ISTORIA CIVILE DEL
REGNO DI NAPOLI
VOLUME VIII

ISTORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

DI

PIETRO GIANNONE

VOLUME OTTAVO

MILANO PER NICOLÒ BETTONI M.DCCC.XXII

INDICE

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMOSECONDO

Don Pietro di Toledo nacque in Alva di Tormes del Regno di Castiglia nell'anno 1484 da D. Federico di Toledo, II Duca d'Alva, e D. Isabella Zuniga figliuola del Duca di Bedmar, donna non men grande per valor d'animo, che alta di corpo e di leggiadre fattezze, tanto che piacevolmente soleva dire, che era venuta ad ingrandire i corpi di Casa d'Alva, li quali erano di piccola statura. Fu nella sua fanciullezza dato D. Pietro ad allevare sotto buoni Maestri nello studio delle lettere, ma conosciutosi, che non molto vi riusciva, e che la sua inclinazione era più nelle cose agibili, che nelle speculazioni delle Scuole, il Duca padre lo pose per paggio nella Corte del Re Cattolico, da cui, ancorchè fanciullo, attentamente osservando le sue geste e raccogliendo le parole, che uscivano dalla bocca di quel savio Re, apprese l'arti della prudenza e del senno; ed ingegnandosi negli esercizi di cavalleria superar gli altri Cortigiani suoi pari, così in servire il Re, come in comparir bene ne' torneamenti, nelle giostre, e negli altri trattenimenti del Palazzo, divenne non pur sopra tutti gli altri caro al Re, ma peritissimo nell'esercizio di cavalcare e di giostrare, tanto che in Ispagna ebbe nome di gran Toriatore; onde avvenne, che venuto per Vicerè in Napoli, introducesse fra noi il giuoco de' Tori, e tante altre giostre e tornei, che sovente nel suo governo faceva replicare.

Entrato per queste sue doti in somma grazia del Re, piacquegli dargli moglie, e lo casò con D. Maria Osoria Marchesa di Villafranca nipote del Conte di Benevento, giovanetta di 13 anni, bella ed unica erede dello Stato, ed ancorchè D. Pietro non fosse il primogenito della sua Casa, ma un semplice cadetto, piacque così al Re, come al Conte avolo di D. Maria, sotto il cui baliato era, di preferir D. Pietro a molti altri Titolati di Spagna, che la pretendevano. Per queste nozze prese egli il titolo di Marchese di Villafranca, ed il possesso dello Stato, con gran contento de' suoi vassalli, sperimentando un governo assai prudente e giusto, dando egli con ciò i primi saggi quanto nell'arte del governare fosse espertissimo. Non molto da poi fugli conferita dal Re una Commenda di S. Giacomo, di rendita di 6000 ducati l'anno, sotto la qual Religione visse tutto il tempo di sua vita. Essendosi poi mandato dal Re Cattolico il Duca di lui padre per Capitan Generale del suo esercito alla conquista del Regno di Navarra, vi andò anche il Marchese, e prese soldo del Re, militando sotto i suoi stipendj insino che rotto e discacciato Giovanni Albret, non fosse il Regno dal Duca conquistato: nella quale espedizione diede saggio il Marchese del suo valore, e fece conoscere, che non meno nell'arte del governo, che militare era peritissimo.

Morto il Re Cattolico, nacquero rumori in Ispagna, pretendendo, come si disse nel precedente libro, alcuni Signori di non accettar Carlo Arciduca d'Austria suo nipote per Re, vivendo ancora la Regina Giovanna sua madre, ma ben riceverlo per Principe e successore del Regno dopo la morte di quella. Ma quietanto questo rumore con certe condizioni, ed essendo stato da poi Carlo eletto Imperadore per morte di Massimiliano suo avolo, nacquero, come si disse, altri rumori ne' Popoli di Spagna, molti de' quali tumultuando per quelle illicite esazioni, che facevano alcuni Ministri Fiamenghi, che l'Imperadore avea seco portati da Fiandra, presero l'armi, ma rotti e castigati i Capi del tumulto, finirono i rumori. Nelle quali fazioni il Marchese, seguendo l'orme del Duca suo padre, prestò all'Imperadore segnalati servigj; onde avvenne, che fu a Cesare sempre caro e sommamente da lui onorato e favorito, e sopra tutti gli altri della sua Corte stimato; in guisa che non lo lasciava da se partire, e ne' suoi viaggi ora di Fiandra, ora d'Italia e d'Alemagna, l'ebbe sempre seco: siccome in quest'anno 1532 seco trovavasi in Ratisbona, quando Solimano già con trecentomila combattenti era entrato nella Servia per soggiogare l'Ungheria, minacciando gli altri suoi Dominj; e l'Imperadore era tutto inteso a resistergli con valida difesa, onde avea scritto a questo fine ad Andrea Doria, già fatto Principe di Melfi, che unisse la sua armata quanto più numerosa potesse, e s'avviasse alla volta di Levante ne' mari di Grecia per assalire le Terre marittime del Turco, acciò divertisse l'impresa d'Ungheria.

Ma poichè, come si disse, quando i Franzesi finirono, cominciarono i Turchi ad inquietar questo Reame, si ebbe nel medesimo tempo avviso, che l'armata del Turco era uscita, e si dubitava, che venisse ad assalire il nostro Regno. Venne ancora a Cesare in questo tempo l'avviso della morte del Cardinal Colonna; onde non mancò di spedire immantinente il Marchese di Villafranca per Vicerè e Capitan Generale del Regno, non men per dargli un tal onore, che per la difesa contro i tentativi del Turco, poichè della sua prudenza e valore era assai ben persuaso. Partì egli subito cavalcando a gran giornate, accompagnandosi con lui Niccolò Antonio Caracciolo Marchese di Vico, che si trovava parimente in Ratisbona, il quale diceva, che dalle cose di Napoli, che ragionarono insieme per via, avea preveduto il rigoroso governo che ei dovea quivi esercitare[1]. Passò per Roma, ove fu accolto da Papa Clemente con molto onore, e giunto a Napoli, fu ricevuto con plauso grande, e con fama di dover governare con gran prudenza e giustizia, e riformare li tanti abusi e le corruttele e le insolenze de' Nobili.

Ritrovò egli il Regno, come si è detto, in istato pur troppo infelice per le precedute calamità: la Città per la peste ed altri infortunj quasi vota di gente e di denari: gli edificj rovinati, i campi deserti, ma sopra tutto la giustizia depressa; onde riputò cominciar dal rialzamento di questa.

CAPITOLO I. D. Pietro di Toledo riforma i Tribunali di Napoli, onde ne siegue il rialzamento della giustizia.

Conoscendo questo savio Ministro, che il principal fonte, onde deriva il riposo de' Popoli, sia quando fra quelli la giustizia venga ugualmente a tutti distribuita, e non potendosi quella a dirittura amministrar da' Re, sian questi forzati d'esercitarla per mezzo de' loro Ministri: il primo passo che diede fu di chiamarsi a se li Consiglieri del Re, e tutti gli altri Magistrati ed Ufficiali di giustizia, incaricando loro, che avessero la giustizia sempre innanzi agli occhi: alla retta amministrazione di quella fossero rivolti tutti i loro pensieri: la distribuissero a tutti senza umani rispetti, non per favore, non per odio, ma unicamente per Dio, e per maggior servizio del loro Re.

A questo fine per maggiormente accertarsi del frutto delle sue ammonizioni, non fidandosi di niuno, dava udienza ogni giorno a tutti con grandissima attenzione, volendo egli sentire e conoscere cosa per cosa: per la qual via ebbe tosto notizia de' difetti degli ufficiali, li quali sicuri, che non vi sarebbe cosa, che al Vicerè non fosse nota, alcuni emendandosi per se medesimi, si riducevano a buona vita, altri, ciò trascurando, ne erano ammoniti, ed altri aspramente ripresi, ed alcuni anche deposti dalle loro cariche.

Ritrovò, che intorno al punire i delinquenti, era di molto impedimento il favor de' grandi Baroni e Nobili della Città, li quali, o importuni tosto correvano a dimandargli grazia, ovvero, usando della lor potenza, minacciavano i Giudici perchè li liberassero: fece per ciò lor sentire, che cessassero di tentar simili cose, perchè con lui non varrebbe ad essi nè il favore, nè le minacce. E perchè maggiormente se n'accertassero, volle con un grande ed illustre esempio porre in esecuzione questa sua deliberazione, nella giustizia che fece fare del Commendator Gio. Francesco Pignatelli il quale, ancorchè reo di molti delitti, nulladimanco per essere di gran parentado, e da molti Signori favorito, avea tenuto gran tempo impedita l'esecuzion della giustizia, i poveri offesi, ed i querelanti con minacce oppressi; il che inteso dal Vicerè, diede sicurtà a' querelanti, ed a' Giudici, che procedessero con libertà; tanto che sentenziato a morte, gli fu fatto mozzar il capo nel largo del Castel Nuovo, luogo solito a giustiziarsi i Nobili ne' casi importanti. Lo stesso accadde al secondo Conte di Policastro e ad un cittadino molto ricco, e ben imparentado, nomato Mazzeo Pellegrino, il quale per forza di denari teneva occultate le querele, perseverando ne' delitti; ma con tutto che avesse offerte somme esorbitantissime per comporsi, non fu l'offerta ricevuta, e condannato a morte, lo fece con molto rigore giustiziare.

Per togliere ancora la cagion dei delitti, fece pubblicar bando, che niuno, di qualsivoglia condizione, potesse, come erasi introdotto, tener nelle porte e sale delle lor case arme in aste, nè archibugi, nè schioppi, e che niuno ardisse portar per la città nè scoppettuoli, nè daghe, o altre arme, ma la sola spada. Ordinò che niuno, sonate le due ore di notte per sino alla mattina, potesse portar qualunque sorta d'armi; ed acciò che si togliesse ogni contrasto, che avesse potuto insorgere intorno alla determinazione dell'ore, o di non essersi inteso il tocco, ordinò che la campana di S. Lorenzo, che si sentiva per tutta la Città, dovesse, passate le due ore, sonare a martello. Ordinò parimente, che i furti notturni commessi nella Città, fossero puniti con pena di morte. E poichè allora in Napoli erano molti portici, come grotte oscure, ove la notte i ribaldi assalivano i poveri incauti, gli fece buttar tutti a terra, fra' quali furono i portici di S. Martino a Capuana, e l'altro di S. Agata, antichi edificj, che davan spavento a passarvi anche di giorno. Per quest'istessa cagione fece tor via le pennate di tavole, e li balconi degli artigiani, che tenevano sporti in fuori alle strade, ove di notte s'appiattavano i ribaldi per assalire coloro, che vi passavano. Parimente, essendo uno scoglio in mare vicino al Castello dell'Uovo, chiamato il Fiatamone, ov'erano molte grotte, nelle quali i giovani dissoluti commettevano orribili disonestà, lo fece tutto rovinare, sino da' fondamenti. E le donne disoneste, che abitavano disperse per la città, mischiate con l'oneste, le fece scacciar tutte da que' luoghi, e le ridusse ne' pubblici lupanari. Nè cessò mai di perseguitare una sorta d'uomini chiamati Compagnoni, vietando con pubblici bandi, che niuno andasse in quadriglia, infino che gli stirpò affatto dalla città.

Tolse a' delinquenti gli Asili, che per la protezione de' potenti aveansi fatti ne' palagi de' principali Baroni; ed avuta notizia, che in Napoli vi erano molte case, dove si ricettavano i fuorusciti, dandosi loro non sol ricetto, ma vitto e danari, per servirsene i Protettori per loro pravi disegni, le fece diroccare, tante che niuno ebbe poi più ardire di ricettargli. Gli artigiani eran prontamente pagati; non loro s'usavano più insolenze: ed i Ministri della giustizia erano come si conveniva rispettati. Anzi perchè la Città fosse meglio guardata, creò altri Capitani di guardia, ed ordinò, che sparsi alloggiassero per la Città per maggior custodia. Creò parimente nuovi Bargelli di campagna, acciocchè i delinquenti si tenessero men sicuri nella Campagna, che dentro la Città.

Parimente trovando introdotti molti altri abusi, gli estirpò tutti. Erasi introdotto costume in Napoli, che quando le donne vedove si rimaritavano, s'univan le brigate, e la notte con suoni villani e canti ingiuriosi, andavano sotto le finestre degli sposi a cantar mille spropositi ed oscenità, e questi suoni e canti chiamavano Ciambellarie; donde ne sortivano molte risse, e talora omicidj; e sovente gli sposi per non sentirsi queste baje, si componevano con denaro, o altra cosa colle brigate, perchè se n'andassero. Durava ancora il costume tramandato dalla antica gentilità, ne' tempi delle vendemmie, di vivere con molta dissolutezza e libertà: i Vendemmiatori non s'arrossivano incontrando donne, ancorchè onestissime e nobili, Frati ed altri uomini serii, di caricarli di scherno e di parole oscene, con tanta licenza, quanta si vede nel Vendemmiatore di Luigi Tansillo. Duravano ancora le superstiziose e lugubri dimostrazioni di duolo, che si facevano ne' funerali, ove le donne, non pure nelle loro case, ma nelle pubbliche piazze accompagnando il feretro, e nelle Chiese, con smoderato strascino di abiti luttuosi, con urli, pianti e graffiature di viso, empievano la Città di doglia e di pianti. Estirpò il Toledo questi abusi, riducendo il lutto de' funerali a comportabile e buono uso; e siccome per conservazione delle loro doti fece pubblicar Prammatica, così ripresse il soverchio lor lusso nel vestire.

Fece pubblicar bandi severissimi sopra i duelli, dai quali derivavano nella Città molti e spessi disordini e rumori: stabilì, che i provocanti a duello, fossero rei di pena capitale, e coloro, che non l'accettavano, non fossero notati d'infamia.

Sterminò da poi con rigore esattissimo un pernizioso e reo costume introdotto nella Città, per cui non stavan sicuri i più casti e guardati luoghi, acciocchè l'onestà delle donzelle non fosse insidiata. Il governo del Principe d'Oranges v'avea data forza, poichè nei suoi tempi, i nobili giovani usando mille insolenze, non erano puniti de' ratti, che facevano di molte onorate e nobili donne; perchè il Principe nella preda v'avea anche la sua parte: e per procedere con sicurezza, e penetrare i più guardati e riposti luoghi, si servivano per salirvi di scale di funi, non perdonando nè anche a' Monasteri. Il Cardinal Pompeo Colonna, come in sì fatte cose indulgente, non vi provvide abbastanza; ma il Toledo detestando le corruttelle ed i pubblici scandali, fece pubblicar un severissimo bando, col quale s'imponeva pena di morte naturale senza remissione alcuna, a chiunque persona si fosse trovata di notte con scale di legno o di fune o di qualunque altra materia. Di questo bando (ancorchè non si legga nelle nostre Prammatiche) ne fece memoria il Presidente de Franchis; ma da poi nel 1560 D. Parafan di Rivera Vicerè nel Regno di Filippo II ne fece pubblicar Prammatica, che si legge sotto il titolo De Scalarum prohibitione noctis tempore: dove quel Ministro nascondendo per onestà il principal fine della legge, fece intendere, che per molti ladri ed altri, che andavano la notte con iscale scalando le case e rubando, donde nasceva alcuna sospezione della pudicizia delle donne onorate, fossero puniti con pena di morte naturale, o altra pena riservata a suo arbitrio, tutti coloro, che si trovassero di notte portar le suddette scale.

Ma il bando di D. Pietro fu più severo, e fu fatto eseguire con molto rigore, siccome infelicemente avvenne nel 1549 ad un nobile, che colto di notte, mentre scendeva per una di queste scale dalla finestra di una gentildonna, lo fece decapitare, con tutto che per salvarlo si fossero interposte la Principessa di Salerno e quella di Sulmona, e quasi tutta la Nobiltà. Lo stesso sarebbe accaduto a Paolo Poderico Cavaliere molto stimato nella Città, il qual preso, mentre di notte avea appoggiata la scala sotto la finestra della sua amorosa, fu condennato a morte; ed il Vicerè, ancorchè fosse suo grande amico, non volle impedir la condanna, ma diede luogo a' parenti, che trovandosi colui Cherico, dimandassero la remissione del reo alla Corte Ecclesiastica, siccome si fece; ed il Poderico essendosi rimesso a quella Corte, in tal maniera scampò il tumulo.

§. I. Riforma del Tribunal della Vicaria.

Riordinò, oltre a ciò, il Toledo molte altre costituzioni riguardanti l'esatta amministrazione della giustizia, e riformò a questo fine il Tribunale della Vicaria. Ordinò, che il reggente con tutti i Giudici e gli altri Ufficiali si trovassero insieme ad ore determinate nel lor Tribunale a ministrar giustizia. Perchè i Giudici di Vicaria a suo tempo non eran più che quattro, onde a cagion di questi suoi ordinamenti non potevano soddisfare alla moltitudine delle accuse, ve ne aggiunse egli due altri, e volle che fossero per stabilimento sei, cioè quattro criminali, e due civili. Stabilì, che si punissero con pena di falsarj coloro, i quali per calunnia, e falsamente proponessero le querele. Che nell'accuse delle contumacie dei delinquenti, ed in tutte le altre materie di giustizia, il Fisco non fosse costituito in mora. Che i voti non si pubblicassero prima d'esser uditi dal Fisco. Che a' carcerati poveri si desse il pane ogni giorno per loro vitto; e fece per li poveri infermi carcerati costruire un sufficiente Ospitale vicino alle carceri, ove s'avessero a curare gl'infermi a spese del Re, impetrandone a tal fine assenso dall'Imperador Carlo V, ed affinchè quei miserabili fosser con maggior diligenza ed attenzione difesi, fece augumentare il salario all'Avvocato e Proccuratore de' Poveri.

Ordinò, che le composizioni si facessero moderate. Che coloro, ch'escono di carcere, non pagassero cos'alcuna. Che nelle ferie estive si cavassero dalle prigioni i carcerati per debiti civili, dando sicurtà di concordarsi co' loro creditori, o di ritornare nelle carceri.

Determinò le paghe de' Mastrodatti, Scrivani ed altri Ufficiali minori di questo Tribunale, comandando perciò, che si formasse Pandetta de' loro diritti, siccome fu fatto, ed estirpò le scuole de' testimoni falsi; e fece bando a pena della vita a chi giurasse il falso, ovvero quelli producesse in giudicio; e vi diede altri savi provvedimenti, che insieme co' riferiti, vengono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre prammatiche.

§. II. Riforma del Tribunal della Regia Camera.

Riordinata la Vicaria, con non minor felicità passò alla Riforma della Regia Camera. Vedeva il bisogno, che alla giornata cagionavano le guerre intraprese dal suo Signore co' Turchi, la poca economia, che v'era nello spendere, le spesse contribuzioni e donativi, che indebolivano il Regno, ed il cercar sempre denari, acciocchè gli eserciti non s'ammutinassero: per riparare in parte a tanti bisogni rivoltò l'animo a riordinare, come potesse il meglio, questo Tribunale, di cui era il pensiero, e dovea esser la cura del Patrimonio Regale, d'ingrandirlo, far evitare i disordini e le ruberie, che si commettevano nell'amministrazione di quello da Ministri subalterni; e che non capitassero male le rendite e l'esazioni Regali.

Proccurò a questo fine, che da Carlo V istesso fossero stabiliti più statuti attinenti alla buona amministrazione di quello, li quali egli pubblicò tutti in Napoli, comandando, che fossero esattamente eseguiti. Stabilì da poi egli diversi altri provvedimenti, onde diede molte norme a questo Tribunale intorno alla vigilanza dell'esazione.

Ordinò, che le cause appartenenti al Fisco, o dove quello avesse interesse, si trattassero in Camera, e che gli altri Tribunali dovessero prestargli, occorrendo, ogni ajuto. Che al Fisco non fosse limitato il tempo di ricomprare. Che non si cavasse oro, nè argento dal Regno. Che la moneta fosse di giusto peso, e che si rifacesse la logora, acciò non venisse meno, e vietò, che s'estraesse dal Regno; ed oltre molti altri regolamenti; che si leggono impressi nelle nostre Prammatiche ed altrove, invigilò, che i ministri, che doveano regger questo Tribunale, fossero i più dotti, i più integri, i più probi, ed indefessi de' suoi tempi. Per ciò leggiamo nel suo governo essere stati preposti a questo Tribunale per Luogotenente un Bartolommeo Camerario, e per Fiscale un Antonio Baratucci, Giureconsulti, siccome diremo al suo luogo, i più insigni di que' tempi, ed i più dotti e diligenti. E fu cotanto il zelo ch'ebbe questo Vicerè, e la vigilanza che teneva sopra questo Tribunale, e sopra i Ministri di quello, che una delle cagioni, per le quali il Toledo si mostrò poi poco amorevole del Camerario, fu che costui, mentre era Luogotenente, andando spesso a villeggiare a Somma, avendogli il Vicerè ammonito, che non conveniva ad un Ministro, a cui stava appoggiata carica sì laboriosa, allontanarsi dal suo Tribunale, egli avendogli replicato, che maggior inconveniente era ad un Vicerè lasciar Napoli, e sollazzarsi a Pozzuoli, come spesso faceva il Toledo, se l'alienò in maniera per questa indiscreta risposta che lo fece cader anche dalla grazia di Cesare; donde, come diremo, nacque il principio della sua ruina. Ed in fine diede l'ultima mano al maggior decoro di questo Tribunale, quando nell'anno 1537, levatolo dalla Casa del Marchese del Vasto, dove si reggeva, come a Gran Camerario, lo collocò con tutti gli altri nel Castel Capuano.

§. III. Riforma del S. C. di Santa Chiara.

Non meno alle cause criminali e del Fisco, che a quelle civili de' privati badò questo Ministro, che si amministrasse esatta e spedita giustizia, e con maggior decoro, non meno de' Ministri, che del Tribunale. Reggevasi a' suoi dì questo Tribunale nel Chiostro di S. Chiara, e ristretto in una sola stanza, non faceva che una Ruota: per ciò sovente leggiamo nelle decisioni di Matteo degli Afflitti, che talora essendosi votata qualche causa con uniformi voti, soleasi dire, che quella fossesi decisa per totum S. C. non già che per esser tutto, si dovessero unire, come si fa ora, tutti gli Consiglieri dell'altre Ruote, ma perchè tutti risedevano in una Ruota. Questo Ministro per la più facile e pronta spedizione delle cause, ordinò, che dovessero dividersi, e formare due Ruote, ciascuna delle quali nel medesimo tempo trattasse le sue cause, e che il Presidente soprastasse ora ad una, ora ad altra, secondo la gravità dell'affare che si trattasse.

Rilusse in tempo del suo governo questo Tribunale per lo famoso Cicco Loffredo, che vi presideva, e per tanti insigni Consiglieri, che lo componevano, fra' quali tennero il vanto Giovanni Marziale, Antonio Capece, Antonio Barattuccio, Giovan-Tommaso Minadoi, Scipione Capece, Marino Freccia, ed alquanti altri, de' quali il Toppi tessè lungo Catalogo[2]. In fine gli diede maggior splendore, quando toltolo dai brevi chiostri di S. Chiara, l'unì con gli altri in luogo più decoroso ed illustre, come nel Castel Capuano.

§. IV. Unione di tutti i Tribunali nel Castel Capuano.

Ancorchè molte delle riferite Prammatiche e regolamenti, siccome eziandio questa unione de' Tribunali, non si facessero dal Vicerè Toledo ne' principj del suo governo, ma nel corso di quello, e quest'unione non prima dell'anno 1537, dopo aver ingrandita e abbellita la Città, e dopo tante altre sue famose gesta, che si diranno in appresso; nulladimeno per non tornar di nuovo a parlare di quanto questo Ministro adoperò per riforma de' Tribunali e della giustizia, abbiam riputato in questo luogo collocarle tutte insieme, perchè in uno sguardo si vegga, quanto in questa parte egli valesse, ed avesse superati gli altri Vicerè suoi predecessori.

Tornato che fu egli da Puglia, ove diede vari provvedimenti per riparare le spesse incursioni de' Turchi in quelle marine, come diremo, cominciò ad edificare un Palazzo, dedicandolo alla Giustizia, nel luogo ov'era il Castel Capuano, ridotto allora a Casa privata di delizie, non come era prima per abitazione Reale. Riordinò le logge in forma di ben grandi sale, e fecevi molte ampie e numerose camere sufficienti a' Tribunali, che vi dovea unire.

In questo Palazzo vi chiuse tutti i Tribunali di giustizia: quel del S. C. della Regia Camera della Summaria, della G. C. della Vicaria, della Bagliva, e della Zecca. Vi s'affaticò molto per ridurre a fine questa grande impresa, alla quale fu anche stimolato, come molti credettero, dalla poco buona corrispondenza, che il Toledo avea allora col Marchese del Vasto; poichè con tal occasione veniva a levarsi dalla sua Casa il Tribunal della Camera Summaria, dove, come Gran Camerario, era sempre dimorato.

Fecevi nelle lamie di sotto del palazzo costruire anche le carceri, e fece ivi portare a cento e ducento tutti i prigioni, ch'erano nella Vicaria vecchia, e tutti quegli, che stavano in diverse carceri racchiusi.

Ordinò, che in questo Palazzo alloggiassero il Presidente del S. C., il Luogotenente della Summaria, ed il Reggente della Vicaria, con un Giudice criminale.

Non si può esprimere quanta comodità portasse quest'unione a' negozianti, che quando prima doveano andar a tante parti della Città, ove stavano dispersi, ora ridutti tutti in quel Castello, con facilità spedivano i loro affari. Apportò ancora altre comodità, poichè quella contrada era prima poco men che disabitata, ed ora si rese frequentatissima e popolata.

Potè ancora, ridotti tutti i Tribunali insieme, stabilire, come fece, che due Consiglieri ordinari del S. C. presidessero come Giudici criminali in Vicaria, affinchè come uomini di più esperienza, acciò la giustizia non patisse dimora, attendessero alla spedizione delle cause. Stabilì, che ogni Sabato il Tribunale della Vicaria fosse visitato da uno de' Reggenti suoi Collaterali; ed a questo fine della più pronta spedizione delle cause e della giustizia, limitò le feste di vacanza, riducendole al manco che fosse possibile.

§. V. Ristabilimento della giustizia nelle Province del Regno, e nelle loro Udienze.

Non bastava a questo prudentissimo Ministro aver rialzata la giustizia ne' Tribunali della Città Metropoli, bisognava, che lo stesso si facesse nelle Province, onde si compone il Regno, e nelli loro Tribunali.

Incominciò dagli Ufficiali, che li reggevano: ordinò per tanto che non meno gli Auditori che i Presidi fra quaranta giorni dessero Sindicato. Vietò sotto gravi pene agli Ufficiali Provinciali di prender cosa alcuna di commestibile, quando per negozj a loro commessi andavano per le Province.

Che nelle Province non si dasse esecuzione ad alcun ordine, prima di notificarlo a' Governadori. Che le provvisioni de' Tribunali non avessero bisogno dell' Exequatur delle Regie Audienze.

Che quelli, che ottengono il privilegio di Cittadini Napoletani, abitando nelle Terre di dette Province, portassero ancora il peso di quelle.

Che tutte le scritture fatte fuori del Regno non s'eseguissero senza licenza del Vicerè; e diversi altri provvedimenti vi diede, che sono additati nella suddetta Cronologia fra le Prammatiche, che da questo Vicerè furono in vari tempi stabilite.

CAPITOLO II. Spedizione dell'Imperadore Carlo V in Tunisi: sua venuta in Napoli; e di ciò che quivi avvenne nella sua dimora e ritorno; e quanto da alcuni Nobili si travagliasse per far rimuovere il Toledo dal governo del Regno.

Intanto l'Imperador Carlo V, avendo racchetati, se non come volle, come potè meglio, i moti della Germania per la nuova eresia di Lutero, ed essendosi ritirata l'armata di Solimano da Ungheria in Constantinopoli, vedendo che non vi era più che temere in quel Regno, deliberò partir da Vienna, ove dimorava, per Italia, per indi poi passare in Ispagna, e nel cammino abboccarsi col Papa, siccome glie lo avea fatto intendere. Partì per tanto a' 4 d'ottobre dell'anno 1532 colla fanteria Spagnuola e la Cavalleria, lasciando la fanteria Italiana sotto il comando di Fabrizio Maramaldo per li bisogni, che potessero occorrere al Re de' Romani suo fratello[3]. Giunse Cesare in Mantoa a' 8 di novembre, ed abboccatosi col Papa in Bologna, (dove scoperse, che il Pontefice col nuovo parentado, avea col Re di Francia stretta anche una gran lega) coll'armata d'Andrea Doria, che a questo fine avea richiamato da Levante, passò in Ispagna, approdando in Barcellona nel mese d'aprile del nuovo anno 1533 ove fermossi.

Ma non potè quivi molto godersi della sua quiete; poichè l'Imperador Solimano avendo creato suo Ammiraglio il famoso Barbarossa, celebre Corsaro di mare, gli avea dato il comando d'un'armata di 80 Galee, per rimettere Ariendino Barosso, da altri chiamato Moliresetto, nella possessione del Regno di Tunisi, e scacciarne Muleasser suo fratello, e nel passaggio assaltare la Sicilia e la Calabria. Ed in effetto nella primavera del seguente anno 1534, apparecchiandosi alla venuta, ed uscito da' suoi Porti, passò poi nella fine di luglio il Faro di Messina dove brugiò alcune navi, e approdato in Calabria, saccheggiò S. Lucido, senza lasciarvi persona. Brugiò il Cetraro de' Monaci Cassinensi, con sette Galee, che ivi si facevan fabbricare dal Toledo: e passando a vista di Napoli, con più paura che danno della Città, mise la sua gente in terra nell'isola di Procida, saccheggiando quella Terra. Nè contento di questo, assaltò poi all'improvviso Sperlonga, facendo quivi moltissimi schiavi, e mandò gente per insino a Fondi per sorprender D. Giulia Gonzaga, e presentarla a Solimano, la quale per la gran fama della sua bellezza sparsasi da per tutto, era venuta anche in desiderio a quel gran Signore. Fondi fu saccheggiata, e D. Giulia appena ebbe tempo di salvarsi quella notte sopra un cavallo in camicia, come si trovava[4]. Allora fu, che i Napoletani per reprimere tant'orgoglio di Barbarossa, e liberar le marine del Regno dall'invasione de' Turchi, ragunati in pubblico Parlamento, a' 20 agosto, nel Monastero di Monte Oliveto, fecero un altro donativo a Cesare di ducati centocinquantamila, pagandone i Baroni cinquantamila e gli altri cento il Regno[5].

La medesima disgrazia intervenne a Terracina, con tanto timor della Corte di Roma e de' Romani, che si credette, che se fossero andati innanzi, sarebbe stata abbandonata quella Città. Il Pontefice Clemente, che trovavasi allora gravemente travagliato con dolori di stomaco, non potendo più resistere all'infermità, finì i suoi giorni il vigesimo quinto di settembre di quest'anno 1534.

Morto lui i Cardinali la notte medesima, che si serrarono nel Conclave, elessero tutti concordi in Sommo Pontefice Alessandro della Famiglia Farnese, di Nazione Romano, d'età di 67 anni, Cardinal il più antico della Corte, ed uomo ornato di lettere, e d'apparenza di costumi. Furono in Roma fatte gran feste, per la letizia immensa, che n'ebbe il Popolo Romano, di vedere dopo 103 anni, e dopo tredici Pontefici, sedere in quel trono un Pontefice del Sangue Romano. Fu eletto li 13 d'ottobre, e coronato li 3 di novembre, e chiamossi Paolo II.

Intanto Barbarossa, voltando le prore indietro navigò verso Tunisi, ed avendo con inganno sorpresa quella Città, ne scacciò Muleasser, e ripose nel Regno Barosso, e fortificatolo ivi, fortificò parimente la Goletta, e vi pose buon presidio di Mori.

Considerando perciò Cesare, che se Solimano si impadronisse di quel Regno, passando sotto un Principe cotanto formidabile, sarebbe stato origine della destruzione del Regno di Sicilia e di Napoli, e di tutte le riviere del Mediterraneo insino alle Colonne d'Ercole, determinò sturbare il suo disegno; onde s'accinse per andare egli in persona a quella impresa. Spedì ordini per tutti i suoi Regni per arrolar gente; ed in Napoli per tutto quell'inverno non s'attese ad altro, che a questi apparecchi. Il Toledo fabbricò una Galea a sue spese per dar esempio agli altri, e fu imitato da molti. Il Principe di Salerno, il Principe di Bisignano, il Duca di Castrovillari, il Duca di Nocera, il Marchese di Castelvetere, e l'Alarcone Marchese della Valle, a loro spese, fecero lo stesso. Moltissimi Baroni e Cavalieri, sentendo, che a quest'impresa avea da venire in persona l'Imperadore, tutti si misero in ordine[6].

Entrato il nuovo anno 1535, ne' primi buoni tempi della primavera, il Marchese del Vasto, ch'era andato a Genova ad abboccarsi, per ordine dell'Imperadore col Principe Doria, tornò a Napoli con molte Galee e grosse Navi, e molta gente. Il Papa ajutò anche l'espedizione, ed avendo creato Generale della Chiesa Virginio Orsino, gli diede il comando di ventidue Galee, le quali parimente nel mese di maggio giunsero al Porto di Napoli.

Sopra queste navi fu imbarcata in Napoli molta gente: il Vicerè Toledo vi mandò due suoi figliuoli D. Federico e D. Garzia, natigli dalla Marchesa di Villafranca sua moglie, che nel precedente anno 1534 a' 24 maggio era di Spagna arrivata a Napoli: vi si imbarcarono il Marchese del Vasto, il Principe di Salerno, D. Antonio d'Aragona figliuolo del Duca di Montalto, il Marchese di Laino, li Marchesi di Vico, e di Quarata, li Conti di Popoli, Novellara, di Sarno e d'Anversa, Scipione Caraffa fratello del Principe di Stigliano, D. Diego de Cardines fratello del Marchese di Laino, Cesare Berlingiero, Baldassar Caracciolo, Biase di Somma, Cola Toraldo, Costanzo di Costanzo, ed altri[7]. Partirono a' 17 maggio alla volta di Palermo, dove raccolte più navi e gente, s'ancorarono a Cagliari. Sopraggiunse in questa città l'Imperadore alli 11 giugno con le Galee d'Andrea Doria, e di D. Alvaro Bazan, Generale della squadra di Spagna, ed in esse quasi tutta quella Nobiltà; ed a' 13 del medesimo mese fece vela tutta l'armata numerosissima di 300 vele, da Cagliari alla volta d'Affrica, dove con prospero vento giunse in tre giorni.

Presa terra a Porto Farina, Cesare diede il baston di Generale al Marchese del Vasto, con ordine, che tutti l'ubbidissero. Fu investita la Goletta, ed a' 4 luglio con gran travaglio e morte di molta gente fu quella presa. I Napoletani si portarono con molto valore; ed il Principe di Salerno Generale della fanteria Italiana si segnalò notabilmente: vi morirono il Conte di Sarno e Cesare Berlingiero, il Conte d'Anversa, Baldassar Caracciolo, Costanzo di Costanzo, Ottavio Monaco ed altri Napoletani. Fu anche presa Tunisi, cacciato Ariendino Barosso, fugato Barbarossa, e riposto dall'Imperadore nell'antico Seggio di quel Regno Muleasser, facendolo suo Tributario, obbligandosi mandargli per tal effetto ventimila scudi d'oro l'anno e sei cavalli moreschi.

Non mancò, chi giudicasse questa spedizione di Carlo con tanto apparato di guerra aver avuto infelice ed inutile successo per poco consiglio di Cesare, il quale potendosi far assoluto Signore di quel Regno, stimato da lui cotanto opportuno per salvar dall'incursione de' Turchi i Regni di Sicilia e di Napoli, e tutte le riviere del Mar Mediterraneo, avesse con renderselo sol tributario voluto lasciarlo al Re Muleasser. E Tommaso Campanella in que' suoi fantastici discorsi sopra la Monarchia di Spagna, non lascia per ciò di biasimarlo, e l'evento dimostrò, essere questa impresa stata affatto inutile, e senz'alcun profitto; poichè in discorso di tempo, mal soddisfatti i Tunisini del governo di Muleasser, aderirono ad Amida suo figliuolo, il quale aspirando al paterno Reame, non tralasciava l'occasioni di tendergli insidie: di che il Re insospettito, con imprudente consiglio, prese risoluzione di partirsi di Tunisi, e venire in Napoli per domandar soccorso ed ajuto dal Vicerè Toledo. Appena egli partito, Amida coll'ajuto degli Arabi, e di alcuni principali Mori, occupò il Regno: di che avvisato Muleasser affrettò il cammino verso Napoli, dove giunto nell'anno 1544, e ricevuto dal Vicerè con dimostrazioni reali, attese ad assoldar gente; ma non potendosi unirne tanta quanta il bisogno richiedea, il Toledo non tralasciò d'ammonirlo, che l'impresa dovea riuscirgli di grandissimo pericolo; poichè, se per riacquistare poc'anzi quel Regno, fu duopo che l'Imperadore stesso con grossa armata e forte esercito vi si adoperasse, quale speranza poteva aver egli in quei pochi soldati, che s'erano uniti, il cui numero non erano più di dumila? Ma il Re lusingato dalla fede che credeva durare in alcuni suoi Governadori, volle partire, e giunto alla Goletta, fidandosi nelle parole d'alcuni Mori, che con inganno gli dissero, che Amida era fuggito da Tunisi, si mosse con gran fretta a quella volta, dove, appena essendo comparso, fu assalito dal figliuolo, che ruppe il suo esercito, e rimaso prigione, lo fece barbaramente accecare. Così si perdè tutto, ed il Vicerè per tal nuova ebbe dispiacere grandissimo, considerando il danno, che da tal perdita avea da succedere al Regno: siccome fu, perchè perpetuamente restò esposto alle prede ed incursioni di que' barbari corsari.

§. I. Venuta di Cesare in Napoli.

Disbrigato l'Imperadore dall'impresa di Tunisi, e lasciata fortificata la Goletta con presidio di Spagnuoli, ed in Tunisi Muleasser reso suo tributario, a' 17 agosto partì con tutta l'armata per Sicilia. Il Marchese del Vasto, ed i Principi di Salerno e di Bisignano, coll'occasione di questo ritorno, fecero grand'istanza a Cesare, che venisse a Napoli a dimorarvi qualche mese per vedere la bellezza di questa Città, ed onorarla colla sua presenza. Eran, fra gli altri stimoli, mossi costoro a desiderar la sua venuta in Napoli, perchè disgustati col Toledo per cagione del suo rigoroso governo, col quale teneva abbassata la Nobiltà, potessero con tal congiuntura indurre Cesare a rimoverlo. L'Imperadore si risolse venire, e giunto ai 20 agosto a Trapani, indi dopo un mese a Palermo, venne poi a Messina. Passato il Faro si portò a Reggio, e traversando le Calabrie e Basilicata, dove dalli Principi di Bisignano e di Salerno, siccome da tutti que' Baroni per li cui Stati passava, gli furono resi onori grandissimi, giunse a' 21 di novembre a Pietra Bianca, luogo tre miglia lontano da Napoli.

Entrò poi a' 25 di novembre giorno dedicato a Santa Catarina, con gran trionfo e celebrità, in Napoli; fu incontrato dalla Città e Clero, e da infinito numero di Baroni, con gran concorso del popolo. La celebrità ed apparati di quest'ingresso, le precedenze, l'ordine tenuto, le pompe, furono descritte con tanta esattezza e minuzia da molti Autori, che omai se ne trova scritto più di quel che converrebbe. Gregorio Rosso, che si trovava Eletto del Popolo, quando entrò Cesare a Napoli, ed ebbe gran parte in questa celebrità, le descrisse minutamente ne' suoi Giornali. Il Summonte e tanti altri ne empirono più carte; onde ci rimettiamo in ciò alle Istorie loro.

Non è però da tralasciare ciò che rapporta il Rosso con tal occasione della venuta di Cesare a Napoli; della pretensione, che mossero i Titolati del Regno di covrirsi innanzi a lui.

In Ispagna questa prerogativa è riputata la maggiore. I Baroni che si cuoprono sono Grandi, e coloro a' quali il Re ciò concede, divengono Grandi di Spagna, onore sopra tutti gli altri grandissimo. I nostri Re di Napoli non costituirono la grandezza de' loro Baroni in fargli coprire innanzi di loro, ma ne' titoli di Principi, di Duchi e negli Ufficj della Corona; ed i Titolati tutti innanzi al Re si coprivano.

Coll'occasione d'essersi negli anni precedenti portato Cesare in Bologna a coronarsi, essendo accorsi ivi molti Titolati del Regno, Carlo ne fece alcuni coprire ma non tutti; fra gli altri fece coprire il Principe di Salerno, il Marchese del Vasto ed il Marchese di Laino[8]; ma poichè questo accadde fuori del Regno, era in suo arbitrio far poi ciò che egli voleva.

Ma giunto ora in Napoli, dove come Re di Napoli era stato ricevuto, pretesero tutti i Titolati del Regno di covrirsi, e d'essere trattati ed onorati, come facevano gli altri Re di Napoli predecessori di Carlo. S'allegava ancora un forte esempio del Re Cattolico, il quale, quando venne a Napoli, fece covrire In sua presenza tutti i Titolati.

Con tutto ciò l'imperadore non volle farlo; poichè trovandosi introdotto a' suoi tempi, che gli Spagnuoli questa prerogativa l'avean resa cotanto sublime, che se ne costituì il Grandato di Spagna, dignità sopra tutte le altre divenuta insigne, e che non si dava se non a' primi Signori e grandi Capitani, impedirono perciò, che Cesare, per non avvilirla, facesse tutti covrire.

Narra il Rosso, che il primo, che si pregiudicò a star discoverto innanzi all'Imperadore, fu il Marchese della Tripalda, l'esempio del quale fu poi seguitato dagli altri, i quali per non dimostrare di non volere per ciò seguitare il Padrone, se ne stavano scoverti.

Ma quello, di che i Titolati più s'offesero dell'Imperadore, fu il dispiacere che lor diede, di far con parzialità covrire alcuni ed altri no, così in Napoli, come in varie parti del Regno. Si covrirono i Principi di Squillace e di Sulmona, i Duchi di Castrovillari e di Nocera, li Marchesi di Castelvetere e di Vico ed il Conte di Conza. Ben potè essere, che ne facesse covrir altri; ma il Rosso testimonio di veduta, narra non saper egli più di questi, oltre al Duca di Montalto disceso da' Re, al Principe di Bisignano, a cui l'imperadore avea anche dato il Toson d'oro, ed a coloro, i quali s'erano coverti in Bologna e negli altri luoghi fuori del Regno, che tutti parimente si coprirono.

L'uso di Spagna era, che chi si copre una volta avanti il Re, si copre sempre; ma di questi Signori, che come Titolati si erano coverti nel Regno, dice questo Scrittore, che non si sapeva, se fuori del Regno l'Imperadore l'avrebbe fatti covrire.

Finite le pompe e celebrità dell'ingresso e del giuramento dato da Cesare nel Duomo per l'osservanza de' privilegj e grazie concedute da Re predecessori alla Città e Regno, l'Imperadore dimorando nel Castel Nuovo, luogo destinatogli per sua abitazione, con grande umanità cominciò a dar udienza a tutti, sentendo le querele e le lamentazioni di ognuno, particolarmente delle Terre del Regno contra i Baroni loro; e volendo una Domenica, che fu a' 28 di novembre calare alla Capella Regia del Castello, insorse una nuova contesa di precedenza; poichè nel sedere in quella, pretesero i Signori Grandi di Spagna, e quelli, che s'erano coverti fuori di Spagna a quell'uso, che dovessero precedere a tutti. All'incontro i Titolati di Napoli pretendevano, che il sedere dovesse regolarsi all'usanza di Napoli, dove i Titolati precedevano a tutti; l'Imperadore per toglier ogni briga, ordinò, che affatto nella Cappella non si ponessero sedili, e tutti coloro, che ci vennero, fece stare in piedi[9].

Fu dal Toledo trattenuto l'Imperadore in Napoli in continue feste, giuochi, tornei, giostre e conviti. La Città si vide ornata allora di personaggi assai illustri; oltre i Signori spagnuoli, il Duca d'Alba ed il Conte di Benevento e gli altri Signori e Principi del nostro Regno, i Capitani più famosi e gli altri forastieri di conto, che vennero ad inchinarsi a Cesare, il Duca d'Urbino, il Duca di Fiorenza, Pier Luigi Farnese, figliuolo di Paolo III, quattro Ambasciadori de' Vineziani e D. Ferrante Gonzaga Principe di Molfetta. Ci vennero ancora in quest'occasione li Cardinali Caracciolo, Salviati e Ridolfi, e vi saria anche venuto il Cardinale Ippolito de' Medici, se per strada non moriva in Itri; e trovossi ancora in quel tempo in Napoli D. Francesco da Este Marchese della Padula. Ma ciò, che la rendeva più augusta e superba, fu l'adunamento in quest'occasione delle più illustri Dame, fregiate della più rara beltà e d'altre eccellentissime doti e maniere. Eravi D. Maria d'Aragona Marchesa del Vasto, donna di singolar bellezza, di real presenza, e d'ingegno e di giudicio incomparabile, e quasi al par di lei D. Giovanna d'Aragona sua sorella moglie d'Ascanio Colonna: D. Isabella Villamarino Principessa di Salerno: D. Isabella di Capua Principessa di Molfetta moglie di D. Ferrante Gonzaga: la Principessa di Bisignano: D. Isabella Colonna Principessa di Sulmona: D. Maria Cardona Marchesa della Padula moglie di D. Ferrante da Este: D. Clarice Ursina Principessa di Stigliano: la Principessa di Squillace: D. Roberta Caraffa Duchessa di Maddaloni, sorella del Principe di Stigliano: D. Dorodea Gonzaga Marchesa di Bitonto: D. Elionora di Toledo figliuola del Vicerè; e molte altre grandi Signore e Titolate del Regno. Eravi ancora la famosa Lucrezia Scaglione, la quale ancorchè non titolata per la sua estrema bellezza, audacia e valore, era sopra tutte le altre commendata.

Ma mentre l'Imperadore in continui conviti e giuochi si sollazzava in Napoli, gli venne avviso della morte di Francesco Sforza Duca di Milano, il quale non avendo di se lasciati figliuoli, decaduto il Ducato all'Imperadore, mandò Antonio di Leva a prenderne il possesso, creandolo Governadore di quello Stato. Ciò che fe' accelerare nuove cagioni di disgusto e di rinovar nuove guerre, e contese con Francesco I Re di Francia, il quale avuto anch'egli l'avviso di questa morte, immantenente avea data commessione al suo Ambasciadore che teneva presso l'Imperadore, di dimandare a Cesare da sua parte il Ducato di Milano per doversene investire il Duca d'Orleans: di che turbato l'Imperadore, nè dandogli risposta aggradevole, intese poco da poi, che il Re di Francia trattava di movergli guerra; e di vantaggio, che oltre la pretensione promossa per lo Ducato di Milano, avea protestata la guerra al Duca di Savoia, suo Cognato, con disegno d'invadere il Piemonte; ed ancorchè apparentemente in Napoli non si tralasciassero le feste ed i conviti, nientedimeno non mancava l'Imperadore di pensar seriamente alla guerra, che fra breve avrebbe dovuto fare contra a quel Re: ed a disporsi a partire da Napoli per Lombardia, ed altrove, dove cose maggiori lo richiamavano.

§. II. Il Marchese del Vasto, ed il Principe di Salerno con altri Nobili procurano la rimozione del Toledo dal governo del Regno.

Ma nella fine di quest'anno si cominciarono a stringere e palesare le negoziazioni, che finora s'eran tenute occulte, del Marchese del Vasto, e del Principe di Salerno, con altri Nobili contra il Vicerè per farlo rimovere dal governo di Napoli. Questo concerto erasi maneggiato fin da che Cesare era in Sicilia, e nel viaggio, tanto il Marchese, quanto il Principe non mancarono di far efficacemente le parti loro, con dipingere il suo governo per troppo aspro e rigoroso, e non confacente a quel Regno, insinuandogli che dovesse levarlo; ma questi ufficj niente valsero, sapendo Cesare onde veniva la cagione di tal odio, e di quelli n'era stato anche ben avvisato il Toledo; poichè giunto l'imperadore a Napoli, veduto il Vicerè, narrasi, che gli dicesse: Siate il ben trovato Marchese; e vi fo sapere, che non state tanto grasso, come mi è stato detto. Al che sorridendo il Vicerè facetamente rispondesse: Signore, io so bene che V. M. abbia inteso, che io sia divenuto un mostro, però non son tale. Non tralasciarono ancora di muovere alcuni popolari, perchè col pretesto di due gabelle imposte, e del suo rigore, chiedessero a Cesare, che lo rimovesse; ed aveano già tirato dal lor canto Gregorio Rosso, Eletto del Popolo, il quale perciò ne' suoi Giornali non molto favorisce il Toledo, e non mancò di far le parti sue; poichè egli stesso racconta, che ai 26 novembre di quest'anno 1535 fu fatto chiamare dall'Imperadore, da cui fu domandato delle condizioni del Popolo Napoletano, e che cosa avrebbe potuto fare in beneficio del medesimo. La sua risposta fu, ch'era fedelissimo, ed amantissimo della sua Corona, e che per mantenerlo soddisfatto e contento non ci bisognava altro, che mantenerlo abbondante, senza angaria, e che ogni uno mangi al piatto suo, con la debita giustizia, e che stava per ultimo assai risentito e disgustato, per le nuove gabelle poste dal Vicerè. Questa giunta, com'egli stesso dice, fu cagione, che il giorno seguente fosse levato d'Eletto, e rifatto in suo luogo Andrea Stinca Razionale di Camera, persona dipendente dal Vicerè.

Ma non perciò s'arrestarono i suoi rivali. Nel principio del nuovo anno 1536, Carlo per ricavar qualche frutto dalla sua venuta in Napoli, fece agli 8 di quel mese intimare un Parlamento nella Chiesa di S. Lorenzo, ove in sua presenza ragunati i Baroni e gli Ufficiali del Regno, espose egli di sua propria bocca i bisogni della Corona, e che per sicurezza del Regno e per le nuove guerre, che se gli minacciavano dal Turco e dal Re di Francia, bisognava sovvenirlo. Il giorno seguente ragunati di nuovo i Baroni, conchiusero in onore di Cesare, senza misurar le forze del Regno, più tosto per vanità e fasto, che per altro, di fargli un donativo di un milione e cinquecentomila ducati, donativo in niun tempo, nè in Napoli, nè altrove, giammai inteso e così sorprendente, e di somma cotanto immensa ed esorbitante, che l'istesso Cesare, vedendo l'impossibilità dell'esazione, bisognò, che loro facesse grazia di rimetterne ducati cinquecentomila, e contentarsi d'un milione[10].

Si giuntarono spesso i Deputati in San Lorenzo per trovare il modo della soddisfazione, e si determinò, che dovessero pagare i Baroni tre adoe, ed il rimanente i popolari. Parimente s'unirono per consultare quali altre nuove grazie e privilegi dovessero, in ricompensa di tanta profusione, cercare a Cesare. Se ne concertarono molte, e perchè questa Deputazione era maneggiata da Nobili, si pensò con tal opportunità chiedere a Cesare la remozione del Vicerè. Ma perchè dimandandogliela alla svelata, oltre al poco decoro del Ministro, eran certi di riceverne una ripulsa; fu proposto fra le cose principali, di dimandare in grazia all'imperadore di far rimuovere tutti i Ministri, così maggiori, come minori, per includervi con ciò anche tacitamente il Vicerè. A questa proposizione per se stessa imprudentissima, ancorchè vi concorressero la maggior parte de' Deputati Nobili, si opposero il Duca di Gravina, il Marchese della Tripalda, Cesare Pignatello e Scipione di Somma. Ma sopra tutti fortemente ripugnarono Andrea Stinca Eletto del Popolo, e Domenico Terracina, che, per essere stato Eletto negli anni precedenti, era stato fatto anche Deputalo del Popolo. Per ciò non si conchiuse niente, e furonvi gravi contese tra 'l Marchese del Vasto e Scipione di Somma, che vennero fra di loro sino a parole ingiuriose e piene di contumelie[11].

Mentre che queste cose si dibattevano in S. Lorenzo, l'Imperadore si tratteneva in quel Carnovale in feste, giuochi e maschere; ed una sera accompagnandolo il Marchese del Vasto, mentre si ritirava al Castello, postosegli vicino, gli esagerò per molte ragioni quanto compliva al suo servizio di levare il Toledo dal governo di Napoli; ma comprendendo dalle risposte dell'Imperadore, che avea poca voglia di levarlo, prese resoluzione di non andar più alla Deputazione a San Lorenzo, ma andarlo sol servendo nelle feste e giuochi, che ogni giorno si facevano. Ciò che riuscì di gran servizio del Vicerè, perchè non venendo alla Deputazione più il Marchese, s'intepidì il suo partito; anzi l'Eletto Stinca ed il Deputato Terracina, sapendo gli ufficj fatti dal Marchese con Cesare contra il Toledo, andarono a parlare all'Imperadore, e introdotti, l'Eletto Stinca cominciò ad esagerare a Cesare, che i Nobili intanto si sforzavano far ogni opra con S. M. perchè rimovesse il Toledo, perchè sono stati sempre soliti di opprimere e vilipendere il Popolo: che la loro insolenza era giunta a tanto, che maltrattavano non solo il Popolo Napoletano, ma i Capitani di guardia ed i Ministri di Giustizia: che tenendo uomini facinorosi ne' Portici delle loro Case, non temevano perseguitare molti, con straziarli ed insin ad uccidergli: toglievano a forza dalle mani della giustizia i ribaldi, ritenevano nelle loro case uomini facinorosi: i poveri artigiani non erano pagati delle loro fatiche, anzi con ingiurie e ferite malmenati; ma ora, che il Toledo avea estirpate queste tirannidi, con aver riposta la giustizia al suo luogo, per ciò i Nobili si movevano a rifiutarlo; che se sarà levato, tosto si tornerebbe all'antiche depressioni ed abusi.

Queste parole, che trovarono l'animo ben disposto di Cesare, lo fecero maggiormente confermare nella opinione di non rimoverlo; laonde certificato del vero, acciò non rimanesse in cos'alcuna macchiata la riputazione di quel Ministro, volle che per mezzo suo, anche stando egli in Napoli, tutto si facesse, e per le sue mani passassero tutti gli affari più gravi, e ricolmollo di più favore, che prima. E poco da poi, affrettandosi tuttavia il suo ritorno, nel partir poi da Napoli per Roma, lo lasciò con maggior autorità di prima. E con ciò terminata la Deputazione in S. Lorenzo, non si pensò più a questo, ma concertati, e conchiusi 31 Capitoli e Grazie, che si doveano cercare a Cesare per la Città di Napoli, e 24 altre in beneficio d'alcune province e particolari, furono quelle dall'Imperadore nel nuovo Parlamento, che in sua presenza si tenne a S. Lorenzo, a' 3 di febbrajo di quest'anno, concedute, le quali ora si leggono infra i Capitoli della Città e Regno di Napoli, conceduti dagli altri Re suoi predecessori[12].

CAPITOLO III. Il Toledo rende più augusta la Città con varj provvedimenti: suoi studi per renderla più sana e più abbondante. Lo stesso fa in alcune città e lidi del Regno, onde cinto di molte Torri potesse reprimere l'incursioni del Turco.

Partì l'Imperadore da Napoli a' 22 di marzo di quest'anno 1536 per la volta di Roma, per indi passare in Lombardia, e portarsi da poi in Ispagna; ed avendo lasciato al governo di Napoli il Toledo con maggiore autorità di prima, costui parimente con maggior grandezza d'animo e sicurezza riprese il governo

Fece proseguire con maggior fervore i vasti disegni concepiti per maggiormente aggrandire ed abbellire la città di Napoli; acciocchè con maggior ragione le convenisse il titolo di Metropoli e Capo d'un sì vasto Regno; onde pose in opra tutta la sua splendidezza e magnificenza. Le opere fur fatte in diversi tempi, ma per non interrompere il racconto, le collocheremo sotto gli occhi tutte insieme. Avea egli prima proposto di far drizzare e mattonare le torte e fangose sue strade, e risarcire le sue mura; ma poichè l'entrate della Città non erano a ciò sufficienti, fu d'uopo pigliar espediente di ponere a questo fine una nuova gabella, e tenuti nella Città sopra ciò più consigli, fu conchiuso nel 1533, che si mettesse un tornese a rotolo sopra il pesce, carne salata e formaggio[13]. Surse tumulto fra' popolari, per opra di Fucillo Micone Mercatante di vino per questa nuova gabella; e sebbene il Toledo con intrepidezza e vigore avesse represso il tumulto con la morte di Fucillo e degli altri tumultuanti, nulladimeno stimò bene non cominciare allora ad esigerla. Ma sopraggiunti da poi nell'anno 1535 nuovi bisogni alla Città per gli appparecchi, che dovean farsi contra Barbarossa, che infestava le marine del Regno, fu duopo per supplire alle spese, ponere a' 20 marzo di quell'anno una nuova gabella a Napoli d'un denaro per rotolo; e dovendo, per li bisogni che premevano, quella prontamente esigersi, con tal occasione proccurò il Vicerè, senza che perciò ne nascessero più rumori, che s'esigesse non men l'una, che l'altra prima imposta per la mattonata, la quale infino a quel tempo non s'era ancora esatta. E da quel dì narra il Rosso[14], si cominciarono a levare le selici, ch'erano per le strade di Napoli, e si posero i mattoni.

Per la venuta dell'Imperadore, stando gli animi distratti altrove, s'intermise il lavoro, ma costui partito di Napoli, si proseguì con maggior fervore. Fece perciò il Toledo, a fin di rendere più bella e sana la Città, levare molti supportici, che tenevano la Città oscura: levar tutte le pennate, ch'erano avanti le case e le botteghe: fece rifar lo cloache, perchè corressero con maggior pendenza al mare: fece drizzare, ed appianare tutte le strade: e diede animo a' Cittadini, in modo che ognuno a gara si sforzava d'abbellire le sue case e palagi. Rese più ampia e forte la Città con allargar più in fuori le sue mura, così dalla parte di mare, come di terra, e con tanta prestezza che fu maraviglia; perciocchè in meno di due anni la fece circondare di un muro grossissimo con terrapieno di dentro e fece edificare dentro l'acqua il muro della marina; tanto che per questa ampliazione rimase estinta la memoria delle muraglie, ed antiche porte edificate dal Re Carlo II e dagli altri Re angioini. Non s'intesero più i nomi di Porta Don Orso, di Porta Reale antica, di Porta Petruccia, di Porta del Castello, e di S. Giovanni a Carbonara. Egli racchiuse con le nuove mura molti edificj, e vi racchiuse anche parte del Monte S. Eramo ed Echia, chiamato ora Pizzofalcone, tanto che fu ingrandita e magnificata la Città per due parti più di quella, che prima era[15].

Fece rifar di nuovo il Castel di S. Eramo, rendendolo, secondo l'uso militare di que' tempi, inespugnabile; poichè oltre il buon presidio e munizione, la maggior parte d'esso fu fatta di taglio nel proprio monte di pietra: solo il Palazzo e la Cittadella furon fatti di fabbrica; e vi fece cavare una cisterna nella pietra del monte istesso di grandezza sì smisurata, che pareggia alla famosa Piscina mirabile di Baja: magnifico vestigio ch'è a noi rimaso della grandezza Romana. Fece fare i suoi fossi cavati nella pietra istessa, con magnificenza ed artificio tale, che meritamente possono uguagliarsi agli antichi edificj de' Romani.

Oltre il famoso edificio del Palazzo della giustizia, ove ragunò, come si è detto, tutti i Tribunali, fece altresì edificare dietro il Castel Nuovo un regal Palagio con ameni giardini, destinato per abitazione de' Vicerè, che ora appelliamo il Palazzo vecchio, a cagion del nuovo più stupendo e magnifico, che a se contiguo, fece edificar poi il Vicerè Conte di Lemos, a lato del quale, per renderlo più augusto, fece fare un'ampia strada, distendendola sino alla nuova Porta Regale, che ora diciamo dello Spirito Santo, la quale fin al presente ritiene il suo nome, e strada di Toledo viene perciò chiamata.

Ampliò più del doppio l'Arsenale di quel ch'era prima, e lo ridusse in tanta grandezza, che gli artigiani vi potevano fabbricare tutto in un tempo sedici Galee: e trovò modo, che il legname vi si conducesse con più facilità, e con assai minore spesa di prima.

Ornò la Città di molte fontane pubbliche di marmo, e nella Piazza della Sellaria ne fece ergere una chiamata l'Atlante, per la sua statua portante su gli omeri il Mondo, che fu scolpita di mano di Giovanni di Nola, il più famoso Scultore di que' tempi[16].

Ornolla ancora per costruzione di nuove e magnifiche Chiese ed Ospedali: nel che, oltre la grandezza del suo animo, veniva anche spinto dalla sua grande pietà e religione verso le cose sagrate. Egli fondò lo Spedale, e 'l magnifico tempio dedicato all'Appostolo Giacomo Protettor delle Spagne, per maggior comodo della Nazione Spagnuola: nel di cui Coro, ancor vivo, vi fece ergere un famoso Sepolcro di marmo, che dovea esser depositario delle sue ossa, intagliato con figure di basso rilievo dal rinomato Scultore Giovanni di Nola. Riedificò ed ampliò la Chiesa di S. Niccolò alla Dogana. Fece edificare da' fondamenti l'Ospedale di Santa Maria di Loreto per li fanciulli orfani, e l'altro di S. Catterina dentro S. Eligio per le femmine. Ma ciò che servì non meno per maggior lustro e decoro della Città, che della nostra Religione, fu la diligenza da lui usata perchè le Chiese fossero ben servite, si riparassero le antiche, l'entrate non andassero a male, i Preti con decoro attendessero al culto divino ed alle cose sacrate, e riformò per quanto s'apparteneva a lui la esterior politia di quelle. Ordinò, che le Chiese, che sono di jus patronato fossero ben servite, tenute monde e con decoro: fece restituire tutte le loro entrate, ch'erano da varie persone usurpate. Ordinò, che i Preti dovessero andar in abito e tonsura, e decentemente vestiti, altramente non avuti per tali, si castigassero ne' delitti come laici. Egli fu che introdusse il culto, che ancor dura, che quando per la Città si porta l'Eucarestia agl'infermi, uscisse con Pallio accompagnata con torchi accesi, e con pompa; e per render col suo esempio l'uscita più augusta, se veniva egli ad incontrarsici, l'accompagnava con tutta la sua Corte insino al luogo dove aveva d'andare.

In fine dopo avere in forma più magnifica e nobile innalzata questa Città, vi diede ancora altri provvedimenti per renderla più salubre ed abbondante, badando non meno alla sua bellezza e magnificenza, che alla sanità ed abbondanza de' suoi abitatori. Era Napoli a' suoi tempi nell'està oppressa da molte infermità, e la cagione principale era la corruzione dell'aria cagionata dalle paludi per l'acqua che stagnava in quelle, le quali cominciavano dal Territorio di Nola sino al mare, camminando per Marigliano, Aversa, Acerra e la Fragola: la qual corruzione talvolta augumentavasi tanto, che s'infettava tutta Terra di Lavoro, o gran parte di quella. Il Toledo dando a tanto male opportuno remedio, fece fare nel mezzo di quelle pianure un gran canale profondo, con argini ben grandi alle riviere, disponendo il canal in modo, che tutte le acque delle paludi venissero ivi a colare, e che l'acque ivi raccolte a guisa d'un gran fiume corressero tutte al mare. Così le paludi divennero secche, e Napoli, la Città più sana del Mondo. A questo fine per tener coltivato tutto il Paese intorno, lo fece tutto arare e lavorare: e oltre ciò vi stabilì un fondo, le cui rendite servissero per tener sempre mondo e netto il canale suddetto. Chiamarono i nostri maggiori questo canale Lagno; ond'è, che ora si nomano i Lagni, la cura de' quali ora se l'assume il Tribunale della Regia Camera, destinandovi un Presidente Commessario perchè si tengano sempre purgati e netti.

Diede ancora vari provvedimenti intorno alle vettovaglie, e molti altri ordini, perchè in Napoli vi fosse abbondanza di grano, proibendo l'estrazione di quello: che niuno potesse tener magazzini, nè di grano, nè d'orgio per trenta miglia lontani di Napoli: ed introdusse i partiti de' grani co' Mercatanti per mantener l'abbondanza.

L'essersi adunque Napoli, col correr degli anni, renduta una delle più splendide e magnifiche Città del Mondo, tutto si dee al Vicerè Toledo: poichè da ciò avvenne, che gli altri Vicerè Spagnuoli suoi successori, a sua imitazione, presero per istituto di non partirsi dal governo, se non lasciavano in quella, una lor memoria illustre di famosi, e superbi edificj. Nel che si segnalarono i Duchi d'Alva, i Conti di Lemos, di Medina e tanti altri, come vedremo nel corso di quest'Istoria. Tanto che per questi insigni e magnifici monumenti da essi lasciati, e da tante maravigliose fabbriche delle nuove Religioni nella stessa Città da poi introdotte, de' Teatini, Gesuiti, Girolamini e di tante altre, che resesi oltre modo ricchissime, vi hanno innalzati magnifici Tempj, anzi non già Monasterj, ma Palagi vastissimi e superbi, eccelse Torri, e più tosto Castelli, che Conventi, si vede ora Napoli gareggiar colle più grandi Città di Europa con Roma, Costantinopoli, Londra e Parigi.

A quest'istesso Ministro si dee, e per la tanta magnificenza, alla quale la sollevò, e per l'innalzamento de' Tribunali, e per la più ordinaria residenza de' Baroni in quella, che si fosse Napoli resa cotanto popolata e numerosa di abitatori: ancorchè v'avesse pure molto conferito le spesse incursioni de' Corsari Turchi che a questi tempi facevano nelle Terre e marine del Regno: onde gli abitatori di quelle Terre spaventati, per isfuggire la temuta schiavitudine, se capitavano nelle loro mani, abbandonando i loro nidi, si ritiravano tutti a Napoli. Così molti della Costa d'Amalfi, di Citara, Castello posto nella marina presso Salerno, del Cilento, della Cava, dell'isola di Capri, e finalmente di Calabria ci vennero[17].

CAPITOLO IV. La medesima provvidenza vien data dal Toledo nelle Province e nell'altre Città del Regno, per l'occasione, che ne diede Solimano, che con potente armata cercava invaderlo.

Ancorchè il Regno, nel governo di D. Pietro di Toledo, non avesse nelle sue Province sofferti quei mali, che seco porta una viva guerra; nulladimeno il timore di quella minacciata da due Principi potenti, da Solimano, e da Francesco I Re di Francia, che collegati insieme dirizzavano tutti i loro pensieri, e tutte le loro forze per deprimere tanta potenza di Carlo Imperadore, era peggiore della guerra istessa. Solimano irritato contro Cesare per avergli frastornata l'Impresa del Regno di Tunisi, e per vendicarsi d'aver posto il suo esercito in fuga, e cacciatolo dall'Ungheria, avea fatto nell'anno 1537 apparecchiare una potentissima armata per la conquista del Regno di Napoli. Era ancora stimolato a quest'impresa per mezzo d'un suo Ambasciadore dal Re di Francia, e da Troilo Pignatello[18], il quale per vendicarsi della ignominiosa morte fatta dare dal Toledo al Commendator suo fratello, erasi con molti altri fuorusciti partito dal Regno, e ricovratisi in Costantinopoli, sollecitavano con acuti stimoli quell'Imperadore a non tardare; e gli dipinsero l'impresa molto facile, poichè dovendo Cesare impiegarsi alla difesa della guerra, che il Re di Francia era per muovergli in Lombardia per lo Stato di Milano, non avrebbe potuto resistergli. Si risolse per ciò con prestezza Solimano a muoversi, e fece tosto porre in ordine un esercito di ventimila soldati, e partendo egli da Costantinopoli per terra, giunse alla Velona a' 13 di luglio di quest'anno: fece anche apprestare nel medesimo tempo un'armata di 200 vele da carico, e di gente da combattere, dandone il comando al suo famoso Ammiraglio Barbarossa, il quale quasi ad un medesimo tempo, che egli per terra giunse alla Velona, vi giunse egli per mare colla sua armata.

Il Vicerè, che molti mesi prima, invigilando agli andamenti de' fuorusciti ricovrati in Costantinopoli, avea avuti avvisi da Scipione di Somma Vicerè della Provincia d'Otranto de' maneggi del Pignatello, e di quanto si trattava in quella Corte, e della risoluzione di Solimano, come potè meglio, diede tosto principio alla fortificazione delle riviere del Regno; e scrisse immantenente a Cesare, ragguagliandolo di ciò che dal Turco si meditava, e che a fine di resistergli, gli mandasse tosto soccorso di fanteria spagnuola, per raddoppiare i presidj, avendo egli intanto di munizione e di vettovaglie il tutto provveduto. Ordinò per tanto agli uomini d'arme, che si raccogliessero sotto le loro bandiere, e ragunatili tutti, gli fece accampare nella Puglia piana, donde potevasi con prestezza soccorrere a tutte le riviere. Distribuì ancora le milizie per guardia di Napoli; e poichè si trattava della difesa da farsi contra il nemico comune, fidossi dei propri Cittadini, mettendo in loro mani le arme, acciò si difendessero bisognando: i quali con molta intrepidezza s'offerirono andare incontro a mille morti per resistere all'oste implacabile del Cristianesimo. Fece poi chiamare i Baroni del Regno, e ragunatili tutti in un general Parlamento tenuto dentro il Castel Nuovo, espose loro la cagione della chiamata, il grave pericolo nel quale erano, e che Solimano essendo già partito con potentissimo esercito da Costantinopoli per assaltare il Regno, bisognava per ciò armarsi per una valida difesa. Tutti si offerirono con la medesima prontezza; onde ogni uno finito il Parlamento si diede a provvedersi d'arme, ed accingersi colla maggior prestezza e sollecitudine.

In questo giunsero al Porto di Napoli 24 Navi cariche di Spagnuoli, ed indi a poco arrivò il Principe Doria con 25 Galee e due Galeoni; ed appresso entraron cinque altre Galee mandate da Papa Paolo III a cui molto premeva render vani i conceputi disegni di Solimano. Partì l'armata dopo essersi provveduta delle cose bisognevoli per la volta di Messina, su della quale il Toledo vi mandò D. Garzia suo figliuolo, e navigando verso Levante, pose il Doria in iscompiglio l'armata nemica. Partito il Doria, il Vicerè mandò alla volta di Puglia la fanteria spagnuola con alcuni pezzi d'artiglieria, ed avuta certa notizia, che Solimano era giunto alla Velona, partì egli da Napoli seguitato dal Baronaggio, e da molta cavalleria a' 28 di luglio, e giunto a Melfi, quivi fece far rassegna generale di tutto il suo esercito. In questo vennegli nuova, come il Bassà Lussibeo, arrivato all'improvviso a Castro, avea posta a sacco ed a fuoco quella Terra, e prese le donne ed i giovani, il resto avea fatto morire: poi assalito Ugento, lo fece brugiare con molti casali attorno. E nel medesimo tempo Barbarossa approdato con settanta Galee in Otranto, fece sbarcar molta gente e cavalli per invader quei luoghi; ma trovandosi Scipione di Somma Governatore di quella Provincia, il quale stava ben provveduto di gente e cavalli, ancor che a lungo andare non avrebbe potuto resistere a tanta furia, pure con molte scaramucce gagliardamente si difese. Ciò inteso dal Vicerè, spinse avanti le sue genti da Melfi, e si portò a Taranto, per esser più pronto a soccorrerlo: ma appena ivi giunto, gli venne avviso come gl'inimici s'erano ritirati ed imbarcati; ed intese anche da alcuni Turchi fatti prigioni, come Solimano si era anche partito dalla Velona per assalire l'Isola di Corfu, e sorprenderla a' Veneziani.

La cagion di sì improvisa ritirata di Solimano fu, perchè ebbe nuova, che tutte le riviere del Regno stavano ben unite e fortificate di buoni presidj, di valorosi soldati, e di vettovaglie, e che il Vicerè stava in campagna con trentamila uomini, e che il Papa assoldava gente per soccorrerlo. Ebbe anche avviso, che il Principe Doria avea fracassate molte Galee della sua armata; e che l'armata Veneziana (ancorchè vi fosse fra di lor tregua, riputandola i Veneziani per rotta, a cagion, che Solimano in quell'anno avea fatto ritenere in Levante 20 loro Galee) dubitava non se l'intendesse col Doria, e s'unisse anche a' suoi danni; onde dovendosi ritirare, per non perdere la riputazione, nè dimostrar viltà, andò ad assaltare Corfu.

Dissipato per ciò il nemico, licenziò il Vicerè (dopo aver loro resi molti ringraziamenti) i Baroni, e ad ogni uno, che potesse tornare a casa sua, come fecero. Ma egli considerando, che il Turco non era per desistere dall'impresa del Regno, e conoscendo di quanto giovamento gli era stato lo star provisto di gente, deliberò di fortificare tutte le Terre della riviera: e visitando quelle con buoni Architetti ed uomini di guerra, diede ordine per fabbricare il Castello di Reggio. Cinse di baloardi e di mura la Città di Cotrone: fece fabbricare il Castello di Castro, di Otranto, di Lecce, di Gallipoli, di Trani, di Barletta, di Brindisi, di Monopoli, e di Manfredonia; e fece ancora fortificar Vesti, città posta nell'ultima punta del Monte Gargano; ed avendo con tal occasione scorto, che la maggior parte del Regno, e particolarmente le città di Puglia erano oltremodo oppresse da grossi debiti, onde ne nasceva, che molte si disabitavano, e si rendevano impotenti a' pagamenti fiscali; egli trovò rimedj così efficaci e profittevoli, che in pochi anni furono le Città libere da' debiti, ristorate tutte le loro entrate, e tornate a popolarsi con accrescimento di fuochi: in cotal modo fu rinfrancata Barletta, Trani, Bisceglia, Monopoli, Manfredonia, S. Severo, Rutigliano, Minervino, e molte altre Città oppresse, e furono redente e rilevate le loro entrate. Così il Toledo avendo felicemente terminata la sua espedizione, ripartito poi l'esercito per gli alloggiamenti, se ne ritornò a Napoli. La Città, in grazia d'un così segnalato beneficio, gli donò una collana d'oro lavorata con grande artificio, fatta a spese del pubblico; e come liberatore d'un sì formidabile e potente nemico, gli rese pubbliche grazie.

Ma il Vicerè, di ciò non soddisfatto, non tralasciò ne' seguenti anni, per maggiormente munire il Regno contra l'incursioni di sì forte nemico, di fortificare l'altre Città e Terre e le marine tutte del Regno.

Egli fu autore presso a Carlo V per far ordinare, che in tutte le riviere del Regno si edificassero di passo in passo ben alte Torri, con situarvi certi e perpetui stipendj per chi le custodiva, affinchè l'una dando avviso all'altra di qualche sbarco di Corsaro Turco, potessero i paesani ammoniti salvarsi. Fece ancora ne' confini del Regno verso lo Stato Ecclesiastico, costruire una gran Torre, chiamata del Porto di Martino Severo, per sicurtà de' buoni e per vendetta de' rei. E nell'Apruzzo fecevi riedificare un sicuro Castello, siccome fece in Terra di Lavoro a Capua, nel qual tempo fece anche rifar di nuovo il Castello di Baja.

La città di Pozzuoli a questo Vicerè dee la sua conservazione, e che ora ancor duri sopra la Terra, e non, come Cuma, Baja e Miseno, coprissero le sue mura arena ed erba. I spessi tremuoti dell'anno 1538, le orrendissime voragini aperte in quel piano, ch'è tra il Lago Averno e Monte Barbaro, dalle quali furiosamente uscivano pietre, fiamme e gran nubi di fumo e di cenere, spaventarono in maniera i vicini Pozzolani, che abbandonando le lor case, tutti se ne fuggirono, molti per mare e molti per terra colle loro mogli e figliuoli, lasciando desolata quella città. Il che inteso dal Vicerè cavalcò subito a quella volta, e fermatosi sul monte di S. Gennaro, vide la misera città coverta tutta di cenere, che appena si vedeva vestigio di case, per la cui rovina i Pozzolani aveano determinato di abbandonarla affatto. Ma il Vicerè non volle acconsentire, che si desolasse una città tanto antica, ed un tempo cotanto famosa. Fece far bando, che tutti ivi si ripatriassero, con fargli franchi di pagamenti per molti anni; e per dar loro più animo, vi fece edificare un magnifico Palagio, con una forte Torre, e pubbliche fontane. E perchè s'agevolasse il commercio tra' Napoletani e Pozzolani, fece rifar la via, donde si viene a Napoli, ed appianò, e rese più larga e luminosa quella mirabile grotta (maraviglioso vestigio della potenza Romana) tal che per quella vi si potesse passare senza lume. Fece a questo fine ristaurare, come si potè meglio, i Bagni, e rifare le mura della città; e per renderla più piena d'abitatori, quando prima soleva andarvi per sua salute a dimorarvi la primavera, si allargò poi ad andarvi ad abitare la metà dell'anno; ed essendo di nuovo Barbarossa nel 1544 tornato ad infestare il Regno, meditando dopo aver saccheggiate l'Isole d'Ischia e di Procida, di far lo stesso a Pozzuoli, siccome avea già cominciato da mare a batterla; tenendovi il Vicerè dentro un conveniente presidio, e cavalcando egli stesso con prestezza con tutta la cavalleria, e molta gente da Napoli, e dalle Terre convicine, giunto che fu al Borgo di quella città, Barbarossa veduta la moltitudine della gente, si ritirò subito, proseguendo il suo viaggio verso Levante, ed il Vicerè liberator di quella fece ritorno a Napoli. Tanta previdenza diede egli per liberar le città del regno dalle invasioni di sì potenti e fastidiosi nemici.

§. I. Giudei discacciati dal regno.

Non minore providenza fu riputata quella, che diede questo Ministro nel 1540 alla città e regno con averne discacciati i Giudei: essi ci vennero la prima volta intorno l'anno 1200, e s'erano, precisamente in Calabria, allargati cotanto, che popolarono contrade intere di varie città, tal che acquistarono il nome di Giudeche; e crebbero in sì gran numero e ricchezze, che avendo i Giudei dell'Asia persuaso il Turco ad occupare il sepolcro di Davide, sotto mentito pretesto di nascosto tesoro, siccome già avvenne, con danno e dispendio gravissimo de' Cristiani; Martino V irritato per ciò contra i Giudei del regno, s'adoperò con la Regina Giovanna II ne portassero costoro la pena; il perchè a' 18 ottobre del 1429 ordinò ella a Lodovico d'Angiò Duca di Calabria, che facesse esigere da ciascun Ebreo, sia masculo, sia femmina, il terzo d'uno scudo; e fu sì grande la somma, che se ne ritrasse, che compensò la spesa già fatta nell'Asia per lo riacquisto del Sagro Sepolcro[19]. Ci vennero la seconda volta nel 1492 allor che cacciati da Spagna dal Re Ferdinando il Cattolico, mescolati co' primi, popolarono assai più le Giudeche da essi abitate, dove in breve tempo multiplicati, divennero ricchissimi; poichè quivi con molto lor utile si posero ad esercitar la loro arte di comprare, e vendere vesti ed altre robe usate, ma sopra tutto a dar denari ad imprestanza a grossissime usure[20]. La comodità era grande, ma gl'interessi, che soffrivano coloro che vi avean negozio, erano intollerabili. Narra Gregorio Rosso[21], che in que' mesi, che stette l'Imperadore in Napoli, si videro impoverire molti Cittadini, e particolarmente molti Signori e Nobili, i quali per mostrare in quell'occasione il lor fasto, s'aveano impegnato a' Giudei quasi tutti i loro argenti e robe, i quali ricavandone usure grossissime, s'erano fatti ricchissimi, e più sarebbe stato il loro guadagno, se più lungo tempo Cesare si fosse trattenuto in Napoli. Quantunque dal Re Ferdinando fossero stati scacciati da Spagna, furono però sofferti nel Regno dall'Imperador Carlo V, il quale, perchè non si confondessero con gli altri, ordinò, che abitassero tutti in una strada, e portassero un segno in capo, così uomini, come donne[22]; ma essendo nei tempi del Toledo cresciute le loro usure, e piena la città di richiami contra l'estorsioni che facevano, stimò bene il Vicerè informarne l'Imperadore, dal quale ottenne ordine di cacciarli; onde nel 1540 fece pubblicar bando, che partissero tutti da Napoli e dal regno[23]. Partirono finalmente, e se ne andarono la maggior parte in Roma, ed altri in altre parti; indi avvenne, che le strade, ove uniti abitavano, ritengono anche ora il nome di Giudeche, e coloro che esercitano la lor arte, Giudei sian nomati.

Il rimedio però usato dal Vicerè sarebbe stato peggiore del male, se dalla pietà d'alcuni e providenza del medesimo non si riparava; poichè mancata questa comodità d'impegnare con gli Giudei, i bisognosi ricorrevano a' Cristiani, i quali allettati dal grosso guadagno, cominciarono a far peggio, che non facevano i Giudei; perlochè, a fine che non mancasse il comodo a' bisognosi di tor denari ad imprestanza, e per togliere a' Cittadini l'occasione d'imitare, e forse di superare il rigor degli Ebrei, fu istituito il Sagro Monte della Pietà, affine di riscattar i pegni da' Giudei, e di sovvenire a' bisogni de' poveri, dove sino a' dì nostri si somministrano denari sul pegno con moderate usure, e sino alla somma di ducati diece senza interesse alcuno[24].

Con tanta saviezza e con tanta soddisfazione dei popoli governò il Toledo fin qui il Regno e toltone l'avversione d'alcuni Nobili mal contenti del suo rigore, era da tutti amato, ubbidito ed in sommo pregio avuto.

Ma un nuovo accidente pur troppo infausto, conturbò tutto il bell'ordine, e pose sossopra sì bell'armonia; e se l'amore al proprio Principe e la fedeltà de' Napoletani verso Cesare, non v'avesse posto argine, avrebbe portate peggiori calamità e ruine. Questo si fu l'essersi voluto a' tempo del suo governo tentare di porre nel Regno il Tribunal dell' Inquisizione all'uso di Spagna; la cui Istoria, per contenere uno de' successi più rimarchevoli, e 'l pregio maggiore della costanza insieme e fedeltà de' Napoletani, saremo qui, come in proprio luogo, a partitamente narrare, non riputando doverla rapportare al Capo della Politia Ecclesiastica, contenendo questi successi più del politico e temporale, che dello spirituale delle nostre Chiese.

CAPITOLO V. Inquisizione costantemente da' Napoletani rifiutata; e per quali cagioni.

Ragionevolmente alcuni si maravigliano, onde sia nato, che i Napoletani uomini reputati cotanto pii e religiosi, che talora non sapendo tener la via di mezzo, sono traboccati nella superstizione e in soverchia credulità, abbiano poi avuto sempre in orrore il Tribunal dell'Inquisizione? Come avendo potuto sofferir tanti gravamenti ed abusi introdotti nel Regno dalla Corte di Roma, non sofferir quest'altro, che lor si proponeva sotto onesti e salutari colori, di conservar intatta e sincera la loro antica religione, non farla contaminare da' novelli errori ed eresie, le quali sarebbero state cagione d'eterna ed irreparabile lor perdizione? Ne' Pontificati d'Alessandro VI, di Giulio II, di Lione X e di Clemente VII aveano tollerati gli abusi trascorsi in quella Corte nell'ultima estremità. Roma coll'autorità dell'indulgenze, con la larghezza delle dispense, con gli spogli, colle riserve, colle espettative, con volere l'annate de' beneficj, che si conferivano, e con le spese, che nella spedizione d'essi si facevano negli Ufficj tanto multiplicati di quella Corte, non attendeva ad altro, che ad esigere con quest'arte somme immense di denari, non meno dal nostro regno, che da tutta la Cristianità. Vedevano imposte spese e gravose decime a' Cleri, a' Monasteri ed a tutti gli Ecclesiastici del Regno per tirar denaro in Roma, e si sofferivano. Le elezioni de' Prelati, la collazione della maggior parte delle dignità e beneficj tanto maggiori, quanto minori, insino all'infime Arcipreture e Canonicati, s'erano involate al Clero ed al Popolo ed alli proprj Ordinarj, ed erano tutte passate in Roma. Ciò che pure sarebbe stato comportabile se in quelle si fosse avuta cura maggiore della salute dell'anime, e le cose Ecclesiastiche fossero governate rettamente; ma si vedeva il contrario, poichè molti beneficj incompatibili si conferivano in una persona medesima, nè avendo rispetto alcuno a' meriti degli uomini, si distribuivano per favori, o in persone incapaci per l'età, o in uomini vacui al tutto di dottrina e di lettere, e quel ch'era peggio, spesso in persone di perditissimi costumi[25]. I beneficj del regno, che secondo le disposizioni de' Canoni, non potevano conferirsi se non a' nazionali, erano a costoro tolti e conferiti a' peregrini e forastieri. Ne' Tribunali Ecclesiastici non erano curate le tante sorprese sopra la giurisdizione del Re, e li tanti abusi e corruttele, onde con tasse intollerabili erano angariati i poveri litiganti. Si tolleravano gli acquisti immensi dei stabili delle Chiese e Monasterj, ancorchè vedessero, che il tutto dovea ridondare in loro povertà e miseria. Le violenze, che lor si facevano in obbligarli a forza a vendere le proprie case per render quelle vie più magnifiche, e sovente anche perchè non le mancassero ampj Portici e Logge. Non dava loro su gli occhi, che immuni ed esenti gli Ecclesiastici da qualunque peso, rimanessero essi soli a sopportare i pesi pubblici e del Re. Tante ed altre molte gravezze, che qui si tralasciano, si poterono ben tollerare dai Napoletani; come poi del nuovo giogo dell'Inquisizione poteron avere tanta abbominazione, che sino il nome loro dava orrore, deve certamente far maravigliare ogni uno: e ciò che era più stupore, l'abborrimento fu tale, che tramandato per lungo corso d'anni da padre in figlio come per successione, si è nei loro animi cotanto radicato, che nè il corso di più secoli, nè la contraria inclinazione d'alcuni de' loro Re, nè le macchinazioni ed accortezze della Corte di Roma, l'han potuto svellere: tanto che ora col favore d'un più benigno Giove fatto più forte e grande, non teme le scosse di qualunque più impetuoso vento.

Cotanto beneficio, chi 'l crederebbe? noi lo dobbiamo principalmente agli Spagnuoli, ed in secondo luogo alla Corte istessa di Roma; ed affinchè ciò più chiaramente s'intenda, è di mestieri, che epilogando ciò che nel XIX libro di quest'Istoria si disse intorno alla sua origine, si vegga come dopo gli Angioini si fosse fra noi praticata l'Inquisizione, insino ai tempi di Ferdinando il Cattolico, nel cui regno, per le cagioni che diremo, cominciossi ad avere in orrore ed abborrimento, il che poi si ridusse al colmo nell'Imperio di Carlo V e di Filippo II suo successore, con esser continuato poi sino al presente.

Dapoi che l'Imperador Federigo II per quella sua terribile Costituzione Inconsutilem pubblicata per sterminare i Patareni e gli Arnaldisti, e tanti altri Eretici insorti in quel tempo contra la Chiesa, per li depravati e corrotti costumi degli Ecclesiastici, ebbe date l'ultime pruove del suo rigore per estirparli affatto; alcuni di essi pertinaci ne' loro errori, per non abbandonarli, ricorsero, chi alla protezione di qualche Principe, e chi affettando una pura vita Appostolica, simulando virtù e costanza, niente curando morti e prigionie, si risolsero di soffrire qualunque strazj e tormenti, ed eziandio le morti più crudeli, costoro per tal cagione amarono essere chiamati Patareni, riputandosi perciò somiglianti a' Martiri dell'antica Chiesa. Multiplicossi il lor numero, e non vi fu città d'Italia, che non ne restasse infetta. Gli altri, fra' quali i più considerabili furono gli Albigesi, per un'altra via più si disseminarono, poichè essendo favoreggiati dal Conte di Tolosa e da altre persone di stima, avevano sparsa la loro dottrina in molte province della Francia.

Sursero opportunamente in questi medesimi tempi a favor della Chiesa Romana que' due grandi uomini, Domenico e Francesco, i quali per la loro santità resisi chiari da per tutto, fondarono, come si disse, le Religioni de' Predicatori e de' Frati Minori: ed in vero assai opportuni ci vennero per resistere a sì contrarj venti, onde la Navicella di Pietro era combattuta: ma tennero diverse strade. Francesco per opporsi a' Patareni volle col suo esempio mostrare qual fosse la vera vita Appostolica, ed il vero imitare Cristo, fondando la sua Religione in una rigida povertà, nell'umiltà e ne' puri ed incorrotti costumi: acciocchè coll'esempio e coll'opere riducesse i traviati in via.

Domenico di Nazione Spagnuola e del nobil legnaggio de' Gusmani, fu rivolto co' suoi Frati ad abbattere gli altri, e principalmente gli Albigesi; contra i quali, armato di forte zelo disputò, orò, declamò e colle sue prediche e concioni cercava convincerli dei loro errori, e far accorta la gente a non lasciarsi ingannare. Ma poco giovando con quegli ostinati le dispute e le prediche, stimò più opportuno mozzo per estirparli, di ricorrere (come aveano fatto i contrarj) agli ajuti de' Principi; e creato dal Pontefice Innocenzio III, Inquisitor generale contra di loro, ricorse agli ajuti del Conte di Monteforte e di molti altri Signori Spagnuoli, Tedeschi e Franzesi; questi uniti con gran numero di Prelati, e molte truppe, presero contra di loro la Croce, e così crocesignati scorrevano le province per distruggerli, e scorrendo per la Narbona e per altri luoghi, molti ne vinsero e distrussero. Nè di ciò contento Domenico venne in Roma, e nel Concilio, che si tenne in Laterano, in più sessioni orò contra gli Albigesi, e fece condannar per eretica la loro dottrina.

Da questo principio nacque poi il costume, che nelle province pacate, ove gli Eretici non erano a turme, tanto che fosse bisogno di crociate, sospettandosi in qualche Città esservi eretici, si mandassero dal Papa gl'Inquisitori; e poichè in Roma era piaciuta più l'opera di Domenico, che di Francesco, fu dato quest'ufficio principalmente a' Domenicani, i quali uniti col Magistrato secolare inquisivano degli errori, e coloro, che erano convinti, essi gli sentenziavano con dichiararli Eretici: e dopo questo gli davano al braccio del Magistrato secolare per fargli ardere, o in altro modo punire.

Nel Regno degli Svevi, Federigo II e Manfredi non permisero, che da Roma venissero Inquisitori; ma siccome fu rapportato nel riferito libro XIX si valeva, intorno alla conoscenza del diritto, de' Prelati del regno, e per ciò che riguardava la conoscenza del fatto e della condannagione, de' suoi ordinari Magistrati.

Gli Angioini, come ligi de' Pontefici Romani, ammisero nel regno Inquisitori di Roma, li quali, ancorchè non vi tenessero Tribunal fermo, scorrevano, come ivi fu veduto, le nostre province, favoriti da que' Re, da' quali anche venivan loro somministrate le spese.

Gli Aragonesi cominciarono poi a scemar loro tanto favore, nè, se non molto di rado gli ammettevano, ed ammessi volevano essere informati minutamente d'ogni cosa, nè si permetteva ad essi, senza espressa licenza del Principe ed assistenza di Magistrato secolare, far esecuzione di fatto.

E quantunque ne' primi anni del regno di Ferdinando il Cattolico, cercassero di stabilirsi meglio, e sottrarsi da tanta soggezione e dependenza: nulladimeno i Napoletani, per fortificarsi contra ogni sospetto, indussero il G. Capitano ad assentire alle loro domande; in guisa, che volendo prendere la possessione del regno in nome di Ferdinando suo Re, da cui avea avuta pienissima autorità, promise loro, che nel regno non ci sarebbe giammai stata, nè Inquisizione, nè Inquisitore; onde il G. Capitano vi procedeva con molta oculatezza, sempre intento a reprimere le sorprese, che Roma, quando le veniva in acconcio, non tralasciava di fare. A questo fine nel 1505 scrisse al M. Foces, che avendogli il Vescovo di Bertinoro Commessario Appostolico ed Inquisitore fatta istanza da parte del Papa, che si carcerassero alcune donne indiziate d'eresia, le quali fuggite da Benevento s'erano ricovrate a Manfredonia per passare in Turchia, proccurasse con diligenza averle in mano, e carcerate che le avesse, ne desse a lui avviso, per ordinargli poi quel che doveva eseguire. Parimente il Conte di Ripacorsa nel 1507 scrisse a Fra Vincenzo di Ferrandina, rampognandolo, come erasi portato in Barletta a far inquisizione contra alcune persone, senza sua saputa, e senz'aver mostrato sua commessione: gl'incarica pertanto, che s'astenesse di procedere, e venga da esso a mostrargliela, altrimente non senza sua ignominia avrebbevi dati forti provvedimenti[26].

Questo, a' primi tempi di Ferdinando il Cattolico, fu lo stile praticato nel Regno contra gl'indiziati e sospetti d'eresia, la cui inquisizione non dava spavento, perchè questi Commessarj non aveano Tribunal fermo: le loro commessioni doveano portarsi al Consiglio Regio, nè potevan eseguirsi senza il Placito Regio; scorrevano assai di rado le province, ed il tutto si faceva col permesso del Re e coll'assistenza, consiglio e favore de' Magistrati secolari, e senza molto strepito e rumore. S'aggiungeva, che in Italia e più nel nostro regno erano estinte le reliquie degli antichi Patareni: non v'era sospetto alcuno di nuova dottrina contraria a quella della Chiesa Romana; tanto che l'Inquisizione di Roma per non star oziosa, avea cominciato ad attribuire a quel Tribunale alcuni delitti che non meritavano un Tribunale estraordinario, e che potevan ben come prima esser corretti da Tribunali ordinari. Per lo più gl'Inquisitori si raggiravano sopra le bestemmie, che per tirarle al loro Tribunale, le qualificavano per ereticali, ancorchè profferite, o per cattivo abito o per iracondia o per ubbriachezza o finalmente per sciocchezza ed ignoranza. Così colui, che volendo lodar un buon vino diceva che lo berrebbe Cristo, non iscappava dalle loro mani: chi assordato da loro fastidiosi ed importuni suoni, impaziente malediceva le campane, non era fuor di pericolo: chi declamando contra i corrotti costumi del Clero, de' Preti e de' Monaci gli scherniva, derideva o malediceva: e perchè la materia non mancasse, vi arrolarono i sortilegi, le invocazioni de' demonj e mille altre sciocchezze di vili femminette, le quali erano adoperate più per imposturar la gente, o per vil guadagno, che per difetto di credenza. Vi arrolarono anche i delitti di fragilità: così la bigamia, le notturne assemblee ove sotto il manto di religione, si commettevano mille laidezze ed altri eccessi, più per fragilità commessi che per non credere, si qualificavano a questo fine per ereticali. In breve non vi era molto che fare per la correzione de' dogmi e de' falsi credenti, ma tutte le loro occupazioni erano per la correzione de' costumi e della disciplina. Cotanto a questi tempi il Tribunal dell'Inquisizione erasi reso affatto inutile, onde non potea aversene in Napoli, nè altrove timore o bisogno alcuno.

Ma quanto in Italia queste cose erano in quiete, altrettanto nella Spagna si sentivano strepitose e piene d'orrore. Ferdinando il Cattolico, dopo aver discacciati i Mori e conquistato il regno di Granata per purgar la Spagna d'ogni reliquia di Mori e d'Ebrei e per estirparli affatto, avea ivi fatto ergere un Tribunal spaventoso d'Inquisizione e amministrato dai Frati Domenicani[27], ove sotto zelo di religione, si posero in opra le più crudeli ed orribili prigionie, esilj, morti e confiscazioni di beni, e quel che più dava orrore, erano i modi tragici, i lugubri apparati, le tante croci, le spaventose invettive, imprecazioni e scongiuri, e le pire accese, ove dovea il reo brugiarsi, in guisa che non tanto la morte, quanto l'orribil apparato di quella spaventava. Indiziato alcuno, ancorchè con leggieri sospetti, si poneva in tenebrose carceri, ove da niun veduto, in pane ed acqua per più mesi era trattenuto, e sovente senza sapersene la cagione. Nelle difese non se gli dava nota de' testimonj, se mai gli fossero sospetti, nè s'ammettevano discolpe; i beni tosto eran sequestrati; e se secondo le severe leggi del Tribunale, veniva taluno convinto ovvero per non poter soffrire gli acerbi tormenti, confessava ciò, che mai fece, era condennato ad ardere nelle vive fiamme. Altri indiziati, a perpetui esilj eran condennati, ed eran tutti spogliati de' loro beni; e condennati, o essi se restavano in vita, o i loro eredi, ad una perpetua infamia ed estrema mendicità[28].

Questo terribile e spaventoso modo di procedere dell'Inquisizione di Spagna contra i Mori e gli Ebrei, rapportato alla notizia degli Italiani e de' nostri Napoletani, fece concepire loro un orrore grandissimo dell'Inquisizione. Avvenne che, col sospetto ch'ebbe Ferdinando, che in Napoli e nel regno si fossero (per isfuggire dalle sue mani) ricovrati molti Mori ed Ebrei, per estirparli in ogni parte ove capitassero pensasse di porre anche in Napoli un Tribunal conforme dipendente da quello di Spagna: e se deve prestarsi fede ad alcune lettere di Ferdinando del 1504, rapportate da Lodovico Paramo[29], par che al medesimo, rivocando i patti e le capitolazioni accordate dal G. Capitano a' Napoletani, quando in suo nome prese il possesso del regno, fosse venuto in pensiero d'introdurre fra Noi l'Inquisizione suddetta; ma quando i Napoletani intesero il proponimento del Re, spaventati de' mali e ruine che poteva recar loro un sì fiero Tribunale, se lo ricevessero, costantemente si risolsero di resistere, anche con perdita della loro vita e robe alla volontà del Re; al quale avendo insinuato che in Napoli, e nel regno cotanto pio e religioso non vi era di ciò bisogno, e che ben per pochi Mori ed Ebrei, che vi s'erano ricovrati, potevan prendersi per discacciarli altri espedienti; finalmente gli protestarono, che in conto alcuno avrebbero un tal nuovo Tribunale ricevuto; ed avendo Ferdinando, non ben accertato della loro ostinazione, voluto a questo fine mandare di Spagna in Napoli alcuni Inquisitori, furono malamente ricevuti e poi ignominiosamente dal regno discacciati[30].

Ferdinando reso certo della loro ostinata deliberazione, per non entrare in maggiori brighe con pericolo di perdere il Regno, lasciò l'impresa, e contentandosi di promulgar contra gli Ebrei una Prammatica[31] si quietò; anzi promise a' Napoletani, che per l'avvenire non avrebbe mai permesso, che si fosse posta Inquisizione, siccome lo testificano due gravissimi Scrittori, Zurita[32], e Mariana[33]. Ciò che fu ancora approvato dal Papa; onde in tutto il tempo, che visse e regnò Ferdinando, fra noi non s'udì pur ricordare il nome d'Inquisizione. I Napoletani rimasero quanto soddisfattissimi, altrettanto spaventati di quel Tribunale, ed ebbero ne' loro animi tanto orror di quello che essi morti lo tramandarono, come per eredità, ai loro discendenti; e quindi avvenne, che d'allora in poi odiavano anche il nome di esso, e n'ebbero sempre abborrimento.

§. I. Inquisizione di nuovo tentata, ma costantemente rifiutata sotto l'Imperador Carlo V.

Ma insorta dapoi nell'Imperio di Carlo V la nuova eresia di Martino Lutero, si diede, da questo principio, occasione a nuovi sospetti e nuovi attentati. Cominciarono nell'anno 1520 in Alemagna nella provincia di Sassonia a disseminarsi dottrine nuove, prima contra l'autorità del Papa, dapoi contra la Chiesa istessa Romana. A suscitarle nuovamente in Germania avea data occasione l'autorità della Sede Appostolica, usata troppo licenziosamente da Lione X, il quale, seguitando il consiglio del Cardinal Santiquattro, avea sparso per tutto il Mondo, senza distinzione di tempi e di luoghi, indulgenze amplissime, non solo per potere giovare con esse i vivi, ma con facoltà di potere, oltra questo, liberar anche l'anime de' defunti dal Purgatorio; le quali perchè era notorio, che si concedevano solamente per estorquere denari[34], ed essendo esercitate imprudentemente da' Commessarj deputati a quest'esazione, la più parte de' quali comprava dalla Corte la facoltà di dispensarle, avea concitato in molti luoghi indignazione e scandalo, e spezialmente nella Germania, dove a molti di questi Commessarj s'era veduta vendere per poco prezzo, e giocarsi su l'Osterie la facoltà di liberare l'anime dal Purgatorio. Ma il motivo, onde nella Germania, e non altrove, cominciassero prima queste nuove dottrine, fu perchè avendo Lione donato a Maddalena sua sorella l'emolumento e l'esazione delle indulgenze della Sassonia e di quel braccio di Germania, che di là cammina sino al mare, costei, acciò che il dono del Pontefice le rendesse buon frutto, diede la cura di mandar a predicare l'Indulgenze e dell'esazione del denaro al Vescovo Aremboldo ministro degno di questa commessione, che l'esercitava con grande avarizia ed estorsione, poichè diede facoltà di pubblicarle a chi più offeriva di cavare maggior quantità di denari; ed ancor che nella Sassonia fosse costume che, quando da' Pontefici si mandavano l'Indulgenze, erano per lo più adoperati i Frati Agostiniani per pubblicarle, non vollero i Questori ministri del'Arenboldo valersi di loro, da' quali, come usati a quest'ufficio, non aspettavano cosa straordinaria e che gli potesse fruttar più del solito; ma le inviarono a' Frati dell'Ordine di S. Domenico. Da costoro, nel pubblicar l'Indulgenze, furono delle molte novità, che diedero scandalo, perocchè essi, per invogliare più la gente, ne amplificavano il valore più del solito.

Queste cose eccitarono Martin Lutero Frate dell'Ordine degli Eremitani a parlar prima contra essi Questori, riprendendo i nuovi eccessi; poi provocato da loro, e venutosi in dispute sopra il soggetto dell'Indulgenze, cosa non ben esaminata ne' precedenti secoli; vedendo, che i suoi emoli non si valevano d'altra ragione per difenderle e sostenerle che dell'autorità Pontificia; cominciò a disprezzare queste concessioni, ed a tassare in esse l'autorità del Pontefice; e continuando il calore delle dispute, quanto più la potestà Papale era dagli altri innalzata, tanto più da lui era abbassata. E multiplicandogli, in causa favorevole agli orecchi de' Popoli, il numero grande degli auditori, cominciò poi più apertamente a negare l'autorità del Pontefice.

In breve tempo videsi maravigliosamente disseminata la sua dottrina e favorita; onde trasportato poi dall'aura popolare e dal favore del Duca di Sassonia, non solo fu troppo immoderato contra la potestà de' Pontefici, ed autorità della Chiesa Romana; ma trascorrendo ancora negli errori de' Boemi, cominciò in progresso di tempo a levare le Immagini dalle Chiese, ed a spogliare i luoghi Ecclesiastici de' beni, e permettere a' Monaci ed alle Monache professe il matrimonio, corroborando questa opinione non solo con autorità e con argomenti, ma eziandio con l'esempio di se medesimo. Negava il Purgatorio, e perciò non doversi pregare per li morti; negava la potestà del Papa distendersi fuora del vescovato di Roma; ed ogni altro Vescovo avere nella Diocesi sua quella medesima autorità, che avea il Papa nella Romana: disprezzava tutte le cose determinate ne' Concilj, tutte le cose scritte da' Dottori della Chiesa, tutte le leggi Canoniche, ed i decreti de' Pontefici, riducendosi solo al Testamento vecchio, al libro degli Evangelj, agli Atti degli Appostoli, ed a tutto quello, che si comprende sotto il nome del Testamento nuovo, ed all'Epistole di S. Paolo; ma dando a tutte queste nuovi e sospetti sensi, e non più udite interpretazioni.

Nè si contenne in questi soli termini la follia di costui, e de' seguaci suoi, ma seguitata da quasi tutta la Germania, trascorrendo ogni giorno in più detestabili e perniziosi errori, penetrò a ferire i Sacramenti della Chiesa, disprezzare i digiuni, le penitenze e le confessioni; scorrendo poi alcuni de' suoi Settatori (ma divenuti già in qualche parte discordanti dall'autorità sua) a fare diaboliche invenzioni sopra l'Eucaristia: le quali cose avendo tutte per fondamento la reprovazione dell'autorità de' Concilj e de' Sacri Dottori, diedero adito ad ogni nuova e perversa invenzione o interpretazione.

Si vide perciò in molti luoghi, eziandio fuori della Germania, ampliata questa dottrina, la quale liberando gli uomini da molti precetti, li riduceva ad un modo di vita assai libero ed arbitrario. Negli Svizzeri, Ulrico Zuinglio Canonico di Zurich, avendola abbracciata, colle sue prediche l'avea disseminata per que' Cantoni, e da molti ascoltato, avendo acquistato gran credito, faceva prodigiosi progressi.

E mentre i Principi d'Europa tutti stavano occupati alla guerra, le cose della Religione andavano alterandosi in diversi altri luoghi; dove per pubblico decreto de' Magistrati, e dove per sedizione popolare. In Berna, fattosi un solenne convento e de' suoi Dottori e dei forastieri, ed udita una disputa di più giorni, fu ricevuta la dottrina conforme a quella di Zurich. Ed in Basilea, per sedizione popolare, furono ruinate ed abbruciate tutte le Immagini, e stabilita la nuova religione. L'esempio di Berna fu seguitato a Genevra, Costanza, ed altri luoghi convicini; ed in Argentina, fatta una pubblica disputa, per pubblico decreto fu proibita la Messa.

Cominciava per tanto questo pestifero veleno a diffondersi, ancorchè occultamente, anche in Italia, non meno che apertamente erasi disseminato in Francia; poichè in Italia, vedendosi tanta corruttela de' costumi nell'Ordine Ecclesiastico e nella Corte di Roma, credevano molti, che fossero tante calamità per esecuzione d'una sentenza Divina vendicatrice di tanti abusi, onde molte persone e accostavano alla riforma: e nelle case private, in diverse Città, massime in Faenza, Terra del Papa, si predicava contra la Chiesa Romana, e cresceva ogni giorno il numero de' Luterani, i quali si facevan chiamare Evangelici.

Giovò non poco allo spargimento di questa nuova dottrina nell'altre parti, l'erudizione di Filippo Melantone, fedele discepolo di Lutero, il quale vedendo che l'eloquenza e il credito d'una scelta erudizione a se chiamava gran numero di seguaci, impiegò ogni suo talento e tutte le sue belle lettere per mettere in ridicolo i Teologi scolastici; e facendosi ammirare dagl'ignoranti, dava lor facilmente ad intendere che i Dottori Cattolici non più sapevano di Religione, che di belle lettere: prese con queste arti molti, ed in Italia alcuni Predicatori più insigni di que' tempi, che si dilettavano d'eloquenza e che aveano tanto quanto di buon gusto nelle lettere.

Scorgendo intanto l'Imperador Carlo V che non pure nella Germania, ma anche in Italia era penetrata la dottrina di Lutero, trovandosi in Napoli nel 1536 a' 4 febbrajo fece pubblicare in questa città un rigoroso editto, da pubblicarsi ancora per tutti li Regni suoi, che niuno avesse pratica o commercio con persona infetta, o sospetta d'eresia Luterana, sotto pena della vita e di perdere la roba[35]; e prima di partire raccomandò al Toledo, che sopra tutto invigilasse a non farla penetrare nel regno commesso al suo governo.

Ma donde si credeva sperar salute, s'ebbe il male: era in que' tempi assai rinomato in Italia e per fama di gran Oratore assai celebre Bernardino Occhino da Siena, Frate Cappuccino, il quale sopra tutti gli altri del suo tempo erasi reso famoso sì per la sua dottrina, ed eloquenza e per l'asperità della vita, come anche per un suo nuovo modo di predicare l'Evangelio, non con dispute scolastiche, ed altre stravaganze, come gli altri fin al suo tempo facevano, ma con ispirito e veemenza e con fervore mirabile; onde s'avea acquistato gran credito non solo appresso il Popolo, ma anche presso i più grandi Principi d'Italia. Egli avea però in secreto ricevuta la dottrina di Lutero, e la andava occultamente disseminando, ma la copriva con accortezza tale, che non potea aversene niun sospetto. Dalla di lui fama tratti i Napoletani, proccurarono che nella Quaresima di quell'anno 1536 venisse a predicare a Napoli; egli ci venne con soddisfazione grandissima della Città, ch'ebbe il gusto, trovandovisi allora l'Imperadore, di farlo anche ascoltare da sì gran principe. Predicò egli a S. Giovanni Maggiore con tanto plauso ed ammirazione, che avea sbancati tutti gli altri Predicatori; poichè a gara tutta la Città correva alle Prediche di lui; e narra Gregorio Rosso[36] testimonio di veduta, che in que' giorni di Quaresima, che l'Imperadore si trattenne in Napoli (poichè partì dentro di quella) andava spesso a sentirlo in S. Giovanni Maggiore con molto suo diletto; imperocchè, com'e' dice, predicava con ispirito, e devozione grande, che facea piagnere le pietre.

Partito l'Imperadore da Napoli, proseguì egli le sue prediche, nelle quali con destrezza mirabile andava spargendo alcuni semi di Luteranismo, che non se ne potevano accorgere, se non i dotti, e que' di buon giudicio. Il Vicerè Toledo, che come Spagnuolo favoriva molto i Religiosi Scolastici, a quali non troppo piaceva questo nuovo modo di predicare l'Evangelio, essendo da costoro avvisato, che Fra Bernardino di nascosto nelle sue prediche seminava l'eresia Luterana, diede carico al Vicario di Napoli, acciò destramente s'informasse della verità, e provvedesse. Il Vicario dubbioso, per mettersi in sicuro, era venuto a fargli ordine, che non predicasse più, se prima in pulpito non dichiarasse chiaramente la sua opinione intorno a quegli errori, che gli venivan opposti; ma il Frate, come che dotto ed eloquente, si difese così gagliardamente, che fu lasciato finire di predicare in quella Quaresima: e non solo della sua dottrina finì ogni sospetto, ma acquistò maggior credito e molti seguaci, che istruiti della sua dottrina, partito che fu egli da Napoli, in sua vece la insegnavano nascostamente ad altri.

Ma tre anni da poi, avendo lasciato di se un desiderio grandissimo, fu di nuovo, con molta istanza dei Napoletani, richiamato a predicare nel Duomo di Napoli, dove venuto, fu nel dire più alto e misterioso, e per quanto i giudiziosi s'accorsero, era più cauto, usando parole ambigue, per potersi difendere in caso fosse attaccato. Il nuovo modo di predicare su la Scrittura, diede occasione a molti di disputare sopra di quella, di studiare l'Evangelio, di disputare sopra la Giustificazione, la Fede e le opere; sopra la Potestà Pontificia, il Purgatorio, e questioni simili, le quali prima eran sol trattate da' Teologi grandi fra di loro e nelle loro Scuole. Ma ora, rese per le sue prediche popolari, erano trattate anche da' laici, e talora da uomini di poca dottrina, e di nessune lettere insino i più vili artigiani erano venuti a questa licenza di parlare e di discorrere dell'epistole di S. Paolo e de' passi difficili di quelle, e quel che fu peggio egli partendosene lasciò in Napoli alcuni suoi fedeli discepoli, e la sua cattiva dottrina sparsa ne' petti di molti; siccome avea fatto in ogni altra parte d'Italia, dove avea predicato.

Erano allora in Napoli alcuni Teologi e predicatori parimente insigni d'altre religioni, alcuni de' quali, molto favoriti dal Vicerè Toledo, non si lasciarono contaminare dalla dottrina di costui, anzi la contrada dicevano, e con somma vigilanza proccuravano farne accorti gli altri, perchè la detestassero. Fra gli altri fioriva a questi tempi Frat'Angelo di Napoli Riformato di San Francesco, molto versato nella Teologia e nella dottrina Platonica, ma sopra tutto Oratore eloquentissimo. Costui era favorito molto dal Toledo, che lo elesse per suo Confessore, e l'avrebbe innalzato a maggiori dignità, se la morte non avesse interrotti i suoi disegni; fecegli però ergere nel Monastero della Croce, ove dimorava, una degna Sepoltura con elogio, che ancora ivi si legge. Risplendeva ancora più luminoso il P. Fra Girolamo Seripando dell'Ordine di S. Agostino nobile del Seggio di Capuana, uomo dottissimo, di probità di vita, nelle prediche mirabile, e sopra tutto dotato di somma saviezza e prudenza, tanto che nel Capitolo generale celebrato in Napoli l'anno 1539 fu creato Generale della sua Religione; ed avuto in somma stima dal Toledo, per la sua interposizione fu assunto all'Arcivescovado di Salerno, e poi fatto Cardinale da Pio IV. Romano Pontefice. Questi fu che morendo, memore della sua Patria, lasciò la sua gran Biblioteca adornata di famosi, e di più peregrini, e rari Codici M. S. al Convento di S. Giovanni a Carbonaia[37], ch'era uno de' maggiori pregi di questa città; ora già posta a sacco da' Monaci stessi, che ne tenevano cura: ed ultimamente (con molto dispiacere de' buoni) da chi men dovea. Rilussero ancora Frate Ambrogio di Bagnoli dell'Ordine de' Predicatori, Oratore insigne, poi Vescovo di Nardò, di cui nella Chiesa dello Spirito Santo si vede ancora la sua Statua di marmo con elogio; Fra Teofilo di Napoli disputante massimo e parimente Oratore eloquentissimo, che recitò l'orazion funebre per la morte dell'Imperadrice accaduta in quell'anno: Fra Agostino di Trivigi, e molti altri, che disputando, orando ed insegnando, e favoriti dal Toledo, erano tutti intesi a non far allignare le nuove dottrine, che occultamente serpeggiavano; ma svellerle tosto, prima che mettessero più profonde radici.

Dall'altra parte non mancavano chi con molta accortezza, e sotto manto d'agnelli, così disputando, come insegnando, cercavan stabilirle in Napoli. Avevano alcuni, con nuovo istituto, cominciato a leggere pubblicamente l'Epistole di S. Paolo, nella sposizione delle quali insinuavano la nuova dottrina. Fra gli altri, che in ciò si erano resi celebri, furono Giovanni Montalcino dell'ordine de' Minori di S. Francesco, Lorenzo Romano Siciliano, Apostata de' PP. Agostiniani, e Pietro Martire Vermiglio, Prete e Canonico Regolare, Fiorentino e di cui il Tuano nelle sue Istorie non si dimenticò tesserne elogio.

Fra Giovanni, non pur esponendo quelle Epistole, ma disputando più giorni continui col P. Teofilo di Napoli suo competitore ed emolo, malmenandolo con motti acuti e mordaci, erasi reso sospetto già d'eresia, siccome l'evento poi chiaramente lo dimostrò; perchè alcuni anni appresso, arrestato in Roma, e convinto, fu giustiziato. Pietro Martire, assai più famoso, esponeva con molta eloquenza e dottrina l'Epistole di S. Paolo in Napoli, in S. Pietro ad Ara, dove ebbe tanto credito e concorso di gente, che chi non v'andava, era riputato mal Cristiano. Costui avea a se tirati molti, fra' quali un certo Catalano chiamato D. Giovanni Valdes ch'era anche stretto amico di Fr. Bernardino da Siena; ma la vigilanza del Vicerè, e più de' di lui emoli, che non lasciavano di fare minuto scrutinio sopra i suoi detti, frastornarono i suoi progressi; poichè un giorno, spiegando quel passo di S. Paolo[38]: Si quis autem superaedificat, etc. ancorchè con accortezza, e con molte proteste e riserve lo sponesse, diede però gran sospetto, ch'egli non ben sentisse del Purgatorio. Di che avertito il Toledo, gli fece proibire la lezione, donde avvenne, ch'egli vedendo, che in Italia non poteva promettersi gran cose; finalmente sentendo, che in Roma se gli preparavano aguati, fuggì d'Italia, e ricovrossi fra' Luterani in Argentina, ove riuscì in quella dottrina cotanto celebre, quanto il Mondo sa. Lorenzo Romano fermossi nel Regno, prima in Caserta, e disseminò occultamente gli errori di Zuinglio in quella Città e nelle Terre circostanti; da poi andò in Germania, donde maggiormente istrutto ritornò in Napoli nel 1549, e si pose quivi celatamente ad insegnare a molti gentiluomini la Logica di Melantone; sponeva i Salmi e l'Epistola di S. Paolo, ed un libro a que' tempi dato fuori, intitolato: Beneficio di Cristo. Fu però poco da poi scoverto; ed essendo stato citato dagl'Inquisitori, fuggì via; ma da poi venne nel 1512 spontaneamente a presentarsi in Roma al Cardinal Teatino, al quale confessò i suoi errori e gli palesò ancora, com'egli in Napoli e nel Regno avea molti discepoli, fra' quali erano persone eminenti e molte Dame Nobili e Titolate, le quali professavano lettere umane, ed essendo stato condennato a pubblica abjura nella Cattedrale di Napoli e di Caserta, gli fu imposto, che, fatto questo, ritornasse in Roma per ricevere altre penitenze.

In Napoli con tutto ciò, non ostante la vigilanza del Toledo e le diligenze, che s'usavano contra costoro, non cessava il timore, che non venisse contaminata da' seguaci loro, li quali con molta accortezza e con molta riserba nutrivano la lor dottrina. Non mancavano di capitarvi molti altri Predicatori, i quali tentavano ancora di seminar nel Regno li medesimi errori, abbracciati da molti, chi per ignoranza, chi per malizia; onde aveano cominciato già a far loro congregazioni e Consulte, e Capo di costoro era il Valdes Spagnuolo, il quale faceva professione di ben intendere e spiegar la Scrittura, dando a sentire d'essere in ciò illuminato dallo Spirito Santo; e ne avea per ciò tirati molti al suo partito, onde la cosa era giunta a tale, che oltre avere il veleno penetrato nei petti d'alcuni Nobili, era arrivato sino ad attaccar le Dame; e si credette, che la cotanto famosa Vittoria Colonna vedova del Marchese di Pescara e Giulia Gonzaga, per la strettezza, che tenevano col Valdes, fossero state anche contaminate da' suoi errori[39].

Stando le cose della Religione in questo stato in Napoli, verso l'anno 1541 e 42 venne nuova, che il P. Occhino erasi manifestamente svelato per la parte de' Luterani, fuggito d'Italia, e ricovrato in Genevra s'era a coloro unito: questa rebellione dell'Occhino portò così in Napoli, come in tutta Italia sommo dispiacere: perchè creduto universalmente per uomo da bene e di sana dottrina, ora che vedevano il contrario, cominciarono a dubitare; non le sue prediche avessero apportato più tosto danno, che utile: ed accrebbe il sospetto contra i suoi discepoli, che avea in Napoli ed in tutta Italia lasciati; a' quali, perchè stassero fermi nella sua dottrina, non avea tralasciato, già fatto ribelle, di scrivere alcune Omelie volgari, che per mezzo d'una sua epistola dedicò alla sua Italia, nelle quali manifestava, che per l'addietro avea predicato in Italia Cristo mascherato, ma che ora non potendolo predicare a viva voce nudo, come il Padre ce lo mandò, e come nudo stette in Croce, lo faceva per opera della penna, con quelli suoi scritti; de' quali furono veduti per Italia e Napoli correre, per le mani di molti, più esemplari.

In questo medesimo tempo uscirono in istampa, senza nome d'Autore, alcuni libri, uno de' quali avea titolo: Il Seminario della Scrittura e l'altro: Il Beneficio di Cristo; e si videro comparire ancora alcune Opere di Filippo Melantone e d'Erasmo. Nel principio, per molti mesi, non se ne tenne conto, e correvano senza proibizione per le mani di molti: ma poi fatto avvertito il Vicerè del danno che facevano, gli fece proibir tutti, ed ordinò, che fossero pubblicamente bruciati; e fattone un fascio dal P. Ambrogio da Bagnoli, furono al cospetto del Popolo fatti bruciare avanti la porta maggiore dell'Arcivescovado, con bandi tremendissimi contra coloro, che forse tenessero queste ed altre opere sospette, o che le leggessero, o in qualunque modo proccurassero. Questo rigore fece quietar le cose in maniera, che non s'intese più che simili libri fossero ritenuti, e se pure da alcuni si parlava della Scrittura, era con più modestia e rispetto di prima.

A questo fine il Vicerè Toledo fece poi ai 11 ottobre dell'anno 1544 pubblicar Prammatica, colla quale ordinò, che i libri di Teologia e di Sagra Scrittura, che si trovassero stampati da venticinque anni, non si ristampassero: e gli stampati non potessero tenersi, nè vendersi, se prima non saranno mostrati al Cappellan Maggiore, il quale dovea vedere eziandio quali potessero mandarsi alla luce. Parimente proibì tutti i libri di Teologia e di Sacra Scrittura, che fossero stampati senza nome di Autore e tutti quelli, i cui Autori non fossero stati approvati.

Questo timore, che in Napoli non penetrassero gli errori della Germania, e la vigilanza per ciò usata dal Toledo, fece aver anche per sospetta ogni erudizione; e fu la cagione, perchè, presso noi, le lettere non facessero que' progressi e quegli avanzi, che in questi tempi facevano in Francia, ed in altre parti, così per la Giurisprudenza, come per l'altre facoltà. Erano rimasi solo i vestigj dell'Accademia del Pontano, ed alcuni pochi sostenitori di quella: pure con tutto ciò non mancava il buon volere, e se per questi sospetti non fossero stati dal Toledo impediti, molti nobili spiriti non avrebbero mancato di favorire le lettere, con ergere nuove Accademie, come aveano già cominciato: poichè nell'anno 1546 i Nobili del Seggio di Nido, ad esempio di ciò che si faceva in Siena, e nell'altre città d'Italia, trattarono d'ergere in Napoli un'Accademia di Poesia latina e volgare, di Rettorica e di Filosofia e d'Astrologia, siccome in una ben ornata stanza, al piano del Cortile di S. Angelo a Nido, l'ersero sotto il nome de' Sireni, e ne fecero Principe Placido di Sangro: e gli Accademici infra gli altri, furono il Marchese della Terza, il Conte di Montella, Trojano Cavaniglia, il celebre Antonio Epicuro, Antonio Grisone, Mario Galeota, Giovan-Francesco Brancaleone famoso Medico e Filosofo ed Orator eloquentissimo, ed altri amatori delle buone lettere. Ad imitazione di Nido eresse il Seggio Capuano un altra Accademia, sotto il nome degli Ardenti. E ne fu anche istituita un'altra nel Cortile dell'Annunziata sotto il nome degli Incogniti. Ma queste, nate appena, rimasero estinte; poichè il Toledo le fece da' Reggenti del Collaterale proibire, non piacendo allora, che, sotto pretesto di studio di lettere, si facessero ragunanze e continue unioni d'uomini letterati. Accelerò la proibizione, l'istituto preso, che ciascuno degli Accademici dovesse ivi recitare una lezione, sopra la quale (ancorchè il soggetto fosse o di Filosofia, o di Rettorica) venendosi poi a disputare, sovente s'usciva dal soggetto, e si veniva alle quistioni di Teologia e di Scrittura. Furono per ciò l'Accademie proibite tutte e tolte via.

Quindi è avvenuto, che nel mezzo di questo secolo e nel suo decorso non possiamo mostrar tanti Letterati, quanti nel principio e nel fine del precedente furono da noi annoverati: de' Filosofi, e Medici un solo Agostino Nifo, ed in Calabria, Antonio e Bernardino Telisio, li quali per ciò non valsero far argine a' Scolastici e discreditar Aristotele lor Maestro: de' Poeti solamente fu veduto qualche numero, da non paragonarsi però a quello del secolo precedente.

Quindi ancora avvenne, che avendosi per sospetta ogni erudizione, i nostri Giureconsulti non poterono imitare l'esempio di Francia, dove la Giurisprudenza nelle Cattedre era insegnata con maggior purità e nettezza: ma da' nostri fu lo studio di quella proseguito nella medesima forma che prima. Ed essendosi cotanto i Tribunali innalzati, crebbe il numero de' Professori, li quali non diedero alcun sospetto, perchè tutti intesi a' guadagni del Foro, furono lontani da ogni erudizione e dallo studio delle lettere umane.

Questo era lo stato delle cose nel 1546. Pareva che colla vigilanza continua del Vicerè, per tanti provvedimenti dati, non vi fosse bisogno di altro per toglier ogni timore d'introduzione di nuova dottrina contraria alla antica Religione; ma il Vicerè per le cose precedute, come d'affare così grave e rilevante, avea dato intanto all'Imperador Carlo V relazione distinta di quanto era occorso intorno a ciò in Napoli, mostrando che bisognava seriamente provvedere d'efficaci rimedj per mali sì gravi e pericolosi. L'Imperadore, che co' suoi proprj occhi vedeva que' disordini e le revoluzioni cagionate in Germania per questa nuova dottrina, stimò necessario (per non vedere gli altri suoi Stati dipendenti dalla Monarchia di Spagna nel medesimo disordine) che si dovesse seriamente pensare ad un efficace rimedio; e reputando il più opportuno, per riparare al male, non poter esser altro, che in quelli far erigere un Tribunal d' Inquisizione all'uso di Spagna, affinchè i popoli atterriti, pensassero a vivere come prima, scrisse al Vicerè, che ponesse ogni suo studio in proccurare d'introdurre in Napoli l'Inquisizione all'uso di Spagna. Usasse però ogni industria ed accortezza d'introdurla senza alterazione de' Popoli, ma con modi soavi, covrendo con fino artificio il suo disegno. Avea Cesare fatta esperienza, quanto pericoloso fosse sforzare in ciò i Popoli; poichè avendo tentato di mettere a quell'uso l'Inquisizione in Fiandra, la vide in breve tempo tutta sconvolta e quasichè disabitata; imperciocchè molti avendo orrore di sì rigido Tribunale, lasciando le paterne case, si contentavano più tosto fuggire, ed andar altrove raminghi, tanto che fu egli obbligato levarlo e che più non se ne parlasse. Il Vicerè, prima di ricevere queste insinuazioni da Cesare, avea già da molto tempo pensato da se stesso a questo rimedio; ma sapendo, che l'Inquisizione era stata ai Napoletani sempre d'orrore ed odiosa, e che, nè Ferdinando il Cattolico, nè altri Vicerè, che più volte l'avean tentato, mai eran stati bastanti a metterlo in opera, rispose perciò all'Imperadore, che l'impresa era molto ardua, ma con tuttociò avrebbe egli usata ogni industria e poste in opera le più sottili arti, e come se nè da Cesare nè da lui procedesse, avrebbe proccurato spingere e tirar avanti il disegno nella maniera più accorta e cauta, che si potesse.

In questi medesimi tempi il Pontefice Paolo III, vedendo ancor egli, che in Italia andava serpendo il male, rinvigorì dall'altra il Tribunal dell'Inquisizione di Roma; e con intelligenza di Cesare mandò Commessarj dell'Inquisizione Romana per tutte le Province d'Italia, i quali però erano ricevuti con condizione, che dovessero procedere per via ordinaria, con manifestazione de' testimonj e, sopra tutto, senza la confiscazione de' beni.

Il Toledo reputando, che col fare apparire non da lui, ma da Roma, venir tentata l'impresa, e che sotto questo manto avrebbe coperto il suo disegno, proccurò col Cardinal Borgia, uno degl'Inquisitori di Roma suo parente, che, siccome erasi fatto nell'altre Province d'Italia, si mandasse in Napoli un Commessario, con Breve del Papa, dove si comandasse, che per via d'Inquisizione dovesse procedersi contra i Chierici, Claustrali e Secolari; siccome in effetto venne il Breve, ed al Vicerè fu comunicato, il quale però si pose in grande angustia per trovar il modo di poterlo far eseguire.

Narrasi, che 'l Pontefice di buona voglia, a' prieghi del Cardinal Borgia, avesse conceduto il Breve, non perchè egli si curasse molto di porre l'Inquisizione in Napoli, avendo scoperto i disegni di Cesare e del Toledo, che volevano porla all'uso di Spagna e non già di Roma (tanto che questa competenza giovò molto a' Napoletani) ma perchè tenendo odio occulto contra l'Imperatore, sapendo quanto fosse d'orrore a' Napoletani l'Inquisizione, giudicava, che col tentar di metterla in Napoli, si dovessero cagionare in questa città alterazioni, tumulti e sedizioni.

Uberto Foglietta genovese[40], seguito dal Presidente Tuano[41], scrive, che il Toledo a' Commessarj dell'Inquisizione venuti da Roma, che lo richiedevano secondo il costume, dell' Exequatur Regium al Breve, avesse risposto, che in ciò non s'affrettassero tanto, ma tenessero presso di loro il Breve, perchè, quantunque per non insospettire i Napoletani odiosissimi all'Inquisizione, non poteva allora darlo, stessero però di buon animo, con tener sotto silenzio il tutto, perch'egli avrebbe oprato in modo, che il Breve s'eseguisse.

Però i nostri Scrittori napoletani, contemporanei non men che il Foglietta, a questi successi, i quali, siccome devon cedere all'eleganza e maestà del suo stile, così è di dovere, che, come forastiero, egli ceda per la verità e più minuta e distinta narrazione di questa istoria a costoro che trovaronsi presenti, e furono in mezzo di quegli affari, e li trattarono con pericolo della vita e perdita delle loro robe. Narrano questi, che il Vicerè, dopo alquanti giorni, dal Consiglio Collaterale fece dar l' Exequatur al Breve; ma che non volle farlo pubblicare per la Città a suon di trombe, nè con prediche, per timor di qualche sollevamento; ma volle che solamente per cartone affisso nella porta dell'Arcivescovato si palesasse; nell'istesso tempo, ritiratosi egli a Pozzuoli, ove l'inverno soleva dimorare, ordinò a Domenico Terracina, quanto al Popolo odioso, altrettanto suo dependente, avendo a questo fine, (oltre averselo fatto compare) quattro mesi prima proccurato di farlo elegger di nuovo Eletto del Popolo, ed agli altri Ufficiali della città, de' quali egli si fidava, che insinuassero con dolci maniere alle lor Piazze, che non bisognava di quell'editto d'Inquisizione far tanto rumore, nè sgomentarsi tanto, poichè quello non era ad uso di Spagna, ma veniva per provisione del Papa, Giudice competente in quella causa, di che la città non avea occasione di dolersi del Vicerè, di cui non era volontà, nè dell'Imperadore di metter l'Inquisizione; ma che il Papa per moto proprio lo faceva, acciò, se la città fosse in qualche parte contaminata d'eresia, se ne avesse da purgare; e non essendo, se ne fosse con questa paura preservata.

Dall'altra parte i Napoletani, a' quali essendo noti gli artificj del Vicerè, erano entrati in sommo sospetto, aveano eletti perciò Deputati, li quali essendo più volte ricorsi al Vicerè per questi rumori, che si sentivano d'Inquisizione, furono altrettante volte assicurati dal medesimo, ch'egli non avrebbe permessa novità alcuna. Tuttavolta la fama essendo continua e grande, che l'Inquisizione sarebbe stata fra poco tempo posta, non cessavano i timori ed i sospetti; ma quando poi in un dì di Quaresima di questo nuovo anno 1547 coi propri loro occhi videro l'Editto affisso nella porta della Chiesa Cattedrale, il quale da molti letto, era esagerato molto più di quel che conteneva, cominciarono molti a sollevarsi e farne rumore, e corsi al Vicario dell'Arcivescovado (il qual udito il tumulto per timore s'era nascosto) fecero stracciare l'Editto. Il Vicerè inteso il tumulto, la Domenica delle Palme fece tosto chiamar a se il Terracina e gli altri Ufficiali della città, a' quali niente parlando d'Inquisizione, ma solo esagerando l'eccesso, persuadeva di doversi procedere contra i tumultuanti ad un severo castigo; e se bene quasi tutti erano per acconsentirgli, nulladimeno per tema del Popolo, già insospettito e sollevato, non risposero risoluti, ma diedero buone parole, con riserva di farlo intendere alle loro Piazze: perlochè congregati gli Eletti, così nobili, come popolari nelle loro Piazze, e proposto il negozio per arduo, conchiusero di dover andare dal Vicerè a Pozzuoli, e creati scelti uomini, e di qualità per Deputati, se n'andarono giuntamente a Pozzuoli, dove avanti il Vicerè, Antonio Grisone gentiluomo del Seggio di Nido parlò con molto vigore ed energia, mostrandogli quanto fosse stato sempre alla città e Regno odioso ed insoffribile il nome dell'Inquisizione, e sopra tutto, che trovandosi con facilità uomini ribaldi, che per denari e per odio facilmente s'inducono a far testimonianze false (il che molto bene poteva egli aver conosciuto, che per estirpar le scuole de' testimonj falsi, era stato costretto di far pubblicar contra d'essi un rigoroso bando a pena della vita) in breve tempo si sarebbe veduto il Regno e la città tutta sconvolta e rovinata; lo pregava per tanto, in nome di tutti, a non voler permettere, che a tempo suo, quando ne aveano ricevuti tanti beneficj, Napoli restasse di tanto obbrobrio e vergogna macchiata, e da così intollerabil giogo oppressa.

Il Vicerè gli rispose con molta umanità, dicendogli, che non era di mestieri, che per ciò si fossero incomodati di venir sino a Pozzuoli: che egli amava molto più di quel, che credevano, la loro città, la quale poteva chiamarla anche sua patria, non meno per avervi abitato tanti anni, che per aver maritata una sua figliuola ad uno de' suoi Nobili; che non era stata mai intenzione nè di sua Maestà, nè sua, d'imporre Inquisizione; anzi che più tosto avrebbe egli deposto il governo del regno, che soffrire questa novità in tempo suo: restassero per tanto sicuri, che d'Inquisizione non si parlerebbe mai. Soggiunse però, che sapendo essi, che molti, benchè ignoranti e di poco conto, parlavano troppo licenziosamente, e che perciò davano qualche sospetto d'infezione, non giudicava fuor di proposito, nè la città lo dovea tener per male, che se alcuni ve ne fossero, siano per la via ordinaria e secondo i Canoni inquisiti e castigati; acciocchè le persone infette non abbiano ad attaccar la loro contagione agli altri sani; e che per questo fine e non per altro, e credeva, che fossero stati affissi quegli Editti. I Deputati udita questa risposta, gli resero grazie infinite e tutti allegri tornati a Napoli, la riferirono alle Piazze, la quale sebbene avesse universalmente apportata somma allegrezza, nulladimeno molti da quelle ultime parole, di castigare i colpevoli per via di Canoni, non lasciarono il sospetto, interpetrando la mente del Vicerè non essere in tutto aliena dall'Inquisizione, ma di volerla cominciare con apparenza giusta, acciò col tempo ella passasse a termini più ardui, tanto che finalmente restasse poi da senno Inquisizione all'uso di Spagna.

Crebbe poi il sospetto dal vedere, che il Terracina co' suoi partigiani non tralasciava d'andar insinuando a' popolari di non doversi di ciò curar molto, e farne tanti schiamazzi; ma ciò da che più se ne resero certi fu, quando a' 21 di maggio dell'istesso anno 1547 videro nella porta dell'Arcivescovado affisso un altro editto assai più del precedente chiaro e formidabile, parlando alla scoverta d'Inquisizione. Allora la città si sollevò, e con grande strepito per le piazze di Napoli si gridò arme, arme: fu immantinente l'editto lacerato, il Popolo tumultuosamente corse dal Terracina, dicendogli che convocasse tosto la Piazza, acciò s'amovessero i Deputati vecchi sospetti d'intelligenza col Vicerè e si creassero i nuovi. Il Terracina, con mostrarsene renitente, accrebbe il sospetto; onde entrati in fretta dentro S. Agostino, congregata la Piazza, ed ivi esposto l'arduità dell'affare, ed il pericolo grande e la poca corrispondenza de' fatti alle buone parole del Vicerè, parve a tutti espediente di privare il Terracina del suo ufficio d'Eletto, ed i suoi compagni dell'ufficio di Consultori (perchè in quel tempo il Popolo li creava) e rifecero in suo luogo per Eletto Giovanni Pascale da Sessa uomo audace e di fazione popolare, e per Consultori altri poco amici del Terracina e zelantissimi delle cose pubbliche.

Da queste forti resoluzioni del Popolo si mossero anche i Nobili, i quali avidamente ricevettero sì opportuna occasione per vendicarsi del Toledo, da loro in secreto odiato, i quali, non meno che i popolari abbominando l'Inquisizione, s'unirono con quelli, dando loro titolo di fratelli, avvertendoli sempre, che stessero vigilanti, atteso senza dubbio il Vicerè voleva l'Inquisizione, nè punto si fidassero delle sue parole, al quale, per togliere ogni ambiguità, bisognava resister apertamente, con dirgli, ch'essi non volevano Inquisizione nè all'usanza di Spagna, nè di Roma, e che insino alla morte, salva la riverenza al loro Principe, l'avrebbero contrastata. Il Terracina, e' suoi compagni rimasero in grandissimo odio col Popolo, ed il volgo, insino a' fanciulli, li chiamavano per le strade Traditori della Patria. Odiavano ancora, come dipendenti del Vicerè, il Marchese di Vico vecchio, il Conte di S. Valentino vecchio, Scipione di Somma, Federigo Caraffa padre di Ferrante, Paolo Poderico, Cesare di Gennaro e molti altri d'ogni Seggio.

Il Vicerè, udita la sollevazione del Popolo, il tumulto seguito, e come senza sua licenza erano stati imperiosamente privati de' loro ufficj il Terracina e gli altri, e che il Popolo alle sue parole e promesse, non dava alcuna credenza, fieramente sdegnato, minacciando, che avrebbe severamente castigati gli Autori di questi tumulti, se ne venne in Napoli; ed ancorchè da' Deputati si proccurasse raddolcire tanto sdegno, egli diede rigorosi ordini al Tribunal della Vicaria, che procedesse contra gli Autori, non men del tumulto, che della nuova elezione dell'Eletto, e Consultori: fra gli altri, che furono da quel Tribunale portati per Autori più principali, fu un tal Tommaso Anello Sorrentino della Piazza del Mercato, uno dei primi Compagnoni di Napoli, e di gran sequela, il quale, così nell'elezione, come nella sollevazione, si era sopra gli altri distinto, ed era stato colui, che avea tolto il nuovo Editto dalla porta della Cattedrale e laceratolo. Costui, essendo stato citato dal Fisco, dopo molta discussione, se dovea presentarsi o no, alla fine vi andò accompagnato da infinita moltitudine, che postasi attorno al palazzo della Vicaria, ondeggiando aspettava, che il suo Cittadino licenziato se ne tornasse. Il Reggente della Vicaria Girolamo Fonseca, quando vide tanta moltitudine, giudicò meglio per allora licenziarlo dopo breve esame, che di ritenerlo: il quale tolto in groppa del suo cavallo da Ferrante Caraffa Marchese di S. Lucido, al Popolo assai caro, a cui fu dal Reggente consegnato, bisognò portarlo per molte piazze di Napoli per acquetare i tumulti nati tra' Popolari, che temevano della vita di quel loro cittadino. Il Vicerè, dopo questo, vedendo riuscir vani i suoi disegni, pien di cruccio se ne tornò a Pozzuoli; e poco da poi fu, per l'istessa cagione del tumulto, citato Cesare Mormile Nobile di Portanova, ed al Popolo assai caro, il quale vi andò con molta riserva, e ben accompagnato; onde il Reggente riputò anche lasciarlo andare per l'istessa cagione, che avea lasciato andar l'altro. Questo fatto assai dispiacque al Vicerè; ma dissimulandolo, avea rivolto l'animo al castigo ed alla vendetta, aspettando sol il tempo di poterlo fare.

Ma nuovo accidente accrebbe vie più i tumulti e disordini. Aveva il Vicerè, fra questo mezzo, da' presidj di fuora fatte venire in Napoli alcune compagnie di soldati spagnuoli al numero di 3000, alloggiandogli dentro il Castel Nuovo: un giorno, qual si fosse la cagione, all'improvviso fur veduti questi soldati spagnuoli uscir fuori de' fossi del Castello; a questo avviso, il Popolo insospettito, corse a pigliar l'arme, si chiusero le botteghe e le case e tutti armati corsero verso il Castello. Gli Spagnuoli cominciarono a tirar dell'archibugiate, e corsi sino alla Rua Catalana, saccheggiavano le case, uccidevan uomini e donne e fanciulli. I Napoletani corsi al campanile di S. Lorenzo fecero sonare quella Campana alle armi: al suono di questa Campana, siccome ivi accorsero molti cittadini, così si svegliarono i Regj Castelli, cominciando a tirar cannonate contra la Città, ancorchè con pochissimo danno. Dentro la città e sovente nelle osterie, ove erano trovati Spagnuoli, erano uccisi e tagliati a pezzi. I Tribunali si chiusero; tutto era disordine e rivoluzione; sin che, sopraggiunta la notte, fu sopito alquanto il tumulto.

Il Vicerè fieramente sdegnato pretendeva, che la città col prender le armi avesse commessa chiara rebellione: all'incontro gli Eletti e' Deputati dolendosi di lui; dicevano, che per odio delle cose passate avea fatto introdurre tanti Spagnuoli in Napoli per saccheggiarla, e che come non fosse stata città dell'Imperadore, ma o de' Franzesi, o de' Turchi, come nemico la faceva cannonare da' Castelli, e che di tutto ne avrebbero avvisato Cesare; ed avendo fatto congregare i più famosi Avvocati e Dottori di que' tempi, fra' quali teneva il primo luogo Giovan-Angelo Pisanello, tutti seguitando il voto del Pisanello, conchiusero, che la Città non potea incolparsi di ribellione; e che per ciò potesse armarsi contra l'adirato Ministro, non per altro, che per conservare al suo Re la città e Regno. Fu per tanto risoluto di far soldati per la difesa della città, e fu dato questo carico a Giovan Francesco Caracciolo Priore di Bari Cavaliere di Capuana, ed a Pascale Caracciolo suo fratello, a Cesare Mormile nemico del Vicerè, ed a Giovanni di Sessa Eletto del Popolo; ma l'autorità del Priore e del Mormilo era quella, che governava il tutto.

Inasprì maggiormente gli animi un nuovo accidente; poichè stando nel Seggio di Portanova alcuni giovani nobili di quel Seggio, passarono alcuni Alguzini di Vicaria, che conducevano prigione uno per debiti; e perchè la città stava sollevata e tutta in arme, stimandosi poco li Ministri di giustizia, que' Nobili trattennero gli Alguzini, e gli dimandarono per qual cagione portavano colui prigione: quel ribaldo alzando la voce, disse; Signori, questi mi portano prigione per conto d'Inquisizione; per le quali parole que' giovani leggiermente si mossero a farlo fuggire dalle loro mani. Saputosi ciò dal Reggente della Vicaria, ne prese cinque di coloro, de' quali tre se ne trovarono colpevoli, e subito ne avvisò il Vicerè. Costui subitamente da Pozzuoli, ov'era, si portò in Napoli, ed a' 23 di questo mese di maggio comandò, che que' tre giovani fossero portati in Castel Nuovo, e chiamato il Consiglio Collaterale, ancorchè il famoso Cicco di Loffredo Presidente allora Reggente non vi consentisse; credendo che con usar sopra di loro estremo rigore s'avvilissero i Nobili, siccome il caso di Focillo avea fatto avvilire i Popoli, volle in tutte le maniere, che fossero condennati a morte ad uso di Campo; il che fu fatto, onde il dì seguente de' 24 ad ore 17 fur cacciati fuor del Castello e condotti a quel luogo ov'è solito piantare il talamo; e perchè il caso richiedeva prestezza, fur posti inginocchioni in terra, e scannati ad uso di campo.

Il Vicerè fatto questo, lusingato che con mostrar intrepidezza dovesse abbattere la superbia de' sediziosi, cavalcò subito per la Città accompagnato da molti Cavalieri spagnuoli e napoletani e con molti Soldati a piedi. Intanto i popolani, serrate le case e le botteghe, eransi posti tutti in arme e gridando, bestemmiando e minacciando andavan per la città a guisa di baccanti; per lo che i Deputati, quando intesero la risoluzione del Vicerè, mandarono a pregarlo, che per allora volesse differire di cavalcare, dubitando, che alcuno scellerato non avesse ardimento d'offenderlo, essendo il Popolo tutto in arme; con tutto ciò il Vicerè non volle lasciar di cavalcare, parendogli, che ciò sarebbe stata cagione di dar maggior animo a' sediziosi; onde i provvidi Deputati mandarono Cesare Mormile ed altri Cavalieri innanzi lungi dalla cavalcata, a raffrenare il Popolo, ch'era in grosse schiere armato per le strade, acciocchè non si movessero per niente contra il Vicerè. Ma fu cosa stupenda a vedere, che se bene non facessero movimento alcuno contra di lui, niente di meno a passar per le strade, non fu trovato uomo, nè picciolo nè grande che gli facesse con la berretta, o col ginocchio segno alcuno di riverenza, quando prima, sempre che cavalcava per la città, ogni uno correva a salutarlo con sviscerata affezione. Tanto l'orrore, che aveano all'Inquisizione, avea mutati gli animi loro.

Questa rigorosa giustizia e questa cavalcata del Vicerè imputata a disprezzo e poco conto, diede l'ultima spinta a maggiori sollevazioni e tumulti; poichè dubitando, che il Vicerè non volesse prender vendetta di tutti coloro, che gli aveano contraddetto al ponere l'Inquisizione, nella stessa maniera, che avea fatta con li riferiti tre meschini giovani, si posero nell'ultima disperazione; ed il Mormile, ed il Prior di Bari, per far credere al Popolo essere questo il disegno del Vicerè, fecero ad arte sparger voce, che il Vicerè mandava una Compagnia di Spagnuoli a prender prigione Cesare Mormile e tutti gli altri, che l'aveano contraddetto al poner l'Inquisizione. A questa voce fu sonata subito la Campana di S. Lorenzo ad arme, ove concorsero infiniti colle armi alle mani, con prontezza di morir tutti per la libertà della loro patria: allora i Capi prendendo l'occasione, e vedendoli così invasati, fatto pubblico Consiglio, ottennero facilmente di far conchiudere in quello più cose. Primieramente fu determinato, che si togliesse al Vicerè ogni ubbidienza. II. che per tal effetto si facesse fra' Nobili e Popolari una Unione, con proposito di morir tutti, o niuno. E per III. che si spedissero Ambasciadori a Cesare.

Fu fatta l' Unione, e per pubblico istromento firmata, e fu mandato un Trombetta ad intimarla a tutti que' Cavalieri napoletani, che s'erano racchiusi col Vicerè nel Castello, con protesta, che se non andavano a celebrar l'Unione con loro, metterebbero fuoco alle lor case e poderi; perlochè il Vicerè diede a tutti licenza, che v'andassero, per conservare i loro beni. Fu celebrata l'Unione, e preso un Crocifisso, andarono in processione per la città mescolatamente nobili e popolari, poveri e ricchi, titolati e non titolati, gridando; Unione, Unione in servigio di Dio, dell'Imperadore e della città; ed acciocchè ognuno entrasse in questa Unione, fu inventato, che chi non v'entrava, era chiamato Traditor della Patria; la qual fu di tanta forza, che tutti, grandi e piccioli, entrarono in quella, come in una venerabile Religione; perlochè il Vicerè ridendo soleva dire, che gli rincresceva molto di non aver potuto entrare in quella Santa Unione.

Fu eletto per Ambasciadore della città a Cesare, Ferdinando Sanseverino Principe di Salerno nemico del Vicerè, il quale pieno di vanità e leggerezza, in cambio di scusarsene, accettò con giubilo la carica; a cui fu aggiunto Placido di Sangro, e portatosi subito dal Vicerè a licenziarsi, ancorchè questi gli assicurasse, che se egli andava per l'Inquisizione non era bisogno, perchè egli gli dava parola di far venire privilegio dell'Imperadore di non mai metterla; con tutto ciò rispondendogli, che non poteva lasciar d'andare per averlo promesso alla città, se ne andò subito a Salerno per ponere in ordine la sua partita. Il Vicerè stette tutto quel dì nella porta del Castello per informarsi di quello che passava nella città, ed avuto avviso, che gli era stata tolta l'ubbidienza, e che non lo chiamavano più Vicerè, ma D. Pietro, voltatosi a que' Cavalieri, ch'erano seco, ridendo disse. Signori, andiamo a starci in piaceri; or che non ho che fare, perchè non son più Vicerè Di Napoli.

Pietro Soave[42] nell'Istoria del Concilio di Trento (ancorchè ciò si taccia da tutti gli Scrittori napoletani) narra, che la Città mandò anche Ambasciadori al Pontefice Paolo III, al quale, aggiunge, che i Napoletani si offerirono di rendersi, quando avesse voluto riceverli; e che Paolo, a cui bastava nutrire la sedizione, come faceva con molta destrezza, non parendogli aver forze per sostener l'impresa, avesse rifiutato l'invito; non ostante che il Cardinal Teatino Arcivescovo di quella città, promettendogli aderenza di tutti i parenti suoi, ch'erano molti e potenti, insieme coll'opera sua, che a quell'effetto sarebbe andato in persona, efficacemente l'esortava a non lasciar passare una occasione tanto fruttuose per servizio della Chiesa, acquistandole un tanto Regno.

Ma di questo fatto, che sarebbe stato di ribellione manifesta de' Napoletani, non vi è chi fra noi faccia memoria. Ed ancorchè il Duca d'Alba, e gli Spagnuoli lo tenessero per fermo; però il Pontefice Giulio III in una sua epistola rapportata dal Chioccarelli, diretta all'Imperador Carlo V, dove pregavalo a non far differire più la possessione dell'Arcivescovado di Napoli al Cardinal suddetto, lo niega costantemente, come diremo più diffusamente appresso. Ogni uno avrebbe creduto, che il Cardinal Pallavicino[43] antagonista del Soave, dovesse ripigliarlo anche di questo; ma poichè quest'Autore, siccome è tutto al Soave contrario, ed opposto circa il ponderare i fini delle azioni, non già intorno alla verità de' fatti, ove sembra, che (toltone in alcune circostanze di poco rilievo) insieme concordino; così parimente il Pallavicino viene a confessare, che i Napoletani invitarono il Papa con larghe offerte a proteggerli;[44] il quale però con pensiero egualmente pio e savio, non volle far movimento, conoscendo, com'e' pondera di suo capo, che l'acquisto di quel Regno temporale avrebbe messo a pericolo in tali tempi tutto il suo Regno spirituale; di cui il temporale è accessorio, e non durabile senza il sostegno dell'altro.

Intanto il Vicerè dubitando, che quella Unione non partorisse qualche ribellione, massimamente vedendo, che gli Spagnuoli erano perseguitati ed uccisi, fece raddoppiare presidio nel Castel Nuovo. Il dì seguente, che fur li 26 di Maggio, i Capi del rumore sparsero fama per la Città, che il Vicerè disegnava di assaltare il Popolo e castigarlo, perchè avea a suon di campana dato all'arme, che parea spezie di rebellione; perlochè con prestezza fecero bastioni nella piazza dell'Olmo, ed in tutti i luoghi delle frontiere, misero gente a S. Maria della Nuova, e con gran inpeto corsero ad assaltar gli Spagnuoli dentro il quartiere. Il Vicerè, che di ciò ebbe avviso, comandò, che il Castelli giocassero con le artiglierie verso i luoghi, ove si vedeva raccolta gente armata, e mandò soldati spagnuoli alle frontiere a raffrenar l'impeto di quella gente. Si stette in continue scaramucce per tre giorni e tre notti, nelle quali molti dell'una parte e dell'altra furono feriti e morti.

In questo stato di cose, i Deputati, avendo grandissimo riguardo di non incorrere in qualche atto di ribellione, stavano in continui consigli; e per dimostrare la debita fedeltà verso l'Imperadore drizzarono sopra il campanile di S. Lorenzo l'insegna con l'armi dell'Imperio, e vollero, che siccome gli Spagnuoli gridavano Imperio e Spagna, similmente il Popolo all'incontro gridasse Imperio e Spagna. Oltre di ciò mossero il Principe di Bisignano, ed altre persone amate dal Vicerè, che trattassero con lui di fare una tregua; e che si contentasse di non fare delle cose passate dimostrazione di castigo verso nessuno, insino a tanto, che non avesse sopra di ciò avvisato l'Imperadore. Del che il Vicerè si contentò, e fu risoluto che la città da sua parte mandasse uomo deputato a dar informazione del fatto a Cesare, e che il Vicerè mandasse un altro da sua parte; il quale vi mandò il Marchese della Valle Castellano del Castel Nuovo, con lettere dirette a Cesare, nelle quali lo ragguagliava fra l'altre cose, che l'Inquisizione non si comporterebbe affatto in questo Regno, come in Ispagna, per molte e molte cagioni; onde bisognava che non se ne parlasse, per cancellare questo nome di Unione, che al presente s'era cominciato. La città, come si è detto, vi mandò il Principe di Salerno con Placido di Sangro; e partirono questi per le poste a' 28 del medesimo mese di maggio; ma il Principe trattenutosi in Roma in visite ora di questo, ora di quell'altro Cardinale, fece sì, che il Marchese della Valle giungesse prima in Norimberga, ove Cesare in quel tempo dimorava.

Nel tempo di questa tregua si stava dall'una parte e l'altra su l'avviso e si tenevano corpi di guardia con le loro sentinelle nelli lor Forti, praticando però i soldati col popolo, ed il popolo con loro, benchè il popolo armato e sollevato non stimava, nè ubbidiva gli Ufficiali della giustizia, anzi non si riteneva sovente d'ingiuriarli e maltrattarli. Ciò che veduto dalli Deputati, dubitando, che non ne nascesse qualche ribellione, andarono al Vicerè a' 15 giugno con Giudice e Notaro a richiederlo, che volesse tener cura della giustizia, come prima, poich'essi erano nella medesima ubbidienza di prima, dalla quale si protestavano non volersi mai levare e che offerivano ostaggi per sicurtà de' suoi Ufficiali. Ma il Vicerè, che vedeva, che tutto questo facevano per lor cautela, perchè in fatti non poteva Ufficiale alcuno comparire per la città per l'insolenze del popolo, che stava in schiere armato, non volle farlo, dicendo, che l'ubbidienza loro era in parole, e non in fatti; onde per pubblico decreto della città fu determinato, che si facesse un corpo di guardia, e che andasse per la città di giorno e di notte pigliando i delinquenti, ed imprigionargli nella Vicaria, acciocchè del Reggente e da' Giudici, che in quel Palazzo erano racchiusi, fossero puniti; e fu posta una Compagnia di soldati fuori del suddetto Palazzo, acciocchè niuno ardisse d'accostarvisi per rompere le carceri, ovvero per far violenza agli Ufficiali. Ma questa diligenza nulla giovava, imperocchè l'audacia della plebe era tanto sfrenata, che nè anco temevano gli Ufficiali della Città.

In questo il Vicerè trovò una via per divider l' Unione, e per iscoprire se nella Città vi fosse qualche trattato di ribellione; e fu che scrisse un comandamento a tutti i Baroni, che dovessero per servigio di sua Maestà venire ad alloggiare nelli Quartieri degli Spagnuoli sotto pena di ribellione. Fu fatto sopra di ciò consiglio nella Città, e conchiuso, che vi andassero a lor piacere. Tutti vennero dal Vicerè, e furono alloggiati a que' Quartieri e provveduti a' lor bisogni. Il dì seguente la Città per risarcir quella rottura confermò l' Unione e mandò Ambasciadori al Vicerè, richiedendo, che desse a tutti alloggiamento, perchè per servigio di Sua Maestà tutti, non solo i Baroni e Titolati, volevano venire, ed alloggiare in que' Quartieri; al che il Vicerè ridendo, rispose, che l'ambasciata, ancorchè in tempo d'està, era riuscita troppo fredda.

Per questa cagione, e per non potersi vivere sotto quel corrotto governo, ogni uomo da bene se ne usciva dalla Città con la lor famiglia, e niuno vi sarebbe rimaso, se i Deputati non avessero poste le guardie alle Porte; ed era cosa compassionevole a vedere la Città vota de' suoi Baroni e d'onesti Cittadini, e piena all'incontro di plebe arrogante e d'infiniti fuorusciti, i quali scorrendo, ora in questo, ora in quell'altro luogo, facevano mille insolenze, e chi gli riprendeva era ingiuriato e chiamato traditor della patria, e lo forzavano e pigliar l'armi, ed andar con essi loro; ma chi egregiamente si mostrava in piazza in giubbone, o armato, e si offeriva di morir per la patria, minacciando il Gigante del Castel Nuovo (così chiamavano D. Pietro di Toledo) quello onoravano, e chiamavano patrizio, e degno d'esser Deputato della città; ed allora già il governo de' Deputati si cominciava a dissolvere, e ne nasceva il governo di pochi e potenti, e quasi un Triumvirato di Cesare Mormile, del Prior di Bari e di Giovanni di Sessa, restando i Deputati di solo nome per riputazione della Città.

Stando le cose in questo stato, vennero al Vicerè Ambasciadori del Duca di Fiorenza suo genero, della Repubblica Senese, e dell'altre Potenze d'Italia, con offerirgli soccorso di gente e di denari; a' quali il Vicerè mandò a ringraziare, accettando solamente l'offerta del Duca di Fiorenza, al quale fece sentire, che gli tenesse in ordine cinquemila pedoni, e che bisognando, per mare si conducessero in Napoli. Sparsasi di ciò la fama per la città, i Deputati dubitando non essere all'improvviso assaltati, determinarono anch'essi di assoldare diecimila soldati, i quali fur subitamente raccolti per la moltitudine de' villani e de' fuorusciti, che erano entrati nella città. Fecero anche rassegna di tutto il popolo, e fur trovati quattordicimila uomini atti all'armi la maggior parte archibugieri. Questo così fatto esercito era senza Capo; imperocchè i Deputati non lo vollero mai fidare ad alcun Capitan Generale, per dubbio che non s'impadronisse della Città, e facesse qualche rivoluzione, ma lor medesimi lo governavano nel miglior modo che potevano, e se ne servivano solamente per difendere lor frontiere, in caso, che fossero assaltati; ma essi essendo senza timore di superiori, si mandavano per assaltar gli Spagnuoli ne' lor Quartieri, ed a' 21 luglio si attaccò tra loro una crudelissima zuffa, e la città toccò la Campana ad arme: e tutta la plebe corse alla volta degli Spagnuoli con grand'impeto insino alla Rua Catalana, dove uccisero molti Spagnuoli, e particolarmente n'uccisero sedici, che stavano i miseri mangiando nell'Osteria del Cerriglio. Il Vicerè quando questo intese, fece dare anch'egli all'arme, e posta la fanteria Spagnuola in squadrone la mandò guidata dal Balì Urries a ributtargli in dietro, il che fu fatto con gran prestezza; imperocchè a forza d'archibugiate gli fecero ritirare da tutto il Quartiere di S. Giuseppe, e della Rua Catalana insino al Capo della piazza dell'Olmo; e perchè dalle case furono feriti molti Spagnuoli per li fianchi, entrarono per forza dentro, rompendo le porte e mura, e finalmente presele, le posero tutte a sacco, ed a fuoco; e venuta la notte furono posti molti soldati Spagnuoli nella Dogana, ed in altre case forti. Presero anche il Convento di S. Maria la Nuova per forza, perchè vi erano molti soldati italiani, e vi fu posto dentro in guardia il Capitan Orivoela con una compagnia La città all'incontro fortificò S. Chiara, il Palazzo del Principe di Salerno, del Duca di Gravina, e Monte Oliveto e quel del Segretario Martirano, ponendo dentro molti archibugieri, ed alcuni pezzi d'artiglieria minuta. Fatto questo, il Vicerè comandò che gli Spagnuoli non uscissero fuora delli loro Forti, e che attendessero solamente alla lor difensione; ma il popolo, essendo senza Capo, e senza timore, non si fermava mai ne di dì, ne di notte, dando sempre all'armi, ed assalti agli Spagnuoli, ed a guerra bandita gli danneggiavano, ed ammazzavano crudelmente insieme con gl'Italiani aderenti del Vicerè, saccheggiando le lor case e vigne, e tal volta scorrevano insino a Pozzuoli a danneggiare le cose del Vicerè, ed insino a Chiaja ad assaltare i Cavalieri, che per ordine del Vicerè stavano ivi alloggiati. Durò questa crudel guerra quindici giorni, ne' quali dì e notte continuamente si combatteva, le artiglierie delle Castella e delle Galee, non perdendo tempo, tiravano nella Città, dovunque si vedeva gente armata; e già il popolo incominciava a gridare, che l'artiglieria della Città si ponesse in ordine per combattere Castel Nuovo, e gli altri Forti; ma li Deputati non lo vollero in modo alcuno consentire, parendo loro che questo sarebbe stata ribellione aperta. Questa guerra si dovrebbe chiamar civile, e per ciò si avrebbe dovuto tacere il numero delli morti in essa; poichè Giulio Cesare non volle scrivere il numero degli uccisi da lui nelle guerre civili; ma non mancarono Scrittori, i quali, senza aver questo ritegno, ne hanno de' loro nomi empite le carte.

Ma ecco, stando la guerra nel suo fervore, che ritornarono da Cesare il Marchese della Valle e Placido di Sangro. Incontanente fu fatta tregua per intender la volontà dell'Imperadore, la qual Placido spiegò alla città nel pubblico Consiglio, dicendo che Sua Maestà ordinava e comandava alla città, che dovesse deporre l'armi in potere del proprio Vicerè, il quale l'avrebbe appresso manifestato compitamente qual fosse sua volontà circa questo fatto. Questa risposta, benchè parve alla città molto dura, dovendo depor l'armi, senz'altro intendere, in poter del proprio nemico armato, tuttavia volendo mostrare, che le cose passate non erano state con mala intenzione d'inobbedienza verso sua Maestà, volle senza replica ubbidire; e volontariamente tutti andarono senza tardar punto a consegnar l'armi a' Deputati in S. Lorenzo, li quali poi in nome del pubblico le rassegnarono al Vicerè in Castello; e quantunque ne mancassero molte, il Vicerè, appagatosi di questa ubbidienza, non volle procedere rigorosamente in farle rassegnar tutte, ma ben volle gli fosse rassegnata tutta l'artiglieria grossa della città; e del resto desideroso di veder quietate le cose, dissimulò, come savio, molte altre cose, in che avrebbe potuto mostrar rigore. Fatto questo, subito il Vicerè con grandissima diligenza attese a riformar la giustizia, ed il governo della città; s'aprirono i Tribunali, ed ognuno attese a' suoi negozj, come prima, facendo assicurare, ed acquietare gli animi de' cittadini, scusando ognuno, e dicendogli, ch'egli conosceva, che furono ingannati da alcuni, che per le proprie passioni, e perversi disegni proccuravano di sollevarli sotto scusa dell' Inquisizione a far qualche rivoluzione, e che si rallegrava, che Iddio l'aveva liberati dalle loro mani: e per questo l'Imperadore perdonava a tutti, e ch'egli similmente faceva, ed era per fare qualsivoglia cosa per lor quiete e ristoro.

Ma la città, che tuttavia stava sospesa e desiderosa d'intendere qual fosse l'intera volontà dell'Imperadore, pregava il Vicerè, che la palesasse, poich'era pronta ad eseguirla. Perlochè a' 12 agosto fece chiamare in Castello i Deputati della Città, ed entrati che furono, fu alzato il Ponte, il che diede a que' di fuora non picciol terrore; ma il Vicerè raccoltigli benignamente, palesò loro la volontà dell'Imperadore, ch'era, che si contentava, che non fosse posta Inquisizione[45]; che perdonava alla città l'aver posta mano all'armi, poichè conosceva non esser venuto per ribellione: e che se Cesare Mormile, il Prior di Bari e Giovanni di Sessa fossero andati a S. M. in nome della città avrebbero avuto da lui compimento di giustizia. Li Deputati oltremodo allegri di questo, si partirono per andare a notificarlo alla città con sommo contento; ma poco da poi furono pubblicati trentasei eccettuati dalla grazia fatta dall'Imperadore, i quali essendo stati sentenziati a morte, avendo avuta tal notizia il Prior di Bari, Cesare Mormile e gli altri, fuggirono tutti via: solamente fu preso Placido di Sangro, e fu portato prigione in Castello; ma dopo certo tempo ne fur aggraziati molti, eccetto il Mormile, e tutti coloro, che andarono a servire al Re di Francia, a' quali furono confiscati i beni, e venduti: ed eccetto anche l'infelice Giovan Vincenzo Brancaccio, uno degli eccettuati, il quale per sua disgrazia fu preso, e decapitato.

Dopo questo venne lettera dell'Imperadore alla città dichiarandola Fedelissima, perdonandole gli eccessi dei precedenti rumori; ma per gl'interessi corsi per quel conto, la condannò in centomila scudi per emenda. Dichiarò anche, che tutto quello, che il Vicerè avea detto e fatto, era stato di sua volontà, e che per l'avvenire fosse tenuto e riverito come la sua Persona.

Stava la città quasi ristorata e quieta; ma con tutto ciò teneva maneggio col Principe di Salerno, che rimase per suo ordine nella Corte dell'Imperadore, non troppo ben mirato, nè in molto credito: anzi rimproverato d'essere andato Ambasciadore della città, lasciandola con l'armi la mano, ed anche perchè si diceva, che non era legittimo Ambasciadore, per non essere stato eletto da tutte le Piazze; e per questa cagione interteneva con lettere la città, che non s'assicurasse del tutto; e mandò a chiederle, che mandasse nuovi Ambasciadori a confermare all'Imperadore quanto gli avea esposto da sua parte; e per ciò furono mandati Giulio Cesare Caracciolo per li Nobili, e Giovanni Battista del Pino per lo Popolo, i quali partirono a' 2 dicembre, e furono gratamente uditi dall'Imperadore. Non molto da poi ritornò anche dalla Corte il Principe di Salerno, e segretamente dava speranza ad alcuni, che si moveano di leggieri a crederlo, che l'Imperadore gli area promesso di rimovere il Vicerè dal governo del Regno; ma il Vicerè, che sapeva la verità, stava saldo, e colla stessa autorità di prima continuò a governarlo fin che visse.

In cotal guisa i Napoletani costantemente s'opposero all' Inquisizione, Tribunale per essi cotanto odioso ed abborrito. Dalla lettera dell'Imperador Carlo in poi, non si parlò più d' Inquisizione; e tanto più fu posto poi a quella silenzio, quanto che gli animi di Cesare e del Papa s'erano ingrossati, e l'odio fra loro molto cresciuto; poichè essendo stato in una congiura nel proprio palazzo trucidato a' 10 settembre di quest'anno Pier Luigi Farnese figliuolo del Papa, il Pontefice se ne afflisse sopra modo: non tanto per la morte violenta ed ignominiosa del figlio, quanto per la perdita di Piacenza, e perchè vedeva chiaramente il tutto essere succeduto con participazione di Cesare. E morto il Pontefice Paolo III, il suo successore Giulio III, ad istanza di D. Giovanni Manriquez Ambasciadore di Cesare a Roma, ed a' prieghi della città, spedì Bolla a' 7 aprile del 1544, diretta al Cardinal Pacecco, allora Luogotenente del Regno per l'Imperadore, colla quale, per far cosa grata a Cesare, al detto Cardinale ed alla città ordinò, che non si facessero più confiscazioni di beni di Eretici nel Regno, cassando tutte quelle, che insino allora fossero fatte[46].

Intanto il Vicerè Toledo, per estirpare qualche falsa opinione, ch'era rimasa in alcuni, prestava facilmente il braccio secolare al Vicario di Napoli, che vi procedeva, secondo il prescritto de' Canoni, per via ordinaria. Egli è però vero, che non si sradicò allora l'abuso, che lo vedremo durare per più anni appresso, cioè di mandarsi i prigioni a Roma agli Ufficiali di quella Inquisizione, ovvero esigerne dagl'inquisiti le malleverie di presentarsi ivi avanti que' Ufficiali; poichè così nel tempo di D. Pietro, come de' suoi successori lo vediamo praticato, cioè, che andati gl'inquisiti in Roma, fatta la abjura, e la penitenza ad essi imposta dagli Ufficiali di quella Inquisizione, n'erano poi rimandati alle loro case.

§. II. Inquisizione nuovamente tentata nel Regno di Filippo II ma pure costantemente rifiutata.

L'ordine del tempo richiederebbe, che si dovesse finir qui di parlare d'Inquisizione, e passare avanti nel racconto degli anni dell'Imperio di Cesare e del governo del Toledo; ma io stimo serbar miglior ordine proseguendo questa materia insino agl'ultimi nostri tempi, affinchè per non interrompere il filo, e per non venire di nuovo a trattarla, tutta intera, quanta ella è, sia collocata sotto gli occhi d'ogni uno: affinchè in uno sguardo tutta ravvisandola, possano i nostri con esattezza vedere i suoi orrori, e con quanta ragione i nostri maggiori l'abbian sempre abborrita, e si conosca con ciò, quanto siano grandi le grazie che debbonsi rendere al nostro Augustissimo Principe, che ce ne ha ora affatto resi liberi, ed esenti.

L'abborrimento, che i nostri maggiori concepirono all'Inquisizione, si è veduto, che procedè dall'orribil modo di procedere dell'Inquisizione di Spagna contra i Mori e gli Ebrei, a tempo di Ferdinando il Cattolico: ora quest'avversione la vedremo assai più crescere per li nuovi e più terribili modi del Tribunal dell'Inquisizione di Roma, sotto il Pontificato di Paolo IV nostro napoletano. Questo Pontefice, assunto che fu al Papato, quando gli altri suoi predecessori s'affaticavano, o almeno lo fingevano, che per estirpar tanti novelli errori surti nella Germania non vi fosse mezzo più proprio, che la convocazione d'un Concilio generale; egli all'incontro reputava, che l'Inquisizione fosse il vero ariete contra l'eresia e la più valida difesa della Sede Appostolica; onde fu tutto rivolto a porre con rigorose Costituzioni in maggior terrore quel Tribunale[47]. Egli a' 15 febbrajo 1558 pubblicò una nuova Costituzione, la quale fece sottoscrivere da tutti i Cardinali, in cui rinovando qualunque censura, e pene pronunziate da' suoi predecessori, qualunque statuto de' Canoni, Concilj, e Padri in qualsivoglia tempo pubblicati contra gli Eretici, ordinò che fossero rimessi in uso gli andati in desuetudine, dichiarò, che tutti i Prelati e Principi, eziandio Re ed Imperadori caduti in eresia, fossero e s'intendessero privati de' Beneficj, Stati, Regni ed Imperj, senz'altra dichiarazione, ed inabili a poter essere restituiti a quelli, eziandio dalla Sede Appostolica: e li Beni, Stati, Regni, ed Imperj, s'intendano pubblicati e siano de' Cattolici, che gli occuperanno. E narra il Presidente Tuano[48], che, quando il Papa pochi anni prima di sua morte, si vide libero della cura della guerra, tutto si diede a render più vigorosa l'Inquisizione, ch'e' chiamava Ufficio Santissimo, volendo, che si esercitasse con la maggiore severità del mondo, come la sperimentò (per tacer d'altri) Pompeo Algieri da Nola, che come eretico lo fece bruciar vivo[49]. A questo fine vi prepose Michele Gisleri Domenicano, fatto da lui Cardinale per l'austerità, ed asprezza de' suoi costumi, acciò l'esercitasse con maggior rigore, siccome fece; non solo in questo tempo, ch'era Inquisitor generale, ma anche da poi fatto Papa col nome di Pio V, il quale durante il suo Pontificato usò tali severità contro i sospetti d'eresia, che il Presidente Tuano[50] non ebbe difficoltà di dire, che non senza orrore veniva a rapportarle. Volle ancora Paolo IV che a questo Tribunale si riportassero non solo le cause d'eresia, ma ancora altri delitti, li quali prima solevansi diffinire da altri Ordinari Giudici[51].

Erano surti fra noi a questi tempi li Teatini, li quali seguitando i vestigi del loro Istitutore, furono perciò tutti intesi ad invigilar sopra i Napoletani, e credevano non potere far cosa più grata al Pontefice, che andar a denunziare all'Inquisizione tutti coloro, ch'eglino credevano sospetti, ancorchè con debolissimi indizi, onde sovente di gravi disordini e tumulti nella città e nelle famiglie erano cagione; e se i Gesuiti surti nel medesimo tempo, loro emoli e competitori, non si fossero sovente opposti, di mali maggiori sarebbero stati cagione. Quindi l'abbominazione di questo Tribunale, non pur in Napoli, ma anche in Roma crebbe tanto, che morto il Pontefice Paolo a' 8 agosto del 1559, anzi ancora spirante, per l'odio concepito dal Popolo e Plebe Romana, gli ruppero la di lui Statua in Campidoglio, furono rotte le carceri ed estratti li prigioni, fu posto fuoco al luogo dell'Inquisizione, ed abbruciarono tutti i processi e scritture, che ivi si guardavano; e mancò poco, che il Convento della Minerva, dove i Frati soprastanti a quell'Ufficio abitavano, non fosse dal Popolo bruciato[52].

Ma in questi tempi s'accrebbe lo spavento non solo per lo terrore, che dava l'Inquisizione di Roma, ma molto più per quello, che per opera del Re Filippo II diede in quest'anno 1559 l'Inquisizione di Spagna per l'occasione che racconteremo.

Avendo Filippo, dopo la morte della Regina Maria d'Inghilterra sua seconda moglie, deliberato lasciar la Fiandra, e ritirarsi in Ispagna, viaggiando per mare, patì sì gran tempesta, che perduta quasi tutta l'armata, con una suppellettile preziosa, che seco portava, appena ne uscì salvo. Giunto che fu nel Porto di Cales, diceva d'essersi liberato per singolar provvidenza Divina, acciò s'adoperasse ad estirpare il Luteranesmo; al che diede presto principio, poichè come narra il Tuano[53], giunto appena in Ispagna, diede subito ordine, che si facesse diligente inquisizione contra tutti i Settarj, e sospetti d'eresie, per volergli egli severamente punire; e quando prima, secondo il caso portava, condennato uno, o più per le prave opinioni di Religione, tosto dopo la condanna si davano al carnefice per giustiziarli; furono, dopo quest'ordine del Re, i condennati per tutta la Spagna riserbati al suo arrivo, e condotti in Siviglia ed in Vagliadolid, dove con pompa teatrale doveano essere giustiziati. Il primo atto di questa spaventosa tragedia fu celebrato in Siviglia a' 27 settembre di quest'anno 1559, dove per dar un grand'esempio negli auspicj del suo governo, e per levar ad ogni uno la speranza di perdono e di clemenza, fece prima di tutti trarre dalla Torre Giovanni Ponzio Conte di Baileno, dove come Luterano era stato imprigionato, e portato come in trionfo nel teatro, ove fu bruciato dalle voraci fiamme: e con lui fu bruciato anche Giovanni Consalvo Predicatore. A costoro seguirono quattro nobili donne, Isabella Venia, Maria Viroesia, Cornelia e Bohorquia; e quel che accrebbe il funesto spettacolo di maggior misericordia e commiserazione, fu la tenera età e la intrepidezza di Bohorquia, la quale appena toccati i 21 anni, sofferse morte sì crudele con somma costanza. Le Case d'Isabella Venia, come quelle, nelle quali i Settarj ridotti a truppe aveano fatte le loro preci, furono da' fondamenti buttate a terra.

Dopo costoro furono bruciati Ferdinando di Fano, Giovanni Giuliano Ferdinando, detto volgarmente dalla picciolezza del suo corpo il Piccolo e Giovanni di Lione, il quale avendo ne' suoi primi anni nella nuova Spagna al Messico, esercitata l'arte di Sartore, da poi ritornato alla Patria, erasi fatto del Collegio di S. Isidoro, ove era occultamente professata la nuova religione. Accrebbe il lor numero Francesca Chaves Vergine a Dio sacrata nel Convento di S. Elisabetta, la quale da Giovanni Egidio Predicatore di Siviglia era stata istrutta, e Cristoforo Losado Medico. Del Collegio istesso di S. Isidoro furon arsi Cristofaro Arellanio e finalmente Garzia Arias, il quale, per essere stato il primo ad introdurre in quel Collegio i semi di questa nuova dottrina, fugli per ciò apparecchiato un rogo più grande e quivi vivo bruciato. Fu posto ancora fuoco al Collegio, onde tutto arse, e con esso buona parte della Città.

Rimaneano, per finir la tragedia, Egidio Predicatore di Siviglia e Costantino Ponzio: Egidio presso l'Imperador Carlo V per la sua pietà ed erudizione era entrato in tanta sua grazia, che Carlo l'avea disegnato Vescovo, ma poi accusato all'Inquisizione, sia per sua astuzia, sia per le persuasioni di Domenico Soto, avendo pubblicamente abjurato l'errore, fu liberato, e solamente a tempo gli aveano gl'Inquisitori interdetto l'ufficio di predicare, e delle altre cose sagre, e poco prima di questa tragedia si trovava già morto. Ma ora gl'Inquisitori, reputando avere allora con Egidio con troppa mitezza proceduto, ritrattarono la sua causa, chiamando in giudicio il suo cadavere, ed ancorchè morto, lo condannarono a morte. Non potendo bruciarlo vivo, fanno una sua effigie, e la buttano ad ardere nelle fiamme in quello spaventoso teatro. L'altro, Costantino Ponzio: fu egli Confessore di Carlo V nella sua solitudine, lo servì in quel ministero sino alla fine, e raccolse, nelle sue braccia l'Imperadore spirante; ma morto Cesare, imputato d'eresia, fu posto immediatamente in prigione, nella quale morì poco tempo prima di questa funebre pompa. Fu dagl'Inquisitori trattata la sua causa, e condennato, ancorchè morto, ad ardere nelle fiamme; gli fu tosto fatta la statua rappresentante la sua effigie in atto di predicare, spettacolo, che agli astanti mosse in alcuni in prima le lagrime, in altri il riso, ma in fine a tutti indignazione, vedendo, che se contra una statua inanimata si procedeva con questi modi, ben si conosceva non esser da sperare nè connivenza, nè misericordia da chi non riputava degno di rispetto colui, che infamato disonorava maggiormente la memoria dell'Imperadore suo padre.

Passò poi Filippo in ottobre a Vagliadolid, dove usando la stessa severità, fece in sua presenza, con simili lugubri apparati, bruciare ventotto della principal Nobiltà del paese, e ritener prigione Fr. Bartolommeo Caranza cotanto celebre nella prima reduzione del Concilio a Trento, fatto poi Arcivescovo di Toledo, principal prelato di Spagna, al quale furono eziandio tolte tutte l'entrate[54].

Queste crudeli ed orribili esecuzioni pervenute all'orecchie de' Napoletani, può ognuno immaginare di quanto orrore e spavento fossero cagione. Ma pochi anni appresso due occorrenze apportarono ad essi maggiori timori, e gli riempirono di continue agitazioni e tormentosi sospetti.

Nel Ducato di Milano, dalla Francia per la strada di Savoja, era di qua de' Monti passata la nuova dottrina, e cominciava già a serpeggiare la contagione delle nuove opinioni di Religione. Il Duca di Savoja, non venendogli permesso, per le congiunture de' tempi, di potere far altro, tollerava ne' suoi Stati alcuni occulti Protestanti[55]; ma gli Spagnuoli, vedendo questo veleno insinuarsi nel Milanese, riputarono, per estirpare il male nello spuntare, di dover usare della loro severità. Il Re Filippo II istantemente chiedeva al Pontefice Pio IV, che in Milano s'ergesse per sua autorità il Tribunal dell'Inquisizione, siccome era in Ispagna. Ma il Papa, avendo portato l'affare in consulta nel Concistoro, molti Cardinali glie lo dissuasero; ed egli, per non esser molesto a cittadini di Milano, donde traeva l'origine, con dispiacere veniva a farlo, con tutto ciò, costretto dalle forti premure del Re, glie lo concedette, e ne gli spedì in quest'anno 1563 diploma. Quando i Milanesi furono di ciò avvisati, non avendo essi meno che i Napoletani quel Tribunale in orrore, s'esasperarono in maniera, che se non fosse stata presta la somma prudenza del Duca di Sessa lor Governadore ad occorrervi sarebber accadute in Milano le medesime rivoluzioni e tumulti, che avvennero in Napoli nel governo di D. Pietro di Toledo. Ferdinando Consalvo di Cordova Duca di Sessa, che allora era succeduto al Marchese di Pescara, per non vedere nel principio del suo governo questi moti, stimò mandar tosto più Cittadini al Re ed al Pontefice, per distoglierli dall'impresa: ed egli con suoi ufficj insinuò al Re, che istituire in Milano il Tribunale dell'Inquisizione, come in Ispagna, era lo stesso, che turbar tutto lo Stato, e porlo in iscompiglio e disordine. Il Re si quietò, e molto più il Pontefice, onde non si parlò più d'Inquisizione.

Questi medesimi timori sopraggiunsero poco da poi in Napoli, per un'occasione, che da più alto saremo ora a narrare. Quando sotto l'Imperio di Federico II per via d'eserciti armati, e non altrimenti di quello, che si faceva contra Saraceni, con crociate, si proccurava estirpar gli eretici di que' tempi, e particolarmente i Valdesi, ovvero Albigesi; questi rotti e fugati, e spogliati delle dignità e beni, si dissiparono in molte parti, e nella loro credenza ostinati, non potendo colle armi più difendersi, proccurarono di ricovrarsi in luoghi oscuri, dove da niuno osservati, così negletti mantennero la loro credenza. Alcuni si ricovrarono nella Provenza, in quel tratto de' Monti, che congiungono le Alpi con i Pirenei, dove lungamente se ne conservarono le reliquie sino al Pontificato di Giulio II, e più ancora. Altri si ricovrarono nella Germania, ed in alcuni Cantoni di Boemia, di Polonia e di Livonia fecero residenza, li quali da' Boemi erano chiamati Piccardi. Ed alcuni altri, secondo che narrano gravissimi Scrittori, fra' quali è il Presidente Tuano[56], si ricovrarono (chi il crederebbe)? presso di Noi in Calabria, ed in questa Provincia lungamente vissero, sino al Pontificato di Pio IV e 'l Regno di Filippo II, nel qual tempo governando il Regno il Duca d'Alcalà furono intieramente sterminati ed estinti[57].

Viveano costoro nella Provincia di Calabria citeriore in alcune Terre presso Cosenza, nominate la Guardia, Baccarizzo e S. Sisto, da loro medesimi fondate; anzi la Guardia fu detta perciò de' Lombardi, perchè essi che vennero ad abitarla, da oltre i monti e dalle parti di Lombardia ci vennero[58]. Quivi, come in luoghi oscuri e negletti, vissero lungamente non osservati, nè curati. Fu prima in loro tanta semplicità ed ignoranza di buone lettere, che non vi era alcun timore, che potessero comunicar la loro dottrina ad altri: non era in alcuna considerazione il lor picciol numero; e mancando di qualunque erudizione, nè si curavano disseminar la loro dottrina, nè che altri fossero curiosi d'intenderla. Ma surta da poi in Germania l'eresia di Lutero, e quella, come si è veduto, arrivata sino a' Cantoni de' Svizzeri, e penetrata nei Piemontesi ed in alcuni Lombardi abitanti lungo il Pò, dond'essi traevano l'origine, e co' quali aveano continua corrispondenza, furono i primi appo noi, ch'ebbero le prime notizie della pretesa Riforma, e per esserne più distintamente informati, mandarono in Genevra, invitando alcuni di costoro a venire nelle loro Terre ad istruirli meglio di quella dottrina. Vennero con effetto da Genevra due Ministri seguaci di Lutero, i quali pubblicamente predicando la pretesa Riforma, ed insegnandola con particolari istruzioni e catechismi, non solo la disseminarono in quelle Terre della Calabria, ma la insinuarono nelle circostanti; e da quella Provincia già cominciava ad esserne attaccata l'altra vicina: poichè Faito, la Castelluccia e le Celle, Terre della Basilicata, eran già state contaminate. Chi prima si fosse accorto di questa infezione, narra il P. Fiore Capuccino[59], che fu un Prete nomato Gio. Antonio Anania da Taverna, fratello di Gio. Lorenzo famoso per l'opera data alle stampe De Natura Daemonum[60]. Costui si trovava in quel tempo nella Casa del Marchese di Fuscaldo Spinelli, di cui era la Guardia, in qualità di Cappellano: onde per la vicinanza, e forse anche per la pratica, che teneva con quelle genti, s'accorse, che il male, se non si dava pronto rimedio, era per spandersi assai più; onde nel 1561 ne scrisse in Roma al Cardinal Alessandrino Inquisitor Generale, poi Papa Pio V. Il Cardinale commise al suo zelo di far sì, che facesse ravvedere quella gente degli errori, e la riducesse alla sana dottrina. Anania, tralasciato ogni altro impiego, avendo chiamati per compagni all'opra alcuni Gesuiti, i quali poco dianzi erano venuti in Calabria, si posero con molto vigore ad esortarli e predicar loro la verità; ma per molto che si travagliassero, pochissimo era il frutto de' loro sudori; poichè ostinati nei loro errori, non temendo nè minacce, nè la severità di qualunque castigo, vie più insolentivano e moltiplicavano. Bisognò per tanto ricorrere ad un più forte ed efficace rimedio: s'ebbe perciò ricorso al Duca d'Alcalà, il quale si trovava allora Vicerè del Regno: costui ne' principj credette bastare, che si procedesse contra di essi con un poco più di attenzione e vigilanza; onde scrisse al Vicario di Cosenza (come si vede dalla sua lettera rapportata dal Chioccarelli[61] ) che nelle cause de' carcerati, che egli teneva, della Guardia Lombarda inquisiti d'eresia, procedesse con voto e parere del Dottor Bernardino Santa Croce, che si ritrovava in quelle parti, siccome ne scrisse parimente al Santa Croce, che v'invigilasse; ma vedutosi poi che alla gravità del male non eran sufficienti questi rimedi ordinari, ed essendogli stato rappresentato, che gli Eretici in Calabria vie più si moltiplicavano e non temendo castighi nè minacce, erano per cagionare gravissimi disordini, il Vicerè, per reprimere la loro temerità, vi mandò un Giudice di Vicaria, Annibale Moles, con buon numero di soldati, parte condotti da Napoli, e parte raccolti da' paesi contorni: ma fu il Ministro mal ricevuto, perchè coloro sottrattisi dall'ubbidienza di qualunque Magistrato, si posero in campagna, e ragunato un sufficiente numero, con apparenza di formato esercito, vigorosamente gli resisterono, fermi di morire più tosto, che lasciar gli errori; anzi, come suole avvenire nelle guerre di Religione, niente paurosi, ma tutti festanti andavano giulivi ad incontrar la morte, persuasi, che così morendo, salivano in Cielo io compagnia degli Angeli a godersi il Signore. Il Duca d'Alcalà pensò valersi in quest'occasione di Scipione Spinelli Signore della Guardia, e fur rinforzate le sue genti, tanto che bisognò venire ad una battaglia campale per dissiparli: si combattè in fine vigorosamente, e con tutto che rimanessero sul campo molti di quelli morti, non perciò i rimasti s'arresero; ma pieni di coraggio, vedendo che per lo poco numero mal potevano resistere in campagna aperta, si ritirarono dentro le mura della Guardia, la quale, oltre la qualità del sito acconcia a resistere ad ogni nemico assalto, munirono così egregiamente, che ridottala in forma di un sicuro asilo, non temevano di niuno. Lo Spinelli, disperando dell'impresa, veggendo non poter loro resistere con aperta forza, si rivolse agli inganni, e riuscitogli d'introdurre nel Castello gente valorosa ed armata, fingendo di mandargli ivi prigioni, costoro scovrendosi poi, e menando con molto valor le mani, sbaragliarono li Capi, e fecero degli altri molta strage, altri fuggirono, ma molti rimasero prigioni: furono confiscati tutti i loro beni e gli ostinati, condennati alle fiamme, nell'istesso tempo, che Lodovico Pascale Piemontese lor Capo, era stato dalla Inquisizione fatto bruciare in Roma[62]. In cotal guisa furono finalmente sterminati, e sopra questo argomento avea scritto in versi latini un giusto volume l'Anania; ma (siccome narra il P. Fiore) non permise l'autore stesso, che si desse alle stampe, onde ora siamo privi di quest'opera. Sterminati che in questo modo furono la maggior parte, per alcuni che v'erano sopravanzati non si trascurò di far ogni opera per ridurli in via: si proccurò con rigorosi catechismi e continue predicazioni sradicar gli errori; e dall'altra parte il Duca d'Alcalà prese con severità a castigarli; ordinando per ciò alla Regia Camera, che procedesse alla vendita de' beni confiscati a coloro, ch'erano stati condennati alla pena di morte naturale, nelle Terre della Guardia e di S. Sisto[63]; si vietò con loro ogni commercio, e furon proibiti fra loro i matrimoni, sinchè spiantata affatto ogni radice di falsa dottrina, ripullulò in que' luoghi l'antica Fede; ed oggi gli abitatori, multiplicati in gran numero, vivono come gli altri, purissimi nella universal credenza.

Non meno in Calabria, che in Napoli fu duopo al Duca d'Alcalà usare il medesimo rigore. Erano ancor quivi rimasi molti semi di falsa dottrina. Le conversazioni, che si tennero a tempo del Toledo in Casa di Vittoria Colonna, e di Giulia Gonzaga sospette d'eresia, aveano contaminati molti: con tal occasione invigilandosi assai più, che non erasi prima fatto, se ne scoversero molti, che ne davano sospetto; onde furono con severissimi editti citati a comparire fra breve termine avanti il Vicario dell'Arcivescovo di Napoli sotto pena della confiscazione de' beni; ma sopra due cadde più severo castigo. Questi furono Giovan Francesco d'Alois della città di Caserta e Giovan Bernardino Gargano d'Aversa, i quali incarcerati, e come eretici condannati a morte, furono a' 24 di marzo del 1564 pubblicamente nel Mercato decapitati, ed al cospetto di tutta la città furon poi abbruciati[64]. Si procedè alla confiscazione de' loro beni, ma non senza contrasto; poichè i Napoletani volevano far valere la Bolla di Giulio III accordata loro da Cesare, per la quale, come s'è detto, non poteva nel Regno farsi confiscazione de' beni degli Eretici; ciò che diede occasione a quelle dispute, che leggiamo presso i Reggenti Salernitano, e Revertera nella causa d'Alois[65].

Per questi rigorosi castighi, e dal vedersi andare d'accordo le Corti Ecclesiastica e Secolare, i Napoletani, oltre lo spavento che n'ebbero, concepirono timore, non fosse questo un concerto di mettere con tal pretesto in Napoli il Tribunal dell'Inquisizione cotanto da essi abborrito: ond'essendosi per la città di volgata fama, che il Duca d'Alcalà trattava di voler poner nel Regno l'Inquisizione secondo l'uso di Spagna, e sbigottita da tante citazioni, che si facevano dal Vicario sotto pena di confiscazione de' beni, molte famiglie colle loro robe se n'uscirono da Napoli, e per le decapitazioni e bruciamento seguito al Mercato di Alois e Gargano, postasi la città in bisbiglio, dubitandosi non si venisse alle armi, tutta la piazza della Rua Catalana e suo quartiere fu disabitato[66]. Stette la Città in rivolta per molti dì e mesi, nel cui tempo furono tenute molte Assemblee dalle Piazze, le quali finalmente deputarono alcune persone, perchè andassero a parlar al Vicerè, ed a esporgli liberamente i loro sensi intorno a non voler permettere, seguendo l'esempio de' loro maggiori, Tribunale alcuno d'Inquisizione. Il Duca, come dotato di somma bontà e prudenza, conoscendo quanto a' Napoletani fosse odiosa tal novità, e quanto grandi le difficoltà che si sarebbero incontrate d'introdurla, e le fastidiose conseguenze, che partorì sotto il governo del Toledo, vi pose prudentemente silenzio e se n'astenne.

Ma la città non contenta di ciò, volle spedire al Re in Ispagna un suo Legato, a pregarlo, che in Napoli e nel Regno non si ponesse mai Inquisizione, nè, secondo il Concordato fatto nel Pontificato di Giulio III, potessero confiscarsi i beni degli Eretici. Si trascelse il famoso Paolo d'Arezzo, prima splendore nel nostro Consiglio di S. Chiara, poi della Religione Teatina, e finalmente Arcivescovo di Napoli e Cardinale. Ancorch'egli ritiratosi dal Foro ne' Chiostri, ne rifiutasse il peso, a' conforti del Cardinal Carlo Borromeo e del Papa istesso, accettò finalmente l'ambasceria[67]. La città oltre alle sue lettere al Re drizzate, diegli istruzioni bastanti, e la Bolla di Giulio III, donde costava del Concordato suddetto[68]. Partito egli in quest'anno 1564, e giunto nella Corte di Madrid, fu dal Re caramente accolto, ed avendogli esposti i desiderj della città, con presentargli le sue lettere, il Re liberalmente concedè a' Napoletani quanto chiedettero, ordinando, che nel Regno non si ponesse giammai Inquisizione, nè si dovesse praticare altra maniera di giudicio nelle cause di Religione, che l'ordinaria. Scrisse per ciò in questi sensi tre lettere, due alla città sotto li 10 marzo del 1565, ed un'altra sotto la medesima data al Duca d'Alcalà Vicerè, contenente la medesima dichiarazione, amendue rapportate dal Chioccarelli[69], nelle quali fra l'altre parole si leggono queste: Por tenor de la presente decimos, y declaramos, no aviendo ne ser nuestra intention, que en la dicha Ciudad, y Reyno se ponga la Inquisicion en la forma de Espanna; si no que se proceda por la via ordenaria; como asta a qui, y que assi se observerà, y complirà con efecto con lo de adelante, sin que en ella aya falda: ed altrove: De manera que los Ordinarios agan bien su ofìcio, como se deve.

II P. Arezzo, tornato dalla sua ambasceria, fermossi in Roma, donde mandò alla città di Napoli relazione di quanto felicemente avea adoperato a Madrid e del buon successo di quell'affare: onde cessò ogni sospetto d'Inquisizione, restando i Napoletani contentissimi della benignità e clemenza del Re.

Ma in questi tempi con tutto ciò non eransi tolti gli abusi dell'Inquisizione di Roma. In vigor di queste Carte Regali gli Ordinari solamente potevan procedere con ordinarie maniere ne' delitti di Religione contra i loro sudditi: ma Roma proseguiva a procedere come prima, inchiedendo le persone del Regno, e sovente con assicurarsene, e far trasmettere insino a Roma i processi ed i carcerati. Egli è vero, che niente si faceva senza provvisione del Vicerè; e le commessioni, che venivano da Roma non s'eseguivano senza che prima non fossesi a quelle interposto l' Exequatur Regium, nel che il Duca d'Alcalà vi fu vigilantissimo. Ma quanto s'usava rigore ne' casi, che si fosse eseguita qualche commessione di Roma senza il Regio Exequatur, con ordinarsi la cassazione di tutti gli atti, e la scarcerazione de' carcerati, di che alcuni esempj si leggono del Duca d'Alcalà presso il Chioccarello[70]; altrettanto, conceduto che s'era il Placito Regio, con facilità si davano alle richieste degl'Inquisitori di Roma favori ed ajuti, permettendo, che da' loro Commessari si fabbricassero come Delegati i processi, si carcerassero gl'indiziati, e si vendessero le loro robe per la rifazione delle spese; insino a permettere, che i carcerati si portassero in Roma, di qualunque condizione e qualità quelli si fossero.

È assai celebre l'inquisizione fatta dal S. Ufficio di Roma contra il Marchese di Vico, contra il quale fin dall'anno 1560 fu destinato un Commessario Appostolico, il quale nella città di Benevento ne prese informazione, citando per edictum testimoni de' luoghi circostanti, con esaminarli contra di quello. E mandato il processo in Roma, risoluta da quella Congregazione del S. Ufficio, tenuta dinanzi al Papa, la carcerazione del Marchese, il Cardinale Alessandrino a dì primo novembre del 1564 scrisse una lettera al Duca d'Alcalà, pregandolo, che gli mandasse carcerato nel S. Ufficio il Marchese di Vico con buona guardia, o che gli facesse dare grossa sicurtà di presentarsi in quello, essendogli stato così ordinato dai Cardinali suoi Colleghi in presenza del Papa; ed il Vicerè non ebbe riparo d'ordinare alla Vicaria, che facesse dar malleveria al Marchese di ducati diecimila di presentarsi al S. Ufficio di Roma[71].

Degli avvenimenti di Galeazzo Caracciolo Marchese di Vico, come a questi tempi in Europa assai divolgati, non si dimenticò favellarne in due luoghi delle sue Istorie l. 9 et 84 il Presidente Tuano: e poichè da' medesimi si dimostra quanto ne' petti umani possa la forza della Religione, e sono in gran parte ignoti a' Napoletani, poichè niuno de' loro Scrittori no fece motto, ed il libricciuolo della di lui vita stampato nel 1681 in Ginevra nell'idioma Franzese, è si raro e a molti ignoto, che non è così facile averne copia, sarà bene qui distintamente rapportarli. Galeazzo Caracciolo nacque in Napoli nel mese di gennaio dell'anno 1517 da Nicol'Antonio, ovvero secondo il linguaggio de' Napoletani, da Colantonio Caracciolo Marchese di Vico: sua madre fu una Dama di pari nobiltà dell'illustre famiglia Caraffa; la quale ebbe per zio materno Gio. Pietro Caraffa figliuolo del Conte di Montorio, assunto poi al Pontificato sotto nome di Paolo IV. Non ebbe altri figliuoli maschi, che Galeazzo, il quale appena giunto all'età di venti anni fu dal Padre maritato con D. Vittoria figliuola del Duca di Nocera, che gli portò scudi ventimila di dote, dalla quale in processo di tempo ebbe sei figliuoli, quattro maschi e due femmine, ma non tutti sopravvissero al Padre. Fu impiegato fin dalla giovanezza a' servigi dell'Imperatore Carlo V, il quale avendolo creato Gentiluomo della chiave di oro, lo ritenne per qualche tempo presso di se nella Imperial sua Corte, ma tornato poi in Napoli in tempo che la dottrina delli nuovi Riformatori era in quella Città occultamente insegnata da Pietro Martire Vermiglio, prese amicizia con Giovanni Valdes Gentiluomo spagnuolo, il quale, siccome di sopra fu detto, era il principal Ministro, di cui il Vermiglio si valeva, come più istrutto della nuova dottrina, spezialmente intorno alla giustificazione, e che avea fatto molto studio sopra l'Epistole di S. Paolo; ma sopra tutto perchè avea gran dimestichezza e famigliarità con molti Nobili napoletani. Questi trasse molti alla sua credenza, con farli accorti di alcune vane superstizioni e dell'errore della propria giustificazione dell'uomo per li meriti proprj, e fra gli altri Galeazzo; ma colui che diede l'ultima spinta per farlo crollare, fu un Gentiluomo chiamato Gio. Franceso Caserta, suo parente, il quale lo strinse co' suoi discorsi ad assentire alla dottrina della giustificazione per i meriti di Gesù Cristo e l'indusse ad ascoltare i Sermoni di Pietro Martire, che faceva in S. Pietro ad Ara sopra l' Epistole di S. Paolo, i quali maggiormente lo confermarono. Ciò avvenne nell'anno 1541 quando Galeazzo non avea che 24 anni.

A questi tempi Marc'Antonio Flaminio erasi reso celebre per la sua letteratura, e per la famosa traduzione del Salterio in versi latini. Questi avendo inteso i talenti ed i progressi di Galeazzo, e ch'era disposto ad abbracciar la Riforma, gli scrisse una dotta lettera, nella quale per maggiormente animarlo a risolversi, fra le persone illustri che annoverò d'averla abbracciata, non si dimenticò di D. Vittoria Colonna Marchesa di Pescara. In tanto per li spessi viaggi, che Galeazzo faceva in Germania, veniva maggiormente ad istruirsi colla lettura di nuovi libri, che Lutero, ed i suoi seguaci incessantemente davano in Sassonia ed altrove alle stampe; e passando per Strasburg, s'incontrò con Pietro Martire, col quale riconosciutosi, ebbe lunghi colloqui e si determinò d'abbracciarla. Tornato in Napoli, pensò indi partire, per pubblicamente professarla altrove, e non farvi più ritorno; e celando al Padre ed alla moglie questo suo proponimento, raccolto qualche contante, che non oltrapassò la somma di duemila ducati, partì finalmente da Napoli a 21 marzo del 1551 d'età di 34 anni abbandonando Padre, Moglie, Figliuoli, onori, ricchezze e tutte le comodità di una Casa cotanto agiata ed illustre. Arrivato ad Ausburg, dove l'Imperadore si trovava, lo servì in Corte, fin che ivi dimorò; ma passando l'Imperadore a' 26 maggio del medesimo anno a Paesi Bassi, non volle seguirlo; sicchè Cesare partendo, egli prese il cammino verso Genevra, dove arrivò agli 8 di giugno. Quivi non trovò alcuno di sua conoscenza; eccetto, che a capo di due giorni arrivò colà un Gentiluomo di Siena nominato Lattanzio Rognoni, che l'avea conosciuto In Napoli. Questi per lo stesso stimolo di cambiar Religione erasi ritirato a Genevra, dove avendo dato sufficienti saggi de' suoi progressi, fu impiegato ne' seguenti anni al Ministero della Predicazione nella Chiesa degl'Italiani stabilita in Genevra da Galeazzo, come si dirà più innanzi. Fermatosi adunque Galeazzo in questa città, abiurò l'antica e professò la nuova Religione Riformata, e deliberò far quivi domicilio. Prese tosto amicizia con Giovanni Calvino, che la continuò fin'all'anno 1564, nel quale Calvino finì di vivere. Ebbe costui tanta stima e rispetto di Galeazzo, che ristampando i suoi Commentarj sopra la prima Lettera di S. Paolo a' Corintj, in questa seconda Edizione, li dedicò a Galeazzo; siccome si legge dalla sua lettera latina de' 23 gennaro 1556, premessa a questa seconda Edizione, nella quale cotanto commenda la sua fermezza e costanza di non lasciarsi smuovere dalla presa risoluzione, animandolo a non curare ciò, che il Mondo ignorante di se ragioni; ma di contentarsi avere Iddio per spettatore della sua probità.

La novella della venuta di Galeazzo a Genevra, e d'essersi quivi fermato, e d'aver mutata Religione, riempì la Corte dell'Imperadore e tutto il Mondo, e spezialmente Napoli di maraviglia e stupore. Il Marchese di Vico suo Padre, sua Moglie, figliuoli e tutti i Napoletani restarono attoniti.

Il Padre gli spedì un Giovane suo parente per ridurlo; ma giunto che fu costui a Genevra, con tutti i suoi sforzi, preghiere e lusinghe non potè smoverlo: sicchè essendosi affaticato in vano, se ne ritornò a Napoli infruttuosamente. Intanto non meno il Fisco Regio di Napoli, che la Congregazione del S. Officio di Roma, cominciarono a fabbricar processi contra Galeazzo. Ma quello che maggiormente angustiava l'infelice padre era, che dal Fisco se gli minacciava la confisca de' beni, con intento di dichiarare incapaci i suoi nepoti, figliuoli di Galeazzo della successione dei Feudi, dopo sua morte, a cagion del delitto di lesa Maestà Divina del loro padre, che inabilitava anche i figliuoli alla successione; sicchè il dolente Marchese per riparare un colpo sì fatale per la sua discendenza risolvè portarsi a piedi dell'Imperadore e ricorrere alla clemenza del medesimo per liberarsi dalla molestia fiscale. Risoluto adunque di partire, e dovendo passare per Venezia, fece intendere a Galeazzo, che desiderava nel passaggio vederlo: al che egli non ripugnando, fu destinata la città di Verona per l'abboccamento; avendogli il padre per indurlo a venire con sicurezza fattogli spedire salvo condotto dalla Republica di Venezia. Partì adunque Galeazzo da Genevra a' 29 di aprile del 1553 preparato a sostener gli assalti del Padre, a' quali andava incontro. Si videro e parlarono lungamente insieme. Il Marchese adoperò ogni arte ed industria, dissegli il pericolo nel quale eran i suoi figliuoli d'essere esclusi dalla successione de' suoi feudi, ma tutto indarno: onde vedendo di non poterlo rimuovere, lo pregò che almanco non ritornasse in Genevra, ma si fermasse in Italia nello Stato Veneto, ove sarebbe sicuro, finchè egli trattasse nella Corte dell'Imperadore di poter mettere in salvo i suoi figli. In questo Galeazzo l'ubbidì, e si fermò a Verona, dove si trattenne sino ad agosto: nel qual mese ebbe riscontro, che il Marchese dalla clemenza di Carlo V avea ottenuto quanto desiderava per i suoi nepoti. Mentre Galeazzo dimorava in Verona, Girolamo Fracastoro celebre Medico, Filosofo e Poeta di quei tempi volle provare se per mezzo della sua fama e dottrina potesse ridurlo: lusingandosi di poter con suoi argomenti convincerlo. Ma si adoperò indarno: Galeazzo stette fermo e deluse le speranze di Fracastoro. Tornato adunque a Genevra stabilì in questa Città la Politia Ecclesiastica per le famiglie Italiane. Andò poi in compagnia di Calvino a Basilea, e ridusse Massimiliano de' Conti Martinenghi di Brescia, e tornato a Genevra, con l'approvazione del Magistrato stabilì il Corpo della Chiesa Italiana con i suoi regolamenti, alla quale il Conte Massimiliano fu eletto primo Ministro, il quale predicava in lingua Italiana: onde rimane ancora l'istituto di farsi ivi le prediche in lingua Italiana.

Essendo stato nel 1555 eletto Pontefice Paolo IV fratello dell'Avola sua materna, il marchese padre concepì qualche speranza, che col favore del medesimo potesse ottenere al Figlio, non pur perdono, ma grazie per i di lui figliuoli: ma dovendosi cominciare dalla riduzione di Galeazzo, gli scrisse che dovendo fare un viaggio per Lombardia, si facesse trovar a Mantova per vederlo. Galeazzo fidando a se stesso, volle pure ubbidirlo, e partendo da Genevra a 15 di giugno, si portò a Mantova, ove trovò il Marchese Padre, il quale promettendogli molti favori, che avrebbe dal nuovo Papa conseguiti, se ritornasse nel primiero ovile, almanco riguardasse il bene che si sarebbe fatto a' propri figliuoli, i quali non potevano certamente profittarsi della parentela del Papa, avendo il padre eretico. Lo pregò, lo scongiurò, ma al fine vedendo la fermezza di Galeazzo, proruppe alle maledizioni ed alle onte, e tornossene in Roma, e narrando al Papa l'infruttuoso suo viaggio, in Napoli fece ritorno.

Galeazzo parte anche egli da Mantova, e va a Ferrara, dove per mezzo di Francesco Porto (uomo celebre per erudizione, il qual fu poi professore di lingua Greca nell'Accademia di Genevra) fu introdotto a far riverenza alla Duchessa di Ferrara, Renée de France figliuola del Re Lodovico XII, la quale gli dimandò di Calvino, volle esser intesa della Chiesa Italiana istituita in Genevra, e di vari articoli di Religione, e de' punti più principali di controversie.

Fin qui Galeazzo mostrando sua fermezza dava a tutti meraviglia di sua costanza; ma da ora avanti dava stupore; poichè vedendo il Marchese Padre, che egli nulla profittava, sapendo il debole di Galeazzo, il quale teneramente amava D. Vittoria sua moglie, fece che la medesima cominciasse a dargli stimoli, e mettesse in opra ogni industria e lusinga per ridurlo. Cominciò ella a più frequentemente scrivergli, aggiungendo lettere sopra lettere, ed ambasciate sopra ambasciate; alla fine gli scrisse che ardeva di desiderio di vederlo, e perciò che s'eleggesse una città de' Veneziani più prossima al Regno, dov'ella si sarebbe portata. Vinto Galeazzo dalle preghiere della moglie, fu di comun consenso eletta Lesina Isola della Dalmazia, ovvero Schiavonia nel Mar Adriatico appartenente a' Veneziani, la quale è posta dirimpetto a Vico Baronia del Marchese suo Padre. Andò Galeazzo a Lesina, aspettò lungo tempo D. Vittoria, la quale non comparve; onde pien di collera se ne tornò in Genevra. Appena che fu quivi arrivato, ecco che viene nuovamente sollecitato da D. Vittoria, pregandolo che si portasse colà, perchè ella in tutte le maniere dovea parlargli per uno scrupolo, che inquietava la sua coscienza; ed adduce più scuse, perchè non potè andare a Lesina.

Galeazzo si arrese, e partì di nuovo da Genevra li 7 di marzo del 1558, ed andò a dirittura a Lesina. Arrivato colà ebbe subito avviso, che il Marchese suo Padre, D. Vittoria e suoi Figliuoli s'erano frettolosamente portati a Vico, onde concepì speranza, che dovessero colà portarsi. Ma ebbe poi Lettere con nuove preghiere, che non avendogli attesa la parola un Nobile Veneziano, il quale l'avea promesso di portarla co' suoi figliuoli a Lesina dentro una Galea della Repubblica, lo pregavan di venire egli a Vico, dove l'aspettavano.

Galeazzo per gran desiderio di veder sua moglie si arrischia d'andare a Vico; qual risoluzione non fu approvata da' savj per non esporsi a' pericoli ed a nuovi assalti, che dovea superare: arrivò dunque a Vico, dove in quel Castello fu ricevuto con segni di molto giubilo da tutti. Il Padre cominciò a persuaderlo; ma vedendo che niente profittava proccurò che D. Vittoria gli dicesse, che il suo Confessore per scrupolo di coscienza le avea detto, che non poteva aver più con lui commercio, se non lasciava l'eresia. Galeazzo non per ciò si scosse, ma con intrepidezza grande gli rispose, ch'era contento del divorzio, e cominciò a parlar di partire. Quando videro ciò, cominciarono il Padre, la Moglie ed i Figliuoli, che se l'inginocchiarono avanti, a piangere, e ad usar ogni sforzo per ritenerlo. Non fu possibile. Egli partì frettolosamente, ed arrivò a Lesina e di là passò a Venezia, indi alla Valtellina a Chiavenna, e si restituì a Genevra.

Poco dopo Galeazzo consultò con Calvino del divorzio; ma Calvino non volle esser solo a risolverlo: fece che si consultasse il caso con altri Ministri nei Svizzeri e Grigioni, sopra tutti con Pietro Martire Vermiglio che si trovava allora a Zuric, e si mandarono a tutti lettere circolari. Unitosi il Concistoro Ecclesiastico, ed anche il Magistrato secolare, fu risoluto che potesse Galeazzo divertire dalla prima moglie, ed avesse libertà di contrarre nuovo maritaggio con altra.

Questo caso fu consultato con i migliori Teologi di que' tempi; ed il famoso Girolamo Zanchio di Bergamo, Professore di Teologia a Strasburgo nell'ottavo tomo delle sue opere porta le ragioni di questo divorzio. Portò la congiuntura, che in Genevra pure per causa di Religione erasi ritirata una Dama Franzese di Rouen chiamata Anna Fremery, vedova, ed in età di circa 40 anni: adunque a' 16 di Gennaro del 1560 Galeazzo si maritò colla medesima: colla quale visse in una perfetta concordia ed unione.

Il Presidente Tuono dopo aver parlato nel suo 9 libro della sorte di Galeazzo e della sua amicizia con Marc'Antonio Flaminio, rapporta ancora nel fine del libro 84 delle sue Istorie quasi che tutte l'avventure di Galeazzo, e fa menzione anche di questo secondo maritaggio.

Visse il resto di sua vita in Genevra con gran moderazione e modestia. Non volea esser chiamato Marchese, poichè vivea suo Padre; e dopo la di lui morte, l'Imperadore ai suoi figliuoli avea fatta la grazia di succedere nel Marchesato suddetto: con tutto ciò, tutti lo chiamavano Mr. le Marquis. Non era personaggio di conto, che passasse per Genevra, che non volesse vederlo, siccome fecero D. Francesco e D. Alfonso da Este fratelli del Duca di Ferrara, il Principe di Salerno, Ottavio Farnese Duca di Parma e di Piacenza ed altri Signori.

Fu in fine assalito da una lunga e grave malattia d'asma, la quale 37 maggio del 1586, mentr'era di 69 anni e 4 mesi, gli tolse la vita.

Dopo undici mesi, morì anche sua moglie Anna Fremery, dalla quale non ebbe figlioli.

Giovanni Jaquemot de Bar-le-Duc, uno de' migliori Poeti de' suoi tempi, per conservar di loro onorata memoria gli compose i due seguenti epitafj.

I.

Illustri Domino D. Galeacio Caracciolo, Marchionatus Vici, in Regno Neapolitano, unico et legitimo Hæredi

P. P. L. P.

Italiam liqui Patriam, clarosque Penates,

Et laetam antiqua nobilitate domum;

Caesareaque manu porrectos fortis honores

Contempsi, et magnas Marchio divitias;

Ut te, Christe, ducem sequerer, contemptus et exul,

Et pauper varia pressus ubique cruce.

Nam nobis Coeli veros largiris honores.

Et patriam, et census annuos, atque domos.

Excepit profugum vicina Geneva Lemanno,

Meque suo civem fovit amica sinu.

Hic licet exigua nunc sim compostus in urna.

Nec claros cineres alta sepulchra premant,

Me decus Ausoniae gentis, me vera superbis

Majorem pietas Regibus esse facit.

II.

Lectissimæ, Matronæ, Annæ Fremeriæ, Illustris Domini D. Galeacii Caraccioli Uxori.

P. P. L. P.

Vix vix undecies repararat cornua Phaebe,

Conspicitur tristi funus in Urbe novum.

Anna suum conjux lacrymis venerata maritum,

Indomito tandem victa dolore cadit.

Illa sui cernens properantia tempora lethi

Dixit tunc demum funere laeta suo;

Quam nunc grata venis quam nunc tua jussa libenter,

Mors, sequor, ad sedes nam vehor aethereas.

Hie ubi certa quies concessa laboribus aura,

O conjux, tecum jam meliore fruar.

Pectore quem loto conceperat illa dolorem

Sola superveniens vincere mors potuit.

Il Cardinal di Granvela, appena giunto al governo del Regno, permise, che due vecchie Catalane, che non vollero abjurare il Giudaismo, fossero condotte in Roma, dove persistendo nella loro ostinazione, furono pubblicamente fatte morire.

Parimente nel governo del Duca d'Ossuna, scrisse questo Vicerè una lettera Regia al Governadore di Calabria sotto li 14 novembre del 1583, nella quale gli diceva, che il Cardinal Savelli in nome di Sua Santità gli avea scritto, che per cose toccanti al S. Ufficio v'era bisogno in Roma della persona di Giovan-Battista Spinelli Principe della Scalea: che perciò desiderando egli di dare ogni soddisfazione ed ajuto alle cose toccanti al detto S. Ufficio, gli ordinava e comandava, che portatosi di persona dove quegli si trovava, lo incarcerasse e lo conducesse prigione nella Regia Udienza, e dando malleveria di ducati venticinquemila di presentarsi dirittamente fra un mese nel S. Ufficio della Città di Roma, e non partirsi di là senza licenza di quel Tribunale, lo lasciasse libero, e non dandola, lo ritenesse carcerato, e ne lo avvisasse[72].

Questo medesimo Vicerè ordinò ancora a' 9 dicembre del 1585 al Reggente di Vicaria, ch'essendogli stato scritto da Roma dal Cardinal Savelli, che per cause toccanti alla Religione teneva bisogno nel S. Ufficio della persona di Francesco Conte Capitano dell'Isola di Capri, che lo 'ncarcerasse, e dando malleveria di duc. 1000 di presentarsi in quel Tribunale, lo scarcerasse. Consimile ordine spedì a' 8 marzo del 1586 a Callo Spinello Reggente della Vicaria, comandandogli, che mandasse carcerato colla guardia del Capitan di Campagna, o Terra di Lavoro nel S. Ufficio di Roma Francesco Amoroso, Capitano che fu di Pietra Molara, e lo consegnasse a que' Ministri.

Il Conte di Miranda calcò le medesime pedate, e pur che si ricercasse licenza, o Exequatur Regium, che con facilità era conceduto, prestavasi all'Inquisizione di Roma ogni ajuto e favore, in pregiudizio gravissimo del Regno, e de' suoi naturali. Di che poi ne nacquero maggiori disordini, perchè pretendendo la Corte di Roma non istar sottopposte le sue commessioni ed ordini a verun Placito Regio, facea quelli valere, senza ricercarne permesso; onde sovente i Commessarj del S. Ufficio destinati da Roma, la quale soleva per lo più mandar le commessioni a' Vescovi, incarceravano i laici senza licenza del Vicerè, e gli mandavan subito in Roma.

§. III. Inquisizione occultamente tentata da Roma introdursi in Napoli ne' Regni di Filippo III e IV e di Carlo II, ma sempre rifiutata, ed ultimamente con Editto dell'Imperador Carlo VI, affatto sterminata.

L'Inquisizione di Roma era a questi tempi arrivata a tanta alterigia, che pretendeva, che gli Re stessi ed i maggiori Monarchi della Terra stessero a quella soggetti. Introdussero perciò un doppio modo di procedere, uno aperto ed a tutti noto, del qual si servivano contro al popolo ed alle vili persone, che condannava a morte; l'altro segreto ed occulto, per lo quale i Re e le persone Regali erano di nascosto condannati; e si trovò anche modo di poter eseguire contra i medesimi le loro condanne, dichiarandoli decaduti dal Regno, con dar permesso a' sediziosi e malcontenti, concedendo loro, per maggiormente invitarli, indulgenze e sicurezza di coscienza, di cacciargli dal Regno, ovvero occultamente d'insidiar loro la vita. Il cui misterioso ed occulto modo di procedere lo appalesò a noi Francesco Suarez[73] Gesuita Spagnuolo nel suo libro, che intitolò Defensio Fidei. E Richerio[74] rapporta, che per mezzo de' Gesuiti sovente ponessero in pratica questo occulto procedimento, e forse tale fu quello tenuto in Francia contro alla persona di Errico III. Diedesi parimente alla luce nell'anno 1585 un libro stampato in Roma, intitolato Directorium Inquisitorum, dove s'unirono insieme tante sconcezze, che portarono orrore a tutto il Mondo: che l'Ufficio Santo dell'Inquisizione avesse potestà di sentenziare capitaliter in Haereticos, et Fautores Haereticorum: che il Papa ha l'una e l'altra spada spirituale e temporale, per giudicare tutti, anche i Re: che questo S. Ufficio debba procedere per delationem, aut denunciationem et inquisitionem, lasciando da parte stare il procedere per accusationem, perchè questo è un modo multum periculosus, et multum litigiosus: che s'ammettano tutti a render testimonianza, anche i nemici e le persone infami, anche spergiuri, ruffiani, meretrici ed ogni altro: che non debbiasi dar nota dei testimonj e de' loro detti: non si ricevano appellazioni. In breve, rotte tutte le leggi della difesa e tutti gli ordini giudiziarj, senza ordine e senza dependenza d'alcuno, gl'Inquisitori procedessero. Quindi si videro in Roma nella fine di questo secolo strepitose esecuzioni contra i sospetti d'eresia, fra' quali fu Giordano Bruno da Nola Domenicano, il quale nell'anno 1600 fu bruciato in Roma, essendogli stato imputato, che insegnasse la pluralità de' Mondi, e tenesse che i soli Giudei erano discesi da Adamo, e che Mosè fosse stato un gran Mago[75].

Quindi nel nostro Regno non si proccurava più Regio Placito alle loro commissioni, e si procedeva con tal'independenza, siccome in tempo del governo del Duca d'Alba nel 1628 faceva il Vescovo di Molfetta, come Commessario del S. Ufficio di Roma, ed il Nunzio Appostolico di Napoli. E pretendendo ostinatamente poterlo fare, bisognò che s'impegnassero prima i migliori Giureconsulti di que' tempi a farne veder gli abusi, e poi il Re istesso a levarli. Diede alle stampe con tal'occasione Fabio Capece Galeota, allora Regio Consigliere ed Avvocato del Regal Patrimonio, un suo Discorso indrizzato al Duca d'Alba, ed alcune allegazioni: parimente il Presidente di Camera Vincenzo Corcione diede fuori altre sue allegazioni, mostrando essere contra non meno al dritto, che all'inveterato costume del Regno, poner mano ad incarcerarsi nessuna persona di quello per causa d'eresia, senza prima darne notizia al Vicerè che governa, e con sua licenza.

Dal che ne nacque una carta del Re Filippo III, per la quale fu ordinato, che gli ordini del S. Ufficio di Roma non potessero in verun modo eseguirsi nel Regno senza saputa del Vicerè: dichiarandosi, che ciò non s'intendeva per gli Tribunali del S. Ufficio della Corte de' Vescovi ed Arcivescovi del Regno, li quali facendo il loro ufficio ordinario per le cause di religione non han bisogno d' Exequatur Regium. Ma che non possano eseguire quel che loro vien commesso dalla Congregazione, o da Sua Santità da Roma senza darne parte a Sua Eccellenza[76].

Non fu per questa carta del Re Filippo III bastantemente rimediato a' pregiudizj del Regno: poichè non per ciò all'Inquisizione di Roma si proibivano le Commessioni a' Vescovi, che procedessero come loro Delegati, ma contenti solo dell' Exequatur, si dava loro tutto il favore, i processi li fabbricavano essi, s'imprigionava, ed i carcerati si mandavano a Roma: quando per le lettere del Re Filippo II a' soli Vescovi del Regno, come Ordinarj, non come Delegati del S. Ufficio di Roma, dovea permettersi il procedere nelle cause di Religione.

Videsi ciò nell'anno 1614 nella famosa causa di Suor Giulia di Marco da Sepino, nel Terz'Ordine di S. Francesco, del P. Agnello Arciero Crocifero, e del Dottor Giuseppe de Vicariis, li quali in Napoli, facendo mal uso della Mistica, diedero in mille spropositi e laidezze; ed avean dato principio ad una abbominevol Compagnia, alla quale aveano arrolati più loro discepoli, e maschi e femmine. Procedeva in quella Fr. Diodato Gentile Vescovo di Caserta, il quale dimorava in Napoli con carica de' negozj del S. Ufficio, conferitagli dall'Inquisizione di Roma, dalla quale prima gli venne imposto, che Suor Giulia si chiudesse in Monastero; e da poi per ordine della medesima Inquisizione fu fatta trasferire a Cerreto in altro Monastero. Il P. Agnello fu chiamato dal S. Ufficio di Roma, ove si presentò, da cui gli fu tolta la facoltà di udir più confessioni, e gli fu imposto, che non tornasse più in Napoli. Creato da Paolo V il Vescovo di Caserta Nunzio di Napoli, fu data la carica d'Inquisitore al Vescovo di Nocera Fr. Stefano de Vicariis, il quale proccurò da Roma licenza, che Suor Giulia si fosse trasportata in Nocera, come fu eseguito. Ebbe Giulia partigiani molto potenti, fra' quali fu Fabio di Costanzo Marchese di Corleto, e Reggente Decano del Consiglio Collaterale, il quale ottenne alla Congregazione del S. Ufficio di Roma, di cui allora era Capo Inquisitore il Cardinal d'Aragona, che Giulia potesse ritornare in Napoli, siccome tornò, e D. Alfonso Suarez allora Reggente e Luogotenente della Regia Camera le diede un comodo appartamento nel suo Palazzo, dove, per l'opinione della sua finta santità, tirò a se gran concorso non meno di Signori grandi e di Nobili, e particolarmente di Spagnuoli, ch'erano il più inclinati a simili Fanatismi, ma anche di Dame, e gentili donne. Ma i PP. Teatini per mezzo delle confessioni, che alcuni incauti discepoli di Suor Giulia fecero ad essi, scovrirono le laidezze, che si commettevano in quella Compagnia, ed indussero coloro a denunciarli a Monsignor Vescovo di Nocera Inquisitore, e presero l'assunto di fargli vedere co' proprj occhi nelle stanze di Suor Giulia l'empie nozze, e gl'infami congiungimenti d'uomini e donne. E fatto questo, sospettando i Teatini del Vescovo di Nocera, da essi creduto troppo parziale del partito di Suor Giulia, scrissero in Roma a' Cardinali del S. Ufficio ragguagliando loro di quanto occorreva, li quali commisero quest'affare a Monsignor Maranta Vescovo di Calvi, il quale come Delegato dell'Inquisizione di Roma cominci a procedere.

Ebbero i Teatini in questa causa per oppositori i PP. Gesuiti, li quali, essendo loro emuli antichi, favorivano Suor Giulia, ed avevano aggregato al loro Oratorio Giuseppe de Vicariis: e tanto più vigorosamente n'intrapresero la difesa, quanto che vedevano, che il Vicerè istesso, il Conte di Lemos, indotto da' partigiani di Giulia n'avea presa la protezione; poichè avendo il Vescovo Maranta voluto procedere all'esame de' testimonj, fu tosto chiamato dal Vicerè, che gli domandò, se egli procedeva con commessione del S. Ufficio di Roma. Ma il Maranta oltre avergli mostrato le commessioni di Roma, scoprì al Vicerè le scelleraggini, che si commettevano in quella Compagnia, avanzandosi insino a dirgli, che non facesse praticare i discepoli di Suor Giulia con la Viceregina sua moglie. Il Vicerè sorpreso per tal avviso, dando fede alle parole del Vescovo gli permise, ch'incarcerasse tosto Suor Giulia e Giuseppe de Vicariis, li quali furono portati nella prigione dell'Arcivescovado.

Questa sì improvisa carcerazione pose in romore la città; poichè i partigiani di Giulia, ch'erano per lo più Signori, Ufficiali e Religiosi di Ordini cospicui, commossero tutta la città, ed altamente strepitando d'un cotal modo di procedere di fatto, ricorsero dal Vicerè, dicendogli, che ciò che s'imputava a coloro, era tutta calunnia e malignità de' PP. Teatini, li quali s'eran mossi per livore ed invidia, ch'essi hanno contra i Gesuiti, e per levar loro il concorso, che avevano per cagione de' discepoli di Suor Giulia, che frequentavano le coloro Chiese. Furono così efficaci e calorosi questi ufficj presso il Vicerè, che cominciò a dubitare, non fosse ciò tutta impostura dei Teatini, per iscreditare i Gesuiti; onde tornò a chiamarsi il Vescovo Maranta, e parlatogli con molta severità e rigidezza, colui per sua discolpa, e per maggiormente renderlo certo, che non eran calunnie, gli diede il processo da lui fabbricato contra de' rei, acciocchè si rimanesse di favorirli. Il Vicerè lo diede ad osservare a' suoi Ministri, onde facilmente vennero i protettori di Giulia a sapere le denuncie, ed i testimoni, e per ciò s'accinsero ad una valida difesa, ed elessero per Avvocato de' Rei il famoso Scipione Rovito.

Dall'altra parte i Teatini, sopra i quali veniva a cader la tempesta, diedero immantenente avviso agl'Inquisitori di Roma de' disordini accaduti per avere il Maranta pubblicato il processo: ciocchè dispiacque a Roma; onde ordinarono al Vescovo di Calvi, che più non s'intromettesse in questa causa, anzi lo chiamarono in Roma a renderne conto; e nell'istesso tempo delegarono la causa a Monsignor Nunzio, con ordinargli, che in quella severamente procedesse, secondo le leggi di quel Tribunale.

Il Nunzio, senza che gli si facesse ostacolo alcuno, procedè come Delegato nella causa, secondo l'ordine del S. Ufficio di Roma: prese nuova e più rigorosa informazione; trasferì dal carcere dell'Arcivescovado Suor Giulia e Giuseppe e li rinchiuse nel carcere del suo Palazzo, e datone avviso in Roma, gli fu dagl'Inquisitori comandato, che con buone guardie e sicure cautele mandasse i prigioni al S. Ufficio di Roma, dove ancor essi aveano in duro carcere ristretto il P. Agnello già Confessore di Suor Giulia. Eseguì il Nunzio con molta segretezza di notte tempo l'ordine di Roma, e prima giunsero in Roma, che si sapesse in Napoli il loro trasporto. Appena ciò saputosi da' partigiani di Giulia, che immantinente loro corsero dietro Girolamo di Martino, e D. Giovanni Salamanca per assistere alla lor difesa: ma giunti appena in Roma, furono anch'essi dagl'Inquisitori imprigionati; sebbene alquanti mesi da poi, a' 14 marzo del seguente anno 1615 il Salamanca fu liberato, con sicurtà di tremila scudi di Camera di presentarsi in Roma ad ogni ordine degl'Inquisitori, ed il Martino a' 11 aprile, con maggior sicurtà, e colle medesime condizioni.

Paolo V con particolar attenzione fece esaminare con molta diligenza ed assiduità dagl'Inquisitori la causa e convinti i rei de' loro falli, furono dichiarati eretici il P. Agnello, Suor Giulia, e Giuseppe de Vicariis; e, come tali, furono condannati alla pubblica abjura, ed a carcere perpetuo: onde a' 12 luglio dell'anno 1615 essendosi fatto ergere nella Chiesa della Minerva un più solenne apparato, in presenza del Collegio de' Cardinali, di molti altri principali Signori e d'un infinito Popolo, tutti e tre abjurarono i loro errori e nelle abjure confessarono tutte le loro sporcizie, ed i loro mistici delirj, ed affinchè i partigiani di Suor Giulia finissero di credere la sua falsa santità, per ordine dello stesso Pontefice furono a' 9 agosto letti nel Duomo di Napoli, non senza stupore ed ammirazion di tutti, i sommarj de' loro processi.

La somma accortezza e vigilanza della Corte di Roma, ed all'incontro la trascuraggine, o sia connivenza fra noi usata da' Ministri Regj, fece sì, che non ostanti gli editti de' nostri Re, si tollerassero in Napoli e nel Regno Inquisitori deputati da Roma e che sovente come Delegati procedessero contra gl'Imputati d'eresia o d'ebraismo, sino a permettere, che incarcerassero i Rei e li mandassero in Roma, dov'erano condannati ad abjurare nella Chiesa della Minerva: di che, se non fosse il rispetto d'alcune famiglie, che ancor durano, potrebbero recarsi molti esempj.

Ma nel Regno di Filippo IV l'indiscreto procedere di Monsignor Piazza, Ministro deputato da Roma per affari del S. Ufficio, pose di nuovo in romore la Città, tanto che i Napoletani fatti più accorti, attesero da dovero a toglier dal Regno ogni reliquia d'Inquisizione. Costui venuto in Napoli nel 1661, mentre governava il Regno il Conte di Pennaranda, pose sua residenza nel Convento de' PP. Girolamitani del B. Pietro di Pisa, dove riceveva le denunzie, e procedeva per commessione di Roma contra i sospetti d'eresia: avvenne in quell'anno, che un Religioso diede a leggere ad un Bolognese, che dimorava in Napoli, certo libro, ed avendo paruto a costui, che in quello vi fossero sentimenti poco cattolici, senz'altro riguardamento tosto andò a denunziare il Frate a Monsignor Piazza, ed a consignargli il libro. Trascorsi alquanti giorni chiese il Frate al Bolognese il libro; ma costui allegando varie scuse, differiva la restituzione; onde vedendosi il Frate burlato, trovandosi amico del barbiere del Duca delle Noci, andò da lui a chiedergli ajuto. Il barbiere con sua comitiva portossi immantenente dal Bolognese e minacciandolo agramente se non restituiva il libro, lo costrinse a prometterglielo il dì seguente. Tosto il Bolognese andò a pregare Monsignor Piazza, che gli desse il libro, narrandogli l'angustie, nelle quali si trovava, e che sarebbe capitato male, se non lo restituiva al padrone. Ma Monsignor Piazza in vece di dargli il libro, pose in aguato alcuni suoi Cursori, dando loro ordine, che arrestassero non meno il barbiere, che tutti coloro, che avevano insultato il denunciante, siccome in effetto furono imprigionati.

Una sì imprudente e scandalosa carcerazione riferita al Duca delle Noci, lo fece entrare in tanta stizza, che fattene gravi doglianze con molti Nobili, fece tosto unir le Piazze, ed egli spronato dall'ira portossi immantenente dal Vicerè, al quale, non potendo reprimer l'impeto della sua passione, parlò con sentimenti troppo audaci, e poco rispettosi: il Vicerè sorpreso di tanto ardire, prevedendo l'incendio, che ne poteva nascere, dissimulando discretamente la colui arroganza, per quietarlo, fece tosto per ambasciata avvertito Monsignor Piazza, che liberasse prigioni, come fu eseguito.

Ma ciò non bastò per acchetar la città posta in romori e sospetti, che si volesse per queste esecuzioni di fatto e di processi occulti poner Inquisizione formata, contro alle grazie, che n'avea ricevute dal Re Cattolico, dall'Imperador Carlo V, e dal Re Filippo II, e che perciò bisognava toglier ogni reliquia d'Inquisitori, appartenendosi la conoscenza delle cause di Religione a' Vescovi, i quali senza delegazione lor venuta da Roma, per la loro potestà debbiano procedere per via ordinaria, senza giudicj occulti, siccome procedono negli altri delitti Ecclesiastici. Ed essendosi perciò unite le Piazze, furono creati Deputati, affinchè rappresentassero al Vicerè li sentimenti della città ed attendessero sopra quest'importante affare con la maggior diligenza e vigilanza. I Deputati esposero al Conte di Pennaranda i sensi della città, risoluta a non soffrire più Inquisitori, rammentandogli gl'inconvenienti passati e l'abborrimento de' sudditi al nome d'Inquisizione. Il Conte veduta così costante risoluzione reputò con molta saviezza soddisfargli, ed avendone di ciò fatte lunghe rappresentazioni al Re, fece intanto intendere a Monsignor Piazza, che ratto sgombrasse la città e 'l Regno, siccome di fatto ne fu mandato via. E nell'istesso tempo crucciato col Duca delle Noci e con alcuni de' Deputati, che troppo arditamente e con soverchio ardore avean promosso quest'affare, fece porre il Duca nel Castel Nuovo, e poscia il mandò prigione in Ispagna, dove poi essendosi giustificato delle imputazioni, che gli si davano, tornò libero nel Regno nel mese di novembre dell'anno 1663. De' Deputati alcuni ne fur fatti prigioni, altri sequestrati nelle lor case e D. Tiberio Caraffa Principe di Chiusano, D. Rinaldo Miroballo e D. Andrea di Gennaro, per isfuggire i primi rigori del Vicerè si ricovrarono in Chiesa. Ma essendo alle rappresentazioni fatte al Re venute clementissime risposte, per le quali Filippo IV dichiarava, che non si dovesse sopra ciò permettere novità alcuna, e che dovessero alla città e Regno inviolabilmente osservarsi le ordinazioni de' suoi predecessori Monachi, e spezialmente del Re Filippo II suo avolo; il Vicerè con suo particolar biglietto[77] ne diede notizia agli Eletti della Città ed a' suddetti Deputati, li quali essendo stati reintegrati nel favore del Conte, coll'occasione della natività del Re Carlo II andarono a rendergliene le dovute grazie. E si credette con ciò, che per l'avvenire non si dovesse Roma più impacciare di mandar nel Regno Inquisitori, o spedir delegazioni e commessioni a' suoi Vescovi per affari di Religione.

Il discacciamento di Monsignor Piazza fece arrestare alquanto gl'Inquisitori di Roma, ma non per ciò tralasciar affatto la pretensione, e di tentare, quando gli veniva in acconcio, nuove imprese. Si vide ciò chiaramente nel Regno di Carlo II per l'occasione di una nuova Filosofia introdotta in Napoli, la quale ponendo in discredito la Scolastica professata da' Monaci, non molto poteva piacere a Roma.

L'Accademia instituita in Napoli sotto il nome di Investiganti, della quale se ne dichiarò protettore il Marchese d'Arena, tolse la servitù, infin allora comunemente sofferta di giurare in verba Magistri, e rendette più liberi coloro che vi s'arrolavano di filosafare, postergata la Scolastica, secondo il dettame della ragione. Gli Accademici ivi aggregati erano tutti uomini dottissimi, ed i più insigni letterati della città, onde s'acquistarono molto credito presso gl'intendenti, e sopra tutto presso i giovani, a' quali non bisognò penar molto, per far loro conoscere gli errori ed i sogni della filosofia de' Chiostri. Aveano in Francia le Opere di Pietro Gassendo acquistata grandissima fama, così per la sua molta erudizione ed eloquenza, come per aver fatta risorgere la Filosofia d' Epicuro la quale al paragone di quella d' Aristotele, e spezialmente di quella insegnata nelle Scuole, era riputata la più soda e la più vera. Si proccurò farle venire in Napoli, e quando furono lette, fu incredibile l'amor de' giovani verso questo Scrittore, presi non men dalla sua dottrina, che dalla grande e varia letteratura; onde in breve tempo si fecero tutti Gassendisti; e questa filosofia era da' nuovi filosofanti professata; ed ancorchè Gassendo vestisse la filosofia d'Epicuro con abiti conformi alla religion cattolica, che professava, nulladimeno, poichè il maggior sostenitore di quella era Tito Lucrezio Caro, si diede con ciò occasione a molti di studiar questo Poeta, infin a que' tempi incognito, e sol a pochi noto. Gl' Investiganti però, non men di quello, che avea fatto Gassendo, scoprivano gli errori del Poeta, e gli detestavano a' giovani ed insegnavano, che quella filosofia non fosse da seguirsi in maniera, sì che non dovesse sottoporsi alla nostra Religione.

(Con tutto che dagli Accademici Investiganti fosse usata in ciò molta precauzione e prudenza; non poterono i giovani Napoletani sfuggire i falsi rapporti, che spargevano per Europa i Monaci, accaggionandoli, che per questi studj non ben sentivano dell'immortalità dell'anime umane. Sicchè Antonio Arnaldo in quell'accurato e dotto Libro, Difficultés proposées a Mr. Steyaert, declamando contra gli abusi introdotti in Roma di proibir i Libri senza discernimento, si duole, che Roma avea proibite le Opere di Renato delle Carte, per le quali era dimostrata quest'immortalità; ed all'incontro i Libri di Gassendo giravan franchi e liberi, con tutto che per le relazioni, che venivano da Napoli, erano assicurati, che avessero cagionato nella gioventù napolitana gran danno per le opinioni contrarie surte per la lettura dell'Opere di Lucrezio e di Gassendo ).

Lo facevano ancora atterriti da ciò ch'era accaduto al famoso Galileo de' Galilei, il quale mal grado della sua veneranda canizie, fu costretto abjurar in Roma la sua opinione intorno al moto della Terra

Ma non trascorsero molti anni, che furono in Napoli portate l'opere di Renato des Cartes, e narrasi, che Tommaso Cornelio, famoso medico e filosofo di que' tempi fosse stato il primo ad introdurvele. Si diedero perciò i giovani, e spezialmente i Medici, a studiarle, e in poco tempo abbandonata la filosofia di Epicuro, s'appigliarono a quella di Renato; e coloro che prima erano Gassendisti, divennero a lungo andare fieri ed ostinati Renatisti.

Il vedersi per questi nuovi studj non solo abbandonate le Scuole de' Monaci: ma essi derisi per le tante fole che insegnavano, si cagionò un odio implacabile dei Frati contro a novelli filosofanti, a' quali imputavano perciò molti errori di Religione, cavillando ogni loro proposizione, e trattandoli da miscredenti.

Tanto bastò agl'Inquisitori di Roma, perchè ripigliassero le loro armi, e di nuovo tentassero d'introdurre in Napoli Commessarj del S. Ufficio per invigilare sopra gli andamenti di costoro. E non pur lo tentarono, ma svelatamente vi stabilirono un loro Inquisitore, il quale riceveva le denuncie, imprigionava, e quel ch'era più teneva in S. Domenico maggiore suo proprio carcere. Era costui Monsignor Gilberto Vescovo della Cava, il quale esercitava quest'ufficio con processi occulti e con tanto rigore e petulanza, che sovente costringeva molti con loro ignominia ad abjurare, solo perchè sostenevano opinioni filosofiche contrarie a quelle delle Scuole, ancorchè in quelle niun difetto di miscredenza si potesse notare; di che spesso sentivansi in Napoli, querele e disordini.

Mossi da ciò i Deputati del S. Ufficio ebbero ricorso al Conte di San Stefano, che allora si trovava Vicerè, al quale avendo esposti i desiderj della città determinata di non voler Inquisitore alcuno, ancor che con limitata facoltà, ma che nel Regno i Negozj di religione dovessero trattarsi per le vie ordinarie da' suoi Vescovi, gli fecero istanza, che il Vescovo della Cava prestamente uscisse dalla città e dal Regno, si togliesse la prigione che teneva in S. Domenico, ed i carcerati si trasportassero nelle carceri dell'Arcivescovo di Napoli, per doverli colui punire secondo il prescritto de' Canoni, e con via ordinaria. Il Vicerè avendo proposto l'affare nel Collateral Consiglio, con accordo del medesimo, ordinò, che uscisse tosto da Napoli e dal Regno l'Inquisitore, s'abolissero le carceri in S. Domenico, ed i carcerati si trasportassero in quelle dell'Arcivescovo, siccome fu eseguito; di che il Conte con suo particolar biglietto[78], spedito a' 27 di settembre dell'anno 1691, ne diede avviso agli Eletti, perchè la città rimanesse consolata della risoluzione presa conforme a' suoi desiderj.

Rappresentò ancora il Conte al Re Carlo II tutto ciò, ed il Re con sua real carta spedita da Madrid sotto li 25 Marzo del seguente anno 1692, non solo approvò tutto l'operato, ma ordinò ancora, che per l'avvenire s'osservassero inviolabilmente li privilegi sopra ciò conceduti alla città e Regno da' suoi predecessori; e che si passassero ufficj col Cardinal Arcivescovo di Napoli, che prendesse egli la conoscenza delle cause di que' carcerati; e che il Nunzio non si intromettesse affatto nelle cause d'Inquisizione; e per via del medesimo (siccome anche egli avea ordinato al Duca di Medina Celi suo Ambasciadore in Roma, che lo facesse) si facesse sentire al Pontefice, con renderlo certo, che la repugnanza di non ammettere Inquisitore alcuno in Napoli, era di tutta la città, non già d'alcuni particolari, siccome gli Ecclesiastici l'aveano dato a sentire[79].

Parimente essendosi per opera degl'Inquisitori di Roma fatti carcerare in Madrid due Napoletani, il Dottor Basilio Giannelli e Gio. Battista Menuzio, e correndo lo stesso pericolo Francesco Sernicola Inviato della città alla Corte, ebbero ricorso i Deputati del S. Ufficio al Re, rappresentandogli il gran rammarico di tutta la città per questo modo di procedere dell'Inquisizione di Roma, e pregandolo della loro scarcerazione. Ed il Re clementissimamente spedì altra sua regal carta sotto li 27 dello stesso mese, diretta al Conte di S. Stefano Vicerè, colla quale ratificando ciò che nella precedente avea comandato, consolò questo Pubblico avvisando, come il Menuzio era già libero, e che per ciò che riguardava la persona del Giannelli, avea già fatti passare con l'Inquisitor Generale premurosi ufficj, che senza dilazione lo scarcerasse, siccome fu poco da poi eseguito[80].

Ma tante risolute repulse, tanti pressanti e vigorosi ordini de' nostri Re, e la cotanta vigilanza de' Deputati nè meno bastò per far quetare gl'Inquisitori Romani. Essi non valendo loro più il procedere, come prima, alla svelata, con occulte e sottili invenzioni tentarono nuovi modi. Fecero nell'anno 1695 pubblicare un Editto in Roma, nel quale, secondo il procedere di quel Tribunale, si prescrivevano a' Vescovi ed Inquisitori varj regolamenti, come dovessero esercitare il lor Ufficio; e poichè riputano, che a' loro Editti, in tutta la Repubblica Cristiana, non vi sia bisogno di Placito Regio, ma che basti la pubblicazione fatta in Roma, per obbligar tutti; perciò occultamente tentarono, che tal Editto senza il Regio exequatur si pubblicasse in una Diocesi del Regno.

Parimente trovarono espediente di mandar le loro Commessioni agl'istessi Vescovi, imponendo loro che procedessero non come Ordinarj, ma come loro Delegati; e di vantaggio negli stessi Tribunali de' Vescovi vi creavano Ufficiali loro dipendenti con commessioni del S. Ufficio, valendosi per lo più di Frati e di Monaci.

Bisognò per tanto, che s'avesse nuovo ricorso al Re per estinguerne ogni vestigio e reliquia. L'opera fu cominciata nel Regno di Carlo II, ma ebbe il suo perfetto compimento nel Regno del nostro Augustissimo Imperadore Carlo VI. Sin da che entrarono nel Regno le sue felicissime armi, la città, come d'un affare importantissimo, lo tenne sollecito, perchè affatto spegnesse fra noi ogni vestigio d'Inquisizione.

Per far argine al primo inconveniente, spedì una sua regal carta da Barcellona a' 27 agosto nel 1709, drizzata al Cardinal Grimani Vicerè, per la quale colla maggior precisione e premura espressamente comandò, che non si desse esecuzione alcuna a qualunque Bolla, Breve, o altra Provisione che venisse da Roma, concernente affari d'Inquisizione, o che avessero la minima, anzi la più remota connessione, con l'idea d'introdurla nel Regno[81].

Per rimovere il secondo attentato d'introdurre nelle Corti vescovili Ufficiali dipendenti dall'Inquisizione di Roma, vi rimediò efficacemente il Cardinal Grimani Vicerè; poich'essendosi da' Napoletani scoverto, che un cotal Frate Teresiano Scalzo chiamato F. Maurizio frequentava spesso l'arcivescoval Corte di Napoli, con delegazioni segrete del S. Ufficio di Roma, del quale si vantava esser egli Commessario, fecero che immantenente l'Eletto del Popolo ricorresse dal Vicerè, affinchè ne cacciasse via il Frate, e facesse insinuare alla Corte arcivescovile, che nelle cause di S. Ufficio procedesse con via ordinaria, senza aver bisogno d'altri Ufficiali straordinari. Il Vicerè avendo tosto unito un Collaterale straordinario, con accordo del medesimo, s'uniformò a' desiderj della città, ed ordinò, che Fr. Maurizio fra due giorni diloggiasse dalla città, e otto dal Regno, siccome fu prontamente eseguito, ed il Cardinale con suo particolar biglietto[82], spedito a' 2 agosto del medesimo anno, ne diede avviso all'Eletto, per consolare il Popolo, della resoluzione presa.

Ma intanto non si tralasciava da' Deputati di pregare in Barcellona il Re, affinchè, per togliere ogni pretesto, che gli Ecclesiastici, con le loro sottili invenzioni, non li sovverchiassero ed opprimessero, degnassesi con suo regal dispaccio apertamente ordinare, che per l'avvenire nelle cause di Fede si proceda dagli Ordinari, per la via ordinaria, conforme si procede negli altri delitti comuni, e sta disposto dai sagri Canoni.

Il Re consentì alla domanda, e confermando alla città tutti i privilegi sopra ciò lor conceduti da' Re suoi predecessori, e spezialmente quello di Filippo II, precisamente ordinò al Cardinal Grimani suo Vicerè, che non permettesse de ninguna manera, que en las causas pertenecientes a nuestra Santa Fee, procedan sì no los Arzobispos, y demas Ordinarios de esse Reyno, como Ordinarios, con la via ordinaria, que se practica en los otros delitos, y causas criminales Ecclesiasticas, come si legge nel suo diploma[83] spedito in Barcellona a' 15 settembre del riferito anno 1709. Per le quali ultime parole, che non si leggevano nel diploma di Filippo II, si tolse ogni pretesto agli Ecclesiastici di cavillare gli antichi privilegi, e d'inventare nuove sottigliezze.

Così rimase affatto estinto e dileguato presso di noi ogni vestigio d'Inquisizione; ma con tutto ciò non rimangono i Deputati, che con tanto zelo ed oculatezza invigilano sopra quest'affare, sicuri e fuor d'ogni timore di nuove sorprese. Per ciò bisogna esser perseveranti, e con indefessa applicazione in vigilar sempre su gli andamenti degli Ecclesiastici; li quali, per esser pur troppo accorti e diligenti, non tralascieranno le occasioni, quando lor verrà in acconcio, di tentar improvvisamente altre nuove e non pensate imprese.

CAPITOLO VI. Nuova spedizione di Solimano collegato col Re di Francia sopra il Regno di Napoli, sollecitata dal Principe di Salerno, che si ribella. Nuovi donativi per ciò fatti dal Regno, per lo bisogno della guerra, che finalmente si dilegua.

Dopo l'impresa dell'Affrica, e la guerra che Cesare nel 1552 ebbe a sostenere con Maurizio Duca di Sassonia, per sostegno della quale si mandarono pure da Napoli cinquantamila ducati, quando, essendo cessati i rumori per cagione dell' Inquisizione, si credeva doversi nel Regno godere una tranquilla e riposata pace, s'intesero nuovi apparecchi d'una guerra assai più spaventosa di quante mai ne furono; poichè i Principi, che insieme aggiunti la mossero, erano i più potenti e formidabili in Europa. Morto Francesco I Re di Francia, Errico II suo successore ereditò insieme col Regno l'odio e l'inimicizia con Cesare molto maggiore, che il suo predecessore; e acciocchè se gli facilitasse l'impresa, che meditava sopra lo Stato di Milano, erasi a' danni di Cesare collegato con Solimano, con cui fatto trattato, avevano conchiuso d'assalire per mare il Reame di Napoli, ed unire insieme le loro armate, quella di Francia dovea moversi da Ponente, nell'istesso tempo che quella di Solimano si movea da Levante. Infiammò maggiormente gli animi, e fu sollecitata la spedizione dal Principe di Salerno, il quale per private inimicizie che nudriva col Vicerè, datosi a credere, che essendogli stata tirata una archibugiata, mentre da Napoli ritornava a Salerno, per la quale restò leggermente ferito, il colpo fosse venuto dal Toledo, e non trovando nella Corte di questa accusa facile credenza, per le insinuazioni in contrario mandate dal Vicerè, rimanendo per ciò mal soddisfatto, guarito che fu, partì dal Regno, con iscusa di volersi andare a curare in Padova d'una simulata lesione di nervi restatagli dalla ferita; e quando chiamato dall'Imperadore, con ubbidire alla chiamata, avrebbe potuto superare le inquisizioni ed i sospetti, che il Vicerè gli addossava, egli mandando alla Corte Tommaso Pagano, che con impertinenza grande voleva, che Cesare gli promettesse di farlo venire su la sua parola, di che alterato Cesare gli rispose come si conveniva, mal sofferendo il Principe la risposta, con non minor imprudenza che leggerezza, risolvette di non andarvi; e per ciò, ribellandosi da Cesare, deliberò di andare a servire Errico Re di Francia; onde abboccatosi col Cardinal di Tournon, con gran prestezza se n'andò in Francia, ove da quel re fu ricevuto con onore; al quale dando per facile l'espedizione di Napoli, l'infiammò sì, che apparecchiate alcune Galee, gli diede il comando di quell'armata, che dovea venire ad incontrarsi coll'armata del Turco. Per iscusare questo suo fallo diede fuori un manifesto, dove si sforzava di mostrare d'aver prestati molti servigi e fatti d'armi in onor di Cesare, ed all'incontro averne da lui e da' suoi Ministri ricevute pessime ricompense di che avutone notizia il Vicerè, che godè molto di sua pazza risoluzione, soleva dire, che il Principe di Salerno si avea dimenticato nel manifesto di mettervi un più importante servigio fatto all'Imperadore, ed era quest'ultimo, ch'ei riputava il maggiore, cioè di avergli donato un Principato così bello e grande come era quello di Salerno. Però nè all'Imperadore, nè al Vicerè questa sua ribellione sembrò cosa nuova, avendolo sempre in sospetto, e per affezionato al Re di Francia, di cui non finiva mai di lodarne il valore e la liberalità. Fu per tanto egli dichiarato ribelle, e condannato a morte, e confiscato il Principato di Salerno col rimanente del suo Stato.

Il Vicerè avvisato di questi apparecchi, non meno del Re di Francia che del Turco, considerando, che la confederazione di questi due potenti nemici avea da partorire molti travagli nel Regno, non perdè tempo a fortificarsi; e poichè il più efficace rimedio era di tener pronta una sufficiente quantità di denaro, per fare una valida difesa, perciò avendo convocati tutti i Baroni, ed esposto loro, che la confederazione di questi due potentissimi Principi non era per dissolversi così presto, nè per mancamento di forze, nè di volontà, e che il lor disegno non era altro, che di conquistare il Regno, per ciò bisognava trovar il rimedio avanti che sopravvenisse la necessità; e il rimedio sarebbe d'unire una somma di trecentomila ducati, con che si potessero mantenere trentamila uomini, i quali sarebbero destinati solamente alla difensione di questo Regno, in caso che fosse all'improvviso assaltato da esercito nemico, e che questi denari sarebbero conservati da uomini deputati dalla città in cassa comune; soggiungendo, che solamente la fama di questo preparamento sarà cagione che gli nemici pensino molto bene ad assalirci, e forse sgomentati desisteranno dall'impresa. Piacque la proposta del Vicerè a tutti; onde con grandissima prestezza si misero in cassa comune i denari, i quali ancorchè non servissero allora, furono da poi ne' seguenti anni cagione della salute del Regno, contro la lega di Francia, di Papa Paolo IV e d'altri Principi d'Italia, come diremo più innanzi.

Mentre in Napoli s'attendeva a far queste provvisioni, venne l'avviso, che l'armata del Turco sollecitata non men da Errico Re di Francia, che dal Principe di Salerno, era uscita da Costantinopoli; e pochi giorni da poi, a' 15 luglio di quest'anno 1552, fu veduta da' Napoletani numerosa di 150 Galee grosse guidate da Dragut Rais sotto il comando di Sinam Bassà, ed ancorata ne' mari di Procida, pose spavento grandissimo nella città; ed intanto alcune Galee venivano quasi ogni giorno sino al Capo di Posilipo a scaramucciare con alcune Galee di Genova, che quivi si trovavano. Dimorò l'armata del Turco ne' mari di Procida dalli 15 di luglio insino a' 10 di agosto, nel qual giorno si vide all'improvviso partire, facendo vela verso Levante. Fu fama, che ciò seguisse per opera di Cesare Mormile, il quale entrato in competenza col Principe di Salerno, e mal soddisfatto del Re di Francia, che lo avea posposto al Principe, partito di Francia erasi ricovrato in Roma, dove con l'Ambasciadore di Cesare, e col Cardinal Mendozza trattò della sua reintegrazione nella grazia dell'Imperadore; ed avendo ottenuto da Cesare ampio privilegio non solo dell'indulto, ma anche della restituzione di tutti i suoi beni, ed assicurato anche con lettere del Vicerè, venne da poi incognito in Napoli a maneggiare con quel Bassà la sua partita; il quale, avendogli il Mormile offerto in nome del Vicerè, purchè partisse, ducentomila ducati, contentandosi dell'offerta, sborsati che gli furono, partì colla sua armata verso Levante, liberando con ciò tutto il Regno da grandissimi travagli. Il Mormile fu molto accarezzato dal Vicerè; ma poichè fra di loro per le cose precedute non era affatto estinta l'antica nemicizia, nell'esecuzione del privilegio gli furon fatti molti ostacoli, tanto che non solo non potè ricuperare i suoi beni, che si trovavano già venduti, ma travagliò molto per averne un secco contraccambio.

Intanto il Principe di Salerno, ch'era stato mandato dal Re di Francia colle sue Galee ad incontrare l'armata Turchesca, giunto ne' mari di Genova, intese che quella era già partita verso Levante; con tutto ciò volle seguirla, ed otto giorni da poi, che l'armata del Turco partì dal Golfo di Napoli, fu sopra Ischia con 26 Galee, ed informato meglio da Roma dell'accordo fatto col Mormile, tanto più pien di cruccio le corse dietro, e passato il Faro, nè trovandola, proseguì il cammino fin che la raggiunse; ma nulla potè impetrare dal Bassà, perchè facesse ritorno, rispondendo, ch'essendo già uscito d'Italia, non poteva ritornar indietro, senza nuovo ordine del suo Signore: lo persuase per tanto a venire in Costantinopoli, perchè l'anno seguente Solimano gli avrebbe dati più validi ajuti. Andò il Principe in Costantinopoli, ove stette tutto l'inverno aspettando la promessa di Solimano; ma la sua dimora in quella Città fece scovrire la sua vanità e leggerezza; poichè datosi agli amori ed alle dissolutezze, perdè presso quel Principe tutto il credito e la riputazione; e fatto già favola del volgo, entrò in sommo disprezzo di tutti; tal che al tempo promesso non ottenne l'armata, che desiderava per l'impresa del Regno; perchè fu conceduta a Pietro Corsio per l'acquisto di Corsica: egli se ne ritornò in Francia, ove mentre visse Errico ebbe assai buoni trattamenti, ma quello morto, insorte in quel Reame le civili contese, e seguitando egli in quella divisione la parte degli Ugonotti, riduttosi in estrema miseria, morì in Avignone nel 1568 in età di 71 anno non men ribelle al suo Re, che alla Religione Cattolica da lui prima professata.

Così dileguossi questa crudel tempesta, che minacciava Napoli; ma non finirono ne' seguenti anni le scorrerie del famoso Corsaro Dragut, il quale mandato dal Gran Signore in grazia del Re di Francia a danni del Regno, per travagliar l'Imperadore, tenne infestati sempre i nostri mari, e le Terre delle nostre marine: de' quali mali non furon giammai esenti; poichè professandosi fra i Re di Spagna, e l'Imperador de' Turchi guerra eterna, ed irreconciliabile, non mai tregua fu, ma sempre odio implacabile, ancorchè il danno fosse maggiore il nostro; poichè per gli riscatti dei nostri non bastavan più milioni l'anno, ed all'incontro niente era da sperarsi da' Turchi, i quali niente si curano di riscattar i loro; con tutto ciò per zelo di religione non si curava il danno gravissimo che il Regno ne soffriva. Ora essendo questo Reame divelto dalla Monarchia di Spagna, e governandosi dagl'Imperadori d Alemagna, ha avuta la sorte, che nelle tregue, che si fanno coll'Imperio, vengavi anche compreso il Regno; onde si veggono cessate le tante ostilità, e permesso con Turchi commerzio, con utile grandissimo del Regno.

CAPITOLO VII. Spedizione di D. Pietro di Toledo per l'impresa di Siena, dove se ne morì. Seconde nozze di Filippo Principe di Spagna con Maria Regina d'Inghilterra; e rinuncia del Regno di Napoli fatta al medesimo da Cesare, il quale abbandonando il Mondo si ritira in Estremadura, dove nel Convento di S. Giusto finì i suoi giorni.

Don Pietro di Toledo, posto fine alle turbolenze di Napoli, governava il Regno con piena autorità: ma siccome era da tutti ubbidito, così da molti era intrinsecamente odiato: poichè scovertasi la ribellione del Principe di Salerno, e sospettandosi che in quella vi fossero altri intesi, procedè contra i sospetti con molto rigore; e la morte per ciò data ad Antonio Grisone, e l'inquisizioni fatte per la medesima cagione con altri, avea reso il suo governo molto terribile ed odioso. Avvenne, che in quest'anno 1552 tra le molte rivoluzioni accadute in Italia, Siena parimente si sconvolgesse.

Era questa Repubblica sotto la protezione di Cesare, il quale v'avea mandato a governarla D. Diego Urtado Mendozza: costui diede a' Sanesi sospetto di voler loro togliere la libertà, perchè designava fabbricare in Siena una Cittadella così forte, che con essa potevano gli Spagnuoli in poco numero difendersi dalla città. I Sanesi per ciò determinarono ricorrere al Re di Francia, il quale accettando la lor difesa, diede ordine a' suoi Ministri, che teneva in Italia, di provvedere al bisogno. Fu tra essi conchiuso, che il Conte di Pitigliano, ed i due Conti di Santa Fiore facessero con secretezza seimila fanti e molti cavalli, il che fu tosto eseguito: il Conte di Pitigliano entrò nella città e gridando libertà, libertà, e conducendo seco tremila fanti, unitosi col Popolo, costrinse Otto di Monteaguto, il quale mandato da Cosmo de' Medici Duca di Fiorenza era entrato per soccorso degli Imperiali, a ritirarsi sotto la Cittadella, non senza morte dell'una, e l'altra parte. Il Duca Cosmo s'apparecchiava mandar ad Otto grosso soccorso: ma la Repubblica gli mandò Ambasciadori a fargli intendere, ch'essa non voleva levarsi dalla fedeltà dell'Imperadore, ma sì bene rimettersi nella libertà, della quale n'era a poco a poco stata spogliata dal Mendozza: il Duca ciò credendo, conchiuse colla medesima trattato, che gli Spagnuoli dall'una parte se ne uscissero da Siena, e dall'altra Otto se ne ritornasse salvo colle sue genti in Fiorenza; ma quando i Sanesi gli videro usciti, tosto buttarono a terra la Cittadella, e vi posero dentro presidio franzese, attendendo a fortificarsi contra gli Spagnuoli. L'Imperadore, ciò inteso, trovandosi allora all'assedio di Metz di Lorena, scrisse al Toledo, che assoldasse un esercito, e che andasse egli a far guerra a Siena; e venne ancora in quel tempo in Napoli a sollecitarlo D. Francesco di Toledo, uomo dell'Imperadore appresso il Duca Cosimo. Il Vicerè, ancorchè il tempo che correva d'un orrido inverno fosse contrario, incominciò con prestezza secretamente ad apparecchiar l'esercito; e mentre questo si faceva, fu assalito da un catarro con febbre, dal quale ogni anno era spesse volte l'inverno gravato, onde per ciò per consiglio de' Medici in quella stagione soleva dimorare in Pozzuoli; ma non per questo si rallentava l'apparecchio, e già la fama cominciava a spargersi, che quello era per la guerra di Siena, ove dovea in persona comandare il Vicerè, il quale per ciò dovea partire ed abboccarsi col Duca Cosimo suo genero. Pubblicata questa partenza, s'offerivano molti Baroni di seguirlo, ma il Vicerè a pochi il concesse, e ringraziò gli altri; e creato D. Garzia suo figliuolo Luogotenente dell'esercito, lo mandò per terra con dodicimila valorosi soldati spagnuoli, italiani e tedeschi. Partì D. Garzia nel principio di gennajo del nuovo anno 1553, e passò per le Terre dello Stato Ecclesiastico pacificamente, nel qual passaggio entrò in Roma con molti Cavalli a baciare il piede al Papa, e giunto finalmente nel territorio Sanese, senza perder tempo, prese molte Castella. In questo mezzo il Vicerè fece imbarcare nelle Galee del Principe Doria il resto delli soldati spagnuoli con la sua Corte; e lasciando per suo Luogotenente nel Regno D. Luigi di Toledo suo secondo figliuolo, entrò egli in mare, e partissi per la volta di Gaeta, ove fermatosi tre giorni passò a Civita Vecchia, nel qual viaggio per fortuna di mare se gli accrebbe il male, e smontato poi a Livorno, mandò subito a D. Garzia gli Spagnuoli ad unirsi col suo esercito, ed egli forzato dal catarro e dalla febbre si fermò ivi con la sua Corte. Ma vie più aggravandosi il male, e veduto da' Medici, che quel luogo posto in mezzo all'acqua, era contrario al clima di Pozzuoli ed al suo male, partì alla volta di Pisa, e declinando alquanto il male, se ne andò a Fiorenza; ove dal Duca Cosimo suo genero fu accolto con molta affezione e splendidezza. Vennero in quel mezzo a ritrovarlo Ascanio della Cornia ed altri Colonnelli dell'esercito a pigliar da lui l'ordine, che s'avea da tenere per quell'impresa; ed essendo già tutte le cose ben disposte, mostrando allora la di lui infermità esser alquanto in declinazione, mandata avanti per ciò tutta la sua Corte, si preparava egli per cavalcare la mattina; ma ecco, che gli sopravvenne di nuovo il catarro tanto furioso, che l'inquietò tutta quella notte, e sopraggiuntagli la febbre, ogni virtù gli andò mancando.

Corse alla fama del suo pericolo D. Garzia suo figliuolo a visitarlo, e per dargli conto di quel che e' faceva nell'esercito; ma il Vicerè volle, che senz'aspettar l'esito della sua infermità, tornasse come suo Luogotenente a comandare a quell'impresa, e lo benedisse; e non guari da poi aggravando tuttavia il male, tra gli abbracciamenti di sua figliuola e genero, spirò l'anima a' 12 febbraio di quest'anno 1553. Fu fama che fosse stata la sua morte sollecitata con veleno dal genero, per sospetto, ch'e' avesse d'avergli il Toledo insidiata la vita: parimente, che l'Imperadore per levarlo del governo di Napoli (ciò che avea determinato di farlo fin dal tempo de' rumori di quella città) avesse trovata quest'occasione della guerra di Siena. Altri non consentono nè all'uno, nè all'altro, allegando certa lettera dell'Imperadore, capitata in Fiorenza prima ch'egli morisse, nella quale non sapendo ancora, che fosse partito da Napoli, scrivea, che in niun modo fosse andato a quella impresa, per aver inteso, che stava infermo, ma che vi mandasse D. Garzia suo figliuolo. Che che ne sia, governò egli il Regno anni venti, mesi cinque, e giorni otto, con tanta prudenza, che superò tutti i passati Governadori, e meritevolmente dal comune consenso gli è attribuito il titolo di Gran Vicerè.

Della sua prima moglie D. Maria Ossorio Pimentel, lasciò più figliuoli, poichè della seconda da lui sposata, essendo già vecchio, non ne ebbe alcuno. D. Federigo primogenito, D. Garzia, che morendo il lasciò suo Luogotenente nella guerra di Siena e D. Luigi, rimaso Luogotenente nel Regno, quando egli partì da Napoli. Ebbene ancora di quella quattro femmine, la primogenita D. Isabella la casò con D. Giovan Battista Spinelli Duca di Castrovillari e Conte di Carriati. La seconda D. Eleonora fu maritata nel 1539 a Cosimo de' Medici Duca di Toscana. La terza D. Giovanna fu moglie di D. Ferrante Ximes d'Urrea primogenito del Conte d'Aranda, e l'ultima D. Anna di D. Lope Moscoso Conte d'Altamira.

D. Luigi, rimaso in Napoli Luogotenente, non potè mostrare nel governo del Regno gli alti suoi talenti, perchè non lo tenne che pochi mesi; essendo stato dall'Imperadore, intesa la morte di D. Pietro, mandato per suo successore il Cardinal Pacecco, il quale trovandosi a Roma nel giugno di quest'anno, si portò subito a Napoli.

Il Cardinal Pacecco, rinomato non men per la sua famiglia cotanto illustre in Ispagna per lo Marchesato di Vigliena e Ducato d'Escalona, che ivi possiede, che per eccellenza di dottrina, e per li buoni servigi prestati in Trento in quel Concilio, fu dal Pontefice Paolo III, essendo Vescovo di Giaen, promosso al Cardinalato a richiesta dell'Imperadore, e dichiarato parimente Vescovo Saguntino; e trasportatosi il Concilio a Bologna, rimase egli in Roma per affari di Cesare, il quale intesa la morte del Toledo, lo mandò, come si disse, suo Vicerè nel Regno.

Il concetto che s'avea del suo rigore, spaventò prima Napoli, ma rimase poi ingannata dall'evento; poichè reso placido e soave, non solo trattò con mansuetudine i Napoletani, ma gli favorì molto presso Cesare, da cui impetrò l'esatta osservanza de' suoi privilegi, che Carlo V gli avea di nuovo spediti in Brusselles, a richiesta del famoso Girolamo Seripando, nell'ultimo giorno dell'anno 1554. Non s'intesero più carcerazioni di fatto, nè tormentare, o procedere all'esazione di pene criminali contra i delinquenti, col solo processo informativo. Furon dati provvidi ordini e norme da osservarsi nelle collazioni della Cappellania Maggiore, Prelature Regie, Protomedicato, Ufficiali di Giustizia e Castellanie del Regno; e nel suo Governo furono dalla benignità di Cesare concedute alla città e Regno molte altre grazie e privilegi[84].

Intanto a Filippo Principe di Spagna, essendo rimaso vedovo di Maria di Portogallo sua prima moglie, s'aprì, secondo la felicità di questa augustissima Casa, una ben ampia via d'unire alla Monarchia di Spagna il Regno d'Inghilterra; e se la morte di Maria senza lasciar prole di questo matrimonio, e le tante rivoluzioni accadute in Inghilterra, non avesser frastornato sì bel disegno, la impresa erasi condotta a fine; poichè proclamata a' 20 di luglio dell'anno 1553 per Regina d'Inghilterra Maria, prima figliuola d'Errico VIII, ed incoronata Reina con solennissima pompa nel primo d'ottobre in età di trentasette anni non avendo marito, da' Baroni del Regno fu fatta istanza, che per assicurare la successione del Regno, dovesse tosto maritarsi. Ella per ciò s'elesse per isposo Filippo Principe di Spagna; onde in gennajo del nuovo anno 1554 mandò Ambasciadori a Cesare notificandogli il suo pensiero. Con incredibile contento accettò l'Imperadore l'offerta, e senza perdervi tempo fu tosto il matrimonio conchiuso, e chiamato Filippo dalle Spagne, acciò si conducesse a tal effetto in Inghilterra: i Baroni Inglesi di quest'elezione fatta dalla Regina, ne rimasero mal contenti, e perchè odiavan gli Spagnuoli, e perchè aveano a male, che quel Regno venisse ne' discendenti dell'Imperadore.

Parti ciò non ostante, a' 16 luglio di quest'anno 1554, Filippo di Spagna dal Porto di Corugna con grossa armata e splendidissima Corte, e giunto al Porto d'Antonasi, diece miglia distante da Vincestre, ove la Regina l'aspettava, quivi si celebrarono le nozze con gran festa e trionfo.

Ma l'Imperadore, reputando mal convenire ad una sì gran Regina sposarsi Filippo, che non era ancora Re, mandò Figurino Reggente di Napoli in Inghilterra a portargli la cessione del Regno di Napoli e di Sicilia e dello Stato di Milano. Così Filippo, reso più augusto con questi titoli Regj, accrebbe l'allegrezza ed il giubilo delle nozze. I nuovi Sposi trattenutisi molti giorni in Vincestre in giuochi e tornei, ai 19 d'agosto si partirono, e con doppia Corte, e quasi con tutta la nobiltà di Spagna e d'Inghilterra, con pompe e ricchi apparati fecero la loro trionfale entrata nella Real città di Londra, dove i mal contenti Baroni, sperimentata la dolcezza e mansuetudine di Filippo, rimasero soddisfatti.

Filippo, avuta la cessione dal padre del Regno di Napoli, mandò subito il Marchese di Pescara a prenderne in suo nome il possesso, che con pubblica celebrità, e grandi applausi dal Cardinal Pacecco Vicerè, a' 25 di novembre del medesimo anno, gli fu data: nel medesimo tempo che l'Imperadore Carlo V, o fastidito dalle cose mondane, o per iscansare i colpi della fortuna, ch'egli credeva cominciare a mostrarsegli avversa, meditava abbandonare i tedj del secolo.

Era allora egli in Fiandra afflitto da continue e fastidiose podagre, e stanco ormai di sostener più il peso dell'Imperio, onde deliberò ritirarsi dalle cure mondane. Chiamò per tanto a se da Inghilterra il Re Filippo suo figliuolo, e giunto in Brusselles ove dimorava, prima d'ogni altro lo fece Capo dell'Ordine de' Cavalieri del Toson d'oro: poi in una gran sala, al cospetto di tutti i Consiglieri di Stato, di tutti i Cavalieri degli Ordini e Nobiltà, a' 25 ottobre del nuovo anno 1555, fece il gran rifiuto, rinunziando al Re suo figliuolo tutti i Paesi Bassi, con gli Stati, Titoli e Ragioni di Fiandra e di Borgogna. Gli rinunziò li Regni di Spagna, di Sardegna, di Majorica e Minorica, e tutti i nuovi Paesi scoverti nell'Indie, con tutte l'altre Isole e Stati appartenenti e dependenti dalla Corona di Spagna.

Rinunziò colla medesima solennità il governo dell'Imperio a Ferdinando suo fratello, eletto già Re de' Romani, e tre anni da poi, pochi mesi prima di morire, mandò la rinunzia dell'Imperio al Collegio Elettorale, il quale, il dì 14 marzo del 1558, elesse in suo luogo il medesimo Ferdinando.

Ritiratosi poi nella città di Gant sua patria, licenziò tutti gli Ambasciadori de' Principi, ch'erano appresso di lui, e tutti i Capitani d'armate; ed imbarcatosi nel seguente anno 1556 a' 17 settembre navigò per Ispagna, e si ritirò in Estremadura, dove dimorò il rimanente de' suoi giorni in un Convento abitato da' Monaci di S. Girolamo, chiamato San Giusto. Menò quivi vita solitaria, e morivvi il dì 21 di settembre dell'anno 1558 l'anno 59 di sua età.

CAPITOLO VIII. Stato della nostra Giurisprudenza, durante l'Imperio di Carlo V, e de' più rinomati Giureconsulti, che fiorirono a' suoi tempi.

L'imperador Carlo V, e più i suoi Vicerè, che durante il Regno suo governarono questo Reame, ci lasciarono molte leggi, delle quali per essersene, secondo la distinzione de' tempi, ne' quali furono stabilite, tessuta nell'ultima edizione delle nostre Prammatiche un'esatta Cronologia, non accade qui, per non gravar maggiormente quest'Opera, ripeterle.

La Giurisprudenza nel Regno suo, per essere stati i nostri Tribunali cotanto favoriti dal Vicerè Toledo, e ridotti in una più ampia e magnifica forma, si vide se non più culta, almeno in maggior splendore e lustro per lo gran numero de' Professori, e per la loro dottrina e scienza legale.

Per le cagioni, di sopra dette, non potè ricevere appo noi in questo secolo quella nettezza e candore, che i Franzesi l'aveano posta in Francia. Era agli Spagnuoli sospetta ogni erudizione, e si guardavano molto di non far introdurre novità nelle scienze, o nel modo d'Insegnarle e professarle. Fu continuato per ciò lo stile degli antichi; ma non per questo, se mancava l'erudizione e la notizia dell'Istoria Romana, onde poteva ricevere quel lume, che le fu data in Francia, mancarono Giureconsulti eccellenti non inferiori a quelli delle altre Nazioni.

Sembrava veramente cosa molto impropria, che avendo la Giurisprudenza per la prima volta in Italia cominciato a ricevere maggior lustro da Andrea Alciati Milanese, il quale fu il primo, che insegnò la legge con erudizione ed eleganza, questo studio si fosse poi abbandonato in Italia, ed avesse avuto costui in Francia, non già in Italia, tanti che l'imitassero e lo superassero, onde potesse perciò la Francia vantarsi di tanti famosi Giureconsulti, che fiorirono in questi tempi, e non l'Italia. Ella vantava in questi tempi il famoso Guglielmo Budeo di Parigi, Francesco Duareno suo discepolo, Professore di legge in Bourges, che morì nell'anno 1559 in età di 50 anni; il famoso Carlo Molineo, morto l'anno 1568. Il non mai a bastanza celebrato Jacopo Cujacio nativo di Tolosa, che fu Professore in Bourges, in Tolosa, in Caors, in Valenza, ed in Torino, e che fu un prodigio in questa scienza, denominato per ciò con ragione dal Tuano il primo, e l'ultimo fra' più eccellenti interpreti della legge. Antonio Conzio nativo di Nojon contemporaneo di Duareno e di Cujacio, che professò parimente legge in Bourges, e morì l'anno 1586. Francesco Ottomano, Pietro Piteo e tanti altri, dei quali il Presidente Tuano in tutto il corso della sua Istoria non tralasciò farne distinta ed onorata memoria.

Noi all'incontro, se per le Cattedre, per la riferita cagione e per altre, che s'intenderanno ne' libri seguenti di quest'Istoria, non possiamo oppore a' Franzesi Giureconsulti di tanta vaglia, per coloro però che nel Foro e ne' Magistrati impiegarono i loro talenti, non abbiamo che invidiargli, li quali nè per dottrina legale, nè per numero furono a quelli inferiori

Fiorirono a questi tempi ne' nostri Tribunali molti insigni e rinomati Giureconsulti. Antonio Capece del Sedile di Nido si rese prima illustre nel Foro col patrocinio delle cause, e da poi dal Re Ferdinando il Cattolico nel 1509 fu creato Consigliere, non tralasciando intanto nell'Università de' nostri Studi di leggere Giurisprudenza, dove occupò la prima Cattedra vespertina del Jus Civile, e nel 1519 insegnò anche ivi il Jus feudale, dalla cui scuola uscirono Bartolommeo Camerario, Sigismondo Loffredo, e tanti altri famosi Giureconsulti. Per li moti della Sicilia insorti sotto il governo d'Ettore Pignatelli Conte di Montelione, andò egli per comandamento del Re in quell'Isola, e della di lui opera il Conte si valse per reprimere gli autori di que' tumulti, dove compose alcune sue decisioni. Ritornò poi in Napoli, e con tutto che la sua carica di Consigliere non gli concedesse molto ozio, pure distese una Repetizione sopra il Cap. Imperialem, de prohib. feud. alien. per Feder. ed avea posta mano ad un'altra opera insigne intitolata: Investitura feudalis, la quale non potè condurre al suo compito fine. Compilò varie decisioni, che ai suoi tempi si fecero nel S. C. di S. Chiara, le quali, unite insieme con quelle che distese in Sicilia, vanno ora per le mani de' nostri Professori. Morì in fine egli in Napoli nel 1545, e giace sepolto nella Cappella della sua famiglia dentro la Chiesa di S. Domenico maggiore di questa città[85].

Bartolommeo Camerario di Benevento si distinse sopra gli altri nello studio delle leggi, e nel 1521 diede in Napoli alla luce una Repetizione sopra il § Æque de Actionibus; ma sopra ogni altro si rese costui eminente per la grande applicazione, ch'ebbe nelle materie feudali. Egli si pose ad emendare i Commentarj de' Feudi d'Andrea d'Isernia, li quali, per difetto de' Copisti, s'erano dati alle stampe scorrettissimi, e gli ridusse a perfetta lezione; e vi si affaticò tanto nello spazio di tre anni continui, applicandovisi sedici ore il giorno, che come e' dice[86], vi perdè un occhio. Lesse nell'Università de' Nostri Studi ventiquattro anni i libri feudali; da poi dalla Cattedra, nell'anno 1529, passò ad esser Presidente di Camera, rifatto in luogo di Giannangelo Pisanello. Indi nell'anno 1541 fu, dall'Imperador Carlo V, creato Luogotenente della medesima. Ma venuto in odio a D. Pietro di Toledo per le cagioni altrove rapportate, e per l'inclinazione, ch'ebbe sempre a' Franzesi, diede di se gravi sospetti; onde al Toledo gli s'aprì la strada di farlo cadere anche dalla grazia di Cesare: di che egli accortosi, ricevè l'onore offertogli dal Re di Francia, che l'avea creato suo Consigliere, e se n'andò in Francia, ricovrandosi sotto la protezione di quel Re. Il Vicerè Toledo, datogli tosto il successore, che fu Francesco Revertero, fece trattar subito la sua causa: fu dichiarato rubelle, e nel 1552 gli furono confiscati tutti i suoi beni. Nel tempo che dimorò in Francia, stando quivi in gran moto le cose della Religione, e le opere di Lutero e di Calvino facendo in quel Regno danni notabilissimi, poichè egli si era ancora applicato alla Teologia, si pose a confutarle; onde nel 1556 stampò in Parigi un trattato, De Jejunio, Oratione, et Eleemosina; e nell'istesso anno diede anche alla luce un'altra opera scritta in forma di Dialogo, introducendo sè e Calvino per interlocutori, alla quale diede il titolo: De Praedestinatione, ac de Gratia, et Libero arbitrio, cum Johanne Calvino disputatio; e nel seguente anno 1557, ritiratosi in Roma, diede quivi alla luce un altro trattato: De Purgatorio igne.

Vedendo, che in Francia i suoi meriti non erano ricompensati secondo le concepute speranze, si ritirò in Roma, dove dal Pontefice Paolo IV, fiero nemico non men di Cesare, che del Re Filippo suo figliuolo, fu ricevuto con onore; e l'ammise a' suoi Consiglj, attribuendosi a Camerario, come diremo più innanzi, che Paolo non pubblicasse la sentenza contro al Re Filippo profferita della privazione del Regno: ed avendo nella guerra, che allora ardeva tra il Pontefice, ed il Re Filippo, il Duca d'Alba assediata Roma, il Papa lo creò Commessario Generale del suo esercito, e lo fece di più Prefetto dell'Annona di Roma; onde per mostrar al Pontefice la gratitudine del suo animo, stampò allora in Roma nell'anno 1558 il suo Commentario ad l. Imperialem, de prohib. feud. alien. per Feder. e lo dedicò a lui, promettendogli nell'epistola dedicatoria, che se egli avrà ozio, gli avrebbe ancora dedicati sette altri libri feudali, da lui composti. Finì il rimanente della sua vita in Roma, dove morì nel 1564, e fu sepolto nella Chiesa de' SS. Appostoli dei PP. Conventuali di S. Francesco, dove si vede la sua tomba con iscrizione. Oltre delle riferite sue opere, si leggono di lui alcuni Dialoghi, in materia feudale, li quali mancando di quella grazia e venustà, ch'è propria di quel modo di scrivere, sono riusciti insipidi e freddissimi.

Sigismondo Loffredo discepolo d'Antonio Capece del Sedile di Capuana, si diede agli studi legali, dappoi che nelle lettere umane avea fatti maravigliosi progressi, e per la sua dottrina fu nell'anno 1512 dal Re Ferdinando il Cattolico creato Presidente della Regia Camera, ed appena furono passati cinque anni, che si vide innalzato al supremo grado di Reggente di Cancelleria, chiamato poi in Ispagna ad assistere nel supremo Consiglio d'Aragona, come Reggente di Napoli. Morì nel 1589 lasciando di se chiara memoria ne' suoi dotti Consiglj e ne' suoi Commentarj alla l. Jurisconsultus de gradibus, che furono dati in istampa in Venezia nell'anno 1572[87].

Rilusse a par di lui il famoso Cicco Loffredo, già rinomato Avvocato, e poi nell'anno 1512 creato Regio Consigliere. Per la sua grande abilità fu inviato Oratore in Fiandra al Re Carlo dalla città a prestargli in suo nome ubbidienza ed a cercargli la conferma de' suoi privilegi. Fu da poi nel 1522 innalzato al supremo onore di Presidente del S. C. che l'esercitò insino all'anno 1539, nel qual anno passò nel Consiglio Collaterale, dove fu fatto Reggente. Morì in Napoli nel 1547 e fu prima seppellito nel Duomo di questa città nella sua Cappella gentilizia; ma da poi Ferdinando Loffredo Marchese di Trivico suo figliuolo trasferì le sue ossa nella Chiesa di S. Spirito da lui fondata, dove si vede la sua tomba con iscrizione; e da questo famoso Giureconsulto discendono i presenti Marchesi di Trivico[88].

Fiorirono ancora, intorno a questi medesimi tempi, Girolamo Severino: Tommaso Salernitano: Giannandrea de Curte: Scipion Capece: Marino Freccia: ancor essi celebratissimi Giureconsulti.

Girolamo Severino del Sedile di Porto, essendo ancor giovane, fu nel 1516 creato Avvocato de' Poveri, indi dal Vicerè Lanoja nel 1517 fu fatto Giudice di Vicario. Per la sua dottrina ed eloquenza, nella venuta di Carlo V in Napoli, fu eletto dalla città per suo Oratore a riceverlo, e nel 1536 lo crearon Sindico; essendosi nel Parlamento generale degli 8 di gennaio di quell'anno conchiuso per sua industria un grosso donativo da farsi a Cesare, fu dall'Imperadore in ricompensa de' suoi segnalati servigi, creato Reggente di Cancelleria, e del Supremo Consiglio d'Italia, onde gli convenne partir con Cesare per Ispagna; ma da poi nel 1541 fu innalzato al supremo onore di Presidente del S. C., ed indi nel 1549 fu fatto anche Viceprotonotario del Regno: ed avendo esercitato il carico di Presidente per quindici anni, non valendo per la sua vecchiaia a sostener più tanto peso, tornò nell'anno 1555 nel Consiglio Collaterale; da dove pure per l'età sua decrepita si licenziò, ritenendosi solo l'ufficio del Viceprotonotario, che da lui, per non obbligarlo a molta fatica, fin che visse fu esercitato. Morì finalmente in Napoli nell anno 1559 e fu sepolto in S. Maria della Nuova, nella Cappella de' suoi maggiori, dove si vede il suo tumulto con iscrizione[89].

Tommaso Salernitano appena giunto all'età di 18 anni diede saggi così maravigliosi di quanto intendesse nella scienza delle leggi, che fu ammesso in quell'età ad interpetrarle ne' pubblici Studi di Napoli: si diede poi ad avvocar cause, e riuscì così eccellente, che non guari da poi fu creato Presidente della Regia Camera. Nel Regno di Filippo II fu adoperato nei più gravi affari di Stato, e mandato in Germania per la famosa causa del Ducato di Bari; onde da poi nel 1567 fu creato Presidente del S. C. e da poi nel 1570 Reggente di Cancelleria. Ci lasciò di se illustre memoria per le dotte decisioni da lui compilate, le quali impresse vanno ora per le mani de' nostri Professori. Morì egli in Napoli nel 1584, e fu sepolto nella Chiesa di S. Maria delle Grazie nella Cappella sua gentilizia, ove si vede il suo tumulo con iscrizione. Paolo Regio Vescovo di Vico Equense e famoso Predicatore di que' tempi, gli compose un'orazion funebre, dove cotanto estolse le sue virtù e le famose sue gesta[90]; ed il nostro rinomato Poeta Bernardino Rota non mancò ne' suoi versi altamente di lodarlo[91].

Giovan Andrea de Curte, di cui Uberto Foglietta[92] tessè grandi encomj, secondo questo Scrittore trasse sua origine da Pavia; ma i nostri[93] vogliono che procedesse dalla Cava. Fu egli figliuolo di Modesto, Giudice della Gran Corte della Vicaria, il quale applicatosi allo studio delle leggi riuscì un chiarissimo Giureconsulto; e dopo avere alquanti anni seduto in Vicaria, l'Imperador Carlo V lo creò Consigliere di S. Chiara. Ne' tumulti accaduti in Napoli nel 1547, per cagion dell' Inquisizione, poco mancò che dalla plebe non fosse stato, insieme co' suoi figliuoli, tagliato a pezzi; poichè vedendo egli la città tutta in arme, deliberò (seguendo le vestigia degli altri uomini pacifici e da bene) colla sua famiglia uscirsene; il che saputosi da' popolani, i quali l'ebbero sempre per partigiano del Vicerè Toledo, gli corsero furiosamente dietro, ed ancorchè si fosse egli ricovrato in un Convento di Frati, ruppero le porte, fecero violenza ai Monaci, affinchè glie lo additassero; ma essi costantemente negando essere presso di loro, e per altra via affermando essersi salvato; dopo avere spiati tutti i nascondigli del Monastero, rabbiosamente corsero insino alla Torre del Greco, dove avean inteso essersi ricovrati i di lui figliuoli, e sarebbero questi innocenti capitati male, se i paesani di quel luogo non fossero accorsi colle armi alle mani a reprimere il lor furore. Uno di questi suoi figliuoli fu Mario cotanto dal Foglietta celebrato, con cui, mentre fu in Napoli, contrasse stretta amicizia, il qual poi riuscì un gran Teologo, ed uno de' famosi Predicatori appresso il Re Filippo II, dal quale fu Giovan-Andrea, in premio della sua dottrina e de' suoi segnalati servigi, innalzato al supremo onore di Presidente del Consiglio. Morì egli nel 1576, e giace sepolto nella Chiesa di S. Severino nella Cappella sua gentilizia, dove si vede il suo tumulo con iscrizione. Di lui ancora altamente cantò Bernardino Rota[94], ed il Presidente de Franchis[95] non tralasciò di farne onorata memoria.

Ma sopra tutti costoro, non meno per dottrina legale, che per varia e profonda letteratura, rilusse Scipion Capece figliuolo d'Antonio. Fu ne' suoi primi anni dato allo studio delle lettere umane e della filosofia, e nel poetare e nell'orare riuscì eminentissimo, tanto che fu riputato per uno de' più culti Poeti de' suoi tempi. Compose egli due libri De Principiis Rerum, che dedicò al Pontefice Paolo III, cotanto lodati dal Cardinal Bembo e da Paolo Manuzio, che non ebbero difficoltà di paragonarli a' libri di Tito Lucrezio Caro. Scrisse ancora in versi eroici la vita di Cristo e le lodi del suo precursore Giovan-Battista, in tre libri, che intitolò: De Vate Maximo: li quali da Giovan-Francesco di Capua Conte di Palena furono dedicati al Pontefice Clemente VII. Ed alcune sue Elegie ed Epigrammi meritarono il comun applauso de' più insigni Letterati di que' tempi, de' quali il Nicodemo[96] tessè lungo catalogo.

Non meno in questi studi, che ne' più rigidi e severi delle nostre leggi riuscì eminente. Egli non men nel Foro che nelle Cattedre tenne a suoi tempi il vanto: ne' nostri supremi Tribunali fu riputato il primo fra gli Avvocati, e nell'Università degli Studi occupò nell'anno 1534 la Cattedra primaria vespertina del Jus civile, che la tenne insino all'anno 1537. Venuto in Napoli l'Imperador Carlo V, a Scipione fu dato il carico di fargli l'orazione pel suo ricevimento; onde Cesare in ricompensa della sua dottrina, e di sì eminente letteratura, lo creò Consigliere di S. Chiara. Compose egli molti Commentarj sopra vari Titoli delle Pandette, da lui esposti nell'Università de' nostri studi, de' quali solamente si vede impresso quello, che compilò sopra il titolo De Aquirenda Possessione, che fu dedicato a D. Lodovico di Toledo figliuolo di D. Pietro Vicerè, nel quale promette fra breve darne alla luce un altro sopra il titolo Soluto Matrimonio. Compose eziandio un breve trattato intitolato, Magistratuum Regni Neapolis qualiter cum antiquis Romanorum conveniant, Compendiolum, il qual prima fu impresso in Salerno nel 1544, e da poi in Napoli nel 1594. Morì quest'insigne Scrittore nell'anno 1545, e giace sepolto nella Chiesa di San Domenico Maggiore nella Capella sua gentilizia, dove si vede il suo tumulo[97].

Bisogna unire al Capece Marino Freccia, che oltre alla Giurisprudenza, ebbe buon gusto dell'istoria, e fu il primo fra noi, che di questo difetto riprese i nostri Scrittori, li quali, avendola trascurata, inciamparono in mille errori: fu egli vago delle nostre antiche memorie, ed a lui dobbiamo alcuni frammenti d' Erchemperto, che furono da poi impressi da Camillo Pellegrino nella sua Istoria de' Principi Longobardi. Il libro ch'egli compose De subfeudis e dedicò al Cardinal Pacecco, mentre governava il Regno, dimostra quanto gli fosse a cuore d'illustrare le cose del nostro Regno, e quanto fosse benemerito delle nostre antichità. Trasse egli sua origine da Ravello e per la sua eminente dottrina legale, e spezialmente de' feudi, da lui prima nelle Cattedre de' nostri studi esposti, fu dall'Imperador Carlo V nel 1540 creato Consigliere del nostro Sacro Consiglio, di cui parimente da poi fu Propresidente. Compose ancora un altro trattato De formulis Investiturarum, il quale, prevenuto dalla morte, non potè ridurlo a perfezione: ed essendo ancor giovanetto di venti anni distese il trattato De Praesentatione Instrumentorum, che corre ora per le mani de' nostri Professori. Morì egli nell'anno 1562 e fu sepolto nella sua Cappella gentilizia in S. Domenico Maggiore, ove s'addita il suo tumulo con iscrizione[98].

Fiorirono ancora intorno a' medesimi tempi Jacobuzio de Franchis, Antonio Baratuccio, Giovan-Tommaso Minadoi, Tommaso Grammatico, Giovan Angelo Pasinello e tanti altri, i quali, per non tesserne qui una più lunga e nojosa serie, possono vedersi presso il Toppi nella Biblioteca Napoletana, e ne' suoi libri dell'Origine de' nostri Tribunali, dove di lor fece lunghi e copiosi cataloghi.

CAPITOLO IX. Politia delle nostre Chiese durante il Regno dell'Imperador Carlo V.

In questo sedicesimo secolo ricevè il Pontificato Romano una delle più grandi e ruinose scosse, che dopo il suo innalzamento avesse avuto giammai. Per le cagioni, già riferite dell'eresia di Lutero, fece in Europa perdite lagrimevoli ed irreparabili. Molte province d'Alemagna si sottrassero; le Fiandre: l'Inghilterra, che fu un tempo la più sua ligia e fruttifera: la Scozia, ed i Regni del Nort si perderono affatto: la Francia ne fu pure in gran pericolo, e l'Italia dava di se gravi sospetti. Perdite, che mal si potevano compensare co' nuovi acquisti, che si facevano nell'Indie e nell'America: acquisti per Roma sterili ed infruttuosi. Turbava ancora l'animo de' Romani Pontefici il pensiero della convocazione d'un nuovo Concilio, riputato allora precisamente necessario per sedare le grandi rivoluzioni di Religione, onde tutta Europa era agitata e scossa. Ma non per tutto ciò si perderon di animo; nè co' Principi quantunque loro aderenti e congiunti (a' quali parimente premeva, che ne' loro Stati la Religione non s'alterasse) furono punto più indulgenti in rilasciando forse il rigore delle pretensioni, che nutrivano sopra le Chiese de' loro Dominj, e per altre loro pretensioni. L'Imperador Carlo V da poi che da Clemente VII riscosse quelle esorbitanti somme per riscatto della di lui persona, si curò poco, che nel nostro Regno gli Spogli delle nostre Chiese vacanti, e le Incamerazioni ricominciassero più severe che mai; s'imponessero spesse Decime a' Cleri ed a' Monasterj, dond'egli ne difalcava pure la sua parte; e per gli vantaggi ch'egli (siccome fecero dopoi tutti i Re suoi successori) ricavava con permissioni de' Pontefici dai Regni di Spagna, si curava poco de' suoi diritti, e molto meno de' nostri interessi, e di quelli delle nostre Chiese.

Nel trattato della pace, che come si disse, fu poi tra Cesare e Clemente conchiusa nell'anno 1532, venne largamente a disputarsi intorno alla presentazione delle Chiese Cattedrali del nostro Regno, pretese dai nostri Re di Patronato Regio. Essi fondavano il patronato, per avere i loro predecessori fondate le più insigni Cattedrali, che v'erano, e di ricche rendite e poderi dotate. I Normanni, come si è potuto vedere ne' precedenti libri di quest'Istoria, sin da' fondamenti n'ersero moltissime; e non fu picciolo beneficio d'averne molte sottratte dal Trono Costantinopolitano, e restituite al Trono Romano. Gli Angioini eziandio ne fondarono altre; onde siccome le Cattedrali di Spagna per questa ragione sono riputate tutte di Presentazione Regia, doveano parimente tali reputarsi le nostre, e per conseguenza tutti gli Arcivescovadi e Vescovadi, quando vacavano, doveano tutti provvedersi a presentazione e beneplacito del Re; ed ancorchè nel Regno degli Angioini si fosse tolto l' Assenso, che prima veniva ricercato nell'elezioni de' Prelati in tutte le nostre Chiese, siccome per ciò non si tolse l' Exequatur Regium, come altrove fu mostrato, così molto meno quella convenzione apposta nell'investiture, potè abbracciare le Chiese di Patronato Regio, dalla quale espressamente ne furono eccettuate; ond'è, che nel Regno moltissime Chiese e Beneficj, in tutte le nostre Province, siano rimasi di collazione o presentazione Regia; de' quali il Chioccarelli, il Tassone ed altri ne fecero lunghi cataloghi.

Il Reggente Muscettola, destinato allora Ambasciadore in Roma per Carlo V, per quest'affare sostenne la pretensione de' nostri Re; ma (siccom'è lo stile di quella Corte, che, sempre che il negozio si riduce in trattato, si cerca poi di tirarlo a composizione, col pretesto di togliere le discordie, ed un più lungo esame) si convenne con Clemente VII, che ventiquattro Chiese Cattedrali, cioè sette Arcivescovadi, e diciassette Vescovadi rimanessero di presentazione e nominazione Regia, e l'altre fossero riserbate alla disposizione del Papa. Furono dichiarate di Regia presentazione nella provincia di Terra di Lavoro li Vescovadi di Gaeta, di Pozzuoli e della Cerra. Nel Contado di Molise, il Vescovado della città di Trivento. In Principato citra l'Arcivescovado di Salerno, ed il Vescovado della città di Castellamare. In Principato ultra, il Vescovado della città d' Ariano. In Calabria citra, il Vescovo della città di Cassano. In Calabria ultra l'Arcivescovado di Reggio, e li Vescovadi di Cotrone, e di Tropea. In Basilicata (secondo la disposizione presente delle Province) l'Arcivescovado di Matera, al quale va ora unita la Chiesa di Cerenza, ed il Vescovado della città di Potenza. In Terra d'Otranto, l'Arcivescovado della Città d' Otranto, quello di Taranto, e l'altro di Brindisi, al quale andava allora unita la Chiesa d' Oira, il Vescovado di Gallipoli, e quelli di Mottula, e d' Ugento. In Terra di Bari, l'Arcivescovado della città di Trani, e li Vescovadi di Giovenazzo, e di Monopoli. In Apruzzo citra ed ultra, il Vescovado della città dell' Aquila, e quello di Lanciano, ora resa questa Chiesa Arcivescovile, ma non già Metropoli, per non avere suffraganeo alcuno. In Capitanata, non v'è Vescovado di Regia presentazione, ancorchè nella Chiesa di Lucera tutte le Dignità, e la metà de' Canonicati siano di collazione Regia, come altrove fu rapportato.

Questa fu la divisione, che si fece allora delle Chiese Cattedrali, che durò sino al presente, e fu inserita negli articoli di quella pace, nella quale espressamente s'esclusero gli altri Beneficj e Chiese non Cattedrali di patronato Regio, che sono moltissime, delle quali i nostri Re sono in possesso, quando vacano, di provvederle, e nelle loro vacanze destinar Regj Economi per l'esazione delle rendite, parte delle quali si assegnano per la loro reparazione e sostentamento, ed il rimanente si riserba a futuri successori.

Si curò anche poco l'Imperador Carlo, per le cagioni accennate, che s'imponessero da Roma nel nostro Regno nuovi gravamenti, fra quali il maggiore a' suoi tempi fu, che non essendosi quivi potuto introdurre il Tribunale dell' Inquisizione, se ne stabilisse un altro tutto nuovo, chiamato della Fabbrica di S. Pietro, di cui, come in suo luogo, bisogna qui rapportare l'origine e l'introduzione.

§. I. Origine del Tribunale della Fabbrica di S. Pietro, e come, e con quali condizioni si fosse fra noi introdotto, e poi a nostri tempi sospeso.

Il Pontefice Giulio II, volendo emulare la magnificenza del Re Salomone, gli venne in pensiero di fabbricare un Tempio in Roma in onore di S. Pietro Capo degli Appostoli, che fosse il più magnifico e sorprendente di quanti mai ne fossero al Mondo; reputando, che siccome Roma era divenuta Capo della Chiesa Spirituale, e s'era innalzata sopra tutte le altre Chiese della Terra, così era di dovere, che la sua Chiesa Materiale soprastasse a tutte le altre, non altrimenti che S. Pietro, a cui si dedicava, soprastò a tutti gli altri Appostoli, ed a tutti i Fedeli, che in Cristo credettero; ma non avendo le ricchezze di Salomone, rivoltò tutti i suoi pensieri per trovar miniere, donde per quest'opera potesse venire in Roma argento ed. oro. Cominciò prima per via d'indulgenze plenarie, concedendole a larga mano a tutti coloro, che lasciavano o donavano per la fabbrica di quel Tempio; ma vedendo che per ciò non si giungeva all'intento, inventò un nuovo modo, e per sua Costituzione stabilita nell'anno 1509, oltre d'avergli concedute molte prerogative, stabilì, che tutti i Legati pii, che si trovavano lasciati a luoghi incapaci, ovvero, che dagli eredi non si soddisfacessero, s'applicassero a questa Fabbrica. Instituì per tanto un Tribunale in Roma, i cui Ministri doveano non meno invigilare per la costruzione del Tempio, che a riscuotere per questa via danari per tutto il Mondo Cattolico per loro Commessarj.

Questa Bolla di Giulio fu da poi confermata e molto più amplificata da Lione X e da Clemente VII e dagli altri Pontefici suoi successori. Ma dovendosi, per esser fruttifera, farsi valere negli altrui Dominj, molti Principi s'opposero all'esecuzione, chi affatto rifiutando tal introduzione chi moderandola, e chi riformandola. Lione X tentò nel nostro Regno introdurre Commessarj di questo Tribunal di Roma, e nell'anno 1519 spedì Breve a lor diretto, concedendo loro facoltà di poter esigere per tre anni tutti i Legati pii, e per tal effetto costringere i debitori a soddisfargli, ed eziandio i Notai ad esibire ad essi i protocolli, gli istromenti ed i testamenti che dimandavano. Ma essendosi esibito il Breve al Vicerè, affin che se gli desse l' Exequatur, da D. Raimondo di Cardona, che avea allora il governo del Regno, nell'anno 1521 gli fu conceduto, ma colla clausula, praeter quam contra laicas personas; in guisa, che volendo i Commessarj suddetti costringere i laici, essendo di nuovo ricorsi al Cardona, questi ordinò agli Ufficiali Regj, che facessero loro giustizia contra i laici, con astringerli alla soddisfazione de' Legati pii, e parimente procedessero contro i Notai, obbligandoli ad esibire i protocolli e gl'istromenti[99].

Clemente VII da poi prorogò queste Commessioni, e nel 1532 spedì altro Breve, al quale D. Pietro di Toledo Vicerè diede l' Exequatur con alcune dichiarazioni, per le quali però non si toglievano i molti pregiudizj che s'apportavano al Regno, e le estorsioni e disordini che commettevansi da' Commessarj destinati per le Province; onde nel Parlamento tenuto in Napoli nel 1540 in nome della città e Regno fu pregato il Toledo, che trattasse col Papa d'estinguere affatto questo Tribunale, per li tanti aggravj ed estorsioni che faceva[100]; ed avendo poi il Vicerè nel 1547 col Pontefice Paolo III trattato quest'affare, si vennero a togliere molti abusi, ed a riformarlo in gran parte, tanto che si fecero nuove moderazioni ed altre dichiarazioni, in guisa che negli anni seguenti era rimaso poco men che sospeso Ma da poi il Duca d'Alba, Vicerè, nel 1557 fece ordinare, che il Tribunal della Fabbrica ritornasse nel suo primiero stato, secondo il concordato del 1547, fatto da Paolo III col Toledo.

Per la qual cosa si venne poi a stabilire, che il Commessario della Fabbrica residente in Napoli, che suol essere il Nunzio, non potesse conoscere delle cause di questo Tribunale, nè deciderle, se non col voto degli Assessori laici, i quali si destinerebbono dal Re, o suo Vicerè in tutte le tre istanze; onde nacque lo stile, che per le prime e seconde istanze si deputassero per lo più Regj Consiglieri, ovvero Presidenti della Regia Camera, e per Assessore o sia Giudice delle terze un Reggente di Collaterale; e parimente, che i Commessarj destinati per le Province, non potessero per se conoscere, o decidere, ma debbano avere gli Assessori laici da nominarsi dalle Comunità de' luoghi[101]: onde il Cardinal Granvela nel 1574, in esecuzione di tal Concordato, ordinò agli Ufficiali del Regno, che non impedissero l'esecuzione agli ordini di questo Tribunale, sempre che si facessero da Consultori Regj deputati da lui e suo Collateral Consiglio, e che alle loro provvisioni prestassero ogni ajuto e favore.

Ma con tutto ciò non si riparava a' disordini ed alle estorsioni de' Commessarj, nè si toglievano gli altri infiniti pregiudizj, che per questo Tribunale s'apportavano al Regno: poichè, se bene in vigor di questo Concordato il Tribunal della Fabbrica di Roma non poteva impacciarsi nelle cause contenziose del Tribunal di Napoli, ma solamente deputare il Commessario, l Economo, ed altri ufficiali minori di quello; con tutto ciò, siccome ce ne rende testimonianza l'istesso Cardinal di Luca[102], la Congregazione di Roma, per via di relazioni ed estragiudiziali informi, aveva preso a ritrattare quelle medesime cause, le quali in tutte le istanze s'erano agitate e già decise in Napoli. Parimente la Congregazione di Roma s'avea appropriate tutte le cause, che non erano contenziose, cioè, tutte le composizioni, alle quali le Parti desideravano essere ammesse senza litigare, avendo anche in ciò ristretto al Nunzio, o sia Commessario Generale, che risiede nel Regno, ed all'Economo la potestà di poter transigere nelle cause gravi, e dove vi potea nascere una grossa composizione; e così per tirar più denaro in Roma, come per ridurre le cause contenziose a poco numero nel Tribunal di Napoli, facilitava le transazioni, con ammettere a quelle ogni uno, che pagasse denari, importando poco, che soddisfacesse o no il peso imposto dal testatore, o l'adempimento de' Legati pii: perchè essi dicevano, che l'opera pia la compensavano col tesoro inesausto, ch'essi hanno in Roma, il qual chiamano Mare Magnum, una goccia del quale basterebbe a soddisfare tutti i Legati pii del Mondo; e per ciò facilitandosi per denari la composizione in Roma, la volontà de' pii disponenti non veniva a verun patto ad eseguirsi.

Ma quello, che più d'ogni altro rendeva odioso tal Tribunale, erano le estorsioni e disordini, che nella città e nelle province commettevano i Commessarj, delle quali estorsioni l'istesso Cardinal di Luca[103] ne rende pure a noi testimonianza. Essi, secondo una relazione, che si legge tra' M. S. Giurisdizionali[104] fatta sin dall'anno 1587, subito che giungevano nelle Terre del Regno, ancorchè piccole, affiggevano cartoni, e sonavano campanelli, e con voce tremenda ed orribile minacciavano scomuniche latae sententiae ai Notari, e a tutti coloro, che avessero testamenti, dove erano disposizioni pie, e non gli portassero a loro. Recati che loro si erano, li Commessarj citavan tutti gli eredi de' disponenti, ancor che quelli fossero morti cento anni a dietro, a mostrar la soddisfazione de' Legati pii; e non comparendo, erano dichiarati contumaci, e da poi per pubblico cedolone scomunicati; e quando venivano a purgarsi, non pensassero d'essere intesi, se prima non pagavano gli atti della contumacia, e da poi non gli assolvevano, se non mostravano la soddisfazione, o non pagavano di nuovo; e coloro, che non avevano modo di farlo, o pure erano tardi a venire, ed intanto il Commessario erasi partito da quel luogo, erano costretti, per essere assoluti, venire a Napoli; e molti, che per la loro povertà estrema, non aveano modo di portarsi in quella città, rimanevano scomunicati, e venendo a morte, era a' loro cadaveri negata l'Ecclesiastica sepoltura. Maggiori estorsioni si soffrivano in Napoli: poichè, anche se prontamente si portava la soddisfazione del Legato, non perciò l'erede ne usciva franco, ma dovea sborsare i diritti del decreto (quantunque non ricercato, nè voluto) che non fosse molestato; e passati alquanti anni si tornava da capo, con nuove richieste e nuovi decreti; e se la disgrazia portava, che la soddisfazione non potesse mostrarsi con iscritture, ma con testimoni, per liberarsene, era duopo fabbricarsi un voluminoso processo con gravissimi dispendj. Quindi atterriti i testatori stessi, s'astenevano di far più Legati pii, ovvero espressamente comandavano, che questo Tribunale non s'avesse ad impacciare in modo alcuno nelle loro disposizioni.

Per evitar tali ed altri moltissimi disordini, che qui si tralasciano, essendosi tal Tribunale reso odioso e grave a' nostri maggiori, s'ebbero di volta in volta continui ricorsi dalla città, e Regno a' nostri Re, perchè affatto si togliesse: finchè mosso il nostro Augustissimo Principe dalle querele de' suoi sudditi, con sua regal carta spedita da Vienna nel 1717 ordinò, che il Nunzio e Commessario insieme di questo Tribunale tosto sgombrasse dal Regno, e si chiudessero i suoi Tribunali; e giunto in Napoli quest'ordine nel mese d'ottobre del medesimo anno, fu prontamente eseguito, e fu soppressa non meno la Nunziatura, che la Fabbrica; e da poi fu spedito da Vienna, a' 8 ottobre del seguente anno 1718, altro imperial dispaccio, col quale s'ordinava al Conte Daun allora Vicerè, che minutamente lo informasse delle estorsioni ed abusi de' Tribunali suddetti, e del remedio che poteva darsi, siccome fu eseguito; e sebbene il Nunzio tornasse da poi, nel mese di giugno del seguente anno 1719, e fossessi restituito il Tribunal della Nunziatura, nulladimeno la restituzione seguì con molte restrizioni e dichiarazioni, come altrove diremo: ed il Tribunal della Fabbrica non fu restituito, ma rimase siccome infin ad ora ancor dura, sospeso e casso.

(Fra i Capitoli accordati al Popolo Napoletano in Tempo del Duca d 'Arcos a' 7 di settembre del 1647 che si leggono presso Lunig[105], il 29 fu questo: Ch'essendo finito il tempo della istituzione ed erezione del Tribunale della reverendissima Fabbrica di S. Pietro di Roma, detto Tribunale si dismetti ).

§. II. Monaci, e Beni Temporali.

Se mai in alcun tempo le nuove Religioni portarono nuove ricchezze, onde perciò bisognò unire coi Monaci i beni temporali, in questo secolo ne sursero due, che fecero maggiormente conoscere, che il monachismo non può a verun patto scompagnarsi dall'acquisto de' beni mondani; poichè, non ostante che le leggi fondamentali della istituzione loro li proibissero, nulladimeno, cattivatasi per quest'istesso la divozione de' Popoli, e resigli perciò più facili a donare, fu loro poscia agevole ottenere da Roma (cui molto cale i loro acquisti) dispense, ed interpretazioni per rendersene capaci.

Sursero in questo secolo molte Congregazioni di Cherici Regolari; ma una delle più principali fu quella de' Teatini. Fu così chiamata a cagion di Gianpietro Caraffa Vescovo della città di Chieti, da' Latini detta Theate, che insieme con Marcello Gaetano Tiene Gentiluomo Vicentino e Protonotario Appostolico, la istituì, prima di passare ad altre Chiese ed al Pontificato. Clemente VII, nell'anno 1514 l'approvò, e nei seguenti anni fu confermata da Paolo IV, dall'istesso Fondatore essendo Papa, e da Pio V nel 1567 e dagli altri Pontefici successori. Da Venezia vennero a noi (secondo che narra Gregorio Rosso[106] Scrittor contemporaneo) nel mese di maggio del 1533, nel qual anno da' Napoletani furono ricevuti con molto desiderio, e fra gli altri da Antonio Caracciolo Conte d'Oppido, il quale ebbe il pensiero di riceverli in un suo luogo fuori la Porta di S. Gennaro, ma poco da poi se n'entrarono dentro la città: furono accolti da Maria Francesca Longa (celebre per essere stata ella Fondatrice del famoso Ospedale degl'Incurabili) la quale assegnò loro alcune sue case per abitarvi. Ma mancò poco, che non se ne ritornassero in Venezia, siccome aveano risoluto, per l'angustia della loro abitazione: se non che D. Pietro di Toledo Vicerè per non farli partire, proccurò, che lor si desse per abitazione l'antichissima Parrocchia di San Paolo, dove si trasferirono nel 1538[107].

Ancorchè professassero una stretta povertà, e quantunque il loro istituto fosse di non poter nemmeno cercare limosine, ma totalmente abbandonarsi alla Divina provvidenza, la quale, siccome avea cura de' gigli del campo e degli uccelli dell'aria, così dovea anche prender di lor pensiero; con tutto ciò i Napoletani corsero loro dietro ad arricchirli a lor dispetto, ed a cumularli d'ampie facoltà e ricchezze, donde sursero i tanti magnifici e superbi lor Monasterj, che gareggiano colli più eccelsi edificj del Mondo. Si distinsero costoro sopra gli altri per la vigilanza che tenevano, perchè li novelli errori surti in questi tempi in Germania, non penetrassero in Napoli; onde, come si è detto, furono i più fedeli Ministri degl' Inquisitori Romani. Ed in decorso di tempo la divozione che i Napoletani portarono al B. Gaetano Tiene, uno de' loro Institutori, crebbe tanto, che gli ersero una statua di bronzo nella Piazza di San Lorenzo, e sopra tutte le Porte della Città parimente collocarono una sua statua, in segno del particolar culto, che sopra tutti gli altri suoi Protettori gli portavano.

Ma intorno a' medesimi tempi surse un Ordine, che col correr degli anni si rese assai più famoso e più diffuso di tutti gli altri: questo è quello de' Gesuiti di cui tanto si è parlato, e scritto. Ebbe in Francia i suoi principj dal famoso Ignazio di Lojola spagnuolo, e l'introduzione di questo nascente Ordine in quella Provincia, partorì de' gravi contrasti, de' quali ne sono piene l'istorie del Presidente Tuano[108]. Vi furono finalmente i Gesuiti ammessi, ed ancorchè, sotto il Regno d'Errico IV, fossero stati costretti nell'anno 1594 ad uscirsene, vi ritornarono poi nel 1603. Nell'altre province d'Europa fecero maravigliosi progressi ed acquisti, ed in Roma ed in Italia si distinsero sopra tutti gli altri; e quantunque in Venezia sotto il Pontificato di Paolo V fossero parimente stati costretti da' Vineziani a sgombrare dalla loro Repubblica, con tutto ciò vi tornarono poi nel Pontificato d'Alessandro VII.

(Resi accorti i Gesuiti da ciò che avvenne in Francia ed in Venezia, per essersi dati in quelle brighe dalla parte del Pontefice Romano, ne' tempi posteriori, avendo già poste profonde radici, ed acquistate immense ricchezze, pensarono più saviamente di gettarsi in casi simili a quel partito che potesse loro esser più profittevole, poco curando delle censure, ed interdetti di Roma, siccome si vide poi in Italia nelle brighe insorte tra il Pontefice Urbano VIII con Odoardo Farnese Duca di Parma; il quale solennemente scomunicato dal Papa nell'anno 1643, e minacciandogli interdetto sopra tutti i suoi Stati, i Gesuiti accortamente non vollero esporsi al pericolo d'essere di là scacciati: ma disprezzando le Papali Censure, si mostrarono assai leali e riverenti al Duca, e prestandogli ogni fedeltà s'uniron al di lui partito, scomunicato e maledetto, ch'e' si fosse. Vedasi Le Vassor ( Hist. de Louis XIII ), che ne rapporta l'istoria; e la Bolla di queste Censure fulminate da Urbano, si legge pure presso Lunig[109] ).

Ma nel nostro Reame non ebbero a sostenere opposizione alcuna; anzi venutici nel 1551, sotto la guida del P. Alfonso Salmerone, furono da' Napoletani accolti con non men desiderio che i Teatini. S'acquistarono in breve tempo l'amicizia de' Nobili, e particolarmente d'Ettorre Pignatelli Duca di Montelione, il quale assegnò loro per abitazione una Casa al vicolo del Gigante, dov'era una picciola Cappella: quivi si posero ad istruir i giovani nella dottrina Cristiana, dando norma a' Preti secolari di farlo anch'essi. Tratti i Napoletani da quello loro pietose e caritatevoli opere, nel 1557 diedero ad essi una più comoda abitazione e comprarono la Casa del Conte di Maddaloni presso la Chiesa di Monte Vergine, fabbricandovi una Chiesa sotto il titolo del Nome di Gesù, dove essi incominciarono ad insegnare i fanciulli senza mercede alcuna, a predicarvi, e far altri spirituali esercizj, sicchè tirando molta gente, il gran concorso rendendo incapace quella Chiesa, il Cardinal Alfonso Caraffa Arcivescovo concedè loro la Chiesa de' SS. Pietro e Paolo, la quale nell'anno 1564, da' Gesuiti fu diroccata, e renduta più grande; ma da poi diedero principio ad un magnifico edificio per costruirvi quel famoso lor Collegio, che ora occupa più contrade della città, per la magnificenza del quale sin dal principio del secolo passato tirarono il solo Principe della Rocca a spendervi ventimila ducati[110]. Sono pur troppo noti gli altri immensi e maravigliosi acquisti, che in meno d'un secolo fecero in questa città e Regno; gli altri eccelsi e stupendi loro edifici degli altri loro Collegi e Case Professe ne' luoghi più scelti della città e Regno, per li quali si lasciarono indietro tutti gli altri Ordini più numerosi e più ricchi, che insino a quel tempo v'erano stati.

Nè ponendosi mente al modo tenuto per acquistar tante ricchezze, deve parer ciò cosa strana: essi considerando, che gli Mendicanti avuta ch'ebbero da Roma la facoltà d'acquistare, perderono il credito e la divozione del popolo, onde non fecero poi gran progressi; quelle Religioni, che vollero persistere in una ferma e stabile povertà, si mantennero sì bene il credito e la buona opinione, ma non acquistarono ricchezze; onde bisognava pensar un modo nuovo, che fosse misto di povertà e di abbondanza; colla povertà acquistar il credito e la divozione; e di poter per altra mano ricevere quel che alla Compagnia era offerto e donato. Per ciò istituirono le Case Professe ed i Collegi; le Case Professe non possono a patto veruno acquistare, nè possedere stabili: in queste si professa povertà, ed è la meta dove qualunque lor operazione deve terminare; ma i Collegj possono acquistare e possedere stabili, dove ricevono, ed istruiscono la gioventù per allevarli nella virtù, affinchè si renda poi atta a vivere nella povertà Evangelica. Con che viene la povertà ad essere lo scopo ed il fine loro essenziale, ma accidentalmente ricevono possessioni e ricchezze. Con tutto ciò, da quello che si vide poi negli effetti, e dal gran numero de' Collegj e dalle poche Case Professe, ogni uno ha potuto conchiudere quello, che veramente sia loro l'essenziale, e quale l'accidentale. Sin dal principio del secolo passato si faceva il conto, che i Gesuiti, di Case Professe, non ne aveano più che 21; all'incontro il numero de' Collegj arrivava a 293 S'aggiunga a questo gli altri Collegj e gli altri grandissimi acquisti, che han fatto da poi per un altro secolo sino al presente, e vedrassi non esservi stato Ordine, che in un secolo e mezzo possedesse tanti stabili, ed avesse cumulate tante ricchezze e tesori, come questo.

Si fecero pure a questi tempi molte Riforme degli Ordini antichi, come quella de' Frati Minori Cappuccini, l'altra de' Recolletti, ovvero Zoccolanti, e quella de' Penitenti; per li Carmelitani, la Riforma introdotta da Santa Teresa, che cominciò dalle femmine, e poi si stese anche agli uomini, donde sursero i Teresiani Scalzi; e per gli Agostiniani, la Riforma de' Romiti d'Agostino. Si fecero ancora nuove Fondazioni, come quella de' Fratelli della Carità, che hanno per istitutore S. Giovanni di Dio: l'altra de' Cherici Regolari Sommaschi, istituiti nel 1531 da Girolamo Miano, o Emiliano, Nobile Veneziano, per l'educazione degli Orfani, e nel 1540 approvati da Paolo II, li quali da poi nel 1568 furono, da Pio V, ammessi a' voti Monastici; ed alcune altre: ma tutte queste Riforme, e nuove Fondazioni non s'introdussero nel Regno subito, che furono istituite: vennero a noi più tardi nei seguenti anni, onde, secondo l'opportunità, se ne terrà conto ne' libri seguenti di quest'Istoria.

FINE DEL LIBRO TRENTESIMOSECONDO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMOTERZO

Il Re Filippo II nel governo de' suoi Regni calcò sentieri diversi di quelli, che calcati avea l'Imperador Carlo suo padre: costui, scorrendo per tutti i suoi ampj Dominj, s'adattò a più e diverse Nazioni, ed era accettevole non meno a' Spagnuoli, che a' Fiammenghi, Germani ed Italiani; all'incontro Filippo, partito che fu di Fiandra dopo la morte di Maria Regina d'Inghilterra sua seconda moglie, e risoluto di fermarsi in Ispagna, senza mai più vagare, si chiuse in Madrid, e postosi in braccio degli Spagnuoli, cominciò da quivi a reggere la monarchia secondo le loro massime; ed adulato da costoro, come per lo più prudente e saggio Re della Terra, ristretto in se stesso, dal suo gabinetto si pose a governare il Mondo. Da lui, alcuni dissero, che la Monarchia di Spagna cominciasse a declinare, o almeno, che si spargessero semi tali, che non potevano col correr degli anni germogliare, se non disordini, perdite e confusioni; poichè governando gli Spagnuoli con grande alterigia, si acquistarono l'odio delle Nazioni straniere; onde le Fiandre si perderono, ed in decorso di tempo, nel Regno di Filippo IV suo nipote, la Catalogna, Napoli e Sicilia si videro in pericolo; Portogallo sottratto, e la Monarchia finalmente ridotta in quello stato deplorabile, che fu veduta nel Regno di Carlo II, ultimo della sua maschile posterità e discendenza.

Di Filippo II, si è cotanto scritto e rescritto, che sarebbe abbondar d'ozio, se qui s'avessero a ripetere le medesime cose: solamente per ciò, che riguarda la politia del nostro Reame, si noteranno in questa Istoria alcuni de' più segnalati successi a quella attinenti, donde possa aversi contezza dello stato così civile e temporale, come ecclesiastico, nel quale si vide questo Reame, ne' quarantaquattro anni, che ei regnò, che tanti appunto ne corsero dall'anno 1554, nel quale gli furono dal padre rinunziati i Regni di Napoli e di Sicilia, sino a' 13 di settembre dell'anno 1598, nel quale morì. In questo spazio di tempo vi mandò egli otto Vicerè, oltre a sei Luogotenenti, che ressero il Regno in lor vece. Ed è cosa da recar stupore il numero de' milioni, che da quello si cavarono in questo tempo, per li donativi, che in varie occasioni gli furon fatti: de' quali lunghi cataloghi ne fecero i nostri Scrittori[111], e di quelli per essere stati tanti, appena poterono tenerne un esatto ed accurato conto. Per ciò nel volume de' Capitoli, si leggono tante grazie e privilegi conceduti da questo Principe alla città e Regno di Napoli; ma sempre mal eseguiti e peggio osservati.

Prese egli, come si è detto, la possessione di questo Regno, vivente il padre, per mezzo del Marchese di Pescara, in tempo del Cardinal Pacecco, che si trovava Vicerè, avendogli il Pontefice Giulio III, successore di Paolo III, conceduta l'investitura del Regno renunziatogli dal padre, dichiarando in quella di non voler pregiudicare in cos'alcuna alle ragioni della Regina Giovanna sua ava, madre di Carlo V, che allora ancor vivea. Fu la Bolla spedita a' 3 di ottobre del 1554, e vien rapportata dal Chioccarello nel primo tomo de' suoi M. S. Giurisdizionali.

Mentre visse il Pontefice Giulio, ed in que' pochi giorni, che sedè in Roma Marcello II suo successore, le cose passarono fra noi in somma quiete e tranquillità. Il Cardinal Pacecco confermato dal nuovo Re al governo del Regno, proseguiva la sua prudente condotta, invigilando alla retta amministrazion della giustizia, di che presso noi ci restano ancora vestigj per quelle otto Prammatiche, che ancor si leggono ne' volumi delle nostre leggi[112]. Maggiori vestigj della sua saviezza ci restano nella Storia del Concilio di Trento del Cardinal Pallavicino, dove molto s'adoperò in quell'Assemblea, infin al 1560. Ma essendo appena intronizzato, morto il Pontefice Marcello a' 30 aprile del 1555, per l'elezione da farsi del nuovo Papa, fu a noi tolto il Cardinal Pacecco, il quale bisognò portarsi in Roma, lasciando per suo Luogotenente D. Bernardino di Mendozza, che non più di sei mesi governò il Regno.

Ma ciò, che fra noi pose in isconvolgimento e disordini il Regno, fu che l'elezione del nuovo Pontefice cadde in persona del Cardinal Giovan-Pietro Caraffa, che Paolo IV chiamossi. Costui essendo nemico de' Spagnuoli, e mal soddisfatto dell'Imperador Carlo, che gli avea attraversata nel Conclave l'elezione, portò nel Regno quella guerra, che saremo ora a narrare.

CAPITOLO I. Guerra mossa dal Pontefice Paolo IV al Re Filippo per togliergli il Regno. Sua origine, pretesto ed inutile successo.

La guerra, che Paolo IV mosse nel Regno di Napoli, ancorchè avesse molti Scrittori, fu però cotanto accuratamente scritta da Alessandro d'Andrea napoletano, siccome colui, che vi fu presente, avendovi militato sotto il Maestro di campo Mardones, onde ragionevolmente posposti tutti gli altri, sarà da noi seguitato: tanto maggiormente, che il Presidente Tuano, descrivendola ancor egli nelle sue Istorie[113], seguitò pure questo medesimo Scrittore. Le cagioni però onde nacque, e per quali pretesti fu mossa, è di mestieri che qui brevemente si narrino.

Giovan-Pietro Caraffa figliuolo del Conte di Montorio, datosi nella sua giovanezza agli studi delle lettere, e sopra ogni altro della Teologia e delle lingue, riconobbe le sue fortune dal famoso Cardinal Oliviero Caraffa, che in Roma gli diè ricovero nella sua propria casa, non essendo allora che un semplice Canonico della Cattedrale di Napoli[114]. Per la resignazione che trovavasi aver fatta il Cardinal Oliviero del Vescovado di Chieti, fu da Giulio II nel 1505, ne' primi tempi del suo Pontificato, creato Vescovo di quella città; e per la perizia di molte lingue, che professava della latina, greca ed ebrea, entrò in somma grazia di Lione X, che lo mandò Nunzio in Inghilterra per raccogliere, come era allora il costume, il denaro di S. Pietro. Ferdinando il Cattolico, a riguardo di Lione, l'onorò anche nella sua Corte, ascrivendolo al suo Real Consiglio, e lo creò Vicario del suo Cappellan Maggiore, nelle quali dignità fu mantenuto anche da Carlo V suo nipote; il quale l'offerì anche l'Arcivescovado di Brindisi di molta maggior rendita, che quello di Chieti[115]; ma essendosi dato in questo tempo allo spirito, professando santità, non pur lo refutò, ma resignò anche nelle mani di Clemente VII, allora Pontefice, il Vescovado di Chieti, e fuggendo il cospetto degli uomini si ritirò in Monte Pincio, ove menò vita molto austera da Solitario; ma costretto poi a partir di là, per lo sacco dato a quella città, andò in Verona; indi portossi a Venezia, ove essendosi a lui associati Gaetano Tiene Vicentino, Bonifacio del Colle, Alessandrino, e Paolo Consigliere romano, istituì la Religione de' Chierici Regolari, i quali dal nome della sua Chiesa, che prima avea, si chiamarono (come s'è detto) Teatini; il cui Istituto, essendo stato da poi da Clemente VII approvato, lo rese assai famoso non meno per dottrina, che per santità, e probità della sua vita e costumi; tanto che Paolo III, in quella celebre promozione di nove Cardinali, che fece a' 22 decembre del 1536, lo creò Cardinale, e lo costrinse poi ad accettare la Chiesa di Chieti, innalzata fra questo tempo a dignità Arcivescovile.

Durante il Pontificato di Paolo III, fu da costui avuto in somma stima per la severità de' costumi ed austerità di vita che professava, mostrando gran zelo per la Sede Appostolica, e fu terribile persecutore degli Eretici, che nel suo tempo vedeva germogliare a truppe in varie Regioni in Europa. Egli fu autore a Paolo III d'innalzare il Tribunale dell'Inquisizione di Roma, e renderlo spaventoso per tante rigorose leggi e nuove forme introdotte: ciò che poi nel suo Pontificato accrebbe[116], che, come si è veduto nel precedente libro, fece venire in orrore quel Tribunale, non pure agli stranieri, ma all'istessa Italia ed a Roma medesima: tanto che, lui morto, i Romani la prima cosa che fecero, bruciarono il Tribunale e le carceri, e a quanti prigioni ivi erano, diedero libertà. Quindi avvenne, che presso noi i Teatini si resero in ciò cotanto insigni, che non predicavan altro, che Inquisizione, e sovente essi erano, che andavano a denunziare i sospetti d'eresia, e proccuravano di farli imprigionare.

Ma mentre questo Cardinale dimorava in Roma presso Paolo III, fu scoverto, che egli, non meno che il Pontefice, era quanto avverso a Cesare ed alla Nazione spagnuola, altrettanto affezionato del Re di Francia, allora nemico di Carlo. L'odio che portava il Cardinale alla Nazione spagnuola, era nato da antiche cagioni: poichè avendo molti de' Caraffeschi, nell'invasione di Lautrec, seguitato il partito franzese, ne furono alcuni, quietato il Regno, aspramente castigati; onde Giovan Pietro non tralasciava odiarla. Anzi gli Spagnuoli tennero allora per certo, che ne' tumulti del 1547, insorti per l'occasione già detta dell'Inquisizione, egli avesse proccurato con tutti gli sforzi possibili (con promettere non pur il suo ajuto, offerendosi d'essere di persona in Napoli, ma anche de' suoi parenti) di persuadere al Pontefice di non lasciar perdere sì opportuna occasione d'occupare il Regno, e che dovea darne stretto conto a Dio, trascurando un tanto acquisto per la sua Chiesa. Ciò che non mancò il Duca d'Alba di rinfacciarglielo, essendo Papa, nella lettera che gli scrisse, prima di moversi questa guerra, la quale vien rapportata tutta intiera nella sua Istoria dal Summonte[117]. Per la qual cosa avendo gli Spagnuoli fatto avvertito Cesare dell'inclinazione del Cardinale verso i Franzesi, e dell'avversione agli Spagnuoli, fecion sì, che Cesare lo cassasse dal numero de' suoi Consiglieri. Ed oltre a ciò, avendo l'istesso Pontefice Paolo III, a preghiere del Cardinale, conceduto il Priorato Gerosolimitano di Napoli a Carlo Caraffa suo nipote, gli fu dal Toledo, allora Vicerè, proibito poterne prendere il possesso.

Ma essendo nell'anno 1549 per la resignazione fatta da Ranuccio Farnese, vacata la Chiesa di Napoli, Paolo III tosto la concedè al Cardinale, il quale avendosi fatte spedir le Bolle, si credette di doverne tosto esser posto in possesso; il Vicerè Toledo negò alle Bulle l' Exequatur Regium, e non volle mai permettere, che se gli si fosse dato; ed essendosene pochi giorni da poi morto il Pontefice Paolo, e rifatto in suo luogo, a' 8 febbrajo del nuovo anno 1550, Giulio III, questi scrisse una ben calda e pressante lettera all'Imperador Carlo V, pregandolo a non far differire più la possessione al Cardinal Caraffa della Chiesa di Napoli: esagera fra l'altre cose in questa lettera, che si legge presso il Chioccarello[118], che fu tutta calunnia ed impostura, ciò che di lui s'era falsamente divolgato d'aver pensato in proximo Neapolitano tumultu, illud tuum Regnum nostro praedecessori tradere: nec vero nos (e' testifica) quid tale de hoc viro andivimus, etc. Nec is tantum rem moliri; tantos motus concire, pertenuibus ipse facultatibus, ausus esset. Lo pregava perciò a non fargli impedire il possesso, e gli mandò a questo fine un Nunzio a trattar di questo affare.

L'Imperadore, che col nuovo Pontefice non avea quell'inimicizia, che passava col suo predecessore, diede orecchio alle preghiere di Giulio; ed avendo fatto mettere in trattato questo affare, non meno in Roma, che in Ispagna ed in Napoli, dopo lungo pensare provando il Cardinale, quanto fosse tediosa la solita tardità degli Spagnuoli, finalmente ottenne alle sue Bolle l' Exequatur Regium, e venne ordine da Cesare, che se gli fosse dato il possesso.

Ma il Cardinale conoscendo, che venendo a Napoli, gli Spagnuoli non gli avrebbero data molta soddisfazione, mandò a prendere possesso il Vescovo Amicleo, che fece suo Proccuratore, il quale lo prese a' 2 luglio del 1551, e lo creò anche suo Vicario. Resse in questa maniera la Chiesa di Napoli per quattro anni per mezzo di questo Vicario, nè mai volle egli venire a risedere. Di che accortisi gli Spagnuoli, non lasciarono al suo Vicario di contrastargli spesso, e movergli sovente quistioni di giurisdizione, tenendolo sempre agitato ed inquieto.

Essendo a Giulio III succeduto Marcello II, che poco tempo tenne quella Sede, costui morto, venne il Caraffa a' 23 maggio del 1555 assunto al Pontificato col nome di Paolo IV. Fu maravigliosa cosa ad udire, come appena giunto a quella dignità, quella severità de' costumi la cangiasse tosto in superbia ed alterigia; e dimandato, come restava d'esser servito intorno al modo di vivere egli co' suoi nipoti, rispose, come conviene ad un Principe[119]. Gli Spagnuoli rimasero mal soddisfatti dell'elezione; onde il Re Filippo reputò far trattenere il Cardinal Pacecco in Roma, non permettendogli, che tornasse al suo governo di Napoli, affinchè colla sua prudenza ad accortezza proccurasse, o di raddolcire l'animo del nuovo Papa, ovvero scorgendo più da presso i suoi andamenti, farlo avvertito di ciò, che si meditava, per prevenirsi, in caso d'insulto, alla difesa.

Ma non passò molto tempo, che si scovrì l'animo del nuovo Pontefice essere tutto rivolto a vendicarsi degli Spagnuoli, ed a meditar nuove leghe con Errico Re di Francia per l'impresa del Regno, di che avvisato il Re Filippo, opportunamente mandò al governo di Napoli D. Ferdinando Alvarez di Toledo Duca di Alba, che allora essendo Governatore di Milano, avea il comando supremo delle armi spagnuole in Italia: quel famoso Capitano, che per le tante sue famose gesta si rese glorioso non meno in Germania ed Italia, che in Fiandra ed in Portogallo.

Il Duca d'Alba giunto in Napoli in qualità di Vicerè nella fine di quest'anno 1555, si pose ad osservar più da presso gli andamenti del Pontefice; il quale non meno per ingrandire i suoi nipoti; che per maggiormente premunirsi all'impresa, che meditava sopra il Regno di Napoli, avea, con pretesto che teneva pratiche segrete con gli Spagnuoli, tolto a Marcantonio Colonna lo Stato di Palliano in Campagna di Roma, concedendone l'investitura a Giovanni Caraffa Conte di Montorio suo nipote, con titolo di Duca di Palliano, e ciò quasi nel medesimo tempo, che avea investito Antonio Caraffa altro suo nipote del Contado di Bagno, e datogli titolo di Marchese di Montebello; ed a Carlo Caraffa, altro suo nipote, di Cavaliere Gerosolimitano creatolo Cardinale. Abbassava tutti coloro, ch'erano dipendenti di Spagna, ed esaltava quegli di contraria fazione; anzi accarezzava tutti i fuorusciti del Regno, e mal contenti del Re, che si ricovrarono da lui in Roma; siccome infra gli altri accolse Bartolommeo Camerario nostro famoso Giureconsulto. E passò tanto innanzi, ch'essendo state intercettate alcune lettere, fece carcerare e crudelmente tormentare Giovanni Antonio de Tassis Maestro delle Poste, privandolo di quell'Ufficio, che i Re di Spagna erano stati sempre soliti mantenere in Roma: ed oltre a ciò, fece carcerare Garcilasso della Vega Ambasciadore di Filippo, come Re d'Inghilterra, in Roma, siccome faceva vegghiare addosso a tutti gli amici e servidori del Re e de' suoi ministri, ch'erano in Roma.

E fu cotanta la sua imprudenza, che mal sapendo covrire il suo astio e mal talento contra il Re, e contra gli Spagnuoli, pubblicamente minacciava, che l'avrebbe privato del Regno, come decaduto alla S. Sede. Era Paolo IV secondo ciò, che ne scrisse anche Bacon di Verulamio,[120] un uomo superbo ed imperioso, e di natura aspro e severo, e perciò frequentissimamente passava a parole piene di vituperio contra il Re e l'Imperadore, in presenza d'ogni sorta di persona, e ritrovandosi alcun Cardinal spagnuolo presente, le diceva più volentieri, comandando anche, che gli fossero scritte. Ed un dì in pubblico Concistoro fece far istanza dal suo Proccurator Fiscale, e da Silvestro Aldobrandino Avvocato Concistoriale, dimandando doversi il Regno dichiarar devoluto alla S. Sede: alla quale istanza egli rispose, che a suo tempo vi avrebbe data provvidenza[121]. Ciò che il Duca d'Alba, come d'un temerario attentato non lasciò di rinfacciarglielo in quella lettera[122], che gli scrisse, dicendo: Ha permettido V. S., que en su presencia el Procurador, j Abocado Fiscal de essa Santa Sede hà hecho en Concistorio tan injusta, iniqua, y temeraria instancia, y domanda: que al Rey mi Senor fuesse quitado el Reyno, accettando, y consentiendo a quella F. S. con dezir, proveheria à su tiempo. Ma questo fatto non si rimase nella sola istanza del Fiscale, poichè si procedè più innanzi con farsene processo, e si venne insino alla sentenza.

Il Presidente Tuano[123], ed il Soave rapportano, che la cagione, onde si mosse il Papa a dichiarar devoluto il Regno fosse, perchè Filippo avea, secondo lui, commesso delitto di Maestà lesa, per aver favoriti e ricevuti sotto la sua protezione li Colonnesi di lui ribelli. Ma il pretesto, che si fece apparire, e sopra il quale appoggiossi la sentenza, fu per cagione di censi non pagati. Il Re Filippo, prima che fossegli giunta la notizia dell'elezione del Papa in persona del Cardinal Caraffa, avea scritta una lettera a' 25 giugno del 1555 al suo Ambasciatore di Roma, nella quale gl'incaricava di dover trattare col Papa che sarà eletto, di dovergli rimettere i censi de' ducati settemila l'anno pretesi dalla Sede Appostolica; poichè nel Concordato fatto tra Clemente VII coll'Imperador Carlo V suo padre, fra l'altre cose fu pattuito, che facendo l'Imperadore restituire alla Sede Appostolica dalli Vineziani, e dal Duca di Ferrara alcune città e Terre, che tenevano occupate, delle quali la Sede Appostolica n'era stata spogliata, non dovesse più egli, nè i suoi successori pagare il suddetto censo di ducati settemila l'anno; ma solo consignare alla Camera Appostolica ogni anno un' Achinea bianca in segno di ricognizione; e già che l'Imperadore avea adempito alle sue promesse, e fatto rilasciare da' Vineziani e dal Duca di Ferrara quelle città e Terre, ch'erano della Sede Appostolica, se gli dovea osservare detta promessa, e rimettere il censo; incaricandogli di vantaggio, che non essendo ancora eletto il nuovo Papa, e durando la Sede vacante, facesse deposito del censo di quell'anno, già che si accostava il tempo del pagamento, con protesta di doversegli restituire, per non essere tenuto[124].

Qualunque altro de' Cardinali, che fosse stato eletto Papa, avrebbe riputata la dimanda ragionevole; ma a Paolo IV questa pretensione di Filippo servì opportunamente per pretesto di quel, che intendeva di fare: poichè rifiutandola come ingiusta, non solo pretese i censi decorsi, non ostante il Concordato di Clemente VII, ma quelli non essendosi, contra il suo volere, pagati, fece far la riferita istanza dal suo Fiscale, per dichiararsi Filippo per ciò decaduto dal Regno; e fabbricatosi il processo, promulgò egli sentenza nel nuovo anno 1556, colla quale dichiarò il Regno di Napoli devoluto alla S. Chiesa Romana, per non essersi per molti anni pagati i censi suddetti, e ne fu stesa Bolla[125]. Non fu però la sentenza pubblicata, nè mai uscì fuori, poichè, come vedremo, il Duca d'Alba strinse colle armi sì bene il Papa, che ebbe a gran favore, colla mediazione de' Vineziani, di deporre la sua boria, e starsi in pace. Alessandro d'Andrea[126] rapporta, che quella non fu pubblicata per consiglio di Bartolommeo Camerario da Benevento, il quale, come si è detto, esule dal Regno, dimorava allora in Roma protetto dal Papa.

Ma da alcune lettere intercette si scoverse, onde veniva tanta boria e fasto del Papa, che parlava non meno di quello si operasse con tanta pubblicità, ed alla svelata contra il Re e contra il Regno, con animo aperto d'invaderlo. Si scoverse in fine il trattato e la lega ch'egli per mezzo de' Cardinali di Tournon e di Lorena avea fatta col Re di Francia d'assaltare il Regno; anzi si pubblicò allora, che avendovi avuto in ciò anche parte il Principe di Salerno, che da Costantinopoli erasi ritirato in Francia, il Papa, per mezzo del Re Errico, e del Principe, avesse anche fatta lega col Turco, affinchè assaltando costui, o almen travagliando il Regno per via di mare, se gli rendesse più facile l'impresa e la conquista per terra. Fu fama ancora, che per maggiormente ingrandire i suoi nipoti, avesse concertato col Re di Francia di dar Maria sua nipote sorella del Cardinale e del Duca per isposa ad un suo figliuolo, colui che dovea investirsi del Regno, secondo le capitolazioni, che si diranno; e l'investitura fosse come per dote della medesima, e si credette allora, che il matrimonio avrebbe effetto, se le cose della guerra di Napoli gli fossero riuscite prospere; e se Maria, che non era più che di nove anni, non fosse troppo intempestivamente morta.

I Capitoli della lega conchiusa in Roma a' 15 dicembre del 1555, rapportati dal Summonte[127], furono infra gli altri questi.

Che il Re Cristianissimo fosse obbligato difendere con tutte le sue forze la Santità di Papa Paolo IV contra qualsivoglia persona, che lo volesse offendere, e, quando ciò avvenisse, di calare egli, o mandare eserciti in Italia per sua difesa.

Che pigliasse perpetua protezione del Cardinal Caraffa, del Conte di Montorio, e D. Antonio Caraffa suoi nipoti, e loro descendenti; e rimunerasse, e ricompensassegli de' Titoli e beni, che potessero perdere, per conto di questa lega, nel Regno, dando loro altri Titoli e beni in Italia, o in Francia, convenienti alla loro nobiltà ed alla real sua magnanimità.

Che il Re facesse passar in Italia diece a dodicimila fanti forastieri, più o meno, secondo che di comun avviso sarebbe giudicato neccessario, e cinquecento lanze franzesi, e cinquecento cavalli leggieri.

All'incontro che il Papa desse dello Stato della Chiesa, o di altri diecimila fanti più, o meno, secondo che sarà giudicato espediente, co lor Capitani e Generali, e mille cavalli.

Che desse il passo, vettovaglie, artiglierie e munizioni ed altre comodità, che aver si potranno nello Stato della Chiesa, all'esercito della lega per loro denari.

Che la guerra si cominci nel Regno o in Toscana, come sarà più espediente al ben comune.

Che acquistandosi il Regno di Napoli e di Sicilia, il Papa abbia da investirne uno de' Serenissimi figliuoli di S. M. Cristianissima, purchè non sia il Delfino, quando e quante volte ne sarà richiesto dal Re Errico, riserbandosi la città di Benevento e suo Territorio e Giurisdizione; e con condizione ancora, che i confini dello Stato della Chiesa s'abbiano da dilatare e stendere di qua all'Appennino, insino a S. Germano inclusive, ed al Garigliano; e di là dell'Appennino, sino al fiume di Pescara, talmente che tutta quella Terra, ch'è di dentro a predetti confini della Provincia d'Apruzzo, o sia chiamata di qualunque altro nome, o reputata di qualunque altra Provincia fin a Pescara, e nella Provincia di Terra di Lavoro sino a S. Germano inclusive, ed al fiume Garigliano, s'intenda essere, e sia della Giurisdizione della Chiesa; ed i confini del Regno si termineranno con essi fiumi, e con retta linea, dividendo parimente il Monte Appennino da S. Germano al nascimento del fiume di Pescara, ne' quali confini è compresa la Città, Fortezza e Porto di Gaeta, la qual sia della Chiesa, come l'altre Terre e luoghi contenuti fra' sopradetti termini.

Che s'accresca il censo a ventimila ducati di oro di Camera, oltre alla solita Achinea.

Che la Sede Appostolica abbia nel Regno uno Stato libero di rendita circa scudi venticinquemila d'oro, ed in luogo conveniente da eleggersi per Sua Santità.

Che si dia all'Illustrissimo Signor Conte di Montorio uno Stato similmente con condizione libera, et pieno jure, e che sia a soddisfazione di Sua Santità, e che renda venticinquemila scudi d'entrata, e sia suo e di suoi eredi, quali e quanti ne vorrà lasciare ed istituire, maschi o femmine, e ne possa far testamento pleno iure, e donarlo e venderlo come più gli piacerà, e morendo ab intestato s'intenda, che gli eredi più prossimi succedano.

Che similmente al Signor D. Antonio Caraffa si dia un altro Stato simile, o almeno di quindicimila scudi d'entrata.

Che il Re debbia mandare questo suo figliuolo, per investirlo del Regno quanto prima si potrà, ad abitare, ed allevarsi in alcun de' predetti Regni, i quali abbiano da esser governati ed amministrati a suo nome. Il Consiglio, quanto all'amministrazione e governo dello Stato, debba comporsi di Consiglieri fedeli e devoti del Papa e della S. Sede; e siano eletti o deputati di comune consenso, fin che il predetto Re pervenga nell'età che da se stesso possa reggere e governare detti Regni: gli altri Governadori, quanto alla cura della sua persona, debbano deputarsi ed eleggersi dal Re Cristianissimo, e li Capitani Generali dell'esercito debbano esser benevoli e devoti del Papa e della S. Sede, ed eletti di comun consenso.

Che 'l Serenissimo Principe da investirsi, suoi eredi e successori, non possa essere eletto, o nominato Re o Imperadore de' Romani o Re di Germania o di Francia o Signor di Lombardia o di Toscana.

Che sin a tanto, che colui, il quale dee essere investito, non giunga a questi Regni, siano quelli governati ed amministrati di comun consenso, e secondo la volontà del Papa e del Re, da uno o da più: dei quali l'uno e l'altro di loro si confidino, a nome però del detto Principe, e quegli, nel quale saranno convenuti o prete, o secolare, sia Vicereggente, come Legato o come Governadore di Sua Santità e del Re Cristianissimo, e debba prestare il giuramento all'uno ed all'altro di bene e fedelmente amministrare secondo la volontà d'amendue.

Che non essendo esso Serenissimo figliuolo, che dovrà investirsi, di tal età, che possa prestare il giuramento ed omaggio al Papa, ed alla S. Sede, debba il Re come padre e tutore, per lui prestarlo, quando gli sarà data l'investitura di detti Regni; il qual giuramento sia giusta la forma degli altri giuramenti, che per altri Re si sono prestati a Pontefici passati, ed alla Sede Appostolica, spezialmente a Papa Giulio III, alla qual forma s'aggiunga, e si muti tutto quello, che per li presenti articoli si trova aggiunto e mutato.

Che in ricognizione di questa prima investitura, che dovrà ricevere, debba edificare nella Chiesa di S. Pietro in Roma una delle maggiori Cappelle; e quando esso Re sarà pervenuto all'età legittima, sia tenuto esso medesimo prestare il ligio omaggio al Papa e suo successore.

In fine, che sia obbligato l'investiendo lasciar cavare dal Regno di Sicilia ultra Pharum diecimila tomoli di grani, ogni qual volta che la città di Roma n'avrà bisogno, senza pagamento alcuno di tratta o d'altra gravezza.

Queste Capitolazioni, così ben ideate dal Papa, lo facevano parlar con tanta fidanza e disprezzo; ed intanto non perdeva tempo di premunirsi in ogni cosa, ciò che maggiormente insospettì il Duca d'Alba, poichè alla scoperta il Cardinal Caraffa col Duca suo fratello erano tutti intesi a fortificar Palliano, e v'aveano condotto Pietro Strozzi Capitano del Re di Francia, che trovavasi in Roma, per prendere il suo parere sopra le fortificazioni da farvi; e tuttavia pervenivan a Napoli novelle delle commessioni date fuori dal Papa per assoldar gente. Avea anche chiamato al suo soldo Camillo Orsini, Capitano sperimentato di que' tempi, e mandato Paolo suo figliuolo con mille fanti in Perugia, oltre a mille e duecento fanti Guasconi del presidio di Corsica, che gli si mandavano dal Re di Francia in ajuto: si travagliava anche in far bastioni, e faceva fare a molte altre Piazze dello Stato della Chiesa nuove fortificazioni.

Il Duca d'Alba, seriamente a tutto ciò pensando, si risolvè alla fine, da ben esperto Capitano, di prevenirlo, e per più sicuramente difendere il Regno attaccar lo Stato Ecclesiastico, con trasferir ivi la sede della guerra. Non tralasciava intanto con messi e con lettere scritte al Duca di Palliano, lamentarsi del Papa suo zio di queste novità, offerendogli pace; ma in vece di risposta, si videro assai più continuare i preparamenti di guerra, e s'intese ancora la partenza del Cardinal Caraffa per Francia, per sollecitare quel Re all'impresa.

Allora questo valoroso e savio Capitano, non volendo aspettare, che il turbine cadesse in casa propria, dando minuto ragguaglio al Re Filippo in Ispagna dell'imminente guerra, che il Papa per occupargli il Regno preparava, unì, come potè meglio, dodicimila fanti, trecento uomini d'armi e millecinquecento cavalli leggieri, con dodici pezzi d'artiglieria, e si mosse nel primo del mese di settembre di quest'anno 1556 verso lo Stato della Chiesa, e giunto a S. Germano, occupò Pontecorvo[128]. Prima di passar avanti volle tentar di nuovo l'animo del Pontefice, e mandò in Roma Pirro Loffredo con lettere[129] drizzate a lui, ed al Collegio de' Cardinali, dove offerendogli pace, altamente si protestava, che tutto il danno, che ne riceverebbe la Cristianità, s'imputerebbe alla sua coscienza.

Ma il Papa tutto alieno dalla concordia, fidato ai trattati con Francia, più altiero che mai disprezzò le lettere; onde il Duca proseguendo le sue conquiste occupò Frosolone, Veruli, Bauco, ed altre Terre di que' contorni. Il Papa maggiormente sdegnato fece imprigionare nel Castello S. Angelo Pirro Loffredo, e se il Collegio de' Cardinali non l'avesse impedito, l'avrebbe fatto crudelmente morire; ed il Duca intanto seguitando il suo cammino, s'impadronì dell'importante città d'Anagni, di Tivoli, di Vicovaro, di Ponte Lucano, e di quasi tutte le Terre de' Colonnesi sino a Marino, e minacciava d'assediare Velletri, facendo far scorrerie dalle sue truppe insino alle Porte di Roma.

Questo Capitano ci lasciò un gran documento ed illustre esempio, come debba guerreggiarsi col Pontefice romano, qualora le congiunture portassero, per difendere il Regno di dovere assalirlo in casa propria. Egli, oltre i tanti rispettevoli ufficj passati prima col Pontefice, occupando le città e Terre dello Stato della Chiesa, acciocchè non gli si potesse imputare, che si facessero quelli acquisti per spogliare la Chiesa, faceva dipignere nelle Porte de' luoghi, che andava di mano in mano occupando, le armi del Sacro Collegio, con protestazione di tenergli in suo nome, e del Papa futuro, come s'era fatto a Pontecorvo, a Terracina, a Piperno ed a gli altri luoghi, che s'erano resi: se bene, come dice Alessandro d'Andrea[130], non mancò chi dubitasse non questa fosse una arte, con la quale proccurasse il Duca d'indurre a sospetto ed a discordia il Collegio col Papa.

Dall'altro canto il Re Filippo, al suo modo, e secondo la sagacità degli Spagnuoli, fece porre questo affare in consulta; e siccome nell'impresa di Portogallo ricercò il parere de' più insigni Giureconsulti di quelli tempi, e delle più insigni Università di Spagna e d'Europa per render la conquista più plausibile, così in questo fatto con Paolo IV, ricercò consulta da Teologi come dovea postarsi, e che conveniva fare contra un Pontefice che in molte occasioni, ed essendo Cardinale, ed ora essendo Papa, erasi mostrato suo nemico e dell'Imperador Carlo suo padre, e che si era scoverto aver fatta lega col Re di Francia per assaltare il Regno di Napoli. Mostrava dispiacergli sommamente questa nuova briga, e con grande rincrescimento veniva tirato a questa guerra; considerava che la tregua fatta col Re di Francia, veniva ora per opera d'un Papa, a cui dovrebbe essere più a cuore la pace tra' Principi Cristiani, a rompersi: parevagli cosa molto scandalosa, che per mezzo del Cardinal Caraffa avendo promesso al Re franzese, che nella nuova promozione sarebbe tal numero di Cardinali parziali della Francia e nemici degli Spagnuoli, che avrebbe sempre un Pontefice dalla sua parte, avea data l'assoluzione del giuramento per romper la tregua, onde si fosse quel Re risoluto a movergli guerra, con tutto che i Principi del suo sangue, e tutti i Grandi della Corte abborrissero l'infamia di rompere la tregua, e ricevere l'assoluzione del giuramento. Considerava, che appena avendo cominciato a regnare nel primo anno del suo Regno, la sua disavventura portava di avere da mover le armi contra il Vicario di Cristo. Fece adunque porre in consulta i seguenti Capi.

Se poteva il Re ordinare, che nessuno naturale dei suoi Regni andasse o stasse in Roma, ancorchè fossero Cardinali; che tutti i Prelati venissero a far residenza nelle loro Chiese; e li Cherici, che tenevano beneficj, venissero a servire nelle proprie Chiese, e non volendo venire, si procedesse a privarli delle temporalità.

Se si poteva impedire, che durante la guerra che si faceva col Papa, nè per cambio, nè per altro modo, o direttamente, o indirettamente andasse denaro in Roma per ispedizioni o altro.

Se era bene e conveniva fare in Ispagna, o in altro Stato di S. M. un Concilio Nazionale per la riforma e rimedio delle cose Ecclesiastiche, e qual forma e modo si dovesse tenere per convocarlo.

Se presupposto lo stato, nel qual restò il Concilio di Trento, e quel che nell'ultima sessione di quello si dispone, si potria dimandare la continuazione del detto Concilio, e l'emendazione nel capo e nelle membra, e proseguire il di più, a che fu convocato; e se essendo impedito dal Papa, si potria resistere a quello, ed inviare, non ostante il suo dissenso, li Prelati de' suoi Stati a tenerlo; e quali diligenze s'avrebbero da fare per detta continuazione, ancorchè li Prelati d'altri Regni mancassero.

Non essendo stato Paolo IV canonicamente eletto Papa, ma intruso di fatto in quella Sede, se della sua elezione poteva dirsi di nullità, e qual modo e diligenza potria usare S. M. in tal caso.

Se stante tanti travagli, spese ed inconvenienti, che a' sudditi e naturali de' suoi Regni di Spagna, ed al pubblico di quella sieguono in andare alla Corte di Roma per liti e negozj, si potesse dimandare, che il Papa nominasse un Legato in detti Regni, che spedisse in quelli i negozj gratis, e che si ponesse una Ruota in Ispagna per determinar le liti, senza che fosse necessario mandar in Roma, e non essendo questo concesso, che potria fare.

Essendosi veduti i tanti abusi, che si praticano in Roma nella provvisione de' beneficj, prebende e dignità, ed essendo a tutti notorio, che poteva il Re dimandare di lasciarsi la provvisione di quelli agli Ordinarj, e reprimere gli altri abusi; qual rimedio potrebbe ora praticarsi per togliere tanti disordini ed eccessi, che a questa materia della provvisione de' beneficj sono annessi e dependenti.

Se gli Spogli, e frutti che il Papa si piglia ne' suoi Regni, particolarmente delle Chiese vacanti, sia giusto, che se gli pigli: e se il Re debba permetterlo, e che debba far in questo; poichè negli altri Regni s'intende, che se n'astenga, ed in quelli di S. M. s'è ciò introdotto fra pochi anni.

Se si potria giustamente domandare e pretendere, che il Nunzio Appostolico, che è ne' suoi Regni, spedisse gratis i negozj e non in altro modo; e che si potria e dovria fare in questo.

Furono al Re Filippo sopra ciascheduno de' capi suddetti da un eccellente Teologo di Spagna date le congrue ed affirmative risposte[131]; onde reso per ciò più animoso, scrisse al Duca d'Alba, che proseguisse egli con vigore l'impresa, ed usasse tutti gli espedienti economici per ridurre il Papa a dovere, perch'egli dall'altra parte non avrebbe mancato (se non s'emendava) ne' suoi Regni di Spagna di far valere le sue pretensioni in que' capi dedotte.

Il Duca pertanto avendo ne' restanti mesi dell'anno 1556 fatti gran progressi nello Stato Ecclesiastico, e posta tanta confusione e terrore in Roma istessa, che infinite famiglie fuggivano dalla città, credeva di aver ridotto per questa via il Pontefice a quietarsi, e non maggiormente inasprir la guerra; ma egli niente mutando il suo proponimento, anzi per la felicità dell'armi del Duca vie più infiammandosi alla vendetta, diede ordine al Marchese di Montebello d'assaltare le frontiere del Regno dalla banda del Tronto, sperando di fomentar negli Apruzzi qualche rivoluzione, per portare la guerra nel Reame, e toglierla dal suo Stato. Ma fattoglisi incontro D. Ferrante Loffredo Marchese di Trivico, che governava quella Provincia, a cui il Vicerè avea mandata nuova gente per soccorso, non solamente il costrinse a rinchiudersi in Ascoli, ma gli prese e saccheggiò Maltignano.

Il Papa sollecitava il Re di Francia, che mandasse la gente promessa, e gridava contra il Duca d'Alba, maledicendo ed anatematizzando; il Duca all'incontro, mentre il Papa gridava, vie più mordeva; poichè portatosi verso Grottaferrata e Frascati, ebbe in una imboscata a man salva il Conte Baldassarre Rangone con centocinquanta de' suoi; poscia si fermò sotto Albano, donde mandò Ascanio della Cornia ad occupare Porcigliano ed Ardea[132]. Quindi passò verso il mare, e con poca fatica s'impadronì di Nettuno: di là andò ad Ostia, ed essendosi resa, si pose ad abbatter la Rocca, la quale dopo qualche contrasto ricevè presidio dal Vicerè; e già la sua cavalleria scorreva senza contrasto sino alle vicinanze di Roma.

Il Cardinal Caraffa, ch'era ritornato di Francia, vedendo le cose in questo stato, per mezzo del Cardinal di S. Giacomo, zio del Duca Vicerè, fece proporre un abboccamento, affine di conchiudere qualche trattato di pace: s'abboccarono in effetto il Duca ed il Cardinal Caraffa nell'Isola di Fiumicino; ma niente si conchiuse, se non che una triegua di quaranta giorni, più per potere l'uno ingannar l'altro, che dovesse conchiudersi pace alcuna[133]. Ciascuno in questa triegua gli parve trovare il suo conto: il Cardinale voleva guadagnar tempo, perchè avea avuta notizia, che il Re di Francia avea già spedito il Duca di Guisa con dodicimila fanti, quattrocento uomini d'arme e settecento cavalli leggieri, con un gran numero di Cavalieri in ajuto di suo zio, ed aspettava ii suo arrivo, trattenuto dalla rigidezza della stagione in Piemonte. Il Vicerè dall'altra parte accertatosi della venuta de' Franzesi, desiderava, che cessassero l'ostilità, non solo per far provvisione di viveri da mantenerne l'esercito, giacchè per i venti contrarj non potevano le Galee condurli; ma anche per potere ritornare a Napoli, e quivi fare que' preparamenti, che bisognavano per opporsi al Duca di Guisa.

Lasciate pertanto le sue genti a Tivoli sotto il comando del Conte di Popoli, che creò suo Luogotenente, tornò il Duca in Napoli per far i dovuti preparamenti ad una spedizione cotanto importante: fece in prima ragunare il general Parlamento de' Baroni e delle Terre demaniali, ove avendo esposto i bisogni che occorrevano, ottenne un donativo d'un milione di scudi a beneficio del Re, e d'altri venticinquemila per se medesimo. Con questo mezzo formò egli la pianta d'un esercito proporzionato al bisogno, dando gli ordini necessarj per l'unione delle milizie, che doveano arrivare a trentamila fanti Italiani, dodicimila Tedeschi e duemila Spagnuoli, oltre alla cavalleria del Regno, che accrebbe sino al numero di 1500[134]. Fece in oltre tutte le provvisioni che bisognavano, così per lo sostentamento d'un esercito così grande, come per la difesa delle piazze più importanti, e particolarmente degli Apruzzi, che stavano raccomandate alla fedeltà e vigilanza del Marchese di Trivico.

Ma quello in che mostrò maggiormente la sua prevedenza, fu di provvedere, che il Papa dall'istesso Regno non ricavasse profitto, ed all'incontro, che il Re, de' beni degli Ecclesiastici, potesse, se la necessità lo portasse, valersi per difesa del Regno, contra un ingiusto invasore. Per ciò egli avendo a' 15 del mese di gennaio del nuovo anno 1557 ragunato appresso di se il Consiglio Collaterale, spedì in suo nome e del Collaterale una lettera Regia diretta al Tribunale della Regia Camera, dicendogli, che conveniva al servigio di Sua Maestà, che si sequestrassero li frutti ed entrate d'alcuni Arcivescovadi, Vescovadi, Badie ed altri beneficj del Regno, e d'alcuni Prelati, e che si dovessero esigere in nome della Regia Camera; per ciò gli comandava, che spedisse ordini al Tesoriero generale, ed a tutti i Percettori delle Province del Regno, che esigessero dette entrate e le tenessero sequestrate in nome d'essa Regia Camera, e gli mandasse nota di detti Arcivescovadi, Vescovadi, Badie e Beneficj, che s'aveano da sequestrare, e delli Prelati e persone Ecclesiastiche, da cui si possedevano. E poichè il Papa con nuova disciplina Ecclesiastica, vacando l'Arcivescovado di Napoli per la sua assunzione al Pontificato, non volle dargli successore, ma diceva; che quella Chiesa voleva esso governarla ancora da Arcivescovo, ancorchè fosse Papa, ed avendovi mandato un suo Vicario, si pigliava tutte l'entrate della Chiesa suddetta, per ciò furono anche sequestrate l'entrate dell'Arcivescovado di Napoli.

Parimente in nome suo e del Collaterale, a' 21 gennaio del medesimo anno, mandò un'altra lettera Regia a tutti i Governadori delle province del Regno, dicendo loro aver inteso, che il Papa avea imposto in questo Regno due decime, e che quelle si proccuravano esigere senza il suo beneplacito e Regio Exequatur; per ciò lor comandava, che dovessero ordinare alli Capitani ed Ufficiali delle loro province, che dovessero dar ordine a tutte le Chiese, Monasterj, Arcivescovi, Vescovi ed altre persone Ecclesiastiche beneficiate, sotto pena delle temporalità, che non dovessero pagare dette Decime agli Esattori di quelle: nè per altra via girare e far pagare in Roma quantità alcuna di denari, sotto qualsivoglia colore, nè per qualsisia causa, senza espressa licenza del Vicerè.

Scrisse ancora in detto nome, a' 22 febbraio del medesimo anno, a Cristoforo Grimaldo Commessario di Terra di Lavoro, che compliva al servizio di Sua Maestà per beneficio e conservazione di questo Regno di sapere tutto l'oro ed argento, ch'era nel Regno delle Chiese di qualsisia Dignità, Badie e Monasterj: per ciò gli ordinava, che dovesse far nota ed inventario per mano di pubblico Notaro di tutto l'oro ed argento, ch'era nelle Chiese, Monasteri e Badie, notando pezzo per pezzo, la qualità ed il prezzo; ed inventariati che saranno, gli debba lasciare in potere delli medesimi Prelati e Detentori, con cautela di non farne esito alcuno, ma di tenerli e conservarli all'ordine d'esso Vicerè, ed esibirli sempre, che comanderà per servizio del Re, e per la difensione e conservazione del Regno, usando in questo la debita diligenza a trovar tutto l'oro ed argento, affinchè non siano occupati, e che glie ne dia subito avviso dell'eseguito.

E stringendo tuttavia il bisogno della guerra, e gli apparati de' nemici vie più sentendosi maggiori, stante l'invito fatto anche al Turco, perchè colla sua armata travagliasse il Regno, fu d'uopo al Vicerè in suo nome, e del Collaterale scrivere, al primo marzo di quest'istesso anno, a tutti i Governadori delle province del Regno, dicendo loro, che per gli andamenti e grandi apparati di guerra, che ha fatti e faceva il Papa con leghe d'altri Principi, con aver anco invocata l'armata Turchesca contra Sua Maestà per assaltare questo Regno, bisognava per difesa e conservazione di quello provvedere di genti a cavallo ed a piedi, per rinforzare e mantenere l'esercito, ed andare a ritrovare i nemici fuori del Regno, ed anco provvedere le Terre di marina per difensione contra detta armata del Turco; il che tutto risultando a maggior servigio del Re, alla conservazione e beneficio universale del Regno, per le spese grandi, che sono necessarie per detto effetto, bisognava aver danari assai; e poichè li Baroni e Popoli di questo Regno si trovavano oppressi per li gran pagamenti che faceano e dell'ultimo donativo, che il Regno avea fatto a sua Maestà di due Milioni di ducati, del quale anticiparono il terzo di Pasqua, avea pensato, che gli Arcivescovi, Vescovi ed altri Prelati, Monasterj ed Abati del Regno dovessero prestare alla Regia Corte delli frutti ed entrate loro del terzo di Pasqua, delle tre parti due, conforme alle note che lor si mandavano, del quale impronto potevano soddisfarsi sopra il terzo di Natale primo venturo del detto donativo, ed in caso, che detti Prelati, Monasterj ed Abati, ricercati da essi in nome del Vicerè graziosamente, non volessero fare detto prestito, detti Governadori di province subito l'abbiano da esigere da dette loro entrate e frutti, per la rata, conforme alle dette note.

Pochi giorni da poi, premendo assai più la necessità della guerra, spedì Commessione in suo nome e del Collaterale a' 4 del detto mese di marzo, a diversi Commessarj, che andassero con ogni prestezza e diligenza ad eseguire quanto era stato per prima commesso alli Governadori delle province, a costringere li detentori dell'oro, ed argento delle Chiese e Monasterj del Regno, e pigliarseli per inventario a peso, acciò si potessero mandare in Napoli, per conservarli nell'Arcivescovado di quella città, in nome delli Padroni d'essi, ad ordine del detto Vicerè; ed anco a costringere li debitori degli Arcivescovadi, Vescovadi, Badie e Beneficiati a pagare li due terzi della terza parte delle loro entrate, per prestito alla Regia Camera.

E poichè questa commessione, essendo generale, veniva eseguita anche per li Calici e Patene; per ciò a' 9 del detto mese spedì lettera a' Governadori delle province, che debbiano eseguire il suo ordine degli ori, ed argenti, riserbandone li Calici e Patene, e quelli che avranno pigliati e fatti consignare alli Percettori, li facciano restituire. Siccome riuscendo questo trasporto d'oro ed argento in Napoli molto strepitoso, a' 18 marzo ordinò a tutte le Regie Audienze, che dall'ora innanzi non pigliassero più oro ed argento dalle Chiese, ma che solo lo tenessero sequestrato, e restituissero il preso in potere delle persone Ecclesiastiche delle medesime, con ordinar loro che quello tengano in sequestro, insino ad altro suo ordine.

Parimente ordinò, che per le occorrenze della guerra presente, si pigliasse tutto il metallo delle Campane delle Chiese e Monasterj di Benevento per fonderlo e tutti i pezzi d'artiglieria di bronzo, e falconetti, ch'erano in detta città, come dal Convento de' Frati di S. Lorenzo di Benevento, si pigliasse tutto il metallo delle Campane e si liquidasse il prezzo di tutto per poi pagarlo finita la guerra.

Dopo aver dati questi provvedimenti per una tanta espedizione, a' 11 aprile di quest'anno 1557 partì il Duca da Napoli per la volta d'Apruzzo per opporsi a' Franzesi[135], lasciando per Luogotenente Generale D. Federigo di Toledo suo figliuolo, il quale fino al ritorno, che fece nel mese di settembre del detto anno, dopo la pace conchiusa col Papa, governò Napoli ed il Regno.

Dall'altra parte il Cardinal Caraffa partì da Roma per Lombardia, per abboccarsi in Reggio co' Duchi di Ferrara e e di Guisa e consultare del modo e del luogo, dove dovea portarsi la guerra. Furono i pareri varj, chi consultava l'espugnazion di Milano, chi la liberazione di Siena, e chi l'impresa del Regno; ma protestandosi il Cardinale, che qualunque risoluzione si pigliasse differente dall'invasione del Regno di Napoli, non sarebbe approvata dal Papa suo zio; il Duca di Guisa, che avea commessione dal suo Re di far la volontà del Pontefice, provveduto dal Duca di Ferrara suo suocero d'alcuni pezzi d'artiglieria, spinse il suo esercito nella Romagna, e passando per lo Stato d'Urbino, si portò per la Marca nelle vicinanze del Tronto.

Intanto, essendo spirata la tregua tra 'l Pontefice ed il Vicerè, si cominciarono le ostilità, e si vide in breve ardere la guerra, non meno nell'Apruzzo, che nella Campagna di Roma. Il Duca di Palliano con Pietro Strozzi uscito con seimila fanti tra Italiani e Guasconi, seicento cavalli leggieri e sei pezzi d'artiglieria, e portatosi sotto Ostia, ricuperò la Rocca col bastione innalzatovi dal Vicerè. Ricuperò Marino, Frascati e l'altre circostanti Terre. Nettuno fu abbandonato da' Spagnuoli, e se gli Ecclesiastici nel calor della vittoria si fossero più avanzati, avrebbero anche ripreso Frosolone ed Anagni. Giulio Orsini era parimente tutto inteso a discacciar gli Spagnuoli dallo Stato di Palliano; ma occorsivi Marcantonio Colonna, secondato da' Terrazzani ben affezionati de' Colonnesi il costrinse a lasciar in abbandono l'impresa.

Ma dalla banda del Tronto meditava il Duca di Guisa d'assediar Civitella, e trattenevasi in Ascoli per aspettare l'artiglieria, che dovea venire da lontano; della qual tardanza si doleva molto col Marchese di Montebello; e per non parere di starsene ozioso, fece entrare nel Regno millecinquecento pedoni, ed una compagnia di cavalli, comandati dal mentovato Marchese e da Giovan-Antonio Toraldo, che saccheggiarono Campoli, occuparono Teramo, e danneggiarono la campagna sino a Giulia Nova. Giunto poscia il cannone, assediò Civitella, dove alla fama dell'avvicinamento de' nemici, era entrato prima Carlo Loffredo figliuolo del Marchese di Trivico, poscia 'l Conte di Santa Fiore speditovi dal Vicerè; fu dal Duca di Guisa incessantemente la Piazza battuta: ma con non disugual valore dagli assediati fortemente difesa: e mancando a' Franzesi il bisognevole per replicar gli assalti, il Duca lamentandosi col Marchese di Montebello del Cardinal suo fratello, ch'avea posto al ballo il suo Re, e poi mancava alle promesse; avendogli questi superbamente risposto, vennero fra di loro a tali parole, che il Marchese partì dal campo, senza nè meno licenziarsi[136]. Accorse tosto per riparar a questi disordini il Duca di Palliano con Pietro Strozzi con soldatesca, colla quale pareva, che si fosse in qualche parte adempito all'obbligazione del Papa; ma essendo il soccorso assai picciolo, e tuttavia mancando molte cose, ch'erano necessarie per ridure l'impresa ad effetto, i Franzesi impazienti cominciarono a maledire non solamente coloro, che aveano consigliato il loro Re a collegarsi con Preti, i quali non s'intendevano punto del mestier della guerra, ma anche a parlar malamente del Cardinal Caraffa, ch'era andato ad empire di vane speranze l'animo del Re, ajutando, come suol dirsi, i cani alla salita[137].

Intanto il Duca d'Alba se ne veniva per soccorrere Civitella con ventimila fanti e duemila cavalli, con apparecchio sufficiente di munizioni e d'artiglierie, ed entrato a Giulia Nova s'attendò dodici miglia lontano dalla Piazza: alla fama della venuta di questo Capitano con sì poderoso esercito, Pietro Struzzi non perdè tempo di consigliare al Duca di Guisa, che sciogliesse l'assedio: onde dopo il travaglio di 22 giorni, verso la metà di maggio fu quello sciolto, ritirandosi il Duca ad Ascoli, seguitato dal Vicerè, il quale entrato nelle terre del Papa, occupò Angarano e Filignano.

Mentre queste cose accadevano in Apruzzo, Marcantonio Colonna con non minore felicità s'avanzava in Campagna di Roma; poichè avendogli il provido Vicerè mandati in soccorso tremila Tedeschi, de' seimila venuti coll'armata del Doria, prese la Torre vicino Palliano, Valmontone e Palestrina, e pose in fine l'assedio alla Fortezza di Palliano. Le genti Papali tentavano di soccorrerla, ed uscirono a quest'effetto da Roma il Marchese di Montebello e Giulio Orsini con quattromila fanti Italiani, duemila e due cento Svizzeri, ch'erano stati assoldati dal Vescovo di Terracina, alcune compagnie di cavalli e molti carri di vettovaglie per provvedere la Piazza; ma sopraggiunto al Colonna un nuovo soccorso di Tedeschi Spagnuoli, ed uomini d'arme, che dopo la liberazione di Civitella gli erano stati mandati dal Vicerè, si fece incontro al nemico; da picciole scaramucce si venne in fine al fatto d'arme, nel quale rimasero le genti del Papa rotte e dissipate, e Giulio Orsino ferito, fu fatto prigione[138]. Marcantonio sapendosi ben servire della vittoria, procedè innanzi; espugnò Rocca di Massimo, ed occupò Segna, senza tralasciare l'assedio di Palliano[139].

Il Papa allora sbigottito da questo successo, vedendo l'inimico avvicinarsi troppo, chiamò il Duca di Guisa alla difesa di Roma; ma il Duca d'Alba, lasciate ben munite le frontiere del Regno, e qualche numero di soldatesche al Marchese di Trivico, per guardar que' confini, passò anch'egli nella Campagna di Roma. Alloggiò tutto l'esercito sotto le mura di Valmontone, donde se ne passò alla Colonna, e volendo porre Roma in timore, spinse la notte precedente al giorno de' 26 agosto, sotto il comando d'Ascanio della Cornia, trecento scelti archibugieri, con una scorta di soldati a cavallo, e con buona provvisione di scale, affinchè assaltassero le mura di Roma vicino Porta Maggiore, e proccurassero d'impadronirsi di quella Porta, nel tempo istesso, ch'egli con tutto l'esercito sarebbe sopraggiunto per favorire l'impresa. Ma svanì il disegno, per aver ritardata la spedizione una lenta pioggia, che impedì i fanti quella notte di potersi avvicinare alle mura di Roma; onde sopraggiunto il giorno, furono costretti a ritirarsi subito, per non esporsi, faticati dal notturno viaggio, a combattere con le milizie franzesi, alloggiate nelle circostanti Terre.

Quando in Roma videro i perigli esser così vicini, cominciaron tutti ad esclamare contro al Papa, ed a far sì, che si trattasse d'accordo, e si proccurò la mediazione de' Principi vicini a trattarlo; furono per ciò impegnati il Duca di Fiorenza e la Repubblica di Venezia, i quali portarono i loro ufficj al Re Filippo II per indurlo alla pace. Il Re Filippo allora, che per la vittoria ottenuta contro a' Franzesi nella giornata di San Quintino, stava ben pago e soddisfatto d'aver contra i medesimi presa vendetta, come Principe pio, e che mal volentieri sofferiva questa guerra, rispose alla Repubblica Veneta, dandole parte della vittoria di S. Quintino, ed insieme dichiarando, che non fu mai sua voglia di continuar guerra contro alla Chiesa e che molto volontieri accettava la sua mediazione, acciò che s'interponesse per la pace tra 'l Pontefice e 'l Vicerè, soggiungendole, che quante volte fosse insorta nel conchiuderla qualche controversia, avesse ella preso l'assunto di superarla; giacchè si rimetteva a quanto avesse ella determinato. Scrisse parimente al Vicerè con questi medesimi sentimenti, imponendogli di soddisfare al Pontefice in tutto quello, che avesse desiderato, purchè non ne sentissero pregiudicio i suoi interessi, nè quelli de' suoi servidori ed amici. All'incontro il Papa, vedendo l'esito della guerra poco felice, e che il Re di Francia, per quella gran rotta ricevuta presso S. Quintino, richiamava il Duca di Guisa d'Italia con le genti che aveva, dandogli libertà di pigliar quel consiglio, che gli paresse per se più utile[140]; vedendo svanita l'invasione del Regno, e ridotte di nuovo l'arme sopra le Terre dello Stato Ecclesiastico, non si mostrò punto alieno come prima, d'acconsentire alla pace; voleva però, che si fosse conchiusa con riputazione della Sede Appostolica, e che in tutti i modi il Duca d'Alba dovesse andar personalmente a Roma a dimandargli perdono, e ricever l'assoluzione, dicendo che più tosto voleva veder tutto il Mondo in rovina, che partirsi un filo da questo debito; che non si trattava dell'onor suo, ma di Cristo, al quale egli non poteva nè far pregiudicio, nè rinunziarlo.

Il Cardinal di Santa Croce, veduta l'inclinazion del Papa, spedì tosto Costanzo Tassoni al Duca di Fiorenza, ed al Vicerè Alessandro Placidi, affinchè il trattato si cominciasse, e mandò parimente al Vicerè le proposizioni fatte dal Papa, le quali si riducevano, oltre a venir il Duca a dimandargli perdono, a dimandare la restituzione dell'occupato; promettendo egli all'incontro di licenziare i Franzesi, e perdonare l'ingiurie ricevute.

Il Duca d'Alba, che non avea ancora esperienza della gran differenza, ch'è tra 'l guerreggiar con gli altri Principi e con gli Papi, co' quali finalmente niente si guadagna, anzi si perdono le spese, sentendo queste proposizioni, s'alterò non poco, rispondendo, essere tanto stravaganti, che peggiori non si sarebbero potute fare da un vincitore al vinto. Ma la Repubblica di Venezia, che con molto vigore avea intrapresa la mediazione, per persuadere il Duca alla pace, spedì al medesimo a quest'effetto un suo Segretario; dall'altra parte si mossero da Roma Cardinali Santa Fiore, e Vitellozzo Vitelli per trattarla col Vicerè[141]. Vi si portò ancora il Cardinal Caraffa, il qual fu ricevuto dal Duca con grand'onore nella Terra di Cavi, dove dibattutosi l'affare per alquanti giorni, finalmente a' 14 settembre fu la pace conchiusa, con queste condizioni.

Che il Vicerè in nome del Re Cattolico andasse in Roma a baciare il piede a sua Santità, praticando tutte le sommessioni necessarie per ammenda dei disgusti passati; e che il Papa all'incontro dovesse riceverlo con viscere di clementissimo padre.

Che il Pontefice dovesse rinunziare alla lega fatta col Re di Francia, con rimandarne i Franzesi, e dovesse in avvenire far le parti di padre e di comun pastore.

Che si restituissero Anagni e Frosolone e tutte le Terre occupate della Chiesa, e vicendevolmente tutte l'artiglierie che dall'una parte e dall'altra fossero state prese nel corso di questa guerra.

Che si rimettessero da amendue le parti tutte le pene e contumacie incorse da qualsivoglia persona o Comunità, eccettuandone Marcantonio Colonna, Ascanio della Cornia ed il Conte di Bagno, i quali dovessero rimanere nella lor contumacia a libera disposizione del Pontefice[142].

E per ultimo, che Palliano si consegnasse a Giamberardino Carbone nobile Napoletano confidente delle due Parti, il quale dovesse guardarlo con 800 fanti da pagarsi a spese comuni, e dovesse giurare di tenerlo in deposito insino a tanto, che dal Papa e dal Re Cattolico unitamente ne fosse stato disposto[143].

Furono ricevute in Roma queste capitolazioni con universale allegrezza; onde partiti i Franzesi, si portarono in quella città il Duca d'Alba con suo figliuolo, li quali furono dal Papa ricevuti con tenerezza, ed assoluti dalle censure, nelle quali credeva per i preceduti successi essere incorsi, siccome ad intercessione del Duca liberò tutti gli amici e dependenti del Re, ed alla Duchessa d'Alba mandò sino a Napoli la Rosa d'oro, regalo solito in que' tempi di presentarsi a' Principi grandi, la quale con gran pompa e stima fu da quella religiosissima Dama ricevuta nel Duomo di Napoli.

Il Duca accompagnato dal Cardinal Caraffa, e dal Duca di Palliano partì di Roma, il quale di tutto datane contezza al Re Filippo, questi con soddisfazione accettò la pace, rimunerò largamente tutti coloro, che s'erano in questa guerra distinti. Al Conte di Popoli fu dato il titolo di Duca con provvisione di tremila ducati, e facoltà di poter disporre dello Stato, che sarebbe decaduto al Fisco per mancanza di successori[144]. Ad Ascanio della Cornia una provvisione d'annui ducati seimila, sin tanto che ricuperasse i suoi beni, statigli occupati dal Papa, oltre mille altri scudi dati alla madre, e molte entrate ecclesiastiche concedute al Cardinal di Perugia suo fratello. Gli abitanti di Civitella ottennero molte prerogative in ricompensa della costanza mostrata. E fu offerta al Duca di Palliano la Signoria di Rossano in Calabria, acciò rinunziasse lo Stato a Marcantonio Colonna, al che non avendo voluto acconsentire il Papa, il Duca restò privo dell'uno e dell'altro; perchè nella Sede vacante Marcantonio ricuperò lo Stato.

Il Duca d'Alba ritirato in Napoli fu ricevuto dai Napoletani con tanto applauso e gioja, che era meritamente riputato il loro liberatore. Ma mentre s'apparecchiava a discacciare i Franzesi dal Piemonte, per più gravi e premurosi bisogni della Monarchia gli fu dal Re Filippo comandato, che si portasse nella sua Corte, per dove partì nella Primavera del nuovo anno 1558, lasciando di se un grandissimo desiderio; poichè era stata poco tempo goduta la sua presenza, chiamata altrove dalle cure di Marte: pure in que' pochi anni ci lasciò quattro Prammatiche, ed al governo del Regno lasciò suo Luogotenente l'istesso D. Federico suo figliuolo; ma la sua reggenza fu molto breve, poichè il Re Filippo, quando chiamò in Ispagna il Duca, avea comandato a D. Giovanni Manriquez di Lara, che si trovava suo Ambasciadore in Roma, che passasse al governo di Napoli, per insino che si fosse previsto di nuovo Vicerè, il quale non vi durò che cinque mesi; poichè vi fu mandato da poi il Cardinal della Cueva per Luogotenente, che parimente poco più che D. Giovanni vi stette, poichè richiamato in Roma per l'elezione del nuovo Pontefice, stante la morte seguita di Paolo IV, fu finalmente dal Re Filippo, savio discernitore dell'abilità e merito de' soggetti, mandato per Vicerè D. Parafan di Ribera Duca d'Alcalà, quel gran savio Ministro fra quanti ve ne furono, del di cui lungo e prudente governo più innanzi ragioneremo.

Ecco il fine della guerra cotanto ingiustamente[145] mossa da Papa Paolo IV e come mal finisse con tanto danno del Regno, ed immenso sborso di denari per sostenerla; ecco il vantaggio, che hanno i Papi, quando guerreggiano, che oltre la restituzion dell'occupato loro, non si parla dell'ammenda di tanti danni e mali irreparabili, che si cagionano a' Popoli, alla quale dovrebbero almeno esser obbligati. Allora il Regno di Napoli non solo per mantener questa guerra sborsò due milioni, ma per supplire a' bisogni di quella, e pagare i debiti contratti, in tempo che governò D. Federico di Toledo, lasciato dal padre per suo Luogotenente, furon fatti dalla città due altri donativi, l'uno di ducati quattrocentomila, l'altro di ducati centomila. In oltre dovendosi restituire il prezzo del metallo della campana presa di Benevento, bisognò che la Regia Camera facesse far la liquidazione di quello, e pagasse il prezzo, siccome furono restituiti i pezzi dell'artiglierie, e falconetti presi[146].

Ma tutto ciò è nulla a' danni gravissimi, che si sentirono da poi per l'occasion di questa guerra, la quale sebbene fosse terminata per questa pace, rimase l'impressione perciò fatta col Turco, il quale invitato, come si disse, dal Re di Francia collegato col Papa, ad assalire per mare il Regno, sebbene tardasse la sua armata a venire al tempo opportuno, ch'essi desideravano, tanto che bisognò conchiuder la pace, non per ciò il Turco avendo preparato il tutto, ancorchè alquanto s'astenesse d'inquietarlo; poichè appena partito il Duca d'Alba per la Corte, pervenuto a governar il Regno D. Giovan Manriquez questo infelice Ministro, non erano passati ancora otto giorni dopo la sua venuta, seguita a' 5 giugno di quest'istesso anno 1558, che vide ne' nostri mari comparir l'armata Ottomana numerosa di centoventi Galee sotto il comando del Bassà Mustafà, la quale dopo aver saccheggiata la città di Reggio in Calabria, entrata fin dentro il Golfo di Napoli, posta di notte la gente a terra diede un sacco lagrimevole alle città di Massa e di Sorrento; facendo di quest'ultima un miserabilissimo scempio per esser stati posti in ischiavitù quasi tutti i lor Cittadini, che portati in Levante, bisognò poi riscattarli a grave prezzo; onde quel misero avanzo de' loro congiunti, che rimasero venduti i loro campi e le loro tenute a vilissimo prezzo, fu costretto andare insino a Casa il Turco per riaverli[147]: disavventura, della quale insino al dì d'oggi mostra Sorrento le cicatrici, mirandosi per ciò tuttavia povera e di facoltà e d'abitatori.

Ma non passò guari, che la mano vendicatrice del Signore non si facesse sentire sopra la persona del Pontefice, e de' suoi nipoti e congiunti, autori di tanti mali: poichè il Pontefice, prima di morire, ebbe a soffrire molte angoscie per le tante scelleraggini scoverte de' suoi nipoti, e fu quasi per morir di doglia, quando costretto a sbandirli di Roma, intese le tante laidezze in casa del Duca suo nipote, che furono cagione di morti crudeli e violente, e di lagrimevoli tragedie. Ed appena morto a' 18 agosto del 1559, anzi spirante ancora, per l'odio concepito dal popolo e plebe Romana contra lui e tutta la Casa sua, nacquero così gran tumulti in Roma, che i Cardinali ebbero molto più a pensare a quelli, come prossimi ed urgenti, che a' comuni a tutta la Cristianità. Andò la città in sedizione: fu troncata la testa alla Statua del Papa e strascinata per la città: furono rotte le prigioni pubbliche: fu posto fuoco nel luogo dell'Inquisizione, e abbruciati tutti i processi e scritture, che ivi si guardavano; e poco mancò, che il Convento della Minerva, dove i Frati soprastanti a quell'Ufficio abitavano, non fosse dal popolo abbruciato. Assunto poi al Pontificato Pio IV, furono imprigionati i Caraffeschi, e fabbricatosi contro ad essi più processi, per le loro scelleratezze furon sentenziati a morte. Il Cardinal Carlo fu fatto strangolare, il Duca di Palliano fu decapitato, e degli altri loro congiunti ed aderenti, furon praticati castighi sì severi, che gli ridussero in istato cotanto lagrimevole, quanto la lor Istoria racconta.

CAPITOLO II. Trattato con Cosmo Duca di Firenze, col quale furono ritenuti dal Re i Presidj di Toscana, ed investito il Duca dello Stato di Siena cedutogli dal Re Filippo. Ducato di Bari, e Principato di Rossano acquistati pienamente al Re, per la morte della Regina Bona di Polonia. Morte della Regina Maria d'Inghilterra, e terze nozze del Re Filippo, che ferma la sua Sede stabilmente in Ispagna.

In questi medesimi tempi il nostro Re Filippo in quell'Isole adjacenti allo Stato di Siena, per cui era in continue guerre co' Franzesi, stabilì maggiormente il suo dominio, munendole di forti e fissi presidj, onde Presidj di Toscana furon detti, siccome ora ancora ne ritengono il nome; onde fu poi da' Politici[148] ponderato, che gli Spagnuoli collo Stato di Milano, con questi Presidj e col Regno di Napoli, come di tanti anelli, aveano fatta una catena per cingere Italia, e tenerla a lor divozione. Carlo V, come si è veduto, aveasi a se attribuito, come devoluto all'imperio[149] lo Stato di Siena, e vi mandava in quella città suoi Governadori spagnuoli a reggerlo; e mentre il Vicerè Toledo presiedeva al Regno, i Sanesi, mal soddisfatti dell'aspro governo del Mendozza, tumultuarono; tanto che accesasi guerra, bisognò, che il Toledo andasse di persona ad estinguer quell'incendio: spedizione per lui pur troppo infelice, poichè, come si è narrato nel precedente libro, vi perdè la vita. L'Imperador Carlo cedè poi Siena al suo figliuolo Filippo, che per suoi Governadori la reggeva. Quindi avvenne, che molti istituti e costumi, i nostri Napoletani gli apprendessero da Siena, città allora assai culta. A similitudine delle Accademie di Siena s'introdusser in Napoli l'Accademie per esercitar gl'ingegni nelle belle lettere. Da Siena ci vennero i Teatri e le Comedie, allora nuove e strane in queste nostre parti, e fin da Siena si proccuravano non pur le rappresentazioni, e le favole, ma i recitanti istessi, per far cosa plausibile e degna di ammirazione.

Ma lo Stato di Siena posseduto dagli Spagnuoli fu sempre occasione a' Franzesi, ingelositi di tanta lor potenza in Italia, di fiere ed ostinate guerre. Cosmo Duca di Fiorenza, il quale ora aderiva alle parti di Cesare, ora, per far contrappeso alla sua potenza, teneva intelligenza co' Franzesi, non tralasciava intanto le occasioni per ingrandir il suo Stato: seppe in questi tempi colla sua industria, e grande astuzia ingelosire il Re Filippo, in maniera, mostrando darsi alla parte di Francia e del Pontefice, che l'indusse finalmente con quelli patti, che diremo, a cedergli Siena. Era egli creditore del Re in grossissime somme, parte improntate a Carlo V, suo padre, parte spese per la guerra in tempo, che fu ausiliario de' Spagnuoli: per le quali, ancorchè ne avesse avuto in pegno Piombino, n'era però, secondo le congiunture portavano, spesso dagli Spagnuoli spogliato: gridava egli perciò che almeno gli fosse restituito il denaro e rifatte le spese; ma dandosegli sempre parole dal Re Filippo, finalmente Cosimo vedendosi deluso, finse volersi unire col Pontefice e col Re di Francia, per indurre il Re appunto alla cessione di Siena[150]. Il Presidente Tuano descrive gli stratagemmi usati da Cosmo per ingannar non men Filippo, che il Papa e 'l Re di Francia in quest'affare, e come il tutto felicemente gli riuscisse; poichè Filippo, premendogli, che il Duca Cosmo non si collegasse coi suoi nemici in questi tempi, ne' quali avea di lui maggior bisogno, e poteva recargli maggior danno: ancorchè quasi tutti i suoi fossero di contrario parere, quasi forzato, s'indusse a cedergli Siena.

Mostrava intanto Filippo di venire a questa cessione unicamente per gratificare il Duca; ma nell'istesso tempo pensava (ritenendosi le Isole adjacenti) rendersi con nuovi presidj vie più forte in Italia, affinchè potesse resistere a qualunque forza d'esterior nemico, e cingere in questa maniera Italia: per ciò col permesso dell'Imperador suo padre, risolvè di concedere, ed investire il Duca dello Stato di Siena con alcuni patti e condizioni; laonde per mezzo di D. Giovanni Figueroa allora Castellano del Castel di Milano, che per questo effetto lo costituì suo Proccuratore, fu stipolato istromento col detto Duca, sotto li 3 luglio del 1557, col quale si concedeva a costui lo Stato con molte condizioni, fra le quali fu convenuto, che in detta concessione non s'intendessero compresi Port'Ercole, Orbitello, Talamone, Mont'Argentario, ed il Porto di S. Stefano. Da questo tempo a spese del Regno si mandarono in quest'Isole milizie spagnuole per ben presidiarle, e da Napoli vi si manda ancora un Auditore per amministrar giustizia a quegli abitanti, i quali però vivono secondo gli Statuti e costumi de' Sanesi loro vicini, e per ciò quel Ministro ritiene ancora il nome d'Auditore de' Presidj di Toscana.

Fu in questo trattato compreso anche Piombino, e fu fedelmente eseguito, siccome non meno il Chioccarelli[151], che il Tuano[152] ne rendono a noi testimonianza.

Fra quell'Isolette, ve ne è una chiamata l'Isola di Fanuti, per la quale in questi tempi fu lungamente disputato, se apparteneva al Re Filippo, ovvero fosse compresa nella concessione dello Stato di Siena fatta al Duca di Fiorenza. Furono per ciò per sostenere le ragioni del Re, fatte dalla Regia Camera due consulte, una sotto il primo di giugno del 1573, l'altra sotto li 26 agosto del medesimo anno, che si leggono nel tomo 18, de' M. S. Giurisd. di Bartolommeo Chioccarello.

Poichè la sovranità dello Stato di Siena dagl'Imperadori d'Alemagna si pretende appartenere ad essi, l'Imperador Rodolfo II per maggiormente stabilire ciò che il Re Filippo II, avea fatto, al primo di gennajo del 1604, spedì privilegio al Re Filippo III col quale confermandogli il Vicariato di Siena, Portercole, Orbitello, Talamone, Monte Argentario e Porto di S. Stefano con titolo di Duca e Principe dell'Imperio, confermò anche la concessione, ed infeudazione fatta di detto Stato di Siena dal Re Filippo II a Cosmo di Medici Duca di Fiorenza; ed ecco come i Presidj di Toscana s'unirono alla Corona de' Re di Spagna[153].

§. I. Ducato di Bari, Principato di Rossano acquistati pienamente al Re Filippo per la morte della Regina Bona di Polonia.

In questi medesimi tempi al Re Filippo ricadde il Ducato di Bari, e 'l Principato di Rossano, li quali, toltone la sovranità, lungamente erano stati sotto la dominazione, o de' Duchi di Milano, de' Re di Polonia.

Da poi che Ferdinando I d'Aragona spogliò il Principe di Taranto de' suoi Stati, fra' quali era il Ducato di Bari, per rimunerazione di quegli ajuti, che più volte gli avea somministrati Francesco Sforza Duca di Milano, e per contemplazione del matrimonio d'Eleonora sua figliuola, destinata per isposa a Sforza Maria Visconte terzogenito del detto Duca Francesco, investì nel 1465 il detto Duca Francesco della città di Bari e suo Ducato. Ma essendosene poi il Duca morto nel seguente anno 1466, con nuova licenza e concessione del Re Ferdinando, lasciò il Ducato di Bari, non a Galeazzo suo primogenito, che succedè nello Stato di Milano, il quale fu poi marito d'Isabella d Aragona figliuola d'Alfonso II, ma a Sforza Maria Visconte e suoi futuri figliuoli legittimi, acciò che quello, che per lo matrimonio contraendo dovea divenire genero del Re di Napoli, avesse con la sua prole da possedere nel di lui Regno il Ducato di Bari. Il nuovo Duca Sforza mandò tosto in Bari un suo Luogotenente con titolo di Viceduca per governare la città e 'l Ducato, ma essendosi disciolti gli appuntati sponsali con Eleonora d'Aragona per le molte e gravi infermità del Duca Sforza, tanto che Eleonora fu data poi per moglie al Duca Ercole di Ferrara, fu lasciato sì bene il Ducato al Duca mentre visse, ma morto poi nel 1479, essendo ricaduto al Re, fu quello insieme col Principato di Rossano in Calabria donato a' 14 agosto del medesimo anno a Lodovico Moro fratello del morto Duca e a figlj, che da legittimo matrimonio fossero da lui nati. Possedè Lodovico questi Stati; ma quando poi si seppe l'invito da lui fatto a Carlo VIII Re di Francia per la conquista del Regno di Napoli, Alfonso II oltre aver richiamato il suo Ambasciadore, che per lui risedeva in Milano, e mandato via quello di Lodovico che risedeva in Napoli, fece sequestrare tutte l'entrate degli Stati di Bari, e di Rossano, acciò non capitassero nelle mani d'un suo dichiarato nemico. Ritornato poi il Regno per la partita del Re Franzese, sotto il Re d'Aragona, e seguita la pace con Lodovico, costui dal nuovo Re Federico chiese una nuova conferma, ed una nuova investitura del Ducato di Bari e del Principato di Rossano, il quale cortesemente glie la spedì sotto la data de' 6 decembre dell'anno 1496. Nell'anno seguente fece Lodovico al Re nuova istanza, dimandando, che investisse di questi Stati di Bari e Rossano il secondogenito nomato Sforza, fanciulletto ancora di tre anni, a cui esso gli cedeva; ed avendo il Re a ciò acconsentito, creò nuovo Duca di Bari e Principe di Rossano il fanciullo a' 20 giugno del 1497 con condizione, che a nome di lui governasse questi Stati Lodovico suo padre, fin che il vero Duca giungesse ad età più matura.

Intanto essendo D. Isabella d'Aragona, figliuola di Alfonso II, rimasa vedova di Giovanni Galeazzo, al quale portò in dote centotrentamila scudi, ed avendo il nuovo Re di Francia Lodovico IX mossa nuova guerra in Italia con impegno di vendicarsi di Lodovico suo capital nemico, e spogliarlo del Ducato di Milano; questi intimorito, se ne fuggì in Germania e prima di partire assegnò alla mentovata D. Isabella per li ducati centotrentamila della sua dote, il Ducato di Bari ed il Principato di Rossano. D. Isabella prese di questi Stati il possesso, e lo ritenne fin che visse; poichè quando Federico fu costretto uscir del Regno, quello passato in potere de' Franzesi e de' Spagnuoli, e finalmente sotto Ferdinando il Cattolico, niuno le diede molestia, e la lasciarono godere di questi Stati senza un minimo turbamento. Venne ella nel 1501 a risedere in Bari, dove lasciò di se molte memorie, ampliando, e nobilitando quella città con magnifici edificj[154].

Avea ella di Galeazzo suo marito procreato un figliuol maschio chiamato Francesco, ed una bambina di nome Bona, ma essendo Francesco premorto in Francia giovinetto, rimase Bona unica erede, la quale veniva allevata da sua madre in Bari con grande agio e carezze: divenuta già grandetta, pensò darle marito; l'Imperador Carlo V, a richiesta d'Isabella, se ne prese cura e trattò il matrimonio con Sigismondo Re di Polonia, che allora si trovava vedovo e senza figliuoli maschi; fu quello conchiuso nel 1517, e mandò il nuovo sposo a prendersi Bona, la quale imbarcatasi a Manfredonia, a' 3 febbrajo del seguente anno 1518, fu ricevuta dal Re in Polonia con real pompa e grande celebrità. Ritiratasi da poi D. Isabella da Bari in Napoli, non passò guari, che infermatasi d'idropisia, rese lo spirito nel 1524, e fu seppellita nella Chiesa di S. Domenico, dove ancora oggi si vede il suo tumulo.

Per la costei morte nacque discordia intorno alla successione del Ducato di Bari, e del Principato di Rossano tra Bona sua figliuola ed erede, e Sforza figliuolo di Lodovico Moro. Costui, allegando l'investitura a se fatta dal Re Federico, pretese per se gli Stati, e diceva che Lodovico suo padre per non essere di quelli che un semplice Governadore, non poteva assegnargli a D. Isabella per le sue doti. L'Imperador Carlo V pretese ancora, che Lodovico non solamente non avea potuto dispor di quelli, come non suoi, ma anche perchè quando gli assignò a D. Isabella non richiese assenso da Federico Re di Napoli, a cui, ed a' suoi successori in caso di vacanza, doveano ricader quegli Stati. In fine dopo varie consulte e trattati fu stabilito, che il Castello di Bari s'aggiudicasse a Carlo V come a diretto padrone, e successor legittimo del Regno; e che la città di Bari col suo Ducato, e gli altri Stati in Calabria s'assignassero alla Regina Bona per tutto il tempo di sua vita, salve però le ragioni di Sforza, alle quali per questo accordo non si recasse pregiudizio veruno. Ciò stabilito l'Imperadore mandò subito Colamaria di Somma Cavaliere Napoletano per Castellano nel Castello di Bari; e la Regina, che accettò le condizioni, vi mandò per Viceduca Scipione di Somma per reggere la città e 'l Ducato.

In cotal guisa si stette sino all'anno 1530, quando Sforza, che con l'assenso dell'Imperador Carlo era già divenuto Duca di Milano, cedè al medesimo Carlo tutte le ragioni riservate, e pretensioni, ch'egli avesse potuto mai avere sopra gli Stati suddetti; onde l'Imperadore divenutone interamente Signore, fece nuova investitura de' medesimi alla Regina Bona, ristretta però mentr'ella vivea; e nel 1536, la investì anche del Castello di Bari con la medesima limitazione di tempo; onde da lei e dal Re Sigismondo suo marito furon da poi governati[155].

Rimasa poi vedova la Regina Bona per la morte accaduta del Re suo marito nell'anno 1548, ancorchè col medesimo avesse procreati quattro figliuoli, un maschio che fu successore nel Regno, chiamato Augusto, e tre femmine: nulladimeno non passarono molti anni, che la Regina col suo figliuolo venne a manifeste discordie. Al Re non piacevano i modi troppo licenziosi di sua madre: all'incontro ella per vivere più libera, prendendo occasione d'essersi Augusto con suo disgusto sposato con una sua vassalla, benchè molto gentile e bellissima, risolvette abbandonar il Regno, ed i figli e ritirarsi in Bari nel suo Stato. Augusto la lasciò andare, onde partita nel 1555 con fioritissima Corte, viaggiò per terra da Craccovia sino a Venezia, dove da quella Signoria fu ricevuta con Real pompa e maravigliose accoglienze: e fra le orazioni del Cieco d'Adria se ne legge ancora una, recitata dal medesimo In Venezia in occasione di questo passaggio[156]. Da Venezia su le Galee della Repubblica si portò a Bari, dove fu accolta con sommi onori e feste grandissime.

Visse in Bari meno di due anni, e frattanto comprò da varj Baroni Campurso, Noja e Trigiano, Terre a Bari vicine, fortificò il Castello, fabbricandovi alcuni nuovi baloardi. Venuta a morte fece il suo testamento, nel quale avendo lasciato a Giovan-Lorenzo Pappacoda suo intimo Cortigiano, che per molti anni l'avea ben servita, ed in Polonia ed in Bari, le Terre suddette; ad insinuazione del medesimo dichiarò in quello, che il Ducato di Bari ed il Principato di Rossano, erano ricaduti per la sua morte al Re Filippo II, ne' quali ella per ciò lo istituiva erede. Morì nel mese di novembre di quest'anno 1557, e fu sepolta nel Duomo di Bari, dove dopo molti anni gli fu fatto innalzare dalla Regina Anna di Polonia sua figliuola, e moglie del Re Stefano Battori, un superbo tumulo, con iscrizione che ancor ivi si vede.

Il Re Augusto, ricevuto avviso della morte della Regina sua madre, e del testamento, fortemente se ne dolse e portò le sue querele all'Imperador Ferdinando suo suocero, pretendendo non aver potuto la madre privarlo di quegli Stati con disporne a favor del Re Filippo, e che l'investitura comprendeva lui anche. Filippo intanto se gli avea già fatti aggiudicare come a se devoluti, e per gratificare il Pappacoda di questo buon servigio, avea dato al medesimo titolo di Marchese sopra Capurso; ed avendo avuto avviso dall'Imperador suo zio delle pretensioni del Re di Polonia, si contentò che così quelle, come le sue, s'esaminassero avanti dell'Imperadore, e secondo quello che a' suoi Savj paresse, si determinasse. Fu accettato il trattato: onde da amendue le Parti si mandarono in Germania famosi Giureconsulti per sostener le loro ragioni. Piacque al Re Filippo II mandar per se da Napoli Federico Longo, eccellente Dottore di que' tempi, e che esercitava allora la carica d'Avvocato Fiscale della Regia Camera; ma questi partito per Vienna, ove risedeva l'Imperadore, giunto a Venezia s'ammalò gravemente, ed a' 24 ottobre del 1561 vi lasciò la vita: fu il suo cadavere riportato a Napoli, dove nella Chiesa di S. Severino gli fu data onorevole sepoltura[157]. Si pensò ad altra persona, e fu scelta quella di Tommaso Salernitano Dottor non men rinomato e Presidente della Regia Camera, il quale portatosi in Germania, e ben ricevuto dall'Imperadore, difese così bene le ragioni del suo Re, mostrando l'investitura della Regina Bona essersi estinta colla sua morte, nè venire in quella compresi i figliuoli, che ne riportò sentenza favorevole, e fu con ciò posto a questa lite perpetuo silenzio. Il Re Filippo rimase cotanto ben soddisfatto del Presidente Salernitano, ch'essendo per la morte del Reggente Francese Antonio Villano nel 1570 vacata quella piazza, lo fece Reggente di Collaterale, dove presiedette sino a 10 giugno del 1548, anno della sua morte[158].

In cotal maniera tratto tratto s'andavano estinguendo nel nostro Regno que' vasti Dominj e Signorie, che sovente rendevano i Possessori sospetti a' Re, e quasi uguali, particolarmente nel Regno degli Aragonesi piccioli Re, i quali oltre di quello di Napoli, non aveano fuori altra Signoria. Erano per ciò sovente soggetti alle congiure ed all'insidie de' Baroni potenti, ed a' continui sospetti, che i malcontenti non invitassero i Franzesi, perpetui competitori, all'acquisto, e che, o con sedizione interna, o guerra esterna, non loro turbassero il Regno. Gli Spagnuoli, secondo che la congiuntura portava, devoluti gli Stati o per morte o fellonia, estinguevano Signorie sì ampie: non rifacevano in lor vece altri, ma, ritenuta la città principale nel Regio Demanio, partivano in più pezzi il rimanente, e delle altre Terre che prima componevano lo Stato ne facevano più investiture: d'uno che n'era o Principe, o Duca, o Marchese, ne facevano molti, concedendo separate investiture; onde si videro nel Regno loro, cominciando dall'Imperador Carlo V e da Filippo II sino al presente, multiplicati tanti Titoli e Baroni, che il lor numero è pur troppo sazievole. Così venne ad estinguersi il Principato di Taranto, il Principato di Salerno, il Ducato di Bari, il Contado di Lecce, il Contado di Nola e tanti altri Ducati e Contee, e per provvido consiglio degli Spagnuoli, ritenute le città principali nel Regio Demanio tutte le Terre e Castelli, onde quelle si componevano, essendo state investite a diversi, siccome assai più nel Regno si multiplicarono i piccioli Baroni, così si proccurò d'estinguere i grandi.

§. II. Morte della Regina Maria d'Inghilterra, e terze nozze del Re Filippo, il quale si ritira in Ispagna, donde non uscì mai più.

Intanto al Re Filippo, mentre queste cose accaddero nel nostro Reame, avea la morte dell'Imperador Carlo suo padre (accaduta, come si è detto, in quest'anno 1558) rapportato non poco dolore, onde non solo in Brusselles (dove allora trovavasi il Re Filippo) in Germania ed Ispagna, ma in tutti i Regni di sì vasta Monarchia, si celebravano pomposi funerali; ed in Napoli nel medesimo anno, mentre governava il Cardinal della Cueva, se ne celebrarono assai lugubri e con grandi apparati. Ma assai maggior dolore sofferì questo Principe, quando, poco da poi della morte dell'Imperadore, a' 17 novembre del medesimo anno, vide l'irreparabil perdita della Regina Maria d'Inghilterra sua moglie, dalla quale non avea procreati figliuoli[159]. Morte che ruppe tutti i disegni, che avea concepiti sopra quel Regno: poichè se ben egli in vita di quella, disperando di prole, per tener un piede in quel Regno, avea trattato di dar Elisabetta sorella di Maria, che dovea succederle del Regno, a Carlo suo figliuolo, natogli dalla prima moglie Maria di Portogallo[160]; o come narra il Tuano[161], avea proccurato con Ferdinando suo zio, che la prendesse per moglie Ferdinando uno de' figliuoli del medesimo, e dapoi, che poca speranza vi fu della vita di Maria, avesse ancora gettate diverse parole di pigliarla esso in matrimonio: nulladimeno la nuova Regina, come donna prudente, avendo scorti questi disegni, e 'l desiderio degl'Inglesi, i quali mal soddisfatti del governo passato, volevano totalmente separarsi dagli Austriaci, appena assunta al Trono assicurò il Regno con giuramento di non maritarsi con forestiere[162]. Ed essendo dall'assunzione sua al Trono incominciati i disgusti, che poi finirono in una total divisione tra lei ed il Papa, il Re di Francia vie più gli andava nutrendo e fomentando, perchè temendo non seguisse questo matrimonio tra lei ed il Re Filippo con dispensazione Pontificia, stimò bene assicurarsene con fomentar le discordie, esagerando al Pontefice non doversi fidare di Elisabetta, anzi abborrirla, come colei, ch'era nutrita colla dottrina de' Protestanti, e quella apertamente professava: onde gli riuscì troncare sul bel principio le pratiche tra la nuova Regina e la Corte di Roma. Così Filippo, deposta ogni speranza, si quietò; e tutti i suoi pensieri furon poi rivolti a stabilire la pace, che meditava ridurre ad effetto con Errico II Re di Francia, la quale sin da' 14 di febbrajo del nuovo anno 1559 s'era cominciata a trattare nella città di Cambrai; ed essendovi per Filippo intervenuti il Duca d'Alba, il Principe d'Oranges, il Vescovo di Aras (poi Cardinal di Granvela) ed il Conte di Melito; e per parte del Re di Francia, il Cardinal di Lorena, il Contestabile, il Maresciallo ed il Vescovo d'Orleans, finalmente a' 13 aprile del detto anno fu conchiusa e stabilita con due matrimonj: poichè al Re Filippo si diede per moglie Isabella primogenita del Re Errico; e la sorella al Duca di Savoja[163]. Pace, che rallegrò tutta Europa, ed in Napoli dal Cardinal della Cueva furono celebrate feste e giostre superbissime. Ma in Parigi queste feste finiron in una lagrimevol tragedia; poichè il Re Errico correndo in giostra, ferito d'un colpo mortale vi lasciò la vita; onde a quel Trono fu innalzato Francesco II. Ed intanto il Re Filippo, partito da' Paesi Bassi per mare, passò in Ispagna, dove fermatosi colla novella sposa, si risolvè di non più vagare[164], ed ivi chiudendosi, non ne uscì mai più, governando dal suo gabinetto la Monarchia.

CAPITOLO III. Del governo di D. Parafan di Rivera Duca d'Alcalà, e de' segnalati avvenimenti, e delle contese ch'ebbe con gli Ecclesiastici ne' dodici anni del suo Viceregnato; ed in prima intorno all'accettazione del Concilio di Trento.

Il Re Filippo fermato in Ispagna con risoluzione di non più vagare, avendo quivi con maravigliose feste fatte celebrare le nozze della nuova Regina Isabella, poco da poi fece anche solennemente giurare da' Popoli di Castiglia per Principe di Spagna, e suo successore nella Corona D. Carlo suo figliuolo; e così poi di mano in mano fece dargli giuramento da' popoli del Reame di Napoli, e degli altri Regni della sua Monarchia. Intanto il Cardinal della Cueva Luogotenente in Napoli, partito per Roma, a' 12 giugno di quest'anno 1559, per invigilare più a presso agli andamenti del Pontefice Paolo IV, essendo accaduta ai 18 agosto la morte del medesimo, bisognò trattenervisi per l'elezione del successore, e fu non molto lontano, che la sorte cadesse in sua persona; ma ostandogli l'essere spagnuolo, e parzialissimo di quella Corona, fu rifatto in luogo di Paolo il Cardinal Giovan-Angelo de' Medici, che Pio IV nomossi. Il Cardinal della Cueva pochi anni dapoi morì in Roma nel 1562, dove nella Chiesa di S. Giacomo della Nazion spagnuola si vede il suo tumulo.

Ma il Re Filippo, che nella scelta de' Ministri mostrò sempre un finissimo accorgimento, avea già molto prima destinato per lo governo di Napoli D. Parofan di Rivera Duca d'Alcalà, il quale allora si trovava Vicerè in Catalogna, uomo d'incorrotti costumi, savio, accorto, coraggioso e molto pio[165]. Giunge egli in Napoli in quel dì appunto, che partì per Roma il Cardinale, dove fu ricevuto con molto apparecchio, e con desiderio uguale all'espettazione, che s'avea della sua rinomata prudenza e giustizia. Ebbe egli ne' primi anni del suo governo a schermirsi da molti colpi di fortuna, nè vi bisognava meno che il suo coraggio per superarli. Si vide il Regno in una estrema penuria di grani, ed i Cittadini camminar pallidi e famelici per le strade dimandando del pane: gli spessi tremuoti, che si facevan sentire, non meno in Napoli, che nelle Province, particolarmente in Principato e Basilicata, riempivano gli animi non meno d'orrore, che le città e Terre di danni e ruine: le contagioni, le gravi malattie, ed in fine tutti i Divini flagelli pioverono sopra il Regno in tempo del suo governo, a' quali però egli colla sua prudenza e pietà diede opportuno e saggio riparo.

Ebbe ancora a combattere non meno col fato, che colla perversità degli uomini; oltre de' Turchi, che nel suo governo più spesso che mai, invasero per ciascun lato il Regno, arrischiandosi sino a depredare nel Borgo di Chiaja e rendere schiavi i Napoletani istessi; oltre alquanti miscredenti, che imbevuti della nuova dottrina di Calvino, turbarono lo Stato, del che, come si disse nel precedente libro, ne prese egli aspra vendetta: gli fecero ancora guerra nel 1563 molti fuorusciti, li quali unitisi a truppe, avendo fatto lor Capo un Cosentino, chiamato Marco Berardi, infestavano la Calabria. Questo successo fece tanto rumore in Europa, che il Presidente Tuano lo stimò degno di riportarlo nelle sue dette Istorie[166]. Ei narra, che l'audacia di costui crebbe tanto, che fattosi chiamare Re Marcone, si usurpò tra' suoi le Regie insegne, e la regal potestà, ed avea già raccolto un competente esercito, con cui depredando i Paesi contorni, di ladrocinj, di prede alimentava le sue genti. Tentò anche di sorprendere Cotrone; ma ebbe infelice successo. Il Duca d'Alcalà vedendo, che i soliti rimedj contra tanta moltitudine niente valevano, diede il pensiero a Fabrizio Pignatelli Marchese di Cerchiara Preside di quella Provincia, che con seicento cavalli loro andasse sopra per estirparli; e bisognò valersi di milizie regolate per combatterli; nè ciò bastando ad intieramente disfarli, fu duopo con stratagemmi e pian piano andarli estinguendo, siccome felicemente gli avvenne: nel che vi conferì anche l'opera del Pontefice Pio IV, il quale ordinò, che inseguiti, se mai ponessero piede nello Stato Ecclesiastico fossero presi e dati in potere de' Ministri regj.

Ma nemici, quanto più perniziosi alla potestà del suo Re, altrettanto cauti ed accorti, ebbe egli a debellare in tempi molto difficili e scabrosi. Ebbe egli a combattere con gli Ecclesiastici e con li Ministri della Corte Romana, i quali con istravagantissime pretensioni tentavano far delle perniziose intraprese sopra la potestà temporale del Re, ed offendere in mille modi le sue più alte e supreme regalie, per l'opportunità, che in più capitoli saremo ora a narrare.

§. I. Contese insorte intorno all'accettazione del Concilio di Trento nel Regno di Napoli.

Dappoichè sotto il Pontificato di Pio IV ebbe compimento il cotanto famoso Concilio di Trento, che per tanti anni, ora differito, ora sollecitato, secondo i varj fini della Corte di Roma e de' Principi, finalmente con gran sollecitudine e prestezza di quella Corte fu terminato a decembre dell'anno 1563, i Principi, contra ogni loro aspettazione, s'avvidero, che avea quello sortito forma e compimento tutto contrario a que' disegni, onde furono mossi a proccurarlo; poichè quando credevano, che intorno alla Disciplina si dovesse dar riforma all'Ordine Ecclesiastico, e moderare la tanta potenza della Corte di Roma, e restringere l'autorità degli Ecclesiastici, allargata fuori de' confini della potestà spirituale, in diminuzione della temporale, videro, che la deformazione (secondo i disegni di Roma, ed il modo concertato intorno all'esecuzione de' decreti della riforma) dovea essere molto maggiore, siccome l'evento il dimostrò; e si cominciò a vedere sotto il Pontificato istesso di Pio IV, il quale, siccome narra il Presidente Tuano[167], appena terminato il Concilio, nel seguente anno 1564, contra i decreti di quello, per gratificare ad Annibale Altemps ed a Marco Sittico Cardinale dispensando a quelli, avea rivolti tutti i suoi pensieri a raccorre denari; e più chiaramente si conobbe poi sotto gli altri Pontefici suoi successori; videro che la loro potenza si era in pregiudizio de' Principi troppo più ben radicata e stabilita. Per la qual cosa tutti invigilando acciocchè non ne ricevessero danno; quando si trattò di ricevere ne' loro dominj i decreti del Concilio attinenti, non già alla Dottrina, ma alla Disciplina, insorsero tra' Regni Cattolici nuove difficoltà e contese.

In Germania i decreti della Riforma appresso i Cattolici non vennero in considerazione alcuna; anzi l'Imperadore, il Duca di Baviera e gli altri Principi Cattolici dimandarono l'uso del calice per li Laici, e che fosse permesso l'ammogliarsi a Sacerdoti[168].

In Francia s'impedì la pubblicazione del Concilio, ed il Re si scusava col Papa, che secondo lo stato, nel quale allora si trovava la Francia, era la pubblicazione molto pericolosa[169]. In fine la Dottrina del Concilio vi fu ricevuta per essere l'antica dottrina della Chiesa Gallicana, ma i decreti sopra la Disciplina, quelli che non erano di diritto comune, furono rigettati dall'autorità del Re e dal Clero, ancorchè fossero state grandi l'istanze di Roma per farli ricevere e pubblicare[170]; ed appena i decreti del Concilio furono dati alle stampe, che tosto il Parlamento di Parigi si vide tutto inteso ad esaminar quelli riguardanti la Disciplina, notandone moltissimi, particolarmente quelli stabiliti nelle due ultime Sessioni tenute con tanta fretta, pregiudizialissimi, non meno alla pubblica utilità, che alla potestà del Re, ed alle supreme sue regalie[171]. Notarono avere il Concilio stabilita l'immunità Ecclesiastica, secondo le Decretali di Bonifacio VIII, per interessare i Prelati di Francia ad usare tutti i loro sforzi, come gli usarono, per essere il Concilio ricevuto; ma essendosi il Parlamento sempre vigorosamente opposto, riusciron loro vani, ed inutili[172]. Notarono essere stata allargata fuori de' suoi termini l'autorità Ecclesiastica, con diminuzione della temporale, in dando a Vescovi potestà di procedere a pene pecuniarie, ed a presure di corpo contra i Laici: essersi posta mano sopra i Re ed Imperadori, ed altri Principi sovrani, sottoponendoli a pena di scomunica, se permettessero ne' loro Dominj il duello. Lo scomunicar ancora i Re e i Principi sovrani, lo stimavano intollerabile, avendo essi per massima costante in Francia, che il Re non possa essere scomunicato, nè gli Ufficiali Regj, per quel che tocca all'esecuzione del lor carico. Che il privar i Principi de' loro Stati e gli altri Signori de' Feudi, ed a Privati confiscare i beni, erano tutte usurpazioni dell'autorità temporale, non estendendosi l'autorità data da Cristo alla Chiesa a cose di questa natura. Essersi fatto gran torto non meno a' Principi, che a' privati intorno alla disciplina de jus patronati de' secolari: non approvavano in modo alcuno, che fosse concesso ai Mendicanti il posseder beni stabili: di obbligare i Parrocchiani, con imposizioni di collette, primizie o decime a sovvenire i Vescovi e Curati, de' proprj beni nell'erezione di nuove Parrocchie. In breve tutto ciò, che concerne la nuova disciplina, toltone ciò che era di diritto comune, non fu ricevuto, ed apertamente rifiutato. Con gran contenzione per ciò fu dibattuta in Francia la pubblicazione di questo Concilio, per la quale da Roma si facevano premurose istanze; e se bene, essendo stata sempre tenuta lontana, finalmente nell'anno 1614 nel Regno di Luigi XIII non pur l'Ordine Ecclesiastico, ma la Nobiltà la richiedesse; nulladimeno essendosi vigorosamente a ciò opposto il terzo Stato, e l'ordine della plebe, non ebbero l'istanze fattene verun effetto[173]. Uscirono in Francia in detto anno 1614 più scritture sopra ciò, fra l'altre una, che portava questo titolo; Sylloge complurium articulorum Concilii Tridentini, qui juri Regum Galliae libertati Ecclesiae Gallicanae, privilegiis, et immunitatibus Capitulorum, Monasteriorum, et Collegiorum repugnant.

In Ispagna il Re Filippo II intese con dispiacere essersi con tanto precipitamento terminato il Concilio, ed in quelle due ultime Sessioni essersi stabilite molte cose in diminuzione della potestà temporale de' Principi[174], ma colla solita desterità spagnuola, adattandosi a' tempi, ei mostrava in apparenza tutta la soddisfazione d'essersi il Concilio compito, e di volerlo far tosto pubblicare ed accettare in Ispagna ed in tutti i Regni della sua Monarchia; ed essendo stato informato da' suoi Ministri, che ne' decreti di Riforma vi erano molte cose pregiudizialissime alla sua potestà, al costume de' suoi Regni, ed alla pubblica utilità dei suoi popoli, deliberò, con molta riserba e cautela di congregare innanzi a se li Vescovi, ed Agenti del Clero di Spagna, per trovar modo, come quelli doveano eseguirsi, e con qual temperamento; onde non solamente tutto quel, che si fece in Ispagna nel ricevere ed eseguire li decreti del Concilio, in questo nuovo anno 1564, fu per ordine e deliberazione presa nel Regio Consiglio; ma alli Sinodi che tennero i Vescovi di Spagna in Toledo, in Saragozza, ed in Valenza (poichè terminato il Concilio in Trento, quasi tutti i Metropolitani d'Europa cominciarono, ed ebbero a gloria il tener anch'essi de' Concilj, adattando per lo più i loro regolamenti e decreti a quelli del Tridentino) il Re per dubbio non si fossero in quelle Ragunanze con tal occasione pregiudicate le sue preminenze e regalie, mandava anche suoi Presidenti ad intervenirvi; facendo proporre ciò, che compliva per le sue cose, ed impedire i pregiudizj.

In Fiandra il Re Filippo, usando di queste medesime arti, scrisse in quest'anno 1564 a Margherita di Parma allora Governatrice, alla quale solamente spiegò, che i suoi desiderj erano, che il Concilio di Trento fosse pubblicato e ricevuto in tutti i suoi Stati; ma Margherita, prevedendo, che per li tumulti, che allora eran cominciati ad eccitarsi in Fiandra, la pubblicazione e recezione di quello avrebbe potuto portare disordini e difficoltà, fece consultare questo punto, non meno a' Vescovi dello Stato, che a' Consiglj, ed a' Magistrati Regj, i quali notando ne' Decreti della Riforma molte cose pregiudiziali alle prerogative e diritti non meno del Re, che de' suoi Vassalli, e contrarie agli antichi costumi, privilegi e consuetudini di quelle province, onde avrebbero potuto, pubblicandosi, cagionare in quelle notabile perturbazione e gran pericolo di popolari tumulti: consultarono alla Governatrice, che la loro pubblicazione non dovea permettersi, se non con espressa modificazione e protesta a ciascuno degli Articoli già notati, che non si dovesse apportare per detta pubblicazione alcun pregiudizio alle suddette ragioni, privilegi e consuetudini, ma che quelle rimanessero sempre salve, illese ed intatte. Il Re Filippo informato di tutto ciò da Margherita, ordinò alla medesima, che nelle province di Fiandra si pubblicasse e ricevesse il Concilio, ma l'avvertì nel medesimo tempo, che la pubblicazione si permettesse con quelle clausole e modificazioni, che il Consiglio Regio avea notate, e così dalla Governatrice fu eseguito; la quale, a' 12 luglio del 1565, permise a' Vescovi la pubblicazione, con inserirvi espressamente la clausola, che la mente del Re era, che per detta promulgazione niente si mutasse, nè cos'alcuna s'innovasse circa le sue regalie e privilegi, così suoi, come de' suoi vassalli, e spezialmente intorno alla sua giurisdizione, ai padronati laicali, ragioni di nominazioni, d'amministrazione d'Ospedali, cognizion di cause, beneficj, decime, e di tutto ciò che negli Articoli notati si conteneva. Furono parimente date, a' 24 luglio del medesimo anno, lettere della Governatrice dirette a' Senati, e Magistrati Regj, contenenti l'istessa clausola[175]; onde gli Scrittori[176] di que' Paesi, avendo fatto un Catalogo (con osservare l'ordine istesso delle Sessioni e dei Capitoli del Concilio) di tutti quegli Articoli notati pregiudiziali, come fece Antonio Anselmo nel suo Triboniano Belgico,[177], ammonirono, che il Concilio di Trento, in quanto a' suddetti punti, non era stato in quelle Province ricevuto.

Queste erano le arti e le cautele praticate dal Re Filippo e da' suoi cauti Consiglieri spagnuoli; si proccurava in apparenza tener soddisfatto il Pontefice, con inorpellare e destreggiare, come si poteva meglio lusingarlo, mostrando tutta la riverenza e rispetto alla sua Sede, ed alla sua persona, ma nell'interno non si volevano pregiudicar le loro regalie. All'incontro i Franzesi alla scoverta rifiutarono que' Canoni, non vollero accettarli, ed a' mali nascenti accorrevano tosto col ferro e col fuoco per estirparli. Quindi è, che saviamente disse quell'insigne Arcivescovo di Parigi Pietro di Marca, che queste piaghe gli Spagnuoli proccuravano sanarle con unguenti e con impiastri, ma i Franzesi con ferro e con fuoco: medicamenti assai più efficaci, e propri per la total estirpazione del male, essendosi veduto con isperienza tanto in Ispagna quanto nel nostro Regno di Napoli, ch'essendosi secondo queste massime degli Spagnuoli voluto accorrere a medicare le continue piaghe e ferite, che riceve la regal giurisdizione, con tali impiastri ed unguenti, le controversie, se per qualche tempo rimanevan sopite, non eran però estinte; anzi essendo gli Ecclesiastici sempre accorti e vigilanti, le facevano risorgere in tempi per essi più opportuni, ne' quali sovente ci mancava, non pur il ferro ed il fuoco, ma anche l'impiastro; onde quasi sempre facevano delle scappate sopra la potestà temporale de' nostri Principi. Quindi è, che Giovanni Bodino[178] chiamava i Re di Spagna, Servi obsequentissimi de' Romani Pontefici.

Così appunto avvenne a noi intorno a questo soggetto del Concilio: poichè per avere voluto usar questi modi, venneci posto in controversia ciò, che in Francia ed in altri paesi era fuor di dubbio.

Il Re Filippo dunque per mostrar in apparenza, come si è detto, la subordinazione al Papa, di voler far valere i decreti di quel Concilio in tutti i suoi Regni, pubblicati che quelli furono in un volume stampato, mandò in Napoli un ordine generale, colla data de' 27 luglio di quest'anno 1564, diretto al nostro Vicerè Duca d'Alcalà, nel quale gli diceva, che avendo egli accettati li Decreti del Concilio, che il Papa gli avea mandati, voleva, che nel Regno di Napoli si pubblicassero, osservassero ed eseguissero. Ma nell'istesso tempo mandò sua lettera a parte al suddetto Vicerè scritta sotto lo stessa data, significandogli, che avea per sua carta ordinato, che s'osservassero, ed eseguissero i Decreti del Concilio Tridentino nel Regno di Napoli, come in tutti gli altri suoi Regni e Stati; con tutto ciò non voleva per questo, che punto si derogasse a quel che toccava alla sua preminenza ed autorità regale, nè alle cose che gli possano apportar pregiudizio ne' Juspatronati Regii, nell' Exequatur Regium delle Bolle, che vengono da Roma, ed in tutte le altre sue ragioni, e regalie; che per ciò gli comandava, che stesse ben avvertito di non far fare novità alcuna, imponendogli di mandar nota di tutte le cose, che noteranno in detti Decreti pregiudiziali alle sue preminenze ed autorità regale. Avvertendolo ancora, di non far saper niente a Roma, che tenga questo suo ordine; ma che simuli il contrario, dicendo aver ricevuto ordine di far osservare detti Decreti[179].

Il Duca d'Alcalà in esecuzione di questi ordini regali, dando a sentire in pubblico avergli il Re ordinato l'osservanza del Concilio, diede all'incontro incombenza segreta al Reggente Francesco Antonio Villino, che gli facesse nota di tutti i capi, ch'erano nel Concilio pregiudiziali alla giurisdizione, per doverla mandare al Re. Il Reggente Villano ubbidì prontamente e fecene relazione; ma avendone da poi scoverti altri, fece la seconda, nelle quali notò molti capi pregiudiziali alla potestà temporale di Sua Maestà, e moltissimi altri, che toccando i laici, offendevano la sua regal giurisdizione[180]. Però l'opera del Reggente Villano non fu così esatta, che alcuni non fuggissero la presa della sua mano, e non restasse ad altri anche parte per rispigolare. Noi in questa Istoria per quanto concerne il nostro instituto, noteremo i capi più importanti, e da non tollerarsi senza un gravissimo torto e grande offesa delle supreme regalie de' nostri Principi.

Intollerabile è quello, che si legge in molti Decreti, per vedersi allargate fuori de' termini d'una potestà spirituale la facoltà data a' Vescovi di procedere contra a' Laici a pene pecuniarie ed a prese di corpo. Nella sessione quarta[181], agl'Impressori delle Scritture, o d'altri sì fatti sagri libri, che senza licenza dell'Ordinario, o senza nome degli autori gl'imprimono, oltre la scomunica, s'impone pena pecuniaria, a tenor del Canone dell'ultimo Concilio Lateranense, celebrato sotto Lione X. Si dà parimente nella sess. 25[182] a' Vescovi (affinchè non diano subito di piglio alle scomuniche) potestà di valersi della medesima pena e di multe pecuniarie, col costringimento ancora delle persone de' rei, indifferentemente a' Cherici ed a' Laici o per propri, o per alieni esecutori; come se volendo imprigionare i Laici, non manchi loro la potestà di farlo, ma sovente quando non possa riuscir ad essi co' propri esecutori, manchi loro il bargello e perciò debbano ricorrere a' Magistrati per la esecuzione e ministero della cattura. Parimente nella Sess. 24[183] alla concubina, che passato l'anno, durando nella scomunica, non lascia il concubinato, si vuole, che i Vescovi possano sfrattarla dalla Terra o Diocesi e solamente, se sarà di bisogno, possano invocar il braccio secolare, poichè se loro verrà in acconcio di farlo coll'opera de' propri esecutori, bene starà; in caso contrario si valeranno, per l'esecuzione dello sfratto, del ministero secolare, ciò ch'è di maggior offesa e disprezzo.

Quando fra' PP. del Concilio si cominciarono a sentire queste pene, alcuni non poterono non ascoltarle senza scandalo e fra gli altri il Vescovo d'Astorga e l'Arcivescovo di Palermo spagnuoli fortemente si opposero, dicendo, che il Signor Nostro a' suoi Ministri non avea data altra autorità, se non la pura e mera spirituale, che perciò non potevan essi imporre a' Laici multe di denaro, onde la pena dovea essere meramente spirituale, come di scomunica; ma narra il Cardinal Pallavicino[184], che questi Prelati furon fortemente ripigliati dal Vescovo di Bitonto italiano, dicendo loro che la maggior parte de' Deputati era di opposto parere: riconoscendo (come sono le parole del Cardinale) nella Chiesa tutta quella potestà, che ricercasse il buon reggimento del Cristianesimo e dicendo, che l'esperienza insegna, essere le pene temporali più efficaci delle spirituali ad impedire i delitti esteriori, perciocchè la pena è introdotta per freno de' malvagi, là dove a ritrarre i buoni, basterebbe, che l'opera fosse illecita, quantunque impunita, ed i malvagi sono malvagi, perchè antipongono li beni del corpo a que' dello spirito. In questa maniera, riconoscendo gli Ecclesiastici nella Chiesa tutta quella potestà, che ricercasse il buon reggimento del Cristianesimo, potrà ella, per conseguire questo buon reggimento, valersi di tutti i mezzi che possono a quello conducere; e perchè vede che a conseguir tal fine sono più efficaci le pene temporali che le spirituali, può, tralasciando queste, dar di piglio a quelle; onde, se stimerà forse più efficaci mezzi gli esilj e la confiscazion de' beni, che non sono gli sfratti e le multe pecuniarie, avrà tutta la potestà di farlo, sempre che venga indirizzato al fine del buon reggimento del Cristianesimo. E se pure queste non bastassero, potrebbesi venire ancora alle relegazioni, alle condannagioni di galea, alle mutilazioni di membra, agli ultimi supplicj, a' talami, ed alle forche, perchè sempre che condurranno a quel buon reggimento, tutto si può, e tutto lece. Chi mai udì cose sì portentose e stupende! Questo istesso Scrittore, siccome ad altro proposito fu da noi ponderato, aggiunge altrove[185] un'altra ragione, perchè possono gli Ecclesiastici imporre queste pene pecuniarie; poichè altrimente sarebbe l'istesso, che allentar la disciplina; poichè e' dice, la pecunia è ogni cosa virtualmente. Così la pena pecuniaria è dall'umana imperfezione la più prezzata di quante ne dà il Foro puramente Ecclesiastico; il quale non potendo, come il secolare, porre alla dissoluzione il freno di ferro, convien che gliel ponga di argento. Accortisi per tanto i savj Principi di così perniciose massime, non permisero, che allignassero negli loro Stati: onde presso di noi vi fu dato riparo, nè mai il Duca d'Alcalà fece valere nel Regno questi Decreti, siccome fecero, come diremo più innanzi, i suoi successori.

Si notarono ancora negli altri Decreti di quel Concilio altri capi di non minor pregiudicio. Nella sess. 5,[186] sotto un grand'inviluppo di parole si parla di doversi esaminare ed approvare da' Vescovi i Maestri di Grammatica ed i Lettori di Teologia, comprendendovi anche le pubbliche Scuole e le Università degli Studj, i cui Lettori, o l'Università istessa, o il Principe gli fornisce di potestà bastante, per potere ivi insegnare qualunque facoltà sagra o profana, che si fosse, senza esame ed approvazione alcuna de' Vescovi. Da ciò nacque presso noi la baldanza d'alcuni Vescovi, i quali ne' loro Sinodi per lo più raccolti col medesimo spirito del Tridentino, avanzandosi sempre più, stabilirono, che i Maestri di Grammatica e tutti gli altri Professori di scienze, non potessero sotto pena di scomunica, nè in pubblico, nè in privato, insegnare senza lor licenza ed approvazione, onde al Tribunal della giurisdizione ha bisognato reprimere tal abuso non senza contrasti e litigj.

Nella sessione 21 e nella sess. 24[187] si prescrive, che riputando il Vescovo di far nuove Parrocchie, non bastando l'entrate, e' frutti della Matrice Chiesa, possa costringere il Popolo con imposizioni di decime, di collette, o in altra guisa che stimerà, a somministrare ciò che bisogna, per sostentamento de' Sacerdoti e Cherici, che stimerà. Parimente, se i frutti delle Chiese Parrocchiali non bastassero alla sustentazione de' Parrochi, e de' Preti, possa il Vescovo, quando per l'unione de' beneficj non si possa arrivare, costringere i Parrocchiani con collette, primizie, o decime a supplire il bisogno. Questi decreti in Francia, siccome nel nostro Regno, nè meno furono ricevuti, come pregiudizialissimi alla potestà de' Principi, presumendosi di poter metter pesi a' Popoli, e collette; in tempo, che il Clero ha acquistato tanto, che molto poco resta a' secolari, e bene i nuovi Parrochi e poveri, potranno esser sovvenuti da' ricchi; e la Chiesa abbonda ora cotanto di rendite, che bastano a sostenere non pur il bisogno, ma il fasto e 'l lusso.

Nella sess. 22[188] si notarono più cose da non doversi accettare. Nel cap. 8 si sottopongono alla visita de' Vescovi tutti gli Ospedali e Confraterie de' Laici; tutti i Monti e Luoghi pii da' Secolari eretti, per essere di pietà, e da essi amministrati, eccettuandone solamente quelli, che sono sotto l'immediata protezione Regia, in maniera che non ostante, che questi siano meri Corpi Secolari, abbiano della loro amministrazione a dar conto a' Vescovi, non ostante ancora qualunque consuetudine, anche immemorabile, qualunque privilegio e qualunque statuto in contrario, e nel cap. 9 et 10 de Reformat. sess. 24, parimente tutte le Chiese de' Secolari si sottopongono alle visite dei Vescovi. Nel cap. 9 s'impone anche agli Amministratori Laici destinati per le fabbriche di qualsivoglia Chiesa, Ospedale e Confrateria, di dover dar conto ogni anno all'Ordinario. Nel cap. 10 si sottopongono i Notari Regj all'esame de' Vescovi, e di poter essere da quelli sospesi dall'esercizio del loro ufficio, o perpetuamente, o a certo tempo, etiam si Imperiali, aut Regia authoritate creati fuerint. Nel cap. 11 si mette mano sopra i Laici, e sopra coloro che hanno jus patronati, con impor loro pena di privazione di quelli, se s'abuseranno delle rendite, frutti, ragioni e giurisdizioni delle loro Chiese, ancor che fossero Laici.

Nella sess. 23 al cap. 6[189] si dà il privilegio del Foro a' Chierici di prima tonsura, ed a' conjugati a lor talento, essendo le circostanze a lor arbitrio prescritte, come se niente a' Principi appartenesse il vedere, quando possano esimere dalla loro giurisdizione i loro sudditi, e quali requisiti debbano avere: siccome anche fassi nel cap. 17. E nel cap. 18 si toccano anche i beni de' Corpi Secolari per supplire a' bisogni de' Seminarj, che si vogliano istituire, e nuovamente fondare. Parimente nella sess. 24 al cap. 11[190] si toccano i Cappellani Regj intorno a' loro privilegi, ed esenzioni dagli Ordinari: e nella ultima sessione con molta precipitanza, e con troppa fretta tenuta, si notano pregiudizi assai più spessi e gravi. Ne trasceglieremo alcuni.

Nella sess. 25 al cap. 3[191] si proibisce a qualunque Magistrato Secolare di poter impedire, o far ritrattare al Giudice Ecclesiastico le scomuniche, che avesse fulminate, o fosse per fulminare; contra l'inveterato costume, non men del nostro Regno, che degli altri Reami, dove, quando le censure sono nulle, o ingiuste o emanate contra il prescritto de' Canoni, s'usano contra i Giudici Ecclesiastici rimedj economici, o con farli desistere dall'emanarle, ovvero far loro rivocare l'emanate. Nel cap. 8 si toccano gli Ospedali amministrati da' Laici, dandosi a' Vescovi potestà di commutar la volontà degl'institutori, le loro entrate applicarle ad altri usi, punire i Governadori con privarli dell'amministrazione e del governo, e sustituire altri. Nel cap. 9 si dispone con libertà de' padronali de' Laici, dandosi norma intorno agli acquisti, prescrizioni, e loro suppressioni. Nel cap. 19 agli Imperadori, Re, Principi, Marchesi, Conti, ed a qualunque altro Signore temporale, che permettessero ne' loro Dominj il duello, oltre la scomunica, si vuole, che s'intendano anche privati de' loro Stati, e se gli tenessero in feudo, che subito ricadano a' loro diretti Padroni: a' privati, che vengono alla tenzone, ed a' loro padrini, oltre alla scomunica, parimente s'impone pena di confiscazione di tutte le loro robe, di perpetua infamia, e d'esser puniti come micidiali. Usurpazioni tutte dell'autorità temporale; non estendendosi, come s'è detto, l'autorità data da Cristo alla Chiesa a cose di questa natura.

Riconosciuti pertanto ne' Decreti di riforma questi ed altri consimili capi pregiudiziali alla potestà del Principe e sue supreme regalie, 'e fattene due relazioni dal Reggente Villano, e quelle consegnate al Vicerè, costui le trasmise in Ispagna al Re Filippo, il quale fattele attentamente esaminare, ed accertatosi de' pregiudicj che contenevano, scrisse altra lettera al Duca Vicerè, sotto li 3 luglio del 1566, colla quale dicendogli, che non fu intenzione del Concilio di pregiudicare in maniera alcuna a Sua Maestà, ed alle sue Regali preminenze, secondo se n'era accertato in Ispagna da alcuni Prelati, che intervennero in quel Concilio, gl'incaricava, che non facesse far novità alcuna in pregiudizio della sua autorità Regale, in tutti que' capi accennatigli.

Il Duca d'Alcalà pertanto, ancorchè facesse correre il volume de' Decreti del Concilio dato alle stampe per tutto il Regno, nè si fosse apertamente opposto alla divolgazione del medesimo; nulladimeno essendogli stato richiesto sopra il medesimo l' Exequatur Regium, così egli come il Collaterale non vollero concederlo; ed affinchè i Vescovi del Regno, avendo accettato il Concilio, eseguendo insieme con gli altri que' decreti notati, non portassero pregiudizio alla giurisdizione del Re, il Vicerè diede ordine a' Presidi, ed agli altri Ufficiali del Regno, che non facessero far novità alcuna, ma di quanto i Vescovi attentavano, ne facessero a lui relazione.

In effetto, avendo voluto il Vescovo di Tricarico, col pretesto del Concilio, per quel che dispone nel cap. 4 de Reform. sess. 21 e nel cap. 13 de Reform. sess. 24 di sopra notati, imporre alcuni pagamenti nella sua Diocesi, da esigersi dalle persone laiche contra il consueto, e contra il debito della ragione e del solito, con imporre altre decime, ed i Cittadini della Terra della Salandra repugnando di pagare, gli scomunicò, e pose Interdetti in detta Terra; per la qual cosa il Vicerè scrisse a' 30 novembre del 1564, una risentita lettera oratoria al detto Vescovo, imponendogli, che non esigesse in conto veruno da' laici, per qualsivoglia causa, più pagamenti di quelli, che quei Cittadini erano stati soliti, e che per lo passato si era esatto; e pretendendo alcuna cosa in contrario, debba ricorrere da esso Vicerè, che se gli sarebbe ministrato compimento di giustizia, non essendo giusto, che faccia a suo modo; che intanto rivochi li mandati fatti, e levi l'Interdetto, ed abolisca le Scomuniche, altrimente provederà, come conviene.

Così ancora, avendo preteso l'Arcivescovo di Capaccio esigere da' Cittadini laici della Polla alcune decime più del solito, scrisse il Vicerè una ben grave lettera al medesimo sotto li 10 agosto del 1565, colla quale l'esortava a non esigere, nè farl'esigere in modo alcuno, non essendo giusto, che si faccia la giustizia a suo modo, e colle sue mani; e pretendendo cos'alcuna in contrario, abbia ricorso dal Vicerè, che gli sarà ministrato compimento di giustizia. Quest'istesso poi imitarono il Conte di Miranda e gli altri Vicerè suoi successori[192].

Parimente pretendendo i Vescovi del Regno, non pur come caso misto, ma in vigor del riferito cap. 8 de Reform. Matrim. sess 24 procedere contra i Concubinarj a pene temporali, di sfratti e di carcerazioni, vigorosamente si oppose loro il Vicerè; ed avendo voluto il Vescovo di Gravina carcerare un Concubinario, scrisse a' 21 giugno del 1567, una lettera Regia al Dottor Troilo de Trojanis Commessario in Gravina, che proccurasse tosto farlo rimettere al Giudice laico suo competente. Ed all'Arcivescovo di Cosenza, che pretendeva parimente carcerare i laici per cagion di concubinato, e che per ciò dal Magistrato secolare se gli fosse prestato ogni ajuto ed assistenza, fu resistito con vigore; scrivendo il Vicerè prima all'Uditore Staivano, a' 13 novembre del 1568, e poi a' 17 aprile del seguente anno 1569, al Conte di Sarno Governador di Calabria, che non volendo l'Arcivescovo restituire un carcerato per questa causa, facesse rompere ed aprire le carceri, e portasse il carcerato nelle carceri della Regia Audienza, insinuandogli che gli Ordinarj non potevano procedere ad altro contra i medesimi, che solo a scomunicarli. Così ancora il Vicario di Bojano (avanzandosi sempre più la audacia degli Ecclesiastici) avendo avuto ardimento di condannare a cinque anni di galea un laico, per causa di concubinato, scrisse il Vicerè, a' 10 luglio del 1569, una risentita lettera al Governadore di Capitanata, incaricandogli, che subito mandasse a pigliare detto condannato, e lo facesse condurre nelle carceri dell'Udienza.

Ma scorgendo questo savio Ministro, che gli abusi intorno a ciò multiplicavano in tutte le province del Regno, dove i Vescovi senza freno carceravano e punivano con pene temporali i Concubinarj, onde bisognava contra tanti un rimedio forte, ne diede a' 15 luglio del detto anno avviso al Re Filippo in Ispagna, cui informando di questi eccessi de' Prelati, chiese, che dovesse far per estirpargli. Il Re gli rispose che dovesse procedere con vigore e fortezza, siccome si praticava ne' Regni di Spagna, che s'ammonissero prima i Vescovi una, due, o tre volte, ch'essi a' Concubinarj non potevan far altro, che scomunicarli, che quando questo non giovasse, procedesse contra di loro a cacciarli via dal Regno, ed occupar loro le temporalità, con sequestrar anche i frutti delle loro Chiese. Il Duca d'Alcalà avuto ch'ebbe dal Re questa norma, scrisse subito una lettera Regia a tutti i Governatori delle Province, a tutti i Capitani delle città demaniali e de' Baroni del Regno, a' quali facendo noto l'ordine del Re, comandava, che sempre, che i Prelati del Regno contra i laici, per levargli dal peccato, volessero procedere per via di censure ecclesiastiche non gl'impedissero, anzi gli dessero ogni ajuto e favore; ma resistesser loro, quando oltracciò volessero procedere contra a' medesimi con pene temporali[193]. Ciò che fu poi da' suoi successori mantenuto, onde nel Regno fu loro sopra ciò, quando volessero trapassare i confini delle censure, fatta sempre resistenza.

Il medesimo riparo fu fatto sempre a' Vescovi, quando in vigor de' riferiti capi del Concilio volevano visitar l'Estaurite, le Confraterie de' laici, ed altri luoghi pii governati da' laici, con esiger da essi i conti. Il Duca d'Alcalà, durante il suo governo, non permise mai, che questi luoghi fossero dagli Ordinarj visitati; ond'è che fra gli altri capi dati in nota dal Papa al Cardinal Giustiniano Legato di Sua Santità al Re Filippo, era questo, che il Vicerè impediva a Prelati di visitare le Chiese governate da' Laici e vedere i conti della loro amministrazione[194].

Non meno per questi che per tutti gli altri capi riferiti di sopra, non fece il Duca d'Alcalà valere nel Regno il Concilio. I Vescovi stupivano come, non ostante essersi il Concilio divolgato per tutto il Regno, ed essersi impressi più esemplari, che andavano intorno per le mani d'ogni uno, s'impediva poi loro l'esecuzione; n'empivano per ciò di querele il Mondo e Roma, e sollecitavano il Pontefice Pio V, ch'era tutto inteso a far osservare esattamente i Decreti del Concilio, a darvi rimedio; onde da ciò e dagli altri impedimenti, che si davano a' Vescovi per altre occorrenze, che noteremo appresso, furono dal Papa spediti al Re due Legati, il Cardinal Giustiniano, ed il Cardinale Alessandrino, della cui Legazione parleremo più innanzi.

CAPITOLO IV. Contese insorte intorno all'accettazione della Bolla in Coena Domini di Pio V.

Il Pontefice Pio IV non visse gran tempo dopo la fine del Concilio, essendo morto il dì 9 di decembre dell'anno 1565. Fu in suo luogo fatto Papa a' 7 gennajo del nuovo anno 1566 il Cardinal Michele Ghisilieri soprannominato Alessandrino, perch'era nato l'anno 1504, nel villaggio di Bosco vicino ad Alessandria[195]. Fu egli Monaco dell'Ordine di S. Domenico, e fu creato Commessario del S. Ufficio, col favore del Cardinal Caraffa, di cui era amicissimo e molto famigliare, il quale essendo fatto Papa, per aver il Ghisilieri con gran severità ed audacia esercitata quella carica, lo nominò Cardinale nel 1557. Costui essendo giunto al Pontificato, prese il nome di Pio V, e, nutrito colle massime di Paolo IV, fu terribile contra i Settari, ed in Roma, ne' primi anni del suo Pontificato, fece ardere Giulio Zoanneto e Pietro Carnesecco, sol perchè s'era scoverto, che questi tenevan amicizia e corrispondenza co' Settarj in Germania; ed in Italia con Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga sospette d'eresia. Questo medesimo infelicissimo fine ebbe per lui l'eruditissimo Aonio Paleario, il quale intesa la sua condanna disse: Inquisitionem esse sicam districtam in Literatos[196]. Avea Pio V del Pontificato concetti troppo alti, ed all'incontro dell'Imperio troppo bassi, e sopra i Principi, non meno di quello che ne pretese Paolo IV, era persuaso poter far valere l'autorità della S. Sede, più di quello, che comportava una Potenza spirituale. Credeva sopra coloro poter tutto, e di dovere caricar la sua coscienza, se trascurava di farlo; perciò quel che operava, non era per lui indirizzato ad altro fine, che ad un puro zelo di religione e di disciplina; onde per questa severità di costumi, e per aver somministrate grosse somme nella guerra contra i Turchi, s'acquistò riputazione di santità, e l'abbiam veduto a' dì nostri essere stato canonizzato per Santo dal Pontefice Clemente XI[197].

Non bastandogli d'essersi fortemente impegnato a far osservare esattamente i Decreti del Concilio, per maggiormente stabilire nel Pontificato la Monarchia, opera che incominciossi dalle Decretati d'Innoncenzio III e IV, di Gregorio IX, di Bonifacio VIII e degli altri Pontefici suoi predecessori, diede fuori (appena passato il primo anno del suo Pontificato) quella cotanto famosa e rinomata Bolla, che ogni anno vien pubblicata in Roma nel Giovedì Santo in Coena Domini, donde prese il nome. La pubblicò egli nell'anno 1567. Poi nell'anno seguente ne pubblicò un'altra, dove s'aggiunsero più cose, e rendettela vie più fulminante[198]. Comandò, che tutto il Mondo Cristiano senz'altra pubblicazione, che quella fatta in Roma, a quella ubbidisse: i Parrochi ogni anno il Giovedì Santo la leggessero al popolo in su de' pulpiti: e gli esemplari s'affiggessero nelle porte delle Chiese, ed in tutti i Confessionarj, e che quella fosse la norma della disciplina e delle coscienze, non meno a' Vescovi, che a Penitenzieri e Confessori. Contiene ella molti capi, poichè quella, che va attorno e si vede ne' Confessionarj affissa, è raccorciata e molto dimezzata. Alcuni Scrittori tutta intiera la rapportano nelle loro opere, come, per tralasciar altri, Francesco Toledo[199] nella di lui Somma, e Lionardo Duardo Cherico Regolare vi compilò sopra un ben ampio Commentario, e lo stampò in Milano nel 1619 nella di cui Chiesa Metropolitana era stato lungo tempo Penitenziere[200].

Questa Bolla, oltre infiniti eccessi, butta interamente a terra la potestà de' Principi, toglie loro la sovranità de' loro Stati, e sottopone il lor governo alla censura e correggimento di Roma. Per tralasciarne molti, dal cap. 19 sino al 29, si leggono nella Somma del Toledo diciotto articoli, tutti riguardanti a questo fine.

Nel cap. 19 si scomunicano i Fautori degli Eretici, ponendosi con ciò in balìa del Papa di scomunicar i Principi cristiani, i quali o per difesa de' loro Regni, o per altro interesse di Stato, facessero leghe con gli Eretici o infedeli, dandosi ad intendere a' popoli, che quel Principe non senta bene della fede, come fautor degli Eretici e degl'infedeli, e con ciò possa disturbarsi dal trono; siccome questa massima si vide praticata in Francia nella persona del Re Errico III, Principe cattolico, il quale sol perchè prese la protezione de' Ginevrini, fu dato pretesto a' Gesuiti d'insegnare, che potessero i popoli da lui ribellarsi[201].

Nel cap. 20 si scomunicano tutti coloro, che dei Decreti, sentenze ed altri ordinamenti del Papa appellano, o danno ajuto e favore agli appellanti al general Concilio. Si scomunicano ed interdicono tutte le Università degli studi, e collegi e capitoli, che tenessero, ovvero insegnassero che il Papa sia sottoposto al Concilio generale. In guisa che, non solamente agli articoli stabiliti in questa Bolla, ma a tutte le Costituzioni, Decreti, e sentenze della Corte di Roma, o si deve ubbidire, ovvero che s'incorra nella scomunica, ed interdetto, se non si accetteranno.

Nel cap. 21 si scomunicano tutti i Principi, i quali nelli loro Stati, o impongono nuovi pedagi, gabelle, dazj, o accrescano gli antichi, fuori de' casi dalla legge a lor permessi, ovvero dalla licenza speziale, che n'avessero ottenuto dalla Sede Appostolica; onde Martino Bacano[202] in conformità di quest'articolo insegnò che il Principe per ragion della sua amministrazione divien Tiranno, se tirannicamente amministra il Principato, gravando i sudditi d'ingiuste esazioni, rendendo gli Ufficj de' Giudici, facendo leggi a se comode, etc. Così in vigor di questa scomunica sarà posto in mano del Papa, quando gli piacerà, di dichiarare il Principe Tiranno, e muovergli contra, i popoli, a discacciarlo dal Trono come Tiranno, se nell'imposizione de' tributi non avrà prima ottenuta da lui la licenza. E così bisognerà, che i Principi Cristiani aprano al Papa gli arcani de' loro Stati, i bisogni che tengono, per ottener facoltà d'imporre nuove gabelle, o accrescere l'antiche. Di questo pretesto si servì Bonifacio VIII contra Filippo il Bello, infamandolo, che avea gravato i suoi sudditi d'ingiusti tributi, e che nel Regno avea diminuita la ragion della moneta. E già nel Regno, se la provida cura del Duca d'Alcalà non vi riparava, si cominciavano a sentire da' popoli susurri intorno alle imposizioni delle gabelle, riputate ingiuste, perchè imposte senza licenza del Papa, e per ciò di non esser obbligati a pagarle, come vedremo più innanzi. E nel governo del Duca d'Ossuna nel 1582 si videro pur troppo manifesti gli effetti perniziosi di questa dottrina, poichè essendosi risoluto dalle Piazze, toltane quella di Capuana e del Popolo, d'imporre una nuova gabella, ch'era di far pagare un ducato per ciascuna botte di vino, che si cominciasse a bere, il popolo tumultuando dichiarossi di non volere che si parlasse di gabella, fomentati da molti Padri spirituali, che pubblicarono peccare mortalmente tutti coloro, che si fossero intromessi all'imposizione di tal gabella, e fra gli altri vi fu un Cappuccino spagnuolo chiamato Fra Lupo, il quale declamando in ogni angolo della Città con molto fervore, e predicando e protestando a tutti, che lor soprastava un gran castigo divino, se cotal opra si metteva in effetto: fu bisogno al Vicerè di farlo uscir tosto da Napoli. Ma con tutto ciò il popolo non potè mai ridursi a consentirvi; la gabella non si pose, e nel seguente anno, quanto si potè fare, a disporlo ad un nuovo donativo d'un milione e ducento mila ducati[203]. Quindi nacque presso di noi quella perniciosa dottrina de' Casuisti, colla quale regolano le coscienze degli uomini e la insinuano ne' Confessionarj, che fosse a' popoli lecito fraudar le gabelle a cagion del pericolo che si corre, e perchè sono imposte senza tal Papale licenza.

Ne' capitoli 27, 28 e 29 si stabilisce l'immunità degli Ecclesiastici assolutamente, ed independentemente da qualunque privilegio di Principe, ed in conseguenza si scomunicano tutti i Presidi, i Consiglieri, i Parlamenti, i Cancellieri, in fine tutti i magistrati e Giudici costituiti dagli Imperadori, Re e Principi Cristiani, li quali in qualunque maniera impedissero agli Ecclesiastici d'esercitare la loro giurisdizione Ecclesiastica contra quoscumque. Con quest'articolo viene a cadere tutta l'autorità politica del Principe, e si trasferisce alla Corte Episcopale; poichè gli Ecclesiastici non solo vengono ad essere dichiarati immuni dalla giurisdizione politica nelle cause civili e criminali; ma potranno, secondo ciò che gli verrà di capriccio, tirare i Laici alle loro Corti; nè i Magistrati si potranno opporre, perchè come impedienti l'esercizio della Giurisdizione Ecclesiastica contra quoscumque incorrono nella scomunica.

Si scomunicano ancora in questa Bolla tutti coloro che impediranno l'estrazione delle vettovaglie ed altre cose da' loro Stati, per doversi introdurre in Roma, e nello Stato Ecclesiastico per l'annona e bisogno di quella città e Stato.

Parimente nel cap. 13 si scomunicano tutti coloro, che proibiranno l'esecuzione delle lettere Appostoliche, col pretesto, che vi si abbia prima a richiedere il loro assenso, beneplacito consenso, o esame; onde i Dottori Ecclesiastici furon presti a porre in istampa nelle loro opere, come per tralasciar gli altri, fece Reginaldo[204], che i Magistrati incorrono nelle censure contenute nel cap. 13 di questa Bolla, quando senza il beneplacito o esame loro impedissero l'esecuzione delle medesime, anche se si restringessero solamente ad esaminarle, senza avervi d'aggiugnere segno o nota, ma restituirle così illese ed intatte, come si esibivano. E con ciò andava a terra nel nostro Regno L' Exequatur Regium, e s'inserivano infiniti altri pregiudizj e tutti rilevanti: tanto ch'era l'istesso accettarla, che ruinare il Regno.

Tutti i Principi Cattolici ne' loro Regni di là dei Monti non la ricevettero a patto veruno, nè permisero, che in qualunque modo si pubblicasse; e narra il Presidente Tuano[205], che a' medesimi Principi d'Italia parve ciò un giogo troppo grave ed insolente, e precisamente al nostro Re Filippo, ed alla Repubblica di Venezia.

In Francia, per più arresti del Parlamento, sotto gravissime pene fu vietata la pubblicazione della Bolla come quella, che in più articoli s'oppone a' Regali diritti, a quelli de' suoi Ufficiali, ed alla libertà della Chiesa Gallicana[206].

In Germania l'Imperador Ridolfo II si oppose alla pubblicazione e la impedì con vigore. Anzi l'Arcivescovo istesso di Magonza, uno degli Elettori dell'Imperio, vietò di farla pubblicare nelle sue Terre e Diocesi[207].

In Ispagna il Re Filippo II parimente alla sua pubblicazione si oppose. E nella Fiandra testificano Zipeo[208] e Van-Espen[209], che non fu mai ricevuta; e con tutto che il Nunzio Bentivoglio avesse fatto ogni sforzo per farla ricevere e pubblicare, con averne mandato gli esemplari a' Vescovi, non fu però quella ivi mai pubblicata, nè i Vescovi vollero in ciò ubbidire al Nunzio.

Il Duca d'Alcalà nostro Vicerè, pubblicata che fu in Roma questa Bolla, col consiglio e parere di quei savj Reggenti ch'erano allora in Collaterale, fra' quali erano i famosi Reggenti Villano e Revertera, essendo stato informato de' pregiudizj gravissimi, che quella seco portava, e che tutti gli altri Principi Cattolici ne' loro Reami l'aveano affatto rifiutata, anzi che s'usava somma diligenza e rigore di non farla a patto veruno divolgare, castigando chi la disseminava, con usar egli l'istesso rigore nel nostro Regno, proccurò, che non si ricevesse.

I Vescovi tosto ebbero ricorso in Roma, dolendosi col Pontefice Pio del Vicerè, avvertendolo come si proccurava non farla ricevere: il Pontefice scorgendo, che sarebbe stata opera perduta il tentare di rimuovere il Vicerè, usando le solite arti di Roma, col favore dei Principi non bene informati estorquere l'intento, diede incombenza al Vescovo d'Ascoli suo Nunzio in Ispagna, affinchè passasse col Re Filippo premurosi ufficj per indurlo a scrivere al Duca di far ricevere nel Regno la Bolla; ed il Nunzio colorì così bene la sua causa, lagnandosi essere in Napoli la giurisdizione Ecclesiastica malmenata, che nel medesimo anno 1567 indusse il Re, non ben informato, di scrivere una lettera al Duca, nella quale generalmente ordinava, che si dovesse tener particolar pensiero di favorire la Giurisdizione Ecclesiastica, e di non contrariarla; ma con la solita avvedutezza gli soggiunse, che la favorisse in quanto non sarà contraria la sua preminenza regale; e che per ciò per poter soddisfare al Papa con più fondamento, desiderava di aver particolar informazione di tutto ciò, che in questo Regno s'osservava: onde gl'incaricava, che informatosi da persone dotte e pratiche e di sperimentata bontà, l'avvisasse di tutto giuntamente col suo parere.

Il Vicerè rispose a questa lettera con due particolari consulte, una de' 31 luglio del medesimo anno, e l'altra de' 22 decembre, nelle quali riferendogli tutti i capi della Bolla, che sommamente pregiudicavano alla Regal Giurisdizione, l'avvertiva, ch'essendo questo negozio di grandissima importanza, bisognava star attentissimo, e che egli stimava di mandar in Roma a Sua Santità un Dottore del Consiglio di Sua Maestà persona dotta, e ben istrutta delle Prammatiche, Capitoli, Stili ed Osservanze di questo Regno, il quale insieme col suo Ambasciadore in Roma trattasse col Papa per rimediare, in un negozio sì grave, a tanti pregiudicj.

Ma mentre in Ispagna si stavano esaminando queste relazioni del Duca per deliberare ciò che dovea farsi, l'Arcivescovo di Napoli ed i Vescovi del Regno, animati dal Papa, non mancavano, quando lor veniva fatto, di pubblicar la Bolla, e per tutte le loro Diocesi disseminarla, da che, particolarmente intorno all'esazione delle gabelle e del Exequatur Regium, ne nascevano gravissimi inconvenienti. L'Ambasciadore del Re Filippo, risedente in Roma, portava le doglianze col Papa, di essersi pubblicata ne' Regni del suo Re, e spezialmente in quel di Napoli, la Bolla in Coena Domini senza il Regio Exequatur; ma il Pontefice Pio rispondeva, secondo rapporta il Catena[210], che la Bolla in Coena Domini tanto antica, quantunque solamente in Roma ciascun Pontefice la pubblicasse, avea forza per tutto il Mondo, siccome le altre Costituzioni generali; ed aver per l'addietro i Principi e i loro popoli, che si trovavano aver contravvenuto ad alcuna proibizione di questa Bolla, dimandata l'assoluzione da' Pontefici: di essa essersi fatta menzione sempre in tutti i Giubilei ed indulgenze, e nella Bolla della Crociata, conceduta alle volte a richiesta de' Re di Spagna. Per ciò aver comandato agli Arcivescovi e Vescovi che la pubblicassero; molto più perchè avea inteso, che in diverse Province ciò non si faceva, acciocchè non istassero i popoli inviluppati nelle scomuniche, non iscusandoli l'ignoranza, etc. L'ammonire i Confessori del debito loro, convenire al vero Pastore, acciocchè essi sappiano fra lepra e lepra discernere e de' peccati massimamente ne' casi riservati al Papa giudicare.

Il Vicerè informato dall'Ambasciador di Roma dell'ostinazione del Papa, e vedendo co' proprj occhi i disordini, che per ciò accadevano nella città e nel Regno, a' 15 maggio del nuovo anno 1568, mandò al Re una terza consulta, nella quale l'informava degli inconvenienti, che ogni dì nascevano per cagion di questa Bolla, delle novità e dubbj circa l'esazioni delle gabelle, d'alcune Bolle pubblicate ed eseguite in Regno senza l' Exequatur Regium, ragguagliandolo che tanto il Nunzio Appostolico, quanto il Vescovo di Strongoli nuovamente eletto, e mandato in Regno da Sua Santità per Visitatore, aveano mandato generalmente a tutti li Confessori di Napoli, e segnalatamente al Confessore di esso Vicerè nel Convento della Croce, ed a tutti i Confessori delli Reggenti, a ratificargli la Bolla in Coena Domini, ordinando loro che non assolvessero quelli che in qualsivoglia modo contravenivano alla Bolla suddetta. E di vantaggio, che avendo la città di Napoli preso un espediente di dare alli Panettieri il grano della città a minor prezzo di quello, che a lei costava, per non alzare il prezzo che correa allora del pane, conchè li Panettieri pagassero un carlino per tomolo di pane che lavoravano, col qual avanzo la città ne ricaverebbe d'utilità più di ducati sessantamila l'anno; atteso essendosi bandito il pagamento predetto d'un carlino per tomolo, vi erano offerte per due anni di centottomila ducati, ed altri davano intenzione d'avanzare insino a ducati centoventimila, dal che la città veniva a ristorarsi di quel che avea perduto, e perdea nelli prezzi de' grani; ed essendosi deputata giornata per l'accension della candela, la Piazza di Nido erasi ritrattata, per aver osservata la Bolla in Coena Domini, per la quale si scomunicano quelli, che ne' loro Dominj impongono pedagi, o gabelle, dicendo che incorrerebbero nelle scomuniche contenute in detta Bolla; e che similmente quelli, che trattavano questo negozio stavano nel medesimo dubbio, ancorchè da questa imposizione s'eccettuassero le Chiese, Cherici e persone Ecclesiastiche; per lo che aveano differito ed appuntato di doverne cercar parere da' Letterati Teologi sopra questo punto.

Scrissegli ancora sotto l'istesso dì altra consulta, colla quale ragguagliava il Re, che gli aggravj fatti e che tuttavia si facevano da' Vescovi del Regno per cagione della suddetta Bolla (se egli colla sua potente mano non vi riparava) si sarebbero resi irremediabili; e quel, che più importava al suo regal servigio, era il remedio al capo dell' Exequatur Regium da darsi alle provvisioni, Brevi e lettere Appostoliche, poichè per detta Bolla si toglieva affatto questo costume, ed antichissima consuetudine; ed in effetto alcuni Prelati aveano già pubblicati ed eseguiti alcuni Brevi e lettere Appostoliche senza Exequatur, e ch'egli era stato costretto di simularlo, finchè avesse risposta e risoluzione da Sua Maestà, per non incorrere nella censura contenuta in detta Bolla. Gli avvisò ancora, che il Papa avea mandata la Bolla all'Arcivescovo di Napoli con un Breve particolare, che la facesse pubblicare sotto pena di santa ubbidienza; sopra di che, da parte di Sua Santità, gli avea ancora scritto il Cardinal di S. Pietro Alessandrino suo nipote, comandandogli, che la facesse subitamente pubblicare, siccome già era stata subito pubblicata dal detto Arcivescovo e dal Nunzio per le Chiese di Napoli, senza licenza del Vicerè, e senza Exequatur. Di vantaggio, che nella nuova ed ultima Bolla in Coena Domini pubblicata, in quest'anno 1568, vi si leggevano aggiunti molti altri capi pregiudizialissimi alla Regal Giurisdizione; onde pregava istantemente il Re, che ad un affare cotanto grave e ruinoso, vi desse presto rimedio; tanto più, che egli con i Reggenti erano in iscrupolo d'essere scomunicati, perchè aveano denegato l' Exequatur ad alcuni Brevi di Sua Santità.

Il Re Filippo reputando, per queste insinuazioni del Duca, l'affare di somma importanza, ed avendo fatto esaminare in Ispagna da' suoi Consiglj e da' più famosi Teologi di quelle Università la Bolla, finalmente a' 22 luglio del medesimo anno 1568 scrisse al Vicerè una ben lunga lettera molto grave e forte, per la quale l'incoraggiava a star fermo in rifiutar la Bolla, e tutto ciò che s'attentava contra le sue regali preminenze. Mostra in prima per quella, aver inteso non senza suo rammarico, essere giunte le cose in quello stato, ch'egli rappresentava, non potendo lasciar di dirgli aver sentito molto, che abbia tanto dissimulato, e quelle leggiermente passate, ed essendo così perniziose, come sono e come egli medesimo lo dicea: che poteva ben egli aver col Papa molto giusta ed onesta scusa di non ammettere, nè dar luogo ad alcuna novità, che si pretendeva a tempo suo introdurre, con dirgli, ch'era suo Luogotenente in questo Regno, e che stando ad esso raccomandato per governarlo con que' privilegi e preminenze, nelle quali da tanti anni si trovava in possessione, in uso e costume, non poteva lasciare di non conservarli, così, come gli avea trovati: che per questa causa non dovea Sua Santità tenere a male, nè a disubbidienza, che cercasse prima consultare con sua Maestà e complire il suo carico ed ufficio: che dovea dire al Nunzio, che trattanto, che in questo Regno fosse stato esso Duca, non avesse da permetter cosa, che fosse in pregiudizio e diminuzione delle sue prerogative e preminenze, colle quali l'avea ritrovato, e che se Sua Santità pretendeva introdurre alcuna cosa in quello, poteva accudire a Sua Maestà, come a Padrone, e conveniva, che l'avesse fatto, poichè toccava a Sua Maestà ordinare quel che avesse voluto, e ad esso Duca solamente eseguirlo.

Per la qual cosa espressamente gli comandava, che per lo cammino e termini che meglio gli parrebbono, esso Duca restituisca interamente nella possessione, nella quale stava il Regno quando egli ci venne, senza permettere, che la giurisdizione e preminenza reale sia pregiudicata in un solo punto, come in lui interamente confidava, perchè altrimenti non sarebbe ammessa niuna replica e scusa.

Che faccia intendere al Nunzio Odescalchi, che frattanto, che esso Duca tenerà il Regno a suo carico, non s'avran da permettere in quello simili novità, cotanto pregiudiziali a Sua Maestà.

Che castighi severamente ed esemplarmente quelli che avranno ardimento servirsi d'alcun Breve, Bolla, o Concessione Appostolica, senza che preceda l' Exequatur Regium, che da tanto tempo, e per tante necessarie e giuste cagioni s'usa, e sta introdotto nel Regno. E che (approvando il suo parere d'inviare a Roma persona di qualità) si risenta col Papa e gli rappresenti gli aggravj ed i pregiudizi che gli fa con queste novità: gli ordina, che in tanto gli dia subito avviso d'aver eseguito puntualmente quanto gli comandava; soggiungendo ancora (per mostrar maggiormente la sua grande premura), che avendo egli data licenza ad esso Duca per le sue gravi indisposizioni di venire in Ispagna, se si trovasse forse partito dal Regno, gli ordinava di ritornar subito che avesse ricevuta quella lettera, da dove si trovava, a riordinare il Regno, e restituirlo nelle antiche preminenze, in maniera che lo lasci dello stesso modo, e con quelle medesime giurisdizioni e prerogative, che lo trovò.

Risponde ancora a ciò, che il Duca gli avea scritto intorno allo scrupolo, che coloro della città aveano di non imporre fra di loro gabella: che proccuri di levargli da questa immaginazione ed errore; poich'avendo egli fatto consultare il caso da' migliori suoi Teologi, vien giudicato errore ed inganno: onde con effetto, che facci subito imporre la suddetta gabella, affinchè Roma si disinganni, ed intendano di non giovargli in simili cose queste strade indirette.

Scrisse parimente il Re, a' 31 luglio del medesimo anno, premurosamente al Commendator maggiore, a cui appoggiò in Roma questo affare per doverlo maneggiare col Papa, al quale inviò le sue istruzioni e tutte le scritture e consulte fatte sopra il medesimo, incaricandogli dover maneggiarlo con quel calore ed efficacia, che ricerca la qualità d'un negozio tanto grave e cotanto a lui importante. Oltre a ciò in piedi di questa lettera soggiunse il Re, di suo proprio carattere, al Commendatore, che sentiva tanto questo negozio, che non s'avea voluto confidare con altri, se non con lui, assicurato della sua forza ed amore con che l'ha da trattare. E narra il Presidente Tuano[211], che il Re Filippo sì gravemente sdegnossi, che i Vescovi e Parrochi aveano avuto quest'ardimento di pubblicare in Ispagna ed in Italia ne' suoi Stati questa Bolla, che con severità di pene pari all'ardimento loro il proibì, dicendo, secondo che scrive il Tuano: Nolte se committere, ut ignava sua patientia majestatem Imperii a majoribus acceptam, atque adeo aerarium imminuisse videatur; videre se, nec invidere: quod Regi Francorum, qui regnum sectaria peste infectum habeat, nova quotidie subsidia a sacro ordine emungere concedatur, id vero ferre non posse, sibi qui regna ab eadem peste incontaminata servet, interdici, quominus jura ab omni aevo ad hunc diem ab eodem sacro ordine in suis ditionibus pendi solita, exigere liceat. E consimili erano le doglianze de' Veneziani, i quali per ciò non vollero nella loro Repubblica a verun patto sopportare queste novità.

Il Duca d'Alcalà, ancorchè avesse ottenuta licenza dal Re di ritornar in Ispagna, nulladimeno non era per anche partito da Napoli, quando gli giunse la sua regal carta, dalla quale fu obbligato a trattenervisi, e quando s'accertò de' risoluti sentimenti del Re, cominciò con più sicurezza e vigore ad opporsi a' Prelati; onde divenuto più animoso, per sua discolpa, era tutto vigilante ed attento in riparar i pregiudizi passati, e proccurare, che non se ne attentassero de' nuovi: fece far relazione da' Signori Reggenti di non essersi portato alcun pregiudizio alla regal giurisdizione e preminenze di Sua Maestà per la pubblicazione fatta dall'Arcivescovo di Napoli, siccome dagli altri Vescovi nelle loro Diocesi della Bolla: che le cose erano nel lor primiero stato, e da potersi riparare quando il caso avvenisse. Ed in fatti, non ostante che in Roma si trattava dal Commendator maggiore quest'affare, perchè tuttavia non cessavano i Vescovi del Regno, quando lor poteva venir fatto, di tentare delle novità; così non trascurava il Vicerè immantenente di opporsi ed impedirgli.

Il Vescovo di Venafro avea ardito di proibire l'esazion delle gabelle nella sua Diocesi; ma il Vicerè tosto in settembre di quest'anno 1566, scrisse al Commessario Barbuto ordinandogli, che le facesse esigere non ostante detta proibizione, ed avendo inteso, che i Sindici e gli Eletti di S. Germano aveano mandato in Roma per ottener Bolla ed assenso della Sede Appostolica per poter seguitare l'esigenza delle gabelle imposte in detta città gli anni passati con licenza e decreto Regio: e che avendo voluto seguitare ad esigere dette gabelle, erano state dal Vicario pubblicamente nella Chiesa proibite, notificando essere quelle riprovate sotto pena di scomunica da Sua Santità in virtù della Bolla in Coena Domini: commise al suddetto Commessario Barbuto, che contra i Sindici e tutti gli altri del governo, siccome contra coloro, che gli aveano consultati di mandar in Roma, pigliasse diligente informazione, e trovatigli di ciò colpevoli, insieme coll'informazione gli menasse in Napoli, facendo intanto continuar l'esazione.

L'Arcivescovo di Chieti e li Vescovi di Bitonto, di Lavello e di Venosa parimente ebbero ardimento in virtù della suddetta Bolla di proibir le gabelle; ma il Vicerè, oltre d'aver acremente ripresi i Prelati suddetti, acciò non s'intrommettessero in quest'affare e d'aver fatta continuare l'esazione de' laici, di questi attentati ne fece a' 31 ottobre del 1568 una particolar consulta al Re.

Il Vescovo di Melfi ancora erasi avanzato a procedere contra a' laici, avendo anche proibita l'esazione delle gabelle di detta città: onde il Vicerè se gli oppose con vigore, ed a' 11 dicembre del suddetto anno scrisse un'altra Consulta al Re, pregandolo de' rimedj opportuni contra questi Prelati, che usurpavano la sua regal giurisdizione.

Il Vescovo della Cava avea parimente impedita l'esazione delle gabelle di detta città, e pubblicata scomunica contra quelli che volessero esigerle. Ma il Vicerè, a' 6 febbrajo del nuovo anno 1569, mandò una grave ortatoria al Vescovo, che rivocasse la scomunica e non impedisse l'esazione: scrisse ancora una lettera Regia al Capitano ed alla città della Cava, che dovessero continuar e far continuare l'esazion delle gabelle imposte con assenso e decreto Regio, alla riserva delle Chiese e persone Ecclesiastiche, non ostante qualsivoglia proibizione fatta o da farsi dal Vescovo, e ne fece anche di ciò relazione al Re.

Avendo per tanto il Vicerè, di quanto i Vescovi attentavano e di quanto egli operava in contrario per riparare i pregiudizj fatti, mandate, come si è detto, più relazioni al Re Filippo per intendere la sua regal mente, affinchè non mancasse d'assisterlo in cose così gravi; il Re in quest'istesso anno 1569 gli rispose con altra sua regal carta, colla quale non solo approvava la sua vigilanza, ma vie più gl'incaricava la continuazione con ogni vigore in non permettere a' Vescovi questi attentati, nè che per un pelo venga pregiudicata la sua giurisdizione e preminenza regale; per la qual cosa il Duca, assicurato di nuovo della mente del Re, scrisse una grave ortatoria a tutti i Vescovi, ed Arcivescovi del Regno, insinuando loro, che non pubblicassero, nè facessero pubblicare la Bolla in Coena Domini, nè altre Bolle senza il Regio Exequatur, altrimenti avrebbe proceduto contra di loro, come conveniva procedere contra quelli, che pregiudicano la regal giurisdizione. Scrisse ancora nel medesimo tempo a tutti i Governadori delle province, ordinando loro, che inviassero persone a posta a presentare detta ortatoria a tutti, detti Prelati, ed in loro assenza a loro Vicari; e ch'essi stassero vigilanti in non far pubblicare la Bolla in Coena Domini, e che per tal effetto ordinassero a tutti i Capitani delle Terre così demaniali, come Baronali, che subito che sentiranno doversi quella pubblicare debbano tosto levarla di mano di quel Prelato, o altro, che la pubblicasse, o se per caso la ponessero nelle porte delle Chiese maggiori, o in altro luogo, la levassero dove fosse affissa, e subito per persona a posta la debbano inviare ad esso Vicerè: di più, che debbano anche subito sequestrare li beni patrimoniali e temporali del Prelato, che presumerà far tal cosa.

Nè questi ordinamenti rimasero senza il loro effetto poichè alcuni Prelati, che ciò non ostante vollero avere questo ardimento di pubblicarla, ne furono col sequestro de' loro beni puniti. Avendo l'Arcivescovo di S. Severina fattala pubblicare in quella città, scrisse, il Vicerè al Conte di Sarno Governatore di Calabria, che gli sequestrasse i suoi beni patrimoniali e temporali. Parimente essendosi inteso che il Vicario della città di Cedogna aveala pubblicata, fu scritto dal Vicerè al Governadore di Principato ultra, che mandasse un Auditore a pigliarne informazione, e costando averla fatta pubblicare, gli sequestrasse i beni, e trovandosi la Bolla affissa nelle porte della Chiesa, o altrove, la levasse. Consimili ordini furon mandati al Governadore suddetto contra l'Arciprete d'Erboli: al Capitano della Terra delli Cameli contra il Vescovo di Bojano ed il suo Vicario: al Governadore di Principato citra contra l'Arciprete del Casale dell'acqua: al Governadore di Capitanata contra il Vescovo suddetto di Bojano ed a molti altri; ad alcuni de' quali, per essere comparsi in Napoli avanti il Vicerè, e fatto costare, che essi non aveano pubblicata la Bolla dopo la sua ortatoria, ma l'anno precedente, fu loro poi tolto il sequestro. Di tutto ciò, così dell'ortatoria generale spedita a' Vescovi ed Arcivescovi, e degli ordini dati alli Governadori delle Province, come de' sequestri fatti, e poi ad alcuni levati, ne fece il Vicerè distinte relazioni al Re in Ispagna.

Restava ancora di levare un'altra cagione, perchè questa Bolla non si disseminasse, ed era, impedire ai Librai e Stampatori, che non la stampassero e vendessero; onde il Vicerè avendo notizia, che in Napoli i Librai tenevano e vendevano gli esemplari di quella; ed alcuni Stampatori, ancorchè a voce loro si fosse fatto intendere, che non stampassero cosa alcuna senza sua licenza, con tutto ciò l'aveano stampata; ordinò che si facesse diligenza nelle loro case e botteghe, e che quante ve ne trovassero si pigliassero, ed essi fossero posti in prigione, siccome fu eseguito. Ed avendogli il Conte di Sarno Governadore della Provincia di Calabria scritto, che in Cosenza in potere de' Librai di quella città si trovavano molte di queste Bolle, e parte anche vendute, gli ordinò che facesse far la ricerca nelle loro case e botteghe, e proccurasse averle tutte in mano, e gli carcerasse appresso di se: del passo pure ne diede parte al Re nella Consulta, che gli scrisse a' 7 maggio di questo medesimo anno 1569.

Ma con tutto che il Duca d'Alcalà fosse tutto occhi per impedire la pubblicazione di questa Bolla, affinchè gli Ecclesiastici non se ne valessero nel Regno, non per questo da Roma si tralasciava tanto più insistere ai Prelati, che si fossero opposti, e che per tutte le vie la facessero valere. Il Pontefice fulminava per questi espedienti presi dal Vicerè, qualificandoli per violenze; e se deve prestarsi fede al Cardinal Albizio[212], minacciava di volere scomunicarlo insieme col Collaterale, e sottoporre ad interdetto la città di Napoli. Ma riputandosi allora questo rimedio più ruinoso del male, si pensò in Roma una sottil malizia, e pur troppo scandalosa (niente curandosi di allacciare le coscienze degli uomini, particolarmente de' più deboli, che sono i più) la quale fu di comandare a' Confessori, anche regolari, che negassero l'assoluzione a' loro penitenti: onde vedendo, che poco frutto si faceva con mandar la Bolla a' Prelati, ed inculcar loro l'osservanza, si pensò di mandare la Bolla a' Generali delle Religioni, affinchè la disseminassero a tutti i Confessori dell'Ordine, con impor loro, che non assolvessero persona, che avea a quella controvenuto.

Saputosi in Roma, che il Vicerè avea per Confessore un Frate del Monastero della Croce, si cominciò da costui. Il Papa ordinò al P. Generale de' Francescani, che mandasse a tutti li Confessori del suo Ordine la Bolla: di più fece scrivere dal detto P. Generale una particolar lettera ai P. Fr. Michele Guardiano del Monastero della Croce, ch'era il confessor del Vicerè, che stesse ben avvertito d'assolvere il Vicerè, sempre che conoscesse aver impugnato la Bolla. Il Vicerè ebbe copia di questa lettera, e la mandò in Ispagna al Re insieme con un'altra sua Consulta de' 15 maggio del detto anno, pregandolo a prender forte risoluzione in cosa cotanto necessaria.

Si venne da poi a' Reggenti del Collaterale, ed in particolare a' Reggenti Villano e Revertera Consultori del Vicerè. Il Reggente Villano essendosi andato pochi dì prima di Pasqua Rosata a confessare al suo Confessore ordinario, che per sua disavventura si trovò essere dell'osservanza di S. Francesco e del Monastero istesso della Croce, non fu possibile, che colui avesse voluto assolverlo, per cagion d'aver contravvenuto alla Bolla: dicendogli di più che il Nunzio avea secretamente ripreso il Guardiano del Convento, perchè mandava ogni dì un Frate a dir Messa nella Cappella, che sta in casa d'esso Reggente, quando sapeva ch'era, per aver contrastato alla Bolla, scomunicato. Per la qual cosa fu duopo al Reggente andare ad un altro Religioso, dal quale fu per quella volta assoluto e comunicato nel dì di Pasqua; però il Frate gli disse, che avesse rimediato col Re a' fatti suoi, perchè un'altra volta non si sarebbe arrischiato di assolverlo.

Più lagrimevole fu il caso del Reggente Revertera, per aver egli voluto ricorrere a Gesuiti; andò il Reggente nella Vigilia dell'Ascensione per confessarsi al suo Confessore oridinario, ch'era della Compagnia di Gesù: non volle il Gesuita nè meno ascoltarlo, sgridandolo non poterlo assolvere, perch'era scomunicato, avendo impedito, che si pubblicassero provvisioni di Roma senza il Regio Exequatur: che avea consentito, che si carcerassero e punissero coloro, che aveano pubblicata la Bolla in Coena Domini, e che facesse continuare l'esazione delle gabelle, onde non pensasse di essere assoluto nè da lui, nè da altri, perchè il Reggente Villano intanto era stato assoluto da quel Religioso, perchè ancora non era venuto ordine al Generale della sua Religione, che non assolvessero i Reggenti; onde il meschino Revertera tutto confuso e pien di rossore bisognò andar via. Con tal occasione si seppe che in Roma s'era dato tal ordine alli Confessori di tutte le Religioni, e che per ordine del Cardinal Savelli Vicario del Papa, in nome di sua Santità, s'era imposto al General de' Gesuiti, che dovesse dar ordine a tutti i Confessori della Compagnia, che non assolvessero il Vicerè, nè i Reggenti, e che un consimile era stato già dato a tutte le altre Religioni.

L'esempio di Roma, per di lei insinuazione, era imitato da' Vescovi del Regno; poichè il Vescovo di Boiano pure s'era avanzato a dar ordini a' suoi Confessori della Diocesi, e particolarmente a quelli della Terra di Ferrazzano, che non dovessero confessare, nè assolvere li Cittadini e persone del governo di detta Terra, che facevano continuare ad esigere le gabelle: ed ancorchè il Vicerè mandasse ortatoria al Vescovo, che rivocasse gli ordini, altrimenti avrebbe proceduto come conveniva, il Vescovo non volle ubbidire: onde il Duca nella nuova consulta, che fece al Re sotto li 29 gennajo del seguente anno 1670 lo richiedeva, se fosse stato di suo gusto cacciarlo dal Regno e sequestrargli l'entrate. Scrisse perciò al Governadore di Capitanata, che facesse subito presentare al Vescovo l'ortatoria; e la rimandasse, e scrisse parimente al Capitano, ed all'Università di Ferrazzano, che attendessero ad esigere le gabelle, non ostanti gli ordini del Vescovo.

Il Duca, accertato di questi passi dati da Roma, e di quanto accadeva nel Regno, ne fece piena consulta al Re sotto li 10 giugno di quest'anno 1569, pregandolo instantemente a dar pronto riparo, ponendogli ancora sotto gli occhi, ch'egli era già di 62 anni, il Reggente Villano ne avea anni 70 ed il Reggente Revertera poco meno, e potrebbe facilmente ad alcuni di essi sopravvenir la morte con tali timori e scrupoli, che gli Ecclasiastici esageravano, i quali finalmente turbano la pace dell'anima, e maggiormente a' vecchi, che sono nell'estremo di lor vita[213].

Non passò guari, che il Reggente Villano cadde infermo, ed i Confessori non lo volevano assolvere: venne all'estremo di sua vita, ma non per ciò trovava da' Confessori pietà; finalmente il Nunzio, essendosi prima con usar molte diligenze accertato, che veramente era quasi in agonia, siccome in effetto poco da poi se ne morì, diede il permesso che si potesse confessare ed assolvere, ma con condizione, che se fosse vivuto non andasse più dal Vicerè, quando si trattasser cose di giurisdizione, nè s'intromettesse in quelle: così fu assoluto, e così morì il cotanto fra noi celebre Reggente Villano, Ministro non men dotto, che zelante della giurisdizione e preminenze del suo Re, il cui tumulo oggi s'addita nella Chiesa di S. Lorenzo Maggiore di questa città. Tutti li Confessori si protestavano, che a patto veruno non volevano assolvere i Reggenti, se non promettessero prima, di non intromettersi nella Bolla in Coena Domini, ma quella osservare ed eseguire. Parimente il Vescovo di Nola avea ordinato, che gli Eletti e Deputati del Reggimento di quella Città non fossero assoluti da' Confessori per cagion, ch'esigevano la gabella del pane imposta con decreto, e Regio assenso colla riserva de' Cherici, Chiese e persone Ecclesiastiche; ed essendogli stata mandata ortatoria dal Vicerè, che rivocasse gli ordini, e facesse assolverli, non curava ubbidire.

Di vantaggio, avendo il Pontefice pubblicato, in questo nuovo anno 1570, un giubileo, per escludere da questo li Reggenti e gli altri Ministri ed Ufficiali del Re, vi avea fatto ponere clausola, che non potessero di quello godere coloro, i quali aveano violato la libertà Ecclesiastica; ed i Confessori dicevano, che per queste parole si denotavano i Reggenti e gli altri Ministri; ed il Nunzio ancora così l'avea dichiarato.

Il Vicerè di tutti questi disordini ne informò pienamente il Re con due altre relazioni, una de' 29 gennaio, l'altra de' 10 maggio del medesimo anno 1570 pregandolo, che a mali sì gravi volesse darvi remedio, atteso ch'egli non poteva resistere alle continue istanze de' Reggenti' e d'altri Ministri, che erano per ciò in grandissima agitazione[214].

Il Re Filippo intanto, per le Legazioni in questo tempo spedite dal Pontefice Pio di Vincenzo Giustiniano e del Cardinale Alessandrino in Madrid, delle quali parleremo più innanzi, e per gli uffici fatti in Roma dal suo Ambasciadore e dal Commendator maggiore, avea mitigato in parte l'animo del Pontefice, ed il Presidente Tuano[215] narra, che Pio V, si raffreddò e depose il pristino fervore per le guerre di Religione, che allora più che mai crescevano in Fiandra e nella Francia; tanto che il Re assicurò il Duca con sua lettera sin de' 17 luglio 1569, che per gli ufficj passati in Roma prevedea che Sua Santità si sarebbe quietata, e non passerà più avanti, e che in questo non avrà più che dire di quel, che in Ispagna il suo Nunzio con molto secreto avea detto circa l'ordine dato da Sua Santità, che non si pubblicasse la Bolla in Coena Domini insino ad altro suo ordine: lo richiedeva per ciò, che l'avvisasse se questo si continuava, o pure fossesi dato altro ordine in contrario[216].

In questo stato rimasero le cose in tempo del governo del Duca d'Alcalà, che poco da poi se ne morì in Napoli: non si venne mai ad una decisiva risoluzione intorno a quest'affare, ma le cose s'andaron da poi temporeggiando, usando gli Spagnuoli i soliti rimedj. Essi non cessavano dall'un canto impedire l'esecuzione a' Prelati, quando volevan servirsi della Bolla, con tutto che non molto si curassero che coloro la facessero leggere ogni anno.

All'incontro i Vescovi e gli Ecclesiastici non cessavano di pubblicarla nel Giovedì Santo ne' pulpiti, ed affiggerla nè Confessionarj e nelle porte delle Chiese; nè molto si curavano, che poi non si praticasse. Nel Viceregnato del Duca d'Alcalà trovarono, per le forti premure che glie ne dava il Re Filippo, più resistenza e vigilanza. I suoi successori, secondo le congiunture ed opportunità, ora lenti, ora forti, si opponevano.

Il Cardinal di Granvela successore del Duca mostrò non minor fortezza che il suo predecessore; poichè fortemente crucciato il Re Filippo II, che non ostante le promesse del Nunzio fatte in nome del Papa in Ispagna, tuttavia non si cessava da Roma insinuare a' Prelati del Regno la pubblicazione ed affissione della Bolla, scrisse una molto grave lettera al Granvela, dolendosi insieme, e mostrando la sua collera per questo modo di procedere di quella Corte, dicendogli fra l'altre cose: Es fuerte cosa, que por ver que yo solo soy el que respeto a la Sede Apostolica, y con suma veneracion mis Reynos, en lugar de agradecermelo, como devian, se aprovechan dello, para quererme usurpar la autoridad que es tan necessaria, y conveniente para el servicio de Dios, y por el buen govierno de la que el me ha encomendado, y assi podria ser que me forcassen a tomar nuevo camino, y io os confiesso, que me trahen muy cansado, y cerca de acaverseme la paciencia, per mucho que tengo, y si a esto se llega podria ser que a todos pesasse dello[217]. Per la qual cosa il Granvela usò ogni vigore e vigilanza in questo; tanto che avendo l'Arcivescovo di Rossano pubblicata la Bolla, e costandogli, che vi era intervenuto un servidore laico dell'Arcivescovo, lo fece porre in carcere, dove dopo esservi stato molti mesi, morì.

Il Duca d'Ossuna, per le memorie che ci restano, le quali tutte le dobbiamo al diligentissimo Bartolommeo Chioccarello, proccurò, quanto i tempi permettevano, imitarlo: poichè avendo presentito, che dal Vescovo d'Ugento in una Domenica nella solennità della Messa nel 1583 s'era pubblicata nella città di Ugento quella Bolla, scrisse a' 12 ottobre del detto anno una lettera regia a Francesco Caraffa Governadore di Terra d'Otranto, ordinandogli che s'informasse, se fosse vero, che si era pubblicata questa o altra Bolla senza l' Exequatur Regium, e che se vi erano intervenuti laici, procedesse alla carcerazione di quelli, e mandasse a lui copia dell'informazione per risolvere il di più, che gli parerà; ma non essendosi trovati laici, e costando per l'informazione presa e trasmessa all'Ossuna, che la Bolla non era stata affissa, ma solamente pubblicata a voce, e che il Vescovo non teneva beni patrimoniali nel Regno; il Duca nella consulta, che ne fece al Re a' 23 gennaio del medesimo anno, lo ragguagliava, ch'egli non avea in questo caso potuto far quelle dimostrazioni, che praticò il Duca d'Alcalà, ed il Cardinale di Granvela, perchè la Bolla non s'era affissa, e non vi erano intervenuti laici, onde stimava di chiamar il Vescovo di Napoli, e di sequestrargli l'entrate del Vescovato; ma egli prima di ricever gli oracoli da Sua Maestà non avea stimato allora far altro, che di chiamarlo e d'ordinare al Conte d'Ugento, che l'informasse dell'entrate e qualità d'esse, che teneva il Vescovo, affinchè se gli potesse far mandato in nome del Fisco ad ostendendum titulum, e per questa via castigarlo del suo errore.

Questi avvenimenti, che si sono raccolti dalle Consulte mandate dal Duca d'Alcalà al Re Filippo in Ispagna, e dalle lettere del Re, che sono registrate nella Cancellaria di Napoli, e la testimonianza d'uno Scrittore non men grave e fedele, che contemporaneo ai narrati successi, quanto fu il Presidente Tuano, convincono per troppo sfacciate le adulazioni del Cardinal Albizio[218], il quale non s'arrossì di dire, che nei Regni di Spagna e segnalatamente nel Regno di Napoli fosse stata questa Bolla ricevuta, dando una mentita non meno al Salgado[219], che scrisse non essere stata ricevuta ne' Regni di Spagna, che al nostro Reggente Tappia[220], il quale nel suo Trattato De Contrabandis Clericorum, avea con verità detto, che quella non fu mai nel nostro Regno accettata, dicendo l'Albizio: totum enim contrarium apparet ex consultationibus et literis directis ad Regem Catholicum Philippum II, o Duce de Alcalà Prorege Neapolis de anno 1567, videlicet, Bullam hanc fuisse, non solum in Civitate Neapolis, sed per totum Regnum pubblicatam; poichè da queste Consulte e Lettere, come si è veduto, tanto è lontano ricavarsi, che fosse stata ricevuta, che anzi i Vescovi ne furono castigati, quando ebbero ardimento di pubblicarla. Ebbero è vero i Vescovi questa arroganza contra il volere del Re, istigati da Roma di pubblicarla, ma furono sempre impediti i loro disegni e resi vani gli effetti: si continuò l'esazione delle gabelle, e se n'imposero delle nuove senza licenza della Sede Appostolica: l' Exequatur si ritenne: a' Magistrati non si fece dare impedimento in esercitando li loro ufficj: le tratte furon come prima vietate; nè senza Regio permesso s'introducevano vettovaglie in Roma.

Assai più favoloso è ciò che questo Autore soggiunge, che il Re Filippo II avesse ceduto a questo punto, e che nelle istruzioni date al Marchese de las Navas mandato a Roma nell'anno 1578 avesse confessato in tutti i suoi Regni essere stata la Bolla pubblicata ed accettata; poichè il Presidente Tuano rapporta il contrario, d'avere il Papa rimesso il suo fervore, ed il Re Filippo al Duca d'Alcalà scrisse, che il Pontefice avea ordinato, che sino a nuovo ordine non si pubblicasse la Bolla, e dopo la missione del Marchese de las Navas, il Cardinal Granvela e D. Pietro di Giron Duca d'Ossuna, che fu Vicerè, dall'anno 1582 insino al 1586, si opposero agli attentati de' Vescovi, siccome fecero i loro successori: ancorchè per le circostanze de' tempi, non con quel medesimo vigore e fortezza del Duca d'Alcalà.

Se gli Spagnuoli avessero usati i rimedj praticati in Francia per guarir queste ferite, non già impiastri ed unguenti, non si sarebbe data occasione agli assentatori della Corte di Roma di scrivere queste ed altre maggiori esorbitanze, in grave scorno della potestà e giurisdizione de' nostri Re; ma l'aver sovente trascurato di punire la pubblicazione che si faceva da' Vescovi e da' Parrochi, e solo accorrere a casi particolari, impedendo a' Vescovi, quando volevan con effetto eseguirla e metterla in uso, ha portato questo, che gli Autori Ecclesiastici, perchè la sentivano pubblicare da' Vescovi e da' Parrochi e la vedevano affissa nelle porte delle Chiese e ne' Confessionarj, abbiano scritto che questa Bolla fosse stata nel Regno pubblicata e ricevuta, siccome fra gli altri fece il Cardinal Albizio, il quale per ciò, come testimonio di veduta, dice: Et ego, qui per triennium exercui officium Auditoratus Nunciaturae Neapolis, sub fel. rec. Urbani VIII Pontificatu, testor acceptationem et ejus usum in praedicta Civitate et Regno. Ma egli dovea sapere ancora, che quando i Vescovi volevan quella porre in pratica, tosto il Collaterale ed il Delegato della giurisdizione vi s'opponeva e dava riparo: che a' suoi tempi si ponevano nuovi dazj senza licenza della Sede Appostolica: che si proibiva in Roma e nello Stato Ecclesiastico mandar vettovaglie ed altre cose, senza Regio permesso, tutto che per la Bolla non si potesse ciò loro impedire, anzi gli Ecclesiastici ne dimandavano le tratte ogni anno, ed in tutto il resto niente fu variato di quel che prima della Bolla si faceva.

Da ciò ne nacque ancora, che i Vescovi del Regno ne' Sinodi Diocesani, stabilendo in quelli i loro decreti, si servissero della Bolla, e spesso l'allegassero; ma non per ciò i Sinodi erano per quelli capi ricevuti, ma s'impediva loro di mandarli in esecuzione. Sono piene le nostre Province di questi Sinodi, ma non s'ardisce però niuno metterli in pratica.

Quindi nacque ancora, che gli Scrittori Ecclesiastici, e particolarmente i Casuisti (poichè con gran trascuraggine non molto vi si bada) abbiano empiti i loro volumi di massime quanto false, altrettanto pregiudizialissime alla giurisdizione del Re, con sostenere come per tacer altri, fecero Marta, Diana, del Bene e tanti altri, la Bolla in Coena Domini, come tutte le altre, aver forza ed obbligar le coscienze degli uomini anche ne' Regni, nelli quali non è stata ricevuta, per non esser necessario alle Bolle del Papa pubblicazione o accettazione alcuna, ma che basti che siano quelle pubblicate in acie Campi Florae, ad valvas Basilicae D. Petri e negli altri luoghi soliti di Roma, per obbligare tutti i Principi e tutte le Nazioni del Mondo Cristiano: che tenendo il Papa la sua autorità immediatamente da Dio, non ha bisogno la sua legge di accettazione o pubblicazione: che questo istesso lo diffinisce la Bolla medesima in Coena Domini, e tante altre esorbitanze. Come se al Papa, ancorchè eccedesse i limiti della sua potestà spirituale, mettendo ciò che vuole nelle sue Bolle, abbiano i Principi ciecamente ad ubbidire, ancorchè per quelle si trattasse di levargli la loro potestà e giurisdizione, che parimente essi la riconoscono da Dio. E come se non fosse il Principe in obbligo, per la custodia de' suoi Stati, invigilare a ciò, che s'introduce da Roma in quelli, ed opporsi a' pregiudizj de' suoi regali diritti e de' suoi vassalli: intorno a che è da vedersi Van Espen[221], dotto Prete e celebre professore de' Canoni nell'Accademia di Lovanio, il quale sopra ciò compose un particolar trattato, confutando gli errori di costoro, stampato in Brusselles l'anno 1712. Anzi questi assentatori della Corte di Roma erano trascorsi insino a dire, che chi sente altrimenti è sospetto d'eresia, e può denunciarsi al S. Ufficio, e di vantaggio (ciò che non può sentirsi senza riso insieme ed indignazione) sono scorsi sino a dire, che controvertire del fatto, cioè se in tale provincia sia ricevuta o no questa Bolla, s'incorra nel medesimo sospetto, ed il Cardinal Albizio[222] narra, che a' suoi tempi per comando d'Alessandro VII, s'era da tutti i Qualificatori del S. Ufficio, nemine excepto, qualificata per falsa, temeraria, erronea, ingiuriosa all'autorità del Santo Pontefice, e che prepara la via allo Scisma, questa proposizione: Bulla, quae promulgatur in Coena Domini, non est in Belgio usu recepta juxta probabilem multorum opinionem: e ne cita il decreto profferito sotto li 20 settembre del 1657. E qual documento maggiore dell'inosservanza potevano avere, che da quest'istessa Bolla; dove si proibisce a' Principi di metter nuovi pedagi e gabelle senza licenza della Sede Appostolica, dove si scomunicano i loro Ufficiali che impedissero a' Giudici Ecclesiastici d'esercitare la loro giurisdizione contra quoscumque, dove finalmente l'imperio si sottopone interamente al Sacerdozio ed il Papa fassi Monarca sopra tutti i Re e Principi della Terra?

CAPITOLO V. Contese insorte intorno all' Exequatur Regium delle Bolle e rescritti del Papa, ed altre provvisioni, che da Roma vengono nel Regno.

È veramente da notare la provida mano del Signore, come nel Pontificato di Pio V con pari compenso, al soverchio zelo ed arditezza di quel Pontefice abbia voluto contrapporre la vigilanza e fortezza in resisterlo del Duca d'Alcalà, perchè nel nostro Regno fosse eseguito ciò che di sua propria bocca prescrisse di doversi rendere a Cesare ciò ch'è di Cesare ed a Dio, quel ch'è di Dio. La Bolla in Coena Domini come si è veduto, proibiva a' sudditi di pagare i tributi a' Re, se nell'imporli non si fosse prima ottenuta licenza dalla Sede Appostolica; ma il Duca non fece valere la Bolla, e fece pagare come prima le gabelle e le collette legittimamente imposte con decreto ed assenso Regio. Si toglievano per quella a' Principi i diritti più supremi della loro potestà regale, ma non si permise un attentato sì scandaloso, e cotanto a lor pregiudiziale: si proccurava in breve sottoporre interamente l'imperio al Sacerdozio, ma poichè Iddio non mai ciò volle, s'eseguì il suo Divin volere. Ma la Corte di Roma non perciò arrestandosi, e sempre più vigilante ed attenta alle sorprese, cercava togliere a' nostri Re una prerogativa cotanto lor cara, ch'è riputata la pupilla de' loro occhi, e 'l fondamento principale della loro regal giurisdizione: questo è l' Exequatur Regium, che si ricerca nel Regno alle Bolle e Rescritti del Papa, e ad ogni altra provvisione, che viene da Roma, senza il quale non si permette, che si mandino in esecuzione. Il Pontefice Pio V, sopra gli altri suoi predecessori, l'ebbe in tanta abbominazione, che qualificandolo come disautorazione della dignità ed autorità Appostolica, fece ogni sforzo per toglierlo e distruggerlo: vi s'impegnarono poi, seguendo le sue pedate, gli altri Pontefici suoi successori, e non men la Corte di Roma, che i Prelati del Regno con varj modi, tentando ogni via, cercarono abbatterlo. In contrario si rese commendabile la costanza de' nostri Re, che sempre forti resisterono con vigore alle loro intraprese, tanto che ci rimane ora vie più stabile e fermo che mai. Racconteremo per tanto, seguendo il nostro istituto, la sua origine, come fossesi nel Regno mantenuto sotto tutti i Principi che lo ressero, le contese perciò avute colla Corte di Roma, che cercava abbatterlo e particolarmente nel Viceregnato del Duca d'Alcalà, e per quali ragioni, e come in fine restasse sempre fermo e saldo.

Gli Scrittori Ecclesiastici, per appoggiare come meglio possono la pretensione della Corte di Roma, oltre alle generali ragioni rapportate di sopra, che le Bolle e Rescritti del Papa non abbiano bisogno d'accettazione o pubblicazione alcuna fuor di quella che essi fanno in Roma, ne adducono una particolare per questo Reame; e confondendo l' Assenso Regio, che prima i nostri Re davano alle elezioni di tutti i Prelati del Regno, coll' Exequatur Regium, che si dà a tutte le Bolle e Rescritti del Papa, ed a qualunque altra provvisione, che ci viene da Roma, pretendono, che siccome quello per l'investiture, che si cominciarono a dare a' Re della Casa d'Angiò e poi continuate sino al presente, fu tolto, così ancora debba levarsi l' Exequatur. Così il Cardinal Alessandrino, mandato dal Pontefice Pio V suo zio Legato in Madrid al Re Filippo II, fra le altre cose, che espose nel memoriale[223] datogli, diceva querelandosi, che nel Regno di Napoli in moltissimi capi non s'osservava il Concilio Tridentino; ed in infinite maniere s'impediva l'esecuzione delle lettere ed espedizioni Appostoliche: a quali abusi, e particolarmente a quello dell'Exequatur Regio, è obbligata la M. V. per proprio giuramento a rimediare e rimovere, come potrà vedere dalle clausole dell'Investitura di Giulio II in persona di Ferdinando il Cattolico, e di Giulio III in persona della M. V. da lei giurata.

A questo fine gli diedero una origine assai favolosa, dicendo che fosse introdotto nel Regno, e cominciò a praticarsi nelle proviste de' Prelati delle Chiese Cattedrali, solo per sapere, prima che si eseguisse la provista delli Prelati eletti, se fossero nemici e mal affetti del Re, ed acciocchè dentro lo Stato non si ricevesse persona di cui potea aversi sospetto di dover portare in quello macchinazioni, tumulti e rivoluzioni; e ciò s'introdusse quando il Regno era tutto sconvolto per le contese de' Principi pretensori, e quando ogni dì, guerreggiandosi spesso, l'uno cacciava l'altro. Quest'origine appunto gli diede Papa Clemente VIII, in una lettera scritta a' 5 di ottobre del 1596 di sua propria mano al nostro Vicerè Conte di Olivares, per la quale pretendeva farlo togliere dal Regno in que' tempi pacati senza guerre e senza sospetti[224].

Ma confondere due cose, che sono pur troppo diverse, e che l'una ha principio totalmente dall'altra diverso, dar quella origine all' Exequatur Regium, che nacque ne' Dominj de' Principi Cristiani insieme col Principato e colla loro potestà regia, o è pur troppa simplicità, ovvero sottil malizia.

L'Assenso Regio, che prima si richiedeva in tutte le elezioni de' Prelati del Regno, non nacque principalmente per la cagione di sopra rapportata; ma da un altro principio, cioè d'avere prima avuto i Principi parte nell'elezione di quelli, o sia, come dice Duareno[225], perchè rappresentando le ragioni del Popolo, il quale al Principato trasferì tutta la sua potestà, siccome prima il Popolo nell'elezione ci avea insieme col Clero gran parte, così fossesi ciò trasferito al Principe: ovvero dall'avere essi da' fondamenti erette le Chiese, o ristorate, o arricchite d'ampj poderi e ricchezze, in maniera, ch'essi si riserbarono questa ragione, anzi s'attribuirono d'investire i Prelati col bastone e coll'anello, non già per la spiritualità della carica, che non si apparteneva a loro, ma per le temporalità, che alle Chiese essi, o loro maggiori aveano donate. Così nel Regno de' Normanni, che furono cotanto liberali e profusi in dotar le Chiese, non vi era elezione senza il lor consenso; così ancora praticossi nel Regno dei Svevi, insino che Carlo I d'Angiò, avendo acquistato il Regno per l'invito e favore del Papa, questi, che riconosceva da lui cotanto beneficio, non ebbe riparo nell'investitura, che gli fece di quello, di contentarsi di non doversi per l'avvenire nell'elezione de' Prelati richiedere il suo assenso: ciò, che però non tolse il Regio Exequatur: nè di non poter rimediare alle provvisioni, che si facevano da Roma, nel caso il provvisto fosse nemico o al Re sospetto, perchè questa ragione dipende da altro principio; anzi Papa Niccolò IV lo dichiarò in una sua Bolla istrumentata a' 28 luglio del 1288 in tempo del Re Carlo II d'Angiò, dicendo che non potevano in modo alcuno essere assunti a dignità Arcivescovile, Vescovile, o altra Dignità o Prelatura del Regno, coloro, che saranno sospetti al Re[226]. Nè parimente tolse le ragioni di presentare o nominare le persone in quelle Chiese, che fondate da' nostri Re, o loro maggiori, ovvero ampiamente dotate, erano di Patronato Regio; onde poi per togliere li continui contrasti, che sopra di ciò insorgevano per le Chiese Cattedrali colla Corte di Roma, nacque tra Clemente VII e l'Imperador Carlo V quel concordato, di cui altrove fu da noi lungamente discorso.

L' Exequatur Regium, che si dà nel Regno, non pure alle proviste, che si fanno in Roma delle Prelature ed altri Beneficj del Regno, ma a tutte le Bolle e rescritti del Papa, anche a' Brevi di giubileo e d'indulgenze, ed a qualsivoglia provvisione, che ci venga da Roma, non dipende da questo principio, nè nacque ne' turbolentissimi tempi di guerra, per sospetto che forse s'avesse del provvisto, d'esser poco amico dei Principi contendenti, quando l'uno spesso cacciava l'altro. La sua origine è più antica, nacque non pur nel Regno di Napoli, ma in tutti i Dominj de' Principi Cristiani col Principato istesso, e s'appartiene ad essi, titulo sui Principatus, ovvero jure Regaliae, come ben pruova Van-Espen dotto Prete e gran Teologo di Lovanio[227]. Nacque per la conservazione dello Stato, e perchè in quello non siano introdotti da straniere parti occasioni di tumulti e disordini; onde fu sempre mai lecito a' Principi, e proprio della loro commendabile vigilanza, capitando ne' loro Regni scritture di fuori, per le quali si pretenda in quelli esercitar giurisdizione o sia spirituale o temporale di riconoscerle prima che quelle si mandino in esecuzione: tanto maggiormente, che la Corte di Roma da molto tempo aveasi arrogata molta autorità, che eccedeva il confine di un potere spirituale, e sovente si metteva a decider punti, che non le appartenevano, e toccavano la potestà temporale de' Principi: onde fu introdotto stile, che se le provvisioni venute di Roma dovranno eseguirsi contra Laici, si abbia a domandar da' Magistrati l'implorazione del braccio, i quali non come semplici esecutori, ma ritrattando l'affare ed esaminandolo, se conoscono essere a dovere, lo fanno col loro braccio eseguire, altrimente niegano l'esecuzione: se la scrittura contenerà il solo affare degli Ecclesiastici, o si tratterà di cose meramente spirituali e di cause Ecclesiastiche, se le dà l' Exequatur dal Re ed in suo nome dal Vicerè, se però conoscerà coll'eseguirsi, niente ridondare in pregiudizio delle sue preminenze e Regalie dello Stato e de' suoi sudditi, nè contrastare agli usi e costumi del paese; ond'è, che per ciò non si pretende di volere avvalorare o disfare ciò, che il Papa ha fatto, quasi ch'egli nelle cause Ecclesiastiche e spirituali abbia bisogno della potestà del Principe Secolare[228]; ma unicamente vien richiesto, perchè il Principe, che deve vigilare e star attento, acciocchè il governo de' suoi Regni non sia perturbato, sappia, che cosa contiene ciò, che da fuori viene nel suo Dominio e Principato, affinchè sotto questo colore o pretesto non s'introduca cosa, che possa nuocere alla quiete e tranquillità del suo Stato ed al governo della Repubblica; e questo è il fine perch'è ricercato, siccome ben a lungo dimostrò Van Espen nel suo trattato De Placito Regio[229]; ciò che ben intesero il Vescovo Covarruvias[230], Belluga[231], ed il Cardinal di Luca[232], il quale scrisse, che a questo fine si praticava nel nostro Regno l' Exequatur Regium.

Quindi deriva, che niuna Bolla, Breve, Rescritto, Decreto o qualunque altra scrittura, che venga a noi da Roma, sia esente da quello: si ricerca eziandio per questo fine alle Bulle dei Giubilei e dell'Indulgenze[233]; anzi, secondo che con più argomenti pruova Van-Espen[234], può ancora ricercarsi alle Bolle istesse dogmatiche, non già, che s'appartenga al Principe diffinire, o trattare cose di fede; ma perchè le clausole, che si sogliono apporre in quelle, e delle quali, secondo il moderno stile di Roma, soglion esser vestite, il modo, il tempo, le congiunture e l'occasioni di pubblicarsi tali Bolle, devono essere al Principe note e palesi. Forse, se oltre al dogma in quelle diffinito ed alle pene spirituali, si volesse metter anche mano alle temporali: forse, perchè non convenisse per altri motivi rilevanti di Stato, pubblicarsi allora, ma aspettarsi tempo più congruo, e per altri rispetti e cagioni, le quali furono ben a lungo esaminate da quello Scrittore. Quindi vien ricercato ancora il Regio Exequatur a tutti i Decreti, che si fanno in Roma nelle Congregazioni del S. Ufficio, e dell'Indice intorno alla proibizione de' libri, di che altrove fu da noi lungamente ragionato. E quindi deriva ancora, che nell'interposizione, di quello non si proceda per via di cognizione ordinaria, ma per via estragiudiziale e secondo le regole di Stato e di Governo, non già secondo quelle del Foro; onde si vede quanto di ciò poco s'intendano e Casuisti e Canonisti, i quali credendo, che questo esame si abbia a fare con termini forensi, gracchiano per ciò ne' loro volumi[235], e scrivono, che non possono le Bolle ed i Rescritti del Papa ritenersi, o esaminarsi dai Giudici Laici, perch'essi non han giurisdizione sopra le cause Spirituali ed Ecclesiastiche, trattando questa materia al modo loro, e con termini d'immissione, di giurisdizione e con altre inezie forensi.

Da ciò parimente deriva, che non ogni Tribunale di Giustizia, ancorchè supremo, abbia facoltà di concedere questo Placito Regio. Ma ciò è solo riserbato a' Consigli supremi del Re istituiti per lo Governo, ed a' Consiglieri, che sono al suo lato e che hanno l'economia. Così presso di Noi è del solo Collateral Consiglio, il cui capo è il Vicerè, di concederlo, non già d'altro Tribunale di giustizia, supremo che fosse[236]. E negli altri Dominj de' Principi Cristiani d'Europa, siccome in Ispagna ed in Francia, è solo ciò riserbato a' Consiglj Supremi del Re; siccome in Fiandra al supremo Consiglio di Brabante ed agli altri Supremi Consiglj di quelle province[237]. Per questa cagione furono nel 1551 meritamente dal Vicerè Toledo ripresi il Reggente ed i Giudici della Vicaria, li quali s'avanzavano a concedere tali Placiti, con ammonire ed ordinar loro, che per l'innanzi più non gli spedissero, perchè questa preminenza era del solo Vicerè e suo Collateral Consiglio, non già de' Tribunali di Giustizia[238].

Nè questa è solamente prerogativa del nostro Regno e de' nostri Re, come altri forse crede: ella è comune a tutti i Principi, i quali ne' loro dominj praticano lo stesso. In Ispagna, come ci testificano Covarruvias[239], Belluga[240], e Cevallos[241], le Bolle e tutte le provvisioni che vengono di Roma, prima di pubblicarsi s'esaminano nel Consiglio Regio, e sovente quando non vogliono eseguirsi, si ritengono; onde Salgado per giustificar questo stile ed inconcussa pratica, compose quel trattato, che per ciò ha il titolo De Retentione Bullarum; e quell'altro. De Supplicatione ad Sanctissimum etc., ed il medesimo praticarsi in Portogallo testifica Agostino Manuel nell'Istoria di Giovanni II[242].

In Francia e nella Fiandra è cosa notissima, che non si pubblica cosa che venga di Roma, se prima non sia stata quella esaminata per gli Ufficiali del Re; anzi essi non si vagliono di questa, per altro assai modesta e rispettosa parola exequatur[243] (ancorchè pure si fosse preteso di mutarla in Obediatur ) ovvero, come si pratica in Milano[244], di Pareatis, ma di Placet, e quando le provvisioni non piacciono, si ributtano[245]. Lo stesso s'osserva nel Ducato di Brettagna secondo l'Argentreo[246], e nel Ducato di Savoja, siccome ce ne rende testimonianza Antonio Fabro[247]. In Sicilia si pratica il medesimo, e Mario Catello[248] rapporta lo stile e le formole di quel Regno intorno a ciò. In Italia, siccome in Venezia, lo testifica il P. Servita: nel Ducato di Fiorenza, Angelo[249], ed in tutte le altre Regioni d'Italia, Antonio d'Amato[250].

Nel nostro Regno di Napoli non solo sotto i Principi Normanni e Svevi fu inalterabilmente ciò praticato, ma anche sotto i Re medesimi della Casa d' Angiò, ligj de' Romani Pontefici; e coloro eziandio, che nell'investiture si contentarono di spogliarsi dell' Assenso nell'elezioni de' Prelati. Ciò che maggiormente convincerà, non aver niente di comune l' Assenso prima ricercato, col Regio Exequatur sempre ritenuto e non mai interrotto.

ANGIOINI.

Carlo II d'Angiò, essendo stato eletto per Vescovo di Melito Manfredi di Gifuni, Canonico di quella Chiesa, non volle a verun patto alle di lui Bolle dare il suo beneplacito; gl'impedì il possesso, perchè egli era sospetto d'infedeltà, e la carta del Re data a Napoli l'anno 1299 vien rapportata dall'Ughello[251]. Gli altri Principi di questa Casa, quando all'incontro conoscevano niente esservi d'ostacolo, lo davano; anzi presentate ad essi le Bolle e' Brevi, o altre provvisioni provenienti da Roma, non solo lo concedevano, ma vi prestavano anche il lor favore ed ajuto, perchè tosto s'eseguissero.

Carlo Duca di Calabria primogenito e Vicario Generale del Re Roberto, all'Arcivescovo di Siponto, che gli avea presentate alcune lettere Appostoliche di Papa Giovanni XXII spedite per una causa pendente in Roma sopra l'unione del monastero di S. Giovanni in Lamis della Diocesi di Siponto col monastero di Casanova della Diocesi di Penna, non solo alle medesime concedè il suo beneplacito, ma a primo agosto del 1321 scrisse a' Giustizieri ed altri Ufficiali della provincia di Capitanata, che prontamente le facessero eseguire.

Il Re Carlo III, avendo Urbano VI conferito a Fra Girolamo di Pontedattilo la Badia di S. Filippo di Gerito della Diocesi di Reggio, fece lo stesso, e scrisse a' 18 novemb. del 1382 a' Capitani di quella città, che gli prestassero ogni favore ed assistenza circa la possessione che dovea prendere della Badia.

Il Re Ladislao, essendo stato un tal Fra Elia creato da Bonifacio IX Archimandrita del Monastero di S. Adriano della Diocesi di Rossano, volle prima informarsi de' suoi costumi, e trovatolo di sufficienza diè l' Exequatur alla Bolla, ed ordinò a' 6 gennajo del 1403 a' suoi ufficiali in Calabria, che lo favorissero a pigliar la possessione, siccome quest'istesso Re, particolarmente in tempo dello Scisma, ne impedì ad altri il possesso.

La Regina Giovanna II, avendo il Papa conferito a Cicco Guassarano la Badia di S. Maria di Molocco nella Diocesi di Reggio, avendo questi presentate nella sua Reginal Corte le Bolle originali speditegli dal Papa, che furon vedute e lette, diede il suo assenso, ed ordinò a' 20 aprile del 1419 a' suoi ufficiali di Calabria, che le facessero dar esecuzione[252].

ARAGONESI.

Non meno che in tempo degli Angioini, fu ciò praticato co' Re Aragonesi. Re Alfonso I espose ad Eugenio IV, da poi ch'ebbe dal medesimo ricevuta l'investitura colle solite clausole, che nel Regno v'era consuetudine di non riceversi i Prelati provvisti da Roma senza il suo beneplacito; ed il Papa non v'ebbe difficoltà alcuna, che per l'avvenire potesse valersi di questa prerogativa. Per ciò, essendo stato nel 1451 provveduto il Vescovado di Marturano in Calabria, il Re Alfonso diede al provvisto l' Exequatur, come dal suo diploma, rapportato dall'Ughello[253]. Il medesimo Re, avendo Papa Calisto III conferita la Badia di S. Pietro in Pariete fuori le mura del Castello di Cilenza dell'Ordine di S. Benedetto della Diocesi di Vulturara a Fr. Baldassare di Montauro, monaco del Monastero di S. Pietro della Canonica fuori le mura d'Amalfi dell'Ordine Cisterciense, diede l' Exequatur alle Bolle, che gli furono da costui presentate, ed ordinò a 29 luglio del 1457 al Conte di Termuto che si eseguissero. Lo stesso fece alla concessione, che il Gran Maestro di Rodi dell'Ordine Gerosolimitano avea fatta a Filippo Ruffo di Calabria, figliuol naturale di Carlo Ruffo Conte di Sinopoli[254], del Priorato e Governo della Chiesa di S. Eufemia di detto Ordine, situata nella Provincia di Calabria, dandogli l' Exequatur, ed ordinando a' suoi ufficiali che l'assistessero nel pigliar il possesso, ed alla percezione de' frutti.

Morto il Re Alfonso, e succeduto nel Regno Ferdinando I suo figliuolo, questi, nel Pontificato di Sisto IV, seguitando le medesime pedate de' Re suoi predecessori, non ebbe chi tal prerogativa gli contrastasse; anzi nel 1473 ne stabilì Prammatica, al cui esempio il Duca d'Alcalà ne promulgò poi un'altra nel 1561, della quale si dirà più innanzi[255]; egli per ciò alle Bolle, ed altre provvisioni, che venivano da Roma, quando non poteva considerarsi inconveniente, dava l' Exequatur, ed avendo il Pontefice suddetto conferito il Vescovado di Capaccio a Lodovico Fonellet Arcivescovo di Damasco per Bolle Appostoliche dei 20 marzo 1476, presentategli le Bolle, assenti, ed a' 13 maggio del medesimo anno scrisse al Capitano di Capaccio ed a' suoi Ufficiali, che l'eseguissero.

Assunto che fu poi al Pontificato Innocenzio VIII, portando la condizione di que' tempi, che la corruzione in Roma arrivasse insino all'ultima estremità, si vide non meno in lui (ma più ne' Pontefici, che gli successero) una ambizione così sregolata, che niente altro si studiava, che per ogni via rendersi assoluti Monarchi sopra i Principi della Terra; cominciò a dispiacer loro quest' Exequatur, ovvero Placet, che praticavasi in tutti i Dominj de' Principi Cristiani di Europa.

Innocenzio VIII adunque fu il primo, che per mezzo d'una sua Costituzione[256] cercò toglierlo a tutti, e tentò la prima volta contrastarlo al nostro Re Ferdinando: ma siccome la sua Bolla non ebbe alcun seguito, e fu riputata inutile e vana negli altri Regni, così ancora nel nostro: si continuò per tanto l' Exequatur, e Ferdinando istesso, avendo il medesimo Pontefice conferito il Vescovado di Sessa ad un tal Fr. Ajossa Napoletano, non si fece eseguir la Bolla, se non presentata a lui, il quale, a' 3 aprile del 1487 concedè l' Exequatur[257].

Succeduto, ad Innocenzio Alessandro VI Pontefice dotato di tante belle doti e virtù, quante il Mondo sa; costui per le cagioni rapportate nel lib. 29 di questa Istoria, essendo molto avverso al nostro buon Re Federico, fra l'altre cose gli contrastò l' Exequatur con maggiore ostinazione e vigore; e vedendo che tutti i suoi sforzi gli riuscivan vani, lo portò tanto innanzi la sua stizza, che non ebbe punto di difficoltà nel 1500 a' 25 giugno di deporlo dal Regno, e fra l'altre colpe che gl'imputava, per le quali veniva a dare tal passo, era questa ancora, ohe aveva in più modi impedite le provvisioni Appostoliche, eziandio quelle fatte in favore de' Cardinali, e voleva che le Bolle di Roma non si mandassero in effetto, senza il Regio Exequatur[258]. Ma altronde, che dalla collera di Alessandro e dalla sua vana deposizione vennero le disgrazie a questo infelice Principe, il quale in tutto il tempo che proseguì a regnare fra noi, non soffrì, che le Bolle si ricevessero senza l' Exequatur: anzi ora vie più forte che mai, a' 3 di luglio del medesimo anno 1500, scrisse una molto grave lettera al Vescovo di Carinola, dicendogli, che in tempo de' Re suoi progenitori e massime del Re Ferdinando suo padre, era stato da antichissimo tempo e continuamente osservato nel Regno, che niuna provvisione venuta da Roma, o da altro luogo straniero, era stata ammessa, letta, nè pubblicala senza licenza del Re: e così ancora erasi osservato da' successori di Ferdinando dopo la sua morte, e che tutto ciò erasi da' predecessori Pontefici sopportato; ma che presentemente scorgendosi, che alcuni, per la revoluzione de' tempi, sogliono scusarsi non avere di ciò notizia, perciò avea egli voluto farlo intendere a tutti i suoi sudditi, con incaricar loro, che niuna Bolla, Breve o Scomunica e qualsivoglia altra sorta di provvisioni, che venga da fuori del Regno, si debba leggere, ammettere e pubblicare per persona del Mondo, senza sue lettere esecutoriali, osservando detta antica consuetudine, e non faccia il contrario se ama la sua grazia. In esecuzione del quale stabilimento, avendo inteso, che al Maestrodatti del Vicario Capuano era stata presentata inibitoria di Roma senza Exequatur; scrisse a' 3 dicembre del medesimo anno 1500 al Capitano di Capua, che proccurasse aver nelle mani detta inibitoria, e la mandasse a lui, per provedere a ciò che stimerà necessario.

Ma in niun tempo fu ciò con maggior rigore fatto osservare, quanto nel Regno di Ferdinando il Cattolico, e negli anni che fu il Regno governato dal Gran Capitano, e dopo la sua partita, da' Vicerè suoi successori.

In tempo del Gran Capitano leggonsi presso il Chioccarello[259] molti ordini da lui dati, affinchè non si desse la possessione a' Vescovi ed Abati senza Exequatur; e di vantaggio si è proceduto al sequestro delle rendite, nel caso si fosse presa senza di quello, e questo medesimo fu praticato ancora nelle Badie concedute a' Cardinali, i quali nè tampoco ne sono in ciò esenti, e per ciò non ebbero ripugnanza di cercarla, siccome fece il Cardinal d'Aragona per la Badia di S. Maria dello Mito posta in Provincia di Terra d'Otranto, concedutagli da Papa Giulio II nel 1505. Così ancora quando dal detto Papa, per resignazione fattane dal Cardinal Oliviero Caraffa Arcivescovo di Napoli, fu dato il Vescovado di Chieti a Gianpietro Caraffa, poi Cardinale e Papa, detto Paolo IV, fu la Bolla spedita a' 30 luglio del detto anno 1505 presentata al Gran Capitano, il quale a' 22 settembre del medesimo anno, vi diede l' Exequatur.

Parimente procedè il Gran Capitano con gran rigore contra coloro, i quali ardivano di servirsi di qualunque scrittura, anche di scomunica, o interdetto, venuta di Roma senza il Placito Regio. Così avendo con grandissimo rincrescimento inteso, ch'erano state poste nella porta della Chiesa Metropolitana di Cosenza alcune scomuniche, o interdetti contra Suor Arcangela Ferraro Monaca dell'Ordine di S. Bernardo, senza essersi ottenuto prima Regio Exequatur, scrisse a' 23 dicembre del detto anno 1505 una molto grave lettera al Governadore di Calabria, ordinandogli che ne prendesse informazione, e trovando le suddette censure essere state affisse da persona laicale, la castighi severamente, ed esemplarmente: se poste da persona Ecclesiastica ne gli dia avviso, acciò che possa procedere a quello sarà di dovere. E non pure nelle provvisioni di beneficj, o censure venute da Roma, ma anche di commessioni venute dalla Sede Appostolica vi si cercava il Placito Regio. Così avendo il Papa mandata commessione a D. Nicolò Panico Commessario Appostolico, che insieme col Vescovo di Melito avea da far inquisizione e castigare alcuni Preti delinquenti della Chiesa di Melito, fu detta Commessione presentata al G. Capitano, il quale a' 20 giugno del seguente anno 1506 vi diede il Regio Exequatur.

Partito che fu Consalvo da Napoli per Ispagna col Re Ferdinando il Cattolico, il Re lasciò in suo luogo il Conte di Ripacorsa Castellano d'Emposta, Aragonese e glie ne spedì commessione nel Castel Nuovo sotto li 5 giugno del 1507, nella quale lo chiama suo nipote[260]. Rimasero parimente in Napoli la Regina Giovanna vedova del Re Ferdinando I d'Aragona, sorella di Ferdinando il Cattolico; l'altra Regina Giovanna la giovane, che fu moglie del Re Ferdinando II, Beatrice Regina d'Ungheria, figliuola del Re Ferdinando I, ed Isabella Duchessa di Milano, figliuola del Re Alfonso II, la quale, per la morte del Duca Giovanni Galeazzo suo marito, succeduta nel tempo che passò in Italia il Re di Francia Carlo VIII, fu scacciata da quel Ducato da Lodovico il Moro. Ferdinando il Cattolico vietò che a questo Principe si desse la minima molestia intorno alla possessione delle Città e Terre che possedevano, assignate loro in tempo de' Re Aragonesi per loro doti ed appannaggi, e confermate nel trattato di pace, che Ferdinando conchiuse col Re di Francia, quando si divisero il Regno, nel quale fra gli altri patti si legge, che queste Regine dovessero durante la loro vita, tenere e quietamente possedere tutti i Dominj, Terre e rendite che per cagione di dette loro doti possedevano nel Regno così in Napoli, Terra di Lavoro, ed Apruzzi, (metà assegnata al Re di Francia) come ne' Ducati di Calabria e di Puglia, altra metà appartenente al Re Ferdinando[261]. In esecuzione di che Ferdinando trattò sempre la Regina Giovanna vedova del Re Ferdinando I sua sorella con sommo rispetto, e la mantenne nella possessione de' suoi Stati con tutte le preminenze regali, che vi esercitava, come se di quelli fosse libera ed indipendente Signora.

Possedeva questa Regina la città di Lucera di Puglia, ovvero de' Saraceni, la città di Nocera detta dei Pagani, la città di Sorrento, la città della Cava, e, come Principessa di Sulmona, la città di Sulmona, colle loro appartenenze. Il nuovo Vicerè Conte di Ripacorsa rispettava questa Regina come Padrona, nè si impacciava nel governo di quelle città dove ella esercitava assoluto ed indipendente imperio. Osserviamo per ciò in questi tempi, spediti alle scritture provenienti da Roma, più Regii Placiti, non meno dal Conte di Ripacorsa nel Regno, che dalla Regina Giovanna nelle sopraddette città a lei appartenenti. Tutti con più chiarezza dimostranti l'inconcussa pratica di tal requisito, e reputato allora grave eccesso e delitto il trascurarsi.

Ma niun più chiaro documento conferma questo rigore, quanto una lettera, che il Re Ferdinando il Cattolico scrisse a' 22 di maggio dell'anno 1508 a questo Vicerè piena di minacce e molto terribile, per aver il Conte, forse a riguardo della Regina Giovanna, rilasciato alquanto il rigore in una occasione, che saremo a riferire. Essendo insorta una controversia nella città della Cava, nella quale la Regina come città sua vi avea parte, avea il Papa mandato un Corriere Appostolico con un Breve, il quale ebbe ardimento di valersene senza il Placito Regio, e di notificarlo allo stesso Vicerè; ciò che partorì gravi disordini. Il Conte di Ripacorsa con sue lettere ne avvisò Ferdinando, il quale risedeva allora a Burgos. Rispose il Re con tal risentimento e tanta alterazione, che fra l'altre cose gli scrisse, che egli era rimaso molto mal contento di lui, che non avea in affare cotanto grave proceduto con quel rigore, che meritava, con aver permesso un pregiudizio di tanta importanza contra la sua dignità Regale e sue preminenze, e come abbia potuto soffrire quell'atto del Corriero Appostolico, senza farlo tosto impiccare: che questo era un attentato contra il diritto, e che non vi era memoria, che contra un Re, o Vicerè di questo suo Reame, si fosse altre volte ardito tanto, ch'egli voleva far valere questa sua ragione nel Regno di Napoli, siccome nelli Regni di Spagna, e siccome praticavasi ancora in quelli di Francia; che questi attentati del Papa, siccome l'esperienza ha fatto conoscere, non eran ad altro drizzati, che ad augumentare la sua giurisdizione; onde aveano fortemente scritto al suo Ambasciadore residente in Roma, affinchè portasse al Papa le sue querele, con dimostrazioni forti, poich'egli era risoluto, se non rivocava il Breve, e si cassassero tutti gli atti, ch'erano seguiti, di sottrarre dalla sua ubbidienza tutti i Reami della Corona di Castiglia e d'Aragona: facesse avvertita bene la Regina di questa sua fermezza e proposito, ed egli invigilasse, che nel Regno non entrasse Bolla, Breve o altra scrittura Appostolica contenente interdetti o altra provvisione toccante quell'affare direttamente o indirettamente, nè permetta, che qualsivoglia altre scritture di tal natura siano quivi rappresentate, o pubblicate.

Questa lettera del Re, ancorchè non rapportata dal Chioccarello, fu tutta intera impressa nel suo idioma Spagnuolo dall'autore del Trattato de Jure Belgarum circa Bullar. receptionem[262]; e viene ancora rapportata in idioma franzese da Van-Espen nel suo Trattato De Placito Regio nell'Appendice[263], dove allega questa pratica del nostro Regno per inconcussa e non mai interrotta.

Il Conte di Ripacorsa, atterrito da questo risentimento del Re, non tralasciò in tutto il tempo del suo governo invigilare più di quello, che avea fatto per lo passato, che non si ricevesse scrittura alcuna di Roma senza il Placito Regio, e di punire i trasgressori, siccome avea già fatto nell'occasione del possesso dato senza Exequatur d'una Rettoria, con farne carcerare molti, e ad un Prete, che per la stessa cagione era parimente stato carcerato, obbligollo a dar malleveria di presentarsi, e così lo fece rilasciare.

Parimente essendo stato avvisato, che s'era presentata nella Corte di Cività Ducale un'inibitoria del Papa, onde il Giudice non voleva in quella causa procedere, scrisse egli a' 7 aprile di questo medesimo anno 1508 al Governadore di quella Terra, che restava di ciò molto maravigliato, perchè dovea sapere, che in questo Regno tutte le provvisioni Appostoliche non si possono presentare senza Exequatur: ed essendo stata presentata quell'inibitoria senza tal atto non ne dovea fare alcuna stima, e per ciò gli ordinava, che dovesse in quella causa procedere, non ostante detta inibitoria, e che questo praticasse nell'avvenire, quando occorrerà, in simiglianti casi. Ed a' 30 giugno del medesimo anno diede ordine all'Arcivescovo di Nazaret Regio Cappellan Maggiore di non dar licenza, senza cognizione di causa, di far citare per Roma i Possessori dei beneficj, e senza che egli ne stia inteso. E nel seguente anno 1509 fece condur prigione con buona custodia in Napoli un tal D. Felice, della Diocesi di Nola, per essersi servito di certe provvisioni di Roma senza il dovuto Exequatur Regium[264].

Non meno che il Conte di Ripacorsa, la Regina Giovanna d'Aragona serbò questo istituto nelle Città del suo Dominio. Come padrona di Lucera de' Saraceni, a primo giugno del 1510 concedè il suo Regio Exequatur ad un ordine venuto di Roma contra il Patriarca d' Antiochia, Vescovo di quella Città. Come Principessa di Sulmona a' 8 maggio del 1512, concedè il suo Placito Regio a Prospero de Rusticis per lo Vescovado della Città di Sulmona conferitogli da Papa Giulio II con Bolle Appostoliche de' 30 aprile del 1512. Come Signora della città di Nocera de' Pagani, a 30 giugno del medesimo anno concedè Exequatur a Domenico de Jacobaccio per lo Vescovado di detta città, conferito dal medesimo Pontefice; siccome a' 12 febbrajo del 1515, lo concedè a D. Pietro Jacopo Veneto di Napoli per la Chiesa Parrocchiale di S. Matteo di Ancipontico di detta città di Nocera conferitagli dal Papa. Come padrona della città di Sorrento lo concedè a 8 ottobre del 1514, al Reverendo Messere Alberto fratello del Cardinal di Sorrento per l'Arcivescovado di Sorrento, che il Papa glie lo avea conferito per resignazione fattagli dal detto Cardinal suo fratello. E finalmente, come Signora della Cava concedè l' Exequatur ad una Bolla del Pontefice Lione X[265] il qual Pontefice, ancorchè avesse promulgata una terribile Costituzione[266] contra gl'Imperadori, Re ed altri Principi, che pretendevano doversi ricercar il loro Placito o sia Exequatur alle provvisioni di Roma; non fu però quella accettata da niun Principe, ma rimase vana ed inutile e senza effetto veruno.

AUSTRIACI.

Nel principio del Regno di Carlo V fu da' suoi Luogotenenti, mandati da lui a governar questo Regno, costantemente serbato questo medesimo istituto. Il Vicerè D. Carlo di Lanoja concedè l' Exequatur alle Bolle spedite da Adriano VI a Gianpietro Caraffa Vescovo di Chieti, per l'Arcivescovato di Brindisi. Ed il Vicerè Conte di S. Severina scrisse al Capitano della città dell'Aquila, che compliva al servizio di S. M. che il Cardinal di Siena non pigliasse possessione di quella Chiesa, senza espresso suo ordine, e che debbia stare in questo con grandissima avvertenza, dandogli di tutto ragguaglio, in modo che la possessione non si abbia a dare a persona alcuna, senza espresso ordine d'esso Vicerè[267].

Questo costume, senza minima contraddizione, serbossi inviolabilmente nel Regno di Carlo V infino che assunto al Papato Clemente VII non venisse a costui in pensiero di usar ogni sforzo per toglierlo. Seguitando le pedate de' suoi predecessori promulgò una Costituzione, a quella di Papa Lione X consimile, nel dì primo gennajo dell'anno 1533[268] ed acciocchè venisse ubbidita nei Regno di Napoli, fece scrivere all'Imperadore da Antonio Montalto Promotor Fiscale del Regno di Sicilia, che facesse abolire in Napoli l' Exequatur Regium, come dalle sue lettere in data de' 20 dicembre 1533, dove si legge; Ricerca ancora Sua Santità da Vostra Maestà, che levi dal Regno di Napoli quella servitù del Regio Exequatur, imposto alle lettere Appostoliche, siccome Vostra Maestà è obbligato di levarla per le condizioni dell'investitura, che ha di quel Regno, e del giuramento prestato in essa etc.[269].

Ma non meno l'Imperadore, che D. Pietro di Toledo, che si trovava allora Vicerè nel Regno, non vi diedero orecchio, e seguitossi come prima il medesimo istituto; anzi il Toledo, perchè fosse a tutti nota la costanza del suo Principe, a' 3 aprile del 1540, scrisse una lettera Regia a tutti i Governadori delle province del Regno, nel quale ricordava loro quest'antico costume del Regno, che qualunque provvisione, che veniva da fuori, non si potesse eseguire senza sua saputa, e licenza: che per ciò gli ordinava, che così dovessero eseguire e far osservare nelle loro province: e se si facesse il contrario, ne pigliassero informazione, e subito glie la mandassero; e contra i Notari e Laici procedessero alla loro carcerazione: e se fossero Cherici si facci ordine, che vengano fra certo tempo a Napoli ad informare il Vicerè, acciò si possa per esso procedere, come conviene.

Ed il Vicerè Francesco Pacecco a' 16 giugno del 1557, scrisse parimente al Governadore di Benevento ordinandogli, che non facesse pubblicare in detta città provvisione alcuna venuta da Roma senza licenza d'esso Vicerè in scriptis col Regio Exequatur[270]. Così furono repressi i pensieri di Clemente VII, nè sino al Pontificato di Pio V si tentò altro dalla Corte di Roma.

Ma sopra tutti questi Pontefici, niuno più ardentemente combattè questo Exequatur, quanto Pio V, il quale voleva, che in tutti i modi si abolisse nel Regno; ed avendo l'Ambasciador del Re Filippo II in Roma voluto da ciò ritrarlo, egli rispose, secondo che rapporta Girolamo Catena[271], il preteso Exequatur Regio, o alcuna licenza de' Secolari, non aver luogo nell'esecuzione di alcun ordine Ecclesiastico. Ciò essere chiaramente decretato da' Sacri Canoni e Concilj, e non dissimile dalla predicazione della parola di Dio, della quale chiedere alcuna licenza a' Secolari, intollerabil cosa sarebbe, etc. E conchiuse non intendere sì gravi abusi in disonor di Dio e della Santa Sede tollerare. Che gli Ufficj erano distinti; e però i Principi conservassero il loro, e lasciassero alla Chiesa quel ch'è di Dio, replicando spesso quelle parole; Reddite quae sunt Caesaris, etc.

Al Cardinal Alessandrino suo nipote, figliuolo di sua sorella, che mandò a Madrid, fra le altre istruzioni dategli, fu questa, e le dimande, che costui fece al Re Filippo II furono: Col quale abuso furono accumulati quelli di Napoli, ove in moltissimi capi non si osserva il Concilio Tridentino, ed in infinite maniere s'impedisce l'esecuzione delle lettere, ed espedizioni Appostoliche, a quali abusi, e particolarmente a quello dell'Exequatur Regio, è obbligata la Maestà Vostra per proprio giuramento a rimediare e rimovere, come potrà vedere dalle clausole dell'investitura di Giulio II in persona di Ferdinando il Cattolico, e di Giulio III in persona della Maestà Vostra da lei giurata[272].

Il Duca d'Alcalà nostro Vicerè, che il buon destino lo portò al governo di Napoli in questi tempi appunto, ove vi era maggior bisogno della sua fortezza e vigore per resistere a' sforzi del Pontefice Pio, per combatterlo alla prima, non si contentò di seguitare lo stile degli altri Vicerè suoi predecessori; ma imitando il Re Ferdinando ed il costume degli altri Reami, dove i Principi con perpetue e perenni leggi ed editti, aveano ciò stabilito ne' loro Stati per via di legge scritta, così volle far egli ancora nel Regno di Napoli.

In Francia è pur troppo noto, che vi sono molti editti de' loro Re, come di Lodovico XI del 1475, e di molti altri suoi successori, che possono vedersi ne' volumi delle Pruove delle libertà della Chiesa Gallicana[273]. Parimente nelle province della Fiandra se ne leggono moltissimi di Filippo il Buono Duca del Brabante del 1447, degli Arciduchi Massimiliano e Filippo del 1485 e 1495, e di altri rapportati da Van-Espen[274]. E così nella Spagna ancora, secondo ci testifica Salgado, da cui il nostro Vicerè Duca d'Alcalà prese l'esempio.

Perciò egli a' 30 agosto del 1561 fece promulgare Prammatica, colla quale ordinò, che non si pubblicassero Rescritti, Brevi ed altre provvisioni Appostoliche senza Regio Exequatur e licenza sua in scriptis obtenta, a fine che quelli, che usassero tale temerità, si possano castigare; e se si pubblicasse alcuno di detti Rescritti, Brevi, o altre provvisioni Appostoliche senza sua licenza e consueto Regio exequatur, se ne pigli diligente informazione, e subito se gl'invii, acciò si possa procedere a severo castigo contra coloro, che presumeranno d'usare tal temerità.

Questa Prammatica la vediamo oggi il giorno impressa nelle volgari edizioni sotto il titolo De Citationibus[275], la quale fu sottoscritta anche da' famosi Reggenti Villano e Revertera; e si legge parimente nel 4 volume de' M. S. Giur. del Chioccarello, fu anche impressa nell'antiche, e viene allegata da molti Scrittori. Nella Consulta che fece il Consiglio del Brabante nell'anno 1652 all'Arciduca Leopoldo, che vien rapportata da Van-Espen nell'Appendice[276], si cita questa Prammatica del Duca d'Alcalà con queste parole: Quant au Royaume de Naples, il y a Ordonnance expresse in Pragmatica Regni Neapolitani, tit. De Collation. prag. 6 (volendo dire De Citationib. prag. 5). Viene anche allegata da Van-Espen[277] e de' nostri Italiani lungo catalogo ne tessè il Reggente Rovito ne' suoi Commentarj[278].

In esecuzione di questa legge furono da poi da lui dati varj ordinamenti, perchè esattamente s'osservasse. Nel 1566 scrisse una lettera a tutti gli Arcivescovi del Regno, anche a quello di Benevento, coll'occasione d'una Bolla fatta trasmettere dal Papa nel Regno, con seriamente esortarli, che sapendo, che simili Bolle, o altre provvisioni di Roma non possono essere pubblicate ed eseguite senza il Placito Regio, avvertissero molto bene a non farla in modo alcuno pubblicare, e che a tal fine ordinassero a' Vescovi loro suffraganei ed altri Prelati, che facessero il medesimo. E ne' seguenti anni, particolarmente nel 1568, castigò con carceri e più severamente coloro, che trasgredendo la legge, ardivano valersi di scritture di Roma senza Exequatur.

Dall'altro canto il Pontefice Pio gridava ad alta voce col Commendator Maggiore di Castiglia, Ambasciador del Re Filippo II in Roma: che questi erano gravi abusi in disonor di Dio e della Santa Sede, e ch'egli non poteva tollerarli; siccome in fatti dal Cardinal Alessandrino suo nipote nell'istesso anno 1568 fece scrivere in suo nome una lettera a tutti i Vescovi e Prelati del Regno, nella quale diceva loro che la mente di Sua Santità era, che le Bolle ed altri rescritti, che erano da lui mandati nel Regno, avvertissero a non sottoporli ad alcuno Exequatur Regium, ma che prontamente li eseguissero. Ma il Duca d'Alcalà, avvisato di tutto ciò dal Commendator Maggiore, il quale gli mandò copia di questa lettera, proseguì costantemente il medesimo tenore, e fattane di tutto ciò Consulta al Re, egli intanto invigilava con sommo rigore, che non fosse ricevuta o pubblicata in Regno scrittura alcuna senza prima presentarsegli, e senza che, prima esaminata, non fosse a quella dato l' Exequatur.

Ed è notabile insieme e commendabile la sua vigilanza, che insino a' Giubilei, che venivano da Roma era da' Nunzi richiesto il Regio Exequatur; ond'è, che a' 14 e 15 decembre del medesimo anno mandò lettere circolari a tutti i Governadori delle province del Regno ed altri Capitani d'alcune città principali, facendoli consapevoli, come il Nunzio di sua Santità residente in Napoli gli avea presentato memoriale, dimandandogli il Regio Exequatur ad un Giubileo mandato dal Papa nel Regno, acciò che lo potesse pubblicare, e che da lui gli era stato conceduto; per ciò ordinava, che con tal notizia permettessero per le città e luoghi delle dette province la pubblicazione di quello.

La Corte di Roma, usando delle solite arti, vedendo che gli ufficj e minacce col Duca d'Alcalà erano senz'alcun frutto, tentò la via della Corte di Spagna: onde diede incombenza al Nunzio residente in Madrid presso la persona del Re Filippo, che proccurasse a drittura col Re far argine al rigore del Duca, mandandogli tre Brevi intorno alla riforma de' Frati Conventuali di San Francesco, che intendeva far pubblicare nel Regno, affinchè non ne fosse dal Duca impedita l'esecuzione. Ma il Re Filippo scrisse sì bene al Duca, che il suo desiderio era, che s'adempisse a quanto si conteneva in quelli Brevi; ma nell'istesso tempo, con ammonimento scritto di sua propria mano in una postdata, gl'insinuò, che facesse eseguire i Brevi colla solita forma dell' Exequatur[279].

Si tentò parimente dal Nunzio in Ispagna doversi togliere quest'uso in Napoli, così perchè erano cessate le cagioni, perchè prima ne' tempi turbolenti di guerra, quando l'un pretensore cacciava l'altro, era forse necessario, come anche perchè presentemente non serviva per altro, se non per estorquer denari nell'interposizione di quello. Il Re nel seguente anno 1569 ne diede al Duca per sua lettera di tutto ciò ragguaglio, dimandando da lui esserne informato, con avvisargli quanti denari si esigono per la spedizione di quello ed a chi toccano, affine di potersi trovar modo, che si spedissero gratis, e con ciò serrargli totalmente la bocca. Il Duca d'Alcalà, con sua Consulta fece accorto il Re di quanto era stato sinistramente informato dal Nunzio: che questo Exequatur era la maggior prerogativa e preminenza, che tenevano i Re in questo Regno: che per costume antichissimo, avvalorato anche per Prammatica fatta dal Re Ferdinando I nel 1473, era stato in tutti i tempi osservato che non s'estorquon denari per la spedizione di quello, ma alcuni pochi diritti, de' quali (per sua istituzione) ed a chi si pagassero ne gli mandava per ciò notamento particolare e distinto: anzi, per togliergli ogni pretesto, ordinò, che gli diritti, che spettavano al Cappellan Maggiore, suo Consultore e Maestrodatti non si esigessero dalle Parti, ma che si ponessero a conto della Regia Corte per la vita di quelli, che tenevano questi Uffici, e di vantaggio diede provvidenza, che il tutto si spedisse tosto e senz'alcuna dilazione e tedio delle Parti[280].

Al Duca d'Alcalà finalmente noi dobbiamo, che l'animo del Re Filippo II già dubbio e vacillante per le continue istigazioni e sinistri informi del Nunzio del Papa residente in Madrid, si rassodasse e stesse fermo e costante, e finalmente ributtasse pretensione cotanto fastidiosa ed insolente. Il Duca non tralasciava con sue Consulte spesso avvertirlo, che non cedesse a questo punto, ch'era il fondamento della sua regal giurisdizione e la maggior prerogativa, ch'egli tenesse in questo Regno, per la qual cosa il Re ebbe da poi sempre questa avvertenza, quando vedeva drizzati a lui questi ricorsi insino a Spagna, di mettersi in sospetto, e di non risolvere cos'alcuna, ma rimetter l'affare al Vicerè di Napoli e suo Collateral Consiglio.

Si vide ciò nella promulgazione della Bolla De Censibus, stabilita in quest'anno dal Pontefice Pio V, dove regolava a suo talento questo contratto, e pre tendeva che dovesse quella osservarsi, non meno nello Stato della Chiesa Romana, che in tutti i Dominj dei Principi Cristiani. Non istimò la Corte di Roma tentar questo a dirittura col Duca d'Alcalà, ma fece dall'Arcivescovo di Napoli mandar al Re a dirittura la Bolla, dimandandogli, che la facesse eseguir ciecamente nel Regno. Ma il Re sospettando quel ch'era, e riputando l'affare di molta importanza, non volle risolver da se cos'alcuna; onde a' 3 marzo del 1569, scrisse una lettera drizzandola al Duca Vicerè, al suo Collaterale ed al Presidente del S. C, nella quale dava loro notizia della dimanda fattagli dall'Arcivescovo, e che riputando egli l'affare degno di matura riflessione e di molta importanza, voleva per ciò, che esaminassero e discutessero questa Bolla, nella discussione della quale intervenissero non solo i Reggenti della Cancelleria, ma anche Giannandrea de Curtis, Antonio Orefice e Tommaso Altomare allora Regj Consiglieri; affinchè, quella esaminata, lo avvisassero di ciò, che poteva occorrere sopra di quella, e se v'era alcuno inconveniente, affine di poter pigliare la risoluzione, che conviene; replicando il medesimo in un altra sua regal carta de' 13 luglio del medesimo anno.

Il Duca d'Alcalà, in esecuzione di questi ordini regali, fece esaminar la Bolla, e si vide, che in quella il Papa s'arrogava molte cose, ch'eccedevano la sua potestà spirituale, e si metteva a decider quistioni, che non s'appartenevano a lui, ma s'appartenevano alla potestà temporale de' Principi: che quella conteneva alcuni capi, che volendoli eseguire portavan degl'inconvenienti, e sopra tutto si notò, che facendosi quella valere nel Regno, si sarebbe impedito il libero contrattare de' sudditi; onde, sebbene l'Arcivescovo di Napoli avesse nell'istesso tempo presentato altro memoriale al Vicerè, dimandando sopra la suddetta Bolla l' Exequatur Regium, si stimò bene non concederlo, e che per ciò quella non si dovesse ricevere, nè presso noi eseguire, come pregiudiziale al pubblico bene, ed al commercio. Anzi avendo l'Arcivescovo di Chieti l'arto intendere al Governadore d'Apruzzo, che il Cardinal Alessandrino aveagli scritto, che facesse pubblicare nella sua Diocesi la Bolla, e che per ciò egli intendeva pubblicarla, il Governadore ne avvisò il Duca, il quale a' 7 aprile del medesimo anno 1569, scrissegli una lettera Regia, incaricandogli, che parlasse all'Arcivescovo con farlo intero, che contenendo quella Bolla alcuni capi, li quali eseguendosi, saria l'istesso, che levare il contrattare, per ciò quella si stava esaminando, per potersi pigliare resoluzione; e quando quella sarà presa in Napoli, se ne darebbe notizia per tutto il Regno: e che intanto l'esorti da sua parte, che non voglia a patto veruno pubblicarla, o farla da altri pubblicare; e ch'egli stesso avvertito a non consentire, che si pubblichi, così questa, come altra Bolla, o provvisione di Roma senz'il solito e consueto Exequatur, con avvisarlo di quanto sarebbe occorso[281]. Nè durante il suo governo la fece egli qui valere; ed il Cardinal di Granvela successore all'Alcalà ne fece ancor egli, a' 31 luglio del 1571, Consulta al Re, con avvertirlo, che quella eseguendosi nel Regno partorirebbe di molti e gravi inconvenienti. Quindi è che presso di Noi non fu giammai questa Bolla ricevuta, nè praticata, siccome ora non si pratica nè ne' Tribunali, nè altrove[282]; ed osservasi la Bolla del Pontefice Niccolò V, come quella che fu dal Re Alfonso I inserita in una sua Prammatica, perchè acquistasse fra noi forza di legge, altrimente nè meno avrebbe potuto obbligarci all'osservanza; poichè dar regola e norma a contratti è cosa appartenente alla potestà temporale de' Principi, ed è cosa appartenente ali Imperio, non già al Sacerdozio; e consimili Bolle avranno tutta l'autorità nello Stato della Chiesa di Roma, ma non già fuori di quello ne' Dominj degli altri Principi d'Europa.

L'ordine del tempo richiederebbe, che si dovesse finir qui di parlare di questo Exequatur Regium; ma io reputo serbarne uno migliore, se per non esser obbligato a venire di nuovo a parlare di questa materia, con proseguirla dopo la morte del Duca d'Alcalà nei tempi degli altri Vicerè suoi successori insino ad oggi, perchè tutta intera, quanto ella è, sia collocata sotto gli occhi di tutti, e particolarmente di coloro, che avranno parte nel governo di questo Reame, acciò che conoscendo per tanti successi, quanto fosse stato questo Exequatur sempre odioso alla Corte di Roma, e che non si tralasciò pietra, che non fu mossa per abbatterlo, comprendano all'incontro, che tanti sforzi non si facevano per altro, che per isvellere il principal fondamento della Giurisdizione Regale e la maggior preminenza, che tengono i Principi ne' loro Reami; donde sia loro un solenne documento di dovere invigilar sempre, che non sia quello in minima parte tocco; ma proccurino, tenendo innanzi gli occhi il vigore e la costanza del Duca d'Alcalà, far in modo, che rimanga quello per sempre saldo e vie più fermo e ben radicato, a tal che qualunque furia d'impetuoso vento non vaglia a farlo un punto crollare.

Morto il Pontefice Pio V, i suoi successori seguitando, come per lo più sogliono, le medesime pedate contrastarono non meno di lui l' Exequatur. Infra gli altri, que' che più si distinsero, furono Papa Gregorio XIII e Clemente VIII.

Papa Gregorio, riputandolo come una disautorazione della Sede Appostolica, non meno che reputollo il Pontefice Pio, l'ebbe sempre in orrore, e pose ogni studio ed opera col Re Filippo II, perchè affatto si levasse dal Regno. Trovando però durezza nel Re, fece che la cosa si ponesse in trattato, e che il Re destinasse suoi Ministri in Roma per trovare almeno qualche onesto temperamento e moderazione, già che tentare di levarsi affatto, vedeva essere impresa, non che dura e malagevole, ma affatto disperata ed impossibile. Fu lungamente trattato in Roma fra i Ministri del Re e del Papa, infra l'altre differenze giurisdizionali, di questo punto; ma toltone le promesse de' nostri Ministri, che si sarebbe usato un modo più pronto, affinchè il medesimo, senza molta cognizione di causa, si spedisse tosto, e senz'alcuna dilazione e con poca spesa e tedio delle Parti, i Ministri del Papa non ne avanzarono altro. Qualunque Bolla, o altra provvisione, che veniva di Roma, si esponeva all'esame, nè si eseguiva, se non con permissione regia. Questo Pontefice, a cui dobbiamo la riformazione del nuovo Calendario, sperimentò ancora, che dal Principe di Pietra Persia D. Giovan di Zunica, il quale si trovava allora nostro Vicerè, non si volle permettere mai la pubblicazione ed accettazione di quel Calendario nel Regno, sino che il Re con sua particolar carta scrittagli a' 21 agosto del 1582[283] non glie lo ordinasse: nè si fece eseguire assolutamente, ma con alcune riserbe e moderazioni, come diremo nel libro seguente, quando ci toccherà più diffusamente ragionare di questa nuova Riforma del Calendario, fatta da Gregorio.

Il Duca d'Ossuna nel 1584 ripresse l'arroganza ed ardire de' Vescovi di Gravina, di Ugento e di Lecce, il primo de' quali avea avuto ardimento di pubblicare alcuni monitorj venutigli da Roma senza Exequatur; e gli altri due d'aver parimente pubblicate due Bolle senza questo indispensabile requisito. Gli chiamò tutti tre in Napoli, e ne fece due Consulte al Re, rappresentandogli, come perniciosi abusi questi attentati, a' quali dovea dar presto ed efficace rimedio per ovviare maggiori pregiudicj e disordini; perchè s'era la Corte di Roma avanzata sino a spedir da Roma un Cursore ad intimare un monitorio a Madama d'Austria senza Exequatur[284].

Non minor vigilanza ebbe sopra di ciò il Conte di Miranda successore dell'Ossuna, al quale avendo, nel 1587, scritto l'Ambasciador di Roma sopra il darsi l' Exequatur ad una Bolla del Papa, per la quale volendo formare in Roma un Archivio, pretendeva, che si dovessero mandare dal Regno Inventarj e tutte le scritture de' beni, rendite e giurisdizioni di tutte le Chiese ed Ospedali di esso: gli fu dal Conte risposto, che quello non poteva concedersi, mandandogli una relazione degl'inconvenienti che ne sarebbon seguiti, dandosi a quella Bolla esecuzione.

Nel Pontificato di Clemente VIII essendo Arcivescovo di Napoli il Cardinal Gesualdo si ripresero col medesimo vigore le contese, coll'occasione che diremo. Questo Pontefice nel 1596 avea drizzato al Cardinale un Breve, per cui ordinava, che tutti i Monasterj di Monache di S. Francesco dell'Osservanza non stassero più sotto la sua immediata protezione, ma riconoscessero gli Ordinarj, levando i Monaci, che vi erano, ed assistevano ne' Divini ufficj, con ponervi de' Preti: nel qual Breve erano anche inclusi i Monasterj di S. Chiara, dell'Egiziaca e della Maddalena di Napoli, che sono di patronato regio: il Cardinale avea fatto intimare il Breve a' Monaci e Monache senza Exequatur; onde il Vicerè Conte d'Olivares mandò il Segretario del Regno a fargli ambasciata regia, perchè s'astenesse d'eseguire il Breve, e fece poner le guardie a' Monasterj; e nell'istesso tempo ne fece Consulta al Re, ne avvisò il Duca di Sessa Ambasciadore in Roma, e volle anche scriverne egli a dirittura al Papa. Poteva ben il Conte antivedere qual risposta dovesse aver da Clemente, il quale non meno che i suoi predecessori, avea in odio l' Exequatur. La risposta del Papa, oltre di distendersi a biasimare i rilasciati costumi di que' Monaci e Monache, conteneva che l' Exequatur era un abuso, introdotto nel Regno ne' tempi turbolenti di guerra, quando l'un pretensore spesso cacciava l'altro: che ora non ve ne era più bisogno, lodando perciò la condotta del Cardinale, che, senza ricercarlo, avea intimato il suo Breve. Il Vicerè replicò al Papa con altra sua lettera, facendogli vedere quanto giusto fosse e quanto non men antico, che non mai interrotto quest'uso dell' Exequatur nel Regno: ch'essendo una delle maggiori prerogative del Re e 'l principal fondamento della sua regal giurisdizione, non avrebbe permesso, che in conto veruno vi si pregiudicasse. Scrissene anche al Duca di Sessa, risoluto di venire a' rimedj più estremi per ripulsare ogni altro attentato, ed in gennajo del seguente anno 1597 ne fece altra Consulta al Re.

Il Cardinal Gesualdo, come Prelato di molta prudenza, prevedendo, che continuandosi la via intrapresa, era per capitar male, pensò un espediente per togliere ogni briga: fece che i Monaci rinunziassero il governo di que' Monasterj in sue mani, e da lui, come Ordinario, fu la rinunzia ricevuta, eccettuati però i Monasterj, ch'erano di patronato regio: fatta questa rinunzia per pubblico istromento, il Cardinale scrisse due biglietti al Vicerè, ne' quali dandogli di tutto ciò ragguaglio, dichiarava, ch'egli come Ordinario, senza aver bisogno del Breve di Roma, e con ciò d' Exequatur, intendeva governarli; e che perciò, esclusi i Monasteri, ch'erano di protezione regia, nelli quali non pretendeva innovare cos'alcuna, volendo visitare, ed entrar di persona ne' Monasterj del Gesù, di San Francesco, di S. Girolamo e di S. Antonio di Padova, pregava il Vicerè, che restasse servito comandare, che se gli dasse ogni ajuto e favore, acciò, come Ordinario, potesse fare l'ufficio suo senz'impedimento alcuno. Il Vicerè in vista di questi viglietti, ordinò al Reggente della Vicaria, che subito facesse levare le guardie poste di suo ordine in que' quattro Monasteri, e diedegli licenza, che potesse entrarvi: ed in cotal guisa fu terminato quest'affare con molta lode, non meno del Vicerè, che del Cardinale.

Questo tenore fu da poi costantemente tenuto dagli altri Vicerè, che al Conte d'Olivares successero: e finchè regnò Filippo II, fece valere nel Regno questa sua preminenza, come in tempo di tutti gli altri suoi predecessori.

Nel Regno di Filippo III, non si permise sopra ciò novità alcuna, e questo Exequatur, reso ormai celebre per le tante contese sopra di quello insorte, era costantemente ritenuto e riputato tanto caro e prezioso, che si stimava, il volersi volontariamente cedere a questo punto, uno de' più segnalati e preziosi doni, che da Re di Spagna potesse farsi giammai alla Corte di Roma; la quale l'avrebbe riputato d'un valore infinito. Tanto che Tommaso Campanella in que' suoi fantastici discorsi, che compose sopra la monarchia di Spagna, che M. S. vanno per le mani di alcuni, volendo aggiustar con nuovi e strani modi quella Monarchia, dice, che il Re di Spagna per togliere al Papa ogni sospezione, potrebbe cedere al punto dell' Exequatur in qualche parte, e mandar Vescovi e Cardinali alli governi di Fiandra e del Mondo Nuovo, e che in cotal guisa le cose riuscirebbero a suo modo; poichè (e' soggiunge) si vede, che il Papa con la indulgenza della Cruciata, gli dona più guadagni, ch'egli non spende a regalare Cardinali, Vescovi ed altri religiosi, e dove si pensa perdere, guadagnerebbe. Ed altrove ne' medesimi discorsi, dice, che potrebbe farsi un cambio tra 'l Re ed il Papa; il Re, che gli ceda l' Exequatur, ed all'incontro il Papa gli doni l'autorità dell'ultima appellazione, sì che possa comporre un Tribunale, dove egli come Cherico sia il Capo, ed unito a due Vescovi, siano Giudici d'ogni appellazione. Ma lasciando da parte stare questi sogni, nel nostro Reame, non meno nel Regno di Filippo III, (dove per tralasciar altri esempj a' Brevi che spediva il Papa di Conti Palatini e di Cavalieri aurati, non si dava l' Exequatur, se non ristretto, che potessero solamente portare torquem, seu habitum Equitis aurati[285] ) che nel Regno di Filippo IV suo figliuolo, e di Carlo II, ultimo degli Austriaci di questa discendenza, non vi è scrittura, che venga da Roma, che non sia ricercato l' Exequatur. S'espongono tutte all'esame, siano Commessioni e patenti del Nunzio Appostolico e de' Collettori: siano Brevi, Decreti o Editti attenenti al S. Ufficio, ovvero al Tribunale della Fabbrica di S. Pietro: siano per proibizioni di libri, per Indulgenze e Giubilei: siano in fine monitorj e citazioni: ed in breve di qualunque provvisione, che di Roma ci venga, non si permette la pubblicazione, e molto meno l'esecuzione senza questo indispensabile requisito. Il Vicerè col suo Collaterale Consiglio commette l'esame della scrittura al Cappellan Maggiore e suo Consultore, il quale ne fa a quel Tribunale relazione, da cui non vi essendo inconvenienti, nè pregiudizio, si concede l' Exequatur, e sovente anche si niega. Questo è l'inveterato ed antico stile introdotto nel Regno, fin da che in quello si stabilì il Principato mantenuto nella serie di tanti secoli, da tutti i Principi, che lo ressero; ed a' dì nostri maggiormente stabilito dal nostro Augustissimo Principe, il quale, negli anni 1708 e 1709, residendo in Barcellona, con più sue regali carte[286] dirette al Cardinal Grimani nostro Vicerè, comandò, che in tutte le provvisioni, che ci vengono da Roma, si fosse inviolabilmente osservato; in guisa che al presente dura vie più stabile e fermo, che mai.

CAPITOLO VI. Contese per li Visitatori Appostolici mandati dal Papa nel Regno; e per le proibizioni fatte a' Laici citati dalla Corte di Roma, di non comparire in quella in modo alcuno.

Il costume di mandarsi dal Pontefice romano in queste nostre province, come Suburbicarie, i Visitatori Appostolici, fu molto antico: abbiam rapportato nel X Libro di questa Istoria, che Papa Niccolò II diede questo carico a Desiderio, celebre Abbate di Monte Cassino, per la Campagna, Principato. Puglia e Calabria, che come Legato della Sede Appostolica visitasse tutte le Chiese e Monasteri di quelle province[287]; e lo stesso si praticava nell'altre province d'Europa. Ma quanto danno questi Legati portassero alle Province lor commesse, fu ben a lungo ivi da noi narrato, tanto che vennero in tal orrore nella Francia e negli altri Regni, che ne furono discacciati, e con severi editti proibito, che più non s'ammettessero.

I primi nostri Re Normanni, per ciò che s'attiene al Regno di Sicilia, vi diedero qualche rimedio, e per la famosa Bolla di Urbano II fondamento di quella Monarchia, per la quale il Re era dichiarato Legato della S. Sede, non furono più ricevuti in quell'Isola. Ma la nostra Puglia e la Calabria, sotto i quali nomi eran comprese allora tutte le altre province, che oggi compongono il Regno di Napoli, rimasero nella disposizione antica. Quindi avvenne, che nella pace fatta in Benevento nel 1157, tra il Re Guglielmo I con Papa Adriano IV, intorno a questi Legati, fosse per la Sicilia convenuto, che la Chiesa Romana potessevi avere le elezioni e consegrazioni nella forma ivi descritta, excepta appellatione, et Legatione, quae nisi ad petitionem nostram, et haeredum nostrorum, ibi non fiant. Della Puglia però e della Calabria si convenne in cotal guisa: Consecrationes, et visitationes libere Romana Ecclesia faciet Apuliae, vel Calabriae Civitatum, ut voluerit, aut illarum partium, quae Apuliae sunt affines, Civitatibus illis exceptis, in quibus persona nostra, vel nostrorum haeredum in illo tempore fuerit, remoto malo ingenio, nisi cum voluntate nostra, nostrorumque haeredum. In Apulia, et Calabria, et partibus illis, quae Apuliae sunt affines, Romana Ecclesia libere Legationes habebit[288]. Fuvvi con tutto ciò data qualche provvidenza intorno ad evitar i danni, che seco portavano tali Legazioni alle Chiese del Regno, con soggiungervi: Illi tamen, qui ad hoc a Romana Ecclesia fuerint delegati, possessiones Ecclesiae non devastent.

Con tutto che potesse la Chiesa di Roma liberamente mandar nel Regno questi Visitatori, o Legati, non si trascurò però mai d'invigilare sopra le Commessioni, che portavano. Erasi alle volte veduto, che eccedevano i confini d'una potestà spirituale, e sovente mettevan mano sopra persone laiche, e perciò doveano presentarsi ed esporsi all'esame, a fin di potersi eseguire; ond'eravi bisogno del Placito Regio, siccome in tutte l'altre provvisioni, che venivan da Roma, e tanto più se le Commessioni erano per la città di Napoli, già dichiarata Sede Regia, ove i Re aveano fermata la loro residenza, e da poi in lor vece i Vicerè loro Luogotenenti.

Nel Pontificato di Pio V, mentr'era il Regno governato dal Duca d'Alcalà, la Corte di Roma, abusandosi di questa facoltà, tentava intorno a ciò far delle sorprese; poichè il Papa avea spedito un Breve al Vescovo di Strongoli, col quale come suo Delegato e della Sede Appostolica, gli dava commessione di poter visitare alcuni Vescovadi ed Arcivescovadi, dei quali ve n'erano alcuni di Patronato Regio, come di Salerno, Gaeta e Cassano, insieme con tutte le Chiese d'essi, e tutte le persone Ecclesiastiche, eziandio quelle ch'erano esenti dalla giurisdizione dell'Ordinario. Parimente in una Bolla separata davansi al medesimo Vescovo molte istruzioni pregiudizialissime alla giurisdizione e preminenze regali; poichè si toccavano anche i laici, si dava facoltà al medesimo di poter visitare gli Ospedali, esiger conto delle loro rendite e proventi, ancorchè fossero amministrati da' laici; ma quel che sopra tutto era intollerabile, si fu, che il Vescovo teneva istruzione segreta ed ordine del Papa di dover eseguire queste commessioni, senza dimandarne Exequatur; ed avea già cominciato, senza richiederlo al Vicerè, a visitare alcune di quelle Chiese. Il Duca d'Alcalà con maniere pur troppo dolci e gentili, fece avvertire al Vescovo, che non eseguisse queste sue commessioni senza chiederne Exequatur; e poichè egli diceva, che teneva ordine di Sua Santità che non lo pigliasse, se gli replicò, che s'astenesse intanto d'eseguirlo, fin ch'egli non ne informava Sua Maestà, con supplicarla di non voler permettere questa novità nel Regno. Se ne astenne perciò il Vescovo, ed in tanto il Duca scrissene in Roma all'Ambasciadore del Re; scrissene al Commendatore D. Ernando Torres, ed ancora al Cardinal Alessandrino, perchè s'interponessero col Papa per far ordinare al Vescovo, che pigliasse l' Exequatur, nè permettesse, che in suo tempo si avesse a soffrire questo pregiudizio. Ma 'l Pontefice Pio, alterandosi alle dimande fattegli, non volle consentirlo; tanto che postosi l'affare in trattato col Nunzio di Napoli, si concertò un nuovo modo da tenere, ma nemmeno fu trovato di soddisfazione del Nunzio; onde obbligarono il Vicerè d'unire tutto il Collaterale, così di Giustizia, come quel di Stato, e di farne a' 29 dicembre del 1566 una piena Consulta al Re Filippo, nella quale con somma premura pregavalo a considerare li tanti pregiudizj, che poteva ciò apportare alla sua Regal Giurisdizione, e che con celerità gli ordinasse quel che dovea eseguire, tanto ne' casi suddetti, quanto negli altri simili, che alla giornata potevano occorrere; tanto maggiormente, che il Papa minacciava di voler proibire la celebrazione de' Divini ufficj nel Regno, con ricordare e nominare sempre le scomuniche, che sono nella Bolla Coenae.

Re Filippo, seriamente considerando l'affare essere di somma importanza, scrisse premurosamente al suo Ambasciadore in Roma, che impegnasse tutti i suoi talenti con vigore, sicchè il Papa s'acquietasse al modo concertato in Napoli, di spedirsi lettere esecutoriali, conforme alla minuta offerta dal Vicerè, di che finalmente il Pontefice si contentò, levandosi solamente alcune clausole, e che quelle s'indirizzassero generalmente ad ogni persona, senza toccare in quella, nè Ecclesiastici, nè Secolari. Scrisse parimente il Re al Duca d'Alcalà, che non facesse permettere visite degli Ospedali, che sono istituiti ed amministrati da persone Secolari; molto meno del Monastero di S. Chiara, ed in tutte l'altre cose, che appartengono a Padronato Regio e preminenza regale: resistesse alle istruzioni del Vescovo di Strongoli in tutti quelli capi, che toccavano i laici; ed in fine, che colla sua prudenza, e saviezza valendosi delle vie e mezzi, che più gli pareranno convenire al suo regal servizio, proccurasse con tutta la modestia trattare col Pontefice il giusto e 'l convenevole. Il Duca portossi con tal desterità ed efficacia, che ridusse il Nunzio, in commessioni simili, a dimandar l' Exequatur; ed i Vicerè suoi successori non permisero per ciò mai a' Visitatori Appostolici eseguire le loro Commessioni, se non presentate prima, e trovatele a dovere, loro si concedeva l' Exequatur, sempre però colla clausola, che potessero eseguirle contra le persone Ecclesiastiche, e sovente si moderavano quelle Commessioni, che erano riputate pregiudiziali alle preminenze regali ed a' diritti del Regno.

Ma affare più difficile e scabroso ebbe a trattare questo Ministro nel medesimo tempo col Pontefice Pio. Avea egli mandato in Napoli per suo Nunzio Paolo Odescalchi; a costui oltre delle Commessioni dategli degli Spogli, e delle Decime, e di ciò, che concerneva in generale il suo Ufficio, avea anche spedite Commessioni particolari per altre cause fuori degli Spogli, fra l'altre, se gli dava potestà di far inquisizione e conoscere delli beni ecclesiastici malamente alienati in questo Regno da anni cento in qua, delle nullità ed invalidità di dette alienazioni, benchè fossero confermate dalla Sede Appostolica, o suoi Commessarj: di conoscere anche delle indebite occupazioni e ritenzioni di detti beni, e quelli trovatigli malamente alienati ed occupati, reintegrarli al dominio di quelle Chiese, dalle quali apparissero alienati e distratti: con potestà di astringere li possessori di quelli, senza far distinzione di persone Ecclesiastiche, o Secolari, non solo alla restituzione di que' beni, ma alla soddisfazione de' frutti da quelli pervenuti.

Il Nunzio presentò al Vicerè tutte queste sue Commessioni: alle regolari fu data licenza d'eseguirle colle solite condizioni e limitazioni; ma per quest'ultima fugli assolutamente proibito di poterla eseguire, e gli fu negata ogni licenza. Il Nunzio della risoluta resistenza ne diè avviso in Roma, e dall'altro canto il Duca ne fece a' 28 febbraio del 1568 una piena Consulta al Re, nella quale seriamente l'avvertiva, che l'esecuzione di quella era pregiudizialissima alla Regal Giurisdizione, e che sarebbe stato il medesimo, che vedersi eretto nel Regno un nuovo Tribunale Ecclesiastico contra i laici, e contra l'antico costume, avendo sempre i Tribunali Regj proceduto in queste cause contra i laici convenuti, conforme alla regola, che l'Attore debba seguire il Foro del Reo, ministrando alle Chiese e persone ecclesiastiche, che tali e simili litigj hanno intentato contra quelli, complimento di giustizia, nè s'è mai permesso, che contra laici in simili cause avessero proceduto Giudici Ecclesiastici, tanto Ordinari, quanto Delegati Appostolici. Soggiungendogli, che il Pontefice Paolo III, avendo tentata la medesima impresa, destinando in questo Regno Giudici con simili Commessioni, e spezialmente quest'istesso Paolo Odescalchi, che al presente era venuto per Nunzio, portando simile Commessione a tempo, che governava questo Regno il Cardinal Pacecco, gli fu denegata licenza d'eseguirla, e lo stesso anche praticossi con Giulio III, che se ciò potesse aver luogo, saria lo stesso ch'ergere un Tribunal nuovo di Giudici Ecclesiastici in questo Regno, giammai costumato: e da ciò ancora ne nascerebbero grandissime perturbazioni a la quiete e tranquillità pubblica: ne seguirebbero grandissimi danni e dispendj a' sudditi, dovendosi porre sossopra le alienazioni de' beni Ecclesiastici fatte da tanto lungo tempo, d'anni cento, non solo ad istanza di Parte ma ex mero officio e per inquisizione, come s'esprime in detta Commessione. Per li quali motivi, gli altri Pontefici predecessori cessarono da tal impresa, nè procederono più oltre; e che perciò la Maestà Sua dovea interporre tutta la sua regal autorità col presente Pontefice, affinchè facesse desistere il Nunzio da tal pretensione come gli altri suoi Antecessori aveano fatto. Il Re per queste forti insinuazioni fece sì, che la visita e commessione del Nunzio Odescalchi non avesse effetto: il Papa lo richiamò, ed a' 9 febbraio del 1569 ne mandò in Napoli un altro.

Ma non per questo pose la Corte di Roma in abbandono l'impresa; si tentarono in appresso modi pur troppo vergognosi. Il Cardinal Morrone con Ernando de Torres posero in trattato l'affare in Roma, e consultarono insieme un espediente, che siccome lo qualifica questo Cardinale in una sua lettera, che a' 18 agosto del seguente anno 1570 scrisse al Vicerè, era non solo di maggior servizio di Dio, ma di sommo onore ed utile di Sua Maestà e di gran lode de' suoi Ministri. Il Cardinal si arrossì forse in questa sua lettera specificar al Duca questo espediente, ma glie lo fece scrivere da D. Ernando, il quale accludendogli la lettera del Cardinale, l'avvisava, che pur che facesse egli eseguire nel Regno la Bolla di conoscere delle cause de' beni malamente alienati delle Chiese, il Cardinale gli avea detto, che di tutto quello si ricupererà, daranno il terzo a Sua Maestà, e che il negozio si tratterebbe nel Regno, come quello della Fabbrica di S. Pietro, coll'intervento di quelle persone, ch'esso Vicerè resterà servito deputare, e che senza dubbio toccheranno a Sua Maestà più di centomila ducati, e che sarà molto grande il servizio, che perciò si farà a Dio, alle Chiese, all'anime di quelli, che al presente possedono questi beni ingiustamente ed indebitatamente, al Papa ed alla Fabbrica di San Pietro; che perciò gli pareva, ch'esso Vicerè dovesse dar a ciò orecchio, perchè sarebbe con ciò anche padrone di potere gratificare alcuni Baroni: gli scrive ancora, che il Cardinale gli avea detto, che il Papa aveagli comunicato, che consimile Bolla mandava in Ispagna, siccome ancora avea fatto per tutta Italia.

Il Duca d'Alcalà scandalizzato di ciò, non rispose altro, che ne avrebbe avvisato Sua Maestà per attendere la sua deliberazione, non potendo da se risolvere; onde a' 12 Ottobre del medesimo anno mandò una piena Consulta al Re, avvisandolo minutamente di tutto ciò, con inviargli ancora le copie delle lettere del Cardinale e dell'Ernando, non lasciando d'insinuargli gli inconvenienti e pregiudizi, che sarebbero seguiti, concedendosi tal licenza con modi così scandalosi.

Il savio Re Filippo abbominando l'offerta, ed insieme arrossendosene, rispose, a' 7 marzo del 1571, al Duca, che non conveniva a lui d'entrare in questa pratica; che perciò andasse dilatando la risposta, ed essendo obbligato a darla, senza dar ad intendere che avesse scritto cosa alcuna di ciò a lui, e facendosegli nuove istanze, rispondesse, che avendo da poi meglio considerato l'affare, non gli era parso darne parte a Sua Maestà; ma considerati i tanti inconvenienti e di grandissimo momento, che potevano nascere e per gli esempi altre volte praticati, avea risoluto per li medesimi rispetti seguitargli, e di non far su ciò, durante il suo governo, novità alcuna: che questa sua risoluzione la facesse intendere al Cardinale per la medesima via di D. Ernando ed in cotal maniera facesse terminare questo negozio e questa pratica[289]. Così fece il Duca, ed in cotal maniera si pose fine al trattato; e siccome in que' pochi mesi, ch'egli sopravvisse, (poichè poco tempo da poi fu dalla morte a noi involato) non fu introdotta novità alcuna, così diede esempio agli altri Vicerè suoi successori di resistere sempre a simili imprese della Corte di Roma, i quali non solo obbligarono tutti i Visitatori Appostolici a non eseguire le loro commessioni senza Regio Exequatur; ma, quando accadeva concedersi, si dava sempre colla clausola: Quo ad Ecclesias, et beneficia Ecclesiastica, et quo ad bona, et possessiones contra personas Ecclesiasticas tantum; et dummodo non operetur directe, nec indirecte contra personas laicas; neque super Praelaturis, Beneficiis, Monasteriis et Ospitalibus et Cappellaniis, quae sunt sub protectione regia. Ed oltre a ciò s'usava molta vigilanza, affinchè i Commessarj destinati da questi Visitatori non angariassero con estorsioni e gravezze l'istesse persone Ecclesiastiche.

Resistè parimente questo Ministro con vigore agli attentati della Corte di Roma, che s'arrogava sovente di citar persone laiche, anche sudditi e Feudatarj del Regno per cause ecclesiastiche e temporali a dover comparire, tuttochè rei, in Roma in quel Tribunale, dovo venivano citati. Ancorchè il Re Ferdinando I, a' 24 aprile del 1474, con particolar Prammatica avesse sotto pena di confiscazion di beni, rigorosamente proibito di comparirvi[290], ed il Re Federico con molto vigore avesse fatto valere nel suo Regno quella Prammatica, siccome sotto l'Imperador Carlo V fece ancora il Conte di Ripacorsa, mostrando gran risentimento per una citazione fatta da Roma al Duca d'Atri; con tutto ciò nel Pontificato di Pio V, non s'astenevano i Tribunali di Roma di tentarlo: non se n'astennero nel 1567 con Marcello Caracciolo, il quale ad istanza del Fisco della Sede Appostolica fu citato a comparire in Roma ed a rilasciare il Casal di Monte d'Urso vicino a Benevento con suoi vassalli e giurisdizioni. Giancamillo Mormile, figliuolo di Cesare, per una causa della lumiera, che possedeva nel Lago d'Agnano, patì lo stesso; e così parimente l'Università di Montefuscoli, terra allora del Marchese di Vico, la quale fu interdetta e sospesa da' Divini ufficj, perchè citata in Roma a dover rilasciare alcuni territori, non volle ubbidire. Ma quel che era insoffribile, si allegava per causa di poter comandare, citare ed astringere i laici del Regno, l'essere questo soggetto alla Sede Appostolica. Il Duca d'Alcalà non potè soffrire questi abusi, con vigore gli ripresse, e mandò tre Consulte al Re Filippo, dove con premura grande l'avvisava de' pregiudizj e pregava dovervi dar pronto e vigoroso rimedio[291].

Dall'aver con tal vigore il Duca combattuto questo temerario ardire della Corte di Roma, ne nacque, che i Vicerè suoi successori, animati ancora dalla volontà del Re già pienamente informato dal Duca, vi usarono ogni vigilanza e rigore; onde il Duca d'Ossuna fece nel 1582 carcerare un Cursore, che avea avuto ardimento di citare Madama Margherita d'Austria sorella di D. Giovanni d'Austria, la quale dimorava nella città dell'Aquila, statale assignata per sua dote, con imporsele, che comparisse in Roma per una lite mossale dalla Regina vedova di Francia. Ed il Conte di Benavente ne fece maggiori risentimenti, perchè essendo stati citati in Roma il Duca di Maddaloni sopra un Juspatronato Baronale ed il Marchese di Circello per la Bagliva della sua terra del Colle, pretesa dal Cardinal Valente, come Abate di S. Maria di Carato, ne fece grave rappresentazione nel 1605 in Ispagna al Re Filippo III, dal quale fugli risposto con sua lettera de' 18 marzo del 1606 che non permettesse far comparire i citati in Roma, incaricandogli, che per riparare un eccesso tanto pregiudiziale e di mala conseguenza facesse tanta estraordinaria dimostrazione che non solo servisse per riparo, ma d'esempio; e che proccurasse avere in mano il Cherico, che intimò il Marchese, e si cacciasse dal Regno; e che all'Abate, che lo fece intimare, si sequestrasse la temporalità, e si cercassero i suoi parenti; ed in fine usasse tutte le diligenze per castigare un tal eccesso.

CAPITOLO VII. Contese insorte per li casi misti, e per la porzione spettante al Re nelle Decime, che s'impongono dal Papa nel Regno alle persone Ecclesiastiche.

Al Duca d'Alcalà parimente dobbiamo, che nel nostro Regno si fosse tolto quell'abuso, che i Giudici Ecclesiastici, sol perchè avessero prevenuto, potessero procedere contra i laici in certi casi, che per ciò appellarono misti. Infra l'altre intraprese della Giustizia Ecclesiastica, come altrove si disse, si fu questa d'avere gli Ecclesiastici inventato un certo genere di giudicio, chiamato di Foro misto, volendo, che contra il secolare possa procedere così il Vescovo come il Magistrato, dando luogo alla prevenzione; nel che veniva sovente a rimaner il Magistrato deluso, perchè gli Ecclesiastici, per la esquisita lor diligenza e sollecitudine, quasi sempre erano i primi a prevenire: onde non lasciando mai luogo al secolare, s'appropriavano di quelli la cognizione. Infra gli altri reputavano di Foro misto, il sacrilegio, l'usura, l'adulterio, la poligamia, l'incesto, il concubinato, la bestemmia, lo spergiuro, il sortilegio, ed il costringimento per le Decime e per la soddisfazione de' Legati pii.

Il Pontefice Pio, usando de' soliti modi, faceva dal suo Nunzio in Madrid importunare il Re Filippo, querelandosi del Duca, che nel Regno impediva a Vescovi, ancorchè prevenissero, di conoscere contra i secolari ne' narrati casi; tanto che il Re scrisse a' 17 luglio del 1569 una lettera al Duca, ordinandogli che avesse fatto consultare e risolvere dal Collaterale con tre o quattro altri del Consiglio di Santa Chiara, e con li due Avvocati Fiscali, queste controversie, se i Vescovi, quando prevengono, possano conoscere ne' suddetti casi. Il Duca fece assembrare i Reggenti del Collaterale con tutti gli altri Ministri, che il Re volle che intervenissero per Aggiunti, ed esattamente discusso l'affare, con pienezza di voti fu conchiuso, che quest'era un abuso: in conformità di che si scrisse dal Duca a' 19 luglio del seguente anno 1570 una solenne e piena Consulta a Sua Maestà di quel, che s'era conchiuso in Collaterale, coll'intervento di que' Ministri e de' due suoi Fiscali: cioè, che in questo Regno la cognizione di questi casi contra laici spetta privativamente a Giudici Regj, e non alli Prelati, e non si dà prevenzione, come i Vescovi pretendono: in esecuzione del quale stabilimento, accadendo il caso, che i Vescovi volevano impacciarsi ne' delitti di sortilegio, di spergiuro, d'incesto, o d'altro, rapportato di sopra o d'intrigarsi ad esazion di decime contra laici, loro si faceva valida resistenza: le cui pedate seguitarono da poi il Cardinal Granvela e gli altri Vicerè suoi successori, de' quali ci rimangono ancora presso il Chioccarello nel tom. 5 de' suoi M. S. Giurisdizionali molti esempj.

Fu antico costume nel nostro Regno, che qualora i Pontefici, o per occasione di guerra contra Infedeli o per altra cagione imponevano decime sopra beni Ecclesiastici, la metà di quelle appartenevano al Re, e di questa pratica ve n'è memoria ne' nostri Archivj sin da' tempi di Papa Sisto IV e del Re Ferdinando I. Alcune volte i Pontefici consapevoli di questo diritto per loro volontà, permettevano esigerla, altre volte senza loro espresso volere, ed i collettori di dette Decime ch'erano per lo più Vescovi o altre persone Ecclesiastiche, davano il conto delle loro esazioni nella Regia Camera, e li denari, che s'esigevano, si ponevano nella Regia General Tesoreria, parte de' quali era riserbata per detta porzione al Re spettante, altra era consignata alle persone destinate da' Sommi Pontefici. Nel Pontificato di Pio V minacciando il Turco guerre crudeli ne' nostri mari, ed ardendo allora la guerra di Malta cotanto ben descritta dal Presidente Tuano, questo Pontefice per ajutare le forze de' Principi Cristiani, affinchè s'opponessero ad un così potente ed implacabil nemico, taglieggiava sovente gli Ecclesiastici, e nel nostro Regno impose con Placito Regio più decime sopra i loro beni. Era veramente commendabile il zelo, che avea il Pontefice Pio per queste espedizioni, ma nell'istesso tempo si proccurava dalla Corte di Roma, che l'esazione di quelle pervenisse tutta intera in loro mani: cominciava a difficoltare questo dritto del Re, e fece sentire a D. Giovanni di Zunica, allor Ambasciadore in Roma, ed al Vicerè di Napoli, che mostrassero il titolo, onde veniva al Re questo diritto. Il Duca d'Alcalà rispose come conveniva, ed il Re Filippo avvisato da D. Giovanni di Zunica di questa domanda, a primo luglio del 1570, gli rispose, che facesse sentire a quella Corte, che il suo Re non teneva necessità alcuna di mostrare il titolo, col quale costumasi in Regno pigliarsi questa parte di decime: che Sua Santità voglia conservarlo in quella quasi possessione, nella quale egli stava, e stettero i suoi predecessori, perchè non consentirà mai, che sia spogliato di quella.

Ancorchè da queste contese niente avesse ricavato Roma intorno a questo punto, con tanta costanza sostenuto, nulladimanco, per la pietà del Re, e perchè veramente il bisogno della guerra di Malta era grande, si compiacque il Re, che le decime imposte sopra le persone Ecclesiastiche del Regno per soccorso di quell'Isola, si esigessero da' Ministri Ecclesiastici, i quali dovessero tutte impiegarle a quel fine; ed affinchè quest'atto non recasse alcun pregiudizio alle ragioni del Re, si fece fare dichiarazione da Fra Martino Royes, deputato Collettore Generale sopra l'esazione di dette decime, come Sua Maestà graziosamente concedeva a detta Religione la metà di dette decime, che a lui toccava, e similmente concedeva, che i denari di dette decime non pervengano alla Regia General Tesoreria, com'è consueto, ma s'esigano per le persone deputate da detta Religione, e per esso Fra Martino in nome della medesima. Parimente, intendendo il Papa imporre tre decime sopra i frutti Ecclesiastici di questo Regno, per ajutare a complire le fortificazioni della città di Malta, quando però S. M. avesse rimessa a quella Religione la metà a se spettante, il Re benignamente vi condescese; siccome nei tempi, che seguirono, in consimili occasioni, per ajutare i Principi Cristiani, che si trovavano travagliati da Infedeli, o Eretici, senza pigliarsi cos'alcuna, ordinava a' suoi Ministri, che facessero liberamente esigere queste decime per impiegarle in spedizioni così pie.

Questa pietà del Re Filippo non fu però sufficiente a rimovere la Corte di Roma dall'impresa; poichè tra le istruzioni date al Cardinal Alessandrino nella sua Legazione vi fu anche questa, di dolersi col Re, come, così ne' Regni di Napoli e di Sicilia come nel Ducato di Milano, era gravata la Giurisdizione Ecclesiastica nell'impedimento che si dava nell'esigere le decime, che Sua Santità avea imposte sopra il Clero d'Italia, sotto colore, ch'apparteneva parte di quelle a S. M., dicendo altresì, che sebbene si fossero ottenute intorno a ciò alcune permissioni per li Pontefici passati, non s'avea da formar regola universale; e che per ciò avesse per bene Sua Maestà lasciarlo a libera disposizione di Sua Santità; e pretendendo tenere in quello alcuno diritto, se ne dasse conto a Sua Santità, acciò potesse quietare sua mente, e levarsi da ogni scrupolo.

Ma il Cardinal di Granvela successore del Duca, a cui il Re partecipò i punti della Legazione suddetta, rispose al Re con sua Consulta de' 22 marzo del 1572, che intorno a ciò Sua Santità poteva levarsi ogni scrupolo, perchè questo era un costume antichissimo, e che i Re suoi predecessori n'erano stati da tempi immemorabili in pacifica e quieta possessione con consenso de' Sommi Pontefici medesimi: onde dovea parere ora cosa stranissima, che l'amor filiale e sommo rispetto portato sempre a Sua Santità abbia da partorir contrario effetto di dimandargli il titolo di cosa cotanto chiara, ereditata da' suoi maggiori e permessa da tanti Sommi Pontefici. I medesimi sentieri furono da poi calcati dal Conte di Miranda e dagli altri Vicerè suoi successori, tanto che ora questo costume vi dura nel Regno più fermo, che mai[292].

CAPITOLO VIII. Contese per li Cavalieri di S. Lazaro.

Parve veramente destinato il Duca d'Alcalà dal Cielo per resistere a tante intraprese della Corte di Roma, che mosse sotto il Pontificato di Pio V. Una assai nuova, e stravagante saremo ora a raccontarne: e poichè il soggetto ha in se qualche dignità, non ci rincresce di pigliarla un poco più dall'alto, manifestando la instituzione ed origine di questi Cavalieri; e quali disordini apportassero nel Regno.

Questi Cavalieri vantano un'origine molto antica, e la riportano intorno all'anno 363 sotto l'Imperador Giuliano, ne' tempi di Basilio Magno, e di Damaso I. R. P. Confermano questa loro antichità da tanti Ospedali, che sotto il nome di S. Lazaro, l'Istoria porta, essere stati in que' primi tempi costrutti per tutto l'Orbe Cristiano, e sopra ogni altro in Gerusalemme, e nelle altre parti di Oriente[293]. Ma questa prima instituzione, per l'incursione de' Barbari e per l'ingiuria de' tempi, venne quasi a mancare, infino che Onorio III ed Innocenzio III non la ristabilissero, e ne prendessero protezione, intorno all'anno 1200. Da poi Gregorio IX ed Innocenzio IV concedettero loro molti privilegj, e prescrissero al loro Ordine una nuova forma, con facoltà di poter creare un Maestro. Alessandro IV con grande liberalità confermogli i privilegj, e quanto da' suoi antecessori era stato lor conceduto.

I Principi del secolo, tirati dall'esempio de' Pontefici, e dal pietoso loro istituto, consimile a quello degli antichi Ebrei (di cui Fleury[294] ce ne rende testimonianza) dell'Ospedalità, e di curare gl'impiagati, e specialmente coloro, ch'erano infettati di lebbra, gli cumularono di beni temporali. I primi furono i Principi della Casa di Svevia, e fra gli altri Federico, il quale concedè loro molte possessioni in Calabria, nella Puglia ed in Sicilia[295]. I Pontefici romani, ed in fra gli altri Niccolò III, Clemente IV, Giovanni XXII, Gregorio X e poi Urbano VI, Paolo II e Lione X favorirono gli acquisti, e con permetter loro di potergli ritenere, sempre più avanzando, divennero molto ricchi. Ma loro avvenne ciò, che l'esperienza ha sempre in casi simili mostrato, che per le soverchie ricchezze, per li favori soverchi dei Principi e per li tanti privilegj de' Romani Pontefici, venisse a mancare la buona disciplina e l'antica pietà; ed all'incontro a decadere di riputazione e stima presso i Fedeli. I Pontefici, infra gli altri privilegj, avean lor conceduto, che le robe rimase per morte dei lebbrosi, o dentro, o fuori degli Ospedali, s'appartenessero ad essi; parimente, che potessero costringere i lebbrosi a ridursi negli Ospedali, ancorchè repugnassero. I Principi davano mano e facevano eseguire nei loro Dominj queste concessioni: onde anche fra Noi leggiamo[296], che il nostro Re Roberto a' 20 aprile 1311 scrisse a tutti i suoi Ufficiali di questo Regno, avvisandogli, come i Frati Religiosi dell'Ospedale di S Lazaro di Gerusalemme gli aveano esposto, ch'essi in vigor de' Privilegi lor conceduti da' Sommi Pontefici aveano autorità di constringere que' che sono infetti di lebbra, dovunque accadesse trovargli, di ridurgli e restringerli negli Ospedali deputati all'abitazione di tali infermi, anche con violenza bisognando, separandogli dall'abitazione de' sani e dando loro gli alimenti necessarj; e poichè alcuni di questi infermi ricusavano venire a detti Ospedali, ajutati spesso da loro parenti potenti, perciò il Re ordina a' suddetti suoi ufficiali, che prestino ogni favore, acciò possano ridurre detti lebbrosi in dette case, con costringergli ancora e pigliargli personalmente. E sotto 'l Regno dell'Imperadore Carlo V pur leggiamo, che Andrea Caraffa Conte di S. Severina, Vicerè di questo Regno a petizione di Alfonso d'Azzia Maestro di S. Lazaro, a' 18 decembre del 1525, ordinò a tutti gli Ufficiali del Regno, che facessero giustizia ad un Vicario del suddetto Alfonso, che avea da andare a ricuperare molte robe per lo Regno di persone infette di lebbra, decadute per la lor morte alla Religione, in vigor dei privilegj e Bolle de' Sommi Pontefici.

Questi modi indiscreti, usati sovente per uccellare le robe di que' miserabili, in decorso di tempo gli fecero cadere dalla stima, e a poco a poco vennero in tanta declinazione, che appena erane rimaso il nome. Ma assunto al Pontificato Pio IV, costui gli rialzò ed a somiglianza degli altri Religiosi Cavalieri gli ornò di molti, ed ampi privilegj, ed immunità, restituendogli nell'antica dignità e per G. Maestro dell'Ordine creò Giannotto Castiglione. Pio V parimente gli onorò e favorì, tanto che in questi tempi presso di noi nel Viceregnato del Duca d'Alcalà s'erano molto rialzati, ed in sommo pregio avuti.

Ma che i Pontefici Romani con tanti onori e prerogative avessero voluto innalzargli senza altrui pregiudizio, era comportabile, ma che ciò avesse da ridondare in pregiudizio de' Principi, ne' cui Stati essi dimoravano, non era da sopportare. Essi ancorchè laici ed ammogliati, in vigor di queste papali esenzioni e privilegi pretendevano, così in riguardo delle loro persone, come de' loro beni, essere esenti dalla regal giurisdizione, non star sottoposti a' pagamenti ordinarj, ed estraordinarj del Re; e quel ch'era appo noi insoffribile, il lor numero cresceva in immenso, perchè erano creati Cavalieri, non pur dal G. Maestro, ma anche dal Nunzio del Papa residente in Napoli, ciò che abbonandosegli, avrebbe recato grandissimo detrimento e pregiudizio alle regali preminenze.

Perciò il Duca d'Alcalà non fece valere nel Regno que' lor vantati privilegj, ed ordinò, che fossero trattati in tutto, come veri laici, ed a' 15 maggio del 1566 ne fece una piena Consulta al Re Filippo, nella quale l'avvisava, come il Nunzio di Napoli avea fatta una gran quantità di Cavalieri di S. Lazaro, ed ogni dì ne creava de' nuovi e questo lo faceva per esimergli dalla giurisdizione di Sua Maestà, e suoi Tribunali, pretendendogli esenti, ancorchè fossero meri laici, e che possono pigliar moglie e far quel che loro piace; e quando si volessero osservare i privilegi dell'esenzione, che pretendono, multiplicando in infinito il lor numero, gran parte del Regno verrebbe a sottrarsi dalla real giurisdizione; onde avendo il Nunzio richiesto l'Avvocato Fiscale, che gli desse il braccio per far imprigionare uno di questi Cavalieri e lo facesse tenere in suo nome, il Fiscale ricusò farlo, con dirgli, che nè il Nunzio nè il G. Maestro avea potestà, nè giurisdizione sopra detti Cavalieri per essere laici, sottoposti alla giurisdizione di Sua Maestà; ed avendo il Nunzio mandato il suo Auditore in casa del Fiscale a mostrargli i privilegi conceduti da' Pontefici Romani a detta Religione, gli fu risposto, che di quelli, non poteva tenerne conto alcuno, così per mancar loro il Regio Exequatur, come ancora per essere pregiudizialissimi alla giurisdizione regale; ma l'Auditore vedendosi convinto, non seppe far altro, che presentargli la Bolla in Coena Domini, avvertendolo, che come Cristiano volesse mirare di far osservare quel che Sua Santità avea conceduto al detto G. Maestro, altrimente sarebbe scomunicato. Avvertiva perciò il Duca in questa Consulta a Sua Maestà, che l'eseguire nel Regno quelli privilegi conceduti a detto G. Maestro, oltre d'indebolirsi la sua regal giurisdizione, sarebbe stato di gran detrimento per li pagamenti ordinari ed estraordinarj, a' quali i suoi sudditi erano obbligati.

Il Re rescrisse al Duca sotto il 12 luglio del medesimo anno, ordinando; che non s'introducesse nel Regno la Religione di S. Lazaro, anzi si levasse, ed annullasse ciò, che si era introdotto, ordinando, che niuno portasse l'abito di quella[297].

Parimente i Reggenti di Collaterale, per ordine del Duca, a' 13 agosto del medesimo anno fecero una piena relazione, nella quale fra l'altre cose dicevano, che il creare e dar l'abito a questi Cavalieri, per lo tempo passato l'avea sempre fatto il G. Maestro, e non il Nunzio, e mai li Maestri han tenuta giurisdizione alcuna, eccetto che di cacciare e segregare li lebbrosi dal commercio de' sani: e che i privilegi pretesi da detta Religione erano pregiudizialissimi alla giurisdizione di Sua Maestà e sono stati nuovamente conceduti da Pontefici Pio IV e Pio V i quali mai furono ricevuti nel Regno, nè a quelli dato Exequatur, anzi sempre si è loro negato, come a' presente si nega. E contra detti Cavalieri si è proceduto e procede tanto in cause civili, quanto criminali per li Tribunali Regj, come se fossero meri laici: ed essendo stati carcerati alcuni di quelli in Vicaria, ancorchè si sia dimandata la rimissione al loro G. Maestro, o al di lui Vicario, non se gli è dato mai orecchio, ma ordinato, che la causa resti; ed alcuni sono stati anche condennati ad esilio. Anzi quando i G. Maestri hanno pretesa ragione sopra i beni de' Lazarati, si è commesso agli Ufficiali Regj, che loro ministrassero giustizia: e pretendendo uno di Castellamare, ch'era dell'abito di S. Lazaro, essere esente dalli pagamenti Fiscali, dal Tribunale della Regia Camera fu condennato a pagare come tutti gli altri Cittadini, per non godere esenzione alcuna.

Vedendo la Corte di Roma, che il Duca niente faceva valere questi privilegj, tentò a dirittura il Re Filippo, con offerirgli in perpetua amministrazione l'Ordine suddetto ne' suoi Regni; ma il Re scrisse al Duca, che per quel che tocca alla renunzia, che si offeriva fare in persona sua, acciò sia perpetuo Amministratore di quell'Ordine, eragli paruto di non convenire accettarla, onde che non ne facesse più parlare. Mitigarono nondimeno l'animo del Re, che siccome prima avea ordinato, che si levasse tal Ordine dal Regno permise da poi, che vi restasse, ma che i Cavalieri di quello si riputassero come meri laici. Così egli nel 1579 volle star inteso dello stato di detto Ordine; onde dalla Regia Camera, per ordine del Marchese di Montejar allora Vicerè, fu fatta relazione di tutte le Commende, che teneva nel Regno, e di che rendite erano, riferendogli parimente, che questi Cavalieri non godevano nè immunità, nè franchigia alcuna.

Ma come poi il Duca di Savoja ne fosse stato di quest'Ordine creato G. Maestro, siccome è al presente, è bene che si narri. Morto che fu in Vercelli nel 1562 Giannotto Castiglione, sedendo da poi nella Cattedra di Roma Gregorio XIII, questi per maggiormente illustrarlo, creò perpetuo G. Maestro di quello Emmanuele Filiberto Duca di Savoja[298], il quale nell'anno seguente, avendo tenuto a Nizza un'assemblea di Cavalieri, si fece da quelli dare solenne giuramento, con farsi riconoscere per loro Gran Maestro, e nuove leggi e riti per maggiormente decorarlo prescrisse loro; ed avendone ottenuta conferma dal Papa, unì, e confuse in uno l'Ordine di S. Maurizio (da chi i Duchi di Savoja vantano tirar l'origine[299] ) con questo altro di S. Lazaro, li quali prima erano Ordini distinti, ed assignò loro due Ospizj, uno a Nizza, l'altro a Torino. Quindi è, che questi Cavalieri si chiamino de' Santi Maurizio e Lazaro, e quindi avvenne ancora, che questi Cavalieri e le Commende, che abbiamo ancora nel Regno si creino e concedano dal Duca di Savoja; onde leggiamo, ch'essendosi spedito un monitorio dalla Camera Appostolica, in nome del Duca di Savoja, Gran Maestro della Religione de' Santi Maurizio e Lazaro, a tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Prelati ed altre persone Ecclesiastiche, che dovessero ubbidire, ed osservare i Privilegi conceduti alla suddetta Religione per Brevi Appostolici, fu quello presentato in Collaterale dal Commendator Maggiore Giovan Francesco Reviglione nel 1608 per ottenerne il Regio Exequatur; ma esaminato dal Cappellan Maggiore, da costui si fece relazione al Vicerè, che potea quello concedersi a riguardo delle persone Ecclesiastiche solamente[300].

In Francia quest'Ordine ebbe pure fortuna: fu quello, siccome in tutti gli altri Regni d'Europa, distinto da quello di San-Giovanni Gerosolimitano; ma poi i Cavalieri di quest'Ordine, come loro emoli proccurarono d'estinguerlo, siccome finalmente l'ottennero da Innocenzio VIII, il quale nell'anno 1490 con suo diploma l'estinse e lo confuse col Gerosolimitano. Tennero i Cavalieri di S. Giovanni per molto tempo nascosto questo diploma; ma quando pervenne alla notizia de' Cavalieri di S. Lazaro, ne fu del diploma, come abusivo portata appellazione al Senato di Parigi l'anno 1544. Fu la causa quivi dibattuta e fu pronunziato a favore degli appellanti; ed essendo stato rivocato il diploma pontificio, fu interposto decreto che per l'avvenire gli Ordini de' Joannitii e Lazarini fossero distinti e separati. Da quel tempo (poichè non potevano farlo apertamente) con astuzia e vafrizie proccuravano i Cavalieri di S. Giovanni, che l'Ordine di S. Lazaro a poco a poco si abolisse, proccurando, che il Gran Maestrato di questo fosse appresso di loro, siccome fuvvi insino ad Emaro Casto, il quale per la sua fede e virtù, se ben fosse egli Joannita, restituì quest'Ordine, e lo pose nell'antico splendore[301]. Quindi avvenne, che i Cavalieri di S. Giovanni aspirassero sempre a soprantendere a quelli di S. Lazaro: e quindi veggiamo ancora in Napoli nella Chiesa di S. Giovanni a Mare, Commenda della Religione di Malta, eretta una Cappella di S. Lazaro, pretesa per ciò ad essi subordinata e soggetta.

CAPITOLO IX. Contese insorte per li Testamenti pretesi farsi da' Vescovi a coloro, che muojono senza ordinargli; ed intorno all'osservanza del Rito 235 della Gran Corte della Vicaria.

Quest'abuso ancora ebbe a combattere il nostro Duca d'Alcalà, che ne' suoi tempi erasi reso purtroppo insolente ed insoffribile. Ebbe principio, come fu da noi accennato ne' precedenti libri di quest'Istoria, ne' tempi dell'ignoranza, o per dir meglio della trascuraggine de' Principi e de' loro Ufficiali: nacque quando gli Ecclesiastici senza trovar chi lor resistesse, sostenevano, che ogni cosa, dove si trattasse di salvezza dell'anima, fosse di loro giurisdizione: per somigliante ragione mantenevano, che la conoscenza de' testamenti, essendo una materia di coscienza, loro s'appartenesse, dicendo medesimamente, ch'essi erano li naturali esecutori di quelli. Non s'arrossivano ancora di dire, che il corpo del defunto testatore, essendo lasciato alla Chiesa per la sepoltura, la Chiesa ancora s'era impadronita de' suoi mobili per quietare la sua coscienza, ed eseguire il suo testamento.

Ed in fatti in Inghilterra, il Vescovo o altro proposto da sua parte, s'impadroniva de' mobili di quello ch'era morto intestato, e gli conservava per 7 anni, nel qual termine potevano gli eredi, componendosi con lui, ripigliarseli. E Carlo di Loysò[302] rapporta, che anticamente in Francia gli Ecclesiastici non volevano seppellire i morti, se non si metteva tra le lor mani il testamento, o in mancanza del testamento non s'otteneva comando speziale del Vescovo; tanto che gli eredi per salvare l'onore del defunto morto senza testare, dimandavano permissione di testare per lui ad pias causas; e di vantaggio vi erano Ecclesiastici, li quali costringevano gli eredi dell'intestato di convenire a prender uomini per arbitri, come il defunto, e che quantità avesse dovuto legare alla Chiesa; ma regolarmente quest'arbitrio se lo presero i Vescovi, i quali s'arrogavano questa autorità di disporre ad pias causas per coloro, che morivano senza testamento. Per questa intrapresa degli Ecclesiastici, fin a' nostri tempi è rimasto il costume, che i Curati ed i Vicari siano capaci di ricevere li testamenti come i Notari. Era per ciò rimaso in alcune Diocesi del nostro Regno che i Vescovi per antica consuetudine potessero disporre per l'anima del defunto intestato; e la pretensione erasi avanzata cotanto, che lusingavansi poter disporre delle robe di quello con applicarle eziandio a loro medesimi; ed in alcune parti del Regno i Prelati anche indistintamente pretesero d'applicarsi in beneficio loro la quarta parte de' mobili del defunto. Il Cardinal di Luca[303] condanna gli eccessi e gli reputa abusivi, e vorrebbe riforma e moderazione secondo l'arbitrio di un uomo prudente. Parimente in Roma, le Congregazioni de Cardinali del Concilio e de' Vescovi, per render plausibile il costume, lo moderano e restringono a certe leggi; ma non assolutamente lo condannano. Così ancora Mario Caraffa Arcivescovo di Napoli, avendo nell'anno 1567 tenuto quivi un Concilio Provinciale, dichiarò in quello esser ciò un condannabile abuso, ma moderò la condanna con dire, che dove era tal consuetudine, il Vescovo con la pietà, che conviene, avendo riguardo al tempo, a luoghi, alle persone e con espresso consenso e volontà degli eredi, poteva dispensare alcuna moderata quantità di denari, per messe ed altre opere pie, per suffragio dell'anime di que' defunti. Ciò che fu approvato (siccome tutto il Sinodo) da Pio V, precedente esame e relazione della Congregazione de' Cardinali interpreti del Concilio.

Ma i nostri Re e loro Luogotenenti, come un abuso pernizioso, lo proibirono sempre ed affatto lo rifiutarono. Tengono nel Regno questa pretensione alquanti Vescovi, fondati nella consuetudine, come il Vescovo di Nocera de' Pagani, il Vescovo d'Alife, quello d'Oppido, l'altro di S. Marco ed alcuni altri, che possono osservarsi nell'Italia Sacra dell'Ughello.

Il Duca d'Alcalà non potendo soffrire nel suo governo questi abusi, siccome furono tolti in Francia ed altrove, proccurò anch'egli sterminarli nel nostro Regno, e vedendo che alcuni Vescovi, e fra gli altri quello d'Alife, s'erano in ciò ostinati, i quali negavan la sepoltura, quando loro non volesse in ciò consentirsi; oltre avere a quelli scritte gravi ortatorie, perchè se n'astenessero, scrisse nel 1570 una forte lettera a D. Giovanni di Zunica Ambasciadore del Re in Roma, incaricandogli, che parlasse al Pontefice con premura di questi aggravj, che si facevan da tali Vescovi, affinchè quelli con effetto se n'astenessero. L'Ambasciadore ne parlò al Papa, dal quale non ne ottenne altra risposta, che quando il defunto tiene erede, il Vescovo non può de jure testare per quello, ma se nol tiene, può farlo, per quel che tocca ad opere pie. Al Vescovo d'Oppido, che pretendeva ancora far testamenti a quelli, che morivano intestati, parimente si fece ortatoria, che se n'astenesse, e non avendo voluto ubbidire, assembratosi il Collateral Consiglio, fu determinato, che se gli potevano sequestrare i frutti, ma che prima di venirsi a ciò, se gli spedisse altra ortatoria.

Le medesime pedate furono da poi calcate da' Vicerè suoi successori: il Conte di Miranda, avendo il Vescovo di S. Marco scomunicata la Baronessa di S. Donato, perchè non voleva dargli la quarta parte de' beni mobili rimasi nell'eredità di D. Ippolito San Severino Barone di S. Donato suo marito, morto ab intestato, a' 31 marzo del 1586, gli scrisse una grave ortatoria, che l'assolvesse e non la molestasse; e non avendo voluto ubbidire, ordinò la carcerazione di tutti i parenti più stretti del suo Vicario, e 'l sequestro dei beni, e fecene da poi, a' 10 giugno del seguente anno, una Consulta al Re rappresentandogli il caso.

Parimente il Vescovo di Nocera de' Pagani pretese da Laudania Guerritore madre e tutrice de' figli ed eredi di Marcello Pepe di detta città di Nocera, di dovergli pagare quel ch'egli avea disposto nel testamento, che avea fatto ad pias causas per detto Marcello, morto ab intestato; ma il Vicerè scrissegli un ortatoria insinuandogli, che se n'astenesse, nè più per questa causa le dasse molestia[304]. Nè, quando si voglia usare la debita vigilanza, si permettono ora più nel Regno simili abusi.

Non finirono qui i contrasti di giurisdizione col Duca d'Alcalà: per tralasciarne alcuni di non tanto momento, merita qui essere annoverato quello, che s'ebbe a sostenere per l'osservanza del Rito 235 della Gran Corte della Vicaria, che si pretese dagli Ecclesiastici renderlo vano ed inutile.

Fu antico costume nel nostro Regno, conforme per altro alle leggi ed alla ragione, che la cognizione del Chericato, quando s'opponeva ne' Tribunali Regj, perchè s'impedisse il procedere nelle cause de' Cherici, s'appartenesse a' Giudici medesimi, da' quali la rimessione si pretendeva. Così essi doveano conoscere delle Bolle, che si producevano, de' requisiti che bisognava colui avere per esser rimesso, di vestir abiti chericali, aver tonsura, vivere chericalmente, non mescolarsi in mercanzie ed ogni altro a ciò attenente; siccome per tutto il tempo, che regnarono fra noi i Re della illustre Casa d'Angiò, fu senz'alcuna controversia praticato; tanto che la Regina Giovanna II, nella compilazione de' Riti, che fece fare della Gran Corte della Vicaria, infra gli altri, vi fece anche inserir questo.

Nel Pontificato di Pio V, fra l'altre imprese degli Ecclesiastici si vide ancor questa che i Vescovi pretendevano, che alla sola loro asserzione si dovessero rimettere i Cherici, e che ad essi s'appartenesse la cognizione del Chericato, e se vi concorrevano i soliti requisiti. Il Vescovo d'Andria avendo ciò preteso, ed essendosegli negato, scomunicò il Governatore e Giudice di quella città, perchè non aveano rimessi alcuni carcerati; ma il Duca d'Alcalà approvò la condotta del Governatore, e a' 19 luglio del 1570 ne fece Consulta al Re[305], e scrisse all'Ambasciadore in Roma, che avesse rappresentato al Papa i pregiudizi e novità, che tentavano i Vescovi del Regno, e fra gl'altri di voler essi conoscere del Chericato, con togliere la cognizione a' Giudici Regj, che avean sempre avuta, conforme al Rito della Vicaria; con avvertirlo, che questa era una materia delle più importanti, che potevano occorrere nel Regno, non solo a riguardo dell'offesa della regal giurisdizione ed autorità, ma anche per la quiete de' popoli e de' sudditi di Sua Maestà. L'Ambasciadore trattò con efficacia l'affare col Pontefice, il quale avendo conosciuto la domanda essere ragionevole, risposegli, che non avrebbe alterato questo costume.

Ma non perciò gli Ecclesiastici restarono ne' seguenti tempi di proseguire l'impresa, sebbene trovaron sempre resistenza; anzi nel Viceregnato del Conte di Miranda venne lettera del Re, sotto li 12 decembre del 1587, che nel conoscersi delle cause di remissione de' Cherici procedessero i Tribunali ordinarj del Re, senza che in quelle si permettesse novità alcuna. E ne' tempi meno a noi lontani, il Consigliere ed Avvocato Fiscale allora del regal patrimonio, Fabio Capece Galeota diede in istampa un discorso drizzato al Vicerè Duca d'Alba, sostenendo questa pratica conforme al Rito, dimostrandola ancora non men legittima, che successivamente approvata in diversi tempi da Sommi Pontefici, e D. Pietro Urries ne compilò un trattato a parte, e se bene la Corte di Roma avesse vietato il libro, non si tenne però conto alcuno della proibizione, siccome si disse nel XXVII libro di quest'Istoria.

CAPITOLO X. Legazione de' Cardinali Giustiniano, ed Alessandrino a Filippo II per questi ed altri punti giurisdizionali: donde nacque il costume di mandarsi da Napoli un Regio Ministro in Roma per comporli.

Il Pontefice Pio V, che invigilò a pari di qualunque altro Pontefice di stendere come poteva meglio, la giurisdizione Ecclesiastica sopra i Dominj de' Principi Cristiani, non ben soddisfatto del Duca di Alcalà, che compiendo alle sue parti attraversò sempre i suoi disegni, si risolse finalmente di far trattare questi punti a dirittura col Re Filippo, e gli spedì a questo fine successivamente due Legati. Il primo fu il P. Vincenzo Giustiniani Generale dell'Ordine dei Predicatori, che fu da poi da lui fatto Cardinale; ed il secondo fu Michele Bonello Cardinal Alessandrino suo nipote, che partì per Ispagna e Portogallo con varie commessioni, poco prima della morte del Duca d'Alcalà, seguita in Napoli l'anno 1571.

Il Cardinal Giustiniano si sbrigò subito della sua Legazione; poichè avendo rappresentato al Re alcuni aggravi (la maggior parte de' quali furono i medesimi riferiti di sopra) che diceva farsi nel Regno a' Vescovi, in diminuzione della giurisdizione ed immunità Ecclesiastica, e fra gli altri di non permettergli di conoscere sopra il Chericato: il Re dando provvidenza ad alcuni di poco momento, considerando gli altri di somma importanza, e che avean bisogno di molta considerazione; nè potevan risolversi senza che dal Vicerè di Napoli ne fosse stato pienamente informato, ne lo rimandò con lettera de' 28 settembre 1570, diretta al Pontefice Pio, nella quale con molto rispetto gli scrisse aver ricevuto il suo Breve, che gli portò il Cardinal Giustiniano in sua credenza sopra le cose toccanti alla giurisdizione Ecclesiastica, e che quantunque per li viaggi e continue sue occupazioni, che da poi l'erano sopravvenute, non avea avuto luogo e quel tempo, che si desiderava per trattar di quelle, maggiormente per essere molto gravi ed importanti: tuttavia per soddisfare Sua Santità, si era provvisto in alcune, come intenderebbe dal suddetto Cardinale; ma che venuta che sarebbe l'informazione, ch'egli aspettava da Napoli, avrebbe proccurato di provvedere al di più, in maniera, che la dignità Ecclesiastica non fosse pregiudicata[306].

Scrisse nel medesimo tempo due ben lunghe lettere al Duca d'Alcalà, inviandogli i capi presentatigli dal Legato, per li quali diceva venire pregiudicata la giurisdizione Ecclesiastica, incaricandogli, che dovesse comunicarli col Consiglio Collaterale, il quale con matura discussione e deliberazione rispondesse a ciascheduno di quelli, e ne gli facesse poi a lui relazione; acciò che con più maturità potesse egli deliberare quel che conveniva; siccome fu eseguito: poichè fattasi questa relazione, fu da poi fatta esaminare da alcune persone del suo Real Consiglio, che per ciò si deputarono, e con loro accordo e col parere suddetto de' Reggenti del Collaterale di Napoli, fu decretato sopra alcuni Capi della medesima.

In cotal guisa terminò la Legazione del Cardinal Giustiniano; ma assai più onorevole fu quella del Cardinal Alessandrino nipote del Papa, il quale fu da Pio inviato al Re Filippo II, non meno per queste contese giurisdizionali, che per cagioni assai più serie e gravi, e non meno per lo Regno di Napoli, che per quello di Sicilia e del Ducato di Milano; e sopra tutto per la guerra, che minacciava il Turco, il quale formidabile più che mai poneva terrore non meno alla Germania, che all'istessa Italia. Per ciò il Pontefice Pio era tutto inteso a stimolare i Principi Cristiani, che uniti insieme accorressero alla difesa delle province Cristiane, minacciate da così fiero e potente nemico: mandò a questo fine il Cardinal Commendone a Cesare, a cui diede incombenza che dopo aver trattato con colui delle cose di Germania, passasse a Sigismondo Augusto Re di Polonia, per invitarlo all'alleanza d'una guerra non meno salutare, che necessaria; siccome mandò a' Principi d'Italia Paolo Odescalchi Vescovo di Penne, per passare i medesimi ufficj: mandò ancora il Cardinal Alessandrino suo nipote al Re Filippo in Ispagna, dal quale, sopra tutti gli altri Principi, sperava valevoli soccorsi, commettendo parimente al Cardinale, che passasse poi al Re di Portogallo, ed indi andasse in Francia ad invitare anche quel Re all'impresa[307].

Giunto che fu il Cardinal Alessandrino in Ispagna, fu incontrato con molto onore ne' con fini da molti Signori, che il Re avea mandato a riceverlo: gli andò incontro Diego Spinosa Vescovo Saguntino, dal quale allora si maneggiavano gli affari più gravi della Corona, e finalmente introdotto nella Corte, fu dal Re Filippo ricevuto con eccessive rimostranze di onore e di stima.

La somma e principal sua commessione era di esortare il Re, come fece, acciò si affrettasse di somministrare valevoli ajuti per la guerra contra il Turco: che quelli, oltre che sarebbero stati i più grandi e considerabili, avrebbero stimolato gli altri Principi, mossi dal suo esempio a seguirlo, ed a stringere l'alleanza: lo pregò in secondo luogo che se bene per questo istesso fine dovea egli passar in Portogallo e poi in Francia, con tutto ciò più efficaci sarebbero stati questi ufficj, se S. M. s'interponesse a dirittura con que' Re, e sopra tutto invitando Massimiliano Cesare a partecipare di questa santissima guerra. Filippo rese grazie al Pontefice, che cotanto onorificamente di lui sentiva, ma che dovea colla sua prudenza riguardare ancora di quante cure e molestie era egli circondato, e quanto fosse grave la mole che e' sosteneva d'una guerra ancor'ella di Religione, quanto era quella di Fiandra, la quale se non vi dava riparo, poteva nelle viscere della Cristianità recar più danno di quella minacciata dal Turco: del rimanente, che non avrebbe tralasciato i suoi soccorsi, e da' suoi Stati d Italia somministrar quegli ajuti, per quanto comportavano le forze di que' Regni: non avrebbe ancora tralasciato d'accompagnare con que' Re i suoi con gli ufficj del Pontefice, e sopra tutto coll'Imperador Massimiliano suo cugino[308].

Trattossi ancora del Titolo di Gran Duca di Toscana attribuito a Cosimo Duca di Fiorenza: esagerava il Cardinale, che senza grave ingiuria di Sua Maestà e del Pontefice non dovea quello tollerarsi: dovea riflettersi essersi con ciò offesa non meno l'autorità e dignità sua regale, che la maestà della Sede Appostolica; con tutto ciò niente sopra quest'affare si conchiuse.

Ma il Pontefice Pio non volle tralasciare in questa occasione, dove egli mostrava cotanto zelo per la Fede di Cristo contra gl'implacabili nemici di quella, di proccurar anche per la sua Sede non piccioli vantaggi: fece far dal Cardinale doglianze col Re, come nel Regno di Sicilia la giurisdizione Ecclesiastica veniva grandemente abbassata da suoi Regj Ministri per quella Monarchia da essi inventata, che non ha altro sostegno, che un supposto ed apocrifo diploma d'Urbano II. E diceva, che oltre di non potere il diploma comprendere, che le persone di Ruggiero Conte di Sicilia e di Calabria, e di Simone suo figliuolo, ovvero l'erede di Ruggiero solamente, si vedeva chiaro essere quello molto sospetto, dal luogo e dal giorno che ivi si leggevano. Porta la data di Salerno dell'anno 1095, nel qual tempo il Pontefice Urbano intervenne nel Concilio di Chiaramonte convocato in Francia per la guerra sacra, per la cui spedizione fu per tutto quell'anno sempre occupato. L'Autore, che la prima volta lo cavò fuori alla luce del Mondo, cioè Tommaso Fazzello, essere un uomo nuovo, di niun nome ed autorità: egli dice averlo avuto da un altro di non maggior fede, il qual fu Gio. Luca Barberio Siciliano. Essere ancora da Pietro di Luna scismatico attribuito a Ferdinando d'Aragona, ed a Martino parimente Re d'Aragona, che prese per moglie Maria Regina di Sicilia, affinchè i Vescovi non potessero contra i Ministri regj valersi delle censure Ecclesiastiche, ma che poco da poi, a richiesta de' tre Ordini del Regno, fu quel privilegio affatto abolito e tolto. Richiedeva perciò Sua Santità, che quella pretesa Monarchia affatto si abolisse, ed il Regno di Sicilia in tutte le cose si riducesse secondo il prescritto del Concilio di Trento, e la giurisdizione Ecclesiastica fosse restituita nella sua autorità e suo splendore. Il Re Filippo considerando fra se l'importanza della cosa, con molta gravità rispose al Legato, che quelle ragioni, che insieme co' Regni i suoi maggiori gli avean tramandate, siccome egli aveale ricevute, così non poteva far di meno di non lasciarle nella maniera istessa a' suoi successori, e che i suoi Ministri non le serbassero[309]. Del rimanente, se vi era qualche eccesso in valersene, per l'osservanza dovuta alla S. Sede, avrebbe egli scritto che l'emendassero. Con questa risposta ne fu rimandato il Cardinale. Nè di ciò se ne mosse da poi più parola, se non sotto il Regno di Filippo III, venne al Cardinal Baronio, con grande importunità, voglia di contrastarla nell'XI tomo de' suoi Annali; ma ne fu fatta da Spagna severa rimostranza, come altrove si è detto. E negli ultimi nostri tempi avendo voluto il Pontefice Clemente XI con sua Bolla abolirla, servendosi dell'opportunità del tempo, quando quel Regno era in mano del Duca di Savoja; riuscirono anche vani gli sforzi suoi, che diedero motivo all'incomparabile Dupino di scrivere, a richiesta di quel Principe, quel dotto libro, sostenendo non meno la Monarchia, che facendo vedere quanto erano deboli li argomenti del Baronio, sopra i quali Clemente avea appoggiata la sua Bolla.

Serbossi in ultimo luogo il Cardinal Alessandrino, di proporre al Re Filippo in questa sua Legazione, i pregiudizj, ch'e' diceva farsi alla Giurisdizione Ecclesiastica nel Regno di Napoli e Stato di Milano; ma ricevè quella stessa risposta, che fu data al Cardinal Giustiniano: essere queste cose di somma importanza, e che per ciò non poteva da se niente risolvere, se prima non ne fosse informato dal Vicerè di Napoli e dal suo Ambasciadore residente in Roma.

Intanto era nel mese di aprile di quest'anno 1571 accaduta in Napoli la morte del Duca d'Alcalà, e ritrovandosi in Roma il Cardinal di Granvella fu dal Re a costui comandato, che tosto si portasse in Napoli a prendere le redini di quel governo in luogo del Duca morto, siccome prontamente fece. Per adempir il Re a quanto avea promesso al Cardinal Legato, scrisse in quest'istesso anno quattro lettere, una nel mese di novembre diretta al suo Ambasciadore in Roma D. Giovanni di Zunica, e tre altre nel seguente mese di Decembre al Cardinal di Granvela suo Vicerè in Napoli. Avvisava in quelle a' medesimi, come essendo giunto in Ispagna il Cardinal Alessandrino Legato di Sua Santità, e ricevuto da lui, ed accarezzato come conveniva, e si dovea a persona di tanta dignità, e cotanto al Papa congiunta, gli avea fra l'altre sue commessioni esposti alcuni Capi, nelli quali pretendeva, che si pregiudicasse la Giurisdizione Ecclesiastica, tanto nelli Regni di Napoli e di Sicilia, quanto nello Stato di Milano: in Napoli per l'Exequatur Regium: in Sicilia per la Monarchia: ed in Milano per la Famiglia armata dell'Arcivescovo e per la Chiesa di Malta: gli mandava per ciò copia di que' Capi colle risposte e repliche del detto Legato: gl'inviava ancora copia de' memoriali dati a lui dal Cardinal Giustiniano colle risposte fatte nello margine di ciascun capo, acciò l'Ambasciadore con questo antivedere si regolasse col Papa in Roma per quel che conveniva. Al Vicerè Granvela, si diffuse assai più, dandogli notizia, che intorno a' punti contenuti ne' memoriali datigli dal Cardinal Giustiniano, ed alle decretazioni fatte dal suo Regal Consiglio col parere de' Reggenti del Collaterale di Napoli, ancorchè dal suddetto Cardinal Alessandrino si fosse alle medesime replicato, nulladimeno essendosegli risposto come conveniva, finalmente erasi quietato, e pensava per ciò partirsi fra tre dì, seguendo il suo cammino per Portogallo. Per ciò che poi s'atteneva a' suddetti nuovi Capi toccanti al Regno presentatigli dal suddetto Cardinale, ne gl'inviava copia, affinchè gli facesse esaminare da' Reggenti del Collaterale e da altre persone pratiche di scienza e di coscienza. Dopo di che ne gl'inviasse molto particolare e distinta relazione col suo parere, acciò che replicandosi dal Papa, possa egli con fondamento rispondergli e prevenire quanto bisognava per la buona condotta di quest'affare. Nella seconda lettera drizzata al medesimo Vicerè, gli dava ragguaglio delle rappresentazioni fattegli intorno all'osservanza del Concilio di Trento, e delle sue generali risposte dategli: e nella terza l'incaricava la vigilanza ed accortezza ricercata intorno all'Exequatur, acciò non si diminuisse la sua Giurisdizione.

Il Cardinal Granvela, così sopra tutti questi Capi, come sopra quelli contenuti ne' memoriali dati al Re dal Cardinal Giustiniano, col parere del Collaterale, in risposta di queste regali lettere, mandò al Re più Consulte, nelle quali regolandosi con l'istessi sentimenti, che s'ebbero nel governo del Duca d'Alcalà suo predecessore, informò il Re pienamente di tutto: di che mal soddisfatta la Corte di Roma, vedendo che così queste controversie di Giurisdizione comprese nelli Capi dati da' Cardinali Giustiniano ed Alessandrino, come molte altre, che alla giornata faceva sorgere, non si potevano comporre a suo modo, per via di lettere e di relazioni, che vicendevolmente si mandavano, ed in Roma, ed in Napoli, ed alla Corte di Madrid: pensò di ridurle in trattato in Roma, per dove desiderava, che dal Re si mandassero suoi Ministri, affine di potersi quelle ivi dibattere e risolvere. Per ciò il Pontefice Pio V richiese il Re Filippo, che mandasse suoi Ministri in Roma, i quali uniti con quelli, ch'egli avrebbe deputati per sua parte, avessero potuto aggiustarle, ed amichevolmente comporle. Il Re Filippo, non ben intendendo l'arcano, ovvero per compiacere al Pontefice, di cui ostentava somma osservanza, promise di mandargli; ma essendo poco da poi a primo di maggio del seguente anno 1572 succeduta la morte del Pontefice, non ebbe la promessa alcun effetto.

Ma Gregorio XIII, che succedette al Pontefice Pio, non tralasciò di farsi adempire la premessa; onde più volte istantemente lo richiese, che gli mandasse, siccome con effetto nel 1574 furon mandati. Scrisse il Re al Pontefice a' 4 giugno del suddetto anno una lettera, nella quale gli diceva, che per soddisfare alle sue istanze fattegli di mandare in Roma alcune persone per trattare le differenze di Giurisdizione occorse ne' suoi Regni d'Italia, inviava in Roma D. Pietro d'Avila Marchese de las Navas, ed il Licenziato Francesco di Vera del suo Consiglio, li quali giunti col suo Ambasciadore D. Giovanni di Zunica trattassero di comporre amichevolmente quelle differenze, e qualunque altra che mai potesse insorgere nei suoi Regni di Napoli e di Sicilia e nel Ducato di Milano. Mandò parimente a' medesimi ampia proccura a questo fine, ed insieme le istruzioni della maniera di doversi portare nel trattarle: dando di tutto ciò avviso al Vicerè Granvela per sua norma.

Quindi nacque il costume di mandarsi in Roma Ministri del Re per trattare di questi affari: Missioni per altro fin dal loro cominciamento sempre inutili: il Marchese de las Navas, ed il Consigliere di Vera inutilmente s'affaticarono. Ma non perciò s'interruppe questo cominciato stile: morto il Marchese, fu nel 1578 mandato in Roma in suo luogo D. Alvaro Borgia Marchese d'Alcanizes, al quale il Re parimente mandò proccura di trattare insieme coll'Ambasciadore Zunica e Consigliere Vera questi negozj, dandogli la medesima potestà, che teneva il Marchese de las Navas colle medesime istruzioni. Anzi avendo il Governadore di Milano mantenuto il medesimo istituto di mandare da quello Stato una persona per quelli affari in Roma, il Re Filippo II scrisse nel 1579 al Marchese di Mondejar nostro Vicerè, dicendogli che per lettera del Commendator Maggiore suo Ambasciadore in Roma, e del Marchese di Alcanizes avea inteso, che conveniva molto per la buona intelligenza della materia di Giurisdizione Secolare ed Ecclesiastica del Regno tenere in Roma una persona tanto pratica ed intelligente, com'era il Dottor Giacomo Ricardi, che dimorava in Roma mandato da Milano dal Marchese de Aymonte Governadore di quello Stato; che per ciò gli ordinava, che da Napoli si mandasse in Roma una persona, ancorchè fosse Reggente di Cancelleria e particolarmente il Reggente Salernitano, come più intelligente in detti negozj, o pure dal Consiglio di Capuana, o dalla Camera della Summaria, ovvero d'altro qualsivoglia, che sia dimandato dal detto Ambasciadore e Marchese: e che subito l'invii in Roma, acciò col lume, che darà, si possa procedere in detti negozj[310].

Così ne' tempi meno a noi lontani, leggiamo, che per le controversie giurisdizionali insorte tra il Vescovo di Gravina, e l'Arciprete d'Altamura, fu dal Cardinal Zapata mandato in Roma il Consigliere Giovan-Battista Migliore per comporle e terminarle. E ne' tempi de' nostri Avoli, per le nuove contese insorte per la Bolla di Gregorio XIV, fu in Roma mandato il Consigliere Antonio di Gaeta; missione per altro vana ed inutile; ed a' dì nostri successivamente il Consigliere Falletti; il Fiscale di Camera Mazzaccara; ed ultimamente il Consigliere Lucini. Le missioni dei quali avrebbero potuto a bastanza far avvertito il Re che è tutta spesa perduta per questa via sperare una cotal composizione e fine di queste differenze giurisdizionali. Le maniere più proprie ed efficaci, quando voglia seguitarsi lo stile degli Spagnuoli, di saldar queste piaghe, non già all'uso di Francia, ma con empiastri ed unguenti, sarebbero quelle che ci vengono additate da' più saggi e prudenti Giureconsulti insieme e Teologi, cioè di deputare vicendevolmente personaggi d'alto affare, a' quali, come Compromissori, si commettesse la composizione di quelle, ed alla loro determinazione di doversi ciecamente ubbidire: questo modo, che sovente vien praticato nel Contado di Barcellona, dice Jacopo Menochio, celebre Giureconsulto di Pavia nel suo trattato De Jurisdictione, essere stato sempre da lui riputato il più acconcio in Italia, per terminare affatto queste contese; i Romani, che dovrebbero più d'ogni altro desiderarlo, han mostrato sempre di abborrirlo, perchè sanno, che con tenerle sospese ed indecise, per la loro vigilanza e desterità, il tempo porterà congiunture tali, delle quali sapranno ben valersene, e ricavarne profitto.

CAPITOLO XI. Morte del Duca d'Alcalà: sue virtù, e sue savie leggi che ci lasciò.

Questo savio Ministro, ne' dodici anni del suo governo, ebbe a sostenere non meno queste fastidiose contese colla Corte di Roma, che a star vigilante per timore d'una guerra crudele e spietata, la qual fu quella che il Turco minacciava nelle nostre contrade. La fama degli estraordinari apparecchi, che spesso si sentivano farsi dagli Ottomani in Levante, lo tenne in continue sollecitudini e timori. La guerra intrapresa nel 1565 per la conquista di Malta, dava da pensare ugualmente al Regno di Sicilia, che a quello di Napoli: bisognò per tanto, ch'egli munisse le città marittime con validi presidj; ed essendo il Regno quasi che tutto circondato dal mare, le provvidenze in molte città doveano perciò essere maggiori e più dispendiose.

Ma non perchè finalmente si vedesse Malta libera da questi mali, cessarono in noi li timori; poichè nell'anno seguente usciti i Turchi da Costantinopoli con potentissima armata, dopo avere conquistata l'Isola di Scio, posseduta 300 anni da' Genovesi, s'inoltrarono nell'Adriatico; e non essendo loro riuscito di sorprendere Pescara, devastarono quelle riviere, saccheggiando tutte quelle Terre poste a' liti del mare, dove fecero un grosso bottino di gente e di roba, e tornarono poi in Levante. Ma nel 1570 posti di nuovo in mare, spaventarono nuovamente Italia; onde il Duca avendo muniti i luoghi sospetti, fece venire tremila Tedeschi per difesa del Regno: il turbine però venne a piombare sopra i Veneziani, che si videro inaspettatamente assaltare l'importante Isola di Cipri, al cui soccorso andò Giannandrea Doria con cinquanta Galee, fra le quali ve n'eran ventitrè della squadra di Napoli, con tremila soldati comandati dal Marchese di Torre Maggiore, e moltissimi Cavalieri napoletani.

Questi continui timori di guerra, che sono peggiori della guerra istessa, e più l'altra di Religione, che tuttavia ardeva in Fiandra, posero, per le continue ed immense spese, in necessità il Re Filippo II di premere alquanto il Regno con frequenti contribuzioni e donativi. Ma l'accortezza del Duca, che maneggiava co' Baroni quest'affare con molta soavità e destrezza, e l'amore, che avea a se tirato di tutti gli Ordini, particolarmente de' Nobili, tanto che invitato a farsi lor Cittadino, lo aggregarono nella Piazza di Montagna, fu tale che nello spazio di soli sei anni, facendo secondo il costume convocar a questo fine in S. Lorenzo Generali Parlamenti, ne trasse dalla Città e Regno profusi donativi. Nel 1564, presedendo come Sindico Cola Francesco di Costanzo di Portanova, si fece dono al Re d'un milione di ducati. Nel 1566 gli si donarono un milione e ducentomila ducati, essendo Sindico Fabio Rosso di Montagna. Nel 1568, nel qual anno fu creato Sindico Gianvincenzo Macedonio di Porto, si fece donativo d'altrettanta somma; e nel 1570, essendo Sindico Paolo Poderico, se ne fece un altro d'un milione; e per occasione di questi donativi leggiamo noi nel volume delle Grazie e Capitoli della Città e Regno di Napoli, moltissimi Privilegi e Grazie profusamente concedute alla medesima dal Re Filippo II, particolarmente quando reggeva il Regno, come Vicerè, il Duca d'Alcalà.

Ma ecco finalmente, che questo incomparabile Vicerè bisognò cedere al fato: le continue applicazioni e le tante cure moleste e fastidiose gli avean fatta perdere la salute: più volte avea supplicato il Re, che per ristabilirsi gli desse licenza di poter tornare in Ispagna, suo suolo nativo; ed il Re finalmente aveacelo accordato; ma come si è veduto, per l'impertinenti pretensioni della Corte di Roma, fu obbligato il Re a rivocar la licenza, e comandargli che non partisse, anzi nel caso si trovasse partito, ritornasse per resisterle. Così egli debole ed infermiccio proccurava sovente con dimorare nella Torre del Greco, nel qual luogo per ciò leggiamo la data d'alcune Prammatiche, col beneficio dell'aria ristabilirsi, ma sopraggiunto nella Primavera di quest'anno 1571 da un fiero catarro, a cui essendosi accoppiata una mortal febbre, gli tolse finalmente la vita a' due d'aprile, nel sessagesimoterzo anno dell'età sua, e dodicesimo del Viceregnato di Napoli. Il suo prudente Governo era da tutti i popoli commendato, e perciò la di lui morte fu da ciascuno amaramente compianta; facendosi allora giudicio, che di Spagna non ne avesse a venire nel Regno niun simile a lui; poichè veramente dalla morte di D. Pietro di Toledo, Napoli non conobbe miglior Ministro di questo. Fu il suo cadavere con onoratissime esequie sepolto nella Chiesa della Croce di Palazzo, donde poi fu trasferito in Ispagna.

Le virtù che adornarono il suo spirito, furono veramente ammirabili. Fu celebre in lui la pietà Cristiana sopra ogni altra virtù: egli adoratore dell'Augustissimo Sagramento dell'Altare, non solamente quando si portava per le piazze agl'infermi, facevalo accompagnare con torchi accesi da tutti i Paggi della sua Corte, ma sovente incontrandovisi egli, calava dal cocchio e l'accompagnava a piedi: compassionevole e pien di carità per li poveri e per gli afflitti, mandava spesso un suo Gentiluomo di confidenza a visitar la casa di quell'infermo, ove portavasi il Viatico, affinchè vi lasciasse buona limosina, se vi conoscesse bisogno. Per la penuria de' tempi ridotti i poveri in estremo bisogno, egli agevolò alla città quella pietosa opera d'aprire l'Ospedale di S. Gennaro fuor delle mura, ove provvide di cibo a più di mille mendichi, ed aggiunse ancora dalla sua borsa molte centinaja di scudi, che servirono per mantenimento de' poveri vergognosi. Per evitare il traffico indegno che facevano le pubbliche meretrici della verginità delle loro figliuole, promosse nel 1564 quell'altra opera degna della sua pietà, che fu la fondazione della Chiesa e Conservatorio dello Spirito Santo, dove le Donzelle, rubate all'ingordigia delle madri, se vogliono rimanervi, sono comodamente nudrite, e volendosi maritare è loro somministrata conveniente dote. Rilusse ancora la pietà di questo Ministro assai più nelle brighe, ch'ebbe a sostenere con gli Ecclesiastici, dove, ancorchè fosse da questi con modi imperiosi ed impertinenti posto in pericolo di perder ogni pazienza, egli però nell'istesso tempo, che sosteneva con vigore e fortezza le ragioni e preminenze del suo Re, usò con li medesimi ogni moderazione e rispetto, e colla Sede Appostolica tutta la divozione ed osservanza.

La prudenza civile fu in lui mirabile, e sopra tutto la cura ed il pensiero ch'ebbe per la conservazione e maggior comodità e sicurezza dello Stato fu assai commendabile: egli con forti presidj munì tutte le città del Regno esposte all'insidie de' nostri implacabili nemici. Per maggior comodità e sicurezza del commercio aprì nel Regno più regie strade, e fece costruire nuovi e magnifici ponti. A lui dobbiamo la via, che da Napoli ci conduce insino a Reggio. L'altra, che ci mena in Puglia, nel Sannio e ne' confini del Regno; e quell'altra magnifica da Napoli a Pozzuoli. A lui dobbiamo i famosi Ponti della Cava, della Dovia, di Fusaro e del fiume Cranio, ovvero Lagno, chiamato comunemente Ponte a Selce, tra le città d'Aversa e Capua; il Ponte di Rialto a Castiglione di Gaeta; il Ponte di S. Andrea nel Territorio di Fondi; e tanti altri, di cui favellano le iscrizioni di tanti marmi, che risplendenti del suo nome, si osservano in varie parti del Regno. A lui finalmente dobbiamo l'avere, su la via di Roma in Portella, con termini ragguardevoli e marmorej, e con iscrizioni scolpite su' marmi, distinti e separati i confini del Regno collo Stato della Chiesa di Roma, perchè nella posterità non vi fosse, come fu già, occasione di contrasti e di litigj.

Alla sua magnificenza non meno, che alla sua vigilanza dobbiamo non pure tutto ciò, ma che nelle congiunture presentateglisi mentre presideva al nostro Governo, abbia fatto rilucere l'animo suo regale e veramente magnifico. La crudele, e da non raccontarsi, morte accaduta in Ispagna all'infelice Principe Carlo a' 24 luglio nel 1568 proccurossi con lugubri apparati e pompose esequie renderla men dura. In Ispagna ne furono celebrate superbissime, ed in Napoli il Duca d'Alcalà, ricevutone l'avviso, nel mese di settembre del medesimo anno, ne fece celebrare parimente altre non inferiori: con grande magnificenza fece innalzar gli apparati ed i mausolei nella Chiesa della Croce presso il regal Palazzo, dov'egli intervenne con la maggior parte della nobiltà e del popolo a compiangere la disgrazia di quel Principe. Non molto da poi infermatasi la Regina Isabella moglie del Re Filippo d'una febbre lenta, giunta all'età di 22 anni, e gravida di cinque mesi rese finalmente lo spirito a Madrid in ottobre del medesimo anno 1568, e fu sepolta nell'Escuriale. Il Duca d'Alcalà, avutone avviso, fece in novembre celebrare alla medesima, coll'istessa magnificenza e pompa, esequie uguali nella stessa Chiesa. E due anni dopo la costei morte, avendo il Re Filippo tolta la quarta moglie, che fu Anna d'Austria primogenita dell'Imperador Massimiliano e di Maria sua sorella, su l'avviso d'esser arrivata la Sposa in Ispagna, il Duca d'Alcalà fece celebrare in Napoli, a maggio di quell'anno 1570, solenni e magnifiche feste con pubbliche illuminazioni per tre sere continue, e con pomposi apparati. Alla sua magnificenza pur deve Napoli quell'ampio stradone, che dalla Porta Capuana conduce a Poggio Reale. Egli aprì ancora nella punta del Molo quella già bellissima fontana ornata di bianchi marmi, con quattro statue rappresentanti i quattro fiumi del Mondo, e che dicevansi volgarmente i quattro del Molo. Ed egli parimente fu quegli, che diede principio a quelle due amene e regie strade, che portano dal Ponte della Maddalena a Salerno, e dalla Porta Capuana alla volta di Capua.

Della sua giustizia abbiamo perenni monumenti nelle tante Prammatiche, che ci lasciò. Fra tutti i Vicerè che governarono il Regno, egli fu, che sopra gli altri empisse il Regno di più leggi, contandosene sino a cento. I tanti avvenimenti e strani successi accaduti al suo tempo, la corruzione del secolo, e la perduta disciplina, l'obbligarono per questa via, nel miglior modo che si potè, a riparare la dissolutezza e pravità degli uomini.

Dal 1559 primo anno del suo governo, insino a marzo del 1571, l'anno della sua morte, ne stabilì moltissime tutte sagge e prudenti, ed infra l'altre cose ripresse per quelle la rapacità de' Curiali, tassando i loro diritti: invigilò perchè la buona fede fosse tra gli artigiani, ne' traffichi, e ne' lavori di mano: fu vigilantissimo sopra l'onestà delle donne, proibendo severamente le scale notturne, imponendo pena di morte naturale a coloro, che per forza baciassero le donne, anche sotto pretesto di matrimonio: sterminò i fuorusciti: vendicò con severe pene di morte naturale i falsificatori di moneta: riordinò il Tribunal della Vicaria, ed egli fu, che impose agli Arcivescovi e Vescovi del Regno, che ordinassero a tutti i Parrocchiani e Beneficiati, che hanno cura d'anime, che dovessero formare un libro, dove giorno per giorno notassero tutti i battezzati, per sapersi la loro età e per buon governo anche dello Stato. Egli ancora riordinò le Province del Regno, e comandò, che in quelle si formassero pubblici Archivj, e diede altri provvedimenti per la politia del Regno, degni della sua saviezza e prudenza civile, contenuti nelle nostre Prammatiche, li quali per non tesserne qui lungo catalogo, possono secondo l'ordine de' tempi, ne' quali furono stabiliti, osservarsi nella Cronologia prefissa al primo tomo di quelle, secondo l'ultima edizione del 1715.

FINE DEL LIBRO TRENTESIMOTERZO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMOQUARTO

Le nozze del Re Filippo II, con la Regina Anna sua nipote, ancorchè fossero state celebrate in Ispagna con magnifica pompa e grande allegrezza, non è però che a' più savj non recassero maraviglia insieme ed indignazione: stupivano, come dice il Presidente Tuano[311], come un Re reputato cotanto saggio, senza necessità che lo stringesse, senza che da quelle avesse potuto promettersi qualche buon frutto per lo bene della pace, senza speranza di stendere il suo Imperio, e dalle quali niuno emolumento e molto d'invidia poteva ritrarne, le avesse con tutto ciò cotanto ambite e desiderate. Si scandalizzavano ancora del pessimo esempio, ch'e' diede d'aver voluto, essendo il primo fra' Principi Cristiani, prendersi con dispensazione dal Papa per moglie la figliuola d'una sua sorella. E ben l'evento 'l dimostrò, poichè quest'esempio, che cominciò da lui, si vide poi nella sua famiglia ripetuto nel 1580 da Ferdinando d'Austria, figliuolo dell'Imperador Ferdinando, il quale prese per moglie Anna Caterina, figliuola di Guglielmo Duca di Mantua e d'Elionora sua sorella[312]; ma ciò che portò in appresso maggiore scandalo, si fu, che da poi quest'istesso si vide esteso nella Nobiltà, e dalla Nobiltà infine arrivato, non senza indignazione de' buoni, insino alla plebe[313]. Ma che che ne sia, da questo matrimonio, il quale fu dopo diece anni disciolto per la morte della Regina, nacque il Re Filippo III, che gli fu successore al Regno; poichè se bene quattro figliuoli avesse da lei generati; due, cioè, Ermando e Giovanna, ancor infanti, premorirono alla madre, e l'altro D. Diego ancorchè sopravvivesse a lei, morì non molto da poi nell'età d'otto anni, rimanendo in vita sol Filippo, che gli fu erede.

Intanto per la morte del Duca d'Alcalà, avea preso, secondo il costume, il governo del Regno il Consiglio Collaterale, al quale presedeva allora il Marchese di Trivico; ma lo tenne pochi giorni, poichè giunta la novella della morte al Cardinal di Granvela, che si trovava in Roma, questi per la facoltà, che ne teneva dal Re, portossi subito in Napoli. Per gli avvisi continui, che teneva il Re Filippo dell'infermità del Duca, e che poca speranza poteva, a lungo andare, aversi di sua salute, faceva trattenere il Granvela in Roma con ordine, che seguendo la di lui morte, tosto si portasse in Napoli al governo di quel Regno, siccome sollecitamente eseguì; onde giunto a' 19 aprile di quest'anno 1571, fu ricevuto nel Molo con la solita pompa del Ponte, e con molta espettazione, come d'uomo assai rinomato per saviezza e prudenza; il cui governo saremo ora a raccontare.

CAPITOLO I. Del Governo di D. Antonio Perenotto Cardinal di Granvela, e de' più segnalati successi de' suoi tempi: sua partita, e leggi che ci lasciò.

Questo Ministro, di cui altrove abbiam ragionato sotto il nome del Vescovo d'Arras, fu figliuolo di Niccolò Perenotto Signor di Granvela, Borgognone di nascimento, e primo Consigliero dell'Imperador Carlo V. Nella sua giovinezza essendosi dato allo studio delle scienze, riuscì in quelle assai rinomato: onde col favore dell'Imperador Carlo V, per la sua letteratura, e per li meriti del padre, fu fatto Vescovo d'Arras nel Paese d'Artois. Per la sua grande attività e saviezza fu poi impiegato nell'Ambasciarie d'Inghilterra e di Francia; ed entrò in tanta grazia e stima di Cesare, che quando rinunziò al Re Filippo suo figliuolo la Corona, gli diede per guida questo Prelato, per la buona condotta del suo Regno. Fatto poi Cardinale, ed Arcivescovo di Malines, ebbe il peso degli affari più gravi de' Paesi Bassi sotto il governo della Duchessa di Parma sorella naturale del Re; ma entrato in odio di que' Popoli, i quali mal soffrivano il suo rigore, che non ben conveniva usare in que' tempi cotanto difficili, riputò bene il Re Filippo richiamarlo in Ispagna alla sua Corte. Quivi per la grande capacità che avea delle cose di Stato, fu impiegato nei negozj più gravi e rilevanti della Monarchia. Passò poi in Roma, dove, come s'è detto, era dal Re trattenuto, affinchè, poco sperandosi della salute del Duca d'Alcalà, potesse passar subito, come fece, al governo del Regno.

Niuna altra più tormentosa cura agitava in questi tempi l'animo di questo Vicerè e de' Napoletani, quanto i continui timori per le scorrerie del Turco: onde per prevenirle, bisognava rivolgervi ogni studio ed ogni pensiero. Non vi erano più sospetti di spedizioni d'altri Principi: molto meno dalla Francia, cotanto allora occupata nei suoi proprj mali e rivoluzioni. Non si temevano moti interni, e le Province libere da' fuorusciti, erano tutte tranquille e pacate: solo tenevano in agitazione le minacce e le frequenti sorprese, che nelle nostre marine facevano i Turchi implacabili e fieri nostri nemici.

Si aggiungeva ancora un altro fastidioso pensiero: il Re Filippo, oltre la guerra, che per difesa de' suoi Stati d'Italia era obbligato mantenere col Turco, si vide in questi tempi per una condotta molto rigida e boriosa de' suoi Ministri intrigato in un'altra guerra non meno fiera e crudele, che dispendiosa ne' Paesi Bassi, ove per sostenerla, non v'era denaro, che bastasse. La Spagna cominciava a perdere le sue forze, e tuttavia s'andava desolando per li tanti Presidj, che nelle proprie Città ed altrove manteneva, come nella Sicilia, nel nostro Regno, nel Ducato di Milano e sopra tutto in Fiandra, dove, oltre i Presidj, dovea mantenere numerosi eserciti armati. Vedevasi desolata ancora ed esausta per le tante Colonie, che si mandavano nell'Indie: per la poca attitudine degli Spagnuoli di proccurare ne' loro Porti traffico e commercio, e molto meno nelle sue città mediterranee: per la minor cura, che i suoi naturali prendevansi dell'agricoltura, tanto che i loro terreni, ancorchè ampi e feraci, e per la rarità de' coloni, e per la poca inclinazione che vi aveano, non erano coltivati abbastanza. Da ciò nasceva un'estrema penuria di denaro, e la mancanza delle forze per supplire a tante spese. Per queste cagioni il Re Filippo, dovendo sostenere il peso di tanta guerra, cominciò a dar di mano a' fondi del suo regal patrimonio, a vendere le gabelle, ad impegnare le dogane e tutti gli altri emolumenti delle supreme sue regalie agli Italiani, ed in particolare a' Genovesi, ai quali, per l'impronti fattigli di rilevantissime somme, pagava grossissime usure[314]. Quindi per soddisfare anche a' creditori cominciarono le distrazioni delle città e terre de' Regni di Sicilia e di Napoli, e ad esporsi venali gli onori ed i titoli di Contado, di Marchesato, di Ducato, insino a quello di Principato, proccurando con questi nomi senza soggetto, e con queste vane apparenze, niente dando di fermo e di stabile, nel miglior modo che poteva quietare i creditori, dando ombre ed onori, in vece di denari.

Si aggiungeva, che gli Spagnuoli per sostenere le guerre che il Re Filippo teneva accese fuori della Spagna, in Fiandra ed in Italia, non permettavano, che uscisse fuori di Spagna un soldo, nè contribuivano a cosa veruna, ma solo contribuivano alle spese, che bisognavano per difesa de' loro proprj confini. Le miniere, e le fodine dell'Indie erano quasi che esauste e mancate per loro avarizia, e molto più per non sapersene ben servire. Dalla Fiandra non vi era che sperare, ardendo ella d'una crudele e fiera guerra, e posta in iscompiglio, impedito ogni commercio, appena le forze di quelle province bastavano agli stipendj dei soldati, che ivi militavano. A tutto ciò s'aggiunse alcuni anni da poi la guerra di Portogallo, per la quale pure il nostro Reame fu costretto far donativi, ed il Re a proseguire vie più che mai le alienazioni del suo regal demanio, e gli emolumenti delle supreme sue regalie.

Il Regno di Napoli per ciò era sopra tutti gli altri riserbato per supplire a tante spese: quindi le premure e continue dimande di donativi e tasse: quindi in decorso di tempo si venne a tale estremità, che vendute le gabelle, impegnati i dazj, le dogane, e tutto, al Re poco rimanesse: onde avvenne, che dovendosi all'incontro supplire a' pesi, che porta seco la conservazione del Regno, s'imponessero nuovi pesi e gabelle, e che i nostri Cittadini si comprassero le proprie catene da non potersene mai prosciogliere: che si fossero le Signorie e' Feudi e' Titoli posti in ludibrio e conceduti non per merito di virtù, ma per denaro; e che ne nascessero in fine que' tanti mali e disordini, che si noteranno ne' seguenti libri di quest'Istoria.

Fra le principali cure adunque che angustiavano i nostri Vicerè, non era meno di quella del Turco, considerabile questa, vedendosi spesso premuti dalle pressanti richieste del Re di proccurar da questo Reame denari per sostenere le tante guerre. Nè erano agitati meno dalle fastidiose cure, che gli Ecclesiastici lor davano per le sorprese, che si tentavano sopra la Giurisdizione del Re e sue regali Preminenze.

Il Cardinal di Granvela intanto venuto al governo di questo Regno, per quanto la sua condizione e quella di questi tempi comportavano, non trascurò in tutte e tre queste occorrenze d'impiegarvi tutti i suoi talenti e tutto il suo vigore e prudenza.

La potenza Ottomana in questi tempi erasi resa formidabile e tremenda, non meno a' Principi vicini, che a' remoti, e l'Italia era in pericolo di cadere nella sua virtù; quindi i più gran sensati politici, e coloro, che più a dentro penetravano le forze di sì potente nemico, e l'estensione smisurata del suo Imperio, non tralasciavano esclamare co' Principi Cristiani per scuoterli dal lungo sonno, e facendo lor vedere così da presso i loro pericoli, gl'incoraggiavano ad una gloriosa unione per reprimere tanta potenza. Infra gli altri leggiamo tra le opere di Scipione Ammirato[315] un lungo discorso drizzato a' Principi della Cristianità, dove gli fa tutto ciò vedere, animando loro alla lega. Ma niuno fu di ciò più zelante e caldo del Pontefice Pio V, il quale dopo varie Legazioni, conchiuse quella famosa Lega, della quale fu eletto Generalissimo D. Giovanni d'Austria figliuol naturale dell'Imperador Carlo V, il quale, ancorchè giovane di ventun'anno, avea però dato gran saggio del suo valore contra i Mori nel Regno di Granata.

Giunse questo Principe in Napoli a' 9 d'agosto di quest'anno 1571 dove dal Cardinal di Granvela fu ricevuto con molti segni di stima, e da' Napoletani con quegli onori, che ad un tanto personaggio si convenivano. S'unirono alla sua armata le Galee di Sicilia e di Napoli, ed oltre molti Signori spagnuoli, vollero seguirlo in così celebre espedizione i primi Baroni e molti Nobili della città e del Regno. I Turchi dall'altra parte scorrevano con una potentissima armata l'Arcipelago, e dopo avere saccheggiate le città di Budua, Dolcigno, ed Antivari, erano passati sino a vista di Cattaro. Perchè dunque non s'inoltrassero maggiormente in quel Golfo, sollecitando il Pontefice ed i Vineziani l'unione dell'Armata, partì D. Giovanni da Napoli nel vigesimo giorno d'agosto, e giunse a' 24 a Messina, dove trovò le Galee del Papa e de' Vineziani, alcune dei Genovesi e tre de Maltesi, ed altrettante di Savoia. S'intese poco da poi la perdita di Famagosta; onde fu determinato, senza perder più tempo, di combattere coll'inimico; ciocch'essendosi parimente risoluto da' Turchi, si posero con questo proposito le due Armate alla vela, senza che l'una sapesse il pensiero dell'altra. Così andavansi scambievolmente rintracciando, fin che il settimo giorno di ottobre furono a vista, e s'incontrarono, mentre i Cattolici uscivano dagli scogli de' Curzolari, ed i Turchi dalla punta delle Peschiere, che i Greci chiamano Metologni. Vennero le due Armate con uguale ardire al cimento, e dopo un ostinato combattimento riuscì a' nostri disfare l'armata nemica, con inestimabile loro perdita e scorno. Questa fu quella famosa vittoria che accaduta nella prima Domenica d'ottobre, nella quale i Frati Domenicani solevano con processioni celebrar il Rosario, diede occasione al Pontefice Pio dello stesso Ordine ed a Gregorio suo successore, in memoria di così gloriosa giornata, d'istituire per tutto l'Orbe Cattolico una festa solenne del Rosario, da celebrarsi ogni anno in quel dì: la quale vediamo mantenuta sino a' tempi nostri con molto maggior pompa ed apparato; e fu ancora occasione d'essersi eretti poi in Napoli Tempj ed Ospedali sotto il titolo di S. Maria della Vittoria.

La sconfitta fu considerabile, poichè oltre la prigionia del Bassà e degli altri Generali di conto, di un'Armata di poco meno di trecento vele, appena ne scamparono quaranta, ne rimasero più di cento affondate, ed altrettante in potere de' vincitori. D. Giovanni fece ritorno in Italia, ed entrato trionfando in Messina, quivi si trattenne, proseguendo gli altri Capitani il lor cammino verso Napoli, dove a' 18 del seguente mese di Novembre approdarono, conducendo prigioni Maometto Sangiacco di Negroponte, con due figliuoli d'Ali Capitan Generale del Mare, rimaso estinto nella battaglia. Il Bassà col minore de' due fratelli, giacchè l'altro morì in Napoli di cordoglio, furono condotti in Roma al Pontefice, e rinchiusi nel Castel di S. Angelo, furono sempre cortesemente trattati.

L'anno che seguì 1572 non fu cotanto prospero al Collegati, siccome ognuno si prometteva da questa vittoria; i sospetti, che s'aveano, di potersi accendere una nuova guerra colla Francia per le rivoluzioni di Fiandra, non permisero al Re Filippo ed al suo Capitano D. Giovanni di soccorrer tanto a' Collegati, quanto sarebbe convenuto. S'aggiunse ancora la perdita del Pontefice Pio, il quale nel primo di maggio di quest'anno trapassò[316]. Successegli nel Pontificato Ugo Boncompagno, detto Gregorio XIII, il quale se bene avesse non minor desiderio del suo predecessore per la continuazion della Lega, con tutto ciò, e per esser nuovo all'impresa, e perchè i Turchi sfuggivano ogni incontro di combattere, si passò l'anno senza far que' progressi, che si credevano.

Intanto per la morte del Pontefice Pio, essendo convenuto al Granvela portarsi in Roma al Conclave, rimase D. Diego Simanca Vescovo di Badajos per Luogotenente nel Regno; ma pochi giorni durò la sua amministrazione, per ciò che, seguita a' 13 di maggio l'elezione del nuovo Pontefice Gregorio, ritornò il Cardinale in Napoli a' 19 del medesimo mese, ed a ripigliarne il governo, insieme con le fastidiose cure: poichè appena giunto, fu duopo spedire a Messina la squadra delle Galee del Regno con gli Spagnuoli della guarnigione di Napoli e cinquemila Italiani comandati da D. Orazio Acquaviva figliuolo del Duca d'Atri per opporsi a' Turchi. S'avviarono parimente da Napoli molti nobili venturieri di diverse Nazioni, frai quali ve ne furono settanta Napoletani sotto il comando del Duca d'Atri lor Generale. Intanto avanzandosi la stagione, e fatti certi i nostri della resoluzione de' nemici di non combattere, D. Giovanni d'Austria, nel mese di novembre di quest'anno ritornò in Napoli, dove in quell'inverno fu trattenuto in continue feste e giuochi di tornei, giostre e barriere; sinchè approssimandosi la primavera del nuovo anno non convenne pensare agli apparecchi d'una nuova espedizione.

Mentre D. Giovanni col Cardinal di Granvela erano, in questo nuovo anno 1573, tutti intesi di fornire l'armata del bisognevole per continuar l'impresa in Levante, s'intese che per la mediazione del Re di Francia, i Vineziani aveano conchiusa la pace col Turco, con vergognose condizioni: ciò che recò sommo rammarico al Pontefice Gregorio e non picciola gelosia al Re Filippo, il quale vedendo che gli Ottomani s'affaticavano non poco per far cadere la Corona di Polonia sopra la testa del Duca d'Angiò, fratello del Re di Francia, dubitava non i Vineziani e' Franzesi si collegassero contra di lui. I Vineziani, per iscusare co' Collegati il fatto, mandarono suoi Ambasciadori al Pontefice ed al Re Filippo rappresentando loro la necessità, che gli avea costretti alla pace.[317].

Il Re, pubblicata che fu quella pace, non volendo tener oziose le sue arme, tosto si rivolse alle cose d Affrica, cotanto alla Spagna unite; onde comandò a D. Giovanni d'Austria di far l'impresa di Tunisi. Partissi questo Principe da Napoli colla sua armata verso Messina, dove in due giorni approdò: indi proseguendo il suo cammino giunse alla Goletta; quivi posti a terra i suoi soldati per cammin dritto s'avviò verso Tunisi, della qual città (essendo sfornita di presidio) si rese tosto padrone senza combattere; ma non per questo la risparmiò dal sacco, che vi diedero i suoi soldati; ed avendo disegnato di costruire ivi una nuova Fortezza, come fece, vi lasciò con titolo di Vicerè Maometto figliuolo d'Assano, fratello d'Amida e fece prigioniero Amida, meritamente sospetto agli Spagnuoli e più sospetto a' Turchi, e mal veduto da' Tunesini, per avere con grande scelleratezza ammazzato Assane suo padre. Mandò in Palermo prigioniero Amida con due suoi figliuoli, il quale, per via, avendo inteso, che Maometto suo fratello cotanto da lui odiato, era stato lasciato per vicerè di quel Regno, venne in tanta rabbia, che se non era impedito da Amida suo figliuolo voleva, dalla Galea, che lo portava, buttarsi in mare. Intanto, per maggiormente porre in sicurezza quel Regno, Biserta fu anche presa; ed avanzandosi la stagione, essendosi approssimato l'inverno, D. Giovanni tornò in Sicilia, donde si restituì a Napoli, dove fece condurre Amida co' suoi figliuoli, che fece porre nel Cartello di S. Ermo sotto sicura custodia. Narra il Presidente Tuano[318], che nel seguente anno 1574 essendosi egli accompagnato con Paolo de Foix, mandato in Italia a render le grazie a' Vineziani, al Papa ed agli altri Principi d'Italia, che aveano mandato loro Ambasciadori in Francia a congratularsi col Re del nuovo Principato di Polonia di suo fratello, dopo avere scorse le città più cospicue d'Italia, venne anche in Napoli, dove giunto, ebbe vaghezza di vedere questo Amida co' suoi figliuoli. Fu da quel Castellano cortesemente introdotto, e vide esser un uomo molto vecchio, e siccome dell'aspetto potè egli conghietturare, s'accostava agli ottanta anni, ed avendo al Castellano con molta curiosità dimandato de' costumi di colui, gli disse, che ancorchè fosse così vecchio, non perciò s'asteneva ogni notte di dormire con una Mora sua concubina. Di que' due suoi figliuoli amava il più brutto, ch'era anche zoppo, ritenendolo sempre seco nella sua camera, odiava l'altro, ancorchè molto avvenente e spiritoso, al quale, entrato per ciò in somma grazia degli Spagnuoli, se gli permetteva andar libero per la città, cavalcare ed armeggiare: e se le cose non si fossero da poi mutate, era stato disegnato successore di Maometto suo zio nel Viceregnato di Tunisi, che si credeva poter lungamente durare sotto la Monarchia di Filippo.

Ma tosto andar vote sì belle speranze; poichè nell'istesso tempo che per lo ritorno di D. Giovanni e per la nascita del primogenito del Re Ernando, si facevan celebrare in Napoli dal Cardinal di Granvela pompose feste, con giuochi di Tori, di Caroselli e di Lancie, s'intese, che i Turchi scorrendo vie più formidabili i nostri mari, s'erano avvicinati al Capo di Otranto, ed aveano saccheggiata la picciola città di Castro; ed in questo nuovo anno 1574 avendo discacciati i nostri da Tunisi, s'eran impadroniti di quel Regno; poichè a' 23 agosto di quest'anno, caduta in lor mani la Goletta, presero la città di Tunisi con la Fortezza quivi innalzata da D. Giovanni, la quale fu da' medesimi superata a' 13 di settembre colla prigionia di Pietro Portocarrero e di Gabriele Sorbellone; e demolirono tosto amendue queste Piazze da' fondamenti, per torre a nostri la speranza di riacquistarle. Ed ecco il fine di tanti travagli sostenuti per questo Regno di Tunisi, che conquistato da Carlo V, e mantenuto con tante spese e travagli per lo spazio di quarant'anni dal Re Filippo suo figliuolo, finalmente si perdè senza speranza di poterlo più riacquistare.

Queste fastidiose cure resero il governo del Cardinal di Granvela assai travaglioso; poichè a riparare i mali, che da sì potente nemico si temevano, bisognò usare tutta la sua vigilanza e providenza. Egli fu il primo, che pose in effetto nel Regno la nuova milizia detta del Battaglione, istituita dal Duca d'Alcalà suo predecessore; era quella composta di soldati che a proporzione de' fuochi eran tenute l'Università del Regno somministrare: non aveano soldo in tempo di pace, ma solo alcune franchigie, ed in occasione di guerra tiravano le paghe, come tutti gli altri: il lor numero era considerabile, arrivando a venticinque e talora a trentamila persone: aveano i loro Capitani, ed altri Ufficiali minori: ma ora di questa milizia appena sono a noi rimasi vestigi. Non abbiamo più soldati, tutti siamo pagani, e la milizia è ora ristretta negli stranieri, che ci governano: in mano di costoro sono le armi, ed a noi solamente è rimasa la gloria d'ubbidire.

Per somministrar le spese a tanti bisogni era duopo che da dovero vi si pensasse: premeva il Re al Cardinale, e lo richiedeva spesso di sovvenzioni e donativi. Il Vicerè per adescar i popoli, e trovar modo di ricavarli dal Regno senza molta lor difficoltà e ripugnanza, fece dar prima esecuzione a tutte le grazie e privilegi, che nell'anno 1570 furono dal Re Filippo conceduti alla città ed al Regno. Poi avvalorato dalla presenza di D. Giovanni d'Austria, avendo insinuato a' Baroni il bisogno della guerra, che da dura necessità costretti era d'uopo sostenere contra un sì formidabile nemico, che minacciava porre in servitù il Regno, fece nel primo di novembre del 1572 convocare in S. Lorenzo un general Parlamento, nel quale intervenne per Sindico Cesare di Gennaro Nobile di Porto, e si fece un donativo al Re d'un milione e centomila ducati[319]. Avutosi da poi l'avviso della perdita di Tunisi e sue Fortezze, di nuovo per soccorrere il Re, fu unito nel 1574 un altro Parlamento, ove fu Sindico Gianluigi Carmignano Nobile di Montagna, e si donò al Re un altro milione e ducentomila ducati. Fu fama, che D. Giovanni pretendendo anche per se un particolar dono dalla città, il Cardinale commiserando la strettezza de' Napoletani, avesse destramente impedito, che non gli si fosse fatto, e che per ciò nascessero fra loro que' disgusti, che partorirono la chiamata del Cardinale in Ispagna, come diremo. Cotanto afflissero queste spedizioni di Tunisi e queste guerre contra i Turchi i Napoletani. Narra il Summonte Scrittor contemporaneo a questi successi, che per mantenere la Fortezza della Goletta costava a Napoli prezzo di sangue; poichè ogni volta, che in questa città era penuria di qualsivoglia sorte di roba tutta la colpa si attribuiva al mantenimento di questa Fortezza, e per ciò, se s'alzava il prezzo de' grani, se incariva il vino, se non si trovavano salami, l'olio si pagava a caro prezzo, tutto si diceva avvenire, per essersi fornita la Goletta, e così di tutte le altre cose del vitto umano, e per insino a' carboni incarivano, tal che pareva, che questa Fortezza inghiottisse ogni cosa; poichè per ingordigia de' Ministri tiranni, tutte le cose si mandavano fuori di questa città, sotto pretesto di servire alla Goletta, ma poi altrove si portavano.

Ebbe in fine il Cardinal di Granvela, come successore d'Alcalà, a sostenere anch'egli ed opporsi all'intraprese della Corte di Roma sopra la giurisdizione e preminenze del Re. Proseguiva ella con tenore costante le sue imprese, e come l'esperienza ha sempre mostrato, che morto un Pontefice, l'altro successore entra nel medesimo impegno, e forse con maggior emulazione del suo antecessore, così morto Pio V, Gregorio, che gli successe, seguitando le medesimo pedate, non mancò d'imitarlo; ma in ciò fu commendabile la costanza del Vicerè Granvela, il quale ancorchè Cardinale, seppe resistergli con vigore. In tutti gli altri punti giurisdizionali di sopra rapportati fu imitatore d'Alcalà, ma in quello de' casi misti, per un'occasione che gli si presentò, si distinse sopra di costui assai più. Il Sacrilegio vien riputato dagli Ecclesiastici un delitto di misto Foro, e che perciò debba darsi luogo alla prevenzione: accadde che un ladro, dopo aver commesso un furto nel Duomo di Napoli d'alcune sagre suppellettili, riuscitogli felicemente questa volta, volle provarsi la seconda nella Chiesa di S. Lorenzo; ma i Frati di quel Convento, coltolo in sul fatto, dopo averlo arrestato, e ben concio di bastonate, lo diedero nelle mani de' Bargelli dell'Arcivescovo, allora Mario Caraffa, il quale postolo nelle sue carceri pretendeva, ancorchè il ladro fosse laico, di conoscere egli del delitto per aver prevenuto. Il Granvela fece richiedere più volte all'Arcivescovo ed al suo Vicario, che rimettessero il ladro nelle mani de' Giudici Regj, a' quali s'apparteneva la cognizione di quel delitto; ma riuscivano inutili queste richieste, onde ostinandosi l'Arcivescovo a non consignarlo, fu costretto il Vicerè a mandare l'Avvocato Fiscale Pansa con famiglia armata a rompere le carceri dell'Arcivescovado, ed a prendersi il ladro. L'Arcivescovo fece scomunicar dal Vicario tutti coloro, che aveano avuta parte nell'accennata esecuzione, i mandanti, i consenzienti e tutti coloro, che erano intervenuti in quell'atto, facendo affiggere i Cedoloni per li luoghi pubblici della città. Ma gli fu risposto dal Cardinale con maggior giunta, perchè fece imprima covrire di carta e d'inchiostro i cedoloni: fece sbrigar subito la causa del ladro, e lo fece appiccare a' 10 marzo del 1573 nella piazza di S. Lorenzo: ordinò, che il Vicario fra 24 ore uscisse fuori di Napoli, e continuando il suo cammino fosse uscito dal Regno, e non ritornasse in quello fin ad altro ordine suo o del Re, come fu tosto eseguito: si fecero imprigionar i Cursori, che aveano affissi i Cedoloni; i Consultori e l'Avvocato di quella Arcivescoval Corte, i Mastrodatti ed il Cancelliere, tutti laici, furono parimente carcerati; ed in fine furono sequestrate all'Arcivescovo tutte le sue entrate, anche le patrimoniali. Ciò eseguito, ne fece il Cardinale con sua Consulta de' 25 dell'istesso mese di marzo distinta relazione al Re Filippo, il quale a' 13 luglio del medesimo anno gli rispose, non solo approvando, quanto egli avea per la conservazione della sua chiara giustizia adoperato, ma gli incaricò, che per l'avvenire mirasse sempre, che la sua regal giurisdizione fosse mantenuta in modo, che per niuna via o causa fosse pregiudicata, e che colla sua destrezza e prudenza si governasse in modo di non permettere che niuno de' Reggenti, nè i suoi Ufficiali, pretesi scomunicati per quella causa, andassero in Roma per l'assoluzione, conforme avea preteso il Pontefice passato con quelli del Senato di Milano. Parimente l'istesso dì scrisse a D. Giovanni di Zunica suo Ambasciadore in Roma, il quale avealo ancora ragguagliato di questo successo, dicendogli, che passasse col Pontefice con vigore gli uffici, che si convenivano alla qualità dell'affare; e quando si dovesse cedere al punto dell'assoluzione, si contentasse sì bene, che i censurati si assolvessero, ma che non si pensasse di dovere per ciò andare in Roma alcuno de' Reggenti di Napoli e suoi Ufficiali; poichè questo sarebbe diroccare dal suolo l'autorità de' suoi Ministri[320].

Il Pontefice Gregorio, dall'altra parte, fece dal suo Nunzio residente in Napoli passare col Cardinale aspre doglianze miste di minacce, ma per la mediazione dell'Ambasciadore Zunica, e per la opera d'altri personaggi di autorità, e sopra d'ogni altro del Presidente del S. C. Giovan Andrea di Curte, Ministro di grande efficacia e prudenza, fur sedati gli animi, e trovato questo temperamento: che tutti coloro, ch'erano stati scomunicati per tal cagione, fossero privatamente assoluti nella camera del Tesoro, ed in cotal guisa questo affare terminossi.

Dopo avere così bene adempito il Cardinal di Granvela le sue parti nel governo di questo Reame, e sperandosene da lui ora, che le cose erano alquanto in riposo, un migliore, per la sua integrità e prudenza civile, fu a noi involato per un ordine del Re Filippo, che lo richiamò in Ispagna alla sua Corte a più supremi onori, avendolo creato suo Consigliere di Stato e Presidente del supremo Consiglio d'Italia. Fu fama, che avesse D. Giovanni d'Austria, per le cagioni di sopra rapportate, proccurata la sua remozione, per farvi in suo luogo sostituire il Duca di Sessa: ma il Re tolse sì bene a sua richiesta il Granvela dal Regno, ma ingelosito dell'autorità di D Giovanni, per lo supremo comando che avea dell'armata, in vece di mandarvi suoi partigiani, vi spedì il Marchese di Mondejar, che era di D. Giovanni poco amorevole. Partì il Cardinale da Napoli nel principio di luglio di quest'anno 1575, avendo governato il Regno pochi mesi più di quattro anni. Ci lasciò 40 Prammatiche tutte sagge e prudenti, che rendono sempre ragguardevole la memoria de' suoi talenti. Egli severamente proibì qualunque sorte d'asportazion d'armi corte: comandò, che gli atti tra vivi, come delle ultime volontà non potessero stipularsi, che da Notari Regj: impose rigoroso secreto a' Ministri; ed ordinò, che niun portiere, trombetta o servidore di Palazzo, o di qualunque altro ministro andasse per la città cercando mancie, imponendogli pena di quattro tratti di corda: proibì a Ministri di dimandare, nè per suoi congiunti, nè per altri, beneficj o prebende Ecclesiastiche, nè ufficj da' Baroni, senza espressa licenza del Vicerè. Vietò alle persone Ecclesiastiche, ancorchè fossero Cavalieri Gerosolimitani, di potere esercitare in Napoli e nel Regno Ufficj Regj o Baronali: che niuna persona potesse giocarsi più di diece ducati in un giorno; proibì tutte le sorte di contratti usurari, e diede altre leggi salutari, le quali secondo l'ordine de' tempi possono con facilità osservarsi nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO II. Di D. Innico Lopez Urtado di Mendozza Marchese di Mondejar; sua infelice condotta, e leggi che ci lasciò.

Il Marchese di Mondejar giunto appena in Napoli ne' 10 di luglio di quest'anno 1575, non avendo fatto buono scrutinio di coloro che offerendogli il loro ajuto e consiglio nell'amministrazione del Regno, s'introdussero in sua grazia, fece tosto comprendere, che il suo governo dovea riuscire pur troppo diverso da quello prudente e saggio del suo predecessore; poichè non tardò guari, che per insinuazione di quei che l'adulavano, rivocò molte belle ordinazioni fatte dal Cardinal di Granvela, già divenuto nella Corte Presidente del Consiglio d'Italia: imprudentissima condotta, poichè costui offesosi di queste riforme, per l'affetto, che ciascun suol portare a parti del proprio ingegno, divenne un vigilante fiscale di tutte le sue azioni. Accortosi però egli di questo gravissimo errore volle ripararlo; ma vi applicò un rimedio, che riuscigli più pernizioso del primo malore. Era in que' tempi nella Corte per Reggente provinciale di questo Regno Scipione Cutinari, originario d'Aversa, uomo, ancorchè dotato di buone lettere, assai vafro però ed ambizioso: costui, corrotto dal Marchese, avvisava al medesimo i più secreti trattati, che passavano in quel Consiglio, e quanto usciva dalla bocca del Cardinale contro alla sua persona; in premio di ciò aveane dal Vicerè estorta una relazione falsa, diretta a S. Maestà, della sua favolosa e vantata nobiltà; in vigor della quale ottenne dal Re molte grazie e prerogative ed in particolare la facoltà d'eleggersi uno de' cinque Seggi per goderne gli onori. Ma ciò non gli servì ad altro che per far scovrire al Consiglio ed al Re l'impostura; poichè avendosi egli eletto il Seggio di Nido, ed il Vicerè, ripugnando tutti que' Nobili, impiegando la sua forza a farlo ricevere, diede a costoro occasione di spedire in Madrid persona, che facesse conoscere le favolose genealogie contenute nella relazione del Vicerè. Il Cardinal Granvela favorì la missione, ed informatone pienamente il Re rimase stomacato non meno dell'inganno, che del Vicerè, onde rivocò il privilegio, comandò, che il Reggente fosse rinchiuso in un carcere, dove indi a poco si morì, e che il fratello si ritenesse nel Castel Nuovo, donde uscito dopo molti anni di angustie, esiliato dalla città, finì i suoi giorni nella Torre del Greco.

Ma oltre a ciò la poca corrispondenza, che il Mondejar passava con D. Giovanni d'Austria, diede più certi presagi d'un infelice e non molto lungo governo. Trattenevasi per anche D. Giovanni in Napoli in giuochi e tornei, e come a colui, che avea il supremo comando dell'armata, erangli da' Napoletani resi i primi onori; tal che la luce del Vicerè da un più grande splendore veniva quasi ad oscurarsi: ciò che il Marchese mal potendo simulare e peggio soffrire, vennero fra di loro in maggiori urti e disgusti, i quali giunsero a tale estremità, che D. Giovanni non ebbe riparo in presenza di molti Nobili in un certo incontro di chiamarlo mancator di parola; avendo voluto il Vicerè rispondergli, che di tanta baldanza ne avrebbe egli dato avviso a Sua Maestà, gli corse D. Giovanni dietro, cavando fuori il pugnale per offenderlo; come sarebbe senza fallo accaduto se dagli astanti con preghiere e scongiuri non fosse stato raddolcito.

Questi incontri infelici e queste inimicizie, che vi erano tra lui col Cardinal Granvela Presidente del Consiglio d'Italia e con D. Giovanni d'Austria, seco portarono, che di tutto ciò, che di avventuroso accadde in tempo del suo governo, fosse imputato non già alla sua vigilanza, ma, o alla fortuna o all'accortezza e valore altrui, o, quando tutto mancasse, a miracolo. Ciò si conobbe chiaro in due occorrenze. Quest'anno del Giubileo 1575, per la gran frequenza di stranieri, che da tutte le parti concorrevano in Roma, s'introdusse in Italia una pestilenza così fiera, che dopo quella, che nell'anno 1528 in tempo della spedizione di Lautrech afflisse cotanto Napoli, non s'era veduta maggiore. Da Trento, ove cominciossi prima a sentire, passò il contagio a Verona, indi a Venezia, e finalmente si diffuse per tutto insino a Sicilia. I più famosi Medici di que' tempi, come Andrea Graziolo Salonense, Alessandro Canobio Scrittore della peste di Padova ed Antonio Gliscens di Brescia, riputarono, non già dalla positura delle stelle o dalla malignità dell'aria o dal concorso de' forestieri venuti in quell'occasione in Italia, essere cagionato il male, ma nato nelle città istesse dalle immondizie e sordidezze delle private case. Che che ne sia, Trento rimase quasi desolato, Verona con pochi abitatori, ed in Venezia, nel seguente anno 1576, fece stragi cotanto crudeli e lagrimevoli, che per tutto quell'anno, si conta, avesse in quella città consumati più di settantamila uomini. Di tanto esterminio ne furono incolpati quei due celebri Medici Girolamo Mercuriale da Forlì e Girolamo Capovacca da Padova, i quali richiesti dal Senato della loro opera e parere, riputando il morbo non pestilenziale, ma che potesse curarsi, fecero, che gli appestati non si portassero più, come erasi cominciato, fuori della città in un luogo separato, ma si ritenessero, esponendosi essi (siccome dal loro esempio fecero gli altri Medici e Cerusici di quella città) alla lor cura[321]. Ma il male crebbe in guisa, che attaccandosi più furiosamente, in breve spazio uccise non pur gli ammalati, ma cinquantotto fra Medici e Cerusici destinati alla lor cura. Non curarono il Mercuriale e 'l Capovacca il proprio pericolo, ed intrepidamente per qualche tempo infra gli appestati proseguirono la cura: ma a lungo andare, dimandata licenza dal Senato, scapparono via. In Milano, Cremona e Pavia si rese per ciò commendabile la pietà e vigilanza de' Cardinali Carlo Borromeo, Niccolò Sfondrato ed Ippolito Rosso Vescovi di quelle città, i quali con grande zelo e intrepidezza visitavano gl'infermi, e davan loro soccorsi. Lo stesso, ad imitazione del Borromeo, fece in Verona Agostino Valerio Vescovo di quella città, la quale non men, che Padova era miseramente travagliata ed afflitta. Si diffuse il male insino a Sicilia, ed in Messina fece strage sì crudele, desolandola in guisa, che si fece il conto esserne estinti più di quarantamila suoi Cittadini. Già la vicina Calabria cominciava a contaminarsi, e per lo continuo traffico tutte le altre nostre province erano in pericolo. Rilusse per ciò la provvidenza del Marchese di Mondejar, il quale con severissimi editti proibì l'entrata nel Regno a ciascuno, che veniva da luogo non sano: fece chiudere le porte della città, nè si permetteva far entrar alcuno, senza le necessarie fedi di sanità del luogo donde veniva: usò rigore estremo, anche ne' più leggieri sospetti: fece bruciare in Napoli molte balle di cotone venute di fuori, e dentro il Porto fece ardere una barca venuta di Calabria, ancorchè carica di balle di seta, senza riguardo dei gravissimi danni, che si recava per ciò a' Mercatanti. Tanto che Napoli ed il Regno restò libero ed immune da sì spaventoso male, che in Italia non s'estinse affatto, se non nel seguente anno 1577. Ma tutto ciò fu imputato, non già alla provvidenza del Vicerè, ma parte a' provvedimenti dati dalla città, e molto più all'intercessione di San Gennaro e degli altri Santi suoi Protettori[322].

Parimente Amuratte Imperador de' Turchi, proseguendo l'istituto de' suoi antecessori non tralasciava di fare scorrere la sua armata ne' nostri mari; il suo famoso Comandante Uluziali cominciò in quest'anno 1576 a saccheggiare le nostre riviere di Puglia: ma ripresso da molte soldatesche a cavallo ed a piedi, che vi spedì il Vicerè, si rimase dall'impresa, ed incamminandosi verso Calabria, fece sbarco delle truppe presso Trebisaccia, rovinando il paese ed i luoghi contorni, con ridurre in ischiavitù molti. Ne furono parimente scacciati e costretti a lasciar il bottino; ma tutto si ascrisse alla vigilanza e prontezza e valore di Niccolò Bernardino Sanseverino Principe di Bisignano, il quale, come pure scrive il Tuano[323], essendo accorso opportunamente, mentre s'imbarcavano, con sessanta cavalli e duecento archibusieri, obbligò quelli a lasciar la preda, facendone da quaranta prigionieri e più di cinquanta restarono ivi estinti.

Ne' seguenti anni s'accrebbero i suoi disgusti, per due incontri che diremo: tal che venuto in odio non meno alla Nobiltà, che al Popolo, fu finalmente richiamato dal Re in Ispagna, per dove convenne partirsi nei maggiori rigori di quell'inverno. Il primo, per aver voluto dar orecchio ad un Frate, che adescato dalle promesse d'alcuni avidissimi Mercanti, insinuò al Marchese, che per la gente minuta poteva farsi il pane di farina di grano, mischiata anche con quella dell'erba che i Botanici chiamano Aron, ed il volgo chiama Piede di Vitello, la quale è stimata di cotanto nutrimento, che Giulio Cesare vi mantenne le sue milizie nell'Albania. Parve tal espediente molto vantaggioso ed utile, non meno per l'annona, che per li grandi profitti, che potevan ritrarsi dal Re: ma appena fu questo trattato scoverto da' popolari avvezzi a mangiar pane di frumento, che stimolati anche da' Nobili mal soddisfatti del Vicerè per le passate contese dell'aggregazione del Reggente Cutinari ne' loro Sedili, prorruppero in aperte dichiarazioni di non dovervisi pensare, perch'essi altrimente avrebbero negato in ciò d'ubbidirlo; onde veduta dal Vicerè la loro fermezza ed ostinazione, gli fu duopo sciorre immantinente il trattato per quietarli. L'altro più strepitoso che diede l'ultima spinta alla sua partita fu, ch'educandosi nel Monistero di S. Sebastiano D. Anna Clarice Caraffa, figliuola del primo letto di D. Antonio Caraffa, Duca di Mondragone e di D. Ippolita Gonzaga, costei per mancanza de' maschi essendo considerata come succeditrice di tutto lo Stato paterno, era stata destinata dal padre per moglie al Conte di Soriano primogenito del Duca di Nocera, ch'era della medesima famiglia; ma il Principe di Stigliano, avolo paterno della fanciulla, tollerando di mala voglia, che dovesse estinguersi la sua Casa, risolse, benchè vecchio, d'ammogliarsi con D. Lucrezia del Tufo de' Marchesi di Lavello, ed ebbene di questo matrimonio un maschio, che meditava dovess'esser il successore di quello Stato; ciò che fece dividere la famiglia Caraffa in due potentissime fazioni. All'incontro il Vicerè, lusingandosi da queste contese poterne ritrar profitto, era entrato nell'impegno di impalmar questa Dama a D. Luigi Urtado di Mendozza Conte di Tendiglia suo primogenito, e prevedendo le difficoltà, prese risoluzione, col pretesto d'esplorarne la volontà, di far uscire da quel Monastero la fanciulla, e porla in luogo opportuno per suoi disegni; ed a far questo, vedendo che gli sarebbe riuscito vano ogni altro modo, parvegli usare non meno la sollecitudine, che la forza; onde mandò tre Reggenti col Segretario del Regno e centocinquanta Spagnuoli a torre con effetto la Donzella dal Monastero. L'atto improvviso e scandaloso animò quelle monache a prendere una risoluzione bizzarra e generosa; poichè unite tutte insieme con D. Clarice ancora, che fecero vestir Monaca, in lunghi ordini divise, salmeggiando e con le reliquie in mano di quei Santi che conservavano, fecero aprir le porte della clausura, e si fecero tutte incontro a que' Ministri, i quali sorpresi da un cotale nuovo spettacolo, postisi inginocchioni, adorarono le reliquie, e partirono immantenente dal Monastero. D. Clarice fu segretamente condotta in casa di D. Giovanni di Cardona, ed eseguendo la deliberazione di suo padre, fu privatamente sposata al Conte di Soriano, come poscia dichiarò essa stessa al medesimo Collaterale. Questa azione del Vicerè, quantunque avesse offeso sol que' due principali rami della famiglia Caraffa, ch'erano in que tempi il Principe di Stigliano, ed il Duca di Nocera, oggi estinti; gli irritò nondimeno contra tutto il numeroso stuolo de' Nobili di quel Casato, i quali aggiungendo quest'offesa all'antiche, mandarono il Marchese della Padula Giannantonin Carbone in Madrid a dolersene col Re Filippo.

(Di questa Missione del Marchese della Padula e della maniera da tenersi in ispedire alla Corte persone per far ricorso al Re, si legge una lettera di Filippo II spedita al Principe di Pietra Persia Vicerè sotto li 4 decembre 1579 presso Lunig[324] ).

Fu la missione favorita anche dal Cardinal di Granvela, il quale agevolò l'impresa; onde esposte queste querele al Re, si risolse tosto di richiamarlo; ed ordinò a D. Giovanni di Zunica, il quale lungo tempo era stato suo Ambasciadore in Roma, che senza perder tempo passasse al Governo di Napoli; donde convenne, al Marchese agli 8 di novembre del 1579 partire, ed esporsi ad un viaggio di mare nel maggior rigore di quell'inverno. Partì su due Galee, accompagnato più dal proprio pentimento e dalle lagrime dei congiunti, che dalle benedizioni de' Napoletani, appo i quali, secondo che narra il Summonte[325] Scrittor contemporaneo, lasciò di se malissimo nome.

Pure ne' quattro anni e quattro mesi che durò il suo governo, ancorchè i mentovati successi gli avessero concitato l'odio comune, lasciò fra noi qualche memoria, non meno commendabile per Napoli, che per lo maggior servigio, ch'egli prestò al suo Re. Nel suo tempo furon fatti al Re tre donativi: uno pochi mesi dopo il suo arrivo in novembre del 1575, quando per l'avviso del nascimento di D. Diego secondo figliuolo del Re Filippo, si congregò in S. Lorenzo il Parlamento, dove presedè per Sindico Gianfrancesco di Gaeta nobile della Piazza di Porto, e dove si fece donativo al Re di un milione[326]: l'altro di febbrajo del 1577 dove fu Sindico Giangirolamo Mormile del Seggio di Portanuova, che fu d'un milione e ducentomila ducati: ed il terzo d'altrettanta somma conchiuso nel Parlamento tenuto a' 23 aprile del 1579, per supplire alle grosse spese della guerra di Fiandra, essendone Sindico Fabrizio Stendardo della Piazza di Montagna.

Cominciò ancor egli nel 1577 la fabbrica del nuovo Arsenale nella spiaggia di S. Lucia, ove al presente si vede, con la guida di Frate Vincenzo Casali Servita, famoso Architetto di que' tempi. Avea ancora cominciato le provvisioni necessarie per porre in mare un'armata contra gl'Infedeli, al qual effetto da Fr. Vincenzo Caraffa Prior d'Ungheria, e da Carlo Spinelli, assoldavansi tremila pedoni e quattromila guastadori a fin d'unirli a tutte le forze d'Italia, e farne un corpo sotto il comando di Pietro de' Medici, fratello del Gran Duca di Toscana, restandone il bel disegno estinto per l'improvvisa sua partenza. Ne' suoi tempi furon celebrate con grande magnificenza e pompa le feste per la natività di Filippo, quarto figliuolo del Re, natogli a' 27 aprile del 1578 dalla Regina Anna, che gli fu poi successore, siccome poco da poi fu pianta la morte del Principe D. Ernando, del quale il Re suo padre, forse per l'età sua infantile, avendo appena passati i sette anni, non fece celebrare nè in Napoli, nè altrove, nè funerali, nè esequie.

Ci lasciò ancora questo Ministro ventiquattro Prammatiche, nelle quali si leggono più provvedimenti molto saggi e commendabili. Proibì sotto gravissime pene le Case di giuoco e baratterie, nelle quali vietò a qualunque persona il potervi giuocare; represse i controbandi; diede norma a' Tribunali per le suspezioni dei Ministri; comandò che non potessero questi contrarre parentela spirituale, facendosi compari nel battesimo o nella cresima; e diede altri regolamenti salutari per l'abbondanza e politia della Città e del Regno: le quali, secondo il tempo nel quale furono stabiliti, possono vedersi nella Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche, secondo l'ultima edizione del 1715.

CAPITOLO III. Delle cose più notabili accadute nel governo di Don Giovanni di Zunica, Commendator Maggiore di Castiglia, e Principe di Pietrapersia: sua condotta e leggi che ci lasciò.

Don Giovanni Zunica, secondogenito della Casa de' Conti di Miranda, di cui sovente nel precedente libro si è avuta occasione di favellare, quando, trovandosi Ambasciadore in Roma, trattò gli affari più gravi di giurisdizione occorsi nel governo del Duca d'Alcalà, s'acquistò nell'esercizio di quella carica, che tenne per molti anni in Roma, fama di gran prudenza, e per l'occorrenze di allora, di sufficiente perizia delle cose del Regno; tanto che trascelto dal Re Filippo per nostro Vicerè, non ebbe egli a star lungo tempo ad istruirsi prima de' nostri istituti e costumi. Fu per ciò l'elezione intesa con applauso, e ciascuno dalla sua capacità e nota prudenza se ne prometteva un ottimo governo. Nè la sua condotta fu contraria all'espettazione si avea di lui; poichè giunto egli in Napoli a' 11 di novembre di quest'anno 1579, diede in questo principio saggi ben chiari della sua magnificenza e pietà; poichè ricusando quella vana pompa del Ponte solito farsi a tutti i Vicerè, fu quello da lui donato all'Ospedale degl'Incurabili, dono che alla Città era costato 1500 scudi[327].

§. I. Spedizione di Portogallo.

Ma i grandi avvenimenti, che occorsero a' suoi tempi, resero questo governo assai segnalato e memorando: mentr'egli reggeva il Regno accadde la spedizione di Portogallo, nella quale vi ebbe ancor egli qualche parte per lo denaro e gente, che per la sua diligenza ed opera fu mandata dal Regno per quella impresa. L'istoria della guerra di Portogallo, che mosse il Re Filippo II come uno de' pretensori di quel Reame, fu cotanto ben scritta dal Presidente Tuano[328] da Bacone di Verulamio[329], e da altri insigni Autori, che oltre di non appartenere al nostro istituto, sarebbe abbondar d'ozio se, trascrivendola da que' Scrittori, volessi io qui distesamente narrarla. Solo di qualche successo si terrà conto, nel quale v'ebbero alcuna parte i nostri o il Zunica, che ci reggeva.

Morto il Re Emmanuele nel 1521 avendo lasciati quattro figliuoli maschi, Giovanni, Lodovico, Errico ed Odoardo e due femmine, Isabella e Beatrice, succedè nel Regno il primogenito, che Giovanni III fu detto: da costui nacque il Re Sebastiano, il quale, morto il Re Giovanni suo padre, succedè al Reame. Lodovico non ebbe moglie, ma da una sua concubina procreò Antonio, detto il Priore di Crato. Errico prese il Sacerdozio, e fu fatto Cardinale. Odoardo lasciò due figliuole, Maria moglie d'Alessandro Farnese Duca di Parma, e Caterina madre del Duca di Braganza. Delle due femmine, da Isabella nacque il Re Filippo II, e da Beatrice Emmanuele Filiberto Duca di Savoja. Il Re Sebastiano nella battaglia d'Arzilla restò estinto, e non ben ravvisandosi il suo cadavere, diessi poi occasione a quella celebre impostura, della quale narreremo appresso il successo. Morto il Re Sebastiano senza lasciare di sè prole alcuna, successe nel Regno il Cardinal Errico suo zio, che solo tra fratelli di Giovanni si trovò vivente; il quale essendo Sacerdote, cagionevole della persona e vecchio, pensò stabilire in vita il successore; ma riuscendogli moleste le dimande di tanti pretensori, avendo convocato un generale Parlamento, furono destinati quindici Giudici, a' quali diede Errico potestà, intesi i pretensori, di determinare la lite della successione, dando loro ancora facoltà di poter decidere eziandio dopo sua morte, se quella fosse intanto innanzi della sentenza accaduta: stabilì in questo caso Governadori, che dovessero intanto aver l'amministrazione del Regno, e fece giurare a tutti di dover riconoscere per Re colui, che per tale avessero i Giudici eletti pronunziato.

I pretensori erano Ranuccio Farnese figliuolo d'Alessandro e il Duca di Braganza marito di Caterina; Filippo II figliuolo d'Isabella; ed il Duca di Savoja figlio di Beatrice. Eravi anche Antonio figliuol naturale di Lodovico, il quale più per l'affezione, che aveasi acquistata de' naturali del paese, che per altra ragione, aspirava non meno degli altri al Reame; ed in ultimo li Re di Francia per interessarsi ancora in questo affare e per opporsi a Filippo, volevan far valere alcune ragioni antiche ereditate da Caterina del Medici loro madre.

Per lo concorso di tanti pretensori, e per lo genio avverso, che non meno il Re, che la plebe mostrava avere al Re Filippo II, uno de' più potenti fra coloro, prevedendosi maggiori disordini, fu proposto un altro trattato di ricorrere al Papa, che dispensasse al Re, ancorchè Sacerdote, di poter prender moglie, e fu a questo fine mandato in Roma Odoardo Castelbianco. Per ciò erano tenute dal Re spesse consulte di Medici, richiedendo da essi se lo riputassero, essendo di si grave età, abile a procreare, poichè, ancorchè in tutto il tempo di sua vita avesse professata castità, nulladimanco per escludere del Regno un erede estraneo, erasi già disposto d'ammogliarsi[330].

Il Re Filippo, avvisato dell'avversione del Re, e degli ordini del Regno, e del trattato del matrimonio, per distorlo, scrisse immantenente al suo Ambasciadore in Roma, con molta premura incaricandogli, che impiegasse con vigore ogni opera col Pontefice Gregorio, affinchè la dispensazione non si concedesse, e nel medesimo tempo con molta secretezza mandò al Re Errico suo zio Ferdinando Castelli Frate Domenicano per distorlo da questo proponimento, insinuandogli fra l'altre, una ragione per se stessa inettissima, ma che credeva poter giovare col Cardinale, uomo per altro superstiziosissimo, cioè di fargli comprendere, che ciò sarebbe stato d'un pessimo esempio, e non da praticarsi in que' tempi senza pericolo; poichè spandendosi in Europa vie più che mai gli errori de' Settarj, i quali volevano, che i Sacerdoti potessero prender moglie, gli uomini perniziosi, se ciò vedessero nella persona sua, con facilità potrebbero persuadere agli altri di poterlo fare. La Missione riuscì inutile, poichè il Frate contra l'espettazione di Filippo, non fu ricevuto da Errico, e fu costretto con poco suo onore ritornarsene.

Intanto non si tralasciava l'altro trattato intrapreso. Furono da' Giudici citati i pretensori i quali per mezzo dei loro Ambasciadori proposero le ragioni de' loro Sovrani. Per Filippo comparve D. Pietro Girona Duca di Ossuna; per Emanuele Filiberto Duca di Savoja, Carlo Roberto; e per Ranuccio Farnese figliuolo d'Alessandro Duca di Parma e di Maria, vi fu mandato Ferdinando Farnese Vescovo di quella città, il quale avendo fatto consultare il caso in Padoa da' Giureconsulti di quella celebre Università, avea pubblicata una consultazione firmata da loro, nella quale con argomenti validissimi, come egli credeva, si sostenevan le ragioni di Ranuccio.

Il Duca di Savoja non contendeva al Re Filippo la maggioranza delle sue ragioni, essendo quegli procreato da Isabella maggiore, e prima nata di Beatrice; dimandava solamente, che se accadesse di morir Filippo prima d'Errico comune zio, in tal caso si avesse ragione del suo diritto. Erano per ciò uniti ad escludere le pretensioni del Duca di Braganza e di Ranuccio Farnese: sostenevano, che non potendo questi giovarsi dei beneficio della rappresentazione, che proccuravano abbatter con molti argomenti, doveano essi come maschi, ed in grado più prossimi essere a tutti preferiti. Il Duca di Braganza e Ranuccio all'incontro facevan tutta la forza nella rappresentazione da lor sostenuta; ma quest'istessa ragione veniva poi da Ranuccio rivoltata contra il Duca, poich'essendo egli figlio nato da Maria maggiore, e prima nata di Caterina, dovea al Duca essere preferito. Ma l'Accademia di Coimbra, informata anche dell'inclinazione del Re Errico, occultamente favoriva il Duca di Braganza, diede fuori una consultazione a suo favore, per la quale con molti argomenti si sforzarono que' Giureconsulti, rifiutate prima le ragioni di Filippo e del Duca di Savoja, e poi quelle di Ranuccio. Tutti però convennero in escludere dalla successione Antonio Prior di Grato (ancor egli citato) come spurio e nato si bene da Lodovico fratello d'Errico, ma di concubinato, non già di legittimo matrimonio, siccome poi con espresso decreto fu dal Re dichiarato.

Il Re di Francia, ancorchè non citato, volle pure avervi in ciò la sua parte, e mandò Urbano Sangelasio Vescovo di Cominges, perchè fossero anche intese le sue ragioni, al quale dopo molte difficoltà, fu alla perfine dal Re permesso, che per mezzo del suo Proccuratore potesse intervenire in quella causa a provare il suo diritto. Il Re Errico per favorire il Duca di Braganza avrebbe voluto escluder tutti, ma dall'altra parte per escludere il Re Filippo ammetteva promiscuamente le dimande di ciascuno. Le pretensioni di Francia, ch'erano pontate in quell'Assemblea in nome di Caterina de' Medici, eran derivate da un'origine troppo antica, e se mai fossero state reputate valevoli avrebbero mandate a terra, non solo le pretensioni degli oppositori, ma avrebbero posto in dubbio la successione di quel Regno nella persona del Re Errico istesso e de' suoi prossimi predecessori: laonde sarebbe stata una somma imprudenza in quel Consesso valersene, dove non pur grazia e favore, ma indignazione e rifiuto avrebbero riportato; per la qual cosa narra il Tuano[331], che l'Ambasciadore di Francia proccurò dal suo Re altre lettere dirette alla Camera di Lisbona, per le quali offeriva il Re ogni ajuto ai Portughesi, perchè rifiutando la dominazione di Filippo, non volessero a patto veruno soffrire il giogo di un Re così potente.

Gli Spagnuoli, il Papa e gli altri Principi Cristiani si dolevano di ciò, e declamavano, che il Re di Francia per emulazione ed odio cercava framettersi in quest'affare per interrompere i loro disegni: per la qual cosa il Re Filippo cominciò seriamente a pensare di dovere più nelle armi, che in quelle discussioni, fondare la sua pretensione. Erasi ancora reso certo, che non meno i Franzesi, che gl'Inglesi gelosi per un tanto acquisto ed ingrandimento, che si farebbe alla sua Monarchia d'un si vasto Regno, si sarebbero opposti alla sua impresa. Vedea chiara la avversione non meno del Re Errico, che di que' Popoli per lui; ed all'incontro l'inclinazione del Re per Braganza e dei Popoli per Antonio: gli Ordini del Regno erano pure entrati in pretensione, che stante la dubbiezza delle ragioni, che i Pretensori allegavano, dovesse spettare ad essi la ragione d'eleggere il successore. Per la qual cosa rivolse Filippo i suoi pensieri ad unire da tutti i suoi Regni un potentissimo esercito per venir a capo dell'impresa, e stabilì sostenere più coll'armi le sue ragioni, che colle allegazioni e sentenze de' Giureconsulti: non trascurava però, per rendere giusta e plausibile al Mondo la guerra, ch'e' apparecchiava, di consultare i più celebri Giureconsulti e le Accademie più insigni d'Europa; onde si videro uscire più famose consultazioni sopra questo soggetto: nè si tralasciò il famoso Giacomo Cujacio insigne Giureconsulto di questi tempi, il quale per Filippo compilò quella consultazione, che leggiamo ancora tra le sue opere. Quasi tutte le Accademie della sua vasta Monarchia furono impegnate a far lo stesso; ed i nostri Giureconsulti Napoletani pure richiesti contribuirono le loro fatiche sopra questo soggetto[332]. Risoluto per tanto il Re Filippo colle armi far valere le sue ragioni, fece prima dal Duca d'Ossuna insinuare al Re Errico, che non bisognavano più tanti scrutinj: essere le sue ragioni chiarissime, le quali egli avea fatte esaminare dalle Accademie più famose d'Europa e da' più insigni Giureconsulti di quella età; che considerando ancora il pubblico bene, che ne sarebbe seguito in quel Regno, dovea egli dichiarare la successione appartenersi a lui dopo la sua morte. Questo medesimo glie lo faceva insinuare dal P. Lione Enriquez Gesuita suo Confessore, il quale regolando la coscienza di quel timido e scrupoloso vecchio, tanto fece che pose il Re in angustia, e lo fece divenir dubbioso di quello che dovea fare.

Ma gli apparecchi che si facevano per la guerra erano assai più considerabili: da tutte le parti, non men di Spagna che d'Italia, s'univano truppe ed armate da Milano, da Sicilia e dal nostro Regno di Napoli ancora, e per non insospettire il Papa e gli altri Principi si dava colore e pretesto, che tanto apparecchio si faceva per la guerra d'Africa. Fu comandato perciò al nostro Vicerè, che quelle provvisioni, che il Marchese di Mondejar avea apparecchiate contra gli Infedeli, le tenesse per questa nuova impresa. Ma il Papa sospettando di quel ch'era, cercò frapporsi col Re Filippo per distogliernelo; e propose un trattato, che se gli fosse riuscito sarebbe ridondato in grande stima dell'autorità della sua Sede[333]. Proccurava con efficaci dimande, che seguitando gli esempj di molti Principi che non ebbero riparo, particolarmente nel felice secolo d'Innocenzio III di portare alla decisione della Sede Appostolica simili contese di Principati e Reami, volesse ancor egli imitarli, perchè avrebbe egli composta tal controversia. Ma il Re Filippo simulando di ricever a favore il suo ufficio e la sua interposizione, tirando secondo la solita tardità spagnuola la cosa in lungo, proseguiva con maggior calore gli apparecchi militari: e già si mandavano esploratori in Portogallo per deliberare, in qual parte di quel Regno convenisse cominciar la guerra, nell'istesso tempo che dagli Ordini di quel Regno, essendosi presentiti tanti apparecchi, e che la fazione del Duca di Braganza, e quella più numerosa del Prior di Grato vie più crescevano, si davano le provvidenze per prevenire le revoluzioni ed i disordini.

Ma ecco, stando le cose in questo stato, che viene a mancare il Re Errico, il quale non avendo regnato più che un anno e cinque mesi, nell'età di 68 anni, nell'ultimo di gennajo di quest'anno 1580, rese lo spirito. Il Prior di Grato, che era stato dal Re allontanato da Lisbona, intesa la sua morte, vi tornò immantinente; ed il Re Filippo affrettando vie più l'impresa, unì due potentissimi eserciti, per mare e per terra, creandone Capitan Generale il famoso Duca d'Alba. Dal nostro Regno furono somministrati in questa guerra validi soccorsi: il Vicerè vi spedì diciassette ben provveduti Navili, con seimila soldati e quattromila guastadori, comandati dal Prior d'Ungheria e da D. Carlo Spinelli: fu conceduto indulto a tutti gli sbanditi e forgiudicati dal Regno, da ribelli e falsi monetarj in fuori, i quali furono invitati ad assoldarsi in questa guerra, promettendosi lor perdono dei loro misfatti, e sopra tutta per supplire alle spese, non ostante, che come si è detto, nel precedente anno in aprile se ne fosse fatto un altro, fu convocato a' 29 settembre di quest'istesso anno 1580 nuovo Parlamento in S. Lorenzo, dove essendo Sindico Camillo Agnese nobile di Portanova, fu per questa guerra di Portogallo fatto un nuovo donativo al Re d'un milione e ducentomila ducati.

Fu veramente cosa degna da notarsi, che avendo già il Re Filippo deliberato questa guerra ed apparecchiati già i suoi eserciti per l'impresa, ed il Duca d'Alba giunto col suo esercito in Portogallo a' 21 giugno di quest'anno 1580, nell'istesso tempo ch'era arrivata l'armata di mare, pensasse ancora, come se vi fosse luogo a pentirsene e ritrattare passi cotanto avanzati, di far esaminare da alcuni Teologi, se con sicura coscienza erasi egli mosso a questa impresa. Narra il Presidente Tuano[334], che ciò faceva, per potere in questa guisa togliere i sinistri rumori, che si erano sparsi in Portogallo ed in Italia della poca sua giustizia, e molto più del modo, che e' teneva d'invadere quel Regno. Il Papa lo sollecitava ancora, che senza tanto dispendio de' suoi Regni, e spargimento di sangue, doveasi quella controversia commettere all'arbitrio della sua Sede: gli Ordini di quel Regno al lamentavano, che la lor ragione veniva oppressa dalla forza, e che trovandosi obbligati con giuramento di ubbidire a quel Re, che dichiarasse l'Assemblea de' Giudici istituita in vita del Re Errico, e che avea ancora autorità di farlo dopo la sua morte, non essendo tal dichiarazione per anche fatta, non potevano riconoscere Filippo per loro legittimo Signore. Per queste cagioni, non tralasciandosi intanto il proseguimento della guerra, propose il Re Filippo sotto l'esame de' Teologi Complutensi, de' PP. Gesuiti e Francescani, (nell'istessa guisa appunto che fece, quando ebbe a trattar per lo Regno nostro di Napoli con Paolo IV) che lo consigliassero per quiete della sua coscienza sopra questi punti.

Se stando egli certo della sua giusta ragione, che teneva in succedere in quel Regno a lui devoluto per la morte del Re Errico, fosse obbligato in coscienza sottomettersi ad alcun Tribunale, il quale gli aggiudicasse il Regno, e lo mettesse nella possessione di quello.

Se ricusando il Regno di Portogallo accettarlo per Re, prima che fossero discusse da' Giudici designati le ragioni de' Competitori e sue, potesse egli di propria autorità prendere la possessione del Regno, e contra i renitenti impugnar le sue armi.

Se allegando i Governadori e tutti gli Ordini di Portogallo il giuramento dato, e per ciò esser loro proibito di riconoscere alcun per Re, se non quello che tale sarà da quell'Assemblea dichiarato, dovea questa riputarsi scusa legittima.

I Gesuiti, siccome tutti gli altri Teologi, risposero appunto secondo era il desiderio del Re. Intorno al primo punto dissero, che non era egli tenuto, per niun vincolo di coscienza, sottomettersi in questa causa alla giurisdizione o arbitrio altrui: che poteva di propria autorità aggiudicare a sè il Regno, e prenderne la possessione: non potervi avere in ciò il Papa alcuna parte, poichè si trattava di cosa puramente temporale, niente avendo con seco mistura di spirituale, che dovesse perciò richiedersi l'autorità e giudizio del Foro Ecclesiastico. Molto meno potevano in ciò impacciarsi gli Ordini di Portogallo, tal che si dovesse aspettare il loro giudizio; poichè eletti una volta i Re, in essi e ne' loro successori fu trasferita ogni ragione, in guisa che appresso quelli risiede ogni giurisdizione, nè possono essere giudicati da altri; sempre dunque che costi Filippo essere il vero e legittimo erede a niuna giurisdizione d'altro Tribunale, fuor che al proprio, dover lui soggiacere.

In quanto al secondo, non avere i Giudici delegati niuna autorità di conoscere questa causa, essendo per la morte del Re Errico estinta ogni loro giurisdizione, non potendosi prorogare la giurisdizione de' Re dopo la di loro morte, onde poteva servirsi di sua ragione con aggiudicarsi il Regno, e per propria autorità prenderne la possessione.

Finalmente, al terzo capo risposero, non essere i Portughesi tenuti osservare il giuramento dato, nè poter loro ciò esser di legittima scusa a non ricevere Filippo per loro Re: poichè non avendo egli alcuno, che costituito in maggior dignità e potestà, potesse conoscere questa causa e giudicarla, doveano ubbidire a lui come a vero e legittimo erede.

Avuta ch'ebbe Filippo questa Censura de' Teologi, la fece pubblicare ed ancorchè fidasse più nelle sue armi, la fece spargere per tutto, per cancellare quei sinistri rumori disseminati da' suoi emuli; e nell'istesso tempo essendosi unito il Duca d'Alba, che comandava l'esercito terrestre, col Marchese di S. Croce Generale dell'armata di mare, fu invaso il Regno, e dopo vari avvenimenti, cotanto bene descritti dal Tuano[335], e da altri, che non fa d'uopo qui rapportare, avendo il Prior di Crato, che più di tutti gli altri competitori gli fece resistenza, ricevuta una strana rotta dal Duca d'Alba, Lisbona capo del Regno pervenne in mano del Re, siccome gran parte di quelle province che lo compongono.

Toccò al nostro Vicerè Zunica, avutosi a' 9 novembre di quest'anno 1580 in Napoli il certo avviso di questa vittoria, e della resa di quella città, di celebrar pomposamente per tre dì le feste, e per tre sere le illuminazioni: ed ancorchè Antonio (favorito dagli Inglesi e da' Franzesi) scacciato alla perfine dal Regno, si fortificasse nell'Isole Terzere, donde lusingavasi non solo di poter interrompere il commercio dell'Indie, ma coll'aiuto di quelle nazioni, ingelosite di tanto ingrandimento, di potere un dì pervenire a quella Corona, riuscirono però vani i suoi disegni, poichè speditovi dal Re Filippo il Marchese di S. Croce con la sua armata per debellarlo, incontrandosi con quella del competitore tra l'Isola Terzera e l'altra di S. Michele, la ruppe e dissipò in maniera, che costrinse Antonio a fuggire, e per asilo a ricovrarsi in Inghilterra. In cotal guisa alla Corona di Spagna fu aggiunto il Regno di Portogallo, dalla quale poi nel Regno di Filippo IV l'abbiam veduto un'altra volta diviso, e ricaduto sotto i propri Re come prima, che ancora vi regnano.

Ma non dobbiamo qui tralasciare, seguitando questo soggetto, la impostura e la favola, ch'ebbe per teatro Napoli del finto Re Sebastiano. Altra consimile erasene pochi anni prima tessuta in Inghilterra sotto la persona di Perino finto Re di quell'isola, di cui a lungo ragiona Bacon di Verulamio[336]. Il Re Sebastiano giovane, e pien d'alto valore ed ardire, avendo nella battaglia d'Argilla, dato l'ultime pruove della sua intrepidezza, abbandonato da' suoi, fu infelicemente fatto prigioniere da alcuni Mori, i quali contendendo insieme per una sì cara preda e cotanto preziosa, vennero infra di loro all'armi, non senza loro strage ed uccisione[337]. Vi accorse il Capitano, ma inutilmente per quietarli; onde con barbarie inaudita, per togliere l'occasione della rissa, diede al Re cattivo un colpo di spada in testa, e replicando i colpi lo lasciò morto in terra: il suo cadavere fra' Mori tumultuanti, e per quella rissa disordinati, non fu più riconosciuto; onde cercandolo i suoi, ancorchè non lo trovasser più, erano lusingati, che non fosse in quella battaglia morto: surse perciò incerta e dubbia voce di suo scampo, e tanto bastò per dar fondamento all'impostura; poichè scorsi venti e più anni, quando non così esattamente potevansi ravvisare le sembianze, surse un Calabrese chiamato M. Tullio Cotizone, il quale spacciavasi per Sebastiano Re di Portogallo: ridevasi della comune credenza di riputarlo morto in quella battaglia, e del loro errore; essere egli scappato dalle mani de' Mori, quando essi rissando contendevano insieme della preda. Gli emuli degli Spagnuoli davano fomento alla favola, onde fu sparsa voce, il Re Sebastiano esser vivo, ed incognito scorrere le province d'Italia. Furono posti aguati, e fatte gran diligenze per arrestarlo, siccome fortunatamente avvenne, che preso il Calabrese fu condotto in Venezia: da poi in grazia degli Spagnuoli cacciato dallo Stato di quella Repubblica, capitò travestito in Fiorenza, dove da quel Duca fu fatto arrestare e condurre prigione in Napoli, in tempo, che governava il Regno il primo Conte di Lemos[338]. Si fece diligente inquisizione per appurare il fatto e fabbricatosene processo, fu destinato Giudice Delegato di questa causa il famoso Reggente Gianfrancesco de Ponte. Narra questo Scrittore[339], che compilato il processo fu scoverta l'impostura; poichè restò convinto per la deposizione della propria moglie e de' suoi congiunti, ch'egli teneva in Calabria, che lo riconobbero; ond'egli poi colla sua propria bocca spontaneamente confessò tutta la favola. Erasi deliberato di farlo morire sulle forche; ma datosene, prima di ciò eseguire, la notizia in Ispagna al Re Filippo III, con prudente consiglio fu riputato di non farlo morire, ma affinchè la falsità fosse da tutti conosciuta, e si abolisse dalle menti degli uomini questo sospetto e varietà d'opinioni, comandò il Re, che si condannasse a remare nelle Galee di Spagna, affinchè ivi e per ogni luogo fosse da tutti veduto, siccome fu eseguito; ed in cotal guisa sparve la larva e finì la favola.

( Giuseppe Ebreo[340] narra un simil fatto accaduto ad un tal Alessandro, il quale voleva esser creduto per figliuol di Erode M. ma scoverta l'impostura da Ottaviano Cesare fu pure condannato a remare).

§. II. Emendazione del Calendario Romano.

Merita, che fra le cose memorande accadute nel governo del Principe di Pietrapersia non si tralasci questa emendazione, che rese l'anno 1582 per tutti i secoli memorabile; tanto più che non meno negli altri Regni della Cristianità, che nel nostro, prima di riceversi, fu quella appo noi ben esaminata e discussa.

L'anno antico de' Romani, non già di diece mesi, come vollero Giunio Gracco, Fulvio Varrone, Ovidio e Suetonio, ma di dodici si componeva, siccome per sentenza di Licinio Macro, e di L. Fenestella scrisse Censorino, de' quali il primo era il mese di marzo, e l'ultimo quello di febbrajo.

I mesi di marzo, maggio, luglio ed ottobre erano ciascuno di 31 giorni: gli altri erano di 29 eccetto febbrajo, il qual solamente si componeva di 28 giorni, di maniera che l'antico anno de' Romani era di giorni 355, e mancava dall'anno degli Egizj di diece giorni, onde fu bisogno dell'intercalare, la qual intercalazione si faceva in ciascun biennio nella maniera, che viene rapportata dal Presidente Tuano[341]. Ma riuscendo questa intercalazione viziosa, si diede ansa ai Sacerdoti, li quali si presero questa briga d'emendar i tempi, di regolare a lor modo il corso dell'anno, mettendovi, per supplire, il mese intercalare, ch'essi chiamavano Mercedonio, di cui ne facevano autore Numa Pompilio. Ma siccome fece veder Plutarco nella di lui vita, questo aiuto era assai debole per emendar quegli errori e confusioni, che ne nascevano ne' mesi dell'anno: onde i sacrificj e le ferie trascorrendo a poco a poco cadevano, come dice Plutarco nella vita di Cesare, nelle parti contrarie dell'anno: li Sacerdoti per ciò (essendosi quest'affare ridotto al lor arbitrio) come a lor piaceva, e sovente per odio de' Magistrati, ora tardi, ora presto intercalavano. Pertanto Giulio Cesare s'accinse a far egli una più esatta Emendazione dell'anno; ed avendo, mentr'era in Alessandria[342] preso il parere da que' valenti Matematici, e consultato l'affare con altri Filosofi, con più emendata diligenza notando i Segni celesti, promulgò per mezzo d'un suo editto una nuova Emendazione, e mostrò la propria via, la quale attesta Plutarco, che insino a' dì suoi usavano i Romani.

(La Scuola d'Alessandria fiorì sempre di valenti Astronomi, tal che i Vescovi di Roma per non fallire il dì della celebrazione della Pasqua, secondo il prescritto del Concilio Niceno, solevano ogni anno consultarsi col Vescovo d'Alessandria per sapere il giusto equinozio di Primavera prossimo al plenilunio di che fra gli altri è da vedersi Francesco Balduino[343] ).

Bacon di Verulamio[344] non tralasciò di commendare la suddetta sua Emendazione, chiamandola un perpetuo documento, non meno del suo sapere, che della sua potenza, e che debbia attribuirsi alla sua gloria d'aver conosciuto non meno in Cielo le leggi delle Stelle, che d'averle date in terra agli uomini per governarli. Ma non mancaron degl'invidiosi, che, come dice Plutarco, non biasimassero tal emendazione; e Cicerone, essendogli da taluno stato detto, che la Libbra nasceva l'altro giorno, gli rispose, sì secondo il Bando; quasi che questo ancora si dovesse ricevere da Cesare ed accettare dalle persone.

Ma in decorso di tempo l'editto di Cesare mal interpretato da' Sacerdoti, non fu riputato sufficiente, e la sua emendazione ebbe bisogno poi d'altra ammenda; onde Claudio Tolomeo, che fiorì intorno a 180 anni dopo Cesare, considerando la gran varietà de' pareri in determinare l'anno naturale, ne descrisse un'altra, tanto che variando dalle prime, ne nacque un grande turbamento ed una grande confusione.

Nell'Imperio di Costantino Magno i Padri del Concilio di Nicea, volendo stabilire il giorno di Pasqua, ne statuirono un'altra, dal qual tempo seguì di nuovo una gran confusione negli Equinozj. Da poi Dionigi il Piccolo intorno l'anno 526, avanzandosi sempre più il disordine, cercò con nuova computazione darci rimedio, ma quello fu per pochi anni, onde si tornò a' disordini di prima.

(Il Panzirolo[345] scrive, che l'Imperador Andronico Paleologo pensò pure ad una nuova emendazione, ma si sgomentò a porci mano, così per le guerre che gliel'impedirono, come perchè dubitava non fosse stata dagli altri Principi ricevuta: Id antea, e' dice, Andronicus Paleologus Imperator facere cogitavit, sed pluribus bellis impeditus, et quia alios Principes novo anno non assensuros dubitavit, a negotio destitit. Niceph. Gregor. Lib. 8 de Paschatis correctione ).

Riputando pertanto i Pontefici romani, dover essere della loro incombenza di rimediarvi, furono per ciò solleciti, per prevenire anche gli altri Principi e l'Imperadore, di fare una nuova Emendazione: e cento anni prima, il Pontefice Innocenzio VIII fece venire in Roma Giovanni Regimontano celebre Matematico di que' tempi, perchè correggesse gli errori del Calendario; ma fu fama, che i figliuoli di Giorgio Trapezunzio, i quali non potevano sofferire che un Germano fosse a' Greci anteposto, l'avessero fatto avvelenare: per la qual cosa non potè soddisfare al desiderio del Papa. Con tal occasione scrissero a quei tempi del giusto computo dell'anno Pietro Alliacense Vescovo di Cambray e poi Cardinale, il Cardinal Cusano, e poco da poi Roberto Lincolniense e Paolo Midelburgense Vescovo di Fossombrone, il quale sopra ciò compose un gran volume, che lo dedicò a Massimiliano I Imperadore.

Essendosi da poi aperto il Concilio in Trento, credendosi, che que' Padri, ad esempio di ciò, che si fece nel Concilio Niceno, volessero stabilire questa Emendazione, s'affaticarono i primi ingegni d'Europa intorno a questo soggetto, e fra gli altri Giovanni Gennesio Sepulveda Cordovese, Gioan-Francesco Spinola Milanese, Benedetto Majorino, il famoso Luca Gaurico familiare di Paolo III, e Pietro Pitato Veronese, il quale con un particolar suo libro refutò la sentenza del Gaurico. Ma il Concilio, essendosi terminato con molta fretta, non potè occuparsi ad una cotanto intricata materia, che per diffinirla richiedeva molto tempo.

Pertanto Gregorio XIII dubitando di non esser prevenuto dagl'Imperadori di Germania, come affare appartenente alla ragion dell'Imperio, si pose con molta sollecitudine ad affrettar questa Emendazione, e per ciò mandò per tutte l'Accademie d'Italia, e scrisse al Senato Veneto acciò che da' Matematici e Filosofi di Padova ricercasse il lor parere intorno a questa correzione. Fu dato prima il pensiero a Giuseppe Molettio Messinese, il quale due anni prima di quest' Emendazione diede fuori le Tavole Gregoriane. Ma ricercato ancora il celebre Niccolò Copernico, famoso Astronomo di que' tempi, del suo giudizio, insorsero vari pareri, ed essendo ancora venuto in campo Sperone Speroni, s'accesero fra costoro le contese. Matteo Magino vi ebbe ancora la sua parte, e Giuntino ricercato dal Pontefice, s'uniformò all'opinione di coloro, che volevano che diece giorni si scemassero dell'anno: ma Alberto Leonio d'Utrecht, avendo perciò composto un libro, provò, che se ne dovevano scemare undici: il Duca Francesco Maria d'Urbino in grazia del Pontefice ricercò ancora del suo parere Vido Ubaldo peritissimo di questa scienza, il quale lo diede, uniformandosi però alla correzione fatta da' Padri nel Concilio Niceno. Scrissene eziandio Gregorio al Re di Francia, il quale ne diede il pensiero a Francesco Foix Candale, famoso Astronomo, che parimente diede fuori sopra ciò il suo giudizio.

Papa Gregorio intanto, perchè non si lasciasse perdere sì opportuna occasione d'ingrandire l'autorità della sua Sede, richiedeva sì bene di ciò gli altri Principi, ma voleva, che dapoi si dovesse stare a quel che egli sopra ciò stabiliva; onde esaminati tutti i pareri, finalmente per suggestione d' Antonio Lilio celebre Medico di que' tempi, s'appigliò all'emendazione di Luigi Lilio suo fratello, la qual in breve conteneva, che dovessero dell'anno scemarsi diece giorni, che per difetto d'intercalazione si trovavano soverchi, e si prescriveva il modo, sicchè tal difetto non accadesse per l'avvenire. Questa correzione in un picciol volume compresa, dopo avutane l'approvazione di Vincenzo Laureo Vescovo di Monreale, il giudicio del quale sopra queste cose egli stimava tanto, la mandò a tutti i Principi Cristiani ed alle più famose e celebri Accademie d'Europa.

Ma ebbe quest'emendazione del Lilio forti oppositori, fra gli altri Giuseppe Scaligero gran Letterato di que' tempi, il quale in quella sua maravigliosa opera De emendatione temporum, scovrì gli abbagli da colui presi. Impugnò parimente il computo Liliano Michele Mestino Professore nell'Accademia di Tubingen con grandi Commentarj. Ma contra costoro in difesa del Lilio sursero Cristoforo Clavio Gesuita, celebre Professore in Roma, ed Ugolino Martello Vescovo di Glandeves.

Pubblicata ch'ebbe Gregorio questa sua Emendazione, perchè fosse ricevuta da tutti i Principi Cattolici e sopra ogni altro dall'Imperadore e da' Principi d'Alemagna, spedì a Cesare il Cardinal Lodovico Madruccio Vescovo di Trento; ma essendosi nella Dieta d'Augusta proposto quest'affare, dai Principi quivi assembrati fu riputato un grande attentato del Pontefice d'aver posto a ciò mano, e di grande oltraggio all'autorità di Cesare e dell'Imperio, nè doversi permettere la pubblicazione del nuovo Calendario in Germania. Appartenere ciò agl'Imperadori di farlo, siccome fece Giulio Cesare, e da poi nell'Imperio d'Occidente Carlo Magno, il qual diede egli a' suoi Germani il Calendario in lingua Tedesca. Ciò che fecero i Padri nel Concilio Niceno, fu per autorità di Costantino Magno Imperadore, per comando del quale s'era convocato quel Concilio: doversi pertanto rifiutare il nuovo Calendario, tanto maggiormente, che quello fu fatto, non ricercati i Principi dell'Imperio, nè il consenso degli Ordini. Cesare vedendo la costante risoluzione de' Principi, e delle città della Germania, che aveano ricevuta la Confessione Augustana, di non riceverlo, differì di trattar quest'affare, e comandò che ne' giudizj della Camera s'osservasse l'antica forma sin allora tenuta[346].

(In Germania presso i Protestanti nella fine del secolo XVII si fece una nuova emendazione del Calendario, togliendone dall'anno 1700 undici giorni, la quale è ancora in uso presso i medesimi, la di cui istoria meglio sarà, che qui si noti colle parole istesse di Burcardo Struvio[347]. Ad finem properabat seculum decimum septimum, dum fasti Mathematicorum consilio varie emendarentur. Erhardus Weigelius, nostrae olim Academiae fidus, in diversis non sulum Protestantium aulis, Suecia potissimum, et Danica, sed etiam in Comitiis Ratisbonensibus, IV. Octobris St. v. 1699 Calendarii emendationem proponebat, modo simul exhibito, qua ratione fieri possit. Agebatur de hoc negotio in Corpore Evangelicorum, consultabantur alii Mathematici, horumque rationibus auditis, XXIII septembris 1699, conclusum Corporis Evangelicorum fuit factum, ut undecim dies post XVIII, februarium St. v. sequentes, ex anno 1700 ejicerentur, celebratio Paschatos, neque juxta Cjclum Dionysianum in Juliano Calendario receptum: sed secundum calculum astronomicum, uti Concilii Nicaeni tempore factum, instituatur, atque abusus Astrologiae judiciariae ex Calendariis tollantur. Mathematici de reliquis imposterum inter se conferant. Pubblicabatur ex eo novum Calendarium (der verbesserte Calender) cujus adhuc usus est apud Germanos Protestantes. Scripta huc facientia reperiuntur in Fabri Staats-Cantzley[348]. Facit huc etiam Jacobi Brunnemanni Dissertatio de jure undecim dierum Calendario subtractarum. Rink pag. 1350. Questo stesso Scrittore avendo fatto ristampare in Jena, nell'anno 1730, la stessa opera in due Tomi in folio, con aggiungervi alcune altre note, allungandola sino all'anno 1730, e variando in una sola parola il titolo, surrogandovi, in vece di Syntag. quella di Corpus Hist. Germ. al periodo 10 sect. 10 sect. 13 de Carolo VI § 36 Tom. 2, pag. 4101 aggiunge: De celebrando Paschate anni 1724 oriebatur controversia, an illud cum Catholicis die XVI. Aprilis secundum Cyclum Dionysianum, atque Gregorianum sit celebrandum, an vero secundum verum calculum Astronomicum, prout in Concilio Niceno sit decretum. Prolata igitur Societatis Scientiarum et variorum Mathematicorum sententia conclusum fuit in conferentia Evangelicorum d. XXX. Januarii 1724, ut non solum Calendarium emendatum in Protestantium terris conservetur, sed etiam Paschatos festum An. 1724 d. IX Aprilis secundum verum calculum Astronomicum celebretur, idemque an. 1744, 1778 et 1798, quibus annis terminus Paschatos ab illo Catholicorum differat, observandum, probcque cavendum, ne Pascha Christianorum cum Judaeorum Paschate coincidat. Extant acta apud Fabrum Tom XLI c. 10 Tom. XLII c. 10, Tom. XLIII c. 12, Tom. XLIV, c. 14 Tom. XLV, c 8, Tom. XLVI, c. 11 Tom XLVII, c. 10 Tom. XLVIII, cap. 8. Facit huc Collegae nostri honoratissimi, Jo. Bernhardi Wideburgii dissertatio, de imperfectione Calendarii Gregoriani, ejusdemque anno 1724 discrepantia a Calendario correcto Jenae 1724, 4 atque Ulrici Junii schediasma, de Paschate Protestantium An. 1724, celebrando; Lipsiae 1723,4 )

In Francia per la morte del Tuano e per l'assenzia d'Achille Arleo non fu sopra ciò fatto lungo esame, ma il Re promulgò egli un Editto, che fu ubbidito dal Parlamento, col quale la nuova emendazione fu ricevuta; e scemati i diece giorni all'anno fu stabilito, che li diece di Dicembre si contassero per venti, onde in quell'anno il giorno di Natale fu celebrato a' 15 di quel mese. Parimente ad emulazione del Re di Francia, il novello Duca del Brabante Francesco, per cattivarsi la benevolenza del Pontefice, ottenne anche da' Protestanti, che fosse la sua emendazione ricevuta in Fiandra, siccome fu ricevuta in Olanda, e nella Frisia Occidentale e nell'altre province[349].

In Ispagna e ne' Dominj del nostro Re Filippo II particolarmente nel Regno di Napoli, pubblicata che fu da Gregorio questa emendazione, prima che si ricevesse, fu quella esaminata e fu richiesta la permissione e 'l beneplacito del Re Filippo, siccome in tutti gli altri Regni erasi fatto, appartenendo a' Principi, per ciò che riguarda i loro Stati, regolare i giorni e per le celebrità de' loro natali, incoronazioni e per ogni altro, ma sopra tutto per le Ferie de' loro Tribunali. Il Re Filippo informato, che con accordo e partecipazione di molti Principi della Cristianità erasi fatta, questa emendazione, e che coloro l'aveano ricevuta ne' loro Dominj, così egli fece ne' suoi Regni; onde governando il nostro in questi tempi il Principe di Pietrapersia, mandò al medesimo il nuovo Calendario riformato da Gregorio, scrivendogli a' 21 agosto di quest'anno 1582, che avendo il Pontefice Gregorio con matura deliberazione e comunicazione de' Principi Cristiani, ed accordo di tutto il Sagro Collegio dei Cardinali riformato il Calendario, per ridur la Pasqua di Resurrezione ed altre Feste Mobili al giusto e vero punto della loro antica istituzione, per ciò l'ordinava che lo facesse eseguire nel Regno di Napoli ed in tutte le Chiese di quello.

Ma contenendosi in quel Calendario alcune cose pregiudiziali alle sue preminenze, scrisse nel medesimo tempo un'altra lettera a parte al suddetto Principe, avvertendogli di mirar molto bene, che se in quel che tocca alla proibizione, che s'aggiunge in quello, cioè che non lo possa imprimere altri, che Antonio Lilio, o altri di suo ordine, vi fosse cosa da notare di pregiudizio alla sua Regal Giurisdizione, o ritrovandosi altro inconveniente, o novità di considerazione, trattenga l'impressione, e ne l'informi, ed aspetti da lui nuova risposta[350]. In cotal maniera e con tali moderazioni fu il nuovo Calendario appo noi ricevuto ed osservato; e narra il Summonte[351], che per ciò in quest'anno li 4 d'ottobre furon contati per 14 e li pagamenti di tutti gli affitti si fecero per tanto meno, quanto era la valuta di que' diece giorni. Parimente fu osservato, che conservandosi nella Chiesa di S. Gaudioso una caraffina di Sangue di S. Stefano portata in Napoli, secondo che scrive il Baronio[352], da S. Gaudioso Vescovo Affricano, la quale era solita liquefarsi da se stessa il dì terzo d'Agosto secondo il Calendario antico: da poi che Gregorio fece questa emendazione non bolle il sangue, che alli 13 d'agosto, nel qual dì, secondo la nuova riforma, cade la festa di S. Stefano; onde Guglielmo Cave[353] scrisse, che questa sia una pruova manifesta, che il Calendario Gregoriano sia stato ricevuto in Cielo, ancor che in Terra alcuni paesi abbiano ricusato di seguitarlo.

(Lo stesso narrasi esser accaduto nel bollimento del sangue di S. Gennaro a' 19 settembre. E Panzirolo in prova della verità dell'emendazione Gregoriana rapporta nel cap. 177 de Clar. Leg. Interp. una Istorietta che merita esser trascritta colle sue stesse parole: Haec anni emendatio divinitus est comprobata; quoddam enim Nucis genus reperitur, quod tota hieme usque ad noctem D. Joannis Baptistae foliis, ac fructibus velut arida caret; mane ultro ejus diei, more aliarum foliis, fructibusque induta reperitur. Haec post ejus anni correctionem decem diebus priusquam antea consueverat, id est eadem nocte D. Joannis quae retrocessit, et non ut antea virescere coepit.)

§. III. Fine del Governo del Principe di Pietrapersia, e leggi che ci lasciò.

Da questi tempi in poi osserviamo, che il Re Filippo II avesse stabilito e prefisso il tempo de' governi de' suoi Vicerè di Napoli, prescrivendo, che non dovesse regolarmente durare, che per tre anni; poichè prima era riposto nell'arbitrio del Re, nè era circoscritto dentro tali confini; onde terminato, che fu ai 11 novembre di quest'anno 1582 gli convenne partire per Ispagna, e dar luogo al Duca d'Ossuna suo successore. Partì con dolore di tutti, lasciando di se, per le sue commendabili doti di pietà, mansuetudine ed assiduità nell'audienze, fama d'un ottimo Vicerè. Nel suo triennio oltre delle cose memorabili di sopra scritte, accadde a' 23 d'ottobre del 1580 nella città d'Elves la morte della Regina Anna moglie del Re Filippo, lasciando di se al Re due figliuoli D. Diego d'anni otto e D. Filippo di due, essendo gli altri due Ernando e Giovanna premorti. Egli terminò la fabbrica dell'Arsenale, e vi fece quella magnifica Porta, che guarda su 'l Molo. Fondò nelle carceri della Vicaria l'infermeria per comodo degli ammalati prigioni; e finalmente per perenne monumento della sua prudenza civile, ci lasciò intorno a trentatrè Prammatiche, ricolme di savi provvedimenti, le quali possono osservarsi nella Cronologia prefissa nel primo tomo delle medesime.

(Non solo dalla rimozione del Principe, finito il triennio, ciò si rende manifesto, ma dal diploma del Viceregnato; che da Ferdinando II fu spedito a D. Pietro di Giron Duca d'Ossuna, successore, ristretto ad unum triennium, a die captae possessionis computandum. Questo Diploma si legge presso Lunig[354] ).

CAPITOLO IV. Governo di D. Pietro Giron D'Ossuna, e sue leggi.

Per compensare in parte alle esorbitanti spese, che in servizio della Corona di Spagna avea fatte il Duca d'Ossuna, nelle guerre di Granata, nella conquista di Portogallo, ed altrove, piacque al Re Filippo II gratificarlo con uno de' maggiori governi, che si possa dare da qualunque Principe d'Europa, qual è quello del nostro Regno di Napoli. Giunse D. Pietro in questa città dopo la Legazione di Portogallo, con gran pompa e magnificenza nel mese di novembre di quest'anno 1582. Il suo natural contegno, ed un genio soverchio altiero e disprezzante, lo fece tosto cadere nel biasimo della Nobiltà; ciò che resegli il governo un poco difficile e non cotanto commendabile; di che egli molto tardi accorgendosi, cercando togliere il concetto, che s'avea di lui, che poco stimasse la Nobiltà, fecesi annoverare tra' Nobili della Piazza di Nido. Ma il successo di Starace cotanto celebre e rinomato per tutta Europa, che fu stimato degno di essere anche narrato nella sua Istoria dal Presidente Tuano[355], rese il suo governo molto più torbido ed inquieto. Non accade di quello far qui nuovo racconto, essendo stato (oltre a Tommaso Costo, di cui si valse il Tuano) minutamente descritto dal Summonte, dove questo Scrittore termina la sua Istoria, avendo qui ancora finita la sua il di lui traduttore Giannettasio.

Le continue istanze, che venivan di Spagna, perchè dal Regno si mandasse denaro per le continue spese per li bisogni del Re, agitavano non poco l'animo del Duca. Si pose in trattato d'imporre per ogni botte di vino un ducato; ma non acconsentendovi tutte la Piazze, restò quello escluso: ad ogni modo, colla promessa di nuove grazie e privilegi, si fecero al Re in tempo del suo governo due donativi: l'uno d'un milione e ducentomila ducati nel Parlamento celebrato a' 2 gennajo del 1583, dove intervenne per Sindico Muzio Tuttavilla Mobile di Porto; l'altro d'ugual somma in ottobre del 1584 essendone Sindico Scipione Loffredo di Capuana, e con effetto nell'una e nell'altra congiuntura s'ottennero quelle grazie, che si leggono nel volume de' nostri Capitoli. Pure il zelo, che egli avea di far amministrare, senza distinzione di Nobile, o di plebeo, ugualmente la giustizia a tutti, e la sollecitudine che praticava nella spedizione dei negozj, gli fecero meritare la benivolenza del Popolo. Maggiori encomj e benedizioni se gli resero per li molti beneficj, che Napoli ed il Regno ritrasse dalla sua vigilante cura ed applicazione ne' quattro anni che ci governò. Egli fu quello, che fece riparare l'Acquedotto, che dalla Villa della Polla conduce l'acqua ne' formali di Napoli. Più magnifico fu l'edificio della Real Cavallerizza, che dalle rive del Sebeto presso il Ponte della Maddalena, ov'era stato da' Re di Aragona di Napoli collocata, per la corruzione dell'aria cagionata dalle Paludi, che ivi eransi multiplicate, trasportò fuori la Porta Costantinopoli, vicino il palagio de' Duchi di Nocera. Egli fece spianare le strade, innalzare più ponti sopra fiumi, che trovansi nel cammino di Puglia, acciocchè con più sicurezza e facilità condur si potessero le vettovaglie ed altre merci per l'abbondanza di Napoli. Egli in fine ci lasciò molte prudenti ordinazioni, che si leggono in quarantasei Prammatiche, le quali ancor ci restano, e che si possono vedere nella Cronologia prefissa al primo tomo delle medesime.

CAPITOLO V. Governo di D. Giovan di Zunica, Conte di Miranda reso travaglioso per l'invasione degli sbanditi. Suoi monumenti e leggi che ci lasciò.

All'espettazione d'un prudente governo, che per la fama precorsa delle sue virtù, s'avea del Conte di Miranda, non difforme dell'altro Zunica suo zio, ben corrisposero i successi: e dal vedersi, d'essere stato egli mantenuto per nove anni continui dal Re Filippo in questo governo, si fece manifesta la soddisfazione, ch'egli incontrò non meno del proprio Principe, che de' popoli a sè soggetti. Fu ricevuto egli in Napoli dopo la partenza del Duca d'Ossuna, nel mese di novembre di quest'anno 1586 con molta contentezza ed applauso. Ma nuovi accidenti resero pur troppo faticosi e molesti gli anni del suo governo. Ancorchè ne' tempi de' suoi antecessori avesser gli sbanditi cominciato ad inquietare le province del Regno; nientedimeno il male ne' suoi principj non riputandosi cotanto grave, se non fu trascurato, almeno non s'usarono que' rimedj, che si convenivano per toglierlo affatto, ed in su lo spuntare dalle radici estirparlo. Questo fece che tuttavia crescendo, si videro a schiera que' masnadieri rinselvarsi ne' boschi, assassinare i viandanti, e svaligiare i Regj Procacci; e sempre più avanzandosi la loro audacia e ribalderia, arrivarono sino a saccheggiare le Terre anche murate, e metter tutto in desolazione e ruina, tal che il traffico non era sicuro, e 'l commercio impedito. A tutto ciò s'aggiungeva la difficoltà di praticare il rimedio, che sovente riusciva peggiore del male, poich'essendo pur troppo multiplicati, per dissiparli, si mandavano soldatesche, le quali apportavano maggiori incomodi e desolazione a' luoghi ove capitavano, e sovente inutilmente, e senza buon successo; poichè tra' monti e balze niente giovavano le milizie regolate, ed erano bene spesso deluse, e sovente anche malmenate.

Il Conte di Miranda non per ciò tralasciò d'impiegarvi per estirparli tutti i suoi talenti, e vennegli fatto d'avere in mano quel famoso bandito Benedetto Mangone, di cui rimane ancora l'infame memoria per le tante scelleratezze commesse nella Campagna d'Eboli. Fu, per altrui spaventoso ed orribile esempio, sopra un carro fatto tirare per le strade della città, strappandosegli con tenaglie le carni, e poi condotto al Mercato a' 17 aprile del seguente anno 1587 sopra una ruota a colpi di martello gli fu tolta la vita. Ma niente giovò questo terribile spettacolo; non guari da poi s'udirono le incursioni d'un altro famoso ladrone detto Marco Sciarra Apruzzese, che imitando il Re Marcone di Calabria, si faceva anche chiamare il Re della Campagna: avea egli unita una comitiva di seicento ladroni, a' quali comandava. E per la vicinanza d'Apruzzo collo Stato della Chiesa teneva corrispondenza con gli banditi di quello Stato, col quali davansi scambievolmente la mano: il Vicerè non trascurò ripararvi: proccurò in prima col Pontefice Sisto V, successor di Gregorio, che in vigor degli antichi concordati tra la Santa Sede ed il Regno di poter perseguitare i Banditi ne' loro Territorj, e scambievolmente ajutare in ciò l'un l'altro, se gli accordasse di poter mandare Commessarj nello Stato Ecclesiastico a questo fine, senza richieder ad altri licenza; e Sisto a' 14 maggio di quest'anno 1588 ne gli spedì Breve, nel quale gli dava potestà, che tanto esso quanto i Commessarj da lui destinati per la persecuzione de' Banditi e delinquenti, potessero entrare nello Stata della Chiesa, e quelli perseguitare e pigliare per tre mesi senza cercare ad altri licenza[356]. Oltre a ciò mandò più Commessarj forniti di soldatesche per sterminarli; ma furono inutili tutte queste spedizioni e cautele; poichè per le carezze, colle quali lo Sciarra generosamente trattava i naturali delle Terre dove dimorava, era fedelmente avvertito dell'imboscate, che gli si tendevano dalle genti di Corte: e la sua vigilanza era grandissima, poichè alloggiava sempre in siti inaccessibili, distribuiva le guardie, piantava le sentinelle e ripartiva la gente in luoghi proprj ed opportuni. Erasi per ciò reso poco men che invincibile, onde in molti cimenti si disbrigò sì bene, che il danno de' suoi fu poco, e la strage degli aggressori era molta.

Sopraggiunsero in questi tempi non leggieri sospetti conceputi per le stravaganti e boriose azioni del Pontefice Sisto V, il quale essendo d'un ingegno agreste, come lo qualifica il Presidente Tuano[357], non la preghiera, o la sommessione il piegava, ma solo il timore, o la forza. Quindi il Re Filippo avea date istruzioni al Conte di Miranda, che usando di questi ultimi mezzi il tenesse a freno. Il Vicerè per tanto presa quest'occasione di perseguitare i banditi, con animo per altro impegnato di sterminare Sciarra, fece ammassare quattromila soldati tra fanti e cavalli, e datone in quest'anno 1590 il comando a D. Carlo Spinelli, lo spinse contra colui per sterminarlo, ma pure riusciron contrarj gli effetti alle concepute speranze; poichè in quella azione mancò poco, che lo Spinelli stesso non vi lasciasse la vita; onde in vece d'abbatterlo, crebbe tanto il suo ardire, che senza contrasto saccheggiò la Serra Capriola, il Vasto e la città istessa di Lucera, dove restò miseramente ucciso il Vescovo Colpito in fronte da una archibugiata, mentre affacciavasi ad una finestra del Campanile, dov'erasi posto in salvo. Resesi vie più baldanzosa la sua insolenza, per la corrispondenza, che a dispetto del concordato di Sisto col Vicerè, e' coltivava co' banditi dello Stato del Papa, co' quali davansi scambievoli ajuti: a tutto ciò s'aggiungeva la protezione, che dava loro Alfonso Piccolomini ribelle del Gran Duca di Toscana, il quale ricovratosi nello Stato di Venezia, militava sotto gli stipendi di quella Repubblica nella guerra, che allora avea mossa contro gli Uscocchi.

Ma nuovi accidenti, poco da poi seguiti, tolsero alle Sciarra tutti questi sostegni. Il Gran Duca di Toscana, perchè i Vineziani discacciassero da' suoi Stati il Piccolomini, avea loro proposto, e assiduamente inculcavagli, che meglio era servirsi dello Sciarra contra gli Uscocchi, che del Piccolomini; ma avvenne, che ciò, che per questa via non potè ottenere, gli riuscì per un'altra; polche il Piccolomini, per avere in certa occasione arditamente risposto a' Capi di quel Governo, fu scacciato dallo Stato di Venezia, ed inciampato negli aguati tesigli dal Gran Duca, fu fatto in fine da costui violentemente morire. I Vineziani perciò chiamavano lo Sciarra per ispedirlo contra gli Uscocchi; ma egli non molto curava i loro inviti. Finalmente morto il Pontefice Sisto, e succeduto in suo luogo Clemente VIII, questi nutrendo i medesimi sentimenti del Conte nostro Vicerè, e tutto inteso contra i banditi dello Stato della Chiesa, vi spedì Gianfrancesco Aldobrandini per estirparli.

Il Vicerè dall'altra parte, richiamato lo Spinelli dal governo delle armi, sperimentate sotto la sua condotta poco felici, diede la cura di questa impresa con assoluta potestà a D. Adriano Acquaviva Conte di Conversano; il quale uscito da Napoli nella Domenica delle Palme del 1592 con fresche milizie, ne ammassò altre paesane, come più pratiche della campagna: ed astenendosi d'alloggiar in luoghi abitati, per non aggravarli, si conciliò totalmente gli animi de' Paesani, che tutti cospirarono con esso alla sterminazione dei banditi. Così lo Sciarra, spogliato della protezione del Piccolomini, e vedendosi stretto non meno dalle genti del Vicerè, che del Pontefice, deliberò finalmente di abbracciare il partito che gli offerivano i Vineziani; onde traghettando il mare con sessanta de' suoi sopra due Galee della Repubblica, portossi in Venezia. Ma non per ciò coloro, che rimasero, s'astenevano di danneggiar la campagna, guidati da Luca fratello di Sciarra, e fomentati dallo stesso Sciarra, che da Venezia di quando in quando ritornava ad animarli, finchè, una volta, giunto alla Marca con parte della sua Comitiva, non fosse stato ucciso da un suo compagno chiamato Battimello, che in premio del tradimento ottenne dall'Aldobrandini per sè e per altri tredici suoi compagni il perdono. Questo fine ebbe lo Sciarra, che per lo spazio di sette anni continui avea travagliato lo Stato della Chiesa ed il Regno. Cessarono con la sua morte le scorrerie de' banditi, sterminati poi interamente dal Conte di Conversano, che ritiratosi con molto onore in Napoli, fu dal Vicerè molto ben visto e careggiato. Ma se cessarono al presente, non fu però, che non pullulassero ne' seguenti anni, travagliando il Regno sotto altri Capi, non men di quello che aveano fatto sotto lo Sciarra e Mangone. La gloria di doversi affatto estirpare e di perdersene fra noi ogni memoria, l'avea riserbata il Cielo all'incomparabile D. Gaspare di Aro Marchese del Carpio, a cui il Regno, fra tanti, deve questo inestimabile e grande beneficio.

Non meno per queste incursioni, che per le continue premure, che venivan di Spagna per denari e per gente, riuscì travaglioso al Conte il suo governo. L'impegno, nel quale il Re Filippo era entrato contra l'Inghilterra e la Francia, finì d'impoverire il Regno, per tante spese e donativi, che fu d'uopo somministrare. In quella grande Armata, che con infelice successo spinse egli contra l'Inghilterra, vi ebbe ancor parte il nostro Regno: nel nostro Arsenale furono fabbricate quattro Galeazze, che dal Conte di Miranda furon mandate nel Porto di Lisbona per accrescere quella armata, la quale dissipata dalle tempeste nel 1588, e assorbita dal mare, rovinò la Spagna, e sparse tutti i suoi disegni al vento, e le mal concepite sue vaste idee. Per la guerra che i Franzesi aveano accesa in Savoja, furono parimente dal nostro Regno nel 1593 inviati dal Conte quattromila e cinquecento pedoni sotto il comando del Prior d'Ungheria, acciò che nella Savoja fossero impiegati contra i Franzesi. Per supplire adunque alle spese di tante spedizioni ne' nove anni di questo suo governo, nel 1586, 1588, 1591, 1593 e finalmente nel 1595, si estorsero dal Regno cinque donativi, ciascuno de' quali fu d'un milione, e ducentomila ducati[358].

Non meno da Francia e da Inghilterra, che da Costantinopoli vennero in questi tempi al Conte ed a noi i mali e le travagliose cure. L'apparecchio d'una potentissima armata, che facevasi in Costantinopoli, pose il Regno in molti timori, ed in grave costernazione: per prevenire il male, il vigilante Vicerè fece tosto provedere di munizione, e di gente le Piazze più gelose del Regno, e particolarmente i Castelli di Brindisi, d'Otranto, di Taranto e di Gallipoli: fece radunare anche la Cavalleria e Fanteria de' Battaglioni, e pose alcune Fregate in que' mari, che vegliassero a' disegni dell'inimico. Ed in effetto queste precauzioni, ancorchè dispendiose, non riuscirono infruttuose: poichè nell'anno 1593, tentatasi in vano da' Turchi l'invasione della Sicilia, s'avvicinarono alla Catona, luogo della Calabria vicino a Reggio, dove subitamente accorso Carlo Spinelli, dichiarato Capitan a guerra dal Vicerè, convenne loro partirne, se bene con preda d'alcuni, e di qualche danno recato alla campagna: ma ritornati a' 2 di settembre al Capo dell'Armi, diedero fondo con cento vele nella Fossa di S. Giovanni, saccheggiarono Reggio, e quattordici Terre di quel contorno: e comparsi ne' Mari di Taranto e di Gallipoli, scorgendo di non potere in quelle spiagge tentar cosa di loro profitto, per la vigilanza delle soldatesche che le guardavano, si ritirarono alla Velona.

Ma con tutte queste fastidiose cure e travagliose occupazioni, non mancò con perenni monumenti, che si ammirano ancora, di beneficare la Città e Regno ad imitazione de' suoi predecessori. A lui dobbiamo quel maestoso piano, che si vede fino al dì d'oggi davanti al Regio Palagio, il qual serve non meno alle milizie di Piazza d'armi, che d'Anfiteatro dignissimo alla Nobiltà, in occasione di giostre, giuochi di tori, tornei ed altri spettacoli. A lui dobbiamo la strada, che da Napoli conduce in Puglia fatta di suo ordine spianare per maggior comodo de' Viandanti. A lui si deve l'ingrandimento del Ponte magnifico della Maddalena su il fiume Sebeto; e 'l ristoramento dell'altro, che conduce dalle radici del Monte d'Echia al Castello dell'Uovo. Alla sua magnificenza parimente si dovea il prospetto della Chiesa di S. Paolo de' PP. Teatini, ove era il Tempio dedicato a Castore e Polluce, riducendolo in quella forma, che si vedeva prima che l'abbattesse il tremuoto accaduto a' 5 giugno del 1688, ed alla sua pietà dobbiamo il ristoramento delle tombe e sepolcri de' Re Aragonesi posti nella Sagrestia di S. Domenico, i quali, coperti di broccati, fece riporre nel medesimo luogo sotto ricchissimi baldacchini. Egli in fine con maggiore utilità fece edificare quel palagio, che diciamo la Polveriera, per evitare il pericolo degl'incendj tante volte accaduti, facendolo perciò costruire in luogo disabitato fuori la Porta Capuana, per uso della fabbrica della polvere.

Durò il suo governo nove anni, ne quali pubblicò intorno a cinquantotto Prammatiche, donde si vide quanto gli fosse stata a cuore la giustizia, la emendazione de' Magistrati, q la uguale distribuzion delle Cariche a proporzione del merito. Tolse egli molti abusi introdotti nel Tribunale della Vicaria, e del S. C. e fece molte ordinazioni per la sollecita spedizione delle cause, e diede varj provvedimenti intorno alla pubblica annona, li quali possono vedersi nella Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche. Partì da Napoli per la venuta del successore a' 25 novembre dell'anno 1595, accompagnato dalle benedizioni de' popoli, lasciando in Napoli, quasi per pegno del suo amore, D. Giovanna Pacecco sua nipote, maritata con Matteo di Capua Principe di Conca e G. Ammiraglio del Regno.

CAPITOLO VI. Del Governo di D. Errico di Gusman Conte di Olivares: Sue virtù, e leggi che ci lasciò.

Il Conte di Olivares fu uno de' più savj e prudenti Ministri ch'ebbe in questi tempi la Spagna, e per la grande perizia e facilità che avea nell'espedizione degli affari politici e più gravi della Monarchia, s'acquistò presso gli Spagnuoli il soprannome di Gran Papelista. Fu egli perciò dal Re Filippo II, savio discernitore dell'abilità de' soggetti, impiegato nelle cariche di maggior confidenza e più gravi, avendolo in tempi cotanto difficili mandato suo Ambasciadore nella Corte di Roma, appresso la persona del Pontefice Sisto V, con cui, per l'ingegno di questo Papa cotanto stravagante e bizzarro, per lo spazio di molti anni ebbe a trattare affari molto fastidiosi e difficili. In tempo di questa sua ambasceria gli nacque D. Gaspare di Gusman, chiamato poscia il Conte Duca: quegli che sotto il Regno di Filippo IV governò con titolo di privato per lo spazio di ventidue anni la Monarchia. Di Roma passò poi a governar la Sicilia, donde dal Re Filippo fu destinato successore del Conte di Miranda. Giunse egli in Pozzuoli nel mese di novembre di quest'anno 1595, e dopo alcuni giorni entrò in Napoli ricevuto con molto applauso, e con le solite cerimonie del Ponte, Sindico e Cavalcata.

Non passò lungo tempo, che ciascuno s'accorse del suo genio serio e severo, e lontano da' passatempi. Non curava molto, che i Nobili lo corteggiassero nelle anticamere: diede bando alle danze, alle commedie, ed alle feste, solite farsi in Palazzo da' suoi predecessori. Tutta la sua applicazione era in dar udienza ad ogni ora; soprantendere con vigilanza alla retta e rigorosa amministrazione della giustizia: e quello, che lo distinse sopra tutti gli altri fu lo studio grande, che pose nell'economia del Governo, cosa non molto curata dagli Spagnuoli, anzi dell'intutto da loro sempre trascurata.

A questo fine pubblicò molte Prammatiche, colle quali riformò molli abusi, e particolarmente la vanità de' Titoli, che in iscritto, ed a voce molti superbamente arrogavansi, ed i lussi smoderati negli abiti delle donne. Al suo genio severo s'accoppiò quello di Lodovico Acerbo, Giureconsulto genovese di nazione, da lui creato Reggente di Vicaria, il quale non meno delle gravi, che delle colpe leggiere era giusto vendicatore. Si sterminarono per ciò i ladri ed i giocatori, e le campagne furono in riposo. Vegghiava, perchè nella città e nel Regno l'abbondanza non mancasse, dandovi provvidi ordinamenti, facendo a tal fine costruire quel Palazzo, che chiamiamo la Conservazione delle farine, per riporvi li frumenti e le farine, che vengono per via del mare, per servigio della pubblica annona; e poste in assetto queste due importantissime faccende, s'applicò ad abbellire la Città, colla scorta del Cavalier Domenico Fontana famoso Architetto di que' tempi. Egli fece appianare la strada, che dal Molo grande conduce al picciolo, ed ergervi una fontana: diede principio all'altra, che dalla marina del vino conduce alla Pietra del Pesce, ridotta poi a perfezione dal Conte di Lemos suo successore. Fece appianare ed allargare e porre in linea retta la strada, che dal Convento della Trinità di Palagio conduce a S. Lucia, volendo che dal suo cognome si chiamasse Via Gusmana. Egli diede l'ultima mano all'ampio edificio del maggior Fondaco, o sia Regia Dogana di Napoli, ed oltre molte altre magnifiche sue opere, che adornano questa città, rialzò il tumulo di Carlo Martello Re d'Ungheria, e lo ridusse in quella magnificenza, che ora veggiamo sopra la porta del Duomo di Napoli.

Ma la morte accaduta a' 13 di settembre del 1598 del Re Filippo II (della quale diremo più innanzi) di cui egli in gennajo del nuovo anno 1599 fece celebrare pompose e superbissime esequie, abbreviò gli anni del suo governo; poichè non avendo trovato presso il nuovo successore Filippo III quella grazia, della quale egli interamente godeva con suo padre, diede a' suoi emoli campo di querelarlo al nuovo Re, per un'occasione che diremo. Per li fallimenti seguiti di diversi Banchieri con grandissimo danno di non poche persone, che tenevano il denaro nelle loro mani, fu proposto al Vicerè dal Mercatante Salluzzo genovese l'espediente di istituire in Napoli una Depositaria generale, nella quale si dovessero fare tutti i depositi della città e del Regno: vi si opposero i Deputati della città, affermando, ch'essendovi molti Banchi fondati da' Luoghi Pii, e governati con sommo zelo, ne' quali potevano farsi sicuramente simiglianti depositi, non era ragionevole violentare l'arbitrio dei Cittadini a confidare il denaro in mano de' forastieri. Ma perchè l'espediente pareva al Vicerè, che fosse molto profittevole al pubblico, interpetrando l'opposizione de' Deputati per un emulazione invidiosa alla sua gloria, fece imprigionare il Principe di Caserta, Alfonso di Gennaro, ed Ottavio Sanfelice, come quelli ch'erano stimati fra Deputati di maggiore autorità. Offese da ciò le Piazze di Capuana, Porto e Montagna, dopo avere eletti altri Nobili per empire i luoghi de' prigionieri, spedirono segretamente alla Corte di Madrid Ottavio Tuttavilla de' Conti di Sarno, affine di rappresentare al Re le violenze usate dal Conte per opprimere nelle persone de' Deputati le ragioni della città. Il Vicerè informato, che ogni cosa era cagionata da' consigli di D. Fabrizio di Sangro Duca di Vietri, allora Scrivano di Razione, fece imprigionarlo, pigliando il pretesto dell'accuse fattogli promovere contra dal Marchese della Padula Giovan-Antonio Carbone nemico del Duca. La nuova carcerazione del Sangro accrebbe alla Corte le querele contra il Vicerè, e diede maggiormente spirito al Tuttavilla d'esclamare a' piedi del Re, e dipingere a suo modo i rigori e le violenze, ch'e' diceva praticarsi dal Conte contra la Nobiltà e suoi fedeli vassalli, per soddisfare alla propria vendetta con pregiudizio della giustizia. Il Re nuovo al governo de' suoi Regni, deliberò per tanto di rimuoverlo, e gli destinò per successore il Conte di Lemos, il quale venuto in Napoli all'improvviso, obbligò l'Olivares a partirsi tosto, e ritirarsi in Posilipo nel Palagio del Duca di Nocera. donde, a 18 di luglio dell'anno 1599, s'incamminò alla volta di Spagna. Fu creduto, che il suo governo sarebbe stato più lungo, se non fosse accaduta la morte del Re Filippo II; poichè non poteva desiderarsene uno più giusto, ed una provvidenza più saggia, ed una applicazione più indefessa di quella, che ammirossi nel Conte. Lo dimostrano le leggi, che ci lasciò, avendo egli in questi quattro anni del suo governo promulgate intorno a trentadue Prammatiche, tutte utili e sagge, le quali potranno leggersi nella tante volte mentovata Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO VII. Morte del Re Filippo II, suo testamento, e leggi che ci lasciò; e delle varie Collezioni delle nostre Prammatiche.

Intanto il Re Filippo grave già d'anni e da molte e varie infermità travagliato, scorgendo non dover essere molto lontano il fine de' suoi giorni, cominciò seriamente a pensare alla partita, ed a provvedere, per quanto l'umana prudenza può giungere, a' mali, che dopo la sua morte avrebbero potuto sorgere, cadendo la Monarchia in mano di Filippo suo figliuolo. Era già morto il Principe D. Diego, e sol rimaneva per successore di una sì ampia Monarchia Filippo, giovane, e ch'egli ben conosceva inesperto, non meno al maneggio degli affari di Stato, che a trattare le armi. A questo fine e' sollecitò la pace col Re di Francia Errico IV, affinchè mancando, non lasciasse il figliuolo nel principio del suo Regno intrigato in una guerra con un Principe cotanto allora invitto e potente: fu conchiusa questa pace a Vernin li 2 maggio di quest'anno 1598, l'istrumento della quale è rapportato da Lionard nella sua Raccolta[359], onde nel mese di giugno del medesimo anno, imitando l'Imperador Carlo suo padre, cominciò a disporsi a tal passaggio e ad abbandonare le cure moleste del Regno, e sentendosi per li continui dolori d' artritide molto debilitato, ancorchè i medici fossero di contrario parere, egli in ogni modo volle, che vivo fosse trasferito nel Monastero di S. Lorenzo dello Scuriale, lontano da Madrid sei leghe, dove avrebbe dovuto portarsi, morto che fosse. Quivi giunto se gli accrebbero i dolori della chiragra e pedagra: nè questi bastando, se gli aggiunsero altri mali, e fra gli altri s'osservò nel ginocchio destro un doloroso tumore, che aperto, ancorchè si mitigasse il dolore, non per ciò s'ebbe speranza di sua vita; anzi poco da poi se ne videro quattro altri nascere nel petto, che parimente aperti, diffusero per tutto il corpo un così pravo umore, che cangiossi in una colluvie sì grande di pidocchi per tutta la persona, che quattro uomini, di continuo a ciò impiegati, appena bastavano a mondarlo di tanta sporcizia: se gli aggiunsero da poi una febbre etica terzana, più ulcere alle mani, ed agli piedi, una disenteria, un tenesmo e finalmente una manifesta idropisia, non cessando intanto la colluvie de' pidocchi, la quale non meno d'uno miserando spettacolo, serviva per un gran documento a tutti delle umane cose. In questo stato però, cotanto spietato e doloroso, serbò egli sempre una somma costanza e fortezza d'animo; finchè assalito da un parossismo, avendo già preso il Viatico, si dispose agli ufficj estremi: fece per tanto, prima di rendere lo spirito, chiamarsi il Principe Filippo e Chiara Eugenia Isabella sua dilettissima figliuola; e dall'Arcivescovo di Toledo in loro presenza e degli altri Grandi della sua Corte, prese la penitenza: è questa penitenza una spezie di consecrazione, già da molti anni solita usarsi in Ispagna tra' Principi e Grandi, della quale S. Isidoro nella Cronica prefissa alle leggi de' Westrogoti fece menzione, distinta dall'Estrema Unzione, che usa la Chiesa. Poi voltatosi a Filippo gli raccomandò caldamente la sua sorella, e diegli alcuni avvertimenti, ch'egli in vita avea scritti e tenevagli serbati per darglieli nell'estremo di sua vita. Si prescrisse egli stesso la pompa dei suoi funerali; ed aggravandosi l'agonia, benedisse i figliuoli, e quelli licenziati, finalmente rese lo spirito a' 13 di Settembre di quest'anno 1598 nel settantesimosecondo anno di sua età dopo averne regnato quarantaquattro.

Fu Filippo di statura breve, ma venusta, di volto grave, ma giocondo, ben fatto di membra, e di biondo crine. Fu d'ingegno elevato e sagace: nell'ozio desideroso d'affari: accurato nel trattargli e dalle altrui calamità cercava trar profitto, colle quali arti seppe conservare, ed accrescere ciò che il padre aveagli lasciato, esperimentò quanto grande, altrettanto varia e difforme fortuna. Quattro anni prima si trovò avere in Madrid fatto il suo testamento. In quello, prima d'ogni altro, ordinò, che si soddisfacessero con buona fede tutti i suoi creditori: si rifacesse il danno cagionato a' privati per le cacce, che aveasi riserbate nelle selve ed altri luoghi, ch'egli aveasi chiusi a questo fine. Lasciò molti maritaggi da dispensarsi a povere vergini di buona fama: altri Legati fece per redenzione de' cattivi Cristiani, ch'erano in ischiavitù in mano de' Turchi: molte elemosine e Legati pii lasciò a varie Chiese, imponendo a' suoi Esecutori, che vendessero tanti suoi mobili per soddisfarli, li quali, se non bastassero, ordinò, che il rimanente si supplisse dalle gabelle e dazj de' suoi Regni.

Raccomandò il culto e venerazione, che deve prestarsi alla Chiesa Romana, comandando, che gli Ufficiali dell'Inquisizione, destinati per estirpare le nascenti sette, siano stimati ed avuti in pregio e che se mai accadessero controversie intorno all'interpetrazione di questo suo testamento, quelle si commettessero alla decisione de' Giureconsulti e Teologi periti.

Ordinò, che tutto il suo regal patrimonio, con le ragioni, privilegi e gabelle de' suoi Regni, Stati e città, sia diligentemente conservato: non si alienassero, non s'impegnassero, o si dividessero; ma tutte unite si serbassero al suo erede, acciò con più vigore possa difendere la grandezza del suo Imperio e la Religione Cattolica.

Che parimente il Regno di Portogallo, per succession legittima novellamente a lui pervenuto, con tutte l'Isole nel Mare Atlantico, e nell'Oriente a quello appartenenti, resti unito al Regno di Castiglia, di maniera che da quello per niun tempo o cagione possa separarsi.

Istituisce poi suo erede universale ne' Regni di Castiglia, d'Aragona, di Portogallo e di Navarra, Filippo suo carissimo figliuolo. Nel Regno di Castiglia come a quello uniti, comprende i Regni di Lione, di Toledo, di Galizia, di Siviglia, di Granata, di Cordova, di Murcia, Jaën, Algaria e Cadice, le Isole Fortunate, le Indie, l'Isole, e 'l continente del Mare Oceano, del Mare Settentrionale e Meridionale: quelle che si sono già scoverte, e quelle, che in avvenire si scovriranno.

Sotto il Regno d'Aragona comprese i Regni di Valenza, di Catalogna, di Napoli, Sicilia, Sardegna e le Isole Baleari, Majorica e Minorica.

Sotto quello di Portogallo, comprese Algarbe, le Regioni e le città in Affrica, l'Isole e gli altri paesi nel Mare Orientale.

Parimente istituì erede l'istesso Filippo nel Ducato di Milano e nelle Dizioni di Borgogna, ripetendo la clausola, che tutti questi Regni interamente cedano al primogenito suo erede, nè che in alcun caso possano dividersi, separarsi, ovvero pignorarsi, eccettuatone quando ciò si faccia per contratto celebrato dalle corti del Regno, secondo la forma prescritta dal Re Giovanni II, in Valladolid nell'anno 1442, e poi confermata da' Re Ferdinando ed Isabella ed ultimamente dall'Imperador Carlo suo padre, parimente in Valladolid nell'anno 1523.

Mancando Filippo senza figliuoli, gli sustituì Isabella sua figliuola, e questa parimente accadendo morire senza prole, le sustituisce Caterina e i di lei figliuoli col medesimo ordine, li quali mancando, sustituisce Maria Augusta sua sorella e i di lei figli col medesimo ordine: e finalmente, questi mancando, sustituisce colui, che dalla legge sarà chiamato alla successione, purchè però questi fosse vero Cattolico, nè macchiato di eresia, ovvero di quella sospetto[360].

Dall'unione di questi Regni ne eccettuò le Dizioni di Borgogna, sotto il nome delle quali intese la Contea, il Principato di Lucemburg e Limburg, Namur, Artois, l'Annonia, la Fiandra, Brabante, Malines, la Zelandia, Olanda, Frisia e la Gheldria, le quali all'Infante sua figlia avea destinate per dote. Per ultimo, per evitare i pericoli degl'Interregni sotto i Tutori e Reggenti, rinnovò ne' suoi Regni la legge e stabilì, che subito che il Principe successore giunga all'età di quattordici anni, si abbia come maggiore e che per se medesimo possa amministrare il Regno.

Due anni da poi, trovandosi nel Monistero di S. Lorenzo, ordinò un codicillo, nel quale confermando il testamento prima fatto, fra le altre cose raccomandò, che le sue ragioni sopra il Regno di Navarra e sopra Finale, occupato da lui non guari innanzi nel Genovesato, si rivedessero esattamente da uomini probi e periti, e trovatele forse di poco momento, affin di quietarsi la sua coscienza, si pensasse all'emenda. Nel medesimo codicillo fu destinata Gregoria Massimiliana, figliuola di Carlo Arciduca d'Austria per moglie a Filippo erede; ma questa essendo morta dopo pattuite le nozze, fu la sorella Margarita assunta in suo luogo. Parimente fu destinata l'Infante Isabella per moglie ad Alberto d'Austria, assignandosele per dote la Fiandra.

Narra il Presidente Tuano[361], che oltre di questo codicillo, si parlava ancora d'avere egli lasciati alcuni secreti precetti e ammonizioni trascritte da molte note, le quali, ordinò nel medesimo codicillo, doversi abbruciare dopo la sua morte. Infra gli altri ingenuamente confessava aver egli inutilmente consumati più milioni, nè altro averne ritratto, che il solo Regno di Portogallo, il quale reputava colla medesima facilità potersi perdere, colla quale fu perduta la speranza concepita dell'acquisto del Regno di Francia: per ciò ammoniva suo figliuolo, che stesse vigilante negli interessi de' vicini Regni e secondo le risoluzioni di quelli prendesse consiglio: che per ben governare la Spagna attendesse a due cose, alla civile amministrazione, con tenersi ben affette la Nobiltà e l'Ordine Ecclesiastico, ed alla navigazione dell'Indie: proccurasse unione e concordia co' Principi vicini, poco fidando ne' lontani. Imponeva al primogenito che sopra tutto coltivasse amicizia stretta co' Pontefici Romani, fosse a quelli riverente ed in tutte le occasioni si mostrasse apparecchiato a sovvenirgli. Si conciliasse l'amore de' Cardinali, che dimoravano in Roma, affinchè per mezzo di quelli nel Concistoro e nel Conclave acquistasse autorità. Si conciliasse parimente l'amore de' Vescovi della Germania, ed avesse pensiero, che le pensioni che loro si somministravano, non per Cesare o per li suoi Ministri, ad essi si distribuissero, come prima, ma si servisse in tutto dell'opera de' proprj Ministri. Lo persuadeva in fine, che richiamasse dalla Francia, ove era esule, Antonio Perez e lo facesse ritirare in Italia, con legge però, che non mettesse il piede nè in Ispagna, nè nelle Fiandre.

Con queste disposizioni e ricordi, morto Filippo, fu il suo cadavere con poca pompa seppellito nella Chiesa di S. Lorenzo, vicino al corpo della Regina Anna sua ultima moglie, come egli avea prescritto. E nel medesimo giorno il Re Filippo, che di qui avanti lo diremo III, scrisse al Pontefice, dandogli con molte lagrime insieme ed ossequio, avviso della morte del Re suo padre, chiedendogli in tanta mestizia qualche suo conforto, e due giorni da poi partì con la sorella e si portarono in Madrid, mentre s'apparecchiavano ivi le esequie con regal pompa e fasto. Il giorno di San Lucca nel Convento di S. Girolamo s'erse il mausoleo: ed assisterono a questi lugubri uffici il Re e la sorella: gli Ambasciadori del Papa, di Cesare e del Senato di Venezia: gli Ordini delle Religioni militari: i Reggenti de' Consigli di Castiglia, d'Aragona, dell'Inquisizione, d'Italia, dell'Indie ed altri Signori e Grandi di quella Corte.

In Napoli giunse la mestissima novella di sua morte nel principio d'ottobre di quest'istesso anno 1598, ed il Re Filippo III non mancò di scrivere agli Eletti di lei avvisandogli, com'era piaciuto al Signore di chiamare al Cielo suo padre, e però voleva, che con l'usata fede attendessero al suo servizio, eseguendo quanto in suo nome avesse loro comandato il Conte di Olivares, che confermava suo Vicerè e supremo Ministro, com'era stato fin allora del Re suo padre. Si congregarono per ciò i Baroni nel regal Palagio con la maggior parte della Nobiltà ed Ufficiali, dai quali accompagnato a' 11 del medesimo mese d'ottobre cavalcò il Vicerè per Napoli, e coll'usate cerimonie e solennità si gridò il nuovo Re per tutta la città e principalmente nelle cinque Piazze de' Nobili ed in quella del Popolo. Il giorno appresso si vide tutta la città in lutto e s'ordinarono dal Vicerè superbi funerali. Si diede ordine, che il mausoleo s'ergesse nella Chiesa Cattedrale, dove si dovessero celebrare l'esequie con pompa regale e conveniente ad un tanto Principe. L'ultimo di gennajo del nuovo anno 1599 fu il dì destinato a tanta celebrità, nella sera del quale si cominciarono, e finirono nella mattina del dì seguente con tanta magnificenza e pompa, che Napoli non ne vide altra volta nè pari, nè maggiori: fu data dal Vicerè la cura d'attendere all'invenzioni ed agli ornamenti, così del mausoleo, come anche della Chiesa ad Ottavio Caputi di Cosenza, il quale, oltre avere adempite le parti a se commesse, diede poi alle stampe un volume, dove minutamente furono queste pompe funerali descritte, colle composizioni, che vi s'affissero di varj ingegni Napoletani, e per la maggior parte de' Gesuiti, presso i quali allora era in Napoli quasi che ristretta la letteratura.

Il Re Filippo II, non meno che i suoi Luogotenenti, per li quali e' governò questo Regno, lasciò a noi molte utili e provvide leggi, che per lo corso di quarantaquattro anni del suo Regno, secondo le varie occasioni, egli mandò a dirittura di Spagna, perchè fossero osservate, essendo cominciate sin dal primo anno 1554, quando gli fu fatta la cessione dall'Imperador Carlo suo padre, e per tutto il penultimo anno del suo Regno 1597, le quali possono osservarsi nella Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche.

§. I. Collezioni delle nostre Prammatiche.

Erano intanto (cominciandosi dal Re Cattolico insino al Regno di Filippo III) le novelle Prammatiche emanate così da' nostri Principi, come da Vicerè loro Luogotenenti per lo spazio poco men d'un secolo, cresciute in tanto numero, che farsene di quelle una Raccolta era pur troppo necessario: non solo perchè la loro osservanza maggiormente s'inculcasse a' Popoli, ma per maggior agio de' Professori e de' Magistrati, affinchè avessero i primi dove ricorrere per allegarle, ed i secondi per le decisioni delle cause. Per ciò erasi introdotto, che nelle ristampe che si facevano delle Costituzioni e Capitoli del Regno, vi s'aggiungessero anche le Prammatiche fino a quel dì promulgate. Così nelle edizioni delle Costituzioni e Capitoli del Regno ristampate, ed in Napoli, ed in Venezia, leggiamo ancora molte Prammatiche ivi aggiunte; e nell'edizione di Venezia dell'anno 1590 le Prammatiche aggiunte arrivano sino al tempo di D. Pietro di Toledo nell'anno 1540. Nel 1570 in Napoli, siccome porta il Chioccarello[362], se ne fece la prima edizione; e nel 1591 si fece un'altra più esatta raccolta, ed in un volume separato si videro stampate in Napoli in quarto, il qual volume correva per le mani di ogni uno, reso ora molto raro, per le altre Compilazioni fatte da poi che l'oscurarono, la qual Raccolta però non deve trascurarsi, almeno per l'Istoria, leggendosi in quella alcune Prammatiche pretermesse nelle altre Compilazioni più moderne. Scipion Rovito da poi fece una nuova Compilazione con nuovo ordine e più copiosa, riducendo i titoli secondo l'ordine dell'alfabeto: il qual metodo fu da poi seguitato nell'altre Compilazioni. Questo Autore, oltre i suoi Commentarj, raccolse tutte le note e le esposizioni, che i più antichi vi aveano fatte, de' quali il Toppi[363] tessè lungo catalogo. Oltre d'alcune altre, Biagio Altimare nel Regno di Carlo II ne fece un'altra assai più copiosa, divisa in tre volumi; ed ultimamente a' dì nostri nel 1715 se ne formò un'altra più ampia, la quale ora va per le mani di tutti. In cotal maniera alle Costituzioni, Capitoli, Riti, così della Vicaria, come della Camera, ed al volume de' Privilegi e Grazie della città e Regno, si aggiunsero questi altri delle Prammatiche.

§. II. Del Codice Filippino, compilato per privata autorità dal Reggente Carlo Tappia.

Multiplicati in cotal guisa i volumi delle nostre patrie leggi, venne pensiero in questi tempi al Consigliere Carlo Tappia, poi Reggente, di compilarne un solo, ove con nuovo ordine potessero le leggi sparse in tanti volumi leggersi tutte unite e collocate sotto la materia che trattano, sotto titoli convenienti. Si propose per ciò egli l'ordine tenuto da Giustiniano nel suo Codice e valendosi de' medesimi titoli, sotto ciascuno collocò a suoi luoghi le leggi a quel soggetto appartenenti. Avvertì con tal occasione e separò le Costituzioni, che per desuetudine non erano osservate, da quelle che aveano vigore: conciliò le ripugnanti; ed accrebbe le Annotazioni degli antichi nostri Giureconsulti con le sue nuovamente aggiuntevi. Avea dato egli a quest'opera il titolo di Codice Filippino[364], per averlo dedicato al Re Filippo III; non altrimente di ciò, che fece Antonio Fabro, che voleva, che il suo si chiamasse Codice Emanuele, per averlo dedicato ad Emanuele Duca di Savoja; ma siccome le costoro Compilazioni si facevano per privata autorità, non per commessione del Principe, così a questa del Tappia rimase il nome di Jus Regni ed a quella di Fabro del Codice Fabriano: da non paragonarsi però l'un Codice coll'altro, cedendo questo di Tappia al Fabriano, sia per gravità ed eleganza, sia per dottrina legale e molto più, perchè Tappia niente altro vi fece, che collocare le costituzioni istesse sotto que' titoli, che prefisse, seguitando l'ordine di Giustiniano; ma Fabro le compilò egli stesso e furono parti del suo sublime ingegno. Divise il Reggente questa sua opera in sette libri, li quali non fur impressi tutti in un tempo, ma secondo che uno terminavasi, si dava alla luce. Il primo libro fu compilato nel primo anno dei Regno di Filippo III, onde per ciò l'Epistola dedicatoria, che si legge prefissa a quest'opera, porta la data del 1598, ancorchè l'edizione di quello insieme col secondo libro si fosse differita insino all'an. 1605. Il secondo libro fu terminato a' 16 luglio del 1604. Il terzo a' 19 agosto del seguente anno 1605, ancorchè l'edizione si fosse differita al 1608 insieme col quarto. Il quinto lo compilò mentr'egli era Reggente nel supremo Consiglio d'Italia, e fu poi dato alle stampe nel 1633; siccome il sesto che si stampò nel 1636. Il settimo, e l'ultimo, fine di tutta l'opera, parimente lo terminò in Madrid a' 4 ottobre del 1615, ancorchè poi si stampasse in Napoli nel 1643, penultimo anno della sua vita.

Più nobile idea d'un nuovo Codice fu proposta negli ultimi nostri tempi, alla compilazion del quale, non per privata autorità, ma per commessione pubblica fu dato principio da insigni Giureconsulti; ma non sì tosto fur poste le mani all'opera, che per varj accidenti svanì il bel disegno, tal che ora non ne rimane alcun vestigio.

CAPITOLO VIII. Stato della nostra Giurisprudenza nel fine di questo XVI Secolo, e principio del seguente, così nell'Accademie, come ne' Tribunali; e de' Giureconsulti, che vi fiorirono.

Non deve recarci maraviglia, se nel decorso di questo secolo e più verso il suo fine, la Giurisprudenza del Foro fosse cotanto presso noi esercitata e rialzata cotanto, quanto dimostrano il numero delli Professori e delle loro opere, e l'ingrandimento indi seguito de' nostri Tribunali. Le nuove Leggi, i tanti nuovi istituti; la varietà di tante nuove cose incognite a' Romani, nuovamente stabilite, la resero assai più vasta e sterminata; i tanti nuovi affari, che doveansi quivi trattare, resero i Tribunali molto più ampj e frequentati. Niente dico del nuovo diritto Canonico stabilito nell'Imperio, che portò seco tanta ampia materia di disputare sopra i confini dell'una e l'altra potestà, onde sursero le tante controversie giurisdizionali e la maggior occupazione del Collateral Consiglio, il quale inteso al governo del Regno, bisognò attendere non meno a quello, che a regolare e soprantendere in queste cose, affinchè l'una potestà stesse ristretta ne' suoi limiti e non facesse delle sorprese sopra l'altra: niente dico della nuova materia beneficiaria, delle elezioni, collazioni, resignazioni, translazioni, juspatronati, decime e tante altre quistioni attinenti allo Stato e Gerarchia Ecclesiastica.

La nuova materia Feudale incognita a' Romani, cotanto presso di noi esercitata per li tanti Feudi, e di così varia natura, de' quali il Regno abbonda, multiplicati in questo secolo molto più di prima, quante contese doveano recare, e quanto pascimento per ciò portare agli ingegni dei nostri Professori? Per ciò sopra questo soggetto i Napoletani s'hanno lasciato indietro tutti li altri Professori d'altre Nazioni. Un Regno da' Spagnuoli diviso in tante nuove investiture, tanti Baroni multiplicati, non potevano non accrescere lo studio feudale, e non empire i Tribunali di nuove dispute e quistioni.

La dottrina delle Regalie, poco nota agli antichi, e li diritti di quelle, cotanto stese da' nostri Principi, sopra le cacce, fodine, tesori, foreste e sopra tante cose, quanto s'è potuto vedere ne' precedenti libri di quest'Istoria: i tanti nuovi dazj e le tante nuove dogane e gabelle, le alienazioni, le pignorazioni di quelle: le nuove collette e fiscali, e tanti altri nuovi jus prohibendi introdotti a quasi tutte le cose, onde la vita umana si conserva, somministrarono abbondante materia al Tribunale della Regia Camera per tener occupati i suoi Ufficiali, tanto che non bastando il numero prima stabilito, bisognò accrescerlo, e farne degli altri in numero maggiore, e somministrarono ancora a' Professori nuova materia a' loro scritti ed a' lor volumi, che vi composero, ed a multiplicarsi per la abbondanza delle liti, che ne sursero, e a far sì che la gente s'applicasse molto più, che prima a questo mestiere.

I tanti nuovi Ufficiali, introdotti a questi tempi, non meno nel nostro Reame, che in quello di Francia; tanto che quivi, per lo lor eccessivo numero, fu nel 1614 lungamente dibattuto di levarne un numero grande, del che il Savarone ne stese una dotta scrittura[365]: le tante contese per ciò insorte per regolare le giurisdizioni, le loro precedenze, i loro diritti ed emolumenti; e perciò stabiliti tanti nuovi Ufficj, la multiplicità di quelli, e la loro varietà, esercitarono molto più le penne dei nostri scrittori.

Ma sopra tutto furono aperti al Tribunal del S. C. abbondantissimi fonti, onde la sua applicazione fosse maggiore, e per conseguenza s'accrescessero le sue Ruote, si moltiplicassero i suoi Ufficiali, ed il numero degli Avvocati si rendesse più ampio. La materia de' testamenti, delle successioni, delle detrazioni di legittima, e suoi privilegj, e le loro solennità: il nuovo modo introdotto di testare, spiegato sotto nome di testamenti nuncupativi impliciti, di testamenti canonici, non conosciuti dagli antichi; di ridurgli insieme con l'altre ultime volontà, vivente anche il testatore, in forma pubblica: i nuovi testamenti ordinati avanti il Parroco: le disposizioni fatte a cause pie, e tante altre novità sconosciute dalle leggi de' Romani, introdussero nuove altercazioni e contese agli antichi ignote.

I Fedecommessi, ancorchè noti a' Romani, ricevettero presso noi notabilissime alterazioni per le tante quistioni svegliate da' nostri Interpreti, da poi che per lo spazio di sei secoli e più, stati in tenebre sepolti, risorsero, e 'l lor uso si fece più frequente e comune, tanto che non si leggeva testamento, nel quale non si ordinassero. I maggiorati, e le primogeniture, quasi che incognite agli antichi, si resero così frequenti, che la lor materia cotanto diffusa empì la Giurisprudenza di nuovi termini, di nuove dispute e nuovi trattati.

I Legati ricevettero non minor alterazione, così a riguardo della moderazione dell'antico rigore del S. C. Liboniano, e della proibizione della Falcidia, come per quelli lasciati a cause pie, già sottratti dalle comuni regole e dalle solennità della ragion positiva.

La successione intestata molto diversa, e da' suoi principi pur troppo lontana, in altra guisa vien regolata dal Diritto Canonico, di altra maniera la dispongono li particolari Statuti, ed altrimente le Consuetudini proprie di ciascheduna Città e Regione.

Non minore alterazione si vide nei contratti, e molto maggiore incremento per altri, o nuovamente inventati, o più di prima frequentati. L' enfiteusi, ancorchè nota a' Romani, cotanto da poi presso noi praticata, che diede ampia materia a' nuovi trattati e volumi. Li censi, che diciamo consegnativi, cotanto ora frequentati, o sian vendite d'annue entrate, incognite, non meno alle Romane leggi, che agli antichi canoni, e da Martino V e dagli altri suoi successori stabiliti per mezzo delle loro Costituzioni; poichè i Pontefici Romani abbominando il nome d'usure, cercarono questo manto per covrirle, e dar loro un più spezioso aspetto: condennando l'usure de' Romani, ma in effetto permettendole, quando s'usino i modi da essi prescritti nelle loro Costituzioni, con assegnare un corpo certo e fruttifero, e la sorte facendola irrepetibile.

I cambj cotanto ora diffusi per la scissura dell'Imperio, e per la varietà de' nuovi Dominj in Europa stabiliti, ancorchè fosser noti a' Romani, nulladimeno sotto un Imperio, che tutto ubbidiva ad un solo, dove il commercio era più facile, i viaggi più sicuri, il valore del denaro era lo stesso in tutte le province dell'Imperio, non eran molto usati. Il lor uso si rese da poi necessario e più frequente, perchè il valor della moneta non essendo in tutte le Nazioni uguale, i traffichi e commercj per le continue guerre impediti, i viaggi non troppo sicuri, gli spinse a maggior perfezione; e con più sottil industria, con modi pur troppo ingegnosi ed utili, l'uso delle lettere di cambio si rese più frequente e comodo: tanto che questa dottrina de' cambj riputata come nuova, esercitò l'ingegno di più Giureconsulti a comporne particolari commentarj e trattati; e ad esser riputata una delle principali parti della nuova Giurisprudenza del Foro.

Per quest'istessa cagione del più facile e sicuro commercio, furono frequentati i contratti delle assicurazioni, de' cambj marittimi e le tante altre convenzioni, che vengono regolate dal moderno uso e da' proprj Statuti di ciascuna Regione, o da particolari leggi, agli antichi affatto ignoti.

Questi particolari Statuti, ovvero Consuetudini, introdussero ancora con tanta varietà il diritto del ritratto, o sia del congruo. Questi regolano le servitù ne' poderi, così rustici, come urbani; e tante altre materie, delle quali troppo nojosa cosa sarebbe farne qui un più lungo catalogo.

La dottrina delle doti pur troppo dagli antichi trattata, non è però, che presso i moderni non avesse ricevuta grandissima alterazione, per ciò che riguarda a' lucri dotali, diversi dall'antiche donazioni propter nuptias; onde nuovi nomi d'antefato, di donativi, di meffio e catameffio, ed altri strani vocaboli, con nuove dispute s'intesero.

Gli sponsali, i matrimonj, sono affatto, così nelle solennità, come nella forma, difformi dagli antichi: non vien più richiesto consenso di padre o avo, nella cui potestà sono gli sposi; non que' riti; ma tutti altri dal Concilio di Trento sono stati prescritti.

Le Tenute, le donazioni, compre, vendite, e le altre alienazioni in gran parte alterate, ed altre nuove introdotte, agli antichi ignote. Le leggi civili non trattano delle donazioni, introdotte per contemplazione del matrimonio, in quella forma, nella quale oggi cotanto sono in uso. Quelle proibivano le donazioni e gli altri contratti tra' conjugi, tra' padri e figliuoli; ed ora per diritto canonico, quando siano giurate, si convalidano e restano ferme.

I concorsi così frequenti de' Creditori sopra la roba del comun Debitore, e le tante discussioni sopra ciò insorte, per le anteriorità e poziorità de' loro crediti hanno reso inestricabili molti giudizj, e tenuti occupati non meno i Tribunali, che i nostri Professori.

La nuova materia delle Renunzie, nella forma, che furono da poi praticate da' moderni, fu anche a' primi nostri Interpreti ignota; ma poi cotanto agitata, che se ne composero ben ampj discorsi e trattati.

I rigori della legge civile intorno a' patti, ed altre convenzioni, fur tutti, o tolti, o in parte moderati: non reca ora stranezza di pattuire sopra l'eredità d'un vivente, di contrattare sopra gli altrui ufficj, aspettando la morte dell'Ufficiale: saldarsi ogni patto irregolare coll'apposizione del giuramento, e tante altre novità ed esorbitanze.

In fine per tralasciarne innumerabili, l'ordine dei Giudicj non pure è tutto altro, ma in tanti Tribunali tutto diverso, e fra se medesimo vario, così nelle accusazioni criminali, come nelle azioni civili: altre leggi, nuovi stili, nuovi riti, altre pratiche ricevute, altre andate in disuso: onde sursero tanti nuovi trattati e commentarj attenenti a questo soggetto.

Essendosi cotanto, per sì varj e nuovi affari ampliata la Giurisprudenza del Foro, portò in conseguenza l'ingrandimento de' nostri Tribunali, l'accrescimento degli Ufficiali e 'l numero maggiore de' Professori. Siccome si è veduto nel XXVI Libro di quest'Istoria, il Tribunale del S. C. fu dall'Imperador Carlo V accresciuto di maggior numero di Consiglieri, e vi aggiunse un'altra Ruota. Nel Regno di Filippo II per la multiplicità di negozj, fu duopo aggiungervi la terza; ma in discorso di tempo, nel fine di questo secolo e de' di lui giorni, per le cagioni di sopra narrate, l'ampiezza degli affari fu tanta, che la città di Napoli ne' Parlamenti tenuti negli anni 1589 1591 e 1593 chiese al Re Filippo II, che per la maggior espedizion delle cause aggiungesse alle tre Ruote del S. C. la quarta, con crear nuovi Consiglieri, e dal suo Patrimonio assegnar loro il salario. Ed il Re si compiacque ordinarlo per sue lettere spedite nel Monastero di S. Lorenzo, sotto li 3 settembre del 1597, che si leggono nel volume delle nostre Prammatiche[366]; onde furono eletti cinque altri Consiglieri, distribuendosi cinque per Ruota.

Parimente l'istesso Re Filippo, considerando, come s'esprime in una sua regal carta spedita in Madrid a' 24 Dicembre del 1596, la moltitudine de' negozj, che si trattavano nel Tribunale della Regia Camera, per essere il Regno cresciuto, e vie più le rendite del suo Regal Patrimonio, ordinò al Conte d'Olivares allora nostro Vicerè, che dividesse il Tribunale in due sale; affinchè in due Ruote distinte, con maggior agio e sollecitudine s'attendesse alla pronta spedizione delle cause[367]. Lo stesso fece del Tribunal della Vicaria Civile, che lo divise per l'istessa cagione in due sale, ad esempio, com'egli dice, del Consiglio regale di Castiglia, Que se divide por salas, y quando se offrece alcun negocio grave, se juntan todas, come sono le parole della sua regal carta rapportata dal Toppi[368]. Accresciuti in cotal guisa i Tribunali ed i Ministri, non tralasciava il Re Filippo II, per la loro retta amministrazione, d'invigilarvi; ed introdusse le Visite, mandando di volta in volta di Spagna Visitatori per correggere gli abusi, e, quando bisognasse, deporli dai loro posti; e vi mandò successivamente il Quiroga, ed il Gusman; onde s'introdussero appresso di noi i Visitatori[369].

Moltiplicarono in conseguenza gli Avvocati, i Proccuratori e tanti altri Curiali in numero infinito. Narrava Fabrizio Sammarco celebre Avvocato di que' tempi, secondo che rapporta il Toppi[370], che quando il Tribunal del S. C. si reggeva in S. Chiara bastavano poche stanze, ed il solo Cortile di quel Convento si riputava capacissimo per i litiganti, per i Proccuratori, de' quali non arrivava il numero che a cinquanta, e per gli Avvocati, che non erano più che venti. Ma nel decorso di questo XVI secolo, e principio del seguente, appena bastavano per li litiganti. Avvocati e Proccuratori, e per tanti Curiali, quell'ampie sale del magnifico Palazzo di Capuana. Per queste cagioni, sin da questi tempi, si diedero quasi tutti allo studio delle leggi, come quello, ch'era favorito dagli Spagnuoli, con gli onori delle Toghe, e che nelle famiglie recava non pur splendore, ma utile grandissimo.

Sursero per ciò appo noi tanti Dottori, i quali dopo i primi anni de' loro studi s'applicavano al Foro, e dopo averne consumati molti nell'Avvocazione (nel qual tempo davano saggio de' loro talenti e dottrina) erano poi assunti al Magistrato; e si rendevano illustri, non meno per le Toghe, che per le opere, che davano alle stampe. Gli Avvocati di questi tempi non collocavano molto studio nell'arte oratoria, sì che i loro arringhi comparissero al Foro luminosi e pomposi: si studiavano ricavar l'eloquenza più dalle cose, che dagli ornamenti dell'arte, trascurata tanto, che solamente le orazioni del Cieco d'Adria erano lette, riputandole per norma del ben dire. Per ciò i loro discorsi in Ruota erano corti e tutto sugo, non curandosi delle lunghe dicerie e di tanti pampani: dove abbondavano i negozj, si tralasciavano volontieri i preamboli e le apostrofi. Il principale loro studio era nel porger con metodo ed energia i fatti, e negli articoli di ragione che proccuravano esaminarli con dottrina ed esattezza.

Questa comune applicazione alle leggi del Foro, fece, che fiorissero in questi tempi tanti Giureconsulti che lasciarono a' posteri molte loro opere legali, dei quali tediosa cosa sarebbe, se si volesse qui tesserne lungo catalogo, e per ciò ci contenteremo di nominar solamente i più celebri, le cui opere per essere vulgatissime e che corrono per le mani di tutti, non fa mestieri qui registrarle.

I più rinomati furono i Reggenti Salernitano, Villano e Revertera, il Reggente Camillo de Curtis, figliuolo di Giannandrea, il Reggente Giannantonio Lanario, il Reggente Annibale Moles, e poi i Reggenti Carlo Tappia e Fulvio di Costanzo. Rilussero ancora per dottrina Prospero Caravita d'Eboli, Camillo Borrello, Cesare Lambertino, Gianvincenzo d'Anna, Fabio Giordano, Giacomo d'Agello, Gaspare Caballino, Giovanni de Amicis, Giannantonio de' Nigris, Fabio d'Anna, figliuolo di Gianvicenzo, Marcantonio Surgente, Marcello Cala, Roberto Maranta, e per tralasciar gli altri che possono vedersi presso Toppi, così nella sua Biblioteca, come ne' tre volumi dell'Origine de' nostri Tribunali, Niccolò Antonio Gizzarello, il quale ancor egli si distinse per le sue Decisioni, che compilò. Ma sopra tutti costoro rilusse a questi tempi il famoso Vincenzo de Franchis, il quale per la sua probità ed eminente dottrina legale, fu dal Re Filippo II nel 1591 creato Consigliere, e poco da poi eletto Reggente nel supremo Consiglio d'Italia, ed indi Presidente del Consiglio di S. Chiara e Viceprotonotario. Le sue cotanto rinomate Decisioni lo resero illustre per tutte le nazioni d'Europa, e non fu suo picciol pregio nell'Escurial di Spagna, nel Tempio di S. Lorenzo, vedersi collocato il suo ritratto tra gli altri degli uomini più illustri e rinomati d'Europa. Bernardino Rota[371] non si dimenticò ne' suoi Epigrammi d'altamente celebrarlo, e dalle fatiche, che sopra le sue decisioni v'impiegarono, non pur i nostri, ma gli esteri, si vide quanto fosse luminosa la sua fama. Morì egli in Napoli a' 3 d'aprile dell'anno 1600, e giace sepolto in S. Domenico Maggiore, dove si vede il suo tumulo con iscrizione[372].

La copia così abbondante di tanti Professori, e le tante loro opere, che pubblicarono alle stampe, empirono le nostre Biblioteche di infiniti libri. Nè essendo minore il lor numero nelle altre Città d'Italia, si videro crescere in immenso i volumi legali. Le tante compilazioni delle decisioni di vari Tribunali e sopra tutto della Ruota Romana e del nostro Sagro Consiglio. I tanti Trattati, ed i libri delle Quistioni e Controversie: ma quello, che si rese più insopportabile, fu la gran copia de' Consigli ed Allegazioni, dove non già si scrivea per la ricerca della verità, ma, secondo che facevano alla causa, s'empivano di citazioni e di conclusioni generali più tosto per adombrarla. Quindi si rese più laboriosa e difficile la profession legale; poichè non bastando la perizia delle leggi comuni così civili, come canoniche, delle leggi Feudali, delle nostre Costituzioni, Capitoli, Riti e Prammatiche: delle consuetudini e stili di tanti Tribunali sì vari e diversi: a tutto ciò s'aggiunse, non meno a' Professori, che a' Giudici, un'altra obbligazione vie più maggiore e pesante, di dover sapere l'autorità delle cose giudicate, e le opinioni di tanti Interpreti e Scrittori: quali di quelle fossero le più comuni e vere, e le più ricevute nel Foro: quali di quelle antiquate e non ammesse.

E per ciò, che riguarda l'autorità delle cose giudicate, essendo stato ricevuto, che le sentenze de' supremi Senati, ne' Dominj dove sono profferite, ancorchè non siano leggi, abbiano però forza non inferiore a quelle, spezialmente quando siano d'un costante tenore e di continuo profferite uniformi: s'impose perciò obbligazione a' Giudici di doverle seguire, non per forza di legge, ma di consuetudine, particolarmente negli atti ordinatorj de' giudizj[373]. Ed intorno alle opinioni de' Dottori, fu duopo usare maggior diligenza e scrutinio, e si prescrissero molte regole e cautele, delle quali si fece memoria nel fine del XXVIII libro di quest'Istoria, ed il Cardinal di Luca[374] ne trattò pure diffusamente ne' suoi Discorsi.

§. I. Stato dell'Università de' Nostri Studi a questi tempi.

In tale stato ed accrescimento fu veduta in questi tempi la nostra Giurisprudenza nel Foro; ma nell'Accademia non ebbe pari fortuna. Nelle altre Università d'Europa, e particolarmente in quelle di Francia si videro fiorire assai più nelle Cattedre, che ne' Tribunali: in Parigi, in Tolosa, in Bourges, in Caors, in Valenza, in Turino, ed altrove, lo studio delle leggi romane era ridotto nella sua maggior politia e nettezza; l'erudizione, l'istoria (che non devono andar disgiunte per conseguirne i loro veri sensi) non eran in questi tempi cotanto da noi coltivate. Stando noi sotto il governo degli Spagnuoli, a' quali era sospetta ogni erudizione, che veniva di là da' Monti, ed ogni novità, che volesse introdursi nelle Scuole, fece che siccome nell'altre facoltà, così nella Giurisprudenza si calcassero le medesime pedate de' nostri antichi: erano mal sofferti e come Novatori riputati coloro, che si volessero ergere sopra l'usate forme, e trattar di altra maniera, contra l'usato stile, queste materie.

Per ciò nelle Cattedre fu continuato il medesimo istituto d'impiegare i Lettori sopra la Glossa e Bartolo: sopra il sesto volume, e trattare l'altre facoltà alla Scolastica. E quantunque nel governo del Conte di Lemos e del Duca d'Ossuna suo successore l'Accademia Napoletana si fosse veduta in maggior splendore, con tutto ciò, come diremo a suo luogo, non prima degli ultimi anni del precedente secolo, si vide nelle Cattedre fiorire l'erudizione, e trattare le scienze con altro metodo e politia. Con tutto ciò, per quanto comportava la condizione di questi tempi, rilussero pure in quella alcuni Cattedratici, che ora si nominano per le loro opere date alle stampe. Alessandro Turamino è il più rinomato. Questi ancorchè Sanese d'origine, fu Napoletano, ed ebbe nel 1594 nelli nostri Studi la Cattedra primaria vespertina del jus civile, con provvisione di ducati 680 l'anno; e nel 1593 diede alle stampe le sue opere legali[375]. Francesco d'Amicis, di Venafro, che vi spiegò i Feudi, e nel 1595 stampò in Napoli un libro In usibus Feudorum[376]. Annibale di Luca d'Airola, che vi spiegò il primo e terzo libro delle Istituzioni. Antonio Giordano di Venafro Lettore della prima Cattedra vespertina, di cui il Toppi[377] rapporta le onorevoli cariche, che occupò, e l'iscrizione del suo tumulo, che si vede nella Chiesa di S. Severino. Giovanni di Caramanico, Giovanni de Amicis, di Venafro, che stampò un volume dei Consigli; e per tralasciarne altri rapportati dal Toppi nella sua Biblioteca, il famoso Giacomo Gallo, il quale ottenne la Cattedra primaria vespertina del jus civile: celebre per l'opera, che compose, Juris Caesarei Apices, e per li suoi Consigli[378].

La Teologia, la Morale e lo studio delle cose Ecclesiastiche non erano niente rialzate: si trattavano all'uso delle Scuole; e più ne' Chiostri, tra' Frati, favoriti dagli Spagnuoli, che nell'Università tra Cattedratici, erano esercitate secondo l'antico stile.

La Filosofia e la Medicina furono per rialzarsi, ma vinte dalla colluvie di tanti Professori Scolastici e dai Galenisti, fu duopo cedere all'usanza, e rimanersi come prima negli antichi sistemi e metodi. Erano surti fra noi in questo secolo ingegni preclari, che rompendo il ghiaccio tentarono far crollare l'autorità d'Aristotele e di Galeno, e la Filosofia delle Scuole farla conoscere vana ed inutile. I primi fra noi, come si disse, furono Antonio e Bernardino Telesii Cosentini: Ambrogio di Lione da Nola, Antonio Galateo di Lecce, e Simon Porzio Napoletano, le cui opere (delle quali lunghi cataloghi leggiamo presso il Toppi, ed il Nicodemo) dimostrano, che calcando nuovi sentieri, benchè molto travagliassero per abbattere gli errori comuni delle Scuole, niente però prevalsero, nè poterono soli far argine ad un così ampio, ed impetuoso fiume; quindi il Cavalier Marino[379], parlando di Bernardino Telesio, disse, che se ben egli si fosse armato contro l'invitto Duce de la Peripatetica bandiera, e non n'avesse riportata vittoria, dovea bastargli d'averlo sol tentato; poichè la gloria e la vittoria vera delle imprese sublimi ed onorate, è l'averle tentate.

Ma nella fine di questo secolo discreditarono questa onorata impresa due Frati Domenicani, li quali non tenendo nè legge, nè misura, ed oltrepassando le giuste mete, siccome maggiormente accreditarono gli errori delle Scuole, così posero in discredito coloro, che volevano allontanarsene. Questi furono i famosi Giordano Bruno da Nola, e Tommaso Campanella di Stilo di Calabria. Giordano Bruno disputò sì bene contra li Peripatetici, e si rese assai celebre per le sue dotte opere, delle quali il Nicodemo[380] fece lungo catalogo: ma essendogli troppo piaciuti gli sogni di Raimondo Lullo, diede ancor egli nelle stranezze. Ma quello, che discreditò l'impresa di deviare da' comuni e triti sentieri, fu d'essersi avanzato ad insegnare la pluralità de' Mondi (donde si crede, che Renato des Cartes avesse appreso il suo sistema), e d'essersi ancora inoltrato in cose assai più gravi e pericolose; imputandosegli avere insegnato, che li soli Ebrei discendessero da Adamo ed Eva: che Mosè fosse stato un grande Impostore e Mago: le Sagre lettere essere un sogno, e molte altre bestemmie, onde fece in Roma nell'anno 1600 quell'infelice fine, che altrove fu da noi narrato.

(Di Giordano Bruno è stata a' nostri tempi data fuori una dissertazione da Carlo Stefano Giordano, impressa nell'anno 1726 col titolo: de Jordano Bruno Nolano Primislaniae Literis Ragoczyanis. Narra i suoi viaggi, e i varj avvenimenti da Nola; dove gli fa lasciar l'abito di Domenicano, e lo fa passar in Genevra. Quivi narra aver trovato Calvino, con cui ebbe gravi contese e brighe; onde di là cacciato, passò a Lione, indi a Tolosa, e da poi a Parigi, ove dimorò per più anni. Da Parigi, passò in Londra, indi in Germania a Wittemberg. Lasciata questa città passò a Praga, indi ad Elmstad, dove dal Duca di Brunswick fu caramente accolto. Da poi passò in Francfort ad Maenum, indi a Venezia. Quivi fu arrestato e condotto prigione in Roma, fu miseramente condennato al fuoco, ed arso. Mostra questo scrittore non aver letto l' Aggiunta del Nicodemo alla Biblioteca Napolitana del Toppi, il quale l'avrebbe somministrati maggiori lumi intorno alla dottrina del Bruno, e più diffuse notizie intorno alle opere che lasciò).

Tommaso Campanella ancor egli si pose ad abbatter li comuni errori delle Scuole, ma non tenne nè modo, nè misura. Scrisse infiniti volumi, ancorchè non tutti furono impressi, de' quali pure il Nicodemo[381] tessè lunghi cataloghi, ne' quali siccome s'ammira una gran vastità d'ingegno e di varia dottrina, così lo dimostrano per un gran imbrogliatore, per un fantastico e di spirito inquieto e torbido. Fu per porre sossopra le Calabrie, ideando libertà e nuove Repubbliche. Pretese riformar Regni e Monarchie, e dar leggi, e fabbricar nuovi sistemi, inviluppandosi in una congiura, nella quale scovertosi, che vi avesse la maggior parte, si discreditò maggiormente; poichè preso, e lungamente detenuto nelle carceri di S. Ermo, fu condennato a starvi perpetuamente. Le tante cose che disse e scrisse, alla fine lo liberarono da quella prigione, e ricoveratosi poi in Parigi, accolto da' Franzesi con molta stima ed onore, finì poi i suoi giorni nella maniera, che accennammo di sopra.

(Di Tommaso Campanella pure a dì nostri fu che volle prendersi cura di tesserne vita, e darci conto dei suoi scritti così di Filosofia, come di Astronomia, di Politica, e di che no? Ernesto Salomon Cipriano nato nella Franconia Orientale nell'anno 1705 fece imprimere in Amsterdam un libricciuolo in ottavo sotto il titolo: Vita et Philosophia Thomae Campanellae: ma passati quindici anni, Giacomo Echardo Monaco Dominicano del Convento dell'Annunziata di Parigi, riputando non avere Ernesto dato al segno, volle egli dar fuori un'altra vita del Campanella, che fece imprimere nel Tomo II. Scriptor Ordinis Praedicator. A. 1721 pag. 505, seqq., dove manifesta, intanto egli aversi presa questa cura, perchè il Cipriano, come e' dice, plura refert, vel non satis firma, vel etiam explodenda; ideo ne in his quis fallatur, ad censuram revocanda visa sunt. Ma il Cipriano non fece passar tanto tempo: che per rintuzzar la costui audacia, fece nell'anno seguente 1722 nuovamente in Amsterdam stampare la Vita di Campanella, con prefazione, dove si purga dalle imputazioni fattegli da Eccardo; ed aggiunge, come per appendice, così i giudicj di varj scrittori intorno alla vita e gli scritti del Campanella, come la vita istessa scritta da Eccardo. Veramente non meritavano gli scritti del Campanella che sopra i medesimi s'impiegassero tanti preclari ingegni per rintracciarne sistema alcuno di Filosofia o di Politica e d'altre scienze, delle quali niuna seppe a fondo, ed apprese con diritto giudicio e discernimento, avendo il capo sempre pieno di varie fantasie, che più tosto lo rendevan fecondo di portentosi delirj le sorprendenti illusioni, che di sodi e ben tirati raziocinj. Meglio di tutti perciò fece l'incomparabile Ugo Grozio; il quale scrivendo a Gerardo Gio. Vossio, nell' Ep. 87 in due parole si sbrigò dandone al medesimo il suo giudicio, dicendogli: legi et Campanellae somnia. A questi due può aggiungersi Giulio Cesare Vanino della Provincia di Otranto, nella sorte uguale al Bruno in vita ed in morte, ed al Campanella nelle stravaganze, illusioni, misterj ed arcani. Nacque egli in Taurisano, terra del Conte Francesco di Castro Duca di Taurisano da Otranto non molto lontana, da Gio. Battista Vanino e Beatrice Lopez de Noguera; a cui fu imposto il nome di Lucilio, che mutò poi in quello di Giulio Cesare. Fu mandato da' parenti a studiare in Napoli, dove fece notabili progressi, frequentando l'Academia degli Oziosi, allora in Napoli celebratissima. Passò poi in Padova ed in altre città d'Italia, nelle quali acquistò l'amicizia di Pietro Pomponazio Mantuano e del Cardano, allora vecchissimi. Nell'Imperio di Rodolfo II passò in Germania, indi a Boemia in Praga; dalla qual città passossene poi in Olanda, ed in Amsterdam per qualche tempo dimorò. Nel 1614, si portò a Parigi. Ritornò poi in Genevra, e si trattenne per qualche tempo anche in Genova ed a Nizza di Savoia. Nel 1616 diede fuori l'ultimo suo libro de Arcanis Naturae; nel quale dice averlo composto mentre appena avea toccato l'età di trenta anni. Ma il suo destino lo portò poi ad infelicissimo fine; poichè non sapendosi contenere nelle brigate di francamente parlare delle strane sue fantasie, compiacendosi d'aver circoli d'auditori avidi di novità, essendo passato in Tolosa, trovò quivi per sua disavventura un uomo non ignobile di Franconia il quale l'andò ad accusare a quel Magistrato per Mago, e disseminatore d'empia e perversa dottrina. Il Parlamento di Tolosa nel mese di novembre dell'anno 1618, avendogli presa tutta la sua suppellettile, scritture e libri, lo fece imprigionare, e fabbricato il processo sopra i delitti de' quali veniva accusato, fu per sentenza del medesimo condennato ad esser con suoi libri bruciato. Fu nel mese di febbraio del nuovo anno 1619 posto sopra un carro, e portato nel luogo del supplicio, non mostrò quella costanza d'animo che prometteva. Quivi giunto gli fu tagliata prima la lingua, da poi fu gettato co' suoi libri nelle fiamme divoratrici, le quali avendolo ridotto in ceneri, furon anche queste sparse nell'aria e portate dal vento. Scrisse ultimamente la di lui Vita Gio. Maurizio Schrammio; il quale nell'istesso tempo che lo porta reo, per le arti magiche che professava, e che gli fa raccontare un miracolo accaduto in Presivi terra vicina a Taurisano, lo riputa per un famoso Ateo nel frontispizio del suo libro, stampato nell'anno 1715 in Custrino con questo titolo: De Vita et scriptis famosi Athei Julii Caesaris Vanini, Custrini, An. 1715, in 8 ).

La Poesia però, e sopra tutto l'Italiana, si vide in buono stato per li non meno eccellenti, che nobili uomini, che la professarono: si distinsero fra' Nobili Ferrante Caraffa, Alfonso e Costanza d'Avalos, Giangirolamo Acquaviva, Angelo di Costanzo, Bernardino Rota e Dianora Sanseverino, Galeazzo di Tarsia Cosentino. Rilussero ancora Antonio Epicuro, Niccolò Franco di Benevento, Lodovico Paterno Napoletano, Antonio Minturno di Trajetto, il famoso Luigi Tansillo di Nola ed alcuni altri, che non meno in rime, che in versi latini si resero chiari ed illustri. Ma sopra tutti costoro nella fine di questo secolo s'innalzò l'incomparabile Torquato Tasso, di cui tanto si è parlato e scritto, il quale morto in Roma nell'an. 1595 al suo cadere, cadde ancora presso noi la poesia; poichè nel nuovo secolo XVII surti Giambattista Marini, lo Stigliano e Giuseppe Battisti, prese altre strane e mostruose forme, fin che nel declinar del secolo non la restituissero, nell'anno 1678, Pirro Schettini in Cosenza, e nel 1679 Carlo Buragna in Napoli.

CAPITOLO IX. Politia delle nostre Chiese durante il Regno di Filippo II, insino alla fine del secolo XVI.

Dal precedente libro di quest'Istoria si è potuto conoscere quanto i Pontefici romani proccurassero far valere le loro pretensioni sopra questo Reame. Il Concilio di Trento maggiormente stabilì la loro potenza; ma ciò non bastando ad essi, si pensò, per più radicarla, dar fuori quella terribile Bolla in Coena Domini: si cercò abbattere l' Exequatur Regio, e far dell'altre sorprese.

§. I. Dell'Emendazione del Decreto di Graziano e delle altre Collezioni delle Decretali.

Ma Gregorio XIII nato per grandi imprese, siccome volle mostrare la sua potenza nell' Emendazione del Calendario, così ancora volle aver la gloria di perfezionare l' Emendazione del Decreto Graziano. Aveano prima Antonio Democare ed Antonio Conzio famosi Giureconsulti Franzesi per privata autorità cominciato a far catalogo di varj errori trovati nel Decreto di Graziano per emendarlo[382]. Ma richiedendovisi maggior diligenza e la fatica di molti, non che di due soli, finito il Concilio di Trento, Pio IV scelse alcuni Cardinali e vari Dottori, perchè s'accingessero a quest'impresa, e Pio V da poi ve ne aggiunse due altri[383]. Ma quest'opera non ebbe il suo compimento, se non nel Pontificato di Gregorio XIII, il quale, mentre i Correttori Romani sono tutti intesi all'Emendazione, egli l'accalorò e sollecitò in guisa che nell'anno 1580 fu la Correzione finita; ond'egli la fece pubblicare con una sua Bolla[384], colla quale, approvando l'Emendazione, comandò, che niente a quella s'aggiugnesse o si mutasse, ovvero diminuisse.

Ma siccome l'Emendazione del Calendario non fu stimata sufficiente, onde avvenne, che altri la rifiutassero: così l'Emendazione di Graziano non fu riputata cotanto esatta, sì che non si desse occasione ad alcuni di scovrirvi altri errori, e notare la poca accuratezza usatavi; di che sono da vedersi Antonio Agostino Vescovo di Tarragona, il quale fra l'altre sue opere, la più dotta e riguardevole, che ci lasciò, fu questa della Correzione di Graziano, e Stefano Baluzio.

Furono ancora sotto il Pontificato di Gregorio emendate le Decretali, e restituite secondo l'antiche Collezioni e Registri de' Pontefici; onde sursero le edizioni più emendate, fra le quali tiene il vanto quella di Pietro Piteo e di Francesco suo fratello. Da questi Registri furono da poi compilati que' volumi che contengono l'intere Costituzioni Pontificie, i quali ora sono cresciuti al numero di cinque, sotto il nome di Bollario Romano[385]. Ed a questo Pontefice pur si dee quella famosa Raccolta de' Trattati legali, che occupavano tanti volumi, ed empiono le nostre Biblioteche.

Nel fine di questo secolo Pietro Mattei Giureconsulto di Lione, per privata autorità, serbando l'istesso numero de' libri e l'istesso ordine de' Titoli, che la Gregoriana, fece un'altra Raccolta di varie Costituzioni Pontificie, stabilite dopo il Sesto, le Clementine e le Stravaganti già impresse, e la intitolò Settimo delle Decretali, dedicandola al Cardinal Gaetano; il qual libro, ancorchè non fosse stato approvato, si vide però nell'ultime edizioni aggiunto all'antiche.

Ma Gregorio, vedendo che a questo Settimo libro mancava l'autorità pubblica, applicò l'animo a voler di sua autorità far compilare un Settimo libro delle Decretali; onde commise a Fulvio Orsino, a Francesco Alciato e ad Antonio Caraffa, Cardinali, che s'accingessero a quest'opera; ma poco da poi la morte interruppe i suoi disegni; onde morto Gregorio, Sisto V suo successore diede questo pensiero a' Cardinali Pinello, Aldobrandino, a Matteo Colonna ed a molti altri[386], li quali in vita di Sisto non poterono ridurla a fine; ma assunto da poi al Pontificato l'istesso Cardinal Aldobrandino, nomato Clemente VIII, costui insistè perchè l'opera si terminasse; ed essendo insorto dubbio, se si doveano in quella inserire i Canoni del Concilio di Fiorenza e di quel di Trento appartenenti a' dogmi, fu stimato doversi quelli inserire; onde fu compito questo Settimo volume a' 25 di luglio del 1598 contenente diverse Costituzioni Pontificie e decreti di Concilj da 300 anni, diviso in cinque libri, ed in più titoli disposto. Ma poichè in questa Raccolta vi erano stati inseriti molti decreti del Concilio di Trento, essendosi già data alle stampe sotto nome di Settimo libro delle Decretali di Clemente VIII, fu mosso un gran dubbio, che finalmente ritenne la pubblicazione; poichè pubblicandosi questo volume, tosto sarebbero venuti Dottori ed Interpreti a far a quello delle Chiose e Commenti; e per conseguenza, per le censure gravissime fulminate da Pio IV contra coloro, che ardissero chiosare, o in altra guisa interpretare i Canoni ed i Decreti di quel Concilio, dovea togliersi a' Dottori ogni occasione di commettere un simile attentato. Tanto bastò, perchè si sopprimesse la pubblicazione di questo Volume e rimanesse in una profonda ed oscura caligine[387].

§. II. Monaci e beni temporali.

Fu veramente cosa maravigliosa il vedere nel fine di questo secolo e principio del seguente, quanto crescessero le ricchezze de' Monaci, e quanto fosse grande la divozion de' Popoli, e precisamente de' Napoletani, in profondere i loro beni ed averi per maggiormente arricchirgli e proccurare nuove erezioni di Chiese e di Monasterj, nè si faceva testamento, dove non si lasciassero Legati, o si facessero altre disposizioni in loro beneficio. S'aggiunse ancora la pietà degli Spagnuoli, i quali oltre d'arricchire le vecchie, proccurarono, che s'introducessero nella città e nel Regno nuove Religioni. I Carmelitani Scalzi, che ebbero per istitutrice S. Teresa, la quale nel Convento d'Avila in Castiglia fece questa riforma, vi furono non men dagli Spagnuoli, che da' Napoletani, caramente accolti; e fu così grande la lor divozione verso costoro, che un Frate di quest'Ordine chiamato Fr. Pietro di nazione Spagnuola colle sue prediche, che faceva nella Chiesa dell'Annunziata di Napoli, raccolse di limosine da' Napoletani e da altri la somma di quattordicimila ducento ed ottantacinque ducati, onde di questo denaro potè comprare il palagio con giardini del Duca di Nocera, che ora lo vediamo trasformato in un lor maestoso Monastero, ed in una magnifica Chiesa sotto il titolo della Madre di Dio[388]. Si diffusero poi per tutto il Regno, e nel 1630 furono ammessi in Bari[389], nella qual provincia fecero maravigliosi progressi.

Poco da poi, nell'entrar del nuovo secolo, vennero a noi da Genova cinque Monache Teresiane Scalze, le quali similmente favorite non men dagli Spagnuoli che caramente accolte da' Napoletani, unirono di limosine grosse somme di denaro, col quale comprarono il palagio del Principe di Tarsia per prezzo di sedicimila ducati, che ora si vede mutato in un ben ampio lor Monastero, con Chiesa sotto il nome di S. Giuseppe[390]. Si diffusero parimente per tutto il Regno, ed avuti questi Religiosi così uomini, come donne da' nostri Vicerè Spagnuoli in somma stima e venerazione, crebbero in ricchezze; ed accoppiandovi ancora la lor industria in procacciar Legati ed eredità giacchè, contra il loro istituto, furono, per via d'interpretazioni e dispense Appostoliche, resi capaci d'acquistar Legati ed eredità, stesero i loro acquisti in quello stato e grandezza che ora ciascun vede.

Pure i Fratelli della Carità, ch'ebbero per Istitutore il B. Giovanni di Dio, Portoghese, furono fra noi accolti con cortesia e carezze. Essi ci vennero da Roma, a richiesta della Nazione Spagnuola, e capitarono in Napoli l'anno 1575, essendo stati prima destinati al governo dello Spedale di S. Maria della Vittoria; ma insorte alcune differenze con quelli dello Spedale, furono costretti nel 1585 di là partirsi, e fu lor dato per abitazione l'antico Monistero e Chiesa di S. Maria d'Agnone, nella contrada di Capuana, e non molto da poi nel 1587, coll'ajuto de' Napoletani, comprarono il palagio della famiglia Caracciolo con alcune case contigue, dove fabbricarono il lor Monastero con l'Ospedale e Chiesa sotto il titolo di S. Maria della Pace[391].

Una nuova Congregazione chiamata dell'Oratorio di S. Filippo Neri, fece ancor fra noi maravigliosi progressi. Fu fondata questa Congregazione in Napoli nell'anno 1592, sotto il Pontificato di Clemente VIII, essendo Arcivescovo di questa città Annibale di Capua. I Padri, che da Roma ci vennero per fondarla, abitarono, nel principio, nelle stanze degl'Incurabili; ma comprato il palazzo di Carlo Seripando, dirimpetto alla Porta maggiore dell'Arcivescovado per ducati cinquemila e cinquecento per contribuzione fatta da diversi Napoletani divoti, e trasmutatolo in una Chiesa, si trasferirono quivi: ma riuscendo angusto il luogo al numero della gente, che veniva ad ascoltare i loro sermoni, e crescendo in maggior copia le limosine, pensarono da' fondamenti erger una nuova e magnifica Chiesa, e di stender più ampiamente le loro abitazioni[392]. Edificio, che col correr degli anni si è reso il più ricco ed il più maestoso di quanti mai si ergessero in Napoli; e che ora gareggia con li più superbi e magnifici Palagi de' Principi; e le loro ricchezze sono giunte a tanta grandezza, quanto ciascuno, stupido, ammira.

I Servi di Maria ebbero a questi tempi fra noi più care ed affettuose accoglienze. Erano stati dal famoso Giacomo Sannazaro nell'anno 1529 invitati a servire una Chiesetta, ch'egli in Mergellina avea fabbricata sotto nome di S. Maria del Parto e di S. Nazario, alla quale per ciò costituì una dote di ducati 600 l'anno, con che otto Sacerdoti di quell'Ordine dovessero ivi assistere a' Divini ufficj. Ma a questi tempi da Giancamillo Mormile, erede del Poeta, fu la Chiesa ampliata, e siccome narra l'Eugenio[393], a' suoi dì vi erano da 30 Frati di quest'Ordine, che la servivano.

Ma nel 1585 un Frate Servita Napoletano, chiamato Fr. Agostino de Juliis, avendo preso a censo il suolo da Ugo Fonseca, con limosine de' Napoletani, fabbricò in Napoli a quest'Ordine una nuova Chiesa, sotto il nome di S. Maria Mater Dei; indi Giambattista Mirto pur Servita, preso dall'amenità e bellezza del sito, ampliò non men la Chiesa, che il Convento, con fabbricarvi abitazioni più comode, come ora si vede[394].

Pure i Camaldulesi a questi tempi fecero fra noi grandi progressi, per la liberalità di Giambattista Crispo. Teneva egli un ricco podere, vicino ad un'antica Chiesa, sotto il nome del Salvatore a Prospetto, per esser sopra un monte elevato, donde si scorge il Mar Tirreno coll'Isole intorno sino a Gaeta e quasi tutta intera Terra di Lavoro: costui, per aver da presso questi Monaci, ottenne Breve Appostolico, che questa Chiesa fosse data a' PP. suddetti, ed egli vi aggiunse molta parte del suo podere; e con suoi proprj danari nel 1585, diede principio alla fabbrica del Romitorio. Ad emulazione del Crispo, Carlo Caracciolo per la medesima fabbrica donò loro molta quantità di denaro; e D. Giovanni d'Avalos fratello del Marchese di Pescara nel suo testamento lasciò loro un Legato di 500 ducati l'anno per l'erezione d'una nuova Chiesa col titolo di S. Maria Scala Coeli. Il Marchese di Pescara erede, in cambio di questo Legato, lor diede diecimila ducati, onde il Romitorio fu ampliato e fatta la nuova Chiesa[395].

I Cappuccini ancora a questi tempi, trassero a se la devozione de' nostri Napoletani, a' quali nell'anno 1530 fu conceduta dall'Arcivescovo Vincenzo Caraffa e dagli Eletti della città la Chiesa di S. Efrem, li quali erano stati in Napoli condotti da Fr. Lodovico di Fossombruno Marcheggiano, ancorchè altri lo facciano Calabrese[396].

Ma nel 1570, essendo più cresciuta la divozione de' Napoletani verso questa Riforma, alcuni Cappuccini con le limosine da lor raccolte, e spezialmente da Gianfrancesco di Sangro Duca di Torre Maggiore e Principe di S. Severo, da Adriana Caraffa sua moglie e da Fabrizio Brancaccio famoso Avvocato di que' tempi, fabbricarono un ben grande Convento, sopra il suolo conceduto loro insieme con altri territorj adjacenti dall'istesso Principe con comode abitazioni; onde fu reso capace di gran numero di Frati, che vi dimorano, e fuvvi fabbricata ancora una convenevol Chiesa sotto il nome della Concezione[397].

Degli Ordini antichi si ersero nuove Chiese e ben ampj Monasteri: i Domenicani colle limosine de' Napoletani, tratti da una miracolosa Immagine della Vergine, trovata in quel luogo, fecero il disegno, il quale poi fu condotto a fine con quella stupenda Chiesa e magnificentissimo Monastero della Sanità[398]. Ne fu eretto un altro ancor magnifico, con ampia Chiesa sotto il nome di Gesù Maria[399]. L'altro di S. Severo, e tanti altri. I Carmelitani ne costrussero degli altri, non meno che gli Agostiniani e quelli della Riforma de' Romiti di S. Agostino. Insino i Frati Minimi di S. Francesco di Paola ersero nel 1587 un nuovo e ampio Convento con magnifica Chiesa, sotto il nome di S. Maria della Stella[400]. Niente dico de' Gesuiti, gli acquisti de' quali e le fondazioni di nuovi Collegj e Case Professe erano nel maggior incremento. In breve non furon mai vedute tante frequenti e sì spesse erezioni di nuove Chiese e Monasterj e maggiori profusioni in donare, o lasciar alle Chiese, ed a' Monaci quanto quelle, che seguirono nel finir di questo secolo e il cominciar del seguente.

FINE DELL'OTTAVO VOLUME.

TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI NEL TOMO OTTAVO

LIBRO TRENTESIMOSECONDO pag. 5

Cap. I. D. Pietro di Toledo riforma i Tribunali di Napoli, onde ne siegue il rialzamento della giustizia 9

§. I. Riforma del Tribunal della Vicaria 14

§. II. Riforma del Tribunal della Regia Camera 16

§. III. Riforma del S. C. di Santa Chiara 18

§. IV. Unione di tutti i Tribunali nel Castel Capuano 19

§. V. Ristabilimento della giustizia nelle Province del Regno; e nelle loro Udienze 21

Cap. II. Spedizione dell'Imperador Carlo V in Tunisi: sua venuta in Napoli; e di ciò, che quivi avvenne nella sua dimora e ritorno: e quanto da alcuni Nobili si travagliasse per far rimuovere il Toledo dal governo del Regno 22

§. I. Venuta di Cesare in Napoli 28

§. II. Il Marchese del Vasto ed il Principe di Salerno con altri Nobili proccurano la rimozione del Toledo dal governo del Regno 34

Cap. III. Il Toledo rende più augusta la città con varj provvedimenti: suoi studj per renderla più forte, più sana e più abbondante. Lo stesso fa in alcune città e lidi del Regno, onde cinto di molte Torri potesse reprimere l'incursioni del Turco 38

Cap. IV. La medesima provvidenza vien data dal Toledo nelle Province e nell'altre città del Regno, per l'occasione, che ne diede Solimano, che con potente armata cercava invaderlo 45

§. I. Giudei discacciati dal Regno 52

Cap. V. Inquisizione costantemente da' Napoletani rifiutata; e per quali cagioni 55

§. I. Inquisizione di nuovo tentata, ma costantemente rifiutata sotto l'Imperador Carlo V 66

§. II. Inquisizione nuovamente tentata nel Regno di Filippo II, ma pure costantemente rifiutata 105

§. III. Inquisizione occultamente tentata da Roma introdursi in Napoli ne' Regni di Filippo III e IV e di Carlo II, ma sempre rifiutata, ed ultimamente con Editto dell'Imperador Carlo VI affatto sterminata 133

Cap. VI. Nuova spedizione di Solimano collegato col Re di Francia sopra il Regno di Napoli, sollecitata dal Principe di Salerno che si ribella. Nuovi donativi per ciò fatti dal Regno per lo bisogno della guerra, che finalmente si dilegua 152

Cap. VII. Spedizione di D. Pietro di Toledo per l'impresa di Siena, dove se ne morì. Seconde nozze di Filippo, Principe di Spagna, con Maria Regina d'Inghilterra; e rinuncia del Regno di Napoli fatta al medesimo da Cesare, il quale abbandonando il Mondo si ritira in Estremadura, dove nel Convento di S. Giusto finì i suoi giorni 158

Cap. VIII. Stato della nostra Giurisprudenza durante l'Imperio di Carlo V e de' più rinomati Giureconsulti, che fiorirono ai suoi tempi 166

Cap. IX. Politia delle nostre Chiese durante il Regno dell'Imperador Carlo V 177

§. I. Origine del Tribunale della Fabbrica di S. Pietro, e come, e con quali condizioni si fosse fra noi introdotto, e poi ai nostri tempi sospeso 181

§. II. Monaci e Beni Temporali 187

LIBRO TRENTESIMOTERZO 194

Cap. I. Guerra mossa dal Pontefice Paolo IV al Re Filippo per togliergli il Regno. Sua origine, pretesto ed inutile successo 197

Cap. II. Trattato con Cosmo Duca di Firenze, col quale furono ritenuti dal Re i Presidj di Toscana, ed investito il Duca dello Stato di Siena cedutogli dal Re Filippo. Ducato di Bari, e principato di Rossano acquistati pienamente al Re, per la morte della Regina Bona di Polonia. Morte della Regina Maria d'Inghilterra, e terze nozze del Re Filippo, che ferma la sua Sede stabilmente in Ispagna 235

§. I. Ducato di Bari e Principato di Rossano acquistati pienamente al Re Filippo per la morte della Regina Bona di Polonia 239

§. II. Morte della Regina Maria d'Inghilterra, e terze nozze del Re Filippo, il quale si ritira in Ispagna, donde non uscì mai più 247

Cap. III. Del Governo di D. Parafan di Rivera Duca d'Acalà, e de' segnalati avvenimenti, e delle contese ch'ebbe con gli Ecclesiastici ne' dodici anni del suo Viceregnato; ed in prima intorno all'accettazione del Concilio di Trento 250

§. I. Contese insorte intorno all'accettazione del Concilio di Trento nel Regno di Napoli 253

Cap. IV. Contese insorte intorno all'accettazione della Bolla in Coena Domini di Pio V 272

Cap. V. Contese insorte intorno all' Exequatur Regium delle Bolle e rescritti del Papa, ed altre provvisioni, che da Roma vengono nel Regno 305

Angioini 315

Aragonesi 316

Austriaci 327

Cap. VI. Contese per li Visitatori Appostolici mandati dal Papa nel Regno; e per le proibizioni fatte a' Laici citati dalla Corte di Roma, di non comparire in quella in modo alcuno 344

Cap. VII. Contese insorte per li casi misti; e per la porzione spettante al Re nelle Decime, che s'impongono dal Papa nel Regno alle persone Ecclesiastiche 355

Cap. VIII. Contese per li Cavalieri di S. Lazaro 360

Cap. IX. Contese insorte per li Testamenti pretesi farsi da' Vescovi a coloro, che muojono senza ordinargli; ed intorno all'osservanza del Rito 235 della Gran Corte della Vicaria 368

Cap. X. Legazione de' Cardinali Giustiniano, ed Alessandrino a Filippo II per questi, ed altri punti giurisdizionali; donde nacque il costume di mandarsi da Napoli un Regio Ministro in Roma per comporgli 374

Cap. XI. Morte del Duca d'Alcalà: sue virtù, e sue savie leggi che ci lasciò 386

LIBRO TRENTESIMOQUARTO 393

Cap. I. Del Governo di D. Antonio Perenotto Cardinal di Granvela, e de' più segnalati successi de' suoi tempi. Sua partita e leggi che ci lasciò 395

Cap. II. Di D. Innico Lopez Urtado di Mendozza Marchese di Mondejar: sua infelice condotta e leggi che ci lasciò 412

Cap. III. Delle cose più notabili accadute nel governo di D. Giovanni di Zunica Commendator Maggiore di Castiglia e Principe di Pietrapersia: sua condotta e leggi che ci lasciò 422

§. I. Spedizione di Portogallo 435

§. II. Emendazione del Calendario Romano 437

§. III. Fine del Governo di Pietrapersia e leggi che ci lasciò 448

Cap. IV. Governo di D. Pietro Giron Duca d'Ossuna, e sue leggi 449

Cap. V. Governo di D. Gio. di Zunica Conte di Miranda reso travaglioso per l'invasione degli sbanditi. Suoi monumenti e leggi che ci lasciò 451

Cap. VI. Del Governo di D. Errico di Gusman Conte di Olivares. Sue virtù, e leggi che ci lasciò 460

Cap. VII. Morte del Re Filippo II, suo testamento, e leggi che ci lasciò; e delle varie Collezioni delle nostre Prammatiche 464

§. I. Collezione delle nostre Prammatiche 472

§. II. Del Codice Filippino, compilato per privata autorità dal Reggente Carlo di Tappia 474

Cap. VIII. Stato della nostra Giurisprudenza nel fine di questo XVI Secolo, e principio del seguente, così nell'Accademie, come ne' Tribunali; e de' Giureconsulti, che vi fiorirono 476

§. I. Stato dell'Università de' nostri Studj a questi tempi 487

Cap. IX. Politia delle nostre Chiese durante il Regno di Filippo II insino alla fine del secolo XVI 495

§. I. Della Emendazione del Decreto di Graziano e delle altre Collezioni delle Decretali 496

FINE DELL'INDICE.

NOTE:

1. Gior. del Rosso, pag. 85.2. Toppi de Orig. Trib. tom. 2 lib. 4 cap. I mim. 83, 87 et seqq.3. Giorn. del Rosso pag. 89.4. Giorn. del Rosso, pag. 103.5. Summ. tom. 4. Tasson. de Antef. vers. 4 obs. 3 num. 25.6. Giorn. del Rosso pag. 105.7. Giorn. del Rosso, p. 107.8. Rosso pag. 67.9. Giorn. del Rosso, pag. 122.10. Privil. et Capit. di Nap. fol. 103 a ter. Tasson. De Antef. vers. 4 observ. 3 num. 27.11. Giorn. del Rosso, pag. 129 et 130.12. Cap. et Privil. di Nap. pag. 102.13. Giorn. del Rosso, p. 92.14. Rosso, Giorn. p. 105.15. V. Tutin. Orig. de' Seggi.16. Rosso, Giornali.17. V. Summ. part. 4 lib. 7 cap. 4.18. Giorn. del Rosso, pag. 142.19. P. Fiore Calabr. Illustr. l. 1 par. 1 cap. 5 num. 3.20. V. Summ. par. 4 l. 7 cap. 4. Roseo Hist. lib. 1.21. Giorn. del Rosso, pag. 135.22. Vedi la Pramm. De Judaeis nelle antiche edizioni di Napoli del 1570 e di Venezia del 1590.23. V. Toppi de Orig. Trib. par. 2 lib. 1 c. 4 n. 34.24. V. Engenio Nap. Sacr. pag. 534.25. Guicciard. lib. 1.26. V. Chioc M. S. Giuris. tom. 8.27. Ubert. Foliet. Tumul. Neapolit. Thuan. lib. 3. Histor.28. Thuan. lib. 3. Hist. Augebat horrorem perversa, et praepostera judiciorum forma, quae contra naturalem aequitatem, et omnem legitimum ordinem in jurisdictione illa explicanda observatur: tum etiam immanitas tormentorum, quibus plerumque contra veritatem quicquid delegatis judicibus libebat, a miseris, et innocentibus reis, ut se cruciatibus eximerent, per vim extorquebatur: quo fiebat, ut non tam pietatis tuendae causa eam inventam dicerent, cui alia via satis ex antiqua Ecclesiae disciplina prospectum esset, quam ut eversis ista ratione etiam omnium fortunis, liberis capitibus periculum crearetur.29. Param. de Orig. S. Inqu. lib. 2 tit. 2 cap. 10.30. Ubert. Foliet. Tumul. Neap. Thuan. loc. cit. Itaque nec Ferdinandus cum eo tempore Neapolim venisset, id impetrare potuit, et Inquisitores illuc tunc missi, a Neapolitanis male accepti, ac postremo Regno ejecti sunt.31. Vedi la Prammatica 2 de Judaeis, nell'impressione di Napoli del 1570.32. Zurita Ann. d'Arag. lib. 5 cap. 70 et lib. 9 cap. 76. En las pregones, que se hizieron en la publicazion d'esto, se proponia al principio, que aviendo conocido el Rey l'antiqua observancia, y religion de aquella Ciudad, y de todo el Reyno, y el zelo, que tienen a la Santa Fee Catolica, avia provido, que la Inquisicion se quitasse por el sussiego, y bien universal de todos.33. Mariana lib. 30. Hist. cap. 1. Totius Provinciae in verae Religionis constantia, et animorum pietate, satis prospectam Inquisitionis rem, et nomen minus videri necessariam, proinde cessare, et amoveri sancitum.34. Guic. lib. 13.35. Gior. del Rosso, fol. 133.36. Giorn. del Rosso, fol, 135.37. V. Toppi Biblioth. lit. G.38. Epist. I ad Corinth. cap. 5. Si quis autem superaedificat super fundamentum hoc, aurum, argentum, lapides pretiosos, ligna, foenum, stipulam, uniuscujusque opus manifestum erit: dies enim Domini declarabit, quia in igne revelabitur: et uniuscujusque opus quale sit, ignis probabit.39. V. Thuan. Hist, lib. 39 pag. 779.40. Ubert. Fol. Tumult. Neapolit.41. Tuan. lib. 3 hist.42. Soave lib. 3 ann. 1547.43. Pallavic. lib. 10 cap. 1.44. V. Gio. Battista Adriano, Hist. l. 6.45. Ubert. Foliet. De Tumult. Neap. fol. 34 Thuano lib. 2 Hist. fol. 195. Bentivogl. Istoria di Fiandra par. I lib. 3 in Orat. Duc. Feriae ad Philip. H. Paramo. De Orig. S. Inquis. lib. 2 cap. 10 tit. 2. Card. Pallavic. Hist. Conc. Trid. lib. 10 c. 1 nu. 4.46. Chiocc. M. S. Giur. t. 8.47. Soave Ist. del Conc. l. 5 pag. 417.48. Thuan. L. 22 Hist.49. V. G. Dict. V. Algerius.50. V. Thuan. l. 29.51. Thuan. loc. cit.52. Thuan. l. 23 Hist.53. Thuan. l. 33 Hist. Soave loc. cit. pag 425.54. Thuan. l. 23 Histor. Soave loc. cit. p 426.55. Thuan. lib. 36 Histor. ann. 1563.56. Thuan. in Epist. dedic. suae Histor. ad Henr. IV.57. Thuan. loc. cit. Pars il Calabriam concessit, in eaque diu, atque adeo usque ad Pii IV Pontificatum continuit.58. Summ. tom. 4 lib. 10 cap. 4.59. P. Fiore Calabr. iliust. lib. 1 par. 1 cap. 5 num. 6.60. V. Nicod. ad Biblioth. Top. pag. 124.61. Chioccar. tom. 8 de S. Inquisit. Offic. car. loc. cit.62. Spondan. ann. 1561 n. 31.63. Chioccar, loc. cit.64. Summ. tom. 4 1. 10 c. 4.65. Salernit. decis... Revert. vol. 1 decis. 27.66. Summ. l. c.67. Chioccar. in Archiep. Neap. et in M. S. Inquis. Off.68. Joana. Ant, Gangian. in Histor. Vita P. de Arelio, c. 16.69. Chioccarel. M. S. Giurisd. tom. 8.70. Chioc. loc. cit. et to. 4.71. Chioccar. loc. cit. tom. 8.72. Chioc. loc. cit.73. Suarez lib. Defens. Fidei, cap. 4 lib. 6 num. 17 et 18.74. Richer. in Apologia pro Jo. Gerson. pag. 197 et seqq.75. V. Nino ad Bibl. Toppi V. Diction. Crit. V. Brunus.76. Chioc. loc. cit. tom. 8 in fin.77. Si allega dal Re Carlo II nel suo Diploma, che si legge tom. 2. Cap. e Graz. di Nap. fol. 217.78. Si legge nel tom. 2 de' Capit. e Graz. di Nap. p. 217.79. Capit. e Grazie di Carlo II tom. 2 pag. 217 e 218.80. Cap. etc. tom. 2 pag. 219.81. Capit. e Graz. di Carlo VI tom. 2 pag 231.82. Si legge ne' Cap. e Graz. tom. 2 p. 231.83. Capit. e Graz. di Carlo VI. tom. 2 pag. 232.84. Cap. et Graz. del Regno di Carlo V.85. V. Toppi de Orig. Tribun. par. 2 lib. 4 c. I. num. 87.86. Camer. cons. 371 post. Cannet.87. V. Toppi, de Orig. Trib. t. 3 p. 187.88. V. Toppi de Orig. Trib. t. 2 l. 4 c. 1 n. 22.89. V. Toppi de Orig. Trib. tom. 2 1. 3 cap. n. 23.90. V. Toppi loc. cit. n. 25.91. Rota Epigram. fol. 59.92. Foliet. tumul. Neap.93. Vedi Toppi loc. cit. num. 26.94. Rota Epigram. fol 39.95. Franchis decis. 470 num. 4.96. Nicod. Addit. ad Biblioth.97. V. Topp. de Orig Trib. tom. 2 lib. 4 cap. 1 num. 98.98. V. Toppi loc. cit. numer. 101.99. Chioccarel. M. S. Giurisd. tom. 12.100. Capit. e Privileg. di Nap. fol. 138 a ter.101. V. Card. de Luc. Relat. Cur. Rom. disc. 20 n. 36.102. Luca loc. cit.103. Luca loc. cit. n. 23.104. Chiocc. tom. 12.105. Tom. 2 pag. 1374.106. Giornali del Rosso, pag. 95.107. V. Engen. Nap. Sac pag. 85.108. V. Thuan. Hist. sui temp. Contin. t. 4 l. 7 pag. 465.109. Tom. 2 pag. 1667.110. V. Engen. Nap. Sacr. pag. 308.111. Mazzella Descriz. del Reg. di Nap. Costo in Apolog. Tassone de Antef.112. V. Cronologia Prag. tom. 1.113. Thuan. l. 5.114. Chioc. Archiep. Neap. A. 1549.115. Thuan. Hist. lib. 15.116. Thuan. lib. 22. Hist. Tum a curis belli vacuus, totum se Inquisitionis muneri, quod sanctissimum vocabat, mancipavit, quam in omnes severe admodum exercuit. Huic ut praeesset Michaelem Gislerium Alexandrinum nuper a se in Cardinalium Collegium cooptatum summa austeritate, ac morum asperitate virum delegit: et in hoc Tribunali non haereseos solum, sed aliquot etiam crimina, quae aliorum Judicum sententiis definiri solebant, agitari voluit.117. Summ. tom. 4 p. 273.118. Chioc. de Archiep. Neap. loc, cit.119. Thuan lib. 15. Hist.120. Baco Hist. vitae et mortis; altos gerens spiritus et imperiosus.121. Thuan. lib. 17. Hist.122. Si legge questa lettera presso il Summonte, tom. 4 lib. 10 cap. 1.123. Thuan. lib. 17. Hist.124. Questa lettera si legge presso Chioc. M. S. Giur. tom. 1 in fin.125. La sentenza suddetta parimente è rapportata dal Chioc. loc. cit.126. Aless. Andrea della Guerra di Campagna di Roma, e del Regno di Napoli nel Pontificato di Paolo IV. Ragionamento 1.127. Summ. par. 4 lib. 10 cap. 1.128. Alessandro Andrea Rag. 1.129. Queste lettere si leggono impresse dal Summonte loc. cit.130. Aless. Andrea Reg. 1.131. Le risposte fatte dal detto Teologo colla data di Valladolid de' 15 novemb. 1555 sono rapportate dal Chioc. tom. 18 M. S. Giur. in fine.132. Aless. Andrea Rag. 1.133. Aless. Audr. Tuano lib. 17 Rag. 1 Hist.134. Aless. Andr. Rag. 2.135. Aless. Andrea Rag. 2.136. Aless. Andrea Rag. 2.137. Tuan. lib. 18. Hist.138. Aless. Andrea Rag. 2.139. Aless. Andrea Rag. 3.140. Tuan. lib. 18. Hist.141. Tuan. lib. 18. Hist.142. Aless. Andrea Rag. 3.143. Tuan. lib. 18 in fin.144. Aless. Andrea Rag. 3.145. Bellum injustum lo chiama Tuano lib. 17, 18. Hist.146. Chioc. tom. 18. M. S. Giurisd. in fin.147. Tuan. lib. 20. Histor.148. Nani, Histor. Venet.149. Tuan. lib. 15 in fine: Ditionem Senensium, jure Imperii ad se devolutam, Philippo filio concessit.150. Tuan. lib. 18. Hist.151. Chioccar. M. S. Giurisd. tom. 18.152. Tuan. hist 1. 18. Tandem in eas leges conventum, ut Cosmus, ac liberi ejus, Philippi beneficio Senensem ditionem acciperent, ut eam ipse a Caesare parente acceperat, exceptis Herculis Portu, Telamone, Monte-Argentario, Orbitello, et Piombini arce, quam sibi Philippus servabat, et ita aes omne alienum tam Cesari olim a Cosmo commodatum, quam in belli sumptus factum, quod ipsi a Philippo F. debebatur, dissolutum intelligatur, icto item foedere, quo uterque vicissim hinc ad Principatus Mediolanensis, ac Regni Neapoletani, inde ad Etruriae defensionem teneatur, etc. Missus vicissim Carolus Dezza cum aliquot Hispanis, qui arcem Plombinensem a Cosmo instauratam reciperet, qua excepta, et Urbe ex suo nomine in Ilva a Cosmo aedificata, ac Portu ejus, quae ex pactis in potestate ipsius remanebat, tota ditio Plombinensis Jacopo Apiano ejus Domino a Bernardo Bolea Albani iussu restituta est.153. Il privilegio è rapportato dal Chiocc. l. c.154. Beatil. Istor. di Bari, l. 4.155. Martin. Cromer. in Orat. funebr. Sigis. Polon. Regis.156. V. Oraz del Cieco d'Adria.157. Summont. p. 4 lib. 10 cap. 4.158. Top. tom. 3. De orig. Trib.159. Thuan. lib. 21.160. P. Soave Histor. Conc. pag. 419.161. Thuan. lib. 20. Histor.162. Thuan. l. 20. Hist.163. L'instrumento di questa pace è rapportato da Federico Lionaud nella sua Raccolta, tom. 2 p. 535.164. Thuan. lib. 23. Hist. in ea certum domicilium, quod sub Carolo parente quodam modo vagum fuerat, in posterum fixurus.165. Thuan. l. 20. Hist.166. Thuan. lib. 36.167. Thuan. lib. 36 pag. 737.168. Thuan. lib. 26. Hist.169. Thuan. loc. cit.170. P. de Marca lib. 2. De Concor. Sacerd. et Imp. cap. 17 num. 6.171. Probat. Libert. Gall. c. 14.172. Richer. Apolog. pro Jo. Gers. pag. 194.173. Vedi il Continuator di Tuano to. 4 lib. 7 pag. 462.174. P. Soave pag. 638.175. Van-Espen, Tract. de promulg. 11. Ecel. par. 3 e. 2 § 2.176. Bertrand Loth. in Resolut. Belgic. tract. 2 art. 5.177. Ant. Ans. Trib. Belg. c. 32.178. Bodin. De Rep. lib. 1 cap. 6. Hispanos Reges excipio, servos Pontificum Romanorum obsequentissimos.179. Chioc. M. S. Giurisd. tom. 17.180. Queste relazioni del Reggente Villano si leggono nel Tom. 17 de' M. S. Giurisd. del Chiocc.181. Conc. Trid. sess. 4 Decr. de edit. lib.182. Sess. 25 de Refor, cap. 3.183. Sess. 34 de Reform. Matr. cap. 8.184. Pallavic nell'Istor. del Conc. lib. 6 cap. 12.185. Pallavic. lib 2 cap. 6.186. Sess. 5. De Reformat. cap. 1.187. Sess. 21 cap 4. De Reformat. sess. 24 de Reform. cap. 13.188. Sess. 22 de Reformat. cap. 8, 9, 10, 11.189. Sess. 23 de Reform. cap. 6, 17 et 28.190. Sess. 24 de Reform. cap. 11.191. Sess. 25 de Refor. cap. 5.192. V. Chiocc. tom. 5 de Casibus mistis, et de Decimis. M. S. Giurisd.193. Chiocc. M. S. Giurisd. tom. 5 de Casib. mist. De Concub.194. V. Chiocc. M. S. Giurisd. tom. 15 de Extauritis.195. Thuan. 1. 39. Histor.196. Thuan. loc. cit.197. Vedi Apologia Tomo V, parte seconda cap. III.198. Amendue queste Bolle si leggono nel tom. 4 de' M. S. Giurisd. del Chioccar.199. Franc. Toleti Summa de instruct. Sacerdotum, lib. 1.200. Lione Alacci. Ciarlant. in Saonic lib. 5 c. 23. Toppi in Bibl. Neapolit. Lion. Duardo.201. V. Richer. Apolog. Jo. Gerson. pag. 194.202. Martin. Becan. Opusc. quo respondit ad Aphorismos falso Jesuitis impositos, respons. ad 9. Aphorismum.203. Tom. Costo 3 par. del Compendio al Collen. l. 3.204. Reginald. Prax. for. poenit. lib. 3 e 21 num. 325.205. Thuan. 1. 44 pag. 893.206. Probationes libert. Eccl. Gallic. per Pytheos, c. 7 num. 50 et 55 et Comment. in easdem libertat. artic. 17.207. Addit, ad num. 57 d. c. 7.208. Zypeus in Jure novo tit. de Ordinandis, u. 14.209. Van-Espen tract. De Promulgat. II Eccles. par. 2 c. 3 § 4.210. Girolamo Catena, Vita di Pio V fol. 98 et 101.211. Thuan. lib. 44 pag. 893.212. Card. Albitius de Inconstant. in Fide, c. 30 n. 404, 405 et 413.213. Questa Consulta colle precedenti si leggono presso Chioc. tom. 4. M. S. Giurisd. de Bulla in Coena Domini.214. Queste Consulte si leggono presso Chioc. 1. c.215. Thuan lib. 44.216. Questa lettera si legge presso Chiocc. loc. cit. e queste sono le sue parole: Mas de que se ha tenido aqui secreto lo que el Nuncio os dicho certa de la Orden, que Su Santitad havia dado, paraque no se pubblicasse la Bulla in Coena Domini, basta otra arden suyo, y nos avisareis si esto se continue.217. Queste parole del Re si leggono in una Consulta fatta dal Consiglio del Brabante all'Arciduca Leopoldo nell'anno 1657 rapportata da Van-Espen de Placito Regio, in Appendice Monum. fol. 125.218. Card. Albitius, de Inconstantia in Fide, c. 30 a n. 403 ad n. 414.219. Salgad. de Protect. Reg. par. 1 c. 1 praelud. 5 n. 321 et de Releut. Bullar, par. 1 cap. 2 n. 114.220. Tappia de Contrab. Cler. n. 77 et seqq.221. Van-Espen. Tract. de Promulg. ll. Eccl. par. 1 per totum.222. Albit. loc. cit. num. 404, 405 et 413.223. Archiv. Cast. S. Ang. cas. 14, 9, n. 22.224. Questa lettera è rapportata dal Chiocc. fol. 15 a ter. e nel tom. 4 de' M. S. Giuris.225. Duar. de Socr. Eccl. Min.226. La Bolla è rapportata dal Chioc. tom. 4 De Regio Exequatur.227. Van-Espen tract. de Promulg. II Eccl. part. 2 cap. 3.228. V. Salgad. in iract. De Retent. Bull. et reg. protect.229. Van-Espen De Promulgat, II. Eccles. ubi De Plac. Reg. p. 2 c. 2 per tot.230. Covar. Pract. qq. cap. 10 num. 56.231. Belluga in Speculo Principis, rubr. 13 verb. restat.232. Card. de Luca Relat. Rom. Cur. disc. 2 num. 36.233. Van-Espen loc. cit. p. 3 c. 1 § 1 et 2.234. Van-Espen. 1. c. p. 5 per tot.235. Marta De Jurisd. part. 4 cap. 4. Tommaso del Bene De Immunit. cap. 8 dub. 10 num. 4, 6 et 16. Diana par. 4 tract. 1 resol. 9 § igitur. Acosta in Bull. Cruciat. q. 69 per tot. Bellet. disquis. Cler. part. 1 De Exempt. Cl. § 3 nu. 26 e 27, ed altri.236. Camill. Borrel in Comm. ad Stat. Neap.237. Van-Espen De Plac. Reg. par. 2 cap. 3 § 3.238. Chioc. tom. 4 M. S. Giur. De Reg. Exequatur.239. Covar. Pract. qu. c. 35 n. 4.240. Belluga in Speculo Princ. rubr. 13 verb. restat.241. Cevallos Comm. contr. Com.242. Manuel. Istor. di Gio. II lib. 4.243. Reg. de Ponte M. S. Giur. de Reg. Exequ. n. 22.244. Menoch. tract. De Jurisd. l. 1 c. 19.245. Van-Espen De Placit. Reg. p. 2 § 1 et 2.246. Argentr. l. 2 Hist. c. 14.247. Fabro C. l. 7 tit. De Appell. ab abusu.248. Cutello ad l. Federici not. 46 et ad l. Mart. not. 64.249. Angel. cons. 23.250. Amato to. 2 resol. 28 et 82 n. 28. Jac. de Grassis lib. 4 decis. aurearum, etc. super explicat. Bul. in Coen. Dom. c. princ. 18 n. 20.251. Ughel. tom. 1 in Episc. Militens. nu. 16.252. Tutti questi esempj vengono rapportati dal Chioccar. tom. 4 de Regio Exequatur.253. Ughel. tom. 9 in Episc. Marturan. num. 24.254. (Della Casa Ruffo è il Principe di Scilla in Regno di Napoli, ed il Marchese di Gauberti, ed il Conte della Riccia in Regno di Francia).255. Chioccar. l. c. ed è citata d. Prammat. in una Consulta del Duca d'Alcalà.256. Innoc. VIII. Constitut. 17 num. 2, 3.257. Chiocc. t. 4 de Reg. Exeq.258. Chioc. M. S. tom. 4 de Exeq. Reg. fol. 77.259. Chioccarell. de Reg. Exeq. tom 4.260. Si legge nel lib. dei Privil. di Nap.261. Lionard tom. 1 Rac. de' Tr. delle Paci, etc. Anno 1500.262. Auctor. de Jure Belgar. circa Bull. recept. c. 2 n. 2.263. Van-Espen. Tract. de Promulgat. II. Eccles. part. 2 de Placito Regio, c. 1 § 2 ed in Append. fol. 178 lit. A, ivi: Epistola Ferdinandi Regis Catholici die 22 Maji 1508 ad Vice Regem Neapolitanum, occasione Brevis, quod Papa miserat in Regnum Neapol. noleus illud ibidem observari, non obtentis litteris Placiti, sive Pareatis.

(Questa Lettera è rapportata anche in idioma spagnuolo e franzese da Lunig nel Tom. 2 pag. 1338.)

264 . Chiocc. M. S. Giurisd. de Reg. Exeq. 265 . Tutti questi esempj vengono rapportati dal Chiocc. 266 . Leo X. Constit. 20. 267 . Chioc. loc. cit. 268 . Clem. VII. Constit. 39. 269 . Ex Archiv. Vatic. Cod. 668 Bzov. tom. 19. A 1512. 270 . Chioc loc. cit. 271 . Girolamo Catena, Vita di Pio V fol. 101. 272 . Ex Archiv. Cast. S. Ang. cas. 14. 9 num. 22. 273 . Probat. libertat. Eccl. Gall. cap. 10. 274 . Van-Espen De Placito Regio, part. 2 cap. 2 § 2. 275 . Pragm. 5 De Citationib. tit. 19. 276 . Van-Espen. tract. De Plac. Reg. in App. fol. 218 lit. P. 277 . Van-Espen De Plac. Regio, part. 2 c. 1 § 2. 278 . Rovit. super cit. prag. 5. 279 . Il Chioccarello rapporta la lettera del Re loc. cit. 280 . Chioc. loc. cit. 281 . Chiocc. loc. cit. 282 . Rovit. aliique passim sup. Prag. 1 De Censib. 283 . Chiocc. loc. cit. 284 . Chiocc. loc. cit. 285 . Chioccar. loc. cit. in fin. 286 . Graz. e privileg. di Nap. t. 2 p. 220 et 231. 287 . Lion Ostiens. l. 3 t. 13. 288 . Apud Baron. et Capec. Latr. Hist. Neap. l. 2 pag. 75. 289 . Tutti questi atti si leggono presso Chiocc. tom. 4 de Visitat. Apostol. 290 . Pragm. R. Ferd. L. de anno 1474. 291 . Queste Consulte si leggono presso Chiocc. loc. cit. De laicis non citand. 292 . Chiocc. tom. II. M. S. Giur. 293 . Thuan. lib. 38 Hist. 294 . V. Fleur. Costum. degl'Isdrael. 295 . Thuan. loc. cit. cum Fridericus Ahenobarbus multas eis possessiones in Calabria, Apulia, ac Sicilia attribuisset, etc. 296 . Chiocc. de Milit. S. Lazar. tom. 10, M. S. Giurisd. 297 . Chiocc. loc. cit. 298 . Thuan. lib. 38. 299 . Thuan. loc. cit. genus repetunt. 300 . Chiocc. loc. cit. 301 . Thuan. loc. cit. 302 . Loyseau des Sign. des Just. Eccl. 303 . Cardin. de Luca Const. l. et rat. observ. 75. 304 . Chiocc. M. S. Giurisd. tom. 17. 305 . Chiocc. tom. 10. M. S. Giur. 306 . Chiocc. De Legat. t. 14 M. S. Giur. 307 . Thuan. l. 49 Hist. p. 1001. 308 . Thuan l. 50 Hist. p. 1031. 309 . Thuan. l. 50. 310 . Tutti questi atti e scritture si leggono in Chiocc. De Legat. t. 14. 311 . Thuan. l. 47 Hist. 312 . Thuan. l. 71 in fin. tom. 2. 313 . Thuan. l. 47. Pessimo exemplo in Principe orbis Christiani familia inchoato, et inde ad nobilitatem, et a nobilitate ad plebem usque se extendente. 314 . Thuan. Hist. lib. 31 pag. 1062. 315 . Opusc. Amm. disc. 8. 316 . Thuan. Hist. lib. 51 pag. 1057. 317 . Thuan. tom. 2 lib. 55 in princ. 318 . Thuan. lib. 55 pag. 48. 319 . Summ. par. 4 lib. 11 fol. 393. 320 . Chiocc. tom. 5 M. S. de Casib. Mistis. 321 . Tuano lib. 62 in princ. tom. 2. 322 . Summont. part. 4 lib. 1. 323 . Thuano lib. 52. Hist. in princ. 324 . T. 2 p. 1362. 325 . Summ. l. 4 l. 11. 326 . Summ. l. c. 327 . Somm. t. 4 l. 11. 328 . Thuan. lib. 69 et 70. 329 . Baco de Verulam. Hist. Henrici VII Angl Reg. 330 . Thuan. lib. 69 tom. 1. 331 . Thuan. lib. 59. 332 . Summont. part. 4 pag. 415. 333 . Thuan. lib. 59. 334 . Thuan. lib 59 in fin. 335 . Thuan. lib. 70 tom. 2. 336 . Bacon. in Histor. Henr. VII. 337 . Thuan. lib 65 t. 2 pag. 229. 338 . V. Thuan. Hist. l. 126 tom. 3 p. 952. 339 . Jo. Fianc. de Ponte De Potest. Pror. tit. 10 § 1 De Insigniis, et Armis. 340 . Lib. 17 c. 17. 341 . V. Thuan. l. 76 to. 2 p. 441. 342 . Dione lib. 43. 343 . Lib. 1 de Leg. Constant. M. 344 . Baco de Aug. scient. l. 1. 345 . De Clar. Legum Interpr. a. 177. 346 . Thuan. lib. 76 p. 444. 347 . Syntag. Histor. German. Dissert. 37 § 97. 348 . Tom. IV pag. 144. Theatr. Europ. Tom. XV p. 691. 349 . Thuan. loc. cit. 350 . Chioc. M. S. Giurisd. toni. 4 De Reg. Exeq. pag. 92. 351 . Summont. pag. 428 tom. 4. 352 . Baron. Martyrolog. die 3 Aug. 353 . Cave Hist. della Vita de' Martiri. 354 . Tom. 2 pag. 1358. 355 . Thuan. Hist. tom. 3 lib. 82 in princ. 356 . Chiocc. tom. 17 var. de Convent. etc. super persecut. bannit. 357 . Thuan. tom. 3 lib. 1. 358 . Annotazioni del Costo sopra il Compendio del Collenuccio. 359 . Lionard. tom. 3 in fin. 360 . Thuan. lib. 120. Hist. tom. 3 pag. 831. 361 . Thuan. lib. 120. Hist. tom. 3 p. 831. 362 . Chioccar. M. S. Giur. de S. Officio, etc. ove s'allega la Pramm. de Judeis, etc. dell'Ediz. del 1570. 363 . Toppi, de Orig. Trib. tom. 2 pag. 335. 364 . Tappia Tit. 1. De novo Philippi Codice componendo. 365 . Vedi il Continuatore di Tuano tom. 4 lib. 7 pag. 457, ove si legge lo scritto del Savarone. 366 . Frag. 74 De Off. S. R. C. Toppi Tom. 2. De Orig. Trib. pag. 43. 367 . Toppi tom. 2 loc. cit. 368 . Toppi tom. 1 pag. 298 De Orig. Trib. 369 . Summ. part. 4 pag. 426. 370 . Toppi tom. 2 pag. 241. 371 . Rota lib. Epigram. fol. 60. 372 . Toppi de Orig. Trib. tom. 2 pag. 184. 373 . V. Arturo Duck De Auth. jur. civ. lib. 1 in fine, pag. 103. 374 . Card. de Luca de Judic. disc. 35. 375 . Toppi Biblioth. pag. 8. 376 . Toppi Biblioth. pag. 88. 377 . Toppi Biblioth. pag. 27. 378 . Toppi Biblioth. pag. 109. 379 . Marin. Galler, part. 1 ne' Ritratti. 380 . Nicod. ad Bib. Toppi p. 50. 381 . Nicod. in Bib. Toppi, pag. 234. 382 . Baluz. Praef. ad Ant. Aug. § 29. 383 . V. Ant. Aug. de Emend. Grat. lib. 1 dial. 1. 384 . Bulla Greg. praemissa Corp. Jur. Can. 385 . V. Struv. Hist. Jur. Can. c. 7 § 32. 386 . V. Struv. l. c. § 34. 387 . Struv. l. c. 388 . Eugen. Nap. Sacra, pag. 602. 389 . Beatil. Ist. di Bari, lib. ult. in fin. 390 . Engen. l. c. p. 195. 391 . Eng. Nap. Sac. p. 142. 392 . V. Engen. Nap. Sacr. p. 127. 393 . V. Eng. Nap. Sac. p. 663. 394 . Eng. loc. cit. pag. 603. 395 . Engen. loc. cit. pag. 668. 396 . V. Engen. pag. 644. 397 . Engen. fol. 601. 398 . V. Engen. pag. 610. 399 . V. Engen. fol. 597. 400 . V. Engen. fol. 609.