzese, fossero restituiti senza pagamento alcuno alla libertà, alla patria ed a' loro Stati, dignità e beni, nel grado medesimo che si trovavano essere nel dì, che tra Franzesi e Spagnuoli fu dato principio alla guerra, che si dichiarò essere stato il dì, che i Franzesi corsero alla Tribalda[239].
Che s'intendessero annullate tutte le confiscazioni fatte dal Re di Spagna e dal Re Federico.
Che fossero liberati il Principe di Rossano, il Marchese di Bitonto, Alfonso ed Onorato Sanseverini, Fabrizio Gesualdo e tutti gli altri Baroni ch'erano prigioni degli Spagnuoli nel Regno di Napoli.
Che il Re di Francia deponesse il titolo del Regno di Gerusalemme e di Napoli.
(Questo articolo dimostra, quanto fosse stravagante la nuova interpretazione, che il P. Arduino sognò sul motto PERDAM BABILONIS NOMEN, che il Re Ludovico XII fece imprimere nelle sue monete, per rintuzzare l'alterigia di Papa Giulio II, nelle quali, oltre il titolo di Re di Francia, si legge anche Regnique Neap. Rex, sul falso supposto, che post annum certe 1503 nunquam inscripsit se Ludovicus XII Regem Neapoleos, come sono le sue parole in Oper. select. pag. 905, e per conseguenza che non poteva intendere delle brighe avute con Giulio II, le quali non cominciarono, se non all'anno 1509. Lodovico anche dopo perduto il possesso di Napoli nel 1503, e dopo questa pace del 1505 (che il primo a violarla fu Ferdinando stesso) insino all'ultima pace fatta col medesimo Re pure a Blois nel primo di decembre dell'anno 1513 non abbandonò mai questo titolo, dopo quest'ultima pace che si legge nel Tom. 2 della Raccolta de' trattati stampata in Amsterdam sotto il titolo: Recueil des Traités de Paix, pag. 35, nella quale Lodovico tornò assolutamente a rinunciare il titolo e le ragioni sopra il Regno di Napoli. Non si legge che nel restante di sua vita avesse continuato di porlo fra gli altri suoi titoli. Leggasi sopra questa moneta la dissertazione, ultimamente impressa nel Tomo VII dell'ultima edizione di Londra dell' Istorie di Tuano con tanta accuratezza e magnificenza data fuori da Samuel Buckley. L'autor della quale è lo stesso, che lo Scrittore di questa istoria; e perciò si vede ora inscritta nel V Tomo di questa nuova edizione in idioma italiano, siccome l'Autore la distese tradotta poi in latino e mandata a Mr Buckley ).
Che gli omaggi e le recognizioni de' Baroni si facessero respettivamente alle convenzioni sopraddette, e nell'istesso modo si cercasse l'investitura dal Pontefice.
Che morendo la Regina Germana in matrimonio senza figliuoli, la parte sua dotale s'intendesse acquistata a Ferdinando, ma sopravvivendo a lui ritornasse alla corona di Francia.
Che fosse obbligato il Re Ferdinando ad aiutare Gastone Conte di Fois fratello della nuova moglie, al conquisto del Regno di Navarra che pretendeva appartenersegli, posseduto con titolo regio da Catterina di Fois e da Giovanni figliuolo d'Albret suo marito.
Che il Re di Francia costringesse la moglie vedova del Re Federico ad andare con i due figliuoli che erano appresso a se in Ispagna, dove le sarebbe assegnato onesto modo di vivere; e non volendo andare la licenziasse dal Regno di Francia, non dando più nè a lei nè a figliuoli provvisione, o intrattenimento alcuno.
Che all'una parte ed all'altra fosse proibito di fare contra ciò, che i nominati da ciascuno di loro stabilissero: i quali nominarono amendue in Italia il Pontefice ed il Re di Francia nominò anche i Fiorentini.
Per ultimo, che in corroborazione della pace, tra i due Re s'intendesse essere perpetua confederazione a difesa degli Stati, essendo tenuti a soccorrersi vicendevolmente, il Re di Francia con mille lancie e con seimila fanti, e Ferdinando con trecento lancie, duemila giannettarj e seimila fanti.
Conchiusa in cotal maniera questa pace, della quale il Re d'Inghilterra promise per l'una parte e per l'altra l'osservanza, i Baroni angioini ch'erano in Francia, licenziatisi dal Re andarono quasi tutti con la Regina Germana in Ispagna: ed Isabella stata moglie di Federico, licenziata dal Regno dal Re di Francia, perchè ricusò di mettere i figliuoli in potestà del Re Cattolico, se n'andò a Ferrara.
Questa pace, che fu ratificata dal Re Cattolico in Segovia a' 16 ottobre del medesimo anno 1505 ancorchè avesse lasciata speranza, ch'estinte già le guerre nate per cagione del Regno di Napoli, la quiete d'Italia avesse a continuare; nondimeno apparivano dall'altra parte semi non piccioli di futuri incendj, perchè Filippo, che già s'intitolava Re di Castiglia non contento, che quel Regno fosse governato dal suocero, si preparava a passare contra la volontà sua in Ispagna. Veniva incitato a ciò da' più principali Signori di Castiglia, i quali stimavano con maggior licenza di poter godere della loro grandezza sotto un fioritissimo Re giovane, che sotto un austero, e com'essi dicevano, poco liberal vecchio Catalano[240]. Pretendeva ancor Filippo, non essere in potestà della Regina morta prescrivere leggi al governo del Regno finita la sua vita; ed il Re de' Romani preso animo dalla grandezza del figliuolo, trattava di passare in Italia.
Ferdinando veduta la resoluzione di Filippo di passar in Ispagna, nè potendola impedire, pensò (simulando essergli grata) di promover trattati con lui del modo, come doveano convenirsi insieme a governar la Castiglia; e dall'altra parte Filippo, temendo pure che 'l suocero non gli facesse con gli aiuti del Re di Francia resistenza, governandosi con le medesime arti spagnuole accettò la mediazione, e mostrò che si sarebbe nella maggior parte delle cose rapportato al suo governo; onde fra di loro fu convenuto che avessero comune il titolo di Re di Spagna com'era stato comune tra lui e la Regina morta, e che l'entrate si dividessero in certo modo: il perchè Ferdinando, ancorchè non bene sicuro dell'osservanza, gli mandò in Fiandra per levarlo molte navi. Partì per tanto Filippo da Fiandra a' 10 gennajo del nuovo anno 1506, ed imbarcatosi con la moglie e con Ferdinando suo secondogenito prese con venti prosperi il cammino di Spagna, dove appena giunto concorsero a lui quasi tutti i Signori di Castiglia; e Ferdinando non potendo resistergli, rimanendo abbandonato quasi da tutti, nè avendo se non con molto tedio e difficoltà potuto vedere il genero, bisognò, disprezzato il primo accordo fatto tra loro, che accettasse le leggi e le condizioni, che con altro nuovo gli furon date.
Fu pertanto nuovamente convenuto, che Ferdinando cedendo all'amministrazione lasciatagli per testamento dalla moglie, ed a tutto quello che per ciò potesse pretendere, si partisse incontanente di Castiglia, promettendo di più non vi tornare.
Che Ferdinando avesse per proprio il Regno di Napoli: sopra di che vi fu grande altercazione: poichè se bene Ferdinando pretendesse sopra di ciò non potervi essere alcun dubbio, essendo quel Regno suo proprio, e come Re d'Aragona a lui dovuto, e poi acquistato e con le arme e colle forze d'Aragona; nulladimanco non mancò chi mettesse in considerazione, che più giustamente questo reame s'appartenesse a Filippo, per essere stato ultimamente acquistato con le armi e con la potenza del Regno di Castiglia, poichè le spedizioni furono fatte da Ferdinando ed Elisabetta comunemente, e come Re di Spagna, ed il titolo e le investiture fur comuni non meno all'uno che all'altro, e non particolari a Ferdinando come Re d'Aragona. Comunque si fosse, per facilitare la partita di Ferdinando non pur da Castiglia, ma anche da tutta la Spagna, gli fu accordato, che il Regno di Napoli l'avesse come proprio.
Che i proventi dell'isole dell'India rimanessero riservati a Ferdinando durante la sua vita.
Che i tre Maestralghi di S. Jacopo, Alcantara e Calatrava fossero parimente a lui riservati.
E che dall'entrate del Regno di Castiglia avesse ciascun anno venticinquemila ducati.
Firmata questa capitolazione, Ferdinando, che qui innanzi chiameremo o Re Cattolico o Re d' Aragona, se ne andò subito in Aragona, con intenzione d'andare quanto più prestamente potesse per mare a Napoli.
CAPITOLO I. Venuta del Re Cattolico in Napoli, e suo ritorno in Ispagna per la morte accaduta del Re Filippo. Come lasciasse il Regno sotto il governo de' Vicerè suoi Luogotenenti: sua morte, e pomposi funerali fattigli in Napoli.
Il Re Cattolico ritirato da Castiglia ne' suoi propri Stati d'Aragona, deliberò di passar tosto a Napoli, non tanto per desiderio di vedere questo Regno, siccome i Napoletani ne l'aveano richiesto, ed egli loro promessolo[241], e di riordinarlo, come apparentemente mostrava, ma per cagioni assai più gravi e serie. Mostrava per tanto egli in apparenza di venire per desiderio di vederlo e di riordinarlo con migliori leggi ed istituti, e restituirlo nell'antico splendore e dignità. E dall'altra parte il desiderio e l'espettazione de' Napoletani era molto maggiore, persuadendosi ciascuno, che per mano d'un Re glorioso per tante vittorie avute contra gl'Infedeli e contra i Cristiani, venerabile per opinione di prudenza, risonando chiarissima la fama d'avere con singolar giustizia e tranquillità governato i suoi Reami; dovesse il Regno di Napoli ristorarsi di tanti affanni ed oppressioni, che dalla morte di Ferdinando I per lo spazio poco men di diece anni avea sofferti, e vedutosi ardere per continue guerre e tutto sconvolto per le mutazioni di sette Re, che in sì breve spazio di tempo vi dominarono; dovesse ora per la prudenza d'un tanto Re ridursi in istato quieto e felice; e sopra tutto reintegrarsi de' Porti, dei quali nell'Adriatico i Veneziani per le precedute guerre, soccorrendo i Re d'Aragona di Napoli di denari, si erano impadroniti, e tenevano a titolo di pegno, con dispiacere non piccolo di tutto il Reame.
Ma cagioni assai più gravi mossero il Re Cattolico ad intraprendere questo viaggio. Era egli entrato in sospetti gravissimi del Gran Capitano, del quale, dopo la morte della Regina Elisabetta, temeva che non pensasse in se medesimo trasferire il Regno di Napoli; ovvero fosse più inclinato a darlo al Re Filippo che a lui: di che maggiormente s'era insospettito, perocchè non ostante che, fatto l'accordo, il Re Filippo gli facesse intendere che avea totalmente ad ubbidire al Re d'Aragona, il quale l'avea richiamato in Ispagna; egli tuttavia con varie scuse ed impedimenti differiva l'andata; perciò Ferdinando dubitando, non andandovi in persona, d'avere difficoltà di levargli il governo, deliberò venire; ed imbarcatosi a Barcellona a' 4 settembre di quest'anno 1506 con 50 vele, navigò verso Italia.
Il Gran Capitano avvisato della deliberazione del Re Cattolico, mandò subito, prima che il medesimo partisse da Barcellona, un suo uomo a prestargli ubbidienza, e ad offerirsi pronto a riceverlo. Il Re nascondendo ciò che di lui avea pensato di fare, l'accolse lietamente, e confermò a lui non solo il Ducato di S. Angelo, il quale gli aveva già donato il Re Federico; ma ancora Terranova, e tutti gli altri Stati, che possedeva così in Calabria, come in tutto il Regno, che in que' tempi portavan d'entrata più di ventimila ducati. Gli confermò l'Ufficio di Gran Contestabile del medesimo Regno, e gli promise per cedola di sua mano il Maestralgo di S. Jacopo; perciò Ferdinando imbarcatosi con maggior speranza, ed onoratamente ricevuto per ordine del Re di Francia insieme con la moglie in tutti i Porti di Provenza, fu col medesimo onore ricevuto nel Porto di Genova. Il Gran Capitano andò ad incontrarlo, ciò che diede a tutti ammirazione, perchè non solo negli uomini volgari, ma eziandio nel Pontefice, era stata opinione, ch'egli consapevole della inobbedienza passata, e de' sospetti, i quali il Re forse non vanamente avea avuti di lui, fuggendo per timore il suo cospetto, passerebbe in Ispagna.
Partito da Genova, non volendo con le galee sottili discostarsi da terra, stette più giorni, per non avere i venti prosperi, in Portofino; dove, mentre dimorava, gli sopraggiunse avviso, che il Re Filippo suo genero giovane di 25 anni, e di corpo robustissimo e sanissimo, nel fiore della sua età e costituito in tanta felicità, per febbre duratagli pochi dì, era in Burgos passato all'altra vita a' 25 settembre, lasciando di se e di Giovanna sua moglie, Carlo e Ferdinando, che furon poi Imperadori, e quattro figliuole femmine.
Ciascuno credette, che per desiderio di ripigliare il governo di Castiglia, Ferdinando volgesse subito le prue a Barcellona; ma continuando egli il cammino, giunto nel porto di Gaeta nel dì di San Luca, nel giorno seguente entrò in Napoli, dove fu ricevuto dai Napoletani con grandissima magnificenza ed onore. Concorsero a Napoli prontamente Ambasciadori di tutta Italia, non solo per congratularsi, ed onorare un tanto Principe, ma eziandio per varie pratiche e cagioni, persuadendosi ciascuno, che con l'autorità e grandezza sua avesse a dar forma, e ad essere il contrappeso di molte cose. Ma giunto Ferdinando a Napoli, perchè avea determinato di passar in Ispagna, e di trattenervisi poco tempo, non potè soddisfare all'espettazione grandissima, che s'era avuta di lui.
Era egli stimolato per varie cagioni di ritornar presto in Ispagna, intento tutto a riassumere il governo di Castiglia, perch'essendo inabile Giovanna sua figliuola a tanta amministrazione, non tanto per l'imbecillità del sesso, quanto perchè per umori malinconici, che se le scopersero nella morte del marito, era alienata dall'intelletto, i figliuoli comuni del Re Filippo e di lei erano ancora inabili per l'età, de' quali il primogenito Carlo non avea più che sette anni. Lo movea, oltra questo, l'essere desiderato e chiamato a quel governo da molti per la memoria d'essere stati retti giustamente, e fioriti per la lunga pace quelli Regni sotto lui; ed accrescevano questo desiderio le dissensioni già cominciate tra i Signori grandi, e l'apparire da molte parti segni manifestissimi di future turbazioni; ma non meno era desiderato dalla figliuola Giovanna, la quale, non essendo nell'altre cose in potestà di se medesima, stette sempre costante in desiderare il ritorno del padre, negando contra le suggestioni ed importunità di molti, ostinatamente di non sottoscrivere di mano propria in espedizione alcuna il suo nome, senza la quale soscrizione non avevano, secondo la consuetudine di que' Regni, i negozi occorrenti la sua perfezione.
Per queste cagioni non potè più trattenersi in Napoli, che sette mesi, ne' quali, ancorchè avesse dato in parte qualche riordinamento al Regno con introdurvi nuova politia; la quale dopo la sua partita, dai Vicerè che vi lasciò, e dagli altri Re suoi successori fu perfezionata, e poi ridotta nello stato nel quale oggi ancora dura; nulladimanco, e la brevità del tempo, e perchè difficilmente si può corrispondere a' concetti degli uomini, il più delle volte non considerati con la debita maturità, nè misurati con le debite proporzioni, non soddisfece a quel concetto grandissimo che s'era di lui formato.
Coloro, che credettero colla sua venuta in Napoli doversi apportare comodo universale all'Italia, rimasero delusi, perchè alle cose d'Italia non lo lasciò pensare il desiderio di ritornare presto nel governo di Castiglia, fondamento principale della grandezza sua; per lo quale era necessitato fare ogni opera per conservarsi amici il Re de' Romani, e 'l Re di Francia, acciocchè l'uno con l'autorità d'essere avolo de' piccioli figliuoli del Re morto, l'altro con la potenza vicina, e col dare animo ad opporsegli a chi avea l'animo alieno da lui, non gli mettessero disturbi a ritornarvi.
Intorno al gratificare il Regno, ancorchè, come scrisse il Guicciardino[242], non vi portasse alcuna utilità, nè vi facesse alcun beneficio, ciò nacque per la difficoltà, che seco portava 'l trovarsi egli obbligato per la pace fatta col Re di Francia, a restituire gli Stati tolti a' Baroni angioini, che o per convenzione, o per remunerazione erano stati distribuiti in coloro, ch'aveano seguitata la parte sua: e costoro, non volendo egli alienarsi i suoi medesimi, era necessitato ricompensare, o con Stati equivalenti, che si aveano a comprare da altri, o con danari: alla qual cosa essendo impotentissime le sue facoltà, era costretto non solo a far vivi in qualunque modo i proventi Regj, ed a dinegar di fare, secondo il costume de' nuovi Re, grazia o esenzione alcuna, o esercitare spezie alcuna di liberalità, ma eziandio, con querela incredibile di tutti, ad aggravare i Popoli, i quali aveano aspettato sollevazione e ristoro di tanti mali. Ed ancorchè a' 29 gennajo del nuovo anno 1507, ad istanza degli Eletti della città di Napoli, avesse conceduto indulto generale (che si legge fra le nostre prammatiche) agli uomini della città di Napoli, e di tutte le altre città e Terre demaniali di questo Regno, per li delitti commessi per tutto il mese d'ottobre passato, da che egli entrò a Napoli; ed a' 30 del medesimo mese, essendosi convocato general Parlamento, avesse egli confermati i privilegj, e conceduto alla città 47 capitoli, non derogando agli altri privilegj conceduti da' Re suoi predecessori; nulladimanco gli fu per ciò fatto un donativo di ducati trecentomila.
I Baroni, non meno Angioini che del suo partito, non cessavano parimente di querelarsi, perchè a quegli che possedevano, oltra che mal volontieri rilasciavano, gli Stati, furono per necessità scarse e limitate le compensazioni, ed a quegli altri si ristringeva quanto si poteva in tutte le cose, nelle quali accadeva controversia, il beneficio della restituzione; perchè quanto meno a lor si restituiva, tanto meno agli altri si ricompensava.
Solo alla Piazza del Popolo di Napoli fu Ferdinando liberalissimo, avendo a loro domande concedute molte grazie; secondo il privilegio, che intiero vien rapportato da Camillo Tutini[243] nel suo libro della Fondazione de' Seggi, che porta la data nel Castel Nuovo de' 18 maggio di quest'anno 1507, le quali poi nel 1517 furono confermate dalla Regina Giovanna, e dall'Imperador Carlo V suo figliuolo.
Partì finalmente il Re Cattolico da Napoli a' 4 giugno di quest'anno 1507, e con lui il Gran Capitano, drizzando la navigazione a Savona, ove era convenuto abboccarsi col Re di Francia. Partì con poca soddisfazione tra 'l Pontefice e lui, perchè avendogli dimandata l'investitura del Regno, il Pontefice negava di concederla, se non col censo, col quale era stata conceduta agli antichi Re. Ferdinando faceva istanza, che gli fosse fatta la medesima diminuzione, ch'era stata fatta al Re Ferdinando I suo cugino, a' figliuoli, ed a' nipoti: dimandava l'investitura di tutto il Regno in nome suo proprio, come successore d'Alfonso il vecchio, nel qual modo avea ricevuto in Napoli l'omaggio ed i giuramenti, con tutto che ne' capitoli della pace fatta col Re di Francia, si disponesse, che in quanto a Terra di Lavoro e l'Apruzzi si riconoscesse insieme il nome della Regina Germana sua moglie. Si credette, che l'aver il Papa negato di concedere l'investitura, fosse cagione, che 'l Re ricusasse di venire a parlamento con lui, mentre il Papa, essendo stato nel tempo medesimo più dì nella Rocca d'Ostia, si diceva esservi stato per aspettare la passata sua. Ma in appresso, nel 1510, gli concedè ciò che volle, e gli donò li censi, che dovea; siccome da poi nel 1513 fece anche Lione X, confermandogli tutti i privilegi, concessioni, remissioni ed immunità fattegli da' Pontefici Romani suoi predecessori[244].
Ferdinando passato a Savona, e trovato il Re di Francia, con molti segni di stima e di confidenza fra di loro, per tre giorni si trattenne quivi; nel qual tempo ebbero segretissimi e lunghissimi ragionamenti; ed il Gran Capitano fu con eccessive lodi, e con incredibile stima ed ammirazione di tutti onorato sopra la fortuna degli altri uomini dal Re di Francia, il quale aveva voluto, che alla mensa medesima, nella quale cenarono insieme Ferdinando, e la Regina, ed egli, cenasse ancora Consalvo, siccome ne gli avea fatto comandare da Ferdinando; indi, dopo il quarto giorno, i due Re con le medesime dimostrazioni di concordia si partirono da Savona: Ferdinando col Gran Capitano prese il cammino per mare verso Barcellona, ed il Re Luigi se ne ritornò per terra in Francia. Fu questo l'ultimo de' gloriosi giorni del Gran Capitano; poichè giunto che fu con Ferdinando in Ispagna, gli fece questi intendere, che non venisse in Corte, ma andasse alle sue Terre, nè si partisse se non veniva da lui chiamato; il perchè non si videro mai più mentre vissero, nè uscì mai da' Reami di Spagna, nè ebbe più facoltà d'esercitare la sua virtù, perchè da poi non fu adoperato nè in guerra, nè mai in cose memorabili di pace: onde si narra, che soleva dire, di tre cose pentirsi, la prima aver mancato di fede a D. Ferdinando Duca di Calabria figliuolo del Re Federico; la seconda non avere osservata la fede al Duca Valentino; e la terza non poterla dire, giudicandosi che fosse, di non avere, per la gran benevolenza de' Nobili e de' Popoli verso di lui, consentito di farsi gridare Re di Napoli[245].
Tornato il Re Cattolico in Ispagna, gli fu subito dalla Regina sua figliuola dato il governo de' Regni di Castiglia, ed il Regno di Napoli fu amministrato da Vicerè suoi Luogotenenti, a' quali concedendosi pieno potere e assoluta autorità, per ciò che riguarda il suo governo, si vide Napoli già regia sede, quando prima era immediatamente governata da' suoi Principi, mutata in sede di Vicerè, e pendere da' loro cenni; onde fu nuova politia introdotta, scemata a' primi Ufficiali del Regno molta autorità, ed introdotti nuovi Magistrati e leggi, come qui a poco diremo.
Resse Ferdinando per nove altri anni, fin che visse, il Regno, da Spagna per suoi Ministri e rimossone il Gran Capitano, che fu il primo suo Vicerè, anzi suo gran Plenipotenziario, che per quattro anni con tanta sua lode e soddisfazione di tutti gli Ordini e nelle cose di guerra e nelle più importantissime di pace avea amministrato il Regno: vi lasciò in suo luogo D. Giovanni d'Aragona Conte di Ripacorsa, che fu il secondo Vicerè del Regno, che per lo spazio di due anni e quattro mesi lo governò con molta saviezza e prudenza.
Diede ancora Ferdinando, per la caduta del Gran Capitano, l'Ufficio di Gran Contestabile al famoso Fabrizio Colonna Duca di Tagliacozzo valoroso Capitano, al quale commise l'espedizione contra i Vineziani per la ricuperazione de' Porti, e delle città, che coloro tenevano occupate nel Regno alla riva del mare Adriatico. Erano, come si è narrato, stati del Regno scacciati interamente i Franzesi: solo rimaneva per ridurlo nel suo primiero stato, che se gli restituissero le città di Trani, Monopoli, Mola. Polignano, Brindisi ed Otranto, che ancora i Vineziani tenevano occupate; onde Ferdinando ordinò, che loro s'intimasse la guerra, e nel 1509 diede il comando delle sue truppe a Fabrizio, il quale andò coll'esercito ad assediar Trani, e non tantosto fu accampato vicino a quella città, che i cittadini consapevoli del valore di Fabrizio, subito si resero: seguitarono l'esempio di Trani, tutte le altre soprannominate città; onde furono quelle co' loro porti restituite alla Corona di Napoli, siccome erano prima[246].
Il Conte di Ripacorsa, richiamato dal Re alla Corte, lasciò per suo Luogotenente D. Antonio di Guevara Gran Siniscalco del Regno, il quale non più che sedici giorni l'amministrò; ma sopraggiunto a' 24 d'ottobre del medesimo anno 1509 D. Raimondo di Cardona, destinato dal Re successor Vicerè, fu da costui amministrato il Regno finchè Ferdinando visse.
Intanto per la morte di Luigi XII sursero nuovi sospetti con Francesco I suo successore per le cose di Napoli. E dall'altro canto Massimiliano Re de' Romani mal sofferendo, che Ferdinando avesse preso il governo de' Regni di Castiglia, in pregiudizio di Carlo nipote comune, minacciava nuove intraprese; il perchè parve a Ferdinando, per potere attendere con maggiore animo ad impedire la grandezza del Re di Francia a lui sempre sospetta, per l'interesse del Reame di Napoli, di rappacificarsi nel miglior modo, che potè con Massimiliano; onde nella fine di quest'istesso anno 1509 fra di loro fu stabilita concordia, per la quale fu convenuto, che il Re Cattolico, in caso non avesse figliuoli maschi, fosse Governadore di que' Reami, insino che Carlo nipote comune pervenisse all'età di vinticinque anni; e che non pigliasse Carlo titolo regio vivente la madre, la quale avea titolo di Regina, poichè in Castiglia le femmine non sono escluse dai maschi.
Stabilito per tal convenzione il Re d'Aragona nel governo de' Regni di Castiglia, fu tutto inteso ad impedire i disegni del Re franzese, che teneva sopra Italia, e sopra il Regno di Napoli. Ma questo inclito Re mentre apparecchiavasi a sostenere la guerra, che il Re Francesco minacciavagli, finì i giorni suoi in Madrid in età di 75 anni.
Morì Ferdinando nel mese di Gennaio del 1516 siccome scrissero il Guicciardino e gli altri Istorici contemporanei[247], a' quali deve prestarsi più fede, che a qualunque altro Scrittor moderno[248], che ingannati da una scorrettissima data d'una lettera di Carlo, fissano il giorno della sua morte in gennaio dell'anno precedente 1515. Morì (mentre andava con la Corte a Siviglia) in Madrid, villa allora ignobilissima del Contado di Toledo, presso a S. Maria di Guadalupe, e volle, che il suo corpo fosse seppellito a Granata, ove fu trasferito. Re secondo l'elogio, che gli tessè il Guicciardino, di eccellentissimo consiglio e virtù, nel quale, se fosse stato costante nelle promesse, non potresti facilmente riprendere cos'alcuna, perchè la tenacità dello spendere, della quale era calunniato, dimostrò facilmente falsa la morte sua; conciossiacosachè avendo regnato quaranta due anni, non lasciò danari accumulati; ma accade quasi sempre, per lo giudicio corrotto degli uomini, che ne' Re è più lodata la prodigalità, benchè a quella sia annessa la rapacità, che la parsimonia congiunta con l'astinenza della roba d'altri. Alla virtù rara di questo Re, si aggiunse la felicità rarissima e perpetua (se tu ne levi la morte dell'unico figliuolo maschio) per tutta la vita sua, perchè i casi delle femmine e del genero furono cagione, che insin alla morte si conservasse la grandezza: e la necessità di partirsi, dopo la morte della moglie, di Castiglia, fu più tosto giuoco, che percossa della fortuna: in tutte le altre cose fu felicissimo. Di secondogenito del Re d'Aragona, morto il fratello maggiore, ottenne quel Reame: pervenne per mezzo del matrimonio contratto con Isabella al Regno di Castiglia: scacciò vittoriosamente gli avversarj, che concorrevano al medesimo reame. Ricuperò poi il Regno di Granata posseduto da' nemici della nostra fede poco meno di 800 anni: aggiunse all'Imperio suo il Regno di Napoli, quello di Navarra, Orano e molti luoghi importanti de' liti dell'Affrica: superiore sempre e quasi domatore di tutti i nemici suoi; ed ove manifestamente apparì congiunta la fortuna con l'industria, coprì quasi tutte le sue cupidità sotto colore d'onesto zelo di religione e di santa intenzione al ben comune.
Morì circa un mese innanzi alla morte sua (a' 2 decembre del 1515) il Gran Capitano, assente dalla Corte e mal soddisfatto di lui[249]; e nondimeno il Re per la memoria della sua virtù, volle egli, e comandò, che da se, e da tutto il Regno gli fossero fatti onori insoliti a farsi in Ispagna ad alcuno, eccetto che nella morte de' Re, con grandissima approvazione di tutti i Popoli, a' quali il nome del Gran Capitano per la sua grandissima liberalità era gratissimo; e per l'opinione della prudenza, e che nella scienza militare trapassasse il valore di tutti i Capitani de' tempi suoi, era in somma venerazione.
Saputosi in Napoli la morte di sì gran Re, D. Bernardino Villamarino, che per l'assenza di D. Raimondo di Cardona Vicerè si trovava in Napoli suo Luogotenente, gli fece con grandissimo apparato celebrare esequie pomposissime nella chiesa di S. Domenico, ove intervenne tutto il Baronaggio con gli Eletti e Deputati della città, e tutti gli Ufficiali Regj. E la Piazza del Popolo, ricordevole de' privilegi e grazie concedutegli, gli fece ancora con grandissimo apparato celebrare i funerali nella chiesa di S. Agostino: ed in memoria d'un tanto lor benefattore statuì, che ogni anno a' 23 gennaio se gli celebrasse un Anniversario, ciò che veggiamo nel dì statuito continuarsi sino ai dì nostri con molta celebrità e pompa.
Morto Ferdinando, il Principe Carlo Arciduca d'Austria, ch'era in Brusselles, ancorchè vivesse Giovanna sua madre, alla quale s'apparteneva la successione del Regno, non tralasciò di scriver subito alla città di Napoli una molto affettuosa lettera[250], nella quale profferendole il suo amore, le impone che ubbidisse per l'avvenire a D. Raimondo di Cardona, come aveano fatto per lo passato, ch'egli confermava Vicerè. Governò sola Giovanna pochi mesi la Monarchia; ma arrivato, che fu Carlo in Ispagna l'associò al Regno, da lui poi amministrato con quella saviezza, e prudenza, che sarà narrata ne' seguenti libri di quest'Istoria.
Così le Spagne, e tutti i dominj, onde si componeva sì vasta Monarchia, passarono negli Austriaci discendenti da' Conti d'Aspurg; e con meraviglia di tutti fu veduto, che Ferdinando Re d'Aragona, per far maggiore la grandezza del successore (mosso non da altra cagione, che da questo, con consiglio dannato da molti, e per avventura ingiusto) spogliò del Regno d'Aragona il Casato suo proprio tanto nobile, e tanto illustre, e consentì contra il desiderio comune della maggior parte degli uomini, che il nome della Casa sua si spegnesse, e si annichilasse.
CAPITOLO II. Nuova politia introdotta nel Regno; nuovi Magistrati e leggi conformi agl'istituti e costumi Spagnuoli. De' Vicerè e Regenti suoi Collaterali, donde surse il Consiglio Collaterale e nacque l'abbassamento degli altri Magistrati ed Ufficiali del Regno.
Siccome s'è potuto vedere ne' precedenti libri di questa Istoria, il Regno di Napoli, così nel principio del suo stabilimento sotto i Normanni, come nel lungo regnare de' Re della illustre casa d'Angiò, fu composto ad esempio del Regno di Francia, dal quale prese molti istituti e costumi. Alfonso I d'Aragona lasciò i suoi Regni ereditari, e volle in Napoli trasferire la sua sede regia, e conformossi alle leggi e costumi che vi trovò. Gli altri Aragonesi di Napoli non alterarono la sua politia, poichè non avendo Stati in altre province, come Regno lor proprio e nazionale lo governarono colle medesime leggi ed istituti: ma ora che Napoli, avendo perduto il pregio d'esser sede regia, viene ad essere amministrata da' Re di Spagna, i quali tenendo collocata altrove, ed in remotissime parti la loro sede, reggendo il Regno per mezzo de' loro Luogotenenti, che si dissero Vicerè, prese il suo governo nuova forma e venne più tosto a conformarsi a' costumi ed istituti di Spagna, che di Francia. Nacquero per ciò e negli Ufficiali del Regno e ne' Magistrati della città non picciole mutazioni e cangiamenti.
Non vi ha dubbio, che gli Spagnuoli, per ciò che riguarda l'arte del regnare, s'avvicinassero non poco a' Romani; e Bodino[251] e Tuano[252], ancorchè franzesi, siccome Arturo Duck inglese[253], portarono opinione che di tutte le Nazioni, che dopo la caduta dell'Imperio signoreggiarono l'Europa, la Spagnuola in costanza, gravità, fortezza e prudenza civile fosse quella che più alla romana s'assimilasse. Nello stabilir delle leggi niun'altra Nazione imitò così da presso i Romani, quanto che la spagnuola. Essi diedero a noi leggi savie e prudenti, nelle quali non vi è da desiderar altro, che l'osservanza e l'esecuzione. Ma siccome niuno può contrastar loro questi pregi, nulladimanco in questo s'allontanarono da' Romani, che i Romani debellando le straniere Nazioni, le trattarono con tanta clemenza e giustizia, che i vinti stessi si recavano a lor sommo onore d'essere aggiunti al loro Imperio, e le loro leggi erano ricevute con tanto desiderio, che non come leggi del vincitore, ma come proprie le riputarono. Non così fecero gli Spagnuoli, da' quali, fuori di Spagna, i Regni e le province, che s'aggiunsero alla loro Monarchia, erano trattate con troppo alterezza e boria. Dalle memorie che ci lasciò il Vescovo di Chiapa, si sa ciò che fecero nel Nuovo Mondo; quel che fecero in Fiandra; e si saprà quel che praticarono presso di noi. Ma ciò che più gli allontanò da' Romani, fu, perchè loro mancò quella virtù, senza la quale ogni Stato va in rovina, cioè l'economica: quanto erano profusi, altrettanto per nudrir questo vizio, bisognava che ricorressero all'altro della rapacità, gravando i Popoli con taglie e donativi, e con tuttociò profondendo senza tener modo, nè misura, non per questo gli eserciti non si vedevano spesso ammutinati per mancanza di paghe e gli Ufficiali mal soddisfatti. Non bastò l'oro del nuovo Mondo, nè le tante tirannidi e le crudeltà usate a que' Popoli per loro rapirlo[254]. L'altro difetto fu di non aver proccurato ne' loro Regni d'ampliare il commercio, e favorir la negoziazione, avendo tanti famosi porti, non rendergli frequenti di navi, di fiere e di scale franche come l'altre Nazioni, che hanno gli Stati in mare fanno; siccome, infra gli altri, a' dì nostri si sono distinti gl'Inglesi, gli Olandesi ed i Portoghesi.
La perpetua adunque e continua residenza de' nostri Re in Ispagna seco portava, che fossero creati i Vicerè che reggessero questo Reame. Prima i suoi Re, ancorchè per alcune occorrenze fossero stati costretti esserne lontani, lasciavano per governarlo i loro Vicarj che solevano per lo più essere del loro sangue, e quelli, che doveano dopo la lor morte essere loro successori; ma la lontananza era breve, e tosto venivano essi a ripigliarne il governo. Vi furono alcune volte, ma assai di rado, occasioni, che per l'assenza de' Re, vi lasciavano loro Luogotenenti, chiamati pure Vicerè; ma ora, che la lontananza era perpetua, bisognava, che ad un Ministro di sperimentata probità e prudenza ne commettessero l'amministrazione, al quale dessero tutta la loro autorità ed illimitato potere per ciò che riguardava il governo e buona cura del medesimo. Bisognò per tanto dar loro l'autorità di far leggi, ovvero prammatiche o altri regolamenti, che conducessero a questo fine. Così da ora avanti le prammatiche si vedranno stabilite non men da' Re, che da' loro Vicerè e Luogotenenti. Bisognò parimente che a questo Ministro se gli dessero Giureconsulti, che assistendo al suo lato lo consigliassero bene, affinchè la sua potestà fosse regolata dalle leggi, e non passasse in tirannide. Vi fu de' nostri chi lungamente scrisse della lor potestà; ed il Reggente de Ponte ne compilò un ben grande volume, che va per le mani di tutti.
§. I. Del Consiglio collaterale e sua istituzione.
Ferdinando adunque, quando temendo della sterminata potenza del G. Capitano che s'avea acquistata nel Regno per lo suo valore e virtù, e per la benevolenza di tutti gli ordini; si determinò di persona a venire in Napoli per condurlo seco in Ispagna, ed in suo luogo lasciare il Conte di Ripacorsa per Vicerè, portò seco tre Giureconsulti ch'erano Reggenti del supremo Consiglio d'Aragona, per istabilirne un altro in Napoli a somiglianza di quello, non altrimente di ciò, che fece Alfonso, che a similitudine del Consiglio di Valenza introdusse nel Regno quello di Santa Chiara, il quale, quando risedevano i Re in Napoli, era il supremo come quello, nel quale giudicava l'istesso Principe, che n'era capo. Questi furono Antonio di Agostino, padre del famoso Antonio cotanto celebre e rinomato Giureconsulto, Giovanni Lone e Tommaso Malferito, colui che in tutti i trattati di tregua e di pace stabiliti ne' precedenti anni tra Ferdinando e Lodovico XII Re di Francia, rapportati da Federico Lionardo[255] fu adoperato dal Re Ferdinando per suo Procuratore e Nunzio insieme con Giovanni di Silva Conte di Sifuentes e Fr. Giovanni Enguera Inquisitor di Catalogna, onde vien chiamato ne' suddetti trattati Dottore e Reggente di Cancelleria. A costoro s'unì anche Bernardo Terrer, il quale essendo stato creato Consigliere di S. Chiara si rimase in Napoli. Mentre il Re in que' sette mesi, cioè da ottobre insino a giugno del 1507 si trattenne in Napoli, si valse per Reggenti della sua Cancelleria di due, cioè di Giovanni Lone e di Tommaso Malferito; ond'è, che quelle prammatiche ch'egli promulgò in Napoli, portano la soscrizione di Malferit; poichè in questi principj si praticava che un solo Reggente sottoscrivesse.
Bisognando poi partire per Ispagna, per le cagioni di sopra rapportate, e partir con animo di non mai più farci ritorno, lasciò come s'è detto per Vicerè il Conte di Ripacorsa, che per antonomasia veniva chiamato il Conte, ed in cotal guisa si firmava nelle scritture, e dovendosi seco ricondurre in Ispagna i due Reggenti Lone e Malferito, creò egli in lor vece due altri Giureconsulti per Reggenti, che dovessero assistere a lato del Vicerè per sua direzione, onde ne nacque il nome di Reggenti Collaterali. Erano ancora chiamati Auditori del Re, e ne' privilegj di Napoli e ne' capitoli conceduti alla città dal Conte di Ripacorsa, sono perciò indifferentemente chiamati Auditori e Reggenti[256].
Nel principio di questa istituzione non era composto tal Consiglio che di due soli Reggenti e d'un Segretario; e questi furono Lodovico Montalto Siciliano, il quale mentr'era Avvocato fiscale in Sicilia fu dal Re Ferdinando creato Reggente di Napoli, e Girolamo de Colle catalano (il quale trovandosi Consigliere di Santa Chiara fu parimente dal Re fatto Reggente) e sostituiti in luogo di Lone e Malferito, che ritornarono col Re in Ispagna. E durante il Regno di Ferdinando per tutto l'anno 1516 non furono in quello Consiglio, di cui era capo il Vicerè, che i suddetti due Reggenti col Segretario Pietro Lazaro Zea.
Nell'anno seguente 1517 e nel principio del Regno del Re Carlo e poi Imperadore, fu aggiunto il terzo Reggente, e stabilito che di tre, due fossero ad arbitrio e beneplacito del Re, ed il terzo nazionale e Regnicolo[257]. Fu costui il famoso Sigismondo Loffredo, il quale per la sua gran dottrina e saviezza, perchè il Re e la sua Corte stesse informata degli affari del Regno, fu da Carlo chiamato in Germania alla sua Corte, ove dimorò per tre anni continui. Quindi avvenne, che per la lunga dimora del terzo Reggente nella Corte, non risedendo nel collateral Consiglio di Napoli, che due soli, fosse costituito il quarto Reggente, affinchè uno che doveva esser nazionale andasse a risedere appresso il Re, perchè come istrutto delle cose del Regno informasse quella Corte, e tre stabilmente dovessero risedere in Napoli. Così nel 1519 fu creato Reggente Marcello Gazzella da Gaeta, che si trovava in Napoli Presidente della regia Camera, destinato per la Corte in luogo del Reggente Loffredo, il quale avea ottenuta licenza dal Re di poter tornare in Napoli, siccome tornò.
Narra Girolamo Zurita[258], che questo prudente consiglio di far venire a risedere nella Corte del Re un Ministro da' Regni d'Italia, fu ordinato dall'istesso Re Cattolico nel suo testamento, che fece prima di morire nel 1516, nel qual tempo, non essendosi ancora aggiunto alla Corona di Spagna lo Stato di Milano, ma solo i Regni di Napoli e di Sicilia, stabilì che venissero in Ispagna ad assistere con gli altri al Consiglio ch'egli avea eretto per l'indisposizione della Regina sua figliuola Giovanna, due Dottori, uno napoletano e l'altro siciliano; onde avvenne, che il Re Carlo suo successore, seguendo il suo consiglio, introducesse questo costume; e che poi avendo egli alla Corona di Spagna aggiunto il Ducato di Milano, venisse non pur da Napoli e da Sicilia, ma anche da Milano un Ministro ad assistere appresso lui nella sua Corte.
In questi principj, ancorchè fosse destinato un Reggente per la Corte, perchè l'Imperador Carlo V non avea in Ispagna perpetua residenza, ma scorrendo secondo i bisogni della sua Monarchia, ora la Germania, ora la Spagna, la Fiandra e l'Italia, i Reggenti destinati per la Corte doveano seguitarlo dovunque risedesse. Ma quando per la rinunzia e poi per la morte dell'Imperadore, alla Monarchia di Spagna succedè Filippo II suo figliuolo, questi mal imitando i costumi di suo padre, fermatosi in Ispagna, e quivi collocando stabilmente la sua sede regia, pensò di stabilire in Ispagna un Consiglio ove degli affari d'Italia si trattasse, e a dargli un Presidente; il qual Consiglio si componesse oltre de' Reggenti Spagnuoli, di vari Ministri che da Napoli, Milano e Sicilia si mandassero. Così nel 1558 fu stabilito in Ispagna il supremo Consiglio detto d'Italia; ed il suo primo Presidente fu D. Diego Urtado de Mendozza Principe di Mileto e Duca di Francavilla. Ed in questi principj Filippo II non contento d'uno, volle che da Napoli venissero in Ispagna due, li quali furono il Reggente Lorenzo Polo e Marcello Pignone, che si trovava Presidente di Camera, siccome leggesi in una sua regal carta rapportata dal Toppi[259] con tali parole: Para resedir aqui en esta Corte, y que se entiendan bien los negocios deste Reyno, de cuya buena, o mala espedicion pende mucha parte del govierno, y buena administracion de la Justicia: havemos accordado, que como solia haver un Regente, aya dos, y que estos sean el Doctor Polo Regente, y del nostro Consejo Collateral, y el Doctor Marcello Pinnon Presidente de la Summaria, etc.
In cotal guisa col correr degli anni fu stabilito questo supremo Consiglio, al quale essendo poi aggiunti altri due, si venne a comporre di cinque Reggenti, alcuni nazionali, altri ad arbitrio del Re, il quale per lo più eleggeva Spagnuoli. Il Regno d'Aragona pretese, che uno dovesse essere aragonese, riputando questo Regno dipendente da quella Corona, come acquistato da Alfonso colle forze d'Aragona, e non senza ajuto del Re Giovanni suo fratello. Ha per suo Capo, come s'è detto, il Vicerè, nelle di cui mani i Reggenti danno nel principio dell'anno il giuramento di serbar il secreto. E nel caso della colui morte, quando non se gli trovi dato il successore, nell'interregno assumono il governo insieme con essi, i Reggenti di Spada nominati di Stato, i quali sono creati dal Re, perchè in mancanza del Vicerè, sottentrando in suo luogo, prendano le redini del governo co' Togati, i quali assembrati insieme nel regal Palazzo trattino dei negozi attinenti allo Stato ed alla buona amministrazione del Regno, sino a tanto che il Re non provvegga del successore.
Stabilito che fu dunque in Napoli questo supremo Consiglio, conciosiachè avesse per capo il Vicerè, a cui era commessa la somma delle cose, venne per ciò ad innalzarsi sopra tutti gli altri, e vennero gli altri Tribunali a perdere l'antico lor lustro e splendore. Ma molto più per la lontananza della sede regia furono abbassati i sette Ufficiali del Regno; onde col volger degli anni si ridussero nello stato, nel quale oggi li veggiamo.
Molto perdè il Gran Contestabile, che avea la soprantendenza degli eserciti di Terra in campagna, perchè costituito il Vicerè Luogotenente del Re e suo Capitan Generale del Regno, tutta la sua autorità passò nella di lui persona; avendo egli il comando non pur degli eserciti in campagna, ma anche in tutte le Piazze e sopra tutti li Governi delle province, a cui ubbidiscono tutti gli altri Generali e Marescialli. Solo, come fu detto nel libro XI di questa Istoria, quando il Vicerè sia lontano dal Regno, nè altri fosse stato deputato, potrebbe oggi il Gran Contestabile ne' casi repentini, e quando la necessità lo portasse, riassumere il comando delle armi: ond'è, che ancora duri il costume, che in caso di non pensata morte del Vicerè, il Gran Contestabile, quando dal Re non sia stato altrimente provveduto, sottentri in suo luogo al Governo del Regno.
Per l'erezione di questo nuovo Consiglio, tutte quelle belle prerogative, che adornavano il Gran Cancelliere furono da lui assorbite. Fu ne' tempi d'appresso riputato prudente consiglio de' Principi di togliere a' Gran Cancellieri quelle tante ed eminenti loro prerogative, ed unirle a' Reggenti, ed alla loro Cancelleria[260]. Si rapportò a questo fine nel libro XI di quest'Istoria l'esempio del Cancelliere della Santa Sede di Roma, il quale, poi che quasi de pari cum Papa certabat, fu risoluto da Bonifacio VIII toglierlo, attribuendo la Cancelleria a se medesimo, stabilendo solamente un Vicecancelliere. Così appunto avvenne appresso noi nel Regno di Ferdinando il Cattolico, di Carlo e degli altri Re di Spagna suoi successori. La Cancelleria per questo nuovo Collateral Consiglio fu attribuita al Re ed a questo suo Consiglio, amministrato da' Reggenti detti per ciò anche di Cancelleria. Prima i Gran Cancellieri aveano la presidenza al Consiglio di Stato negli affari civili del Regno, l'espedizione degli editti e d'ogni altro comandamento del Re: aveano la soprantendenza della giustizia: eglino erano i Giudici delle differenze, che accadevano sopra gli Ufficj ed Ufficiali: regolavano le loro precedenze e distribuivano a ciascun Magistrato ciò, ch'era della sua incombenza, perchè l'uno non attentasse sopra dell'altro. Presentemente i Reggenti di Cancelleria sottoscrivono i memoriali, che si danno al Vicerè, essi pongon mano ai privilegi, interpretano le leggi; hanno l'espedizione degli editti e de' comandamenti del Re. Essi sono i Giudici delle differenze che accadono fra gli altri Ufficiali, decidono le precedenze, destinano i Giudici, distribuiscono a ciascun Magistrato ciò, che se gli appartiene, ed è della loro incumbenza. Presso loro risiede la Cancelleria, e con essa gli scrigni, i registri e tutto ciò che prima era presso il Gran Cancelliere.
Per ciò hanno un Segretario, il quale tien sotto se e sotto la sua guida altri Ufficiali minori, che sono tutti impiegati alla spedizion delle lettere regie, degli assensi, de' privilegi, delle patenti degli Ufficiali del Regno. Tiene per ciò sei Scrivani, che si dicono di Mandamento, quattro Cancellieri: un altro de' negozj della soprantendenza della Campagna; un altro dei negozi della regal giurisdizione e sei altri Scrivani ordinari, che han cura de' registri, del Suggello e dell'altre cose appartenenti alla Cancelleria: dodici Scrivani di forma: due Archivarj, un Tassatore, un Esattore, un Ufficiale del suggello e quattro Portieri. Tutti questi sono uffici vendibili, fuor che del Cancelliere della giurisdizione, il quale per essere ufficio di confidenza, si concede graziosamente a persona meritevole[261].
Quando prima i diritti delle spedizioni della Cancelleria erano regolati dal Gran Cancelliere, da poi Ferdinando il Cattolico per mezzo d'una sua prammatica, che si legge sotto il titolo super solutione facienda in Regia Cancellaria pro scripturis ibidem expediendis, prescrisse la quantità, che dee pagarsi, così per ispedizioni di lettere di giustizia, come di grazia, e per le concessioni delle Baronie e de' Titoli, de' Privilegi, de' Capitanati, de' Baliati, delle Castellanie, delle concessioni di mero e misto imperio, delle lettere di cittadinanza, di emancipazione, di Protomedici, Protochirurgi, di Doganieri e di Portolani, in brieve di tutti gli Uffici e di molte altre spedizioni: delle quali in quella prammatica fece egli un lungo catalogo, proscrivendo e tassando per ciascheduna le somme, che per diritto dee esiger la Cancelleria[262]. Prima, come narra il Tassone[263], non s'esigevano questi diritti; ma per mantenere gli Ufficiali minori della Cancelleria erano destinati li frutti d'un feudo posto tra li confini di Lettere e di Gragnano, che per ciò acquistò il nome di Cancelleria. Ma poi, essendo stato quello venduto al monastero di S. Jacopo dell'isola di Capri dell'Ordine della Certosa, fa uopo esigerli dalle parti e tassarli nella maniera, che si è divisata. Fu variato il modo delle spedizioni, e quando prima non era usata che la lingua latina, indi cominciò ad introdursi la spagnuola, e le prammatiche ancora a dettarsi con quel linguaggio.
Fu parimente per l'erezione di questo nuovo Consiglio molto scemata l'autorità del Gran Protonotario e del suo Luogotenente. Quasi tutte le prammatiche, i privilegi e l'altre scritture prima erano firmate dal Gran Protonotario o suo Luogotenente; al presente non si ricerca più la lor firma, ma de' soli Reggenti. Fu sì bene a tempo di Ferdinando il Cattolico in questi principi ritenuto il costume, che oltre a' Reggenti le prammatiche fossero anche firmate dal Viceprotonotario; e quando si trattava di cose attenenti al patrimonio regale, le spedizioni si facevano pro Curia dal Luogotenente del Gran Camerario, come s'osserva in quelle poche prammatiche, che promulgò in Napoli Ferdinando; nulladimanco nel decorso degli anni fu tolta affatto la lor firma, e rimase quella de' soli Reggenti. Anche nella creazione de' Notari e de' Giudici a contratti vi vollero la lor parte, ed oltre di prescrivere i diritti per le lettere de' Notari e de' Giudici, i loro privilegi pure si spediscono dalla Cancelleria con firma di un Reggente, oltre del Viceprotonotario.
Il Gran Camerario ed il suo Tribunale della regia Camera fu posto nella suggezione, nelle cause più gravi del Patrimonio regale, ed ove l'affare il richiegga, di dovere il Luogotenente e Presidenti di quella andare in questo Consiglio a riferir le loro cause, ed ivi deciderle; e ciò per la soprantendenza, che tiene sopra tutti i Tribunali della città e del Regno, drizzata al fine, che non altrimente potrebbe sperarsene un ottimo e regolato governo; ond'è, che si esiga la loro riverenza e rispetto.
Prima le dimande de' sudditi, che si facevano al Re, siano di giustizia o di grazia, si portavano al Gran Giustiziere, il quale nel giorno stesso, col consiglio d'un Giudice della Gran Corte, quelle che erano regolari, e che non avean bisogno di parteciparsi al Principe, le spediva egli immediatamente nel giorno seguente, le altre che richiedevano la scienza del Re, si mandavano suggellate al suo Segretario per la spedizione[264]. Ora per l'elezione di questo Consiglio, tutti li preghi e memoriali si portano dirittamente al Segretario del Collaterale e suoi Scrivani di Mandamento, e vi si dà la provvidenza.
Non minore abbassamento sperimentarono gli altri Ufficiali della Corona e della Casa del Re e tutti gli altri Ufficiali minori a lor subordinati, non tanto per l'erezione di questo nuovo Consiglio, quanto per esser mancata in Napoli la sede regia, e trasferita altrove in remotissime regioni.
Al Grand'Ammiraglio, per l'erezione del General delle galee e del Tribunal dell'arsenale, divenne molto ristretta la sua autorità. Questo nuovo Capitan Generale ebbe la soprantendenza sopra le galee di Napoli e del Regno con una totale independenza dal Grand'Ammiraglio; ed ancorchè nel Parlamento generale convocato in Napoli nel 1536, nella dimora che vi fece l'Imperador Carlo V, fossegli stato richiesto, che quello dovesse esser Cavaliere napoletano, e l'Imperadore avesse risposto, che secondo il bisogno e contingenza de' tempi avrebbe provveduto[265], si vide sempre però in persona di Spagnuoli, li quali esercitando giurisdizione sopra le persone a quelle deputate, secondo le instruzioni che ne diede il Re Filippo II, rapportate dal Reggente Costanzo[266], eressero un Tribunale a parte, independente da quello del Grande Ammiraglio, con eleggervi un Auditor generale ed altri Ufficiali minori, da' decreti del quale s'appella non già al Grand'Ammiraglio, ma al Vicerè, il quale suol commettere le appellazioni per lo più a' Reggenti del Collaterale, ovvero ad altri Ministri che meglio gli piacerà[267].
Parimente fu eretto un nuovo Tribunale dell'Arsenale ch'esercita giurisdizione civile e criminale sopra molti, ch'esercitano l'arte di costruir navilj, tutto subordinato e dipendente non già dal Grand'Ammiraglio, ma dalla Regia Camera e suo Luogotenente, il quale vi destina un Presidente di quella a reggerlo, ed alla quale si riportano le appellazioni de' decreti del medesimo[268].
CAPITOLO III. Nuova disposizione degli Ufficiali della Casa del Re.
L'Ufficio del Gran Siniscalco, per non esser più Napoli sede regia, rimase poco men ch'estinto ed abolito. E si videro sorgere nuovi Ufficiali affatto da lui indipendenti.
Il Gran Siniscalco, siccome si è potuto vedere nell'undecimo libro di quest'Istoria, avea la soprantendenza della Casa del Re; e quantunque la sua carica riguardasse il governo della medesima, nulladimanco perchè la sua autorità non era limitata da alcun luogo o provincia, ma si stendeva in tutto il Reame, nè era mutabile per ogni mutazione di Re; si diceva per ciò servire allo Stato, e non già solamente alla persona del Re, onde per uno degli Ufficiali della Corona era riputato. Avea egli sotto se più Ufficiali nella Casa del Re, dei quali nel libro XXI di quest'Istoria se ne fece un lungo catalogo; alcuni dei quali, durando ancora la residenza de' Re in Napoli, pure furono esentati, come si disse, dall'ubbidienza del Gran Siniscalco, e sottoposti immediatamente al Re.
Ma da poi che i Re abbandonarono Napoli, trasferendo altrove la lor sede regia, e reggendo la città ed il Regno un suo Luogotenente detto Vicerè, restarono soppressi que' tanti Ufficiali così maggiori, come minori della Casa del Re, subordinati per la maggior parte al Gran Siniscalco; ed altri nuovi ne sursero nel Palazzo reale, subordinati non già più al Gran Siniscalco, ma assolutamente al Vicerè, a cui, come al di lui palazzo servivano.
S'estinsero i Ciambellani, i Graffieri, nomi franzesi, i Panettieri, gli Arcieri, gli Scudieri e tanti altri Ufficiali; e ne furono all'uso di Spagna altri introdotti, che doveano aver cura del Palazzo reale, e servire al Vicerè, ed alle sue Segreterie, con indipendenza dal Gran Siniscalco.
Si stabilirono due Segreterie, una di Stato e di Guerra, l'altra di Giustizia. L'una e l'altra non hanno alcuna dipendenza dalla Segreteria del Regno, nè dal Consiglio Collaterale; e la comunicazione di tutti que' negozj, che il Vicerè rimette in Collaterale, passa per quelle Segreterie. Ciascheduno di questi due Segretarj secondo la loro incombenza, o di guerra o di giustizia, spediscono in nome del Vicerè gli ordini, che egli prescrive. Per la Secreteria di Guerra passano tutti i negozj militari e di Stato, e tutti quelli, che appartengono agl'interessi del regal Patrimonio e delle Comunità del Regno, e di tutti gli arrendamenti e gabelle. Per quella di Giustizia, possano tutti i negozj appartenenti alla buona amministrazione di giustizia, ed elezione di tutti i Governadori ed Assessori delle città e Terre demaniali, Presidi, Auditori di province, Giudici di Vicaria, e di tutte l'altre somiglianti cariche, che provvede il Vicerè. Non s'usa nelle loro Segreterie altra lingua che la Spagnuola. Tengono sotto di loro più Ufficiali per la spedizione de' biglietti e dispacci, che nella città si dirizzano a' Capi de' Tribunali, ed altri Ministri così di spada, come di toga, e nelle province a' Presidi, e suoi Ufficiali. Prima riconoscevano il Gran Protonotario per loro Capo, ora il Vicerè che li tiene nel regal Palazzo per la più pronta e sollecita spedizione degli affari.
Nel Palazzo regale si è ancora unita la Scrivania di Razione, la quale prima secondo ciò che scrisse il Summonte[269], s'esercitava nella propria Casa dello Scrivano di Razione, e la quale in forma di Tribunale, oltre lo Scrivano di Razione suo Capo, tiene molti Ufficiali minori suoi sudditi. Ne tiene ancora nelle province, che parimente Scrivani di Razione sono appellati. La sua incombenza è di tener cura della Matricola, ovvero Rollo di tutti i soldati del Regno, di tutti gli Stipendiarj, e di tutti gli Ufficiali, siano di Toga, o di Spada, a' quali il Re paga soldo. Tiene il Rollo delle Milizie della città e del Regno. Tiene conto delle Castella e Fortezze del Regno, così per le provvisioni de' Soldati, come delle munizioni, fabbriche, reparazioni, e d'ogni altra cosa, che in quelle si fanno; nè possono spedirsi ordini per lo pagamento de' loro soldi, se non saranno prima nella matricola, che e' conserva, notati. Nell'occorrenze ha luogo nel Collateral Consiglio, ove siede dopo il Luogotenente della regia Camera, al cui Tribunale è sottoposto, e precede al Tesoriere, al Reggente della Vicaria, ed al Segretario del Regno[270], ed è decorato col titolo di Spettabile[271].
Parimente nel Palazzo regale s'è unita la Tesoreria. Prima, ne' tempi dell'Imperador Federico II, la Tesoreria era nel castel del Salvatore, oggi chiamato dell'Uovo, dove Federico ordinò, che dovesse il Tesoro trasportarsi, e vi destinò per la custodia tre Tesorieri, Angelo della Marra, Marino della Valle ed Efrem della Porta. Ferdinando il Cattolico, come narra il Zurita[272], abolendo il Tesoriere, avea introdotto un nuovo Ufficiale, detto Conservator Generale, nella persona di Giovan Battista Spinelli; ma sperimentatosi dannoso, quando venne in Napoli, alle querele di molti, che l'aveano per esoso, l'estinse affatto, e rifece, come prima il Tesoriere. Era questi prima totalmente subordinato al Gran Camerario, come quegli che teneva la cura e custodia del Tesoro del Re: ora è subordinato al Vicerè, ed al Tribunal della Camera. Ha il secondo luogo dopo lo Scrivano di Razione, con cui tiene molta connessione ed intelligenza; ed ancorchè sia da costui preceduto, precede egli però al Decano della Camera, quando, o in questo Tribunale, o in Collaterale accadesse di sedere. Ha ancora in Collaterale Sedia, quando il Decano siede allo Sgabello[273].
In questo nuovo governo degli Spagnuoli surse un nuovo Ufficiale detto Auditor Generale dell'Esercito, che lo potrem anche dire Giudice del Regal Palazzo. Introdotte che furono nel Regno le milizie spagnuole; fu loro dato un General Comandante, chiamato il Mastro di Campo Generale. Questi ebbe il suo Auditor Generale, al quale fu data la conoscenza delle cause di tutti i soldati spagnuoli stipendiati ed altri detti Piazze morte; la sua giurisdizione s'estende ancora sopra i soldati, Alfieri e Capitani italiani, e sopra i 50 Continui, de' quali si parla ne' privilegi di Napoli conceduti da Carlo V[274]. Negli ultimi tempi per prammatica del Conte di Lemos del 1614, confermata poi dal Cardinal Zappata nel 1622, fu stesa la cognizione del suo Tribunale sopra altri affari.
Tiene sotto di se altri Tribunali minori, come quello dell'Auditor del Terzo Spagnuolo e di tutti gli altri Auditori delle castella, delle città e del Regno. Il Terzo Spagnuolo tiene un suo Auditor a parte, il quale ha la cognizione delle cause civili e criminali sopra i soldati spagnuoli del Terzo residente in Napoli; però questo Tribunale è subordinato a quello dell'Auditor Generale dell'esercito, perchè da' suoi decreti s'appella al Tribunale dell'Auditor Generale.
Parimente i tre Castelli della città di Napoli, Castel Nuovo, quel di S. Ermo e l'altro dell'Uovo, hanno ciascuno un Auditor particolare, che vien eletto dal Castellano, ed ognun tiene il suo Attuario e Coadiutore della Corte. Questi esercitano giurisdizione sopra tutti quelli, che abitano ne' Castelli; quel del Castel Nuovo l'esercita anche sopra quelli che sono nella torre di S. Vincenzo. Prima, da' loro decreti s'appellava al Vicerè, che commetteva le appellazioni a vari Ministri, perchè le rivedessero. Poi dal Conte di Lemos nel 1614, per sua prammatica confirmata dal Cardinal Zappata nel 1672, fu stabilito, che le appellazioni si rivedessero dall'Auditor Generale dell'esercito, a cui sono subordinati.
Tiene ancora la conoscenza sopra tutti coloro, che abitano e sono del Palazzo del Vicerè, e conosce dei delitti ivi commessi, essendo egli il Giudice della casa del Re. Prima questa conoscenza era del Gran Siniscalco, come Capo Uffiziale della casa del Re; ora è dell'Auditor Generale, con subordinazione non già al Gran Siniscalco, ma solo al Vicerè, al quale si riportano le appellazioni de' suoi decreti, da chi sono commesse a que' ministri, che gli piaciono[275]. Pretende ancora aver conoscenza sopra i Soldati della guardia Alemanna destinata per custodia del regal Palazzo; ma glie la contrasta il lor Capitano, che se l'ha appropriata. Parimente i Cantori della regal Cappella, essendo della famiglia del real Palazzo, dovrebbero esser a lui subordinati: ma il Cappellan Maggiore ne tiene ora la conoscenza, e come suoi sudditi vengon riputati.
Pure il Cappellano Maggiore, ch'è Capo della Cappella del regal Palazzo, merita per questa parte essere annoverato tra gli Ufficiali della Casa del Re. Tiene egli giurisdizione nell'Oratorio regio e sopra tutti i Cappellani regi, anche de' Castelli della città e del Regno. La esercita ancora sopra i Cantori della Cappella regia. Tiene il suo Consultore e de' decreti del detto Tribunale se ne appella al Vicerè, il quale suole commettere l'appellazione a que' Ministri, che gli piaciono. Dell'origine ed incremento del Cappellano maggiore, sue prerogative e soprintendenza nei Regi Studi già diffusamente si è discorso nel XXI libro di quest'Istoria.
CAPITOLO IV. Degli altri Ufficiali, che militano fuori della Casa del Re.
Questi finora annoverati sono gli Ufficiali del regal Palazzo, secondo la nuova disposizione degli Spagnuoli. Prima tra gli Ufficiali della Casa del Re erano annoverati, il Maestro delle Razze Regie ed il Maestro delle Foreste e della Caccia. Ma sotto il Regno degli Spagnuoli questi due Uffici furono trasformati, e presero altre sembianze.
Il Maestro delle Razze Regie, detto ancora il Cavallerizzo Maggiore del Re, innalzò in sua propria casa un Tribunale a parte col suo Auditore ed Attuario, dove esercitava giurisdizione sopra tutte le persone destinate alle razze regie, che il Re teneva così in Napoli, come nelle province, in Terra di Lavoro, al Mazzone presso Capua, nella Puglia ed in Calabria. De' suoi decreti s'appellava alla regia Camera, a cui era subordinato. Nel 1660 fur dismesse le razze, che teneva in Calabria, come al Re dannose[276]. Nei tempi nostri furono parimente per l'istessa cagione tolte in Napoli, nel Mazzone e nella Puglia; ond'oggi rimane estinto in noi questo Tribunale, ed abolito affatto l'ufficio di Cavallerizzo del Re.
Contraria fortuna ebbe il Maestro delle Foreste e della Caccia, chiamato oggi il Montiere Maggiore. Prima, com'è chiaro da' Capitoli del Regno, la sua giurisdizione ed incombenza non si stendeva più, che nelle foreste demaniali del Re. Da poi essendo la Caccia divenuta regalia del Principe, si stese sopra tutti i luoghi, nè viene ora ristretta da alcun termine o confine. Egli dà le licenze a' Cacciatori, e che possano a tal fine portar arme per tutto il Regno: tiene il suo Tribunale a parte con un Auditore ed Attuario, e s'è di presente innalzato tanto, che è riputato uno degli ufficj non meno illustre, che di rendita[277].
Ma sopra tutti questi Uffici, niuno a questi tempi s'innalzò tanto, quanto il Maestro delle Osterie e delle Poste, chiamato ora comunemente il Corriere Maggiore, il quale per essere di moderna istituzione, era dovere riportarlo a questi tempi, e di cui per ciò più distesamente degli altri bisogna ora far parola.
L'Ufficio di Corrier Maggiore, ovvero Maestro delle Osterie e delle Poste secondo la moderna istituzione, è tutto altro dal Corso pubblico, che leggiamo praticato presso i Romani; e le sue funzioni non sono le medesime, che si descrivono nel Codice Teodosiano sotto quel titolo[278]. Appresso i Romani, almeno negli ultimi tempi dell'Imperio di Costantino M. e dei suoi successori, non era un ufficio a parte, o che la soprantendenza di quello s'appartenesse ad un solo. Era regolato il Corso pubblico, oltre al Principe, dagli Ufficiali ordinarj dell'Imperio; ne doveano tener cura e pensiero i Prefetti al Pretorio, i Maestri dei Cavalieri e degli Ufficj, i Proconsoli ed i Rettori delle province. Non si restringeva la loro cura nella sola spedizione de' Corrieri a piedi, o a cavallo, portatori di lettere, quo celerius, ac sub manum (come d'Augusto scrisse Svetonio[279] ) annunciari cognoscique posset, quid in Provincia quaque gereretur, o come di Trajano narra Aurelio Vittore[280], noscendis ocyus quae ubique e Repubblica gerebantur, admota media publici cursus[281]; ma la più importante loro incombenza era di provvedere in tutti i luoghi di quanto faceva bisogno per li viaggi del Principe: per quelli che intraprendevan i Rettori, i Consolari, i Correttori, o Presidi delle province: quando dall'Imperadore erano mandati a governarle, o quando finita la loro amministrazione erano richiamati in Roma: per li viaggi degli altri Magistrati, così civili come militari, quando occorreva scorrere le Province: per li Legati, che, o si mandavano dal Senato e Popolo romano o da' Provinciali all'Imperadore: ovvero per quelli, che dalle Nazioni straniere erano mandati a Roma: in breve, per li viaggi di coloro, a' quali, o la legge, o il Principe concedeva di potersi servire del Corso pubblico, del quale non potevano valersi i privati, se non quando con indulto o licenza dell'Imperadore si concedevan loro lettere di permissione, che chiamavano evectiones.
Tutte le spese, sia per uomini destinati al pubblico corso, sia per cavalli, bovi o altri animali, per carri, carrocci, quadrighe ed ogn'altro bisognevole, erano somministrate dal Fisco, o dal pubblico Erario. Quindi avvenne, che per mantenere questo pubblico corso, erano imposte alle Province alcune prestazioni, chiamate angarie o parangarie; e sovente era domandato a' Provinciali, ovvero da essi perciò offerto, qualche tributo. Quindi era, che l'uso di questo corso era solamente destinato per le pubbliche necessità, non già per le private; onde a' privati, come si è detto, non era permesso valersene, se non con licenza e per missione. E quindi furono prescritte tante leggi per ben regolarlo, come si vede nel Codice di Teodosio[282], e di cui metodicamente scrisse il Gutero[283] e più esattamente Giacomo Gotofredo in quel titolo[284].
Ma caduto l'Imperio romano, e diviso poi in tanti Regni sotto vari Principi stranieri, ed infra di lor discordi e guerreggianti, non potè mantenersi questo pubblico Corso. I viaggi non erano più sicuri, i traffichi ed i commerci pieni d'aguati e di sospetti, onde venne a togliersi affatto, nè di quello restò alcuno vestigio.
Stabiliti da poi col correr degli anni in Europa più dominj, sebbene non potè ristabilirsi affatto il corso pubblico, nulladimanco, siccome per li commerci e traffichi fu ridotto a maggior perfezione l'uso delle lettere di cambio, così i Principi ad imitazione degli Imperadori romani, pigliarono a ristabilire quella parte del corso pubblico che riguardava la spedizione dei corrieri a piedi ed a cavallo, ed a disporre almeno i viaggi di quelli per le pubbliche strade e provvedergli nel passaggio del bisognevole (ond'è, che a' corrieri maggiori fu data ancora giurisdizione sopra l' Osterie, e perciò furon anche chiamati Maestri delle Osterie, siccome nelle concessioni di Carlo V e di Filippo II e III fatte di questo ufficio a' Signori Tassi, vengon chiamati Maestros mayores de Ostes, y Postas, y Correos de nuestra Casa, y Corte, etc.[285] ), affinchè i Corrieri ne' cammini non patissero disagi, e con prontezza e celerità s'affrettassero ad avvisar loro quanto passava ne' loro eserciti ed armate, ne' loro Regni e province, e nelle Corti degli altri Principi, dove essi tenevano Ambasciadori. Ed in Francia, scrive Filippo di Comines Signor d'Argentone[286], che il Re Luigi XI avesse ordinato le poste, le quali per l'addietro non mai vi furono; siccome in Inghilterra per autorità regia furono i Corrieri parimente istituiti[287].
Chi presso i Romani avesse prima introdotta questa usanza, par che discordino gli Autori dell'Istoria Augusta. Svetonio[288] ne fa autore Augusto; Aurelio Vittore[289], Trajano; Sparziano[290], Adriano; e Capitolino[291], Antonino Pio. Che che ne sia, nel che è da vedersi Lodovico von Hornick[292], e Giacomo Gotofredo[293], il quale si studia ridurli a concordia: egli è certo, che secondo questa nuova istituzione fu costituito sopra ciò un nuovo ufficio a parte, incognito a' Romani, la cura del quale fu commessa ad un solo, e ristretto ad una più gelosa incombenza ch'era la sopraintendenza de' Corrieri, li quali dalle loro Corti spedivano i Principi sovente a' Capitani d'eserciti o d'armate, a' Governadori de' loro Reami o province e ad altri loro Ministri ed Ambasciadori: dalla lealtà e segreto del quale dipendeva sovente il cattivo o buon successo d'una negoziazione, d'una battaglia, d'un assedio di piazza, e de' trattati di lega o di pace con gli altri Principi suoi amici o competitori. Per questa cagione fu reputato quest'ufficio di gran confidenza e di grande autorità, e di maggiore emolumento[294]; poichè oltre d'aver il Corrier maggiore la soprantendenza e la nomina di tutti i Corrieri, di prender da essi il giuramento necessario per lo fedele e leal uso di quello, tassare i viaggi, per li quali esigeva le decime ed altri emolumenti, e stabilire le poste, avea ancora la giurisdizione sopra tutte le osterie, siccome è manifesto dalle riferite concessioni di Carlo V, e de' Re Filippo II e III, fatte a' Signori Tassi, i quali lungamente tennero quest'ufficio; e sebbene costoro si fossero astenuti sopra gli osti d'esercitarla, non è però, che in vigore delle concessioni suddette non avessero avuta facoltà di farlo[295].
Oltre i tanti obblighi, che annoverò Lodovico von Hornick[296] nel suo trattato De Regali Postarum Jure, teneva presso noi il Corriere Maggiore obbligo d'assistere appresso la persona del Principe, stando egli nella sua Corte ovvero presso la persona de' suoi Vicerè o Luogotenenti, dimorando egli ne' Regni, dove gli conveniva esercitar il posto: avere la sua abitazione in luogo, quanto più fosse possibile vicino al Palagio reale, affinchè si ponesse meno intervallo fra l'arrivo del corriere o Staffetta, e l'avviso che deve darsi tosto al Principe o suo Luogotenente. Se accaderà a costoro uscire fuori della città per incontrare da lontano qualche Principe o altro personaggio di stima, è tenuto il Corrier maggiore seguirli e preparar loro comode ed agiate stanze per tutti i luoghi dove dovran albergare. Parimente se dovranno andare alla guerra deve seguitarli e servirli di corrieri, postiglioni e cavalli: se l'esercito dovrà stare in campagna dovrà fare il medesimo, sempre stando a' fianchi e vicino al Principe o suo Luogotenente; ed in tempo di marcia star vicino allo stendardo regale, ove sogliono dimorare i trattenuti Gentiluomini e Cavalieri che non hanno altro carico[297].
In questi principj l'ufficio ed amministrazione del Corrier maggiore non era che intorno alla soprantendenza, nomina e spedizione de' Corrieri per negozi ed affari del Principe e dello Stato; onde a somiglianza del Corso pubblico de' Romani, i privati non v'aveano parte alcuna, e le città ed i loro abitatori aveano la libertà di comunicare e trattare i loro negozi e traffichi per quelli mezzi e persone che ad essi piaceva eleggere. Il Cardinal di Granvela fu quegli, che richiamato dal Re Filippo II dal governo di Napoli (dov'era dimorato quattro anni Vicerè) in Ispagna per esercitare nella sua Corte la carica di Consigliere di Stato e di Presidente del Consiglio d'Italia, instituì il primo nell'anno 1580, negli ordinarj d'Italia, le staffette, le quali da poi nell'anno 1597 furono instituite in Siviglia ed in tutta la Spagna. Per la quale instituzione, si tolse alle città e loro abitatori la libertà che aveano di eleggere le persone ed i mezzi per comunicarsi insieme, perchè coll'uso degli ordinarj e delle staffette stabilite, si pensò di ridurre ad una mano, ed all'utile d'uno la comunicazione de' Regni, il cui diritto poteva solo appartenere al Principe Sovrano, intervenendovi la causa pubblica, e convertendosi in di lui utile quel che si ricavava da' particolari. Quindi all'utile, che il Corrier maggiore ritraeva, ripartendo i viaggi de' Corrieri, delle decime, s'aggiunse l'utile delle staffette che si ricavava da' particolari.
S'aggiunse appresso l'utile de' Procacci. Non ha dubbio, che l'uso de' Procacci tragga la sua origine dal Corso pubblico de' Romani, e sia una picciola parte di quello, per ciò che riguarda la disposizione praticata in esso intorno al trasporto delle robe; ma nel rimanente i Procacci presenti, sono da quello differenti: poichè questi hanno giorno determinato per la loro partenza: s'usano cavalli propri o muli a vettura, e sogliono avere gli alloggiamenti a luogo a luogo, ove sempre ritrovano quelli pronti e provveduti: furono introdotti non pure per la pubblica comodità del Principe e dello Stato, ma per li commerci e per li più comodi viaggi e trasporti di robe de' privati, conducendo casse, balle ed altre loro mercatanzie[298].
Essendosi cotanto ampliata la sua giurisdizione, e più i suoi emolumenti, quindi ora vedesi avere Tribunal proprio[299], e molti Ufficiali minori[300], distribuiti non meno per ben regolarlo, che per l'esazione degli emolumenti; tal che è riputato ora uno de' maggiori ufficj, che al pari della grandezza e lustro vada congiunta la dovizia e l'utilità.
Questo cangiamento fu veduto negli Ufficj nel nuovo Governo spagnuolo, nel quale fu introdotto ancora costume, che la collazione de' medesimi si rendesse per la maggior parte venale: e quando prima non erano conceduti se non a persone, che se gli aveano meritati per loro fatti egregi o nell'arme, o nelle lettere, furono da poi, per lo bisogno continuo, che s'avea di denaro, renduti quasi tutti vendibili; e non pure la concessione fu ristretta alla sola vita del concessionario, ma a due e tre vite, ed anche si videro perpetuati in una famiglia, e sovente erano ancora conceduti in allodio per se e loro eredi in perpetuo.
Si vide ancora nel nuovo Regno degli Spagnuoli un altro cangiamento intorno a' Titoli, li quali si videro più del solito abbondare. Quando prima il Titolo di Principe non era conceduto, che a' primi Signori ed a Reali di Napoli, si vide da poi non già colla mano, ma col paniere dispensarsi a molti, non altrimente di quel che si faceva de' Titoli di Duca, di Marchese, o di Conte; tanto che Ferdinando il Cattolico nella Tassa, che ordinò de' diritti di Cancelleria, ugualmente trattò gli emolumenti, che doveansi esigere per le investiture del Principato, che del Ducato, Marchesato e Contado, siccome uguale era il diritto per la concessione d'un nuovo Titolo di Principe, che di Duca, di Conte, o di Marchese. E poichè non meno che gli Ufficj, le Baronie ed i Titoli erano renduti venali, quindi a folla cominciarono a multiplicarsi fra noi i Titoli ed i Baroni; e negli ultimi tempi del loro Governo la cosa si ridusse a tale estremità, che fu detto, che gli Spagnuoli avean posta la Signoria fino al bordello, e creati più Duchi, e Principi a Napoli, che non eran Conti a Milano.
Furono parimente introdotte nel Regno nuove famiglie spagnuole, i Sanchez di Luna; i Cordova; i Cardoni; gli Alarconi; i Mendozza; i Leva; i Padigli; gli Erriquez e tante altre, decorate non men di Titoli, che di Stati e Signorie. S'introdussero per ciò nuovi costumi ed usanze, delle quali nel decorso di quest'Istoria, secondo l'opportunità, ci sarà data occasione di parlare.
La disposizione delle province però non fu alterata. I Presidi continuarono a governarle come prima, chiamati ancora a questi tempi Vicerè. Il numero era lo stesso, ma non corrispondeva il numero delle province a quello de' Presidi. Sovente due province, come vediamo ancor ora praticarsi nelle province di Capitanata e Contado di Molise, erano amministrate da un sol Preside; e nel Regno di Filippo II, siccome ce ne rende testimonianza Alessandro d'Andrea, che scrisse la guerra, che questo Principe ebbe a sostenere col Pontefice Paolo IV, non erano nel Regno, che sei Presidi, a' quali era commessa l'amministrazione della giustizia in tutte le dodici province; quantunque per ciò che riguardava l amministrazione delle rendite regali, il numero de' Tesorieri, ovvero Percettori corrispondeva a quello delle province. Fu per tanto il numero de' Presidi sempre vario, ora accrescendosi, ora diminuendosi, secondo le varie disposizioni ed ordinamenti de' nostri Principi. Siccome le città della loro residenza, non furon sempre le medesime, trasferendosi ora in una, ora in altra, secondo il bisogno, o la migliore loro direzione e governo richiedeva.
CAPITOLO V. Delle leggi, che Ferdinando il Cattolico ed i suoi Vicerè deputati al governo del Regno ci lasciarono.
Ferdinando ci lasciò poche leggi, ma quelle del G. Capitano, del Conte di Ripacorsa e di D. Antonio di Guevara suo Luogotenente, di D. Raimondo di Cardona e di D. Bernardino Villamarino suo Luogotenente, furono più numerose.
Merita tra le leggi di Ferdinando essere annoverata in primo luogo quella, che a richiesta della città stabilì per ristoramento dell'Università degli Studi di Napoli: erano i nostri Studi per li precedenti disordini e rivoluzioni di cose quasi che estinti, ed i pubblici Lettori, a' quali dal regio erario erano somministrati i soldi, per le tante guerre precedute, non erano pagati: pregarono per tanto i Napoletani il Re Ferdinando, ch'essendo il Regno pervenuto nelle di lui mani, ed essendo stato nella città di Napoli capo del Regno, e sede regia, da tempo antichissimo lo Studio generale in ogni facoltà e scienza, ed in quello essendo stati Cattedratici i più famosi Dottori in ogni facoltà, salariati da' Re suoi predecessori, era allora per le precedute guerre quasi che mancato ed estinto; onde lo pregarono di volerlo ristaurare, e ridurlo al primiero stato, preponendo alle letture i Dottori napoletani ed i regnicoli a' forastieri, ed ordinare il pagamento a' Lettori sopra alcuna speziale entrata di S. M. nella città di Napoli, o nella provincia di Terra di Lavoro. Il Re benignamente vi acconsentì, ed ordinò al suo Tesoriere, che delle sue più pronte e spedite rendite pagasse ogni anno agli Eletti della città per mantenimento de' Lettori ducati duemila, come dal suo diploma spedito nella città di Segovia sotto li 30 settembre del 1505.[301] Ciò che poi fu confermato dall'Imperador Carlo V nel Parlamento generale tenuto in sua presenza in Napoli nel 1536[302].
Le altre sue leggi si leggono nel volume delle nostre prammatiche. Prima di venire a Napoli ne promulgò alcune nelle città di Toro, di Segovia e di Siviglia. Venuto in Napoli ne promulgò altre, che portano la data nel Castel Nuovo. Ritornato in Ispagna insin che visse ne stabilì alcune altre, le quali secondo l'ordine de' tempi furono raccolte nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre prammatiche, secondo l'ultima edizione del 1715.
Nella sua assenza i Vicerè suoi Luogotenenti, ai quali era di dovere, che per la lontananza della sua sede regia, si dasse questa potestà, ne stabilirono moltissime.
Il Gran Capitano in febbrajo ed in giugno dell'anno 1504 ne promulgò due, ed un'altra in decembre del seguente anno 1505.
Il Conte di Ripacorsa ne stabilì pure alcune savie e prudenti. Diede egli per le medesime l'esilio dal Regno a tutti i Ruffiani: proibì severamente i giuochi e le usure, e riordinò la disciplina con leggi severe e serie, la quale per li preceduti disordini si trovava in declinazione e quasi che spenta. Alla di lui intercessione deve il Regno quelle prerogative, che Ferdinando il Cattolico gli concedette epilogate in 37 Capitoli[303]: siccome in tempo del suo Governo furono stabiliti in Napoli i Capitoli del ben vivere[304], donde fu con tanta esattezza e saviezza provveduto alla dovizia ed abbondanza della città. Ed in que' pochi giorni, che D. Antonio Guevara come suo Luogotenente, governò il Regno, ne fu da costui stabilita una molto savia, per la quale furono rinovati i regolamenti, che Ferdinando I avea dati intorno a' Cherici e Diaconi Selvaggi[305].
D. Raimondo di Cardona così nel Regno di Ferdinando, come in quello di Carlo V, che lo confermò Vicerè, ci lasciò pure sue prammatiche, siccome D. Bernardino Villamarino suo Luogotenente; le quali, per non tesserne qui un noioso catalogo, possono secondo l'ordine de' Tempi osservarsi nella suddetta Cronologia prefissa al primo Tomo delle nostre prammatiche.
Queste furono le prime leggi, che ci diedero gli Spagnuoli: leggi tutte provvide e savie, nello stabilir delle quali furono veramente gli Spagnuoli più d'ogni altra Nazione avveduti, e più esatti imitatori dei Romani.
CAPITOLO VI. Politia delle nostre Chiese durante il Regno degli Aragonesi insino alla fine del secolo XV, e principio del Regno degli Austriaci.
Siccome si è potuto osservare ne' precedenti libri di quest'Istoria, i Pontefici romani, dopo essere interamente estinto lo Scisma, si occuparono più nelle guerre d'Italia, e a favorire, o contrastare uno de' Principi contendenti, che alle spedizioni contra i Turchi, o ad altre più grandi imprese. Si applicarono ancora, cominciando da Calisto III agl'interessi della propria Casa, e ad ingrandire i loro parenti e nipoti: instituto che continuato da' successori portò in Italia nelle loro private famiglie due grandi Signorie, quella di Fiorenza nella Casa de' Medici, e l'altra di Parma in quella de' Farnesi; e coloro, che non ebbero opportunità d'innalzarli cotanto, li provvidero almanco di ampi Stati ed estraordinarie ricchezze. Alessandro VI svergognò il Pontificato, perchè tutta la sua avarizia, tutta la sua ambizione e crudeltà, e tante altre sue scelleratezze le indirizzò a questo fine, d'innalzar Cesare Borgia suo figliuolo da privato ad assolute ed independenti Signorie.
L'avidità di cumular tesori e tirar denaro in Roma da tutte le parti e per ogni cosa, li tenne solleciti, di stender la loro giurisdizione sopra il temporale; dì ricevere le appellazioni in ogni sorta di causa, e di tirare in fine tutte le liti in Roma. Si tirarono ancora le collazioni di quasi tutti i Beneficj, colle riserve, grazie, aspettative, prevenzioni, annate e pensioni; e la maggior parte de' Beneficj più doviziosi furono posti in commenda. Tutti gli Arcivescovadi, Vescovadi, Badie, Priorati e Prepositure furono tirate in Roma. Le Indulgenze, che a questi tempi più del solito erano concedute da' Pontefici, le dispense, le decime, che erano imposte a' Cleri, e tanti altri emolumenti tiravano alla Camera Appostolica grandi ricchezze.
Ma sopra ogni altro dagli Spogli, particolarmente in Italia, si ricavavano somme considerabilissime. Ancorchè il Concilio di Costanza avesse proccurato porvi freno, con tutto ciò, morto il Beneficiato, prima che che se gli fosse dato il successore, ciò che lasciava, applicavasi alla Camera del Pontefice. Si mandavano Collettori e Sottocollettori per tutto, li quali con severe estorsioni mettevano in conto di spoglie eziandio gli ornamenti delle Chiese, e davano molta molestia agli eredi, anche sopra i beni acquistati dal defunto con industria, o cavati dal suo Patrimonio; ed in dubbio di qual qualità fossero i beni, sentenziavano a favor della Camera: e coloro che ad essi si opponevano, eran travagliati con scomuniche e censure.
In Francia e nella Germania tutte queste intraprese trovarono delle opposizioni, ed in Ispagna la legge degli Spogli fu ristretta a' soli Vescovi. Ma nel nostro Reame, come si è veduto nel XXII libro di quest'Istoria, mentre durò il Regno degli Angioini ligi de' Pontefici romani, si sofferirono queste ed altre cose peggiori.
Trasferito poi il Regno agli Aragonesi, Alfonso I e gli altri Re suoi successori della Casa d'Aragona, ancorchè seguendo gli esempi di Spagna; non piacesse loro usare que' forti ed efficaci rimedi, che si cominciavano a praticare in Francia; con tutto ciò andavano medicando le ferite con unguenti e con impiastri, affin di togliere, come meglio potevano, almeno gli abusi più gravi ed intollerabili. Essi, perchè i pregiudizi sofferti da' loro predecessori non loro ostassero, tiravano il titolo di regnare non già dagli Angioini, ma dagli Svevi e dall'ultimo Re Corradino, per l'investitura che ne fece al Re Pietro d'Aragona marito di Costanza figliuola del Re Manfredi.
Alfonso I nel Conclave, che nell'anno 1431 si tenne per l'elezione del nuovo Pontefice, proccurò che i Cardinali promettessero con giuramento di non pretendere più Spogli; ond'essendo l'elezione seguita in persona d'Eugenio IV, nell'investitura che questo Pontefice gli diede del Regno di Napoli, per quel che s'apparteneva agli Spogli e frutti delle Chiese vacanti, espressamente fu dichiarato, che si dovesse il tutto regolare JUXTA CANONICAS SANCTIONES. Quindi per tutto il tempo, che corse nel Regno de' Re d'Aragona, anche di Ferdinando il Cattolico, insino ai principj del Regno dell'Imperador Carlo V, fu presso noi introdotto stabile costume e pratica, che quando moriva alcun Prelato o Beneficiato, non solamente di quelle Chiese e Beneficj ch'erano di regia collazione, o presentazione, ma universalmente di tutte le Chiese e Beneficj del Regno, si dava dal Cappellano Maggiore la notizia della vacanza a' nostri Re, da quali per le loro Segreterie si spedivano commessioni a persone, che lor fossero più a grado, affinchè in nome della regia Corte ne prendessero il possesso, facessero degli Spogli esatto e fedele inventario, e quelli insieme co' frutti, che andavano maturando in tempo delle vacanze, conservassero in beneficio del successore, senza che vi s'intromettesse la Camera Appostolica. Da poi, conferitasi la Chiesa o Beneficio, si presentavano dal provvisto le Bolle, e dato a quelle l' exequatur Regium, spedivasi ordine al Commessario regio conservatore degli Spogli e de' frutti suddetti, acciò immettesse il provvisto nella possessione, e nell'istesso tempo gli dasse i frutti. Gli esempi di questa pratica ne' Regni d'Alfonso I, di Ferdinando I e del Re Federico, si descrivono in una consulta, che il Duca d'Alcalà fece al Re Filippo II nel 1571, mentr'era Vicerè del Regno[306]; ed insino a D. Ugo di Moncada, nel Regno di Carlo V, tal'era il costume, ancorchè a tempo di Ferdinando il Cattolico non si tralasciasse da Roma, quando le veniva in acconcio, di far delle sorprese, siccome finalmente le riuscì nel 1528, quando essendo accaduto nel precedente anno il sacco di Roma, Clemente VII per cavar denari per suo riscatto, destinò Commessarj per tutto, li quali a torto e a diritto esigessero spogli, annate e quanto potevano per far denari, come vedremo ne' seguenti libri di quest'Istoria.
Ferdinando I non tralasciò, per quanto potè, andar incontro ad altri abusi: egli, come si è veduto, regolò la prestazione delle collette, e l'altre immunità pretese da Cherici o Diaconi Selvaggi: ripresse gli attentati d'Innocenzio VIII[307], e cose maggiori se ne potevano sperare da' suoi successori, se li tanti disordini accaduti poi nel Regno, non li avessero costretti a pensare alla conservazione del medesimo ed alla propria loro salute e scampo.
Ferdinando il Cattolico non discostandosi da' costumi spagnuoli, usava piacevolezza e lentezza. Quindi nè molto si badò a' progressi, che tuttavia gli Ecclesiastici facevano in distender la loro giurisdizione, ed ampliare i loro Tribunali, in guisa, che fu duopo ancor ad essi stabilire vari Riti (siccome fece l'Arcivescovado di Napoli) per meglio regolarli e molto meno si badò agli eccessivi acquisti, che non tanto le chiese, quanto i monasteri facevano de' beni temporali.
Monaci e beni temporali.
Gli Aragonesi, ed infra gli altri il Re Alfonso II, arricchirono cotanto i Religiosi di Monte Oliveto, che siccome fu veduto nel XXV libro di questa Istoria, di buone Terre, di grandi e magnifiche abitazioni, e di preziosa suppellettile, gli fornirono. Di che però que' Monaci ne furono a coloro gratissimi; poichè nella loro bassa e povera fortuna non mancarono sovvenirgli, e si legge ancora una compassionevole lettera scritta da Alfonso II, mentre dimorava in Sicilia, a' PP. Olivetani di Napoli, pregandoli, come fecero, che si ricordassero di lui nelle loro orazioni, raccomandandolo a Dio, al quale era piaciuto di ridurlo in quello stato lagrimevole, perchè avesse di lui pietà e misericordia. E nelle calamità della Regina Isabella, moglie del discacciato Re Federico, gli Olivetani con molta gratitudine la sovvennero: poichè avendo, come si disse, presa la risoluzione di ritirarsi in Ferrara, s'era quivi co' suoi figliuoli ridotta in tanta povertà, che se gli Olivetani non la soccorrevano di 300 ducati l'anno, non poteva vivere; di che questa savia Regina per sua lettera, scritta da Ferrara, rende loro molte grazie, che in quelle avversità le avessero usata tanta gratitudine[308]
Nel principio del Regno degli Aragonesi, Alfonso I ad imitazione di molti Conventi, che s'erano fondati in Ispagna, portò a noi l'ordine di S. Maria della Mercede, istituito per la redenzione de' Cattivi dalle mani degl'Infedeli: egli fu il primo che nell'anno 1442, secondo il diploma che rapporta il Summonte[309], fondò in Napoli un monastero di quest'Ordine, dotandolo di molti beni, e concedendogli molti privilegi. Il qual Ordine in tempo degli Austriaci fu da poi accresciuto d'altri monasteri in Napoli ed altrove.
Ma niun Ordine fu cotanto celebre, e che più si allargò di quanti ne furono in questo secolo istituiti, quanto quello de' Minimi, surto in Calabria, e che ebbe per autore Francesco di Paola, nome della Terra, ove e' nacque. Si dissero prima Romiti di S. Francesco, perchè, secondo narra Filippo di Comines Signor d'Argentone[310] (che trovandosi allora nella Corte del Re Luigi XI ebbe congiuntura di trattarvi, quando da questo Re fu chiamato in Francia) egli dall'età di dodici anni infino alli quarantatrè, quanti ne avea, quando venne e lo conobbe in Francia, avea menata una vita di Romito, abitando sempre in una spelonca sotto un altissimo sasso. Non mangiò in tutto il corso di sua vita nè carne, nè pesce, nè uova, nè latte, astenendosi di quasi tutti i cibi comuni all'uman genere. Era egli uomo idiota e senza lettere, nè giammai avea appresa cos'alcuna. Ciò che, come narra Comines, dava maggior ammirazione per le risposte prudenti e savie, che egli faceva. La fama di tanta e sì estraordinaria austerità e ritiratezza lo rese celebre per santità in tutta Europa, ond'era chiamato il Sant'uomo di Calabria.
Luigi XI Re di Francia fu assalito a questi tempi d'una stravagante infermità, la quale l'avea quasi alienato di mente, e ridotto a far cose straordinarie e pazze. Si era chiuso nel suo castello di Plessis di Tours e pieno di sospetti fece ben chiudere il palazzo, dentro il quale niun personaggio voleva che s'alloggiasse, per grande che fosse. Desideroso di ricuperar sua salute, mosso dalla fama del Sant'uomo di Calabria, mandò un suo Maestro di Casa a torlo, ma non volendo quegli partire senza commessione del Papa e del suo Re, fu duopo, che Federico allora Principe di Taranto figliuolo del Re Ferdinando, andasse in compagnia dell'Inviato franzese a torlo dalla spelonca, e lo condussero in Napoli, dove dal Re e dai suoi figliuoli fu ricevuto con somma stima ed onore Ciò che diede ammirazione fu, che essendo uomo idiota e semplice, ragionava con esso loro, con tanta saviezza, come se fosse nutrito ed allevato in Corte. Passò poi in Roma, dove fu da' Cardinali accolto con grande onore, e molto più dal Pontefice Sisto IV, dal quale ebbe tre segrete e lunghe udienze, facendolo sedere presso a lui in sedia splendidamente ornata. Rimase il Pontefice così sopraffatto della prudenza delle sue risposte, che gli diede autorità di poter istituire un novello Ordine chiamato da lui de' Romiti di S. Francesco. Partito da Roma e giunto in Francia, con maggiori onori fu ricevuto dal Re: tutto ansioso di riaver la sanità, gli andò incontro e vedutolo, s'inginocchiò a' suoi piedi, istantemente pregandolo, che gli concedesse sanità e lunghezza di vita; ma egli saviamente, e come ad uom prudente si conviene, gli rispose. E narra Monsignor d'Argentone, ch'egli sovente l'avea inteso ragionare in presenza di Carlo poi Re, e dov'erano tutti i Grandi del Regno, di molte cose con tanta sapienza, che in un uomo idiota e senza lettere era impossibile, che senza divina ispirazione potesse favellarne; ma poichè, mentre egli scriveva, era costui ancor vivo, e come e' dice, si poteva cangiare in meglio, o in peggio, perciò di lui non faceva più parola. Alcuni della Corte del Re si ridevano della venuta del Romito, chiamandolo per beffe il Santuomo; ma dice questo Scrittore, che costoro parlavano così, perchè non erano informati, come lui, della stravaganza del male del Re, nè aveano vedute le cose, che glie ne diedero cagione, ed il desiderio grandissimo, che avea di liberarsene.
Ancorchè il Re Luigi niente impetrasse per l'intercessione di questo Santuomo, poichè il male se gli accrebbe in guisa, che non guari da poi gli tolse la vita: con tutto ciò Carlo VIII suo figliuolo, che gli succedè nel Regno, l'ebbe in somma stima e venerazione, ed in suo onore nell'entrata del parco della città di Tours, fece poi edificare una chiesa, onde in Francia cominciò il suo nascente Ordine ad introdursi; ed avendo Francesco fatta poi quivi la sua dimora, in poco tempo molti monasteri furono ivi costrutti.
In Napoli, il primo che s'ergesse, fu in luogo a que' tempi solitario, dove era una piccola cappella dedicata a S. Luigi Re di Francia; ond'è che ora quel monastero ritenga ancora il nome di quel Santo. In Calabria fondò anch'egli un picciolo monastero de' suoi Religiosi vicino a Paola sua patria. Se ne fondarono parimente in Roma; onde poi si diffuse quest'Ordine per tutte l'altre province d'Europa, essendo stata la sua Regola confermata da' Pontefici successori di Sisto, da Alessandro VI e da Giulio II, ed in Napoli e nel Regno si moltiplicaron poi i monasteri di questo Ordine in non picciol numero; e col mezzo delle loro particolari divozioni, che ancor essi inventarono, crebbero in ricchezze, e loro abitazioni in fabbriche magnifiche, dotate d'ampie rendite in quello stato, che ora ciascun vede.
FINE DEL LIBRO TRENTESIMO.
STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI
LIBRO TRENTESIMOPRIMO
La morte di Ferdinando il Cattolico, ancorchè portasse la successione di tanti Regni ad un gran Principe, quanto fu l'Arciduca Carlo, e per quel ch'era, e per quello che dopo la morte di Massimiliano suo avo dovea essere, onde pareva, che non si dovessero temere nuove turbolenze: nulladimeno quest'istesso accese l'animo di Francesco I Re di Francia all'impresa di Napoli, e a porre di nuovo in iscompiglio questo nostro Reame. Veniva egli lusingato, ch'essendo il Regno per la morte del Re male ordinato alla difesa, nè potendo l'Arciduca essere a tempo a soccorrerlo, fosse facilmente per ottenerne la vittoria. Credeva che il Pontefice Lione X avesse da facilitare l'impresa anche per interesse proprio, dovendogli essere sospetta la troppa grandezza dell'Arciduca successore di tanti Regni, e successore futuro di Massimiliano Cesare. Sperava oltra questo, che l'Arciduca conoscendo potergli molto nuocere l'inimicizia sua nello stabilirsi i Regni di Spagna, e spezialmente quello d'Aragona, sarebbe proceduto moderatamente ad opporsegli.
Al regno d'Aragona, se alle ragioni fosse stata congiunta la potenza, avrebbero potuto aspirare alcuni della medesima famiglia, perchè, sebbene vivente il Re morto ed Isabella sua moglie, fosse stato nelle Congregazioni di tutto il Regno interpetrato, che le Costituzioni antiche di quel Regno escludenti le femmine dalla successione della Corona, non pregiudicavano a' maschi nati di quelle, quando nella linea mascolina non si trovavano fratelli, zii o nipoti del Re morto, e di chi gli fosse più prossimo del nato dalle femmine, o almeno in grado pari; e che per questo fosse stato dichiarato appartenersi a Carlo Arciduca, dopo la morte di Ferdinando, la successione: adducendo in esempio, che per la morte di Martino Re d'Aragona, morto senza figliuoli maschi, era stato per sentenza de' Giudici deputati a questo da tutto 'l Regno, preferito Ferdinando avolo di questo Ferdinando (benchè congiunto per linea femminina) al Conte d'Urgelli, ed agli altri congiunti a Martino per linea mascolina, ma in grado più remoto di Ferdinando; nondimeno era stata fin d'allora tacita querela ne' Popoli, che in questa interpetrazione, e dichiarazione avesse più potuto la potenza di Ferdinando e d'Isabella, che la giustizia; non parendo a molti debita interpetrazione, che escluse le femmine, possa essere ammesso chi nasce di quelle; e che nella sentenza data per Ferdinando il vecchio, avesse più potuto il timore dell'armi sue, che la ragione.
Queste cose essendo note al Re di Francia, e noto ancora, che i popoli della provincia d'Aragona, di Valenza e della Contea di Catalogna (includendosi tutti questi sotto 'l Regno d'Aragona) avrebbono desiderato un Re proprio; sperava che l'Arciduca, per non mettere in pericolo tanta successione e tanti Stati, non avesse finalmente ad essere alieno dal concedergli con qualche convenevole composizione il Regno di Napoli.
Ma mentre il Re Francesco era deliberato di non differire il muover le armi, fu necessitato per nuovi accidenti a volger l'animo alla difesa propria, poichè Massimiliano si preparava per assaltare, come avea convenuto con Ferdinando, il Ducato di Milano; laonde fu costretto a cercar modo di pacificarsi col Re Carlo, e per mezzo suo coll'Imperadore. Carlo, che cercava di rimovere le difficoltà del passare in Ispagna, per istabilirsi in que' Regni: per consiglio di Monsignor di Ceures, Fiamengo, con l'autorità del quale, essendo allora nell'età di sedici anni, totalmente si reggeva, non ricusò, accomodandosi alle necessità ed a' tempi, di farlo; ed avendo i loro Ministri convenuto di congregarsi a Nojon, s'assemblarono quivi per la parte del Re di Francia, il Vescovo di Parigi, il G. Maestro della sua Casa, ed il Presidente del Parlamento di Parigi, e per la parte del Re Cattolico, Monsignor di Ceures, ed il G. Cancelliere dell'Imperadore. Convenuti i Deputati de' due Re a Nojon, ai 13 agosto di quest'anno 1516, fu la pace conchiusa, e per ciò che riguarda il Regno di Napoli, furono stabilite tali Capitolazioni.
Che tra 'l Re di Francia e 'l Re di Spagna fosse perpetua pace e confederazione per difesa degli Stati loro contra ciascuno. Che il Re di Francia desse la figliuola Luisa, ch'era d'età di un anno, in matrimonio al Re Cattolico, dandogli per dote le ragioni che pretendeva appartenersegli sopra il Regno di Napoli, secondo la divisione già fatta da' loro antecessori; ma con patto, che fin che la figliuola non fosse d'età abile al matrimonio, pagasse il Re Cattolico per sostentazione delle spese di lei al Re di Francia ciascun anno centomila scudi[311]. Il Giovio[312] rapporta, che questi centomila scudi dovevano pagarsi dal Re Cattolico al Re di Francia, come tributo, acciocchè apparisse, che i Franzesi avessero qualche ragione nel Regno di Napoli. Ma i capitoli di questa pace, che interi si leggono nella Raccolta di Federigo Lionard[313], convincono il contrario, dove non per tributo, ma per cagion delle spese non per sempre, ma insino che Luisa arrivasse all'età nubile, furono promessi.
Fu ancora convenuto, che se la designata sposa fosse morta innanzi al matrimonio, ed al Re nascesse alcun'altra figliuola, quella coll'istesse condizioni si desse al Re Cattolico, ed in caso al Re non ne nascesse alcuna, si desse per isposa Renata, quella, ch'era stata promessa nella Capitolazione fatta a Parigi. E morendo qualunque di esse nel matrimonio senza figliuoli, ritornasse quella parte del Regno di Napoli al Re di Francia. Fu ancora, secondo questi patti, cercata a Papa Lione l'assoluzione de' giuramenti dati nel trattato, che si trovava antecedentemente fatto del matrimonio con Renata in Parigi; e Lione a' 3 di settembre del medesimo anno 1516 ne spedì Bolla[314].
Fermata questa pace, Re Carlo, che dimorava a Brusselles s'accinse per intraprendere il viaggio da Fiandra per Ispagna; e quasi alla fine del seguente anno 1517 giunse con felice navigazione in Ispagna a pigliare la possessione di que' Regni; avendo ottenuto dal Re di Francia (tra' quali erano dimostrazioni molto amichevoli, ciascuno palliando la mala disposizione, che intrinsecamente covavano) che gli prorogasse per sei mesi il pagamento de' primi centomila ducati.
Giunto Carlo in Ispagna fu ricevuto con incredibile amorevolezza, e la Regina Giovanna sua madre gli cedè l'amministrazione di que' Regni, con condizione che ne' titoli non si tralasciasse il suo nome, e che governasse i Regni in nome suo e di Giovanna. Confermò nel Viceregnato di Napoli D. Raimondo di Cardona e scrisse un'altra lettera a' Napoletani piena d'affetti e di paternal amore. Nel medesimo tempo, essendo morta la figliuola del Re di Francia destinata ad essere sposa del Re di Spagna, fu riconfermata tra loro la pace e la prima capitolazione, con la promessa del matrimonio della seconda figliuola, celebrando l'uno e l'altro Principe questa congiunzione con grandissime dimostrazioni estrinseche di benivolenza; il Re di Spagna, che gli avea già fatto pagare in Lione i centomila ducati, portò pubblicamente l'Ordine di S. Michele il dì della sua festività, ed il Re di Francia il giorno dedicato a S. Andrea, portò pubblicamente l'Ordine del Tosone.
CAPITOLO I. Morte di Massimiliano Cesare, ed elezione nella persona di Carlo suo nipote in Imperadore. Discordie indi seguite tra lui, e 'l Re di Francia, che poi proruppero in aperte e sanguinose guerre.
Mentre le cose d'Italia e del Regno si stavano in quiete, Massimiliano in questo medesimo anno 1517, desideroso di stabilire la successione dell'Imperio romano, dopo la sua morte, in uno de' nipoti, trattava con gli Elettori di farne eleggere uno in Re de' Romani. E benchè Cesare avesse prima desiderato, che questa dignità fosse conferita a Ferdinando suo nipote secondogenito, parendogli conveniente, che poichè al fratello maggiore erano venuti tanti Stati e tanta grandezza, si sostentasse l'altro con questo grado, giudicando, che per mantenere più illustre la Casa sua, e per tutti i casi sinistri, che nella persona del maggiore potessero succedere, essere meglio avervi due persone grandi, che una sola, nondimeno stimolato in contrario da molti de' suoi e dal Cardinal Sedunense e da tutti quelli, i quali temevano ed odiavano la potenza de' Franzesi, rifiutato il primo consiglio, voltò l'animo a far opera, che a questa dignità fosse assunto il Re di Spagna: dimostrandogli questi tali, essere molto più utile all'esaltazione della Casa d'Austria, accumulare tutta la potenza in un solo, che dividendola in più parti, fargli meno potenti a conseguire i disegni loro: essere tanti e tali i fondamenti della grandezza di Carlo, che aggiungendosegli la dignità imperiale, si poteva sperare, che avesse a ridurre l'Italia tutta, e gran parte della Cristianità in una Monarchia, cosa non solo appartenente alla grandezza dei suoi discendenti, ma ancora alla quiete de' sudditi, e per rispetto delle cose degl'Infedeli, a beneficio di tutta la Repubblica cristiana: ed essere ufficio e debito suo pensare all'augumento ed all'esaltazione della dignità imperiale, stata tant'anni nella persona sua e nella famiglia d'Austria, la quale non si poteva sperare aversi a sollevare, nè ritornare al pristino splendore, se non trasferendosi nella persona di Carlo, e congiugnendosi alla sua potenza: vedersi per gli esempi degli antichi Imperadori, Cesare Augusto e molti dei suoi successori, che mancando di figliuoli e di persone della medesima stirpe, gelosi che non s'ispegnesse o diminuisse la dignità riseduta nella persona loro, aver cercato successori remoti di congiunzione, o non attenenti eziandio in parte alcuna, per mezzo delle adozioni; ed esser fresco l'esempio del Re Cattolico, il quale amando come figliuolo Ferdinando, allevato continuamente appresso a lui, nè avendo, non che altro, mai veduto Carlo, anzi provatolo nella sua ultima età poco ubbidiente a' precetti suoi; nondimeno senza aver compassione della povertà di quello, non gli avea fatta parte alcuna di tanti suoi Stati, nè di quelli eziandio che per essere acquistati da lui proprio, era in facoltà sua di disporne; anzi aver lasciato tutto a colui, che quasi non si conosceva, se non per uno strano.
A questa istanza di Cesare si opponeva con ogni arte ed industria il Re di Francia, essendogli molestissimo, che a tanti Regni e Stati del Re di Spagna s'aggiugnesse ancora la dignità imperiale, la quale, ripigliando vigore da tanta potenza, diventerebbe formidabile a ciascuno; però cercava di disturbarla occultamente appresso agli Elettori ed al Pontefice; ed ai Vineziani aveva mandato Ambasciadore, perchè si unissero seco a fare l'opposizione, ammonendo e il Pontefice e loro del pericolo porterebbono di tanta grandezza. Ma gli Elettori erano in gran parte tirati nella sentenza di Cesare, e già quasi assicurati de' denari, che per questa elezione si promettevano loro dal Re di Spagna, il quale aveva mandato per questo in Alemagna ducentomila ducati. Nè si credeva, che il Pontefice, ancorchè gli fosse molestissimo, ricusasse di concedere, che per mano de' Legati appostolici Massimiliano ricevesse in Germania in suo nome la Corona dell'Imperio; poichè l'andare ad incoronarsi a Roma, sebbene con maggiore autorità della Sede appostolica, era riputato più presto cerimonia, che substanzialità[315].
(Intanto fu ciò proposto, perchè sembrava cosa nuova, che non essendo stato ancora Massimiliano coronato dal Pontefice, si potesse venire alla elezione del Re de' Romani, siccome narra Gerardo a Roo[316], il quale parlando di Massimiliano scrisse: Is aetate jam provectum se considerans, sive mortem haud procul abesse animo praesagiens, cum Septemviris Imperii Electoribus, qui praeter Bohemiae Regem, Augustam omnes venerant, de Carolo Nepote, in Romanorum Regem eligendo, agere coepit; cumque novi exempli res esset, Caesare nondum a Pontefice coronato, Regem eligi, in Concilio propositum fuit, eo inducendum esse Leonem, uti Coronam, et alia Imperatoriae Dignitatis insignia, per Legatum conferenda, in Germaniam mittat ).
Con suddetti pensieri e con suddette azioni si consumò l'anno 1518, non essendo ancora fatta la deliberazione dagli Elettori, la quale diventò più dubbia e più difficile per la morte di Massimiliano succeduta a Lintz nel primi giorni dell'anno 1519.
Morto Massimiliano, cominciarono ad aspirare all'Imperio apertamente il Re di Francia ed il Re di Spagna, la quale controversia, benchè fosse di cosa sì importante, e tra Principi di tanta grandezza, nondimeno fu esercitata tra loro destramente, non procedendo nè a contumelie di parole, nè a minacce d'armi, ma ingegnandosi ciascuno con l'autorità e mezzi suoi, tirare a se gli animi degli Elettori: anzi il Re di Francia molto laudabilmente parlando sopra questa elezione con gli Ambasciadori del Re di Spagna, diceva essere commendabile, che ciascuno di loro cercasse onestamente di ornarsi dello splendore di tanta dignità, la quale in diversi tempi era stata nelle Case degli antecessori loro; ma non per questo dover l'uno di loro ripigliarlo dall'altro per ingiuria, nè diminuirsi per questo la benivolenza e congiunzione già stabilita.
Pareva al Re di Spagna appartenersegli l'Imperio debitamente, per essere continuato molti anni nella Casa d'Austria, nè essere stato costume degli Elettori privarne i discendenti del morto senza evidente cagione della inabilità loro. Non essere alcuno in Germania di tanta autorità o potenza, che potesse competere seco in questa elezione; nè gli pareva giusto o verisimile, che gli Elettori avessero a trasferire in un Principe forestiero tanta dignità continuata già molti secoli nella Nazione germanica; e quando alcuno, corrotto con denari o per altra cagione, fosse d'intenzione diversa, sperava, o di spaventarlo con le armi preparate in tempo opportuno e che gli altri Elettori se gli opporrebbero, o almeno, che tutti gli altri Principi e l'altre Terre franche di Germania non comporterebbono tanta infamia ed ignominia di tutti, e massimamente trattandosi di trasferirla la nella persona di un Re di Francia, con accrescere la potenza di un Re nemico alla loro Nazione, e donde si poteva tenere per certo, che quella dignità non ritornerebbe mai più in Germania. Stimava facile ottenere la perfezione di quello che era già stato trattato con l'avolo, essendo già convenuto de' premj e de' donativi con ciascuno degli Elettori.
Dall'altra parte non era minore, nè la cupidità, nè la speranza del Re di Francia, fondata principalmente su la credenza dell'acquistare con grandissima somma di denari li voti degli Elettori, alcuni de' quali mostrandogli la facilità della cosa, lo incitavano a farne impresa: la quale speranza nudriva con ragioni più presto apparenti che vere, perchè sapeva, che ordinariamente a' Principi di Germania era molesto, che gli Imperadori fossero molto potenti per il sospetto, che non volessero in tutto, o in qualche parte riconoscere le giurisdizioni ed autorità imperiali occupate da molti, e però si persuadeva, che in modo alcuno non fossero per consentire alla elezione del Re di Spagna. Eragli noto ancora essere molestissimo a molte Case illustri in Germania, che pretendevano essere capaci di quella dignità, che l'Imperio fosse continuato tanti anni in una casa medesima, e che quello, che oggi all'una, domani all'altra dovevano dare per elezione, fosse cominciato quasi per successione a perpetuarsi in una stirpe medesima; e potersi chiamare successione quella elezione, che non permette discostarsi da' più prossimi della stirpe degl'Imperadori morti; così da Alberto d'Austria essere passato l'Imperio in Federico suo fratello, da Federico in Massimiliano suo figliuolo, ed ora trattarsi di trasferirlo da Massimiliano nella persona di Carlo suo nipote. Però, oltre questo, sperava il Re di Francia nel favore del Pontefice; così per la congiunzione e benivolenza, che gli pareva aver contratta seco, come perchè non credeva, che a lui potesse piacere, che Carlo Principe di tanta potenza, e che contiguo col Regno di Napoli allo Stato della Chiesa, avea per l'aderenze de' Baroni Ghibellini aperto il passo insino alle porte di Roma, conseguisse anche la Corona dell'Imperio; non considerando, che questa ragione verissima contro Carlo, militava ancora contro lui; nondimeno non conoscendo in se quello, che facilmente considerava in altri, ricorse al Pontefice, supplicandolo volesse dargli favore, perchè di se e dei Regni suoi si potrebbe valere, come di proprio figliuolo.
Premeva grandissimamente al Pontefice la causa di questa elezione, essendogli molestissimo per la sicurezza della Sede Appostolica qualunque de' due Re fosse assunto all'Imperio. Nè essendo tale l'autorità sua appresso agli Elettori, che sperasse con quella poter giovare molto, giudicò essere necessario adoperare in cosa di tanto momento la prudenza e le arti. Persuadevasi, che il Re di Francia, ingannato facilmente da qualcuno degli Elettori non fosse per avere parte alcuna in questa elezione, nè avere, benchè in uomini venali, a poter tanto le corruttele, che avessero disonestamente a trasferire l'Imperio dalla Nazione germanica nel Re di Francia. Parevagli che al Re di Spagna per essere della medesima nazione per le pratiche cominciate da Massimiliano, e per molti altri rispetti, fosse molto facile conseguire l'intento suo, se non gli si faceva opposizione molto potente; la quale giudicava non potere farsi in altro modo, se non che il Re di Francia si disponesse a voltare in uno degli Elettori que' medesimi favori e denari che usava per eleggere se. Parevagli impossibile indurre il Re a questo, mentre che era nel fervore delle speranze vane; però sperava, che quanto più ardentemente, e con più speranza s'ingolfasse in questa pratica, tanto più facilmente, quando cominciasse ad accorgersi riuscirgli vani i pensieri suoi e trovandosi irritato e su la gara, aversi a precipitare a favorire l'elezione di un terzo, con non minore ardore: e quindi poter similmente accadere, favorendosi gagliardamente ne' principj le cose del Re di Francia, che l'altro Re veduto difficultarsi il desiderio suo, e dubitando, che il Re avversario non vi avesse qualche parte, si precipitasse medesimamente ad un terzo. Per queste cagioni, non solo dimostrò al Re di Francia di avere sommo desiderio, che in lui pervenisse l'Imperio, ma lo confortò con molte ragioni a procedere vivamente in questa impresa, promettendogli amplissimamente di favorirlo con tutta l'autorità del Pontificato.
(Se dee prestarsi fede a Goldasto, Papa Lione mandò un suo Legato nel congresso degli Elettori, dimandando, ut Regem Neapolitanum cujus Regni proprietas ad Ecclesiam Romanam spectat, nullo pacto in Romanorum Regem eligant, obstante sibi defectu inhabilitatis et ineligibilitatis, ex Constitutione Clementis Quarti. E che gli Elettori poco di ciò curando, gli rispondessero, ch'essi non dovean aver altro riguardo, che d'elegger colui, che riputassero il più savio ed il più degno. Goldasto, Tomo uno Constit. Imp. p. 429 rapporta non men la dimanda del Legato, che la risposta degli Elettori).
Mentre le suddette cose si trattavano con tante sollecitudini e sospetti, non intermisero però l'uno e l'altro Re gli atti della congiunzione ed amicizia: poichè nel medesimo tempo convennero in nome loro a Monpelieri il Gran Maestro di Francia e Monsignor di Ceures (in ciascuno de' quali consisteva quasi tutto il consiglio e l'animo del suo Re) per trattare sopra lo stabilimento del matrimonio della seconda figliuola del Re di Francia col Re di Spagna, e molto più per risolvere le cose del Reame di Navarra; la restituzione del quale all'antico Re promessa nella concordia fatta a Nojon, benchè molto sollecitata dal Re di Francia, era differita dal Re di Spagna con varie scuse; ma la morte del Gran Maestro succeduta innanzi parlassero insieme, interruppe la speranza di questo congresso.
Ma dall'altra parte con grandissima contenzione si proseguiva dall'uno e l'altro Re l'impresa dell'Imperio. Il Re di Francia s'ingannava ogni giorno, indotto dalle promesse grandi del Marchese di Brandeburg, uno degli Elettori, il quale avendo ricevuto da lui offerte grandissime di denari, e forse qualche somma presente, si era non solo obbligato con occulte Capitolazioni a dargli il voto suo, ma promesso che l'Arcivescovo di Magonza suo fratello farebbe il medesimo. Si lusingava ancora del voto del Re di Boemia: per lo voto del quale, discordando i sei Elettori, che tre ne sono Prelati e tre Principi, si decide la controversia. Dall'altro canto si scorgeva grande la inchinazione de' Popoli di Germania, perchè la dignità Imperiale non si rimovesse da quella Nazione, anzi insino agli Svizzeri, mossi dall'amor della Patria comune Germania, avevano supplicato il Pontefice, che non favorisse in questa elezione alcuno, che non fosse di Lingua Tedesca.
Convenuti per tanto gli Elettori, secondo l'uso antico a Francfort, mentre stavano in varie dispute per venire al tempo debito, secondo gli ordini loro, all'elezione, avvicinossi a Francfort un esercito messo in campagna per ordine del Re di Spagna (il quale fu più pronto co' danari a raccorre gente, che a dargli agli Elettori) sotto nome di proibire chi proccurasse di violentare la elezione; onde con ciò accrescendo l'animo agli Elettori, che favorivano la causa sua, tirò nella sentenza degli altri quelli ch'erano dubbj, e spaventò il Brandeburghese inclinato al Re di Francia; in modo che venendosi all'atto dell'elezione, fu il vigesimo ottavo giorno di giugno di quest'anno 1519 eletto Imperadore Carlo d'Austria Re di Spagna dai voti concordi di quattro Elettori, dall'Arcivescovo di Magonza e quello di Colonia e dal Conte Palatino e dal Duca di Sassonia; ma l'Arcivescovo di Treveri elesse il Marchese di Brandeburgo, il quale concorse anch'egli alla elezione di se stesso. Nè dubitossi, che se per la equalità de' voti l'elezione fosse pervenuta alla gratificazione del VII Elettore, che sarebbe succeduto il medesimo, perchè Lodovico Re di Boemia, il qual'era anche Re d'Ungheria avea promesso a Carlo il suo voto.
Afflisse questa elezione molto l'animo del Re di Francia e del Pontefice e di quelli che in Italia dipendevano da lui, vedendo congiunta tanta potenza in un Principe solo, giovane, ed al quale si sentiva per molti vaticinj essere promesso grandissimo Imperio e stupenda felicità; e se bene non fosse copioso di danari, quanto era il Re di Francia, nondimeno era tenuto di grandissima importanza il potere empiere gli eserciti suoi di fanteria tedesca e spagnuola, milizia di molta stimazione e valore.
Il Pontefice Lione nascondeva con recondite simulazioni, ed arti il suo discontento, e non era ancora in se medesimo risoluto a qual partito dovesse appigliarsi: pure per fuggir l'occasione di scoprire l'animo suo mal affetto a Carlo, di sua libera volontà, dispensò a poter accettare la elezione fattagli dello Imperio non ostante, che fosse contra il tenore della investitura del Regno di Napoli, con la quale (fatta secondo la forma delle antiche investiture) gli veniva ciò espressamente proibito, spedendogli per ciò Bolla, per la quale fu abilitato ad essere Imperadore, non ostante li patti suddetti, che si legge presso il Chioccarelli[317].
Nel nuovo anno 1520 passò Cesare per mare di Spagna in Fiandra, e di Fiandra in Germania, dove nel mese d'ottobre ricevè in Aquisgrana, città nobile per l'antica residenza, e per lo sepolcro di Carlo M. con grandissimo concorso la prima Corona (quella medesima, secondo ch'è fama, con la quale fu incoronato Carlo M.) datagli, secondo il costume antico, con l'autorità de' Principi di Germania.
Ma questa sua felicità era turbata dagli accidenti nati di nuovo in Ispagna, perchè a' popoli di quei Regni era stata molesta la promozione sua all'Imperio, conoscendo, che con grandissima incomodità e detrimento di tutti sarebbe per varie cagioni necessitato a stare non picciola parte del tempo fuori di Spagna: ma molto più gli aveva mossi l'odio grande, che avevano conceputo contra l'avarizia di coloro, che lo governavano, massimamente contra Ceures e gli altri Fiaminghi, in modo che concitati tutti i Popoli contra il nome loro, avevano alla partita di Cesare tumultuato quei di Vagliadolid, ed appena uscito di Spagna, sollevati tutti, non contra il Re, ma contra i cattivi Governatori: e comunicati insieme i consigli, non prestando più ubbidienza agli Uffiziali regj, avevano fatto congregazione della maggior parte de' Popoli, li quali data forma al Governo, si reggevano in nome della Santa Giunta (così chiamavano il Consiglio universale de' Popoli), contra li quali essendosi levati in armi i Capitani e Ministri regj, ridotte le cose in manifesta guerra, erano tanto moltiplicati i disordini, che Cesare piccolissima autorità vi riteneva. Donde in Italia e fuori cresceva la speranza di coloro, che avrebbero desiderato diminuita tanta grandezza.
Nella fine di quest'anno istesso, forse tremila fanti spagnuoli, stati più mesi in Sicilia, non volendo ritornare in Ispagna, secondo il comandamento avuto da Cesare, disprezzata l'autorità de' Capitani, passarono a Reggio di Calabria, e procedendo (con fare per tutto gravissimi danni) verso lo Stato della Chiesa, misero in grave terrore il Papa; massimamente ricusando l'offerte fatte dal Vicerè di Napoli, e da lui di soldarne una parte, ed agli altri far donazione di denari; ma questo movimento si risolvè più presto che gli uomini non credevano, perchè passato il Tronto per entrare nella Marca Anconitana, nella quale il Pontefice aveva mandate molte genti, ed andati a Campo a Ripa Transona, avendovi dato un assalto gagliardo, perduti molti di loro, furono costretti a ritirarsi; laonde diminuiti molto d'animo e di riputazione, accettarono cupidamente da' Ministri di Cesare condizioni molto minori di quelle, le quali avevano disprezzate.
Intanto vie più crescevano tra Cesare e 'l Re di Francia le male inclinazioni, e Papa Lione, ancor che ostentasse in apparenza neutralita, avendo per sospetta la troppa felicità di Carlo, segretamente trattava col Re di Francia del modo di cacciarlo dal Reame di Napoli, e fra di loro s'erano accordati d'assaltare con l'armi, congiunti insieme, il Regno, con condizione, che Gaeta e tutto quello che si contiene tra 'l fiume del Garigliano ed i confini dello Stato ecclesiastico, s'acquistasse per la Chiesa: il resto del Regno fosse del secondogenito del Re di Francia, il quale per essere d'età minore avesse ad essere, insino ch'egli fosse d'età maggiore, governato insieme col Reame da un Legato appostolico, che risiedesse a Napoli[318].
In questo medesimo tempo invitato il Re dall'occasione de' tumulti di Spagna, e confortato (secondo che poi querelandosi affermava) dal Pontefice, mandò un esercito sotto Asparoth, fratello di Oderico Lautrech in Navarra per ricuperar quel Regno al Re antico, siccome gli riuscì felicemente. E non restava altro per l'impresa di Napoli, che l'esecuzione della capitolazione fatta a Roma tra 'l Pontefice e lui; della quale venendogli ricercata la ratifica cominciò a star sospeso, essendogli messo sospetto da molti, che attesa la duplicità del Pontefice, e l'odio che, assunto al Pontificato, gli avea continuamente dimostrato, era da dubitare di qualche fraude, dicendo non esser verisimile, che il Pontefice desiderasse, che in lui, o ne' figliuoli pervenisse il Reame di Napoli, perchè avendo quel Regno e il Ducato di Milano, temerebbe troppo la sua potenza: per certo tanta benevolenza scopertasi così di subito non essere senza misterio. Avvertisse bene alle cose sue ed agl'inganni, e che credendo acquistare il Regno di Napoli, non perdesse lo Stato di Milano: perchè mandando l'esercito a Napoli, sarebbe in potestà del Pontefice, che aveva seimila Svizzeri, intendendosi co' Capitani dell'Imperadore, disfarlo, e disfatto quello, che difesa rimanere a Milano? Queste ragioni commossero il Re in modo, che stando dubbio del ratificare, e forse aspettando risposta d'altre pratiche, non avvisava a Roma cos'alcuna, lasciando sospesi il Papa e gli Ambasciadori suoi.
Ma il Pontefice, o perchè veramente governandosi con le simulazioni consuete, avesse l'animo alieno dal Re; o perchè come vide passati tutti i termini del rispondere, sospettando di quel ch'era, e temendo, che il Re non iscoprisse a Cesare le sue pratiche, concitato ancora dal desiderio ardente, che avea di ricuperare Parma e Piacenza, e di fare qualche cosa memorabile: sdegnato oltre questo dalla insolenza di Lautrech e del Vescovo di Tarba suo ministro, li quali non ammettendo nello Stato di Milano alcuno comandamento, o provisioni ecclesiastiche, le dispregiavano con superbissime ed insolentissime parole; deliberò di congiugnersi con Cesare contra il Re di Francia.
Dall'altra parte l'Imperadore irritato dalla guerra di Navarra, e stimolato da molti fuorusciti di Milano, e commosso ancora da alcuni del suo Consiglio, desiderosi d'abbassare la grandezza di Ceures, che aveva sempre dissuaso il separarsi dal Re di Francia; si risolvè a confederarsi col Pontefice contra il Re, ed in effetto fu senza saputa di Ceures, il quale opportunamente morì quasi ne' medesimi giorni, tra il Pontefice e l'Imperadore fatta confederazione a difesa comune, eziandio della Casa de' Medici e de' Fiorentini, con aggiunta di rompere la guerra nello Stato di Milano, il quale acquistandosi, restasse alla Chiesa Parma e Piacenza, per tenerle con quelle ragioni, con le quali le avea tenute per innanzi; e che atteso che Francesco Sforza, il quale era esule a Trento, pretendeva ragione nello Stato di Milano per l'investitura paterna e per la rinunzia del fratello, che acquistandosi ne fosse messo in possessione, ed obbligati i Collegati a mantenervelo e difendervelo: che il Ducato di Milano non consumasse altri Sali, che quelli di Cervia: che fosse permesso al Papa non solo di procedere contra i sudditi e feudatari suoi; ma obbligato eziandio Cesare (acquistato che fosse lo Stato di Milano) ad aiutarlo contra loro, e nominatamente all'acquisto di Ferrara: fu accresciuto il censo del Reame di Napoli, e promessa al Cardinal de' Medici una pensione di diecimila ducati su l'Arcivescovado di Toledo vacato nuovamente, ed uno Stato nel Reame di Napoli d'entrata di diecimila ducati per Alessandro de' Medici figliuol naturale di Lorenzo, già Duca d'Urbino.
Conchiusa occultissimamente questa confederazione fra 'l Papa e l'Imperadore contra il Re di Francia, furono tutti rivolti i loro pensieri alla guerra di Milano, la quale per essere stata cotanto bene scritta dal Guicciardino, dal Giovio, e da altri Scrittori contemporanei, e per non essere del mio istituto, volontieri tralascio. In brieve, gli Imperiali, e Francesco Sforza avendone cacciati i Franzesi comandati dal famoso Capitano Lautrech, acquistarono quel Ducato; del quale successo il Pontefice Lione ebbe tanta contentezza, che Michiel S. di Montagna[319] scrive, che all'avviso della presa di Milano, da lui estremamente desiderata, entrò in tale eccesso di gioia, che ne fu preso dalla febbre, e se ne morì. Il Guicciardino[320] narra, che morisse di morte inaspettata il primo di dicembre di quest'anno 1521, poichè dopo d'aver avuta la nuova dell'acquisto di Milano, e ricevutone incredibile piacere, fu sorpreso la notte medesima da piccola febbre, e ancorchè da' Medici fosse riputato di piccolo momento il principio della sua infermità, morì fra pochissimi giorni, non senza sospetto grande di veleno, datogli, secondo si dubitava, da Bernabò Malespina suo cameriere, deputato a dargli da bere: il quale se bene fosse incarcerato per questa sospezione, non ne fu poi ricercata più cosa alcuna: perchè il Cardinal de' Medici, come fu giunto a Roma, lo fece liberare, per non avere occasione di contrarre maggior inimicizia col Re di Francia, per opera di chi si mormorava, ma con autore e conghietture incerte, Bernabò avergli dato il veleno.
Fu agli 9 di gennajo del nuovo anno 1522 in suo luogo rifatto Adriano Cardinal di Tortosa di nazion fiamengo, ch'era stato in puerizia di Cesare maestro suo, e per opera sua promosso da Lione al Cardinalato, il quale avuta la novella dell'elezione, non mutando il nome, che prima avea, si fece denominare Adriano VI. Il suo Pontificato fu molto breve, e durò poco più d'un anno e mezzo, essendosene morto ai 14 settembre del seguente anno 1523. Ed in suo luogo dopo due mesi fu eletto il Cardinal Giulio de' Medici, che fece chiamarsi Clemente VII.
Grandi furono gli avvenimenti sotto il suo Pontificato: Re Francesco tornò in Italia per ricuperar lo Stato di Milano, assedia Pavia, commette fatto d'arme nel Parco, e vi vien fatto infelicemente prigione. Furono proposte molte condizioni per la sua liberazione, ed intanto fu menato prigione in Ispagna, ove vi stette fin che fu conchiuso con dure condizioni l'accordo fra lui e Cesare della sua liberazione.
( Carlo di Launoja, senza saputa del Borbone e del Marchese di Pescara, dando a sentire di voler portare il Re Francesco a Napoli in più forte e più sicura prigione, lo condusse in Ispagna: di che que' mostrandosene aspramente offesi lo querelarono all'Imperadore, ed il Pescara, siccome narra il Varchi, mandò al Launoja un cartello, sfidandolo come traditore, ed offrendosi di voler ciò provargli colle arme in mano a corpo a corpo combattendo. Da questa mala soddisfazione del Marchese nacque l'imputazione, che gli fu addossata d'aver dato orecchio all'offerte del Papa di volerlo investire del Regno di Napoli. Il Varchi nella sua Istoria Fiorentina stampata ultimamente colla data di Colonia nel 1721 lib. 2 pag. 12 narra le più minute circostanze di questo fatto, scrivendo, che il Pescara avesse risposto all'offerta fattagli dal Morone, che ogni volta che gli fosse mostrato, che senza pregiudizio dell'onor suo ciò far si potesse, egli non ricuserebbe di porvi mano: e da Roma gli fu tosto levato ogni scrupolo, poichè ivi non mancarono (dice il Varchi ) de Dottori, anzi Cardinali stessi ( e questi furono Cesis e l'Accolto ) i quali scrissero al Pescara, facendogli certa fede ed indubitata testimonianza, ch'egli secondo la disposizione e ordinamenti delle leggi così civili, come canoniche, non solo poteva ciò fare senza mettervi scrupolo alcuno di punto dell'onor suo; ma eziandio che dovea farlo per obbedire al sommo Pontefice. Il Marchese che unicamente per iscorgere i consiglj e fini de' nemici avea dato orecchio a questo trattato, fingendo esser dubbio d'accettar l'invito, diede d'ogni cosa relazione all'Imperadore Carlo V, il quale nella risposta, che nel 1526 fece a Clemente VII, dichiarò essere stato fin dal principio informato dal medesimo di tutto, e che non poteva avere alcun sospetto della fedeltà ed onore del Pescara; rinfacciando al Papa questi indegnissimi modi e perverse machinazioni. Merita esser letta questa savia e gravissima risposta di Cesare; la qual finisce con un'appellazione che interpose, di tutti i papali atti e futuri gravami e minacce, al futuro general Concilio, che dovea tosto convocarsi da tutte le province cristiane. Fu quella impressa da Goldasto nel tomo uno Const. Imp. e si legge alla pag. 419, ed ultimamente Lunig nel III tomo del suo Codice Diplomatico d'Italia, che in quest'anno 1732 ha dato alla luce, non ha mancato alla pagina 1962 et seqq. di trascriverla tutta intera, insieme col Breve lunghissimo di Clemente, al quale si risponde).
Nella capitolazione fra il Re Francesco, e l'Imperadore, che fu stipulata in Madrid li 14 di gennajo dell'anno 1526, fra l'altre cose fu convenuto, che rinunziasse il Re Cristianissimo, e cedesse a Cesare tutte le ragioni del Regno di Napoli, eziandio quelle che gli fossero pervenute per le investiture della Chiesa, e 'l medesimo facesse delle ragioni dello Stato di Milano[321].
Non meno i Giureconsulti che gl'Istorici[322] scrissero, che in vigor di questo accordo fossero estinte tutte le ragioni, che mai i Re di Francia potessero rappresentare sopra il Reame di Napoli, e che nell'avvenire non avrebbero più pretesto d'invaderlo, e che per ciò ogni guerra che si fosse mossa, sarebbe stata irragionevole ed ingiusta, ed in fine, che si sarebbero terminate tutte le contese sopra il Regno di Napoli.
Ma non furono vani i presagi, che gli uomini prudenti sin d'allora fecero di questa simulata e sforzata convenzione: appena si vide il Re Francesco posto in libertà, che riputando di niun valore le obbligazioni fatte violentemente in prigione, nulla curando de' propri figliuoli dati in ostaggio in potere di Cesare, non solo non le osservò, ma riputandosi ingiuriato da lui, per averlo astretto a promesse indegne ed impossibili, proccurò vendicarsene: a questo fine, avanti che segnasse la pace, nel medesimo giorno, fecene lunga protesta, che si legge presso Lionard nella sua Raccolta[323], ove dichiarava per pura violenza, trovandosi prigione e gravemente infermo, essere stato costretto a segnarla. Perciò avendo rivolti i suoi pensieri per unire tutte le sue forze, tornò più irato che mai a fargli nuova guerra, e a portare le sue armi di nuovo in Italia, con impegno non solo di ricuperare il perduto Stato di Milano, ma invadere anche il Regno di Napoli, promettendosene per mezzo di Lautrech suo famoso Capitano la reduzione, come più innanzi narreremo.
CAPITOLO II. Come intanto fosse governato il Regno di Napoli da D. Raimondo di Cardona, e dopo la di lui morte da D. Carlo di Launoja suo successore.
Intanto il Regno di Napoli commesso al governo di D. Raimondo di Cardona dal Re Ferdinando e poi dal Re Carlo, che lo confermò Vicerè, ancorchè non avesse patita alcuna invasione di armi straniere, soffriva di volta in volta tasse intollerabili, perchè dovendosi mantenere una guerra così dispendiosa, venivano i Baroni e li Popoli, in occasione di dimandare o nuove grazie, o conferma delle antiche, ovvero (ciò che più loro premeva) esecuzione delle già concedute, le quali non erano osservate, costretti a far nuovi donativi di somme considerabilissime. Erano i tanti capitoli e le tante grazie loro concedute sempre mal eseguite; poichè essendosi sempre dimandato e sempre conceduto, che negli Ufficj così militari, come di giustizia e ne Beneficj ecclesiastici fossero preferiti i Nazionali agli stranieri, governandosi ora il Regno dai Spagnuoli, ed essendovi venute molte famiglie da tutti i Regni di Spagna, erano quelli per lo più conferiti a' Spagnuoli, onde si facevano spesso ricorsi per l'osservanza de' capitoli: di nuovo si prometteva, quando di nuovo si facevano i donativi, ma sempre erano violati ed infranti.
Quando furono a' Napoletani accordate dal Re Ferdinando quelle grazie contenute ne' suoi Capitoli, dei quali di sopra s'è fatta memoria, gli fecero un donativo di 300m. ducati. Non molto da poi, nel 1508, essendosi il medesimo Re, in vigor della pace fatta con Lodovico XII Re di Francia, obbligato di mantenergli a sue spese, oltre la fanteria, 500 uomini d'arme, fu imposto un pagamento di tre carlini a fuoco per sette anni, affinchè si soddisfacesse il Re Lodovico: nella quale occasione dal Conte di Ripacorsa furono conceduti, o per meglio dire confermati, que' Capitoli che si stabilirono nel Parlamento generale celebrato in Napoli nella chiesa di S Lorenzo a' 13 settembre del mentovato anno 1508[324].
Succeduto ne' Reami di Spagna il Re Carlo ed eletto poi Imperadore, per li molti dispendj occorsi in proccurar dagli Elettori i loro voti per quest'elezione, e che doveano occorrere nella sua coronazione, fu fatta richiesta nel 1520 dal Vicerè Cardona, che ritrovandosi il Re in necessità ed esausto di denari, si proccurasse dalla città, Baronaggio e Sindici delle Terre demaniali di fargli un donativo, perchè all'incontro il Re l'avrebbe confermati i capitoli e conceduti altri di nuovo. Fu a tal fine in detto anno tenuto altro generale Parlamento, e furono offerti al Re altri ducati 300 mila da pagarsi fra il termine di tre anni, centomila ducati l'anno in tre paghe: fu perciò accordata la conferma di tutti gli altri Capitoli e Privilegi, e che per l'avvenire non si potesse imponere alcuno pagamento estraordinario al Regno. Fu tutto ciò confermato dal Vicerè Cardona in detto anno 1520, e poi ratificato dall'Imperadore con ispezial suo diploma spedito in Vormazia al primo di gennajo del seguente anno 1521[325], ma non per questo, durando l'istesse cagioni, anzi vie più che mai resi irreconciliabili gli animi di Cesare e del Re Francesco Principi potentissimi, ed accese più fiere che mai fra di loro guerre crudeli ed inestinguibili, cessò la necessità e 'l bisogno di denari per sostenerle; onde si venne di nuovo alle sovvenzioni ed a nuovi donativi e grazie.
Morì nel seguente anno 1522 a '10 di Marzo D. Raimondo di Cardona, ed il suo cadavere fu depositato nella cappella del Castel Nuovo, per trasportarsi in Catalogna nella chiesa di S. Maria di Monferrato: Capitano, se si riguarda la condizione di que' tempi, comportabile per la sua prudenza e destrezza nel governo civile, che soddisfece al Re Ferdinando, e molto più all'Imperador Carlo V, a cui la di lui morte cotanto dispiacque. Non essendo stata da lui sostituita persona, nè trovandosi tampoco nominata dal Re, che sottentrasse al governo, rimase a governare il Consiglio Collaterale, sino a' 16 luglio del medesimo anno, poichè dall'Imperadore fu in luogo del Cardona mandato al governo di Napoli D. Carlo di Launoja, non già spagnuolo, ma fiamengo. Carlo in questi principj del suo regnare, venuto da Brusselles in Ispagna, ed avendo seco condotti molti Fiamenghi, s'era posto in mano de' medesimi, e come si è veduto, si governava col consiglio di Monsignor di Ceures fiamengo, e la cagione de' tumulti avvenuti in Ispagna non altronde fu, che d'essersi il Re valuto, posponendo gli Spagnuoli nazionali, de' Fiamenghi e sopra ogni altro del Ceures, il quale dimostratosi insaziabile, avea per tutte le vie accumulata somma grandissima di danari; lo stesso facendo gli altri Fiamenghi, vendendo per prezzo a' forastieri gli ufficj soliti darsi a' Spagnuoli, e facendo venali tutte le grazie, privilegi ed espedizioni, che si dimandavano alla Corte.
Venne Launoja in Napoli famoso Capitano ed espertissimo nell'arte militare, il qual sì mostrò alla piazza del Popolo di Napoli molto favorevole, e pochi mesi dopo la sua venuta, le concesse molti Capitoli, che furono da lui spediti nel Castel Nuovo a' 12 ottobre di quest'anno 1522, rapportati dal Summonte[326].
Non potè che poco più d'un anno governar il Regno; poichè tuttavia la guerra di Lombardia incrudelendosi, nè potendo più sostener il comando dell'armata Prospero Colonna carico d'anni, e quasi già alienato di mente, l'Imperadore stimò appoggiar quell'impresa alla espertezza e valore di Launoja; onde comandò, che lasciato in Napoli un suo Luogotenente andasse a Milano a pigliar il supremo comando di quell'esercito. E con tal congiuntura, premendo il bisogno di questa guerra, fu fatto un nuovo donativo a Cesare di altri ducati cinquantamila per supplire alla spesa, che seco portava un tanto esercito[327]. Ed alcuni anni da poi, per la nascita del Principe Filippo, convocato nuovo Parlamento, se gli accordò un altro donativo di ducati ducentomila[328], siccome di tempo in tempo ne furon fatti degli altri di somme rilevantissime, delli quali il Tassoni, il Mazzella ed il Costo tesserono lunghi cataloghi.
Partì il Launoja da Napoli nel 1524, e lasciò per suo Luogotenente Andrea Caraffa Conte di S. Severino, il quale con molta lode governò il Regno poco men che tre anni. Morì costui nel mese di giugno dell'anno 1526, e la sua morte fu da tutti compianta[329]. Ed intanto, essendo il Launoja tornato di Spagna, ove come in trionfo avea portato prigione il Re Francesco, dopo aver combattuto ne' mari di Corsica con l'armata franzese, si restituì a Napoli per difendere il Regno dall'insidie del Papa, che vi avea invitato Valdimonte alla conquista.
CAPITOLO III. Invito fatto da Papa Clemente VII a Monsignor di Valdimonte per la conquista del Regno: suoi progressi, li quali ebbero inutile successo. Prigionia di Papa Clemente e sua liberazione.
Appena si vide Re Francesco libero in Francia, che posta in dimenticanza la solennità de' Capitoli stipulati in Madrid, la fede data e la religione dei giuramenti, il vincolo del nuovo parentado, e quel ch'è più, il pegno di due figliuoli, fu tutto rivolto a muover nuove e più implacabili guerre al suo emolo Carlo. Coloriva l'inosservanza con dire, ch'egli e prima quando fu condotto prigione nella Rocca di Pizzichitone, e poi in Ispagna nella Fortezza di Madrid, si era molte volte protestato contra Cesare, (perchè vedeva la iniquità delle dimande sue) che se stretto dalla necessità cedesse ad inique condizioni, o quali non fosse in potestà sua d'osservare, che non solo non le osserverebbe, anzi riputandosi ingiuriato da lui per averlo astretto a promesse inoneste ed impossibili, se ne vendicherebbe, se mai ne avesse l'occasione. Nè aveva mancato di dire molte volte quello che per loro stessi potevano sapere, e che credeva anch'essere comune agli altri Regni, cioè, che in potestà del Re di Francia non era obbligarsi senza consentimento degli Stati generali del Reame ad alienare cos'alcuna appartenente alla Corona: non permettere le leggi cristiane che un prigione di guerra stesse in carcere perpetua; per essere pena conveniente agli uomini di mal affare, e non trovata per supplicio di chi fosse battuto dalla acerbità della fortuna: sapersi per ciascuno essere di nessuno valore l'obbligazioni fatte violentemente in prigione: ed essendo invalida la capitolazione, non restare nemmeno obbligata la sua fede accessoria e confermatrice di quella; procedere i giuramenti in contrario fatti a Rems, quando con tanta cerimonia e con l'olio celeste si consacrano i Re di Francia, per li quali s'obbligano di non alienare il patrimonio della Corona; e perciò non essere meno libero che pronto a moderare la insolenza di Cesare. Questi medesimi sentimenti e desiderj mostravano d'avere la madre e la sorella del Re e tutti i principali della sua Corte.
Ma tutte queste deliberazioni non avrebbero avuto verun successo, se insieme alle medesime non avessero dato calore i Vineziani, e più il Pontefice Clemente, i quali considerando non meno la potenza di Cesare, che la sua ambizione fomentata dal Consiglio di Spagna, che lo persuadeva ad impadronirsi d'Italia, temevano non finalmente gli riuscisse di mettere in servitù la Chiesa, Italia e tutti gli altri Principi. Sopravvennero altri dispiaceri al Papa per cagione de' Ministri di Cesare. I Capitani imperiali alloggiando nel Piacentino e nel Parmegiano facevano infiniti danni; e querelandosene il Pontefice, rispondevano, che per non essere pagati, vi erano venuti di propria autorità. Commoveanlo eziandio le cose forse più leggieri, ma interpetrate, come si fa nelle sospizioni e nelle querele, nella parte peggiore; perchè non tanto in Ispagna che in Napoli, s'erano pubblicate ordinazioni in pregiudizio della Corte Romana: Cesare avea fatti pubblicare in Ispagna alcuni editti prammatici contra l'autorità della Sede Appostolica, per virtù de' quali, essendo proibito a' sudditi suoi trattare cause beneficiali di quelli Regni nella Corte Romana, ebbe ardire un Notajo Spagnuolo, entrato nella Ruota di Roma il dì destinato all'udienza, d'intimare in nome di Cesare a due Napoletani, che desistessero dal litigare in quello Auditorio[330].
(Dall'aver Cesare in tutti i Regni della Monarchia di Spagna tolta ogni autorità a' Tribunali di Roma, Tuano nel lib. primo Hist. sui temporis, savissimamente avvertì, che ciò non ostante potea ben in quelli conservarsi intiera l'Ecclesiastica disciplina, come fu già nei tempi antichi: Caesar, ei dice, ut injuriam sibi a Clemente illatam ulcisceretur, nominis Pontificii auctoritatem per omnem Hispaniam abolet; exemplo ad Hispanis ipsis Posteritati relicto, posse Ecclesiasticam disciplinam citra nominis Pontificii auctoritatem conservari. Fra le altre querimonie che si leggono nel lungo Breve scritto da Clemente a Cesare a' 2 giugno di quest'istesso anno 1526 rapportato da Lunig[331], si leggono le querele, che sopra ciò ne fece con Carlo V, ma questo savio Imperadore nella risposta che gli diede rintuzzò la querimonia, pag. 1005, con queste savissime parole: Minusque potuit V. S. de nostra voluntate dubitare ex Pragmaticis in Hispania editis, quae prout a nostris etiam Consiliariis accepimus (quibus in his quae juris sunt, merito credere debemus) conformari videntur, et antiquis Regnorum nostrorum Privilegiis, moribus et consuetudinibus. E per ciò, che riguardava il Regno di Napoli, gli soggiunse: itidem facturi de his, quae ad Regnum Neapolitanum pertinent, pro quibus nec ab Investitura; nec a Privilegiis Regni quovis modo recedere intendimus, nec illis derogare ).
Deliberò pertanto Papa Clemente, stimolato anche da tutti i suoi Ministri, non solo di confederarsi col Re di Francia e con gli altri contra Cesare, ma di accelerarne anche la esecuzione. Assolvè per tanto il Re da' giuramenti prestati in Ispagna per osservazione delle cose convenute nella capitolazione di Madrid, e strinse finalmente la lega con quel Re ed i Principi italiani, a cui diedero il nome di Lega Sanctissima. Fu quella conchiusa nel 17 di maggio dell'anno 1526 in Cugnach tra gli uomini del Consiglio Proccuratori del Re di Francia da una parte, e gli Agenti del Pontefice e de' Vineziani dall'altra. Furono in questa confederazione stabiliti molti capitoli, che possono leggersi nell'Istoria del Guicciardino[332]; ma per ciò che riguarda il Regno di Napoli, fu convenuto:
Che indebolito in Lombardia l'esercito Cesareo, si assaltasse potentemente per terra e per mare il Reame di Napoli: del quale, quando s'acquistasse, avesse ad essere investito Re chi paresse al Pontefice. In un capitolo separato però s'aggiunse, che non potesse il Papa disporne senza consenso de' Collegati, riservatigli nondimeno i censi antichi, che soleva avere la Sede Appostolica, ed uno Stato per chi paresse a lui, d'entrata di 40 mila ducati.
Che, acciocchè il Re di Francia avesse certezza, che la vittoria che s'ottenesse in Italia, e l'acquisto del Reame di Napoli fosse per facilitare la liberazione de' figliuoli, che in tal caso volendo Cesare infra quattro mesi dopo la perdita di quel Reame entrare nella confederazione, gli fosse restituito; ma non accettando questa facoltà, avesse il Re di Francia in perpetuo sopra il Reame di Napoli annuo Censo.
Intanto Cesare avea mandato in Francia il nostro Vicerè Launoja, perchè con effetto ratificasse la capitolazione fatta a Madrid; ma il Re scusandosi di non esser in sua potestà di lasciargli la Borgogna, ma contentarsi, in vece di quella, che se gli pagassero due milioni di scudi, rispose, ch'era per osservargli tutte le altre promesse. Questa risposta concitò sdegno grandissimo in Cesare, il quale deliberato di non alterare il capitolo della restituzione della Borgogna, ma più tosto concordarsi col Pontefice alla reintegrazione di Francesco Sforza nello Stato di Milano, destinò D. Ugo di Moncada al Pontefice Clemente, con commessione di dargli tutte le soddisfazioni. Ed avendosi sposata nel principio di Marzo di quest'anno 1526 nella città di Siviglia D. Isabella figliuola del Re di Portogallo, li danari, ch'ebbe di dote, gli destinò per pagare l'esercito di Lombardia, di cui per la morte del Marchese di Pescara avea fatto Capitan Generale il Duca Borbone ribelle del Re di Francia, sollecitandolo, che tosto passasse in Italia[333].
Ma giunto che fu D. Ugo a Roma, avendo proposto al Papa le condizioni della confederazione, gli fu risposto non essere più in potestà sua di accettarla, mostrandogli la necessità che l'avea indotto a confederarsi col Re di Francia e co' Vineziani per la sicurezza sua e d'Italia, avendo Cesare tardato molto a risolversi.
Le cose di Lombardia perciò erano piene di sconvolgimenti e timori, e que' della lega per divertire la guerra di Lombardia, avean fatti grandi apparecchi per assaltare il Regno di Napoli per mare e per terra: onde mosso da questi timori il nostro Vicerè Launoja, se ne venne in Napoli; e poichè gli Spagnuoli temevano assai, che il Regno non si perdesse, giunto che fu, diede il Vicerè molti ordini per la fortificazione di molti Castelli per lo Regno, e particolarmente diede pensiero a Giovan Battista Pignatello, che allora si trovava Vicerè delle province d'Otranto e di Bari, che fortificasse tutti quelli ch'erano alla marina di Puglia nell'Adriatico ed invigilasse sopra i Vineziani confederati col Papa e Francia[334].
E dall'altra parte D. Ugo di Moncada istigava i Colonnesi, per levare il Papa dalla lega contra l'Imperadore, affinchè questi, avendo l'armi in mano, con gli altri Capitani imperiali destinati per la difesa del Regno di Napoli, assalissero all'improvviso il Palazzo del Vaticano, come fecero, saccheggiandolo con molta empietà: onde il Papa, vedendosi in così stretto partito, se ne fuggi dal Palazzo di S. Pietro per lo corridojo al Castello di S. Angelo, dove si salvò; e costretto in tal guisa, mandò per ostaggio due Cardinali suoi parenti a D. Ugo, perchè entrasse nel Castello a trattar seco l'accordo, che dimandava. Fu il dì seguente 21 di settembre quello conchiuso; onde i Colonnesi partirono da Roma, e D. Ugo se ne venne a Napoli[335]. Ma non così tosto si vide libero il Papa, disposto a non osservar accordo veruno, che gli era stato estorto con tanta perfidia e violenza, che privò Pompeo Colonna del Cardinalato e chiamò Monsignor di Valdimonte da Francia, perchè pretendendo egli essere erede della Casa d'Angiò, suscitasse nel Regno di Napoli la fazione Angioina contra all'Imperadore.
Il Vicerè Launoja incontanente, sentendo l'invito fatto dal Papa a Valdimonte, volle prevenirlo, e ragunato un competente esercito determinò assaltare lo Stato Ecclesiastico; onde a' 20 di decembre di quest'istesso anno 1526 si pose col campo a Frosinone, dove fu combattuto con le genti Papali, che gagliardamente si opposero. Da poi condusse il campo imperiale a Cesano ed a Cepperano, travagliando queste ed altre Terre dello Stato della Chiesa.
Il Papa all'incontro mandò Renzo da Ceri in Apruzzo con seimila fanti, il quale occupò l'Aquila ed altri luoghi di quel contorno.
Venne il nuovo anno 1527 pieno d'atrocissimi e già per più secoli non uditi accidenti, mutazione di Stati e di Religione, prigionie di Pontefici, saccheggiamenti spaventosissimi di Città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta Italia, ed in Napoli grandissima.
Nel principio di quest'anno giunse il Valdimonte, chiamato da Clemente, con un'armata di 24 Galee, ed avendo ottenuto dal Pontefice titolo di suo Luogotenente cominciò a travagliare le marine del Regno, facendosi chiamare Re di Napoli.
(Valdimonte si facea chiamare Re di Napoli, perchè pretendeva, come si è detto, nella sua linea essere trasfuse le ragioni di Renato d'Angiò ultimo Re Angioino, discacciato dagli Aragonesi per Violanta sua figliuola maritata con Ferry Conte di Vaudemont, dal qual matrimonio nacque Renato II Duca di Lorena; onde questa famiglia fra le sue arme inquarta anche quelle di Sicilia e di Gerusalemme, e fra titoli ritiene ancor quello di Duca di Calabria, siccome è manifesto dal Trattato istorico di Baleicourt su l'orig. et Genealog. della casa di Lorena pag. 206 secondo l'edizione di Berlino dell'anno 1711).
Valdimonte saccheggiò al primo di marzo Mola di Gaeta, ed a' 4 avendo posto la sua gente a terra sotto Pozzuoli, tentò sorprenderlo, ma gli riuscì vano il disegno. Venuto poi a vista di Napoli, prese Castel a Mare, indi la Torre del Greco, e scorrendo i suoi soldati per terra sino alla Porta del Mercato di Napoli, fu tanta la paura de' Cittadini, che con fretta la chiusero.
Prese anche Sorrento e gli altri luoghi d'intorno, ed ebbe ardire la sua armata accostarsi tanto alla città di Napoli, che dalle Castella le furono tirati alcuni colpi di artiglieria. Prese anche Salerno, rubando i vasi d'argento, che stavano al Sepolcro dell'Appostolo Matteo. E se l'avviso dell'accordo fatto col Papa non l'avesse intepidito, avrebbe fatto maggiori progressi.
Il Pontefice, ancorchè avesse rifiutato l'accordo, che por Cesare Ferramosca con umili lettere dell'Imperadore, rapportate dal Summonte[336], gli fu nuovamente proposto, mostrando sempre durezza, e tanto più, quando vide giunto Valdemonte; nulladimanco all'avviso che il Duca Borbone calava con potente esercito verso Roma, e che l'amplissime promesse dei Franzesi riuscivano ogni dì più scarse d'effetti, piegò finalmente il capo, e diede al Ferramosca certezza d'ultimarlo; di che costui avvisatone il Launoja, questi a' 25 marzo si portò immantenente in Roma, dove finalmente fu quello conchiuso, con condizioni di sospendere l'armi per otto mesi, di pagare all'esercito Imperiale 60 mila ducati, e restituire il Pontefice le Terre occupate nel Regno; ed all'incontro fu convenuto (ciò che più al Papa premeva) che dovesse in persona andar Launoja alla volta di Borbone, e ritenerlo, affinchè non passasse più avanti, siccome avea prima mandato Cesare Ferramosca ad incontrarlo per quest'istesso fine.
Partì con effetto il Vicerè ai 3 d'aprile da Roma; ed andò incontro a Borbone; ma nè l'andata del Ferramosca, nè la sua punto giovò per distogliere quel Capitano di lasciare il suo cammino: scusandosi non essere in potestà sua comandar all'esercito, che si fermasse, poichè essendo creditore di molte paghe, non avea altro modo di pagarsi che col sacco di Roma, nè potea recarsi a' suoi soldati nuova più spiacente di questa; e volendosi opporre con fortezza il Vicerè, fu fama che passasse pericolo nella vita: cotanto stavano sdegnati i soldati, la maggior parte de' quali venuti di Germania appestati per le nuove eresie, che colà Martin Lutero avea sparse, in discredito e vilipendio della Corte di Roma, correvano famelici ed allettati dal guadagno del sacco promesso di Roma, vedevano di mal animo chi voleva distoglierli da quella preda.
Intanto il Papa confidatosi nell'autorità del Launoja avea licenziato tutte le genti di guerra, che teneva assoldate; onde quando men sel pensava, Borbone seguitando il suo cammino, e devastando lo Stato Ecclesiastico, fu veduto a' 5 di maggio alle mura di Roma. Il nostro Vicerè non volendo esser partecipe di tanto male, quanto designava fare Borbone, non volle seguitare il suo esercito, che andava alla volta di Roma, ma incamminandosi insieme col Marchese del Vasto per altra strada alla volta di Napoli, quando giunse ad Aversa s'ammalò, ed in pochi giorni nel mese di maggio di quest'anno, quivi trapassò. Vi fu opinione, che fosse stata proccurata la sua morte con veleno, per vendetta della morte del Marchese di Pescara, e perchè a lui dovea succedere nella carica di Vicerè D. Ugo di Moncada[337]. Non leggiamo di lui alcuna Prammatica, perchè quasi sempre essendo lontano da Napoli, attese agli esercizj di Marte. Fu il suo cadavere portato in Napoli, ove giace sepolto nella Chiesa di Monte Oliveto; e governando intanto il Regno il Collateral Consiglio, fu in suo luogo nella fine di quest'anno 1527 rifatto per Vicerè, D. Ugo di Moncada Spagnuolo.
Non vi fu rapacità ed ingordigia maggiore di quella, che entrato il Borbone in Roma per saccheggiarla, non si praticasse: tutto era disordine e confusione; ed ancorchè Borbone nel primo assalto rimanesse morto d'un colpo d'archibugio, ciò diede al suo esercito spinta maggiore d'incrudelire contra quella Città. Entrarono dopo picciolo contrasto i soldati nel Borgo. Il Papa si ritirò in Castel S. Angelo, dove fu assediato, ed i soldati non trovando più ostacolo entrarono per Porta Sisto in Roma. Non vi fu crudeltà, irreverenza, avarizia e libidine, che non fosse esercitata. Posero il tutto a sacco, nè si può immaginare quanta rapacità, quanto fosse stato il vilipendio delle Chiese, gli obbrobrj fatti a' Cardinali, ed agli altri Prelati, e quanta la libidine usata contra l'onore delle donne. L'esercito della lega, non trovando modo di poter soccorrere al Papa per le difficoltà proposte dal Duca d'Urbino, conchiuse essere impossibile allora soccorrere il Castello; onde il Pontefice, abbandonato d'ogni speranza, si accordò come potè il meglio con gl'Imperiali, di pagare all'esercito 400 mila ducati: di restar egli prigione in Castello con tutti i Cardinali, che vi erano in numero di tredici, insino a tanto che fossero pagati i primi 150 mila ducati: poi andassero a Napoli, o a Gaeta per aspettare quello che di loro determinasse Cesare: che restasse in potestà di Cesare il Castello di S. Angelo, mentre a lui piacerà di ritenerlo con l'altre Rocche: ed altre capitolazioni, che possono leggersi presso il Guicciardino[338].
Come fu fatto quest'accordo, entrò nel Castello il Capitan Alarcone con tre compagnie di fanti spagnuoli ed altre tante tedesche, il quale deputato alla guardia del Castello e del Pontefice, lo guardava con grandissima diligenza, ridotto in abitazioni anguste, e con picciolissima libertà.
Pervenuto in Francia ed in Inghilterra la novella d'un così orribil fatto, e della prigionia del Pontefice, si mossero quei due Re più fieri che mai contra l'Imperadore, non solo per la pietà cristiana che professavano, e per la divozione alla Sede Appostolica; ma molto più per l'odio privato implacabile, che portavano a Cesare: Francesco I per cagioni assai note, ed Errico VIII Re d'Inghilterra, perchè avendogli prestate grosse somme di denari, quando glie le dimandava, era pasciuto di parole, e menata in lungo la restituzione. Si strinsero perciò fra di loro, con deliberazion ferma d'unire tutte le loro forze, e mandare potenti eserciti in Italia; non pure per liberar il Papa dall'oppressione in che stava con toglierlo di mano dagli Spagnuoli, ma invadere con potente esercito il Regno di Napoli, e toglierlo dall'ubbidienza dell'Imperadore. Facilitava l'impresa l'unione de' Vineziani, e de' Svizzeri, i quali mossi ancor essi a pietà del Papa e di Roma, sollecitavano il pigliar l'armi, acciò che tutti insieme aggiunti potessero liberare il Papa, e riacquistar il Regno di Napoli. Sperava ancora il Re di Francia, che vedutosi Cesare astretto in cotal guisa, ed esausto per le paghe de' suoi eserciti, che contra tanti dovea mantenere, facilmente si sarebbe indotto, pagandogli una buona taglia, a restituirgli i due suoi figliuoli, ch'erano rimasi per ostaggi in Ispagna.
Fu per ciò immantenente risoluto il passaggio degli Svizzeri in Italia, assoldata nuova gente in Francia, contribuendo il Re d'Inghilterra con denari, ed altri con gente; tanto che fu unito un fioritissimo esercito con prestezza mirabile, e fu dato il supremo comando di quello al famoso Odetto di Fois Monsignor Lautrech, un de' Capitani più insigni, che avesse allora la Francia, il qual si mosse da Francia per Italia per liberar prima il Papa, e poi passare alla conquista del Regno.
Dall'altra parte, giunto che fu in Ispagna l'avviso del sacco di Roma, e della prigionia del Papa fu cosa maravigliosa, quanto da Cesare e dagli Spagnuoli s'affettasse il dolore e la mestizia. Giunse il tempo, quando per la natività del Principe D. Filippo figliuol primogenito dell'Imperadore, la Spagna era al maggior colmo di gioja e d'allegrezza, e la Corte in feste e in tornei; e pure l'Imperadore fece tosto cessar le feste, vestissi di lutto in segno del dolore che mostrava averne, e tutta la sua Corte parimente si vide con abiti lugubri: si fecero processioni lunghe, e numerose, pregando N. S. per la liberazione del Papa. I Frati, i Preti nelle loro Chiese con pubbliche preci assordavano il Cielo, implorando il Divino ajuto per la libertà del loro Sommo Sacerdote, come se non in mano di Cesare in Roma, ma dell'Imperadore de' Turchi sotto duro carcere in Costantinopoli e' si stasse. E nel medesimo tempo Papa Clemente sofferiva la stretta custodia del Capitan Alarcone, il quale lo guardava, ridotto in abitazioni anguste, con severità e alterigia spagnuola; e l'Imperadore con la solita tardità degli spagnuoli stava deliberando, se dovea ratificar l'accordo fatto nel Castel di S. Angelo, ovvero imporre più dure condizioni alla sua liberazione: a tanti Principi che di ciò lo ricercavano per mezzo de' loro Oratori, dava egli benignissime parole, ma incerta e varia risoluzione. Avrebbe egli desiderato, che la persona del Pontefice fosse condotta in Ispagna, giudicando sua gran riputazione, se d'Italia in due anni fossero stati condotti in Ispagna due così gran prigioni, un Re di Francia ed un Pontefice Romano.
(Il Varchi Istor. Fior. lib. 5 A. 1521 pag. 119 rapporta ancora che questa tardanza ed irresoluzione di Cesare nasceva, perchè secondo credevano li più prudenti, (sono le sue parole) che l'intendimento suo fosse di volere il Papato a quell'antica simplicità e povertà ritornare, quando i Pontefici senza intromettersi nelle temporali cose, solo alle spirituali vacavano. La quale deliberazione era, per l'infinite abusioni e pessimi portamenti di Pontefici passati, lodata grandemente, e desiderata da molti, e già si diceva infino a plebei uomini, che non istando bene il Pastorale e la Spada, il Papa dover tornare in S. Giovanni Laterano a cantar la Messa.)
Nulladimanco avendo inteso i tanti apparati di guerra, non meno de' Svizzeri e Vineziani e Franzesi, che del Re d'Inghilterra, il quale sopra gli altri ardentissimamente desiderava la liberazione del Papa, per non irritare tanto l'animo di questo Re, e perchè tutti li Regni di Spagna, e principalmente i Prelati ed i Signori detestavano molto, che dall'Imperador Romano, protettore ed avvocato della Chiesa, fosse con tanta ignominia di tutta la Cristianità tenuto in carcere colui, che rappresentava la persona di Cristo in terra; avendo poi, dopo aver tardato più d'un mese a far deliberazione alcuna, intesa l'andata di Lautrech in Italia, e la prontezza del Re d'Inghilterra alla guerra; si risolse finalmente di mandar commessione al Vicerè di Napoli per la liberazione del Pontefice e restituzione di tutte le Terre e Fortezze occupategli. Mandò per tanto in Italia il Generale di S. Francesco, e Veri di Migliau con commessione sopra questo negozio al Vicerè Launoja, il quale trovandosi morto quando arrivò il Generale, fu necessario trattare il negozio con D. Ugo di Moncada, al quale anche si distendeva il mandato di Cesare; ed avendo il Generale comunicato con D. Ugo, andò a Roma insieme con Migliau. Conteneva questo negozio due articoli principali, l'uno, che il Pontefice soddisfacesse all'esercito creditore in somma grossissima di danari; l'altro, la sicurtà di Cesare, che il Pontefice liberato non s'unisse co' suoi nemici, ed in questo si proponevano dure condizioni di statichi, e di sicurtà di Terre.
Trattossi per queste difficoltà la cosa lungamente, ed il Pontefice per facilitarla, continuamente sollecitava Lautrech (ma occultamente) a farsi innanzi: l'assicurava, che qualunque cosa ch'ei forzato promettesse agli Imperiali, uscito di carcere, e condotto in luogo sicuro, non l'osserverebbe. Finalmente venne nuova commessione di Cesare, il quale sollecitava, che il Pontefice si liberasse con più soddisfazione sua, che fosse possibile, soggiungendo bastargli, che liberato non aderisse più a' Collegati, che a lui. Si credette che da Cesare, e da' suoi si facilitasse la liberazione del Papa per lo timore, che avevano della venuta di Lautrech, e per condurre per ciò quanto più presto si potesse il loro esercito alla difesa del Reame di Napoli: ma come che ciò era impossibile farsi, senza assicurar i soldati degli stipendj decorsi, i quali ricusavano ammettere ogni compensazione, che loro si opponeva, per le tante prede, e tanti guadagni fatti nel sacco di Roma: per ciò si badò unicamente a provvedere a questi pagamenti, e si pensò meno all'assicurarsi per lo tempo futuro del Pontefice. Fu conchiusa dunque all'ultimo d'ottobre, dopo sette mesi della prigionia del Papa, la concordia in Roma col Generale, e con Serenon in nome di Don Ugo, che poi ratificò, la quale conteneva questi Capitoli.
Che il Papa non contrariasse a Cesare nelle cose di Milano e di Napoli: gli concedesse la Crociata in Ispagna, ed una decima delle entrate ecclesiastiche in tutti li suoi Regni: rimanessero per sicurtà dell'osservanza in mano di Cesare, Ostia, e Civitavecchia: consegnassegli Civita Castellana, la Rocca di Forlì; e per Istatichi Ippolito ed Alessandro suoi nipoti, ed insino a tanto, che costoro venissero da Parma, dove allora trovavansi, i Cardinali Pifano, Trivulzio e Gaddi, che furono condotti dagl'Imperiali nel Regno di Napoli.
(Il Varchi[339] aggiunge, che furono condotti nel Castel Nuovo, dove per più tempo furono guardati).
Pagasse subilo il Papa a' Tedeschi ducati settantasettemila, con questo che lo lasciassero libero con tutti i Cardinali, con potersene uscire da Roma e dal Castello: chiamandosi libero ogni qual volta fosse condotto salvo in Orvieto, Spoleto, o Perugia, e fra quindici dì dopo l'uscita di Roma pagasse altrettanti denari a' Tedeschi; ed il resto poi (che ascendeva col primi a ducati più di trecentocinquantamila) pagasse infra tre mesi a' Tedeschi e Spagnuoli secondo le rate loro.
Fra queste condizioni le più dure furono quelle dello sborso di tanto denaro, che portò discordie grandissime ed inuditi scandali. Per soddisfare i primi 150 mila ducati, secondo l'accordo prima fatto nel principio della prigionia, bisognò al Pontefice con grandissima difficultà ricavarli parte in danari, parte con partiti fatti con Mercatanti genovesi sopra le decime del nostro Regno di Napoli, e sopra la vendita di Benevento: ma appena soddisfatti i soldati di questa somma, dimandarono per il resto de' denari promessi altre sicurtà ed altro assegnamento di quello erasi loro fatto sopra varie imposizioni per lo Stato Ecclesiastico: cose tutte impossibili ad eseguirsi da un Papa incarcerato; e pure dopo molte minacce fatte agli Statichi, e di tenerli incatenati con grandissima acerbità, li condussero ignominiosamente in Campo di Fiore, dove rizzarono le forche, come se incontanente volessero prendere di loro quel supplicio. Ora, che in esecuzione di questa nuova concordia, per uscir di prigione doveano pagar somme sì immense, bisognò a Clemente venire a que' estremi rimedj, a' quali non avea voluto prima ricorrere. Creò per danari alcuni Cardinali, con esporre all'incanto quella dignità, della quale si videro decorate persone la maggior parte indegne di tanto onore. Per il resto concedette nel nostro Reame di Napoli le Decime sopra i beni delle Chiese ed Ecclesiastici, e la facoltà d'alienare i beni Ecclesiastici; convertendosi per concessione del Vicario di Cristo (così sono profondi li giudicj Divini) in uso ed in sostentazione d'eretici quel ch'era dedicato al Culto di Dio: si pose mano agli Spogli delle Chiese vacanti ed incamerazioni, e furono inventati altri mezzi per cavar denari.
(Il Varchi narra[340] che pubblicamente, e poco meno, che messi all'incanto, furono a prezzo venduti sette Cappelli di Cardinali).
Con questi modi avendo stabilito ed assicurato di pagare a' tempi promessi, dette anche per istatichi, per la sicurtà de' soldati, li Cardinali Cesis ed Orsino, che furono condotti dal Cardinal Colonna a Grottaferrata; ed il Papa temendo non la mala volontà, che sapeva avere contra lui D. Ugo nostro Vicerè, sturbasse ogni cosa, affrettò l'uscita, e la notte degli 8 di dicembre di quest'anno 1527, senza aspettar il nuovo giorno statuito alla sua uscita, segretamente ed In abito di Mercatante uscì dal Castello, e portossi frettolosamente in Orvieto, nella quale Città entrò di notte, non accompagnato da alcuno de' Cardinali. Esempio certamente, come scrive il Guicciardino[341], molto considerabile, e forse non mai, da poi che la Chiesa fu grande, accaduto. Un Pontefice caduto di tanta potenza e riverenza, essere custodito prigione, perduta Roma e tutto lo Stato, e ridotto in potestà d'altri. Il medesimo nello spazio di pochi mesi restituito alla libertà, rilasciatogli lo Stato occupato, ed in brevissimo tempo già ritornato alla pristina grandezza. Tanta era appresso a' Principi Cristiani l'autorità del Pontificato, ed il rispetto che da tutti gli era portato.
CAPITOLO IV. Spedizione di Lautrech sopra il Regno di Napoli, sue conquiste, sua morte e disfacimento del suo esercito, onde l'impresa riuscì senza successo. Rigori praticati dal Principe d'Oranges contra i Baroni incolpati d'aver aderito a' Franzesi.
L'anno 1528[342] fu pur troppo infelice al Regno di Napoli, perchè combattuto da tre Divini flagelli, di guerra, di fame e di peste, poco mancò, che non vedesse l'ultima sua desolazione. La peste, che sin dal mese di Settembre del passato anno cominciò a farsi sentire in Napoli, vie più crescendo riempiva d'orrore il Regno.
Dall'altra parte, dopo la liberazione del Pontefice, rotto ogni trattato di pace, avendo gli Ambasciadori del Re di Francia e d'Inghilterra intimata a Cesare la guerra, accelerossi la venuta di Lautrech alla conquista del Regno, ed essendosi già congiunta l'armata Franzese guidata dall'Ammiraglio Andrea Doria con quella de' Vineziani per l'impresa di Sardegna, per facilitare la guerra di Napoli, essendo sbattuta da venti, vennero a scorrere le riviere del Regno, per dar maggior calore all'impresa di Lautrech, il quale non aspettando la Primavera, il dì 9 di gennajo partì di Bologna, dove avea svernato colle sue genti, e per la via di Romagna e della Marca arrivò sul fiume Tronto (confine tra lo Stato Ecclesiastico ed il Regno) il decimo dì di febbrajo, dove trovò ogni cosa sprovveduta, onde gli fu facile d'impadronirsi di buona parte dell'Apruzzo e della Città dell'Aquila, dove fatta la rassegna delle sue truppe, le ritrovò ch'erano 30 mila persone a piedi e cinquemila a cavallo[343].
Avrebbe fatto il simigliante in brevissimo tempo in tutto il Regno, perchè, o fosse per l'affezione al nome de' Franzesi, o per l'odio a quello de' Spagnuoli, tutte le Terre dell'uno e l'altro Apruzzo anticipavano a rendersi vinticinque o trenta miglia innanzi alla venuta dell'esercito. Ma l'esercito imperiale uscito di Roma ritardò il fortunato suo corso, e gli fece abbandonare il cammino dritto, che avea preso verso Napoli, non si fidando per li monti condurre le artiglierie, il cui trasporto per ogni picciola opposizione dei nemici poteva essere impedito; e perciò Lautrech fu costretto di pigliare il cammino più lungo di Puglia a canto alla marina.
Intanto l'esercito imperiale comandato dal Principe d'Oranges, che in luogo del Duca Borbone era stato dall'Imperadore creato Capitan Generale, s'incamminò alla volta del Regno per opporsi a' nemici. Il Principe d'Oranges comandava i Tedeschi, il Marchese del Vasto, che di mala voglia ubbidiva al Principe, comandava l'infanteria spagnuola, e D. Ferrante Gonzaga la Cavalleria. In Puglia presso Troja venuti gli eserciti a fronte, non si diede battaglia, ma si trattennero alquanti dì in semplici scaramucce e scorrerie. Ma poco da poi, a' 22 marzo, Lautrech incamminatosi alla volta di Melfi, prese per assalto quella Città, facendovi prigione il Principe Sergianni Caracciolo, che valorosamente la difendeva, e gli Spagnuoli si ritirarono alla Tripalda. Presa Melfi, si rese Ascoli, Barletta, Venosa e tutte l'altre Terre convicine. Trani e Monopoli, nel medesimo tempo si resero ai Vineziani; poichè secondo l'ultime convenzioni fatte col Re di Francia, s'acquistavano ad essi tutti que' Porti del Regno, che possedevano innanzi alla rotta ricevuta dal Re Luigi nella Chiaradadda.
I Capitani imperiali giunti alla Tripalda si abboccarono col Vicerè D. Ugo, col Principe di Salerno e Fabrizio Marramaldo, che ivi erano accorsi con tremila fanti Italiani e diece pezzi d'artiglieria; e tutti di comun accordo conchiusero di ritirarsi in Napoli ed a Gaeta alla difesa di quelle Città, come fecero, abbandonando tutto il Paese circostante. Allora Lautrech s'incamminò col suo esercito verso Napoli, e nel passaggio arrenderonsi a lui Capua, Nola, Acerra, Aversa e tutte le Terre circostanti, alloggiando quattro dì nell'Acerra, donde spedì Simone Tebaldi romano con 150 Cavalli leggieri e 500 Corsi disertati dal Campo imperiale per non essere pagati, all'impresa di Calabria. E già Filippino Doria, con otto Galee d'Andrea Doria e due Navi, era venuto alla spiaggia di Napoli, e fatto con l'artiglierie disloggiare gl'Imperiali dalla Maddalena. Ma le sue Galee non bastavano a tenere totalmente assediato il Porto di Napoli; perciò Lautrech sollecitava le Galee de' Vineziani, che venissero ad unirsi con le Genovesi, e quelle dopo essersi lentamente rimesse in ordine a Corfu, erano venute nel Porto di Trani: ma esse (quantunque già si fossero arrendute loro le città di Trani e di Monopoli) preponendo i comodi proprj agli alieni (benchè dalla vittoria di Napoli dependessero tutte le cose) ritardavano per pigliare prima Poligano, Otranto e Brindisi; a' 19 di aprile il Provveditore degli Stradiotti Andrea Civrano, che militava per li Vineziani, ruppe presso la Vetrana il Vicerè della Provincia d'Otranto, il quale a gran fatica si salvò a Gallipoli col Duca di S. Pietro in Galatina; e Lecce Metropoli di quella Provincia e S. Pietro in Galatina con tutte le altre Terre circostanti si resero[344].
Intanto per sì fortunati successi delle armi della Lega, vedendosi già Lautrech avvicinato alle mura di Napoli, fu dibattuto da' Capitani Imperiali il modo della difesa; il Marchese del Vasto era di parere, unito l'esercito in Napoli, che s'alloggiasse fuori delle mura, parendogli viltà d'animo lo inserrarsi dentro; ma prevalse il parer contrario del Vicerè Moncada, del Principe d'Oranges, di D. Ferrante Gonzaga, dell'Alarcone e di tutti gli altri Capitani di ritirarsi dentro. In Napoli eran rimasi pochissimi abitatori, perchè tutti quelli che aveano o facoltà o qualità, s'erano ritirati, chi ad Ischia, chi a Capri e chi all'altre Isole vicine. I Baroni che vi eran rimasi, erano di sospetta fede, perchè sebbene all'avviso della venuta di Lautrech, s'erano molti Baroni e li più potenti e ricchi offerti al Vicerè Moncada di spendere il sangue e la roba in servizio di Cesare; nulladimeno per aver egli composta la maggior parte di quelli in denaro contante, in vece del servizio personale, e data loro licenza di potere alzare in caso di necessità le bandiere di Francia, senza che fosse loro imputato a fellonia o ribellione (oltre di molti altri che vi erano dentro della fazione Angioina) fu riputato savio consiglio, a fine di tener la Città sicura di qualche rivoluzione, che l'esercito si ritirasse dentro le mura della Città. Il popolo, alcuni per timore, altri per l'odio del nome spagnuolo, avea parimente bisogno di coraggio e di freno. Ed in fatti fu tale il suo timore, quando vide l'esercito Franzese alla vista della Città, che non si vedea altro per le strade, che processioni, e non s'udivano che pubbliche preci, e dimandar pietade; tanto che il Marchese del Vasto fu costretto ricorrere al Vicerè Moncada, perchè quelle si proibissero, come fu fatto, con incoraggir il popolo, che stasse di buon animo, e che le orazioni si facessero privatamente nelle Chiese e ne' Monasteri[345].
Ma tutte queste insinuazioni niente giovarono, quando il primo sabato di maggio, che in quell'anno fu alli 2 di quel mese, non si vide secondo il solito liquefarsi il sangue alla vista del Capo di S. Gennaro lor Protettore[345a]. Allora sì che s'ebbero per perduti e la Città nell'ultima costernazione. Ma come più innanzi diremo, fur vani gl'infausti pronostici, e seguirono effetti tutti contrari.
Il famoso Lautrech, il penultimo di d'aprile, alloggiò il suo esercito tra Poggio Reale ed il Monte di San Martino, distendendosi le sue genti insino a mezzo miglio, ed egli si mise più innanzi di Poggio Reale in una collina nella Vigna del Duca di Montalto, la quale d'allora in poi mutò nome, e sin oggi vien quel luogo appellato Lotrecco. Il celebre Pietro Navarra, Cantabro, che prima militando sotto l'insegna di Cesare, per mala soddisfazione portossi da poi al servigio di Francia, alloggiò in quelle colline, che sono all'incontro la Porta di S. Gennaro, e si distendono per fino al Monte di S. Martino.
Il Principe d'Oranges, dall'altra parte, fece subito fortificare il Monte di S. Martino, acciò che non fosse occupato da' Franzesi, i quali s'erano accampati negli altri vicini colli; ed allora fu, che fece abbattere la Torre del Sannazaro a Mergellina, luogo destinato da lui per le Muse: onde questo Poeta pieno di sdegno andossene in Roma, dove morì senza veder più Napoli; nè mancò per l'indignazione conceputa, ne' suoi versi covertamente malmenare così il Principe, come gli Spagnuoli, a' quali e per l'amore de' Re d'Aragona di Napoli suoi benefattori, e per l'odio conceputo al nome loro, avea notabile avversione. E narrasi, che trovandosi in Roma gravemente infermo e fuor d'ogni speranza di sua salute, intesa prima di morire la morte del Principe, si rallegrasse non poco, dicendo che Marte avea voluto già far vendetta delle Muse, da costui oltraggiate.
Non mancava in oltre provveder Napoli di frumento e d'ogni altra munizione così di bocca, come di guerra, per far valida difesa: e si cominciò ancora ad arrolare molta gente del popolo napoletano adatta all'armi per servirsene ne' bisogni: ma non altrimenti, che de' servi accadde in Roma, avvenne in Napoli dei suoi Cittadini. Il Senato Romano, che per togliere la confusione che vi era nella Città ripiena di tanti servi, avea deliberato, perchè si distinguessero da liberi Cittadini Romani, di contrassegnargli negli abiti con una nota distinta, quando vidde che per l'eccessivo lor numero, con notarsi con quel marco i servi, come dice Seneca, avrebbero saputa quanto era grande la lor forza, s'astenne di farlo. Così gli Spagnuoli fecero in Napoli in questa occasione; poichè avvedendosi, che con arrolarne tanti, il popolo Napoletano avrebbe ben conosciuta la forza che teneva nella sua moltitudine, i Capitani spagnuoli dissuasero al Principe d'Oranges, ed al Vicerè Moncada, che non si seguitasse il rollo cominciato, e così levaron mano, e s'astennero di proseguirlo[346].
Intanto, mentre si consumava il tempo in varie e spesse scaramucce dalle genti dell'uno e l'altro esercito, Lautrech non volle tentar l'espugnazione di Napoli, così per la moltitudine e valore de' defensori, come perchè sperava, che a' nemici dovessero mancar denari e vettovaglie, e prolungando l'assedio, siccome avea ridotto a sua divozione la maggior parte del Regno e molti Baroni, che si diedero al partito del Re di Francia; così credeva fermamente, e n'avea data certezza al suo Re, che Napoli fra breve avrebbe dovuto rendersi. Confermollo in questa speranza la sconfitta, che alquanti dì da poi diede Filippino Doria all'armata imperiale nel Golfo di Salerno.
Erano entrati in speranza il Principe d'Oranges, ed il Vicerè Moncada di rompere l'armata di Filippino, e sollecitavano l'impresa prima che sopraggiungessero nuovi ajuti; perchè Andrea Doria con le Galee, ch'erano a Genova non si movea; dell'armata preparata a Marsiglia non s'intendeva cos'alcuna, e l'armata vineziana, li quale intenta più all'interesse proprio, che al beneficio comune, anzi più tosto agli interessi minori ed accessorj, che agli interessi principali, attendeva alla spedizione di Brindisi e di Otranto, delle quali città, Otranto avea convenuto di arrendersi, se fra sedici dì non era soccorso, ed in Brindisi, benchè per accordo avesse ammesso i Vineziani, si tenevano ancora le Fortezze in nome di Cesare.
Ma prima d'avviarsi all'impresa, bisognò comporre una grave contesa insorta tra il Vicerè di Moncada, ed il Principe d'Oranges intorno al comando dell'armata. Furono questi due Capitani in continue gare: il Principe d'Oranges come Capitan Generale, sustituito da Cesare in luogo del Duca Borbone, pretendeva l'assoluto comando sopra tutti: il Vicerè come Capitan Generale del Regno, ove la guerra si faceva, pretendeva all'incontro non ubbidirlo; e questa divisione separò gli eserciti, con grave danno di Cesare, in due fazioni, chi seguitava la parte del Vicerè, chi quella del Generale Oranges. Nel comandare l'armata navale sursero vie più fiere le competenze; il Principe, come Generale dell'esercito, voleva a se arrogarsi il comando; D. Ugo ostinatamente repugnava, poichè, oltre il carico di Vicerè, si trovava egli allora anche G. Ammiraglio del Regno, a cui s'apparteneva il pensiero, e comando delle cose del mare. Non volendo l'un cedere all'altro, per non ritardare l'espedizione, fu risoluto che si desse il comando di quella impresa al Marchese del Vasto, ed al Gobbo Giustiniano nelle cose marittime veterano e famoso Capitano. D. Ugo per mostrar il suo valore e zelo, vi volle andare da semplice soldato, ed il suo esempio mosse Ascanio e Camillo Colonna, Cesare Ferramosca, il Principe di Salerno ed altri ad andarvi. Non vi erano nel Porto di Napoli che sei Galee e due Vascelli, ed il maggior fondamento non si faceva in sul numero, ma nella virtù de' combattenti, perchè empirono i loro legni di mille archibugieri spagnuoli de' più valorosi; e per ispaventare i nemici di lontano col prospetto di maggiore numero di legni, v'aggiunsero molte barche di Pescatori. Partirono il primo dì di giugno da Posilippo, e s'incamminarono alla volta di Capri: dove arrivati allo spuntar del 'giorno, videro i naviganti uscir da una spelonca un Romito spagnuolo assai noto, chiamato Consalvo Barretto, il quale essendo prima soldato, lasciata la milizia, erasi in quel luogo ritirato a menar vita solitaria. Costui vedendo le Galee imperiali, gridando ad alta voce, fece sì che D. Ugo con grandissimo pregiudizio di quell'impresa perdesse tempo ad udirlo. Egli assicurava l'armata, dandogli più benedizioni, che andasse pur felice a valorosamente combattere, perchè secondo l'apparizioni, che egli avea avute la notte, dovea ella rovinare i vascelli nemici, ammazzar molta gente, e per questa battaglia liberare il Regno di Napoli dall'oppressione in che si trovava[347]. I creduli soldati ricevendo come oracolo di felice augurio le parole del Romito, con festa e giubilo e suoni di trombe, promettendosi certa vittoria, andarono ad affrontar i nemici nel Golfo di Salerno vicino al Capo d'Orso. Ma azzuffatisi insieme le due armate, ben tosto s'avvidero quanto fossero sciagurati e vani gl'infelici pronostichi di quel fanatico. Tutti al contrario seguirono gli effetti. Fu l'armata imperiale interamente disfatta dal Doria: i soldati, ch'erano su le Navi, quasi tutti morti, ed i feriti fatti prigioni. D. Ugo valorosamente combattendo fu prima ferito nel braccio, e mentre confortava i suoi, da' sassi e da' fuochi gittati dalle Galee nemiche, restò miseramente morto, e poi crudelmente fu gittato in mare; e questo medesimo avvenne al Ferramosca. Il Marchese del Vasto, Ascanio Colonna, amendue feriti, il Principe di Salerno, il Santa Croce, Camillo Colonna, il Gobbo, Serenon, Annibale di Gennaro e molti altri Capitani e Gentiluomini restarono tutti prigioni: i quali tosto furon mandati da Filippino con tre Galee ad Andrea Doria prigionieri a Genova.
Ecco l'infelice successo di questa spedizione: ecco ancora l'infelicissimo fine del nostro Vicerè Moncada, il quale in tempi così turbolenti non potè godere del governo del Regno, che per soli sei mesi; perciò di lui non ci restano leggi, nè ebbe spazio fra noi lasciarci altra memoria. I Napoletani a' 8 giugno gli fecero solenni esequie; ed il Guicciardino, che parimente narra il suo cadavere essere stato buttato a mare, rende ancora non verisimile quel che alcuni scrissero, che fosse stato portato ad Amalfi, e poi condotto in Valenza, dove gli fu eretto un superbo tumulo, con iscrizione ed elogio. Che che ne sia, prese in suo luogo il carico di nuovo Vicerè Filiberto di Chalon Principe d'Oranges.
A tanta prosperità delle armi Franzesi s'aggiunse l'arrivo dell'armata vineziana di ventidue Galee, la quale, dopo essersi impadronita di quelle Piazze nell'Adriaco, passando il Faro di Messina, giunse al Golfo di Napoli a' 10 di questo mese, era costeggiando di continuo il nostro mare, e tutta intesa ad impedire i viveri alla Città assediata; ma era tanta l'avidità ed avarizia degli arditi marinari, che non perciò mancavano di venire ogni giorno nuovi rinfreschi da Sorrento, Capri, Procida, Ischia ed altri luoghi, mettendosi i marinari a mille rischi per la speranza di grossi guadagni.
Questi fortunati successi diedero speranza grande ai Franzesi di terminar fra poco tempo tutta l'impresa. Cominciò Lautrech con l'artiglieria a battere la Città da quelle colline, dove stava accampato Pietro Navarra. Fece ancor levar l'acqua del formale, ch'entrava dentro la Città dalla banda di Poggio Reale; ma siccome per l'abbondanza de' pozzi sorgenti, che vi sono dentro, non le recò molto danno, così per altra via riuscì ciò dannosissimo non meno a Napoli, che al suo esercito; poichè l'acqua allagando e stagnando in que' contorni, cagionando mal aria, fece augumentar la peste e le infermità che correvano sino al suo Campo. Si vide perciò la Città miseramente afflitta da crudel peste, dall'artiglieria, che tirava alle sue mura e da grande carestia di farina, carni e vino, essendo obbligati gli assediati di nutrirsi di grano cotto. A tutti questi mali s'aggiungevano i disagi, che l'apportavano gl'istessi soldati spagnuoli e tedeschi, li quali usando insolenze grandissime, rubavano, sforzavano donne, ammazzavano e maltrattavano, alle quali cose i Napoletani non usi, per non avere avuto da molto tempo guerra in casa propria, mal volentieri comportavano simili strazi.
Ma, mentre le cose erano in tale estremità, la fortuna, che sino a questo punto erasi mostrata cotanto propizia a' Franzesi, si vide tosto mutata ai lor danni, ed a favorire le parti di Cesare. Andrea Doria mal soddisfatto del Re di Francia, a persuasione del Marchese del Vasto suo prigioniere, lasciati gli stipendi di quel Re, andò a servir Cesare; per la qual cosa Filippino Doria con tutte le Galee partì da Napoli il quarto dì di luglio. Quello, che poi accelerò più la ruina de' Franzesi, furono le infermità cagionate in gran parte nel loro esercito, dall'aver tagliati gli acquidotti di Poggio Reale per torre a Napoli la facoltà del macinare, perchè l'acqua sparsa per lo piano, non avendo esito corrompè l'aria; onde i Franzesi intemperanti, ed impazienti del caldo s'ammalarono. Si aggiunse ancora la peste penetrata nel Campo per alcuni infetti mandati studiosamente da Napoli nell'esercito. Così cominciarono le cose de' Franzesi a declinar tanto, ch'eran divenuti da assedianti, assediati; ed al contrario in Napoli cresceva ogni dì la comodità e la speranza. Ma si videro nell'ultima declinazione, quando infermatosi ancora Lautrech, per l'infezion dell'aria e per dispiacere di veder quasi tutta la sua gente perduta, a' 15 agosto trapassò di questa vita, in su l'autorità e virtù del quale si riposavano tutte le cose. Fu sepolto nell'istessa Vigna del Duca di Montalto, dove stava accampato, e rimasero esposte le sue gloriose ossa all'ignominia ed avarizia degli Spagnuoli; di che avertito da poi Consalvo Duca di Sessa nipote del G. Capitano con alto magnanimo e pietoso, fecele trasferire in Napoli, e seppellire nella sua Cappella nella Chiesa di S. Maria la Nuova, dove fece loro ergere un superbo tumulo di marmo, ed ancor oggi vi si legge pietoso elogio. Il simile fece questo Signore alle ossa del famoso Pietro Navarro, il quale poco da poi della disfatta dei Franzesi, fatto prigione, essendo morto nelle carceri di Castel Nuovo, gli fece parimente nell'istessa Cappella ergere pari tumulo con iscrizione che ancor ivi si vede[348].
La morte di sì insigne Capitano, restando il comando dell'esercito al Marchese di Saluzzo non pari a tanto peso, multiplicò i disordini; e sopraggiunto nel medesimo tempo Andrea Doria, come soldato di Cesare con dodici Galee a Gaeta, i Franzesi rimasi quasi senza gente e senza governo, non potendo più sostenersi, si levarono dall'assedio per ritirarsi in Aversa; ma presentita dagli Imperiali la loro levata, furono rotti nel cammino, dove fu preso Pietro Navarra e molti altri Capitani di condizione; e salvatosi il Marchese di Saluzzo in Aversa con una parte dell'esercito, non potendosi difendere, mandò fuori il Conte Guido Rangone a capitolare col Principe d'Oranges, il quale ne' principj di settembre accordò al Conte queste Capitolazioni.
Che lasciasse il Marchese Aversa con la Fortezza, artiglierie e monizione, ed egli e gli altri Capitani, fuor che il Conte, in premio di questa concordia, restassero prigioni. Che facesse il Marchese ogni opera, perchè i Franzesi ed i Vineziani restituissero tutte le Piazze del Regno. Che i soldati e quelli che per l'accordo rimanevano liberi, lasciassero le bandiere, l'arme, i cavalli e le robe, concedendo però a quelli di più qualità ronzini e muli per potersene andare; e che i soldati Italiani non servissero per sei mesi contra Cesare.
Così rimase tutta la gente rotta e tutti i Capitani o morti, o presi nella fuga, o nell'accordo restati prigioni. In pochi dì si resero Capua, Nola e tutti gli altri luoghi di Terra di Lavoro. L'armata vineziana si divise dalla Franzese; quella s'avviò verso Levante e questa verso Ponente. Rimasero solo alcune reliquie di guerra in Apruzzo e nella Puglia; poichè in Calabria d'alcuni pochi luoghi, che si tenevano per li Franzesi, non se ne teneva conto. Il Principe d'Oranges gli discacciò poi interamente da quelle Province, e le Piazze ed i Porti, che i Vineziani tenevano occupati nell'Adriatico furono, nella pace universale, che si conchiuse da poi, restituite.
Ma se bene le cose di Napoli si fossero, cessata ancora la peste, vedute in qualche pace e tranquillità; nulladimanco il rigore del Principe d'Oranges, che volle usare co' Baroni, conturbò non poco la quiete del Regno, e fu cagione dell'abbassamento e della desolazione d'alcune famiglie, siccome dell'ingrandimento d'alcune altre. Il suo predecessore D. Ugo avendo, come si disse, composti molti Baroni e data loro licenza in caso di necessità, di poter alzare le bandiere Franzesi, e d'aprir le porte delle lor Terre al nemico, diede la spinta a molti di farlo; ma il Principe d'Oranges, ora che il Regno era libero e ritornato interamente sotto l'ubbidienza di Cesare, non ammettendo a' Baroni quella scusa, e dicendo che il Moncada non avea potestà di rimettere la fedeltà dovuta dal vassallo al suo Sovrano, si mise a gastigarli come ribelli, ad alcuni togliendo la vita, a moltissimi confiscando le robe, e ad altri, per semplice sospetto d'aver aderito a Franzesi, componevagli in somme considerabili, con connivenza ancora di Cesare, il quale avea sempre bisogno di denari per nutrir la guerra, che si manteneva a spese, ora del Papa, ora d'altri, ora con contribuzioni, tasse e donativi, che si proccuravano a questo fine. Si serviva il Principe del ministerio segreto di Girolamo Morone genovese, Commessario destinato a queste esecuzioni, il quale con molta efficacia ed esattezza adempiva l'uffizio suo. Fece in prima tagliar il capo ad Errigo Pandone Duca di Bojano ed al Conte di Morone[349]. Il medesimo avrebbe fatto del Principe di Melfi, del Duca di Somma, di Vicenzo Caraffa Marchese di Montesarchio, di Errigo Ursino Conte di Nola, del Conte di Castro, del Conte di Conversano, di Pietro Stendardo e di Bernardino Filinghiero, se gli avesse avuti nelle mani: de' quali il Marchese di Montesarchio, il Conte di Nola e Bernardino Filinghiero morirono di malattia, prima che i Franzesi uscissero dal Regno, e gli altri se n'andarono in Francia. Tutti questi però furono spogliati de' loro Stati.
Il Marchese di Quarata ed altri Baroni volendosi valere della licenza data loro da D. Ugo Moncada, fu ad essi di giovamento per far loro scampare la vita, ma non già per con far loro perdere la roba, la qual si credette, che l'avrebbero certamente salvata, se fosse stato vivo D. Ugo. Nel numero di questi Baroni furono il Duca d'Ariano, il Conte di Montuoro, il Barone di Solofra, l'uno e l'altro di Casa Zurlo, il Barone di Lettere e Gragnano di Casa Miroballo, ii Duca di Gravina e Roberto Bonifacio ultimamente fatto Marchese d'Oira; delli quali, gli ultimi due ricuperarono da poi a maggior parte delli loro Stati e si composero in denari, come ancora il Duca d'Atri, che ricuperò il suo. Si richiamarono questi a Cesare, che non l'ammise alla reintegrazione de' loro Stati, se non col pagamento d'una somma considerabile di denaro, non avendo potuto in conto alcuno, evitar quest'ammenda. Scrissero con tal occasione i primi Giureconsulti, che fiorirono in Italia a favor de' Baroni, e Decio ne compilò più consiglj; pruovando non potersi venire a somiglianti partiti, che apportavano pregiudicio alla loro innocenza; ma fu in darno gettata ogni lor fatica, perchè Cesare avea bisogno di denari per pagare le truppe, e con tal modo sostener la guerra. Parimente avendo l'Aquila tumultuato, ridotta dal Principe d'Oranges all'ubbidienza, la condannò in ducati 100 mila, che per pagarli bisognò vendere sino gli argenti delle Chiese, ed impegnare a due Mercatanti tedeschi, che pagarono anticipatamente il denaro, la raccolta del Zaffarano, oltre d'averla spogliata della giurisdizione che teneva sopra molti Casali, che l'Oranges donò ad alcuni Capitani del suo esercito.
Dappoichè il Principe ebbe confiscate tutte quelle Terre a' loro antichi Baroni, le divise a' Capitani dell'Imperio. Si tenne per se Ascoli, la quale da poi fu d'Antonio di Leva. Melfi con la maggior parte dello Stato del Principe di Melfi fu data ad Andrea Doria. Al Marchese del Vasto fu dato Montesarchio ed Airola, Lettere, Gragnano ed Angri. A D. Ferrante Gonzaga, Ariano. Ad Ascanio Colonna lo Stato del Duca d'Atri, confiscato per la ribellione del Conte di Conversano; ma gli Apruzzesi vassalli del Duca, non volendo dar ubbidienza ad Ascanio, fu occasione che si vedesse meglio la causa del vecchio Duca d'Atri, e ritrovandosi la persona sua fuori d'ogni sospetto di fellonia, gli fu restituito con darsi ad Ascanio l'equivalente sopra altre Terre.
Le Terre della Valle Siciliana, ch'erano possedute da Camillo Pardi Orpino, furono date a D. Ferrante d'Alarcone, e dopoi anche il Contado di Rende del Duca di Somma. All'Ammiraglio Cardona, Somma. A D. Filippo di Launoja Principe di Sulmona, figliuolo del Vicerè D. Carlo, gli fu dato Venafro già del Duca di Bojano Pandone. A Fabrizio Maramaldo, Ottajano. A Monsignor Beuri Fiamengo, Quarata, che era stata del Marchese Lanzilao d'Aquino. Al Segretario Gattinara, Castro. A Girolamo Colle, Monteaperto. A Girolamo Morone esecutore indefesso de' rigori del Vicerè, in premio della sua severità, la Città di Bojano. E ad altre persone, altre Terre, che la memoria dell'uomo non si può ricordare. Alcuni di questi pretesi felloni ottennero, che le lor cause si fossero vedute per giustizia, siccome ottenne Michele Coscia Barone di Procida, e quella trattatasi in Napoli a' 4 maggio del seguente anno 1529 riportò sentenza conforme a quella del Marchese di Quarata, cioè, che perdesse la roba, ma non la vita; onde Procida fu confiscata, e fu data al Marchese del Vasto[350].
CAPITOLO V. Pace conchiusa tra 'l Pontefice Clemente coll'Imperador Carlo in Barcellona, che fu seguita dall'altra conchiusa col Re di Francia a Cambrai, e poi (esclusi i Fiorentini) co' Vineziani; e coronazione di Cesare in Bologna.
Gl'infelici successi delle armi franzesi in Italia fecero, che pensasse il Papa, l'istesso Re Francesco, e tutti coloro della Lega alla pace; onde tutti i loro pensieri furono rivolti a trovarne il modo. Il Papa fu il primo che trattasse accordo, e per mezzo del General de' Francescani, creato da lui Cardinale del titolo di S. Croce, che sovente portandosi da Spagna in Roma, e da quivi in Ispagna, ridusse l'accordo con Cesare in buono stato, e già in Napoli nel principio di questo nuovo anno 1529 penetrò qualche avviso di speranza di pace. Finalmente dopo essersi negoziata per alquanti mesi dal suddetto Cardinale, fu ridotta a fine da Giovan-Antonio Mascettola, che si trovava in Roma Ambasciadore per l'Imperadore, e si conchiuse molto favorevole per lo Pontefice, o perchè Cesare, desiderosissimo di passare in Italia, cercasse di rimoversi gli ostacoli, parendogli per questo rispetto aver bisogno dell'amicizia del Pontefice, o volendo con capitoli molto larghi dargli maggiore cagione di dimenticare l'offese praticate da' suoi Ministri e dal suo esercito: in effetto gli accordò ciò che il Papa più ardentemente desiderava, cioè lo ristabilimento della sua Casa in Fiorenza, promettendo l'Imperadore per rispetto del matrimonio nuovo di Margherita sua figliuola naturale con Alessandro de' Medici suo nipote, figliuolo di Lorenzo, di rimettere Alessandro in Fiorenza nella medesima grandezza ch'erano i suoi innanzi fossero cacciati.
I Capitoli di questa pace si leggono nell'Istoria del Giovio[351] e del Guicciardino[352], e sono rapportati da altri Scrittori[353]. Il Summonte[354] ed il Chioccarelli[355] ne trascrivono le parole; e per ciò che riguarda il Regno di Napoli, fu convenuto:
Che il Pontefice concedesse il passo per le Terre della Chiesa all'esercito Cesareo, se volesse partire dal Regno di Napoli; e che passando Cesare in Italia debbiano abboccarsi insieme per trattare la quiete universale de' Cristiani, ricevendosi l'un l'altro con le debite e consuete cerimonie ed onore.
Che Cesare curerà il più presto si potrà, o con l'arme, o in altro modo più conveniente, che il Pontefice sia reintegrato nella possessione di Cervia e di Ravenna, di Modena, di Reggio e di Rubiera, senza pregiudizio delle ragioni dell'Imperio e della Sede Appostolica.
All'incontro, concederà il Pontefice a Cesare, avute le Terre suddette, per rimunerazione del beneficio ricevuto nuova investitura del Regno di Napoli, con rimettergli tutti li censi imposti per lo passato, riducendo il censo dell'ultima investitura ad un cavallo bianco, in ricognizione del feudo, da presentarsegli nel giorno di S. Pietro e Paolo. Fu questo censo sempre vario, ora diminuendosi, ora accrescendosi a considerabili somme, le quali poi non pagandosi, i Pontefici per non pregiudicarsi, con altre Bolle solevano rimettere a' Re i censi decorsi, ma volevano, che nell'avvenire si pagassero; ma poi nè tampoco sodisfacendosi, si tornava di nuovo alla remissione.
Per questa capitolazione si tolse ogni censo pecuniario, e la cosa si ridusse ad un solo cavallo bianco da presentarsi il dì di S. Pietro in Roma, come fu da poi praticato. Tommaso Campanella perciò compose una Consultazione De Censu Regni Neapoletani, che non si trova impressa[356]. Paolo IV non ostante questa capitolazione, lo pretese da Filippo II, ed arrivò per questa cagione di non essersi pagato, sino a dichiarare divoluto il Regno; ma di ciò si parlerà più innanzi nel Regno di quel Principe.
Di più sarà conceduta a Cesare la nominazione di ventiquattro Chiese Cattedrali del Regno, delle quali era controversia: restando al Papa la disposizione delle altre Chiese, che non fossero di Padronato e degli altri Beneficj. Di che ci tornerà occasione di lungamente ragionare, quando tratteremo della politia Ecclesiastica del Regno di questo secolo.
E per ultimo, per tralasciar le altre che non appartengono alle cose di Napoli, si convenne, che non potesse alcuno di loro in pregiudicio di questa confederazione, quanto alle cose d'Italia, fare leghe nuove nè osservare le fatte contrarie a questa: possano nondimeno entrarvi i Vineziani, lasciando però quello, che posseggono nel Regno di Napoli.
Furono queste Capitolazioni fatte in Barcellona e furono solennemente ivi stipulate a' 29 giugno di quest'anno 1529, dove intervenendo per Ambasciadori di Cesare Mercurio Gattinara e Lodovico di Fiandra, e per lo Pontefice, il Vescovo Girolamo Soleto suo Maggiordomo, furono ratificate innanzi all'altar grande della Chiesa Cattedrale di Barcellona con solenne giuramento.
Volendo per tanto Cesare in esecuzione di questa concordia riporre Alessandro de' Medici nello Stato di Firenze, deliberò valersi per quella impresa del Principe d'Oranges nostro Vicerè: al quale comandò, che da Apruzzo, ov'era, si mettesse in cammino con la sua gente alla volta di Firenze; e che nel passare andasse a Roma a ricevere gli ordini del Papa.
Nel medesimo tempo con non minor caldezza procedevano le pratiche della concordia tra Cesare ed il Re di Francia, per le quali, poichè furono venuti i mandati, fu destinata la Città di Cambrai, luogo fatale a grandissime conclusioni.
I negoziati di questa pace furono appoggiati a due gran donne, a Madama Margherita d'Austria, zia dell'Imperadore, ed a Madama la Reggente, madre del Re di Francia, acconsentendo a questi maneggi il Re d'Inghilterra, il quale avea mandato per ciò a Cambrai un suo Ambasciadore. Re Francesco si studiava con ogni arte e diligenza, con gli altri Ambasciadori della Lega d'Italia, di dar loro a sentire, che non avrebbe fatta concordia con Cesare, senza consenso e loro soddisfazione. Si sforzava persuaderli di non sperare nella pace, anzi avere volti i suoi pensieri alle provvisioni della guerra: temendo, che insospettiti della sua volontà, non prevenissero ad accordarsi con Cesare; onde mostrò essere tutto inteso a provvisioni militari, e mandò a questo fine il Vescovo di Tarba in Italia con commessione di trasferirsi a Venezia, al Duca di Milano, a Ferrara ed a Firenze per praticare le cose appartenenti alla guerra: e promettere, che passando Cesare in Italia, passerebbe anch'egli nel tempo medesimo con potentissimo esercito. Queste erano l'apparenze; ma il desiderio di riavere i figliuoli, rimasi per ostaggio in Ispagna, lo faceva continuamente stringere le pratiche dell'accordo, per cui a' 7 di Luglio entrarono per diverse porte con gran pompa amendue le Madame in Cambrai; ed alloggiate in due case contigue, che aveano l'adito l'una nell'altra, parlarono il dì medesimo insieme, e si cominciarono per gli Agenti loro a trattare gli articoli; essendo il Re di Francia, a chi i Veneziani, impauriti di questa congiunzione, facevano grandissime offerte, andato a Compiegne, per essere più da presso a risolvere le difficoltà, che occorressero.
Convennero in quel luogo non solamente le due Madame, ma eziandio, per lo Re d'Inghilterra, il Vescovo di Londra, ed il Duca di Suffocle, perchè col consenso e partecipazione di quel Re si tenevano queste pratiche. Il Pontefice vi mandò l'Arcivescovo di Capua e vi erano gli Ambasciadori di tutti i Collegati; ma a costoro riferivano i Franzesi cose diverse dalla verità di quello che si trattava; ed il Re sempre lor prometteva le medesime cose, che non si sarebbe conchiuso niente senza lor consenso e soddisfazione. Sopravvenne intanto a' 28 di luglio l'avviso della capitolazione fatta tra 'l Pontefice e Cesare; ed essendosi per ciò molto stretto l'accordo, fu per isturbarsi per certe difficoltà, che nacquero sopra alcune Terre della Franca Contea; ma per opera del Legato del Pontefice e principalmente dell'Arcivescovo di Capua, fu quello conchiuso.
Si pubblicò questa pace solennemente il quinto dì d'agosto nella Chiesa maggiore di Cambrai, e l'istromento di quella è rapportato da Lionard nella sua Raccolta[357]. I principali articoli, e quelli che riguardarono il nostro Reame furono.
Primieramente, che i figliuoli del Re fossero liberati, pagando il Re a Cesare per taglia loro un milione e ducentomila ducati, e per lui al Re d'Inghilterra ducentomila[358].
Che si restituisse a Cesare tra sei settimane dopo la ratificazione tutto quello possedeva il Re nel Ducato di Milano, con rilasciargli parimente Asti, e cederne le ragioni.
Che lasciasse il Re più presto che potesse Barletta e tutto quello che teneva nel Regno di Napoli. Che protestasse il Re a' Vineziani, che secondo la forma de' Capitoli di Cugnach, restituissero le Terre di Puglia, ed in caso non lo facessero, dichiararsi loro nemico, ed ajutare Cesare per la ricuperazione con 30 mila scudi il mese e con dodici Galee, quattro Navi e quattro Galeoni pagati per sei mesi.
E per tralasciar gli altri, fu parimente convenuto, che il Re dovesse annullare il processo di Borbone e restituire l'onore al morto ed i beni a' successori. Siccome dovesse restituire i beni occupati a ciascuno per conto di guerra, o a' loro successori. Le quali cose dal Re, ricuperati ch'ebbe i figliuoli, non furono attese: perchè tolse i beni a' successori di Borbone, nè restituì i beni occupati al Principe d'Oranges, del che Cesare cotanto si querelava.
Fu compreso in questa pace per principale il Pontefice, e vi fu incluso il Duca di Savoja. Vi fu ancora un capitolo, che nella pace s'intendessero inclusi i Vineziani ed i Fiorentini, in caso che fra quattro mesi fossero delle loro differenze d'accordo con Cesare, che fu come una tacita esclusione; ed il simile fu convenuto per lo Duca di Ferrara. Nè de' Baroni e fuorusciti del Regno di Napoli fu fatta menzione alcuna.
Pubblicata che fu, non si può esprimere quanto se ne dolessero i Vineziani, e più i Fiorentini, che non furono in quella compresi, vedendosi così abbandonati, ed in arbitrio di Cesare e del Pontefice; il quale, giunto che fu il Principe d'Oranges in Roma, destinato da Cesare a ridurre i Fiorentini, l'avea accolto con giubilo grande, e datigli molti ajuti per facilitare quella impresa, che tanto desiderava vederla ridotta a felice fine.
Intanto Cesare dopo aver conchiusa la pace col Pontefice, si era posto subito in cammino per Italia, dove avea deliberato di venire, non già per quella cerimonia di pigliare la corona imperiale di mano del Pontefice, ma fu mosso per cagioni assai più serie; poichè con tal occasione pensava d'abboccarsi col Papa per dar sesto a molte cose d'Italia ancor fluttuanti. E partito da Barcellona con le Galee d'Andrea Doria a' 8 di luglio, arrivato che fu a Genova a' 12 agosto, gli furono presentati gli articoli della pace conchiusa in Cambrai col Re di Francia, li quali di buona voglia ratificò. In esecuzione della quale, dall'altra parte, il Re di Francia chiamò le sue genti, che erano nel nostro Regno, comandando a' suoi Capitani, che restituissero a' Ministri di Cesare, Barletta e tutti gli altri luoghi, che si tenevano nel Regno a nome suo, come fu eseguito[359].
Da questa pace di Cambrai in poi i Re di Francia non fecero altre spedizioni in lor nome sopra il Regno di Napoli, nè mai pretesero per loro le conquiste che furon poi tentate. S'unirono bensì nelle congiunture co' nemici de' Re di Spagna a lor danni, ma per altre cagioni, che si diranno nel progresso di questa Istoria.
Rimanevano ancora in Puglia le reliquie della guerra; poichè i Vineziani non compresi nella pace, ostinatamente attendevano a guardarsi quelle Terre e quei Porti dell'Adriatico, che tenevano occupati. E quantunque fosse stato dato il carico al Marchese del Vasto di discacciarli, questi però essendo stato richiamato in Fiorenza dal Principe d'Oranges, che avea trovata l'impresa assai più lunga e difficile di quello si credeva; fu dato il carico all'Alarcone, già fatto Marchese della Valle Siciliana, per ricuperar quelle Terre[360].
Ma giunto che fu l'Imperadore in Bologna a' 5 del mese di novembre, ove secondo concertarono, si fece parimente trovar il Papa, abboccatisi insieme, la prima cosa che fra di loro si trattò, fu la restituzione dello Stato al Duca di Milano, e la pace con gli Vineziani e con gli altri Principi Cristiani: per agevolar la quale molto vi cooperò Alonzo Sances Ambasciadore di Cesare alla Signoria di Venezia. Giovò ancora a Francesco Sforza l'essersi presentato, subito che arrivò in Bologna, al cospetto di Cesare: onde trattatesi circa un mese le difficoltà dell'accordo suo e di quello de' Vineziani, finalmente a' 23. decembre di quest'anno, essendosene molto affaticato il Pontefice, si conchiuse l'uno e l'altro. Fu convenuto che al Duca si restituisse lo Stato con pagare a Cesare in un anno ducati 400 mila, ed altri cinquecentomila poi in diece anni, restando in tanto, fin che non fossero fatti i pagamenti del primo anno, in mano di Cesare Como ed il Castel di Milano; e gli diede l'investitura, ovvero confermò quella, che prima gli era stata data[361].
Che i Vineziani restituissero al Pontefice Ravenna e Cervia co' suoi Territorj, salve le loro ragioni.
Che restituissero a Cesare per tutto gennajo prossimo tutto quello che possedevano nel Regno di Napoli.
Che se alcun Principe Cristiano, eziandio di suprema dignità, assaltasse il Regno di Napoli, siano tenuti i Vineziani ad ajutarlo con quindici Galee sottili ben armate.
E per ultimo, tralasciando gli altri, fu convenuto, che se il Duca di Ferrara si concorderà col Pontefice e con Cesare, s'intendesse incluso in questa confederazione.
Nel primo di gennajo del nuovo anno 1530 fu nella Cattedral Chiesa di Bologna solennemente pubblicata questa pace, nella quale solamente i Fiorentini ne furono esclusi. In esecuzione della quale Cesare restituì a Francesco Sforza Milano e tutto il Ducato, e ne rimosse tutti i soldati, ritenendosi solamente quelli, ch'erano necessari per la guardia del Castello e di Como, li quali restituì poi al tempo convenuto; e poichè per questa pace i Capitani dell'Imperadore erano rimasi mal contenti, particolarmente il Marchese del Vasto, ed Antonio di Leva: l'Imperadore, per mantenerli soddisfatti, persuase al Duca di Milano, che avesse per bene, che quelli nel suo Ducato possedessero alcune Terre.
I Vineziani restituirono al Pontefice le Terre di Romagna, e nello stesso mese furono da essi restituite a Cesare Trani, Molfetta, Pulignano, Monopoli, Brindisi e tutte l'altre Terre, che tenevano nelle marine della Puglia.
Così liberato il Regno da straniere invasioni, e restituito in pace, avea bisogno di tranquillità e maggior riposo per ristorarsi de' passati danni.
CAPITOLO VI. Governo del Cardinal Pompeo Colonna, creato Vicerè in luogo dell' Oranges, grave a' sudditi, non tanto per lo suo rigore, quanto per le tasse e donativi immensi, che coll'occasione dell'incoronazione, e del passaggio di Cesare in Alemagna, per la natività di un nuovo Principe, e per le guerre contra al Turco riscosse dal Regno.
Eletto il Principe d'Oranges per l'impresa di Fiorenza, fu ne' principj di luglio del passato anno 1529 rifatto in suo luogo il Colonna. Costui fu il primo Cardinale, ch'essendo ancora Arcivescovo di Monreale, si vide in qualità di Vicerè e Capitan Generale governare il Regno. In altri tempi, quando chi era destinato a' ministerj della Chiesa, non poteva impacciarsi ne' negozi ed affari del secolo, avrebbe ciò portato orrore; ma ne' pontificati d'Alessandro VI, di Giulio II (di cui scrisse Giovanni Ovveno[362], che avendo deposte le chiavi, e presa la spada, attese più alle arti della guerra, che al ministerio sacerdotale) di Lione (che come dice il Guicciardino[363], niente curando della Religione, avea l'animo pieno di magnificenza e di splendore, come se per lunghissima successione fosse disceso di Re grandissimi, favorendo con profusioni di regali Letterati, Musici e Buffoni) di Clemente VII (nel di cui tempo gli abusi della Corte di Roma eran trascorsi in tanta estremità, che fu desiderato un Concilio per estirparli) non parevano queste cose strane. Non dava su gli occhi, che un Arcivescovo insieme e Cardinale, lasciata la sua Cattedra, governasse Regni e Province da Vicerè e da Capitan Generale. E tanto meno stranezza dovea apportare il Cardinal Colonna, il quale niente curando delle cose della Religione, fu tutto applicato alle armi, ed agli amori, siccome correva la condizione di que' tempi.
Egli nella sua adolescenza fu applicato da Prospero Colonna suo zio all'esercizio dell'armi, e militò sotto il G. Capitano, dando pruove ben degne del suo valore. Poi stimò meglio lasciar la guerra, e ritirarsi in Roma, dove si diede allo studio di lettere umane, e nella poesia fece maravigliosi progressi, e per ciò fu molto stimato dal Minturno[364], e dagli altri Letterati del suo tempo. Essendo costume de' Poeti eleggersi un'Eroina, onde ispirati da quel Nume con maggior fervore e vena poetassero, così ancora fece il Colonna, il quale acceso fortemente dell'avvenenza e venustà di D. Isabella Villamarino Principessa di Salerno, cantò di lei altamente, e per cui compose molti versi, che ancor si leggono. Fu carissimo ancora alla cotanto celebre D. Vittoria Colonna sua parente, di cui parimente cantò le sue lodi e' suoi pregi; e per mostrare al mondo quanto le donne gli fossero a cuore, compose un giusto volume delle loro virtù, lodandole e defendendole da tutti quelli, che le soglion biasimare[365].
In premio di queste sue fatiche, essendo morto il Cardinal Giovanni Colonna suo zio, Giulio II lo creò Vescovo di Rieti. Lione X, a cui assai più aggradivano le sue maniere e la sua letteratura, l'innalzò a più grandi onori: oltre averlo fatto passare a più sublimi Cattedre, lo creò Vicecancelliere della Sede Appostolica, e finalmente Cardinale. Ma Clemente VII l'odiò sopra modo, siccome colui, che aderendo, come tutti gli altri Colonnesi, alle parti imperiali, continuamente s'opponeva al suoi pensieri. Ed il Cardinale col favor di Cesare fatto più ardito e fastoso, non si conteneva di parlar pubblicamente di lui, come di asceso al Papato per vie illegittime; e magnificando le cose operate dalla Casa Colonna contra altri Pontefici, aggiungeva esser fatale a questa famiglia l'odio de' Pontefici intrusi, e ad essi l'esser ripressi dalla virtù di quella. Di che irritato il Pontefice pubblicò un severo Monitorio contra di lui, citandolo a Roma sotto gravissime pene: nel qual anche toccava manifestamente il Vicerè di Napoli, ed obbliquamente l'Imperadore. Il Cardinal Pompeo non lasciò di vendicarsene, quando entrati i Colonnesi in Roma, saccheggiarono tutta la suppellettile del Palazzo Pontificio e la Chiesa di S. Pietro; onde avvenne, che assicurato il Papa per la tregua fatta per quattro mesi con D. Ugo Moncada, scomunicando, e dichiarando eretici e scismatici i Colonnesi, privò ancora il Cardinale della dignità Cardinalizia. Trovavasi allora il Cardinale in Napoli, il quale intesa la sua privazione, non stimate le censure del Papa, pubblicò un'appellazione al futuro Concilio, citando Clemente a quello, con proporre l'ingiustizia e le nullità de' monitorj, censure e sentenze contra di lui e' Colonnesi pubblicate; e dai partigiani de' Colonnesi, di questa appellazione ne furono affissi più esemplari in Roma di notte sopra le porte delle Chiese principali ed in diversi altri luoghi, e disseminati per Italia.
(Questi Atti del Cardinal Pompeo Colonna contra Clemente VII sono stati raccolti ed impressi nelle collezioni di Goldasto; de' quali non si dimenticò Struvio[366], che l'avvertì pure scrivendo alla pag. 1262, Extant Acta Pompeii Cardinalis, adversus Clementem VII apud Goldastum. L'esempio di Carlo V rese frequenti, mentre durarono le brighe con questo Pontefice, le appellazioni contra i Monitorj, censure ed ogni altro atto Papale, al futuro Concilio. Anzi l'appellazione interposta dall'Imperadore, contiene una formola assai notabile; poichè si dimandano al Papa gli Apostoli (vocabolo forense) cioè le lettere dimissoriali per la trasmissione degli atti al futuro Concilio, affinchè intanto egli non procedesse, nè innovasse cos'alcuna. Ecco le parole, colle quali egli termina quella dotta e grave risposta fatta a Clemente VII siccome si leggono, ed in Goldasto, ed in Lunig[367]. Nos enim, quum ex his, et aliis satis notoriis causis turbari videremus universum Ecclesiae et Christianae Religionis statum ut nobis, ac ipsius Reipublicae saluti consulatur, pro his omnibus ad ipsum Sacrum Universale Concilium per praesentes recurrimus, ac a futuris quibuscunque gravaminibus, eorumque comminationibus provocamus, appellamus et supplicamus a Vestra Sanctitate ad dictum Sacrum Concilium, cujus etiam officium per viam querelae his de causis implorandum censemus: petentes cum ea, qua decet instantia, Apostolos et litteras dimissorias, semel, bis, ter, et pluries nobis concedi, et de harum praesentatione testimoniales litteras fieri, ac expediri in ea qua decet forma, quibus suis loco et tempore uti valeamus. Et quum ad haec solemniter peragenda ejusdem Sanctitatis Vestrae praesentiam habere nequeamus, ut inde futuris forsan gravaminibus occurramus, has nostras ejus Nuncio Apostolico penes nos agenti et Legationis munere, nomine Vestrae Sanctitatis fungenti, per actum publicum coram Notario et Testibus exhibendas intimandasque censuimus. Dat. Granatae die 17 Septembris 1526. )
Durarono le suddette aspre contese finchè non seguì la pace, conchiusa tra il Pontefice e Cesare in Barcellona; in vigor della quale restando assoluti tutti quelli, che in Roma, o altrove aveano offeso il Pontefice, fu il Cardinale restituito alla prima dignità, ma non mai alla grazia del Papa; e per questi successi vie più entrato in sommo favore dell'Imperador Carlo V, questi lo nominò Arcivescovo di Monreale, Chiesa, come ciascun sa, di ricchissime rendite in Sicilia; e partito l'Oranges per l'impresa di Fiorenza, trovandosi il Cardinale in Gaeta, gli diede il governo del Regno, creandolo suo Vicerè.
Giunto il Cardinale a Napoli, trovò il Regno per le precedute calamità e disordini, non men esausto di denari che pieno di dissolutezze. I suoi predecessori per le precedute guerre e rivoluzioni, dovendo più attendere alle cose della guerra, trascurarono gli esercizi della giustizia; e l'Oranges più col suo esempio che per trascurarne il castigo, ne' giovani Nobili avea introdotta un'estrema licenza e dissolutezza con grande oltraggio della giustizia. Non pure i Grandi del Regno, ma i semplici Gentiluomini privati, toglievano alla scoverta dalle mani della giustizia i delinquenti, oltraggiavano i popolari, si ritenevano le mercedi ai poveri artigiani, e talora richieste, erano battuti. I Potenti dentro le loro case tenevano uomini scellerati per ministri delle loro voglie, nè li Capitani di giustizia vi potevano rimediare: i loro Palagi erano divenuti tanti asili, e coloro che v'entravano, ancorchè rei di mille delitti, eran ivi sicuri, e se talora venivano estratti dalla giustizia, erano i birri bastonati, perseguitali e costretti a renderli.
Il Cardinale nel principio del suo governo, seguitando le vestigia de' suoi predecessori, lasciava correre i disordini, come per l'innanzi camminavano: poi vedendo le cose ridotte all'ultima estremità, si riscosse alquanto. Fece tagliar la mano a Giovan-Battista d'Alois di Caserta suo valletto, il quale nella sua anticamera avea data una guanciata ad un altro suo servidore; ed ancorchè Vittoria Colonna si fosse mossa sin da Ischia a dimandargli il perdono, fu l'opra sua tutta vana; e l'istessa Isabella Villamarino Principessa di Salerno, cotanto da lui celebrata ne' suoi versi, non potè impetrar altro, che siccome dovea recidersi la mano destra, si troncasse la sinistra, come, fu eseguito[368]. Fece impiccare nella piazza del Mercato Cola Giovanni di Monte, che nel 1525 era stato Eletto del popolo, ed era allora Maestrodatti delle contumacie di Vicaria, e Giulio suo fratello parimente Maestrodatti, per mille ruberie, falsità ed altri enormi delitti, dei quali furon convinti. Ed essendo un malfattore scappato dalle mani del Bargello, ricovrato nel palazzo del Principe di Salerno, minacciò al Principe la confiscazione dei suoi beni se non lo consegnava in poter della Corte, da chi fu prontamente ubbidito; e negli ultimi suoi giorni i rigori che usò con Paolo Poderico leggermente indiziato d'aver avuta mano nell'assassinamento del Conte di Policastro, sarebbero trascorsi in crudeltà e manifeste ingiustizie, se non fossero stati ripressi da Tommaso Gramatico nostro Giureconsulto, che si trovava allora Giudice di Vicaria. Questi rigori giovaron non poco a tener molti in freno, ma non che la giustizia riprendesse affatto il suo vigore. Questa parte stava riserbata a D. Pietro di Toledo suo successore, il quale, come diremo, appena giunto la rialzò tanto, che in una medaglia che si coniò a suo tempo in Napoli colla giustizia cadente e da lui rialzata, meritò che se gli ponesse il motto: Erectori Justitiae.
(Questa Medaglia in vano a Napoli ricercata, si conserva nel Museo Cesareo di Vienna, è per quel che si sappia, sin qui non ancor impressa. È di bronzo di mezzana grandezza: da una parte ha l'effigie del Toledo con barba lunga, ed intorno PETRUS TOLETUS OPT. PRIN. e dall'altra l'imagine dell'istesso D. Pietro, sedente, che avanti a' suoi piedi ha la Giustizia in ginocchione, la quale è innalzata dal suo braccio destro, ed intorno il motto: ERECTORI JUSTITIAE).
Ma il governo del Cardinal Colonna riuscì a' Napoletani pur troppo grave per li bisogni, che occorsero nel suo tempo di nuove tasse e donativi. Essendo ancora l'Imperadore a Bologna, venne nuova di Spagna, avere l'Imperadrice partorito un figliuolo: onde in Napoli, nella fine di gennajo di quest'anno 1530 nell'istesso tempo, che si facevano feste e tornei, si pensava per la natività di questo Principe a far nuovo dono a Cesare. Si era parimente appuntato il dì della sua incoronazione, e fu destinato quello di S. Mattia, giorno a lui di grandissima prosperità, perchè in quel dì era nato, in quel dì era stato fatto suo prigione il Re di Francia; ond'era di bene che in quel dì stesso assumesse i segni e gli ornamenti della dignità Imperiale. Prese per tanto in Bologna nel dì statuito per mano del Pontefice la Corona Imperiale; della prima si era già coronato in Aquisgrana colla corona di Carlo Magno: si fece anche da Monza venire in Bologna l'altra di ferro, che parimente con molta solennità ricevette dal Papa: il dì poi di S. Mattia 24 febbraio fu coronato con l'altra d'oro, e con molto strepito di trombe e d'artiglierie fu acclamato Augusto. Il Guicciardino[369] narra, che questa coronazione si fece ben con concorso grande di gente, poichè da Napoli, e da altre parti d'Italia vi accorsero infiniti, ma con picciola pompa e spesa; ed ancorchè la spesa fosse picciola, da Napoli però gli furono dal Principe di Salerno per questa incoronazione mandati 300 mila ducati.
Si affrettò tanta celebrità per la premura che avea Cesare di passare tosto in Alemagna, così per dar sesto alli tanti sconvolgimenti, che in quella Provincia avea apportati l'eresia di Lutero; come per l'elezione del Re de' Romani, che e' proccurava far cadere in persona di Ferdinando suo fratello. Gli erano perciò venute premurose lettere di Germania, che lo sollecitavano a trasferirsi colà: gli Elettori e gli altri Principi della Germania ne facevano istanza per cagion delle Diete: Ferdinando per essere eletto Re dei Romani; e gli altri, riputando, che tante rivoluzioni nate per causa di Religione non potessero sedarsi, che per via d'un Concilio, lo sollecitavano ancora a questo fine.
Partì per tanto l'Imperadore da Bologna per Germania alla fine di marzo, nell'istesso tempo, che il Papa partì per Roma, e giunto a' 18 giugno in Augusta trovò ivi i Principi di Germania, che l'aspettavano per la Dieta, che dovea tenersi contra l'eresia di Lutero. Ed essendo stato a' 3 agosto di quest'anno ucciso in battaglia il Principe d'Oranges, rimase il Cardinal Pompeo non più Luogotenente, ma assoluto Vicerè del Regno.
Intanto l'Imperador Carlo dimorando in Germania, era tutto inteso a dar sesto a quelle Province, e proccurare l'elezione del Re de' Romani per suo fratello, come felicemente gli riuscì: poichè nel principio del nuovo anno 1531 fu eletto Ferdinando, e coronato in Aquisgrana.
Ma le infelicità di questo Regno bisogna confessare essere state sempre pur troppo grandi e compassionevoli; poichè essendo dominato da piccioli Re, come furono gli Aragonesi di Napoli, non avendo questi altri Dominj, onde potevan ritrarre denaro, era cosa comportabile e degna di compatimento, che nei bisogni della guerra i sudditi contribuissero talora alle spese. Ma chi avrebbe creduto, che Napoli caduta ora sotto un Principe cotanto potente, Signore di due Mondi, a cui, non pur l'oro della Spagna, ma quello delle Nuove Indie veniva a colare, si vedesse sempre in necessità, spesso si sentissero ammutinati i suoi eserciti per mancanza di paghe, e si udissero continuamente richieste di nuovi sussidj e donativi?
L'altra infelicità che sperimentò questo Regno fu, che quando ebbero finito i Franzesi, ricominciarono i Turchi. Fu veduto perciò sempre combattuto, e posto in mezzo a soffrire intollerabili spese, o sia per la guerra degli uni, o per lo timore (ch'era peggiore della guerra) degli altri. Solimano Imperador de' Turchi si preparò in quest'anno con potentissimo esercito per invadere l'Austria, e cingere nuovamente di stretto assedio Vienna; e nell'anno seguente si vide passare con grandi apparati in Ungheria, onde fu obbligato Cesare ad apparecchiarsi ad una valida difesa. Mancavano però denari e gente per resistere a tanto nemico: perciò fu da Cesare insinuato al Cardinal Vicerè, che per li bisogni di questa guerra, proccurasse, che da Napoli si facesse altro più grosso donativo. Il Cardinale a 11 luglio di quest'anno 1531 fece, secondo il costume, convocar un general Parlamento in S. Lorenzo, ove esposti i desiderj di Cesare, proccurò, esagerando il bisogno, persuadere i Baroni, e i Popoli ad assentirvi, e che il donativo fosse almeno di ducati seicentomila. I Deputati all'incontro, ancorchè mostrassero la prontezza del loro animo di farlo, nulladimeno gli posero innanzi gli occhi la loro impotenza: trovarsi il Regno affatto esausto, e per gli preceduti flagelli di guerra, di fame e di peste, quasi del tutto ruinato: ricordassesi, che nell'occasione della sua coronazione s'erano mandati in dono a Cesare per lo Principe di Salerno ducati trecentomila; onde erano in istato cotanto miserabile, che avevano bisogno di maggior compatimento: che con tutto ciò per mostrare al lor Principe la prontezza del loro animo profferivano donargli ducati trecentomila. Ma stando il Cardinale inflessibile, ed ostinato alla prima dimanda, fu forza alla fine d'offrire in donativo li ducati seicentomila da pagarsi però fra quattro anni, per potersi frattanto riscuotere dalle tasse, che a proporzion de' fuochi s'imponevano. Si diede al Principe di Salerno la commessione di portare il donativo; e con tal occasione si domandò nuova conferma de' vecchi Capitoli, e si cercarono a Cesare nuove grazie, le quali nel seguente anno, stando egli in Ratisbona, le concedette, e ne spedì privilegio colla data di Ratisbona, sotto li 28 luglio del 1532, che si leggono fra' privilegi e grazie della Città e Regno di Napoli[370]; ma il denaro di questo donativo fu impiegato la maggior parte a pagare la soldatesca, ch'era in Toscana, ed a soldare, ed in Napoli e nell'altre parti delli Regni dell'Imperadore, più genti, per accrescere i suoi eserciti.
Intorno al medesimo tempo vennero al Cardinale cinque Prammatiche stabilite dall'Imperadore, mentre era in Germania, alcune delle quali riguardavano quest'istesso fine di ricavar denari. Il Cardinale non vi fece altro, che pubblicarle; onde possiamo con verità dire, che il medesimo non promulgasse fra noi legge alcuna.
Per la prima stabilita ad Ispruch a' 5 luglio 1530, e pubblicata dal Cardinal in Napoli a' 3 gennajo del seguente anno 1531,[371] fu dichiarato, che così nelle alienazioni fatte da' privati, come dalla sua Regia Corte, niente pregiudicasse a' venditori, per esercitar il patto di ricomprare, il trascorso del tempo dal primo di marzo dell'anno 1528 per tutto febbrajo del 1530, come quello che fu pieno di rivoluzioni, guerre ed altre calamità: e che per ciò, quello non ostante, potessero i venditori e la Corte esercitarlo.
Per la seconda data in Gante a 4 giugno del 1531, e pubblicata dal Cardinale a' 27 luglio del medesimo anno, si dà a tutti licenza di poter armare navigli contra gl'Infedeli, e scorrere i mari per difesa delle marine del Regno[372].
La terza spedita a Brusselles a' 15 marzo del 1531, e pubblicata dal Cardinale all'ultimo di settembre del medesimo anno, rivoca tutte le concessioni, grazie, mercedi, provvisioni, immunità ed altre esenzioni, che si trovassero concedute da' Vicerè passati, confermando solo quelle fatte dal Principe d'Oranges, ed incarica al Tesoriere, al Gran Camerario e suo Luogotenente l'esazione delle rendite del suo Fisco, prescrivendo loro con premura le leggi, onde l'Erario s'augumenti, e sia bene amministrato[373].
Nella quarta stabilita parimente in Brusselles a' 20 decembre del detto anno 1531, e promulgata in Napoli dal Cardinale a' 17 febbrajo del seguente anno 1532, si prescrivono rigorose leggi a' Questori, ed a tutti gli Ufficiali, che riscuotono e distribuiscono il denaro regio, di tener minuto conto della loro qualità, peso e valore, con darne esattissimo conto a' Ministri del suo Tribunale della Regia Camera[374].
Finalmente nella quinta, data in Colonia a' 28 gennajo del seguente anno 1532, e pubblicata dal Cardinale a' 17 febbrajo del medesimo anno, si dichiara, che i Vicerè non possono conferir ufficj nel Regno, che oltrepassano la rendita di ducati cento, spettando questi alla collazione del Re: e quelli, che essi possono conferire di ducati cento, in questa somma vada compreso, non pure ciò, che agli Ufficiali è stabilito per lor salario, ma quanto esigono d'emolumenti, e d'ogni altro diritto[375].
Pochi mesi da poi ch'egli pubblicò questa Prammatica, finì il Cardinale il suo governo colla vita; poichè solendo nell'està di quest'anno 1532 spesso portarsi a diporto nel suo giardino di Chiaja, andatovi una mattina de' principj di luglio col Conte di Policastro suo grande amico, mangiò ivi de' fichi, e poco dopo il pasto sopraggiuntagli una febbre lenta, in pochi dì gli tolse la vita in età di 53 anni. Fu fama, che ne' fichi gli fosse stato dato il veleno per opera d'un tal Filippetto suo Scalco, il quale sapendo l'uso del suo padrone, che in quel giardino soleva spesso mangiar de' fichi, glie li avesse attossicati. Narra Gregorio Rosso[376] Scrittor coetaneo, che fu riputato gran maraviglia, che il Cardinal morisse, e non il Conte di Policastro, il quale quell'istessa mattina avea pure mangiati fichi col Cardinale. Da chi fosse venuto il colpo, varia fu la fama, alcuni pensarono che Filippetto da un gran personaggio di Roma, capitalissimo nemico del Cardinale, fosse stato corrotto a far questo. Altri ne allegavano per autori i parenti di quella gran Dama cotanto da lui celebrata ne' suoi versi, i quali mal volentieri soffrivano, che come avea fatto il Petrarca della sua Laura, avesse voluto far egli, con scegliersi per soggetto delle sue rime una lor parente. Ma Agostino Nifo celebre Medico di quell'età, che fu chiamato alla sua cura, e che fu presente all'apertura del suo cadavere, costantemente affermava, non esservi trovato alcun segno di veleno nelle sue viscere. Paolo Giovio, che scrisse la vita di questo Cardinale, inchinò a credere il medesimo, attribuendo la cagione della sua morte all'uso smoderato della neve, ch'era solito, secondo l'uso dei Romani, bere due ore dopo il cibo mescolata col vino per rinfrescarsi. Il suo cadavere fu seppellito nella Chiesa di Monte Oliveto, ove non ha molti anni si vedeva il suo tumulo; ma poi fur trasferite le sue ossa nella Cappella de' Principi di Sulmona della famiglia Launoja. Morto che fu, insino alla venuta del successore, prese il governo del Regno il Consiglio Collaterale, Capo del quale si trovava allora D. Ferrante D'Aragona Duca di Montalto. E subito che il Papa con estremo suo giubilo ebbe intesa la di lui morte, provvide il Vice-Cancellierato della Sede Appostolica, e la maggior parte de' suoi Beneficj al Cardinal Ippolito de' Medici suo nipote, che si trovava allora partito per Germania[377].
Intesa dall'Imperador Carlo la morte del Cardinale, provvide tosto il Viceregnato in persona di D. Pietro di Toledo Marchese di Villafranca, che si trovava seco in Germania, il quale il primo d'agosto, essendo partito da Ratisbona, ove stava l'Imperadore, giunse in Napoli a' 4 di settembre, e nel seguente dì prese il possesso della sua carica.
Ma poichè il governo che tenne costui del Regno, fu il più lungo di tutti gli altri, avendolo amministrato per lo spazio di ventuno anni e mezzo, nel qual tempo avvennero fra noi successi notabili; e da lui cominciò Napoli a prender quella forma, e quella politia, la quale tiene molto rapporto alla presente: per ciò sarà bene, che la narrazione di tanti memorabili avvenimenti si rapporti nel seguente libro di quest'Istoria.
FINE DEL VOLUME SETTIMO.
TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI NEL TOMO SETTIMO
LIBRO VENTESIMOSETTIMO pag. 5
Cap. I. I Principi di Taranto e di Rossano con altri Baroni, dopo l'invito fatto al Re Giovanni d'Aragona, che fu rifiatato, chiamano all'impresa del Regno Giovanni d'Angiò figliuolo di Renato: sua spedizione, sue conquiste, sue perdite e fuga 14
Cap. II. Nozze d'Alfonso Duca di Calabria con Ippolita Maria Sforza figliuola del Duca di Milano: di Elionora figliuola del Re con Ercole da Este Marchese di Ferrara; e di Beatrice altra sua figliuola con Mattia Corvino Re d'Ungheria. Morte del Pontefice Pio II, e contese insorte tra il suo successore Paolo II ed il Re Ferrante, le quali in tempo di Papa Sisto IV successore furon terminate 28
Cap. III. Splendore della Casa Reale di Ferdinando, il quale, pacato il Regno, lo riordina con nuove leggi, ed instituti: favorisce li letterati e le lettere, e v'introduce nuove arti 33
Cap. IV. Come si fosse introdotta in Napoli l'arte della stampa, e suo incremento. Come da ciò ne nascesse la proibizione dei libri, ovvero la licenza per istamparli; e quali abusi si fossero introdotti, così intorno alla proibizione, come intorno alla revisione de' medesimi 41
§. I. Abusi intorno alle licenze di stampare e di proibire i libri 45
§. II. Abusi intorno alle proibizioni de' libri che si fanno in Roma, le quali si pretendono doversi ciecamente ubbidire 52
Cap. V. Re Ferdinando I riforma i Tribunali e l'Università degli Studi: ingrandisce la Città di Napoli, e riordina le Province del Regno 73
LIBRO VENTESIMOTTAVO 83
Cap. I. I Baroni nuovamente congiurano contra il Re. Papa Innocenzio VIII unito ad essi gli fa guerra: pace indi conchiusa col medesimo, e desolazione ed esterminio de' Congiurati 95
Cap. II. Morte del Re Ferdinando I d'Aragona: sue leggi, che ci lasciò; e rinovellamento delle lettere e discipline, che presso di noi fiorirono nel suo Regno e dei suoi successori Re Aragonesi 111
§. I. Rinovellamento delle buone Lettere in Napoli 115
Cap. III. Degli Uomini letterati che fiorirono a tempo di Ferdinando I e degli altri Re Aragonesi suoi successori 124
Cap. IV. Stato della nostra Giurisprudenza in questi ultimi anni del Regno degli Aragonesi; e leggi, che da Ferdinando furono stabilite 139
Cap. V. De' Giureconsulti, che fiorirono fra noi a questi tempi 146
LIBRO VENTESIMONONO 172
Cap. I. Ferdinando II è discacciato dal Regno da Carlo Re di Francia. Entrata di questo Re in Napoli, a cui il Regno si sottomette 184
Cap. II. Carlo parte dal Regno, e vi ritorna Ferdinando, che ne discaccia i Franzesi coll'aiuto del G. Capitano; viene acclamato da' popoli, ed è restituito al Regno; suo matrimonio e morte 189
Cap. III. Regno breve di Federico d'Aragona: sue disavventure, e come cedendo a' Spagnuoli ed a' Franzesi fosse stato costretto abbandonarlo e ritirarsi in Francia 198
Cap. IV. Origine delle discordie nate tra Spagnuoli e Franzesi; e come finalmente cacciati i Franzesi, tutto il Regno cadesse sotto la dominazione di Ferdinando il Cattolico 217
LIBRO TRENTESIMO 239
Cap. I. Venuta del Re Cattolico in Napoli e suo ritorno in Ispagna per la morte accaduta del Re Filippo. Come lasciasse il Regno sotto il governo de' Vicerè suoi Luogotenenti: sua morte e pomposi funerali fattigli in Napoli 248
Cap. II. Nuova politia introdotta nel Regno; nuovi Magistrati e leggi conformi agl'istituti e costumi spagnuoli. De' Vicerè e Reggenti suoi Collaterali, donde surse il Consiglio Collaterale, e nacque l'abbassamento degli altri Magistrati ed Ufficiali del Regno 262
§. I. Del Consiglio Collaterale e sua istituzione 265
Cap. III. Nuova disposizione degli Ufficiali della Casa del Re 276
Cap. IV. Degli altri Ufficiali, che militano fuori della Casa del Re 282
Cap. V. Delle leggi, che Ferdinando il Cattolico, ed i suoi Vicerè deputati al governo del Regno ci lasciarono 292
Cap. VI. Politia delle nostre Chiese durante il Regno degli Aragonesi insino alla fine del secolo XV, e principio del Regno degli Austriaci 295
§. I. Monaci e beni temporali 299
LIBRO TRENTESIMOPRIMO 304
Cap. I. Morte di Massimiliano Cesare, ed elezione nella persona di Carlo suo nipote in Imperadore. Discordie indi seguite tra lui e 'l Re di Francia, che poi proruppero in aperte e sanguinose guerre 309
Cap. II. Come intanto fosse governato il Regno di Napoli da D. Raimondo di Cardona e dopo la di lui morte da D. Carlo di Launoja suo successore 327
Cap. III. Invito fatto da Papa Clemente VII a Monsignor di Valdimonte per la conquista del Regno: suoi progressi, li quali ebbero inutile successo. Prigionia di Papa Clemente, e sua liberazione 331
Cap. IV. Spedizione di Lautrech sopra il Regno di Napoli, sue conquiste, sua morte e disfacimento del suo esercito, onde l'impresa riuscì senza successo. Rigori praticati dal Principe d'Oranges contra i Baroni incolpati d'aver aderito a' Franzesi 349
Cap. V. Pace conchiusa tra 'l Pontefice Clemente coll'Imperador Carlo in Barcellona, che fu seguita dall'altra conchiusa col Re di Francia a Cambrai, e poi (esclusi i Fiorentini) co' Vineziani; e coronazione di Cesare in Bologna 366
Cap. VI. Governo del Cardinal Pompeo Colonna; creato Vicerè in luogo dell'Oranges, grave a' sudditi, non tanto per lo suo rigore, quanto per le tasse e donativi immensi, che, coll'occasione dell'incoronazione e del passaggio di Cesare in Alemagna per la natività d'un nuovo Principe, e per le guerre contra al Turco, riscosse dal Regno 375
FINE DELL'INDICE