L'OPERA DI CAVOUR
CONFERENZA DI EMILIO PINCHIA. Allorchè Tommaso Carlyle incominciava nel 1839 le sue celebri letture sugli Eroi, presentì la disputa che, colorandosi di scienza, si avvivò, ai nostri giorni, intorno al modo di essere dei grandi uomini, ricercandone con minuziosa indiscrezione le particolarità fisiologiche, ricostruendo, come si dice, l'ambiente entro il quale nacquero e si educarono, cercando di sorprendere il segreto delle esistenze meravigliose nelle funzioni dei nervi e del ventricolo.
Carlyle indovinava l'evoluzione di un pensiero scientifico tanto orgoglioso, che dalla conoscenza della materia organica ascende imperterrito ai misteri della psicologia.
Ancora l'ombra crucciata di Leopardi muove angoscioso lamento, perchè le ineffabili melanconie della sua anima innamorata e dolente, dalla profanazione invereconda, sono trasfigurate in psicosi epilettoide!
Diceva allora Tommaso Carlyle: «Mostrate ai nostri critici un grande uomo, un Lutero, per esempio; incomincieranno, come essi dicono, dallo spiegarlo; non lo ammireranno; ne prenderanno la misura e diranno che è un prodotto del tempo.»
Il tempo!
Ahimè, sappiamo di tempi che invocarono ad alte grida il loro grande uomo! Non vi era. La Provvidenza non l'aveva inviato; il tempo doveva sfasciarsi in confusione e ruina perchè egli, l'invocato, non voleva sopraggiungere.
Eccoci oggi, che è giorno di data augusta,[1] quasi fatidica, di fronte alla figura del conte Camillo Benso di Cavour.
Egli è nato nel 1810 a Torino, in grembo ad una famiglia di alta nobiltà; nelle vene gli scorre un po' del sangue di San Francesco di Sales. Da moltissimi anni, da secoli i suoi antenati servivano in campo ed a Corte; egli stesso era stato tenuto a battesimo da un cognato di Napoleone, del quale il padre era ciambellano. Trascorse i primi anni nella intimità di due zie profondamente legittimiste e ultramontane — era allora una parola di moda per designare i clericali — in mezzo ad una serie di congiunti infervorati in quei ripicchi delle restaurazioni, che, dopo il 1815, si ripagavano delle umiliazioni di venticinque anni.
Ebbene, fui da quel tempo, una di quelle zie, la duchessa di Clermont Tonnerre compiangeva e deplorava: « Le pauvre enfant, diceva del giovane Camillo, est entièrement absorbé par les révolutions. »
Le pauvre enfant non voleva tornare indietro e, costretto alla milizia dalle tradizioni della schiatta, scelse il corpo del Genio, il meno militaresco, il meno aristocratico, ma il più studioso e serio.
Condotto a fare il paggio in Corte per diritto di sua nascita e per obbligo della sua condizione di cadetto, non tardava a buttar in aria quella che egli chiama, con poca reverenza, una livrea.
I novatori cominciano tutti ad un modo: si fanno ribelli. Ma sono codeste le ribellioni che costano di più. Non mutano le consuetudini, nè la compagnia: ma quelle diventano irritanti, questa ostile; ne sono turbate le amicizie; l'ironia, la celia, il benigno compatimento lasciano trasparire l'irrisione. Niun conforto, se non la serenità della coscienza e la sincerità dell'animo: niuna che non sappia di diffidenza e di canzonatura. Camillo di Cavour, frugolo, irrequieto baldanzoso, esuberante, vivacemente eccitato dagli spettacoli di un mondo che spezza i ceppi e tenta vie nuove; avido di vita e tumultuanti nel suo capo idee, ambizioni, propositi, esce un bel giorno in una profezia:
— Sarò ministro del regno d'Italia. —
Il regno d'Italia!
Voi lo sapete, che cosa significava nel 1830 questa espressione?
Ne parlavano gli avanzi dell'èra napoleonica come di un sogno o di un'allucinazione. Nessuno osava risuscitarlo, neanche come illusione, neanche come speranza! La più stravagante fra le chimere! Un delirio di pazzi o uno sproloquio di rimbambiti!
Questo il regno d'Italia dopo il '21, dopo Laybach, dopo Verona.
Ed ecco che il paggio turbolento e recalcitrante è confinato al forte di Bard, uno dei baluardi che la Santa Alleanza voleva rafforzati in odio della Francia e del liberalismo occidentale.
Il forte di Bard domina una stretta gola nella valle di Aosta, in uno dei punti più austeri e più cupi della valle, un torvo ciglione si accampa e la sbarra.
La fortezza vi sta sopra e le atticciate casamatte dominano il corso della Dora Baltea, che mugola impetuosamente, scavandosi il letto nel sasso. Intorno: altre rupi elevate, nude e bieche. Il paesaggio è rude, imponente, ma melanconico e selvaggio.
Il giovane ufficiale vi espia le intemperanze del linguaggio. Non è un gaio soggiorno, a vent'anni! Ma egli vi reca quel buon umore, che sarà la sua caratteristica, quella curiosità attiva, che gli farà imparare tante utili cose. Alla sera, verso il tramonto, egli suole scendere al fiume e si asside sopra un masso che l'acqua lambe.
Quali allora i pensieri di lui? Di certo, fra le sue pupille vagano le vaghe prospettive di cose nuove e sconosciute. Lo sguardo di Colombo fanciullo, in riva al mare.
Le montagne alte nereggiano intorno a quel biondeggiante capo destinato alla storia, la fronte spaziosa s'irradia dei chiarori di quel cielo limpido e freddo dell'alpe, che è tanto luminoso!
Passeranno molti anni, e i terrazzani avranno battezzato quel rustico sedile: la pietra di Cavour. Ma egli non ricorderà con piacere quelle giornate. È l'esilio, è l'esilio dal mondo, dove il petulante e attivo ingegno si alimenta. Però, non invano l'avrà visitato la meditazione e non invano quello spirito indipendente e spregiudicato avrà respirato la poesia della solitudine. Contro il sentimentalismo e la poesia, Cavour scoccherà i suoi frizzi: egli pretenderà di essere negato all'arte ed all'imaginazione. Ma intanto, quale poesia più affettuosa e delicata, quando appenderà innanzi al suo tavolo di lavoro la tunica del nipote Augusto, caduto a Goito per l'Italia e quel drappo forato da palle austriache, unica eredità che egli avrà voluto, sarà là come il pio simulacro del voto giurato nel suo cuore; il voto all'Italia, per la vita! È un voto di giovani anni e la solitaria rupe di Bard ne fu forse il primo testimone, a divampare dei presentimenti che la rivoluzione del 1830 accendeva nell'animo di lui.
Egli è così fatto che, appena imprese a meditare, i problemi morali e politici del suo tempo gli si affacciarono intieramente.
Li vide colla veemenza di un'interna visione e concepì l'altezza morale della libertà e dell'indipendenza, stimandole il fondamento di una saggia e dignitosa educazione civile.
Condotto dai suoi studi di matematica, dall'indole equilibrata a non scambiare il fatto con la parvenza, a mettere l'accordo fra il pensiero e l'azione, a nulla trascurare che rendesse questa più efficace, egli intendeva altresì che la libertà, la indipendenza nazionale erano necessarie al movimento sociale ed economico, che il suo perspicace intelletto gli dipingeva.
Breve fu l'esiglio di Bard. Il giovane patrizio, insofferente di formalismo, non potendo, per ossequio alla volontà paterna, mutare di cielo, come aveva fatto Vittorio Alfieri, muta, se non altro, occupazioni, abitudini, tenore di vita.
Egli si butta all'agricoltura.
Una vasta distesa di campi, in una pianura monotona, dalla quale a malapena, nelle giornate chiare, si scorge il bianco frastaglio dell'Alpe piemontese.
Un'abitazione rurale, intorno alla quale si affaticano contadini e brulicano mandre copiose, diventa il centro dell'attività di Cavour.
Quest'uomo che nega a sè stesso il dono di poesia e che, desto all'alba, passa i giorni nei campi, nelle risaie, nei prati, intento alle seminagioni, ai concimi, alle irrigazioni, all'incrocio dei merinos, all'ingrassare dei buoi, scrive nobili lettere, così lucide e liete, nelle quali la vita dei campi vibra di così grande efficacia morale ed intellettuale, come nessuna egloga virgiliana.
E intanto egli riconosce le quistioni economiche che dominano il mondo moderno. Nella pratica dell'agricoltura riscontra i concetti, le formule, i presagi dell'Economia politica: quando gli capiteranno i libri di Bastiat, avrà già intuito le difficoltà, le resistenze, gli ostacoli e concepito che la libertà economica è il segreto dell'ora che volge.
Allorchè, nei riposi della vita austera e laboriosa, egli viaggerà in Francia e in Inghilterra, compiacendosi di investigare tutti i segreti della vita moderna, vi ritroverà quel che già aveva indovinato.
Ma l'agricoltura è anche un'occasione per divulgare, colle cognizioni scientifiche, lo spirito di associazione, di stimolare l'attività sociale che egli indirizza alla produzione tecnica, al credito, ai primi aneliti dell'industrialismo, strappando al pauroso dispotismo le timide licenze.
Egli pensa ad una banca per azioni e, insieme al suo amico Petitti, esamina il nuovo problema delle strade ferrate. È una rivelazione: l'avvenire politico dell'Italia si schiude nella mente di Cavour. Fin dal 1842, egli sogna una vertiginosa corsa di traffici dalle Alpi al Jonio. Questo grande intelletto moderno rivede per la sua Italia la grandiosità delle antiche vie romane! E, insieme a tutto ciò, la coscienza completa di quanto occorre alla rigenerazione delle plebi!
Egli ha studiato la quistione Irlandese e ne scrisse pagine che sono viventi anche oggi, ha indagato il pauperismo e quell'embrione di legislazione sociale che era la tassa dei poveri in Inghilterra. Allora, quello spirito liberale, vede che l'educazione è il primo passo all'affrancamento e si accinge ad introdurre in Piemonte le scuole del popolo. L'intento è pericoloso: il governo di allora non s'acconcia alla novità: tutto ciò che sa di associazione, quanto nella istruzione o nella cultura esce dalle vie tracciate, inflessibili come dogmi, appare un sintomo di rivoluzione. Cavour persiste. Una società agricola si fonda, si aprono i primi asili infantili. Nè Cavour è solo in questa opera. Tutta una agitazione aperta, feconda, generosa, alla quale prendono parte i migliori del Piemonte. Ingegni austeri e pensosi, che si raccolgono nella libreria del conte Sclopis e s'incoraggiano nell'ospitalità del signor di Barante, l'ambasciatore di Francia, nel cui salotto, un giovane segretario, il signor d'Haussonville recava gli echi di Coppet, l'intellettuale cenacolo del liberalismo europeo. Presso il signor di Barante si adunavano quanti, a Torino, volevano respirare. Dura, monotona, servile vita era allora quella di codesta capitale, e lo fu sovratutto nel tempo che corse dopo i tentativi del '31 e del '33, fin verso il '45. Epoca oscura, nella quale Carlo Alberto seguitava l'angosciosa tenzone, chiuso nel suo enigma, mentre i ministri di lui si esercitavano alla più sospettosa reazione.
Vi sono lettere di Cavour che narrano quella vita angusta: la prigionia entro la quale il grande ed agile spirito soffocava. Tuttavia la esistenza di lui in quel tempo è una preparazione psicologica ad un'intensa azione, intanto che il suo intelletto si addestra con ostinata costanza a tutte le peripezie di una vita pubblica feconda ed attiva. Non vede come arrivarci, talvolta ne dispera. Per giunta, il suo cuore è spezzato dal triste epilogo di una storia d'amore. Intorno ad essa è il mistero, ma ne traspare tanto da comprendere la profondità dei sentimenti in questo gagliardo e gioviale uomo d'affari, come egli ostentò di parere.
È stato veramente un uomo grande. Nessuna cosa della umanità è fuori di lui ed egli nobilita l'umanità e innalza il dolore e l'amore colla delicata sensibilità nell'afflizione pudicamente discreta.
Ebbe un amico carissimo, un'amica prediletta e sacra. Perdette l'uno e l'altra: ne sofferse, tacque e si volse alla patria.
Per tal modo, appena qualche bagliore di vita pubblica strisciò sull'orizzonte, Cavour fu tra i primi ad acclamarlo. Era pronto. Fu guida alla schiera modesta e gagliarda che si raccolse nelle sale del Risorgimento, il giornale tosto fondato, appena che venne concessa qualche larghezza alla stampa.
E nelle agitazioni che corsero l'Italia in quei giorni, quando un papa liberale sollevò gli animi, allorchè le moltitudini intravidero nelle promesse del pontefice un'aurora e incominciarono a pensare e volò il grido di riforme!, nella redazione del Risorgimento fu maturata la proposta che si chiedesse senz'altro indugio una costituzione.
In un'adunanza di liberali d'opposte parti parlò in questo senso Cavour, e le parole di lui destarono sospetto nelle ricongiunte fila della democrazia.
Questo nobile figlio del vicario — il capo della polizia — questo gran signore, noto per le sue predilezioni inglesi, dal fare sarcastico ed aggressivo, non piaceva. Lo chiamavano mylord Camillo; e, per parecchio tempo, la caricatura si esercitò a raffigurarlo con un piccolo codino. Era un codino di strano conio, che aveva pensato alla libertà e vi aveva creduto prima di tanti altri che se ne facevano allora gli araldi: un uomo che aveva studiato i più elevati problemi della morale politica colla energica tempra sorretta da fede e da ragione, con abitudini di libero esame; scevro di scrupoli e non intollerante.
Egli aveva da lungo tempo seguìto colla logica inflessibile della mente il cammino delle idee liberali a traverso l'Europa e lo aveva seguìto con quella tendenza spiritualista, che è singolare prestigio negli uomini di azione.
Grandi insegnamenti erano state le vicende del primo periodo riformatore in Inghilterra, la storia del regime parlamentare sotto la monarchia di Luglio, e le agitazioni della Penisola Iberica.
Egli aveva ammirato la previdente abilità di Wellington, di lord Gray, di Roberto Peel; deplorato le miserie del Carlismo e le fatali conseguenze dell'impeccabilità politica dei re: aveva conosciuto la triste povertà dei risultati di una politica demagogica all'infuori del reale, le perniciose deviazioni di un parlamentarismo, smarrito tra l'asservimento delle maggioranze, gli intrighi dei ministri, le ambizioni dei competitori e l'ostinazione egoistica del principe, come era accaduto in Francia, dopo la morte di Casimiro Perrier.
Questi spettacoli avevano suscitato entro di lui una coscienza politica impregnata di sano realismo, intanto che il suo genio matematico gli rivelava il dinamismo delle istituzioni costituzionali, in cui egli ravvisava la sicura guarentigia di libertà per i popoli, un sincero e potente mezzo di azione per i Governi.
Agli occhi suoi di veggente, le inclinazioni dei tempi apparivano in un'armonia completa delle promesse effuse a attraverso il mondo dalla rivoluzione, che aveva inaugurato il secolo colle prospettive che rinverdivano sul lucido orizzonte dell'avvenire. Spirava evidentemente l'alito di novità sul mondo occidentale.
La vita moderna fremeva di ardori sconosciuti. Le invenzioni e le scoperte mettevano sottosopra la quietudine antica. È in quei tempi che il giornalismo conquista la sua potenza straordinaria e crea la opinione pubblica; che le macchine suscitano un mondo industriale, e il vapore e l'elettricità cominciano a mutare l'aspetto dei continenti e a trasformare sensibilmente gli ordini sociali.
La espansione nuova imponeva nuove forme di rapporti, e l'economia politica che già aveva rivelato tutta una serie di fenomeni inesplicati, si avvaleva di codesto espandersi, di codesto moltiplicarsi dell'attività e della ricchezza per reagire sull'assetto internazionale, sull'ordinamento interno degli Stati.
Studiando il tempo suo, Cavour previde che lo spirito liberale avrebbe eccitato l'opinione pubblica, stimolandola ad un'azione assai più grave e profonda di quella, cui credevano di doversi restringere i famosi dottrinarii francesi. Gente di onestissimi propositi, ma impigliata, senza avvedersene, in una specie di mandarinato politico. Onde egli, non senza ironia, amava proclamarsi «juste milieu;» espressione messa alla moda da Luigi Filippo.
Ma il suo «juste milieu» egli non intendeva che fosse il fermarsi come che sia. Proclamerà un giorno in Parlamento che «i cannoni e le baionette non sbarrano la strada alle idee.»
Era convinto che il movimento non si poteva nè si doveva trattenere. Ogni ordine di cittadini, intervenendo omai nella colossale collaborazione, occorreva accertare in loro cospetto che la libertà non è mezzo soltanto, ma fine di alta moralità da conseguire.
Posto in questi termini il problema di governo, il cómpito dello Stato materialmente si disegna nel secondare e coordinare l'impeto del rinnovamento.
Si è perciò che Cavour fu tra i più convinti fautori del regime rappresentativo.
Le formule costituzionali, le due Camere, non erano per lui una formale asseveranza di diritti nominali, una convenzionale espressione della sovranità popolare, bensì un sapiente metodo di governo, in tempi di progredita coltura e di gagliarda espansione individuale.
Ma questo concepimento dello Stato moderno esige un popolo che abbia ferma coscienza della vita nazionale, e per ciò il Cavour, se non da prima unitario, fu certamente sempre un ardente fautore dell'indipendenza.
Esaminando le condizioni dell'Europa, le aspirazioni alla nazionalità, — che la fallace resistenza ai moti del Belgio e di Grecia, lo stridore delle contese in Polonia, il fermento sulle rive del Danubio annunziavano come prossimo segnale di rivendicazioni e di battaglie, — ne traeva auspicii per la causa italiana.
Uomo politico avventurato, che i meditati disegni della sua giovinezza potè colorire nella realtà luminosa, vide sorgere dal profetico sogno l'evento, saldo sempre sul fondamento di principii, sopra del quale tutta l'azione politica sua si innalzò. Ad una parola inorridivano, non soltanto i reazionarii, ma anche i nuovi arrivati e gaudenti, coloro che arricchitisi colle sue spoglie, si inorgoglivano di essere chiamati figli della rivoluzione.
La parola appunto: rivoluzione.
Di qui, un ibrido conservatorismo, mantenuto in vita mediante spedienti e compromessi, transigendo con tutti, tutti scontentando, fra la universale irrequietudine.
Cavour, con sicuro istinto, riconobbe lealmente il fatto rivoluzionario, vi ravvisò l'annunziazione dell'avvenire.
Importava dirigerlo, richiamarlo, avviarlo a fini di governo. Questo egli volle.
E così, nei primi giorni dello Statuto, contrastò con freddo consiglio le esuberanze e le impazienze, tanto da perderci il seggio in parlamento.
Ma quando la democrazia ebbe per virtù del Gioberti il lampo chiaroveggente della lega italiana e dell'intervento in Toscana, Cavour fu con Gioberti.
In tutta la fase prima della rivoluzione italiana, nel periodo del 1848-49, dopo Novara, durante le angoscie, i tumulti, gli scoraggiamenti, le incertezze di un'ora nella quale patria e libertà parvero sommerse, il Cavour giornalista, deputato resistette all'irrompere delle estreme parti, si ostinò nella sua politica. Credette il volgo che egli volesse, immobile, ancorarsi sul presente, e già nel segreto dell'anima ardente balenavano le folgori di rivincite non lontane.
Iddio che, se suscita gli uomini grandi, fornisce loro il campo e i mezzi di azione, fece sorgere accanto a Camillo di Cavour colui che lo comprese. Vittorio Emanuele II, dal trono, glorificato con l'atto di baldanzosa lealtà al quale il generale Radesky si era dovuto inchinare, stese la mano a Cavour.
Cospirarono insieme, e lo gridò un giorno Cavour dal suo banco il ministro: di quella cospirazione venti milioni di italiani annodavano le fila, in silenzio.
Vittorio Emanuele salvò a Vignale la causa italiana. Il suo primo ministro di allora, Massimo d'Azeglio, preservò la costituzione dalla impotenza, lo Stato dall'anarchia.
In quei giorni Cavour ritornò alla tribuna parlamentare: sgabello o tripode, là è la fortuna dell'Italia nuova.
Diceva allora Cesare Balbo: «lo Statuto, null'altro che lo Statuto.»
Replicava Cavour: «lo Statuto con tutte le sue conseguenze.»
È la Rivoluzione fatta governo, che si modera per proporzionare i mezzi ai fini ed a ciascun giorno assegna il cómpito, risoluta, impavida, certa che nessun reggimento vale, se non è sincero fino all'estremo, checchè si dica.
Ecco profilarsi il vero conte di Cavour: l'uomo nuovo, nato proprio per il suo tempo. Non ha rancori nè pregiudizi.
Appartenente ad una casta spodestata dalla rivoluzione, non soltanto rinuncia allegramente al privilegio, ma si compiace che trionfi la dignità umana. Questo sentimento domina tutte le azioni sue: egli vi fonda le sue ambizioni di patriotta e di liberale.
L'avvenire della Società europea gli appare chiaramente a traverso questo lucido cristallo, e gli sorride che la patria sua sia esempio di dignità coraggiosa.
Così egli si circonda di nobile poesia, che l'istinto popolare decora co' suoi entusiasmi.
Egli è già quel Cavour, che nelle imaginazioni e nei ricordi del popolo italiano vive in un chiarore, che splenderà finchè duri la memoria del nostro secolo.
Il suo indipendente carattere lo emancipava fino dalla giovinezza. Non egli dovette disdirsi, rinnegarsi.
Nè abbandoni nè apostasie. Allorchè l'ora scoccò, era sciolto da ogni impegno verso il passato. In quel punto, potè essere capo dei liberali in Piemonte e come quegli che, nella assoluta indipendenza dello spirito, aveva ripudiato le tenerezze della casta e i favori aristocratici, sentiva in cuore il diritto di irrigidirsi contro le invidie ed i sospetti della demagogia, di reclamare altamente la gloria di dare il nome suo all'opera di libertà: arbitro e moderatore.
Un'immensa forza questa per lui e, ad accrescerla, il valore pratico della mente, la famigliarità degli affari, la penetrazione acuta del congegno di tutta la vita contemporanea.
Cedendo a lui il posto, Massimo d'Azeglio poteva scrivere: «Sano di mente e di corpo, una attività indiavolata e poi.... tanta voglia di stare al governo! Ottimo d'Azeglio! Questa voglia era fatta di fede e di sincerità, di ardore appassionato e di convinzione profonda.
Bisogna penetrare un po' addentro a queste anime e sentire come palpitano, ferventi. Ambizione, ambizione! È denigrare noi stessi il supporlo, quando la patria aspetta, e le più alte idealità umane sorridono. È predestinazione, non ambizione.
È il segnato in fronte che afferra il labaro e muove alla conquista.
Egli cammina innanzi alle turbe!
Immaginiamo quei giorni.
Fresche ancora le ferite di Novara, la gente cominciava appena a riaversi ed a guardare attorno.
Una fazione potente per schiatta illustre, per servizi alla monarchia, altera nella incorrotta fama, che fu il pregio grande dell'aristocrazia subalpina, avversava il nuovo ordine di cose.
Era gente che aveva difeso in battaglia lo Statuto e la causa nazionale, ma non credeva all'Italia, nè alla costituzione. Ci vedeva il precipizio della dinastia: armeggiava in Corte. Non attorno al Re, inaccessibile e risoluto, bensì presso la regina, la madre e la moglie del Re, timide, pie, austriache entrambi. Angeli di bontà, ma nel cuore, arciduchesse. Una parte di codesti signori si adoprava in Senato. Una specie di vecchia fronda, senza duchesse di Longueville, ma con qualche virgulto di cardinale di Retz. Il profilo ne balza dalle pagine di un memorandum lasciato dal capo, il conte Solaro della Margherita: un piccolo Metternich, si diceva.
Ma era un Metternich buon diavolo.
Accanto a costoro, si schierava in altezzosa dignità, la falange dei conservatori che avevano consigliato e sottoscritto lo Statuto, illustri e sapienti, liberali per natura e generosità di animo, conservatori per tradizione, per scrupolo, per istintiva repugnanza alla democrazia in azione, per timore di esserne soverchiati.
Seguivano i liberali democratici, propensi per indole, per studi, per istintiva saviezza ai consigli prudenti, ma decisi al trionfo dei principii liberali, ad ogni costo; ardenti per la causa italiana, diffidenti di persone e di cose che rammentassero il governo passato, sospettosi della Corte, della nobiltà, dell'alto clero.
Seguivano i democratici ad oltranza, i rivoluzionari per temperamento o per professione, reboanti di declamazioni contro i troni e le chieriche, esalanti verso il barbaro ed i tiranni le più rumorose contumelie, frementi ancora del lievito quarantottesco: santo e benedetto lievito che aveva fatto le barricate, ma che nell'ora melanconica del raccoglimento, dopo la sconfitta, appariva meno opportuno.
Intorno al mondo politico: una nobiltà restìa, un clero avverso, una borghesia scontrosa e un popolo sbalordito da tante novità, che si risolvevano in maggior carico di tributi.
A poche marcie da Torino, l'Austria che vegliava e nulla avea dimenticato.
Per l'Europa correvano ancora i brividi del '48, quando la rivoluzione era penetrata anche a Vienna; era stato appunto codesto scoppio di uragano che avea ribadito in Cavour il convincimento di una politica liberale e progressiva. Ma in quanti pochi a seguirlo!
Poichè la paura dominava gli uni, il furore acciecava gli altri e il vecchio spirito europeo stava coi primi. I principi italiani, nell'Emilia, a Napoli, ne erano incatenati; il papa scagliava l'anatema al Piemonte, e fin la Francia, terrorizzata dal colpo di stato di Napoleone III, appariva nel momento un'incomoda vicina, dalla quale i costituzionali subalpini non speravano consigli ed incoraggiamenti. Doveano star paghi delle lontane e platoniche simpatie dei whigs inglesi.
D'altra parte, non erano spente le ire, ne sopite le audacie dei demagoghi, alleati con tutti i vinti del '48, coi reduci di tutte le insurrezioni, di tutte le barricate: dispersi per la Svizzera, per l'Inghilterra o rifugiati in Piemonte.
Le potenze centrali, Prussia e Confederazione germanica, si tenevano mute, avvinte all'Austria: Niccolò di Russia ricordava all'Europa di essere il depositario del 1815, il personale avversario delle Costituzioni.
Correvano presentimenti sinistri.
L'Ungheria fremeva ricordando i suoi martiri; la Polonia rodevasi, debellata non vinta, e quel tricolore innalzato là, ai piedi delle Alpi, segnacolo di agitazione, speranza di rivoluzionari, intorno al quale si raccoglievano profughi e parlavano di nazionalità, di indipendenza; quel vessillo che copriva coll'allegria de' suoi colori festosi una costituzione ed un parlamento, sembrava una provocazione, una sfida.
Il Piemonte era il temuto ribelle!
Comporre negli animi la concordia, la fede negli ordini nuovi, rassicurare l'Europa serbando fede alla causa italiana, preparare Re, parlamento e popolo agli ardimenti, creare in Piemonte una coscienza patriottica suscitandovi l'ardore dello spirito nazionale, infondere negli uni la confidenza e l'audacia, negli altri la prudenza, effondere sovra tutti il magico alito della libertà, questo fu il grande, il magnifico pensiero di Cavour.
In questa coraggiosa preparazione è la principale opera sua, la vera opera sua. La sua azione in quel tempo fu tanta e così potente, che avvinse la storia.
Essa dovette seguirlo ed obbedirlo.
Mostrò, allora, subito quel che occorreva.
Il suo memorabile discorso del 7 marzo 1850, meglio un manifesto che un discorso, è programma di azione.
«Come starsene immobili?
«Pensiamo un po'. La rivoluzione da una parte, co' suoi urti, le sue improntitudini; L'Europa monarchica e conservatrice dall'altra, sospettosa, diffidente, cupida di soffocare ogni idea liberale.
«La immobilità sarebbe l'umiliazione e la ruina. Il Piemonte scenderebbe al livello degli altri staterelli, l'Italia perderebbe ogni speranza. Altri fini, diceva, altri fini deve conseguire la nostra nazione, deve conseguire l'Italia!
«Lo Statuto non può rimanere una formula vana: esso è strumento capace e poderoso.
«Adopriamolo.» Questo, in succinto, è il pensiero. Nella mente di Cavour, la costituzione era cosa viva: i partiti dovevano fecondarla; partiti organici, logicamente ordinati con idee e con programmi. E questi partiti occorreva crearli, perchè le agitazioni estreme svanissero, infeconde. Occorrevano riforme, per evitar le violenze. Egli scriveva nel 1860: «prevenendo gli avvenimenti, secondando ciò che vi è di giusto e di nobile negli istinti popolari, si rendono impossibili le rivoluzioni.» Fu il primo serio tentativo della vita libera in Italia.
Il discorso del marzo ottenne l'effetto che Cavour desiderava: quello di schiarire la situazione innanzi all'opinione pubblica.
Un anno dopo Novara, per bocca di Cavour, la Camera Subalpina preannunciava il parlamento del 1861. Nessuna meraviglia quindi, se codeste parole rintronarono fra le moltitudini.
Cavour incarnò, fin da quel giorno, le speranze italiane, e quando, pochi giorni dipoi, Vittorio Emanuele firmava il decreto che lo faceva ministro, dicendo al d'Azeglio: «Badate, costui vi scavalcherà tutti,» forse nel conscio animo del Re trepidava la profezia del pallido Gioberti, la parola ultima che dal letto di morte il doloroso profugo gettava all'Italia, perchè dalla sventura non dileguasse il conforto di suprema speranza. Quella grande anima, perdonando, divinava il Re ed il Ministro.
Da quel giorno, anche agli occhi dei più diffidenti, questa monarchia che si trasformava così sinceramente in regime di libertà, che mostrava di accogliere così spontaneamente tutte le idee moderne e le favoriva e si rinnovellava in esse, legittimandosi italiana nel sentimento e nell'entusiasmo, onde i profughi delle altre regioni sedevano nei consigli della Corona; e in parlamento e dalle cattedre spandevano sulla gioventù la luce di insegnamenti, maturati nelle sventure, per cagione della patria e a torme altri profughi erano accolti e protetti in Torino, apparve un fatto così straordinario, così miracoloso, da colpire le immaginazioni, come una rivelazione della Provvidenza.
Gli animi di quel tempo spiravano amore, fede, poesia. Erano in Dio credenti, e credevano nella patria.
Tutta la genialità vibrante nell'arte italiana, il veemente desiderio sprigionatosi fin dai primi anni del secolo, librato sui monti, sulle marine, sui memori piani, quando la benedizione del pontefice accendeva nei cuori il fuoco mistico di religioso entusiasmo, nel quale l'amore di patria si purificava e raggiava sulla fronte una luce ineffabilmente spirituale! Meraviglioso stato d'animo per osare.
Non è strano se in quel fermento sorgesse il disegno di far partecipe il Piemonte alla guerra che allora si combatteva sul Mar Nero, per assicurare il cosiddetto equilibrio del Mediterraneo, mossa in favore della Turchia, avverso la Russia, dalla Francia e dall'Inghilterra.
Se nel salotto politico della marchesa Alfieri o nella tesa dove Farini aspettava le quaglie, o nella sola mente di Cavour, oppure nella fantasia di Vittorio Emanuele sia sorto per la prima volta il pensiero dell'alleanza di Crimea, è vano ricercare. Correva per l'aria l'impeto delle audacie.
Nelle condizioni dell'Europa, mentre la Russia provocava, l'Austria si disponeva a stupire il mondo colla sua ingratitudine, e la questione d'Oriente risorgeva in modo nuovo e diverso, e non era temerario il supporre che sul Danubio divampasse la fiamma augurale della nazionalità, l'inoperosità del Piemonte pesava su quelli, che ne' suoi destini vedevano l'indipendenza d'Italia, al Re che conosceva come in cuore dell'esercito e del popolo durasse il tormento di Novara.
A Vittorio Emanuele la figura mistica dell'antica croce sabauda sventolante ancora una volta sugli azzurri del mare d'Oriente, appariva come presagio di rinnovate fortune.
Egli voleva capitanare l'esercito, e, a malincuore persuaso dalla ragione di Stato, cedette il comando al generale La Marmora.
Il partito della guerra fu vittorioso in Parlamento, esclusivamente per il prestigio di Cavour.
Pareva un'avventura. Lo scontroso patriottismo temeva dell'Austria, i meno diffidenti presagivano la ruina economica.
È storia da non potersi riassumere in poche parole. Meriterebbe, essa sola, una conferenza. Occorrono più conferenze per illustrare la storia d'Italia dal '56 al '61 e questa storia d'Italia è storia di Cavour.
Di certo, nella guerra di Crimea la parte del Piemonte fu rischiosa tanto, che anche il gran ministro ne temette. Oh! l'annunzio della Cernaia! E la vittoria che bacia il tricolore! E le divisioni di La Marmora emule dei primi soldati d'Europa, acclamate in cospetto del mondo!
Fu l'anno sfolgorante e clamoroso. Dopo tanta tenebra profonda, tanto duro silenzio, l'anima del popolo si sollevò fiduciosa. La bandiera, nel suo nuovo prestigio, oltre il Ticino irradiò i bei colori che dicevano la speranza. Il popolo d'Italia scriveva sui muri: «Viva Verdi,» cioè: «Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia.»
Sedizioso emblema! E il conte di Cavour si avviava a Parigi, per raccogliere, sul tavolo della diplomazia, l'alloro che l'esercito sardo aveva mietuto in Crimea.
La storia della civiltà nostra dirà del Congresso di Parigi che esso fu la manifestazione dei sentimenti e delle illusioni di un secolo, il quale sentì l'ansia dei fini umani.
Il secolo che doveva chiudersi con la conferenza per la pace, vi preludiò a mezzo il cammino col «non intervento, l'abolizione della corsa, il diritto dei popoli di manifestare liberamente i loro voti.»
Napoleone III segnò in quel punto l'apoteosi del suo regno, e l'Europa la moderazione di lui ammirò.
Cavour rinvenne l'alleato.
— Che si può fare per l'Italia? — Gli chiese un giorno l'Imperatore. E Cavour, cogliendo al balzo le intenzioni e la proposta, gli esponeva il suo piano; si arrischia, e con temerario slancio butta sul tappeto verde del Congresso la questione italiana.
Questo avvenne il giorno 8 aprile 1856.
Fu la prima volta che in un congresso europeo l'Italia «nazione» apparì.
Ben lo intese il gentile spirito dei patriotti toscani, quando al ministro piemontese ritornato in patria offerivano nel bronzo: «Colui che la difese a viso aperto.»
Intanto i lombardi regalavano all'esercito sardo di Crimea la statua dell'alfiere in atto di difendere lo stendardo.
Le rivendicazioni italiche erano una realtà. Cavour le aveva elevate al posto d'onore, mentre coglieva il segreto di Napoleone III.
Il ritorno di Cavour da Parigi segna il principio di un'epica fase, e il linguaggio di lui ne risente.
Questo ministro tecnico, che appariva sdegnoso di uscire dal terreno pratico, diventa un poeta.
La sua eloquenza ha gli scatti e le pompe, l'ampiezza e la grandiosità: egli cita Byron e Manzoni, schiude innanzi al parlamento attonito un orizzonte sconfinato e corrusco di attività provocatrici. Le sue parole hanno la sonorità del metallo: rimbombano come fanfara di guerra.
Orgoglioso, quando passa l'imponente rassegna degli scambi avvivati, delle industrie sollevate, delle leggi immaginate, delle Alpi tentate, delle strade aperte, della marina rinnovata, dei civili ordini assodati, coll'imponente e largo discorso dell'aprile 1857, da codesto orgoglio trae nobile argomento per additare le vie che si aprono, gli ardimenti che aspettano: le fortificazioni di Alessandria, il porto di Spezia, l'esercito, l'armata.
E quando, l'anno di poi, l'attentato di Orsini getta lo scompiglio e incoraggia la reazione, egli, inesorabile accusatore, denuncia la complicità del misfatto nel mal governo dei principi, nelle perfidie austriache.
Lo sgomento di tutti si infranse contro la sua virile fermezza. L'Europa stava spiando. Sarà Alberoni o Richelieu? Ma il 10 gennaio del '59 Napoleone III getta la sfida all'Austria; alcuni giorni dopo, Vittorio Emanuele non è insensibile al grido di dolore dell'Italia.
Palestro, Montebello, Magenta, San Martino e Solferino! Giornate primaverili del nostro riscatto, corona di valore e di sangue a quegli accordi di Plombières che Cavour annodava, intanto che vanamente la diplomazia lo sorvegliava!
La guerra del 1859, colla liberazione della Lombardia determinò la sollevazione della Toscana, dei Ducati e della Romagna; e, allorchè Napoleone III, preoccupato dal contegno della Prussia risolse di posar l'armi, stipulando i preliminari di Villafranca, mezza Italia aveva proclamato la indipendenza.
L'insurrezione prodigiosa era stata sollecitata dall'iniziativa guerriera del Piemonte: Cavour l'aveva ispirata: egli sentiva la responsabilità formidabile.
Il grande rivoluzionario era lui, che aveva bandito la guerra, scatenato le popolazioni, armato Garibaldi, che sosteneva di denaro e di consigli Farini nell'Emilia, d'Azeglio in Romagna, corrispondeva con Ricasoli in Toscana. Villafranca lo colpì come una defezione. Fu il dolore grande della sua vita, gli parve d'aver mentito ai popoli fidanti in lui. L'esaltazione tragica del suo animo salì all'irreverenza verso i sovrani; quel potente dubitò di sè: vide nell'opera sua una ruina.
Il popolo d'Italia fu, in quei giorni più sereno e tenace di lui, ma lo intese. Disse: è un uomo di cuore costui, e veramente ci ama. Lo vendicò. D'altronde, Napoleone III che aveva sacrificato al dovere verso la Francia la promessa: «dall'Alpi all'Adriatico» si tenne fedele allo spirito del trattato di Parigi.
Se Villafranca significava la pace coll'Austria, egli aveva dichiarato che non intendeva di frapporsi fra il popolo e le sue aspirazioni. Quando Gioacchino Pepoli fu spedito a Parigi per annunziare i propositi degli Italiani e già i governi provvisorii delle provincie centrali, irremovibili nell'indipendenza, meditavano l'unità coi plebisciti, l'Imperatore movendogli concitato incontro:
— Sur quel air venez-vous? — chiese.
— Sur l'air de Villafranca, Sire, rispose Pepoli prontamente. E di rimando:
— Il n'y aura pas d'intervention, — dichiarò recisamente Napoleone.[2]
Il non intervento condannò l'Austria alla immobilità, favorì la politica delle annessioni. L'opera di Cavour ne usciva intatta, e questi, che nell'impeto del patriottico sdegno, aveva abbandonato il governo, vi ritornò il 16 gennaio 1860.
Era forse giunto il tempo che dovessero avverarsi tutte le profezie? Che anche la parola di Carlo Alberto trionfasse? Suonava per l'Italia l'ora di fare da sè?
Ahimè! Diciotto mesi ancora, e poi il risorgente popolo è percosso dalla negra ala della morte.
«Una congestione cerebrale,» scrive il venerando patriotta ungherese Luigi Kossuth «e la mente che oggi s'innalza co' suoi progetti fino al cielo, la mano che arditamente spinge la ruota della fortuna delle nazioni, domani è un corpo esanime che ridona alla terra ciò che di terrestre conteneva.»
Ma in quei diciotto mesi quale maestosa onda di fatti!
L'epopea dei volontari, l'ardita marcia a traverso l'Umbria e le Marche e Vittorio Emanuele che stringe la mano a Garibaldi sul Volturno, intanto che i plebisciti creano il regno d'Italia e il primo parlamento italiano acclama Cavour, che si mostra al braccio di Alessandro Manzoni!
Questo è miracolo voluto, combinato, eseguito con una perspicacia che sorveglia sè stessa acutamente, con un'attività pensata a un tempo e turbinosa, fucinata sul maglio di un'energia indomabile, in una terribile tensione dello spirito.
— Oh! — sclamerebbe la forte e dolce Nennele, la simpatica eroina, la nuova creazione di Giuseppe Giacosa — oh veramente colui si dava alle cose![3]
Per tal modo, il giovanile prorompere dell'ufficialetto di Bard, imprimendosi nella maestà della storia, coronava la vulcanica esistenza, dominata da un pensiero!
Cavour era ministro del regno d'Italia! E nei clamori della prima festa nazionale, in onore di quello Statuto, che era stato per la sua volontà un miracoloso talismano, nella letizia dei compiacimenti ufficiali che dall'Europa venivano al nuovo regno, si dileguava nell'eternità gloriosa l'infaticabile spirito nel quale il sospiro dei secoli aveva assunto robusta e vitale forma.
Temperamento fatto di logica e di libertà. Spaziò in un campo intellettuale supremo, dove non setta, non pregiudizio, non volgarità di onori, ma solamente la fatidica progressione della storia lo guidava. E questa lo condusse al premio ineffabile, e dona alla memoria di lui, rompendo l'ombra e rischiarandola, la serena popolarità che circondò la sua persona.
Ma egli maturava nell'ampio e profondo cervello immensi e benefici disegni!
Avete udito, sul letto di morte, le ultime sue parole?
— Frate, frate, — e appuntava su padre Giacomo il fuoco supremo dei suoi occhi spalancati: — libera Chiesa, in libero Stato.
Egli poteva darci una salutare riforma religiosa!
Fino dalla gioventù, la preoccupazione delle forze morali che sorreggono le comunioni umane aveva sollevato il suo animo alla vertigine delle altezze, il sublime lo tentava nel magnifico miraggio: la religione e la libertà!
La sua formula, incompresa o trascurata, racchiude forse il segreto di una risurrezione di fede, quale non videro le mistiche età, di una spiritualizzazione del sentimento religioso, quale non sanno concepire coloro che abbassano la Chiesa al livello di una Società politica.
— Santo Padre! — esclamava in cospetto dei nuovi eletti d'Italia, il conte di Cavour — Santo Padre, noi vi daremo la libertà, che da tre secoli invano chiedete alle potenze cattoliche; date a noi Roma la madre alma, la stella polare nostra: noi proclameremo la libertà della Chiesa! —
Era una promessa degna della mente politica più vasta e comprensiva dell'età nostra, della mente che rispecchia l'immagine più schietta e completa, più morale del mondo moderno!
Pochi, pochi anni, troppo pochi anni durò quella fioritura vivida e generosa di colore, di luce; durò quel governo intellettuale contesto di persuasione e di fàscino.
Ma la forza di una dominazione fondata sulla vivace parola, sul dibattito aperto, in parlamento, azione di avveduta pazienza e di indomabile fede. non è mirabile, stupenda, misteriosamente seduttrice, efficace e illustre assai più di quella che si suole richiedere agli eserciti ed alle burocrazie?
Il significato morale dell'opera di Cavour, equilibrata, sana, condotta secondo ragione, non è qualche cosa di molto elevato, di veramente edificante e buono, che ravviva la confidenza nelle qualità umane, nella possibilità di un destino che corrisponda agli intimi soavi accordi dell'intelletto e del cuore?
Oh, di certo, una nazione redenta, un popolo restituito a dignità, il sangue dei caduti vendicato coll'onore della patria raggiante nella coscienza di cittadini risorti alla serietà del dovere e alla letizia della libertà, codeste sono opere immortali.
Ma lo spiritual significato di un'esistenza utile, laboriosa, onesta e grande come quella di Cavour non è forse anche più ragguardevole cosa e degna di rimanere in perpetuo esempio?
Di codesta purissima luce, effusa sulla nuova storia della nostra patria, dobbiamo rendere grazie a quell'uomo, e, sia benedetta la Provvidenza, che la rivoluzione d'Italia si impersona in una delle figure più elette del secolo.
Nè consentiamo alla puerile bestemmia che egli sia morto a tempo per la gloria sua.
Per la sua felicità, forse.
Ma, per la gloria? Che possiamo dirne noi? Che ne sappiamo?
Che cosa possiamo noi prevedere di una intelligenza, di un'anima entro la quale ardeva e folgorava così potentemente il raggio di Dio?
Un giorno, standosi il conte di Cavour sulle rive del lago di Ginevra, lo accostò un alto e biondo bernese, soldato della libera Elvezia repubblicana.
Lo fissò, e poi gli chiese:
— Sie sind Cavour? —
E, avutane risposta affermativa, gli occhi del popolano si velarono di lacrime. Afferrò le mani del grande liberale, le baciò precipitosamente, commosso. Poi si allontanò.
Si era al 1860: l'Italia sorgeva.
Oh come felici, se nella sconsolata via, venisse innanzi a noi il trionfante fantasma ideale!
Con quale trepidante desiderio, anche noi, interrogheremmo:
— Sie sind Cavour? —
L'EPOPEA GARIBALDINA
CONFERENZA DI GIUSEPPE CESARE ABBA.
Tentare in una breve ora l'epopea garibaldina, che vuol dir tutto Garibaldi, sarebbe come voler cogliere in un'occhiata tutta la giogaia delle Alpi. Chi lo potrebbe e da quale altezza? Fra Rio Grande e Digione, i suoi furono trentacinque anni di guerre con intermezzi di solitudini da Nume, o sull'Oceano o sullo scoglio dov'Ei sapeva incatenarsi da sè; e solo la lirica, col suo gesto da folgore, varrebbe forse a pigliarli nella sua luce. Ma se è vero che dell'Epopea il poeta può, se vuole, coglier soltanto il nodo; allora questo nella garibaldina è la Sicilia, la Dittatura, Lui, che privato, povero, disconosciuto, dispetto o adorato, ma in sè gigante cui sono sproporzionati uomini e cose, leva via un re inutile, e fa possibile e sicura l'unità dell'Italia.
Se lo stato dell'anima quale ce l'han fatto i secoli, per quel tanto di scienza che s'acquista via via da tutti, ci lasciasse ancora concepir l'Eroe nel senso antico, certi pochi uomini, da duemila anni in qua, meriterebbero d'esser chiamati eroi quanto Garibaldi: ma forse piace di più riconoscere in lui l'Uomo quale un giorno sarà, perchè ebbe al sommo la pietà, l'amore, l'oblio di sè, e un sentimento vivissimo del misterioso legame che ci giunge con l'Essere da cui emana tutta la legge e tutta la vita, la quale deve divenir alla fine sola bontà.
Non lo vediamo a sette anni, mentre si trastulla con tra le mani un grillo, piangere per avere strappato le ali alla povera bestia innocente? Non offesa dunque a ciò che vive, non far patire. È già quello stesso che negli anni gravi e glorioso si leverà nel cuore della notte, per andare in cerca di una capretta che udirà belare smarrita, su pei greppi della sua Caprera. Di mezzo a questi due fatti che paiono fanciulleschi, sta l'episodio di quel barbaro americano Millan, che aveva fatto torturar lui prigioniero, e che caduto poi nelle mani sue egli rimandò libero, senza volerlo vedere. A otto anni salva una lavandaia pericolante in un fosso; e a tredici si getta in mare per soccorrere una barca di compagni già lì per naufragare. E li salva. Quando a settantacinque anni sarà morente, dirà le ultime sue parole, raccomandando ai suoi le due capinere venute a posarsi sulla sua finestra!
Cominciò presto per lui la grande scuola di farsi da se; e presto lo vide la Costanza, il brigantino che lo portò marinaio in Levante, sogno degli italiani, passato dai libri di Marco Polo nella poesia cavalleresca. Anch'egli mirerà di Angelica ridente il velo
Solcar come una candida nube l'estremo cielo;
ma poi la sua Angelica la troverà in Italia, a diciassett'anni. Navigherà col padre, marina marina, sino a Fiumicino e da Fiumicino farà una corsa a Roma. Col quel po' di storia romana che ha nell'anima, passerà tra i monumenti della vecchia Roma e quei della nuova, si desterà in lui lo spirito di Cola di Rienzo, concepirà che sulle due Rome, può e deve sorgere una nuova Roma italiana. E in quell'età della vita che ogni uomo si pianta nel cuore una fede propria, in lui si pianta quella della gran madre, per cui penserà, lavorerà, combatterà fino al «Roma o morte» d'Aspromonte; fino alla tetra sera di Mentana. Il dì che Roma diverrà italiana, egli non ci sarà, ma i secoli diranno che stava a combattere per l'onore di quella Francia, che a Mentana aveva provate le armi sue nuove contro di lui. Mai uomo fu defraudato del suo diritto come lui, in quel giorno che l'onore di entrare in Roma toccava ad altri!
Gli anni giovanili di Garibaldi paiono andati via rapidi, per chi li legge nelle sue biografie; ma come furono densi di azione! E il nostro pensiero lo segue ancora su' mari di Oriente dove navigando coi Sansimoniani proscritti, si nutre del Cristianesimo nuovo ch'essi portano per il mondo. Un anno appresso, a Taganrok (1833), un asceta del patriottismo gli rivelerà la Giovane Italia e la formola Dio e Popolo lo conquiderà. Da allora, Garibaldi sarà il Paolo di quella fede.
Passiamo via rapidi su quel momento della sua vita in cui egli entrò nella marineria del Re di Sardegna con propositi di ribelle. Ma chi gli diede in quel momento il nome di guerra di Cleombroto, lo dava a caso, o ravvisava in lui qualcosa del giovane che letto il Fedone di Platone si uccise per accertarsi dell'immortalità dell'anima, o qualcosa del re Spartano di quel nome, morto alla battaglia di Cintra? O forse quel nome gli fu dato per quel senso di procella che par esprimere?
Il pensiero di Garibaldi non era stato bello, ma sublime fu la pena che si inflisse da sè. Nell'ora di agire, di gridar la rivolta sulla nave del Re, la sua natura nobilissima gli diede il raggio che salva: egli scese a terra, andò a cercar altrove per Genova il luogo da spendervi la vita o conquistare la libertà; andò e cercò invano...., la rivoluzione promessa era ancora un sogno. Ebbene, se tutto è finito in nulla, egli si riconferma nella sua fede, se la porta via nel cuore, anderà a fecondar l'idea pel mondo. E allora comincia l'Eroe. Curioso fatto! Egli, come gli Eroi dei poemi cavallereschi, inizia la storia delle sue imprese scorrucciato col suo Re, anzi in nome del suo Re condannato contumace a morte, come bandito di primo catalogo: e queste son parole della sentenza.
Infermiere dei colerosi negli Ospedali di Marsiglia, quando non ci è da far quel bene, s'imbarca per l'America, e là sarà l'eroe byronesco, Lara, Corrado, Leandro o quasi Mazeppa, quello che si vorrà. Oh! quando combatte per Rio grande, e quando vinto attraversa per nove giorni la foresta dell'Antas, fra temporali che la schiantano a colpi di fulmine! Cavalcava al fianco della sua donna, portando in un panno al collo il loro primo figlioletto di tre mesi; e questa ci pare una scena di cui si potrebbe leggere nella Bibbia. E di tratti biblici ne ha parecchi. A San Gabriele, al passo di un torrente, vede un uomo che sta facendo asciugare al sole i propri panni. «Tu sei Anzani!» grida egli a quell'uomo, «E tu Garibaldi!» risponde l'altro. S'erano per fama invaghiti l'uno dell'altro; ora saranno uniti per la vita e per la morte. Eccoli sulla via della grandezza. Montevideo ha bisogno di braccia. Vanno. Garibaldi è guerriero da terra e guerriero da mare. Dove lo mandano? Dovrà risalire il Paranà, con quei gusci che la Repubblica gli può dare; ed egli va, s'incontra con la squadra nemica, passa, naviga su pel fiume due mesi, e sotto il cannone ogni giorno; all'ultimo a Nueva Cava, dopo aver combattuto tre notti e tre giorni farà saltar le sue navi, ma il nemico non potrà dire di averlo vinto. Oh! perchè ventiquattr'anni di poi, ammiraglio a Lissa non fu lui?
Poi divenne guerriero di terra e creò la Legione. Romano d'anima non poteva chiamarla che così. Intanto gli anni incalzavano, veniva il 1846, e nel crepuscolo mattutino di quell'anno nel cui meriggio Pio nono doveva benedire l'Italia, là nell'America un pugno d'Italiani scriveva con le spade la giornata di Sant'Antonio, uno dei più nobili fatti d'arme che la storia del valore possa mai raccontare.
Ai primi annunzi dell'amnistia di Pio nono, egli era là, in quel mondo delle ricchezze, povero come Giobbe. Fabrizio rifiutò i doni di Pirro, ma insomma li rifiutò per non tradire la patria. Garibaldi non aveva voluto nessun compenso d'aver salvata la patria altrui. Egli si sentiva pago abbastanza del campo franco avuto, a provare in guerra il cuore italiano: e ora sentiva con sicurezza che se i giorni della patria erano venuti davvero, egli avrebbe saputo servirla. E «sovente s'arrestava soprapensieri, e gli sfuggiva un leggero sorriso, come a chi attende una lieta fortuna.» Lo scrive Giambattista Cuneo, suo compagno in quei giorni. Cosa vedeva, egli oltre il mare in qua, nell'Italia lontana? Allora egli e l'Anzani offrirono le loro spade a quel Pontefice, cui poco appresso il Mazzini offriva la mente. Avesse il Pontefice accettato; e se non la indipendenza che non era da lui, avrebbe forse guarita l'Italia di quella gran miseria per cui paiono inconciliabili l'amor della patria e la religione, che sono ancor la forza degli altri popoli, pur di noi più civili.
Quando non potè più reggere od aspettare, Garibaldi imbarcò quanti della legione vollero seguirlo, e sul brigantino Speranza, veleggiò a tornare. Canterà mai la poesia l'ora grande che, di qua da Gibilterra, egli vide una nave che batteva bandiera tricolore, la gran bandiera! e seppe Milano insorta, gli Austriaci in fuga, tutta l'Italia in rivoluzione?
E poi Nizza e la vecchia madre non riveduta da quattordici anni: e dopo brevi giorni di gioie domestiche, l'entrata nel mondo del Quarantotto, tutto canti e grida e deliri, ma con poche armi, assai poche! Ei corse presto a Milano. E perchè? — domanda oggidì la storia d'allora, — perchè dovette andare sino al campo di Carlo Alberto per chiedere un posto quale si fosse, e combattere? Non trovò per via gente armata che gli si offrisse? Ahi! Orlando era tornato, ma già si trovava ai primi disinganni. Dal campo fu mandato a Torino dove gli si disse d'andar a chiudersi in Venezia.... Nessuno indovinava in lui quel ch'egli era, neppure il governo provvisorio di Milano, dove tornava il 15 luglio, e dove alla fine gli erano dati i tremila volontari sparsi qua e là sino a Bergamo, con questo però che egli se li raccogliesse. Ma allora tutto già volgeva a male in Lombardia; Carlo Alberto si ritirava dal Mincio, gli Austriaci tornavano grossi, Milano ricadeva nelle loro mani; e a Garibaldi non rimaneva che la gloria di cader l'ultimo a Morazzone. E si narrò poi che il D'Aspre, il quale appunto a Morazzone lo aveva assaggiato, dicesse che l'uomo che avrebbe potuto essere utile all'Italia, nella guerra d'indipendenza del 1848, era stato disconosciuto.
Dunque tutto era una grande illusione? No! Roma chiamava, ed ei vi corse co' suoi di Montevideo. E anche là, quando la Giunta Suprema di Governo seppe che Egli giungeva, tremò. Pure dovette accoglierlo e se non altro illuderlo, mandandolo, a capo di bande armate a Macerata, a Rieti. Egli andò. Di là eletto deputato di Macerata alla Costituente, scese in Roma, il 5 febbraio, nell'assemblea ascoltò il discorso d'apertura del ministro Armellini, e di scatto s'alzò, proponendo che si proclamasse la Repubblica. Ecco il dittatore! E tutti lo temono, e pochi si fidano di quell'uomo così nuovo, così sicuro, così fatto per comandare.
Il 21 aprile quando si viene a sapere che partivano i francesi da Marsiglia per Civitavecchia, Egli era già molto sdegnato contro la patria, e se ne era confidato ad Anita, scrivendole da Anagni. Ma non dubitava dei suoi destini. E coi suoi milledugento armati, gli pareva d'essere invincibile. «Roma prende un aspetto imponente, Dio ci aiuterà.» E in Dio veramente credeva.
Sbarcano i diecimila francesi, con sedici cannoni da campo, sei da assedio. Sono amici, sono nemici? Venivano per restaurare il Papa. E allora cominciarono i forti giorni. E fu quel 30 aprile che rimase gloriosissimo nella storia dell'armi italiane. Ma cominciava anche la gran caccia di mezza Europa, contro Roma. Gli Austriaci passavano il Po, la Spagna imbarcava gente per l'Italia, il Borbone invadeva la Repubblica. Vero è che vi furono Palestrina e Velletri, bei nomi a ricordarsi, più che per le vittorie in sè, come primo colpo anticipato da lui al trono borbonico. E la poesia vi si fermerebbe a raccogliere il fior del sentimento, cantando che a certa ora del fatto d'arme, una compagnia di adolescenti salvò Garibaldi caduto, travolto dall'onda della cavalleria nemica.
E poi la ripresa degli assalti francesi il 3 giugno a tradimento; e villa Panfili, e San Pancrazio, e villa Corsini, e il Vascello, e le inaudite gesta d'uomini come Masina, Manara, Mellara, Dandolo, Bixio, Morosini, Mameli, Sacchi, Bassini e mille altri; e i 19 ufficiali morti i 32 feriti, e cinquanta gregari tra morti e feriti, e Lui che ai fuggenti sulla via della disperazione grida: «Voi sbagliate strada! il nemico non è qui!» Avevano letto l' Adelchi del Manzoni, o il Manzoni aveva indovinato che gli eroi parlano così.
Il gran dramma dell'assedio durò ventisei giorni di combattimenti, fino al 29 giugno. E quel giorno, quando l'assemblea chiamò Garibaldi nel proprio seno, egli, lasciate a malincuore le mura, corse e gridò ai rappresentanti del popolo che bisognava eleggere un Dittatore. Quanto a sè, dichiarò che altrimenti sarebbe uscito da Roma a tener alta dove che fosse la bandiera della patria fino all'estremo. Ma l'assemblea, pur dichiarando di volere stare al suo posto, deliberò di cessare la resistenza divenuta impossibile. Dunque anche in Roma, tutto era finito!
Ma non per lui. Prima che i Francesi entrino in Roma egli n'uscirà. Non vuol morire di quel dolore. E sul mezzodì del 2 luglio, raccolta sulla piazza del Vaticano la sua divisione, griderà quelle sue grandi parole: «Io esco da Roma; chi vuol continuare la guerra mi segua. Non offro nè gradi, nè stipendi, nè onori, ma fame, sete, marce forzate, battaglie, ferite e morte; per tenda il cielo, per letto la terra, e per testimonio Iddio.»
In tutte le sue biografie sono taciute le ultime parole di quel discorso: eppure le disse. Le ripetevano ancora, tra i Mille, alcuni veterani che le avevano intese.
La sera di quel giorno uscirono con lui tremila, da porta San Giovanni per la tiburtina, ben sapendo tra quali strette d'eserciti nemici andavano a porsi. Marciarono ventisette giorni, marciarono ventisette notti, sempre lì per dar negli agguati, sempre riuscendo a scansarli. Meravigliosa marcia che rivelò il Capitano, e più che il Capitano l'Uomo fatale: perchè grandissima cosa tra le grandi compiute in quella fuga da leone, egli non disperò un istante d'un mondo non ancora degno di lui, nemmeno in quel fiore di valorosi che avevano voluto seguirlo.
Il 31 luglio riparava in San Marino. Parevano rifiniti tutti quelli che non rimasti per via, s'erano rifugiati lassù. Egli no. Dice ancora ai Reggenti: «Che se i Tedeschi non lo attaccheranno, egli non li attaccherà.» Non è il sommo dell'ardimento?
Ma insofferente d'indugi, sdegnoso di scendere a patti con lo straniero; mentre gli Austriaci gli stringono il cerchio intorno fin sul territorio della piccola Repubblica, egli piglia la sua risoluzione. Anita è quasi morente ma non si lagna, con Lui le è vita ogni stento. E via di notte pei balzi dirotti del Titano, scende, passa tra le schiere nemiche, traversa la terra fedele di Romagna fino al mare, vi imbarca i dugento che potè condur seco; mèta Venezia.... Là si combatte ancora.
Ma, cade in quel giorno del 4 agosto l'episodio pietoso che tutti sanno. Dal mare gli tocca a ripigliar terra, inselvarsi con Anita, morente tra le braccia; solo, tra il mondo e Dio, la porta, la affida, non sa quasi bene se viva ancora o già morta, a chi potrà seppellirla. Egli deve sè all'Italia, e non può lasciarsi uccidere dai croati su quella povera morta. Fu forse il momento più amaro della sua vita. «Ma quando la disperazione starà per entrar nel tuo cuore, chiamami ed io sarò con te:» e al mondo, per far come egli fece in quell'ora, bisogna avere il cuore pieno di quelle voci che Dio mise nei grandi.
Salvato per una sequela di miracoli, sin che potè por piede in Piemonte, s'accorse che neppur lì poteva star più, sebbene in terra di libertà. Egli era venuto a riportare in Europa il tipo del cittadino guerriero, e pareva che non ci fosse più terra per lui. Peggio che Mario! Non fu incatenato come Prometeo, ma fu gettato alla solitudine tremenda dell'anima. E non sapevano che egli aveva in sè un mondo, in cui egli si moveva e sapeva vivere come in un imperio infinito.
Riprese la via dell'esilio, seppe cosa vuol dire non aver da sfamarsi, lavorò colle mani da semplice candelaio, alla fine potè riavere una nave e gli oceani. E nella solitudine del Pacifico, un giorno del 1854, gli avviene uno di quei fatti interiori, che paiono accidentali, ma che forse provano come a certi gradi di perfezione l'anima umana sia servita forse da sensi misteriosi che non sappiamo d'avere. Egli è in pieno Oceano Pacifico e sente in sè che a Nizza muore sua madre. Quella morte sentita così, gli mise la nostalgia della patria!
Rivedrà l'Italia in quello stesso anno 1854; non si sentirà più di staccarsene, ma per altro nessuno gli dirà più d'andar via. Il Cavour è alla testa del Piemonte, sa dove vuole andare il suo Re, e sa pure che per avere con sè la Nazione, il Re deve tener conto sopratutto di quel proscritto. Ebbene, se nessuno vieta più omai a Garibaldi il suolo del Piemonte, divenuto asilo di tutti i profughi, Garibaldi non vi si fermerà. Egli non è fatto per vivere tra gli uomini la vita d'ogni giorno. C'è là nel mar di Sardegna un'isoletta, ch'egli ha veduta sin dal '49; e là con un po' di terra da coltivare, una casetta da starvi ch'egli fabbricherà da sè, umile come quella di Montevideo, e la quiete e la speranza potrà aspettare. Aveva allora quarantasette anni, un'altra primavera d'Italia pareva vicina, ma che venisse presto finchè c'era ancora un resto di gioventù! Passarono gli anni: fu la guerra di Crimea e la spedizione piemontese, della quale forse neanch'egli capì gli intenti, perchè non uso a pigliar vie così traverse; ma l'atteggiamento del Piemonte, quel piantarsi di Vittorio Emanuele da Re italiano in faccia all'Austria, dovette por nel gran cuore del solitario generale la certezza d'una ripresa d'armi, come egli la vagheggiava.
E quando fu chiamato a dare il suo gran nome a quella Società Nazionale, che doveva raccoglier tutte le forze in un fascio, lo diede. Allora gli fu gridato che veniva meno alla parte repubblicana, cui tanto più doveva tenersi in quanto che egli era quel che era, perchè generale della Repubblica romana. Ma Garibaldi non si lasciò scuotere e stette. Fu quello uno dei fatti più eroici della sua vita. Sentimento e intelligenza delle cose patrie operarono allora in lui con piena armonia. Altri grande quanto lui ma sempre illuso lo biasimò, lo rampognò; ma egli stette, e il fatto fu uno dei più importanti di quel decennio, che la storia dovrebbe chiamare della saggezza.
E infatti il '59 parve una gran cosa riuscita, anche a coloro che neppure allora vollero riconoscere che il Generale aveva fatto bene. Certo, a vedere come anche a quella guerra il popolo italiano aveva dato poco di sè nell'azione, se non lo dissero, dovettero pensare che quei centotrentamila francesi non gli avrebbero potuti far venir essi a combattere a lato degli italiani del Piemonte. E come senza essi si sarebbe vinto l'Austria con duecentocinquantamila uomini e novecento cannoni, e le fortezze in Lombardia? Garibaldi stesso disse poi a Don Verità, l'antico suo salvatore del quarantanove, che senza Napoleone neppur quell'anno si sarebbe riusciti a nulla. Che importava se quel romantico imperatore s'era fermato a mezzo? Intanto egli aveva messa l'Austria a doversene star sulla sinistra del Po, a vedere quel che sarebbe avvenuto nella penisola, senza potersi muovere; aveva consacrata la dottrina del non intervento lanciata invano trent'anni innanzi dalla monarchia di luglio; e legate così le mani all'Austria: al resto, Garibaldi si sentiva di pensar lui. Certo non si lusingava che Napoleone non avesse un qualche giorno a violare egli stesso il non intervento: ma per allora quel principio valeva mi esercito vero per l'Italia contro l'Austria costretta a starsi sulla sinistra del Po a guardare.
Sfumato il disegno neo-guelfo d'una federazione italiana, risognato un istante da Napoleone III dopo Villafranca; concorde con lui l'Inghilterra nel non intervento, Prussia e Russia non inclinate ad aiutare l'Austria, se mai avesse voluto impedire le annessioni della Toscana, dell'Emilia e della Romagna, l'ora era buona per pensare al resto d'Italia.
Ma allora Napoleone mise il prezzo di Nizza a quelle annessioni, e il Cavour dovette cedere. Cedette forse troppo facilmente. Perciò il 12 aprile 1860 nella Camera dei deputati Garibaldi sorse a rampogne formidabili contro di lui. Pareva l'inizio di una guerra civile. Ma per buona sorte, la campana dei Francescani della Gancia in Palermo aveva sonato, otto giorni prima, a chiamar la Sicilia all'armi e l'Italia all'aiuto. Neppure per essere stato fatto quasi straniero all'Italia, Garibaldi, al grido della Sicilia, poteva star sordo. Neghi Achille il suo braccio per una prigioniera che gli è stata tolta, e rimanga pur grande quant'è in Omero; l'uomo moderno, se non sa sagrificar tutto sè stesso, eroe non è.
Di quei giorni, come gli amici di Orlando, che andavano in cerca di lui errante pel mondo, ecco in Torino il Bixio e il Crispi da Garibaldi. Gli parlano della Sicilia; l'unità d'Italia dipende da lui. Ed egli ascolta, s'accende, consente, e candido com'era ed aperto, va subito dal Re a chiedergli addirittura una brigata da menare in Sicilia. Voleva appunto quella comandata dal Sacchi, antico e caro suo portabandiera nella legione di Montevideo. Come deve esser rimasto Vittorio! Ora s'avverava ciò che egli aveva scritto poco prima a Francesco secondo: desse la libertà ai suoi popoli, si mettesse a far gareggiare il suo regno con quello di lui, chè se no, presto sarebbe tardi, e forse verrebbe adoperato il nome dei Savoia contro i Borboni, senza che egli potesse opporsi.
Re Vittorio non aderì alla richiesta di Garibaldi; ma il Cavour gli diede libertà di fare. Bastava. Garibaldi vola a Genova, il 20 aprile è nella villa Spinola divenuta quartier generale di quel mondo d'uomini politici e militari, che si era formato come uno Stato nello Stato; ivi riceve notizie, dà ordini, si prepara al gran lancio. Ma le notizie di Sicilia vengono, mutano ogni giorno, sempre più scoraggianti; il 27 aprile par tutto finito laggiù; si sapeva già l'eccidio di Carini, ora si dice che gli insorti battuti e dispersi tengono appena le montagne, anzi che si vanno sciogliendo. Cade l'animo a tutti. Ma al Bertani, al Bixio, al Crispi, no. Questi si stringono al generale, Bixio chiede, supplica, implora d'essere lasciato andare almeno lui.... Almeno lui! Può Garibaldi lasciar ad altri si grande impresa? Titubanze terribili. Pure il primo maggio, in uno di quei tempestosi colloqui, di scatto, come per rispondere a una voce misteriosa che doveva! avere in sè, Garibaldi balza a dire: «Partiamo, ma subito!» Era fatto così! E allora tutti a serrare le file. «Si va! si va!» Furono quelli i più bei giorni d'Italia!
Bisogneranno navi! Ci pensa Bixio; lasciate tare a lui, egli non conosce l'impossibilità. Quanto agli uomini, solo a chiamarli saranno pronti, fin troppi.
E la sera del 5 maggio, che era di quelle che allagano i cuori di dolcezza, le belle vie di Genova videro una gentilezza nuova di portamenti sin nei più rudi uomini del volgo. I facchini stessi del porto, sempre così aspri, parvero allora cavallereschi. Si sapeva da tutti chi erano e dove si avviavano quei giovani forestieri, che s'aggiravano per la città, e ognuno che v'era, certo sa ancora dire di qualche tratto cortese, ricevuto in quella sera che con Garibaldi partiva.
Appena fu notte, una eletta di quei giovani scende al porto. Entrano in certe barcacce, vogano a due vapori che stanno ancorati, montano, mettono le mani sui marinai, li costringono a stare zitti, ad accendere le macchine, a ubbidire in tutto. Pirati veri non avrebbero saputo far meglio. Sapevano che il Governo chiudeva gli occhi, ma da un istante all'altro poteva essere costretto ad aprirli; e allora? Momenti di ansia mortale. Bisognava far presto. Ma tutto veniva bene, Bixio metteva l'anima sua fin nelle cose, soffiandola con parole terribili, imprimendola con gesti che facevano tremare i cuori. I due vapori furono presi.
E intanto, da Porta Pila, erano usciti i Mille. S'accalcavano alla Foce, sfilavano oltre il Bisagno per la Via di Quarto; qualcuno ricordava che tre anni prima il Pisacane s'era partito di là, per un'impresa come quella che si iniziava; qualcuno salutò la Villa dove il Byron si era preparato al suo viaggio di Missolungi.
Alla Villa Spinola pareva una notte di festa. Gente di tutti i ceti vi si pigiava, confusa; v'erano delle donne, che piangevano d'esser donne; v'erano dei padri che v'avevano accompagnati i figli benedicendoli. Vi furono delle madri corse da lontano per tôrre via i loro cari da quel cimento; una, venuta fin dal Friuli, si udì pregar dal figlio di non obbligarlo a disubbidirle in un'ora così solenne. Ma tutta quella folla voleva veder Lui, Lui, in quel momento supremo. Ad ogni istante s'udiva una voce: «Eccolo!» No, era qualcuno che usciva dalla Villa a portar ordini chi sa dove. Eppure in quel fremito c'era una calma solenne. Verso le undici, come se davvero una corrente magnetica si fosse diffusa, fu sentito Lui.... Veniva fuori dal cancello della villa, in camicia rossa, con la sciabola sulla spalla a guisa di un arnese da agricoltore; traversò la via, passò per un rotto del muricciolo che vi fa riparo, e scese giù per gli scogli, nel piccolo seno già stipato di barche. La folla che aveva tenuto il respiro non osò mandare un grido, come avvertita da senso religioso di non turbare un mistero: e allora quasi nel silenzio, si ebbero il grande addio quelli che dovevano partire, sfilarono dietro Lui per quel rotto di muricciolo, entrarono muti nelle barche, presero il largo; già un po' al largo udirono una voce alta limpida, lieta, chiamar: «La Masa» e un'altra voce rispondere «Generale». Poi più nulla.
E tu ridevi, stella di Venere,
Stella d'Italia, stella di Cesare
Non mai primavera più sacra
D'animi italici illuminasti.
Quando stava per farsi l'alba, apparvero i lumi dei due vapori venuti via dal porto. Furono lì in un lampo come fantasmi; le barche s'accostarono, e scale e corde e travi, tutto fu buono per quella gente a salire, come se fosse stata a un assalto. Ma Garibaldi dov'è? È sul Piemonte. — E come si chiama quest'altro vapore? e chi lo comanda? — Si chiama il Lombardo e lo comanda Bixio. — Ah, Bixio? Bene! — Pure un po' di malinconia si diffuse fra quei del Lombardo. Andavano alla ventura del mare, poteva accadere d'essere incontrati dalle navi napolitane: e allora? Se si doveva perire, i più fortunati sarebbero stati quelli, che nell'ultima ora avrebbero visto Lui. Intanto i due vapori, con quei nomi augurali, mossero via.
Da quella mossa cominciano i canti centrali del gran poema garibaldino. Proprio come in un'opera d'arte, il punto, il gran nodo dell'Epopea, sta tra Quarto e Teano, tra il 5 maggio e il 26 ottobre, tra la partenza clandestina da Corsaro, alla gloria di gridare da Dittatore il Regno e il Re d'Italia là, dove si distruggeva un Reame che durava da settecentotrent'anni. Non lo confermarono il popolo e l'arte figurativa? I monumenti eretti per tutta Italia a Garibaldi lo rappresentano quale in quel tempo egli fu: rappresentano il Dittatore.
E ora, parlando della grand'epopea garibaldina, in questa Firenze, mi par giusto ricordare che qui, nel meditato dolore patriottico, Pietro Colletta scrisse la storia di quel Reame. Il soldato della Partenopea e poi del Murat, aveva visto finir in nulla l'impresa unitaria di Gioachino nel Quindici, e nel Venti la rivoluzione di Napoli non mirar più all'Italia, ma chiudersi nell'angusto concetto delle due Sicilie. Come doveva aver sanguinato quel cuore!
Ricaduta Napoli in balìa degli Austriaci restauratori della tirannide spergiura; cacciato egli a confine in Brünn di Moravia, a piè di quello Spielberg, dove pativano le durezze del carcere il Confalonieri, il Pellico, il Maroncelli e gli altri Carbonari, chi sa che, guardando lassù, non abbia pensato che se Marche, Umbria, Romagna, Toscana, Emilia, erano state indifferenti all'impresa di Gioachino, o l'avevano quasi derisa; se allora i Lombardi stavano lassù condannati; se i Piemontesi ramingavano pel mondo, e s'egli stesso napoletano, era là; tutto era avvenuto perchè erano mancati tra Italiani e Italiani la stima e l'amore? E forse gli nacque allora appunto il pensiero di rivelare all'Italia del settentrione la grandezza e i martirii dell'Italia meridionale, e nella sconsolata anima dubitando anche di essere inteso, gli sonò la pagina finale della sua storia, che pare un coro fatidico di cupa tragedia antica. E scriveva:
«In sei lustri centomila Napoletani perirono di varia morte, tutti per causa di pubblica libertà e di amore d'Italia; e le altre italiche genti, oziose ed intere, serve a straniero impero, tacite, o plaudenti, oltraggiano la miseria dei vinti; nel quale dispregio, ingiusto e codardo, sta scolpita la durevole loro servitù, infino a tanto che braccio altrui, quasi a malgrado, le sollevi da quella bassezza. Infausto presagio che vorremmo fallace; ma discende dalle narrate istorie, e si farà manifesto agli avvenire, i quali ho fede che, imparando dai vizi nostri le contrarie virtù, concederanno al popolo napoletano (misero ed operoso, irrequieto, ma di meglio) qualche sospiro di pietà, e qualche lode; sterile mercede che i presenti gli negano.»
Ora l'anima del Colletta, dalle sedi degli eroi poteva esultare; l'Italia settentrionale mandava all'umile Italia serva di laggiù, quel manipolo e quel Liberatore.
All'alba, i due vapori stavano già per girare il promontorio di Portofino, quando si fermarono quasi di colpo. Perchè? Si seppe poi. In quelle acque dovevano trovarsi ad aspettarli, certe barche cariche di munizioni: ma guarda di qua, guarda di là non si vede nulla. Che fare? Garibaldi alzò gli occhi al cielo come soleva, e ordinò di andare avanti.... «Le munizioni si piglierebbero dove si potrebbe, magari al nemico.»
Così tutto quel giorno 6 e sino alla mattina dell'altro appresso, i due vapori navigarono di conserva. In quel secondo mattino della traversata, fu letto sulle due navi l'ordine del giorno di Garibaldi.
Ribattezzava Cacciatori delle Alpi i militi della spedizione; parlava di devozione, di soddisfazione della incontaminata coscienza, come solo premio. L'organizzazione sarebbe come quella dell'esercito ch'ei chiamava non più piemontese ma italiano; il grido di guerra: Italia e Vittorio Emanuele.
Bisogna dirlo, quel grido non piacque a tutti. Prevaleva nella spedizione l'elemento repubblicano: la rivoluzione di Sicilia e la impresa d'aiutarla era opera di Mazzini, ma in quegli anni il vento spirava dalla parte della concordia. E poi! se quel grido lo dava Garibaldi, doveva essere tenuto pel buono, perchè egli in quel fatto era tutto.
Intanto si vedeva lì in faccia la riva, un villaggio, una torre su cui sventolava la bandiera tricolore.
Era Talamone.
Come se il fato valesse ancora nella vita dei popoli e dei Re, proprio là in quel riposto seno della terra Toscana già Stato dei Presidii, piantato dagli Spagnuoli nel fianco del Granducato, Garibaldi fatti scendere a terra i Mille, sceso egli stesso vestito da generale dell'esercito piemontese, doveva pigliarsi tre cannoni da sei e una vecchia colubrina forse del Seicento, con centomila cartucce, per andare a spegnere nelle Due Sicilie il regno spagnolo!
E là, in Talamone, Garibaldi fece dar forme alla spedizione; quartier generale, stato maggiore, intendenza, corpo sanitario, genio, compagnie, carabinieri genovesi, guide, tutto fu fatto alla brava e rapidamente.
* * *
Il colonnello ungherese Stefano Türr fu primo aiutante di campo del Generale. Aveva allora trentacinque anni. E sapeva cos'era stato il dolore della sua Ungheria e quello dell'Italia nel Quarantanove. Sapeva cosa volevano dire le ansie del condannato a morte, liberato quasi all'ora del supplizio; e sapeva le gioie del cospiratore nell'impaziente attesa della riscossa. Aveva combattuto l'anno avanti sotto Garibaldi in Lombardia, e a Tre Ponti aveva sparso il suo sangue tra i cacciatori delle Alpi.
Ora egli era lì, a lato di quel Grande. Forse quel contatto gli diè l'ultima tempra; e il Türr dopo la guerra di Sicilia doveva smettere le armi per darsi tutto alla vita civile. Fu diplomatico, consigliere d'alleanze, tagliatore d'Istmi, costruttore di canali; va ancor pel mondo, quasi ottuagenario, a far sentire la sua voce, dovunque bisogni gridare la pace e la libertà. Mille quattrocento anni fa, dal suo paese veniva Attila!
Ungherese come il Türr, un po' più giovane di lui, aiutante anch'esso del Generale, v'era il Tuköry, che veniva a offrir l'ingegno e la vita a quest'Italia, la quale, nel Cinquantanove, in certa guisa aveva disdetto la fratellanza di sventure e di speranze, che l'avevano legata fino allora alla patria sua. Diceva egli così senza raffaccio, ma con dolore; forse presago di dover morir presto, come morì di ferita toccata nell'assalto di Palermo. Ma Palermo liberata gli fece funerali che furono un'apoteosi, e chi li vide intende meglio quelli di Ettore in Omero.
Poi c'era il Cenni, di Comacchio, uomo di quarantatrè anni, avanzo di Roma e della ritirata di San Marino; uno tutto fremiti, che ad averlo vicino pareva di camminare col fuoco in mano presso una polveriera.
V'era l'ingegnere Montanari di Mirandola, anch'egli avanzo di Roma, che aveva trentott'anni e ne mostrava cinquanta, per la tetraggine che gli avevano impresso le meditate sventure del paese. Ma, contrasto quasi d'arte, egli stava a lato un senese, che da giovane aveva fatto versi sembrati al Niccolini cose degne del Foscolo. Ne' suoi ventisei anni, bellissimo, forte, era sempre gaio come se gli cantasse una allodola in core. Era quel povero Bandi, che cinque ferite di piombo non poterono poi uccidere sul colle di Calatafimi, e doveva campare ancora trentacinque anni, per essere ucciso quasi vecchio e a ghiado, da uno a lui sconosciuto.
E c'era Giovanni Basso, nizzardo, ombra più che segretario del Generale, ch'egli aveva visto sublime a Roma, umile ma ancor più sublime da povero candelaio alla Nuova York. E c'erano il Crispi allora poco conosciuto, e l'Elia anconitano, che poi a Calatafimi fu quasi ucciso mentre si lanciava a coprire Garibaldi. C'erano il Griziotti pavese di trentott'anni, uomo di bella mente ma di cuore più bello ancora; e il Gusmaroli di cinquanta, antico parroco del Mantovano, che come l'Eroe dell' Enriade, andava tra quei che uccidono, senza difendersi e senza mai pensare ad uccidere. Ma il tocco michelangiolesco lo metteva in quel gruppo Simone Schiaffino, bel capitano di mare, che pareva andasse studiando Garibaldi, per divenir simile a lui nell'anima, come gli somigliava già un po' nel volto; biondo come lui, assai più aitante di lui, con un petto da contenervi cento cuori d'eroe. Vai, vai o giovane sognatore, nato a campar forse novant'anni, vai! tra otto giorni cadrai sul colle di Calatafimi con la bandiera in pugno, nell'ora quasi disperata della battaglia. Ma avrai questo onore, che a chi gli dirà la tua morte, Garibaldi griderà se gli sembri quello il momento di annunziargli una pubblica sciagura! A quale età, dopo quali alte fortune, avresti potuto meritare un elogio funebre come quello? Era detto da lui, mentre si combatteva su quel colle per far l'unità d'Italia, o perderla forse per sempre.
Allo Stato maggiore generale presiedeva il Sirtori. Antico sacerdote, aveva chiuso per sempre il suo breviario, portandone scolpito il contenuto nel cuore casto, e serbando nella vita la severità e la povertà dell'asceta claustrale. Spirito rigido, cuore intrepido, ingegno poderoso, nel Quarantanove, con l'Ulloa napoletano, era stato ispiratore del generale Pepe nella difesa di Venezia. Poi, esule in Parigi, aveva visto indignato, trionfare Napoleone III. E la vita gli si era fatta un gran lutto. Non aveva perdonato all'Imperatore il 2 dicembre, neppure vedendolo poi scender nel Cinquantanove con centotrentamila francesi a liberargli la sua Lombardia; anzi, antico soldato della patria, s'era astenuto dal venire a quella guerra imperiale. Ma la guerra stessa, com'era seguìta, gli aveva insegnato a non illudersi più. Ed era a quarantasette anni, era lì con quella sua faccia patita, incorniciata da una strana barba bionda, esile alquanto della persona, silenzioso, guardato come se portasse in sè qualcosa di sacro, forse le promesse dell'oltretomba; pareva il Turpino di quelle gesta.
Da lui dipendevano, come capitani, un Bruzzesi romano di trentasette anni; il matematico Calvino esule trapanese di quarant'anni, Achille Maiocchi milanese di trentanove e Giorgio Manin, figlio del gran Presidente della repubblica veneziana, che non ne aveva ancor trenta.
Ufficiali minori seguivano Ignazio Calona palermitano, un gran bel sessagenario che a guardarlo nel viso pareva di leggere le poesie del Meli: seguiva il mantovano ingegner Borchetta di trentadue anni, gran repubblicano; ultimo v'era un giovane tenente dell'esercito piemontese, disertato a portar tra i Mille il suo cuore. Questi doveva morire a Calatafimi sotto il nome di De Amicis, ma veramente si chiamava Costantino Pagani.
E poi veniva il grosso del piccolo esercito; e qui siamo al secondo libro dell' Iliade:
Della turba...... io nè parole
Farò nè nome, che bastanti a questo
Non dieci lingue mi sarian nè dieci
Bocche, nè voce pur di ferreo petto.
Di tutta l'oste
Divisar la memoria altri non puote
Che l'alme figlie dell'Egioco Giove:
Sol dunque i Duci....... accenno.
* * *
Alla testa della prima compagnia, chi se non Bixio? Pareva uno, chiamato al mondo in un momento di grande ira da un padre, che offeso per chi sa quale perfidia della vita, si fosse rifugiato nel seno della famiglia amata per non morir di collera o di dolore. Era nato nel 1821 in Genova, allora davvero piena d'ira per essere stata messa sotto il Piemonte. Stolta Santa alleanza! Per uccidere una repubblica, aveva sottomesso al Re di Sardegna la città che per bocca di Giuseppe Mazzini, doveva poi dare quel grido che si sarebbe risolto nella fine del regno Sardo e nella creazione di quello d'Italia!
Era quel Bixio che già nel Quarantasette, in una via di Genova, fattosi alle briglie del cavallo di Carlo Alberto, gli aveva gridato: «Dichiarate, o Sire, la guerra all'Austria e saremo tutti con voi!» Nel Quarantotto era volato in Lombardia con Mameli; con Mameli era stato a Roma dove era parso l'Aiace della difesa, e il 30 aprile vi aveva fatto prigioniero tutto un battaglione di francesi. Poi aveva navigato; nel Cinquantanove aveva riprese l'armi, non qui riluttante a fare la guerra regia, e facendola bene: adesso era capitano del Lombardo, ma in terra avrebbe comandata la prima compagnia.
Il Dezza ingegnere e il Piva che dovevano divenire generali dell'esercito italiano, erano suoi luogotenenti; e sergenti e soldati, benchè fior d'uomini tutti, badassero bene con chi avevano da fare, chè con lui, non dico paurosi, ma solo inesperti o disattenti o svogliati c'era da essere inceneriti.
Egli doveva essere alla fine uno dei grandi che conducono eserciti, ma dapprima guardato con qualche sospetto, poi apprezzato, poi riconosciuto: e sei anni dopo, la sera della battaglia di Custoza, il generale Della Rocca, personificazione del militarismo di scuola, osò dire di lui a Vittorio Emanuele che lo mettesse alla testa dell'esercito per la pronta rivincita. Anche il Bixio era uomo eroico nel senso largo e moderno: compita l'Italia, entrato nel Settanta in quella Roma da cui era uscito vinto nel Quarantanove, ripigliava le vie dei mari, e andava cercando in Oriente come far ricca l'Italia.
La seconda compagnia detta dei Livornesi, perchè livornesi erano quasi tutti i suoi ufficiali e sott'ufficiali, fu affidata a un Orsini palermitano, uomo già di quarantacinque anni, ufficiale d'artiglieria borbonico da giovane, e poi della isola sua nella rivoluzione del 1848. Da quell'anno era vissuto esule in Levante ai servizi della Turchia, colonnello dell'arma nei cui studi era stato allevato.
Per la stessa ragione che la seconda fu chiamata dei Livornesi, la terza compagnia poteva dirsi dei Calabresi, perchè calabresi erano lo Sprovieri che la comandava e Lamenza e Piccoli e Santelmo suoi ufficiali. V'erano inquadrati degli uomini come il Braico, il Carbonelli, il Damis, il Mauro, il Mignogna, il Plutino, lo Stocco, il Miceli, e medici, e avvocati, e ingegneri e futuri ministri, e generali, tutti fra i trentasei e i cinquant'anni, tutti di Calabria e di Puglia, e molti vissuti dieci anni compagni del Poerio, del Settembrini, del Duca di Castromediano, nelle galere di Montefusco o di Montesarchio, dove, invece di custodi pietosi come lo Schiller e il Kubinsky dello Spielberg, avevano trovato dei birri appena degni di stare nella Caina di Dante.
La quarta compagnia toccò al La Masa, siciliano di Trabia, esule quarantenne. Era un singolare uomo costui! Con un'aria tra d'arcade romantico e di evangelista, grandi cose doveva aver sentite di sè e grandissime essersene augurate. E sin a un certo punto le aveva conseguìte. Si diceva di lui che nel gennaio del 48 aveva decretata da sè la rivoluzione per il dodici preciso, genetliaco del Borbone, firmando audacemente col proprio nome, per un Comitato che non esisteva, il bando di guerra.
Alcuni conoscevano di lui tre volumi di Storia della rivoluzione siciliana di quell'anno grande: pochi sapevano che in Brescia dov'era andato crociato alla guerra lombarda, aveva sposata la duchessa Bevilacqua, sorella di quell'Alessandro finito a Sommacampagna sotto le sciabole dei croati. Biondo, esile, quasi bello, il La Masa parea più uno scandinavo che un siciliano. Forse aveva nelle sue vene un rigagnoletto di sangue normanno. E ambizioso dicono che fosse assai, e forse fin sognatore d'un restaurato Regno con lui Re dell'isola, dove tornava dopo averne quasi conquistato un altro nell'Italia settentrionale, tante erano le ricchezze della casa dei Bevilacqua.
Alla testa della quinta compagnia sonava il nome degli Anfossi nizzardi, glorioso pel caduto delle cinque giornate di Milano. Ma ahimè! il vivo non era del valor del morto. Però la inquadravano degli ufficiali subalterni che bastavano a raccoglier l'anima della compagnia come un'arma corta nel pugno. V'era tra essi il Tanara, una specie di Rinaldo combattente per la giustizia in un mondo che a lui fu ingiusto e che non seppe mai il cuore ch'egli ebbe. In quella compagnia, nulla di regionale. C'erano un centinaio di uomini di tutte le terre italiane, vi si sentivano tutte le nostre parlate, vi si vedevano delle teste di tutte le tinte, e di grigie e di già bianche parecchie.
Ma ecco alla sesta il più bello degli otto capitani. Era un biondo di trentatrè anni, alto, snello, elegante. Si sarebbe detto che se avesse voluto volare, subito gli si sarebbero aperte dal dosso ali di cherubino. Parlava un bell'italiano, con leggero accento meridionale, gestiva sobrio e grazioso come un parigino; nel portamento pareva un soldato di mestiere, negli atti e nei discorsi un Creso vissuto tra le delizie dell'arte, in qualche gran palazzo da Mecenate. Si chiamava Giacinto Carini, nome di borghesi e nome anche di Principi siciliani, che a lui già nobilissimo della persona, dava un'aria alta e singolarmente aristocratica. In lui v'era il generale che sei anni dopo avrebbe comandata una divisione italiana all'attacco di Borgoforte; e da lui fu detto un giorno che se alla morte di Pio IX fosse venuto, come venne, al seggio di San Pietro il Vescovo di Perugia ch'ei ben conosceva, l'Italia avrebbe avuto il Papa iniziatore di quella vita che ancor si aspetta.
Sfila la settima compagnia, studenti dell'università pavese, lombardi, milanesi eleganti ricchi e prodi, e veneti che la graziosa mollezza natia, temperavano alla baldanzosa audacia dei compagni nati tra l'Adda e il Ticino.
La comandava il Cairoli di trentacinque anni, e pareva così contento, aveva un'aria così paterna, che uno avrebbe detto: «Certo a costui è stato dato ogni suo soldato da ogni madre in persona, perchè se non è necessario sacrificarlo glielo riconduca puro e migliore.» Ah il contatto con quell'anima! Molti vanno ancora pel mondo, che vissero giovanetti sotto quell'occhio, in quei giorni di altissima scuola, e ne portano la luce e l'esempio tra la gente, che pur divenuta scettica, crede, non ostante tutto, che un mondo migliore sia stato.... e assetata di bene spera che torni.
E l'ultima era l'ottava. L'aveva raccolta quasi tutta nella sua Bergamo, Francesco Nullo, che la dava bell'e fatta ad Angelo Bassini pavese, certo di darla a chi l'avrebbe condotta da bravo. Era il Bassini un uomo che se avesse lanciato il suo cuore in aria, questo avrebbe mandata luce come il sole, e se lo avesse gettato nell'inferno, avrebbe fatto divenir buono Satana stesso. Lo dicevano coloro che avevano lette già le poesie di Petöfi. A Roma il 3 giugno del 49, nell'ora dello sterminio, s'era avventato quasi solo contro i francesi di Villa Corsini, percotendo, insultando, gridando a chi volesse ammazzarlo; e nessuno lo aveva ucciso. Aveva una testa che sembrava una mazza d'armi, ma l'espressione della sua faccia, ricordava quella di certi santi anacoreti. Sapeva poco, discorreva poco, ostinato nell'idea che gli si piantava nel capo, a chi lo vinceva di prove gridava: «Appiccati!» ma lo abbracciava, e gli dava subito retta intenerito e devoto. Per tutte queste sue doti, e perchè, aveva già quarantacinque anni, gli si erano lasciati volentieri metter sotto, Vittore Tasca, Luigi Dall'Oro, Daniele Piccinini, coi loro bergamaschi, quasi un centinaio e mezzo di quella gente Orobia, quadrata e intrepida sempre, sia che scelga la patria per suo culto, sia che ad altri ideali volga il pensiero: quella che parve ai siciliani formidabile per gli ardimenti, e per la serena fidanza nei vini dell'isola, bevuti ai banchetti liberamente, senza perdere dignità nè d'atti nè di parole. Non erano certo gli Ippomolgi di Omero, piissimi mortali.
Che di latte nudriti a lunga etade
Producono i lor dì.
* * *
Ora ecco i Carabinieri genovesi, quarantatrè, quasi tutti di Genova, o in Genova vissuti a lungo, armati di carabine loro proprie, esercitati al tiro a segno da otto o nove anni i più, gente che s'era già fatta ammirare nel 1859, ben provveduta, colta, elegante.
Li comandava Antonio Mosto, uomo non molto sopra i trent'anni, ma che ne mostrava di più: barba piena, lunga, sguardo acuto, ficcato lontano traverso agli occhiali a suste d'oro, come per guardare se al mondo esistesse il bene quale ei lo sentiva in sè. Quanto al coraggio era per lui cosa tanto sua, che non poteva credere vi fosse altri che non ne avesse.
Suo luogotenente era Bartolomeo Savi, un fierissimo repubblicano tutto nudrito di studi classici, e già ben sopra la quarantina; uomo austero e cruccioso, che guardava sempre con certo piglio di rimprovero Garibaldi, perchè s'era lasciato tirar dalla parte del Re. Ma lo seguiva, e lo seguì poi fino al giorno che, dopo Aspromonte, tutto gli parve falsato, e poco appresso tediato della vita si uccise.
Inquadravano la compagnia Canzio, Burlando, Uziel, Sartorio, Belleno; e tra tutti, quei quarantatrè dovevan pagare un gran tributo nel primo scontro a Calatafimi. Cinque morirono, dieci vi furono feriti, ma la vittoria si dovette in parte alle loro infallibili carabine.
* * *
Non s'avevan cavalli, nè c'era tempo di far una corsa nella vicina maremma per pigliarne al laccio un branco; ma le Guide furono ordinate lo stesso. Erano ventitrè. Le comandava il Missori, l'elegantissimo milanese, passato dal culto delle Grazie a quello della sciabola, ma da prode. Suo sergente era Francesco Nullo, il più bell'uomo della spedizione. E avevano compagni dei giovanetti come il conte Manci di Trento, che pareva una fanciulla travestita da uomo, e dei vecchi di sessant'anni come Alessandro Fasola, carbonaro del 1821 col Santa Rosa, allora corso a quell'impresa con la baldanza d'un ragazzo, che fa la sua prima volata fuori della casa materna.
E come in Talamone s'ebbero i tre cannoni d'Orbetello, e la colubrina levata da quel castelluccio, fu formata l'artiglieria alla cui testa fu messo l'Orsini. Povera artiglieria! Pareva davvero una cosa da celia, ma laggiù nell'isola fu poi vista a una prova da cui forse dipese la sorte della spedizione.
Capo dell'Intendenza fu l'Acerbi, avanzo dei martirii di Mantova, e aveva seco uomini come Ippolito Nievo, e il Bovi, il Maestri, il Rodi, tre veterani questi ultimi, mutilati ciascuno d'un braccio, che parevano venuti per dire ai giovani: «Vedete? Eppure ciò non fa male!»
In quanto al corpo sanitario fu affidato al dottor Ripari cremonese, vecchio avanzo delle catene politiche dell'Austria e di Roma; e gli erano compagni il Boldrini mantovano e il Ziliani da Brescia, valenti medici e grandi soldati. E poi di medici ve n'erano in tutte le compagnie, combattenti dei migliori, e da combattenti infermieri.
La storia dovrebbe aver già detto e dirà che quella spedizione fu più che per metà composta d'uomini di studio e d'intelletto. Ne contava più d'un centinaio e mezzo che erano già o divennero poi avvocati, e così contava quasi un centinaio di medici, un mezzo centinaio d'ingegneri, una ventina di farmacisti, trenta capitani marittimi, dieci pittori o scultori, parecchi scrittori e professori di lettere e di scienze, tre sacerdoti, alcuni seminaristi, una donna: poi centinaia di commercianti, e centinaia d'artefici, operai il resto, contadini nessuno. E non sarà inutile dire che una quarta parte di quegli uomini era d'età fra i trenta e i quarant'anni; che un altro bel numero erano tra i quaranta e i cinquanta: forse un dugento, n'avevano da venticinque a trenta; i più erano tra i diciotto e i venticinque. Il vecchissimo era un genovese nato nel 1791, che da giovinetto aveva militato sotto Napoleone; il giovanissimo era un fanciullo d'undici anni, menato seco dal proprio padre medico vicentino.
Non sarà inutile di aggiungere che trecentocinquanta di quegli uomini erano lombardi, centosessanta genovesi, il resto veneti, trentini, istriani e delle altre provincie dell'Italia superiore, con forse un centinaio di siciliani e napoletani tornanti dall'esilio. Stranieri accorsi per amor d'Italia ve n'erano diciotto, uno dei quali africano, l'altro d'America ed era il figlio del Generale.
* * *
La sera dell'8 maggio Garibaldi rimbarcò la spedizione, e non per salpare ma per passar quella notte all'àncora nella rada. Temeva che il Ricasoli mandasse a fermarlo! La mattina del 9 i due vapori salpano, toccano Santo Stefano, vi stanno poco, poi via verso scirocco, navigano tutto quel giorno e la notte e quello appresso. A una certa ora del 10 il Piemonte lascia addietro il Lombardo, e va, va, va, finchè sparisce.
Ah! che nuova stretta per quei che navigavano sul Lombardo! Il Bixio in un momento che uno aveva osato mormorare contro di lui, mandò tutti a poppa, e gridò che il Generale gli aveva ordinato di sbarcarli in Sicilia, e che in Sicilia li avrebbe sbarcati, che là lo avrebbero appiccato, se così avessero osato, al primo albero che si sarebbe incontrato, ma in Sicilia giurava di sbarcarli. Parole che lasciavano il segno nell'aria come saette, e mettevano il fuoco nei petti e nelle teste. E quel Piemonte che se n'andava avanti da solo, s'era portato via i cuori. La sera non si vedeva più, e la malinconia era grande come l'ora del mare.
Ma verso la mezzanotte il Bixio che stava sul ponte del comando, vide e fremette. Una nave, a lumi spenti, sorgeva innanzi a lui come un'ombra; e pareva venisse.... Era la morte? Ah! non a lui si poteva correre addosso per colarlo a fondo! Egli era uomo da arrembaggio. Su! dà la sveglia, tutti si destano, le baionette s'innastano, ognuno sta pronto; e il timoniere badi, viri e via; ora a quella nave, va addosso il Bixio. Mancava poco a dar l'urto, e sarebbe stato tremendo. Senonchè, una voce gridò: «Capitan Bixio! Volete mandarmi a fondo?» «Oh! indietro, indietro alle macchine — grida Bixio — Generale, non vedevo i fanali!»
«Siamo nella crociera nemica», soggiunse tranquillo Garibaldi. I cuori s'apersero, Garibaldi, il Signor del mare, in quell'incontro salvava tutti.
E insieme con Bixio, concertato d'allargarsi, navigarono di conserva il resto della notte. La mattina dell'11, videro il gruppo delle Egadi, che parevano venute su allora dal mare, verdi di tutti i toni, con rocce splendenti in alto, con una zona d'argento ai piedi; e più in là appariva la costa dell'isola. «La Sicilia, la Sicilia!» I Siciliani della spedizione se la bevevano cogli occhi, gridavano, benedicevano, abbracciavano gli altri; cose che nessuna lingua potrebbe narrare. Che città è quella? Marsala!
Ma poi fu un volgersi di tutti a poppa, per guardare due navi, che correvano a vista d'occhio dietro di loro: «Avanti! Avanti!» Bixio gridava ai marinai che chi gli sbagliasse una manovra, sarebbe impiccato all'albero di maestra.
Marsala era ancora lontana, ma sembrava che la terra stessa venisse incontro ai due vapori, da tanto che questi correvano. E gli altri inseguivano, come leonesse in furia dietro a' cacciatori che avessero loro rapito i lioncelli. Alla fine ecco il porto! Il Piemonte lo imbocca e maestoso vi si pianta; Bixio investe col Lombardo contro la spiaggia. Era l'una pomeridiana.
Cosa voleva dire quell'imbandierarsi d'una piccola nave da guerra, ancorata a sinistra del Lombardo, e quell'imbandierarsi di due grosse navi, ancorate a destra del Piemonte? Un marinaio del Lombardo spiegava che quella piccola era una nave borbonica, che invitava le navi grandi, che erano inglesi, a ritirarsi, perchè voleva far fuoco sui due vapori giunti. Rispondevano gli inglesi che avevano i loro ufficiali a terra, che le loro macchine non erano sotto pressione, e che però aspettassero un poco. Così almeno spiegava il marinaio del Lombardo tutto quello sciorinar di bandiere. E fu questo tutto l'aiuto inglese, di cui tanto si disse e si scrive ancora. Non però fu cosa da poco, perchè intanto la gente del Piemonte e del Lombardo si gettava giù nelle barche, e via vogava a terra. Ma presto le due navi che inseguivano, venute a tiro, si misero a farle addosso le cannonate. Povero Stromboli, povera Partenope! In poco più forse d'un'ora, tutta la spedizione fu a terra; un po' di sosta a ordinarsi, e poi una corsa a compagnie; carponi, ritti, come ognuno sapeva, tutti entrarono in Marsala.
I cittadini trasognati, sbigottiti, non sapevano ancora cosa fosse quel cannoneggiamento, nè chi fossero quegli uomini nuovi che invadevano la città con l'armi in pugno, quasi tutti vestiti in borghese. Ma come seppero che era con essi Garibaldi, tutta la città balenò di una gran gioia, non s'udì più che il gran nome, parve che la rivoluzione vera della Sicilia cominciasse in quel momento.
Quanto a Lui, disceso dal Piemonte, aveva messo il piede sul suolo dell'isola come su terra già sua; era salito nella città col passo lento d'Aiace, come se le cannonate non potessero toccarlo; forse in quel momento sentì che per la prima volta in sua vita, si trovava a entrar nell'azione, senz'altra autorità sopra di sè, libero e primo come la natura lo aveva fatto, e vide come in una prospettiva infinita chi sa quali grandi cose da farsi!
E nella reggia di Napoli, cosa sarà stato in quell'ora? Quali sgomenti, quali pianti, quali furie? Erano stati dati ordini alla flotta, di colar a fondo i due vapori salvando le apparenze, e questo si seppe poi. Invece, il gran nemico di dieci anni prima, quello stesso di Velletri e di Palestrina, era sbarcato in terra del Regno, nel punto più lontano da Napoli sì, ma insomma era sbarcato; e forse fin da quel momento la reggia si sentì vinta. A quarant'anni di distanza, vien su dal cuore un senso strano di compassione.
Lo Stromboli e la Partenope si sfogarono il resto della giornata a tirar cannonate, ma non proprio per bombardar Marsala, che s'era coperta di bandiere inglesi. Venne la notte, passò, spuntò l'alba; e i Mille erano già fuori della città pronti a marciare.
Forse al Salto, o il 30 aprile a Roma, o a San Fermo vincitore, Garibaldi non fu così bello e raggiante come in quell'alba del 12 maggio, lì fuor di Marsala tra quei suoi Mille, che egli metteva in cammino verso l'ignoto. Di lì vedeva il Piemonte menato via a rimorchio dalle fregate borboniche, il Lombardo piegato su di un fianco e mezzo sommerso. E ciò voleva dire che in quei Mille doveva essersi piantato il sentimento, di non aver più a fare nulla col mondo di fuori dell'isola, e che da quel campo chiuso non sarebbero più potuti uscire se non vincitori.
Dunque o vincitori, o morti, o galeotti nelle galere borboniche! Di là si vedevano bene le Egadi, smeraldi al sole, e si sapeva che nelle loro viscere, nell'orrida prigione, profonda sotto il livello del mare, giacevano quei di Sapri, i loro precursori!
Trombe in testa, partirono. E va, va, va come nelle novelle; fatti due o tre chilometri tra vigneti, la colonna marciò poi tutta la prima giornata sotto quel sole che pareva colasse piombo, per un deserto senz'acqua, senz'alberi, senza coltura. Non videro un villaggio, non un ciuffo di case, nulla, tranne qualche branco di cavalli e qualche capanna che mettevano lo sgomento della vita in quelle solitudini sterminate. Ma verso il tramonto, apparve un gran casone su d'un poggio. Pagina da Cervantes. Forse la fata morgana? Era il feudo di Rampagallo. Allora la parola feudo rivelò tutta una storia. Chi la aveva mai intesa dire con sotto agli occhi la cosa vera? Lì dunque era il medioevo ancora in azione? Fu un senso di sgomento. Accamparono intorno. E nel crepuscolo alcuni ufficiali, che stavano aggruppati a discorrere sulla gran porta dell'immenso cortile di quel casone, udirono uno mettere nei loro discorsi la nota veridica. «Avete badato a quel deserto tutt'oggi? Si direbbe che siam venuti per aiutare i Siciliani a liberar la terra dall'ozio!» Era un uomo gigantesco, forse di trentacinque anni, si chiamava Rainero Taddei, era ingegnere. La sorte gli serbava la gloria di morire sei anni dopo, tenente colonnello a Custoza; ma per lui il posto da invecchiarvi lavorando, sarebbe stato là in quel feudo di Rampagallo, per morirvi dopo aver fatto fiorire tutto quell'immenso deserto, sul quale quella sera disse la verità dolorosa.
La notte furono visti i primi insorti Picciotti: una cinquantina. Venivano a raggiungere il Generale, condotti dai baroni Sant'Anna e Mocarta. Vestivano di pelli di capra come fauni, erano armati di fucili da caccia che chiamavano scoppette, qualcuno aveva le pistole alla cintola e il pugnale. Le loro facce erano fiere, ma a trovarsi tra quelle compagnie giunte d'oltremare, come i conquistatori delle loro leggende, parevano trasognati. Garibaldi li accolse, li incantò subito, li tenne seco. Erano pur pochi, ma insomma riconoscevano in lui il Duce e la rivoluzione unitaria.
Il giorno appresso a Salemi, dove i Mille giunsero sul mezzodì, fu ben altro. Tutte le campane sonavano a gloria, tutta la popolazione veniva loro incontro fuori di sè. E quando apparve il Generale fu addirittura un delirio; v'erano già le squadre di Monte San Giuliano, forse un migliaio di altri picciotti, e si dicevano cose meravigliose di altre squadre in cammino dalle terre intorno che venivano a Lui. Ma ahi quanti poveri, quante mani tese a mendicare, quanto squallore! A Salemi, su quel cocuzzolo di monte, egli si proclamò Dittatore per la libertà.
Spese lassù due giorni a far dare l'ultimo assetto alle compagnie. E all'alba del 15 queste scendevano da Salemi, già avvisate che a nove o dieci miglia di là, si sarebbero trovate in faccia al nemico. E marciavano gioconde per la via consolare fino al villaggio di Vita, da dove la gente fuggiva gridando loro: «Meschini! meschini!»
Era ancora sgomenta dagli eccidi del Quarantanove! E si capì cosa volesse dire quel compianto, perchè apparvero subito le guide garibaldine, che tornavano in dietro di mezzo trotto, recando che di là dal colle il nemico era in posizione, e ben grosso.
Sereno, lieto, quasi giovane, giunse allora Garibaldi. Poche parole, uno squillo, le compagnie furono mosse su per una collina brulla, s'arrampicarono, giunsero in cima, e di lassù videro l'altra collina in faccia balenar d'armi.
Ora dunque era il momento di trar le sorti. E forse Garibaldi sperò che, a quel primo incontro, i Napoletani pigliassero chi sa quale risoluzione che facesse risparmiare il sangue, perchè stette a guardarli a lungo, circondato dal Türr, dal Sirtori, dal Tuköry? O lo sperò quando disse di portar nel punto più alto la bandiera tricolore e di farla sventolare? Insomma volle essere l'assalito, egli che pur era disceso nell'isola da assalitore! Quella, a sentir bene, era guerra civile.
Ma verso il tocco e mezzo, il comandante napoletano mosse i suoi cacciatori giù per il pendio delle sue posizioni. Discesero questi a catene, snelli nelle loro divise turchine, furono presto nel piano che stava fra i due colli, e dal basso in su cominciarono i loro fuochi. «Non rispondete! non rispondete!» gridavano i capitani ai Garibaldini; e in verità facevano bene, perchè le venti cartucce ch'erano state date a ogni milite se ne sarebbero presto andate; così per parecchio, quei militi stettero freddi e immobili al fuoco; cosa da veterani.
Ma poi s'udirono alcuni colpi dei carabinieri genovesi, fu sonata la diana, e il passo di corsa; sonava il trombettiere del Generale.
Le compagnie si levarono, si serrarono, poi si apersero e precipitarono giù larghe in un lampo. Pioveva su di esse il piombo come gragnuola, e rombò anche la mitraglia; esse traversarono agilissime quel tratto piano sin a piè delle posizioni dei Napoletani. E pareva che sarebbero volate su come stormi di falchi; però quando furono a salire e guardarono in su, capirono che la giornata voleva essere sanguinosa. Il terreno era erto, l'erta fatta a terrazzi, i terrazzi parecchi: e a ogni terrazzo una schiera nemica che faceva fuochi di battaglione.
I tecnici della guerra, pensano che Garibaldi abbia osato troppo andando a mettersi nel caso di dover accettare il combattimento, in condizioni sfavorevolissime pel numero e per le forti posizioni del nemico. Certo osò molto! Ma l'indugio a cercar la battaglia, e lì la più sapiente manovra per la più bella delle ritirate sarebbero stati senz'altro la sconfitta. Egli era come un gladiatore nel Circo; sentiva che egli e i suoi, poichè erano venuti d'oltremare per questo, lì sotto gli occhi delle squadre siciliane, e della gente che si vedeva gremita sulle alture intorno, come sui gradini di un anfiteatro, dovevano affermarsi coll'azione pronta quali che fossero i rischi; altro non era concesso che il cimentarsi, fossero anche stati i nemici dieci volte più forti: scansando egli il combattimento, l'anima siciliana non avrebbe più compresi nè quegli uomini per essa meravigliosi, nè Lui.
E questo, come se il Generale avesse una virtù comunicativa sovrumana, questo fu sentito da tutti i suoi, anche dai meno esperti. Laonde più che condotti, conducendosi ognuno da sè, presto le compagnie si ruppero, i militi si mescolarono, non vi furono più unità tattiche, ma gruppi, manipoli, branchi di assalitori, che investivano alla baionetta le schiere nemiche, le fugavano, si piantavano al loro posto per tornar ad investirle sul secondo di quei terrazzi, e poi sul terzo, e poi sul quarto, sin che quelle si ridussero tutte insieme sulla cima del colle, e vi si serrarono più dense e più forti. Allora parve impossibile di poterle ancora affrontare. E a guardare in giù i già morti e i feriti, che strage!
Mirabile a dirsi, il Sirtori era giunto sul suo gramo cavalluccio fin lassù, e sulla sua faccia pallida pareva espresso il desiderio di morire per tutti, giacchè l'ora era omai disperata.
Ma Garibaldi, a piedi, seguìto dal Bixio a cavallo, che non lo lasciò quasi mai (come se venendo la rotta pensasse di pigliarselo su e fare il miracolo di salvarlo all'Italia), Garibaldi s'aggirava tra le file raccolte intorno al ciglio della vetta su cui i Regi urlavano «Viva» al loro lontano Re. E incorava con la sua parola tranquilla. «Riposate, figliuoli, riposate un altro poco, poi ancora uno sforzo e sarà finita.» Però vi fu chi gli vide negli occhi le lagrime.
Infatti c'era da temere che alla fine con un contrassalto improvviso, i Regi si precipitassero su quella siepe di vivi, che si era fatta intorno a quell'ultimo ciglio. Davvero bisognava finirla! E a un tratto s'udì gridare: «La bandiera è in pericolo!» E una bandiera fu vista portata avanti ondeggiare un poco, in una mischia che le si fece intorno stretta e terribile, poi sparire. In quel momento, fu ripreso su tutta la fronte l'assalto, l'ultimo, concorde, violento, furioso; s'udì l'ultimo colpo di un cannone che fu scaricato dai napoletani mentre alcuni garibaldini vi erano già alla bocca; poi i Regi in rotta rovinarono via per l'altro declivio del colle, e se n'andarono protetti dai fuochi in ritirata dei loro mirabili cacciatori.
Su quel colle, in quell'ora vespertina, in quella solitudine dell'isola, che dava a quei soldati il senso di esser fuori del mondo, l'unità d'Italia era moralmente fondata. Ora la Sicilia poteva osar tutto, il primo atto del dramma era già la catastrofe dei Borboni.
Ma se i Regi avessero vinto? S'accapriccia il cuore, a immaginare Garibaldi rotto, i suoi a squadre a gruppi, a branchi, inseguiti, messi in caccia, uccisi per tutta quella terra; gli ultimi, ad uno ad uno, chi qua, chi là, scannati come fiere, fin sulle rive del mare, e la testa del Generale portata a Napoli chi sa da chi, che se la potesse guardare e finisse di tremare quel Re. Oh, questo poteva avvenire! In quel primo fatto d'armi, i Regi non avrebbero dato quartiere. E aveva veduto ben giusto Garibaldi, quando nel momento che la lotta pareva più disperata, avendo Bixio osato dirgli: «Generale, temo che bisognerà ritirarsi» egli aveva risposto con calma solenne: «Ma che dite mai, Nino? Qua si fa l'Italia, o si muore!»
Invece il giorno appresso, tutto era gioia, e suonò il grand'ordine del giorno: «Soldati della libertà italiana, con compagni come voi posso tentare ogni cosa!» Parlava la verità; perchè di quei compagni trentuno erano rimasti morti sul campo, centottantadue giacevano feriti; e perchè egli nel fatto d'arme, avviato che fu il combattimento, aveva lasciato libero all'azione quel sentimento dell'assoluta necessità di vincere creato da lui, dalle circostanze, dalla coscienza di ciascuno dei suoi soldati, e perchè aveva diretto tutto col cuore.
Tre giorni appresso, i Mille salutavano già, dal passo di Renda, Palermo, immensa, laggiù sul mare coperto da navi da guerra di tutta Europa. Pareva loro di uscir da un mondo antichissimo, eppure non erano passati che quattordici giorni dalla partenza da Quarto!
Nel campo di Renda, Garibaldi mise tutta l'arte sua: sfoggio di lavori da zappatori, avanzate, ritirate, scaramucce. E quando fu ben certo d'aver piantato nei difensori di Palermo l'idea che ei volesse tentarne l'assalto dalla parte di Monreale; improvvisamente, la sera del 21 maggio, che diede una notte tempestosa, levò il campo; e per monti senza vie, incamminò i suoi a una marcia notturna, che gli rimase nella memoria come uno dei suoi prodigi.
All'alba del 22 è al Parco e vi si accova, vi sta un giorno senza che il nemico sappia dov'è; la Sicilia non dava spie. Il 23 è scoperto: la mattina del 24, una colonna lunghissima uscita da Palermo viene a trovarlo. Ora il suo disegno comincia a colorirsi. Finge la ritirata, quasi la fuga, verso l'interno dell'isola, vola a Piana dei Greci, tirandosi dietro quella colonna: sul tramonto del giorno fugge di nuovo da Piana, mentre l'avanguardia nemica crede di averlo già per i capelli; fugge ancora con l'artiglieria in testa, per la strada di Corleone. Ma fattasi la notte, lascia andar l'artiglieria sola senza altro ordine che di fuggir sempre, e si pianta in una boscaglia poco fuori dello stradale. Ivi ha la gioia di sentir quella colonna borbonica passar nella notte, allontanarsi illusa d'andar dietro di lui. Andasse pure! tanta forza nemica di meno egli avrebbe trovata a Palermo.
Il mattino appresso alla punta dell'alba, Garibaldi è già via da quella boscaglia. Con una marcia rapida a sinistra, sale a Marineo, la sera è a Misilmeri, il giorno appresso a Gibilrossa, nel campo dei picciotti del La Masa, e di là rivede la capitale.
Quel giorno, lassù a Gibilrossa, furono a visitarlo alcuni ufficiali della marineria inglese. Cosa gli portavano? «Eh già! si diceva tra le compagnie, gl'Inglesi ci aiuteranno a staccar la Sicilia da Napoli, così che al Borbone sembri grazia conservarsi il continente. Poi se la piglieranno, e Napoleone si piglierà la Sardegna, e l'Austria si terrà la Venezia, e l'unità d'Italia con Roma rimarrà un sogno. Passeranno gli anni, moriranno Mazzini e Garibaldi e gli altri, e dell'unità italiana e di Roma non si parlerà più.» E chi vorrebbe giurare adesso che allora le cose non si potessero risolvere in questo misero modo? Tuttavia quegli Inglesi, ospiti graditi, girarono fra le compagnie, sparsero la notizia che ai Mille era stato dato da Napoli il nome di Filibustieri; che il Governo borbonico aveva spacciato pel mondo d'averli vinti a Calatafimi, vinti al Parco, vinti sempre, e che in Palermo il Vicerè aveva pubblicato la rotta e la fuga di Garibaldi.
Quella stessa sera si udì pel campo che Garibaldi aveva detto: «Stanotte a Palermo.»
E come fu notte, il campo si mosse a scender dalla montagna, giù per un sentiero quasi appena tracciato di balza in balza.
Stavano alla testa una parte dei Mille, prima le Guide e poi i Carabinieri genovesi, poi parte delle squadre del La Masa, appresso il gruppo dei Mille, e in coda tutta la moltitudine armata di picche o di che che si fosse.
L'ordine era di marciar in silenzio, serrati, per giungere di sorpresa sul nemico che bivaccava fuori le porte, e di non rispondere al fuoco, ma investire alla baionetta, rompere, entrare nella città.
Ah, se tutto fosse stato fatto a puntino! i Regi del Ponte dell'Ammiraglio sarebber stati colti nel sonno, e la colonna, passando sui loro corpi, entrava in Palermo di colpo. Ma i Picciotti con le loro grida diedero troppo presto l'allarme. Pur non ostante quel guaio, non ostante la resistenza ben fiera che opposero i Regi del Ponte, l'impeto dell'assalto fu tale che in breve ora Garibaldi era nel cuore della città, sulla piazza Bologni.
Allora tuonò la prima campana a stormo, e poi altre ed altre; la città si svegliava. Era la domenica di Pentecoste, ma per Palermo la Pasqua di Resurrezione.
Cominciò quel mattino la bufera infernale, che, scatenata sulla gran città, doveva durare tre giorni. I Mille e le squadre si sparsero per le vie, marciarono al centro della città, e dal centro, qua combattendo, là senza trovar difese, si allargarono poi alla periferia di essa. E così si chiusero entro il cerchio di fuoco che i Regi fecero loro intorno dalle caserme, dal Palazzo Reale, dai bastioni, dalle fortezze; e Castellamare cominciò a lanciar bombe. Potevano i Regi irrompere improvvisi da tutte le parti al centro e opprimere tutto, a un tratto; ma nel pomeriggio principiarono le barricate cui si lavorava persin dalle donne. Fu presto un vero furore. Al secondo giorno si vedeva già che in Palermo non sarebbe rientrato il nemico per molto che fosse, senza averne fatto un mucchio di rovine. Cadevano case intere sotto le bombe, cadevano per gli incendi; l'ira del popolo cresceva, non s'udiva gridar altro che guerra e morte e viva Santa Rosalia. Al terzo giorno tutta la città era nelle vie; le case rovinate non si contavano più; si parlava di cittadini sepolti a centinaia, e si diffondeva un entusiasmo cupo e fanatico di morire.
Nel pomeriggio di quel terzo giorno, corse voce che Garibaldi era andato sull'ammiraglia inglese, a un parlamento che i borbonici gli avevano chiesto. «Oh Dio! cos'ha mai fatto! — diceva la gente — e se lo pigliassero a tradimento?»
Era una grande angoscia. Ma fu sublime il popolo, sublime lui, quando, tornato da quel suo passo, s'affacciò a un balcone del Palazzo pretorio, e a quel mondo, fuso come in un sol essere sulla piazza, gridò: «Il nemico mi ha fatto delle proposte che credetti ingiuriose per te, o popolo di Palermo, ed io, sapendoti pronto a farti seppellire sotto le rovine della tua città, le ho rifiutate!» Non vi è lingua che abbia la parola degna d'esprimere il grido di quel momento. Dovettero arricciarsi i capelli anche a Lui; e forse egli si sentì divino, al suo apogeo, guardando sotto di sè quella moltitudine innumerevole di genti, che si abbracciavano, si baciavano, si soffocavano tra loro raggianti, le donne più ancor degli uomini, gridando a Lui: «Grazie! grazie!» Eppure aveva annunziato il loro sterminio!
Ma la sera stessa di quel gran giorno, il suo cuore, sempre così sicuro, si turbò. Gli era venuta notizia dello sbarco di nuove milizie borboniche. Ancora pieno di quell'incendio d'anime destato da lui, forse ebbe pietà della tanta gente che il giorno appresso sarebbe morta; pietà di Palermo che si era abbandonata a lui, gridandogli che la facesse pur perire, piuttosto che lasciarla al tiranno. Studi il fenomeno chi indaga l'anima dell'individuo ne' suoi rapporti coll'anima delle moltitudini: il fatto è che egli dalla piazza del Palazzo Pretorio mandò al bastione di Porta Montalto un ordine che fece tremare chi lo portò e chi lo lesse; tremare per lui che parve d'un tratto impicciolito. Per fortuna la notizia delle nuove truppe borboniche era falsa, e di quell'ordine tacquero quanti lo conobbero, anzi si rimordevano di posseder quel segreto. Ma che sorpresa per tutti, e come dovette parer sublime Garibaldi a quanti di loro erano ancor vivi trent'anni di poi, quando lessero nelle sue memorie confessata candidamente quella sua ora di scoramento! Egli aveva pensato nientemeno che d'andarsene dalla città coi suoi avanzi di Mille! Altri eroi, forse Napoleone stesso, avrebbero fatto sparire chi d'un momento simile di loro debolezza avesse avuto soltanto il sospetto. Ma Garibaldi adorava la verità, e della gloria, intesa come si suole, non aveva concetto.
Il quarto giorno dacchè Palermo combatteva, il Generale in capo borbonico, disperato di vincere, chiese a Garibaldi un armistizio. Garibaldi lo concesse, e per lui voleva dir aver vinto. E dieci giorni appresso, ventimila borbonici sfilavano a imbarcarsi, portando via nel cuore, per andare a diffonderla in tutto il Regno, la certezza che contro Garibaldi non era più possibile vincere. Intanto nell'anima siciliana fioriva la fantasia dell'Angelo che nelle battaglie riparava i colpi a Lui, Santo e parente di Santa Rosalia, nato da un demonio e da una Santa. E così si diceva nei salotti, dove le gentildonne domandavano agli ospiti venuti di oltremare se avessero mai visto quell'Angelo: e così si diceva dal popolo, e si cantava e si credeva. Chi vide quei momenti deve essersi formato l'idea di come sian sorte certe religioni nel mondo.
Così dalla partenza da Quarto erano passati trentacinque giorni. La traversata coi suoi tedi, con le sue allegrezze e co' suoi terrori, lo sbarco prodigioso, le marce traverso l'isola, proprio quasi ancor immersa nel Medio evo, dove uno poteva sentirsi nel suo clima storico e credersi bizantino, saraceno, normanno, qual che volesse; quell'andar applauditi tra le genti, ma sempre soli e quasi soli con Lui, come una tribù errante in cerca d'un mondo ideale; i bei fatti d'arme, le ritirate, i ritorni e la entrata inverosimile in Palermo e la vittoria finale più inverosimile ancora, furono il meraviglioso dell'epopea garibaldina, e già fin dallo stesso momento che finiva pareva una cosa antica quasi sognata, anche a chi l'aveva vissuta.
Poi l'epopea cedette alla storia.
.... E Dante dice a Virgilio:
«Mai non pensammo forma più nobile
D'eroe.» Dico Livio, e sorride,
«È de la storia, o poeti.»
* * *
Ora la Sicilia era aperta a chi vi volesse accorrere. L'Italia superiore e la centrale, mandavano il Medici, il Cosenz, il Corte con le loro brigate di volontari. La guerra continuava con tutte le migliori regole della sua arte, e Milazzo fu una battaglia quasi classica; ma il maraviglioso lo metteva sempre e per tutto Lui.
Appunto a Milazzo, in un momento assai dubbioso, mentre egli si trova a piedi tra poche Guide che gli fanno scorta, gli rovina addosso una furia di lancieri napoletani. Urta il Capitano borbonico su di lui calando un fendente da dividerlo in due; ma Garibaldi, senza scomporsi, para il colpo come dicesse: «Che vuol costui?» e parando, uccide. Il Missori, lo Statella che sparano ripetuti colpi di rivoltella come se avessero in pugno il fulmine, sgombrano il terreno intorno da quei lancieri atterriti, forse ancora ignari di quella sorta d'armi. Ed egli, come se quella tragedia non fosse sua, e perchè era crucciato di non trovar un'altura da dove si potesse guardare nella battaglia, vista in mare la sola nave della sua marineria cui aveva fatto dare il nome di «Tuköry», vi corre, voga là, giunge, sale come un mozzo sulla gabbia di maestra, guarda, vede, rivola a terra, dà ordini, e due ore appresso la battaglia è vinta. Ma allora lo secondavano e lo interpretavano uomini come il Medici e il Cosenz, ufficiali superiori come il Malenchini, il Migliavacca, il Guerzoni; e gli ufficiali minori menavano nella battaglia militi, ai quali i tempi e la parola del Mazzini e l'opera di lui avevano messo nel sangue che tra le cose gentili e forti, il morir per la patria era la più gentile e forte di tutte.
Per la vittoria di Milazzo la Sicilia si poteva dir libera; e già l'occhio di Garibaldi era sullo Stretto, sulla Calabria, di là. Ora si sarebbe visto! Dieci fregate, cinque corvette a vapore, due vascelli e quattro fregate a vela e molti legni minori, tutta la marineria borbonica poteva serrarsi nello Stretto. Da Scilla a Reggio stavano dodicimila soldati tra le fortezze, e in Calabria e oltre fino a Napoli ne campeggiavano ancora ben centomila. Non bastava. Nell'ora grave si faceva addosso a Garibaldi la diplomazia, gli si voleva tôrre la Sicilia annettendola subito al Regno di Vittorio Emanuele; e Vittorio stesso gli mandava per un suo fido una lettera in cui lo esortava a non proseguir nell'impresa. Egli lesse, e rispose che al termine della sua missione avrebbe deposto ai piedi di Sua Maestà l'autorità che le circostanze gli avevano data, e ch'avrebbe ubbidito poi, pel resto della sua vita.
Intanto le brigate che avevano combattuto a Milazzo e le divisioni di Türr e di Bixio che avevano girato largo nell'isola, marciavano a posarsi tra Catania e Messina.
E allora egli si pianta alla Torre del Faro. Lì incomincia il maraviglioso. Fa armar coi cannoni di Milazzo quel promontorio di sabbie, raccoglie là intorno un centinaio di barche, e la notte dell'8 di agosto fa tentar il passaggio dal Musolino calabrese, cui dà compagni Missori, il più elegante dei suoi cavalieri, e Alberto Mario, il più gentile e altero de' suoi pensatori. Passarono quegli audaci, e poterono toccar l'altra sponda, tentarono di sorprendere il fortino Cavallo ma vi fallirono, e dovettero rifugiarsi in alto dov'è Aspromonte, nome d'altri luoghi allora vago nelle epopee cavalleresche, ma che, come se fosse predestinato, doveva entrare tragico nella storia, due anni appresso. Bisognava aiutarli. La notte dell'11 il Dittatore fece passare quattrocento uomini su di una flottiglia di barche. Le conduceva il Castiglia.
Vogarono nelle tenebre. A mezzo il Canale, furono scoperte e cannoneggiate dalla Fulminante e dal Fieramosca che ivi incrociavano, e dovettero tornar al Faro. Ciò per Garibaldi non volle dir nulla. Egli non presumeva certo di conquistar la costa della Calabria con sì poche braccia; ma quello cui mirava gli seguiva, perchè con quei tentativi e col tutto insieme delle mostre che faceva dal Faro a Messina, metteva nella mente del nemico e vi fissava l'idea folle, che lì proprio, tra il Faro e Scilla, ei volesse trovar il punto al gran passo. E lo credevano già anche i suoi. Senonchè la notte del 12 agosto egli disparve. Lo indovinarono il mattino appresso tutti gli accampamenti garibaldini; sentirono che egli non c'era più, perchè parve mancasse qualcosa nell'aria che ivi si respirava.
Dov'era? Già di là in Calabria? O era andato a Torino a parlar con Vittorio? Mistero! Ma egli era già in Sardegna, nel Golfo degli Aranci; v'aveva presi e fatti suoi, proprio da Dittatore, gli ottomila volontari che il Bertani, il Nicotera e il Pianciani v'avevano raccolti per gettarli nel Pontificio. E di là, data un'occhiata alla sua casetta di Caprera, li imbarcò e se li condusse a Palermo. Indi girata l'isola torno torno sino a capo Passaro e a Taormina, la notte del diciannove vi pigliò Bixio con i suoi, tagliò il Jonio, afferrò Melito tra Spartivento e Capo dell'Armi, sì gettò a terra con quattromila camicie rosse, e allora, giungessero pure le navi borboniche; anzi, eccole lì! Giungono l' Aquila e la Fulminante! Si sfoghino a bombardare il vapore Torino, ma la sorte di Napoli ora l'ha in mano Lui.
Rapido come vento, assale Reggio all'alba del 21 e se la piglia. Manda al Cosenz che passi dal Faro a Scilla, e Cosenz, come se l'ordine fosse incanto, passa lo Stretto nella notte tra il 21 e il 22! Così i generali borbonici Briganti e Melendezi co' loro 9000 soldati, chiusi tra i Garibaldini, il mare e i monti, dovettero mettere giù le armi o perire. E si arrendono. Ma che fare di quei prigionieri? Garibaldi spira su di essi una sola parola: se ne vadano alle loro case, per ora non sono più soldati di nessuno.
Allora cominciò lo sfacelo dei Regi, la guerra divenne una marcia militare di un esercito che s'avanzava e di uno che indietreggiava o fuggiva. E quali memorie a ogni passo! Ah! qui all'Angitola erano stati spenti i Musolino come i Fabi a Cremera. Qui avevano combattuto Domenico Romeo e i suoi: qui ecco il Pizzo, povero Murat! ecco il vallo di Crati, divini i Bandiera! Presto si vedrà la terra che bevve il sangue di Pisacane.
Cede il generale Vial a Monteleone, dove, se il povero Francesco II avesse avuto un po' di cuore da soldato, sarebbe corso da Napoli per morirvi, o in quel passo terribile far morire chi voleva scoronarlo. Cede il generale Ghio a Soveria Manelli, dove alla sola apparizione di Garibaldi sfuma via come nebbia una divisione. Il Dittatore andava avanti ormai da sè. Le sue divisioni camminavano ancora a gran giornate per la Calabria, ed egli era già in quel di Salerno. Che faranno i 40,000 Borbonici che campeggiano là tra Salerno e Avellino? Si scioglieranno da sè anch'essi! Era fatale. La gran figura del Dittatore pare spiri innanzi a sè un vento che tutto sperde. E il 5 settembre in Napoli, anche Francesco II deliberava la ritirata oltre il Volturno, dando le poste per colà a tutti i fedeli piccoli e grandi. Il giorno appresso quel misero Re, con la superba e bellissima Regina s'imbarcavano per Gaeta sulla Partenope, scortati da due navi da guerra spagnole, perchè della flotta napoletana nessun altro legno volle seguirli.
Ora Garibaldi è alle porte. Da Vietri per la strada ferrata a Salerno e a Napoli, al mezzodì del 7 con il Bertani, il Cosenz, il Nullo, e due ufficiali, scende alla stazione, ricevuto dal ministro del Re di ieri. Monta in carrozza e via, al tocco, senz'altra scorta che quei suoi cinque, entra nella città, tra la folla che proprio fuori di sè dalla gioia stipa le vie. Passa dinanzi al forte di Castelnuovo, da dove la sentinella borbonica col picchetto di guardia gli presenta le armi. Oh se quei soldati, avessero osato far fuoco su quella carrozza, ed Egli fosse rimasto morto! Chi appende a fili così tenui le sorti delle genti? Si cura Iddio delle cose nostre, o dà talora a certi uomini qualche suo attributo? E la storia, superba, come si troverebbe a rispondere a chi la interrogasse così? Garibaldi era un'idea, l'incantatore passò, e il plebiscito vero che si fece poi, era già fatto idealmente quel giorno.
Ora non alla Reggia egli va, ma al Palazzo del Governo, e vi si mette da padrone: e di lì, tre ore appresso, decreta che la flotta napoletana passi all'Ammiraglio di Vittorio Emanuele. Era troppo! E troppo avrebbe poi dovuto la Monarchia a Garibaldi. Gli uomini che ne facevano la politica, tra grandi e piccini, lo sentirono tutti.
E perchè Garibaldi aveva osato, bisognava loro osare come lui: onde da Torino alle grandi cose di Napoli rispondeva com'eco la deliberazione di entrar nelle Marche e nell'Umbria, con un esercito del Re. Allora il Cavour trasse il dado.
Avvenisse ciò che potesse, rompesse pur l'Austria dal quadrilatero; alla disperata, nel nome di Garibaldi e di Mazzini, il Cavour era uomo da incendiar mezza Europa.
E l'osare fu premiato, perchè di quei giorni Russia e Prussia in un convegno a Varsavia accettavano anch'esse la politica del non intervento bandita da Napoleone e dall'Inghilterra: il mondo intero pareva convinto ormai che un popolo da cui venivano date prove così alte di vita non era più quello cui la Santa Alleanza aveva messo l'Austria sul petto.
Ma dunque entrato Garibaldi in Napoli, l'epopea finiva con la sua glorificazione? Oh, no! La fine lieta non conveniva a un poema così novo e grande come era il suo; perchè le imprese dei grandi sono veramente epiche solo a condizione che essi nel chiuderle se ne vadano avvolti in un velo di alta mestizia! E poi c'erano ancora sulla destra del Volturno quarantamila soldati di Re Francesco.
* * *
Cinque giorni dopo l'entrata trionfale in Napoli, il Dittatore, di sulle navi che gliele portavano frettolose dalla Calabria, pigliava le sue divisioni, non lasciava loro godere neppur la vista della gran città, le lanciava a Caserta, a Santa Maria, dove correva egli stesso, e le piantava sulla sinistra del Volturno, per un semicerchio di venti chilometri. C'erano ventimila soldati ch'ei poneva di fronte a quarantamila, sostenuti da una fortezza come Capua, assetati di vendette, ebri di promesse per quando avessero rimesso in Napoli il Re.
Bisognava stare ben desti e ben pronti!
Sul Volturno i due eserciti passavano il settembre in preparativi, tastandosi talvolta fieramente qua e là. Ma il Dittatore sentiva che l'ora tragica s'appressava. Dalla sua specola di Monte Sant'Angelo, vedeva tutto, indovinava tutto ciò che si faceva nel campo nemico. Alla fine «Fate buona guardia» disse ai suoi luogotenenti, «domattina saremo attaccati.» E all'alba del 1º ottobre furono attaccati davvero.
La narrazione della battaglia che pigliò nome dal Volturno fu scritta e subito e poi, e se ne scrive e se ne scriverà ancora. Ma a misura che le vanità se ne vanno, quella battaglia ingrandisce nella verità, e rivela come uno dei sommi capitani, colui che alle cinque pomeridiane, mentre si combatteva ancora, potè telegrafare a Napoli «Vittoria su tutta la linea.» E, disse vero il Guerzoni, fu vittoria piena, compiuta, gloriosa, e checchè altri abbia novellato, tutta dell'armi volontarie, tutta garibaldina; fu una delle più grosse battaglie che l'armi italiane abbiano combattuto. Ora l'esercito regio era vinto, ricacciato di là dal Volturno con l'animo rotto, perduto.
Tuttavia bisognava tenerlo in rispetto, e così cominciò l'assedio di Capua! Non era cosa da Garibaldi star a tracciar parallele, scavar trincee, piantar delle batterie dinnanzi a una città fortificata con entro un popolo di vecchi, di donne, di bambini a patire. Pur bisognava star lì, aspettando che la fortezza si rendesse da sè. E furono giorni lunghi fastidiosi, crudeli. E già tra i volontari si facevano dei discorsi cupi. Perchè verrà qui l'esercito del Re vittorioso nelle Marche e nell'Umbria? Verrà da amico o da soverchiatore? Bisogna pur dire la verità: entrava negli animi una grande malinconia. Solo Garibaldi rasserenava tutti, quando si faceva vedere. E un giorno si seppe che il colonnello dell'artiglieria sua gli aveva chiesto di lasciargli lanciar su Capua alcune bombe, perchè il comandante della fortezza potesse rendersi senza perder l'onore. «Griziotti, no! — si diceva avesse risposto Garibaldi. — Se un fanciullo, una donna, un vecchio, morisse per una bomba lanciata dal nostro campo, non avrei più pace.» E Griziotti: «Ma i nostri giovani si consumano di febbri, i battaglioni si assottigliano, muoiono.» E Garibaldi a lui: «Ci siam venuti anche a morire!» — «Giungeranno i Piemontesi, Generale; essi non avranno riguardi, con poche bombe faranno arrender la città, poi diranno che tutto quello che facemmo finora, senza di loro non avrebbe contato nulla.» E Garibaldi: «Lasciate che dicano, non Siam venuti per la gloria.» Fu grande? Si cerchi nella storia uno eguale a lui!
E i Piemontesi erano vicini davvero. O perchè Piemontesi? Non erano i soldati già di mezza Italia? Ma! Per antico vizio italico si parlava ancora così, quasi da tutti. Non però dal Dittatore.
Egli aveva indetto il plebiscito pel 21 ottobre, e quel giorno le due Sicilie votavano la fine dell'antico Reame, e la loro annessione al Regno nuovo di Vittorio Emanuele.
Tre giorni appresso, il Dittatore passava il Volturno a Formicola, con le divisioni di Bixio e di Türr. «Dove ci mena?» dissero i volontari: li menava a incontrare Vittorio che scendeva da Venafro. E il 26 ottobre, presso Teano, su quella terra che vide Silla e Sartorio in guerra feroce, le avanguardie garibaldine aspettarono il Re. Presso a una casa bianca, a un gran bivio dove delle pioppe già pallide lasciavano cader le foglie morte, c'era il Dittatore tra molte camicie rosse. Ad un tratto si udì la fanfara reale del Piemonte. Tutti a cavallo! Qualcuno ricordò poi che, in quel momento un contadino mezzo vestito di pelli si volse ai monti di Venafro, e con la mano alle sopracciglia, fisso l'occhio forse a leggere l'ora in qualche ombra di rupe lontana. Nota epica anche questa. Erano quasi le otto, ed ecco un rimescolio nel polverone, poi un galoppo e dei comandi e degli evviva: «Viva, Viva, Viva il Re!»
Allora quelli che erano là, videro un gran cosa. Comparve il Re, Garibaldi gli galoppò incontro, si diedero la mano: quel Dittatore che senza gloria di antenati aveva nel cuore tutta la forza che il popolo sa di rado rivelare, diede il saluto immortale che gridò Vittorio Re d'Italia. Chi mai a Carlo Alberto, quando appena salito al trono plaudì al concorso per un libro sui Capitani di ventura, chi gli avrebbe detto che uno condannato a morte in nome suo, come bandito di primo catalogo, sarebbe divenuto l'ultimo e il più grande e più puro della scuola d'armi dei Condottieri, e che 26 anni dopo avrebbe proclamato Re d'Italia il suo Vittorio in quei campi? Da quel giorno tutto volse rapidamente al termine. E il 6 novembre, nell'amplissimo viale che si protende dinnanzi alla reggia di Caserta, stavano le divisioni garibaldine già consapevoli d'esser messe in disparte. Ma era stato detto che il Re voleva passarle in rassegna. Quando sonarono le trombe i battaglioni si allinearono malcontenti. Apparve una cavalleria. Ah! quello che cavalcava alla testa non era il Re! Era Lui, col cappello all'ungherese calato giù, segno di tempesta. Passò quella cavalleria, giunse fino in fondo al viale, diede di volta, ripassò come un turbine, poi sparì. E poco appresso quei battaglioni furono condotti a sfilare dinanzi a Lui, piantato sulla gran porta del Palazzo Reale, come un monumento. Sentivano tutti che quella era l'ultima ora del suo comando, e a tutti veniva voglia d'andare a gettarsi ai suoi piedi e gridargli: «Generale, perchè non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa!»
Egli, pallido come forse non era stato visto mai, guardava quei plotoni passare, e s'indovinava che il pianto gli si rivolgeva indietro ad allagargli il cuore.
Così finivano i canti centrali dell'epopea garibaldina. Quanto a lui, il 7 novembre entrava in Napoli con Vittorio Emanuele, l'8 gli consegnava il plebiscito, e all'alba del 9, su d'un vapore che portava il nome di Washington, suo vero fratello nei secoli, solo con quattro amici tornava a Caprera, quasi ancora con indosso gli stessi panni che aveva a Marsala.
«E non ne fosse uscito mai più!» dissero coloro che non avendolo capito mai, non lo capirono due anni di poi, quando cadde in Aspromonte confermando col suo sangue la legge di Roma. Però quelli stessi tacquero, quando nella guerra del Sessantasei non poterono disconoscerlo, almeno pel suo sublime « Obbedisco!» Ma tornarono ad imprecarlo quando fece Mentana. Altri, quando udirono ch'egli vinceva per tre giorni di seguito a Digione, credettero di elevarsi molto, dicendo che certo i Prussiani non s'erano degnati di combattere seriamente contro di lui. Anche questo fu detto. Ma fece ammenda per tutti il general Cialdini. Parlando di lui co' suoi pari, disse da onesto e prode come era: «Nessuno di noi gli arriva al ginocchio.» Diceva il vero. Ma ancora più che gran capitano Garibaldi fu Uomo nuovo. Per ora non si sa ancora riconoscerlo. Fu scritto che come in geologia si stenta a liberarsi dal concetto che tutta la storia del nostro globo sia una successione di catastrofi per lotte terribili tra le forze del Caos, così nella vita dell'umanità non sappiamo liberarci dall'ammirare i violenti trionfatori, perchè moralmente siamo ancora assai deboli. Ma quando l'umanità, sarà più consapevole di sè, e forte e capace di libertà e di giustizia, il tipo dell'Uomo sarà riconosciuto in lui. Non se ne favoleggerà, come non si favoleggiò guari di Colombo: ma ad ogni forma nuova di bene che si verrà trovando ed attuando, il giudizio delle genti riconoscerà che Garibaldi quella forma l'aveva già in sè. Allora si capirà come ei dall'azione passasse alla solitudine, perchè costumi, leggi, tutto doveva parergli troppo disforme dalla vita come ei la sentiva. Ma la solitudine su d'uno scoglio, dove nessun uomo avrebbe saputo durare senza morir di tedio, egli la popolava con l'ingegno del suo gran cuore, facendosi di quell'umile punta un mondo infinito come l'anima sua.
LA LIRICA
CONFERENZA DI ENRICO PANZACCHI.
Dunque io vi parlerò nuovamente di poesie e di poeti, o amabili Signore, perchè così piacque al Comitato che stabilì il tema, e che mi diede anche il molto onorevole incarico di principiare la serie delle conferenze quest'anno; di queste conferenze così fortunate e, diciamo pure, anche così invidiate, soprattutto perchè ebbero sempre il vostro concorso e la benevolenza vostra.
La conferenza mia di quest'anno sarà una continuazione di quella dell'anno scorso; ma i tempi sono molto mutati e non in meglio per noi. Cercai l'anno scorso di tratteggiarvi il gran quadro degli avvenimenti di quella singolarissima epoca. Idee nuove, uomini nuovi, avvenimenti strani, insperati: e sopra tutto questo una meravigliosa esaltazione nelle menti, un entusiasmo gaudioso e virtuoso nei cuori. Tanto che se ci avessero soccorso il senno e la concordia, era proprio da sperare che l'Italia ne uscisse con qualche felice risultato. Invece il senno e la concordia difettarono. Molti rettili, io vi diceva, strisciarono in mezzo a tutti quei fiori, molte ombre si mescolarono a quella luce; ed avemmo la catastrofe, la grande catastrofe, nobilitata dal valore italiano sotto gli spalti di Novara, sulle mura di Roma e a Venezia. Il detto di Massimo d'Azeglio: «credevamo di essere uomini ed eravamo invece dei fanciulli» riassume, e riassume purtroppo psicologicamente e storicamente tutta quell'epoca.
Bisognava cambiare strada, bisognava mutare i metodi e la mèta. Era stato dunque un bel sogno la confederazione dei Principi italiani col Pontefice alla testa, e bisognava metterlo in disparte. Era stato un bel sogno la repubblica unitaria di Mazzini colla Costituente e non ci si poteva più pensare. S'imponeva insomma una nuova orientazione, la quale doveva avere per principio e per obbietto un regno italiano fortemente costituito e fedele alla libertà. Aveva dato già all'Italia l'esempio di lodevole coraggio nell'anticipare questa nuova orientazione Marco Minghetti, quando, d'improvviso, lasciava le anticamere del Papa, ove si cospirava contro l'Italia, per andare sotto le tende di Carlo Alberto ove si combatteva e si moriva per l'Italia. Aveva già dato esempio simile Terenzio Mamiani, quando, nella rovina di tutto e di tutti, aveva detto che ormai non restava patriotti altro partito da prendere che stringersi intorno alla Dinastia di Savoia ed attingere da essa gli auspicii e la forza dell'avvenire; Vincenzo Gioberti che aveva a Parigi abbandonata la sua utopia del Primato (di cui credo che fosse già guarito da un pezzo) e poneva il vigorosissimo intelletto alla formazione di un nuovo libro nel quale si studiavano i criterii ed i mezzi per un positivo rinnovamento italiano; Daniele Manin si era ormai mostrato persuaso che la sua repubblica veneta non era che un glorioso anacronismo evocato invano dalla illusione storica e dal sentimento generoso di tanti italiani, che per Venezia avevano dato l'anima e il sangue. Lo stesso Mazzini, pur non declinando dai suoi ideali dogmatici, si manteneva repubblicano, ma attestava e mostrava che soprattutto egli era unitario e che quando si mirasse veramente, efficacemente all'unità, non solo egli non poneva ostacolo, ma fino ad un certo punto sarebbe stato disposto a secondarla.
Letterariamente e poeticamente, o Signore, il periodo che corre dal 1849 al 1859 non è un gran periodo nel suo insieme; anzi si presenta come un periodo mediocre. Non vi sono grandi lampeggiamenti, non vi sono poderose affermazioni d'ingegno artistico; vi è qualche cosa più di abbozzato che di compiuto in esso. Io lo chiamai altra volta un periodo «bigio» per le nostre lettere, un periodo ove le tinte, i colori non sono bene spiccati e decisi, ove bisogna raccogliere, classificare i fatti, apprezzandoli soprattutto come sintomo, piuttosto che come preparazione dell'avvenire. La ragione di tutto questo parmi che vedesse molto bene Cesare Correnti in alcune sue pagine notevoli nelle quali campeggia questo ragionamento: la poesia s'imperna nel criterio della vita; e quando il criterio della vita è incerto e ondeggiante, la poesia non può dare grandi affermazioni. Il romanticismo, una gran forza espansiva, comunque si voglia esteticamente giudicarla, che aveva dominato tutta la prima metà del secolo, aveva raggiunto il suo apice e già accennava a declinare, come un movimento nel quale cominci a mostrarsi esaurita la forza iniziale, da cui era derivato. Anche la morte si era mescolata nella faccenda, ed aveva fatto la sua parte. Era morto Giuseppe Giusti portando anzi tempo nel sepolcro una meravigliosa attitudine di poesia, che si era così bene esplicata nella satira civile, e che aveva mostrato anche altre potenze di poeta lirico e di critico, le quali nella pienezza dell'età forse si sarebbero più efficacemente manifestate. Erano morti Silvio Pellico e Giovanni Berchet tramontati alquanto nella popolarità, ma dei quali duravano sempre gli scritti patriottici nel cuore e nell'anima popolare, e che dovevano essere rinfrescati e resi novamente di una dolorosa attualità per le frequenze dei nuovi e tristi esigli, per le nuove sventure così somiglianti a quelle che avevano colpito l'Italia dal ventuno al quarantasei. Era morto anche a Bologna il buon Giovanni Marchetti, di cui disse Luigi Carrer che aveva saputo strappare il segreto della soavità degli accenti alla lira di Francesco Petrarca e, ad essa aveva saputo disposare accenti di nobile patriotismo.
Alessandro Manzoni che si era taciuto da tanto tempo, a un tratto si faceva vivo e riempiva delle sue idee tutto il mondo letterario italiano colle questioni della lingua nazionale. È una questione molto seria, o Signore: In che lingua debbono parlare gl'Italiani, parlare soprattutto e scrivere?
Dopo sei secoli di civiltà e di letteratura nazionale, il più grande e il più autorevole ingegno degli Italiani veniva fuori a mettere in dubbio nientemeno che lo strumento del nostro pensiero! E Carlo Tenca, che dal suo Crepuscolo vigilava tutte le forme e tutti i movimenti del pensiero italiano covando, per così dire, tutte le faville che rimanevano ancora della nostra vitalità politica, grandemente s'impensieriva di questa questione sollevata dal più autorevole degli scrittori. Anche i poeti dunque, e gli scrittori, avevano una nuova ragione di aspettazione, d'incertezza e di titubanza. Si doveva attingere, come voleva Vincenzo Monti, dalla nostra lingua scritta e vivente, da tutta la collaborazione dei popoli italici e da tutti i valenti nostri scrittori, come pare che fosse anche il pensiero di Dante Alighieri, padre della nostra letteratura? oppure si doveva, come voleva il buon Cesari, immobilizzare tutta la nostra lingua negli esempi del Trecento? oppure, come veniva avanti ad affermare il Manzoni, era necessario costituire una specie di sede vivente in cui la lingua facesse sempre la sua prova vitale, e che potesse servire di modello perenne e di guida a tutti e di soluzione nei dubbi che potessero insorgere?... Vi ripeto, tutto questo non doveva contribuire a dare delle forme energicamente direttive per la espressione dell'ingegno artistico e poetico negl'italiani; e non è da stupire che tutti i poeti di questo periodo ne risentissero un influsso di incertezza e di titubanza. Uno fra loro, più sincero degli altri, lo confessò apertamente. Paolo Gazzoletti scriveva: «Le mie poesie furono dettate, come è facile accorgersi, sotto l'influenza di studi, di scuole e di gusti diversi. Bruciai nel mio camino qualche granello d'incenso a tutte le forme, ed anche ai traviamenti delle forme.» — Poi soggiungeva: — «Ad ogni modo, per noi poeti, anzi per noi italiani il cantare è una fatalità e dallo stesso dolore e dalle stesse miserie nostre abbiamo, per disacerbarle, eccitamento al canto.» E concludeva un suo sonetto con questo verso: «È vocale il dolor de la mia terra!»
Anche troppo vocale, dico io; e se vi fu tempo in cui spesseggiassero i poeti mediocri e minimi, fu appunto questo decennio.
E simile lamento muoveva anche Ippolito Nievo il quale faceva le prime armi e dava la prima promessa del suo ingegno bellissimo, che sarebbe stato destinato a successi trionfali se una tragica morte non lo avesse còlto nel pieno vigore dell'ingegno e dell'età. D'altra parte abbiamo dei poeti minori, non privi certo di pregio, che si compiacevano a seguire l'indirizzo manzoniano in tutto ciò che aveva di più mite, di più mansueto, di più casalingo. Citerò solo Giulio Carcano di Milano, Emilio Frullani di Firenze. Aggiungasi, in generale, una grande irregolarità e licenza nei ritmi, e una grande povertà delle rime. Una delle necessità più vivamente sentita da chi abbia acuto e squisito il senso dell'arte, è quella di dare delle forme nettamente plastiche e precise ed euritmiche al componimento poetico. Invece in questo tempo si direbbe che dalla grande autorità del Leopardi si preferisce di dedurre soprattutto e quasi esclusivamente la libertà indeterminata della strofa; libertà indeterminata che fomentava, aiutava una grande verbosità, nemica mortale della efficacia scultoria. Quanto alle rime esse si andavano sempre più impoverendo; e non aveva torto un critico quando diceva che aprendo i libri di poesia di quel tempo (e sono tanti da formare delle enormi cataste), che esaminando certe collezioni allora famose, per esempio l'«Ape romantica» di Venezia, e le innumerevoli Strenne di Napoli in cui tutta l'attività partenopea pareva che si concentrasse, diceva che con poco più di cento parole si sarebbe potuto determinare il rimario della poesia italiana!.... E questo, o Signore, che sembra un particolare secondario, è invece un segno grandissimo; perchè non vi è grande poesia senza una tecnica eletta insieme e ricca e rigorosa; e quando tanto nel movimento della strofa quanto nella scelta delle rime è o irregolarità e licenza indeterminata o povertà, potete star certe che anche il pensiero rimarrà in difetto, tutto il nisus della forma poetica sarà in decadenza. E ne avete la riprova in questo: che noi abbiamo avuto un vero e proprio risorgimento nella poesia italiana solo quando son ritornate in onore le strofe severamente corrette ed euritmicamente rispondenti alle loro parti, e quando è ritornata in onore la scelta della rima ricca, eletta.
Ma non è tutta verbosità vuota, non è tutta divagazione sentimentale la poesia italiana di questo tempo. Vi è qualche cosa di «meditabondo» nella nostra cultura. Anche nel campo del pensiero, e solamente nel campo del pensiero, perchè ormai l'azione era interdetta dalla servitù politica, si sente il bisogno di raccogliersi e pensare seriamente. Alcune discipline si avvantaggiano; lo studio della lingua non è più ridotto a semplice scelta di frasi; si comincia a sentire la profonda vacuità della scuola del Cesari buona come antidoto, come egli lo chiamava, contro l'invadente francesismo del primo quarto di secolo in Italia, ma per sè stessa insufficente al grande ufficio della lingua intesa come strumento del pensiero e come rispecchiamento dell'anima della Nazione. Dallo studio formale e superficiale della lingua si passava a un tentativo sempre più spiccato di penetrare a fondo nell'indole, nella filosofia del linguaggio; e a Firenze, a Torino, a Milano e altrove si cominciano a costituire delle scuole filologiche che pongono nel nostro terreno ottimi germi, i quali col tempo poi copiosamente frutteranno. Il fenomeno passa dalla filologia nella poesia vera e propria, e si comincia a tentare un più stretto connubio, una più efficace intimità tra la poesia pura forma e la sostanza del pensiero; tra il sentimento, nella sua vaghezza indeterminata, e certi fini ben determinati e prefissi e certi alti ideali a cui l'arte doveva servire. La vanità della formula «l'arte per l'arte» va cadendo sempre più in discredito. Fu accolto con molto applauso, se non molto letto, un poema di Lorenzo Costa genovese, abilissimo fabbro di versi, il quale con degli sciolti veramente mirabili si era prefisso ed aveva in gran parte raggiunto l'intento di celebrare le più meravigliose scoperte dell'ingegno umano nelle industrie, e nella meccanica. Altri poeti avevano seguito questo impulso. Dirò anzi, che si può considerarlo come una preoccupazione dominante allora negl'ingegni nostri. L'Aleardi, per esempio, vuole compensare più che può una certa vacuità che è nei suoi canti fantasiosi e sentimentali, e ricorre alla geologia e ricorre alla botanica. Si direbbe che già egli si prepari fin d'allora per il disperato cimento al quale si lasciò andare pochi anni dopo, di celebrare in versi il sistema economico di Federigo Bastiat. Ebbe in questo un infelice compagno nel Martinelli bolognese, che volle con dei Sermoni dedicati a Marco Minghetti niente meno che dar forma poetica a tutti i teoremi della economia classica inglese. Anche Giacomo Zanella nel seminario di Vicenza sta maturando il suo ingegno e si prepara a dare egli pure un contributo assai notevole a questo tentativo di connubio fra la poesia e la scienza: si prepara ad essere il futuro autore della Conchiglia fossile e del memorabile dialogo teologico-astronomico tra Galileo e Giovanni Milton; si prepara ad essere, come disse con frase veridica Giosuè Carducci, il castigato, forbito ed eloquente cantore dell'industria e delle solennità del tecnicismo.
Ma anche lo Zanella poco lustro doveva dare a questo decennio, perchè la sua fama doveva fiorire dipoi. Egli era destinato ad essere il poeta prediletto del decennio che seguì; doveva essere in esso il poeta favorito delle gentili dame, degli ingegni eleganti e soprattutto degli spiriti temperati che vagheggiavano di comporre in armonie superiori, degli elementi fra loro cozzanti, e che non disperavano di queste armonie e si compiacevano di trovare nel prete liberale di Vicenza un degno e notevole aiuto di poesia e di arte.
Insomma, quando voi avete bene scrutato l'orizzonte e investigato da ogni parte, voi dovrete venire a questa conclusione: che il decennio italiano che corre dal Quarantanove al Cinquantanove, non ha che due poeti veramente notevoli: il Prati e l'Aleardi. Lascio da parte Niccolò Tommaseo, il quale meriterebbe uno studio a sè per la grande intensità e arditezza del suo ingegno poetico, ed è invece così poco noto e così mediocremente apprezzato. Lo lascio da parte, perchè anche egli diede i migliori frutti come poeta nell'epoca precedente, e perchè egli si occupò soprattutto di studi filosofici e religiosi.
Aleardo Aleardi dunque e Giovanni Prati sono i due poeti che signoreggiano l'epoca, e quasi vi regnano in solitudine.
Io ebbi la fortuna di conoscerli ambidue. Erano due tipi disparatissimi.
* * *
Giovanni Prati nel decennio di cui parliamo seguitava la sua strada; godeva della sua fama, e cercava di aumentarla con opere notevoli. Sempre uguale a sè stesso: vagabondo, strano, irregolare; aveva amato la natura e l'Italia, e il suo amore per quest'ultima aveva sempre nobilmente e francamente manifestato, ma accompagnava poi questa sua nobiltà di condotta poetica con molte stranezze nella vita; ed ebbe per l'una e per le altre molti dolori e molte tristi vicende. In questi dieci anni egli dalla Toscana, dove aveva un così acerbo persecutore in Francesco Domenico Guerrazzi, si era rifugiato a Torino e là, all'ombra della Croce Sabauda, a cui aveva rivolto l'occhio confidente anche quando altri faceva le viste di non accorgersene, ben visto a Corte, seguitava a poetare, perchè il poetare, per Giovanni Prati era non una dilettazione istintiva, non un'operazione intermittente, era come un abito inscindibile dalla sua natura, e di continuo componeva versi, e, quel che è anche più strano, nessuno lo aveva mai visto comporre versi a tavolino. Andava errando come aveva fatto sempre, e lo vedevano pei Portici di Po brontolando seco stesso i suoi endecasillabi o i suoi settenari, sempre con in bocca un sigaro, che spesso gli si spengeva; allora chiedeva fuoco al primo che incontrava, e riacceso il mozzicone continuava a mormorare dei versi. Più di una volta fu preso per un pazzo.
In questo decennio Giovanni Prati ha composto su per giù due volumi di versi, nei quali si nota uno spiccato e opposto carattere d'arte. Nei poemi è sempre il bizzarro ingegno romantico di Edmenegarda e delle Ballate: come prima, vagheggia il fantastico, lo strano, l'avventuroso. Nella forma non si corregge o peggiora. Infatti, leggendo a Torino il suo poema Ridolfo fece accapponare la pelle al buon Terenzio Mamiani per delle forme veramente strane e eteroclite. Un lavoro di miglior avvenire si ha nella Battaglia Imera o Jerone, una specie di visione antica che lampeggia alla mente del poeta e che pare il preludio di quella mirabile castigatezza di gusto che egli qualche anno dopo doveva conquistare per dono felicissimo della sua natura, e che lo metteva in grado di comporre i due Sogni, di tradurre non indegnamente Virgilio e di pensare a verseggiare quel Canto ad Igea che par davvero un frammento di serena poesia antica. Il secondo volume ci dà invece un Prati fortemente compreso della missione civile e politica del poeta italiano: e tutti i grandi argomenti che occupano la vita italiana, che accennano ai dolori del presente e alle speranze dell'avvenire, tutti si rispecchiano fervidamente in quelle sue liriche alate, che anche oggi non si possono leggere senza commozione. L'anno scorso, o Signore, vi ho citato alcuni passi della superba Trenodia in cui, celebrando il ritorno da Oporto delle ceneri di Re Carlo Alberto, egli volle evocare tutto il sogno poetico della federazione italiana del Quarantotto, gettando un ultimo grido di supplicazione ai principi della penisola. Indi egli si volse da quella parte, ove solo le speranze parevano attendibili, voglio dire alla spada, al senno e alla lealtà di Re Vittorio. Ora sentite con che accenti egli ricorda i giovinetti toscani eroicamente caduti a Curtatone:
Quando la fredda luna
Sul largo Adige pende,
E i lor defunti l'itale
Madri sognando van;
Un coruscar di sciabole,
Un biancheggiar di tende,
Un moto di fantasimi
Copre il funereo pian.
E via per l'aria bruna
Sorge un clamor di festa:
«L'ugne su voi passarono
De' barbari corsier;
Viva la bella Italia!
Orniam di fior la testa;
O vincitori o martiri
Bello è per lei cader.
E chi, evitato il nero
Tartaro, ancor respira,
Abbia in retaggio il funebre
Pensier di chi morì,
Seme di sangue provoca
Messe di brandi e d'ira;
Fatevi adulti, o pargoli
Per vendicarci un dì!»
Il guardïan straniero
Dall'ardue rôcche ascolta.
E le canzoni insolite
Lo stringono di gel;
E il pian mirando e il torbido
Stuol degli spettri in volta,
Pensa le patrie roveri
E il nordico suo ciel.
E sclama anch'ei: «Di meste
Larve simili è piena
Pur la mia tenda ungarica
O il mio boemo suol,
E a me, che schiavo indocile
Veglio l'altrui catena,
Pace l'avara tenebra
Nega e letizia il Sol.
Oh, falco, che da queste
Turrite rupi inarchi
L'ale alla fuga, intendere
Potessi il mio desir!
Ma se per tanto d'aëre
Sino al mio ciel tu varchi,
Di' a' figli miei che abborrano
In servitù perir!»
Così con varii modi
Canta chi vinse e giacque,
Ma in un medesmo palpito
Arde il medesmo ver,
Mentre la luna naviga
Sovra il cristal dell'acqua
E giù nel pian si sperdono
Gli spettri dei guerrier....
Quando Giosuè Carducci dettò quelle sue malinconiche e bellissime strofe per l'anniversario dei morti di Mentana, si ricordò egli di questo componimento del Prati. V'ha somiglianza di metro, di rime, e perfino ricorrenza di certe frasi e di certe immagini. Nell'una e nell'altra, i morti parlano pietosamente alla patria; e un senso di paura passa negli avversari. Con una audacia veramente lirica, il Prati affrontò in questo decennio tutti i più scabrosi argomenti che toccavano alla vita italiana. Luigi Napoleone di Presidente della Repubblica si fa a un tratto Imperatore; e Giovanni Prati gli volge un'ode che a quei giorni andò famosa in Italia e oltre l'Italia, in cui apostrofa vivamente, quasi assale di interrogazioni e di problemi imperiosi il nuovo Sire incoronato di Francia.
Hai vinto. Or ben. Qual premio
Dalla vittoria attendi?
Sali. E l'antica porpora
Di Clodoveo ti prendi.
Ma la fortuna, o Principe,
Ha giuochi infami. E bada....
Qui incominciano i consigli, le ingiunzioni, le minacce:
Se col vorace e barbaro
Settentrïon t'annodi,
Perduto sei. La gloria
Ti mancherà dei prodi....
È tutto un programma di politica in versi piani e sdruccioli; e letto oggi a tanta distanza dagli eventi, l'effetto non è sempre serio; ma anche oggi la lirica del Prati ci commuove quando, verso la fine, parla al Bonaparte d'Italia:
Sol, pei materni visceri,
Ti prego a giunte mani,
Non obliar, nel turbine
Del tuo fatal dimani,
Questa obliata Italia
Dal sorger tuo; quest'Eva,
Che a te le braccia leva
Consunte di dolor.
Mille de' suoi, che dormono
Là tra le scizie nevi,
Per Chi tu sai, fantasimi
Tetri, placar tu devi,
Pensa alla madre; al cenere
Dell'Alighier. Nefando
Di Bonaparte è il brando,
S'egli altri numi ha in cor.
Le esortazioni e i vaticinii del Poeta, dovevano attingere valore dal tempo; ed ora noi li congiungiamo ai ricordi del colloquio di Plombières, di Magenta e Solferino.
* * *
Aleardo Aleardi ebbe anch'esso anima vera di poeta; ma ebbe indole diversa. Anche al fisico, quantunque tutt'e due fossero belli uomini, al portamento i due molto si diversificavano. Aleardo Aleardi composto, dignitoso, contegnoso. Con la sua bella chioma spartita sulla fronte e con la pettinatura impeccabile mi faceva pensare a un verso di Gaspare Gozzi, ove descrive i capelli dei damerini del suo tempo. Aveva il parlare sentenzioso, la frase rotonda, e volentieri batteva il pugno quando voleva asserire qualcosa di solenne. Aleardo Aleardi fu troppo lodato, e fu sventura per lui. Io mi ricordo che un critico, poco dopo il '60, metteva nientemeno che il nome di Aleardo Aleardi vicino a quello di Dante Alighieri; e io provai una profonda pietà per Aleardo Aleardi. Infatti egli dovette scontar poi, con un rapido rovescio della fortuna della sua fama e quasi con l'oblio, l'eccesso delle lodi prodigategli dai compiacenti contemporanei.
L'Aleardi lasciò scritto di sè che da ragazzo aveva provato una grande inclinazione per la pittura, e specialmente pel paesaggio; ma gli era stata così severamente interdetta e combattuta dal padre, che dovette abbandonarla. Questa sua inclinazione alla pittura di paese si riflette qua e là nei suoi componimenti in modo manifesto:
Ogni eminenza dopo la procella
Versa per cento conche
In curve e fuggitive
Cascatelle il soverchio de la piova:
Suonano le spelonche
A la cadenza di frequenti stille:
Brilla l'immenso verde,
E tutta di vaganti iridi piena
È la silvestre scena.
L'Aleardi ci dà molti di questi quadretti: veri paesaggi di poeta, ove si uniscono e s'armonizzano le voci e i colori in un tutto animato e vivente. E non mancano i paesaggi a grandi linee, entro le quali s'inquadrano dei drammi di pietà umana e tragici ricordi di storie e di leggende. Udite questo pezzo del carme Il Monte Circello, composto, si noti, nel 1845.
Vedi là quella valle interminata
Che lungo la toscana onda si piega,
Quasi tappeto di smeraldi adorno,
Che de le molli deità marine
L'orme attenda odorosa? Essa è di venti
Oblïate cittadi il cimitero;
È la palude, che dal Ponto ha nome.
Sì placida s'allunga e da sì dense
Famiglie di vivaci erbe sorrisa,
Che ti pare una Tempe, a cui sol manchi
Il venturoso abitatore. E pure
Tra i solchi rei de la Saturnia terra
Cresce perenne una virtù funesta
Che si chiama la Morte. — Allor che ne le
Meste per tanta luce ore d'estate
Il sole incombe assiduamente ai campi,
Traggono a mille qui, come la dura
Fame ne li consiglia, i mietitori:
Ed han figure di color che vanno
Dolorosi all'esiglio; e già le brune
Pupille il velenato aëre contrista,
Qui non la nota d'amoroso augello
Quell'anime consola, e non allegra
Niuna canzone dei natali Abruzzi
Le patetiche bande. Taciturni
Falcian le mèssi di signori ignoti;
E quando la sudata opra è compita
Riedono taciturni; e sol talora
La passïone dei ritorni addoppia
Col domestico suon la cornamusa....
Vi consiglio anche di leggere nelle Prime storie la descrizione del Diluvio universale, nella quale l'Aleardi ha saputo unire alla evidenza del quadro alcuni tocchi di fantasia che ne accrescono il mistico terrore.
* * *
I difetti della poesia di Aleardo Aleardi io non mi propongo qui di numerare e di analizzare partitamente. Vi dirò solo che dalla lettura dei suoi versi io ho ritratto il convincimento che in lui non fosse profonda la coltura letteraria e sufficiente la preparazione per dare sempre alla forma poetica quella sicura e precisa finitezza che le procaccia il duraturo suffragio degli uomini di buon gusto. Egli è spesso morbido, vago, indeterminato: il suo tocco, troppe volte non è sicuro e non coglie nel segno voluto; e allora cerca una simulazione di precisione in qualche immagine che non è sempre di buon gusto. Circa la novità, vuol differenziarsi dagli altri, e principalmente da Giovanni Prati, di cui sente la rivalità perigliosa; ma la novità cercata è tante volte a spese del buon gusto. Le sue immagini sono talvolta troppo cercate e sconfinano nel barocco; come quando vi dice che una campana suona per la valle «limosinando carità di preci,» proprio come un frate o un mendicante qualunque! Oppure quando, compiacendosi, al solito, della sua botanica, vi dice che sul ciglio di un burrone, dei ranuncoli, delle passiflore e non so quali altri fiori, stanno brontolando fra loro parole di congiura contro la vita degli uomini!... Soprattutto io credo che la poesia di Aleardo Aleardi fosse malata di un femminismo estetico. Io non so trovare altro nome; ma un fatto, pur troppo, vi corrisponde. Vi sono troppe Marie in quei suoi componimenti! È venuto l'Epistolario, che ha messo in evidenza anche troppo, la soverchia, la stemperata amatività di lui. Io credo che se l'amore della donna è un prezioso coefficente per la poesia, e per l'arte, quando le donne sono troppe nella vita di un poeta, lo guastano.
La morbidezza dell'Aleardi voi la riscontrate subito nel suo modo di epitetare. Egli pone, i suoi epiteti, con sì frequente larghezza, che spesso è costretto a sostantivarne uno, perchè faccia da puntello agli altri; e ne esce qualche cosa di forzato e di equivoco. Per esempio, egli chiamerà un Re in esilio «limosinante indomito e sdegnoso,» oppure dirà i principi italiani spodestati «pallidi coronati impenitenti.» Quale tra questi epiteti fa da sostantivo? Quando apostrofa le sue donne si serve ancora degli epiteti raddoppiati «povera grande, povera bella, bella superba!» e via discorrendo. Vi parranno minutaglie, o Signore, ma sono questi abiti artifiziosi che indicano, come certe piccole macchie sulla pelle, la tabe che invade tutto quanto nelle sue intime parti lo stile del poeta.
E questo artificio si manifesta massimamente nelle personificazioni. In esse Aleardo Aleardi è, permettetemi la frase, femmineo fino alla puerilità. La patria, l'Italia, la Musa; quale, tra i poeti, non ha invocato la Musa e l'Italia? E la invoca pure Aleardo Aleardi, anche troppo di frequente; ma queste grandi astrazioni, queste luminose entità che devono sovrastare alla mente, allo spirito del vate, e da cui egli deve attingere come dall'alto la luce, nello spirito aleardiano sovente si abbassano, si abbassano, e par che vadano a sedersi vicino a lui, accanto al suo letto, accanto al suo tavolino di studio. L'Italia non è più la grande e cara madre; è la sorella, è, direste quasi, un'amante: «Sorella mia, vieni, pigliati in mano il sapiente legno del Nazareno, mettiti in ginocchio sulla strada, e domandiamo la carità a quelli che passano!» Similmente, la Musa per l'Aleardi non è la Dea a cui da Omero in poi si sono rivolti tutti i poeti! Egli la tratta alle volte come una segretaria, alle volte, non vorrei offenderla, mi ha l'aria di una sua cameriera!... Il più delle volte la chiama «sorella» ed ha per lei delle apostrofi varie; ora complimenti, ora carezze e baci, ora corrucci e poi rappaciamenti. Antropomorfismo morbido, disdicevole, e antipatico. Una volta il poeta si lamenta di essere abbandonato da tutti i suoi vecchi amici, e si rivolge alla Musa, e le dice: «Anche tu mi hai abbandonato, mi tradisci. Ah non a questo educato io ti avea!» Come vedete, qui le parti si invertono; non è la Musa che inspira, come da Omero in poi; è il poeta che inspira la Musa. Invertimento lezioso, che potè forse piacere come una novità, ma che adesso viene a noia.
Però, quando abbiamo detto tutto questo, o Signore, noi non possiamo chiudere gli occhi ai veri meriti del poeta. Commetteremmo una grande ingiustizia. Io, che così vi ho parlato, mi compiaccio di avere assistito commosso alla inaugurazione del monumento che i veronesi per gratitudine inalzarono ad Aleardo Aleardi. Egli ebbe una forte e schietta anima di poeta, e fece della poesia un uso generoso. Troppo femminismo in lui, lo abbiamo già detto, ma a lui anche non si può negare il merito insigne di aver forse più d'ogni altro poeta unito l'amore della cara donna e l'amore della cara patria. Egli si studiò con nobilissimo intendimento di fondere insieme questi due sentimenti, e quando narra nel «Triste dramma» la storia del povero condannato dall'Austria che, appena giunto alla carcere, segna nelle pareti il profilo della donna amata, e in quel profilo si compiace di vedere la immagine della donna amata e la immagine d'Italia «che Dio fece insieme così belle e colpevoli,» noi, anche attraverso il suo cicisbeismo fantastico, non possiamo fare a meno di cogliere e sentire una idea generosa. Il poeta veronese immaginò la donna come mediatrice tra l'uomo e il Creatore, e ministra amabile e forte della volontà umana nell'adempimento dei più grandi ideali. E quando nel «Canto politico», uno dei suoi più infelici canti, di una lunghezza interminabile, fa salire lo spirito di una donna fino al trono di Dio a invocare pietà per la patria italiana in nome di tutto ciò che vi ha di bello, di nobile, di gentile nella umana natura, noi non possiamo difendere l'animo nostro da un senso di compiacenza e di ammirazione. Leggendo le liriche dell'Aleardi, anche le meno fortunate e le meno riuscite, il nostro pensiero corre spontaneo a quelle nobili gentildonne veneziane e lombarde, che tanto contribuirono a mantenere in Italia viva la fiaccola del patriottismo, e che ai campioni della libertà, e dell'unità della patria non furono larghe solamente di sorrisi, ma di santi consigli; non seppero solamente amarli ma confortarli pietose e inspirarli magnanimi, facendosi ad essi compagne nei duri cimenti e nelle pene!
Sarebbe anche ingiustizia dimenticare che l'Aleardi si elevò ad altissime concezioni di patriottismo allargandole oltre i confini della sua patria, come quando in nobilissimi versi celebrò e compianse l'eroismo della Nazione polacca, ricordando le sue benemerenze verso «questa Europa ingenerosa» che la abbandonava alla tirannia moscovita.
* * *
E ora voi mi domanderete: si riducono solo all'Aleardi e al Prati i poeti insigni del periodo che voi avete l'assunto di illustrare? Essi sono certo i due più insigni. Ho accennato ad altri, e volentieri mi metterei a mostrare i loro meriti, se mi fosse consentito dal limite dato al mio discorso. Vi basti, o Signore, che io abbia accennato qua e là ad alcuni di essi. Non voglio però tacervi che quando il decennio dal '49 al '59 stava per chiudersi, studiava a Pisa un giovinetto maremmano, che aveva in sè e valorosamente ne' suoi propositi una grande poesia, umana e civile per la sua patria.
Ho nominato Giosuè Carducci. Egli dissentiva dagli altri; egli studiava profondamente e diversamente da quello che usavasi allora in Italia dai più; non si contentava della pura forma, ma con la mente tenace e penetrante andava giù nella grande sostanza filologica e linguistica della nazione italiana, e accennava a voler risalire alle pure fonti della tradizione indigete e cavare da essa tutte le forme più precise e più plastiche di una nuova poesia. Un giorno egli comparve davanti a degli amici e lesse dei suoi versi, e anche nella scelta degli argomenti egli si diversificava dagli altri, non erano donne innamorate o lamentazioni sentimentali, o salici piangenti, o raggi di luna. Come un antico, come un pagano, di un fiero paganesimo però che non si tuffava nell'epicureismo e non divorziava da nessuna nobiltà di ideali umani, egli nel «Libero convito» cantava:
Beviam, se non ci arridono
Le liete muse indarno,
Or che lent'ombra nordica
Cuopre i laureti d'Arno.
A noi, progenie italica,
A noi, sangue del Lazio.
Bacco scintilla e Venere
E l'armonia d'Orazio....
Con questa superba e schietta intonazione il giovane poeta esordiva; e, ripeto, dal suo paganesimo nessuna alta idealità umana e sociale era bandita; e nel fervore del brindisi accennava alle grandi virtù civili che l'antichità classica ci raccomandava co' suoi esempi:
Anch'ei Catone intrepido
La tazza al servo chiese
E ripensando a Cesare
Il roman ferro chiese:
E in quel che Bruto vigila
Su le platonie carte,
Cassio tra' lieti cecubi
Gli Idi aspettò di Marte.
Così, o Signore, Giosuè Carducci preparava a sè stesso un grande avvenire di poeta fino da allora; e accennava che per la poesia italiana ci sarebbero state ancora delle giornate di gloria. Lo chiamavano strano, contorto, oscuro; ma gli uomini di più fine intelletto e di gusto più squisito sentivano in lui il maestro di una forma più eletta nella quale si sarebbero potuti nobilmente rispecchiare le più nobili tradizioni dell'arte nostra e tutti i grandi ideali della vita. Terenzio Mamiani, letta la sua canzone a Vittorio Emanuele II, non solo offriva a Giosuè Carducci la cattedra di italiano nell'Università di Bologna, ma vaticinava in lui il poeta giovane della patria risorta. E voi e noi tutti abbiamo la prova che il vaticinio dell'illustre pesarese non è andato smentito dai fatti, e che la poesia, dopo il Cinquantanove ha continuato a dare alla vita italiana delle ispirazioni e delle consolazioni.
F. D. GUERRAZZI
CONFERENZA DI GIOVANNI MARRADI.
Signore e Signori,
Nell'anno 1827 uscivano in luce, a poca distanza fra loro, I promessi sposi di Alessandro Manzoni e La battaglia di Benevento di Francesco Domenico Guerrazzi.
Il Manzoni aveva 42 anni, il Guerrazzi 22. I promessi sposi erano stati preceduti da una aspettazione grandissima, che nocque al loro immediato successo e che, sulle prime, li fece quasi parere una delusione agli ammiratori del grande poeta. La battaglia di Benevento, invece, non era stata precorsa da altro rumore che da quello dei formidabili fischi, onde già i Livornesi avevano accolta la rappresentazione d'un dramma del loro giovine concittadino; ma il romanzo trionfò e sbigottì con quella sua forza selvaggia e feroce, la quale, più che rivincita d'autore fischiato, sembrò vendetta di lioncello inasprito.
E il romanzo guerrazziano, di cui si moltiplicarono subito le edizioni, fu contrapposto al romanzo manzoniano, come capolavoro si contrappone a capolavoro. E il Manzoni e il Guerrazzi furon considerati da molti come capi di due scuole e tendenze diversissime e opposte, ma ugualmente geniali e benefiche all'arte e alla patria: sopra tutto alla patria, che era allora, occulta o palese, la fiamma animatrice e la ragione suprema dell'arte.
Oggi I promessi sposi tengon di pieno diritto il primissimo posto nella letteratura italiana di tutto il gran secolo che tramonta, e La battaglia di Benevento non si legge ormai più, come non si legge più forse alcun libro di questo
..... re della terribil prosa
Ruggita in faccia ai prepotenti e ai vili.
A poterci rendere qualche ragione di un così rapido cambiamento avvenuto nei gusti del pubblico, riguardiamo un po' più da vicino quest'uomo e questo scrittore che ebbe fama di grande, e riguardiamolo specialmente nella sua opera letteraria, che esercitò su i contemporanei tanta potenza.
Della vita politica del Guerrazzi non è forse venuto ancora il momento di poter giudicare con illuminata imparzialità, senz'amore e senz'odio; e se pure ne fosse il momento,
Me degno a ciò nè io nè altri il crede;
ond'io lascio ad altri, più competenti di me, il trattar di proposito questa parte dell'argomento, e vengo, senz'altro, al poeta.
I.
Ingegno fortissimo e anima fiera, fantasia ignara di freni e volontà sdegnosa di ostacoli: ecco le qualità che sortì da natura il Guerrazzi. L'educazione rigida avuta in famiglia e l'istruzione pedantesca ingozzata in iscuola, le molteplici e multiformi letture fatte da lui giovanissimo e i casi della sua vita agitata fin dai prim'anni, finirono poi di foggiarlo quale egli ci appare, co' suoi pregi e co' suoi difetti, in tutta l'opera sua di scrittore e di cittadino. E i pregi furono in lui certamente più grandi dei grandi difetti, i quali il più delle volte non erano che una esagerazione delle sue stesse virtù. Così l'orgoglio fierissimo, che parve quasi la Musa inspiratrice d'ogni suo atto e d'ogni suo scritto, fu in lui consapevolezza eccessiva, ma spesso legittima e provocata, del proprio valore; e quella sua stessa ambizione, che parve a molti così smoderata, non fu che un eccesso di quel nobile amore di gloria che lo infiammava, di quel foscoliano furore di inclite geste che il padre suo ed il suo Plutarco gli avevano acceso nel cuore sin da fanciullo.
Natura eroica, come bene fu detta, era davvero codesta dell'aspro fanciullo, fatto sempre più aspro dai rimproveri e dalle percosse che, invece di carezze e di baci, gli dava sua madre. E in quell'eroica natura, in quell'ardente fantasia solitaria, in quell'anima tutta chiusa in sè stessa nè mai confortata d'alcuna dolcezza domestica, è facile immaginar quali semi dovesse gittare ogni giorno quel padre severo, quel padre taciturno, che parlava soltanto per citare a' figliuoli esempî di Plutarco e sentenze di Dante; è facile giudicar quali germi dovesse andare svolgendo in quell'indole un padre che gli brontolava all'orecchio, parlando di Tacito: «Costui scrisse storia col pugnale; valeva meglio piantarlo nel cuor dei tiranni!»
Questo l'ambiente familiare nel quale cresceva il fanciullo Guerrazzi, e in cui si veniva temprando il carattere che doveva poi stampar tutto l'uomo sì fortemente, da renderlo segno d'inestinguibile amore e di odio non anche domato.
Gl'istinti eroici della sua focosa natura, che lo traevano a tutto ciò che è solenne ed antico, e l'antiquata accademica disciplina a cui fu sottoposto da' suoi maestri di lettere, ci spiegano in parte il suo stile, cioè il carattere dello scrittore.
Il primo di tali maestri, e quello di cui egli serbò più grata memoria, fu il Padre Spotorno, barnabita, rappresentatoci dal Guerrazzi come un Robespierre letterario del 500, che ad ogni ombra di modernità arricciava il pelo come istrice, e che gl'insegnava la lingua «come s'ingrassano i luci: uno imbuto in gola, e poi giù una ramaiolata di Bembo, di Casa, di Baldassar Castiglione, e via discorrendo». E di siffatti metodi d'insegnamento restarono sempre le tracce evidenti nella forma letteraria che piacque al Guerrazzi e che ebbe sì lungo codazzo di imitatori: forma che ha la copiosa ricchezza di lingua e il periodo latineggiante dei cinquecentisti, e qualche volta, come nella Serpicina, l'arcaica semplicità dei trecentisti migliori, ma che di latineggiante e di arcaico sa sempre troppo: forma che si compiace di uno stile magnifico, in cui l'ideale eroico del poeta si drappeggia come in un paludamento o in una clamide; forma artificiosa di un artificio che in lui diventò una seconda natura, sì che perciò, italianissima sempre, potè essere spesso eloquente davvero e mirabile d'impeto e di vigore; ma che, insomma, artificiosa fu molto, ed a noi apparisce oramai come una specie di anacronismo.
Chè se si obiettasse come gli stessi metodi pedanteschi e accademici, comuni allora dal più al meno a tutte le scuole italiane, non abbian prodotto in altri scrittori moderni, anche anteriori al Guerrazzi, gli effetti e i difetti che produssero in lui, sarebbe ovvio rispondere che le medesime cause operano diversamente su anime e ingegni diversi. E il Guerrazzi, con quella sua anima antica e con quell'ingegno grandissimo ma squilibrato, non che assimilarsi quel primo nutrimento di classiche forme, ne ebbe per tutta la vita una specie di pletora, e byroneggiò cruscheggiando.
Ed ecco un altro lineamento caratteristico e definitivo della sua fisonomia di scrittore, la quale, se posso sciupare un verso di Dante,
Da Byron prese l'ultimo sigillo.
e ne rimase improntata per sempre.
Una mente ardita com'era quella, non poteva, per quanto classicheggiante, restare insensibile e chiusa alle novità dei romantici, che tanto contributo di forme più immaginose e di più libere idee andavan portando nella moderna letteratura europea. Non per nulla il discepolo dei Barnabiti aveva letto, anzi divorato, Ossian insieme ad Omero, la Radcliffe insieme all'Ariosto, e ne aveva avuta una specie di febbre al cervello. Calmato il fermento di quella febbre, il futuro autore della Battaglia di Benevento dovette sentire con senso più chiaro quel vivido soffio rinnovatore che il Goethe e lo Schiller, lo Shelley ed il Byron, lo Chateaubriand e la Staël avevano spirato anche di qua dalle Alpi, e che di qua dalle Alpi andava ingrossando in un vento di rivoluzione. E il Guerrazzi conobbe le letterature straniere, e ne derivò nuovi elementi di humour alla sua natural vena sarcastica, che doveva essere una delle sue forze maggiori così nella vita come nell'arte, e che fece di lui il più tagliente motteggiatore d'Italia. Ma quella che investì il giovinetto con soffio più largo e possente, e non tutto benefico, fu, senza dubbio, la poesia di Lord Byron.
A Pisa, dove il Livornese era andato a studiare Giurisprudenza, vide il poeta famoso, ne lesse i poemi, e ne ebbe come la vertigine dell'abisso. Egli stesso più tardi, con calde e iperboliche immagini, ci narrò nelle sue Memorie lo sbigottimento che gli cagionò la rivelazione di quella poesia e di «quell'anima immensa», e confessò, se ce ne fosse stato bisogno, che per molti anni non vide più e non sentì più che a traverso a quella poesia e a quell'anima. — Frutto immediato di tanta impressione furono certe sue ottave A Giorgio Byron, pubblicate una sola volta a Livorno, e dimenticate poi dall'autore. Ma l'influenza byroniana rimase pur troppo in quasi tutta l'opera sua narrativa, e La battaglia di Benevento non fu, si può dire, che lo scoppio improvviso di quel byronismo satanico, che ormai gli era entrato nel sangue come un veleno. E il Guerrazzi, che già vi era disposto naturalmente, assorbì quel veleno in maniera da averne colorati i fantasmi, i caratteri, le passioni sue e de' suoi personaggi in quel primo romanzo, alterata l'originale spontaneità dell'ingegno privilegiato, e falsata in gran parte la forma di quella sua prosa poetica, di quel suo lirismo convulso, di cui con ragione fu detto, che ha del byroniano e del biblico.
E biblica è anche davvero, specialmente nei romanzi maggiori e più celebrati, l'intonazione dello stile guerrazziano lussureggiante di immagini, perchè spesso il poeta (ed ecco la vera sua gloria!) tutto inteso a risuscitare la vita sopra una terra di morti, si erige profeta di libertà; e allora egli sembra Mosè precinto di tuoni e di lampi sul Sinai, allora egli sembra Ezechiello che gridi: Sorgete, ossa aride, su dal sepolcro! Perchè noi, o Signori, abbiamo troppo dimenticato che l'arte non fu pel Guerrazzi un'estetica dilettazione da offrire agl'ignavi d'Italia, ma squillo di guerra contro chi dava all'Italia catene e patiboli. Sbagliò, e ho già detto che sbagliò molto, nei mezzi formali che credè meglio acconci a raggiunger quel fine; ma il fine fu altissimo sempre, e degno di lode immortale. E nel fine politico ch'ei si propose, e che non si stancò mai di ricordare in ogni suo libro, di confermare in tante sue lettere, è un'altra grande ragione de' suoi difetti ed eccessi di artista, moltissimi dei quali furono appunto gli eccessi e i difetti d'un uomo, che scriveva dei libri perchè non poteva combattere delle battaglie.
II.
Scrisse il Guerrazzi a Niccolò Puccini che natura gli aveva posto in corpo «l'argento vivo dell'uomo d'azione». Il padre spartano, senza forse saper bene in che fuoco soffiava, gli aveva sempre sentenziato esser meglio «vivere un giorno come un leone, che cento anni come una pecora». E il giovine Francesco Domenico, che era nato leone davvero, con tutte le rudi energie del popolo livornese da cui traeva l'origine, si vide tracciata per tempo la via che doveva percorrere. E in quella via si cacciò subito fin da ragazzo, fuggendo da casa per un diverbio avuto col padre, facendo il traduttore e il revisore di stampe per vivere, e assoggettandosi a ogni sorta di privazioni, piuttosto che cedere per il primo. Così il lioncello si agguerriva alla lotta con una forza di volontà che fu spesso ostinazione superba, con una tenace perseveranza che doveva esercitarsi ben presto in più nobile campo.
Studente a Pisa, di 15 anni, fu subito preso di mira dalla polizia granducale, che lo segnò nel suo libro nero e lo perseguitò con ammonizioni e perquisizioni e tribolazioni d'ogni maniera. Bandito dall'Università per le sue idee troppo liberali, ci potè tornar dopo un anno, ma sempre osteggiato dai professori e sorvegliato dai birri. Queste persecuzioni gli inacerbivano sempre più il carattere e gli accrescevano quel disgusto degli uomini al quale inclinava, e che il Werther e l' Ortis, il Manfredo e il Caino avevan diffuso come un contagio spirituale su l'anime giovani. Ciò non ostante, a dispetto di tutto, si potè laureare in utroque, e tornare alla sua Livorno a esercitarvi l'avvocatura, Dio sa con quanto suo gusto! Con quell'ingegno e con quell'anima, sentiva che la toga dell'avvocato gli si adattava «come la catena alla gamba del galeotto»; e le sue bellissime lettere son piene di questo lamento:
«La mia anima si è versata come un'onda d'inchiostro (scriveva nel '47), e poteva prorompere come un raggio di sole! Io sarò stato in questa vita dottore e mercante per bisogno, scrittore per rabbia!»
«Vedete che supplizio! (geme in un'altra lettera). Io mi curvo sotto la cappa curiale più penosamente che il collegio degl'ipocriti sotto le cappe di Dante. Ma la vita erami data come un morso da rodere. Io morirò avvocato, io nato forse poeta».
E quel morso lo dovè rodere a lungo; e, fra l'esercizio professionale e le vicende politiche ond'egli fu parte, si può dire che, fin dopo il '60, i più lunghi ozi che egli potè consacrare all'arte geniale furono forse gli anni (e disgraziatamente non furono pochi) da lui passati in esilio o in prigione. Ora, se si pensa che quest'uomo d'azione e quest'uomo d'affari potè scrivere tanti libri di immaginazione e di riflessione quanti ne scrisse, e che quei libri furon capaci di produrre quei potentissimi effetti che produssero sopra gli uomini per i quali furono scritti; è ben forza riconoscere che quell'uomo non usurpò il nome di grande che i suoi contemporanei gli diedero, e che sarebbe ingiustizia e insipienza voler giudicare soltanto coi freddi criteri dell'arte quei libri vulcanici.
Intanto, se il Guerrazzi si sentiva addosso l'argento vivo, la polizia toscana non se ne stava con le mani alla cintola; e dopo avergli dato il precetto della sera come si dà ai malfattori, dopo avergli soppresso nel '29 L'Indicatore livornese che egli aveva fondato da pochi mesi insieme con Giuseppe Mazzini e con Carlo Bini, dopo averlo confinato a Montepulciano pei liberi sensi da lui espressi nell' Elogio di Cosimo Del Fante, dopo averlo imprigionato pei fatti del '31 senza accusa determinata e poi rilasciato senza processo; nel 1834 lo arresta di nuovo come cospiratore e lo chiude nel forte di Stella a Portoferraio. Ivi nacque L'assedio di Firenze, col quale l'autore, inspirandosi ancora alla storia italiana, creava, anche più arditamente che con La battaglia di Benevento, una nuova forma di romanzo storico.
Nulla infatti hanno di comune i romanzi del Nostro con quelli di Walter Scott o del Cooper, dai quali diversificano formalmente e sostanzialmente, e coi quali non potrebbero venire paragonati che per la ragion dei contrari. E poi disse bene il Chiarini, che chi proprio voglia trovare ai romanzi del Guerrazzi una derivazione o una parentela, non la deve cercare fra i romanzieri che lo precederono, ma fra i poeti; deve cercarla nei poemi e nei drammi dello Schiller e del Niccolini, oltre che in quelli del lord inglese. E di poeta fu sempre nel Livornese non solamente la forma della sua prosa, ma ancora e più il modo tutto suo soggettivo e passionatissimo di sentir la natura, di intender la storia, di concepire la vita, e di riprodurle nell'opera d'arte. Così avesse avuta il Guerrazzi almeno una piccola parte di quella oggettiva serenità, di quella equabilità quasi olimpica che permise allo Scott e al Manzoni di guardare la storia e la vita con occhio limpido e acuto, e di eternarle nell'arte con mano ferma e sicura! Egli invece vide tutte le cose con occhio di febbricitante, quando non le vide con occhio di bove che gliene esagerava le proporzioni; vide il mondo soltanto a traverso l'anima sua sempre buia, e stampò di sè, sempre di sè, soltanto di sè, la storia e la vita. Nè gli venne fatto così, credo io, per imitare anche in questo il suo Byron, ma proprio perchè era nato così, e perchè, volendo che i suoi romanzi fossero piuttosto azioni che libri, credeva di poter conseguir meglio il suo scopo immediato col dare a tutte le età da lui evocate, a tutti i personaggi da lui creati, i suoi spiriti feroci e le sue passioni fortissime: simile in ciò, più di qualunque altro scrittore italiano, a Vittorio Alfieri, del quale aveva ereditata tutta la maschia energia dell'ingegno e dell'animo.
Oltre che in questi caratteri soggettivi, la singolarità del romanzo guerrazziano consiste anche nel modo e nella misura con cui vi si mesce la storia alla favola, il verosimile al vero. Ciò è già evidente nella Battaglia di Benevento, dove la storia costituisce la parte essenziale del quadro, e storiche ne sono quasi tutte le figure principalissime, se si eccettua il protagonista Rogiero. Ora è certo che questo non fu il sistema seguito nei suoi molti romanzi dal grande Scozzese, nè dal grandissimo Lombardo nell'unico suo, perchè ivi la storia non fa che da sfondo o da scena, e ideali ne sono gli attori principali e i principali casi del dramma che vi si svolge. È ben vero però, che il sistema onde fu composta La battaglia di Benevento era ancora un po' incerto ed ambiguo, come quello che non permette al lettore di scernere chiaramente il vero dal verosimile; e perciò porgeva il fianco più agevolmente alle accuse non sempre giuste che furono mosse al romanzo storico, condannato in teoria dallo stesso Manzoni che, nella pratica, aveva creato il capolavoro del genere.
Il Guerrazzi sentì certo gl'inconvenienti che derivavano da quella specie di mezza misura che aveva prima adottata, e nel secondo romanzo fece addirittura del fatto storico il vero e solo soggetto del quadro suo grandioso, senza aggiungervi del proprio che poche figure accessorie e qualche episodio.
Ma queste novità non ci spiegherebbero punto l'impressione straordinaria che l'Arte del Guerrazzi produsse su gl'Italiani fino dalla comparsa del suo primo romanzo, se l'Autore, poco più che ventenne, non vi avesse rivelata subito e davvero una forza d'ingegno meravigliosa. I più severi, pur deplorandone i deplorevoli eccessi, dovettero ammirar quella forza, e G. B. Niccolini ringraziò Dio che voleva consolare di tanto intelletto la povera Italia. E ancora, con tutti i suoi difetti enormissimi, La battaglia di Benevento rimane uno dei migliori scritti narrativi del Nostro per gagliardia di composizione e pel rilievo di alcuni caratteri. E se i suoi pregi non bastassero a darci ragione del fàscino che esercitò su i contemporanei, ce la darebbero i suoi difetti, che, impressi di quella singolar tempera guerrazziana, parvero pregi e virtù. Pregi e virtù sopra tutto (come per un momento suole accadere d'ogni apparenza di novità e di ogni ingegnosa stranezza) sembrarono le intemperanze di quella prosa poetica, le enfasi di quelle liriche divagazioni, che rispondevano così bene ai gusti romantici dei primi decenni del secolo, cullandoli in una colorita larghezza di ritmi che nessun'onda di poesia aveva mai superati. Il nostro pubblico imparò a memoria quei larghi periodi come un tempo le ottave del Tasso, e F. D. Guerrazzi fu salutato il poeta della prosa italiana.
III.
«Popolo italiano, già signore, oggi locandiere di tutte le genti del mondo!» fremeva nella Battaglia di Benevento il Guerrazzi. E in questo fremito, fiero di shakspeariano disprezzo, è il primo segreto della tetraggine irosa dello scrittore, la causa prima della disperazione che irrompe come una fiamma sinistra da tutto il romanzo.
Passato quel periodo acuto di parossismo byroniano, la coscienza del cittadino si era andata formando più chiaramente nello scrittore, e lo scrittore allora volle drizzar quella fiamma a scaldare ed accendere il cuor della patria. Per eccitar la sensibilità dell'Italia caduta in letargo, egli la feriva, «e nelle ferite infondeva zolfo e pece infuocati». Sono sue parole anche queste, e queste parole ci dicon gl'intenti coi quali fu concepito il suo capolavoro.
Disgraziatamente, il periodo di tempo nel quale egli scrisse L'assedio di Firenze fu uno dei più dolorosi di tutta la sua vita. Nel giro di pochi mesi gli perirono le persone più care: gli morì, fulminata nel cuore, l'unica donna che amò, e quando lo seppe, ne incanutì in una notte; gli mancò il padre suo, che, rigido ma affettuoso e consapevole dell'ingegno del figliuolo, lo aveva educato a sensi magnanimi; perdè in Carlo Bini l'amico più buono e geniale della sua giovinezza, e in Tommaso Bargellini il suo più tenero compagno d'infanzia; e finalmente perdè, quasi assassinato, il fratello Giovanni, che gli lasciò su le braccia, per solo retaggio, due orfani.
Con tanto cumulo di dolori caduti l'uno di seguito all'altro su l'anima sua esulcerata dalla nuova prigionia, non deve dunque far meraviglia se pur nel suo capolavoro abbondino le tinte fosche anche più di quel che il soggetto tragico le richiedesse, nè deve parer troppo strano che un libro siffatto cominci con un lamento.
Anche il lamento, per altro, non è, e non poteva essere in un tal uomo, querimonia e rassegnazione, ma sfida e minaccia. E il Guerrazzi che, custodito nella sua segreta, impreca ai tiranni della terra, somiglia un po' (e non senza un tantino di posa ) a Prometeo, che, inchiodato alla rupe, impreca al tiranno del cielo. Più nobile e più eloquente, in ogni modo, quando, poche pagine dopo, restando dal maledir gli oppressori, si volge a eccitare gli oppressi: «Finchè, sollevandosi al cielo, le vostre braccia sentiranno il peso dei ferri nemici, non supplicate; Iddio sta coi forti! La vostra misura di abiezione è già colma; scendere più oltre non potete; la vita consiste nel moto; dunque sorgerete! Ma intanto abbiate l'ira nel cuore, la minaccia sui labbri, nella destra la morte. Tutti i vostri Iddii sprezzate; non adorate altro Dio che Sabaoth, lo spirito delle battaglie. Voi sorgerete.»
E seguita ancora, sempre più terribile e sempre profetico, perchè qui veramente nel Titano risorge il Profeta, e la sua prosa assurge a una vera altezza lirica e biblica, che non è più byronismo, che non è più maniera, che non è più rettorica.... E se oggi par tale, benedetta quella rettorica! Il suo fremito, allora, faceva fremere tutti, tutti scoteva quell'impeto e inebriava quell'odio; e le pagine del poema, copiate con lunghe fatiche e passate di mano in mano furtivamente, correvano intanto, rapide come un incendio, l'intera penisola.
L'autore dell' Assedio di Firenze non è un romanziere o uno storico, non è neppure soltanto un poeta o un profeta, ma un combattitore e un vendicatore: vendicatore di tre secoli di servitù, di tre secoli d'ignominia, quanti ne erano corsi dalla caduta della repubblica fiorentina, sopraffatta dall'armi e dai tradimenti di Carlo V e di Clemente VII; che è quanto dire dalla caduta dell'ultima libertà italiana affogata nel sangue, dall'ultimo moto del cuore d'Italia, che per trecento anni doveva cessare di battere.
E il Guerrazzi fu pari, per ingegno e per animo, all'alto argomento, in mezzo al quale ci trasporta con passione di attore e di contemporaneo, più che con calma di storico. E noi vediamo tutto un popolo eroico muoversi e agitarsi nelle sue pagine, dove (lo notò primo il Mazzini) Firenze sola è protagonista. Vi sono figure principali, anzi colossali, che staccano in piena luce di gloria nella composizione del grandissimo affresco: Francesco Ferrucci, Michelangelo Buonarroti, Dante da Castiglione, il gonfaloniere Carduccio, e quel macro profilo di Fra Benedetto da Foiano, dalle cui labbra inspirate sembra prorompere sotto le arcate di Santa Maria del Fiore lo spirito del Savonarola vegliante su la tradita repubblica; ma unico e vero protagonista del libro è la patria, e ne è anima l'anima sempre presente dello scrittore.
Peccato che egli abbia voluto turbare quell'ideale unità con episodii domestici, che male interrompono e ritardano lo svolgimento dell'azione storica, e che al confronto di quella grande azione rimpiccoliscono troppo! Ma egli, per il suo fine politico, volle forse indulgere ai gusti del tempo e del pubblico, e per esser letto da tutti, intrecciò alla storia le fila di quel tetro romanzo d'amore che commosse tanti animi, e che oggi mi sembra una specie di melodramma vittorughiano interpolato in una epopea.
E un'epopea veramente fu questo libro; epopea cui non manca che il verso, non l'onda del numero. E l'onda poetica della prosa guerrazziana, prescindendo dalle intemperanze che le son consuete, è qui al suo posto assai più che in altri romanzi del Nostro. Egli stesso chiamò poema questo suo libro, e con tutta ragione: epica ne è la materia, epici ne sono gli eroi, epici furon gli effetti che esso produsse, affrettando le giornate del nostro riscatto.
Ma a noi che importa del nome col quale si debba chiamare un libro che operò quei miracoli? Se c'è una cosa che importi, è questa soltanto: che il libro, il quale operò quei miracoli sopra un'intera generazione, la generazione presente più non lo legge, perchè l'esecuzione non corrisponde in esso alla ispirazione caldissima. Anche l'autore, più tardi, dichiarò essergli sembrata necessaria ma detestabile l'arte onde fu concepito L'assedio di Firenze. Ma, ad onta di tutto, vi sono bellezze di primissimo ordine in questo romanzo o poema che voglia chiamarsi; e poema o romanzo che sia, non dobbiamo dimenticare che i nostri padroni di allora, i nostri padroni di Vienna, lo condannarono e lo temerono come una battaglia vinta contro di loro; che per l'Austria fu una minaccia e una sfida ad oltranza, come per noi fu conforto e argomento a risorgere e a insorgere contro di lei. Minaccia e conforto, protesta ed augurio, rivendicazione e glorificazione: ecco, o signori, ciò che fu questo libro.
IV.
La fama del Guerrazzi, già grande, divenne grandissima e popolare dopo la comparsa dell' Assedio di Firenze, che fu dovuto stampare a Parigi con lo pseudonimo di Anselmo Gualandi. E quella fama consolidarono o accrebbero le varie opere pubblicate da lui successivamente nel giro di pochi anni: Veronica Cybo, una di quelle storie di sangue che piacquero troppo all'autore, ma forte e rapida, senza divagazioni e senza lirismi; Isabella Orsini, altra domestica tragedia quasi gemella alla precedente, ma più lenta e più faticosa di quella; poi le Orazioni funebri di illustri italiani, sempre nobili di pensiero e calde di sentimento civile; e poi I nuovi tartufi, modello di narrazione acremente umoristica, e battaglia politica contro i seguaci di idee moderate. Ma della sua potenza di grande umorista il Guerrazzi aveva già dato un saggio mirabile fin dal suo esilio di Montepulciano, ove scrisse quel minuscolo capolavoro che è ancora La serpicina. In questa breve novella è svolto un concetto estremamente pessimistico dell'umanità, con una forza di humour a cui conferisce grazia quel sapore d'antico che è nello stile, e ne tempera l'amarezza. Quando, per altro, l'autore volle insistere troppo su quello stesso concetto, diluendolo nell'interminabile arringa dell' Asino contro il genere umano, riuscì fastidioso e pesante, e tutto quello sforzo di erudizione e di satira arguta non potè dar ragione all'immane raquisitoria dell'indignato e sapiente quadrupede.
Quanto meglio, qualche anno dopo, rifulse l'estro umoristico del Livornese in quel raggio di sole che è Il buco nel muro, vero raggio di sole in mezzo a tutta la tetra opera sua, e vero inno alla pace serena della famiglia, di cui non pareva capace quell' orco, quel parricida, quel rorator di fanciulli che fu predicato il Guerrazzi!
Nè, fra le molteplici occupazioni letterarie e forensi, cessava l'attività politica del cittadino, come non veniva mai meno nello scrittore il pensiero della patria, inspiratore diretto o indiretto di ogni suo libro. Così nel '47, pubblicando l'elogio di Amelia Calami, traeva anche da esso occasione a ribattere il suo Delenda Carthago, e terminava lo scritto con queste fiere parole: «Chè se alcuno osserverà, nè pietoso nè savio essere stato il consiglio di mescere tanto odio nel discorso funerale di mitissima donna, io gli rispondo che la mia religione mi insegna acuire sopra le tombe, sopra gli altari, sui fonti battesimali, su tutto, la spada che deve alla fine affrancare l'Italia dallo abborrito straniero. Catone il Censore costumava concludere ogni sua orazione col motto: Vuolsi sovvertire Cartagine; sicchè, poco prima che spirasse, l'anima sua esultò delle puniche fiamme. Così gl'Italiani finiscano prece, lettera, orazione, tutto, con le parole: Fuori stranieri! E gli stranieri, sotto lo indomabile odio, anderanno dispersi. Allora poi favelleremo d'amore.»
In quello stesso anno 1847, nell'imminenza di quelli avvenimenti politici che egli aveva cooperato a maturare, lanciò per le stampe il Discorso al Principe e al Popolo, col quale chiedeva al Granduca una costituzione. Se non che, di lì a poco, accusato di macchinazione pericolosa contro il Granduca medesimo, venne arrestato di nuovo e di nuovo mandato a Portoferraio. Prosciolto per insufficienza di prove quando già era stata promulgata la costituzione, riuscì deputato al Consiglio toscano, ma non pei suffragi dei Livornesi. E poichè a Livorno erano scoppiati disordini, egli vi andò paciere, sedò quei tumulti, spadroneggiò, e si creò nuovi nemici. Intanto, mentre egli era già al potere come ministro dell'interno col Montanelli, Leopoldo II fuggiva da Firenze l'8 febbraio del '49, e si formava un governo provvisorio col noto triumvirato, che fu in realtà una vera dittatura del solo Guerrazzi.
Deputato e ministro, triumviro e dittatore, la sua vita di quel tempo appartiene alla storia, e la storia la giudicherà. I contemporanei lo fecero segno ad accuse che è carità di patria non raccogliere; lo accusarono, fra altro, di malversazione del pubblico danaro, e fu luminosamente provato che lo amministrò con tanta rettitudine da averci rimesso del suo. Potè commettere errori, non colpe; ma è certo che temperò molti eccessi, frenò molti abusi, e impedì con gran senso pratico la proclamazione della repubblica toscana, resistendo al Mazzini che gliela imponeva. Non eran quelli i momenti da pensare a repubbliche; tanto è vero che il mese appresso ogni concetta speranza cadeva a Novara, e che il Granduca tornò a Firenze, e ci tornò con gli Austriaci. E il Granduca e gli Austriaci seppellirono il Dittatore nel mastio di Volterra, lo sottoposero a iniquo processo, per delitto di lesa maestà, e dopo quattro anni d'iniquo processo lo condannarono all'ergastolo, commutatogli nell'esilio perpetuo.
A questa quarta prigionia e a questo lungo processo dobbiamo uno dei libri più belli del Guerrazzi, l' Apologia della sua vita politica, e il più tristo di tutti i suoi libri: Beatrice Cenci.
«Scritto in carcere e generato perciò fra lacrime e sangue» disse l'autore questo romanzo; e il romanzo, pur troppo, gronda di sangue anche più che di lacrime. Vera orgia di atrocità mostruose, dove par che il poeta abbia davvero voluto versare tutto il fiele dell'anima sua invelenita da tante persecuzioni, la Beatrice Cenci fu letta anche troppo, con la bramosia delle cose malsane, attraendo con la satanica bellezza di molte sue pagine. Oggi non la ricorda più alcuno, ed è mera giustizia. La fama del Guerrazzi non ha bisogno di esser raccomandata al ricordo di un libro così malefico, e l'autore non tardò a farne degnissima ammenda con le storie di argomento côrso, inspirategli dalla forte isola che gli fu terra d'esilio: La torre di Nonza, il Moscone e il Pasquale Paoli.
Questo grande romanzo di libertà, pubblicato nel '60, è degno fratello all' Assedio di Firenze per l'argomento e per l'indole, e lo supera come opera d'arte matura, più schietta, più impersonale, più semplice. Ma i tempi erano mutati, e cessate le più forti ragioni che avevano fatto cercare con tanta avidità i volumi del fiero scrittore; onde il Pasquale Paoli, che è giudicato la più bella prosa narrativa di lui, non suscitò gli entusiasmi che avevano accolto i suoi primi romanzi.
Dalla Corsica lo smanioso esule era fuggito, con pericoli e stenti incredibili, fino dal '57, e si era ridotto a Genova a aspettarvi gli eventi che avrebbero dovuto permettergli di tornare in Toscana. Ma il '59 arrivò, le sorti d'Italia cambiarono con rapido quanto felice rivolgimento, e al poeta dell' Assedio di Firenze non fu ancora concesso il sospirato rimpatrio, che i governanti d'allora temevano pericoloso. Ed egli se ne crucciò tanto più, perchè, amante della patria davvero e non dei partiti, aveva voluta e promossa efficacemente l'annessione della Toscana al Piemonte e l'unità della nazione con la Dinastia di Savoia. Vittorio Emanuele dovette comprendere il giusto risentimento del cittadino benemerito e illustre, e volle vederlo e parlargli. Chiamatolo a Torino, cercò di persuaderlo a restarvi, con qualunque carica avesse potuto desiderare, offrendosi pronto a crearne magari una apposta per lui. Ringraziava commosso il Guerrazzi, ma rispondeva al gran Re non desiderare e non chiedere altro che potersene tornar con onore a casa sua e a' suoi studi, non volendo tornarvi con l' amnistia che il governo provvisorio gli aveva largita.
E a Livorno potè rientrar finalmente nel '62, per la deputazione conferitagli da' suoi concittadini, i quali più tardi, con manifesta ingratitudine, gliela ritolsero. Forse non era piaciuta l'attitudine violenta che egli aveva presa anche in Parlamento contro quella che usava chiamare l'empia setta dei moderati. E il vecchio gladiatore allora si ritirò dall'arena, confinandosi nel suo romitorio di Cecina, stanco di mente, offeso di cuore, scontento di sè e di tutti. Ivi passò i suoi ultimi anni «in compagnia del mare, delle foreste scarmigliate dal vento, e della malaria», invocando pace, e non ottenendola che dalla morte il 23 settembre 1873.
Dodici anni dopo, Livorno gli eresse una statua, che lo rappresenta seduto come chi medita e scrive. No, no! Alto in piedi e diritto doveva sorgere dal suo piedistallo chi nacque alla lotta e lottando invecchiò. Guerrazzi in poltrona, io non me lo so figurare neanche di marmo!
V.
Non ho neppure accennato alle ultime opere guerrazziane, perchè nulla esse aggiunsero alla fama letteraria dello scrittore. L'assedio di Roma, uscito nel '64, è già segno della stanchezza di quel poderoso intelletto. L'animo però vi apparisce sempre fiero, e fiero l'odio contro ogni avanzo di vecchia tirannide. Egli non poteva esser pago finchè tutta quanta l'Italia non fosse stata degl'Italiani; e perciò la voce dell'antico leone, come aveva ruggito nel Parlamento contro la cessione di Nizza alla Francia, così continuava a ruggir nell' Assedio di Roma contro il dominio papale e borbonico: — «Se il Demonio potesse o volesse venire al mondo per istrascinar nel suo inferno Papa e Borbone e d'ogni risma stranieri, ben venga il Demonio: noi lo saluteremo Demonio Iº Re d'Italia; purchè venga armato di ferro e di fuoco». Costanza e coscienza mirabile di scrittore e di cittadino, che aveva proclamato doversi ogni uomo proporre lo scopo più immediatamente utile alla sua patria, e a quello tendere sempre con ogni sua forza. Nè mai in alcun uomo alle belle parole risposero i fatti come in quest'uno.
Discendente legittimo di Dante e di Machiavelli, d'Alfieri e di Foscolo, come scrittore sentì in pieno petto l'ondata del Byron, che gli scemò la schiettezza dell'arte, ma non la tenace italianità degli spiriti. E a riuscir degno davvero dei sommi italiani da cui discendeva, non gli mancò nè l'ingegno nè l'animo, ma solo una più equilibrata armonia tra le sue facoltà: chè in lui la fantasia prepotè troppo sul gusto, la passione sul raziocinio, la carità della patria su l'amore dell'arte. Difetto glorioso quest'ultimo, che il Guerrazzi ebbe comune col Berchet e col Niccolini, per non citare che i due poeti ai quali somiglia di più, e che sono i più degni di essergli paragonati fra quanti nel periodo nel nostro risorgimento intesero a fare opera di patriotti più che d'artisti.
Quella organica sproporzione di forze che era nel suo cervello, e quella soverchia preoccupazione costante di un fine politico estrinseco all'arte, oltre che le vicende d'una vita d'azione così combattuta, impedirono a lui di lasciare un'opera perfetta che abbia vera probabilità di resistere al tempo. Anzi, se si eccettui più d'una delle sue cose minori, che l'Italia dovrà tornare a leggere e ammirare più che oggi non faccia, la sua produzione è quasi già tutta invecchiata, mentre egli avrebbe potuto restare uno dei più grandi prosatori del secolo decimonono. Basterebbe a provarlo l'episodio del buon Romeo dantesco, parafrasato nella Battaglia di Benevento in alcune pagine semplici e commoventi che valgono tutto il romanzo e attestano le straordinarie doti d'artista che erano già in quel giovine di 22 anni. Perchè anche il Guerrazzi, come è accaduto sempre, prima d'Orazio e dopo d'Orazio, riesce tanto più grande scrittore quanto meno se lo propone e quando meno ci pensa. Professus grandia, turget!
Delle sue doti fu sempre conscio e superbo, ma ebbe anche sempre un concetto assai chiaro di ciò che aveva voluto essere e di ciò che poteva valere l'opera sua. Basti, fra tanti accenni, quello che si legge in una sua bellissima lettera al Cantù, pubblicata recentemente, ove è detto che i suoi libri «dureranno, come opera un rimedio, fin che dura la malattia. Quando sorgerà il giorno della vera, della grande libertà, cesseranno, come il lume della lucerna sviene all'apparire del sole».
Uomo e scrittore, ebbe ambizioni e virtù d'altri tempi; onde tutto gli parve così meschino nel tempo in cui visse, che, trovatosi a governare l'intera Toscana, gli sembrò di recitare una tragedia di Alfieri coi burattini, e scrivendo storie o romanzi, ne fece parlare gli eroi come parlavano gli eroi di Plutarco. Ma ambizioni e virtù gli sorresse e scaldò un unico infinito amore all'Italia e un unico odio infinito per tutti i nemici di lei. E a quell'amore e a quell'odio votò la sua vita, «scrivendo, cospirando, soffrendo, operando (ammonisce il Carducci) come da gran tempo non usava in Toscana».
Di tutto questo egli non domandò nè sperò altro premio che quello dovuto dopo la morte a coloro che hanno spesa nobilmente la vita in prò della patria; «un solo premio, diceva, ma grande e divino: quello di sentirsi ricordare dai superstiti con amorosa benevolenza».
E noi, o Signori, andiamo dimenticando quest'uomo, come abbiamo dimenticata oramai quasi tutta una schiera gloriosa di pensatori e di poeti, che, dall'Alfieri al Guerrazzi, si affaticarono a crearci, se non altro, la volontà d'esser liberi; oppure ci ricordiamo di alcuni di loro per frugar nella loro vita e nel loro sepolcro con indiscreta curiosità di eruditi o di anatomisti....
Noi siamo una generazione di piccoli critici e di grandissimi ingrati.
INDICE
L'Opera di Cavour Pag. 5
L'epopea garibaldina 43
La Lirica 117
F. D. Guerrazzi 147