La presunzione di sapere.
Amico,
Ti lagni tu forse del mio silenzio? Hai ragione, ma eccoti alfine una lettera, anzi una bazzoffia che non finisce mai. Così puoi vedere che, anche in mezzo agli svaghi della villeggiatura, io mi rammento della scambievole promessa di darci contezza delle cose più notabili che ci accadono ora che siamo separati.
Per alcuni giorni è stato nostro ospite un valente professore di Botanica[1], amico intrinseco del babbo. Oltre al desiderio di vederlo, egli venne quassù per erborare[2] nelle vicinanze; ed io lo accompagnai in tutte le sue gite. Ecco perchè fin qui non ho avuto tempo di scriverti.
Ora ti narrerò ciò che m'intravvenne nella prima di queste gite scientifiche.
Ma innanzi è bene che tu sappia che il nostro botanico è uomo d'età avanzata, di aspetto autorevole e di temperamento robusto; ha modi cortesi, disinvolti e gioviali, e tanta modestia con molto sapere, che sebbene egli abbia viaggiato lungo tempo e fatto parecchi lavori di grande utilità per l'avanzamento delle scienze, tuttavia non parla mai di se stesso: e quando entra in discorso di Storia naturale, procede con la medesima cautela di un novizio negli studi. «Per dubitar meno di ciò che asseriamo intorno alla botanica» diceva egli «bisognerebbe studiare ed osservare di continuo senza mai concedere al corpo o alla mente il necessario riposo; tanti sono i progressi che ogni giorno fa questa scienza e le rettificazioni che occorrono nell'ordinamento e nella nomenclatura[3] delle piante, soprattutto ora che molti uomini distinti, in ogni parte del globo, la studiano con ardore e viaggiano dovunque, e moltiplicano miglioramenti e scoperte! Linneo sarà sempre, per così dire, l'Omero della botanica; ma dal tempo in cui fiorì sino ai nostri giorni, si è fatto in essa un così gran numero di variazioni fondamentali, che la sola cognizione degli scritti di quel grand'uomo non potrebbe bastare per istruire un botanico...»
Dipoi rammentati della mia ridicola arroganza scientifica. Tu sai che avendo io scartabellato vari libercoletti dove si parla della vegetazione e della coltivazione dei fiori; che imparando a mente il sistema organico di Linneo dalla prima classe delle Monandrie fino alla ventiquattresima delle Crittogame, e le distribuzioni delle piante in famiglie, in generi, in specie e in varietà; ed ora raccogliendo mostre per comporre l'erbario[4], ora facendo dissezioni[5] e disegni di fiori e di frutti, m'era finalmente dato a credere d'essere poco meno che un altro Linneo, o un Vallisnieri, e o un Micheli od un Savi in erba; e che di questa presunzione m'aveva rimproverato più volte mio padre, senza che mai fosse riuscito di correggermi, stimando io sempre che l'imparare una scienza fosse quasi la stessa cosa che intrattenerci dei nostri fanciulleschi balocchi. «M'è a grado che tu sia preso da tanto amore (soleva dirmi) per questa occupazione utile e dilettevole; ma tu ne meni troppo vanto, e t'immagini d'aver imparato la botanica su quei compendiòli. E' ti potranno somministrare alcune cognizioni elementari, e procacciarti una ricreazione preferibile alle inezie infantili, e non altro. Sfuggi, figliuolo mio, sfuggi il difetto oggimai troppo comune di dare tanto valore alla dottrina acquistata in cotal modo. Gli elementi del sapere sono cosa di molta importanza, ed è difficile esporli bene; e tuttavia non bastano per conoscere a fondo una scienza. È anche vero che quanto più è semplice l'insegnamento, tanto più s'accosta alla esattezza; ma vi vuole anche la modestia; altrimenti la facilità dell'imparare fa sì che le cose gravi passino per inezie, e all'opposto; ovvero la mente crede essersi provvista d'idee, mentre non possiede altro che vane parole.»
Ma queste savie ammonizioni io le credeva fatte per moderare la mia grande inclinazione a quello studio, e non per liberarmi dalla vampa dell'orgoglio.
Preparandoci adunque a visitare i nostri poggi, il professore, che non v'era mai stato, chiese la compagnia di un contadino che fosse pratico dei luoghi e conoscesse a modo dei campagnoli le piante silvestri che vi germogliano. Io, che sfoderando tutto il mio sapere aveva già detto d'aver girato ed erborato più volte nei medesimi poggi, mi tenni offeso di questa ricerca, sebbene non ardissi di manifestarlo. — Come può egli intendersi di botanica un contadino? — pensava tra me: — avrà notizia delle piante ch'egli coltiva, e notizia grossolana e imperfetta; degli studj dei quali dobbiamo occuparci noi e' non ne può saper nulla. — Intanto mio padre mandò con noi un certo Betto, figliuolo del contadino, buon ragazzo, vispo, intelligente, e quasi dell'età mia.
Betto voleva togliere al professore l'impiccio dello scartafaccio da riporvi le piante; ma questi postoselo ad armacollo ne lo ringraziò, dicendo che era solito di portarlo se medesimo. Io non fui tanto discreto; io mi lasciai servire; e la mia cartella era più voluminosa e legata con più eleganza di quella del professore. Inoltre io aveva meco un arnese fatto apposta per tagliare o sradicare le piante, e un grazioso astuccio per fare le dissezioni dei fiori: egli un semplice coltellino e un bastoncello... Insomma, vedendoci insieme, e considerando la mia gravità, avresti detto ch'io tenessi il posto del maestro, e il professore quello del discepolo.
Non istò a descriverti le belle vedute di cui godemmo, nè il diletto di quella gita, nè le piante che furono raccolte dal professore: sarebbe faccenda troppo lunga, e non è questo l'oggetto della mia lettera. Io voglio solamente accennarti come rimanessi scorbacchiato della mia presunzione, e (almeno lo spero) corretto.
Quel ragazzo che a parer mio non doveva essere altro che il nostro somarino, diventò, sto per dire, il nostro oracolo. Il professore interrogava prima me intorno al tempo della fioritura d'una tal pianta, alla qualità del terreno dove germoglia, al nome volgare, ed a varie altre notizie, ma io non sapeva che cosa rispondergli; e allora volgendosi a Betto, questi lo soddisfaceva a puntino di ogni sua richiesta. Io m'affaticava a indicargli or una pianta ora un'altra, già sembratemi cose rare, ma non erano quelle che al professore importasse gran fatto conoscere; io voleva descriverne alcune, ma Betto garbatamente mi correggeva ad ogni parola; mi rimase per ultimo refugio l'astuccio, ed incominciai a contar petali, a tagliare stami e pistilli, a spaccare ovarj[6] e che so io; ma il professore, dopo un'occhiata, diceva parergli che quei fiori appartenessero al tale ordine o alla tale famiglia, e tutto ciò che gli pareva era poi esattamente vero; volli provarmi a proferire i nomi scientifici, e di rado ne azzeccai qualcuno, e spesso il professore dicevami: — Un tempo fu nominata così quella pianta: ora s'è conosciuto che non appartiene alla stessa famiglia, e conviene appellarla così e così... — in conclusione tutta la mia dottrina se n'andò in fumo: e intanto il professore stava attento alle parole di Betto, le notava nel taccuino, e confessò poi che dalla semplice esperienza di quel garzoncello aveva ricavato argomento per utili osservazioni, e sopra tutto per un lavoro che aveva intrapreso intorno alla nomenclatura volgare ed alla fisiologia[7] di parecchie piante. Da me, senza ch'ei lo dicesse, ma pur troppo io stesso me n'ero accorto, da me non aveva ricavato altro che strambottoli e passi inutili.
Tu già ti avvedi che il mio orgoglio fu rintuzzato pel dì delle feste. Tornai a casa tutto sgomento; e chiusomi nella mia cameretta, sotto colore di riposarmi dalla stanchezza di lunga gita, mi posi mestamente a deplorare la mia disgrazia: — Un ragazzo che non sa neanche leggere, soverchiar me che ho raccolto ed esaminato tante piante, che ho libri ed erbari, e stampe ed arnesi, che studio da lungo tempo, e coltivo e disegno fiori? Dunque tutto quello che fin qui ho fatto è inutile! un visibilio di cose che ho imparato, non mi valgono a nulla! Eh via! smettiamo quest'occupazione, leviamoci di torno tutti questi ninnoli! — E con sì bel proposito andai a tavola.
Ogni parola che fu fatta intorno alla nostra gita era puntura al mio amor proprio. Non già che il professore avesse in animo di mortificarmi, chè anzi si contenne da uomo indulgente, non adulò nè biasimò; e parlando di Betto sfuggì qualunque confronto che mi potesse umiliare. Ma io, prima della gita, era già persuaso di dover fare a tavola una bella figura, di dover raccogliere il frutto dei miei sudori... Eccomi tornato con le trombe nel sacco!
Sebbene mostrassi disinvoltura, mio padre conobbe lo stato del mio animo, e il giorno dopo, quasi avesse indovinato anche il proposito ch'io aveva fatto di non impicciarmi più di botanica, chiamatomi a sè, mi disse da solo a solo con affettuose parole:
«Figliuolo mio, vedo bene che tu sei stato poco sodisfatto della tua gita scientifica; ed è avvenuto a te ciò che avviene a tutti coloro i quali credono di aver imparato molte cose con poca fatica. Bada di non incolpare i libri nè gli uomini, e nemmeno te medesimo, se non in quanto la tua immaginazione e la tua vanità abbiano potuto trarti in inganno. Io t'ho ammonito più volte a non credere che un'occupazione ricreativa intorno ad una scienza possa tener luogo di studio fatto di proposito; ma il nome e le parole t'hanno sedotto. Volli compiacerti concedendoti tempo e modi per conoscere i principj di questa parte della Storia naturale, poichè ho avuto sempre più caro di vederti occupato in essa che nei passatempi puerili; e finchè tu voglia essere naturalista per riposarti dagli altri studj, tanto il professore che io confessiamo che tu hai saputo adoperar bene le ore della ricreazione. Ma tu non potevi avere imparato la scienza. Questa presunzione t'ha finalmente nociuto. Lo stesso accaderebbe a qualunque altro giovinetto, e in qualsivoglia ramo del sapere umano. I tuoi studj presenti sono rivolti alle belle lettere italiane e latine; e sai che i maestri sono soddisfatti della tua buona riuscita. Or bene, t'è egli mai caduto in animo di fare sfoggio di sapere letterario con essi? Credi tu che la botanica richieda minori fatiche della letteratura per poter giungere a saperla davvero? Ma non ti sconfortare, nè ti dispiaccia d'essere rimasto umiliato nel paragone con Betto; anzi ciò ti porga occasione a riflettere che un semplice campagnolo, con la comodità d'osservare di continuo le produzioni della natura, conosce molte cose che lo scienziato non può imparare studiando nella sua stanza. Il professore non si vergognava d'apprendere da Betto ciò che avrebbe potuto sapere anche da te, se tu dimorassi, come quel giovine, tutto l'anno in campagna, e udissi di continuo i colloquj dei vecchi agricoltori. Ora dunque noi ti confortiamo a non perdere l'amore per questa occupazione, e ti promettiamo ogni aiuto per renderla più proficua; giacchè moderando la tua presunzione, non puoi ricavarne altro che vantaggio e decoro. E se l'inclinazione per la botanica t'indurrà a coltivarla a preferenza di ogni altra cosa, io non m'opporrò alla tua volontà; ed allora, a suo tempo, e dopo assidui studj, potrai diventare botanico e scienziato.» Ciò detto mi lasciò, ringraziandolo io di così affettuose parole e di così bella promessa, e sentendomi ritornare la quiete nell'animo.
Infatti, dopo questi avvertimenti, il conversare intorno alla Storia naturale col professore e col babbo mi riuscì più dilettevole e più utile che per l'innanzi. Convinto di saper poco, senza che l'orgoglio rintuzzato mi facesse sdegnare con me medesimo, allora acquistai molte cognizioni che prima l'arroganza giovanile m'avrebbe reso più difficili. Allora conobbi che la mente è più lucida quando siamo disposti a confessare di buona voglia la nostra ignoranza, che quando l'amor proprio ci domina tanto da minorare la nostra attenzione, e da farci rimanere offesi delle altrui riprensioni. Il colloquio tornò a cadere sopra Linneo e, fosse caso o accortezza del professore, egli s'intrattenne molto nel descrivere le gravi difficoltà che il sommo naturalista dovè superare, e le fatiche enormi che dovè intraprendere prima di far palese il suo sapere e di trarne profitto per la scienza. Era necessario aver grande ingegno ed infaticabile ardore per ordinare i principj, quei medesimi principj che ad un giovinetto parranno sì facil cosa a imparare; e nello stesso tempo bisognava cercare scrupolosamente l'esattezza della verità, perchè le prime sue dottrine non inducessero gli altri in errore. Un ingegno meno vigoroso si sarebbe perduto d'animo: un naturalista meno diligente avrebbe forse acquistato fama in quel tempo nel quale pochi si volgevano a siffatto studio; ma il suo nome sarebbe rimasto oscuro ai posteri. Quanti studj, quanti viaggi penosi, quante osservazioni ripetute e pazienti prima di poter dire: Io so; — d'arrischiarsi ad ammaestrare gli altri!
Toccando alcune più minute particolarità della vita di Linneo, disse che gli pareva anche d'aver letto che per l'amor della scienza e' si ridusse a vivere sì poveramente, che non potendo comprarsi tante scarpe quante gliene occorrevano pei suoi viaggi, non isdegnava d'accettare in dono quelle già logore dei suoi discepoli, e di ricucirle da se medesimo, rattoppandole talora con la cartapecora dei suoi scartafacci di studio. — La conclusione poi di questi ragionamenti fu che la dottrina, in qualunque scienza, non consiste nelle cognizioni leggiere acquistate a guisa di semplice trastullo, nè in una filastrocca di parole imparate a mente. È vero che in generale ogn'insegnamento, e soprattutto quello così dilettevole della Storia naturale, deve essere agevolato dalla semplicità dei metodi[8]; ma non bisogna immaginarsi di potere imparar bene alcuna cosa senza fatica. Aggiunsero ancora che l'abilità e l'ingegno non hanno mai avuto bisogno di vanagloriose apparenze per riuscire utili e per manifestarsi; e che gli uomini, i quali giovarono più degli altri alla società facendo progredire le scienze con l'ingegno e con la fatica, sdegnarono le superflue agiatezze del vivere; e, sempre modesti, non usarono mai di quelle artifiziose dimostrazioni che paiono fatte per incantare gl'idioti. Allora sì che rivedendo il mio erbario legato con eleganza, il mio astuccio botanico pieno di graziosi strumenti, e ricordandomi d'altro lato delle scarpe rotte accettate dal sommo Linneo, ebbi ad arrossire della mia presuntuosa vanità fanciullesca! — Io studierò la botanica, perchè mi sento sempre inclinato a questa scienza, e perchè le savie parole del professore e di mio padre me ne hanno fatto innamorare più di prima. Essi conoscono questa mia volontà, e a te, mio amico, io non poteva nasconderla; ma serba il segreto, il quale a niun altro sarà palese, finchè non vedrò di poter fare sicuramente buona riuscita in questo studio. — Addio.
II. Fiducia nella Provvidenza.
Il bellissimo cielo che s'apre nel vasto orizzonte di Napoli, la marina infinita, placida e sparsa di navi con le vele biancheggianti, il Vesuvio, che spinge al cielo vortici immensi di fumo, la Baja con ampia e maestosa curva coronata dalle selve d'aranci, i castelli antichi e le torri merlate, le ville magnifiche, le ruine venerande, e il sole splendidissimo che illumina tanta e sì maravigliosa copia d'oggetti, parevano occupare la mente di un giovinetto, che sedeva immobile meditando sopra una rupe lungo la costa di Margellina. Ai piedi aveva una carta, e nella destra la matita.
I suoi sguardi vivaci erano immobilmente rivolti alle rovine della tomba di Virgilio. La faccia aveva pallida e addolorata, la positura come quella di chi è spossato da sfinimento, le vesti logore per miseria. Presso di lui una fanciullina e un bambinello, coperti di pochi stracci, talora si spassavano a coglier fiori, tal'altra si fermavano piegando la testa sopra le spalle a contemplare il fratello: e parevano presi dalla stessa malinconia: e i fiori già colti cadevano loro di mano. Di lì a poco tempo comparve un uomo ben vestito, che passeggiava deliziandosi nella bellezza del luogo. La fanciulla ristette a considerarlo, guardò incerta prima il fratello, poi lui; quindi movendosi risoluta col fratellino per mano, si ridusse a' piedi di quel signore, e in atto supplichevole mostrandogli il bambinello, stese la destra per l'elemosina. «No!» esclamò allora con fuoco il giovinetto alzandosi prestamente, e slanciandosi in mezzo ad essi. «No, Maria, non chiedere l'elemosina!» — «Ma, abbiamo fame, rispose ella con l'accento della disperazione: e tu, ah! tu sei più digiuno di noi!» — «La mamma è malata, gridava piangendo il piccino.» Il signore impietosito poneva la mano in tasca; ma Salvatore, rattenendogli il braccio con dignitosa risolutezza: «Io posso lavorare » gli disse: «finchè sarò vivo io, non chiederemo l'elemosina.» — «Ma quali assegnamenti hai tu oggi che è festa?» gli rispose il signore. Salvatore additando il sepolcro di Virgilio e mostrando la sua matita: «Fra due ore, disse, avrò finito un disegno. Se qualcuno lo comprerà...» — «Lo comprerò io: vediamo intanto cosa tu hai fatto.» Salvatore esclamando: «Che siate benedetto!» corse a raccor la sua carta che conteneva la veduta della tomba di Virgilio abbozzata, e gliela mostrò: «Ma colui che fu degli poeti onore e lume, disse con enfasi il giovinetto, meriterebbe un monumento più splendido e la mano di Raffaello per disegnarlo.» Quel signore intanto esaminava attentamente il disegno, e gli pareva maraviglioso per esser fatto da quel povero ragazzotto. «Finiscilo, finiscilo,» gli disse abbracciandolo con trasporto. «Lo compro io. Eccoti il prezzo» e gli donò tutto il danaro che aveva in tasca. «Domani verrai a portarmelo in via Toledo al numero 24; cerca di Giovanni Lanfranco!» — «Giovanni Lanfranco!» esclama Salvatore; «voi forse quel pittore famoso?...» — «Sì, io son pittore, e tu lo sei forse più di me. Come ti chiami?» — «Salvator Rosa.» — «Scolaro del Francanzano?» — «Per l'appunto.» — «Ne ho visti altri dei tuoi disegni, ma non davano da sperare come questo. O perchè sei caduto in tanta miseria?» — «Mio padre morì, e lasciò nove creature senza campamento. Io mi industrio con questi disegni, perchè ora non ho modo di fare i quadri, e li vendo in piazza per aver pane quando trovo chi li voglia comprare.» — «Ebbene! da qui innanzi non sarai più tanto povero! Non aver paura. Non vi sarà più pericolo che dobbiate andar mendicando. La Provvidenza ha assistito me, ed io posso farti da padre. Va', corri a consolare la tua famiglia.» Salvatore e i bambini gli caddero ai piedi abbracciandolo. Il pianto della riconoscenza impediva le parole. Il pittore si affrettò ad andare subito a levar d'angustia la madre.
Essi a fatica si staccarono dalle sue ginocchia; ma poi balzando dalla gioia volarono in traccia della madre. Lanfranco ristette a guardarli, considerando come i casi della fortuna sogliano travagliare i grandi ingegni sul principio della loro carriera.
E Salvator Rosa fu davvero uno dei grandi ingegni non tanto nella pittura quanto nella poesia. Con l'aiuto generoso del Lanfranco si fece presto noto all'Italia ed al mondo intero, pe' suoi quadri di paese, per le sue satire e pel suo bizzarro ingegno nell'arte comica. Nacque il 1615 nell'ameno villaggio della Renella due miglia distante da Napoli, e morì in Roma il 15 Marzo del 1673. Nella chiesa di S. Maria degli Angioli alle Terme ha il sepolcro ornato di belle statuette di marmo, col ritratto e la seguente iscrizione:
D. O. M. SALVATOREM ROSAM NEAPOLITANUM PICTOREM SUI TEMPORIS NULLI SECUNDUM POETARUM OMNIUM TEMPORUM PRINCIPIBUS PAREM AUGUSTINUS FILIUS HIC MOERENS COMPOSUIT SEXAGENARIO MINOR OBIT ANNO SALUTIS MDCLXXIII IDIBUS MARTII.
Questa iscrizione si crede composta dal celebre Padre Gio. Paolo Oliva. Eccone la traduzione.
A Dio Ottimo Massimo. Salvator Rosa Napoletano, non inferiore ad alcun pittore de' tempi suoi, pari ai primi fra i poeti di tutte le età. Lo pose qui, piangendo, il suo figliuolo Agostino. Morì in età di poco men che sessant'anni, l'anno della salute 1673 agli idi di marzo (il dì 15).
III. La buona e la cattiva compagnia.
Sulla panca degli scolari negligenti fu visto un giorno un giovinetto che per l'innanzi non v'era mai stato. «Enrico sulla pancaccia!» maravigliati sussurravano i condiscepoli sopravvenienti. A molti ne dolse, chè Enrico sempre buono e bravo era stato. Tre soli ne risero, e appunto sedevano sgraziatamente sulla medesima panca: era quello il loro posto dal principio alla fine dell'anno. Enrico sgomentato, a testa bassa, con una mano alla fronte e l'altra sopra la coscia, fissava gli occhi sul libro senza battere palpebra, non decifrava verso per la velatura del pianto. Stato così una mezz'ora immobile si risentì lamentandosi: «Perchè mi fermai io a quella rissa di mercatini? Che ne ricavai dagli urli, dalle bestemmie, dalle busse di quei disgraziati? Stava bene a un ragazzo vedere e sentire tali cose? Avessi potuto entrare di mezzo, a spartirli e farli tornare amici, non dico.... Ma per curiosità, per ispasso.... Oh! se in quel tempo avessi studiato la mia lezione, oggi non sarei venuto a questi ferri. Tutti mi passeranno avanti! E son vicini gli esami! Povero me! che passione!» Intanto egli non capiva la nuova lezione che il maestro spiegava pel giorno dopo. Punto nell'amor proprio, tormentato dai rimorsi di un primo fallo, avvilito dalla vergogna, trascurava il rimedio, e peggiorava il suo stato. «Non ti confondere (gli subornava il negligente matricolato); quaggiù si sta allegri.» — «Da' retta a me (gli rifischiava quell'altra buona lana): Vedi questo filetto[9]? è fuori del tiro del Maestro[10]. Animo! una partitina, e quel che è stato è stato.» Enrico inorridiva, e si turava gli orecchi. «Ancora non è tempo (dissero fra loro i due tentatori); è troppo cùcciolo.»
La lezione finì, gli scolari uscirono a coppia; Enrico se li vide sfilare davanti; e chi lo guardava compassionando, chi gli faceva animo, chi gli diceva: «Torna presto tra noi!»
Uno di essi, l'amico suo sviscerato, Giulio figliuolo d'un fornaio, gli strinse forte la mano, e con volto acceso d'affetto, gli fece capire che era pronto e facile il riparo alla sua disgrazia; che dovea far capitale del suo aiuto; che, per essere un giorno o due confinato laggiù, non avea perduta la stima di lui nè degli altri.
Passati i primi, si mosse anch'egli da ultimo intenerito, confuso e male in gambe. Di passo, rasente il muro, col capo in seno si ridusse a casa per la più corta.
La mamma non v'era: da tre giorni lavorava fuori a giornata. Gli aveva dato la chiave; sapeva di potersi fidare, che sebbene il figliuolo avesse appena dodici anni, mostrava senno per venti. Era una mamma di proposito; vedova e bracciante, ma contenta della sua condizione, confortandosi dell'avere un figlio savio, amoroso e di talento; e si procacciava col lavoro il necessario per campare, e per mantenerlo alle scuole le conveniva misurarsi a puntino, ma sapeva farci entrare ogni cosa; ed Enrico, benchè tutta non conoscesse la sua povertà, pure per naturale moderazione delle voglie, e per virtuosa semplicità di costumi, se ne stava contento di quel vitto e di quel vestito che aveva; teneva in ordine e custodiva bene ogni cosa, e benedicendo l'umile ma provvida e amorosa industria materna, studiava di proposito per arrivar presto a guadagnarsi il pane col suo sapere.
Ma postosi a tavolino, questa volta si ritrovò affatto diverso da quel di prima. Un passo falso, non riparato a tempo, uno scoraggiamento improvviso gli avevano fatto divenire ottusa la mente e duro il cuore. Non ricavava costrutto dai libri, si sconfortava della tardità dell'intelletto, si vergognava di se medesimo. Disperando di riuscire negli studi perdeva quella fidanza nelle proprie forze, quella pronta lucidezza di mente, quella volontà lieta, intrepida e costante che eccita, abbellisce e rende profittevole l'occupazione di un giovinetto. Amareggiato di questa lacrimevole condizione del suo animo, respinse da sè con dispetto i libri, e andò alla finestra per distrarsi con nuovi oggetti dalla passione che tanto lo tribolava. Dopo esservi stato qualche minuto, vide passare quei tre della panca dei negligenti, che spensieratamente sgloriati girellavano abbraccetto; vestiti con eleganza, e con una certa andatura da snoccolati che pareva non avesser mai avuto un pensiero al mondo. «Vedete? (disse egli tra sè) vedete chi se la gode? Essi sono ricchi, vestiti bene, si divertono e non fanno mai il loro dovere alla scuola; ed io per aver mancato una volta, la prima volta, ecco qui m'arrovello senza conclusione, son rovinato senza rimedio.» Se l'amarezza del pensiero non glielo avesse impedito, egli avrebbe pianto: ma invece si morse i labbri con ira, e cacciò le mani per entro a' capelli. In questo frattempo sua madre spuntò dalla cantonata. Veniva via lesta lesta, perchè l'ora del cibo era trascorsa, e temeva che l'indugio pregiudicasse il figliuolo. Quei tre storditi al vedere una femminetta tanto frettolosa, vestita all'antica, che batteva il tacco e faceva sventolare la gonnella, trovarono da riderci sopra e si presero il gusto di attraversarle, ora da una parte ora dall'altra, la via, beffandola con atti e parole da rompicolli. Enrico, acceso di sdegno, era per uscire precipitosamente dalla finestra e scendere nella strada, quando parvegli che la giustizia del cielo facesse le sue parti. Un signore autorevole capitò all'improvviso alle spalle dei temerari, e con un solenne ceffone per ciascuno, li fece fuggire a gambe, scornati e rincorsi a fischiate dai ragazzi delle botteghe. Calmato Enrico da questa inaspettata lezione a quei signorini, corse incontro alla mamma, proferendo invettive contro di loro. «Enrico, diss'ella, carezzandolo dolcemente, non ti curare di certa gente. Che male hann'eglino fatto a me? Avrai visto ancora a chi è toccata la peggio. Pensa a rispettarla tu la tua povera mamma, sebbene vestita da contadina. Mi dispiace per le mamme loro, perchè quando i figliuoli non rispettano quelle degli altri, vuol dire che non hanno mai saputo rispettare la propria. Tu grazie a Dio non rassomigli ad essi; e se io non ho da mostrare i vestiti belli e le gioje, mostro un figliuolo da potermene tenere, che è la gioja più preziosa d'una donna.» Enrico non seppe che cosa si rispondere; chinò la testa, arrossendo di quella lode che allora non meritava; di quella lode che altre volte lo riempiva di giubbilo, e lo moveva a slanciarsi al collo di sua madre; ma in quel momento... in quel momento gli stringeva il cuore lo spasimo del rimorso. Tornò a sedere compunto, fece proposito di cercare ogni modo per ajutarsi, riprese i libri; ma l'animo non gli resse alla prima difficoltà che incontrò. Il pensiero di aver tradito una madre così affettuosa e che riponeva tanta fiducia in lui, la memoria degl'insulti a lei fatti da quelli stessi dei quali in scuola era divenuto compagno nel posto ignominioso, avevano aumentato la sua confusione, e reso più disperato il suo caso.
Di lì a poco tempo il desinare fu all'ordine. Enrico mangiava svogliatamente; la madre lietamente affaccendata, ancora non se n'era accorta. Quand'ebbe ripreso fiato e si fu posta a sedere di faccia a lui: «E oggi» gli disse «che cos'hai tu di bello da raccontarmi de' tuoi studj?» — «Nulla, mamma, nulla.» E tacquero. Poi: «Mi pare che tu non abbia il tuo solito appetito. Cosa vuol dire? Pensi forse a quell'incontro di poco fa? Giuccherello! se te l'ho detto! Io per me non ne fo caso davvero. Non ho nulla che fare con loro. Sono maleducati, saranno ignoranti... Sicuro, non può essere a meno; scommetto che se andassero a scuola, sarebbero in quella panca che tu m'hai raccontato a volte... come si chiama?... la pancaccia, mi pare; sì, la panca dei negligenti, dove tu, benchè non abbia la giubba bella, e la mamma ricca, non sei mai stato, nè mai...» — «No, mamma (esclamò Enrico fremendo), no, mamma, non ne parliamo più!» — «Così è; non amareggiamo questo boccone da poveri braccianti, che non ha astio ad un pranzo, specialmente quando il mio Enrico ha da darmi una buona nuova. Domenica, eh? domenica ragioneremo delle tue cose, perchè tu sai che due paroline teco mi fanno tanto piacere.» In questo mentre un pigionale che scendeva le scale in compagnia d'un altro, diceva forte: «O non sarebbe meglio palesare ogni cosa? Più che s'aspetta, peggio è...» Enrico non intese altro. Queste parole, dette chi sa per qual motivo, ma venute a proposito per lui come una buona ispirazione, lo fecero a un tratto cambiare di colore, e restare immobile a riflettervi. Sua madre s'era alzata. Ritornando a sedere, diceva: «Animo, dunque, da bravo: mangia...» La sua voce lo riscosse dalla riflessione; e la buona donna tutta compresa dall'idea di custodire un buon figliuolo, non sapeva raccapezzarsi perchè egli fosse tanto serio quel giorno, e non le passava neanche per la mente un sospetto che lo potesse offendere. Attribuiva tutto al dispiacere da esso provato nel vederla insultare. «Povero ragazzo! (ella diceva tra sè, sparecchiando) è tanto sensibile, mi vuol tanto bene, che non può soffrire che mi venga torto un capello. Tira da suo padre, buon'anima. I soprusi, e poi da certa gente che non ha altro merito che di avere in tasca qualche soldo più di noi, non li poteva patire: era di sangue caldo.» Sparecchiato ch'ella ebbe, ritornò sollecita al suo lavoro, non pensando neppure per ombra che a lasciar libero Enrico gli potesse venire la tentazione di non studiare, o che so io, da quanto era grande la fiducia ch'ella aveva nella sua saviezza.
Egli ebbe così molto campo a riflettere, a studiare; ma inutilmente. Lacrime, lamenti, disperazioni, propositi vani, e poi daccapo disperazioni. Venne la sera; non aveva concluso nulla. Sul punto di lasciar la mamma per coricarsi, quand'essa lo abbracciò e lo baciò teneramente, gli ribollirono in capo quelle parole: non sarebbe meglio palesare ogni cosa? Ma egli, divenuto pusillanime, sempre scacciò la buona idea che gli attraversava la mente nelle più favorevoli congiunture. Quella notte gli pareva essere sopra un letto di spine; mai eragli intravvenuto di stentar tanto per addormentarsi. Alla fine serrò gli occhi, ma non ebbe altro che sogni stravaganti e paurosi. La mattina si levò che pareva melenso; la madre considerando come fosse tra il sonno, andò al suo lavoro. «Caro piccino!» diceva per via «studia con tanta passione, che anche dormendo vi pensa... Ma gli farà poi male tanto sizio?... M'hanno assicurato di no; a studiar di genio, nessuno patisce; e poi se è bianco e rosso come una rosa! Nelle vacanze che si trova meno occupato, non ha tanto brio, e pare che mi dimagri. Ora vien su proprio sano e robusto...;» e più altre cose, tutta lieta d'un bene che non le era giammai paruto fallace.
Questa volta Enrico, per andare a scuola, aspettò che le ore gli suonassero in casa; a mezza strada si ritrovò senza libro; tornò indietro con fretta; fatti pochi passi, l'idea di entrare degli ultimi a scuola lo spaventò: passare e ripassare fra mezzo alla scolaresca... vedersi tutti gli occhi addosso collocarsi laggiù... no no! sarebbe troppa vergogna. Ma come fare? andarvi senza libro. Corse e arrivò che appunto il maestro apriva la scuola. Tutti gli alunni erano voltati alla porta: entrò l'ultimo non veduto: subito si strisciò nel suo posto. Ma per tre volte parecchi sguardi si volsero a lui, quando un dopo l'altro giunsero sfrontatamente i suoi nuovi compagni di posto, e per tre volte arse di sdegno, raccapriccì di doverli ricevere accanto e dover sentire i loro discorsi inverecondi, i loro dileggi villani. Oh! se non fosse stato in scuola, chi lo teneva dall'abbandonarsi a un eccesso? Eppure in quei momenti si ritrovava per forza congiunto a loro, avea quasi bisogno di loro per rimanere confuso nel numero, per divider con alcuno e alleggerire in parte la vergogna di quella panca.
Già il punto della ripetizione si avvicinava, ognuno s'apriva davanti il libro, e cercava il segno. Enrico non l'ha: se il maestro lo vede, se lo rimanda a casa sdegnato... povero Enrico! povera madre sua!
In quel punto l'amico Giulio, emulo di Enrico, ma generoso, troppo sofferendo nel vederlo così umiliato, pensava: Chi sa come Enrico avrà studiata la nuova lezione! dicerto la saprà meglio di tutti; egli che è tanto bravo a fare le ripetizioni. Se la sorte toccasse a lui!... Tornerebbe subito al suo posto: e io glielo renderei tanto volentieri! Non posso sopportare d'esser cresciuto di grado a scapito d'un amico, sebbene sia stato per colpa sua.... Ma proprio per colpa sua? io non mi so raccapezzare, ancora non lo credo. E cogliendo il momento opportuno palesò una sua idea a un compagno. L'idea piacque, la parola passò di posto; e fino in quaranta si trovarono del medesimo sentimento. Allora Giulio salì alla cattedra e disse alcune parole nell'orecchio al maestro, il quale fece segno di approvazione. Quando egli agitò la scatola, nessuno dei primi e i più diligenti batteva palpebra desiderando che uscisse a sorte il suo numero. Enrico poi a quello strepito spiritò dalla paura, e fece il viso di mille colori. Se tira su il mio numero! pensò egli con terrore. Il numero è fuori, è il 3, appunto quello di Giulio che era passato al suo posto. Enrico si rincorò, ma che! Giulio non si muove: il maestro parla: «Oggi gli scolari delle prime panche hanno lasciato d'accordo la ripetizione ad Enrico, perchè egli possa tornare più presto fra loro. Mi gode l'animo d'annunziare questa riprova di fratellanza tra' miei alunni. Venga Enrico.» Un applauso di tutta la scolaresca tenne dietro a queste parole. Enrico restò come colpito da fulmine. Acciecato dalla paura, non pensando chi gli era accanto, supplichevole chiese il libro a uno dei persecutori di sua madre; questi leggeva un romanzo. L'altro, che lo aveva, ma chiuso, glielo dette con un sorriso maligno, che fece in un tratto rammentare ad Enrico tutto l'avvilimento in che lo gettava quel benefizio. Tremando uscì dalla panca; s'avanzò a passi vacillanti; arrivato presso gli amici, balbettò a capo basso un grazie che appena fu inteso; essi gli fecero animo colle parole e coi gesti; e quando al primo scalino della cattedra inciampò ed ebbe a cadere, Giulio corse a sostenerlo e a dargli di braccio fino accanto al maestro, dicendogli sotto voce: «Coraggio!» Enrico aperse il libro, e cercava il punto: silenzio profondo per tutta la scuola. Egli era solito fare le ripetizioni meglio degli altri; aveva voce sonora, gradevole; si animava ai passi più eloquenti; la ripetizione di quel giorno ne conteneva parecchi; ognuno se l'aspettava bellissima. Ma Enrico non trovando tosto la pagina si sgomentò più che mai; cincischiava...; quaranta libri gli furono sporti dai condiscepoli; non se ne accorse, ma trovò allora la pagina che cercava. La vista gli si era abbagliata; a stento proferì la prima parola; la seconda era scorbiata: la pagina imbrattata tutta di fregacci, di figure sconcie, di parole tradotte in margine; era difficile spiccicarne un senso. Sul primo il suo imbarazzo era stato preso per commozione, per timidezza; il maestro gli fece animo, gli mise in bocca le parole; ma pur vedendo che non andava innanzi, si accorse che Enrico non ne sapea buccicata, e vide quel libro così straziato. Allora toltoglielo di mano, e mostratolo alla scolaresca, esclamò: «La vostra generosità, ragazzi miei, è stata inutile, come vedete. Enrico per ora non merita compatimento. Torni al suo posto; venga il numero 3; non perdiamo più tempo coi negligenti.» Tutti rimasero maravigliati ed afflitti; molti se ne sdegnarono; Enrico si trascinò piangendo laggiù, e cadde a sedere quasi svenuto; non ardiva scolparsi d'un fallo non suo col palesarne un altro suo proprio; il padrone del libro, per viltà si tacque; Giulio obbedì mortificato e confuso.
Per avventura in quel giorno il maestro dovè assentarsi dalla scuola per poco tempo, e aveva chiesto che fosse mandato in suo luogo il Prefetto. Ma invece del Prefetto, comparve, come alcuna volta soleva accadere nell'anno, il Superiore. «Eccomi da voi,» disse egli con lieta faccia, «voglio vedere un po' da vicino i migliori tra gli scolari. Appunto ora che abbiamo gli esami a ridosso, mi preme di conoscere quelli che faranno buona passata.» E si trattenne alquanto ora con l'uno, ora con l'altro lungo le prime panche. «Ora poi ho da darvi una notizia, soggiunse accostandosi un poco verso il fondo: abbiamo deliberato di purgare le scuole dai più negligenti. So che in questa scuola vi sono alcuni scalda-panche,» e ingrossò la voce, «i quali hanno abusato della nostra tolleranza, e pare che se ne tengano del cattivo esempio che danno. Lo dico innanzi, perchè abbiano tempo a ravvedersi, e ad esaminare se torni loro più conto frequentare la scuola uniformandosi agli altri, od essere rimandati alle loro case.» Enrico soffriva, soffriva crudelmente. La vergogna di trovarsi compreso tra quelli sciagurati sotto gli occhi del Superiore; la minaccia autorevole che fulminava anche lui meno reo, ma con tutte le apparenze della colpa; la memoria di sua madre tradita nelle più care speranze; lo scoraggiamento aumentato rendevano sempre più lacrimevole la sua condizione. «Intanto (continuò il Superiore), voglio una memoria di quelli che ho trovato oggi nei primi posti; il segretario della scuola me la faccia: io gli detterò i nomi. Essi poi verranno da me domattina prima d'entrare in scuola, e riceveranno un attestato di diligenza per farne dono ai respettivi genitori il prossimo Capo d'anno.» E andò da se stesso di mano in mano chiedendo il nome agli alunni. Giunto al N. 3, Giulio si alzò francamente, e interrogato rispose: «Enrico...» I fanciulli stupirono, e accompagnarono quel nome con segni di gioia. Ma Enrico non potè contenersi: «Ah! non lo merito (esclamò egli, slanciandosi dal suo posto). Signor Superiore, egli nomina me invece di se stesso, perchè jeri l'altro io era in quel posto, ed oggi sono quaggiù; ma se vi sono, l'ho meritato pur troppo! La mia condotta mi ha reso indegno di un amico e del suo sacrifizio generoso!» — «Enrico, rispose Giulio, io conosco il tuo cuore. E tu non puoi essere tanto colpevole quanto apparisci. La tua disgrazia, forse una sola negligenza, ti ha ridotto costà, ma il resto dipende dal tuo carattere troppo sensibile e troppo timido.» — «Giulio, tu vuoi salvarmi, lo vedo, sì, il tuo affetto, la tua amicizia, mi rendono quella forza che mi è mancata fin qui. Confesserò la mia colpa; il signor Superiore mi giudicherà.» E chiestagli licenza di parlare, palesò la prima cagione della sua sventura, l'avvilimento che glie ne derivò, la irrisolutezza che lo tratteneva, la mancanza di fiducia nella madre, nel maestro, negli amici, in se stesso; ma tacque ogni altro particolare che potesse nuocere ai tre negligenti, e in quanto al libro malconcio si contentò di dire che non era suo, scongiurando il Superiore a non volerne essere informato altrimenti. Questi encomiando affettuosamente l'azione di Giulio, e riprendendo con dolcezza il fallo d'Enrico in quanto avesse mancato per la prima volta al suo dovere, trasse argomento ad ammonire i fanciulli dall'esempio che avevano sott'occhio; e ne ricavò molte riflessioni, opportune a premunirli contri i primi falli, a incoraggirli ad emendarsene, a sapervi rimediare con buoni proponimenti, e concluse con queste parole: «Enrico, dunque non ti scoraggire, poichè non hai ancora perduta la stima dei tuoi condiscepoli, nè la fiducia del maestro; ed hai un amico che ha fatto proposito di salvarti. Studia indefessamente per ricuperare il tuo posto: Giulio ti ajuterà. Dopo scuola resterai mezz'ora con lui per quanti giorni ci vorranno a rimetterti in pari con gli altri. Scriverò io stesso ai vostri genitori perchè ve ne diano il permesso. Intanto esci, Enrico da codesto luogo funesto; sederai per ora al tavolino del segretario. Non è giusta che chi ha confessato il suo fallo e se ne è pentito, seguiti a occupare un luogo svergognato. Così possa ognuno di voi averlo sempre in orrore, e sappia liberarsene chi ha avuto la disgrazia d'esservi stato da lungo tempo. Il ravvedimento, benchè tardo, è sempre utile a qualche cosa. E voi tutti, o fanciulli, rammentatevi che il sapere senza la virtù non val nulla, e che la nobile emulazione deve essere sempre accompagnata da generosa amicizia.» Uno scoppio di evviva tenne dietro a questo discorso. I due amici si abbracciarono, e piansero di tenerezza e di giubbilo. Enrico dopo tre giorni ritornò al suo posto, e lo abbandonò solamente per seguir Giulio, quando questi per i suoi meriti diventò il primo della sua parte. Dopo una settimana la panca dei negligenti era vuota. Due di essi si convertirono; chiesero ajuto; lo ebbero dal maestro, e da tutti i condiscepoli, e specialmente da Enrico e da Giulio. Il terzo, benchè sfrontato, non potè più a lungo soffrire la vergogna di vedervisi solo; ma invece di ravvedersi, preferì di abbandonare la scuola. Il suo cuore era ormai troppo corrotto. Infelice lui, se nelle altre vicende della sua vita si sarà lasciato vincere dalla medesima difficoltà a liberarsi dal male!
Ma non ci funestiamo ora con così tristo pensiero. Torniamo piuttosto al nostro Enrico. Vediamolo in quella domenica, nella quale aveva promesso alla mamma di parlare dei suoi studj. Eccolo a confessare il suo errore, a descrivere i patimenti sofferti per nasconderlo a una madre tanto amorosa, i rimorsi, gli scoraggimenti; a dipingerle con l'energia della riconoscenza la bella azione di Giulio: essa a perdonare al suo Enrico con tutta l'espansione degli affetti materni; a benedire il Cielo che nella sua povera vedovanza le accordava un figliuolo di sì amorevoli e teneri e delicati sentimenti, e faceva dono al figliuolo di un amico sì virtuoso; a piangere di consolazione, e giubbilare delle più liete speranze.... Ma questi sono momenti ed affetti di maravigliosa dolcezza. Non v'è lingua, non v'è parola che valga a narrarli. Chi ha intelletto aggiustato, chi è figliuolo amoroso, chi è padre, li sente, li concepisce e ne gode.
IV. La buona figliuola.
Nello scartabellare certi manoscritti di un mio parente, parroco di campagna, defunto non è gran tempo, m'imbattei nel seguente ricordo: «In nome di Dio amen. Essendomi già posto in animo di registrare le cose più notabili ch'io m'imbattessi a vedere o udire nella mia parrocchia, m'è parso che le seguenti fossero degne d'essere date alla memoria dei miei successori, e intendo che ciò sia fatto solamente a testimonio delle virtù che più spesso vedonsi esercitate dai poveri, ed a conforto dei buoni.
« — Nell'anno del Signore 1823, poco tempo dopo il principio del mio ministero in questo popolo, fui chiamato ad assistere uno scalpellino, colpito d'apoplessia ed in pericolo di morire. Trovai la famiglia, com'è naturale, nella massima desolazione: inoltre la moglie dell'infermo era malaticcia; due delle sue quattro figliuole pativano d'asma, ed una era allettata e già spedita per tisica; ed il figliuolo maschio, gracile di membra e ottuso d'intelletto, non poteva dare alcuno ajuto agli altri, nè sovvenire alla mancanza del padre. Un pianto disperato era intorno al letto dell'infermo, e per tutta la povera casa era pianto.
Io sebbene avvezzo a vedere più da vicino le umane tribolazioni, tuttavia non aveva trovato mai tanto giusto dolore da compiangere, tante avversità piombate sopra una sola famiglia, tanto pericolo di rovina con sì poca speranza di scampo.
Non ostante la Provvidenza, che talora si manifesta con ajuti più straordinari laddove il bisogno è maggiore, aveva dato alla Luisa, la sola che fosse cresciuta sana e robusta tra le quattro sorelle, un'anima capace di resistere alle percosse della sventura, e tante soavità di modi da confortare gli altri nelle afflizioni. Io la vidi, benchè fosse ancor giovinetta, infondere coraggio nella sbigottita famiglia; assistere tutti con senno, con istancabile attività, con amore; e trovar solleciti espedienti e ripari contro la loro indigenza.
Anche prima di questa occasione, per quello che io estimassi, la mi parve sempre una buona figliuola; religiosa e non pinzochera; onesta sì che ogni sua parola, ogni suo atto spiravano candore; casalinga, lavoratrice indefessa ed abile nel suo mestiere (che è quello di far la treccia)... Ma allora, ho! allora dovei proprio persuadermi che poche sapessero come lei osservare i filiali doveri, senza lagnarsi giammai delle fatiche e delle privazioni continue, e senza darsi aria di fare tutto quel bene ch'ella faceva. E non poco mi maravigliai nel trovare improvvisamente in una casa di poveri artigiani, quasi direi l'abbondanza di quelle cose che abbisognano ad un malato grave pel suo custodimento e per la cura e per la convalescenza. Nonostante, vedendo che la malattia andava in lungo, e dubitando che alla fine dovesse mancare la possibilità di così accurata assistenza, chiamai un giorno la Luisa in disparte e le offersi quell'ajuto che per me si poteva. «Le ne rendo merito» mi rispose con tenera gratitudine, «ma per ora Dio provvede.» Non molto dopo il malato era fuori d'ogni pericolo; in due mesi ne uscì quasi guarito ed il medico stesso asserì che al buon esito della cura aveva giovato moltissimo la grande assistenza della figliuola. E questo era naturale. Ma come avevano fatto a reggere a tante spese? Poi lo vedremo.
Intanto quella guarigione fu un ristoro per la famiglia; ma non perciò finirono le fatiche della Luisa. V'era quella povera fanciullina della sorella minore, che peggiorava, che andava in consunzione. Non so se per incaute parole dettele da qualcuno, o per naturale presentimento, ella pensava già che il suo male fosse senza rimedio; e fermatasi in questa idea, se ne stava per ore ed ore tacita e mesta, forse investigando perchè avesse dovuto nascere per morire così sul fiore degli anni, e senza aver goduto neanche uno dei pochi piaceri di questa vita. Ma la Luisa con ogni maniera d'attenzioni e di conforti, si studiava di toglierla alla dolorosa meditazione; ed in fatti la poverina al solo vedere la sorella, anzi al solo udirne la voce, si riconsolava tutta; un sorriso le sfiorava le labbra; e levando la faccia, apriva due occhi neri neri ad affissare con tenerezza il suo sostegno, il suo rifugio.
Intanto avevano bisogno della Luisa anche le due sorelle asmatiche, e la madre sempre infermiccia. Nientedimeno ella sapeva riparare a tutti, e trovava inclusive i suoi ritagli di tempo, o di giorno o di notte, per lavorare. Ma quel poco di guadagno non poteva essere sufficiente a tanti bisogni. Mi provai di nuovo ad offerirle aiuti, e mi rispose come la prima volta.
Il padre, dopo la convalescenza, tornò al mestiere; e solamente allora seppi da lui che la Luisa, per la cura e pel mantenimento della famiglia, aveva dato fondo ad un capitaluccio raccapezzato per l'innanzi a forza di lavoro, e destinato a comperarsi il vezzo di perle. Anche questo m'è parso dover notare a conforto dei buoni....
La Luisa non è bella; ma nella sua prima gioventù, con cera di sanità e con vigorosa floridezza, aveva una di quelle fisonomie che piacciono, e che ispirano onesto affetto. Laonde quantunque non uscisse mai di casa, e le sue virtù fossero occulte per modestia, nonostante, e perchè tutto il paese incominciava ad amarla ed a stimarla, e perchè il padre se ne teneva co' suoi amici, accadde allora che a lei povera e di bassi natali, parecchi giovani benestanti offerissero la mano di sposo. Ma lei ringraziando con buona maniera, diceva: «Non mi dà l'animo di lasciare il babbo e la mamma;... le mie sorelle non hanno salute.... Io sola, in casa mia sono sana... posso far poco, ma pure, a un bisogno, voglio esser libera d'assisterli.» — «Ma trovandomi a godere di una certa agiatezza» le dicevano «potrete meglio soccorrere la famiglia.» — «Oh!» rispondeva «io spero che la Provvidenza non mi abbandonerà mai, come non mi ha abbandonato finora.»
Dopo alcun tempo la sorella minore si ridusse agli estremi. Sebbene la sua agonia fosse breve, pure essendo rimasta sempre in cognizione pativa molto; ma l'amorosa pietà della Luisa la dispose a morire rassegnata e contenta; e spirandole nelle braccia, pareva un angelo venuto per poco sulla terra a provare le nostre tribolazioni ed a sperimentare la bontà della Luisa.
La prima separazione che la morte cagiona in una famiglia è sempre più dolorosa. Gli occhi non ancora avvezzi a vedere spenta la vita sul caro volto s'empiono di lacrime più dirotte. Se ne risentì molto la salute vacillante della madre e delle due sorelle malate, ma la Luisa, sebbene non ne provasse minore affanno degli altri, pur seppe mitigare la loro afflizione, e far sì che la memoria della Maria che aveva finito di patire più presto, fosse argomento di religiosa consolazione.
Dopo ciò la Luisa fu chiesta per fattoressa in una buona tenuta della nostra Comunità. Sulle prime ricusò, stando ferma nel proposito di non abbandonare la famiglia. Ma in quel tempo le tribolazioni parevano diminuite, e il luogo dove avrebbe dovuto andare era vicino da poter presto accorrere a' suoi.... Indottavi insomma, più che altro, per obbedienza, entrò nella fattoria; ma per modo di prova, e con la condizione di poterne uscire a suo piacimento.
Non passarono infatti cinque o sei mesi, che avuto sentore d'un peggioramento della sorella Anna, e di qualche accenno di ricaduta del padre, chiese ed ottenne licenza di tornare in famiglia; e tosto, con nuovo vigore, alle interrotte faccende, ad assistere, a fare animo a tutti, senza più discorrere di lasciarli.... L'ho vista io più contenta in mezzo a quei poverini, per l'amore dei quali non si concedeva riposo, e più soddisfatta della frugalità casalinga, di quello che fosse invaghita dell'agiatezza e dell'abbondanza d'una fattoria. Anzi si rammaricava d'essersi ritrovata a vivere lautamente quando i suoi quasi stentavano il necessario. Ma alfine il suo lavoro indefesso, il guadagno del padre, e quel po' di pane che dava il fratello tornarono a farli campucchiare; e qualche piccolo ajuto usciva anche dalle mani della madre e delle sorelle; benché l'Anna cominciasse a tribolare di più, a motivo della sua complessione. Era di bassa statura, gobba, e di petto soverchiamente ristretto; il respirare, il parlare, quando più quando meno, le riuscivano penosi; ed il muoversi con tutta la persona spesso le costava molto spasimo.
Quand'ecco sopraggiungere al fratello la volontà d'ammogliarsi, nè valere consigli o esortazioni a dissuadernelo. Incapace di misurare le proprie forze, credendosi provveduto assai perchè suo padre possedeva una cava di pietre, s'imbattè in una sconsigliata fanciulla, e il parentado fu fatto.
Benché l'ajuto di questo fratello fosse stato sempre debole, nondimeno la sua mancanza volle dire qualche cosa per loro che dovevano fare a miccino di tutto. Eppure la Luisa seppe rimediarvi, aumentando il risparmio dove poteva, senza far mancare il necessario a nessuno; e sottoponendo solamente se stessa a privazioni e fatiche che nemmeno un uomo avrebbe potuto sostenere.
Intanto un altro colpo d'apoplessia minacciò daccapo i giorni del padre. Mancava allora il denaro tenuto in serbo dall'angiolo tutelare della famiglia, il fratello stentava a tirarsi innanzi con la moglie e due infelici creaturine... Oh! ma non era venuto meno l'animo della Luisa, che secondo il solito assistè il padre, provvide la famiglia sua, ajutò quella del fratello, e infondeva coraggio e rassegnazione in ciascuno. È vero che fu necessario vendere la cava di pietre per trarne denaro subito quanto occorresse al bisogno; ma anche questa volta ebbero la consolazione di veder guarire il capo di casa.
La povera Anna era quella che incominciava a dar da pensare di più; mentre che la Caterina, che è la maggiore, si sosteneva assai debolmente. Qui mi converrebbe narrare come la Luisa per più anni continuasse ad assistere sempre da sè sola e senza stancarsi mai, le sorelle, la madre, il padre di quando in quando soggetto a ricadute più o meno leggiere; come abbia sempre saputo con ajuti e consigli sottrarre il fratello dalle angustie della miseria; e con quanta industria trovasse anche il tempo di lavorare, conservando la sua presenza di spirito e di serenità di mente e di volto: ma questo che è tuttavia suo abito giornaliero, vorrebbe troppo lungo e troppo minuto discorso. Laonde, senza paura d'offendere la sua modestia, parlando cose già note al paese, dirò quello che più di straordinario m'è occorso vederle fare e patire, e che mi sembra più meritorio di quanto ho registrato finora.
Solamente al ricordarmi del travagliato corpo dell'Anna e delle sue tribolazioni di tanti anni il dolore mi vince sì che ne piango. Ormai nè arte nè scienza valevano; e dopo molti e inutili tentativi, la poverina rimase affatto raccomandata alla pietà della sorella. Ed essa, a non staccarsi più dal suo letticciuolo, a pensare, e provare espedienti per sollevarle il corpo infermo e lo spirito abbattuto. «Ecco qui,» diceva talvolta la malata rammaricandosi con un gemito che straziava il cuore, «pur troppo avrò peccati da scontare; ma se Iddio non ha compassione di me, alla fine perderò la pazienza...... morirò disperata.» E mescolava con isforzo doloroso i singulti all'affanno. «No, amor mio,» le rispondeva soavemente la Luisa, «non ti posso dire che tu abbia ragione a disperarti così, perchè tu sai che tutti dobbiamo soffrire... — Oh! non parlar più di disperazione; seguita ad aver pazienza... Quanto più soffrirai quaggiù, ma con santa rassegnazione, tanto più sarai felice nel cielo.» E l'affettuosa dolcezza delle parole e dei modi la racchetavano. Ma essa arrivò a far di più: dopo aver provato e riprovato ingegnosi espedienti per mitigare gli affannosi spasimi dell'asma, le riuscì d'ajutarla a rifiatare con meno difficoltà, comprimendola con un moto blando e uniforme sotto i polmoni; ed allora, specialmente di notte, continuava quelle pressioni anche per più ore di seguito, fintantoché l'inferma non giungesse ad ottenere un po' di sonno. Nonostante, il male andava per indole sua peggiorando ogni giorno, e la ridusse al punto di non si poter nutricare con altro che con pochi sorsi di liquido, e di non poter chiudere occhio nemmeno con l'ajuto delle pressioni. Il digiuno, l'inedia, lo sfinimento e poi la certezza di una morte sempre vicina ma sempre invano desiderata, la prostravano tanto che talvolta, uscita fuori di se medesima, sarebbe divenuta insopportabile a qualunque altra infermiera meno amorosa della Luisa. E in lei pareva anzi che il vigore crescesse, deliberata a non darsi per vinta, a non cedere ad altri quel penoso e difficile ufficio.
Già da lungo tempo si studiava la Luisa di procacciare alla paziente su quel suo letto di spine una positura più adattata alla mala conformazione delle membra; ma non bastando più nè guanciali nè altro, era impossibile tenerla cinque minuti a giacere nello stesso modo, ed ogni tramutare di capezzale o di materassa era cagione di nuovi tormenti. Una notte che l'Anna tribolava più del solito, venne fatto alla Luisa di sdraiarsi un poco sulla sponda del suo letto, piuttosto per meglio spiarne il respiro, che per cercarvi riposo. Lo scheletro della sorella s'appuntellava al suo corpo: «Fatti più in qua» sussurrò l'inferma: «appoggiandomi a te mi sento riavere:» e la Luisa subito le si accosta; tanto che l'una piegandosi un altro poco, e l'altra secondando tutti i suoi moti, alla fine accadde che l'Anna si ritrovò a giacere attraverso il corpo della Luisa; e siccome vi si sentì meglio collocata che in qualunque altro modo, così potè prendere un po' di sonno dopo tante notti vegliate nel dolore. «Sia ringraziato Dio!» diceva tra sè la Luisa, soffrendo, ma tutta contenta che almeno il suo corpo fosse capace di porgere alla sorella quel refrigerio che ormai non pareva più ottenibile per altra via. Intanto le acute vertebre della spina contorta le maculavano il petto; ma lei, intrepida a sopportare l'oppressura, il disagio, le trafitte. Se l'Anna svegliandosi aveva bisogno di mutar positura, la Luisa ne provava un'altra, e poi, qualunque si fosse lo scorcio, in quello durava. Potendo inoltre rimaner libera con le braccia non ismetteva di lavorare!... e così fece per quaranta notti di seguito!.. Quasi non credetti a me stesso la prima volta che vidi... Ma pur lo vidi e lo noto a conforto dei buoni.
La quarantesima di quelle notti angosciose per tutti, fu l'ultima per l'Anna. «Dio te ne renda merito» disse ella quando fu in agonia. «Addio, Luisa; tu hai patito tanto per me!... Dio te ne renda merito...» E poi guardando il Cielo spirò. La Luisa non potè staccarsi da quel cadavere, nè cessare di bagnarlo con le sue lacrime, se non quando le convenne farsi consolatrice degli altri.
Due sere dopo io rasentava il muro del Camposanto. Al lume della luna vidi una donna a sedere a piè del cancello. M'accostai, e conobbi che era la Luisa. «Che fai tu in questo luogo, a quest'ora?» le dissi. Ed ella, senza poter parlare, mi accennò la fossa dove la sorella era stata sepolta. Aveva un viso pallido pallido: le presi la mano; era gelata: la confortai a darsi pace, a pensare che la morte era stata vita per quella sventurata; ed ella: «Sì, lo so» mi rispose, «ma dopo essere stata insieme per tanto tempo, dopo averla vista patire in quel modo, non mi riesce di sopportare il dolore di questa separazione. Ho bisogno di sfogo, e son venuta qui.» — «Ma ora basta» soggiunsi alzandola di terra; «consolati, chè la tua sorella sarà già in paradiso a ricevere il guiderdone dei suoi patimenti; su via, ritorna a casa.» Allora mi accorsi che ella tremava, che il polso era febbrile; e dubitai della sua salute, e bisognò che la sostenessi per tutta la strada. «No» mi diceva con ansietà, «per amor del Cielo stia zitto; non è vero, io non ho male; non dica nulla in casa mia...» Il tremito cresceva, ed i passi erano sempre più vacillanti; tuttavia continuò a raccomandarmi il silenzio; poi le sue parole cominciarono ad essere mal connesse; e finalmente conobbi che delirava. La forza dell'animo aveva dovuto cedere alla fragilità del corpo; i lunghi strapazzi l'avevano finalmente infermata. Ricondottala a fatica in seno della famiglia, che già era sgomenta per l'insolita assenza; e cercando di mitigare il disperato dolore dei genitori quando la videro in quello stato, mandai tosto pel medico. Il pericolo infatti era grave; si trattava di un malacuto. Espedienti pronti, efficaci, furono subito messi in opera. Quei poveretti, malazzati anch'essi, in specie la Caterina, e impauriti di rimanere senza l'aiuto della Luisa, essa sola capace di provvedere a tutto, le stavano attorno pieni di smarrimento, come naufraghi che si veggono involare dalle onde furiose la sola tavola su cui sperassero scampo. Ma la Luisa, appena passato il delirio e riavuta un poco dai primi assalti del male, sorridendo diceva: «Non ho bisogno d'altro che di riposo: trappoco non è più nulla; mi sentirò bene, vedrete. Mi dispiace che non stiate bene voi, e che abbiate dovuto rimescolarvi per me. Ora il peggio è passato.» Poi si chiamava accanto la Caterina; le rammentava tutte le cure da usare per sè e per sua madre; ed ogni suo pensiero, benchè inchiodata nel letto, era per loro. Appena sentì di star meglio avrebbe voluto levarsi, e mettersi a trafficare per casa. Dovemmo insieme col medico raccomandarci molto perchè indugiasse e riflettesse che una ricaduta poteva riuscire più che mai pericolosa per lei e per la famiglia.
Erano cinque o sei giorni ch'io non la vedeva, quando una mattina, chiamato per assistere un povero orfanello moribondo, ci trovo la Luisa, venuta in ajuto della vecchia zia del fanciullo. «Luisa mia» le dissi: «mi consolo di vederti levata; ma non vorrei che fosse troppo rischio mettersi così subito a faticare.» — «Ma io sto bene» rispose con tutto il suo spirito. «Oh! la non creda che fosse un male serio: io aveva bisogno di riposo, e tutti lesti. Che vuol ella? la povera zia qui la fa quel che può; ma è sola, e tanto vecchia....» — «Bene via; ma ora basta. Ritorna a casa, e riguardati. Ora ci sto io.» — «Sì signore;» e obbedì, lasciando un bacio a quella creatura per la quale ormai ogni umana assistenza era inutile. Nell'accomiatarla la condussi in disparte sull'uscio, e le ripetei l'offerta di qualche soccorso, che dopo tante disgrazie io credeva più opportuno di prima; ed ella, secondo il solito: «La ringrazio di tutto cuore» rispose; «per ora la Provvidenza non manca; quando posso lavorare non ho paura. Queste» accennando la vecchierella «queste hanno bisogno di lei. Pensi a loro, e Dio le ne renda merito...»
La famiglia della Luisa non istette molto senza nuove calamità. Le intravenne anzi la maggiore di tutte; imperocchè il padre percosso fieramente da un altro colpo apoplettico, e già vecchio, non potè sostenerne la violenza; nè per quanto la Luisa si adoperasse, le fu possibile di salvarlo. In poco tempo dovè soccombere, e la desolazione di quelle sventurate fu estrema. Questa volta poi vidi la Luisa non malata (almeno lo seppe nascondere), ma quasi vinta dall'afflizione. È vero che lo strapazzo era stato più breve, perchè il padre morì quasi all'improvviso; ma gli affetti in un'anima come la sua hanno tanta forza, che ad ogni ora io temeva di vederla soggiacere alla nuova disgrazia.
Tuttavia in presenza della madre e della sorella, quanto lei desolate, sapeva reprimersi e confortarle anzi con tanta efficacia, che le poverette un poco si riebbero. «È vero, ci resti tu, ed è molto,» diceva la madre; «ma tu, povera Luisa, tu, che potresti farti uno stato e campar meglio, ti dovrai tu sempre arrapinare per noi?» — «No, che non potrei star meglio, se fossi fuori di casa; non lo dite davvero! Dio mi dà la salute per assistervi e per lavorare. Non desidero altro. Basta che non vi sgomentiate voialtre. Rassegnamoci ai voleri del Cielo, e andiamo avanti.»
E quello che prometteva lo ha sempre mantenuto. Sono già cinque anni che suo padre è morto; la vedova è stata sempre malaticcia; ed ora la vecchiaia la fa peggiorare un giorno più dell'altro: la Caterina è affatto inferma, e sono ventotto anni che la sorella la tien viva a forza d'assistenza. La sua complessione pare meno debole di quella dell'Anna: ma la difficoltà del respiro va sempre crescendo, a segno che spesso ha bisogno dell'alito della Luisa per rianimarlo, quasi essa gl'infonda parte della sua vita!... Quel poco di bene che avevano è consumato da lungo tempo; le fatiche della buona figliuola ed il suo coraggio sono il solo patrimonio delle meschine. E il fratello che stenta tanto a campare la sua famiglia? se non fosse la Luisa e' sarebbe ridotto ad accattare: non avrebbe un tetto da ricoverarsi, ma e' l'ha perchè, al bisogno, la sorella, sebbene di nascosto a lui, va dal padrone di casa: «Ecco,» gli dice, «il mio fratello, poverino, forse non potrà pagare la pigione questa volta. L'abbia pazienza, non lo mandi via; intanto prenda questi po' di soldi in acconto.... non gli dica nulla....» E quei danari sono frutto del suo sudore, raccapezzati a forza di lunghe veglie, di lavoro accanto al letto della sorella o della madre, o riscossi per assistenze che va a fare in casa d'altri, quando è sicura che la madre o la sorella non abbiano bisogno di lei. Ma per queste assistenze, per le quali è abilissima (e chi può esserlo più di lei?) non accetta già ricompensa da tutti. Ai poveri, anche non chiesta, quando può si offre da se medesima e poi non vuol nulla. «Ci vorrebbe la Luisa,» dicono essi, «ma come si fa? no' siamo poveri, e lei non vorrà esser pagata; oh non conviene poi abusare della sua carità...» Non sarà finito questo discorso, che la Luisa è lì. «Come va ella?» dice tutta serena: «animo! non vi scoraggite. Confidiamoci in Dio e poi sia fatta la sua volontà. Se volete che io vi dia un po' d'aiuto, eccomi qui.» Figuratevi, a quella povera gente non par vero, se non ch'altro, di vederla per casa. Ne pigliano subito buon augurio; il malato se ne consola tanto, che gli pare già di star meglio. Il medico stesso l'ha caro; perchè la Luisa non è una di quelle donnicciuole che trovano da dire sulle ordinazioni di un medico savio, che si vantano di conoscere rimedi segreti, che prestano più fede alle imposture dei ciarlatani che ai consigli delle persone istruite... Ella raccomanda fiducia e obbedienza al medico, una volta che sia inevitabile di ricorrere a lui. Sa che spesso il buon esito di una cura dipende in gran parte dall'assistenza continua, dalla tranquillità dell'animo del malato, dalla pulitezza scrupolosa intorno a lui, dalla scelta e dalla parsimonia dei cibi. Questo principalmente ho voluto notare, per avvertimento di coloro tra' miei popolani, che a chiusi occhi danno retta ai rimedi delle donnicciuole e dei ciarlatani, che se dopo l'uso di essi rimedj vedono sparire i segni d'una malattia rientrata in dentro, credono al miracolo, ed hanno l'ardire di supporre la mano di Dio nelle opere dell'impostura o della superstizione.
Sento che mi rimangono pochi giorni di vita, aggiunge il buon parroco in una postilla al suo manoscritto (e lo mostra il carattere che par fatto con mano paralitica): ma io muoio contento, perchè lascio tra' miei popolani questo esempio continuo di virtù, il quale vedo che non è senza frutto. Sì, la Luisa è viva e verde: prosegue ad esercitare la sua carità veramente fiorita, e m'imbatto in molti che stimandola e amandola si sforzano d'imitarla; in alcuni, che sebbene traviati, s'inteneriscono ed hanno speranza di ravvedersi all'aspetto del bene che ella fa ai loro parenti e a loro stessi, quando sono travagliati dalle conseguenze di qualche stravizio. Perocchè la sua è quella virtù vera, umile e tollerante, che non isdegna nessuno, non presume di sè, e pare, come dovrebbe essere, facile ad imitarsi. L'ho rivista oggi accanto al letto d'una povera malata. Lavorava, e intanto assisteva l'inferma, e insegnava far la treccia ad una sua nipotina. Le ho domandato come se la passava. Mi ha risposto secondo il solito, sorridendo: «la Provvidenza non manca mai.» — «Brava figliuola!» le dicevo. «Seguita ad obbedire alla tua santa vocazione. Vedrai un giorno che ricompensa ti sarà serbata nel cielo!» — «Ricompensa?» mi risponde maravigliata. «Io non fo altro che il mio dovere. Sarei ricompensata abbastanza se vedessi di riuscirvi... Po' poi se ho la sanità è dovere ch'io l'adoperi, è naturale che aiuti i più deboli di me. E se lo fo per gli altri, tanto più debbo farlo per chi m'ha dato la vita.» — «Hai ragione, ma questi sentimenti tutti i figliuoli non gli hanno!...»
Qui trovo nel manoscritto molti versi cancellati scrupolosamente; e mi pare che su questa pagina sieno cadute alcune lacrime... Oh! forse il buon parroco le spargeva deplorando gli umani traviamenti!... Ma riconsolato col pensiero della Luisa, e' finisce, al solito, scrivendo: «E tutto questo a conforto dei buoni: Laus Deo.»
Seguitai ad esaminare le altre carte; e vidi (com'io già me l'era aspettato) ch'ei non aveva potuto lasciar nulla agli eredi, perchè tutto il suo lo dispensava a' poveri. Ma io presi per eredità più preziosa d'ogni altra la conoscenza ch'egli mi ha fatto fare di questa Luisa. Essa avrà ora intorno i quarantasei anni. Non era bella, ma ebbe e conserva piacevole aspetto, come dice il parroco, ed ha il colorito bruno e gli occhi vivaci; tiene i capelli tirati dietro gli orecchi, e mostra una faccia serena con atto d'ingenua sicurezza di sè, con un sorriso che si travede agli angoli della bocca; il naso è affilato e un po' volto alle labbra; parla poco, ma assennata e gioviale, e con una voce che scende al cuore; le vesti sono dimesse, ma linde; ha il passo lesto, ma senza darsi aria d'affaccendata. Se incontra un tapino si addolora, e lo compiange non di sterile compassione, chè le si vede brillare negli occhi la brama di sollevarlo. Di faccia al fasto e alle apparenze nella felicità, non si pèrita, nè mostra maraviglia od invidia; e ritorce lo sguardo con aria di commiserazione dalla superba vanità dell'orgoglio. Ma, in tutto, e sempre, si vede che il bene operare in lei viene da naturalezza, spontaneo come il retto pensare; e d'essere virtuosa, o non sa, o non crede.
Se tutto questo a taluno paresse superfluo, non voglio obbligarlo a sapermene grado; chi poi non n'è appagato abbastanza, e voglia vedere da sè, m'interroghi: dirò volentieri la patria e il cognome della Luisa[11].
V. Il buon esempio.
Nel dormentorio dei ragazzi di un ospizio dei poveri in Madrid, non era suonata ancora la campanella che dà il cenno d'andare a letto. Quella sera faceva un gran freddo, ed era stato concesso lo scaldarsi. Intorno ad ogni caldano era un crocchio, dove più dove meno animato da vari colloqui.
Tutti questi ragazzi, per la maggior parte garzoni d'artigiani e di mestieranti, si raccontavano i fatti loro: parlavano delle loro speranze ed erano generalmente ilari, perchè il riposo dopo una giornata di lavoro mette allegria ed ispira buoni sentimenti. In una sola di quelle conversazioni, separata dalle altre con un tramezzo di tela, v'era meno contentezza, quantunque vi fosse maggiore strepito.
La componevano cinque o sei sciagurati giovinetti di nascita benestanti, rinchiusi nell'ospizio perchè pei loro mali portamenti s'erano resi indegni d'abitare nelle proprie case; e venivano quivi custoditi come in luogo di correzione. Ma o che non volessero pigliare esempio da quei miserelli operosi, docili e rassegnati alla loro condizione, o che non fossevi nell'ospizio chi si curasse di loro, se non una specie di bestiale aguzzino per tenerli a dovere; essi invece di ravvedersi pel gastigo, persistevano nel mal pensare e nel peggio operare. Non ci tratteniamo da loro; poichè vi sarebbe il rischio di udire stolti o disonesti ragionamenti. Ritorniamo tra i buoni ragazzetti, e facciamo conoscenza con uno di essi.
Si chiama Diego; ha quindici anni, e fa il battilano. La sua fisonomia è bella e civile, ed ha una bontà di carattere e di costumi veramente esemplare: tutti i suoi compagni lo amano e lo rispettano. Se tra loro accadesse qualche sconcerto, egli trova subito il rimedio; toglie di mezzo le dispute, corregge amorevolmente chi ha torto, modera il risentimento di chi ha ragione. La sera poi, dopo tornato dal lavoro, si mette lì con un libro in mano, e un po' per uno istruisce alla meglio quelli dei suoi compagni che non sanno leggere.
Mentre egli faceva, secondo il solito, questa buona azione, ecco a un tratto spalancarsi la porta, ed entrare un giovinetto ben vestito. Dietro a lui è l'aguzzino, il quale esclama ad alta voce, e con aria di villana ironia: «A lei, signor Contino, questa è la sua camera, e ci troverà dei garbati compagni.» A tali parole, il volto di quel giovinetto diventò a un tratto di mille colori, gli tremarono le gambe, e calde lacrime gli scesero lungo le gote. I ragazzi sospesero i loro colloqui, restarono per un momento in gran silenzio, e nei loro cuori si svegliò subito molta compassione per lui. Ma i cattivi soggetti della stanza di correzione, fattisi avanti con molta curiosità, e conosciutolo da lontano, gli corsero subito incontro, dicendo: «Come, come! il nostro Carlo! — Ci sei venuto anche tu! — Ma che hai? — Non piangere. — Che fanciullaggini sono queste? — Vieni, vieni, sarai de' nostri....» Egli dando loro un'occhiata severa, e facendo un passo indietro, esclamò con voce risoluta: «No! io non sarò più dei vostri!... lasciatemi;» e perchè forse non poteva più reggersi per la fortissima commozione, si buttò sul letticciuolo che gli era più vicino. I compagni, sconcertati da quella mossa, si ritirarono ristringendosi nelle spalle; l'aguzzino intimò d'andare a letto; e i ragazzi guardandosi tutti con aria di maraviglia, andarono a spogliarsi. Il letticciuolo, sul quale Carlo s'era buttato quasi fuori di sè, era appunto quello di Diego. L'aguzzino, dopo aver tolti i caldani e invigilati i discoli, voleva menar Carlo tra loro. Diego, con buon garbo, gli disse: «Lasciatevelo stare, povero ragazzo, se gli fa piacere di rimaner lì; tanto a me non importa d'andare a letto. Per questa notte posso dormire sedendo qui accanto.» — «Che cosa c'entri tu, ora, a fare il saccente? Bella pietà per un monello!» — «Non lo vedete, che è ancora mezzo svenuto? E poi laggiù con loro non ci starebbe volentieri.» — «Ebbene, vacci tu nel suo posto.» — «O questo poi no! la loro compagnia non piace neanche a me.» — «E che vuoi tu fare costì?» — «Se egli avesse bisogno di qualche cosa...» — «Finisci di sdottorare; non ci son io a badarci?» — «Ma voi non potreste sentire.» — «Perchè?» — «Perchè ve la dormite nella grossa...» — «Temerario! vorresti forse tacciarmi di non saper fare il mio dovere?» — E offeso della sincerità di Diego, quell'uomo brutale, e in quella sera, come spesso accadeva, con la testa alterata dal vino, cominciò a nerbarlo senza discrezione.
Il povero Diego, per non far peggio, si chetò, e andò a rannicchiarsi accosto al suo letto. Intanto un mormorio di biasimo si fece sentire per tutto. Allora l'aguzzino, accortosi forse di aver ecceduto nella collera, lasciando star Diego che non rifiatava, andò nel mezzo del dormentorio e agitando in aria il nerbo, disse con dispetto: «Così si fa ai temerari: e guai a chi parlerà!»
Dopo pochi minuti venne il superiore dell'ospizio a far la ronda consueta. L'aguzzino gli fece il rapporto di Carlo, ma senza parlare di Diego. Questi uscito allora dal suo ricovero seppe con sì buona maniera far conoscere al superiore lo stato di Carlo, la repugnanza che aveva mostrato a stare coi discoli, e il proprio desiderio di cedergli il letto per quella notte e stare a custodirlo che il superiore, umana persona e amorevole verso Diego, che era stato sempre irreprensibile, gli accordò ogni cosa, e ne lodò anche il buon cuore. L'aguzzino stesso fu compunto dalla generosità di Diego, mentre s'aspettava, tremando, un'accusa della commessa imprudenza.
Ora vediamo un po' chi era mai questo Carlo. Nato in una delle famiglie dei così detti Grandi del Regno, in mezzo alle ricchezze e a tutti i comodi e i piaceri della vita, allevato fra le mollezze, adorato dai genitori, che non avevano altri figliuoli che lui, ebbe la disgrazia di perdere la madre quando era sempre nell'età dell'infanzia. Oh! quella di non avere più madre è tra le più grandi sventure dei figliuoli. Chi può mai porgere ad essi le preziose cure materne? Chi ben conosce l'indole, i bisogni, le inclinazioni di un fanciullo, se non colei che gli ha data la vita, che lo ha educato, assistito fin dalla culla? Ah! ben diceva un grand'uomo: La madre è una seconda Provvidenza. A Carlo restava un padre amoroso, e che sarebbe stato capacissimo di fare le veci di lei. Ma costretto a star lungo tempo lontano dalla patria, a motivo della sua carica di ambasciatore, credè provvedere convenientemente all'educazione e all'istruzione del figliuolo collocandolo con ogni maniera di raccomandazioni in un collegio che passava per buono. Ivi, sia che mancassero allora direttori capaci e maestri abili, o che il fanciullo fosse di natura sua disposto a imitare piuttosto i cattivi che i buoni esempi, fatto sta che presto perdette ogni buona qualità, divenne vizioso, nemico dello studio, insubordinato, incorreggibile, e commise alla fine tanti falli, che fu cacciato dal collegio. Il padre afflitto per questa cattiva riuscita del figliuolo, e d'altra parte sempre costretto a star lontano da lui, pensò di affidarlo ad un onesto e sapiente precettore. Questi presolo ad amare e custodire come proprio figliuolo, avrebbe saputo adoperare ogni mezzo per ridurlo buono. Ma i mali abiti presi da Carlo in collegio lo avevano tanto e poi tanto sciupato, che pareva non esservi più rimedio nè speranza di farne, se non un bravo, almeno un onesto giovinetto. Certi compagni della stessa razza, alcuni dei quali erano stati suoi camerati in collegio, altri gli aveva imparati a conoscere fuori, trovarono insieme con lui il modo di deludere la scrupolosa vigilanza del precettore, e si diedero a commettere ogni sorta di azioni contrarie al decoro delle famiglie e alla buona riputazione.
Sapute queste cose il padre di Carlo ordinò addirittura che questo figlio ingrato fosse posto in un luogo di correzione, dove potesse restarne umiliato l'orgoglio, e piegata la volontà, se non agli studi, almeno all'esercizio d'un'arte o d'un mestiere. Scrisse che non voleva oramai considerarlo più come figliuolo, fino a che non avesse affatto mutato condotta. In conseguenza di questo severo comando, Carlo fu fatto chiamare da un magistrato di Polizia. Questi dopo avergli fatta conoscere la gravezza delle sue colpe, e come non correggendosi avrebbe potuto ridursi a peggior partito, gli palesò la volontà paterna, e lo confortò a sottoporvisi per suo bene. Il giovinetto a questa notizia diede nelle furie; ma raffrenato presto dall'autorità della persona che gli parlava, cominciò a riconoscere i propri falli ed a pentirsene; ma troppo tardi. Allo sdegno successe la vergogna, il pianto, la preghiera. «Non è in mio potere,» gli rispondeva il magistrato, «di fare altrimenti in questo punto. Vi siete reso immeritevole dell'indulgenza di vostro padre. Dovete sopportare un gastigo; il mondo è rigoroso, non lo nego; la vita che dovrete menare nell'ospizio per voi assuefatto alla insubordinazione, ai divertimenti, all'ozio, sarà un po' dura; ma quanto più sollecitamente ripiglierete il sentiero della virtù, tanto più presto vi sarà restituita la stima e l'affetto del padre, la riputazione altrui e quella libertà della quale avete abusato.» Accortosi Carlo che quella non era più una semplice minaccia, e che per forza o per amore bisognava obbedire, prese la sua risoluzione, e si sottopose alla meritata pena, lasciandosi condurre nell'ospizio, e proponendosi in cuor suo di correggersi davvero.
Infatti quel ricusare di far lega nell'ospizio coi cattivi compagni non corretti, fece vedere che il proposito era fermo, e che non era ancora spento in lui il sentimento dell'onore. E ci voleva, io non lo nego, un po' di coraggio a perseverarvi anche dopo aver visto il locale e conosciuti i mali trattamenti che vi si usavano. Che se consideriamo che prima Carlo abitava uno dei più bei palazzi di Madrid, era servito di tutto punto, aveva carrozze e cavalli al suo comando, soleva frequentare (quantunque non vi fosse troppo bene accolto) le case dove gli oziosi si studiano di scacciare la noia coi balli ed i giuochi; e ora si ritrovava in quel ricovero di poveri ragazzi, in un dormentorio piuttosto sudicio e nauseante, sopra un meschino letticciuolo senza materassa e con biancheria ordinaria; e sottoposto non solamente al superiore del luogo, ma ancora a quel brutale aguzzino; e che questo gran rovescio di medaglia era avvenuto da un momento all'altro; bisognerà convenire, che il suo animo doveva essere oppresso da straordinario travaglio. Almeno avess'egli potuto buttarsi a' piedi di un padre ed implorare perdono, o meno severa punizione; ricorrere alla pietà di una madre, cercare i conforti e gli aiuti di un amico! Ma no! Il padre era lontano, sdegnato; la madre gli era morta fino da quando era piccino; amici..... oh! ne aveva molti, ma di nome soltanto, ma di quelli che sono anzi indegni del venerato e carissimo nome di amici; di quelli che si accordano a fare il male invece di consigliare il bene, e fanno la corte a chi gli accoglie finchè pare felice; lo scherniscono e lo fuggono quando si propone di essere virtuoso; lo abbandonano allorchè diventa infelice. Ma Diego che non gli era amico, anzi non lo aveva mai conosciuto, e che a vederlo in quel luogo doveva giudicarlo colpevole, pure pensando solamente che era infelice, ebbe compassione di lui, e sopportò anche di essere maltrattato per assisterlo. Chi lo avesse detto un giorno a Carlo, orgoglioso nel suo palazzo, che si sarebbe trovato ad aver bisogno della protezione di un povero orfanello!
Già gli altri dormivano, e Diego si provava a richiamare alla mente la fisonomia di Carlo vista alla sfuggita, ma sembratagli molto espressiva. Infatti Carlo aveva un bel volto, occhi neri e vivaci, ed una capigliatura folta ed inanellata; il colorito di salute, e svelta la persona. Quando questi, sollevandosi sulla sponda del letto dalla parte di Diego, gli prese una mano, e gliela strinse. Diego, alzandosi, gli domandò subito se aveva bisogno di qualche cosa; ed egli, con voce sommessa: «Vieni sul tuo letto; io anderò sul mio se tu m'insegni dov'è. Grazie della garbatezza che m'hai usata. Dimmi il tuo nome perchè io possa benedirlo come il nome di un mio benefattore.» — «Sentite, sarà meglio che seguitiate a stare costì; io v'aiuterò a spogliarvi perchè possiate dormire con più comodo. Le lenzuola son di bucato: un po' grosse, ma pulite.» — «No, no, questo sarebbe troppo» rispose Carlo, e voleva scendere dal letto: ma le forze gli mancavano. «Lo vedete, è meglio che proseguiate a starvi. Tanto io ci sono avvezzo a dormire così.» — «Ma credi tu che io meriti questa tua compassione? Non sai che sono un figliuolo colpevole.... scacciato dalla casa paterna;... che fa orrore a me stesso la vita che ho menato fin qui?» — «Ma se riconoscete di aver fatto male, vuol dire che adesso siete pentito, e che cercate di correggervi. Sentite, io mi son messo qui accanto a voi perchè non ho potuto fare a meno. Quando vi ho visto venir qui con quell'aria tanto afflitta, e quando avete ricusato di far lega con quelli là, mi son sentito intenerire; ho cominciato a stimarvi... a volervi bene.» Carlo da queste parole inaspettate ebbe tanto conforto, che ripreso coraggio e vigore gli buttò piangendo le braccia al collo, e gli diede un bacio. «Dunque tu mi compatisci, tu mi ami? Io non avrei sperato questa consolazione. È tanto, se tu sapessi, è tanto tempo che tutti mi disprezzano! Mi ricordo che da fanciullo quando io era buono, tutti mi accarezzavano, ed allora ero felice. Da che incominciai ad essere cattivo non ebbi più l'amore di nessuno... neanche quello del babbo! Ora... ora forse non sarò più in tempo per ottenerlo... No! mi ha messo fuori di casa; io sarò infelice e svergognato per sempre.» — «Non dite così; quando vostro padre saprà che vi portate bene, dimenticherà il passato e tornerà ad amarvi; ne sono sicuro. Dopo un castigo come questo, si fa celia? Io, vedete! io sono infelice davvero e senza rimedio, perchè non ho babbo nè mamma, e non gli ho neanche conosciuti: mi morirono quando io era piccino. Tutti mi chiamano Diego, ma nessuno mi dice figliuolo, nè fratello.» — «Dio mio! la tua disgrazia è grande davvero; ma tu sei innocente; la tua coscienza non ti rimprovera come a me d'esserti reso indegno d'averli i genitori. Mio padre mi scaccia da sè, mi toglie il nome di figlio.» — «Ma c'è la speranza del perdono.» — «Se non fosse questa, sicuro, non potrei vivere.» — «Dunque state tranquillo, riposatevi, e se avrete bisogno di me, chiamatemi. Sono qui accanto.» E si rimetteva a sedere, giacchè Carlo aveva lasciato la sua mano. «Se ho bisogno di te?...» Soggiunse questi, «sì certo, tu sei il mio protettore; so quanto hai già sofferto per me; veggo proprio che mi sei stato dato dal Cielo per aiutarmi. Nella mia desolazione, in un luogo come questo, con la vergogna che ho, mi era necessaria un'anima che avesse compassione di me. Oh! se io fossi meno colpevole, mi arrischierei a chiamarti amico; ma no!... no..., non sono ancora degno di avere un amico!» — «Sentite, io posso essere buono a poco; ma farò tutto quello che potrò per aiutarvi.» — «Aiutami, sì, aiutami a ritornare virtuoso; per incoraggiarmi, dammi il nome di amico, amami come un tuo fratello; io cercherò di meritarmi la tua amicizia e il tuo amore.» Diego non poteva rispondere da quanto era intenerito; e a quelle parole si sentiva come sollevare dalla sua misera condizione di orfano. Tante volte aveva egli pianto in segreto pel dolore di non avere una creatura che lo amasse quanto egli sentiva di poter amare! Gli affetti soavissimi di figlio e di fratello che la natura pone in cuore a tutti, erano in lui repressi, ma non distrutti; non gli aveva potuti gustare, ma era sempre avido di gustarli; e ora questi affetti erano tutti compresi in quello dell'amicizia che gli veniva offerta in sì commovente maniera.
Fino da quel momento adunque i due giovinetti si sentirono inclinati ad amarsi come fratelli: e appena conosciuta dai compagni di Diego questa amicizia, essi cominciarono a dimostrare per Carlo una parte di quella stima che avevano per Diego. Senza di ciò, Carlo sarebbe stato da tutti considerato come un di quei sciagurati della stanza di correzione; e lo avrebbero sfuggito con ribrezzo. Egli poi ottenne licenza di non dormire in quella camera; ma sì di avere il suo letto accanto a quello di Diego.
Il giorno dopo gli convenne sottoporsi ad una umiliazione che gli sarebbe costata molto, se non avesse già rassegnato l'animo a dimenticarsi della vita passata. Fu chiamato in una stanza terrena e gli fu detto di mettersi a sedere; e poi un perrucchiere gli recise tutta la bellissima chioma che gli scendeva inanellata fino alle spalle. Se due giorni prima il suo cameriere gliene avesse strappato un capello nel pettinarlo, il vanaglorioso contino si sarebbe talmente sdegnato da scacciarlo subito dalla sua presenza. Ora bisognava essere rapato come gli altri. Dopo di che ebbe a spogliarsi dei suoi vestiti, e mettersi la camicia di canapa, l'uniforme dell'ospizio, con le mostre d'un altro colore e i bottoni di metallo, il berretto numerato, e la piastra d'ottone da attaccarsi al petto. In ultimo gli fu detto di scegliersi un mestiere. Egli domandò qual fosse quello esercitato da Diego; e udendo che Diego faceva il tessitore di lana, scelse il medesimo, pensando che così sarebbe stato continuamente con lui.
Fu condotto nel lanificio, e consegnato al maestro di quella officina. Oh! quella officina era ben diversa dal suo elegante salotto di studio. Figuratevi un lungo stanzone con 10 o 12 telaj che facevano un continuo strepito, che unito a quello di varj incannatori e al brusìo de' lavoranti assordava; e aggiungete il molestissimo odore della lana unta, i motteggi di qualche ciarlone, che parevano lanciati contro di lui, e la meschina figura di chi non è buono a far nulla. Per allora fu fatto incannatore. A poco per volta il moto che si dovè dare, la vista dei nuovi oggetti, il buon umore di quelli onesti manifattori, valsero a distrarlo dalla sua malinconia. Ma il suo primo pensiero fu quello di ricercare di Diego, il quale peraltro non v'era. Ne interrogò il suo maestro, e questi gli fece sapere che quel buon giovine andava a tesser fuori dell'Ospizio, perchè insieme con altri pochi aveva ottenuto questo privilegio per la sua abilità nell'arte della lana. Se questa notizia dovè piacergli da un lato, come conferma del buon carattere del suo amico, lo contristò dall'altro, riflettendo che erano pochi i momenti nei quali poteva stare insieme con lui. Invece dunque di trovar Diego nel lanificio, ebbe la mortificazione di incontrarvi due o tre di quelli della camera di correzione, incannatori come lui, rassegnati a quella condizione, e in conseguenza svogliati, e spesso umiliati dai rimproveri dei loro maestri, dagli strapazzi, dai castighi.
Carlo si sottoponeva volentieri ai più rozzi lavori del suo mestiero, e cercava anche delle fatiche per lui troppo gravi, come se avesse voluto con quel continuo affaccendarsi soggiogare l'orgoglio che di quando in quando ricompariva a tentarlo. Ma per tramischiare a quelle facili occupazioni qualche cosa di più soddisfacente per il suo spirito, si pose poi ad ajutar Diego nell'insegnare a leggere, cominciò una lezione di scritto a lui ed agli altri, e si proponeva poi di far loro conoscere l'aritmetica, e qualche elemento di geometria. Quando poteva si occupava con ardore appassionato a richiamare alla memoria certe poche nozioni di meccanica che aveva acquistate nei tempi scorsi.
Questa nuova vita ei l'avrebbe chiamata felice, se il pensiero del padre da lui offeso non l'avesse afflitto continuamente. La sua buona condotta poi era premiata dall'amore di Diego e dalla benevolenza degli altri che volentieri si familiarizzarono con lui.
Quindi mostrandosi ognora più umile e compunto, anche dal direttore fu valutata la sua costanza nella virtù. E siccome ogni sabato sera i lavoranti andavano nello scrittojo dell'ospizio e veniva loro distribuita una certa sommerella di quattrini, la quale cresceva o diminuiva secondo il maggiore o minore lavoro che avevano compito nella settimana, così anche Carlo fu dopo qualche tempo ammesso a questa distribuzione. I compagni se ne rallegrarono molto; e qualche volta spontaneamente gli rendevano giustizia, e ne facevano elogio alla presenza del superiore e di Diego. Oh quanto gli erano care quelle lodi sincere dei poveri e virtuosi artigianelli! Che differenza tra esse e la vile adulazione degli stolti che lo corteggiavano ai tempi addietro! Ma sebbene Carlo avesse ripreso fiducia nella virtù, e si sentisse ormai la coscienza tranquilla, pure quante volte pianse con Diego il silenzio di suo padre! Egli aveva perfino incominciato a temere che quel genitore giustamente sdegnato si fosse affatto scordato di lui, e lo avesse abbandonato per sempre. Quand'ecco una sera, mentre erano per andare a letto, Carlo, fuori di sè dalla gioja, corse da Diego e gli disse: «Bisogna separarci per ora; stasera rivedrò mio padre che è tornato, e mi ha perdonato; la mia gioja è indicibile; una sola cosa mi dispiace: di non ti poter condurre meco; ma conoscerà mio padre, conoscerà colui che gli ha salvato il figliuolo. Addio.» E abbracciatisi teneramente i due amici si separarono; l'uno per correre al seno di un padre non veduto da tre anni, l'altro per rimanere orfano nell'ospizio dei poverelli. Diego non potè proferire alcuna parola; ma tutto lieto della felicità dell'amico, si coricò sul meschino suo letticciuolo accanto a quello abbandonato da lui. Per qualche ora non potè addormentarsi. Con una soavissima compiacenza si figurava tutte le consolazioni che in quella sera l'amico suo avrebbe gustate: il perdono, il riacquistato affetto di un padre; la stima riottenuta da tutti; il rivedere l'abitazione e le cose sue; il ritornare a godere di una libertà di cui non avrebbe più abusato. In mezzo a questi dolci pensieri gliene venne uno sinistro: Carlo, nella sua nuova vita si ricorderà dell'orfano lasciato nell'Ospizio?... Ma presto lo scacciò dalla mente: era tanto grande il loro affetto, s'era manifestata così bella l'anima di Carlo, che Diego lo avrebbe troppo offeso dubitandone per un solo istante.
VI. La vera beneficenza.
Carlo usciva dall'ospizio dei poveri industriosi con l'animo migliorato dall'esempio della loro virtù, e il cuore intenerito dalla dolcezza dei loro sentimenti. La superiorità che essi avevano naturalmente acquistata sopra di lui invece di abbassarlo nell'opinione di se stesso, lo aveva liberato dai folli pregiudizi dei giovani vanagloriosi, e fattogli conoscere che la vera nobiltà dell'uomo consiste nella illibatezza dei costumi e nel sapere. In mezzo alla gioia del dover rivedere tra poco suo padre, e del sentirsi degno di perdono e d'amore, gli doleva non solamente di essersi dovuto separare a un tratto da Diego, ma anche di aver lasciati gli altri buoni compagni, e quelle mura testimoni del suo ravvedimento e gli arnesi del suo mestiero onorato, e l'umile strapunto sul quale aveva dormito tanti sonni tranquilli. Avrebbe voluto tornare ad abbracciar Diego, perchè gli pareva di averlo lasciato troppo freddamente; per due o tre volte rivolse lo sguardo alla porta dell'Ospizio, e sospirò pensando che tante anime amorevoli e virtuose, tante menti svegliate vi fossero quasi che imprigionate sotto un duro governo; ma poi si rammentò che quei giovanetti erano rassegnati e contenti della loro sorte, che sapevano condursi in modo da non aver a temere la più severa disciplina, che non conoscevano cosa fosse la invidia; e che egli v'era entrato con la fronte bassa e il volto coperto di rossore, ed ora ne usciva pieno di fiducia in se stesso, e con la coscienza tranquilla. Tanto egli era occupato da questi pensieri che solamente quando fu presso il portone del palazzo di suo padre, e in mezzo allo splendore del gran lampione che ne illuminava l'atrio, vide luccicare la piastra d'ottone che aveva sul petto e s'accorse che era sempre vestito dell'uniforme dei poveri. Il segretario di suo padre, la persona che era andata a pigliarlo, ne lo aveva avvertito prima che lasciasse l'Ospizio; ma egli impaziente di volare ai piedi del genitore, non gli aveva potuto dar retta, nè trattenersi un istante per mutarsi le vesti. Quando erano per salire le scale del palazzo preceduti dai servi con le torce accese, cosa che fe' venire sulle labbra di Carlo un sorriso di compatimento a quel fasto ridicolo, il segretario gli ripetè: «Vostra Eccellenza vuol presentarsi in quest'abito?...» Carlo dolcemente lo interruppe, dicendo: «Quando mio padre saprà quanta virtù ho conosciuta sotto queste vesti, non si offenderà di vedermele indosso.» — «Ne sono persuaso, Eccellenza; ma se le poteva mutare. Io avevo fatto già ritrovare le sue all'Ospizio.... Non vorrei che Don Alonzo mi rimproverasse.» — «Ma egli ha mandato a ripigliar me, e non le mie vesti;» e così dicendo, faceva in due salti gli ultimi quattro gradini della scala di marmo.
Appena entrato nella sala, vide spalancarsi la porta di una stanza, ed apparire sulla soglia suo padre; suo padre che lo aspettava a braccia aperte e con la gioia dipinta sul volto. Carlo non badò che fossero presenti il segretario ed i servi; ma subito corse a buttarsegli ai piedi, esclamando:«Perdono!» — «Sì, figlio mio, ti ho già perdonato. La tua buona condotta nell'Ospizio ti rende meritevole di tutto l'amor mio. Alzati: dammi un bacio....»
Le lacrime del vecchio e del giovinetto si unirono insieme: e dopo un lungo sfogo di tenerezza, Don Alonzo esclamò sospirando: «Perchè non è ella viva tua madre? Povera Cristina! Sarebbe questa la più bella ora della sua vita!» Carlo a tali parole si sentì commovere più che mai; e più vivamente gustò la consolazione di avere riacquistato l'affetto di un padre. Quando furono rimasti soli, Don Alonzo appoggiato alle spalle di Carlo andò a porsi a sedere, e si tenne il figliuolo fra le braccia con lo stesso giubbilo col quale era solito accarezzarlo da piccino. Lo guardava fissamente, e vie più se ne compiaceva scorgendo nell'espressione dei suoi lineamenti la contentezza di una coscienza pura, la verecondia dell'età, e le sembianze venerate e care della estinta sua sposa. «Dopo tre anni di separazione, diceva egli, dopo aver tanto sofferto per te....» (a queste parole Carlo si sentì stringere il cuore, e chinò il volto pieno di rossore) «dopo aver corso tanti rischi ne' miei gravi uffici, il ritrovarti meritevole di tutto l'amore di un padre, è una consolazione sovrumana, figliuolo mio! Godiamola tutta, non ci addoloriamo più del passato; cancelliamo ogni memoria funesta. Sì, tu sei il mio Carlo. Oh! non saremo mai più separati.» E così dicendo, fissava i suoi sguardi in un quadro di Murillo[12] che rappresentava il Figliuol prodigo della Scrittura. — «Ma tu non sai, caro padre, disse Carlo, chi ti ha salvato il figliuolo.» — «So tutto: e vedrai se io saprò esser grato al nostro Diego.» — «Oh sì! toglilo, per pietà, toglilo dalla sua misera condizione. Egli era nato per avere un padre come te.» — «E lo avrà.» Carlo gli si buttò al collo, ricoprendolo di carezze.
«Impara, soggiunse Don Alonzo, impara, figlio mio, a rispettar l'indigente che per nostra vergogna è tanto vilipeso tra noi. Vi sono degli uomini inetti che non si degnan considerarlo come loro simile, mentre essi non hanno meritato giammai un grado nella società. Non valutano altro che le ricchezze e i titoli, perchè il debole intelletto e lo stolto orgoglio non si solleva a idee generose. Tu hai avuto in tempo una bella lezione, e spero che tu ne saprai approfittare per sempre. Tu vedi intorno a te le ricchezze; ma ricordati continuamente che a te non appartiene altro che la virtù e il talento di saperle adoperare a vantaggio de' tuoi fratelli, e che la più bella compiacenza dell'uomo facoltoso è quella di sentirsi degno della stima e dell'amore di tutti.» Così quella sera fino a notte avanzata, la passarono in dolce colloquio, fecero dei progetti per Diego, e non si saziarono di stare insieme.
La sera dopo i parenti e gli amici di Don Alonzo andarono in buon numero, e con tutto il fasto dei grandi di Spagna, a visitare l'ambasciatore. Le stanze erano sontuosamente addobbate e illuminate. Tutti si rallegravano coll'ambasciatore di rivederlo in patria, sano e in prospera fortuna, per aver con molta riputazione, e con buon esito compiute le gravi incombenze affidategli dallo Stato. Ma egli ringraziandoli delle loro congratulazioni, andava ripetendo agli amici più confidenti e più stimabili: «Or ora avete a rallegrarvi meco per una fortuna di gran lunga superiore a queste.» Niuno di essi sapeva di qual fortuna egli intendesse parlare, e stavano in molta aspettazione. Quando egli, dopo essersi per alcun tempo separato dalla comitiva, ritornò in mezzo ad essa, conducendo per mano Carlo e Diego col loro abito dell'Ospizio, dicendo ad alta voce: «Ecco, io aveva perduto un figliuolo, e ne ritrovo due: questi è il mio Carlo, e questi è Diego suo amico;» e così dicendo li baciava e gli abbracciava ambedue. A tale scena inaspettata molti cuori si intenerirono, e si alzò un applauso generale di approvazione e di affetto per quel padre virtuoso e per quei buoni giovinetti.
Vi fu non pertanto taluno al quale parve che quell'azione del vecchio ambasciatore e quell'abito del suo figliuolo dovessero oscurare il decoro della famiglia; ma costoro veramente erano di quei cotali cortigiani abietti che giudicano della dignità e del valore di un uomo dal numero dei servi e delle carrozze che ha, dai titoli della famiglia, e massimamente dalla copia e dalla squisitezza delle vivande. Tutti gli uomini di senno goderono di cuore con Don Alonzo della sua felicità, e cercarono di far conoscenza con Diego. Don Alonzo, presentandolo ad essi, narrava come la sua virtù gli avesse indirizzato sulla via dell'onore il figliuolo, e Carlo stesso ne faceva risaltare i meriti. Ma Diego col suo fare un po' rozzo, ma bello perchè sincero ed energico, rispondeva che tutto era dipeso dalle buone disposizioni e dal pentimento di Carlo; che egli non aveva fatto altro che volergli un gran bene, giacchè il cuore di un orfano quando trova corrispondenza ama davvero, ama costantemente.
Finita la conversazione, Diego voleva tornare all'Ospizio; ma era tardi, e non gli sarebbe stato possibile entrarvi. Sicchè dovè restare nella casa del suo amico.
«Forse ti dispiacerebbe, gli diceva Don Alonzo, di abitare con noi, e non più nell'Ospizio? di abbandonare il tuo mestiero, onorato sì, ma faticoso e misero, per istruirti nelle scienze e nelle arti, e per coltivare con ogni mezzo il tuo ingegno? Ecco, tu sei infelice perchè non hai una famiglia; e qui trovi un padre e un fratello. La tua virtù, il servigio grandissimo che tu mi hai reso, aiutando Carlo a perseverare nel suo proposito di correggersi, meritano una ricompensa molto maggiore di quella che io ti offro. Sì, Diego, sì, figliuol mio: Carlo ed io vogliamo oramai tenerti per nostro; tu porterai il nome della mia famiglia, goderai insieme con Carlo delle mie ricchezze; io avrò due sostegni, due difensori nella vecchiaia, e in questo modo mi renderai un beneficio più grande di quello che io ti fo. Sarai sempre compagno fedele del mio Carlo; ed io morrò con la consolazione di non averlo lasciato solo.
«Il Direttore dell'Ospizio ti ha già accordato la libertà. Non manca altro che il tuo consentimento. Rispondi, e seconda i miei desiderj per accrescere la nostra fortuna.» Così dicendo egli teneva le sue braccia sulle spalle di ambedue i giovinetti, e Carlo posando una mano su quella del padre, stringeva con l'altra la destra di Diego, e lo guardava fisso fisso, come per interpetrare i suoi pensieri dall'espressione del volto. Ma Diego immerso a tal discorso in profonda riflessione, teneva la testa chinata sui petto, non corrispondeva alle strette di mano di Carlo, e vi furono alcuni minuti di silenzio prima che proferisse queste parole: — «Che ho io fatto per poter accettare le vostre offerte? Null'altro che il mio dovere. Tutti dobbiamo essere buoni, ed aiutare il nostro simile, e chi lo fa, non ha bisogno di premio; e poi il premio, v'è chi ce lo dà segretamente qua dentro. Ma di qual servigio parliate, io non lo so. Carlo mi chiese amicizia; io mi sentii disposto ad amarlo.... Tu, Carlo, rispondi a questo affetto, e mi consoli tanto col chiamarmi fratello; voi mi volete esser padre; che posso io desiderare di più? O perchè dovrei io abbandonare il mio mestiero, lasciare il nome dei miei poveri genitori, che io non ho conosciuti, ma sono sempre loro figliuolo; che io non vedo, ma so dove sono sepolti e vo a piangere sulla terra che ne ricuopre le ossa? Non potrete voi forse continuare ad amarmi nella mia condizione? Oh! io sento per voi un affetto che non so dire, tanto egli è tenero e grande; ma sono anche affezionato agli arnesi del mio mestiero, ai compagni che ho lasciato nell'Ospizio, alle speranze che ho per la mia sorte avvenire. Continua ad amarmi, sì Carlo; non potrei vivere senza questa certezza; e voi, Don Alonzo, continuate a chiamarmi figliuolo, perchè alleggerite così l'afflizione di un orfano; ma lasciatemi nella mia condizione oscura e tranquilla. Queste grandezze, lo sento, non sono fatte per me. Finchè avrò salute e voglia di lavorare, avrò tanto che basti per soddisfare a' miei bisogni. Tra un anno il mio principale mi passa lavorante; esco dall'Ospizio se voglio, sono liberissimo di me stesso. Non potrei rinunziare a questa speranza, tradire così i miei compagni e gli obblighi che ho contratto nel mio mestiero. Oh! se non mi fossi già incamminato in una professione, potrei chiedervi consiglio ed aiuto; ma or ora sono lavorante, ed ho in mano un'arte che può fare dei passi, e darmi un pane discreto e una buona riputazione.»
Carlo rimase maravigliato a questo discorso. Don Alonzo ne riconobbe la saviezza, ed esaminando con più attenzione i tratti di Diego, si accôrse che egli doveva avere una di quelle anime elevate che si congiungono al vero merito, si accorse che il volerlo porre nel grado suo non era un farlo salire ma piuttosto un farlo scendere, giacchè errano molto coloro i quali si argomentano di sollevare a maggiore stato gli uomini ponendoli in mezzo alle pompe o fregiandoli di titoli. Il proprio merito è la vera, la sola dignità che possa mettere l'uomo al di sopra degli altri. Sicchè Don Alonzo rispose tosto:
«Così parla un bravo Spagnolo: Diego, tu sei il mio amico. Fa' dal canto tuo quello che giudichi meglio. Io so cosa apparterrà di fare a me.»
Carlo che aveva poca esperienza degli uomini, ed era tanto persuaso che Diego avrebbe accolto l'occasione di mutare stato, non potè subito indovinare quel che passava per la mente di suo padre, e ne rimase mortificato. Non volle insistere, perchè sapeva quanto Don Alonzo fosse fermo nei suoi proponimenti, e perchè vide ritornare sul volto di Diego la serenità d'un animo contento.
Pur diceva tra sè: «Io non capisco come un meschino artigiano possa ricusare la fortuna di diventare a un tratto ricco signore.» E infatti a molti altri giovanetti abituati a vivere signorilmente, e che non hanno avuto mai occasione di conoscere la condizione di un artigiano onesto e capace, potrebbe questa parere una cosa strana.
Ma siccome Carlo aveva già goduto delle dolci soddisfazioni della vita operosa, così non indugiò molto ad accorgersi che Diego poteva ragionevolmente preferirla a qualunque altra. Infatti non avendo più da darsi tanto moto nella giornata, cominciò a dormire sonni meno profondi, e le morbide materasse del suo letto parato gli facevano spesso desiderare lo strapunto dell'Ospizio.
Benchè avesse già preso ad occuparsi di qualche studio con ordine e buona volontà, pure talvolta una certa malinconia lo tormentava. E riuscivagli gravoso il dovere stare in sussiego alla presenza dei grandi che incontrava, l'udire le adulazioni dei servi o dei protetti di suo padre, l'essere trattato per tutto con complimenti affettati, il doversi sottoporre spesso a noiose cerimonie.
Sapeva bene egli accordare il dovuto rispetto a ciascuno, e si studiava di seguire le buone regole della civiltà; ma queste non bastavano con i grandi, avvezzi a cerimonie ampollose e stucchevoli; ed egli, semplice e schietto, si nauseava di tutti quei modi artificiosi. — Diego intanto, ritornato nell'ospizio, fra' suoi compagni, al suo telaio, continuava a vivere tranquillamente, e non si era pentito del suo rifiuto.
Carlo andava spesso a visitarlo tanto nell'Ospizio che a bottega; e quivi ritrovava tutta la ingenua letizia, si godeva la dolce domestichezza degli onesti artigiani, la loro sincera affezione, la semplicità e la franchezza delle loro maniere.
Diego poi qualche volta visitava Don Alonzo, e in specie le domeniche si tratteneva con Carlo a continuare il suo studio dei principj di geometria. Questi in poco tempo, aiutato da un maestro, riacquistò le cognizioni dimenticate in quella scienza, e così poteva ripeterle a Diego che vi aveva presa una passione grandissima. Una volta Don Alonzo assisteva a una di queste lezioni. Arrivati a mezzo, nasce una difficoltà; e Carlo non sa più andare avanti.
Diego, quasichè non accortosi del suo imbarazzo, pare immerso in profonda meditazione.
Don Alonzo, come uomo molto istruito, avrebbe saputo levare la difficoltà, quantunque non fosse delle più leggiere; ma accortosi che l'ingegno di Diego tentava di superarla con le proprie forze, fe' cenno a Carlo di tacere, e aspettò. Infatti Diego non tardò a far conoscere sorridendo che aveva trovato la soluzione del problema, e si pose ad aiutare Carlo ad intenderlo. Lo scolaro era divenuto maestro. Così fu d'allora in poi; e allorchè Don Alonzo, che teneva dietro con gran premura ai progressi di Diego, propose lo studio della meccanica, allora sì che l'ingegno dell'orfano si manifestò veramente straordinario.
Appena conosciuto l'effetto e le proprietà delle macchine elementari, Diego seppe intendere l'artifizio delle più complicate, immaginarne delle nuove e applicarle ai lavori del suo mestiere.
Bisognava proprio dire che la natura lo avesse fatto nascere per i progressi di quella manifattura. Intanto Don Alonzo, unitamente al principale di Diego, provvedeva in segreto ai modi adattati a coltivare un ingegno che poteva riuscire utilissimo al suo paese.
Era già trascorso un anno, e Diego doveva passar lavorante. Nel medesimo giorno nel quale un anno fa il garzoncello preferiva alle ricchezze e ai piaceri di una vita signorile la speranza di esser fatto lavorante, Don Alonzo e Carlo andarono a trovarlo nel lanificio, e insieme col suo principale lo condussero fuori. Arrivati in una delle primarie strade di Madrid, si fermarono di faccia ad un edifizio costruito di nuovo, e che aveva l'aspetto di una fabbrica per la manifattura della lana. Don Alonzo cavò fuori le chiavi dello stabile, e vi introdusse la comitiva. Era esso spazioso, elegante senza fasto, corredato di tutti gli arnesi della manifattura i più perfezionati, come telai, incannatoi, cardi ec., e provveduto di tutti i comodi immaginabili. V'era un vasto magazzino ripieno delle lane più pregiate che dar potessero i merini di Spagna; una buona quantità di acque sorgenti, un vasto cortile, un comodo scrittoio. Dopo aver tutto visitato minutamente, e riconosciuti i pregi di quella officina, formata come per incanto, Don Alonzo disse: «Questo è un bel corpo, come vedete: ma gli manca l'anima.»
Tutti guardarono Diego; e Carlo che aveva già indovinato il pensiero del padre, correndo all'amico e abbracciandolo, esclamò: «Eccola qui, eccola qui l'anima che ci vuole.» — «Così è, Diego mio, soggiunse Don Alonzo; oggi il tuo principale ti fa lavorante, e sei libero di te. Ecco la tua officina, egli ti sarà compagno ed aiuto; scegli fra i tuoi amici dell'Ospizio i lavoranti e i garzoni dei quali avrai bisogno per la tua manifattura. Carlo sarà il tuo ministro, il tuo segretario: io ho già messo a tua disposizione una somma che ti servirà di capitale; e tutti i miei greggi di merini son tuoi. Ecco qui un contratto col quale sei dichiarato perpetuamente possessore dell'edifizio, delle macchine, dei merini e del capitale.
«Prendine il possesso, lavora e prospera. Spero che oggi non mi risponderai come un anno fa.» — «No, uomo generoso, riprese egli baciandogli la mano con un trasporto di riconoscenza, io non ricuso i vostri benefizi; avete secondato la mia inclinazione; saprò approfittarmi degli aiuti che mi porgete, ma permettete che io gli accetti come imprestito, e non come dono. Questo edifizio, questi oggetti, il capitale, ogni cosa sia vostra per ora; io voglio acquistare tutto ciò coi miei guadagni. E se un giorno potrò dire, come spero, che tutto è frutto dei miei sudori, allora il vostro sarà vero benefizio, allora io mi compiacerò d'averlo meritato. Se non mi accordaste questa grazia, io sarei costretto a ricusare di nuovo le vostre offerte generose.» — «Ebbene, rispose Don Alonzo, sia fatto come tu vuoi. Io ti ammiro sempre più, e non mi vergogno a confessare che sei più savio di me. Rispetto l'indipendenza dell'ingegno, e convengo che è meglio che tu ti adoperi con le tue proprie forze a venire in miglior condizione. Hai ragione, i ricchi non debbono donare, ma somministrare al povero i modi perchè lavori, e così acquisti prospero stato con la propria industria. È vero tuttavia che io non aveva intenzione di soverchiarti, ma solamente mi muoveva ad operare così il molto desiderio che ho di farti conoscere la mia gratitudine, e di rendere giustizia alla tua virtù.» — «E a me parrebbe di essere troppo ingrato se non riconoscessi queste buone intenzioni. Perdonatemi: io mi son sentito costretto a parlare in quel modo da un interno sentimento che non saprei come spiegare.» Tanto Don Alonzo che il principale convennero di nuovo che Diego aveva ragione, e che andava lasciato libero di fare in quella maniera.
Carlo non intese alla prima la ragionevolezza di quelle riflessioni; trasportato con ardore dal suo affetto per Diego, avrebbe voluto dargli tutto se stesso, avrebbe barattato condizione; ma poi si avvide che appunto questo suo desiderio di trovarsi nella condizione di Diego piuttosto che nella sua, veniva anche dal vederlo incamminato ad una professione conforme alle sue inclinazioni e alla sua capacità, e dal conoscerlo tanto pieno di saviezza per sapersi regolare nelle diverse occorrenze. Voleva esser Diego, perchè Diego ne' suoi diciotto anni era già uomo fatto per abilità e per senno.
Qui fermiamoci, e godiamo nell'immaginare come Carlo sapesse usar bene della sua fortuna, e come Diego divenisse abilissimo e facoltoso principale di fabbrica, e potesse adoperare l'ingegno per il bene della patria.
VII. Il Dottor Paolo.
Era d'inverno, un sabato sera alle 9; la nebbia sollevatasi dalla neve, perchè il tempo era dolce, ricopriva la campagna. Una buona e povera vedova, dopo essere stata in città a riportare il lavoro fatto e a cercarne dell'altro per la settimana, tornava al suo villaggio distante circa due miglia.
Il lampione del tabernacolo mandava in mezzo ai fitti vapori una luce fosca e sanguigna che non illuminava la via, e faceva all'occhio parer più cupe le tenebre. Ad ogni passo i piedi della Maddalena entravano in una pozza d'acqua mescolata alla neve, che più qua e più là ne impediva lo scolo. Povera donna! per aspettare in città la sua mercede e il lavoro nuovo le era convenuto far tardi, pigliarsi tutto quell'umido, e quel che è peggio pagare il pedaggio della porta e del ponte. Ma era tanto paziente che per la strada non le uscì di bocca nè anche un lamento; e arrivata al tabernacolo del suo villaggio, vi si inginocchiò, secondo il solito, a ringraziare il Signore d'averle accordato il campamento per un'altra settimana. Nell'inginocchiarsi andò per posare il fagotto del lavoro sul muricciolo; ma sentì che v'era roba, e udì un gemito sommesso. Da prima ebbe ribrezzo e paura; ma poi fattasi animo, perchè si accorse che quello era il gemito d'una creatura, tastò lemme lemme, e sotto le mani si trovò il viso e il corpicciuolo d'un fanciullino involto alla peggio in pochi stracci. Non pensando ad altro, se lo raccolse pietosamente in grembo, entrò in casa senza aver trovato un'anima per istrada, lo adagiò al buio sul letto e accese subito il lume per guardarlo. Ohimè! che lacrimevole spettacolo era quello! Figuratevi un bambino di tre anni, smunto, rattrappito dalla rachitide, aggranchiato dal freddo, con la testa e il corpo tutto ricoperto di croste e di bolle dalle quali gemeva una marcia fetente, gli occhi serrati da una cispa grossa e risecchita come la colla, le sopracciglia aggrinzite pel continuo dolore, e appena visibili, la bocca bollosa e ancora in atto di piangere. A quella vista la Maddalena giunse le mani guardando il cielo, ed esclamando: Maria Vergine! Poi le caddero le braccia come in segno di scoraggimento, e restò immobile a considerare quella creatura sì meschina. Ma quanto più le apparve tribolata e schifosa, tanto più le crebbe la compassione e l'affetto, e si fece cuore; poi s'inchinò sopra lui per sentire il debole respiro che mandava; gli tastò il polso, e assicuratasi che era vivo, accese il fuoco per riscaldare dell'acqua, perchè pensò che avrebbe fatto bene a lavarlo, e che l'acqua calda lo avrebbe meglio liberato dal freddo. Quindi gli preparò una pappina, mise il fuoco nel letto, e cercò fra le sue robicciole di che ricoprirlo un po' meglio. Dopo che lo ebbe nutricato con qualche boccone di pappa, di che egli aveva gran bisogno, lo mise a letto, e gli si pose accanto a far delle fila per medicarlo. Si provò allora a domandargli qualche cosa; ma il fanciullo non rispondeva. Solamente al nome di mamma o di babbo dava segno di piangere; ma quel pianto che non poteva essere sfogato, che non trovava libera uscita dagli occhi, lo faceva diventare paonazzo in que' pochi posti del viso dove la carne rimaneva scoperta dalle croste. La Maddalena allora stette zitta: le scoppiava il cuore; ma non lasciava di affaccendarsegli intorno per custodirlo. Finalmente le parve che si addormentasse, e se ne consolò. Ma a lei non venne neppur l'idea di dormire. Tutta quella notte la passò vegliando accanto al malato e continuando a preparargli ogni sorta di aiuti. Appena fatto giorno, mentre il bambino ancora dormiva, la Maddalena andò a chiamare il medico, ed avvertire il parroco di aver trovato quel fanciullo. Le malattie cutanee[13] prodotte in esso dallo stento e dal sudiciume, erano parecchie, e avevano preso tanto piede che il medico si sgomentò. Eppure egli era un brav'uomo; ma in quel paese mancavano i mezzi di studiare quelle malattie, ed egli non sapeva dove si metter le mani. Tuttavia ordinò una ricetta, e lasciò la Maddalena in gran dubbio sulla vita del disgraziato bambino. Il solo spediente che potesse dare qualche speranza era quello di assisterlo continuamente, di tenerlo con pulitezza scrupolosa, e di nettarlo ogni momento dalle marcie. Insomma ci voleva una persona che non avesse altro che fare. In quanto al parroco egli non potè, nè per congetture nè per ricerche fatte, ritrovare i genitori o i parenti di quella misera creatura. Che poteva ella fare la Maddalena povera, sola, e nella necessità di lavorare indefessamente per guadagnarsi il pane? Ma non le dava il cuore di abbandonare quel povero piccino in uno spedale, come le era stato consigliato di fare, perchè sapeva pur troppo che sarebbe stato lo stesso che mandarlo alla sepoltura. Anch'essa era stata madre un giorno, e aveva conosciuto per prova quanto a un bambino siano necessarie le cure di una madre, o di qualcheduno che lo ami con un cuore di madre. Oh! la se lo rammentava sempre il suo Paolo.
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Ell'era nel fiore della gioventù, godeva di tutte le gioje di un matrimonio felice: ogni sua dolcezza, ogni suo pensiero erano il marito ed il figlio. Oh Dio! il vajolo le rapì questo, ed una terribile epidemia la privò crudelmente di quello. Per l'assistenza fatta al marito e poi ad altri meschini colpiti dalla stessa epidemia, per lo sfinimento che sentiva dal non cibarsi bene e dal non aver dormito per tanto tempo, per la perdita di tutte le forze, non ostante la sua fresca età di venticinque anni, la credeva di dovere andar presto a ricongiungersi alle due anime che l'avevano lasciata quaggiù; ma il Cielo avea disposto altrimenti; e la Maddalena, quasi per prodigio, scampò dall'epidemia, e vinse i patimenti del dolore e dello strapazzo. Rassegnata alla sua sorte, si pose a lavorare, a condurre una vita ritirata e tranquilla, senza speranza e senza timori, serbando la memoria dei suoi cari e il dolore di averli così presto perduti.
Ora eccola tornata ad esser madre per adozione, perchè gl'infelici hanno bisogno di amare sommamente chi quanto loro o più di loro è infelice. «Sì, esclamò dopo aver contemplato per un pezzo l'orfanello, il Signore mi levò il mio, ed ora mi affida quello di un'altra madre che sarà morta, poverina! o che per la troppa miseria non lo potrà rilevare. Andiamo, piccino mio, tu piglierai il posto ed il nome del mio Paolo; ti amerò quanto quello al quale io posi questo nome in terra, e che ora si chiamerà Angiolo in Cielo. Quelle forze che Iddio mi avea dato per allevar lui, le impiegherò tutte per te.»
In quel mentre egli s'era svegliato: ma gli occhi non gli s'aprivano per poter vedere la dolce fisonomia della sua benefattrice; nè la bocca poteva sorridere a quell'amore che gli prometteva salvezza. Intanto passavano le settimane ed i mesi, nè per quante prove facesse il medico, nè per quante industrie praticasse la Maddalena, volevano mitigarsi i dolori di quel corpo travagliato. Ogni mezz'ora, posato il lavoro, la pietosa donna aveva una cura, un pensiero, una parola di conforto, un bacio amoroso per Paolo. La notte non chiudeva occhio; e se alla fine qualche leggero miglioramento comparve, più che dalla forza delle medicine, venne dalla continua assistenza, da cento minute cure che solamente amore consiglia e solamente una madre sa porre in opera.
Erano già scorsi tre anni di questa vita tormentosa per ambedue, quando Paolo cominciò a poco a poco a risorgere. Aveva già messo fuori la sua vocina, aveva imparato a chiamar mamma la Maddalena, a rispondere alle sue domande, a farne a lei; s'era trovato finalmente a passare qualche ora senza dolori, a poter rasserenare la faccia di già libera di bolle e visibile nei suoi lineamenti che erano la stessa bellezza. La testa si ricopriva del suo ornamento di capelli neri e lunghi, e il corpo tutto cresceva e diveniva più svelto, nè aspettava altro che le forze per isciogliersi ai moti vivacissimi dell'infanzia. Gli occhi solamente rimanevano ancora serrati, lasciavano sempre nell'anima ansiosa della Maddalena un crudele sospetto. Ella teneva da gran tempo socchiusa la finestra, pensando che se una volta il fìtto velo che faceva ostacolo alle pupille di Paolo si fosse squarciato, la troppa luce vista a un tratto gli avrebbe potuto far male. Ma se quella precauzione fosse stata inutile, se una volta guarito dalle bolle ciliari avesse scoperta la pupilla, ma una pupilla senza vigore? Questo era l'acerbo sospetto che tormentava la Maddalena. Tuttavia con pazienza ella aspettava il momento decisivo; e s'immaginava la gioja che avrebbe goduto insieme con lui se egli non era cieco.
Una mattina d'estate il vento battè nella finestra, mentre la Maddalena era fuori, e fece entrare dallo spiraglio nella stanza un vivo raggio di sole che andò a riflettersi per l'appunto sulla faccia del fanciullino. Se egli non era cieco, doveva a traverso le palpebre meno incrostate di prima, vedere una specie di globo rosso, e provare una sensazione insolita e quasi dolorosa. Intanto, il calore del raggio gli fece impressione in quella parte così delicata del nostro corpo, e nella porzione di faccia che ne era rimasta investita. Levò di sotto le lenzuola le sue braccine, e cominciò ad agitarle in aria come per ghermire od allontanare quel raggio che egli non poteva sapere cosa fosse. In questo mentre la Maddalena tornò, e lo vide in quell'atto. Corse a lui e gli domandò che cosa sentiva: «Caldo qui,» rispose il fanciullo. — «Solamente caldo? non vedi nulla?» — «Vedere, mamma? cosa vuol dire vedere?» — «Non hai nulla ora davanti agli occhi?» e gli parava il raggio. — «Ora no.» — «E ora?» levando la mano. — «Ora c'è qualche cosa che mi fa male.» La Maddalena con un grido di giubbilo corse alla finestra per chiuderla, e d'allora in poi cominciò a medicargli gli occhi nel modo che il medico le aveva ordinato di fare, qualora si fosse accorta che il fanciullo vedesse.
In poche parole, il nostro Paolo riacquistò perfettamente la vista, della quale aveva forse goduto solamente nei pochi primi mesi della sua vita, innanzi che fosse da tanti mali assalito. E belli erano i suoi occhi e maraviglioso diletto fu il suo primo schiuderli alle magnificenze della natura. Chi può ridire la commozione soavissima di un fanciullo dotato di molto ingegno e di cuore amoroso, che dopo aver passati i primi anni della sua vita tra gli spasimi di un lungo dolore, dopo aver languito in mezzo alle tenebre, per la prima volta a mano a mano contempla le maraviglie che lo circondano, e vagheggia l'immagine di colei che lo salvò con tanto amore dalla morte e dai patimenti? Quante dimande aveva egli da fare ogni istante alla sua cara benefattrice! e come ella si studiava di istruirlo, e di fargli vedere tutto ciò che potea dargli nel genio! Presto egli fu in grado di andar con lei in città; e lì sì che si raddoppiavano le interrogazioni e i piaceri. Quando fu divenuto un po' robusto, e che si poteva dire finita la convalescenza, volle aiutare la Maddalena nei suoi lavori, imitare quello che vedeva fare dagli altri; s'invaghì dell'occupazione, e gli riusciva ogni cosa. Essa poi gl'insegnava quel poco che sapeva di leggere e di scrivere, fintantochè non avesse acquistata tanta robustezza da potere imparare un mestiere. Così ella sapeva metterlo a parte dei piaceri e dei beni della vita innocente, educarlo nella virtù e nell'industria. Nè quella della Maddalena era scienza acquistata, ma naturale accorgimento di un'anima buona, ispirazione continua di una carità veramente materna.
Così passavano ambedue lietamente i loro giorni, quando alla Maddalena si manifestò una malattia nell'interno del corpo. Fece di tutto la coraggiosa donna per vedere di superarla senza mettersi in letto: ma finalmente le forze le mancarono, e una mattina si sentì così rifinita, che non aveva neppur fiato di vestirsi. Paolo si accorse che ella piangeva segretamente. Levatosi, le domandò perchè fosse tanto afflitta; ed ella: «Non è nulla, Paolo mio, non è nulla. Mi sento qualche doloruccio; e voglio sapere perchè. Va' a chiamare la Teresa,» che era una sua buona vicina. Paolo sospirando volò in cerca di quella donna. La Teresa accorse; ma v'era bisogno del medico. Venuto questi, trovò una malattia trascurata da lungo tempo, e dubitò che fosse divenuta irrimediabile. La malata si raccomandò che non lo dicessero a Paolo per non affliggerlo troppo; e si rassegnò anche questa volta ai voleri del Cielo. Allora il fanciullo già più franco e più vispo e addestrato dall'esempio della Maddalena a custodire i malati, si pose a renderle come poteva, le cure che ella aveva avuto per lui. Ma le sue, per quanto, povero piccino, ei fosse intelligente e infaticabile, non bastavano; e presto diventò necessario l'aiuto della Teresa. Ma con tutto l'aiuto di lei e l'assistenza del medico, la malattia ogni giorno diventava più pericolosa, e il modo di far la cura necessaria mancava. Nel tempo stesso fu giudicato non esservi da sperare salvezza, altro che in una rischiosa e difficile operazione; che bisognava perciò mandar l'inferma allo spedale, e in ogni caso allontanare da lei quel fanciullo, che per la continua agitazione in cui le teneva lo spirito, poteva nuocerle. Non pensavano che senza vederlo se ne sarebbe afflitta di più, e che le sarebbe mancato un custode, un po' debole sì, ma fidato e costante. È una pietà qualche volta crudele quella di allontanare dal letto di un malato grave le persone che gli sono più care. Ma la forza del male crebbe tanto, che, alla fine, il medico perdette la speranza di guarirla, e l'abbandonò alle cure del parroco, senza più discorrere d'operazione. La Maddalena capì tutto; e quando si vide sola con Paolo, che stava a piè del suo letto, e piangeva sommessamente, con quel dolore che serra la gola, gli fece un cenno di testa e lo chiamò a sè. Quando le fu presso ella si provò a parlargli, ma non potè sulle prime articolare parola, perchè il male e la compassione di quel meschino che, morta lei, sarebbe tornato ad esser infelicissimo, glielo impedivano. Si ripose in calma, e aspettò. Paolo non sapeva ancora cosa fosse la morte, perchè la pietosa Maddalena non glie ne aveva parlato mai; e specialmente quando la vita era in lui tanto incerta, vegliava affinchè nessuno gli proferisse quella parola lugubre. Ma ora, al vedere quasi immobile il corpo già tanto attivo della Maddalena, scolorite le labbra e livide le guance, spento il vivace lume degli occhi, fatta muta quella voce che gli sonava sì cara, fu assalito dal tristo presentimento di una grande disgrazia, senza capire quale potesse essere. Finalmente la Maddalena, raccolte le poche sue forze, e composta la faccia a serenità, proferì a stento queste parole: «Bisogna, figliuol mio, che ci separiamo: non so per quanto, ma sarà per un pezzo. Io non ti abbandono, no; spero che potrò sempre pensare a te. Lo sai se ti voglio bene, e se mi dispiace di lasciarti: ma abbi pazienza. Va' con la Teresa; non dimandare più nulla di me, e non t'affliggere di quello che mi è avvenuto. Tutti, sai, tutti dobbiamo soffrire così prima o poi. Ora è toccato a me. Presto non soffrirò più e sarò felice, e pregherò Dio che faccia felice anche te. Dunque sta' tranquillo e non ti abbandonare al dolore. Tu mi hai obbedito in tutte le cose; so che mi obbedirai anche in questa. Dammi un bacio, e va'.» Paolo non potè rispondere; la baciò e la ribaciò tante volte, poi gli venne un brivido e un sudore diacciato come quello del volto della sua benefattrice. Ma quella faccia e' non l'aveva mai vista serena tanto. Le sue lacrime che vi cadevano sopra, erano un sollievo all'inferma, e la vista di Paolo la consolava come quella di un angelo che fosse venuto a raccorre la sua anima. Intanto il respiro cominciava ad essere più languido e più raro e accompagnato dal ranto: la Maddalena era moribonda. Paolo, non potendo più reggere al dolore, cadde in ginocchio accanto al letto e pregò Dio per la sofferente. Intanto il Parroco ed altre persone entrarono in camera, e si accostarono al letto; e la Teresa prese il fanciullo per menarlo via.
Accorgendosi egli che quello era il momento nel quale doveva essere separato, forse per sempre, dalla sua cara Maddalena, cadde in deliquio, e la Teresa lo condusse di peso a casa sua.
Questa donna era una buona creatura; ma non si poteva paragonare alla Maddalena. Pure la non ricusò di assistere quell'orfano sventurato. Viveva anch'essa del lavoro delle sue mani, ma era un lavoro diverso da quello della Maddalena, perchè andava a opera dai contadini del luogo. Perciò era costretta a star fuori tutta la giornata; e Paolo che avrebbe avuto ancora bisogno di un gran riguardo andava sempre con lei. Quindi, pel desiderio che i fanciulli hanno di occuparsi specialmente nelle faccende campestri, e per la gratitudine verso quest'altra donna che gli faceva parimente da madre, si pose a durare fatiche che non erano da lui. Nel tempo stesso il dolore continuo per la perdita della sua cara Maddalena, il silenzio che teneva intorno a lei per obbedire costantemente, lo oppressero di così crudele malinconia, che presto perdette le forze, tornò pallido e magro, e le sue malattie non ancora vinte, ma solamente sopite, ricomparvero a tormentarlo. La Teresa non lo poteva custodire; i contadini coi quali praticava, temevano che Paolo attaccasse qualcheduno dei suoi mali cutanei ai loro figliuoli. Non volevano che la Teresa lo conducesse più seco, e vedevano di mal occhio anche lei. La povera donna, non sapendo a quale altro partito appigliarsi, per non perdere il suo pane, e non aversi a rimproverare la morte di Paolo, lo condusse in città, e lo lasciò allo spedale. Qui cominciò pel meschinello una vita di tribolazioni più grandi delle passate. Senza un cuore che lo amasse, senza una mano che lo medicasse con la caritatevole diligenza materna, senza una voce che gli dasse conforti, che gli parlasse di care virtù e dolci speranze, in mezzo ai gemiti di tanti altri disgraziati come lui, con l'agonia e la morte dinanzi agli occhi a tutti i momenti... oh! misero Paolo! quando finirai di soffrire? Allora egli si accorse pur troppo quale poteva essere stata la fine della sua benefattrice... Allora intese dolorosamente il senso di quelle fatali parole — bisogna che ci separiamo. — «Dunque non la rivedrò più la mia mamma! oh! sicuramente ella è morta; io la lasciai moribonda. Ma anch'io morirò; sì, morirò presto, lo sento; e anderò a trovarla nel Cielo.» Questo pensiero lo confortava, e specialmente lo confortava di molto quando vedeva passare tante madri che andavano a visitare i loro figliuoli, e si fermavano ai loro letti; ma neppure una al suo! La Teresa, sia che non potesse o non le dasse il cuore di vederlo in tanta disgrazia, non ci capitò mai. Eppure e' l'aspettava: la non era una mamma, la non era la Maddalena; pur sarebbe stata per lui una gioja grandissima il rivederla: ma non ci capitò mai!
Quindi o che la ricaduta del male, come suole accadere, fosse più ostinata, o che la cura dello spedale (non tanto diligente, quanto quella che si può avere in casa da una donna come la Maddalena) riescisse inefficace, Paolo invece di migliorare peggiorava.
La cura de' fanciulli tormentati dai mali della pelle era quasi tutta abbandonata al custode dello spedale, uomo intelligente ed onesto, ma non fornito d'altro sapere che di quel che dà la pratica; di carattere burbero, e poco adatto ad aver pazienza co' ragazzi. E poi erano tanti! A Paolo, che per sè, ma non per loro, desiderava la morte, facevano compassione; e se avesse potuto avrebbe fatto ai suoi compagni di sventura le stesse diligenze che la Maddalena usava con lui per medicarlo, giacchè sapeva per prova quanto quelle fossero più efficaci delle medicine.
Alla fine continuando a peggiorare, ed essendo stato dichiarato incurabile, lo lasciarono quasi affatto in abbandono. Ma egli aveva un temperamento robusto; la natura non più contrariata da male scelti o male applicati rimedj, adoperò le sue forze, e al muovere dell'adolescenza cominciò a distruggere ed espellere da se stessa i mali germi e i pestiferi umori che per tanto tempo avevano infettato quel corpo.
Erano già quattro anni che Paolo languiva in quello spedale. Tutti i fanciulli che ci trovò nell'entrarvi, o erano morti o usciti guariti. Paolo a forza di star lì, con la sua indole tanto buona e tanto paziente, si era fatto amico il custode, che per la prima volta sentiva una tenera compassione per uno dei tanti fanciulli che erano stati alle sue mani.
Cominciata la convalescenza, Paolo non poteva stare ozioso in quello spedale diventato oramai la casa sua; e andando dietro al custode lo ajutava nel curare i malati, e si tratteneva da loro a confortarli, a sentire i loro desideri, i loro bisogni, a ravviar loro il letto, a rilegare le fasce, a ripulirli; a fare insomma tutto quello che la Maddalena faceva a lui. Quei ragazzi, poveretti! avevano preso a volergli un bene grandissimo. Tutti facevano a gara d'averlo un po' accanto al letto. Era diventato il loro piccolo protettore; per mezzo suo ottenevano dal custode certi favori, che per l'innanzi non si sarebbero neppure avventurati di chiedere. Paolo con quella vita operosa, che lo distraeva dalla sua malinconia, e consolato internamente dalla contentezza di far de' servigj e d'essere amato, uscì presto fuori di pericolo; e lo spedale non era più luogo per lui. Il suo letto era necessario per un altro malato; che molti ve ne erano, specialmente in quell'anno. Ma dove rimandare questo ragazzo? a chi consegnarlo? Nessuno era mai venuto a cercarne. Dove sono i suoi genitori? Poverino! afflitto da queste dimande egli non sapeva che si rispondere, e aveva dimenticato il nome del villaggio nel quale fu raccolto; solamente si ricordava del caro nome di Maddalena, e del bene che ella gli aveva fatto. Per lui sulla terra non v'era casa, non v'era una persona che lo raccogliesse.
D'altra parte il custode, quando pensò che tra un giorno o due Paolo se ne sarebbe dovuto andare, sentì un'insolita scontentezza, una smania che non sapeva raccapezzarsi da che dipendesse. Avvezzo da tanti anni a vedere con indifferenza le umane miserie, non tocco mai dal piacere nè dal dolore nè dalla speranza, allora per la prima volta egli sentì il suo cuore commosso; godè nel vedere quel caro giovinetto scampato dal sepolcro, si afflisse all'idea di perderlo, si sentì consolato dalla speranza di conservarlo, e si accorse alla fine che per non perder la testa avrebbe avuto bisogno di lui. Perchè se nelle sue faccende pensava che tra poco l'avrebbe visto partire, non si ricordava più di quello che doveva fare; se ne restava per qualche minuto immobile in mezzo ad una corsia, poi dava una medicina a chi doveva avere un cordiale e il cordiale a chi doveva avere la medicina. Ma appena rifletteva che un modo di ritenerlo ci sarebbe potuto essere, purchè egli volesse, oh! allora subito si ritrovava: accorgevasi degli sbagli commessi, diceva: «Non c'è rimedio, colui m'ha incantato: o egli riman qui, o io gli vo dietro.»
Paolo aveva già avuto il suo certificato di sanità dallo scrittojo dello spedale: nel suo letto era già stato posto un altro malato; e veniva con le lacrime agli occhi a dire addio a Taddeo: perchè sebbene e' fosse burbero, impaziente, duro, pure Paolo gli voleva bene e aveva sempre cercato di entrargli in grazia. Taddeo non era la Maddalena, era anche meno della Teresa: ma alla fine era la sola persona che dopo la mancanza di quelle due si fosse qualche rara volta lasciato scappar di bocca un «Paolo mio! — Povero Paolo!» E tanto bastava all'infelice perchè si sentisse consolato per molto tempo. È vero che dopo questo conforto veniva una sequenza di seccatura e di rimproveri, come se Paolo fosse stato obbligato ad aiutare Taddeo, e Taddeo avesse avuto il diritto di comandargli. Ma tant'è: dopo essere stati insieme quattro o cinque anni, un certo legame s'era pure stretto fra loro; e romperlo a un tratto, per quanto e' fosse debole, non si poteva senza dolore. Quando Taddeo si vide venir Paolo innanzi in quel modo piangendo, col foglio in mano, a passi lenti, a capo basso, col vestituccio di quattro anni fa, sulle prime gli venne da ridere. Il garzoncello a quel riso impallidì; l'addio tenero che voleva dare gli morì sulle labbra sbiancate, e si volgeva per cercare un appoggio sul letto vicino, perchè si sentiva piegare i ginocchi. L'altro allora aggrottò le ciglia indispettito della sua durezza, si diede un colpo sulla fronte come per gastigarsene, e sostenne Paolo con una mano; con l'altra gli prese quel foglio, lo rincincignò incollerito, e lo gettò lontano da sè dieci braccia: «Vieni, vieni, caro Paolo, potevi tu credere che io ti lasciassi andar via? Non so che diavolo tu mi abbia messo in corpo; ma io non voglio stare senza di te. Stanotte sono di guardia: dormirai nel mio letto. Domani penseremo per domani. »
Paolo sorpreso e rincorato, lo abbracciò e gli dette un bacio, ma un bacio propriamente di quelli che paiono portar l'anima seco. Era tanto tempo che non ne aveva più dati! L'ultimo lo aveva avuto la Maddalena. Taddeo che non ci pensava davvero, che non ne aveva mai ricevuti in vita sua, restò come basito a gustarne la dolcezza, e non gli diede l'animo di sciogliersi dalle braccia del giovine amico, come forse avrebbe fatto con una maniera un po' rustica: no; ma si provò anzi ad abbracciarlo con certa tenerezza, e a rendergli un bacio, che fu dato con poco garbo, ma insomma fu un bacio che restituì a Paolo tutto il coraggio che aveva perduto. Così quel materialone di Taddeo che era stato nella gioventù un soldato fiero ed impassibile, che aveva date e ricevute tante schioppettate senza riscuotersi, che s'era visto morire accanto gli amici senza fare una lacrima nè un sospiro, eccolo divenuto tenero e mansueto all'aspetto di un fanciullo addolorato. Tanto è vero che l'innocenza è cara a tutti, e che ai fanciulli, quando sono buoni, riesce ogni cosa, fino d'impietosire un Taddeo. Così l'orfano aveva trovato in lui un padre, come nella Maddalena una madre. Gli toccava al solito a sfaccendare per lo spedale, ma non perchè Taddeo lo pretendesse; che anzi allora non uscì mai dalla sua bocca un comando assoluto; ma lo faceva perchè quella di assistere gl'infelici era la sua vocazione. Avevano tanto assistito lui quando era così disgraziato, che ora divenuto sano, e si può dire fortunato nella sua condizione, rendeva agli altri con generosa misura il bene ricevuto; e siccome sapeva di non fare altro che il suo dovere, così non era mai contento del fatto; avrebbe sempre voluto potere e saper fare di più; e non si accordava mai un'ora di riposo, mai un divertimento, come avrebbe potuto. Perchè Taddeo, non contento di dargli da dormire nel suo letto, di spartir seco la sua porzione, di rivestirlo, spesso gli dava qualche soldo perchè si comprasse le frutta o andasse a divertirsi, e questi regali glieli faceva specialmente più grossi per ogni anniversario delle famose vittorie di Napoleone, sotto il quale avea combattuto; che in tali occasioni ei si sentiva rinascere tutto il suo spirito marziale. Paolo però di quei denari non ne faceva l'uso pel quale gli venivano dati; ma desideroso d'istruirsi comprava qualche libricciuolo e della carta, e da sè, nei pochi momenti di riposo cavava profitto dalle lezioni della Maddalena, che sebbene smesse da tanto tempo, pure egli non avea dimenticate giammai. Intanto il Commissario dello spedale vide più volte rigirare quel fanciullo per le corsìe; e finalmente rammentandosi un giorno che era stato da un pezzo licenziato per guarito, ne interrogò Taddeo. «Consuma del mio, e fa del bene ai malati,» rispose egli con la sua burbera franchezza. — «Ma che ti appartiene questo ragazzo?» — «Non so neppure chi sia, ed egli lo sa meno di me. Gli voglio bene, e mi figuro d'avere un figliuolo. » — «Da quando in qua sei divenuto sì tenero, Taddeo?» — «Da quando in qua? che m'ha preso per un orso me? Per quel ragazzo darei la vita; è una perla. Ho caro che non abbia babbo nè mamma. Gli farò io da babbo.» — «È una carità singolare; ma tuttavia è carità e ti lodo.» — «Non ho bisogno di lodi; fo quello che credo, e mi basta.» — «Se veramente è un buon ragazzo, merita la tua assistenza e quella degli altri. La fisonomia mi piace; dev'essere sveglio ed onesto; poi quando gli vuoi bene tu, me ne fido.» — «Come sarebbe a dire?» — «Dico che tu sei onesto, e per isvegliare la tua stima e la tua affezione ci vuol proprio un fior di virtù.» — «Dunque se si contenta, lo lascio fare. Ha una premura e un garbo a custodire i malati, che mi dà un grande ajuto, e qualche volta.... sì, qualche volta m'ha insegnato certe cose... non mi vergogno a dirlo, che nè un par mio nè il medico di turno con tutta la nostra scienza le avremmo sognate.» — «Mi dici una cosa che mi consola. Voglio conoscerlo bene questo ragazzo, perchè a volte....» — «A volte?...» ripetè Taddeo, squadrando il Commissario con certi occhi di fuoco.... — «A volte si trova l'ingegno dove meno si aspetta; e allora è bene ajutarlo.» — «Oh! a questo ci penso io. Non voglio che venga un altro, e mi levi il merito. Quel ragazzo deve star meco....» — «E che cosa gli vuoi tu insegnare?» — «Oh! questa è bella!...» Una dimanda sì fatta non se l'aspettava; chè poco fa aveva confessato che Paolo avrebbe potuto insegnare a lui e al medico: sicchè ripetè questa è bella due volte, e poi si ristrinse nelle spalle e si mise a guardare i mattoni. — «Non aver paura che io ti voglia levar la mano sul conto del tuo protetto; sarà sempre tuo; ma se potessimo ricavarne qualche cosa più che un custode di malati, non sarebbe bene per te e per lui?» — «che un buon custode di malati è una persona che si trova a ogni canto di strada?» — «Lo so; specialmente abile come te, è cosa rara e da tenerne di conto.» — «Lo credo io!» e incrociava le braccia sul petto scotendo la testa con la nobile alterezza di chi si sente capace di far bene il suo dovere, e più del suo dovere. — «Insomma, non sarai mica geloso se io gli parlerò, se ti darò mano a fare la sua fortuna. purché lo meriti....» — «Ed ella vorrebbe?...» — «Dargli il modo di studiare, fargli uno stato...» — «Davvero? Che la sia benedetto!» e gli prese la mano, e gliela strinse forte forte con un trasporto di gioja grandissima, con quella confidenza che un onesto sottoposto ha pel suo superiore, con quella franchezza di un veterano italiano che combattè sotto gli occhi di Napoleone, e stette a campo insieme ed ebbe dalle sue mani stesse la splendida ricompensa del valore. Poiché quando Taddeo s'accorse che il Commissario pigliava la cosa sul serio (e non era uomo da far di nòccioli), travide la possibilità di fare un gran bene al suo adottivo, e rinunziò volentieri al gusto d'aver egli solo tutto il merito. « — Dunque ci siamo intesi» soggiunse il Commissario, «domani....» — «Ora subito,» riprese Taddeo, tenendo sempre la mano del Commissario che voleva andarsene, e aveva furia; ma gli toccò a restare: chi poteva uscire dalle mani stempiate del veterano? «Eccolo là. — Paolo, Paolo!» lo chiamò risolutamente. Il giovinetto presa la rincorsa verso la voce, e solamente quando fu a pochi passi da loro conobbe il Commissario, e si soffermò abbassando per rispetto e per timidezza la testa. «Animo, buacciòlo, vieni avanti. Il signor Commissario non è una bomba: che paura hai?» Il Commissario sorrise a queste parole, fece animo al giovinetto ed entrò in colloquio con lui. Questi, ripreso animo e incoraggiato dalle occhiate di Taddeo, che gli aveva dato una spinta per accostarlo al Commissario, rispose con ingenuità e con franchezza. Narrò quel che egli si rammentava delle sue sventure: lacrimando parlò della Maddalena, e poi volto a Taddeo cominciò a dirne ogni bene. «Queste chiacchiere non ci hanno che fare» disse allora colui: «dicci che intenzione è la tua, che inclinazione hai: noi ti faremo.... cioè il signor Commissario ti vuol fare del bene.» Paolo non rispondeva. La dimanda era così improvvisa e assoluta, che la meraviglia e la timidezza non gli davano luogo alla riflessione.
«Lo dirò io,» riprese Taddeo con impazienza. «Son già quattro anni che sei qui, e non t'è mai venuto a noia l'assistere questi malati; sei diventato mezzo dottore; vorresti sempre ciacciare con le medicine, leggere i libri di medicina.... A proposito, signor Commissario, lo vede questo tocco di disobbediente? io gli do qualche quattrinello perchè vada a spassarsi, a comprare i dolci, ed egli compra dei libri, la carta....» — «Mi pare che abbia giudizio.» — «Più di me, la vorrebbe dire? Per un verso ne vo d'accordo. Dunque tornando al discorso di dianzi, vuoi tu studiare la medicina, la chirurgia? le intendi le lezioni dei professori? perchè, quando può, mi scappa e va a sentirle....» — «Basta così, disse il Commissario, ho capito; già non aveva bisogno della tua eloquenza, Taddeo; è la prima volta che ti sento ragionar tanto.» — «Quando siamo al campo bisogna menar le mani.» — «Ma qui spero che non troverai nemici. Hai fatto bene però a dirmi queste cose; quantunque i suoi occhi, li vedi? i suoi occhi parlano chiaro. Coraggio, Paolo (e gli batteva la mano sulla spalla), se ti conserverai onesto, sottomesso e studioso, son qua io per secondare il tuo genio. Domani ti manderò da chi ti potrà insegnare tutto quel che è necessario per essere ammesso allo studio della medicina e della chirurgia! Taddeo sarà sempre il tuo padre adottivo; seguita ad obbedirlo, a volergli bene.... Addio, addio.» — Paolo voleva ringraziarlo, ma il Commissario aveva furia, e gli faceva segno di rimanere. Taddeo, tutto contento, si fregò le mani ridendo, e poi disse: «Lo vedi? di che cosa sono capace io? eh! con me non si scherza. Ecco fatta la tua fortuna. Presto, presto, va' a chiamare il sarto. Questo non è più vestito per te. Uno scolaro di medicina deve avere le falde; quand'io ero come te, portavo il lucco; quelli eran tempi!... non si facevano i medici per forza allora....» Paolo dovè correre, senza rifiatare, in cerca del sarto; e Taddeo, esclamando: «Anche questa è fatta, andò a continuare le sue faccende. Quando Paolo fu solo, e potè riflettere all'accaduto, gustarne la gioja, accoglierne le speranze e ringraziare Taddeo, benché non fosse presente, si abbandonò a tutto l'impeto degli affetti; saltò, corse, batté le mani, pareva un frenetico. Poi la memoria della Maddalena comparve in mezzo a questo trambusto d'idee, e le ripose in calma spargendo sulla sua anima una dolce melanconia.
Quella donna amorosa, ei la lasciò in braccio alla morte; ma era egli certo che avesse resa l'anima a Dio? Oh! aveva già obbedito per tanto tempo; ora gli pareva di potere senza colpa farne ricerca. Perché tanta contentezza che ora godeva? chi aveva egli a cui farne parte su questa terra? Taddeo era umano, sì, era il suo angelo custode, teneva le veci della Maddalena; ma con un uomo di quel carattere non si poteva sfogare. E poi la sua gioja non poteva essere intiera se colei che gli salvò la vita non avesse visto quale uso era egli venuto al punto di farne. «Oh! girerò tutti gli spedali, tutti i villaggi, ne domanderò a tutti; la troverò finalmente; Taddeo non se l'avrà a male; è tanto generoso! sa che le voglio bene come a lui; egli sarà il babbo, essa la mamma; allora sarò felice davvero.» Ma consolato appena da questa speranza, si risovvenne dello stato nel quale la lasciò, e dell'operazione pericolosa; rifletté che se fosse sopravvissuta, avrebbe già fatto ricerca di lui; era impossibile che quella cara donna avesse voluto abbandonarlo! Queste riflessioni lo fecero ricadere nell'afflizione, amareggiarono tutta la sua letizia; si sentì mancare, perse il lume degli occhi, non potè più andare innanzi, e dovette appoggiare la testa sopra un piolo.
Egli aveva una di quelle vispe e amabili fisonomie che talora si vedono tra i garzoncelli della campagna; aperta la fronte, bruno il colorito della faccia, il naso un po' aquilino, incarnate le labbra, svelto il collo e molto sporgente la laringe. Gli occhi erano un po' infossati sotto ampie ciglia, ma con il globo molto rotondo; e la pupilla nerissima, aveva una vivacità e una movenza, che ad affissarla si provava un senso d'amore. I capelli folti e ricciuti a grandi anella gli scendevano sul collo, e facevano rilevare le belle forme del volto. Nella sua età di undici anni aveva la persona svelta e più grande dell'ordinario; e chi l'avesse veduto quando lo raccolse la Maddalena, certamente non si sarebbe persuaso che fosse il medesimo Paolo. Tanto è vero che la temperanza, l'innocenza e l'attività aiutano le forze della natura a rendere sano e robusto un corpo meschino e tribolato dai mali.
Dopo esser rimasto in quella positura per qualche tempo, ritornò in sè, ma con la solita malinconia sulla faccia; potè camminare, ma a lenti passi. Quando Taddeo lo rivide in quel modo, gli disse un visibilio di cose per farlo tornare allegro: ma Paolo non fu contento, se non quando ebbe il permesso di poter andare giorno per giorno a far ricerca della Maddalena in quei luoghi ove s'immaginava di poterne avere notizia. «Lo so io dove la troveresti, disse il veterano: a quest'ora sarà sotto terra, povera donna! ma cerca pure; non ti voglio distruggere quest'illusione. Basta che in questo mondo non si possa esser mai contenti per l'affatto! Che miseria!» e con un gran colpo sulla fronte scacciò il mesto pensiero. Fin da quel tempo Paolo si mise a studiare con grandissimo zelo: presto potè essere ammesso alle lezioni dello spedale; sostenne onorevolmente tutti gli esami; conservò sempre le sue buone qualità; fu adorato dai suoi condiscepoli, dei quali in poco tempo divenne il primo; ebbe pel Commissario una gratitudine esemplare; e stette sempre sottoposto al suo caro Taddeo, che ne andava propriamente superbo. Così nulla sarebbe mancato alla sua felicità, se avesse potuto ritrovare in vita la Maddalena; ma tutte le sue ricerche furono inutili, e si rassegnò.
Aveva già cominciato ad esercitare la professione con buon esito; tutti i suoi studi erano principalmente rivolti alle malattie cutanee già per l'innanzi troppo trascurate in quella città; e così faceva un bene che da tanto tempo era desiderato; e non si allontanava da Taddeo. Anzi i superiori, conosciuta questa mancanza, e sapendo quanto ormai il giovine fosse valente, affidarono a lui la cura dello spedale dei cutanei e lo incoraggirono a propagare lo studio di quel ramo di scienza. V'era in quella città un ampio luogo di ritiro pei poveri di tutte le età, e per gl'infermi dichiarati incurabili. Colà infierivano maggiormente le malattie della pelle tra i fanciulli. Vi fu mandato Paolo per introdurvi modi di curare più efficaci, riformare e disporre a seconda dell'occorrenza. Egli vi trovò molti abusi e molta incuria, ma seppe con lo zelo, con le sue buone maniere e coll'autorità di un giovine sapiente e virtuoso, mitigare gli effetti del male e togliere le cause che lo fomentavano. Nel fare la visita di tutto quell'edificio passò anche nel quartiere delle donne e nel dormentorio delle incurabili. Tra quelle meschine ve ne fu una, la quale udendo proferire il nome di Dottor Paolo, mentre egli teneva a lei volte le schiene, alzò lentamente la testa dal capezzale, e guardò; poi ricadde sospirando in una specie di letargo. Paolo sentì quel sospiro: si volse, e vide un'inferma sulla cui faccia magra e pallida si scorgevano i segni di un dolore profondo. Si accostò con segreta commozione al suo letto, s'incurvò su quella faccia, e trovò nei lineamenti una somiglianza. La donna teneva gli occhi serrati, e forse non si era accorta del suo accostarsi. Paolo tremando, con bassa voce le domandò: «Che male vi sentite buona donna?» Ella aperse gli occhi languidamente e a fatica rispose: «Che vuol ella ch'io dica? aspetto che il Signore mi tiri a sè.» Quella voce gli parve di riconoscerla. Interrogò l'infermiere, e seppe che dopo aver essa scampato la morte, e sofferto un'operazione rischiosa nello spedale, vi era rimasta per molto tempo a fine di ristabilirsi in salute: ma i patimenti sopportati le avevano tanto pregiudicato, che divenuta inferma fu recata in quel luogo e abbandonata dai medici. Erano già undici anni che vi languiva; tutti l'avevano dimenticata; ma dalla sua bocca non era mai uscito un lamento; solo di quando in quando sospirava, e le avevano udito proferire sognando il nome di Paolo. Domandò come si chiamava, e gli fu risposto «Maddalena.» — «È lei senza dubbio, » esclamò Paolo fuor di sè dalla gioja. Ma si sforzò di calmarsi per non le cagionare una commozione troppo forte, alla quale, nello stato in cui era, avrebbe potuto soccombere. «Dite, Maddalena (le domandò egli), ve ne ricordate di un povero ragazzo che teneste tanto tempo con voi prima di ammalarvi?» La donna a questa dimanda si scosse, riaperse gli occhi con vivacità, fece uno sforzo come per alzarsi a sedere sul letto, e poi affissando il volto di Paolo con una espressione di meraviglia e di rammarico, disse: «Se me ne ricordo? il mio Paolo! Ditemi, ditemi, cosa n'è stato? Chi siete voi? Prima di morire...» — «State quieta, può essere che abbiate la consolazione di rivederlo presto. Ha cercato di voi, ed è in grado di ajutarvi, di rendervi il bene che gli avete fatto.» — «Dov'è, dov'è? ch'io lo veda subito il mio figliuolo!» E gli stringeva la mano; e dal pianto della consolazione non poteva parlare e pareva volesse uscire dal letto per andare ad incontrarlo. «State quieta per amor suo. Adesso non è tempo. Vi prometto che presto lo rivedrete, e verrà a cavarvi da questo luogo; vi metterà in casa sua, perchè siate custodita meglio. Sapete? per essere felice non gli manca altro che di stare con voi e di vedervi un poco ristabilita. Dunque serbatevi a lui; addio per ora.» E scappò, perchè non poteva più reggere. Corse a Taddeo, e gli gridò da lontano: «La Maddalena è viva! Taddeo, l'ho trovata, l'ho vista!» — «Laus Deo!» rispose egli senza scomporsi; «ora non sarai più malinconico.» — «Sì, Taddeo, siamo felici: ma poveretta! in che stato...» « — Hai fatto miracoli per gli altri, ne potrai fare uno per lei. Animo! voglio vederla. Che male è il suo? troveremo insieme il rimedio; faremo un consulto, fra me e te; e scommetto che la facciamo guarire.» — «È inferma.» — «Non ti sgomentare; ne ho visti degli altri ritornar sani. Povera donna, chi sa quanto ha penato senza di te! Col rivederti, la metà della guarigione è bell'e fatta.»
La fiducia di Taddeo era temeraria, a dir vero, ma valse ad accrescere quella di Paolo, e subito ambedue si posero a prepararle la miglior camera che fosse nel loro quartiere. Quindi egli tornò con lui dalla Maddalena, che aspettava con ansietà e con impazienza l'istante di rivederlo. Ma le pareva un sogno. Era stata un pezzo senza pensare al suo figliuolo adottivo; perchè dopo aver sostenuto l'operazione, aveva perduto i sensi, e restò per molti mesi in una specie di stupidezza e di dimenticanza di tutte le cose. Poi quella memoria le tornò, ma vaga ed incerta. Ora di tutto si rammenta, ne parla a tutti, e ogni poco ne domanda. Ma l'infermiere le risponde secondo l'istruzione di Paolo, e la prepara a partire.
Finalmente eccolo. La Maddalena lo vide, e guardò subito dietro a lui; ma rimase mortificata allo scoprire un vecchio, e quasi sospettò che avessero voluto ingannarla. Paolo accostandosi al letto, se ne accorse, ma subito le disse: «È tanto tempo che non ci siamo visti, che tu non mi hai riconosciuto. Sono io il tuo Paolo; son io che ti ho cercato tanto; sono io quello che tu liberasti dalla morte. Io ti credeva perita; ma ora.... ora sono felice;» e si abbracciarono con tanta espansione d'affetto, che Taddeo e gli altri ne piangevano per tenerezza. La Maddalena senza poter parlare lo accarezzava, lo affissava e pareva che coi cenni dicesse: «Oh! ti conosco ora: quegli occhi, quella fronte, quella bocca; oh! sì; non m'inganno.» Questa gioja indescrivibile di ambedue si prolungò tanto, si sfogarono tanto col piangere, che la Maddalena non ne risentì alcun incomodo; anzi parve un poco ritornata in forze, e poterono facilmente portarla subito nella casa di Paolo.
Taddeo che aveva già chiesto il riposo dal suo impiego, pose il suo letto accanto a quello della Maddalena, e in breve tempo tanto fecero con la loro assistenza, che ella non era più inferma. Aveva già ripreso il suo spirito, cominciato a camminare ed a lavorare; che sempre le pareva un sogno; sempre domandava a Taddeo se tutto questo era vero. Il veterano a tali dimande qualche volta era tentato d'andare in collera; ma si sfogava con qualche barzelletta che la faceva ridere... eppure non aveva mai sognato in vita sua di dire barzellette. Ma la forza della virtù e dei teneri sentimenti è così grande, che vale a far diventare ilare e dolce il carattere più burbero ed il più austero.
Chi avesse visto nella camera della Maddalena queste tre persone riunite come se fossero d'una medesima famiglia, chi avesse potuto leggere nei loro cuori, avrebbe conosciuto davvero quanto i legami dell'amore e della gratitudine siano talvolta forti e soavi quanto quelli stessi della natura.
Anche il Commissario e qualche amico di Paolo ne erano spesso testimoni; e Paolo si poneva in mezzo ai due vecchi, e diceva: «Eccoli qui i miei genitori,» e una lacrima di consolazione spuntava sulle sue ciglia nell'abbracciarli.
Ma Paolo era diventato un signore. La sua abilità nella medicina gli aveva già procacciato i modi di beneficare ampiamente i suoi protettori, e di procurar loro tutti i comodi della vita. Quando la Maddalena fu in grado di respirar l'aria aperta, egli comprò una villa prossima alla città, e vi si allogò co' suoi cari. Quella villa era vicina al villaggio della Maddalena. I vecchi del luogo si ricordavano della povera pigionale; se ne ricordò anche la Teresa, ed arrossì di aver potuto abbandonare quel fanciullo che era stato affidato alla sua carità; ma Paolo e la Maddalena si rammentavano solamente di quel po' di bene che ella aveva lor fatto con assistere l'una e col tenere l'altro per vari giorni in casa sua; e le resero a mille doppi il suo benefizio. Taddeo si pose a coltivare un giardinetto, a far l'infermiere dei contadini malati, e insieme con la Maddalena, servendosi del bene che Paolo dava loro a larga mano, divennero i benefattori del luogo. Intanto la fama e la fortuna di Paolo crescevano.
Specialmente con la sua abilità nella cura delle malattie cutanee fece alla patria uno dei più grandi benefizi. I molti poveri tribolati da quei mali tormentosi trovarono in lui un protettore. L'emulazione dei giovani studenti di medicina fu risvegliata, i professori già fatti sentirono stimolato il loro zelo a sollievo del popolo, e conobbero viepiù l'importanza di questo ramo di medicina: il governo istituì una cattedra espressamente per insegnarlo, e l'affidò al sapere di Paolo. Il primo giorno dell'apertura di essa egli fece un discorso così eloquente, che svegliò l'entusiasmo della numerosa scolaresca. Tutti vollero accompagnarlo con lieti evviva sino alla sua villa; e Taddeo e la Maddalena furono testimoni di questo trionfo del loro caro figliuolo adottivo. Quello fu il più bel giorno della loro vita.
VIII. La Ricompensa.
Un valente e facoltoso gentiluomo, dopo aver viaggiato per parecchi anni i più culti paesi dell'Europa, ritornò alla sua patria; ma invece di scegliersi a dimora il palazzo che aveva nella città, volle prima recarsi a una sua villa da questa molto distante, forse perchè la quieta solitudine gli parve più opportuna a riflettere riposatamente sulle cose vedute fuori via. E i primi giorni gli piacque di visitare le terre di sua pertinenza intorno alla villa, dubitando che per esser tanto tempo rimaste senza la vigilanza del padrone, fosservi molti guai da scoprire e da riparare. Inoltre egli aveva osservato, e studiato viaggiando, i perfezionamenti fatti nell'arte agraria dai popoli più industriosi, e seco stesso si proponeva di ricavarne qualche costrutto a pro dei suoi poderi. Non è a dirsi ora la piacevole sorpresa del nostro gentiluomo, quando s'accorse che le sue terre comparivano meglio tenute e più ubertose di quando n'era partito, e che anzi vincevano il paragone delle più belle culture ammirate nei suoi viaggi; che i contadini erano meno rozzi nei modi, più diligenti nelle campestri faccende, e maggiormente amorevoli e concordi tra loro, e che parecchi di essi, adulti e fanciulli, già sapevano leggere e scrivere e far di conto. E ogni volta ch'ei domandava come e da chi fossero state immaginate e condotte le utili novità, che di mano in mano gli cadevan sott'occhio, venivagli sempre nominato il vecchio Marco.
E chi era egli mai quest'uomo del quale tutti parlavano con giubbilo e con rispetto? Null'altro che un contadino, il quale era capitato alla fattoria poco dopo la partenza del padrone, e aveva chiesto lavoro, e fu preso a opra per potare le viti, giacchè quella era stata l'abilità nella quale potè far subito buona prova. Il vecchio Marco, datosi presto a conoscere per agricoltore abile, per uomo onestissimo, serviziato e indefesso lavoratore, aveva ottenuto la fiducia e la stima di tutte le famiglie coloniche dei contorni. Era sua cura speciale il coltivar l'orto della fattoria e una vigna staccata dagli altri poderi; e abitava soletto in una casipola o piuttosto in una capanna accanto alla vigna.
Il vecchio Marco adunque aveva consigliato e dimostrato con l'esempio i miglioramenti più sostanziali in varie culture, quei miglioramenti che proprio persuadevano tutti, anche i più restii, perchè si vedeva bene che derivavano dall'accurata osservazione e dalla lunga esperienza; il vecchio Marco, facendosi benvolere pei modi amorevoli, sinceri e piacevoli, e acquistandosi credito con la illibatezza dei costumi, con l'abilità, con la modestia, era divenuto amico dei capocci, aveva ottenuto la venerazione e l'affetto dei giovani e dei fanciulli; e i suoi consigli, le sue esortazioni, i suoi pareri valevano a mantenere la moralità, la benevolenza e la prosperità in ogni luogo; il vecchio Marco raccoglieva in una stanza terrena della fattoria quando i giovani e quando i fanciulli, e in ore e giorni diversi secondo le stagioni e le faccende, insegnava loro molte cose, utili all'onesto vivere di ciascheduno, e gli ammaestrava nel leggere, nello scrivere e nell'abbaco fino a quel tanto che poteva ad essi giovare a regola dell'età e della condizione; e spesso nelle lunghe sere d'inverno, faceva il medesimo in alcune case dove si radunavano più madri e più fanciullette desiderose anch'esse d'approfittarsi dei suoi utili e graditi ammaestramenti. Quando il gentiluomo ebbe saputo tutte queste cose, volle andar subito a visitare il vecchio Marco, e lo trovò appunto che lavorava attorno alle viti. Il contadino salutò con rispetto il possidente; e questi onorò la sua canizie, gli manifestò alla presenza de' circostanti la contentezza d'aver saputo e visto i buoni effetti della sua virtù operosa, e gli chiese dipoi un abboccamento da solo a solo.
Entrati nella capanna, il gentiluomo ebbe subito a fare attenzione alla polizia e al buon ordine che vi si vedeva. Pochi attrezzi semplici e ordinari, ma quanti potessero bastare ai discreti bisogni d'un contadino; il letticciuolo consistente in un pagliericcio, separato dal focolare con un tramezzo di legno; qua bene assestati gl'istromenti dell'ortolano e del vignajolo, colà un tavolino con sopra il libro del Vangelo e parecchi libercoletti che il vecchio adoperava per ammaestrare i molti suoi alunni. Marco poi aveva una fisonomia austera, ma nel tempo stesso piacevole e affettuosa; era piuttosto magro, con le carni abbronzite pel sole, e alquanto curvo dalle fatiche e dagli anni; ma sempre vegeto e franco e robusto. Vestiva pulitamente, ma nè più nè meno come gli altri campagnoli, ed era pieno di garbatezza, senz'ombra di servilità o d'affettazione. Tutti godevano infatti di conversare seco lui, benchè nessuno si rammentasse d'averlo visto ridere o d'aver udito dal suo labbro racconti burleschi o triviali barzellette. Anzi alcuni avevano osservato che imbattendosi egli in un giovinetto, pareva improvvisamente assalito da una profonda malinconia, benchè si studiasse di dissiparla o di nasconderla.
Postisi a sedere l'uno in faccia dell'altro, il gentiluomo incominciò: «Una buona ventura è stata per me e per questa campagna il vostro arrivo tra noi, o rispettabile vecchio. Voi avete saputo in pochi anni migliorare l'industria, e quello che più importa, i costumi di questo luogo. Per tutto io ritrovo uomini e donne più lieti e contenti del loro stato e di se medesimi, fanciulli bene avviati, persone che benedicono il vostro nome; son divenute ubertose le terre che io lasciai sterili e inculte; vedo meglio custodite quelle che già davano qualche frutto; le raccolte dei grani e dei fieni sono andate ogni anno crescendo, la vite e l'ulivo mostrano gli effetti d'un intelligente cultura; e il buon andamento, la pace, l'amorevolezza delle famiglie fanno sì che questo sia divenuto un soggiorno propriamente beato.... Tutto ciò è opera vostra. Così è. Mentre io viaggiava per ricavare dagli altri popoli istruzioni ed esempi, un semplice agricoltore, seguendo gli ammaestramenti del buon senso e della natura, faceva qui, contro ogni mia aspettazione, più di quello che io mi figurava di poter conseguire con molti anni di fatiche. Amico mio (permettete che così vi chiami col labbro, mentre il cuore vorrebbe darvi piuttosto il nome di padre), amico mio, se noi fossimo ai tempi del gentilesimo, io crederei che una divinità fosse scesa dall'Olimpo sotto codeste umili spoglie per farsi protettrice de' miei campi; ma i modi che avete scelti per ottenere tutto questo bene, lo so, non hanno nulla di favoloso nè di soprannaturale. Alla virtù operosa e costante riesce tutto, e la voce fraterna e autorevole d'un uomo esperimentato val più dei comandi un principale, o della scienza di chi studia sui libri. Nondimeno, se io non vi chiedo troppo, e se l'immaginazione m'inganna, ditemi di grazia: Siete voi propriamente quello che le vesti rozze e le mani callose e la faccia bronzina addimostrano? piuttosto, quantunque nato e educato altre opere e ad altri studj, vi piacque mutare spoglie e costumi, e segregarvi tra gli onesti montanari, per fuggir forse il doloroso spettacolo della depravazione che predomina nelle città?
Marco rispose: «Signore, voi siete il possessore della terra ch'io lavoro, e che da qualche anno mi dà il campamento; gli è giusto dunque che abbiate contezza dell'esser mio. Ecco qui, come voi mi vedete i' son nato contadino, e sono stato sempre contadino; con questo di differenza ch'io lavoravo sul mio; e se gli è vero ch'io ne sappia un po' più di qualchedun altro, posso ringraziare mio padre e gli anni che ho sulla schiena. Dovete anche sapere che il nostro campo era prossimo alla città in una collina molto fertile, e che noialtri abbiamo potuto sperimentare di mano in mano le migliorìe suggerite da chi s'intendeva d'agricoltura. E benchè, lasciatemelo dire, la conclusione di molte novità e d'un visibilio di prove fosse quella d'attenersi per la più sicura a' semplici ricordi de' nostri vecchi, nientedimeno quelle lezioni ci aiutavano a levarci dal capo molti pregiudizi e a conoscere il perchè di molte cose per essere più sicuri del fatto nostro. Dunque non vi state a maravigliare di quel po' di bene che voi vedete ora su' vostri poderi; e se anche fosse dipeso tutto da me, persuadetevi ch'io non avrei ragione di farmene bello. Gli è che quando il contadino è diligente e sta al sizio; quando sa scegliere il tempo per le faccende, senza pretendere dalla terra più di quello che la può dare; e quand'ei segue i buoni consigli, non di mala voglia o alla cieca, ma perchè è docile e intelligente, oh! allora è naturale ch'ei vada sempre di bene in meglio. Del resto, ho fatto quello che l'esperienza m'aveva insegnato per farne il mio pro, senza tener segreto nulla a nessuno. Coloro che hanno visto e che hanno conosciuto ch'io facevo meglio di loro, a poco per volta son rimasti persuasi: m'hanno fatto delle dimande, ed io ho risposto; e siccome una cosa tira l'altra, ho preso allora occasione di ragionare anche su quelle di cui non mi domandavano. Chi ha saputo darmi retta se n'è trovato bene; e poi voi sapete che nessuno ha gusto d'esser da meno degli altri. E così, se v'è qualche merito, tutti n'hanno la loro parte. Ora poi, vi dirò la disgrazia che mi fece perdere quel campo dove i miei vecchi, di generazione in generazione, avevan mangiato il pane del proprio sudore. La guerra che anni sono messe a soqquadro tanti paesi, come voi sapete meglio di me, fu uno sperpero d'uomini, e massime di gioventù, da ricordarcene per un pezzo. Io, di tanti che s'era in famiglia, restai solamente con due figliuoli; l'età, le malattie, le afflizioni avevano mandato al cimitero i vecchi e le donne; un fratello scapolo mi morì nella prima campagna d'Italia. Quando Napoleone volle andare a perdersi in Russia, anche il mio maggiore fu coscritto; quell'altro era sciupato dalla rachitide, gracile e quasi ebete; ma Lorenzo, oh! Lorenzo era bello, era robusto, era alto della persona, coraggioso come un leone. Se si fosse trattato di mandarlo proprio alla guerra pel nostro paese, figuratevi! anch'io, benchè vecchio, avrei preso il fucile; ma Bonaparte, dicevano, non pensa più all'Italia; s'è lasciato avvilire da una bassa ambizione: corre a precipitare ogni cosa; e que' poveri giovani dovranno spendere il proprio sangue per gli altri, in luoghi tanto lontani, e senza utilità per quello dove son nati. Allora mi venne voglia di far di tutto per serbarmi Lorenzo; ma non bastò che vedessero l'infelicità di Niccola, che invece di darmi un ajuto nella vecchiaja aveva bisogno della mia assistenza! Mi fu fatto sperimentare se per quattrini.... e io a vendere inclusive il nostro podere.... Ma quei quattrini andarono senza costrutto nelle mani rapaci di chi si faceva pagare le promesse con animo deliberato di non le mantenere!... insomma il mio povero Lorenzo dovè partire, e io rimasi a custodia di quell'altro che senza di me sarebbe morto di stento. Allora industriandomi alla meglio coll'andare a opra dai contadini del vicinato aspettai un pezzo il ritorno di Lorenzo; e in quel frattempo mi s'ammalò Niccola, e non fu possibile di salvarlo.... Povero ragazzo! è vero che con quella struttura non avrebbe potuto campar di molto, e che a essergli padre non v'era da consolarsene; ma nientedimeno io gli voleva un gran bene, e forse più che s'ei fosse stato appariscente e rigoglioso come quell'altro. Non vi starò a dire se l'afflizione mi messe in terra; e, senza la speranza che Lorenzo tornasse, a quest'ora.... Ma che? Lorenzo non tornerà più! E io son sempre vivo. Iddio non ha voluto che questi dolori m'uccidessero! Sia fatta la sua volontà!...»
«E come potete voi esser certo di non rivederlo? Alcuni altri che si credevano perduti in tanta vastità e in tanta lontananza di paesi, ritornarono inaspettatamente in seno delle loro famiglie.»
«Giacchè voi avete la bontà d'ascoltarmi, sentite il rimanente. Questa è la prima volta ch'io paleso ad altri la storia dolorosa delle mie disgrazie. Non vi faccia specie di vedermi le ciglia asciutte, perchè alla mia età le lagrime, se me ne fossero rimaste, mi leverebbero il fiato. Gli è un gran pezzo ch'io so piangere qui dentro! Gli è anche un gran martirio, lo so; ma piuttosto questo che lasciarsi indebolire fino al punto di perder l'uso della ragione. Dopo ch'io ebbi sotterrato Niccola, cominciai a non aver più lettere di Lorenzo: poi vennero le notizie dei gran rovesci di Bonaparte! Io, come potete figurarvi, rimasi sgomento; ma piuttosto che starmene a spasimare in casa, mi volli mettere in cammino pellegrinando per tutti quei luoghi di dove Lorenzo mi aveva scritto. Girai tutti gli spedali; ne domandai a quanti potevano essere stati del suo reggimento; scrissi lettere; mi trattenni dove un barlume di speranza mi s'affacciava; e alla fine, senza più denari, spossato, scoraggito, mi vidi costretto a tornare indietro. Un giorno io attraversavo, pensate voi con che cuore, una di quelle terre dove si vedevano ancora i segni della guerra, e mi ritrovai sopra un campo dove morirono tante migliaja, che l'ossa non erano ancora tutte sepolte. Più qua e più là si scorgevano alcune croci; una era caduta. Io mi chinai per rialzarla sul monticello dov'era stata confitta, e vidi una larga lastra di pietra con sopra parecchi versi di scritto scolpito malamente, forse dalla punta d'una bajonetta. E quei versi dicevano: «Qui sessanta prodi, tutti Italiani, combatterono valorosamente per due ore di seguito contro cinquecento nemici, e vollero piuttosto morire che arrendersi. Le loro ossa posano sotto questa pietra, confuse con quelle dei molti nemici che caddero in questa lotta tremenda. Ora la pace dell'eternità li congiunga fratelli nel cielo. Conduceva questo drappello il capitano....» Ma qui la pietra era spezzata, e allora anche tra' versi riconobbi i colpi che v'erano stati scagliati, come per ridurla tutta in frantumi, anche prima che il tempo la consumasse. Ma io smanioso di raccapezzare il resto dello scritto, andai brancolando tra quelle macerie e mi posi a guardare con attenzione tutti i sassi che mi venivano alle mani. E infine alcuni ne ritrovai, dove potei leggere un nome, e tra quei nomi.... Ah! io avevo detto di non poter più piangere! Queste lacrime sono per lui!... Allora mi sparì il lume dagli occhi, mi sentii scoppiare il cuore, e mi lasciai cascar come morto. Il resto non lo posso raccontare, perchè non so dopo quanto tempo, riavutomi un poco, mi vidi disteso sul letto d'uno spedale. Quegli che venne lì per assistermi non intendeva la mia lingua, nè io la sua; e nessuno vi fu che potesse intendere il mio dolore! In capo a quindici giorni mi ritornò la forza per reggermi in piedi, e fui subito condotto dinanzi a una specie di commissario. Costì in cattivo italiano mi sentii dire che le carte trovatemi addosso non erano in regola; e mi fu fatto poi un visibilio di domande, alle quali si vede bene che tra l'imbarazzo di non intenderci e lo sbalordimento del mio dolore e della febbre sofferta, io non seppi rispondere a garbo, perchè la conclusione fu che mi vidi rinchiudere in un carcere. Ma come Dio volle, un mese dopo ne fui liberato, a patto peraltro che uscissi subito da quel paese e non avessi più l'ardire di ritornarvi. Anzi, per meglio assicurarsi de' fatti miei, mi fecero scortare sino ai confini da due soldati. Ora considerate voi quant'io dovessi patire nel mio viaggio! L'acqua, il freddo, la fame, e, le più volte, appena un cantuccio di stalla per ricoverarmi la notte! Ogni poco mi sentiva spossato da non poter andare più innanzi; ogni poco, invece di mettermi a mendicare un altro soccorso, mi veniva la voglia di lasciarmi piuttosto finire dallo stento sul cimitero d'una chiesa. Ma poi la speranza di rivedere, almeno di sulla vetta dell'Alpe, il mio paese, mi faceva animo; e più che mi accostava, più mi pareva di ritrovarmi gagliardo. Oh, sì: quando fui su que' monti di dove si principia a scorger l'Italia, mi parve a poco a poco d'essere un altro; l'aria, l'azzurro del cielo, la bellezza della terra mi fecero quasi dimenticare per un momento le mie disgrazie, e scesi a passi più franchi, e guardai con occhi bramosi.... E davvero questo è il paese più bello di quanti n'ho veduti nel mio doloroso pellegrinaggio!.... Ma nessun v'era che mi chiamasse padre o fratello! Degli amici ch'io aveva lasciato, i migliori erano tra que' più; e io mi sentii crescere il crepacuore a ritrovarmi solo tra tanta gente. Ecco perchè mi venne desiderio di finir la vecchiaia in questi luoghi più solitari; e qui, per la buona accoglienza che subito mi fu fatta, mi sentii rinascere un po' d'amore alla vita. E poi desiderai di mostrarmi buono a qualche cosa, non foss'altro per gratitudine a chi m'aveva levato di sulla strada. Ma io, povero vecchio, con che cosa potevo contraccambiare questo benefizio? Col lavoro e con l'esperienza di chi ha fatto il contadino sotto le porte[14] d'una città. E se v'è stato da ricavarne qualche costrutto per utile di questa buona gente, mi consolo d'avere in parte pagato così il mio debito.»
Il gentiluomo, commosso al racconto di Marco, gli prese la destra, se la strinse al petto, e non aveva parole per esprimere i sentimenti d'amore, di cordoglio, di venerazione che lo agitavano in folla. Dopo averglieli dimostrati come meglio poteva, rispose:
«Amico, se noi dovessimo parlare di benefizi, è chiaro, e voi dovete confessarlo, che ora il beneficato son io insieme con queste famiglie che da voi ricevono educazione, ammaestramenti ed esempj di virtù....»
«Scusate, ma io non so come c'entri la virtù; qui si tratta di doveri....»
«Oh! ma troppo rari sono coloro che gli adempiono come voi!»
«E se questo fosse? Voi non mi dovreste far merito de' mancamenti degli altri. D'avanzo qualche volta uno si figura d'aver a essere chi sa che in tante cose da nulla, ancora che nessuno glielo dia a credere! a me basta che fintanto mi reggeranno le forze, voi mi diate licenza di lavorare la vostra terra....
«Ma che cosa dite voi? Anzi io son qui per esortarvi a uscire da questa meschina capanna, e scegliervi una buona stanza nella villa, accanto a me. Voi siete vecchio, avete bisogno di qualche comodo, di coprirvi di vesti meno rozze, di nutricarvi meglio, e soprattutto d'un po' di riposo. Oh sì! a codesta età, dopo i disagi sofferti, ormai è tempo di lasciar la zappa e la vanga. Per insegnare ai miei contadini basta la vostra voce: dell'esempio n'avete dato assai; e la vostra vigilanza farà sempre un gran bene. Fin d'ora io v'assegno il mantenimento come se foste uno della mia famiglia; m'onorerò di tenervi alla mia stessa tavola, e vi prego d'accettare una provvisione in denaro. Voi sarete il capoccia dei miei contadini e il Mentore dei loro figliuoli. Se non è in poter mio di rendervi Lorenzo, abbiate invece l'amore e la riconoscenza di tante povere creaturine che già vi benedicono e vi rispettano come un padre. Io lo so, caro Marco, gli ho uditi io stesso. Amico! venite subito meco; andiamo insieme a visitare queste famiglie, e veda ognuno come io so onorare e ricompensare il vero merito.» E s'alzava per avviarsi col vecchio. Ma questi, sebbene rittosi in piedi con lui, lo rattenne garbatamente; e soggiunse:
«Che cosa occorre ch'io vi dica la consolazione che mi viene dalle vostre offerte? Ma di grazia, lasciatemi star qui. Anche questa capanna è casa vostra; e come voi vedete, mi sono ingegnato di farci tutti quei comodi e tutti quei ripari che possono occorrere a un vecchio. Non mi vietate il lavoro poco faticoso dell'orticello e della vigna; il lavoro e la temperanza sono la mia salute; e se non avessi sempre il pensiero delle mie faccende, chi sa, la malinconia m'entrerebbe addosso senza rimedio. Quand'io avrò bisogno dell'aiuto di altre braccia più robuste delle mie, oh! saprò allora dove trovarle. E questi vestiti gli ha portati così mio padre, così li portavano i miei figliuoli.... no, no! io non posso mutarli. E poi perchè vorreste voi mettere queste disuguaglianze tra me e gli altri vostri contadini? Tanto, benchè si riconoscano miei eguali, mi rispettano e danno retta a' miei consigli. Coi vecchi, mi vergognerei di parere da più di loro; coi giovani, se v'è una distinzione che valga, me l'hanno data i capelli bianchi e gli anni spesi nelle fatiche. Gli onori e i favori del principale, il vestito meno grossolano, i cibi più scelti mi leverebbero anzi una parte di quella confidenza che me gli ha affezionati. E alcuni potrebbero credere che io avessi cercato d'adempiere il mio dovere per un sentimento d'ambizione, per uscire da quello stato nel quale nacqui, e di che ho sempre detto: — Figliuoli, siatene contenti; sappiate ricavarne tutto il bene che vi può dare con l'onestà e col lavoro, e persuadetevi che alla fin de' conti pochi potranno dire di stare meglio di voialtri, anche tra quelli che vi pajono felici. — Ma se io ricuso per me quelle cose che mi sarebbero superflue, non dico già che gli altri vostri contadini stiano tutti tanto bene da non aver bisogno dell'assistenza del padrone. Vi sono certe famiglie più numerose e meno provviste delle altre; vi sono alcune case mal riparate dalle intemperie; e poveri da rivestire, e malati e vecchi e vedove da soccorrere. Ecco dove la carità e il dovere vi chiamano, massime verso chi ha faticato e fatica per farvi fruttare la terra. E già, io lo so, non occorreva ch'io mi facessi ardito a rammentarvelo. E così saranno meglio spesi anche i denari che avete la generosità d'offerirmi. Io che cosa ne dovrei fare, quando non mi manca nulla del necessario? E poi ora che son solo! Ah! se avessi da riscattare un figliuolo dalla coscrizione, e da ajutarlo per farsi uno stato, oh! allora.... non aspetterei che mi fossero offerti; mi metterei anche in ginocchio davanti un ricco misericordioso per chiedergli la vita della mia creatura.... Ma ora son solo! i miei figliuoli sono quei cari fanciulli che per amore mi chiamano nonno quando vengono ad ascoltarmi. Così quel bene che voi farete a loro e alle famiglie più bisognose, sarà come se fosse fatto a me stesso; e io ve ne serberò la medesima gratitudine.»
«Voi parlate saviamente, e so anch'io che non siete uomo da doversi ricompensare col denaro o con la vanità dell'apparenza. Aborro anch'io l'ostentazione in tutte le cose. Rimanete pure nella tranquilla oscurità che tanto vi piace. Ma le opere, amico mio, le opere buone vanno fatte conoscere; e io vorrei che i miei amici che sono in città sapessero che tesoro ho trovato quassù; vorrei che i giornali manifestassero a tutti con quanta semplicità di modi voi abbiate saputo concludere assai più di quello che insegnano i libri e le scuole.»
«Abbiatemi per iscusato se v'interrompo. Ma questo a che fine?...»
«A che fine? per dare un esempio!....»
«E a chi? e di che cosa? I vostri amici che sono in città, quelli che leggono i giornali hanno sempre sott'occhio tante miserie, e tanto più grandi di quelle che si possono ritrovare in questi luoghi fuor di mano, che se vi vogliono mettere qualche rimedio, non hanno bisogno d'imparare da un povero vecchio come me, il quale non ha fatto altro che industriarsi onestamente in quel modo che poteva essere utile a sè e ai suoi fratelli. Chi è proprio intenzionato di soccorrere gl'infelici e gl'ignoranti non si contenta di leggere la descrizione de' loro guai, ma va a ritrovarli, e vede e provvede fino a tanto che le sue forze glielo permettono. Ognuno dal canto suo obbedisce alla propria vocazione. E se vi fosse l'usanza di prender la tromba per far sapere al popolo e al comune tutto il bene che questi e quelli procureranno, io avrei sospetto che allora i più infingardi se ne stessero con le mani in cintola dicendo: — A ogni modo vi son tanti che fanno! io mi sbraccerei inutilmente; tra poco andando di questo passo non vi sarà più nessuno che abbia bisogno di essere aiutato. Voi sapete poi che quando si comincia a dir del bene di una persona, v'è sempre chi passa la parte; e quando e' entrano di mezzo le incensature, la testa di chi le riceve ne rimane invasata, e il fine del bene operare non è più quello. Tutti gli uomini hanno il loro debole; e quanto a me potrei perder la bussola come chiunque altro.
«Oh! questo poi son sicuro....»
«Figuratevi una distinzione, un titolo, il favore del padrone, i quattrini più del bisogno.... Eh! non ci vuole poi tanto a lasciarsi avvezzar male da queste cose! Oggi un pochino da non accorgersene neanche, domani un altro poco, e via discorrendo, come la gocciola che trafora la pietra, e s'arriva a metter su muffa, a crederci chi sa che, a scordarci di esser tutti fratelli. Ma già questi discorsi non hanno che fare nel caso mio. Dico così perchè così la penserei se anco mi ritrovassi a dover far dire di me. Questo che cosa mi farebbe? Rimarrei lo stesso; o una ricompensa vanagloriosa me la meriterei solamente quando mi fossi abbassato a desiderarla.»
L'altro se ne stava maravigliato, non sapendosi persuadere che un uomo dell'estrazione di Marco potesse nutrire quei sentimenti. Avvezzo a vedere, come cosa inevitabile e comune per ogni persona, la continua lotta delle ambizioni di tutte le specie, e persuaso fin dall'infanzia che non si potesse dare elevatezza d'animo in gente, come suol dirsi, volgare, tutto ciò che aveva udito gli sembrava un sogno.
Il vecchio poi, come se non paresse suo fatto, si scusò d'averlo trattenuto tanto con questi discorsi, lo ringraziò della visita, e s'accingeva a ritornare alla vigna, allorché il gentiluomo esclamò abbracciandolo:
«Padre mio, lasciate, lasciate che io vi chiami sempre così. La luce del vero è nella vostra mente! Vivete come meglio vi piace; io non divulgherò il vostro nome, vi lascerò in quella tranquilla e operosa oscurità che tanto vi è cara; ma accettate almeno,» e si levava di dito un anello prezioso, «e conservate per segno della mia venerazione, quest'anello. Fu già di mio padre....»
«E voi continuate a portarlo; è un ricordo che vi farà consolazione. Altrimenti vi direi: — Invece di darlo a me, barattatelo in tanto pane pei poveri, per quell'infinito numero di tribolati che menano una vita di stenti e d'umiliazioni intorno ai pochi ricchi della terra. Ma giacché voi mi volete dare a ogni modo una ricompensa, io vi chiederò anche più di tutto quello che m'avete offerto. Se è vero che questa buona gente dei miei compagni, e massime i loro fanciullini, abbiano ricavato qualche cosa di buono dai miei consigli e da quella po' di istruzione che mi diede mio padre, fate che morendo io abbia la consolazione di sapere che un altro farà le mie veci....»
«Io stesso che, fin d'ora, vi prego di mettermi nel numero dei vostri alunni....»
«O che farà anche meglio, purché s'attenga sempre alla semplicità che ho visto per esperienza essere tanto efficace. A volere educare e istruire quelli che, poveretti, non sanno ancora il bene che potrebbero ricavarne, bisogna contentarci di poche cose, d'andare innanzi a passo lento, purché si vada sempre innanzi, e che non manchi il coraggio quando s'incontrano degli ostacoli nè diminuisca mai la costanza. Chi vuol troppo e troppo presto, non conclude nulla; meglio l'ignoranza che un'istruzione abborracciata e superflua, moderazione nelle nuovità, nessun artifizio, nessuna perdita di tempo in prove capricciose ed inutili, e prima di tutto e sempre l'educazione del cuore. Chi non venisse docile a voi, non lo costringete con l'autorità del comando, ma persuadetelo prima con le buone ragioni, e poi lasciate fare all'esempio degli altri; i più restii a poco per volta diventano i più solleciti.... Ma voi non avete bisogno de' miei suggerimenti, nè io sarei capace di darne a nessuno. Dico questo, perchè me l'ha insegnato mio padre; e ho visto con l'esperienza che mio padre aveva ragione.»
Il gentiluomo ripetè allora la sua promessa di continuare da se medesimo l'opera del vecchio Marco, e di trasmetterne l'obbligo ai figliuoli e agli eredi, destinando in perpetuo una parte del patrimonio all'educazione, all'istruzione e al miglioramento di stato dei suoi contadini e dei poveri dei contorni. E questa promessa fu attenuta.
Il vecchio Marco morì con la pace del giusto e con la contentezza di lasciare nel proprietario di quelle terre ai suoi figliuoli adottivi un altro padre sempre sollecito del loro vero bene. Era questa la sola ricompensa ch'egli desiderava delle sue fatiche, e l'ottenne: così il fine della virtù consiste nel conseguimento del bene per gli altri.
IX. I Racconti della Milla.
1.
Sofia. Oggi dunque avremo da noi la Milla, è vero, sorelle? Quanto è buona la vecchia Milla, eh? che ne dite?
Sorelle. Buonissima; devi dire buonissima.
Sof. L'avete caro ch'ella venga a tenerci compagnia?
Sorelle. Altro!
Maria. Io n'ho un gusto matto.
Teresa. Io vorrei averla meco il giorno e la notte.
Sofia. Or ora sarà qui. Poniamo in ordine i nostri lavori.
Luigia. E prepariamoci a stare allegre davvero.
Maria. Già io mi aspetto un racconto.
Angiolina. Io la chicca....
Teresa. Oh, sì! Appena è venuta, glielo dico subito veh! un racconto da sua pari.
Luigia. Porterà la rocca e io voglio filare con la sua rocca; io mi ci diverto tanto!
Angiol. Ma quanto si fa aspettare!
Sof. Oh! un po' di pazienza. Sono andati a chiamarla ch'è poco. La non ha le nostre gambe, sapete?
Angiol. Potevano esser andati a chiamarla più presto.
Maria. Oh che uggia aspettar tanto!
Sofia. Zitte, zitte, bambine! Sentite.... intanto che aspettiamo, farò io da Milla. Vo' vedere se so imitarla. Questa mazza del babbo sarà la rocca.... Qui, nel suo seggiolone. Bambine mie.... ( cercando d'imitare la Milla ).
Luigia. Oh! sì, sì, facci un po' ridere. Ma ci vorrebbero gli occhiali.
Sofia. Hai ragione, gli occhiali; e dov'è ora un pajo d'occhiali? Basta, figuratevi ch'io gli abbia. Ecco; grassa grassa; co' suoi occhialoni a cavalluccio sul naso. Comincia a filare.... Noi ci mettiamo fitte fitte intorno a lei e la guardiamo.... Comincia a ridere.... Ecco, si mette le mani in tasca....
Angiol. E tira fuora un confetto....
Sofia. No signora.... E tira fuori la scatola del tabacco ( figura di prendere il tabacco ).
Angiol. Eh! va' via col tabacco.
Sofia. E poi dice.... dopo aver tossito....
Maria. Volete sentire un racconto?
Sofia. Aspetta! — Bambine mie, state voi tutte bene? Avete voglia?...
Maria. Di sentir come e quando....
Sofia. Ancora no! Non mi interrompete. — Avete voi voglia di lavorare?
Maria. Che! Tu non ci riesci a imitarla.
Luigia. Queste non sono dimande da farsi a noi.
Teresa. Sarebbe un'offesa. Noi lavoriamo sempre di genio.
Luigia. Ce ne vuole per essere un'altra Milla!
Sofia. Eh! lo so, per contentare voialtre....
Angiol. E poi la prima cosa dev'essere la chicca.
Milla. Come, come? I' ho a sentire anche questa? Deo grazia, bambine.
Così dicendo, la Milla (udite l'ultime parole dell'Angiolina) apre la porta, ed entra. Le giovinette, sorprese ed allegre, esclamano:
«Eccola, Eccola! Viva la nostra Milla!» Poi corrono ad incontrarla. L'Angiolina si mostra un po' compunta, e meno sollecita; ma a lei, prima che alle altre, la Milla si volge sorridendo, e le dice:
Milla. Non le vo' più sentire queste cose, Angiolina mia. Non conviene mostrarsi ghiotta, nè anche per ischerzo. E poi, un bravo signore m'ha detto che i dolci fanno male ai bambini; e so che la mamma pensa come lui; e hanno ragione. Oh! non voglio far cose di danno a te e di dispiacere a tua madre. Ho per voi tutte un racconto, che ve ne grillerà 'l core. Andiamo andiamo ( va nel suo seggiolone ); a sedere tutte: e prendete i vostri compiti. Il babbo e la mamma son fuori eh? Ed io farò da babbo e da mamma, se Dio m'aiti.
Sofia. Brava, brava! Siamo tutte contente quando vieni da noi.
Maria. E quanto ti abbiamo desiderata!
Angiol. Più di tutto di tutto!
Milla. E per me è un giorno di festa quando sono con voi.
Sofia. Andiamo, io qui accanto alla Milla. Tu qui, Maria... e voialtre.... sicuro.... così va bene. Tutte intorno alla brava Milla ( le bambine si pongono a sedere ).
Milla. O bene via! Dite un po', le mie care fanciulle.... ( le bambine ridono mentre la Milla si accomoda gli occhiali ). Oh! E ora? di che ridete?... Almanco aspettate ch'io mi sia messo le barelle sul naso, prima di far questi versi. Vedete un po'!... Insomma, si può sapere di che tanto ridiate?
Bambin. Sofia....
Sofia. Oh! lo dirò io il perchè. La Milla mi perdonerà lo scherzo, io spero. Sai tu, Milla? Mi era posta nel tuo seggiolone per contraffarti; mi dispiaceva di non avere gli occhiali da par tua.... e ora che gli hai....
Milla. Ho capito, via, ho capito. A lei, signora dottoressa, si metta gli occhiali, e mi contraffaccia meglio ora ( e mette i suoi occhiali sul naso a Sofia ).
Bam. ( ridono vedendo la Sofia con gli occhiali della Milla ).
Milla. Chi burla è burlato, dice il proverbio, sa ella?
Sofia. Per carità! Che te lo sei avuto a male, Milla mia, questo scherzo?
Milla. No, no, il Ciel me ne guardi! Anch'io fo per chiasso. I' so bene che il brio di voialtre fanciulline è innocente; e che nessuna di voi avrebbe il coraggio di beffarsi di una povera vecchia. Ora stiamo allegre, su via, stiamo allegre. Se sapeste! Ho tanta voglia anch'io di spassarmi con voi! Quand'io ho a venir qui, mi sento quasi ringiovanire.
E le fanciullette, fatta corona alla vecchia, si sogguardano e sorridono col lavoro in mano, aspettandosi a ogni momento che la buona vecchia incominci a dire le solite barzellette o a raccontare. Essa avvolge il pennecchio alla rocca, vi adatta la pergamena, e guarda sorridendo quel cerchio di fantoline, i cui anni messi tutti insieme, appena appena fanno la metà de' suoi. Per due o tre volte fa con la bocca un certo atto, come di chi vuol parlare, e poi non trova subito il verso, o pensa ad altro; e le fanciulle, per due o tre volte si rigirano sulla sedia e spingono innanzi la faccia, come chi si dispone a sentir cosa che assai gli prema. Finalmente la Milla apre la bocca per parlare di buono, e incomincia in questo modo.
Milla. Oh.... sentite.... Ma prima, dovete sapere ch'egli è un fatto proprio vero, seguito giù di quì, e' son anni, anni!... E' mi fu raccontato da un baccalare, da uno di que' che la sanno lunga. E vi dirò le sue proprie parole. Oh! sì, me ne ricordo come se fuss'ora. Dunque state a sentire.... Badiamo veh! gli è un po' lungo, ma e' vi piacerà: e non mi interrompete, eh, voialtre piccine?
Bam. No, no, Milla. Fa' presto.
Milla. Ch'i' non senta uno zitto! Me lo promettete?
Bam. Sì, te lo promettiamo. Racconta, racconta.
Milla. Comincio subito. Ma voglio posar la rocca, perchè non vorrei....
Bam. Oh che pazienza!
Milla. Meno furia! Roma non fu fatta in un giorno. Mettiamola qui. Ve', ve', a Maria farebbe gola quella rocca. Verrà tempo che filerai anche tu.
Maria. No, no; ora non ne ho voglia. Mi par mill'anni che tu incominci.
Milla. Eccomi davvero. Sentite ( sputa, si soffia il naso, e principia )
RIGUCCIO
PARTE PRIMA
A Fiesole in Borg'unto, era una buona fanciulla di 16 in 17 anni, piuttosto più che meno, bianca e linda com'il bucato, con due occhi neri sgranati, e tenera tenera come il latte premuto. L'era proprio una consolazione a vederla, in una casetta pulita, con tutte le su' cose a sesto, che io non vi so dire. La sua povera mamma era morta giovane d'un male lento e penoso, e avea lasciata questa figliuola e un angioletto d'otto o nov'anni, salvo il vero. Il padre, morto anch'esso, e prima della moglie, era mugnaio; e nella sua casetta di Borg'unto avea messo in piedi una bottega per la vendita della farina e del semolino, e via discorrendo. Quand'era viva la madre di Marta, vi stava essa al banco; e, alla meglio, tirava innanzi la famigliuola, senz'altro ajuto che quello del suo buon garbo e della sua onestà. Ma quando quella madre infelice non ebbe più forza di patire i dolori di questa terra, Marta potete figurarvi quanto rimanesse sconsolata col suo Riguccio! E' credevano di dover portare alla sepoltura anche lei. Per qualche giorno la modesta bottega fu chiusa, e la casetta fu chiusa, e Riguccio non andò a fare il chiasso con gli altri ragazzi in piazza di Fiesole, e Marta pianse dì e notte accanto al letto della defunta madre. Non vi fu un cristiano in Fiesole che non si affliggesse per Marta ch'era l'idolo di tutti; e a certe pietose donne riuscì finalmente di consolare un po' l'orfanella, e di farle rivedere la faccia del sole. A un tal Romolo, parente lontano del padre di Marta, fu dato l'incarico di guardare agl'interessucci di que' due sventurati. Ma questo tutore, scelto in mal'ora, altro non era che un disutilaccio, Iddio lo perdoni, che faceva d'ogni erba un fascio, e aveva il lacrimevole vizio di bazzicare ogni po' l'osteria. Di rado capitava in sul far bruzzo nella bottega della farina, traballando com'il solaio sotto il badile, a farvi che? a metter a soqquadro ogni cosa, e spesso con due o tre compagni della stessa pasta, che gli facevan tenore. Figuratevi Marta! Ma la poverina, fatta più coraggiosa dalla disgrazia più grande, s'acconciò da sè a bottega, e coi modi aggraziati, che rammentavan sua madre buon'anima, seppe così bene richiamar gli avventori, che tutti volentieri difilavano a comperare il fior della farina da lei. Chi l'avesse vista col suo candido grembialetto, dare a tutti con gentil modo il buon peso, accogliere e baciare da sorella i fantolini che andavano col soldo stretto nel pugno a fare spesa, rimandar sempre il povero consolato di qualche elemosina di farina o di grano, sopportare con angelica rassegnazione i mali trattamenti di Romolo, e custodirlo quando il vino l'avea messo proprio in terra, e dolcemente ammonirlo e consigliarlo quando pareva in buona, sicché talvolta e' ne rimaneva commosso, l'avrebbe detta un angiolo venuto in terra a consolazione degli uomini. E così, a stento, poteva campar da ruina quel po' di bene di Dio che a lei e a Riguccio lasciato avevano i genitori. Ora, a proposito di Riguccio, per tornare un passo indietro, e' bisogna sapere che egli andava a scuola a imparare il latino, perchè suo padre, povero uomo, aveva avuta grande smania d'aver nella casata un calonaco[15]; e Romolo, che non gli pareva vero metter la tonaca a quel ragazzo, per non averlo più tra' piedi e lasciarlo al Capitolo, era intestato a far eseguire la volontà del defunto. Ma il povero piccino, di quello studio non ne capì a buccicata, e spesso gli toccava a star ginocchioni, e far pepino[16] in mezzo di scuola. Voglia d'istruirsi, come l'avrebbe avuta! ma quelle parolacce nere nere in bus ed in bas non gli entravano in capo, e lo facevano andare alla malora. E la mamma, povera mamma! gli aveva promesso di liberarlo da quel diascolo dell'inferno, intercedendo per lui presso il tutore, e di mandarlo piuttosto laggiù a Firenze da un certo maestro Michelangiolo famosissimo, che insegnava a far certe statue di marmo ch'egli era un portento a vederle; perchè Riguccio bisogna dir proprio ch'e' fosse nato con quella pulce nel capo, di voler fare le statue di marmo. Ogni volta che con que' suoi occhiolini scorgeva un'immagine di terra cotta o di pietra delle cave, o di marmo, e nella cattedrale di Fiesole un certo mausoleo d'un vescovo, e' restava lì basito a guardare, e si sarebbe scordato della merenda. Quando poi sulla piazza di Fiesole cascava giù la neve come Iddio la manda, correva là a rimpasticciare certi fantocci, che tutti chi li mirava e' non facevan altro che dire, ve' belli! Ma la mamma era morta! E Riguccio tutto scorrucciato e sulle spine, andava alla scuola sì, ma sempre alle solite. E Marta ci soffriva, e sospirava con lui confortandolo amorevolmente a sperare, che un qualche rimedio prima o poi sarebbe venuto; e finalmente fattasi animo, lo prese un giorno con sè, e andò a incontrar Romolo, che tornava dal mulino, lì presso al cimitero di Fiesole, dov'era sepolta anche la sua povera mamma. Lo fermò, e gli disse di volergli chiedere una grazia; una grazia che quella sventurata che giaceva colà sotto terra gli volea chiedere prima di morire; ma Dio non le lasciò tempo; ed ella pigliava ora le sue parti, e lo pregava in nome di lei a voler liberare Riguccio dalle parole latine, e mandarlo da maestro Michelangiolo a Firenze a studiare scultura, che tanto e po' tanto Riguccio inclinava a quell'arte: e piangeva accennando le sepolture, e Riguccio stava col viso nascosto nel guarnellino della sorella. Romolo in sulle prime non volea neppure stare a sentir que' discorsi; ma le lacrime e le parole di Marta, che avrebbero intenerito un cuore più duro del suo, tanto poterono che Romolo si strinse nelle spalle, e per levarsi, com'e' diceva, quella seccatura di torno: Va', disse a Marta, va' pure a Firenze, a condurre questo monello a imparare lo scalpellino. E in quel dire adocchiò un suo compagnone, gli fe' cenno ponendo il pollice della destra sulle labbra con la mano e il gomito sollevato, e diè di volta verso la bettola. Marta lo ringraziò in nome del Cielo e di sua madre, e un po' tra 'l dolce e l'amaro, prese per mano Riguccio tutto ringalluzzato, e tornò a casa. Quivi si ajutò presto presto a rassettare alla meglio tutte le briccicòle di Riguccio per mandarlo un po' ravviatino a Firenze. «Ma intanto, gli diceva, come farai tu, piccino mio, a scendere ogni mattina a Firenze, e di Firenze risalir quassù ogni sera? Le tue gambucce ti porteranno? — «Eh! perchè no? Dovessi andare anche a finimondo, rispondeva quell'innocente, v'andrei come fanno le rondini, purché potessi imparare una volta a fare un po' un viso di Madonna a me' modo.» — «E solo solo?... Io non ti potrò accompagnare....» — «Oh! non aver paura! E poi vi son tanti scalpellini e sbozzatori quassù, che vanno ogni giorno a Firenze!» — «È vero, hai ragione. Pregherò il Gori che ci abbia un occhio. — «Sì, sì, il mio compare. Gli voglio tanto bene, ed egli ne vuol tanto a me, che lo farà volentieri.» — «E il tuo desinaruccio, non te lo potrò più fare io con le mie mani, e resterò sola....» — «Tu mi farai la cena e la colazione, e staremo insieme la sera, e le domeniche; e io ti racconterò allora tante cose....» — «Bene via, domani è domenica; la bottega sta chiusa; sì.... domani anderemo a Firenze.... Ma.... e da chi anderemo, noi poveretti, ora che ci penso su con più fondamento? Dove troveremo uno che ci accompagni, che ci presenti a Michelangiolo? Io, meschina me! come potrei fare a parlare ad un uomo tanto famoso? E poi, mi ascolterebbe?... Oh! aspetta, aspetta! quel Gelasio, quel cugino della povera mamma, quello che sta sempre laggiù a Firenze, in quella casa grande grande.... egli, egli mi farà questa carità, ne son certa. E' mi pare un buon uomo; quando v'andavo con la povera mamma che gli faceva sempre un regaluccio di castagne e di fior di farina, e' ci faceva pure il buon viso! Se ne ricorderà di noi. Sì, sì, anderemo da lui.» — Così per la coraggiosa Marta non v'erano ostacoli, e si figurava che tutto sarebbe andato benone. Ma poveretta! Ella era stata, sì, qualche volta a Firenze con sua madre buon'anima; ma non potea sapere quanto fosse difficile a una fanciulla timida e inesperta come lei, senza conoscenze di Fiorentini, in quei tempi indiavolati, col solo ajuto di quel Gelasio, che sarà stato forse un povero fante, aggirarsi in quella gran voragine, parlare a Michelangiolo; a quell'uomo straordinario, concludere un affare di quella sorta, per un ragazzo di sì tenera età. Ma tentar non è mai male, e a chi nulla tenta, nulla riesce.
PARTE SECONDA
Ecco il dì di domenica, in sull'alba, sereno come il volto e l'anima di Marta. Il campanile di Fiesole annunziava suonando a festa l'ora dello svegliarsi; e Marta ai primi tocchi della campana balzava dal suo letticciuolo, accoglieva in cuore buon augurio dalla bellezza del tempo, e acconciatesi addosso le proprie vesti, preparava con amorosa sollecitudine quelle di Riguccio, ammanniva la colazione, e sbrigava quelle faccende, pregando in silenzio per non isvegliare ancora il fratello. Andò due o tre volte a guardarlo, e pareale vago siccome un angioletto: nè lo svegliò se non quando ebbe ogni cosa all'ordine per vestirlo da festa, e dargli da colazione, e menarlo a Firenze. «Andiamo, Riguccio; oggi Iddio deciderà della tua sorte. Raccomandiamoci a Lui; e la mamma, sai? e la mamma pregherà anch'essa per noi. Andiamo a Firenze.»
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Eccoli sulla via. Nel sereno della notte l'erbe s'eran coperte di rugiada, il calore del sole nascente la scioglieva in vapori, e le nebbie ricoprivano la pianura. Ma una brezza di ponente un po' qua e un po' là sollevava e dissipava quelle nebbie, sicchè or si scorgeva un pezzo di paese, ora un pezzo di città comparire com'isola in mezzo a splendido mare. Ma presto disparvero quei flutti vaporosi; e allora com'era magnifico lo spettacolo della valle dell'Arno vista da quell'altura di Fiesole! E la città distesa nel mezzo a un torrente di luce che pioveavi sopra a fare scintillar come soli le finestre dei templi e dei palazzi. Tante e tante campane risuonavano insieme e producevano tale armonia che i giovinetti ne restarono insolitamente meravigliati, perchè prima non s'eran trovati in uno stato da essere tanto commossi a quello spettacolo, non avendo mai avuta la mente e il cuore pieni di trepidanza e di confusi e teneri sentimenti come in quel giorno. Firenze per loro era divenuta un mistero: la terra promessa, o il deserto. Marta andava, andava, ma più col pensiero che con le gambe; a ogni passo verso colà nasceale un sospetto, un dubbio, un timore. Troverò io chi cerco? Sarò io esaudita? o scacciata? o derisa? Fra tanta gente, sola con questo fanciullo! Ma Dio m'accompagnerà; ed affrettavasi in così dire e in un momento avea fatta una di quelle rapide scese che mutano lo spettacolo della veduta come un incanto. Riguccio non era mai stato a Firenze; ma aveva sentito dire e dire.... Case spropositate, innumerabili, strade che non finiscono mai, chiese immense, colonne, portici, e una folla di gente, che va e viene, cocchi, soldati, e vesti di mille foggie, e quel che è più, statue, statue da incantar le persone. E tutto ciò che egli confusamente vedeva sollevarsi laggiù tra gli altri edifizi, gli pareva una statua, che dovesse, accostandovisi, mostrar braccia e gambe e testa gigantesche, maravigliose.... Altro che i suoi fantocci di neve! altro che le immagini dei tabernacoli! Ma sapete? eran poi campanili, torri, cupolette, rocche di cammini, alberi, merli.... E dove son dunque le statue? e s'indispettiva, il povero Riguccio, per l'impazienza, e sbirciava da averne dolore negli occhi. E tutti i suoi pensieri non erano altro che questi. Quando uno spettacolo più vicino e dolente arrestò impauriti i nostri viandanti. Era un uomo steso bocconi, immobile sopra la terra con la testa penzolante nel fosso e insanguinata. Dio mio! l'idea che fosse un morto, la solitudine del luogo in quell'ora sì mattutina, gli fece raccapriccire e arretrarsi. Ma ritrovò presto la buona Marta il suo coraggio; guardò con occhi più fermi, protese la testa verso il meschino, le parve scorgervi un segno di vita, gli corse presso, lo sollevò, fasciò la ferita col fazzoletto, saltò in Mugnone, e inzuppato il velo nell'acqua, la spruzzò nella fronte al caduto e nettatolo un poco, lo riconobbe per un misero di que' contorni, che spesso facea per improvviso svenimento quelle male cadute. Egli cominciò a riaversi, e Marta si provò a trarlo sotto un albero, perchè stasse meno in disagio; ma da tanto le sue forze non erano; ed allora le giunse un aiuto inatteso. La sollecitudine di Marta in prestar quel soccorso tanta era stata, da non farla accorta che verso quel luogo veniva un uomo pulitamente vestito, di volto un po' burbero ma umano, il quale accostatosele, zitto zitto le diè vigoroso ajuto in quell'ufficio ch'ella non potea compiere da se sola. Riguccio in tutto questo tempo s'affannava a fare, si dava gran moto, ma che poteva? Alfine il povero si riebbe; la ferita era poco temibile; lo condussero nella casa vicina d'un mugnajo conoscente di Marta; essa glielo raccomandò come fosse suo padre: il mugnajo forse anche più volentieri alle preghiere di Marta, lo accolse e n'ebbe cura. Marta ringraziò poi dell'apprestatole ajuto l'incognito con quel suo fare tanto garbato, ch'e' ne sentì in cuore i' non vi so dire qual tenerezza. Ed egli avea già visto da lontano ogni cosa; e quantunque paresse non d'altro premuroso che di continuar la sua via tra sè e sè co' suoi pensieri fantasticando, pur non potè a meno di rallentare il passo, e considerare la bella faccia di quella buona ragazza e l'ingenuo volto del vispo fanciullo che non gli avea mai levati gli occhi di dosso. Infine rallentò il passo, e si rivolse a domandare a Marta (come taluni fanno in campagna) s'ella fosse fiesolana, e dove ne andasse mai a quell'ora con quel ragazzo. Marta cortesemente gli palesò la sua condizione, gli narrò il fine della sua gita a Firenze, gli parlò dell'inclinazione di Riguccio per l'arte (e qui anch'egli mise la bocca) e gli fece note le sue incertezze, i suoi timori, e di Michelangiolo ragionò come dello Smisurato. Quel messere intanto andava fisamente guardando or Riguccio ora Marta, e or sorrideva, ora aggrottava le ciglia e increspava la fronte, come chi si trova agitato da gravi pensieri. — «Dunque tu, fiesolanetto mio caro, tu ami la scultura, e piccin come sei, vorresti porti a studiarla?» — Oh! sì davvero! non sarò contento finché non mi vedrò nascer sotto le mani un volto bello come quelli che sono lassù nella chiesa di Fiesole.» — «Davvero! e come quello scolpito da Mino, eh?» — «Chi è questo Mino, scusate?» — «Oh! il piccolo artefice che non conosce il grande scultore della sua patria! Ma tu sei troppo in erba, è vero, per saper queste cose. Te lo dirò io; Mino è un fiesolano, famoso scultore; è quello appunto che ha scolpito il monumento del Vescovo Salutati nella chiesa di Fiesole.» — «Oh che mi dic'ella! Questo Mino è nato proprio nell'aria di Fiesole? Che grand'uomo doveva essere! Com'è bello quel vescovo! Vero che par vivo quel volto!» — «Sì, Mino era un grand'uomo, e quello è un gran bel volto, Riguccio! e anch'io, sai? anch'io vi sono stato estatico a rimirarlo, e l'ho studiato, e non ho potuto ancora farne uno che valga quello. Ah possa tu aver questa sorte! E giacché parmi che il Signore ti voglia mettere in sulla via dell'arte, vieni, Riguccio, vieni pur meco. Ti condurrò io a maestro Michelangiolo.» A questa profferta si sentirono consolati. Andarono dietro dietro a quell'uomo, per un pezzetto in silenzio, guardandosi di tempo in tempo con occhiate di giubbilo. Presto giunsero alla Porta San Gallo; entrati in Firenze, Riguccio non capiva in sè dalla maraviglia. Tutto quanto aveva udito dire della città gli pareva nulla. Quando poi vide la Cupola e il Campanile!... Basta dire che Marta dovè allora pigliarlo per mano, e quasi trascinarlo dietro la loro incognita guida. Dove la calca della gente incominciò a farsi maggiore, tutti guardavano e molti facevano riverenza a colui che gli menava seco. Alfine egli entra nel terreno d'una casa, spinge innanzi una porta, li fa passare in uno stanzone pieno di statue e di marmi abbozzati, e dice sorridendo: «Ecco qui maestro Michelangiolo.» Guardarono intorno timidamente, e non v'era altri che egli stesso. «Dunque!...» — «Dunque sono io.... così è: quello che tu cerchi son io, che non ho difficoltà ad insegnarti quel che vorrai. Sicuro! La tua faccia, la tua inclinazione, mi promettono un artefice. Vedremo. Bada bene! è un gran cimento, Riguccio, il tuo; ma non iscoraggirti; anch'io da giovinetto sentii un impulso prepotente, e alfine potei ubbidirvi, e trovai anch'io un maestro che m'accolse amorevole. Io seguirò quell'esempio. È una via di triboli quella che tu scegli; ma, se sarai uomo, e avrai anima vera d'artefice, quei triboli invece d'arrestarti, saranno di sprone all'ingegno e potrebbero spingerti alla gloria. Intanto, ecco la mia bottega. Dimani t'aspetto.» Queste cose dette con impeto di grande passione una dietro l'altra, senza respiro, colpirono prima di gran sorpresa Marta e Riguccio, che finalmente poi diedero ambedue in un pianto dirotto; s'abbracciarono, copersero di baci e di lacrime le mani di Michelangelo, e benedissero Dio.
2.
Sof. Eh! il tempo non può esser più bello. Per questa parte non ho paura.
Lui. O dunque per quale? che altro motivo ci potrebb'essere che oggi la Milla non venisse da noi?
Sof. Chi lo sa? forse per via della debolezza. Sta un po' lontano di casa.
Mar. Sicuro! Dopo la malattia che ha sofferto, sarà debole. È stata più d'un mese nel letto, povera vecchia!
Ang. Ma ora è guarita hanno detto.
Ter. Ora è convalescente.
Ang. Convalescente che cosa vuol dire?
Ter. Domandalo a Sofia; te lo saprà dire meglio di me.
Sof. Vuol dire che è guarita, ma che è obbligata a un riguardo per mettersi in forze.
Infatti non potrà ancora arrischiarsi a far quel che faceva prima d'aver avuto quella febbre tanto cattiva: camminar di molto, uscir di casa a tutte l'ore....
Lui. Mi fate celia? ci vuole un gran riguardo, altrimenti....
Sof. Guai a lei se le ritornasse il male addosso! le ricadute sono peggiori delle malattie.
Ter. Oh! guarda guarda! l'Angiolina fa i lucciconi!
Mar. Chi sa che cosa avrà capito per convalescenza!
Sof. È guarita, sai? Angiolina, la Milla è guarita e sta bene.
Ang. Ma non è venuta da noi....
Mar. Se non viene oggi, verrà domani.
Lui. Se no, pregheremo la mamma che ci conduca da lei.
Sof. Ve ne ricordate, bambine, di quando ci andammo tempo fa a visitarla? Che sesto, che pulizia nella sua camerina!
Ter. Io non potei venirci, perchè ero infreddata.
Sof. Figurati che non vi si sarebbe trovato un granello di polvere.
Mar. Che lenzuoli bianchi, e com'era tutta ravviata!
Sof. Aveva in capo una berrettina, che pareva dipinta.
Lui. E con quanta pazienza stava lì a covare il suo male!
Mar. E col suo solito sorriso a fior di labbra, non sarà nulla, non sarà nulla, diceva.
Sof. Questa buona vecchia, disse bene il dottore, ha due medicine più valevoli delle nostre e che la faranno guarire dicerto: la pulizia e la rassegnazione.
Ter. E perchè le venne male?
Lui. Per avere assistito una sua amica. Le fece otto o nove nottate di seguito. Vecchia com'è, si strapazzò troppo e toccò anche a lei a patire.
Sof. E quell'amica era guarita quando s'ammalò la Milla, ed allora assisteva lei.
Mar. Che buone vecchine! parevano due sorelle.
Sof. Sta'? Mi par di sentire la voce d'Eugenio a piè di scala. È andato insieme con Tito a pigliarla.
Ter. Dicerto son essi. E la Milla è con loro; perchè se fossero soli, a quest'ora avrebbero salito la scala.
Lui. Sicuro; le daranno di braccio.
Ter. Oh, bene bene! è tanto che non l'ho vista! Andiamo a incontrarla, bambine ( le bambine corrono all'uscio ).
Sof. Mi viene un pensiero. Tiriamo la poltrona sull'uscio; così, appena salite le scale, la Milla si potrà riposare con tutto il suo comodo ( una bambina l'aiuta a tirar la poltrona ).
Eug. Signorine, correte, ecco una visita per voi ( dice di dentro ).
Mil. ( accompagnata da Tito e da Eugenio ) Oh! Dio vi benedica bambine.
Tit. Largo, largo!
Sof. Qui, qui.... è qui la poltrona. Milla, ben arrivata.
Eug. Bravissime. Eh! le nostre sorelle hanno giudizio!
Sof. Quanto ci rallegriamo tutte di vederti guarita!
Mil. Per grazia d'Iddio! Un bacio, Angiolina! E la mia Teresa? anche tu sei guarita, lo so.
Eug. Ma non le state tanto a ridosso! Lasciatela ben avere!
Tit. E qui, sull'uscio, non istai bene, cara Milla; v'è del riscontro; se sei accaldata, ti può far male. Eugenio, piglia codesto bracciolo.
Mil. E ora cosa farete? vi pare? grazie, grazie! mi rizzerò.
Eug. Sta' ferma, non ti dobbiamo alzare, ci son le ruote.
Sof. Andiamo, andiamo, io spingo la spalliera.
Eug. Ecco la Milla che va in trionfo.
Lui. Davvero! Evviva la Milla guarita!
Tutti. Evviva! ( l'Angiolina batte le mani e scavalla ).
Mil. Eh, non c'è male no! che siamo di Befania?
Tit. Ora serrate l'uscio; badate che le finestre sian chiuse bene.
Mil. Ma per cosa m'avete presa? Non sto poi lì per l'appunto. È vero che nella convalescenza bisogna rigar diritto; ma io son di buon sangue, sapete? Eh! se io avessi avute tutte queste ubbie a' tempi de' tempi, ora non darei nè in tinche nè in ceci.
Eug. Hai ragione. Che cosa importa far tanti daddoli? Io sfiderei l'acqua e il vento anche quando avessi la febbre.
Mil. Oh! codesto passa la parte! È bene avvezzarsi svelti a ogni cosa; ma non bisogna lasciarsi andare allo sbaraglio come fanno gli sgangherati.
Sof. E poi, Eugenio ha un bel dire! e se gli viene un dolor di capo....
Eug. Ecco subito! a detta loro sarò un cancherino.
Mil. Talotta chi fa più il gallo, bambino mio....
Eug. Vorrei che tu mi potessi mettere alla prova, per farti vedere chi son io!
Mil. Ebbene! mi ricordo che l'anno passo, quando tu avevi la scarlattina, parevi proprio un pulcin bagnato.
Eug. L'anno passo, signora Milla, l'anno passo io era in fasce si può dire. Ora che son grande....
Mil. Appunto ora bisogna aver più giudizio, messere! — Che cosa lavorate voi di bello, bambine?
Sof. Vedrai, vedrai.... intanto preparo.
Tit. Eugenio mio, bisogna andarsene con le trombe nel sacco!
Lui. Eh! con la Milla non si scherza.
Eug. E poi siete tutte dalla sua parte!
Ang. Guarda, Milla, ho avviato oggi per la prima volta la calza.
Mil. Brava Angiolina! Me ne rallegro davvero! — E a me toccherà a star con le mani in mano.
Eug. E che sì che anche la Milla avrà da fare, bambine!
Sof. Che cosa!
Ang. Eh! lo so io! — Guardami in viso, Milla....
Mil. Sono a servirla.
Eug. Abbiamo fatta la pace, è egli vero?
Mil. E quando c'è stata guerra tra noi?
Eug. Tu sei una gioia. O sta' a sentire.
Mil. Qualche altra billèra!
Eug. Parlo sul serio. — Domenica passata andammo a Fiesole, il babbo, la mamma, Sofia, Luisa e noi due....
Sof. Vedemmo quel busto famoso; andammo in Borg'unto...
Mil. Ho capito, ho capito.
Lui. Se l'aveste sentito fare dalla Milla quel racconto ne sareste rimasti incantati.
Mil. Zitte, zitte! Lo sapete che cosa diceva santa Caterina da Siena, bambine?
Tit. Su qual proposito?
Mil. Santa Caterina da Siena diceva: quando si parla bene di voi, non si parla di voi.
Sof. E cosa significa?
Mil. Che ogni nostro merito non appartiene a noi, ma è dono di Dio. E poi, ve lo dissi, quel racconto mi fu riferito da Don Vittorino.
Ter. Ma come andò poi di Riguccio?
Eug. Ci siamo, Milla, ci siamo!
Lui. E di quella buona fanciulla di Marta?
Tit. Adagio un poco! Ricordiamoci che la Milla è convalescente; e che il parlare stracca più del filare. Non mi parrebbe vero di sentire un racconto; ma siamo discreti.
Sof. Tito ha ragione. Che cosa ne dite voialtri?
Lui. Eh sicuro! possiamo aspettar qualche giorno.
Mil. Che siate benedette! Si potrebbe far di più per una mamma?
Sof. Oggi chiacchiereremo del più e del meno.
Eug. Siete tante, che a dirne una per una....
Tit. E noi anderemo a studiare. Addio a poi, cara Milla.
Mil. Addio, addio! — Che bravi ragazzi che avete per fratelli, bambine mie!
Sof. Son due angioli.
Mil. Tirano proprio dal babbo e dalla mamma.
Lui. Eugenio col suo buon umore ci tien tutti allegri.
Sof. Anche Tito è giojale; ma sta sul sodo; è il maggiore!
Mil. E fa bene: deve dare il buon esempio.
Sof. Ma non se n'investe punto; lo fa con tanta buona maniera!
Mil. Ah! chi è buono davvero, è modesto e amorevole.
Ang. Guarda, Milla; guarda bello il ricamo di Sofia!
Sof. M'ha insegnato la mamma; e il disegno è di Tito.
Lui. Io fo un lavoro ad Eugenio pel suo giorno natalizio.
Mil. Brava! che cosa gli fai tu di bello? una borsettina?
Lui. No; un pajo di guanti, perchè la mamma ha detto che gli saranno più utili della borsetta.
Mil. Ha pensato benissimo.
Così per quel giorno fu tutta conversazione. Le bambine, con quella cara ed ingenua sincerità dell'infanzia ragionarono delle loro contentezze, dei loro affetti nascenti, delle speranze, delle gioje d'una famiglia numerosa e bene ordinata; e la Milla non lasciava mai fuggire l'occasione di dare qualche consiglio, d'approvare, d'incoraggire la buona condotta di ciascheduna di esse. Talmentechè tutte furori contente; e lavorando si divertirono ed impararono qualche cosa senza bisogno del racconto. A poterla riferir tutta quella conversazione, vi sarebbe da rimanerne consolati davvero. — Ma chi di voi, miei cari lettori, chi di voi non goderà spesso di un egual piacere? Insieme coi genitori e i fratelli, insieme con qualche altra Milla, e forse ogni giorno, farete uno di quei colloquj nei quali l'anima si apre, e ci confortiamo a vicenda nella disgrazia, o a vicenda ci disponiamo nella felicità a procacciare il bene del nostro simile. Allora sogliono esser da noi confessati con sincerità i nostri errori, e dai nostri cari con generosità ci sono perdonati, e con amore corretti. Rammentiamo allora i nostri avvenimenti dei tempi scorsi; rammentiamo i nostri antichi, e al sentir raccontar dal nonno, dal babbo o dal fratello maggiore le loro virtù, e le grandi cose che avvennero nella nostra patria, il cuore si scalda e si sente stimolato a ben fare. Le persone della nostra famiglia ci sono sempre più care, e l'amore e la concordia ci vengono adagio adagio migliorando l'animo. Sappiate rendervi degni di questa confidenza scambievole, sappiate godere d'una pace sì deliziosa; non la disturbate mai: essa è il tesoro delle famiglie.
Cinque o sei giorni dopo, la Milla era già rubizza come prima; tutte le tracce della malattia erano sparite; avea la sua rocca al fianco, salì le scale da sè lesta lesta, come una fanciulla di sedici anni; le era tornata la sua voce un po' tremula, sì, ma schietta e sonora, e potè ripigliare il filo dei suoi racconti. Questa volta anche la mamma vi si trattenne; Tito ed Eugenio erano lì. S'era messa un po' in soggezione la buona vecchia per via della signora Elena; ma poi, dopo essersi data una stropicciatina alle grinze della fronte e alle mani, cominciò in questo modo:
Tempo fa, per far servizio a un'amica, m'occorse d'andare in Borgo San Frediano dal signor Bartolini[17], che è quel gran maestro di scultura che voi sapete: ed entrai proprio nel suo studio. Vidi allora due o tre stanzoni pieni di bellissime statue, parte finite e parte abbozzate, di tanti ritratti e disegni, di blocchi di marmo grossi spietati; modelli di gesso, palchi, scalei; e v'erano diversi garbati giovani, alcuni dei quali smodellavano, ed altri modellavano creta. Mi figuro io che la bottega di Michelangiolo in via Ghibellina fosse un dipresso come questa. In vece di maestro Lorenzo, mettiamoci maestro Michelangiolo, che questo antico non si potrà aver a male d'essere raffigurato al moderno, e stiamo a vedere che cosa segue.
Un ragazzo, con aria di campagnolo e vestito rozzamente, franco senza essere sventato, ilare, di volto bello quantunque non regolare, entra a buon'otta, corre verso il Maestro, lo saluta, ed esso ridendo gli dà il benvenuto bambino, e poi seguita il suo lavoro intorno a una statuetta abbozzata. Voi avrete già indovinato chi fosse questo fanciullo: ora mettetevi ne' suoi piedi per immaginarvi quanto giubbilo dovesse provare in quel punto nel vedere adempito il suo desiderio ardentissimo. Il Gori lo aveva accompagnato, per andar poi a ripigliarlo al tramontare del sole. Riguccio si mise tosto a guardar Michelangiolo, che ora lavorava infuriato, ora con flemma, e non cavava mai gli occhi di sul lavoro. Passa un'ora, ne passano due, e Riguccio lì. Ma che se n'è scordato che ci sono io? diceva egli tra sè: a vedere ci ho gusto; ma non son io venuto qui per iscolpire? A un tratto il Maestro si scosta, si mette a considerare la sua statuetta per ogni verso, e poi le butta addosso con tutta la sua forza il mazzuolo, e la manda in pezzi. Riguccio si tirò addietro impaurito, e uno scolaro di Michelangiolo, accorso al tonfo, domandò: « Che è stato, Maestro? » — « Non vuol venire a mio modo; è meglio rifarla. » — « Fosse stato il marmo col quale vi faceva lavorare Piero dei Medici[18], meno male; e poi ecco un mese di lavoro perduto. » — « Un mese! diceva sotto voce Riguccio. Ci vuol tanto tempo a fare una statuina, e poi avere il cuore di spezzarla? » Intanto Michelangelo s'era messo a schizzare, forse quella stessa figura, per istudiare meglio la composizione.
Riguccio un po' seccato di star lì fermo senza far nulla, s'arrischiò a girellare soffermandosi ora davanti a una statua, ora davanti a un busto, e osservando con grande attenzione e piacere. S'accostò poi ad un giovine che copiava con la matita. Che bel disegno! Ma ogni poco lo scolaro cancellava con certi pastellini di midolla di pane più qua e più là il suo disegno, e tra fare e disfare, la metà del giorno era scorsa; ed egli aveva concluso pochissimo. Intanto anche Michelangiolo va a guardare il disegno dello scolaro. Dà una scossa di testa, e poi dice: Antonio mio, in sei mesi che tu stai qui ad imparare, avresti dovuto andare un po' più avanti. Questo disegno non te lo passo; l'aria della testa non l'hai presa bene; queste linee son troppo grosse.... da capo, da capo! poi gli leva di sotto gli occhi il disegno, e d'un solo foglio ch'era, giù, senza misericordia, ne fa due pezzi, uno per mano, e se la batte. Riguccio rimase a bocca aperta, e gli dispiacque tanto per quel povero giovine, che gli spuntò una lacrimuccia.
Ma s'accorse che Antonio, più allegro di prima, si rimetteva al medesimo studio, dicendo: Chi sa che la quarta prova non mi riesca? avanti, avanti! coraggio Antonio! tra qualche mese tu potrai maneggiare il mazzuolo.
Riguccio cominciò a sentire appetito; si mise a mangiare un bel pezzo di pane bianco che la Marta gli aveva posto sotto il braccio nel dirgli addio, e poi s'addormentò sopra una panca, perchè nella notte non avea potuto chiuder occhio; tanta era stata l'impazienza di vedere il giorno per andare a Firenze. Alle ventitrè arrivò il Gori a pigliarlo, e bisognò che lo svegliasse. Michelangiolo non s'era più fatto vedere, e Riguccio se n'andò via tutto mortificato e confuso.
— Che cos'hai fatto di bello, Riguccio? gli domandò il Gori quando furono usciti.
— Lasciatemi stare, per carità, non voglio discorrere.
— Cose grosse? Che te n'è uscita la voglia?
— I' non so in che mondo mi sia. Lasciatemi stare, vi dico.
— Oh! non ti tocco, non aver paura.
Il Gori s'accompagnò con altri due Fiesolani, e discorrendo con loro, non pensò più a Riguccio, il quale se n'andò dietro dietro, a capo basso, fin sulla piazza di Fiesole.
La Marta era sull'uscio di bottega; si aspettava di vederselo correre incontro tutto festoso; ma egli rimaneva coperto dal Gori; ed essa non vedendolo, a un tratto s'impaurì; ma quando potè scorgerlo venir su in quel modo sopra pensiero e con andatura svogliata, lo credè troppo stracco, e si mosse verso di lui a prenderlo per la mano.
Riguccio quando la vide lì in piazza, non ebbe cuore di dirle nulla; solamente le strinse la mano e le restituì secco secco il saluto. Appena entrato in bottega, quando appunto la Marta era per domandargli perchè avesse visuccio e le lacrime in pelle in pelle, egli se le buttò al collo e cominciò a pianger davvero.
— Riguccio mio! e che hai? t'è seguita qualche disgrazia? Michelangiolo non ti vuole? Ma dimmi qualche cosa, non far piangere anche me, senza ch'io ne sappia il motivo. Parla, Riguccio, parla, che guai ci sono?
— Michelangiolo non mi ha dato retta; sono stato lì tutto il giorno come un balocco; si vede che io sono troppo piccino....
— Eh via! non ti scoraggire tanto presto: oggi non avrà potuto badare a te per l'appunto. Domani sarà un'altra cosa; non piangere, abbi pazienza.
Quando poi egli si fu un poco sfogato, le raccontò per filo e per segno quel che era avvenuto; e la Marta, quantunque ne rimanesse un poco maravigliata, pure non glielo diede a conoscere, e seguitò a confortarlo. Essa aveva preparato una buona cena; la malinconia del ragazzo era quasi dissipata dalle buone parole della sorella; dopo due o tre scosse di testa, cominciò egli a chiacchierare allegramente secondo il suo solito, e a poco a poco gli venne sonno, e dormì bene tutta la notte. La Marta non potè, com'esso, dormir subito, poveretta! Cominciò a fare mille congetture sul contegno di Michelangiolo, e a dubitare: ma quella angelica fiducia che non l'abbandonava giammai troncò le sue riflessioni, e potè poi anch'essa riposare un po' in pace. — Intanto che dormono; anch'io, bambine mie, ho voglia di pigliare un breve respiro.
Eug. Ma perchè trattarlo in quel modo, povero Riguccio? mi pare un'azione villana.
Tit. Ho sentito dire che Michelangiolo era lunatico qualche volta.
Sig. Elena. Egli avrà forse voluto provare la costanza di Riguccio; vedere se la vocazione si manteneva a dispetto delle difficoltà: fargli conoscere quante ve ne sono da superare prima di riuscire a far qualche cosa di buono nelle belle arti. È facile che un ragazzo come Riguccio credesse che da fare i fantocci di neve allo scolpire vi fosse poco divario, e che in pochi giorni avrebbe potuto esclamare: Sono scultore anch'io!
Eug. Gliele doveva dire tutte queste cose piuttosto.
Sig. Elena. Ma a dare a voialtri qualche avvertimento su ciò che non conoscete bene, che cosa accade? O non capite, o non credete. Il fatto parla più chiaro e persuade meglio.
Mil. Bisogna che la cosa sia così, perchè quella storia, poco più poco meno, durò varii giorni; ma Riguccio lì, e quanto più vedeva le difficoltà e le fatiche, più gli cresceva la voglia di cominciare. Accortosi intanto che prima d'andare al marmo ci voleva altro, e che bisognava risolversi a qualche cosa, trovò un foglio, prese della matita, e inginocchiatosi davanti a un panchetto accanto ad Antonio, si pose a copiar lo studio di quello scolare imitandone i modi. Non gli riusciva d'azzeccarne una, ma gli pareva meno strano cancellarla venti volte che dire a memoria quattro parole latine.
Insomma e' ci lavorò per qualche ora senza perdere la pazienza nè la voglia; e quando si dovè alzare non poteva più camminare; tanto gli s'erano intormentiti i ginocchi. Ma almeno aveva fatto una prova; qualche segno v'era; bene o male aveva cominciato ad adoperare la matita.
Quando fu andato via, Michelangiolo corse a guardar quella prova, e dopo averle dato un'occhiata, disse fra i denti: «Antonio, Antonio! ho paura che questo ragazzo ti voglia levar la mano. Veggo che bisogna pensarci davvero. Da quel monte ne sono scesi de' buoni; e mi pare che questo voglia accostarsi piuttosto al maestro Mino che a maestro Simone»[19].
Pag. 123.
Il giorno dopo Riguccio più allegro del solito corse al disegno. Michelangiolo, senza che egli se ne avvedesse, gli si pose dietro a guardare come faceva, e dopo un poco gli disse: — Questo non è lavoro per te. Riguccio si riscosse, e voltatosi, arditamente rispose: — O dunque ditemi voi.
— Vien meco; ecco qua il tuo posto.... copia questo disegno.... fa', disfa' mille volte finchè non si scambi con l'originale.
— E che cos'è l'originale?
— È questo, il disegno che tu devi copiare.
— Ho capito.
Gli altri scolari sorridevano d'aver sentito che egli non sapeva nemmeno che cosa fosse l' originale; e Riguccio fece il viso rosso.
— Non t'importi che ridano adesso; purchè tu non li faccia ridere quando avrai finito la copia. Bada a te e a quel che ti dico io: pazienza e costanza; e se qui dentro c'è qualcosa di buono (e gli batteva leggermente le nocche sul capo) dovrà venir fuori.
Riguccio non intese a sordo. Ogni giorno faceva un progresso. Presto presto passò a modellare: le speranze di Michelangiolo non furono vane. Marta che vedeva sempre il fratello tornare a casa contento, pareva la donna più felice di questa terra. E ora io vorrei potervi dire tutta la consolazione di quelle due anime piene d'ingenuità e d'affetto; vorrei potervi descrivere la beata pace di quella cara famigliuola che vedeva ogni giorno esauditi i suoi voti. Romolo, il tutore, cominciava a guardar di buon occhio Riguccio, benchè non avesse la tonaca; e le affettuose ammonizioni di Marta, e una terribile malattia cagionata dall'abuso del vino, lo avevano quasi fatto ravvedere. Ma il pover'uomo era debole ed invecchiato innanzi il tempo; stava delle ore a seder sulla panca nella bottega di Marta, mezzo assonnato, a considerare quella giovine vispa ed attiva, seguendone con lento muover di testa i passi celeri e affaccendati in su e in giù per la bottega. Se prima non poteva Marta far capitale dei tutore negli affari del suo piccolo commercio, di più le toccava ora ad assister lui; e lo faceva con tanta premura, che egli non pensava più a nulla, e tutto andava pel suo verso.
Riguccio, coll'andar dell'età, imparava sempre più a valutare i tanti pregi di questa sorella, e ne parlava al maestro con trasporto. Questi volentieri lo ascoltava, e ogni giorno più si sentiva disposto ad amarlo, non solamente perchè riusciva benissimo nell'arte, ma più perchè lo consolava co' suoi teneri sentimenti, gli dimostrava per ogni verso una gratitudine affettuosissima, e teneva poi nello studio una condotta esemplare. Divenuto, si può dir quasi, il favorito di Michelangiolo, nessuno degli altri scolari ne dimostrava gelosia, perchè tutti vedevano bene che egli lo meritava, anzi l'avevano caro; ed essi stessi lo amavano come un fratellino, ed anche lo aiutavano quando poteva aver bisogno di loro. Egli aveva per quelli maggiori a lui d'età e di sapere lo stesso rispetto di un sottoposto pei suoi superiori: nè gl'intravvenne mai di credersi qualche cosa di più degli scolari venuti dopo, e meno abili.
Questa fu la vita di Riguccio per qualche anno; la vita di un ragazzo buono, d'ingegno; piena di quelle contentezze e di quella pace che abbelliscono tanto le umili case dei braccianti. Ma io non la posso, neppur volendo, descrivere per filo e per segno. E poi, si può dire che la conosciate, perchè a voi la provvidenza ha dato i beni della fortuna e le migliori doti dell'anima. Avete una mamma....
Sig. Elena. Milla ti prego di tornare a Riguccio.
Mil. Sì, sì, perchè il volto e gli occhi delle sue figlie dicono molto più delle mie povere parole. — Sicchè, per tornare al racconto, e accostarmi per oggi alla fine, salterò quattro o cinque anni, e arriverò a una mattina del 1525. Codesta mattina Michelangiolo entra pensieroso nello studio; aveva in mano una lettera, e rileggendola ora qua ora là, dava delle occhiate ai suoi lavori e a Riguccio; gli altri scolari non erano ancora giunti. Dopo un poco fece l'atto di chi ha preso una risoluzione, e disse a Riguccio: — Clemente[20] mi chiama a Roma; ho stabilito d'andarvi; vuoi tu venir meco?
— Io a Roma? con voi? a vedere il vostro Mosè[21]? le vostre pitture del Vaticano?...
— Dunque vuoi tu venir meco? risoluzione!
— E potreste voi dubitarne?
— Domani partiremo.
Riguccio era fuori dì sè dalla gioja. Nel rimanente di quella giornata non gli riesciva di lavorare; la smania di veder Roma, quella famosa città piena delle maraviglie delle belle arti, lo avea inebriato. In quel tempo in ispecie Roma era frequentata dai più famosi artisti dell'Italia i quali eseguivano a gara quelle opere che la fanno eterna maestra delle altre nazioni. Quando sarete più grandi, ragazzi miei, conoscerete queste cose un po' meglio; e vi sarà qualche altra persona, come per esempio il vostro amico Don Vittorino, che ve ne saprà ragionare.
Io penso ora a quella povera Marta, che è alla vigilia di vedere il fratello allontanarsi da lei. Anche Riguccio, passati i primi istanti della sua gioia, vi pensò, e sentì stringersi il cuore. Egli era appunto sulla via per tornarsene a casa; guardava da lontano il campanile di Fiesole, e gli pareva di vederlo per l'ultima volta; sentiva la campana dell'Ave Maria, e si figurava Marta pregare Iddio per non essere mai separata dal suo Riguccio. Come farà egli a darle a un tratto una nuova così dolorosa? Da una parte non gli parea vero di veder Roma, e affrettava il passo; dall'altra non sapeva risolversi a lasciar Marta, e lo rallentava; e una volta ritornò un pezzo indietro per andare a scusarsi con Michelangiolo, perchè aveva promesso troppo presto, e dubitava di non poterlo seguire a motivo della sorella. Ma finalmente l'amore dell'arte la vinse; Riguccio tornò a casa, e trovò la sorella che appunto stava in pensiero per lui che aveva fatto più tardi del solito. Si accorse che egli era agitato da qualche cosa di serio, ma aspettò l'ora di cena per conoscer la causa di quell'agitazione, perchè sapeva che il fratello non le nascondeva mai nulla.
— Marta, le disse Riguccio quando si furon messi a tavola, tu pensavi di ritirare in casa il nostro tutore perchè ti fa pena vederlo star solo di notte in quel tugurio accanto al mulino, ora ch'egli è, si potrebbe dire, malato. Io veggo che tu pensi bene. Così a un bisogno avrà chi lo soccorra; e noi siamo in dovere di farlo; ma c'è una difficoltà.... manca la camera.... Se questa difficoltà sparisse?
— Allora sarebbe accomodato ogni cosa. Romolo viverebbe con noi; non gli parrebbe vero; tu sai che lo riguardiamo come un padre.
— Dunque bisognerebbe ch'io gli dassi il mio letto....
— E tu, dove vorresti dormire?
— Eh! io un giorno o l'altro....
— Come sarebbe a dire? spiegati meglio.
— Se io andassi per un poco a studiare a Roma?...
— Povera me! tu mi vorresti lasciare?
— Per un poco.... A Roma potrei veder tante cose, potrei acquistare tante cognizioni.... il maestro mi ci vuol condurre....
— Magari! quando si tratta del tuo bene.... Ma non tanto presto, credo io: tu sei molto giovine ancora.... E poi ci vorrà una buona moneta.
— Eh! per codesto Michelangelo mi conduce senza spesa....
— Lo so che è tanto buono e tanto generoso, specialmente per te; mi disse anzi che un poco tu lo aiuti e ch'egli vuol pensare a darti stato.... Ma perchè mi fai tu stasera questi discorsi? Aspetta a quel tempo.... per ora vedrò di assister Romolo in qualche maniera....
— Ma non te l'ho detto.... che Michelangiolo mi menerebbe a Roma?
— Subito?
— Anche domani, se tu....
— Ho capito, ho capito (e le spuntavan le lacrime), tu non me l'hai voluto dir subito, per non darmi un dolore così all'improvviso.... Lo dicevo io che tu avevi qualche gran cosa di nuovo stasera? Ecco fatto.... l'ho saputo.... io me l'aspettavo, ma non così presto.... Riguccio, almeno non piangere in codesto modo.... non mi scoraggire; se è per tuo bene, perchè dovrei io negartelo? non posso neppur farlo, anzi l'ho caro, vuol dire che Michelangiolo ti giudica degno di andar con lui a Roma; e forse domani, è egli vero? tu non rispondi? ah! pur troppo domani mi toccherà a dirti addio.... Da questa sera in poi non ceniamo più insieme, chi sa per quanto! Almeno che Iddio t'accompagni sano e salvo; e ti faccia tornar presto nelle braccia della tua Marta. Ma se tu devi studiare a Roma, ci vorrà altro! e chi sa quanto è lontana da Firenze questa gran Roma! E poi si sente tanto parlar di guerre in oggi.... Sicuro, a andar con Michelangiolo non v'è pericolo; un uomo come lui sarà rispettato da tutti; tu sei molto giovine, ma hai giudizio; anche senza le ammonizioni della tua Marta ti saprai regolare da te.... Dunque proprio domani?
— Zitta, per carità, io non ne posso più; tu mi fai scoppiare il cuore. Marta non ti lascerò, non è possibile; io lo dicevo dianzi tra me; avevo fatto bene a tornare addietro per dirlo anche a Michelangiolo; ma, domani, domani.... egli non se l'avrà a male.
— Riguccio, di un po' di sfogo ne ho avuto bisogno; stasera è la vigilia della tua partenza; o poi son donna; non ho altri che te a questo mondo; se ho pianto, se ho detto tutte quelle cose, sono compatibile; ma ora ti ripeto che il tuo bene deve andare innanzi a ogni cosa. E poi tu l'hai promesso al maestro. Bisogna mantenergli la parola. Chi sa che tu non gli possa anche recare qualche servizio? Va', va'; tu puoi pensare a me anche da lontano. E io? figurerò d'averti meco; avrò la compagnia di Romolo; sì, da una parte è bene, perchè quell'uomo mi fa troppa pena a star solo. E quando ritornerai?
— Non lo so: ma ho speranza di tornar presto.
— Dio lo voglia per la tua Marta. Ora che tu sai scrivere, mi scriverai spesso; domani voglio venire a dire addio a Michelangiolo; mi raccomanderò anche a lui. Intanto, va' a riposarti; se devi porti in viaggio....
— Sì; domattina ci diremo addio. — E si lasciarono. Ma nessuno di due aveva voglia di dormire; quando Riguccio se ne fu andato, Marta ricominciò a piangere zitta zitta; pure nel medesimo tempo metteva assieme le robicciole del fratello per fargli alla meglio una valigetta da viaggiatore. Spuntò il giorno; Marta e Riguccio s'incontrarono con occhi lacrimosi, ma la sorella faceva coraggio al fratello, quantunque in cuore fosse maggiormente angustiata di lui. Riguccio, alla fine, andava col maestro in una città così famosa a soddisfare la sua gran passione per l'arte, ad acquistar sapere, a diventar uomo davvero. Ma la sorella restava sola, senza compenso alcuno alla sua afflizione, con mille pensieri, con mille paure che dalla sua fantasia inesperta e dal suo cuore affettuoso erano grandemente accresciute. Pregarono insieme; insieme partirono di buonissim'ora, e per istrada si rammentarono di quando videro per la prima volta il Buonarroti.
— Allora la Provvidenza ci protesse. Riguccio, te ne ricordi? Ci proteggerà anche questa volta. La nostra cara mamma pregherà ancora per noi. Benchè separati da tanto paese, noi saremo sempre uniti nel pensiero di quell'anima benedetta, che ora dal cielo ci vede nell'afflizione, e regge i nostri passi, e benedice le nostre speranze.
— E sostiene il tuo coraggio. Tu fai le sue veci con me; ella mi diede, e tu mi conservi la vita, Marta, io mi accorgo di fare un passo superiore alle mie forze. Oh Roma! Roma! quanto mi costi!
E poi camminarono in silenzio fino alla casa di Michelangiolo. Quando si diedero l'ultimo addio, quando s'abbracciarono senza poter più articolare una parola, anche il maestro si sentì scorrere le lacrime sulle gote, ed ebbe rimorso d'essere stato cagione di tanto spasimo a quei due angioli.
Marta non s'era perduta mai di coraggio: ma quando fu ritornata a casa si abbandonò liberamente a un lungo sfogo di pianto, e cercò in seguito un po' di consolazione in fare a Romolo tutto quel bene ch'ella poteva.
3.
La signora Elena, vedova di un negoziante di Firenze, erasi ritirata a vivere in campagna per diminuire le spese d'una famiglia numerosa rimasta quasi priva di assegnamenti. Vivente il capo di casa se l'era passata bene, ma la morte di lui, sopraggiunta all'improvviso in tempi sfavorevoli al commercio, era stata una rovina irreparabile. Noi abbiamo già conosciuto questa famiglia prima della sua disgrazia. Vi ricordate voi della vecchia Milla, e di tutte quelle fantoline alle quali narrava talvolta le sue novelle? Io vi parlo di loro. L'Angiolina, la minore, non è più da chicche. Ella ha già i suoi 11 anni, e con le sorelle Maria, Teresa e Luigia piange la perdita così funesta d'un genitore adorato. Ma quelle fanciulle erano cinque. Ahimè! sono costretto a darvi un'altra notizia dolorosa La buona, la vispa Sofia, la sorella maggiore, la delizia di casa, dopo essere stata sposa per due anni ad un bravo giovine dottore di medicina, ebbe una terribile malattia, e morendo nel fiore degli anni, lasciò la desolazione nella sua famiglia e nel povero Vittorino suo marito che l'adorava. E chi sa che la sua morte non avesse affrettato quella del padre! La signora Elena resse a queste acerbe sventure, perchè la Provvidenza non volle che quei suoi figliuoli (vi ricorderete anche di Tito e d'Eugenio) rimanessero affatto abbandonati. Ma potete figurarvi a quale vita di privazioni erano ridotti! invece d'abitare un quartiere nel centro di Firenze, e bello, comodo e ammobiliato con lusso benchè modesto, noi li troviamo ora in una meschina casuccia di campagna. Invece d'essere serviti di tutto punto da due o tre persone, bisogna che s'ajutino a far da sè con la più stretta economia di cose e di tempo. Non più veglie piacevoli, delle quali i ragazzi duravano a parlare un pezzo, perchè erano andati a dormire due ore più tardi del solito, ed avevano sentito la mamma e la Sofia suonare e cantare veramente bene, e s'erano ritrovati a cenar tutti insieme. Non più vestiti belli, non più trottate in carrozza... Ma nessuno si creda che uno stato così diverso dal primo gli affliggesse per la mancanza dei comodi e degli svaghi. Quante famiglie si sono ritrovate in simili angustie, specialmente a quei tempi nei quali tutta l'Europa era sottosopra per le guerre di Napoleone! e la infelice nostra Italia ne pativa forse più di tutte le altre nazioni. In questo mondo bisogna saperci adattare a ogni condizione; e quando le disgrazie non sono meritate, Iddio ci dà la forza di sostenerle. Così era nella virtuosa famiglia della sig. Elena. Eccola lì tutta raccolta in una stanza, e a fare chi un lavoro chi un altro, dopo avere sbrigato un po' per uno le faccende di casa. La sig. Elena ricama per fuori, e intanto insegna alla Teresa. La Maria e l'Angiolina lavorano per casa. Eugenio studia, perchè sua madre fa di tutto per renderlo capace di esercitare una buona professione. Non si sarebbe vergognata a metterlo ad un mestiere, ma giacchè egli era innanzi negli studj, le pareva peccato farglieli abbandonare sul più bello. La Luigia, rimasta la maggiore, sceglie e prepara i migliori capi della biancheria di Tito. Ma oh! quanto codesta occupazione è dolorosa per lei e per tutti! Volete sapere il perchè? Il giorno dopo Tito doveva partire coscritto per l'armata di Napoleone I.
Ci mancava anche questo per accrescere la loro disgrazia! Quando egli era per raccogliere il frutto degli studi legali, essendo vicino al termine delle sue pratiche, sopraggiunse una di quelle coscrizioni fulminanti che rubarono tanti poveri giovani alle loro famiglie negli ultimi tempi dell'impero francese. E per l'appunto anche a lui toccò ad essere del numero dei coscritti, quando aveva maggior bisogno di rimanere in casa, e minori mezzi per riscattarsi.
Non valse addurre la povertà della famiglia, che perdeva in lui il solo sostegno; furono inutili tutte le raccomandazioni, bisognò prepararsi a partire, e quella serata era la vigilia di una crudele separazione.
Figuratevi dunque come tutti erano costernati; ma forse più di tutti la Luigia che amava quel fratello con trasporto di tenera predilezione.
«Oh! disse ella dopo aver tratto un lungo sospiro, anche Marta fiesolana, ve ne ricordate sorelle? si afflisse tanto nel preparare il corredo a Riguccio, quando ebbe a partire per Roma con Michelangiolo. Ma essa lo mandava a farsi un bravo scultore, e aveva la speranza di rivederlo. Noi... ah! noi forse perderemo Tito per sempre! Povero Tito! chi sa quanto gli toccherà a patire in mezzo alla guerra, per morir poi lontano da noi e dalla patria!»
Nessuno ebbe coraggio di rispondere a così funesto presagio. Ma una voce a quegli afflitti carissima ruppe all'improvviso il silenzio, pronunziando con fermezza queste parole: «Iddio non abbandona chi ha fiducia in lui; e chi soffre con rassegnazione patisce meno.» E una vecchierella entrava nella stanza, e consegnava con faccia lieta alla sig. Elena un gruppetto di monete. Questa con le lacrime agli occhi strinse la mano grinzosa della vecchia, e posandosela sul petto, disse alle figliuole: «Benediciamo la provvidenza e quest'angiolo che ce ne porta i soccorsi.»
Quelle monete erano in parte il guadagno delle loro mani; e quella vecchia (scommetto che alcuno di voi lo ha già indovinato) era la buona Milla. Sicuro; quando la disgrazia entrò in quella famiglia, di tanti che vi bazzicavano in tempi migliori, una sola persona restò fedele, ed anzi raddoppiò le sue visite, supponendo, e con ragione, che ve ne fosse bisogno. E questa persona fu appunto la vecchia Milla, che se voleva, avrebbe potuto andare piuttosto in case ricche e mettere assieme dei quattrinelli col far da guardiana ai fanciulli quando i genitori eran fuori, come già fatto aveva dalla signora Elena. Ma no; ella preferì di servire i padroni impoveriti, e senza ombra d'interesse, perchè il Vangelo insegna a soccorrere gl'infelici.
Quando poi la signora Elena si decise a ritirarsi in campagna, chiamò la Milla in disparte e le disse: «Milla, per ora io non ho la possibilità di ricompensarti come vorrei della grande assistenza che tu ci hai fatta; e più che altro mi sta sul cuore di doverti perdere. Ma non dubitare, non mi scorderò di te; e se un giorno o l'altro, che Dio non voglia, ti mancasse un po' di letto e un boccon di pane, vieni subito da me, che alla meglio ti adatterai quel che fa a sette...» — «Per carità, interruppe la vecchia, la non mi faccia codesti discorsi. Non si rammenta del bene ch'ella mi ha fatto quando poteva? Me ne rammento io; e ci vorrebb'altro altro a saldare il mio conto con lei! Anzi, non m'arrischiavo a dirglielo: io mi sono tanto e poi tanto affezionata alla sua famiglia, che mi pare impossibile di dovermene staccare; e da povera vecchia come sono, un po' d'aiuto per le faccende più rozze mi proverei a darlo.» — «E tu vorresti sacrificarti in una casa di miserabili come siamo ora?» — «Magari! se avessero la degnazione di accettarmi....»
A un tratto di carità spontanea come questo in una misera donnicciola del volgo, la signora Elena si intenerì tanto, che non ebbe nè anche fiato di rispondere. Le buttò le braccia al collo, ringraziò il cielo, e fin da quel giorno la generosa vecchia fu a parte della loro sorte, e seppe renderla meno infelice. Ella teneva in custodia la masserizia, regolava le faccende di casa, sapeva mettere le mani per tutto, trovava ogni stillo per raffinare l'economia, insomma era la buona testa della famiglia. E poi, bene spesso, quando sarebbe stata ora di pigliarsi un po' di riposo, correva a Firenze dalle persone di sua conoscenza a procacciar lavoro per la padrona senza mai nominarla, e a riportarlo e riscuotere que' pochi, o a vendere uno di quegli oggetti di valore dei quali la signora Elena era costretta a disfarsi per qualche straordinaria occorrenza. Quella sera appunto era stato necessario mettere assieme una sommerella, perchè Tito andasse via almeno con qualche soldo in tasca. E tra due o tre crediti di lavoro, ed il ricavato dalla vendita d'una bella mantiglia di Fiandra, la Milla portò a casa un cento di lire. «Tito non se l'aspetta, disse la signora Elena con aria di compiacenza. Questi po' di soldi gli potranno far giuoco una volta o l'altra; glieli devi dar tu, consegnandoli alla Luigia; una buona parte di essi gli hai guadagnati con le tue mani. Ma brava davvero la nostra Milluccia! io non mi aspettavo tanto. E chi sa quanto hai girato! Va' a mangiare un boccone ed a riposarti. Stasera facciamo veglia noialtre, e la Luigia non v'è pericolo che ti ceda la mano a preparare il corredo di Tito.» — «Troppa bontà, signora Elena, ma io non sono stracca davvero. Anzi que' due passi m'hanno fatto pro. Ho anche da mantenere una promessa, è egli vero, fanciulle mie? la feci a voi e a Tito. Per voi si potrebbe rimettere a un'altra sera; ma Tito.... domani deve andar via.... potrei essere a Trespiano[22] quando ritornerà....» — «Se ritornerà!...» interruppe sospirando la Luigia. — «Oh! questo ve l'assicuro io.... son povera donna, ma del mondo ne conosco la mia parte, e mi basta di campare qualche altro mese per rivedere Tito fra noi, non dubitate....»
Così ella cercava col suo spirito di far coraggio a quella famiglia; e sia l'autorità acquistatavi con le sue qualità eccellenti, sia la fiducia che ispirano i conforti dei vecchi, e il tono di sicurezza col quale proferiva queste parole, ella vi riusciva davvero. E poi nella sua mente accorta e generosa andava ruminando un progetto, che sebbene difficile, pure voleva tentarlo.
Le pareva d'avere scoperto, che Tito, benchè facesse di tutto per nasconderlo, pure aveva una grande smania di andare alla guerra. Con un temperamento robusto e una fantasia molto fervida era facile che vi fosse indotto dagli avvenimenti straordinari di quell'epoca. Oggi veniva la notizia d'una gran vittoria di Napoleone; dimani d'un'altra; quando gli raccontavano di un soldato comune divenuto in pochi giorni generale d'armata; qua d'un regno cangiato in repubblica; là d'una conquista fatta con cento colpi di fucile.
Ma Tito era pur sempre tenero figliuolo e fratello; e ondeggiava molto tra gli affetti di famiglia e lo spirito di ventura. Quell'angiolo della Luigia specialmente gli stava tanto nel cuore, che alla Milla pareva proprio impossibile che in fine dei conti Tito si potesse risolvere volentieri a quel passo. Quindi essa aveva posto gli occhi addosso ad una persona, sul contegno e sulle condizioni della quale fondava la maggiore speranza. Quel Vittorino, vedovo della Sofia, senza genitori, senza altri parenti che la famiglia della signora Elena, liberissimo di sè ed amico vero e generoso, non avrebbe potuto trovare il verso di risparmiare a quella famiglia una perdita così grande? Nella testa della Milla nulla era impossibile; ma l'osso duro stava in quella di Tito. Egli non si sarebbe adattato facilmente a mutare idea; e poi sarebbe stato anche necessario smontare una certa sua naturale renitenza a chiedere od a ricevere favori da chicchessia. La Luigia poteva molto sopra il suo cuore; ma essa, persuasa ormai che la perdita di Tito fosse irrevocabile, cercava anzi di moderare esternamente il suo dolore per affliggerlo meno. E se fosse dall'altro canto arrivata a conoscere la segreta propensione del fratello ad abbandonarla, ne sarebbe rimasta così afflitta, la poverina, da vederla forse consumarsi dal dolore in un fondo di letto.
Insomma la Milla stava come gli altri aspettando ansiosamente il ritorno di Tito e di Vittorino che erano andati insieme a Firenze, per vedere se almeno fosse stato possibile ottenere una dilazione alla sua partenza, giacchè da quello che vociferavano allora intorno all'armata di Napoleone, si poteva congetturare che la spedizione di Russia (1812) fosse per essere differita. Intanto, pensava tra sè, bisogna toccare il cuore di questo Rodomonte in erba; e se Dio mi dasse tanta eloquenza da riuscirvi col racconto che gli ho promesso di fare prima che se ne vada.... Basta: mi proverò. E se fo peggio? Vorrei vedere anche questa! E allora parlo a quattr'occhi a Vittorino, e gli dico la cosa tale quale come la intendo io; e qualche santo provvederà.
In quel mentre fu picchiato, e Vittorino e Tito arrivano. Prima che alcuno rifiatasse, tutti gli occhi furono subito addosso a loro. La Luigia, che era avvezza a leggere sulla fisonomia del fratello, conobbe subito che ogni speranza era perduta, e seguitò con maschia rassegnazione le sue faccende. Tito, dopo aver guardato di volo sua madre e sua sorella, si mise a sedere nascondendo il volto tra le mani; Vittorino, stringendo con aria di afflizione la mano della signora Elena, le fece capire qual risposta avrebbe avuto la sua dimanda.
«Eh! io me l'aspettava,» disse ella, dopo aver reso la stretta di mano a Vittorino. — «Le abbiamo tentate tutte le strade, soggiunse questi.» — «Ma ce n'è un'altra che tocca a me,» diceva la Milla in cuor suo, guardando fissa fissa co' suoi occhiali Vittorino e Tito. Un lungo silenzio successe a queste poche parole; e poi la signora Elena, venuta l'ora delle altre sere, intuonò una preghiera.
Chi si fosse ritrovato a quella fervida orazione proferita con voci tutte dolore e tutte innocenza com'erano quelle d'Eugenio e delle sorelle minori, sarebbe rimasto soavemente commosso fino alle lacrime. La sola voce della Milla era la stessa di prima; sempre ferma e tranquilla, come se non avesse avuta ragione alcuna di sospirare. Finita l'orazione, i volti si rasserenarono un poco, ognuno potè guardarsi con minore afflizione, e cominciò un colloquio, non dirò lieto, ma rassegnato. Tanto è vero che il rivolgersi a Dio nelle disgrazie infonde vigore per sostenerle. L'Angiolina poi, che meno di tutti intendeva la causa del comune dolore, e non poteva stare alle mosse, esclamò: «Ecco, Milla, Tito è tornato; dunque.... ce lo finisci una volta il racconto di Riguccio?» — «Perchè no? basta che la signora Elena si contenti; e poi bisogna vedere se Tito e Vittorino si degneranno di stare a sentirlo....» — «Potresti dubitarne? rispose Tito; io stesso te ne pregai: e tu me lo promettesti. Sarà il ricordo che io porterò meco di te. Vittorino ci ha gusto, lo sai.» La signora Elena fece segno alla Milla d'incominciare, e questa prese a dire così:
«Vi ricorderete, bambine mie, che quel buon giovine di Riguccio andò a Roma con Michelangiolo. Dicono che in quella città vi sia un visibilio di statue e di pitture delle più belle che si possano vedere; sicchè aveva da cavarsi la voglia di studiare: e vi si mise con tanto proposito, che in poco tempo diventò il migliore ajuto del suo maestro. Allora non gli mancò mai da fare: e bisognò che si trattenesse in Roma più di quello che non avrebbe pensato. Egli era proprio nel suo centro: ma ogni volta che ripensava alla sua cara Marta (e questo avveniva spesso), gli pareva d'essere sulle spine, e avrebbe voluto volare nelle sue braccia. Ma il sentimento della gratitudine per colui dal quale si poteva dire che avesse ricevuto il suo essere, e quella bramosia sempre crescente di diventar bravo, gli facevano soffrire in pace quell'amara separazione. E la Marta? ogni giorno che Iddio metteva in terra si figurava di veder tornare a casa Riguccio; e invece le toccava a contentarsi di quando in quando d'una sua lettera. Una volta però restò anche priva di quella po' di consolazione di leggere i due o tre versi d'amore che soleva scriverle. Intanto cominciavano a correre certe voci di guerra in Italia e verso Roma, che la posero in un'angustia da non si poter raccontare. E poi a un tratto a un tratto si sparge la nuova che un diavoleto di gentaccia era corsa contro Roma, l'aveva assediata e posta miseramente a sacco[23]. Per tutto, la gente sbigottita raccontava orrori di quell'assedio. Chi aveva parenti verso quei luoghi, era disperato. Migliaia di persone, i vecchi, le donne e i fanciulli stessi erano stati trucidati senza pietà, per le case, nei conventi e a piè degli altari: perchè quella marmaglia di scellerati, spinti da barbarie e da avidità senza esempio, aizzati dalle grida e dal sangue, non portarono rispetto nè anche alle chiese; per tutto ammazzavano, per tutto rubavano. I sacerdoti che avessero tentato d'impedire l'orrenda profanazione erano presi e messi ai tormenti. Molti dei cardinali furono arrestati, e se volevano uscirne vivi erano costretti a ricomprarsi la vita a prezzo d'oro; e se non potevano, la pagavano col loro sangue. Il papa stesso[24] a mala pena scampò da quella sfuriata di barbarie, ricoverandosi in un castello. Insomma credeva la povera gente di dover vedere la distruzione della cristianità, e che fosse proprio vicino il giorno del giudizio universale.
Fu un miracolo se la Marta non morì diviato a sentire queste notizie; e ne rimase così sgomenta, perchè s'immaginò subito che Riguccio fosse perito, che doverono portarla in casa a braccia, e stentò un pezzo a riaversi. Ma la poverina aveva perduto il suo spirito, era stata assalita da una fissazione mortale.
Se non era l'assistenza d'una vicina caritatevole, che se la prese in casa sua per poterla custodire più assiduamente, si sarebbe lasciata mancare di tutto. Non faceva più una parola, non riconosceva più le persone. Stava tutte le ore del giorno inchiodata sopra una seggiola, con gli occhi fissi al terreno. Solamente la sera quando si discorreva d'andare a letto, non c'era verso di farla spogliare, e diceva alla sua custode: «Riguccio deve tornare tra poco; non voglio che mi trovi addormentata; tanto non piglierei sonno. Andate voi, andate voi; io lo debbo aspettare.» A ostinarsi, avrebbe cominciato a dar nelle furie; bisognava fare a suo modo. E allora ogni volta che sentiva qualche rumore, balzava in piedi, e correva tutta allegra alla finestra, dicendo: «È lui, è lui, aprite subito.» Cessato il rumore, e non vedendo comparire il fratello, continuava a stare in orecchio per qualche minuto, e poi, battendosi la fronte, come donna disperata, ritornava a sedere, e ricadeva nella sua profonda melanconia.
Erano già passati parecchi mesi che la meschina conduceva questa vita, e pensavano di metterla nello spedale, quando una mattina, svegliatasi la custode, la Marta non v'era più. Girò per la casa, girò per Fiesole, ne domandò a tutti; nessuno sapeva risponderle, nessuno l'aveva vista. Anche a Firenze corse la fama di questa sparizione, e non vi fu anima vivente che potesse trovare il bandolo del mistero. Fu fatto un visibilio di congetture e di chiacchiere, e poi non se ne parlò più, altro che in Fiesole, dove gl'ignoranti avviarono a fantasticare di certa figura bianca che appariva la notte nella casa abbandonata della Marta, e d'una voce sotterranea che si sentiva gridare per tre volte Riguccio, sempre alla medesim'ora, nel duomo di Fiesole, in quel luogo dove la Marta soleva mettersi a fare orazione. Sicchè i ragazzi e le donnicciole dall'un'ora di notte in là non passavano più di sotto la casa della Marta; e il posto dov'ella s'inginocchiava in duomo restò sempre vuoto. In questo mentre anche laggiù a Firenze seguiva un altro diavoleto. Quelli che comandavano allora appartenevano alla casata de' Medici, parenti del Papa assediato in Roma, e si vede che volevano far le cose un po' troppo a modo loro. Perchè i Fiorentini ripigliando ardire dalle disgrazie del Pontefice, fecero una rivoluzione per mutar governo, e scacciarono i Medici da Firenze, rimettendo in piedi la repubblica[25].
Ma due anni dopo, quando il Papa ritornò in essere, fece di tutto per rendere alla sua famiglia il potere che aveva perduto in Firenze. I Fiorentini s'ostinarono a non volerne saper più nulla, e si preparavano a far la guerra. Ci voleva molto coraggio, tanto più che erano minacciati da altri nemici e tormentati dalla peste. Ma in quel tempo ce n'era del coraggio e del valore. E delle persone di proposito ve ne furono tante, che la storia d'allora è veramente famosa, a quel che ho udito dire. Già voi la saprete. Sicché mi basta di rammentarvi soltanto che il maestro di Riguccio fu chiamato in Firenze a difendere col suo sapere la patria nel pericolo estremo nel quale si ritrovava. Ed egli, che essendo buon cittadino amava sopra ogni altra cosa Firenze, lasciò subito i suoi lavori a mezzo, e partì. Riguccio che nel saccheggio di Roma era rimasto salvo proprio per miracolo, stava sulle spine per via della Marta, della quale non aveva potuto avere più nuova. Quando sentì che il maestro era per tornare a Firenze, gli si raccomandò perchè lo conducesse seco. Questi glielo accordò subito volentieri, ma dandogli consigli e denari, lo fece partire solo, perchè egli aveva bisogno di viaggiare segretamente.
Fermatosi Riguccio in una città chiamata Perugia, udì narrar mirabilia di una certa compagnia di gente colà arrivata di poco, e che si metteva sulla piazza con suoni e canti a rappresentare a forza di gesti un monte di storie. A Riguccio, che era un po' curioso, venne voglia d'andare a vedere questo spettacolo. Vi trovò una folla straordinaria, e sentiva da tutti mettere a cielo la bellezza d'una fanciulla che era tra quelli Zingani.
Fattosi largo, e arrivato a poter fissare da lontano gli occhi su lei, restò basito a mirarla. Essa aveva tutte le fattezze della Marta, e se fosse stata meno pallida, l'avrebbe subito presa per sua sorella. Ma intanto si sentiva come ribollire tutto il sangue nelle vene, e gli nacque una smania così grande di avvicinarsi di più, che spingendosi avanti all'impazzata, a furia di dare e di ricevere spinte, si trovò in un batter d'occhio sotto il palco degli Zingani.
Allora quella fanciulla, aperte le braccia, cadde bocconi verso di lui gridando: «Eccolo, eccolo!» Riguccio non dubitò più che fosse la Marta; con un lancio saltò sul palco, la prese in collo, prima che nessuno s'accostasse, e la menò via come un lampo. Sulle prime tutti rimasero estatici a questa scena. Poi tre o quattro di quegli Zingani, accesi dalla collera, misero fuori gli stiletti, e corsero addosso a Riguccio. Subito le guardie entrarono in mezzo, ed egli seguitando con ogni sforzo a difenderla gridava: «È la mia sorella! Guai a chi la tocca!» Molti del popolo, inteneriti, e presa parte per lui, si misero a spalleggiarlo; ed era per seguire una gran tragedia. I più se la battevano a gambe; le donne urlando e fuggendo cascavano e rimanevano calpestate; i fanciulli strillavano, e il fracasso cresceva a furia, come un terribile temporale. Riguccio difendendo sempre la sorella avviticchiata al collo, si raccomandava alla giustizia di Dio e degli uomini.
Finalmente arrivò sulla piazza un Commissario con molti soldati, che circondando quella coppia ordinarono al giovine di arrendersi, e gli promisero di non fare alcun male nè a lui nè alla fanciulla. Riguccio allora si diede un po' di pace; ma non volle mai lasciar la Marta, e furono insieme arrestati e condotti al palazzo alla presenza del Podestà. Quando la Marta si fu un poco riavuta, cominciò a tremare forte forte e a raccomandarsi che non la dividessero più dal fratello. A Riguccio fu fatto un esame per sapere se veramente era fratello di quella ragazza. Il capo degli Zingani, parimente arrestato e condotto ad esame, confessò che da cinque o sei mesi viaggiando per quelle parti l'aveva trovata svenuta di notte sulla strada di Roma, e che fattala ritornare in sè, non aveva potuto sapere da lei per qual combinazione fosse capitata in quel luogo, nè qual nome avesse nè di qual città o di qual famiglia venisse. Alle sue interrogazioni restava muta, o rispondeva soltanto: «Roma... Riguccio.» Ritenutala seco, si accorse che era mentecatta, e provatosi a farla gestire nei suoi pantomimi, ella faceva tutto quello che le dicevano, purchè le pronunziassero il nome di Riguccio.
Dopo questo processo, la Marta fu condotta in uno spedale; Riguccio che non voleva abbandonarla, fu costretto a separarsene ed a restare nelle mani del Commissario, finchè non avessero scritto alla Signoria di Firenze per conoscere meglio la verità. Quanto fu crudele per i due sventurati questa nuova separazione dopo essersi visti per così poco tempo e in mezzo a tanto scompiglio! La Marta che era spesso fuori di sè non lo seppe subito; ma arrivata allo spedale, e guardate le persone che la circondavano, cominciò a darsi alla disperazione, accorgendosi che Riguccio non v'era. Poi ricadde in un deliquio mortale, e temerono più volte che la poverina volesse render l'anima a Dio.
Dopo otto giorni arrivarono a Perugia le risposte di Firenze, per le quali Riguccio e la Marta furono liberati. Quando Riguccio lo seppe, corse subito allo spedale, ma il dottore che aveva preso la cura della Marta, non lo lasciò andar subito da lei, perchè v'era pericolo di farla ricadere. Cominciò dunque a prepararvela a poco a poco, e finalmente le cose andarono bene, perchè quando la Marta lo rivide, gli si buttò al collo, e diede in un pianto dirotto che fu proprio il suo salvamento. Poi, come se non potesse credere a tanta felicità, gli prese il volto con ambedue le mani, e facendogli un monte di carezze lo guardava immobilmente con certi occhi da fare' scoppiare il cuore; e diceva sorridendo: «Sì, sì; è lui; Iddio me l'ha reso; ringraziamolo, Riguccio, ringraziamolo Iddio, che ha avuto pietà delle sue povere creature. Me lo diceva stanotte la mamma, sì, me lo diceva che tu dovevi tornare e pigliarmi. Andiamo via subito; non mi par vero d'essere a casa dopo tante tribolazioni. Se tu sapessi quant'ho patito, fratello mio!...» — E Riguccio piangendo s'inginocchiava al capezzale, e le chiedeva perdono d'averle dati tanti dolori. «No, no; tu non ci hai colpa; non ne parliamo più dunque, ma andiamo subito a casa nostra.»
Riguccio non avrebbe voluto esporla a viaggiare vedendola così rifinita; ma per lei sarebbe stato peggio rimaner lì, perchè vi si consumava dalla passione. Cominciarono dunque a far poca strada per giorno, e intanto si raccontavano i loro patimenti. La Marta non sapeva nè anch'essa spiegare in che modo fosse sparita da Fiesole; non si ricordava di quando gli Zingani la presero, nè di ciò che le facevano fare allorchè era con loro. Dal momento che uscì fuor di sè quando le fu narrata la strage di Roma, fino all'incontro con Riguccio, non aveva pensato ad altro che a cercare in ogni luogo di lui, a guardare se fosse tra quelli che le andavano intorno.... Ragionando di ciò arrivarono finalmente sani e salvi a casa; e fu una gioja e una sorpresa grandissima per tutti i Fiesolani, quando una mattina li videro comparire all'improvviso.
Tutte le fandonie messe fuori dagl'ignoranti sul conto della Marta furono smentite; e le bambine che le volevano tanto bene, e che avevano paura ad accostarsi di sera a quella casa, perchè dicevano che ci si sentiva o ci si vedeva, corsero allegre ad accarezzarla, e conobbero che non era un'ombra. La Marta, alla buon'aria della sua patria, ritrovò un po' le sue forze, ma non era più quella di prima. I dolori e gli strapazzi grandi come quelli sofferti da lei rovinano la salute. Ma il suo spirito le tornò tutto; e quantunque la fosse quasi sempre tra il letto e il lettuccio, pure non metteva tempo in mezzo e aveva trovato subito da guadagnare col lavoro delle sue mani. E il bisogno era grande, perchè in tempi di guerra come quelli v'era carestia d'ogni cosa, e nessuno faceva più lavorare gli artisti. Riguccio andò a Firenze a trovar Michelangiolo, e a raccontargli ogni cosa. Il maestro si afflisse molto delle disgrazie di quella buona fanciulla; ed aiutò più che potè lo scolaro. Ma non aveva lavoro da dargli; e poi gli fece questo discorso: «La nostra patria è in pericolo grandissimo, Riguccio mio, ed ha bisogno di braccia che la soccorrano. Tu vedi in armi tutta la gioventù valorosa per sostenere la libertà della patria, e i vecchi e le donne preparate a difendere i propri focolari. Io so che se ti dicessi: Prendi una spada e seguimi, tu mi daresti subito retta. Ma la tua sorella ha sofferto abbastanza, poverina, tu non le devi dare altri dolori; altrimenti la faresti morire. E poi questo sforzo che noi facciamo, se un tradimento non ci rovina, anche senza le tue troppo tenere braccia avrà buon effetto. Oh sì, tu sei ancora troppo giovine, troppo inesperto nelle armi; sicchè non aver paura di passare da vile se rimarrai ad assistere la tua Marta. Ritorna subito a casa tua, prendi questi denari per il vostro campamento, e aspetta che sia passata la burrasca. Dopo ci rivedremo forse con pace, e torneremo a lavorare insieme sul marmo. Addio. Non posso più trattenermi teco. Ti raccomando la tua sorella.» — «Ma se la vostra vita fosse in pericolo, io darei tutto il mio sangue....» — «Lo so; ma non per me, per la patria io ti permetterei di sacrificarlo, se tu non avessi quella sorella. Torna, torna da lei, te lo comando.» Riguccio, che lo riguardava come suo padre, non rifiatò, e dopo averlo ringraziato dell'aiuto e del consiglio, volò a Fiesole. E fece bene, perchè la sua povera Marta cominciava di già a tremare. Infatti poco tempo dopo[26] quei medesimi ladroni che avevano saccheggiato Roma, assalirono a un tratto Firenze; e non bastò la bravura di molti valorosi a liberarla, perchè il generale dei Fiorentini li tradì colla più infame perfidia, e bisognò che alfine si arrendessero, perdendo per sempre la libertà con la distruzione della repubblica. Riguccio non si pentì d'aver dato retta a Michelangiolo ed all'amore per l'adorata ed infelice sorella, perchè passate tutte le burrasche il grand'uomo non si dimenticò del suo scolaro fiesolano; e questi potè far vivere alla Marta una vita meno infelice, senza mai più abbandonarla. Essa continuò sempre a fargli da madre amorosa, e Iddio benedisse la loro virtù; giacchè Riguccio ebbe sempre dei buoni lavori, si guadagnò un pane per la vecchiaia, e si fece onore al suo tempo. Ma siccome non ebbe altra bramosia che di vivere onestamente adempiendo al proprio dovere, e assistendo la sorella, così il suo nome non è venuto sino a noi con altra fama che quella più bella e più durevole di tutte, con la fama della virtù; e morì tutto contento d'aver potuto rasciugare una volta le lacrime della sorella. —
La Milla finì così il suo racconto. Le fanciulle intenerite la ringraziavano, ed avevano un visibilio di cose da domandarle; ma la signora Elena le mandò a letto, perchè era tardi. La Luisa continuava piangendo in segreto a preparare la valigia di Tito; e Vittorino se ne stava immerso in profondi pensieri, aspettando che l'amico proferisse qualche parola. Questi, che aveva attentamente ascoltato il racconto, si riscosse a un tratto, e sospirando esclamò: «Perchè non posso io fare come Riguccio! Milla, è stata una crudeltà la tua a portarmi quest'esempio, ora che non c'è più rimedio.» La signora Elena che incominciava ad accorgersi dell'intenzione della vecchia, ma non poteva neppur essa immaginare uno scampo alla partenza del figliuolo, si accorava più che mai. «Io ho sempre sentito dire che ad ogni cosa c'è il suo rimedio, fuorchè alla morte, rispose la vecchia a Tito.» — «Parla, ed io sono pronto a far di tutto per rimanere.» — «Raccomandiamoci a Dio; c'è ancora una nottata di tempo.» — «Ma io non so vedere come mai.... Se mi riuscisse di nascondermi....» — «Credo di averlo trovato io un mezzo, interruppe risolutamente Vittorino, dando un'occhiata d'intelligenza alla vecchia. Sì, la Milla ha ragione. A tutto c'è rimedio, fuorchè alla morte.» — «Sentiamo!» dissero a un tempo la madre e la Luisa, correndo verso di lui. — «Ancora non posso parlare, continuò Vittorino; e poi non vi abbandonate così presto a una speranza che potrebbe fallire.» — «Ah! lo diceva io!» disse fra sè la Luisa. — «Mi pareva impossibile!» ripetè la madre, che era già rassegnata al suo destino. — «Non ci tormentare così, Vittorino, soggiunse Tito; su cosa fondi le tue speranze?» — «Rispetta il segreto del tuo amico. Ora ho bisogno d'esser libero, e mi basta di sapere che tu resterai volentieri, potendo, ad assistere la tua famiglia.» — «Il cielo lo volesse!» — «Ed io non ne ho mai dubitato: dunque lasciate fare a me. Non c'illudiamo, ve lo ripeto; ma intanto bada bene, Tito, finchè io non ritorno qui, non ti muovere. Fidati di me; dammi un abbraccio e buona notte a tutti. Ma a te, Milla, prima che io me ne vada, una parolina in segreto.» — «Son qua,» rispose tutta allegra la vecchia alzandosi, e pigliando un lume per accompagnarlo.
E agitati tutti da incerti e vari sentimenti si separavano senza sapere più cosa dirsi. Tito non poteva staccarsi dalle braccia di Vittorino. Essi si amavano svisceratamente, e quella separazione produceva in tutti e due un'insolita e fortissima commozione. Finalmente Vittorino rimasto solo con la vecchia, e ritiratosi con lei in una stanza remota, sentì il bisogno di un po' di sfogo; si rasciugò un sudore diacciato che gli bagnava tutte le membra, e poi disse alla Milla: «Ora non ho più paura di lasciarmi vincere dalla debolezza. Cosa vuoi? questi sono passi che a un tratto non si possono fare. Ti confesso il vero che io mi credeva più forte. Ma, finalmente, vi sono riuscito. Benedetta tu che sei capace di fare questi miracoli!» — «Che miracoli? io conosco il suo cuore, e tanto basta.» — «Va bene; dunque ci siamo intesi. Portami da scrivere.» In un batter d'occhio Vittorino scrisse e consegnò alla vecchia un biglietto dicendole: «Domattina, più tardi che tu potrai, dallo alla signora Elena, e bada bene che Tito non ti scappi, se no tutte le tue premure....» — «Eh lasci fare a me (e non poteva trattenere le lacrime), dovrei perdermi sul più bello?» — «Dunque!.... addio, Milla.... ci rivedremo noi?» — «Io spero di sì; ma voglio chiederle un'altra grazia....» — «Di' pure.» — «Il bene che io voglio a questa famiglia infelice mi ha fatto arrischiare un po' troppo con lei, povero giovine.... mi perdonerà?» — «Io? io ti debbo ringraziare, perchè tu hai risvegliato il mio coraggio. Se quella che io fo è una buon'azione, e mi rende stimabile ai miei occhi ed ai tuoi, è tutto tuo merito.» — «Dunque, che Iddio l'accompagni: pregherò sempre per lei.» — «Brava Milla! Addio!» E la vecchia dai singulti non poteva più articolare una parola; gli si buttò al collo, e gli prese le mani per baciarle. «Un bacio, un bacio sulla tua venerabile fronte, generosa vecchia! Io ti amo come la Provvidenza di questa famiglia. Finchè tu starai con lei, non vi saranno più disgrazie. Amami tu pure come se ti fossi figliuolo; io anderò superbo di poterti chiamare mia madre!» E in così dire si staccò dalle sue braccia, e scomparve. La vecchia passò tutta quella notte in orazione; e la mattina dopo, quando s'accorse di non poter più tenere il segreto, e che tutti stavano in gran pena per l'indugio di Vittorino, chiamò in disparte la signora Elena, e le consegnò il biglietto scritto da lui la sera innanzi: v'erano queste parole:
«Il dovere dell'amicizia e della parentela m'ha consigliato a partire per l'armata invece di Tito. Se questa risoluzione può essere grata alle persone che mi sono più care su questa terra, ne ringrazino specialmente la buona Milla. Tito accetti volentieri questo sacrifizio che io ho voluto fare per il bene della sua famiglia. Io sono già in viaggio; a ogni modo sarebbe inutile qualunque tentativo per farmi tornare indietro. Spero che presto ci rivedremo. Un abbraccio a tutti.»
La signora Elena s'ebbe quasi a svenire. Tito voleva a ogni costo correr dietro a Vittorino; ma la Milla si mostrò così risoluta a impedirlo, che gli convenne fare a suo modo. La Luisa fuori di sè dalla gioia, Eugenio, le altre sorelle, tutti circondarono la vecchia benedicendola mille volte, e chiamandola loro benefattrice, loro angiolo custode. Ed ella s'aiutava a dire che tutto era derivato dalla virtù di Vittorino. Ma ripensando al racconto della Marta, tutti conobbero bene che ella non l'aveva fatto a caso, e che se Vittorino era un amico raro, la Milla era una donna veramente di proposito.
Ora, voi già sapete che le buone azioni prima o poi sono premiate. Un giorno vi sarà dunque narrato come Vittorino non avesse a pentirsi del bel sacrificio che egli fece di se stesso alla vera amicizia. Intanto vi dirò che in casa della signora Elena non vi furono più disgrazie tanto grandi. Tito fattosi abile nella legge, si acquistò una buona clientela e provvide comodamente ai bisogni della sua famiglia. Eugenio cominciò a far progressi nei suoi studi di chirurgia, e la signora Elena potè condurre una vecchiaia confortata dalle consolazioni che le davano i suoi figliuoli. E della Milla? Abbiate pazienza; ma prima di parlare nuovamente di lei, prendiamo un po' di riposo.
4.
La capacità e il buon successo di Tito nella sua professione avevano procacciato alla famiglia della signora Elena una discreta agiatezza che era mantenuta e quasi aumentata dalla provvida economia della Milla. Quindi, fatto un consiglio domestico tra la madre, Tito e la Milla, deliberarono di trasferirsi in campagna, per far godere alla famiglia i benefizi della buon'aria o per aumentare il risparmio. Questa risoluzione fu un tripudio per tutti, e cominciarono a ragionare della scelta del luogo. Un giorno che la Milla non v'era, e le fanciulle parlavano con la mamma, la Luigia si pose a dire come la vecchia rammentasse talvolta con passione il paesello dov'era nata, un luogo di poggio, in conseguenza di aria buona, e lontano dalle grandigie dei villeggianti. Quantunque la Milla ne fosse uscita da fanciullina, pure lo descriveva con diletto mirabile notando ogni cosa, e la fonticella dove sua madre la mandava in compagnia dell'altre bambine ad empire la brocca, e la buona memoria del prior vecchio e l'onesta semplicità degli amorevoli contadini. La signora Elena capì per aria il pensiero gentile della figliuola, e fissato tra loro di mantenere il segreto aspettarono il ritorno di Tito per ragionarne con lui. Applaudì egli alla proposta, e presa tosto informazione del luogo seppe che il priore attuale era un degno sacerdote giovine, stato suo condiscepolo, e che aveva sotto la sua giurisdizione un convento soppresso, nel quale avrebbero potuto facilmente trovare abitazione per tutti. Un giorno di festa andò a visitarlo, riscontrò opportuno il paese e l'abitazione e concertò ogni cosa col virtuoso suo condiscepolo, salva l'approvazione di sua madre. Essa la diede; e una sera Eugenio rinfrescò alla Milla la memoria del suo paese. Per lo più la sua prima risposta era un sospiro, perchè sebbene lo rammentasse volentieri, pure non v'è dolce senza l'amaro, soleva ella dire; e la più favorita tra le sue ricordanze era quella del giorno dei morti che ella passò nel casolare nativo. «Avevo undici anni (diceva ella); mia madre, quell'angiolo benedetto di mia madre era morta giovine pochi giorni prima; il babbo, povero pigionale, sconsolato tanto da non si dire, perchè le voleva un bene dell'anima, si messe in capo di lasciare quei luoghi che a ogni passo gli rammentavano la sua disgrazia. I nostri parenti erano pochi, e poveri quanto noi. Il priore le scavò di sotto terra le ragioni per trattenerlo; gli parlò della rassegnazione ai voleri di Dio, gli promise d'aiutarci, gli fece toccare con mano ch'era meglio cento volte anche per via di me rimaner lì che andare vagabondo per il paese senza un pensiero fatto, col pericolo di dovermi lasciare alle mani degli altri.... Non vi fu verso di rimuoverlo dal suo proposito. Io potevo far poco, ma ogni sforzo lo feci per consolarlo, e avevo bisogno anch'io, e dimolto, di chi mi facesse coraggio. Ma egli non ci si poteva più vedere ormai nella casa dell'afflizione; aveva paura di commettere qualche eccesso e non voleva staccarmi da sè un istante. La sera nel canto del fuoco mi guardava fisso per ore ed ore, finchè io non cominciavo a piegare il capo in seno; che il sonno, quantunque fossi addolorata, non mi voleva dar pace; allora mi abbracciava stretto stretto piangendo, e mi conduceva a letto. Egli poi, senza spogliarsi, tornava a singhiozzare tutta la notte seduto presso il cammino. Finalmente il priore, vedendo che neppure il tempo serviva a moderare il dolore di mio padre, e che egli si sarebbe consumato d'inedia, lo raccomandò ad un negoziante suo amico di città che ci prese a servizio. Dovevamo partire il giorno dei morti, e il priore, date al babbo tutte le istruzioni opportune, gli aveva più che altro raccomandato, giacchè ormai la risoluzione era presa, di partir subito, d'andar via la mattina a buon'ora. Infatti il babbo, appena levato, e dopo aver fatto fagotto di quella po' di robicciola che potevamo portare con noi, sospirando mi prese per la mano; andammo a dire addio a tutti, e uscimmo dal paese. Ma, fatti pochi passi, e appena entrati fra le macchie più alte che ci coprivano la vista della nostra povera casa, il babbo si pose a camminare più adagio, e invece d'andare verso Firenze cominciò a vagolare pei viottoli senza dirmi mai una parola; e ogni poco si rasciugava le lacrime. Di quando in quando si metteva a sedere su qualche greppo coi gomiti, sulle ginocchia e il capo nelle mani. Io a raccomandarmi, in ginocchioni che si facesse coraggio, che si staccasse una volta da quei luoghi funesti. Nè anch'io mi sarei potuta ridurre ad allontanarmene, ma vederlo spasimare in quel modo era un'altra passione più grande. Eppure tutta la giornata.... (quanto mi paresse lunga non lo so dire) era scorsa con quella passione, senza che un'anima ci venisse a dare un po' di conforto. Eravamo in certi luoghi dove la terra non è lavorata, e nessuno vi capita quasi mai; e poi quel giorno tutti vanno alla chiesa a pregare per i poveri defunti. Poi cominciò ad imbrunire, ed io fui più sgomenta che mai.... Quand'ecco la campana che suona a morto. Allora il babbo si riscosse tutto, mi prese per un braccio, e mi disse: Andiamo a dire addio alla mamma. — Quasi correndo mi tirò sopra un poggetto vicino al camposanto, di dove dietro una siepe folta potevamo vedere e non esser visti; appunto in quell'ora il priore in processione coi fratelli della Compagnia incappati, con la croce dei morti innanzi, e tutto il popolo dietro, andava a benedire le sepolture. Mio padre s'inginocchiò, e tutti e due cominciammo a rispondere sotto voce alle orazioni che il priore intonava. Quand'egli fu arrivato alla cappellina del camposanto, si fermò sulla soglia a fare un discorso: tutti i popolani gli stavano davanti prostrati intorno alle sepolture, e qualche volta il vento ci portava fin lassù le parole del vecchio venerabile che alzava la voce in mezzo ai singhiozzi della gente contrita. Io sentivo bene che egli parlava dell'amore per la memoria dei defunti, e della concordia tra i vivi. Oh! di questa ne ragionò per un pezzo; e mi ricordo come se fosse ora, delle ultime parole di quel discorso; ch'e' le proferì a voce più alta e più commossa: — «Sì, oggi rammentiamoci più che mai d'esser fratelli; figuriamoci che ora i più venerandi, e i più cari tra quelli che dormono il sonno delle generazioni passate, ritornino per un istante agli amplessi d'amore, e pigliando le nostre destre le congiungano in segno di fratellanza. Oh! che questa riconciliazione sia perfetta e costante, e frutti il vostro bene e quello dei vostri figliuoli! Ecco, io benedico queste ossa e i pensieri santi e le virtù che vi chiedo. Addio, anime benedette! Che nessuno di noi tradisca le promesse fatte in vostro nome. Addio! Che il rispetto e l'amore pei defunti siano alimento al rispetto e all'amore pei vivi.» — Quindi, benedicendo con larghe aspersioni la terra del camposanto, intuonò il Miserere, e abbracciò i popolani a sè più vicini. Allora questi si abbracciarono tutti fra loro; e baciavano le fosse e le croci, e poi rimessi in processione adagio adagio, singhiozzando ritornarono in chiesa che era quasi buio. Allora mio padre, che in tutto quel tempo non aveva fatto altro che piangere dirottamente, scese, e mi condusse tremando nel camposanto rimasto aperto. Sulla fossa di mia madre l'erba non era ancora spuntata; il babbo vi si lasciò cader sopra a baciarla mille volte, a chiedere a Dio che se era possibile facesse ritornare sulla terra quell'angiolo, oppure che gli dasse più forza di sopportarne la perdita, per non lasciare me orfana di tutti e due. Io che non sapevo come levarlo da quella tribolazione, pensai che avrei forse alleggerito il suo dolore onorando la sepoltura della mamma; e incominciai a cogliere erba di sulle prode e a spargerla su quella terra: il babbo si pose a guardarmi estatico; io continuai a strappare erba e portarla lì, ed egli a poco a poco mi sembrò allora più consolato; poi girando gli occhi scintillanti gli parve di vedere una vanga in un canto, forse quella stessa con la quale avevano scavato la fossa alla povera mamma. Corse a pigliarla; andò fuori del camposanto in un pratello a cavare piote, io a portarle e distenderle sulla terra nuda della fossa, e in momenti restò tutta coperta d'erba come se vi fosse nata da molto tempo. Finito questo, il babbo non pianse più; andammo via dopo aver baciato un'altra volta la fossa, e, zitti zitti, rientrammo in casa che tutti dormivano. Quella notte, dopo tanto sfogo di dolore, mio padre fu più rassegnato del solito; e appena spuntata l'alba, partimmo senza che nessuno si fosse accorto di noi.» Dopo questo racconto la Milla passava alle descrizioni, e soleva finire di parlare del suo paese coll'augurarsi d'esser seppellita nel medesimo camposanto dove erano i suoi genitori. Quindi Eugenio e l'Angiolina, che non si saziavano mai di farle ripetere queste cose, volevano che parlasse di Vittorino, del come ella aveva fatto a conoscerlo, e di molti particolari della sua infanzia; che appunto il signore al quale fu raccomandato il padre della Milla, era nonno di Vittorino; ed essa lo aveva visto nascere, crescere ed educare quasi sotto i suoi occhi. Ma la signora Elena gl'interruppe e domandò alla Milla: «Dunque ci torneresti volentieri al tuo paese, a finire di passarvi la tua vecchiaia?» — «Magari! soggiunse la vecchia tutta ringalluzzata; ma ora che sto tanto volentieri con loro, finchè mi faranno la carità di tenermi, non ci penso.» — «La carità di tenerti? La fai tu a noi la carità di seguitare ad assisterci. Dopo che hai fatto tanto per noi, in età così avanzata, sarebbe tempo che tu pigliassi un po' di riposo.» — «Vergine benedetta! esclamò la Milla facendosi tutta seria, sono io tanto decrepita da aver bisogno di riposo?» — «Non dico questo; ma se ti facesse piacere di goderti la tua pace lassù, non potresti farlo, ora che le ragazze sono grandette?...» — «Dunque, dunque, sentiamo un poco (disse ella tra il serio e il faceto, perchè la signora Elena parlava con piacevolezza, e le fanciulle sorridevano), questa è una licenza bell'e buona. Che ho io fatto, meschina me! per meritarmela?» — «Finiamo la celia (riprese tosto la signora Elena); noi facciamo i bauli, e presto partiremo per il tuo paese; vuoi tu venire con noi?» — «La celia comincia ora (diceva la vecchia ridendo); che domine di bizzarrie son ellen queste?» — «Io ti dico che lo faremo; non è vero? (a Tito che in quel momento entrava nella stanza) non è egli vero, Tito, che abbiamo fissato di andare in campagna, proprio nel paese della Milla?» — «Verissimo (rispose egli).» — «Ebbene (continuò la madre); ella non vuole accompagnarci; vuol rimanere in Firenze.» — «Possibile! (diceva Tito maravigliandosi).» — «Non dico questo (riprese la vecchia con fuoco); magari, se vi andassero! verrei con loro in carne e in ossa; ma non posso credere che vogliano sacrificarsi lassù in una catapecchia come quella; l'aria è buona, non dico, eccellente; Eugenia avrebbe da scavallare e da trovare di belle cose.... Ma se non vi sono villeggianti vicini, non vi sono passeggiate! è un saliscendi; un vento che respinge più che uno va innanzi.»
Lui. E dove sono dunque tutte le bellezze che tu ci descrivevi?
Mil. Oh! quelle sono le delizie dei poveri montanari, ma non possono dare nel genio ai cittadini.
Tito. Eppure le ci piacciono più delle bellezze ricercate e artificiali della città. Sempre Cascine, sempre Boboli, sono cose che vengono a noia. Ma un po' di libertà, fra le boscaglie pittoresche, sulle colline scoscese, lungo quei torrentelli, sui prati freschi, senza polvere, senza rumori di carrozze, senza ostentazioni di lusso.... queste sono le vere delizie per chi è assuefatto a vivere nella città.
Eug. Sarebbe un incanto.
Lui. E ce ne hai fatto innamorare tu di quei luoghi.
Mar. Anche Vittorino, te ne ricordi? ne parlava con tanta passione.
Ele. E poi è il tuo paese....
Ter. Ci sei tu con noi....
Ang. Ci farai tanti bei racconti....
Mil. Non so che dire: se hanno proprio quest'intenzione, bisognerebbe che cercassero almeno dove soggiornare con comodo... Io non ho più casa.... e poi.... le nostre case non sono per loro.
Eug. Oh! si starebbe volentieri anche in quelle.
El. E che cosa ci consiglieresti di fare?
Mil. E' v'è un convento senza frati....
Tito. Appunto lì noi staremo (disse Tito, correndo ad abbracciarla); Milla mia, te l'abbiamo fatta la celia. Io l'ho già visto quel convento; ho parlato col priore; è fissato ogni cosa; aspettiamo te.
Mil. Vengo subito (con uno slancio d'allegrezza). Ma queste son cose.... cose da farmi dare la volta al cervello! Una consolazione come questa non me l'aspettavo davvero. Ah! (sospirando profondamente), perchè non è egli tornato ancora il signor Vittorino?
Tito. Ed anche su questo ti darò una consolazione. Ho parlato oggi all'Ambasciatore di Francia, e tra poco avremo le sue lettere. Tu sai che non entra in Russia, perchè venne la nuova della ritirata di Napoleone, e che fu destinato alla cura dei feriti negli spedali di frontiera. Egli ha mostrato tanto zelo e tanta bravura nell'assistenza di quei disgraziati, che è stato nominato chirurgo di reggimento col grado di capitano, ed ha avuto la croce della Legion d'Onore. Il suo nome è già pubblicato onorevolmente nei giornali francesi e lombardi; e nel paese dov'egli è lo considerano come un benefattore mandato dal cielo a sollevarli dalle ultime e più lacrimevoli sciagure della guerra. Gli era stata decretata anche una bella ricompensa in denaro; ma egli l'ha rilasciata a benefizio di tanti divenuti miserabili dopo la rovina di Napoleone, e si è fatta una bella riputazione d'uomo caritatevole e valoroso. Ora qualunque sia l'esito degli avvenimenti, Vittorino non è più esposto ai pericoli della guerra; e quando non vi sarà più bisogno di lui negli spedali, tornerà da noi sano e salvo, e carico d'onore.
A queste nuove tutti si abbandonarono a un giubbilo indescrivibile; la Milla piangeva dalla consolazione; e il giorno dopo cominciarono a fare i preparativi per la campagna, aspettando con ansietà le lettere di Vittorino che confermassero quelle notizie, e cercando tutti di provvedere chi una cosa chi un'altra per accomodargli una stanzetta secondo il suo genio, per quando egli fosse di ritorno.
5.
Mentre in casa della signora Elena tutti aspettavano con impazienza il ritorno di Vittorino, quasi ogni sera parlavano di lui, e la Milla ne raccontava, come a dire la vita. Una volta tra le altre ella narrò questi fatti: «Io entrai a servizio del signor Dottore, padre di Vittorino, due mesi dopo la morte della sua moglie. Vittorino aveva allora poco più di sette anni, e si era ammalato per dolore d'aver perduto la madre. Suo padre mi si raccomandò caldamente che lo assistessi, e che non pensassi che a lui. Quando mi accostai per la prima volta al letto di quel caro fanciullo, e' mi guardò fisso fisso, poi gli venne da piangere, e voltò il capo dall'altra parte. Vedeva una donna accanto a lui, ma non era quella che avrebbe voluto. Poi voltandosi meno afflitto, e con una specie di rammarico d'avermi accolto in quel modo, mi disse: «Oh sì! ti vorrò bene. Milla, ti vorrò bene, di molto; il babbo mi ha detto che tu sei tanto buona! Ma tu mi parlerai sempre di mia madre, non è vero?» — «Io l'ho conosciuta poco (risposi), ma so quanto era buona, e.... sì signore, le ripeterò tutto quel bene che ho udito dire dagli altri.» — «Eh! bisognerebbe che tu l'avessi conosciuta in casa e di molto!... Faremo così: io ti racconterò tutto quello che ella faceva per me e pei poveri malati che venivano da mio padre; e tu di mano in mano mi ripeterai queste cose, perchè non sto meglio altro che quando parlo di lei.» E subito cominciò a descrivermi la sua vita, le sue carità, e sto per dire, tutta l'educazione ch'essa gli dava. Mi fece sapere che in casa vi erano quattro letti per quei ragazzi poveri che arrivavano malati dalla campagna, e che, secondo il signor Dottore, non era bene che fossero messi tra gli uomini allo spedale; e mi disse che sua madre faceva loro da infermiera. Io, benchè queste cose le sapessi, lo lasciai dire un pezzo, perchè mi accorsi che era proprio il suo bene; e poi gli risposi in questo modo: «Se mi riescisse di fare qualcheduna di quelle cose che faceva sua madre buon'anima, me ne ingegnerei. Ma a forza di sentirlo dire imparerò, e mi proverò.» — «Davvero? esclamò egli tutto allegro. Brava Milla! oh! bella cosa! lo dirò al babbo, che appunto era afflitto per non poter più fare assistere quei poveri ragazzi. Come si fa? egli è costretto a star tutto il giorno fuori di casa; io ancora non son buono a nulla; e poi mi sono ammalato. Ma tu ci rimedierai, e almeno per quei poveri figliuoli, la morte della mamma non sarà una disgrazia tanto grande come è stata per me.» — «Ma io (risposi) avrò bisogno d'essere istruita di tutto punto.» — «T'insegnerò io quel che potrò, non dubitare.» — «Dunque guarisca presto per potermi fare questo servizio.» — «Eh! se non mi sentissi tanto debole!... Ma ora, quest'idea che t'è venuta mi dà coraggio. Guarisco più presto.»
Bisogna dire che la fosse proprio così, perchè in pochi giorni potè levarsi. Allora concertammo con suo padre l'assistenza de' ragazzi malati ch'egli accoglieva in casa, e Vittorino m'istruì di tutto veramente bene.
Così dopo che ebbi preso pratica di tutte le faccende, il signor Dottore ricominciò ad accogliere in casa qualche povero figliuolo che avesse avuto bisogno della sua assistenza. A volte ce ne erano due, a volte tre; chi si tratteneva 15 giorni, chi un mese e più; nell'inverno specialmente i letti erano quasi sempre tutti e quattro occupati. Allora si faceva venire un'altra donna per ajutarci. Vittorino poi, tornato da scuola e finite le sue lezioni, si metteva meco attorno a quei piccoli malati, e sfaccendava continuamente, in specie quando cominciò a studiare la medicina.
Suo padre poi era infaticabile. La mattina si levava all'alba, e se non aveva malati in casa o da far subito qualche visita fuori, si metteva a studiare, anche da vecchio. E ogni giorno venivano tanti a consultarlo, che spesso spesso n'era piena la sala. Il resto della giornata sempre fuori, e rade erano quelle volte che non mangiasse alla peggio un boccone in qualche bottega, o che non aspettasse a desinare la sera per mancanza di tempo. Prima d'andare a letto, se non era passata la mezza notte, studiava; e quasi mai lo lasciavano riposare in pace, perchè non venivano meno di due o tre chiamate per notte. Sempre sano, sempre robusto, sempre di buon umore, non vi fu un momento della sua vita nel quale stasse senza fare o senza pensare al bene del prossimo. Mai divertimenti, mai ozio; le sue conversazioni erano al letto dei malati o nello studio di Vittorino. «Benissimo» diceva egli quando ve lo trovava innanzi di lui; «procura di renderti presto abile a qualche cosa, giacchè la capacità d'imparare non ti manca. Io non ho risparmiato nè risparmierò spese per farti istruire. Invece di mettere assieme ricchezze, ti preparerò il patrimonio della scienza, che non è sottoposto a disgrazie. Lo vedi? io guadagno molto perchè la società ricompensa bene le mie fatiche; ma tolte le spese del nostro campamento e della tua istruzione, il rimanente voglio restituirlo alla società con ajutar gl'infelici. Ora che ho da pensare a te, mi convien negare a molti il mio debole ajuto; ma quando avrai imparato la tua professione, io non avrò più il rammarico di queste negative. Quindi rammentati che se arrivo alla vecchiaia dovrai assistermi: oppure potrei morir presto, e saresti costretto innanzi il tempo a provvedere da te medesimo ai tuoi bisogni.» Ma Vittorino non aveva d'uopo di quegli stimoli. Studiava, studiava tanto, che, io avevo paura non gli dovesse far male. Ma si vede che lo studio spontaneo, e fatto in regola, non guasta la salute. Vittorino non ha mai più avuto un dolor di capo, ed è stato sempre bianco e rosso come una rosa. Oh! qualche volta impallidiva, sì, poverino! ma quando si parlava di sua madre; e se ne parlava spesso!
Talora esortava suo padre a non si strapazzare poi tanto, specialmente in certe giornate piovose, umide e fredde dell'inverno: ed egli soleva rispondergli: «Figliuol mio, la vita sarebbe nojosa ed inutile se non vivessimo più per gli altri che per noi stessi. Stando in mezzo agli uomini, e trovandoci sani, ben vestiti e nutriti, mentre vi son tanti che tribolano per le malattie o che patiscono il freddo e la fame, ti darebbe il cuore di godere dei tuoi comodi senza aver prima diminuito i mali del prossimo? E che ti varrebbe l'aver campato tanti anni, se poi morendo non ti consolasse l'idea di aver potuto rasciugare le lacrime altrui anche a costo di qualunque tua privazione, di aver lasciato buona fama di te nella patria, non per vanagloria, ma per esempio dei tuoi figliuoli? I veri piaceri dell'uomo son questi. Ti rammenti tu della vita di Vittorino da Feltre che io ti ho fatto leggere tante volte? Vedesti come ogni suo pensiero, ogni sua azione furon sempre rivolti al bene degli uomini, educando e istruendo i fanciulli? Ti ho pur messo quel nome così venerato perchè tu ne segua l'esempio, perchè tu abbia sempre presente la memoria delle sue virtù, perchè t'infonda la gagliardìa del suo animo.» E poi, e poi.... io gli ho udito dire tante altre cose bellissime, che se fossi capace di ripeterle, vi sarebbe da scrivere un libro.
Così in quella casa era una vita sempre laboriosa pel bene del prossimo; e anch'io mi sentii tanto infiammata nella carità, che mi diventò un bisogno di secondare come io potevo i padroni. V'erano poi le più belle soddisfazioni, allorchè quei meschini accolti nei nostri letti ne uscivano risanati. A volte una povera madre aveva recato il suo figliuolino senza speranza di rimedio, e poi che tenerezza quando lo ripigliava guarito! E spesso una dolce paternale invece della ricetta, toglieva le cause di malattie derivanti dalle sregolatezze, e faceva ritornare la pace e l'ordine nelle famiglie. Insomma tutti benedicevano nel nome di Dio quella casa ed i suoi padroni.
Erano già passati dieci anni che io facevo codesta vita, quando sopraggiunse al padrone una terribile disgrazia. Ogni volta che mi rammento di quella notte mi vengono i brividi, e mi sgomenta solamente il pensiero di doverla ridire.
Spesso accadeva che il padrone prevedesse di dover tornare a casa dopo la mezza notte, e ordinava allora che Vittorino andasse pure a letto senza aspettarlo. Io sola mi trattenevo levata, perchè non mi riusciva di dormire tranquilla finchè non lo avessi udito tornare. Una volta d'inverno, la mezza notte era già passata d'un pezzo, e il padrone era sempre fuori. Avevamo in casa un ragazzo malato piuttosto gravemente, e che avrebbe avuto bisogno di lui; e mi faceva specie che non tornasse. Aspetta, aspetta, principiai a stare in pensiero; e Vittorino che era levato per custodire l'infermo, mi dava di quando in quando certe occhiate come per domandarmi del padre. Mi affacciai alla finestra: solitudine per tutto. Il cielo era più qua e più là ricoperto di nuvoli neri neri; la luna illuminava a pezzi alcune case, e lasciava l'altre coperte da cupe tenebre. Di tratto in tratto si scatenava un vento da far paura; e portando seco il fragore del fiume che aveva la piena, somigliava alla romba del terremoto. Mi levai di lì, perchè quel cielo nero e quel vento strapazzone proprio mi sgomentavano. Passò un'altra mezz'ora, e nessuno comparve. Tornai alla finestra: il tempo s'era fatto più tetro che mai, e cominciava a fioccare il nevischio con un freddo pungente. Alla fine odo un rumore di passi lontani; ma era gente che correva in altra parte; poi a un tratto comincia uno scampanìo insolito e così sgangherato, che io non mi sapevo raccapezzare; e il vento lo straportava qua e là, sicchè non c'era verso di capire d'onde venisse. Fui assalita da una farragine d'idee così tetre, che appena mi accorsi di uno che passava a gambe di sotto casa. Allora mi feci animo, e gli domandai che diavoleto ci fosse: «Brucia nel borgo!» rispose, e via come un lampo. A quella nuova mi sentii subito gelare sangue: il padrone aveva dei malati nel borgo.... Ero per uscire dalla finestra, quando Vittorino risolutamente mi dice: «Milla, custodisci il malato; io vo a cercare del babbo.» — «Dio l'assista!» esclamai. Egli era già fuori e correva.
Pensate come rimasi? Le gambe mi si ripiegarono sotto, e in quel momento non sarei stata più buona a nulla, se non mi avesse scosso il pensiero di dover assistere quel malato. Ah! Quanto furon crudeli quei momenti d'incertezza! Poi ecco uno strepito sordo che via via cresceva tanto da scuotere tutta la casa e da far tremare i cristalli. Erano i pompieri con le loro macchine. Dunque il bruciamento è grosso dissi tra me.... Dio mio! cosa sarà dei miei padroni? Intanto il ragazzo si lamentava perchè doveva esser medicato, ed io da me sola non potevo farlo. Nondimeno lo confortai alla meglio, e lo feci chetare. Stando sempre in orecchi, mi parve d'udire nuovamente un calpestìo. Corsi alla finestra, e vidi uno sparirmi proprio di sotto gli occhi. «Che fosse entrato in casa?» Vo all'uscio di scala; nessuno saliva; piglio il lume, apro con impazienza, nessuno; mi soffermo, neanche uno zitto; scendo, e allora scorgo una persona appoggiata nel canto del terreno. Chi va là? gridai risoluta prima di accostarmi. La persona si mosse e a voce bassa esclamò: «Per amor del cielo, lasciatemi ripigliar fiato; vengo dal bruciamento; non ho potuto più reggere.... Ora v'è tanta gente che io posso andare a riposarmi. Oh! se mi faceste la carità di un bicchier d'acqua!» — «Magari, diss'io, venite su: vi darò un po' di vino, vi rasciugherete.» Era un povero manifattore conciato in modo da far compassione; aveva le mani e il viso affumicati, e le vesti fradice mézze. Gli detti da bere, gli feci mutare il vestito, e lo condussi alla stufa; e quando si fu un poco riavuto, mi pareva mill'anni d'interrogarlo. Egli mi diceva: «Benedetta la vostra carità!...» Ma udendo in quel mentre i lamenti del malato nella stanza accanto, si rattenne e poi esclamò: «Per tutto miserie! non badate più a me; tanto vo via....»
Ma io lo pregai ad aspettare un poco: corsi a confortare il malato, e tornata a lui: «Oh! che rovina! (mi disse) io non ne potevo più a portar acqua: non avrei lasciato il mio posto.... ma come si fa? Dopo aver lavorato tutto il giorno, stasera mi mancava la forza.» — «Ma ditemi se nessuno è in pericolo.... Io sto in pena.» — «Poco prima che uscissi ho visto calare dalle finestre un malato....» — «È vicino l'incendio?» interruppe allora, con voce da farmi scoppiare il cuore, il ragazzo che aveva udito queste parole. — «È distante, è distante (dicemmo subito tutti e due), non abbiate paura. E poi (aggiungeva il manifattore) il vento è diminuito; comincia a piover più forte; non c'è alcun pericolo.» Indi seguitò a voce bassa, perchè il povero ragazzo non l'udisse: «Dunque hanno calato uno o una che era in fine, per quanto dicevano; e poi sono scesi i pompieri. Appena levate le scale, il palco già sprofondava (mi si rizzano i capelli a pensarvi).... e sono venute alcune grida di mezzo alle fiamme. V'era sempre gente, e i pompieri non lo sapevano! In quell'istante di terrore è comparso un giovine urlando: Mio padre, mio padre! Passa tra i pompieri, afferra una scala, e sale senza paura del tetto che veniva giù a pezzi. Dietro a lui si slanciano coraggiosamente i pompieri; arrivano alla finestra; il giovine vi salta sopra cavalcioni, e grida soccorso! I pompieri l'aiutano a tirar su per le braccia uno rimasto aggrappato al parapetto senza aver più pavimento sotto i piedi. Come Dio vuole, quasi per miracolo, riesce loro di calarlo: era vivo; ma in uno stato da far pietà. A un coraggio come questo ci è venuto da piangere a tutti e abbiamo dato in uno scoppio d'applausi. Ora non so altro.» Potete figurarvi come rimanessi a questo racconto! Il povero malato piangeva, quantunque non avesse bene udito tutte le parole del manifattore; e poi dall'indugio del padrone si accorgeva di qualche guaio, e i suoi dolori crescevano. Ma poveretto! non pensava più a sè; il crepacuore lo aveva per gli altri. Io, sgomentata ma non avvilita, mi raccomandai al manifattore che picchiasse alla vicina casa d'un medico, e lo mandasse subito da me, che v'era bisogno di lui. Quel buon uomo non si fece pregare. Almeno, avevo io pensato, solleviamo quest'infelice; e facciamo che vi sia un medico in casa per il padrone e per Vittorino, se ne avessero bisogno. Il racconto del manifattore mi faceva pur troppo immaginare che avesse parlato di loro. Intanto mi posi a cercar fila, fasce ed ogni altro occorrente per medicare le bruciature.
Ma tutti questi preparativi io li facevo con una specie di disperazione. Come sarà andata a finire? pensavo. Nessuno veniva a dir nulla.... Che momenti, figliuole mie, che momenti furon quelli! Arrivato il dottore, visitò subito il ragazzo, e lo medicò. Quando era per andarsene me gli raccomandai che restasse ad aspettare il padrone, ed egli guardandomi con aria afflitta, mi disse: «Poveretto! non gli mancano assistenti; ma rimango volentieri per saper come sta. Io credo d'essermi svenuta a quelle parole, perchè poi fui come improvvisamente riscossa da molte voci; e vidi la stanza piena di gente. Mi feci innanzi, scorsi il padrone che appena dava segni di vita, i medici che lo assistevano e Vittorino che piangendo gli aiutava. Allora mi diedi anch'io a fare quel che potevo; ed il padrone fu posto a letto. Bisognava veder con che prontezza, con che animo Vittorino dava mano a tutti per medicarlo! Era bruciato nelle gambe e nelle spalle, e aveva una ferita grave dietro la testa. Oh! che spettacolo da straziare il cuore! Più volte avevamo scongiurato il figliuolo a ritirarsi da quella vista, a pensare alle sue bruciature; anch'egli n'aveva molte; ma no! finchè il padre non fu assicurato, finchè non udì pronunziare che non v'era pericolo di morte, non gli si volle staccare dal fianco. Alla fine mi riesci di strapparlo di lì, e chiamato il chirurgo che aveva finito d'assistere il padrone, lo condussi in camera sua. Povero giovine! fino allora s'era sostenuto con la forza dell'animo; alla fine si buttò sul letto, perchè la forza del corpo lo aveva già abbandonato. Per buona sorte le bruciature erano superficiali, e le ferite poco gravi. Io restai a custodir Vittorino, e il chirurgo dopo che m'ebbe istruita sul modo di assisterlo, ritornò a vegliare al capezzale del mio padrone. Dopo qualche tempo credei che Vittorino si fosse addormentato; ma era una specie d'assopimento; poi cominciò a delirare. A un tratto si alzò sul letto; io durai fatica a tenerlo. Ei gridava: «Qua.... c'è uno, qua.... salvate questo.... questo.... Oh Dio! è lui! è mio padre!... aiuto!» Io mi studiai di calmarlo, di dirgli che suo padre era salvo.... E come Dio volle, tornando in sè a poco a poco, spalancando gli occhi spauriti cominciò a guardarmi fissa, a fregarsi la fronte come per rimettere in ordine le idee, e a un tratto esclamò: «Milla mia!» e gettandomi al collo le braccia, proruppe in un pianto dirotto. Io mi sentivo una serratura alla gola, e tribolavo dimolto senza potermi sfogare. Poi venne da piangere anche a me, e stetti meglio. Allora Vittorino: «Mi son riposato (disse); sto bene: voglio far nottata al babbo da me: lasciami un momento solo, ch'io mi vesta, anzi va' a dormire; riposati anche tu.» Io mi studiai di dissuaderlo; andai a vedere il padrone; gli dissi che anch'egli stava meglio, che il chirurgo non lo lasciava un istante; ma fu inutile; volle vestirsi, e andare in camera di suo padre. Già era l'alba; tuttavia mi obbligò a buttarmi sul mio letto; ed egli assisteva ora il padre, ora il ragazzo malato.
Non passarono molti giorni, che il padrone cominciò a migliorare, e, bisogna che lo dica, i medici ed i chirurghi suoi amici gli fecero sempre una grande assistenza Di Vittorino non se ne discorre. Volle fargli tutte le nottate da sè; e furono diciassette di seguito; il giorno dormiva forse un'ora; io non so come potesse reggere a tanto strapazzo senza ammalarsi. Alla fine, dopo due mesi di medicature e di letto, il padrone guarì e cominciò a muoversi, ma col bastone in una mano e con l'altro braccio sulle spalle di Vittorino. Facevano tenerezza a vedergli girare in quel modo per casa, e parlare amorevolmente; ed il padre ringraziava il figliuolo d'avergli salvata la vita. Questi non voleva udire ringraziamenti e diceva di non aver fatto altro che il suo dovere. La convalescenza durò più d'un mese. Presto ricominciarono a venire i malati; il padrone a andar fuori. Vittorino praticava nello spedale e tutti ripresero la solita via, senza che avvenissero dipoi cose straordinarie.» — Qui la Milla tacque.
Anche nella famiglia della signora Elena nulla avvenne di nuovo fino al ritorno di Vittorino. Di quanta consolazione fosse per tutti rivederlo sano e salvo lo potete facilmente immaginare. Egli non si separò più da quella famiglia. La buona vecchia se ne separò, e per sempre, con immenso dolore di tutti; ma quel dolore fu consolato dall'aspetto sereno ed angelico di colei che faceva la morte del giusto.
X. L'amico sin dall'infanzia.
1. La Gelosia.
In una piccola città di provincia erano alla medesima scuola due giovinetti quasi coetanei, amici sin dall'infanzia, ma di condizione e d'indole differenti. Silvio, figliuolo d'un onest'uomo che aveva molta famiglia e viveva strettamente con le poche entrate d'un campicello e col piccolo stipendio di un impieguccio; Dionisio primogenito del più ricco signore del paese che vi teneva la suprema magistratura: quegli studioso, mansueto, riflessivo, pieno di fermezza e d'ingegno; questi svogliato, indocile, capriccioso, leggiero. Nondimeno erano stati insieme a imparare la crocesanta, insieme sempre a ruzzare; e il padre di Silvio usava spesso, a cagione del suo impiego, in casa di quello di Dionisio; perciò i figliuoli si trattavano da amici, e pareva si volessero bene. In provincia poi i giovani, sebbene di condizione diversa, s'affiatano anche più facilmente che altrove. Poveri o ricchi, sono pochi e quasi tutti parenti, almeno alla lontana. Chi volesse passare per uomo di un'altra sfera, gli converrebbe star solo: ivi un titolo di nobiltà non sempre fa credere che sia alterata l'eguaglianza della natura.
Silvio studiava volentieri, ed imparava presto; e suo padre si sarebbe contentato di fargli ottenere a suo tempo il proprio impiego: Dionisio doveva andare all'università per uscirne dottore a tutti i costi; ma era negligente ed avverso ad ogni sorta d'occupazione. Vero è che l'ammaestramento sostanziale di quella scuola era il latino; studio lungo ed uggioso per garzoncelli che non sapevano dire due parole con garbo nel proprio linguaggio, e fatto alle mani d'un maestro di poca levatura e in fondo più svogliato degli scolari; ma Silvio sapendo che bisognava passare quella trafila per ottenere l'impieguccio di suo padre e mantenere nella famiglia il piccolo guadagno di esso, con tutto cuore si torceva il cervello, e s'affaticava dì e notte per imparare. Mentre Dionisio vedendo l'abbondanza per casa, e approfittandosi della indulgente predilezione del maestro (che spesso accolto alla mensa del padre, faceva alla peggio le sue lezioni), strapazzava i libri per dare a credere di adoprarli, e tassava di buaggine i condiscepoli per esser tenuto da più di loro, nulla curandosi del futuro.
Questi due amici erano per compiere il così detto corso di studj in quella scuola, quando capitò all'improvviso nel paese un Ispettore della pubblica istruzione. Allora il maestro si propose di cimentare i suoi discepoli in un esame alla presenza dell'Ispettore; e bisognò subitamente avacciarlo, perchè questi non aveva agio di trattenersi. Incominciato l'esame, Silvio manifestò molto sapere e una bella prontezza d'ingegno, talchè l'Ispettore ne fece quasi le maraviglie: ma Dionisio, quantunque venisse fuori con molta baldanza e il maestro di soppiatto lo spalleggiasse, presto pericolando si perse d'animo, e finalmente ne uscì scorbacchiato. Il padre, uomo di parole rotonde, mestatore ed avvezzo a ber grosso, tenendosi d'avere in quel primo rampollo un'arca di scienza da spopolare, e propostosi allora di farsene merito, quand'ebbe visto ciò, ne fu addolorato nell'anima; e senz'altro, la sera stessa, mentre appunto conversava con le seconde cime del luogo, fatto venire a sè il garzoncello, così gli disse tutto cruccioso: «Signor Dionisio! io mi sono fuor di modo scandalizzato della meschinissima figura ch'ella ha fatto all'esame! Oggi che s'offeriva l'occasione di segnalarsi, di prepararsi la strada a qualche nobilissima carica nella capitale, per l'appunto oggi vosignoria è stata presa, Dio mi perdoni, per un somaro. Già tutti lo sanno! Ecco qui; si dirà nel paese che un ragazzuccio, che il figliuolo d'un povero impiegatucolo di provincia, ha superato il mio primogenito in un esame, e al cospetto di un Ispettore! Poteva ella fare uno sfregio più grande a sè, a me stesso, all'onore della famiglia! Dov'è andata dunque la sua dottrina? È questa la riprova delle belle cose che mi si dicevano? Si prepara ella così per andare agli studi dell'università? Ah dunque sono stato ingannato! Ecco deluse le mie speranze!... Eh via! si vergogni di essere stato soverchiato da Silvio, di dover quasi imparare da lui come si fa a farsi onore coi superiori! E non mi comparisca davanti se prima la non si mostra più degno di portare il nome illustre dei suoi antenati!...» Dionisio non aveva mai visto il padre acceso di tanto sdegno; non aveva mai considerato con tanta importanza quella faccenda dello studiare e del farsi distinguere sopra gli altri; non s'era mai sognato di dover competere di dottrina o d'ingegno coi poveri ragazzucci del vicinato; credeva che gli bastasse indossare vesti più belle, ed avere qualche denaro in tasca ed il braccio del maestro, per soverchiarli in tutto.
Confuso, costernato, inasprito dalle insolite rampogne, e poi alla presenza di quelle persone! fu preso da subita gelosia; e dato ascolto ai pungoli acuti di quel nuovo e fatalissimo sentimento: «Sì,» rispose col volto infiammato «sì, mi sarò fatto scorgere; ma voi non sapete che Silvio ha avuto dalla sua il maestro; ch'egli sapeva su che cosa l'avrebbero interrogato.... M'imbrogliava lui col suggerirmi a rovescio.... Se mi può fare del male, sempre se n'ingegna.... È un astioso, un monello....» e varie altre menzogne e calunnie vituperose, proferite con ira, con impeto da forsennato. E poi con la voce rotta dai singulti, con gli occhi grondanti di lacrime, si lasciò cadere disperatamente sopra una sedia.
Il padre, sbigottito, prestò fede a tanta dimostrazione di smisurato dolore; temè che la veemenza del pianto convulso lo soffocasse; corse per confortarlo, chiamò i servi, lo fece mettere a letto, e lo pose nelle mani del medico. Indi riflettendo più maturamente alle cose viste ed udite, credè vera la supposta malizia di Silvio, e lui solo incolpò del male che avevano cagionato le sue incaute rampogne. I circostanti o non sapevano il vero o non si arrischiavano a palesarlo; il maestro fece di tutto per distruggere l'accusa di parzialità, ma non si curò di prendere le difese del povero Silvio, contentandosi d'attribuire a disgrazia piuttostochè alla ignoranza di Dionisio, il cattivo esito dell'esame.
Lo sciagurato giovinetto si sentì poi lacerare l'anima dai rimorsi; ma non ebbe la forza di confessar subito il suo fallo. Studiandosi di celare agli occhi di tutti la propria vergogna, sfuggi d'allora in poi l'incontro di Silvio; e poco dopo fu mandato a studiare all'università, con un visibilio di raccomandazioni alle famiglie più ragguardevoli, e d'attestati di buoni studi e di buona morale.
2. L'Impiego.
Passarono parecchi anni prima che Dionisio diventasse dottore, perchè la poca voglia di studiare gli fece perdere più tempo degli altri; e simulando malattie od impedimenti impensati, mascherò l'incapacità di sostenere gli esami. Il padre credeva e spendeva. Tornando a casa nel tempo delle vacanze, Dionisio qualche volta rivide Silvio, perchè non era possibile sfuggirlo sempre, nè far dimenticare l'amicizia che nell'infanzia gli aveva uniti. Soprattutto la caccia in compagnia degli altri giovani del paese, dava loro occasione di passare insieme qualche giornata; ma da solo a solo non si parlavano mai. Silvio nulla sapendo dell'iniqua azione che Dionisio aveva commesso contro di lui, attribuiva quella freddezza ad altre cagioni.
— Egli è ricco — diceva tra sè; — ora è avvezzo a praticare i signori; chi sa quante belle cose impara per diventare un dottore! E un giorno dovrà fare la prima figura nel paese... Io sono povero provinciale, sto sempre coi contadini, non so più nulla di quello che abbiamo studiato insieme alla scuola, e tutta la mia speranza consiste nel succedere al babbo nel suo piccolo impiego. — Nondimeno gli dispiaceva di vedersi sfuggito da Dionisio, e quella parola insieme gli faceva sempre mandare un sospiro.
Finalmente ecco Dionisio col diploma e col titolo di dottore; eccolo col giuramento sull'anima di sostenere le leggi del giusto e dell'onesto, di proteggere gl'innocenti e gli oppressi, di farsi campione della verità, della virtù, della patria. Bisognava recarsi alla capitale per farvi le pratiche di questi sacri doveri, per imparare dai vecchi dottori ad anteporre il comun bene all'utile proprio, a spendere il tempo, l'ingegno, la vita se occorresse, pel trionfo del vero, per la tutela degl'infelici, pel decoro della nazione.
Intanto il padre di Silvio, essendo già vecchio e indebolito dalle fatiche durate per sostenere la sua numerosa famiglia, s'era ammalato, e con poca speranza di guarigione. Il figliuolo l'aiutava da lungo tempo, e si poteva dire che facesse affatto le sue veci. Ognuno aveva da lodarsi della loro puntualità nel servizio del Comune. Dovendo conferire ad altri quell'impiego, non v'era dubbio nella scelta. A nessuno cadeva in animo di contenderlo a quell'onesto giovine di Silvio, lasciando stare che lo stipendio era il solo rifugio per campare dalla povertà la sua famiglia.
E Silvio chiese il posto che suo padre fu obbligato a rinunziare, vedendo che la malattia andava in lungo. Toccava al genitore di Dionisio ed ai suoi colleghi giudicare a chi dovesse esser conferito; fugli detto che aspettasse, e aspettò, senza darsi briga di cercar raccomandazioni o favori da chicchessia.
Dionisio era già in carrozza sulla via della capitale, e stavano a cassetta due dei minori possidenti del suo paese, i quali parlando tra loro del più e del meno, vennero finalmente a queste parole:
«E avete saputo la disgrazia di Silvio?»
«No; che cos'è stato?»
«Poveraccio! Aveva chiesto l'impiego di suo padre, che, lo sapete, ormai è infermo; se lo faceva suo....»
«L'hanno dato ad un altro?»
«Per l'appunto!»
«È egli possibile?»
«Nessuno lo crederebbe; ma è vero pur troppo! È dispiaciuto a tutti. Quella famiglia è proprio rovinata!»
«Oh povero Silvio! Un giovine tanto onesto, tanto perbene! Quello, vedete, quello se avesse avuto modo di studiare, a quest'ora poteva aver fatto una bella riuscita! Ah! ecco un'altra ingiustizia; ma troppo manifesta! che si fa celia! E chi sa? Quel pover uomo di suo padre, con tanta famiglia, in un fondo di letto!... V'è anche pericolo che il dolore l'uccida.»
«Infatti, dicono che quando l'ha saputo abbia cominciato subito a peggiorare.»
«Lo credo io! Dopo uno smacco come questo, chi non lo conoscesse bene potrebbe anche dubitare che avesse qualche demerito, o che il suo figliuolo non fosse di riputazione illibata come la sua! Ma si può sapere?...»
«Nessuno si raccapezza.... Cioè» ed abbassava la voce, accostandosi all'orecchio del compagno «v'è chi dubita che quella persona.... l'avesse con Silvio a cagione del suo figliuolo. Cose vecchie, ragazzate! ma.... vo' sapete che uomo è! E gli altri hanno dovuto fare a modo suo.... Finchè li trova tutti di quella pasta! Bisogna sentire che razza d'informazioni! Io le ho viste in archivio. E il peggio è che le rimangon lì scritte e spiegate.... Povero giovine! gli è rovinato per sempre!»
Dionisio udiva di dentro questo colloquio. Si rammentò dell'esame e delle calunnie; si sentì venire le fiamme del rossore sul volto; i rimorsi e l'angoscia gli straziarono il cuore. Fu in procinto di far subito retrocedere il vetturino... Ma esitò un poco... forse perchè aveva soggezione dei compagni di viaggio. Queste dubbiezze indebolirono l'ispirazione. E' può darsi che quel che dicono non sia vero — concluse tra sè. — Ma appena arrivato in città scrivo subito al babbo, gli confesso tutto, sì, tutto! e se la cosa è vera, lo scongiuro a rimediarvi. — Con questo proposito racchetò un poco la sua coscienza.
I compagnoni ch'ei s'era fatto all'università, sapendo il suo arrivo, andarono ad incontrarlo fuori di porta. Tutto lieto di questa sorpresa, dovè intrupparsi con loro, andar con loro alla trattoria, poi al teatro, e gozzovigliare la maggior parte della notte. Stanco del viaggio, sbalordito dallo stravizio, dormì saporitamente per molte ore; e non pensò più nè a Silvio, nè alle cose del suo paese. Poi bisognava rendere la pariglia ai compagni; festeggiare gli altri dottori novelli che di qua e di là giorno per giorno arrivavano come lui alla capitale per farvi le pratiche; assaggiare tutti gli svaghi d'una città grande; far le visite alle persone alle quali era stato raccomandato; frequentare le conversazioni galanti; studiare il giorno i costumi dei damerini famigerati, per farne sfoggio la notte, e per far dimenticare più che fosse possibile ch'egli veniva da un angolo della provincia...; e in ultimo qualche volta e dure panche, il nero tavolone, gli stempiati polverosi libroni dello studio di un avvocato, e le interminabili sedute dei tribunali.... Come potersi ricordare del povero Silvio?
Presto sopravvenne anche il bisogno di chiedere denari a suo padre; e scriveva, l'assegnamento non bastargli nè anche a mezzo per mantenersi con decenza nella capitale, per fare onore al nome illustre della famiglia (aveva imparato da lui a tenerlo nel debito pregio); non potervisi più vivere a buon mercato come a tempo del nonno.... E allora, anche ricordandosi del povero Silvio, come arrischiarsi a rinfrescare la memoria di quella faccenda, a confessare una colpa, quando si trattava d'un affare di tanto maggiore importanza, almeno per un dottore del suo pelame?
3. Un'altra ispirazione.
L'anno dopo, Dionisio tornava a casa per passarvi l'autunno. Era malinconico, pallido, taciturno....; pareva un infermo o un balordo. Aveva lasciato a malincuore i compagni, i divertimenti, le conversazioni....; gli davano martello certi debiti che bisognava pagare a tempo corto per non farsi scorgere, per non intaccare la riputazione della famiglia; e.... solamente lo confortava il non udir più nominare i tribunali nè lo studio. Suo padre intanto era in collera seco lui per lo scorporo fatto allo scrigno a cagione delle infinite richieste di denaro; gli aveva dichiarato di non volerle più esaudire; e sperava che almeno l'autunno gli desse un respiro.... Insomma l'imbarazzo di Dionisio era grande. Bisognava mettere in opera ogni accortezza, umiliarsi, macchinare, pregare, scongiurare. Intanto, per distrarsi da così molesti pensieri.... la caccia. Non già con la solita comitiva, che non vi fosse il rischio di rintopparsi con Silvio!... Oh! ma anche senza volerlo, presto seppe che Silvio non sarebbe andato a caccia nè con lui nè con altri. Suo padre era morto! E il povero giovine, per sostentare la madre e cinque sorelle, aveva dovuto vendere ogni cosa, inclusive il fucile, che passava per uno dei migliori che fossero nel paese. E quel fucile..., lo aveva comprato il fattore di casa, il quale appena potè trapelare che il padroncino facesse i preparativi per la caccia, corse tutto lieto ad offrirglielo, persuaso di fargli una gradita sorpresa; e gli disse chi n'era stato il padrone, e che gli costava un pezzo di pane[27], essendosi approfittato, con l'accortezza d'un fattore par suo, del bisogno d'un disperato. Ah, quel fucile! Dionisio lo conosceva pur troppo! Non ebbe ardire di toccarlo; voltò la faccia, e andò via senza rispondere.
V'era in quel paese un cacciatore di professione, uomo da bosco e da riviera, rilevatore esperto di cani, pratico delle poste di tutto il vicinato per trovarvi gli animali sicuri. Dionisio soleva condurlo seco, e fermò quell'anno di andare a caccia solamente con esso. Abitava costui in una straducola remota; Dionisio in sulla sera, col berretto sugli occhi, uscì di casa per avvisarlo. Entra nel terreno della casuccia; vi trova uno squallore di povertà fuor dell'usato; una donna vestita a lutto che filava, ed alcune povere fanciulline occupate anch'esse, quale in un lavoro, quale in un altro, recitavano il rosario con voce bassa, quasi gemebonda; la debole fiaccola d'una candela di sevo illuminava la mestizia e la pallidezza dei loro visi.... Soprappreso, quasi voltandosi per andarsene, domanda di Stefano il cacciatore: «Oh! non sta più qui» dice garbatamente la donna. «È tornato di casa.... Va' ad insegnarglielo tu al signor Dionisio; è vicino;» e indicava la minore di quelle fanciulle. Il giovine sentendosi nominato, si voltò quasi non volendo per affissare quella donna che parlava a stento con voce fioca. Ed ella: «Non mi riconosce più eh? Poveretto, ha ragione! Sono andata a male; dopo tante disgrazie!.... Sono la mamma di Silvio, sa? E anche lui, povero figliuolo.... la lo vedesse!... Ci siamo ridotti a star qui per fare un po' di risparmio anche nella pigione.»
Dionisio, coprendosi la faccia, non aveva fiato di rispondere; gli tremavano le gambe; avvilito usciva di lì, ringraziando con parole tronche, e rasentando il muro.
La bambina era già corsa innanzi ad insegnargli la casa di Stefano. Quando furono presso all'uscio: «Sta qui» disse, e lo salutava tornando indietro. Dionisio l'aveva scorta con un visuccio sfinito e brulla di vesti; la compassione, lo spasimo dei rimorsi lo spinsero a un tratto a cavarsi di tasca la sola moneta che gli rimaneva; e, chiamata la bambina.... Ma questa, al diaccio del metallo, quasi abbrividendo ritrasse tosto la mano, lasciò cadere la moneta per terra, e fuggì via.
Egli allora si percosse la fronte a guisa di forsennato. — E non ho altro! — esclamava. — E forse io.... — In quel mentre il cacciatore usciva di casa. Udito il suono della moneta che era ruzzolata sul lastrico, e vedendo colui a capo basso, si pose tosto a cercare; il luccichio gli dette nell'occhio, ed esclamando: «Eccola là» andò a raccattarla. Porgendola a Dionisio lo riconobbe; credè che la sua confusione dipendesse dalla paura d'averla perduta; e gli fece festa. Dionisio, sforzandosi di nascondere lo stato dell'animo, prese la moneta, la mise in tasca, ed incominciarono a parlare di caccia. Il tempo per andare in montagna era propriamente opportuno; Stefano aveva visto una lepre in quella macchia, una in quell'altra; aspettava lui per tornarvi; sarebbe stato peccato indugiare; nessun altro nel paese doveva vantarsi d'aver colto le prime lepri.... Dunque fissarono per la mattina dopo allo spuntare dell'alba. «E porti il fucile di Silvio» diceva Stefano. «So che il fattore non se l'è lasciato scappar di mano. Con quello, la lo sa, non si falla un tiro!»
Che notte tormentosa passasse Dionisio, chi può ridirlo? E' non ebbe bisogno d'essere svegliato allo spuntare dell'alba. Non aveva potuto chiuder occhio; gli dolevano le tempie come se v'avesse confitti due chiodi. Il povero Silvio, suo padre, la vedova, quella stanza terrena, quella bambina gli avevano risvegliato acuti rimorsi... Ma già i cani di Stefano raspavano alla porta della camera. Alzarsi di su quel letto di spine, uscir fuori arruffato come una belva, afferrare il fucile che trovò accanto all'uscio, correre all'aria aperta per riaversi un poco, fu un punto solo. Stefano era occupato a raffrenare i cani perchè non facessero a quell'ora troppo schiamazzo, e non s'accorse dello stato di Dionisio.
Quando il giovine dottore tornò a casa, era tardi, e suo padre dormiva. Se avesse voluto dar retta a una ispirazione per non passar un'altra cattiva nottata.... Ma come si fa? Non conveniva svegliarlo. E poi la spossatezza per essersi affaticato tutto il giorno sulla montagna; il dispetto di non aver saputo freddare nè anche una lepre, sebbene avesse il buon fucile di Silvio (il fattore glielo aveva posato all'uscio di camera invece del suo, ed egli non l'aveva riconosciuto per la fretta d'uscire); e la notizia che suo padre era andato in collera per certe lettere venutegli dalla capitale, lo spinsero a chiudersi in camera, e buttarsi sul letto. E il sonno gli venne, ma più angoscioso della veglia, ma pieno di paurose visioni, di brividi, di scosse, di sudori freddi.... Nondimeno il pensiero di placare lo sdegno del padre, che da un amico dalla capitale era stato avvisato dei traviamenti del figliuolo, cagionò un altro indugio al ravvedimento del primo fallo; e le successive fatiche della caccia e le pingui prede fecero a poco a poco svanire anche le paurose visioni.
4. Un mutamento di cose.
Un bel giorno il popolo della capitale, indi quelli delle provincie mutarono improvvisamente lo Stato. Anche nella piccola terra di Dionisio i vecchi magistrati doverono girar largo. La moltitudine s'adunò per crearne dei nuovi. Fu detto doversi scegliere le persone più oneste, fossero anche di povero stato. Il voto universale ne gridò tre, una delle quali era Silvio. Appena proferito il nome, tutti l'applaudirono con maggior favore degli altri. Lo condussero di peso nella sala del pretorio; ognuno giubbilando lo riveriva. Ai suoi cenni, alle sue parole fu sedato ogni tumulto. I più sfrenati volevano correre ad alcune case per incendiarle, per vendicarsi; ed egli prevenne tosto quell'impeto, fece posare le armi, spegnere le fiaccole, rispettare le case di tutti. Ma non fu a tempo a impedire che taluni penetrassero nell'archivio del Comune per distruggere, per mettere a soqquadro le carte, per rifrustare i documenti che potessero rendere più manifesta la cattiva amministrazione e gli arbìtri dei magistrati deposti. Trovarono infatti certe scritture che avrebbero nociuto più che mai alla riputazione del padre di Dionisio, e tra esse le false informazioni contro Silvio per dichiararlo indegno dell'impiego del padre. E appena il giovine ebbe posto piede nell'archivio, i più zelanti gliele mostrarono aizzandolo a trarne vendetta. Ma egli con dignitoso contegno gli esortò a racchetarsi, dicendo non doversi pensare da chi voleva il pubblico bene, nè a vendette private nè a persecuzioni, tanto più che nessuno s'opponeva ormai alle nuove cose, e i pochi resistenti in principio erano già sottomessi o dispersi. Indi raccolte in fretta le carte che appartenevano al padre di Dionisio, le prese con sè; deputò alcuni dei più docili a custodire l'archivio, e si trasse dietro il rimanente della folla.
La stessa sera di quella giornata piena di agitazione, Silvio, prima di riposarsi dalle sue fatiche, montò a cavallo, e occultamente prese la via della montagna. Egli solo sapeva dove si fossero rifugiati, per paura dello sdegno del popolo, Dionisio con suo padre e con pochi servi. Giunto colà, i servi s'intimorirono, indi rimasero stupefatti a vederlo solo, in quel luogo, a quell'ora. Chiese di parlare a Dionisio, anch'esso sbigottito per tale arrivo; ma Silvio, rassicuratolo con atti umani, lo trasse in disparte, e consegnandogli il fascio «Da' a tuo padre questi scritti» gli disse. «Ch'ei li distrugga se vuole. Sappiate che il paese è quieto, poichè il governo è assodato per tutto; statevi tranquilli, e non vi sarà torto un capello.»
«E tu!...» rispondeva Dionisio commosso nel prendere i fogli: «Tanta generosità con me?....»
«Non siamo noi amici fin dall'infanzia?» riprese Silvio: e con una stretta di mano si partì subitamente da lui.
XI. Giovanni Fantoni[28] e il suo calzolaio.
Giovanni Fantoni nacque nel 1775 in Fivizzano, piccola città della Lunigiana toscana. La sua famiglia è annoverata tra le più segnalate di quella provincia e tra le patrizie fiorentine. Fu educato prima dai PP. Benedettini in Subiaco, poi nel Collegio Nazzareno di Roma. Soggiornò in Pisa per accudire agli studi filosofici e legali, ma senza compirli; ebbe quindi un impiego a Firenze nella Segreteria di Stato, ma in breve abbandonò Firenze e l'impiego, per ascriversi nelle milizie del re di Sardegna. La vivacità del naturale, e l'intolleranza d'ogni servilità e freno, cagioni principali del suo frequente mutare di proposito e di soggiorno, lo costrinsero presto a lasciare anche la professione delle armi; nè ebbe miglior ventura a Roma, dove lo ricondusse la speranza degli impieghi ecclesiastici col favore d'un prelato suo parente, nè a Napoli, dove gli amici e i congiunti ambivano di vedergli acquistare la grazia del re come gli altri cortigiani. La poesia, alla quale era naturalmente e fervidamente inclinato, lo distolse infine dall'andar dietro ai fantasmi dell'ambizione o della fortuna; e contento delle modiche entrate del retaggio paterno si ritirò nella quiete della sua patria, e quivi si diede tutto agli studi poetici. Così cantava nelle sue Odi:
A parca mensa vive senz'affanno
Chi i cibi in vasi savonesi accoglie;
Nè i cheti sonni a disturbar gli vanno
Sordide voglie.
Che mai cerchiamo, sconsigliati, quando
Son pochi i lustri della nostra etade?
Cangiar che giova, dalla patria in bando.
Clima e contrade?
( Ode a Giorgio Viani )
Lo spirto tenue del latino stile
A me la Parca consegnò benigna,
Ed insegnommi a disprezzar la vile
Turba maligna.
( Ode medesima )
Me non seduce l'amistà; non preme
Bisogno audace, nè venal timore;
Stolta non punge d'insolente onore
Avida speme.
Libero nacqui: non cangiò la cuna
I primi affetti: a non servire avvezzi,
Sprezzan gli avari capricciosi vezzi
Della Fortuna.
( Ode medesima )
Quando, sul finire del secolo, le dottrine repubblicane ripresero vigore in Italia dopo la rivoluzione di Francia, il Fantoni le accolse e le professò con generoso intendimento; scrisse parecchie poesie per diffonderle; e in Milano e in Modena predicò popolarmente la libertà.
Stoltezza, perfidia e ambizione fecero prevaricare la maggior parte dei sostenitori di quelle dottrine, e per colpa tanto dei mediocri quanto del più grande tra gli uomini che ebbero influenza e potere nelle vicende di quel tempo, la repubblica e in Francia e in Italia parve un errore, e la libertà democratica si convertì in licenza. Ai pochi che le virtù del governo popolare conoscevano e praticavano, a quelli che nelle speranze rimasero illusi e nei mutamenti si serbarono incontaminati e costanti, toccò la prigionia e l'esilio. Tra questi fu Giovanni Fantoni.
Nel 1800, ritornato dalla Francia, ebbe nell'università di Pisa la cattedra di letteratura italiana; ma l'anno dopo gli fu ritolta. Si ricondusse allora nella patria, dove fu fatto Segretario dell'Accademia di Ferrara, e dove poi morì nel 1807.
Pare che taluni tra i suoi encomiatori vogliano togliere affatto il merito dell'originalità alle sue poesie, sforzandosi di farlo passare per un pretto imitatore d'Orazio. L'imitar bene un gran maestro non è servilità, e tutti sanno quanta distanza passi dalla giudiziosa imitazione alla copia. E forse cotali improvvidi panegiristi non hanno posto mente alle qualità dell'uomo; poichè i sentimenti magnanimi e il culto della morale e del vero hanno ben altra faccia nella poesia d'un cittadino onesto e nemico d'ogni bassezza cortigianesca, che in quella d'un impudente adulatore della tirannide d'Augusto.
Sebbene, com'egli scrive, l'esser nato di famiglia patrizia non lo portasse a far mostra di quell'orgoglio che è tanto biasimevole in tutti gli uomini, pure negli anni più fervidi, mentre militava in Sardegna, o trattovi da inconsiderato impeto giovanile, o spinto dall'esempio dei suoi compagni, anche il Fantoni s'accostò alquanto ai fare di quegli scapestrati che si gloriavano d'essere audaci con le donne, intemperanti negli svaghi e nelle spese, malcreati e presuntuosi, quasichè il titolo di cavaliere o di conte fosse un privilegio per insolentire con tutti e per tutto. In questo breve intervallo pertanto egli ebbe a pentirsi spesso dell'inconsideratezza dei suoi portamenti, e si ritrovò inoltre angustiato dai debiti.
In Alessandria poi gli accadde di doversi sfidare al duello con un uffiziale superiore. La cagione di questa sfida, per quanto rilevasi dalle sue lettere, non era disonorante, ma gli stava contro il fatto per se stesso biasimevole, e più che altro la mala voce di giovane traviato; e coloro che lo avevano spinto ad errare col malesempio e con le lusinghe del vizio e che indegnamente si vantavano suoi amici, quando lo videro in quel cimento lo abbandonarono secondo il solito con viltà e con dispregio. Il duello non ebbe effetto; e per sottrarsi a ogni altra briga gli convenne rinunziare al posto che aveva nella milizia. Ma appena ottenuta questa licenza, i suoi creditori lo fecero imprigionare per paura ch'egli volesse partirsi dalla città e dallo Stato senza pagare i suoi debiti. Nè la mediazione dei signori Sappa, famiglia ragguardevole d'Alessandria, nè la nobiltà della sua casa, valsero a risparmiare quest'umiliazione allo sdegnato giovine, il quale più che mai sfuggito dai codardi compagni de' suoi stravizi, dovè star chiuso alcuni giorni nelle pubbliche carceri dei debitori, finchè il padre non ebbe risposto alle sue lettere con la spedizione del denaro pel pagamento de' debiti.
Nello stesso giorno che in pena della sua imprudenza, deposte le assise dei difensori della patria, e frenato a stento lo sdegno che lo accendeva, si ritrovò sotto la stretta custodia di un carceriere, capitò alla porta della sua prigione il calzolaio che lo serviva da un mese. Era questi un uomo d'età avanzata, di modi risoluti e cortesi, padre di famiglia, lavoratore onesto e assiduo. «Che cosa volete voi dal contino?» gli diceva con malgarbo il custode. «Vi par egli tempo e luogo da far visita a un debitore? non dubitate, se i denari verranno ce ne sarà anche per voi.» — «Io ho avuto licenza di passar da lui» riprese tranquillamente l'artigiano: «voi fate il vostro dovere e non pensate ad altro.» — «Ci vuole un bel coraggio! Venite pure, ma debbo avvertirvi che solamente a vederlo voi spiriterete dalla paura. Questo Rodomonte in erba schizza fuoco dagli occhi, non vuol parlare, non vuol mangiare; e v'assicuro io, che fino all'arrivo del sacchetto non avrà occasione di far consumo di scarpe. Questi giovani presuntuosi e malaccorti pretenderebbero di scialacquare a spese degli altri; e se non trovano la gente balorda che si rassegni ad essere gabbata se l'hanno a male. Io se fossi babbo di queste buone lane, vorrei ch'e' marcissero in catorbia[29] almeno almeno un par d'anni, per insegnar loro a farla da grandi quando non possono, a negar la mercede agli operai che per loro cagione stentano con la famiglia, a ridersi sotto i baffi di chi si è affidato alle promesse!» — «Voi gli mettete tutti in un mazzo! Molti meriteranno questi rimproveri e un gastigo severo, ma il conte Fantoni è un giovine onorato, molto rispettabile e pieno di buon cuore; e voi farete bene a parlarne con stima e a trattarlo con umanità.» — «Miracolo! È la prima volta che sento un creditore parlar bene del suo debitore. Ma bravo! Anche questa è accortezza. Così avrete meno paura di non esser pagato fino ad un picciolo.» Il calzolaio guardandolo con espressione d'autorevole rimprovero, senza degnarsi di rispondergli, pose nelle sue mani una moneta, e gli accennò silenzio col dito sulle labbra. Erano all'uscio del prigioniero. Il custode strettasi la moneta negli artigli, spalancati gli occhi e messo il capo nelle spalle, tirò il catenaccio, e introdusse il calzolaio nella prigione, mentre borbottava tra sè e sè: — Corbezzole! e' son dunque d'accordo! Allora poi gli è un altro par di maniche. Oh poveri creditori! vo' state freschi! Le volpi si consigliano.... Chi ha avuto ha avuto; e tutti lesti! —
Pag. 180.
Il malizioso carceriere aveva detto il vero quanto allo stato del prigioniero. Seduto sul pagliericcio, coi pugni stretti, il capo basso e le ciglia fieramente aggrottate affissando il terreno, a quella visita non si risentì, non si mosse: le sole narici tumefatte dalla collera davano segno di vita. Il vecchio artigiano si levò rispettosamente il cappello, si soffermò presso la soglia per aspettare il permesso d'inoltrarsi, e considerando quella faccia livida per l'ira e per l'afflizione, incominciò zitto zitto a versar calde lacrime che gli rigavano le gote grinzose. Aspettò un poco, e poi dell'altro, e poi dell'altro; e visto infine che il prigioniero non gli badava: «Signore» disse con voce di pietoso conforto, «vi contentate voi ch'io venga un po' qui a tenervi compagnia? Degnatevi di sfogarlo meco il vostro dolore: e datevi pace, ch'io non son solo ad affliggermi della disgrazia che v'è accaduta.»
Il prigioniero lo guardò; vide quella canizie soccorrevole e mesta, scorse le lacrime dell'artigiano umile ma onorato e venerabile; balzò in piedi tutto compreso da un'improvvisa dolcezza; corse ad abbracciarlo, a stringergli la mano, e lo condusse a seder seco sul pagliericcio, e pianse con lui. Oh sì! egli aveva bisogno di piangere. Un momento dopo s'indispettì d'aver ceduto alla commozione; gli parve d'essere stato debole; ma quello sfogo gli fece bene; ed esclamò con aspetto sereno: «Grazie, amico mio! Io mi credeva abbandonato da tutti, ma non è vero. Così è: la virtù soccorre i disgraziati, ancorchè questi non meritino tutto il suo generoso compatimento. Il calzolaio non voleva ascoltare queste parole. «Piuttosto, diceva, se v'occorre qualche cosa fate capitale di me. Io sarò buono a poco, ma se mancasse di meglio eccomi qua; non volevo esserci venuto senza conclusione.» — «Tu m'hai già consolato tanto con la sola presenza che di più non poteva desiderare. Guarda, tu mi rammenti mio padre. Mi par d'essere insieme con lui.» — «Signore, vo' avete avuto la degnazione di ricevermi: la vostra cordialità mi fa animo... i' vorrei.... Per carità non ve ne offendete.»
«Che cosa? Parla liberamente. Credilo! quest'arresto e impossibilità di pagar subito i miei debiti m'accorano più che altro pensando a te. Ma spero che mio padre risponderà presto....»
«Scusate, non dovete pensare a me.... anzi io.... ma la libertà è troppo grande!»
«Senza soggezione, amico mio, senza soggezione! Dite pure; parlate. Se io potessi.... chi sa? volentieri.» «Dunque, ecco qui. Ora si dà il caso che io, senza scomodo, potrei darvi modo di pagare i debiti, e d'uscir subito da questo luogo....»
«Tu? Ma come? Coi tuoi denari? Col frutto del tuo sudore?»
«Non pensate più in là. Vi basti che i denari ci sono; che io posso disporne liberamente; che nessuno saprà mai nulla; che voi me li potrete rendere a tutto vostro comodo... Intanto questi...,» e si levava di tasca una borsetta di monete d'oro. Giovanni, sorpreso e commosso da quella generosa offerta, non seppe che cosa rispondergli. Abbracciandolo, respingendo il denaro, e appoggiando il capo sulla sua spalla singhiozzava; e il calzolaio a consolarlo, a ripetere l'offerta, a scongiurare perchè l'accettasse e fosse certo che il privarsi d'ogni suo avere non gli faceva disappunto: «Avete detto ch'io vi fo ricordare di vostro padre. Figuratevi dunque d'essere un mio figliuolo. Fatelo per amor mio; perchè a vedervi in arresto, a pensare che abbiano potuto trattarvi così, io ci patisco troppo. Signore, mi raccomando, fatemi questa grazia!» e quasi piegava le ginocchia.
«Non posso!» rispose Giovanni, alzandosi risoluto e imprimendo un bacio sulla mano del vecchio. «Non posso! Il servigio che tu mi rendi con l'esempio della tua generosità è tanto maggiore d'ogni altro, che mi parrebbe d'essere un ingrato se io prendessi questi denari. Quante volte avevo fatto proposito di ravvedermi! I rimorsi della mia coscienza, gli stimoli dell'onore, la memoria degli avvertimenti paterni non bastavano. Tu m'hai toccato il cuore! Io sento di essere un'altro; tu mi restituisci la fiducia nella virtù, il coraggio per sostenere le disgrazie.... Tu mi riconduci corretto nel seno della famiglia! Poteva io sperare un benefizio più grande? Contentati d'avermi fatto questo! Se le tue faccende te lo permetteranno ritorna a consolarmi. Io t'aspetto a braccia aperte.» E con altre parole e coi gesti gli diede manifestamente a conoscere che non si sarebbe potuto mai indurre ad approfittarsi di quel denaro. Il calzolaio, con gli occhi rivolti al cielo, fece un atto di compassionevole ammirazione, s'allontanò un poco, poi ritornò indietro a ripregarlo per ben due volte, e alla fine vistolo irremovibile, lo lasciò solo.
Ognuno può immaginarsi le riflessioni del giovin conte. I compagni dei suoi piaceri, gli amici di nome, i personaggi che si davano l'aria di proteggerlo, tutti zitti, tutti lontani dalla sua carcere, quasichè si vergognassero d'aver che fare col giovane scapestrato e messo in arresto per debiti. — Io sono uno scapestrato, è vero; ma prima di venir qui, sebbene conoscessero i miei portamenti e sapessero tutto, pure mi facevano buon viso e m'invitavano alle loro conversazioni e alle loro feste. La maggior parte di questi debiti gli ho fatti per uniformarmi ai costumi della società elegante, per fare onore alle persone che m'invitavano. Ora che sotto la veste del cavaliere v'è il tribolato, ora mi lasciano in balìa dei miei creditori, a sopportare la pena dei miei traviamenti. Ora non son più il giovine allegro al quale si possono condonare le imprudenze giovanili; ora che senza l'aiuto di mio padre non posso riscattarmi dalla prigione, io sono il libertino che merita gastigo e abbandono e disprezzo! Oh! se avessi voluto prevenire, come tanti hanno fatto, con qualche strattagemma la vigilanza dei creditori, e vilmente nascondermi, e perfidamente tradirli, io sarei, a giudizio di costoro, un giovine accorto; e la mia colpevole azione passerebbe per un tratto di spirito! Intanto quest'uomo, un bracciante, un vecchio padre di famiglia, colui che tante volte s'è inchinato a calzarmi, che forse ha dovuto sopportare in silenzio qualche mio atto d'impazienza, qualche umiliazione, egli primo, egli solo vien frettoloso a soccorrermi; invece di giudicarmi con quel rigore che dovrebbe, mi dimostra rispetto, e mi palesa una tenera affezione, alla quale, senza la mia disgrazia, non avrei mai pensato; e forse immaginandola allora, non avrei degnato dì curarmene! L'orgoglio della nascita mette fra noi una distanza immaginaria.... Oh! la vi è pur troppo una distanza, ma non quella che i pari miei si figurano. La virtù dell'uomo onesto lo fa essere di gran lunga superiore allo sfaccendato presuntuoso, che invece di farsi da lui servire, appena meriterebbe d'averlo per compagno! Ma ecco l'amore che ci agguaglia tutti, che non prende per sua misura la nobiltà della nascita o la copia degli averi, ma solamente le disgrazie.
Pochi minuti dopo la partenza del calzolaio, il Fantoni fu distolto da questi pensieri, perchè il custode gli consegnò una lettera recatagli allora da un giovinetto. L'aperse con impazienza, ed era di mano del medesimo calzolaio, che in termini rozzi ma più risoluti, più affettuosi e più liberi, gli ripeteva l'offerta, mostrandosi afflitto dal dubbio che la non fosse stata creduta sincera, e dichiarando meglio la necessità e la convenienza d'accettarla. Ma Giovanni gli mandò subito questa risposta: — «Ho ricevuto il vostro biglietto; ed il mio cuore sente tutto il prezzo dell'offerta che voi mi fate. Non è che un mese che mi servo di voi; appena mi conoscete, e mi offerite per sollevarmi dalle mie disgrazie tutto quello che possedete! Uomo onesto e sensibile, degno di uno stato migliore, avvilito da tanti che non hanno il vostro cuore ed i vostri sentimenti, non crediate giammai che io sia per profittare della vostra generosità: non turberò mai a prezzo di qualunque disgusto la tranquilla mediocrità del vostro povero stato. Se il Cielo vorrà di nuovo concedermi che io possa darvi una prova della mia gratitudine, vi avvedrete se il mio cuore doveva conoscere il vostro, e se meritava un affronto da chi forse aveva più diritto di voi di conoscerlo, e di risparmiarne l'onorata sensibilità. Tra la folla di coloro che cessarono con la mia disgrazia di essermi amici, vi scelgo per amico e fedele. Voi mi consolerete, voi mi darete dei semplici e sinceri consigli, voi sarete a parte dei miei pensieri. Mi vergogno di aver creduto miei amici certi insetti titolati che s'imbrattano nel fango mentre nuotano nell'oro; non di essere di un povero ma onesto e sensibile artigiano.
«Li 11 Febbraio 1779.
« L'aff. Amico
« Giovanni Fantoni.»
Il calzolaio tornò di poi a sollevarlo nel suo ritiro, «dove» scriveva lo stesso Fantoni a un suo amico lontano «non è passato giorno ch'ei non sia venuto a trovarmi, o, vietandoglielo i suoi interessi, non mi abbia scritto; nelle sue lettere si conosce un uomo franco e sensibile, e la rozza semplicità del suo stile si rende rispettabile per la nobiltà dei suoi sentimenti.»
Peccato che non si sia potuto ritrovar memoria anche delle lettere del calzolaio! Ma la sua amicizia col Fantoni fu durevole, e il tratto di virtuosa generosità per cui lo conobbe dovè molto giovargli in tutto il rimanente della sua vita.
XII. La mala prevenzione.
Chi è che non sappia quanto sia vaga e magnifica la veduta di Firenze e della sua valle dal poggio di Fiesole? I forestieri la celebrano con enfasi: e i Fiorentini non si saziano di goderne, perchè invero le bellezze create dalla natura non possono, ad animi gentili e nati a sentirle, divenir mai per abitudine indifferenti.
Questo ameno soggiorno è divenuto più incantevole per le vedute della strada nuova, che dalla piazza di San Domenico, girando la costa del poggio con ampie curve e con dolce pendio, mette capo fin presso alla Cattedrale della vetusta città.
Ma non ogni stagione nè ogni giorno è dato vedere nella sua maggior bellezza quello spettacolo. L'azzurro limpido del nostro cielo è un dono che la natura largamente ci accorda, e che fa più mirabile la veduta; ma quando i vapori della valle che spesso velano gli oggetti opposti e lontani, son dileguati dal soffio di settentrione, quando l'aere è più sottile pei primi freddi del vicino inverno, ed il sole in tutta la sua splendidezza ferendo le spalle a chi di lassù guarda Firenze lo inonda di luce senza che appaia dond'ella venga, e invece di abbattere per troppo calore le membra, par che in esse infonda novella forza... oh! allora la vaghezza del luogo vince ogni espettativa, e supera ogni eloquenza di descrizione.
Di poco era aperta la nuova strada, quando un giovinetto, nella stagione che io diceva, era lì col padre suo a contemplare la città e la campagna. Vedeva dirimpetto le colline di San Miniato, d'Arcetri e della Romola; a destra una fila di poggi più uniforme e lontana che andava lievemente scendendo sulle pianure di Prato e di Pistoja; a sinistra i gioghi alpestri del Casentino, la cui vista era chiusa dallo sterile fianco di Monte Ceceri: in mezzo la città, ove alteramente signoreggia sugli altri edifizi la mirabile cupola di Santa Maria del Fiore; mentre le acque dell'Arno qua e là brillavano lucidissime per la riflessione dei raggi; più vicino, le pendici dell'Uccellatoio, di Camerata, di Maiano inoltrantisi con dolce declive per entro alla valle, coperte di viti e d'ulivi, e talora di boschetti e giardini, ove l'arte quasi pentita d'aver preso il posto della semplice natura tanto più bella di lei, sembra in alcuni luoghi di volerla rassomigliare; e per tutto villaggi e casolari fra mezzo gli alberi, e ville grandiose di vetusto aspetto e di storiche ricordanze, o eleganti casette apparecchiate all'ozio dei cittadini, proprie a significare con la lor picciolezza la brevità dei piaceri terreni, e col numero lo sfacelo dei colossali dominii del feudalismo. All'intorno regnava il silenzio della campagna, o di quando in quando lo interrompevano i canti armoniosi degli uccelletti.
Il giovinetto rapito in estasi da quello spettacolo, al quale forse faceva attenzione la prima volta, ora guardando da un punto ora da un altro, manifestava con esclamazioni di gioia la sua naturale meraviglia. Poi si fermò appoggiato ad un albero, parendogli che suo padre fosse assorto in grave pensiero; e siccome il giorno innanzi erasi imbattuto a leggere qualche pagina di un romanzo ove con fantasia tetra e nocevole alle menti ingenue ed inesperte si dipingevano gli umani traviamenti, si pose anch'egli a meditare, e turbò la letizia dell'animo con malinconiche riflessioni.
Poichè il padre si fu mosso per continuare la via, il giovinetto, gettando un ultimo sguardo appassionato alla scena che gli stava davanti: «Peccato eh! babbo, egli proruppe, che fra tante bellezze v'abbiano ad essere uomini che commettono tanti delitti! Firenze con la sua campagna è bellissima, e non si può fare a meno di rimanere incantati a vederla; ma chi sa quanti di coloro che l'abitano condurranno vita colpevole! Com'è possibile che un sì vago soggiorno debba essere contaminato da orrendi vizi? E qui, su queste medesime ridenti colline, vorrei vedere, se la serenità degli uomini è uguale a quella del cielo. Io credo che a molti la coscienza dei propri falli non lascerà gustare con pace tutte le delizie che la natura dispiega ai loro occhi.»
«Invero» gli rispose suo padre, «io non mi aspettava da te questa dolorosa lamentazione. Tu hai molto cattiva opinione degli uomini. Bisogna ben dire che nei pochi anni da che tu vivi e' t'abbiano trattato assai crudelmente, o che l'autore del libro, che senza mia approvazione tu leggevi ieri, abbia girato tutta la terra, e non v'abbia trovato altro che malvagi. Ah! figlio mio, pur troppo vi sono coloro che traviati da idee non rette o da passioni disoneste cagionano il danno altrui ed il proprio! Ma come puoi tu averli conosciuti bene alla tua età? Bada, le apparenze sovente ingannano chi ha fior di senno, e chi ha i capelli canuti. So che nello stesso modo che una bella vernice può ricoprire un tavolino intarlato, così le sembianze del bene possono ascondere il male; ma bisogna esser cauti ed avere molta esperienza prima di convincersi di quello o di questo. La troppa fiducia e l'estrema diffidenza sono egualmente dannose. E se fosse cosa prudente giudicare dell'indole di un uomo soltanto dalle sue opinioni, comincerei a dubitare della onestà di colui che tenesse tutti gli altri in cattivo concetto. Procura che le tue azioni siano rette, fa' il tuo dovere in ogni cosa, ama il prossimo, considera quanti infelici, per difetto di educazione o per le angustie della vita umana, siano spinti contro lor voglia ad errare, e lascia ad altri la cura di condannarli. Che tu, giovane, sano, robusto, e nato nell'agiatezza, mentre sei commosso dall'amenità della campagna e dalle delizie che fanno ridente la terra, che tu compianga piuttosto coloro che non ne possono come te lietamente godere, nol biasimo. Pur troppo accanto a quei palazzi maestosi della città vi sono tante povere casucce ove gli uomini sospirano fra i dolori, fra i pericoli e fra le umiliazioni dell'indigenza; e se l'aura che tanto splendida ne circonda non reca a noi i gemiti di chi languisce negli spedali, non pertanto dobbiamo dimenticarci che laggiù vi sono i ricchi ed i poveri, i sani e i malati. Compiangi dunque la sventura innanzi di accusare la nequizia degli uomini. Il primo sentimento ti farà umano, il secondo potrebbe renderti ingiusto. Ma io ho ragionato anche troppo. Un esempio gioverà meglio a farti conoscere come spesso gli uomini siano indotti in errore dalla cattiva prevenzione e dalle apparenze. Il testimone di questo esempio è vicino. Io te lo farò conoscere oggi; ma prima è necessario che tu ne sappia la istoria.» Il giovinetto, commosso da quelle parole, coperto il volto da un lieve rossore, non aprì bocca, ma chiaramente manifestò al padre con quanto desiderio lo avrebbe ascoltato. Allora questi, lentamente salendo per la via di Fiesole, così prese a dire:
— Circa quindici anni fa viveva in una villetta qua dietro Fiesole Francesco Salvucci, che dopo aver fatto l'orefice sul Ponte Vecchio, erasi ritirato ad abitare in campagna, parte perchè la vista indebolita non gli permetteva più di lavorare, parte perchè essendosi con onesti risparmi assicurato il campamento per la vecchiaia, voleva passarla in tranquilla agiatezza. Fu egli di maniere così bisbetiche e d'indole tanto burbera, che sul Ponte gli avevano messo il soprannome di Cecco-Muso, ed ognuno a prima vista l'avrebbe giudicato un misantropo. Di poche parole, col volto severo, senza mai ridere, pareva sempre insensibile a tutto quello che gli accadeva d'intorno; e guai a chi si fosse preso con lui una confidenza! Non avrebbe torto un capello a nessuno; ma essendo risoluto, di membra tarchiate e robusto, con la sola minaccia, con la sola voce metteva paura in chicchessia. Contuttociò fu visto talora commoversi in segreto all'aspetto degl'infelici, e andare in traccia di loro per soccorrerli quando gli pareva che nessuno potesse trapelarlo. Se v'era da porgere un servigio ai suoi compagni spontaneamente e senza loro saputa, s'ingegnava di farlo; ma parendogli dover negare alcuna cosa, benchè richiesto, il suo no fu sempre inflessibile e la insistenza fortemente lo indispettiva. Era poi abilissimo nel lavorare, ed onesto fino allo scrupolo; e alla meritata mercede non sopportava fosse fatta la tara, perchè non avrebbe mai dimandato più dell'onesto; ma spesso accadeva che gli avventori non avvisati di così straordinario temperamento non volessero aver che fare con lui. Per questa ruvidezza di modi e per la parsimonia del vivere, per cui potè comprarsi la villetta che ho detto e un podere, ebbe la taccia d'avaro; ma con l'andar del tempo taluno potè accorgersi quanto ingiusta ella fosse.
Essendo scapolo, aveva in casa una vecchia per nome Umiliana, già stata al servizio del padre suo, affezionata alla famiglia, e che avendo conosciuto l'indole di Francesco, sapeva comportarsi con lui in modo da far volentieri il proprio dovere e viver contenta. E sul principio l'abituarsi a quelle maniere burbere le era costato molto, perchè il suo carattere pareva tutto l'opposto di quello del padrone, essendo ella piena di affettuosa dolcezza; ma poi s'accorse che anch'egli era umano, e più col fatto, che con le parole, usato a significarlo. Francesco poi, senza darglielo a dimostrare se non col rispetto e con la discretezza, l'amava; e così per lei il servirlo non aveva nulla che a schiavitù assomigliar si potesse. Conosciuti i di lui desiderii, che non erano molti, giacchè in tutto ciò ch'ei potè preferì sempre di servirsi da se medesimo, e inteso l'ordine da tenersi nella casa, ella era giunta a potere prevenir ogni comando; e tra loro non fu mai motivo di dissensione. Perciò Francesco, accordatale pienamente la sua fiducia, le aveva rilasciato tutta l'amministrazione domestica, non teneva nulla sotto la chiave, non ardiva nemmeno sospettare della sua fidatezza. Chi esaminava superficialmente le cose credeva che l'Umiliana da scaltra faccendiera fosse pervenuta a dominare l'animo del padrone, ed a lei attribuiva l'apparente durezza di esso. I favori ch'egli negò agl'indiscreti o a chi non sapeva meritarli, parvero divieti dell'Umiliana; e la dolcezza di questa fu creduta ipocrisia, non potendo ella, per non abusare della fiducia del padrone, mostrarsi più generosa di quello che le sue poche facoltà le permettessero. Bensì non trattennesi mai dall'indicargli qualche infelice da soccorrere, qualche giustizia da rendere: ma siccome egli faceva il bene in segreto, e, benchè fattolo per suo consiglio, non si curava di manifestarlo nemmeno a lei, mentre essa non si sarebbe vantata con chicchessia nè del consiglio nè della buona riescita, così quelle azioni caritatevoli rimanevano ignote per sempre. Ma a lei bastava che fossero fatte, nè aveva bisogno di lode o di gratitudine come stimolo a desiderare o ad operare il bene del prossimo. Tra le persone che interpretarono sinistramente la condotta e le intenzioni dell'Umiliana fuvvi il fratello minore di Francesco.
Dopo la morte del padre i due fratelli avevano continuato a stare insieme a bottega; ma presto il minore, poco amante della fatica, spensierato, chiacchierone e compagnevole oltre misura, ebbe a fastidio il maggiore che lo teneva, secondo lui, in troppa soggezione. Tuttavia Francesco lo amava, ed ammonivalo umanamente, riparando spesso agli effetti delle sue imprudenze, e pagando perfino i suoi debiti; e benchè avesse avuto frequenti ragioni di sdegnarsi della sua ingratitudine, erasi proposto di non abbandonarlo giammai. Contuttociò lo sciagurato, a istigazione dei falsi amici, e male interpretando l'indulgenza di Francesco, volle da lui dividersi di bottega e d'interessi domestici, divenir padrone assoluto del suo, ed invocò anche l'assistenza di un procuratore, dubitando forse dell'onestà del fratello. Questi, fattogli prima conoscere con brevi ma evidenti ragioni l'errore ch'ei commetteva, e trovatolo ostinatissimo nel suo proposito, lo lasciò totalmente libero del fatto suo, e non andò neppure tanto per la minuta a fine di non aver noje di tribunali. — «Così hai voluto» gli disse poi quando Enrico abbandonava affatto la casa paterna, «e così sia. Ma rammentati che nostro padre morendo ci benedisse ambedue con lo stesso affetto, e spirò raccomandandoci di vivere insieme nelle mura che ci hanno visto nascere. Noi potevamo dire d'essere ricchi perchè uniti; ma divisi, chi sa? Enrico, te lo ripeto, questo è uno sbaglio: v'è sempre tempo al rimedio. Finchè non sei uscito di qui, pel sacro nome di nostro padre, son tuo fratello, sciolgo ogni patto che il capriccio ti ha suggerito per separarci: ecco, t'apro le braccia; il mio cuore è tuo. Non vuoi? Dio t'accompagni, ma dimenticati di Francesco. Questa casa non è più nostra, nè io vi saprei vivere da me solo. Dovunque io vada, non mi cercare.» Fatto questo discorso, che fu il più lungo che mai pronunziato avesse nella sua vita, rimase con le braccia stese, pronto a stringersi al petto il fratello, guardandolo con occhi fissi e amorosi; ma quegli che aveva già un piede fuori dell'uscio impaziente d'ogni indugio, incredulo a ogni protesta: «Finalmente» rispose «io sono padrone di me. Ti ringrazio, ma spero che non avrò mai bisogno d'importunarti. Amministrando il mio da me, conoscerò quanto posseggo, e saprò misurarmi.» E partissene.
Francesco allora si voltò per rasciugarsi una lacrima. Venduta la casa paterna, e fattane pervenire, secondo il fissato, la metà del prezzo al fratello, si ridusse ad abitare in un luogo appartato della città, e scrisse all'Umiliana (che dopo la morte del padron vecchio aveva voluto riunirsi alla sua famiglia in campagna), proponendole di conviver con lui come donna di casa. Ella, che non aveva più le ragioni di prima per istabilirsi in famiglia, accettò volentieri, e venne a Firenze.
Poco dopo fu vista aprire sott'altro nome sul Ponte Vecchio, e dirimpetto a quella di Francesco, una bottega d'oreficeria, messa con somma eleganza e con lusso. Il nuovo nome a grandi lettere dorate era quello d'Enrico Salvucci.
Francesco non ne mostrò rammarico nè meraviglia; fece tacere coloro che la chiamavano una soverchieria del fratello, e non cambiò l'antico aspetto della sua umile botteguccia. Vennegli poi inaspettatamente la notizia che Enrico aveva presa moglie, e fatto gli sponsali con grande sfarzo. Le male lingue andarono dicendo che Francesco aveva risposto all'invito con sdegnoso rifiuto.
In capo a tre anni la nuova bottega era chiusa; Enrico vergognosamente fallito ed in fuga; la moglie con tre figliuoli rimasta nella miseria. E i suoi parenti erano poveri; e i falsi amici del marito non si curaron di lei! — Una sera dopo la mezza notte fu picchiato alla casa di Francesco. L'Umiliana si levò, scese ad aprire, e trovò Enrico travestito, che dimandava di parlare al fratello. Essa andò ad avvertirne il padrone; ma questi, senz'altro, le rispose che era deliberato a non ascoltarlo. Enrico nella massima disperazione proruppe in contumelie contro il fratello e contro l'Umiliana, accusando lei di questo rifiuto; e partitosi a precipizio non si fece più rivedere. Essa lo richiamò indietro amorevolmente, ma l'infelice nell'accecamento della collera non le aveva badato. La mattina stessa a buon'ora fu recata alla sua moglie una somma di mille lire. La donna che la portava era velata da una cuffia da contadina, e non volle palesare il suo nome nè quello del donatore. Un ajuto così inaspettato salvò per lungo tempo la misera famiglia dall'indigenza; finchè Enrico, fatto alquanto senno per la sventura, e spogliato d'ogni suo capitale dai creditori, entrò qual semplice lavorante nella bottega di un orefice di Livorno, e si tirò innanzi alla meglio per alcun tempo. Ma in breve gli vennero in capo nuovi capricci e nuove ambizioni, ed era tornato a combattere con le strettezze del vivere.
In quel tempo Francesco, risolutosi di lasciar la bottega e di ritirarsi in campagna, chiamò a sè un intrinseco amico facoltoso ed onesto, e pattuì seco lui di cedergli a buone condizioni la bottega e la clientela; purchè quando Enrico gli paresse corretto se lo associasse nel traffico, e conducesse le cose in modo da costituirlo a poco a poco padrone dell'antica officina della famiglia. Gli raccomandò caldamente la segretezza, e volle che tutto il merito di questo negoziato egli lo attribuisse a se stesso. L'amico, benchè gli paresse follìa una generosità usata in questo modo, pur nondimeno conoscendo il carattere di Francesco, e visto non esservi altro mezzo per fare un tal benefizio ad Enrico e alla sua famiglia, accettò l'incarico, e si governò appunto nel modo che aveva divisato Francesco.
Enrico in principio si tenne beato di così fortunata congiuntura, senza mai dubitare quanta parte vi avesse là generosità del fratello; ma non andò guari che, ribollite le antiche passioni, incominciò ad abusare del buono stato; e cresciuta la famiglia e i bisogni, perdette nuovamente il credito che per la società avuta con l'onesto amico gli era stato restituito. Nelle calamità di una condotta così irregolare, tornò col pensiero al fratello, e per opera d'altri fecegli palesare il suo stato. Questi, ancorchè avesse voluto condiscendere alle preghiere, non era più in grado di fare spese per lui. Nonostante, ad intercessione dell'Umiliana, e sempre con la solita segretezza, si lasciò qualche volta indurre ad assisterne la famiglia. Quindi le istanze d'Enrico presero aspetto di pretensioni, le negative di Francesco vennero attribuite al preteso sopravvento dell'Umiliana, e il dissesto degli affari di Enrico divenne sì grave, che gli si minacciava di fargli chiudere la bottega per un debito di circa mille lire. L'Umiliana lo seppe, e ne parlò al padrone; ma questi ormai stancato da tante imprudenze, le fece chiaramente conoscere che sarebbe stato irremovibile; e le impose, con una severità che con lei non aveva usato giammai, di non più nominargli nemmeno quello sciagurato di suo fratello. «Mi dispiace della sua famiglia» egli disse, «mi dispiace che la reputazione del nome di mio padre si perda sul Ponte Vecchio, ma io morirò presto; la poca roba che potrò lasciare salverà dalla miseria i nipoti; e nel sepolcro queste vanità del nome non hanno più nulla che fare.» La buona Umiliana, accortasi ormai che niuna considerazione sarebbe bastata a fargli mutare proposito, aspettò che fosse venuta l'ora del riposo; e lasciato il padrone, che soleva andare a letto sollecitamente, corse tosto nella sua cameretta.
È comune ambizione delle massaie l'avere un bel vezzo di perle, che esse considerano quale ornamento da non poterne far senza, e capitale opportuno a provvedere a qualche gravissima necessità nel corso della vita. Un economo assennato consiglierebbe di mettere a frutto in una cassa di risparmio o con qualche altro sicuro modo quel capitale, che senza rimaner morto, come suol dirsi, o infruttifero per molti anni, verrebbe a raddoppiarsi e a triplicarsi, e riescirebbe più utile al possessore ed agli altri. Ma ad una donna, che per molte buone qualità si rende utile in una famiglia, chi vorrebbe negare quest'onesta soddisfazione? E chi sa che quel desiderio acquietato non ne risparmi talora tanti altri più discreti, ma che messi insieme costerebbero più di quello?
Tornando all'Umiliana, sarebbe impossibile descrivere quante veglie di lavoro, quante privazioni, quante industrie, sebbene tutte oneste, le fosse costato il mettere insieme un cento di scudi per comprarsi quel vezzo che ella soleva poi mettersi al collo per le pasque soltanto. Indi il padrone le aveva regalato due o tre anelli di qualche valore; e poi, quantunque spesso di molta parte del suo salario facesse elemosine, non pertanto erale riuscito di mettere assieme un dugento di lire per sostegno nella vecchiaia. Senza indugio adunque ella raccolse le gioie e il denaro, e postasi in via per Firenze, andò subito in traccia di un vecchio procuratore, che spesso era stato rammentato e lodato per la sua onestà dal padrone. Il procuratore che per la lacrimevole grave età s'era quasi allontanato dai tribunali, non teneva più studio aperto la sera, e a quell'ora tarda dormiva. Ma l'Umiliana si raccomandò tanto alla serva, e mostrò così gran premura di parlargli per un affare, com'ella diceva, di molta urgenza, che quella credè bene di svegliare il padrone, uomo in fondo di buona pasta; ed egli infatti non le ne fece rimprovero. Venuto ad ascoltar l'Umiliana, questa gli manifestò brevemente lo stato deplorabile in cui si trovava Enrico Salvucci orefice di sul Ponte Vecchio, a lui già noto per le cose innanzi accadute; gli parlò del sequestro; e consegnatogli vezzo, anelli e monete, lo pregò di volerlo, col valsente di quella roba, liberare da tanto disonore. Se fossero mancate poche lire sperava che Enrico avrebbe potuto supplirvi; se ne fossero avanzate, diceva al procuratore le ritenesse, che una volta o l'altra sarebbe venuta a riprenderle. «Va benissimo,» rispose il procuratore meravigliato, dopo averle lasciato dire ogni cosa; «ma a nome di chi ed a quali condizioni debbo io liberare il Salvucci da questo intrigo?» — «Se potesse farlo» rispose la vecchia «a nome del Salvucci medesimo, tanto meglio. Se la intenda con lui....» — «Ma ed al Salvucci» interrompeva quasi impazientito il procuratore, «chi debbo io nominare? Chi siete voi?» — «Io?» soggiunse l'Umiliana «io chiedo a V. S. questa carità, perchè non voglio essere conosciuta.» — «E per assicurare il vostro credito, e per la restituzione, come volete che si faccia?» — «Restituzione? Oh! non intendo mica di fare un imprestito. Il Salvucci deve considerarli come suoi questi denari, ed a lei raccomando il segreto.» Il procuratore inarcando maggiormente le ciglia se le fregava, toccava il tavolino, e guardava intorno intorno la stanza per assicurarsi d'essere sveglio, perchè gli pareva di sognare. Indi preso a parlare sommessamente con dolcezza, e accostatosi alla vecchia con una specie di venerazione: «Ed io» le disse «non debbo saper chi siete?» — «Se vuol saperlo» rispose la vecchia arrossendo, «glielo dirò; ma siccome per quest'affare desidero di rimanere incognita, così non saprei che cosa potesse importarle il nome d'una povera vecchia.» — «Ed io rispetterò il vostro segreto!» soggiunse allora tutto commosso il procuratore; «ma bisogna che voi abbiate di grandi obbligazioni al signor Salvucci; e spero che quest'azione voi la facciate spontaneamente, senza esservi indotta da scrupoli, da timori.... Scusate se vi fo questi discorsi, perchè gli affari d'interessi son molto delicati. E voi dovete averci pensato bene. Dall'avere al non avere un migliaio di lire v'è molta differenza per tutti. Non mi pare che voi dobbiate esser ricca, e forse potreste avere dei parenti che più del Salvucci meritassero i vostri aiuti... Insomma, se presto mano a questo negozio lo fo sulla vostra coscienza, con la certezza che non abbiate a pentirvene mai....:» e varie altre cose le disse, indottovi dalla nuovità dell'avvenimento. La vecchia un poco meravigliata rispose: «Io a questa età non ho più parenti prossimi; i lontani non li conosco di persona, ma so che non son poveri. E poi questa roba è mia, messa assieme a forza di lavoro a tempo avanzato. Per grazia del cielo non mi manca il pane, e ad ogni modo sono ancora buona per lavorare e guadagnarmelo. So che il signor Salvucci si trova in queste miserie, ed ha una famiglia numerosa. Questa roba per me è superflua....» — «E se il Salvucci» continuò il procuratore «non avesse altrimenti bisogno di questo aiuto, o che una volta accomodati i suoi affari volesse restituire la somma e le gioie, come dovremmo fare?» — «Io avrò modo di saperle queste cose» rispose, «e verrò allora a consigliarmi con V. S. Ma in conclusione fin d'ora sono risolutissima a donare questi oggetti per sempre, e non ho paura di dovermene pentire.» — «Ebbene! Così sia» esclamò il procuratore. «Farò di servirvi come bramate. Sapete voi scrivere?» — «Signor no.» — «Aspettate che vi faccia una ricevuta....» — «Per me non importa davvero; e poi ho bisogno di tornar via. Se ha la bontà di lasciarmi andare....» — Il procuratore che aveva preso la penna ed il foglio, rimase estatico, e non seppe trovar modo di trattenerla. La vecchia nel congedarsi gli raccomandò di nuovo il silenzio, ed egli con esclamazioni interrotte l'accompagnò fino all'uscio di strada, rimase lì fermo con la lucerna in mano a vederla partire, e tornando a letto esclamò: Prima di morire ho veduto anche questa!
L'Umiliana con lo stesso animo deliberato con cui era venuta a Firenze, tornavasene per la via di Fiesole alla villetta, ed era contenta del fatto suo. La teneva in una certa ansietà il dubbio che il padrone svegliandosi, contro il suo solito, avesse avuto bisogno di lei, e chiamandola invano, si fosse insospettito di qualche disgrazia. Questo timore le metteva le ali ai piedi; e finalmente giunse a casa trafelata e così piena di stanchezza e di sudore, da acquistarne un mal di petto mortale se non fosse stata sanissima. Vi entrò piano piano, andò in punta di piedi a sentire se il padrone dormiva; e assicuratasi pienamente che niun disturbo era nato nella sua assenza, alla fine anche essa andò a riposarsi. Il procuratore adempiè il giorno dopo la commissione avuta, ed Enrico non sapendo in sulle prime a chi attribuire il benefizio, spensierato com'era, non vi riflettè sopra gran fatto, nè fece proposito di governarsi nel futuro con più giudizio per non abusare della Provvidenza.
Il procuratore per l'autorità della vecchiezza e della buona riputazione di cui godeva, si arrischiò a fargli una paternale amorevole: Pensasse che quel servigio venivagli reso in contemplazione principalmente della sua famiglia; che al certo era un fatto straordinario che non sarebbe mai più accaduto; e che doveva rendere conto a Dio dell'occasione sì opportunamente offertagli di riparare all'estrema ruina della sua casa.... Come l'acqua chiara spruzzata nel muro, asciutta che sia, non lascia di sè alcuna traccia, così quel discorso uscì presto dalla mente d'Enrico, ed ogni buon proposito fatto dopo di esso andò in fumo. Quindi non passò molto tempo ch'ei si trovò di nuovo a sopportare le triste conseguenze della sua dissipazione, e a dover ricorrere, per sostenersi, ad espedienti poco decorosi che erano per condurlo a maggior precipizio di prima.
Poco dopo Francesco, assalito improvvisamente da un colpo apopletico, morì in cinque giorni; pensa con quanto dolore dell'Umiliana! La povera donna rimase tanto sbalordita dall'inaspettata disgrazia, che non potè mai ricordarsi che cosa fosse accaduto nei due o tre giorni consecutivi. Di questo solo ha memoria, ch'ella si vide consegnare alla presenza di due persone un rotolo di monete da un tale che le disse aver così disposto nel suo testamento il defunto padrone, e che le impose di fare una croce sotto un lungo foglio, a guisa di ricevuta, e di raccogliere sollecitamente la sua robicciòla per dar posto agli eredi. Ella obbedendo come una macchina, e sempre seguita dalle due persone, fece il fagotto dei pochi panni che aveva; prese la rocca e il filato, e fu accompagnata fuori dell'uscio. Fatti due o tre passi, se lo sentì chiudere alle spalle. Non si voltò perchè l'animo non le bastava; e quando lo avesse fatto, non avrebbe potuto scorgere alcuna cosa, perchè aveva perduto il lume degli occhi. Quindi non potè andare oltre, e si assise sopra un muricciòlo appoggiando la testa sopra il fagotto. In quel momento di spossatezza delle membra, l'Umiliana non aveva nella sua mente un pensiero fatto; ma si sentiva una sì strana confusione d'idee che pareva le dovesse togliere il senno. Aveva pianto assai per la morte del padrone; ma non potè versare lacrime in quell'amaro ed inumano congedo. Si sentiva un nodo che le toglieva il respiro, e le faceva gonfiar le vene dal sangue che circolava a fatica. Stata alquanto, senza che nessuno la vedesse, in quell'attitudine, in quel martirio, si sentì chiamare per nome da una voce nota, si scosse, e videsi davanti un giovine, il figlio maggiore del contadino, che incrociate le braccia sul petto, la guardava con aria compassionevole e sdegnosa ad un tempo. Appena accortosi di essa gli dava retta, le disse con sollecitudine e sotto voce: «Umiliana, è meglio che andiate via subito per ora. Volete che vi conduca dalla mia zia che sta a Fiesole? Andiamo, il fagotto ve lo porterò io»; e, presolo, le dava aiuto per alzarsi. Indi sorreggendola la menò dietro casa per un viottolo scosceso, che scendendo e poi risalendo tortuosamente riusciva in Borgunto lungi un miglio e mezzo dalla villetta. Quando furono a mezza strada in un luogo ombroso e celato, il giovine contadino: «Ora potete riposarvi» le disse, «qui non saremo veduti.»
L'Umiliana si lasciò andare a sedere sopra un arginetto, e guardando il suo compagno, credè vedergli gli occhi rossi e umidi di lacrime. Allora dette in un pianto nascondendosi il viso tra le mani; e quella canizie addolorata fece fremere di generoso sdegno tutte le fibre del giovine. «Sciagurati!» egli esclamò «cacciarvi di casa in questo modo! minacciar noi di licenza se vi avessimo raccolta!» — «Ma che ho io fatto?» gridò allora l'Umiliana alzando al cielo il volto e le mani. — «Vi accusano» rispose il giovine «d'aver messo su il padrone ad esser inumano coi suoi parenti; d'esservi arricchita alle sue spalle; d'averlo indotto a dare a voi ogni cosa. Credevano di trovare i sacchi dell'oro, e dicono che voi gli avete levati di casa prima che egli morisse.... Iniqui! lo so io il cuore che avete. Ma, se Dio fa che una volta o l'altra!...» e batteva i piedi minacciando con la mano, come se facesse un proposito di vendetta.
L'Umiliana cessando di piangere s'alzò allora con atto dignitoso, interruppe le parole del giovine, e stringendogli la mano e fissandogli nel volto gli sguardi accesi d'amore: «Buon giovine» disse «Iddio non ti farà venir mai feroci pensieri. Se vi sono dei colpevoli, lascia a Lui la cura di far giustizia. S'ingannano; ma non avviliscono me. Nè io sono infelice per colpa loro. Andiamo; il male che fanno a se stessi è molto maggiore di quello che credono di dover fare a me. Compatiscili. Andiamo dalla tua zia; la conosco, e ti ringrazio di avermi suggerito questo ricovero.» Così, come se le fossero tornate le forze della gioventù, si pose innanzi nella via, e il contadino appena le teneva dietro col suo fagotto.
In un attimo giunsero in Borgunto. La buona donna che cercavano era sull'uscio a filare. A quell'arrivo essa fece le meraviglie, voleva sapere il che ed il come; supponeva già quello che era stato, e si abbandonava alle lagnanze, alle accuse insieme col nipote. L'Umiliana confortandola ad aver pazienza, le chiese ospitalità, e fu accolta con grande affetto. Il giovane accarezzato dalla zia e dall'Umiliana tornò sollecitamente al podere, temendo di recar danno ai suoi se si fosse scoperto il pietoso ufficio ch'egli aveva usato con la massaja di Francesco.
Le due vecchie tosto si trovarono contente di vivere insieme; e l'Umiliana si studiò di moderare i lamenti loquaci che la compagna faceva sull'accaduto, e d'impedire che la fama ne corresse per tutti i casolari di Fiesole.
Ritrovandosi nella tasca del grembiule il denaro che le era stato consegnato quando fu cacciata di casa, tornò a versar qualche lacrima, e sulle prime le era venuto voglia di rifiutarlo; ma pensando poi che poteva essere un atto d'orgoglio, e che infine quel denaro era un ricordo del suo padrone, benedicendone la memoria, baciò l'involto e se lo pose in seno. Infatti non le fu inutile, poichè la povera vecchia pel dolore delle passate avversità e per la sforzo che aveva fatto nel sostenerle, fu assalita da una sfinimento straordinario, non potè più lavorare, e si allettò. La sua compagna faceva di tutto per bene assisterla; il giovine contadino alla sfuggita la visitava frequentemente, si prendeva cura che il medico vi andasse ogni giorno, e spesso correva a Firenze per averne le medicine più fresche. Ma l'Umiliana vedendosi assalita dalla febbre e minacciata da una malattia molto lunga, non potè più sopportare che la sua compagna ne avesse tanto disagio, e volle assolutamente farsi condurre allo spedale. Questa dispiacque assai all'altra vecchia ed al suo nipote; ma non vi fu esortazione che valesse a farle mutare proposito.
Erano già due anni che l'Umiliana viveva nello spedale, migliorata, ma sempre debole. Trattavano di mandarla nell'ospizio delle invalide, ed ella era ormai tranquillamente rassegnata a finire la vita in un letto non suo. Nel giorno di Sant'Egidio lo spedale si adorna a festa, e s'apre al pubblico. I parenti e gli amici dei malati vanno allora a far visite od a recare i loro poveri donativi; i curiosi in gran numero accorrono a vedere, a passeggiare per le corsie. Le porte e le finestre tutte spalancate, il trambusto del camminare e del discorrere, la polvere sollevata da tanti piedi, l'indiscretezza degli osservatori oziosi, non poco danno cagionano alla salute e allo spirito dei malati. In detto giorno quel luogo di patimenti par divenuto un convegno di gente folle e spensierata. Accanto al letto di uno che geme per acuti dolori, che sente di dover morire tra poco, si ride e si strepita. E coloro che fra tanta moltitudine non vedono fermarsi al loro letto nè un parente nè un amico, mestamente sopportano gl'indiscreti sguardi della folla che va e viene e s'incalza.
Il vecchio procuratore, al quale l'Umiliana aveva portato il suo vezzo, passando a caso di sulla piazza dello spedale, e vedendovi tanto concorso di gente, ebbe voglia anch'esso d'entrarvi, e pose il piede nella corsia delle donne; ma urtato dalla gente, e indispettito dall'inumano subbuglio, era per uscirne con sollecitudine, quando nel rasentare uno degli ultimi letti videvi una vecchia con una fisonomia che non gli parve ignota. Le stava al capezzale un giovine contadino guardandola in silenzio con aria mesta e rispettosa, e la vecchia, tenendo in lui fissi gli sguardi pieni di dolcezza, pareva cavarne conforto in mezzo al nojoso frastuono.
Soffermatosi alquanto, e studiandosi di raccogliere le sue idee, non tardò a rammentarsi della benefattrice del Salvucci che gli aveva lasciato di sè una profonda impressione. Si accostò subito a lei, e le domandò con buon garbo se lo riconosceva. L'Umiliana, guardandolo bene, non potè nascondere un atto d'ammirazione, esclamando: «Oh! è lei, signor dottore?» Ed egli dal canto suo scuotendo la testa e rovesciate le mani: «Che feci io a darvi retta! Voi allo spedale? E ora non vi pentite della vostra generosità?» — «Oibò, le pare?» soggiunse ella tranquillamente. «A ogni modo sarei malata; e per me nello spedale o in casa è lo stesso. Io non ci pensavo più, ed ora che ci penso, benchè mi trovi in questo stato, tornerei a fare quello che ho fatto.»
Il procuratore non si poteva persuadere della impassibilità della vecchia; proruppe in alcune esclamazioni inarcando le ciglia e restringendosi nelle spalle; e finalmente: «Ma ora» disse con enfasi, «ora poi non mi potrete obbligare al segreto. Oh! sono in dovere di pensarci sul serio. Non è giusto che altri goda la vostra roba, e che voi siate qui a tribolare... No, non è giusto....» ripetè più volte senza badare alle esortazioni dell'Umiliana che si raccomandava perchè tacesse, e considerasse che ormai era vecchia, che preferiva morir tranquilla, che sarebbe stato inutile.... Il procuratore non intese ragione; prese per un braccio il contadino che al suo giungere s'era alzato e moriva di voglia di metter bocca in quello strano colloquio, e trattolo in disparte, fuori dello spedale, incominciò ad interrogarlo sulla vita di quella vecchia che per lui era una persona misteriosa. Il giovine, accorto com'era, benchè non sapesse nulla dell'affare del vezzo e di tante altre buone azioni dell'Umiliana, tuttavia potè somministrargli molte notizie, e ne parlò con uno zelo sì affettuoso, che il procuratore giunse a raccapezzarsi di tutto, e prese la cosa in sul serio.
Andò allora subitamente a ricercare del Salvucci, e gli chiese conto della massaia del morto fratello. Questi sulle prime imbarazzato di tal dimanda, incominciò poi a manifestare il concetto in che la teneva, attribuendo a lei molta parte delle sue disgrazie, mostrando insomma tutta l'avversione che gli svegliava la sua memoria. Figurati se il vecchio procuratore rimase sdegnato di quei discorsi! immaginati con quanta eloquenza e con quali evidenti riprove potè disingannare quell'uomo sventurato ed ingiusto! Rammentatogli quindi l'indegno modo col quale fu scacciata l'Umiliana dalla villetta di Fiesole e lo stato lacrimevole in cui si trovava nello spedale, giunse a commoverlo, a farlo pentire della sua mala prevenzione e dei suoi falli....
Ma il Salvucci non era più in grado di rimediarvi. L'eredità del fratello era andata in fumo; un nuovo e più irrimediabile fallimento lo aveva ridotto a perdere per sempre la bottega; insomma era di nuovo costretto a far da semplice lavorante nella bottega altrui per campare a fatica la sua famiglia! Le molte sciagure cagionategli dalla sua scapestratezza lo avevano corretto, ma troppo tardi. Tormentato dai rimorsi, avvilito dal rossore, faceva compassione. Il procuratore si pentì quasi d'avergli svelato quel segreto, e confortandolo a sostenere pazientemente le conseguenze dei suoi errori, lo lasciò in pace, e lo assicurò che avrebbe trovato modo di togliere l'Umiliana dallo stato miserabile in cui si trovava.
Il buon procuratore, tornato a lei, si pose a spiegarle a poco per volta l'inganno nel quale era stato il Salvucci sul conto suo, il pentimento d'averla per tanto tempo giudicata sì male, il rammarico dell'indegno modo con cui l'aveva trattata, la gratitudine del ricevuto benefizio, e il desiderio ch'ella potesse passare meno male i giorni che le restavano da vivere su questa terra. Per non affliggerla inutilmente, le tacque i nuovi falli e la misera condizione del Salvucci; e tutto quel bene che fece e che prosegue a fare per lei, le lascia credere che derivi dalle premure dello stesso Salvucci. Così la buona Umiliana, oltre al sapere che quello sciagurato e la sua famiglia si sono ritrattati della cattiva opinione in che la tenevano, non ha il dolore di supporre affatto inutili i suoi patimenti e la sua generosità; e, se mai lo avesse desiderato, gode il piacere della gratitudine.
Invece adunque di esser posta tra le invalide, si vide per le premure del procuratore ricondotta a Fiesole in un'altra casetta (poichè la zia del contadino era morta), ed ivi custodita amorevolmente da una famiglia di oneste persone: giunta all'età di novantacinque anni, aspetta in pace l'ultim'ora della lunga e travagliata sua vita. Vero è che non può più lavorare, ha i sensi dell'udito e della vista indeboliti moltissimo, nè da se sola si muove, e chi la vedesse per poco tempo la crederebbe assopita nel letargo della decrepitezza. Ma sovente ella dà indizio di ben conservare la memoria del passato, dimostra un tenero affetto per coloro che l'assistono, e le poche parole che proferisce sono sempre sensate e spesso ripiene di buone massime. — Noi siamo già vicini alla sua casa. Oh! vedi tu? L'Umiliana è seduta presso l'uscio, a godersi il sole, che i vecchi con tanto desiderio ricercano.
Il giovinetto ed il padre suo si soffermarono alquanto in lontananza per contemplarla. Il primo con silenzio rispettoso ne esaminò minutamente tutta la persona. Essa aveva conservato molti capelli che erano di splendida candidezza, e due folte ciocche tirate indietro le ornavano la fronte spaziosa; poche rughe le solcavano la faccia, ove traspariva l'espressione piuttosto del sorriso che della malinconia; gli occhi erano socchiusi, ma dalle ciglia canute traspariva il fulgore della pupilla sempre vivace; uno scialle bianchissimo le chiudeva accuratamente la gola, e nel rimanente del vestiario appariva una scrupolosa lindura. La sua presenza dimostrava insomma una dignità riposata, che moveva a venerazione insieme e ad affetto. E (cara cosa a vedersi) le scherzavano intorno due fanciullini ed un ragazzetto. Questi ripone vasi ora dietro un murello, ora dietro il tronco di un albero o nel fossetto davanti alla siepe. I fanciullini gli si accostavano piano piano, ed appena scortolo rizzarsi e minacciare di rincorrerli, fuggivano essi con acuti gridi e con liete risate a ricoverarsi tra le ginocchia dell'Umiliana, la quale ponendo le mani sul loro capo e sulle loro spalle, mostrava di difenderli dal ragazzo. Quella corrispondenza tra la vecchiaia compiacente e l'infanzia festosa svegliava dolcissima tenerezza. Infine il padre si appressò all'Umiliana, e salutandola per nome: «Eccomi tornato a rivedervi» le disse: «mi riconoscete voi?» — «Gnorsì» rispose, dopo averlo guardato ben bene. «Magari se la conosco!» E della destra si faceva schermo al sole per vedere meglio il giovinetto che le stava davanti. — «E questa volta non son solo» aggiunse il padre. «Ecco qui il mio figliuolo, che anch'egli vuol far conoscenza con voi.» — «Oh! volentieri;» esclamò ella «ma durerà poco. Io presto anderò lassù,» e additava il camposanto sul declive della collina. — «Io spero che ci potrete rivedere più volte» seguitò il padre «e che voi non gli negherete qualcuno dei vostri buoni consigli. Ecco qui, egli è vicino a entrare nel mondo, ed io sto in pensiero per lui.» La vecchia scotendo la testa! «Io consigli?» diceva «non posso darne davvero: ma questo» e toccava il cuore del giovinetto, «questo li dà i buoni consigli a chi lo vuole ascoltare:» — «Voi sapete quanti cattivi si trovano. Quello che io temo è il loro esempio pernicioso.» — «I cattivi!... io già non posso dire che siano tanti; ma i cattivi stanno da sè, quando non trovano chi li somigli.» — «Ma non sempre si discuoprono. Qualche volta l'ipocrisia....» — «Ho udito dire che chi fa e chi pensa il bene non rimane ingannato dalle apparenze.» Dopo alcune altre poche parole, il padre ed il giovinetto si congedarono dall'Umiliana, e questi commosso le voleva baciar la mano, ma l'Umiliana se le nascose ambedue sotto il grembiule e abbassò il capo sul petto. I fanciulli che al loro arrivo s'erano allontanati, vennero fuori a guardar dietro come estatici, finchè la voltata della strada non li nascose ai loro sguardi.
Il giovinetto dopo quel racconto e dopo quella visita si sentì più affezionato ai suoi simili, e ne ricavò qualche buona norma per meglio giudicare degli uomini.
XIII. Il primo viaggio d'un Giovinetto.
Un valente Capitano di marina, che è morto non è gran tempo, lasciò alcuni scartafacci contenenti la narrazione di varie avventure della sua adolescenza, e gli indirizzò ai suoi cari nipotini: «Io non vi lascio ricchezze, dice il buon vecchio; voi sapete che quelle che mi furono date dall'industria e dal mare, il mare stesso me le ritolse; ma non potè privarmi con esse della buona riputazione, la quale non è soggetta a perire se non per colpa di chi non sa custodirsela. Perciò mi è riuscito di sopportare con pace quella disgrazia; e la ricompensa dei servigi, che, adempiendo al dovere di cittadino, ho potuto fare alla mia patria, è stata bastante a salvarmi dalla povertà fino all'ultimo giorno della mia vecchiaja. Abbiatevi dunque per solo retaggio del vostro zio la sua onorata memoria, i suoi libri, le sue carte geografiche, le sue armi adoperate sempre in difesa dei suoi concittadini, e questi ricordi dai quali vedrete che anche un fanciullo, benchè povero e colpito dalle disgrazie, può sostenersi in mezzo ai pericoli e porgere qualche aiuto ai genitori, quando ha per alimento al suo coraggio l'amore verso di essi, l'amor della patria, e il desiderio d'essere virtuoso. Queste parole sarebbero al certo piene di vanità nella bocca di un vivo; ma furono scritte soltanto perchè voi le leggeste quando il mio corpo sarà celato per sempre dalla terra alla vista degli uomini, e il mio nome sarà cancellato dalla loro memoria.»
Cagioni del viaggio.
Io son nato a Montalto nella Maremma degli Stati romani. Ma i miei genitori erano di Firenze. Mio padre dovè abbandonare questa città per motivi che certamente non gli facevano vergogna; li tacerò nondimeno, perchè troppo lungo sarebbe l'accennarli, e ad ogni modo voi non ci capireste nulla. Egli era negoziante, e quell'esilio dalla città nativa fu la ruina della sua industria mercantile. Siccome operò sempre da uomo onesto, così volle, prima della partenza, pagare i suoi debiti, ma non gli riuscì di riscuotere con la stessa prontezza i suoi crediti, e gli rimase poco denaro da portar seco. Mia madre, che erasi a lui sposata da poco tempo, non volle separarsi dal suo caro marito, benchè i parenti la esortassero a tornare nella casa paterna, e ad abbandonarlo nella disgrazia. Io vedo che pur troppo molti sono tra gli uomini quelli che operano come se avessero cattivo cuore; ma ho sempre creduto, e anche da vecchio proseguo a credere con fondamento, che quelli di buon cuore siano in maggior numero; e tuttora mi pare impossibile che i parenti di mia madre le avessero dato proprio con riflessione quel consiglio inumano. Bisogna dire ch'e' non l'avessero conosciuta come l'ho conosciuta io, ch'e' non credessero al suo amore pel marito, o che il loro affetto per lei gli avesse accecati a segno di scordarsi che era divenuta moglie d'un giovine degno in tutto del suo amore. Fatto sta che ella preferì alle agiatezze, che potea ritrovare se fosse rimasta coi parenti, la povertà e l'esilio in compagnia dell'infelice marito; e allora coloro se ne sdegnarono, e negaronle ogni assistenza. Vedete un po' che pensare da insensati! — Giacchè, dicevano, tu vuoi, contro la nostra volontà, dividere la sorte di un disgraziato, noi non vogliamo saper più nulla dei fatti tuoi: se tu sarai anche più infelice, non ce ne importa. — Così, per conseguenza di un falso e spietato ragionamento, quell'azione virtuosa che essi non sapevano approvare, doveva essere piuttosto punita che ricompensata!
Mia madre mi partorì dunque nell'esilio, e in quel remoto e povero castello di Montalto, ove mio padre aveva trovato rifugio, ed ove, industriandosi anche lì con la mercatura, sapeva alla meglio provvedere al nostro campamento. Io era pervenuto all'età di dodici anni; mio padre m'aveva istruito da sè nel leggere, nello scrivere, nell'abbaco e nel disegno, e mi faceva imparare l'arte del tornitore, nella quale si era molto impratichito da giovine ma per semplice passatempo. Io però doveva impararla per trarne guadagno ed ajutare i miei genitori, e o fosse questo pensiero o una inclinazione particolare a tale arte, io divenni presto abile, e già qualche mio lavoruccio andava in opera, essendomi posto come lavorante apprendista nella bottega dello stipettaio del paese. Il nostro stato era divenuto a poco a poco meno misero, quando mio padre fu colto dalle febbri perniciose che predominano nella Maremma, e lo travagliarono con tanta nerezza, che nè l'assistenza indefessa di mia madre nè quella del medico poterono salvarlo. In poco tempo io restai orfano di padre; la nostra desolazione fu estrema, e poco mancò che mia madre, per l'acerbo dolore e per gli strapazzi, non andasse con lui nel sepolcro. Forse l'affetto materno le diede la forza di sopravvivere a tanta sciagura. Appena che si fu un poco rimessa, volle venir via da Montalto, ove niuna ragione aveva per rimanere, ma invece molte per andarsene.
Temeva che io potessi venire assalito dalla stessa malattia di mio padre, ed io aveva il medesimo timore per lei: e quando avessimo consumato ogni nostro avere, già nella massima parte diminuito dalle spese di quella infermità che fu per noi sì funesta, come avremmo noi fatto a campare? Il mio guadagno era meschino, nè in quel paese sarebbe stato possibile cavarne di più dall'arte del tornitore; inoltre sperava che tornando vedova a casa sua, i parenti l'avrebbero, com'era lor dovere, soccorsa. Dunque ci preparammo a lasciare Montalto innanzi che venissero a mancarci anco i denari pel viaggio, e i preparativi furono prestamente fatti.
Un rozzo barroccio, forse migliore che si potesse noleggiare nel paese, doveva condurci in una giornata di viaggio a Orbetello nella Toscana. Con un buon calesse ci saremmo andati in cinque o sei ore, ma noi non potevamo spendere che pel baroccio. In Orbetello mia madre si sarebbe riposata un giorno o due per andar poi a Grosseto.
Voi potete immaginarvi quanto fosse dolorosa la nostra partenza. Le ossa dello sventurato mio padre rimanevano nel cimitero di Montalto, nella terra dell'esilio! La povertà ci aveva impedito d'onorarle, come i ricchi far sogliono, e di mandarle a seppellire nel paese nativo. Non bastò che io suggerissi al vetturale di prendere una strada traversa, perchè mia madre non avesse a passare in tanta vicinanza del campo santo. Appena che fu salita nel baroccio incominciò a lacrimare occultamente; e più che si allontanava dal paese, più la sua afflizione cresceva. Nemmeno io potei alla fine reprimere il pianto, io che mi era proposto di confortarla. Deserto, incolto, squallido e insalubre era, ed è sempre, ma in quel tempo assai più che ora, il paese da noi percorso; e nulla mai s'incontrava che potesse con gradevole veduta distrarci alcun poco dal nostro dolore. Pareva che la natura medesima si rattristasse con noi. Eravamo di settembre: le nebbie coprivano la vasta pianura, e i pochi alberi che s'incontravano di rado, erano già nudi delle loro foglie. Il barocciaio colle sue cantilene che parevano ululati, non ci ricreava dicerto. Per molte miglia non trovammo nè case nè terre coltivate, ma solo due o tre capanne in sfacelo, dove, se la pioggia ci avesse sorpresi, non avremmo potuto trovare alcun ricovero. La pioggia non venne, ma fummo molestati dall'umido diaccio della nebbia che il sole non potè dissipare prima del mezzodì. Mia madre di quando in quando era assalita da brividi violenti, e io temeva molto per la sua debole salute.
Allorchè qualche raggio di sole ebbe incominciato a risplendere, noi dovemmo perderne la vista e il calore per entrare in una boscaglia folta, vasta, solitaria, più malinconica assai della campagna aperta. Allora il barocciaio sferzò il cavallo per farlo andare più lesto, poichè, quantunque non lo dicesse, io ben m'accorsi che v'era da temere qualche sinistro incontro: e il moto più rapido del baroccio sopra una strada ineguale e fangosa riusciva maggiormente incomodo alla mia povera madre. Ma come fare? bisognava sollecitarsi perchè l'oscurità della sera non ci sorprendesse nel folto della macchia.
Eravamo appunto nella boscaglia, allorchè voltando in un luogo ove la strada fa gomito, ci trovammo incontro, alla distanza di pochi passi, una frotta di gente che se ne veniva a piedi e silenziosa. Sulle prime rimasi un po' sconcertato, essendomi parso di vedervi due uomini col fucile sopra la spalla, e domandai subito sotto voce al barocciaio: Chi sono? — Una famiglia di tribolati vagabondi, — mi rispose con aspetto accigliato; e guardò subito la legatura dei fagotti, inalberò la frusta, e tirò da un lato il cavallo. Il modo della risposta e tutte queste cautele mi fecero specie; ma poi, guardando meglio, mi accorsi che gli uomini invece di fucile avevano bastoni con un fardelletto infilato, e che le altre persone erano due donne con bambini in collo e per la mano; e tutta questa povera gente era cenciosa, sparuta, col viso giallo, rifinita dalla stanchezza, sicchè più che paura svegliava compassione. Le donne e i bambini vennero attorno a chiederci con supplichevoli grida un po' d'elemosina, e gli uomini passarono oltre a capo basso senza fiatare. Noi avevamo portato un grosso pane, un boccone di carne e una fiaschetta di vino per ristorarci a mezza strada. Ma l'appetito mancava affatto a mia madre; io aveva appena spelluzzicato il pane, e il barocciaio s'era provvisto di suo. Sicchè io, col consenso della mamma, diedi a quelle donne quasi tutto il pane e tutta la carne, e vuotai il vino in una delle loro scodellette di legno. Esse ci lasciarono con mille benedizioni, e volgendomi vidi che corsero a portare il vino agli uomini e spezzarono il pane ai figliuoli che subito si posero a divorarlo come se fossero stati digiuni da due giorni. Mentre io, confrontando col nostro stato la miseria di quegli accattoni, rifletteva che pur troppo non si danno sciagure, comunque grandi, che non possano essere sempre superate da maggiori disgrazie, udii che il barocciaio brontolava tra sè e sè guardandosi sospettoso ai lati e alle spalle: — Andatevene chiotti quanto volete, ma io vi conosco. Se non si fosse di giorno e vicini all'aperto, non vi sareste contentati del pane. Animo! — e sferzava il povero cavallo già stanco, — noi l'abbiamo scampata bella! Un'altra mezz'ora di viaggio, e poi me la rido di tutti i malandrini che infestano questo maledetto paese! —
Io non so esprimere quanto crescesse la mia mestizia a pensare che sotto le spoglie di così luttuosa miseria potesse occultarsi la malvagità, e che quegli accattoni così umili potessero a tempo e luogo presentarsi in aspetto di masnadieri. La compassione cede il luogo al ribrezzo, e andava cercando con l'animo contristato da cupi pensieri quali sciagurati avvenimenti potessero aver ridotto coloro in così lacrimevole condizione. Che ciò dipendesse dalla sola povertà io non poteva darmene pace; forse l'ineducazione, l'ignoranza, il cattivo esempio che i figliuoli ricevono dai genitori bighelloni.... Ed allora.... ah! l'acerbo destino di quegl'innocenti ch'io vedeva camminare a stento aggrappati alle gonnelle, o ciondolare sonnacchiosi la testolina sul seno delle loro madri, mi fece rabbrividire assai più che la brezza gelata della sera avvicinantesi al tramonto.
Io avrei interrogato il barocciaio per sapere se propriamente quel ch'egli aveva detto fra' denti era vero, o non piuttosto una delle solite esagerazioni della paura.... Ma non volli che le sue risposte avessero a cagionare maggior malinconia a mia madre, la quale sebbene mi paresse addormentata, e anche per questo io me ne stava in silenzio, pure poteva darsi che si covasse in segreto il suo dolore e i patimenti di quel disastroso viaggio. No, io non credeva possibile il suo dormire a quelle continue scosse del baroccio. Infatti, me lo disse molto tempo dopo, ella taceva, non si lamentava, non sospirava per non affliggermi; ma soffriva di molto, ed erale già entrato addosso quel male che poi la costrinse a fermarsi più giorni in Orbetello.
Mezz'ora dopo l'incontro degli accattoni, come il barocciaio aveva detto, noi uscimmo dalla macchia; e quando fummo in capo a un'erta mi si piegò a un tratto dalla sinistra l'immensa veduta del mare, e il sublime spettacolo del sole che s'ascondeva dietro l'orizzonte delle acque dipingendo a colori di fuoco le nubi. Io mi sentii subito sollevato, e non potei trattenermi dall'esclamare: «Oh bello!» Anche mia madre guardò, e mi parve alquanto rasserenata; ma dopo un poco, tornando a sdraiarsi, con un sospiro disse: «Ti ricordi tu, eh? Anche tuo padre si rallegrava tutto alla vista dei bei tramonti. Ah! per lui il sole non si leva più, nè più tramonta!» Che mestizia in quelle parole e nel mio animo! Pel rimanente del viaggio io e mia madre restammo tutti muti, e le lacrime scorrevano sopra le nostre gote. Arrivammo a Orbetello un'ora dopo il tramonto, e ci fermammo ad un albergo; credo anzi al solo albergo che allora si trovasse in quella città singolare.
In Orbetello.
La frasca inalberata per insegna d'osteria a quell'albergo era molto lunga e ramosa, e trovammo l'uscio spalancato, ma niuno si fece vivo alla nostra venuta. Non bastò che il barocciaio facesse schioccare la frusta, e chiamasse ad alta voce: Oste! Matteo! Teresa! e prorompesse in bestemmie e in ingiurie, perchè gli premeva anco di riporre subito nella stalla il cavallo stracco e sudato. Io smontai dal baroccio, salii due scale sudice, buie e sconquassate, girai due o tre stanze che parevano porcili; chiamai, e sempre invano; giunsi in una cucina che aveva il focolare spento, e quivi trovai due bambini sudici e sdraiati per terra, i quali al mio comparire mi guardarono maravigliati, poi si diedero carponi a fuggire, strepitando come se avessero visto il lupo. Scesi giù sconfortato, con la intenzione di farci condurre altrove; ma appunto allora comparve l'oste, così almeno lo chiamò il barocciaio, benchè a me paresse ciabattino, avendo egli il grembiule di pelle e le mani impeciate.... Era oste e ciabattino nel tempo stesso; e si preparava a dar di braccio a mia madre per farla scendere dal baroccio. Io gli domandai se avesse avuto una buona camera e un buon letto, e se fosse stato possibile preparar subito una zuppa, un cordiale.... A tutte le quali domande l'oste-ciabattino rispose con tanta prontezza che pareva fossimo capitati in un palazzo principesco e nel paese dell'abbondanza. Dunque, dissi tra me, io aveva sbagliato scale. Ma sventuratamente, poichè mia madre con molto patire fu scesa da quel baroccio, e appoggiandosi a me ebbe messo in casa i piedi vacillanti, l'oste-ciabattino c'invitò a salire quelle medesime scale, c'introdusse in quelle medesime stanze, e ci mostrò la miglior camera che, secondo lui, fosse in tutto il paese, ed in cui, per ultimo, non so qual principessa, a dir suo, aveva alloggiato più settimane. Mia madre, poveretta, non aveva fiato di parlare; Matteo ci lasciò soli per correre in cerca della moglie e farle accendere il fuoco; io dovei esaminare ben bene tutte le scranne nella camera, prima di trovarne una su cui mia madre avesse potuto sedersi senza rischio di cadere per terra. Tutto il suo corpo era indolenzito dalle scosse del duro baroccio; aveva la voce fioca e tremula, il viso pallido, e le mani le scottavano. Avrei voluto che si stendesse sul letto; ma vidi bene che per quanto anch'ella ne sentisse il bisogno, pure vi repugnava con ragione, perchè il sozzume e il puzzo di quel canile non erano da comportare.
Passò quasi mezz'ora senza che altri comparisse; e in quel tempo mia madre peggiorò a segno che giudicai fosse necessario mandare in cerca del medico; e appena che l'oste fu tornato col lume ad annunziarci che l'ostessa sua moglie era in cucina per mettere al fuoco la pentola, io lo condussi in disparte e lo pregai di correre immediatamente pel medico. Intanto andai in cucina; vidi l'ostessa in faccende attorno al focolare; mi parve una buona donna, un po' meno sudicia del marito, ma assai impicciata. Allora le diedi mano io perchè assettasse uno scaldaletto, e preparasse l'occorrente pei panni caldi e per mettere a sfumare le lenzuola. Tornai da mia madre, e la trovai sempre in peggiore stato. Non istò a dirvi quanta fosse la mia afflizione. In quel tempo il barocciaio portava su i nostri fagotti; e mi disse che un signore del paese, avendo saputo da lui il nostro casato, e dicendo d'essere stato amico di mio padre, chiedeva di visitare la mamma.
Mentre che io andava pensando se convenisse farle ricevere questa visita a motivo dello stato in cui era, il signor Damiano entrò francamente in camera, si diresse a mia madre che voleva alzarsi per riverirlo, e impedendole di far cerimonie le disse con garbatezza: «Scusi se mi son fatto avanti: ma io non posso permettere che venendo lei a Orbetello s'abbia a fermare a un albergo. Ho ricevuto più volte ospitalità in casa sua, e non foss'altro per ricambio, ella deve ora accettarla da me. Vetturino, portate subito la roba della signora in casa mia, e dite al mio figliuolo che attacchi il calesse coperto e venga qui. È vero, siamo vicini; Orbetello non è Firenze; ma lei dev'essere stracca, e bisogna coprirsi bene perchè è notte; con quest'aria non si scherza.»
La cortesia e la risolutezza del signor Damiano non ammettevano replica. È vero quel ch'egli aveva detto, d'essere stato più volte in casa nostra, ed io sono persuaso che anche senza questo e' ci avrebbe voluto ospitare. Nella provincia, e in specie nella Maremma, dove n'è maggiore il bisogno, questi uffici scambievoli sono comuni. Ecco perchè, io rifletteva, gli alberghi son così rari e meschini, e servono soltanto a quella povera gente che non ha conoscenze nel paese, e a qualche principessa, come quella citata dall'oste-ciabattino, perchè a motivo della gran distanza tra personaggi titolati e semplici provinciali, si trovano questi in tal soggezione da non arrischiarsi ad offerire ad essi i loro servigi.
L'oste rimase un poco impermalito allorchè, tornando a dirmi che il medico non poteva venir subito, si accorse dalla sola presenza del signor Damiano che noi non avremmo più avuto bisogno del suo magnifico albergo; e a dir vero anch'io rimasi afflitto per lui, ma più assai per l'indugio del medico. Il disappunto dell'oste potè essere, almeno in parte, rimediato facilmente col pagargli, come feci, l'alloggio di un giorno e il costo di quella cena che egli mi disse d'averci provvista e quasimente allestita. Quanto al medico io mi feci animo a dire al signor Damiano, dopo che la mamma fu salita nel suo calesse e mentre noi la seguivamo a piedi: «Io mi approfitterò della sua bontà verso di noi per dirle che la mia povera madre ha bisogno più che altro di un medico.» — «Pareva anche a me che la soffrisse più di quello che non mi sarei immaginato, e perciò ho voluto che il mio figliuolo venisse a prenderla col calesse. Ora subito, lasci fare, vado io....» — «L'ho già mandato a chiamar per l'oste; ma dice che ora non può....» — «Eh! che discorsi! non risponderà così a me. Vada col calesse, e non dubiti.» — Ciò detto s'incamminò sollecitamente per una stradella traversa; e, non senza mia sorpresa, quando fummo arrivati alla sua abitazione (il cavallo andava di passo ed era costretto a serpeggiare a motivo delle buche profonde e frequenti in quella strada che pareva il letto d'un torrente) io lo vidi raggiungerci in compagnia d'un'altra persona; e al gesto ch'ei mi fece quando ci riunimmo per dar di braccio a mia madre, potei capire che il suo compagno era il medico. Seppi di poi, ma per caso, che quel signor dottore, buona persona quanto al resto, era tanto viziato nel giuoco della tavola-reale, che spesso per non lasciare a mezzo la partita non rispondeva alle chiamate dei malati con quella sollecitudine che il suo dovere avrebbe voluto. Se per altro l'invito gli veniva da un benestante e non da un povero, allora lasciava subito il giuoco ancorchè fosse in vincita.... E qui sta il peggio; perchè tanto il povero che il ricco devono essere soccorsi con la stessa prontezza.
Scesero ad incontrarci la moglie del signor Damiano con due fanciulle, che erano le sue figliuole, e una donna che le precedeva col lume; e fummo accolti da quella buona famiglia come se fossimo stati propriamente di casa. Per lo che io mi sentii cotanto sollevato da dimenticare quasi affatto i disagi del viaggio.
Anche mia madre parve un poco riavuta; ma era uno sforzo, poveretta, uno sforzo ch'ella faceva per corrispondere alle amorevolezze dei nostri ospiti. Ma il signor Damiano procurò accortamente che le prime accoglienze fossero brevi.
Fummo condotti dalla sua moglie nella camera destinata a mia madre; e nel tempo che la donna di servizio preparava il letto, il medico venne a fare la sua visita. Dopo l'esame de' polsi giudicò che mia madre avesse la febbre. A questa parola per noi così tremenda, io mi turbai subito, e non potei reprimere un sospiro doloroso: ma il medico, il quale si accorse di tutto, soggiunse subito: «Badiamo, non trovo indizi di febbre pericolosa; questa mi pare semplice alterazione momentanea, cagionata da debolezza e dallo strapazzo del viaggio.... Il letto caldo, i senapismi, qualche ristorativo leggiero la faranno migliorar presto. Al più al più io dubiterei d'una costipazione che il riguardo scioglierà facilmente. La signora deve stare di buon animo e riposarsi: il riposo, il riposo farà meglio di tutto. Qui ella è come in casa sua. Noialtri maremmani, lo sa, formiamo tutti una famiglia. Dunque entri in letto, beva qualche sudorifero, e più tardi, se sarà sveglia, tornerò a visitarla; se no, domattina; e poi, a qualunque ora, son qui vicino ai suoi comandi.»
Se io dovessi narrarvi tutte le attenzioni che fin d'allora furono fatte a mia madre dall'egregia famiglia del signor Damiano e dal medico, scriverei un capitolo sterminato. Vollero che io mi refocillassi cenando alla loro tavola, e inghiottii qualche boccone più per compiacenza che per bisogno che ne sentissi. Mi destinarono una cameretta accanto a quella di mia madre; e la moglie del signor Damiano s'accingeva a vegliare nella stanza contigua per farle da infermiera.
Non dirò che questo fosse troppo quanto alla padrona di casa, perchè mia madre nella medesima congiuntura avrebbe fatto lo stesso; ma io conobbi bene che la ne sarebbe rimasta mortificata e fors'anche impensierita, dubitando che il suo male fosse maggiore di quello che il medico aveva detto. Dunque io posi arditamente in campo questa ragione, e la signora Beatrice ne restò persuasa; e quando fu fatto tutto ciò che il medico aveva ordinato e parve che la mamma incominciasse a chiudere gli occhi al sonno, io rimasi solo con lei, dopo aver dovuto promettere peraltro di chiamare pel più leggiero motivo.
— E va' a riposarti anche tu, mi disse allora la mamma. Io non ho bisogno d'altro, sto meglio; anche tu sei stracco, hai sofferto. Approfittiamoci del soccorso di questi buoni amici, mandatoci proprio dalla Provvidenza. Ah! che cosa sarebbe se io mi ammalassi!
— No, mamma, non sarà nulla. Questa non è malattia. Un poco di ritardo nel viaggio; ci vorrà pazienza.
— Ma fuori di casa!... Oh! Giulio, tu sei la mia consolazione! ma infelice così presto! Ramingo in così tenera età! Io non posso far nulla per te.... — E con queste ed altre parole di grande afflizione si sfogava ad abbracciarmi e a baciarmi, bagnandomi il volto con le sue lacrime. Io come meglio potei, mi diedi a confortarla e a mostrarmi pieno di coraggio e di buone speranze. Di queste peraltro non ne avevo alcuna, e del coraggio ben poco; ma le mie parole qualche effetto produssero per calmarla; e poi conobbi, e in seguito ebbi occasione di convincermene, che a forza di figurarsi d'averne, il coraggio viene e va crescendo a proporzione del bisogno. La temerità è pregiudicevole, ma una certa fiducia nelle nostre forze ci vuole, e giova molto.
Quel libero sfogo al dolore fece sì che mia madre potesse infine addormentarsi; ed io piano piano mi collocai a sedere sopra una poltrona a piè del letto, standomi celato dietro le cortine e sforzandomi a respingere il sonno. E questa invero fu impresa difficile più che non mi sarei aspettato. Non avevo mai fatto nottate, ero stracco, indolenzito anch'io dal baroccio: dopo due ore di resistenza penosa m'incominciò a dolere il capo e a venire freddo. Nondimeno, a costo di qualunque patimento, io la vinsi, e non chiusi mai gli occhi. Per buona sorte fu inutile quanto alla mamma, perchè dormì bene per tre o quatr'ore, e nel rimanente della nottata non ebbe bisogno d'assistenza. Quanto a me poi, essendomi posto a pensare, ora seduto ora in piedi, a' casi nostri, che è il migliore espediente per vincere il sonno, ricavai dalla veglia molto vantaggio; e quella lunga meditazione mi premunì forse contro qualche futura inconsideratezza giovanile.
Benchè la mamma non fosse gravemente malata, pure il medico annunziò che la guarigione sarebbe stata assai lenta, e non volle udir parlare di viaggio. Quello già fatto, comunque breve, l'aveva posta in un gran rischio, e le forze per continuarlo, secondo lui, non le potevano ritornare che tra un mese. Quest'indugio accorava mia madre; ma il signor Damiano trovò nuovi argomenti e invigorì quelli del medico per esortarla a sospenderlo quanto occorreva e per mettere un po' in quiete il suo animo.
Il signor Damiano era stato amico di mio padre, e ben conosceva il nostro stato. Offerse dunque la sua intromissione. Come non poteva ella essere accettata? Fu deciso intanto di scrivere a Firenze ai parenti della mamma; ma a due o tre lettere scritte da lei medesima non giunse risposta. Allora il signor Damiano chiese notizie ad un suo amico, e da questo potemmo ricavare che appunto in quei giorni era morta una vecchia zia di mia madre. Questa donna le aveva sempre voluto bene, ed era stata sola a non disapprovare la partenza della nipote in compagnia del marito sventurato. Essa era piuttosto facoltosa, e mia madre avrebbe avuto diritto a ereditare una parte dei suoi averi. Ecco dunque una forte ragione per sollecitare il nostro viaggio; ma non conveniva mettere a repentaglio la salute di mia madre.
Mentre essa e il signor Damiano andavano ricercando quale fosse il miglior partito da prendere, mi venne la ispirazione di metter bocca, dicendo: «Se andassi io a Firenze potrei far nulla di buono?» — «Anzi, disse subito il signor Damiano, Giulio è franco, è avveduto, io credo che sarebbe capacissimo; lo raccomanderei a questo mio amico.... senz'altro mi sembra cosa fattibile....» Io guardava mia madre; e vidi subito che in lei combattevano, com'era naturale, due opposti pensieri: il desiderio di darmi un segno di fiducia col permettere che io ponessi a prova in questo frangente la mia capacità, e il dolore di doverci separare per molti giorni e di vedermi esposto così solo e giovinetto ai rischi d'un lungo viaggio. L'affetto e la trepidanza di una tenera madre prevalsero in principio a tutte le riflessioni; ma poi si lasciarono vincere dalla speranza che questo tentativo potesse in conclusione essere più utile a me che a lei, col somministrarmi gli aiuti dei quali io avevo bisogno. Essa non manifestò chiaramente questo pensiero, ma io lo lessi nel suo animo e nei suoi sguardi. Fu stabilito dunque che io mi sarei incamminato quanto prima per Firenze; e il signor Damiano prese sopra di sè ogni cura perchè la mia gita avesse buon esito.
La mamma peraltro non seppe che io dovevo andarvi per mare; il suo timore si sarebbe troppo accresciuto. Il signor Damiano, che sapeva essere nel porto S. Stefano una nave preparata a portare un carico di legname da costruzione a Livorno, giudicò che per quella via mi sarei potuto sollecitare maggiormente; ed essendo egli amico del capitano, mi dava così un compagno fidato fino a Livorno.
Innanzi di narrarvi la mia prima spedizione marittima, concedete che un viaggiatore in erba vi parli alquanto del luogo dov'ei si trovava quando fu preso il partito per lui memorabile d'esporlo a un viaggio di più che cento miglia sul mare.
Orbetello è una piccola città che risiede in mezzo a uno stagno marino. Lo stagno è chiuso da due anguste lingue di terra che si prolungano in mare e si congiungono al Monte Argentario; il quale senza di esse sarebbe isola; ma essendo così riunito alla terraferma, si può chiamare piuttosto penisola o promontorio. Una terza lingua si parte dalla terraferma tramezzo alle due laterali, ma non si prolunga fino all'Argentario; e sulla sua estremità è fabbricata Orbetello[30].
Lo stagno è salso e poco profondo, e vi si fa abbondante pesca d'anguille e di muggini. Orbetello è anche fortezza; e le sue mura antichissime sono dei tempi dei popoli Etruschi, composte d'enormi pietre commesse senza cemento. Il clima è dei meno insalubri del territorio maremmano, e la sua temperatura è mite a segno che vi nascono e molto si propagano alcune piante crasse dei caldi paesi affricani, come l'agave e l'aloe; gradevole è vederle mescolate ai pini e far da siepe agli orticelli.
Una mattina, prima della mia partenza, il figliuolo del signor Damiano volle condurmi a visitare il Monte Argentario, di sulla cima del quale si scorge una magnifica veduta di mare con le isolette di Giannutri, del Giglio, di Montecristo, della Pianosa e l'isola dell'Elba ch'è la maggiore dell'Arcipelago toscano. Il monte è vestito di macchie; si trovano alle sue falde alcune grotte spaziose piene di bellissime stallattiti. Scendendo alla costa si trova tra il mezzodì e il levante l'antico porto denominato Port'Ercole, che è quasi affatto in abbandono da lungo tempo, perchè inservibile alle grosse navi a motivo dei suoi interramenti. Nel lato opposto rivolto a settentrione è Porto S. Stefano; e questo nella sua piccolezza giova a quel po' di commercio che gli abitanti fanno; è frequentato da molte barche, ed ha buoni marinari. Per me che venivo da Montalto, povero e squallido paese, e che non avevo veduto altri luoghi, questi dei quali vi parlo avevano già molte attrattive; ma non sono da mettersi in confronto con le terre più popolose e più coltivate, e con le coste marittime dove ha principal sede il commercio. Se ne eccettuate la selvatica bellezza, che più non si può ritrovare in vicinanza delle grandi città, nè laddove l'industria instancabile dell'uomo toglie il naturale aspetto a tutte le cose e in mille modi le trasforma, quei paesi sono malinconici, perchè fa compassione vedervi pochi abitanti, per lo più poveri e malati e sudici e pieni d'ignoranza e di pregiudizi; casucce in rovina; terre incolte; uomini indolenti come se fossero scoraggiti; è penuria insomma di tutto ciò che si trova in un popolo quando è prosperante e incivilito. Poche sono le famiglie, che, come quella del signor Damiano, mostrano agiatezza, educazione, operosità e qualche cultura d'intelletto. Da queste alle altre passa una differenza sproporzionata, come se fossero poche piante rigogliose sparse qua e là in un campo di triboli arsi dal sole o di cespugli marciti sul margine di putride pozze. Io non potevo fare allora le riflessioni di chi ha esperienza degli ordinamenti sociali; ma ben mi rammento che mi fece molta specie vedere, soprattutto in Orbetello e nei pochi villaggi circonvicini, i fanciulli e i ragazzi starsene tutto il giorno strasciconi per le strade, giuocare, abbaruffarsi; e poi sentir fare le maraviglie allorchè domandai se vi erano scuole. Ho veduto molti altri luoghi più remoti e in apparenza più sterili di quelli, ove per altro la popolazione è meno miserabile, meno oziosa, meno sofferente. E perchè? in grazia dell'amore al lavoro, dell'industria e dell'istruzione procacciata ai ragazzi e nella scuola e nelle officine. A queste cose non può provvedere il povero da se stesso, ma ci pensano i benestanti, quelli che amministrano il patrimonio del Comune, essendo tra i loro principali doveri quello di soccorrere la popolazione, affinchè possa educarsi, istruirsi, e prosperare con l'industria. Mi parve adunque che i benestanti e i magistrati della Comunità d'Orbetello abbandonassero addirittura tutto il rimanente della popolazione alla sua ignoranza e alla sua miseria, come se quei meschini non fossero stati loro fratelli, come se migliorando la loro condizione non ne fosse poi venuto molto vantaggio anche ad essi. Ma io parlo di molti anni fa. Ora potrebbe darsi che le cose anche in quel paese andassero meglio, come meglio vanno in alcuni altri luoghi.
Fui condotto a vedere le vestigia dell'antica Ansedonia già città degli Etruschi. Sono sulla costa di terraferma, in cima ad un poggio, presso la più larga di quelle due lingue di terra che rinchiudono lo stagno. Trovansi una parte delle mura quasi sepolte fra la terra e la macchia, e anche quelle sono composte di enormi massi posati l'uno sull'altro; poco più che queste ruine rimane a memoria di un popolo celebre per cultura, floridezza e potenza. Quel popolo è estinto da molti secoli; ma la gente che viveva allora in mezzo a così vantate ruine mi parve moribonda, in uno stato di tanta prostrazione da potersi dire peggiore della morte. Ecco i funesti effetti della schiavitù, della violenza, della depravazione con cui un popolo conquistatore opprime sempre il popolo conquistato. Molte generazioni ne risentono i danni.
Lasciai mia madre molto migliorata; e questa prima separazione fu assai bene sostenuta dal suo coraggio. Mi diede alcuni savi ricordi sul modo di contenermi coi parenti: mostrassi francamente la nostra povertà, che l'esser poveri quando non deriva da imprudenza ma da irrimediabili disgrazie, non fa vergogna; fossi umile e modesto, ma senza bassezza; chiedessi che fossero sostenuti i suoi diritti per ottenere giustizia, ma usando sempre modi amorevoli, non mai ostili; badassi bene insomma di tenere in tutto quella prudenza di cui mi credeva capace: «Tu vai in una gran città, ed è la prima volta! hai pochi anni, poca esperienza.... Affidati dunque nelle persone alle quali il signor Damiano e io ti abbiamo raccomandato. Mentre il tuo amoroso zelo pel mio bene mi dà grande consolazione, io non ti nascondo che questo passo mi pare ardito, che starò in qualche pensiero.... Tu sei ora il mio solo appoggio. Se la molta giovinezza e l'inesperienza non ti concederanno ora d'essermi utile anche in questo, rassegnati: aspetteremo; non precipitiamo nulla oggi per non avere a perdere la possibilità d'ottenere qualche cosa domani. Molti altri pericoli può incontrare un giovinetto quasi libero di sè nella capitale, ma io so che un solo pensiero vi ti conduce, quello di giovare alla tua sventurata madre; sicchè non ho ragione di temerli.» Avrebbe pianto nel dirmi addio, e quando fu rimasta sola avrà pianto dicerto; ma io non vidi le sue lacrime; si studiava di mostrarsi serena. Quell'esempio di forza d'animo accrebbe il mio coraggio.
In Porto San Stefano vidi più gente affaccendata, più gaiezza, meno poveri, qualche casa con la facciata pulita, maggior numero di campi coltivati, alcuni orticelli e giardinetti con abbondanza di fiori e d'aranci; sicchè il luogo è ameno; e al primo giungervi io mi sentii ricreare. Ecco gli effetti d'un po' d'industria e d'un po' di commercio. Erano nel porto parecchie barche arrivate quello stesso giorno da Piombino e da Portoferraio, e alcune si apparecchiavano a partire; molti marinari occupati a scaricar quelle e a caricar queste popolavano la riva del porto e ne solcavano le onde con le barchette. Questo andirivieni, la varietà degli oggetti, e la vista del mare messo in moto da un buon vento di levante, mitigarono la mia mestizia, e mi fecero nascere una grande smania di pormi in viaggio.
Il capitano della nave che doveva condurmi a Livorno era in una bottega sul porto, e compieva le sue faccende con alcuni del paese. Quando vide il signor Damiano corse lietamente a noi, e guardandomi: «È questi, disse, il nostro compagno di viaggio? Va bene! Non è stato mai per mare eh? Avrà paura?» — «Per ora non credo, dissi io.» — «Tanto meglio; staremo allegri. Il vento è propizio. Domani presto, se si mantiene, siamo a Livorno.» — «Quindi parlò d'affari col signor Damiano; il quale gli consegnò alcune lettere e molti denari. Andammo a far colazione in un'altra bottega che era caffè, drogheria e merceria nel tempo stesso; e un'ora dopo, la nostra nave, denominata la Pia, era pronta per far vela. Mi piacque la franca giovialità del capitano; e quand'egli si fu congedato, e m'ebbe preso la mano, dicendo: «Andiamo dunque a far l'altalena fino a domani,» io mi sentii un'improvvisa commozione che non era nè paura nè giubbilo, ma.... io non saprei spiegarla. Mi addolorava un poco il separarmi dal signor Damiano; non vedevo l'ora d'essere sulla nave; lasciando la terra sentivo il distacco di mia madre; affidandomi al mare si risvegliava con tutta la sua forza una certa smania che sempre avevo avuto per le avventure, e che forse era nata dalla lettura della vita di Cristoforo Colombo. E vi confesserò che scendendo nella lancia per andare a bordo della Pia, mi ricordai di quell'illustre italiano e della scoperta dell'America. Non ridete, di grazia, perchè in quella reminiscenza non vi fu alcun sentimento d'amor proprio, nè vi poteva essere nemmeno nella testa d'un fanciullo; io volli soltanto venerare di nuovo il genio di quel grande, e compiangere le sventure che a lui provennero dall'ingratitudine dei potenti, e quelle che impedirono alla nostra patria di soccorrerlo e d'onorarlo com'ei meritava.
Appena che fui salito a bordo della Pia, mi fece meraviglia il cambiamento improvviso dei modi del capitano. Non era più un uomo gioviale; il suo volto non aveva più un sorriso: in quella vece, ordini pronti, severi; sguardi focosi, accigliati; poche parole, ma proferite con tono sonoro, risoluto: pareva burbero, pronto alla collera inesorabile; sei marinari della nave l'obbedivano nell'atto, senza fiatare, e ad ogni sua voce erano tutti all'erta. Io me ne stavo immobile nel posto dove il capitano m'aveva fatto cenno di rimanere. Se non avessi trovato questa osservazione tra i ricordi che scrissi in quel tempo, ora non l'avrei notata davvero; perchè ho dovuto in seguito assuefarmi io stesso a quella austerità di comando senza la quale un capitano non sarebbe o sarebbe male obbedito. Non mi pare d'esser burbero; anzi la giovialità e l'allegria mi piacciono; ma quando mi son trovato a dover capitanare una nave, sono stato costretto ad essere rigoroso. La indiscretezza e la inumanità stanno male in tutti, malissimo in chi deve farla da superiore anche nel governo d'un bastimento; ma la soverchia dolcezza, l'indulgenza, il poco vigore sarebbero difetti molto più pericolosi a bordo che in qualunque altro luogo. Il minimo indugio, la minima negligenza d'un marinaro possono mettere in gran rischio la vita di tutti e le sostanze di chi vive della mercatura. La salvezza dei marinari e dei passeggeri, la sorte delle loro famiglie, il buon andamento dei negozi d'uno o di più mercanti dipendono dal capitano. Quand'uno pensa a tanti gravi doveri e ai molti pericoli in mezzo ai quali si trova, ha bisogno di farsi animo risoluto davvero, e di poter avere molta fiducia nella sua perizia. Tutto ciò contribuisce a dargli quando è in funzione un forte sentimento della propria autorità e a valersene con molto vigore. Io che sognavo viaggi per mare e che avevo la smania d'esser capitano, ammiraglio e che so io, mi raumiliai tutto facendo queste riflessioni in alto mare sopra una piccola nave, non vedendo più altro che cielo e terra, e avvicinandosi le tenebre della notte. Egli è poi necessario che ognuno faccia quelle riflessioni che si riferiscono alla professione alla quale si crede inclinato o si trova destinato, perchè in ogni ufficio il cittadino può fare gravi danni se lo esercita male. Ho udito spesso i giovinetti esclamare: io farò il medico, io l'avvocato, io entrerò nella milizia e diventerò ufiziale, io mi metterò l'abito da prete per cantar messa, per confessare, io sarò pittore, scultore, negoziante, impiegato e via discorrendo; e molti studiando poco, e pensando meno ai doveri del loro stato, si tirano su per ammazzare i malati più presto che non avrebbe fatto la malattia, per imbrogliare le faccende nel tribunale, per essere gravosi alla società invece di difenderla, per fare della religione un mestiero venale e non un ministero dignitoso, per disonorare le belle arti, la mercatura, il servigio del pubblico nell'amministrazione dello Stato, per tradire insomma se medesimi e gli altri.
In minor tempo di quello che ci voleva a pensare e stendere un po' meglio questo lungo periodo, il buon vento che empiva le vele della Pia, facendole velocemente solcare le acque, ci condusse al largo. La nave scorreva tutta piegata dalla parte dove le vele si vedevano far seno al vento; e di quando in quando alzava ed abbassava a guisa d'altalena ora la prua ora la poppa per sormontare i lunghi gioghi dei cavalloni. Quando il capitano ebbe dato tutti i suoi ordini e riscontrato che ogni cosa andava bene, si volse a me con un lampo di quella giovialità che mi aveva mostrato sopra terra, e io volevo movermi per andargli incontro; ma per quanto mi fossi disposto a farla da franco, non potei staccare un passo senza sentirmi uscire d'equilibrio. Allora il capitano sorridendo mi stese la destra, e stringendola forte mi condusse a passeggiare seco; io lo seguivo barcolloni barcolloni badando più ai passi che alle parole; e poi mi dovei presto mettere a sedere perchè mi venne il capogiro, il sudorino freddo, e, per dirla alla buona, la voglia di dar di stomaco. «Ma,» diceva il capitano ponendomi a sedere sopra una matassa di gomena a piè dell'albero maestro, «io son contento; sei stato saldo finora; buon segno. Il mare non ti darà noia; un'altra passeggiatina più tardi, e poi a dormire sotto coperta.»
Mi lasciò lì; fece un fischio; i marinari subito al loro posto; e a forza d'altri fischi, eseguirono nuove manovre, perchè il vento si andava mutando.
Noi avevamo già oltrepassato di qualche miglio quegl'isolotti o scogli che si chiamano le Formiche di Grosseto e che sorgono dirimpetto alla foce dell'Ombrone maremmano. Il sole era vicino al tramonto. Io mi godevo una magnifica veduta; molte nebbie lontane sull'orizzonte si colorivano di porpora, o splendevano come l'argento ai raggi del sole, e la brezza autunnale investendomi di faccia mi rinfrescava e mi invigoriva. Ma dopochè «il ministro maggior della natura» si fu celato ai nostri sguardi oltre la curva della tremula marina, e le nubi che gli facevan corteggio ebbero a poco a poco perduto i loro vivaci colori e quelle fantastiche forme che ora parevano montagne ricoperte di candida neve, ora splendide e immense grotte, ora laghi di luce limpidissima con isolette di smeraldo, incominciò l'oscurità a distendersi dietro a noi, e una nebbia sottilissima e pungente ricoperse la superficie delle acque. La nostra nave aveva rallentato molto il suo corso, perchè il buon vento più non spirava, e le vele ciondolavano inoperose dai loro alberi.
Il capitano si mostrò dolente di questa inaspettata variazione del tempo, e parlando col timoniere gli disse: «Io non vorrei che una calma noiosa ci avesse a far perdere la nottata. Almeno fossimo più vicini al canale (di Piombino)! lì un po' di vento si troverebbe, e tra questo e la corrente in favore potremmo andare innanzi alla meglio. Io vedo che bisognerà aiutarci co' remi.» La Pia era una nave poco più grossa di una paranzella, quasi nuova, costruita bene, eccellente veliera, e al bisogno vi si potevano adattare i remi affinchè non fosse sempre necessario rimorchiarla con la lancia quando il vento mancava. Difatti il capitano ordinò che fossero ammainate le vele, e che i marinari facessero di tutto a forza di remi per entrare presto nel canale. Ma prima lasciò che quella buona gente cenasse, e cavò dal suo bugigattolo un paio di bottiglie di vino generoso per preparare le loro forze a una lunga remata. Quando essi, dopo aver cenato, incominciarono a vogare, il capitano chiamò a mensa anche me, e lì sopra coperta ci levammo l'appetito. Io ne avevo molto, e mi piacque assai quel pasto marinaresco. Quando venne la notte preferii di starmene sopra coperta, poichè appunto m'era proposto di non addormentarmi finchè fossi stato a bordo; tanta era la smania di vedere il mare e tutte le manovre dei marinari. Il capitano non si oppose al mio desiderio; ma perchè non fossi preso dal freddo, mi diede uno dei suoi cappotti, e poi andò a riposarsi.
Trovandomi così rinfagottato mi divenne più difficile resistere al sonno; ma ormai, dopo la nottata che avevo fatto per mia madre in casa del signor Damiano, m'ero avvezzato a domarlo, e v'assicuro io che questa abitudine può riuscire molto vantaggiosa.
Quei poveri marinari vogavano e vogavano; ma la calma era così profonda che la Pia, ad onta della sua riputazione, pareva la più infingarda tra tutte le navi che costeggiavano allora il Mediterraneo. Dopo tre ore di tanta fatica la nostra ciurma era spossata, e il capitano che non aveva potuto chiuder occhio per la stizza di così ostinata mancanza di vento, concesse ai remiganti un po' di riposo, e mandò a dormire anche il piloto prendendo sopra di sè il governo del timone. Allora mi posi a colloquio con lui, e ritrovandolo cortese come m'era sembrato sopra terra, gli feci mille domande sull'arte di navigare, per la quale mi pareva d'avere grandissima vocazione. Egli mi rispose con compiacenza, e da quanto mi ricordo, conosco ora ch'ei doveva possedere molta perizia della nautica. Discorso facendo mi parve di scorgere in lontananza, di mezzo alla nebbia, un oggetto che dirigevasi verso di noi; e siccome la curiosità mi distraeva dal colloquio, anche il capitano si volse e mi domandò che cosa io guardassi con tanta attenzione. Io gli accennai con la mano, ed egli: «Non vedo nulla. Avete voi buona vista?» — «Buonissima, risposi; e con quanti ne ho fatto paragone non ho trovato finora chi l'avesse migliore della mia.» — «Me ne rallegro; buon requisito per un nocchiero. Anch'io l'ebbi eccellente; ma una fiera flussione, l'affaticarla molto, me l'hanno indebolita.» In ciò dire ei guardava con un canocchiale che si trasse di tasca, e poco dopo s'alzò subitamente, chiamò il timoniere al suo posto, svegliò i marinari, diede subito ordine che corressero ai remi. «E vogate a distesa; bisogna entrar nel canale più presto che sia possibile; è vicino; avanti, figliuoli; io credo che ci siano gli Algerini alle spalle, avete capito? Lestezza e silenzio. Viva la Pia!» Avevano già obbedito prontamente; ma alle ultime parole io li vidi accendersi subito d'un ardore incredibile. I remi si movevano rapidissimi, e dopo poche vogate la Pia fendeva le onde come se avesse avuto il vento in poppa. Io a un cenno del capitano mi tirai in disparte. Egli disse allora non so che cosa al timoniere, andò presso i rematori, visitò tutte le corde, le gomene, ogni parte della nave; tanto egli che il timoniere avevano gli occhi continuamente rivolti a quell'oggetto che io avevo scoperto, e m'accorsi che ambedue esaminarono quasi di soppiatto le pistole che avevano ai fianchi sotto il gabbano. Io, potete figurarvi se avevo grande ansietà di sapere che cosa tutto questo significasse; e mi pareva anche d'averne un certo diritto, subitochè se non fossi stato io.... Ma il capitano troncandomi la domanda, mi prese dolcemente pel braccio, e mi condusse sotto coperta, dicendomi:
«Dovete aver sonno, dormite senza alcun timore. La vostra vista penetrante ci ha forse recato un gran servigio. Potrebbe darsi che alcuni corsari ci dassero la caccia; ma se sapessero che questa nave è la Pia, e che gli abbiamo già scoperti, si risparmierebbero la fatica. Volevano approfittarsi della calma e della nebbia per tentare una preda; ma, con altre poche vogate, questa medesima nebbia farà perdere a costoro la nostra traccia.» Mentre egli così parlava era occupato a mettere, in punto alcune carabine ed altre armi che stavano riposte sotto chiave nel suo bugigattolo; sicchè io riflettendo che, sebbene mi dicesse non esservi nulla da temere, nondimeno si apparecchiava alle difese, mi feci animo a dirgli; «E se vi fosse qualche pericolo, credete voi che io sia tanto fanciullo da sgomentarmi? Date una carabina, se c'è d'avanzo, anche a me; io so maneggiarla; mio padre, buon'anima, m'insegnò l'esercizio militare. Se vi fosse bisogno d'un aiuto al remo, eccomi qui; dianzi, col permesso del timoniere, perchè io credevo che voi dormiste, ho aiutato a remare il più vecchio dei vostri marinari, e ora so come va fatto.» — «Va bene, soggiunse sorridendo il capitano, se vi sarà bisogno di voi, io vi prometto di chiamarvi.» A queste parole mi parve d'esser diventato più alto quattro dita e robusto come un leone. Ma intanto, io diceva tra me, si tratta di fuggire. Convengo che non è vergogna fuggire quando sappiamo d'avere alle spalle dei masnadieri; ma le nostre forze sono o non sono superiori alle loro? Se potessimo catturarli noi, e liberarne il mare che infestano con le loro scorrerie, non sarebbe una gloria di più per la Pia, che va tanto fastosa del suo soprannome di snella? non sarebbe un bel servigio per gli altri naviganti? Ed eccomi al solito a fare castelli in aria di avventure, di prodezze; e tanto m'infervoravo in quei sogni, che non mi accorsi della partenza del capitano.
Dopo molto fantasticare mi ricordai di mia madre, a riflettei che se mi fossi ritrovato a mal partito con quegli Algerini ch'io avevo tanta smania d'assalire e di catturare; se avessi dovuto, con tutto il coraggio di Don Chisciotte, andare schiavo in Barberia, senza speranza d'essere riscattato, perchè mia madre era povera, ella sarebbe stata più infelice che mai, e forse un nuovo dolore e così grande l'avrebbe fatta morire. Ma di nuovo la soverchia fidanza nelle mie forze mi seduceva; e quasi avrei accusato d'ingiustizia il capitano, perchè a me, che in sostanza per aver saputo stare sveglio avevo potuto scoprire il nemico, a me si dovesse fare l'oltraggio di costringermi a rimanere acquattato sotto coperta nel tempo del pericolo. Intanto io sentivo che la Pia vogava celermente, come se le forze dei marinari fossero raddoppiate; e non seppi resistere alla tentazione di far capolino sul ponte, e vidi che uno dei rematori più stanchi era al timone, e che il timoniere e il capitano avevano preso anch'essi il remo e vogavano alla disperata. Nell'alzarmi feci qualche rumore; e il capitano mi diresse subito la parola con voce sommessa ma autorevole, dicendo: «Ancora non c'è bisogno di voi; state al vostro posto, e non fate strepito.» Tornai corrucciato a rimpiattarmi; e un eroe spartano avrebbe mosso meno querele di quelle che io feci segretamente nel trovarmi così condannato alla vergognosa figura del poltrone. Ma nello stesso tempo m'accorsi di qualche movimento straordinario sopra coperta; poi udii alcuni spari di fucile a certa distanza, e subito in risposta a quelli una scarica gagliarda di carabine dal bordo della Pia. Successe breve e profondo silenzio, tanto che io potessi accertarmi d'aver avuto paura, e persuadermi col fatto della gran differenza che passa dall'immaginare pericoli e prodezze, al ritrovarsi davvero nel cimento. La curiosità allora non fu tanto forte da vincere il mio timore; e obbedii al capitano, senza mio merito, perchè i piedi non volevano camminare. Non indugiò un altro sparo dei pirati che erano in due barche sottili e snelle; nè i nostri marinari se ne stettero con le mani alla cintola. Subito dopo questa seconda scarica della Pia, io udii molti urli disperati e selvaggi che venivano dalla parte dei pirati, e dilungandosi per la quieta superficie delle acque ispiravano terrore; ma nella Pia al contrario furon grida di giubbilo. — Vittoria! Vittoria! Sono stati colpiti! Hanno dato volta! Siamo nel canale! Ecco il vento! — Tra queste voci proferite quasi tutte in un tempo si fece sentire il fischio del capitano; tutti tacquero, e si diedero a manovrare secondo i varii ordini; furono riaperte le vele, ripresi i remi perchè ancora il vento era debole, e l'ultima cosa che mi ferisse le orecchie fu un languido eco degli ululati lamentevoli degli Algerini che si allontanavano, come il cane che guaisce fuggendo dopo essere stato percosso. Quei masnadieri, è vero, tentavano di rapirci la libertà, di predare la nave, ed erano pronti a toglierci la vita per mandare ad effetto questo malvagio divisamento; ma la loro insidia fu scoperta in tempo; le loro forze erano inferiori a quelle dell'equipaggio della Pia; e quei gemiti lugubri, che certo indicavano che alcuno di essi era rimasto ferito, forse anco a morte, mi commossero, in specie pel contrapposto dei lieti gridi dei marinari. Vedete un poco per quanti sciagurati casi gli uomini, che pur dovrebbero essere tutti fratelli, si riducono a gioire del male dei loro simili! Io ero rimasto assorto in queste considerazioni. Alzai gli occhi, e vidi di faccia a me il capitano che mi guardava sorridendo: — «Avete avuto paura?» — «Paura? No; cioè, a dir vero, sì, ma contro mia voglia.» — Lo credo; e avreste avuto desiderio di essere spettatore; ma io non lo potevo permettere. Non è questa, ragazzo mio, la prima volta che ho avuto che fare con quella canaglia; e sebbene fossi sicuro che ce ne saremmo liberati facilmente, nondimeno mi premeva troppo che voi non vi esponeste al minimo rischio. Eh! costoro possono ringraziar voi....» — «Come? Non dovrebbero anzi lagnarsene, se sapessero che la mia vista casualmente gli ha fatti scoprire un po' prima?...» — «Se voi, che avete una madre.... è egli vero? se voi non foste stato a bordo, io non gli avrei fuggiti, no. A qualunque costo mi sarei misurato con loro, e avrei cercato di sodisfare un'antica vendetta!...» Ciò dicendo il capitane fremeva, aggrottando gli occhi scintillanti di fuoco e stringendo i pugni. Poi guardò il cielo, ed esclamò sospirando profondamente: «Povero figliuolo! povera madre!» E gli vidi spuntare alcune lacrime ch'egli s'asciugò con la mano dopo essersi percossa la fronte. Io rimasi sbigottito ed afflitto; e il capitano che aveva già calmato quella subita commozione, prese a dirmi così:
«Io ero semplice pilota di una nave mercantile, avevo moglie e un figliuolo, la nostra sola, la nostra diletta creatura. Quando fu giunto all'età di sette anni incominciai a condurlo meco per mare perchè si avvezzasse per tempo alla vita a cui forse era destinato. Bello, gagliardo, coraggioso, sarebbe riuscito un fiore di marinaro. Una volta fummo assaliti dai Barbareschi; erano molti, bene armati, e ci diedero la caccia nel colmo della notte mentre la burrasca infuriava. Noi facemmo buona resistenza, e ci liberammo da quel pericolo: ma la lotta fu lunga e atroce. Tre dei nostri perirono; l'orrore delle tenebre, i tuoni, i fulmini, l'impeto del vento tra gli spari delle carabine e delle spingarde, tra le urla degli assalitori e dei feriti, avrebbero messo lo sgomento nell'animo del più ardito nocchiero. Io non potevo abbandonare il mio posto; una palla di moschetto mi colpì nel braccio sinistro, e nondimeno rimasi fermo al timone, se no avremmo fatto naufragio. Il mio figliuolo era stato messo in luogo sicuro sotto coperta, e in tutto il tempo della mischia e della burrasca io non lo vidi, nè udii la sua voce, nè dubitai che gli fosse accaduta alcuna disgrazia. Poichè i pirati furono messi in fuga e la burrasca ebbe fatto posa, potei affidare ad altri il governo del timone, e prima di medicare la mia ferita, corsi in cerca di quella povera creatura. Non lo trovai nel luogo ove doveva essere; guardai altrove; ne dimandai; nessuno sapeva rispondermi; divenni furente.... Allora uno dei miei compagni quasi piangendo mi esortò a darmi pace; mi disse ch'io l'avrei cercato inutilmente.... Ah! io non so che cosa facessi allora; perdetti il lume degli occhi e l'uso della ragione, e mi diedi a brancolare, benchè due o tre mi rattenessero a forza, in cerca delle mie viscere.... Poi la perdita del sangue dalla ferita mi fece cadere in deliquio, e mi spossò talmente che dovei pur troppo calmarmi. Seppi allora il tristo caso: il fanciullino s'era mosso dal suo ricovero per venir forse da me; un marinaro che lo vide in pericolo d'esser colpito da una palla, mentre la nostra nave per la forza dei vento si piegava tutta verso quella dei Barbareschi, corse a prenderlo per un braccio; ma in quello stesso tempo egli restò ferito, e precipitò in mare traendosi seco il mio figliuolo! Fecero gli altri ogni prova per salvarli, ma fu inutile, e mi nascosero il fatto sinchè il mio dovere mi tenne presso il timone e alla bussola. Figuratevi con che cuore io tornassi a terra, con che cuore io mi accostassi a casa! Anzi non so come la vita mi bastasse a reggere a tanto dolore, come facessero i miei compagni a frenare la mia disperazione. Pur tornai, e la mia moglie mi vide solo, e impallidì. Mosse le labbra tremanti a interrogarmi; e prima che la mia risposta fosse intera, capì che io non sarei più potuto ritornare a lei insieme col nostro figliuolo. Allora la misera madre gettando un grido disperato chinò il capo sul petto; io la sostenni perchè non stramazzasse per terra; piansi, ma ella non rispose al mio pianto; mi provai a confortarla, ma il dolore le aveva impietrito le lacrime e le parole; aveva nel viso il color della morte, nelle membra il freddo della morte; ma il cuore batteva, batteva rapidissimo, e le sue braccia stavano avviticchiate al mio corpo con una forza incredibile.
«Parve che a poco a poco la fiera convulsione si calmasse, ma niuno udì più la sua voce, nè i suoi occhi più si chiusero al sonno, ed ella guardava me solo, e me solo seguiva sempre come l'ombra il corpo, e sembrava che fosse di continuo presa dal timore di perdere anche me. Quindi non fu mai possibile dissuaderla dal venir sempre meco per mare; e la misera se ne stava nella nave seduta, immobile dovunque io la ponessi, purchè mi vedesse; poco cibo e poca acqua bastavano a nutricarla; e niuna cura avea più nè delle sue vesti nè del suo corpo fuorchè in nettezza della quale era oltremodo scrupolosa; e solo ambiva d'essere coperta d'una gonnella bianca stretta alla cintola da un nastro nero, quasi volesse significare la innocenza del figliuolo e il lutto d'averlo perduto. La terza volta che io tornai a bordo con lei facemmo lo stesso viaggio che fu per noi tanto funesto. Ma nessuno le aveva detto nè dove nè come la nostra creatura fosse perita.... Or bene, quando fummo in quel medesimo luogo, io la vidi precipitarsi verso la sponda; poi si rattenne; io ero già accorso; le mie braccia le impedirono di cadere; ma la sua vita era spenta! Forse l'immenso amore materno l'aveva fatta indovina.... Chi sa?... È stato per me e sarà sempre un mistero che io lascerò spiegare alle madri.»
Ciò detto, il capitano mi voltò subito le spalle e andò via, probabilmente per nascondermi le lacrime che tornavano a spuntargli sotto le ciglia. Poco dopo io salii sopra coperta, e lo rividi tutto occupato secondo il solito a dare gli ordini ai marinari per le loro manovre. Il vento fresco ci aveva condotti rapidamente alle viste di Livorno. Il sole incominciava a spuntare di dietro i monti. Allora con la luce mattutina io potei scorgere le coste toscane da un lato, e dall'altro le isole infino alla lontana Corsica altiera dei suoi monti elevati e scoscesi. A poco a poco distinsi il fanale di Livorno, e poi gli alberi dei bastimenti che erano ancorati nella rada e nel porto, e le molte case della città che incominciava allora a crescere a quella floridezza a cui è giunta ai dì nostri. Io non avevo fino allora veduto che borghi e castella o città così anguste da meritare poco più che il nome di castella. Potete dunque immaginarvi quanto cotal vista mi dilettasse. Basti dire che quasi dimenticai la dolorosa istoria del capitano. E quanto più la nave s'accostava al porto, tanto più io rimaneva estatico ad ammirare gli oggetti crescenti sempre in grandezza e in numero. Incontrammo alcuni grossi navigli che a vele spiegate salpavano dal porto o vi giungevano insiem con noi. Com'era divenuta umile la Pia in confronto di quelli! E nondimeno le ondate che la nostra nave facevano scendere e salire come una penna portata dal vento, davano anche a quelli tanto moto che l'enorme peso e la mole enorme parevano cosa da nulla. E spingendo poi lo sguardo in giro all'immenso orizzonte, la grossezza di quei corpi scompariva, come se si paragonasse un grano di sabbia a una montagna. Che cosa sono le opere dell'uomo a petto alla immensità della natura? Tuttavia quest'uomo col suo ingegno ardisce sfidarne le forze. Alcuni dei navigli che noi incontrammo o andavano a traversare l'Oceano, o ne venivano, preparati a viaggi di più mesi e a resistere alle burrasche. E se allora taluno avesse detto a quei naviganti: voi siete prodi, ed è impresa non lieve attraversare l'Oceano in mezzo a tanti pericoli; ma tra pochi anni una settimana di tempo basterà pel tragitto che voi fate in un mese, e senza che siano necessarie le vele, ad onta delle burrasche e dei venti contrari; e tutto questo con l'aiuto del semplice vapore dell'acqua bollente!... costui sarebbe parso per lo meno un visionario. Or voi vedete, nipoti miei, come l'ingegno dell'uomo sappia valersi della forza del vapore per far più rapide le comunicazioni dei popoli, delle cose e delle idee! E chi sa quali altri mirabili trovati sorgeranno anche prima che voi siate vecchi! Che cosa potete ricavare da queste riflessioni? Pensateci un poco; io non farò che domandarvi se l'ozio, la ignoranza, la pigrizia, cose pessime e dannose sempre, non arrecheranno anco maggior vergogna e maggiore scapito in mezzo a tanto progredire della civiltà dei popoli!
La Pia era per entrare in porto; le vele furono ammainate, e l'àncora fu gettata tra la prima fila dei navigli, dove n'erano alcuni tre o quattro volte più grossi del nostro. Due ore dopo aver preso pratica nel porto, il capitano mi condusse a terra con la sua lancia, e andò pe' fatti suoi, abbracciandomi e dicendomi addio. In quel commiato, che anco per me fu doloroso, conobbi bene che il valente uomo s'intenerì pensando di non aver più un figliuolo da abbracciare al ritorno dai suoi viaggi.
Per terra.
Il signor Damiano m'aveva dato una lettera per un banchiere di sua conoscenza, affinchè questi mi agevolasse il modo di proseguire il viaggio da Livorno a Firenze. Io andai subito, col fardelletto dei miei panni sotto braccio, in cerca di questo banchiere; e strada facendo vidi la Darsena e il Cantiere ov'erano gran numero di navi d'ogni misura e di varie forme che venivano racconciate o costruite. Lo strepito dei lavori, l'andirivieni dei marinari, dei lavoranti, dei negozianti, l'attività che si vedeva in ogni angolo, era per me spettacolo nuovo e incantevole. Se non avessi avuto il pensiero d'affrettarmi per le faccende di mia madre, sarei stato lì tutta la giornata. Comperai una libbra di pane ed alcune frutta, e mi vi trattenni, girellando, il tempo soltanto che occorreva a fare la mia colazione. Ma il diletto di quella vista rimase presto angustiato da un incontro che mi fece orrore. Due uomini vestiti di panno grossolano, e senza calze e con in capo un berretto dello stesso colore del vestito, venivano innanzi legati ambedue a una stessa catena di ferro che, pesante e grossa e attaccata con un anello al piede destro dell'uno e al sinistro dell'altro, cigolava strascicando sopra il terreno. Un aguzzino armato di carabina li guidava. Dimandai a chi mi era vicino: «Che è questo, e perchè?» E quegli maravigliato della mia ignoranza: «Son galeotti, mi rispose; hanno fatto del male al prossimo e sono condannati, quale per pochi, quale per molti anni o per tutto il rimanente della vita, a portarsi dietro quella catena e a lavorare ai lavori pubblici sotto la vigilanza d'un aguzzino. Quella là (e m'additava la rocca della Fortezza Vecchia) è la loro carcere, giù in fondo nei sotterranei del torrione.» Con grande repugnanza guardai in viso a quegli sciagurati; il più vicino a me era vecchio; girava attorno lo sguardo così francamente come se fosse stato libero al pari di noi, come se la memoria del suo delitto, come se la infamia pubblica alla quale era esposto, più non lo toccassero da gran tempo. L'altro era più giovine, più estenuato, più pallido, e andava a fronte bassa, con gli sguardi aggrottati. Mi fece ribrezzo la inverecondia del primo; restai commosso dalla vergogna feroce del secondo. Pensai che questi poteva avere ancor vivi i genitori, poteva aver qualche fratello, qualche sorella, fors'anco era marito! Sciagura, afflizione ineffabile per la sua famiglia! Stavano lì attorno parecchi ragazzi.... Questo esempio terribile sempre sottocchio, io pensava, li terrà a dovere; sapranno che dalle colpe leggiere uno si può grado a grado ridurre a commettere i delitti più gravi.... Ma intanto alcuni di quei garzoncelli giocavano e si accapigliavano, trattandosi di ogni vituperio e bestemmiando, e ne vidi perfino uno che colse il destro di rubare una frutta al rivendugliolo dal quale io avevo comperato la mia colazione. Dunque ho sbagliato, pensai, a credere che l'esempio di un gastigo tremendo.... Ah! forse l'abitudine gli toglie ogni efficacia; questo spettacolo miserando rattrista i buoni cittadini, ma diviene indifferente per quelli che sono volti a mal fare, ed anzi inferocisce i loro costumi quasi selvaggi. Io credo poi che assai più dell'esempio del gastigo sia profittevole la buona educazione; che anzi, ove questa manchi, quello sia piuttosto dannoso, o per lo meno inutile.
Io mi allontanavo tutto sconfortato da quel luogo, allorchè mi abbattei a vedere allo scalo due barcaruoli che si contendevano a chi dovesse condurre un passeggiere. Il più giovine diceva all'altro: «Io son venuto prima di voi, e sono stato chiamato: dunque uscite di qui e non mi levate il guadagno. Non è vero, signore, volgendosi al passeggiere, non ha chiamato me?» — «Non posso negarlo,» rispose quegli. Allora l'altro barcaruolo che era vecchio, abbassò il capo con segno di mestizia, e si mosse in silenzio per allontanarsi. «Ma no, riprese il giovine staccandosi dalla riva con una vigorosa remata, buscatela voi questa mancia; voi siete vecchio e avete famiglia, e oggi c'è scarsità di passeggieri. Io son solo e giovine; posso aspettare.» E se ne andò via lesto canterellando a guisa di spensierato, e allegro, secondo me, per aver fatto una buona azione. Anche il vecchio mi parve intenerito, e lo ringraziò come potè da lontano, mentre l'avventore scendeva nella sua barca. Questo fatto valse a dissipare in parte la mestizia che dalla vista dei galeotti m'era venuta addosso.
Il banchiere che io cercavo non era in Livorno. Alla risposta secca secca che mi fu data: «È partito,» io non seppi fare altro che andarmene alquanto confuso. Avrei potuto chiedere d'alcuno della sua famiglia, del suo ministro di banco; mostrare la lettera aperta che m'era stata data per lui.... Ma insomma io feci lo stolido, perchè non avevo antiveduto il caso di non trovarlo; e fors'anco per la sorpresa che a me, non avvezzo a vedere mercanti, banchieri e molta gente affaccendata, recarono le varie persone che andavano e venivano da quel banco, e la gran quantità di monete che erano schierate sopra un tavolone nella stanza del banchiere. Certo che in quel luogo nessuno mi aspettava, nessuno poteva badare a me, non sapendo chi io mi fossi, nè da chi raccomandato, nè perchè in cerca del banchiere. Toccava a me a chiedere che altri invece sua potesse leggere la commendatizia del signor Damiano, e darmi quelle istruzioni di cui avevo bisogno per continuare il viaggio.
Io sapevo soltanto che avrei fatto bene a sollecitarmi e a spender poco. Trovai in piazza alcuni vetturini che offrivano posti in carrozza per Pisa, per Firenze e per altri luoghi, annunziando d'esser pronti a partire. Io per approfittarmi della occasione, fissai subito con uno di essi per salire a cassetta e spendere il meno che fosse possibile. Ma, aspetta, aspetta, il vetturino, con una scusa o con l'altra, mi teneva a bada. Non era vero che la sua carrozza fosse già piena: ed egli indugiava per trovare altri passeggieri. Allora io mi tenni sciolto dall'impegno, mi feci insegnare la porta di dove bisognava muovere per Firenze, e mi proposi di camminare a piedi finchè non mi fossi stancato.
Alla porta i gabellini[31] mi fermarono per fiutare i poveri panni del mio fardelletto, e mi fecero molte interrogazioni, e d'onde venivo, e dove andavo, e a che fare.... Alle quali risposi francamente, perchè io non ero nè uno sfaccendato nè un profugo, non senza peraltro maravigliarmi che coloro volessero o dovessero sapere a puntino i fatti miei.
Allora mi diedi a battere di passo lesto la strada maestra, dilettandomi assai di guardare la pianura, le case, i monti lontani, i campi coltivati, che quanto più io m'allontanavo da Livorno, tanto più floridi e ameni mi comparivano. E più mi rallegrò la vendemmia. M'accompagnai con un contadino che recava le bigoncie cariche d'uva; due o tre fanciulli lo seguivano facendo il chiasso. Il buon uomo vedendomi piuttosto accaldato dal camminare e molestato dalla polvere, mi offerse alcuni grappoli d'uva. Io accettai volentieri il donativo, e fu proprio opportuno. Così festeggiavo anch'io la vendemmia, e mi crescevano le forze per arrivare prima della notte a Pisa.
Strada facendo vedemmo venire contro a noi di galoppo un cavallo focoso attaccato al calesse e guidato da un giovine, come suol dirsi, sgargiante. Il contadino tirò da parte il carro, e chiamò a sè i fanciulli; anch'io corsi a prendere per la mano il più piccino; eravamo già tutti riparati; ma il giovine non badando a noi, e seguitando a correre a rompicollo, ci strinse addosso il calesse con tanta furia che a mala pena io mi potei salvare saltando nel fosso insieme col fanciullino. Allora suo padre, dopo avermi ringraziato con molto affetto, d'essermi preso cura del suo figliuolo, lanciò veementi querele contro quel giovine, e mi narrò che era un cattivo soggetto, che aveva dato noja e fatto del male a molti, che per la smania di spassarsi coi cavalli e di spendere alle feste e alle osterie co' suoi compagnacci, s'era ridotto povero, e lasciava languire nella miseria sua madre vecchia, vedova e malata; tutti in quei contorni avevano da lagnarsi di lui; e il contadino finì con dirmi: «Quello sciagurato anderà prima o poi nelle mani della giustizia, e la sua povera madre ad accattare.» Poi si accomiatò voltando il carro nella viottola della sua casa.
Contuttochè io fossi addolorato dal pensiero di quella madre infelice, non potei liberarmi da un sentimento d'amor proprio ponendomi a confronto col giovine dissipatore. Che differenza passa tra me e lui! io diceva. Egli per godere, impoverisce la madre e l'abbandona; io per ispender meno vo a piedi, mi contento di mangiar pane e di bevere acqua, e via discorrendo. Manco male che invece d'inorgoglirmi di quello che in sostanza altro non era che un adempimento del mio dovere, mi trovai anzi vie più animato a far di tutto per riuscire utile a mia madre e per mostrarle il grande amore che nutrivo per lei
Entrai in Pisa sul far della notte. Questa città, quasi disabitata, mi cagionò da prima una certa malinconia, in specie ripensando a Livorno che nella sua Darsena e nella Via Grande[32], è così gremito di gente. Ma, quant'è bello, veramente maestoso il Lungarno pisano! Più volte avevo udito celebrare la Cattedrale, il Campanile pendente, il Camposanto: e benchè fossi stanco e quasi affamato, mi feci insegnare la via che conduce a quei monumenti, e strada facendo mangiai un pezzo di pane comprato dal primo fornaio che vidi, e bevvi a una fonte. Essendo già sera, la Cattedrale, il Camposanto e il Battistero erano chiusi. Mi contentai di contemplarne l'esterno, girandovi attorno più d'una volta: ed essendomi aggrappato ai cancelli di ferro del Camposanto, potei abbastanza vederlo anco dentro, perchè la luna illuminava il bellissimo porticato. La solitudine e il silenzio di quella vasta piazza appartata dal rimanente della città, la grandezza maestosa degli edifizi, ed erano i primi che io vedessi, m'esaltarono tanto che non trovavo il verso d'allontanarmene. Anzi mi posi a sedere sulla soglia della porta di mezzo del Duomo; e allorchè, dopo aver guardato a bell'agio il Battistero che mi rimaneva di faccia, volli alzarmi per andar via, le congiunture indebolite e indolenzite dalla stanchezza non volevano più obbedire. Allora mi adagiai: appoggiai il capo sul mio fardelletto, e il sonno mi prese con tanta forza che quella volta mi fu impossibile di resistere. Io avevo già fatto una buona dormita quando una voce roca e una percossa di bastone mi svegliarono all'improvviso. Aprendo gli occhi rimasi abbagliato dalla luce di una lanterna, senza poter vedere chi fosse colui che me la cacciava sotto il naso. Sulle prime credei di sognare; poi un po' di paura, il freddo della notte che m'aveva intirizzite le membra, il dolore della bastonata, la roca voce che tornava a domandare: «Chi siete voi? Che cosa fate qui?» e una mano robusta che mi ghermì il braccio furono bastanti a persuadermi che io dovevo essere sveglio. Alle ripetute interrogazioni risposi: «Fate prima sapere a me chi vi ha dato autorità di svegliarmi col bastone, di chiedermi il nome, di sapere i fatti miei, di tenermi così stretto....» — «Meno discorsi! io sono la pulizia in persona.» — «Me ne rallegro tanto, ma i vostri modi, e questa lanterna affumicata, mi danno poca aria di pulizia.» — «Qui non si scherza. Avanti! (e vidi comparire altri due uomini che come il primo avevano il bastone e le sciabole alla cintura) bisognerà condurre in arresto questo mariuolo!» I due uomini mi presero per le braccia con maggior furia dell'altro; io credevo che volessero troncarmele. Intanto il loro caporale s'impadronì del mio fardello. «Adagio! esclamai allora con risolutezza. Io sono un ragazzo onesto; quella è roba mia; dormivo qui per non spendere alla locanda, e perchè questa bella piazza mi piace più d'una camera. Vi darò altri schiarimenti se siete proprio la polizia; ma in nome di una signora così rispettabile, lasciatemi libero. Come potete voi pretendere che uno dica le sue ragioni con le braccia legate?» — «Queste son ciarle; voi non m'infinocchiate. Avanti, avanti; dal Commissario: lì il gastigamatti ti farà rispondere a tono, monello! Eh! tu vorresti fare il dottore: ma noi....» E per farla breve breve, costoro mi condussero in una stanzuccia terrena, puzzolente, dov'erano alcuni altri dei loro compagni, parte addormentati, parte a giuocare fumando e bevendo. Io rimasi più stordito che impaurito, immobile e silenzioso; senza curarmi dei sospetti ingiuriosi che essi facevano sul conto mio, e solo tenendo continuamente d'occhio il fagottino dei miei poveri panni. Venne la mattina, e coloro mi condussero, come dicevano, al Commissariato, tenendomi, al solito, per le braccia, passando in mezzo alla gente che mi guardava maravigliata e con ribrezzo, come se fossi stato un malfattore. Io peraltro camminavo franco e a testa alta, perchè certo non mi pareva delitto l'essermi addormentato di notte sopra la soglia del Duomo. Eppure mi toccò a sentirmi dire dietro le spalle: — Vedete quella birba con che sfacciataggine se ne va in mezzo ai birri! — Cospetto! pareva dunque che il mio delitto consistesse nel trovarmi in mezzo ai birri! che la loro compagnia soltanto mi facesse colpevole! Ma avrei potuto rispondere a chi mi giudicava con tanto rigore, che io non l'avevo davvero nè desiderata nè accettata volentieri quella spiacevole compagnia! Dopo lungo aspettare nell'anticamera del Commissario, i birri furono introdotti meco al suo cospetto e gli narrarono come e dove e quando mi avessero trovato, e che io non aveva voluto render loro ragione dell'esser mio. Il Commissario era vecchio, burbero, vestito di nero, e se ne stava seduto sopra una poltroncina ricoperta di pelle, davanti a un tavolone pieno di scartafacci, con la corda di un campanello tra le mani. Credo che al mio arrivo si mettesse anco maggiormente in sul serio; e: «Così presto, esclamò, voi vi trovate sulla strada della galera?» Questo brutto saluto mi spiegò in parte il mistero, e dubitai subito che coloro m'avessero preso per un ladroncello. Allora vidi che bisognava usare molta prudenza, perchè l'equivoco non avesse a farmi perdere il tempo a danno di mia madre. Chiesi con buon garbo, ma francamente, perchè la coscienza m'assicurava, che i birri posassero sul tavolone i miei panni, e mi lasciassero solo col signor Commissario, essendo io pronto a dire i fatti miei, ma all'autorità superiore, non ai subalterni. Prima il Commissario mi guardò sorpreso, interrompendo la faccenda col soffiarsi il naso; poi diede un colpo sul tavolino facendo traballare la scatola del tabacco che era lì semiaperta; e poi ordinò ai birri d'allontanarsi. «O sentiamo, aggiunse quando fummo restati soli, sentiamo che cosa hai da dirmi con tanta franchezza.» E quasi che egli temesse qualche insolenza, pose in tirare la corda del campanello, a guisa della sentinella che imposta il fucile contro chi fa mostra di accostarsi per aggredirla. Io allora mi posi a spiegargli pacatamente l'esser mio, il perchè del viaggio e dell'essermi addormentato di notte sulla soglia del Duomo, e gli mostrai le lettere che avevo, e gli apersi il fardello dei panni dov'erano un giubbino usato che stava bene al mio dosso, e le camicie segnate della mia cifra, tutti riscontri che confermavano a puntino la verità delle mie parole. Avrete visto l'acqua allorchè bolle nella pentola: se il soffietto non mantiene acceso il fuoco movendo l'aria, i tizzoni si cuoprono di cenere e si spengono, il bollore a poco a poco cessa, l'acqua si ferma, si raffredda.... Così il Commissario: dopo il primo impeto che era dipeso dal credermi qualche mariuolo matricolato, incominciò a calmarsi gradatamente alle mie parole, rallentò la corda del campanello, raccolse, senza guardarmi sospettoso, il tabacco versato, servendosi di uno zampetto d'agnello; e baloccandosi ora con lo zampetto ora con la penna, alla fine mi disse che potevo andarmene, ma che non mi esponessi più a farmi arrestare dai birri scegliendo per letto la soglia di una chiesa. Io peraltro gli domandavo perchè coloro mi avessero subito creduto colpevole. Egli non volle rispondermi altro che avevo fatto male a lasciarmi sorprendere dal sonno in quel luogo; e ordinò che mi lasciassero andare, dicendo che non aveva tempo da perdere coi ragazzi.
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Il mio primo e solo pensiero fu allora quello di andarmene prestamente da Pisa; e incontrando qualche vettura che mi pareva indirizzata per la via di Firenze, mi posi a guardare se fossevi posto per me a cassetta. Tra i vetturini riconobbi quello che mi aveva promesso di condurmi via da Livorno: mi feci vedere, ed egli stesso mostrò di ricordarsi di me, e m'interrogò se avessi voluto andare a Firenze. Ora che vi vedo colle briglie in mano, risposi, posso credere che partiate subito. Salii a cassetta, fissai il prezzo, e i cavalli si mossero.
Fin allora il tempo era stato buono; ma presto incominciò a rannuvolarsi e poi a piovere, e l'acqua mi bagnava dal capo ai piedi, nè io potevo scorgere la campagna perchè era tutta ricoperta dalla nebbia. Intanto fra i compagni di viaggio che erano in carrozza nacque un contrasto curioso. Un giovine incominciò a lagnarsi col vetturino che i cavalli andavano troppo adagio; disse che aveva furia, e promise al vetturino grossa mancia se si fosse affrettato. Ma v'era un grassone il quale al contrario si raccomandava perchè i cavalli camminassero lentamente; diceva d'aver contrattato il posto a quel patto; essere necessaria molta cautela con bestie irragionevoli e in carrozza sconquassata; e senza voler confessare d'aver molta paura, ne mostrava tanta da fargli vergogna. I posti di dietro erano occupati da due donne, l'una giovine e l'altra attempata: la somiglianza ed altri indizj davano a conoscere che fossero madre e figliuola. In quella contesa stavano silenziose, imparziali, impassibili: anzi la figliuola s'addormentò, e mi parve che sua madre l'avesse caro, perchè il vetturino bestemmiava, infastidito dalla pioggia e dalle querele dei due contendenti che ogni poco si sentivano gridare dal fondo della carrozza: «Presto! poltrone! Non ti darò nulla di buona mano se tu mi servi così male! Già se tu fossi qualche cosa di buono tu non faresti il vetturino!....» ovvero: «Adagio! Discrezione! Le mie povere spalle! ci romperemo il collo! Come sto male in questo luogo! Ogni scossa mi fa patire; or ora do di stomaco! Vuoi tu obbedirmi? Pago anch'io! Che razza di gente! senza carità del prossimo!...» E veramente quel piato continuo era noiosissimo, mentre poi il vetturino mandava i cavalli del solito passo senza dar retta nè all'uno nè all'altro. Sicchè io m'immaginavo che tal molestia dovesse durare sino a Firenze; ma quella signora, fosse accortezza o caso, trovò il verso di far chetare almeno il grassone, dicendogli con molta gentilezza: «Se a lei fa male stare in quel posto, io le posso cedere il mio;» e accompagnò l'offerta con l'atto di alzarsi. Ed egli accettò subito, si sdraiò nel posto di dietro accanto alla fanciulla e non aperse più bocca. Pareva che tutte le sue querele fossero state rivolte a ottener quel favore senza chiederlo.
La pioggia continuava. Quella signora che nell'alzarsi m'avea visto a cassetta, abbassò un poco il cristallo per offerirmi il suo ombrello, dicendo che se m'avesse veduto prima avrebbe chiesto agli altri il permesso di farmi entrare in carrozza. Io la ringraziai, perchè la pioggia non era poi tanta da cagionarmi molto incomodo, e pareva che fosse per cessare. Infatti un po' di sole si scorgeva di mezzo alle nuvole diradate, e presto comparve l'iride; e io tutto intento a guardare la campagna, non pensai più nè al fradicio che avevo addosso nè ai viaggiatori. Pareva che la pioggia avesse fatto rinverdire la terra, e le goccie tremolanti sui cespugli delle siepi si dipingevano al sole di vari colori fulgidissimi. I contadini tornavano sui campi al lavoro, gli animali a pascolare o a sollazzarsi; e la brezza fresca ispirava lieta vivacità nell'animo e invigoriva le membra.
Giungemmo a Ponte d'Era sull'ora di desinare. I miei compagni di viaggio entrarono in un albergo; io saziai l'appetito con poca spesa secondo il solito, e passeggiando lungo una stradella ombrata e solitaria. Nello scendere di carrozza, tanto io che le signore che stavano dentro fummo salutati da un tale che io non conoscevo. Costui mi ricomparve innanzi nella stradella, mi fece di berretta, e mi domandò: «Come sta di salute la signora contessa?»
— «La signora contessa? Non capisco.» — «O lei signoria non è il figliuolo di quella signora che ho salutato dianzi?» — «No.» — «Oh scusi. E non sa chi la sia?» — «Nemmeno.» — «A dire! poveretta! Quella signora, lo vede, è una contessa, niente meno. Il suo marito e lei erano ricchi sfondati, e avevano giù di qui due fattorie, fior di poderi. Il conte, giovane vanesio, senza giudizio, sciupò tutto il suo patrimonio, la dote della moglie, si ridusse al verde, e poi se l'è battuta fallito marcio, e non si sa dove sia. Ora, povera signora, l'ha appena da campare; prima l'andava in una bella carrozza, ora in vettura; prima un visibilio di servitori, cameriere, gioie, feste.... e ora servirsi da sè! Che rovesci in questo mondo! E io.... anch'io son rimasto canzonato da quella birba del suo marito. Ho un credito di qualche cento di lire.... Ma sì! bisogna farli persi. Sono andato in tribunale, ho speso.... Tutti gettati. Guai a chi ha che fare coi procuratori e coi tribunali!»
Se io non avessi mostrato premura di tornare alla locanda per non rimanere a piedi, il facile parlatore mi avrebbe narrato tutti i fatti suoi e degli altri. Ci volle proprio il chioccare della frusta del vetturino perchè io mi potessi togliere da quell'incontro.
Giunsi alla vettura mentre i miei compagni di viaggio rimontavano dentro: il grassone fu il primo e prese subito, senza far complimenti, il posto che gli era stato ceduto dalla contessa. La fanciulla peraltro pregò la madre a starsene di dietro invece sua; e così continuammo il viaggio. A me parve ora che la cortesia usata dalla contessa a colui fosse anche più meritoria, considerando che era stata avvezza a tutti i suoi comodi. La disgrazia intravvenutale mi commoveva molto, e forse maggior mestizia venivami dal pensare a quella giovinetta nata nelle agiatezze, e così presto caduta senza sua colpa nella miseria. Le nostre vicende si rassomigliavano molto, e ciò valeva ad accrescere la mia simpatia per la madre e per la figliuola. Anzi mi figurai che la disgrazia dovesse essere stata per loro assai più dolorosa che per mia madre e per me. La cagione era ben diversa. Mio padre non aveva commesso azioni che lo disonorassero, mentre il conte aveva rovinato se stesso e la famiglia per effetto di mali portamenti. La colpa era tutta sua, è vero, ma gli uomini sogliono disgraziatamente confondere spesso l'innocente col reo, e forse la contessa e la sua figliuola potevano ritrovarsi a sopportare umiliazioni non meritate.
Tra questi pensieri suscitati dal racconto dell'incognito mi tornò alla memoria anche ciò che egli aveva detto dei procuratori e dei tribunali, e del guaio d'aver che fare con essi. Io che sapevo d'esser raccomandato a un procuratore pel caso che fosse necessario invocare l'aiuto della legge per far riconoscere i diritti di mia madre, quei diritti che erano ormai la nostra principale speranza, rimasi molto sconfortato. Ma infine dovei rassegnarmi con la solita canzone: — Vedremo; sarà quel che sarà. — intanto due dei compagni di viaggio parevano addormentati: il grassone, cioè, di sicuro, perchè russava da sentirlo in distanza di molti passi; il giovine poi mi dava a credere d'aver imitato quello, perchè non si udiva più sgridare il vetturino della troppa lentezza. E questi, a dir vero, lasciava andare i cavalli a bell'agio, tantochè anch'egli fu preso dal sonno; ed io ero per isvegliarlo, quando mi trovai precipitato nel fondo di un fosso, col vetturino sopra la mia persona, e sopra di noi la carrozza trabaltata e la testa del grasso penzoloni dallo sportello, e strepitante in sì disperato modo che pareva fosse in mezzo al fuoco; ei ricopriva con le sue urla i gridi delle signore, le bestemmie del vetturino e quelle del giovine.
Per buona sorte i cavalli si fermarono appena che la macchina che si traevano dietro non potè più rotolare sui terreno. In mezzo allo strepito e allo scompiglio mi riuscì di scaturire dalla fossa, e di mettermi davanti ai cavalli finchè non ebbe potuto venir fuori anche il vetturino per staccarli. Un bifolco accorse a noi; aprimmo lo sportello rimasto per aria, e aiutammo il giovine a saltar giù; poi la contessa e la sua figliuola. Esse erano un po' turbate, ma assai meno di quello che io mi fossi immaginato, nè si dolevano d'altro che di leggiere contusioni. Ardua impresa fu quella di scarcerare il grassone. Ei s'era ostinato a voler uscire per di sotto nella fossa, ma il suo corpo madornale non poteva passare dalla sola apertura del cristallo, ed era rimasto a contrasto senza potersi muovere nè in su nè in giù; sbuffava e gemeva e urlava da far compassione alle pietre. Aveva le mani e la faccia imbrodolate di fango, e gridava misericordia perchè si sentiva soffocare. Ci vollero gli sforzi riuniti di tutti; e soltanto dopo una fatica di mezz'ora, adoperando scale, funi e bastoni, potemmo tirarlo su pei piedi che era più morto che vivo, dalla paura peraltro e dal continuo strepitare che aveva fatto. Le sue membra erano affatto illese, benchè fosse cosa orribile a guardarlo da quanto lo deturpavano il fango e gli occhi stralunati e il naso impeperonito[33] e la bocca ansimante lorda di bava e di melletta.
Nel tempo che il vetturino rialzava e racconciava la carrozza andammo tutti nella casa del bifolco che era accorso a darci aiuto. Il suo invito fu tanto cortese, con poche ma franche e sincere parole, che non indugiammo ad accettarlo; ei ci offriva non solo ricovero per aspettare di poter riprendere il viaggio, ma anche il rinfresco se ne avessimo avuto bisogno; rinfresco, com'ei diceva, da povera gente, ma condito da buon cuore.
Quando ci ebbe condotti in casa, tornò subito via por chiamare la sua donna che era nel campo, e per tornare in soccorso del vetturino. In quella sollecitudine il buon uomo non ci aveva nemmeno guardati bene in viso; ma questo potè fare la sua moglie, garbata e amorosa quanto lui. Io mi accorsi che rimase alquanto sorpresa dall'aspetto della signora; poi si fece animo e le si accostò dandole una sedia, e con parole tronche le fece capire che le pareva di conoscerla.... Allora la contessa, con festosa e benevola accoglienza le disse: «No, cara Teresa, non vi siete ingannata.» E la Teresa tutta commossa fino alle lacrime voleva baciarle la mano, inchinarsele.... La contessa non lo permise, le strinse la destra, la ringraziò della memoria affettuosa che serbava di lei, e si pose tranquillamente a discorrere della trabaltatura e d'altre cose di minor conto. Ma vidi bene che la contessa e la sua figliuola erano anche più commosse della Teresa, benchè cercassero di nasconderlo. Quel podere un tempo, ed altri all'intorno e la prossima villa, facevano parte delle ricchezze del conte. Tutto era stato venduto pei creditori. Quella famiglia colonica aveva visto la contessa nei giorni lieti quando il fasto la circondava....
Che divario dalla signora padrona d'un tempo! Eppure la Teresa la chiamava sempre padrona e certamente con più affetto di prima. Io pensai che per quelle due donne ci volesse non poca virtù in simile incontro per non comparire nè stoltamente orgogliose del passato lustro, nè vilmente umiliate dalla povertà che le angustiava. Infatti io credo che una delle cose più difficili per l'uomo sia quella di saper mantenere la propria dignità nei mutamenti della fortuna. I beni, i favori di questa vanno e vengono; ma l'animo deve essere superiore ai suoi capricci. Noi nasciamo nudi ed eguali; i nostri sentimenti non si devono formare sulla diversa qualità delle vesti che ci ricuoprono. Le ricchezze sono desiderabili e utili finchè danno modo a chi le ha di far del bene; ma non lo differenziano dagli altri, se non che per le azioni. E poi anche i poveri sono capaci senza di esse di far del bene agli altri. Quel contadino che ci soccorse, che ci ospitò, che, anco senza riconoscerla, recò servizio a quella signora che era stata sua padrona, ne è prova. E quanti esempi di generose azioni non si vedono dare tutto giorno da coloro che vanno coperti delle vesti del povero! Chi più pronto di essi a mettere a repentaglio la propria vita, che per lo più è il loro solo patrimonio, per salvar quella di chi si sia?
La carrozza era stata rimessa in bilico sulle sue quattro ruote, e i cavalli, povere bestie, aspettavano prima di muoversi che fosse di nuovo carica del nostro peso; e quello del pingue, era da metterli a prova! Se non che egli aveva poca voglia di tornare a chiudersi in quel pericoloso bugigattolo ambulante. Strada facendo ci venne alle orecchie, portato dagli sbuffi del venticello della sera, un dolce suono di lieta musica, e fra gli alberi di una collinetta vedevamo brillare alcune faci che avremmo prese per lucciole se fosse stato di luglio. Lassù risiedeva la villa appartenuta un tempo alla contessa. I nuovi padroni avevano apparecchiato la festa di ballo e la cena sontuosa, l'orchestra accordava gli strumenti, e il giardino incominciava ad essere illuminato. Così all'arrivo della contessa, quand'ella era padrona del luogo, soleva il giardino risplendere di mille faci, e le vispe contadinelle recando mazzi e ghirlande di fiori andavano incontro alla padrona, e la salutavano con giulivi canti. Il grasso narrava queste cose per averle udite magnificare dai suoi compagni, e conosceva i nuovi proprietari e ne vantava la splendidezza. Quindi gli parve miglior consiglio fare una tappa alla villa, che proseguire il viaggio col rischio di trabaltare un'altra volta. La paura e il travaglio l'avevano spossato. Il vetturino lo lasciava andare purchè gli pagasse il prezzo pattuito per tutto il viaggio. Ma colui non volle, dicendo di aver pagato per andare a Firenze, non per ritrovarsi in una fossa. La contesa fu breve; perchè quegli s'incamminò alla villa, e il vetturino salì a cassetta brontolando, e sfogandosi con irose frustate ai poveri cavalli che non avevano colpa nell'accaduto. Io fui invitato dalla signora a sedermi in carrozza, giacchè v'era posto, e accettai la gentile offerta. Il contadino non volle alcuna ricompensa, nè potè riconoscere la contessa perchè questa aveva il viso coperto dal velo, e già era buio. Nondimeno ei rimase fermo sulla strada e col cappello in mano, finchè non avemmo fatto qualche cento di passi. La moglie gli avrà poi palesato chi fosse quella signora; e allora gli sarà sembrato atto d'orgoglio il non essersi ella da se medesima data a conoscere a lui? ovvero sentimento di discretezza per non affliggerlo con la ricordanza, del suo impoverimento? Io per me posso asserire che non mi parve di scorgere in quella signora ombra d'orgoglio, ma sì molta dignità nella sua disgrazia: e la figliuola, ingenua, gracile, bella, modesta, ritraeva in tutto dalla madre. Esse ignoravano che io avessi saputo qualche cosa dei loro fatti dall'incognito di Pontedera. Quando furono in carrozza m'accorsi che avevano fino allora fatto un grande sforzo e molto sofferto per reprimere la loro commozione. Stavano taciturne: ma i loro sguardi scambievoli dicevano più assai delle parole, e la madre capì che v'era bisogno di far coraggio alla figliuola, perchè questa non lasciasse sgorgare dagli occhi le lacrime del pianto interiore, e le fece questo coraggio stringendole la mano e sorridendo, come chi si rallegra con taluno che sia scampato di fresco da qualche pericolo.
Il giovine che era in nostra compagnia ci lasciò quando fummo giunti a Empoli. Esso aveva barattato con noi poche parole sul fatto della trabaltatura, sfogandosi a dir male del vetturino e raccontando altre simili avventure.
Poichè ci trovammo in tre, e l'oscurità della notte non ci permetteva di scorgere le fertili campagne, le colline coperte di boscaglie, l'Arno chiuso nelle strette della Gonfolina, i villaggi e le castella che fanno popolose le sue sponde, la signora attaccò discorso con me, e senza mostrare curiosità indiscreta dell'esser mio mi diede animo di palesarle lo scopo del mio viaggio. Allora dovè conoscere anch'ella quella certa somiglianza che passava tra i nostri casi, e mi dimostrò molta benevolenza, e si compiacque a sentirmi noverare le virtù di mia madre. Io mi figuravo di descrivere intanto le sue, e ne ebbi certezza piena dal volto della fanciulla. Bisogna proprio dire che quando un figliuolo parla con amore e con riconoscenza di colei che gli ha dato la vita e l'educazione, e' diviene eloquente. Le donne rimasero infatti molto commosse dalle mie parole, e noi ci ritrovammo senza accorgercene alla porta di Firenze.
Costì v'era un vecchio che pareva aspettasse da lungo tempo. Venne alla carrozza, e mentre i gabellieri frugavano il mio fagottino e la valigia delle donne, il vecchio fece loro tante affettuose feste ch'io non so dire; ed esse con tenerissima gratitudine le contraccambiavano. Io non udii il colloquio animato che ebbero tra loro, e dopo del quale il vecchio entrò tutto consolato in carrozza. Ma seppi dipoi che egli era stato fin da ragazzo a servizio del conte; che per le disgrazie della famiglia cagionate dai vizi di quel marito libertino, il buon vecchio aveva perduto il pane; e avrebbe dovuto mettersi a chiedere l'elemosina, se non avesse avuto un nipote amoroso che lo ricoverò subito, e prese ad assisterlo. Allora lo zio potè industriarsi col mestiero del sarto, che aveva imparato ed esercitato per sè e pei padroni nelle ore di riposo del suo servizio, e gli riuscì di metter su casa e bottega. Egli aveva saputo ora della gita della contessa a Firenze, era venuto a incontrarla alla porta, e l'aveva aspettata fino a tardi per pregarla ad accettare ospitalità nella sua casetta, dove già erale preparata una buona e pulita stanza.
Ripensando io a ciò che mi era intravvenuto di sapere e vedere in quel mio viaggetto, ne trassi questa semplice riflessione: che cioè il male è mescolato col bene; che bisogna saper sostenere quello e approfittarsi di questo e andar sempre innanzi col coraggio della speranza. Non mi spaventarono dunque i sinistri prognostici del ciarlone di Pontedera, e mi proposi di aver fiducia nel procuratore al quale il signor Damiano mi aveva raccomandato. Perchè poi non mi accadesse d'esser punito, come a Pisa, della smania di veder subito la famosa cattedrale di Firenze, almeno di fuori e al lume di luna, mi feci accompagnare dal vetturino a una locanda, ma non di quelle ove concorrono i viaggiatori facoltosi. E appena fui solo nella mia camera, volli, innanzi d'andare a letto, scrivere di me a mia madre; a questo mi consigliava l'amor filiale che aveva bisogno di sfogo da tanto tempo, e anche il proverbio: Chi ha tempo non aspetti tempo; del quale, miei cari nipoti, vi raccomando aver sempre memoria. La lettera fu lunga; e soltanto dopo averla scritta, potei fare una bella dormita.
XIV. La Tentazione.
Essendomi recato un giorno nello studio d'un giovine pittore mio amico, lo trovai a disegnare una testa di moribondo, tenendo a modello un accattone, tanto rifinito dagli stenti della povertà, che davvero il suo volto pareva quello di un uomo in agonia.
Poichè il pittore uscì fuori a procacciarsi non so che, ed io rimasi in compagnia dell'accattone, egli stesso rammaricandosi meco dello stato deplorabile in cui si trovava mi diede animo a domandargli per qual trafila di disgrazie e di errori si fosse ridotto a così mal partito. «Ah!» risposemi egli sospirando, «la sarebbe troppo lunga la storia delle mie disgrazie; ma vi racconterò solamente che cosa m'intravvenne da ragazzo, perchè se forse non avessi dato retta allora ad una certa tentazione, chi sa? non mi ritroverei da tanto tempo a questi ferri.
«Mio padre, buon'anima, ch'era il fiore dei galantuomini, lavorava un podere alle due miglia fuori di città. Mi tirava su con gli altri figliuoli maggiori di me per aiutarlo nelle faccende; mi dava sempre dei buoni avvertimenti, e mi voleva un bene dell'anima, perchè, non fo questo per dire, ma i' ero sottomesso e obbediente, e il lavoro mi garbava. Un giorno, agli ultimi di aprile, viene da me tutto allegro, e mi dà un panieretto di fichi primaticci che a forza d'industria gli era riuscito di far maturare sul pedale dopo gli stridori d'una rigida invernata. — Va', e portagli subito al palazzo — mi dice, — il padrone non se l'aspetta davvero unguanno questa delizia. S'i' non andassi zoppo (s'era ferito un piede col pennato), glieli vorrei consegnare da me. — Ed io piglio il paniere, e vo via. Arrivato alla porta, ecco subito addosso i gabellini; scopro il paniere, e quelli restano a bocca aperta a vedere i be' fichi quando nessuno se li sognava; poi vengono gli stradieri, le ambulanze, i soldati, le spie; mi domandano che e come, e quanto n'avrei fatto pagar la voglia a chi avesse avuto l'estro di comperarli; e chi me ne leva di sotto uno, chi due.... Alla fine liberandomi a mala pena da quel parapiglia: — Non li vendo, li porto al padrone, risposi. — Dagli retta! — gridò allora un di costoro — e' vuol far altro che portarli al padrone; gli avrebbe del grullo. Anderà in mercato, lui! e buscherà quanto vuole. — Io non ne potevo più dalla stizza; ravviai i fichi rimasti e le foglie che li coprivano, e volevo rizzar su baracca; ma come si fa con tanti e tutti d'accordo? Mi chetai, e mi feci una ragione, che di quelle scenate ne avevo viste più volte. Intanto dalla porta al palazzo c'era un bel tratto, e delle triste parole del tentatore non ne avevo lasciata cascar una: un po' me l'ebbi a male, un po' ci risi sopra; ma sempre mi ribollivano; rallentai il glasso, stetti un pezzo in tra due ruminando la tentazione, e quasi senza volere, mi trovai fuor di strada nella dirittura del mercato. Vidi un fruttaiolo di quei più grossi, e allora feci come la volpe al pollaio; entrai quatto quatto in bottega, e mostrai i fichi; in quattr'e quattr'otto fu concluso il negozio. — Me li pagò un testone[34]. Povero me! non avessi mai ingannato mio padre in quel modo! Non l'avessi mai presa quella moneta! Avrò avuto quattordici anni; ma era la prima volta che io mi trovavo in tasca tanti quattrini: mio padre non era uomo da lasciarmi mancar nulla, ma danari non me ne dava; e che cosa avrei dovuto farmene dei danari? Quella moneta mi parve un tizzo di fuoco; mi pentii, ma troppo tardi. Tornando indietro mi pareva di vagellare come un briaco, e d'aver perso inclusive il lume degli occhi. Mi venne anche l'ispirazione di confessare ogni cosa a mio padre, ma poi non mi diede l'animo di farlo. In quella vece studiai le scuse, una peggio dell'altra, e mi preparai a spiattellare una bugia, l'andasse come l'andasse. Mio padre, pover uomo, che mi teneva per un santificetur, quando gli ebbi detto che i fichi gli aveva avuti il cuoco del padrone, non mi domandò altro e non badò che mi fossero salite le fiamme del rossore fin sopra gli occhi.
Venne la domenica; dopo vespro mi accompagnai con tre o quattro dei più bighelloni del popolo. Se non avessi avuto il testone non l'avrei fatto, perchè sapevo che con loro non si faceva di noccioli: o il giuoco o la bettola. Ma disgraziatamente m'era subito entrata addosso una certa smania di provare che gusto ci fosse a bazzicar l'osteria. Detto fatto: sull'imbrunire, un passo chiama l'altro, c'entrammo. Nel popolo accosto a noi v'era stata una gran festa, e l'osteria era piena. Pareva la casa del diavolo: chi ha bociato vuol bere: e il vino li faceva bociare dell'altro, ma non più salmi o litanie: erano discorsacci da sfrontati, risa smascellate, mormorazioni, bestemmie da farmi raccapriccire. Se fossi stato solo, me ne sarei andato nell'atto; ma i compagni mi tirarono dietro in un orticello, e fecero venire il fiasco; uno si levò di tasca le carte, e cominciarono a succhiellare. Io che non avevo giocato mai, stetti prima a vedere. Un poco dopo mi venne a noia, ed avevo addosso la tremerella che mio padre non mi cercasse. I' avevo proprio fatto conto d'andarmene alla chetichella, tutto pentito della scappata, quand'uno dei giuocatori ebbe che dire con gli altri: si presero a parole; dalle parole vennero subito ai fatti, e si fecero del male; accorse l'oste, accorsero i famigli, ed io che volevo scappare fui arrestato il primo sull'uscio. Per farla più spicciativa, mi toccò a comparire al tribunale, e andare in carcere e alla seduta. Mi ritrovai con gente che aveva fatto d'ogni erba un fascio; e vidi e seppi cose che mi messero una malizia da farmi divenire malvagio. Un delitto addosso me lo sentivo pur troppo, e la coscienza mi rimordeva, ma fui punito per l'appunto di quello che non avevo commesso. Pensate il dolore di mio padre! Peggiorò della ferita nel piede, gli fece cancrena, e morì. Il padrone che aveva saputo ogni cosa, fece dire a' miei fratelli che mi mettessero fuori di casa pigliando invece un garzone, o che lasciassero addirittura il podere, perchè non voleva più aver che fare con gente poco fidata nè con discoli. Detto fatto; e mi toccò andare a gironi, perchè non ebbi faccia di accostarmi ai poderi del vicinato. Imbattei male, e alla fine de' conti mi ridussi per disperazione a ingaggiarmi fra' coloniali[35]. Allora sì che non ebbi carestia di cattivi esempi! e attaccandomi sempre al peggio diventai proprio uno scellerato. Finito il tempo del servizio mi ritrovai senza salute e senza voglia di lavorare.... Ho toccato la carcere dell'altre volte.... Ora lo vedete da voi com'i' son ridotto. Piango sempre i miei peccati, ma troppo tardi; e quando mi ricordo di quelle triste parole del tentatore.... Basta.... Io non dovevo dar retta alla prima tentazione. Tocca a Dio a giudicare di queste cose.» E chinando la testa sul petto, con un fremito misto d'ira e d'affanno, ghermì il lembo della sua logora gabbanella per asciugarsi le lacrime e per nascondersi la faccia.
INDICE
La presunzione di sapere Pag. 7
Fiducia nella Provvidenza 15
La buona e la cattiva compagnia 18
La buona figliuola 29
Il buon esempio 42
La vera beneficenza 53
Il dottor Paolo 63
La ricompensa 86
I Racconti della Milla 100
Riguccio 104
L'amico sin dall'infanzia 164
Giovanni Fantoni e il suo calzolaio 176
La mala prevenzione 185
Il primo viaggio di un giovinetto 206
La tentazione 254
NOTE:
1. Botanica, Quella parte della storia naturale che tratta delle piante. ( Editore. )2. Erborare, Andar cercando qua o là erbe, per istudio. ( Edit. )3. Nomenclatura, Denominazione, e Raccolta ordinata di nomi. ( Editore. )4. Erbario, Raccolta di piante, o Libro in cui sono descritte. ( Edit. )5. Dissezione, Incisione, Taglio. ( Editore. )6. Petali, Stami, Pistilli, Ovarj, organi de' fiori delle piante. ( Editore. )7. Fisiologia, Parte delle scienze naturali che tratta delle funzioni de' varii organi de' corpi. ( Editore. )8. Metodo, Ordine, disposizione delle materie da trattare, modo di esporle. ( Editore. )9. Filetto è una specie di giuoco; si chiama Filetto anche il foglio o il legno ove sono segnati il quadrato e le diagonali sulle quali si fa esso giuoco. ( Editore. )10. È fuori del tiro del Maestro, è quanto dire: Il Maestro non può vederlo. ( Editore. )11. Quando io pubblicai la prima volta questa notizia, le cose andavano presso a poco nello stesso modo che il Parroco lasciò scritto: la Luisa quantunque povera non aveva sempre bisogno d'andar mendicando soccorsi; ma la carità dei vicini alleggeriva talvolta le sue angustie. Sopraggiunse anche la carità dei lontani; e mi sia permesso di ricordare, a consolazione dei buoni, che appunto la lettura di queste pagine impietosì verso la Luisa alcune persone che non conoscevano la sua virtù nè le sue disgrazie. Una signora, a me ignota, fu la prima a chiedermi il nome e la patria della Luisa; e dandone esempio ad altre, le fece, con ogni gentile riguardo, pervenire opportuni soccorsi per molto tempo.12. Il più famoso pittore della Spagna; nato a Siviglia, il primo Gennaio 1618, e morto il 3 Aprile 1682. Fu scolare di Velasquez.13. Vuol dire «malattie della pelle:» viene da cute, nome che i medici danno alla pelle.14. Sotto, vale Presso; tutta la frase poi come se dicesse: presso alle porte. ( L'Editore. )15. Così il popolo per canonico. ( L'Editore. )16. Far pepino, dicono nelle scuole il riunire in gruppo le punte di tutte le dita e pararle ai colpi del maestro. ( L'Editore. )17. Lorenzo Bartolini de' più grandi scultori de' nostri giorni rapito all'arte il 20 Gennaio 1850. ( L'Editore. )18. Pietro de' Medici occupò spesse volte Michelangiolo a fare statue di neve!19. M. Simone da Fiesole fu mediocre scultore. Dovendo scolpire la statua d'un gigante ebbe un gran blocco di bel marmo; cominciò a sbozzarlo male, e l'opera non andò avanti. Michelangiolo chiese al Comune quel masso; gli fu concesso, e ne cavò il bellissimo David di Piazza, rizzato l'anno 1504 e trentesimo dell'età di Michelangiolo.20. Il pontefice Clemente VII de' Medici.21. Michelangiolo fu chiamato nel 1503 a Roma dal Papa Giulio II che gli ordinò per sè una magnifica sepoltura ornata di molte statue. Fra quelle una rappresenta Mosè, ed è giudicata il capolavoro di scultura di Michelangiolo.22. Camposanto di Firenze.23. Il 6 Maggio 1527 seguì il saccheggio di Roma fatto dagl'imperiali sotto il comando del Contestabile Carlo di Borbone, traditore di Francesco I re di Francia, e generale di Carlo V imperatore di Germania.24. Clemente VII.25. Terza cacciata de' Medici.26. 24 Ottobre 1529.27. Costare un pezzo di pane, vale Costare pochissimo. ( L'Editore. )28. Più comunemente conosciuto sotto il nome di Labindo, poeta arcade.29. Prigione. ( L'Editore. )30. È stata costruita, non è molto, una diga in mezzo allo stagno che va diritto da Orbetello all'Argentario, e serve intanto di sostegno a un acquedotto.31. I deputati a riscuotere le gabelle alle porte della città. ( L'Editore. )32. Ora Corso Vittorio. ( L'Editore. )33. Fatto rosso come un peperone. ( L'Editore. )34. Moneta toscana del valore d'una lira e centesimi sessantotto. ( L'Editore. )35. Coloniali, così si chiamarono in Toscana alcune soldatesche raccolte in gran parte di giovani scapestrati. ( L'Editore. )
CATALOGO
DELLE
EDIZIONI DI R. BEMPORAD & FIGLIO
CESSIONARI DI FELICE PAGGI
BIBLIOTECA SCOLASTICA
SILLABARI
AZZI (Carlo) e BENEDETTI (Scipione). — Sillabario per i Fanciulli , con la pronunzia, corretto e aumentato L. — 50
BACCINI (Ida). — Sillabario per la prima classe elementare, notevolmente modificato secondo gli ultimi programmi governativi — 10
COSTETTI BIAGI (Emilia). — Nuovo Sillabario. — Libro di testo per le scuole elementari del Comune di Firenze. Nuova edizione notevolmente modificata, con 100 illustrazioni di E. Mazzanti — 50
Sillabario per le scuole elementari d'Italia — 10
SIRI (Emilia). — Metodo per insegnare a leggere , ossia Il Sillabario — 50
—— Metodo per insegnare a Leggere la Lingua Francese ai fanciulli italiani 1 —
THOUAR (Pietro). — Sillabario Graduale per avviamento alle Letture Graduali , secondo il metodo dell'illustre R. Lambruschini — 40
GRAMMATICHE, ISTITUZIONI RETORICHE, ANTOLOGIE, CRESTOMAZIE, EC.
BACCINI (Ida). — Nozioni di Grammatica Italiana esposte secondo il metodo intuitivo, ad uso delle scuole elementari — 50
BENEDETTI (G.). — Elementi di Grammatica Latina nuovamente compilati ad uso dei ginnasi 1 —
COLLODI (C., Lorenzini Carlo). — La Grammatica di Giannettino , adottata nelle scuole comunali di Firenze — 60
DELLA PURA (Alfredo). — La Scuola e la Vita. Nuova Antologia Poetica ad uso delle classi elementari superiori e ginnasiali inferiori 1 50
—— Poesie per Fanciulli , raccolte e postillate ad uso delle scuole elementari 1 —
DUBNER (Federigo). — Grammatica Elementare e Pratica della Lingua Greca. Prima versione italiana del prof. E. Ferrai 3 50
—— Grammatica Elementare e Pratica della Lingua Greca compendiata per uso delle scuole 1 75
FANFANI (Pietro) e RIGUTINI (Giuseppe). Antologia Italiana compilata per uso degl'istituti tecnici con incisioni in legno 2 50
FORNACIARI (Avv. Luigi). — Esempi di Bello Scrivere scelti e illustrati, e diligentemente riveduti e corretti, ed accresciuti di un'Appendice per opera del prof. Raffaello Fornaciari, figlio del compilatore.
Vol. I. Prosa 2 —
Vol. II. Poesia 2 —
FORNACIARI (Prof. Raffaello). — Manuale di Varia Letteratura ad uso delle scuole.
Vol. I. Poesia Classica 3 50
Vol. II. Prosa Classica 3 —
—— Prosa italiana del Secolo XIX. — Esempi di bello scrivere scelti e illustrati 2 50
—— Poesia italiana del Secolo XIX. — Esempi di bello scrivere scelti e illustrati 2 50
MONTANARI (Cav. G. I.). — Lettere scelte di Scrittori Italiani del secolo XIX ad uso della studiosa gioventù, accresciute e ricorrette 2 —
PAGGI (Ang.). — Grammatica Ebraica ragionata ed Elementi di Grammatica Caldaico-Rabbinica 6 50
PERA (Prof. Francesco). — Pratica e Teorica della Lingua Italiana per uso delle scuole e delle famiglie. Nuova edizione con variazioni ed aggiunte fatte dall'autore.
Parte I. Etimologia 1 25
Parte II e III. Sintassi e Lessicologia 1 50
—— Avviamento alle umane lettere, esposte per esempj e precetti. Questo libro fa seguito alla Pratica e teorica della lingua italiana del medesimo autore 3 —
Prosodia della Lingua Latina con un breve trattato del verso toscano , per uso delle scuole — 70
PUCCIANTI (Prof. G.). — Sentire e Meditare. Pensieri e giudizi di moderni scrittori, raccolti e annotati 1 50
RIGUTINI (Prof. G.). — Elementi di Rettorica compilati per uso delle scuole italiane 3 —
—— Fiore di Lettere e di Liriche di Donne Italiane, corredato delle vite di alcune di esse. Libro compilato ad uso delle scuole ed istituti femminili 1 50
—— Crestomazia Italiana della Prosa moderna preceduta da una Notizia Storica della Prosa dalla sua origine fino ai giorni nostri 2 50
—— Crestomazia Italiana della Poesia moderna preceduta da una Notizia Storica della Poesia dalla sua origine fino ai giorni nostri 2 50
—— Antologia Italiana compilata per uso delle scuole tecniche 2 50
—— La unità ortografica della lingua italiana 2 —
—— Lettere scelte del Giusti, del Leopardi, del Foscolo e del Giordani , per uso delle classi ginnasiali inferiori 1 75
THOUAR (Pietro). — Regole di Ortografia Italiana ad uso delle scuole; operetta postuma riveduta da R. Lambruschini — 70
—— Antologia ad uso dei fanciulli delle scuole elementari — 60
La stessa legata in mezza tela 1 20
TRENTA (Matteo). — I Primi Elementi della Grammatica Italiana, riveduti e corretti dal prof. Pietro Dazzi — 50
LIBRI DI STORIA, DI SCIENZA E D'ARTE
Abbaco. Libretto di Aritmetica ad uso delle Scuole Pie, col sistema metrico decimale — 10
ARTIMINI (prof. Antonino). — Sul Telefono ed altri istrumenti elettrici. Appunti per gli alunni delle Scuole del Popolo — 50
BACCINI (Ida). — La Storia di Firenze narrata a scuola. Libro di testo per le scuole elementari del Comune di Firenze 1 50
La stessa legata in tela con placca a oro 2 50
BARZACCHINI (G.) — Cento Racconti tratti dalla Storia Sacra, con illustrazioni di E. Mazzanti — 50
BELVIGLIERI (Prof. Carlo). — Storia della Grecia dai tempi remoti sino alla conquista romana 2 30
BERTI e CAVAZZA. — Saggio di Frutticultura con 119 vignette 4 —
COLLODI (C., Lorenzini Carlo). — L'Abbaco di Giannettino per le classi elementari, adottato nelle Scuole Comunali di Firenze — 50
—— La Geografia di Giannettino, adottata nelle Scuole Comunali di Firenze — 60
Corso Elementare di Ornato per uso delle scuole tecniche, disegnato dal prof. Andrea de Vico e inciso nello studio Perfetti; in foglio 3 50
CUPPARI (Prof. Pietro). — Lezioni di Agricoltura. Vol. 2 8 —
EREDE (Ing. Giuseppe). — Elementi di Geometria Pratica o Topografia, per uso degli ingegneri e degli studenti degli istituti tecnici, delle università e delle scuole di applicazione, vol. 1 in-8 gr., con Atlante 6 —
FABRICIUS (S.) — Biografie ad uso delle scuole normali e magistrali.
Parte I. Da Romolo a Desiderio 1 50
Parte II. Da Carlo Magno a Napoleone I 2 —
—— Lezioni di Storia Moderna ad uso delle scuole normali 3 50
FONTANELLI (C.) — Manuale popolare di economia sociale. Seconda edizione con aggiunte 2 —
GROSSI-MERCANTI O. — Brevi racconti di Storia Ebraica, Greca e Romana , ad uso della 1ª e 2ª classe elementare, nelle scuole urbane e rurali, secondo gli ultimi programmi e istruzioni ministeriali — 70
—— Come si è fatta l'Italia. — Storia del risorgimento italiano narrata ai fanciulli. Brevi racconti per la terza classe elementare, secondo gli ultimi programmi ministeriali — 60
LIEBIG. — Sei nuove Lettere Chimiche sull'Agricoltura 1 —
MAFFEI (G.) — Storia della Letteratura Italiana dall'origine della lingua sino ai nostri giorni; compendiata dal padre Ignazio Cutrona. Nuova edizione aumentata e corretta da un toscano (prof. G. Falorsi ) 1 —
MARESCOTTI. — Sulla Economia Sociale. Discorsi. Vol. 4 12 —
NAQUET (A.) — Principii di Chimica fondati sulle teorie moderne. Traduzione autorizzata ed eseguita da Cesare Parenti . Vol. 2 10 —
ORLANDINI (Orlando). — Trattato sulla Stima dei Benifondi , compilato sulle tracce dei lavori relativi a tal soggetto inscritti nel prospetto delle scienze economiche di Melchiorre Gioia. Vol. 2 8 —
PACINI (Prof. Silvio). — Elementi di Geografia e Cosmografia . — Nuova edizione rifatta con altro metodo e notabilmente accresciuta per uso delle Scuole Italiane dal prof. G. Venturini 3 —
—— I Primi Elementi di Geografia tratti dalla Geografia e Cosmografia — 20
—— La Geografia per i fanciulli delle scuole elementari; nuova edizione riveduta e corretta — 60
—— Elementi di Cosmografia ad uso delle scuole inferiori — 60
—— Elementi di Geografia Antica per le scuole ginnasiali e liceali 2 50
—— Catechismo Politico per le scuole elementari, aggiuntovi lo Statuto fondamentale del Regno — 40
—— Piccola Storia d'Italia ad uso delle scuole elementari e ginnasiali inferiori; nuova edizione riveduta e corretta dal prof. G. Rigutini .
Parte Prima, Cento Racconti di Storia Romana — 60
Parte Seconda, Cento Racconti di Storia del Medio Evo — 60
Parte Terza, Cento Racconti di Storia Moderna — 60
—— I Fatti della Storia Italiana raccontati a scuola. Nuova edizione riveduta, corretta e corredata delle Tavole Cronologiche dal prof. G. Rigutini .
Vol. I. Storia Romana 2 —
Vol. II. Storia del Medio Evo 2 —
Vol. III. Storia Moderna 2 —
PAGNINI (Prof. Cesare). — Abbaco per la prima classe elementare e per gli asili d'infanzia compilato secondo il programma governativo — 10
—— Primi elementi di Aritmetica Pratica secondo il programma governativo per le classi 2ª e 3ª elementari, corredati di esercizi e problemi colle rispettive risposte — 30
—— Compendio di Aritmetica contenente le prime nozioni di geometria corredato di esercizi di calcolo e problemi colla rispettiva risposta per le classi quarta e quinta elementari e le prime tre ginnasiali 1 —
—— Trattato di Aritmetica Teorico-Pratica, per le scuole ginnasiali, tecniche e normali , corredato di scelti esercizi di calcolo e di problemi graduati ed istruttivi 3 —
PASQUINI (Prof. Paolo). — Elementi di Disegno Geometrico ad uso delle scuole tecniche, normali e industriali, vol. 1 in-8 grande con tavole 3 50
PERI (Cav. G.) — Corso elementare di Geometria Descrittiva : libri 3 con atlante di 24 tavole, seguiti da un'appendice, sul metodo delle projezioni quotate. Seconda edizione per cura del prof. Antonio Mochi 7 50
—— Applicazioni della Geometria descrittiva alle ombre, alla prospettiva lineare ed aerea, al taglio delle pietre e del legname. Seconda edizione riveduta ed aumentata di un'Appendice contenente le projezioni delle carte geografiche e la Gnomonica per G. Bellotti, professore nel R. Istituto tecnico di Firenze. Vol. 1 in-8 gr., con un Atlante di 304 figure 15 —
RIGUTINI (Prof G.) — Tavole Cronologiche della Storia d'Italia, ad uso delle Scuole. — I. Evo Romano. — II. Evo Medio. — III. Evo Moderno — 80
SANESI (Tommaso). — Compendio di Storia Contemporanea , conformato ai Programmi Ministeriali. Nuova edizione con un'Appendice comprendente il regno di Umberto I 2 25
STAGI (V.) — Nuovo Abbaco — 20
STOLL (Enrico). — Manuale della religione e Mitologia dei Greci e Romani ad uso dei ginnasi, tradotto per la prima volta in italiano, col consenso dell'autore, dal prof. Raffaello Fornaciari, con 39 incisioni 4 —
THENOT. — Trattato di Prospettiva Pratica , in-8 con rami 4 —
—— Disegno Lineare a seste e riga applicato all'industria , in-8 con 80 tavole incise in rame. Versione di A. De-Bonis; nuova edizione riveduta e corretta 5 —
UGUCCIONI (Leopoldo). — Elementi di Anatomia esterna , con 20 tavole incise in rame 2 50
VAN DEN BERG. — Compendio di Storia Antica dei Popoli Orientali: Egiziani, Assiri e Babilonesi, Israeliti, Fenici, Medi e Persiani, Indiani. Prima traduzione italiana autorizzata, riveduta dal professore Enrico Nencioni 2 —
VANNETTI (Dott. Lorenzo). — Nozioni Fisico-Naturali applicabili alla igiene ed alla economia domestica, offerte alle scuole elementari secondo i programmi governativi. Botanica 1 50
VANNINI (Prof. Giuseppe). — Elementi di Architettura Civile , vol. 1 in-8, con Atlante 16 —
VARCHI (Benedetto). — Fiore della Storia Fiorentina , con note e sommarj per Giuseppe Rigutini . Libro di testo 3 —
VECCHJ (A. V.). — Nozioni di Fisica e Storia Naturale , per la quarta classe elementare, secondo gli ultimi programmi 1 —
—— Nozioni di Fisica e Storia Naturale per la quinta classe elementare secondo gli ultimi programmi 1 —
ZALLA e PARRINI. — Storia di Roma Antica , dalle origini italiche fino alla caduta dell'Impero d'Occidente, corredata di Tavole Cronologiche 2 —
ZALLA (Angelo). — Storia del Medio Evo (476-1492) corredata di Tavole Cronologiche 2 —
—— Storia Moderna (1492-1889) corredata di Tavole Cronologiche 2 —
ZAMPONI (Prof. Florido). — Storia d'Italia del Medio-Evo. Vol. 2 6 —
—— Roma Antica nei suoi Monumenti, Istituzioni Usi e Costumi. Opera destinata ad illustrare la Storia Romana e ad agevolare l'interpetrazione dei Classici latini 2 50
LIBRI PER LETTURE
ABBATTUTIS Gian Alesio ( G. B. Basile ). — Fate benefiche. Racconti per i bambini; libera versione di G. L. Ferri , con illustrazioni di E. Mazzanti 1 50
Gli stessi legati in tela con placca a oro 2 50
ALFANI (Augusto). — Ernestino e il suo Nonno , libro di lettura per le classi elementari superiori. Seconda edizione con correzioni ed aggiunte, illustrata da E. Mazzanti 1 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 50
Lo stesso legato in mezza tela 2 10
—— Letture Graduali per le Scuole Rurali Maschili , con vignette. Nuova edizione coordinata agli ultimi programmi ministeriali.
Grado primo — 50
Lo stesso legato in mezza tela 1 10
Grado secondo — 80
Lo stesso legato in mezza tela 1 40
Grado terzo 1 20
Lo stesso legato in mezza tela 1 80
—— Primo libro di Lettura per le scuole elementari maschili, con vignette (ad uso della seconda classe elem.) — 70
—— Secondo libro di Lettura con vignette (ad uso della terza classe elementare maschile) 1 20
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 20
Lo stesso legato in mezza tela 1 80
—— Il Libro di Lettura per la quarta classe elementare , composto secondo le ultime norme governative, con vignette 1 75
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 75
Lo stesso legato in mezza tela 2 35
BACCINI (Ida). — Prime letture composte da una mamma , ad uso della prima classe elementare, con vignette. Nuova edizione aumentata e coordinata agli ultimi programmi ministeriali — 25
—— Seconde letture per le classi elementari, con vignette. Nuova edizione notevolmente aumentata e coordinata agli ultimi programmi ministeriali — 80
Le stesse legate in tela con placca a oro 1 80
Le stesse legate in mezza tela 1 40
—— Terze letture per le classi elementari femminili, con vignette. Nuova edizione aumentata e coordinata ai nuovi programmi governativi 1 —
Le stesse legate in tela con placca a oro 2 —
Le stesse legate in mezza tela 1 60
—— Terze letture per le classi elementari maschili, con vignette 1 —
Le stesse legate in tela con placca a oro 2 —
Le stesse legate in mezza tela 1 60
—— Quarte letture per le classi elementari femminili, con vignette. Nuova edizione aumentata e coordinata agli ultimi programmi ministeriali 1 40
Le stesse legate in tela con placca a oro 2 40
Le stesse legate in mezza tela 2 —
—— Quarte letture per le classi elementari maschili, con vignette 1 20
Le stesse legate in tela con placca a oro 2 20
Le stesse legate in mezza tela 1 80
—— Memorie d'un Pulcino. Libro di lettura con vignette 1 —
Le stesse legate in tela con placca a oro 2 —
Le stesse legate in mezza tela 1 60
—— Favole e cose vere , dichiarate da una mamma ai suoi figliuoli. Terza edizione riveduta e aumentata, con illustrazioni di E. Mazzanti — 60
Le stesse legate in mezza tela 1 20
—— I Piccoli viaggiatori. — Viaggio nella China. Libro di lettura per le classi elementari, con vignette 1 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 50
Lo stesso legato in mezza tela 2 10
—— La Fanciulla Massaia. Libro di lettura per le scuole femminili, nuova edizione riveduta, corretta e aumentata, con vignette 1 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 50
Lo stesso legato in mezza tela 2 10
—— La Terra, il Mare, il Cielo. Libro di lettura per le classi elementari, con vignette 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
—— Racconti. Libro di lettura per le classi elementari superiori, con vignette; nuova edizione corretta e aumentata 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
—— Il libro del mio Bambino. Libro di lettura per le prime classi elementari. Seconda edizione riveduta e corretta, illustrata da E. Mazzanti 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
—— Figurine e Racconti. Nuovo libro di lettura, con vignette 1 20
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 20
Lo stesso legato in mezza tela 1 80
—— Storia di una donna , narrata alle giovinette, illustrata da E. Mazzanti 1 50
La stessa legata in tela con placca a oro 2 50
La stessa legata in mezza tela 2 10
BOTERO (Prof. Gius.) — Letture Educative pei Giovanetti Italiani , con vignette 2 —
Le stesse legate in tela con placca a oro 3 —
BRUNI (Oreste). — Libro di Prima Lettura compilato secondo il metodo proposizionale e proposto specialmente ad uso delle scuole serali — 50
CAPPONI (Gino). — Sull'Educazione , frammento. Terza edizione 1 —
CAPUANA (Luigi). — C'era una volta.... — Fiabe. Nuova edizione aumentata e riveduta dall'Autore, con illustrazioni di E. Mazzanti 3 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 4 —
CAVERNI (Raffaello). — Con gli occhi per terra. Nozioni intorno alla natura e alla proprietà di alcune sostanze minerali, con illustrazioni di E. Mazzanti 2 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 3 50
CHECCHI (Eugenio). — Racconti per Giovinetti , con illustrazioni di E. Mazzanti 2 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 3 —
CLASIO (Luigi). — Favole e sonetti pastorali aggiuntevi alcune favole scelte di Lorenzo Pignotti. Nuova edizione illustrata da E. Mazzanti , con prefazione e note di A. V. Vecchj — 80
Le stesse legate in tela con placca a oro 1 80
Le stesse legate in mezza tela 1 40
CLODDS (Eduardo). — L'Infanzia del Mondo , ovvero Nozioni sull'uomo primitivo . Versione dall'inglese, con vignette 1 20
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 20
Lo stesso legato in mezza tela 1 80
COLLODI (C. Lorenzini Carlo). — Giannettino. Libro per i ragazzi, con vignette 2 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 3 —
Lo stesso legato in mezza tela 2 60
—— Minuzzolo. Secondo libro di lettura. (Séguito al Giannettino), con vignette 2 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 3 —
Lo stesso legato in mezza tela 2 60
—— Il Viaggio per l'Italia di Giannettino.
Parte I. L'Italia Superiore, con vignette 2 —
Parte II. L'Italia Centrale, con vignette 2 —
Parte III. L'Italia Meridionale, con vignette 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro, ogni volume 3 —
Gli stessi legati in mezza tela, ogni volume 2 60
—— Libro di Lezioni per la seconda classe elementare, secondo gli ultimi programmi — 80
—— Libro di Lezioni per la terza classe elementare, secondo gli ultimi programmi 1 —
—— Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino illustrata da E. Mazzanti 2 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 3 50
—— I Racconti delle fate. — Traduzione dal francese, con vignette 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 3 —
—— Storie allegre. Libro per i ragazzi illustrato da E. Mazzanti 2 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 3 —
—— La Lanterna Magica di Giannettino. Libro per i giovanetti, con illustrazioni di E. Mazzanti 2 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 3 —
CONTI CAROTTI (Paolina). — Esercizi Graduati per Dettatura e per Copia , ad uso delle classi elementari inferiori e per le scuole delle adulte 1 80
—— Libretto per esercizio di copia , ad uso delle scuole del popolo — 20
—— Ricordi di un Maestro. Libretto per esercizio di lettura e d'intelligenza, ad uso delle scuole elementari, con vignette 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
—— Le Quattro Stagioni , libro di lettura per le classi elementari, vol. 4 con vignette. (Ciascun volume si vende separatamente).
I. Inverno 1 —
II. Primavera 1 20
III. Estate 1 20
IV. Autunno 1 20
Gli stessi legati in tela con placca a oro, ogni volume 2 20
Gli stessi legati in mezza tela, ogni volume 1 80
DAZZI (Prof. Pietro). — Il Primo Libro della Bambina , per la seconda classe elementare, con vignette. Nuova edizione accresciuta e ordinata secondo gli ultimi programmi ministeriali — 60
Lo stesso legato in tela con placca a oro 1 60
Lo stesso legato in mezza tela 1 20
—— Il Secondo Libro della Bambina , con vignette. Nuova edizione accresciuta e ordinata per la terza classe elementare, secondo gli ultimi programmi ministeriali 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
—— Terzo libro di lettura per le fanciulle, con vignette 1 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 50
Lo stesso legato in mezza tela 2 10
—— Il Bambino. Primo libro di lettura per la seconda classe elementare, con vignette. Nuova edizione accresciuta e ordinata secondo gli ultimi programmi — 60
Lo stesso legato in tela con placca a oro 1 60
Lo stesso legato in mezza tela 1 20
—— Il Fanciullo. Secondo libro di lettura, con vignette. Nuova edizione accresciuta e ordinata per la terza classe elementare, secondo gli ultimi programmi governativi 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
—— Terzo libro di lettura per i fanciulli, con vignette 1 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 50
Lo stesso legato in mezza tela 2 10
FERRUCCI (Rosa) e alcuni suoi Scritti pubblicati per cura di sua madre 2 —
FIORENTINO (Enrico). — Nuove Poesie infantili , ad uso delle scuole elementari e delle famiglie. Libro di testo per le scuole comunali di Firenze 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
FUÀ FUSINATO (Erminia). — Scritti Educativi — 80
GROSSI (O.). — Cento Racconti per Fanciulli , libro di lettura per le classi elementari, con vignette — 60
Lo stesso legato in tela con placca a oro 1 60
Lo stesso legato in mezza tela 1 20
MANZONI (Alessandro). — Il fiore dei Promessi Sposi , e della Storia della Colonna Infame , con note illustrative di Luigi Venturi . Terza edizione accuratamente riveduta, ad uso delle scuole 2 —
—— Gl'Inni sacri e il Cinque maggio , dichiarati e illustrati da Luigi Venturi ad uso delle scuole. — Quarta edizione notevolmente ritoccata e accresciuta — 80
—— Osservazioni sulla Morale Cattolica , dichiarate e illustrate da Luigi Venturi 2 —
MUZZI (Salvatore). — Il Mondo Sotterraneo. Notizie di Geologia accomodate alla comune intelligenza 1 20
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 20
Lo stesso legato in mezza tela 1 80
—— Il Mondo Celeste. Ossia Costituzione, Moto ed Equilibrio dell'Universo . Operetta elementare 1 20
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 20
Lo stesso legato in mezza tela 1 80
—— Leggende e Narrazioni tratte da soggetti italiani, con vignette 1 80
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 80
Novellino (Il) ossia Le Cento Novelle Antiche , illustrate ad uso delle Scuole Classiche, a cura del prof. Licurgo Cappelletti 1 10
PACINI (Prof. Silvio). — Gli Ammaestramenti e gli Esempi di Plutarco raccolti ed ordinati per i giovanetti 1 80
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 80
—— Novelle in versi scelte e annotate per i giovinetti in aiuto allo studio della lingua comune 2 —
—— Commedie del Teatro Antico Fiorentino , scelte e annotate per i giovinetti in aiuto allo studio della lingua comune 2 50
PANDOLFINI (Agnolo). — Il Governo della Famiglia , letto e spiegato a scuola dal prof. Silvio Pacini . Nuova edizione riveduta 1 —
PARDINI (Prof. Angiolo). — Raccontini per l'infanzia — 40
Gli stessi legati in mezza tela 1 —
—— Cento nuovi Racconti per le Classi elementari — 50
Gli stessi legati in mezza tela 1 10
PELLICO (Silvio). — Dei Doveri degli uomini. Discorso ad un giovine, annotati e spiegati a scuola dal prof. R. Angeloni 1 —
PERA (Prof. Francesco). — Affetti e Virtù. Letture per le famiglie e per le scuole 2 —
Le stesse legate in tela con placca a oro 3 —
—— Esempi di Virtù Cristiane 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 3 —
PERODI (Emma). — Cuoricino ben fatto. Libro di lettura per le scuole e le famiglie, con illustrazioni di Enrico Mazzanti 1 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 50
Lo stesso legato in mezza tela 2 10
—— I bambini delle diverse nazioni a casa loro , con illustrazioni di E. Mazzanti 1 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 50
ROSELLINI FANTASTICI (Massimina). — Raccolta completa dei Dialoghi e Racconti per fanciulli , con vignette 1 20
La stessa legata in tela con placca a oro 2 20
La stessa legata in mezza tela 1 80
—— Commedie per la Puerizia 1 —
—— Commedie per l'Adolescenza 1 20
ROUX (Onorato). — Beppino e la sua Famiglia. Racconto illustrato da E. Mazzanti 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
SIRI (Emilia). — Le disgrazie di Giacomino. Racconto. Aggiuntovi Manly e Playfar . Racconto. Traduzione libera. Libro di lettura per le classi elementari — 50
THOUAR (Pietro). — Il Libro del Fanciulletto ad esercizio delle facoltà intellettuali e morali per uso delle scuole elementari, con vignette 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
Il volumetto è stato diviso in tre parti che si vendono anco separatamente:
La Creazione e l'uomo — 30
Il Regno della natura — 50
La Geometria de' fanciulli — 30
—— Letture Graduali con nuovi racconti per fanciulli ed una scelta di esemplari di buono stile.
Grado primo 1 —
Grado secondo 1 —
Grado terzo 1 —
Gli stessi legati in un Volume in tela con placca a oro 4 —
—— Racconti per fanciulli , con vignette 1 50
Gli stessi legati in tela con placca a oro 2 50
Gli stessi legati in mezza tela 2 10
—— Raccontini Storici e Biografici , con vignette — 80
Gli stessi legati in tela con placca a oro 1 80
Gli stessi legati in mezza tela 1 40
—— Nozioni di Fisica, Storia Naturale e d'Arti , con vignette 1 —
Le stesse legate in tela con placca a oro 2 —
Le stesse legate in mezza tela 1 60
—— Raccontini Morali , con vignette — 80
Gli stessi legati in tela con placca a oro 1 80
Gli stessi legati in mezza tela 1 40
—— Raccontini Vari , con vignette 1 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 2 —
Gli stessi legati in mezza tela 1 60
—— Dialoghi e Aneddoti — 60
Gli stessi legati in tela con placca a oro 1 60
Gli stessi legati in mezza tela 1 20
—— Dei doveri di Civiltà ad uso delle Fanciulle 1 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 2 —
Gli stessi legati in mezza tela 1 60
—— Dei doveri di Civiltà ad uso dei Giovinetti 1 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 2 —
Gli stessi legati in mezza tela 1 60
—— Il Fanciullo buono e il Fanciullo cattivo. Un bel volume in carta distinta, con vignette 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
—— Una lezione venuta in tempo. Lettere e racconti morali 1 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 —
Lo stesso legato in mezza tela 1 60
—— Ricreazioni e Lezioni per Fanciulli , annotate dal professor Pietro Dazzi , con vignette 1 —
Le stesse legate in tela con placca a oro 2 —
Le stesse legate in mezza tela 1 60
—— Racconti per Giovinetti , con vignette 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 3 —
—— La Casa sul Mare , con vignette 2 —
La stessa legata in tela con placca a oro 3 —
—— Racconti Storici , raccolti ad uso della gioventù italiana dal professor Pietro Dazzi , con vignette 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 3 —
—— Nuovi racconti offerti alla Gioventù Italiana , con vignette 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 3 —
—— Racconti popolari. Nuova edizione, illustrata da E. Mazzanti 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 3 —
—— Manualetto di Educazione Fisica e Morale , esposto in dialoghi tra due artigiani 1 —
—— Manuale dell'Uomo Onesto , opera di Beniamino Delessert . Prima versione italiana con aggiunte ad uso delle scuole 1 80
Lo stesso legato in tela con placca a oro 2 80
Lo stesso legato in mezza tela 2 40
—— Teatro Educativo.
Commedie per fanciulli e giovinetti. Vol. 2 2 —
Commedie per fanciulle e giovinette. Vol. 4 4 —
Commedie per maschi e femmine. Vol. 2 2 —
Commedie per gli adulti. Vol. 3 3 50
TRENTA (Matteo). — Libro di Prime Letture pei Fanciulli , con vignette — 50
Lo stesso legato in tela con placca a oro 1 50
Lo stesso legato in mezza tela 1 10
VECCHJ (A. V.). — Racconti di mare e di guerra , di Sindbad-al-Bahari, illustrati da E. Mazzanti 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 3 —
—— Racconti, Fiabe e Fantasie. Libro utile e dilettevole per i ragazzi, con illustrazioni di E. Mazzanti 2 —
Gli stessi legati in tela con placca a oro 3 —
BIBLIOTECA RICREATIVA
BARATTANI A. — Papiolate. Scorbietti in penna 3 —
COLLODI. — Occhi e Nasi. Ricordi dal vero, terza edizione con aggiunte 3 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 4 —
—— Macchiette. Seconda edizione illustrata da Enrico Mazzanti 3 —
Lo stesso legato in tela con placca a oro 4 —
VERDINOIS F. — Nuove Novelle di Picche 3 —
In corso di stampa.
ALFANI. — Quinto libro di lettura per le scuole elementari maschili.
BACCINI. — Quinte letture per le scuole elementari femminili. —— Il signorino ed altri racconti.
CAPPELLI. — Piccola Raccolta di temi ad uso delle scuole elementari.
GROSSI. — Storia Nazionale, per la quarta e quinta classe elementare.
MERCANTI. — Corso di Storia Naturale e Fisica per le scuole ginnasiali e liceali.
RONDONI e PACINI. — Geografia Storica per le scuole classiche.