LIBRO TRENTESIMOQUINTO

Il Regno di Filippo III, che quasi cominciò col nuovo secolo XVII, paragonato con quello del padre e dell'avolo fu molto breve; e per ciò, che riguarda il nostro Reame, voto di grandi e segnalati avvenimenti. Succedè egli al padre in età poco più di venti anni, e secondo il costume de' suoi predecessori prese l'investitura del Regno da Papa Clemente VIII a' 9 di settembre dell'anno 1599[1]. Non vi regnò, che ventidue anni e mezzo, insino al 1621, anno della sua morte. Filippo suo padre gli lasciò la Monarchia ancorchè di sterminata grandezza per lo nuovo acquisto del Regno di Portogallo, infiacchita però di denari e di forze. Fu egli un Principe, quanto di singolare pietà, altrettanto disapplicato al Governo, e che contento della Regal Dignità, lasciò tutto il potere a' Consigli, a' Favoriti, ed a' Ministri. Nel suo regnare comandarono in Napoli quattro Vicerè, de' quali il primo fu D. Ferrante Ruiz di Castro Conte di Lemos, del quale, e delle cose più ragguardevoli accadute in tempo del suo governo, saremo ora brevemente a narrare.

CAPITOLO I. Di D. Ferdinando Ruiz di Castro Conte di Lemos, e della congiura ordita in Calabria per opera di Fr. Tommaso Campanella Domenicano, e di altri Monaci Calabresi del medesimo Ordine.

Rimosso, per le cagioni rapportate nel precedente libro, il Conte d'Olivares, fu da Filippo III destinato Vicerè il Conte di Lemos, il quale giunto in Napoli a' 16 di luglio del 1599 insieme con D. Caterina di Zunica sua moglie e D. Francesco di Castro suo figliuolo secondogenito, applicò subito (essendo di spirito grande e magnanimo) a perfezionare ed ingrandire gli Edificj pubblici, che i suoi predecessori aveano lasciati imperfetti. Ma tosto fu richiamato a cose più gravi e serie, per una congiura ordita in Calabria da Tommaso Campanella, della quale bisogna ora far parola.

Costui avendo sofferta lunga prigionia in Roma, dove i suoi difformi costumi e l'aver dato sospetto di miscredenza, l'Inquisizione gli avea fatto soffrire i suoi rigori, ritrattandosi degli errori, e mostrandone pentimento, ottenne d'esser liberato; ma gli fu assegnato per sua dimora un picciol Convento in Stilo sua patria, donde non potesse più vagare. Ma essendo di genio torbido ed inquieto, per vendetta de' rigori sofferti in Roma, cominciò in quell'angolo a tentar nuove cose. Persuase a' Frati di quel Convento, che nell'anno 1600, secondo gli aspetti degli Astri, di cui egli ben s'intendeva, doveano accadere grandi revoluzioni e mutazioni di Stato, e spezialmente nel Regno ed in Calabria: che per ciò bisognava prepararsi e far comitiva di gente armata, perchè a lui gli dava il cuore in quella rivoluzione di mutar le Calabrie, ed il Regno in una ottima Repubblica, con toglierlo dalla tirannide de' Re di Spagna e de' loro Ministri, gridando libertà; e perch'era un grande imbrogliatore, sovente nelle sue prediche diceva, ch'egli era destinato da Dio a tal impresa, e che di questo suo fatto nelle profezie di S. Brigida, in quelle dell'Abate Gioachimo e di Savonarola, e nell'Apocalissi stessa si faceva memoria, ancorchè ad altri oscura, a lui molto chiara. Che per ciò egli avea eletti due mezzi, cioè la lingua e le armi. Colla lingua bisognava predicar libertà contra la tirannide de' Principi e de' Prelati, per animar i Popoli a scuoter il giogo; e che per ciò egli avrebbe il seguito di molti Religiosi, che avrebbero con lui cooperato a questo fine. Per le armi, egli per terra si credeva facilmente avere quelle de' Banditi e degli altri fuorusciti, e dopo aver mossi costoro, d'aver il concorso della plebe minuta, e con romper le carceri abbruciare i processi e dar libertà a tutti, accrescere le forze: oltre di molti Signori e Prelati, li quali avrebbe tratti a quest'impresa. Per mare e' si fidava aver l'armata del Turco, il quale sarebbe accorso a dargli ajuto.

Cominciò egli ad insinuar questi sentimenti a molti in Stilo, poco dopo la morte di Filippo II, nell'istesso anno 1598, com'egli confessa nella sua deposizione ed in effetto trovandosi allora quella Provincia piena di fuorusciti, e gravati i popoli per le tante contribuzioni e per una nuova numerazione allora seguita, non solo trasse a se i Frati, ma molti altri di Stilo e de' suoi Casali, li quali avrebbero volentieri ricevuta l'occasione d'ogni tumulto e rivoluzione.

Fatto ciò, scelse per Catanzaro Fr. Dionisio Ponzio del suo Ordine, di Nicastro, il quale predicando a molti con fervore quest'istesso, esagerava molto più, che il Campanella, per facile l'impresa: diceva, che costui era un uomo mandato da Dio, e che per ciò se gli dovea credere: ch'era sopra tutti gli uomini dottissimo e scienziato, il quale avendo conosciuto, che nell'anno 1600 doveano seguire grandi mutazioni e cangiamenti di Stato, per ciò non dovean lasciarsi scappare quest'opportunità di divenir liberi, che per quest'effetto s'era dato pensiero a molti Predicatori di diverse Religioni, e fra gli altri agli Agostiniani, Zoccolanti e Domenicani, che insinuassero a' popoli, che i Re di Spagna erano tiranni, e che questo Regno se l'aveano tirannicamente usurpato; e che per ciò erano a casa del Diavolo; e che li popoli, per li tanti pagamenti e collette, erano costretti per soddisfarle a perder l'anima ed il corpo: che per revelazioni fatte a più Religiosi questa era volontà di Dio di cavar il Regno da simili suggezioni, per la poca giustizia de' Ministri del Re, che vendevano il sangue umano per danari, scorticando i poveri, onde doveano tutti accorrere per agevolar l'impresa, proccurando altri loro amici e confederati, li quali in determinato giorno, sentendo gridar libertà, si sollevassero tutti, essendosi concertato d'ammazzare tutti gli Ufficiali del Re, rompere le carceri, liberar i carcerati ed in segno di libertà, abbruciar tutti li processi; e tanto più dovean riputar facile la impresa, che molte terre della provincia erano già pronte ed apparecchiate, coll'intelligenza ancora d'alcuni Signori e Prelati, e che per quest'effetto tenevano tutti li Castelli a loro divozione e che trattavano avere ancora il Castello di Cotrone.

Fra' Ministri più fedeli e fervorosi del Campanella, oltre al Ponzio, furono ancora Fr. Giovan-Battista di Pizzoli, Fr. Pietro di Stilo e Fr. Domenico Petroli di Strignano; e del Convento de' Domenicani di Pizzoli più di 25 Frati di quest'Ordine, aveano fatti grandi progressi, unendo molti fuorusciti, e tirando al lor partito molti altri Religiosi e Calabresi; e non pur in quella provincia, ma nell'altra vicina erasi attaccata la contagione.

Secondo le pruove, che si leggono nel processo fabbricato di questa congiura (copia del quale M. S. si conserva presso di Noi), de' Frati di diversi Ordini, fra gli altri di Agostiniani, Zoccolanti e Domenicani, depongono vari testimoni ch'erano più di 300. I Predicatori, che aveano l'incombenza d'andar secretamente insinuando e persuadendo i popoli alla sollevazione, erano 200. Tra Vescovi, che n'erano intesi, e che nascostamente favorivano l'impresa, si nominavano il Vescovo di Nicastro, quello di Girace, l'altro di Melito ed il Vescovo d'Oppido. Ne furono parimente intesi alcuni pochi Baroni Napoletani, ma il numero de' provinciali fu ben grande, i nomi de' quali, per buon rispetto delle loro famiglie, che ancor durano, qui si taciono.

Queste prediche (almeno secondo vantavano il Campanella ed il Ponzio) aveano ridotti molti cittadini delle città e terre non men dell'una, che dell'altra provincia. Si contano, Stilo co' suoi Casali, Catanzaro così per li Nobili, come per li Popolani, Squillace, Nicastro, Cerifalco, Taverna, Tropeja, Reggio co' suoi Casali, S. Agata, Cosenza co' suoi Casali, Cassano, Castrovillari, Terranuova e Satriano.

Non meno il mezzo della lingua, che quello delle armi avea fatti maravigliosi progressi. Per terra oltre i Castelli, de' quali si promettevano, aveano uniti 1800 fuorusciti, ed alla giornata cresceva il lor numero per l'impunità promessa e libertà sognata: promettevano di liberare tutte le Monache da' Monasterj, uccider tutti li Preti e Monaci che non volevano aderire ad essi, e passar a fil di spada tutti li Gesuiti. Volevano abbruciar tutti i libri e far nuovi Statuti: che Stilo dovea esser Capo della Repubblica, e far chiamare quel Castello, Mons Pinguis, e che Fr. Tommaso Campanella s'avea da chiamare il Messia venturo, siccome già alcuni de' congiurati lo chiamavano. Per mare, teneva il Campanella nella Marina di Guardavalle sentinelle, le quali, quando passava qualche legno Turco col pretesto di doversi riscattare qualche schiavo, andassero a trattar co' Turchi, ed insinuar loro la resoluzion presa di sollevarsi, e che perciò fossero pronti ad accorrere ed agevolar l'impresa; di vantaggio fece nella Marina di Castelvetere imbarcare Maurizio di Rinaldo con otto altri compagni sopra le Galee di Murath Rays, perchè trattassero col Bassà Cicala il soccorso della sua armata, offerendogli molte Fortezze e terre; ed in fatti, essendo comparse nel mese di giugno le Galee di Murath nella Marina di S. Caterina e Guardavalle, per conchiudere il trattato e stabilire il modo da tenersi, fu conchiuso per la mediazione di Maurizio, che l'armata fosse venuta nel mese di settembre, perchè alla sua comparsa si sarebbe fatta la sollevazione, con entrare nelle terre, e gridando libertà, ammazzare gli Ufficiali del Re, e tutti coloro che si fossero opposti.

Ma come è difficile, ove vi corra tempo, e sia grande il numero de' congiurati, tenersi simili maneggi lungamente celati, fu la congiura scoverta da Fabio di Lauro e Giovan-Battista Blibia di Catanzaro, complici di quella, li quali la palesarono a D. Luigi Xarava, che si trovava allora Avvocato Fiscale della provincia di Calabria ultra, e per mezzo del medesimo ne fecero una piena e distinta relazione al Conte di Lemos Vicerè. Il Conte spedì tosto in Calabria D. Carlo Spinelli con amplissima autorità, il quale col pretesto di fortificar quelle Marine contra l'invasione de' Turchi, pensava a man salva imprigionare tutti i congiurati; onde portatosi in Catanzaro, ed all'ultimo d'agosto di quest'anno 1599, ricevute avanti il Fiscale le deposizioni di Fabio di Lauro e Giovan-Battista Blibia, cominciò a carcerare segretamente alcuni de' congiurati; ma la fuga d'uno, e l'essersi da poi il cadavere del fuggitivo affogato in mare, veduto in quelle marine, rese pubblico il fatto; onde sparpagliati i congiurati si diedero in fuga, e costrinsero lo Spinelli a palesemente operare. Alcuni spensierati furono presi senza contrasto, fra' quali fu Maurizio di Rinaldo, il quale, e prima e dopo la tortura, confessò il tutto; altri scapparon via; ma Tommaso Campanella, ch'era corso alla marina travestito per imbarcarsi, fu colto in una capanna per opera del Principe della Rocella. Fra Dionisio Ponzio, ancorchè fosse stato più presto ad imbarcarsi, per sottrarsi dal supplicio, fu arrestato in Monopoli in abito sconosciuto di secolare.

E veramente fu la congiura scoverta a tempo opportuno; poichè già il Bassà Cicala, secondo il trattato, a' 14 settembre del medesimo anno s'era fatto vedere al capo di Stilo con 30 Galee, il quale non avendo trovata quella corrispondenza, che i congiurati gli avean fatta sperare, anzi vedute le marine guarnite di soldatesche ben disposte a riceverlo, si ritirò alla Fossa di S. Giovanni, donde, dopo la dimora d'alcuni giorni, fece vela verso Levante.

I presi furon esaminati e tormentati, li quali nelle loro deposizioni scovrirono altri, che erano intesi nella congiura, e furono mandati in Napoli sopra quattro Galee, e giunti al Porto, il Vicerè, per terror degli altri, ne fece due d'essi sbranar vivi dalle Galee medesime, ed appiccare quattro all'antenne: tutti gli altri furono mandati in carcere per punirli secondo il merito di ciò che venivano rei. Il Campanella, col Ponzio, ed alcuni altri Preti e Frati, stati presi, furon condotti nel Castello.

Nacque tosto contesa di giurisdizione intorno alla loro condanna: gli Ecclesiastici pretendevano volerli essi giudicare, all'incontro i Ministri regj dicevano, che la cognizione del delitto di fellonia s'apparteneva a' Tribunali del Re, non ostante il carattere, che portavano molti de' congiurati di persone Ecclesiastiche e Religiose. Fu preso temperamento, che il Nunzio per delegazione della Sede Appostolica insieme con un Ministro del Re, che fu D. Pietro di Vera, giudicassero la causa de' Preti e de' Frati, e che a rispetto delle molte ed esecrande eresie, delle quali erano imputati, procedesse il Vicario Generale della Diocesi, con l'intervento di Benedetto Mandini Vescovo di Caserta.

I Frati furono aspramente tormentati; ma il Ponzio in mezzo de' tormenti non lasciossi scappar di bocca nè pure una sola parola. Fu tormentato ancora il Campanella, di cui si legge una sua lunga deposizione fatta nel mese di febbrajo del nuovo anno 1600, nella quale, a guisa di fanatico e di forsennato, sia per malizia, sia per lo terrore, ora affermando, ora negando, tutto s'intriga e s'inviluppa: gli riuscì, per tante cose strane ed inette che gli usciron di bocca, farsi creder pazzo, onde fu condennato a perpetuo carcere, dal quale a lungo andare pure seppe co' suoi imbrogli uscirne; onde finalmente ricovratosi in Francia finì in Parigi i giorni suoi nell'anno 1639[2].

I secolari sottoposti a' Tribunali del Re furono sentenziati secondo i delitti, de' quali erano convinti: il Consigliere Marcantonio di Ponte fu destinato Commessarie alle loro cause, e molti con crudelissima morte pagarono la pena della loro ribalderia. Maurizio Rinaldo essendo stato condennato alle forche, mentr'era per giustiziarsi avanti il largo del Castel Nuovo, disse, che per disgravio di sua coscienza dovea rivelare alcune cose di somma importanza; il Vicerè fece trattener la giustizia, e lo fece condurre in Vicaria, dove fece una lunghissima deposizione, nella quale minutamente espose l'ordine tenuto in questa congiura, e svelò maggior numero di congiurati, la quale ratificò anche ne' tormenti, e poco da poi portato di nuovo al patibolo, avanti la piazza del Castel Nuovo lasciò su le forche ignominiosamente la vita.

Così dileguossi questo turbine, ma non per ciò, tornato che fu il Vicerè da Roma, ov'erasi portato in quest'anno del Giubileo, per render ubbidienza al Pontefice Clemente VIII in nome del Re, fu libero da nuovi timori del Turco; poichè Amurath Rays nel mese d'agosto del medesimo anno comparve con sei vascelli nelle marine di Calabria, e posta a terra la sua gente a' lidi della Scalea, meditava dar il sacco a quella Terra e luoghi circostanti; ma fattasegli valida resistenza da D. Francesco Spinelli Principe della Scalea, ancor che fugasse que' barbari, vi lasciò egli però miseramente la vita.

Fu spettatore il Conte da poi di quella comedia, che un impostore volle rappresentare in Napoli sotto la maschera di D. Sebastiano Re di Portogallo, di cui nel precedente libro fu brevemente narrata la favola. Ed avendo la Contessa di Lemos moglie del Vicerè invogliato il Re a far un viaggio per Italia per vedere il Regno di Napoli; dandone Filippo speranza, il Conte riputando il Palagio regale di Napoli edificato da D. Pietro di Toledo, troppo angusto per un tant'Ospite, e per una così numerosa e splendida Corte, pensò d'edificarne un altro più maestoso e magnifico, ed ottenutosene assenso dal Re, ne fece fare il disegno dal celebre Architetto Fontana. Così cominciossi la fabbrica della nuova abitazione de' nostri Vicerè, la quale continuata da poi con non minor magnificenza da D. Francesco di Castro suo figliuolo, s'ammira ora per uno delli più stupendi e magnifici edificj di Europa, sufficiente a ricevere non uno, ma più Principi e Corti regali.

Non si tralasciò ancora da Spagna, in tempo del suo governo, premere il Regno con nuovi donativi; onde ragunatosi un Parlamento generale in S. Lorenzo, nel quale, come Sindico, intervenne Alfonso di Gennaro nobile della piazza di Porto, si fece al Re un donativo d'un milione e ducentomila ducati, oltre di venticinquemila altri donati al Vicerè.

Ma poco da poi infermatosi il Conte, fu il male così pertinace, che sempre più avanzandosi, finalmente a' 19 d'ottobre di quest'anno 1601 gli tolse la vita. Fu il suo cadavere con magnifico accompagnamento trasportato nella Chiesa della Croce de' Frati Minori, dove gli furon celebrate pompose esequie. Governò egli il Regno due anni e tre mesi, nel qual tempo promulgò diciassette Prammatiche tutte savie e prudenti, per le quali si emendano molti abusi ne' Tribunali, e si danno altri salutari provvedimenti, che possono vedersi nella tante volte accennata Cronologia, prefissa nel primo tomo delle nostre Prammatiche.

Lasciò morendo, in vigor di regal carta venutagli mentr'era infermo, per Luogotenente del Regno D. Francesco di Castro suo figliuolo, giovane di 23 anni, ma maturo di senno e di prudenza, il quale lo governò insino ad aprile del 1603, nel qual tempo pubblicò diece savie Prammatiche, ed ebbe pure ad accorrere alle scorrerie del Bassà Cicala, il quale nel 1602 pose le sue genti in terra alle marine del Regno, e saccheggiò Reggio[3]. Cedè egli il governo al Conte di Benavente, eletto da Filippo per nostro Vicerè, di cui ora bisogna brevemente ragionare.

CAPITOLO II. Del Governo di D. Giovanni Alfonso Pimentel d'Errera Conte di Benavente; e delle contese, ch'ebbe con gli Ecclesiastici per la Bolla di Papa Gregorio XIV, intorno all'immunità delle Chiese.

Giunto che fu il Conte in Napoli a' 6 aprile di quest'anno 1603 mostrò un'applicazion continuata alla retta amministrazione della giustizia, e vedendo rilasciata la disciplina, riprese il rigore, e con serietà attese ad emendare gli abusi de' Tribunali, a sollecitar le cause criminali, ordinando di più, che tutti i processi, che marciavano ne' Tribunali delle province venissero in Napoli, dove sollecitamente fossero spediti i rei, o con morte, o col remo, o con altri castighi a proporzione de' delitti, de' quali erano convinti. Fu rigido e severo in punir i delinquenti, e sovente non faceva valer loro il refugio alle Chiese, cotanto era cresciuto il numero de' ribaldi, siccome tuttavia cresceva quello delle Chiese, onde con facilità si ponevano in salvo: ciò che accese nuove contese con Roma per l'immunità di quelle, di cui più innanzi saremo a favellare.

Ma non meno la perduta disciplina, che le gravezze, che soffrivano i nostri Regnicoli, e le continuate scorrerie de' Turchi, non meno che de' banditi, tennero occupato il Conte di Benavente in cure sollecite e moleste. Per essere il Regno stato premuto tanto con sì spessi e grossi donativi, e gravose tasse, mal si soffrivano poi nuove gravezze e nuovi dazj. Non finivan mai i bisogni della Corte e le richieste di nuovi soccorsi; onde bisognò finalmente venire all'imposizione d'una nuova gabella sopra i frutti. Dispiacque notabilmente alla plebe sì scandalosa gabella, ed ancorchè soffrisse il giogo, non lasciava internamente d'abborrirlo e di scuoterlo sempre che le ne veniva l'opportunità. Avvenne, che un Gabelliere avea fatto dipingere nella casetta ove riscoteva il dazio, posta al Mercato, otto Santi Protettori della Città: ciò parendo disdicevole al Vicario Generale della Diocesi, volendo egli farsi giustizia colle sue mani, mandò un suo Ministro con comitiva, con ordine di cancellar quelle Immagini con molto rumore e strepito. Accorse per ciò ivi molta gente, ed in un tratto si vide quella contrada piena di popolo: alcuni fomentati da' mal contenti, credendo che il tumulto fosse per levar via la gabella, si lanciarono sopra quella stanza per rovinarla da' fondamenti, affinchè si togliesse ogni vestigio di sì abbominevol dazio. Fu il tumulto sì strepitoso, che se la vigilanza del Vicerè non faceva tosto accorrer gente per quietarlo, sarebbe certamente degenerato in una aperta rivoluzione. Si quietò finalmente, ed il Vicerè volle prender severo castigo de' Capi principali dell'eccesso, e sopra ogni altro, dell'impertinente Ministro mandato dal Vicario, cagione di tutto il disordine: si opposero a ciò gli Ecclesiastici con attaccar brighe di giurisdizione; ma il Vicerè castigò severamente i Capi, e mandò in galea il Ministro del Vicario.

Una nuova gabella imposta sopra il sale cagionò pure dell'amarezze e disturbi; ma sopra tutto era intollerabile l'uso delle monete, tanto avidamente tosate da' Monetarj, che impedivano notabilmente il commercio: fu la città per sollevarsi, ma vi diede il Conte tosto riparo, con lasciar correre le zannette (moneta, il cui valore era di mezzo carlino) giuste o scarse che fossero, e che l'altre monete, nuove o vecchie, si ricevessero a peso per supplire con ciò alle tosate, e per togliere a' Monetarj l'occasione di tosarle per l'avvenire.

Le scorrerie de' Corsari Turchi nelle marine di Puglia non meno frequenti che dannose, saccheggiavano, predavano e riducevano in ischiavitù non picciol numero di persone. Essi s'aveano fatto asilo la Città di Durazzo nell'Albania, lontana dal Capo d'Otranto non più che cento miglia. Per isnidarli da quel luogo, fu risoluto doversi impiegar ogni opera per distrugger Durazzo. Ne fu data la cura al Marchese di S. Croce, il quale colla squadra delle nostre galee, giunto nei lidi d'Albania, e poste a terra le soldatesche ed artiglierie, superò a viva forza il Castello di Durazzo, diede il sacco alla Città, la distrusse, e ciò che vi rimase, fece divorar dalle fiamme.

I banditi dall'altra parte non lasciavano d'infestar le Calabrie: vi accorse D. Lelio Orsini per far loro argine, ne dissipò buona parte, ma non gli estinse affatto; imperocchè essendo notabilmente cresciuti, provvidero alla loro salvezza, ritirandosi altrove tra monti inaccessibili.

Ma non meno fastidiose e moleste furono le contese, ch'ebbe il Conte di Benavente a sostenere con gli Ecclesiastici per cagion d'immunità pretesa, non meno per le loro persone, che per le Chiese. La gran pietà del Re Filippo III, e la poca sua applicazione al Governo de' suoi Regni, diede lor animo di far nuove sorprese, e sopra tutto di far valere nel Regno la Bolla di Gregorio XIV stabilita intorno all'immunità delle Chiese. Si resero a questi tempi sopra noi maggiormente animosi, dal vedere, che in quella famosa contesa insorta tra il Pontefice Paolo V colla Repubblica di Venezia, sopra la quale tanto si è disputato e scritto, il Re Filippo pendeva dalla parte del Pontefice; e non ostante, che la causa di quella Repubblica doveva esser comune a tutti i Principi, seppero far sì, che il Re, non solo s'impiegasse a trattar per essi vantaggioso accordo, spedendovi a tal effetto in Venezia D. Francesco di Castro con carattere di suo Ambasciadore; ma l'indussero a comandare al Conte di Benavente nostro Vicerè, e al Conte di Fuentes Governador di Milano, che in ogni caso assistessero alla difesa della Sede Appostolica; onde da Napoli il Vicerè mandò a quest'effetto in Lombardia ventidue insegne di fanteria sotto il comando di Giantommaso Spina, ed altre ventitrè sotto il Marchese di S. Agata. Quindi è, che fra la turba di coloro che scrissero in questa causa a favor del Pontefice contra il P. Servita, Fr. Fulgenzio e Giovanni Marsilio Teologi di quella Repubblica, ve ne siano molti Spagnuoli, e de' nostri ancora, e tra questi vi fu anche il Reggente di Ponte, riputato a torto fra noi il più forte sostenitore della regal giurisdizione.

Avea Papa Gregorio nel 1591 pubblicata una Bolla, nella quale derogando alle Bolle di Pio e di Sisto V, ristrinse il numero de' delitti incapaci d'immunità, e quel che più era insopportabile, volle, che i Giudici Ecclesiastici avessero a giudicare della qualità de' delitti, e quali fossero gli eccettuati, affin di poter estrarre i delinquenti dalle Chiese; e che il Magistrato Secolare non ardisse d'estrarli, se non con espressa licenza del Vescovo; da poi che avrà costui giudicato d'essere i rei immeritevoli del confugio, per aver commessi delitti eccettuati dalla Bolla.

Prima il dichiarar le Chiese per Asili e dichiarar i delitti, s'apparteneva agl'Imperadori, come si vede chiaro ne' libri del Codice di Teodosio e di Giustiniano, e per cinque interi secoli, la Chiesa sopra ciò non v'avea stabilito canone alcuno[4]: la qual preminenza, come fu veduto ne' precedenti libri di questa Istoria, fu lungo tempo ritenuta da' nostri Principi. Da poi si videro stabiliti sopra ciò alcuni canoni, ed i Pontefici non vollero in appresso tralasciare nelle loro Decretali di maggiormente confermarsi in questo diritto. Ma furono i primi canoni e le prime loro Costituzioni moderate e comportabili, tanto che le Bolle di Pio e di Sisto non recarono fra noi molta novità, nè furono stimate cotanto strane, sì che se ne dovesse far risentimento, siccome accadde promulgata che fu questa di Gregorio, contenente pregiudizj gravissimi alle preminenze del Re e de' suoi Magistrati. Il Conte di Lemos D. Ferdinando, non la fece perciò valere nel Regno, mentre vi era Vicerè, ed a' 2 d'agosto del 1599, fece dal Reggente Martos far relazione al Re de' pregiudizj, che conteneva; ed il Re sotto li 27 febbrajo del seguente anno 1600, gli rispose, che non facesse sopra ciò far novità alcuna, ma che osservasse il solito d'estrarre i delinquenti, che si ritirano nelle Chiese, avendo egli ordinato, che si faccia istanza in Roma al Papa, acciò che moderi la Costituzione di Gregorio. Il perchè avendo il Conte, niente curando della Bolla, fatto estrarre di Chiesa il Marchese di S. Lucido, e datane parte al Re, gli fu dal medesimo risposto sotto li 17 ottobre del medesimo anno, che egli approvava il fatto, e che per l'avvenire non permettesse sopra ciò far introdurre novità alcuna[5].

Ma nel governo del Conte di Benavente gli Ecclesiastici, resi più animosi, impresero in ogni conto volerla far valere nel Regno, in tempo men opportuno che mai; poichè la città, per la perduta disciplina, era tutta corrotta, quando i delitti erano più frequenti, e quando le Chiese erano cresciute in tanto numero, che non vi era angolo, che non ne abbondasse. S'aggiungeva, che oltre alla Bolla di Gregorio, li Canonisti ed altri Dottori Ecclesiastici aveano trattato questo soggetto d'immunità con sentimenti così stravaganti e smoderati, che finalmente rare volte, secondo essi, poteva avvenir caso di poter estrarre rei per qualunque delitto, che si fosse, dalle Chiese; ed ascrivendo alla sola Corte Ecclesiastica il potere di dichiarare i delitti eccettuati, diedero in tali stranezze, che secondo le loro massime, era impossibile poterne qualificar uno per tale. Di vantaggio stesero a lor capriccio l'immunità de' luoghi, non solo a' Cimiterj, Monasterj, Cappelle, Oratorj, alle Case de' Vescovi ed Ospedali; ma anche agli atrj, alle case, alle logge, a' giardini, a' vacui ed insino a' forni, ch'erano alle Chiese vicini. Sono in fine arrivati a tale estremità di dire, che se il rifugiato, ancorchè laico, commetta nel luogo dell'asilo qualche delitto, possa il Giudice Ecclesiastico giudicarlo, col pretesto che si sia abusato del confugio.

Bastava, per non far valere la Bolla di Gregorio, la sola frequenza de' delitti ed il tanto numero delle Chiese: di che poteva il Conte di Benavente, per governo del Regno a se commesso, prender ancora ammaestramento dalla sapienza del Senato Romano, il quale, secondo che narra Tacito[6], crescendo tuttavia in molte città della Grecia l'abuso di multiplicarsi gli Asili, tanto che quelle città erano ripiene d'uomini scelleratissimi, per la licenza che lor dava l'immunità di quelli, con danno gravissimo dello Stato, reputò il Senato, a cui Tiberio avea commesso tal affare, che dovesse restringersi il numero degli Asili.

Il Conte pertanto, per reprimere con maggior vigore la pretensione degli Ecclesiastici, ne scrisse al Re sin da' 30 maggio del 1603; e non cessando quelli di proseguir l'impresa, raddoppiò l'istanza a' 19 luglio 1606, pregandolo a dar pronto rimedio ad un tanto abuso; poichè di continuo i Ministri Regj aveano differenza sopra ciò con gli Ecclesiastici, li quali volevano in ogni modo eseguire la Bolla di Gregorio, e perciò non tralasciavano contra quelli di fulminar monitorj e scomuniche, ch'era lo stesso, che perturbare il Regno, e mandare a terra la Regal Giurisdizione[7]. Dopo fatte queste rappresentazioni al Re, essendo accaduto in Napoli, che a due Nobili venuti fra loro in urta, per tema di maggior pericolo, si fosse ingiunto mandato Regio di non partirsi dalle loro case; costoro poco di ciò curando si fecer lecito di passeggiar per la città, non ostante il divieto, ed incontratisi, cimentandosi a duello, ne rimase uno estinto: l'uccisore con un suo compagno, ch'era Cavaliere Gerosolimitano, ed un servidore, tosto si salvarono nel Convento di S. Caterina a Formello de' PP. Domenicani. Ma non fece lor valere l'Asilo il Conte di Benavente; poichè avendo fatto circondare il Convento da due compagnie di Spagnuoli, e da quella del Capitan Alfonso Modarra, gittate a terra le porte, amendue col servidore furono estratti, fatti prigioni e condotti nelle carceri della Vicaria; e giudicata la causa, nel mese di maggio del 1610 fu fatto mozzar il capo all'uccisore, risparmiando la vita al Cavaliere, a riguardo dell'abito di S. Giovanni che portava.

Non mancò subito il Vicario dell'Arcivescovo di Napoli di dichiarar scomunicati il Reggente ed Avvocato Fiscale di Vicaria, con affiggere cedoloni ancora contra il Capitan Modarra e' suoi soldati, e contra il Caporale e' soldati della guardia del suddetto Reggente, che aveano rotte e fracassate le porte del Monastero ed estratti i rifugiati; ma il Vicerè non tralasciò immantenente a' 6 del detto mese di mandar una grave ortatoria al Vicario, che dichiarasse nulle tali censure, e togliesse i cedoloni; e nell'istesso dì ne mandò un'altra per via d'ambasciata al Nunzio, fattagli dal Segretario del Regno Andrea Salazar, che desse ordine al Vicario, che levasse i cedoloni, siccome a' 10 del medesimo se ne replicò un'altra al Vicario[8]; tanto che colla restituzione del Cavalier Gerosolimitano nelle mani del suo Giudice competente, fu composto l'affare, nè si parlò più di Bolla. Distese con tal occasione il Reggente di Fulvio di Costanzo Marchese di Corleto una scrittura, che volle drizzarla al Pontefice Paolo V, dove con molta evidenza dimostrava di doversi togliere, o almeno moderare la Costituzione di Gregorio.

Ma questi ricorsi avuti in Roma furon sempre inutili; onde non tralasciandosi dagli Ecclesiastici di farla valere, quando loro veniva in acconcio, fu nel Pontificato di Clemente X preso espediente, di mandar in Roma due Ministri per ottener qualche riforma agli abusi dell'immunità Ecclesiastica, uno per lo Stato di Milano, che fu il Visitator Casati, e l'altro per lo Regno di Napoli, che fu il Consigliere allora Antonio di Gaeta, poi Reggente, trascelto dal Conte di Pegneranna, che dopo il Viceregnato di Napoli, era passato in Madrid al posto di Presidente del Consiglio d'Italia. Compose ancora il Consigliere Gaeta una dotta scrittura sopra questo soggetto, e la indirizzò pure al Pontefice Clemente X ed al Marchese d'Astorga, che si trovava allora Ambasciadore in Roma; ma la missione fu inutile, siccome riuscirono in appresso sempre vani i ricorsi, che sopra ciò s'ebbero in Roma vanamente lusingandoci, che da quella Corte si potesse la Bolla riformare; onde ora non rimane altro rimedio, se non che accadendo, che gli Ecclesiastici vogliano procedere a scomuniche per far valere la Bolla (quando si è voluto usare la debita vigilanza) s'è di lor presa severa vendetta, con discacciarli dal Regno, sequestrar le loro rendite, e carcerare i loro parenti; siccome a' tempi nostri fu praticato nel governo del Conte Daun, ch'essendosi con molto scandalo di tutta la città fulminate censure contra i Giudici e l'Avvocato Fiscale di Vicaria per essersi estratta da un forno attaccato ad una Chiesa una venefica, che avea commesse infinite stragi, e tuttavia nel luogo stesso del rifugio stava fabbricando veleni; fu con modi non tanto strepitosi, quanto applauditi da tutti, cacciato dalla città e Regno il Vicario dell'Arcivescovo, cacciati i suoi Ministri, imprigionati i cursori, che ebbero ardimento d'affigger i cedoloni, e sequestrate l'entrate all'Arcivescovo istesso.

Mentre con tanta vigilanza il Conte di Benavente amministrava il Regno, pervenne avviso in Napoli, che il Re Filippo, secondo le insinuazioni de' Favoriti, da' quali reggevasi la Monarchia, avea disegnato per suo successore il Conte di Lemos figliuolo di D. Ferdinando; ond'egli con molto dispiacere, e più della Contessa sua moglie, s'apparecchiò a riceverlo per cedergli il Governo; e giunto il Lemos nel mese di giugno di quest'anno 1610 nell'Isola di Procida, fu egli ad incontrarlo, e quantunque l'avesse pregato ad entrare e stanziare in Palagio, non volle il Lemos partire da quell'Isola per dar maggior agio al predecessore di disporsi alla partenza. Partì finalmente il Conte di Benavente da Napoli a' 11 del seguente mese di luglio, dopo aver governato il Regno per lo spazio poco più di sette anni. Lasciò di se monumenti ben illustri della sua giustizia (della quale fu oltremodo zelante) e della sua magnificenza. Egli magnifico in tutte le occasioni, che se gli presentarono in tempo del suo governo, come si vide nelle feste, che fece celebrare nel 1605 per la natività di Filippo Principe delle Spagne: e nel 1607 per la nascita dell'Infante D. Ferdinando, quegli, che sotto il nome di Cardinal Infante si rese cotanto celebre al Mondo per la vittoria ottenuta agli Svizzeri presso Norlinghen. Alla sua magnificenza dobbiamo quelle ampie e Regali strade, una, che conduce a Poggio Reale ornata di bellissimi alberi e d'amenissime fonti: l'altra, che dal Regio Palagio conduce a S. Lucia, nobilitata da una vaghissima Fontana, adornata di Statue d'esquisitissima scultura, siccome egli fu, che fece costruire il Ponte, ed innalzare quella magnifica Porta della città, che conduce al Borgo di Chiaja, volendo, che dal suo cognome si fosse chiamata Porta Pimentella; e sotto i suoi auspicj fu fabbricato il Palagio destinato per uso ed abitazione degli Ufficiali, che assistono alla conservazione de' grani riposti ne' pubblici granai per l'Annona della città. Nell'Isola d'Elba, posta ne' mari di Toscana, a lui dobbiamo il Forte Pimentello: siccome nel Regno que' magnifici Ponti della Cava, di Bovino e di Benevento.

Egli ci lasciò più di cinquanta Prammatiche tutte savie e prudenti. Regolò per quelle le Fiere del Regno, e comandò, che fossero celebrate ne' tempi stabiliti ne' loro privilegi e non altramente: proibì severamente l'asportazione delle arme corte, e fu terribile contra i falsari e contra i giocatori; e diede altri salutari provvedimenti intorno alla pubblica Annona, che secondo furono stabiliti, possono vedersi nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO III. Del Governo di D. Pietro Fernandez di Castro Conte di Lemos; e suoi ordinamenti intorno all'Università de' nostri Studi, perchè presso noi le discipline e le lettere fiorissero.

Don Pietro di Castro fu figliuolo di D. Ferdinando, che morì in Napoli essendovi Vicerè, e fratello di D. Francesco, che governò pure il Regno in qualità di Luogotenente lasciatovi da suo padre in vigor di facoltà concedutagli dal Re. Giunto in Napoli trovò il Regno non pur esausto, ma il Patrimonio Reale e la pubblica Annona in debito di più milioni, in guisa, che nè la città avea modo di provveder di frumenti i granai, nè la Cassa Militare di pagar le soldatesche. Ma applicatosi egli a favorire le Comunità del Regno, acciò fossero più pronte a pagare i tributi dovuti al Re: a far rivedere i conti, così delle Regie entrate, come della città: a riparar le frodi, che si commettevano dagli amministratori di esse: a porre i libri in registro: e sopra tutto vegghiando, che si spendesse fruttuosamente il denaro, accrebbe l'Erario del Principe e la pubblica Annona, tanto che nel corso del suo governo fu goduta una compiuta abbondanza.

Applicò ancora l'animo ad una esatta amministrazion di giustizia, invigilando alla sollecita spedizione delle cause: fu severo e terribile contra a' malfattori, e pose terrore a' Ministri, perchè invigilassero a castigarli, ed attendessero con assiduità e vigilanza a' loro ufficj.

Ma sopra ogni altro, di che resta a noi perpetuo ed illustre monumento, fu l'amore, che egli ebbe verso le lettere e la stima che fece della nostra Università degli Studi. Innalzò per degno ricetto delle Muse un superbo e magnifico Edificio, di cui non può pregiarsi aver simile qualunque Università d'Europa. I Professori di quest'Università per non aver luogo proporzionato a' loro esercizj, da S. Andrea a Nido, ove anticamente dimoravano, erano stati costretti ricovrarsi nel cortile, che serve d'atrio alla Chiesa di S. Domenico de' Frati Predicatori, dove in alcune volte terrene, che formavano tre stanze, addottrinavano la gioventù: nelle due, che sono nel muro verso mezzo giorno e dirimpetto alla Chiesa nella prima si leggeva la Ragion Canonica e la Gramatica Greca, e nella seconda s'insegnavano le leggi civili: nell'ultima stanza del lato interno verso occidente era la Cattedra, che chiamavasi degli Artisti[9]. Ma luogo angusto ed incomodo, e mal atto a tal ministerio, nè con architettura conforme al bisogno dell'opera ed al decoro e magnificenza della città: il sentirsi con poca riverenza della vicina Chiesa spesse dispute ed armeggiamenti degli Scolari: i fastidiosi ed importuni suoni delle campane che spesso interrompevano gli esercizj de' Professori, fecero, che il Conte di Lemos, affezionato agli Studi, ne' quali nell'Università di Salamanca, in tempo della sua gioventù, avea fatti maravigliosi progressi, pensasse da dovero a darvi riparo; e riputando ciò indegno di un'Università cotanto preclara, di cui non meno l'Imperador Federico II che i Re dell'Illustre Casa d'Angiò aveano fatta tanta stima, si determinò di prepararle una magnifica abitazione e degna delle scienze, che ivi si professavano. Colla direzione adunque del Cavalier Fontana, famoso Architetto di que' tempi, fece ergere un ampio edificio fuori la Porta di Costantinopoli, nel medesimo luogo, dove prima da D. Pietro Giron Duca d'Ossuna era stata edificata la Real Cavallerizza: fecevi costruire un ben ampio Teatro, per uso de' concorsi e per altre pubbliche dispute, e sale ben grandi capaci d'un gran numero di studenti; ma ciò, che rese l'opera stupenda e maravigliosa, furono li magnifici portici e le prospettive arricchite di statue di finissima scultura. Mancò solamente la perizia dell'arte nelle Iscrizioni, che in marmo vi s'addattarono nelle sue facciate e magnifiche Porte. A questi tempi erasi corrotta fra noi la Poesia, e questi studi erano passati a' Gesuiti, presso i quali era allora riputato risiedere la letteratura; quindi da' più valenti e savi critici, che in Napoli eran allora molto pochi e rari, furono in quelle notati molti errori, e leggendosi in una d'esse a lettere cubitali quell' ULYSSE AUDITORE, si diede occasione a Pietro Lasena di comporre quel suo dotto ed erudito libro Dell'Antico Ginnasio Napoletano, dove fa vedere i sogni dell'Autor dell' Iscrizione.

Con tutto che questa grand'opera non fosse finita si spesero dal Conte centocinquantamila ducati, ch'e' raccolse da tutto il Regno. Non potè egli aver il piacere di vederla interamente compita, essendo stato breve il tempo del suo governo; con tutto ciò, ancorchè non fosse terminata la fabbrica volle far seguire la traslazione degli studi, dal luogo ov'erano, in questo nuovo magnifico edificio, e per mostrare la stima che faceva di tal Università, volle egli intervenirvi coll'assistenza de' Tribunali, disponendo egli la celebrità con una numerosa cavalcata, la quale in Napoli non fa mai veduta simile, e la novità era, perchè v'intervennero i Dottori del Collegio ed i Professori dell'Università, vestiti all'uso di Spagna con una sorta d'insegna Dottorale, che chiamavano Capiroto, divisato con varietà di colori corrispondenti ed applicati alla varietà delle scienze, che da loro si professavano. I Teologi la portavano bianca, e negra: i Filosofi azzurra e gialla; i Legisti e Canonisti di color verde e rosso; e tutti avevano le berrette co' fiocchi de' medesimi colori. In cotal guisa si fece in quest'anno 1616 l'apertura dei Regj Studi in questo nuovo Edificio, dove il Vicerè intervenne ed ascoltò l'orazione, che per tal solennità recitossi.

Ma non bastava aver in sì magnifica forma ridotti i nostri Studi, se per ben reggergli non si provvedessero di savie leggi ed ottimi istituti. Egli riordinolli con prescrivere più Statuti, che ora si leggono nel Corpo delle nostre Prammatiche[10], nelli quali, confermando la Prefettura d'essi al Cappellan Maggiore, prescrisse la norma ed il numero degli altri Ufficiali, che doveano averne pensiero: ciò che s'appartenesse a' Protettori ed al Rettore, e del modo d'eleggerlo: ai Bidelli, al Maestro di cerimonie, al Capitan di guardia ed a' Portieri. E perchè il Conte meditava arricchire quest'Edificio d'una copiosa Libreria, prescrisse ancora in questi Statuti il modo da conservare i libri, e dell'uso che se ne dovea avere, e ciò che dovea essere dell'incombenza del Custode. Parimente stabilì in quelli una Cappella propria, e v'assegnò il Cappellano, e prescrisse le Feste, che si doveano ivi celebrare.

Distribuì le Cattedre e le materie che si doveano leggere, determinando ancora a' Professori i Salari in ogni facoltà: diffinì il corso dell'anno per lo studio, e quanto tempo arcano da durare le lezioni: preserisse il modo di leggere che doveano tenere i Lettori: le visite, che il Prefetto dovea fare a' medesimi: de' loro sustituti, ed in quali casi potevano concedersi; e che niuno nelle private case potesse leggere quelle facoltà, che si leggevano ne' pubblici Studi.

Ma quello, di che merita maggior lode questo savio Ministro, fu l'avere con severe leggi stabilito, che tutte le Cattedre si provvedessero per concorsi e per opposizioni. Avea il nostro Imperador Federico II, quando riformò, ed in miglior forma ridusse questi Studi, fin dall'anno 1239, per sua Costituzione[11] ordinato, che niuno potesse assumersi titolo di Maestro, che ora diciamo Lettore, se non fosse diligentemente esaminato in presenza de' suoi Ufficiali e de' Maestri di quella facoltà, che si pretende insegnare. Questo diligente esame facevasi per opposizione: modo non già da Federico inventato, ma molto antico ed a noi da' Greci tramandato, leggendosi presso Luciano[12], che in Atene sotto M. Aurelio, morto il Professore, era surrogato in suo luogo chi dopo aver disputato coll'oppositore, e fatto un tal esperimento, avea il suffragio degli Ottimati. Parimente in Costantinopoli, per legge stabilita da Teodosio il giovane, l'esame e l'elezione de' Professori si faceva Coetu amplissimo judicante[13]. Quest'istesso praticandosi inviolabilmente nelle Università di Spagna, siccome in molte altre d'Europa, volle il Conte di Lemos con leggi più strette stabilire presso di noi. Egli ordinò, che tutte le Cattedre si provvedessero per opposizione, invitandosi con pubblici Editti coloro, che degnamente si volessero opporre: prescrisse il modo, che si dovrà tenere nella pubblicazione di questi Editti: coloro, che possono opporsi alle Cattedre; gli esercizi, che avran da fare gli Oppositori e che avranno da osservare, durante la vacanza della Cattedra: determinò il numero de' Magistrati e de' Professori, che avranno da votare in quelle: il modo da tenersi: i diritti, che dovranno pagare coloro che saranno provvisti, ed il giuramento che avran da dare prima di pigliare il possesso.

Dopo avere il Lemos dati provvidi regolamenti intorno agli Ufficiali, che reggono l'Università, ed intorno a' Professori, e del modo d'eleggerli; passa a regolare ciò che s'appartiene agli Studenti, ricerca da quelli la matricola, l'esame che dovrà farsi quando dalla Gramatica passano ad altra facoltà: determina il tempo del corso de' loro studi: prescrive il modo da tenersi nelle dispute, e pubbliche conclusioni; i loro esercizj nella Rettorica, nella lingua Greca, Matematica ed Anatomia; ed in fine le Repetizioni, che avran da fare ogni anno a' medesimi li Lettori delle letture perpetue.

Queste furono le leggi Accademiche, che stabilì il Conte di Lemos per la nostra Università degli Studi, le quali partito che fu egli dal Governo di Napoli, vedendo il suo successore D. Pietro di Giron Duca d'Ossuna, che non erano con quel rigore osservate, che ordinato avea il Conte, promulgò sotto li 30 novembre del medesimo anno 1616, nuova Prammatica, nella quale inserendo tutte le sopraddette leggi, ordinò, che quelle inviolabilmente si fossero osservate[14].

La stima che il Conte di Lemos teneva per le lettere da lui cotanto favorite, fece sì che a questi tempi fiorissero in Napoli molti Letterati, e che si rinovellasse l'istituto dell'Accademie, incominciato in tempo di D. Pietro di Toledo. Sopra tutte le altre fioriva a questi tempi l'Accademia degli Oziosi, che nacque sotto gli auspicj del Cardinal Brancaccio, e che ragunavasi dentro il Chiostro del Convento di S. Maria delle Grazie presso la Chiesa di S. Agnello, della quale era Principe Giambattista Manso Marchese di Villa; ed alle volte in S. Domenico Maggiore, nella stanza, nella quale in memoria d'avervi insegnato S. Tommaso, è rimasta la Cattedra in piedi[15]. Si ascrissero a quella, oltre i Letterati di questi tempi, molti Nobili e Signori, che aveano buon gusto delle lettere: fra quali erano D. Luigi Caraffa Principe di Stigliano, D. Luigi di Capua Principe della Riccia, D. Filippo Gaetano Duca di Sermoneta, D. Carlo Spinelli Principe di Cariati, D. Francesco Muria Caraffa Duca di Nocera, D. Giantommaso di Capua Principe di Rocca Romana, D. Giovanni di Capua, D. Francesco Brancaccio, D. Giambattista Caracciolo, D. Cesare Pappacoda, Fr. Tommaso Caraffa dell'Ordine de' Predicatori, D. Ettore Pignatelli, D. Fabrizio Caraffa, e D. Diego di Mendozza. Ma il maggior lustro glie lo diede il Conte istesso di Lemos, il quale sovente in quest'Accademia insieme con gli altri andava a leggere le sue composizioni, ed una volta vi recitò una Commedia da lui composta, che fu intesa con grandissimo plauso.

S'ascrissero parimente in quest'Accademia quasi tutti i Letterati, che si riputavano a que' tempi i migliori, come il Cavalier Giambattista Marini, Giambattista della Porta, Pietro Lasena, Francesco de Petris, il nostro Consigliere Scipione Teodoro, Giulio Cesare Capaccio, Ascanio Colelli, Tiberio del Pozzo, Anton-Maria Palomba, Giannandrea di Paolo, Paolo Marchese, Giancamillo Cacace, che fu poi Reggente, Colantonio Mamigliola, Ottavio Sbarra, e molti altri.

A questi medesimi tempi nel Chiostro di S. Pietro a Majella ne fioriva un'altra, della quale era Principe D. Francesco Caraffa Marchese d'Anzi, e vi s'arrolarono D. Tiberio Caraffa Principe di Bisignano, Monsignor Pier Luigi Caraffa, Giammatteo Ranieri, Ottavio Caputi, Scipione Milano, ed alcuni altri.

Ma per vizio di quest'età erano professate le lettere non da tutti con quella politezza e candore, che si vide da poi verso la fine dello stesso secolo. La nostra Giurisprudenza non mutò sembiante, ed i Professori così nelle Cattedre, come nel Foro, de' quali era il numero cresciuto, seguitavano i vestigj de' loro maggiori. La filosofia era ancor ristretta ne' Chiostri, dove s'insegnava al lor modo Scolastico. La Medicina era professata da' Galenici. Lo studio delle lingue, e spezialmente della latina, e l'erudizione era ristretta ne' Gesuiti. La Poesia, tutta trasformata, era esercitata da' stravaganti cervelli; e l'Istoria da pochi era trattata con dignità e nettezza.

Non fu però, che in mezzo a tanti, alcuni nobili spiriti, allontanandosi da' comuni sentieri, non calcassero le vere strade, li quali a lungo andare dieder lume a' posteri di seguire le loro pedate; ma a questi tempi essendo pochi e rari non poterono far argine ad un così ampio ed impetuoso fiume. Rilusse Giambattista della Porta, cotanto noto per le opere, che ci lasciò. Pietro Lasena Avvocato ne' nostri Tribunali e letterato di profonda erudizione. Fabio Colonna celebre Filosofo e Matematico. Mario Schipani valente Medico e cotanto amico del virtuosissimo viaggiante Pietro della Valle. Costantino Sofia, al quale Lasena dedicò il suo libro de' Vergati; ed Antonio Arcudio, Sacerdote del Rito Greco, ed Arciprete di Soleto nella provincia d'Otranto, professori di lingua Greca, amendue Maestri del Lasena e Niccolò-Antonio Stelliola, Maestro del famoso M. Aurelio Severino. E se Francesco de Petris diede fuori a questi tempi quella sua sciocca Istoria Napoletana, ben vi furono alcuni valenti investigatori delle nostre memorie che la derisero, e che diedero saggi ben chiari di quanto sopra lui valessero: fra' quali non deve tralasciarsi qui privo della meritata lode Bartolommeo Chioccarello: costui, per la testimonianza, che a noi ne rende Pietro Lasena[16], che fu suo grande amico, non cedeva a uomo nelle più laboriose ricerche delle nostre antichità, tanto che s'acquistò il titolo di Can bracco. Egli per lo spazio di quaranta e più anni consumò sua vita in ricercare tutti i regj Archivj di questa città: quello della Regia Zecca, l'altro grande della Regia Camera e quello de' Quinternioni; ed anche l'altro della Regia Cancelleria: vide quasi tutti li protocolli, ed atti de' Notari antichi di Napoli: le scritture de' Monasteri più antichi, e tutti gli Archivj de Monasteri famosi, e delle Città più celebri del Regno: donde per commessione datagli nel 1626 dal Duca d'Alba Vicerè, raccolse que' 18 volumi di scritture attenenti alla regal giurisdizione. Raccolta quanto laboriosa, altrettanto gloriosa e degna d'eterna ed immortal memoria, per la quale i sostenitori della regal giurisdizione si fanno scudo e difesa contra le tante intraprese degli Ecclesiastici, che non hanno altro scopo, che d'abbatterla.

Le costui pedate seguitarono D. Ferdinando della Marra Duca della Guardia, e D. Camillo Tutini Sacerdote Napoletano, celebre ancor egli per le opere che ci lasciò. Se D. Francesco Capecelatro suo coetaneo avesse proseguito il suo lavoro, certamente avrebbe a noi lasciata una perfetta Istoria Napoletana. Ed Antonio Caracciolo Chierico Regolare Teatino diede nei suoi libri, che ci lasciò, saggi ben chiari quanto sopra questi studi intendesse. S'innalzò poi sopra tutti costoro il famoso Camillo Pellegrini Capuano, il più diligente Scrittore, ed il più savio ed acuto critico che abbiamo noi delle nostre antichità e delle nostre memorie.

Ma ritornando al conte di Lemos, dopo avere illustrata Napoli con l'innalzamento dell'Università degli studi, non tralasciò d'adornarla l'altri edificj. A lui devono i Gesuiti la fondazione del nuovo Collegio di S. Francesco Saverio. A lui dobbiamo quella grande opera de' mulini aperti fuori le mura della città presso Porta Nolana; ed a lui deve anche il Regno d'aver resi più comodi i viaggi terrestri, con far costruire nuovi Ponti. Ma furon interrotte le speranze di ricever da lui beneficj maggiori dall'avviso, che s'ebbe d'avergli li Re Filippo destinato per successore il Duca d'Ossuna, che si trovava allora Vicerè in Sicilia. Abbandonò tosto egli il governo del Regno, e lasciato D. Francesco suo fratello in sua vece, fino all'arrivo del successore, si partì a' 8 di luglio di quest'anno 1616 alla volta di Spagna, per andare ed esercitare la carica di Presidente del supremo Consiglio d'Italia. Ci lasciò ancor egli più di 40 utili e sagge Prammatiche, le quali secondo l'ordine de' tempi s'additano nella tante volte rammentata Cronologia.

CAPITOLO IV. Del Governo di D. Pietro Giron Duca d' Ossuna; e delle sue spedizioni fatte nell'Adriatico contra Vineziani, ch'ebbero per lui infelicissimo fine.

Il Duca d'Ossuna, ne' principj del suo governo, mostrò un'applicazione grandissima ed una assiduità indefessa nell'ascoltare e provvedere a' bisogni del Regno, usando molto rigore perchè la giustizia fosse senza eccezion di persone rettamente amministrata, e nell'istesso tempo somma magnificenza e liberalità per cattivarsi universal applauso e benevolenza: per cattivarsi quella del Popolo fece togliere due Gabelle, poco prima per certo determinato tempo imposte; e per quietare la Corte di Spagna insospettita di ciò, diede a credere, che ciò notabilmente avrebbe giovato al Patrimonio Regale, ed alleggeriti i sudditi, e resigli più abili a soffrire le imposizioni; e per confermare questi concetti con le opere, sollecitò un donativo dal Regno d'un milione e ducentomila ducati, che mandò a presentare al Re per li bisogni della Corona.

Ma una nuova guerra accesa in Italia per la morte di Francesco Gonzaga Duca di Mantua, della quale il Cavalier Battista Nani[17] distesamente notò i successi e le cagioni, intrigò il Duca d'Ossuna in cose più difficili e gravi. Per le cagioni rapportate da questo Scrittore, Filippo III fu indotto ad entrarvi, e ad opporsi al Duca di Savoja, al quale con sopracciglio spagnuolo imperiosamente avea comandato, che restituisse tutto l'occupato in Monferrato. Li Veneziani all'incontro favorivano il Duca con forze e denari, onde nacquero i disgusti tra la Corte di Spagna con quella Repubblica. S'aggiunse ancora, che al Re Filippo, essendosi il Senato Veneto per cagion degli Uscocchi disgustato coll'Arciduca Ferdinando, fu duopo assistere all'Arciduca cotanto a lui stretto di parentela, e di sovvenirlo. Ma non perciò s'era fra la Repubblica ed il Re dichiarata aperta guerra, nè licenziati dalle loro Corti gli Ambasciadori.

Il Duca d'Ossuna però, secondando il genio degli Spagnuoli che pubblicavano di voler movere apertamente le loro truppe contra Veneziani, nell'istesso tempo, che il Cardinal Borgia proccurava in Roma concitargli contra il Pontefice, non tralasciò quest'occasione d'ubbidire insieme a' comandi della Corte di Madrid, e di soddisfare il suo animo, che tenne sempre avverso a' Veneziani; e por opporsi al Duca di Savoja per la guerra del Monferrato, spedì al Governador di Milano replicati soccorsi, mandandovi quattro compagnie di cavalli leggieri, e sedici d'uomini d'arme, sotto scorta di D. Camillo Caracciolo Principe di Avellino, e seicento Corazze comandate da D. Marzio Caraffa Duca di Maddaloni; e per l'altra guerra, che per cagion degli Uscocchi si faceva dalla Repubblica agli Stati dell'Arciduca, armava Vascelli per infestare l'Adriatico, parte alla Repubblica sommamente gelosa. Sapeva l'Ossuna, che non poteva più nel vivo toccar i Vineziani, che col turbare il Dominio, ch'essi vantano del Mare Adriatico, infestare il commercio e romper il traffico, ancorchè da ciò ne dovessero ricevere danno i sudditi stessi del Regno, che tenevano opulente negozio nella città di Venezia; perciò fu tutto inteso, non tanto a raccoglier milizie per soccorrere il Milanese, quanto ad armar Vascelli per molestare i Vineziani; onde rotta la sicurtà de Porti, rappresagliò la nave di Pellegrino de' Rossi. Narra il Nani[18], che avendo la Repubblica per mezzo del suo Ambasciador Gritti fattane di ciò doglianza colla Corte di Spagna, avesse ottenuti ordini diretti all'Ossuna di rilasciarla; ma che costui con superbissimo animo li disprezzasse, non senza sospetto di connivenza della stessa Corte, la quale godesse di coprire i disegni più arcani con l'inobbedienza di capriccioso Ministro. Per la qual cosa i Vineziani risolutissimi alla difesa di quel Golfo, s'applicarono a rinforzarsi nel Mare con due Galeazze ed alcune Navi, ed elessero trenta Governadori dì Galee, acciocchè, secondo il bisogno, a parte a parte andassero armando.

Ma dall'altra parte il Vicerè, vedendo, che gli Uscocchi aveano perduti molti de' loro nidi, gli allettò a ricovrarsi nel Regno con Porto franco e con premj, quelli più accarezzando, che a' Vineziani riuscivano maggiormente molesti. Presero perciò costoro sotto il calore di tal protezione la Nave Doria, che con merci ed altri Navilj minori da Corfù passava a Venezia, vendendo sotto lo Stendardo del Vicerè pubblicamente le spoglie; e se bene i Gabellieri de' Porti principali del Regno esclamavano, che col traffico mancherebbero i dazj e l'entrate Reali, furono dall'Ossuna minacciati della forca, se più ardissero di dolersi. Il Nani, quanto buon Cittadino, altrettanto appassionato Istorico nelle azioni del Duca d'Ossuna, rapporta, che costui per natura vanissimo di lingua e d'animo, non solo applicava a turbar il mare, ma di continuo parlava di sorprendere Porti dell'Istria, saccheggiar Isole, e penetrare ne' recessi medesimi della città dominante: che ora in carta, ora in voce delineava e divisava i disegni, ordinava barche di fondo atto a' canali e paludi, tracciava macchine, nè più volentieri alcuno ascoltava, che coloro, i quali lo trattenessero con adulazioni al suo nome, o con facilità dell'impresa; ma che però non era tanto ciò ch'egli credeva di poter eseguire, quanto quello che desiderava, che si credesse, acciocchè si tenesse la Repubblica involta in maggiori dispendj, e distratta a tal segno, che più debolmente, ed offender potesse l'Arciduca, ed assistere a Carlo Duca di Savoja. Spinse pertanto l'Ossuna sotto Francesco Rivera dodici ben armati Vascelli nell'Adriatico: e benchè nel procinto di spiegare le vele, giungessero ordini della Corte di Spagna di sospender le mosse, parendo strano, che nel tempo d'aprire trattati di pace in Madrid, s'inferissero dal Vicerè durissime offese; egli ad ogni modo, facendo assembrare il Collaterale, fece far relazione dal medesimo alla Corte, rappresentando, che avendo alcune Barche armate della Repubblica preso un grosso Vascello, che voleva entrar in Trieste, conveniva al decoro e servizio del Re, che il Rivera partisse, e si reprimessero i Vineziani; onde fece partire i Vascelli, ed affinchè non fosse ciò imputato ad atto di romper la guerra in nome del Re colla Repubblica, fecegli partire colle sue insegne solamente.

La Repubblica perciò impose al Belegno, che comandava la sua Armata, d'unire in Lesina quella parte, che potesse avere più pronta per passar a Curzola, per coprire le Isole, ed in particolare per rompere il principal disegno dell'Ossuna di comparire a vista dell'Istria, per dar fomento all'armi dell'Arciduca Ferdinando, e divertire quelle della Repubblica. Conseguì l'intento il Belegno; poichè giunto che furono le Navi dell'Ossuna a Calamota, spinse loro la sua Armata incontro; onde il Rivera dubitando d'essere con disavvantaggio combattuto in quel sito, date le vele a prospero vento, attraversò il mare, ed a Brindisi si condusse.

Queste mosse avendo ingelositi i Turchi, gli spinsero a calare in grosso numero alla custodia, ed ai Presidj delle loro Marine; onde da ciò prese il Vicerè l'opportunità di chiedere ad altre Potenze soccorso, pubblicando non esser altro il suo scopo, che di abbattere l'inimico comune, e per ciò chiedeva, che si dovesse unir seco le Galee del Pontefice, di Malta, e di Fiorenza. Ma dall'altra parte i Ministri della Repubblica facevano altamente risuonare il contrario alle Corti di que' Principi, dicendo, che l'Ossuna al primo Visir avea inviati schiavi, e doni per allettarlo, e con ogni sorte d'uffizio incitarlo a muovere contra la Repubblica l'armi; e fecero valer tanto i loro ufficj, che non solo s'astennero que' Principi di dare all'Ossuna le loro Galee, ma proccurarono divertirlo dall'impresa, dicendo, che non servirebbe per altro, che a svegliare i Turchi e tirarli nell'Adriatico a fronte del Regno di Napoli e dello Stato Ecclesiastico.

Ma non per ciò il Duca si ritenne d'inviar sotto Pietro di Leyva diciannove Galee ad unirsi al Rivera, il quale passato con questo nuovo soccorso a S. Croce e trovati a Lesina i Vineziani inferiori di forze tentò di tirarli fuori a combattere: ma costoro fermi solo alla difesa, sopraggiunta la notte, obbligarono l'armata Spagnuola a ritirarsi in Brindisi con la preda d'un Naviglio di Sali e d'un Vascello d'Olanda, che navigando con alcuni soldati di quelle Levate, si trovò sopraffatto dalle navi dell'Ossuna. I Vineziani per ciò seriamente pensando all'importanza dell'affare ingrossarono la loro armata; e dall'altra parte l'Ossuna accrebbe la sua a diciotto Navi e trentatrè Galee, la quale comparse sopra Lesina, con animo di provocar la Veneta alla battaglia; ed intanto i Ministri spagnuoli, per atterrire con la fama di vasti apparecchi, avean fatto precorrer voce, che l'armata dei Galeoni solita a custodire la navigazione dell'Oceano, entrando nello stretto di Gibilterra, penetrerebbe nell'Adriatico, e che in Sicilia pure s'armavano di nuovo moltissimi Legni; le quali voci erano in parte accreditate dalle ardite procedure del Vicerè, il quale oltre d'aver ingrossata con alquante Galee la Squadra del Leyva, faceva scorrere dagli Uscocchi tutto il Golfo, i quali colle loro Barche insultavano fino in vista de' Porti di Venezia istessa con depredazioni e con danni gravissimi; tanto che obbligò il Senato a disponere qualche Galea alla guardia di Chioggia, ed a scegliere in Venezia certo numero di gente atta all'armi: ciò che riuscendo nuovo in quella città, avea posto il Popolo in non poco scompiglio; il quale per una falsa voce insorta, che, essendosi già combattuto dalle due armate intorno Lesina, i Vineziani avessero ottenuta una insigne vittoria sopra gli Spagnuoli, era corso impetuosamente per manomettere la persona e la Casa di D. Alfonso della Queva Marchese di Bedmar Ambasciadore del Re Filippo in Venezia, creduto principal instigatore de' tentativi dell'Ossuna.

Le due armate però intorno Lesina, ancorchè la Spagnuola avesse provocata la Veneta, non vennero mai a battaglia; onde il Leyva, vedendo che i Vineziani s'erano posti su la difesa del Porto s'allargò a Traù vecchio, dove incendiò il paese, e predò molte barche; indi colle Galee speditamente verso Zara trascorse, dove per una preda offertaglisi, si divertì da maggior vittoria; poichè con tutto che avesse precisi ordini di tentar la sorpresa e l'occupazione di Pola, o d'alcun altro Porto nell'Istria, egli scontrandosi a due Galee di mercatanzia, avido della preda, si trattenne ad occuparle con alcuni Legni, che conducevano provvisioni di vitto all'armata nemica; onde sopraggiunti da questa gli Spagnuoli, ed imbarazzati in oltre co' Legni predati e con le ricchissime spoglie, traversato il Mare verso il Monte Gargano, radendo le rive, finalmente a Brindisi si ricondussero e poco da poi le lor Galee uscirono dal Golfo. Il Vicerè di ciò ne rimproverò acremente il Leyva, che per quella preda si fosse perduta l'opportunità d'una più importante conquista; ad ogni modo, ostentando la preda, fece condurre a Napoli le merci ed i legni, molto godendo del dispiacere che in Venezia n'appariva.

Esclamavano intanto i Ministri della Repubblica in tutte le Corti de' Principi di questi atti ostili dell'Ossuna, il quale in mezzo a' trattati di pace oltraggiava il Golfo creduto di lor Dominio, e che proccurava, avendo intelligenza co' Turchi, tirar le armi di quelli a' danni della Repubblica, li quali, pretendendo rifacimento del danno ancor da essi sofferto in quella preda, minacciavano di prenderne ragione coll'armi contra la Repubblica. Ma nell'istesso tempo non tralasciava il Duca ancor egli di declamare contra i Vineziani, dicendo esser pur troppo insoffribili i loro vanti del dominio, che sognano di quel mare: essere per ragion delle genti la navigazion libera e molto meno potersi pretendere di vietarla all'armata del Re Cattolico, che non conosce superiore alcuno nel Mondo. A questi tempi e per tali occasioni, narrasi, che il Marchese di Bedmar Ambasciadore del Re Cattolico in Venezia, per toccar più sensibilmente i Vineziani, avesse fatto comporre da M. Velsero, o come altri tengono da Niccolò Peireschio, (ciò che parimente si suspica da quel che Gassendo ne scrisse nella di lui vita) quel libro intitolato: Squittinio della libertà Veneta. Questo libro acerbamente trafisse i Vineziani, li quali con difficoltà poterono trovar altro condegno Scrittore, che lo confutasse; e che finalmente non trovando altri, vi facessero rispondere da Teodoro Grass-Winckd Olandese, il quale ne compose un opposto, col titolo: Majestas Reipublicae Venetae; siccome da poi fecero Scipione Errico e Raffael della Torre Genovese.

(Burcardo Struvio[19], ciò che conferma nel Syntagm. Juris publici Imp. R. G. cap. 2 §.17, scrisse il vero Autore di questo libro essere stato Alfonso della Queva; e dirà vero, se intende che costui, il quale era lo stesso che il Marchese di Bedmar allora Ambasciadore dei Re Cattolico in Venezia, desse commissione a M. Velsero, o ad altri di comporlo, ma non già ch'egli dettato l'avesse o composto.)

(Narrasi che il Doge di Venezia avendo data commessione a Fra Paolo Sarpi, il quale avea sì bene e dottamente confutate tante scritture uscite in difesa di Paolo V, in quella briga che prese colla Repubblica, che rispondesse anche a questo libro; Fra Paolo saviamente considerando l'arduità dell'impresa, gli avesse risposto: Serenissime, ne moveas Camarinam, immotam hanc exepedit esse.)

Scrisse parimente l'Ossuna una grave lettera al Pontefice Paolo V rappresentandogli le soverchierie dei Vineziani e la necessità, ond'era stato costretto alle spedizioni da lui fatte nell'Adriatico, e punto di ciò che coloro gli addossavano d'aver amistà ed intelligenza col Turco, gli diceva che gli Spagnuoli non avean avuta mai tregua nè pace, com'essi, col Turco, e che la guerra, che egli ad essi faceva, non era contra Cristiani, perch'essi non erano tali, se non nel nome; poichè avendogli nelle contese passate negata l'ubbidienza, perdendogli il rispetto, non potevano dirsi Cattolici; e molto più per aver discacciata da' loro Stati una Religione cotanto esemplare e zelante del servigio di Dio, quanto era quella della Compagnia di Gesù: pagando, oltre a ciò, gli Eretici di Francia, che tengono nel servizio del Duca di Savoja, e gli Eretici d'Olanda, che tengono stipendiati nelle loro armate ed eserciti, profanando le Chiese delle Terre dell'Arciduca, e che per ciò lui desiderava sapere di che Religione essi erano, e se fossero forse Cristiani, come sono li Mori e gli Eretici.

Ma mentre tra l'Ossuna, ed i Vineziani le contese erano nel maggior fervore, non si tralasciavano i trattati di pace, la quale trasferita di Spagna in Francia, finalmente si conchiuse in Parigi e si distese in Madrid, dove si conchiusero le condizioni d'essa, accettate dalla Repubblica; onde alle doglianze, che il di lei Ambasciadore fece alla Corte di Madrid contra l'Ossuna, comandò il Re al medesimo, che restituisse al Ministro della Repubblica residente in Napoli li vascelli e le merci.

Non meno al Toledo Governador di Milano, ed al Marchese di Bedmar Ambasciadore del Re Cattolico in Venezia, che all'Ossuna dispiacque questa pace, e proccuravano a tutto potere porre ostacoli in eseguire le condizioni; ma sopra ogni altro l'Ossuna, col pretesto, che i Vineziani fabbricavano un Forte a S. Croce, pubblicava per ciò di voler invadere di nuovo il Golfo; ed all'ordine venutogli di render i Legni e le merci, si mostrò pronto di ubbidire solamente in quanto a consegnare i Legni a Gaspare Spinelli Residente della Repubblica, ma non già interamente le merci, dicendo, che gran parte di quelle s'erano acquistate al Fisco Regio, per appartenersi ad Ebrei, ed a Turchi nemici della Corona di Spagna: onde non volendo ricevere il Residente il resto offertogli, si venne di nuovo alle invasioni; ed il Duca inviò con diciannove Navi da guerra di nuovo nell'Adriatico Francesco Rivera. Non minori difficoltà frapponeva il Governador di Milano all'esecuzione per ciò che s'apparteneva dal suo canto; onde il Pontefice, i Franzesi e gli altri Principi frappostisi per farli quietare, estorsero dal Marchese di Bedmar, che desse parola al Senato Veneto, che tutto sarebbesi restituito. Ma con tutto ciò sempre sorgevano nuovi ostacoli, finchè finalmente datasi esecuzione in Piemonte ed in Istria alla pace, ritirossi il Rivera nel Porto di Brindisi coll'armata; ed i Vineziani ora più che mai esclamando nella Corte di Madrid contra l'Ossuna, ottennero da quella, che, tolto da mezzo il Vicerè, l'affare della restituzione de' Legni e delle merci fosse commesso al Cardinal Borgia, con ordine, che lo componesse insieme con Girolamo Soranzo Ambasciadore della Repubblica in Roma.

Ma nel nuovo anno 1618 si scoprirono le cagioni, ond'avveniva, che non ostante la pace, l'Ossuna, il Toledo e la Queva tenevan sempre Legni armati nei Porti dell'Adriatico, li quali non tralasciavano di scorrer il mare, e con ciò tener solleciti i Vineziani, onde sovente sortivano delle rappresaglie ne' Porti con gravi doglianze de' Napoletani, che rappresentarono in Ispagna i danni, che per ciò soffrivano. Tutto nasceva dall'esito che s'attendeva d'una congiura, che il Marchese di Bedmar maneggiava in Venezia, con participazione dell'Ossuna e del Toledo. Avea il Marchese tentato in Venezia tutte le arti per accrescersi partigiani, proccurando ancora di sviar molti dall'insegne e servizio della Repubblica, e d'introdurne degli altri per valersene all'occasione. Tra questi principalmente l'Ossuna inviò un tal Jacques Pierre, Franzese di Normandia e Corsaro di professione, ma di spirito grande. Costui, finti coll'Ossuna disgusti, mostrò di voler vendicarsi, passando al servizio della Repubblica, e con facilità vi fu accolto con un compagno chiamato Langlad, perito in maneggio di fuochi. L'Ossuna, mostrandosi di ciò fieramente sdegnato, faceva custodire la moglie del Pierre, e con lettere finte proponendogli gran premj, lo richiamava al servizio. Egli all'incontro, per rendersi accetto in Venezia, mostrava le lettere istesse, proponeva molte cose speziose, simulava di propalar i disegni del Vicerè, e suggerire i mezzi per contrapporvisi. Conciliata per tanto gran confidenza, s'introdusse col Langlad nell'Arsenale ad esercitar la sua arte. In occulto teneva poi con la Queva congressi, e di continuo secretamente passavano a Napoli corrieri e spie, avendo intanto aggregati alcuni Borgognoni e Franzesi al lor partito. Il concerto era, che sotto un Inglese, chiamato Haillot, l'Ossuna spingesse alcuni bergantini e barche, capaci d'entrare ne' Porti e Canali, de' quali avevano per tutto preso la misura ed il fondo: dovevano poi seguitare più grossi vascelli, per gittar l'ancore nelle spiagge del Friuli, sotto il calor de' quali, e nella confusione, che i primi erano per apportare nel Popolo, i congiurati s'aveano divisi gli uffici, il Langlad di dar fuoco nell'Arsenale, altri in più parti della Città; alcuni manometter la zecca, prender i posti più principali, trucidar i nobili, e tutti d'arricchirsi con dare alla Città spaventevol sacco.

Ma mentre i bergantini s'apprestavano per unirsi insieme, alcuni furono presi da Fuste Corsare, altri dissipati da fiera tempesta; onde non potendo i congiurati raccogliersi al tempo concertato, loro convenne differire l'esecuzione al prossimo Autunno. Il Pierre ed il Langlad, comandati a salire sopra l'armata, non poterono negare di partire col Capitan Generale Barbarigo. Gli altri, rimasi in Venezia, non cessavano di ruminar i modi dell'esecuzione, impazientemente attendendone il tempo; ma frequentandosi tra loro i discorsi, e per aggregarsi compagni, dilatandosi tra altri delle loro nazioni la confidenza ed il segreto; Gabriele Montecasino e Baldassar Juven, gentiluomini, quegli di Normandia e questi del Delfinato, discoprirono al Consiglio de' Dieci il concerto: carcerati per ciò alcuni cospiratori, restò il tradimento comprovato, e da scritture che si trovarono, e dalla confessione de' medesimi rei, che ne pagarono con pubblico e severo supplicio la pena: alcuni però, dall'arresto de' compagni, si sottrassero colla fuga, ricorrendo al loro asilo, ch'era appunto l'Ossuna; ma il Pierre ed il Langlad, per ordine spedito al Capitan Generale, furono affogati nel mare. La Città di Venezia inorridì allo scoprimento di tal congiura, ed al pericolo corso di veder ardere i Tempj e le case; onde il Marchese di Bedmar, che era riputato il direttore ed il ministro di così pravi disegni, vedendosi in grande pericolo di essere dal furore del Popolo sagrificato al pubblico sdegno, deliberò ritirarsi nascostamente a Milano. Aveva già il Senato con espresso corriere risolutamente richiesto al Re Filippo, che lo rimovesse; onde disapprovandosi dalla Corte di Madrid, essendo solito, che a' Principi, di tali negoziati piacciano più gli effetti che i mezzi, fu all'Ambasciador Veneto risposto, che già essendosi destinato al Queva Luigi Bravo per successore, dovea egli passare in Fiandra, per assistere all'Arciduca Alberto.

Il nostro Vicerè, scoverta la congiura, negava d'esserne stato a parte, tuttavia il Mondo lo condannava per reo, vedendo, che appresso di lui s'erano ricovrati i fuggitivi, e la vedova del Pierre, posta in libertà, essere stata inviata a Malta con onorevole scorta; ma egli niente di tali romori sgomentandosi, non lasciava di tener sempre pronti ed armati li suoi legni in suo nome con dispendio immenso, e con isprovvedere d'artiglierie le Fortezze principali del Regno: di che se ne facevano acerbe doglianze alla Corte, alle quali unendosi gli ufficj, che di continuo si facevano dall'Ambasciador Veneto, si pensava di levarlo dal Governo; ma egli coll'aiuto de' suoi congiunti ed amici che teneva in Madrid, e colle spesse rappresentazioni che faceva al Re de' suoi segnalati servigi, costantemente difendeva le sue procedure; ed intanto non tralasciava di molestare i Vineziani nell'Adriatico.

Crescevano tuttavia le accuse contra il Duca di trattar il Regno crudelmente, facendolo sopportare gl'incomodi di soldatesche: dipinsero ancora al Re la scandalosa sua vita, che ad onta della Duchessa sua moglie, non contento delle pubbliche meretrici, si faceva lecito di conversare con troppa libertà con le Dame più principali, dando con ciò motivo al volgo di lacerar l'onore delle famiglie più cospicue del Regno, con somma indignazione de' mariti e de' parenti, li quali finalmente si sarebbero risoluti a qualche strano eccesso: istavano per tanto i Nobili al Re a toglierlo dal Regno; e deliberarono di inviare secretamente alla Corte F. Lorenzo di Brindisi Cappuccino, il qual avea fama di santissima vita, e dal Re Filippo tenuto, per la sua pietà, in grande stima. Proccurò il Duca impedir la missione, per averne avuta notizia, onde fece per ordine del Cardinal Montalto, Protettore dell'Ordine Francescano, arrestar il Frate in Genova; ma ottenuta dopo qualche tempo licenza di seguitare il viaggio, giunto a' piedi del Re gli rappresentò le opere del Duca; ed alle costui relazioni essendosi unite le querele di molti Nobili, furtivamente andati a Madrid, ancorchè l'Ossuna non tralasciasse di muovere ogni mezzo per difendersi dall'imputazioni fattegli, non poterono i suoi fautori sostenerlo più a lungo; onde fu da quella Corte risoluto di chiamarlo.

Fu fama confermata poi da alcuni successi, ed il Nani[20] l'ha per cosa certa, che avendo il Duca penetrato, che gli soprastava mutazione di posto, meditava cambiare il Ministerio nel Principato. A questo fine, servendosi del mezzo di Giulio Genuino Eletto del Popolo, uomo d'ingegno acre, di spirito pronto, inventore di novità, ed avido di turbolenze e di sedizioni, s'avea con lusinghe obbligata la Plebe: teneva in oltre milizie straniere al suo soldo, e legni armati da se dipendenti: proteggeva contra i Baroni indistintamente i Popoli, e dava voce di moderare gli aggravj e levar le gabelle; anzi passando un giorno, dove per aggiustare l'imposte si pesavano i viveri, tagliò alla bilancia colla sua spada le funi, dando ad intendere di voler liberi ed esenti i frutti della Terra, come sono gratuiti i doni dell'aria e del Cielo; ed il Nani soggiunge, che sperando, che i Principi d'Italia fossero per secondare il pensiero, con secretissimi mezzi tentò il Duca di Savoja ed i Vineziani: questi con insinuar loro d'aver tutto operato per ordini precisi della Corte di Madrid, e quello con invitarlo a cospirare nel disegno di cacciare gli Spagnuoli d'Italia; ma la Repubblica, aliena da simili atti e sempre cauta, nè meno volle prestarvi orecchio: il Duca ne conferì alla Corte di Francia il progetto, e dal Duca di Dighieres Contestabile di Francia fu inviata persona a Napoli, che osservasse lo stato delle cose.

La Corte di Spagna, che per la lontananza da molti suoi Stati, avea per massima la diffidenza dei Ministri che li governavano, attentissima alle procedure dell'Ossuna, penetrò facilmente le pratiche, e deliberò senza frapporvi la minor dilazione di presto levarlo, ma dubitando, che con ispedirgli successore di Spagna, si valesse della dilazione per fortificare la sua inobbedienza, ordinò al Cardinal Borgia, che da Roma con celerità e cautela si portasse a Napoli, ed introducendosi nel Governo, scacciasse l'Ossuna. Ma non si potè ciò eseguire con tanta cautela e prestezza, sì che volendo partir il Borgia nel mese di maggio di quest'anno 1620, il Duca nol penetrasse; ed avendo egli tentato invano il Cardinale, che prorogasse la sua venuta insino ad ottobre, quando vide, che il successore era giunto a Gaeta, pensò nel restante cammino tendergli insidie ed aguati: fecegli apparecchiare in Pozzuoli, dove credeva dovesse soggiornare quel dì, agiata stanza; ma il Cardinale postosi in sospetto, invece di posar in Pozzuoli, andò nell'Isola di Procida a trattenersi.

Intanto il Genuino, esagerando alla plebe i beneficj ricevuti dall'Ossuna, e che partendo sarebbero dagli Spagnuoli più severamente trattati, avea commossa una sedizione affin d'impedire al Cardinale l'entrata nella città, ed ottener per questo mezzo la continuazione del governo dell'Ossuna: di che avvisato il Cardinale, per non esporsi a' popolari insulti, risolse di nascostamente entrar nella città, e concertato il modo col Castellano del Castel Nuovo, pronto ad aprirgli le porte del Castello, montato in una picciola barchetta, e sbarcato a Pozzuoli, dentro un cocchio di notte furtivamente s'introdusse nel Castello, e la mattina poi per tempo lo sparo del cannone avvertì la città, che giunto il nuovo Vicerè, era deposto l'Ossuna. Con tutto ciò non mancò costui nella brevità del tempo tentar con lusinghe la plebe e le milizie con doni; e scrisse al Re accagionando il Cardinale di questa sua furtiva entrata, quando egli aveagli offerto con prontezza le Galee: ma ch'egli questo affronto, ed il non vendicarsene lo riponeva fra gli altri suoi servigi importanti prestati alla Corona, perchè, siccome con facilità gli avrebbe potuto vietare l'entrata in Napoli, così dopo l'ingresso con le forze della sua armata di mare e dei seimila Spagnuoli, ch'erano sue creature, avrebbe potuto scacciare l'intruso, che tale dovea riputarsi, del possesso illegittimo e clandestino, preso in luogo insolito e senza le consuete cerimonie: che avrebbe ancora potuto punire l'attentato del Castellano, che aprì di mezza notte le porte della Fortezza, ed i Reggenti del Collaterale, e gli Eletti della Città per la potestà arrogatasi di levare, e porre a lor posta i Vicerè; ma che sagrificava ogni cosa al servigio della Corona, e partiva per sostenere la sua giustizia avanti il suo cospetto nella sua regal Corte. Gli convenne per tanto partire nel giorno 14 giugno di quest'anno 1620 alla volta di Spagna, lasciando in Napoli la moglie co' suoi figliuoli, avendo prima mandato in Piombino il Genuino travestito da Marinaro, per sottrarlo dalle debite pene, donde presolo poi nel suo passaggio, il condusse in Ispagna; ma per dar tempo, che lo sdegno del Re si placasse, proseguiva il viaggio a lenti passi, e giunse a Marsiglia dopo due mesi, dove trattenevasi in feste e balli con poca volontà di seguitare il viaggio.

Intanto il Cardinal Borgia, partito l'Ossuna, s'applicò a punire i colpevoli de' passati tumulti, e delegando le loro cause al Consigliere Scipione Rovito, furono contra costoro fabbricati più processi, e molti posti in carcere, ed il Genuino fu prima dichiarato contumace, e poscia bandito di pena capitale, e confiscati tutti i suoi beni, e venduti i mobili, ancorchè per impedirne la vendita fosse stato opposto da' suoi congiunti, ch'egli era Cherico. Per disfare ciò che il suo predecessore avea imperiosamente fatto, fece riponere quelle stesse gabelle, che erano state tolte dal Duca; e diede altri provvedimenti, che si leggono in tre sue Prammatiche, nel breve tempo del suo governo lasciateci.

Ma giunto l'Ossuna in Madrid, dopo un così lento viaggio, avendo in tanto placato l'animo del Re per mezzo del Duca d'Uzeda e degli altri Favoriti suoi amici e congiunti, seppe sì ben discolparsi di ciò, che gli era stato imputato, ed aggravare all'incontro la condotta del Cardinal Borgia, che si fece ardito di domandare, che si levasse il Cardinale, e tornasse egli in Napoli a continuar l'esercizio della sua carica. Il Consiglio di Stato, che secondo lo stato deplorabile di quella Corte era governato a capriccio de' Favoriti pose l'affare in dispute, e se l'Ambasciadore della città di Napoli non si fosse gagliardamente opposto alla pretensione del Duca di voler tornare, sarebbe seguita peggiore determinazione: pure, ancorchè non si risolvesse il ritorno dell'Ossuna, fu disapprovata la maniera usata dal Cardinale, e risoluto che il Cardinal si rimovesse, non ostante le doglianze della Duchessa di Candia di lui madre, la quale altamente lamentavasi col Re del pessimo trattamento, che si faceva al suo figliuolo, dopo averlo così ben servito; e perchè ostinatamente contendeva il Duca per ritornare, si prese espediente di sospendere l'elezion del Vicerè, ed in luogo del Borgia, mandar per Luogotenente in Napoli il Cardinal Antonio Zappata, che si trovava in Roma, come fu eseguito nel mese di novembre di quest'istesso anno 1620.

Ma succeduta indi a poco la morte del Re Filippo III, mancò il modo a' Favoriti di poterlo più proteggere; poichè pervenuto alla Corona il Re Filippo IV, e caduta l'autorità della privanza al Conte d'Olivares poco amorevole dell'Ossuna, fu ordinata dal Re una nuova Giunta di Ministri per esaminare con termini giudiciali l'imputazioni, che si davano al Duca, contenute ne' processi, stati fabbricati dal Consigliere Scipione Rovito, e mandati alla Corte per ordine del Cardinal Borgia. Ne fu fatto rigoroso esame e trovatosi il Duca colpevole fu fatto arrestare e con buone guardie fu condotto nel castello d'Almeda, dove dopo una lunga prigionia, afflitto da passioni d'animo, finì la vita a' 25 settembre dell'anno 1624. L'incontinenza nei piaceri del senso, e più la smoderata ambizione di dominare, corruppe l'altre belle doti del suo animo, corruppe il pregio del suo valor militare, la sua singolare abilità per comandare e la sua prudenza civile. Ci lasciò egli per ciò molti saggi e lodevoli regolamenti che pur si leggono ne' volumi delle nostre Prammatiche additati, secondo l'ordine de' tempi, nella Cronologia prefissa al primo tomo delle medesime.

CAPITOLO V. Infelice Governo del Cardinal D. Antonio Zapatta. Morte del Re Filippo III, e leggi che ci lasciò.

Giunto il Cardinal Zapatta in Napoli (a cui il Borgia cede il governo a' 12 decembre di quest'anno 1620, giorno della di lui partita) fu accolto dalle voci del popolo, che oppresso dalle precedute calamità, non altro ardentemente desiderava, che abbondanza; onde egli per corrispondere a' loro desiderj, invigilò seriamente sopra i venditori de' commestibili, perchè non alterassero i prezzi, che imponevano gli Eletti della città, gastigando severamente coloro che contravvenivano all'assise. Visitò le Carceri della Vicaria, e d'accesso facile ascoltava volentieri ogni sorta di persone; e così soddisfacendo a' bisogni de' sudditi, s'acquistò in questi principj l'applauso e le comuni benedizioni. Essendo accaduta in gennaio del nuovo anno 1621, la morte del Pontefice Paolo V, lasciando per suo Luogotenente D. Pietro di Gambona e Leyva Generale della Squadra navale di Napoli, partì per Roma per assistere al Conclave, e seguita dopo brevi giorni a' 9 febbraio, l'elezione nella persona del Cardinal Alessandro Lodovisio, chiamato Gregorio XV, fece ritorno in Napoli, a ripigliar l'amministrazione del Regno, continuata colla medesima comune soddisfazione; la qual tanto più s'accrebbe, quando si videro riformati i Tribunali, e comandata la continua assistenza a' Ministri, e la sollecita spedizion delle liti, avendo a tal fine ordinato, che nel Palazzo di Capuana si ponesse una campana, la quale nell'ora determinata, invitando col suono i Ministri ad andarvi, togliesse a tutti il pretesto della tardanza.

Ma due infauste occorrenze interruppero il corso della sua applaudita condotta, e resero il suo governo torbido ed infelice. A' preceduti anni sterili ed infecondi, ne era succeduto un altro assai più infelice, onde ne nacque una penuria di viveri estrema: a tutto ciò s'aggiunse, che per quattro mesi continui caddero dal Cielo così incessanti pioggie, che rendute le strade impraticabili, impedivano il trasporto delle vettovaglie dalle province alla città; ed in mare i continui e tempestosi venti impedivano la navigazione, ed alcune navi, che cariche di frumenti erano per giungervi, miserabilmente naufragarono: i Turchi ancora scorrendo da per tutto le nostre marine, predavano i vascelli che di Puglia carichi di grani s'erano avviati per soccorrere l'affamata città, il prezzo delli commestibili per ciò arrivò ad eccessive ed esorbitanti somme; onde si vide un'estrema miseria e carestia da per tutto.

A questa calamità s'aggiunse un altro male gravissimo e difficile a ripararsi, per cagion delle monete chiamate comunemente Zannette, ridotte per l'ingordigia de' tosatori a stato sì miserabile, che non ritenevano più che la quarta parte dell'antico valore, ond'erano da tutti rifiutate; tanto che i prezzi delle cose alterati, la moneta non sicura e rifiutata, ridusse molti alla disperazione. Si pensò alla fabbrica d'una nuova moneta per abolirle, e fu pubblicato, che nella abolizione di quelle, niuno v'avrebbe perduto. Ma essendo impossibile a por ciò in effetto per la quantità di Zannette, ch'erano nel Regno, e 'l poco argento, che v'era da coniarsi, per sorrogarsi in luogo di quelle; nacquer per ciò disordini gravissimi e sediziose turbolenze.

La vil plebe, che vuol satollarsi, nè sapere l'inclemenza de' Cieli, o la sterilità della Terra, vedendosi mancare il pane cominciò a tumultuare ed a perder il rispetto a' Ministri, che presidevano all'Annona: il Reggente Fulvio di Costanzo un giorno del mese d'ottobre di quest'anno 1621 poco mancò, che non fosse da lei oppresso; e già ogni cosa era disposta per prorompere in un universal tumulto. Il Consigliere Cesare Alderisio, Prefetto dell'Annona, per sedar le turbolenze persuase al Cardinale, che uscisse per la città, ed in una calamità così grande consolasse il Popolo; ed in fatti in gennaio del nuovo anno 1622 postisi amendue in un cocchio uscirono; ma questa uscita peggiorò il male, poichè la plebe insolentita, veduto il Vicerè, con poco rispetto cominciò a rinfacciargli la pessima condizione del pane, che mangiava; ed avendo la guardia Alemana voluto frenar gl'insulti, si videro sopra il cocchio del Cardinale piover sassi lanciati da que' ribaldi; tanto che bisognò ricovrarsi nel vicino Palazzio dell'Arcivescovo, e far chiuder le porte di quello e della Chiesa, infinchè accorsi molti Signori ad assisterlo, non lo riconducessero salvo in Palazzo.

I disordini per le Zanette abolite, e per non essersi potuto supplire colla nuova moneta, fecero crescere le confusioni nel Popolo, il quale perduto ogni ritegno, essendo a' 24 aprile uscito il Cardinale in cocchio fuori le Porte della città, quando fu fuori Porta Capuana, si vide dietro uno stuolo di plebei, uno dei quali avvicinatosi al cocchio con un pane nelle mani, con molta arroganza gli disse: Vede V. S. Illustrissima che pane ne fa mangiare, e soggiungendo altre parole piene di minacce, lanciogli quel pane a dosso sopra il cocchio. Il Cardinale sospettando di peggio, fece sollecitar i cavalli, e presa la strada di S. Carlo fuori la Porta di S. Gennaro, entrando per la Reale, che ora diciamo dello Spirito Santo, si condusse di buon passo in Palazzo: dove consultato l'affare, fu risoluto dissimularlo.

Ma questa tolleranza, in vece d'acchetare, fomentava i tumulti e li ridusse nell'ultima estremità, come si vide poco da poi; poich'essendo a questi tempi venuto in Napoli il Conte di Monterey, destinato dal Re Ambasciador estraordinario al Pontefice Gregorio XV, postosi in cocchio il Cardinale col Conte, mentre camminavano per la città, nella strada dell'Olmo furono circondati da molti plebei, che gridavano; Signore Illustrissimo, grascia, grascia: alle quali voci essendosi voltato il Cardinale con volto allegro e ridente, un di coloro temerariamente gli disse in faccia: non bisogna, che V. S. Illustrissima se ne rida, essendo negozio da lagrimare, e seguitando a dire altre parole piene di contumelie, si mossero gli altri a far lo stesso, ed a lanciar pietre al cocchio, talchè a gran passi fu duopo tornar indietro e ritirarsi in Palazzio. Allora stimossi dannosa ogni sofferenza e fu riputato por mano a severi castighi; onde formatasi Giunta di quattro più rinomati Ministri, che furono il Reggente D. Giovan Battista Valenzuola ed i Consiglieri Scipione Rovito, Pomponio Salvo e Cesare Alderisio, fabbricatosi il processo, furono imprigionate più di 300 persone: convinti i rei, contra essi a' 28 maggio fu profferita sentenza, colla quale diece ne furono condannati a morir su la Ruota, all'uso Germanico, dopo essersi sopra carri per li pubblici luoghi della città fatti tanagliare: furono le lor case diroccate ed adeguate al suolo: pubblicati i loro beni ed applicati al Fisco: i loro cadaveri divisi in pezzi, e posti pendenti fuori le mura della città per cibo degli uccelli, e le loro teste fur poste sopra le più frequentate Porte della medesima in grate di ferro. Sedici altri meno colpevoli furono condennati a remare, e fu diroccato ancora il fondaco di S. Giacomo nella strada di Porto, dove fu aperta quella strada, che si vede al presente, ed in cotal maniera finirono i tumulti, che sotto il governo del Cardinal Zapatta cagionarono la fame e le Zannette.

A questi tempi, mentre la città era involta in questi rumori, giunse in Napoli D. Francesco Antonio Alarcone, al quale il Re avea delegata la causa del Duca d'Ossuna. Il Genuino intanto era stato preso, ed in stretto carcere era detenuto in Madrid, donde fu condotto con buone guardie a Barcellona, e da poi trasportato nella Fortezza di Portolongone, dove fu strettamente custodito per lo spazio di molti mesi: passando l'Alarcone lo portò seco in Napoli, e chiuso nel Castel Nuovo, fu dopo due giorni mandato in quello di Baja, da dove passò in quello di Capua, e poi a quello di Gaeta. Trattatasi la sua causa, fu il Genuino condannato a perpetuo carcere nella Fortezza di Orano, ed i suoi nepoti e seguaci furono condennati a remare. Ma il Genuino dopo molti anni ottenne finalmente libertà; e narrasi che fosse, per aver mandato al Re Filippo IV che lo bramava, un modello di legno della Fortezza del Pignone, da lui lavorato nelle prigioni dell'Affrica; e ritornato poi in Napoli, benchè fattosi Prete, fu colui, che più d'ogn'altro fomentò le revoluzioni popolari del Regno accadute nell'anno 1647, delle quali più innanzi farem parola.

Intanto la città di Napoli, perchè a disordini sì gravi si desse pronto ristoro, avea segretamente spedito alla Corte il P. Taruggio Taruggi Prete della Congregazione dell'Oratorio; e consideratosi lo stato miserabile del Regno, e che per riparare alle tante strettezze, che cagionava la mancanza de' viveri e della moneta, eran necessari rimedi forti e solleciti, e che il genio facile ed indulgente del Cardinale non era confacente allo stato, nel quale eransi le cose ridotte: fu riputato espediente di levar il Cardinale, e mandare per Vicerè in Napoli il Duca d'Alba, il quale prestamente si pose in cammino, e giunse in Pozzuoli a' 14 del mese di dicembre di quest'anno 1622, e pochi giorni da poi prese il governo del Regno. Il Cardinal partì lasciando di sè concetto di mal fortunato Ministro, e che la sua natura troppo indulgente e dolce, avesse più tosto fomentati i disordini accaduti in tempo del suo governo. Egli però ci lasciò savi provvedimenti, che si leggono nel volume delle nostre Prammatiche, e s'additano nella Cronologia prefissa al primo tomo delle medesime.

In tempo del suo Governo, e propriamente a' 31 marzo del 1612, accade la morte del Re Filippo III in età di 43 anni, de' quali ne regnò 22 e mezzo. Ne fece egli nel Duomo di Napoli celebrare pompose esequie, dopo aver fatto acclamare il Re Filippo IV con cavalcata e pubblica celebrità. Morì Filippo d'acuta febbre, che gli tolse intempestivamente la vita, e in età cotanto acerba ed immatura. Egli di Margherita d'Austria, che fu sua moglie, procreò tre maschi ed altrettante femmine: D. Filippo, che fu suo successore nei Regni; D. Carlo, che poi morì; e D. Ferrante, Diacono Cardinale del Titolo di S. Maria in Portico, detto comunemente il Cardinal Infante. Delle femmine, D. Anna fu moglie di Lodovico XIII Re di Francia; D. Maria maritossi con Ferdinando Re d'Ungheria, e poscia Imperadore; ed un'altra, che morì bambina. Il suo regnare fu più tosto d'apparenza, che di realtà; poichè contento della Regal dignità, lasciò governare a' Favoriti ed a' Consigli. Si credette, che quando per l'istigazioni del Duca d'Uzeda e di Fr. Luigi Aliaga Confessore del Re, fu comandato al Cardinal Lerma, che si ritirasse, fosse il Re per assumere in se stesso il governo; ma la morte, che poco da poi lo rapì ai travagli, che seco porta l'Imperio, ne interruppe le speranze. Principe, ch'essendo decorato degli ornamenti della vita, meglio che dotato dell'arte di comandare; siccome la bontà, la pietà e la continenza lo costituirono superiore a' sudditi, così la disapplicazione al Governo lo rese inferiore al bisogno. Tenendo oziosa la volontà, si credeva, che altra funzione non avesse riserbata a se stesso, che d'assentire a tutto ciò, che il Favorito voleva; e si credette, che nell'agonia della sua morte, non fosse tanto consolato della memoria de' suoi innocenti costumi, quanto agitato dagli stimoli della coscienza per l'omissione del governo. Con tutto ciò dal primo anno del suo regnare insino al penultimo stabilì per noi molte leggi savie e prudenti, le quali, secondo il tempo che si pubblicarono, vengono additate nella Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche.

FINE DEL LIBRO TRENTESIMOQUINTO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMOSESTO

Filippo IV succedè al padre in età così giovanile, che non avea oltrepassati i sedici anni, per esser egli nato in Valladolid agli 8 d'aprile dell'anno 1605. Il suo Regno fu molto lungo, avendo durato quarantaquattro anni e mezzo insino al 1665 anno della sua morte. Si sperava, che per l'assunzione al soglio d'un nuovo Re, dovessero cessare i Favoriti, ed assumer egli in se stesso il Governo, ma riuscì vana ogni lusinga; poichè portati al Re i dispacci, gli consegnò a D. Gaspare di Gusman, Conte d'Olivares, il quale, ancorchè lo desiderasse, mostrandosene alieno, con questa sua simulata modestia mosse il Re a comandargli, che fossero dati a chi il Conte volesse. Egli simulando moderazione, gli rassegnò a D. Baldassar di Zunica, vecchio ed accreditato Ministro; ma però di concerto tra loro, perchè, essendo il Zunica suo zio, aveano convenuto di sostenersi reciprocamente; onde presto caduta la maschera, tutto l'arbitrio ed il potere si restrinse nel Conte, che decorato ancora col titolo di Duca, si scoprirà ne' seguenti racconti con questo doppio titolo di Conte Duca. Nel suo lungo regnare, sempre più le cose peggiorando, fu questo Reame teatro infelice di grandi e funesti avvenimenti, per li quali rimase voto di forze e di denari, e miseramente travagliato ed afflitto. Egli avendone presa l'investitura dal Pontefice Gregorio XV lo governò in questo spazio di tempo per mezzo di nove Vicerè, che successivamente ne presero l'amministrazione, de' quali il primo fu D. Antonio Alvarez di Toledo Duca d'Alba, del cui governo saremo ora brevemente a narrare.

CAPITOLO I. Di D. Antonio Alvarez di Toledo Duca d' Alba, e del suo infelice e travaglioso governo.

Venne il Duca d'Alba a ristorar il Regno dalle precedenti calamità e miserie; ma per trovar efficaci rimedi a tanti mali, riusciva l'impresa pur troppo dura e malagevole. A fin d'evitare il disordine, che seco portava l'uso delle Zannette, se n'era incorso in un altro maggiore, per la ordinata loro abolizione, non essendovi materia, nè modo per surrogare in lor vece una nuova moneta: cagionossi per ciò un danno gravissimo non meno a' pubblici Banchi, che a' loro Creditori, li quali Banchi si trovavano avere di Zannette la somma di quattro milioni e quattrocentomila ducati. Molti altri particolari Cittadini si trovavano pure quantità grande di Zannette, che furono costretti a venderle a peso d'argento, con ciò impoverironsi molte famiglie, che per tal cagione si ridussero in una estrema mendicità, donde nasceva ancora la penuria di tutte le cose, e l'impedimento del commercio. A riparar questi mali applicò l'animo il Duca d'Alba nel principio del suo Governo, ed avendo formata una Giunta di Ministri e d'altre persone pratiche, commise allo scrutinio di quella di trovare opportuno espediente per restituire nel Regno l'abbondanza ed il commercio. Esaminato l'affare, fu conchiuso d'imporre una nuova gabella per riparare in parte a perdita sì grave, poichè ripararla in tutto era impresa disperata ed impossibile. Ma s'urtava in un altro scoglio, per la difficoltà, che s'incontrava, che non v'era materia sopra dove potesse imporsi. Era il Regno gravato di tante gabelle e dazj, che quasi tutte le cose, delle quali hassi bisogno per conservar la vita, n'erano gravate: pure, consideratosi che solo i vini, che si vendevano a minuto nell'Osterie pagavano il dazio, e gli altri, che entravano nella Città per vendersi a barile, o a botte per uso de' Cittadini, non portavano peso alcuno, fu risoluto d'imporre un ducato di gabella per botte. Così fu imposta questa nuova gabella, la quale affittatasi per la somma di circa ducati novantamila l'anno, fur queste entrate assegnate a' creditori de' Banchi per la terza parte de' loro crediti, de' quali ne riceverono un'altra terza parte in moneta nuova di contanti: e si assegnarono a' Partitarj, in soddisfazione del prezzo degli argenti somministrati per la nuova moneta, le rendite de' forastieri, delle quali era stata dal Cardinal Zapatta predecessore ritenuta un'annata da riscuotersi in quattro anni. A queste ordinazioni s'aggiunse la moderazione fatta a' prezzi de' cambj, alterati ad un segno, che non potevano tollerarsi; onde si cominciò un poco a respirare, ed a restituirsi, nel miglior modo che si potè, in parte il commercio.

Ma nuovi accidenti tennero ne' seguenti anni non meno travagliato il Regno, che il Duca. Nel 1624 per un'infausta e scarsa raccolta di viveri, si vide la città in una grande angustia. Al flagello della carestia si accoppiò il timore della peste, che dipopolava la vicina Sicilia; ma rese al Duca più travaglioso il suo governo la guerra, che per lo Marchesato di Zuccarello s'accese tra il Duca di Savoja e la Repubblica di Genova, dalla quale, nel progresso di quella, per la fama del suo valore, reso celebre nelle guerre di Fiandra ed altrove, fu preso al suo servizio il nostro Maestro di Campo D. Roberto Dattilo Marchese di S. Caterina, figliuolo del Sargente Maggiore D. Alfonso, e confidatogli il comando della soldatesca pagata. Vi si aggiunse ancora l'altra guerra della Valtellina, per l'una e l'altra delle quali, per comando del Re, bisognava assistere di gente e di danaro. Mancava per sostenerle massimamente il danaro: le passate sciagure, in un governo senza economia, e con tutto ciò sempre profuso, posto in mano di Favoriti, che non come pastori legittimi, ma mercenarj, non curando le stragi e le calamità de' Popoli, aveano impoverito non meno i vassalli, che il Sovrano, e l'Erario Regale non era meno esausto che le borse de' sudditi; ma con tutto ciò il Conte Duca premeva il Vicerè, che dal Regno si spedissero milizie, e si soccorresse di danaro. Bisognò per provvedere all'estrema penuria di raccorlo con modi soavi, e che meno incomodassero i sudditi: fu per ciò ritenuta in due volte la terza parte dell'entrate d'un anno, che i creditori della Corte tenevano assegnate sopra le gabelle e fiscali, dato loro l'equivalente sopra il nuovo dazio del cinque per cento, aggiunto alle Dogane del Regno. Dall'entrate de' forestieri si tolsero venticinque per cento, e fu ordinata l'esazione di due carlini a fuoco.

Per raccor gente fu conceduto il perdono a tutti i delinquenti, contumaci e banditi, che andassero ad arrolarsi sotto l'insegne. Raccolte le soldatesche, fecene il Duca mostra sul piano del Ponte della Maddalena: oltre le milizie Spagnuole, ed i Reggimenti italiani de' Maestri di Campo Carlo di Sangro, ed Annibale Macedonio, si videro in buon'ordinanza schierati i Battaglioni delle province di Principato citra e Basilicata, sotto il comando del Sargente Maggiore Marco di Ponte: quello del Contado di Molise e Capitanata, sotto il comando del Sargente Maggiore D. Pietro de Solis Castelbianco: l'altro di Principato ultra, era condotto dal Sargente Maggiore D. Antonio Caraffa Cavaliere di S. Giovanni: quello di Terra di Lavoro, era guidato dal Sargente Maggiore Vespasiano Suardo; e quel di Terra di Bari dal Sargente Maggiore Giantommaso Blanco.

Oltre a ciò furono raccolti seimila altri uomini dalle Comunità del Regno, tassate a dar questo numero a proporzione de' fuochi; e questi furono parimente spediti sotto il comando de' Maestri di Campo D. Antonio del Tufo, e D. Roberto Dattilo, quello stesso, che poi fu richiesto al servizio de' Genovesi, come di sopra s'è narrato; ed il Principe di Satriano D. Ettore Ravaschiero guidò pure sotto la sua scorta altre squadre.

A queste spedizioni fatte dal Duca d'Alba s'aggiunse l'aver egli proccurato un donativo dalla città di centocinquantamila ducati per supplire alle spese di queste guerre, per le quali non tralasciarono di somministrare altri ajuti molti Titolati e Cavalieri napoletani. E fu duopo al Duca d'accorrere a' bisogni non solo delle guerre d'Italia, ma insino a Fiandra mandar dal Regno gente e denaro.

Nè pur di ciò sazio il Conte Duca, poichè le guerre d'Italia tuttavia continuavano, e n'andavano sempre mai pullulando altre nuove, avea mandato ordine a tutti i Governatori degli Stati, che il Re possedeva di qua dell'Alpi, che per accorrere in ogni bisogno che mai potesse nascere, era mestieri mantener sempre pronti, anche in tempo di pace, ventimila fanti e cinquemila cavalli, e che perciò trovassero espedienti per sostentarli. Ma, avendo il Vicerè proposto l'affare nel Consiglio di Stato, fu risoluto, che si rappresentasse al Re, che questo sarebbe stato un peso insoffribile al Regno cotanto aggravato; e che l'aggiungerne altri nuovi particolarmente in tempo di pace, sarebbe stata un'oppresione, che avrebbe distrutti i mezzi di poterlo poi servire in tempo di guerra, e nelli più urgenti bisogni.

Non tralasciarono ancora a questi tempi i Turchi di travagliar le nostre marine, li quali profittandosi dell'occasion dell'assenza delle squadre marittime dal Regno, comparvero ne' nostri mari, e sotto il Monte Circello alcune Galee di Biserta presero sei Navi, che andavano a caricar grani per l'Annona della città; poscia assalirono la Terra di Sperlonga presso Gaeta, il Castel dell'Abate e la Torre della Licosa. Altri quattordici vascelli Turchi infestarono le marine del Capo d'Otranto; e se il Marchese di S. Croce non fosse qui giunto coll'armata di Spagna, che gli pose in fuga, d'altri più gravi danni sarebbero stati cagione.

Pure i tremuoti vi vollero avere la lor parte. Nel mese di marzo del 1626 fecesi sentire in Napoli, ed in molte parti del Regno, un così orribile tremuoto, che empì la Città d'orrore e di spavento. Nel seguente mese d'aprile scosse più fieramente la Calabria, con gran danno della città di Catanzaro, di Girifalco e d'altre Terre. Ma nel nuovo anno 1627 si fece con maggior violenza sentire in Puglia, dove abbattè molte Terre, e fece strage grandissima degli abitatori, a' quali non bastando i sepolcri, fu duopo incendiar i cadaveri, perchè l'aria non si contaminasse.

Cotanto travaglioso e così pieno di fastidiose cure fu il Governo del Duca d'Alba; ma con tutto ciò non si sgomentò egli mai, nè mancò col suo valore e costanza andar incontro a' Fati. Egli ancora in mezzo a tanti travagli, non mancò dimostrare l'animo suo magnanimo e generoso in tutte le occasioni, che in Napoli durante il suo Governo gli s'offersero così nelle pubbliche allegrezze per la natività d'una figliuola, che in questo tempo nacque al Re, e delle funzioni celebrate nel Palagio Regale per li Tosoni dati a' Principi della Roccella, d'Avellino, e di Bisignano, come nella venuta, che, per l'occasione del Giubileo generale dell'anno 1625, fece in Napoli il Principe Ladislao, figliuolo di Sigismondo III Re di Polonia, e degli altri Signori ed Ambasciadori del Re, che si portavano in Roma. Ma sopra tutto rilusse la sua magnificenza, che seguendo i vestigj de' suoi predecessori, volle abbellir la Città o con nuovi edificj, o con ristorare, ed ingrandir gli antichi. Egli rifece quella Torre della lanterna al Molo, e la ridusse in quella altezza, che oggi si vede: costrusse un Baloardo nella punta del Molo con quattro Torrioni, per difesa del Porto; ed aprì quella magnifica Porta, che dal suo ancor ritiene il nome di Port'Alba, per comodità di coloro ch'andavano a' Tribunali. Costrusse il Ponte sopra il fiume Sele nel territorio della città di Campagna, un altro nella città d'Otranto; e sopra il Garigliano per comodità de' viandanti ne fece innalzar un altro. Per li timori conceputi della peste, che travagliava la vicina Sicilia, fece egli trasportare l' Espurgatojo dal luogo, ove allora si trovava presso Posilipo, in quello dove sia oggi vicino a Nisita. Fece ancora condurre l'acqua di S. Agata e d'Airola in Napoli per servigio de' Cittadini e delle fonti della città, e spezialmente del fonte vicino al Regio Palazzio da lui abbellito.

Nè mancò render la città vie più vaga e dilettevole con aprir nuove fonti, come fece nella strada di S. Lucia, d'allargar le strade, come fece in quella di Mergellina, affinchè coloro, che ricevono incomodo dal Mare, potessero andarvi comodamente per terra, ed egli fece abbellire di pitture il Regal Palazzio del famoso pennello di Belisario. Ma sopra tutto, di che il Regno gli deve, fu d'aver comandato al Reggente Carlo Tappia di perfezionare lo Stato dell'entrate e de' pesi di tutte le Comunità del Regno, e limitare le quantità che doveansi spendere in ciascun anno per servigio del pubblico: ciò, che tolse in gran parte agli amministratori di quelle la comodità di profittarsi del pubblico peculio. Parimente molto gli si deve per aver nel 1626 comandato a Bartolommeo Chioccarello quella Raccolta di tutte le scritture attinenti alla Regal Giurisdizione, ch'egli fece in 18 volumi, e che poi nell'anno 1631, per ordine del Re Filippo IV, consegnò al Visitator Alarcone, per doverli portare in Ispagna, dove furono conservati nel supremo Consiglio d'Italia.

Ma mentre il Duca d'Alba con universal soddisfazione ed applauso amministrava il Regno, avendo finiti appena sei anni del suo Governo, gli pervenne l'avviso, che il Duca d'Alcalà gli era stato dalla Corte destinato per successore: di che molto contristossene, e con tutto che non potesse sfuggir la partita, proccurò nondimeno con vari modi differirla: tanto che l'Alcalà partito dalla Corte e giunto a Barcellona, aspettando la comodità delle Galee per imbarcarsi, e queste mai non giungendo, fu costretto, dopo aversi per suo sostentamento in sì lunga dimora impegnati gli argenti, che seco portava per suo servigio, d'imbarcarsi sopra le Galee di Malta, che inaspettatamente lo condussero a vista di Napoli.

Giunse l'Alcalà a' 26 del mese di luglio dell'anno 1629, e smontato alla riviera di Posilipo, fu alloggiato dal Principe di Cariati nel Palagio di Trajetto, dove colla Duchessa sua moglie, col Marchese di Tariffa suo primogenito e con tutta la sua famiglia, fu magnificamente trattato. Il Duca d'Alba era allora travagliato in letto da fieri dolori nefritici, ed il nuovo Vicerè fu a visitarlo; ma con tutto che stasse infermo, non tralasciava l'applicazione a' negozj; ed alzatosi poi da letto, e restituita la visita all'Alcalà, si portò agli 8 d'agosto in S. Lorenzo a terminare il Parlamento già cominciato, il quale per l'infermità sopraggiunta a D. Giovan-Vincenzo Milano creato Sindico della Piazza di Nido, era rimaso sospeso. In questi ultimi giorni del suo governo ottenne egli un donativo d'un milione e ducentomila ducati dal Baronaggio ed Università del Regno, rimettendo alle medesime tutto ciò che doveano al Re di pagamenti fiscali già maturati; ed oltre a ciò ottenne un dono per se medesimo di settantacinquemila ducati. Proseguiva ancora il suo governo, ed a far molte grazie, ed a provveder diverse cariche Militari e di Toga; ed intanto l'Alcalà si tratteneva in divozioni, ed in esercitar opere di pietà in Posilipo. Finalmente partì il Duca d'Alba a' 16 agosto, lasciando di se a' Napoletani un grandissimo desiderio per la sua giustizia, bontà e prudenza civile, siccome lo dimostrano ancora le sue leggi, che ci lasciò, tutte savie e prudenti per le belle ordinazioni che contengono, le quali possono vedersi nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO II. Del Governo di D. Ferrante Afan di Riviera Duca d' Alcalà.

Questo nuovo Duca d'Alcalà, che venne al governo del Regno, potè mal imitare i vestigi dell'altro Duca d'Alcalà suo maggiore, per la corruzione, in cui erano ridotte le cose del Regno. Qualunque più esperto e savio Ministro era per confondersi ne' tanti disordini e calamità. Non vi erano nel Regno guerre, ma quelle di Lombardia cagionavano a noi mali peggiori, che se ardessero nelle viscere di quello. I Turchi non tralasciavano le loro scorrerie nelle nostre Marine, nè vi era chi potesse loro opporsi, perchè divertite le nostre forze altrove, erano assai deboli e scarse le difese. Gli Sbanditi per l'istessa cagione non lasciavano d'infestar le campagne e le pubbliche strade, e talora anche le Terre murate. I Tremuoti, ed i nuovi timori di peste e le altre sciagure, posero tutto in costernazione e disordine.

Da chi dovea sperarsi conforto, si riceveva maggior tracollo. Il Re, posto in mano del Favorito, niente curava di noi; ed il Conte Duca che reggeva la Monarchia, per sostenere le guerre di Lombardia avea fondata la sua maggior base nel Regno di Napoli. Con tutto che col continuo premere si vedesse così esangue e smunto, non si tralasciava di dimandar continuamente soccorso di gente e di danari. L'angustie del Vicerè, e più de' sudditi, erano per ciò grandi; pure per supplire in parte a' bisogni, fu a questi tempi trovato espediente di sospendere i pagamenti delle quantità assegnate a' creditori del Re sopra le Comunità del Regno, e di prendere quarantamila ducati dalle rendite della Dogana; ma ciò non bastando, fu duopo insinuare a tutti una volontaria tassa, la quale fu regolata dal Vicerè in cotal guisa, che non eccedesse la somma di ducati mille, nè fosse meno di diece: furono per ciò costretti i Titolati ed i Baroni ed anche gli Avvocati, insino i Mastrodatti e Scrivani a votare le loro borse nelle mani del Vicerè, che raccolse per questi tributi somme grossissime, sì che si pose in istato d'accorrere con soldatesche e denari alle necessità della guerra.

Nominò pertanto il Vicerè per queste spedizioni tre Mastri di Campo per arrolare tre Reggimenti, li quali furono D. Giovan d'Avalos Principe di Montesarchio, il quale poi per la morte sopravvenuta a due suoi figliuoli rinunziò il comando, e fu eletto in sua vece D. Luzio Caracciolo di Torrecuso, ch'era suo Sargente Maggiore; Carlo della Gatta e Mario Cafarelli. Il Principe di Satriano fece pure a sue spese un Reggimento di ventidue Compagnie, che tutte andarono a servire a Milano, per dove furono parimente imbarcati altri seicento Spagnuoli e molte Compagnie del Battaglione, e ciò oltre al Reggimento di Mario Galeota, che colle Galee prima di tutti s'era avviato a Gaeta, dove gli convenne trattenersi molti mesi, perchè i venti contrari gli avean impedita la navigazione.

Ma che pro? Tanti e tali soccorsi, che riguardandosi la povertà del Regno, donde si mandavano, potevano dirsi potenti, si dissiparono in un baleno in quella guerra mal guidata e sempre infelice. Veniva per ciò di nuovo sollecitato l'Alcalà a mandarne degli altri; ma donde dovea provvedersi del denaro, già che mancavano i fondi, ed erano già esauste tutte le scaturigini? Allora si venne alla risoluzione di vendere le città e Terre demaniali del Regno, ed a metter mano alle supreme Regalie. La città di Taverna fu venduta al Principe di Satriano, quella dell'Amantea al Principe di Belmonte, il Casale di Fratta al Medico Bruno, Miano e Mianello alla Contessa di Gambatesa, Marano al Marchese di Cerella D. Antonio Manriquez, ed altri luoghi ed altre persone: ciò che cagionò disordini grandissimi, perchè avvezzi que' cittadini al Demanio Regale, ed abborrendo la servitù, che lor soprastava di sottoporsi a Baroni, diedero in tali eccessi, che i Cittadini dell'Amantea e di Taverna chiusero a' compratori le Porte, ricusando di dar loro il possesso, e fecero valere i lor privilegi in guisa, che istituitasene lite, furono, con isborsare il prezzo per termini di giustizia conservati nel Demanio Regale.

La venuta della Regina Maria sorella del Re, che andava in Alemagna a trovar Ferdinando d'Austria Re d'Ungheria suo sposo, finì d'impoverire l'Erario Regale e le Comunità del Regno. Ella, per lo sospetto della peste di Lombardia, torse il cammino, ed accompagnata dal Cardinal di Gusman Arcivescovo di Siviglia e dal Duca d'Alba, con una Corte splendida e numerosa, deliberò, tralasciata la strada di Lombardia, di far quella del Regno. Si credette che il Duca d'Alba, per oscurare l'autorità del Vicerè fosse stato l'autore di tal risoluzione, e che perciò proccurasse far differire dalla Regina il cammino, siccome in fatti dal mese d'agosto del 1630, ch'entrò in Napoli, vi si trattenne quattro mesi continui splendidamente assistita, ed in continue feste e tornei trattenuta, come conveniva ad una tanta Principessa. Il Pontefice Urbano VIII le spedì Monsignor Serra a presentarle la Rosa d'oro, che rimase presso la Regina per suo Nunzio: venne da Roma il Conte di Monterey, Ambasciadore del Re alla Corte del Papa, a baciarle la mano, siccome fecero molti altri Signori e Principesse di conto. Non si parlava di partire, ed intanto la spesa, che questa dilazion portava al Patrimonio regale, era grandissima: s'erano fatti venire molti cavalli, ed altri animali per le vetture, e s'erano costrette le comunità del Regno a mandarle, ma poi non partendo, doveansi soministrar le spese per loro mantenimento e de' condottieri. L'Erario Regale era già voto, tanto che per supplire alla spesa, s'era posto mano all'entrate del Re assegnate a' particolari, e ciò nè meno bastando, s'era convenuto torre in prestanza grosse somme da' Banchi. Il Conte di Francburgh Ambasciador d'Alemagna sollecitava il viaggio, e scorgendo, che tanto più si differiva, finalmente si dichiarò colla Regina, che giacchè non voleva partire, gli dasse permissione d'andarsene. Anche il Vicerè Alcalà s'arrischiò a dirle, che si compiacesse dargli certezza della sua risoluzione; poichè se le fosse piaciuto differir la partenza, avrebbe licenziati i cavalli, e fatti soprasedere gli altri apparecchi, che il Provveditor Generale D. Francesco del Campo avea avuto ordine di fare; il qual ufficio passato dall'Alcalà per suo zelo, che egli ebbe del maggior servigio del Re, diede appoggio al Duca d'Alba di proccurare dalla Corte, che fosse egli rimosso dal Governo, come più innanzi diremo.

Ma la dimora era eziandio cagionata, perchè intendendo la Regina di passar a Trieste colla stessa armata Spagnuola ingrossata dalle solite squadre de' Principi italiani, colla quale era giunta a Napoli, se le opposero i Vineziani, riputando con ciò offendersi il lor preteso dominio del mare; ed offerirono tutta, o parte della loro Armata, per servire al trasporto. Ricusavano i Ministri spagnuoli, minacciando di passare anco senza lor consenso; ma risolutamente dichiaratisi i Vineziani, che se alla cortesia dell'esibizioni volessero i Spagnuoli preferire la forza dell'armi, converrebbe alla Regina passare alle nozze tra le battaglie ed i cannoni; stimarono gli Spagnuoli far sospendere il viaggio, fino a nuovi ordini della Corte, la quale vergognosamente cedendo, richiese la Repubblica di prestare la sua armata ed il passo. Così finalmente partì la Regina a' 18 decembre di quest'anno 1630, e facendo il cammino di Puglia, entrò per gli Apruzzi nello Stato del Papa, ed andò a trattenersi in Ancona: da dove da Antonio Pisani Generale de' Vineziani con tredici Galee sottili fu con trattamento magnifico e regale sbarcata a Trieste[21].

Intanto non lasciavano di render travaglioso il Governo al Duca le scorrerie de' Turchi, che danneggiavano le nostre Marine; e le Galee di Biserta posero in tal confusione le spiagge di Salerno, portando via molti Schiavi, ed attaccando fuoco alla Terra d'Agropoli, che il Vicerè fu costretto a spedirvi otto Galee per discacciarli: le genti della famiglia del Duca d'Atella, che andavano nel di lui Stato, in Calabria, furono fatte schiave da' Turchi, e se non fossero state liberate dalle Galee di Fiorenza sarebbe loro convenuto tollerare una misera servitù.

Anche gli Sbanditi in molte parti del Regno facevan guasti terribili; tanto che bisognò al Vicerè che vi spedisse D. Ferrante di Ribera suo figliuol naturale con titolo di Vicario Generale di tutto il Regno, e con tutta l'autorità, che in lui risedeva, a fin di sterminarli e di visitar le Fortezze. I tremuoti, che si fecero sentire a' 2 aprile di quest'anno 1630, posero ancora gran timore e spavento: ma assai maggiori furono i timori, che s'avevano della peste, che in Lombardia faceva stragi crudeli, e che manifestossi più volte ne' confini del Regno. S'aggiunse eziandio la voce sparsa, che camminassero per l'Italia alcuni infami, li quali inventando nuove fogge di morte, proccuravano con peste manufatta estinguere, per quanto potevano, il genere umano, avvelenando l'acque per le Chiese e per le strade, ed in cotal guisa andavano spargendo la contagione. Se ben l'immaginazione de' popoli, alterata dallo spavento, molte cose si figurava; ad ogni modo il delitto fu scoperto, e punito, stando ancora in Milano l'iscrizioni, e le memorie degli Edificj abbattuti, dove que' mostri si congregavano[22]; laonde fu ordinato per tutto il Regno, che si facessero diligentissime guardie, e che non si permettesse far entrar persona alcuna, senza le debite fedi di sanità.

In tale costernazione trovandosi il Regno, ogni cosa andava in perdizione. La poca giustizia, che s'amministrava ne' Tribunali, e le sordidezze d'alcuni Ministri, costrinsero il Vicerè ed il Visitator Alarcone con ordine della Corte, di sospenderne alcuni. Gli Avvocati si congiurano e non vogliono esporsi all'esame ordinato dal Re e s'astengono d'andare a Tribunali; ed i Ministri senz'alcuna difesa votano le cause; onde fu costretto il Vicerè usar contra essi rigore, perchè ripigliassero il lor mestiere La Regal Giurisdizione, posta a terra, dà sommo adito agli Ecclesiastici di maggiormente insolentire, ed il presente Duca d'Alcalà, troppo diverso dall'altro suo predecessore, gli soffre e non ne prende severo castigo, ma usando piacevolezza, vie più gli rende insolenti; siccome chiaramente si vide a quel che accade all' Auditor Figueroa. Avea il Duca d'Alba mandato certo Spagnuolo con sua commessione ad eseguire i beni d'alcuni di Nicotera, siccome eseguì; ma fatta l'esecuzione, pretendendosi, che fra le robe eseguite ve ne fossero alcune appartenenti al Vescovo, fu da costui il Commessario di propria autorità fatto carcerare. All'attentato commesso a fin di ripararlo, si mosse il Preside della Provincia a mandar l'Auditor Figueroa in Nicotera, affinchè lo sprigionasse; ma il Vescovo intanto avealo fatto trasportare altrove in sicura custodia: onde giunto quel Ministro in Nicotera e fatte gittar a terra le porte delle prigioni, rimase deluso, non trovandovi dentro persona alcuna; e non bastando al Vescovo d'averlo così schernito, per l'ardir usato di rompere le carceri, lo scomunicò, e ne affisse i cedoloni. Il Figueroa niente curando tali fulmini, ch'ei riputava senz'alcuna ragione essersi scagliati, e per ciò da non temersi, non pensò nemmeno farsene assolvere; ma passato l'anno della censura, si vide citato a dire ciò, che sentiva della Fede Cattolica: non curò pure il Figueroa tal citazione; ma passato un altro anno, si vide, che l'Inquisizione di Roma gli avea fabbricato un processo e con solenne sentenza lo dichiarò eretico. Forse di ciò nemmeno se ne sarebbe egli molto curato; ma gl'Inquisitori di Roma, fatto questo, mandarono ordini precisi a Monsignor Petronio Vescovo di Molfetta, che si tratteneva ancora in Napoli con carattere di Ministro del S. Ufficio, che in tutte le maniere lo imprigionasse. Il Vescovo Inquisitore, senza darne notizia al Vicerè, e senza richieder da quello l' Exequatur Regium agli ordini venutigli da Roma, chiamati a se tutti i Cursori dell'Arcivescovo e del Nunzio, co' quali avea concertata la carcerazione, saputo che il Figueroa soleva trattenersi dentro il Convento di S. Luigi de' PP. Minimi, poco prezzando la riverenza del luogo, e molto meno d'esser così vicino al Palagio Regale, comandò loro, che andasser tosto ad arrestarlo. Un attentato così enorme commesso in faccia al Principe, ed una carcerazione così strepitosa fatta innanzi a' suoi occhi, mosse il Vicerè a mandar subito una compagnia di Spagnuoli per reprimer tanta arroganza, li quali avendo posto in libertà il Figueroa lo condussero nel Regal Palagio. In altri tempi si sarebbe di ciò fatto altro risentimento, e si sarebbero severamente puniti gli autori d'un sì scandaloso insulto; ma assembratisi i Regj Ministri, non fu risoluto altro, che di disarmare tutta la famiglia dell'Arcivescovo, del Nunzio e dell'Inquisitore; onde in una notte fur tolte le armi a tutte le Corti Ecclesiastiche, nè contra il Vescovo Inquisitore si procedè a castigo. Tanta moderazione nè pure bastò, perchè Roma si quietasse, la quale profittandosi del tempo, fece di questa esecuzione un rumor grandissimo, spedendo monitorj e censure contra gli esecutori e tutti coloro, che l'aveano consigliata e comandata: ciò che intorbidò alquanto le feste, che si stavano celebrando allora in Napoli per la natività del Principe D. Baldassar Carlo primogenito del Re Filippo IV, il quale fece poi cessar tutti i timori, con una sua regal carta, che mandò al Vicerè, nella quale approvando ciò ch'erasi fatto, comandò, che gli ordini del S. Ufficio di Roma non s'eseguissero affatto nel Regno, senza saputa del Vicerè, e senza sua permissione.

Mentre, per la partita della Regina Maria, il Duca d'Alcalà avea ripreso con maggior libertà il governo del Regno, vennegli avviso, che il Duca d'Alba per molte accuse fattegli alla Corte circa il trattamento fatto alla Regina, avea ottenuto, che fosse colà chiamato. Ma non furon tanto le imputazioni fattegli per ciò alla Corte, che lo rimossero, quanto che il Conte Duca, per cui si reggeva la Monarchia, volendo gratificare il Conte di Monterey Ambasciadore del Re in Roma, a lui doppiamente congiunto in parentado, per tenere il Monterey una sua sorella per moglie, ed il Conte Duca parimente erasi ammogliato con una sorella del Monterey, ricevè volentieri le accuse fatte all'Alcalà, perchè potesse servirsene di spezioso pretesto. E per non amareggiare cotanto il Duca, con grave dispendio del Re, comandò, che il Duca d'Alcalà venisse a giustificarsi in Corte de' carichi, che gli s'adossavano, non intendendosi per ciò privato del Governo, e che per ciò gli corresse il soldo di ventiquattromila ducati l'anno; e che in sua assenza andasse a governar il Regno il Conte di Monterey, al quale corresse per ciò lo stipendio di soli ducati dodicimila l'anno, come interino. Ma il Duca non vi tornò mai più, se non quando fu per passar al Governo della Sicilia; ed il Conte, ch'era interino, vi stette sei anni. Così postergato il servigio del proprio Principe, per privati interessi del Favorito, fu a noi tolto il Duca d'Alcalà, il quale, partito da Napoli ai 13 maggio di quest'anno 1631, diede luogo al Monterey, che da Roma fin da' 17 d'aprile erasi portato in Napoli, trattenendosi intanto in Chiaja nel palagio del Marchese della Valle, insino alla partita del suo predecessore. Lasciò il Duca di se un grandissimo desiderio, ed un rammarico a' Napoletani, che sentirono al vivo le calunniose imputazioni fattegli in Corte. Egli ci lasciò dodici Prammatiche tutte savie e prudenti: fu terribile contra gli sbanditi e loro ricettatori: vietò alle Piazze di Napoli ed alle Comunità tutte del Regno, di assegnar salarj, o far donazioni, anche per causa pia, senza precedente assenso e licenza del Vicerè: riformò i Regj Studi, e comandò, che non si fosse dispensato all'età necessaria per ascendere al grado del Dottorato: fece molte ordinazioni attenenti all'ufficio di Commessario Generale di Campagna; e diede altri savi provvedimenti, che si additano nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO III. Di D. Emmanuele di Gusman Conte di Monterey; e degl'innumerabili soccorsi, che si cavarono dal Regno di gente e di denaro in tempo del suo Governo.

Cominciò il Conte di Monterey ad amministrare il Regno con funeste apparenze, che diedero presagi d'un calamitoso governo: nella Villa del Vomero diede una donna alla luce un mirabil mostro: una spaventosa Cometa comparsa ne' principj di settembre di quest'anno diede a molti terrore; ma i tremuoti, le orribili errutazioni, le orride nubi, gli spaventosi torrenti di fuoco, le orrende piogge di cenere, che dalla notte de 15 di dicembre avea il Monte Vesuvio cominciato a spandere, non solo empiè la città ed il Regno di spavento e d'orrore, ma presagirono altri mali e nuove calamità. Vomitò il Monte fiamme con tanto empito e con tale spavento, che Napoli temè, o d'abissarsi ne' tremuoti, o di seppellirsi nelle ceneri. Lo scuotimento abbattè edificj, arrestò il corso a' fiumi, rispinse il mare ed aprì le montagne. Esalarono in fine con oppositi ed orribili effetti acque, fiamme e ceneri, dalle quali non solo restarono oppressi alcuni luoghi vicini, ma si temè, che levato il respiro dell'aria, non fosser tutti per soffocarsi. Ma placato il Cielo dalle pubbliche penitenze, spirò tal vento dalla parte avversa, che le portò a cadere oltre mare fin'a Cattaro, ed altri luoghi dell'Albania e della Dalmazia; e consumato in fine nelle viscere della Terra il sulfureo alimento, il fuoco s'estinse.

Ma non s'estinsero in noi le calamità maggiori, che ci cagionavano le guerre d'Italia. Il Conte Duca più famoso che fortunato, per gl'infelici successi delle arme Spagnuole in Lombardia, vedeva che i Ministri di quella Monarchia avevano perduta in Italia quell'autorità, che solevan prima godervi fino a tal segno, che sovente con imperiosi modi comandavano al Duca stesso di Savoia, che disarmasse. Ora li Franzesi eransi cotanto intrigati negl'interessi di quella, che avendosi resi dipendenti il Duca di Savoia per lo freno di Pinarolo, il Duca di Mantua per la custodia di Casale e del Monferrato, e gli altri Principi, chi per inclinazione, e chi per profittare, aveano posto in bilancia tra la corona di Spagna e la franzese l'Italia. Si credeva eziandio, che il Pontefice Urbano VIII per l'antiche parzialità verso la Corona franzese, per esservi stato Nunzio, e per essere compare del Re, pendesse dalla sua parte, e traversasse gl'interessi degli Austriaci; e ne diede non oscuri indizi, per vedersi il Cardinal Antonio Barberino suo nipote aver con ricche pensioni accettata la protezione di quel Regno; e dicevasi, che il Papa, quando entrarono gli Alemani in Mantova, avesse chiesto a' Cardinali soccorso per discacciarneli: e che nelle angustie maggiori, che soffriva la Religione in Germania, oppressa dagli Eretici, e calpestata dalle armi del Re di Svezia, non si fosse egli mosso, ancorchè in nome del Re Cattolico ne gli fossero state fatte in pubblico Concistoro dal Cardinal Borgia premurose istanze. S'aggiungevano le male soddisfazioni, che ricevevano in Roma i Ministri di Spagna, le quali ridussero il Cardinal Sandoval a partirsi mal soddisfatto da Roma, e ritirarsi in Napoli.

Per ciò gli animi de' Ministri spagnuoli erano pregni d'acerbi disgusti e di gravi pensieri, intendendosi esagerazioni frequenti del Conte Duca, che non sarebbe mai per godersi la pace, se non si restituisse l'Italia nell'esser di prima. A tal fine fu deliberato, che il Cardinal Infante fratello del Re passasse a Milano, per di là trasferirsi al suo Governo di Fiandra; ed a comandare nuovi apparati di guerra, ed in particolare al Regno di Napoli, che provvedesse di danaro, ammassasse gente, ed allestisse legni.

Per far argine alle male inclinazioni del Pontefice, di cui erasi sparsa voce, che avesse spedito buon numero di soldati alle frontiere del Regno, bisognò al Vicerè, che mandasse a' confini mille e cinquecento cavalli sotto il comando d'Annibale Macedonio, Marchese di Tortora; e che per fornire il Regno di nuove soldatesche comandasse a tutti i Baroni e Terre demaniali, che somministrassero buon numero di soldati.

Da questi disgusti, che passavano colla Corte di Roma, nacque a questi tempi qualche rialzamento della regal Giurisdizione, presso noi quasi che depressa; poichè la Corte di Madrid, per vendicare i disgusti co' disgusti, spedì a Roma il Vescovo di Cordova, e Giovanni Chiumazzero in qualità di Commessarj, per richieder riforma di molti abusi, che la Dataria di Roma avea introdotti in Ispagna, onde si portavano grandi aggravj a quel Regno[23], de' quali avevan fatto lungo catalogo, e con una dotta scrittura[24], rispondendo ancora ad un'altra, fatta per ordine del Papa da Monsignor Maraldi Segretario dei Brevi, li giustificavano per abusivi e intollerabili; e si stimava, che tenessero segrete istruzioni di chiedere un Concilio, ed angustiare il Pontefice con minacce e con moleste dimande[25]. Di che accortosi Urbano, pensò con frapporre lunghezza di render vani i disegni; poichè negando in prima d'ammetterli col titolo di Commessarj, dicendo, che ciò pareva che significasse certa giurisdizione ed autorità, stancò tra queste, ed altre difficoltà e lunghezze in modo il negozio ed intiepidì anche il Vescovo con isperanza di maggior dignità, che il Re accortosene lo richiamò, e conferito al Chiumazzero il titolo d'Ambasciadore, mentre col tempo si mitigava il bollore degli animi, e per l'avversità de' successi si piegava dagli Spagnuoli sempre più alla sofferenza, svanì da se stesso il negozio.

Ma intanto fra noi, animati da questi disgusti il Vicerè ed i Regj Ministri, non tralasciavano, ne' casi che occorrevano, di procedere con fortezza e vigore; poich'essendo stato con modi barbari e crudeli ucciso da alcuni Preti il Governador della Sala fratello del Consigliere D. Francesco Salgado, ancorchè Francesco Maria Brancaccio Vescovo di Capaccio, sotto la cui Diocesi si comprende la Sala, ne avesse presa di ciò conoscenza, con aver condennati alcuni degli uccisori in galea; nulladimanco riputandosi ciò troppa indulgenza ad un così scandaloso ed enorme delitto, per la qualità e carattere dell'ucciso; il Vicerè spedì una compagnia di Spagnuoli nella Sala, dove coll'alloggio a discrezione, trattarono, alla rinfusa così Preti come laici, malamente que' Cittadini: di che avendone voluto far risentimento il Vescovo con monitorj, fu il di lui fratello D. Carlo Brancaccio mandato prigione in Castello, ed egli fu costretto sgombrar dal Regno, e girsene in Roma. Ciò che gli riuscì di maggior favore; poichè mentre trattenevasi nella Corte del Papa angustiato dalle spese e da' debiti, entrato in somma grazia del Cardinal Antonio nipote del Papa, fu per esempio degli altri (affinchè si mostrassero sempre forti nella difesa della giurisdizion Ecclesiastica, con la speranza d'esserne ben premiati) nel Concistoro de' 20 novembre dell'anno 1633 promosso, senz'aspettarlo, al Cardinalato; e per aggiungerci maggior onta e disprezzo, gli fu dal Papa conferito l'Arcivescovado di Bari, e rimandato nel Regno per prenderne la possessione. Ma il Vicerè di ciò fortemente crucciato, al suo arrivo, in vece del possesso, gli fece apprestare una Galea, perchè tosto ritornasse in Roma, nè mai più nel Regno capitasse; di che il Papa fecene gran romore, e ne ricevè sommo dispiacere: a' quali disgusti se ne aggiunsero poco da poi altri, perchè dalle genti di Corte fu fatto uccidere in Pozzuoli un Canonico di quella Chiesa: e trovandosi nelle carceri di Vicaria un ribaldo, che pretendeva, per essersi estratto dalla Chiesa di S. Giovanni a Mare, esser in quella riposto; mentre si disputava dell'articolo della reposizione, commise un nuovo delitto nelle carceri stesse, onde il Vicerè la notte de' 19 di aprile del 1633 lo fece morire su le forche, che fece piantare davanti al Palagio della Vicaria, poco curando le istanze e le censure, che l'Arcivescovo fece lanciare contra coloro, che il fecero imprigionare.

Ma durò poco fra noi tal vigore, poichè per l'avversità de' successi delle armi del Re, sempre piegando gli Spagnuoli alla sofferenza, bisognò usar ogni arte per rendersi amico il Pontefice, e gli altri Principi d'Italia; e poichè i Ministri franzesi non cessavano d'imprimere ne' Principi gelosi pensieri, e d'esortarli a congiungersi insieme per discacciare, sotto il patrocinio della loro Corona, gli Spagnuoli d'Italia; all'incontro gli Spagnuoli proponevano a tutti grandi vantaggi, al Gran Duca di Fiorenza grosse pensioni, al Duca di Modena Correggio, al Duca di Parma il Generalato del Mare, ed una Vice-Reggenza: e sopra tutto per dar riputazione alle armi, studiavansi di accrescerle con nuove soldatesche, che da Napoli si sollecitavano insieme con denari ed altri militari provvedimenti.

Per ciò il Conte di Monterey era continuamente richiesto di soccorsi, onde comandò l'elezione de' Soldati della nuova milizia del Battaglione, ed unì cento e quindici Compagnie di pedoni di ducento trenta uomini l'una; e liberando i soldati d'uomini d'arme dal peso di mantenere un doppio cavallo, ridusse sedici compagnie di essi a compagnie di corazze, accrescendone il numero fino a sessanta per ciascheduna, oltre gli Ufficiali. Partì ancora in novembre del 1631 per lo Stato di Milano il Principe di Belmonte con un Reggimento d'Italiani di 14 Compagnie, assoldate a sue spese, e nel mese di gennajo del nuovo anno 1632 prese la medesima strada un altro Reggimento d'Italiani di mille e seicento soldati comandati dal Mastro di Campo Marchese di Torrecuso, col quale s'accompagnò il picciol Conte di Soriano per andare a ritrovare il Duca di Nocera suo Padre. Parimente nel luglio del seguente anno 1633 furono spediti per Milano quattrocentocinquanta fanti sotto i Maestri di Campo Lucio Boccapianola e D. Gaspare Toraldo, oltre mille cavalli comandati dal Commessario Generale D. Alvaro di Quinones, co' quali il Duca di Feria Governadore di quello Stato si portò nell'Alsazia a soccorrere Brisac.

Non solo questo Regno era riserbato per somministrar soccorsi di gente e di denaro per le guerre d'Italia; ma anche per quelle di Fiandra, di Catalogna, insino a quelle di Germania. Nell'anno 1632 s'imbarcarono quattromilasettecento soldati, comandati da' Marchesi di Campolattaro e di S. Lucido per Catalogna, e v'andarono parimente otto Compagnie di Cavalli smontati col denaro bisognevole per montarle in quel Principato. Nel mese di gennajo del seguente anno 1633 sotto il comando del Sargente Maggiore Ettore della Calce furono spediti per Catalogna settecento persone, per riempire i Reggimenti napoletani, che ritrovavansi in quel Paese.

Giunse intanto in Milano il Cardinal Infante con titolo di Generalissimo di tutte le armi della Corona, essendosegli dato per Consigliere D. Girolamo Caraffa Principe di Montenegro, al quale, morto in Milano, fu sustituito dal Re Fr. Lelio Brancaccio, che immantenente si condusse a Milano, alla qual volta il Vicerè spedì subito D. Gaspare d'Azevedo Capitan delle sue guardie a passar con l'Infante i dovuti ufficj, e nel mese di maggio del seguente anno 1634 gli mandò soccorsi tali, che non furono veduti più potenti uscire dal Regno; poichè vi spedì seimila fanti, de' quali n'erano mille Spagnuoli del Reggimento di Napoli, sotto il comando di D. Pietro Giron; gli altri erano Napoletani, comandati da' Maestri di Campo Principe di S. Severo e D. Pietro di Cardenes. Il Marchese di Tarazena Conte d'Ajala guidava mille cavalli, ed era Capo di tutto questo potentissimo soccorso, che fece risolvere il Cardinale di passare in Germania, dove avendo unite le forze della Corona con quelle del Re d'Ungheria e del Duca Carlo di Lorena, diede sotto Norlinghen quella famosa battaglia, nella quale dissipò l'esercito Svedese con morte d'ottomila persone, e prigionia di quattromila, oltre l'acquisto d'ottanta pezzi d'artiglieria e di ducento insegne. Vittoria della quale ogni anno agli otto di settembre si celebra anniversario, come quella, che preservò il resto dell'Alemagna dall'eresie e dall'invasioni de' Svedesi, e cagionò poco da poi all'armi Cattoliche l'acquisto di Ratisbona.

Ma non finirono qui i soccorsi: altri maggiori se ne cercavano dal Regno per la custodia dello Stato di Milano, minacciato dall'arme del Re di Francia. Bisognò prima, che il Vicerè provvedesse di diece grossi Vascelli il Marchese di Santa Croce Luogotenente Generale del Mare, con 2200 Napoletani e molte provvisioni, spediti sotto il comando dell'Ammiraglio D. Francesco Imperiale, e di diciotto Galee con duemila Spagnuoli e mille e trecento Napoletani comandati da' Maestri di Campo Gaspare d'Azevedo e D. Carlo della Gatta; e nel seguente anno 1635, prima che il Re Franzese assalisse lo Stato di Milano, bisognò al Vicerè provvedere alla difesa, mandando in Lombardia 2800 pedoni, divisi in due Reggimenti dei Maestri di Campo Filippo Spinola e Carlo della Gatta, e mille cavalli sotto il Commessario Generale D. Alvaro di Quinones, col danaro necessario per assoldare quattromila Svizzeri ne' Cantoni collegati con la Casa d'Austria. Ed in tanto fu disposta la partenza dell'Armata navale, composta di trentacinque Galee e diece grossi Vascelli, sopra la quale montarono settemilacinquecento soldati tra Spagnuoli e Napoletani. Gli Spagnuoli erano duemilanovecento, de' quali duemilatrecento erano del Reggimento del Regno, comandati dall'Azevedo, e seicento dell'Isola di Sicilia sotto il comando di D. Michele Perez d'Egea. Gli altri erano Napoletani distribuiti in tre Reggimenti de' Maestri di Campo D. Giovan-Battista Orsini, Lucio Boccapianola e D. Ferrante delli Monti; e Fr. Lelio Brancaccio comandava a tutti con titolo di Maestro di Campo Generale. Partì l'Armata dal Porto di Napoli verso Ponente a' 10 maggio di quest'anno 1635, ma ebbe infelice navigazione, sbattuta da' venti e da procellose tempeste; tanto che il Marchese di S. Croce, lasciata buona parte delle milizie in Savona per accrescere l'esercito di Lombardia, dove i Franzesi tenevano assediata Valenza, non fece altra conquista, che quella dell'Isola di S. Margarita.

Nuovi sospetti s'aggiunsero nel nuovo anno 1636, che obbligarono il Vicerè alla difesa del proprio Regno. Per li continui timori, che dava la Francia, fu fatto arrestare un Frate Agostiniano, per sospetto d'intelligenza co' Franzesi, chiamato Fr. Epifanio Fioravante da Cesena, il quale posto fra' ceppi rivelò, che i Franzesi meditavano far delle irruzioni in diversi luoghi del Regno, e che tenevano la mira anche d'invadere la città dominante; anzi soggiunse, che il famoso bandito Pietro Mancino, di concerto, dovea impadronirsi del Monte Gargano, per consegnarlo al Duca di Mantova, e porre sossopra tutta la Puglia. Ciò saputosi, fu di mestieri al Vicerè, con esorbitantissime spese, fortificare Barletta, Taranto, Gaeta, ed il Porto di Baja, dove vi fece edificare due gran Torri, di ristorare la Fortezza di Nisita e le mura di Capua: di terminare le fortificazioni dell'Isola d'Elba, detta comunemente Portolongone, principiate già dal Conte di Benavente; di provvedere tutte le marine del Regno di soldatesca e di mettere in mare trenta vascelli e diece Tartane. E per maggior custodia della città fece prender l'armi a diecemila persone del Popolo napoletano, poste sotto il comando di D. Giovani d'Avalos Principe di Montesarchio. Ma il tempo fece da poi conoscere, che questi timori venivan dai Franzesi, non per altro fine, che obbligando il Regno alla propria difesa, venisse con ciò ad impedire i continui soccorsi, che da quello si mandavano in Milano, onde il Monterey penetrato il disegno, sollecitò nuovi soccorsi, e spedì in Lombardia sopra alcuni Vascelli e Galee i Reggimenti de' Maestri di campo D. Michele Pignatelli, Tiberio Brancaccio, Achille Minutolo, Giambattista Orsini, Pompeo di Gennaro, Girolamo Tuttavilla e Romano Garzoni, oltre a mille cavalli, che Giantommaso Bianco vi condusse per terra. Ciò che fece risolvere al Marchese di Leganes, accresciuto di sì validi soccorsi, di venire coll'inimico a battaglia in Tornavento, nella quale gloriosamente vi morì Girardo Gambacorta de' Duchi di Limatola Generale della cavalleria napoletana, siccome avvenne a Lucio Boccapianola sotto Vercelli.

Non furono veduti ne' passati governi degli altri Vicerè soccorsi sì spessi e sì potenti cavati dal Regno quanto quelli, che si fecero in tempo del Conte di Monterey, non solo per lo Milanese, ma per la Catalogna, per la Provenza ed altrove; e coloro che si presero la briga di tenerne conto, calcolarono, che di gente il numero arrivò a cinquemilacinquecento cavalli, e quarantottomila pedoni; e di denaro la somma ascese a tre milioni e mezzo di scudi; oltre al denaro consumato nelle fortificazioni delle Piazze del Regno, nell'arrollamento di tanta gente, nelle spedizioni dell'Armate navali, nel mantenimento dell'Isola di S. Margherita, nella fabbrica di sei vascelli da guerra e d'alcune Galee per accrescere la Squadra al numero di sedici, e di ducentotto pezzi di cannoni, come anche in quella di settantamila archibugi, moschetti e picche per la fanteria, e delle pistole e corazze per la cavalleria.

Cotante, e sì insopportabili spese tutte uscivano dalle sostanze de' sudditi, e dalli Patrimonj della città e delle Comunità del Regno, che continuamente eran costrette a somministrar nuove somme per la necessità di tante infelici e mal fortunate guerre, e per li tanti e continui bisogni della Corte di Spagna; donde fu in buona parte cagionato il debito di quindici milioni, del quale si trovava aggravato il Patrimonio della città, la quale ne pagava l'interesse ai creditori del frutto, che perveniva delle sue gabelle. E ciò nè meno bastando furono più volte a' forastieri tolte le loro entrate, e sovente anche quelle che possedevano i regnicoli sopra gli arrendamenti, e' fiscali. S'imposero per ciò molte altre gravezze, essendosi aggiunto alla gabella della farina, prima cinque grana, poi altre sette per moggio: un grano per rotolo alla gabella della carne, ed un carlino sopra ciascun stajo d'olio. Ciò che non seguì senza contrasti ed opposizioni, considerandosi non solo le grosse somme spremute in pochi anni dal Regno, ma che buona parte andava a colare, non già nella cassa del Re, ma nell'altrui borse, e che sempre via più crescendo i bisogni, e l'un chiamando l'altro, venivano i popoli a soffrire insopportabil giogo; onde fu risoluto spedire al Re D. Tommaso Caraffa Vescovo della Volturara, perchè avesse di tante miserie ed afflizioni compassione, e vi desse conforto; ma queste missioni, per li bisogni urgenti che tuttavia crescevano, riuscivano tutte vane ed inutili. Bisognò pagare i seicentomila ducati, che il Cardinal Infante dimandò da Milano: continuare a sostenere le soldatesche, che guardavano il Regno: unir nuove milizie per reclutare gli eserciti, che teneva scarsi la Spagna in più luoghi; fornir l'armate navali, e sostenere l'Isole di S. Margherita e di S. Onorato occupate in Francia, finchè di nuovo, nel mese di maggio del 1637, costrette dalla fame, non cedessero all'armi di quel Re, e tornassero sotto il di lui dominio.

In mezzo a tante calamità non tralasciava però il Conte di Monterey i sollazzi, le commedie e le cacce, alle quali era inchinato: nè mancò, imitando i vestigj de' suoi predecessori, di lasciare a noi belle memorie della sua magnificenza. Egli rese più ampia e comoda la strada di Puglia: arricchì li fonti della città d'acque più abbondanti, e fecene innalzar un altro sul muro del fosso del Castel Nuovo; ma sopra tutto erse quel magnifico Ponte, che congiunge la contrada di Pizzofalcone con quella di San Carlo delle Mortelle. La Contessa sua moglie pur ci lasciò un monumento perenne della sua pietà, avendo fondato in Napoli il Monastero della Maddalena, per sicuro asilo delle donne spagnuole, che abbominando le passate lascivie, volessero ivi ridursi a menar vita casta.

Ma con tutto che il Conte di Monterey fosse cotanto benemerito al Re per li tanti soccorsi mandati, mancò poco però, che il Conte Duca per vantaggiar la sua Casa, non lo richiamasse, non avendo ancor finito il secondo triennio del suo governo. La cagione si fu il matrimonio da lui ambito di D. Anna Caraffa Principessa di Stigliano col Duca di Medina las Torres. Questa Signora per la morte di D. Antonio Caraffa Duca di Mondragone suo padre, e del Principe Luigi Caraffa di Stigliano suo avolo, era rimasa unica erede di floridissimi Stati. Isabella Gonzaga sua avola figliuola, ed erede di Vespasiano Gonzaga Duca di Sabioneta, l'avea ancora arricchita di questo titolo e di queste ragioni: per ciò il Conte Duca non avendo potuto perpetuar la sua Casa ne' discendenti della figliuola, che fu moglie di D. Ramiro Gusman Duca di Medina las Torres, e morì senza prole, desiderava per questo suo Genero, ch'egli da semplice Cavaliere avea innalzato cotanto, di trovare una sposa, niente inferiore alla prima. Fece credere al Re, essere questo matrimonio espediente per poter ripetere Sabioneta, di che già i Principi d'Italia se n'erano insospettiti[26]; e per ciò, ancorchè trovasse durezza nell'avola, sollecitò le nozze colla madre della sposa per mezzo del Cardinal suo fratello: la quale, colla promessa del Viceregnato, che s'offeriva al Duca, fu facilmente guadagnata: la sposa, ambiziosa di vedersi Viceregina, vi condiscese parimente; onde partitosi di Spagna il Duca con carattere di Vicerè e di Castellan perpetuo del Castel Nuovo, giunse colla squadra delle Galee di Spagna in Napoli, dove nel palagio della Principessa, presso la Porta di Chiaja, fur celebrate le nozze.

Intanto il Conte di Monterey accingevasi alla partenza, ma avvisato il Conte Duca essere già seguito il matrimonio, scrisse al Monterey, che non conveniva per le fastidiose congiunture delle guerre d'Italia partire, non essendo ancor terminato il suo secondo triennio; onde gli sposi rimasero delusi, e convenne al Medina trattenersi nel Regno da privato, con dispiacere non ordinario, non men suo che della moglie, e molto più della Duchessa di Sabioneta, la quale, avendo sempre dissuasa la nipote a far tal matrimonio, non mancava di mordere pubblicamente l'azioni del Conte Duca, e biasimare la soverchia semplicità della Duchessa di Mondragone, del Cardinale e degli altri congiunti della nipote, che s'erano fatti ingannare dalle promesse dell'Olivares. Ma passato un anno, parendogli non poter più trattenere, mandò il Conte Duca ordine della Corte, che si desse al Medina il possesso. Così depose il Monterey il Governo, dopo averlo esercitato sei anni; ed a' 12 novembre di quest'anno 1637 ritirossi a Pozzuoli, donde proseguì poi il suo cammino per la Corte. Ci lasciò il Monterey molte savie e prudenti leggi insino al numero di quarantaquattro, per le quali riordinò i nostri Tribunali e quelli della Bagliva, e delle Regie Audienze; riordinò gli affitti e le vendite delle rendite e beni fiscali, i cambj e gli apprezzi: proibì severamente i duelli e l'esportazione di qualsivoglia sorta d'armi: fece diverse ordinazioni per ovviar le fraudi che si commettevano nella Dogana, e maggior Fondaco di Napoli: vietò l'uso smoderato delle vesti, servidori e carrozze: impose su la testa del famoso bandito Pietro Mancini una taglia di tremila ducati, oltre la facoltà d'indultare quattro persone: tolse le Gabelle delle Carte e del Tabacco, ancorchè da poi fossero state di nuovo imposte; e diede molti ordini pel Governo e disciplina de' soldati del Battaglione, e pel grado di Dottorato da darsi, così in Legge, come in Medicina, ed altri provvedimenti che vengono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO IV. Del Governo di D. Ramiro Gusman Duca di Medina las Torres; e de' sospetti che s'ebbero di nuove invasioni tentate da' Franzesi.

Il Governo del Duca di Medina, durando le medesime cagioni, anzi vie più crescendo, non poteva riuscire men gravoso a' sudditi, che il precedente. Le guerre infelici, che consumavano gli Stati della Monarchia di Spagna, mantenevano tuttavia, anzi rendevan assai più esausto l'erario regale, ed in continue necessità di denaro. Il nostro Reame era il bersaglio infelice, dove per provvedersene si dirizzavano tutti i disegni, e nulla pietà avendosi delle miserie estreme, nelle quali era il Regno caduto per le somme immense cavate in tempo del Monterey, altre nuove se ne richiedevano. Furono perciò imposte nuove gabelle e dazj, ed accresciuti gli antichi: s'aggiunsero gravezze alle sete, all'olio, al grano, alla carne, a' salumi; e s'imposero nuovamente alla calce, alle carte da giocare, all'oro ed argento filato, e sopra tutti i contratti de' presti, che celebravansi nella città e nel Regno. S'introdusse, all'uso di Spagna, la gabella della carta bollata, della quale bisognava necessariamente servirsi in tutti li contratti e negli atti giudiziari, sotto pena di nullità; quantunque poscia, come cosa troppo odiosa, fosse stimato meglio sopprimerla. S'arrivò a tale estremità, che si pose sul tappeto il dazio d'un grano il giorno per testa agli abitanti di Napoli, per lo spazio di quattro anni; e facevasi il conto, che toltone gli Ecclesiastici ed i putti, se ne sarebbero cavati cinque milioni di scudi: ma poscia, essendosi considerato il pericolo che si correva di porre in pratica tal esazione, e quanto avrebbe sembrato intollerabile al Popolo questo peso cotidiano, si lasciò di più parlarsene.

Si tassarono bensì tutti i Mercatanti ai pagamento di duecentomila ducati per pagarne le soldatesche: si venderono li Casali di Napoli, quelli di Nola, e molti altri luoghi demaniali, che non ebbero modo di ricomprarsi, passarono dalla libertà che godevano sotto il Demanio Regale, alla servitù de' Baroni.

E perchè niente mancasse, il Vicerè fece convocar un Parlamento generale, dove per Sindico intervenne D. Ippolito di Costanzo, nobile di Portanova, e s'estorse dal Baronaggio e dal Regno un donativo d'un milione di ducati, in vece d'una nuova gabella di cinque grana per moggio di frumento, che pretendevasi d'imporre in tutto il Reame. Solo tra tanti aggravj e gabelle se ne tolse una, che riscuotevasi in Napoli da tutte le meretrici, riuscendo ciò di non picciolo giovamento alla pubblica tranquillità, per gli scandali continui che ne nascevano.

Fu perciò seriamente risoluto, per non ridurre i popoli cotanto oppressi all'ultime disperazioni, di mandar Ambasciadore alla Corte, per implorare dalla clemenza del Re qualche conforto a tanti e sì estremi mali; e concorrendovi anche il Vicerè, mosso ancor egli a pietà di tante miserie, fu eletta dalla Città la persona del Consigliere Ettore Capecelatro. Lo stato in che erasi ridotto il Regno, era pur troppo lagrimevole: oltre le tante gravezze, che impoverivano gli abitatori, si vedeva da giorno in giorno mancare d'abitatori, e struggersi tra le miserie e sciagure. Gl'incendj del Vesuvio avevan cagionate morti e miserie estreme; ma sopra tutto la guerra che consumava coi disagi e col ferro le soldatesche, avea desolato il Regno: n'erano uscite dal Regno in numero infinito per reclutare gli eserciti, non pur di Lombardia, ma d'Alemagna, de' Paesi Bassi e del Principato di Catalogna; ed avendo tutte quelle spedizioni avuti infelici successi, pochi ne ritornavano alle paterne case.

Ma i tremuoti, che avevano desolata la Puglia in quest'anno 1638, portarono nelle Calabrie danni assai più gravi ed irreparabili. Furono in queste Province così spaventosi, che abbatterono la Città di Nicastro ed il famoso Tempio di S. Eufemia. Rimasero ancora distrutti molti luoghi ed altre Terre, Nocera, Pietramala, Castiglione, Maida, Castelfranco, ed altre di minor grido. La Città istessa di Cosenza, con molti de' suoi Casali patì notabilmente: Catanzaro, Briatico ed altri luoghi soffrirono il medesimo flagello: in fine non vi fu luogo di Calabria, che potesse vantarsi di essere stato esente dal danno; e calcolandosi il numero de' morti, si trovò essere periti sotto le ruine degli edificj più di diecimila persone; siccome l'istesso Consigliere Capecelatro, che fu spedito dal Vicerè a rincorare que' popoli (a' quali non solamente bisognò rimettere i pagamenti fiscali, ma soccorrerli con abbondanti limosine somministrate parte dal Patrimonio Regale e parte dal Monte della Pietà insino alla somma di ottomila ducati) poteva, come testimonio di veduta, testificare al Re le miserie di quelle Province. Si aggiunse ancora la costernazione, nella quale l'avea poste un solenne impostore, chiamato Pietro Paolo Sassonio, medico Calabrese, il quale andava disseminando che doveano sopraggiungere tremuoti più orribili: che non solamente il Regno, ma tutto il Mondo dovea crollare, avvicinandosi già il Giudicio finale: che il Mare dovea uscir dal suo letto ed inghiottir le campagne e sommergere le città: che doveano piovere dal Cielo grandini di peso di cinque libbre l'una, e che i monti doveano vomitar tutti fiamme per incendiar l'Universo. Queste infauste predizioni, vedendosi verificate in parte per li tremuoti e gl'incendj preceduti dal Vesuvio, posero in tale costernazione i paesani, che credendo, che la Calabria dovess'essere la prima a sopportar queste desolazioni, che doveano precedere alla destruzione del Mondo, ciascuno abbandonava la Patria, e cercava altrove ricetto: laonde il Vicerè per liberare gl'incauti da questi falsi pronostici, comandò, che il Sassonio fosse preso, e condotto legato in Napoli, come fu eseguito, dopo di che fu condennato a remare in una Galea.

Non meno che da' tremuoti, fu questa Provincia, nel medesimo anno, travagliata da' Turchi di Barbaria, li quali avendo concepito il disegno di saccheggiare il Santuario di Loreto, scorrevano con sedici Galee i nostri mari, e danneggiavano i naviganti, e le nostre riviere; tal che se i Vineziani non fossero occorsi per rompere i loro disegni, di mali peggiori sarebbon stati cagione[27].

I Franzesi intanto sempre più profittandosi de' disordini, e della declinazione della Monarchia di Spagna, oltre d'aver contrappesata in Italia la potenza degli Spagnuoli, erano ancora entrati in pensieri, per le speranze, che lor davano alcuni mal contenti del governo spagnuolo, di far un'invasione nel Regno di Napoli. Essi per mezzo del Marchese di Covrè Ambasciadore del Re di Francia in Roma, e di Monsignor Giulio Mazzarini a questi tempi semplice Prelato, poi Cardinale, e primo Ministro di quella Corona, aveano con un Titolato[28] del Regno ordita una congiura per sorprender Napoli, e già in Roma se ne concertavano i modi; ma scovertosi da uno de' congiurati il trattato al Vicerè, fu fatto arrestare in Roma, ov'erasi portato, il Titolato, e condotto nel Castel Nuovo, fu con ogni sollecitudine fabbricato il processo. Fu eretta dal Vicerè una Giunta per sentenziarlo, la quale componevasi del Reggente D. Matthias di Casanatte, de' Consiglieri D. Flaminio di Costanzo, D. Giovan Francesco Sanfelice, Annibale Moles, D. Ferrante Mugnos, D. Ferrante Arias di Mesa, e D. Diego Varela. Il Fiscale fu Partenio Petagna Presidente della Regia Camera; ed i Pari della Corte furono i Principi della Rocca e del Colle. Furono intesi gli Avvocati del Reo Pietro Caravita, ed Agostino Mollo celebri Giureconsulti di que' tempi; e proferitasi dal Vicerè la sentenza, sedendo pro Tribunali nell'Assemblea dei mentovati Ministri, coll'assistenza dell'Uscier delle armi, e con tutte le solennità consuete, fu condennato sul palco ad essergli mozzo il capo. Così, spogliato prima del titolo, e dell'abito di Cavalier Gerosolimitano, lasciò sul talamo nella piazza del Mercato ignominiosamente la vita.

Ma con tutto che si fosse scoverto il trattato, non tralasciarono però i Franzesi di tentar l'impresa, fondati sopra la mala soddisfazione, che mostravano i Napoletani del Governo spagnuolo: laonde nell'anno 1640, avendo nel Porto di Tolone un'armata sotto il comando dell'Arcivescovo di Bordeos, dopo essersi trattenuta alcuni giorni ne' Porti di Corsica e poi alle spiagge dello Stato della Chiesa, s'inoltrò ne' mari di Gaeta, e quivi fermata, si pose in speranza di sottomettere quella Fortezza; ma valorosamente rispinta dal cannone di quel Castello, continuò il suo cammino, e giunse al Golfo di Napoli.

Il Vicerè, considerato il pericolo, spedì tosto D. Francesco Toraldo e Cesare di Gaeta, Sargente Maggiore del Battaglione della Provincia di Terra di Lavoro, a' confini dello Stato del Papa, per guardar quelle frontiere; ed al Maestro di Campo D. Giovan-Battista Brancaccio appoggiò la difesa della Città di Pozzuoli e del Territorio di Baja e di Cuma a quella vicini. Mandò in Salerno Fr. Giovan-Battista Brancaccio Cavaliere Gerosolimitano, perchè col Principe di Satriano Governadore di quella Provincia attendesse alla difesa di quel paese: fu spedito a Gaeta Vincenzo Tuttavilla Commessario Generale della Cavalleria; ed il Maestro di Campo D. Diomede Caraffa ebbe la cura di guardar tutto il rimanente con l'Isola di Capri. Chiamò poscia gli Eletti della città co' Deputati delle Piazze, affinchè allestissero le artiglierie, per guarnire i baluardi delle marine: convocò i Baroni, perchè stesser pronti alla difesa del Regno, e l'Eletto del Popolo Giovan-Battista Nauclerio offerse trentamila uomini tutti armati per difesa della città. Mancava però il danaro onde, nascevano li fastidiosi e molesti pensieri per trovare i modi di provvedersene.

Mentre la città era per ciò in continue agitazioni, verso la metà di settembre di quest'anno comparve l'Armata Franzese, composta di trentaquattro Navi di guerra, a vista di Napoli: ciò che pose in maggior scompiglio la città. Fur prestamente tolti i cannoni, ch'erano nel campanile di S. Lorenzo, e posti nelli torrioni del Carmine, in quello di S. Lucia, nell'altro delle Crocelle e sopra il Molo: se ne piantarono alcuni altri sul colle di Posilipo, da quella parte, che guarda il picciol Porto di Nisita, sotto la guida di D. Antonio dal Tufo Marchese di S. Giovanni e del Mastro di Campo D. Tiberio Brancaccio; ed altri quattro sopra l'Isola di Nisita sotto la cura di D. Antonio di Liguoro, che la guardava con titolo di Capitan a guerra: Scipione d'Afflitto, vecchio e valoroso soldato, guardava tutta quella riviera, che chiamasi de' Bagnuoli. In Napoli presero le armi ottomila Borghesi, divisi in quaranta compagnie, delle quali fu creato Maestro di Campo Generale D. Tiberio Caraffa Principe di Bisignano. Ma ciò che preservò Napoli da mali maggiori, fu l'esser quivi opportunamente giunto D. Melchior di Borgia con le quattordici Galee del Regno; alle quali essendosene aggiunte quattro altre, che conducevano D. Francesco Melo da Sicilia a Milano, si fece che il Borgia preposto alla custodia del mare, impedisse le scorrerie de' nemici, li quali insultando insino alla spiaggia di Chiaja, aveano più volte tentato lo sbarco, ma ripressi dalle soldatesche poste alle marine, spaventati dagl'incessanti colpi di cannoni, che tiravano da' colli e da' torrioni, e costeggiati in mare dal Borgia, finalmente si ritirarono verso Ponente, e ritornarono a Ponza, non mancando il Borgia d'andar lor dietro seguitandoli fino al Promontorio di Minerva. In cotal guisa i Franzesi rimaser delusi dalle speranze, ch'erano state lor date da' malcontenti, i quali aveano lor dato a credere, che alla sola comparsa della loro armata, i popoli mal soddisfatti del Governo spagnuolo, avrebbero prese l'armi per introdurli nel Regno. Ma non furono vani i loro ufficj, nè andarono a voto le loro assistenze nelle rivoluzioni di Catalogna ed in quelle di Portogallo, gli infelici successi delle quali saremo ora a narrare: poichè essendosi accesa fiera guerra nel Principato di Catalogna, bisognò pure, che dal nostro Regno si supplisse di gente e di danaro in quella non men lunga che dispendiosa spedizione.

CAPITOLO V. Il Principato di Catalogna si sottrae dall'ubbidienza del Re, e si dà alla Protezione e Dominio franzese. Il Regno di Portogallo parimente scuote il giogo ed acclama per Re Giovanni IV, Duca di Braganza. Guerre crudeli, che perciò s'accendono per la ricuperazione della Catalogna; per sostegno delle quali, siccome per quella di Castro, bisognò pure dal Regno mandar gente e danaro.

Siccome la Monarchia di Spagna camminava a gran passi incontro alle sue ruine, così riempiva i Franzesi di grandi disegni; tantochè le speranze della pace universale che il Pontefice avea impreso a maneggiare, tuttavia si dileguavano; onde stanco ormai del dispendio, e del poco suo decoro di trattenere ozioso in Colonia il Legato, lo richiamò. Vie più difficili si rendettero poi questi trattati di pace per le rivolte di Catalogna e di Portogallo, che riempirono li Franzesi di più grandi speranze ed alti disegni.

Il Conte Duca, che con assoluto arbitrio reggeva in Spagna non meno il Re che i suoi Stati, con superbissimo genio e con massime severe e violenti consigli trattava gli affari. Egli s'avea proposto d'esaltare la potenza e la gloria del Re al pari del titolo, che gli avea fatto assumere di Grande; ma la fortuna con eventi infelici secondò così male il pensiere, che pareva offuscato in gran parte lo splendore della Corona; tantochè gli emoli del Conte Duca con argutezza spagnuola solevan motteggiarlo, dicendo, che il Re era Grande, come il Fosso, il quale s'ingrandiva tanto più, quanto più si scemava il terreno della sua circonferenza. Si era perciò appresso gli esteri rilasciato quel timore, che conciliato dalla potenza, soleva contenerli in rispetto; e nell'animo de' sudditi avvezzi sotto un velo di riputazione e di prosperità a venerare gli arcani infallibili del Governo, sottentrava già il disprezzo e l'odio verso il Re ed il privato.

Non era oscuro il pensiere dell'Olivares di allargare non solo la Monarchia oltre a' primi confini, ma ne' Regni medesimi stabilire assoluta l'autorità del Monarca, la quale in alcuna delle Province era circoscritta dalle leggi, dagl'indulti e da' patti. A ciò lo spingeva principalmente il bisogno del danaro e di gente, per supplire a tante guerre straniere, perchè dal censo de' Popoli convenendo dipendere, non riuscivano le provvisioni uguali alla necessità, nè pronte all'urgenza. Pensava dunque d'abolire, o almeno di restringere tanta libertà, che s'attribuivano alcuni, e principalmente i Catalani, i quali decorati da grandissimi privilegi, ed immuni da molti pesi, custodivano la loro libertà con zelo non minore che la Religione. Già alcuni anni, tenendo il Re in Barcellona le Corti, resisterono più volte alle soddisfazioni dell'Olivares, dal che irritato egli, nudrì poi sempre nel cuore di reprimerli e d'abbassarli. I Re solevano veramente rispettare quella Nazione per natura feroce, e per lo sito importante, perchè la Provincia, se dalla parte del mare per l'impetuosità è impenetrabile, da quella di terra, pare inaccessibile per le montagne; anzi queste internandosi, ed in molti rami divise, le formano altrettante trinciere e ripari, ne' quali si comprendono piazze forti, città popolate, terre, e gran numero di villaggi. La vicinanza poi alla Francia, i passi dei Pirenei, l'ampiezza del giro, la popolazione e l'inclinazione marziale degli abitanti, la rendevano considerabile e poco men che temuta.

Ad ogni modo il Conte Duca aspettava col pensiero l'opportunità di frenarla; ma quando stimò, che la fortuna gli aprisse la strada, non s'avvide, che insieme portava il precipizio alla grandezza ed alla salute di tutta la Spagna. I Franzesi allargando sempre da quella parte i confini, speravano di promuovere gravi accidenti, e particolarmente d'irritare gli animi dei Popoli tra gl'incomodi della guerra, ed i danni dell'armi, e così loro riuscì puntualmente; poichè avendo gli Spagnuoli perduta Salses, convenne loro per ricuperarla, piantare la piazza d'armi nella Catalogna, con lasciarvi a quartiere l'esercito; onde, se durante l'assedio fu la Provincia gravemente afflitta dal passaggio delle milizie, da poi ne sentì la licenza, tanto più dura, quanto n'erano que' Popoli meno avvezzi; si udirono estorsioni ed aggravj, profanati i Tempj, violate le donne e rapiti gli averi; a' quali eccessi i Capi non riparando, si formava concetto, che l'Olivares per imporre, sotto titolo di necessaria difesa, il giogo a quel Principato, volentieri lo tollerasse; ed è certo, che da frequenti lettere di lui, stimolato il Conte di S. Coloma Vicerè, a cavar genti e denari dalla Provincia, si valse in Barcellona di certo denaro, che s'apparteneva alla disposizione della città, senza badare a' privilegi, ed attendere l'assenso degli Stati; ed avendo uno de' Giurati, Magistrato il più ragguardevole, voluto opporsi a tanta licenza, con fare eziandio premurose istanze, che fossero corretti i trascorsi delle milizie, il Vicerè lo carcerò. Tanto bastò per commuovere un Popolo, che tollerava l'ubbidienza, ma non conosceva ancora la servitù; furono prese l'armi, aperte le carceri, e corse le strade, con sì grave ed universal tumulto, che il Vicerè impaurito stimò riporre nella fuga solamente il suo scampo. Si ridusse per ciò all'Arsenale, dove nemmeno essendo sicuro, perchè il Popolo, dato fuoco al Palazzo, lo cercava per tutto, fece accostare una Galea; ma mentre s'incamminava al lite per imbarcarsi, sopraggiunto da' sollevati, restò miseramente trucidato. Allora il Popolo, parte inorridito dal suo medesimo eccesso, parte tra le apprensioni della servitù, e le apparenze della libertà, invaghito e confuso, riputò, che non vi fosse più luogo al suo pentimento, nè alla regale clemenza.

Scosso per tanto il giogo, trascorso nell'ultime estremità, e la confusione non potendo da se stessa sussistere, fu data per ciò forma ad un independente governo col Consiglio de' Cento, e degli altri antichi Magistrati della città. A tale esempio s'alterò quasi tutto il Principato, e nelle Terre e Villaggi si presero universalmente le armi, e le genti spagnuole furono trucidate e scacciate.

A così improvviso accidente l'animo del Conte Duca commosso, non ardiva palesarlo al Re, nè poteva tacerlo; proccurò di fargli credere, che non vi fosse, che un popolare tumulto, che svanirebbe da se, e con la forza prestamente sopito, varrebbe a rendere più illustre l'autorità del comando; poichè sotto l'armi si potrebbe, non solo domare la ribellione, ma il fasto ancora de' Catalani, ed abolirsi que' Privilegi, che gli rendevano contumaci. Ma nell'animo suo con più tacite cure riflettendo all'importanza della Provincia, alla qualità del sito, ed a' danni maggiori se vi s'introducessero i Franzesi, bilanciava, se la destrezza, o la forza dovesse più utilmente impiegarvisi. Nè mancavano dubbi, che altri Regni, e l'Aragona particolarmente, fosse per seguitare un tal esempio. Tentò prima con le persuasioni della vecchia Duchessa di Cardona, che appresso il Popolo di Barcellona godeva molta venerazione, ed autorità, e col mezzo di un Ministro del Pontefice che vi risedeva, sedare gli animi, e placare il romore; ma riuscendo ciò inutilmente, deliberò di usare la forza, con tale potenza e con tanta celerità, che nè il Popolo potesse resistere, nè i Franzesi giunger opportunamente al soccorso.

Proccurò dunque d'ammassare l'esercito, comandando a' Feudatarj, ed invitando la Nobiltà, e tra questa molti de' più sospetti, particolarmente i Portoghesi, acciò servissero insieme di soldati e d'ostaggi. Le provvisioni tuttavia non poterono essere così prontamente allestite, che i Catalani non avessero tempo, e di munirsi con molta costanza, e di spedire Deputati in Francia a chiedere ajuti. Non si può dire quanto il Cardinal di Richelieu, direttore allora di quella Monarchia, e che avea già con le solite arti coltivate le prime loro disposizioni, gli accogliesse avidamente. Li cumulò d'onori, e li caricò di promesse; ma nel tempo medesimo volendo godere dell'occasione, che il caso gli presentava, non solo applicò a nutrire nelle viscere della Spagna la guerra, ma di ridurre la Catalogna alla necessità di arrendersi alla soggezione franzese. Inviò il Signor di S. Polo con alquanti Ufficiali, e per mare alcune milizie e cannoni, acciocchè que' popoli prendessero cuore d'insanguinarsi coi Castigliani; e spedì il Signor di Plessis Besanzon, Ministro eloquente, e d'acutissimo ingegno, a riconoscere la disposizione degli affari e degli animi.

Dall'altra parte il Conte Duca, avendo raccolto un esercito di trentamila combattenti, lo consegnò sotto il comando del Marchese de los Velez, di nascita Catalano, e destinato per Vicerè dell'istessa Provincia, verso la quale tanto è lontano che tenesse costui disposizione di affetto, che anzi aveva cagioni d'odio e d'abborrimento, essendoglisi dal Popolo in Barcellona spianata la casa, e confiscati gli averi. Si mosse adunque il nuovo Vicerè nel mese di dicembre di quest'anno 1640 da Tortosa, città partecipe della sollevazione; ma che, o per l'inclinazione degli abitanti, o per le minacce dell'armi, fu la prima a rimettersi in obbedienza; s'avanzò a Balaguer, per tutto rendendosi molte Terre inabili alla difesa. Ivi sebbene l'angustie de' passi possono essere impedite da pochi, ad ogni modo le guardie de' Catalani non ardirono d'aspettarlo; onde il Marchese spirando terrore e severità s'avanzò fino a Combriel, Piazza d'armi de' sollevati. Il luogo debole ardì per cinque giorni resistere, dopo i quali volendo rendersi, non fu ricevuto che a discrezione; restando desolata la Terra, impiccati gl'Ufficiali, e tagliate a pezzi le soldatesche. Da questo sangue pullulò la disperazione per tutto; in Barcellona particolarmente s'animavano i Cittadini, l'uno con l'altro a sofferire ogni estremo più tosto, che cadere in mano, e sotto il governo di vincitor così fiero, e di un Vicerè incrudelito. Trattandosi della libertà, e della stessa salute, fu la difesa disposta, fortificato il Mongiovino, ed unendosi gli animi pel comune pericolo, si procedè nel governo e nelle risoluzioni con vigore e concordia.

Tuttavia temevano di non potere a scossa così poderosa senza forte appoggio resistere. Dall'altro canto i Ministri franzesi fomentavano l'apprensione, e loro additavano dall'una parte imminente l'eccidio, dall'altra vicino il soccorso; ma dimostrando non convenire che la Corona di Francia, per procacciare l'altrui, abbandonasse li proprj vantaggi, insinuavano fra' timori e i discorsi, quanto complisse obbligare un Re così grande a sostenere per decoro e per interesse quel Principato. Colpì l'artificio, perchè il timore del pericolo e la speranza degl'ajuti indusse i Catalani a consegnarsi alla protezione ed al dominio franzese con molti patti, che preservavano i Privilegi, quei principalmente dell'assenso de' Popoli per l'imposte, e della collazione de' Beneficj di Chiesa, e delle cariche a' nazionali, eccettuata la suprema del Vicerè, che poteva essere straniero. A ciò diedero tutti l'assenso; la maggior parte per desiderio di cose nuove, li semplici per concetto di cambiare in meglio la sorte, e i più savj per essersi accorti, che dopo i primi passi della ribellione, qualunque si fosse la libertà, o la servitù, non poteva provarsi, che fiere stragi e calamità non disuguali. Ciò accadde negl'ultimi giorni di quest'anno, nel procinto, che il Portogallo pur anche scosso il giogo, ravvivò con nuovo Re l'antico nome del Regno.

§. I. Il Regno di Portogallo scuote il giogo, e si sottrae dalla Corona di Spagna.

L'emulazione, che passava tra' Castigliani ed i Portoghesi, cotanto antica, che tramandata, come per eredità, da' loro antenati a' successori, era a questi tempi per i boriosi modi e feroci consigli del Conte Duca, assai più cresciuta, che quando convenne a questi piegare il collo sotto la dominazione della Castiglia, divenne ora abborrimento ed impazienza: tantochè avevano i Portoghesi applicata più volte l'attenzione e la speranza a vari accidenti, che potessero far cambiare la fortuna presente. Ma la potenza e la felicità de' Castigliani, avevano fino ad ora, o tenuti gli stranieri lontani, o dissipati l'interni disegni; ad ogni modo cresceva maggiormente il desiderio, e serviva ad incitarlo l'oggetto de' Duchi di Braganza, che discendenti da Odoardo, fratello di Errico Re, erano appresso molti altrettanto preferiti nelle ragioni, quanto alla forza del Re Filippo avevano convenuto soccombere. Il presente Duca Giovanni, osservando sopra di lui l'occhio de' Castigliani aperto, si dimostrava altrettanto alieno da ogni applicazione e negozio; ed essendo pochi anni addietro accaduto tumulto in qualche città, uditosi acclamare il suo nome, egli si era contenuto con tale modestia, che fu creduto ugualmente alieno dall'ambizione e dall'inganno. Il Conte Duca però considerando, e le ragioni della Casa, ed il favore del Popolo, oltre alle ricchezze e gli Stati, che eccedevano la condizione di vassallo, per assicurarsi di lui, l'invitava alla Corte con premj ed impieghi, e con simulata confidenza gli conferiva cariche e titoli: il che si credè mirasse non per adornarlo di dignità, ma per esporlo a pericoli, acciocchè esercitando particolarmente il suo impiego di Contestabile, salisse sopra l'armata o entrasse nelle Fortezze, dove fossero ordini occulti d'arrestarlo prigione. Giovanni con varie scuse schivando di condursi a Madrid, con tali riserve in tutto si governava, che se non poteva sfuggire gli altrui sospetti, almeno divertiva i suoi rischj. L'Olivares si valse della rivolta di Catalogna, e della fama, che il Re volesse uscire a debellarla, per invitare la Nobiltà Portoghese, e tra questa con maggior premura il Braganza a concorrere con la persona e con le forze in così segnalata occasione: ma la stessa congiuntura servì a' Portoghesi per isvegliare in loro gli antichi pensieri; onde molti nelle private conversazioni soliti a frequentemente lagnarsi, che un Regno famoso ed esteso nelle quattro parti del Mondo, fosse ridotto in provincia, e divenuto appendice al Dominio de' loro naturali nemici, ora consideravano la Nobiltà oppressa, il Popolo conculcato; e per le gelosie del Conte Duca snervato il Paese, i Grandi perseguitati, infranti i Privilegi e sfigurata quell'immagine, che al Portogallo restava di libertà e d'apparente decoro. Passando poi dalle querele de' tempi al rimprovero di loro stessi, quasichè ne' Portoghesi mancasse quell'ardire e quel cuore, che così altamente nobilitava il Popolo catalano, divisavano la facilità di eseguire ogni grande attentato, retti da una donna e da un odiato Ministro con pochi presidj e provvisioni minori, in tempo, che era tutta la Spagna commossa, le forze distratte, il Re impotente a resistere in tante parti, e pronta la Francia al soccorso.

Margherita Infanta di Savoja sosteneva il titolo di Viceregina, il governo però risedeva in alcuni Castigliani, ed in particolare nel segretario Vasconcellos, che l'assisteva, e che confidente dell'Olivares e dal suo favore innalzato, tutto tirava alle di lui massime d'abbassar i Grandi e d'esercitare assoluto comando. Per le congiunture veramente pareva, che per sollevarsi fosse maggior pericolo in iscovrire i pensieri, che in praticargli; onde ridotti alcuni Nobili in Lisbona nel giardino d'Autan d'Almada, considerate le congiunture presenti, tutti si risolsero di tentar l'impresa dandosi reciprocamente la mano e la fede di segretezza e di non mai abbandonarsi. Stavano alquanto perplessi sopra il risolvere, qual forma si dovesse scegliere del nuovo governo. Ad alcuni, con l'esempio de' Catalani, aggradiva l'istituto delle Repubbliche; ma si considerò dalla maggior parte la confusione, che seco porta l'innovare comando in un paese avvezzo all'arbitrio di un solo. Si voltarono perciò al Braganza, nel quale, per giustificare la causa, e tirare i popoli, concorrevano i requisiti più principali, e per ragione al Regno e per distinzione di fortuna; gli spedirono dunque separatamente Pietro Mendozza, e Giovanni Pinto Ribero a rappresentargli i voti comuni ed offerirgli lo scettro; e perchè s'avvidero questi, che al Duca s'affacciavano tra varj pensieri l'immagini di molti pericoli, proccuravano di sgombrargli ogni dubbiezza: ed il Pinto particolarmente tramettendo alle ragioni ed alle preghiere minacce e proteste, gli dichiarò, che anche contra sua voglia sarebbe Re proclamato, senzachè dalla sua renitenza, ed a se ed agli altri fosse per accogliere, che rischj maggiori di più certe perdite. Il Duca ad oggetto sì grande, ed improvviso della Corona, titubava ne' suoi pensieri; ma sua moglie, sorella del Duca di Medina Sidonia, essendo d'altissimi spiriti, lo rincorò, rimproverandogli la viltà di preferire alla dignità dell'Imperio la caducità della vita. Nè mancarono i Franzesi conscj di quanto si tramava, con segretissimi messi di confortarlo ed animarlo con ampie promesse d'assistenze e soccorsi, facendogli credere tanto più ferma dover essere la Corona sopra il suo capo, quantochè gli additavano vacillanti le altre sopra quello del Re Filippo. Dunque s'indusse a prestarvi l'assenso e fu concertato il tempo ed il modo per dichiararsi.

Sebbene in questo affare il segreto fosse grande, ad ogni modo la notizia essendo sparsa tra molti, ne traspirò qualche cosa alla Viceregina, la quale non mancò d'avvertire il Conte Duca più volte de' discorsi e disegni de' congiurati; ma egli solito di prestar fede a se stesso, più tosto che ad altri, lo credè troppo tardi. Adunque il primo di dicembre di quest'istesso anno 1640 molti Nobili essendo andati a Palazzo, al battere delle nove ore della mattina, ch'era il segno accordato, ad un colpo di pistola, snudarono le armi, e caricarono le guardie della Viceregina, le quali inermi e sbandate, ogni altra cosa attendendo, cedettero facilmente. Occupato il palazzo, i Nobili gridavano Libertà, insieme acclamando il nome di Giovanni IV, per Re; ed altri nelle piazze, chi per le strade, alcuni dalle finestre e tra questi Michele Almedia di veneranda canizie, animando il Popolo e concitandolo all'armi, fu sì grande in pochi momenti il concorso, che, come se un solo spirito movesse la moltitudine, non vi fu chi dissentisse, o titubasse. Una Compagnia di Castigliani, che entrava di guardia al Palazzo, fu dal furore della plebe costretta alla fuga. Antonio Tello con altri seguaci, sforzate le stanze del Vasconcellos, che inteso il romore, s'era in certo armario rinchiuso, lo ritrovò, e trucidato, lo gittò dalle finestre, acciocchè nella piazza fosse spettacolo all'odio del vulgo, e testimonio insieme, quanto poco sangue costasse la mutazione di un Regno. L'Infanta, custodita in potere de' congiurati, fu trattata con molto rispetto, astretta però a comandare al Governadore del Castello, che s'astenesse di tirare il cannone, altrimenti i Castigliani nella città sarebbero stati tutti tagliati a pezzi. Egli non solo ubbidì all'ordine di sospender l'offese, ma subitamente, o per timore, o per necessità, trascorse alla resa, allegando d'essere così sprovveduto, che all'invasione del Popolo non avrebbe potuto resistere. Fu maraviglia vedere una città, come Lisbona, grande, popolata, commossa, restare in brevissimo tempo in potere di se medesima, ma con tanto ordine e con tal quietudine, che nessun comandando, ogni condizione di persone, al nome del nuovo Re, prontamente ubbidiva.

Giovanni, inteso l'accaduto di Lisbona, fattosi proclamare Re ne' suoi Stati, entrò in quella città il sesto giorno del medesimo mese di dicembre con indicibile pompa; e ricevuto il giuramento da' Popoli, lo prestò reciprocamente per l'osservanza de' Privilegj. Sparsasi per quel Regno la fama di tal accidente, non vi fu luogo, che tardasse a seguitare l'esempio della Capitale, con tanta unione degli animi, che non pareva mutazione di governo, ma che solamente al Re si cambiasse nome, con insolito gaudio de' Popoli. I Castigliani sparsi in alcuni presidj e quelli di S. Gian, Fortezza d'inespugnabile sito, sorpresi da fatale stupore, n'uscirono senza contrasto. L'Infanta fu accompagnata a' confini, ed alcuni de' Ministri Castigliani restarono prigioni, per sicurtà di que' Portoghesi, che fossero in Madrid trattenuti. In otto giorni si ridusse tutto il Regno ad una tranquilla ubbidienza. Fino nell'Indie dell'Oriente, nel Brasile, nelle coste d'Affrica e nell'Isole, che si numerano tra le conquiste de' Portoghesi, quando da Caravelle, in diligenza spedite, ne fu portato l'avviso, quasichè fosse stato atteso, abjurata con universal consenso l'ubbidienza a Castiglia, il nome di Giovanni IV fu riconosciuto ed acclamato.

Il Conte Duca accortosi, che in vece di ingrandire la Monarchia e la prepotenza, conveniva essa della propria salute contendere, non potendo contrastare da due parti, stava in dubbio dove s'avessero a rivolgere le maggiori cure e gli sforzi. In fine giudicò meglio contra la Catalogna applicarsi, sperando, che non riuscisse lunga l'impresa ed insieme temendo, che col dar tempo, la fortezza del paese, la ferocia del Popolo, ed il soccorso de' Franzesi, la difficultassero maggiormente. All'incontro, essendo aperti i confini, più lontani gli ajuti, i popoli meno agguerriti, ed in Lisbona sola potendosi debellare tutto il Regno, si figurava, che lasciati i Portoghesi in sicurezza ed in ozio, non applicarebbero a premunirsi, e che i Nobili, superbissimi per natura, non sofferirebbono a lungo il comando di uno a diversi emolo, ed a molti uguale. Proseguendosi pertanto in Catalogna la guerra, il Portogallo vie più si stabiliva, tanto che riusciti vani i presagj dell'Olivares, rimase, siccome tuttavia ancor dura, staccato ed indipendente dalla Corona di Spagna.

In Catalogna adunque proseguendosi eziandio nel verno la guerra, los Velez si portò ad espugnare Terracona, che dopo la Metropoli del Principato, tiene per l'ampiezza e per la nobiltà il primo luogo. I Catalani animati da' Franzesi sprezzavano gli sdegni e l'armi del Re, tanto che pronti alla difesa, sostennero lungamente la guerra, la quale non meno agli altri Stati della Monarchia, che al nostro Regno costò sangue e tesori. A questo fine si proccurava dal Medina nostro Vicerè nuovo donativo per la Corte, s'allestivano nuove soldatesche, e s'armavano nuovi legni, gravando con ciò i sudditi e le Comunità del Regno con nuove tasse ed imposizioni.

Ma non terminando qui le nostre miserie, una nuova guerra, che s'accese pure a questi tempi in Italia, dal Papa contro al Duca di Parma, per lo Stato di Castro, portò pure al Vicerè, ed al Regno nuove cure e nuove spese, e maggiori se ne sarebbero sofferte, se gli Spagnuoli non si fossero raffreddati, e ne' proprj mali, per le rivoluzioni di Catalogna e per la perdita di Portogallo, occupati, non avessero più modo d'ingerirsi negli affari altrui, se non con mediazioni, ed ufficj, onde al nostro Vicerè avendo il Pontefice richiesto i novecento cavalli, per l'investitura del Regno dovuti in caso d'invasione dello Stato Ecclesiastico, gli furono denegati, per non essere questa causa della S. Sede, ma della sua Casa e de' suoi Congiunti[29]. Fu mestieri con tutto ciò al Medina, a spese del Regno, guarnir le Piazze della Toscana, ed i Confini del Regno dalla parte degli Apruzzi, dove mandò il Maestro di Campo Generale Carlo della Gatta, e commise ad Achille Minutolo Duca di Belsano, che si trovava Governadore di quella Provincia, che invigilasse alla custodia della medesima. Molte Compagnie di Tedeschi, fatte venir d'Alemagna per la via di Trieste, furono ancor ivi alloggiate, e da poi, ricevute dal Mastro di Campo D. Michele Pignatelli, fur fatte venire in Napoli, e fu loro assegnato alloggiamento nello Spedale di S. Gennaro fuori le mura della città.

Ma non perchè doveansi riparare i proprj mali del Regno, si rallentavano le richieste di nuovi soccorsi nel Milanese; bisognò al Vicerè spedirvi tremila pedoni sopra galee; ed affinchè le Università del Regno avessero corrisposto con maggior prontezza al pagamento de' donativi fatti al Re, comandò, che in ciascheduna d'esse si fosse fatto il nuovo Catasto (così chiamano il libro, dove si notano gli averi de' sudditi) con deputarsi un Ministro del Tribunal della Camera, acciocchè l'esazione si fosse regolata con la guida di esso, e ciascuno avesse portato il peso a misura delle sue forze.

Gli sbanditi pure in questo nuovo anno 1644 vie più che mai infestavano le Province, inquietavano i Popoli e disturbavano il traffico; nè bastando le genti di Corte a far loro argine, fu duopo al Medina spedire il Principe della Torella D. Giuseppe Caracciolo con titolo di Vicerè Generale della Campagna, per reprimere le loro insolenze.

CAPITOLO VI. Caduta del Conte Duca, che portò in conseguenza quella del Duca di Medina, il quale cede il Governo all' Ammiraglio di Castiglia suo successore.

Ma mentre il Medina, per maggiormente prolungare il suo Governo, essendo già scorsi sei anni e più mesi dal dì che ne avea preso il possesso, trattava un nuovo donativo per la Corte, vennegli avviso che il Re gli avea disegnato per suo successore l' Ammiraglio di Castiglia, che governava allora la Sicilia. La caduta del Conte Duca dalla grazia del Re, portò in conseguenza la sua depressione, e 'l cangiamento di prospera in avversa fortuna. Le gravi perdite della Catalogna e di Portogallo, imputate in gran parte a' violenti consigli dell'Olivares, aveano nel Re Filippo raffreddato l'affetto, che avea verso di lui: o fosse, che per le continue disgrazie gli venisse a noja l'infelice direttor degli affari, o pure, che si fosse avveduto, d'essergli state fin allora dal Favorito rappresentate le cose con aspetto diverso dal vero. Molti vedendo tanti precipizj e ruine, si conoscevano dalla necessità obbligati, lasciata da parte l'adulazione ed il timore, a parlar chiaro; ma niuno ardiva d'esser il primo, fin tanto che la Regina, sostenuta dall'Imperadore con lettere di propria mano scritte al Re e con la voce del Marchese di Grana, suo Ambasciadore, non deliberò di rompere il velo e scoprire gli arcani. Allora tutti si scovrirono, ed anche le persone più vili, o con memoriali, o con pubbliche voci sollecitavano il Re a scacciar il Ministro e ad assumere in se stesso il governo. Egli, maravigliandosi d'aver ignorate fin allora le cagioni delle disgrazie, sopraffatto al lume di tante notizie, che gli si svelavano tutte ad un tratto, vacillò prima tra se medesimo, apprendendo la mole del governo, e dubitando, che contra il Favorito s'adoperassero le fraudi solite delle Corti; ma in fine al consenso di tutti non potendo resistere, gli ordinò un giorno improvvisamente, di ritirarsi a Loeches. L'eseguì prontamente l'Olivares con intrepidezza, uscendo sconosciuto di Corte per timore del Popolo. A tale risoluzione tutti applaudirono con eccesso di gioja. I Grandi prima allontanati ed oppressi, concorsero a servire il Re, ed a rendere più maestosa la Corte; ed i Popoli offerivano a gara gente e denari, animati dalla fama, che il Re volesse assumere la cura del governo fin allora negletta. Ma, o stancandosi al peso, o nuovo agli affari e con più nuovi Ministri nel tedio de' negozj e nelle difficoltà di varj accidenti, sarebbe ricaduto insensibilmente nel pristino affetto verso il Conte Duca, se tutta la Corte non si fosse opposta con uniforme susurro, anzi se lo stesso Olivares non avesse precipitate le sue speranze; perchè volendo con pubblicare alcune scritture, purgarsi, offese molti a tal segno, che il Re stimò meglio d'allontanarlo assai più e confinarlo nella città di Toro. Ivi, non avvezzo alla quiete, annojatosi, com'è solito de' grandi ingegni, terminò di mestizia brevemente i suoi giorni.

Caduto l'Olivares, ancorchè il Re pubblicasse di voler assumere in se stesso il Governo, nulladimanco, o perchè non poteva, o perchè non voleva da se solo reggere il peso, si disponeva ad abbandonar il carico; e fattisi avanti alcuni Grandi, che ambivano di sottentrare in luogo del Conte Duca, Luigi D'Haro, nipote, ma insieme dell'Olivares nemico, lentamente s'insinuò, e con grande modestia, mostrando d'ubbidire al Re, assunse in breve tempo l'amministrazione del Governo.

D. Luigi d'Haro adunque reputando per uno dei più forti pretensori alla privanza l' Ammiraglio di Castiglia, che si trovava allora Vicerè in Sicilia, per tenerlo lontano insieme, e soddisfatto, lo promosse al Viceregnato di Napoli, dandogli per successore in quell'isola il Marchese de los Velez, che dalle guerre di Catalogna era passato Ambasciador del Re in Roma: furono per ciò spediti i dispacci regali nelle persone dell'uno e dell'altro; ma, fosse errore o malizia degli Ufficiali della Segretaria del dispaccio universale tenuti ben regalati dal Medina, invece di mandarsi a ciascuno de' provveduti il suo, vennero chiusi amendue nel plico delle lettere del Medina. Costui, volendo imitare gli artificj del Monterey per prolungare la sua partita, ricusava di consegnar loro i dispacci; e quantunque il Marchese de los Velez fosse venuto da Roma in Napoli per passare in Sicilia, era trattenuto in parole dal Medina, tanto che non poteva partire per mancamento della commessione Regale, che lo qualificava per Vicerè; dall'altra parte l'Ammiraglio nè tampoco poteva lasciar il governo dell'Isola senza il successore; e con tutto che questi avesse mandato in Napoli il suo Segretario a domandargli i dispacci, trovò molta durezza: non avendo potuto disporre il Medina a deporre il Governo. Ma ciò, ch'egli non volle volontariamente fare, ve lo fece risolvere il vedersi insensibilmente mancare nell'autorità, e raffreddare quella riverenza e rispetto, che per ordinario languisce ne' sudditi alla fama del successore; anzi volendo egli sollecitare e porre in effetto il trattato di fare un altro donativo al Re d'un milione, si videro rifugiati nella Chiesa di S. Lorenzo i Deputati delle Piazze, li quali, o perchè non volevano imporre questo nuovo peso alla Patria, o perchè lo volessero riserbare ne' principj del Governo del nuovo Vicerè, sfuggivano l'unione. Conoscendo per tanto il Medina di non potere più lungo tempo con suo decoro continuar nel Governo, si risolse di consegnare i dispacci; onde essendosi il Marchese de los Velez partito per Sicilia, partì pure al suo arrivo l'Ammiraglio per Napoli, dove giunse a' 6 di maggio di quest'anno 1644, ed il Medina deponendo immantenente il Governo, andò ad abitare nella sua Villa di Portici, dove si trattenne fin tanto che s'allestissero le galee per traghettarlo in Ispagna.

Ci lasciò egli molti illustri e magnifici monumenti, che ancor adornano la città. A lui dobbiamo quel fonte d'ammirabile architettura col Dio Nettuno, che sparge dal suo tridente limpidissime acque, il quale trasportato nel largo avanti Castel Nuovo, ed ingrandito da lui, e reso abbondante d'acque, ritiene ancora oggi dal suo il nome di Fontana Medina. A lui parimente si dee quella magnifica Porta della città sotto la falda del Monte di S. Martino, che anticamente chiamavasi del Pertugio; per una picciola apertura, che il Conte d'Olivares fece fare nel muro per comodità degli abitanti di quella contrada, e che ritiene similmente dal suo il nome di Porta Medina. Ebbero questa sorte il Duca d'Alba, ed il Duca di Medina, che queste Porte ritenessero ne' tempi seguenti, e tuttavia, il lor nome; poichè costrutte in luoghi oscuri, non in contrade rinomate, il lor nome antico non potè oscurare il nuovo. Non così avvenne della Via Gusmana, della Porta Pimentella, della strada magnifica e d'ameni alberi adorna, che a' tempi nostri fece il Duca di Medina Celi e d'altri edificj, perchè costruiti in S. Lucia, in Chiaja, ed in altri luoghi noti e frequentati, perderono tosto quel nome, che i loro Autori ad esse avean dato.

Ristaurò egli ancora il Castello di S. Eramo, innalzò il Ponte fuori Salerno, che domina il fiume Sele, ed aprì quella ampia strada, che conduce al Monastero di S. Antonio di Posilipo. Ma sopra ogni altro edificio, il più stupendo fu il palagio fabbricato da lui nella riviera di Posilipo, che chiamasi ancora di Medina, nel quale vi lavorarono più di quattrocento persone: opera veramente magnifica, e ch'è riputata per uno delli tre Edificj maestosi, che s'ammirano ora in Napoli, gareggiando con quello degli Studi, e del Palagio Regale; ma non potè (siccome altresì il Conte di Lemos per la fabbrica de' Regj Studi) avere il piacere di vederlo finito, per cagion della sua partita dal Regno, ed ora rimane in gran parte ruinoso e quasi che inabitabile e cadente.

Ma molto più se gli dee per averci lasciate poco men di cinquanta Prammatiche tutte savie e prudenti, e d'aver eretti due nuovi Tribunali nelle Province di Apruzzo ultra e nella Basilicata. Elesse in Basilicata per Preside D. Carlo Sanseverino Conte di Chiaramonte, assegnandogli per luogo di residenza Stigliano, ma non vi dimorò lungo tempo; onde la Sede dei Presidi di questa Provincia essendosi trasportata ora in un luogo, ora in un altro, fu poi trasferita nella città di Matera, dove ora ancor dura. Per la residenza dell'altro Preside, fu assegnata la città dell'Aquila, ed il primo Preside, che governolla, fu D. Ferrante Mugnoz Consigliere di S. Chiara. Così essendosi divisa la Provincia d'Apruzzo in due, siccome avea fatto il Re Alfonso per ciò che s'apparteneva alli Questori, ed all'amministrazione delle Regie entrate; ed essendosi in Basilicata eretto un nuovo Tribunale, venne il numero delle Province, in quello che s'attiene all'amministrazione della giustizia, a pareggiarsi ed a corrispondere al numero de' Tesorieri, il quale prima era maggiore di quello de' Presidi, ovvero de' Giustizieri. Parimente riordinò il Tribunale dell'Audienza d'Otranto, e costrusse le sue carceri nella forma, nella quale presentemente sono.

Le Prammatiche, che ci lasciò, contengono molti savj provvedimenti. Egli rinovò le ordinazioni per la moderazione del lusso nelle vesti, ne' servidori, e carrozze: vietò sotto gravissime pene l'asportazione delle armi, spezialmente quelle di fuoco: fu terribile persecutore de' banditi: discacciò tutti i vagabondi dal Regno: vietò agli studenti d'andare in altri studi, che in quelli dell'Università; e diede altri salutari provvedimenti, che sono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

Giunto il Medina in Corte, fu escluso dall'udienza del Re, il quale, ad istigazione de' suoi nemici (li quali per la caduta del Conte Duca suo suocero, resi più baldanzosi, gli avean imputato, che avesse sottratto molto denaro da donativi fatti al Re) gli fece chieder conto di molti milioni, che nel tempo del suo Governo avea egli riscossi dal Regno; ma allegando il Duca, che i Vicerè di Napoli non eran obbligati a dar conto, e che se pure S. M. volesse ciò esiger da lui, era prontissimo a darlo, pur che però ciò seguisse senza forma di giudicio, ma privatamente per non pregiudicare a' Vicerè successori: l'affare si pose in trattato, e secondo la solita tardità spagnuola non venendosene mai a capo, svanì il trattato e si pose alla faccenda perpetuo silenzio. La Principessa di Stigliano sua moglie, che addolorata per la perdita del Governo, era rimasa gravida in Portici, essendosi abortita, soffrì da poi una malattia consimile a quella del Re Filippo II, la quale resala schifosa per la colluvie de' pidocchi, che l'innondò, le tolse anche la vita: miserabile esempio dell'umane grandezze. Fu il suo cadavere depositato nella Chiesa de' PP. Scalzi di S. Agostino nella Villa stessa di Portici; e non avendo potuto i suoi congiunti ottenere dal Vicerè la permissione di trasportarlo con pompa e trattamento Regale, che pretendevano le si dovesse, come Duchessa di Sabioneta, fu dopo qualche tempo privatamente condotta nella Cappella della sua famiglia posta nella Real Chiesa di S. Domenico Maggiore di Napoli.

CAPITOLO VII. Del breve Governo di D. Giovanni Alfonso Enriquez Almirante di Castiglia.

Giunto l'Ammiraglio in Napoli, e preso il possesso della sua carica a' 7 maggio di quest'anno 1644, non tardò guari ad accorgersi in che stato lagrimevole era il Regno ridotto: vide le miserie estreme dei sudditi gravati di tante imposizioni e gabelle: esausti tutti i fonti, e l'Erario Regale tutto voto. Ma le sue maggiori afflizioni erano, che non solamente non vedeva mezzi convenienti a potervi rimediare, ma che tuttavia più crescendo i bisogni per nuove cagioni, nè cessando i Ministri della Corte di Spagna, avvezzi a ricevere somme immense da' suoi predecessori, di cercar nuovi donativi di milioni, l'avean posto in agitazioni tali, che cominciava già a confondersi.

Pure in questi principj non sgomentandosi in tutto, colla sua prudenza e vigilanza suppliva, come si poteva meglio, a' nuovi bisogni, che occorrevano. Ancorchè per la pace fatta da Papa Urbano fin dal mese di marzo di quest'anno col Duca di Parma, colla scambievole restituzione de' luoghi presi, si fosse spento quel fuoco, che s'era acceso in Italia per l'occupazione e demolizione di Castro, appartenente al Duca; con tutto ciò non aveano i Barberini lasciate l'arme, nè licenziati i quattromila pedoni, co' dodicimila cavalli, che tenevano in piedi sotto il Duca di Buglione; ed essendosi gravemente infermato il Papa in questo mese di luglio, il nostro Vicerè, prima che spirasse, fece fare in Roma premurose istanze, che i nepoti del Papa deponessero l'armi, ed offerì ancora al Collegio de' Cardinali la sua persona e le forze del Regno per la libertà del futuro Conclave; onde essendo seguita già la morte d'Urbano a' 29 dell'istesso mese di luglio, non tardò di spingere a' confini del Regno le soldatesche; ma fattosi disarmare dal Concistoro il Prefetto di Roma, e seguita l'elezione a' 15 di settembre in persona di Giovambattista Cardinal Pamfilio, che si fece chiamare Innocenzio X si richiamarono le milizie a' quartieri[30].

Cessati questi timori, ne sopraggiunsero altri assai più gravi; poichè queste milizie istesse bisognò poco da poi sostenerle contra i Turchi, i quali con un'armata di quarantasei galee sotto il comando di Bechir Capitan Bassà s'eran presentati a vista d'Otranto. Gli Spagnuoli divulgavano, che questa mossa fosse per suggestione de' Franzesi, per tener distratte le forze del Regno: altri dicevano, che fosse principio di più alto disegno de' Turchi, per iscoprire la disposizione nella difesa delle marine d'Italia: che che ne sia, ancor che da' venti spinte ne' lidi della Velona, non avessero apportato altro male ad Otranto, che il terrore suscitato dalle rimembranze delle passate invasioni; nulladimeno ritornaron da poi nel Golfo di Taranto, dove saccheggiarono la Rocca Imperiale, e ridussero in ischiavitù quasi ducento persone, che con esso lor ne portarono[31]. E da poi nel seguente anno avendo investiti i lidi della Calabria, vi saccheggiarono alcune Terre.

La ricca preda, che fecero da poi i Maltesi all'Eunuco Zanbul Agà nel suo viaggio per la Mecca (origine, che fu della guerra di Candia) pose in timore i Maltesi minacciati dal Turco d'invader Malta; onde il Gran Maestro di quella Religione invocando gli ajuti de' Principi vicini, fece premurose istanze a' Vicerè di Napoli e di Sicilia, perchè volessero prontamente soccorrerlo: tanto che all'Ammiraglio fu duopo spedirgli quattro vascelli, due de' quali carichi di munizioni così da guerra, come da bocca, e gli altri due di soldatesche Spagnuole ed Italiane; ma svanito il timore dell'invasione di quell'Isola, per essersi gittati i Turchi sopra il Regno di Candia, furono rimandate dal Gran Maestro le soldatesche speditegli dal Vicerè, ma non già le munizioni da guerra e le vettovaglie.

Ma questi soccorsi s'avrebber potuto con non molta difficoltà tollerare: altri maggiori se ne richiedevano per altre guerre e particolarmente per quella di Catalogna, che teneva angustiata la Spagna: bisognò dunque spedir da Napoli ottocento cavalli e quattromila pedoni sopra ventisei navi per quella volta, sotto il comando del Generale D. Melchior Borgia: soccorso quanto valido, altrettanto ruinoso al Regno, che 'l finì d'impoverire. Pure con tutto ciò non cessavano i Ministri della Corte di Spagna premere l'Ammiraglio con nuove dimande di donativi di milioni, per accorrere a' bisogni grandi della Corona, ne' quali per la mala condotta degli Spagnuoli si vedeva posta; ma non erano minori le miserie de' sudditi per tante gravezze, che sopportavano, e quando credeva il Vicerè di potergli alleggerire, non già maggiormente aggravargli di nuove imposte, fu costretto per soddisfare a tante e sì continue istanze, di sollecitare le Piazze della Città per l'unione d'un nuovo donativo. Fu conchiuso di farlo per la somma d'un milione; e perchè non vi era altro modo di poterlo con altre gravezze riscuotere dai sudditi, se non sopra le pigioni delle case di Napoli, fu risoluto di prender i nomi da' Cittadini pigionali per quest'effetto e tassargli; ma quando ciò volle mettersi in pratica, si vide una sollevazion universale e ne' borghi di S. Antonio e di Loreto molti della plebe cominciarono a tumultuare; tanto che il Vicerè, prevedendo disordini maggiori, fece sospendere l'esazione. Avvisati di ciò i Ministri di Spagna, ascrivendo questa sospensione a debolezza dell'Ammiraglio, acremente lo ripresero, e col solito fasto ed alterigia gli comandarono la continuazione dell'esazione; ma questo savio Ministro, che più da presso conosceva le pessime disposizioni, ch'erano nella città e nel Regno, con molta costanza stette fermo nella sospensione e scrisse al Re, pregandolo a volerlo rimovere dal Governo, ed a non voler permettere, che volendo cotanto premere un così prezioso cristallo, venisse a rompersi nelle sue mani.

I Ministri Spagnuoli deridendo la timidità dell'Ammiraglio, non diedero orecchio alle sue domande, anzi non lasciavano in Corte di biasimarlo, e di trattarlo da uomo di poco spirito, inabile a governare un Convento di Frati, non che un Regno tanto importante, come quello di Napoli. Ma fermo l'Ammiraglio nel suo proponimento, affermando di voler servire, non tradire il suo Re, rinovò le preghiere, perchè lo lasciassero partire, e gli Spagnuoli di buon animo indussero finalmente il Re a rimoverlo, ed a comandargli, che si portasse in Roma a render in suo nome ubbidienza al nuovo Pontefice; e credendo, che D. Rodrigo Ponz di Leon Duca d'Arcos, come più forte e risoluto potesse riparare alla debolezza, ch'essi imputavano all'Ammiraglio, lo destinarono per suo successore: di che il Duca soleva di poi cotanto dolersi, che s'erano a lui riserbate tutte le sciagure, e ch'egli era venuto a portare le pene delle colpe degli altri Vicerè suoi predecessori.

L'Ammiraglio intesa la risoluzione della Corte, giunto che fu il Duca d'Arcos nel Regno partissi da Napoli nel mese di aprile di quest'anno 1646, ed entrò in Roma a' 25 del medesimo mese, ed a' 28, adempiè la sua commissione col Pontefice; indi, dopo aver fatto un giro per Italia, si ricondusse in Corte ad esercitar la carica di Maggiordomo della Casa Regale, dove poco da poi, infermatosi di mal d'orina, trapassò a' 6 di febbrajo del nuovo anno 1647.

Nel breve tempo del suo Governo, che durò meno di due anni, ci lasciò pure da venti Prammatiche tutte savie e prudenti; attese all'esterminio de' banditi e scorridori di campagna; invigilò perchè non si fraudassero le gabelle e le dogane, vietando a' Monasterj, ed altri luoghi pii la vendita del vino a minuto: vietò la fabbrica, ed asportazion delle armi; e diede altri savj provvedimenti, che sono additati nella tante volte mentovata Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche. Ma quello, che nel principio del suo governo gli acquistò maggior plauso, fu l'aver tolto molti abusi, che s'erano introdotti nel precedente dal Medina, infra i quali era scandaloso quello introdotto nel Tribunale della Vicaria per lo gran numero de' Giudici, che vi avea creati, più tosto per soddisfare alle importune raccomandazioni de' parenti della Viceregina D. Anna sua moglie, in quel tempo molto potenti in Palazzo, che per rimunerazion di merito. L'Ammiraglio, lasciato un competente numero a reggere quel Tribunale, mandò gli altri a scrivere nelle Regie Udienze delle Province.

A lui parimente si deve d'essersi tolte le molte brighe con gli Ecclesiastici intorno al ceremoniale, e di essersi allontanate le funzioni Regali dal Duomo, con farle celebrare nelle Chiese Regali, o sottoposte all'immediata protezione del Re. Per la morte accaduta in ottobre dell'anno 1644 della Regina di Spagna Isabella Borbone, ordinò l'Ammiraglio, che se le celebrassero solenni esequie nel Duomo, siccome prima praticavasi; ed avendo ivi fatto innalzare un superbissimo Mausoleo, mentre dovea cominciarsi la funzione, insorse il Cardinal Filamarino Arcivescovo, e pretese, che si dovesse dare il piumaccio a tutti i Vescovi che vi doveano intervenire; ma i Ministri Regj riputando ciò una novità, non vollero acconsentirvi a patto veruno; e dall'altro canto ostinandosi il Cardinale, venne in risoluzione il Vicerè di far disfare il Mausoleo drizzato nel Duomo, e farlo trasportare nella Regal Chiesa di S. Chiara, siccome fu fatto; dove essendosi innalzato ed adornato d'iscrizioni ed elogi composti per la maggior parte da' Gesuiti, e spezialmente dal P. Giulio Recupito di quella Compagnia, furono celebrati i funerali alla defunta Regina a' 21 marzo del seguente anno 1645, recitandovi l'orazione in idioma spagnuolo il P. Antonio Errera della medesima Compagnia; onde da questo tempo in poi le altre consimili funzioni si sono celebrate nella stessa Chiesa, siccome fu fatto ne' funerali di Filippo IV, ed a tempi men a noi lontani, nell'esequie dell'altra Regina di Spagna Borbone, moglie che fu del Re Carlo II e degli altri Regali, come diremo.

Il Duca d'Arcos, avendo preso il governo del Regno, contra il credere de' Ministri di Spagna trovò le cose in istato pur troppo lagrimevole; ed il suo infortunio portò, che le tante cagioni cumulate da' suoi predecessori, avessero da partorire in tempo suo quegli calamitosi effetti e quegli infausti successi che si diranno; il racconto de' quali, per la loro grandezza e novità, fa di mestieri, che si porti nel seguente libro di quest'Istoria.

FINE DEL LIBRO TRENTESIMOSESTO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMOSETTIMO

Gli avvenimenti infelici del nostro Reame, che riserbati in tempo del Governo di D. Rodrigo Ponz di Leon Duca d'Arcos, faranno il soggetto di questo libro non meno che le rivoluzioni di Catalogna, la perdita del Regno di Portogallo, delle Fiandre e dei tumulti di Sicilia, potranno esser ben chiaro documento a' Principi, che il reggimento del Mondo raccomandato ad essi da Dio, come a legittimi Rettori, malamente, e contra il suo Divin volere si commette a' Mercenarj, dall'ambiziosa autorità de' quali non solamente i Popoli pruovano stragi e calamità, ma il Principato istesso va in ruina ed in perdizione. Certamente i nostri Re Filippo III e IV furon Principi d'assai religiosi costumi, ma così inabili a reggere il peso gravissimo di una tanta Monarchia, che abbandonatisi in tutto nelle braccia de' Ministri e de' Favoriti, furon contenti della sola ombra, o nome di Re, permettendo, che della potenza, dell'autorità e di tutto il resto si facesse da coloro un pubblico ed ingordissimo mercato; senza che da tanta infingardia avessero mal questi Principi potuto essere rimossi, nè dagli stimoli de' parenti, nè dalle lagrime de' Popoli oppressi, nè dalle percosse di tante sciagure. Veniva anche questo letargo coltivato dall'arte più sopraffina della Corte e de' Favoriti; imperocchè per renderlo più tenace, e che niun rimorso di coscienza fosse mai valevole a riscuoterlo, avevano nelle loro fortune interessati gli istessi Regali Confessori, per tender aguati fino nei penetrali della coscienza, e ne' più riposti colloquj dell'anima.

Videro fin qui da lontano i nostri maggiori questi disordini in molti Stati di quella sì vasta ed ampia Monarchia; ma a questi tempi ne furono ancor essi insieme spettacolo e spettatori. Già per li precedenti libri s'è veduto, che ridotte le cose nell'ultima estremità, non presagivano che ruina e disordini maggiori, e tanto più inevitabili, quanto che in vece di portarvi rimedio, vie più con nuove spinte si acceleravano. Non bastarono le guerre che ardevano nella Germania, nella Catalogna, ne' Paesi bassi e nello Stato di Milano, le quali tennero la Spagna sempre bisognosa d'ajuti, ed avida di continui soccorsi; ma se ne aggiunse a questi tempi una nuova, che s'ebbe quasi colle sole forze del nostro Regno a sostenere, per conservare al Re i Presidj di Toscana invasi dall'arme di Francia: la quale diede l'ultima spinta alle rivolte: ciò che saremo brevemente a narrare.

CAPITOLO I. Del Governo di D. Rodrigo Ponz di Leon Duca d' Arcos; e delle spedizioni che gli convenne di fare per preservare i Presidj di Toscana dalle invasioni dell'armi di Francia.

Il Duca d'Arcos entrato in Napoli agli 11 di febbrajo di quest'anno 1646, e veduto lo stato lagrimevole del Regno, i popoli oppressi da tanti pesi, che lor conveniva sovra le proprie forze portare; ed all'incontro ritrovandosi fra le necessità di soccorrere a' bisogni della Corona e le difficoltà di trovare i mezzi per eseguirlo, giudicò minor male applicarsi all'esazione delle somme, delle quali era rimasta creditrice la Corte, per resto de' donativi fatti al Re, sotto il governo del Duca di Medina, che caricare i sudditi di nuove imposte. A questo fine deputò due Giunte di Ministri, perchè l'una vegghiasse a vietare i contrabbandi col rigor del gastigo; l'altra a trovare spedienti per l'accennata esazione, dalla quale sperava di tirar somme immense, senza incorrere nell'odio de' Popoli, imponendo loro nuove gravezze sul principio del suo governo.

Ma la nuova guerra, che bisognò sostenere per difender le Piazze di Toscana da' Franzesi assalite, lo costrinse a proseguire il costume de' suoi predecessori: e per supplire alle nuove spese, venire a' mezzi di nuove gravezze.

Il Cardinal Mazzarini, che nell'infanzia del Re Luigi XIV governava la Francia, crucciato col nuovo Pontefice Innocenzio, che nonostante gli ufficj fatti portare dalla Repubblica di Venezia, proseguiva negli atti giudiziarj contro a' Barberini: covrendo la privata vendetta per la repulsa data dal Pontefice in voler acconsentire alla nominazione fatta al Cardinalato di suo fratello dal Re di Polonia, diede ad intendere alla Regina Reggente ed al Consiglio Regale, che il Papa si era già scoverto d'inclinazione contraria agl'interessi della Francia, e troppo affezionato alla Corona di Spagna, come si vedeva chiaro dalla promozione da esso fatta di Cardinali tutti sudditi, o dipendenti da quella Corona; laonde doversi non solamente con esso lui sospendere ogni atto di confidenza, ma anche adoperare ogni mezzo per farlo ritrarre da questa parzialità. A tale oggetto fu risoluto di ricevere sotto la protezione di Francia i Baroni, e d'atterrire il Papa con disporre un grande armamento per l'Italia, e pungere più da vicino Innocenzio. Ricercò egli per tanto il Duca d'Anghien, perchè assumesse il comando dell'armata destinata per l'Italia, per l'impresa delle Piazze Spagnuole della Toscana, come quella, ch'era più valevole a porre il Pontefice in angustie; ma il Condè, padre del Duca, non volle acconsentirvi, onde egli chiamò in Parigi il Principe Tommaso di Savoja, confidandogli, che le sue intenzioni principalmente erano per quella spedizione contra i Regni di Napoli e di Sicilia; ma per diminuire l'invidia di tanto acquisto, voler esibirne gran parte a' Principi d'Italia, ed a lui principalmente offerirla, che per virtù militare e tant'altre doti, meritava di cingere le tempie di corona Regale. Il Principe tutto credendo, o fingendo di credere, n'abbracciò prontamente il carico, e fu stabilito di far l'impresa del Monte Argentaro e delle altre Piazze, che in Toscana vi tengono li Spagnuoli; spinse dunque l'armata a' 10 di maggio di quest'anno da' porti della Provenza, composta di dieci galee, trentacinque navi e settanta legni minori, sotto il comando dell'Ammiraglio Duca di Bressè, sovra la quale furono imbarcati seimila fanti scelti e seicento cavalli. Al Vado vi montò sopra il Principe Tommaso Generalissimo con il suo seguito, ed alquante truppe. Con tal armata scorse le marine d'Italia, arrivò a Telamone, che senza contrasto s'arrese, come pure il Forte delle Saline e di S. Stefano, dove il Governadore volendo difendersi senza forza, perdè nel primo attacco la vita, accingendosi poi per assalire Orbitello, Piazza forte di muro e di sito. A' Vicerè di Napoli spettava la cura e la difesa di quelle Piazze, perciò il Duca d'Arcos, penetrata l'intenzione de' Franzesi, vi avea spedito Carlo della Gatta, celebre Capitano, per comandarvi: poi avendo preparato un soccorso di settecento fanti, tremila dobble in contanti, e molte provvisioni, così da guerra come da bocca, fatto gli uni e l'altre imbarcare sovra cinque ben armate galee e due navi, le spinse a quella volta sotto il comando del Marchese del Viso e di D. Niccolò Doria, figliuolo del Duca di Tursi, li quali ebbero la fortuna d'introdurre le provvisioni e la gente in Portercole, e ritornarsene con la medesima felicità. Ma volendo ritentare la sorte con la spedizione di quaranta filuche ed un bergantino, sopra le quali andavano molti ufficiali, e quattrocento soldati; fatti accorti i Franzesi dall'antecedente successo, furono lor sovra con le galee, e sotto la Fortezza di Palo, ne presero 27, onde stringendo il Principe Tommaso la Piazza, non bastando alla sua difesa così lenti e scarsi soccorsi, fu astretto il Duca d'Arcos d'ammassar nuove milizie e di spingervi più valevole soccorso, affine di far levar l'assedio.

Fra questo mentre comparve l'armata raccolta in Ispagna con grandissima fama sotto il comando del General Pimiento, la quale era composta di trentuna galee e venticinque grandissimi galeoni, oltre alcuni incendiarj, ma così mal fornita di gente da guerra, che i Franzesi, rinforzati da altre dieci galee, non dubitarono, benchè inferiori di numero e di qualità di vascelli, di venire a battaglia; sfuggivano per ciò li Spagnuoli l'abbordo, contentandosi di battersi col cannone, col quale maltrattarono due galee nemiche e conquassarono il restante; ma il colpo fortunato, che loro diede la vittoria, fu quello di cannonata, che levò la testa al Duca di Bressè, Grand'Ammiraglio di Francia; perchè quell'armata, restando senza Capo, e non avendo pronto ricovero, s'allargò subito, ed alzate le vele si ricondusse in Provenza.

Potè allora il Duca d'Arcos, risoluto di far levar l'assedio, far imbarcare le fanterie sotto il comando del Marchese di Torrecuso, Capitano di gran nome in que' tempi, e mandar la gente a cavallo per terra sotto la scorta del Mastro di Campo Luigi Poderico, il quale prendendo il passo, senza richiederlo, per lo Stato Ecclesiastico, per Castro e per la Toscana (dolendosene in apparenza que' Principi, ma godendone ognuno, ingelositi del troppo potere che acquistavano in Italia i Franzesi, e tacitamente additando a' Spagnuoli la strada) si condusse ad unirsi col Torrecuso; il quale appena sbarcato, ed incendiati a Telamone quasi tutti i legni da carico che vi avevano lasciati i Franzesi, incamminandosi verso la Piazza, astrinse il Principe Tommaso a levarsi. Costui avendo perduta molta gente nelle fazioni, e l'altra resa quasi inutile per l'infermità nell'aria corrotta delle Maremme, ritrovandosi con deboli forze, si ritirò a Telamone, e ritornata l'armata Navale, che il Mazzarini con ordini pressanti vi avea spedita, s'imbarcò, ed andato in Piemonte co' suoi, rimandò il rimanente dell'esercito a riposarsi in Provenza. Carlo della Gatta, uscito nell'abbandonate trincere, guadagnò ricche spoglie e venti cannoni: e l'armata del Pimiento, contenta del conseguito vantaggio, ritornò subito verso i Porti di Spagna, contro il parere degli altri Ministri della Corona, che stimavano dovesse fermarsi.

Del successo d'Orbitello godè altrettanto l'Italia, quantochè penetrati i disegni vastissimi del Cardinal Mazzarini, avea mirata l'impresa con gelosia, ma sopra tutti ne giubilò il Pontefice, che secondava, ancorchè cautamente, gl'interessi della Spagna. All'incontro se ne crucciava il Mazzarini, irritato da' rimproveri, che abbandonati gl'interessi di Catalogna ed indebolite le armi in Fiandra, avesse atteso solamente a pascere le sue private vendette in Italia. Ma egli avendo inteso che l'armata nemica se ne ritornava in Spagna, chiamato in Fonteneblò d'improvviso il Consiglio della Reggenza, vi fece deliberare l'impresa di Piombino e di Portolongone, credendo con doppio colpo ferir vivamente non meno il Pontefice, che gli Spagnuoli; poichè la piazza di Piombino, tenuta da guarnigione di Spagna, apparteneva nondimeno col suo picciolo Principato al Lodovisio nipote del Papa.

Si vide allora quanto valesse la forza, quando in particolare veniva spinta dalla passione; poichè in momenti rimessa l'armata, e raccolte le truppe, riuscita al Cardinale sospetta la condotta del Principe Tommaso, ne consegnò il comando a' Marescialli della Melleraye e di Plessis Plarin, li quali con ugual premura apprestandosi, sciolsero speditamente da' Porti. Appena in Italia se n'era divulgato il disegno, che l'armata comparve, e subito sforzato Piombino, dove erano a guardia soli ottanta soldati, sbarcò sopra l'Elba, ed investendo Portolongone non mal difeso, ma scarsamente munito, l'obbligò ad arrendersi a' 29 d'ottobre di quest'anno 1646. Con tal acquisto si rallegrò il Cardinale, che avesse con larga usura cambiato Orbitello per Portolongone: il quale, come fortissima cittadella del Mediterraneo, separando la comunicazione della Spagna co' Regni d'Italia, dava Porto all'armata Franzese, e ricoverò a' legni, che infestassero la navigazione a' nemici. Il Papa ora atterrito, vedendo muoversi di nuovo le armi, chiamato a se il Cardinale Grimaldi parzialissimo della Francia, gli accordò il perdono per li Barbarini, e la restituzione delle cariche e de' beni, rivocando le Bolle, e le pene, a condizione, che si restituissero nello Stato d'Avignone e di là rendessero con lettere il dovuto ossequio al Pontefice. Ma la speranza da lui concepita di preservare con ciò lo Stato al nipote, fu dal Mazzarini delusa, il quale conoscendo col Papa poter più il timore, lasciò correr l'impresa, scusandosi, che partiti i Marescialli non avea potuto a tempo rivocare le commessioni.

La perdita di Portolongone attristò grandemente il Duca d'Arcos, vedendo i Franzesi annidati in un luogo, donde con facilità potevano assalire il Regno; onde gli convenne applicarsi a fortificare le Piazze di maggior gelosia, ed a far grosse provvisioni, per accingersi a riacquistare il perduto. A questo fine fece nuove fortificazioni intorno Gaeta, imponendo per far ciò una tassa a' benestanti: e diede fuori patenti per arrolare dodicimila persone. Dovevano fra queste trovarsi cinquemila Tedeschi, che con grossi stipendj si fecero venire d'Alemagna. Chiamò in Napoli le milizie del Battaglione del Regno; ma queste si dichiararono, che essendo esse destinate per guardia del proprio paese, non intendevano uscirne. Ma mentre il Vicerè sopra galee e vascelli era tutto inteso per far imbarcar le milizie per l'espedizione di Portolongone e di Piombino; i Capitani Franzesi, che comandavano queste Piazze, meditavano altre spedizioni per invadere i Porti del Regno, e spezialmente il Porto di Napoli ed incendiar le Navi, che vi si trovavano. Con tal disegno partitosi il Cavalier Pol dal Canale di Piombino con una squadra di cinque navi e due barche da fuoco, giunse nel Golfo di Napoli nel primo giorno d'aprile di questo nuovo, e funestissimo anno 1647. Fece egli preda a vista della città d'alcune barche: ciò che pose Napoli in non picciolo scompiglio; ma trovandosi allora nel Porto tredici vascelli, e dodici galee, fecer sollecitamente partire di que' legni armati, sopra i quali montativi molti nobili Napoletani, usciti dal Porto, fecero ritirare le navi Franzesi; ma poichè le nostre sciagure eran fatali, ciò che i francesi non fecero, fece contra di noi il caso, o la malizia; poichè accesosi fuoco nell'Ammiraglio delle navi Spagnuole alle 3 della notte de' 12 maggio, si consumò tutte le munizioni, che v'erano, con rimaner abbruciati quattro cento soldati, e quel ch'è più, si perderono trecentomila ducati contanti, che ivi erano. Quest'incendio di notte, ed a vista della città, per lo strepito e rumor grande, apportò agli abitanti un terrore, ed uno spavento grandissimo, e fu reputato un infausto ed infelice presagio d'incendj più lagrimevoli, per le rivoluzioni indi a poco seguite delle quali saremo ora brevemente a narrare.

CAPITOLO II. Sollevazioni accadute nel Regno di Napoli, precedute da quelle di Sicilia, ch'ebbero opposti successi: quelle di Sicilia si placano: quelle di Napoli degenerano in aperte ribellioni.

Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più Autori: alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura; altri con troppo sottili minuzie distraendo i Leggitori, non ne fecero nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento ed il fine: noi perciò, seguendo gli Scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla loro giusta e natural positura.

De' due Regni d'Italia sottoposti alla Corona di Spagna, quello di Sicilia più quietamente soffriva la dominazione Spagnuola, perchè la terra bagnata dal sangue Franzese inspirasse in que' popoli col timore delle vendette, l'avversione a quel nome, ovvero, perchè non erano cotanto premuti ed oppressi, quanto l'opulenza di queste nostre province invitava gli Spagnuoli a praticare co' Napoletani. Non era nemmeno in alcuni de' nostri Baroni cotanto odiosa la Nazion Franzese, poichè alternato più volte il dominio di questo Regno tra le due Case d'Aragona e d'Angiò, restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni, e l'inclinazioni per ciò vacillanti; onde avveniva, che la Francia nutrisse sempre l'intelligenze con alcuni Baroni; ed i Ministri Spagnuoli, ora dissimulandole, ora punendole, proccuravano di regger con tal freno, che divisi gli animi, impoveriti i potenti, introdotti ne' beni e nelle dignità gli stranieri, non conoscessero i Popoli le forze loro, nè sapessero usarle.

Nell'animo de' Popoli alla Monarchia Spagnuola soggetti, era a questi tempi, per tedio di sì lunghe avversità, scaduto il credito del governo; ed il nome del Re, nella felicità e nella potenza già quasi adorato, restava vilipeso nelle disgrazie e per gli aggravj della guerra poco men che abborrito. Si considerava ancora, che essendo morto in età giovanile il Principe D. Baldassare, dal Re Filippo IV procreato colla defunta Regina Isabella Borbone figliuola d'Errico IV e sorella di Lodovico XIII, Re di Francia, era facile, che la Monarchia rimanesse priva d'eredi; onde i sudditi perderono quel conforto, ed insieme il rispetto, con cui l'attesa successione del figlio al padre, suole, o lusingare i malcontenti, o raffrenare gl'inquieti; e per ciò gli spiriti torbidi sopra ciò promoveano discorsi frequenti ed i più quieti con taciti riflessi deploravano la fortuna maligna, che ciecamente trasferirebbe que' nobilissimi Regni ad incerto dominio, tanto più duro, quanto più ignoto.

I Popoli non men dell'uno che dell'altro Regno si dolevano delle imposizioni rese pesanti dal bisogno non solo, ma dall'avarizia de' Vicerè, e de' Ministri, pe' quali erano stati ridotti a tale stato di miseria e di carestia, che non bastando la fertilità de' nostri campi, nè la Sicilia istessa, che si reputa il Regno fertile di Cerere, ed il granajo d'Italia, potendone esserne esente, si cominciò da per tutto a patirsene penuria. Certamente, che non mai con più chiare pruove si conobbe esser vero, che per stabilire gl'Imperj Dio suscita lo spirito degli Eroi; ma per abbattergli si serve de' più vili e scellerati, quanto che per questi successi.

In Sicilia cominciava la plebe a mormorare per la penuria, che sofferiva di frumenti; ma non curate le sue querele, anzi invece di rimediarvi, impicciolito il pane per nuovi aggravj, diede ella in furore, e dal furore passando all'armi, riempì la città di Palermo di confusione e di tumulti. Il Marchese de los Velez, che governava quel Regno, non ebbe in quel principio forze per reprimerla, nè consiglio per acquietarla; onde lasciando pigliar animo a quella vilissima plebe, vide arder i libri delle gabelle, scacciare gli esattori, levar da' luoghi pubblici l'armi, e fin da' bastioni l'artiglierie; ed udì gridarsi per tutto, che l'imposte s'abolissero, e che nel governo si concedesse al Popolo parte uguale a quella, che teneva la Nobiltà. Il Vicerè accordava ogni cosa, e molto più prometteva; ma il Popolo prima contento, poscia irritato traboccava ad eccessi maggiori ed a più impertinenti domande; o perchè la facilità d'ottenere gli suggerisse pensieri di più pretendere, o perchè non mancassero istigatori, che spargevano essere simulata l'indulgenza e pericolosa la pietà di Nazione, per natura severa e contro i delitti di Stato implacabile per istituto. Se dunque un giorno, accarezzata, deponeva l'armi, l'altro, furiosa, le ripigliava con maggiore strepito, dilatandosi il tumulto anche per lo Regno.

Mancava però un Capo, che con soda direzione regolasse la forza del volgo, il quale se cominciava con rumore, presto languiva, contento d'assaggiare la libertà con qualche insolenza. Ma la nobiltà, poco amata dal popolo, nemmen ella poteva fidarsi di tant'incostanza, e se pur alcuno volle applicar l'animo a servirsi dell'occasione, fu poi fuori di tempo. Tra l'istesso popolo, i più benestanti, esposti agli strazj de' più meschini, da' quali a capriccio venivan lor arse le Case, e saccheggiate le sostanze, sospiravano la quiete primiera. Alla plebe più vile s'univano i delinquenti, da' quali aperte le carceri si cercava franchigia de' debiti ed impunità de' delitti. Fu detto, che in una taverna gettassero alcuni le sorti di chi assumer dovesse la direzione della rivolta, e che toccasse a Giuseppe d'Alessi uno de' più abbietti. Costui molte cose ordinò, e molte n'eseguì d'importanti. Discacciò il Vicerè dal Palazzo, e lo costrinse ad imbarcarsi sopra le Galee del Porto; poi si compose con un trattato solenne, che al popolo concedeva tali privilegj ed esenzioni sì larghe, che anche in Repubblica libera sarebbero stati eccedenti; ma in fine mentre l' Alessi sta con guardie, e tratta con fasto, invidiato da tutti e resosi odioso a' suoi stessi, fu dal popolo ucciso. È però vero, che dal suo sangue di nuovo sorse la sedizione, perchè alcuni credendo, che dagli Spagnuoli gli fossero state tessute l'insidie, altri ambindo quel posto, fluttuarono grandemente le cose, e molto più furono agitate dappoi, che il Vicerè caduto infermo per afflizione d'animo, terminò la sua vita.

Lasciò los Velez il governo al Marchese di Monteallegro, che tutto tollerò per sostenere alla Spagna almeno l'immagine del comando, e guadagnar tempo, sino all'arrivo del Cardinal Trivulzio, che il Re gli avea destinato per successore. Giunto il Cardinale in Palermo mantenne in fede i Siciliani, ed acchetò i romori; tanto che portatosi poi a Messina D. Giovanni d'Austria coll'armata, confermò in quel Regno la quiete, e ridusse le cose in una total calma e tranquillità.

Ma nel Regno di Napoli, non avea tante fiamme il Vesuvio, quanti erano gl'incendj, ne' quali stava involto. In questo Regno, siccome da' precedenti libri si è veduto, avevano gli Spagnuoli riposti i mezzi principali della loro difesa, perchè fertile e ricco forniva danaro ed uomini ad ogni altra provincia assalita. Avrebbe la fecondità e l'opulenza supplito al bisogno, se l'avidità de' Ministri, sempre premendo, non avesse del tutto esauste ed espilate le ricchezze istesse della natura; ma in Ispagna essendo più stimato quel Vicerè, che sapeva ricavare più danaro, non v'era macchina, che non s'adoperasse, per aver il consenso della nobiltà e del popolo, ch'era necessario per deliberare l'imposte, e per cavarne la maggior somma che si potesse. Vendevansi le gabelle a chi più offeriva, e con ciò perpetuando il peso, s'aggravavano le estorsioni, perch'essendo i compratori stranieri, e per lo più Genovesi, avidi sol di guadagno, non era sorta di vessazione, che, trascurate le calamità de' miseri popoli, crudelmente non si praticasse. Non restava più, che imporre, e pur il bisogno cresceva: poichè tentato da' Franzesi Orbitello, ed occupato Portolongone, si richiedevano, e per supplire altrove e per difender il Regno, grandissime provvisioni.

Il Vicerè Duca d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del danaro, per porre in piedi nuove soldatesche, e mantenere in mare Armate, non essendo sufficienti le somme, che, senza impor nuovi dazj, pensava di ricavare dagli espedienti sopra accennati, venne alla risoluzione di convocare un Parlamento: dove avendo esposti li bisogni della Corona, e sopra tutto, che bisognava mantener eserciti armati per la vicinanza molesta de' Franzesi, annidati in Toscana, estorse un donativo d'un milione di ducati; ma per ridurlo in contanti era necessario venire all'abborrito rimedio delle gabelle. Con imprudente consiglio, scordatisi così presto di quel, ch'era accaduto sotto il governo del Conte di Benavente, fu proposta la gabella sopra i frutti, altre volte imposta e poi tolta, come gravosa per lo modo di praticarla, ed odiosa alla plebe, e più da lei sentita, quanto ch'ella nell'abbondanza del paese, e sotto clima caldo, non si nutre quasi d'altro alimento, massimamente nell'estate; ad ogni modo trovandosi tutte l'altre cose aggravate ad un segno, che non potevano sopportar maggior peso, vi diedero le Piazze l'assenso, ed il Vicerè abbracciò l'espediente. Ma pubblicato a pena, nel terzo dì di gennajo di quest'anno 1647, l'editto per l'esazione d'essa, che cominciò il Popolo a mormorare, e tumultuosamente ad unirsi, e sempre che usciva il Vicerè, circondavano il suo cocchio, ad alta voce gridando, che si levasse: s'udivano minacce tra' denti, si trovavano affissi molti cartelli, dove si esecrava la gabella, ed una notte fu bruciata la casa, posta in mezzo al Mercato, dove se ne faceva l'esazione.

Il Duca d'Arcos, temendo da tali insolenze disordini maggiori, fece trattar dalle Piazze l'abolizione della gabella, e cercare espedienti di soddisfare coloro, che avevano sopra di quella somministrato il denaro, con imposizione d'altre gabelle meno gravose; ma non si poteva rinvenir alcun mezzo, per le altre maggiori e più gravi difficoltà, che s'incontravano, volendo imporne altre nuove; onde tutte le assemblee riuscivano vane e senz'effetto; e tanto più crescevano i tumultuosi discorsi del popolo; nè mancavano malcontenti, che servivano di mantice per accender maggior fuoco, fra' quali il più istigatore era il Sacerdote Giulio Genuino, il quale avea a se tratti molti della sua condizione, e non men di lui d'ingegni torbidi e sediziosi. Fra la vil plebe era surto ancora un tal Tommaso Aniello, chiamato comunemente Masaniello, d'Amalfi, uomo vilissimo, che serviva ad un venditor di pesce a vender cartocci per riporvelo; giovane di primo pelo, ma vivace ed ardito, il quale, soprammodo crucciato dal pessimo trattamento, ch'era stato fatto da' Gabellieri alla moglie, trovata con una calza piena di farina in contrabbando, minacciava vendicarsene, e meditava di trovar occasione di suscitar in mezzo al Mercato qualche tumulto nel dì della festività del Carmine, solita celebrarsi nella metà del mese di luglio. A tal fine, col pretesto di doversi assalire un Castello di legno nel dì della festa, avea provveduto ad alcuni ragazzi di canne col denaro somministrato da Fr. Salvino Frate Carmelitano, il quale o per propria perfidia, o per suggestione de' malcontenti, era il principal istigatore e fomentatore al Masaniello di farsi Capo del meditato tumulto.

Ma non bisognò aspettare la metà di quel mese, perchè a' 7 di luglio un picciolo ed impensato accidente gli aprì la strada. Alcuni contadini della città di Pozzuoli, avendo la mattina di quel giorno portate alcune sporte di fichi al Mercato, erano sollecitati dagli esattori del dazio al pagamento; ed insorta contesa tra essi, ed i bottegai, che doveano comprarle, intorno a chi dovesse pagarlo; essendo accorso Andrea Nauclerio Eletto del Popolo a darne giudicio, decise, che conveniva si sborsasse da chi le portava dalla campagna: uno de' contadini, che non aveva danaro, versò con imprecazioni un cesto di fichi per terra, rabbiosamente calpestandoli. Accorsero molti a rapirli, con risa, altri con collera, ma tutti compatendo quel misero, ed odiando la cagione. Allo strepito essendo sopravvenuto Masaniello con altri ragazzi armati di canne, cominciarono tutti, da costui animati a saccheggiar il posto della gabella, scacciandone co' sassi i ministri. Da ciò accesi gli animi, ricevendo forza dall'unione e dal numero, svaligiarono tutti gli altri luoghi de' dazj; e guidati da cieco furore, senza saperne i motivi, nè discernere il fine, corsero al Palazzo del Vicerè con proteste d'ubbidienza al Re, ma con esclamazioni contro il mal governo.

Le guardie, deridendo quel puerile trasporto, non vi s'opposero, ed il Vicerè impaurito lo fomentò, esibendo prodigamente ogni grazia. Cresciuta con ciò la licenza, e cominciando i più risoluti a porre a sacco il Palazzo, egli tentò di salvarsi nel Castel Nuovo; ma trovato alzato il ponte, non sapendo per lo timore dove ridursi, corse in carrozza chiusa verso quello dell'Uovo: scoperto però dalla plebe, poco mancò, che non restasse oppresso, se non si fosse ricovrato nel Convento di S. Luigi, nè quivi tampoco sarebbe potuto giugnere, se per la breve strada non fosse andato gettando monete d'oro al popolo per trattenerlo, che non lo seguitasse. Di là fece sparger editti, che abolivano la nuova gabella delle frutta; ma ciò non ostante, il tumulto a guisa di un torrente che inondi cresceva, e suggerendo i più torbidi al volgo semplice varie cose, chiedevano ad alta voce, che si levassero tutte l'altre gabelle, e che si consegnasse al Popolo il privilegio di Carlo V. Quelli che lo dimandavano, sapevano meno degli altri dove fosse, e ciò che contenesse, perchè il dominio lungo degli Spagnuoli, e la sofferenza de' sudditi, abolita ogni memoria d'indulto, avea reso arbitrario ed assoluto il comando.

A tanta commozione essendo accorso il Cardinal Filomarino Arcivescovo, per quietar il tumulto, s'interpose col Vicerè: il quale trovandosi in quell'arduo procinto, in cui era pericolosa la severità e l'indulgenza, e se si negava ogni cosa, e se tutto si concedeva: credè in fine meglio consegnargli un foglio in cui prometteva quanto sapevan pretendere, con speranza, che sedato il romore, e sciolta l'unione di que' scalzi, tutto prestamente si rimettesse in buon ordine e quiete. Ma il contrario avveniva, perchè la maggior parte confusa da que' fantasmi di libertà, senza saper ciò che volesse, voleva più, onde il male peggiorava coi rimedj, e s'irritava co' lenitivi.

Scoppiò in oltre l'odio fierissimo, che la plebe contro la Nobiltà lungo tempo nutrito avea: onde i sollevati scorrendo per le strade, trucidarono alcuni Nobili, arsero le case d'altri, proscrissero i principali, e bramando di sterminarli tutti, stava la città in procinto d'andar a fuoco, ed a sangue. E pure il Popolo stolto credeva di mantenersi fedele al Re, e solo di correggere il cattivo governo, e risentirsi de' strazj patiti da' Nobili superbi e da' Ministri malvagi.

Masaniello lacero e seminudo, avendo per teatro un palco e per scettro la spada, con centocinquantamila uomini dietro, armati in varie foggie, ma tutte terribili, comandava con assoluto imperio ogni cosa. Egli Capo de' sollevati, anima del tumulto, suggeriva le pretensioni, imponeva silenzio, disponeva le mosse, e quasi che tenesse in mano il destino di tutti, trucidava co' cenni, ed incendiava co' sguardi; perchè dove egli inchinava, si recidevan le teste e si portavan le fiamme. Il Vicerè per tanto, per la mediazione del Cardinal Arcivescovo, fu indotto a dar in potere del Popolo istesso il privilegio richiesto, ed accordare un solenne trattato, in cui s'abolivano quelle gabelle, ch'erano state imposte dopo le grazie di Carlo V, e si proibiva d'imporne nell'avvenire altre nuove: si concedeva parità di voti al Popolo con la Nobiltà: si prometteva oblivion d'ogni cosa, e si permetteva, che ne' tre mesi, ne' quali si doveva attendere la confermazione del Re, stesse armata la plebe. Fu tutto ciò ratificato con solenne giuramento nella Chiesa del Carmine, onde si diede qualche breve respiro.

(Questa Capitolazione contenente 23 articoli e cinque altri aggiunti, fu per la mediazione del Cardinal Filomarino accordata ai 13 luglio 1647 tra 'l Vicerè e Masaniello, il quale intervenne come Capo del fedelissimo Popolo e si legge presso Lunig[32].)

Masaniello onorato dal Vicerè con eccessi, siccome sua moglie dalla Viceregina, gonfio di vanità cominciò ad agitarsegli la mente, e finalmente dalle vigilie e dal vino ridotto a delirare, fatto insopportabile a' suoi e contra tutti crudele, fu la mattina de' 16 di luglio da gente appostata nel Convento del Carmine ucciso, siccome fu fatto d'alcuni altri de' suoi confidenti, e dal vedersi, che la plebe non fu niente commossa dalla sua morte: anzi pareva, che godesse alla vista del teschio conficcato ad an palo, si credeva che fosse ogni cosa per ridursi in buon ordine e quiete.

Ma con dannosa imprudenza, strapazzati da' Nobili alcuni di que' della plebe, e con peggior consiglio il giorno susseguente essendosi diminuito il peso del pane, si risvegliò il tumulto con tanto furore, che disotterrato il cadavere dell'ucciso e preso il teschio, unendolo al busto, fu esposto con lumi accesi nella Chiesa del Carmine, nè sarebbe cessato il concorso del popolo e la curiosità di vederlo, se con solennissime e regali esequie, a guisa di Capitan Generale non fosse stato sepolto; ed immantenente fu occupato dal Popolo il torrione del Carmine, e presi altri siti opportuni per dominar il Porto, ed opporsi alle batterie de' Castelli.

Il Duca d'Arcos ritiratosi in Castel Nuovo, lo trovò sguarnito d'ogni cosa, e così erano tutti gli altri poichè per accudire a' bisogni lontani, avevano i Vicerè indebolito il freno della città, e la custodia del Regno. Mancava il denaro, niuno osava più esiger le rendite, e tutti con pari licenza ricusavano di pagare l'imposte. Le milizie erano già state spedite a Milano, ed alcuni pochi fanti chiamati dalle province, furono da' popolari per cammino battuti e sbandati. Dilatandosi poi per lo Regno la fama de' successi della città, siccom'erano per tutto universali le cagioni, così non furono dispari gli avvenimenti; poichè in ogni luogo, scosso il giogo delle gabelle, e sollevandosi il Popolo contra l'insolenza de' Baroni, si riempirono le province di tumulti e di stragi.

Fu perciò costretto il Vicerè a' 7 di settembre a giurare un altro accordo più indegno del primo.

(Questa seconda Capitolazione contenente 52 articoli è stata anche impressa da Lunig, e si legge Tom. 2 pag. 1374).

Ma il Popolo sempre temendo, ed il Duca niente dissimulando, non ebbe più lunghi periodi la calma. Passandosi adunque, come suole accadere, dal tumulto alla ribellione, dimandavano i popolari al Vicerè i Castelli, e non volendo egli dargli, si venne all'attacco. Egli è certo, che se allora quella gente infuriata avesse avuto un corpo di ben disciplinate milizie, ed un Capo sperimentato e fedele, avrebbe espugnati i Castelli, e quindi discacciati gli Spagnuoli dal Regno. Ma dal Popolo abborrendosi il nome di soccorso straniero, e coll'oggetto di libertà immaginaria tendendo a più misera servitù, fu scelto (essendosene scusato Carlo della Gatta) per Capitan Generale Francesco Toraldo Principe di Massa, che n'accettò il carico di concerto col Vicerè. Egli ritardando con apparenza di meglio assicurarsi gli attacchi, e con errori volontarj e mendicate dilazioni, guastando ogni cosa, non potè finalmente a tanti occhi occultare l'inganno: onde imputato d'intelligenza con gli Spagnuoli, con miserabile supplicio dalla plebe arrabbiata fu trucidato.

CAPITOLO III. Venuta di D. Giovanni d'Austria figliuolo naturale del Re; che inasprisce maggiormente i sollevati, i quali da tumulti passano a manifesta ribellione. Fa che il Duca d'Arcos gli ceda il Governo del Regno, credendo con ciò sedar le rivolte. Parte il Duca, ma quelle vie più s'accrescono.

Gli avvisi intanto pervenuti alla Corte di Spagna di questi successi, sollecitarono la partenza dell'armata navale, sopra la quale imbarcossi D. Giovanni d'Austria, figliuolo naturale del Re, con titolo di Generalissimo del mare, e con ampio potere sopra gli affari del Regno, giovane di 18 anni, ben fatto di sua persona, che accoppiava alla gentilezza e soavità dei costumi un giudizio maturo; giunse l'armata, e diede fondo nella spiaggia di S. Lucia nel primo giorno d'ottobre. Si componeva ella di 22 Galee e 40 Navi, ragguardevoli per lo numero e per la grandezza, ma poco meno, che sguarnite di munizioni, e con soli quattromila soldati; e pure era stimata da' Spagnuoli il presidio della Monarchia, perchè era destinata a frenar i due Regni fluttuanti, soccorrere l'Italia e riscuotere Portolongone e Piombino dalle mani de' Franzesi. Questa non tantosto approdò, che il Vicerè, contra il parere del Consiglio Collaterale, che sentiva di introdurre col negozio la quiete, indusse D. Giovanni ad usare la forza.

Amaramente vedeva questo giovane Principe, partito di Spagna coll'impressione datagli da' suoi adulatori, di vincere con la sola presenza, che così vil plebe ancora osasse tenere in mano le armi, e volesse capitolare del pari. Il Vicerè per gli scorsi pericoli e per gli affronti patiti, desideroso di vendicarsi, figurava tutto facile e piano. Fu pertanto da D. Giovanni fatto sapere al Popolo, che consegnasse le armi, e ciò negato, come si prevedeva, sbarcati tremila fanti, e da essi presi i posti più alti ed opportuni, cominciarono i Castelli e l'armata indistintamente a percuotere da ogni parte, con incessante tempesta di cannonate la città. Ciò, benchè nel principio alquanto atterrisse, fu però tanto lontano che domasse il Popolo, che anzi i Tempj ed i Palazzi si danneggiavano indistintamente i colpevoli, ed i fedeli; ma in sì vasta città non per tutto arrivavano i colpi, nè oltre lo strepito e le ruine, apportavano altre notabili offese. All'incontro i mantici della ribellione infiammavano gli animi contro gli Spagnuoli, notandoli di mancatori di fede, e che il Re Filippo avea inviato il figlio, acciocchè portasse più possenti i fulmini del suo sdegno, e che amava più tosto di perder Napoli, con esempio atroce di crudeltà e di vendetta, che conservarla con moderato ed indulgente imperio.

(Furono emanati dal Popolo per questa irruzione de' Spagnuoli due editti, uno a' 15 ottobre, l'altro nel giorno seguente 16, per cui si aboliscono affatto tutte le gabelle, si proibisce a tutti i Baroni e Titolati d'unirsi in comitiva di gente, e s'offeriscono taglioni di più migliaja di ducati ed indulti generali a chi ammazzasse il Duca di Maddaloni, D. Giuseppe Mastrillo, Lucio Sanfelice, il Duca di Siano, e li figli di Francesco Antonio Muscettola. Nel giorno 17 si pubblica un Manifesto, nel quale il popolo espone l'infrazione fatta da' Spagnuoli agli articoli accordati, e le crudeltà da' medesimi praticate, onde s'invitano il Papa, l'Imperadore, tutti i Re, Repubbliche e Principi a prestar lor ajuto e favore. Si leggono i due Editti ed il Manifesto presso Lunig[33] ).

Poco ci volle per confermare con la disperazione del perdono nella contumacia i sollevati: anzi per indurvi i più quieti, mentre il danno e l'offesa era comune, s'animavano tutti con odio estremo alla resistenza.

Ripartita perciò la difesa, fortificati i posti, cavate armi, e cannoni dagli Arsenali, per tutto mostravansi, con risoluzione ostinata, di voler difendere se stessi e la patria. S'avvidero presto gli Spagnuoli esser vano ogni sforzo di vincere col timore una città sì grande, piena di Popolo furibondo ed armato. Mancarono loro inoltre presto la polvere e i bastimenti, onde convennero rallentare le batterie, ad allontanare le navi, rendendo più audace il popolo col dimostrarsi impotenti. Nè vi fu caso enorme, in cui licenziosamente la plebe non trascorresse. Nel patibolo del Toraldo, pareva che fosse stato affisso un decreto d'odio perpetuo contro la Nobiltà; e nelle conventicole non s'udiva altro, che disperati consigli, e concetti rabbiosi contro i Nobili.

Si venne infine ad abbattere le riverite insegne del Re, ed a calpestare i suol Ritratti, sino a quell'ora, si può dire, adorati; e la città di Napoli assunse titolo di Repubblica. Non si può dire quanto di tal nome nel principio esultasse la plebe fastosa, quantunque pochi credessero dover essere lunga la forma del suo reggimento. Non vi è Popolo della libertà più cupido del Napoletano, e che altresì men capace ne sia, mobile ne' costumi, incostante negli affetti, volubile nei pensieri, che odia il presente, e con sregolate passioni, o troppo teme, o troppo spera nell'avvenire. Per la morte del Toraldo, s'intruse un tal Gennaro Annese nel Generalato dell'armi, uomo di profession militare, ma d'abbietti natali, accorto però, e niente meno sagace architetto di frodi, che ardito esecutore di scelleratezze.

In questo stato di cose, non mancarono i confidenti della Corona di Francia di andar spargendo tra il popolo, che per mantenersi in quel governo, era bisogno di ricorrere alla protezione di un Re potente: e mostrando lettere del Marchese di Fontanè, Ambasciador di Francia in Roma, per le quali si prometteva ogni favore, furono risoluti di ricorrere per miglior partito ad Errico di Lorena, Duca di Guisa, che si Trovava per suoi affari domestici allora in Roma, e di chiamarlo al reggimento della nuova Repubblica, con dichiararlo Capo di essa. Il Duca di Guisa era un Principe giovane, di amabile aspetto, di cuor generoso, prode ne' fatti, e nelle parole cortese; in oltre d'alti natali, e che discendendo dagli antichi Re, vantava ragioni sopra il Regno, ed ancor ne conservava i titoli e l'insegne.

(Le ragioni per lo quali la famiglia di Lorena conservi ancora i titoli e l'insegne di Napoli e di Gerusalemme, furon esposte altrove, parlandosi de' discendenti di Renato d'Angiò, ultimo e discacciato Re dal Regno).

Si credeva, che egli non molto contento del presente governo di Francia potesse di là bensì trarne soccorsi, ma non dipendesse dalle voglie de' Ministri nè dagl'interessi di quella Corona.

Il Duca a così grand'oggetto d'impiego famoso, si lasciò rapire, ed arditamente con poche filuche spedite a quest'effetto dal popolo, superati gli agguati dell'armata spagnuola, s'introdusse in Napoli a' dì 15 di novembre, dove fu accolto con quelle acclamazioni ed applausi, che suggeriva la stima della persona, ed il bisogno della città. Accompagnato da' Capi principali del popolo, andò la mattina seguente a dare il giuramento nel Duomo, dove volle farsi benedire lo stocco; ma avendo scorto il disordine grandissimo che vi era nell'infima plebe, indiscreta, insolente, che uccideva, rubava e bruciava sol per soddisfare l'ingordigia e la vendetta: e che le milizie regolate, a proporzion del bisogno, erano pochissime: applicò l'animo a trovar mezzi per mettervi freno, e darvi compenso; vietò pertanto con severe pene i furti, le rapine e gl'incendj: assoldò un reggimento a sue spese, proccurando di tirare eziandio qualche nobile al suo partito: comandò, che si trattassero gli Spagnuoli all'uso di buona guerra, e per supplire alla mancanza del danaro, fece aprir la Zecca delle monete, delle quali ne furono coniate molte d'argento e di rame coll'impronta della nuova Repubblica; della quale egli si fece eleggere Duca, con sommo rammarico di Gennaro Annese, che vedevasi poco men che privato dell'intero comando.

(Le Monete coniate a questo tempo hanno lo scudo col monogramma S. P. Q. N.; nè vi è immagine di Errico di Lorena, ma solo intorno il suo nome col titolo REIP. NEAP. DUX. Furon anche impresse dal Vergara nel suo libro delle monete del Regno di Napoli; e ciò ch'è notabile, le medesime, dopo essere ritornato il Regno alla divozione del Re di Spagna, si lasciarono intatte, e tuttavia si spendono, ed hanno il lor corso, come, tutte le altre monete Reali).

S'applicò ancora il Duca in Campagna a reprimere gli sforzi de' Baroni, li quali, ridotti a disperazione per l'odio del popolo, unitisi agli Spagnuoli, avevano sotto Vincenzo Tuttavilla e Luigi Poderico raccolte in Aversa alcune milizie.

In questo tempo era comparsa L'armata franzese a vista della città con non più di 29 mal provveduti Vascelli da guerra e 5 da fuoco, non già per secondare l'impresa del Duca di Guisa, ma unicamente per proccurare di trarre nei romor de' tumulti alcun profitto per la Corona di Francia, non tenendo ordini il Comandante di prestare ajuto a! Duca; poichè quando giunse in Francia l'avviso di questi tumulti, e successivamente, che il Guisa si era portato a Napoli, il Cardinal Mazzarini con gran sentimento disapprovò la condotta, non credendolo, per la volubilità dell'animo, capace di maneggiare negozio sì arduo; perciò l'Armata franzese dopo aver scorsi questi Porti, e sol cannonandosi da lontano con la Spagnuola, trovandosi con poche forze, presto si ritirò. Nè il Duca si curò di cavarne sussidj, perchè come la Corte di Francia non approvava, che egli si fosse intruso in quel carico, così egli divisava di operar da se, e profittar per suo conto. Ciocchè però fu di grande ostacolo alla sua impresa, vedendosi la confusione in quegli del partito istesso franzese: poichè alcuni Capi del popolo, a suggestione d'alcuni soldati franzesi, posero in trattato d'acclamare il Duca d'Orleans allo scettro. Inclinavano molti altri a darsi al Pontefice, chiamandolo a piene voci, per essere più validamente protetti dalla religione e dall'armi; ma Innocenzio, ancorchè potesse allettarlo l'apparenza del sicuro profitto, con riflessi però più maturi considerava, che se in ogni tempo questo Regno era stato preda del più potente, ora la sua cadente età non poteva porgergli speranze di veder ridotta a perfetto stato l'impresa, che promovesse, e che convenendo alla Chiesa valersi d'armi straniere, ogni acquisto resterebbe finalmente in preda di quegli, che avesse chiamato in ajuto. Applicò dunque più tosto l'animo a comporre le cose, dandone commessioni efficaci ad Emilio Altieri suo Nunzio in Napoli.

Dall'altra parte D. Giovanni d'Austria, il Duca d'Arcos e tutti i Nobili, attediati da sì gravi e lunghi disordini, anzi l'istesso Annese, che mal soffriva il comando del Guisa, erano desiderosi della quiete; quindi fecesi pubblicare un editto,[34] nel quale si conteneva un'ampia plenipotenza, che avea conceduta il Re al Duca d'Arcos, e si offeriva di consolar tutti, facendovi per lor sicurezza intervenire l'autorità del Pontefice, che ne avea date precise commessioni al Nunzio Altieri. Ma, e l'editto e le lettere, che il Nunzio fece consegnare all'Annese, non partorirono effetto alcuno, dichiarandosi costui, che la plenipotenza era buona, ma non il personaggio, che la rappresentava, come quegli, che col mancamento delle promesse avea coltivati i semi della discordia, e conchiudeva, che fidandosi del Duca d'Arcos sarebbe cadere ne' medesimi errori. D. Giovanni vedendo, che tutte le Province del Regno, non men che la Metropoli, andavano in ruina, involte tra tumulti e sedizioni, volle tentare, se tolto di mezzo il Duca d'Arcos, persona al popolo resa cotanto odiosa, potesse ripigliarsi il trattato; rinnovò per tanto le pratiche, e fu proposto di rimovere il Duca dal governo del Regno, e porlo nelle mani di D. Giovanni, nella persona del quale non concorrendo quell'odio, che i sollevati mostravano al Vicerè, credevasi rimedio efficace per acchetare i rubelli; tanto più, che il popolo n'avea fatta prima istanza particolare a D. Giovanni di farlo rimovere. Si mostrò pronto il Duca d'Arcos a rinunziare il comando, purchè da ciò ne seguisse la quiete del Regno; anzi egli stesso fece ragunare il Consiglio Collaterale di Stato, perchè autenticassero la sua deliberazione. Alcuni furono d'opinione, che non potesse ciò farsi, appartenendo solo al Re il creare e rimovere i supremi moderatori del Regno; altri (che furono la maggior parte) assolutamente conchiusero, che convenisse al servigio del Re e del Regno la partenza del Duca, e l'introduzione di D. Giovanni al governo. Ciocchè essendo stato da costui approvato, mandò il Duca la moglie e i figliuoli in Gaeta, ed a' 26 di gennajo di questo nuovo anno 1648 partì da Napoli, dopo aver governato pochi giorni meno di due anni.

Così terminò il suo Governo infelice il Duca d'Arcos, il quale in una rivoluzione cotanto lagrimevole di cose, non potè lasciar di se presso noi altra memoria, se non quella d'alcune sue Prammatiche, che ancor ci restano insino al numero di quattordici, per le quali, a fin di supplire, come si potea meglio agli estremi bisogni, proccurava di toglier le frodi, che si commettevano in pregiudizio de' dazj e delle gabelle, e rinovò le pene contro coloro, che commettevano contrabbandi, particolarmente di salnitro e di polvere, e diede altri provvedimenti, che vengono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

§. I. D. Giovanni d'Austria prende il Governo del Regno.

Preso ch'ebbe il governo del Regno D. Giovanni d'Austria, s'applicò a' mezzi, che e' credeva più proprj per estinguere tanto incendio, che ora più che mai ardea, non solo nella Metropoli, ma in tutte le Province; ed a tal fine pubblicò un editto, col quale invitava il popolo alla quiete, ed oltre alla concessione di moltissime grazie, gli prometteva un general perdono; ma questo editto pubblicato in tempo, che i disordini erano più cresciuti, produsse effetti contrarj; poichè essendo stati alcuni esemplari dell'editto affissi ne' quartieri, che eran tenuti dal popolo, furono immantinente lacerati, e poste grosse taglie su le teste di coloro, che avevano avuto ardimento di affiggerli in quei luoghi. Anzi per mostrar maggiormente la loro pertinacia, furono da' popolari eletti Ministri per empire i Tribunali del Consiglio di S. Chiara, della Regia Camera, della G. C. della Vicaria, e di quella del G. Ammiraglio, affine d'amministrare a tutti giustizia. Nè intanto si tralasciavano le zuffe più crudeli tra le soldatesche spagnuole, e quelle del popolo, che riempivano la città di terrore e di spavento.

In questo stato lagrimevole di cose, il Duca di Guisa, volendo a se trarre tutto il comando, pose gran tepidezza ne' popolari: e molta discordia ne' Capi: ciocchè fu l'origine che il Regno fosse poi confermato sotto l'imperio del Re Cattolico; poichè Gennaro Annese, che teneva il Torrione del Carmine, non poteva patire, che il Duca fossegli superior nel comando, ed il Duca non voleva sofferire per emulo dell'autorità un uomo sì vile; e procedendo perciò con gelosie e diffidenze, non mancarono di praticare insidie per torsi l'un l'altro la vita; onde nella città ed in campagna, fluttuando gli affetti, anche l'armi con varia fortuna s'agitavano. S'aggiunse la confusione in quei del partito Franzese, che col fomento del Fontanè Ambasciador di quella Corona appresso il Pontefice, pretendevano alcuni di essi di formar fazione distinta da' seguaci del Duca di Guisa. Ma questi erano pochi, e non molto forti; poichè avendo il popolo prevenuti i disegni ancora immaturi, che la Francia nudriva con alcuni Baroni, questi erano stati quasi tutti costretti, per salvarsi dall'ira e crudeltà della plebe, ad unirsi con li Spagnuoli, e contro lor voglia cospirare allo stabilimento di quell'abborrito dominio.

(Presso Lunig[35], si legge una plenipotenza spedita dal Fontanè in Roma a' 20 gennaro 1648 all' Abate Laudati Caraffa fratello del Duca di Marzano per impiegar la sua opera in far sì che la Nobiltà del Regno prendesse le armi nella presente congiuntura contra gli Spagnuoli, promettendogli in nome del suo Re, anche se non seguisse l'effetto, di rifargli le rendite, che venisse a perdere nel Regno, le quali consistevano in una Badia intitolata S. Catarina, di quattromila scudi di rendita, che possedeva nel Ducato di suo fratello, ed in cinquemila altri scudi annui di suo patrimonio).

D. Giovanni, informato di queste divisioni, pensò approfittarsene, e valendosi della discordia degli nemici, cominciò di nuovo a spingere innanzi trattati di pace, vedendo riuscire inutili ed infelici quelli di guerra, e per mezzo del Cardinal Filomarini Arcivescovo gli fece promovere, il quale scorgendo, che inutilmente si consumavano gli uffizj col Duca di Guisa, volgendosi alla parte contraria, nella quale trovò miglior disposizione, indusse l'Annese ad impiegarsi da senno a promovere la quiete, ch'egli, non men, che gli altri ardentemente desiderava, per liberarsi dal pericolo della vita, a lui dal Guisa insidiata.

Intanto essendo giunto alla Corte di Spagna l'avviso della resoluzion presa dal Consiglio Collaterale di far rinunziare al Duca d'Arcos il governo del Regno, e darne l'amministrazione a D. Giovanni, disapprovò il fatto, e mal intese, che i sudditi s'arrogassero, in materia così importante, l'autorità di togliere un Vicerè, e sostituirne altri. Non piaceva ancora per gelosia di Stato, in congiunture sì pericolose, essersi sostituita la persona di D. Giovanni, onde immantenente fu comandato al Conte d'Onnatte, che si trovava Ambasciadore del Re in Roma, che si portasse tosto al governo del Regno di Napoli con titolo di Vicerè, il quale ricevuti i Regali dispacci, con ogni prestezza si partì da Roma, e venne a Gaeta, e quindi in Baja, donde spedì un suo Segretario coi dispacci per darne la notizia a D. Giovanni, il quale immantenente nel primo giorno di marzo di quest'anno 1648, depose in mano del Conte il Governo, lasciandoci pure egli in così breve tempo tre Prammatiche, che si leggono ne' volumi di quelle: non contenendo, che le grazie, i privilegi ed il perdono conceduto da lui al popolo, come plenipotenziario del Re.

CAPITOLO IV. Di D. Innico Velez di Guevara, e Tassis, Conte d' Onnatte, nel cui governo si placarono le sedizioni, e si ridusse il Regno sotto il pristino dominio del Re Filippo.

Giunto il Conte d'Onnatte in Napoli, avendo visitati i luoghi della Città, e tutte le trincee, ch'erano a fronte de' popolani, si dispose non pure alla difesa, ma pose ogni studio d'impadronirsi de' quartieri occupati dal Guisa; ed animando le sue milizie, fece dar loro le paghe, distribuendo centottantamila ducati, che avea seco portati da Roma. Nell'istesso tempo, approvando la condotta di D. Giovanni, non tralasciò di seguitar il trattato del perdono e dell'accordo prima coll'Annese incominciato: ciò che giovò non poco, perchè con queste pratiche sempre più s'andava scemando il partito del Guisa mal sofferto dall'Annese. Erano ormai gli abitanti stanchi di tante confusioni e miserie, e tutti sospiravano la quiete; imperocchè interrotto ogni commerzio, e turbata la società civile, non restava più alcuna cosa sicura dalle voglie sfrenate de' scellerati, e dall'audacia di que' meschini, che avvezzi colle fatiche a guadagnar la mercede, ora volevano viver nell'ozio con le rapine, e sotto il manto di libertà essendosi introdotta una dissoluta licenza, la maggior parte era stanca delle sue stesse passioni.

Approssimandosi adunque la vicina Pasqua, in cui gli uomini riconciliandosi a Dio, ammettono ne' loro cuori desideri pietosi di giustizia e di pace, s'impiegarono segretamente molti Religiosi ad introdurre, e coltivare questi sentimenti nella plebe. Proccurò similmente l'Onnatte da alcuni principali de' sollevati ricavar le condizioni, che richiedevano, ma essendo così esorbitanti, che innalzavano i privilegi del Popolo sopra l'autorità del Re, egli trattò di moderargli, perdonando a' rei, e levando le gabelle dal Regno, e per accertargli maggiormente promise, che fra tre giorni gli avrebbe con pubblici documenti a lor piacere confermati e soddisfatti. Disposte in cotal guisa le cose, prima che tal tempo spirasse, presa la congiuntura, che il Duca di Guisa erasi portato nella punta di Posilipo per ridurre la piccola Isola di Nisita a sua divozione, D. Giovanni da una parte, ed il Conte dall'altra uscirono all'improvviso da' Castelli con gente armata, e calando nella Città, ben ricevuti in alcuni quartieri, dove tenevano intelligenza, gridandosi con voci giulive il nome del Re, e rispondendo in concorde suono gli altri vicini, implorandosi pace e clemenza, si dileguò per tutto la sedizione, e la città fu occupata in pochi momenti. Non più di tremila uomini ridussero quel popolo innumerabile all'ubbidienza, e tutto seguì senza strepito e senza sangue. L'Annese ammesso al perdono, presentò le chiavi del Torrione, che furono consegnate a Carlo della Gatta, il quale vi entrò subito con due compagnie di spagnuoli. Nel Duomo si riferirono a Dio solennemente le grazie. Così in un momento s'estinse quell'incendio, che mi nacciava l'eccidio al Regno; e ciò, che apportò maggior maraviglia, fu la subita mutazione degli animi; che dalle uccisioni, da' rancori e dagli odj passarono immantenente a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza distinzione d'amici, o d'inimici, fuorchè alcuni pochi, i quali guidati dalla mala coscienza si sottrassero colla fuga; tutti gli altri restituiti a' loro mestieri, maledicendo le confusioni passate, abbracciarono con giubilo la quiete presente. Seguì la reduzione di Napoli a' 16 d'aprile di quest'anno 1648 giorno di lunedì santo.

Il Duca di Guisa, che in questo giorno, come si disse, trovavasi fuori della Città, intesa la rivoluzione, rimase attonito a tanto accidente: onde cercando colla fuga lo scampo, s'incamminò verso Apruzzi per unirsi colà co' Franzesi: ma seguitato da' Regj, fu fatto prigione e condotto a Gaeta. Fu lungamente consultato in Napoli sopra la di lui vita: da poi fu risoluto di mandarlo con buone guardie in Ispagna, come fu eseguito, dove rimase prigioniero infino a tanto, ch'essendosi il Principe di Condè dichiarato del partito spagnuolo, e sperando di fortificarlo con l'aggiunta del Guisa, chiestolo in grazia al Re, cortesemente l'ottenne; ma il Duca credendosi più obbligato d'osservare la fedeltà al suo Principe, che le promesse fatte a' nemici, al ritorno che fece in Francia, non ne volle udir altro.

L'esempio di Napoli giovò non poco agli altri luoghi del Regno; e se bene in alcune province fluttuanti rimanessero alcune commozioni, ed in particolare nell'Apruzzo, dove da Roma concorsero alcuni Franzesi in aiuto de' sollevati: nulladimeno dalle forze de' Baroni e dall'autorità del Vicerè, furono con poco romor dissipati. Tanto che sedati affatto gli umori della plebe, che dopo una sì fiera tempesta eran rimasi ancor fluttuanti, potè D. Giovanni a' 22 settembre di quest'anno partirsi da Napoli, e portarsi coll'armata a Messina a confermar i Siciliani, che sedati i tumulti, s'eran rimessi già nell'antica ubbidienza ed ossequio del Re.

Il Duca d'Onnatte, sgombrato il torbido, rimosso il Capo, e partito D. Giovanni, pel suo natural talento che inclinava più al rigore che alla clemenza, diede a molti terrore. Con tutto ciò egli assicurò tutti con general perdono, e tosto si applicò a riordinar il Regno; e vedutosi che l'abolizione di tutte le gabelle e de' fiscali portava disordini gravissimi non meno al regio erario, che a' Cittadini istessi, dalle Piazze della città, e particolarmente da quella del Popolo, fu richiesto ad imporre il pagamento di carlini quarantadue per ciascun fuoco delle Comunità del Regno, e la metà di tutte le gabelle abolite, fuorchè quelle dei frutti e de' legumi, che rimasero per sempre estinte. Ed a fine di sovvenire non solo a' bisogni dell'erario regale, ma anche agl'interessi di coloro che l'aveano comprate, fu stabilito, che della rendita di tutte le accennate gabelle dovessero pagarsene ducati trecentomila l'anno per la dote della Cassa militare, applicandosi il rimanente a beneficio de' compratori, i quali dovessero per lor medesimi governarle e ripartirsene il frutto. E per quel che tocca a' fiscali, fu assegnata similmente parte della lor rendita a' compratori, ed il rimanente fu applicato alla dote della Cassa militare. In cotal guisa, e con l'imposizione del jus prohibendi sopra il tabacco, cotanto ora fruttifera, fu sovvenuto al Re ed ai sudditi, e cominciò notabilmente a restituirsi il commerzio ed il traffico da per tutto.

Non tralasciò da poi il Conte, sorgendo in un mare poc'anzi placato sovente nuovi flutti, di mettere in uso i più forti rigori; onde a tal effetto avendo stabilita una Giunta di Ministri contro gl'inconfidenti, fu poi terribile contro i colpevoli de' passati tumulti, e mostrandosi più avido di pene, che soddisfatto del pentimento, non risparmiò alcuno de' principali: imperciocchè ora imputando delitti, ora inventando pretesti, alcuni punì con pubblici supplicj, altri con segrete esecuzioni di morte, e molti costrinse a prender esilio dal Regno: ciò che gli fece acquistar nome di severo e di crudele, e che si reputasse una delle cagioni di non aver potuto prolungare tanto il suo governo, quanto e' reputava convenirsi a' suoi meriti.

CAPITOLO V. Il Conte d'Onnatte restituisce i Presidj di Toscana all'ubbidienza del Re, e rintuzza le frequenti scorrerie de' banditi. Sua partita: monumenti, e leggi, che ci lasciò.

Diede agli altri maraviglia insieme, ed a lui sommo encomio la risoluzione del Conte d'Onnatte di tentar ora colle forze del Regno l'impresa de' Presidj di Toscana, essendo rimaso per le precedute scosse cotanto abbattuto e smunto. Ma dall'altro canto l'uomo savissimo considerava, che non si sarebbe potuto giammai apportar quiete nel Regno, se non si snidavano i Franzesi da que' luoghi cotanto vicini: così per gl'impedimenti, ch'essi davano alla comunicazione e traffichi con gli altri Stati della Monarchia nel Mediterraneo; come ancora per lo ricetto, che i ribelli del Regno ritrovavano in quelle Piazze, risolse per tanto il Conte d'impiegar tutti i suoi talenti a quest'impresa, spinto ancora dall'opportunità de' romori, che in questi tempi s'udivano in Francia, involta nelle confusioni, che il Principe di Condè v'aveva poste[36]. Applicossi perciò ad unir soldatesche, ed a preparare un'armata proporzionata al disegno, e per maggiormente accalorar l'impresa volle egli imbarcarvisi; onde dal suo esempio mossa quasi tutta la Nobiltà del Reame, corse a gara a servire in tal congiuntura il Re. Prima di partire lasciò per suo Luogotenente, D. Beltrano di Guevara suo fratello, il quale per lo spazio di quattro mesi, quanto appunto durò la sua assenza, governò il Regno con molta saviezza, e sopra tutto s'applicò a sollevare le Comunità del Regno, stabilendo, che l'annue entrate, che corrispondevano a' loro creditori, si riducessero alla ragion del cinque per cento. Riparò la Sala della Gran Corte della Vicaria, e diede altri salutari provvedimenti, che si leggono in due sue Prammatiche, che ci lasciò. Nel terzo dì di maggio adunque dell'anno 1650 si mosse da' nostri Porti l'armata verso Gaeta, dove s'unì D. Giovanni d'Austria con altri legni e milizie, che seco conduceva dalla Sicilia. Quivi fattasi la rassegna si contarono trentatrè grosse Navi e tredici Galee oltre le sette della squadra del Duca di Tursi, ch'erano andate a Finale a prender le soldatesche, che il Governador di Milano mandò a questa spedizione.

Giunta l'armata a' 25 del medesimo mese a vista dell'Elba, prima d'attaccar Portolongone, fu risoluto di ricuperar Piombino; onde data la cura al Conte di Conversano, che con titolo di Generale della Cavalleria e con 300 fanti 80 cavalli e sei tartane, tutto a sue spese, erasi accompagnato in questa spedizione, si portò egli con 1500 fanti, 400 cavalli e sette pezzi d'artiglieria, oltre le soldatesche di Nicolò Lodovisio a cui s'apparteneva quel Principato, ad investir la Piazza, e dopo molte ore d'un fierissimo combattimento, costrinse i Franzesi ad abbandonar la città, ed a ritirarsi nella Fortezza. A questo avviso non tardò il Vicerè d'andare con gente fresca a dar calore all'impresa; onde i Franzesi veduti gli assalitori schierati in ordinanza per dar l'assalto, non avendo speranza alcuna di soccorso, tosto si resero a patti di buona guerra. Il Vicerè, dopo aver introdotta la guarnigione in Piombino e restituita al Principe Lodovisio la possessione di quello Stato, ritornò all'armata.

Intanto era riuscito al suo esercito, e senz'opposizione alcuna, di por piede su l'Elba. Ma dovendosi montar su l'erto dove giace Portolongone, eransi i Franzesi posti in agguato, per maltrattare nella salita le soldatesche; scovertosi nondimeno il disegno, essendo montato a cavallo D. Dionigio Gusman, Maestro di Campo Generale del Regno, con una squadra di moschettieri, i Franzesi si ritirarono sotto la Piazza siccome fece il lor Comandante Novigliac. Montò dunque l'esercito senza contrasto e pervenuto su 'l piano, schierate le truppe, fur assaliti li ripari. Prese le fortificazioni esteriori, ed essendo i nostri alloggiati nel fosso, cominciarono i Franzesi ad entrar in trattato di render la Piazza, con le medesime condizioni concedute alla guarnigion di Piombino, e con la permissione di condurre con esso loro due pezzi d'artiglieria, quando fra lo spazio di quindici giorni, che terminavano nella metà d'agosto, non fosse sopravvenuto soccorso capace di far levar l'assedio, fu convenuta la resa. La mattina adunque de' 15 di quel mese uscì dalla Fortezza il Comandante Novigliac alla testa di 700 persone, ch'erano rimaste dal numero di 1500 lasciatevi di guarnigione, le quali giunte alla marina s'imbarcarono su alquanti legni allestiti per loro trasporto. Entrati i nostri nella Piazza, si resero a Dio le grazie del buon successo dell'impresa, la quale, benchè avesse costato molto sangue e grandissime spese, ad ogni modo avrebbe potuto allungarsi molto più, e non si sa con qual felice esito, se i Franzesi avessero voluto difendersi fino all'estremo.

D. Giovanni d'Austria ritornò in Sicilia, ed il Vicerè, dopo aver dati gli ordini necessarj per riparare la Piazza e porla in istato di resistere ad ogni insulto, ritornò in Napoli, dove giunto riprese il governo, e con sommo rigore e severe esecuzioni contro gl'inconfidenti e contro gli sbanditi, i quali travagliavano ora più che mai le due province d'Apruzzi, estinse i primi, ed abbattè i secondi.

Ma mentre il Conte con indefessa applicazione era tutto inteso a riordinare il Governo, ed abbellir la città e ristorarla de' passati tumulti, giunge improvvisamente in Napoli a' 10 di novembre di quest'anno 1653 il Conte di Castrillo, che gli era stato dalla Corte destinato successore. Si turbò egli grandemente di questo arrivo; ma seppe tanto nascondere l'interno rammarico, che non gli uscì giammai parola di bocca di risentimento, se non quando, dopo la deposizione del Governo, si ritirò nel Convento di S. Martino de' PP. Certosini. Alcuni imputavano la rimozione a' suoi rigori: altri a' mali ufficj fattigli da D. Giovanni d'Austria, col quale, dicevasi, che passasse poco buona corrispondenza: nè mancò chi dicesse, che fossero state le suggestioni o l'istanze del Papa, il quale mal soffriva, che il Conte rintuzzasse le pretensioni del Cardinal Filomarino Arcivescovo e degli altri Ecclesiastici, li quali volendo pescare in questi torbidi, s'erano resi insolenti con monitorj ed interdetti conculcando i diritti regali.

Egli in tutti que' spazj, ch'ebbe di riposo, non tralasciò di abbellire la città, ristorare i Tribunali e restituire i Regj Studi. Fece rifare il Palagio della Regia Dogana, quasi tutto rovinato nel tempo delle passate rivoluzioni, ampliando, e dando nuova forma al cortile e rifacendo il fonte, che v'è in mezzo. Nella gran Piazza del Mercato ne fece aprir uno e restaurarne un altro, e dirimpetto la Porta del Castel Nuovo ne fece aprir un nuovo. La Casa della conservazione dei grani fuori Porta Reale e l'altra della conservazione delle farine furono di suo ordine risarcite. Coprì la scuola di cavalcare nella Cavallerizza del Ponte della Maddalena. Trasportò nel Quartiere di Pizzofalcone la Polveriera, che prima era fuori Porta Capuana. Egli fu, che nel Palagio Regale fece costruire quella magnifica Scala, che non v'ha simile in tutta Europa. Egli fece quella gran Sala, ora detta de' Vicerè, abbellita poi de' loro ritratti dal Conte di Castrillo suo successore; siccome tutte le scale segrete, che si vedono in quel Palagio: quella scala coperta, che dal medesimo conduce all'Arsenale: tutte quelle stanze con loggia, che guarda il mare: ed i rastelli davanti alla Porta principale di esso, furono da lui introdotti. E quel disegno, che poi fu posto in esecuzione a' nostri tempi dal Duca di Medina Celi Vicerè, nel Borgo di Chiaja, fu tutto suo, poichè meditava già egli di abbellir tutta quella spiaggia di platani e di fonti e già ne aveva comandato il disegno all'Ingegnere Pietro Marino, e l'avrebbe posto in effetto, se li giorni del suo Governo fossero stati più lunghi. Egli in fine fece risarcire diversi ponti nel Regno, perchè fosse più comodo e sicuro il traffico per le Province.

Ma quello, di che maggiormente gli studiosi gli sono tenuti, oltre d'aver risarcito il magnifico edificio de' Regi Studi, che nel corso de' passati tumulti avea patito notabili ruine, fu la cura, che prese per fare ripigliar gli studi, riponendo in esercizio i Professori in quella Università, quasi che spenta per li precedenti disordini; con aver ordinato nel tempo della restituzione una solenne apertura, nella quale volle egli intervenire. Egli assegnò a' Lettori il soldo, e proibì di leggere in casa, ed ordinò, che gli studenti nel giorno 18 d'ottobre, dedicato a S. Luca, dovessero prendere le matricole, e presentarne fede affermativa del Cappellan Maggiore: restituì le Cattedre e per insinuazioni fattegli dal rinomato Francesco d'Andrea allora Avvocato de' nostri Tribunali, rimise in questa Università la Cattedra di Matematica nella persona di Tommaso Cornelio, celebre Filosofo e Medico di quei tempi. Nè contento d'aver restituiti i pubblici Studi, per l'amor, ch'egli portava alle lettere, s'applicò ancora a favorire l'Accademie; onde sotto di lui fu restituita in Napoli, nella Chiesa di S. Lorenzo, l'Accademia degli Oziosi, sotto il governo del Duca di S. Giovanni, nella quale si riprese dagli Accademici l'istituto di recitar erudite lezioni, dove sovente soleva egli intervenire. Siccome restituì i Regj Studi alla pristina dignità, avendo il Cappellan Maggiore D. Giovanni Salamanca aperta ne' medesimi Studi una Accademia di Legge, per far conoscere al Vicerè il profitto, che vi si faceva, sovente, quando si celebravano le funzioni Accademiche, soleva il Conte onorarle della sua presenza. E se il seguìto contagio non avesse intermessi tutti questi studi, la buona letteratura in Napoli non sarebbe così tardi fra noi poscia risorta, come si dirà nel seguente libro di questa Istoria.

Restituì ancora il Conte d'Onnatte l'autorità ed il decoro ne' nostri Tribunali; e stabilì poco men di cinquanta Prammatiche tutte savie, e prudenti, per le quali regolò i Tribunali: tassò i diritti a' Ministri subalterni: prescrisse i modi, e diede le istruzioni a' Delegati e Governadori degli arrendamenti (o sien gabelle) nuovamente riposti: comandò, che tutti i registri preservati dall'incendio dell'Archivio della Regal Cancelleria, seguìto ne' passati tumulti, e pervenuti in potere di persone private, dovesser portarsi al Segretario del Regno per riporsi nell'Archivio: impose rigorose pene a' Notai, che trascurano di registrare i contratti nei protocolli: fece molte ordinazioni per evitare i contrabbandi; e diede altri salutari provvedimenti, i quali sono additati nella riferita Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO VI. Governo di D. Garzia d'Avellana, ed Haro Conte di Castrillo, nel quale il Duca di Guisa con nuova armata ritenta l'impresa di Napoli, ed entra nel Golfo, ma con infelice successo.

La Corte di Spagna reputò, per mitigare il rigore del Conte d'Onnatte, mandar per suo successore nel Governo del Regno il Conte di Castrillo, di genio più mite ed indulgente, come colui, che datosi prima nell'Università di Salamanca agli studi legali, ed impiegato per più anni ne' Ministerj della Toga, era stato da poi promosso a quelli della Spada. Giunse egli in Napoli a' 10 di novembre di quest'anno 1653, e per dar saggio ne' principj del suo Governo, quanto gli fosse a cuore l'abbondanza, fece accrescere due once al peso del pane. Ma cure assai gravi e moleste travagliarono il suo animo in questi medesimi principj; poichè coloro, che sottratti colla fuga al rigor dell'Onnatte, eransi ricovrati in Francia, non tralasciavano in quella Corte magnificare le loro corrispondenze nel Regno, la scontentezza de' popoli per vedersi ricaduti sotto il giogo degli Spagnuoli, e la facilità, che figuravano si sarebbe avuta nel conquistargli. A queste istigazioni s'aggiunsero gli uffizj del Duca di Guisa, il quale, avendo, come si disse, ottenuta la libertà, in vece d'attender le promesse di favorire i malcontenti di Francia, per non tradire il suo natural Signore, si era portato in quella Corte, ed insinuatosi nella di lui grazia, ed abbagliato tuttavia dagli splendori della Corona del Regno, che avea sperato di poter ottenere per se medesimo, non poteva acchetarsi; onde appoggiato all'istanze di que' miseri rifugiati, aggiungeva maggiori stimoli, esagerando la moltitudine de' Porti, ch'erano nel Regno di Napoli, capaci di ricevere qualunque più grande armata: il numero degli amici, ch'egli vi teneva in ciascheduna provincia: l'affezione, che il popolo minuto portava alla sua persona, donde si prometteva una nuova sollevazione, se un'altra volta avesse avuta la sorte di comparirvi, non già disarmato, come prima, ma con forze valevoli a sostenere le risoluzioni de' malcontenti, avviliti dal timor del castigo. Indusse pertanto quella Corte a somministrargli ajuti, e fur dati gli ordini per la spedizione dell'armata, commettendone al Guisa il comando.

Il Conte di Castrillo, avvisato di questi nuovi tentativi della Francia, fu costretto a mettersi in difesa, ed oltre d'aver comandata una nuova elezione di milizie del Battaglione, così a piedi come a cavallo, e delle Compagnie d'uomini d'arme del Regno, fece arrolar nuova gente, e chiamando tutti gli Ufficiali riformati, ne compose due Compagnie, una di trecento Italiani, alla quale diede per Capitano D. Gaspar d'Haro suo figliuolo, e l'altra di Spagnuoli, della quale diede il comando al Marchese di Cortes suo genero. Furono destinate per Piazze d'armi le città di Sessa e di Teano, dove furono chiamate tutte le soldatesche del Battaglione, e le genti di guerra del Regno; e fattasene rassegna in presenza del Maestro di Campo Generale D. Carlo della Gatta, ne furono spediti duemila a rinforzare i presidj di Toscana. Tutte le province del Regno, esposte agl'insulti de' nemici, furono provvedute di soldatesche e di Capitani.

Fatte queste prevenzioni, essendo passato il mese d'ottobre, nè comparendo armata veruna de' Franzesi, si dubitò non fosse stato lor artificio di pubblicare questa spedizione, per impedire che non fossero andati soccorsi dal Regno in Catalogna ed in Fiandra, dove ardeva più che mai fra l'una e l'altra Corona la guerra. Ma si trovò poi vero il sospetto; poichè essendo convenuto al Duca di Guisa consumar maggior tempo di quello, che s'era creduto per porre in ordine l'armata, non potè trovarsi pronta, che sul principio d'ottobre a partir da Tolone, composta di sette Vascelli d'alto bordo, e quindici mercantili, e di sei Galee, con altrettante Tartane, sopra de' quali legni eransi imbarcati settecento soldati, e centocinquanta cavalli, oltre un gran numero d'armi, ed altri ordegni, che doveano servire ad armar tutti quelli, che il Duca sperava si dovessero dichiarare del suo partito, al quale effetto avea fatto imbarcare ducento Nobili per valersene da Comandanti. Sbattuta poi l'armata da tempesta, non comparve ne' nostri mari, se non agli dodici di novembre.

Il Vicerè, all'avviso, che gli diede il Governador di Gaeta, fece tosto porre in ordine sedici Galee, che erano nel Porto: fece guarnire di soldatesche tutte le marine e le città e terre del Golfo di Napoli: fece rinforzare la guarnigione della città di Pozzuoli e del Castello di Baja; e fu spedito il General dell'artiglieria D. Diego Quiroga con fanteria, cavalleria e cannoni a guardar la spiaggia de' Bagnuoli.

L'armata nemica, dopo aver costeggiate le marine di Sorrento e di Vico Equense, gettò l'ancore dirimpetto a Castell'a Mare. Fu questa città, dopo breve opposizione, renduta a patti dal Comandante, nella quale entrato il Duca di Guisa col seguito di cinquanta Cavalieri Gerosolimitani, si portò al Duomo, dove avendo con pubblica e solenne cerimonia rese a Dio le grazie, si pose a fortificar la Piazza con nuove trinciere ben guarnite di soldatesche. A tutti coloro, che non vollero rimanervi, diede ampissimi passaporti, ne' quali s'intitolava Vicerè, e Capitan Generale del Re di Francia nel Regno di Napoli. Commosse questa perdita grandemente il Popolo Napoletano, ed ancorchè si fossero non men i Nobili, che i Popolari offerti al Vicerè di sagrificar la vita e la roba in servigio del Re, non mancavano de' malcontenti che ponevano col timore in costernazione gli animi; tanto che fu obbligato il Vicerè d'imprigionare alcuni, che erano stati Capi de' passati tumulti, fra' quali, due Preti ed un Frate, che andavan facendo pratiche a favor de' Franzesi.

Perchè il Guisa non potesse allargar gli acquisti, il Vicerè, valendosi anche de' Banditi, a' quali concedè il perdono, fece occupar la montagna posta alle spalle di Castell'a Mare. Mandò poi ordine a Carlo della Gatta, al Principe d'Avellino ed agli altri Ufficiali, che dimoravano in Sessa, che provvedute le Piazze di Terra di Lavoro, marciassero col grosso dell'esercito ne' contorni di Castell'a Mare; e spedì sei Galee al Finale per prendere le soldatesche, che calavano dal Milanese. Intanto affollandosi i soccorsi, il Guisa, ancorchè uscito dalla Piazza tentasse occupar i luoghi vicini, trovò da pertutto valida resistenza, e venutisi più volte a scaramucce, con perdita de' suoi, bisognò ritirarsi. Ma sopraggiunto dapoi il General della Gatta con un esercito di dodicimila uomini, composto di Nobili, Baroni, Ufficiali, e soldati riformati, e rinforzato in appresso da altri Reggimenti, svanirono in un tratto le mal concepite speranze; onde i Generali Franzesi pensarono d'abbandonar la Piazza, e proccurar nel miglior modo, che potessero, d'imbarcarsi sopra l'armata e ricondursi in Tolone. Consideravano, che voler stendere le conquiste per terra era impresa non che dura, ma disperata; poichè tutto il paese circostante era pieno di truppe nemiche. Rimaner in quel mal sicuro Porto in quell'inverno, era lo stesso, che esporre l'armata ad un certo naufragio. Non restava loro altro che il mare libero, per non esservi Armata Spagnuola, che potesse far ostacolo; nè la stagione, che correva tempestosa, avanzata già ne' principj d'un rigido inverno, poteva lor promettere felice navigazione, sicchè potessero sicuramente condursi ad invadere altri Porti. L'inclinazione de' Popoli alla persona del Guisa, ch'era stato il principal fondamento di quest'impresa, si vedeva interamente svanita, tardi il Guisa avvedendosi della incostanza della Nazione: rimanendo non poco sorpreso di tanta mutazione e vie più sbigottito, quando intese essersi trovato affisso in Castell'a Mare un cartello, col quale si promettevano trentamila ducati a chi troncasse la sua testa.

Tenutosi per tanto Consiglio di guerra, fu da tutti gli Ufficiali franzesi deliberato d'abbandonare la Piazza, e di condur l'armata in Tolone, per non lasciarla miseramente perire in quel Porto; onde fur dati gli ordini opportuni per la partenza. A quest'avviso cominciarono le soldatesche a saccheggiar le case de' cittadini, nè si perdonarono le Chiese, le quali furono spogliate di tutte le suppellettili e vasi sagri; e fatta non picciola preda, montarono i Franzesi su l'armata la sera de' 26 di novembre; ma trattenuti per quindici giorni, e combattuti da' venti contrarj alla loro navigazione, quietatosi alquanto il mare, partirono al 10 di dicembre verso Tolone: nell'istesso tempo, che comparve nel nostro Golfo una squadra di 23 navi inglesi, la quale ad istanza del Re Filippo era stata spedita per opporsi a' Franzesi: onde non essendovi del lor soccorso più di bisogno, a' 26 di dicembre voltarono le prore verso ponente, dopo essersi trattenuta in questo Porto due giorni.

In cotal guisa terminarono i timori, che la spedizione del Duca di Guisa avea cagionati nel Regno; ma non finirono le cure del Vicerè e le occasioni di provvedere a' bisogni d'una nuova guerra. I Franzesi non cessavano con nuovi mezzi di tenere solleciti gli animi e distratte le forze: aveano a questi tempi indotto il genio guerriero di Francesco Duca di Modena ad armare, per rinovar la guerra nel Milanese; onde il Marchese di Garacena Governador di Milano, per ridur questo Principe con la forza dell'armi alla quiete era entrato ne' di lui Stati. Era a' 7 di gennaio di quest'anno 1755 morto Innocenzio X, ma con tutto ciò il Collegio de' Cardinali, ridotto in Conclave per la nuova elezione del successore, non avea tralasciato spedir Emilio Altieri, per ridurre le Parti a' più moderati consigli; ed essendo da poi a' 7 d'aprile seguita l'elezione del nuovo Pontefice nella persona di Fabio Chigi, nominato Alessandro VII, interpose costui i più fervorosi ufficj per dar riposo all'Italia. Ma nulla giovando le interposizioni del Papa, nè quelle della Repubblica di Vinezia, la quale angustiata da' Turchi mal soffriva queste contese tra' nostri Principi in Lombardia: il Duca di Modena, dichiarato Generale del Re di Francia, andò ad accamparsi sotto Pavia. Bisognò per tanto all'avviso di queste mosse, che il Vicerè, richiesto di soccorso, spedisse nel mese di maggio al Finale sopra sette Galee millecinquecento fanti: e poco da poi allestisse una Squadra di Vascelli e Galee: sopra le quali vi furono spedite quattromila persone sotto il comando del Marchese di Bajona. Nè perciò essendo cessati i bisogni, fu duopo in agosto sopra cinque Galee, e quaranta Tartane di spedir altri duemila fanti del Battaglione e millecinquecento cavalli, sotto il comando del Marchese di Cortes genero del Vicerè. Ebbe costui poscia il contento di veder bene impiegate tutte queste spese e travagli; poichè rinforzato da sì valevoli soccorsi l'esercito del Governador di Milano, ed all'incontro trovatasi da' Franzesi grandissima resistenza in Pavia, valorosamente difesa dal Conte Galeazzo Trotti, fu costretto il Duca di Modena a ritirarsi dall'impresa.

CAPITOLO VII. Crudel pestilenza miseramente affligge la città ed il Regno: si estingue, ed al Conte vien dato successore.

Dopo tanti e così lagrimevoli avvenimenti, dopo tante miserie e sciagure, perchè nulla mancasse, si vide in quest'anno 1656 il Regno miseramente afflitto da una crudele e mortifera pestilenza. Non eran bastati i tanti sconvolgimenti e sedizioni, le tante afflizioni cagionate da fiere guerre, o da' timori di quelle ch'eran peggiori, le scorrerie de' Banditi, le invasioni de' Turchi, le carestie ed i tremuoti: che per ultimo eccidio, fu duopo soffrir anche quest'altro pestifero flagello, così spietato, che non si legge aver altrove portato, in così breve tempo, tanta strage e ruina. Quella che si soffrì in tempo della guerra di Lautrech durò quasi due anni, e si tenne conto che non avea ammazzato più di sessantamila persone: questa, in men di sei mesi, disolò le province del Regno, e ridusse la Metropoli in cimitero, con morte intorno a quattrocentomila de' suoi cittadini. Da molto tempo, che l'Isola di Sardegna era travagliata di pestilenza, e per ciò non meno dal Conte di Castrillo, che dagli altri Vicerè suoi predecessori s'eran pubblicati severi bandi, proibendo ogni commerzio; ma capitato nel nostro Porto un Vascello procedente da quell'Isola carico di soldatesche, o sia per trascuraggine de' Guardiani del Porto, o perchè, in vece delle patenti di Sardegna, si fossero esibite quelle di Genova, ovvero, che per non trattener le soldatesche fosse così stato eseguito con particolar ordine del Vicerè, gli si diede pratica. Non tardò guari, che ammalatosi uno de' sbarcati, condotto nello Spedale dell'Annunziata in tre giorni se ne morì, apparendo nel suo corpo minute macchie livide; poco da poi un che serviva lo Spedale, assalito da un capogiro in ventiquattro ore spirò; e poco appresso spirò anche la madre. Attaccatosi il malore nelle vicine case, si vide in brevissimo tempo sparsa la contagione ne' quartieri inferiori della città, e particolarmente nel Lavinaro, Mercato, Porta della Calce ed Armieri.

I Medici in questi principj ascrivevano ad altre cagioni tali perniziosi effetti, chi a febbri maligne, chi ad apoplesie, e chi ad altri mali; non mancò ad ogni modo, chi per più accurata osservazione fattane, riputasse il morbo pestilenziale; ma pervenuto all'orecchie del Vicerè, che costui andava pubblicando il male esser contagioso, fu il Medico posto in oscuro carcere, dove ammalatosi ottenne per sommo favore d'andare a morire in sua casa: donde gli altri medici fatti accorti, proseguirono ad occultare la qualità del male. Ma questo tuttavia crescendo, e spandendosi in altre contrade vicine alle già dette, parve al Cardinal Filomarino Arcivescovo di dover avvertirne il Vicerè, che non bisognava in cosa cotanto importante starsene così ozioso e lento. Dispiaceva sommamente al Conte di Castrillo, che insorgesse fama, esservi in Napoli pestilenza; poichè dovendo egli spedire soccorsi di soldatesche per la guerra dello Stato di Milano, travagliato tuttavia dall'armi del Re di Francia, questi rumori glie l'avrebbon impediti; onde come poteva il meglio, proccurava, che non si venisse a tal dichiarazione; con tutto ciò non potendo più resistere alle continue mormorazioni, e tuttavia il malore crescendo, fu costretto a far unire i più rinomati Medici de' suoi tempi, perchè ne dessero parere. Costoro, o per ignoranza, o per timore, ovvero per secondare le brame del Vicerè, non ardirono di dichiarare il morbo per pestilenziale; ma sol consigliando, che s'accendessero fuochi per tutte le contrade della città, e che si vietasse la vendita de' pesci salati, uscirono da ogni briga. Ma altro che frasche vi volevano, per far argine ad un così impetuoso torrente: il male incrudeliva maggiormente; nè consiglio di Medico, nè virtù di medicina pareva che valesse: ne morivano il giorno a centinaia, nè si scorgeva altro per le strade che condurre Sagramenti agl'infermi, e cadaveri alle sepulture. Spaventati gli animi de' cittadini, chi con umili supplicazioni, chi in processioni confuse e numerose d'uomini e di donne, con donzelle scapigliate, chi dietro allo immagini più venerate e chi in altre guise cercava a Dio ed a' Santi pietà e ristoro a tante miserie e desolazioni. Ma essi non accorgevansi, che affollati più strettamente insieme tra la calca, e la pressura d'infinito numero di popolo concorsovi, il malore prendeva più forza, e la morte recideva in uno i colli di più migliaja di persone.

S'accrebbe poi, e dilatossi più furiosamente il mortifero veleno, quando presa tal opportunità, insorse voce, che Suor Orsola Benincasa, donna che aveasi a que tempi acquistata fama di santissima vita, non trovando per anche comoda abitazione per le Suore, avea innanzi di morir profetizzato, che in tempo del maggior travaglio della Città dovea farsi la fabbrica del suo Romitorio nella falda del Monte di S. Martino; e credendosi, che con la costruzion d'un tal edificio, sarebbe cessato il travaglio, il Vicerè fu il primo, che fattosi il disegno e tirate le linee, andò a portarvi con le proprie mani dodici cesti di terra: all'esempio del Capo, movendosi gli altri, gli Eletti della città, e tutti i Cittadini a folla vi concorsero, non solo somministrando denaro, ma l'opera eziandio delle loro proprie mani. Era cosa di maraviglia il vedere uomini e donne, giovani e vecchi, nobili, cittadini e plebei, spogliarsi de' migliori averi, ed offerirgli in limosina per la costruzione di quell'Edificio, che dovea essere il liberatore della loro Patria. Si erano nelle pubbliche strade poste non già cassette, ma botti, le quali, poc'anzi vote, si vedevano in un tratto piene di monete di rame, d'argento ed anche d'oro: le donne istesse spogliatesi della lor natural vanità, si toglievano dalle dita gli anelli, dagli orecchi i pendenti, e dal collo e dalle braccia i monili, e quasi baccanti l'offerivano al sorgente Edificio, e ciò che recava maggior stupore era, che persone di qualità mescolavansi a gara ne' più vili esercizj, chi portando un cesto di chiodi, chi con un fascio di funi, chi con un barile di calce, chi con pietre, chi servendo per manuale a' fabbri, e chi in fine sopra le spalle caricarsi di travi, con pericolo di mancare sotto il grave e pesante incarico. Ma pari effetti seguirono da pari cagioni; mentre l'opra ferve, assai più s'accende e si dilata il malore: l'unione di tanta gente, che a gara tutt'ansante si sollecita, si travaglia, ed affolla concorrendo da tutti li quartieri, fa sì, che il morbo, che prima era ristretto in poche contrade, si spanda per tutto. Così mentre l'Edificio è quasi in fine, la città rimane poco men che desolata.

A stato di cose cotanto lagrimevole s'aggiunsero nuove confusioni e disordini. Non mancavano de' malcontenti, misero avanzo de' passati tumulti, li quali per risvegliar nuove sedizioni, andavan disseminando nel Popolo, venir questo flagello non già da giusta ira di Dio, mandato a correzione de' miseri mortali, ma procedere dalle vendicatrici mani degli Spagnuoli, per esterminar la plebe, e prender vendetta delle passate rivoluzioni: vedersi chiaro da' preceduti andamenti del Vicerè, il quale avea tosto fatta dar pratica alle soldatesche venute dall'appestata Sardegna, con essersi poi ingegnato di far occultare il male, perchè ne' principj non si provvedesse d'opportuni rimedj: lo confermavano con far riflettere, che per ciò non si vedevano infettare le Fortezze guarnite di lor presidio, nè i quartieri più alti della città, abitati dagli Spagnuoli, ma solo i Rioni del Lavinaro, Conciaria, Mercato ed altri luoghi più bassi, quasi tutti abitati da gente minuta; e dopo aver tratti molti nel lor sentimento, si avanzarono eziandio a far credere, che per la città andavano girando persone con polveri velenose, e che bisognava andar di loro in traccia per isterminarli. Così in varie truppe uniti andavan cercando questi sognati avvelenatori, ed avendo incontrati due soldati del Torrione del Carmine (affin d'attaccar brighe, che poi finissero in tumulti) avventaronsi sopra di essi, imputandoli d'aver loro trovata addosso la sognata polvere. Al romore essendo accorsa molta gente, per buona sorte vi capitò ancora un uomo da bene, il quale con soavi parole e moderati consigli gli persuadè, che dessero nelle mani della giustizia uomini cotanto scellerati, affine, oltre del supplicio, che di lor se ne sarebbe preso, si potesse da essi sapere l'antidoto al veleno e con tal industria gli riuscì di salvarli; ma appena saputosi, che que' due soldati uno era di nazione Franzese e l'altro Portoghese, ed uscita anche voce, che 50 persone con abiti mentiti andavan spargendo le polveri velenose, si videro maggiori disordini: poichè tutti coloro, che andavan vestiti con abiti forastieri e con scarpe, o cappello, o altra cosa differente dal comun uso de' Cittadini, correvan rischio della vita. Per acchetar dunque la plebe bisognò far morire sopra la ruota Vittorio Angelucci, reo per altro d'altri delitti, tenuto costantemente dal volgo per disseminator di polvere. Ma nell'istesso tempo fu presa rigorosa vendetta degl'inventori di questa favola: molti di essi essendosene stati in oscure carceri condotti, cinque di loro in mezzo al mercato su le forche perderono ignominiosamente la vita; ed in cotal guisa furono i romori quietati.

Intanto gli Eletti della città vedendo, che non solo il male spopolava la Metropoli, ma che si spandeva ancora nelle province, fecer premurose istanze al Vicerè, perchè dovessero porsi in uso i più forti e risoluti rimedj; e dopo essersi più volte sopra ciò radunato il Consiglio Collaterale, venne il Conte nella risoluzione di comandare alle Piazze, che creassero una Deputazione particolare, alla quale egli dava per ciò tutta l'autorità necessaria, assegnandole ancora per Capo D. Emanuele d'Aghilar Reggente della Vicaria. La Deputazione diede la cura a' Medici più rinomati di que' tempi, che osservassero non men gl'infermi, che i cadaveri, facendone esatta notomia; onde ragunatisi insieme, presidendo a questi il famoso M. Aurelio Severino, cotanto celebre al Mondo per le sue opere di Filosofia e Medicina, che ci lasciò (morto da poi ancor egli di tal mortifero veleno) fu conchiuso, che il male fosse pestilenziale, e che si dovesse porre ogni cura negli ammalati, dal cui contatto erano inevitabili le morti.

Il Vicerè e la Deputazione s'affaticaron perciò a darvi quel miglior riparo che si poteva: fu comandato, che si facessero le guardie in tutte le città e terre del Regno, e che non s'ammettesse persona, senza le necessarie testimonianze di sanità: che in ciascun Rione di Napoli dovesse eleggersi un Deputato Nobile o Cittadino, al quale dovessero rivelarsi tutti gli infermi di ciascun Quartiere: che gli ammalati tocchi di pestilenza dovessero condursi nel Lazzaretto di S. Gennaro fuori le mura: che coloro i quali avessero comodità di curarsi nelle lor case, si chiudessero in esse: che niun Medico, Chirurgo, o Barbiere partisse dalla città, ma attendessero alla cura degl'infermi, secondo la distribuzione, che sarebbe stata fatta dalla Deputazione: che si fossero tolti i cani e gli altri animali immondi che andavano per la città, e si diedero altri salutari provvedimenti per far argine ad un tanto inondamento. Ma riusciron vani ed infelici tutti questi rimedj: il male vie più incrudelendo riempiè in un tratto tutti gli Spedali: se ne costrussero dei nuovi, ma questi nè tampoco bastando, la gente periva nelle porte delle case, nelle scale, e nelle pubbliche strade. Mancarono eziandio le tombe ed i cimiterj; poichè il malore attaccatosi non pure in tutti i quartieri, ma in tutte le case della città faceva orribile e spaventosa strage: onde fu fama, che ne perissero otto e diecemila persone il giorno: morivano non meno i Medici, i Chirurgi e tutti coloro, che erano destinati alla cura del corpo, che i Sacerdoti, ed altri Religiosi destinati a quella dell'anima. Non vi era chi seppellisse gli estinti; onde i cadaveri giacevano nelle vie, su le scale e nelle porte: le Confessioni si facevano pubbliche e l'Eucaristia si portava agl'infermi senz'alcuno accompagnamento, e si porgeva loro in una punta di canna: quelle case, che poc'anzi erano aperte poco da poi si vedevano chiuse e desolate: da capogiri assaliti taluni, che camminavano per la città, vedevansi improvviso cader morti in mezzo alle piazze. I morti per la maggior parte rimanevano insepolti dentro le case, o su le scale delle Chiese; ma era molto più grande il numero di coloro, che restavano insepolti su le pubbliche strade, e coloro che con molto favore e grandissima spesa erano seppelliti dentro le Chiese, non avevano nè meno un Prete, che gli accompagnasse, e l'esequie più solenni erano una semplice tavola, o al più una bara.

In tanta confusione non rimaneva luogo a provvedimento alcuno, se non che per lo puzzor grande dei cadaveri estinti, e perchè l'aria non maggiormente si infettasse, si pensò unicamente a seppellire i morti: se ne preser cura i Deputati e l'Eletto del Popolo, il quale da' casali contorni fece venire intorno a centocinquanta carri; ed il Vicerè v'impiegò a questi ufficj estremi da cento schiavi Turchi delle Galee. Era cosa assai spaventosa ed orribile vedere strascinarsi per le strade i cadaveri aggrappati con uncini, ed innalzarsi su i carri; e sovente coi morti andar congiunti i semivivi creduti estinti. S'empirono le grotte del Monte di Lautrech, dove poscia fu edificata una Chiesa sotto il nome di S. Maria del Pianto: i cimiterj di S. Gennaro fuori le mura; molte cave di monti, dond'erano state tagliate pietre per fabbricare: il piano delle Pigne fuori la Porta di S. Gennaro; l'altro davanti la Chiesa di S. Domenico Soriano fuori Porta Reale; e ciò nemmeno bastando, sempre più le stragi avanzando, precisamente nel mese di luglio, nel quale vi furono giorni, che il numero de' morti arrivò sino a quindicimila, fu duopo consumar i cadaveri col fuoco, ed altri finalmente buttarli in mare.

Non meno nella Metropoli che nell'altre province del Regno accadevano sì funeste e crudeli stragi. Toltone le province d'Otranto e di Calabria ulteriore, tutte le altre rimasero disolate. Delle città e terre, narrasi, che solamente Gaeta, Sorrento, Paola, Belvedere e qualche altro luogo rimaser preservate.

Ma ridotte le cose in questo infelicissimo stato, verso la metà d'agosto, una impetuosa ed abbondante pioggia, temperò alquanto la furia del malore: cominciò il mortifero veleno a cessare; niuno più s'ammalò di tal morbo, e coloro, che n'eran tocchi, guarivano; in guisa che alla fine del seguente mese di settembre, non si numerarono più infermi in Napoli, che soli cinquecento. Si ripigliarono per tanto dalla Deputazione i provvedimenti, e furono da quella dati vari ordini per purgar le robe di quelle case, dove era stata la contagione, ed altre istruzioni e metodi, affinchè non ripullulasse il male. Passarono due altri mesi, e non s'intese altro sinistro accidente, onde ragunatisi alquanti Medici, ch'eran scampati dal comune eccidio, fu a' 8 decembre su la testimonianza de' medesimi, solennemente dichiarata Napoli libera da ogni sospetto.

Nelle province s'andava ancora tuttavia scemando il malore, ma perchè doveva essere opera di più mesi convenne mantener li rastelli alle Porte della città e le guardie per evitar l'entrata a quelli, che venivano da parte sospetta. Il Vicerè a questo fine sottoscrisse un rigoroso Editto, col quale comandò sotto gravissime pene, che niun forastiero fosse ammesso nella città senz'espressa sua licenza, da darsi precedente visita, e parere dalla Deputazione. La Corte Arcivescovile di Napoli, a richiesta del Vicerè, sottopose alle censure Ecclesiastiche tutti coloro, che avessero occultate robe infette o sospette di pestilenza, se non l'avessero fra certo tempo rivelate e fatte purgare. Ma non mancò l'Arcivescovo, profittandosi di queste confusioni, di avanzar un passo, e mescolarsi anch'egli in queste provvidenze; poichè si fece lecito di pubblicare un altro Editto consimile a quello del Vicerè, come se questo non bastasse per obbligar anche gli Ecclesiastici all'osservanza, col quale comandava, che niuno Ecclesiastico osasse entrare in Napoli senza sua licenza in iscritto. Il Vicerè, per reprimere un così pernizioso attentato, immantenente diede fuori un rigoroso comandamento, col quale ordinò, che non s'ammettessero altre licenze, che quelle de' Ministri del Re, a' quali unicamente apparteneva di preservare il Regno. Per la qual cosa, essendosi frapposto il Nunzio, si sedarono presto le brighe, con stabilirsi, che tutti gli Ecclesiastici, ch'entravano nella città, avessero ubbidito agli ordini del Vicerè, e si fossero sottoposti alle diligenze della Deputazione, e poscia, se volevano, fossero andati a presentarsi ne' loro Tribunali. In cotal maniera si continuò a praticare fino al mese di novembre del seguente anno 1658, nel qual tempo essendosi pubblicate libere dalla contagione le città di Roma e di Genova, fu aperto generalmente il commerzio, e tolti i rastelli e le guardie.

Si proseguì dal Vicerè a por sesto alle cose turbate della città e del Regno: a provveder l'Annona, ed a reprimere l'ingordigia degli artisti ed agricoltori rimasi, li quali per esser pochi, ed arricchiti col patrimonio de' morti, o con difficoltà si riducevano a ripigliare il lor mestiere, ovvero angariavan la gente ne' lavori, restituendo i prezzi e le mercedi, siccom'eran prima della contagione. Si applicò poscia il Conte a sollevare le Comunità del Regno, ordinando, che quelle, ch'erano state tocche dalla pestilenza, non fossero molestate per li pagamenti fiscali, ne' quali rimanevan debitrici per tutto aprile del 1657, e che dal primo di maggio del medesimo anno avessero contribuita la quarta parte meno di quello, che stavano tassate nell'antica numerazione del Regno. Si resero da poi pubbliche e solenni grazie a Dio ed a' Santi: su le Porte della città furon dipinte dal famoso pennello del Cavalier Calabrese le immagini de' Santi Tutelari, ed al B. Gaetano Tiene innalzate statue; ed allora nella piazza di S. Lorenzo s'erse a questo Santo quella piramide, con sua statua di metallo ed iscrizione, che ora si vede.

Restituendosi tratto tratto il Regno delle precedute sciagure nel pristino stato, non mancavano tuttavia al Conte altre moleste occupazioni, nelle quali lo ponevan gli sbanditi, particolarmente in Principato, ove si erano multiplicati, per la protezione, che n'aveano preso alcuni Baroni; applicò per tanto i suoi pensieri a severamente punire i protettori, ed a snidar li protetti da que' luoghi; e perchè il suo governo così calamitoso ed infelice ricevesse alquanto di conforto, il cielo riserbò negli ultimi mesi di quello, che la Regina a' 28 di novembre del 1637 si sgravasse d'un maschio, al quale fu posto nome Prospero Filippo, per cui si diede il successore alla Monarchia. In gennajo del nuovo anno 1658, pervenne in Napoli l'avviso, onde il Conte per ristorar anche i popoli dalle precedute calamità, fece celebrare superbissime e magnifiche feste. Ed essendo da poi a' 18 luglio del medesimo anno seguita l'elezione di Leopoldo in Imperadore, furon replicate in Napoli le feste e li tornei. Ma appena ebbe finite le feste, che gli venne avviso, che il Conte di Pennaranda, sbrigato dalla Dieta di Francfort, dove come Ambasciadore estraordinario del Re era intervenuto alla coronazione di Leopoldo, era stato destinato per suo successore. Essendo pertanto giunto il Pennaranda in Napoli a' 29 di dicembre, fu duopo al Conte, a' 11 gennajo del nuovo anno 1659, deporre nelle di lui mani il governo. Ci lasciò egli molte savie ed utili Prammatiche, fra le quali fu la pubblicazion della grazia, che il Re fece al Baronaggio ed al Regno, allargando la successione de' beni feudali per tutto il quarto grado, con facoltà d'istruire majorati, e fedecommessi ne' feudi, dentro i gradi della succession feudale; e diede altri provvedimenti, che sono additati nella tante volte riferita Cronologia; e quantunque il suo infelice governo non gli avesse permesso di lasciar a noi memoria alcuna della sua magnificenza, pure egli fu, che facendo abbattere molte case, ridusse in isola il palagio regale, e fece porre tutti i ritratti de' Capitani Generali del Regno nella sala de' Vicerè.

Parve, che colla venuta del Pennaranda il nostro Reame cominciasse a ristorarsi de' passati mali, e cessando tante calamità di più travagliarlo, ripigliasse le proprie sue sembianze; ond'essendo fin qui durate le sue sciagure, termineremo ancor noi qui il libro, ponendo tra questo ed il seguente sì distinti confini, affinchè gli avvenimenti, che seguiranno, non siano contaminati da' precedenti infelici e lagrimevoli successi.

FINE DEL LIBRO TRENTESIMOSETTIMO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMOTTAVO

Avventurosi furono i principj del Governo del Conte di Pennaranda, non solo per la tranquillità restituita nel nostro Regno, ma per la felicità della pace, che maneggiata lungamente tra le due Corone, venne ora ne' Pirenei a conchiudersi da' due Favoriti, dal Cardinal Mazzarini per la Francia, e da D. Luigi di Haro per la Spagna. Facilitò la conchiusione l'esser nato al Re Filippo IV il secondo figliuolo, per la natività del quale pareva, che maggiormente si fosse allontanata la successione della Monarchia nell'Infanta D. Maria Teresa d'Austria, figliuola del primo letto del Re Filippo. Ambivano questi due Favoriti di esser creduti autori d'una pace cotanto da' popoli sospirata, siccome erano stati prima riputati istromenti delle tante calamità della guerra; e per ciò ricusavano qualsisia mediazione, ed in particolare quella del Pontefice Alessandro VII, resosi poco grato ad amendue le Corone. Concertatesi adunque le principali condizioni, che consistevano nel matrimonio dell'Infanta col Re Luigi XIV, e nel ritenersi la Francia una parte delle conquiste, rilasciandone l'altra, convennero questi primi Ministri di trovarsi a' Pirenei per istipulare e suggellar il trattato. Si mosse pertanto il Mazzarini da Parigi, il quale per cammino ricevè da Madrid l'approvazione del concertato; ma giunto a' confini trovò, che gli Spagnuoli, anche nel discapito della fortuna, vollero sostenere il rigor del posto; poichè D. Luigi di Haro, ancorchè dovesse cedere alla dignità Cardinalizia, pretese però, uguagliandosi nel Ministerio, di sostenere la parità col Mazzarini, e con tratti d'ingegno nel negoziar tal competenza proccurò di superarlo; poichè fu trovato espediente nell'Isoletta chiamata De' Fagiani del picciol fiume Vidasso, noto, e non per altro famoso, se non perchè divide i due Regni, di fabbricarvi una casa di legno, in cui entrando dalla parte sua per un ponte ogni uno de' Ministri, si trovassero ambedue in una sala comune. Quivi adunque entrati tennero moltissime conferenze, e dopo essersi lungamente dibattuto intorno all'inclusione in questa pace di Portogallo, ed alla restituzione del Principe di Condè nel Regno di Francia, ne' suoi beni e nelle cariche: finalmente rimaso escluso il Portogallo, ed accordata la reintegrazione al Principe, fu il trattato di pace sottoscritto a' 7 di novembre di quest'anno 1659 dai due Ministri, e solennizzato con reciprochi amplessi e con giubilo degli astanti, il qual si diffuse con indicibile allegrezza per tutti i Regni delle due Corone.

I capitoli di questa pace furono in gran numero, ed i primi, con lunghe ed affettuose espressioni, contenevano in ristretto le solite condizioni di reciproca reintegrazione de' beni, onori, dignità e beneficj a tutti i sudditi dell'una e l'altra parte, così Ecclesiastici come Secolari, che avessero seguitato il partito contrario, includendovi nominatamente i Napoletani, Catalani ed il Principe di Monaco; ed altri parimente se ne accordarono intorno al riaprire il commercio fra le due nazioni. Il più principale fu il matrimonio stabilito con dote di cinquecentomila ducati tra l'Infanta D. Maria Teresa col Re Luigi, rinunziando però l'Infanta nella forma più solenne, anche in considerazion della pace, e perchè queste due Corone per qualunque avvenimento non potessero unirsi insieme in un sol capo, alle ragioni di succedere nella monarchia di Spagna. S'accordò, che delle conquiste restasse alla Francia tutta la provincia d'Artois, eccetto S. Omer ed Aire con le loro dipendenze. In Fiandra continuasse quella Corona nel possesso di Gravelines, Borburg, S. Venant, de' Forti annessi e di tutto ciò che apparteneva a que' luoghi; come nell'Ainaut di Landrecies e Quesnoy, nel Lucemburg di Tionville, Damvillers, Juoy ed altri luoghi occupati di minore momento. Restava pure alla Francia Perpignano con li contadi di Rossiglione e Conflans, quella parte però che giace di qua da' Pirenei; deputandosi reciprocamente Commessarj per assegnare i confini.

La Francia restituiva la Bassee e Vinoxberg, in cambio però di Mariemburg e Filippeville, che la Spagna cedeva; ed in oltre rendeva Ipri, Oudenarde, Dixmude, Furnes, le terre sopra il Fiume Lis, alcuni castelli nella contea di Borgogna; Valenza e Mortara in Italia; Roses e Cadagues in Ispagna, con tutto ciò che si trovava di là de' Pirenei. La Spagna pure rendeva Linchamp, ed in oltre lo Sciatelet e Rocroy dal Principe di Condè possedute. Rinunziava le pretensioni sopra l'Alsazia e sue dipendenze, già dall'Imperadore nel trattato d'Osnabrug a' Franzesi cedute.

Quanto al Lorena, se egli voleva entrar nella pace, si rimetteva il Duca nel possesso degli Stati, demolito Nancy, con restar alla Francia Mortmedy, il Ducato di Bar, Clermont, Stenè, Dun e Jametz, ed il passo aperto alle truppe per andare in Alsazia.

A Savoja rimetteva la Spagna Vercelli; al Principe di Monaco i suoi beni; ed il trattato di Chierasco si confermava.

Modena si comprendeva, ritirando gli Spagnuoli da Coreggio il presidio, e passando tra' predetti Duchi e la Spagna varie pretensioni per doti, assegnamenti, ed usufrutti, si rimettevano queste ad amicabile composizione, come pure le differenze, che per la Valtellina potessero insorgere con li Grigioni.

Il Papa doveva esser sollecitato dai due Re a render ragione alla Casa d'Este per le Valli di Comacchio, ed assegnar tempo congruo al Duca di Parma per la ricuperazione di Castro.

Finalmente non furono ommesse tutte le clausole più solenni e stringenti, per consolidare una pace perpetua, e divertire le discordie nell'avvenire. Ciò stabilito, partirono i Ministri dalla conferenza, e la corte di Francia, ch'era in Tolosa, si trattenne in Linguadoca e Provenza tutto l'inverno, sino che venne non solo la ratificazione di Spagna, ma che la Sposa col padre arrivasse a' confini.

Fu questa pace pubblicata solennemente da per tutto per consolare i Popoli; ed in Napoli ne pervenne l'avviso nell'entrar del nuovo anno 1660 avendo poco da poi il Re Filippo con suo dispaccio de' 10 febbrajo comandato, che quivi si pubblicasse, siccome con solenne cerimonia fu fatto a' 6 d'aprile avanti il regal Palagio. Comandò ancora il Re con suo particolar rescritto, che si pubblicasse il perdono di tutti coloro, che avevano seguito il partito franzese, siccome fu poi dal Vicerè eseguito a' 11 gennajo del seguente anno 1661, e furono reintegrati nel possesso de' loro beni il Principe di Monaco, ed il Duca di Collepietra. Furono ancora celebrate solenni e magnifiche feste per la pace, e per lo matrimonio dell'Infanta col Re Luigi, seguito già ne' 29 del mese di giugno di quest'anno 1660, le quali furono poco da poi replicate per l'altra pace conchiusa tra' Principi del Settentrione. Solo il Regno di Portogallo rimase escluso ne' trattati di questa pace; onde gli Spagnuoli rivoltarono i loro pensieri per riunirlo alla Corona, e s'accinsero ad unire formidabili eserciti per domare i Portoghesi.

CAPITOLO I. Il Conte De Pennaranda manda dal Regno soccorsi per l'impresa di Portogallo: reprime l'insolenze dei banditi; e festeggia la natività del Principe Carlo e le nozze dell'Imperador Leopoldo con Margherita d'Austria figliuola del Re: parte indi dal Regno, essendogli dato successore.

La guerra di Portogallo proseguita dagli Spagnuoli, ma con infelici successi, obbligò il Pennaranda a spedir dal Regno nuovi soccorsi: fece pertanto nel mese di maggio di quest'anno 1660, sopra dodici Vascelli comandati dal Principe di Montesarchio, imbarcar 1000 Alemanni, e 800 Napoletani sotto il comando del Maestro di Campo D. Emmanuele Caraffa. Partirono ancora dal nostro porto sette Galee di Napoli e di Sicilia verso il Finale per imbarcare le soldatesche, che calavano dal Milanese, per traghettarle in Ispagna; e nel seguente anno 1661, si mandarono altri 400 soldati sopra tre galee di Sicilia, ed altrettante della Squadra di Napoli. Nel 1662, vi furono spediti 800 fanti, comandati dal Maestro di Campo D. Camillo di Dura sopra otto galee delle mentovate due squadre; e nel 1663, sopra quattro Vascelli della Squadra del principe di Montesarchio, furon spediti 1800 Napoletani sotto il comando del Maestro di Campo Paolo Galtiero.

Resero ancora alquanto torbido il governo del Conte gli fastidiosi, ed insolenti banditi, li quali a questo tempo con ladrocinj e ruberie disertavano le campagne, tenevano in continui timori le città e le terre abitate, e toglievan loro la comunicazione ed il traffico: giunse la loro audacia a svaligiare spesse volte i Regj Procacci e ad arrestare qualunque ancorchè illustre personaggio, ponendo mano sino a' Ministri del Re; e chiunque capitava nelle lor mani era costretto dopo molti tormenti e strazj, a ricomprare la libertà con somme immense di danaro; era in fine la loro insolenza giunta a tale, che spingevano le loro scorrerie sino alle porte di Napoli.

A riparar disordini sì gravi applicò il Vicerè i suoi pensieri; onde spediti ne' due Apruzzi, ne' due Principati e nell'altre Province, Presidi risoluti e di coraggio, furon molti di questi ribaldi presi, altri uccisi in campagna e de' presi alcuni lasciarono la vita in su le forche, altri furon condennati durante la lor vita a remare, e moltissimi ottennero il perdono con legge d'andar a servire il Re nelle guerre di Portogallo. Ma tanta applicazione e rigore non era sufficiente per la protezione, ch'aveano d'alcuni potenti Baroni; onde fu duopo al Conte pubblicar rigorose Prammatiche contro i loro Ricettatori e Protettori.

Turbarono non poco il suo governo eziandio i tanti duelli seguiti a' suoi tempi tra' Nobili e li furti delle suppellettili e vasi sagri in alcune Chiese; onde con rigorosi editti rinovò le Prammatiche stabilite da D. Pietro di Toledo e dal Conte di Monterey contro i duellanti e dichiarò, che a' provocati a duello, ricusandolo, non potesse attribuirsi nota di viltà e d'infamia: contro i sacrilegi fu usato estremo rigore, e fatte severe esecuzioni di morte.

Ma furono queste cure moleste di gran lunga compensate, per la natività del Principe Carlo, dato alla luce dalla Regina Maria Anna d'Austria, seconda moglie del Re Filippo a' 6 novembre di quest'anno 1661, e tanto più il parto fu desiderabilissimo quanto che il Principe Prospero era già morto, ed il Re erasi veduto di nuovo in timore di poter mancare, senza lasciar di se prole maschile. Pervenne l'avviso in Napoli nel sesto giorno del seguente dicembre; onde furon quivi celebrate feste magnifiche con grandi apparati ed illuminazioni, e degne d'un così felice avvenimento, che furon continuate nel principio del nuovo anno 1662. Non molto da poi, essendosi a' 25 d'aprile del nuovo anno 1663, conchiuso il matrimonio tra l'Infanta Margherita figliuola del Re coll'Imperador Leopoldo, furono ancora dal Pennaranda ordinate feste ed illuminazioni.

Mentre il Conte era per continuar il rimanente del suo Governo in riposo, gli venne avviso, che dalla Corte gli era stato dato il successore. Fu questi il Cardinal d'Aragona, il quale trovandosi Ambasciadore del Re in Roma, essendo stato spedito per quella Corte D. Pietro d'Aragona suo fratello per occupar la sua carica, fu egli destinato al Governo di Napoli e fu comandato al Pennaranda, che partisse per Madrid, per occuparvi il posto di Presidente del Consiglio d'Italia. Fu pubblicata in Napoli la venuta del Cardinale a' 10 d'agosto di quest'anno 1664, e furono spedite cinque galee in Nettuno, dov'erasi portato, per quivi imbarcarsi, e pervenne egli a Mergellina a' 27 del medesimo mese. Il Conte partì a' 9 di settembre, lasciando di se un grandissimo desiderio, per la sua pietà, affabilità e limpidezza, e per la somma avversione, che avea ad ogni sordidezza, tanto che lasciò fama, che rade volte, o non mai addiviene, d'aver lasciato il governo di Napoli con qualche debito.

Ci lasciò 14 Prammatiche, tutte savie e prudenti, per mezzo delle quali provvide alla pubblica Annona: fu terribile contro i duellanti, e contro gli portatori d'arme, e spezialmente delle spade con foderi tagliati: vietò a tutti i Ministri l'amministrazione de' Baliati, Tutele e d'esser Procuratori de' Baroni e Feudatarj del Regno; e diede altri provvedimenti, che vengono additati nella rammentata Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO II. Governo di D. Pascale Cardinal d'Aragona.

La troppa indulgenza, ed affabilità del Conte di Pennaranda avea alquanto fra noi rilasciata la disciplina, ed avea parimente non poco pregiudicato al decoro della giustizia: i delitti eran frequenti e spezialmente gli omicidj per la facilità e comodità, che ne davano le armi corte da fuoco, e per l'usanza a questi tempi introdotta di vestire alcuni con abiti chericali, corti e larghi, chiamati mezze sottane, le quali somministravano il modo di nasconder queste armi e di portarle impunemente per la città. Applicò per tanto il Cardinale, ne' principj di questo suo Governo, l'animo a pubblicar rigorosi editti contro costoro, ed alla sollecita punizione de' delinquenti: fu dato bando a tutti i vagabondi, comandando, che fra tre giorni sgombrassero dalla città: fece far terribili esecuzioni di giustizia; fece impiccar nel suo arrivo un'adultera col suo drudo, per morte data all'innocente marito: fece morir su le forche, più ladri più omicidi, e moltissimi furon condennati a remare.

Ma con tutto ciò, tanti rigori e severità del Cardinale non bastavano a poter frenare una Città così corrotta. Alcuni si sottraevano da' dovuti castighi colla fuga, altri col privilegio del Foro Chericale e molti coll'immunità delle Chiese, la quale sempre più dagli Ecclesiastici ampliandosi, è perpetua cagione di continue brighe tra i due Fori; quindi, come altrove fu detto, fu di mestieri spedir in Roma il Consigliere Antonio di Gaeta per ottener qualche riforma agli abusi di tal pretesa immunità; ma riuscendo la missione inutile, si rimase negli antichi disordini.

Non furono meno molesti ed insolenti, con tutti questi rigori, gli sbanditi, li quali, appoggiati alla protezione di potenti Baroni, infestavano le pubbliche strade, rubando, riducendo molti in cattività, nè rilasciandogli se non con ricatti di grossissime somme, e talora, anche dopo averli straziati, barbaramente uccidendogli. I duellanti si fecero ancora sentire, nonostante le severe proibizioni e le rigorose pene imposte contro essi. Ma una nuova malizia inventata dai mercatanti in tempo di questo Governo, turbò ancora non poco il traffico e la pubblica fede. Costoro con fallimenti frodolenti, dopo avere riscosse somme importanti da chi in essi fidava, a man salva rubavano, e cotali fallimenti eran fatti così frequenti, che erano passati in usanza appresso quasi tutti i negozianti. Per estirpar un così pernizioso abuso, il Cardinal d'Aragona pubblicò una Prammatica, colla quale sottopose a pena di morte i mercadanti frodolentemente falliti, e comandò, che dovessero dichiararsi fuor giudicati, se fra quattro giorni non comparivano; e la medesima pena volle, che s'eseguisse contro agli occultatori dei loro beni e contro a tutti coloro, che si fingessero loro creditori, quando non lo fossero: vietò parimente a' Giudici di poter loro concedere salvicondotti, o moratorie di sorte alcuna, ancor che vi concorresse il consenso, non solamente della maggior parte, ma anche di tutti i creditori.

Mentre che il Cardinale era tutto inteso a dar riparo a questi disordini, ed a restituire la caduta disciplina a qualche buono stato, pervenne in Napoli, in ottobre del 1665, la funesta novella della morte del Re Filippo IV, il quale lasciando il Principe Carlo in età di quattro anni, lo raccomandò sotto la tutela ed educazione della Regina sua madre, alla quale parimente fu dal medesimo lasciata la reggenza della monarchia; ma come donna ed inesperta delle cose appartenenti al governo, fu dal Re nel suo testamento istituita una Giunta, che dovea comporsi, fra gli altri, dell'Arcivescovo di Toledo, dell'Inquisitor Generale, del Presidente di Castiglia e del Cancelliere di Aragona: comandando, che se venisse alcuno a mancare di questi quattro, gli fosse succeduto colui, ch'entrava nel ministerio di quella carica, che dal morto lasciavasi. Avvenne, che nel medesimo giorno, che mancò il Re Filippo, spirasse anche il Cardinal Sandoval Arcivescovo di Toledo; la Regina Reggente, dovendo dargli successore, nominò all'Arcivescovado di Toledo il Cardinal d'Aragona nostro Vicerè; per la qual cosa, essendo in dicembre del medesimo anno giunto l'avviso in Napoli della sua promozione a quella Cattedra, avendo prima fatto acclamare in Napoli il Re Carlo II, e fatte celebrare pompose esequie al Re Filippo, si dispose alla partenza per la Corte di Spagna, dove veniva chiamato, non solo per governar la sua Chiesa, ma ad esser a parte del governo della monarchia nella Giunta, in luogo del Cardinal Sandoval Arcivescovo di Toledo suo predecessore. Fu all'incontro sustituito al Cardinale nel Governo di Napoli D. Pietr'Antonio d'Aragona suo fratello, il quale si trovava allora in Roma Ambasciadore del Re Cattolico presso il Pontefice Alessandro VII.

Ritardò l'Aragona la sua venuta in Napoli per cagion dell'orrido inverno, che impediva al fratello la navigazione per Ispagna, differendola insino ad aprile del nuovo anno 1666. Ed intanto essendogli state spedite del Pontefice le Bolle, volle quivi farsi consegrare Arcivescovo: fu commessa la consegrazione all'Arcivescovo d'Otranto, dal quale insieme colli Vescovi di Pozzuoli, di Menopoli e d'Aversa, con le consuete cerimonie, fu a' 28 febbrajo del medesimo anno consegrato nella Chiesetta di S. Vitale, detta comunemente di S. Maria delle Grazie, della Diocesi di Pozzuoli, e soggetta a quel Vescovo, posta fuori della Grotta, che conduce a Pozzuoli. Concorsevi e per cagion del personaggio e per la rarità della funzione, rade volte veduta in Napoli, infinito Popolo, ed un gran numero di Nobili e di Magistrati; onde D. Benedetto Sanchez De Herrera Vescovo di Pozzuoli, perchè a' posteri ne rimanesse memoria, fece nella medesima Chiesetta porre un marmo con iscrizione, dove un cotal atto si legge.

Giunse finalmente in Napoli D. Pietro Antonio di Aragona a' 3 d'aprile, ricevuto con gran pompa dal Cardinal suo fratello, il quale agli 8 del medesimo mese depose il governo nelle mani del Consiglio Collaterale; ed agli 11 s'imbarcò per la volta di Spagna accompagnato dagli Eletti della città, li quali lo pregarono, che andando egli a sedere al governo della Monarchia, tenesse protezione di questi Popoli, ed egli cortesemente assicurogli, che così avrebbe fatto. Partì il Cardinal d'Aragona, dopo aver governato il Regno diciannove mesi, non potendo in così breve tempo lasciarci di se altra memoria, che cinque sole Prammatiche, per le quali, oltre d'avere severamente puniti i mercatanti frodolentemente falliti, comandò, perchè la città si tenesse monda e per li danni che cagionavano, che tutti i porci di qualsivoglia persona, che andavan vagando per le piazze della città, si cacciassero via, nè si permettesse un così stomachevol abuso: rinovò ancora i divieti a Ministri, che non potessero amministrar tutele, baliati, o eredità di particolari persone e diede altri provvedimenti, che sono additati nella tante volte rammentata Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO III. Morte del Re Filippo IV, suo testamento e leggi che ci lasciò.

Il Re Filippo IV nonostante la pace fatta ne' Pirenei con la Francia, fu sempre involto in calamità, ed aggravato da malinconici pensieri e da moleste apprensioni. Egli non potè dissimulare allora il discontento di aver a fermare una pace cotanto svantaggiosa per la Spagna, e sopra ogni altro il trafisse la considerazione, che per quel matrimonio era stato costretto a consegnare a' suoi naturali nemici il più caro pegno della sua casa, presagendo (quel che da poi a nostri dì è convenuto vedere) i pericoli, ed i futuri danni; tanto che tutto malinconico, e poco men che piangente, era solito esclamare, che la Francia sopra il duolo della Spagna avrebbe dovuto festeggiare la di lei miseria. Le infelici spedizioni di Portogallo lo tennero da poi in continue agitazioni: poichè i Portoghesi negli estremi pericoli, avendo date l'ultime pruove della loro fortezza, aveano più volte battuti i Castigliani, ed avendo data per moglie al Re d'Inghilterra la sorella del Re Alfonso, succeduto al Re Giovanni suo padre, con ricchissima dote e con la Piazza di Tanger, si disponevano ad una più forte ed ostinata difesa. Da così molesti e gravi pensieri afflitto, nei principj di settembre dell'anno 1665 s'infermò, e dopo brevi giorni d'acuta febbre a' 17 del medesimo mese chiuse gli occhi, lasciando di se e della Regina Marianna d'Austria sua moglie il Principe Carlo, in età infantile di quattro anni. Volle negli ultimi momenti vederlo, a cui con voce fiacca augurò tempi prosperi e Regno del suo più fortunato.

Nato Filippo agli 8 aprile del 1665 giovanetto ancora si vide erede, per la morte del padre accaduta nell'ultimo giorno di marzo del 1621, della più potente Monarchia d'Europa, ma posto nel lubrico dell'età e del comando, dato in preda a' piaceri del senso, si lasciò rapire l'autorità ed il governo dall'arte del Favorito. Vide egli per ciò, per lo violento governo de' suoi Ministri, sollevate le Province, ed i Regni in rivolta, oltre le gravi percosse, che rilevò dall'armi nemiche; e quando, scosso da' colpi delle disgrazie, e da' sospiri de' sudditi, allontanò l'odiato autor dei travagli, non si trovò con quel vigor d'animo e quella sperienza, che richiedeva la mole degli affari: onde ricadde subito sotto la tutela d'altro Ministro più cauto, ma non men assoluto; ed appena dalla morte di costui ne fu sciolto, ch'egli pure morì tra le afflizioni, nelle quali avea quasi sempre vivuto. Tra le disavventure conservò egli nondimeno una costanza di animo maravigliosa, amò la giustizia e sopra tutto nella pietà fu singolare.

Letto il suo testamento, si vide aver istituito erede Cario; al quale, se mancasse senza prole, sostituiva Margarita seconda sua figliuola, destinata per isposa all'Imperador Leopoldo, ed i figliuoli di lei; e se premorisse questa, o riuscisse il suo matrimonio infecondo, chiamava alla successione l'Imperadore. In ultimo luogo ammetteva il Duca di Savoja, esclusa sempre la sua figliuola primogenita Regina di Francia, se non in caso, che restando vedova e senza prole, ritornasse nei Regni paterni, e con assenso degli Stati si maritasse con alcun Principe della Casa.

Rimanendo il successore infante, e la Regina considerata come straniera, giovane, e nel governo inesperta, lasciando a lei la tutela e l'educazione di quello, e la Reggenza della Monarchia le stabilì un Consiglio a parte, dagli Spagnuoli chiamato Giunta, composto dell'Arcivescovo di Toledo, dell'Inquisitor Maggiore, del Presidente di Castiglia, del Cancellier d'Aragona, del Conte di Pennaranda e del Marchese d'Aytona. Erano i quattro primi nominati non a contemplazione della qualità de' soggetti, ma delle cariche, e perciò, come si disse, nell'istesso giorno che il Re morì, essendo spirato il Cardinale di Sandoval, che reggeva la Chiesa di Toledo, la Regina la conferì al Cardinal d'Aragona, e poichè costui si trovava Inquisitor Maggiore, gli sostituì in questa carica il P. Everardo Nitardo, nato in Germania, Gesuita, che regolava, non men a guisa di arbitro, la volontà della Regina, che come Confessore la sua coscienza, il quale, dopo aver governato per molti anni in questa Giunta, ottenne parimente la dignità di Cardinale.

Pervenne l'avviso della morte del Re in Napoli ai 13 ottobre, con lettere del Marchese della Fuente, Ambasciador Cattolico in Francia, ma convenne al Cardinal d'Aragona Vicerè tenerla celata, fin che dalla Corte di Spagna non giungessero i dispacci. Prima il Cardinale con pubblica celebrità e cavalcata fece acclamar il novello Regnante, con far coniare alcune monete, chiamate dal suo nome Carlini, ch'egli andava spargendo per le pubbliche strade per dove cavalcando passava.

Dopo l'acclamazione, cominciossi ad udire il mesto suono delle campane, e si vide la città piena di duolo e di lagrime, piangendo la morte del defunto Re. La Corte del Vicerè, la Nobiltà, i Magistrati, gli Ufficiali, i Curiali e Mercatanti, in fine, toltane la gente minuta, non vi fu persona d'onesta condizione, che non vestisse a bruno. Ricevè il Vicerè le visite di duolo da Titolati e Cavalieri, da' Magistrati, dagli Ufficiali Militari, da' Ministri di stranieri Principi, da Superiori delle Religioni, ed anche dal Cardinal Acquaviva, il quale trovandosi in Napoli, passò col Vicerè il medesimo ufficio, e vestì per tutto il tempo che vi dimorò, l'abito pavonazzo. Solo il nostro Cardinal Arcivescovo non volle accompagnare il comune dolore, e si guardò come dalla peste, d'andar giammai in palazzo, fingendo indisposizioni e malattie. Egli non voleva contravvenire a certi suoi cerimoniali, delli quali era cotanto zelante, che nè disordini, nè mali più gravi, che da tali inurbanità e poco rispetto ne potessero seguire, lo potevano ritrarre per un pelo a non esattamente eseguirli; diceva non esser egli a ciò obbligato, nè convenire a lui, come Pastore, usare con la sua Corte vestimenti lugubri.

Per non esporsi per ciò il Vicerè a nuove cerimoniali brighe, dopo essersi per nove giorni celebrati i funerali nella Cappella del Regal Palagio, ed in molte altre Chiese, si disposero le pubbliche esequie, lasciato il Duomo, nella Regal Chiesa di S. Chiara, ove fu eretto un magnifico Mausoleo, e per l'invenzione dell'opera fu data la cura al Consigliere D. Marcello Marciano, il quale altresì si prese il carico degli Epitafi e delle Iscrizioni, siccome per le dipinture se ne diede il pensiere al famoso Luca Giordano. Disposta la pompa ed i lugubri apparati, furono celebrate l'esequie il giorno 18 di febbraio del nuovo anno 1666 con gran solennità e magnificenza, e perchè ne rimanesse fra noi sempre viva la memoria, il Consigliere Marciano volle minutamente descriverle in un suo particolar libro, ch'egli diede alla luce, intitolato le Pompe funebri dell'Universo.

Il Re Filippo nel suo lungo regnare, cominciando da' 6 aprile del 1621, insino a' 4 d'agosto del 1664, stabilì per nostro governo più di 50 leggi, le quali ei dirizzò a' suoi Vicerè, che per lui amministrarono il Regno: diede egli per quelle a noi molti salutari provvedimenti, li quali, per non tesserne qui un lungo e nojoso catalogo, possono con facilità vedersi ne' volumi delle nostre Prammatiche, venendo additate, secondo i tempi, ne' quali furono stabilite, nella tante volte rammentata Cronologia prefissa al primo tomo delle medesime.

CAPITOLO IV. Stato della nostra Giurisprudenza nel Regno di Filippo III e IV e de' Giureconsulti ed altri Letterati che vi fiorirono.

La Giurisprudenza presso di noi, così ne' Tribunali, come nelle Cattedre, non prese a questi tempi nuove forme, ma continuò, siccome per lo passato, ad esser maneggiata da' Professori nel Foro con modi inculti, e da' Cattedratici all'usanza delle altre Scuole, senza che l'erudizione vi avesse ancora posto piede. Ma il numero de' Professori fu assai maggiore e molto più degli Scrittori, i quali compilarono a questi tempi tanti trattati, consigli, allegazioni, ed altre opere legali, che se ne potrebbe formare una mezza libreria. Il lor numero crebbe tanto, che delle loro opere, che diedero alla luce, non se ne può ora tener più conto, essendo infinite; onde saremo contenti di nominarne alcuni i più famosi, che dieder saggio per le opere lasciateci, quanto in Giurisprudenza intendessero; e se bene ve ne fiorissero altri di non inferior dottrina, anzi a molti di costoro superiori, conoscendo nondimeno di quante parti sia di mestieri esser fornito colui, che intende dar fuori li parti del suo ingegno, forse con miglior consiglio stimarono di non esporre le loro fatiche alla pubblica luce del Mondo.

È veramente cosa da notare, che con tutto che il Regno si fosse veduto per tante rivolte, per tante calamità e disordini, così miseramente travagliato, ed involto in tante sciagure; ad ogni modo il numero dei nostri Professori non solamente non si vide scemare, ma tanto più crescere e moltiplicarsi. Ma non parrà ciò cosa strana a chi considera, che per questo istesso, che le cose furono in rivolta, che i disordini crebbero, che i vizj, le malizie e le frodi abbondarono, perciò doveano crescere i Professori e' Curiali, de' quali allora si avea maggior bisogno. Dove sono molte infermità è di mestieri, che vi siano molti medici, così corrotta la disciplina, è duopo, che si ricorra alle leggi, ed a' Professori di quelle, per far argine a più gravi disordini, come si possa il meglio.

Fra tanti merita il primo luogo Scipione Rovito. Nacque egli in Tortorella picciola terra della provincia di Basilicata; e venuto in Napoli, essendo di tenue fortuna, visse quivi in umilissimo stato, esercitandosi ne' nostri Tribunali da Procuratore: ma essendo uomo di molta fatica nello studio legale, puntuale e d'integrità di costumi, cominciò a poco a poco a difender qualche causa; e diede poscia in luce i suoi primi Commentarj sopra le Prammatiche, ne' quali non isdegnò, in que' principi, di ponere il nome della sua Patria, come che poi nella seconda edizione si chiamasse Napoletano. Preso per ciò qualche nome, si pose in riga d'Avvocato, e patrocinò molte cause de' primi Signori del Regno, come si vede da' suoi Consigli, e fece per conseguenza nobil acquisto di fama e di ricchezze. Fiorirono ancora a' suoi tempi tre altri celebri Avvocati, Gio Battista Migliore (quegli che, come altrove si disse, fu mandato in Roma dal Cardinal Zapatta Vicerè al Pontefice Gregorio XV per affari di Giurisdizione). Ferrante Brancia, nobile di Surrento, che morì vecchio Reggente, e Camillo Villuno, li quali insieme con Scipione Rovito nell'anno 1612 dal Conte di Lemos, successore del Conte di Benavente, furon fatti Consiglieri, unicamente per la lor dottrina e merito, senza che n'avessero avuta alcuna antecedente notizia. Nel tempo, che il Rovito fu Consigliere, acquistò fama non men di dotto, che di savio e prudente; onde come si è veduto ne' precedenti libri, non v'era affare di momento, che a lui non si commettesse. Passò poi Presidente in Camera, e dopo alquanti anni nel 1630 fu promosso alla suprema dignità di Reggente, esercitata da lui con fama forse di soverchia austerità; e Pietro Lasena, che fu suo amicissimo, attestava al famoso Camillo Pellegrino, da chi l'intese Francesco d'Andrea, che nella morale affettava esser seguace della dottrina degli Stoici; ancorchè il rigore che usava con altri, nol seppe praticare nella casa sua, poichè benchè avesse più figliuoli, non ebbe motivo per la troppo indulgente educazione di molto rallegrarsi d'avergli avuti. Di lui, oltre i Commentarj sopra le nostre Prammatiche ed i suoi Consigli, si leggono ancora le Decisioni, che furono impresse in Napoli l'anno 1633, e finalmente grave già d'anni, e travagliato di molte infermità, rendè lo spirito nel mese di giugno dell'anno 1638, e giace sepolto nella casa Professa de' PP. Gesuiti di questa città[37].

Non fu per indefessa applicazione a lui disuguale Carlo Tappia, il quale, per le elaboratissime opere, che ci lasciò, spezialmente per quella del Codice Filippino, merita essere annoverato fra' primi Giureconsulti, che fiorissero a questi tempi. Fu egli figliuolo d'Egidio Tappia Presidente di Camera, e dopo aver girato, come Auditore, per varie province del Regno, fatto poi Giudice di Vicaria, fu nell'anno 1597 creato Consigliere. Nel 1612 passò in Madrid Reggente nel supremo Consiglio d'Italia, e finalmente nel 1625, tornò in Napoli Reggente di Cancelleria, dove per molti anni esercitò il posto, e morì poi Decano del Collaterale a 17 gennajo dell'anno 1644, essendo stato sepolto nella Cappella sua gentilizia, posta nella Chiesa di S. Giacomo degli Spagnuoli. Oltre il suo Codice, e le Decisioni, ci lasciò molte altre sue operette, delle quali il Toppi[38] fece catalogo. Fu uomo, per la sua canizie, e per una somma gravità in tutte le cose, tenuto in gran venerazione da nostri Vicerè, e da tutti gli Ordini del Regno; e per la sua instancabile applicazione, senza che gli si vedesse prender mai un'ora di riposo, acquistò nome di Ministro laborioso, ancorchè in dottrina avesse molti che lo superavano.

Celebri ancor furono Marcantonio de Ponte, che ascese anche per la sua dottrina al grado di Presidente del Consiglio. Pietrantonio Ursino, profondo Giureconsulto, come lo dimostra il suo trattato: De successione Feudorum, ancor egli Presidente; ed Andrea Marchese.

Rilusse ancora a questi tempi Gianfrancesco Sanfelice del Sedile di Montagna, il quale, dopo avere nelle Audienze Provinciali, e nella Gran Corte della Vicaria dato saggio de' suoi talenti, fu nell'anno 1619 creato Consigliere. Da poi nel 1640, ascese alla suprema dignità di Reggente; ma si rese assai più famoso per le opere da lui date alla luce, come delle Decisioni, comprese in due volumi e della Pratica Giudiciaria, che si diede poi alle stampe nell'anno 1647. La sua vita non fu che una indefessa applicazione a governar la città nelle cose criminali, e fu insigne per l'innocenza de' costumi, e per l'integrità della vita, non discompagnata dalla dottrina, come lo dimostrano i suoi tomi delle Decisioni. Fu severissimo nel castigare i delitti, ma con tal tranquillità, che quando condannava rei, pareva che gli assolvesse; nè fu meno ammirabile per l'indicibil pazienza, con la quale ascoltava tutte le differenze che succedevano in Napoli, anche tra povere donnicciuole, e tra persone d'infima plebe, e per l'equità nel determinarle: sicchè la sua vita potea dirsi un continuo esercizio di amministrare a tutti indifferentemente giustizia. Fu anche Provicecancelliere del Collegio de' Dottori, il quale ufficio non isdegnò d'esercitarlo anche fatto Reggente, mentre il Vicecancelliere era il Duca di Caivano Segretario del Regno.

Non men celebre fu Ettorre Capecelatro Cavaliere del Seggio di Capuana, il quale datosi all'avvocazione, vi fece notabili progressi. Da' due volumi, che ci lasciò delle sue Consultazioni, si vede, che alla di lui difesa furono appoggiate cause di grandissima importanza: ed ancorchè non avesse avuta molta felicità nell'orare, suppliva al difetto dell'eloquenza con la dottrina e colla fatica. Fu poi nel 1631 creato Consigliere, esercitando il posto con pari decoro ed integrità. Trasportato poi dal desiderio di divenir Reggente, non ebbe riparo di portarsi in Ispagna con titolo d'Ambasciadore della città, contro il voto della sua medesima Piazza, ad istanza del Duca di Medina Vicerè, per opporlo al Duca di S. Giovanni, andatovi poco prima col medesimo titolo, per rappresentare in nome della Nobiltà alcuni aggravj pretesi essersi inferiti a quella dal Vicerè. L'occasione fu, ch'essendo, siccome si è veduto ne' precedenti libri, comparsa l'armata di Francia ne' nostri mari, il Duca di Medina, per maggior difesa, diede l'armi al Popolo sotto i suoi Capi popolari, con governo independente dalla Nobiltà. Pretesero le Piazze Nobili, che ciò fosse contro l'antico stile: onde destinarono Ambasciadore in Ispagna il Duca di S. Giovanni in nome della città per gravarsene; ma il Popolo pretese, che le Piazze Nobili non potessero rappresentar città quando si trattava d'una particolar differenza tra la Nobiltà ed il Popolo; onde il Duca di Medina, non avendo fatto ricevere in Ispagna il Duca di S. Giovanni come Ambasciadore, proccurò dal Popolo, e dall'altre tre minori Piazze, che si mandasse un altro Ambasciadore per altri negozj universali della città, e che s'eleggesse il Capecelatro, ancorchè le Piazze di Capuana e di Nido vi dissentissero, dicendo non riconoscere altro Ambasciadore, che il Duca di S. Giovanni. Andò per tanto il Consigliere in Ispagna, ed avendo ivi con felice esito terminati i suoi affari, se ne ritornò in Napoli colla mercede del titolo di Marchese del Torello, e l'altra della prima piazza di Reggente, che fosse vacata, della quale anticipatamente glie ne fu data dal Vicerè la possessione, con titolo di Proreggente, e dalla Corte fu dichiarato Reggente sopranumerario; e finalmente fu dichiarata la piazza ordinaria, da poi che s'aggiunse la terza piazza spagnuola ad istanza della Corona di Aragona. Sopravvisse nel posto molti anni, e mandato due volte in Foggia dal Conte d'Onnatte per rimettere in piedi le rendite di quella Dogana, che per le passate revoluzioni stavano non mediocremente turbate, fu fama, che cumulasse gran contante. Morì egli a' 10 d'agosto dell'anno 1654, ed oltre averci lasciati i volumi delle sue Consultazioni, ch'e' dedicò al Re Filippo IV, ci diede ancora le sue Decisioni, che ora colle addizioni di Michelangelo Gizzio, girano attorno per le mani de' nostri Professori.

Fiorì ancora a questi medesimi tempi Fabio Capece Galeota del Seggio di Capuana. Costui, applicatosi all'avvocazione, riuscì assai celebre per dottrina, e per efficacia nel rappresentare: fu assai dotto nelle materie legali, come lo dimostrano le sue Controversie, ed i suoi Responsi Fiscali; onde per la sua dottrina fatto Giudice di Vicaria, passò tosto Consigliere del Consiglio di S. Chiara. Fu da poi eletto per Avvocato Fiscale del Regal Patrimonio nel Tribunal della Regia Camera, dove poi fu Presidente; indi fu innalzato alla suprema dignità di Reggente del supremo Consiglio d'Italia, e ritornato di Spagna con titolo di Duca della Regina, sedè per breve tempo nel nostro Consiglio Collaterale; poichè mandato dal Vicerè in Foggia, per riordinare quella Dogana, morì quivi ai 15 dicembre dell'anno 1645, e fu depositato il suo cadavere nella Chiesa de' PP. Domenicani di quel luogo. Mentre fu Avvocato diede alle stampe un assai dotto Responso per lo Duca di Gravina sopra la successione del Principato di Bisignano; ed essendo Consigliere, e poi Avvocato Fiscale, diede alla luce il trattato: De officiorum, ac regalium prohibita sine Principis authoritate commutatione, et alienatione. Nel tempo, che fu Presidente di Camera diede fuori le Controversie, dove si veggono trattate cause arduissime, che furon agitate, non meno ne' nostri supremi Tribunali, che nel supremo Consiglio d'Italia, che egli divise in due tomi stampati in Napoli nel 1636. Li Responsi Fiscali, che e' compilò per difesa de' diritti del Patrimonio Regale, essendo Avvocato Fiscale, furon da lui dati alle stampe in Napoli nel 1645, anno della sua morte. Oltre a ciò avendosi egli, mentr'era Avvocato, presa in moglie l'erede di Camillo de' Medici celebre Avvocato de' suoi tempi, come si vede da' suoi Consigli, tanto che meritò, ancorchè fosse di Gragnano, d'esser dichiarato dal Gran Duca di Toscana della sua Famiglia, con una Commenda della sua Religione di S. Stefano: ebbe la cura di raccorre i di lui Consigli in un giusto volume, ed avendovi fatte alcune Addizioni, con aggiungervi ancora la vita di Camillo, lo fece dare alle stampe in Napoli l'anno 1633, dedicandolo a Ferdinando II de' Medici Gran Duca di Toscana[39].

Fa di mestieri, che qui della meritata lode non si defraudino i famosi Marciani, dotti e profondi nostri Giureconsulti. Marcello Marciano rilusse nel nostro Foro non men essendo Avvocato, che Consigliere. Nell'avvocazione meritò i primi onori, e fece per ciò acquisti di molte ricchezze. Fu riputato non men dotto che grande Oratore, come lo dimostrano i suoi Consigli. Ma innalzato poi alla dignità di Consigliere a' 3 di novembre dell'anno 1623, fu esercitato da lui il posto con integrità e soddisfazione indicibile. Ci lasciò egli due volumi di suoi sublimi Consigli, ma molto più se gli dee per aver di se lasciato Gianfrancesco di lui figliuolo.

Riuscì Gianfrancesco Marciano non men dotto del padre e nel Foro, ebbe grido di famoso avvocato, come lo dimostrano i due tomi delle sue Controversie, che ci lasciò; e se bene non avesse avuto nel patrocinar le cause molta eloquenza, nello scrivere fu molto profondo e dotto. Fu creato Consigliere a' 10 maggio dell'anno 1645, e dopo avere con molto applauso esercitata per dieci anni tal carica, fu innalzato alla dignità di Reggente nel 1655, benchè sopraggiunto poco da poi dalla morte non godesse del Reggentato, che le congratulazioni degli amici.

Lasciò pure costui un altro Marcello, erede non men delle virtù che delle speranze paterne, il quale, imitando le vestigia de' suoi maggiori, si diede ne' suoi primi anni all'avvocazione, nella quale non gli mancò alcuna di quelle parti, che ricercansi per riuscir grande in tal professione: ebbe egli gran capacità, gran dottrina e ardire e grande erudizione, ed in età assai giovanile gran maturità di giudizio. Fu egli, proccurandoselo, fatto assai giovane Giudice di Vicaria dal Conte di Castrillo: poco da poi dal Conte di Pennaranda fu fatto Consigliere, e dal medesimo fu poi mandato in Camera per Avvocato Fiscale, donde nei principj del Governo di D. Pietro d'Aragona, andò Reggente in Ispagna, e quivi di là a non molto se ne morì. Lasciò figliuoli di assai poca età, ma il di lui primogenito Francesco non interruppe il corso; poichè imitando ancor egli i suoi antenati, riuscì famoso Avvocato, poi Giudice, ed indi fatto Consigliere giunse pure al Reggentato, ma per fatalità di questa Casa, ancor egli passato in Ispagna, di là a poco ivi traspassò: tal che essendo questa casa per lo spazio poco men di cento anni stata Senatoria, rimane ora chiusa ed estinta.

Fiorirono ancora non men per dottrina, che per li posti che occuparono, altri insigni Giureconsulti. Francesco Merlino, ancorchè non gli paresse avviarsi per la strada dell'avvocazione, ma per quella degli Ufficj, riuscì dotto Ministro, e si rese presso noi celebre, non men per le cariche che sostenne, che per le opere che ci lasciò. Fu egli un privato gentiluomo di Sulmona, di famiglia però nobile ed antica in quella città: sua madre fu figliuola del Marchese di Paglieta Pignatelli e di Beatrice Tappia, sorella della madre del Reggente Tappia, per la quale si professava egli di lui nepote, e per ostentazione del quarto materno s intitolò sempre Merlino Pignatelli. Col favore del Reggente Tappia suo zio, stimò non aver bisogno dell'Avvocazione per avanzarsi; onde andato prima Auditore in Salerno, e fatto poi Giudice di Vicaria, e poi Commessario di Campagna, in brevissimo tempo fu creato Consigliere. Per essere stato creatura del Conte di Monterey, fu poco grato al Duca di Medina, onde per la medesima ragione portossi in tutti i posti con somma lode di valore, integrità e dottrina; onde, che a suoi due tomi delle Controversie, tra moderni Scrittori del Regno, comunemente si dà il primo luogo. Fu da poi eletto Reggente supremo del Consiglio d'Italia, e tornato di Spagna, fu nell'anno 1648 decorato della dignità di Presidente del S. C. esercitata da lui con molto decoro e gravità. Morì egli pochi anni da poi nel sesto dì di settembre dell'anno 1650, e fu seppellito nella sua Cappella dentro la Chiesa de' Padri Gesuiti della lor Casa professa.[40]

Essendo stato creato il Reggente Merlino Presidente del S. C. fu eletto in suo luogo per Reggente in Ispagna Giancamillo Cacace, che si trovava allora Presidente di Camera. Era egli un famoso Avvocato de' suoi tempi, assai celebre per la dottrina e per l'arte del dire, il qual soleva pregiarsi, che mentr'era Avvocato non vi era stato Signore nel Regno che non fosse venuto a prender consulta in casa sua. Il di lui padre fu di Castell'a Mare e d'ordinarj natali; ma venuto in Napoli, ed acquistate mediocri ricchezze, furon quelle poi da lui eccessivamente accresciute col guadagno dell'Avvocazione, e con una somma parsimonia. Fu da poi fatto Avvocato Fiscale di Camera, e poi Presidente; ed eletto Reggente per Ispagna, per un indicibil abborrimento, ch'ebbe a viaggiar per mare, rinunziò il posto, ed in suo luogo fu eletto il Reggente Tommaso Brandolino; ma di là a pochi anni fu eletto di nuovo Reggente per Napoli, concedutosi ciò per suoi meriti, senz'obbligazione d'andare in Ispagna. Fu di genio assai tetro, ed abborrì sempre l'ammogliarsi; onde poco appresso essendo morto, e non avendo chi lasciar erede delle sue facoltà, fondò di sua roba un Monastero di donne povere, detto dei Miracoli, che a tempo de' nostri maggiori si chiamava pure il Monastero di Cacace.

Rilussero ancora i Consiglieri Filippo Pascale, patrizio Cosentino, famoso Avvocato e celebre pe 'l suo trattato: De viribus patriae potestatis. Ma sopra costui s'innalzaron per dottrine Scipione Teodoro, ancor egli rinomato Avvocato e celebrato per le sue Allegazioni, che ci lasciò. Tommaso Carlevalio per le opere impresse, e sopra tutto pe 'l suo trattato De Judiciis, si distinse parimente infra gli altri; e molti ve ne furon ancora, che per mezzo delle stampe lasciaron a' posteri memoria del lor nome, e quanto valessero nella profession legale. Ma oscurò tutti costoro il celebre Orazio Montano, per profondità di sapere, per eleganza e per somma perizia di ragione, non men civile che feudale.

Chiuda per ultimo la schiera Donat'Antonio de Marinis. Nacque egli in Giungano picciola Terra del Regno in Principato citra, e venuto in Napoli, assai sottilmente menando la vita, si diede con molta applicazione agli studj legali, dove vi fece notabili progressi, e non avendo avuta abilità alcuna nell'arringare in Ruota si diede a scrivere in alcune cause, donde compilò poi il primo Tomo delle sue Resoluzioni. Coll'integrità de' costumi, e con una sua maniera libera e lontana da ogni affettazione, si rendè grato a tutti gli Avvocati più principali de' suoi tempi, sicchè in tutte le cause era chiamato a collegiare; onde cresciuto d'opinione, cominciò ancor egli a difendere qualche causa, e diede in luce il II Tomo delle Resoluzioni. Fiorivano a' suoi tempi molti rinomati Avvocati, come Raimo di Ponte, Francesco Rocco, Francesco Maria Prato, Antonio Fiorillo, Ortensio Pepe, Ascanio Raetano, Paolo Giannettasio e Giovan Battista Odierna, li quali dal Conte di Castrillo a' 15 di maggio del 1654 volendo riordinare il Tribunal della Vicaria, furon fatti Giudici, e con essi anche il Marinis, li quali poi tutti passarono a posti supremi. Donat'Antonio nell'anno 1656 fu creato Presidente della Regia Camera, dove con somma integrità ed indefessa applicazione esercitò il posto insino all'anno 1661, nel qual tempo diede fuori i due volumi delle Decisioni del Reggente Revertero, che correndo M. S. per le mani d'alcuni, egli le accorciò e fecevi sue Addizioni, le quali insieme con gli Arresti, ovvero Decreti generali della Regia Camera, fece imprimere in Lione l'anno 1662. Raccolse ancora molte Allegazioni, così sue, come degli altri Avvocati suoi coetanei, o che fiorirono prima di lui, le quali per opera sua furon poi date alle stampe. Essendo Presidente di Camera e Vicecancelliere del Collegio de' Dottori fu nominato, nel 1661, Reggente nel Supremo Consiglio d'Italia e portatosi in Ispagna, ritornò poi in Napoli Reggente del nostro Collaterale a' 25 di febbrajo dell'anno 1665. Visse egli celibe e con somma parsimonia, tanto che potè cumulare qualche contante. Ma se mentre fu Avvocato seppe resistere agl'impulsi della natura, fatto Ministro, sconoscendo i suoi e la patria, non seppe star saldo al vento della vanità; poichè gli entrò in testa, d'esser egli disceso da' Marini di Genova, raccogliendo scritture dell'archivio, che a tal effetto gli eran somministrate dall'Archivario Vincenti, e venuto a morte a' 26 d'aprile del 1666 in età di 67 anni, immemore della patria e de' suoi, lasciò erede di tutti i suoi beni, che consistevano in contanti ed in una buona libreria, i Padri Scalzi di S. Teresa sopra i Regj Studj, per ambizione che gli rizzassero una statua di marmo, come fecero nella lor chiesa.

§. I. L'Avvocazione in Napoli si vide a questi tempi in maggior splendore e dignità.

Per le cagioni ne' precedenti libri accennate, essendosi questa Città per la sua ampiezza e magnificenza e per lo gran numero di suoi Nobili e Cittadini resa uguale alle maggiori Città del Mondo, e divenuta Capo e Metropoli d'un non men grande, che nobilissimo Regno, pieno d'un maraviglioso numero di Baroni, di Principi, di Duchi, di Marchesi e di Conti; e tenendovi ancora in quello interessi considerabili molti altri Principi Sovrani, e le Corone istesse d'Europa, come il Re di Polonia, Savoja, Neomburgh, Toscana, Modena, Parma, ed altri; e dove tutte le cause si giudicano dal Consiglio di S. Chiara, maggiore anche, per questo riguardo, del Parlamento di Parigi, che non tiene alcuna autorità sopra gli altri Parlamenti del Regno di Francia: l'Avvocazione presso di noi crebbe in somma stima, e riputazione. E maggiore si vide a questi tempi, quando per le tante rivoluzioni, calamità e disordini accaduti, fu veduto il Regno tutto pieno di liti, e si suscitarono cause di Stati grandissimi e d'eredità opulentissime; onde gli Avvocati crebbero assai più di stima per lo bisogno, che se n'avea nella difesa delle cause, nel consigliare i loro testamenti, i contratti, e di regolare le loro case, dipendendo da' loro consigli le facoltà, non men dei signori, che de' privati, ed anche de' principi sovrani, per gl'interessi che vi tengono. Quindi grandemente si offesero quando nel 1629 il Duca d'Alcalà Vicerè voleva obbligargli ad esporsi ad esame, e si risolsero concordemente d'astenersi più tosto da esercizio cotanto nobile, che sottoporsi ad una tal vergognosa censura. Antonio Caracciolo, famoso Avvocato di que' tempi, sostenne nel Collateral Consiglio le costoro ragioni; e di fatto, per non ricevere quest'oltraggio, s'astennero d'andare più a' Tribunali; e Giovan Vincenzo Macedonio, fermo nella sua deliberazione, contentossi di non far più l'Avvocato, per non si sottomettere a questa censura. Quindi è, che tuttavia i primi Baroni del Regno cercan d'avergli benevoli, ed in qualunque occasione, che loro si presenta, fanno per li loro Avvocati ciò, che non farebbero per se medesimi: trattano con loro con sommo rispetto, nè solamente danno loro il primo luogo nelle loro carrozze, ma frequentano le loro Case, e si sentono favoriti, qualora in concorso d'altri sono preferiti nell'udienze.

Rilussero ancora più gli Avvocati in questi tempi, perchè pian piano andavansi dirozzando di quella prima ruvidezza; e quando prima, per avvezzarsi a parlar bene, il loro studio era solamente posto nelle orazioni del Cieco d'Adria, essendosi nel principio di questo secolo, cioè nel 1611 aperta in Napoli l' Accademia degli Oziosi cominciavano ad avvezzarsi meglio nell'arte dell'eloquenza, con andarsi sempre più la nostra natia favella depurando dall'antica rozzezza; e se bene, come suole accadere in tutte le arti, in questi principj i nostri Avvocati non acquistarono gran fama di Oratori, e pure, secondo la testimonianza, che a noi ne rendè l'eloquentissimo Francesco d'Andrea, fiorirono a' questi principj tre famosi Avvocati, insigni per la fama d'eloquenza. Antonio Caracciolo, che fu poi Reggente, era comunemente chiamato fiume d'eloquenza, essendo dotato d'una vena naturale, ed abbondante, che accompagnata da non affettata modestia e da una gratissima maniera di rappresentare, rapiva gli animi di chi l'ascoltava. Giovanni Camillo Cacace, pur egli, come si è detto, innalzato poi al Reggentato, non dovea niente alla natura, ma tutto all'arte, ed essendo per natura timido, prese animo di darsi all'Avvocazione da due orazioni, che fece nella Accademia degli Oziosi con molto plauso: onde poi anche nelle cause si premeditava il discorso a mente con eloquenza più regolata che abbondante, ma con maggior dottrina, ed argomenti più efficaci del Caracciolo. Octavio Vitagliano (che poco curando il Ministerio, co' denari guadagnati coll'Avvocazione fondò la Casa de Duchi dell'Oratino) fu come un mezzo tra il Caracciolo e Cacace: ebbe discorso vigoroso e naturale, ma non avea nè la dolcezza del primo, nè tutta la dottrina del secondo.

Ne' tempi che seguirono, narra l'istesso Francesco d'Andrea, che essendo egli giovane, ebbe occasione d'ammirare D. Diego Moles padre del Reggente Duca di Parete: avea egli nobile aspetto, gratissima voce, e si spiegava nobilissimamente, e senz'affettazione: ardeva dove bisognava: le parole erano anche scelte e proprie; ed in somma, egli dice, che non sapeva altro, che desiderarvi: Pietro Caravita, pur famoso Avvocato di questi tempi, ch'era emolo del Moles e lo superava in dottrina, ma di lunga inferiore nell'arte del dire, non d'altro il censurava, che dell'impararsi a mente il discorso: ciò che se era vero, tanto maggiore era il suo artificio, poichè non se gli conosceva, e pareva, che le parole se gli suggerissero nel medesimo tempo che le diceva. Comunemente però era stimato più facondo Gerolamo di Filippo, Fiscal di Camera e poi Reggente, il quale aveva una affluenza naturale, accompagnata ancora dall'arte, ed una maniera più dolce ed affabile; ma secondo il giudicio, che ne dà l' Andrea, poco imprimeva, ed era affatto privo di que' requisiti tanto necessarj ad un perfetto Oratore: il suo discorso era più pieno di parole, che di cose, tal che il Conte di Pennaranda soleva di lui dire, mentr'era Avvocato Fiscale in Camera, che avea molti pampani, e poca uva; onde di forza, e di efficacia nel dire non poteva paragonarsi col Moles.

Fiorirono ancora a questi tempi Giulio Caracciolo, di cui l'Andrea dice, che avea anche un discorso aggiustato, tal che pareva premeditato; non avea però molta facondia, ma suppliva col decoro e con certo contegno di cavaliere; e per la qualità della nascita prese gran nome tra la Nobiltà; ma morto quasi nel principio della sua carriera, fu più famoso per quel che si stimava che avrebbe fatto, che per quel che fece. Bartolommeo di Franco acquistò pur nome di grande Avvocato, ma solo nelle cause de' rei avea una maniera sua propria, colla quale parlava le tre e le quattro ore, senza però dispiacere; fu più famoso però per le minuzie, che osservava ne' processi, e per li difetti, che apparivano intorno l'ordine giudiciario, che per rappresentar bene la giustizia, che il più delle volte non avea; tal che il Consigliere Arias de Mesa soleva dire, ch'egli avrebbegli data una cattedra primaria de Ordine Judiciorum con duemila ducati di salario l'anno per istruire gli Avvocati e Proccuratori; ma gli avrebbe impedito l'uso dell'Avvocazione. Francesco Maria Prato credea essere un grand'Oratore; ma a giudicio dell' Andrea e di tutti gli altri, non potea riporsi nè anche tra' mediocri: avea egli una maniera affettata, ed un accento Leccese, che più tosto lo rendea ridicolo, benchè non gli mancasse dottrina, per quant'era necessario all'uso del Foro e dell'orare. Si pregiava di parlar Spagnuolo; onde due cause celebri, che si trattarono in Collaterale in presenza del Vicerè Duca d'Arcos, le parlò in lingua spagnuola: ciò che non s'era fatto da nessun altro prima, com'egli se ne pregia in uno de' suoi volumacci dati alle stampe; ma le perdè tutte due, ed una fu quella della Congregazione di S. Ivone, che la guadagnò l' Andrea, essendo ancor giovane d'età di 22 anni, contro i PP. Gesuiti, che volevano aprirne un'altra del medesimo istituto nella Casa professa, della quale il Reggente Capecelatro nel suo secondo tomo ne porta la decisione. Paolo Malangone pur presso il volgo s'acquistò fama d'un grand Oratore, per un suo discorsetto pulitino rappresentato con grata e piacevole voce, ma nudo affatto d'ogni dottrina, anche della più comunale; onde non si ravvisava in lui cosa, che non fosse sotto assai la mediocrità, non consistendo l'eloquenza nelle sole parole, ma assai più nel vigore e nella robustezza delle ragioni. Fabio Crivelli avea pure una vena abbondantissima, sicchè parlava le tre e le quattro ore senza stancarsi, e per far pompa della sua abilità solea ripetere tutto ciò che s'era detto dall'Avversario e spesso con maggior giro di parole, per poi doverlo confutare.

Più di costoro rilusse in questi medesimi tempi il famoso Giuseppe di Rosa, poi Consigliere, celebre per le sue dotte, e profonde opere legali, che ci lasciò. Alla molta sua dottrina accoppiò ancora il pregio di spiegar senza pampani e con proprietà di parole i suoi sensi; ma perchè gli spiegava in maniera, che pareva che più tosto insegnasse, che orasse, perciò comunemente fu reputato più dotto, ch'eloquente.

Ma sopra tutti costoro s'innalzò poi a questi medesimi tempi l'incomparabile Francesco d'Andrea, lume maggiore della gloria de' nostri Tribunali, al qual dobbiamo non solo d'aver egli restituita in quelli la vera arte d'orare; ma molto più, per avere nel nostro Foro introdotta l'erudizione, ed il disputar gli articoli legali secondo i veri principj della Giurisprudenza, e secondo l'interpetrazione de' più eruditi Giureconsulti, de' quali presso noi rara era la fama ed il nome, applicando la loro dottrina all'uso del Foro, ed alle nostre controversie forensi. Egli fu il primo, che facesse risuonare nelle Ruote del nostro S. C. il nome di Cujaccio, e degli altri Eruditi. Egli tolse ancora la barbarie nello scrivere; ed egli fu il primo, che cominciasse a dettare le allegazioni in culto stile, imitando i più purgati Scrittori, ed a disputar gli articoli, non già secondo lo vulgari maniere, ma da limpidissimi fonti delle leggi derivando le conclusioni, le adattava al caso, valendosi delle interpetrazioni di Cujaccio, e degli altri eruditi, non discompagnandole dalle comuni tradizioni de' Dottori, come si vede dalle sue prime allegazioni, che tra l'opere del Moccia[41], e del Consigliere Staibano[42], furono impresse.

Dal suo esempio furon poi mossi gli altri a trattar le cose istesse del nostro Foro con più pulitezza e candore: onde Marcello Marciano nipote del primo Marcello, e figliuolo del Reggente Gianfrancesco, che fu dal Conte di Castrillo fatto Giudice di Vicaria e dal Conte di Pennaranda creato Consigliere, e dal medesimo passato poi in Camera Avvocato Fiscale, donde nel principio del governo di D. Pietro Antonio d'Aragona andò Reggente in Ispagna: nel tempo che fu Fiscale distese alcune allegazioni, intitolate Exercitationes Fiscales, con molta pulitezza e candore; e nell'ozio, che ebbe nella Corte di Madrid, perfezionò alcuni altri trattati legali, come quello De Incendiariis, dove vengono, secondo il metodo tenuto dagli altri eruditi, interpetrate molte difficili, ed oscure leggi, che su questa materia s'adducono: siccome fece nell'altro intitolato De Indiciis delictorum; ma in nessun altro mostrò quanto sopra questi studj si fosse avanzato, quanto in quello, che intitolò de Prejudiciis, che dalla morte prevenuto non potè condurlo a fine, nel quale superò Giacomo Revardo, che prima di lui avea trattato del medesimo soggetto. Ma non avendo avuto egli il piacere di veder in sua vita perfezionate queste sue opere, essendo a' 28 ottobre 1670 morto in Ispagna, furono da poi date alla luce in Napoli da Gianfrancesco Marciano suo figliuolo nell'anno 1680, nel qual tempo il Consigliere Gennaro d'Andrea, poi Reggente, (il quale seguitando l'esempio del suo gran fratello Francesco, sopra molti si distinse ancora nello scrivere, per l'eleganza e pulitezza dello stile, come lo dimostrano le sue allegazioni) volle a quest'edizione far precedere una sua epistola al Lettore, nella quale commendando la dottrina e l'eleganza dello stile, non ebbe difficoltà di dire, che se morte non avesse interrotto il bel disegno, ed avesse dato tempo all'Autore di por l'ultima mano a queste, ed altre insigni sue opere, che meditava, Napoli non avrebbe che invidiare a' più famosi Giureconsulti dell'altre città d'Europa. nè la Savoja si compiacerebbe tanto del suo Fabro, nè la Francia del suo cotanto rinomato Cujaccio[43].

Nè noi a questo insigne Giureconsulto Francesco d'Andrea dobbiamo solamente d'aver egli ne' nostri Tribunali introdotta l'erudizione, l'arte dell'orare ed il vero modo di disputar gli articoli legali e dello scrivere pulitamente, ma anche molto gli devono i Cattedratici, per aver egli pure nella nostra Università degli Studj proccurato, che la Giurisprudenza e l'altre scienze s'insegnassero con miglior metodo e dottrina di quello, che s'era praticato prima, secondo l'uso comunale e senz'alcuna erudizione. Alessandro Turamino, di cui si è favellato ne' precedenti libri avea lasciato un suo discepolo, che lo superò intorno al modo d'insegnare e d'interpretar le leggi: costui fu Giannandrea di Paolo, uomo eruditissimo ed oratore eccellente, da cui l' Andrea che gli fu discepolo si pregiava aver appresa la vera maniera d'intender le leggi per li loro principj, e di saper distinguere le vere opinioni de' nostri Dottori dalle false. Fin che visse, dice egli, nelli nostri studj fiorì il vero modo di insegnare e d'interpretare le leggi. Emmanuel Roderigo Navarro fiorì pure a questi tempi nella nostra Università occupando la Cattedra Primaria Vespertina di legge civile; e dopo lui, il cotanto famoso presso di noi Giulio Capone. Ma per contrario Giandomenico Coscia Lettor Calabrese[44] che ne' medesimi tempi s'avea presso il volgo acquistata gran fama, e teneva un infinito numero di scolari, reggendo la Cattedra primaria mattutina de' Canoni, e ch'ebbe gran contese di precedenza col Navarro, avea avvilito il mestiere: costui goffo al segno maggiore, e privo d'ogni erudizione, insegnava scipitamente la legge a' nostri giovani. Tal che, morto Giannandrea di Paolo, era presso noi quasi ch'estinto il vero modo d'insegnare.

Ma restituiti da poi, come si disse, i pubblici Studj dal Conte d'Onnatte, il nostro Andrea proccurò, che ritrovandosi in quelli occupar la Cattedra delle Istituzioni D. Giambatista Cacace[45], il quale per essere stato discepolo di Giannandrea di Paolo, insegnava quei primi elementi con maniera diversa dagli altri, con metodo ed erudizione, e secondo il modo tenuto dagli autori eruditi; ed insegnando parimente costui in questa Università la Rettorica con molto profitto degli ascoltatori, per essere versato nella lingua latina, e non meno in verso, che in prosa: proccurò l' Andrea per l'opinione, che a questi tempi s'avea acquistata, di accreditarlo maggiormente, e predicar il suo valore, e mandovvi da lui ad apprender le Istituzioni e la Rettorica Gennaro suo fratello, dal cui esempio mossi gli altri, fur poste in piedi due Cattedre ne' nostri Studj, quella delle Istituzioni e della Rettorica, concorrendovi gran numero di scolari ad apprenderle.

Parimente egli rimise in questa Università la cattedra di Matematica, e quel che fu più, proccurò, che l'occupasse Tommaso Cornelio famoso Filosofo e Medico di que' tempi, il quale insegnandola secondo il metodo tenuto da' migliori e più valenti Matematici, fece sì, che unita la sua opera a quella di M. Aurelio Severino, ancor egli famoso Filosofo e Medico di questi tempi, e Lettore primario de' nostri Studj (delle cui opere il Nicodemo[46] tessè lunghi cataloghi), presso di noi pian piano cominciasser i nostri giovani ad aver buon gusto delle buone lettere, e della Filosofia, e della Medicina, e cominciassero a deporre gli antichi pregiudicj delle Scuole.

Nè contento questo insigne Giureconsulto di tutto ciò, per l'amicizia ch'e' si proccurò di que' pochi veri letterati, che fiorivano a' suoi tempi, d' Ottavio di Felice, vecchio assai erudito, e che avea consumata quasi tutta la sua vita nello studio della lingua greca e della morale d'Aristotele: di D. Camillo Colonna, uomo eruditissimo, di sublime intendimento, e gran Filosofo: del cotanto appresso noi rinomato Camillo Pellegrino, e d'alcuni pochi altri: avea egli assai più distese queste cognizioni, e proccurato, per mezzo della sua eloquenza, diffonderle in altri; ed essendo a questi tempi, come si è detto, opportunamente venuto in Napoli Tommaso Cornelio, a cui Napoli deve tutto ciò, che ora si sa di più verisimile nella Filosofia e nella Medicina, l' Andrea fu il primo che abbracciasse quella maniera da colui proposta di filosofare, ed il Cornelio per mezzo suo fece venire in Napoli l'opere di Renato delle Carte, di cui sino a quel tempo n'era stato presso noi incognito il nome; tal ch'essendosi restituita nel medesimo tempo l' Accademia degli Oziosi sotto il Governo del Duca di San Giovanni, dov'esercitavansi gli Accademici in recitarvi varie lezioni, egli fra l'altre ne recitò due, che per la novità diede molto che dire, nell'una delle quali dimostrò su quali deboli fondamenti s'appoggiasse la volgar Filosofia delle Scuole, e nell'altra quanto dovesse per conseguenza esser preferita la novella maniera di filosofare. E quantunque essendo poc'anni da poi soppravvenuto il contagio, bisognasse tralasciare tutti questi studj, nulladimanco quello poi cessato, e restituite le cose allo stato primiero, si ripigliaron da lui con maggior fervore e con maggior successo: poichè cresciuto assai più in opinione ed autorità, ebbe molti, che lo seguirono, tanto che poi, col correr degli anni, si videro presso noi introdotte e stabilite le buone lettere in tutte le discipline, nella maniera, che sarà narrata ne' seguenti libri di quest'Istoria.

CAPITOLO V. Politia delle nostre Chiese di questi tempi, insino al Regno di Carlo II.

Ne' Regni di Filippo III e IV siccome si è potuto osservare da' precedenti libri, si regolavano presso noi gli Ecclesiastici affari, secondo le varie mutazioni delle Corti. I Pontefici Romani pur troppo intrigati negl'interessi de' Principi, dando ora timore, ora gelosia, costringevan quelli ad usar tutti i mezzi perchè pendessero dal lor partito. Si erano ancora intrigati a maneggiar essi le paci tra' Principi guerreggianti, riputando esser proprio lor ufficio, come comuni Padri e Pastori di ridurgli a concordia: quindi spedivano Nunzj e Legati per trattarle e s'arrogavano grand'autorità nelle composizioni. Ma il Cardinal Mazzarini ruppe ogni velo, e ad onta del Pontefice Alessandro VII non volle accettare la di lui mediazione nella pace de' Pirenei, nella quale non permise, che altri, ch'egli, e D. Luigi di Haro v'avessero parte: ciò, che sensibilmente trafisse l'animo di quel Pontefice e della sua Corte; essendosi da quest'esempio poi veduto, che nell'altre paci seguite in appresso tra' Principi d'Europa, le meno considerate furono le mediazioni ed interposizioni de' Nunzj della Corte Romana.

Secondo la buona corrispondenza, ovver poca soddisfazione, che passava tra la Corte di Spagna con quella di Roma, si regolavano da' nostri Vicerè le contese giurisdizionali. Non si soffrivan torti, quando erano in urta e si resisteva con più vigore e fortezza all'intraprese. Quando per la poca soddisfazione, che i Ministri Spagnuoli ricevevano dalla Corte di Roma furono spediti da Madrid il Vescovo di Cordova, e D. Giovanni Chiumazzero al Pontefice Urbano VIII con segrete istruzioni di minacciargli la convocazione d'un nuovo Concilio, affinchè togliesse i molti aggravj, che s'inferivano ne' Regni di Spagna dalla Corte di Roma per le pensioni che imponeva a favor degli stranieri e per l'eccessiva quantità delle medesime, anche sopra i beneficj curati: per le Coadjutorie con futura successione: per le resignazioni de' beneficj curati: per le dispense ed altre provvisioni, che venivano da Roma, e per le gravi spese, che s'estorquevan per la loro spedizione: per le reservazioni de' beneficj: per gli spogli crudeli, che si praticavano nella morte dei Prelati: per le vacanze de' Vescovadi e per le altre intollerabili gravezze, ch'esercitava in que' Regni la Nunziatura di Spagna[47]: non minori gravezze soffriva il nostro Regno dalla Nunziatura di Napoli.

Deludendosi le concordie passate co' Capitoli e Cleri di tutte le Chiese Cattedrali, ed interpetrandole a lor modo, le tasse s'esigevan con molto rigore ed ingiustizia; poichè provvisti dalla Dataria molti di quei benefici, ch'erano stati compresi nella tassa, in persona di Cardinali e d'altri Prelati di quella Corte, riputati immuni da tutte le gravezze, venivano a sostener tutto il peso i rimanenti beneficj. Continuava pure la Camera Appostolica a far crudeli spogli nelle morti de' Vescovi, Abati e degli altri Beneficiati non inclusi nella convenzione, con tanta asprezza de' Commessarj, che in tempo della loro infermità, e quando aveano maggior bisogno di conforto e d'assistenza, si vedevano co' proprj occhi saccheggiate le loro stanze e spogliati di tutto ciò che tenevano. Negli spogli de' Vescovadi, Badie ed altri Beneficj non compresi nella concordia, si facevan lecito i Nunzj di procedere contro i laici, imputati d'aver occupati beni appartenenti alle Chiese o Beneficj vacanti, ed alla Camera Appostolica per cagion di tali spogli, con propria autorità sequestrandogli per mezzo de' suoi Commessarj e di scomunicare i possessori e tutti coloro, che in ciò loro avessero dato impedimento.

Erano ancora insoffribili le gravi estorsioni, che si facevano nel lor Tribunale, esigendo da' litiganti e da tutti coloro, che aveano di essi bisogno, sotto pretesto di diritti e sportule, eccessive somme più di quello, che si pratica negli altri Tribunali Regj della città e del Regno; e la cagione dell'eccesso veniva, perchè la Corte di Roma vuol tener molti Ministri in quel Tribunale, ma non vuol pagargli del proprio con assegnamento di provvisione, o soldo, come si pratica negli altri Tribunali; ma vuol che se lo procaccino essi dagli emolumenti de' diritti, o propine; onde avveniva, che i poveri litiganti erano escoriati insino all'ossa dalla rapacità ed ingordigia de' Curiali. Non minore era il disordine ed il pregiudicio, che si apportava alla Regal Giurisdizione per l'infinito numero de' laici, che dalla città e da tutte le Diocesi del Regno, pretendevansi sottrarre dalla giurisdizione del Re con farsi ascrivere, per mezzo di loro patenti, al servigio di questo Tribunale, chi per Attuarj, chi per Cursori, onde si commettevano infinite frodi, e n'esenzionavano moltissimi, non per bisogno che n'avessero, ma per maggior smaltimento delle loro patenti, che vendevano a carissimo prezzo, persuadendo, che fossero di tal virtù ed efficacia, che gli rendessero esenti dal Foro laicale, e che per ciò dovessero esser franchi ed immuni da qualunque pagamento così Regio, come delle Università. Pretendevano ancora i Nunzj, che tutti della lor famiglia così armata, come domestica, e del lor Palazzo fossero immuni ed esenti dalla Regal Giurisdizione; onde nacquero per ciò fra noi disordini gravissimi, e sovente i nostri Vicerè ebbero a contrastar per questa immunità pretesa da' lor familiari, non pure con gli Arcivescovi, ma eziandio coi Nunzj, i quali, anche per delitti gravissimi, prendevan protezione de' ribaldi, sol perchè erano della famiglia del lor palazzo.

Fecero valere i nostri Vicerè i Regali diritti con molta fortezza e vigore per tutto il tempo, che durarono le male soddisfazioni d'ambedue le Corti, e mentre durò la missione del Vescovo di Cordova e del Chiumazzero; ma il Pontefice Urbano punendo, come si disse, l'affare in trattati, che faceva prolongare con varie difficoltà, profittossi del tempo; poichè gli Spagnuoli, sempre più percossi da maggiori sciagure, furono costituiti in istato di non doversi maggiormente disgustare la Corte di Roma; onde riuscita vana la lor missione, rimasero, non pure in Ispagna, ma nel nostro Regno le gravezze, che dal Tribunal della Nunziatura erano a noi cumulate; e gli Ecclesiastici più arditi, che mai, non tralasciavano di tentar delle nuove intraprese supra la Regal Giurisdizione.

Per lo gran numero delle Chiese, e per li frequenti delitti, che succedevano nella città e nel Regno, fu riputato di doversi trovar compenso agl'intollerabili abusi della pretesa immunità delle Chiese cotanto dagli Ecclesiastici ingrandita, e della quale si mostravano ora più che mai forti difensori, nell'istesso tempo, che conoscevano la principal cagione di tanti delitti esser l'immunità delle Chiese così stranamente estesa, che rendeva più baldanzosi i ribaldi a commettergli. Si pensò spedir in Roma il Consigliere Antonio di Gaeta per ottener dal Pontefice qualche riforma alla Bolla di Gregorio; ma, come si è veduto, riuscì pure questa missione inutile e senz'effetto, profittandosi la Corte di Roma delle nostre sciagure, e della debolezza, nella quale vedeva allora essersi ridotta la Corte di Spagna.

§. I. Monaci e beni temporali.

Niun altro più illustre e memorando esempio, fa più chiaramente conoscere, che le ricchezze delle Chiese, e de' Monaci ricevono tanto maggior incremento, quanto più crescono le sciagure e le calamità de' popoli, quanto ciò, che si vide accadere nel nostro Regno in tempo delle maggiori sue ruine e miserie; poichè a tali tempi, più che in altri, i miseri mortali ricorrendo a Dio ed a' Santi, o ringraziandoli del mali, o pregandogli che maggiori loro non avvengano, sono più solleciti, che mai di far parte de' proprj averi a' loro Tempj e Sacerdoti. Non videro certamente; i nostri maggiori tempi più calamitosi di quelli, che corsero dal Regno di Filippo II insino alla morte di Filippo IV. Soffrirono, o guerre crudeli, o (quel ch'è peggiore) gravi timori di quelle: incendj del Vesuvio, tremuoti, scorrerie di Banditi, invasioni di Turchi, sedizioni, tumulti, carestie, oppressioni, gravezze intollerabili, pestilenze crudelissime, e tanti altri mali che inorridiscono gli animi sentendoli. E pure in mezzo a tante sciagure, si videro moltiplicare le chiese e' monasteri di Religioni già stabilite, introdotti nuovi Ordini, farsi nuovi e più doviziosi acquisti, ed in fine crescer tanto i loro averi, che poco lor resta dell'impresa di tirar a se quel poco e misero avanzo, ch'è rimaso in poter de' Secolari.

Furono introdotti in questo secolo XVII nuovi Ordini di Religioni. La Congregazione de' Padri Pii Operarj, ebbe fra noi ricetto nell'entrar di questo secolo. D. Carlo Caraffa, Cavalier napoletano e sacerdote, gli diede principio nell'anno 1607 nella chiesa di S. Maria de' Monti posta nel Borgo di S. Antonio di questa città. Ma di poi, il Cardinal Dezio Caraffa Arcivescovo, con assenso del Pontefice Paolo V, concedè loro, nel 1618, la chiesa di S. Giorgio Maggiore, antica parrocchia di Napoli, resa poi Collegiata, e servita un tempo da sette Domadarj prebendati, e da altrettanti Sacerdoti, fra quali si connumeravano ancora l'Archiprimicerio e 'l Primicerio[48]. Ma minacciando a questi tempi ruina, nè avendo modo di repararla per la molta spesa che vi voleva, parve espediente di concederla a' Padri suddetti. Fu approvata tal congregazione da Gregorio XV, per Breve Spedito in Roma a' 2 d'aprile del 1621, e nel seguente anno 1622 ottenne dal medesimo l'amministrazione di tutti i sagramenti, ed Urbano VIII la confermò poi nell'anno 1635. Fecero presso noi col correr degli anni non piccoli progressi, avendo in Napoli ed altrove fondate altre lor case e fatti non dispregevoli acquisti di beni e di poderi.

Poco da poi nell'anno 1609 vennero a noi i Cherici Regolari Barnabiti di S. Paolo Decollato. Ci vennero da Milano, dove nell'anno 1526 furono istituiti da Giacomo Antonio Moriggia e Bartolommeo Ferrario Milanesi, e Francesco Maria Zaccaria Cremonese, mossi dalle prediche di Serafino Firmano Canonico regolare. Furon chiamati Cherici Regolari di S. Paolo, perché fra gli altri loro istituti era di predicare su l'epistole di S. Paolo; ed i loro regolamenti furon da poi confermati da più Brevi Appostolici nell'anno 1528, e nel 1533. S. Carlo Borrommeo Arcivescovo di Milano li favorì pure, e concedè loro in Milano la Chiesa di S. Barnaba, donde presero anche il nome di Barnabiti. Sparsi poi per molte città di Lombardia e d'Italia, capitarono finalmente in Napoli in quest'anno 1609 dove si diede loro ricetto nella chiesa di S. Maria di Portanova, detta in Cosmodin, anch'ella antica, ed una delle quattro principali parrocchie di questa città[49].

Furono pure in questo secolo, nell'anno 1610, istituite da S. Francesco di Sales, Vescovo di Ginevra, le Monache della Visitazione della Vergine, per visitare i poveri e gl'infermi. Ridotte poi a clausura, eran per ciò tenute ricevere quelle donzelle infermicce, che non sarebbero state ammesse in altri monasteri. Queste vennero a noi più tardi, e sopra la Chiesa di S. Maria della Pazienza Cesarea v'han fondato un ben ampio e comodo monastero.

S'introdussero ancora altre riforme d'antiche Religioni. I Riformati di S. Bernardo fondarono una magnifica Chiesa fuori la Porta di S. Gennaro, sotto il nome di S. Carlo. I Riformati di S. Francesco, soccorsi da varj Signori napoletani e spagnuoli, fondarono in amenissimo sito un ben ampio Monastero, con ben architettata Chiesa sotto il nome di S. Maria degli Angeli. I Riformati Carmelitani Scalzi ne fabbricarono un altro nel Borgo di Chiaja, sovvenuti dal Conte di Pennaranda, che somministrò alla fabbrica della Chiesa tremila scudi, e che nell'apertura che se ne fece agli 11 di marzo dell'anno 1664, volle egli intervenire con l'assistenza de' Regj Ministri, tenendovi Cappella Regale. Non meno che i Conti di Lemos coi Gesuiti fu questo Vicerè profuso co' Teresiani. Per la sua pietà, non solo contribuì alle spese del Convento di questi Padri, ma anche sovvenne le Monache Teresiane Scalze per l'ingrandimento del lor Monastero di S. Giuseppe in Pontecorvo.

I Gesuiti, dall'altra parte, accrebbero pure a questi tempi maravigliosamente i loro acquisti. Erano i direttori, non men delle coscienze, che delle case del Signori e de' popolani. Per mezzo delle loro Congregazioni, che d'ogni qualità di persone e di mestiere istituirono ne' loro Collegi e Case professe, tirarono a se la devozione e l'ossequio di ogni sorta di gente. S'intrigavano in tutti i loro affari, regolandoli (per l'opinione che s'avean acquistata di uomini da bene e prudenti) a loro arbitrio e volere. Insino le liti più gravi e di momento, per via d'amicabili composizioni eran rimesse al loro giudicamento; ed il Reggente Marinis nelle sue Resoluzioni, rapporta più arbitramenti di Gesuiti fatti in cause gravissime e di somma importanza. Niun Vicerè, quanto il Conte di Pennaranda, ebbe tanta e sì grande inclinazione alle fabbriche o ristoramenti delle Chiese: non vi fu quasi luogo sagro, che non ricevesse da lui per ciò larghe e copiose limosine. Egli soccorse i Carmelitani nel ristoramento che fecero, e separazione che ottennero del lor Monastero col Torrione del Carmine, perchè non fossero inquietati dalle soldatesche spagnuole che ivi dimoravano. Egli contribuì abbondanti soccorsi per ridurre a fine la fabbrica del Romitorio di Suor Orsola e della Chiesa di S. Maria del Pianto, dove furono seppelliti i cadaveri di coloro che rimaser dalla contagione estinti. Egli soccorse la Chiesa di S. Niccolò al Molo. Ed essendosi in tempo del suo Governo, per le note contese insorte fra Domenicani e Francescani intorno all' Immacolata Concezione (donde per quietar questi romori, fu di mestieri a più Papi stabilire per ciò più Costituzioni e Bolle) dagli Spagnuoli, ch'erano del partito de' Francescani, molto più esaltata la divozione di Nostra Signora sotto questo titolo, egli avidamente ne prese l'opportunità, e fece con molta pompa e solennità in tutte le Chiese sotto questo nome celebrar feste magnifiche; onde s'accrebbe presso i popoli tal divozione, in maniera che non vi fu Chiesa di questo titolo, che non ricevesse abbondanti e profuse limosine dalla pietà de' devoti.

L'esemplo del Capo mosse e Nobili e Popolari a far lo stesso. Molte altre Chiese per ciò o di nuovo si fondarono, ovvero ruinate si ristabilirono. S'aggiunse ancora, che avendo la crudel pestilenza lasciata quasi che vota, la città ed il regno d'abitatori, molti non avendo a chi lasciare i loro patrimonj, gli lasciavano alle chiese ed a monaci, onde vie più crebbero le loro ricchezze. Altri crucciati co' loro congiunti, li quali mal seppero coltivarsi la loro benevolenza, per odio e per far ad essi dispetto, lasciavano i loro averi alle chiese. Vi contribuì non poco eziandio la dottrina de' monaci stessi disseminata e ben radicata a questi tempi, che coloro, i quali aveano rubato in vita, con lasciar in morte i loro beni alle chiese, saldavan con Dio ogni conto; ond'è, che alcuni riflessivi Viaggianti, che stupidi ammirano l'infinito numero delle nostro Chiese e Conventi, e le loro ampie ricchezze, in vece da ciò prenderne argomento di pietà, maggiormente si confermano nel mal concetto, ch'essi hanno de' Napoletani, d'esser gente a rubar sin dalla cuna avvezza; e che per ciò siano in morte cotanto profusi in lasciare alle Chiese morte, perchè in vita molto rubarono alle Chiese vive[50].

Per queste cagioni si multiplicarono presso noi le Chiese ed i Monasteri, in guisa, che da ora innanzi non si può più di loro tener minuto ed esatto conto. Pietro di Stefano credea aver fatto un compiuto novero delle Chiese della sola città di Napoli, quando nell'anno 1560 diede fuori il suo volume della descrizione de' luoghi Sacri della Città di Napoli. Ma non passarono sessant'anni, che Cesare d'Engenio, per le tante altre nuovamente costrutte, fu spinto a compilarne un altro, che diede a luce in Napoli nell'anno 1624 sotto il titolo di Napoli Sacra. Ma che perciò? non passarono trent'altri anni, che bisognò a Carlo de Lellis stamparne nell'anno 1654 un terzo volume col titolo: Aggiunto alla Napoli Sacra, ovvero supplemento. E ciò nemmeno ha bastato, perchè ora sono vie più cresciute, sicchè possono somministrare sufficiente materia di tesserne un quarto volume.

Conferirono eziandio in questi tempi agli acquisti delle chiese le stravaganti dottrine de' nostri Dottori, li quali mal adattando le regole antiche a tempi presenti, stravolgendo i sensi delle leggi non ben da essi capite, e niente curando le circostanze de' tempi e la mutazione dello stato delle cose, spinti da imprudente e mal'intesa pietà, favorivano colle loro penne a tutto potere tali acquisti, ed eran tutti inclinati in ampliarne i modi e le cagioni, con detrimento notabile della società civile, e pregiudizio gravissimo del dominio, che ciascun tiene sopra la sua roba. Insegnavan essi, come per indubitato, che i padroni delle case alle chiese vicine, potevan costringersi lor mal grado a venderle alle chiese, se servissero per loro ampliazione: e di vantaggio, che nel prezzo non doveste riguardarsi l'incomodo, o l'affezione del forzato venditore, ma ciò che puramente la cosa sarebbe da' periti valutata. E questo favore non già solo era conceduto alle chiese, ma l'estesero agli atrj, a' portici, alle sacrestie, a' cimiterj, a' chiostri, alle scale, a dormitorj, insino alle cucine, ed a' giardini de' monasterj. Si stese parimente, anche se fra la chiesa e la casa vicina vi frammezzasse una pubblica strada e quel che parrà più strano, sino per far una gran piazza, ed un largo campo avanti l'edificio. Nella famosa lite, che il Cardinal Filomarino nostro Arcivescovo mosse alle Monache del Monastero di D. Regina, per cui Giulio Capone[51] che difendeva il Prelato, ne compilò due allegazioni, si pretese dall'Arcivescovo, che dovesser le monache forzarsi a vendergli alcune case, che tenevan davanti al suo palazzo, ancorchè vi frammezzasse una pubblica strada, intendendo abbatterle per slargar ivi un gran campo, perchè quello, che era, non era così ampio sicchè con facilità potessero entrarvi le Carrozze a sei. Il Cardinal di Luca, ch'essendo allora avvocato in Roma, prese la difesa delle monache, stupiva della pretensione, e con sua allegazione, rapportata dal medesimo Capone, confutò quanto da costui erasi allegato in contrario. Ma che prò? fu deciso a favor dell'Arcivescovo, furon le case abbattute ed adeguate al suolo, e la piazza per ciò ampiamente allargata, sicchè ora le carrozze a sei possono avervi in quel palagio comoda e facile entrata ed uscita.

Quindi è avvenuto, che i Conventi, ancorchè nei loro principj assai piccioli, siansi veduti poi occupar tutta una Contrada, dall'un lato all'altro, finchè si giunga alla strada, che discontinui le case, e potendosi con difficoltà trovare in Napoli strada, nella quale non vi sia qualche convento, se non si ripara ad un così grave e ruinoso abuso, potranno per tal mezzo i monaci a lungo andare giungere a comprarsi l'intera città. Nè finirono qui gli acquisii delle chiese e dei monaci; vie maggiori, a proporzion del tempo, se ne videro appresso, insino a' dì nostri, sotto Carlo II, il regno del quale ne' due seguenti libri saremo ora a narrare.

FINE DEL LIBRO TRENTESIMOTTAVO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMONONO

La morte del Re Filippo IV, il qual lasciava sotto la Reggenza d'una donna il successore d'età così tenera, fece credere ad alcuni, che dovesse suscitare ne' Regni di Spagna agitati dalla guerra di Portogallo, e mal sicuri della pace con Francia, alterazioni di gran momento; e non essendosi veduta (da poi che questi Regni furono dominati dagli Austriaci) minorità di Re, così infante, nè Reggenza di femmina straniera, e nel governo inesperta, non si sapeva come il genio altiero della nazione spagnuola fosse per soffrirlo; tanto maggiormente che Don Giovan d'Austria, ancorchè amatissimo dal Re, non essendo stato nè pur nominato nel testamento, malamente tollerava vita privata e negletta. Si aggiungeva, che il Consiglio di Stato, avvezzo a grand'autorità, si doleva aver per iscontro la Giunta, che s'arrogava la principal direzion degli affari. Tuttavia, o fosse che l'ambizion de' Grandi, mancando di forze, si sfoghi in vane querele, o che il timor della Francia, ed il rossore di non vincer i Portoghesi, gli contenesse a dovere, la mutazion del Regnante non cagionò romori nè commozioni nei Regni, e molto meno in questo di Napoli, di cui il Re, avutane in quest'anno 1666 l'investitura dal Pontefice Alessandro VII, la cui originai Bolla si conserva nell'Archivio grande della Regia Camera ne commise, come si disse, il governo a D. Pietr'Antonio di Aragona, di cui, e degli avvenimenti accaduti in suo tempo, saremo ora a narrare.

CAPITOLO I. D. Pietr'Antonio d'Aragona ributta la pretension del Pontefice promossa per lo Baliato del Regno. Si muove nuova guerra dal Re di Francia col pretesto della successione del Ducato del Brabante con altri Stati della Fiandra, la qual si termina colla pace d'Aquisgrana.

Stabilita la Reggenza in persona della Regina madre, e la Giunta di que' Ministri disegnati dal defunto Re nel suo testamento per lo governo de' Regni, che componevano la Monarchia di Spagna, ed acquetatosi non meno il Consiglio di Stato, che i Grandi alla disposizione fattane dal Re Filippo, non per ciò volle il Pontefice Alessandro VII mancare di promover ora l'antica pretensione, che i suoi predecessori ne' passati turbati tempi s'avean in parte fatto valere in questo Reame, di doverne essi come diretti e soprani Padroni, durante la minor età del Re, prenderne il Governo. Da' precedenti libri di quest'istoria ciascuno avrà potuto conoscere sopra quali deboli fondamenti ella s'appoggi; con tutto ciò alterandosi dalla Corte di Roma l'esempio accaduto nel pontificato di Innocenzio per la minor età dell'Imperador Federico II, la Legazione del Cardinal di Parma nei Pontificati di Martino IV, e d'Onorio IV, nella prigionia di Carlo d'Angiò Principe di Salerno, ed alcuni altri mal adattati esempj, prese in questi tempi nuovamente l'ardire di pretenderlo. Si credette allora da' più savj discernitori delle azioni di quella Corte, che ciò si tentasse, non già con isperanza d'ottenerlo, ma per tenere in cotal guisa sempre viva la pretensione, affinchè in migliori occasioni, secondo che portasser le circostanze e le congiunture de' tempi, se ne potessero, quando che sia, più fruttuosamente un tempo valere. Non tralasciò pertanto, poco dopo l'arrivo di D. Pietro in Napoli, di presentarsi il Nunzio in sua presenza, ed in nome del Papa, ad esporgli le ragioni della Sede Appostolica intorno al Baliato del Regno, e che per conseguenza s'apparteneva al Pontefice di doverlo ora provvedere di Balio, e di Governadore, fin che durasse la minor età di Carlo. Il Vicerè gli rispose, che non faceva mestieri che Sua Santità s'impacciasse di questo Governo: poichè bastantemente s'era provveduto dal Re Filippo nel suo testamento, con istabilire la Reggenza in persona del la Regina, ed era una Giunta per lo Governo di tutti i suoi Stati; ed avendogli il Nunzio lasciata una memoria di queste pretese ragioni, il Vicerè diede incombenza al famoso Marcello Marciano il giovane, che si trovava allora Avvocato Fiscale di Camera, che vi rispondesse.

Questi medesimi ufficj furono passati dal Nunzio di Spagna in quella Corte, al quale furono date le medesime risposte, ed avendo pure colui fatto spargere alcuni scritti, dove si rappresentavano le pretensioni di Roma, furono, non men da alcuni Napoletani, che si trovavano in Madrid, che da valenti Scrittori spagnuoli, confutati, e fatti conoscere vani e deboli i fondamenti sopra i quali appoggiavasi la pretensione. Ma sopra quante scritture uscirono allora così in Ispagna, come in Napoli, la più dotta e vigorosa fu riputata quella del Fiscal Marciano, che dettata in idioma latino comparve fuori sotto questo titolo: De Baliatu Regni Neapolitani[52]. Così scortasi da' Romani la vigorosa resistenza non meno della Corte di Madrid, che del Vicerè di Napoli, posero alla pretensione per allora silenzio.

Ma non fu tale il successo della pretensione promossa, pure a questi medesimi tempi, dal Re di Francia sopra il Ducato del Brabante con altri Stati della Fiandra, nella qual contesa, ancorchè a riguardo delle scritture rimanessero i nostri superiori, per sostenere la causa migliore; furono però perditori nel successo della guerra e delle armi, che quel Re con tal pretesto mosse in Fiandra. Per la morte del Re Filippo fu dato ad intendere al Re di Francia, giovane allora e di riposo impaziente, che il Ducato del Brabante con alcuni altri Stati della Fiandra, fossero devoluti alla Regina sua moglie, come figliuola del primo letto del Re Filippo, non ostante che avesse egli dal secondo lasciato il Re Carlo figliuol maschio; poichè la consuetudine di que' Paesi era, che nelle successioni, ed eredità si preferisse la femmina del primo letto ai maschi nati del secondo. Il cupido Re ricevè volentieri l'occasione con tal pretesto di poter slargare i confini del suo Regno sopra quello del vicino; ma essendo allora viva la Regina Anna Maria sua madre, non si mosse, facendo solamente palesar la pretensione, esagerandola in alcune scritture per giusta e molto ben stabilita. Ma morta poco da poi la Regina madre, e sciolto con la morte il vincolo d'autorità, ch'ella sopra il figliuolo teneva, non così tosto fece pubblicar colle stampe le pretensioni, che mosse le armi per farsele valere. Scrisse nel di 9 maggio di quest'anno 1667 alla Regina Reggente di Spagna una lusinghevole lettera, nella quale dolendosi, che non essendosi voluti accettare i trattati di un amichevol accordo, ch'egli avea proposti per la composizione di tal affare, si vedeva costretto d'uscire alla fine di quel mese in Campagna, per proccurare di porsi in possesso di quel, che giustamente se gli apparteneva nei Paesi Bassi per parte della Regina sua sposa, o di altro equivalente, ma con tutto ciò, ch'erasi da lui ordinato all'Arcivescovo d'Ambrun suo Ambasciadore, che le presentasse una scrittura, di suo ordine fatta stendere, nella quale si contenevano le ragioni, ove si fonda il suo diritto; affinchè fattala esaminare, possa venire ad abbracciare i medesimi mezzi, che le avea fatti proporre, e che anche al presente le faceva, di aggiustar tal differenza con alcuno amichevole accordo.

Si conobbe da questa lettera, che si cercavan pretesti per invader le Fiandre preventivamente, per non dar luogo a difesa; poichè nel medesimo istante che si proponeva accordo, si protestava, che per la fine del mese si sarebbe posto in campagna, e che prima che si potesse leggere la scrittura inviata, non che esaminarsi, era risoluto d'andare ad impossessarsi colla forza delle pretese province o del loro equivalente, sopra gli altri Stati del Re Cattolico. Nè i fatti discordarono dalle parole, perchè nella fin del mese, ponendosi egli alla testa del suo esercito, giunse sulle frontiere della Fiandra, e diviso l'esercito in più corpi, nell'istesso tempo che fece pubblicar un libro in diverse lingue delle pretese ragioni della Regina sua moglie, attaccò più piazze di quella provincia.

Gli Spagnuoli, dall'altra parte, esagerando cercarsi dal Re Lodovico più tosto speziosa, che giusta cagione di muovere l'armi; ribattevano con vigore le pretese ragioni, sostenendo con più vigorose scritture in contrario, che le Consuetudini o gli Statuti, particolari non potevano giovare nella successione sovrana degli Stati, in cui troppo ripugna all'uso ed alla natura delle cose, che in pari grado, dalle femmine si pretenda togliere a' maschi la corona di capo. Ma essi non erano così ben forniti di arme, quanto di ragioni, per potersi difendere dalla forza. La Regina Reggente turbata all'improvvisa intimazione, che le fu fatta guerra, si raccommandava con lagrime a' suoi ministri; ed avendo un dì fatto introdurre il fanciullo Re nel Consiglio, gli fece dire con voci puerili nella propria favella, che commossero gli animi di tutti: Io son'innocente, assistetemi[53].

Risoluti per tanto gli Spagnuoli ad una valida difesa, nell'istesso tempo, che ne proccuravano i mezzi, non tralasciavano di disingannare i popoli delle vantate ragioni de' Franzesi, facendole apparire per vane ed ingiuste: esagerando le oppressioni, che dalla Francia si facevano ad un Re fanciullo, e così strettamente congiunto all'invasore.

In Fiandra da un Ministro del Re Cattolico erasi data già alle stampe nel principio di quest'anno una scrittura, nella quale si dimostrava la vanità della pretensione, affinchè cessassero i romori del volgo, per le voci che andavansi seminando da Franzesi circa la pretesa successione della Regina di Francia nel Ducato del Brabante ed in altre province; e nell'istesso tempo s'assicurassero que' popoli, di dover essere conservati sotto l'antichissimo dominio de' loro legittimi Principi. Ma quantunque gli argomenti in quella rapportati (ancorchè brevi e piani) fossero conchiudenti ed efficaci, non perciò s'arrestavano i Franzesi dal lor proponimento, anzi oltre all'armi, con grossi volumi s'accingevano a sostener la lor causa: onde si stimò, che la scrittura di Fiandra, se bene per que' Popoli, dove vi era particolar notizia delle lor leggi, sarebbe stata bastante, così per l'altre Nazioni avrebbe potuto giudicarsi scarsa; e che perciò fosse bene di proccurare, che le ragioni del Re Carlo si comprovassero con maggior copia, e si dimostrassero con maggior vigore.

Può ben Napoli darsi il vanto, che le migliori scritture, che uscirono intorno a questo soggetto in difesa delle ragioni del Re di Spagna, furono quelle dettate dall'incomparabile nostro Giureconsulto Francesco d'Andrea, allora celebre e rinomato Avvocato de' nostri Tribunali. Il Vicerè D. Pietro d'Aragona non ebbe a questi tempi soggetto migliore di lui per appoggiargli questa difesa, e perchè con vigore ributtasse le pretensioni de' Franzesi. Comandato pertanto costui da D. Pietro, s'accinse all'impresa, ed a' 28 febbrajo del medesimo anno avendo ridotta a fine una dotta scrittura in idioma latino, con titolo: Dissertatio de Successione Ducatus Brabantiae, la presentò al Vicerè, che la ricevè con molta stima, ordinandogli, che l'avesse sottoscritta, com'egli fece in sua presenza, affinchè dovendola inviare in Ispagna col suo nome, già per tutta Europa diffuso e celebrato, acquistasse ella maggior peso ed autorità. Non si stimò in questi principj di darla alle stampe, per non dar motivo a' Franzesi, che per mezzo delle stampe non aveano ancora pubblicate le loro scritture, di dire, che fossero stati i nostri i primi a provocarli al cimento. Ma l'esito poi dimostrò, ch'essi intanto non l'aveano pubblicate, per attaccarne improvvisi; poichè, come si disse, nella fine di maggio s'ebbe avviso, che il Re di Francia era giunto co' suoi eserciti sulle frontiere della Fiandra, e che nel medesimo tempo avea fatto pubblicare di suo ordine un libro in diverse lingue, delle pretese ragioni, in nome della Regina sua moglie, sulla maggior parte di quelle province, il qual libro poco da poi comparve in Napoli in lingua Spagnuola con questo titolo: Tratado de los Derechos de la Reyna Christianissima sobre varios Estados de la Monarchia de Espanna.

Il Vicerè, tosto che l'ebbe in mano, l'inviò all' Andrea con ordine di rispondervi; ed allora fu, che apprendosegli più largo campo di mostrare la sua gran dottrina, la perizia nell'istorie, e la sua peregrina erudizione, diede fuori alle stampe in Italiana favella quella cotanto rinomata Risposta al Trattato delle Ragioni, etc.[54] stampata In Napoli in questo medesimo anno 1668. Quivi con vigorosi argomenti dimostrò, la cotanto esagerata consuetudine del Brabante e delle altre province, non potere aver luogo nella successione del principato e della sovranità; e che quella non si regolò mai da tal consuetudine, ma si differì sempre con legge ed osservanza contraria. E poichè i Franzesi, per torsi l'opposizione della amplissima rinunzia fatta dalla lor Regina, in tempo che si maritò con Luigi, aveano proccurato con vari argomenti di farla vedere nulla ed invalida: egli con risposte vigorose abbattè i loro sofismi e con fortissime ragioni sostenne la validità e fermezza di quella: ciò che non avea fatto nella prima scrittura, parendogli, che ciò sarebbe stato in certo modo pregiudicare alla causa, se dove vi era total chiarezza, che non poteva alla Regina spettarle ragione alcuna, si fosse fatta gran forza in dimostrare, che validamente avesse potuto rinunziarla. Rispose parimente con tal occasione questo insigne Giureconsulto ad un altro libro fatto pubblicare in Francia d'altre pretensioni sopra tutte le province Belgiche, e sopra quasi tutti i Regni e Principati dell'Europa, composto da un tal Aubery Avvocato della Corte del Parlamento di Parigi, che fu stampato nel medesimo tempo dell'invasion della Fiandra sotto questo titolo, Delle giuste pretensioni del Re sopra l'Imperio. E con profonda dottrina ed esatta perizia dell'istoria fece vedere, che il Ducato dei Brabante colle vicine Province, non tiene alcuna dipendenza dalla Corona della Francia; nè che quel Re possa pretender di giustificarne la conquista, come rappresentante le ragioni di Carlo Magno; le quali egli sostiene, che oggi risiedano nella Augustissima Famiglia Austriaca.

Uscirono ancora altre dotte scritture in risposta del libro de' Franzesi, e fra le altre una giudiziosissima, scritta in lingua franzese da un pubblico Ministro col titolo: Bouclier d'Etat, et de Justice; etc. la qual fu tradotta in idioma spagnuolo, e subito stampata.

(Alle scritture pubblicate da' Franzesi furon date da più Scrittori vigorose risposte, che si leggono raccolte nell' Appendice del Diario Europeo Tom. XV, XVI e XVIII, e memorate da Struvio[55]. Al libro d' Auberes stampato in Parigi l'anno 1667 col titolo, des justes Pretentions du Roi sur l'Empire, con note apposte, fu risposto da Errico Kippingio; siccome contro del medesimo uscirono, Axiomata Politica Gallicana, ed il libro di Nicolò Martino, intitolato Libertas Aquilae Triumphantis; al Traité des Droits de la Reine Très-Chrêtienne, etc. di cui fu Autore l'istesso Auberes, fu risposto con due altre scritture, una intitolata: Dialogue sur les droits de la Reine Très-Chrêtienne, atque deductio, ex qua clarissimis argumentis probatur contra Gallos, non esse jus devolutionis in Ducatu Brabantiae; e l'altra, la Verité defendue des sophismes de la France. Sei anni dopo Pietro Gonzales de Salcedo diede fuori un volume in foglio colla data di Brusselles del 1613, dettato in idioma spagnuolo, che poi fu tradotto in Franzese con questo titolo: Examen de la verité, ou Réponse aux Traités publiés en faveur des droits de la Reine Très-Chrêtienne sur divers Etats de la Monarchie d'Espagne. Al quale però nell'anno seguente 1614 fu risposto da Giorgio Abusson, con opposto libro, che ha il titolo: la défense du droit de Marie Therese d'Autriche Reine de France à la succession des Couronnes d'Espagne ).

Ma di quanto a questi tempi ne corsero a giudicio di tutti, era riputata la più dotta, la più vigorosa, e la più elegante quella del nostro Francesco Andrea.

Ma mentre i nostri Giureconsulti difendevan con tanto vigore la giustizia del loro Principe, e sostenendo la causa migliore, s'eran resi in queste contese superiori a' Giureconsulti franzesi, eran dall'altro canto i nostri superati dalle armi nemiche più numerose e forti: sorpresero intanto i Franzesi Douay, Tournay, Lilla, Furnes, Dixmude, Courtroy, Oudennarde, Alost, Carleroy, ed altre Piazze di minor nome, nè l'inverno, che sopraggiunse, gli fece cessar dalle armi, anzi in questa stagione occuparono con occulte intelligenze in un momento tutta la Contea di Borgogna.

Questa improvvisa mossa de' Franzesi ridusse finalmente gli Spagnuoli ad aver pace con li Portoghesi, per potersi opporre con maggior vigore colle armi, siccome aveano fatto colle scritture, a' Franzesi. Era con la morte del Re Filippo, se non abolita la memoria della rivolta di Portogallo, estinta però l'avversione, che tenevano gli Spagnuoli all'accordo; onde ora facilmente vi si accomodarono, e fu quello conchiuso non con altri patti e capitolazioni, se non con quel Pretoriano editto: Uti possidetis ita possideatis: rimase con uguali condizioni ad amendue i Regni di Castiglia e di Portogallo ciò che possedevano avanti la loro unione, fuor che Ceuta, che trovandosi in mano de' Castigliani, fu loro permesso di ritenerla.

Stabilita la pace co' Portoghesi, fu nell'istesso tempo, che pubblicossi con le solite cerimonie in Napoli, dichiarata la guerra a' Franzesi, e furono pubblicati bandi, che tutti que' Franzesi, che si trovavano nel Regno, uscissero fra brevi giorni da quello; e dal Vicerè si fecero sequestrare i beni, che possedevano in esso il Duca di Parma, ed il Principe di Monaco, come aderenti alla Corona di Francia, la quale minacciando pure d'assalire l'Italia per mare e per terra, costrinse il nostro Vicerè di rinforzare con mila ottocento fanti spagnuoli ed italiani le Piazze della Toscana, e di far venire da Alemagna un Reggimento di soldati tedeschi. Fu da ciò impedito ancora di poter mandare in Levante nel principio della campagna di quest'anno 1668 la squadra delle galee del Regno al soccorso di Candia: di che il Pontefice molto rammaricossi; e considerando, che per questa guerra mossa da' Franzesi venivano impediti i soccorsi ai Veneziani, i quali con molto valore sostenevano la difesa di quell'Isola, cinta di stretto assedio da' Turchi, pose ogni studio, congiunto con gli altri Principi d'Europa, di ridurre quelle due emole Nazioni a concordia.

Era a questi tempi, per la morte accaduta d'Alessandro VII, a' 21 maggio del passato anno 1667, succeduto nel Pontificato a' 17 giugno Giulio Cardinal Rospigliosi da Pistoia col nome di Clemente IX, il quale vedendo, che i Turchi aveano messo stretto assedio a Candia, era tutto inteso a soccorrer di denaro e di gente i Veneziani, abolendo a questo fine gli Ordini de' Gesuiti, de' Romiti di San Girolamo di Fiesole e de' Canonici di S. Giorgio in Alga. Non tralasciava con molta premura stimolar gli altri Principi d'Europa a mandar in Candia validi soccorsi, e mandò insino a Solimano Re di Persia lettere, per animarlo contro al Turco. Vedendo, che tali soccorsi eran impediti dalla guerra, che i Franzesi avean mossa in Fiandra, si strinse con gli altri Principi a proccurarne la pace. Non erano questi molto soddisfatti de' progressi dell'armi franzesi, che facevano in Fiandra, e gli scosse non poco l'avviso d'essersi da loro occupata la contea di Borgogna. Gli Svizzeri minacciavano di prendere le armi per ricuperarla, come Stato, ch'era tenuto sotto la lor protezione. Ma più di tutti s'ingelosivano gli Stati delle Province Unite dell'Olanda, li quali abborrendo di veder i Franzesi avvicinarsi a' loro confini, appena conchiusa in Breda coll'Inghilterra la pace, indussero quel Re ad unir con essi le armi ed i consigli, e poi tirata la Svezia a forza d'oro ne' sentimenti medesimi, tant'operarono con gli ufficj, e molto più mostrando di voler muovere l'armi che persuasero, o più tosto sforzarono il Re di Francia ad assentir alla pace. Fu pertanto, a' 2 maggio di quest'anno 1668, ella conchiusa in Aquisgrana, ed in essa riuscì a' Franzesi di ritenere le loro conquiste ne' Paesi Bassi coll'istessa felicità, con cui le aveano conseguite, restituendo però agli Spagnuoli la Contea di Borgogna. Confessarono questi d'esser sommamente tenuti agli Olandesi di tutto ciò, che non aveano perduto, o che ricuperavano; poichè sotto apparenza di mediazione, aveano veramente protetto i loro interessi, e preservato ciò, che loro restava nelle province di Fiandra. Dall'altra parte il Re franzese concepì fierissimo sdegno contro gli Olandesi; ma simulandolo per allora, mostrò, che in onore e gratificazione del Pontefice deponeva l'armi. Clemente, quantunque comprendesse, quali ne fossero i più veri motivi, dimostrava però verso il Re gratitudine e tenerissimo affetto, proccurando stringer con lui confidenza, la qual riputava decorosa per se, ed utile per li suoi, e se ne valeva anche a beneficio de' Veneziani per li soccorsi, che ne ottenne per Candia di centomila scudi, con permissione di leve di Ufficiali e di milizie quanto n'avesse potuto raccogliere.

Pubblicata che fu in Napoli a' 4 d'agosto la pace d'Aquisgrana, non mancò pure il nostro Vicerè, licenziati gli Alemani, di spedir per Candia le squadre delle galee di Sicilia e del Regno, per le promesse che n'avea anche fatte la Regina Reggente a quella Repubblica, e per gli ordini che da lei ne avea ricevuti d'assistere con valide forze a quel bisogno. Ma riusciti inutili, non pur questi, ma tutti gli altri soccorsi mandati dal Re di Francia, dal Papa e da' Maltesi, tornatesene a dietro le costoro galee, s'intese poco da poi, che i Veneziani in questo nuovo anno 1669 erano stati costretti di rendere a patti Candia, dopo 24 anni di guerra e 28 mesi e 27 giorni di ostinatissimo assedio. Questa perdita fu sensibile a tutta Italia: ma si stimò più grave per noi, per la breve distanza, che s'interpone fra' lidi del capo d'Otranto, e 'l paese de' Turchi; onde il Vicerè considerando l'importanza del pericolo, non solamente fece munire tutte le Fortezze del Regno e le Piazze della Toscana, ma spedì varie compagnie di cavalli per guardare le spiagge dell'Adriatico, ed accorrere, dove il bisogno il richiedesse. Il Pontefice Clemente s'addolorò talmente di quest'avviso, che a' 9 decembre spirò. Fu in suo luogo, nel nuovo anno 1670 a' 29 aprile, eletto Emilio Lorenzo Altieri, che volle chiamarsi pure Clemente e fu il X di questo nome.

CAPITOLO II. D. Pietr'Antonio d'Aragona soccorre a' bisogni della Sardegna per la morte data a quel Vicerè: perseguita i Banditi nel Regno; riduce a perfezione la numerazione de' fuochi: va in Roma a prestar in nome del Re ubbidienza al nuovo Pontefice: nel suo ritorno gli vien dato il successore; monumenti e leggi che ci lasciò.

Perchè il Regno di Sardegna non rimanesse esente dalle comuni calamità, che aveano sofferti quelli di Napoli e di Sicilia, fu veduto a questi medesimi tempi ancor egli in disordine, per li tumulti, che cagionò la morte data a D. Emanuele de los Covos Marchese di Camerassa suo Vicerè. Governava costui quell'Isola, e secondo il costante tenore della Corte di Madrid, venendo richiesto di danari, premeva que' sudditi a doversi disporre di far un donativo al Re; ma avendo incontrate gravissime difficoltà, fu costretto a far sciogliere il Parlamento generale di quel Regno, che a tal fine avea fatto ragunare in Cagliari capitale del Regno, senz'ottenerlo. Il principal contraddittore fu D. Agostino di Castelvì Marchese di Laconi, il quale essendo stato nella notte de' 20 di giugno del 1668 fatto ammazzare, si pubblicò, che questo assassinamento fosse stato commesso d'ordine di D. Isabella di Portocarrero Marchesana di Camerassa con saputa e consenso del Vicerè suo marito, in vendetta delle opposizioni promosse da D. Agostino nelle corti del Regno. A queste voci assembraronsi D. Giacomo Artal di Castelvì Marchese di Cea, D. Silvestro Aymerich, D. Antonio Brondo, D. Francesco Cao, D. Francesco Portogues e D. Savino Grizoni nel palagio di D. Francesca Carilas Marchesana di Laconi moglie del morto, dove conchiusero d'uccidere il Vicerè; e per mandare ad effetto una così scellerata determinazione, a' 21 luglio del medesimo anno, dalle finestre della casa d'Antioco Brondo, posta in Cagliari nella strada de los Cavalleros, mentre il Vicerè con la moglie e co' figli tornava in carrozza dalla chiesa di Nostra Signora del Carmine alla sua abitazione, gli scaricarono più colpi d'archibugi, per li quali rimase miseramente morto. La Marchesana di Camerassa spaventata da tal funesto spettacolo, temendo di mal peggiore, tutta sbigottita volle partir subito da Cagliari, ed imbarcatasi la notte seguente co' figliuoli e famiglia, fece presto ritorno in Ispagna, lasciando con la sua partita libero il campo alla Marchesana D. Francesca Carillas di far fabbricare contro lei un processo nella Regia Audienza di Cagliari, e d'incolparla della morte del Marchese di Castelvì suo marito. Gli uccisori del Vicerè, essendosi ricovrati nel convento di S. Francesco, vi si trattennero con comitiva d'uomini armati per lo spazio d'un mese, fortificando le porte del monastero, e facendo le sentinelle all'uso di guerra, e poscia s'imbarcarono pel Capo di Sassari, dove per loro difesa fecero unione di gente.

All'avviso d'un così temerario eccesso, il nostro Vicerè fece subilo allestire diece galee, sopra le quali furono fatti imbarcare duemila fanti spagnuoli, Italiani e tedeschi, e benchè si fossero avviate alla volta di Sardegna, nulladimeno fu riputato da poi savio consiglio di richiamarle in Porto: non essendosi stimato a proposito d'ingelosire que' popoli, di lor natura fierissimi, con l'introduzione in quell'Isola di nuova soldatesca. La Corte di Madrid per ovviare a mali peggiori mandò tosto per nuovo Vicerè in quel Regno D. Francesco Tuttavilla Duca di S. Germano Nobile napoletano del Seggio di Porto, fratello di D. Vincenzo Tuttavilla Duca di Calabritto, Maestro di Campo Generale di questo Regno, il quale ai 10 di Marzo dell'entrato anno 1669 si parti per Sardegna ad assistere il fratello con la galea Padrona della squadra di Napoli, e portò seco il Consigliere D. Giovanni d'Errera, ch'era stato dal Re deputato per Giudice Delegato nella causa degli uccisori del Camerassa. Si spedirono da poi nel seguente mese di maggio tre altre galee con cinquecento fanti spagnuoli ed italiani e qualche contante, e v'accorsero pure dal Finale altri mille soldati con la squadra delle galee del Duca di Tursi, e trecento dall'Isola di Sicilia; e finalmente nel mese di marzo del seguente anno 1670 fu duopo al nostro Vicerè mandarne dal Regno altri cinquecento.

Le cose però di quell'Isola si videro tosto ridotte in tranquillità, poichè dall'Errera si pose in chiaro, che nell'uccisione del Vicerè non v'aveano avuta participazione alcuna que' popoli, e che l'infame omicidio era stato commesso da que' soli Nobili, per coprire l'assassinamento del Marchese di Laconi, stato fatto ammazzare da D. Silvestro Aymerich ad istanza dell'istessa Marchesana D. Francesca sua moglie per torsi lui per consorte, come già era seguito. Furono per tanto con pubblico editto dichiarati tutt'i colpevoli della morte del Vicerè, rei di Maestà lesa, e come tali sottoposti al bando della vita: furono imposte grosse taglie sopra le loro teste e le loro persone: furono confiscati i loro beni, e comandato che fossero demolite le lor case, e con aspergersi sale adeguate al suolo. Fu parimente dichiarato, che que' popoli s'erano portati in tal occasione con fedeltà verso il loro Principe, e che non poteva imputarsegli colpa di sorta alcuna in quell'assassinamento. Il Duca di S. Germano ricevè pienissime grazie da tutti gli Ordini di quel Regno, che rimase tutto pacato sotto l'ubbidienza del suo antico Signore.

Ma nel nostro Regno non lasciavano intanto gli sbanditi le consuete scorrerie per le campagne, ora più che mai rese non men insolenti che spesse. Rubavano, riducevano in servitù i viandanti, svaligiavano i Procacci, in fine le pubbliche strade non eran più sicure, tal che si vedeva rotto ogni traffico ed impedito ogni commerzio. Negli Apruzzi ne campeggiavano molte squadre, che fortificatesi in diverse Terre, erano giunte infino a spedir ordini a tutt'i luoghi di quei contorni che lor pagassero, non già al Regio Tesoriere, i fiscali. Essendo succeduto nella Chiesa di Napoli, per la morte del Cardinal Filomarino, il Cardinal D. Innico Caracciolo, costui nel viaggio ch'intraprese per Roma, per assistere al Conclave per l'elezione del nuovo Pontefice, poi seguita in persona di Clemente X, fu arrestato da queste masnade, e gli fu duopo per disbrigarsene pagar loro cent'ottanta doble. Monsignor Toppa Arcivescovo di Benevento fu ancor egli svaligiato presso Napoli nella Terra di Pomigliano d'Acro, e si salvò per miracolo. Ma il più molesto era a questi tempi il famoso Abate Cesare Riccardo, il quale dopo aver ucciso D. Alessandro Mastrillo Duca di S. Paolo, si pose a scorrere con comitiva le campagne intorno la città di Nola, avanzando le scorrerie sino alle porte di Napoli: svaligiava Procacci, abbruciando più volte le lettere senza perdonare a quelle del Vicerè; entrava ed usciva sconosciuto in Napoli; e giunse a tale, che impediva in Napoli il trasporto della neve, minacciando di più agli Eletti, che avrebbe impedito anche la condotta de' grani, se non gli proccuravano dal Vicerè il perdono.

Si ponevan in opra dal Vicerè vari mezzi per estirparli, ma non riuscivano così efficaci, sì che se ne potesse ottenere il total esterminio. Creò egli a quest'effetto Vicario Generale della Campagna il Consigliere D. Diego di Soria, poi Reggente: spedì alcune compagnie di Spagnuoli in Apruzzo, per isnidarli da que' luoghi: elesse in fine una Giunta di vari Ministri per severamente punirli insieme co' loro aderenti; ma nulla giovò, poichè le milizie regolate in que' luoghi alpestri ed inaccessibili nulla poterono: alcuni presi furon sopra le forche fatti morire, ma nuovamente ne pullulava numero assai maggiore: la Giunta fece arrestare alcuni Titolati lor protettori, ma poi, dopo breve prigionia, eran dal Vicerè composti con grosse somme di denaro: tal che si tornava a' disordini primieri.

Di questo sol fu imputato l'Aragona, che a' suoi tempi si vide rilasciata la disciplina, e commettersi enormi e gravi delitti d'incesti, peculati, furti, falsità, assassinamenti, duelli ed altri eccessi, de' quali non ne prendeva quel severo castigo che meritavan i colpevoli; ma, o usando indulgenza nelle visite che soleva egli fare in Vicaria, intervenendovi personalmente, e talora anche colla Viceregina sua moglie, ovvero permutando la pena corporale in danari: ciò che fruttandogli grosso guadagno, e secondo il computo che se ne faceva dal volgo, aveane da tali composizioni ricavati più di trecentoventimila ducati, gli acquistò nome di Ministro sordido; e diessi a molti occasione di motteggiarlo, che e' punisse le borse non già le persone.

Non è però, che non apportasse egli al Regno non picciola utilità, per la numerazione generale de' fuochi, che principiatasi dal Conte di Pennaranda, e continuata poi dal Cardinal d'Aragona, venne da lui sollecitata e finalmente ridotta a perfezione: poichè non solo la fece egli pubblicare, ma cominciò ancora a praticarsi fin dal primo di gennajo dell'anno 1669. L'alleggerimento che ne sperimentarono le Comunità del Regno fu di grandissima importanza, perchè furono tassate a pagare per quel numero de' fuochi, che in fatti erano; e furono rimesse loro tutte le somme, delle quali andavano debitrici per tutto il tempo passato, essendosi compiaciuti il Re e gli altri assegnatarj de' fiscali di concorrere non solamente alla remissione de' mentovati residui, ma anche alla perdita di ducati ventidue ed un decimo per ogni cento ducati di entrata, che fu necessario defalcare generalmente, per cagione del mancamento d'intorno a centomila fuochi, ne' quali questa numerazione si trovò minore dell'antica. In cotal guisa le Comunità del regno cominciarono a respirare e ad essere per conseguenza più pronte a' pagamenti, con non picciola utilità degli assegnatarj de' Fiscali e del Re. Vi s'aggiunse l'augumento dell'arrendamento del Tabacco, che da ducati quarantacinquemila l'anno, crebbe a questi tempi fino ad ottantamila, e quello della manna, che trovandosi venduto a particolari persone, fu dal Vicerè ricomprato ed incorporato al patrimoni regale. In brieve tutti gli arrendamenti, dazj e gabelle crebbero notabilmente di prezzo, con utile grandissimo di tutti i consegnatarj, essendosi calcolato l'avanzo nel valore de' capitali, secondo la relazione fattane dal Razionale della Regia Camera Giovanni d'Alesio, in poco meno di nove milioni di ducati: al che contribuì molto la vigilanza del Vicerè, ed il rigore che praticava contro coloro che ne fraudavano il pagamento.

§. I. D. Federico di Toledo Marchese di Villafranca rimane Luogotenente nel Regno, nel tempo che l'Aragona va in Roma a dar l'ubbidienza al nuovo Pontefice.

La Regina Reggente, secondo il costume introdotto dalla Corte di Spagna, avea comandato al nostro Vicerè Aragona che si fosse portato in Roma a dar in nome del Re, e suo, ubbidienza al nuovo Pontefice Clemente IX; ma tolto costui dal Mondo, per inaspettata morte, non si potendo adempire quest'ufficio con lui, fu comandato che si adempisse col suo successore Clemente X. Nel medesimo tempo fu provveduto dalla Regina, che in assenza dell'Aragona rimanesse a governar il Regno il Marchese di Villafranca, che si trovava in Napoli esercitando la carica di Capitan Generale della squadra delle galee. Fu disputato nel nostro Collateral Consiglio se al Villafranca dovessero darsi trattamenti di Vicerè, o pure di semplice Luogotenente dell'Aragona, stante che costui teneva dispacci della Corte, ne' quali gli s'imponeva, che terminata l'ambasciata dovesse tornare in Napoli a continuare il Governo; ma a cagion che per la commessione Regale dovea il Marchese riputarsi come vero ed independente Vicerè, non già Luogotenente dell'Aragona, fu per tanto determinato a suo favore. Partito adunque l'Aragona da Napoli, a' tre di gennajo di quest'anno 1671, fu dato al Marchese il possesso della carica coll'intervento degli Eletti della città, il quale (tenendosi occupato il Regal Palazzo dalla moglie di D. Pietro) scelse per sua abitazione quello de' Principi di Stigliano sopra la Porta di Chiaja.

Governò il Marchese con molto rigore e con indefessa applicazione il Regno, prendendo per esemplare il suo gran avolo D. Pietro di Toledo, che governollo ventidue anni, ma non vi durò che infino a' 25 di febbrajo; poichè l'Aragona giunto in Roma affrettò la sua ambasceria, ed avendo a' 22 gennajo fatta ivi pubblica e solenne entrata il giorno seguente, accompagnato dal Marchese d'Astorga, che si trovava in Roma ambasciador Cattolico, fece la cerimonia del bacio del piede; e dopo essersi trattenuto in quella città alquanti altri giorni in pranzi e visite, tornò in Napoli a ripigliar il governo, mal soddisfatto del rigoroso modo del Villafranca, che non ben si confaceva col suo tutto largo ed indulgente. Il marchese di Villafranca, si trattenne in Napoli sino al mese di luglio; partì poi per la Corte, dove si crede, che avendo rappresentato a que' Ministri l'avarizia di D. Pietro, e l'avidità di cumular per se denari, sicchè quando partì per Roma non avea lasciato nella Cassa militare nè pur un quattrino, avessele fatto pensare a dargli successore. Non passaron molti mesi, che s'intese essere stato a lui sostituito in questo Governo il Marchese d'Astorga, il quale trovandosi ambasciadore in Roma prese ne' principj del nuovo anno 1672 il cammino verso il Regno, ed a' 11 febbrajo giunse in Napoli, accolto con molti segni di stima da D. Pietro, il quale, soddisfatte le consuete visite, a' 14 del medesimo mese cedè il governo e con la Duchessa sua moglie se n'andò immantenente a Pozzuoli, donde poi a' 25 dello stesso mese con quattro galee si partì per Ispagna.

Fra i Vicerè che lasciarono a noi più insigni memorie, dee certamente annoverarsi D. Pietro d'Aragona. Egli per l'inclinazione grandissima che avea alle fabbriche, adornò Napoli di molti edificj. Egli ridusse in quella magnifica forma che ora si vede, l'Ospedale de' poveri di S. Gennaro fuori le mura della città, con ampliarlo di tanti corridori e stanze, e con darvi stabile e fermo governo. Egli con indicibile spesa costrusse il Porto per le Galee, ed ingrandì l'Arsenale in più ampia forma: fece quella magnifica strada adorna di tanti fonti, donde dall'Arsenale si ascende al largo avanti il Regal Palazzo, e nella cima di quella fece ergere la statua di Giove Terminale, che sostiene il cuojo, e le ale d'una grand'aquila. Abbellì il Palazzo Reale, ed aggiunse a' piedi di quella maestosa scala, fatta dal Conte d'Onnatte, le due statue de' fiumi Ibero e Tago, e sopra la porta, che comunica col Palazzo vecchio, l'altra del fiume Aragona. Egli nel Castel Nuovo unì l'Armeria Reale in quella gran sala, che soprasta al suo cortile. Rifece nel monte Echia il quartiere principale degli Spagnuoli; e v'innalzò da' fondamenti quel vasto edificio del Presidio, capace d'alloggiare più di seimila soldati. Rifece parimente le pubbliche fontane di Poggioreale, di S. Caterina a Formello, di mezzo cannone, e moltissime altre, e da' fondamenti innalzò quella di monte Oliveto. Restituì l'uso de' Bagni dell'acque minerali fuori la grotta di Coccejo, di Pozzuoli, e Baja; e perchè non se n'abolisse la memoria, in tavole di marmo fece scolpire la loro virtù ed efficacia ne' malori; donde fu data occasione a Sebastiano Bartoli famoso medico di que' tempi, di spiare più a dentro la qualità di queste acque, e compilarne perciò particolari relazioni e trattati. Ristorò in fine i nostri Tribunali, ampliando le sale del Consiglio, quelle della Vicaria, e l'altre della Regia Camera, dove per la diligenza dell'Archivario Niccolò Toppi, riordinò l'Archivio, e del di lui favore questo scrittore[56] molto si loda, narrando, che fu tre volte a vederlo, facendovi far tre nuove camere, e fece dar principio ad un Repertorio generale di tutte le scritture, che oltrepassavano il numero di trecentomila, con assegnare il salario a cinque Scrivani, li quali erano puntualmente pagati mese per mese, perchè l'opera si compisse. Accrebbe parimente lo stipendio a' Giudici di Vicaria e diede vari provvedimenti per la giusta distribuzione delle cause, afin di troncar le lunghezze delle liti e le calunnie de' litiganti.

Ma quantunque l'Aragona lasciasse a noi di se sì illustri monumenti, non è però, che non ci defraudasse all'incontro di molte insigni memorie. Egli ci tolse l'ossa del magnanimo Re Alfonso I d'Aragona, le quali, come si disse nel XXVI libro di quest'Istoria, erano rimaste in deposito nella sagrestia di S. Domenico Maggiore di questa città, dove il Re Alfonso II dal Castel dell'Uovo le fece trasportare, quando vi fu seppellito suo padre. Essendo accaduto nel 1506 un incendio in quella sagrestia, il fuoco ne consumò buona parte, ma ne scamparono il cranio ed alcune poche ossa: il cranio per ordine del Re Ferdinando il Cattolico fu consegnato al Vescovo di Cefalù, che '1 condusse in Ispagna: le ossa erano solo qui rimase: ciò che pervenuto alla notizia dell'Aragona intraprese di farle ancora colà trasportare, ed unirle col cranio. Si opposero i Monaci di quel convento, ma avendo la Regina Reggente, alle insinuazioni del Vicerè, con suo spezial dispaccio comandato, che si trasportassero in Ispagna, cessarono le contese ed i frati con pubblico istromento ne fecer la consegna al Vicerè. Ci tolse ancora, per abbellire la sua galleria in Madrid, molte insigni dipinture e statue: fra l'altre quelle dei quattro fiumi, che adornavano la Fontana della punta del Molo, l'altra di Venere, che giaceva nella fonte su l'orlo del fosso del Castel Nuovo, ed alcuni puttini e gradini di marmo tutti d'un pezzo, ch'eran collocati nella fontana Medina, opera del famoso Giovanni di Nola, li quali furono tutti da lui mandati in Ispagna.

Nel tempo del suo governo furon da lui stabilite molte provvide e sagge Prammatiche poco men di 30, per le quali riordinò i Tribunali, riformò molti abusi nelle Dogane, e diede altri provvedimenti, che sono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO III. Governo di D. Antonio Alvarez, Marchese d' Astorga molto travaglioso ed infelice per li disordini, ne' quali trovò il Regno e molto più per le rivoluzioni accadute in Messina.

Giunto il Marchese d'Astorga in Napoli trovò la città, non solo per la grande penuria di grani, ma tutta sconvolta per li continui delitti, e sopra ogni altro per li furti, che di continuo si sentivano in ogni angolo. Applicò per tanto i suoi pensieri a proccurare, che fossero introdotti in Napoli, non pur dalle province, ma da altri più remoti paesi, copiosi viveri, sicchè soddisfece alla brama de' popoli e restituì nel Regno l'abbondanza. Ma con tutto che praticasse estremi rigori, non fu possibile (cotanto per la dissoluta disciplina del passato Governo era la gente divenuta ribalda) d'estirpare i furti e molto meno impedire le continue scorrerie de' banditi, che commettevano in campagna. Scorrevano insino alle porte di Napoli, svaligiavano i procacci, saccheggiavano le Terre, empivano le campagne di omicidj, ruberie e stupri; e campeggiando con molta baldanza, di continuo acquistavan seguito, ed ingrossavan di numero. Il Vicerè, valendosi de' consueti rimedj, rinvigorì gli animi dei Presidi provinciali, premurosamente incaricando loro che dandosi mano badassero unicamente ad estirpargli. Ne fu fatta molta strage e non fu picciol guadagno essersi tolto dal mondo il più pernizioso fra i loro Capi, il cotanto rinomato Abate Cesare. Ma non per ciò, a guisa d'idre, non ripullulavano, e negli Apruzzi spezialmente, per dove fu costretto il Vicerè spedirvi cinque compagnie di Spagnuoli, non solo per abbattere la loro insolenza, ma anche perchè, sospettandosi, che avesser potuto ricever fomento da Roma dall'Ambasciador di Francia, si vegghiasse ad ogni novità, che con tal appoggio potesser questi ribaldi promuovere. Egli è però vero, che per le sollevazioni accadute poco da poi in Messina, si tolse un buon numero di costoro dal Regno, ai quali fu conceduto dall'Astorga il perdono, per andare a servire il Re in Sicilia, dove diedero pruove di gran valore, cancellando con ciò in gran parte le colpe della vita passata. Gli altri, che vi rimasero, essendosi poi sempre più moltiplicati, continuarono nella lor contumacia: perchè l'estirpamento totale d'una così dannosa semenza, l'avea il cielo riserbata a più esperta e gloriosa mano.

Non furon soli questi disordini, che resero travaglioso il governo del Marchese; perchè all'angustie, nelle quali trovò il Regno, per la fame, per li ladri e per questi ribaldi, se ne aggiunse un'altra più fastidiosa, qual fu quella delle monete, ridotte a questi tempi a stato si miserabile, che non avean d'intrinseco valore la quarta parte. La radice di questo male era antica, e quella stessa, che cagionò l'abolizione delle zannette in tempo del Cardinal Zapatta; dal quale quantunque si fosse fatta coniar la nuova moneta, e si fossero imposte gravissime pene a coloro, che avessero avuto ardimento di ritagliarla, o falsificarla; ad ogni modo l'avidità del guadagno faceva vilipendere ogni qualunque severo castigo. Era il numero de' tosatori, e falsificatori cresciuto in guisa, che sino nelle case di persone di qualità furono trovati ritagli, ed ordegni per conio delle nuove; e pubblicossi, che alcune donne di non volgare condizione, si fossero parimente mischiate in questo esercizio. Ne fu scoverta in Napoli un'intera compagnia, e nella provincia di terra d'Otranto ne furono indiziati moltissimi. Pose il Vicerè ogni cura per estirpargli; molti scoverti furon fatti morire su le forche, alcuni sostennero lunghe prigionie, ed altri ne ottennero il perdono: ciò che diede ansa a' detrattori ed ardire d'affermare, ch'era stata loro salvata la vita, ma non già la borsa. Altri ancora si sottrassero da' condegni castighi, chi schermendosi col privilegio del chericato, chi coll'immunità delle chiese, e chi con la fuga dal regno. Per dar riparo a mali sì gravi, cominciò il Vicerè a pensare alla fabbrica d'una nuova moneta, la quale non avesse potuto nè falsificarsi, nè ritagliarsi. Si pose l'affare in consulta, e se ne fecero più discorsi, ma non ebbero alcun effetto; perchè la gloria d'un così magnanimo fatto stava pure riserbata ad un più fortunato Eroe.

Pure i Turchi vollero avere la lor parte in tener travagliato l'Astorga; poichè scorrendo per le marine del Regno, posero gente in terra nella provincia di Bari, dove nel mese di giugno di quest'anno 1672 fecero schiavi 150 poveri contadini, che mietevan vettovaglie. E nel mese d'agosto fur vedute nel Golfo di Salerno sette galee di Biserta, che andavan depredando i nostri legni. Nel seguente anno, nelle marine di Puglia fecero notabilissimi danni, spezialmente nella terra di S. Nicandro, nella quale ridussero in cattività molti contadini; tanto che per reprimere i loro insulti, fu costretto il Vicerè a spedir ivi tre compagnie di cavalli, ed a mandare la squadra delle nostre galee a scorrere i mari dei Regno.

§. I. Per le rivolte di Messina si riscuoton dal Regno grossi sussidj.

Ma cure assai gravi e moleste sopraggiunsero in questi tempi al Vicerè, ed a noi gravezze e timori vie più considerabili, per più alte cagioni. Aveano in quest'anno i re di Francia e d'Inghilterra, uniti coll'Elettor di Colonia e 'l Vescovo di Munster mossa crudel guerra agli Stati Generali d'Olanda, li quali quantunque fossero rimasi vittoriosi in mare dell'armate navali d'Inghilterra e di Francia, furono loro ad ogni modo dagli eserciti confederati occupate le province d'Utrech, di Gheldria e d'Overissel con parte della Frisia. Donde prese motivo il Conte di Monterey, governadore de' Paesi Bassi Cattolici d'introdurre nelle piazze Olandesi guarnigione Spagnuola, e l'Imperador Leopoldo con l'Elettore di Brandeburgo, di far entrare un esercito negli Stati di Colonia e di Munster, per costringer que' Principi all'osservanza della pace di Cleves. Ma avendo i Franzesi occupata la Marca e 'l Ducato di Cleves appartenente all'Elettore di Brandeburgo, e spinto il marescial di Turenna nella Franconia quantunque avessero costretto questo Elettore a deporre l'armi, non poterono ad ogni modo impedire che molti Principi d'Alemagna non si fossero collegati coll'Imperadore e con gli Olandesi per la difesa de' proprj Stati.

Gli Spagnuoli non potendo soffrire le conquiste dei Franzesi sopra gli Stati d'Olanda e molto meno sopra l'Imperio, deliberarono d'entrare anch'essi in questa lega; ed avendo dichiarata la guerra al Re di Francia, protestarono al Re d'Inghilterra, che se non si fosse separato da quello, avrebbero con lui fatto lo stesso, e frappostisi per mediatori, fecero sì, che si conchiudesse la pace fra gl'Inglesi ed Olandesi. Così costretti i Franzesi a far fronte all'esercito Imperiale, che s'era avvicinato a' confini della Fiandra, abbandonarono tutte le piazze degli Olandesi, fuorchè Mastrich e Grave, la quale fu sforzata poscia dal Principe d'Oranges ad arrendersi con onorevoli condizioni. In questa guisa venne a cader tutta la guerra sopra la Fiandra Spagnuola, ed a' Paesi posti dall'una e dall'altra parte del Regno, che durò molti anni.

Essendosi pertanto pubblicata in Napoli nel mese di dicembre di quest'anno 1673 la guerra contro alla Francia, con pubblicarsi bando che fra brevi giorni tutti i Franzesi sgombrassero dal Regno, cominciarono a turbar l'animo del nostro Vicerè più nojosi pensieri; poichè dichiarata questa guerra, temendosi, che i Franzesi non tentassero d'assalire il principato di Catalogna, fu richiesto l'Asterga d'inviar soccorsi per difesa di quello Stato; onde gli fu duopo spedire per quella volta quattro vascelli con 1200 fanti Napoletani, sotto il comando del Maestro di Campo D. Giovan-Battista Pignatelli; e premendo sempre più il bisogno d'ingrossare l'esercito di Catalogna, bisognò nel mese di marzo del seguente anno 1674 spedire altri 1500 soldati, sotto la condotta del Sergente maggiore di Battaglia D. Antonio Guindazzo; e poi nel mese di giugno vi furono spedite cinque galee del Regno con altre 500 persone. Ma le rivolte sopravvenute nella città di Messina, che cagionarono una delle più ostinate guerre, che mai si fossero intese, impedirono li soccorsi per Catalogna, li quali sarebbero stati non di tanto aggravio, e costrinsero il Vicerè a mandarne in Sicilia dal nostro Regno altri assai più spessi e vigorosi; tal che a nostre spese si ebbe a sostenere quella crudele ed ostinata guerra.

I Messinesi vantando antichissimi privilegj di franchigia e d'esenzione ed altre lor prerogative, eransi nel regno di Filippo IV molto più insolentiti, a cagion ch'essendo stati saldi e costanti nella fede regia ne' preceduti tumulti di Palermo e di Napoli, il Re Filippo non solo aveagli loro confermati, ma aggiunti nuovi favori e preminenze.

(Gli antichi privilegi, conceduti da' Re Ruggiero e Guglielmo, suo successore, alla città di Messina si leggono presso Lunig. tom. 2 pag. 845 e 855 e pag. 2515 e 2517.)

Queste concessioni facevano godere a que' popoli una libertà quasi che assoluta; ed era dagli Spagnuoli tollerata, perchè consideravano, che non dipendeva quella licenza, che spesso si prendevan per difesa de' loro privilegj, da animo poco inclinato alla sovranità del Re ad al suo servigio, ma da una certa vanità, ch'essi aveano d'esser singolari fra tutti gli altri sudditi sottoposti alla corona di Spagna. Eleggendo essi dal lor corpo il pubblico Magistrato, che chiamano Senato, con piena autorità nel comando, con potestà d'amministrare il pubblico patrimonio e di distribuire le cariche subalterne, disponevano con assoluto arbitrio degli animi de' cittadini, ed eran sempre pronti a resistere, anche a proprj Vicerè, qualora essi credevano, che si tentasse cosa, che fosse contro i loro cotanto vantati privilegj.

Nel governo del Conte d'Ayala si lamentarono, prima che quel Vicerè non avea giammai fatta residenza in Messina, che avesse fatto imprigionare alcuni, quando non dovea; ed in fine non vi era operazione che facesse, che non l'interpretassero per violazione de' loro privilegj; e se le cose si fossero contenute nei termini di lamenti e di querele, sarebbe stato comportabile; ma si venne a' scandalosi fatti di dichiarare nulle le ordinazioni di quel Vicerè, come pregiudiciali ai loro privilegj, e ad assoldar gente per la loro osservanza. Queste medesime dimostrazioni continuarono con D. Francesco Gaetano Duca di Sermoneta successor dell'Ayala, il quale essendosi portato in Messina lo forzarono a pubblicar Prammatica, colla quale gli fecer proibire l'estrazion delle sete da tutti i porti di quell'Isola, fuorchè dal porto della lor città. Ma gravatesi di ciò l'altre città del Regno, ne fu dalla corte di Spagna sopraseduta l'esecuzione; tal ch'essi si risolsero di mandar due ambasciadori a Madrid per ottenerne la revocazione. Pretesero costoro d'esser trattati nell'udienze, come tutti gli altri ambasciadori di Principi, e che si fosse loro destinata certa giornata; che l'introduttore degli ambasciadori gli accompagnasse e che fossero mandati a levare nel giorno dell'udienza con le carrozze della casa regale. Allegavano essi molti esempj in tempo del Re Filippo IV che così gli avea trattati; ma la Regina Reggente non volle a verun patto accordar loro questo cerimoniale; poichè non solamente non appariva, che ciò fosse seguìto con saputa del Re suo marito, anzi che il medesimo avea espressamente ordinato, che tutti gli ambasciadori de' regni e delle città suddite ne godessero il nudo titolo e non già il trattamento: ond'essi per non si pregiudicare, fattasene con nuova supplica protesta, se ne ritornarono in Messina senz'adempire all'ambasciata.

Irritati i Messinesi da tal rifiuto, cominciarono ad usar molte insolenze; ed essendo intanto al Duca di Sermoneta succeduto nel governo di quell'Isola il Duca d'Alburquerque, ed a costui poco da poi sostituito il Principe di Lignì, crebbero assai più li disordini e le confusioni, le quali finalmente terminarono in fazioni; onde sursero i nomi di Merli, che presero i Realisti, e di Malvezzi che s'arrogarono gli altri del partito contrario, riducendosi i Messinesi in istato non meno lagrimevole di quello, nel quale si vide altre volte ridotta quasi tutta l'Italia dalle fazioni de' Bianchi e de' Neri, e de' Guelfi e Ghibellini.

Ma nel Governo del Marchese di Bajona successore del Lignì, essendo Straticò in Messina D. Diego di Soria Marchese di Crispano, che da Napoli, mentre era Consigliere di Santa Chiara, fu mandato con tal carica in quella città, le fazioni, che la tenevano in grandissima confusione, divennero aperte sollevazioni; poichè celebrando i Messinesi nel mese di giugno di quest'anno 1674 con gran pompa, ed apparati la festività di Nostra Signora sotto il titolo della Lettera per un'epistola, ch'essi credono aver ella scritta al Senato di Messina, nella quale l'assecurava della protezione del suo figliuolo Gesù; si videro nella bottega d'un sartore alcuni misteriosi ritratti, che alludendo alle cose presenti, toccavano con ischerni il partito de' Merli, non si perdonando nè meno all'istesso Soria Straticò. Di che accortisi i Merli, minacciando il sartore di volerlo con tutta la sua bottega mandar per aria, furono per dar di piglio alle armi, se tosto non vi fosse accorso lo Straticò a darvi riparo. Ma gli animi vie più esacerbandosi per la carcerazione seguìta del sartore, da' Malvezzi si faceva unione di gente armata per liberarlo a viva forza dalle carceri, e passar poscia a fil di spada tutti i Merli, e tutti coloro che favorivano il partito del Re. Fu in effetto in un istante, al suono d'una campana, veduta la città andar sossopra, i Malvezzi occupare i più rilevati posti, fare strage de' Merli, e sempre più avanzandosi il lor partito, crescere il lor numero sino a ventimila persone, le quali costrinsero le soldatesche Spagnuole, che erano accorse per reprimere il tumulto, a ritirarsi nel Palagio Regale, dentro il quale convenne a loro rinchiudersi e ridurre tutta la lor difesa: e lo Straticò per disturbare l'assedio del Palazzo, ordinò, che i Castellani della Fortezza tirassero contro la Città col cannone.

Dall'altra parte i Senatori dichiaratisi apertamente per li Malvezzi, e disponendosi all'assedio del Palagio Reale, fortificavan i posti; e ragunando gente, strinsero di stretto assedio lo Straticò. Accorse il Marchese di Bajona Vicerè al periglio; ma gli fu impedita l'entrata nella città, e lo costrinsero a colpi di cannone a ritirarsi verso i lidi della Catona nelle coste della Calabria, e di là in Melazzo. Sì pensò allora seriamente, che per ridurre i Messinesi bisognava espugnargli con formata guerra; onde avendosi il Bajona eletta la città di Melazzo per piazza d'armi, raccolse ivi tutte le soldatesche dell'Isola; chiamò i Baroni del Regno, che vi comparvero con buon numero di milizie a loro proprie spese arrolate; si risolse di non solo soccorrere lo Straticò e le Fortezze Regali di Messina, ma parimente di chiudere i passi di Teormina, per togliere a' Messinesi la comunicazione col rimanente dell'Isola, e ridurgli all'ubbidienza, non men col timore delle armi che della fame.

Venne chiamato a parte di questa impresa il nostro Vicerè, il quale cooperando al medesimo fine, dichiarò ancor egli per piazza d'armi la città di Reggio, dove fece marciare buona parte del battaglione del regno, sotto il comando del Generale D. Marc'Antonio di Gennaro con ordine di passare nell'Isola, quando al Marchese di Bajona fosse così paruto. Spedì poscia due galee in Melazzo con quattrocento fanti Spagnuoli; ed altrettanti Italiani fece imbarcare sopra un vascello, e due Tartane con munizioni da guerra e da bocca, e non trovandosi ne' nostri mari le squadre delle galee di Spagna, s'ottennero quelle della Repubblica di Genova, e della Religione di Malta in soccorso delle armi Regie.

I Messinesi, prevedendo che per se soli non erano bastanti a contrastare a tanti, dalla sollevazione passarono a manifesta ribellione deliberando di ricorrere al Re di Francia, perchè di loro prendesse cura e protezione; e tenendo in tanto a bada il Marchese di Bajona con negoziazioni e trattati di rendersi, ma non mai riducendogli ad effetto, spedirono in Roma D. Antonio Cafaro a trattare col Duca d'Etrè ambasciadore di quel Re al Pontefice, perchè ricevendogli sotto il suo dominio, sollecitasse il Re a mandar loro presti e poderosi soccorsi. Il Duca col Cardinal d'Etrè suo fratello, non tenendo sopra di ciò alcun spezial comando del lor Sovrano, nè avendo nemmen il Cafaro bastante mandato di far ciò che offeriva, deliberarono, per non perder tempo, di far passare in Francia l'istesso Cafaro, affinch'egli avesse rappresentato lo stato di Messina a quel Principe, e sollecitato il soccorso, e l'accompagnarono con loro lettere dirette al Duca di Vivonne Vice-Ammiraglio di Francia nel mare Mediterraneo, che dimorava in Tolone. Nella corte di Francia furon varj i sentimenti intorno ad accettar l'impresa: alcuni memori del famoso Vespro Siciliano e dell'avversione, che i Popoli della Sicilia hanno alla nazion Franzese, la dissuadevano: altri accendevano l'animo di quel Re a non abbandonarla, potendo molto giovare alla guerra, che allora ardeva fra le due corone, e che almeno avrebbe cagionata una grande diversione alle armi Spagnuole. Fu risoluto in fine d'appigliarsi ad un mediano partito, di comandare al Vivonne, che soccorresse ai Messinesi, ma prima di moversi con tutta l'armata, spedisse una squadra per introdurvi soccorso, e nell'istesso tempo confermasse i Messinesi nella ribellione, affin di ritrarne profitto per la diversion delle armi spagnuole, e s'informasse meglio dello stato delle cose, per prender poi più pesate deliberazioni.

Dall'altra parte, giunto alla corte di Spagna l'avviso della sollevazione di Messina, fu deliberato, che si proseguissero i mezzi per ridurla, non men colle armi che co' trattati d'accordo, mostrando indulgenza, e promettendole il perdono. Ma nell'istesso tempo fu risoluto, che prima che potessero venire i soccorsi, che si temevano di Francia, con tutte le forze di mare (non profittandosi i Messinesi della regal clemenza) si proccurasse la sua riduzione. Fu pertanto dalla Regina Reggente conceduto loro un general perdono, che fu mandato al Bajona, perchè lo pubblicasse in quell'Isola: e comandato al Marchese del Viso, che ripigliasse il comando delle galee di Spagna, del quale si trovava essersi già fatta mercede all'istesso Marchese di Bajona, ch'era suo figliuolo; ordinando parimente così a lui, come a D. Melchior della Queva General dell'armata, che unitamente si fosser portati con tutte le galee e vascelli ne' mari di Sicilia.

Ma così l'uno, come l'altro mezzo, ebbero infelice successo: poichè i Messinesi insolentiti per li promessi soccorsi di Francia, e vie più resi animosi per alcuni fatti d'arme intanto seguiti con lor vantaggio, rifiutarono il perdono, che avea fatto pubblicare il Bajona in Melazzo; anzi essendo stato mandato dal General delle galee di Malta il Capitan D. Francesc'Antonio Dattilo Marchese di S. Caterina figliuolo del rinomato Maestro di Campo Roberto Dattilo a portar loro il perdono, e con sue lettere assicurargli, che avrebbelo con buona fede fatto puntualmente valere: essi non solo disprezzarono le insinuazioni, ma fecero prigioniere il Marchese, rinchiudendolo in oscuro e stretto carcere.

La corte di Spagna, a questi avvisi infelici, deliberò mutar governadore in quell'Isola, e comandò al Marchese di Villafranca, che tosto si portasse in Sicilia a governarla; e nell'istesso tempo sollecitava il Marchese del Viso, e D. Melchior della Queva, li quali avean già unite amendue l'armate nel Porto di Barcellona, che sciogliesser presto da quel porto, ed accorressero a' bisogni di quel Regno. Partì il General de' vascelli nel dì 18 settembre di quest anno 1674 ma il Marchese del Viso colle galee, impedito dai venti, non poté partire sino a' 18 del seguente mese di ottobre, nè prima de' 5 di novembre potè giungere in Sardegna nel porto di Cagliari; donde col Marchese di Villafranca, calmato alquanto il mare, partirono finalmente per la volta di Palermo nel dì 10 di dicembre, dove giunsero con le galee nel dì 12 dello stesso mese. Il nuovo Vicerè avendo preso il possesso in Palermo, si trasferì subito a Melazzo, per assister da vicino alle cose di Messina, dove anche si condusse per mare colle sue galee il Marchese del Viso; e facendo notabili progressi, avendo occupata la Torre del Faro, si risolsero di stringer Messina, toglierle per mare e per terra ogni adito di ricever soccorsi, e sopra tutto invigilar, che non ne fossero introdotti da' Franzesi; avendo per tal effetto il general dell'armata, col grosso de' suoi vascelli, dato fondo nella Fossa di S. Giovanni, affinchè, posto con tutti i vascelli a vista della città, si desse maggior calore all'impresa.

Ma mentr'eransi in cotal guisa disposte le cose, tal che si sperava tra pochi giorni la riduzione di quella città, s'intese nel di primo di gennajo del nuovo anno 1675, che s'eran scoverti sei Vascelli da guerra Franzesi, che con quattro da fuoco, ed alcune tartane venivano per tentar d'introdursi in Messina. Era questa la squadra spedita dal Duca di Vivonne, la la quale guidata dal comandante Valbel, uscita poco dianzi da Tolone veniva per tentare un furtivo soccorso, in congiuntura, che l'armata Spagnuola, per tempesta, o per altra cagione, non si fosse trovata in istato di poterlo impedire; nè di questa squadra si era avuta alcuna notizia, poichè tutti gli avvisi parlavano del soccorso Reale, che si preparava dal Duca di Vivonne, il qual ben si conoscea, che per doversi apprestare un sì gran numero di vascelli, non avria potuto arrivare, se non molto tardi. Giunto il Valbel presso Messina, insospettito d'aver trovata in poter degli Spagnuoli la Torre del Faro, ed avuta notizia che la città stava deliberando per rendersi, ancorchè avesse potuto il medesimo giorno condursi senz'opposizione in Messina, poichè il vento a lui favorevole impediva in contrario all'armata nemica l'uscir dalla Fossa di S. Giovanni, non volle però entrare, per tema d'esser tradito da' Messinesi. Ma, o che veramente fosse, che per li venti contrarj l'armata, con tutto che si fosse usata ogni umana industria, non s'avesse potuto condurre in quel tempestoso canale in posto che avesse potuto impedire il soccorso; o veramente gara di comando fra' Generali, o lor negligenza, di che ne furon poi imputati; assicuratosi nel terzo giorno il Valbel dell'ostinazione de' Messinesi, si risolse finalmente d'entrare, passando nel dì 3 di gennajo a vista dell'armata nemica, senza che avesse potuto farsegli resistenza.

Il soccorso però, che vi fu introdotto, non era tale, che avesser dovuto gli Spagnuoli disperar dell'impresa. Ma i Messinesi fattisi più arditi, ed in contrario sorpresi i Capi, che guardavano i posti occupati, da soverchio timore, con troppo presta disperazione, senza aspettare d'esserne cacciati dal nemico gli abbandonarono: con che si perdè l'occasione di poter per allora ridurre la città col terrore dell'armi. Non si abbatterono con tutto ciò d'animo gli Spagnuoli, prevedendo, che per la scarsezza de' viveri la città si sarebbe in breve ridotta all'angustia di prima; onde erano tutti intesi, che non vi s'introducessero per via di mare. Ma mentr'essi lusingati da queste speranze deliberavan de' mezzi, il Duca di Vivonne avvisato de felice successo della sua squadra, e dell'ostinazione de' Messinesi, fece concepire al suo Sovrano più certe speranze di ridurre quel regno sotto il suo dominio; onde assunto il titolo di Vicerè di Messina, ed il comando generale delle galee di quella corona, sciolse dal Porto di Tolone con nove navi di guerra, tre da fuoco, ed otto di vettovaglie, ed incamminatosi per la volta di Messina, pervenne egli in que' mari a' 10 di febbrajo. I Generali Spagnuoli, all'avviso del suo avvicinamento, uniron tutte le lor forze, per andare ad incontrarlo, siccome fecero, e nella giornata degli 11 si combattè con tanto valore, che la pugna cominciò dalle nove della mattina e continuò sino alla sera. Ma, o fosse lor fatalità o negligenza, o perchè mutossi il vento a favor de' Franzesi, furon costrette le lor galee dalla forza del vento a ritirarsi; ond'ebbe campo il Valbel d'uscir dal porto di Messina con altri dodici vascelli, co' quali posti in mezzo gli Spagnuoli, furono obbligati combattere non più per la vittoria, ma per la salute; sin che verso la sera si divisero per la tempesta, con che riuscì a' Franzesi il giorno appresso con vento prospero entrar senza contrasto in Messina.

Quest'infelici successi portarono ancora, che le galee di Sicilia e di Napoli, conoscendo infruttuosa la lor dimora in que' mari, prendendo il cammino verso Melazzo, ed alcune verso Napoli, per gran tempesta ne naufragassero due nell'acque di Palinuro, ed una altra se ne sommergesse ne' mari di Maratea. I vascelli dell'armata Spagnuola si ritirarono in Napoli per risarcirsi de' danni patiti nella passata battaglia. Perì in quest'ostinata guerra molta gente, che bisognava dal nostro Regno riclutarsi; e ciò non bastando fu duopo far venire d'Alemagna quattromilacinquecento Tedeschi, li quali giunti in Napoli quasi tutti s'ammalarono; onde bisognò che il Vicerè provvedesse loro più d'ospedali, che di quartieri; nè per essi e per gli soldati dell'armata regale bastando gli spedali della città, bisognò, che in Pozzuoli se ne formassero de' nuovi.

La Corte di Spagna all'avviso di sì funesti accidenti, incolpando i disordini accaduti a' generali Spagnuoli, fremendo contro di essi, con due regali cedole, una spedita a' 16 di marzo di quest'anno 1675, alla quale diede cagione il soccorso entrato a' 3 di gennajo, l'altra a' 10 di maggio, ordinò una giunta di Ministri, perchè con regal delegazione giudicassero sopra quelli delle mancanze che loro venivan imputate. Si accagionava il Marchese di Bajona di non aver saputo con mezzi opportuni, che potea usare, ridurre in que' principj i Messinesi. Al Marchese del Viso suo padre, al general della Queva, ed all'ammiraglio D. Francesco Centeno, s'imputava di aver potuto, e non voluto combattere il soccorso, che il Valbel introdusse nell'assediata città. Furono per ciò arrestati in Sicilia il Bajona, e 'l padre, e dopo alcuni mesi condotti in Napoli. Al nostro Vicerè fu data commessione d'arrestare il general della Queva, e l'ammiraglio, li quali prontamente avendo ubbidito agli ordini regali, il primo fu mandato nella fortezza di Gaeta, e l'altro al castel d'Ischia. Il principe di Montesarchio fu dichiarato governadore dell'armata de' vascelli di Spagna, e venne in Napoli ad esercitar la sua carica. L'Astorga Vicerè dichiarò governadore dell'armi nella piazza di Reggio il general dell'artiglieria Fr. Gio. Brancaccio; ed il Marchese del Tufo, ch'avea sin allora occupata la medesima carica, andò ad esercitarla nella provincia di Terra d'Otranto. La giunta ordinata sopra la visita di questi generali cominciò a conoscere delle colpe, che venivan loro imputate, e fu comandato al reggente D. Pietro Valero, che ne prendesse diligenti informazioni; onde il Marchese del Viso, che fu poi ristretto nel Castel Nuovo di Napoli, per difesa della sua causa prese per suo avvocato il rinomato Francesco d'Andrea, il quale volle, che in quella vi scrivesse suo fratello Gennaro, allora avvocato de' poveri in Vicaria, il quale vi compose una molto dotta, ed erudita allegazione.

Premeva tuttavia incessantemente la corte di Spagna, che in tutti i modi si ripigliasse l'impresa per la riduzione di Messina, ma eran vane le speranze di riacquistarla, sempre che i vascelli franzesi erano padroni del mare. Bisognava per tanto pensare a risarcire l'armata, ed accrescere nel medesimo tempo l'esercito terrestre di Sicilia. Mancava però il denaro, nè altronde che dal nostro regno si pensava il provvedimento. Per ciò furon posti in opra dal Marchese d'Astorga li più estremi espedienti per provvedersene. Espose venali le rendite, che possedeva il Re sopra le gabelle, dazj, e fiscali, e barattandosi a prezzo vilissimo, molte private case per ciò divennero ricchissime. Il ragguardevol ufficio di scrivano di Razione del regno, ch'era amministrato da D. Andrea Concublet Marchese d'Arena, essendo vacato per la di lui morte, fu nel mese di giugno di quest'anno 1675 frettolosamente venduto per tre vite a D. Emmanuele Pinto Mendozza per ducati quarantaseimila, ma non essendo stata approvata dal Re la vendita, fu duopo, per ottenerne il regale assenso, che si sborsassero altre mille pezze da otto reali, oltre l'altre spese, che il Re ordinò, che si pagassero nella Corte di Madrid. Chiese ancora il Vicerè a' Baroni una contribuzione di soldati a cavallo, a loro spese armati e montati, la quale da ciascuno fu somministrata in danari, secondo le proprie forze. E finalmente si tolse la terza parte dell'entrate d'un anno, che i forastieri possedevano nel Regno. Con questi danari si cominciarono a risarcire i vascelli, per servigio de' quali si fecero venire da Ragusi quattrocento marinari. Ma perchè la spesa, che bisognava per lo risarcimento era grande, e buona parte del denaro s'impiegava in altri usi, i lavori camminavano con lentezza; per ciò i popoli, che vedevano con tanta furia alienare l'entrate regie, e non vedevano promuovere con la medesima sollecitudine il Regal servigio, mormoravano dei Vicerè: le soldatesche parimente se ne lagnavano, perchè non eran somministrate le paghe. Non si può dubitare, che le spese ed i soccorsi, che uscirono da questo Regno per la guerra di Messina sotto il governo del Marchese d'Astorga furono considerabili e di grandissima importanza. Si arrolarono nuovi fanti e cavalli: si fecero venire d'Alemagna quattromilacinquecento Tedeschi, e tutta questa gente si faceva passare parte in Melazzo, e parte in Reggio, ed in altri luoghi della Calabria, donde poscia si traghettava, secondo il bisogno, in Sicilia. Si provvidero di munizioni, così da bocca, come da guerra, le piazze di Reggio, di Melazzo e della Scaletta: si somministrarono somme immense di danaro, non solo per le paghe a' soldati, che guardavano le frontiere del Regno, ma anche a quelli, che guerreggiavano in campagna nell'esercito e nelle Piazze di Sicilia. Si rifecero in fine i vascelli, e si diedero i soldi alla gente dell'armata di Spagna, con lo sborso di sopra seicentomila ducati.

Il marescial Vivonne intanto, ridotta Messina sotto l'ubbidienza del suo Sovrano e reso padrone del mare, meditava di stendere le sue conquiste sopra altre città di quell'Isola; ma fattone esperimento, trovò gli animi stabili e fermi nella fedeltà del lor Signore, e pronti ad opporsergli con molta intrepidezza e costanza. Bisognavagli ancora provvedere Messina di viveri da rimote parti, e mandare sino in Francia per vettovaglie, perchè gli Spagnuoli tenevan chiusi tutti i passi di terra; e l'armata, che s'apprestava in Napoli tenevalo in continue agitazioni, vedendo, che gli Spagnuoli non aveano deposto l'animo di fare ogni sforzo per la riduzione di quella città. Per ciò egli dopo avere scorso colla sua armata le marine di Palermo e tentate inutilmente l'altre piazze marittime di quell'Isola, s'incamminò verso i lidi di Napoli, con disegno, se gli venisse fatto, d'abbruciar l'armata spagnuola, che si trovava ancora nel nostro Porto; ma essendo comparso nel mese di luglio di quest'anno 1675 nel nostro Golfo, presero i cittadini le armi, ed opportunamente fortificati i posti più importanti, l'obbligarono a ritornarsene in Messina, con aver solo depredate alquante barche, che per cammino ebbero la disavventura d'incontrarsi colla sua armata.

Ma mentre il Vicerè, risarcita già l'armata, provveduta del bisognevole e soccorsa colle paghe de' marinari e de' soldati, sollecitava la di lei partenza, siccome in effetto il principe di Montesarchio governadore di essa s'era posto alla vela, si videro entrar nel nostro porto a' 9 di settembre di questo istesso anno alcune navi che inaspettatamente condussero da Sardegna il Marchese de los Velez per nostro nuovo Vicerè. Erano precorse alla corte le voci insorte, che il Marchese d'Astorga e più i suoi Ministri, de' qual' si valeva, s'eran molto profittati di questa guerra e che le spedizioni andavan pigre e lente, perchè la maggior parte del denaro era impiegato ad altri usi. La Corte di Spagna, che non inculcava altro, che la riduzione di Messina, deliberò, avendo già l'Astorga compiti i tre anni del suo governo, di mandargli per successore il Marchese de los Velez, il quale trovandosi allora vicerè in Sardegna, favorito ancora dalla Regina Reggente per le continue raccomandazioni della madre di los Velez, ch'era sua cameriera maggiore, fu creduto valevole a sostenere il peso, non men del governo del regno, che della guerra di Sicilia. Convenne per tanto all'Astorga, giunto il successore, di cedergli il Governo e ritiratosi nel borgo di Chiaja, dove si trattenne sino a' 13 d'ottobre, partissi per la volta della Corte ad esercitar ivi la sua carica di consigliere di Stato e di generale dell'artiglieria delle Spagne. Ci lasciò pure l'Astorga sette Prammatiche ne' tre anni, che ci governò, che sono additate nella Cronologia prefissa al primo tomo delle medesime.

CAPITOLO IV. Il Marchese de los Velez nuovo Vicerè prosiegue a mandar soccorsi per la riduzione di Messina, la quale finalmente abbandonata da' Franzesi, ritorna sotto l'ubbidienza del Re.

L'espettazione, colla quale fu ricevuto D. Ferrante Gioachino Faxardo Marchese de los Velez, e la speranza, che si concepì del suo governo di dover sollevare il Regno d'una sì molesta, e fastidiosa guerra, che lo impoveriva molto più, che non avean fatto le passate sciagure, fu appresso tutti grandissima. Si sperava, che per l'avvenire con miglior economia dovesse spedirsi il denaro e per conseguenza dovessero farsi sforzi più valevoli per terminar la guerra di Sicilia; che sarebbero scacciati i franzesi, umiliati i ribelli, restituita la tranquillità in quell'Isola e quello che più premeva, liberato il nostro Regno, non meno dal peso di spingere a quella parte continui soccorsi, che dal timore d'invasioni e d'insulti; poichè i Franzesi, non contenti di suscitar torbidi e sollevazioni in quell'Isola, macchinavano ancora nel nostro Regno, coltivando continue pratiche co' banditi di Calabria e con altri mezzi fomentando sedizioni e tumulti: nè tralasciava l'ambasciadore del Re Franzese residente in Roma, con occulte macchinazioni e con secrete commessioni, appoggiate per lo più a frati, di tentar gli animi e far disseminare manifesti per eccitare i popoli a seguir l'esempio de' Messinesi. A questo fine il Marchese de los Velez fu obbligato di istituire in Napoli un'assemblea di ministri con titolo di Giunta degl'Inconfidenti, la quale non vi stette oziosa, poichè scoprì molti di costoro, de' quali, secondo che venivano indiziati, alcuni ne furono imprigionati, altri esiliati dal Regno e taluni fatti morire su le forche.

(A questi tempi fu sparso quel Manifesto del Re Luigi XIV, che in idioma franzese si legge presso Lunig[57] colla data di Versaglia degli 11 ottobre del 1675, dove s'espongono le ragioni per le quali fu mosso a dar soccorso a' Messinesi oppressi dal pesante giogo degli Spagnuoli.)

Intanto sollecitando la Regina reggente la riduzione de' Messinesi e nell'istesso tempo minacciando rigorosi castighi a' generali spagnuoli, affrettando per ciò il reggente Valero, che i processi fabbricati contro di loro dovesse mandare alla Corte, costrinse il nostro Vicerè a pensar da dovero ad affrettare valevoli soccorsi per quella spedizione. Egli per ciò esagerando non meno a' Nobili, che al Popolo Napoletano gli urgenti bisogni, indusse loro a far un donativo al Re di 200 mila ducati, una parte de' quali fu ricavata dalle contribuzioni volontarie de' Cittadini e 'l rimanente dalla metà degli stipendj de' Giudici delegati e dei governadori degli arrendamenti, ed in cotal guisa si sosteneva la guerra di Sicilia, dove furono spediti da tempo in tempo soccorsi non solo di munizioni e di gente, ma si mandava ogni mese il contante per pagare l'esercito.

Ma le speranze maggiori di snidare i Franzesi da quell'Isola si fondavano nella venuta di D. Giovanni d'Austria, il quale essendo stato dichiarato dalla Regina Reggente, Vicario generale del Re in Italia, si aspettava a momenti con una squadra di vascelli di Olanda. Giunse finalmente in Napoli a' 30 di novembre di quest'anno 1675 l'armata Olandese composta di diciotto navi da guerra e sei da fuoco, comandata dall'ammiraglio Ruiter, ma non già D. Giovanni di Austria, il quale con secreti ordini del Re era stato richiamato alla Corte. L'arrivo di quest'armata diede maggior agio ai generali Spagnuoli d'accalorar l'impresa, e già stringendo per tutti i lati Messina, ed all'incontro vedendosi che i Franzesi a lungo andare non avrebber potuto resister loro, si cominciavano a sentir voci dagl'istessi Messinesi che era impossibile che Messina potesse rimanere ai Francesi, e che l'armata spagnuola unita a quella degli Stati generali d'Olanda l'avrebbe senza fallo espugnata. Cominciavano ancora ad accorgersi, che il Re di Francia non avea pensiero (non potendo conquistare tutto il Regno) di conservarla: ma solamente di divertire le forze della corona di Spagna, colla quale guerreggiava ne' Paesi Bassi, e che per ciò vi mandava soccorsi tali, ch'erano valevoli a mantener questa guerra in Italia, non già a liberare la città di Messina da quelle angustie, nelle quali la tenevano le milizie Spagnuole. Dispiacevano sommamente ai Franzesi queste voci onde nell'entrato anno 1676 vie più inaspriron la guerra, e tentarono di nuovo Palermo, e l'altre piazze, ma sempre con infelici successi.

Intanto partito per la corte il Marchese di Villafranca, e sostituito Vicerè di quell'Isola il Marchese di Castel Rodrigo figliuolo del Duca di Medina las Torres e di D. Anna Caraffa principessa di Stigliano, giovane intorno a 35 anni e che nelle guerre di Portogallo e di Catalogna avea dati saggi d'un gran ardire e valore; ripigliò questi la guerra con più vigore, e per tutto quest'anno e ne' principj del seguente combattè valorosamente i Franzesi, sicchè molto più i Messinesi disperavano di lor salute. Ma morto costui per dolor di colica nel mese d'aprile di questo nuovo anno 1677 non potè aver il piacere per le sue mani di veder condotta a fine la gloriosa impresa. Avea egli prima di morire appoggiata l'amministrazion del Regno alla Marchesana sua moglie, ed al Maestro di Campo Generale Conte di Sartirana il comando delle milizie, per sino a tanto, che il Re non avesse provveduto il regno del successore. Ma poichè eravi occulto dispaccio del Re, che comandava, che per qualunque accidente venisse a mancare il Castel Rodrigo andasse il Cardinal Portocarrero, che si trovava in Roma, a prender il governo di quell'Isola, partì subito questi da Roma per Gaeta, ove a' 10 maggio imbarcatosi, navigò felicemente per Palermo.

Fu proseguita la guerra per tutto quest'anno con non minor calore, che intrepidezza; ma in Messina intanto accadevan spesso fastidiosi tumulti, non solo per l'insolenza de' soldati Franzesi, ma per le mormorazioni, che tuttavia crescevano, che i Franzesi dovessero finalmente saccheggiar Messina e lasciar gli abitanti alla discrezione degli Spagnuoli. Nè le voci eran vane, poichè nel consiglio di Francia era stato già stabilito l'abbandonamento de' Messinesi e poichè donde venisse tal risoluzione era occulto, diessi a molti occasione di spiarne le cagioni. Alcuni l'attribuivano alle immense spese, che dovea soffrir la Francia per traghettar le soldatesche nella Sicilia, e molto più per mantenervele; e mancando In Messina ogni sorte di vettovaglie, si dovean mendicare da lontani paesi, non solo per uso delle milizie, ma anche de' Cittadini. Si faceva il conto, che di ventimila soldati passati in diverse volte in quell'Isola, appena rimaneva la quarta parte, e tutti gli altri, o erano rimasi estinti nelle fazioni o morti di patimenti e d'infermità, o finalmente fuggiti per non esporsi al pericolo della fame. Che volendosi continuar la guerra, bisognava spedire nuove squadre in Sicilia, giacchè dagli Spagnuoli si facevano apparecchi grandissimi in tutti gli Stati, che possedevano in Italia. S'aggiungeva ancora di dover mantenere l'armata navale continuamente in que' mari, per tener aperto il passo alle vettovaglie e per far fronte all'armata spagnuola, la quale sarebbe stata molto potente, per la squadra di navi, che facevano gli Olandesi passare a questo effetto nel Mediterraneo Sotto il comando del Vice-Ammiraglio Everzen; e che queste spedizioni pregiudicavano notabilmente alla guerra, che la Francia faceva di là da' monti, dove avea bisogno di soldatesche per ingrossare gli eserciti, e di navi per l'armata navale, che faceva mestieri di porre in mare, non solamente per opporsi a' Principi Collegati, ma anche al Re d'Inghilterra, il quale sollecitato dal Parlamento, minacciava d'unirsi co' nemici del Re Franzese, per costringerlo a far la pace con quelle condizioni, che pretendeva prescrivergli. Si considerava, che la Francia non avea tante forze per mantenere un'armata navale nell'Oceano ed un'altra nella Sicilia, spezialmente in quel tempo che 'l fuoco avea abbruciata una gran parte dell'Arsenale e delle munizioni in Tolone, ed anche i magazzini in Marsiglia; e ch'era ritornato dall'America il Conte d'Etrè con la sua squadra di navi molto mal concia e sminuita di numero, per cagion della battaglia ch'avea data nell'Isola del Tabacco al Vice-Ammiraglio Binch olandese. Ma sopra tutto si ponderava, che la guerra della Sicilia non poteva giammai render conto alla Francia, poichè erasi già sperimentato, di non doversi fare alcun fondamento su quella rivoluzione generale dell'Isola, che aveano i Messinesi fatta sperare; anzi che per la fermezza e costanza de' Siciliani nella fede del lor principe, era a' Franzesi ogni palmo di terreno costato un fiume di sangue; ed aggiugnevasi, che bisognava temere de' medesimi Messinesi, giacchè s'era sperimentato, che alcuni di essi per affetto alla Spagna, altri per incostanza di genio, e tutti per rincrescimento della lunghezza, e delle calamità della guerra, aveano macchinate tante congiure, per riconciliarsi col Re Cattolico. E finalmente conchiudevasi, che non era possibile di combattere insieme co' nemici interni ed esterni, e molto men con la fame, la quale faceva a' Franzesi in Messina una guerra, assai più crudele di quella, che loro facevasi dagli Spagnuoli.

Questo fu ponderato allora intorno a tal deliberazione, ancorchè non mancassero alcuni, che stimassero le cagioni assai più recondite e misteriose, e che nascondessero segreti d'assai maggiore importanza. Altri finalmente credettero, che ciò fosse preludio del trattato di pace, che fu conchiuso in Nimega l'istesso anno 1678. Che che ne fosse, egli però è certo, che questo abbandonamento fu conchiuso nel consiglio di Francia molto tempo prima di quello, che fu mandato in effetto. Il Marescial di Vivonne non volle esserne l'esecutore, per non lasciare, con un atto di debolezza, quella carica, che gli pareva d'avere esercitata con tanto applauso; onde a questo fine il Re di Francia gli sostituì il maresciallo della Fogliada nel medesimo tempo, ch'essendo stato nominato dal Re Cattolico il Cardinal Portocarrero all'Arcivescovado di Toledo, vacato per la morte del Cardinal d'Aragona, fu mandato in sua vece il Principe D. Vincenzo Gonzaga de' Duchi di Guastalla a governar la Sicilia, il qual giunto a Napoli nel dì 22 di febbrajo di quest'anno 1678, partì verso Palermo nel primo di marzo, portando seco un vascello con 500 fanti Napoletani, seguitato, alcuni giorni da poi, da due navi cariche di munizioni da guerra.

Essendo per tanto giunto in Messina il Maresciallo della Fogliada, dato prima ad intendere di voler con maggior calore proseguire la guerra, cominciò ad imbarcare sopra l'armata le soldatesche Franzesi, sotto pretesto di condurle all'acquisto di Catania, o di Siracusa: da poi fatti a se chiamare i Giurati della città mostrò loro i dispacci del Re di Francia per l'abbandonamento della Sicilia. Questo avviso a guisa di un fulmine toccò gli animi de' Messinesi, che sbalorditi e confusi, non sapevano a qual partito appigliarsi: scongiuravano il Maresciallo a trattenersi, almeno infino a tanto, che dessero sesto alle cose loro. Ma ciò lor negato, molti disperando del perdono dagli Spagnuoli, deliberarono di abbandonare la patria e d'andarsene in Francia: così ne furono molti non men Nobili, che Popolari imbarcati sopra l'armata, che verso Provenza voltò le prore. Così rimasa Messina senza assistenza de' Franzesi, que che vi rimasero ne dieron tosto avviso al governadore dell'armi della piazza di Reggio, il quale immantenente accorsovi col Vescovo di Squillace, ed alcuni ufficiali militari introdusse in Messina il ritratto del Re Cattolico, a vista del quale tutti que' cittadini fecero non ordinarie dimostrazioni d'applauso al suo Augustissimo Nome. Ciò accadde nel mese di marzo di quest'anno. Vi accorsero poco da poi gli altri comandanti con buon numero di soldatesche, e finalmente portossi in Messina il Vicerè Gonzaga, il quale usando moderazione con que' sudditi, concedette loro un ampio perdono, con la restituzione di tutti i beni, che non si trovavano alienati, o venduti; ma volle, che ne fossero esclusi tutti coloro, che con la fuga se n'erano renduti indegni. Comandò parimente, che si fosse negli abiti abolito l'uso franzese, e che si fosse portata nella zecca tutta la moneta di Francia, a fine di coniarsi con l'impronta del Re. Non estinse il Senato, aspettando sopra ciò la deliberazione della Corte; vietò nulladimeno a' cittadini d'offendersi, o ingiuriarsi fra di loro per le colpe della passata ribellione; ed avendone mandate tutte quelle soldatesche, che sopravanzavano al bisogno delle guarnigioni, le milizie di Reggio si ritirarono in Napoli.

Ma alla Corte di Spagna non piacque l'indulgenza usata dal Gonzaga a' Messinesi; onde richiamatolo in Madrid a sedere nel Consiglio di Stato, gli sostituì nel Governo dell'Isola il Conte di S. Stefano, il quale trovandosi allora Vicerè in Sardegna, si pose immantenente in cammino, ed a' 29 di novembre giunse in Palermo, donde partito a' 5 di gennajo del nuovo anno 1679 arrivò a Messina. Costui secondando i desiderj della Corte, tolse il Senato, e mutò forma di governo a quel magistrato, comandando, che non più senatori, giurati, ma eletti dovessero nomarsi, e restrinse in troppo angusti confini la loro potestà. Privò i Messinesi di tutti i privilegj e franchigie. Fece demolire il palagio della Città, e sparso il suolo di sale, vi fece ergere una piramide, ed in cima la statua del Re formata dal metallo di quella stessa campana, che prima serviva per chiamare i cittadini a consiglio. Vietò tutte l'assemblee; regolò egli le pubbliche entrate, le esazioni, ed i dazj; e finalmente, secondo le istruzioni lasciategli dal Principe Gonzaga, per porre maggior freno a que' popoli, vi fondò una forte ed inespugnabile cittadella, intorno alla quale posero ogni studio i migliori Ingegneri e Capi Militari, che aveva la Spagna in que' tempi.

CAPITOLO V. Il Marchese de los Velez, finita la guerra di Messina riordina il meglio, che può, il Regno: suoi provvedimenti: sua partita e leggi, che ci lasciò.

Aveva questa crudele ed ostinata guerra impoverito in tal guisa il Regno, per le tante spese occorsevi, che ci fece il conto, che ne uscirono poco meno di sette milioni. Affinchè i soccorsi fosser pronti e solleciti, fu di mestieri, non essendosi trovate l'entrate del regio erario corrispondenti alle somme immense, che fu necessario impiegare ne' ruoli delle milizie, nelle provvisioni delle vittuaglie, munizioni ed ordigni di guerra, e nelle paghe de' soldati, così dell'esercito della Sicilia, come dell'armata navale e delle guarnigioni delle piazze della Calabria; di por mano, non solo con molta precipitanza alla vendita degli ufficj, ma quel ch'è più, alla vendita de' fondi, ed a barattargli a prezzo vilissimo, con tanto vantaggio dei compratori, che tutti ne aveano goduti frutti eccessivi, e molti d'essi n'aveano ritratta la rendita di sopra venti per cento l'anno. Ciò che avendo diminuita notabilmente la dote della cassa militare, furono dalla Corte di Spagna, non solo disapprovate molte alienazioni, e per ciò niegato il regale assenso, ma intorno alla vendita de' capitali degli arrendamenti fiscali, ed adoe, fu ordinato, che si formasse una Giunta di Ministri, per esaminare un affare di così grande importanza. Furon proposti molti espedienti per dar compenso a' preceduti disordini; ma finalmente piacque a los Velez d'appigliarsi a quel partito, che reputò più conforme alla giustizia ed equità; laonde fu comandato, che tutti i mentovati contratti si dovessero regolare a misura del prezzo veramente pagato, in guisa tal, che i capitali degli arrendamenti e delle adoe si fossero ridotti a cento per cento; i fiscali della provincia di Terra di Lavoro al novanta; e quelli di tutte le altre province ad ottanta per cento. Il rimanente fu incorporato al patrimonio reale; al quale vi fu aggiunto ancora l'imposta del Jus prohibendi dell'acquavite, dalla quale si ricavavano in quel tempo 13 mila ducati l'anno.

Ristorato, come si potè il meglio, l'erario regale, bisognò dar sesto a non inferiori disordini. Le monete non ostante le severe esecuzioni fatte ne' passati governi, andavansi di giorno in giorno vie più adulterando. Furono dal Marchese rinovati i rigori, empì di falsificatori le carceri e le galee, molti ne furon fatti morire su le forche; ma con tutto ciò non era possibile sterminargli, ed erano così tenacemente adescati dall'avidità del guadagno, che molti di coloro, ch'erano scampati dal laccio e condennati a remare, sopra le galee istesse continuavano i loro lavori. Fin dentro i chiostri era penetrata la contagione, ed i monaci n'erano divenuti valenti professori. Gli Orafi adulterando le loro manifatture, mischiavano maggior lega di quella, che permettono le leggi del Regno. Donde venne a cagionarsi un grandissimo impedimento al commercio; poichè tutti coloro, che avevano argenti lavorati nelle lor case, non erano sicuri di trovarvi il lor danaro, e le monete erano presso tutti cadute in sì cattivo concetto, che cominciavasi a rifiutarle, ed oltre la mancanza del peso, ogni uno si faceva lecito di condannarla per falsa, o di conio, o di lega. In fine, sino alla moneta di rame era adulterata e falsificata. Il Vicerè applicò il suo animo per rimediare a disordini sì gravi; e fece fare un'esatta inquisizione contro degli Orafi, che aveano venduto l'oro e l'argento di più basso carato; sbandì tutte le monete false così di conio, come di lega; e volle, che si fossero portate fra brevi giorni in mano di persone a ciò destinate in diversi Rioni della città, e nelle province in mano de' Tesorieri, da' quali sarebbe stata restituita la valuta a' padroni in tanta moneta buona e Corrente; ma ciò non ostante accadevano infinite contese, perchè molti rifiutavano come falsa la moneta, che in fatti era buona, ed altri volevano mantenere per buona quella, che veramente era falsa: laonde per decidere simiglianti litigj, li quali mancò poco non fossero degenerati in tumulti, fu di mestieri, che il Vicerè ne commettesse la decisione ad alcune persone esperte di ciascuno quartiere. Ma tutti questi rimedj erano inutili e si sperimentarono inefficaci alla corruttela del male. L'unico rimedio era l'abolizione della antica e la fabbrica d'una nuova: ma questa era opera, che avea bisogno di molti apparecchi e richiedeva il travaglio di più anni. Con tutto ciò fece il Marchese, quanto i suoi calamitosi tempi comportavano; perchè non potendo altro, fe' coniare la moneta di rame d'una figura circolare così perfetta che servì poscia d'esempio alla fabbrica della moneta d'argento sotto gli auspicj del Marchese del Carpio suo successore: fece ancora a questo fine ristorare, ed ingrandire il palagio della Regia Zecca, ancorchè sapesse, che quest'impresa non era da ridursi a perfezione sotto il suo governo.

Non meno, che le monete, travagliavano il Regno le frequenti scorrerie de' banditi, li quali se in altri tempi erano stati sempre molesti, riuscivano ora, per la guerra di Sicilia, assai più gravi, per la gelosia, che portavano alla tranquillità dello Stato. Avea il marchese d'Astorga conceduto a molti di costoro il perdono se volessero andare a servire in Sicilia; e Los Velez, seguitando le sue pedate avea fatto il medesimo, particolarmente co' banditi di Calabria, li quali, per la poca distanza, stavano maggiormente soggetti ad esser da' nemici tentati. Riuscì in parte il disegno, poichè quelli, che v'andarono, da famosi ladroni divennero bravi soldati. Ma coloro, che rimasero, ancor che contro essi si fossero usate le più diligenti ricerche e le più severe esecuzioni, non fu però mai possibile estirpargli, ed impedirgli, che non infestassero le campagne.

La Città trovavasi nel suo arrivo in istato di somma dissolutezza per la confusione, che cagionavano le genti delle armate navali e le soldatesche, che si arrolavano per la guerra di Sicilia, onde tutto era pieno di disordini, nè v'eran atroci delitti, che non si commettessero, furti, sacrilegi, omicidj, assassinamenti, peculati, e proditorj. Fu contro tutti, e nobili, e popolani usato rigore; molti ne morirono per mano del boja, altri fatti secretamente strozzare, altri furono condannati a remare su le galee e moltissimi languirono per lungo tempo nelle prigioni; ma questi rigori nè meno bastarono, perchè dandosi luogo a maneggi, ed alle raccomandazioni, molti sapevano trovar scampo, nè badandosi alla cagione del male, si proccurava rimediare agli effetti e non recidere le radici.

Ne' Magistrati non si vedeva quella severità ed incorruttibilità, che le leggi lor prescrivono; ma alcuni per sordidezza, altri per compiacenza, davan luogo ai favori. D. Giovan d'Austria, dichiarato primo Ministro della Monarchia, pensò di darvi riparo, e mosso da segreti informi ne privò otto di dignità, e d'officio, due Consiglieri, due Presidenti di Camera e quattro Giudici di Vicaria, oltre alcuni ufficiali della Segreteria del Vicerè. Si lagnavano i Ministri degradati di essere stati condannati senza processo e senza difesa; onde si mossero i Deputati delle Piazze della città a pregare il Re, che secondo il costume introdotto dal Re Filippo II mandasse nel Regno un Visitatore, il quale contro i colpevoli procedesse con le forme giudiciarie, affinchè non si desse luogo alla passione, o alla calunnia, alle quali sogliono essere sottoposti i processi occulti. Assentì il Re alla domanda e la mandò in effetto in tutti i suoi Stati d'Italia avendo ordinato, che da Napoli andasse Visitatore in Sicilia il Reggente Valero, ed in Milano il Presidente di Camera D. Francesco Moles Duca di Parete, e che da Milano venisse in Napoli il Reggente Danese Casati. Giunse costui verso la fine d'aprile del 1679, e palesata la sua carica, ricevute le querele di molti, passò con grandissima circospezione alla fabbrica de' processi; nè altre novità d'importanza furono vedute nella città, che la restituzione d'alquante somme, che in concorso di creditori aveano alcuni ministri fatte pagare a chi forse non si doveano e l'allontanamento di due, per dar luogo alle diligenze, che doveano farsi dal Fisco contro di loro. Le altre cose passarono con quiete; onde il Casati dopo due anni di dimora in Napoli, partì nel mese d'aprile del 1681 per dar conto al Re di quanto avea operato in adempimento della sua commessione. Dal successo si credette, che i suoi processi poco, o nulla avessero contenuto contro agli otto Ministri già digradati; poichè in progresso di tempo cinque di essi furono reintegrati, parte nelle medesime, parte investiti d'altre cariche più autorevoli; e gli altri tre avrebbero facilmente ottenuto lo stesso, se uno di essi non si fosse contentato di menar vita privata e gli altri due non fossero morti.

Mentre queste cose accadevano in Napoli, morì in Roma a' 22 di luglio del 1676 il Pontefice Clemente X, ed essendosi ragunati in Conclave i Cardinali, elessero per successore a' 21 settembre del medesimo anno Benedetto Livio Odescalchi da Como Vescovo di Novara, che fu chiamato Innocenzio XI. Per l'opinione, che s'avea della sua bontà, ed innocenza di costumi, da tutti i Principi d'Europa fu l'elezione applaudita, ed in questo secolo non vi fu Pontefice cotanto da essi più venerato, quanto che lui; onde gli ufficj, ch'egli interpose in promovere la pace fra di loro, furono ben ricevuti, ed ebbero felice successo. Cominciossi a trattare in Nimega, ma le pretensioni troppo alte del Re di Francia e la diversità degl'interessi degli altri collegati ne prolungavano la conchiusione. Ma nato in quest'anno 1678 opportunamente all'Imperador Leopoldo, che non avea maschj, un suo figliuolo, parve questi venuto al Mondo per Angelo di pace. Le dimostrazioni di giubilo, che si fecero non meno in Napoli, che in tutti gli Stati Austriaci, furono grandissime; poichè si vedeva secondata in Alemagna la successione di quella Augustissima Famiglia e tolto con ciò ogni timore di future rivoluzioni e disordini nell'Imperio, ed ogni speranza agli altri Principi di potersene profittare. Agevolò per tanto la natività di questo nuovo Principe la pace, quale ebbe principio da quella, che il Re di Francia conchiuse con gli Stati Generali d'Olanda, a' quali quel Re promise di rendere la città di Mastrich, e sue dipendenze, ed il rinteramento del Principe d'Oranges nella possessione del Principato di questo nome, e di tutte l'altre terre poste nel suo dominio, che il Principe possedeva avanti la guerra senz'altra obbligazione dalla parte degli Olandesi, che d'osservare una perfetta neutralità, nè dar alcun ajuto a' nemici della corona di Francia.

Questa pace diede la spinta maggiore di far conchiudere l'altra fra la Spagna e la Francia, la quale dopo la sospensione d'armi di circa un mese, fu finalmente sottoscritta in Nimega a' 17 settembre di questo anno 1678. Gli articoli stabiliti in quella furon molti, buona parte de' quali riguardava le contribuzioni, ed il commerzio de' sudditi delle due Corone, e per la restituzione de' paesi occupati fu convenuto che il Re di Francia dovesse rendere al Re Cattolico le piazze di Carleroi, Binch, Ath, Oudenarde, Courtray, il Ducato di Limburgo, il paese di là dalla Mosa, la città e cittadella di Gant, il forte di Rondenhuis, il paese di Waes e le piazze di Levue e di S. Gislain ne' Paesi Bassi, oltre la città di Puicerda nel Principato di Catalogna, con espressa condizione, che l'escluse e fortificazioni incorporate a Neuport restassero agli Spagnuoli, nonostante le pretensioni del Re di Francia, come possessore della Castellania di Ath. Gli Spagnuoli all'incontro si contentarono di lasciare alla corona di Francia la Franca Contea di Borgogna e le città di Valenciennes, Buchain, Condè, Cambray, Cambresis, Aire, Sant'Omer, Ipri, Varwich, Varneton, Poperingue, Bailleul, Cassel, Satelbavai, e Maubeuge: come anche Charlemont in caso, che il Re Cattolico non facesse fra lo spazio d'un anno cedere al Re di Francia Dinant, appartenente al principato di Liege. E finalmente la Spagna stipulò la medesima neutralità, ch'era stata promessa dagli Olandesi.

Seguì poscia la pace fra la Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore, la quale interamente fu regolata secondo le capitolazioni di quella di Vestfalia dell'anno 1648, nè vi fu cosa di nuovo, che la cessione di Friburgo rimaso all'Imperadore, il rinteramento del Vescovo d'Argentina e de' Principi di Furstemberg nella possessione de' loro Stati, beni, preminenze e prerogative e la restituzione della Lorena al Duca di questo nome, al quale la Francia avrebbe dato la città di Toul, ed una Prevostia ne' tre Vescovadi, in cambio di Nancy e della Prevostia di Longuùs, che volle ritenersi insieme con la Sovranità di quattro strade, larghe mezza lega di Lorena, per andare da S. Desire a Nancy e da qui in Alsazia, nella Franca Contea e nel Vescovado di Metz.

L'ultime paci furono quelle del Duca di Brunswich, Principi della Bassa Sassonia, Vescovi di Munster e d'Osnabrug, Elettore di Brandemburg e Re di Danimarca colla corona di Svezia; le quali parimente furono indirizzate all'osservanza di quella di Vestfalia. Così furono restituiti alla Svezia tutti gli Stati, che avea perduti nel corso di questa guerra, mediante il pagamento di alcune somme, che furono contate a Brunswich, Munster, Osnabrug e Brandemburg e solamente rimase al primo il Baliato di Tendinghausen e la Prevostia di Docuren, ed all'ultimo tutto il paese di là e qualche piazza di qua dell'Odera, che contro il tenore della pace di Munster aveano gli Svezzesi occupato. Vi furono parimente compresi li sudditi di ciascuna delle parti, e spezialmente fu convenuto, che la Contea di Rixinghen fosse restituita al Conte d'Alefelt, ed al Duca di Gottorp il suo Stato.

Tutt'i Principi sopraccennati ratificarono i mentovati trattati, quantunque molti di essi vi avessero acconsentito per dura necessità. Solo il Duca di Lorena fu quegli, che ricusò di approvargli e contentossi più tosto di rimanere spogliato del proprio Stato, che ricuperarlo così stravolto e corroso, anzi con le viscere contaminate dalla sovranità della Francia. E l'Imperador suo cognato riserbando questo affare del Duca a miglior congiuntura, dichiarollo governadore dell'Austria inferiore e del Tirolo, assegnando a lui ed alla vedova Regina di Polonia, Leonora d'Austria sua moglie, la città d'Inspruch per residenza.

In Napoli, dove pervenne l'avviso sul principio di ottobre, furono per questa pace celebrate magnifiche feste; ma assai maggiori se ne videro all'avviso delle nozze del Re, che per maggiormente stabilirla, furono conchiuse con la Principessa Maria Lodovica Borbone figliuola del Duca d'Orleans, fratello del Re di Francia, impalmata in Fontanalbò dal Principe di Contì, come proccuratore del Re di Spagna. Fu chiesto per queste nozze alle Piazze un donativo; ma incontrandosi gravi difficoltà, per non esser cosa altre volte praticata in simili casi; e molto più per l'angustie, nelle quali si trovava il Regno, fu preso espediente d'imporre un nuovo jus prohibendi sopra l'acquavite. Amareggiò alquanto questa celebrità la morte seguita in Madrid in settembre del Principe D. Giovanni d'Austria, ma non fu permesso perciò interrompere le feste, le quali avendo il Vicerè determinato di trasportarle dopo l'arrivo della Regina Sposa in Ispagna, furono a' 14 gennajo del nuovo anno 1680 cominciate con pompose e numerose cavalcate, e proseguite con tornei, illuminazioni ed altre pubbliche dimostrazioni d'allegrezza.

Ma con tutta questa pace, e questo nuovo vincolo, non finirono in noi i sospetti di nuove invasioni, e le agitazioni per prevenirle. I Franzesi di riposo impazienti, quantunque avessero con tant'ardore sollecitata la pace con la Spagna, Olanda, l'Imperadore, i Principi dell'imperio, e le Corone del Settentrione: ad ogni modo, o che restassero gonfi d'averla ottenuta a lor modo, o ch'avessero desiderato di rompere l'unione di tanti Principi confederati a' lor danni, per confermarsi nel possesso delle loro conquiste, e poscia opprimere divisi coloro, che collegati parevano insuperabili; cominciavano di bel nuovo a dar grandissime gelosie; e ben presto se ne videro i contrassegni; poichè quando doveansi assembrare i Commessarj per regolare i confini in esecuzione de' trattati di pace, ricusarono di dar principio alle sessioni, pretendendo, che si dovesse dal Re Cattolico rinunziare al titolo di Duca di Borgogna, antico retaggio della Casa d'Austria, e che per conseguenza dovesse quello torsi dai mandati di proccura, che producevano i suoi Ministri. Aprirono poscia due Tribunali, l'uno in Brisach, e l'altro in Metz: ed arrogandosi una giurisdizione non mai udita nel mondo sopra i Principi lor vicini, fecero non solamente aggiudicare alla Francia con titolo di dipendenze tutto il paese, che saltò loro in capriccio ne' confini della Fiandra, e dell'Imperio; ma se ne posero per via di fatto in possessione, costringendo gli abitanti a riconoscere il Re Cristianissimo per sovrano, prescrivendo termini ed esercitando tutti quegli atti di signoria, che sono soliti i Principi di praticare co' sudditi. Di vantaggio, durando la pace, posero in ordine ne' loro porti una potentissima armata di galee e di navi, empierono i magazzini, ed ingrossarono le guarnigioni delle piazze di frontiera, ingelosendo con simiglianti apparecchi tutt'i Principi di Europa. Uccellarono il Duca di Savoja col matrimonio dell'Infanta di Portogallo, allora erede presuntiva di corona, con disegno d'impossessarsi nella sua assenza dello Stato, quantunque poscia, essendosi scoperta opportunamente l'insidia, si rompesse, quando il Duca doveva già imbarcarsi per Lisbona, il trattato, per non arrischiare la possessione di quel nobil principato, su l'incerta speranza della successione d'un Regno. Sollecitarono gli Olandesi a collegarsi con esso loro, per rendergli sospetti a tutto il Mondo cristiano, e finalmente occuparono la città d'Argentina su le sponde del Reno, ed introducendo guarnigione nella cittadella di Casale nel Marchesato di Monferrato, diedero occasione agl'Italiani d'insospettirsi della soverchia avidità de' Franzesi.

In Napoli questi andamenti de' Franzesi posero ancora gravi sospetti; onde sempre che comparivano loro navi ne' nostri porti, ci obbligavano a star solleciti e vigilanti in prevenir le cautele. Maggiori sospetti avean essi dati nel Milanese e nel Principato di Catalogna; onde per le premure venute da Spagna, fu duopo al Vicerè, che arrolasse duemila fanti, e gli facesse imbarcare per Barcellona sotto il comando del Maestro di Campo Marchese di Torrecuso. In oltre che si mandassero due vascelli di munizioni da guerra nel Finale: che si prendessero diece scudi per cento dell'entrate d'un anno, che possedevano i particolari sopra le gabelle, dazj e fiscali, con farne loro assegnamento di capitale sopra gli arrendamenti del tabacco e dell'acquavite: che s'invitassero tutt'i Baroni del Regno a servire il Re con qualche numero di soldati a cavallo; siccome in fatti ciascuno contribuì col danaro secondo le proprie forze, e fu tassata la spesa necessaria per arrolargli alla ragione di 78 ducati l'uno; e finalmente, che si desse esecuzione agli ordini regali pel pagamento della sola metà de' soldi, che comunemente chiamansi mercedi, e che sono grazie della regal munificenza in ricompensa de' servigj passati.

Ma mentre il Marchese de los Velez era occupato in queste spedizioni, s'ebbe avviso, che dalla corte di Spagna erasi destinato per suo successore al governo del Regno il Marchese del Carpio, che si trovava Ambasciadore del Re Cattolico in Roma presso il Pontefice Innocenzio XI. Non tardò guari, che cominciarono a comparire le genti della sua famiglia, ed egli, prevenendo l'incontro, al quale s'era accinto los Velez con quasi tutta la Nobiltà, giunse a' 6 di gennajo di questo nuovo anno 1683 prima che si sapesse il suo avvicinamento, nel Convento di S. Maria in Portico de' PP. Lucchesi del Borgo di Chiaja. Fu tosto visitato dal predecessore, il quale a' 9 del medesimo mese gli cedè il governo, e prese immantenente il cammino per la Corte, dove finalmente giunto, fu ben accolto dal Re, ed onorato della Sede di Consigliere di Stato, e poscia della carica di Presidente del Consiglio dell'Indie.

Non potè los Velez per le moleste occupazioni della guerra di Sicilia, e per l'immense spese, che bisognavano per mantenerla, lasciar a noi monumenti di edificj, d'inscrizioni e di marmi, come i suoi predecessori. Ci lasciò nondimeno ne' sette anni e quattro mesi del suo governo 28 Prammatiche tutte savie e prudenti, per le quali e' diede molti salutari provvedimenti, così a riguardo del valore, e qualità delle monete, come per mantenere l'abbondanza nel Regno e per altri bisogni della città, che vengono additati nella Cronologia prefissa al tomo delle nostre Prammatiche. Ma poichè dal suo successore fu Napoli, ed il Regno sollevato da tante sciagure, ed in miglior fortuna stabilito, tal che prese altro aspetto e nuove forme, sarà di mestieri, che i generosi e magnifici gesti di quest'Eroe si rapportino nel libro seguente di quest'Istoria.

FINE DEL LIBRO TRENTESIMONONO.

STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO QUARANTESIMO

La pace stabilita in Nimega fra le due corone di Spagna e di Francia, dagli andamenti de' Franzesi ben si prevedeva, che dovea avere brevissima durata: dopo la morte di Maria Teresa d'Austria Regina di Francia, seguìta in quest'anno 1683, il dì 30 di luglio, apertamente fu violata: ed essendosi per ciò nel mese di dicembre pubblicati bandi[58] per li quali fu ai Franzesi severamente comandato, che sgombrassero dal nostro Regno, cominciossi di nuovo una più fiera ed ostinata guerra, che durò per molti anni; e quantunque si vedesse cessare per una tregua conchiusa nel mese d'agosto del seguente anno 1684 fra la Spagna e la Francia, e l'Imperadore; nulladimeno si ripigliò da poi più ostinata, che mai, nè finì, se non con la pace di Riswick, conchiusa il dì 20 di settembre dell'anno 1697. Questa guerra tenne sempre solleciti i nostri Vicerè a mandar dal Regno continui e poderosi soccorsi, particolarmente in Catalogna, dove i Franzesi sotto il comando del Duca di Noailles fecero notabili progressi. Ma il prudente e saggio governo del Marchese del Carpio, avendo con savj provvedimenti riordinato il Regno, ci fece sentir poco questi incomodi. A lui dobbiamo, che non pur mentre ci governò, si restituisse in quello la quiete e la tranquillità, ma che in virtù di suoi buoni regolamenti vi durasse anche ne' tempi de' suoi successori.

CAPITOLO I. Del Governo di D. Gaspare de Haro Marchese del Carpio: sue virtù: sua morte, e leggi che ci lasciò.

Prese ch'ebbe il Marchese nel mese di gennajo di quest'anno 1683 le redini del governo, per la sua probità e prudenza, e per la conoscenza, che avea acquistata delle cose del Regno in tempo della sua Ambasceria di Roma, si avvide tosto, che la dissolutezza, ed i disordini procedevano non già, che il Regno avesse bisogno di provvide, e salutari leggi, perchè potesse governarsi con rettitudine; nè che fin allora non fossero stati da' suoi predecessori conosciuti i mali, e che non avessero proccurato di darvi rimedio: conobbe che le loro ordinazioni non potevano essere più savie e prudenti, e s'avvide che i più saggi facitor delle leggi, dopo i Romani, fossero gli Spagnuoli. Ma nell'istesso tempo considerava, che la troppa facilità praticata in dispensarle, e la molta indulgenza usata nell'esecuzione delle pene prescritte, avea corrotta la disciplina, e posto in disordine lo Stato. Vide aver sì bene i suoi predecessori posto ogni studio per darvi rimedio; ma nell'elezione de' mezzi essere stati, o ingannati o trascurati. Per ciò avendosi fisso nel pensiere di regolar la sua condotta con una costante e ferma deliberazione di seguitar rigorosamente le norme d'una incorrotta, ed inflessibile giustizia, cominciò a far valere (perchè non rimanessero inutili) le leggi, e le ordinazioni già stabilite; e perchè si conoscesse la premura, ch'egli avea, acciocchè con effetto fossero osservate, aggiunse egli nuove, e più rigorose pene.

Conobbe nel principio del suo governo la frequenza de' delitti, così nella città, come nel Regno, principalmente derivare dell'asportazione dell'armi da fuoco, e da tante altre sorte d'armi offensive inventate, delle quali, come per usanza, ciascuno era fornito e cinto. Vi erano molte leggi, che severamente ne proibivano l'asportazione; ma la facilità che s'usava in concederne licenza, non pur dal Vicerè, ma da altri magistrati, li quali s'arrogavano tal potestà e l'indulgenza usata nell'esecuzione delle pene, rendevan inutili le proibizioni. A questo fine in febbrajo di quest'anno ne' principj del suo governo, promulgò severa Prammatica[59], per la quale, oltre di rinovar l'antiche, tolse a tutti la facoltà di dar licenza per la loro asportazione, e stabilì severe pene agli trasgressori, le quali erano irremissibilmente fatte eseguire. Conoscendo parimente, che non meno dall'asportazione delle armi, che dalla moltitudine e copia delle persone oziose, vagabonde e disutili, delle quali eran ripiene Napoli e l'altre città e terre del Regno, procedevano i tanti furti, omicidj, assassinamenti, ed altri delitti; la sua vigilanza fu, non solo di rinovar le antiche e nuove leggi ordinanti, che tutti sgombrassero del Regno, ma aggiungendo nuovi rigori, faceva eseguir la Legge, imponendone a' magistrati con molta premura l'adempimento e l'esecuzione[60]. Tal che in breve tempo si videro nella città e nel Regno tolte due principalissime cagioni di tanti delitti e disordini.

Vide la frode e l'inganno aver preso gran piede in tutte le arti, ed in quelle particolarmente dove era molto più dannosa e pregiudiziale, cioè negli Orafi, ed Argentieri, e ne' Tessitori di drappo d'oro e di seta. Pose perciò egli tutta la sua vigilanza in estirparla; ed a tal fine fece pubblicare più ordinanze, prescritte dal Re Carlo II per toglier le loro frodi, le quali volle che inviolabilmente s'osservassero[61], e tassò egli li prezzi de' drappi di seta[62]; e contro gli Orafi, ed Argentieri diede egli varj provvedimenti[63] per ovviare alle loro frodi, ed inganni. Scorgendo, che non meno la città, che il Regno languivano nelle miserie, per li perniziosi abusi introdotti nella ricchezza delle vesti, nel numero de' servidori, e negli altri lussi, con severa legge[64] proibì l'eccessivo numero dei servidori, le vesti ricamate, e i drappi d'oro e d'argento: vietando parimente, che questo metallo non si consumasse nelle sedie da mano, nelle carrozze, nei calessi, insino nelle selle di cavalli.

Attese non meno alla riforma de' nostri Tribunali, e con somma vigilanza proccurò estirparne gli abusi, e le corruttele. Avendo il visitator Carati dopo la visita de' nostri Tribunali, fatta una piena rappresentazione al Re de' molti abusi introdotti in quelli, e particolarmente nel Consiglio di S. Chiara, de' quali ne fece un lungo catalogo: il Re dandovi sopra ciascheduno dovuta provvidenza con sua regal carta spedita in Madrid a' 18 di settembre del 1684, incaricò al Marchese, che ponesse ogni studio in fargli abolire; ond'egli a' 19 d'aprile del seguente anno 1685, ne comandò una precisa esecuzione[65] e nell'istesso tempo tolse anche i molti abusi introdotti nella Corte della Bagliva di Napoli, prescrivendole molti regolamenti per sua miglior riforma[66].

Ma ciò, che presso di noi rese degno d'immortal gloria questo savio Ministro, fu d'aver data la total quiete al Regno per due azioni veramente illustri, di aver abolita la vecchia, e formata la nuova Moneta; e d'aver affatto sterminati gli sbanditi dalle nostre province. Dalli precedenti libri si è veduto quanto in ciò si fossero travagliati in vano i suoi predecessori, perchè non seppero mai trovar i mezzi più proprj ed efficaci per ridurre a glorioso fine imprese sì dure e malagevoli. Considerando egli perciò la loro arduità, ed all'incontro quanto non men a se gloria, che allo Stato indicibile bene e tranquillità sarebbe per apportare, dirizzò tutti i suoi talenti a trovar mezzi convenevoli per ridurle a fine.

Formò pertanto una nuova Giunta di prudenti, e ben esperti Ministri, dove doveano esaminarsi con la maggior vigilanza, ed accorgimento tutti i più proporzionati mezzi per la fabbrica d'una nuova Moneta, che fosse di bontà e di peso, e che restituisse il giusto prezzo alle merci, il sollievo a' Cittadini, ed a' Negozianti forastieri l'antica opinione e stima della moneta del Regno. Non faceva mestieri pensare all'abolizione dell'antica, se non si cominciasse a pensar sopra gli espedienti per la fabbrica della nuova; ma perchè ciò era un affare di somma importanza, e che per maturamente risolversi richiedeva tempo e molto scrutinio: perciò, affinchè in tanto che si pensava al rimedio, il male non s'avanzasse, con rigorosi editti pubblicati a' 29 di maggio 1683, primo anno del suo governo, rinovò l'antiche Prammatiche contro coloro, che introducevano nel Regno monete false, contro gli orafi, argentieri, ed altre persone, che ardissero di fondere qualsisia sorta di moneta, aggiungendo alle già stabilite pene, altre più gravi, e severe[67]. Da poi, considerandosi, che per supplire al danno, che per necessità dovea cagionare l'abolizione della vecchia, e la formazione della nuova moneta fosse altrettanto indispensabile doversi pensare donde tal danno dovesse supplirsi; dopo varj scrutinj e rigorosi esaminamenti fatti in più sessioni avute nella giunta, riflettendosi, che per ottener la tranquillità d'un sì florido Regno, fosse perdita molto leggiera di venire all'imposizione di qualche peso, o picciolo gravame a' sudditi: fu pertanto risoluto, che s'imponessero in perpetuo grana quindici per ogni tomolo di sale più del prezzo, che a que' tempi si vendeva, da pagarsi da tutti e qualsivoglia persone, senz'eccezione alcuna ed anche un'annata di tutte le rendite, tanto de' forastieri, quanto de' Napoletani e regnicoli abitanti fuori del Regno con casa e famiglia, senz'eccezione di persona, di stato, o grado, da esigersi però in tre anni. Tutte le Piazze così Nobili, come quella del Popolo, concorsero di buon animo a questa deliberazione, e dal Regio Collateral Consiglio nel mese di luglio ne fu Interposto solenne e pubblico decreto. Ciò che dal Tribunal della Regia Camera fu tosto mandato in esecuzione con ispedire per la città e province del Regno gli opportuni ordini per la distribuzione e riscuotimento[68].

Fu da poi immantinente posta mano alla fabbrica della nuova moneta, e fur prescritti dal Vicerè molti regolamenti intorno alle fonderie, agli artefici, agli affinatori, a' tiratori d'oro, a' mercanti, agli orefici, argentieri e bancherotti; e dati vari provvedimenti[69], perchè le frodi e gl'inganni, in opera che per se richiedeva tutta la buona fede, non vi avesser parte alcuna. Furono dal 1683 insino all'ultimo anno del suo governo, fabbricate quattro sorte di monete nuove di argento, tutte d'una stessa bontà intrinseca. La I chiamata ducatone, (alla quale si era dato valore di grana cento) avea da una parte impressa l'effigie del Re, e dall'altra uno scettro coronato e due globi col motto: Unus non sufficit. La II detta mezzo ducatone, il cui valore era di grana cinquanta, avea pure da una parte l'effigie del Re, e dall'altra la figura della Vittoria sopra un globo, tenendo in una mano lo scudo con le arme regali d'Aragona e di Sicilia, e nell'altra una palma. La III il cui valore era di grana venti, da una parte avea lo scudo dell'armi regali, e dalla altra un globo, in cui è descritto il sito geografico del Regno di Napoli, ornato da due cornocopj indicanti la giustizia e l'abbondanza. La IV il cui valore ascrittole era di grana diece, da una parte ha l'effigie del Re, e dall'altra un lione sedente col motto: majestate securus.

(Queste quattro monete nella maniera qui descritta furono impresse dal Vergara tra le monete del Regno di Napoli Tav 54.)

Ma mentre si proseguiva questa grand'opera, scorgendosi che per essersi data a questa nuova moneta tal valore, sebbene soddisfacesse al desiderio del Vicerè, che proccurava, che la moneta di questo Regno per bontà intrinseca, non meno riuscisse di sollievo a' Cittadini, con tutto ciò non s'arrivava a supplire al danno, che dovea cagionare l'abolizione dell'antica e formazione della nuova, e di più essendosi considerato ancora, che per essere alterato il prezzo dell'argento, da poi che s'era cominciata la fabbrica della nuova moneta, ne sarebbe succeduto, che poteva venir quella in breve tempo distrutta o con liquefarsi, o con mandarsi fuori del Regno per contenere maggior valore intrinseco di quello, che se l'era dato; si pensò perciò di alterarla di un grano sopra ogni diece, più di quello erasi stabilito.

Si proponevano difficoltà dalle Piazze intorno a tal alterazione, riputandola dannosa e pregiudiziale al Regno: tal che ne fu differita per allora la pubblicazione. E mentre si stava, nell'anno 1687, dibattendo sopra questo affare, ecco che s'inferma il Vicerè, ed in novembre da importuna morte è a noi tolto. Morì al piacere del suo immortal nome, e senza che avesse potuto godere de' frutti di questa sua gloriosa impresa, lasciò al suo successore questo vanto. Il Conte di S. Stefano, che gli successe, per non trascurare sì opportuna occasione, che ne' principi del suo governo potea recargli gran fama, avidamente la ricevè; e senza altro maggior dibattimento, non curando le difficoltà proposte dalle Piazze, approvò la premeditata alterazione dello monete già coniate, e prestamente, nel 1688, ne fabbricò tre altre spezie, con dare all'una il nome di tarì, che avea da una parte l'effigie del Re e dall'altra le sue semplici arme regali, col valore di grana venti: all'altra di carlino, che avea pure la medesima impronta, con aggiungervi solo alle Regali arme l'insegna del Tosone, col valore di grana diece; ed all'ultima di grana otto, coll'istessa effigie del Re da una parte, e dall'altra la Croce quadra con raggi a quatro angoli[70]; ed a' 11 dicembre del medesimo anno 1688, per mezzo d'una sua Prammatica[71], ordinò la pubblicazione della nuova e l'abolizione della vecchia ed il di lor scambiamento, e diede intorno a ciò varj regolamenti, non meno per la città, che per le province del Regno, siccome diremo, quando del suo governo ci accaderà di ragionare.

Ma se il Marchese del Carpio non potè aver il piacere di veder compita quest'opera, l'ebbe pur troppo nell'altra gloriosa intrapresa del totale esterminio de' banditi. Egli, fra tanti che a ciò si accinsero, vide co' suoi propri occhi purgato il Regno di tali masnade e restituito nell'antica tranquillità. Per estirparli affatto, dopo aver nel primo anno del suo governo conceduto un pieno indulto a tutti gl'inquisiti e fuorgiudicati, purchè attendessero alla persecuzione tanto de' loro Capi e comitive, quanto dell'altre squadre che scorrevano la campagna[72], si pose con ogni studio a disporre i mezzi per lo total loro esterminio; gli spedì contro milizie, ordinò l'abbattimento di tutte le torri, o case dove solevan annidarsi: ed ove trovò resistenza, vi fece condurre l'artiglierie e batterli con ostinato e risoluto animo di distruggerli affatto: pose grosse taglie per premio di coloro, che non potendo vivi, gli portassero le loro teste, e con questi risoluti ed efficaci mezzi purgò molte province del Regno di tal peste. Rimanevano però le due province d'Apruzzo assai contaminate, nelle quali questi ribaldi, disprezzando non meno gl'inviti fattigli di perdono, purchè si riducessero ad emendarsi, che li rigori praticati con li contumaci; più pertinaci, che mai, non tralasciavano le rapine, gl'incendj, i ricatti, i saccheggiamenti, ed altre enormi scelleratezze. Applicò egli pertanto i suoi pensieri per estirparli ancora da queste province, affinchè tutto il Regno si riducesse in riposo e tranquillità. A questo fine pubblicò a' 12 giugno dell'anno 1684 una severa Prammatica[73] contenente più capi, nelli quali non meno a' presidi, che a' sindici delle comunità di ciascheduna città o terra rigorosamente s'incaricava di scoprirli, perseguitarli, e minacciò severe pene contro coloro, che vivi li nascondessero, ed anche morti li seppellissero.

Ma quello, che più d'ogni altro produsse il total loro esterminio, fu l'avere questo savio Ministro con rigorosi ed efficaci mezzi, proccurato d'avvilire e recar terrore a' loro protettori, ricettatori e corrispondenti. La maggior parte erano sostenuti da diversi Baroni, ed altre persone potenti, li quali proccuravan ricetto e vitto, e per mezzo o di lettere o ambasciate, avvisavanli degli aguati e insidie, che gli eran tese. Per ciò fulminò contro costoro severa legge, per la quale, oltre di rinovar l'antiche pene, aggiunse dell'altre più terribili, nelle quali volle, che si comprendessero tutti coloro, che tenessero con banditi qualsisia corrispondenza, egli assistessero con ajuto e favore o con vittovaglie, o loro scrivessero avvisi o raccomandazioni, ancorchè stassero fuori del Regno, e sotto il dominio d'altro Principe. Anzi, concorrendo nella protezione o ricettazione qualità tale che alterasse il delitto, come, se cotali ricettatori partecipassero dei furti e de' ricatti, o fossero mediatori e gli ajutassero ne' loro delitti, ovvero provvedesser loro d'armi, di polvere e di altri arnesi per armare, acciocchè si potessero mantenere in campagna, o pure loro facessero commettere violenze: in tali casi rimise all'arbitrio del Giudice, di stendere le pene imposte, insino alla pena di morte naturale: favorendo ancora in ciò le pruove, con ammettere la testimonianza di due banditi e le pruove di due testimonj, ancorchè singolari, perchè s'avessero per pienamente convinti. Questi rigori fecero da dovero pensare a' loro protettori di abbandonarli affatto, li quali scorgendo, che le pene erano inviolabilmente eseguite, senz'ammettersi scusa alcuna, nè avendo luogo la grazia o il favore, fece sì che tutti si ritraessero da proteggerli. Quando questi ribaldi si videro senza ricovero, si costernarono in guisa, che tutti, o colla fuga cercarono scampo, o rimessi cercarono perdono, o finalmente presi portarono i condegni castighi delle loro scelleragini. Così furono estirpati affatto dal Regno con total esterminio, tal che di essi non ne rimase alcun vestigio. E riuscì l'impresa così felice e gloriosa, che presso di noi se ne perdè affatto la semenza: tal che quella quiete, che da poi il Regno ha goduto e gode nella sicurtà dei viaggi, de' traffichi e del commerzio, tutta si deve all'incomparabile vigilanza e provvidenza di questo savio e glorioso ministro, la cui memoria per ciò rimarrà presso noi sempre eterna ed immortale.

Molto ancora gli dobbiamo per averci tolto un altro pernizioso e scandaloso male, che radicatosi non men in Napoli, che nell'altre città del Regno, cagionava infiniti disordini ed oppressioni. Alcuni potenti nutrendo ne' loro palagi molti scherani ed uomini di male affare, incutevan timore a' più deboli, minacciandoli, sovente sfregiandoli, ed in mille guise oltraggiandoli e con imperio estorquendo da essi tutto ciò che lor veniva in mente: favorivano gli uomini più rei, nè vi era faccenda nella quale non s'intrigassero, non forzassero i più deboli di fare a lor voglia. Sforzavano i padri di famiglia a collocare in matrimonio le lor figliuole con chi ad essi piaceva: n'impedivano degli altri da essi non graditi: in brieve avean ridotti i cittadini in una miserabile servitù. Estirpò questo eroe con gran vigore sin dalle radici sì pernizioso malore: punì severamente gli scherani, li dissipò tutti, ed a' loro protettori con severe pene portò tal terrore, che se n'estinse affatto ogni abuso: tal che non si videro da poi, nè soverchierie, nè imperj, ed il timor della giustizia fu per tutti eguale.

Ma ciò, che maggiormente fece conoscere, che in questo Ministro s'accoppiavano tutte le virtù più commendabili, fu che nell'istesso tempo, ch'era terribile contro gl'imperiosi ed ingiusti, era tutto umano e placido con gli uomini da bene e con i deboli. La sua pietà era ammirabile: sovveniva con inudita carità i poveri e dall'ingiuria della fortuna oppressi; invigilava per se medesimo perchè non si soverchiassero i deboli e gl'impotenti: ebbe per inimica mortale la sordidezza: molto più la cupidigia delle ricchezze. Era sobrio, ed in tutte le cose parco e moderato; ma nell'istesso tempo magnanimo e grande.

Conoscendo, che per tener soddisfatto il Popolo, bisognava lautamente provvederlo di quelle due cose che ardentemente desidera, Panem et Circenses, egli applicò i suoi talenti a tener in abbondanza la città di ogni sorte di viveri, tal che non vi fu Vicerè, che fosse cotanto amato ed adorato quanto lui dal Popolo: gioiva questi e tutto ubbriacato d'allegrezza e di contento gli correva dietro per le pubbliche strade, ed innalzando insino al cielo le sue lodi ed encomj, lo chiamavan con tenerezza affettuoso padre e signore.

Negli spettacoli fu imitatore della magnificenza degli antichi Romani: non ne vide Napoli più magnifichi e stupendi. Ne rimangono ancora a noi le memorie, che nè la lunghezza del tempo, nè l'invidia l'emulazione le potrà cancellare. I suoi successori, che mossi dal suo esempio vollero imitarlo, riuscirono al paragone secondi e molto inferiori. Ma o sia, che morte per suo costante tenore soglia furarne i migliori: o veramente che il fatto sinistro di questo reame con consenta, che lungamente perseveri nella felicità e contenti; nel meglio del suo glorioso corso, venne a noi pur troppo intempestivamente rapito. Infermatosi egli di febbre lenta, diede in prima a' Medici speranza di potersene riavere, ma aggravatosi il male, ancorchè con lentezza, lo condusse finalmente alla morte nel dì 15 di novembre di quest'anno 1687. Fu amaramente pianto da tutti gli ordini, ed assai più dal Popolo, che non poteva darsi pace, nè conforto per una sì grave ed irreparabil perdita. Oltre i savi provvedimenti sinora rapportati, ce ne lasciò ancor degli altri, che vengono additati nella tante volte rammentata Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche. Morte crudele tolse a noi di lui altri monumenti, ed altre insigni memorie, che si doveano sperare dalla sua magnanimità ed ammirabile sapienza. Il suo cadavere con superba e militar pompa fu condotto nella chiesa del Carmine, ove gli furon celebrate magnifiche esequie. Ed intanto rimaso il vedovo Regno senza il suo rettore, corse da Roma il G. Contestabile del Regno D. Lorenzo Colonna a prenderne il Governo, infino che dal Re non si fosse provveduto di successore. Ma poco tempo durò la costui amministrazione; poichè essendosi dalla Corte di Spagna destinato per successore il Conte di S. Stefano, che si trovava Vicerè nella vicina Sicilia, tosto egli si portò in Napoli, e ne prese immantenente il governo, di cui saremo ora a ragionare.

CAPITOLO II. Governo di D. Francesco Benavides Conte di S. Stefano: suoi provvedimenti e leggi che ci lasciò.

Il Conte di S. Stefano, lasciato il governo dell'Isola di Sicilia, si portò subitamente in Napoli, dove giunse nel fin di dicembre, e nell'entrar del nuovo anno 1688 cominciò ad amministrarlo. In questo primo anno del suo governo s'intese in Napoli un così spaventevole tremuoto, che abbattè i più cospicui edificj: cadde la gran cupola del Gesù Nuovo, e l'antico portico del Tempio di Castore e Polluce, ch'era un perfetto esemplare dell'ordine Corintio. Fu rovinata Benevento, Cerreto ed altre Terre. Ma sopra tutto apportò non poco cordoglio la morte, per mal di pietra, nel seguente anno 1689, accaduta agli 12 d'agosto, dell'esemplarissimo Pontefice Innocenzio XI, a cui a' 6 di ottobre succede Pietro Cardinal Ottoboni, col nome d' Alessandro VIII. Proccurò il Conte calcare le medesime orme del suo predecessore, avendo egli avuta la sorte d'esser succeduto ad un tanto Eroe, donde potea prender ben illustri esempi d'un ottimo governo. Rinvigorì per tanto con nuove sue Prammatiche quelle stabilite dal Carpio intorno all'asportazione delle armi, all'Annona, e al prezzo delle cose. Ma sopra ogni altro, non meno in questo primo anno del suo governo, che nelli seguenti fu tutto inteso a regolare lo scambiamento della vecchia moneta colla nuova, da lui, come si disse, pubblicata, accresciuta ed alterata nel valore. Prescrisse in quest'anno 1688 molti regolamenti intorno a questo scambiamento, disegnando i luoghi e le persone non meno nella città, che in tutte le province del Regno. Previde i disordini, che poteano accadere, e vi diede vari provvedimenti. Fece continuare la fabbrica della nuova moneta, aggiungendo nell'anno 1689 due altre spezie, cioè il ducato, che ha dall'una parte il ritratto del Re coronato, e dall'altra le sue Armi, ed il mezzo ducato, colle medesime impronte[74]; anzi permise, che a qualunque persona volesse nella Regia Zecca farsela fabbricare con suoi argenti al peso e bontà di quella, che si era fabbricata, fosse lecito di farlo col solo pagamento di grana 32 per ogni libbra d'argento per la manifattura e lavoro[75]. Che nello scambiamento si ricevessero le antiche monete, ancorchè di falso conio, purchè l'argento fosse buono[76]. Regolò la maniera, come dovesse praticarsi ne' Banchi, e prescrisse il modo intorno alla recezione delle polizze, e delle fedi di credito[77]. Rinovando le antiche leggi promulgate contro i falsificatori e tonditori delle vecchie monete, altre più rigorose e severe ne stabilì contro coloro, che avessero ardimento di adulterar le nuove[78]. In brieve ebb'egli il vanto di ridurre a compimento questa utilissima opera, per la quale si vide presso di noi rifiorire il commerzio, e fu restituito nel Regno lo splendore della negoziazione e del traffico. E se questo ministro si fosse contenuto tra questi limiti, la sua fama presso di noi correrebbe assai più chiara e luminosa; ma l'aver voluto da poi a' 8 di gennajo del 1691 con nuova Prammatica[79] non bastandogli l'alterazione già fatta, alterar di nuovo la moneta con doppio avanzo, fino di venti per cento, nella forma, che si spende al presente (con far coniare per ciò, a' 7 aprile del medesimo anno, quattro altre nuove spezie di moneta, il ducato, mezzo ducato, tarì e carlino, che hanno la medesima impronta, da una parte il ritratto del Re coronato, e dall'altra l'insegna del Tosone)[80] cagionò non meno alla sua fama, che alla negoziazione del Regno non picciol danno e nocumento; e tanto più gli fu di biasimo, quanto che avendo in quella sua Prammatica espresso, che una delle cagioni, per le quali era mosso a far questa alterazione si fu d'estinguere dall'augumento del denaro, che si trovava ne' pubblici Banchi, la gabella delle grana 15 imposta, per la fabbrica della nuova moneta, sopra il sale, questa estinzione non seguì giammai, tal che ci rimane il peso, ed insieme il danno recatoci dall'alterazione.

Intanto a Corte di Spagna agitata da gravi pensieri per la creduta sterilità della Regina Maria Lodovica Borbone, fu veduta poco da poi in funestissimi apparati piangerne la morte. Morì questa incomparabile Regina il dì 12 di febbrajo dell'anno 1689, ed il Re Carlo II suo marito, per compire a' suoi ultimi ufficj, comandò, che a spese Regie si celebrassero con magnifica pompa esequie solenni in tutti i suoi Regni. Toccò al Conte di S. Stefano d'eseguirlo in Napoli; onde dopo aver dati premurosi ordini ai Presidi delle province, che nelle città più cospicue facessero celebrare solenni esequie alla defunta Regina, comandò, che in Napoli si celebrassero assai più maestosi e magnifici funerali: Fu secondo l'uso già introdotto trascelta la Chiesa di S. Chiara, dove si ergè il Mausoleo, la magnificenza del quale, la bellezza dei poetici componimenti, e la solennità delle cerimonie furono tali, che maggiori non si erano per l'addietro vedute. Non fu mestieri a questi tempi, come già, ricorrere a' Gesuiti per questi componimenti, poichè nella nostra città fiorivan, per lo progresso che vi avean fatto le buone lettere, molti insigni e rinomati Letterati. Furono adunque costoro adoperati, e colui che v'ebbe la maggior parte fu il celebre Domenico Aulisio, pregio della nostra Università degli Studi, il quale adornò della più peregrina e varia erudizione, vi compose nobilissimi elogi ed alquante purissime ed eleganti iscrizioni. Fu destinato il giorno nono di maggio per la sagra cerimonia, la quale dovendo durare dal vespro fino alla seguente mattina, fu obbligato il Vicerè a far continua la vigilia sopra il tumulo, senza partirsi da quel luogo, nè per la notte, dove erasi portato, secondo l'antico costume, solennemente con cavalcata; nella quale gli Eletti della città col Marchese di Fuscaldo Sindaco, cinto da' Baroni del Regno, e da molti Nobili, accompagnarono il Vicerè. Furono piantati due grossi squadroni in due diversi luoghi della città, uno di fanti nella piazza dei regal palagio, l'altro di fanti e cavalli nel largo, che è a lato alla chiesa di S. Chiara, con tutti i loro Capi militari vestiti a bruno, e tenendo l'armi capovolte, conforme l'uso fin da tempi antichissimi a noi trasmessoci da' Greci e da' Romani, li quali nelle pompe de' funerali voltavano le punte dell'aste in terra, ed imbracciavan gli scudi al rovescio.

(Di quest'uso antichissimo ci rende testimonianza Virgilio Libro XI Aeneid in princip. dove parla dei funerali celebrati a Pallante figliuolo d'Evandro).

Vegghiatosi tutta la notte sopra il tumulo, la mattina seguente, dovendosi compire la sagra cerimonia, ritornò il Vicerè in chiesa, dove cantossi l'uffizio; da poi nell'altar eretto vicino al mausoleo, si celebrò da Monsignor Francesco Pignatelli, Arcivescovo di Taranto, ora Cardinale, ed esemplarissimo nostro Arcivescovo, il sagrifizio della Messa, nella qual celebrità ebbe quattro Vescovi assistenti: quello di Gaeta, di Castellamare, d'Acerra e di Capaccio. Si recitò poi dal P. Ventimiglia Teatino l'Orazione in lingua Spagnuola, la qual finita, lo stesso Monsignor di Taranto, dato l'incenso, ed asperso il tumulo finì la sagra cerimonia. Fu data la cura all' Aulisio di comporre una minuta e distinta descrizione non men degli apparati, e del mausoleo colle iscrizioni, che delle cerimonie e solennità celebrate sopra il deposito: ed egli compiutamente l'avea eseguito, con distenderne un libretto, a cui diede il titolo: Descrizione del Mausoleo, e delle solennità sopra il deposito della Regina Maria Lodovica Borbone; nel quale fe' pompa della sua varia e pellegrina erudizione: ma non avendo voluto poi darlo alle stampe, per la natural repugnanza che vi avea in tutte le sue cose, ancorchè rare e pellegrine, si conserva ora da noi M. S. insieme coll'altre insigni e nobili sue fatiche.

Il vedovo nostro Re, per secondare i voli de' suoi sudditi, che sospiravan da lui numerosa prole, conchiuse tosto a' 28 agosto del seguente anno 1690 le seconde nozze con la Principessa Marianna di Neoburgo figliuola dell'Elettore Filippo Guglielmo Conte Palatino del Reno e Duca di Neoburgo. Ma nel decorso del tempo, scorgendosi, che nè pure da questa seconda moglie se ne potea sperar prole, si videro i Regni, che componevano la sua vasta monarchia, in costernazioni e timori grandissimi. Accrescevansi le afflizioni per la vita del Re molto cagionevole e soggetta a spesse e continue infermità, le quali facevan sovente temere della sua grave ed inestimabil perdita, che dovea partorire disordini gravissimi e grandi revoluzioni. Si vedeva eziandio, quanto la sua monarchia infiacchita e debole, altrettanto quella di Francia nel suo maggior vigore e floridezza: i suoi eserciti, da per tutto vittoriosi, aver fatte stupende conquiste nella Fiandra, in Alemagna, ed in Ispagna, dove il Duca di Noailles, tenendo assediata Roses per terra, ed il Conte d'Etrè per mare, la presero dopo otto giorni d'assedio; ed in Catalogna l'anno 1694 il Duca di Noailles, dopo avere sconfitto l'esercito spagnuolo sulle sponde del Ter, prese le città di Palamos, di Girona, d'Ostalrico e di Castelfollit.

Intanto il Conte di S. Stefano proseguendo il suo governo, prorogatogli per un altro triennio, dopo aver dato sesto all'affare delle monete, applicò i suoi pensieri alla riforma de' nostri Tribunali; e scorgendo, che una delle principali cagioni, onde le liti venivan allungate, fosse la facilità, colla quale eran ricevute le sospezioni de' Ministri, e la lunghezza praticata in non tantosto deciderle, prefisse termini certi ed indispensabili per la loro decisione, e per togliere le opinioni de' Dottori, li quali con varie loro interpetrazioni aveano rendute quasi che inutili le precedenti Prammatiche sopra di ciò stabilite, prescrisse i modi, diffinì i gradi della consanguineità, ed affinità, e per una sua spezial Prammatica[81] vi diede altri opportuni provvedimenti.

Parimente essendo nell'anno 1690 insorto romore, che nella città di Conversano della provincia di Bari, ed in Civita Vecchia dello Stato romano, per le moltissime e spesse infermità, il male fosse contagioso; nel principio dell'anno seguente con rigorosi provvedimenti proibì il commerzio di quella provincia, e di Civita Vecchia, sospendendo ancora quello con la città di Roma e Stato Ecclesiastico[82]; e da poi, in luglio del medesimo anno, deputò per li quartieri di Napoli Ministri, perchè invigilassero alla custodia, non meno della città, che de' borghi e casali non permettendosi l'entrata a qualunque persona, senza li ricercati requisiti e debite licenze[83]. Talchè per lo rigore usato in quella provincia, perchè il malore non s'avanzasse, fu preservato il Regno, e non guari da poi s'estinse per tutto ogni sospetto di mal contagioso.

Furono ancora ne' seguenti anni del suo governo dati altri provvedimenti intorno all'Annona della città e del Regno[84]; alle falsità, che si commettevano nelle fedi di credito[85]; intorno all'introduzione delle drapperie, lavori e telarie forastiere[86], ed intorno ad altri bisogni: e date varie altre provvidenze, che si leggono sparse nel IV e V tomo delle nostre Prammatiche. Non potè questo Vicerè compire il terzo incominciato triennio; poichè il Duca di Medina Coeli, che si trovava ambasciadore del Re in Roma presso il Pontefice Innocenzio XII Antonio Pignatelli, già nostro Arcivescovo, ch'era succeduto ad Alessandro VIII sin da' 12 luglio dell'anno 1691, sollecitava la corte di Spagna, perchè da quella dispendiosa per lui Ambasceria lo facesse passar tosto nel governo del Regno. Portossi egli in Napoli in quest'anno 1695, e scelse, per dar tempo al suo predecessore d'accingersi con la Contessa sua moglie e famiglia alla partenza, il palagio del Principe di S. Buono nel largo di Carbonara, per sua abitazione: dove dimorò infin che, terminate le consuete visite, il Conte di S. Stefano partisse per la volta di Spagna, lasciandoci pur egli, oltre le già rapportate, una più perenne memoria del suo Governo, com'è quella del fortino da lui fatto costrurre alla punta del Castel dell'Uovo.

CAPITOLO III. Governo di D. Luigi della Zerda Duca di Medina Codi: sua condotta ed infelicissimo fine.

Al Duca di Medina Coeli prese il governo del Regno con idee magnifiche e gloriose; e scorgendo, che il Marchese del Carpio avea in quello lasciato di se luminosa fama per suoi magnifici e generosi fatti, pensò imitarlo in quella parte almeno dove credette essersi da colui trascurata. Credea aver sì bene il Carpio sterminati gli sbanditi e tolti molti altri abusi nella città e nel Regno, ma non già d'aver sterminati i controbandi e le frodi, che si commettevano nell'introduzione delle merci, e nelle Dogane, donde ne derivano notabilissimi danni non meno all'Erario regale, che agli Assegnatarj degli arrendamenti; per ciò applicò egli nel principio del suo governo tutti i suoi talenti con severe Prammatiche a rigorosamente proibirgli. Favoreggiò le loro pruove in guisa, che riputandosi sommo eccesso, convenne alle Piazze d'opporsegli, per mitigare in parte il rigore.

Pretese ancora imitar il Carpio nella magnificenza degli spettacoli, onde nel suo tempo se ne videro superbissimi; e sopra ogni altro intese ad ingrandir il nostro Teatro di S. Bartolommeo, e fornirlo non men di maestose, e superbe scene, che di provvederlo dei migliori Musici, che fiorissero a' suoi tempi in Europa; tal che oscurò la fama de' Teatri di Venezia, e dell'altre città d'Italia. Egli cominciò, e ridusse a fine quella magnifica strada, adorna d'ameni alberi, e di limpidissimi fonti, che al lido del mare costrusse per quanto corre la spiaggia di Chiaja. La pompa ed il fasto della sua corte fu veramente regale e magnifica, nè in altri tempi fu veduta presso noi altra più numerosa e splendida. Favorì le lettere e sopra modo i Letterati, ragunandogli spesso nel regal palazzo, dove egli con somma attenzione e compiacimento, ascoltava nell'assemblee i loro varj componimenti. Tal che le buone lettere, che nel preceduto governo s'erano presso noi stabilite, a' suoi tempi, per li suoi favori, presero maggior vigore, e più fermamente si confermarono.

Ma tutte queste nobili, ed amene applicazioni venivano amareggiate da altri più severi e gravi pensieri. Col correr degli anni sempre più si confermavano i popoli nella credenza, che nemmeno dal secondo matrimonio avrebbe il nostro Re lasciata prole, e si teneva per fermo, che la sterilità, non già dalla Regina giovane sana e valida, ma dal Re procedesse, e dalla sua complessione debole, ed infermiccia. Le continue sue malattie ci recavan spessi timori, e se ben talora migliorava, nell'istesso tempo, che noi per gli avvisi della sua ricuperata salute facevamo feste ed illuminazioni, egli era già ricaduto nel pristino malore. Il Duca nostro Vicerè per rallegrar i popoli e divertire i loro animi da sì funesti pensieri, in occasioni di miglioramento faceva celebrar feste magnifiche, e nel regal palagio tenne accademie de' più famosi Letterati, nelle quali per la ricuperata salute del Re recitarono nobilissimi componimenti in varie lingue, così in prosa, come in verso, che furon ancora dati alle stampe. Fece ancora nell'anno 1697 coniare una moneta d'oro col nome di scudo riccio, nella quale, alludendosi alla sua ricuperata salute, da una parte sostenute da un aquila coronata vi erano scolpite le sue regali arme, e dall'altra un mezzo busto del Re, che per base avea una palma, che stendeva sopra il capo le sue foglie, col motto: Reviviscit.

(Questa moneta, come qui sta descritta, dal Vergara fu impressa nella Tav. 52, e per essersene coniate pochissime si è presentemente resa molto rara.)

Ma non per tanto non si ricadeva appresso, per contrarie novelle, ne' pristini timori, di dover fra breve il Re mancare senza posterità.

Si vedeva all'incontro la Francia formidabile e tremenda, la quale nell'anno 1696 avea posto in piede cinque fioritissimi eserciti e gli sostenne nel paese nemico per tutta la campagna. Che quel Re pien di gloria e di vasti pensieri, meditava alte imprese; e che per togliersi l'ostacolo del Duca di Savoja, avea conchiusa col medesimo la pace, e per maggiormente stabilirla a' 4 luglio del medesimo anno, affrettò le nozze tra Maria Adelaide di Savoja, figliuola del Duca, col Duca di Borgogna, figliuolo del Delfino di Francia suo nipote. Che per ciò avea rivolte tutte le sue forze contro la Spagna, in Fiandra, dove nel 1697 conquistò molte piazze ed in Catalogna, dove prese la città di Barcellona, nell'istesso tempo, che avea nominati i Plenipotenziarj per la pace. Anzi per più speditamente pervenire al gran disegno, sollecitò in questo istesso anno coll'Inghilterra, con l'Olanda e colla Spagna istessa la pace, la quale fra queste Potenze fu conchiusa in Riswic il dì 20 di settembre, e dopo sei settimane coll'Alemagna. Ma alquanto dopo la conchiusione di questa pace fu sottoscritto in Loo un segreto trattato fra gl'inglesi, gli Olandesi, la Francia e la Savoja, col quale s era fatto un partaggio della monarchia di Spagna, in caso che il nostro Re venisse a mancare senza figliuoli, come vi era molta apparenza.

(In questo primo partaggio, che si trattò nel 1698 essendo ancor vivente il Principe Ferdinando Giuseppe di Baviera, il qual si legge nella nuova Raccolta di Mr. du Mont Tom. II p. 52, era divisa la Monarchia in cotal guisa: al suddetto Principe di Baviera assegnavasi la Spagna con l'America: al Delfino di Francia i Regni di Napoli e di Sicilia colla provincia Guipiscoa ed i porti de' presidj: all' Arciduca Carlo il ducato di Milano.)

L'Imperador Leopoldo, ancorchè vedesse gli altri Principi a ciò consentire, con somma costanza non volle mai dar suo consentimento a divisione alcuna

Si credette nascondersi sotto questa voce, ch'erasi già divulgata di partaggio, un più profondo arcano; poichè l'istesso Re di Francia Lodovico prevedeva, che non sarebbe cosa, che toccasse tanto più al vivo gli animi degli Spagnuoli, che lor proporre un tal partito, stando certo, che avrebbe lor recato sommo abborrimento: gelosi, che una sì vasta ed ampia monarchia, con tanta gloria de' loro maggiori unita e stabilita in tant'altezza, dovesse così miseramente lacerarsi, e divisa in pezzi, estinguersene il nome e la gloria: siccome in effetto non pur gli Spagnuoli, ma l'istesso Re Carlo II l'ebbe in orrore e per prevenire i disegni e romper quest'impertinenti ed intempestivi trattati, che si facevan sopra i suoi Regni, rivolse in novembre del seguente anno 1698 l'animo a Ferdinando Giuseppe, Principe Elettoral di Baviera nato di Maria-Antonia, figliuola dell'Imperadrice Maria sua sorella per innalzarlo al trono; ma morto questo fanciullo a 9 febbrajo del seguente anno 1699 non avendo ancor compiti otto anni, s'interruppe il disegno; onde con maggior vigore furono ripigliati dal Re Franzese i suoi negoziati con l'Inghilterra e l'Olanda, premendo sempre, come dava a sentire, sopra la concertata divisione, e nel mese di marzo del 1700 confermò con quelle Potenze il trattato di Loo, variandosi solamente, che alla parte assegnata al Delfino dovessero aggiungersi gli Stati del Duca di Lorena, cui in iscambio si dasse lo Stato di Milano, siccome all'Arciduca Carlo la Spagna, fuor degli Regni d'Italia per estinzion di tutte le pretensioni di sua casa: con aggiungere ancora, che questo trattato si dovesse comunicar subito all'Imperadore, acciocchè in termine di tre mesi, dal giorno della notizia, dichiarasse la sua volontà, mentre rifiutando egli di accettar la parte destinata all'Arciduca Carlo suo figliuolo, li due Re di Francia e d'Inghilterra e gli Stati Generali d'Olanda, la destinerebbero ad altro Principe, e che se alcun volesse opporsi alle cose concordemente stabilite, si unirebbero per combatterlo con tutte le loro forze.

(Questo secondo partaggio firmato in Londra a' 3 di marzo del 1700, rapportato anche nella raccolta di Mr. du Mont, Tom. II p. 104, variava dal primo: poichè per la morte del Principe di Baviera la Spagna, l'America colle province di Fiandra si assegnarono all' Arciduca Carlo; al Delfino i Regni di Napoli e di Sicilia con porti d'Italia; al Duca di Lorena il Ducato di Milano, con patto di dover cedere a' Franzesi.)

Quanto più si proccurava spingere avanti questo trattato, tanto più gli Spagnuoli erano commossi e risoluti di non soffrir partaggio veruno della loro monarchia. Il Re Carlo II con intenso cordoglio lo sentiva e ne fece in Londra e nell'altre Corti da' suoi Ministri sentire le doglianze; e nell'istesso tempo, tenero della sua propria casa, assecurava l'Imperador Leopoldo, che non si dimenticherebbe delle leggi del sangue e delle disposizioni de' suoi maggiori. Tanto bastò perchè vie più l'Imperadore stasse fermo e costante in non accettare la concertata divisione; onde al Marchese di Villars, ch'era stato mandato dal Re di Francia per sollecitarlo ad accettarla, secondo il termine stabilito, rispose che se mai il Re di Spagna cedesse alla natura senza prole, la qual cosa stimava rimota per la fresca età, allora essendo egli inchinato alla quiete, avrebbe volentieri a più giusti, ed a più salutevoli consigli condisceso. Ma quel Re intanto, accertatosi di questa sua deliberazione di non accettar divisione alcuna, cominciò i suoi negoziati co' Grandi della corte di Spagna, i quali fu facile portargli al suo disegno, mostrando loro, che non men per giustizia, che per proprio interesse, doveano insinuare al loro Re d'innalzare al trono Filippo duca d'Angiò secondogenito del Delfino: poichè in niun altro poteano sperare che si fosse mantenuta salda ed intera la loro monarchia, che nella costui persona, la quale assistita dalle sue potenti e formidabili armi, avrebbe potuto reprimere gli sforzi di tutti coloro, che tentassero oltraggiarla, o in modo alcuno partirla.

Mentre che nella corte di Spagna si maneggiava affare sì importante, infermossi in Roma nel mese di settembre di quest'anno 1700 il Pontefice Innocenzio XII, il quale dopo aver retta quella sede nove anni e duo mesi, in età di 86 anni rese lo spirito a' 27 dello stesso mese, giorno di lunedì ad ore tre di notte. Giunse al Duca di Medina nostro Vicerè tal avviso la seguente giornata di martedì ad ore tre della notte, ed al Cardinal Cantelmo nostro Arcivescovo ad ore sei; e la mattina del mercoledì furono dal Vicerè spedite per la volta di Roma le consuete soldatesche per dover assistere all'Ambasciador Cattolico (allora il Duca Uzeda) in Roma: dove dopo alquanti giorni si chiusero i Cardinali in Conclave per l'elezione del successore. In Napoli dal Cardinal Arcivescovo la mattina de' 5 d'ottobre gli furon fatte celebrare nel Duomo solenni esequie, avendovi recitata l'orazion funebre in idioma latino il P. Partenio Giannettasio Gesuita, celebre per le sue opere date alle stampe; ed il Nunzio, un mese da poi, nella Chiesa di S. Maria della Nuova glie ne fece celebrar altre più pompose e magnifiche.

Ma mentre che i Cardinali divisi in fazioni, dibattevano in Conclave sopra l'elezione del nuovo Pontefice, verso la fine d'ottobre giunse a noi di Spagna funesta novella, che il Re gravemente infermatosi, dava poca speranza di salute; ma poco da poi giungendo nuovi avvisi, ch'era migliorato, furono dal Vicerè fatte pubbliche magnifiche feste per rallegrar il popolo, e fu veduta la città in tutte le strade arder fuochi per allegrezza e nelle finestre numerosi torchj; tal che per tre sere si continuarono le illuminazioni. Ma miseri nell'istesso tempo, che noi con tanta pompa e gioja celebravamo feste per la ricuperata salute del Re, se n'era già morto il primo di novembre; ed in un punto s'intese la sua morte e l'esaltazione nel trono di Spagna di Filippo d'Angiò. Questo accidente affrettò l'elezione del nuovo Pontefice; poichè congiuntisi insieme i Cardinali Spagnuoli ed i Franzesi, vennero ad eleggere con pluralità di voti il Cardinal Francesco Albani d'Urbino, ch'era stato segretario de' Brevi a tempo del passato Pontefice e non avea più che 51 anni. Fu eletto il dì 23 di novembre di quest'anno 1700 ad ore 18 giorno di Martedì, in cui la chiesa celebra la festività di S. Clemente Papa; onde volle chiamarsi Clemente XI con tutto che fosse stato creato Cardinale da Alessandro VIII.

Il Duca di Medina Coeli nelle tante rivoluzioni di cose, che accaddero dopo l'acerba e funestissima morte del Re Carlo II fu spettacolo insieme e spettatore di varie mondane vicende, le quali in ultimo lo condussero ad un infelice e lagrimevol fine. Di lui oltre i rammentati, ci restano a noi altri monumenti, che si leggono nel V tomo delle nostre Prammatiche, secondo l'ultima edizione 1715.

CAPITOLO IV. Morte del Re Carlo II, leggi che ci lasciò; e ciò che a noi avvenne dopo sì grave ed inestimabil perdita.

I Franzesi per la disperata salute del Re Carlo, sempre più insistendo nella corte di Spagna presso que' Grandi, e sopra ogni altro presso del Cardinal Portocarrero Arcivescovo di Toledo, che sopra quel Re s'avea acquistato grand'opinione di probità e di prudenza, perchè, mancando senza prole, dichiarasse per successore ne' suoi Regni Filippo, secondo figliuolo del Delfino; esageravano non meno i diritti sopra quella monarchia del Delfino per le ragioni della Regina Maria Teresa d'Austria sua madre, e sorella primogenita del Re Carlo, che il loro proprio interesse. Sin dalla guerra mossa per la successione del Brabante, essi s'erano sforzati d'abbattere la di lei rinunzia stabilita con giuramento, ed ogni maggior fermezza e solennità; e sin d'allora aveano pubblicato un libro contenente settantaquattro ragioni per provar la nullità della medesima. Ma essendosi in quella occasione per contrario, con forti e vigorose scritture fatto vedere, quanto quelle fossero deboli e vane: essi aggiungevan ora, che molte di quelle risposte non potevan adattarsi al caso occorso, dove non già la rinunziante, che, trovavasi defunta, aspirava alla successione, ma il di lei figliuolo, al quale non si poteva per colei recar pregiudizio, venendo secondo le leggi chiamato alla successione per propria persona, ed al quale non poteva far ostacolo qualunque rinunzia, che da' suoi maggiori si trovasse fatta. Ma non perciò uscivano d'impaccio; poichè oltre alle pressanti ed amplissime clausole, che in quelle rinunzie s'erano apposte, appunto per render vano quest'asilo; non si dovean tali renunzie regolare secondo le vulgari conclusioni de' nostri Dottori, ma da fini più alti e sovrani, che s'ebbero, quando quelle si fecero: li quali furono la perpetua separazione di queste due monarchie; ed affinchè per qualunque accidente queste due corone non potessero mai congiungersi sopra un sol capo. Per iscansare quest'altro ostacolo, i Franzesi proposero, che tal dichiarazione dovesse farsi, non già in persona del Delfino, ma del Duca d'Angiò suo figliuolo, al qual'egli avrebbe cedute le sue ragioni. In cotal guisa s'evitava l'unione, e mancava il fine, per cui s'eran le rinunzie ricercate. Ma questo concerto, fra di essi cotanto ben ideato, ed aggiustato, non poteva togliere la ragione già acquistata all'Imperador Leopoldo, ed a' suoi figliuoli in vigor de' testamenti de' Re di Spagna, e delle rinunzie, al quale, oltre di non ostare il fine della sempre abborrita unione, ben egli con ceder le sue ragioni all'Arciduca Carlo suo secondo figliuolo, avrebbe ancora avuto più spedito modo di farlo; oltre che s'assumeva da' Franzesi per certo quel ch'era in quistione; poichè quest'appunto si negava, che al Delfino per l'incompatibilità delle corone, si fosse potuto acquistar giammai ragione alcuna, e per conseguenza, niente aveva che rinunziare al Duca d'Angiò suo figliuolo. Ciò, che dunque principalmente spinse gli Spagnuoli ad indurre quel Re, con sommo rincrescimento, a dichiarar per successore il Duca d'Angiò fu il timore, che facendosi altrimente, sarebbe venuto ad effetto il cotanto abborrito partaggio. Ponevano avanti gli occhi di quel piissimo Re le ruine e le calamità, che avrebbero dovuto inevitabilmente soffrire tanti suoi fedeli ed amati popoli, e che la sua pietà non avrebbe permesso d'esporgli a tanti disagi e pericoli. Ricordavangli la grandezza e generosità della nazione spagnuola, la quale sarebbe stata altamente percossa, ed al niente ridotta, se l'avesse lasciata esposta, facendo altrimente, agli oltraggi d'un Re cotanto formidabile e potente. Ma sopra ogni altro gli raccomandavano l'unione della sua monarchia; la quale ingrandita con tanta gloria da' suoi predecessori e ridotta in un'ampiezza, che non avea la simile il mondo, non dovea esporla ad esser così miseramente lacerata e divisa in pezzi, sicchè nelle future età di questa gran macchina appena ne rimanessero le ceneri. Ricordavangli, che il savio Re Ferdinando il Cattolico, ancorchè avesse potuto innalzare al trono, almeno de' regni proprj, e da lui acquistati colle forze d'Aragona, uno del suo casato, volle nondimeno chiamare alla successione di tutti Carlo d'Austria Fiamengo; perchè ben conosceva, che nella persona di quel potentissimo Principe e per quel ch'era, e per quel che dovea essere, poteano quei Regni mantenersi uniti formando una ben ampia monarchia, la quale avrebbe potuto lungamente durare, e non dissolversi con iscadimento della sua gloria, e dell'inclita nazione spagnuola.

Espugnato per tanto il Re ne' principj d'ottobre per queste insinuazioni suggeritegli, fra gli altri, con vigore dal Cardinal Portocarrero, aggravatosi il male, disperarono i Medici della sua salute: e postosi nella fine di quel mese in agonia, spirò il primo di novembre, giorno di Lunedì, di quest'anno 1700. Il martedì fu imbalsamato il suo cadavere, ed il mercoledì fu esposto nel regal palagio in quella medesima stanza dove nacque. Assisterono molti religiosi in una gran sala per li suffragj, dove in molti altari ivi eretti furon celebrati i sacrificj insino al venerdì, nel qual giorno furono celebrate tre messe solenni nelle cappelle regali e da poi una pontificale coll'assistenza di tutt'i Grandi. Fu da poi levato il cadavere e portato nell'Escuriale, accompagnato da tutti i Grandi, da quelli della regal casa e dalle quattro religioni mendicanti: dove se gli diede sepoltura con quelle solennità, che convenivano ad un così grande ed amato Re. Fu seppellito nell'istesso giorno e nell'istessa ora che veniva a compire 39 anni di sua vita. Cominciò egli a regnare da' 6 di novembre dell'anno 1675, nel qual dì finì i quattordici anni della sua età e la reggenza della Regina madre e della Giunta. Nel 1679, ai 30 d'agosto prese per moglie Maria Lovisa di Borbone, e costei morta a' 12 di febbrajo del 1689, prese nell'anno seguente Marianna di Neoburg: di niuna delle quali lasciò prole. Fra le sue virtù furono ammirabili la pietà e la religione: giammai se n'intese parola alcuna ingiuriosa: aveva una somma applicazione al dispaccio, privandosi sovente dell'ore del divertimento, per non mancare alla spedizione di quello: nè mai risolveva cosa, senza che precedesse il Consiglio de' suoi ministri, ed eseguiva i loro dettami con tanta esattezza, che anche le cose, ch'egli ardentemente desiderava, s'asteneva di farle, e sovente ne ordinava di molte, anche contro il proprio sentimento, sempre che così gli era da' suoi ministri consigliato, riputando, che in cotal guisa operando, non avea di che render conto a Dio dell'amministrazione de' suoi Regni. Fu sommamente divoto di Nostra Signora degli Angioli, ed ebbe speziale e costante venerazione al Santissimo Sagramento dell'Eucaristia, tal che non mancava d'assistere all'esposizioni delle quaranta ore circolari.

Lasciò pure a noi questo piissimo Principe alcune sue leggi; e nel 1675, primo anno del suo regnare dopo la Reggenza, ne stabilì una, colla quale comandò, che gli ufficj, senza il suo regale assenso, non potessero nè obbligarsi, nè vendersi, e conceduti in burgensatico, non si stendesse più oltre la concessione, che insino al quarto grado: comandò ancora, che dagl'inquisiti, prima che fossero convinti rei, non potesse esigersi cosa alcuna di giornate, o d'altro, ma aspettarsi la loro condanna: prescrisse i modi e le norme intorno alla fabbrica e lavori di seta, d'argento e d'oro, per toglier le frodi, le quali, come si disse, furono pubblicate dal Marchese del Carpio in tempo del suo governo; e diede vari provvedimenti, che sono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche, secondo l'ultima edizione.

Concedè pure questo clementissimo Re alla nostra città e Regno molti privilegj e grazie, così quelle cercate in tempo dell'ambasceria di D. Ettore Capecelatro, che ancorchè domandate vivente il Re Filippo IV, ebbero compimento nell'anno 1666 dopo la sua morte; come quelle domandate da D. Luigi Poderico, e da D. Francesco Caracciolo Marchese di Grottola ambasciadori inviati alla corte; ed altre, che si leggono nel II volume de' Privilegj e Capitoli impresso ultimamente nel trascorso anno 1719.

Giunse in Napoli la funesta novella della morte del Re Carlo II a' 20 di novembre di quest'anno 1700, e nell'istesso tempo l'avviso d'aver egli dichiarato per suo successore in tutt'i Regni della monarchia di Spagna Filippo Duca d'Angiò; ed il Duca di Medina Coeli per maggiormente accreditarne la fama, fece tosto imprimere e pubblicare due clausole, che diceansi essere estratte dal testamento del defunto Re, in una delle quali dichiaravasi la successione nella persona del Duca d'Angiò e nell'altra s'esprimeva la Giunta del Governo, ch'egli avea eretta sin tanto che il successore non si fosse portato in Ispagna, Capo della quale si faceva la Regina vedova e li governadori erano il Presidente, o Governadore del Consiglio di Castiglia, il Vicecancelliere, o Presidente d'Aragona, l'Arcivescovo di Toledo, l'Inquisitor Generale, un Grande, ed un Consigliere di Stato. Accompagnò il Medina quelle clausole con una lettera scrittagli dalla Regina e Governadori suddetti, per la quale se gli imponeva, ch'eseguisse ciò che quelle ordinavano e ciò che in simili casi solevasi praticare. I popoli attoniti e sorpresi a tanta novità, commossi dal dolore per la morte d'un Principe cotanto pio e religioso, piansero la comune sciagura per tanta perdita; ed il Medina imitando l'esempio degli altri Regni di Spagna, fece eseguire il comando, tal che senza commozione o scompiglio alcuno fu da noi riconosciuto quel Principe, che la Spagna ci aveva dato.

(Il Testamento del Re Carlo II contenente LIX Clausole, fra le quali le 14 e 15 contengono la successione dichiarata per Filippo d'Angiò leggesi impresso in più raccolte e Scrittori; presso Cassandro Tucelio in Actis Publicis Tom. 5 c. 5 pag. 299, presso Fabri Staats-Cantzeller. tom. 5 pag. 135, nella vita di Carlo III part. 1 p. 95 e nelle Mem. de la Guerre, tom. 2 pag. 253 ).

Ferirono questi inaspettati avvenimenti altamante l'animo, non meno dell'Imperador Leopoldo[87] per lo gran torto, che pareagli essersi fatto alle sue ragioni, in manifestamento dalle quali fu dato poi alle stampe nel 1703 il libro intitolato: Defense du droit de la Maison d'Autriche à la succession d'Espagne[88]; che degli altri Principi concorsi nel meditato partaggio, i quali tenendosi delusi dalle arti del Re Franzese, e mal sicuri, se permettessero, che tanta potenza e tanti Regni s'unissero nella casa di Francia; e considerando, che tutto il timore della Spagna era di non vedere la loro monarchia divisa, fu risoluto d'impiegare tutte le lor forze, per metter in quel trono Carlo Arciduca d'Austria, figliuolo secondogenito di Leopoldo, al quale perciò, non meno il padre, che il fratello, cederono le loro ragioni[89]: sicchè fu egli dichiarato Re di Spagna, e spinto a condursi in quei Regni per discacciar l'emulo dalla Sede. Gli Olandesi si dichiararono per l'Arciduca: il Re d'Inghilterra, quel di Portogallo, e poi il Duca di Savoja si unirono coll'Imperadore e fecero fra di lor lega per togliere dal possesso degli Stati di Spagna Filippo e riporvi l'Arciduca Carlo. Fu ciò cagione d'una sanguinosa e crudel guerra, fra gli Alleati e la Francia, la quale fu dichiarata l'anno 1701. Ed essendo da poi morto il Principe d'Oranges dichiarato Re d'Inghilterra, sotto il nome di Guglielmo III ch'era entrato in quell'Alleanza; la Regina Anna Stuarda secondogenita di Giacomo II che successe in quel reame, non pur confermò l'alleanza, ma con impegno maggiore impiegò le forze del suo Regno per mettere nel trono di Spagna il Re Carlo. Le sue flotte ve lo condussero: Catalogna fu presa, ed in Barcellona il nuovo Re collocò la sua Sede regia, il qual poi costrinse Filippo, colle forze imperiali, ed inglesi a lasciar la città di Madrid: e se la battaglia di Almanza guadagnata da' Franzesi il dì 25 d'aprile dell'anno 1707 non frastornava il bel disegno, la Spagna sarebbe passata interamente sotto il suo dominio. Non potè avere l'Imperador Leopoldo il piacere di veder così bene impiegate le sue armi, ed esser secondati i suoi voti da sì prosperi successi: era egli già morto, ed in suo luogo eletto nel 1705 Giuseppe I suo figliuolo.

Ma non meno in Fiandra, che in Italia ebbero a questi tempi le gloriose armi imperiali felici avvenimenti. Non pur si tolse l'assedio a Turino ma in un tratto fu occupato lo Stato di Milano, Mantova, e l'altre piazze della Lombardia; tal che i Franzesi furon costretti abbandonar l'Italia, e ritirarsi colle loro truppe in Francia. Aveano i Franzesi per soccorrere il Milanese lasciato voto il nostro Regno di loro truppe; onde s'ebbe opportunità di tentarne l'impresa con felicissimo successo. Per la natural affezione di questi popoli all'augustissima casa d'Austria, bastò al Conte Daun con un sol distaccamento dell'esercito imperiale, che l'Imperador Giuseppe teneva in Lombardia, entrar, senza esservi chi gli facesse opposizione, nel Regno, ed a' 7 di luglio di quest'anno 1707 felicemente impossessarsi, in nome del Re Carlo, della città di Napoli, gli Eletti della quale corsero insino ad Aversa a presentargli le chiavi. L'esempio della Metropoli fu tosto imitato dalle altre città del Regno: i castelli tutti si resero alle vittoriose insegne: Pescara parimente fu resa: sola Gaeta, dove eransi ritirati gli Spagnuoli, fece resistenza; ma in men di tre mesi, dopo breve assedio fu presa per assalto e saccheggiata. In breve con universal giubilo e contento furono ricevute le imperiali armi e senza commozione, senza scompiglio e senza que' disordini, che sogliono cagionare le mutazioni di nuovi dominj, il Regno tutto pacatamente ed in somma tranquillità passò sotto il dominio del Re Carlo, che teneva allora collocata la sua Sede regia in Barcellona.

Furono ritenute le medesime leggi, i medesimi magistrati, (sol mutandosi le persone di coloro, ch'eranvi dal suo emolo fra que' sette anni stati esaltati) li medesimi stili nelle segretarie all'uso di Spagna, ed i medesimi istituti. Gli Spagnuoli, che vollero rimanere, furono mantenuti ne' loro posti: furono ne' Tribunali conservate le alternative, ch'essi godevano nelle toghe: in breve, toltone i Vicerè di nazion tedesca, e gli ufficiali militari, che aveano il comando delle loro truppe, in niente fu alterata la politia del Regno.

Ricevette però non picciol vantaggio dall'aver fatto ritorno sotto il dominio di questa augustissima famiglia, per le tante concessioni e privilegi, che a larga mano, sopra tutti gli altri Re suoi predecessori, gli furon conceduti da un sì grato ed indulgentissimo Principe. Egli mosso dalla fedeltà e prontezza mostrata in quest'occasione, concedette alla città e Regno nuove grazie, e tutte considerabilissime, e quel ch'è più, la pronta esecuzione dell'antiche. Onorò la città, ed i suoi Eletti con nuovi e più speziosi titoli. Preferì i suoi nazionali nelle cariche, beneficj e negli uffizj, escludendone i forestieri. Con più sue regali cedole stabilì l'importante diritto dell' Exequatur Regium in tutte le Bolle, Brevi ed altre provvisioni, che ci vengono di Roma: vietò rigorosamente l'alienazione dei fondi delle entrate regali: sterminò affatto ogni vestigio d'Inquisizione: con suoi Regali editti comandò, che in tutt'i Beneficj, Vescovadi, Arcivescovadi, ed altre Prelature del Regno ne fossero affatto esclusi i forestieri, nè che in lor beneficio sopra quelli possano imporsi pensioni o altre gravezze; confermò tutti i privilegi e grazie concedute al Baronaggio, ed al Regno, da' Re suoi predecessori; tolse la Ruota del Cedulario: volle, che contro il suo Fisco militasse la prescrizion centenaria, anche nelle regalie, nelle cose giurisdizionali e nelle altre sue ragioni fiscali: stese la succession feudale a favor de' Baroni per tutto il quinto grado. Nè dee riputarsi picciol giovamento quello, che si ritrae dal venire ora il nostro Regno compreso nelle tregue, che si fanno dall'Imperio col Turco: e dal commerzio, al quale è inteso d'aprire colla Germania ne' nostri Porti, con scale franche; ciò, che dagli Spagnuoli non era da desiderare, non che da sperare. In fine concedè a noi tante rilevanti grazie, le quali non senza nostra confusione insieme e contento, leggiamo ora nel II volume delli Privilegi e Grazie fatto imprimere nell'anno 1719 dalla nostra città, perchè non meno si sappiano i suoi pregi, che la munificenza di un tanto Principe, de' quali gli è piaciuto di profusamente arricchirla.

Intanto fu provveduto il nostro Re Carlo III d'una non men savia, che avvenente Principessa per moglie Elisabetta Cristina di Wolffembutel, la quale da' suoi Stati, traversando la Germania e l'Italia, si condusse in Barcellona al suo sposo; nel qual tempo i progressi delle sue armi in Ispagna, sotto la condotta del Conte di Staremberg, fecero maravigliosi acquisti, penetrando co' suoi eserciti insino a Madrid; e se il Duca di Vandomo, al quale era stato conferito il comando delle truppe di Spagna, non si fosse valorosamente opposto all'esercito nostro, costringendolo a ritirarsi in Catalogna, la guerra di Spagna sarebbe allora gloriosamente finita. Gli Olandesi e gl'Inglesi dall'altra parte aveano interamente rotti i Franzesi in Fiandra, nella battaglia, che lor diedero vicino ad Oudenarde sopra la Schelda, la quale portò in conseguenza la presa di Lilla e di Gant; e poi l'anno seguente quella di Tournai e di Mons; tal che costrinsero Lodovico XIV a far proposizioni di pace, le quali, ancor che fossero svantaggiose alla Francia, nelle conferenze che si fecero in Gertruidemberg fra i Plenipotenziari della Francia, dell'Inghilterra e dell'Olanda, non furono accettate.

Ma la morte accaduta in quest'anno 1711 a' 17 di aprile dell'Imperador Giuseppe, in età di 32 anni, otto mesi e ventitrè giorni, senza lasciar di se prole maschile, ruppe tutti i disegni, e fece mutar sembiante allo stato delle cose. Tutti i Principi d'Alemagna richiamavano il nostro Re all'Imperio, tal che, stando egli in Barcellona, fu dal comun lor consenso in Francfort eletto Imperadore, e Carlo VI sempre Augusto Imperador Romano fu universalmente acclamato. Gli convenne perciò, lasciando la Regina Elisabetta in Barcellona al Governo di Catalogna di ritornare in Alemagna e prender il possesso dell'Imperio. Ed intanto il Re di Francia, profittandosi di tal mutazione, e più per aver ridotta la Regina Anna d'Inghilterra con vari negoziati e lusinghe a' suoi voleri, promosse con maggior calore nuovi trattati di pace. Indusse da principio quella Regina ad acconsentire ad una sospension d'armi fra la Francia e l'Inghilterra, tal che fece ella ritirare le sue truppe, che avea in Fiandra, dall'esercito degli Olandesi; il qual essendo divenuto più debole a cagion di questa ritirata, fu assalito dall'esercito Franzese guidato dal Maresciallo di Villars, e stretto sì vivamente a Denain, che dopo una considerabil perdita, i Franzesi s'impadronirono del campo nemico, presero poi S. Amando e Marchienna, fecero levar l'assedio da Landrecì, e costrinsero la città di Dovay e quella di Quesnoy alla resa.

Questi vantaggi costrinsero gli Alleati ad ascoltare le proposizioni di pace; onde furono nominati dall'una e dall'altra parte i Plenipotenziarj, i quali portatisi in Utrech (dopo essersi a' 14 marzo, tra il nostro Imperadore ed il Re di Francia, accordato un armistizio per Italia e l'evacuazione della Catalogna e di Majorica[90] ) conchiusero la pace il dì 11 del mese di aprile dell'anno 1713 fra l'Inghilterra, l'Olanda, Portogallo, Savoja, Prussia, Francia e Spagna. Fu tra di loro stabilito, che col mezzo della rinunzia fatta da Filippo alla Corona di Francia, tanto per se, quanto per li suoi discendenti, e di quella del Duca d'Orleans alla Corona di Spagna, a Filippo rimanessero le Spagne e l'Indie. La Sicilia fu data al Duca di Savoja, al quale anche fu promessa la successione al Regno di Spagna, come pure a' suoi eredi, in caso venisse a mancare il ramo di Filippo. Il Regno di Napoli ed il Ducato di Milano rimanesse al nostro Imperadore. Gli Elettori di Baviera e di Colonia furono restituiti nel possesso de' loro Elettorati. La Regina Anna fu riconosciuta Regina d'Inghilterra, e dopo la di lei morte il Principe d'Annover e suoi eredi. Che le fortificazioni di Doncherc dovessero demolirsi. Le Piazze della Fiandra spagnuola furono date in potere degli Olandesi, per essere restituite alla Casa d'Austria; e Lilla, ed Aire furono restituite al Re di Francia.

Il nostro Imperadore non volle ratificar questo trattato per non pregiudicare le sue ragioni sopra la Spagna, nè volle colla medesima trattar pace, per ciò ne fu fatto un altro particolare tra lui e la Francia, in Rastat il dì 6 di marzo del seguente anno 1714[91], col quale si confermarono le condizioni precedenti a riguardo di tutte le altre Potenze, ma non già di cedere le sue ragioni e titoli sopra quella monarchia, da poterle, quando che sia, sperimentar coll'armi. Fur per tanto questi trattati di pace eseguiti con ogni sincerità (toltone la Spagna) fra tutte le Potenze, che vi concorsero. Al Duca di Savoja fu data la Sicilia; se bene avendo poi la Spagna voluto romper questo trattato, con tentar d'occuparla di nuovo per se, questa mossa è stata cagione, che lo scambio, che poi se ne fece, sia riuscito in maggior vantaggio del nostro Monarca; poichè vindicata colle sue armi, dalle mani degli Spagnuoli, si diede al Duca in iscambio della Sicilia l'Isola di Sardegna, tal che la Sicilia rimane ora unita al nostro Regno, come prima, sotto un medesimo Principe.

(Gli articoli accordati nel campo vicino Palermo per l'evacuazione de' Spagnuoli dal Regno di Sicilia e di Sardegna a' 6 maggio del 1720 tra il Conte di Merus per l'Imperadore e tra il Marchese di Lede General comandante degli Spagnuoli, si leggono presso Lunig[92], siccome gli articoli accordati da' medesimi nel campo suddetto a' 8 dello stesso mese, riguardanti l'evacuazione del Regno di Sardegna, si leggono presso lo stesso pag. 1435. Per esecuzione de' quali, usciti da quella gli Spagnuoli, ne presero il possesso le truppe Cesaree, ed in vigore dell'Artic. II della quadruplice Alleanza, la maestà di Cesare per mezzo del Principe di Ottaiano suo plenipotenziario costituito a questo atto, diede il possesso del Regno col titolo di Re al Duca di Savoja, il quale dall'ora avanti deposto il titolo di Re di Sicilia, assunse quello di Re di Sardegna).

Fu evacuata la Catalogna, e l'Imperadrice Elisabetta ritornò in Alemagna, nell'imperial Sede di Vienna, a ricongiungersi col suo Augusto marito, di cui già gravida, diede poi alla luce un Principe; ma morte troppo acerba, crudele ed inesorabile a noi presto cel tolse, lasciandoci in amari lutti e pianti.

Fu per tanto per lo governo di questi Regni di Spagna, che rimanevano all'Imperador Carlo, eretto in Vienna un supremo Consiglio, composto non men di Consiglieri di toga, che di Stato, e nel quale non v'hanno parte alcuna Ministri tedeschi. A questo dal nostro Regno si manda un Reggente, come già praticavasi sotto il governo degli Spagnuoli di mandarsi in Madrid. Si serbano per ciò i medesimi istituti e le segretarie rimangono ancora all'uso di Spagna: in quella lingua vengon dettate le regali cedole ed i dispacci, ed i Ministri spagnuoli, che seguirono il nostro Augustissimo Principe ritengono in quel Consiglio la lor parte, di cui ora è Capo e presidente l'Arcivescovo di Valenza, che sopra tutti gli altri è distinto nella fedeltà e zelo del servigio del suo Signore.

Si credette, che per la competenza e contrasto fra questi due Principi Carlo e Filippo, ciascun de' quali per se dimandava istantemente al Pontefice Clemente XI l'investitura del Regno di Napoli, dovesse con tal opportunità cancellarsi quest'uso; poichè essendo stato sempre costante quel Pontefice a negarla all'imperador Leopoldo, che giustamente la dimandava per l'Arciduca Carlo suo secondo figliuolo, ripugnava ancora (per ostentar neutralità) di darla al Re Lodovico di Francia, il quale, non men che Leopoldo, istantemente la chiedea per lo Duca d'Angiò suo nipote.

(Tutti gli atti e pubbliche scritture uscite per l'occasione di questa investitura, che dimandavasi al Papa da' Principi rivali, e le relazioni della ridicola pretensione, che da ciascuno si faceva del cavallo bianco, che non accettato si lasciava andar ramingo e scapolo per Roma, furono unite ed impresse da Cassandro Tucelo Tom. I. cap. 6, dove si leggono le Allegazioni di Ulrico Obrecto, e le contrarie di Rolando de Duvinck. )

Per questa competenza in tutto il Pontificato di Clemente, che fu molto lungo, non si curò più da competitori dimandarla, tal che si credea, che l'ultima investitura dovess'esser quella, che Carlo II prese nell'anno 1666 dal Pontefice Alessandro VII. Per una consimile occasione si tolse l'investitura del Regno di Sicilia; poichè negando sempre i Pontefici romani di darla al Re Pietro d'Aragona, ed a' suoi successori Re Aragonesi, per non offendere Carlo I d'Angiò, ed i suoi successori Re Angioini; gli Aragonesi da poi, riflettendo, che niente di male per ciò loro era avvenuto, nè più di ciò ch'essi aveano in quel Regno loro si dava, se non un poco di carta con quattro parole scritte, siccome solea dire il Re Carlo III di Durazzo al Pontefice Urbano VI, non si curarono più di cercarla; onde, siccome per certa usanza si trovava ivi introdotta, così per contrario uso rimase quella affatto abolita; tal che da poi nè il Re Alfonso I di Aragona, nè Ferdinando il Cattolico, nè gli altri Re dell'augustissima Casa Austriaca giammai la dimandarono, e rimase solo per lo Regno di Napoli.

Parimente i Pontefici romani per un tempo s'arrogarono la podestà di dar l'investitura del Regno di Sardegna, siccome in effetto Bonifacio VIII la diede a Giacomo Re d'Aragona; ma poi que' Re non si sognarono più di cercarla[93]. E ne' Regni d'Aragona medesima e di Valenza pur pretesero lo stesso, siccome fece Martino IV, che privò di quelli Regni Pietro Re d'Aragona, e ne diede l'investitura a Carlo di Valois figliuolo di Filippo Re di Francia. Ma sono ormai scorsi cinque secoli, che gl'istessi romani Pontefici hanno lasciato tali pensieri e tali pretensioni[94]. Lo pretesero ancora nel Regno d'Inghilterra, siccome si praticò in tempo di Re Giovanni, il quale volle riceverne l'investitura e l'incoronazione dal Papa, che vi mandò per tal effetto Pandolfo suo Legato appostolico ad incoronarlo[95]. Ma da poi gli altri Re d'Inghilterra non si sognarono in conto veruno cercarne più investitura, nè fu più praticata. Il medesimo tentarono nel Regno di Scozia a tempo d'Odoardo I, che refutò il Regno alla Chiesa romana. Ma gl'Inglesi niente di ciò curando, fecero sentire al Papa, che non s'impacciasse con gli Scoti, ch'erano sudditi e vassalli del Re d'Inghilterra[96]. Sono per ultimo note le intraprese de' romani Pontefici sopra l'Impero romano germanico, che veniva da loro connumerato tra' feudi della Chiesa romana, e che per ciò fosse della lor potestà eleggere gl'Imperadori. Ma da poi fu tolta ogni soggezione, ed ora la potestà d'eleggere è rimasa assolutamente presso i Principi Elettori, con essersi anche tolta quella cerimonia d'andarsi a coronare in Roma per mano del Pontefice. Così secondo le opportunità, che le si presentarono, tolsero i savj Principi da' loro reami queste soggezioni, le quali introdotte ne' tempi dell'ignoranza, siccome per abuso s'erano in quelli stabilite, così per contrario uso furono abolite.

Con tutto ciò essendo a' 19 marzo dell'anno 1721 morto Papa Clemente XI, in età di 72 anni, dopo un lungo Pontificato d'anni, poco men che ventuno, ed essendo stato eletto in suo luogo nel mese di maggio del medesimo anno il Cardinal Conti col nome d' Innocenzio XIII che ora con somma lode di prudenza e bontà regge la Sede appostolica, non ha costui fatto passar un anno del suo Pontificato, ch'essendone stato richiesto dal nostro Imperadore (per fini forse più alti e prudenti, che a noi cotanto umili e bassi, non lece indagare) glie n'ha conceduta l'investitura, con avergliene in maggio del passato anno 1722 spedita Bolla, nella quale, non altramente che fece Lione X coll'Imperador Carlo V, fu duopo dispensare alla legge dell'antiche investiture, le quali proibivano a' Re di Napoli d'essere Imperadori, o Re di Romani, e s'intendevano decaduti dal Regno, accettando la Corona imperiale; siccome si è potuto vedere ne' precedenti libri di quest'Istoria.

(La Bolla colla quale Leone X dispensò l'Imperador Carlo V da questa legge, spedita a' 3 giugno dell'anno 1521 si legge presso Lunig tom. 2 pag. 1343.)

(Il Cardinale Althann, che si trovava allora in Roma Legato di Cesare, nel dì 9 giugno del medesimo anno 1722, diede in nome dell'Imperadore, come Re di Napoli, il giuramento di fedeltà avanti una generale congregazione di Cardinali, ed al Tribunale della Camera papale, presenti li suoi Protonotarj, ricevendo dal Papa l'investitura. Da poi a' 28 del medesimo mese nella vigilia di San Pietro, giorno da antichissimo tempo statuito a questa prestazione, il Colonna, come Gran Contestabile del Regno presentò il cavallo bianco, ed il solito censo, con solenne celebrità e gran pompa, per render gli altrui trionfi più maestosi e splendidi. La relazione di questa solenne funzione con le ristucchevoli cerimonie usate, non si dimenticò Struvio inserirla nella giunta del suo Corpus Hist. Germ. tom. 2 period. 10 sect. 13 de Carolo VI §. 47 nella pag 4112).

Ma il decorso del tempo, e gli avvenimenti dell'anno 1734 han fatto chiaramente conoscere quanto ai nostri tempi riesca a' Re di Napoli inutile il cercare, ed ottenere tali vane Investiture, e che queste celebrità e pompe di presentarsi ogni anno per tributo il censo di settemila ducati d'oro, ed il cavallo bianco, siano tutte spese perdute, che si potrebbero impiegare a miglior uso. Che profitto ricavonne L'Imperador Carlo VI di averla ottenuta da Innocenzio XIII? se non quello di avere Clemente XII successore, non già impedita, ma agevolata l'impresa all'Infante di Spagna Don Carlo inviato dal Re Filippo V suo Padre ad occupar il Regno, e discacciarne il legittimo possessore. Niente gli valse l'investitura d' Innocenzio. Niente que' giusti e legittimi titoli che ne avea, non solo per le ragioni di succedere al Re Carlo II, ma in vigore di più istromenti di pace stipulati e firmati con giuramento fra l'Imperadore ed il Re Filippo, così nella pace stabilita in Vienna nell'anno 1725 in esecuzione della pace di Londra del 1718, e ratificata con tanti altri reiterati atti ne' susseguenti tempi, come nelle altre convenzioni seguite prima e dopo la pace di Siviglia, per le quali i Regni di Napoli e di Sicilia per titolo di transazione irrevocabile si cedevano dal Re di Spagna perpetualmente all'Imperador Carlo; siccome questi all'incontro cedeva le sue pretensioni sopra tutta la Spagna e l'Indie al Re Filippo. Non s'incontrerà certamente nelle istorie esempio più chiaro e manifesto, che ad un principe, alla legittimità del possesso siansi accoppiati tanti giusti e validi titoli, quanto che a riguardo di questi due Regni all'Imperador Carlo. E pure il Vicario di Cristo, che dee zelar cotanto per la giustizia, che dee esclamare, increpare, maledire, ed opporsi agl'invasori, tanto è lontano che ciò abbia fatto, che al contrario agevolò l'impresa, somministrò alle truppe nel passaggio ogni agio ed abbondanza di vettovaglie e di viveri, ed animava i Popoli alla resa. Come colui, che si pretende padron diretto di questo Regno, riputandolo vero Feudo della Sede, anzi della Camera Appostolica, e che i Re dopo esserne stati investiti siano veri suoi Feudatarii, non si oppone all'invasore? e le leggi Feudali istesse esclamano, che di sua natura il feudo essendo da altrui invaso, porti seco l'indispensabil obbligo al padron diretto di difendere il Feudatario, opporsi all'invasore e far tutto ciò che possa per impedire l'invasione. A che dunque giovano oggi queste varie, ed inutili investiture? Almanco a' tempi antichi gl'Investiti erano sicuri, che i Pontefici si armavano a lor difesa; e quando non potevano far altro scomunicavano gli aggressori, interdicevano i loro Stati e scagliavano anatemi terribili contro i fautori e tutti coloro che gli prestavan ajuto e soccorso. Che non fecero li Pontefici romani contro Re Pietro d'Aragona, quando occupò il Regno di Sicilia, togliendolo al Re Carlo I d'Angiò, che n'avea avuta Investitura da Papa Clemente IV per se e suoi discendenti? che non fecero i successori di Clemente, morto Re Pietro, contro Re Giacomo suo figliuolo, e contro Re Federico fratello di Giacomo?

In tempo del famoso scisma, quando in Napoli si conoscevano, secondo le fazioni, due Re e due Pontefici, ciascun Papa difendeva contro l'altro il da lui investito, e si pugnava ferocemente fra di loro, come pro aris, et focis; ed i libri di quest'Istoria Civile sono pieni di contenzioni e brighe nate per occasioni simili.

Ma al presente i Papi riposatamente vogliono attendere il successo delle armi, e tutti soccorrono al vincitore, e discacciano il vinto. Quando nel mese di aprile dell'anno 1734 l'Infante Don Carlo entrò colle sue truppe nel Regno, ed i Napoletani se gli resero; poichè in sue mani non erano ancora passate le piazze di Gaeta, Capua, Pescara; ed i Castelli della Puglia, e di Calabria; ed erano ancora nel Regno Milizie Alemanne; sopraggiunto il mese di giugno, dovendosi nella vigilia de' SS. Apostoli Pietro e Paolo pagar il censo, e presentar il cavallo bianco con la usata celebrità e pompa, Clemente XII escluse l'Infante e ricevè dall'Imperadore, siccome per lo passato, il censo e la Chinea; ma nel mese di giugno del seguente anno 1735 essendosi già rese quelle Piazze e tutti i Castelli all'Infante D. Carlo, e dissipate le truppe Alemanne, allora la Corte di Roma mutò stile, ed il Papa ricusò di ricevere nel dì stabilito il censo e la Chinea dall'Imperadore, con tutto che dal Principe di S. Croce destinato dal medesimo per suo Ambasciador estraordinario a questo atto, si fosse offerto di pagar il censo e di presentar la Chinea; anzi la Camera Appostolica non volle ammetterlo nè meno a farne deposito; e ciò perchè il Papa gliel'avea proibito, dando fuori un suo motu proprio, col quale comandava de plenitudine potestatis Pontificiae, che in quell'anno si fosse prolungata e differita la presentazione e pagamento per il tempo e tempi a nostro arbitrio, come sono le sue parole, sicchè si prolungasse non solo il deposito, e pagamento delli ducati 7000 d'oro, ma anche la solenne funzione del Cavallo Bianco, o sia Chinea. E quel ch'è da notare, nel motu proprio dichiara il Papa tal ricognizione doverseli pel supremo e diretto dominio, che noi e questa S. Sede abbiamo sopra il Regno dell'una e dell'altra Sicilia: chiamandolo Regno nostro. Ma merita assai maggiore ponderazione che si contrastava per parte dell'Imperadore la soggezione, ed in tutte le maniere d'un Regno del quale egli era assoluto Signore e vero Monarca, voleva esserne Feudatario, e vassallo della S. Sede; poichè il Cardinal Cienfuegos ministro Plenipotenziario dell'Imperadore nella Corte di Roma, avendone avuta special commessione da Cesare per suo imperial dispaccio de' 18 giugno, mandatogli per espresso, altamente a' 28 del suddetto mese protestò contro il motu proprio del Papa, come manifestamente ingiurioso a S. C. M. e lesivo de' suoi diritti, e come quello, che andava a violare a dirittura la fede del patto reciproco, che sempre esiste fra il Padron diretto, ed il Feudatario: soggiungendo e rinfacciando al Papa, che non ammettendosi la presentazione della Chinea ed il pagamento del censo nel giorno convenuto senz'alcuna delle solite legittime cause, la Santità vostra autorizza la ingiusta occupazione del Feudo, mettendosi dalla parte dell'usurpatore, a cui è stata anche facilitata l'impresa, quando più tosto ragion voleva, che il Feudatario fosse ajutato dal Padrone diretto nella difesa del Feudo. Soggiunge in oltre che essendo l'Imperadore l'unico legittimo Feudatario investito dalla S. Sede.... quantunque con la forza sia stato spogliato del Feudo, ritiene però sempre l'animo di ricuperarlo. Si protesta adunque col Papa e suoi ministri camerali di nullità e d'ingiustizia contro la suddetta dilazione, la quale, come sono le sue parole, espressamente e legalmente disapprovata da S. M. non possa, nè debba in qualunque tempo ed occasione allegarsi in suo danno e pregiudizio de' suoi diritti; ma che anzi si debbo riputare e considerare, si reputi e consideri sempre come voluta da V. S. senz'alcuna delle solite legittime necessarie cause, e non ammessa, nè approvata, ma bensì espressamente disapprovata e rigettata da S. M. la quale in effetto ha instato con tutto il vigore, e non cessa d'insistere affinchè si riceva il pagamento del censo, e la presentazione della Chinea al tempo prescritto e convenuto nelle Investiture; protestandosi altresì che affine di far conoscere e manifestare la nullità, e la ingiustizia di una tal dilazione, ed insieme l'aggravio e la violenza, che soffre S. M. come Feudatario della S. Sede, si servirà di tutti i mezzi leciti, che dalla naturale difesa e dalle leggi si prescrivono, affine di preservare il suo diritto legittimamente acquistato, e vendicare le sue ragioni.

Queste querele e proteste firmate a' 28 giugno dal Cardinale furono per mezzo di pubblico Notaro presentate e notificate a' Ministri Camerali, i quali le riceverono colle solite clausole forensi sic et in quantum; ma nell'istesso tempo ordinarono per lor Decreto: in omnibus esse servandum Motum proprium Sanctissimi.

Chi crederebbe, che il fascino nelle menti umane possa giungere a tanto, che ama e si contrasta la propria soggezione e servitù, essendo assoluti e liberi? che nulla tutto ciò giovando per discacciar l'invasore, ma tutto il presidio essendo riposto nelle armi, si voglia profonder denaro in cose vane ed inutili, e non più tosto impiegarlo ad accrescer truppe e milizie, che sono i più efficaci mezzi per vendicar i torti e le offese? A ragione adunque potrebbesi esclamare:

O miseras hominum mentes, o pectora coeca.

Qualibus in tenebris vitae.....

Degitur hoc aevi!

CAPITOLO V. Stato della nostra Giurisprudenza e dell'altre discipline, che fiorirono fra noi nella fine del secolo XVII insino a questi ultimi tempi.

I progressi, che la Giurisprudenza e le altre scienze fecero fra noi nel Regno di Carlo II sino al presente furono veramente maravigliosi. Eransi negli altri Regni d'Europa e spezialmente in Francia ristabilite già e ridotte nel più alto punto di perfezione sin dal principio di questo secolo XVII, e nel suo decorso. Presso di noi però più tardi si perfezionarono, e ricevettero maggior politezza e candore. La nostra Giurisprudenza per Francesco d'Andrea, e per quegli altri che lo seguirono, prese, come si disse, miglior forma, e non men nelle Cattedre, che nel Foro si cominciarono ad insegnar le leggi con nuovi metodi, ed a disputar gli articoli legali secondo i veri principj della nostra Giurisprudenza, e secondo l'interpretazioni de' più eruditi Giureconsulti. La Filosofia, che sino a questi tempi era stata fra noi ristretta ne' Chiostri, e ridotta, o ad alcune sottigliezze di Logica e di Metafisica, o ad alcuni discorsi vani ed inutili, prese un nuovo lustro dallo studio delle scienze naturali e da un'infinità di nuovi scoprimenti, e dal buon metodo posto in uso per trattarla. La Medicina profittandosi degli scoprimenti della Fisica, e dell'uso di molti medicamenti ignoti agli antichi, si scoprì non tanto inutile per le malattie. Le Matematiche, e in spezie l'Algebra, furono spinte sino all'ultima astrazione col mezzo di metodi nuovi. Le Accademie istituite fra noi, e composte in questi tempi di uomini insigni, contribuirono non poco, per le lingue, per l'eloquenza e per l'erudizione alla perfezione delle scienze ed all'avanzamento della letteratura. Ridusse finalmente presso noi nell'ultimo punto di perfezione le discipline il commerzio, che per mezzo de' Giornali de' Letterati s'introdusse fra noi, con la Francia, la Germania e l'Olanda; poichè col mezzo di questo gran numero di Giornali, che da quelle province escono, ogni uno può aver notizia de' libri, che s'imprimono in Europa, delle materie che contengono, e degli avvisi della Repubblica Letteraria.

Ne' nostri Tribunali, per quanto s'appartiene alla Giurisprudenza, come si è veduto, Francesco d'Andrea fu il primo, che l'adoperò secondo i veri principj, e secondo le interpretazioni di Cujacio e degli altri eruditi, non men orando, che scrivendo; ed avendo egli per più anni esercitata fra noi l'avvocazione, ed acquistato quel grido, che il Mondo sa, acquistò ancora molti imitatori; onde nel nostro Foro cominciaron poi a distinguersi i meri Forensi da' veri Giureconsulti. Creato poi egli dal Conte di S. Stefano Giudice di Vicaria, e per mezzo del medesimo tosto promosso dal Re Carlo II al posto di Consigliere, e poi d'Avvocato Fiscale della Regia Camera, non mancò, esercitando questa carica, nelle sue allegazioni, e sopra ogni altra in quella famosa disputazion feudale[97], d'accoppiare insieme l'erudizione, l'istoria, e la vera Giurisprudenza colle disputazioni Forensi. Dopo tre anni di quest'esercizio, ottenne dal Re di far ritorno nel Sagro Consiglio; da dove poi per le stravaganti sue infermità, e per voler nel rimanente di sua vita vivere a se medesimo, ed attendere più quietamente allo studio della Filosofia, di cui erasi oltremodo invaghito, licenziossi, ed abbandonando la città e tutt'i luoghi più frequentati, ritirossi nelle solitudini di Candela, picciola terra dello Stato di Melfi. Quivi morì quest'incomparabile Giureconsulto, dopo alquanti giorni d'infermità, assistito dal Governadore di quello Stato e da più Religiosi; ed a' 10 settembre dell'anno 1698, su le 21 ore rendè al suo Fattore l'immortal sua anima; ed il giorno seguente da Monsignor Spinelli Vescovo di Melfi gli furono celebrati nobili e divoti funerali.

Dopo costui, chi più se gli avvicinasse nell'eloquenza e nell'erudizione, e sostenesse nel Foro l'arte del ben dire e scrivere, fu il famoso Avvocato Serafino Biscardi. Ebbe ancor costui per compagni, se non nell'eloquenza, nel sapere e nell'erudizione, D. Niccolò Caravita, ed Amato Danio; e nella dottrina legale que' due profondi Giureconsulti Pietro di Fusco e Flavio Gurgo. Ve ne furono ancora degli altri che sostennero ne' nostri Tribunali la vera arte del dire e del sapere, li quali durando ancor fra noi, e collocati nei primi onori del magistrato temerei offendere la lor modestia in favellandone; ma fra questi la gratitudine e l'aver io il pregio d'essere stato nel Foro suo discepolo, non comportano, che io taccia d'uno, che per giudicio universale è fuor d'ogni invidia e d'ogni emulazione. Questi è l'incomparabile Gaetano Argento, il quale fin dalla sua tenera età, fornito della più recondita e pellegrina erudizione, e consumato nello studio delle lingue, dell'istoria e delle buone lettere, applicò i suoi rari talenti negli studi legali, dove per la penetrazione del suo divino ingegno, per la stupenda memoria e per l'instancabile applicazione, riuscì al Mondo di miracolo; tal che per la profondità del suo sapere, e spezialmente nella Giurisprudenza, superò quanti Giureconsulti fra noi giammai fiorissero. Ed innalzato da poi a' supremi magistrati, ed al sommo onore di Presidente del nostro Sagro Consiglio, rilusse assai più luminosa la sua fama; poichè soprastando agli affari più gravi e rilevanti dello Stato, fece conoscere quanto in lui non meno potessero le lettere e le discipline, che la sapienza e l'arte del Governo.

Fu sostenuto da questi preclari ingegni il candor della nostra Giurisprudenza nel Foro; ma non mancarono ancora a questi tempi altri nobili spiriti, che lo sostennero nell'Università de' nostri studi. Erasi, come si disse, cominciato già in quest'Università ad insegnarsi con maggior pulitezza di ciò che prima facevasi; ma non s'era venuto a quella perfezione, colla quale insegnavasi nell'altre Università, e particolarmente in quelle di Francia; ma posto che ebbe in quella il piede il famoso Cattedratico Domenico Aulisio, fu ridotta nell'ultimo punto di perfezione. Egli per la sua varia e profonda erudizione, e sopra tutto della Romana e della Greca, per la perizia delle lingue, e per la sua somma e minuta esattezza, v'introdusse il vero metodo di spiegar le leggi. Fu ancora il primo, per li suoi maravigliosi concorsi, a dar norma agli Oppositori nelle Cattedre, come e con qual metodo dovessero quelli farsi, sì che non divagandosi fuori del testo, come si solea prima, in premesse ampliazioni, limitazioni e corollarj, si venisse all'interna sposizion di quello, ed a penetrarne i veri sensi, e con chiarezza poi e nettezza e proprietà di parole spiegarli. Fu quest'uomo ammirabile per la non men varia che profonda perizia, ch'e' possedeva in tutte le discipline. Egli fu non men profondo nella vera Giurisprudenza, come lo dimostrano le sue opere, che nelle Matematiche, nelle lingue, non men Latina e Greca, che nell'altre Orientali; nello studio delle lettere umane, ed in tutte le arti liberali. Grande antiquario e sopra tutto vago dello studio dell'antiche medaglie e degli altri monumenti dell'antichità. Profondo nella filosofia, nella poetica, nell'arte oratoria; ed insino sopra la medicina avea fatti studi immensi, tal che avea composta un esatta e peregrina Istoria della Medicina, che intendeva di dare alle stampe; ma per la sua natural tepidezza, sempre dubbio e vacillante e non soddisfacendosi mai delle sue stesse fatiche, prevenuto da Daniele le Clerc, rimane ora fra gli altri suoi M. S. che ci lasciò. L'opera delle Scuole Sacre, che fra breve uscirà alla luce del Mondo, s'era pure da lui ridotta in punto di darsi alle stampe, ma per l'istessa cagione, rimane ora alla discrezione del suo erede quando e come vorrà darla. Le opere sue legali, che si sono ora impresse, egli non l'avea dettate a questo fine, ma solo per insegnarle nelle cattedre a' suoi scolari, ed avrebbe ascritto a grande ingiuria del suo nome, se in sua vita taluno avesse avuto quest'ardimento. Ma presso me, a cui egli, come uno de' suoi più cari discepoli, raccomandò i suoi scritti, ha potuto più il pubblico beneficio, che la privata sua ingiuria; poichè, sebbene egli per la natural sua modestia, e pel poco concetto, che avea delle cose sue istesse, sentisse sì parcamente di queste sue fatiche, siamo sicuri che per l'utilità, che apporteranno, il giudicio del Mondo sarà molto diverso da quello del loro autore. Ha egli lasciate pure molte altre sue fatiche intorno alla poetica, all'arte oratoria, alla dottrina ed emendazione de' tempi, alle matematiche, alla filosofia e vari altri componimenti; ma tutti imperfetti e pieni di cassature ed inestricabili postille: d'alcuna delle quali forse a miglior tempo ed a maggior ozio, ne sarà partecipe la Repubblica Letteraria.

Per quest'eminente sua letteratura, vacata nell'anno 1695, per la morte di D. Felice Aquadia, la cattedra primaria vespertina del Jus Civile, fu con pienezza di voti a quella innalzato con soldo di ducati 1100, l'anno, la qual fu da lui sostenuta con sommo splendore e gloria; tal che per lui l'Università de' nostri studi non ebbe che invidiare a qualunque altra più illustre di Spagna, o di Francia, ed in quella insegnò sino alla fine di gennajo del 1717, anno della sua morte. Ma se questa perdita fu per noi grave ed inestimabile, niente però si scemò di pregio alla cattedra ed alla nostra Università; poichè ben tosto, espostasi quella a concorso, fu con universal consentimento provveduta in persona d'un pari ed insigne Cattedratico D. Nicolò Capasso, che ora degnamente la sostiene, il quale essendo stato il primo fra noi ad insegnare ne' nostri studi il Jus Canonico, secondo i veri principj tratti da' Concilj e da' Padri, col soccorso dell'Istoria Ecclesiastica, e secondo l'interpretazione de' più culti ed eruditi Canonisti, siccome prima avea illustrata e posta in maggior splendore quella Cattedra Canonica, così ora da lui, per la sua eloquenza, dottrina legale, somma erudizione e perizia delle lingue, vien sostenuta la Primaria Civile, con non minor decoro e concorso di quello ch'era in tempo del suo predecessore.

Furono ancora a questi tempi in migliore stato ridotte l'altre cattedre di questa Università per le altre scienze che quivi s'insegnano. Tommaso Cornelio, come fu detto, avea introdotta in Napoli la nuova filosofia, ed egli proccurò, che le opere di Renato des Cartes quivi s'introducessero: ebbe egli in questi principj per compagno Lionardo di Capoa, medico e filosofo ancor egli: onde congiunti insieme cominciarono a promuovere le buone lettere, e sopra tutto la filosofia e la medicina. Poco da poi, alcuni di più accorto ingegno, tratti dal loro esempio, si diedero anch'essi a questa nuova maniera di filosofare, e lasciando da parte tutto ciò, che nelle scuole fra' chiostri aveano appreso, si applicarono a questi nuovi studi. Trovarono costoro a questi tempi un potente protettore, D. Andrea Concubletto Marchese dell'Arena, il quale mosso dall'affetto ardentissimo, ch'egli avea a sì fatti studi, e punto anche da generosa invidia, che ove in altre parti d'Europa la buona filosofia trionfava, solo in Napoli fosse negletta, e da pochi conosciuta, diedesi con grande studio a proccurare, che coloro che n'aveano vaghezza in qualche luogo s'unissero, dove con sottili ricerche e speculazioni si proccurasse spingere più avanti le cognizioni sopra questo soggetto. Eransi già prima, non meno in Parigi che in Inghilterra, introdotte consimili Accademie di Scienze; onde ad imitazione di quelle studiavasi l'Arena promuovere questa sua. Fu per tanto scelta la casa istessa del Marchese per luogo di quest'Adunanza, alla quale s'ascrissero gli uomini più dotti di que' tempi. Fu dato il nome all'Accademia degl' Investiganti, che per impresa avea un Can bracco, col motto Lucreziano: Vestigia lustra[98].

I più insigni, che quivi s'arrolarono, e de' quali ne rimane a noi ancora memoria, furono oltre il Cornelio, ed il Capoa, il cotanto da noi celebrato Camillo Pellegrino, il quale, sebbene in tutto il corso della sua vita avesse consumati i suoi giorni in studi diversi, cioè dell'istoria, e nelle ricerche delle nostre antichità; erasi poi nella vecchiaja così ardentemente acceso dei nuovi ritrovamenti e metodi di questa novella Filosofia, che accusava la sua grave età, che non gli permettesse porre ogni opera in questi studi. Il cotanto presso noi rinomato Francesco d'Andrea, ed il suo fratello D. Carlo Buragna, che restituì in Napoli l'Italiana Poesia, e che alla gran perizia della Geometria e della Fisica accoppiava una perfetta cognizione di tutte e tre le lingue. Giovambattista Capucci, profondo Filosofo, ed adornato di molta letteratura. Sebastiano Bartoli famoso Medico di que' tempi, di cui il nostro Vicerè D. Pietrantonio d'Aragona ebbe tanta stima e concetto. Lucantonio Porzio gran filosofo e medico, che in quest'Adunanza vi recitò nobili e profonde lezioni intorno al sorgimento de' licori, e sopra altre sue filosofiche investigazioni[99]. Vi s'ascrissero ancora i Nobili Daniello Spinola e D. Michele Gentile; e vollero pure aggregarvisi Monsignor Caramuele Vescovo allora di Campagna, ed il P. Pietro Lizzardi Gesuita, oltre tanti altri preclari spiriti, che furono tutto intesi colle loro gloriose fatiche a scuotere il durissimo giogo, che la Filosofia de' Chiostri avea posto sopra la cervice de' nostri Napoletani.

Quest'Adunanza per la partenza del Marchese d'Arena da Napoli, e per la di lui morte non guari da poi seguita, si disciolse; ma non per ciò i suoi Accademici, chi insegnando nelle Cattedre, e chi scrivendo nobilissimi trattati, si trattennero di promuovere questi studi; tal che in brevissimo tempo fecero notabilissimi progressi, ed acquistarono molti seguaci, diffondendo non men questa Filosofia, che le altre buone lettere; e nella Medicina, Notomia, Botanica e nelle Matematiche, e spezialmente nell'Algebra introdussero nuovi metodi, e stesero molto le loro conoscenze. Quelli che non ebber genio d'esporsi a' concorsi per ottener le Cattedre, si segnalarono colle loro opere in diffondendo le novelle dottrine. Lionardo di Capoa si rese celebre per li suoi Pareri, che diede alle stampe. Gregorio Caloprese, ancor'egli profondo Filosofo, diede saggi ben chiari, quanto nella Cartesiana Filosofia valesse, co' suoi dotti scritti; ed il somigliante fecero tanti altri preclari e nobili spiriti.

Coloro che aspirarono alle Cattedre non men colle opere che diedero alle stampe, che con insegnar ivi pubblicamente le scienze, innalzarono assai più la nostra Università degli Studi; tal che non meno per le leggi civili e canoniche, che per le altre facoltà quivi insegnate con maggior pulitezza e candore, si vide ella fiorire a pari delle maggiori Università d'Europa. La Cattedra della Medicina fiorì sotto il celebre Luca Tozzi, famoso per le sue opere date alle stampe; la qual dopo la di lui morte, non pur niente perdè di splendore, ma ne acquistò un maggiore, per vedersi ora in sua vece sostenuta da un più chiaro e risplendente lume, quanto, e quale il cotanto celebre Niccolò Cirillo. Quella della Notomia è pur anche occupata da Lucantonio Porzio, famoso ancor'egli in tutta Europa per profondità di sapere e per le insigni sue opere date alle stampe. Non men di queste furono le altre di Matematica, e d' Eloquenza, sostenute, siccome ancor ora si sostengono, da valenti professori. Erasi in quest'Università, per le precedute sciagure, estinta la cattedra della Lingua Greca: ma nel governo del marchese de los Velez fu nell'anno 1682 quella ristabilita[100]; e quel che accrebbe a lei maggior splendore, fu d'essersi provveduta in persona del Sacerdote D. Gregorio Messeri, gran maestro di tal lingua, e riputato de' primi in tutta Italia: tal che quanto oggi si sa fra noi di questo idioma, tutto si deve a questo insigne professore.

Nel medesimo anno la Botanica fu pure in Napoli maggiormente ristabilita, mercè la cura che se ne prese D. Francesco Filamarini, il quale eletto Governadore dell'Ospedale della Nunziata di Napoli, fece per comun utilità, a spese del medesimo, piantar un orto di semplici fuori le porte della città nel luogo detto la Montagnola, di cui poi se ne prese il pensiere Tommaso Donzelli celebre Medico de' nostri tempi, che l'ordinò ed arricchì di molte piante[101]. Prima di lui Mario Schipano avea pure coltivati questi studi, che furono a noi tramandati dal famoso Fabio Colonna; ed a' nostri tempi Gio. Battista Guarnieri rinomato Medico e Cattedratico vi avea ancor fatti notabili progressi.

Fu ancora a questi medesimi tempi restituita fra noi nel suo antico splendore la Poesia Italiana per Carlo Buragna, Pirro Schettini, ed altri eccellenti Poeti, che vi fiorirono. Le altre buone lettere, l'erudizione e le lingue fecero grandi progressi sotto il governo del Duca di Medina Coeli, che le protesse non meno, che i professori di quelle. Gli studi, che a noi vennero più tardi, furono quelli dell'Istoria Ecclesiastica e della Teologia Dogmatica, li quali in Francia s'erano spinti sino all'ultimo punto di perfezione; ma applicatisi, ancorchè tardi, i nostri ingegni a quelli, alcuni vi riusciron eminenti: tal che introdotte fra noi tutte le buone discipline, fu restituita la città ed il Regno in quella pulitezza e letteratura, che ora ciascun vede.

CAPITOLO VI. Politia Ecclesiastica di questi ultimi tempi.

Mentre durò il Regno di Carlo II non fu veduto cangiamento alcuno in noi in ciò che riguarda la Politia Ecclesiastica; ma furono da' suoi Vicerè Spagnuoli calcati i medesimi sentieri de' loro predecessori. Due esemplarissimi Pontefici, che fra questo tempo ressero la Sede Appostolica ridussero a più moderato stato le cose; e zelanti dell'onor di Dio, attesero più alla riforma de' costumi degli Ecclesiastici, che a promuovere le pretensioni di quella Corte sopra il temporale de' Principi. Innocenzio XI per la bontà della vita ed innocenza de' costumi trasse a se il rispetto e la riverenza, non pur de' Principi Cattolici, ma eziandio de' pretesi Riformati. Fu tutto inteso ad estirpare gli abusi introdotti nell'ordine Chericale; condannò la rilasciatezza e le perniziose dottrine, che aveano sparse nelle loro opere gli scandalosi Casuisti: ripresse l'insolenza ed audacia de' monaci, e pubblicò nell'anno 1680 una Bolla contro lo sgangherato modo di predicare introdotto da essi, i quali avvezzi alle sofisticherie delle loro scuole, ed ignoranti non men dell'arte dell'eloquenza, che di tutt'altro, erano tutti intenti a vane argutezze di parole, ad antitesi, ad allusioni, a metafore stravolte: ed applicavano anche a quest'uso i luoghi della Scrittura e de' Padri, stravolgendoli, e stiracchiandoli a lor modo. Innocenzio XII come nostro Napoletano amò la quiete del Regno, e si studiava di beneficarlo. Per aver egli tenuta la Sede Arcivescovile di Napoli per molto tempo, erangli noti gli abusi e le corruttele dell'Ordine Ecclesiastico, e sopra tutto l'estorsioni del Tribunal della Nunziatura, e de' suoi Commessarj per lo Regno; ed i crudeli Spogli che si praticavano: tal che commiserando lo stato calamitoso delle nostre Chiese, deliberò rimettere gli Spogli delle Chiese, non comprese nella concordia, in beneficio delle Chiese stesse, con che dovesse impiegarsi tutto ciò che si fosse trovato negli Spogli, in reparazione ed ornamento di quelle, col consenso del futuro Vescovo o Prelato, ed intervento di persona deputata dal Capitolo, siccome stabilì per sua Bolla. E si crede che se i nostri Napoletani avessero insistito a dirittura con questo Pontefice sopra la dimanda, che allora fecero a Carlo II di provvedersi i Beneficj a' Nazionali, in esclusione degli esteri, forse l'avrebbero indotto a contentarsene. Tolse questo zelante Pontefice molti altri abusi introdotti nella Chiesa ed emendò per quanto potè la Corte istessa di Roma. Abolì lo scandalo del nepotismo, e chiamò suoi nepoti i poveri, dando loro per abitazione il Palagio Lateranense, magnificamente ristorato. Tolse ancora la venalità de' Chericati di Camera, ed ordinò, che per l'avvenire le Chiese parrocchiali non fossero aggravate di pensioni. Stabilì una Congregazione a parte sopra la riforma degli Ecclesiastici; ed un'altra per la disciplina de' Regolari; e con sua Bolla diminuì l'autorità de' Cardinali Protettori di Ordini Religiosi. Vietò a' Preti di mettersi al servigio de' laici, moderò il lusso de' loro abiti, proibì agli Ecclesiastici di portar perucca, e diede altri provvedimenti, perchè la rilasciata lor disciplina alquanto si rialzasse.

Ma poco tempo durarono questi buoni regolamenti; poichè appena lui morto, succeduto nel Pontificato Clemente XI, che avea menati tutti i suoi giorni tra i raggiri di quella Corte, ed allevato colle di lei massime, si ritornò a' primieri disordini. Furono con varie e sforzate interpetrazioni, rendute inutili le Costituzioni di quel religioso Pontefice; rinovate le intraprese, e non vi fu Papa, che in un medesimo tempo avesse prese tante brighe con vari Principi, quanto costui. Egli ebbe contese col Duca di Savoja, colla Spagna e coll'Alemagna: tentò d'abolire la Monarchia di Sicilia, ancorchè con inutile successo; ed in fine di non far valere nel nostro Regno i sovrani diritti de' nostri Principi; nè meno le concessioni istesse del suo predecessore fatte al Regno ed alle nostre Chiese.

La Bolla d'Innocenzio, che tolse alla Camera Appostolica gli Spogli delle nostre Chiese vacanti, fu con stiracchiate interpetrazioni renduta vana ed inutile; poichè fu interpetrata di doversi eseguire, quando il Vescovo Prelato muore dentro la sua Diocesi, non già quando fuori di quella venisse a mancare. E quando il Prelato moriva in Diocesi, deludevasi pure la legge, poichè per la condizione in quella apposta di doversi impiegare gli Spogli alle Chiese col condenso del futuro Vescovo o Prelato, si operava in maniera, che niun giovamento ne ricevevano le Chiese; imperocchè venendo li Vescovi e Prelati da Roma così impoveriti da' dispendj sofferti in quella Corte, per le spedizioni delle Bolle, e per altre recognizioni; ciò che trovava d'avanzo, non già si convertiva in reparazione o ornamento delle Chiese, o sovvenimento de' poveri, ma a lor proprio uso e beneficio e per soddisfare i debiti contratti per la lor lunga dimora fatta in Roma; e se mai il Capitolo di ciò si risentiva, il che rade volte accadeva, ciascun temendo di inimicarsi il suo Superiore, tali ricorsi ad altro in fine non servivano, che a consumarsi il rimanente in Roma in lunghi e dispendiosi litigj.

La Bolla di Gregorio intorno all'immunità delle Chiese, ancorchè non ricevuta nel Regno, si proccurava farla valere, anche ne' delitti più enormi, procedendosi a censure contro i ministri del Re, che volevano punire i delinquenti; come cosa nuova era inteso l' Exequatur Regium, e si prendeva con vigore la difesa dell'intraprese e trascorsi de' Vescovi del Regno che turbavano la regal giurisdizione.

Ma intanto essendosi questo Regno avventurosamente restituito sotto il dominio del Nostro Augustissimo Principe CARLO, che teneva allora collocata la sua Sede regia in Barcellona, furono sotto i suoi auspicj non pur ripresse con vigore l'intraprese degli Ecclesiastici, ma più fermamente stabiliti i regali diritti e le prerogative de' suoi sudditi, ed in termini così pressanti e risoluti, che in tutte le precedenti grazie concedute da' nostri Principi Aragonesi ed Austriaci a questa città e Regno, non si legge una cotanto e sì premurosa espressione. Egli con più regali cedole spedite da Barcellona, stabilì fermamente la necessità del Regio Exequatur[102], in tutte le Bolle, Brevi, o altre provvisioni, che vengono da Roma. Escluse gli stranieri da' benefici, e comandò sequestrarsi le rendite di quelli che fossero provvisti a' medesimi[103]. Abolì ogni vestigio d'Inquisizione, comandando, che nelle cause appartenenti alla nostra S. Sede procedessero gli Ordinarj de' luoghi, per via ordinaria, siccome è la pratica negli altri delitti e cause criminali Ecclesiastiche[104]. Ed assunto da poi al Trono Imperiale serbò con tenore costante i medesimi sensi; anzi, a' 6 d'agosto del 1713, alle preghiere della città e Regno non pure fermamente escluse i forastieri da tutte le prelature e beneficj del Regno, comandando che fossero conceduti a' suoi naturali, ma che con pari serietà e vigilanza avrebbe eziandio proccurato di far evitare le frodi degli stranieri, che si commettessero o con riserbe di pensioni, o d'altro contro queste sue regali disposizioni: tal che fra noi si è introdotto stile nel supremo Collateral Consiglio che nel concedersi l' Exequatur Regium alle provvisioni de' beneficj provveduti da Roma a' nazionali, affin d'evitarsi queste frodi, si appone la clausola: Exceptis pensionibus forsan impositis in beneficium exterorum.

Quanto da' nostri maggiori si fosse travagliato, non men presso i Re dell'illustre casa d'Aragona, che Austriaca per ottenere un sì rilevante beneficio, lo mostrano le tante preghiere, che si leggono per ciò date a que' Serenissimi Principi dalla nostra città e Regno, ed a questi tempi sotto il Regno di Carlo II pure nel 1692 dalla Deputazione de' Capitoli si leggono due appuntamenti, fatti nella lor assemblea, di darne nuova memoria al Re, e fu trascelto il dottissimo Avvocato Pietro di Fusco, che ne dettasse la preghiera, siccom'eseguì e fu presentata al Conte di S. Stefano allora Vicerè. Ma un tanto e sì segnalato favore era stato a noi dal Cielo riserbato in quest'ultimi tempi, per doverci esser conceduto da un più Augusto, magnanimo e clementissimo Principe.

Papa Clemente fecene di ciò gran romore, e condannava gli editti del Re, come offensivi dell'Ecclesiastica libertà. Ma per mezzo di tre dotte e nobili Scritture, dettate da Giureconsulti gravissimi, si fece conoscere, che quelli erano conformi, non meno alle leggi e costumanze dell'altre nazioni del Mondo Cattolico, che a' Canoni stabiliti in più Concilj, a più Costituzioni di Sommi Pontefici, alla dottrina de' Padri della Chiesa, ed al comun sentimento de' più gravi e rinomati Teologi e Canonisti.

Furono sotto il Regno del nostro Augustissimo Monarca ed Imperador CARLO VI spezialmente sotto il Governo del Conte Daun nostro Vicerè, ripressi con vigore gli attentati degli Ecclesiastici, le intraprese ed i trascorsi de' Vescovi: sostenute con fortezza le regali preminenze, corretti i Prelati con sequestri delle loro entrate e con chiamate e sovente i contumaci furono discacciati dal Regno usandosi contro d'essi que' rimedj, che non meno le leggi, che l'antico uso del Regno permettono a' nostri Principi. Fu serbata l'immunità delle Chiese secondo il prescritto dei Canoni, non già secondo la Bolla Gregoriana, che in tutte le occasioni non fu fatta valere, il Regio Exequatur fu indispensabilmente e con sommo rigore ed oculatezza ricercato in qualunque provvisione, che venisse da Roma. Furono i Vescovi contenuti ne' loro limiti e tolti molti abusi, che s'erano introdotti nelle loro Diocesi. Le franchigie e l'immunità degli Ecclesiastici furon mantenute secondo il prescritto de' Canoni e delle nostre leggi e riparato alle frodi: tal che fu ridotta la Giustizia e Giurisdizion Ecclesiastica al suo giusto punto, lasciandosi al Sacerdozio quel ch'è di Dio, ed all'Imperio, quel ch'è di Cesare. Nella qual opera non men gloriosa, che a Dio molto grata ed accetta, v'ebbe la maggior parte il zelantissimo nostro Presidente del Sagro Consiglio Gaetano Argento, al quale avendo l'Augustissimo nostro Monarca confidata la difesa della sua Regal Giurisdizione, la sostenne con non disugual dottrina che vigore. Egli che per lo suo profondo sapere ben sapeva distinguere i confini tra 'l Sacerdozio e l'Imperio, impiegò tutta la sua vigilanza, perchè queste due Potenze si contenessero ne' loro limiti e che l'una non intraprendesse sopra l'altra. Egli fu il primo tra noi, che secondo i veri principi tratti da' sagri Canoni, da' Concilj, dalle sentenze de' Padri e da' più profondi e gravi Teologi e Canonisti, maneggiasse con decoro e con somma non men dottrina ch'erudizione, queste contese giurisdizionali, nelle quali in breve tempo divenne consumatissimo, lasciandosi indietro tutti gli altri, che prima di lui aveano sostenuta questa carica. I cotanto presso noi famosi Reggenti Villano, Revertera, de Ponte e tanti altri che si segnalarono nella difesa della Giurisdizion Regale appo lui si dileguano: comparate le loro consulte, con le sue dottissime, ripiene della più scelta erudizione, arricchite di autorità e delle più pellegrine notizie, tratte non men dall'Istoria Ecclesiastica, da' Concilj, da' Padri e da' più eccellenti Canonisti, che dalle nostre memorie ed illustri esempj del nostro Regno istesso, tanto queste sopra quelle s'innalzano, quanto gli alti cipressi sopra gli umili e bassi corbezzoli. Tal che se qualche cosa mancava, perchè questo Regno potesse gareggiare con quello di Francia, dove questi studi sono stati ridotti nell'ultimo punto di perfezione, per lui non abbiamo ora noi, nè anche in ciò, da portargli invidia.

Furono ancora sotto il Regno del nostro Augustissimo Principe moderati gli abusi del Tribunal della Nunziatura di Napoli, e, come altrove fu detto, per questa stessa cagione sospeso il Tribunal della Fabbrica. Informato il nostro Monarca degli Spogli e delle storsioni, che si commettevano in questi Tribunali, in gravissimo danno de' suoi vassalli, con forte risoluzione ordinò nel 1717 che il Nunzio fra 24 ore uscisse dal Regno: pervenne a noi il regal dispaccio nel mese d'ottobre del medesimo anno, che fu tosto mandato in esecuzione: partì il Nunzio, si chiuse il suo Palagio, e fur parimente chiuse le porte al Tribunal della Fabbrica. Ne' 4 di giugno del seguente anno, dimorando il nostro Imperadore a Luxemburg, spedì altro dispaccio, col quale ordinò il sequestro delle rendite delle Chiese e Beneficj vacanti, comandando, che quelle s'impiegassero alla reparazione ed ornamento delle stesse Chiese, ed al sovvenimento dei poveri. Ed al dì 8 ottobre dell'istesso anno 1718 ne spedì un altro diretto al Conte Daun Vicerè, dove se gl'incaricava, che pienamente l'informasse delle storsioni, ed abusi di questi Tribunali, ed il rimedio che poteva darvisi. Il Vicerè eseguì per mezzo del Delegato della Giurisdizione con molta esattezza l'Imperial comando, dandogli pieno ragguaglio degli abusi di questi Tribunali e de' rimedj, che potevan adoperarsi. In tanto Papa Clemente per mezzo del suo Nunzio in Vienna, valendosi ancora dell'intercessione dell'Imperadrice Eleonora madre, proccurò mitigare l'animo del figliuolo: sicchè ridotto l'affare in trattati, gli fu accordato il ritorno del Nunzio, con facoltà però limitate, proccurandosi torre al meglio, che si potessero gli abusi del suo Tribunale. Fece a noi ritorno nel mese di giugno del seguente anno 1719, ma dal nostro Collaterale gli fu impedito l'ingresso nella città per alcune difficoltà, che s'incontravano in dar l' Exequatur al suo Breve: tal che fu duopo aspettare dalla Corte nuovi comandi; ed essendosi in Vienna spianate le difficoltà proposte, vennero nuovi ordini per la sua reintegrazione; onde nella fine di quest'anno 1719 fu introdotto nella città, ed aperto il suo Tribunale, ma quello della Fabbrica rimase chiuso e sospeso, come è al presente.

Cotanto s'ebbe a travagliare nel Pontificato di Clemente XI per sostenere i regali diritti e per sottrarre i sudditi del Re dalle sorprese, e soperchierie degli Ecclesiastici. Ma indi a poco, morto Clemente e succeduto il presente Pontefice Innocenzio XIII, fu tra il Sacerdozio e l'Imperio posta una ben ferma e tranquilla pace, e furono queste due Potenze ridotte in una perfetta armonia e corrispondenza. Imitando costui il gran Pontefice Innocenzio III non men suo predecessore, che dell'istesso suo sangue, ed adempiendo quel che sotto di lui fu stabilito in un Canone dal Concilio Lateranense[105], ha esposti i suoi pacifici e moderati sensi, che siccome e' brama, che i laici non usurpino le ragioni de' Cherici, così vuole, che i Cherici siano contenti di ciò che i Canoni, le Costituzioni Appostoliche e le Consuetudini approvate lor concedono; ma che sotto pretesto della libertà Ecclesiastica non invadano le ragioni de' laici, e stendano la lor giurisdizione con pregiudizio della Regale; affinchè con giusta e ben regolata distribuzione, si dia a Cesare quel ch'è di Cesare, ed a Dio quel ch'è di Dio.

§. I. Monaci e Beni temporali.

I Monaci a questi tempi, se ben caduti dall'opinione, che prima avevano di santità e di dottrina, proseguivan pure a far progressi negli acquisti di beni temporali: le rendite degli acquistati, i nuovi Legati e donazioni, che si facevano alle lor Chiese maggiormente gli provvidero di contanti, sicchè quando mancavano l'eredità, ed i Legati, essi compravano i poderi, e nelle concorrenze, come più offerenti per la copia del danaro accumulato con questi mezzi, non già con sudori e travagli, erano a tutti preferiti. Fu introdotto ancora in quest'ultimi tempi, che non vi era testatore che non lasciasse alle lor Chiese Cappellanie con istabilirvi fondi copiosi e fruttiferi per celebrazione di messe, riponendo il presidio della salvezza della loro anima, non già nello studio di tenerla monda dalla contagione del Secolo, ed a proccurare in vita di sollevar le vedove e gli oppressi; ma in fabbricar Cappelle sontuose, moltiplicare i sagrifizj e far celebrar delle messe in tutti gli altari[106]. E la maraviglia è, che con tutto il lor discredito, e che i secolari ne parlassero con disprezzo, pure essi sono i padroni dello spirito del popolo, non altramente che non si faccian coloro, i quali stando sani, ancorchè disprezzino i Medici, riputandoli inutili alla cura delle malattie, si sottopongono nondimeno poi ad essi con maggior soggezione degli altri, tantosto lor viene ogni piccolo malore.

D. Pietr'Antonio d'Aragona Vicerè favorì i loro acquisti, ed a' suoi tempi, oltre dell'Ospidale di S. Gennaro fuori le mura della città, ebbe compimento e perfezione il famoso Romitorio di Suor Orsola. Gli Scalzi Eremitani di S. Agostino aprirono sotto il Governo del Marchese de Los Velez, una magnifica Chiesa col titolo di S. Nicolò Tolentino. La morte di Gaspare Romer rinomato mercatante fiamengo, arricchì non pur lo Spedale degl'incurabili, ma il Monastero delle donne Monache del Sagramento. Altri Mercatanti forestieri, non avendo a chi lasciare le loro ricchezze, fondarono nuovi Monasteri, invitandovi Monache loro compatriote ad abitarvi. Si aggiunsero ancora l'eccessive doti ed i vitalizj, che si costituiscono nell'entrar che le Monache fanno ne' Monasteri, ai quali dopo la lor morte le doti rimangono e quando ne' primi tempi fu gran contrasto, se il ricever tali doti fosse simonia, poi si ricevettero senza il minimo dubbio. Fu ancora introdotto, che i Monaci istessi si riserbassero grossi vitalizj, ed a questi ultimi tempi tal riserba è penetrata sino a quelli delle Religioni mendicanti, e poco lor resta d'avanzar quest'altro passo nell'entrare a' Monasteri, cioè di farsi costituire anche proprj patrimonj. A questo fine, in quest'ultimi tempi non si sono vedute più riforme d'antiche Religioni, ma novelle Congregazioni di Preti: si sono scacciati i cappucci, e s'amano ora più le berrette, per menar una vita più agiata, senza coro e senza quelle altre soggezioni ed incomodi, che porta seco l'austero e rigido cappuccio.

Per tanti e sì innumerabili fonti sono derivate in noi sì vaste e smisurate ricchezze degli Ecclesiastici, le quali sono un'evidente cagione della nostra miseria. I pubblici pesi si soffrono da' secolari solamente, e si rendono ora assai più insopportabili, perchè passando continuamente i beni, che prima erano in poter dei laici, in mano degli Ecclesiastici, viene a cadere tutto il peso, che prima era ripartito, sopra il rimanente, che resta sotto al dominio de' laici. Si fa conto dai più esperti e da coloro, che sanno lo stato del Regno, che delle tre parti delle rendite, presso che due si trovano nelle mani degli Ecclesiastici, dalle quali non possono mai ritornare in potere de' laici, per le leggi strettissime fatte a lor beneficio, che l'impediscono. Altri comunemente affermano, che se il Regno si dividesse in cinque parti, si troverebbe, che gli Ecclesiastici ne hanno quattro delle cinque; poich'essi hanno del suolo quasi la metà del tutto e sopra il rimanente, per li Legati, ed altri doni consimili ne hanno un'altra e mezza; perchè niun muore, senza che lasci qualche Legato a qualche Chiesa o Convento. Oltre a ciò fra qualche tempo faranno pure acquisto di tutto il rimanente, perchè abbondando di denari raccolti da' Legati e dagli avanzi delle loro amplissime rendite, fanno del continuo compre di stabili. Tal che gli riflessivi Viaggianti forestieri, che stupidi ammirano tante e sì sterminate ricchezze, e fra gli altri il prudente e savio Burnet, presagirono, che se non vi si pone alcun freno, siccome giungeranno a comprarsi l'intera città, così nel termine d'un secolo diverranno gli Ecclesiastici padroni di tutto il Regno.

Conobbero i nostri maggiori un così ruinoso disordine, e proccurarono por freno a sì sterminati acquisti. Quando in nome della città, Baroni e Regno fu mandato il Reggente Ettore Capecelatro al Re Filippo IV fra l'altre grazie, che si chiesero a quel Monarca, una fu perchè provvedesse e dasse freno agli acquisti de' beni, che si facevano dagli Ecclesiastici nel Regno. E non essendovisi per la morte del Re Filippo data alcuna provvidenza, furono replicate le suppliche al suo successore Carlo II; ma da questo Re riputandosi ciò cosa di gran momento, non se n'ottenne altro, che una promessa di volervi poi più pesatamente provvedere[107]. Ma sotto il felicissimo Governo del nostro Augustissimo Monarca, incoraggita la città ed il Regno dalla sua magnanimità e clemenza porsegli nuove preghiere, nelle quali esprimendo le miserie, che si cagionavano per ciò al Regno, il danno, non men del Regal Erario, che de' sudditi; gl'incontrastabili regali diritti, ch'egli avea di poter ciò comandare e gli esempj degli altri Principi religiosissimi, che ne' loro Reami aveano con prudenti leggi ripressi tali acquisti; istantemente lo pregarono, che lo stesso comandasse egli nel Regno di Napoli, in guisa che gli Ecclesiastici per l'avvenire non potessero acquistare beni stabili nè per se stessi, nè per mezzo di altre persone, e che se per avventura per Legato o per altra qualunque via lor pervenissero beni stabili, debbiano quelli vendere e contentarsi del prezzo. Reggendo in quel tempo, per l'assenza del Re da Barcellona, la Regina Elisabetta, questa savissima Principessa, mossa da queste suppliche, degnossi con suo regal dispaccio, spedito in Barcellona a' 19 marzo del 1712[108] premurosamente comandare al Conte Carlo Borromeo allora nostro Vicerè, che inteso il Collateral Consiglio, ed il Tribunal della Regia Camera l'informasse pienamente con suo parere di quanto occorreva sopra la dimanda fatta, affinchè potesse sopra ciò prender quella risoluzione, che stimerà più giusta e conveniente[109]. In esecuzione di questa regal cedola, che esecutoriata dal Regio Collateral Consiglio fu rimessa alla Regia Camera, fu da questo Tribunale, per ciò che si appartiene a lui, fatta la richiesta relazione, e rimane solamente ora, che lo stesso s'esegua dal Consiglio Collaterale: il quale intanto (ciò pendente) a' ricorsi della città, che invigila ad impedire qualunque novità che frattanto si tentasse dagli Ecclesiastici in far nuovi acquisti, suol ordinare, che con effetto si faccia la domandata relazione a S. M. C. e Cattolica, e frattanto che non s'innovi cos'alcuna.

Non vi è da dubitare, che fra tanti e sì segnalati beneficj, de' quali ha il nostro Augustissimo Principe ricolmo questo suo Regno, tal che sotto tanti, che lo dominarono, non fu veduto mai in istato sì florido e vigoroso, quanto ora, che riposa sotto il clementissimo suo Impero, non s'abbia a sì giusta e gloriosa opera da dare il suo fine e compimento. E tanto più dobbiamo noi ora sicuramente sperarlo, quanto che fra gli altri suoi pregiati beneficj, ha voluto a questi ultimi dì concederne un maggiore, di commettere il Governo di questo Regno al savissimo Cardinal Michele Federico d'Althann, nostro Vicerè, il quale emulando la gloria de' più rinomati e saggi suoi predecessori, fa, che alla cara ed onorata memoria, che a noi è rimasa del giusto e savio Governo del Marchese del Carpio, si accoppii anche la sua, e che siccome pari sono le sollecitudini, che e' tiene in governarci, pari le opere e la sapienza, giusto è, che pari ancora sia la sua gloria e l'immortal suo nome.

FINE DEL NONO ED ULTIMO VOLUME.

TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI NEL TOMO NONO

LIBRO TRENTESIMOQUINTO pag. 5

Cap. I. Di D. Ferdinando Ruiz di Castro conte di Lemos; e della congiura ordita in Calabria per opera di F. Tommaso Campanella Domenicano, e di altri Monaci Calabresi del medesimo Ordine 6

Cap. II. Del Governo di D. Giovanni Alfonso Pimentel d'Errera conte di Benavente; e delle contese, ch'ebbe con gli Ecclesiastici per la Bolla di Papa Gregorio XIV, intorno all'immunità delle Chiese 16

Cap. III. Del Governo di D. Pietro Fernandez di Castro Conte di Lemos; e suoi ordinamenti intorno all'Università dei nostri Studi, perchè presso noi le discipline e le lettere fiorissero 27

Cap. IV. Del Governo di D. Pietro Giron Duca d'Ossuna; e delle sue spedizioni fatte nell'Adriatico contro Veneziani ch'ebbero per lui infelicissimo fine 37

Cap. V. Infelice Governo del Cardinal D. Antonio Zapatta. Morte del Re Filippo III, e leggi che ci lasciò 56

LIBRO TRENTESIMOSESTO 63

Cap. I. Di D. Antonio Alvarez di Toledo Duca d'Alba, e del suo infelice e travaglioso governo 64

Cap. II. Del Governo di D. Ferrante Afan di Riviera Duca d'Alcalà 72

Cap. III. Di D. Emmanuele di Gusman conte di Monterey; e degl'innumerabili soccorsi, che si cavarono dal Regno di gente e di denaro in tempo del suo Governo 82

Cap. IV. Del Governo di D. Ramiro Gusman Duca di Medina las Torres; e de' sospetti, che s'ebbero di nuove invasioni tentate da' Franzesi 96

Cap. V. Il Principato di Catalogna si sottrae dall'ubbidienza del Re, e si dà alla Protezione e Dominio Franzese. Il Regno di Portogallo parimente scuote il giogo, ed acclama per Re Giovanni IV Duca di Braganza. Guerre crudeli, che perciò s'accendono per la ricuperazione della Catalogna; per sostegno delle quali, siccome per quella di Castro, bisogna pure dal Regno mandar gente e denaro 104

§. I. Il Regno di Portogallo scuote il giogo, e si sottrae dalla Corona di Spagna 111

Cap. VI. Caduta del Conte Duca, che portò in conseguenza quella del Duca di Medina, il quale cede il Governo all'Ammiraglio di Castiglia suo successore 119

Cap. VII. Del breve Governo di D. Giovanni Alfonso Enriquez Almirante di Castiglia 126

LIBRO TRENTESIMOSETTIMO 133

Cap. I. Del Governo di D. Rodrigo Ponz di Leon Duca d'Arcos; e delle spedizioni, che gli convenne di fare per preservare i Presidj di Toscana dalle invasioni dell'armi di Francia 135

Cap. II. Sollevazioni accadute nel Regno di Napoli, precedute da quelle di Sicilia, ch'ebbero opposti successi: quelle di Sicilia si placano; quelle di Napoli degenerano in aperte ribellioni 142

Cap. III. Venuta di D. Gio. d'Austria figliuolo naturale del Re; che inasprisce maggiormente i sollevati, i quali da tumulti passano a manifesta ribellione. Fa che il Duca d'Arcos gli ceda il Governo del Regno, credendo con ciò sedar le rivolte. Parte il Duca, ma quelle vie più s'accrescono 154

§. I. D. Giovanni d'Austria prende il Governo del Regno 162

Cap. IV. Di D. Innico Velez di Guevara, e Tassis, Conte d'Onnatte, nel cui governo si placarono le sedizioni, e si ridusse il Regno sotto il pristino dominio del Re Filippo 165

Cap. V. Il Conte d'Onnatte restituisce i Presidj di Toscana all'ubbidienza del Re, e rintuzza le frequenti scorrerie de' banditi. Sua partita: monumenti e leggi che ci lasciò 169

Cap. VI. Governo di D. Garzia d'Avellana, ed Haro Conte di Castrillo, nel quale il Duca di Guisa con nuova armata ritenta l'impresa di Napoli, ed entra nel Golfo, ma con infelice successo 176

Cap. VII. Crudel pestilenza miseramente affligge la città ed il Regno: si estingue, ed al Conte vien dato successore 183

LIBRO TRENTESIMOTTAVO 196

Cap. I. Il Conte de Pennaranda manda dal Regno soccorsi per l'impresa di Portogallo: reprime l'insolenza de' banditi; e festeggia la natività del Principe Carlo e le nozze dell'Imperador Leopoldo con Margherita d'Austria figliuola del Re: parte indi dal Regno, essendogli dato successore 201

Cap. II. Governo di D. Pascale Cardinal d'Aragona 204

Cap. III. Morte del Re Filippo II, suo testamento e leggi che ci lasciò 208

Cap. IV. Stato della nostra Giurisprudenza nel Regno di Filippo III e IV, e de' Giureconsulti ed altri Letterati che vi fiorirono 213

§. I. L'Avvocazione in Napoli si vede a questi tempi in maggior splendore e dignità 226

Cap. V. Politia delle nostre Chiese di questi tempi, insino al Regno di Carlo II 236

§. I. Monaci e beni temporali 240

LIBRO TRENTESIMONONO 249

Cap. I. D. Pietro Antonio d'Aragona ributta la pretension del Pontefice promossa per lo Baliato del Regno. Si muove nuova guerra dal Re di Francia col pretesto della successione del Ducato del Brabante con altri Stati della Fiandra, la qual si termina colla pace d'Aquisgrana 250

Cap. II. D. Pietro Antonio d'Aragona soccorre a' bisogni della Sardegna per la morte data a quel Vicerè: perseguita i Banditi nel Regno: riduce a perfezione la numerazione de' fuochi: va in Roma a prestar in nome del Re ubbidienza al nuovo Pontefice: nel suo ritorno gli vien dato il successore: monumenti e leggi che ci lasciò 263

§. I. D. Federico di Toledo Marchese di Villafranca rimane Luogotenente nel Regno, nel tempo che l'Aragona va in Roma a dar l'ubbidienza al nuovo Pontefice 269

Cap. III. Governo di D. Antonio Alvarez Marchese d'Astorga molto travaglioso ed infelice per li disordini, ne' quali trovò il Regno, e molto più per le revoluzioni accadute in Messina 274

§. I. Per le rivolte di Messina si riscuoton dal Regno grossi Sussidj 277

Cap. IV. Il Marchese de Los Velez nuovo Vicerè prosiegue a mandar soccorsi per la riduzione di Messina, la quale finalmente, abbandonata da' Franzesi ritorna sotto l'ubbidienza del Re 294

Cap. V. Il Marchese de los Velez, finita la guerra di Messina, riordina il meglio, che può, il Regno: suoi provvedimenti: sua partita e leggi che ci lasciò 302

LIBRO QUARANTESIMO 315

Cap. I. Del Governo di D. Gaspare de Haro Marchese del Carpio: sue virtù: sua morte e leggi che ci lasciò 316

Cap. II. Governo di D. Francesco Benavides conte di S. Stefano: suoi provvedimenti e leggi che ci lasciò 329

Cap. III. Governo di D. Luigi della Zerda Duca di Medina: sua condotta, ed infelicissimo fine 336

Cap. IV. Morte del Re Carlo II, leggi che ci lasciò; e ciò che a noi avvenne dopo sì grave ed inestimabil perdita 344

Cap. V. Stato della nostra Giurisprudenza, e dell'altre discipline, che fiorirono fra noi nella fine del secolo XVII insino a questi ultimi tempi 368

Cap. VI. Politia Ecclesiastica di questi ultimi tempi 378

§. I. Monaci e beni temporali 387

FINE DELL'INDICE