LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO (1849-1861) I.

LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO

(1849-1861)

QUARTA SERIE

I.

STORIA.

Federazione e Unità. Ernesto Masi.

Gli eroi della Rivoluzione. Francesco S. Nitti.

Dalle dieci giornate di Brescia alla battaglia di San Martino. Pompeo Molmenti.

Il Re galantuomo. Domenico Oliva.

FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO LIBRAI-EDITORI — 1901.

PROPRIETÀ LETTERARIA

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firma manoscritta

Firenze, 1901. — Società Tip. Fiorentina, Via S. Gallo, 33.

INDICE

FEDERAZIONE E UNITÀ

CONFERENZA DI ERNESTO MASI. Il 18 febbraio 1861 s'adunò per la prima volta in Torino il Parlamento dell'Italia — «libera ed unita quasi tutta,» — come disse con voce sonora Vittorio Emanuele, e sento ancora nell'orecchio e nel cuore quelle parole e lo scoppio di grida entusiastiche, con cui furono accolte.

Pochi giorni dopo, il 17 marzo 1861, fu promulgata una legge d'un solo articolo: «Il re Vittorio Emanuele II assume per sè e suoi successori il titolo di Re d'Italia».

Nel presentarne il progetto ai deputati, il Conte di Cavour scriveva nella relazione, che lo precede: «un gran fatto s'è compiuto; una nuova èra incomincia!»

E il relatore parlamentare, Giambattista Giorgini: «ci sono delle oasi nei deserti della storia, diceva, ci sono nella vita delle nazioni dei momenti solenni, che potrebbero chiamarsi la poesia della storia; momenti di trionfo e d'ebbrezza, nei quali l'anima, assorta nel presente, si chiude ai rammarichi del passato, come alle preoccupazioni dell'avvenire.

«Rendiamoci una volta giustizia! Quanti sediamo su questi scanni, tutti abbiamo diversamente lavorato per la medesima causa; tutti abbiamo portato la nostra pietra al grande edifìzio, sotto il quale riposeranno le future generazioni. Qui i volontari di Calatafimi potrebbero mostrarci sul petto le gloriose cicatrici; qui i prigionieri di Sant'Elmo, intorno ai polsi, il callo delle pesanti catene; qui colla canizie, colle rughe precoci, oratori, scrittori, apostoli di quella fede, che fece i soldati ed i martiri; qui i generali, che vinsero le nostre battaglie, qui gli uomini di Stato, che governarono le nostre politiche: di qui parta unanime dunque (un) grido d'entusiasmo; qui finalmente l'aspettata fra le nazioni si levi e dica: Io sono l'Italia! »

Enfasi magniloquente, che però era allora di stagione (adesso par di leggere una delle Epistole famigliari, varie o senili del Petrarca); enfasi, che allora altresì, cosa insolita, era perfettamente esatta: il fatto grande e nuovissimo nella nostra storia, il sentimento di gioia suprema, che suscitava in tutti, dal re all'ultimo popolano, la presenza di tutti i principali uomini, che in tanti modi diversi vi avevano cooperato. V'erano tutti in realtà. Non mancavano che Garibaldi e Mazzini.... Peccato!

Volle sottolineare tale mancanza il Brofferio, vecchio avversario del Conte di Cavour, accusandolo d'avere con questa legge usurpata un'iniziativa, che spettava tutta invece alla rappresentanza popolare. Il Cavour sentì il colpo e fieramente lo parò. «Tutti gli Italiani,» rispose, «hanno avuto parte nel gran dramma del nostro risorgimento, ma mi sia pur lecito dirlo e proclamarlo con profonda convinzione; negli ultimi avvenimenti l'iniziativa fu presa dal governo del Re.... Fu il governo, che prese l'iniziativa della campagna di Crimea; fu il governo del Re, che prese l'iniziativa di proclamare il diritto d'Italia nel Congresso di Parigi; fu il governo del Re, che prese l'iniziativa dei grandi atti del 1859, in virtù dei quali l'Italia s'è costituita». Perciò, concludeva con altre parole, anche l'iniziativa di proclamare l'unità nazionale spetta al governo del Re.

E perchè no? Si millantava forse il Conte di Cavour? Senza quelle iniziative, tutte sue (e notate che tacque della campagna delle Marche e dell'Umbria) l'impresa di Garibaldi in Sicilia e Napoli sarebbe essa stata mai neppure possibile? Dell'unità nazionale non v'ha dubbio, il più antico e perseverante apostolo era stato il Mazzini, e quindi era egli pure un grande coefficente di ciò che ora accadeva, ma chi avrebbe potuto sul serio, nell'ordine dei fatti, paragonare l'opera del Conte di Cavour coi tentativi del Mazzini dal 1833 insino allora?

Se non che il partito radicale e ultra-democratico, di cui in quel momento si facea interprete il Brofferio, avea sempre capito così poco il Conte di Cavour da parergli la maggiore accusa, che gli si potesse fare, essere appunto questa, ch'egli fin dalla culla non era stato e ad ogni costo unitario, che, piemontese e monarchico innanzi tutto, sfruttava ora l'opera d'altri a beneficio dell'antica politica dinastica del carciofo, e affrettava le annessioni e l'unità italiana con lo zelo del neofita, dell'operaio dell'ultim'ora, del convertito da un improvviso raggio di sole sulla via di Damasco.

Tuttociò, se fu detto o scritto in buona fede (del che è lecito per molti di dubitare) è stolto ed insipiente in sommo grado, e non merita altra risposta se non quella che mi rammento aver io stesso sentita dare da Ruggero Bonghi ad un amico, progressista repubblicaneggiante, cui pareva aver trovato l'Achille degli argomenti contro la memoria del Conte di Cavour.

Passeggiavamo di piena estate in una campagna e dopo aver molto discusso: — Insomma, — sclamò quel tale, — Mazzini credeva fino dal 1832 all'unità italiana e il Conte di Cavour no. Ora all'ultimo chi ha avuto ragione? — Senti; — rispose il Bonghi — se tu in questo momento dici: «credo che nevica,» per certo dici una sciocchezza. Ma se seguiti a dirla fino a quest'inverno, e nevica, come di solito, e tu vuoi vantarti: «vedete, se avevo ragione?;» ne dici un'altra, e son due. Per oggi basta! —

Così è in realtà, e lasciando stare ciò che il Conte di Cavour abbia pensato e creduto in gioventù, perchè mai il giorno dopo Novara sarebb'egli stato unitario o federalista? chi sapeva, dopo quell'immensa ruina del 1848 e 49, che cosa sarebbe accaduto? Qual'è la dottrina, che s'era salvata? quale il partito politico, che non fosse stato sconfitto, benchè tutti avessero fatte lo loro prove? La grandezza maggiore, l'originalità vera del Conte di Cavour stanno appunto in quella piena libertà di spirito, con cui pigliò l'impresa italiana. Non una tradizione lo preoccupava, non un impegno settario lo impediva, non una vecchia dottrina tiranneggiava i suoi pensieri. Sentiva, e profondamente sentiva, tutta l'immensa miseria della vita italiana; solamente non avvertiva forse tutto il guasto, che tre secoli di servitù aveano arrecato al carattere nostro e perciò potè procedere più franco, più sicuro, più espedito d'ogni altro. La sua cultura era principalmente inglese e francese; i suoi viaggi erano stati tutti all'estero; l'Italia gli era quasi ignota, e tuttavia essa era in cima d'ogni suo pensiero. Ciò pure, direi, gli ha giovato. Gran parte delle incertezze di Massimo d'Azeglio, che avea vissuto a Roma, a Firenze, a Milano, a Napoli, gli proveniva dal conoscere troppo bene gli Italiani. L'audace confidenza del Conte di Cavour dal conoscerli poco; lo ha notato lo stesso Garibaldi. Non è un complimento per gli Italiani, ma sempre più ogni giorno che passa la credo una verità! Per questo il Conte di Cavour fu tra gli Italiani un fenomeno così straordinario. Non soltanto la potenza della mente lo singolareggiava fra tutti. Altri uomini di mente potentissima e per certi rispetti superiori a lui, non mancavano di certo all'Italia. Bensì l'organismo stesso della sua mente, la forma della sua cultura, la tendenza, la disposizione del suo spirito, il modo, con cui afferra, esamina, risolve ogni questione, che gli si presenti, tutto questo esser suo, così fondamentalmente diverso anche dalle più insigni varietà dell'ingegno italiano, fa del Conte di Cavour un fenomeno; fa sì ch'egli venga tardi sulla scena politica, che in sua gioventù e durante la rivoluzione del 1848-49 rimanga un po' appartato, che nonostante la perspicuità somma delle sue idee e delle forme, nelle quali le espone, apparisca per molto tempo agli avversari politici, ed anche uh poco agli amici, una specie di enigma, a cui si cercano mille assurde spiegazioni, ora titolandolo un anglomane (il Brofferio e compagni lo chiamavano Lord Cavour ) ora un reazionario, ora un municipalista; fa sì che tra la stessa aristocrazia, donde usciva, lo si giudichi ne' suoi primordi un cervello torbido e fuor di squadra, a Corte un Giacobino in ritardo e fra la diffidente borghesia liberale del Piemonte, che avea tante rivendicazioni da fare, un personaggio sospetto e da mettere in quarantena. Chi prima di tutti lo indovinò e lo preconizzò fu Vincenzo Gioberti, stato già suo avversario politico, ma che gli rese giustizia con quelle parole del Rinnovamento Civile scritte nel 1851: «quel brio, quel vigore, quell'attività mi rapiscono e ammiro lo stesso errore magnanimo di trattare una provincia, come fosse la nazione, se lo ragguaglio alla dappocaggine di coloro, che ebbero la nazione in conto d'una provincia. Io lo reputo per uno degli uomini più capaci, dal lato dell'ingegno, di cooperare al principe nell'opera di cui ragiono.»

Ma di quale ingegno parlava il Gioberti? Perocchè su questa qualità così generica dell'ingegno, di cui a volte non sono privi neppur quelli che in sostanza non ne azzeccano mai una, e i tristi poi ne sono per lo più forniti a dovizia, anche su questa, dico, qualità generica dell'ingegno, bisogna intendersi. E quale propriamente fosse l'ingegno del Cavour niuno l'ha detto con più finezza di Isacco Artom, uno dei suoi collaboratori più modesti e più intimi. «Egli non si proponeva mai,» scrive l'Artom, «una mèta immaginaria e inaccessibile, ma nel tempo stesso egli non si contentava mai di conseguire meno del possibile. Il suo sguardo non oltrepassava mai i confini del reale, ma il reale era pel suo genio orizzonte ben più vasto, che non sia per gli altri uomini!»

Dio ci mandò, o signore, il Conte di Cavour (diciamolo a costo di pagare cinquanta centesimi a Rabagas, come nella commedia del Sardou) Dio ci mandò il Conte di Cavour, appunto perchè la rivoluzione italiana non si perdesse più ad almanaccare a priori di monarchia e di repubblica, di tradizioni storiche e di profezie letterarie, di federazione e di unità, ma tratta fuori da tutti i vecchi solchi, nei quali s'era malamente e le tante volte smarrita, uscisse finalmente dalla catalessi dei fanatici e dei solitari ed entrasse in un periodo di effettuale realtà, contasse sul possibile ed anche sull'osare a tempo, ma non farneticasse più sui milioni d'armati, che abbiano a sbucar di sotterra, su cataclismi, che abbiano a subissar mezzo mondo, su idealità vaghe e in tale contrasto con tutto il fuori di noi da farci parer sempre ubbriachi e sonnambuli, che battono capate in ogni spigolo di muraglia, o eroi metastasiani che trinciano l'aria col brando, ma non confidano che nella clemenza delle stelle.

Credete voi che in Italia ci volesse poco a persuadere d'un simile trapasso dal regno dei sogni a quello della realtà i milioni di Arcadi e d'analfabeti, dei quali Pasquale Villari potè tirare una somma spaventevole anche quattordici anni dopo?

Quando il Conte di Cavour inaugurò nel Piemonte quella politica di egemonia nazionale, che ha fatto l'Italia, non era forse nella sua mente alcun disegno preventivamente fissato con linee troppo rigide. Pei radicali e gli ultra-democratici ciò costituiva la sua grande inferiorità rispetto a loro, e fu invece la sua originalità e la sua forza. Amava con passione la patria, e due cose tenea per certissime: l'impotenza del riformismo dottrinario e del rivoluzionarismo alla Mazzini, e la necessità che il Piemonte s'inalzasse tanto nell'opinione pubblica europea da imbrigliar esso la rivoluzione a vantaggio della sua politica e da poter trattare da pari a pari con la diplomazia, nonostante che il fine della politica piemontese fosse quello di stracciarle sul muso i suoi trattati e di sconvolgerle e rovesciarle il maggiore di que' suoi accomodamenti posticci del 1815, alla perpetuità dei quali, con una boria non meno pazza di quella dei rivoluzionari di mestiere, era solita d'aggiustar piena fede.

Una cosa sola, del resto, m'è sempre parso ch'egli, al pari di Carlo Alberto e di Cesare Balbo, considerasse come assoluta: la necessità di cacciar l'Austria dall'Italia. Quanto al programma unitario, però, non è vero ch'egli del tutto lo respingesse. Nel 1856 vide a Parigi Daniele Manin, che gli divisò il suo nuovo programma: « Indipendenza, Unità e Casa di Savoia. » Lo giudicò alquanto utopistico, ma già i grandi risultamenti morali e politici da lui potuti ottenere nel Congresso di Parigi, avevano talmente slargate le sue speranze, che nell'anno stesso in un segreto colloquio col Lafarina il quale era tutto inteso, insieme col Manin, col Pallavicino e quindi con Garibaldi, a fondare su quel programma una Società Nazionale da surrogare alla Giovine Italia del Mazzini: «ho fede, gli disse, che l'Italia diventerà uno Stato solo e che avrà Roma per sua capitale, ma ignoro se essa sia disposta a questa grande trasformazione.

«.... Faccia la Società Nazionale; se gli Italiani si mostreranno maturi per l'unità, io ho speranza che l'opportunità non si farà lungamente attendere, ma badi che dei miei amici politici nessuno crede alla possibilità dell'impresa. Venga da me quando vuole, ma prima di giorno e che nessuno la veda e che nessuno lo sappia. Se sarò interrogato in Parlamento e dalla diplomazia, la rinnegherò come Pietro e dirò: non lo conosco».

Eccolo anche cospiratore. Avea tutte le corde al suo arco e, contro il suo solito, si vantò appunto d'aver cospirato colla Società Nazionale nel suo secondo gran discorso su Roma capitale. In Piemonte, come associazione consentita dalle leggi, la Società Nazionale fu pubblica; segreta invece nelle altre parti d'Italia, essa però non adottò nessuna delle forme delle antiche sètte, nè sottopose gli adepti a nessun altro vincolo morale, salvo accettare il programma: « Indipendenza, Unità e Casa di Savoia ». E che una cospirazione politica, la quale si proponeva di raccogliere in una nuova concordia le sparse forze del paese e ai Mazziniani, in compenso della Monarchia, offriva l'unità nazionale, ai conservatori liberali, in compenso dell'unità, offriva la monarchia, a tutti l'indipendenza dallo straniero, che una cospirazione politica, dico, dovesse contrapporre alle antiche sètte un nuovo Credo molto determinato, si capisce bene.

Ma come avrebbe potuto il Conte di Cavour vincolarsi palesemente altrettanto? Non andrà un anno poco più, e all'ombra dei grandi alberi di Plombières sentirà offrirsi l'alleanza francese e la guerra immediata a prezzo d'una confederazione di tre Stati sotto la presidenza del Papa.

E che cosa sarebbe avvenuto dell'Italia, s'egli avesse rifiutato? A buon conto, da un progetto impossibile di confederazione uscirono Magenta e San Martino, e dalla guerra malamente troncata a Villafranca uscì l'unità italiana.

Ma dicono non soltanto gli avversari del Conte di Cavour, bensì altri molti: «No; l'unità politica dell'Italia s'è fatta malgrado il Conte di Cavour, e s'è fatta perchè l'unità era la grande, la vera, l'unica tradizione di tutta la storia italiana».

Non so se il Conte di Cavour, ma tutti, dal più al meno, siamo un po' passati per questa fisima; tutti, dal più al meno, siamo colpevoli d'aver bruciato qualche granello d'incenso rettorico a questa fisima; alla quale si contrapponeva poi un'altra scuola, cattolico-liberale o razionalista e repubblicana, che nella storia d'Italia pretendeva invece a trovare la tradizione federale. Non ne facciamo colpa a nessuno; forse anzi è un merito patriottico. Chi mai prima del 1859 poteva occuparsi di storia d'Italia senza un sottinteso politico? e questo sottinteso non dovea essere il programma del proprio partito? Perocchè v'ha bensì mia verità storica, ma purtroppo vi possono essere pure tante interpretazioni soggettive, quanti sono gli storici. Dio mi guardi dal dire che con la storia alla mano si possa ugualmente provare il ed il no, ma certo è che nell'immenso arsenale dei fatti della storia si possono trovare argomenti per tutte le cause, armi offensive e difensive per tutti i partiti, e sarebbe facile citarne esempi, specie fra gli scrittori di nostra storia contemporanea, italiani e stranieri. C'è insomma una rettorica dei fatti e secondo il modo di aggrupparli e farli apparire, ci sarebbe talvolta da credere, che si possano scrivere su documenti identici due storie di spirito diametralmente opposto, e da dar ragione a Beniamino Constant, quando diceva: «Io ho dieci, venti, quarantamila fatti e posso valermene a volontà». Vi pare scetticismo questo? No, signore. È servirsi della nostra ragione, poichè Dio ce l'ha data, ed è partendo da questo savissimo scetticismo, nota un grande scrittore inglese, che la civiltà moderna ha potuto correggere in parte quei tre massimi errori fondamentali, che, in passato, ci rendevano in politica così ignavi, in scienza così credenzoni, in religione così intolleranti.

Nel caso nostro non c'è in realtà nella storia d'Italia, fino almeno alla fine del secolo XVIII, nè una tradizione unitaria, nè una tradizione federale.

Ma eccovi gli uni a citarvi (per lo più pigliano le mosse di lontano) oltre alla forma allungata della penisola, alla varietà delle razze, che la popolarono, non appena divenne abitabile, alle indoli e costumi diversi, tutti indizi repugnanti a unità, le antiche federazioni italiche, anteriori a Roma, e resistenti per tanto tempo alla sua conquista, l'esperimento tipico, vale a dire, la prima pietra angolare della tradizione federale; ed eccovi gli altri a ribattere, non senza ragione, che quegli argomenti etnografici e morali non provan nulla, perchè di troppe altre nazioni unitarie si potrebbero addurre, e la penisola, che il mar circonda e l'Alpe, compensa ampiamente colla salda certezza de' suoi confini i pericoli della sua configurazione. Quanto alle prime federazioni italiche, circondate, com'erano, di popoli nomadi e selvaggi, se mai esprimevano qualche cosa, certo esprimevano piuttosto una rudimentale tendenza all'unità, la quale di fatto si compì col formarsi dello stato di Roma.

Se non che, come mai può dirsi la vecchia Roma, la Roma dei classici, uno stato unitario nel senso, che oggi intendiamo? Da prima Roma dovè lottare assai più per conquistare l'Italia, che non tutto il resto del suo impero. In secondo luogo le città italiane furono tutte a lei soggette in vario grado, con forme diverse, e tenute a freno con un sistema di colonie, che s'andava via via slargando e sempre col doppio intento d'impedire una rivolta e di difendere la città dominatrice. Nè federazione quindi, nè unita, ma soggezione pura e semplice, contro la quale le ribellioni furono molteplici e tremende, e sfido negare, come sogliono gli unitari, che le guerre sociali dall'anno 90 al 60 avanti Cristo, non esprimano una tendenza separatista, domata soltanto da un progressivo avviarsi alla dittatura.

Quanto all'Impero, esso non e più Roma, ma la dominazione universale del mondo, e se, quando l'Impero si dissolse, si ha il fatto che le grandi diocesi, nelle quali era spartito, furono il nucleo, intorno a cui si composero con lento lavoro le altre nazioni moderne, non è men vero che nella diocesi d'Italia appunto tale fatto non s'avverò, perchè il regno, che i Barbari vi fondarono, li fece bensì re in Italia, ma non re d'Italia, e gl'Italiani, perduti sempre dietro al vano fantasma del cosmopolitismo romano, non consentirono mai che questo regno li unificasse, come altrove era accaduto, fondendosi insieme perfettamente le due razze, quella degli indigeni e quella degli invasori. In Italia, invece, le due razze si contrastano ancora nell'età dei Comuni rappresentate rispettivamente (fino ad un certo segno però) dai feudatari dei castelli e dal popolo del Comune, e quindi entro il Comune stesso dai nobili e dal popolo, benchè nelle costoro discordie nè sempre le loro divisioni siano così esatte, nè sempre abbiano così remote cagioni.

Per questo non si diè tregua mai neppure a' Goti e a' Longobardi, i meno barbari fra i Barbari; per questo Leone III incoronò in Roma Carlomagno, per impedire cioè che mai sorgesse un regno d'Italia e potesse attecchire uno Stato unificatore.

Vi fu bensì un regno meridionale; ma straniero d'origine, feudale di carattere, non ha che fare colle tradizioni romane: somiglia appunto ai grandi Stati, che si vengono formando in Europa, e non ha quindi alcuna azione sull'assetto, che l'Italia prende nel Medio Evo. Serve solo ad essere opposto ora dal Papa all'Imperatore, ora dall'Imperatore al Papa, finchè diviene il titolo, il pretesto giuridico delle invasioni straniere e determina il fato della storia moderna in Italia da Carlo VIII fino ai giorni nostri, fino a che Garibaldi, cioè, lo manda a gambe levate. Non si assimila mai nessuna parte d'Italia. Federigo II, re di Puglia e Sicilia, non è in Toscana e in Lombardia se non l'Imperatore, il capo del partito ghibellino. Così Manfredi, così Carlo e Roberto d'Angiò in Toscana, in Romagna, in Piemonte, non fondano mai nulla di proprio, non sono che capi di parte, combattono per la Chiesa e per l'Impero, entrano, vale a dire, nel sistema particolarista delle città italiane, sistema frazionato all'infinito, nel quale non è traccia nè di unità nè di federazione, e a volte neppure di vero guelfismo papale o di vero ghibellismo imperiale, ma che nonostante, tra l'Imperatore assente e il Papa disarmato, si svolge con tale e tanta gloria, forza e potenza, da creare tutta una grande civiltà nazionale, senza paragone possibile nel mondo d'allora e nei secoli seguenti. Troppo ce ne siamo scordati noi, soffocando questa vera tradizione italiana sotto un'unità formale, meccanica e burocratica, che ci diede tutti i guai, senza nessuna delle grandi e feconde energie d'un forte Stato unitario!!

Il frazionamento è ancora maggiore e non compensato di tanta virtù operativa e di tanta gloria nell'età dei principati.

E se tuttociò è precisamente l'opposto d'una tradizione unitaria, forsechè nell'età dei Comuni o in quella dei Principati apparisce mai l'indizio d'una vera tradizione federale? Si vorrà ancora citare per l'età dei Comuni il giuramento di Pontida, a cui la Lega Lombarda preesisteva, mentre poi essa stessa non preluse ad alcuna stabile federazione, bensì condusse la lega temporanea di tante città, e dopo la stessa vittoria di Legnano, al Congresso di Venezia, in cui il Papa, capo della Lega, abbandonò subito i suoi alleati per non pensare che a sè, e alla pace di Costanza, in cui i Comuni riconobbero i diritti dell'Imperatore Romano e delle nuove franchigie ottenute si valsero per dilaniarsi peggio che mai fra di loro? Si ricorderà ancora l'equilibrio di Lorenzo il Magnifico, che era tutto un artificio d'un grand'uomo politico, ma non si fondava che sulla sua sapiente destrezza e scomparve con lui? No; una vera federazione stabile, ordinata, nazionale, in Italia non c'è stata mai nè nell'età dei Comuni, nè in quella dei Principati. Vi furono bensì al tempo dei Comuni leghe umbre, toscane, lombarde, formate sempre a qualche intento speciale e quasi sempre sciolte prima che quell'intento fosse conseguito. Ve ne furono altre al tempo dei principati, ma l'interesse, la defezione o il tradimento le sciolsero tutte, nè bisogna nella d'Italia lasciarsi prendere dai miraggi, che a quando a quando vi compariscono. Nel secolo XVI, per esempio, si direbbe che l'Italia stia per ordinarsi un momento sotto l'unità monarchica francese, o sotto la federazione di Cambrai, ma il miraggio scompare subito. Può concepirsi di fatto un'unità politica sotto la mano d'un re straniero, o una federazione di stranieri e italiani contro la gloriosa Repubblica di Venezia? No. Per quanto si faccia, se si cercano nella storia d'Italia, prima della Rivoluzione francese, tradizioni unitarie o federali, non altro si trova invece se non le cagioni prossime o remote delle preponderanze straniere. Nè bisogna lasciarsi ingannare neppure dal sentire tanti scrittori e statisti, e diplomatici e guerrieri, e persino papi, Giulio II, Clemente VII, Paolo IV, parlar sempre di libertà d'Italia. Per tutti (non vuolsi far loro colpa di ciò che in gran parte è colpa dei tempi) per tutti libertà d'Italia non significa già l'Italia nè unità, nè federata, nè libera dagli stranieri, bensì che nessuno degli stranieri, i quali si contendono Napoli o Milano, prevalga all'altro, e sotto a questo concetto v'è ancora un altro particolarismo, che sta più a cuore anche dei patriotti migliori, dei più elevati spiriti di questa o quella regione, vale a dire o che sia libera

Firenze, o che sia libera Milano, o che lo Stato del Papa non sia a discrezione nè di stranieri nè d'italiani: questo soprattutto che uno Stato italiano, per forza sua o d'alleanze non prevalga sugli altri, cosicchè quando le ambizioni di Venezia si volgono alla terraferma, nessun straniero pare più minaccioso di lei alla cosiddetta libertà d'Italia, nessuna preponderanza è più temuta e più contrastata della sua.

Dopodichè, nell'età degli Stati non solo non c'è tradizione nè unitaria, nè federale, ma non c'è più politica propria di nessuna fatta. La politica d'ognuno di essi è, a seconda dei casi e dei tempi, francese, spagnuola, austriaca, e il popolo italiano perde persino ogni coscienza dell'esser suo. L'Italia, che pur ha così forti e spiccati segni d'individualità nazionale, essa stessa (molto prima che il Metternich lo dica) si lasciò ridurre nell'età degli Stati un' espressione geografica. Questa divisione dell'Italia, che era di quasi ottanta Stati, ridotti a dieci dopo le guerre di successione e la pace d'Aquisgrana, e non per opera certo degli italiani, ma degli stranieri, questa divisione nazionalmente non ricorda nulla, non rappresenta nulla. Parlando della sola Toscana il Giorgini scriveva nel 1861: «Io conosco tradizioni, glorie fiorentine, senesi, pisane; ma non conosco che umiliazioni e miserie toscane!» Il medesimo si potrebbe dire, e forse con più ragione, delle rimanenti parti d'Italia. E, per concludere, è opportuno notare che tutti gli spigolatori di tradizioni unitarie e federali nella storia d'Italia sono, non volendo, caduti in questo abbaglio singolare, che mentre credono indicare le traccie saltuarie e interrotte dell'uno o dell'altro concetto, altro non fanno che enumerare più o meno compiutamente le cagioni grandi o piccine, per le quali nè unità, nè federazione non sono mai state possibili.

Se non che, battuti sul terreno dei fatti, si rifugiano nelle visioni dei pensatori, nei vaticinii dei poeti, o tentano far passare per un principio almeno di unificazione nazionale le ambizioni di qualche principe, che approfittando di contingenze favorevoli voleva ingrandire lo Stato. Quanto alle visioni dei pensatori e ai vaticinii dei poeti, il fatto è vero e giovò certo a tener vivo qualche barlume di sentimento nazionale, se non altro, in qualche ristretto cenacolo letterario, ma ricollocati ognuno nel proprio tempo hanno essi veramente il significato che si suole loro attribuire? o qual maraviglia in ogni caso che ingegni ed animi eletti sorpassino la realtà che li circonda, e si slancino nell'utopia inapplicabile o nelle profezie, che non si verificano? può questo fatto da solo costituire una tradizione storica?

L'unità d'Italia per Dante Alighieri è l'unità dell'Impero restaurato, unità di giurisdizione suprema, non unità di Stato, dalla quale è difficile arguire che il misterioso Veltro, da lui profetato, potesse mai poco o molto rassomigliare prima a Napoleone, poi a Pio IX e finalmente a Vittorio Emanuele o a Garibaldi. Ma Dante è nel suo tempo e va considerato nel suo tempo, anche se il poema divino è, e deve essere per sempre, la bibbia nazionale degli Italiani.

Egli, difatto, ebbe per primo forse vera coscienza d'una nazionalità italiana. L'ebbe, perchè compose, si può dire, l'unità della lingua italiana, perchè mostrò di conoscere l'importanza etnografica e civile della nostra comunanza di linguaggio col verso: «Il bel paese là dove il sì suona», comprendendovi la Sicilia e il Trentino, perchè finalmente la penisola fu da lui descritta ne' suoi precisi confini geografici. Ma fuori di questo, e rifacendoci al suo concetto politico, egli invoca la calata d'un Imperatore, affinchè riconduca la pace, quella pace imperiale, che è quanto dire universale, in cui forse abbozzava un pensiero di fraternità umana. L'ideale suo grande è la pace; sono sempre le discordie politiche, ch'egli flagella, e gli pare che cesserebbero d'imperversare, se l'Imperatore ritornasse alla sua Roma. Quando sospira la venuta di Arrigo VII, Dante sa bene che esso non verrà a fare l'unità italiana. V'ha anzi chi ha persino creduto che

Dante sperasse in detta occasione una confederazione. Non credo. Egli non ha sperato e voluto che la pace, tant'è che non altro consiglia a popoli e principi; e, il solo mezzo di mantenerla, è per lui il riconoscimento dei diritti dell'Impero. Dante afferma bensì la nazionalità italiana, ma non discute l'assetto politico della nazione: per lui Roma è la sede dell'Impero, la monarchia universale è necessaria siccome istituita da Dio per la pace del mondo, senza cui l'uomo non può conseguire il proprio fine e la beatitudine eterna. Oltrediché quella monarchia è per lui la continuazione e il perfezionamento dell'Impero Romano. Così Dante è nelle sue idee e nel suo tempo.

Il medesimo è da faro col Petrarca, che nell'anarchia dei tribuni, dei signori e dei condottieri, fra la quale è condannato ad andare peregrinando tutta la vita, non lascia precisare affatto il suo sistema politico, perchè le sue speranze si fissano ora in Cola di Rienzi, ora nell'Imperatore Carlo IV, ora in Roberto d'Angiò, ora in Luchino e Galeazzo Visconti, e, mancati tutti a un per volta i suoi idoli, finisce esso pure nell'idillico:

Io vo gridando: pace, pace, pace;

il consiglio purtroppo più inutile da dare ai discendenti di Abele e Caino.

Chi può negare che uomini così grandi, rientrando in sè stessi, abbandonandosi alle proprie aspirazioni e speculazioni, non contemplino e non profetizzino ideali di redenzione della patria, superiori a quelli di tutti i loro contemporanei? Ma da questo al collegarli con ciò che è accaduto nel tempo nostro ci corre, e a furia d'interpretazioni arbitrarie ed anacronistiche si rischia di non comprenderli e svisarli del tutto.

Molto più moderno è certamente il Machiavelli, ma anche con lui si oltrepassa, si violenta il senso genuino dei fatti contemporanei, quando si afferma che pur d'ottenere l'unità d'Italia avrebbe magari accettato per re d'Italia Valentino Borgia. Leggete il libro del Villari e vedrete che Valentino Borgia non è pel Machiavelli il personaggio reale, che deve fare l'unità d'Italia, bensì il tipo, che con alcune delle sue qualità personali gli inspira il concetto, che occuperà poi tutta la sua vita e dominerà in tutti i suoi scritti, il concetto cioè d'una scienza di Stato separata e indipendente da ogni considerazione morale. Il Machiavelli fa per tal guisa del Valentino un personaggio ideale, ma del Valentino vero giudica come merita e l'ha per un furfante matricolato, degno figlio di Papa Alessandro, di cui giudica egualmente. Tant'è che della meschina catastrofe del Valentino in Roma, il Machiavelli, che era allora in Roma esso pure, non si dà quasi per inteso. In conclusione, mentre si usciva appena dall'anarchia medioevale, l'unità, a cui egli mira, è quella dello Stato, non quella della nazione. Perciò i suoi delenda Carthago sono il feudalismo, i soldati di ventura, il potere politico delle corporazioni d'arte, il dominio temporale dei papi e la loro ingerenza nello Stato, in cui ravvisa, e con ragione, l'ostacolo insuperabile dell'unificazione dell'Italia. In questo senso, se si vuole, il Machiavelli è profeta, in quanto cioè l'unità organica di uno Stato farà l'unità italiana, e di uno Stato opposto al Papa, libero dalla sua ingerenza, non quello cioè, su cui, come sul regno di Napoli, il Papa esercita giurisdizione feudale e di cui si è sempre valuto per gettarlo fra i piedi a chiunque pur di lontano accennasse ad una impresa italiana.

In seguito, che Eustachio Manfredi alla nascita d'un figlio di Amedeo II di Savoia canti in un sonetto:

Italia, Italia, il tuo soccorso è nato;

che Traiano Boccalini e Alessandro Tassoni scrivano con sentimento patrio contro la tirannide spagnuola, che questo sentimento riecheggi nei versi di Fulvio Testi, del Filicaia e di tanti altri sta benissimo ed è giusto che loro rendiamo la lode e la gratitudine, che meritano. Ma s'hanno a vedere in ciò i prodromi dell'unità italiana compiutasi fra il 1860 e il 1870?

Meno che mai mi pare di scorgerli nelle ambizioni di qualche signore o principe che tentò in Italia slargare la sua signoria o il suo principato. Mastino della Scala corre da Verona sino quasi alle porte di Firenze, ma ivi è fermato dalle forze unite di Firenze e di Venezia, e giuoca in questa impresa tutta la potenza della sua casa. Gian Galeazzo Visconti pare vicino a diventar padrone di quasi tutta Italia, ma se la piglia con Firenze, e una morte repentina sbarazza la gloriosa città di questo terribile nemico; Ladislao di Napoli tenta uguale impresa ed una morte molto opportuna la tronca anche a lui, il che facea dire a quella linguaccia del Machiavelli: «la morte fu sempre più amica ai Fiorentini che niuno altro amico e più potente a salvarli che alcuna loro virtù».

Comunque, finite così, queste imprese non provano nè pro nè contro la tradizione unitaria o federale.

Altro è di Valentino Borgia. Il romanzo francese del Blanquet ha però un bel titolarlo roi d'Italie, ma che vuol egli in sostanza? Egli mira a fondare la dinastia dei Borgia in un regno dell'Italia centrale, e forse a rendere ereditario il papato. Il progetto era grandioso; non dico di no. Era l'ultimo perfezionamento del nepotismo politico pontificio; ma troppo in opposizione colla costituzione stessa del Papato e colle condizioni dell'Italia da poter riescire e non riescì, nonostante l'energia diabolica e la mancanza di scrupoli dei due uomini, il Papa e il Duca Valentino, che cercarono d'attuarlo.

Resta la Casa di Savoia, la cui fortunata ambizione fino ad Emanuele Filiberto, che fissa la capitale a Torino, non si sa da qual lato delle Alpi inclinerà. In appresso è già molto ch'essa possa bilanciarsi con una abilità ed un coraggio singolare fra Francia e Spagna e tra i due contendenti ingrandirsi. L'indizio maggiore dei suoi futuri destini sta nella grandezza dei suoi disegni e dei suoi propositi e, direi quasi, nella sproporzione stessa, che è fra questi e le sue forze e l'estensione del suo territorio. Ma più che tutto sta nell'aver l'armi in mano e nell'adoprarle sempre, nel valor militare e nella stretta unione fra principi e popolo. Affinchè però comincino ad avverarsi per essa i vaticinii dei pensatori, degli uomini di Stato e dei poeti, e gli oroscopi che le predicono:

La tua stirpe dall'Alpi native

Scender deve cogli anni e col Po,

bisognerà aspettare che una coscienza nazionale spenta nei tre secoli di servitù, si sia rifatta in tutto il popolo italiano, e che la meteora napoleonica passi; bisognerà aspettare che dopo essere stato il Piemonte travolto esso pure nella reazione, l'eccesso di questa susciti in Carlo Alberto il misterioso Amleto vendicatore; bisognerà aspettare che la rivoluzione italiana si svolga e che, colle insurrezioni del 1820 e 21 sia decisa irrevocabilmente la rivalità delle due monarchie italiane e risolto in modo definitivo che la direziono della rivoluzione debba esser presa dal nord, anzichè dal sud della penisola.

Allora accadrà questo fatto straordinario che per due volte l'Italia stessa si offre ai Savoia, nel 1831 per bocca di Giuseppe Mazzini, repubblicano unitario, che si dichiara disposto a rinunciare alla repubblica, purchè Carlo Alberto faccia l'unità d'Italia e gli dice: «a questo patto siamo tutti con voi; se no, no;» nel 1856 per bocca di Daniele Manin, repubblicano federale, che, rinunciando alla federazione e alla repubblica, dice a Vittorio Emanuele colle medesime parole: «fate l'unità d'Italia e siamo tutti con voi; se no, no ».

Stringo oramai il mio discorso. Nella storia d'Italia, precedente alla Rivoluzione francese, non c'è, non ci può essere tradizione nè unitaria, nè federale. La coscienza stessa della nazione s'era spenta nella servitù, e chi la rifece fu la Rivoluzione francese, precorsa in Italia dal moto filosofico, che agita i pensieri e i sentimenti, soprattutto nell'alta e nella media classe, e, per dir solo della sua aziono più largamente diffusa e sentita, col Parini e l'altra moralità della sua satira ritempra l'uomo, e coll'Alfieri e il fremito di ribellione della sua tragedia, invoca per quest'uomo, da lui già rinnovato in sè stesso, una patria e la libertà. Questi sì, o signore, che sono i veri precursori!

La scossa, che l'Italia riceve dall'invasione francese nel 1796, è sgarbata, violenta e provoca fiere e sanguinose reazioni nelle plebi, ma mercè sua la rivoluzione italiana incomincia, e a traverso mille diverse vicende ora felici, ora infelicissime, non si fermerà più per settantaquattro anni sino al suo pieno trionfo.

Dopo le meravigliose vittorie del Bonaparte, se muovendo dai congressi di Modena e Reggio del 1796 per la federazione Cispadana, voi passate ai Parlamenti della Cisalpina e alla Costituente di Lione, da cui esce per la prima volta dopo tanti secoli uno Stato di nome italiano «è una continua ascensione (dicono gli editori degli atti della Cispadana) verso l'ideale della patria unita». Se non che pei repubblicani francesi l'Italia non è se non una conquista da sfruttare, e allora il contrasto (è una bella e profonda considerazione di Augusto Franchetti) il contrasto fra le promesse di redenzione universale della filosofia e le opere ladre degli invasori, fra la proclamazione dei diritti dell'uomo e l'applicazione, che i francesi ne fanno in Italia, forma per la prima volta in Italia un'opinione, che si fa strada prima negli animi più eletti, poi nei vari ordini della cittadinanza, che cioè non bisogna più vagellar sempre dietro a concetti universali, come già la Chiesa e l'Impero ed ora la repubblica democratica, ai quali la storia degli Italiani fu un continuo olocausto, bensì pensare finalmente ad avere anche noi una patria unita e indipendente dallo straniero.

Per raggiungere questo fine sorgono a contrapposto, gli uni degli altri, sistemi unitari e federali tanto nella letteratura politica, quanto nelle sètte cospiratrici e nei successivi moti rivoluzionari del 1815, del '20, del '21, del '31, del '45, del '48 e del '49.

Se si vuole dunque una tradizione unitaria o federale nella storia d'Italia, essa incomincia dopo l'invasione francese del 1796 e già per opera di molti valenti scrittori (di Augusto Franchetti e di Carlo Tivaroni principalmente) ne furono notate e raccolte diligentemente tutte le più minute testimonianze, monarchiche e repubblicane, anche all'infuori della grande letteratura politica, che precede e accompagna i nostri tentativi rivoluzionari.

Ma quei sistemi unitari e federali non varcano i limiti del libro, dell'opuscolo o delle ispirazioni individuali di patriotti e di poeti. L'unica applicazione del sistema unitario monarchico è nel regno napoleonico, ma incompiuta e dipendente dallo straniero.

Contuttociò valse a ridarci il sentimento d'una grande e regolare compagine di governo, valse a ridarci colle armi le virtù e le abitudini militari spente ovunque, salvo in Piemonte, ed i ricordi di quel breve sogno di redenzione italiana non perirono più.

Quanto al sistema federale, l'esperimento più prossimo alla realtà è nella rivoluzione del 1848, ma non potè oltrepassar mai una lega doganale fra Roma, Piemonte e Toscana, mentre la federazione politica, con una Dieta permanente in Roma sotto la presidenza del Papa, si trascinò in vani tentativi, progetti e negoziati senza conclusione, dai primi ministeri liberali di Pio IX alla missione Rosmini in Roma, al ministero Alfieri in Piemonte, al congresso federativo promosso in Torino da Vincenzo Gioberti e al ministero di Pellegrino Rossi.

La liquidazione finale del sistema federale monarchico avviene, secondo me, quando il Rosmini, che già avea concordato un disegno di confederazione, in cui assegnava alla Dieta residente in Roma l'ufficio di dichiarare la guerra, quietando così gli scrupoli, che aveano prodotta la defezione di Pio IX, quando il Rosmini, dico, fu sconfessato del Ministero Piemontese e gli fu ingiunto di chiedere soltanto qual contingente il Papa potesse dare alla guerra. Il Rosmini si ricusò di fare questa domanda, ma ecco eccitati di nuovo nella Corte di Roma e nel Papa tutti gli antichi sospetti contro l'ambizione piemontese, ed ecco ita in fumo ogni idea di federazione. La riprese Pellegrino Rossi, appena fu ministro di Pio IX, ma fermo nell'idea che per allora non si dovesse ripigliare la guerra e che in ogni caso non si potesse pensare a far senza l'aiuto del re di Napoli, osò includerlo nel progetto, e questa pure, fra le tante, fu una delle cagioni della sua tragica fine.

Il Rosmini invece, benchè persuasissimo della propria sconfitta, seguì il Papa a Gaeta e la persecuzione, che colà ebbe a soffrire il grand'uomo, e l'abbandono codardo in cui Pio IX lo lasciò, sono uno degli scandali più ignobili dalla reazione, che ormai imperversava. Il sistema federale monarchico finisce per sempre così.

Non ebbe molto più lunga fortuna il sistema, unitario repubblicano del Mazzini. A lui, Triumviro in Roma nel 1849, se anche pensò ad attuarlo, mancò il tempo, e se anche avesse potuto superare le ripugnanze del Guerrazzi in Toscana, quelle del Manin in Venezia e il fatto che Carlo Alberto e il suo fedele Piemonte stavano già di nuovo e da soli in campo contro l'Austria, la necessità sopravvenuta subito della difesa di Roma contro i Francesi, non gli permise neppure di tentare.

Pure la Repubblica in Roma era così gloriosamente caduta, che un po' di questa gloria ridette nuovo vigore al programma del Mazzini.

Ma la libertà mantenuta in Piemonte dopo Novara e i tentativi vanissimi del 1853, che determinarono tanti abbandoni dell'apostolo incorreggibile, compiono altresì la liquidazione finale del sistema unitario repubblicano.

Del sistema federale repubblicano quasi non occorre parlare, giacchè esso non fu mai che l'ubbia di qualche solitario, il Cattaneo, Giuseppe Ferrari e pochi altri, ai quali, nella genialità grande dell'ingegno, questo ordinamento pareva o più conforme all'indole nazionale nella terra classica delle città o più atto ad assicurare ai popoli, se non altro, una modesta felicità. Un sogno, che ne vale un altro!

A tutto si contrappose l'egemonia piemontese, che non poteva avere altro risultamento se non questo dilemma: o finis Italiae, o unità nazionale sotto la monarchia di Savoia. In tale concetto, attuato con ardimento, fortuna e ingegno senza pari dal Conte di Cavour, gli Italiani si unirono, appunto perchè era nuovo, appunto perchè in antitesi diretta con tutta la storia passata, appunto perchè liquidate tutte le forme rivali, era rimasto il solo possibile.

Il trionfo d'una rivoluzione non si consegue che piegando colla persuasione o dominando colla forza del numero le energie indisciplinate, che disgregate possono poco o nulla e divengono irresistibili solo allorquando, o persuase o costrette, fanno gruppo ed impeto tutte ad un segno. Così fu in Inghilterra nel 1688, così fu in Francia nel 1789, così fu in Italia nel 1859 e '60.

Dinanzi a così nuovo spettacolo, il federalista repubblicano, Giuseppe Ferrari, deputato al primo parlamento italiano e storico delle secolari e implacabili antinomie italiane, guardandosi attorno e vedendo che strana varietà d'uomini, provenienti da tante vecchie scuole e da tanti partiti politici si accingeva nel 1860 a proclamare l'unità italiana, ammoniva i colleghi: badassero; esser essi vittime al certo d'una fatale illusione e star per commettere un errore così madornale, che ci avrebbe tutti condotti a Dio sa quali disastri.

Gli rispose Marco Minghetti (anch'esso un convertito recente all'unità) che forse il Ferrari si credeva ancora al tempo dei Guelfi e Ghibellini, dei Visconti, degli Sforza o del Duca Valentino e che in verità lo storico illustre gli somigliava uno di quei sette dormienti della leggenda, che, svegliatisi dopo cinque secoli, nè più intendevano gli altri, nè gli altri loro.

«Può darsi che io abbia dormito,» replicava a un dipresso il Ferrari, «il sonno magico della scienza; ma mi svegliò il cannone di Magenta e di San Martino, e allora m'informai o seppi dipoi che una grandissima novità stava per accadere, l'unità italiana sotto la monarchia di Savoia. Fate pure! Ma siete voi ben certi che l'Italia sia uscita del tutto dalla profonda e torbida notte della sua storia, e del tutto mutata, da quella di prima? Altrimenti, siete voi che dormiste, che dormite ora più che mai, e il vostro destarvi sarà ben peggio del mio. Vi potrà succedere, vale a dire, non di destarvi al pari di me in un'ora di vittoria, ora divina per tutti, ma se non proprio nell'ora infame del disastro e del pentimento, in quella ben più demoralizzante delle illusioni, che si dileguano, degli sconforti, che opprimono, e delle speranze, che cadono ad una ad una».

Siamo proprio in quest'ora, o signore! E se le forze conservatrici della monarchia liberale, che han fatta l'unità della patria, se ne staranno ancora inerti e discordi, e tutte le forze dissolventi, e apertamente o copertamente nemiche, si lascieranno invece agir sole ed in piena impunità, potrà avverarsi ben peggio del pronostico di Giuseppe Ferrari ed il problema della storia d'Italia ritornerà al punto, da cui il programma unitario (questa novità, questa gloria della nostra Rivoluzione) pareva averlo tratto per sempre.

GLI EROI DELLA RIVOLUZIONE

CONFERENZA DI FRANCESCO S. NITTI.

L'Italia è la terra degli Eroi.

Molte volte negli anni della adolescenza io ho copiato questo aforisma nei quaderni di calligrafia. E pure nella preoccupazione del rotondo e del gotico, dei profili e dei chiaroscuri, la mia mente inesperta si chiedeva: e perchè dunque l'Italia è la terra degli eroi?

La storia che ci è stata insegnata nelle scuole medie, quando non è un'arida successione di nomi e di date, è una successione di matrimoni, di congiure e di morti. Ogni tanto, in questa storia, che è d'ordinario molto nojosa, appare l'eroe: l'uomo che personifica tutta un'epoca, l'uomo il quale fa ciò che tutti gli altri uomini dovrebbero fare. Nei piccoli trattati, dalla storia di Grecia e di Roma alla rivoluzione francese e ai moti per la liberazione d'Italia è breve il passo: e nella mente rimane tutta una confusione. Il popolo giace sotto la tirannia di un solo, cui nessuno osa ribellarsi; l'eroe liberatore interviene a tempo. Un colpo di pugnale o una congiura vittoriosa fanno ciò che la folla non sa fare. Qualche volta è un paese intero che soggiace allo straniero, e n'è liberato per l'opera eroica di un solo.

E poichè i matrimoni, le date, le genealogie de' regnanti non c'interessano, noi ricordiamo soltanto i nomi e le azioni degli eroi: essi personificano per noi tutto un tempo: e la mente inesperta mette insieme gli eroi di Salamina e di Maratona, gli Orazii (o infidi!), i Fabii, Cesare, Bruto, gli eroi della rivoluzione francese, Garibaldi e i nostri.

La concezione di Carlyle, in realtà, non è che la concezione dei fanciulli delle nostre scuole: l'umanità che progredisce, che si emancipa per mezzo degli eroi.

«Secondo io la intendo (ha scritto Carlyle) la storia universale, la storia di quanto l'uomo ha compiuto sulla terra, è, in fondo, la storia dei grandi uomini, che quaggiù lavorarono. Quei grandi furono gli informatori, i modelli e, in largo senso, i creatori di quanto la massa generale degli uomini riescì a compiere o a raggiungere; tutte le cose che vediamo compiute nel mondo sono propriamente l'esteriore materiale resultato, la pratica attuazione e incarnazione di pensieri, che albergarono nei grandi quaggiù inviati: la loro storia potrebbe giustamente considerarsi come l'anima della storia di tutto il mondo.»

Non vi è niente di meno vero.

Quegli uomini i quali a noi pare che abbiano guidato il mondo, sono stati essi medesimi l'espressione di bisogni di società e di popoli determinati. Gli stessi uomini che ci sembrano più fuori e al di sopra del loro tempo, ne sono stati quasi sempre il prodotto. Noi non possiamo concepire Garibaldi nelle circostanze attuali: farebbe egli l'ostruzionismo? sarebbe egli contro? quali idee avrebbe sul regime doganale? si occuperebbe di che cosa? Se Napoleone fosse nato in India o in Cina che cosa sarebbe stato? Nulla forse. Quella vita che è stata uno dei più grandi fatti storici, sarebbe rimasta un piccolo fatto biologico, la nascita e la morte di un individuo tra le migliaia di milioni di uomini passati da allora per il mondo.

Gli uomini più insigni, i più forti e i più grandi non sono dunque qualche cosa al di fuori degli altri esseri: ma essi sono coloro i quali riescono a rappresentare l'anima collettiva, o il bisogno di una minoranza più audace e più forte.

La storia eroica quale noi insegnamo e quale noi abbiamo imparata, rassomiglia, in certo modo, a una geografia che si occupi solo della descrizione delle montagne. La più grande parte della superficie terrestre è occupata da grandi pianure, da colline ondulate: le immense montagne rappresentano una minima parte, e ancora sono per la vita degli uomini meno importanti.

Le alpi nevose rimangono nei nostri occhi più dell'infinita pianura: pure è quest'ultima che costituisce grandissima parte della superficie in cui viviamo.

«Così i dettagli della storia ci sfuggono. L'umanità, nel suo lungo viaggio, non ha conservato che il ricordo di alcuni precipizi, dimenticando la continuità monotona delle pianure felici che ha traversato. Noi siamo una folla immemore e ingrata: più sensibile ai sogni che ai successi, così nel passato come nel presente. Il successo, perchè la folla lo noti e lo ricordi, deve essere accompagnato da un cataclisma.»

Ma la storia vera, quella che val più la pena di penetrare, è la storia collettiva: la storia delle grandi masse umane, dei grandi aggregati di cui noi indaghiamo solo alcune espressioni e non sempre le più felici.

È una specie di pigrizia di mente quella per cui noi vogliamo spiegarci la storia mediante le opere di alcuni uomini: quand'anche furono grandissimi non poterono esser tali che per contingenze particolari, e perchè interpetrarono bisogni collettivi o sentimenti in formazione.

L'eroe silenzioso, come dice Carlyle, l'eroe che vive di sè stesso e dalla sua anima ricava tutto, non è mai esistito nè esisterà mai.

Ma l'ammetterlo dà a noi una debolezza: poichè ci fa rassegnare a una specie di fatalismo buddista. Tante volte noi diciamo in un momento difficile: manca l'uomo. E attendiamo l'uomo provvidenziale. Anche adesso, nelle difficoltà dell'Italia presente, che sono prova del suo sviluppo, anche adesso, noi ci chiediamo se tutto non finirebbe se avessimo un uomo. E bene: l'uomo è in noi stessi: è in ognuno di noi, e quando vorremo trovarlo noi lo ritroveremo.

Se non esistono uomini che vivano fuori e sopra il loro tempo — è noto che colui il quale ha trovato l'espressione di superuomo, Federico Nietsche, ha finito, povero ueber mensch in un manicomio quelle teorie che vi pareano nate dentro — vi sono però uomini i quali riescono a compiere opere straordinarie, e a fare ciò che la folla non riesce nè meno a concepire.

In questo senso vi sono gli eroi.

Quando un paese è soggetto a dominazione e la folla si rassegna, vi è un uomo che si ribella solo o con pochi: se egli non ha quasi speranza di vincere, se egli fa ciò che la moltitudine crede folle, egli è veramente un eroe. E allora o che il suo sangue sia lievito di rivolgimenti futuri, o ch'egli stesso vinca, nell'un caso e nell'altro è sempre un eroe.

Ma l'eroe in questo senso non è che la espressione di un male: cioè della bassezza collettiva. I popoli che hanno nella civiltà moderna maggior numero di eroi, sono quelli che hanno una più grande depressione.

L'eroe è colui il quale osa da solo ciò che moltissimi altri dovrebbero fare. Se la folla si rassegna vi è chi si immola. Egli è dunque l'eroe, cioè la espressione altissima di un bisogno ideale di un paese depresso.

Più la massa è depressa, più la coscienza collettiva è bassa, più il sentimento del dovere individuale è debole, più grande è il numero degli eroi e spesso più grande è il loro eroismo. Quanti eroi nella Grecia, quanti nella rivoluzione nostra, quanti nella Turchia odierna! Quanti sono che tentano nel silenzio e nel dolore, quanti per un solo che vince o vincerà soggiacciono!

Ma un paese ove l'educazione popolare è elevata, un paese ove la coscienza collettiva si è formata, dove tutti fanno il loro dovere, non ha eroi.

Gl'Italiani si rassegnavano alla servitù: e tanti eroi si sacrificarono per destarli dal sonno. Vi fu chi andò a morire in una impresa disperata, come Pisacane; chi come Garibaldi tentò un'impresa fortunata e arditissima. Felici o infelici per il risultato, la loro anima era sempre immensa.

Ma in un paese ove la educazione delle masse si è formata, ove ognuno ha il sentimento della responsabilità sua, l'eroe non è possibile.

Nelson è stato un grande marino e Moltke un tattico grandissimo. Ma il vincitore di Trafalgar che vedeva e prevedeva, che avea ai suoi ordini marinai fieri, devoti, era egli un eroe? Ed è stato forse un eroe Moltke?

Il sommo condottiero dei tedeschi era uno scienziato. La sua faccia scarna e seria di «chimico matematico» corrispondeva ad un uomo che guadagnava le battaglie in fondo al suo studio con l'algebra.

Il paese ove tutti fanno il loro dovere, il paese ove la solidarietà è grande, non ha eroi: può avere grandi tecnici, grandi condottieri, politici avveduti, uomini insigni per scienza: non ha eroi.

L'eroe è come la montagna che non sorge dalla scorza terrestre, se non avendo intorno valli profonde: i paesi di montagna sono pieni di valli fonde: vi è l'estrema altezza e vi è l'abisso.

I paesi che più contano eroi non hanno raggiunto che un debole grado di sviluppo e di solidarietà.

L'Italia, nel tempo della sua depressione, ha avuto grandissimo numero di eroi: appunto perchè il valor sociale della folla era scarso. Ora noi valiamo di più e può darsi che manchino alcune cime, poichè mancano pure gli abissi.

E i tentativi più eroici sono partiti sempre dall'Italia meridionale, dove appunto la coscienza collettiva era meno alta e dove la natura stessa del paese permetteva concepire alcuni piani audacissimi e sperare nella riuscita di essi.

* * *

La leggenda dei quaranta normanni, che sbarcati in Salerno conquistarono il reame di Napoli in pochi giorni, non è così inverosimile se a tanti secoli di distanza furono possibili tentativi come quelli di Ruffo e di Garibaldi.

Garibaldi che con pochi uomini sbarca in Sicilia e traversa quasi senza colpo ferire, fino al Volturno, un regno che avea centomila soldati, pare quasi una leggenda: una leggenda cui non crederemmo se non ne avessimo conosciuti gli attori.

Ebbene, il fenomeno della spedizione dei mille va studiato in rapporto a tutta la storia del passato. Spedizioni come quella dei mille per la libertà o per la reazione, per la unità o la difesa del vecchio regime, tante se ne son tentate!

In 61 anni, cioè, dal 1799 al 1860, dal cardinal Ruffo a Garibaldi gli eroi i quali hanno con pochissimi audaci tentato nel Mezzogiorno imprese cui la ragione si ribella, sono stati tanti!

Noi non ammiriamo che i vincitori; anzi noi non vediamo che il successo finale. Se Pisacane fosse riescito qualche anno prima e non avesse lasciato la vita ai piedi del colle di Sanza, noi lo glorificheremmo ora sì come Garibaldi.

Se i due fratelli Bandiera nel tentativo quasi folle per sublime eroismo, non fossero stati trattenuti nella triste terra di Calabria, poco dopo lo sbarco, i loro nomi sarebbero passati alla storia circondati di ben'altra aureola che quella del martirio infelice.

Dal tentativo che un cardinale di Santa Chiesa, Fabrizio Ruffo, fece con successo completo di ridare al suo re tutto un regno da cui era fuggito, e di ridarglielo scendendo in lotta con pochi uomini, fino al tentativo di Garibaldi è una serie di tentativi eroici: di cui assai lungo sarebbe il dire, se non bastasse ricordare le sedizioni di Morelli e Silviati, e le spedizioni dei Bandiera e di Pisacane.

In fondo, l'itinerario di Ruffo è stato la guida per i tentativi posteriori.

Nel 1799 il re Ferdinando I era dovuto fuggire in Sicilia (la fuga fu poi per la sua famiglia quasi una istituzione) e lasciare Napoli a piccolo esercito francese. La repubblica partenopea era stata proclamata, e il re, perduto lo Stato continentale, si era ricoverato nella Sicilia.

Ora, il tentativo di riprendere con le armi regie le province insorte, pareva quasi disperato.

Se non che un cardinale di curia che parea più esperto nel giuoco che nell'arte militare, concepì un piano arditissimo. Un piano così ardito, che pare quasi temerario, se si pensi soprattutto che chi lo tentava non era uomo d'armi.

Il cardinale Fabrizio Ruffo, dunque, decise di partire dalla Sicilia e senza nessun esercito riconquistare al re il regno. Partì con pochi fedeli, sbarcò a Bagnara ch'era suo feudo; pochi contadini furono il primo nucleo del suo esercito.

Il suo piano era semplice.

Egli sapeva che nel Mezzogiorno, grande era l'odio fra le classi medie e le plebi rurali, e volea smuovere queste ultime a favore della monarchia e del re. Volea smuoverle eccitandole contro la borghesia: i giacobini appartenevano alle classi medie, il popolo non avrebbe tardato a trasformare ogni proprietario in giacobino.

Era la guerra sociale in favore del legittimismo e della reazione.

Il cardinale Ruffo è stato descritto come un ribaldo. Egli era migliore del suo re e della sua riputazione: egli fu sotto tutti gli aspetti un eroe.

Che cosa si deve pensare di chi non essendo che ecclesiastico e non avendo, come abbiamo detto, pratica d'armi, si decide quasi solo a riconquistare a un re profugo e pauroso un intero regno?

Noi giudichiamo gli uomini di parte nostra in un modo, e gli uomini di parte avversa in un altro. Se Ruffo avesse compiuto la stessa impresa per scacciare i Borboni, piuttosto che per restaurarli, se avesse l'eroica e crudele impresa compiuto in servizio della libertà, egli ci parrebbe quasi un uomo divino.

Il cardinale Ruffo non avea soldati: riunì gli uomini che poteva riunire, contadini che desideravano vendicarsi, poveri che desideravano predare e perfino briganti. Potea fare altrimenti? potea egli, che non avea quasi nessuno seco, contare su altri?

Sbarcato sul lido di Calabria in febbraio del 1799 il cardinale, che avea con sè pochi familiari e qualche prete, giunse ai primi di giugno sotto le mura di Napoli. In cinque mesi egli riconquistò a Ferdinando I un regno. Il suo viaggio fu presso a poco quello che per causa opposta sessant'anni dopo compì Garibaldi. Tranne che il cardinale Ruffo, per conquistare anche le Puglie descrisse nel suo viaggio un grande arco di cerchio prima di giungere a Napoli. Fu accolto, dice il Colletta, con pazza gioja dalla plebe. E perchè fu accolto? Dovea egli anche nel male avere l'eroismo che trascina. Coloro che lo seguivano erano spesso predoni di campagna e ladroni crudeli. Ma chi, mettendosi a compiere un'impresa quasi disperata, può scegliere i compagni? Furono crudeli? e non furono a Sansevero e Gragnano crudeli anche i francesi? Il generale Vatrin non fu egli peggiore? Se l'espressione lotta di classe va usata a proposito una volta, è nell'avventura del cardinale Ruffo: egli si servì veramente dell'odio fra le plebi rurali e la borghesia, per riconquistare il trono al re; egli calcolò appunto su quel dissidio per riescire.

Poche cose sono più straordinarie di vedere un chierico con poche turbe raccogliticce fare ciò che un esercito intero non aveva saputo.

Che importa se egli operò per una causa che non è la nostra? che importa se egli rese possibile la reazione più crudele? Egli fu un eroe, perchè compì atto di straordinaria audacia, avventura quasi inverosimile per la causa in cui credeva.

Dall'avventura di Ruffo, che fu il trionfo della reazione, alla riescita della spedizione dei mille di Garibaldi, che fu il trionfo più grande per la unità, intercedono 61 anni. In questo breve tempo, quante volte la spedizione di Ruffo esaltò le menti dei liberali!

Perchè ciò che un prete non avea fatto per la causa dei Borboni non si potea ripetere contro di essi? Perchè diffuse le file di una cospirazione non bastavano pochi uomini audaci a rovesciare il trono borbonico?

Le menti degli esuli nelle veglie ardenti quante volte sognarono di seguire il piano di Ruffo per una causa opposta!

Qualche volta come nel 1820 non fu nemmeno necessario uno sbarco; furono pochi ufficiali che tentarono una rivolta e che produssero, sia pure per breve tempo, mutamenti negli ordini costituzionali.

Ma la spedizione di Ruffo rimase la mèta e il sogno. Poterla ripetere per la causa liberale! potere arditamente rifare per la libertà il viaggio trionfale del prelato reazionario!

L'Italia meridionale è stata e sarà sempre la zona più adatta ai rivolgimenti improvvisi. Nel nostro secolo se le guerre con lo straniero sono state combattute nella valle del Po, tutti i tentativi rivoluzionari o quasi tutti sono cominciati nell'Italia meridionale.

Questa terra, che ha più coste litoranee di tutto il resto d'Italia, che misura una lunghezza assai grande e non permette concentramenti facili, rende possibili i colpi di mano improvvisi.

La Calabria lanciata nel mare è traversata in tutta la sua lunghezza da una catena di monti. Abitanti di paesi messi solo a 15 o 20 chilometri di distanza, in versanti opposti, non hanno spesso nessun commercio, non si conoscono nemmeno.

Ora vi sono grandi linee ferroviarie, in senso longitudinale; vi sono strade numerose. Ma quando le comunicazioni eran difficili, come prima del 1860, uno sbarco di pochi audaci in Sicilia o in Calabria, o sulla costa del Cilento potea avere conseguenze grandissime.

Garibaldi fu il trionfo, ma prima di lui quante giovani vite furono recise! quanti prodi morirono vittime del miraggio ingannatore!

Erano eroi veri; poichè si attribuivano un cómpito immenso nella indifferenza di tutti; alcuni fallirono per troppa audacia, altri per inconscienza giovanile, altri perchè non misurarono le loro forze e non conobbero tutte le difficoltà.

Di tutte le spedizioni che precedettero l'impresa eroica di Garibaldi, le due più interessanti furono quella dei fratelli Bandiera e quella di Carlo Pisacane; l'una per l'eroica ingenuità con cui i due giovani s'immolarono nella speranza, più che della vittoria, del martirio che avrebbe ridestato gli spiriti; la seconda per l'uomo che la concepì.

Attilio ed Emilio Bandiera erano figliuoli di un contrammiraglio della marina austriaca, di cui essi stessi faceano parte, l'uno come alfiere di vascello e l'altro come alfiere di fregata. Non volendo servire l'Austria, dopo aver preso parte ad alcuni moti rivoluzionari, essi si erano ricoverati a Corfù. E in quel contatto con altri esuli in terra straniera; in quel comunicarsi continuo di aspirazioni e di speranze, più rincresceva loro l'inedia che l'esilio. Ond'è che decisero una spedizione arditissima, quasi folle per ardimento. Insieme a Ricciotti, a Moro e a pochi audacissimi, pensarono di compiere uno sbarco sulle coste di Calabria. Ivi avrebbero cercato di far rivoltare le popolazioni calabresi e, se fossero riesciti, di mettere in fiamme tutto il regno di Napoli.

Nel 1844, nella notte dal 12 al 13 giugno i due fratelli Bandiera partirono per la spiaggia calabrese. Era in essi presentimento di morte. Quasi al momento di partire Nicola Ricciotti ed Emilio Bandiera così scrivevano a Garibaldi: «Se soccomberemo, dite ai nostri concittadini che imitino l'esempio, poichè la vita ci venne data per utilmente impiegarla; e la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti, è la più pura, la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini; essa è quella della libertà, della eguaglianza, della umanità, dell'indipendenza, dell'unità d'Italia.»

Erano buoni e sinceri: aveano soprattutto la giovanile ingenuità senza di che non è possibile compiere, ma nemmeno tentare imprese come quella cui essi si avventuravano.

La sera del 16 giugno il piccolo drappello sbarcò sulla costa calabrese, alla foce del fiume Nebo. Il luogo dello sbarco era tristissimo: ma la terra d'Italia parve a essi sacra e la baciarono all'arrivo.

Il piccolo drappello, mal guidato, inesperto dei luoghi, aveva anche nel suo seno chi dovea tradirlo. Gli esuli speravano di trovare al loro arrivo popolazioni desiderose di rivolte: e trovarono l'ostilità e la indifferenza.

Nella valle di San Giovanni in Fiore — paese già sacro alla leggenda religiosa — circuiti dai soldati del re, dopo disperata lotta in cui parecchi morirono, dovettero arrendersi.

Un mese dopo, i due fratelli Bandiera furono fucilati, il 25 luglio, in quella stessa terra da cui avevano sperato partisse il segnale della rivolta.

Ma nessuna morte fu più compianta della loro. Erano giovani, ricchi, di alto casato: aveano rinunziato con serenità superumana a tutte le gioie della vita. Aveano tutte le qualità per destare negli animi il compianto, e la loro morte fu una delle cose che più nocquero a Ferdinando II. Ma non fu vana morte: Alessandro Poerio cantava:

Bevve la terra italica

Del vostro sangue l'onda,

E piova più feconda

Giammai non penetrò.

La loro tomba sarebbe diventata luogo di pellegrinaggio, se parecchi anni dopo un generale crudelissimo non avesse fatto con scellerata e sacrilega idea profanare il nobile sepolcro, e non avesse fatto confondere le ossa dei due martiri con quelle dei malfattori comuni.

Che importa! vi è qualche cosa che non si uccide, vi è qualche cosa che non può essere profanata da alcuno; che non ha da temere di nulla; ed è il ricordo della bontà eroica, della grandezza infelice.

Quello dei Bandiera era un tentativo che non potea riescire: poichè si basava sopra cose che non erano. Pure nessun tentativo è circondato di tanta poesia come questo: per il fatto stesso ch'era irrealizzabile, per la ingenuità con cui fu compiuto.

Ma nessuna iniziativa fra tutte quelle compiute prima delle spedizioni di Garibaldi fu più interessante di quella di Pisacane; meno per il tentativo rivoluzionario che per l'uomo che n'era a capo; meno per ciò che fece che per ciò che si proponeva di fare.

Carlo Pisacane napoletano era stato in situazione autorevole e importante nello stato maggiore delle due Sicilie; era di nobile famiglia; era sopra tutto un'anima inquieta, desiderosa di novità. Avea combattuto in Africa contro gli arabi; a Roma a Porta San Pancrazio; era esule a Genova nel 1857.

Basandosi su relazioni inesatte, contando sopra movimenti patriottici delle popolazioni meridionali, concepì l'idea audace di sbarcare sulla costa salernitana nel Cilento, di sollevare le popolazioni, di congiungerle ad altre ribelli di Basilicata e di giungere in Napoli a capo di esercito numeroso e ribelle.

L'idea di Ruffo, che dovea più tardi presiedere alla spedizione di Garibaldi, era anche nella mente di Pisacane. Solo egli abbreviava le distanze, e sperava giungere come per sorpresa sulla capitale.

Carlo Pisacane era un anarchico. Egli non adoperava questa parola che allora non era in uso, benchè Proudhon l'avesse già introdotta. Ma nella sua dottrina contenuta nel libro Saggio sulla rivoluzione si manifesta sinceramente anarchico.

Che cosa è l'anarchia? È la conseguenza estrema del liberalismo, e si basa sopra tutto su due concetti: sulla credenza che gli uomini abbiano una tendenza naturale a lavorare, a produrre, ad associarsi, e sull'altra credenza che gli uomini siano guastati dalle leggi. Queste, in certa guisa, rappresentano un male, poichè sono la violenza contro l'ordine naturale delle cose.

Come tutte le dottrine estreme, anche l'anarchia si basa sull'ottimismo; ma appunto per questo ha un fàscino di attrazione sulle anime semplici e sugli spiriti indocili. Essa trascina gl'ingenui e i violenti.

Quello che è stato chiamato più tardi il materialismo storico, la concezione marxistica della storia è chiaramente tracciata nell'opera di Pisacane, il quale riattaccava i fatti politici e sociali ai fenomeni della produzione. Alcuni brani della sua opera sembrano scritti ora, tanta è la modernità che l'ispira.

«Tutte le leggi, tutte le riforme, eziandio quelle in apparenza popolari, favoriscono solamente la classe ricca e culta, imperocchè le istituzioni sociali, per loro natura, volgono tutte in suo vantaggio. Voi plebe, allorchè crederete avvicinarvi alla mèta, ne andrete invece più lontano. Voi lavorate, gli oziosi gioiscono; voi producete, gli oziosi dissipano; voi combattete ed essi godono la libertà. Il suffragio universale è un inganno. Come il vostro voto può esser libero, se la vostra esistenza dipende dal salario del padrone, dalle concessioni del proprietario? Voi indubbiamente voterete costretti dal bisogno come quelli vorranno. Come il vostro voto può esser giusto, se la miseria vi condanna a perpetua ignoranza e si toglie ogni abilità per giudicare degli uomini e dei loro concetti?»

Se la rivoluzione fosse riescita vincitrice, Pisacane avea un piano per abolire la proprietà privata, e trasformarla in proprietà comune; abolire lo Stato e andare incontro a una specie di comunismo della produzione.

Poi che era fuori della realtà, non vedeva e non sentiva tutte le difficoltà che la natura delle cose opponeva a tutti i suoi piani; come ogni anarchico egli vedeva il male non già nella natura e nelle difficoltà limitatrici inerenti all'anima umana, ma nella volontà degli uomini: uno sforzo di una minoranza audace parea a lui dovesse bastare a tutto. Pure come l'errore ha il fàscino e l'illusione ha le dita di rose, alcune pagine di Pisacane non si rileggono nè meno adesso senza commozione.

Quando s'imbarcò per Sapri egli avea già quarant'anni: avea molto combattuto, molto visto. Nella sua vita irregolare — in ogni senso irregolare — avea perduto le illusioni giovanili, che contrassegnano la spedizione dei Bandiera; egli era in ogni senso un uomo maturo.

La sua spedizione, avvenuta nel 1857, fu fatta dunque con piena coscienza delle difficoltà, anzi con la quasi certezza della morte.

E prima di partire da Genova il 24 giugno 1857 egli volle dettare il suo testamento politico: poche pagine che neppur quelle si possono leggere senza emozione profonda.

Dopo aver affermato la sua fede socialista e aver notato che solo da una rivoluzione sociale potrà venir bene all'umanità, Pisacane dichiarava la sua antipatia per i movimenti costituzionali «.... per me non farei il menomo sacrificio per cangiare un ministro, per ottenere una costituzione; non meno per cacciare gli austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo; per me dominio di casa Savoia e dominio di casa d'Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all'Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri Stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall'altro, che la propaganda dell'idea è una chimera, che l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero.»

La rivoluzione doveva risultare da sforzi individuali. «Alcuni dicono che la rivoluzione deve farla paese; ciò è incontestabile. Ma il paese è composto di individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero questo giorno senza congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione deve farla il paese, di cui io sono una particella infinitesimale; epperò ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante.»

Dopo aver detto che egli si recava a Sapri nel principato Citeriore e aver dichiarato lo scopo della impresa, Pisacane affermava: «Non ho che i miei affetti e la mia vita da sacrificare a questo scopo, e non dubito a farlo. Sono persuaso che se l'impresa riesce avrò il plauso universale: se fallisse il biasimo di tutti; mi diranno stolto, ambizioso, turbolento, e molti che mai nulla fanno e passano la vita consumando gli altri, esamineranno minutamente la cosa, porranno a nudo i miei errori; mi daranno la colpa di non esser riescito per difetto di mente, di cuore, di energia.... ma costoro sappiano che io li credo non solo incapaci di fare quello che io ho tentato, ma incapaci di pensarlo.»

Dopo aver parlato di altre imprese e opere audaci, che avevano incontrato diffidenza e avversione, Pisacane continuava: «Non voglio paragonare la mia impresa a quelle, ma essa ha un lato comune con esse; la disapprovazione universale prima di riescire e dopo il disastro, e l'ammirazione dopo un felice risultamento. Se Napoleone prima di partire dall'Elba per isbarcare a Fréjus con 50 granatieri, avesse chiesto consiglio altrui, tutti avrebbero disapprovato una tale idea. Napoleone avea il prestigio del suo nome; io porto sulla bandiera quanti affetti e quante speranze ha con sè la rivoluzione italiana; combattono a mio favore tutti i dolori e tutte le miserie della nazione italiana.

«Riassumo: se non riesco disprezzo profondamente l'ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita. Tutta la mia ambizione, tutto il mio premio lo trovo nel fondo della mia coscienza e nel cuore di quei cari e generosi amici che hanno cooperato e diviso i miei palpiti e le mie speranze; e se mai nessun bene frutterà all'Italia il nostro sacrifizio, sarà sempre una gloria trovar gente che volenterosa s'immola al suo avvenire.»

La sincerità del sentimento, la certezza del sacrifizio che Pisacane andava a compiere, vengono fuori da ogni parola. Pisacane era in certa guisa l'anarchico che per una contraddizione sentimentale andava a compiere un movimento politico unitario; era l'anarchico, il quale però non discuteva dei mezzi, e, perchè alle forme politiche non credeva, tutto avrebbe tentato. I suoi compagni non eran tutti degnissimi, ed egli avrebbe vuotato volentieri le carceri per prendere chiunque potesse aiutarlo, appartenesse pure al rifiuto della società. Non involgeva egli in una stessa avversione i difensori del sistema politico e i difensori del sistema economico?

Le fasi della spedizione è inutile raccontare qui, nè dire com'essa fu ideata e con quali mezzi.

Pisacane insieme con 22 compagni, fondando su promesse in gran parte incerte e contando sull'incontro di forti nuclei che Rosolino Pilo dovea condurre dalla Sicilia, la sera del 25 giugno 1857 si imbarcò a Genova insieme a soli 22 compagni su un piroscafo della compagnia Rubattino. L'incontro con Pilo non avvenne: ma Pisacane con mezzi così scarsi volle nondimeno tentare la fortuna, e, consenziente il capitano della nave, fece uno sbarco temerario a Ponza, liberò molti relegati politici e riunì in tutto 323 uomini.

Contava altri uomini trovare al momento dello sbarco a Sapri, e tentativi di rivolta nelle province.

La sera del 29 giugno che il Cagliari operò lo sbarco a Sapri, non trovò quasi nulla.

Lo sbarco avvenne in quella dolce costa di Sapri, dov'è tanto cielo e tanto mare, in cui gli aranci sono boschi ed è come una primavera eterna.

Dopo aver dichiarato decaduto il Governo di Ferdinando II, Pisacane e i suoi compagni cercavano smuovere le popolazioni. Ma non trovarono che indifferenza. Chi erano costoro? donde venivano? che cosa volevano?

Il cardinal Ruffo era uomo di Chiesa, e avea il prestigio della rossa porpora e della croce d'oro e parlava il linguaggio della passione e della violenza ed eccitava gli odii locali e metteva il popolo contro la borghesia. Ma che cosa volevano coloro che sbarcavano a Sapri?

Il drappello procedette nella indifferente avversione popolare.

Dopo Sapri il paesaggio diventa montuoso. Sono monti petrosi, piccole pianure piene di sterpi, alberi nani. La spedizione sbarcata così giocondamente nelle vie di Sapri, dovè provare un presentimento di morte traversando quel paesaggio di malinconia.

L'avviso era stato dato in tempo, e i soldati e i gendarmi erano in moto. La piccola spedizione non si era accresciuta che di pochi uomini, quando sulla collina detta Morge del Piesco, incontrò le forze regie. Dopo accanito combattimento in cui era per vincere, l'arrivo di truppe reali del settimo cacciatori costrinse la spedizione a ritirarsi, lasciando sul terreno cinquantasei morti, oltre trenta feriti e circa duecento prigionieri. Nella ritirata Pisacane contava internarsi pei boschi e andare a fare insorgere il Cilento. Ma a poca distanza gli uomini della spedizione, giunti sotto il paese di Sanza, così triste con le sue case nere, furono assaliti da una turba di contadini e in gran parte uccisi, o feriti, o presi. Pisacane stesso fu ucciso: ed egli che avea sognato il trionfo o una morte eroica, combattendo in pieno sole, giacque ucciso dai contadini in una campagna triste. Era per essi uno straniero? era un nemico?

Ma la spedizione di Pisacane fu il prodromo di fatto ben più grande: della spedizione di Garibaldi.

Solo due anni dopo, la spedizione di Garibaldi partiva dallo scoglio di Quarto, diretta verso la Sicilia e portava la rivolta nel Mezzogiorno, in cui già per la incapacità del capo il governo era in dissoluzione.

Altri ha parlato della spedizione di Marsala: e non v'è alcuno che ne ignori la quasi leggendaria fortuna.

Per uno strano caso Garibaldi, sbarcato con piccola resistenza in Sicilia, la traversava trionfalmente; sbarcava sul continente ed entrava in Napoli da trionfatore.

Che cosa un tentativo sì eroico rese possibile? e perchè potè esso riescire? sembra quasi inverosimile che un regno in cui erano centomila soldati sia caduto rapidamente nelle mani di pochi uomini, che avevano così deboli mezzi.

Ebbene, o signori, nel senso opposto che cosa era stata 61 anni prima la spedizione di Ruffo? Un tentativo eroico legittimista avea anche allora riconquistato al re un paese che era nelle mani dei francesi e dei liberali. E si può proprio dire che la spedizione di Ruffo non sia stata la preparazione di tutte le seguenti fatte nel senso contrario?

Io ho parlato dell'Italia meridionale poichè essa è stata il paese ove le spedizioni più temerarie sono avvenute, vincitrici o perditrici, in breve volgere di anni. Ma in tutta Italia quanti atti di eroismi dimenticati, quante audaci imprese, quanti tentativi temerari! Per un eroe che ricordiamo quale turba anonima di dimenticati, quanti uomini morti nel silenzio e nel dolore, quanti periti in quella primavera del sentimento che fu il movimento per l'unità!

Benedetti i forti, i buoni, gli audaci, coloro che hanno lottato e sofferto; benedetti più ancora quelli che noi non ricordiamo e che nessuno ricorderà più!

L'Italia è stata veramente la terra degli eroi.

Se l'eroe è colui il quale compie da solo cose straordinarie, o tenta di compierle, e per esse muore, l'Italia è stata la terra sacra degli eroi.

Pure da questo fatto che dimostra l'intima virtù della nostra gente, noi dobbiamo trarre ragione di intima tristezza.

Perchè l'Italia è stata la terra degli eroi?

Perchè in essa era debole il sentimento della responsabilità individuale; perchè la cultura individuale era bassa; perchè mancava quello spirito di solidarietà, di disciplina, che hanno avuto altri paesi più educati, o più fortunati.

Da noi è accaduto spesso che un solo ha cercato di compiere quelle grandi opere che dovevano venir fuori dalla coscienza collettiva. Ond'è rimasto a noi un senso di faziosità, di superbia, una violenza individuale, una sfiducia nella democrazia dei nostri ordini.

Poichè gli uomini non si misurano e la tradizione passata impera, noi siamo rimasti il paese sacro alle rivolte. Se l'azione di pochi uomini può tutto; se un uomo solo può arrogarsi di fare ciò che dovrebbe un popolo; se non vi sono necessità che s'impongano; la faziosità che è già nell'istinto entra anche nella coscienza. In Italia noi scontiamo ancora le antiche illusioni.

Pure nelle scuole continuiamo a dire che l'Italia è la terra degli eroi; pure continuiamo a lodare la violenza individuale; a riconoscere i tentativi violenti di sommosse del passato non già come episodi finiti, ma come qualche cosa di grande e d'imitabile. Siamo giunti perfino a lodare il regicidio, ad ammirarlo, a descriverne i benefizi; quasi che fosse lecito uccidere per una ragione o per un'altra. E poi ci meravigliamo che la nostra democrazia nuova invece di avere quelle qualità di ordine, di metodo, di disciplina, senza di cui nessuna democrazia è durevole, sia di sua natura faziosa. Abbiamo lodato il regicidio e deploriamo la violenza individuale: riempiamo le teste giovanili di ricordi di cospirazioni, di sètte, di rivolte, e pretendiamo la disciplina e la solidarietà; insegnamo una storia eroica, cioè una storia di rivolte individuali, e ogni rivolta individuale ci sorprende.

Il popolo non ama le distinzioni; nè sa persuadersi, che, se il fine è buono, sopprimere un re assoluto sia bene e sopprimere un re costituzionale sia male. L'anima popolare ama ciò che è semplice, ciò che è chiaro, ciò che è evidente.

Quello che è più meraviglioso non è che l'unità italiana si sia fatta, ma che si sia mantenuta.

Ora al popolo noi dobbiamo parlare un diverso linguaggio.

Ogni atto di creazione non si compie se non con una violenza. Anche il pulcino che esce dall'ovo fa come dicono i naturalisti, una piccola rivoluzione. Ma quando n'è uscito, il suo sviluppo lento non è che un fatto continuativo, senza violenze biologiche. Noi dobbiamo considerare la nostra formazione come una necessità; non come un metodo. Dobbiamo dire che l'Italia è stata la terra degli eroi non perchè valesse molto, ma perchè valea poco. Gli eroi, cioè gli audacissimi, nella debolezza o nella indifferenza del grande numero, hanno fatto ciò che tutti doveano. Ma le loro opere non possono essere conservate e accresciute e migliorate se non con una educazione progressiva. Ogni atto di creazione è un atto di violenza: ma è una fase, traversata la quale, bisogna che lo sviluppo sia lento e continuo.

Noi dobbiamo cessare di attendere in ogni occasione l'uomo provvidenziale: ci dobbiamo convincere che quest'uomo provvidenziale è in tutti, e dobbiamo considerare gli altri uomini non già come il mezzo, ma come lo scopo.

L'uomo provvidenziale non esiste: e se a un uomo è dato far più che agli altri, non bisogna nemmeno esagerare ciò che un uomo può. Quei grandi politici o finanzieri che noi invidiamo spesso agli altri, se si potessero trasportare da noi non farebbero se non ciò che i nostri fanno: infatti essi sono grandi perchè imperniano movimenti che in realtà esistono.

Questa contemplazione buddistica, per cui in ogni partito ci asteniamo da ogni opera attiva di bene e aspettiamo che venga l'uomo forte, l'uomo provvidenziale, è quanto di più dissolvente si possa immaginare, ed è il risultato della nostra concezione eroica della storia.

Le società umane in tanto valgono in quanto valgono non alcuni uomini, ma tutti gli uomini che le compongono. I popoli che prevalgono durevolmente sono quelli di cui la educazione intellettuale e materiale delle masse è più alta e dove la solidarietà è più grande. Dove l'anima collettiva vibra di più, dove più grande è l'unione, ivi la forza è maggiore.

Pensate invece quale effetto deva avere sopra menti incolte, in cui fermentano l'odio e la superstizione, l'insegnamento che noi diamo.

Noi siamo gli eredi dei meriti e delle colpe dei nostri padri, e noi già scriviamo con le opere nostre la storia dei nostri figliuoli. Facciamo che questa storia sia meno faziosa; insegnamo che il lavoro umano è sacro; che la violenza comunque adoperata è male; infondiamo quel rispetto della libertà umana da cui purtroppo ci allontaniamo; evitiamo anche di ripetere, ciò che non è vero, che il passato è più grande del presente.

Da tre secoli a questa parte mai l'Italia è stata ciò che è ora: in quarant'anni di unità, di questa unità che con le sue ingiustizie è sempre il nostro più grande bene, in quarant'anni di unità, noi abbiamo realizzato progressi immensi. Noi non eravamo nulla e noi siamo molto più ricchi; molto più colti; molto migliori dei nostri padri.

Siamo anche più scontenti e ciò è anche bene, poichè la rassegnazione supina è dei deboli.

Spogliamoci ora anche dei pregiudizi antichi e diciamo tutta la verità: l'Italia è stata la terra degli eroi, perchè valea poco.

Quando tutti avranno il sentimento del loro dovere, il senso della loro responsabilità, quando sopra tutto avremo combattuto i germi morbidi della miseria e i fermenti della ignoranza; allora non avremo più bisogno di eroi: potremo avere grandi statisti, grandi tecnici, se occorrerà grandi strateghi, non mai eroi nel senso in cui ne abbiamo avuto, finora.

Signore, Signori,

Voi ricordate l'episodio che gli storici hanno tante volte ricordato, che il romanziere potente ha divulgato.

Nella notte che precedette la battaglia più decisiva della guerra franco prussiana, l'esercito tedesco e l'esercito francese non erano a grande distanza, e nel campo francese in cui già le prime disfatte aveano gittato una profonda tristezza, si seguivano le mosse del nemico con ansia indicibile. Ora, nella veglia tragica giunse come di lontano una immensa voce. Nella notte fredda e solenne tutti i soldati tedeschi pregavano insieme e cantavano insieme il corale di Lutero. Era un canto eguale, solenne, quasi l'affermazione della speranza comune e della vittoria immancabile.

Quegli stessi soldati di Francia che si erano mostrati arditi anche nella disfatta sentirono scendere nell'anima come una nube di dolore e, più che il rombo del cannone, li atterrì quel canto; sentirono che non lottavano già contro un esercito, ma contro tutto un popolo, che avea un'anima sola.

Troveremo anche noi questa grande parola di unione? Sapremo noi abbandonare i nostri errori e i nostri pregiudizi?

DALLE DIECI GIORNATE DI BRESCIA ALLA BATTAGLIA DI SAN MARTINO

CONFERENZA DI POMPEO MOLMENTI.

No, signore e signori; questa volta i poeti non esagerano. Brescia, con meraviglioso esempio di virtù guerresca, dimostrò come non bugiardamente Vincenzo Monti l'avesse chiamata

Ricca d'onor, di ferro e di coraggio.

E, dopo un'alta e suprema prova di bresciano valore, la poesia rispondeva ancora esattamente all'austero giudizio della storia, quando l'Aleardi cantava:

Brescia dai monti fertili di spade

Niobe guerriera de le mie contrade

Lïonessa d'Italia,

e il Carducci, allora che, volgendosi alla statua della Vittoria, tra le rovine del tempio di Vespasiano, esclamava:

Lieta del fato Brescia raccolsemi,

Brescia la forte, Brescia la ferrea,

Brescia leonessa d'Italia

Beverata nel sangue nemico.

V'è infatti tanta grandezza nella lotta di Brescia contro lo straniero, breve lotta di soli dieci giorni, ma atroce, disperata, sostenuta con impavida fortezza, da poter dire, senza eccesso di lode, essere questa la più eroica pagina di quella sfortunata, ma non inutile rivoluzione, la quale, or è mezzo secolo, iniziava il risorgimento politico d'Italia. Ricordiamo quei tempi e quelle prove, perchè la patria, nei dì del dolore fortemente sofferto, più santa appare che in quelli dell'esultanza.

In quella impetuosa carica alla baionetta contro lo straniero, che fu la rivoluzione del 1848, Brescia si trovò subito in prima linea; e cacciata la guarnigione austriaca dello Schwarzenberg, fece sventolare la bandiera nazionale sul colle Cidneo.

La fioritura italica d'illusioni e di speranze appassì in breve, e la tirannide straniera calò ancora tenebrosa sulla libertà nazionale. Alla sconfitta di Custoza seguiva l'armistizio Salasco, e il 16 agosto i soldati stranieri rientravano in Brescia.

Tra inique persecuzioni e frequenti speranze s'apriva il 1849. Alle fucilazioni, alle verghe, alle prigionie, agli oltraggi, rispondeva torbido e cupo il fremito, non pure di Brescia, ma delle campagne e delle vallate vicine, fatte contro a segreti convegni di patriotti. Gli animi trepidavano ancora di speranza, guardando al vessillo tricolore, tuttora sventolante su due città gloriose, Roma e Venezia, e al Piemonte, il quale si cimentava di nuovo a difendere conculcati diritti.

Denunziato l'armistizio Salasco, Carlo Alberto lasciava Torino e si avviava verso la Lombardia. A Brescia, ove metteva capo la cospirazione lombarda, un comitato di cittadini animosi preparava l'insurrezione.

Il giorno 19 marzo, sui colli che incoronano la bella città, apparve, con una squadra d'armati, araldo di libertà, il prete Boifava, anima di apostolo e di soldato, tutta accesa del divino entusiasmo di combattere per la patria.

La fiamma vendicatrice divampa il giorno 23 marzo. Una nuova prepotenza delle soldataglie straniere fa insorgere il popolo, il quale fuga la guarnigione austriaca, appena in tempo di chiudersi nel Castello dominante, entro le mura la città. E dal Castello, a mezzanotte, incomincia furioso il bombardamento. Il fragor del cannone si diffonde lontano pei campi: d'eco in eco se lo rimandano i monti circostanti, augusto segnale alle milizie del popolo, preparato a disperate difese.

Si ricorre a tutte le armi somministrate dal furore, e il selciato, scomposto da uomini, da donne, da fanciulli serve ad erigere barricate; con ostinazione invincibile i combattenti cacciandosi a qualunque rischio, non ricusano qualsivoglia miseria estrema, stanno pertinaci a distrugger sè stessi, piuttosto di venire ad accordi con lo straniero.

Intanto, da Mantova, i battaglioni austriaci del generale Nugent correvano su Brescia, ma, giunti alle porte della città, trovarono animosi drappelli guidati dal Boifava e dallo Speri, pronti a mostrare che Brescia non era preda esposta nè facile, e non le mancavano e petti e braccia e ostinata virtù di resistere. Con impeto di prodezza eroica, i nostri ributtarono i croati e volevano inseguirli, se quell'ardore imprudente non fosse stato trattenuto da Tito Speri, capo improvvisato di gente raccogliticcia, ma che aveva occhio di capitano esperimentato e non ignorava le industrie e le precauzioni guerresche.

Poco più di cento prodi tennero fermo tre ore contro i battaglioni del Nugent, il quale rivolto ai parlamentari:

«Entrerò in Brescia per amore o per forza.»

A cui lo Speri:

«Per forza, forse: per amore mai.»

Disse e ritornò fra i suoi il soldato della patria.

Con che dignità antica questa nobile figura di patriota e di guerriero traversa i campi della morte! Nella meravigliosa decade bresciana, Tito Speri s'alza splendido tra una schiera di prodi. Tutto in lui era sincero: lo sdegno e il perdono, l'ira e l'amore, il sentimento e il pensiero.

Alle superbe parole del Nugent, il popolo rispose gridando: «Guerra e morte» e al terribile grido s'unirono in breve il rombo del cannone tedesco e il martellare delle campane bresciane.

Gli assalti degli austriaci erano sempre respinti, ma alle cruenti perdite dei bresciani non furono compenso quelle, benchè maggiori, del nemico, ch'ebbe lo stesso generale Nugent, mortalmente ferito.

Solo, il giorno 29, si apprese che la fortuna italica s'era infranta a Novara. L'immane sventura parve rinvigorire il coraggio.

Le palle percotendo sulle barricate le dirompeano con alto fracasso, e i bresciani, privi di ripari, si mostravano egualmente terribili ai nemici, giurando ai loro morti onore di funerali di sangue.

Haynau, il terribile Haynau, il quale stava a campo sotto Venezia assediata, fremeva di sdegno apprendendo che, dopo sette giorni di lotta, le bene agguerrite milizie imperiali non erano state ancor capaci di aver ragione di una folla incomposta di popolani male armati. Il feroce soldato prese un subito divisamento: abbandonato il blocco di Venezia corse a Brescia, e col favore della notte penetrò nel Castello, insieme con molte milizie.

Quando, in sull'alba del giorno seguente, il maresciallo austriaco, dallo sterrato del castello, guardò dinanzi a sè, Brescia appariva superbamente bella, quantunque il dì fosse grigio. Dalle vie, entro le mura, un remore di grida liete e gagliarde saliva, quasi voce della città, palpitante di prodigiosa vita e accesa da virtù indomabile.

I bresciani, cuori forti, sani, generosi, stavano vigilanti alla custodia della patria. Tra un velo nebbioso si vedevano appena le popolose borgate, i colli fertili e incastellati, i ronchi sparsi di ville. Sotto il giro delle oscure piante, che incoronano i monti, si scorgevano distinti appena i verdi seni delle floride pendici, e si estendeva misteriosa e indefinita la pianura lombarda, sfumante via via nei cinerei vapori dell'orizzonte. E lì sotto, Brescia, torreggiante d'ogni intorno di palagi e di chiese, illuminata, anche sotto il grigio cielo, dal sole della libertà.

Quali pensieri si saranno in quell'ora agitati nel bieco animo dello straniero? Ah! è solo nel pensiero dei buoni che la bellezza e la giovinezza della natura diventano belle e dolci del pari.

Non altro che feroci cupidigie di stragi o di dominio animavano quel micidiale, il quale spediva tosto un messaggio al Municipio, chiedendo senza dimora la resa della città, minacciando saccheggi e devastazione.

Le minacce raddoppiarono l'ardimento. Cresceva col pericolo la fermezza del proposito generoso e feroce. Divampanti d'ira, tutti corsero a brandire le armi,

No, Italia non vide mai un coraggio così determinato.

Quante compagne ebbe a Brescia la donna greca che rispose: «l'ho partorito per questo» a chi le annunziava morto in battaglia suo figlio: quante bresciane, dalle barricate, guardarono i loro congiunti combattere e ne sentirono orgoglio!

Le campane tutte cominciarono a suonare a stormo, e quando il cannone diede il segno, le soldatesche si precipitarono fuori del Castello, e la città fu investita da tutte le cinque porte.

La procella del ferro e del fuoco imperversava furiosa, la morte mieteva a Brescia il fiore de' suoi prodi, dalle ruine fumanti s'alzava verso il popolo una voce che diceva: «tutto è perduto, arrenditi, ti salva!» e il popolo con ostinato eroismo rifiutava ogni proposta di resa.

Haynau, pensando sforzare altro passo, scagliò alcuni battaglioni verso una piazza della città chiamata dell'Albera «Termopili bresciana.» Qui la resistenza fu più che umana. «Trentamila di questi indemoniati bresciani per conquistar Parigi!» esclamò Haynau, guardando dal Castello l'epica zuffa.

Le schiere austriache cadevano a' piedi dei serragli.

Non un colpo andava in fallo.

Quei magnanimi bresciani, cacciando fuori altissime grida di vittoria, furiosi, accecati, deliranti. apparivano, neri di polvere e stravolti, sull'alto dei ripari. Stringendo con mani potenti le daghe e le coltella, digrignando i denti, con le vene turgide, con gli occhi dilatati, iniettati di sangue, nei quali scintillavano trucemente le pupille, correvano a furia sui nemici, volendo, come dicevano, odorarne il fiato.

E tale fu l'impeto, così pauroso l'aspetto di quei terribili combattenti, che molti nemici, spersi, scoraggiati, confusi, cercarono scampo nella fuga, altri conquisi da un invincibile timor pànico, da una paura misteriosa, da un terror pazzo, immobili, muti, col fiato sospeso, erano uccisi o feriti, prima di riaversi dallo stupore.

Che scorno per le armi imperiali! Ma quel giorno sulla piazza dell'Albera non strisciò la sciabola tedesca.

Questa è vera gloria!

Il maresciallo feroce, disperando piegare con le armi l'invitta costanza dei bresciani, ordinò che con acqua ragia e pece, si appiccasse il fuoco alle case, così che in breve le tenebre furono lugubremente illuminate dagli incendî.

S'adunarono allora a consiglio i reggitori del Comune e il Comitato di difesa. Il rovinìo delle case, il crepitìo degli incendî, il tuonar dei moschetti, il rombo del cannone, dicevano con lugubre voce ch'era follia prolungar le difese, che la rabbia tedesca si sarebbe voltata più feroce contro la città, che l'arrendersi avrebbe risparmiato un nuovo spreco di vite, uno sperpero lagrimabile di sangue, e il popolo divinamente lacero, sanguinoso, straziato, rispondeva di voler combattere ancora.

Brescia accoglieva degnamente sul suo capo il fato della moribonda libertà italiana!

Alla violenza eroica, con cui il dì primo di aprile si rinnovò il combattimento, parve che Brescia non fosse esausta da nove giorni di titanica lotta.

Al furore dei bresciani, nel cui animo ruggiva lo spirito della battaglia, anco una volta balenarono le vecchie milizie del dispotismo. Se non che nuove artiglierie e nuovi battaglioni, giunti dal Ticino e dal Mincio, oppressero con un turbine di fuoco, schiacciarono con la potenza delle armi, non vinsero i difensori di Brescia.

Alcune parti della città presentarono allora uno spettacolo da agghiacciare le vene. I soldati saccheggiarono, incendiarono, uccisero donne, vecchi, bambini. Correvano rigagnoli di sangue, i muri eran chiazzati di sangue, i cortili allagati di sangue. Ingombravano le vie mucchi di cadaveri scorticati, sbranati, sfracellati, masse informi di carni lacerate. Alcune volte (è uno scrittore sereno che racconta, il Correnti) quei crudi si sforzavano di far inghiottire ai malvivi le sbranate viscere dei loro diletti, altre volte scaraventarono teste di teneri bambini tra le schiere bresciane. Con altissimo scroscio cadevano le barricate, passava la processione lugubre dei compagni portati sulle barelle, con la fronte spaccata, il petto lacerato; le schiere erano spazzate via dalla mitraglia, e il popolo con le armi alla gola, all'intimazione di cedere, di sottoporsi, fieramente resisteva.

Già la bandiera bianca sventolava sulla Loggia, e tra le fiamme degli incendi si combatteva ancora, con un valore più forte della barbarie nemica.

A un frate, che tra il grandinar dello palle s'era recato al Castello, per ispetrare il duro cuore di Haynau, il generale austriaco, implacabilmente imperioso, con lugubre ironia rispondeva che nulla d'ostile avrebbero sofferto i pacifici cittadini.

Ma qual cittadino pacifico si sarebbe ancora trovato fra i superstiti? Fra i superstiti, che molti e molti indomati eroi avevano bagnato del loro sangue le zolle della patria, che parevano palpitar di ribrezzo.

La storia ne ricorda i fatti più che i nomi. Che importano i nomi? Tutti erano pronti a morire com'essi dicevano, alla bresciana.

Ecco uno che squarciato il petto da una palla cade dicendo: «Me fortunato, ho l'onore di morire per primo sul campo di battaglia.» — «Ed io secondo» — rispondeva un altro, cui la mitraglia dirompeva gl'intestini. Un terzo, gravemente ferito, rifiutava l'aiuto dei commilitoni, perchè non abbandonassero il posto. — I ricordi son molti. Sacri ricordi, o signori, che la patria unisce nei suoi fasti alle sfortunate, ma eroiche prove di valore, date dalla vecchia aristocrazia piemontese pochi giorni prima, sugli infausti campi di Novara. L'oscuro popolano bresciano, che, col cappello forato da tre palle, si scaglia contro quattro austriaci, ne uccide uno, manda in fuga gli altri e torna a' suoi dicendo: «Ben mi pagai del mio cappello»; e l'altro ignoto plebeo, a cui una bomba porta via il braccio sinistro, e dopo aver scaricato col braccio destro il fucile cade gridando: «Viva! mi resta un braccio per la spada!» non sono forse pari nella virtù e nella gloria a quel vecchio patrizio Perrone di San Martino, che, alla Bicocca, colpito a morte, stramazza di cavallo, dicendo a Carlo Alberto: «Ora il mio dovere è compiuto,» e al conte di Robilant, che levando il moncherino sanguinoso grida: «Viva il Re»? È in tutti questi prodi un comune lignaggio, che ha per motto di famiglia: patria e valore. Haynau, passato alla storia col marchio del sangue sopra la fronte, impose a Brescia duri patti, che dovettero essere accettati dai reggitori della città. Ma non da tutti i bresciani, nati con l'istinto della l'esistenza disperata nel sangue.

Le mura poteano vincersi, i petti no, e si volle resistere tino all'estremo spirito. Pretesto agli oppositori per incrudelire dovunque e per iniquamente violare i patti della resa. Testimonianze irrefragabili parlano degli orrori della soldataglia, d'incendi, di fucilazioni, di violenze: narrano di cittadini inermi bastonati, martoriati, d'alcuni arsi vivi, impeciati ed abbrustoliti, d'altri ammazzati nel letto, nei nascondigli: affermano come nè l'età, nè il sesso imponesser pietà, essendosi trovati donne e vecchi laceri di ferite, bambini o infranti alle muraglie, o calpestati sul suolo, trapassati dalle baionette e lasciati là, fra orrendi contorcimenti, sotto gli occhi materni. Quelle belve umane entrate in un collegio di fanciulli, ne sgozzarono cinque; altri, ebbri per avere aspirato il fumo del sangue, entrarono in una casa e sotto gli occhi della madre massacrarono un giovane epilettico. Un prete, uscito di città, per cercar notizie della madre, fu fucilato: asperso di resina e arso vivo un altro prete, dopo aver veduto due sue nipoti giovanette stuprate e scannato un nipote: un vecchio venerando, trapassato dalle baionette, per non aver voluto giurare sulla bandiera imperiale: un popolano, Carlo Zima, vendicò sè, morendo arso con uno de' suoi carnefici. Oh! esecrazione! Non resiste più l'animo a queste scelleraggini nefande, il cui solo ricordo ci oscura la ragione e ci fa palpitare il cuore con fremiti di sangue.

Così, per le mani di un soldato carnefice, finiva strangolata la libertà bresciana, e, fra la tirannia militaresca e la violenza ladra dei barbari, la scettica e vile Europa guardava indifferente. Ma quei morti tennero viva l'Italia, e da quelle stragi uscì voce di resurrezione.

Brescia, che in quei memorabili giorni irradiava l'Italia della sua eroica virtù, aveva raccolto dalla propria storia e al sangue de' suoi martiri aveva confidato il diritto che dentro alla sacra cerchia delle Alpi e del mare, la patria non dovea essere contaminata da straniero dominio.

Seguirono tempi di cupa tirannide. L'Austria, con impudenza soldatesca, pensò assicurare la obbedienza col terrore, col sospetto, con l'arbitrio, e la Lombardia e la Venezia, oppresse peggio che altro paese dell'infelice Italia, precipitarono da una troppo grande altezza d'illusioni e speranze in orrende calamità. La baldanza soldatesca del Radetzky non obbediva neppure ai ministri di Vienna, i quali avrebbero voluto porre un freno all'imperio della spada. Ma non erano smarriti gli animi e gli intelletti degli italiani, non tutte spente le speranze, e la nazione imparava dal dolore l'arcano della risurrezione, e, ammaestrata dalla esperienza, si preparava con tenacia a ritentare la prova, ad affermare la libertà e la patria con la meditazione, con l'opera, con la parola, con il sangue.

Il cielo d'Italia è ancora solcato da fuochi di patriottismo, e le società segrete, prendendo inspirazione dal comitato nazionale, istituito a Londra dal Mazzini, ordivano congiure, pronte a scoppiare in aperta rivolta. A Mantova, dove più inferociva l'ira soldatesca dello straniero, ordinavasi un comitato di patriotti, di cui era anima Enrico Tazzoli, sacerdote di santa vita. L'austriaca ferocia soffocava le riottose speranze i con supplizi, con le carcerazioni con le bastonature, con le confische dei patrimoni, con le multe, con gli esigli, con la violazione della legge comune e dei trattati. Le persecuzioni accendevano l'ira, e il sangue versato fecondava il seme di libertà.

La nuova serie dei martiri è iniziata dall'eroico popolano Sciesa, milanese, fucilato il 2 agosto 1851. Lo seguono nella morte gloriosa il comasco Dottesio strozzato a Venezia, il sacerdote Grioli fucilato a Mantova. E a Mantova furono poi tratti al supplizio, sugli spalti di Belfiore, Enrico Tazzoli, lo Scarsellini, lo Zambelli, il Canal, il Poma, il Grazioli, il Montanari. Molti, a cui fu risparmiato il patibolo, furono prima sepolti nelle orrende mude della Mainolda, poi mandati a scontare il delitto d'amare la patria nelle prigioni boeme.

Allora che l'anima si ritrae nell'asilo del passato, ove le burrasche mondane romoreggiano, come il fiotto procelloso dell'Oceano sulla riva sicura, ci appare, tra i crocei vapori vespertini, nobile e santa fra tutte, la figura di Tito Speri, l'eroe delle dieci giornate di Brescia, penzolante dalla forca, di Belfiore. Quel pallido fantasma non è accompagnato da alcun sentimento di rancore o di vendetta. La notte precedente al supplizio, l'eroico giovane, il quale abbandonava la vita a ventotto anni, scriveva una lettera ad Alberto Cavalletto, che non si può leggere senza profonda commozione, «Nella mia vita — così egli scrive — ho qualche volta gustato delle gioie, ma te lo assicuro, in confronto a quelle che provo in questi momenti, esse non furono che miserabile fango. La mia gioia al pensiero che fra poco andrò a morire per la patria, è così viva, così intensa, che se gl'Italiani potessero averne un'idea, si farebbero tutti ammazzare.» Con lo stesso ardente entusiasmo, i martiri della Chiesa primitiva andavano a morire per la religione. Oggi, dopo tanto breve corso di tempo, quei generosi che ci diedero una patria, sembrano così distanti da noi, quelle audacie magnanime sembrano così lontane da questi giorni, in cui ogni senso di patria poesia è distrutto dalla cosa pubblica fatta bottega di vanità, dalla pratica operosità, che converte l'anima in denaro. Ma allora la patria era veramente una religione, la quale insegnava la nobiltà del morire per un'alta idea e apprendeva la forte efficacia della virtù, che a quei santi dell'età moderna proveniva dal cuore: virtù di religione, esercitata per amore all'invincibile sentimento dell'eterno bello, dell'eterno giusto, dell'eterno vero; virtù d'affetto, che, pur vibrando alle speranze, non fuggiva il dolore e lo sentiva, e lo misurava, e lo sopportava; virtù di sacrifizio, che facea serenamente rifiutare la vita per la patria adorata.

Allora nessuna persecuzione, per quanto feroce, poteva domare gli animi, anelanti a libertà.

Il Piemonte, il nobile asilo d'Italia, accoglieva i profughi delle provincie oppresse e li adoperava come cittadini. Le lettere nella Lombardia e nella Venezia, pur lasciando le forme rivoluzionarie, che aveano preparato il 48, ma sempre informate all'odio contro lo straniero, continuavano ad armare le menti al conquisto della libertà.

Camillo di Cavour, nel quale l'animo del cittadino era anche più grande della mente acuta del ministro, faceva suo, con penetrazione sicura, il concetto mazziniano dell'unità italiana e lo incarnava nella monarchia di Savoia, compiendo una delle più belle rivoluzioni della storia.

Ormai s'era creato in Europa il convincimento che l'Austria avrebbe comandato in Italia ancora per poco, e che l'Italia, dopo tanta virtù di sacrifizi, di lotte, di opere, di studi, avea bene il diritto di costituirsi in nazione indipendente.

L'Austria allora, cui più che la vergogna delle sue inique oppressioni cuoceva la riprovazione di tutte le nazioni civili per le sue forme di governo, pensò adoperare, dopo i patiboli e le carceri, un'arme più insidiosa, le lusinghe, e simulò di farsi più umana. «No, noi non domandiamo all'Austria — esclamava Daniele Manin, l'esule magnanimo — che sia umana e liberale in Italia, ma le domandiamo che se ne vada; noi non sappiamo che farci della sua umanità e del suo liberalismo, e solo vogliamo esser padroni in casa nostra!»

Che l'Austria non fosse mutata e sotto le blandizie celasse l'antica ferocia, provò la nuova forca rizzata nel 1855 a Mantova, e a cui fu appeso, inclito martire, Pietro Fortunato Calvi, l'eroe del Cadore.

* * *

Un dì, la bandiera italiana apparve sui baluardi di Sebastopoli, unita ai vessilli dei più forti popoli dell'Occidente. Dopo la guerra di Russia, nel Congresso di Parigi, la causa italiana fu dichiarata solennemente d'interesse europeo, raccomandata al tribunale supremo della civiltà cristiana, e il conte di Cavour arditamente proclamava che l' Austria in Italia era stata sempre attendata.

Ormai l'Italia non si sentiva più sola, abbandonata, e precorreva, con l'ansia del desiderio, gli eventi.

E che giubilo irrefrenato, da un capo all'altro della penisola, commosse, non molto dopo, i popoli, all'annunzio che la Francia, la gloriosa sorella latina, dava la mano all'Italia per rialzarsi e per iscuotere i danni e le onte del servaggio!

Nei primi giorni del maggio 1859, Vittorio Emanuele e Napoleone III si mettono a capo dei loro eserciti, mentre Garibaldi conduce i suoi Cacciatori delle Alpi. Il 20 maggio, gli austriaci toccano dalle armi franco-piemontesi la prima sconfitta in Lombardia, a Montebello; il 30 sono fugati a Palestro. Fra la prima e la seconda vittoria, Garibaldi, il 23 maggio, entra trionfante a Varese, il 27 a Como.

Il 4 giugno, gli eserciti alleati passano il Ticino, e i francesi vincono il nemico a Magenta; l'8 a Melegnano. In questo stesso giorno Vittorio e Napoleone entrano in Milano, tra l'entusiasmo frenetico delle popolazioni redente.

Gli alleati, con rapida marcia, avanzano verso il Mincio, dove, ritirandosi sulla sinistra sponda, s'è concentrato l'esercito austriaco, riordinato, rafforzato da fresche e numerose milizie, sotto il comando supremo dello stesso imperatore Francesco Giuseppe. Il 16 giugno, Vittorio Emanuele entra in Brescia, seguìto, dopo due giorni, da Napoleone. Il nemico è vicino: al di là del Mincio, il quadrilatero formidabile: protetto dal quadrilatero uno degli eserciti più agguerriti e disciplinati del mondo. E' ardua la partita. All'austriaco, vinto nelle precedenti battaglie, ma sempre superiore di numero, parevano sorridere probabilità di vittoria.

Il 24 giugno, per le strade di Brescia, è un affollarsi di gente, un richiedersi ansioso fra i cittadini, un'agitazione piena di speranze e di trepidazioni. Distinto, incessante, tremendo giunge il rombo del cannone. A poche miglia da Brescia si decide delle sorti d'Italia.

Il 23 giugno, l'imperatore Francesco Giuseppe, riprendendo l'offensiva, aveva fatto ripassare il Mincio al suo esercito. Nè i franco-piemontesi, nè gli austriaci credevano incontrarsi così presto, e nessuno pensava si sarebbe subito impegnata battaglia.

I due eserciti procedevano, senza saperlo, l'uno contro l'altro, su quel terreno, che sta fra il Chiese e il Mincio, e da una parte ha per confine il Lago di Garda, dall'altra finisce nell'ampia pianura mantovana.

Erano centosessantatre mila gli austriaci, con 688 pezzi di cannone, e si spiegavano su circa trenta chilometri, con la destra appoggiata al Lago di Garda, il centro nel gruppo di colline, fra cui s'ergono Solferino e Cavriana, e la sinistra verso la pianura di Mantova.

Erano centocinquantacinque mila, con 552 pezzi d'artiglieria, gli alleati.

I piemontesi, alla, sinistra, dovevano occupare le forti posizioni montagnose, che dal Lago di Garda vanno digradando alla pianura, mentre da Lonato e Castiglione, nei campi in cui vivono le memorie di altre guerre napoleoniche, si distendevano fino alla pianura di Mantova i corpi d'esercito francese, comandati dal Baraguay d'Hilliers, dal Mac-Mahon, dal Niel e dal Canrobert. Fu primo il Niel a urtare con grandissimo impeto gli austriaci, che l'assalto sostennero con uguale tenacia.

Presto la pugna s'accese dovunque; più terribile nel centro, a Solferino, dove Napoleone III, con prontezza di concetto degna del grande zio, comandò di concentrare lo sforzo maggiore. Là veramente stava la vittoria. Fu la lotta lunga, ostinata, atroce, e vano per molte ore l'evento, superando gli austriaci di numero e di costanza, i francesi d'impeto e di ardire. Dopo una resistenza ostinata, l'austriaco si ritirava rotto e sanguinoso, e le armi di Francia vincevano ovunque.

Molto diverse procedevano le cose sull'ala sinistra, dove i Piemontesi s'erano trovati di fronte ad uno dei corpi austriaci più formidabili, sotto la condotta di un generale valentissimo, il Benedeck.

Il combattimento era cominciato alle sette del mattino, e i nostri si avanzavano verso Pozzolengo. Avevano potuto conquistare le importantissime posizioni di San Martino e della Madonna della Scoperta, ma assaliti dal nemico numeroso, furono, dopo breve ma aspra lotta, cacciati. Si rinnovò l'attacco dai nostri, ma slegato, senz'ordine, mandando alla spicciolata i soldati, i quali, con mirabile valore, parecchie volte s'impadronirono delle alture e parecchie volte ne furono respinti. Gli austriaci occupavano fortemente San Martino e Madonna della Scoperta. Il generale Durando invano assaliva questo secondo colle, mentre il generale Mollard, più valoroso soldato che abile condottiero, attaccava San Martino e vinceva. Ma un vigoroso contrattacco non tardava a respingerlo fino al piede dell'altura. Non era però lo scompiglio della fuga: Mollard riordinava i suoi e restava di contro alle posizioni nemiche aspettando nuove e fresche milizie, mostrando di esser pronto a ritentare la prova, mentre il Benedeck raccoglieva il suo esercito sull'altura di San Martino, non osando scendere a soccorrere Solferino, dove la fortuna inclinava a favore di Francia.

Quando il Baraguay d'Hilliers e il Mac-Mahon riuscirono ad occupare Solferino, gli austriaci dovettero abbandonare la Madonna della Scoperta, presto occupata dal generale Durando.

Vittorio Emanuele, che correva or qua or là, dove più terribile era il pericolo, con l'angoscia nel cuore vedea che il Benedeck, respingendo con buon successo parecchi assalti vigorosi dei nostri, mantenevasi saldo sulle cime di San Martino e dei prossimi poggi. Al valore delle armi italiane non voleva sorridere la fortuna. Più che il destino premeva al Re magnanimo l'onore d'Italia. Ordinava egli allora al La Marmora di mettersi a capo di due divisioni, le univa a quelle del Mollard, e stava per tentare un generale furibondo assalto, quando scoppiò uno spaventevole uragano. La battaglia rimase tronca, essendo impossibile ai soldati, per la furia del vento, accompagnato da violenta grandine, non che di avanzare di reggersi in piedi. Quando, dalle rotte nuvole, riapparve il sole, tornarono gli uomini alle offese. I piemontesi sorsero risoluti e pronti. Invano le artiglierie nemiche fulminavano quelle schiere di valorosi, che procedevano serrati, terribili all'aspetto. Scoppiò un grido: Savoia, da migliaia di petti; rullarono i tamburi, suonarono le musiche, e i soldati d'Italia piombarono terribili all'assalto. Ma non meno terribili le difese. È un combattere asprissimo e mortalissimo. Si pugna con le baionette, con le sciabole, con le daghe, con i calci del fucile, con i sassi, co' pugni, con le unghie, co' denti. Piega finalmente la fortuna in favore d'Italia. Gli austriaci cominciano a balenare, i nostri acquistano vigore, la Contraccannia, la casa, dove più ostinata era stata la resistenza del Benedeck, è presa. Gli austriaci sono cacciati giù dalla china, e un gran grido s'inalza: «Viva l'Italia! Viva il Re!»

Il giorno finiva e le artiglierie franco-italiane salutavano la vittoria, su quei campi dove giacevano uccisi mille seicento ventidue francesi, seicento novantuno italiani, duemila trecento ottantasei austriaci; feriti 8530, e prigionieri e scomparsi 1518, tra i francesi, tra i piemontesi feriti 3572 e scomparsi 1258; tra gli austriaci 10,634 e 9290 scomparsi e dispersi.[1]

L'unico e santo intento di tanto sangue versato era vicino a raggiungersi. Ancora una battaglia sotto Verona e l'opera era compiuta, la giustizia era fatta.

A un tratto, fra quelle speranze, scoppia, come folgore, la pace di Villafranca.

Non indagheremo quanto sulla repentina deliberazione abbian potuto le notizie di Germania, la quale nelle vittorie francesi vedeva un pericolo e una minaccia. La pace sul Mincio evitava forse la guerra sul Reno.

Parve per un momento dovesse l'Italia cedere per sempre al destino avverso. Sulle fulgide glorie di Palestro e di Varese, di Montebello e San Martino, di Magenta e Solferino si stendeva come un velo funereo. Angoscie e lagrime scoppiarono irrefrenate nel Veneto, condannato ancora al servaggio abominato, mentre si alzavano rinnovellati alle prime aure di libertà i più felici fratelli della Lombardia, della Toscana, dell'Emilia.

Quando Napoleone lesse a Vittorio Emanuele i capitoli della pace di Villafranca, questi non si potè trattenere dall'esclamare: «Povera Italia!» Ed avendo l'Imperatore soggiunto: «Ora vedremo quello che sapranno fare gl'Italiani da soli» — «Spero» rispose Vittorio Emanuele «che tutti faremo il nostro dovere.» E lo fecero.

Il conte di Cavour, il quale in un memorando colloquio con Vittorio Emanuele, voleva che il Re respingesse sdegnosamente la pace, si dimise da ministro e al Farini, che annunziava da Modena la sua risolutezza di resistere anche a costo della vita, al ritorno del Duca, egli scriveva: «Il ministro è morto, l'amico applaude alla risoluzione che avete presa.»

Ma sbollita l'ira e calmato il dolore fu lo stesso conte di Cavour, che al principe Girolamo Bonaparte scriveva: «Bénie soit la paix de Villafranca.»

Sacra antiveggenza del genio!

Una nuova vittoria ottenuta con l'aiuto di Francia, avrebbe bensì resa libera Venezia e costituito un forte regno nell'alta Italia, ma avrebbe resa onnipotente nella penisola la supremazia francese, la quale avrebbe rimessi sul trono principi invisi, cacciati per virtù di popolo.

Le mutate contingenze politiche mutavano l'avviamento delle menti italiane, e il concetto dell'unità italiana era rinnovato dagli avvenimenti.

Senza Villafranca non sarebbe stato possibile il magnanimo ardimento del Re guerriero, il quale, invece d'essere la coscienza e il braccio della rivoluzione, avrebbe dovuto rispettare i patti imposti dalla Francia. Senza Villafranca non avrebbe, no, potuto Garibaldi, l'epico cavaliere, rovesciare, con l'aiuto del Piemonte, con il concorso dell'Inghilterra, il governo nefasto dei Borboni, negazione di Dio. Senza la pace di Villafranca non sarebbe stato concesso al Cavour di far parlare l'anima sua entusiasta di cittadino più alto dello spirito prudente e chiuso del diplomatico. Senza la pace di Villafranca finalmente, non avrebbero potuto gli uomini migliori della penisola far risuonare insieme al grido augusto di libertà il tuo santo nome, o Italia!

Roma era ancora schiava, Venezia si dibatteva fra le ribadite catene, Napoli e Sicilia fremevano sotto un giogo abominato, ma restava sempre una grande idea: — l'Italia — un gran sentimento: — l'amor della patria, — reso più tenace, più forte dal dolore delle infrante illusioni. Sì, l'amor della patria, sfavillante più puro nella luce del sacrificio, si ergeva ancora fidente, con tutte le sue forze, sino all'ultimo suo fine, in tutti i suoi modi.

Ora s'era ridestata più risoluta la volontà, s'erano maggiormente accesi lo spirito di sacrificio e l'energia del bene, s'era fatta più stretta quella santa unione d'avvenire, di speranza, di lotte che dovea condurre l'Italia in trionfo «Sovra l'intatto scudo di Savoia.»

Italia e Vittorio Emanuele fu il grido, che risuonò in ogni parte della penisola, unendo i fratelli, chiamando gli avversari alla pugna, facendo dimenticare in quel santo grido tradizioni e interessi regionali, orgogli municipali, secolari nimistà. E le zolle d'Italia rosseggiarono di sangue italiano, a preparare il trionfo del Re. I plebisciti confermarono le brame dei popoli, e il 18 febbraio 1860 s'aperse il primo Parlamento italiano. Dopo un mese, Vittorio Emanuele II, fu, per legge, proclamato Re d'Italia.

Così, o signori, in questi grandi avvenimenti della storia gli uomini che credono dirigerli sono da essi trascinati, e nel fondo del quadro vi è l'eroe oscuro, ignorato, il quale decide di tutto e di tutti ed è la coscienza del popolo, che in certe ore si risveglia e s'impone. Gl'Italiani erano maturi pel grande riscatto nazionale.

Ben poteva l'imperatore di Francia, con i migliori e più alti intendimenti, divisare un'Italia distribuita in nuovi regni, ma omai la coscienza del popolo nostro era così sveglia e vigilante, gli uomini che la dirigevano o la esprimevano, il Re, Cavour, Garibaldi, Ricasoli, Farini, Minghetti ed altri spiriti magni di cotale grandezza, erano così degni d'interpretarla, che qualunque errore o qualunque tradimento della politica si sarebbe trovato il modo di torcerlo a favore della unità nazionale.

Se Napoleone proseguiva la guerra, l'unità si Sarebbe fatta all'ora voluta dalla storia con lui, senza di lui, o contro di lui. Arrestatosi al Mincio, il dolore della delusione fece prorompere anche più impetuoso il bisogno della unità in un popolo come il nostro, rappresentato da statisti come i nostri, i quali in certi momenti accoppiarono le doti degli eroi con quelle dei più fini diplomatici. Il Cavour, nel suo aspro colloquio col Re dopo Villafranca, è un eroe che dimentica i doveri del ministro verso il suo Re. Il Garibaldi, che sulle balze del Tirolo sa fermarsi e obbedire, è un politico istantaneo, che lascia dimenticare per qualche momento l'eroe. E di tutti questi coraggi irreflessivi e di tutti questi accorgimenti santi aveva bisogno la patria per unirsi, anche quando pareva che il cielo e la terra, il papa e Napoleone III contrastassero alla sua unificazione. E pensando a quelle giornate del nostro riscatto, nelle quali nè la nazione, nè gli uomini che la dirigevano commisero errori, quando pareva che tutti i grandi della nostra storia si alzassero dai loro sepolcri per inspirare i vivi, dobbiamo anche essere più indulgenti verso le presenti miserie e meno pessimisti.

Ogni giorno non c'è una patria da creare, ma neppure i languori, gli errori, le colpe dei contemporanei ci tolgono la fede che nei giorni di supremo pericolo non si troverebbero le energie del '59 e del '60. Poichè, o signori, è contrario alla legge della continuità storica, che un popolo il quale, quaranta anni or sono, era composto tutto di veggenti, di diplomatici, di eroi, dovesse oggi essere formato soltanto di queruli, di critici e di mediocri.

Vengano le ore dei grandi pericoli, troveremo l'antica grandezza.

Alziamo tutti gli ideali nostri, e troveremo gli antichi fervori.

La responsabilità maggiore di quest'ora opaca che si attraversa è nella piccolezza degli uomini politici, ma, fuori della vita politica, nelle industrie, nelle arti, nelle scienze, ritroviamo ancora l'Italia del '59 e del '60.

IL RE GALANTUOMO (1849-1859)

CONFERENZA DI DOMENICO OLIVA.

Carlo Alberto aveva voluto ritentare la prova: sulla sua anima di re e di patriota, l'armistizio Salasco, l'ultima ed inutile difesa di Milano, le scene di violenza, d'ingratitudine e di follia, da cui eran state bruttate le vie della Metropoli lombarda, pesavano come ricordi d'oltraggi e di sangue.

Tutta Italia fremeva ancora: la Lombardia soggiogata, non doma, pareva pronta alla riscossa: Venezia si teneva libera e si difendeva dall'Austria, e, penetrata dal severo spirito di Daniele Manin, si accendeva alle visioni di guerra e all'estreme speranze: erano in tempesta Toscana, Romagna, Roma, dilaniate da fosche e basse discordie civili, ma non vinte ancora: il re di Napoli s'era disvelato, ma il popolo di quelle contrade favellava pure sempre di libertà e aspettava: la Sicilia, insorta in armi, sfidava il nemico. Era tramontata l'età poetica: non più idillii, non più liete crociate, furore invece: pareva fosse promessa la vittoria alla disperazione, e, se non a vincere, si anelava a morire, a porre sulla strada della reazione trionfante un'Italia sanguinosa e lacera, ultima protesta, ultima vendetta, ultimo incitamento alle ire rinnovellate dei nepoti lontani.

Questa, in generale, la condizione morale e materiale della patria: volgiamo lo sguardo alle condizioni particolari del regno subalpino. Mai, io penso, un re e un popolo affrontarono tanto male un grande cimento, come Carlo Alberto ed il Piemonte, nella incipiente e tristissima primavera del 1849. Reazionari e rivoluzionari spargevano ogni sorta di veleni nella massa della nazione, e fra coloro che dovevano combattere, gli uni affermavano che il Re era tradito, gli altri che il Re era traditore: prezzo del tradimento, l'onore, la sicurezza, la libertà del popolo: predicavano la sfiducia, preparavano la sedizione! Nessuno credeva, la Camera urlava, i ministri non sapevano, il capo supremo dell'esercito era uno straniero ignoto, cui era ignoto persino il suono della nostra lingua; i soldati erano numerosi, ma o troppo vecchi, o troppo giovani, non esercitati o stanchi, non agguerriti, non ordinati: l'aristocrazia pronta al sagrificio, ma nauseata della demagogia o imperante o prossima ad imperare, il clero pauroso di novità, la folla ondeggiante, incerta, immiserita, dolorosa per le recenti sventure, non parata ad affrontare e a sostenere le nuove. Tentavasi così di vincere il vecchio maresciallo Radetzky, chiaritosi l'anno innanzi strenuo e possente capitano, di ricacciarlo nei fortilizi già da lui animosamente difesi, di obbligarlo a darsi vinto, mentre si accampava, certo della vittoria, coi suoi veterani al confine piemontese. Breve sogno e fallace: Ramorino fu sorpreso o si lasciò sorprendere, la nostra destra fu assalita e battuta, ci ritraemmo sotto Novara, minacciati d'essere avvolti e separati dalla metropoli subalpina, come lo eravamo da Alessandria e da Genova.

E ci lasciammo trascinare all'ultimo sforzo, e parve che appunto in quelle ch'erano ore estreme di agonia, la nostra fortuna stranamente potesse risorgere: le schiere affrante, stanche, già percorse dalla indisciplina, male ordinate, peggio nudrite, sentirono che nei cuori e nelle braccia stava per risorgere la virtù antica: fanti, cavalieri, artiglieri, ufficiali, soldati, sotto gli sguardi del Re pallido e impassibile, guidati dal duca di Genova, erto sul cavallo, colla punta della spada rivolta al nemico, respinsero i formidabili assalti degli austriaci, li assalirono a loro volta, e ripetutamente li fugarono: lo inseguimento di quelli che parevano già vinti, chiesto, implorato, supplicato dal duca di Genova, avrebbe fatto forse di Novara una vittoria italiana e forse mutato (chi può dire in qual modo) la storia del nostro paese. Non fu conceduto: tornò il nemico a combattere, tutte le forze imperiali, richiamate, giunsero sul campo: cadevano i nostri generali, gli artiglieri morivano sui pezzi, la pioggia fitta, minuta, incessante snervava i combattenti, l'aria era grigia e tetra e poi scendeva rapida la sera sui vinti che gridando al tradimento abbandonavano le ordinanze, sui gregari che non ascoltavano più la voce dei capi: erano tenebre, orrore, desolazione! Ed armi fratricide e mani rapaci e voglie bestiali si agitavano furiosamente nell'ombra, fra un coro d'imprecazioni, di grida paurose e di bestemmie.

Egli era là, sul bastione di Novara, aspettando senza profferir parola, senza muover ciglio, la palla liberatrice. Non poteva uccidersi, perchè cristiano; poteva morire, perchè soldato, per la mano incosciente ed ignota d'un soldato nemico. E lo ritrassero a forza. Si riebbe, chiese patti al vincitore: gli risposero con imposizioni dolorose e vergognose. E subito si determinò a quel sacrificio che, nell'ammirazione e nella gratitudine di noi nepoti, tanto e tanto innalza la sua figura. Convocati a tarda notte, i figli, i generali, il ministro Cadorna, quanti eran con lui, amici nella cattiva fortuna, in una sala del palazzo Passalacqua, in piedi, presso al focolare che rosseggiava, disse: «Alla causa della indipendenza italiana, io mi sono votato con tutta l'anima mia: per essa volli esposta ad ogni rischio di guerra la mia e la vita dei miei figli. Il Cielo non mi volle arridere, e la sublime vagheggiata mèta per me è per sempre perduta. Comprendo essere oggi la mia persona d'impedimento a conchiudere la pace diventata indispensabile; pace che d'altronde io non potrei sottoscrivere senza disdoro. Non avendo avuta la fortuna di morire sul campo, non mi resta, per la salute del mio paese, che deporre questa corona che posi al cimento per la libertà della patria. Io non sono più vostro Re, o signori, il vostro Re da questo momento è Vittorio, mio figlio.» E, fatto cenno al duca di Savoia di avvicinarsi a lui, gli pose la mano destra sul capo, e ve la tenne un istante, rinnovando quasi un antico rito di consacrazione, che la grandezza della sventura e gli uomini e l'ora facevano solenne. Poi strinse il figlio al cuore e lungamente, poi abbracciò il secondogenito e ad uno ad uno, tutti gli astanti, su cui più che la riverenza potè l'intensa commozione, e non ebbero freno le lagrime: la sala fu tutta singulti e non altro. Fuori, batteva ostinata la pioggia e non cessavano le grida dei feriti e dei morenti.

Volle restar solo coi figli, scrisse alla moglie che non doveva più rivedere e al suo segretario: al nuovo Re disse brevi parole, che così chiuse: «Sopra tutto devi esser sempre fedele ai tuoi giuramenti.»

E partì verso la morte.

* * *

Così cominciava il nuovo regno. Così cominciava il regno d'un giovane, che il popolo e l'esercito conoscevano solamente pel suo valore sul campo di battaglia: nella fantasia della gente egli altro non era che l'eroico soldato di Santa Lucia e di Goito: ma le fantasie in quei tempi eran malate e nei soldati, vinti, non si aveva più fede. Lo dicevano impaziente, lo affermava qualcuno conscio degli errori compiuti. «Dobbiamo ciecamente obbedire a chi ciecamente comanda,» avrebbe gridato un giorno in un impeto di sdegno; e v'era chi gli attribuiva qualche buon consiglio inascoltato. Ciò era poco. I primi uomini che lo avvicinarono, aspettavano ordini, nessuno osava dire una parola.

Volle subito dettare un manifesto ai suoi popoli e lo stese di suo pugno. «Fatali avvenimenti, la volontà del veneratissimo genitore mi chiamano assai prima del tempo, al trono dei miei avi. Le circostanze, fra le quali prendo le redini del governo, sono tali che senza il più efficace concorso di tutti, difficilmente potrei compiere l'unico mio voto, la salvezza della patria comune. I destini delle nazioni si maturano nei disegni di Dio: l'uomo vi debbe tutta la sua opera. A questo debito noi non abbiamo fallito.

Ora la nostra impresa dev'essere di mantenere salvo ed illeso l'onore, di rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le istituzioni costituzionali. A questa impresa scongiuro tutti i miei popoli: io mi appresto a darne solenne giuramento, ed attendo dalla nazione in ricambio aiuto, affetto, fiducia.»

Poi gli giunge notizia che il maresciallo Radetzky vuol conferire con lui e gli va incontro, da Momo, verso la fattoria di Vignale. Percorreva la strada, guasta dalla pioggia, a cavallo precedendo i pochi seguaci, vedeva contadini pallidi, sparuti, soldati sbandati, qualche carro di feriti e costoro non lo salutavano che con un grido ch'era un lamento: «Pace, pace!» Non rispondeva. Scorse il vecchio Radetzky a cavallo: discese pronto: anche il maresciallo volle affrettarsi a scendere, ma lo impacciavano la tarda età e gli acciacchi, e gli fu mestieri d'aiuto. Quando fu accanto al Re, desiderò abbracciarlo e gli rammentò che amava con tenerezza paterna la regina Maria Adelaide. Così il vecchio, rigido e terribile, si faceva bonario, diceva sorridente di gioie domestiche, cercava cattivarsi l'animo del giovane, e tendeva a una sottile seduzione. «Volete esser mio e vi farò possente: dimentichiamo ch'io sono un vincitore e voi siete un vinto: se ascolterete me sarete come un vincitore, e questo vostro regno oggi tanto battuto e disfatto, in breve diventerà florido e forte. Volete nuovi dominii? Io posso darveli. perchè ora posso tutto. Volete la tutela delle mie armi? Sono vostre. Sudditi ribelli, nemici esterni nulla potranno, finchè saremo uniti. Rinunciate a questa bandiera, che la rivoluzione e i nemici della vostra Casa hanno imposto a vostro padre: innalzate ancora l'antica, che fu rispettata e temuta e gloriosa, simbolo d'onore e di vittoria. Allontanate i perfidi consiglieri che hanno perduto Carlo Alberto e tornate a quelli che fecero i primi anni del suo regno così sicuri e prosperi. Nessun sagrificio domando a voi: Re, state coi Re; soldato, coi soldati. Ascoltate un vecchio esperto della vita e delle battaglie; voi siete giovane, com'è giovane il mio sovrano, siete fatti per conoscervi e per amarvi, vi uniscono vincoli di sangue, contiguità di territorii, l'interessamento di cui gli animi vostri sono compresi per l'ordinato e pacifico avvenire dei vostri popoli. L'Austria oggi sa divinare come un tempo e sosterrà le legittime ambizioni della casa di Savoia. Non volete? Ci volete nemici? Ebbene, potrei offrirvi generosamente patti decorosi e tollerabili: ma rammentatevi che starete solo, fra le passioni irruenti dei partiti, abbandonato da noi e da tutti i principi italiani. Che dico italiani? Da tutti i principi europei. Che ha fatto per voi la Francia? Nulla! Che farà? Nulla! Il vostro piccolo trono sprofonderà fra le tempeste; e se chiederete un giorno l'aiuto nostro, sarà tardi certamente. Pensate, Sire, questa è l'ora del vostro destino.»

«Ho giurato» gli rispose cortese, ma fermo il Re «ho giurato come principe, sto per giurare come Sovrano: ho combattuto per l'Italia e non pochi italiani hanno combattuto al mio fianco. Non posso dimenticare, non debbo dimenticarli, non voglio tradire nessuno. Sono a capo d'uno stato indipendente, e tale voglio sia per l'avvenire. Mi rassegno alla sorte del vinto, ma intorno ai miei doveri non tratto alcun componimento e giudice dei miei doveri sono io solo e li compirò, qualunque cosa compierli dovesse costare a me. A voi vengo per stipulare una tregua, non per stringere alleanza, per guadagnare terre, per crescermi di potenza.»

E come l'altro si faceva ad insistere, il Re negò sempre; negò e nel vecchio si facevano strada meraviglia e rispetto, e quasi la sensazione indefinita che quel giovane stesse per dar principio a un nuovo capitolo di storia. La figura sdegnosa del nuovo Re, le parole di lui chiare e sicure, quell'anima che gli si palesava tutta e che pareva ed era tanto maggiore della sventura, vinsero gl'istinti di prepotenza, l'orgoglio della vittoria, l'odio antico e perenne verso la gente italiana. Contro volontà stava volontà: quella vinceva più vigorosa ed ardita, quella che veramente si volgeva al futuro, mentre l'altra piegava, l'altra su cui pesavano gli anni e le opere, l'altra per cui si curvava il tempo mortale.

In quel colloquio fu fatta l'Italia, e si mostrò per la prima volta l'uomo che l'Italia aveva a lungo invocato.

Fu un istante di vera grandezza; qual meraviglia che ne siano uscite cose grandi? Un attimo d'esitazione, logica ed umana d'altra parte, ci avrebbe perduti. Ma esitazione non era possibile: Vittorio Emanuele incontrava deliberatamente il maresciallo Radetzky, come un Re e un italiano doveva incontrare il nemico. Un magnifico istinto lo aveva fatto forte: nessuna preparazione, nessun consiglio, nessuna esperienza; teneva luogo d'ogni altra cosa la generosa voce del sangue e l'amore della patria.

* * *

Usciva trionfante. E già pensava l'opera. Pensava: «M'ha compreso il generale nemico, mi comprenderanno i miei: io reco loro la bandiera salva, il simbolo e la realtà, tutto quello che si vuole per vivere e per rincominciare.»

Senonchè, quasi alle porte di Torino s'imbatte nel principe di Carignano, che gli reca un messaggio della Regina: e la lettera diceva la esaltazione, la esacerbazione degli animi, la confusione dell'idee e dei propositi, il dolore degli uni, l'avvilimento degli altri, le ire dei partigiani, le cupide voglie, quanto di morboso si sollevava nella metropoli piemontese. La Camera aveva udito leggere da Domenico Buffa una lettera del Cadorna, annunziatrice del disastro e dell'abdicazione di Carlo Alberto: aveva, in un impeto di doloroso entusiasmo, votato al re martire un monumento nazionale; ma poi si perdeva in mezzo alle recriminazioni, alle accuse, alle ingiurie, ai pensieri più folli e più disperati.

Vittorio Emanuele si reca subito a prestare giuramento di fedeltà allo Statuto, e mentre traversa lo spazio che sta fra la reggia e il Palazzo Madama, ove s'era raccolto il Parlamento, vede gran folla e la milizia cittadina in armi; non un grido ascolta, non un viso benevolo scorge, appena gli si rivolge qualche saluto, i più lo guardano senza parlare, senza muoversi, freddi, sospettosi, accorati. Entra nell'aula, sale sul trono, senatori e deputati si levano in piedi, nessuno applaude e pare che sulle labbra di quei dolenti o di quei nemici muoia il benvenuto che si dà sempre ai Sovrani.

Il Re giura, poi parla brevi parole, riafferma la fede sua negl'istituti liberali: dice che il suo giuramento dovrà compendiare tutta la sua vita. Silenzio profondo: non lo acclamano, non lo intendono. Esce, così com'è entrato, col cuore stretto, e per poco non piange di dolore e di rabbia. Gli pareva assai duro, mentre consacrava la sua esistenza al suo popolo e alle più alte idealità del nostro tempo, mentr'era già riuscito a serbare bandiera, statuto, vita libera, indipendenza del Regno, non essere accolto a braccia aperte, a cuori aperti, circondato da quella fiducia di tutti, senza la quale era impossibile accingersi all'opera, nell'opera perseverare, l'opera compiere.

Ma in breve si vince: accoglie i deputati losti, Ceppi, Montezemolo, Lanza, Rattazzi e Mellana, eletti dalla Camera per fargli omaggio. E liberamente esprime il suo forte rincrescimento, con parole tutte vivacità e schiettezza, parole atte a disarmare i prevenuti, a persuadere i peritanti, ad inspirare il coraggio di rispondere franchi a chi si esprime franco. E poichè gli dicono essere l'armistizio quello che crea nel Parlamento diffidenza e peggio, e gli manifestano il desiderio che l'armistizio sia revocato, così replica: «Lor signori deplorano tutto questo ed io lo deploro più di loro: loro desidererebbero che si lacerassero quei patti e si ridiscendesse in campo, ed io lo desidero più di loro. Mi diano solamente un quarantamila buoni soldati, ed io domani rompo l'armistizio e vado a cacciare gli austriaci nel Ticino.» Mentre così diceva, gli fiammeggiavano gli occhi. Uscirono i deputati dalla Reggia rispettosi, ammirando la ingenua fierezza del giovane principe, che veramente li meravigliò come cosa inaspettata: più ingegnoso, più ambizioso, più avveduto degli altri, Urbano Rattazzi forse pensava al futuro primo ministro d'un tal Re e probabilmente fu da quel giorno che a quel Re si votò con devozione profonda, prima segreta, poi manifesta. Ma tornati che furono a Palazzo Carignano, eccoli travolti tra la bufera che v'imperversa: e una bufera pareva trascinasse tutto il paese a ruina ed estrema. Insorgeva Genova, gridando una strana ed effimera repubblica; più non erano finanze, più non era esercito, più non esisteva senso di dovere civile, e il nuovo ministero, creato dopo la catastrofe, si accoglieva dalla Camera ingiuriosamente. Il Delaunay, presidente del Consiglio e generale, si presenta all'Assemblea in assisa militare, colle sue decorazioni e il presidente fra le risa di tutti (colle risa si sfogava l'ira) dice:

— Vorrei sapere chi è quel signore!

Je suis Delaunay, lieutenant-général.

— Va bene: e in che qualità Ella viene fra di noi?

En qualité de président des ministres da Roi Victor-Emmanuel.

E poi vòlto alla Camera:

— Messieurs.... — egli incomincia.

— Un momento — interrompe il presidente — mi domandi prima la parola. —

E qui nuove risa e ogni sorta di atti di scherno.

Peggio accade quando Pier Luigi Pinelli, ministro dell'Interno, sale alla tribuna per leggere i patti dell'armistizio. «Morte ai traditori!» s'urla d'ogni parte. «No, no; è una viltà, vogliamo guerra a morte, guerra a coltello!.» Per queste furie fu necessità disciogliere la Camera, convocarne un'altra e discioglierla di nuovo, dopo poche sedute, che per primo atto aveva eletto a suo presidente Lorenzo Pareto, uno dei ribelli di Genova, cui il Re era stato largo di perdono. «Ma se io ho dimenticato» diceva il Re e scriveva «essi non dovevano dimenticare.» E fu necessità cangiare il primo ministro, vincere lo riluttanze, le resistenze di Massimo d'Azeglio, convincerlo, spingerlo, obbligarlo quasi ad assumere il potere. E l'assunse, inviso ai reazionari che odiavano il gran signore originale e democratico, l'artista che si faceva pagare i suoi quadri, il romanziere, il giornalista, il ferito di Vicenza, il piemontese ch'era lombardo a Milano, toscano a Firenze, romano a Roma, italiano dovunque; inviso ai rivoluzionari che lo sapevano fermamente deliberato a non dar tregua nessuna alla demagogia, a far politica di conservatore, a fare quella pace coll'Austria, senza la quale non potevasi chiudere l'era delle agitazioni, il periodo dell'anarchia in cui era caduto lo Stato, e che si voleva continuasse.

La verità frattanto, lenta ma certa, cominciava ad aprirsi la via, e un avvenimento doloroso rivelò quale fosse il sentimento del popolo, assai diverso, come spesso accade, da quello che s'agitava negli uomini della politica.

Il Re infermò e così gravemente, che fu mestieri affidare il reggimento della cosa pubblica al duca di Genova, e forte sgomento, forte dolore penetrò nell'animo di tutti e furono istanti d'ansia crudele come se un nuovo male, peggiore d'ogni altro, stesse per piombare sulla patria. S'intuì che la salvezza e la fortuna del Regno eran cose collegate strettamente alla salute e alla vita del Re. Già cominciava a penetrare nei piemontesi e nelle altre genti italiane il pensiero che Vittorio Emanuele era un uomo necessario: «Voi sarete solo» gli aveva minacciato il maresciallo Radetzky: ma era veramente questo esser solo, il grande argomento per cui le speranze sorgevano e andavano a lui. Ovunque i principi violavano gli statuti del 1848, si sottomettevano al vassallaggio austriaco, anzi lo desideravano, anzi lo imploravano, chiusi tutti nelle rinnovate consuetudini d'una tirannide stolta e paurosa, certi, per quanto avveniva fuori d'Italia, che il principio di nazionalità non potesse più risorgere. Ed egli invece, stava solo al posto che aveva eletto, a capo d'un popolo piccolo e vinto, sopra un trono mal sicuro, ripetendo a tutti che aveva giurato e voleva mantenere i giuramenti, affermando ch'era principe italiano e che la sua era bandiera italiana, non isfuggendo gli ostacoli, affrontandoli anzi animosamente con una grande lealtà di parole e di azione unita a una grande e incrollabile fermezza.

Ma mentre appariva questo principio di giustizia nella opinione dei più, si stimò necessario un ultimo atto e solenne per significare il pensiero dei Re e provocare un'indubbia manifestazione del popolo. Con modo inusato nei reggimenti costituzionali, ma legittimato da quella reverenza e da quell'affetto che per tradizione più volte secolare, i popoli subalpini nudrivano verso la Casa di Savoia, legittimato dalla condizione, singolarmente grave, in cui tuttora versava il Regno, legittimato dai pericoli esterni ed interni che parevano minacciare e minacciavano la Monarchia, il Re si volge ai cittadini e chiede loro, con parola amorevole e severa, un atto di buona e patriottica volontà. «Ho promesso salvare la Nazione dalla tirannia dei partiti, qualunque siasi il nome, lo scopo, il grado degli uomini che li compongono. Questa promessa, questo giuramento lo adempio disciogliendo una Camera diventata impossibile: li adempio convocandone un'altra immediatamente: ma se il paese, se gli elettori mi negano il loro concorso, non su me ricadrà oramai la responsabilità del futuro e dei disordini che potessero avvenire; non avranno a dolersi di me, ma avranno a dolersi di loro.»

Queste parole e le altre che parvero di colore oscuro, scritte nel proclama di Moncalieri, agitarono profondamente gli animi già agitati di quel tempo: che si voleva? che si chiedeva? che si minacciava? Poichè ormai si comincia anche fra noi a formare una leggenda intorno agli avvenimenti primordiali del risorgimento nostro, dice codesta leggenda che l'effetto del proclama di Moncalieri sarebbe stato grande e fulmineo. Le testimonianze che si possono raccogliere affermano invece il contrario: fu uno stupore, ma non si ebbe una vittoria immediata. Anzi venne la vittoria, quando lo stupore cessò e la gente incominciò a ragionare: a poco a poco si comprese che si era veramente giunti sull'orlo del precipizio, e che bisognava prontamente, energicamente ritirarsi: si comprese che il Re, pure iniziando un grande movimento di conservazione, rimetteva alla coscienza del popolo il giudizio intorno alla condotta del governo e la deliberazione intorno alle sorti dello Stato. E il popolo, che incominciava ad amare il Re finalmente lo intese e come doveva rispose.

La nuova Camera sorse appunto colla missione di chiudere la triste istoria del passato e di preparare il futuro. Si era salvi: e la salvezza parve opera della Nazione ed era. Ma chi aveva guidato la Nazione, chi aveva eletta la buona via in momenti supremi d'angoscia, chi aveva creduto quando nessuno più credeva, chi non aveva disperato mentre tutti disperavano?

Tale il primo periodo fortunoso e tempestoso d'un Regno, cui il destino apparecchiava tante glorie e tanti trionfi: pure è illuminato da una poesia triste e virile, e se poi, per effetto di grandi avvenimenti, il Re parve più grande, mai fu grande veramente come in questi primi istanti di cimento e di pericolo, nei quali fu mestieri che il giovane principe dimostrasse tutta quella costanza, tutta quella fermezza, tutta quella lucida conoscenza e degli uomini e delle cose che solamente gli anni e le prove e l'esperienze e anche gli errori insegnano, ma che in lui, per fortuna della nostra patria, erano natura.

* * *

Da allora in poi cominciarono tempi nuovi: fu una vigilia operosa, lieta, fortunata, nè la storia conosce sin qui un periodo che le si possa paragonare pur da lontano: il piccolo Regno trascorre da audacia in audacia, sorgono nello Stato intelletti poderosi, anime gagliarde, si preparano e si compiono gesta meravigliose; il Re subalpino, il parlamento subalpino diventano l'oggetto dell'attenzione sempre crescente, dell'ammirazione di tutta Europa: si aspetta, si teme, si spera dovunque alla vigilia d'un discorso della Corona: le parole che pronunziano alla tribuna Massimo d'Azeglio o Camillo di Cavour, provocano le polemiche della stampa, i dibattiti delle altre assemblee, le manovre della diplomazia, i raggiri delle Corti, le dimostrazioni dei popoli, le note, le proteste, le lodi, gl'inni, gli entusiasmi, i biasimi, i rancori, le paure. Il duello che incomincia fra lo Stato piemontese che assume il diritto di parlare in nome d'Italia al cospetto di tutti i popoli, e l'Austria possente d'armi, orgogliosa di vittorie, ordinata mirabilmente come strumento di minaccia e di repressione, diventa lo spettacolo più drammatico e più bello che si sia mai rappresentato sulla scena del mondo. Formidabile partita, formidabile in quanto le forze sono enormemente sproporzionate, in quanto, ad ogni tratto, uno degli avversari pare stia per rovesciarsi contro l'altro per distruggerlo, per schiacciarlo, mentre quello che pare più debole non cede mai, anzi provoca ed offende e colpisce. Pare il Piemonte si faccia ad ogni istante più forte e più temerario, nel fervore e nell'emozione della lotta: un'aura di poesia e di giovinezza avvolge tutta la politica, sono parole vibranti, sono atti virili, sono promesse e sorrisi. Sintetizzate le immagini di quel tempo, e non vedrete che un ondeggiare festoso di bandiere al vento e sotto il sole, e non udrete che plausi ed acclamazioni frenetiche di gioia, mentre fra i silenzi profondi delle altre regioni italiane, tutti si volgono tacitamente sperando verso la Reggia di Torino e salutano e aspettano.

Innanzi a tutti è il Re, il Re popolare, il Re cacciatore, il Re soldato, il Re giovane e robusto, il Re che scende fra la folla, parla e scherza nel dialetto nativo, sale sulle vette ardue delle patrie montagne, diventa l'idolo dei pastori e dei contadini, com'è l'idolo dei soldati e degli operai. È Re sul trono, talvolta severo, talvolta terribile, e il suo sguardo sdegnato è di quelli che non si possono sopportare: ma più spesso, colla bontà e colla schiettezza dei modi e delle parole avvince i cuori, persuade le coscienze, supera gli ostacoli, appiana le difficoltà, rompe gl'indugi, fa tutto quello che vuole. Il ministro ch'egli ama, di cui si fa l'amico e il compagno, è Massimo d'Azeglio. «Ciao, Massimo....» gli dice o gli scrive: lo ha avuto al suo fianco nei gravissimi giorni delle prime prove, lo vorrebbe sempre al suo fianco, cavalleresco, spiritoso, esperto della vita, spregiatore d'ogni cosa volgare, spregiatore (e quanto!) del denaro, galante colle signore, anima di soldato, che si mette a capo della forza armata, vestito da colonnello di cavalleria per reprimere una dimostrazione tumultuosa. Vede sorgere Camillo di Cavour e pone sull'avviso l'amico: l'empio rivale, come lo chiamerà poi il d'Azeglio, batte alla porta: «Non è il suo tempo, verrà il suo tempo» dice il Re, e quando il d'Azeglio lo propone a lui, consenzienti gli altri ministri, come ministro di Agricoltura e Commercio, il Re dice ai suoi consiglieri: «Giacché lor signori lo vogliono, non ho difficoltà a nominarlo, ma questo signore li manderà via tutti.» Si divide con rincrescimento e dopo molta riluttanza dal d'Azeglio, che lo aveva battezzato Re galantuomo. — Massimo gli disse un giorno: «Ve ne sono stati così pochi nella storia di re galantuomini, che sarebbe veramente bello cominciare la serie.» E il Re gli chiede: «Ho da fare il Re galantuomo?» Massimo soggiunse: «Vostra Maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all'Italia, non al Piemonte; continuiamo di questo passo a tener per fermo che, a questo mondo, tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola e che a quella si deve stare.» Il Re pensa un istante, e poi dice risoluto: «Ebbene, il mestiere mi par facile.» E Massimo afferma lietamente: «Abbiamo il Re galantuomo.»

Ma Camillo di Cavour, col favore anche di una certa indolenza, di un certo signorile scetticismo che governavano il d'Azeglio, specialmente nelle faccende d'ogni giorno, era diventato tutto: da ministro di Agricoltura e Commercio, ministro delle Finanze e reggeva di fatto la presidenza del Consiglio. Mentre il d'Azeglio parlava di rado e di mala voglia e di rado correva alla pronta risoluzione d'un dibattito, il Cavour sempre stava sulla breccia e d'ogni questione indovinava l'aspetto politico e sopra ogni questione esprimeva quello che gli altri credevano il pensiero del gabinetto e in realtà era pensiero suo e suo solamente: i colleghi lo ascoltavano prima meravigliati, poi impacciati, e in fine non osavano ribellarsi e accettavano ogni cosa; spirito indemoniato, infaticabile, provvedeva a tutte le combinazioni della politica, a tutte le necessità d'ordine parlamentare, cercando, finché gli riusciva, di procedere di conserva cogli altri ministri, ma spesso facendo a suo modo, con una scioltezza e una strana libertà di azione, che facevano di lui il collega pili simpatico e insieme più incomodo che fosse al mondo.

La sua ora s'avvicinava veramente, anzi era di già suonata, e il Re comprese a tempo che l'uomo era necessario a lui, al Piemonte, all'Italia. E gli serbò inalterata fiducia sino all'armistizio di Villafranca. Camillo di Cavour circondava il Re d'un rispetto profondo, e, così grande com'era, desiderava piuttosto apparire l'inspirato che l'inspiratore ed anche in questo, come in tutto, riusciva. Certo è che talvolta gli prendeva la mano quel suo temperamento passionale e le parole correvano a fiotti e s'agitava e fremeva, e, distratto per eccellenza, d'ogni cosa si dimenticava, anche di alcune regole elementari di etichetta: ma sotto lo sguardo fiero ed ardente del Re subito si vinceva, e si rammentava che il Re era la prima e fondamentale condizione della sua politica.

E che cosa fosse veramente il Re mostrarono le lotte fra lo Stato e la Chiesa, che talvolta ebbero un'acutezza quasi inesplicabile per noi: la Corte vaticana non voleva tollerare in Piemonte quello che sopportava tranquillamente, anzi riconosceva in tutti gli altri Stati civili: non voleva sapere nè di abolizione di foro ecclesiastico, nè di matrimonio civile, nè di soppressione di corporazioni religiose; e la coscienza cristiana del Re soffriva fieri assalti; s'agitavano nell'ombra confessori e prelati, si minacciavano scomuniche, le pie regine supplicavano « Ma mère et ma femme » scriveva il Re « me font dire qu'elles se meurent de chagrin à cause de moi: vous comprenez le plaisir que cela me fait. » E muoiono a pochi giorni di distanza e muore il duca di Genova, il forte capitano che pareva predestinato a condurci alla vittoria: quanti di noi hanno amato e sofferto possono comprendere che grandezza d'animo era necessaria per resistere a così terribili e replicati colpi del destino e trionfarne, mentre bugiardi sacerdoti osavano dire che questi erano castighi di Dio! Ma altro Dio era quello di Vittorio Emanuele, Dio di giustizia e di verità, di cui adorava i decreti, sempre ascoltando l'austera voce del dovere che gli favellava nell'animo. Anche questa volta vinse, anche questa prova vinse, e con lui fu vittorioso Camillo di Cavour, l'inspiratore e l'autore della grande politica nazionale e liberale, che tanto innalzava il Piemonte al cospetto d'Europa.

E vennero i giorni di Crimea, le vittorie militari, i marziali eroismi, la causa d'Italia per la prima volta sostenuta in faccia ai rappresentanti delle potenze di questo mondo, in faccia al rappresentante dell'Austria dalla parola del grande ministro: avemmo un esercito, un'amministrazione, una diplomazia, fiorirono industrie e commerci, s'iniziarono opere gigantesche, quali il traforo del Cenisio e l'arsenale di Spezia, si preparò e si ottenne la guerra all'Austria coli' alleanza francese. Il Re annunzia di non essere insensibile al grido di dolore che d'ogni parto d'Italia si leva verso di lui, e, quando l'ora sta per suonare, ritraendosi Napoleone III dalle sue promesse per maligno influsso di cortigiani e per naturale e quasi morbosa incertezza d'animo, egli grida che farà come suo padre e rinunzierà alla corona e diventerà puramente e semplicemente Monsù Savoia e diventerà repubblicano. Finalmente l'Austria commette lo sperato errore, e dopo lunga provocazione provoca a sua volta noi. Il feldmaresciallo Giulay, duce supremo dell'esercito austriaco in Italia, manda alle sue milizie un ordine del giorno ove questo si legge:

«L'imperatore vi ha chiamati sotto le armi onde abbassare per la terza volta l'albagia del Piemonte e snidare dal loro covo i fanatici sovvertitori della quiete generale d'Europa.»

E il Re scrive al Cavour:

«Caro Cavour,

«L'ordine del giorno è una vera dichiarazione di guerra. Credo che di conferenze non si discorrerà più. Sono pieno d'ira! La prego di mandare in mio nome un dispaccio cifrato al principe Napoleone così concepito: Ti comunico l'ordine del giorno dato all'esercito austriaco dall'Imperatore: fa' le opportune riflessioni. Caro Cavour, mi scriva qualche cosa. Vorrei fare le cannonate questa sera.»

E giungono a Torino gl'inviati austriaci coll' ultimatum: la Camera si riunisce in tornata straordinaria, il Cavour propone siano dati al Re pieni poteri. Con un impeto, notato nelle pagine del resoconto ufficiale, ma di cui a tant'anni di distanza, indoviniamo tutta la potenza, tutta la commozione, l'uomo immortale esclama: «E chi, chi può essere miglior custode della nostra libertà? Chi più degno di questa prova di fiducia della Nazione? Egli, il cui nome dieci anni di regno fecero sinonimo di lealtà e d'onore, egli che tenne sempre alto e fermo il vessillo tricolore italiano, egli che ora si apparecchia a combattere per la libertà e per la indipendenza!» E uscendo dal palazzo Carignano, traversando la folla che gridava freneticamente «Viva il Re!» disse: «Esco dall'ultima tornata dall'ultima Camera piemontese, la prossima sarà quella della Camera del Regno d'Italia.»

E il Re tornò soldato e lo videro lanciarsi a Palestro sulle schiere austriache, invano rattenuto dagli zuavi francesi, e lo videro a San Martino guidare le nostre fanterie all'ultimo cimento. A Villafranca tutto parve perduto: Cavour si ritrasse pieno di sdegno e d'amarezza, egli restò al suo posto, fidente nella stella che i suoi avi avevano atteso, e che suo padre aveva salutato fra i martirii e le speranze. Lo videro poi trionfante le città della penisola, Milano, Parma, Modena e questa gloriosa Firenze e poi Napoli immensa e Palermo ridentissima: e mentre, promessa del destino, aspettavano Venezia e Roma, il parlamento italiano lo consacrava Re d'Italia.

* * *

Questo, dirò ancora una volta, è finora il capitolo più bello della nostra storia: nulla è mancato a noi: nè il genio degli statisti, nè la virtù dei guerrieri, nè la sapienza civile, nè la maravigliosa concordia, nè il trionfo rapido, insperato, grandioso. Lo aveva divinato nelle stupende pagine del Rinnovamento Vincenzo Gioberti, lo aveva compreso Daniele Manin convertito, mentre la sventura lo assaliva e non l'opprimeva, alla fede nella monarchia nazionale; lo aveva intuito Giuseppe Garibaldi che innalzò il grido «Italia e Vittorio Emanuele» col quale si è ricostituita la patria. Fu un grande capitolo: e di fronte a questo, gli altri appaiono o scialbi piccoli o cattivi. Tutte l'energie che l'Italia aveva accumulate in secoli di dolore si sprigionarono d'un tratto, e sorse un'Italia che nessuno conosceva. Ma tutto il capitolo rimarrebbe inesplicato, ove non apparisse il protagonista, l'eroe che seppe e volle, che sperò per tutti, che soffrì per tutti, che vinse per tutti. Gli altri grandi principi fondarono Stati: egli fondò una Nazione: ecco la parola della sua gloria: ecco perchè questa gloria è immortale.

NOTA:

1. Campagne de l'empereur Napoléon III en Italie 1859, rédigée au dépôt de la guerre d'après les documents officiels étant directeur le général Blondel. Paris, Imprimerie Impériale, 1863.

INDICE

Federazione e Unità Pag. 5

Gli eroi della Rivoluzione 41

Dalle dieci giornate di Brescia alla battaglia di San Martino 75

Il Re galantuomo 105