CAPITOLO PRIMO

Era Lina un'ingenua verginella Che ai sedici anni non toccava ancor, Era bionda, era pallida, era bella, Nè ancor sapea che cosa fosse amor. FUSINATO.

Siamo nel 1778 in un dopopranzo del mese di maggio.

Il sole compie la luminosa curva sul sereno orizzonte; la primavera brilla splendida nel suo clima temperato, ne' suoi balsamici effluvii.

I corsi di Milano presentano un aspetto lieto, pressochè festevole; notasi un movimento tranquillo di gente e di carrozze che sembrano convenire tutte in un punto solo.

Sono i felici del nostro mondo elegante che recansi a diporto nei pubblici giardini ove un corpo di musica saluta con melodiosi concenti lo schiudersi della stagione dei fiori.

Là si respira un'aria fragrante che porta la salute nei petti ed una grata armonia alle orecchie.

Allorquando il zeffiro che scherza dolcemente infra le fronde degli alberi si muta a poco a poco in vento freddo e molesto.

Una nube nerastra si avanza minacciosa e dilatandosi e moltiplicandosi con ispaventevole rapidità sembra invadere l'azzurro del firmamento.

Il sole scompare; le piante agitate mandano un mormorio stridente.

Il cupo del cielo si riflette sulla terra, l'aria diventa oscura; la luce, sinistra del lampo non tarda a fendere ripetutamente le nubi che già si accavallano come le onde in un mare in tempesta.

È uno di quei rapidi cambiamenti della natura che non ci meravigliano punto nel mese di maggio.

I passeggianti colti all'improvviso si affrettano a ricondursi alle loro case, ma il tuono li sorprende sordo dapprima, indi fragoroso e col tuono un acquazzone fitto, infuriato, continuo.

È un correre, un affannarsi a riparare sotto l'atrio delle case ed in pubblici alberghi; le vie di Milano così tranquille dianzi, ora offrono uno spettacolo quasi di confusione.

Solo l'operaio mal tardandogli l'ora di riabbracciare la famiglia cui lo tenne diviso per l'intera giornata le esigenze dell'officina, affronta indifferente la pioggia sorridendo alle dolci premure che si vedrà fatto scopo dalla madre de' suoi figli.

In breve la notte cade avvolgendo il creato nel suo manto tenebroso; la città si fa deserta e silenziosa… presentando solo un'eccezione nella via di San Paolo.

Chiudevasi colà nientemeno che uno dei più rinomati magazzeni di mode ed erano circa venti giovinette vispe ed allegre che venivano messe in libertà.

Lascio immaginare che rumore assordante di voci, di risa, di urli e poverine non si poteva fargliene carico se sfogavansi in quel momento della soggezione che loro imponeva una maestra vecchia, brontolona e severa.

La natura non si può vincere, talvolta si riesce a soffocare un istante, indi bisogna che segga regina all'impero del mondo; ed è appunto in forza d'un'ineluttabile legge di questa natura che la lingua delle donne… debba sciogliere la questione del moto perpetuo.

—Guarda che brutto tempaccio, diceva una bella brunetta con un tuono di voce tale da soperchiare il cicaleccio delle compagne—ed a dire che stamattina c'era fuora tanto di sole!

—È proprio vero che in questo mese la costanza del tempo assomiglia molto a quella degli amanti; osservò sorridendo una fanciulla dallo sguardo maliziosetto.

—Già, degli amanti del giorno d'oggi.

—E di quelli ancora dei miei tempi; sospirava una vecchia zitella incaricata dalla maestra a sorvegliare la partenza delle sartine.

—Vale a dire, s'udì una voce, che i giovani del nostro secolo sono ancora quelli del secolo scorso.

—Ih, mi credete tanto vecchia!

E qui una risata generale.

—Un momento, saltò su una bella giovinetta dagli occhi azzurri e dai capelli d'oro, io protesto contro questa taccia d'incostanza; vi potrebbero essere delle eccezioni.

—Una protesta in questo caso è una rivelazione.

—Certamente. La biondina vuol difendere qualcuno.

—È chiaro.

—Qualcuno che si trova nella categoria degli amanti.

—Sarà il suo.

—Tò, tò, la biondina ha l'amoroso?

—Sicuro.

—Che furba!

—E noi l'ignoravamo.

—Io però lo sapeva da un pezzo e lo conosco anche.

—Sentite? la Martina lo conosce; è giovane?

—È ricco?

—È biondo?

—È nero?

—Adagio, adagio, altrimenti non parlo più; dirò prima di tutto ch'egli è molto bello.

—Ma brava!

—È giovane e l'ama poi alla follia.

—Ohe biondina, si palesano i segreti.

—Non m'importa; rispose la giovinetta con ingenuo sorriso.

—Tanto meglio. E di', Martina, come si chiama l'innamorato?

—Sì, sì, parla.

—Si chiama… Miccio.

—Miccio! Oh, che brutto nome, gridarono tutte in coro.

—Ed appartiene alla famiglia rispettabile dei… quadrupedi.

—Burlona!

—Sissignore, giacchè l'amante in questione al quale voi prendete sì grande interesse non è altro che un bel gatto soriano, domestico e affezionatissimo alla nostra biondina.

—Questo alle curiose!

Un altra sonora risata fu ripetuta dagli echi della via.

—Ih, che fracasso Madonna santa, borbottava Agata la vecchia zitella, ma che diranno i vicini, che direbbe la maestra se mai vi udisse! La prenderà con me, già son sempre io che porto la pena delle vostre bardassate. Tutte le sere allorquando torno di sopra, Agata, Agata, la mi brontola sempre, le ragazze fanno troppo strepito, ne parleranno tutti, verranno dei lamenti e tu che fai in mezzo ad esse? Gli è che non sei capace di tenerle al dovere oppure ti associ anche tu alle loro pazzie? In ogni modo bada bene poichè io non sono al caso di mantenere una donna che mi sia utile a nulla.—Capite? per causa vostra arrischio di essere cacciata di casa, d'essere abbandonata sulla strada ed alla mia età non si trova facilmente di che guadagnarsi la vita. Andiamo adunque, da brave, il tempo va acquietandosi, cogliete l'occasione e ritornate tranquille alle vostre case; avreste forse paura d'un po' d'acqua?

Facili ad arrendersi ad amorevoli parole le nostre sartine si fecero sul limitare della porta, sotto l'atrio della quale stavano raccolte ed involontariamente quasi tulle guardarono il cielo.

—È vero, s'udì una voce, la pioggia pare che cessi.

—Agata ha ragione, è tempo che ce n'andiamo.

Incomincierò io a dar il buon esempio; buona notte a tutte.

E ratta staccatasi dalle compagne una bella giovinetta, rasente al muro perdevasi nel bujo della via.

—E non avere uno straccio d'ombrello, prorompeva indispettita un'altra, ed a dire che stamattina mi va proprio a saltare in mente d'indossare il mio abito più bello; chissà come lo sciupo!

—Te ne farai regalare un altro.

—Uh, linguaccia!

Ed una terza risata non meno universale delle precedenti sovrastò di gran lunga il rumore del temporale.

Se qualcuno mi osservasse ch'io faccio ridere per troppo poco risponderei che i miei personaggi presentemente son tutte donne.

La sartina del bell'abito forse per non lasciar scorgere un certo vermiglio che suo malgrado le saliva le guancie senza darsi per inteso se la svignò chetamente.

Così continuando a cinguettare or su questa, or su quella cosa, ad una ad una, riparandosi alla meglio sotto l'ombrello dei privati, ritornavano tutte alle loro case con grandissima soddisfazione della vecchia Agata.

La biondina, l'amante del miccio, non fu tra le ultime a partire.

Ell'era una fanciulla di circa diciott'anni; i capelli del color dell'oro e la regolarità inappuntabile de' suoi lineamenti le avevano guadagnato l'appellativo di bella bionda e nessuno, neppur le più intime di lei amiche la conoscevano sotto altro nome.

Orfana della madre conviveva felice col vecchio genitore, il quale affranto dagli anni e da lunghe infermità doveva la sua vita ai sudori della figliuola e ad uno scarso compenso mensile che gli fruttava il suo modesto impiego.

Egli era portinajo d'una casa di nobile famiglia situata sul corso di Porta Nuova.

Povera ma ricca di cuore e di generosi sentimenti la biondina consumava i suoi giorni nel lavoro e nelle cure che esigeva il cadente padre suo—e quantunque spesse volte si vedesse costretta a dure privazioni non bastando i tenui guadagni a supplire ai tanti bisogni, pure nella sua povertà ell'era felice ed il volto, riflettendo la pace dell'anima era sempre sereno e sorridente.

Si alzava col sole alla mattina ed accudite le domestiche faccende e dato un bacio al padre ed un abbraccio ad un gatto che colla sua domestichezza e fedeltà erasi guadagnato la tolleranza dell'infermo e tutto l'amore della fanciulla, volava lieta al magazzeno, ove amata dalla maestra per l'assiduità al lavoro e dalle compagne pel carattere schietto e la bontà dell'anima passava contenta l'intiera giornata.

Beata allorquando gli era data trascorrere la sera in dolce ozio col miccio in grembo, seduta ai piedi del padre suo, non era perciò dolente allorchè i bisogni della maestra e più ancora i suoi propri l'obbligavano a spendere parte della notte al tavolino da lavoro.

La compagnia del gatto le svaniva dalla mente ogni superstizioso timore e l'idea di migliorare l'esistenza del vecchio sofferente le allontanava il sonno allorchè s'aggradava pesante sulle di lei pupille.

Il padre superbo di tal figliuola soleva chiamarla il suo angelo e coloro che conoscevano la bella biondina approvavano unanimi la tenerezza paterna.

Fatti appena alcuni passi la biondina s'incontrò in un elegante giovinotto che percorreva da qualche tempo la via di S. Paolo nell'attitudine di chi aspetta qualcuno.

Vestiva egli con quella femminea ricercatezza che esigeva la moda de' suoi tempi.

I capelli portava incipriati e annodati indietro; indossava un lungo pastrano verde ricco di merletti e guarnizioni d'ogni sorta; il panciotto gli scendeva sin oltre le anche ed i pantaloni di stoffa rossa allacciati alle ginocchia lasciavano vedere il contorno di due gambe aggraziate e coperte da calze di seta.

Vide la fanciulla e cedendole cortesemente il marciapiedi si fermò a contemplarla, indi come colui che si risolve dopo un'istante d'indecisione le si porta al di lei fianco.

—Bella fanciulla, le disse in tuono garbato, io non voglio lasciarvi esposta a quest'acqua che cade a rovesci, degnate d'appoggiarvi al mio braccio e permettete che vi accompagni coll'ombrello.

La biondina per tutta risposta chinò il capo e mosse più ratta i suoi passi.

—Si tratta di voi, ribattè il damerino, si tratta della vostra preziosissima salute che potrebbe soffrire affrontando quest'ostinato temporale; siate adunque discreta e fatemi l'onore in questa sera d'essere il vostro cavaliere servente.

«Voi non rispondete? ah, capisco, gli è che sperate di incontrare lui non vero? il fortunato mortale che possiede il vostro cuore e che per combinazione quest'oggi è in ritardo.

«Oh, ma se io fossi al suo posto, se spettasse a me l'alta fortuna di chiamarmi… vostro amico, certamente vi sarei più assiduo, apprezzerei meglio il mio biondo tesoro.

«Ebbene io vi offro il mezzo di vendicarvi di lui se lo volete, appoggiatevi al mio braccio e se avremo la disgrazia d'incontrarlo rispondetegli che non è più in tempo; accettate?»

—Signore, rispose ingenuamente la biondina, non potendo trattenere un sorriso, io non devo incontrare nessuno.

—Davvero?

—Ho sempre preferito far la mia strada da sola; vi prego adunque di lasciarmi.

—Voi non avete amanti?

—No.

—Tanto meglio…. cioè volevo dire che fate molto male; vi mettete in contraddizione con tutte le fanciulle della vostra età.

—Mi congratulo della bella opinione che avete delle donne.

—Ma chi non ha l'amoroso? È una regola generale.

—Io ne sarò l'eccezione.

—Non ve lo darei per parere, disse il giovinetto, tanto più voi, che costretta a ritornare dal magazzeno ad ora tarda, la compagnia d'un amico sincero e fedele vi sarebbe altrettanto utile…. che piacevole.

—Ma come sapete voi ch'io ritorno tardi? domandò meravigliata la biondina.

—Son varie sere che vi seguo senza aver mai avuto il coraggio d'avvicinarvi; cosa volete di più ingenuo? Oh! io devo essere molto riconoscente a questo temporale!

—Signore, vi prego, lasciatemi.

—Via, non sentite come piove? bramate proprio inzupparvi tutta?

—Non ne avrei il tempo perchè abito qui vicino.

—Lo so, sul corso di Porta Nuova.

—Avete fatto molto male a seguirmi, disse la biondina in tuono di dolce rimprovero.

—Ebbene, se ciò vi dispiace, non lo farò più, ma stassera è inutile che insistiate, vostro malgrado vi accompagnerò coll'ombrello.

—Oh, siete pur ostinato; e la biondina per la prima volta alzò gli occhi in volto allo sconosciuto.

Era un bel giovinotto.

—Sono sempre ostinato quando si tratta di esser utile a qualcheduno; diss'egli cortesemente.

—In allora, se volete proprio….

—Ebbene?

—Se volete proprio accompagnarmi, datemi il vostro braccio.

—Ah, così va bene; ora eccomi ad un posto che invidieranno certamente tutti quelli che incontreremo.

—Non ne incontreremo molti, state certo.

—E voi non temete far sempre sola queste vie così deserte?

—Che volete si faccia ad una povera tosa che corre da suo padre?

—E perchè non v'accompagna vostro padre? le domandò il damerino.

—Poveretto…. è vecchio ed infermo.

—Ebbene, farò io quel che non può far lui.

—Cioè?

—Tutte le sere, se voi me lo permettete, verrò a prendervi al magazzeno e vi restituirò nelle sue braccia.

—Nossignore, nol permetterò.

—Voi non avete amanti, mi diceste.

—E non ne avrò mai.

—Non fate così; sentite, voi siete molto bella, vedervi chi ha un cuore in petto, bisogna che v'ami; ebbene, io l'ho questo cuore, vi vidi e v'amai. Sareste voi tanto cattiva da respingere l'amor mio? Noi ci vedremo tutti i giorni, pensate alla felicità di quei momenti che passeremo insieme uniti coi dolci legami di un puro affetto.

—Ma mio Dio, bisogna lasciar fare all'amore chi ne ha il tempo; noi ragazze del popolo non possiamo. È vero che per prendere marito è necessario farsi l'amante, ma però non andiamo per le lunghe, noi; s'egli è bello, s'egli è buono, se ci conviene insomma ce lo sposiamo e buona notte, altrimenti alle sue prime dichiarazioni gli si fa capire che non fa per noi, ed in tal modo, vedete, schiviamo quegl'infiniti dispiaceri, che come si legge sui libri, colgono sempre chi ha troppa fiducia nell'amore.

—Ebbene, insistè nuovamente il damerino, ditemi una parola, ed io domani, questa sera istessa vengo da vostro padre e vi chiedo in isposa.

«Noi compereremo una casetta in campagna, poichè io amo molto l'aria pura e la vita semplice dei campi; abbandoneremo la città, ed i giorni scorreranno per noi felici, la vita priva di lagrime e di dolori ci farà credere d'anticipare quella del cielo.

«Avremo una famiglia; oh! qual gioia in allora veder i nostri figli correr leggieri pei prati, condurli alla mattina sulla vicina collinetta ad assistere allo spettacolo sublime del sole nascente, divider con loro le innocenti gioie, i loro stessi trastulli ed alla sera mentre dormiranno il sonno degli angeli, sull'agile barchetta, solcando le argentine onde del lago, ai pallidi raggi d'una mesta luna, stretti in ineffabili amplessi vagheremo per quelle incantate regioni ove per qualche momento è dato trasportarsi nei lieti giorni della vita a quei fortunati amanti che il propizio fato ha riuniti.

«Tutto ciò, vedete, dipende da voi, una vostra parola può cangiare questo sogno nelle più ridente realtà.

«Suvvia adunque, a che state pensosa? Non vi garba forse la campagna? Ebbene, noi vivremo in città, e voi farete invidia a tutte le eleganti signorine di Milano.

«Come l'ape coglie l'etere svolazzando di fiore in fiore, così noi godremo di tutti quegl'infiniti piaceri che offre di continuo la bella capitale; teatri, salons, feste, tutto sarà per voi; sarete un astro così fulgido di luce che eclisserà in passando anco i soli più superbi del nostro mondo elegante.»

Vedremo se queste parole gli partivano sincere dal cuore, oppure se erano frutto della più bassa perfidia.

Come qualunque altra fanciulla, la biondina si sentì travolta, incantata, affascinata dal lusinghevole linguaggio del giovine; buon per lei che ebbe ancora il coraggio d'ascoltare una voce che le rammentava il dovere.

Assumendo quindi un contegno assai grave si volse allo sconosciuto e rispose:

—Voi mi parlaste franco, o signore, e voglio credere anche seriamente, permettete che ancor io faccia lo stesso: ascoltate.

«Due anni or sono, colpita da improvviso malore, io perdeva mia madre.

«Nella breve ora della sua agonia, mentre al capezzale io disfogava in lagrime il dolore dell'imminente perdita, la moribonda dopo d'avermi dato quei saggi consigli che l'esperienza le suggeriva, mi disse con voce solenne:

«—Datti pace, figlia mia, poichè se la morte inesorabile ti toglie la madre, ti rimane però sempre il padre tuo, che t'ama tanto. Egli giace infermo, ma rammentati che quel miserando stato lo deve ai disagi sofferti ed alle ferite ond'è crivellalo il suo corpo, toccate sul campo della gloria. Tu lo sai, egli è veterano dell'armata di Pasquale Paoli, fu compagno a quel valoroso principe tanto nella prospera come nell'avversa fortuna, combattè con lui tutte le battaglie dell'indipendenza della Corsica; onde tu vedi ch'egli è degno di tutto il tuo rispetto. Io era l'unico sostegno della mia famiglia, e fra pochi momenti non sarò più; guai se tuo padre si vedesse perciò costretto a rivolgersi alla pubblica compassione; tu non sai qual'anima altera racchiude il suo corpo malaticcio; a te adunque il sacro obbligo di vegliare al suo soccorso, soddisfare con onesti guadagni i suoi molti bisogni, e far in modo ch'egli non abbia a rimpiangermi troppo sovente. Dall'alto del cielo io veglierò su te, pregherò Iddio onde ti guardi da ogni sciagura, ed allorquando lassù ci rivedremo, fa ch'io possa dire abbracciandoti: figlia mia, tu hai compiti saggiamente i tuoi doveri.

«Commossa dalla solennità del momento, io giurai sagrificarmi tutta intera alla felicità di mio padre, ed onde nessuno mi togliesse quell'affetto che a lui solo voleva consacrare, feci voto di vivere fanciulla al di lui fianco, sin che a Dio piacesse chiudere i suoi occhi al sonno eterno.

«Voi vedete adunque, mio signore, ch'io non posso accettare la vostra proposta; manterrò i miei giuramenti, poichè mi fu detto che

È la sventura Retaggio eterno della spergiura.

«Ora, continuò la giovinetta fermandosi vicina ai Portoni di Porta Nuova, permettete ch'io vi ringrazi del disturbo che vi siete preso; io abito in questa casa, mio padre n'è il portinaio, ed egli mi attende; dunque, buona notte!»

E fatto un grazioso inchino, leggera come una silfide mezza donna e mezza nube, senza neppur dar tempo all'incipriato ganimede di rispondere una parola, ratta fuggì sotto l'atrio della porta.

Ma il giovinetto, che quell'addio così asciutto non gli andava troppo a sangue, sperando inoltre di vincere con altri argomenti i sensi troppo severamente onesti della leggiadra fanciulla, la seguì correndo, e cintole colle braccia l'esile corpicino, stava per deporre un bacio su quella candida fronte; ma la ritrosa dibattendosi stizzita, svincolossi con qualche sforzo dall'amplesso ardito, lesta aprì l'uscio che metteva al portinaio, e lo rinchiuse sul naso del giovinotto.

Egli la vide gettarsi nelle braccia d'un vecchio adagiato immobile sur un ampio seggiolone, e baciarlo ripetutamente in volto.

Con occhio invido contemplò quella scena d'amore; che non avrebbe dato per uno di quei baci? Indi comprendendo che nulla più aveva a sperare, si tolse di là molestato da mille diversi pensieri.

—Davvero che s'io credessi nella virtù delle donne, pensava il deluso dandy, giurerei d'averne incontrata una onesta. Tanta fermezza non la so comprendere e sì che non tralasciai di blandire in mille modi quella vanità che le donne possedono in buona dose ed alla quale noi dobbiamo i nostri più bei trionfi.

«Oh, ma perchè si fu respinti in un primo attacco si dovrebbe forse rinunciare avviliti all'impresa? Se ne tenti un secondo, un terzo se fa duopo; eppoi una buona volontà trova infiniti mezzi per conseguire il suo intento.

«Quella biondina è troppo bella perch'io la possa incontrare per via, guardarla indifferente e passare avanti; quegli occhi celesti promettono un amore ardente! un amore di fuoco; quel corpo modellato su forme divine… oh, essa dev'esser mia; io solo debbo cogliere quel fiore ancor rorido di rugiada e dimenticato per avventura sul suo gracile stelo.

«S'io lo rispettassi, un'altra mano s'avanzerebbe verso di lui, perchè adunque rifuggirò dal fare in oggi quello che altri farebbero domani?

«Sarà d'uopo di costanza ma io l'avrò e giacchè sembra superiore ad ogni seduzione continuerò ad infingere intenzioni rette, la domanderò a suo padre in moglie, gli giurerò di farla felice e vorrei vedere che quel miserabile vecchione me la rifiutasse.

«Marco, il mio fedele, indosserà i suoi abiti da prete e celebrerà il matrimonio…

«Domani la vedrò ancora, mi troverà dappertutto, in tutti i suoi passi io sarò al di lei fianco, non le parlerò che d'una cosa sola, del mio amore e se la bella ostinata persisterà in un capriccioso rifiuto si ricordi ch'io non son uomo d'abbandonare i miei progetti qualunque sieno gli ostacoli che mi si parassero davanti.»

E continuando l'acqua a cadere a diluvi, riuscendogli nojosa la povertà delle vie, entrò in un caffè cui dal giocondo schiamazzare comprendevasi come non dividesse punto la tristezza della natura.

CAPITOLO II.

Io vorrei che stendesser le nubi Sull'Italia un mestissimo velo; Perchè tanto sorriso di cielo Sulla terra del vile dolor! NICOLINI.

Fu nel 1714 in forza dei trattati di Utrecht e di Rastadt che la nostra Lombardia da lunghi anni soggetta agli Spagnuoli passò sotto il dominio dell'Austria; e gl'italiani credendo mutar destino col mutar di padrone applaudivano al nuovo signore.

Povera Italia, che dopo d'aver tracciati fasti luminosi sul libro della storia, dopo d'aver tenuto per lunga stagione in suo pugno i destini del mondo intero, or si vedeva avvinta in mille diverse catene, doveva ubbidire sommessa a mille diversi padroni.

L'Austria voleva unire per sempre la nuova terra all'impero ed a questo scopo tentò ogni mezzo per legarsela con vincoli d'amore; incominciò quel gran lavoro di assimilazione che se gli riuscì in Ungheria ed in altri paesi gli doveva fallire completamente in Italia.

Abolì balzelli immorali, frutti dell'ingordo dispotismo spagnuolo, che colpivano il povero nei bisogni più urgenti della vita; stese una mano protettrice alla snervata industria, alla languente agricoltura tentando risorgere la Lombardia a quell'importanza industriale ed agricola che sempre aveva goduta in Europa—e seminando benefici l'Austria ne raccoglieva frutti di riconoscenza.

Ma non mancavano però coloro che comprendevano come la tigre pe' suoi feroci fini abbia facoltà di rendere la sua branca gentile quanto la mano d'una vergine, che comprendevano insomma come non si cercasse che di renderci leggiere le catena del più ignominioso servaggio.

Erano coloro che dovevano tenere accesa la sacra fiamma di libertà in quegli anni di schiavitù.

Fra questi nobili patrioti era il conte Sampieri.

Amantissimo della patria, di carattere energico ed intraprendente, di bello ingegno si era fatto nel 1764 iniziatore d'un comitato segreto scopo del quale far pratiche con Carlo Emanuele III Duca di Piemonte, onde unire colla rivoluzione la Lombardia a quella provincia.

Il sommo pensiero del conte Sampieri era l'unità d'Italia sotto lo scettro d'un re italiano; nobile aspirazione che doveva costare più tardi immensi sacrifici.

Il comitato erasi guadagnato molti giovani milanesi ardenti sempre e volonterosi quando trattasi della patria.

Carlo Emanuele nobilissimo principe, cui ne fu in ogni tempo feconda la stirpe di Savoja, non aspettava che un moto per muovere alla testa de' suoi piemontesi in ajuto ai fratelli lombardi, ma sventuratamente alla vigilia del gran giorno la congiura venne scoperta e soffocata nel sangue.

Sampieri fuggì in Corsica; fu nel 1765.

In quell'isola già da molti anni combattevasi per la libertà.

Soggetta alla Repubblica di Genova la Corsica mal potendo sopportare il modo tirannico ond'era governata si sollevò.

La vacillante Repubblica di Genova con improvvido consiglio domandò l'aiuto dell'Austria, indi della Francia, ma i Corsi stretti intorno a Pasquale Paoli, uomo di forte ed elevato carattere lottavano intrepidi contro gli stranieri invasori.

Il conte Sampieri istrutto nelle discipline militari ed amico personale di Pasquale Paoli che seppe apprezzare l'esule patriota, occupò un posto importante nella sollevazione della Corsica; ma sconsideratamente Genova con turpe mercato cedette l'isola al governo di Francia e gl'insorti non poterono allora resistere alle preponderanti forze francesi.

Pasquale Paoli esigliò in Inghilterra nel 1769 e Sampieri trovò una morte gloriosa sui campi di battaglia.

Il conte milanese morendo abbandonava per sempre una moglie adorata e due figli ancor di giovane età; Renato ed Alberto.

Renato il maggiore contava all'incirca diciott'anni.

Di carattere dolce, d'indole mite egli era la delizia della madre sua; amante della pace e d'una vita tranquilla non poteva comprendere come suo padre avesse volontariamente corsi tanti pericoli—morendo vittima del suo coraggio.

Guai se il destino provava con fortunosi avvenimenti quella debole natura; simile alla canna del deserto si sarebbe spezzata al primo vento che l'avvolgeva ne' suoi turbini.

Adorava sua madre per un forte bisogno d'essere amato, divideva seco lei le sue gioje, versava sul di lei seno le sue lagrime—non volendo conoscere altri piaceri che quelli dello studio, altre affezioni che quelle pure, ineffabili della famiglia.

Alberto invece era l'antitesi del fratello.

D'animo virile, di natura energica, inquieta, attiva, possedeva tali qualità che ben regolate l'avrebbero fatto degno del nome di suo padre, ma che invece il mal'esempio di cattivi compagni le guastò.

Trascurava gli studi per la ginnastica, la scherma ed il cavallo e crescendo di forze crescevano in lui i germi della corruzione.

Troppo debole era il freno che poteva imporgli la madre perchè egli non lo rompesse e si facesse arbitro delle sue azioni.

Passarono otto anni.

La vedova contessa Sampieri affranta dalle infermità d'una costituzione viziosa rendeva santamente l'anima a Dio.

Renato ne pianse la perdita ed allorquando il tempo ebbogli guarito il lutto del cuore, seguendo le proprie inclinazioni s'unì in matrimonio con una giovinetta di nobile casato milanese e stabilissi nella casa de' suoi parenti.

Alberto invece divenuto coll'età superbo e malvagio chiese al fratello la parte spettantegli dell'asse paterno e ricco di vari milioni ritirossi in un palazzotto sul corso di Porta Tosa* ove circondato da servi corrotti menava una vita dissoluta e libertina rotto ad ogni eccesso, ad ogni turpe nefandità.

* Ora Porta Vittoria.

CAPITOLO III.

Ahi, misero! t'han guasto e scolorito Lascivia, ambizion, ira ed orgoglio Che alla colpa ti fero il turpe invito! MONTI.

Siamo a Porta Tosa precisamente nel palazzo del giovine conte Alberto Sampieri.

È quasi mezzanotte.

In un'ampia stanza che serve nel tempo istesso di anticamera e di sala d'arme stanno raccolti intorno ad un tavolino quattro uomini che con un mazzo di carte ed un fiasco di vino passano il loro tempo giuocando e bevendo allegramente.

Vestono tutti la livrea e dalla sua uniformità si comprende come appartengano ad un medesimo padrone.

Sono i quattro servi di casa Sampieri.

Se si dovesse giudicarli dal volto non si potrebbe al certo dar di loro un giudizio lusinghiero; sebben giovani ancora portano scolpite in fronte le traccie del vizio, del disonore, del delitto.

Il maggiore di essi, conta all'incirca trent'anni.

È piccolo e robusto di corpo; una folta barba gli nasconde quasi tutto il volto, un volto da patibolo, due occhi neri pieni di malizia brillano sotto la fronte ampia, sede d'un ingegno svegliato al male e fecondo d'abominii.

Egli è Marco, il servo di confidenza del conte Sampieri e siccome avvi una misteriosa simpatia che lega fra loro i buoni quanto gli uomini cattivi, così Marco ama svisceratamente il suo padrone e n'è da lui riamato.

Superbo di tale affezione, come avviene quasi sempre nei servi prediletti, Marco vorrebbe sollevarsi un gradino dal livello degli altri suoi compagni di servizio ed arrogarsi diritti e privilegi di padrone, ciò che mal comportano questi; ma finiscono quasi sempre a chiudere un occhio visti gl'intimi accordi che esistono realmente fra Marco ed il conte.

Seduto dicontro a Marco e suo compagno di giuoco è un giovinetto i cui stivali che gli arrivano sin oltre il ginocchio, il frustino che costantemente gira fra le dita ed il bonetto ad ala tesa che di tempo in tempo si calca in testa, lo fanno il vero tipo del cocchiere.

Franz è inglese, e conoscendo mediocremente l'italiano, parla poco, sebbene di carattere allegro e sans souci.

Professa una specie di culto pei cavalli, è felice allorquando impalato sul ricco palafreno guida per le spaziose vie di Milano i suoi puledri puro sangue, ed è ancora più lieto quando solo nella scuderia può abbandonarsi con loro nell'idioma patrio in mille cordiali tenerezze.

Sono l'unico oggetto che gli rammentino la patria, e li ama come s'ama la patria.

Del resto, d'indole fredda come quasi tutti i suoi compaesani, Franz ha un'anima incapace al bene come pure al male; è una di quelle creature la cui vita è una landa sterile d'ogni utile germoglio, ma che non è per anco sbattuta da turbinose tempeste.

Colla massima indifferenza canticchiando l'usato ritornello inglese, egli avrebbe condotto il suo padrone tanto ad una semplice passeggiata lungo il corso, quanto al ratto d'una vergine, tanto in chiesa che al lupanare; sordo ad ogni voce di coscienza, egli fa il suo mestiere; riprovevole apatia che pur troppo si riscontra sovente nel cuore dell'uomo.

Gli altri due, Tonio e Piero, giovani poco più che ventenni e capaci d'ogni vilissima azione, trovano alloggio e nutrimento presso il conte Sampieri, servendolo in ogni suo delittuoso capriccio.

—Quà i bicchieri, vuotiamone un altro gotto, indi alla rivincita, disse Marco afferrando l'ampio fiasco che s'ergeva maestoso in mezzo alla tavola; animo, Franz, son due partite di seguito che perdiamo stassera; e che! ci lasceremo noi forse soperchiare da due sbarbatelli che mi farei ballare in sulle dita come il saltimbanco fa ballare le marionette? Franz, la nostra fortuna è in fondo a questo fiasco; suvvia adunque, peschiamola colle labbra.

E portatosi il colmo bicchiere alla bocca, lo vuotò d'un fiato.

L'esempio fu seguito da tutti.

—Ah yes! altro bicchiere, gridò l'inglese facendo scoppiettare il suo frustino, altro ancora, eppoi vincere.

—Vèh, vèh, l'inglese s'infiamma! osservò Piero con un po' d'ironia.

—To', è vero, aggiunse Tonio.

—Yes! e perchè non m'infiammare? Non avere forse puledro inglese più nobile sangue che non italiano? Non valere cavallo inglese tre volte cavallo italiano?

—Guarda Franz, disse Marco ridendo, che te la lascio passare perchè hai avuta la prudenza di limitare il confronto ai soli cavalli delle due razze, ma se mi facevi una questione d'uomini, t'avrei provato che avevi torto.

—Ah, io non conoscere che vostri cavalli, uomini non ancora.

—Sta sempre a te se vuoi farne la conoscenza, notò Piero con malizia.

—Ed io la fare molto volontieri, anche subito; e Franz balzava in piedi scoppiettando bruscamente il suo frustino.

Piero, giovinetto molto ardito, d'un salto fu davanti all'inglese e si preparava a rispondere alla sfida, se non che la voce amorevole di Marco tuonò:

—Ma sì, fatemi delle scene adesso; diavolo, che non si sappia reggere ad uno scherzo? Giù, Franz, al tuo posto; io non voglio andar a dormire col peso di due partite in sulle spalle; qua il mazzo adunque e giuochiamo.

—È vero, brontolò l'inglese tornandosi a sedere, non perdiamo tempo inutilmente.

—Già, perchè a momenti tornerà il padrone, aggiunse Tonio.

—Oh, per questo, disse Marco, possiamo star certi che il padrone non lo vedremo tanto presto. Oggi è sabato, ed in questo giorno le sartine sogliono guadagnarsi di notte le ore di riposo dell'indomani, e fra il padrone e le sartine corrono adesso certi rapporti…

—Ah sì?…

—Tien dietro forse ad una di loro?

—E che bella tosa, aggiunse Marco.

—Ecco un'avventura che il padrone incomincierà, e che noi come al solito dovremo terminare.

—Sicuro, lui fiuta la preda, a noi acchiapparla e mettergliela nel carniere.

—Diventate conti e milionari, eppoi farete lo stesso.

—Bravo Marco, hai ragione.

—Scommetto che tutto finire come altre volte con un viaggio a Magenta, osservò Franz; miei cavalli oramai sapere a memoria la strada.

—Tanto meglio, la faranno più in fretta.

A por fine a questa enigmatica conversazione si fece sentire il passo d'un uomo salire lentamente lo scalone. Tutti tesero attenti l'orecchio.

—È lui, esclamarono in coro i quattro servi, e balzarono in piedi.

—Va adagio, brutto segno, congetturò Marco accendendo un lume.

Infatti poco dopo entrò il conte Sampieri e girando attorno uno sguardo bieco senza neppur curarsi degli ossequiosi inchini dei suoi servi s'internò negli appartamenti.

Marco lo seguì.

Arrivato il conte nel suo salotto si gettò senza profferire parola sur una sedia ed appoggiati i gomiti alle ginocchia si nascose il volto nelle mani.

Marco si fermò rispettosamente davanti al conte aspettando i suoi ordini.

Passò qualche minuto, alla fine Marco vedendo che il padrone non sembrava accorgersi di lui, non osando parlare pel primo sapendo quanto veemente ed impetuoso egli fosse, si pose a passeggiare per la camera movendo or questo or quell'altro mobile, fingendo porli in assetto, ma in sostanza al puro scopo di far un po' di rumore.

Infatti Sampieri alzò la fronte; vi si scorgeva impresse le traccie d'una lotta crudele combattuta internamente.

—Che fai Marco, gridò dispettoso, ritirati e non mi seccare più oltre.

—Signor conte, belò umile il servo…

—Vattene in tua malora, urlò Sampieri.

—Gli è…

—E che, non obbedisci? bada Marco…—I suoi occhi scintillavano di rabbia.

—Ebbene me ne vado, lo lascerò solo…—Ed il servo mosse verso la porta.

Il conte lo accompagnava con lo sguardo ed allorquando lo vide uscire quasi pentitosi del suo piglio troppo severo:

—Marco! chiamò con voce più dolce.

Il servo rientrò.

—Dove vai adesso?

—A dormire, signor conte, non me n'ha ella data licenza?

—E mi abbandoni qui soletto come un cane mentre ne ho tanto bisogno di compagnia?

Il conte sembrava commosso.

—Ma non è forse quello ch'io bramo di rimanere con lei? Oh ma senta, signor padrone, proruppe il servo con espressione assai risoluta, se è una vendetta incompiuta, un odio non soddisfatto, un insulto patito, quello che lo rende così triste, si ricordi ch'io sono sempre pronto a farmi fare in mille pezzi per lei, comandi, io non verrei meno di fronte a qualsiasi pericolo, fossa anche di provare al boia che so fare il suo mestiere.

—Lo credo, Marco, esclamò il conte rabbonito, tu mi sei affezionato e fedele, lo credo, ma ora non mi puoi far nulla. Ho l'inferno nel cuore, la confusione nella testa, sono malato.

—Ma di una malattia non incurabile signor conte: disse Marco moderando la voce, penso io a guarirla. Lei ha bisogno di cambiare un po' d'aria, d'abbandonare per esempio Milano e fare una gita al suo castello di Magenta. L'aria di quel paese gli ha sempre fatto bene lo neghi se lo può, gli ha sempre portata la salute in mezzo ad un nembo di gioie, di voluttuosi piaceri… Magenta, ecco la ricetta infallibile.

Il conte alzò gli occhi ed incontrò lo sguardo di Marco.

Servo e padrone si compresero pienamente, un sorriso malizioso sfiorava le loro labbra.

—E bisognerà risolversi a questa gita, proruppe Sampieri, non ci sono vie di mezzo, sono stanco io di sopportare più oltre questi ardori veementi, questi desideri di fuoco che mi tormentano giorno e notte e che mi fanno imbecillire. Figurati, stassera le parola d'una donna mi spaventarono, mi ammutolirono confuso.

—Forse una gran dama?

—Bah, una semplice femminetta.

—È la sartina, pensò Marco.—Ch'ella ama forse?

—Che io amo da impazzire, esclamò il conte; oh ma dev'essere mia ad ogni costo. Senti Marco io ti ho sempre tenuto in conto d'uomo destro e coraggioso, di uomo che tutto può ciò che vuole, ora tocca a te non mentirmi.

—Eccomi quà tutto orecchi, signor conte, parli pure liberamente e più l'avventura è arrischiata più mi ci metto con gusto. Era appunto un po' di tempo che mi lasciava in riposo ed io non son nato per dormire tutto il giorno in un'anticamera, io; mi piace la vita attiva, nei pericoli, nell'imprese azzardose, fra nemici, fra le risse, in mezzo ai pugnali, là perdio è il mio posto. Un misfatto più o meno non è quello oramai che mi manda all'inferno lo stesso.

—Bravo Marco ed a cosa finita tu sai ch'io non sono spilorcio. Dammi ascolto adunque. Son circa quindici giorni ch'io tento invano d'affezionarmi una fanciulla che incontrai per la prima volta nella via di San Paolo.

—Lo so, disse Marco.

—In che modo? gli chiese il conte sorridendo.

—Una sera lo vidi passeggiare a piccoli passi davanti ad un certo magazzeno di mode. In quel mentre vi usciva schiamazzando una turba di giovinette e senza aver l'intenzione di spiarlo lo sorpresi nell'atto d'offrire il braccio alla più bella, alla più degna di lei.

—Ebbene, riprese Sampieri, son quindici giorni ch'io l'avvicino ma che getto il mio tempo inutilmente. Più che ritrosa ell'è ostinata e non sa d'altro parlarmi che di doveri, d'onore… che so io, pregiudizi da femminetta. Stassera mi disse chiaro e netto ch'io cessassi dall'inseguirla o che non si sarebbe più mossa di casa. Ed io l'amo, sento di non poter vivere senza di lei… ma l'avrò, tu me ne sei mallevadore Marco, e guai s'io mal ripongo la mia fiducia. Ti do otto giorni; Sabato venturo mi reco a Magenta, ella ritornerà dal magazzino a mezzanotte, due ore dopo voglio averla nelle mie braccia, m'intendi?

—Perfettamente, rispose Marco sottovoce e girando attorno gli occhi sospettoso come tutti coloro che tramano un delitto; a mezzanotte quella via è affatto deserta, muta, e tenebrosa; io faccio appostare una carrozza e mi ci acquatto dentro; Tonio e Piero attendono la bella al varco, ella giunge ed in men che non lo pensa con la bocca imbavagliata l'accomodo in vettura e le uso la cortesia di condurla in campagna. Oh, è un affare semplicissimo e non dev'essere il primo ch'io conduco a buon fine… se non isbaglio.

—È vero.

—Ed ai parenti mo', ci ha ella pensato?

—È sola con suo padre; questi è vecchio e povero ci chiuderemo la bocca con una manciata d'oro. D'altronde non lo vogliamo privare per sempre della sua cara figliuola. Gli dirai che stanca dal lavoro ha voluto recarsi un po' a diporto, che si trova in un luogo ove non le manca nulla, che vive da signora e che fa conto anzi d'inviargli settimanalmente il frutto de' suoi risparmi che sorpasserà al certo i tenui guadagni del magazzeno. Anche questo è affar tuo, penserai ad accomodarla col vecchio a quei patti ch'egli vuole. Sopra tutto non profferire il mio nome, ne indicare il mio castello.

—Eh, sono una volpe vecchia io, ed ho un'abilità speciale nel piantar carote in terreno altrui. Ma—quì Marco abbassò ancora più la voce—e se il padre s'incaponisse e mi mettesse di mezzo la polizia? Capirà bene una fanciulla sparita merita che se ne occupi e questi demoni di tedeschi, che ci venga a tutti il malanno, hanno le braccia lunghe, saprebbero scoprire l'ovile ove sta rinchiusa la pecorella. E lei deve ancora il saldo di certe vecchie partite…

—La polizia tedesca, Marco, io la sfido; d'altronde ella è più venale d'una femmina da partito e sebbene abbi dei motivi di odiare la mia famiglia, odio che in fin dei conti mi fa molto onore, sono ricco abbastanza per comperare i di lei favori. Ciò non toglie che tu debba comporla amichevolmente col vecchio.

—Farò del mio meglio. Ora a lei a farmi conoscere la fanciulla.

—Ecco, rispose il conte un po' imbarazzato, il suo vero nome l'ignoro, vien chiamata da tutti biondina ed abita sul corso di Porta Nuova. Suo padre è il portinaio di quel bel palazzo vicino ai portoni… dopo la bettola all'insegna dell'Aquila.

—Che! proruppe Marco, ha detto la biondina di Porta Nuova? Oh guardi la combinazione!

—La conosci forse, rispondi, sai qualche cosa sul di lei conto?

—Altro che sapere, nientemeno che stiamo per cogliere due piccioni ad una fava.

—Non t'intendo, suvvia spiegati, disse Sampieri impazientito.

—Si tratta di far restare con tanto di naso un piccolo bellimbusto tedesco che mena tanto ruzzo perchè veste la divisa d'ufficiale.

—In che modo?

—Ecco quà, incominciò Marco assumendo una cert'aria d'importanza: la bettola all'insegna dell'Aquila a Porta Nuova è l'unico sito ch'io conosca in Milano ove se ne possa bere un boccale di quel buono e per questo, allorquando i miei doveri lo permettono, mi compiaccio passarvi qualche oretta giuocando una partita con mastro Andrea il degnissimo oste.

«Uno dei più fedeli frequentatori della bettola è un buon diavolo di croato che questi ladri tedeschi ci hanno menato giù da quelle parti dove usano farla da padroni come qui da noi.

«Parla abbastanza bene l'italiano e non essendo totalmente sciocco scambio con lui volontieri qualche ciarla, anzi mi tien luogo di mastro Andrea nella solita partita, allorquando questi è occupato altrove.

«Un giorno, era domenica mi ricordo bene, e la bettola piena, zeppa di gente.

«Io ci entro, do un'occhiata intorno e non trovo neppure un amico, tranne il mio croato che soletto in un canto trinca la sua caraffa.

«Piuttosto che rimanermi solo mi reco da lui. Bisognava che in quel giorno ne avesse bevuto qualche bicchiere più del consueto poichè non l'ho mai trovato così aperto e voglioso di far confidenze.

«—Oggi esser festa per me, mi dice tutto contento.

«—Lo credo, rispondo io, oggi è domenica per tutti.

«—Mia patrona, riprende lui, afermi tonata pel recalo e lasciala in libertà tutta giornata; oggi essere il suo… nomo… nomo… come dite foi… ah, suo nomastico.

«Povero diavolo si spiega come può.

«—Ma come avviene che tu abbi un padrone, gli domando io.

«Egli allora mi racconta essere lo staffiere d'un officiale polacco ed abitare il palazzo dirimpetto all'osteria.

«—Oh bella, non sapevo, dico io; e così come ti trovi col tuo padrone, non ti mancheranno certo bastonate, eh?

«—Mia patrona non esser catifo, mi risponde il croato, esser stata sempre pona con me, ma atesso che star innamorata difenire un po' pricante.

«—Ah, il tuo padrone è innamorato? diavolo, bisogna che la sua bella non sia troppo del suo parere se l'amore gli fa passare dei brutti quarti d'ora.

«Il croato parve d'un tratto pentirsi d'aver condotta la conversazione su questo punto e tentò deviarla; io allora insisto. Finalmente dopo d'averne ingollati ancora un paio di bicchieri egli mi spiffera tutto quanto sa sul conto del suo padrone.

«Ed è questo.

«Una mattina l'ufficiale vide la biondina recarsi al magazzeno; bisogna che quella fanciulla sia ben leggiadra di volto e di forme, poichè il polacco, come lei signor conte, se ne invaghì.

«Da quel giorno la bionda non mosse passo fuor di casa senza trovarsi al fianco la figura attillata del giovine ufficiale che la seguiva dovunque, tentando ogni mezzo per vincere quella ritrosia più o meno comune a tutte le donne.

«Non ci fu verso; la bionda che ora incomincio a credere un portento di virtù non fece mai mostra d'accorgersi di nulla, finchè lui vedendo che non era carne per i suoi denti abbandonò l'idea di sedurla, non certo io credo, la brama di possederla.

«S'immagini adunque come dovrà restare il nostro polacco allorquando saprà che quel fiore ch'egli non seppe cogliere ornò il petto d'un altro più felice mortale, lasciandovi tutti i tesori de' suoi olezzanti profumi.»

—Sta bene, esclamò il conte con soddisfazione; gli proveremo che le nostre donne le sappiamo tener per noi.

—E che volere è potere.

—Adunque la cosa è combinata, proseguì Sampieri col tuono di chi non ammette repliche. Sabato alle due di notte la fanciulla nel mio castello di Magenta, qualunque sieno i mezzi, anche i meno prudenti. Guai s'io dovessi attenderla invano….

E gli occhi del conte ebbero un lampo terribile.

—Per tutti i diavoli dell'inferno, signor padrone, ella sarà ubbidito, o ch'io non son più Marco.

CAPITOLO IV.

Se Giuda pel suo tradimento fu tormentato settanta volte, tu lo sarai settanta volte sette. GUERRAZZI.

Aspettato con ansia indicibile dal conte Alberto Sampieri, arrivò finalmente quel sabato fatale che doveva portare la disperazione nel cuore d'una povera creatura.

Sono appena suonate lo undici e mezza di notte; le stelle brillano sul firmamento; solo un grosso nuvolone contende il luminoso cammino della luna, nascondendone di tanto in tanto i pallidi raggi.

Le vie di Milano incominciano già a farsi deserte, le botteghe si chiudono con alternato battere d'imposte, i pubblici convegni scioglionsi a poco a poco, ed il buio della notte avvolgendo l'intera città nel suo manto tenebroso, sembra tutti invitare ad un dolce e tranquillo riposo.

Una carrozza signorile, trascinata da due vigorosi destrieri, cui esperto cocchiere mal frena gl'impetuosi slanci, muove da Porta Tosa, e percorrendo la via del Durino e attraversando il corso di Porta Renza*, entra nella via di S. Paolo.

* Porta Venezia.

Si avanza circospetta sin oltre la piazza Belgioioso, e approfittando da una curva disegnata dalla via, si ferma in tal punto dove la luce delle due opposte lampade non potendo efficacemente pervenirvi, lascia in completa oscurità.

In allora dalla carrozza fa capolino un uomo, che guardando attentamente d'ambo i lati della via, apre la portiera e lascia scendere due robusti giovinotti.

—Animo, lesti—disse poi rinchiudendosi di nuovo nella vettura e parlando dallo sportello;—tu, Piero, passeggia là in fondo vicino al magazzino; appena la scorgi, ricordati del segnale convenuto; sopratutto non dar sospetti.

E Piero, fatto un segno col capo, s'avvia al luogo indicato.

—Tu, Tonio, fermati per intanto davanti ai cavalli, indi ti nasconderai nel vano di quella porta; prudenza e sollecitudine.

Marco diede codesti ordini sottovoce.

Passa una mezz'ora senza che nulla di nuovo succeda.

È tanto frequente il caso in Milano di vedere una carrozza fermata lungo la via, che niuno dei passanti concepisce il più piccolo sospetto; mille supposizioni d'altronde possono ampiamente giustificare quella sosta in un punto il più abitato della città.

Marco, sbadigliando come uomo annoiato, osserva l'orologio.

Mezzanotte sta per battere.

—Ancora un momento, dice in cuor suo, eppoi ci poniamo in viaggio. Povera biondina, chissà come è lontana dall'immaginarsi la bella sorpresa che le abbiamo preparata. Un viaggetto in carrozza!… Eppure, Dio sa quante smanie; sarò costretto tenermela sempre nelle braccia, che non vorrei mi giuocasse qualche brutto tiro. Sarà un peso dolce, diavolo…. incomincio a credere che il padrone abbia voluto fidarsi un po' troppo di me; fortuna che Marco non abusa mai della confidenza in lui riposta, e che in mezzo ai suoi difetti non si sente capace di fare il minimo torto a colui cui mangia del suo pane.

«Mezzanotte è suonata, ed il segnale non si sente ancora. Non vorrei che il diavolo ci mettesse la coda e mi mandasse tutto a monte. Non ci mancherebbe altro. Eppure la cosa è facilissima; le potrebbe per esempio saltar il grillo di cambiar strada; potrebbe essere accompagnata, oppure fermarsi al magazzeno tutta notte.

E come si fa aver un rimedio pronto a tutto quello che può succedere? Ma bisogna dirle al conte queste belle cose, a lui che ciò che vuole, vuole. Guai se gli manco, mi strozzerebbe colle sue mani, ne son certo.

«E non si sente nulla ancora, corpo di tutti i demonii.—E guardava un'altra volta l'orologio.—Dodici e un quarto.»

Sbuffando di collera si affaccia allo sportello.

In questo punto si ode un lontano mormorio di voci e nello stesso tempo un fischio acuto partire dalla medesima direzione.

Marco trasale di gioia.

Tonio senza far motto si toglie dai cavalli e si nasconde nell'angolo d'una porta internamente chiusa ed alquanto discosta dalle spalle di pietra.

Il cocchiere quasi per avvertire che ancor lui ha udito il segnale dondola un istante sui cuscini ed affranca nelle mani le guide dei cavalli.

Marco vide tutto questo, soddisfatto apre lo sportello e si tiene pronto, l'orecchio teso.

A poco a poco le voci lontane cessano e tutto ritornando nel primitivo silenzio si può intendere il rumore di due passi che ratti s'avanzano battendo il lastrico.

Il cuore di Marco batte d'impazienza, sporge avanti la testa, ma Tonio è sempre là immobile al suo posto con qualche cosa di bianco in mano simile ad un fazzoletto.

Intanto i passi si fanno sempre più distinti e già nella penombra si disegna una bella figura di donna.

—È lei, pensa Marco, stavolta non mi scappa, povera tosa!

Ed infatti la bella biondina di Porta Nuova con quella tranquillità e sicurezza che è sempre compagna d'una coscienza pura ed innocente, affrettava i passi verso casa, lieta all'idea di riabbracciare suo padre dopo un giorno intero di lontananza.

Vide la carrozza e lungi quell'alma vergine di concepire dubbi sinistri, gode invece in cuor suo, che qualche cosa gli rompi la mesta solitudine della via.

E ratta s'avanza, s'avanza sempre.

In questo punto la luna liberandosi dal nero nuvolone, che fin allora la tenne ostinatamente imprigionata piove un'onda di luce pallida.

La bionda allora può scorgere l'ombra d'un uomo lentamente disegnarsi sulla terra, ma mentre intimorita girando attorno lo sguardo, cerca il corpo di quell'ombra vien afferrata da due braccia di ferro.

La misera apre la bocca per gettare un grido, ma la bocca le vien imbavagliata; si dibatte un istante in disperati sforzi, indi Marco la riceve svenuta nelle sue braccia.

—Avanti, grida Tonio ai cocchiere; e mentre i cavalli si rimettono in via, il servo dandosi contento una fregatina di mani raggiunse Piero che seguiva la biondina a qualche tratto di cammino.

—È riuscita? chiese Piero.

—A meraviglia, rispose l'altro con brutale cinismo.

—Neppur un grido?

—Nulla.

Ed ambedue entrarono nella vicina bettola a gozzovigliare il vil prezzo del loro vilissimo delitto.

La vettura attraversa la città e sorte da P. Vercellina.

Franz allorquando si trovò all'aperto sulla bella strada che corre diritta a Novara sferzò i cavalli e questi pieni di brio si slanciarono nitrendo a generosa carriera.

La povera biondina, ancora svenuta, giaceva pallida nelle braccia di Marco che posandole una mano sul cuore e non sentendolo battere che pochi e deboli palpiti, incominciava sul serio a temere.

Infatti lo spavento provato dalla misera fu tale che per poco non l'uccise.

Ella comprese il triste significato di quel ratto, e ne fremette inorridita.

Molte volte sotto i panni del povero battono tali cuori che mai si cercano in petti patrizi; sovente la coscienza più delicata dell'onore, i sentimenti più nobilmente generosi, fuggendo i sontuosi palazzi erigono il loro santuario nel popolo; povero popolo, che se talfiata tralignando si gettò sui lubrici sentieri del delitto, vi venne spinto da quella miseria, da quella grettezza che pur troppo fu sempre il suo retaggio.

Finalmente l'aria percossa, entrando fredda nella vettura e battendo sulla fronte della svenuta, a poco a poco le ridonava i sensi.

Aperti gli occhi, li fissò immobili in volto a Marco che vedendola riaversi le sorrise benignamente; le fitte tenebre della notte non permisero alla giovinetta di conoscere quel volto, ma un raggio di luce ne illuminò il sorriso che avvezza a vagheggiarlo sovente sulle labbra dell'amato genitore, tratta in un dolce inganno, chinando mesta il capo mormorò:

—Padre mio, che brutto sogno! e rinchiuse spaventata gli occhi.

Ma il rumore dello zampe ferrate dei cavalli ripercosse sordamente sul terreno, i frequenti sbalzi della carrozza, la notte che buia regnava all'intorno, ridestarono la sventurata dal suo assopimento; passò una mano sulla fronte quasi per sperdere la nebbia ond'era avvolta la mente, e ritornò alla triste realtà.

—Ah, non è dunque un sogno codesto, gridò con voce straziante svincolandosi d'un tratto dalle braccia del servo e rannicchiandosi tremebonda in un angolo della carrozza; oh, perchè non sono morta, perchè mai riedere alla vita in un momento cui l'abbandonarla è un beneficio, una grazia del cielo?… Ma che volete voi da me?… No non voglio seguirvi… lasciatemi precipitare da questa carrozza o ch'io empio l'aria de' miei gridi. Deh! in nome della Vergine santa, in nome di quanto avete di più sacro al mondo, in nome di vostra madre, fate ch'io ritorni al povero padre mio. Egli, vedete, vecchio e malato non ha altro appoggio che il mio, altra vita che la mia; togliermi da lui vuol dire ucciderlo, vuoi dire spezzare l'unico filo che ancora lo trattiene al mondo… ed in allora voi dovreste rendere conto a Dio di due esistenze poichè con mio padre uccidereste me pure. Oh! se il vostro cuore ha sensi di umanità, s'egli non è quello della fiera, lasciatemi fuggire; guardate io vi prego qui in ginocchio, colle lagrime agli occhi, così come si prega Dio ed i santi… ma che cosa vi ho fatto mai per farmi tanto male?…

E soffocata dai singhiozzi, soffuso il volto di lagrime, coi capelli disciolti, abbracciava le ginocchia di Marco.

Avrebbe commosso un cuore di pietra, ma non quello del malvagio sgherro.

—Via, calmatevi una volta, andava egli ripetendo in tuono di ghiaccio, verrà un giorno che mi rammenterete questa notte col sorriso sulle labbra, allorquando io, diventato vostro servo umilissimo, verrò da voi a chiedere i vostri ordini. Voi siete degna d'una sorte migliore da quella che avete corsa fin qui; credete che la natura vi sia stata tanto prodiga di bellezze perchè voi spietatamente le sciupiate con una vita di lavoro, di privazioni, di stenti? Non si chiama questo far buon uso dei doni ricevuti. Infine poi io vi conduco in un bel palazzo, in una reggia nella quale sederete regina, un paradiso cui voi sarete il nume regnante. Ora ditemi se questi vostri lamenti hanno una ragione al mondo! Via adunque alzatevi, la mia bella fanciulla, sedete qui vicino a me ed abbiate pazienza. Ancora poche miglia, eppoi ci siamo.

E Marco stendeva le braccia per aiutarla ad alzarsi.

La biondina dopo quel primo sfogo del suo dolore era caduta in un morale assopimento; nulla aveva udito di ciò che Marco le disse; nell'inerzia dello spirito guardava senza vedere, ascoltava senza intendere, viveva senza sentire l'esistenza.

Allorquando però le mani del servo la toccarono si ridestò rabbrividendo e facendosi da lui il più lontano possibile.

—Non mi toccate, gridò non mi toccate; le vostre mani contaminano, le vostre mani sono quelle del carnefice, fanno delle vittime, danno la morie.

—Che morte! vi conduco alla vita, io!

—Sì, ad una vita vituperata, d'infamia e di disonore. Deh, fate ch'io non vi supplichi invano, lasciatemi libera, rendetemi a mio padre. Non troncate l'agonia del misero vecchio se non volete che la sua maledizione vi rombi fatale eternamente sul capo. Rendetemi a lui, noi vi benediremo, voi avrete due cuori che quotidianamente si rivolgeranno a Dio invocando su di voi il tesoro della sua infinita misericordia. Ma non capite che vi prestate al più iniquo tradimento, che un perfido vi brama complice di tale infamia che marchio indelebile lascerà sulla di lui coscenza e sulla vostra?…

—Oh, ma cessate una volta, interruppe Marco con dispetto, son parole codeste gettate ai vento, querele inutili, lamenti perduti! Diavolo, in fin dei conti non vi meno all'inferno! Anzi è un bel giovinotto che vi aspetta, galante quanto ricco, ricco quanto generoso. Egli vi ama e non cercherà altro che la vostra felicità. Diverrete sua moglie, sarete contessa, giacchè egli è conte, che volete di più? Eppoi a sentir voi si commette un delitto! Ma se v'ha delitto in questo caso è dal lato vostro, la mia fanciulla, che così ostinatamente vi rifiutate a migliorare la sorte di vostro padre che voi dite d'amare tanto. Ma immaginate la gioia del vecchio nel sapervi così superbamente collocata; egli finirà i suoi giorni tranquilli, benedicendo a sua figlia che ha saputo soccorrere i suoi anni cadenti e sollevarlo dalla miseria. Non è forse questa una bella soddisfazione per una brava figliuola? Oh ma lamentatevi ancora eppoi vi dirò che codesto amore per vostro padre è malinteso o che è semplice egoismo che voi fate giuocare a vostro capriccio.

—Credete pure ciò che volete ma lasciatemi in nome di Dio, supplicava la giovinetta disperata, lasciatemi, o vi ripeto, io grido al soccorso.

—Non griderete nulla, altrimenti il fazzoletto ritornerà donde l'ho tratto.

E protendendo le braccia minacciava d'imbavagliarle la bocca.

—Dio mio, Dio mio, tu mi hai abbandonato!—E la misera giovinetta comprendendo come pur troppo non potesse isfuggire all'inesorabilità del destino dava sfogo all'immenso affanno in versando silenziosa lagrime amare.

Nulla oramai le riusciva sperare, ella aveva tentata ogni via, aveva esaurito tutti i mezzi suggeritile dal cuore per scongiurare l'avverso fatto, ora non le rimaneva che abbandonarvisi rassegnata.

Crudele necessità per chi ha tutta la coscenza dell'abisso nel quale irremissibilmente lo si vuol travolgere!

Intanto i generosi destrieri colle narici dilatate e penosamente respirando avevano divorato in men d'un'ora i venti chilometri che separano Milano da Magenta.

Batteva un'ora di notte ed il paese era affatto deserto.

I buoni villici riposavano nei loro tuguri le fatiche d'una giornata trascorsa nei rustici lavori dei campi.

La vettura attraversò Magenta e si fermò davanti ad un castello fabbricato sopra una sensibile elevazione di terreno, a circa mezzo chilometro dal paese; ora non rimane più di quell'edificio nessuna traccia, ma in quel tempo, le sue alte torri, il fossato che lo girava intorno, ed il ponte levatoio che si ergeva davanti all'ampio portone, richiamava alla memoria quegl'antichi castelli del Medio Evo la cui vista faceva fremere i vassalli del superbo Feudatario.

Fermata la vettura, Franz gettò un fischio che fu ripetuto da tutti gli echi della campagna.

In allora si intesero nell'interno del castello delle voci chiamarsi e rispondersi; dei lumi vanno e vengono rompendo l'oscurità; finalmente il portone girando con fracasso sui cardini si spalanca, il ponte levatoio s'abbassa e manda un cupo suono sotto il peso della vettura.

Franz si ferma davanti ad un ampio scalone dal quale scendono frettolosi due uomini muniti di torcie accese; d'un salto si fanno allo sportello; un sorriso malizioso si disegna sulle loro labbra e ricevono dalle braccia di Marco la giovinetta svenuta; indi senza profferir parola ritornano d'onde sono venuti.

La povera biondina sulla soglia del castello era ricaduta, per la seconda volta priva di sensi.

Venne portata in una elegante cameretta il cui recente assetto dava a vedere che l'ospite gentile non era punto inaspettato.

Era illuminata da una ricca lucerna che posava nel mezzo d'un tavolo rotondo, su cui stava inoltre in un bacile d'argento una coppa d'acqua limpida; all'intorno elegantemente disposte eranvi sedie coperte di rosso damasco e la finestra, che guardava nel cortile, cinta da splendide cortine di seta.

La bionda fu adagiata sopra un letto e lasciata sola.

Rinvenne dopo qualche momento.

Nella disperazione dello spirito balzò dal letto e si spinse verso la porta.

Era chiusa.

Allora un orribile pensiero le balena nella mente, si slancia alla finestra, tenta sforzarne i serramenti ma questi pure resistono alle sue deboli forze.

Affranta dall'angoscia s'abbandona sopra una sedia, posando il capo sulle braccia e le braccia sul tavolo.

Le violenti commozioni di quella notte le avevano causata una febbre ardente; il sangue infiammato le correva rapido al cuore, e dal cuore al cervello, i suoi polsi battevano a rompersi e la di lei fronte era madida di sudore.

Arsa dalla sete agendo più per istinto che per forza di volontà afferrò la coppa che stavale davanti e sentendosi ristorare dalla frescura dell'acqua la trangugiò d'un fiato, indi girando smarrita lo sguardo intorno a sè.

—Oh, dove mai sono, proruppe con accento lamentevole, dove m'hanno condotta i crudeli persecutori della mia pace! Santo Iddio, qual colpa ho commessa mai per meritarmi sì crudeli angoscie, per aggravarmi sì pesante la tua mano sul capo! Non viveva rassegnata la vita del povero col vecchio padre mio! Non gli guadagnavo forse co' miei sudori un'onesta esistenza! Perchè adunque strapparmi dal suo fianco, per ucciderlo colla mia vergogna? Dio, tu non sei giusto, tu non sei quaggiù la guida della debole innocenza, tu non sei il consolatore degli afflitti, tu… Oh no, perdono… io bestemmio…………… ………………………………………………………….

«Ma la mia mente si smarrisce, una folta nebbia mi avvolge lo spirito, non posso più pensare, la ragione mi si offusca, le forze mi abbandonano… ma che è mai questo? Quale strano spossamento invade il mio corpo? le gambe rifiutano di sorreggermi, le braccia mi si fanno di ferro, le pupille pesanti, io non posso più camminare, non ci vedo più… tradimento… tradimento!»

E facendosi barcollante verso il letto vi si abbandonava inerte.

—È un sonno terribile che investe tutti i miei sensi, che mi uccide la volontà e mi annienta le forze; ma non mi lascierò vincere, no non voglio dormire, mi sarebbe un sonno troppo funesto, me lo predice il cuore… Oh, ma è impossibile, io sono sotto l'incubo d'una mano di piombo, ho il veleno in corpo, quell'acqua, ah! fu quell'acqua… tutto, tutto contro me… oh, è troppo Dio mio…

In questo punto una testa fa capolino dall'uscio; è il conte Alberto Sampieri.

L'infame per meglio riuscire nel suo tradimento aveva mescolato all'acqua trangugiata dalla biondina dell'oppio e delirante di gioia spiava dalla serratura i repentini ed ineluttabili effetti del narcotico.

Protendendo le mani tremanti muove verso la bella giacente che apre la bocca per gettare un grido, ma la voce le si spegne nella gola.

CAPITOLO V.

Ai deboli io soccorro, è la mia destra Schermo dei fiacchi. OSSIAN.

All'epoca del nostro racconto sull'angolo della via del Pontaccio verso piazza Castello prosperava l'albergo all'insegna dell'Ussero.

Era un vasto caseggiato alto due piani.

Nelle sale terrene il povero operajo di ritorno dall'officina chiedeva al generoso liquore un po' di sollievo alle forze abbattute.

Al piano superiore salivano i schifiltosi del contatto del popolo: agiati cittadini di quei contorni i quali ad un lauto banchetto solevano rompere la monotonia d'una vita sfaccendata ed inoperosa.

Le eleganti camerette del secondo piano poi, non venivano occupati che da qualche coppia amante desiosa d'abbandonarsi alla dolcezze d'intimi colloqui lontana dai rumori, dal mondo e da ogni sguardo indiscreto;—oppure qualche faccia sinistra che aveva i suoi giusti motivi per isfuggire il consorzio degli uomini.

L'albergo dell'Ussero era assai frequentato poichè tutti vi si trovavano comodamente ed a loro agio; la vicinanza inoltre del Castello e la numerosa guarnigione che in quei tempi di turbolenze l'Austria manteneva in Milano l'avevano fatto pure il geniale convegno di soldati d'orni arma e d'ogni grado.

Due giorni dopo i fatti da noi narrati tre ufficiali entrano nell'albergo e prendendo posto al primo piano comanda da cena.

Quantunque tutti e tre vestino l'uniforme e parlino l'idioma alemanno pure non appartengono alla istessa nazione; ciò non ostante compagni di reggimento s'amavano di vera amicizia forse in causa dei loro caratteri affatto diversi, cosa che per quanto strana ci sembra noi vediamo verificarsi spesso nelle affezioni degli uomini.

Il più giovane d'essi conta all'incirca venticinque anni; è polacco.

Educato in un'accademia militare della Germania era da quattro anni incorporato nell'esercito.

Bello di corpo e di cuore, si vedeva il sospiro delle donne e l'amore di tutti i suoi soldati, chè egli molto bene sapeva conciliare la rigadezza della disciplina coi sensi dell'umanità.

Caldo ancora d'entusiasmo giovanile era ammiratore ardente d'ogni fatto che sapesse di coraggio o di virtù ed animato pur lui d'un coraggio temerario in un momento d'esaltazione avrebbe affrontato impavido i più inauditi pericoli, purchè credesse di compiere un dovere o di far una bella azione.

È insomma polacco per eroismo, per generosità di sentimenti, per nobiltà d'animo.

Povera Polonia! Quantunque la tua terra sia sempre stata feconda d'eroi, Iddio ti diede troppo angusti recinti perchè tu possa rialzare superba la fronte e scuotere le catene del tuo duro servaggio.

Gli altri due ufficiali uno è francese, il secondo tedesco.

Il francese costretto da politici avvenimenti ad esiliare dalla patria sua erasi arruolato volontario nell'esercito austriaco.

Ha circa trentacinque anni e possiede tutti quei vizi e virtù che caratterizzano i figli di Francia.

D'indole impetuosa s'accende facilmente ed in allora bestemmiando tutti i dei dell'olimpo guai a coloro che osano opporsi a' suoi principii; è un vulcano in eruzione, se non che trovò sempre una certa difficoltà nel passare, dalle parole alle vie di fatto e ritornato in calma ritornava il più buon diavolo del mondo.

Il tedesco invece più avanzato di tutti in età, lo si conosceva per un uomo calmo, prudente e di poche parole, aveva però un difetto quello d'essere un po' troppo proclive ai piaceri della mensa e del vino.

Amava il polacco per le sue nobili aspirazioni, il francese pel suo carattere originale ed era da entrambi riamato per la di lui natura severa e nello stesso tempo flessibile ed affettuosa.

—Terremoto! proruppe il francese ponendosi il mantile sulle ginocchia ed accingendosi a divorare una bomba di fumante risotto. Non c'è che dire, allorquando si vuol essere prontamente serviti e serviti comme il faut bisogna proprio venire all'Ussero. È l'albergo migliore ch'io conosca in Milano. E che vino; si direbbe che Bacco ha degnato d'un suo sorriso la cantina dell'oste. E sì che di vini credo intendermene io! Quando si è nati in Francia, quando si sono percorsi i suoi dipartimenti vinicoli, si ha il diritto di crearsi giudice. Eppure guardate, se i vini italiani assomigliassero tutti a quelli che si bevono all'Ussero, sarei il primo a confessare che le viti d'Italia potrebbero gareggiare colle nostre, le prime del mondo. All'Ussero mi sento in patria, evviva l'Ussero!

Ed afferrando il colmo bicchiere lo vuotava avidamente d'un fiato.

—Havvi un fiume, amico mio, rispose pacificamente il tedesco fra una cucchiajata e l'altra di risotto, che nasce nel seno della Svizzera e che serpeggiando rapido fra fertili pianure e fioriti declivi forma colle sue acque un lago che, la natura rivestì de' più ridenti panorama. Quel fiume ne sorte dippoi più limpido, più maestosamente bello, corre la Prussia, l'Olanda e va a gettarsi in mare sempre lasciando dietro di sè la più variata vegetazione…

—Tu parli del Reno!

—Appunto. Ebbene il Reno presta il suo nome a certi vini che, caro mio, io bevo più volentieri del tuo Champagne e del tuo Bordeaux.

—Padronissimo; ciò non toglie che i vini del Reno stieno a quelli di Francia precisamente come un tedesco sta ad un francese. L'uno calmo, freddo e d'una vita penosa, l'altro invece pieno di brio, di slancio, di fuoco. Terremoto! giudica tu stesso se il confronto ci può lasciare in dubbio.

—Scioglierò io la grave questione, siccome colui alieno d'ogni spirito di parte, disse sorridendo il giovine polacco. Il paragone che tu hai fatto dei due vini è giustissimo; l'uno difatti è spirito, l'altro direi che è corpo, ambedue però egualmente squisiti. La questione adunque è puramente di gusto, chi preferisce l'uno e chi l'altro, perchè il mondo cammina per antitesi, cammina con inclinazioni, con gusti opposti. Bacco creò quei vini in due momenti diversi. Fiacco, spossato, volendo rinvigorire le sue forze e porre un po' di fuoco nelle vene, creò quelli del Reno. Già ubbriaco, bramando porre al colmo la misura, creò i spumanti francesi. Ambedue però sono perfetta opera della sua divina sapienza. Dunque in segno d'un'imparziale ammirazione, io propongo d'assaggiarli entrambi, ma dopo cena s'intende, vale a dire dopo d'aver rinnovato un paio di volte questo fiasco che pur cammina al suo fine con una rapidità incredibile.

—Evviva Bacco! fu la risposta dei due amici, e d'un fiato vuotarono i bicchieri.

Ma però un attento osservatore avrebbe notato che l'evviva del francese non era punto cordiale come quello dell'amico; scuotendo leggermente testa egli dava a vedere come la conclusione del polacco sui due vini non le andasse troppo a genio, e che avrebbe preferito sostenere all'ultimo sangue la sua opinione.

Quando un'altra cosa venne a toglierlo dalle sue meditazioni.

Egli s'accorse come la marmitta del risotto fosse vuota, e che pure il fiasco versasse in deplorabile stato.

—Terremoto! gridò allora con tutto il calore dell'anima; guardate, non abbiamo più niente, è scomparso tutto. Ehi, cameriere, il campo è sprovveduto, presto delle munizioni, che non venga meno l'ardore dei combattenti….

«Eh! ma io sento che ci vorrebbe qualche cosa d'altro per conservarci più validamente questo nostro ardore;—e guardò i compagni con aria maliziosa;—ci vorrebbe per esempio qui seduta in mezzo a noi una bella donnina, dagli occhietti furbi, dalle guancie di porpora e dalle forme rotonde…. Che ne dite, eh?»

—Oh la donna! proruppe il polacco con entusiasmo; creatura aerea, sorriso della natura, stilla di rugiada sul calice inaridito del cuore dell'uomo. Figlia primogenita di Dio, la donna fu creata per ispargere di rose l'arido cammino della vita, per mostrare all'uomo che la felicità non è solamente un nome, ma ch'essa ne possiede l'arcano.

—Verissimo, la donna possiede l'arcano della felicità!

—Sì, e lo trovi nella dolcezza del suo sguardo, nella poesia delle sue parole, nell'affetto d'un'alma tenera, sensitiva, ardente….

—Tutte cose ch'io ti cedo volontieri per una bottiglia di quel buono! interruppe il tedesco colmando il bicchiere.

—Tu diserti adunque la bandiera di Venere?

—E mi rifugio sotto quella di Bacco.

—Amico, te l'ho già detto, se dimenticassi il tuo nome chiamerei: chi vuol bere? e son certo che risponderesti: presente.

—Presente, presentissimo ai bacchici appelli.

—Eh, ma una donnina la ci voleva proprio, continuò il francese ritornando alla prima idea, ed a dire ch'io avrei potuto condurre la mia vezzosa Melitta, che si pone tanto volentieri a tavola. Ma guardate che peccato! Ecco cosa vuol dire combinar le cene sui due piedi, senza riflessioni di sorta! E non sono molti giorni che in un momento di confidenza quella cara fanciulla la mi diceva: Guarda il mio Adone,—la mi chiama sempre il suo Adone; dev'essere un nome che ha appreso allorquando in casa d'un certo dottore in teologia esercitava le funzioni di… governante.—Guarda, la mi diceva adunque, io porto alla cena un'affezione particolare, affezione che è in ragione diretta colla sua lautezza. E pur troppo in ragione inversa, le risposi, coll'esile complessione della mia borsa. Tuttavia la mia Melitta è una bella ragazzotta, piena di brio e di spirito, e che ci avrebbe divertiti moltissimo in questa sera….

—In allora un brindisi alla sua salute, disse il polacco.

—Evviva! gridarono in coro i convitati, e portarono le tazze alle labbra.

Il tedesco aveva impiegato meglio d'ogni altro il suo tempo.

Il corpo chino sulla mensa, gli occhi fissi nel piatto, mangiava e beveva di buonissimo appettito, se non che le troppo frequenti libazioni gli avevano diffuso sulle guancie una tinta vermiglia, la quale per un fenomeno bacchico notevolissimo s'innalzava a poco a poco, minacciando invadergli la fronte e la parte calva della testa.

Il polacco fu il primo ad accorgersene e gli disse:

—Amico all'erta! la marea del vino s'innalza!

—Terremoto, è vero, proruppe il francese, quando ne avrà fin sopra il capo sarà bell'e affogato.

—In allora calerò a fondo; e guardò sotto la tavola.

—Già, sempre così; cogli uomini taciturno, chiuso, severo; col vino il più gioviale compagnone del mondo. È questione di gusto.

—Vuol dire che il vino gl'inspira maggior confidenza degli uomini.

Il tedesco forse per fuorviare i compagni da considerazioni che non gli andavano troppo a verso rivoltosi al polacco come se afferrasse un'idea che in quel momento gli cadesse in mente domandò:

—A proposito, non ci racconti nulla della tua impresa amorosa? E sì che a quest'ora dev'essere a buon termine a meno che non abbia fatto fiasco.

Il polacco si morse le labbra.

—Terremoto! saltò su il francese, un'avventura amorosa? nulla di più interessante conoscendosi l'eroe. E tu volevi tenerci all'oscuro? Suvvia racconta, noi vogliamo saper tutto.

—Ha ragione, lo vogliamo!

Questa volta è il polacco che pensa al modo di deviare possibilmente la conversazione.

Bisognava che quella domanda lo molestasse alquanto.

Ma i fumi del vino salendogli alla testa gli avevano offuscate le facoltà dello spirito e per quanto si affaticasse non seppe trovare un mezzo qualunque, una scappatoja per sottrarsi al molesto invito.

Bisogna adunque improvvisare una favola, ma in vino veritas, dice il proverbio, ed il buon polacco di lieto umore preferì raccontare ingenuamente la verità, lasciar da parte le delicatezze e volgere tutto in riso.

—Ecco quà la mia impresa, incominciò, ma prima permettete che ne vuoti un'altro bicchiere, servirà a riscaldarmi vieppiù l'immaginazione ed a farmi più buon narratore. Ecco, la cosa è semplicissima ed io non ve n'ho mai parlato estesamente perchè credeva non ne valesse la pena. Incomincierò adunque dal principio quantunque tu lo conosci diggià.

E queste parole erano dirette al tedesco.

—Va bene, dal principio.

—Proprio di contro al mio alloggio, vale a dire sul corso di Porta Nuova, viveva una fanciulla dai capelli biondi e dal volto d'angelo. Notate ch'io non ho detto viveva a caso. Sebbene di oscuri natali, giacchè essa era la figlia d'un semplice portinajo, possedeva un'anima aperta ad ogni tesoro di virtù ed appariva poi così modesta, così santamente bella che bastava conoscerla appena per sentirsi preso da irresistibile simpatia.

—Terremoto, era una fata!

—Nella grotta d'un portinajo?

—Cosa volete, ne fui sedotto. La vedeva tutte le mattine recarsi al magazzeno ove povera ragazza vi rimaneva il giorno intero a lavorare per suo padre; qualche volta mio malgrado mi trovava sulla via allorquando di notte ritornava soletta a casa e… ed a dirvela in poche parole mi decisi tentarle il cuore. Eppure, quantunque io ne conti già qualcuna in vita mia di trionfi e pare che ne debba avere un po' di pratica, allorquando le era vicino non sapeva dirle una parola, mi sentiva confuso, imbarazzato come mi fanciullo e qualche volta credeva perfino di sentire rimorso a turbare la tranquillità d'un'anima che doveva essere tanto pura. Era insomma la prima donna che mi facesse soggezione.

—Oh, l'ingenuo!

—Continuai così per tre sere, cioè camminandole dietro timido e senza aprire la bocca. Diavolo, io dissi poi fra me, s'io seguito in questo modo finirà col credermi un'imbecille, e mi farà soggetto di risa nelle sue conversazioni colle amiche di magazzeno. Davvero che non la sarebbe una figura invidiabile. Infine non è che una povera fanciulla che si recherà ne son certo ad onore la mia preferenza a suo riguardo. Mi faccio adunque coraggio e risoluto mi ci porto al di lei fianco.

«—Bella fanciulla, lo dico io, è molto bujo stassera, le vie sono deserte e voi tutta sola; mi permettete d'accompagnarvi? La notte apparisce sempre ad una giovinetta, piena di timori, di vaghe apprensioni; di natura debole ella ha sempre bisogno d'un fedele protettore, ebbene io sarò il vostro, accettatemi come amico. D'altronde voi dovete conoscermi, almeno di vista. Sono tre sere che vi seguo, non ho mai osato avvicinarvi e parlarvi, voi m'avete fatto così timido…

«E credendo che chinato il capo non avrebbe aperto bocca in tutta la sera, mi era preparato a parlare un bel pezzo. Quando invece fissandomi in volto due occhioni azzurri come il cielo mi rispose:

«—Oh mi sono accorta che voi mi seguivate e ne aveva sommo dolore; io sarei stata costretta a non ritornare più alla sera dal povero padre mio, ma lavorando una parte della notte ottenere il permesso di vederlo di giorno. Vedete adunque che non poteva esservene grata.

«Quelle parole pronunciate con un'ingenuità infantile e in tuono melanconico mi commossero profondamente. Credetti d'essere al cospetto d'una creatura celeste.»

—Che ti fossi imbattuto davvero in una donna onesta?

—Pare impossibile, mormorò il tedesco.

Ella continuò: «Ora però sono contenta d'avervi parlato perchè voi mi sembrate molto buono. Vi prego adunque non seguirmi più oltre, io ritorno da mio padre, non mi può succedere nulla per via.—Allora le dissi che le mie intenzioni erano rette, che nessun pensiero disonesto mi spingeva verso lei, ma bensì la pura felicità di possedere un sì bel cuore, di possedere tanta virtù. E diceva il vero; ma non ci fu verso; ella fu irremovibile. Mi sembrava un sacrilegio il resisterle più oltre, ed alla bell'e meglio mi ritirai, Eppure quella fanciulla io non posso mai cancellarla dalla mente; mi è causa di dolci emozioni e sconosciute. Insomma, ridete pure, ma con lei sarei stato completamente felice.

«Passarono circa tre settimane, quando una mattina non la vedo uscire di casa all'ora consueta. Credendo che mi fosse casualmente sfuggita, aspetto ansioso l'indomani e non la scorgo ancora. Passano altri giorni, sempre nulla; infine, bramando averne una spiegazione, mando il mio servo dal di lei padre. Trovò il povero uomo, vecchio soldato invalido, concentrato nella più crudele angoscia. Sapete che cos'eragli accaduto? Gli avevano rapita la figlia.

—Un ratto! gridò il tedesco.

—La cosa è seria, terremoto!

Il polacco colmò la tazza e la trangugiò d'un fiato.

—Ma si conosce almeno l'autore d'un sì vile rapimento? chiese il tedesco.

—È un cotal conte Alberto Sampieri, che la fece condurre nel suo castello di Magenta.

—Allora non resta che denunciarlo all'autorità: ella farà il suo dovere.

—Denunziarlo? proruppe il polacco sdegnosamente; e che, siamo noi soldati o poliziotti?

—Non esageriamo, amico; è dovere d'ogni cittadino domandare l'intervento della legge laddove si scorgono tradimenti e delitti…. Havvi una giustizia le cui orecchie sono aperte per tutti; ella non aspetta che una parola per compiere inesorabilmente il suo dovere…. Pronunciamola codesta parola, e non vadi impunita un'azione infame… Che la giustizia sia per il conte la vendetta di Dio; la tua non arriverebbe infino a lui, o vi giungerebbe inefficace….

Queste parole venivano pronunciate a stento dal tedesco; il vino le aveva ingrossato la lingua, l'ubbriachezza stendeva su di lui il suo manto di piombo e vano riuscivagli ogni sforzo contro la potenza invincibile del generoso liquore.

Arso dalla sete dell'ebbro egli portò con mano tremante il fiasco alle labbra.

Fu il suo colpo di grazia; gli occhi gli si fecero di vetro, il volto di fuoco.

—Terremoto! gridò il francese alla sua volta mezzo brillo, che bell'idea! Oh, la mirabile fecondità della mia immaginazione! Sentite, noi siamo qui tre cavalieri, tre soldati d'onore e come tali pronti sempre a porgere ii nostro soccorso, la nostra vita, all'innocente perseguitato, al debole oppresso. Possiamo adunque sentire indifferenti il racconto d'una giovinetta rapita senza mandare al conte rapitore un cartello di sfida ed armati di scudo e lancia invitarlo a provarci in giostra s'egli è altrettanto fiero nel vincere uomini? Sarò io il primo a misurarmi con lui, voglio aver io l'onore di liberare la fanciulla dai capelli d'oro e dagli occhi azzurri. Corpo di mille terremoti, scommetto di mandar quel furfante in pochi colpi a mordere la polvere. Orsù compagni, in pellegrinaggio fino a Magenta, che ci preceda un araldo apportatore dell'ostile cartello e domani la bella rapita sarà ricoverata ancora sotto il tetto paterno. Beviamo adunque all'esito felice dell'impresa!

—Tu hai ragione per Iddio, esclamò il polacco con nobile entusiasmo, liberare la fanciulla ecco la nostra missione… voglio dire, ecco la mia missione.

—Tu vuoi scendere pel primo in lizza? soggiunse il francese, è giusto, sei la parte più impegnata. Ebbene, noi ti saremo di scorta, oh se foss'io il chiamato a fare al conte un'occhiello nel ventre!…

—Un momento, balbettò il tedesco ch'era riuscito a comprendere qualche cosa, pensate… un duello…

—Bevi, bevi amico, la tua prudenza questa volta devi spegnerla nel vino; gridò il polacco. Un duello, un duello a morte col conte Sampieri; egli ha rapito la donna de' miei pensieri, ha rapito una fanciulla ingenua, onesta, innocente; io le farò giustizia, ma io solo, è un affare che mi riguarda ed i miei affari soglio farli da me. Amico, continuò rivolgendosi al francese, ti ringrazio del consiglio, la mia mente fu tanto dappoca da non suggerirmi un dovere sacrosanto; ringrazio pure la tua generosità nell'offrirmi una destra invitta ma non posso accettarla; contro un uomo basta un uomo ed io ho troppa fiducia nella mia spada per aver paura. Domani mi recherò a Magenta e domani a sera, amici, beveremo alla salute della bella liberata ed all'eterna dannazione d'un'anima esecranda.

—Ebbene, se non mi vuoi compagno nella lotta mi avrai tuo padrino.

—Niente; al suo castello il conte è solo, non deve credere ch'io voglia intimidirlo presentandomi accompagnato. Te lo domando in favore, lasciami partir solo, è mio dovere; io vado ad arrestare, a punire un delitto, l'impresa è troppo nobile perchè non riesca secondo i miei voti.

—Il conte è traditore, terremoto!

—Il conte non lo temo.

—Sia fatta la tua volontà, già ne' tuoi panni farei lo stesso anch'io. L'avventura non può essere più bella, più degna d'un gentiluomo, più feconda di gloria. Noi ci rivedremo adunque domani qui, in questo istesso luogo e ci congratuleremo col giovine eroe. L'ultimo bicchiere alla tua salute!

—E tu non bevi? domandò il polacco sorridendo al tedesco ubbriaco fradicio.

Questi tentennò la testa, aprì la bocca per parlare ma non le uscirono che parole interrotte ed incomprensibili.

Era la mattina del 24 giugno 1778.

Il sole appariva luminoso sull'orizzonte ed i tremolanti raggi stavano per stringere il creato in un dolce ed amoroso amplesso.

Un giovine ufficiale vestito dalla divisa austriaca percorreva in una vettura da nolo lo stradone di Magenta.

Il suo volto era bello; un esame attento vi avrebbe scorto un leggiero sorriso di soddisfazione posarsi di tanto in tanto sulle di lui la labbra ed una ineffabile serenità diffondersi sui suoi lineamenti.

Era insomma il volto di colui che spinto da un'animo nobile e da generosi sentimenti credeva correre al compimento d'un sacro dovere.

Quel giovine è il nostro polacco; di natura ardente ed entusiasta si era lasciato vincere da una dolce simpatia verso la bella biondina, simpatia che col tempo sarebbesi cambiata in sincero amore.

La notizia del di lei ratto e dell'avvenire d'infamia che le si preparava, fu per lui un colpo terribile; si sentiva ferito, offeso nel profondo del cuore, poichè la persona amata fa parte di noi stessi; le sue gioie, le sue sventure sono gioie e sventure nostre.

Noi l'abbiamo veduto come accolse l'idea d'un duello; ora lo vediamo come pronto corre all'arrischiata impresa, e se gli leggessimo nel cuore vedremmo ancora con quanta abnegazione, con quanta gioia egli avrebbe data la sua vita purchè potesse giovare alla povera infelice.

Dopo due ore di viaggio entrava in Magenta.

La vettura si fermò ad un albergo, e l'ufficiale, tratta una lettera e consegnatala al cocchiere, gli disse in tuono pressochè solenne:

—Io deggio partire per alcuni affari. Qualora però entro due ore non fossi di ritorno, tu riederai prontamente a Milano e porterai questo foglio al suo indirizzo. Hai capito? fra due ore.

La lettera era diretta all'ufficiale francese suo amico.

Subito dopo il giovine polacco mosse verso il castello Sampieri.

Sebbene fosse di buonissima ora, pura nell'interno del castello tutti erano ritornati ai loro uffici consueti; i servi, sommessi schiavi, ad ubbidire; il conte, dispotico padrone, a comandare.

Il polacco passò il ponte levatoio, e si diresse a Tonio, che in quel giorno gli spettavano le funzioni di guardiano.

Tonio non potè trattenere un moto di stupore alla domanda dell'ufficiale d'un colloquio col conte; lo fece entrare in un salotto terreno e pregollo ad attendere finchè l'avesse annunziato.

Il giovane polacco rimase solo pochi minuti; il cuore gli batteva con violenza, non già per debolezza, ma per la brama impaziente di agire.

Tonio ritornò; un sogghigno malizioso gli errava sulle labbra; inchinossi forse con un po' d'ironia all'ufficiale, ed invitollo a seguirlo.

Attraversando un labirinto d'appartamenti, lo condusse in una magnifica sala d'arme, ove il conte Sampieri stava intento ad esaminare e provare le mille armature diverse che pendevano dalle pareti.

—Le domando perdono, disse il conte all'ufficiale con affettata noncuranza, se non lo ricevo in un luogo più degno dell'alta devozione ch'io professo sempre ai miei ospiti. Cosa vuole? io sono schiavo delle mie abitudini, e la più prepotente si è appunto quella di consacrare le ore mattutine alla mia sala d'arme, nella quale, guardi, ho tutto l'occorrente per divertirmi a mio bell'agio. Qui, lei vede, per esempio, un piccolo bersaglio e pistole d'ogni modello, le quali, non faccio per dire, ma di rado mi fanno il torto di non colpire a dovere. Qui appese stanno pure sciabole d'ogni specie, fioretti, guanti, maschere, che so io, mi servono a meraviglia ne' miei assalti di punta e sciabola che rinnovo spessissimo con un certo marchese mio amico. Oh, alle armi io ho sempre portata un'affezione ardentissima, e una prova appunto di questo, si è che per parlarne io la dimenticava lì in piedi senza neppur pregarla d'accomodarsi e spiegarmi il motivo della sua cara visita. Il signore mi vorrà compatire, spero.

L'ufficiale, che in questo tempo era rimasto in atto severo e contegnoso, s'inchinò leggermente alle ultime parole del conte ed incominciò:

—L'oggetto della mia visita è importante quanto egli è sacro; ascolti. Un povero padre, vecchio soldato invalido, viveva felice coll'unica figlia. Egli l'amava codesta figlia, perchè era il sostegno della sua tarda età, perchè col continuo lavoro teneva lontano dall'umile tugurio gli orrori della miseria; l'amava perchè, bella d'un'anima pura e d'un vergine cuore sapeva co' suoi sorrisi mitigare i dolori delle onorate sue ferite, colle sue consolanti parole spargere il conforto nell'animo triste; era insomma il suo angelo sfolgorante di celestiali virtù. Ebbene, una notte il padre infermo attese invano sua figlia, la fanciulla venne rapita. Signore, egli è da lei ch'io mi faccio a reclamarla.

—Non comprendo, rispose il conte ostentando meraviglia; se lei vuole ch'io unisca a' suoi i miei deboli sforzi per venire in aiuto alla povera giovinetta, allora non ha che pronunziarmi il nome dell'infame seduttore. L'opera è troppo degna d'un onesto gentiluomo perch'io rifugga d'associarmi volonteroso.

—Il nome dell'infame seduttore, conte, è il vostro, tuonò l'ufficiale spogliandosi d'ogni riguardo. Giù, giù una volta quel manto ipocrita sollo al quale volete nascondere le vostre enormezze, abbiate almeno il coraggio del delitto, e confessate lealmente quello che con tanta viltà sapete commettere. Conte, la fanciulla venne rapita da voi, voi l'avete in questo castello; in nome dell'umanità, in nome delle leggi sacre, dell'onore, restituitela al padre suo.

Il conte fissò l'ufficiale con sogghigno beffardo e continuò con fredda calma:

—Signor Paladino! con qual diritto mai v'introducete nelle case degli altri per immischiarvi in quello che non vi riguarda? Con qual diritto vi compiacete di controllare le azioni altrui per venir poi a dire in tuono più o meno comico: Non mi garbano, non voglio che facciate così, fate quello che dico…

—Col diritto della giustizia, coi diritto di colui che vuol prevenire una colpa o vendicarla.

—Ebbene sentiamo, s'io vi dicessi: la fanciulla che voi vi siete messo a proteggere non per sentimento generoso, disinteressato ma forse chissà, par qualche altro motivo più intimo, come per esempio, per vedervi prevenuto in una meta che invano tentaste di raggiungere…

—Signore!

—Se io vi dicessi adunque codesta fanciulla è mia, io la tengo nel mio castello, passo con lei i momenti più belli della vita, cosa mi rispondereste, sentiamo!

—Conte, vi pregherei ancora una volta di restituirla al tetto paterno, di non volere l'infamia d'una donna onesta, innocente.

—E se le vostre preghiere non valessero?

—Chi non ascolta la parola dell'onestà e della giustizia o che diventa infame o ch'egli lo è diggià. Voi Conte io conosco già per infame, non mi resterebbe che di trovarvi vigliacco ed allora vi chiamerei l'uomo il più esecrabile che l'inferno abbia vomitato in sulla terra. Suvvia ladro d'onore, assassino di deboli fanciulle, restituite la vostra vittima o difendetela col ferro…

Le guancie del giovane ufficiale erano vivamente infiammate, lo sguardo feroce, e la destra stringeva convulsa l'elsa della spada.

—Miserabile, proruppe il conte lasciando irrompere lo sdegno che a stento aveva fin'allora represso; miserabile! saprò ben io ammutolire quella lingua che incauto tu meni con troppa arroganza. È la morte che cerchi? Ebbene, l'avrai. Possa il tuo sangue ricadere sul capo a tutti quelli della tua schiatta, che nel delirio della temerità, dopo d'essere entrati padroni in terra altrui, si fanno diritto di violarne le case e dettarvi legge.

E furibondo, staccata dalle pareti una spada, a sbalzi proruppe dalla sala, percorse un lungo corritoio, ed aperto una porticina che metteva fuori del castello in un vicino bosco, vi s'internò pochi passi.

Cieco d'ira e smanioso di vendetta, il polacco lo seguiva fremendo.

Arrivati in un punto in cui la larga disposizione della piante concedeva uno spazio libero di terra, i due nemici si fermarono, e l'ufficiale, sguainata la spada, fu il primo a mettersi in guardia.

Qui succede una scena orribile.

Sono due uomini che, armati di ferro e d'indomabile sdegno si disputano a vicenda la vita.

È un continuo incalzarsi, retrocedere, rincalzarsi di nuovo e di nuovo ripiegare; i colpi cadono fitti e pesanti, e le lame accozzantesi aspramente gettano scintille.

Il volto dei combattenti è acceso, lo sguardo fiero, l'anelito affannoso; ambedue sono animati da un eguale pensiero, pensiero di sangue, e questo sangue colla destra vigorosa roteando la sciabola lo cercano in ogni colpo.

Ma il ferro vien sempre respinto dal ferro, pronto a colpire è prontissimo a parare.

E la natura par sorridere a codesta lotta accanita fra la vita e la morte.

Il sole, abbassando a poco a poco i suoi raggi, sembra piovere sulle piante una pioggia di luce, e queste, agitandosi dolcemente nel loro lieto mormorio, salutano l'astro del cielo.

Gli uccelli gorgheggiano soavi melodie, e la lucida serenità del cielo e l'aura pura e fragrante di primavera richiama in ogni cuore pensieri d'amore.

Ma le passioni degli uomini talvolta sono sorde alla voce affascinante della natura.

La lotta si protrae già d'alcuni minuti, feroce sempre; la fronte degl'avversari gronda sudore e sangue; prostrati di forze li sostiene lo sdegno diventato furore.

Abili spadaccini ambedue e di valore pressochè eguale, il combattimento saria continuato buona pezza indeciso, se il destino risparmiava il suo fatale intervento.

Un raggio di sole, rompendo a poco a poco le folte frondi delle piante, venne a battere sul volto dell'ufficiale, che in quel punto stava rivolto a levante.

Percosso all'improvviso e non potendo sostenerne la fulgida luce, tentò rimuoversi dal posto spingendo l'avversario; questi s'accorse e tenne fermo.

Il sole gli abbarbagliava la vista; ciò nullostante l'ufficiale provò vincerne la molestia e tentare disperati sforzi sopra il conte; ma fu invano.

Bentosto il suo sguardo si smarrì in mezzo a miriadi di stelle; credeva fissare un oceano di fuoco che gli ardesse le pupille.

Lo assale allora una dolorosa sensazione agli occhi, che gli si empiono di lagrime; incauto li chiude un'istante, un'istante solo… ma in questo mentre la spada del conte s'avanza rapida e gli trapassa il cuore.

Il giovane ufficiale stramazza a terra, spalanca due volte la bocca emettendo rivi di atro sangue, indi si ricompone come corpo morto.

Prorompendo in orribili bestemmie il conte getta il brando insanguinato e come spinto da furie infernali fugge precipitoso al castello.

Il polacco non era peranco spirato. Risospinto sulla soglia dell'eternità Iddio si compiacque arrestarlo un momento, non per rendergli più angoscioso il trapasso ma per dargli tempo di compiere un'opera che la divina prescienza comprese di quanta importanza doveva giungere un giorno nelle tempestose peripezie d'un'innocente creatura.

Infatti il ferito riaprendo gli occhi li girò attorno inquieto quasi molestato da un interno pensiero; tentò facendosi puntello colle mani risollevarsi sulla persona, ma l'estrema debolezza del corpo non glielo permise. Ricadde gemendo.

L'idea di dover morire solo, lungi da' suoi cari senza il conforto d'uno sguardo pietoso, d'una parola amica, senza neppur soddisfare un certo desiderio che l'anima leale gli aveva in quell'estremo momento suggerita, richiamò sul suo ciglio una lagrima, su quel ciglio che sarebbe rimasto asciutto ai soli tormenti d'una dolorosa agonia.

Quand'ecco lo sguardo fissa in un pezzo di carta che giace a pochi passi da lui discosta; un lampo di mesta gioja brilla ne' suoi occhi; vincendo dolori atroci con sforzi inauditi si trascina verso il foglio e lo ghermisce con mano tremante; indi con un legno ch'egli intinge nel proprio sangue vi scrive sopra poche parole.

Le forze lo abbandonano e si lascia cadere spossato.

Si diffonde sul suo volto una tinta verdastra, le labbra gli divengono paonazze, gli occhi di piombo ed uno scrollo convulso commuove le di lui membra.

Era l'anima che gli usciva dal corpo.

Un giovane contadino cantarellando l'usata canzone attraversa il bosco recandosi allegro al lavoro del campo.

Il sentiero ch'ei percorre lo conduce sul luogo funestato dal terribile duello ed egli vede l'ufficiale in terra immerso in un lago di sangue.

S'arresta inorridito il contadino. Il suo primo moto è di paura, indi di compassione; getta allora i rustici arnesi che porta in ispalla e si china sul cadavere.

È confuso, incerto sul partito da appigliarsi, allorquando una carta segnata di rosso che stretta tiene il morto fra le mani attira la di lui attenzione.

Fa per impadronirsene ma un senso di ribrezzo e fors'anco di timore lo arresta; mal si sa risolvere, finalmente la curiosità lo vince e protendendo risolutamente le mani strappa dalle dita contratte la carta desiderata.

La spiega e la legge.

La fina malizia che in gran copia possiede il villano e che talvolta gli giova nella notte della sua completa ignoranza, gli fece comprendere di quanto valore poteva essere un giorno quel foglio e cautamente se lo nascose in seno.

Indi gettato un ultimo sguardo al cadavere ritorna correndo a Magenta, a riferire l'incontro avuto.

Due giorni dopo si leggeva sui giornali di Milano:

«In un piccolo bosco poco lungi da Magenta venne trovato da un contadino il cadavere assassinato d'un nostro ufficiale, giovine polacco di distinta famiglia e di moltissimi meriti.

«Da una spada insanguinata rinvenuta sul luogo del delitto e su cui stava inciso un nome, la Giustizia potè riconoscere autore del misfatto il conte Alberto Sampieri di Milano, proprietario del bosco e d'un castello attiguo.

«Si procedette tosto al di lui arresto ma, il conte erasi già fatto latitante.

«Altamente commossa S. M. l'Imperatore, nell'intento di dare un esempio solenne della severità colla quale egli vuol punire ogni colpa di atroce natura, considerando pur anco gli antecedenti disonorevoli di tutto il casato Sampieri, condannò il conte Alberto alla pena di morte, bandì in perpetuo esiglio suo fratello Renato, confiscando in favore dell'impero gli aviti beni.

«Noi non possiamo che approvare la sentenza dell'augusto nostro Sovrano.»

CAPITOLO VI.

On parlera de sa gloire Sous le chaume bien longtemps; L'humble toit, dans cinquante ans Ne connaitra plus d'autre histoire. BÉRANGER.

Scorsero diciott'anni dall'epoca dei nostri avvenimenti; siamo nel 1796.

In questo tempo le ingiustizie perpetuate da secoli, le ineguaglianze sociali, il mal governo, prepararono in Francia quella grande rivoluzionaria di cui tutta Europa ne avrebbe sentite le conseguenze.

Il popolo illuminato dalle nuove idee che una schiera di eminenti scrittori avevano diffuse, affascinato dalle parole: libertà, eguaglianza, fraternità, non poteva più tollerare gli odiosi privilegi dell'aristocrazia e del clero.

Egli voleva sollevarsi da quel fango in cui lo avevano gettato, voleva che si riconoscesse in lui pure una mente ed un cuore.

Gli uffici più importanti alla milizia, nella magistratura, nell'amministrazione erano riserbati alla nobiltà e molti trasmessi di padre in figlio.

I Nobili ed il Clero possedevano due terzi dei terreni ed erano immuni da contribuzioni; il popolo invece pagava imposte all'erario, tributi feudali ai nobili, decime al clero.

Scoppiò la grande rivoluzione; quella rivoluzione che sebbene abbia fatte molte vittime, sebben si fosse contaminata in sanguinosi eccessi pure scolpiva quei solenni principi che sono il fondamento dei diritti e delle franchigie dei popoli: eguaglianza di tutti in faccia alla legge, inviolabilità delle persone, libertà di coscienza e di stampa.

Ma i progressi di questa rivoluzione avevano spaventate le potenze d'Europa alle quali premeva d'impedire che le nuove idee di libertà penetrassero nei loro stati e perciò Germania, Russia, Inghilterra, Olanda, Belgio, si confederarono contro la Francia e minacciarono d'invaderla.

Ecco l'Europa in guerra contro la civiltà; ma fu tanto l'accanimento con cui la Francia seppe lottare in difesa de' suoi principi che riportò da sola le due memorabili vittorie di Valmy e di Jammapes.

Pure un poderoso esercito tedesco passa il Reno allo scopo di ristabilire in Francia la monarchia assoluta; allora si proclama la Repubblica e Luigi XIV è condannato a morte.

Tutta l'Europa monarchica si leva in armi e nella Vandea scoppia la guerra civile.

Si ordina la leva in massa ed un prestito forzato di un miliardo sui ricchi.

Contro i pericoli interni si pubblica la legge dei sospetti; Maria Antonietta d'Austria, vedova di Luigi XIV, Filippo Egalité duca d'Orleans cugino del re e molti altri insigni personaggi sono mandati alla ghigliottina, indi si muove risoluti contro i nemici.

La patria mercè una memorabile eroica difesa è salva dall'invasione straniera.

Si pone l'assedio a Tolone che si è ribellata ed è appunto in questo assedio che si distingue un giovine corso, ufficiale d'artiglieria.

Egli è Napoleone Bonaparte, quell' uomo fatale che alla testa d'un invincibile armata doveva correre vittorioso il mondo intiero.

Pacificata la Vandea e riordinata la Repubblica questa volendo vendicare l'invasione tentata, nominò Napoleone comandante supremo d'un esercito e lo mandò alla conquista d'Italia.

Napoleone rompe gli Austriaci e i Piemontesi collegati, a Montenotte, a Dego, a Millesino e conchiuse con Vittorio Amedeo III un armistizio che a Parigi fu tramutato in pace; indi prosegue la gloriosa campagna.

Si getta sugli austriaci, sforza il passo dell'Adda a Lodi ed il 14 Maggio 1796 in mezzo ad una folla plaudente entrava in Milano.

Napoleone si fermò qualche tempo a Milano e si occupò nel dare una forma provvisoria di governo alla Lombardia.

Un giorno gli venne consegnato un plicco; era un ricorso firmato dalla principale nobiltà de Milano, ricorso che essendo importantissimo al nostro racconto, essendo anzi il perno su cui si devono svolgere quei fatti che andremo narrando lo trascriviamo per intero.

Eccolo:

« Al Generale Napoleone Bonaparte

«I sottoscritti appellandosi a quei sensi di equità dei quali già ci deste prove reiterate e che formano una sì bella aureola sulla fronte d'un eroe, osano chiedervi giustizia sopra uno dei mille abusi commessi dal cessato Governo Austriaco nel lungo tempo del suo dispotico dominio in Lombardia.

«Dicott'anni or sono il casato dei conti Sampieri era uno dei più illustri, per nobiltà e censo, della nostra Milano, ma per sentimenti patriottici che come una nobile tradizione passavano in quella famiglia di padre in figlio, fu sempre cordialmente odiata dall'Austria.

«Morto il vecchio conte Sampieri in Corsica, ove fu costretto esigliarsi per isfuggire a politiche persecuzioni, lasciava due figli superstiti, soli eredi del nome e delle ricchezze avite: Renato ed Alberto.

«Avvenne che Alberto, il minore dei fratelli, giovane poco più che ventenne e di carattere ardente ebbe un duello, vuolsi per una donna, con un ufficiale tedesco, in cui questi rimase ucciso.

«Sfortunatamente il duello avvenne senza testimoni e questo bastò perchè la clemenza di S. M. l'Imperatore dichiarasse il conte Alberto Sampieri assassino, lo condannasse senza processo a morte ed i suoi beni confiscati a favore dell'Impero.

«Ma non ancora contento il generosissimo Sovrano si scagliò pure sul fratello Renato che nessuna parte aveva avuta nell'infausto duello, lo bandì in un colla famiglia in perenne esiglio, confiscandogli ancora le immerse ricchezze.

«Egli è in vedendo un nobile membro di nobilissima stirpe andar ramingo senza pane, senza Letto, povero, in suolo straniero, di non altro colpevole che d'essere fratello a chi non commise infine che un perdonabile trascorso giovanile,—egli è in vedendo questo che i sottoscritti commossi si rivolgono a voi per averne giustizia.

«Il conte Renato Sampieri fu vittima innocente d'un odio implacabile che da lunghi anni si maturava su di lui; stendetegli adunque quella destra che già benefica porgeste al nostro paese e nella vostra munificenza restituitegli quell'onore e quei beni che tanto ingiustamente gli furono rapiti.

«Ch'egli ritorni in patria, ch'egli riposi i patimenti sofferti nella casa de' suoi padri; è quello che ossequiosi noi tutti imploriamo.

«E se voi credete, o Generale, che diciott'anni d'agonia possano espiare una colpa, perdonate ancora al fratello Alberto Sampieri.

«Voi siete munito d'ampi poteri, voi potete compiere i voti di tutti i nobili cuori milanesi, fatelo, voi—e con voi la Francia—avrete la benedizione d'una famiglia e l'eterna riconoscenza d'una nobile città.»

Seguivano le firme.

Tutti i giornali di Milano riprodussero questo ricorso e tutti ebbero lusinghiere parole per i poveri esigliati.

S'invocava dovunque la giustizia del Generale francese.

Napoleone comprese che quest'era un'opportunissima occasione per rinfrancarsi la simpatia degl'italiani.

S'egli venne accolto in Milano colle acclamazioni d'un liberatore, alcune città lombarde invece, instigate da segreti agenti tedeschi si erano sollevate ed imbrandite le armi contro i francesi.

Dall'Italia Napoleone doveva incominciare la sua marcia gloriosa per l'Europa ed aveva perciò bisogno di lasciar dietro di sè popoli amici.

Alcuni giorni dopo fra gli applausi di tutta Milano sortiva un decreto firmato da Napoleone a nome della Repubblica Francese, col quale: considerando l'ingiusta condanna del conte Renato Sampieri e sua famiglia, non credendo di compiere che un'atto di giustizia, gli si ritirava il bando d'esiglio a lui spiccato dal Governo Austriaco nel 1778, rimettendolo ancora nel pieno possesso di tutti i suoi beni.

S'aggiungeva inoltro che in quanto al fratello di lui Alberto Sampieri giacendo tuttavia sotto la grave accusa di omicida e non lo potendosi assolvere senza ledere quelle leggi la di cui maestà dev'essere sempre rigidamente rispettata, si permetteva di dar corso ad un regolare processo, qualora venisse chiesto dal delinquente col mettersi a disposizione dei tribunali.

Si obbligava poi il governo di passare ad una esatta restituzione dei beni confiscatigli allorquando venisse emanata sentenza favorevole; in ogni modo si doveva tener conto degli anni scontati in esiglio.

CAPITOLO VII.

Dubita pur che brillino Degli astri le carole, Dubita pur che il sole Fulga, e che sulla rorida Zolla germogli il fior; Dubita delle lagrime, Dubita del sorriso, E dubita degli angioli Che sono in paradiso, Ma credi nell'amor. BOITO.

Godeva di moltissima fama in quel tempo il Collegio Femminile di Monza.

Grazie ad una completa istruzione che da valenti istitutrici vi s'impartiva, era divenuto il ricovero delle fanciulli appartenenti alle più illustri famiglie lombarde per nobiltà e ricchezze.

Nell'alta società si credeva che una giovinetta non potesse mai possedere quelle cognizioni, quella compitezza di maniere, quella squisita educazione insomma necessaria a chi veniva chiamata a vivere fra le sublimi sfere sociali, se non usciva dal Collegio di Monza.

Esso occupava un ricchissimo palazzo, i di cui ampi locali capivano a meraviglia le innumerevoli educande; eravi annesso un delizioso giardino, in cui nelle ore destinate al sollievo si lasciavano libere ricrearsi quelle giovinette avide sempre di moto e d'aria.

Suona appunto l'ora della ricreazione; soffermiamoci un'istante e godremo d'un quadro che la gioventù, la vita e l'innocenza rendono aggradevole più che mai.

Da molte sale sortono in buon ordine schiere di educande, che percorrendo forse con una certa impazienza gli ampi corritoi, si raccolgono tutte nel cortile di fronte al cancello del giardino.

I loro occhi sono fissi in volto alla Direttrice, donna di molto sapere, di rigidi costumi e che ama le sue allieve d'amore materno; ed allorquando questa di propria mano, spalancando il cancello con dolce gesto le invita a ricrearsi, in allora la gioia prorompe, a sbalzi, quale gentili gazzelle, si disperdono pei verdeggianti prati.

E tutte corrono, ridono, folleggiano.

Chi con azzurra reticella insegue anelante la vispa farfalletta, finchè questa posando sul fiore, si lascia dolcemente cogliere al laccio di seta.

Chi scende, sale, ridiscende l'erbosa china colla leggerezza d'una Silfide mozza donna e mezza nube.

Chi con agile piede corre pei lunghi viali in traccia dell'amica, che raggiunta le concede nascondersi ancora per ancora raggiungerla correndo.

Chi disposte in cerchia fanno a gara a raccorre la palla per lanciarsela poi con colpi gentili.

Chi con una benda agli occhi, le mani prostese in avanti s'ingegna afferrare la compagna, che colle compagne le fanno corona intorno martoriando con infantili sorprese la povera cieca.

E sempre correndo non s'arrestano neppure allorchè il piede incespicando, mal sa sostenere il gracile corpo, che cade sull'erba e sui fiori.

—Oh, come sono stanca! diceva affannata una vezzosa fanciullina di circa dieci anni. Sapete, care mie, cosa dobbiamo fare adesso? Coglieremo insieme margheritine e viole, e comporremo un bel serto. Che ve ne pare?

—Brava, brava, esclamarono in coro le amiche; quattro angioletti che parevano staccati da un quadro di Raffaello.

E girando pel prato empirono ben presto di vaghi fiorelli il loro grembiule, e liete le bambine s'assisero sotto l'ombra di annosa quercia.

—Ecco, deponiamo qui la nostra raccolta, tornò ancora la piccina, voi mi farete tanti piccoli mazzolini, ed io intrecciandoli insieme comporrò la corona. Vi piace?

—Sì, sì!

E tutte si misero all'opera.

—Oh quanti bei fiori!

—E come sono olezzanti!

—Più di tutti le viole.

—Come piacciono a me le viole!

—Io ne vado pazza.

—Continuerei tutto il giorno a coglierne.

—Io pure.

—Non capisco perchè la violetta, che è un fiore così gentile se ne sta tutta timida nascosa in mezzo all'erba e non si mostra altera al nostro sguardo come la rosa ed il garofano.

—Sarei curiosa anch'io di saperlo. E sì che il suo profumo non la cede per fragranza a quello di nessun fiore. Non è vero?

—Sicuro, ripeterono tutte in coro.

—Imparate da lei, le mie bambine, disse con voce amorevole la Direttrice che nascosta dalla quercia aveva udito il dialogo di quelle innocenti; imparate dalla viola ad essere umili e modeste. Non vi lasciate mai sedurre dall'ambizione e dall'orgoglio; non vi lasciate mai vincere dalla funesta tentazione di distinguervi, di far sfoggio in faccia a tutti di quelle doti, di quei privilegi che il Signore vi ha donati; ma vivete sempre semplici e virtuose. Quel soave olezzo che tradisce la viola in mezzo all'erba additerà pur voi agli occhi del mondo; e tutti vi ameranno, tutti faranno plauso alla vostra virtù.

E dato un bacio a quelle carine che religiosamente avevano ascoltato le sue parole tentando di comprenderle, la Direttrice s'allontanò.

—Come ci vuoi bene la signora Direttrice!

—È tanto buona!

—Tieni; il mazzetto l'ho terminato. Va bene così!

—Va benissimo, brava.

—Ma ditemi un poco, a chi daremo poi questa bella corona?

—Ah è vero, bisogna pensarci!

—Se potessi mandargliela alla mamma che ci piacciono tanto i fiori!

—Vorremmo tutte fare lo stesso, ma… siamo in quattro e la corona è una sola.

—Sicuro!

—Bene, gliel'offriremo alla signora Direttrice che qui in collegio ci tien luogo a tutte della mamma. Che ve ne pare?

—Ma brava, faremo così.

E quelle ingenue creaturine intrecciando viole continuavano liete i loro infantili ragionamenti.

Oh la bell'età dell'innocenza!

Or avviciniamoci a quelle tre giovinette che strette famigliarmente al braccio passeggiano insieme i viali del giardino.

Hanno circa sedici anni, vale a dire quell'età in cui la donna comincia a sentire il bisogno di nuove aspirazioni, in cui l'affetto dei parenti e delle amiche pare che più non basti alle esigenze del cuore sensitivo, in cui insomma l'amore germogliandole in seno vi suscita molte volle l'ambizione e la civetteria.

Eccone una prova.

—Oh se mi sono divertita in queste vacanze in casa de' miei parenti! diceva una bella brunotta dagli occhi vivi e maliziosetti.

—Già è pur bella la nostra Milano, ci offre pur molti divertimenti! aggiungeva un'altra.

—Gli è per questo che sospiro il momento di lasciare il collegio che mi diventa odioso tutti i giorni; saltava su la terza. Dover vivere qui rinchiusa fra quattro mura, vestire così male, non sortire mai che per andare in chiesa, è una cosa insopportabile.

E la dispettosa batteva i piedi dalla collera.

—Grazie al cielo per me è l'ultimo anno codesto, tornava ancora la brunetta; l'ho pregata tanto la mamma che finalmente ha acconsentito a levarmi di qui. D'altronde voi sapete ch'io sono fidanzata e bisogna bene che abbia un po' di pratica del mondo prima d'entrarvi col bel nome di signora.

—Sei fortunata, tu.

—E chi è il tuo sposo?

—Un mio cugino.

—È bello?

—Bellissimo, ricco e nobile.

—Ah sì?

—Mi venne presentato la prima volta nel mio palchetto del Teatro alla Scala. Assistevo co' miei parenti alla rappresentazione del Mitridate. Che bell'opera il Mitridate! Che musica! Ti tocca il cuore.

—Io la so quasi tutta a memoria. Furono le prime melodie che ho apprese sul piano.

—Ah! ti dico che sentendola cantare alla Scala Mitridate è qualche cosa di meraviglioso.

—Gran bel teatro la Scala!

—E come è chic. Vi si trovano tutte le nobiltà di Milano.

—Anch'io ci ho il mio palco e la mamma m'ha promesso, una volta sortita di collegio, di condurmi tutte le sere.

—Quando ci sono andata io, continuò la brunetta promessa sposa, vestivo un bell'abito di seta celeste, i capelli mi scendevano liberi sulle spalle e bisognava che stessi bene perchè tutti mi guardavano.

—E chi ti guardava?

—Per lo più bei giovinetti, rispose con una certa ingenuità.

—Ah sì?

—E come era contenta vedermi l'oggetto della loro ammirazione.

—Oh l'ambiziosa!

—Infine poi non c'è nulla di male. Ebbene fu appunto in quelli sera ch'io vidi per la prima volta mio cugino. Cosa volete, mi piace e tutto, mio cugino, ma però gli ho trovato un difetto.

—Quale?

—Quello d'essere troppo serio; parla assai poco, ride di rado, ha insomma la gravità d'un nonno.

—E tu sei così folle!

—Sarebbe adunque più adatto alla nostra Erminia che anche lei è sempre melanconica, sospira sovente ed ama il silenzio e la solitudine.

—Lasciamola in pace quella povera Erminia, è tanto buona!

—Mi piacerebbe però conoscere la causa della sua mestizia.

—Eh, io credo d'averla indovinata, disse la brunotta con piglio misterioso.

—Ah sì? di su.

—E scommetterei uno contro cento di cogliere nel segno.

—Parla adunque!

—L'Erminia vedete…

—Ebbene?

—È innamorata.

—Oh bello!

—Ma di chi?

—Oh mio Dio, non avete mai notate le infinite cure che le usa il signor Flavio nostro maestro di disegno; non li avete mai sorpresi in dolci colloqui, non mai osservato com'essa si confonde allorquando le parlate di lui e come la sua mano trema sul disegno quando Flavio si ferma a contemplarla? Ma bisogna ben essere ingenue!

—Possibile?

—Altro che possibile, è certo. Erminia lo ama in segreto e n'è da lui riamata.

—Fa adagio per carità, se ci udissero?

—Oh è un pezzo che me ne sono accorta.

—Ed è l'amore che la rende così mesta?

—Già, l'amore.

—Dev'essere una mestizia ben dolce allora.

—Il signor Flavio è un bel giovane…

—Bellissimo, ma non è nobile.

—È vero.

—Io già non lo degnerei d'uno sguardo; amare un semplice maestro di disegno che vende le sue lezioni a un tanto per ora!

—Zitto; ecco appunto l'Erminia che viene verso di noi. Come è pallida, pare che soffra.

—Voltiamo da questa parte e lasciamola sola. V'accerto che la nostra compagnia l'annojerebbe.

Infatti s'avanzava per uno dei viali del giardino una bella fanciulla di circa diciott'anni.

Sebbene i suoi lineamenti non avessero quella regolarità inappuntabile che si osserva in certe compassate bellezze, pure erano così aggraziali e gentili da conciliarsi l'interesse e la simpatia di tutti quelli che la vedevano.

Un grosso volume di capelli castani le avvolgevano in nodi semplici ed eleganti la graziosa testolina; aveva due occhi nerissimi circondati da folte sopracciglia di seta; lo sguardo languido, la bocca piccolissima, ed allorquando si componeva al sorriso lasciava vedere denti di meravigliosa bianchezza; il colore del volto era quello della rosa bianca, che ti lascia sempre incerto se sia pallido o tinto di debole vermiglio; le scorgevi nel mento una leggiera pozzetta; l'avreste creduta l'impronta del dito del Creatore, allorquando, presala pel mento, si compiacque dell'opera sua.

Il suo passo era incerto, e su tutta la persona stavale diffusa una tinta d'ineffabile malinconia.

S'internò in un boschetto di platani che trovavasi in un angolo solitario del giardino, e macchinalmente lasciossi sedere sur un banco d'erba.

Stette immobile, sembrava guardasse, ma non vedeva; sembrava ascoltasse, ma non udiva.

In questo punto una capinera venne a posarsi sul ramo d'un albero ed empì l'aria de' suoi gorgheggi.

Erminia parve ridestarsi a quegli accenti che armonizzavano tanto colla mestizia del suo cuore e cercava dello sguardo il vago augelletto.

—Oh! tu felice, esclamò, tu non conosci che l'azzurro dei cieli ed il raggio benefico del sole; la natura sorridente ti accoglie dovunque, e tu dovunque sorridi col tuo canto celeste. Anch'io una volta i miei giorni passava nel gaudio; ora quella gioia innocente esiliò per sempre dal mio cuore; esso ha perduto la sua pace, la sua tranquillità. Oh mio Flavio, io non doveva incontrarti mai! Tu mi fosti fatale!… Ti vidi; il tuo bell'ingegno mi destò ammirazione; l'alma nobile, stima; il volto soave, amore. Oh sì, io t'amo, Flavio, e tu, hai tu pure un palpito per la povera Erminia? Il tuo labbro non s'aprì mai a parole d'affetto, ma tu pensi a me, non è vero? Sì, sì, mel dice il cuore, mel dicono questi versi istessi.

E cavando dal seno un foglio, lo copriva di caldi baci.

—Lo trovai nascosto nei miei disegni; egli non può essere che tuo. Oh, la cara speranza! E lesse:

UNA VISIONE

Allor che in melaconici Accenti di dolore Sembra la squilla piangere Il dì che lento muore, Quando la notte stendesi Sulla natura ancor.

Sui vanni della fervida Ardente fantasia, Scuotendo il duro tramite Dall'esistenza mia Pei vaghi campi aerei Sorsi ad aleggiar.

Mesta m'accolse e pallida La luna in sen ad ella, Brilli di luce vivida Le stelle, e in lor favella Del Cielo m'apprendevano G'innumeri mister.

Oh Ciel, dell'Infallibile Vaga città superna Come rapir in estasi Tu sai, che l'alma eterna La vita ancor non fecela Spoglia di santo ardor;

Tu mesto, meste pagini Inspiri al pio poeta, Il genio sollevandosi Allor dell'umil creta Scioglie sovente cantici Che secoli vedran;

Tu bello, immenso, splendido È a te che si rivolge Il disperato misero, E allor fidente sorge, Soffre combatte e mormora Dio è lassù nel Ciel. Qui dolce un suon armonico D'angelici instrumenti Mi riportar sui tremoli Vanni spiegati i venti, Sensi di mesto giubilo L'anima m'innondar.

Stetti spiar immobile L'orme dell'armonia, Oh con quell'ansia d'Eolo In braccio, l'alta via Corsi veloce a scernere Il mistico gioir,

Qual veltro cui il placido Fido covil smarrito Vaga fiutando l'aere Dall'uno all'altro sito Sin che all'affetto riedere Suole del suo signor.

Un Eden, quale il fervido Immaginar d'un Dio sol sa ideare e compiere S'offerse al guardo mio; Degli astri il fido e solito Ritrovo genial,

Stretti fra lor in teneri Ed amorosi amplessi Confusi in un sol fulgido Raggio i rai istessi, Nuova una luce piovano Splendente di pallor.

Pura scherzando l'aura Infra odorosi fiori, Lieve cullando i calici Dai varii colori, E gli aromati cespiti, Ed i frondosi albor,

Soave olezzo a spandere Intorno ognor veniva; Quando la vaga immagine D'una celeste Diva Assisa in trono splendido Il guardo m'arrestò.

Mille vezzosi Cherubi Con armoniosa cetra Intorno ad Ella danzano Di suoni empiendo l'etra, E lieti in coro alternano I cantici del Ciel.

Giù per i nitid'omeri Pel sen le bionde chiome Le discorrean in morbide Anella d'oro come Cirri di vite; vivido Di luce un nimbo ancor,

Quale corona tremola Le posa in capo e splende… Ampia stellata clamide Dai fianchi le discende… Splendeva d'ineffabile Beltade e di virtù.

Era quell'alma vergine Il bel somiglio d'Eva Pria che all'empie insidie Del colubro cedeva, Era la primigenia Figliuola del Signor.

La vidi: arcano fremito Le fibre mi commosse, Il cor in dolci palpiti Ignoti ancor si scosse, Qual chi dubbioso e timido Vuole ad un tempo e svuol, La fiso; Ell'era l'anima De' sogni miei d'amore, Oh quante volte indomito La desiava il core E fra beltadi assiduo Sempre cercarla invan.

Ma or ti raggiunsi, è l'esule Che incontra un patrio volto, La vita è un tristo esiglio Per me, il gioir m'è tolto, Tu sola l'aspro, indocile Destin mi puoi cangiar.

Deh vieni! m'arde indomita Sete di santo affetto, Oh, come è dolce il piangere In un amico petto, Trovare chi le lagrime Accolga del doler.

Ma se codesto gaudio Mi fosse anch'ei conteso Qual colpa allor se gravido D'un non portabil peso Lanciassi al Ciel quell'anima Ch'esosa mi sorti?

Sotto la croce pallido Pur Lui il Generoso Ricadde, allor spontaneo Un cireneo pietoso Braccio robusto e valido Gli stese e l'ajutò.

Deh! sii tu pur del misero Conforto, speme e vita, Rispondi con un palpito A chi ad amar t'invita, Amor è Dio, oh credilo, Dio non è che amor.

Ama e ti sgombra il trepido Pensiero che ti fa incerta, Sovvienti che sol genera Virtudi e sempre merta Stima un affetto nobile Cresciuto in nobil cor.

In questo mentre un uomo uscendo dal più folto degli alberi si ferma a pochi passi da Erminia e la sorprende nell'atto che animata dall'entusiasmo d'un nobile sentimento ribaciava affettuosamente quei versi.

Allora Flavio—ch'era lui—non sa più contenersi, risospinto da una forza incognita ma potente si precipita ai piedi della fanciulla.

—Oh signora, esclamò, quei baci, rinnovate quei baci! Se sapeste qual balsamo salutare essi stendono sull'anima mia! Voi non disprezzate adunque cui ha osato innalzare lo sguardo infino a voi, chi ha osato parlarvi d'amore, anzi il mio affetto ha forse trovato un eco nel vostro cuore! Oh ditemelo signora, toglietemi, ve ne supplico da un dubbio che mi strazia, che mi avvelena la vita.

—Signore che mai dite, mormorava la giovinetta commossa, io non posso ascoltarvi, partite, le vostre parole…

—Ebbene le mie parole sgorgano da un cuore che per lungo tempo ho represso ma che ora mi si versa per la bocca. Dal primo dì ch'io v'incontrai non vidi più che voi sulla terra. Attaccato fin d'allora alla vostra esistenza non era più al mondo che là ove eravate, non pensava più a Dio che ove pregavate, vi cercava dappertutto, come la pianta il sole, come l'occhio la luce. Avrei voluto vincere questo amore ma quando mi avvinsero le sue catene, quand'io volli misurarlo avevo già sulla fronte la sua corona di fuoco, gli apparteneva per sempre. Oh sì, io vi amo signora, vi amo colla passione, coll'ardore che s'ama per la prima volta, vi amo come una cosa sacra, come si ama Iddio. Il mio affetto è puro, gli angeli stessi l'accoglierebbero con un sorriso. Deh, non siate crudele, dite una parola eppoi a voi dovrò più ancora che a Dio, poichè se Lui mi ha data la vita voi mi darete la felicità.

E compreso da potente emozione cogli occhi gonfi di lagrime guardava la fanciulla con uno sguardo lungo, tenero, appassionato.

Le calde parole dell'amante avvolsero in un nembo di dolci emozioni, di soave languidezza l'anima ardente di Erminia.

Fu sul punto di confessare tutta ingenuamente la sua passione, ma un segreto senso di pudore le arrestava la parola sulle labbra.

—Per pietà, non siamo soli, supplicò la giovinetta.

—Ma non sapete che negarmi il vostro amore vuol dire lasciarmi solo, derelitto in questo mondo, piombato nella più orribile disperazione? Non sapete che voi siete necessaria alla mia vita, che senza di voi spogliandomi d'un'esistenza penosa la lancerei di mia mano all'eternità?

—Flavio!

—Sì, bisognerebbe morire, perchè mi sentirei privo d'aria, di luce, di stelle, di cielo…

—Lasciatemi…

—Ma prima dite che mi amate… oh Erminia! non è vero che tu comprendi il fremito di quest'anima mia, che tu non sei senza pietà?

V'era tanta dolcezza in queste parole che la fanciulla ne fu conquisa; fermò lo sguardo in volto al giovane; l'entusiamo l'aveva fatto ineffabilmente bello.

Da' suoi occhi essa vi lesse nel cuore e lo trovò sincero, leale, generoso.

—Sì vi amo Flavio! gli rispose piangendo. Ma quelle lagrime le brillavano sul ciglio come la rugiada del mattino ai raggi del sole; più eloquenti d'un sorriso parlavano della gioja soave, santa, riconoscente ond'era compresa quell'angelica creatura.

—Sì vi amo, continuò, ma forse il mio amore è colpa.

—Amore è Dio, tel dissi Erminia, perchè Dio non è che amore.

—Amore è Dio, ma allorquando è da lui benedetto.

—Ebbene, divina fanciulla, in nome di quel sentimento che gemello nacque nei nostri cuori, davanti al cielo che sarà sempre testimone delle nostre azioni, giuro di farti mia e sposo fedele consacrare alla tua felicità l'intera mia esistenza.

—Oh, se questo è un sogno ch'io non possa destarmi più mai!

Ed i due amanti si strinsero in un casto amplesso.

Pochi momenti prima, allorquando Flavio trovò Erminia nel boschetto dei platani, veniva suonato alla porta d'ingresso del collegio.

Entrava un uomo vestito con quella ricercatezza che si veste il popolo nei giorni festivi.

Il suo volto era pallido e coperto d'una barba fatta grigia forse, più da una vita di fatiche e di privazioni che dagli anni; la fronte rugosa, lo sguardo severo.

Camminava con fatica ed appoggiato ad un bastone; pareva che avesse sofferto o che soffrisse tuttavia qualche malanno ad una gamba.

Chiese di parlare alla Direttrice del collegio e la trovò in un gabinetto attiguo al giardino.

—Ah, siete voi papà Gervaso, le disse la Direttrice in tuono cortese ed invitandolo a sedere; vi mandano certamente i genitori di Erminia per avere notizie della loro figliuola. È sempre la stessa quella cara creatura, è sempre la più buona, la più intelligente delle mie educande, è sempre la mia protetta.

—Signora, favellò papà Gervaso con qualche ruvidezza, mi dispiace il dirvi ch'io non sono per niente affatto del vostro parere; Erminia da un mese a questa parte si è di molto cambiata, ha perduto quella pace, quella giocondità d'animo che costituivano il suo bel carattere. Ci scrive certe lettere che fanno venire le lagrime agli occhi. Erminia non è più felice, soffre e gli è per domandarvene una spiegazione che son venuto da voi.

—V'assicuro ch'io so nulla di tutto questo, rispose la Direttrice sorpresa.

—Ah, voi sapete nulla, continuò Gervaso; ve lo dirò io il motivo: perchè quella povera fanciulla non ha la fortuna di essere nobile e ricca come tutte le sue compagne e voi la trascurate e per lei non avete cure. Ma non vi paghiamo forse puntualmente la sua pensione? Ed i nostri danari non valgono essi quanto quelli dei ricchi?

—Siate calmo, buon uomo ed ascoltatemi, disse la Direttrice coll'abituale sua dolcezza, ma il vecchio non lasciolla parlare e continuò:

—Voi non sapete che cosa sia quella fanciulla per sua madre, voi non avete figliuoli e non potete comprendere fin dove può arrivare l'affetto materno. La povera donna, vedete, non ha che un pensiero, sua figlia; che un desiderio, vederla felice. Si è fissata in capo di darle una splendida educazione, ed ecco perchè l'ha posta nel vostro collegio e per mantenervela Dio solo sa i sacrifici, le privazioni cui volentieri si sottomette. Ingannando quell'ottima madre sarebbe il più infame dei tradimenti.

—Ascoltatemi adunque, disse la Direttrice e questa volta con un moto d'impazienza. Allorquando cinque anni or sono la signora Paglini mi condusse qui Erminia perchè l'ammettessi nel novero delle mie educande, io le mostrai tutta l'inconvenienza d'un tal passo. Le dissi come in mezzo a nobili e ricche donzelle sua figlia non avrebbe potuto tenersi al coperto da certe umiliazioni; o che avvezzandola ad una vita comoda in eletta società un giorno forse avrebbe arrossito de' suoi poveri natali. La signora Paglini si mostrò ferma sempre nel suo proposito. Ma però, mi soggiunse, io non voglio che mia figlia venga umiliata dalle sue compagne, essa non deve soffrire nessun insulto, voi me ne sarete garante. Allora non v'ha che un mezzo, le risposi, quello di presentarla in Collegio sotto un falso titolo di nobiltà, ma guardate che in tal caso voi non potete più farvi vedere in questo luogo. Quella buona donna era pronta a qualunque sacrificio purchè potesse realizzare il suo desiderio. In quel giorno Erminia entrò nel mio collegio. Co' suoi talenti, col suo mite carattere si cattivò ben presto la mia affezione e la stima di tutte le sue compagne. Son cinque anni ch'ella è felice con me, ecco perchè mi meravigliano cotanto le vostre parole.

—Avete ragione signora, esclamò papà Gervaso dopo un istante di silenzio, voi foste per lei una seconda madre, perdonatemi, vi prego.

—Non ho nulla da perdonarvi buon uomo, piuttosto ditemi, siete ben sicuro d'un cambiamento nella fanciulla?

—Oh di questo non ci siamo ingannati, rispose il vecchio, io vi posso assicurare che qualche grave cura turba in questi giorni la pace di Erminia.

—Ebbene aspettate, io la farò venir qui e noi la interrogheremo insieme; è tanto sincero quell'angioletto che ci confiderà ogni cosa.

—In allora, soggiunse Gervaso, permettete ch'io la veda da solo, avrà forse più confidenza in me. Sono l'unico amico ch'ella possegga e che le parli di sua madre.

—Come volete; Erminia è in giardino, voi siete libero d'entrarvi e rimanere con lei sin che vi piace.

—Vi ringrazio.

E papà Gervaso sorretto dal suo bastone strascinando con fatica la gamba inferma percorreva i viali del giardino cercando collo sguardo.

Il caso volle che entrasse proprio nel boschetto dei platani, e che sorprendesse Flavio nell'atto di stringersi al seno l'amante.

Gervaso s'arrestò; un rossore d'indignazione colorì le sue pallide gote e non potè soffocare un grido di minaccia.

I due giovani lo scorsero e trasalirono.

—Voi, gridò Erminia, e cedendo ad un primo impeto di timore e di vergogna, fuggì attraverso le piante.

—Chi siete o signore, tuonò Gervaso fulminando Flavio con uno sguardo, che cosa fate in questo luogo, rispondete.

Flavio rimase in piedi muto, annichilito, tremante.

La voce vibrata del vecchio gli parlava al cuore coll'autorità quasi d'un padre; l'espressione severa di quei lineamenti gl'incuteva rispetto; si sentiva soggiogato, vinto, umiliato dalla presenza di quell'uomo.

—Siete un miserabile, gridò Gervaso afferrando Flavio per un braccio, voi stavate per sedurre una povera fanciulla, sola, senz'altra guida che un cuore ardente, che un'anima di fuoco; ma adesso son quà io e mi renderete ragione della pace che le avete tolta e fors'anco dell'onore…

—Oh, vi giuro che la rispetto quanto l'amo, proruppe Flavio.

—E che cosa speravate adunque da lei?

—Il suo cuore, null'altro che il suo cuore.

Vi era tanta verità in queste parole, che disarmarono alquanto la giusta collera di Gervaso. Continuò ciò non ostante con voce imperiosa.

—Ora ditemi chi siete e come vi trovate io questo collegio.

—Ma signore, potrei sapere almeno con quale diritto?…

—Questo non si chiama rispondere, disse il vecchio in tuono risoluto.

—Io non sono…. io non sono che… un semplice maestro di disegno…. balbettò Flavio con imbarazzo.

Gervaso lo fissò con uno sguardo lungo, penetrante, scrutatore; il giovane arrossì.

—Voi mentite, gridò il vecchio, e la menzogna vi tradisce.

—Vi prego….

—Mentite, ho detto, ed io non partirò di qui se prima non ho saputo da voi la verità.

—Ebbene, sì, vi dirò tutto, mormorò Flavio dopo un istante d'incertezza, è un segreto che a nessuno avrei confidato, ma che a voi, cosa volete, non posso tacere. Io non vi conosco, non mi ricordo d'avervi veduto mai, eppure è strano, con voi bisogna che parli come davanti a mio padre istesso.

Ed il giovinotto interrogava il volto alterato del vecchio, ricercando invano nella sua memoria.

—Or bene? esclamò Gervaso bruscamente.

—Ascoltate. Io non sono come v'ho detto maestro di disegno, ma bensì appartengo ad una delle primarie famiglie di Milano per nobiltà e censo.

Pareva che queste parole facessero un'impressione penosissima su Gervaso, ma il giovane non s'accorse e continuò:

—Un giorno, era una domenica di primavera, uscii a cavallo, desioso di godere il bel spettacolo della natura risorta, e spingendomi fuori della città galoppai infino a Monza. Fu allora ch'io vidi per la prima volta Erminia; si recava al tempio con tutte le sue compagne di collegio. Quella bellezza d'angelo, quell'espressione di santa innocenza che come aureola celeste traspare da tutto il suo corpo, mi toccarono soavemente. Mio malgrado la seguii ed entrai con essa in chiesa. Leggeva in ginocchio un libriccino di preghiere seguendo divota la celebrazione della Messa. Il riconcentramento, la maestà del luogo, la santità del mistero me la fecero apparire più che umana, divina. Il fumo dell'incenso, le melodie dell'organo, i canti religiosi che accompagnavano la sacra cerimonia, innalzavano, è vero, il mio spirito al cielo, ma il cuore s'affezionava, si univa indissolubilmente alla vergine genuflessa. Io sortii dal tempio pazzamente innamorato. Ma come avvicinarla, mi dissi, senza incogliere nella scrupolosa sorveglianza che si esercita su quelle fanciulle e comprometterla? Pensai allora di farmi accettare in collegio come maestro di disegno sotto il semplice nome di Flavio, e riuscii. Perdonate, ma i miei sentimenti erano puri, innocenti; volevo meritarmi il suo cuore per farla mia sposa.

—Ma conoscete, disgraziato, la sua famiglia?

—Non ancora, ma la nobiltà non è forse scolpita nel suo volto, nelle sue parole, in ogni suo gesto?

Gervaso parve riflettere; non potè a meno in cuor suo d'ammirare la purezza e la poesia di quel sentimento; indi, rialzato il volto venerando, con voce vibrata ad un tempo ed affettuosa disse:

—Giovinotto, voi lascerete immediatamente questo collegio, e non penserete più ad Erminia.

Flavio fece un atto di dolorosa sorpresa.

—Fate a mio modo, continuò il vecchio, ascoltate un consiglio suggerito dall'esperienza e dal cuore; voi non potete comprendere le amare delusioni cui andate incontro persistendo nel vostro amore ed i dolori che preparate a quella fanciulla. Vi dirò solo che non potrete mai domandare la sua mano.

In questo punto entrava nel boschetto la Direttrice del Collegio.

—Veniva in traccia di voi, signor Flavio, disse la Direttrice colla solita sua gentilezza; le mie signorine v'aspettano coi disegni, ansiose d'avere le vostre correzioni; fatemi adunque il favore a recarvi da loro; avrete certamente di che divertirvi.

—Gli è che il signor Flavio, favellò Gervaso, bisogna che rinunci da questo momento al suo impiego di maestro.

Flavio impallidì.

—Oh! e perchè mai? chiese meravigliata la Direttrice.

—Perchè, rispose Gervaso fissando severamente in volto il sedicente maestro, perchè egli non può fermarsi un minuto di più in questo Collegio.

—Ma davvero, signor Flavio, che ciò mi sorprende. E non potrei conoscere il motivo di tale improvvisa risoluzione?

—Scusate ma per ora non lo potete, rispose Gervaso.

—Almeno ditemi se involontariamente io ne fui la cagione…

—In quanto a questo state certa che il signor Flavio non ha ricevuto da voi che squisiti trattamenti. Anzi col mio mezzo ve ne fa i più sinceri ringraziamenti e vi prega ancora a perdonargli se è costretto a partire all'istante.

Gervaso calcolò su quest'ultima parola.

Flavio sbalordito rimaneva in piedi senza poter profferire una sillaba; si trattava d'abbandonare e forse per sempre la giovinetta ch'egli amava con verace passione e tale pensiero gli stringeva il cuore in una cerchia di ferro.

Indeciso non sapeva appigliarsi a nessun partito onde l'inesorabile vecchio cogliendo il destro gli sussurrò all'orecchio:

—Se non partite io svelo tutto e sarete scacciato.

Queste parole scossero il povero innamorato che guardò Gervaso come chi implora una grazia.

—Almeno ditemi voi se questo vostro proposito sia irrevocabile, disse la Direttrice interrogando Flavio.

—Lo è pur troppo signora, rispose questi facendo un immenso sforzo su sè stesso, bisogna che mi rechi in giornata da' miei parenti.

—In allora, esclamò la Direttrice con voce che pareva commossa, quantunque a malincuore, lo confesso, vi lascio libero della vostra volontà.

Flavio partì colla disperazione nell'anima.

—Ed ora a noi, o signora, proruppe Gervaso assumendosi un'aria severissima sapete chi sia quel giovinetto che da un mese ricoverate in Collegio ed al quale avete commessa l'istruzione delle vostre educande? Sapete qual'era il suo scopo in questa casa? Dite, povera illusa!…

—Mio Dio spiegatevi, le vostre parole mi spaventano.

—Nell'età in cui le passioni sono un torrente che non conosce argini che tutto trascina nel rapido suo corso, quel giovine vide una fanciulla bella come un angelo ed alle vostre cure affidata perchè lontana dal mondo crescesse pura, intemerata, nelle pratiche della virtù. Egli se ne invaghì; ardente giura di palesarle il suo cuore alla fanciulla, ma come riuscirvi? ella è rinchiusa nel vostro collegio. Non si perde d'animo; essendo ricco e nobile mette in opera tutto il suo ascendente e riesce a farsi accogliere da voi in qualità di maestro di disegno. Allora vedeva la fanciulla, s'intratteneva seco lei in amorosi colloqui e voi ignoravate tutto. Sapete signora chi era la povera inesperta che colla fiducia della vergine apriva il suo cuore alla seduzione? Era Erminia, la mia povera Erminia. Ecco s'io non aveva il diritto di domandarvi conto della sua felicità perduta.

—Possibile! esclamò la Direttrice; e quell'ottima donna ne fu tanto dolorosamente colpita che priva di sensi sarebbe caduta se papà Gervaso non s'affrettava a sorreggerla nelle sue braccia.—Ingannata, ingannata in un modo così indegno, ripeteva colle lagrime agli occhi, lasciar sedurre un angelo nella mia casa istessa e non accorgermi di nulla. Oh le infami seduzioni del mondo… oh il mio onore perduto.

—Voi con potete comprendere, disse Gervaso, le traccie indelebili che lasciano le passioni in quel cuore ardente. Essa ama quell'uomo e lui è ricco, è nobile capite, non potrà mai farla sua. Erminia io la conosco, soccombe ma non dimentica…

—Oh perdono, perdono, supplicava la Direttrice, la mia colpa fu una troppo cieca fiducia nella lealtà degli uomini… povera Erminia.

—Lascerà oggi stesso il collegio, io la restituirò a sua madre.

—Ma le tacete per carità questo orribile avvenimento, sarebbe troppo dolore per quell'ottima donna.

—Ella non saprà nulla, disse Gervaso minaccioso, ma il mondo deve conoscere in qual modo corrispondete alla fiducia che si ripone in voi, deve conoscere che cosa fate di quelle innocenti che vengono alle vostre cure, al vostro onore confidate.

—Oh no, fui vittima anch'io d'una inaudita perfidia; non crollate con uno scandalo quell'edificio di stima che mi costò così tante fatiche. Non sapete che cosa sia la riputazione per una donna! Eppoi palesando la mia inavvedutezza voi autorizzate la maldicenza a fabbricare sul conto di Erminia chissà quale trama di false supposizioni…

—È vero, è vero, mormorava il vecchio soprafatto dall'angoscioso pensiero; ed ora dov'è dessa?

—L'ho lasciata nel mio gabinetto, era pallida e piangente.

—Povero angelo!

Mezz'ora dopo papà Gervaso ed Erminia muti e tristi percorrevano in vettura la strada che da Monza conduce a Milano.

CAPITOLO VIII.

Quando sincero-nasce in un core Ne ottien l'impero-mai più non muore Quel primo affetto che si provò. METASTASIO.

Immaginatevi la sorpresa e la gioja dei conjugi Paglini allorquando poterono abbracciare la loro cara figliuola.

I parenti d'Erminia erano portinaj di quella casa sul corso di Porta Nuova nella quale abbiamo fatto conoscenza diciott'anni or sono della biondina e del vecchio suo padre.

I Paglini un po' colle risorse del loro impiego, un po' col lavoro e coi frutti pure d'un capitaletto ch'erano riusciti mettersi in serbo godevano d'una vita tranquilla e comoda.

Bastiano, il capo di famiglia, esercitava la professione di calzolajo.

Chi l'avesse veduto al suo banchetto, la testa coperto d'un berretto ad ala tesa, gli occhiali sul naso, le guancie paffute e rase e l'ampio grembiale girargli attorno al suo grosso corpo, l'avrebbe creduto il vero tipo dei Pipélés.

D'indole semplice ed ingenua aveva un cuore eccellente; era sempre contento di tutto e di tutti e non voleva aver brighe con nessuno, nè cure, nè pensieri.

Gli è per questo che trovando troppo pesante per lui l'amministrazione domestica l'aveva ceduta alla moglie alla quale lasciava ampia libertà d'azione, purchè gli permettesse passare in santa pace la domenica ed il lunedì d'ogni settimana nella vicina osteria e non lo sgridasse allorquando alzato un po' il gomito ritornava a casa col naso rosso e le ginocchia malferme.

Maddalena la sua consorte era una bella donna in sui trentacinque anni.

I capelli d'un colore castano chiaro mostravano d'essere stati qualche anno addietro d'un biondo purissimo; gli occhi azzurri avevano uno sguardo intelligente; vestiva con semplicità, buon gusto e pulitezza.

Schietta, franca, leale, Maddalena non aveva riguardi per nessuno, diceva a tutti ciò che doveva dire come colei cui la pazienza non fosse la virtù principale.

Amava suo marito quantunque sovente lo rampognasse per inezie, ma il buon Bastiano chiudeva un occhio sul di lei carattere, poichè sapeva di possedere ad onta di ciò un tesoro di moglie ed un'ottima massaja.

Infatti ell'era attiva, economa, antiveggente.

La casa ov'erano allogati i Paglini apparteneva in allora al conte C*** che la occupava da solo.

Misantropo di natura egli menava una vita ritiratissima, non aveva amici e non sortiva mai.

La sua servitù si componeva soltanto d'una cameriera e d'un servo ch'era nello stesso tempo maggiordomo e segretario; come si vede i portinaj non dovevano aver molti disturbi.

Una volta un uomo era entrato dai conjugi Paglini; era vecchio e povero.

Strascinava a stento una gamba inferma ed i suoi lineamenti apparivano alterati dalla malattia e dal cordoglio.

Stese dubbioso la mano e domandò l'elemosina; Maddalena lo vide arrossire e nascondersi il volto nelle pieghe dell'abito.

Si sentì commossa la buona donna e cavando da tasca una moneta.

—Tenete, disse al mendicante, voi non siete nato per chieder l'elemosina, certamente la vostra gamba inferma e fors'anco qualch'altra malattia vi hanno reso impotente al lavoro o vi spingono ad un passo del quale voi pure arrossite.

—Pur troppo gli è come dite, esclamò il vecchio con un sospiro; ed il suo sguardo si fermò sulla portinaja con un'espressione di sincera riconoscenza.

—Povero uomo, vi compiango!

—Che Iddio vi benedica, voi che avete una parola di compassione per l'infelice!

La sua voce era piena di religiosa riconoscenza.

—Così fossi ricca e potessi fare di più, ripigliò Maddalena, ma anch'io ho una figlia e bisogna che pensi al suo avvenire.

—Oh voi avete una famiglia! sospirò il mendicante, a voi sorridono le dolci speranze dei figli! io, vedete, sono solo.

—Senza parenti, senza amici?

—Nessuno. Oh, se sapeste com'è amaro l'isolamento della miseria! E dover questuare una vita che si abbandonerebbe tanto volentieri!

—Mi fate pietà.

E la degna portinaja si terse col palmo della mano una lagrima che le scorreva giù per le guancie; Bastiano che dal suo banchetto aveva ascoltato in silenzio quelle parole si sentì pur lui profondamente commosso.

—Ebbene, saltò su Maddalena collo slancio del cuore rivolgendosi al poverello, voi non siete poi vecchio decrepito, avete una gamba inferma, è vero, ma con un po' di cura si potrà risanarla. Se voi adunque vi sentite ancora in grado di far qualche cosa, di guadagnarvi insomma co' vostri servigi onestamente la vita, io vi accolgo qui in casa mia; vi troverete una famiglia. Siamo noi due solamente, io e mio marito, abbiamo ancora una figliuola ma si trova in collegio e non sortirà tanto presto. Voi non farete altro che vegliare alla pulizia del palazzo cui il padrone n'è assai critico e se vi avanza tempo darci una mano nel disbrigare le nostre faccenduole domestiche. Via, se siete contento avrete in iscambio alloggio, vitto e tutto quello che vi abbisogna; nevvero Bastiano, che ne dici?

—Approvato; esclamò il Pipélé colla sua solita bonomia. Già è molto tempo che noi sentivamo il bisogno d'un altro paja di braccia, che io non sono S. Antonio io, non posso essere contemporaneamente in corte colla scopa in mano e qui al banchetto tirando lo spago. Se non altro avremo un supplente da lasciare alla porta quando mi terrai compagnia all'Aquila, eh! eh!… Se lui ci sta meglio lui d'un altro, ha tanto l'aria da galantuomo!

Pensate con quale riconoscenza accogliesse il mendicante la fattale proposta.

Da quel giorno papà Gervaso—ch'era lui—fece parte di quell'onesta famigliuola.

Erminia allora era a Monza in collegio; suo padre si recava sovente a prenderne notizie e passava pel di lei servo in faccia alle signorine dello stabilimento.

Fosse effetto d'una viziata costituzione, oppure conseguenza del mestiere, Bastiano amava molto la vita sedentaria, era nemicissimo del moto, s'immagini la fatica della povera moglie ogniqualvolta voleva mandarlo a Monza.

Non ch'egli non amasse la figliuola, ma forse un tantino egoista mal sapeva sacrificarle il suo privato benessere.

Accolto poi in famiglia papà Gervaso, Bastiano credette che potesse supplirlo in quelle gite per lui tanto moleste.

La portinaja in sulle prime diè nelle furie, ma poscia dovette rassegnata valersi dell'opera del vecchio, che docile e paziente faceva di tutto per rendersi degno delle cure veramente affettuose cui si vedeva fatto oggetto dagli ottimi Paglini.

Gervaso si guadagnò in poco tempo la confidenza e la simpatia di Erminia.

Egli l'amava quella fanciulla d'amor paterno ed il bacio che la giovane educanda stampava sulle sue gote aggrinzite gli facevano dimenticare quei dolori, quei tristi ricordi che gli si potevano scorgere attraverso le rughe della fronte, nell'espressione austera de' suoi lineamenti.

Erminia un giorno gli confessava con amabile ingenuità che dopo i parenti e la Direttrice del collegio egli era la persona che più amasse in questo mondo.

Un fascino ignoto legava con vincoli d'affetto quelle due creature.

Erano circa tre anni che Gervaso si trovava presso i Paglini allorquando gli ricondusse a casa la figliuola.

Gervaso tacque a quella buona gente la vera ragione che l'indusse a tal passo; allegò solo a sua giustificazione l'antipatia che Erminia nutriva pel collegio, il raffreddamento di quei riguardi che le si usavano una volta, e quanto fosse stato immenso in lei il desiderio di ritornare vicino a' suoi cari parenti.

Fu più che bisognasse per avere la piena approvazione di Maddalena.

La povera donna fuor di sè dalla gioja in rivedendo sua figlia voleva soffocarla in amorosi amplessi, la copriva di baci, di carezze, le rivolgeva infinite domande senza neppur aspettarne la risposta, piangeva, rideva… sua figlia era tutto per lei.

Il calzolajo festeggiò quel giorno trincando all'Aquila ancora più del consueto.

Erminia venne condotta nella cameretta che sua madre ebbe la cura di prendere in affitto nella casa stessa e di ammobigliarla con molta proprietà.

Eravi una libreria che Maddalena aveva fornita d'ottimi libri fattisi indicare dalla stessa Direttrice del collegio, ed un pianoforte con buon corredo di scelta musica.

Voleva che sua figlia ritornata presso di sè non mancasse di quei comodi che aveva sempre goduti in pensione.

—Non sarà forse elegante la tua stanzetta come quella che hai finora abitata, le diceva amorosamente, ma qui ci sarò io a prevenire ogni tuo desiderio, a farti bella la vita colle mie premure, col mio amore. Povera bambina! e perchè non iscrivermi che ti era venuto in uggia il collegio, che volevi ritornare a casa tua? Oh io mi sono accorta subito della malinconia che ti struggeva, le tue lettere non erano più quelle d'una volta non avevi più per me quelle tenere espressioni che mi facevano pur tanto contenta. Tuo padre mi replicava di non badarci. Sarà qualche contrarietà, qualche freddura fra loro compagne, diceva lui; ma io non era quieta io, il cuore mi aveva convinta che tu soffrivi. Gli è per questo che una mattina mi son messo l'abito della domenica risoluta di venirti a vedere e parlarti; e se non c'era papà Gervaso ci veniva veh! Cosa vuoi, ha incominciato a dirmi che aveva fatto promessa di non porre piede in quel collegio, che l'avrei umiliata in faccia a tutte palesandoti figlia d'una povera donna… e mi sono rassegnata a lasciarlo partir lui. Che bravo Gervaso se ha fatto bene a ricondurti a casa; Oramai ti sei fatta grande, sei bella, ben educata, dunque è tempo che tu entri nel mondo. E qui sarai felice, lo devi essere, vedrai, vedrai la mia Erminia; andremo al corso, al teatro, tutto quello che ti piacerà… basta che tu ami la povera mamma!

—Ma come non amarti, rispondeva commossa la giovinetta, tu così buona, così amorosa!

E gettatesi contemporaneamente le braccia al collo madre e figlia, strette in un tenero amplesso piangevano insieme lacrime di tenerezza.

La madre! Oh i dolci ricordi che questo nome onninamente caro ci evoca nel nostro cuore!

Se noi riandiamo colla mente i begli anni della infanzia noi la vediamo ancora la madre china sulla nostra culla compiacersi del suo gentile portato, sorriderci l'ineffabile sorriso dell'amore.

Noi la vediamo, lieve cullandoci sulle ginocchia guidare le nostre manine al cielo, farcì conoscere Dio col mostrare le stupende sue opere e fra le carezze e i baci, insegnarci a balbettare quel nome che la empie di santa letizia,—mamma.

Chi non si sovviene le lagrime piante sul di lei seno, perchè tutti devono piangere quaggiù, i suoi amorevoli conforti e l'indulgenza, forse soverchia, nel perdonarci i primi falli e i germi d'una religiosa morale provvidamente sviluppati nei giovani nostri cuori?

Chi ha dimenticati i sacrifici durati, forse gli stenti patiti per porci all'elevatezza dei tempi con una completa istruzione, con una educazione completa?

E persino fatti adulti, quantunque la maligna nostra natura spesse fiate ci fe' ingrati ai tanti benefici, che la costringemmo nel segreto della notte versare lagrime amare sui tralignamenti nostri, quante volte non ci siamo destati sotto l'impressione soave de' suoi baci, quante volte ancora chiamati nelle sue braccia gustammo le sublimi dolcezze d'un amore divino.

Oh, solamente colui che non ha avuto una madre o che l'ha perduta troppo bambino può dire d'essere passato solitario nel monito come in un immenso deserto, può dire di non aver vissuto nè amato, gli altri tutti amarono e vissero, travidero dalla terra attraverso le azzurre pupille della madre gli azzurri infiniti del cielo.

Non è l'amante che divinizza la donna.

Allorquando nell'età degli amori incontriamo nella fanciulla raggiante di giovinezza, di virtù, d'innocenza, l'incarnazione dei nostri sogni, in allora ella ci sembra l'opera più bella di Dio, è quale aveva nella sua mente divina ideata la creatura pria che una colpa senza perdono la diseredasse dal paradiso terrestre.

Un fascino irresistibile esercita in allora la donna sul nostro cuore, e amiamo.

Ma col tempo, o lo splendore della bellezza si offusca, o la virtù dei nostri occhi decresce, avvegnachè possiamo guardarla senza che l'anima dentro ci tremi.

La madre invece è sempre una santa.

La felicità che Maddalena prometteva a sua figlia non poteva più sorridere alla povera giovinetta.

Sebbene Erminia tentasse ogni sforzo per stendere un velo sul suo passato e rincominciare una vita novella tutta pace e tranquillità presso i suoi parenti non lo poteva suo malgrado.

Le cure più affettuose che può prodigare un'affettuosissima madre non valevano a riempirle quel vuoto che l'abbandono di Flavio aveva lasciato nel suo cuore.

Erminia amava come poche sanno amare quaggiù; amava per la prima volta, ed un primo amore si può talvolta soffocare, non mai ispegnere.

Flavio le si era presentato povero, infelice, bello di volto, d'ingegno, di anima, e le aveva chiesto il di lei affetto.

La sincerità del giovane amante era manifestata dalle lagrime che bagnavano i suoi occhi, dall'espressione di soave mestizia de' suoi lineamenti, Erminia credette e fidente s'abbandonò agl'impulsi del cuore.

I due amanti si credevano destinati a percorrere insieme e felici l'increscioso cammino della vita, allorquando papà Gervaso venne a porsi fra loro.

Erminia nudriva verso Flavio troppa stima perchè potesse crederlo capace d'una bassezza; aveva avuto da lui troppo grandi prove d'amor puro, disinteressato, santo, per contaminare la sua memoria coll'ombra d'un sospetto.

Il dubbio però insinuandosi talvolta qual serpe velenosa nelle sue care rimembranze riusciva a porla per un istante in una dolorosa perplessità; allora piangeva amare lagrime… ma Flavio finiva sempre per riapparirle col suo sguardo soave, col suo dolce sorriso, ed anch'essa sorrideva e mormorava asciugandosi gli occhi: No, non m'ingannava.

Concentrata così nel suo amore, traeva una vita mestissima; non usciva mai dalla sua cameretta, i libri erano il suo passatempo, il pianoforte l'unico di lei amico.

Oh, com'era bella allorquando infiammata dal fuoco sacro dell'inspirazione, lo sguardo melanconico rivolto al cielo, la lesta leggermente inchinata sulla spalla, scorreva l'agili dita sull'eburnea tastiera.

Quanta poesia in quei suoni, come nella loro mesta espressione armonizzavano perfettamente colla tristezza del di lei cuore!

Papà Gervaso era il solo che comprendesse il dolore della povera Erminia e cercava consolarla; ma v'hanno tali angoscie che domandano solo una muta compassione.

—Voi l'amate ancora, prorompeva il buon vecchio stringendosi al seno la giovinetta; ed egli non è degno di voi! Pensate piuttosto a vostra madre, essa ignora tutto, sa soltanto che voi non siete felice, e ne soffre l'ottima donna!

—Oh, madre mia! esclamava la fanciulla colle lagrime agli occhi. E dopo un istante di silenzio continuava rivolgendosi al vecchio:

—Gli è perchè voi non sapete cosa sia sentirsi attratta incessantemente da una persona, amarla con tutta la forza d'un cuore ardente, con tutto l'entusiasmo della passione, amarla d'amore santo, ma immenso, ma indomito, ma irresistibile; sognare la felicità d'un'esistenza a lui consacrata, sognare l'unione di due cuori, di due anime, e vagheggiarla per lungo tempo questa felicità e compiacersene e crederla vicina, per dover rinunciare a tutto perchè non fu che illusione…. Oh, questo è troppo gran dolore!

—L'infame v'ingannava!

—Se vi ha un infame, gridava la giovinetta trasportata dall'esaltazione, voi lo foste che mi avete crudelmente strappata dal suo petto, voi che accecato forse da false apparenze l'avete umiliato, avvilito, scacciato…. egli era innocente!

—Mentiva.

—No, che non si mente un affetto allorquando lo si esprime come lui! Oh, voglia il cielo ch'io non abbia un giorno a maledire quei diritti che fatalmente vi siete arrogati sulla mia esistenza.

—Erminia, figlia mia!

E la misera giovinetta, rientrata in sè stessa dalla voce soave del buon vecchio, coprendosi il volto colle mani, si gettava sul suo letticciuolo rompendo in singhiozzi.

Gervaso era oppresso dall'angoscia.

Un giorno i coniugi Paglini stavano soli nel loro camerino.

Bastiano lavorava al banchetto, e Maddalena in un canto rattoppava le sgualciture d'una sottana.

Il volto della povera donna pallido più del consueto era di molto dimagrato; gli occhi rossi circondati da un'aureola turchiniccia dimostravano d'aver sparse molte lagrime.

Di tanto in tanto sospendendo il lavoro stava lungamente immobile, collo sguardo fisso, la bocca semiaperta, quale un'infelice cui avesse smarrita la ragione; fintantochè richiamata ai sensi da un singhiozzo che suo malgrado le prorompeva dal petto ritornava mesta al suo lavoro.

Bastiano osservava la moglie colla coda dell'occhio e come colui ch'era di cuore sensibilissimo si cuoceva internamente.

Ed il povero uomo provava la sua commozione in mille maniere; ora dando rabbiosi strappi allo spago più d'una volta spezzandolo a grave scapito della ciabatta; ora dando furiosamente del martello in sulla suola battendosi tal fiata il ginocchio e mordendosi poscia le labbra per vincerne lo spasimo; ora rimescolando i ferri sul suo banchetto a guisa di chi cerca qualcosa e sbuffando e bestemmiando per non trovare quello che neppur lui sapeva di cercare.

Il buon calzolajo era fuori di sè; fissò un'altra volta sua moglie e vedendola sempre pallida, smarrita, sofferente si alzò; stette un'istante dubbioso, incerto, indi si portò al di lei fianco.

—Insomma Maddalena è ora di finirla, proruppe con voce soffocata; credi forse ch'io possa permettere che tu ti affligga così, che ti rovini la salute con quella malinconia, con quel pensarci sempre? E per che cosa infine? Per delle idee che ti sei fitta in capo, per delle supposizioni che magari sono le mille miglia lontane del vero. Uh, se potevo indovinare che quella benedetta figliuola t'avrebbe dato tanti fastidi non l'avrei lasciata ritornare dal collegio, no veh!… Tu credi sempre ch'ella soffra, che non sia felice qui in casa nostra; forse perchè non la vedi allegra, burlona come siamo noi? Che diavolo! non tutti poi sono fatti ad uno stampo. Ella ha studiato e quando uno ha avuto dell'educazione diventa serio, meditabondo e preferisce passare il tempo co' suoi libri che colla gente. Eppoi non te l'ha detto ella stessa di non badarci ch'è suo carattere, che del resto è contenta, soddisfatissima di noi e di tutti? Sfido io a non esserlo; la lasciamo mancare di qualche cosa? non la trattiamo come una regina? Si sa già, assuefatta in collegio adesso si deve trovare un po' giù d'orizzonte, un po' perduta, ma non la è poi roba da prendersi così sul serio. Vedrai che la si avvezzerà…

—Erminia ha qualche cura segreta, esclamava la portinaja, qualche cosa che le turba la pace del cuore, che le allontana il sonno, che le consuma lentamente la vita. Guarda come si è fatta brutta in questi giorni, com'è impallidita! È un male che ha portato dal collegio, è la continuazione di quella malinconia sulla cui causa noi ci siamo tutti ingannati.

—Ma che malinconia, è suo carattere!

—Non si cangia di carattere da un momento all'altro; un giorno ell'era ben diversa da quella d'oggidì. Eppoi non l'ho sorpresa io forse più d'una volta a piangere?… Oh tu non l'ami, tu non puoi amarla come me, gli è per questo che non sai comprenderla.

—Senti Lena, mi fai torto parlare così, diceva Bastiano in tuono di dolce rimprovero, io credo di non avertene mai dato il diritto.

—È vero, è vero, oh mio Dio, divento anche ingiusta.

—Io l'amo quanto te quel caro angelo.

—Lo credo buon Bastiano.

—Ma d'un amore un po' diverso dal tuo, perchè invece di consumarmi come fai tu in un pianto sterile e inutile ho pensato al modo di guarirla dalla sua tristezza… sì, ho pensato e credo anche d'aver trovato.

—Dunque capisci ch'ella soffre!

—Cioè… ho capito che ha qualche inezia pel capo…

—Ah!

—Ma difetto di carattere, preoccupazioni giovanili te lo ripeto, che non meritano la pena di occuparsene, tuttavia ho voluto trovarci il rimedio, Lena mia.

La povera madre scosse il capo in segno di dubbio.

—Oh io conosco abbastanza voialtre donne, proseguì Bastiano con aria di mistero, per sapere cosa vi frulla pel capo all'età di Erminia.

—Ebbene parla.

—Sì parlerò, Lenuccia mia, ma prima asciugati gli occhi, non voglio vederti più a piangere. Guarda, sei invecchiata più di vent'anni in questi pochi giorni, tu che non faccio per dire, ma eri ancora una bella donnina… Fatti un po' in là, voglio sedermi qui, accanto a te, colle mie mani nelle tue, così… così… proprio come nei primi giorni del nostro matrimonio. Oh brava, sorridi pure, tu mi levi una macina dello stomaco.

E Bastiano emetteva un sospirone luogo e rumoroso.

—Senti adunque, continuava il Pipélé accarezzando le mani di sua moglie, tu sai bene che Erminia oramai ha diciott'anni, è proprio nel fiore della sua gioventù; è nostra figlia e quindi è robusta, ardente, perchè tale il ceppo, tali i rami, dice il proverbio. Dunque una fanciulla della sua età, della sua condizione… fisica deve sentire certi bisogni, provare certi desideri… non so se mi capisci moglie mia; insomma voglio dire che il suo cuore abbisogna di un affetto diverso dal nostro, di cure, di premure che solo può prodigare un buon marito. Oh sì senti, scommetto cento contro uno che il matrimonio è l'unica medicina che può guarirla, medicina che ha già fatte felicemente le sue prove in molte altre fanciulle malate. Troviamole uno sposo che le voglia bene, che la renda felice quanto meriti, quella povera tosa e vedrai che le ritorneranno le rose sul volto e ridiverrà vispa, festosa, sorridente come lo fu sempre.

—Tu credi adunque?… domandò Maddalena quasi convinta guardando suo marito con interesse.

—Io credo d'aver trovato il tocca e sana, rispose il Pipélé incoraggiato.

—Un marito, un marito si fa presto a dirlo ma…

—Ma che cosa se l'ho diggià!

—Chi?

—Il marito.

—Davvero?

—Sicuro; e che bel giovinotto, educato, elegante e non tutto fumo, sai? insomma ce l'han fatto apposta per Erminia.

—E credi tu che possano andar daccordo?

—Altro che; di lui non dubito punto, perchè nostra figlia, ohe! è un bocconcino da principe; e in quanto a lei appena che lo vedrà e che lo sentirà, che parla poi come un libro stampato, sono certo di vederci girare la testolina.

—Proveremo anche questa; già una volta o l'altra bisogna bene che la mariti la mia Erminia, dunque…

—Dunque tanto vale che lo facciamo subito, è quello che ho pensato anch'io.

—Ma non m'hai ancor detto chi sia?

—Lo sposo?

—Sì!

—Non l'indovini? Eppure lo conosci meglio di me.

—Veramente non saprei…

—È Nicodemo, il maggiordomo del nostro signor padrone che quando saprà quello che noi abbiamo combinato deve saltare come un matto dalla gioja.

—Nicodemo? proruppe la portinaja gratamente sorpresa.

—Già lui, che ne dici eh?

—To', sono contenta, bravo Bastiano mio, questa volta hai avuto del giudizio. Nicodemo è un buonissimo partito per nostra figlia, è un giovane dabbene, che ha qualche cosa ed un buon impiego,—maggiordomo del signor padrone!… eppoi praticando sempre coi signori ha imparato quell'aria elegante, civile, che deve molto piacere ad Erminia educata in collegio. Bravo Bastiano, quà la mano!

—Ma che mano, ti do un bacio io, prendi…

E il calzolajo scoccava un bacio sonoro sulle guancie di sua moglie.

—Brutto matto, se ci vedessero a far di queste cose, alla nostra età?

—Direbbero che noi siamo un'eccezione alla regola. Guarda son tanto contento d'essere riuscito a farti ridere che me ne farei un altro a me di bacio, se colle labbra potessi toccarmi le gote.

—Ora capisco che aveva torlo di rattristarmi in quel modo, le mie lagrime non potevano farla lieta al certo.

—Diavolo! bisognava indovinarla come ho fatto io giacchè vuol far la segreta!… Eh, ti pare, quando mi ci metto!…

E scherzando Bastiano puntava l'indice sulla fronte.

—Hai un cuore d'oro, ecco quello che ti dirò sempre, soggiungeva Maddalena guardando suo marito con affetto.

—Sì, ma senti Lena mia, affari di matrimonio bisogna combinarli il più presto possibile altrimenti, sai bene, se devono andar per le lunghe il più delle volte vanno a monte. Dunque io sarei di parere di parlarci subito a Nicodemo e così alla buona fra di noi mettere insieme la bisogna. Che te ne pare?

—Sicuro, sarebbe ben fatto.

—Alla buon'ora. Dimmi adunque, Nicodemo è in casa? lo chiamo subito io.

—È sortito stamane e non l'ho più veduto.

—So dove trovarlo; scommetto che è all'Aquila a sorbire il suo solito bicchiere. Vieni, ci andremo anche noi, all'osteria si combinano meglio i negozi.

—Ma ti pare Bastiano… all'osteria insieme… in giorno di lavoro.

—Che scrupoli d'egitto, sì all'osteria; e chi ci vuol proibire d'andarvi? Se beviamo pagheremo noi.

—Capisco, ma gli è che sono denari che si potrebbero risparmiare.

—Non mi far la spilorcia, quest'oggi dev'essere un giorno di festa, dobbiamo farla fuori.

—E alla porta chi ci starà?

—Ecco appunto Marta la cameriera del signor conte che scende le scale; vuoi che ci rifiuti di fermarsi qui un momento in vece nostra? Ehi Marta! signora Marta!

—Cosa volete? rispondeva una bella ragazzotta di vent'anni circa, entrando sorridente, fresca, snella, nello stanzino de' portinaj.

—Perdonate Martina, incominciava la Maddalena, ma venne tosto interrotta da suo marito che disse:

—Taci tu e lascia parlar a me che colla bella Martuccia vado sempre d'accordo.

Ed alzava le mani per pizzicarle le gote.

—Ohe, giù le mani, fece scherzando la cameriera, non vorrei ingelosire vostra moglie.

—Senti Lena, è tutto spirito la briccona!

—Con un po' di corpo; conchiudeva ridendo Marta. Ma infine poi si può sapere per qual ragione m'avete chiamata?

—Ecco quà, saltò su Bastiano, gli è che mia moglie ed io dobbiamo sortire un momento insieme; è una faccenda che sbrigheremo in poco tempo e volevamo pregar voi a fermarvi qui sino al nostro ritorno. Verrà magari nessuno, ma capirete per l'onore della casa bisogna che ci sia sempre qualcuno alla porta.

—Se avete tempo ci fareste proprio un favore, aggiungeva Maddalena.

—Ma altro che tempo, rispose Marta, di sopra non ho più nulla a fare e scendeva appunto per prendere una boccata d'aria. Fate pure le cose vostre con tutto comodo e senza pensieri, che son quà io.

—Brava la mia Martuccia!

E Bastiano dando braccio a sua moglie s'avviava alla vicina osteria in cerca di Nicodemo.

Nicodemo Panighetti ebbe i suoi natali nel paese di Magenta.

Egli è uno di quegli uomini che quantunque senza meriti, senza virtù straordinarie, col solo favore d'una fortuna mai sempre propizia si videro lanciati dall'umile tugurio in cui nacquero al ricco palazzo, dalla povertà all'agiatezza.

Nicodemo apparteneva ad una miserabile famiglia di contadini, quantunque egli si vanti l'ultimo rampollo d'illustre casato ridotto al nulla da funesti avvenimenti politici.

Giovinetto abbandonò il paese che lo vide nascere e sen venne a Milano in cerca d'una professione meno dura di quella che lo condannava a sudare sulla marra il pane quotidiano.

Venne ammesso in qualità di stalliere al servizio del conte C*** il padrone attuale dei Paglini, ove si mostrò, bisogna dirlo a sua lode, servo attivo, fedele ed affezionato.

Crescendo sempre più cogli anni nell'animo infermo del conte quell'avversione agli uomini che noi gli abbiamo già osservata, non volendo aver più nulla affatto di comune con loro, decise vendere cavalli e carrozze e vivere solo nella sua casa, concentrato in una bizzarra misantropia.

Nicodemo cessando la ragione del suo impiego doveva essere pur lui licenziato ma seppe così bene curvar la schiena che il conte se lo creò suo domestico.

Anche in questo nuovo impiego Nicodemo diede prove di buona volontà e d'un grande attaccamento al suo padrone, quantunque spessissimo la povertà dell'ingegno lo lasciasse imbarazzato, confuso nel disimpegno delle modeste incombenze.

Scorsero alcuni anni e moriva il vecchio maggiordomo e segretario del conte C***.

Nicodemo cui la fortuna s'era incaricata del suo avvenire venne pregato d'assumerne le poche mansioni ed eccolo divenuto in una volta domestico, segretario, maggiordomo, intascandosi regolarmente ogni mese il triplice suo assegno.

Pervenuto a codesta altezza ch'egli credeva enorme considerato il punto di partenza finì coll'attribuirsi tutta a sè stesso la rapidità della sua carriera; credette possedere meriti non comuni ed il buon uomo si stupiva di non essersene mai accorto.

Allora divenne un tantino superbo; sdegnava quasi di parlare co' suoi inferiori ed allorquando non poteva farne a meno adoperava frasi e maniere ch'egli credeva proprie alle persone d'alto affare.

Voleva darsi dell'importanza.

Camminava a tal uopo diritto nella persona, a passi gravi e misurati.

La natura per altro l'aveva dotato di buon cuore e d'una certa sensibilità; togliendo quel suo sciocco orgoglio, quella fatua ostentazione di serietà, quel suo frasario ridicolosamente ricercato, Nicodemo era l'uomo il più inoquo di questo mondo.

Erano pochi minuti che Marta si trovava nel camerino de' portinaj allorquando entrava Nicodemo.

—Buon giorno signor maggiordomo, saltò su la servetta col suo fare spigliato e non curante.

Il nostro personaggio s'inchinò maestosamente, indi fermato lo sguardo in volto alla bella giovinetta parve contemplarla con compiacenza.

Lo si capiva dalla sua bocca che dilatandosi a poco a poco si atteggiava ad un sorriso forse un po' sciocco.

La servetta non potè trattenere uno scoppio d'ilarità.

—Sempre di buon umore, eh! disse galantemente Nicodemo inchinandosi una seconda volta.

Poscia il maggiordomo aggrottando ad un tratto le sopracciglia soggiunse in tuono severo:

—Ma adesso che ci penso, dimmi un poco, come mai io ti trovo qui fungendo le funzioni di portinaja mentre il tuo posto dovrebbe essere disopra, presso l'illustrissimo signor conte? Mi vedrei io forse costretto con mio malanimo richiamarti al dovere, farti conoscere dico… le incombenze che gravitano ad una camerista saggia e devota?

—Oh la non s'inquieti signor maggiordomo, rispose Marta con un po' d'ironia, s'io mi fermo quì gli è col permesso del signor padrone.

—Ah, se la cosa è legale io non parlo più, disse Nicodemo cercando ancora colla bocca il suo primiero sorriso che gli riuscì questa volta un po' più malizioso.

—Ma sai dico… che se' bella Martina? Hai un visetto molto significante!

—Cosa vuol dire questo? domandò la servetta meravigliata.

—Vuol dire ch'io sento in me un ardentissimo desio di deporre per un istante l'autorità di tuo superiore per confavolare teco confidenzialmente, come si farebbe dico… fra pari e pari.

—Signor maggiordomo, io non capisco niente.

—Intendo; quei molti preti e pellegrini ond'io so condire il mio discorso proibiscono al tuo cervello grossolano ed incivilito di comprendermi. Ebbene mi farò più volgare.

—Sarà forse meglio signor maggiordomo.

—Dunque ascolti Marta?

—Sono tutta orecchi.

—Bisognerà dico… che impegni un tantino anche quell'altra parte del tuo corpo che i mortali chiamano cuore.

—Oh, oh, è una questione di cuore adunque che mi fa il signor maggiordomo, disse la servetta ridendo suo malgrado.

—Già è abbastanza seria perchè tu l'ascolti senza ridere.

—Ebbene non riderò.

—Sarà un po' difficile.

—Lo credo anch'io.

—Perchè voialtre donne creature aeree e fittizie ridereste vedendo il volo naturalissimo d'un moscerino nello spazio.

—Ma c'è un proverbio signor maggiordomo che lei nulla sua sapienza lo conoscerà: che il riso fa buon sangue e bel viso.

—E ce n'è un altro, cara Martina che tu nella tua inscienza ignorerai: Risum abondant dico… non mi ricordo più.. Risum abondant.

—Abbonda dove c'è dell'acqua il riso.

Nicodemo sbarrò tanto d'occhi in volto alla servetta che pareva prendersi giuoco un pochino del grave maggiordomo, indi proruppe:

—Sei una bestia, non è così. Risum abondant … ah, ecco qua, in hore stultorum. Hai capito?

—No.

—Fa niente. Dunque ritornando a bomba io diceva averti a fare rivelazioni di sommissima importanza unitamente a delle proposte che ti faranno molto onore.

—Sentiamo signor maggiordomo.

—Ecco; è dovere d'ogni mortale saggio e provvidente allorquando arriva ad un certo stadio della vita procrearsi una famiglia in seno alla quale passare tranquillo gli ultimi restanti della sua esistenza. Per avere questa famiglia è necessario prima di tutto cercarsi una moglie causa unica della propaginazione della nostra razza e questa moglie, è naturale, la si desidera d'una certa formosità dico… ed appariscenza. Ebbene io sono fra codesti mortali, cerco una campagna onde a lei accoppiarmi legittimamente e credo d'averla trovata. Sarò breve; senza perdere il tempo—che agli uomini come noi è molto prezioso—in corteggiamenti inutili, tutte frascherie ch'io lascio ai gingillini della giornata, io ti dico schietto e netto: Marta, vuoi tu divenire mia moglie? io ti faccio l'onore di sposarti.

Marta avrebbe voluto prender tutto in ischerzo ma poscia vedendo che la fisonomia del maggiordomo aveva l'aria di chi parla sul serio e che vuole, gli si risponde pure seriamente, mutò consiglio. Riflettè in cuor suo:

—Si tratta d'accasarmi ed il partito che mi si presenta non mi pare del tutto da disprezzarsi. Il signor Nicodemo ha un buon impiego, costumi irreprensibili; ha una figura è vero… ma è un uomo e gli uomini sono sempre belli. Chissà che non riesca anche ad amarlo!

La furba servetta nondimeno finse d'abbassare gli occhi modesta e con piglio vezzosamente imbarazzato rispose:

—La sua proposta mi onora al certo, ma mi riesce cotanto inaspettata… ch'io non saprei risponderle subito qui… sui due piedi…

Voleva farsi un po' preziosa.

L'ingenuo maggiordomo parve stupirsi ed aggiunse colla sua sciocca vanità.

—Io credeva che la mia domanda non dovesse lasciarti menomamente dubbiosa, ma poichè lo vuoi ti concederò il tempo di pensarci. Io già non sono nè un nobile, dico… nè una casa bancaria, ma posseggo qualche cosa al sole. Il mio morale lo sai è indiscutibile ed in quanto al fisico eccomi qua; il visibile lo puoi giudicar tu stessa e dell'invisibile te ne sono garante io. Ho trentacinque anni l'età propria pel connubio, è per questo che ho pensato a prender moglie. Ci eri tu e la figlia de' portinaj, belle egualmente, egualmente amabili e degne di me; chi mai trascegliere, diceva in cuor mio, sono due silfidi, questa casa è un vero sifilicomio … Ho pensato seriamente infine ho risolto di anteporti. Sì, ho voluto chiamar te a dividere meco la mia vita, i frutti del mio ingegno ed il mio nome. Ti chiamerai signora Panighetti e tutti si chineranno alla metà del maggiordomo segretario dell'illustrissimo signor conte C***, alla metà dell'ultimo rampollo d'un casato famoso, perchè la mia famiglia era illustre; disgrazievoli avvenimenti politici l'hanno depredata pur troppo, ma un tempo ell'era fra le più grandi di Magenta, che dico, della Lombardia, dell'Italia…

—Magenta ha detto? io lo conosco quel bel paese posto sulla strada di Novara.

—Lo conosci? tanto meglio; ebbene io sono dell' orizzonte di Magenta.

—Ella avrà certamente il castello de' suoi antenati, dei possedimenti…

—Non ho nulla, la politica si portò via tutto.

—Che peccato, mi piace così tanto la campagna!

—Cosa intendi dire Marta?

—Che ci avrei passato volentieri una parte dell'anno.

—In campagna?

—Già, con lei.

Nicodemo parve raccogliersi un istante e fare uno sforzo di riflessione, indi stralunando gli occhi e battendosi la fronte gridò:

—Ma sicuro che è così, oh non fallo io! Se tu, dico… pensi già al modo di vivere meco allorquando ti avrò solennemente impalmata è segno chiaroveggente che non hai nessuna difficoltà a darmi la tua annuenza, non è vero? Ma allora noi possiamo dire che tutto è concretato e sancito!

—No, non è così…. gli è che…. balbettava Marta arrossendo suo malgrado.

—Bene, bene, fanciulla mia, io non voglio sorprenderti, pensa pure con calma e vedrai che il vantaggio della nostra unione è tutto tuo, che tu non puoi pretendere di più.

La servetta fece un dispettuccio che sfuggì agli occhi del maggiordomo, e che si poteva tradurre così:

—Ih, quanta superbia! diventa mio marito, e te la farò dar giù io.

In questo punto si udì una lunga scampanellata che fece trasalire i nostri personaggi.

—È il signor conte che mi chiama, esclamò Marta.

—Accorri, accorri subito, disse il maggiordomo spaventato.

—E chi resterà a far la guardia alla porta?

—Ci resterò io.

—Lei?

—Sì, io, ma fa presto, che il signor conte non sappia che noi eravamo in discorsi confidenziali.

—Non dirò niente.

—Brava Martina.

—In quanto poi alla risposta….

—Sì, sì, hai tempo.

—No, gliela darò domani.

—Come vuoi.

E Marta, lanciata un'occhiatina amorosa al fidanzato, che lo fece andar in visibilio, ratta ascese lo scalone che doveva condurla negli appartamenti del conte.

Nicodemo, riavutosi dal turbamento che gli aveva cacciato addosso la improvvisa chiamata del padrone, s'accorse ch'era solo nello stanzino dei portinai.

Aggrottò le sopracciglia e riflettè:

—Diavolo, come ho fatto impegnarmi a restare in questo vil ricettacolo della bassa moltitudine. Se mi si vedesse supplire un portinaio sarei un uomo disonorato, perderei quel discendente ch'io esercito sugli altri, la mia posizione socialistica si vedrebbe compromessa…. ecco come si fa in frotta, dico…. a spregiudicarsi in un momento di debolezza; e tutto per quel diavoletto di Marta, che a dirla qui in confidenza mi ha fatto girare un poco il cervello. Adesso che ci penso, dicono che tante volte chi si lascia prendere dall'amore diventa sciocco; diavolo! con vorrei anch'io per niente affatto seguire codesta regola!… Oh, ma chi ha il mio ingegno non lo smarrisce tanto presto. Voglio prender moglie ed avere dei figli; i figli somigliano sempre al padre; dunque è mio dovere propagare una razza che deve essere il lustro del paese…. sarò il decroteur d'Italia.

Nicodemo aveva finito il suo monologo allorquando udì il rumore di alcuni passi sotto l'atrio della porta.

Il povero uomo fremette; egli stava per essere sorpreso in un luogo che avrebbe macchiata la sua riputazione.

Il rumore s'avvicina sempre più, la porta di strada s'apre ed entrano… i conjugi Paglini.

Emise un sospiro il maggiordomo e proruppe:

—Ah, meno male, siete voi.

—Guardalo qui quel caro signor maggiordomo, gridò Bastiano colla sua cordiale bonarietà; e noi lo credevamo all'Aquila trincando il suo solito mezzino.

—Zitto dico… fate adagio, esclamò Nicodemo girando attorno gli occhi smarriti; in tutto l'orbe terraqueo l'uomo ha i suoi capricci, ma non per questo si devono seminare al vento. Se qualcuno vi sentisse mi crederebbe un crapulone, un non so io…

—Cosa vuole, soggiunse Maddalena scusando suo marito; bisogna compatirlo, è il suo maledetto vizio di dire tutto quello che gli viene in mente.

—Guarda chi mi vuol correggere, ribattè Bastiano, mia moglie, lei che non sa tenere in gozzo quello che terrebbe un pulcino.

—Parlare va bene, disse la portinaja, ma a tempo debito.

—Ih, cosa ho detto infine? che credevo trovar il signor maggiordomo col mezzino in mano; è un delitto forse inumidirsi qualche volta la gola? corpo d'una ciabatta, se ciò fosse io sarei l'uomo il più malvagio di questo mondo.

—Bene, dico… non è nulla, conchiuse Nicodemo, un'altra volta abbiate più prudenza… e finiamola. Ora ditemi in che cosa io possa giovarvi, che salvo errore voi foste in traccia di me.

—Ecco qua, saltò su Bastiano, si tratterebbe… d'un matrimonio.

Nicodemo si scosse.

—Guarda, guarda, pensò egli in cuor suo, quella briccona di Marta certamente innamorata de' miei vezzi aveva già parlato ai portinaj perchè ci mettessero d'accordo.

Ed aggiunse ad alta voce:

—D'un matrimonio avete detto? e fra chi?

—Sarebbe fra due persone che pajono nate espressamente per accoppiarsi, disse il Pipélé sorridendo.

—Ah sì? ma chi sono dessi?

—Sono… eh, eh, signor maggiordomo, vorrei dirglielo d'un colpo, ma mi piacerebbe lasciarlo indovinare! Ecco, la sposina è una giovinetta bella come il sole, piena di grazia e di bontà, educata poi… nientemeno che in uno dei nostri migliori collegi…

—È la Marta certo, pensò il maggiordomo, ma però non mi sono accorto mai che avesse cotanta educazione in corpo.

—In quanto allo sposo, continuava il portinajo, è un uomo stimato da tutti per il posto eminente che occupa nella società, di profondo sapere, di molta dottrina, che parla come un libro e che scrive come… un avvocato.

—E questi son io, ripensò con compiacenza Nicodemo.

—E malgrado le sue eccellenti qualità, aggiunse Bastiano, il mio uomo è affabile con tutti e non isdegna neppure di trattare con della povera gente come per esempio saressimo noi… e figurarsi che tra noi e lui corre quella differenza che ci sarebbe fra… fra…

—Ve lo dirò io, buon Bastiano, fra il campanile della nostra parrocchia ed il famoso picco della Mirandola.

—Bravo, proprio quello che voleva dir io; eh, che ne pensa signor maggiordomo, scommetto che mi ha già capito… gran bella cosa aver studiato, si piglia tutto al volo.

—Hai ragione Bastiano, noi abbiamo già intuito ogni cosa.

E Nicodemo dava al suo sorriso un'aria di soddisfazione.

—Davvero, ebbene? chiese Maddalena che aveva ascoltato coll'ansia nel cuore, credendo sempre si trattasse di sua figlia.

—Vi posso dire sin da questo momento che tutto è già combinato.

—Combinato? gridarono insieme i conjugi Paglini.

—Combinato. Eh, eh, sono un uomo io che le mie cose me le faccio da solo, non ho bisogno, dico… d'intermediari. Ho favellato testè alla ragazza.

—E che le ha risposto? saltò su Maddalena con dolce impeto.

—Ha accolto la mia proposta di matrimonio con enfasi … con delirio. Soltanto che per salvare un po' la modestia mi disse che m'avrebbe data domani l'ultima, parola. Eh, ma io non ho paura io, un conjuge mio pari non faccio per dire…

—Vedi moglie mia s'io non ho colto nel segno! gridò Bastiano raggiante di gioja.

—Ma un momento, proruppe Maddalena alla quale pareva impossibile che tutto dovesse procedere così bene; di chi parla lei signor maggiordomo?

—Bella domanda in verità! di chi parlo io?

—Sì.

—Ma di Marta, dico… della camerista dell'illus…

—Oh!! interruppero i Paglini fulminati dalla sorpresa.

Quì successe un istante di silenzio nel quale i nostri tre personaggi si guardavano istupiditi senza sapere cosa aggiungere.

Finalmente Bastiano esclamò con voce velata:

—Ma non è dessa, capisce, non è Marta.

—Chi, la sposa? chiese il maggiordomo stordito.

—Sicuro, è di mia figlia ch'io le parlo.

—Vostra figlia!?

E gli occhi del maggiordomo volevano schizzar fuori dell'orbita.

—Si metta nei nostri panni, signor Nicodemo, disse la portinaja asciugandosi una lagrima e ci perdoni di aver osato farle simili proposte. Noi abbiamo un'unica figliuola che l'amiamo più ancora di noi stessi. Ci siamo sottomessi senza mormorare a stenti, a privazioni per farla crescere educata, nell'onore del mondo, onde avesse a benedir sempre la memoria de' suoi parenti ed ora, al momento di compiacersi dell'opera nostra, al momento di veder nostra figlia soddisfatta e felice un muto e misterioso dolore le avvelena ogni gioja, le consuma lentamente la vita. Vana ci rescì ogni richiesta, la poverella non sa risponderci che con lagrime. Credemmo che rimembrando gli agi e la vita signorilmente attiva del collegio le venisse a noja i costumi semplici e modesti della nostra casa e senza aver coraggio di lagnarsene si crucciasse segretamente. Bisogna dare adunque alla sua esistenza nuovo indirizzo, nuove cure, mi suggerì mio marito e queste non le può trovare che a fianco d'un compagno amato, che in mezzo ad una cara famigliuola. Allora pensammo a lei. La credemmo capace di rasserenare l'avvenire della nostra Erminia, di rifiorirle i suoi anni coll'affetto santo e cordiale di sposo. Perdoni signor Nicodemo, perdoni la mia franchezza, mia figlia è degna di lei, se lo può la faccia felice, è una madre che la supplica, una madre che non vive a questo mondo che per la sua diletta figliuola.

Il maggiordomo riavutosi appena dal primo stupore ricadde subito in un altro non meno profondo allorquando comprese chi gli veniva proposto in moglie.

Malgrado il suo ingenuo orgoglio egli non aveva mai osato sollevare gli occhi sino in volto ad Erminia.

Erminia con quella sua candida bellezza, con quella soave modestia, con quel piglio delicato e civile gli incuteva troppo rispetto e venerazione perchè potesse formar dei progetti su di lei.

Ma ora vedendo che dal lato de' suoi parenti non avrebbe incontrata alcuna difficoltà, anzi veniva da loro invitato a domandarla in isposa si ringaluzzì.

Finse nondimeno riflettere un istante ed invece pensò in cuor suo:

—Rinuncio subito a Marta; ed io bestia che non ebbi mai il coraggio… sono troppo modesto, già è il vizio di tutti gli uomini grandi.

Bastiano vedendolo indeciso gli sussurrò all'orecchio:

—Vadi là che non la sbaglia: Erminia è una brava tosa e poi non le verrà in casa a mani vuote.

—Non mi credete interessato, rispose Nicodemo; se mi vedete quì pensante gli è ch'io aveva, dico… degli altri castelli in aria, ma li abbandono da questo istante e prometto sagrificarmi solo a vostra figlia.

—Che Iddio vi benedica! disse Maddalena con riconoscenza.

La povera donna era accecata da un tenero amor figliale.

—Parlerò alla ragazza; aggiunse Nicodemo con importanza.

—Bravo signor maggiordomo, proruppe Bastiano, le parli come sa parlar lei, con delle belle parolone e vedrà che quell'agnellino si lascierà tosto ammansare.

—Che diavolo mi dite, qui non si tratta di ammazzare, si tratta di far dell'effetto ed a questo ci penso io.

—Le facci vedere la tranquillità della vita conjugale, continuò il portinajo, l'amor tenero d'un marito, le cure soavi d'una famiglia, i figli… oh ma sa ben lei di meglio di me quello che dovrà dire.

—Vorrei vedere che mi deste una lezione di eloquenza!

—E mi dica, a quando il primo colloquio?

—Magari anche subito.

—Subito ha detto? Lo piglio in parola, saltò su Bastiano battendo ingenuamente le mani. Erminia è appunto sola nella sua cameretta, a lei adunque! non le mancheranno pretesti per introdurvisi.

—Lasciate fare a me e novello Cupido, senza che se ne accorga, saprò ben io piantarle la mia freccia nel bel mezzo di quel nido d'amore che si chiama, dico… cuore.

—Ma adagio però e con prudenza.

E Nicodemo con quella fiducia in sè stesso che hanno tutti gli sciocchi salì nella cameretta di Erminia.

La bella giovinetta sempre sofferente stava seduta al tavolino beandosi nella lettura di quei versi soavissimi che Petrarca scrisse nel suo Canzoniere.

Il maggiordomo bussò leggermente alla porta indi si fece avanti col cappello in mano ed inchinandosi con ossequiosa riverenza.

Erminia gli fissò in volto i suoi grandi occhi celesti e non lo conobbe; si alzò pertanto leggermente imbarazzata e mosse un passo verso il nuovo arrivato.

Nicodemo compose le labbra al suo solito sorriso e piantandosi ritto davanti alla giovinetta incominciò:

—Sicuramente io riescirò ignoto alla signorina quantunque abbia l'onore di coabitare seco lei in questa medesima casa; incolperò solo il suo metodo di vita oscuro e solingo che non le permette tampoco di fare la conoscenza de' suoi umilissimi vicini. Mi permetta adunque che io mi presenti da me stesso in mancanza di persone all'uopo incaricate. Signorina, io sono il maggiordomo segretario dell'illustrissimo signor conte nostro padrone!

Erminia s'inchinò e disse:

—In che cosa io posso servire il signor maggiordomo segretario?

—Un po' per volta. Io conosco troppo le regole dell' incivilimento, e della galanteria per saltare d'un tratto a modo di locusta, nel centro della questione. Mi conceda adunque che per ora io la inviti ad assidersi. Prego, signorina, s'accomodi.

E le sporse galantemente una sedia.

Erminia oltremodo infastidita tornò a sedersi al suo tavolino e siccome Nicodemo pareva volersi porre al di lei fianco ella gentilmente gli mostrò un ottomana che le stava di fronte.

Il maggiordomo dovette rassegnarsi.

Tossì il buon uomo e si spurgò il naso, intanto mulinava in mente il modo di impiantare una conversazione. Finalmente incominciò.

—La signorina stava leggendo se non erro?

—Appunto signore, rispose asciutto.

—E potrei, dico… senza mostrarmi indiscreto sapere che cosa mai leggeva di bello?

—Il Canzoniere del Petrarca.

—Diavolo, ecco qua un libro che non conosco quantunque non faccia per dire ma di libri me n'intenda un pochino; si figuri che l'illustrissimo signor conte ne possiede d'ogni sorta e in foglio e legati e grandi e piccoli, ha una biblioteca ricchissima e sono io che gliela tengo in assetto. Dunque vede bene signorina che ho il diritto di esserne perito in materia di volumi! Eppure le confesso, quel suo libro, quel… come ha detto?… Carrozziere del Petrarca non mi è mai capitato sotto il naso. Sarà forse di pubblicazione recente, oppure qualche libercolaccio di quelli che ne sortono a migliaia ogni giorno, che loro signorine leggono tanto volentieri e non fanno invece che suscitarle incendi di fuoco nella testa, farle credere a certe autopsie impossibili, desiderare d'essere la reina di certi anedotti non del tutto moralissimi, stimolarle i sensi ed altre cose che io taccio per non saperle dire.

Questa tirata invece di disporre Erminia all'ilarità la stomacò completamente.

Dotata d'una fina squisitezza e di delicato sentire abborriva quell'ignoranza superba che vuol intendersi e parlare di tutto spacciando strafalcioni che non stanno nè in cielo nè in terra.

Da questo momento Nicodemo le divenne insopportabile; la rispose adunque in modo da lasciar scorgere il di lei malumore.

—Che lei non conosca, o signore, il Canzoniere non mi meraviglio punto, ma però se vuole accettare un buon consiglio si scopra il capo in segno di devoto rispetto tutte le volte che sente nominare questo libro. Poichè si ricordi che il suo autore nato cinquecento anni prima di noi fu quegli che cooperò a prepararci questa lingua così ricca, così soavemente bella, che è perfino peccato che certuni ne facciano un uso indegno.

Il maggiordomo non comprese niente e continuava a rimanere a bocca aperta cogli occhi fissi sulla bella giovinetta.

Dopo un istante di silenzio Erminia aggiunse con visibile impazienza.

—Infine, o signore, posso sapere lo scopo della sua visita?

Nicodemo si scosse e rispose:

—La signorina ha ragione. Ora che il cappello della conversazione è fatto noi possiamo con diritto procedere innanzi. Prima di tutto mi lasci premettere che quello che lei udrà dal mio organo vocale è cosa notoriamente pubblica a' suoi genitori e che anzi io ebbi da loro preventiva e formale autorizzazione a parlargliene. Si tratterebbe insomma d'un matrimonio e siccome, dico… è mio carattere la franchezza così le parlerò senza tanti ambagi; d'un matrimonio, dico… tra me e lei.

Erminia trasalì; volle credere tutto questo una burla di cattivo genere ed indignata stava per scacciare Nicodemo dalla sua presenza ma questi non gliene lasciò il tempo e continuò senza punto sconcertarsi.

—Lei è giovine e bella ed io pure; lei ha avuto dell'educazione ed io occupo un posto culminante nella società, dunque non sembriamo nati apposta per conjugarci? Veramente a dirle il vero questa non fu la mia prima intenzione. Io mi era invacchito della Marta, la camerista dell'illustrissimo signor conte e l'amava, dico… come l'asino ama il fieno. Avevo fissato di sposarla allorquando i parenti della signorina mi parlarono di lei. Alla buona come usano di solito con me mi dissero che per loro sarebbe stato un onore poter combinare un matrimonio fra noi due ed io ci pensai sopra. Ha messo al confronto la signorina con Marta ed ho trovato lei molto più meretrice; mi sono risolto adunque al gran passo. Eccomi qua in attesa d'una sua parola che sancisca tutto. Dica pure francamente come ho detto io, se le vado a sangue, come credo, non abbiamo che a trascegliere il giorno delle nozze. In quanto alla dote non sono tiranno io; soldo più, soldo meno non sarà quello che guasterà le uova nel paniere. D'altronde ho il mio impiego, esso può bastare a noi e ad un pajo di bambini se la signorina me ne vorrà regalare.

Questa seria proposta fatta nel modo il più comico mondo cadde sullo spirito di Erminia come un fulmine a ciel sereno; non si poteva più crederla uno scherzo dal momento ch'ella vi vedeva impegnato il nome de' suoi parenti. Pur troppo quella buona gente nella loro ingenua semplicità traviati per così dire dall'amore sviscerato che portavano alla figliuola, l'avevano avvilita credendo preparare la di lei felicità.

Ma come mai la povera Erminia poteva cancellare dal cuore quella soave memoria, quel vergine ricordo che indelebilmente lasciogli colui che primo la invitò ai godimenti puri d'un santo amore?

Come obbliar Flavio per sempre, egli ch'era l'unico suo conforto nella penosa prostrazione morale in cui stava totalmente immersa ed obbliarlo per sacrificarsi ad un uomo che non avrebbe amato mai, che solo le inspirerebbe disgusto, antipatia, odio?

Eppure era una cosa combinata dai parenti; vi aveva preso parte sua madre ch'ella tanto amava e che nondimeno involontariamente aveva cotanto afflitta.

Con qual coraggio arrecarle un nuovo dolore?

Tutti questi pensieri invadevano la mente dell'infelice giovinetta come un fiume che rotto gli argini si versa devastatore nelle sottoposte campagne.

Non potè trattenere le lagrime e pianse amaramente.

In questo punto s'apre l'uscio della stanzetta e vi entra papà Gervaso seguito dai conjugi Paglini.

Il volto dei parenti d'Erminia portava l'impronta d'un dubbio penoso. Appena la fanciulla scorse Gervaso farsi avanti con quella sua aria benevole e quasi veneranda diè un grido e si gettò nelle sue braccia.

Il vecchio l'accolse commosso.

—Oh salvatemi, proruppe la giovinetta soffocata dai singhiozzi, mi vogliono fare ancor più infelice.

—Povera figliuola! hanno errato per troppo amore.

—Perdono, perdono, mormorò Maddalena; e la povera madre eccessivamente pallida sarebbe caduta priva di sensi se Bastiano non s'affrettava a sorreggerla.

Il buon Pipélé si mordeva le labbra per trattenere uno scoppio di pianto. In mezzo alla generale commozione Nicodemo, indifferente sempre si rivolse a papà Gervaso e gli domandò con voce chiara:

—Potrei sapere infine cos'è successo?…

—Ve lo dirò dopo.

CAPITOLO IX

Viver con te, con te morir, l'estrema È questa de' miei voti unica meta. Le tue guancie, i tuoi occhi, le tue labbra Coprir di baci, come questo… e questo… E quest'altro… BYRON.

La pace ritornò presso i conjugi Paglini.

Erminia pallida sempre e sofferente pare nondimeno tranquillarsi rassegnata.

Sua madre con gran gioja la vede di tanto in tanto scendere nel suo stanzino ed intrattenersi serena in famigliari discorsi.

Papà Gervaso l'unico che conosca il segreto della tenera fanciulla l'ha dimenticato per non risvegliare nel di lui cuore reminiscenze provvidamente obbliate.

Nicodemo con stoica apatia abbandonò l'idea d'un matrimonio colla figlia dei portinaj e compiangendo in cuor suo la leggerezza della giovinetta nel ripudiare un partito che secondo lui l'era convenientissimo ritornò a' suoi antichi amori con Martina la servetta.

Era il dopopranzo d'un lunedì d'ottobre.

Il mite autunno non aveva peranco ceduto il posto al rigido inverno ed un bel sole temperato da freschi zeffiretti scendeva il limpido orizzonte in mezzo ad una nube di fuoco.

Bastiano devoto all'abitudine dei calzolaj di considerare il lunedì secondo giorno di festa erasi portato alla vicina osteria e trincava allegramente il suo fiasco fra una partita e l'altra di tresette.

Lasciamolo bere in pace, povero Bastiano!

È l'unica sua debolezza, e chi è senza debolezza a questo mondo, scagli la prima pietra.

Erano rimasti soli alla custodia della casa Maddalena e papà Gervaso; la prima agucchiava in un angolo cantarellando sottovoce un'arietta che soleva intuonare nei momenti di buon umore; il secondo riposava tranquillo gli acciacchi della vecchiezza.

Allorquando si fa udire in istrada lo scalpitare d'un cavallo che dai portoni di Porta Nuova slanciasi a carriera verso il centro della città.

Ad un tratto s'arresta imbizzarito, s'impenna, volteggia e caracolla con grave pericolo di chi lo cavalca.

Maddalena e Gervaso tendono l'orecchio e mossi da un medesimo istinto di curiosità si fanno sulla porta.

Il focoso animale non si lascia domare dalla voce nè dalle carezze del cavaliere e continua il pericoloso giuoco.

Ha le narici dilatate e la bocca coperta dì spuma sanguigna.

Nitrendo spicca voli o slanci arditissimi e sembra suo scopo liberarsi da chi lo stringe robusto fra le ginocchia.

Morde convulso il freno e dagli occhi getta scintille.

Gli sproni che gli lacerano le carni e lo scudiscio che lo batte ripetutamene l'infuriano sempre più, si rizza con tal forza sulle gambe posteriori da far credere che abbi a ricadere indietro.

Il cavaliere comincia a perdere la primitiva franchezza ed impallidisce; egli è un giovine in sui venticinque anni di aspetto simpatico e signorile.

Smarrito si aggrappa al collo del cavallo e collo sguardo cerca qualcuno che arditamente l'afferri e lo domi.

Ma in questo mentre la zampa ferrata del destriero, poggiata con isconsideratezza sul lastrico, scivolò, e l'animale cadde strascinando seco il giovine, che battuta la testa sui sassi, svenne facendosi una larga ferita.

Gli astanti che si erano assembrati numerosi emisero un grido e si copersero inorriditi il volto.

Solo papà Gervaso non perde tempo in inutili smanie; seguito da Maddalena, quanto più lesto glielo permette la sua gamba inferma, si getta sul caduto, lo raccoglie e lo pone nelle braccia della portinaia, indi afferra per le nari il puledro, che rizzatosi d'un tratto, stava già per slanciarsi sbrigliato giù per il corso.

Maddalena trasporta l'infelice nella propria abitazione; papà Gervaso lega per bene il cavallo intorno ad una colonna della corte, eppoi per tener lontano i curiosi che incominciavano diggià a farsi avanti, chiude quietamente la porta di strada.

Indi ritorna presso il ferito che stava adagiato sopra una sedia tuttora svenuto.

Gervaso lo guarda con crescente interesse; egli crede riconoscere quel sembiante, ma non sa bene dove cercarlo.

Finalmente esclama:

—Ma sì, è lui, non v'ha dubbio.—Ed aggiunse fra sè: E' il giovinotto del Collegio di Monza; fatalità!

—Voi lo conoscete? chiese Maddalena; e chi è desso? qualche gran signore.

—Animo, Maddalena, non è tempo di ciarle codesto; portate, dell'aceto, delle bende, bisogna ridonarlo ai sensi ed arrestargli il sangue dalla ferita.

E mentre quelle ottime persone sono tutte in faccende, una testa fa capolino dall'uscio: è Erminia.

Vide il giovine adagiato nell'atteggiamento di chi dorme; essa dà un grido e si precipita verso di lui.

Lo fissa con indicibile espressione d'interesse e di sorpresa, ed esclama:

—No, non m'inganno, è il mio Flavio ch'io piansi perduto, è lui che ritorna a me, che risponde finalmente alle lunghe chiamate del mio cuore. Oh, sii benedetto tu che mi riedi alla vita!

E nell'impeto della passione che in un attimo le si era ridestata ardentissima, si china su quel volto e lo copre di baci e di carezze.

Ma il sangue raggrumato della ferita gli sordida le mani e le labbra.

Erminia inorridisce, un pallore mortale le investe la faccia, gli occhi spalancati vagano smarriti; scuote il giacente, ma questi non dà segno di vita.

—Flavio, Flavio, gridò con voce straziante; Dio mio, me l'hanno ucciso! Flavio, son io che ti chiama, è la tua Erminia, no, tu non puoi abbandonare per sempre colei che per te ha pur sofferto cotanto. Riapri quegli occhi, specchio fedele d'un cuore generoso; dischiudi quelle labbra, fonte inesauribile di soavi proteste, di dolci promesse, d'ineffabili accenti. Oh, io t'amo ancora; t'amo come la terra ama il sole che la feconda, come il ruscello ama il mare che lo bacia, eppoi muore. Mi sono avvinta alla tua esistenza come l'edera intorno alla quercia; niuna forza umana mi vi può strappare. Ho i tuoi giuramenti, tu hai i miei, e che ci abbisogna di più per vivere santamente felici? Hanno cercato i barbari di lordarti nel fango della calunnia, nulla hanno risparmiato per soffocarmi un amore sincero, immenso, quanto puro e innocente; ed essi credono oramai leggere l'indifferenza sotto questa fronte forzatamente serena; illusi! È un vulcano ch'io tengo qui al posto del cuore, può tacere un momento, ma poscia bisogna che irrompa impetuoso, terribile. Chi non ha mai amato non può immaginare la forza d'un primo amore. V'hanno individui che Iddio ha creato con eguali destini; s'essi s'incontrano sulla terra non devono mai più disgiungersi, altrimenti di dolore in dolore travolgeranno infino alla tomba. Flavio, Flavio, odi il grido d'un cuore esasperato! Flavio! Dio, come è pallido, quanto sangue, egli muore!… Oh, perchè l'alme nostre non possono abbracciate volare insieme all'ultima dimora?

E spossata dal delirio la misera cadeva priva di sensi ai piedi dell'amante.

La pietosa Maddalena, piangendo a calde lagrime, prese sua figlia fra le braccia e la portò nella sua cameretta.

Rimasero soli papà Gervaso piombato nella più cupa mestizia, e Flavio sempre svenuto.

Finalmente le pallide guancie del giovine si colorirono d'un leggiero vermiglio e riaperse gli occhi.

Girò lo sguardo languido intorno a sè e mormorò:

—È strano, m'era parso di udire la sua voce. Povera fanciulla!

Indi scorse la figura di papà Gervaso immobile dinanzi a lui, la fronte curva sotto il peso del dolore.

Flavio trasalì.

—Ancora quell'uomo, mormorò…. ma dove sono adunque…. ah!

—Signore, disse papà Gervaso in tuono amorevole, vi siete fatta una ferita alla testa, che per fortuna non è tanto grave; permettete che ve la fascia con questi lini.

—Una ferita? esclamò Flavio…. Ah, mi ricordo, ritornavo da una gita sui bastioni ed il mio cavallo…. ed ora dov'è il mio cavallo?

—Non temete, è qui poco lontano da voi, che v'aspetta tranquillo per ricondurvi a casa.

Flavio chinò il capo e Gervaso si diè a curargli amorosamente la piaga.

Ma il giovine errava molto lungi coll'immaginazione; correva dietro ad un caro fantasma evocatogli dal cuore.

Emise un sospiro e ripetè:

—Eppure m'era parso di udirla!

—E l'avete udita difatti, aggiunse papà Gervaso.

—Cosa dite? domandò Flavio vivamente.

—Ch'ell'era qui un momento fa.

—Ma chi?

—Erminia.

—Oh, perchè non l'ho veduta!…

—L'amate ancora adunque?

—Se l'amo!

Ed in queste parole eravi concentrato tutto quanto sa esprimere di più caro, di più intimamente affezionato.

—Eppure vi ho detto che non avreste potuto mai farla vostra!

—È vero, ed allora ho creduto senza pure domandarvene la ragione; è strano, pareva che m'avesse parlato mio padre istesso, ch'egli in persona mi dissuadesse dal mio amore. Ho cercato infatti di dimenticarla; tutto tentai, e novelle passioni e bagordi e viaggi, ma la bella immagine della mia Erminia avevo sempre dinanzi a me raggiante di celestiale candore. Soffriva, m'indispettiva con me stesso, avrei voluto strapparmi il cuore dal petto, e forse allora solo sarei riuscito frenarne i palpiti. Ma mi stancai d'una vita di sacrifici continui, compresi che la mia felicità dipendeva da quella fanciulla, e mi diedi a cercarla per farla mia ad ogni costo. L'avrei disputata al mondo intero. Corsi a Monza dalla Direttrice dal Collegio, le mostrai le mie oneste intenzioni e la pregai colle lagrime agli occhi a dirmi dove poteva rinvenire Erminia. Ma quella donna si ostinò in un silenzio incomprensibile. Ritornai mesto ma non iscoraggiato, ed incominciai a Milano le mie ricerche; ma esse furono sempre vane. Oh, se voi la conoscete, parlate, toglietemi ve ne scongiuro, da un isolamento troppo penoso. S'io sono indegno di possedere quell'angelo, il suo amore mi nobiliterà, mi sagrificherò tutto intiero a lei, tutto porrò ai suoi piedi, le mie ricchezze, i miei titoli….

—Voi siete nobile e ricco, interruppe Gervaso commosso, ecco l'unico ostacolo che si frappone al vostro amore; disgraziatamente ella non vi è pari in nascimento.

—E che m'importa?

—Non è ricca.

—Lo sono io.

—Badate!

—Voi la conoscete adunque, oh parlate!…

—Eppoi?

—Eppoi vi giuro che chiunque ella sia diverrà mia sposa.

—Ebbene ella è figlia di codesti portinaj, voi siete quì in casa sua.

—Oh!

—Giovinotto, il vostro giuramento?

—Lo manterrò. Non mi sono mai lasciato vincere da pregiudizi umani, la nobiltà di nascita io non la credo un merito, la vera nobiltà consiste in un cuor leale e grande, in sentimenti generosi e magnanimi e da questo lato essa val più di me.

—Non vi aveva adunque mal giudicato. Ma dite e vostro padre?

—Ah, mio padre?

Era il grido di colui che vien destato alla realtà della vita nel momento di concepire un bel sogno.

—Egli mi ama, mormorò Flavio con tristezza, ma è troppo orgoglioso per rinunciare a' suoi diritti di sangue.

—E chi è desso? chiese Gervaso impensierito.

—Il conte Renato Sampieri.

—Chi? chi avete detto? proruppe il vecchio trasalendo.

Flavio ripetè quel nome che scosse papà Gervaso una seconda volta.

—Lo conoscete voi forse? domandò il giovine.

Gervaso rientrato in sè stesso parve riflettere profondamente; scosse la testa in segno di dubbio e mormorò:

—È impossibile, è impossibile.

Indi dopo un istante di silenzio, visibilmente commosso aggiunse rivolgendosi a Flavio.

—Ho conosciuto diciott'anni or sono un conte Renato Sampieri che abitava sul corso di Porta Tosa…

—Era mio padre! interruppe il giovane.

Il vecchio lo fissò con uno sguardo lungo, tenero, affettuoso e continuò:

—Aveva un fratello per nome Alberto.

—Mio zio!

—Che fu la ruina di quella povera famiglia.

—Pur troppo.

—Sì, perchè un giorno questo Alberto Sampieri giovine depravato e senza costumi assassinò un ufficiale tedesco nelle vicinanze del suo castello di Magenta. Gli vennero confiscati i beni e condannato a morte, ma riuscì porsi in salvo in paesi stranieri. Allora per inaudita ingiustizia si dannò pure all'esiglio il conte Renato reo soltanto d'essere fratello all'assassino.

—È vero.

—Renato senza mezzi di fortuna, che tutte le sue ricchezze erano passate nelle avide casse del dispotico governo, si recò in Ispagna colla giovine moglie ed un bambino ch'essi adoravano. Ma le incresciose peripezie dell'esilio trassero il povero conte ad una morte immatura.

—No, v'ingannate, esclamò Flavio commosso ad un tempo e sorridente, voi pure versate in un errore che noi trovammo con gran sorpresa assai diffuso al nostro ritorno in patria. Chi ho perduto in Ispagna nei tristi anni dell'esilio fu mia madre… eterno riposo a quella santa donna! Mio padre seppe con forte animo sopportare l'immeritata punizione; io bambino ancora m'avvezzai al dolore ed ingrandii rassegnato. Fintantochè Napoleone con uno di quei tratti di giustizia che improntano la sua luminosa carriera ci richiamò in Italia restituendoci gli aviti beni.

—Qual dubbio mio Dio, qual dubbio! mormorò Gervaso.

—Dell'infelice mio zio non avemmo più notizie, proseguì Flavio. S'egli sapesse che i tribunali sono autorizzati a ritornare sul suo passato, forse provocherebbe un processo, che io non posso crederlo colpevole.

—E non lo sarà, ma come provarla la sua innocenza! esclamava Gervaso con un grido d'angoscia, ma continuò tosto colla primitiva calma:

—E vostro padre non annuirà mai, voi dite, al vostro matrimonio?

—Lo temo, rispose il giovane abbattuto.

—Gli parlerò io.

—Voi?

—Sì.

—E sperate?

—Più di quello che credete.

—Davvero? Oh, la benedizione del cielo sul vostro capo!

—Domani sarò da lui.

—Ci sarò io pure, noi lo pregheremo insieme…

—No, bisogna che le parli da solo, mi è necessario un abboccamento segreto.

Gli occhi del giovine si fissarono in papà Gervaso; il mistero di quest'uomo lo stupiva, ma la di lui sicurezza gli richiamò sulle labbra un sorriso di speranza.

Gervaso continuò:

—Ed ora giovinetto potete rimontare il vostro cavallo e ricondurvi a casa.

—Partire! e senza vederla?

—Non è necessario.

—Eppure…

—Non è necessario vi ripeto. Il vecchio pronunciò queste parole in tuono così risoluto da mostrare come sarebbe stata inutile ogni ulteriore insistenza.

Flavio si alzò; strinse cordialmente la mano che Gervaso gli stendeva e disse:

—Parto, ma ricordatevi che le mie speranze sono tutte riposte in voi. Non vi dico altro perchè sento nel cuore che corrisponderete a quella fiducia che benigna m'inspirate.

E montato il cavallo che l'attendeva tranquillo, quasi pentito della colpevole insubordinazione commessa, Flavio attese che gli si aprisse il portone di strada per islanciarsi verso il centro della città.

Non erano scorsi che pochi minuti allorquando si fece udire sotto l'atrio della casa il passo d'un uomo ed una voce che cantava allegramente la seguente strofa:

Viva Bacco! Orsù inneggiamo Al dolcissimo licor, Nella botte soffochiamo Tutti i triboli del cor!

Era Bastiano che lasciata l'osteria dopo d'aver alzato il gomito un po' più dell'ordinario ritornava a casa cogli occhi scintillanti e le ginocchia non troppo sicure.

Si fermò in mezzo alla stanza colle gambe piegate, il corpo curvo e lo sguardo fisso al suolo.

Papà Gervaso gli gettò un'occhiata di compassione.

—Ebbene, cosa fate adesso?

—Nulla, rispose il portinajo, gli è che un dopo l'altro mi vedo passare davanti tutti i mobili della casa, aspetto che mi venga a tiro il mio sgabellotto per sedermivi sopra.

—Aspettereste un po' troppo; venite quà che vi condurrò io… giù, sedete.

Bastiano si lasciava cadere con tutto il peso del corpo sur una sedia.

—Ah, così sto meglio. Corpo d'una ciabatta! è stato l'ultimo bicchiere che mi è andato alla testa, che fui sempre in gambe come un dragone io! Colpa vostra papà Gervaso, che mi avete chiusa la porta. Ho fatto io per ritornare a casa ma ho battuto il naso nel battente. M'hanno detto che avevate ricoverato un giovinetto caduto da cavallo… ed io allora indietro a berne un'altro boccale alla sua salute! E non l'ho pagato io, sapete? Gliel'ho ficcato in corpo al nostro maggiordomo illustrissimo con una partita alla mora. Evviva la mora! È il mio giuoco prediletto. E sempre col sei io vinco, sei… sei… sei… sfido il diavolo a resistermi.

Intanto Erminia calmatasi dalla sua alterazione cerebrale erasi abbandonata ad un sonno benefico.

Sua madre contemplò per un istante quel volto leggiadro su cui stava visibilmente impressa l'impronta del dolore, indi scese da papà Gervaso.

—Come sta? le domandò con premura il vecchio.

—Meglio, rispose la madre.

—Povera ragazza!

—Ho tutto compreso finalmente, aggiunse la povera donna asciugandosi una lagrima; essa ama quel giovine e l'ama alla follia; voi sapevate tutto e me n'avete sempre fatto un mistero.

Il vecchio scosse mestamente il capo e mormorò:

—Sperava che il tempo guarisse un amore che non potrà mai essere benedetto; e vi riusciva il tempo, ma il destino spingendo quell'uomo in questa casa ha distrutto in un attimo l'opera dolorosa di tanti giorni.

—Non vuol saperne lui forse della mia figliuola?

—Ma si può vedere quell'angelo senza sentirsi tocco il cuore? Egli l'ama e la farebbe felice, ma disgraziatamente è nobile e ricco ed ha un padre orgoglioso troppo de' suoi natali per permettergli il matrimonio con una figlia del popolo.

—La lascierò adunque morire sotto i miei occhi consunta dal dolore e dall'angoscia!… Oh mio Dio, la felicità sarà solo per i ricchi! I poveri non dovranno aprir gli occhi che per piangere!…

Bastiano che aveva tutto ascoltato attentamente, con quella rapidità di percezione che talvolta si osserva negli ubbriachi aveva indovinato di che si trattasse.

Articolando il meglio che poteva le parole proruppe:

—Ma voi non sapete nulla voialtri! mia figlia… cioè dirò meglio, Erminia, può sposare il suo innamorato poichè dessa è nobile quanto lui… sicuro, corpo d'un milione di ciabatte! È sangue patrizio che circola nelle sue vene!… Guarda che occhiacci mi fa mia moglie… va là, che tu non ne hai colpa, è quell'altro birbante… che mi rincresce d'aver dimenticato il nome. È una brutta istoria sapete papà Gervaso… ma venite quà che ve la voglio raccontare, sentirete che bel tiro ci hanno giuocato alla mia povera Maddalena. Diciottanni fa, vedete, ell'era molto bella, aveva gli occhi azzurri ed i capelli biondi e la chiamavano per questo la bella biondina. Conviveva tranquilla con suo padre, un uomo dal fegato sano, che aveva combattuto in Corsica, ma che le ferite toccategli sul campo l'invecchiarono innanzi tempo. Guardate che combinazione, era precisamente il portinajo di questa istessa casa! Un giorno un elegante che apparteneva ad una famiglia delle più notabili di Milano si innamora della biondina e tenta ogni mezzo per farla sua, promesse, denari… ma lei, ch'era onesta, tien duro. Non si scoraggia il damerino e non potendo averla colle buone ricorre alla violenza… e ci riesce… l'infame.

Maddalena che aveva seguito il racconto con ansietà penosa a questo punto getta un grido e si nasconde il volto nelle mani.

Papà Gervaso sembra profondamente turbato.

Bastiano non vede ne sente nulla e continua:

—Sentite in che modo. Una sera la biondina ritornava soletta dal magazzeno, l'ora era tarda e le vie deserte. Il giovinastro aveva fatto appostare la carrozza dietro l'angolo d'una via ed attende la colomba, che ignara del tradimento va a cadere nella rete. Allora le sono addosso due uomini che l'imbavagliano, la gettano nella carrozza e via. Per più giorni non si sa niente ed in questo frattempo il di lei padre muore di dolore e di rabbia. Oh come maledì le sue ferite che lo tenevano inchiodato sulla sedia! Finalmente un bel dì io la vedo la povera ragazza pallida e scarmigliata ritornare nella propria casa. Come rimase allorquando seppe la morte del padre suo non si può immaginare, credevano tutti che impazzisse. Sangue di Dio, ho un cuore quì!… e ne ebbi compassione. Il disonore di quella fanciulla, dissi fra me, deve ricadere tutto sull'infame che l'ha tradita e non su di lei e tenutala d'occhio fingendo d'ignorare il passato le feci un bel giorno la proposta di sposarla, ch'essa accettò. Ci allogammo in questa casa ed abbiamo vissuto sempre di buon accordo. Nacque Erminia, l'amai coll'amore di padre… ma io sapeva di non entrarci per niente; era figlia del nobilaccio… Eh, via non piangere Maddalena, vieni quà, lascia che t'abbracci… perdonami sai, se quel maledetto vino mi ha sciolto un po' troppo la lingua… era un segreto che aveva promesso non svelare giammai. Vieni quà adunque Lenuccia, mi vuoi forse tenere il broncio?

Maddalena si gettò nelle braccia di suo marito e proruppe singhiozzando:

—Tu sapevi tutto e mai una parola, mai un rimprovero!…

—Non sono ingiusto io… e nemmeno vigliacco.

Papà Gervaso erasi ritirato nell'angolo più oscuro della casa e pallido come la morte mormorava:

—Mio Dio, quale rivelazione!!

CAPITOLO X.

Una volta fra dodici apostoli appena si trovava un Giuda; adesso fra dodici uomini undici sono traditori ed il dodicesimo un po' tarlato. GUERRAZZI.

All'indomani papà Gervaso si reca a Porta Tosa nel palazzo del conte Renato Sampieri.

La fisonomia del vecchio sembra aver deposto quel primitivo carattere di semplicità per assumere un'aria dignitosa, pressochè imponente.

Cammina a stento sempre travagliato dalla sua gamba inferma ma il portamento ha qualche cosa di nobilmente austero.

Entra nel palazzo Sampieri e prende da solo l'ampio scalone che conduce agli appartamenti.

Il suo sguardo gira all'intorno colla compiacenza di chi osserva oggetti ricchi di memorie ed il cuore gli batte palpiti precipitosi.

Dà il suo nome ad un servo ed attende in anticamera d'essere ammesso alla presenza del conte.

Ma il servo ritorna dicendo che per essere affatto sconosciuto il nome di papà Gervaso all'illustrissimo signor padrone egli lo prega a voler dichiarare che cosa abbisogni da lui.

Il rossore dell'indignazione colorisce lo guancie del vecchio, trae un biglietto su cui scrive poche parole, indi porgendolo al servo gli dice in tuono che non ammette osservazioni:

—Consegna questo al tuo illustrissimo signor padrone; ti attendo qui.

Il servo parte e non va molto che comparendo tutto rispettoso guida Gervaso nel gabinetto del conte.

—Ah, non mi sono ingannato; mormora il vecchio.

Il conte Renato Sampieri era un uomo in sui cinquant'anni grande e bello nella persona.

Stava seduto al tavolino cogli occhi fissi sul biglietto consegnatoli dal servo; vi si leggeva in volto un turbamento mal dissimulalo ed una grande sorpresa.

Gettò su Gervaso uno sguardo penetrante, indagatore, indi con affettata freddezza esclamò:

—Voi mi renderete ragione del nome ridicolo che mi avete dato;—e gli mostrava il biglietto.

—Quel nome mi valse però l'abboccamento ch'io chiesi invano al conte Renato Sampieri.

—Ho voluto veder in faccia chi s'introduceva in tal modo in casa mia.

—Eccovi adunque soddisfatto. E Gervaso si piantò diritto davanti al conte, calmo, freddo, imponente.

—Infine cosa volete da me? proruppe il conte alquanto sconcertato.

—Farvi una sola domanda.

—Sentiamo.

—È veramente al conte Renato Sampieri ch'io parlo in questo istante?

—Disgraziato! sclamò il conte arrossendo d'ira e girando attorno gli occhi quasi per accertarsi che nessuno aveva udito quella inchiesta.

—Rispondete! insistè Gervaso senza scomporsi.

—Voi siete qui nelle mie mani, badate! le vostre parole vi possono costare la vita.

Ed una truce espressione di sdegno si posò per un istante sui lineamenti del conte.

—Sono minaccie codeste che vi tradiscono, rispose Gervaso; se voi foste veramente quello che vi fate credere dopo il biglietto che vi ho scritto, dopo quello che vi dissi, in luogo d'adontarvi, m'aveste riso in faccia e trattato da povero pazzo.

—Ed io invece vi credo uno sfacciato impertinente e come tale vi scaccio da casa mia.

Il conte stese la mano sul campanello.

—Fate pure, riprese Gervaso, ma domani voi sarete smascherato e Milano avrà il piacere d'assistere ad un processo per falso.

Il conte restò annichilito col campanello in mano; comprese che bisognava mutar tuono, epperò soggiunse con piglio più dolce:

—Ma infine avete voi le prove di quanto dite?

—Le ho.

—Non lo credo.

—Non lo credete? E se vi dicessi che il vero conte Renato Sampieri bandito in esilio nel 1778 colla moglie ed un bambino morì a Barcellona in Ispagna un anno dopo e che io tengo il certificato autentico della sua morte? Se vi dicessi che passati pochi mesi morì pure sua moglie e che in allora un servo, uomo astuto ed ambizioso, impossessandosi delle di lui carte, grazie ad una fatale somiglianza ed al figlio ancora troppo bambino, si fece credere dovunque pel conte defunto nelle viste di rimpatriare un giorno ed usurparne gl'immensi beni? Se vi dicessi tutto questo, sentiamo, mi credereste in allora?

Il conte era pallido ed eccessivamente alterato; fissava Gervaso quasi volesse leggervi qualche cosa sotto quella fronte rugosa e tetra e proruppe con accento disperato.

—Ma chi siete voi adunque?… Ah!

Era il grido d'un uomo colpito da un'idea; lo sguardo del conte gettò un lampo di soddisfazione, si prese il capo fra le mani e parva riflettere un momento; indi riprese con calma ironica, pressochè insultante.

—Questo Renato Sampieri, dirò io pure alla mia volta, aveva un fratello per nome Alberto che sotto l'accusa d'assassino venne condannato a morte. Io lo potrei denunciare questo Alberto, capite signor… papà Gervaso, lo potrei denunciare oggi, subito ed autorizzare la giustizia a compiere il suo corso.

Suo malgrado Gervaso trasalì; al conte non isfuggì quel moto e continuò con un sogghigno infernale.

—Ah, ah, vedete adunque che noi dobbiamo vivere da buoni amici ed obbliare un brutto incidente che voi aveste in oggi la cattiva idea di sollevare. Lasciamo che l'acqua corri secondo la china, ci guadagneremo entrambi, forse più voi perchè avrete sempre in me un amico fedele pronto anche a qualche sagrificio per la vostra cara amicizia.

—Sono promesse che non mi lusingano, rispose Gervaso—e neppure m'intimoriscono le vostre minaccie. Non comporterò mai che un tristo viva impunemente sotto un nome ed un grado non suo, che si goda un patrimonio ch'egli ha usurpato, e che abusando infamemente del sacro nome di padre, chiami figlio colui che dovrebbe rispettare per suo padrone. Giù quelle spoglie mentite, e fuori da questa casa in cui non vi entraste che vilissimo servo.

—Ma se io esco di qui gli è per recarmi subito al tribunale, e sapete cosa romba sul capo a quel povero Alberto Sampieri? o la morte od una perpetua prigionia…. l'ignominia sempre.

—È una vendetta degna di voi, compitela pure, Alberto Sampieri non vi teme, subirà rassegnato il suo destino. Se la giustizia non crederà sufficienti i sagrifici patiti in diciott'anni di penoso esilio per espiare un fallo, non un assassinio, egli chinerà il capo davanti ai diritti degli uomini. Denunciatelo adunque, arriverà però sempre in tempo a strapparvi davanti Milano tutta quella maschera che vi siete così bene adattata sul volto.

—Sentite, rispose il conte senza perdere la sua calma, se Alberto Sampieri credesse di farmi rinunciare spontaneamente a quello che ho raggiunto con tante fatiche e pericoli, s'inganna. Io non so qual sia poi il suo scopo. Forse quello di trar profitto dalla mia rovina? Non lo credo, perchè gli è in fondo ad una carcere che dovrà assistere all'opera sua. Quello forse di trar d'inganno Flavio mio figlio, e porlo solo al possesso delle sue sostanze? Sia; ma non sa egli qual danno morale gli arreca nello stesso tempo? Col suo processo disonorevole Alberto Sampieri ridesta in Milano una memoria che certo non cade ad onore della famiglia, una memoria che gli anni sembrano ormai aver sepolta sotto un benigno oblio. Eppoi il ridicolo che in certa guisa egli getta su Flavio se riesce a provare che per molti anni ha rispettato e venerato qual padre un suo servo? Sapete cosa risponderà Flavio al povero zio? Giacchè lui provvedendo alla mia infanzia in giorni difficili, aveva acquistato diritti paterni; giacchè i suoi procedimenti non contaminavano punto il nome dei miei antenati; giacchè infine tutti lo rispettavano pel conte Sampieri, in luogo di provocare una scena che or viene ripetuta e commentata in mille modi, avreste fatto meglio lasciar vivere tutti nella loro illusione e salvar voi da una condanna che non torna certo a nostro decoro.

Gervaso era caduto in profonde riflessioni.

—Pure, continuò il sedicente conte, giacchè il caso ci ha fatti incontrare, signor…. Alberto Sampieri, noi non possiamo che vivere o in un amichevole accordo, ed a questo non sembrate molto disposto, oppure a quattr'occhi, senza scandalo, dirci: uno di noi è di troppo, bisogna che il caso ancora, pensi a far scomparire per sempre il superfluo. Sarete pur voi del mio parere.

Gervaso comprese trattarsi d'un duello a morte.

Smascherando pubblicamente il falso conte, Gervaso abilitava Flavio a compiere il voto ardente del suo cuore sposando Erminia, dolce cura pure del vecchio; ma il conte gli aveva fatte delle giuste osservazioni.

Un duello era adunque l'unico mezzo che gli restava per sbarazzarsi dell'audace che con tanta ostinazione persisteva a mantenersi ad un posto usurpato.

Si risolse alla trista partita.

Lanciò sul conte uno sguardo di fuoco e proruppe:

—Ebbene sì, o signore, voi l'avete detto, uno di noi deve scomparire per sempre. Ci batteremo.

—Benissimo, riprese il conte col massimo sangue freddo, allora se mi permettete farò io le condizioni.

—Fate pure.

—Due colpi di pistola ciascuno, a dieci passi di distanza; tireremo a piacimento movendoci incontro. Accettate?

—Accetto.

—Domani all'albeggiare, alla mia villa di Melzo; nessuno verrà a disturbarci.

—Ci sarò.

—Condurrete il vostro padrino, uno solo può bastare; provvederò il mio.

Ed il conte alzatosi licenziò Gervaso con un inchino.

La giustizia della causa cui si faceva difensore aveva infiammato papà Gervaso di nobile entusiasmo; egli si sentì ritornar il vigore della sua gioventù ed il duello terribile che aveva accettato non gli faceva punto fallire il cuore in petto.

—Bisogna che tenti tutto per quella fanciulla, andava ripetendo fra sè. Oh la rivelazione di jeri!

Ritornato a casa Maddalena gli si fece incontro e lo interrogò con uno sguardo; la povera donna credendo che si fosse recato dal conte Sampieri solo per indurlo al matrimonio di Flavio con Erminia, comprendendo quanta difficile fosse quella missione, non osava aprir bocca per tema d'un'amara delusione.

—Sperate ancora nella provvidenza, le disse papà Gervaso; domani saprete di più. Vado da vostra figlia, ho bisogno di vederla. Voi intanto chiedete di Nicodemo che gli debbo parlare.

CAPITOLO XI.

Empio colui, che non vorrà la destra Qui riconoscer dell'Eccelso! MANZONI.

Il cielo è ingombro di nubi, l'aria fredda e la campagna spogliata.

Siamo nel mese di Novembre.

Una vettura uscendo da Porta Orientale si pone sulla strada che conduce a Melzo.

Vi stanno rinchiusi due uomini avvolti in ampi mantelli.

Chi li esamina attentamente comprende quanto sia diversa la loro disposizione d'animo.

Nei lineamenti del più attempato leggesi la calma e la serenità soave d'un uomo la cui coscienza gli vanta l'opera ch'egli corre a compiere.

Il più giovine invece è in preda ad un turbamento che tradisce di tanto in tanto con smorfie ridicole.

Sembra seduto sopra un letto di aculei che lo obblighino ad ogni istante contorcersi dolorosamente e mutar posizione.

Ora guarda i campi, ora il volto del compagno e con due occhi da spaventato.

Più d'una volta aprì la bocca per parlare ma la parola gli muore sulle labbra; finalmente si risolve, finge un accesso di tosse per richiamare l'attenzione dell'amico ed incomincia:

—Sicchè adunque, caro papà Gervaso, m'assicurate che dal canto mio non corro incontro ad alcun disastro assistendo in qualità di padrino al vostro duello. Mi capirete che quando si trova ne' miei panni non si può tanto leggermente lasciarsi travolgere in un affare, per esempio, di polizia ed insudiciare quella fame, che si è sempre cercato mantenere, dico… linda e pura d'ogni macchia. A dirvi il vero avreste fatto molto meglio in questa circostanza rivolgervi ad un'altro e lasciarmi in pace, che di duelli, di questioni d'onore e che so io, non me n'intendo assai. Ma ora quel che è fatto è fatto, sarò vostro padrino, purchè m'assicuriate che la polizia non ci ficchi il suo naso.

—State di buon animo Nicodemo, rispondeva papà Gervaso, che non sarete molestato per niente. È una cosa che si compirà fra noi e che nessuno dovrà penetrare.

—Tiro il fiato; quand'è così vi auguro buona fortuna.

—Grazie.

—Benedetto uomo, continuò Nicodemo dopo un'istante di silenzio, che vi è mai saltato in mente di tirarvi per i piedi un' enormezza di questa fatta, un duello?

—Che volete, rispose Gervaso, il destino ha le sue leggi e non si possono infrangere.

—E questo duello dovrà essere…

—All'ultimo sangue.

—E lo dite con quella indifferenza! Ma qual ne fu il misterioso motivo?

—Una cosa da nulla.

—Ed il vostro anniversario chi è?

—Ma se non lo conosco neppur io!

—Diavolo, diavolo!—Nicodemo fremette non so se di freddo o di paura.

Dopo due ore di cammino la vettura girando di fianco Melzo veniva a fermarsi, circa a mezzo miglio dal paese, davanti ad un cancello di ferro che dava ingresso ad un giardino.

Nicodemo e papà Gervaso discesero.

Quest'ultimo diede una moneta al cocchiere che voltando i cavalli ritornò indietro di galoppo.

Intanto un uomo che sembra attendere in giardino spalanca il cancello ed invita i nuovi arrivati a seguirlo.

Egli prende il largo viale che conduce ad una casetta di geniale apparenza, che si eleva in mezzo ad un boschetto d'alti castani.

La casetta viene schivata ed i nostri personaggi si perdono un'istante nel bosco che diventa più folto dietro l'edificio.

Finalmente riescono sopra un piccolo sentiero che percorrono in tutta la sua lunghezza.

Camminano sempre verso il centro del giardino il quale sembra molto ampio.

Il sentiero mette in un prato cinto da folte quercie in cui Gervaso e Nicodemo trovano il conte Sampieri ed uno sconosciuto davanti ad un tavolo su cui posano due pistole a doppio tiro.

La guida scompare.

Il conte Sampieri muove incontro ai due amici e presenta loro lo sconosciuto pel proprio padrino; era il medico di Melzo.

Gervaso a sua volta presenta Nicodemo.

I due padrini si stringono la mano, e senza profferir parola si recano ad esaminare le armi.

Nicodemo che trema al solo vedere un'arma da fuoco, si rimette in tutto al medico, che presente i due avversari, carica le quattro canne.

—E questo duello sarà adunque assolutamente necessario? proruppe il medico con voce commossa; non vi sarà nessuna via ad un amichevole componimento?

—Nessuna, risposero insieme il conte e papà Gervaso.

—Almeno modifichiamone le condizioni; insistè il medico.

—Ebbi il diritto di proporle, disse secco il conte, e furono accettate.

Indi continuò rivolgendosi ai padrini:

—È un duello codesto che gravi circostanze ci obbligano a tener segreto. Nessuno al mondo deve conoscerne le conseguenze tranne voi, o signori, che impegnate la vostra parola d'onore a tacerle in qualunque tempo ed in qualunque circostanza. Chi soccomberà fra noi verrà seppellito nel cimitero di Melzo; egli sarà morto di malattia improvvisa, e voi medico ne farete fede. È un favore ch'io ed il signor Gervaso vi preghiamo a renderci, e non ce lo negherete. La causa di questa partita suprema è una seria questione di famiglia sulla quale non abbiamo potuto metterci d'accordo. Ora alle armi.

Il medico guardò un'ultima volta i due avversari, e vedendoli risolutamente decisi, distribuì loro le pistole.

Vennero prese le distanze, ed ognuno si mise al suo posto.

Il conte, quantunque sembrasse molto calmo, era d'un livido pallore; i capelli in disordine rivolti all'indietro scoprivano una fronte solcata dalle rughe e due occhi d'un'espressione quasi feroce.

Papà Gervaso era più tranquillo; la solennità del momento in luogo di commuoverlo pareva gl'infondesse un vigore insolito.

Gettata la gruccia stava ritto davanti all'avversario, lo sguardo animato da nobile fierezza.

I due padrini si collocarono a fianco del loro rappresentato; i lineamenti di Nicodemo erano quelli d'un uomo fatto ebete dalla paura.

Successe un'istante di silenzio; è quel lugubre silenzio che precede la tempesta.

Finalmente il medico diede il segnale dell'attacco ed i due nemici si mossero lentamente incontro.

Papà Gervaso fatti pochi passi spianò la pistola e la espose; l'eco ripetè il colpo terribile.

Una nube passò sulla fronte del conte Sampieri, ma continuò franco il suo cammino, lo sguardo sempre fisso nell'avversario.

Gervaso fece ancora alcuni passi e s'arrestò.

Oramai distava pochissimo dal conte, lo prese di mira, indi si udì un'altra detonazione, ampia, cupa come la prima.

I padrini chiusero inorriditi gli occhi; ma il conte era in piedi, le gambe però gli tremavano sotto, pose una mano sul ventre e camminò ancora muto, inesorabile nella sua marcia.

Arrivò vicino all'avversario e gli puntò la pistola alla gola.

Involontariamente Gervaso fremette, ma tenne fermo.

—Signor conte, in nome di Dio, volete assassinarlo! gridò il medico.

—Ho due palle nel ventre, rispose il conte con urlo feroce, posso adunque restituirgliene una.

Ma questo momento d'inazione fu fatale al conte; smarrì ad un tratto le forze fittizie che lo reggevano in piedi, vacillò e cadde lasciando partire il colpo.

Sbarrò gli occhi quasi per bearsi nell'ecatomba consumata, ma Gervaso era ancora al suo posto, che gli fissava in volto uno sguardo più di compassione che di rancore.

La palla sviata erasi perduta nel grosso tronco d'un albero.

—Dio non ha voluto, mormorò il conte.

In questo, mentre un uomo slanciasi correndo dal folto degli alberi e con lena affannata viene a gettarsi sul corpo del caduto.

È Flavio Sampieri.

—Padre mio, grida il giovine soffocato dall'angoscia e gli solleva il volto sul quale stanno già scolpite le impronte della morte.

Il conte sembra riconoscerlo e la sua bocca si atteggia ad un pallido sorriso.

—Troppo tardi! prorompe il giovine colle lagrime agli occhi; oh, è orribile!

Lo sguardo di Flavio si ferma su Gervaso; le lagrime in allora gli si inaridiscono sulle ciglia, un'espressione di dolorosa sorpresa gli si diffonde sul volto.

Tende il dito verso Gervaso ed esclama con voce straziante:

—Voi! Voi che assassinaste mio padre! Ed io vi amava! Oh, ma se anche il cuore c'inganna di chi mai fidarsi a questo mondo?

Il vecchio rimane muto, immobile, il corpo curvo sotto il peso d'una potente commozione.

Il conte fa uno sforzo ed aiutato da Flavio si sorregge un'istante sul corpo; fissa nel giovine uno sguardo affettuoso e con voce semispenta così gli parla:

—Perdona a quell'uomo Flavio… egli ha ucciso un miserabile che tu non puoi chiamare tuo padre… no tu non lo puoi.

—Delira! mormora Flavio.

—Io ti favello nel mio miglior senno, prosegue il moribondo, ed è sulla soglia dell'eternità che ti supplico d'ascoltarmi. Tuo padre, il vero conte Renato Sampieri morì in esilio colla madre tua. Arso dalla sete dell'ambizione e d'un'avida brama di ricchezze, io m'impossessai delle carte di famiglia e mi feci credere pel conte defunto… tu eri troppo bambino per avvederti dell'inganno… Quell'uomo è tuo zio, Alberto Sampieri; colui che nel 1778 pel disgraziato duello avuto in Magenta con un ufficiale tedesco fu causa forse innocente delle sciagure de' tuoi parenti. Perdona a lui che deve avere molto sofferto…

E più non può dire.

Gli occhi gli si fanno di vetro, stringe la mano di Flavio in una stretta convulsa, rovescia il capo indietro ed esala l'ultimo sospiro.

Impossibile descrivere l'impressione che fecero su Flavio le parole del moribondo.

Colui ch'egli avea sempre amato con quel sacro rispetto che si professa all'autore de' propri giorni, dover adesso riconoscere per un'insensato che si era fatto giuoco dei suoi affetti!

Si sentì colpito direttamente al cuore.

Fu lì per chiamarlo infame ed avvelenargli col veleno del disprezzo la sua ultima ora, se non che gli ritornavano in mente le cure pressochè paterne prodigate alla sua infanzia e quel ricordo valeva a domargli l'immensa ira che gli tumultuava in petto.

Fintanto che Flavio si trovò nelle braccia un freddo cadavere.

Lo compose in allora dolcemente sull'erba e si alzò.

I padrini e Gervaso udirono la confessione del sedicente conte.

Nicodemo parve il più meravigliato di tutti; con una mano premevasi la fronte quasi per costringere la memoria a sovvenirgli un fatto del quale non gli restava che una vaga rimembranza.

—È strano, ripeteva ad ogni istante, quei particolari io li conosco.

Intanto Flavio e Gervaso si fissarono un momento con espressione dolce, serena, affettuosa.

Si mossero incerti ma d'accordo un passo incontro, ed infine non potendo più oltre resistere a quella naturale simpatia che s'inspiravano reciprocamente, si gettarono ambedue le braccia al collo.

—Zio mio!

—Mio nipote!

Ed i loro occhi versavano lagrime di tenerezza.

In questo punto Nicodemo mandò un grido di gioja.

—Ah ci sono, ci sono, proruppe il buon uomo saltellando come un fanciullo attorno a Gervaso. Ma se lo dico io, ho una memoria che fa concorrenza a quella d'un creditore!

L'attenzione di tutti si fermò su Nicodemo.

—Sentite Gervaso, continuò, veramente dovrei incominciare a chiamarvi signor conte, ma per ora permettete, sto forse per rendervi un'immenso servigio e la gioja mi confonde le facoltà mentali. Sentitemi adunque e rispondete sinceramente, come lo fareste col vostro confessore, non ve ne pentirete certo. Vi ricordate ancora in qual giorno preciso successe quel duello nell'anno 1778?

—Fu un venerdì del mese di Giugno. È una data fatale ch'io non ho mai dimenticata.

—Benissimo, proruppe Nicodemo, fin qui siamo d'accordo. E l'ora, dite, ve la rammentate?

—Alle otto circa del mattino.

—Di bene in meglio. E la località precisa?

—Nel boschetto di fronte alla porticina segreta del castello Sampieri in Magenta.

Gervaso cadde in profonda meditazione.

—Ebbene, proseguì Nicodemo, non c'è d'attristarsi, quel duello vi fu fatale, è vero, ma io vi porto una splendida, dico… riabilitazione.

—Spiegatevi!

—Ecco: io sono oriundo di Magenta, ho là i miei antenati. Diciott'anni or sono precisamente in un venerdì di Giugno io me n'andava ad assistere, dico… a certi lavori che si facevano su' miei fondi e rasentando il castello Sampieri attraversava il boschetto di tigli. Allorquando scorgo un ufficiale tedesco disteso al suolo in un lago di sangue. Fremo inorridito e mi dispongo a ritornare indietro onde avvertire la autorità del paese, ma qual fu la mia meraviglia nel scorgere una carta fra le dita contratte del cadavere. Credendo ch'essa potesse darmi dei ragguagli intorno a quell'avvenimento mi armo di coraggio, che a dir vero non mi abbandona mai nei momenti solenni, mi chino sull'ufficiale e non senza un certo ribrezzo gli tolgo la carta delle mani. Vi stavano vergate poche parole in carattere rosso; sembravano scritte col sangue. Compresi che quel foglio sarebbe stato un giorno utilissimo a voi, quantunque non vi conoscessi ancora, e l'ho conservato.

—Le parole, la parole! chiede Gervaso con ansia indicibile.

—Sono queste testualmente: Alberto Sampieri battutosi meco in duello si è comportato da leale gentiluomo. E sotto una firma che quella poi non ho saputo leggere.

—È la provvidenza che fa cadere nelle vostre mani quel prezioso documento! disse Flavio a Gervaso reso attonito dalla sorpresa.

—Scusate signore, osservò Nicodemo, non è la provvidenza, sono io che in riguardo alla intensa amicizia che da tanti anni mi lega con nodo dolcissimo al…

—Non bisogna perder tempo zio mio, interruppe Flavio, è necessario presentarsi subito ai tribunali e giacchè ne avete il diritto invocare un processo che vi restituisca l'onore così ingiustamente rapito. Ora che so di non aver più padre, ch'io possa almeno trovare in voi mio unico parente quel tesoro di gioje che sono gli affetti domestici.

Gervaso gli stese cordialmente la mano.

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Il giorno dopo tutti i giornali di Milano narravano come una sincope avesse freddato il conte Renato Sampieri nella sua villa di Melzo.

CAPITOLO XII.

… L'impetuosa Burrasca s'è calmata; brilla un raggio di luce verso l'occidente, ne più il folgore balena al disopra dei monti. Il cupo fragore dell'uragano più non mugge che in lontananza; all'orizzonte, dalla parte d'oriente, le nubi s'ammonticchiano e omai l'azzurro dei giorni sereni è ricomparso. Visconte D'ARLINCOURT.

Portiamoci adesso nello stanzino dei nostri portinaj e gioiremo d'una scena edificante di pace e d'amore.

Vi stanno raccolti Maddalena, Erminia e Flavio; i due amanti siedono molto vicini ed il loro viso esprime una gioja calma, sincera, innocente.

Maddalena è posta un po' in disparte; finge occuparsi in un lavoro d'ago, ma i suoi occhi sono fissi in volto alla figliuola e gode la povera madre contemplando quelle guancie su cui sembrano ritornate le rose della salute.

Flavio cerca con una mano la mano della giovinetta che glie l'abbandona con gaudio trepidante; le loro vergini anime sossultano d'amore.

—Tu sarai mia, le mormora Flavio, oh la bella vita a te daccanto!

—Non è un sogno codesto?

—No, è la più ridente realtà. Oramai nulla più m'impedisce d'amarti.

—Flavio!

—Voglio averti sempre al mio fianco, vivere con te… di te, per te! Oh, io t'amo come nessuno mai ha amato quaggiù.

—Ho tanto sofferto!

E la fanciulla fissava in volto al giovine uno sguardo mesto, affettuoso, affascinante.

Flavio attratto dal magnetismo di quello sguardo si chinò lentamente su di lei e stava per deporle un bacio sulla fronte purissima, se non che Maddalena, che non perdeva d'occhio gl'innamorati proruppe in un studiato accesso di tosse.

Flavio si ricompose.

Vi fu un'istante di silenzio ma i due giovani avevano troppe cose a dirsi per lasciar scorrere inutilmente il loro tempo.

—Come sei bella Erminia, ricominciò Flavio divorandola cogli occhi; sei sempre la vereconda ch'io vidi per la prima volta a Monza sotto l'abito modesto di collegiale.

—Mi ricordo anch'io di quel bel giorno; tu mi seguisti in Chiesa.

—Un tuo sguardo bastò per affascinarmi, ti vidi Erminia e t'amai. Oh, io non potrei ridirti quello che ho provato in allora a te vicino nel raccoglimento santo del Tempio! Io non potrei ridirti i palpiti del cuore, la commozione soave, l'estasi ineffabile ond'io mi sentiva rapito contemplandoti bella di tua celestiale bellezza, divotamente leggendo un libriccino di preghiere! Era un primo amore, chi può descriverne le sublime dolcezze?

—In quel giorno tentai inutilmente di rivolgermi al Signore. Tu eri sempre là davanti a' miei occhi, li chiudeva gli occhi, ma ti vedeva lo stesso.

—Platone comprese un mistero divino quando affermò le anime destinate ad amarsi ricevere prima di nascere in Cielo l'impronta della creatura diletta. Noi ci ameremo sempre e d'un amore immenso…

—Oh sì, immenso; ripeteva la fanciulla rapita in una dolce esaltazione.

—Eterno… continuava Flavio.

—Eterno.

—Correremo indissolubilmente uniti e felici l'azzurro sentiero della vita.

—Uniti e felici!

E la tenera Erminia frenava in volto a Flavio i suoi grand'occhi azzurri sfolgoranti d'amore e questi non potendo resistere alla piena d'affetti che gli tumultuava in cuore tentò una seconda volta di rapirle un bacio.

Se non che Maddalena dava sfogo ad un altro accesso di tosse che valse ad arrestare negli amanti un'espansione un po' troppo precoce.

La portinaja per non vedersi costretta a tossire una terza volta si portò più vicina ai due giovani, gioiendo però in cuor suo di quella reciproca simpatia che premetteva tanti bei risultati. E disse:

—Non vi pare figliuoli miei che si facciano aspettare?

—Chi? domandarono ad una voce Flavio ed Erminia.

—Oh bella, ma papà Gervaso, ma mio marito, ma tutti; vi dimenticate che quest'oggi è l'ultima seduta del tribunale? che quest'oggi deve sortire la sentenza? Ma signor Flavio si tratta di suo zio.

—Lo so, lo so; rispose Flavio arrossendo suo malgrado. Sono tre giorni che le autorità si occupano di mio zio, la sua innocenza sembra ormai provata mediante quell'autografo che ci ha inviato il cielo, la sentenza non può essergli sfavorevole, sarà riabilitato, sono diciott'anni che soffre, povero zio.

—È vero, mormorò Maddalena rispondendo a lontane e dolorose reminescenze, s'egli ha commesso un fallo lo ha pur anche crudelmente espiato.

—Tutta Milano vedrà che l'assassinio sotto la cui accusa visse per tanto tempo non fu altro che un leale duello al quale non poteva sottrarsi senza commettere una viltà.

Maddalena trasse un sospiro.

—Egli fu villanamente insultato, continuò Flavio. Quello però che mi ha molto sorpreso fu l'abilità di mio zio ad esonerarsi dal riferire la causa che spinse l'ufficiale tedesco a quella provocazione.

—Oh la causa! la causa! mormorava la portinaja guardando sua figlia con uno sguardo melanconico.

Succede un momento di silenzio durante il quale si ode una carrozza fermarsi davanti alla casa.

Maddalena corre alla porta, ma questa si spalanca e lascia entrare Nicodemo, Bastiano e papà Gervaso.

La gioia sfolgora in volto a tutti ed è Bastiano il primo che la lascia irrompere.

—Vittoria, vittoria,—si mette a gridare con quanta voce ha in gola—ampia soddisfazione, gran metamorfosi; papà Gervaso è diventato il conte Sampieri…

—Sicuro, gran metaformosi, interruppe Nicodemo scartando con una mano il portinajo e facendosi gravemente innanzi. Figliuoli miei, come il bruco ai raggi del sole diventa farfalla, così in quest'oggi papà Gervaso al tribunale divenne…

—Presto Maddalena, ajutami a portar fuori il mio banchetto, al diavolo queste ciabatte, spazza via tutta sta roba che sa di pece, ma ti pare che si possa ricevere così un conte, un milionario?

Il buon uomo s'affaccendava davvero a porre in assetto la camera.

—Zio mio, devo credere? domandò Flavio stendendo la mano a papà Gervaso.

—Tutto, tutto, rispose il vecchio abbracciando suo nipote. Mi restituirono l'onore ed i miei beni, ho finito di soffrire… mio Dio vi ringrazio!

—To', To', ma il signor conte soffriva forse quand'era con noi? chiede scherzando Bastiano.

—Che bestia, non aveva forse la sua gamba inferma? osservò Nicodemo sul serio.

—Ah, è vero, proseguì il portinajo, demonio d'una gamba!

—È un ricordo del mio esilio, rispettatelo; disse Gervaso.

—Povero zio, dover subire una lunga condanna e non meritarla!

—Fu volere di Dio, e Dio è giusto.

Papà Gervaso lanciò di nascosto una mesta occhiata a Maddalena che chinando la testa parve comprenderne il significato.

—Oh se sapeste, continuò il vecchio, quanto è amara la vita dell'esilio! Abbandonare la patria, i parenti, gli amici, per vivere ramingo in suolo straniero fra gente straniera! Nessuno ha un sorriso, una parola amica pel povero esiliato, la natura stessa è muta e triste a suoi sguardi. Invano egli cerca una città che gli rammenti quella che lo vide nascere; invano un villaggio che gli ricordi i bei giorni passati nelle pure esultanze della campagna. Tu incontri dappertutto e monti e laghi e pianure, ma non trovi la collinetta aprica su cui solevi ne' tuoi anni felici respirare la fresca brezza della mane, assistere allo spettacolo stupendo del sole nascente. Non trovi la pianura che ricordi la tua infanzia, allorquando nella purezza d'un candido cuore t'abbandonavi senza cure a' tuoi giuochi innocenti. Non l'azzurro lago che l'accolse commosso nel leggiero canotto…

«Lasciai l'Italia e corsi la Svizzera. Mi seguiva dovunque la maledizione degli uomini e m'era compagna la miseria. Quante volte stanco e spossato ne' miei viaggi senza scopo su quelle infinite multiformi montagne ho battuto alla porta del montanaro chiedendo in elemosina un tozzo di pane ed un giaciglio per la notte. Ed il montanaro mi guardava dubbioso e più per paura che per compassione mi gettava il pane e mi mostrava della paglia.

«Dalla Svizzera passai in Spagna. La natura fu prodiga in quel paese de' suoi immensi tesori; ha dato un cielo sempre azzurro, un sole ardente, una terra feconda, eppure io mirava la natura senza che l'anima dentro mi tremasse… Non era il cielo, il sole, la terra della mia patria. Credetti trovare in quel clima dolcissimo degli uomini più dolci, ma l'esule incontra sempre sventura.

«Finalmente seppi come in Francia si stesse componendo un esercito che capeggiato da Napoleone doveva scendere in Italia. Si trattava di muover guerra all'Austria che per tanti anni teneva avvinta la patria nelle catene del più duro servaggio. Mi sentii ribollire nelle vene il sangue italiano ed accendermi indomito desiderio di prestare il mio braccio al riscatto dei fratelli. La santità della causa mi ritornò il coraggio e le forze. Mossi verso la Francia e non camminava più curvo sotto l'avvilimento e la vergogna, ma la fronte alta, fiero di me stesso e del nobile pensiero che guidava i miei passi. Vestii la divisa del soldato, con qual gioia! Essa mi riabilitava a' miei occhi.

«Arrivò il sospirato giorno della partenza; erano trentamila uomini che raggianti di gioventù e di entusiasmo movevano baldi alla vittoria. Valicammo le Alpi e ci battemmo a Monte Legino, a Montenotte, a Millesimo, a Dego. Nulla poteva resistere al valore dei francesi, le loro armi erano invincibili. I popoli redenti ci accolsero con gaudio e noi ci spingemmo in pochi giorni fin sotto Lodi. Quì fu data ancora battaglia ed ostinata e sanguinosa più che mai. Ci abbisognò lottare contro forze di molto superiori alle nostre, ma alla deficienza del numero suppliva l'eroismo e la vittoria non tardò a sorriderci. Coperto di sudore e di polvere ma gagliardo sempre di forze e di slancio io era fra i primi all'assalto, ma la fortuna cessò d'essermi amica. Una palla mi colpì al ginocchio e vinto dallo spasimo caddi privo di sensi.

«Allorquando rinvenni mi trovai all'ospedale di Lodi ove rimasi molto tempo prima di poter ricuperare la salute. Mi alzai dal letto ma la mia gamba si sovveniva ancora della crudele ferita; presi una gruccia e non m'abbandonò più mai. Ebbi però una gioia in questo frattempo, una gioia ineffabile cui pochi è dato di godere; fu di vedermi fregiato della medaglia dei forti. La Repubblica testimoniava il mio valore.

«Libero di me stesso, sciolto dal servizio militare, mi strascinai a stento infino a Milano ove esaurite le mie poche risorse. Dovetti ricorrere ancora alla pubblica carità; come mi augurava d'esser morto sul campo! Ma un giorno una mano benefica si stese verso di me e fui accolto in questa casa, ove trovai per più anni pace, lavoro ed affetti.

«Amici, quì nelle mie braccia, è giunta l'ora della ricompensa, l'ora in cui la virtù dev'essere giustamente premiata.»

E Papà Gervaso stringeva in un affettuoso amplesso Bastiano e Maddalena.

—Io sono ricco, proseguì Gervaso, immensamente ricco, ebbene voi dividerete con me le mie agiatezze siccome ho diviso finora il vostro pane. Flavio sposerà Erminia che io adotto da questo istante…

Un grido di gioia partì dai due innamorati che si gettarono pieni di riconoscenza al collo del buon vecchio.

Bastiano e Maddalena fatti ebeti dalla sorpresa rimasero immobili cogli occhi spalancati e la bocca semiaperta.

—Io venderò la mia casa in Milano ed il castello di Magenta che mi richiamano troppo tristi rimembranze e compererò invece una vasta possessione che si trova in vendita in un punto amenissimo della nostra Brianza. Voglio vivere colà il restante della vita nella cara compagnia de' miei buoni amici. Non è vero Bastiano, non è vero Maddalena, che non abbandonerete il povero vecchio mentre ha così tanto bisogno di obbliare i suoi dolori?

—Che? abitare con voi in un bel palazzo ed in campagna?… oh fate da burla, voi scherzate…

—No, Bastiano, è sul serio ch'io parlo. Voi e vostra moglie troverete presso di me quegli agi e quella pace che vi siete meritati.

—Maddalena, Maddalena, gridava il portinajo, ma senti? di su qualche cosa, parla tu… io, accetterei volentieri io, ma ho paura… ho paura d'abusare di tanta bontà.

—Infatti signor conte… mormorò Maddalena imbarazzata…

—Ma che signor conte! per voi sono sempre papà Gervaso il vostro migliore amico. Orsù adunque, la cosa è combinata, noi partiremo fra pochi giorni. Che diamine, aver una figlia contessa ed abitare un tugurio!

—Mia figlia contessa! oh Dio, Dio, questo è un sogno! esclamava Bastiano.

—Erminia, tu sarai felice; prorompeva Maddalena abbracciandola.

—Amala Flavio, proseguì Gervaso—e ti serbi il santo orgoglio di non costarle mai una lagrima sola.

—Oh, zio mio ve lo giuro, ella sarà sempre la mia più dolce cura.

—Nobile cuore! mormorava la giovinetta.

Ed i due giovani si diedero il bacio di fidanzati.

—Voi resterete in città nel vostro bel palazzo, continuò Gervaso, la capitale conviene di più a due sposi novelli.

—Abbandonarvi mio zio!

Flavio lanciò un'occhiata ad Erminia; era una domanda e la fanciulla vi rispose con un sorriso.

—No, no, proruppe allora il giovine, noi faremo una famiglia sola; lungi dai rumori assordanti della capitale noi troveremo la vera felicità nel tranquillo seno della natura.

—Tu hai una moglie giovine e bella, disse Gervaso, può darsi che preferisca le passeggiate lungo il corso a quelle in mezzo ai campi, che preferisca i teatri i salons, le feste da ballo alle lunghe sere passate accanto al fuoco raccontando storielle.

—Io sarò vicina a' miei parenti ed a voi, disse Erminia fissando il vecchio con affetto, dove volete adunque ch'io trovi un soggiorno più aggradevole.

—Ebbene sia pure come volete.

—Oh Erminia, t'avrò ancora con me! proruppe Maddalena trasportata dalla gioja.

—Voi altri non crederete, esclamò Bastiano, ma io continuo a fregarmi gli occhi, che temo sempre di sognare.

—E voi signor Nicodemo cosa fate lì in piedi, muto, immobile come una statua? disse Gervaso portandosi vicino al maggiordomo.

—Cosa faccio? contemplo tanti volti raggianti, dico… di beatitudine e mi delizio solingo al bel panorama.

—Noi partiamo, non vi rincresce restar qui solo?

—Sicuro che mi rincresce, anzi ne ho il cuore ulcerato, ma siccome non posso seguirvi così ho deciso di rimanere.

—Sentite, continuò Gervaso, mi abbisognerebbe un fedel intendente che prendesse cura de' miei affari, che io avrò tutt'altro per la testa; volete voi occupare un tal posto? Avrete alloggio e tavola con noi, più il doppio dello stipendio che percepite adesso dal vostro padrone.

—Dite davvero? Ed io diventerò l'intendente di casa Sampieri? Oh se accetto, e con inaudita riconoscenza!

—Bravo Nicodemo.

—Amici sono ancora con voi! gridava il maggiordomo abbracciando con ingenuo trasporto i portinaj.

—Ma è una diserzione in massa adunque che facciamo! osservò scherzando Gervaso.

—È vero, soggiunse Bastiano, ci mancherebbe l' Aquila eppoi ci siamo tutti.

—Pregheremo il nostro intendente a non farcene rammaricare la lontananza.

—Lasciate fare a me, dedicherò alla cantina le più sapienti cure. Ma un momento… oh Dio, mi scordavo!

Ed il maggiordomo assumevasi un'aria di comica serietà.

—Cosa c'è? gli chiese Gervaso.

—Ecco; lei signor conte papà Gervaso non sa ancora Com'io sia legato da verbali antecedenti con Marta la cameriera in punto ad una promessa di matrimonio. Ho impegnato la mia parola e capirà bene un galantuomo non può mancarvi. Epperò dico… se lei mi permettesse…

—Capisco, di menarvela dietro!

—Appunto, ma in qualità di mia moglie.

—Eppure una volta avete avuto il coraggio di anteporle un'altra. E Gervaso indicava coll'occhio Erminia.

—Zitto, zitto per carità, non rammenti certe cose che amo meglio porre in obblio.

—Sposate pure la vostra Marta, briccone e fatela contenta.

—Oh grazie! Corro subito a premunirla dell'inaspettata fortuna.

Gervaso approfittando d'un momento in cui tutti fattisi intorno a Nicodemo si congratulavano pel suo matrimonio, s'avvicinò a Maddalena e prendendole dolcemente la mano le disse in tuono di mesta compunzione.

—Maddalena, io ebbi un giorno dei gravi torti verso di voi; mi avete perdonato?

—Riconosceste nostra figlia, rispose la buona donna arrossendo; io vi perdono.

Pochi giorni dopo la nuova famiglia partiva per Merate dove li aspettava una bella casetta ed amene possessioni.

Flavio ed Erminia celebrate le nozze vissero sempre in un esemplare accordo.

Ebbero dei figli che furono tutto il loro amore e la delizia del Nonno, come Gervaso voleva essere chiamato dai nipotini.

Maddalena ritornò all'antico buon umore, al suo carattere schietto e qualche volta un tantino bisbetico.

Bastiano ajutava Nicodemo nell'amministrazione dei beni, occupandosi preferibilmente di ciò che riguardasse la cantina.

Marta sposò l'intendente e dopo due anni di speranze gli regalò un bel ragazzo che sfortunatamente fu l'ultimo.

Mai la più leggera nube venne a turbare la bella armonia che regnò sempre in quella famiglia.

FINE.