R. H. Budden
Fra le più care e tipiche figure dei pionieri dell’alpinismo italiano, che ormai col volgere degli anni, come natura vuole, vanno scomparendo, una più delle altre pareva voler sfidare impavida le bufere della vita e mantenersi vegeta sulla breccia fra l’ammirazione dei vecchi per l’ardore giovanile con cui combatteva, dei giovani per la tenacia colla quale sosteneva alti i più puri ideali di tutta la sua esistenza.
Ma ad un tratto quella maschia figura che da ben quarant’anni viveva fra noi è scomparsa; quel roseo viso, sorridente sempre, incorniciato fra due candide fedine non è più che un dolce ricordo; quello sguardo aperto, vivace e profondo, che rispecchiava tutta la bontà d’un animo elevato, d’un cuore impareggiabile si è spento; quella tempra gagliarda, infaticabile, violentemente si è infranta, lasciando inciso nei monti con indelebili caratteri il suo nome, che ogni montanaro, ogni alpinista d’Italia venerava, lasciando immenso cordoglio nell’animo d’una lunga e numerosa schiera di poverelli che aveva beneficati.
Riccardo Enrico Budden era nato il 19 maggio 1826 in Stoke Newington (Londra), ove trascorse i primi anni della sua vita, e, rimasto orfano giovanissimo ancora, veniva posto in collegio, dapprima a Bonn e più tardi a Parigi.
Compiuta ch’Egli ebbe la sua educazione, libero di sè, ricco di censo, dopo breve permanenza in Francia, cominciò i suoi viaggi attraverso l’Europa, non ritornando in patria che di tempo in tempo e per non lunghi soggiorni.
Fu a Nizza, italiana allora, che circa quarant’anni or sono si innamorò del bel cielo tirreno, s’appassionò alla patria nostra che più tardi visitava e studiava in ogni sua parte.
A Genova prima, poi a Torino pose sua dimora, quindi in Svizzera e nuovamente in Francia, di dove il ricordo delle città italiane lo richiamava fra noi. Traslocata a Firenze la capitale, Egli pure vi si recava e dalle sponde dell’Arno seguiva a Roma le sorti del nostro paese, ch’ei già allora considerava come sua seconda patria. Non rimase mai gran tempo nella medesima regione, chè la sua inesauribile attività lo spingeva or in questa or in quella, finchè, innamoratosi dell’ospitalità semplice e cordiale che sovente s’incontra in tutte le classi del vecchio Piemonte, ch’Egli chiamò «paese del franco parlare », si stabilì in Torino, ove già più volte aveva abitato.
Nei primi anni ch’Egli era fra noi, come praticavano non pochi suoi connazionali, si recò a visitare le nostre montagne e rimase profondamente colpito dalle innumerevoli bellezze della Valle di Aosta, sì che ad essa più che ad altre valli italiane rivolse tutte le sue cure, dedicò tutte le sue forze, facendosi promotore di quei miglioramenti che valessero ad aumentarne la prosperità ed a renderla più gradita agli stranieri. La percorse in ogni suo angolo e, trovatala deficente di strade e di alberghi, si fece tosto promotore d’una prima sottoscrizione onde raccogliere fondi per abbellire Courmayeur, chiamata, per la sua posizione, a rivaleggiare con altre importanti stazioni alpine d’oltr’alpe.
Fu questa nobile iniziativa che lo portò a conoscere il nostro Club. Egli si era rivolto alle Autorità della valle, offrendo un concorso di lire 500 come primo fondo della sottoscrizione che voleva iniziata a tal fine, e quelle non risposero, parendo forse a loro strana l’idea di quest’inglese entusiasta dei monti. Ma Egli non si sgomentò; insistette, ne parlò con amici e venne consigliato di rivolgersi al Club Alpino di Torino, costituitosi appunto due anni prima.
Fortuna volle s’incontrasse in G. B. Rimini ed in Bartolomeo Gastaldi, i quali, intuito l’uomo, non solo accolsero con entusiasmo la sua proposta, ma lo fecero inscrivere socio del Club.
Da quel giorno può dirsi che dedicò intiera la sua vita pel bene della nostra istituzione, e tanto fece colle opere, col consiglio, coll’esempio e con generose elargizioni, da meritarsi il titolo di Apostolo dell’Alpinismo.
Recatosi nuovamente a Courmayeur, riuscì a vincere le mille diffidenze che osteggiavano l’attuazione del suo progetto, a poco a poco convinse i più restii, mentre intanto sollecitava dagli alpinisti inglesi l’invio di somme in aiuto dell’opera sua. E nel maggio del 1868, lieto della riuscita che prometteva, in una lettera da Courmayeur annunziava a Bartolomeo Gastaldi che l’incoraggiamento del Club Alpino non era rimasto senza frutti, avendo quel Consiglio Comunale votate e fatte eseguire diverse opere, quali la strada al Pavillon di Mont-Frety, l’impianto di viali, il miglioramento di parecchie strade mulattiere, ecc., e che i paesi vicini spinti dall’esempio accennavano essi pure a mettersi sulla buona via.
Disgraziatamente, iniziate da poco le opere, il fallimento della Cassa di Risparmio d’Ivrea e sua succursale di Aosta, presso la quale i fondi erano stati depositati, ne inghiottì gran parte, rendendo impossibile l’attuazione del progetto, se Egli, per dar nuova spinta alla sottoscrizione, non avesse versate alla Sede del Club altre lire 500.
Erano allora i tempi d’oro dell’alpinismo, vasto campo di terreno vergine da esplorare, con tempre gagliarde, innamorate della natura, del bello, che s’accingevano con ardore all’impresa.
Non si conoscevano ancora tutte le comodità della vita alpina d’oggi: con un semplice bastone in mano, un sacco sulle spalle, un po’ di pane in tasca, s’avviavano al monte quei pionieri dell’alpinismo, ed Egli ricordava con piacere quando cogli amici suoi, il canonico Carrel e gli abati Gorret e Chanoux, G. B. Rimini e tanti altri iniziati al culto della natura, se ne iva peregrinando fra i monti.
Le sue gite sono innumerevoli, ma Egli non dà relazione che di quelle compiute nei primi tempi, quando era necessario spronare altri a pubblicare le loro impressioni. Nè ha la pretesa di fare scoperte, ma dice che scrive soltanto per far conoscere le nostre valli, poichè disgraziatamente la maggior parte dei viaggiatori «non lasciano volentieri la via solita per vedere nuovi paesi, studiare i costumi e le particolarità delle popolazioni e godere delle abitudini semplici, dei prezzi moderati che pratica tanta povera gente, che si trova per così dire onorata da tali visite inaspettate,» se non vi sono spinti od attratti da altri.
Nelle sue relazioni, ricche di dati interessanti sui costumi o sulle leggende delle valli visitate, dà soventi ragione dei nomi delle diverse località ed i fatti più semplici gli lasciano campo a profonde riflessioni. Al suo occhio nulla sfugge delle scene imponenti che si ammirano sulle montagne, la cui solitudine lo colpisce profondamente e fra le quali è lieto di trovarsi in mezzo a tanta brava gente non corrotta dalla civiltà moderna. Sono briosi aneddoti che infiorano tratto tratto e rendono piacevole la lettura dei suoi scritti, dai quali traspare completa un’anima d’artista innamorato delle superbe bellezze del quadro che ha dinanzi.
Non trascorreva mai una stagione intiera in questo piuttosto che in quel distretto alpino; quel medesimo sentimento che lo spingeva di città in città, quel bisogno di studiare e vedere sempre nuove cose, anche in montagna gli faceva compiere lunghe corse, visitare parecchie valli, passando sempre per nuovi valichi. Così, ad es., lo vediamo nel 1867 da Chamonix portarsi al Piccolo S. Bernardo, di dove si reca ad ammirare il gruppo del Rutor; poi discendere a Courmayeur e dopo breve permanenza, per Liverogne, Valsavaranche ed il Colle del Nivolet portarsi a Ceresole Reale, salire la Bellagarda ed altre punte, ritornarsene pel Nivolet a Valsavaranche, ove lo troviamo sulla Bioula e sul Colle del Lanzon che discende a Cogne. Da Cogne lo attrae quello splendido belvedere che è il Pousset, lo attraggono i valloni circostanti; ma anche questi solo per qualche giorno, poichè nuovamente s’avvia per la Finestra di Champorcher a Bard, a Pont St.-Martin, a Gressoney St.-Jean. Qui trova il primo châlet albergo costruito nelle valli italiane dal sig. Linty e ciò lo rallegra, ma neppure ciò ha il potere di trattenerlo a lungo; dopo pochi giorni pel Colle di Valdobbia passa a Riva, a Varallo, e sempre pei monti a Biella e di nuovo a Pont St.-Martin, ad Aosta e pel Gran S. Bernardo a Ginevra.
I disagi della vita di montagna per lui sono nulla, il suo animo buono, generoso tutto dimentica e s’entusiasma, quando ode dire da chi Egli compensa largamente per qualche servizio resogli: «Monsieur, me donne trop, cela ne vaut pas tant», e non sogna che di ritornare presto fra quella gente.
Nel 1868 lo troviamo a Courmayeur, a Varallo, ad Alagna, sempre traversando colli; poi sul Monte Generoso e di là per Verona, a Neumarkt, fra le Dolomiti, a Predazzo, a Paneveggio, sul Passo di Vallès, a Forno di Canale, ad Agordo e ritornare pel Passo di S. Pellegrino di nuovo a Neumarkt, di dove prosegue per Innsbruck, Monaco, ecc. ecc.
Ed in ogni suo viaggio nota e giudica quanto vede, ed in questo, ad esempio, loda come sono tenute le foreste e le strade nel Trentino, biasima invece il modo col quale facevano servizio le diligenze.
Volendolo seguire nelle sue escursioni avrei qui da riempire molte pagine, e ripetermi molte volte, poichè in sì lungo volgere d’anni visitò a più riprese quei siti, la cui bellezza maggiormente lo aveva colpito. Aggiungerò soltanto che intervenne a quasi tutte le numerose gite sociali della Sezione di Firenze, compiutesi durante la sua presidenza, visitò più volte le Alpi Apuane e l’Appennino Toscano e Romano, ecc., non limitandosi alle Alpi che cingono l’Italia, da lui tutte sinceramente amate e tanto, da soffrirne quando qualche regione era lasciata nell’oblio. Lo sentiamo perciò, anni addietro, lagnarsi quando le Alpi Marittime erano trascurate ed esporci in un articolo pubblicato sulla «Rivista Mensile» quali sono le opere eseguite dai francesi sul loro versante onde attirarvi i viaggiatori, insistendo perchè le Sezioni della Riviera s’assumessero l’impresa di promuovere i miglioramenti necessari alle strade, ai sentieri, agli alberghi, ecc. ecc., coadiuvando in tal modo «con tutte le forze loro quest’opera di riparazione verso tanta parte di regione montana lasciata in un abbandono poco giustificato.»
Era pur solito a seguire nei loro giri tutti i Congressi Alpini che fin dai primi tempi raccomandò con insistenza si tenessero fra i monti, poichè quello era l’unico campo sul quale, sparita ogni differenza di regione, dovevano gli alpinisti italiani conoscersi ed affratellarsi.
Quantunque non avesse salite alte vette, non fosse un «grimpeur», era però un vero alpinista, nel senso più puro ed elevato della parola. Egli non vedeva nelle alte ascensioni una stranezza, una specie di pazzia, come qualcuno anche oggi le dice; voleva anzi che la gioventù si dedicasse a queste grandi e nobili imprese, com’ei le chiamava, e più d’una volta nei suoi discorsi, ed in special modo al Congresso di Varallo, insistè sulla utilità di tali gite e sulla necessità di rinvigorire la nostra fibra, compiacendosi di portare ad esempio i suoi connazionali che nella forza del corpo trovano nuova forza della mente, convinto che lo sviluppo del Club avrebbe aiutato molto il rinnovamento fisico e morale della nostra nazione.
Ed oggi più che mai, in questi critici momenti, quella tipica figura che si mantenne giovane di corpo, di mente e di cuore sino alla morte, avrebbe resi nuovi e sempre maggiori servigi, scuotendoci dall’apatia coll’autorità sua e spronandoci sulla via del bene coll’entusiasmo sincero, inesauribile, che solo possiede chi è profondamente convinto della bontà dell’idea che sostiene.
Mente elevata ed energica, Egli nei monti non vedeva soltanto picchi da salire, ma in loro riassumeva, personificava pensieri ben più alti delle punte imbiancate dalla neve eterna, ritenendoli non fine ad uno scopo, ma mezzo per raggiungere ideali altissimi, sublimi.
Figlio d’un paese libero, legato all’Italia da vincoli d’affetto, predicava l’alpinismo come palestra nella quale ogni italiano avrebbe dovuto imparare a lottare, plasmando nei duri cimenti col monte un saldo carattere nazionale, che valesse un giorno a cancellare quelle meschine separazioni da regione a regione, frutto di lunga servitù. Era un’Italia forte e libera che egli sognava, erano Italiani intelligenti, attivi, che desiderava vedere, ma voleva fossimo Italiani solo, null’altro che Italiani.
Quindi con Felice Giordano si fece iniziatore della prima riunione annuale tenutasi nel 1868 in Aosta sotto la sua presidenza ed intervenne poi a quasi tutti i Congressi Alpini, ch’ei riteneva, come già dissi, efficacissime occasioni per viemmeglio unirci.
Per lui, quella dell’alpinista doveva essere una santa missione, ed io rammento che molte volte mi diceva di ricordarmi sempre quando fossi di passaggio per le alte Alpi, ove lungi dal mondo vive segregata tanta povera gente, di dirle una buona parola o darle un consiglio, procurando di parlare un linguaggio che potesse essere compreso, che valesse a diradare alquanto le tenebre che annebbiano quelle ruvide intelligenze.
Animo pio e generoso, innanzi agli spettacoli sublimi della natura, il suo cuore non dimenticava mai i poveri montanari; tante bellezze non soffocavano in lui il sentimento della pietà, anzi lo acuivano, ed Egli sentiva quanto enorme era il contrasto fra il grandioso spettacolo che ammirava e la miseria di tanti infelici condannati a vita sì triste. Eccolo quindi venire a loro, lentamente spiegare in linguaggio dolce e mite quanto bene potrebbero ritrarre da più razionali colture, unendosi in associazioni, procurando di migliorare questa o quella produzione, costruendo sentieri, riparando le vie di accesso ai principali centri alpini, munendo di linde camerette le luride cantine e trattando cortesemente i pochi forestieri che cominciavano a visitare le alte valli. E se le sue parole non furono dapprima comprese, non se ne sgomentò. «Quanto non si è ottenuto ora—diceva—si otterrà un altr’anno, non m’hanno ancor capito». Ed eccolo nuovamente col sorriso sulle labbra, non più straniero a quelle genti che soccorreva anche con denaro, ritornare a loro, guadagnarsene le simpatie, persuaderle.
Convinto che lo studio dei monti, promovendo frequenti gite, finirebbe col risvegliare negli alpigiani la volontà di meglio conoscerli, Egli riteneva necessario ottenere che mettessero da parte quella diffidenza innata che osteggia l’attuazione di molti progetti, facendo loro capire che esistono realmente società di uomini disinteressati e generosi, i quali con studi e ricerche tentano di far apprezzare il loro paese. Raccomandava quindi agli alpinisti di essere cortesi e gentili, di prendere la più gran cura in special modo nei paesi maggiormente abbandonati, di non urtare le suscettibilità anche dell’uomo il più povero, onde fosse più facile il compimento della nobile idea.
Il suo affetto per gli abitanti dei monti lo aveva reso entusiasta di quegli oscuri benefattori della umanità che sono i parroci di montagna, intenti a sacrificarsi pel bene di quelle popolazioni. Egli non può trattenersi, nei suoi scritti, dall’esprimere ammirazione per loro e dal deplorare che, mentre «s’innalzano ovunque monumenti a grandi ministri, a valenti generali, a celebri predicatori, lo zelante benefattore del suo villaggio è raramente ricompensato, ed alla sua morte neppure una pietra ricorda alla posterità i tentativi incessanti da lui fatti per introdurre qualche utile innovazione nel suo paesello, e qualche po’ di luce nelle menti più scure.» Quindi egli ricorda soventi i nomi di questi uomini valorosi che dedicano intiera la loro esistenza al bene delle alte valli e sono lieti di porsi a disposizione anche degli alpinisti, quando per avventura passano in quei paesi dimenticati.
E questo suo amore pei montanari lo porta ad interessarsi in modo speciale delle guide, i compagni, gli amici degli alpinisti. Egli vorrebbe vederle organizzate ed istruite, ed è perciò che nel 1870, durante una gita da lui fatta a Valtournanche coll’Abate Gorret, le raduna, cerca convincerle e se pure non può dirsi che quel giorno sia riuscito nel suo intento, riuscì certo a far comprendere quanto fossero giuste le sue parole, che in epoca non lontana portarono poi benefici frutti.
Pubblicò a tal fine un opuscolo, che fece distribuire in buon numero di copie ai valligiani di Aosta, col titolo: Observations aux guides des vallées Italiennes, pieno di buone norme, di utilissimi consigli. In modo piano e semplice, come era uso parlare, in esso spiega come devono condursi coi viaggiatori, quali sono i modi da usarsi durante le gite e nelle stazioni alpine, e fa loro comprendere quanto sia grande la responsabilità della guida, ai cui ordini devono rimanere intiere comitive, e come sia necessaria molta abnegazione, perseveranza, pazienza, sangue freddo e coraggio a tutta prova, cuore e mente capace di sostenere tanto peso. E siccome non è facile trovare tali doti tutte riunite nel medesimo individuo, Egli vorrebbe saggiamente che le guide fossero divise in due categorie, quelle di prim’ordine, per le grandi ascensioni e quelle per le passeggiate ed escursioni minori.
Per ingentilire alquanto questi uomini, vagheggiava una scuola da istituirsi nei principali centri, che valesse ad infondere loro un po’ di coltura e più di tutto quel sentimento del dovere, del sacrifizio, che dovrebbe assolutamente essere condizione «sine qua non» per ogni guida.
Rigorosamente classificate, senza riguardi o di regione o di meschine raccomandazioni, allo stesso modo che gli alpinisti si radunano a congresso, avrebbe voluto che il Club mentre non è ancora in grado di creare scuole speciali, avesse radunate le guide migliori a fraterno banchetto, almeno una volta all’anno, in questo od in quel centro alpino, onde si conoscessero, avessero modo di scambiarsi le loro idee, ed in tale occasione con un discorso od una conferenza, si fosse svolto qualche argomento di non dubbia utilità attinente al loro mestiere. Riteneva questo un modo buono e pratico per incoraggiare questi bravi uomini che tanto hanno contribuito a farci conoscere le nostre montagne, ed un’occasione, aumentandone le cognizioni, di porli in grado di rendere maggiori servizi alla causa dell’alpinismo.
E quest’iniziativa, era solito dire, dovrebbero prenderla le principali Sezioni del Club, nei cui distretti od in quelli limitrofi si trovano buone guide, poichè questa specie di premio servirebbe di esempio a tutte e sarebbe mezzo efficace per svegliare e cementare nei montanari italiani sani sentimenti di simpatia.
Fra le numerose opere ch’Egli avrebbe voluto presto attuate, teneva pure un primo posto quella del rimboschimento, perchè era convinto che le foreste sono quelle che in giorno non lontano dovrebbero aiutare la nostra rigenerazione finanziaria. Scrisse su tale argomento numerosi articoli, ma le nostre pubblicazioni non essendo a sufficienza estese, ne pubblicò gran numero anche sui periodici delle alte valli. Nel 1869 istituiva un premio di Lire 500 per quel comune che primo avesse rimboschito buon tratto di terreno ed altri ne diede privatamente ed ai Comizi agrari, destinati a premiare quei contadini che presso alle loro alpi avessero piantato, in un dato periodo d’anni, maggior numero d’alberi.
Poi, convinto che se i premi erano d’aiuto non potevano considerarsi incentivo sufficiente quando manca l’amore a sì benefica impresa, aveva ideato di fondare, come già fecero altre nazioni, una «Società degli amici degli alberi» che avesse còmpito speciale d’instillare l’amore delle piante nei fanciulli, avrebbe voluto ripetere quanto in America diede sì splendidi risultati, portando quelle popolazioni a stabilire addirittura un giorno festivo dedicato alle piante ( The arbor day ).
Durante le sue gite ciò che lo accorava era di vedere quelle sterili distese di terreno ove il pascolo era libero, ove ognuno estirpava le poche piante ancor esistenti, e non cessava dal dire che il Governo avrebbe dovuto intervenire con energiche disposizioni, onde impedire tanto danno e che tutto fosse distrutto mentre ancora poteva porsi riparo.
Nell’Appennino Toscano la sua propaganda ebbe felici risultati ed egli lo constatò con piacere nel suo discorso alla festa alpestre nella Garfagnana in occasione dell’inaugurazione d’un saggio di rimboschimento. Informò allora gl’intervenuti come i giornali esteri avessero lodato quanto da noi si andava facendo, ricordando specialmente un articolo del barone Von Raesfeldt, direttore forestale della Baviera, pubblicato sulle «Mittheilungen» del Club Tedesco-Austriaco (aprile 1882) nel quale, si faceva «lusinghiera menzione dei nomi di patriotti italiani che hanno eseguite piantagioni estese e non venne dimenticato il comune di Castiglione di Garfagnana per l’iniziativa presa del saggio di rimboschimento agli Spondoni (terreno comunale), esprimendo la viva speranza che altri comuni d’Italia siti in montagna, non avessero a tardare nel seguire l’ottimo esempio». Aggiungeva che coloro i quali hanno percorso le Alpi e l’Appennino sanno quanto vi è ancora da fare in materia di rimboschimento, di piscicoltura, di piccole industrie, di tutto ciò che è atto ad attirare i viaggiatori ed augurava con calorose parole che questi esempi, dati da benemeriti comuni e dalle Sezioni del C. A. I., creassero in Italia un’opinione pubblica favorevole al rimboschimento, perchè in allora invece di scritti, di conferenze e di altri mezzi di propaganda, si vedrebbero eseguire piantagioni in tutti i punti della penisola, e le nude e sterili montagne, ora soggiorno di popolazioni miserabili, diventerebbero paesi ben coltivati, prosperi, difesi dalle inondazioni e dalle frane.
A lui non isfuggivano mai le occasioni per sospingerci in quest’opera, ed allo stesso modo che le terribili inondazioni del 1868 e degli anni successivi gli diedero motivo di dimostrarci nei suoi scritti come tanta sciagura sarebbe stata risparmiata o almeno di gran lunga ridotta se folte foreste avessero coperte quelle immense distese di terreno, brulle affatto, il dono fatto alla Sezione di Torino, da un suo socio, di alcune fotografie della «Yosemite Valley», gli offrì campo per descriverci quella vasta regione, lunga 15 miglia inglesi, che nel 1864 gli Stati Uniti d’America donavano alla California perchè ne facesse un parco nazionale che oggidì è coperto da enormi alberi, ammirazione dei visitatori di quelle contrade.
E non soltanto alle piante d’alto fusto Egli rivolgeva le sue cure, ma anche alla sfavillante flora montana, agli edelweiss, a quella miriade di variopinte pianticelle che minacciano sparire dalle nostre Alpi. Anche per esse Egli prese la penna in mano e convinto che l’infondere nelle persone più rozze, che soventi si lasciano trascinare dalla brutale manìa della distruzione, un sentimento di rispetto verso le opere della natura è un mezzo indiretto d’educazione del popolo, scrisse sulla protezione delle piante. C’informò come in Inghilterra tale propaganda abbia fatta molta strada e siccome buon numero di queste fragili e graziose piante alpine sono ormai sparite da diverse località delle Alpi Italiane, lasciando nude le roccie, fece voti che molti animi bennati alzino la voce in favore dei poveri fiorellini che danno ancora un sentimento di poesia ai luoghi perduti fra il ghiaccio e la neve e che la stampa italiana appoggi con simpatia gli sforzi fatti dal C. A. I. per salvare dalla totale distruzione questo ornamento naturale delle patrie montagne.
E siccome altrove sono sorti giardini d’acclimatazione per la flora alpina, ci sospingeva ad aiutare quei volonterosi che anche da noi si sono posti per quella via e ad un pranzo che in suo onore diede la Sezione di Torino al Monte dei Cappuccini, ricordando quanto l’amico suo abate Chanoux faceva per l’impianto d’uno di questi giardini al Piccolo S. Bernardo c’invitava a concorrere coll’obolo nostro in aiuto di quell’uomo benemerito.
Dopo aver predicato il rimboschimento, si dedicò pure ai torrenti, ai fiumi, a cui Egli pensava, anche durante le brevi assenze dal nostro paese, e così nell’agosto del 1870 scriveva da Londra a Bartolomeo Gastaldi riguardo alla piscicoltura alpina, molto trascurata in quei tempi in Italia, mentre in Germania ed in Francia riusciva fonte non disprezzabile di ricchezza. Invitava quindi il Club Alpino a continuare sulle sue pubblicazioni la maggior propaganda possibile onde invogliare i privati, uniti in associazione, ed i comuni, a far qualcosa essi pure, usufruendo dei laghi alpini a proposito dei quali disse sarebbe il caso di studiare se mediante speciali sbarramenti non si potrebbero utilizzare le loro acque, formando canali economici, per l’irrigazione dei fianchi dei monti ed anche degli altipiani, rendendo fertili col tempo molte regioni, ora sterili solo per mancanza d’acqua, adottando il sistema di coltivazione a terrazze, dal quale si ottennero successi molto soddisfacenti in certe parti dell’India.
Per risvegliare nei soci del Club il desiderio di occuparsi di questa vera industria, nel 1883 pubblicò un opuscolo ove tratta di tale materia. Fatta un po’ di storia fin dagli antichi tempi, cita quanto si è già tentato da noi e quanto si è ottenuto in Svizzera, in Ungheria, in Scozia, ove si spesero somme ingentissime. Dà le norme principali per l’allevamento ed interessanti ed utili notizie sulle trote, e conchiude esprimendo la speranza che «allo stesso modo che nel C. A. I. si sono trovati valenti e coraggiosi giovani, veri campioni del rimboschimento, delle piccole industrie di montagna, del miglioramento degli alberghi e dei rifugi alpini, i quali consacrano il loro tempo ad appoggiare questi utili rami dell’alpinismo, non dubito che altri volonterosi sorgeranno e cercheranno di fondare piccoli stabilimenti di piscicoltura nelle patrie montagne. In questa lotta pacifica per vincere l’apatia e la noncuranza degli alpigiani, gli alpinisti veterani a barba grigia possono anche portare il loro contributo di lavoro e d’intelligente cooperazione e se si lagnano di non essere più in gamba per intraprendere, come le altre volte, ascensioni in montagna, si trovano almeno in istato di promuovere utili iniziative in fondo delle vallate». Perchè per «incivilire le regioni di montagna si esigono cuore, tempo, e sopratutto una perseveranza indomabile, e queste sono qualità che non dovrebbero mancare agli alpinisti italiani, e le loro conquiste in fatto di rimboschimento, d’industrie alpine, di piscicoltura in montagna, più di quelle dei picchi più ardui lascieranno certamente utili risultati per le future generazioni». Finisce dicendo che spera che il suo scritto sarà sprone ad altri a meglio popolarizzare questa industria e dare mezzo di vivere a molti onesti alpigiani che si trovano costretti ad emigrare per mancanza di mezzi d’esistenza.
È questa loro misera esistenza, che tutto lo commuove e porta a farsi paladino delle scuole di piccole industrie in montagna. Dopo averne predicata l’utilità e svolte proposte presso la Sezione di Firenze, dopo aver dati consigli e parole d’incoraggiamento alla Sezione di Vicenza, nel gennaio 1882 intervenne all’adunanza della Sezione Romana, ed ivi, parlato in favore della sua idea, disse essere opportuno d’invitare la Sede Centrale a tenere in occasione del Congresso Alpino internazionale del 1884 un’esposizione di oggetti d’industrie montanine, onde si potesse vedere quel poco che già da noi si produceva e quanto restasse ancora da fare di fronte allo sviluppo che esse hanno preso in Austria ed in Svizzera.
Lo spaventano le lunghe giornate d’ozio cui sono condannati gli abitanti delle alte valli per i mesi nei quali dura l’inverno, mentre insegnando loro un po’ di disegno, di plastica, d’intaglio in legno, si potrà facilmente procurare loro occupazione e guadagno. Scrisse quindi molto attorno a tale soggetto, ed in uno dei vari articoli faceva appello alle signore e signorine frequentatrici della montagna affinchè dedicassero qualche ora durante i mesi di permanenza negli alti villaggi ad insegnare alle ragazze più intelligenti a costrurre cornicette per fotografie, a far pizzi, ad applicare fiori disseccati su piccoli cartoncini, ed eseguire tutti quei piccoli ninnoli che a loro servono a far passare le ore di noia, onde aiutare il sorgere, anche da noi, dell’industria dei cosidetti ricordi per touriste, tanto in fiore e proficua in altre contrade alpine.
Attratta l’attenzione degli amanti della montagna in favore di quelle buone ed oneste popolazioni, data una spinta alle piccole industrie, credè opportuno parlar anche dell’apicoltura in montagna, poco costosa e rimunerativa se razionalmente coltivata e che potrebbe diventare fonte maggiore di guadagno fra gli abitatori dei monti e specialmente per quelli che dimorano vicino a foreste che consiglia di «provare a stabilire società d’apicoltura sul genere delle latterie sociali, le quali hanno avuta una così bella riuscita nelle Alpi».
Il desiderio del bene, del progresso, lo spinge sempre a nuove proposte tutte utili e fonte di benessere avvenire. Quindi non si contenta di vedere quelle brulle pendici, ora aride e bruciate dal sole, coprirsi di alberi fronzuti, solcate da freschi rivi, abitate da popolazioni industriose, agiate, ma vuol pure che su quel verde manto sorgano alberghi alpini, all’ombra di alte conifere, onde favorire da noi sempre più, quella tendenza al monte, che per lui rappresentava il mezzo più giusto e sicuro per ottenere tempre gagliarde, caratteri forti, e per attrarre d’oltr’alpe numerosi stranieri che ora cercano svago e salute in altri paesi.
Incoraggiò quindi moralmente e materialmente molti di coloro che si accinsero a tale impresa e, non contento di recarsi personalmente sul sito a dar consigli, pubblicava uno scritto ( Osservazioni agli albergatori delle valli Italiane ) nel quale sono riassunte molte saggie e pratiche norme che oggi ancora dovrebbero essere lette dagli albergatori alpini.
Li invitava a costrurre da principio soltanto dei piccoli châlets, chè ai grandi fabbricati avrebbero pensato poi, ma voleva camerette pulite, urbanità di modi, prezzi miti e possibilmente una tariffa unica, onde il viaggiatore sapesse sempre quanto doveva spendere e non si esponesse ad aver questioni alla partenza. «Abbiate cura—diceva Egli—dei vostri alberghi, e gli stranieri d’ogni nazione in gran numero verranno a voi, porteranno il benessere nella popolazione e se saranno ben trattati, lascieranno con rincrescimento le vostre belle montagne, colla promessa di ritornarvi l’anno dopo. Abbandonate ogni idea d’isolamento, d’egoismo, di gelosia ed anche di concorrenza; un solo pensiero vi animi, quello di ricevere e trattar bene i viaggiatori. A tale scopo dovreste radunarvi una volta all’anno, discutere insieme i vostri interessi comuni, i modi di approvvigionare i vostri alberghi, specialmente quelli che hanno comunicazioni difficili.»
Egli vide durante le sue frequenti gite che gli albergatori delle nostre valli sono generalmente buona gente del paese, pieni di volontà, ma che non essendo mai usciti dal loro guscio non hanno idea del come devono condursi, consiglia quindi questi volonterosi, a mandare i loro figli a servire nei grandi alberghi, specialmente in quelli delle montagne svizzere, onde vedano ed imparino a vantaggio loro e del paese.
Vorrebbe che il proprietario dell’albergo illuminasse i viaggiatori su tutto quanto può interessarli e li mettesse in guardia contro le inciviltà di certi tali, che non pensano che a sfruttarli, invece di vedere in essi dei veri benefattori che vengono a spendere danaro in casa loro.
Alla questione degli alberghi alpini egli strettamente collegava quella della costruzione di rifugi nelle alte valli, sulla strada delle grandi ascensioni, o sui colli più frequentati. Scrisse in merito un lungo e pregevole articolo sull’ Utilità pratica dei rifugi alpini, dove si lagna che non siasi ancora capito quanti vantaggi importantissimi arrechino queste capanne, non solo a chi esplora le montagne, ma ben anco per il numero grandissimo di turisti che attireranno e che ne faranno meta di gite interessanti.
Insiste pure sull’idea che in alcuni di essi, i quali per la posizione loro meglio si prestano, venga stabilito servizio d’osteria, sotto la sorveglianza del Club, a cui spetta il porsi a capo di tale movimento, sussidiando quei volonterosi che si presteranno alla sua attuazione od anche assumendolo a proprio carico nei primi tempi, poichè la sola iniziativa privata potrà da noi, per ora, difficilmente addossarsi un tale peso. Spiega poi come e dove tali servizi si potrebbero stabilire, dando a prova di tutte le sue asserzioni i risultati ottenuti specialmente in Austria.
Ed oggi tale idea va da noi svolgendosi per opera di benemerite sezioni e, può dirsi ormai non lontana l’epoca nella quale avrà completa attuazione.
Il suo nome, dal giorno in cui, nel 1865, comparve nella prima sottoscrizione apertasi al nostro Club per costruire una grotta sui fianchi del Cervino, figurò sempre su tutte le liste degli oblatori, non solo per cospicue somme, ma anche per oggetti da servire all’arredamento di detti rifugi.
«Lo studio dei monti—diceva Egli—è uno studio fecondo di grandi idee, grandi quindi saranno le nazioni che vi si dedicano». Ma affinchè queste idee trovassero terreno pronto a farle fruttare, a svolgerle, avrebbe voluto che ogni alpinista fosse dotato d’una soda ed ampia coltura. Nè con ciò intendeva di vedere in ognuno di essi uno scienziato, od uno specialista di questa o di quella dottrina, ma che, pur mantenendosi semplici alpinisti, fossero in grado di notare nelle loro relazioni quelle osservazioni che una mente colta può facilmente fare sui fenomeni naturali osservabili durante un’escursione, affinchè gli studiosi possano trarre dati utili a chiarire punti ignorati o mal conosciuti dalla scienza.
Quindi si doleva allorchè nelle pubblicazioni alpine vedevano la luce degli scritti unicamente o troppo alpinistici, ed anche quando trattavano di una sola regione, perchè Egli non credeva cosa buona che i nostri Clubs dovessero solamente illustrare i paesi nei quali erano stati fondati, poichè per lui l’alpinismo non aveva confini.
I primi articoli che trattano di grandi ascensioni e che videro la luce nelle pubblicazioni nostre, furono in gran parte da lui tradotti da giornali del C. A. Inglese e da quelli Tedeschi, e subito accanto ad essi altri ne vediamo di varietà e geografici, quali i Viaggi ed ascensioni in Norvegia, in cui ci descrive questo singolare paese «così bello ed attraente per gl’immensi ghiacciai, per le innumerevoli cascate, per le folte foreste, per le montagne pur grandiose, malgrado la non grande elevazione, ma sopratutto per l’incomparabile incanto dei magnifici fjords»; quelli sulle Società di geografia ed i Clubs Alpini, sull’ Oberland ed i suoi ghiacciai, sulla catena del Suffaid Koh e sulla regione di Jellalabad nell’Afghanistan, sulle Esplorazioni nelle grandi Ande dell’Equatore, il sunto del libro del professore Albert Heim di Zurigo sui terremoti ed il loro studio scientifico, nel quale succintamente ci dà le norme da seguirsi affinchè qualunque persona, anche non munita di strumenti, possa riuscire a fare osservazioni; la descrizione del termografo stato collocato sul Faulhorn, occasione propizia a lui per muovere invito agli italiani di fare anche loro qualche cosa di simile su quelle vette ove non è possibile stabilire osservatorî; un lungo scritto sul nuovo metodo per lo studio dei ghiacciai, ecc.
È a lui, conoscitore di parecchie lingue, che si deve lo svolgimento preso dalla «Bibliografia» nel nostro «Bollettino» prima e nella «Rivista Mensile» poi, ove ci tenne continuamente al corrente di quanto accadeva e si pubblicava oltr’alpe, portando a conoscenza nostra ciò che praticavano i potenti Clubs d’Inghilterra, di Germania e Austria, di America, ecc.
Nè mancava mai di dar risalto ai punti dai quali avevamo qualcosa di buono da imparare, qualcosa di utile da imitare, ed affinchè ci servisse di sprone e di norma sicura e non rimanessimo indietro agli altri, iniziò nel 1874 la compilazione della Rivista generale dei Clubs e delle Società Alpine, che mantenne al corrente sino alla sua morte.
Mentre poi ci segnalava quanto di meglio facevano gli altri, non appena anche da noi qualcosa si era ottenuto, lo rendeva noto agli stranieri, esaltando l’opera nostra, onde ce ne venisse stima maggiore.
Le nostre pubblicazioni ebbero da lui un impulso vigoroso, e senza tema di errare può dirsi che, fra tutti i soci, fu quello che maggiormente contribuì con consigli e con pregevoli e numerosissimi scritti a dar loro l’importanza che oggi hanno. I suoi articoli che trattano d’un infinito numero di soggetti, attinenti all’alpinismo, nei primi tempi erano contraddistinti colle segnature: « Un membre étranger du C. A. I.; Un Inglese amico delle montagne » ecc.; e più tardi colle sole iniziali R. H. B., od anche col nome in disteso.
Tutti riuniti, i suoi scritti formerebbero certamente diversi volumi di molta importanza, specialmente se fosse possibile radunare anche quelli pubblicati sui periodici nostrani e stranieri. Vedrebbero allora gli Alpinisti Italiani qual mole enorme di utile lavoro, quante nobili iniziative, quante opere generose, Egli ha predicate, che ancor non hanno potuto avere completa attuazione nelle nostre Alpi; quanto potente fosse l’amore che quest’uomo portava alla nostra Istituzione, il cui progresso fu scopo di tutta la sua vita.
Allorchè il Padre Denza si fece iniziatore degli Osservatori meteorologici in montagna, Egli tosto accorse a sostenere, ad aiutare quella ardita iniziativa, offrendo generosamente e l’opera e l’obolo suo, sì che l’illustre scienziato non dimenticò mai di segnalare nei suoi scritti e nei suoi discorsi, l’aiuto che il generoso Inglese gli aveva dato nell’impianto delle stazioni di Belluno, di Casteldelfino, di Valdobbia, di Domodossola ed altre.
Ed il senatore Torelli al Congresso Alpino tenutosi a Bormio nel 1873, rendeva grazie egli pure al Budden, d’essere stato dei primi ad aiutare l’impianto dell’Osservatorio Meteorologico alla IVª Cantoniera dello Stelvio.
Nè minor fortuna ebbe il padre Filippo Cecchi, direttore dell’Osservatorio Ximeniano di Firenze, quando a lui si rivolse, per stabilire nell’Appennino Toscano una rete di tali osservatorî che in breve volger di tempo, mercè l’aiuto che Egli ne diede e come privato e come Presidente della Sezione Fiorentina, poterono iniziare utili studi.
Amante sincero d’ogni progresso scientifico, quando seppe che il Padre Denza voleva tradurre in lingua italiana un libro del Whymper sui barometri aneroidi, e che difficoltà finanziarie facevano ostacolo a quel progetto, pagò del suo i diritti d’autore onde rendere possibile la traduzione, che per la morte dell’insigne scienziato non potè portarsi a compimento.
Così Egli proclamava coi fatti come la scienza debba essere sorella all’alpinismo e che le associazioni alpine debbono avere uno scopo eminentemente educativo, onde lo vediamo darsi a tutt’uomo per l’impianto delle Biblioteche del Club, recar buon numero di volumi alla prima filiale della nostra istituzione in Aosta e sollecitarne l’invio dai suoi connazionali; altri portarne all’Ospizio del Piccolo S. Bernardo, a Cogne, a Valtournanche, ai principali alberghi di montagna, alle guide, ecc....., mentre arricchiva di opere pregevolissime e di valore quelle della Sede Centrale, della Sezione di Firenze, di Agordo, ecc....., facendo sempre qualcosa anche per altre Sezioni nel lungo volger d’anni, dalla fondazione del Club ad oggi.
Animo educato al bello ed al buono, se per lui la scienza doveva essere compagna dell’alpinismo, non dimenticava però l’arte che considerava ausiliaria potente. Entusiasta dei monti, innamorato dei ghiacciai, di quelle immense distese di nevi, le quali, benchè non fossero state campo alle sue gesta, per lui non avevano segreti, avendole ammirate un infinito numero di volte, in ogni ora del giorno, inondate di luce, o coll’infuriar della bufera, all’alba ed al tramonto, silenziose o solcate da tuonanti valanghe, rimpiangeva soventi che i nostri artisti non studiassero quelle scene potenti, perchè riteneva sarebbero stati d’aiuto alla nostra causa. Più d’una volta in numerosi scritti insistette perchè principiassimo ad occuparci seriamente di quest’importante argomento, trovava anzi «un fatto piuttosto strano che in questo ramo d’attività il C. A. I. siasi lasciato prendere il passo dai Clubs Alpini Inglese, Austriaco e Svizzero, e che in nessuno dei diversi congressi si sia tentato di riunire una collezione di quadri alpini, affine di coltivare in tal senso la passione delle montagne nel pubblico, creando una vera scuola d’artisti che ci rendessero in modo vero i monti, mettendo al bando quella pittura di fantasia che ce li ha spesso rappresentati sotto aspetti imaginari» e combattendo così anche l’eccessivo verismo di questi tempi.
Lavoratore instancabile, fino agli ultimi suoi giorni era solito dedicare tutte le ore del mattino a compilare articoli per le nostre pubblicazioni, per quelle dei Clubs esteri, o pei giornali quotidiani, e nel pomeriggio si dedicava alla lettura, specialmente di libri e giornali stranieri.
Nelle opere sue si scorge come Egli avesse dell’apostolo l’ampiezza delle idee e la pertinacia nel predicarle, nel sostenerle, com’Ei vedesse tutto possibile quando con buona volontà e costanza ci fossimo accinti al lavoro, e non si sgomentasse mai allorchè le sue proposte venivano ritenute speranze da sognatore, anzi proseguisse imperterrito con ardore di neofita il suo cammino, riescendo in questi ultimi anni a vedere attuato parte del suo vastissimo programma e molte altre sue proposte avviarsi esse pure per la buona strada.
Benchè da tanto tempo avesse posto dimora fra noi, pure conservava intenso, vivissimo l’affetto alla patria sua e non lasciava passare occasione per informarci di quanto i suoi connazionali compivano d’utile, di buono, ed in che fossero a noi superiori.
Era solito dire che l’alpinismo aveva avuto la virtù di farlo diventare oratore, ed in tutti i congressi, nelle assemblee, ai pranzi sociali, la simpatica e franca sua parola risuonava gradita sempre, portatrice d’idee pratiche, d’alto criterio, d’entusiasmo per quanto riusciva a decoro del Club.
Originalissime erano le sue concioni, ognuna delle quali rappresentava un’idea che voleva ribadirci in capo, dette con una cadenza di voce, con una pronuncia tutta speciale che tradivano la sua origine, ma davano alle sue parole un non so che di vibrato, di squillante, d’energico. Caratteristica indimenticabile di molti suoi discorsi erano certi scatti curiosi d’informe ma franca eloquenza, che gli permettevano di spiattellarci a bruciapelo, curando solo che ben comprendessimo quanto voleva dirci, verità crude, crude, che da altri dette, che non fosse l’apostolo dell’Alpinismo, avrebbero urtata la suscettibilità di non pochi.
Carattere adamantino, sempre eguale, elevato sempre, solo rare volte e quando si sentiva fortemente contrariato s’indispettiva ed allora, rosso in viso, con fierezza, battendo il piede in terra soleva esclamare: « Sono inglese! » per farci comprendere che tosto o tardi voleva riuscire nel suo intento.
Entrato a far parte del C. A. I. nei suoi primordi (1865), veniva nel 1866 eletto a membro del Consiglio Direttivo, carica che, salvo breve intervallo, mantenne sino alla morte.
Nel 1866 propugnò ed aiutò l’impianto della Sezione di Aosta, ne sorresse i primi passi, ed allorchè colla morte del canonico Carrel e di tanti altri volonterosi essa minacciava di cadere, Egli accorse, ne promosse la fusione col «Cabinet littéraire» e con dono di quadri e di libri ne abbellì le sale e v’iniziò una specie di museo, destinato a raccogliere i prodotti minerali e delle principali industrie della vallata. Alle sedute che allora presiedette sospinse calorosamente giovani e vecchi ad aiutare con tutte le loro forze il risorgere della più vecchia Sezione del Club, ch’Ei voleva destinata a rendere servizi importanti a tutta l’estesa regione che la circonda. Fu in quelle memorande sedute, che risorta a nuova vita, la Sezione d’Aosta proclamava il Budden suo Presidente Onorario.
Presiedette pure il comitato formatosi per attuare il progetto di riparare la mulattiera e tracciare un sentiero che salisse al Col Fenêtre in Valpellina, comitato che ottenne dalle Autorità svizzere, il compimento dell’opera sul versante di Val di Bagnes.
Ai suoi aiuti morali e finanziari è dovuta la esecuzione del sentiero che attraversa il Colle di Valcornera, quello del Tournalin, la costruzione di un «pavillon» sul Pic Sismonda e di tutte le capanne della Sezione, la pubblicazione di un album ove sono illustrate la Valpellina, la Valgrisanche e le Valli di Cogne e Rhême, fattasi per sottoscrizione, in capo alla quale Egli figura per lire 200, la fondazione della Scuola di Agricoltura, della Scuola per le Piccole Industrie e della nuova Società d’Apicoltura, ecc. ecc., tanto che il Comizio Agrario di Aosta che aveva avute da lui sì larghi incoraggiamenti nel 1871 lo nominava suo Presidente Onorario e l’anno successivo il Consiglio Comunale di detta Città credette dover suo concedergli la cittadinanza onoraria[1].
Nel 1869 con Felice Giordano, Giovanni Battista Rimini ed Igino Cocchi fondava in Firenze un’altra Sezione del Club Alpino, che presiedette poi sino ai suoi ultimi giorni e che sotto di lui ha compiute importantissime opere, quali la pubblicazione di Annuari, di un Catalogo della biblioteca sezionale, delle Guide dei Bagni di Lucca, delle dimore estive in Toscana, del Casentino, di Vallombrosa, di Montepiano, ecc., la costruzione di sentieri, al Callare di Matanna ed al Procinto, fra la Garfagnana e la Versilia, il rimboschimento al Capo d’Arno, e di larghe estensioni di terreno in diverse regioni dell’Appennino Toscano e delle Alpi Apuane, l’impianto di alberghi, il collocamento di migliaia di pesci nei torrenti, la fondazione delle Stazioni Alpine di Stia, di Lucca, di Prato, la costruzione del Ricovero Dante sul Monte Falterona e quello al Lago Scaffaiolo nella montagna Pistoiese. Diede inoltre largo sviluppo alle gite sociali ed alle escursioni scolastiche, contribuendo così a far ampiamente conoscere il Casentino, Vallombrosa, Montepiano, il Mugello, le montagne Pistoiesi e Lucchesi, le Alpi Apuane e la Lunigiana.
Fu sotto la sua presidenza ed auspici, che nel giugno 1876 la Sezione di Firenze tenne in Pistoia, con felicissimo esito, il IXº Congresso Alpino, e nel 1893 ebbe luogo la Riunione intersezionale al Procinto (Alpi Apuane), in occasione della quale benchè avesse allora ormai raggiunti 68 anni, Egli salì con una ventina di soci sulla vetta di quel monte curioso, vera torre di roccia, per calcare il cui vertice dovette affrontare il pericolo di salire per una scala di legno alta 8 metri poggiata contro la parete a picco, ed oltr’essa innalzarsi su per 265 scalini tagliati nella viva roccia. Quel giorno venne inaugurata lassù in onore del Budden una lapide con medaglione-ritratto di Lui, scolpito in marmo statuario di Carrara.
Nel 1879 di passaggio a Genova con Damiano Marinelli, in occasione di una gita al Monte di Portofino, gettava le basi di quella Sezione Ligure, oggi floridissima.
Sapendo quanto l’iniziativa personale e la buona volontà servissero a dar incremento alle Sezioni, ne visitava or l’una or l’altra ed avrebbe voluto e propose che la Sede Centrale inviasse tutti gli anni qualcuno dei suoi membri a vedere quelle che avevano maggior bisogno d’incoraggiamento, di consiglio, onde rianimarle, metterle sul giusto cammino.
Rappresentò il Club Alpino Italiano ai Congressi del Club Alpino Svizzero tenutisi a Sion (1874) ed a Ginevra (1879), a quelli del Club Tedesco-Austriaco in Villach ed a Innsbruck, a quelli del Club Alpino Francese tenutisi a Parigi in occasione dell’Esposizione universale del 1878 e nell’agosto 1889, al Mont Dore (1882) ed a Sixt e Chamonix (1883), e presiedette la riunione degli Alpinisti Francesi ed Italiani tenutasi sul Colle del Moncenisio nell’anno 1875.
In occasione del Congresso tenutosi in Torino nell’agosto 1874, Quintino Sella fece speciale menzione delle benemerenze del Budden verso la nostra Istituzione e nell’assemblea del 1889 i delegati di tutta Italia lo proclamavano Socio Onorario.
Era pure Socio Onorario dell’Alpine Club di Londra, del Club Alpino Francese, della Società Alpina Friulana, della Società Alpina dei Tatry (Ungheria), del Club Alpino Polacco di Cracovia, socio corrispondente dell’Appalachian Mountain Club di Boston, socio effettivo di gran parte degli altri Clubs e Società Alpine di Europa, Delegato della Sezione di Napoli del nostro sodalizio, membro di molti Comitati e Commissioni speciali nelle quali in sì lungo volgere di anni la sua parola assennata, i suoi consigli pratici furono sempre ascoltatissimi.
Ci legò e mantenne in buoni rapporti con tutti i Clubs Alpini esteri coi quali, come coi più eminenti alpinisti stranieri, era in continua corrispondenza facendo, come argutamente egli ci disse all’ultima festa tenutasi in suo onore al Monte dei Cappuccini in Torino, da ministro degli esteri del Club Alpino Italiano.
Di Lui, fornito non solo di sublimi doti di mente e di cuore, ma ben anco di largo censo, rimarrebbe ora a dire quanto l’animo suo grande e generoso lo condusse a compiere per i poverelli, se la sua modestia eccezionale non avesse nascosto con un velo quasi impenetrabile le infinite sue opere di pietà. Sarebbe questa certamente la pagina più gloriosa di tutta la sua esistenza.
Condusse sempre vita modesta, non adeguata alla cospicua fortuna di cui disponeva, destinando ad opere di beneficenza, a lenire miserie, senza la minima ostentazione, quanto non eragli strettamente necessario, secondo le norme del Vangelo, di cui era fervente osservatore. E nello stesso modo che può dirsi come nessun infortunio che abbia colpito gli abitanti delle Alpi o degli Appennini sia stato da lui dimenticato, così è da asserire che nessun povero si è mai rivolto invano a lui che, allorquando per avventura le generose sue elargizioni avevano esaurite le somme disponibili, non esitava punto a privarsi degli oggetti personali di prima necessità, pur di venire in loro aiuto.
L’animo suo benefico, il suo carattere dolce, la sua timidezza che lo portava a nascondere ogni suo atto, a far quanto poteva onde si parlasse il meno possibile di Lui, facevano strano contrasto colla tenacia eccezionale della sua fibra, colla sua ferrea volontà, che lo sorresse sempre nel lento e continuo lavoro di rigenerazione ch’Egli voleva compiere.
Sposata la causa dell’Alpinismo nei giovani anni, vi dedicò tutti i suoi giorni, informò ad essa tutti i suoi atti, predicando incessantemente onde si comprendesse qual campo immenso essa abbraccia, quanti benefici frutti apporterà alla nostra patria. Egli vedeva in essa un elevatissimo problema, dalla cui soluzione si deve attendere, fisicamente, moralmente ed economicamente, frutti d’inestimabile valore.
«Tale era l’uomo, che piangiamo estinto, tale il collega che perdemmo irreparabilmente. Ma uomini che, come il Budden, sono l’incarnazione dei più alti ideali dell’umanità, non muoiono; essi sopravvivono allo sfacelo della materia nei loro ideali stessi, che sono immutabili. Se l’Apostolo dell’Alpinismo abbandonò le sue forme terrene, rimane fra noi imperituro il suo vangelo. E nella venerazione degli Alpinisti Italiani, nel Pantheon dei benemeriti della nostra Istituzione il posto di Riccardo Enrico Budden è accanto a Quintino Sella e a Bartolomeo Gastaldi.»[2]
A tener desta la sua memoria che sarà sprone a tutti gli alpinisti a proseguire sulla via da lui tracciata, nel gruppo del Gran Paradiso una vetta alta 3687 m. porta il suo nome, che venne pur dato ad un Colle delle Alpi Pennine ed al rifugio costruito dalla Sezione di Aosta sulla Becca di Nona (Pic Carrel), e che l’amico suo abate Stoppani registrò a lettere d’oro nel libro « Il bel Paese.» Monumenti questi, coll’opere sue, degni dell’Apostolo dell’Alpinismo Italiano.
Nicola Vigna (Sezione di Aosta).
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NOTE:
[1] A questo proposito ci sembra opportuno riferire testualmente la deliberazione Consigliare presa in data 20 maggio 1872, la quale enumera i preclari titoli di benemerenza del Budden a riguardo della Valle d’Aosta.
«Considérant que M. r Budden n’a cessé, depuis qu’une bonne étoile et son goût du beau le conduisirent dans nos montagnes, de vouer un intérêt particulier à la Vallée et principalement à cette Ville où il a établi une Succursale du Club Alpin, de laquelle il est le digne Président honoraire et l’âme vivante; qu’il cherche sans cesse à faire connaître la beauté de nos sites et la majesté de nos pics gigantesques et à nous attirer les touristes et les voyageurs, tant par ses nombreuses relations particulières que par la voie du journalisme; que, dans ce but, il est toujours là à suggérer de bonnes directions à nos hôtels et des conseils pratiques à nos guides; qu’à son initiative ed à sa persévérante bonne volonté sont dues les améliorations au pavé et aux promenades de Courmayeur, la construction de la grotte d’abri au Mont-Cervin, la prochaine construction d’une cabane au Col Sismonda, le chemin du Tournalin, etc.;
«Qu’il ne se contente pas d’étudier et de nous communiquer avec une amitié constante tous les moyens propres à nous attirer les étrangers et les amis de la belle, riche et variée nature de nos montagnes, mais qu’aux conseils, il joint toujours l’aide puissant de ses libéralités, témoin la belle part qu’il prend à toutes le souscriptions, le prix qu’il a établi pour l’inventeur du meilleur système de reboisement de nos forêts, cette collection d’ouvrages, de cartes géographiques, d’itinéraires, de dessins, de lithographies et ce beau portrait en grand de notre compatriote regretté M. r le Chanoine Georges Carrel qui ornent et embellissent notre salle du Club;
«Que tous ces mérites sont des titres à notre reconnaissance et constituent le vrai citoyen;
«Ce Conseil, voulant consacrer, par un acte légal, la manifestation de l’opinion publique et de ses propres sentiments,
«A délibéré, à l’unanimité des suffrages, de conférer à M. r le chevalier Budden le titre honorifique de Citoyen de la Ville d’Aoste et de charger la Junte Municipale de lui délivrer le diplome relatif, avec une copie de la présente délibération.
«Préalable lecture, la présente a été signée comme suit.
«Signés: Le Président Dalbard Le Conseiller ancien V. Rosset avocat Rivaz Jean-Baptiste ».
[2] Vedi “Riv. Mens.„ vol. XIV (1895) pag. 459.
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Emilio Rey.
Non parte mai del tutto chi lascia dietro di sè buona memoria. E. De Marchi.
Dinanzi al frequente succedersi delle disgrazie alpine, l’animo si turba, s’inquieta, e pare che il nostro entusiasmo si sfumi o vada a poco a poco raffreddandosi. Eppure così non è, e non sarà mai. L’alpinismo, per queste tristi calamità che vengono crudelmente a colpire i suoi fidi, non è condannato a morire; e continua imperturbato nella sua via tracciata, alla conquista di vette inesplorate, dove il nostro essere, dimentico della sua veste terrena, si rende migliore e mira ad altissimi ideali.
Le disgrazie alpine, non vanno considerate sui generis ed imputate a temerità, ma nella causa immediata che le generò: esse provano vieppiù la debolezza dell’uomo, per quanto gigante egli sia, dinanzi ai superiori eventi; e, benchè spargano un subitaneo terrore nelle nostre file, fortificano, ritemprano i nostri cuori: poichè non è che dopo aver passato per dure prove che l’anima si sente forte.
Se i più valenti campioni dell’alpinismo soccombono là dove già passarono non curanti più volte, non è perchè abbiano oltrepassato il limite consentito dalla prudenza e dal coraggio, ma così volle il destino, il fato supremo. Dobbiamo ammettere la massima alpinistica che in montagna una lieve, anche involontaria imprudenza può costare la vita ad un uomo: ma quale è l’essere perfetto che non abbia una momentanea debolezza?
Una tremenda prova la diede la guida Emilio Rey, onore e vanto delle guide italiane, compagno gentile e valoroso, zelante fino all’abnegazione, forte ed insuperabile; Lui, guidatore sicuro dei più eletti campioni dell’alpinismo europeo, che nè la furia delle tormente, nè l’aspra verticalità dei picchi bastarono a farlo indietreggiare, Lui perì vittima di una tenue imprevidenza.
Dinanzi ad una tomba di recente aperta non è lecito criticare, chè unanime sorge il plauso a questa vita bruscamente spezzata.
Emilio Rey dorme placidamente nell’umil campo dei morti del suo caro paese natìo e riposa dall’aspre tenzoni della sua vita: il suo nome è stampato a caratteri d’oro nei fasti dell’alpinismo; la sua fiera ed amabile figura resterà impressa perennemente in quanti lo conobbero.
Il mese di agosto è stato terribilmente nefasto per la stazione alpina di Courmayeur. In questo mese, che è il più propizio per le grandi ascensioni, perivano nel 1890, sugli alti ghiacci del Monte Bianco, due guide provette e di fama, assieme a un giovane e baldo alpinista che iniziava brillantemente la sua carriera. Quattro anni dopo, un alpinista temprato ai più ardui cimenti rimase vittima della subitanea ira di quel colosso, mentre veniva di calcare la cervice di uno dei suoi più temuti satelliti.
Le guide di Courmayeur, che da più di mezzo secolo riportano vittorie su quell’eccelsa catena, erano sempre state risparmiate nelle infauste vicende che vi si svolsero; ma nell’anno decorso venne pur troppo il loro turno. In men di una settimana ci rapiva un onesto padre di famiglia che lasciò due orfani in tenera età, ed un giovane che lasciò la sposa diletta nell’inconsolabile solitudine; e quindi, affinchè il colpo si ribadisse più tremendo nei nostri cuori, ci toglieva una persona che non solo ci era cara, ma formava il nostro vanto, una delle nostre maggiori glorie.
Del Rey conosciamo purtroppo i particolari della sua tragica morte; degli altri due, Savoye Michele e Bron Lorenzo, non basteranno le supposizioni a colpirli di biasimo; l’animo ripugna a pensare che non abbiano compiuto i doveri loro incombenti: gli onori resi ai loro corpi giustifichino la loro condotta. Essi sono morti, ma non scomparsi dalla nostra mente; i martiri dell’alpinismo ci sono sacri.
«Il est des catastrophes si complêtes, si foudroyantes qu’on refuse d’y croire dans le premier moment.—On se dit:—Ce n’est pas possible!—et, malgré l’évidence, on doute.»
Tale accento di dubbio, di sorpresa e di profondo dolore, si leggeva in volto a tutte le persone in Courmayeur, verso il mezzogiorno del 25 agosto 1895, quando giungeva dal Colle del Gigante la guida francese apportatrice del triste annunzio della morte di Emilio. In men che non si dice, a tutti fu nota la disgrazia. Fu come un vento gelido di morte scendente dalla montagna ad imprimere su tutti gli animi lo sconforto; come per incanto scomparve quella gaia serenità che si vede dipinta sui volti delle persone in un giorno di festa. Gli occhi s’imperlavano di lagrime furtive, e lo sguardo, nel suo mutismo, lanciava una maledizione a quella montagna che ci rapiva una persona amata da tutti.
Mi par ancora di vedere la moglie del Rey, all’uscir di messa, apprendere, dal suo figlio maggiore, la tremenda sciagura che la colpiva. Povera donna! non volle credervi; ma interrogati, cogli occhi, gli astanti fu purtroppo conscia della verità di quanto le asserivano. Che terribile frecciata al cuore!
L’annunzio di tanta iattura lasciò la maggior parte di noi increduli. Ci pareva impossibile che un Rey fosse caduto e tanto più in un sito relativamente poco pericoloso. Ma a che pro’ illudersi?
Per quel giorno e per molti altri ancora, Emilio Rey divenne il tema di tutti i discorsi; però da tutte le bocche, non una parola di biasimo usciva al suo indirizzo, ma lodi ed ammirazioni.
Poichè Emilio Rey non è più, tramandiamo ai posteri la sua fiera e simpatica immagine, narriamo le gesta della sua vita gagliarda che mai venne meno al dovere del giusto e del prode. Che le generazioni avvenire sappiano chi fu e come fu Emilio Rey!
Il còmpito è arduo e spinoso, ma riconforta l’animo nel ripercorrere questo cammino pieno di vittorie, dove tra le foglie della quercia robusta, sono intrecciati i fiori gentili della cortesia ed i frutti di animo elevato e d’una coscienza candida, immacolata.
Emilio Rey nacque nel 1846 in quel di La Saxe, frazione di Courmayeur, in Valle d’Aosta. Poco o nulla di notevole v’è da dire sulla sua giovinezza, se non che ricevette un’educazione austera, che valse grandemente a formarne un uomo di carattere dai forti proponimenti e dai ponderati giudizii. L’istruzione gli fu pur troppo limitata: abbozzata meschinamente nella scuoletta del villaggio, fu compiuta in famiglia fino oltrepassata la puerizia. Ma se la mente fu lasciata in balìa di sè stessa, il cuore venne ornato di tutte quelle doti che, nella vita, valgono più di qualunque ornamento estetico, e bastano da sè sole per farsi apprezzare e rispettare.
Della sua poca coltura ebbe poi Emilio sempre a dolersene per tutta la vita, adducendo da fine osservatore l’aforisma: «L’instruction sert grandement à former les caractères et à développer les forces latentes du cœur et de l’esprit. Elle constitue, pour ainsi dire, la noblesse de l’ouvrier.»
Però il continuo contatto e la vita quasi intima che trasse con persone di vasto sapere lo dirozzarono non solo della scorza che conservava di montanaro, ma gli suscitarono un’ardente brama di sviluppare le facoltà intellettive per quanto gli permettevano e l’età matura e le occupazioni domestiche. In prova di quanto dico, sta il fatto che fin dal 1878, allorquando il suo nome si era già fatto una breccia nella fama, sentì la necessità di possedere, almeno superficialmente, l’idioma delle guide bernesi, colle quali aveva frequenti relazioni ed era amico e emulo. Si ridusse perciò a passare quell’inverno a Meiringen colla guida Zumberg, che da tempo conosceva. Più tardi, verso il 1887, teneva presso di sè, per tutta la stagione invernale, un certo Fischer, giovane dell’Oberland Bernese (perì nell’88 accompagnando i signori Donkin e W. Fox al Dichtau, nel Caucaso), onde vieppiù impratichirsi della lingua tedesca.
Emilio Rey parlava e scriveva correttamente il francese, conosceva l’italiano e il tedesco ed interpretava anche la lingua di Byron. Tuttavia, se la sua parola era calda, forbita, schiettamente entusiastica, e quasi direi spiritosa, il suo scritto era stentato, sebbene conciso; preferiva sempre la piccozza alla penna!
A lord Wentworth che lo richiese di ragguagli sulla loro prima ascensione dell’Aiguille Noire di Petéret, rispondeva questa frase tipica: «La description de cette course neuve ne me satisfait pas du tout, et je trouve que j’ai bien plus de peine et de soucis de décrire mes courses que de les faire!»
Il padre di Emilio, Giuliano Rey, era un uomo tipico per eccellenza. Il procedere franco della sua persona, l’espressione leale, ma ferma del suo sguardo indagatore, la sua parola, il suo gesto, tutto contribuiva a cattivargli di primo acchito ossequio e venerazione. Fu per molti anni capo-guida e per più di due lustri giudice conciliatore. Fu nel disimpegno giudizioso delle funzioni che importavano questa carica, che si conquistò amore e rispetto nel suo paesello. Tale fu il genitore di Emilio Rey; non potevo tralasciare un accenno al padre parlando di tanto figlio.
Rey, giovinetto, apprese ed esercitò il mestiere di falegname, nel quale divenne abilissimo. Fu lui, che più tardi, costruì i rifugi alpini delle Aiguilles Grises, del Colle del Gigante, delle Grandes-Jorasses, del Triolet e del Gran Paradiso. Chi abbia pernottato in quelle capanne non potrà a meno che tributargli riconoscenza per la loro ammirabile costruzione e solidità.
Prima di intraprendere la narrazione della sua vita avventurosa, visitiamolo nelle pareti domestiche. È là che il cuore di Emilio rifulge di vivida luce e come figlio, e come sposo, e come padre. Professò sempre profonda venerazione per gli autori dei suoi giorni. Come mi riuscirono strazianti le lagrime della sua vecchia madre, quando rivide, per l’ultima volta, l’idolo della sua vita.... cadavere!
Primo pensiero di Emilio fu sempre la famiglia. Quando trovavasi assente da casa, per cause inerenti alla sua professione, vi era però presente in ispirito. Ed era principalmente nei passi difficili che tale pensiero lo tormentava. Quale reazione esercitasse nel suo animo l’idea della morte, ne sia prova la calma impassibile del suo sguardo e la lucidità di mente che in quegli istanti possedeva in sommo grado. Non era lo spettro nero, no, che lo turbava, che gli ridonava forza e coraggio; ma bensì il pensare essere Egli il cardine della prosperità della famiglia, l’avere i figli giovani, epperciò abbisognanti di un sostegno, di una guida onde incamminarsi nella vita. Egli era padre premuroso e previdente: mercè la sua instancabile attività, procurò alla famiglia una prosperosa agiatezza. Diede ai figli una buona educazione, ma più di tutto suscitò in loro l’amore al lavoro.
Emilio Rey non era un uomo da godersi beatamente il meritato riposo colle mani alla cintola. Lui riposava lavorando. Terminata la stagione delle corse, appendeva ad un chiodo la corda e la piccozza, e correva pei campi ad invigilare gli ultimi lavori. Caduta la neve a ricoprir le campagne del suo candido velo, gli rimaneva la pialla per fargli parere meno lunghi i mesi invernali. Secondo Lui l’alternarsi di varii lavori costituiva un riposo. Che ne dite, lettori, di questa saggia filosofia?
Emilio Rey abbracciò la professione che lo rese celebre per spontanea vocazione. Egli non apprese ad essere guida cacciando il camoscio o sotto l’altrui scorta, ma di propria e volontaria iniziativa.
Fin da giovinotto, ci raccontava in questi anni, nel giungere su una prominenza, su una vetta qualunque, egli si sentiva invaso da un «bien aise» insolito e come purificato da ogni sozzura terrestre in quell’ambiente aereo e vivificante; e rimaneva lunghe ore estatico ad ammirare le bianche guglie delle montagne circostanti, sulle quali avrebbe bramato volare onde abbracciare un più vasto orizzonte.
All’età di 22 anni, nel 1868, cominciò il suo tirocinio di guida. Poco notevoli furono le corse compite nei primi tempi della sua carriera, limitandosi a poche vette del suo paese e della valle, ascensioni e passaggi riputati al giorno d’oggi come volgari, ma in quei tempi ritenuti scabrosi. Denotava, fin d’allora, di diventare un’eccellente guida.
Nel 1875 accompagnava l’ing. Angelo Genolini in un tentativo al Dente del Gigante, ripetuto poi due anni dopo con lord Wentworth e l’avv. De Filippi. A proposito di questa bizzarra vetta, insensibile alla assidua corte che le faceva un numeroso stuolo di ammiratori, a quanto mi riferiscono altre guide militanti allora, Emilio fiutava la possibilità di domarla, però non escludendo mezzi meccanici.
Fu solamente nel 1876 che il Rey cominciò a distinguersi fra i colleghi per quello che era. Venne impegnato per parecchio tempo da lord Wentworth, col quale salì le Grandes-Jorasses, il Castor, lo Strahlhorn, il Riffelhorn dal ghiacciaio di Gorner, più un tentativo sull’Aiguille Verte dai châlets di L’Ognan. Se non era per l’indisposizione di due guide, che si ammalarono quando già trovavansi vicino alla meta, quella sarebbe stata una vittoria del Rey. Egli tenne la testa della carovana per tutto il tempo e si distinse talmente che il Wentworth lo classificò tra gli arrampicatori di prim’ordine.
L’anno successivo guidò lo stesso alpinista in una serie d’importanti imprese, fra cui ascensioni di picchi vergini, quali l’Aiguille Noire de Pétéret e la Punta Giordano dei Jumeaux. Per vie nuove salì il Gran Paradiso dal ghiacciaio della Tribolazione, e la Grìvola, con una variante, da Valsavaranche. Fu pure all’Aiguille de Rochefort (seconda ascensione), ai Jumeaux, ed al Cervino, da Zermatt al Breuil, col quale faceva la prima volta conoscenza.
Il valente alpinista inglese scrisse belle pagine sul libretto di Emilio, gentile preludio di altre non meno piene di ammirazione per le sue eccezionali qualità. Lord Wentworth lo dichiarò abilissimo e forte alpinista, possessore di un tatto speciale per orientarsi in mezzo ai frangenti i più difficili.
A proposito di questo intuito delle guide, che istintivamente sanno afferrar subito il lato debole della montagna, propendo che esso consista non già nell’istinto naturale del montanaro, ma bensì nell’acquisita esperienza e profonda osservazione. Allorchè nel 1886, assieme alla guida François Simond, Emilio accompagnava il sig. H. Dunod alla Meije, non la conoscevano nè gli uni nè gli altri, «mais, sans hésitation, il devina si facilement l’issue des passages délicats, qu’ils détinrent pendant longtemps le récord de la vitesse». Partiti dal Châtelleret, compivano l’ascensione con passaggio della «Brêche» e scendevano a La Grave in sole 16 ore![3]
Nel 1878 Emilio veniva a stringere relazione col Monte Rosa guidando alla Punta Dufour il dott. Theodor Petersen, allora presidente del Club Alpino Tedesco-Austriaco.
Dal 18 agosto a metà settembre del 1879, il Rey fu ritenuto da J. Baumann, che assieme al sig. J. O. Maund gli crearono una aureola di notorietà. A partire da questo tempo, tutti i più festeggiati alpinisti andarono a gara per averlo compagno e guida nelle loro escursioni. In quell’anno compiva, coi signori J. Baumann, G. Fitz Gerald e F. J. Cullinan, la prima ascensione dell’Aiguille di Talêfre, e della Dent d’Hérens per la cresta che dal Tiefenmattenjoch conduce alla sommità. Faceva pure le seconde ascensioni del Grand Dru, e del Cervino per la cresta di Zmutt, pochi giorni dopo il sig. Mummery colla guida Alexander Burgener. Per questa via, doveva pure accompagnare ultimamente a quel colosso S. A. R. il Duca degli Abruzzi, se il tempo non fosse venuto, quand’egli era ancor libero, a «gâter le jeu».
Sempre con J. Baumann, nel 1880 tentò l’Aiguille du Plan dal ghiacciaio di Blaitière. Questa vetta fu poi soggiogata poco dopo, dalla parte opposta compiendovi la seconda ascensione. Nella gita suddetta il Rey aveva compagno Andreas Maurer, col quale era amicissimo e doveva in seguito misurarsi sui picchi più ardui delle Alpi.
Nell’anno medesimo, con Georg Gruber esplorava il fianco meridionale del Monte Bianco, scoprendo il Colle du Fresnay (una sella nevosa che unisce l’Innominata alla parete rocciosa sostenente l’immane cupola del colosso alpino) e riuscendo sulla suprema vetta, direttamente dal ghiacciaio di Fresnay, variando nel percorso la strada tenuta nel 1877 da J. Eccles con Alphonse Payot. Questa ardita esplorazione gli fu di valido aiuto, come vedremo in seguito, nelle due ascensioni alla terribile Aiguille Bianche de Pétéret. Con lo stesso alpinista, nell’anno successivo, perveniva sul Monte Bianco dal ghiacciaio della Brenva e pel Corridor (14 luglio) e scopriva un nuovo passaggio nel gruppo del Triolet, il Col du Piolet, così denominato perchè dovettero abbandonare una piccozza alla quale avevano assicurato una corda onde scendere sul versante di Chamonix. La prima di queste escursioni non fu mai più ripetuta, sia perchè è pericolosissima per la caduta di blocchi di ghiaccio, sia anche perchè la cresta per la quale salirono al Colle della Brenva, non è sempre praticabile per il vetrato ricoprente le roccie.
Nel 1881 con J. Baumann, il Rey fece un tentativo arditissimo sull’Eiger, per la cresta di Mitteleggi. Chi non conosce quella montagna, non può farsi un’idea di questo «tour de force» eccezionale, per la quasi assoluta verticalità della parete. A proposito di questa azzardatissima impresa, l’alpinista isolano scrisse le seguenti testuali parole sul libretto di Emilio per compensarlo, in certo qual modo, dell’insuccesso, non dovuto già all’imperizia della guida, ma all’impraticabilità del sito. «Rey solo e senza essere legato, contornando un masso difficile e sporgente, proseguendo lungo la cresta, riuscì ad arrivare a un punto sino allora inesplorato.» Pochi giorni dopo però, l’Eiger veniva salito dalla stessa comitiva per la solita via. In quell’anno, con Andreas Maurer, Emilio guidò il Baumann ed il Maund, alla prima ascensione del Grosser Lauteraarhorn dal versante occidentale; e più tardi guidò il sig. Moritz von Déchy all’Aiguille Verte.—«L’ascension de l’Aiguille Verte était accomplie aprés une sévère chûte de neige, sous des circostances très difficiles et défavorables. J’avais eu l’occasion de voir Rey au travail et depuis j’ai souvent pensé de faire avec lui un voyage lointain, dans une des chaînes de montagnes hors de l’Europe».—Così si esprime il signor Déchy in una gentilissima epistola direttami a proposito di Rey. E più oltre, pensando sulla misera fine dei suoi due compagni di viaggio, esclama: «Hélas! tous les deux sont maintenant morts, tous les deux tombés sur leur champ de gloire!»—Che fatale sorte fu serbata a questi due valorosi militi dell’alpinismo! Ha qualche cosa di fatidico, questo destino delle guide, che non vale però a diminuire il loro entusiasmo per la montagna e l’intrepidezza con la quale affrontano i pericoli maggiori.
Nella primavera del 1895 parlando con Emilio Rey, gli domandavo perchè oramai non si concedesse riposo, dacchè si era acquistato, con la sua attività, un’avviata agiatezza. Con la solita franchezza, Egli mi rispose: «Ce n’est pas le gain qui me pousse sur les sommets, c’est la grande passion que j’ai pour la montagne. J’ai toujours considéré la récompense comme chose secondaire à ma vie de guide.» Poi soggiunse inspirato da chi sa quali presentimenti: «Je sens, je prévois qu’un jour ou l’autre, on me recueillera dans une crevasse: ce ne sera point le danger qui m’aura tué, mais un caprice de la montagne. Je l’ai trop aimée et vaincue pour qu’elle ne se venge pas sur moi!»—Chi allora prevedeva che questi pronostici su sè stesso, si avverassero in pochi mesi? Povero Emilio!
Rey aveva una facoltà tutta sua propria per cattivarsi, a prima vista, delle simpatie. Anche fra i profani in alpinismo contava degli ammiratori e degli amici. In montagna non solo riusciva utile e gradito compagno, ma sapeva prevenire e soddisfare tutti i minimi desideri del viaggiatore, rassicurarlo nei momenti incerti, suscitargli il coraggio e la forza per vincere e l’entusiasmo per la vittoria. È per questo infatti che tutti gli alpinisti da lui guidati lo veneravano come un maestro e lo amavano come un amico, è per questo che lo volevano sempre con loro e lo richiedevano di accompagnarli, come d’un favore, nelle loro più arrischiate escursioni. Non stupisca dunque se un alpinista come il sig. Déchy, riconoscesse nel Rey, in una sola ascensione fatta con lui, una guida valente ed un gradito compagno per un lunghissimo viaggio quale vagheggiava di fare nel Caucaso.
Emilio Rey compì poi con Carus D. Cunningham un lavoro considerevolissimo. A cominciare dal 1882 sino al 1884 fu ritenuto da quell’alpinista quattro mesi all’anno. Sono tutte salite di primo ordine, e meritano un’accenno.
Nel 1882 si principiò in giugno nella catena del M. Bianco salendo parecchie vette, fra le quali l’Aiguille de Talèfre (prima ascensione dal versante italiano per la cresta Est), la Calotte de Rochefort (prima ed unica ascensione). Nel distretto di Zermatt Emilio guidò il Cunningham al Cervino, al Rothhorn, al Grabelhorn, ecc.
La campagna susseguente fu non meno trionfale per il Rey. Oltre il Cunningham accompagnò i signori H. Walker, J. W. Hartley e W. E. Davidson, i quali scrissero due nobilissime pagine sul libretto di Emilio che per l’autorità di chi le dettò gli fanno molto onore.
Col primo di questi due ultimi valentissimi «grimpeurs», faceva nell’agosto la seconda ascensione delle Aiguilles du Dru. Quella del Petit Dru fu compiuta senza l’aiuto dei mezzi meccanici adoperati nella prima salita (C. T. Dent e J. W. Hartley con A. Burgerner e K. Maurer: 12 settembre 1878); venne definita da questi due sperimentati alpinisti come la più dura scalata che abbiano fatta. In quattro giorni consecutivi Emilio fece la terza, la quarta, la quinta ascensione del Grand Dru. Questo si chiama possedere una forza di resistenza e un «entraînement» non comuni.
Una di esse, con W. E. Davidson, fu la prima salita compiuta direttamente dal Montanvert, senza che pernottassero al ghiacciaio della Charpoua, come abitualmente si fa. Partiti dall’Hôtel alle 3,35 del 28 agosto, alle 11 arrivavano sulla vetta e già verso le 17,45 dello stesso giorno erano di ritorno all’albergo. Impiegarono dunque in tutto solamente 14 ore e 10 min., delle quali, diffalcando le fermate, risultano ore 10,55 di assoluta marcia. Si consideri poi anche che non fecero uso di scale, nè di corde fisse, e variarono la solita via. Il sig. Dent raccontando questo «tour de force» unico nel genere, scrisse: «Il sig. W. E. Davidson in una recente ascensione su questa montagna, potè trovare la strada senza l’aiuto di scale e di corde. In uno spazio di tempo prodigiosamente breve, salì e discese la vetta, sulla quale si fermò delle ore senza fine.»
Sempre nel 1883, Emilio guidò il Cunningham alla prima ascensione della punta più alta dell’Aiguille du Midi per il versante Nord-Ovest, alla seconda ascensione delle Périades (prima per il versante Est); pure alla seconda del Mont Blanc du Tacul, ma con una variante; infine nell’Oberland a buon numero di vette. Mi limito ad enumerare solamente le principali, perchè lo spazio tiranno e la minor importanza delle altre mi vietano di troppo dilungarmi in cose di poco interesse.
Il signor Cunningham nutriva una vera affezione per Emilio Rey. Nel gennaio del 1884 lo invitò a passar seco alcune settimane in Inghilterra dove lo fece viaggiare nelle principali città e lo presentò ai soci dell’Alpine Club. Ovunque fu festeggiatissimo, e ricevette numerosi segni di viva simpatia e grande ammirazione. Dai servitori del Cunningham, all’editore del Nineteenth Century, col quale passò un «aprés-midi» intellettuale, a Madame Tussaud, tutti avevano per lui una parola di lode. Ed Egli si trovava «à l’aise partout» e «on remarqua qu’il se conduisait avec un tact parfait, conservant toujours sa naïve aîsance.»
In quel frattempo Emilio fu col sig. Cunningham al Ben Nevis, la vetta più alta della Grande Brettagna, e sull’Arthur Seat. Era la prima volta che queste ascensioni venivano compiute da una guida delle Alpi. La stampa scozzese ne tessè, a proposito, una particolareggiata relazione, nella quale vediamo con piacere il nome del Rey far vanto alle guide italiane[4].
Emilio Rey
EMILIO REY
Sempre nel 1884, Emilio in giugno trovasi già, in compagnia del Cunningham, a Grindelwald ad iniziare la campagna alpina che fu fecondissima d’importanti imprese. In quello splendido distretto si ascesero il Mittelhorn, il Mönch, lo Schrekhorn, il Mettenberg, la Jungfrau, ecc... Nella catena del Monte Bianco si compì la prima ascensione della Tour Ronde per la cresta Nord-Est, con discesa al Colle dello stesso nome. La stagione terminavasi con la seconda ascensione del Grosser Lauteraarhorn, per la cresta scendente verso lo Schreckhorn.
Dal 1884 in poi il sig. Cunningham, per motivi di salute, non potè più viaggiare sulle montagne, ma con ciò non venne meno in lui la riconoscenza ch’egli pubblicamente professava al nostro Emilio per gli ingenti servigi resigli.
«In tutte le relazioni ch’ebbe con me—scrisse il Cunningham nel suo aureo libro The Pioneers of the Alps —negli impegni d’ogni anno, nessuna azione venne mai a diminuire, in minimo grado, l’alta stima che ho per lui, o a danneggiare la grande amicizia che esiste tra di noi due».—E più oltre: «Ricordandomi delle circostanze sopraggiunte, quando i nostri giorni d’alpinismo parevano terminare, mi ricordo quanto l’idea del pericolo, che mi sembrava inevitabile, scomparisse alla vista delle braccia robuste, della testa calma e del coraggio inflessibile della mia guida».
Verso la fine di luglio del 1885 il Rey fu impegnato dal sig. H. Seymour King, onde accompagnarlo alla prima salita dell’arditissima Aiguille Blanche de Pétéret, alla quale era legato il triste ricordo della catastrofe del prof. E. M. Balfour con la guida Petrus. Partiti da Courmayeur il 30 di quel mese, dopo sforzi inauditi (specialmente nell’ultimo tratto del ghiacciaio di Fresnay), poterono arrivare verso sera a poco più di 3600 metri, sospesi sull’arditissima parete Ovest dell’Aiguille Blanche, dove pernottarono. Dio sa come passarono la notte a quella straordinaria altezza, quasi librati nel vuoto, legati alle roccie e con 20° sotto zero! La «verve» inesauribile di Emilio aveva sempre lo stesso grado di spiritosità, benchè i denti battessero sonoramente le ventiquattro, ed il vento, colle sue folate da intirizzire le pietre, continuamente li molestasse. Solo l’alpinista che ha dormito alla bella stella a 3000 metri sul livello del mare, può considerare quale sforzo morale deve l’uomo operare su sè stesso, affinchè il fisico non soggiaccia alla forza dell’ambiente.
Al mattino del 31 luglio attaccarono dapprima le roccie che sorpiombano sul ghiacciaio di Fresnay, quindi, lavorando di piccozza su corazze di ghiaccio ed infine per una cresta nevosa che diventa esilissima e vertiginosa, riuscirono sulla vetta. Questa salita, che durò tre giorni con due notti all’aperto, non venne poi mai ripetuta, sia perchè è pericolosissima per le roccie disgregate e per le cornici di ghiaccio, sia anche perchè il ghiacciaio di Fresnay, superiormente, alla base della parete Ovest dell’Aiguille Blanche, si spacca enormemente e forma una bergsrunde insormontabile.
In principio dell’estate 1886 il Rey fu con Miss Katharine Richardson, che accompagnò in seguito quasi tutti gli anni. Di questa intrepida alpinista, coraggiosa quanto mai, che mentiva formalmente il suo sesso (in quanto si riferisce alla resistenza, alla vigoria, alla tempra) soleva Emilio parlarne di sovente; e concludeva che nel mondo muliebre, di uno stampo simile se ne incontrano di rado.
Non notiamo nuove imprese compiute dal Rey in quella campagna, se non che guida il sig. H. Dunod all’Aiguille Verte e alla seconda ascensione dell’Aiguille des Charmoz, oltre alla già menzionata salita alla Meije, in Delfinato.
Nell’agosto del 1887 Emilio ascese moltissime vette della catena del M. Bianco che per brevità non le enumeriamo. Era con J. H. Wicks e W. Muir. All’Aiguille des Charmoz scoprì una variante e riuscì pel primo sul Mont Mummery, una delle tante punte di cui è formata l’Aiguille. Di questa vetta, allora moltissimo in voga, eseguì col sig. Dunod la prima traversata delle sue cinque punte, che divenne poi di prammatica per un abile turista che dimorasse «tant soit peu» al Montanvert. Sempre col Dunod, e nell’anno medesimo, dal Grand Dru scese pel primo al Petit Dru. Questo passaggio, se non esige delle qualità tecniche eccezionali, è sempre difficile ed emozionante, specialmente nel tratto pel quale si deve discendere, quasi perpendicolarmente, lungo una corda di 30 metri. In senso inverso, questa traversata venne effettuata da Miss K. Richardson con E. Rey e G. B. Bich. Il Dunod scrisse a proposito di questo passaggio sul libretto del Rey: «...c’est certainement en grande partie au courage et à l’adresse d’Émile Rey que je dois la réussite de ce passage».
In settembre di quell’anno, 1887, troviamo Emilio ad accompagnare il dott. Paul Güssfeldt al Gabelhorn ed al Cervino, per la nuova via scoperta poco tempo prima, da Zermatt a Breuil. Lasciate quindi le Alpi Pennine, si ridussero nel Gruppo del Bernina a compiere una nuova ascensione del Monte Scerscen pel versante italiano. Nel rendere conto di questa salita non posso fare a meno che lasciar la penna al valente alpinista tedesco che ne scrisse una succinta relazione sul libretto della sua guida.
«En partant de la cabane Mannelli (Italie) nous atteignîmes le Roseg-Fuorcla (Güssfeldt-Sattel) d’ou nous exécutâmes une nouvelle ascension du M. Scerscen, en suivant plus ou moins la grande arête jusqu’à la «Schreckhaube» et de là, sans plus nous éloigner de l’arête, jusqu’au sommet du Scerscen. La descente devait s’effectuer par le versant suisse. Pendant 4 heures consécutives E. Rey a dû couper des grandes marches pour frayer un chemin dans ce mur de glace, qui sépare les parties supérieures de la montagne de l’arête inférieure; celle-ci était toute couverte de neige et nous devions la descendre pendant les premières trois heures de la nuit. La descente entière a duré depuis 1 heure p.m. (22 sept.) jusqu’à 4 heures a.m. (23 sept.), et seulement 24 heures après avoir quitté la cabane italienne, nous arrivions au Restaurant Roseg. C’est a l’exceptionelle adresse de Rey et à son courage à toute épreuve que nous devons la réussite complète de notre tentative un peu hasardée. Il est de mon devoir de professer tout haut l’admiration que j’ai pour les qualités extraordinaires d’Émile Rey».
Tale è il primo attestato rilasciato dal Güssfeldt al Rey, che divenne, d’allora in poi, la sua guida prediletta, accompagnandolo, come vedremo, ad azzardatissime esplorazioni. Fu il Güssfeldt che fece conoscere il nome di Emilio a S. M. l’Imperatore di Germania, il quale da lui sarebbe stato guidato sulle montagne scandinave se la politica, quella gran brutta megera, non fosse venuta a sventare il progetto.
Al primo accostarsi ad una guida conosciuta e di fama, restiamo titubanti, affascinati da un’ingenua soggezione che ci fa sembrare quasi ragazzi. Questa sensazione di rimpicciolimento, che svapora il nostro giustificato orgoglio di parer superiori a quegli uomini rozzi, ma pur grandi, non la provarono soltanto gli alpinisti «à l’eau de rose», ma i più valenti e provetti. Spigolando l’epistolario di Emilio Rey, trovo alcuni brani di lettere che meriterebbero di essere trascritti testualmente, perchè farebbero vieppiù risaltare la considerazione che di Emilio si aveva nel mondo alpino.
Così il dott. Güssfeldt nel sollecitargli il favore di accompagnarlo, ebbe cura di aggiungere: «J’ai assez d’expérience dans les hautes montagnes, pour pouvoir apprécier vos qualités extraordinaires, et vous pouvez être sûr que je vous causerai peu d’embarras, même dans des situation difficiles».
Tutti poi badavano di notificargli il loro stato di servizio e a che punto giungeva la loro forza di resistenza, perchè sapevano che il Rey ripugnava di accompagnarsi, in salite difficili, con neofiti in alpinismo. Ma torniamo in carreggiata.
Verso la fine di dicembre del 1887 i signori Corradino, Gaudenzio, Erminio e Vittorio Sella, accompagnati dai tre Maquignaz, padre e figli, e da Serafino Henry di Courmayeur, tentavano il M. Bianco, partendo dalla Capanna Q. Sella al Rocher du Mont Blanc. Furono ricacciati in basso dallo scatenarsi improvviso di una tormenta. Non iscoraggiti da questo tiro birbone del tempo, al mattino del 4 gennaio 1888 ritentavano la prova, nella speranza che il Monte li volesse benignamente ricevere per augurargli il buon capo d’anno. Invece di Henry, questa volta colla comitiva Sella, partiva Emilio Rey.
È superfluo ripetere qui tutte le peripezie della faticosissima marcia del 5 gennaio, nella quale, partiti dal rifugio Q. Sella, raggiungevano la vetta e discendevamo a pernottare ai Grands-Mulets. Il sovrano dei monti li accolse con un sorriso mefistofelico, ed appena partiti prese il broncio e li avvolse di una fitta nebbia. Però aveva fatto i conti senza la valentia delle guide, chè queste non se la presero, e trassero la comitiva a salvamento malgrado l’oscurità della notte e la molestia del freddo e della pesante nuvolaglia.—«Sotto l’ultima delle Bosses du Dromadaire il Rey, con Daniele Maquignaz e Vittorio Sella, intraprese rapidamente la discesa ai Grands-Mulets, onde tracciare la via verso essi, al resto della comitiva. La notte buia e la nebbia sorpresero tosto il Rey ed i suoi due compagni. Egli tuttavia seppe dirigere la discesa con coraggio ed abilità sorprendenti, superando senza gravi ritardi le numerose difficoltà che presentarono i larghi crepacci del ghiacciaio e raggiungendo i Grands-Mulets verso le 10 della sera[5] ».
Questa ascensione invernale al M. Bianco fu giudicata dal Cunningham come uno dei più rimarchevoli «tour de force» compiti in inverno nell’alta montagna.
Così fu brillantemente inaugurato l’anno 1888, che l’avrebbe coronato dei più fulgidi allori, se circostanze imprevedibili non fossero sopraggiunte ad annientare gli accarezzati ideali. Forse doveva riuscirgli fatale. Che a qualche cosa «malheur est bon?»
Rey desiderava ardentemente misurarsi su montagne sconosciute, fuori delle Alpi; e quando il sig. Maurice de Déchy lo richiese per accompagnarlo nel Caucaso, accolse la proposta con entusiasmo. A questo proposito, mi scrisse lo stesso Déchy: «Il n’y avait là dedans peu d’intérets materiels; c’était le désir ardent d’Émile de voir et d’essayer ses forces dans une des montagnes hors de l’Europe».
Siccome il sig. Déchy aveva, in quell’epoca, una missione da compiere pel suo governo nella Bosnia e nella Erzegòvina, decise d’intraprendere quel viaggio in principio della stagione, restarvi qualche settimana e partire quindi pel Caucaso. Egli invitò il Rey ad essergli compagno anche nelle Alpi Dinariche. Emilio anticipava perciò la partenza e verso la fine del maggio del 1888 giungeva a Budapest in casa Déchy. Terminati i preparativi pel viaggio nel Caucaso, partirono per Sarajevo nella Bosnia. Per quasi due mesi percorsero quelle montagne poco conosciute, compiendovi diverse ascensioni, fra le quali, quelle del Vlasulja e del Maglich che è punto culminante delle Alpi di Bosnia ed Erzegovina. «Rey era guida, compagno, assistente. Non vi erano grandi difficoltà da vincere in quelle ascensioni, ma se non era «le grand guide» che allora si faceva valere, era però il viaggiatore perfetto che sapeva prestarsi a delle posizioni insolite, rendersi utile nei lavori scientifici e sopratutto di essere il più gradevole compagno di viaggio».
«Eh bien! Monsieur—esclamava allora al Déchy—si nous serons au Caucase, sur ces grands sommets, parmi les roches et la glace, vous verrez ce que je peux, s’il le faut!»
Ma ohimè! Così non doveva essere. La missione del Déchy terminavasi troppo tardi per poter intraprendere nello stesso anno il viaggio nel Caucaso. D’altronde Rey era impegnato per la fine di luglio con Miss Richardson e non voleva mancare alla parola data. In seguito il sig. Déchy non trovò mai il tempo per compiere il suo progettato viaggio; ma se l’avesse intrapreso, avrebbe certamente scelto Rey come compagno, e questi sarebbe accorso premurosamente.
Era disegno del Déchy, appena fossero giunti nel Caucaso, di tentare la salita del Dychtau (il Cervino di quella colossale catena—oggi Koshtantau). Chi sa, se la sorte toccata ai signori Donkin e W. Fox, non li aspettasse anche loro?
«Non, c’est dans ses montagnes, à lui, qu’Émile Rey devait mourir. Mais s’il a accompli le mieux dans les Alpes, le voyage qu’il avait fait avec moi hors de son domaine, le montrait voyageur accompli, l’homme qui savait partout gagner les sympathies». Così termina l’epistola del sig. Déchy, colma di effusione di tenera riconoscenza e di ammirazione per la diletta sua guida Emilio Rey. Verso quest’uomo, unico nella modesta sua professione, in tali sensi si esprimono anche i Cunningham, i Güssfeldt, le Richardson e la numerosa falange degli amici che con lui ebbero relazioni o conoscenza! Solo ora che non è più, notiamo il grande vuoto che lascia dietro di sè.
Ritornato nel suo Monte Bianco a raggiungere Miss Richardson, compiva con la medesima, fra l’altre, la prima ascensione dell’Aiguille de Bionnassay, per la cresta Sud. Nella discesa, che effettuarono per la cresta Est, dovettero procedere per più di un’ora, a cavalcioni sulla stessa, foggiata a lama di coltello e sorpiombante sui sottostanti ghiacciai. Qual deliziosa passeggiata abbiano fatta, su quell’esilissima ed affilata cornice di ghiaccio, lasciamo immaginare al lettore! Peccato che giunti al Dôme du Goûter non abbiano rivolti i loro passi verso il Monte Bianco; così creavano una novella strada per quella somma vetta.
Con la stessa valente alpinista nel 1889 saliva l’Aiguille de la Za per la faccia Ovest, la Pigne d’Arolla pel versante Nord-Est, e la traversata dal Petit al Grand Dru, già menzionata. In settembre faceva la prima ascensione del Dôme de Rochefort col sig. W. Muir.
In principio dell’estate 1890 Emilio era a Grindelvald con la Richardson che guidò al Mettenberg, alla Jungfrau, al Beichgrat. Venuti a Zermatt traversavano il Castor variando la solita via sì nella salita che nella discesa. Eletto quindi il quartier generale al Montanvert, effettuavano l’ascensione dell’Aiguille di Chardonnet, discendendo per la faccia Sud-Est. Questa strada già tentata, altre volte, veniva poco dopo seguita nell’ascesa dal sig. C. J. Arkle.
Continuiamo a spigolare il libretto di Emilio Rey; d’altronde sono salite di data così recente che sono nella memoria di tutti.
Nel gennaio del 1891 il dott. Güssfeldt, che il Rey aveva accompagnato nella precedente estate, venne a Courmayeur coll’intento di compiere alcune ascensioni invernali. I suoi occhi si volsero sulle Grandes-Jorasses, che per maestosa imponenza ed elevazione rivaleggiano col Monte Bianco. La salita venne fatta il 14 gennaio, senza incontrare gravi ostacoli, se non la molestia della nebbia che li avvolse nella discesa. Il 25 dello stesso mese, anche il Gran Paradiso veniva soggiogato, ma dette del filo da torcere. Per ben tre volte dovette la comitiva salire da Valsavaranche al Rifugio V. E. prima di riuscire. Il tempo avverso sempre li ricacciava in basso. E se vollero che il loro tentativo avesse un felice epilogo dovettero intraprendere l’ascensione di notte.—«La persévérance de Rey s’est jointe à la mienne—scrisse il Güssfeldt—et c’est par cela que nous avons triomphé à la fin. Tout ce que un homme peut faire pour un’autre, Rey l’a fait pour moi. Honneur et reconnaissance à lui!»
L’estate seguente Emilio fu col dottor Ludwig Darmstädter nel gruppo del Gran Paradiso e nella catena del M. Bianco; accompagnò Miss Richardson all’Aiguille meridionale d’Arves in Delfinato, ed in settembre era nuovamente con Paul Güssfeldt.
Con questo ultimo alpinista e coadiuvato dal compianto Savoye, fu nel 1892 al Monte Bianco pel ghiacciaio della Brenva, creando un’altra variante. Posso asserire, senza tema di essere smentito, che nessuna guida salì questa montagna tante volte e per tanti lati come fece Emilio Rey. Con quel colosso era in intima confidenza, ne conosceva tutti i segreti, tutte le debolezze; era, si può dire, quasi proprietà sua.
Nello stesso anno, in principio della stagione, Emilio guidò Walther Schultze alle principali vette del Monte Rosa; e più tardi, aveva l’insigne onore di accompagnare S. A. R. il Duca degli Abruzzi, coll’avv. F. Gonella, al Dente del Gigante e nella traversata del Colle di Talèfre.
In giugno del 1893, il Rey trovasi nelle Alpi Retiche a guidare il sig. A. von Rydzewsky alle prime ascensioni del Pizzo Torrone Occidentale e della Cima di Rosso, entrambi per la parete Nord, del Dente di Sciora, del Colle e della Cima di Castello e del Piz Badile. Dall’Engadina Emilio riducesi al paese natìo, dove l’attendono i signori Wicks, Wilson e George Morse per accompagnarli all’Aiguille Noire de Pétéret.
In agosto è già in Delfinato con la sua inseparabile alpinista inglese. Là, per il persistente cattivo tempo, devonsi accontentare del Pic Oriental della Meije.
Siamo ora giunti alla più fulgida delle sue vittorie, ad una di quelle imprese che di rado si ripetono e lasciano lungo ricordo dietro di sè. Voglio accennare alla conquista dell’Aiguille Blanche de Pétéret per la parete Est del M. Bianco direttamente dalla stessa. Questa veramente fu l’ultima vittoria che il Rey abbia riportato sulle montagne e specialmente sul M. Bianco.
Ma se fu l’ultima, segnò anche l’apogeo della gloria che egli si era acquistata come guida alpina.
Fu il dott. Paul Güssfeldt di Berlino, più volte nominato, che ebbe il vanto di compiere tanta impresa. Oltre che dal Rey, era accompagnato dalla guida svizzera Chr. Klucker e da Cesare Ollier di Courmayeur, allora portatore e che promette di venire all’altezza dei suoi compagni di spedizione. La corsa durò 82 ore, dal 14 al 17 agosto. Partiti alle 4 del giorno 14 da Courmayeur, raggiungevano verso le 18 ½ un sito adatto per passarvi la notte a 3200 m. sulla parete Est dell’Aiguille Bianche de Pétéret. L’indomani, licenziati i portatori venuti a recar coperte, ricominciarono l’arrampicata che fu pericolosissima nel primo tratto, quindi solo vertiginosa, sebben non facile. Alle 11 ½ erano sulla vetta dell’Aiguille ad inalberare il vessillo della vittoria. Ridiscesi al Passo di Pétéret, per creste, talancie ghiacciate e roccie friabili, alle 16 trovavansi ancora 700 metri al di sotto della vetta del Monte Bianco. Non avendo la possibilità di salirlo, stante l’ora tarda e le probabili difficoltà da incontrare, sbarcarono la nottata ai piedi di una ripida parete rocciosa a 4250 metri. Rey, per tutta la notte, tenne desta la comitiva colle sue canzoni francesi e coi suoi spruzzi di motti spiritosi.
Il 16, partiti per tempo, raggiungevano il M. Bianco e scendevano a pernottare alla capanna dei Rochers Rouges (4500 m.), da dove il giorno dopo, pel Grand Corridor, il Grand Plateau, il Dôme ed il ghiacciaio del Dôme, erano di ritorno a Courmayeur verso le ore 21.
Ho voluto tracciare l’itinerario, non per dare importanza alla impresa, ma per dimostrare di quale forza di resistenza, di qual straordinaria vigoria d’animo e di corpo la comitiva era dotata. E dire che in tutto il tempo che durò, non successe un minimo episodio rattristante.
Güssfeldt scrisse per tutta lode sul libretto di Emilio: «Il fallait un compagne aussi tenace, vigoureux et brave que Rey pour mener cette entreprise a bonne fin.»
Nel settembre del 1893 Emilio Rey fu di nuovo con W. E. Davidson che assieme ai signori M. Holzmann e G. FitzGerald, ascese i Jumeaux, compiendo la seconda ascensione della punta Giordano; traversò le cinque punte dell’Aiguille des Charmoz dal Nord al Sud, e salì le due vette dell’Aiguille du Dru.
Nel 1894, Emilio Rey veniva scelto da S. A. R. il Duca degli Abruzzi e dall’avv. F. Gonella, quale loro prima guida. A tutti è noto lo splendido risultato di quella campagna. S. A. dimostrò di possedere una fibra robusta ed animo forte, incrollabile. Del Rey, il Principe sentenziò che con lui si può essere sicuri di compiere qualunque ascensione: parole che prendono un rilevante significato dalla Augusta penna che le dettò. Nel settembre dello stesso anno, Emilio eseguiva col Güssfeldt la quarta (credo) ascensione del Cervino per la Cresta di Zmutt.
Meritevole di essere segnalata, è la corsa che il Rey fece nel passato agosto con George H. Morse. Saliti al Monte Bianco dai Grands-Mulets per le Bosses, discendevano pel Corridor al M. Maudit, dal quale al Mont Blanc du Tacul e quivi a Montanvert. Il 23 di quel mese salutava per l’ultima volta l’Aiguille du Dru che tante volte soggiogò, e la dimane veniva al Dente del Gigante..... dove trovò la morte.
Qui la penna, che febbrilmente scorreva sulla carta, quando narrava le gesta gloriose del Rey, cade involontariamente di mano. Una stretta al cuore, uno stringimento alla gola, mi strappano le lagrime, che solcando silenziosamente le gote cadono ad inumidire il foglio. È angoscia, strazio, sgomento, sconforto che provo? Non so; certo una fusione di tutti questi sentimenti.
Che il Rey sia perito ai piedi del Dente del Gigante e nel modo tragico che tutti sappiamo, è un pensiero che la ragione non ammette e all’animo ripugna. Lungi da noi l’idea di polemicare sulla sua condotta; altri più autorevoli di noi, non gli diedero torto. Perchè viaggiare in due soli e perchè slegarsi quando l’apparente pericolo esisteva? Egli non è più per risponderci; ma se ci fosse, son certo che i suoi ragionamenti ci indurrebbero ad approvarlo. Se errore vi è stato in quest’ultima pagina della sua vita, esso non menoma in verun modo la squisita bellezza del suo libro d’oro. Non è una macchia che alteri la candidezza del foglio, ma un’inezia che passa inavvertita. Come si può prevenire i pericoli minimi, quando continuamente si lotta coi grandi?
Emilio Rey ebbe il vanto di accompagnare i più celebrati alpinisti dei Clubs Alpini europei, e questo torna ad onore del Club Italiano e delle sue guide di cui egli rialzò il prestigio. E la nostra Società, memore dei servigi direttamente o indirettamente resile, porrà un perenne ricordo a quello che fu il principe delle sue guide, principe di sangue democraticissimo se si vuole, ma nobile e puro, disinfettato da ogni microbo malefico nell’aereo ambiente dove traeva vita.
Egli teneva ad occupare il posto che si era conquistato fra i suoi colleghi; era conscio del proprio valore, ma dal suo animo non trapelava un’ombra di vanagloria. Era altero sì, ma non presuntuoso; non si diede mai il caso che s’impermalisse del successo di altre guide. Il sentimento che egli provava di sè stesso era alterezza, non alterigia, come alcuni invidiosi gli rimproveravano. D’altronde «noblesse oblige»; e «on n’est pas un grand homme à bon marché» direbbe l’Houssaye.
Egli metteva sempre una distinta separazione tra quelli che tengono il più alto ed il più basso rango nella sua professione.
«Un giorno al Montanvert—narra il Cunningham—assistevamo all’arrivo dei «poliglotti», come un’ingegnosa persona battezzò quella turba composta di quasi tutte le nazioni, che può essere vista ogni giorno compiendo il penoso pellegrinaggio da Chamonix al Montanvert. In essa trovavasi un inglese che si era già provvisto di occhiali verdi, di un velo e di scarpe per la montagna, e che non gli mancava più che una guida per terminare i suoi preparativi. Volgendosi al Rey e indicando dapprima la Mer de Glace e quindi il Chapeau, gli chiese: «Combiang?»—«Voilà, Monsieur,»—replicò Rey, scoprendosi e indicando con la mano sinistra un gruppo di piuttosto poveri campioni della Société des Guides,—«voilà les guides pour la Mer de Glace; moi, je suis pour la Grande Montagne».
Emilio Rey possedeva in sommo grado tutte le qualità che fanno le grandi guide: audacia, sangue freddo, prudenza, robustezza, abnegazione, gentilezza di maniere, tali erano le supreme doti dell’uomo, del quale intessiamo brevemente la vita. La prima di queste qualità fu certamente il grande amore per l’ammaliante sirena dei monti, un amore come pochi professano e che egli portava sino all’idolatria. Era, si può dire, «l’enfant gâté» della montagna: non visse che per essa e... morì per la medesima. L’ideale della sua vita fu l’alpinismo, nel quale navigò in tutti gli orizzonti, in tutte le sue manifestazioni. Ma fu un pilota abile che seppe evitare lo scoglio anche nel più forte della tempesta.
Il mare, quell’infinita distesa di liquido glauco che v’invita voluttuosamente a tuffarvici e vi procura sensazioni indescrivibili, il mare infido, ad un tratto, quando meno ve l’aspettate, vi inghiotte e sparite nel caos. Tale è la montagna. Quale è la sorte dei marinai, dei marinai che si sono affacciati impassibili cento volte sulla porta degli abissi? Così quella delle guide; così fu di Emilio Rey, benchè fosse attento e coraggioso timoniere.
Sebbene il suo temperamento e la sua indole avida di novità lo spingessero sempre avanti, sapeva fermarsi quando e dove al coraggio sostituivasi la temerità. Egli non oltrepassò mai i limiti concessi dalla prudenza, e non si potrebbe trovare un accidente toccato ad un suo viaggiatore.
«Avec cela, chercheur toujours en éveil, sans routine dans le choix des routes et des moyens d’accés. En s’occupant de vaincre l’obstacle immediat du terrain, son œil fouillait dejà au loin et sa pensée concevait l’assaut prochain. Sobre, ennemi du tabac, d’une propreté méticuleuse qui ne se fiait jamais aux porteurs dans les soins de la cuisine et l’entretien des refuges, complaisant pour ses camarades, il n’avait aucune des prétentions ridicules de certains grands guides, dont les épaules se croyent déshonorées par la présence d’un sac».—Così Miss Richardson, che del Rey poteva darci un adeguato giudizio, lei che l’ebbe, per molto tempo, a condividere e l’amaro e il dolce della rude vita alpina. Gli inglesi, così parchi nelle lodi, per Emilio Rey calpestano la loro naturale ritrosia e freddezza e ce lo dipingono quale era realmente, con un colorito caldo... veramente alpino.
Terminando, non posso a meno di riportare uno stralcio di lettera del dott. Paul Güssfeldt, che per l’autorevole persona che l’ha scritta, torna al massimo vanto del nostro Emilio: «... Vous savez que j’ai tenu Rey dans la plus haute estime, qu’il m’a rendu les plus grands services, qu’il était d’un courage, d’une adresse, d’une connaissance des montagnes sans pareil et qu’il restait fidèle a son devoir sans crainte de mort».
Al monumento, che auspice la Sezione Torinese del C. A. I. gli alpinisti erigeranno prossimamente a Courmayeur, paese nativo di Emilio Rey, si raccolgano le giovani reclute ad infiammarsi di quell’entusiasmo e di quell’ardimento mai venuti meno alla grande guida, e cerchino di seguirne le orme, sia nell’assennata audacia, che nella piacevol arte di aggradire. Esso costituirà un pegno, un mutuo contratto tra le guide e l’alpinismo.
Courmayeur, marzo 1896.
Giulio Brocherel (Sezione d’Aosta).
Debbo qui pubblicamente ringraziare distinte persone che col Rey avendo viaggiato erano in grado di pronunziare giudizii e fornire ragguagli sulle loro salite. Al Cunningham per il prezioso dono del suo «The Pioneers of the Alps;» a M. von Déchy, al dott. P. Güssfeldt, a Miss K. Richardson, ecc., l’attestazione della mia sentita riconoscenza.
Va pure ricordata l’opera prestatami dalla gentilissima signorina Mary Ruffier di Courmayeur, nella ricerca e nell’interpretazione di articoli comparsi su riviste anglo-sassoni. Ch’essa riceva un grazie di cuore. G. B.
Prime ascensioni compiute da Emilio Rey.
1. Aiguille Noire de Pétéret m. 3773: Prima ascensione 5 agosto 1877
2. Punta Giordano dei Jumeaux m. 3876: Prima ascensione 6 settem. 1877
3. Gran Paradiso m. 4061 dal ghiacciaio della Tribolazione agosto 1877
4. Grìvola m. 3969 da Valsavaranche (variante) Id. 1877
5. Aiguille de Talèfre m. 3750: Prima ascensione Id. 1879
6. Dent d’Hérens m. 4175 per la cresta del Tiefenmattenjoch Id. 1879
7. Col du Fresnay 15 Id. 1880
8. Monte Bianco m. 4807 dal ghiacc. di Fresnay (variante) 15 agosto 1880
9. Col du Piolet 6 luglio 1881
10. Monte Bianco m. 4807 dal ghiacc. della Brenva (variante) 14 Id. 1881
11. Grosser Lauteraarhorn m. 4043 per il versante Ovest. Id. 1881
12. Aiguille de Talèfre per il versante italiano 15 Id. 1882
13. Calotte de Rochefort m. 3965: Prima ascensione 30 Id. 1882
14. Aiguille du Midi m. 3843 per il versante Nord-Est 26 giugno 1883
15. Les Périades m. 3491 pel versante Est 28 luglio 1883
16. Mont Blanc du Tacul m. 4249: Seconda ascens. (variante) Id. 1883
17. Aiguille du Dru (Grand Dru) m. 3815 variante 28 agosto 1883
18. Tour Ronde m. 3790 per la cresta Nord-Est 12 settemb. 1884
19. Discesa al Col de la Tour Ronde 13 Id. 1884
20. Aiguille Blanche de Pétéret m. 4113: Prima ascensione 31 luglio 1885
21. Pic de la Meije m. 3987 in un sol giorno (16 ore) 31 Id. 1886
22. Aiguilles des Charmoz m. 3410 (variante) 9 agosto 1887
23. Picco Mummery (Aiguilles des Charmoz): Prima ascens. 9 Id. 1887
24. Aiguilles des Charmoz m. 3410 e 3442: Prima traversata 27 Id. 1887
25. Aiguille du Dru (Primo passaggio dal Grand al Petit Dru) 31 agosto 1887
26. Monte Scerscen m. 3966 dal versante italiano 22 settemb. 1887
27. Monte Bianco m. 4807: Prima ascensione invernale dal versante italiano 5 gennaio 1888
28. Vlasulja m. 2340 (gruppo del Volujak) 20 giugno 1888
29. Maglich m. 2390 (Bosnia) 25 Id. 1888
30. Aiguille de Bionnassay m. 4061 salita per la cresta Sud 13 agosto 1888
31. » » » discesa per la cresta Est 13 Id. 1888
32. Aiguille de la Za m. 3662 per la faccia Ovest 26 luglio 1889
33. Pigne di Arolla m. 3801 per il versante Nord-Est 2 agosto 1889
34. Aiguille du Dru m. 3795-3815: Primo passaggio dal Petit al Grand Dru 25 Id. 1889
35. Dôme de Rochefort m. 4014 per la cresta Sud-Est. 14 settemb. 1889
36. Castor m. 4222 salita per la cresta Est (variante) 10 agosto 1890
37. » » discesa per la faccia Nord (variante) 10 Id. 1890
38. Aiguille du Chardonnet m. 3823 per la faccia Sud-Est 5 settemb. 1890
39. Grandes-Jorasses m. 4205: Prima ascensione invernale 14 gennaio 1891
40. Gran Paradiso m. 4061: Prima ascensione notturna 25 gennaio 1891
41. Monte Bianco m. 4807 dal ghiacc. della Brenva (variante) 16 agosto 1892
42. Dente di Sciora m. 3235: Prima ascensione 4 giugno 1893
43. Cima di Rosso m. 3362 per la parete Nord 8 Id. 1893
44. Pizzo Torrone Occidentale m. 3297 per la parete Nord 10 Id. 1893
45. Colle di Castello dal Nord 12 Id. 1893
46. Cima di Castello m. 3402 dal Nord 12 Id. 1893
47. Piz Badile m. 3307 per la cresta Est 19 Id. 1893
48. Aiguille Blanche de Pétéret m. 4113 per la parete Est 15 agosto 1893
49. Passo di Pétéret m. 3946 15 Id. 1893
50. Monte Bianco m. 4807 per l’Aiguille Blanche de Pétéret 16 Id. 1893
51. Monte Bianco; discesa alla capanna dell’Aiguille du Midi passando per il Mont Maudit ed il Mont Blanc du Tacul Id. 1895
G. B.
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NOTE:
[3] Vedi “Rev. Alp. de la Sect. Lyonn. du C. A. F.„ (N. 9 del 1895); Emile Rey par M. Paillon et K. Richardson.[4] Vedi: Evening Express di Edimburg del 12 febbraio 1884.[5] Vedi le annotazioni del sig. Sella sul libretto di E. Rey.
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Spedizione scientifica al Monte Rosa (1894 e 1895).
Indagini sulle acque e sulle nevi delle alte regioni.
Per eseguire le indagini che mi accingo ad esporre, la spedizione, composta di me, del dott. Lorenzo Scofone mio assistente, e di Carlo Viziale, inserviente del laboratorio di materia medica dell’Università di Torino, si era stabilita all’alpe detta di Lavez, situata a 2450 m. sul livello del mare, in Val di Gressoney, lungo le pendici erbose digradanti dalla punta del Telcio che si spicca dalla cresta che scende dal Lyskamm a morire nel vallone di Indren, sopra Gressoney la Trinità.
L’alpe è una casetta che si compone di una grande stalla al piano terreno e di due stanze al primo piano; delle quali l’una serviva da laboratorio e da cucina, l’altra da dormitorio e da laboratorio per i lavori più delicati. La posizione non potrebbe essere migliore per chi vuol attendere a ricerche sulla montagna. I ghiacciai sono accessibili in tre ore; la vetta stessa del Rosa si può comodamente raggiungere in nove o dieci ore. Il luogo dove sorge l’alpe è riparato dai venti del nord ed ha un largo orizzonte davanti a sè che permette di godere il sole dal mattino alla sera.
Il proprietario, sig. Monterin Alberto di Gressoney la Trinità, informato dal compianto barone Luigi di Peccoz del nostro progetto di spedizione e della ricerca che facevamo di un luogo ove stabilirci, ci offrì la casa gratuitamente, arredandola dei mobili necessarii; sono lieto di potergli qui rendere pubbliche grazie; ricordo anche con riconoscenza e rammarico il barone Peccoz, il quale pure ci fu largo di aiuti e di preziosi consigli, e certamente avrebbe fatto ancora molto in pro’ della nostra impresa se avesse vissuto[6].
Noi ci proponemmo anzitutto di esaminare le acque della regione, scendendo dalle più alte ottenute dalla fondita delle nevi delle vette, a quelle dei ghiacciai, ed a quelle dei torrenti, dei laghi e delle sorgenti. Il nostro esame si estendeva tanto alla composizione chimica quanto alla morfologica. Nel presente lavoro non si tratta che la parte chimica.
I. Studio chimico delle acque del Rosa.
1º Acque di neve e di ghiaccio.
Per raccogliere e conservare le nevi e i ghiacci ho fatto costrurre delle cassette di latta doppie, cioè chiudentisi l’una nell’altra. La cassetta interna ha la base di cm. 28,5 × 15 e l’altezza (compreso il coperchio) di cm. 21,5: quella esterna, la base di cm. 34,5 × 20,5 e l’altezza di cm. 27,5. Nella cassetta interna, rinchiudentesi con un coperchio, si metteva il ghiaccio e la neve da analizzarsi, nello spazio fra le due cassette, si introduceva della neve o del ghiaccio pesto. Per preservare l’esterno della cassetta maggiore dai raggi solari la si involgeva poi ancora in una fodera fatta di rozzo feltro spesso.
Questo sistema si dimostrò oltremodo pratico ed utile; la neve esterna durava per parecchie ore, tanto da darci sempre il tempo di scendere al laboratorio. E se si riponevano le cassette entro alla piccola cantina dove si custodiva il latte, e dove grazie ad una corrente d’acqua la temperatura non saliva mai oltre i 9°, il ghiaccio esterno poteva durare due giorni, e quello interno anche cinque o sei.
Le dimensioni delle cassette vennero studiate in relazione a quelle della portantina destinata al loro trasporto. Noi ci siamo valsi del modello di Vittorio Sella[7], assai leggero e resistente; su una portantina si possono sovrapporre comodamente due cassette doppie, e gettandovi sopra una coperta si trasportano per delle ore al sole senza che vi sia fusione di sorta.
Il sig. V. Sella ebbe la cortesia di incaricarsi della costruzione delle portantine, le quali si mostrarono comode e leggere; il prezzo è di L. 12 ciascuna[8].
Portato il ghiaccio o la neve in laboratorio si estraeva dalla cassetta, si lavava accuratamente con un getto d’acqua distillata, poi si metteva a fondere a temperatura ordinaria entro ad una grande cassula che si teneva riparata dalla polvere coprendola con un imbuto rovesciato. Le prime acque di fusione si eliminavano, le altre si raccoglievano. Ottenuta l’acqua di fusione, si facevano anzitutto dei saggi qualitativi per la ricerca dei componenti che possono alterarsi col soggiornare dell’acqua, o peggio coll’evaporazione, quali sono l’ammoniaca, i nitriti, i nitrati. Se l’acqua era torbida, la si filtrava prima di intraprenderne le indagini.
Il resto dell’acqua misurato accuratamente (per lo più erano due litri) si metteva a svaporare nelle cassule, su fornelli a petrolio, avendo cura che le fiamme non fossero fumanti, senza di che ricadevano nell’acqua, passando fra la cassula e il filtro capovolto, minutissimi fiocchi di fuliggine.
Dirò qui, di passaggio, che le lampade o fornelli a petrolio usate convenientemente, si mostrarono assai comode; per ottenere temperature più alte ricorremmo a lampade a gaz di petrolio con aria compressa, oppure a lampade a benzina o gazogeno sul tipo della lampada svedese da gazista; una lampada a serbatoio di benzina ed a tubo circondato d’amianto della casa Muencke di Berlino, in capo a pochi giorni si guastò e funzionò irregolarmente.
L’evaporazione si continuava fino ad avere un residuo di circa 200 cc. d’acqua; per le ulteriori indagini questo residuo, insieme colla risciacquatura della cassula mediante acqua distillata, si introduceva in un pallone di vetro, dal collo lungo, il quale si fondeva alla lampada, chiudendo così ermeticamente la boccia. Conservate in tal guisa, le acque giunsero tutte in perfetta condizione a Torino.
2º Acque dei laghi.
Abbiamo raccolte le acque in due laghi alpini; quello Gabiet, situato a sud dell’alpe Lavez a m. 2339 e quello Salzia[9] a nord dell’alpe, lungo il contrafforte che scende dall’Hohes Licht dopo abbassatosi a formare la depressione del Colle della Salzia.
Entrambi i laghi sono permanenti e non mostrano nelle rive traccie di grandi oscillazioni di livello. Non sono alimentati dalla neve e giacciono entro a depressioni rocciose circondate, quello Salzia da balze dirupate di roccie sconnesse e disgregate, quello Gabiet da una distesa di pascoli interrotta verso ovest dalla parete del Rothhorn, formato da banchi di rupi rossigne, che per l’azione atmosferica si frantumano in scheggie.
Non si scorgono correnti di acqua che alimentino il lago Salzia, nè potrebbero esistere per la sua posizione; bisogna dunque ammettere che esso riceva il tributo di polle o scaturigini profonde.
Il lago Gabiet invece riceve un torrentello che esce dall’estremità opposta precipitando in cascata nel vallone di Netscio.
Entrambi questi laghetti hanno acque assolutamente limpide e incolore, il che non avviene per i laghi che ricevono acque di neve filtrate per strati di poca potenza. In questo caso, l’acqua suole assumere una tinta d’azzurro di cobalto, dovuta alle minutissime particelle di materia sospesa: se ne ha esempio nella stessa regione, in un piccolo stagno che è ai piedi della grande cascata di detriti frananti dalle scoscese punte che fiancheggiano il Colle d’Olen; un altro esempio ancora più caratteristico è quello del così detto Lago Azzurro, che è ai piedi della morena laterale destra del ghiacciaio di Ventina sopra Fiery; lago che è segnato sulla carta dello Stato Maggiore. Il fondo di questi laghi azzurri è sempre costituito di limo finissimo, impalpabile, quasi vischioso, bianchiccio, il quale riveste tutto quanto è sott’acqua; le rive dove l’acqua si è ritirata mostrano una zona bianca e polverulenta, fessurata per il calore del sole che la sta essiccando. Non così nei laghi ad acqua incolora, nei quali traspare la tinta naturale del fondo.
Nei laghi Gabiet e Salzia l’acqua ha sempre una temperatura eguale o alquanto superiore a quella dell’aria; entrambi sono abitati da insetti ed in quello Gabiet trovai che nuotavano dei piccoli ranocchi.
Le acque si raccolsero in grandi bottiglie di circa 5 litri, colle solite cautele con cui si prendono i campioni d’acqua da analizzarsi: la presa operavasi a poca distanza dalla riva, nei punti profondi e non contenenti animali visibili.
I saggi eseguiti in laboratorio furono gli stessi che già ho accennato per le acque di neve, e così pure il trattamento per avere il residuo da portarsi a Torino.
3º Acque di torrente.
A circa un chilometro dall’alpe Lavez scorre il torrente che trascina le acque del versante meridionale della Piramide Vincent e dei due ghiacciai di Garstelet e d’Indren che ne occupano la parte superiore. Questo torrente, segnato sulla carta col nome di Mos (che è quello dei casolari più bassi del vallone, presso al suo sbocco a Schaval), è chiamato in quella regione col nome di Indren, nome che credo più appropriato, come quello che appartiene al ghiacciaio maggiore che lo alimenta.
Le acque sono sempre torbide, come accade per tutti i torrenti glaciali; ma la torbidità e la portata del torrente variano immensamente nelle diverse ore del giorno, e, come è da aspettarsi, le variazioni dei due elementi sono parallele; e si ha un maximum nelle giornate calde e verso il cader del giorno, e un minimum al mattino.
Non potei misurare la portata del torrente; ma ho determinato le variazioni sulla quantità di materie in sospensione nell’acqua. Presi dei saggi in giorni ed in ore diversi e filtrai un volume determinato, usando i filtri senza ceneri Schleicher e Schull, n. 589, diametro cm. 9. Ho verificato che il peso delle ceneri di uno di questi filtri corrisponde a quello indicato che è di grammi 0,00011.
Una parte minima del deposito delle acque passa ancora attraverso al filtro, per cui il filtrato è leggermente opalescente, nè con successive filtrazioni lo si può rendere assolutamente chiaro; filtrati assolutamente chiari si ottengono solo lasciando depositare a lungo le acque prima di filtrarle; la quantità di sostanza che passa per i pori del filtro è minima e trascurabile nei casi ordinarii, ma può crescere in alcune circostanze, come dirò più sotto.
I filtri col loro deposito ben secchi vennero chiusi in un pesafiltri e portati a Torino dove si lasciarono nella stufa a 100°-120° fino a peso costante, poi si incinerarono; dal peso delle ceneri totali si dedusse quello delle ceneri del filtro.
Ecco i risultati ottenuti:
«1894. 4 agosto, ore 8: acqua del torrente raccolta nel ruscello deviato per portare acqua all’alpe Lavez, temperatura dell’aria 8°, cielo sereno. Un litro di acqua lascia un deposito di grammi 0,0037.
«9 agosto, ore 9: cielo sereno; acqua del torrente raccolta presso al ponte del sentiero che mette verso Lavez. Un litro lascia un deposito di gr. 0,0171.
«Stesso giorno, ore 15: il tempo si è fatto nuvoloso; temperatura 12°; l’acqua raccolta nello stesso punto lascia per litro un deposito di gr. 0,0885.
«5 agosto, ore 17,30: sereno, temp. 10°; il torrente molto torbido; deposito di un litro gr. 0,0913.
«3 agosto, ore 18: pioggia per tutta la giornata, temp. 10°; deposito di un litro gr. 0,0115.
«10 agosto, ore 17: giornata soleggiata e afosa; la superficie dei ghiacciai era solcata da rivoletti di acqua, il torrente fortemente ingrossato, l’acqua torbidissima. Deposito di un litro gr. 0,3868; il filtrato è ancora assai torbido per una materia finissima che la carta non trattiene; un dosaggio fatto in laboratorio, con ogni cautela, dopo aver lasciato in riposo il liquido per più mesi mi permise di separare sul filtro un nuovo residuo pesante gr. 0,280 per litro; e tuttavia il filtrato non era ancora perfettamente limpido. L’acqua del torrente conteneva dunque gr. 0,3868 + 0,28 = gr. 0,6668 di materie sospese per litro.»
Tralasciando la prima osservazione perchè il decorso piano del ruscello può aver influito sul depositarsi dei materiali sospesi, si scorge subito che a seconda dell’ora e delle condizioni generali di temperatura la quantità di materiale sospeso varia grandemente. Sono sopratutto interessanti le due cifre estreme perchè prese quasi alla stessa ora; il 3 agosto, giorno piovoso in cui probabilmente sui ghiacciai nevicava, il torrente non trascinava che gr. 0,0115 di detriti; il 10 agosto, giornata soleggiata e calda ne trascina gr. 0,666, cioè sessanta volte tanto. Ho accennato al fatto che una parte dei materiali sospesi che è più fina passa attraverso ai filtri se non si ha cura di lasciarla depositare a lungo. Questa parte non è molto considerevole se non in occasione di massimo intorbidamento dell’acqua. Il 9 agosto alle 15 si raccolse l’acqua che abbandonava sul filtro (per ogni litro) gr. 0,0885 di deposito. Il filtrato, lasciato depositare per qualche mese, diede un deposito di gr. 0,0148. Allorchè adunque il torrente trascinava il massimo di materiale i detriti più fini rappresentavano i due terzi di quelli grossolani: in uno stato di intorbidazione media i detriti fini rappresentavano un sesto appena del materiale esportato. Per l’azione del calore che aumentò le fondite, il 10 agosto la quantità di sabbia grossolana quadruplicò, mentre quella della materia finissima sospesa non fece che duplicare.
Questo fatto tenderebbe a provare che i detriti più grossolani hanno una origine diversa dai finissimi; i primi sono situati sulla superficie del ghiacciaio e vengono trascinati facilmente al basso dai rivoletti che precipitano per la china gonfii d’acqua di fusione; i secondi sono nelle parti profonde del ghiacciaio, rivestono cioè il letto ed i fianchi, in parte anche stanno rinchiusi nel ghiaccio stesso, sopratutto nelle dirty bands; se ne può inferire che la comparsa dei finissimi detriti sia indizio della fusione interna del ghiacciaio, e la loro quantità sia la misura dell’intensità di questo fenomeno.
Coi dati accennati si può tentar un calcolo grossolano del materiale che le acque esportano alla montagna. Il Lys, torrente della Valle di Gressoney, ha una portata diversissima nelle varie stagioni; l’estate (dall’aprile al novembre) non possiede mai meno di litri 8000 per minuto secondo, ed in questa epoca le acque sono grigie come tutte quelle dei torrenti glaciali; nel più forte della canicola la quantità d’acqua supera d’assai gli 8000 litri, e le acque sono torbidissime. L’inverno la quantità d’acqua si va riducendo per il cessare quasi completo delle fondite; le sole sorgenti alimentano il torrente, che si riduce a 1000 litri per minuto secondo[10] di un’acqua chiara e trasparente.
Ora risulta dalle mie determinazioni che nelle giornate ordinarie di estate l’acqua dell’Indren trascina il mattino circa gr. 0,010 di materiale sabbioso, e il pomeriggio circa 0,08: in media 0,045. Ammettendo che gli altri torrentelli scendenti dai ghiacciai abbiano la stessa quantità di detriti, il che non deve essere lontano dal vero, perchè la natura delle roccie su cui posano i ghiacciai è la stessa, e sottraendo dal numero dei litri che contiene in media il Lys durante l’estate i 1000 litri della stagione invernale che corrispondono alle acque di sorgente, si ha un residuo di 7000 litri al secondo. Sono dunque per ogni minuto secondo gr. 315 di roccia polverizzata che scendono dai monti nel piano, cioè 1134 chilogrammi all’ora o 27 tonnellate e 216 chilogrammi nelle 24 ore; e nei 167 giorni dal 15 aprile al 30 ottobre 4544 tonnellate. Questa cifra che non è che un minimum (perchè non vi si tien calcolo dell’aumento di fondita delle giornate calde, e della quantità di materiale che in quei giorni raggiunge quasi il decuplo della quantità ordinaria), rappresenterebbe la quantità di materiale che una superficie di circa 22 km. quadrati di ghiaccio è in grado di esportare alle roccie su cui posa.
La quantità di materiale che è trascinata dall’acqua nelle ore più calde delle giornate estive è molto grande; anche senza tener conto dell’aumento dell’acqua di fondita si arriva a 8 tonnellate all’ora; e, se si pensa che durante quelle ore i torrenti hanno certo raddoppiato il loro contenuto in acqua, si hanno 16 tonnellate all’ora, cioè 384 tonnellate nelle 24 ore.
I detriti che trascinano le acque del torrente Indren sono costituiti da una sabbia grigio-chiara, prevalentemente composta di silice; trattata con acido cloridrico a dolce calore se ne può estrarre una grande quantità di ferro.
4º Acque di sorgente.
Lungo il sentiero che conduce al Colle d’Olen, e nel punto in cui si dispicca quello che sale verso il vallone d’Indren e verso il Rosa, a circa m. 2320, sgorga per parecchie abbondanti polle ai piedi di un macigno un’acqua purissima, fresca e saporita, rinomata nella valle, nota a tutti i viaggiatori che non mancano di sostarvi per dissetarsi. Questa fontana non ha, che io mi sappia, un nome: siccome Quintino Sella la conosceva e l’apprezzava, e vi fece sosta in una gita pranzando sul terreno, così credetti bene di battezzarla col suo nome.
Il volume d’acqua è cospicuo e forma un piccolo torrentello che dopo pochi salti si confonde con quello che scende dal Rothhorn sovrastante al Colle d’Olen. L’acqua deve provenire da strati profondi; non trovai mai alcun divario nella sua temperatura (3° C) osservata in giorni ed ore diverse.
Trattata come le altre acque, il residuo della concentrazione di due litri era costituito da un’acqua perfettamente chiara e limpida, con un leggerissimo deposito cristallino bianco.
Le varie acque descritte si sottoposero, come dissi, ad alcuni saggi, gli uni fatti subito, altri eseguiti più tardi sui residui dell’evaporazione incompleta di due litri d’acqua. Incomincio da questi ultimi.
Il saggio quantitativo si riferisce ai residui solidi delle acque a 110°. I componenti minerali di tali residui non si poterono determinare quantitativamente per la scarsità del materiale: nè si sarebbe potuto, nelle nostre condizioni, svaporare maggiori quantità d’acqua per ogni campione.
Il 28 luglio 1894, giornata serena e calma, sulla vetta della Gnifetti (o Signalkuppe) dove sorge la Capanna Margherita (4559 m.) e a distanza di un quaranta passi circa dalla capanna, in un tratto erto e lontano dalla traccia degli alpinisti, scavato colla piccozza un foro, ne traemmo la neve del fondo e la portammo a fondere nell’interno della capanna, riscaldando la cassula colla lampada a gaz di benzina.
Come è noto, a simili altezze non si trova ghiaccio compatto ed unito se non forse a grandi profondità; quello raccolto da noi era in granuli di varia grandezza, perfettamente separati gli uni dagli altri. Il residuo solido (a 110°) di un litro di questa acqua pesava milligrammi 16,9. Calcinandolo non anneriva, il che si osserva per tutte le acque esaminate, tranne una di cui dirò più sotto.
Novecento metri più in basso, sul ghiacciaio del Lys, nella parte sua superiore, dove spiccandosi dalla parete occidentale della Piramide Vincent precipita a valle in una grandiosa cataratta dalle alte e capricciose onde gelate, lo stesso giorno (28 luglio), calatici lungo la parete di un enorme crepaccio, raccogliemmo un grosso frammento di ghiaccio, poco compatto, abbastanza friabile, con frattura cristallina. Lo riponemmo nella cassetta di latta e lo facemmo fondere a Lavez. Il residuo fisso per litro a 110° fu di milligr. 13,9.
Il 10 agosto ritornammo a prendere un campione di ghiaccio nella stessa località (dietro la Capanna Gnifetti): non ricorremmo più al crepaccio della prima volta, ma ad un altro più a monte in direzione della traccia che sale verso il Colle del Lys. La struttura del ghiaccio era la stessa già descritta, corrispondente allo stadio di passaggio fra il nevato delle vette e il ghiacciaio delle parti declivi e basse. Il residuo di un litro non era che di milligrammi 8,8 per litro; fra quante acque abbiamo esaminato nel 1894 non ne trovammo nessuna più povera di materiali sciolti.
Nel corso dell’anno 1895 ho potuto ripetere alcuni dosaggi del residuo secco dell’acqua di ghiaccio; la spedizione era munita di una bilancia di precisione che permise di operare a Lavez stesso, evitando di portare residui a Torino. Uno dei campioni di ghiaccio era stato ottenuto scavando alla base della Piramide Vincent, entro un grande masso di ghiaccio (serac), franato dalla vetta lungo il pendìo occidentale. Si ebbe cura di raccogliere ghiaccio profondo e quindi antico, presentante bene apparenti le strie orizzontali caratteristiche; era compatto, trasparente, molto poroso, disseminato di bollicine d’aria di dimensioni varianti da un grano di miglio ad un pisello, non friabile, a frattura cristallina.
Ghiaccio di aspetto eguale raccogliemmo più in basso al limite fra il ghiacciaio del Garstelet e il lembo superiore della morena dove finisce all’estremità nord delle roccie dell’Hohes Licht. Il ghiacciaio del Garstelet non termina veramente in questo punto, ma ricompare più in basso, sbucando di sotto i detriti morenici, riunito con quello d’Indren. Come dirò più innanzi a proposito della crioconite, il ghiacciaio del Garstelet nel punto là dove noi prendemmo il campione è continuamente lavato da un velo di acqua, che vi scorre sopra, e il ghiaccio sottoposto è molto compatto e probabilmente assai antico. All’analisi chimica risultò che il ghiaccio preso alla base della Piramide Vincent, fuso e filtrato dai pochissimi detriti sospesi, svaporato e seccato a 110°, lasciava un residuo di milligrammi 2,4 e quello del Garstelet di milligrammi 1,6. Ciò proverebbe che in alcuni punti il ghiaccio è costituito di acqua quasi perfettamente pura.
Ecco qui radunate le cifre dei residui secchi ottenuti nel corso di mie ricerche:
Provenienza delle acque Residuo fisso a 110° milligr. per litro
Ghiaccio della Punta Gnifetti (m. 4559) 16,9
» » Base della Piramide Vincent (3700 c.) 2,4
» » Capanna Gnifetti (3600 c.) 1,39
» » » » » 8,8
» del Ghiacciaio Garstelet (3300 c.) 1,6
Acqua del lago Salzia (2670) 27,2
» » Gabiet (2339) 25,1
» » » 23,1
» della Sorgente Sella 30,8
» del torrente Indren 16,1
» » » (in piena) 21,2 [11] .
La differenza fra i residui di ghiacci provenienti da località vicine, quali sono quelle da cui si presero i saggi sia nel 1894 che nel 1895, dimostra con un argomento chimico che il ghiacciaio non è una massa omogenea, prodotto della miscela intima di tutte le correnti di nevato che vi scendono; ma è un miscuglio irregolare di filoni di varie nevi che per l’origine e la età diverse devono necessariamente avere composizione varia.
Se questo stato di cose si mantenga anche nelle porzioni più basse del ghiacciaio, e nel lembo terminale del così detto mare di ghiaccio, dopo che, per la continua rigelazione coadiuvata dalla pressione, il miscuglio dei varii filoni parrebbe dover essersi fatto più intimo, è ciò che rimane a stabilirsi con altre ricerche.
È noto che durante la congelazione di un’acqua contenente materiali disciolti o sospesi, la distribuzione di questi si fa irregolarmente, non solo fra la porzione congelata e quella rimasta sciolta, ma nelle stesse masse congelate. Questo fatto che venne confermato recentemente da A. C. Christomannos[12] non può tuttavia spiegare la varia composizione del ghiaccio in regioni vicine.
Dopo le acque di neve, le più povere in materiali disciolti sono quelle del torrente Indren; il che si spiega riflettendo che queste sono il risultato della fondita di quelle, e che il terreno su cui scorre il torrente, costituito da roccie impermeabili, non può aver ceduto nuovi materiali all’acqua. Il giorno 9 agosto 1894 alle ore 15 (temp. 12°) raccolsi l’acqua di cui ho già dianzi dato il tenore in materiali solidi sospesi. Un litro dell’acqua conteneva sciolti milligr. 16,1. Il 10 agosto in cui, come pure dissi, si ebbe un enorme aumento nella fondita del ghiaccio, il residuo a 110° per un litro fu di milligr. 21,2; il quale residuo si annerì fortemente alla calcinazione e si ridusse a milligr. 16 come il primo. Questa cifra è dunque l’espressione della quantità media di materiale sciolto contenuto nei ghiacci che alimentano il torrente. Le sostanze organiche trovate in di più nel giorno di piena possono provenire dal ghiacciaio stesso o dalle rive del torrente dove scorre tra sponde erbose.
I laghi hanno un residuo alquanto più elevato: più di tutti quello Salzia, chiuso all’intorno da roccie e senza correnti che lo alimentino o che ricevano l’eccesso delle acque. Un litro lascia un deposito di milligr. 27,2. Il Lago Gabiet in due determinazioni ad epoche diverse mi diede milligr. 25,1 e 23,7 per litro.
L’acqua della sorgente Quintino Sella ha il residuo più abbondante: 30,8 milligr. per litro.
I residui tutti vennero analizzati qualitativamente. Vi si trovò acido cloridrico, acido solforico, calcio, sodio. Nelle acque di neve questi elementi erano in minimissima quantità, e le reazioni a parità di volume non indicavano una differenza che mostrasse il sopravvento di uno piuttosto che di un altro dei componenti. Lo stesso si dica per le acque dell’Indren.
Nelle acque dei laghi i cloruri sono scarsi, e quasi tutto il deposito è fatto di solfati, prevalentemente di calcio. Non mi venne fatto di rinvenire magnesia.
I solfati sono pure abbondanti nel residuo dell’acqua della sorgente Quintino Sella, mentre i cloruri sono in tenuissima quantità. Quest’acqua contiene anche dei carbonati in una piccola proporzione.
Delle acque di neve, due, cioè quella della vetta della Punta Gnifetti e quella raccolta il 10 agosto dietro alla Capanna Gnifetti, non contenevano traccia alcuna di ferro; ne trovai invece in tenue quantità (rivelabile col solfocianato potassico) nell’acqua raccolta il 28 luglio alla stessa altezza della precedente, ma non precisamente nello stesso punto. Questo è una prova di più della non omogeneità delle masse ghiacciate. Il ferro manca pure nell’acqua dell’Indren che ho analizzato. Non potei analizzare il residuo lasciato dall’acqua nel giorno di piena (10 agosto) perchè si ruppe il tubetto che ne conteneva la soluzione.
Tutte le altre acque, cioè dei due laghi Gabiet e Salzia e della fontana Quintino Sella, contengono piccole quantità di sali di ferro sciolti. Le soluzioni dei residui acidificate con acido cloridrico e trattate con solfocianato potassico dànno tutte una tinta rosea decisa. Credo superfluo il dire che i reattivi erano stati accuratamente purificati, e che in ogni caso si stabilivano delle controprove.
Mentre il ferro allo stato solubile si trova solo eccezionalmente nelle nevi e nel torrente, lo stesso metallo indisciolto è abbondante nei depositi di queste acque. L’acqua di fusione della neve della Punta Gnifetti conteneva per litro milligrammi 2,5 di materiali sospesi: esaminati al microscopio si mostravano composti di granellini di sabbia quarzosa, riganti il vetro, erano tinti in rosso ocraceo, e trattati con acido cloridrico davano chiara reazione di ferro col solfocianato. Ho pure accennato alle sabbie dell’Indren ricche di ferro. Non è dunque che questo metallo faccia difetto, ma mancano le condizioni per cui si trasformi in composti solubili. Su tale argomento ritornerò fra poco.
La ricerca dell’ammoniaca, dei nitriti e dei nitrati si fece sul luogo e colle acque fresche.
La presenza di ammoniaca si accertava direttamente nelle acque mediante il reattivo di Nessler. 100 cc. dell’acqua si trattavano in un cilindro a tappo smerigliato con ½ cc. di idrato sodico e 1 cc. di carbonato sodico. Trattandosi di acque che contenevano quantità piccolissime di sali dei metalli terrosi, non si osservò mai alcun precipitato dopo aggiunti questi due reattivi. Tuttavia si lasciava riposare mezz’ora, poi si travasava il liquido chiaro in un altro cilindro, e si aggiungeva 1 cc. di liquore di Nessler[13].
Prima di ricercare l’ammoniaca nelle acque, mi accertai che non ne esistesse nell’atmosfera del nostro laboratorio in modo che potesse assorbirsi. Lasciai aperti diversi recipienti contenenti acqua distillata nella camera e vi ricercai l’ammoniaca. I risultati furono assolutamente negativi.
Le indagini sulle acque eseguite nel 1894 mi diedero per risultato: presenza quasi costante di ammoniaca nelle acque delle nevi, tanto della vetta del Rosa, quanto del ghiacciaio del Lys. L’acqua dell’Indren (proveniente dalla fusione di un ghiaccio che conteneva ammoniaca) nelle condizioni ordinarie non ne mostrava traccia; ma nella piena del 10 agosto, l’ammoniaca apparve pure in quest’acqua per scomparire il giorno dopo; in tutte le altre acque non trovai traccia alcuna di ammoniaca.
Quest’anno potei riprendere quest’argomento in condizioni migliori, avendo meco come dissi la bilancia di precisione, e il necessario per preparare acqua distillata; ebbi così mezzo di fare qualche dosaggio quantitativo secondo il metodo di Frankland e Armstrong[14].
Le acque ottenute dalla fondita del ghiaccio o della neve contenevano sempre ammoniaca; in un solo caso non ne trovai traccia, e fu nel ghiaccio che scavai al Garstelet, e di cui dissi dianzi che non lasciava che un residuo di milligrammi 1,6.
Ecco le cifre ottenute:
I. Ghiaccio della porzione terminale del grande ghiacciaio del Lys, punto in cui scaturisce il torrente a m. 2150 circa; si raccoglie nella grotta stessa della sorgente del Lys; alla superficie delle masse ghiacciate la fusione è continua, la temperatura 0°; il ghiaccio racchiude granelli di sabbia; è formato di numerosi frammenti compatti e trasparenti, incastonati gli uni negli altri irregolarmente, in modo da ricordare le suture delle ossa craniane.—Ammoniaca per litro milligrammi 0,3.
II. Ghiaccio della porzione superiore del ghiacciaio del Lys a 3600 metri circa, dietro i sassi su cui sorge la Capanna Gnifetti.—Ammoniaca per litro milligr. 0,05.
III. Ghiaccio del Garstelet, porzione discendente verso l’Hohes Licht (3400 m. circa).—Ammoniaca per litro un po’ meno del precedente; il dosaggio esatto non si può eseguire perchè si è presso al limite inferiore della sensibilità della reazione.
IV. Ghiaccio di una balza alla base occidentale della Piramide Vincent (a 3700 m. circa), di cui si è determinato il residuo solido (v. pag.54 ).—Ammoniaca per litro milligr. 0,10.
V. Neve profonda e compatta di una valanga che scende nel piccolo lago azzurro sotto al Colle d’Olen; è dell’inverno scorso: ammoniaca per litro milligr. 2. Un’altra porzione della stessa neve conservata nei recipienti chiusi ed analizzata l’indomani dava solo 1 milligr. di ammoniaca per litro. L’acqua del laghetto in cui scendeva il nevato non conteneva più se non traccie di ammoniaca inferiori a 0,05 milligr. per litro. Rinvenni invece traccie di nitriti (non determinate) che mancavano affatto nella neve. In questo lago sono numerosi organismi: insetti, crostacei ( Daphnia ) e alghe.
In complesso appare chiaro che l’ammoniaca esiste quasi costantemente e in quantità variabili nel ghiaccio dei ghiacciai e nelle nevi e che vi si conserva inalterata; anche per lunghi periodi di tempo; ma collo struggersi delle masse ghiacciate, l’ammoniaca passata nell’acqua di fusione, sparisce in poco tempo sì da non trovarsene più traccia a due soli chilometri dalla sorgente, come si verifica nel torrente Indren. Solo quando la fusione dell’acqua avvenga rapidamente, l’ammoniaca si trova ancora nell’acqua del torrente.
I nitriti si sono ricercati colle reazioni della metafenilendiamina, con quella dell’acido solfanilico e solfato di [Greek: a] naftilamina, i nitrati colla salda d’amido e joduro di zinco, e colla soluzione d’indaco[15]. In ogni caso e per tutte quante le acque le reazioni furono negative. Ciò per quanto riguarda il 1894; nel 1895 trovai traccie di nitriti nel lago dell’Olen, come dissi più sopra.
Il comportarsi dei composti tanto ossigenati che idrogenati dell’azoto nelle nevi del Rosa è interessantissimo. Se i risultati da me ottenuti, in base ad accurate reazioni sottoposte sempre a controprove, sono di un valore positivo, non è perciò meno desiderabile che possano essere confermati da un numero maggiore di osservazioni estendentisi su più larga zona. La questione importante dell’origine e della distribuzione dei composti azotati alla superficie del globo e nell’aria dalle indagini che ho esposte riceve un nuovo contributo, per cui si rischiarano alcune circostanze finora meno note.
È generalmente ammesso che i composti azotati (ammoniaca, nitriti e nitrati) che si trovano in piccolissima quantità nell’aria e che da questa passano nelle acque meteoriche si formino sotto l’influenza delle scariche elettriche o di vive combustioni. Dall’epoca della celebre esperienza di Cavendish questo fatto è stato confermato in numerosi e varii modi[16]; e si potè constatare che i composti azotati sono tanto più abbondanti nell’atmosfera quanto più elevata è la temperatura e intensi i fenomeni elettrici, come avviene sopratutto nelle zone tropicali. Dei tre composti azotati accennati, l’ammoniaca essendo gazosa si diffonde nell’atmosfera e si rinviene anche negli strati più elevati; mentre invece i nitriti e nitrati (d’ammonio) tendono a precipitare nelle zone più basse, essendo solidi.
In un modo o nell’altro, sia che (come avviene per l’ammoniaca) siano diffusi nell’atmosfera, o (come succede dei nitrati e nitriti) vi siano sospesi, questi composti devono necessariamente essere imprigionati nelle goccie d’acqua o nei fiocchi di neve, e soffermarsi sui ghiacciai. E se nelle nevi delle alte vette non si trova se non ammoniaca, ciò deve riferirsi che in quelle altezze non si verificano quelle condizioni che sono necessarie perchè gli elementi dell’acqua si combinino coll’azoto atmosferico.
La questione muta dunque d’aspetto; a rischiararla diventa necessario verificare se ad una certa altezza i fenomeni elettrici mutino di natura, o d’intensità, il che per ora non è facile per la scarsità dei dati, le osservazioni continuate nelle zone elevate essendo ancora nell’inizio.
A tutta prima parrebbe che sulle alte vette si dovessero avere importantissimi fenomeni elettrici; è noto che ogni picco alpino ha numerose impronte di fulminazione, e spesso si mostra magnetico in conseguenza appunto delle scariche che ha subìto[17]. Sulle vette alpine alcuni viaggiatori hanno assistito a fenomeni elettrici imponenti; il sig. Galli il 16 agosto 1889 trovandosi alla Capanna del Bergli (3299), alla base del gruppo della Jungfrau, fu leggermente ferito da un fulmine penetrato nel rifugio. Si è in vista di questi pericoli che uno fra i principali intenti della Commissione nominata dal Club Alpino Italiano per dirigere la costruzione della Capanna Margherita sulla Punta Gnifetti, fu di trovare il modo di renderla sicura dal fulmine[18]. Si adottò il sistema di rivestirla di fogli di rame, armandola di punte agli spigoli, da cui scendono gomene metalliche che la mettono in diretta comunicazione col nucleo granitico del monte.
Dal complesso tuttavia delle osservazioni e dalla esperienza quotidiana risulta che i violenti fenomeni elettrici a grandi altezze sono rari e che le vere scariche temporalesche, in cui la ricomposizione della elettricità si fa repentinamente per mezzo di scintille, vi sono meno frequenti che non al basso; al disopra dei 3000 metri nella nostra latitudine temporali con lampi e tuoni si hanno assai più rari che al piano. La scarica elettrica nelle zone assai elevate muta carattere, non è più subitanea come quella della bottiglia di Leyda, ma diventa continua o semi-continua, assume l’apparenza di fuoco di S. Elmo o forse anche di scarica oscura. Su questo punto le osservazioni sono numerose e confermansi quotidianamente; il Vallot che è uno di coloro che abbia vissuto più a lungo sul Monte Bianco, cita fra i fenomeni elettrici non i fragorosi fulmini, ma le milles piqûres de l’électricité des orages[19]. Il Vallino ha radunato molti esempi di scariche elettriche nelle alte montagne[20]; se ne trovano pure registrati molti interessantissimi negli Annali dell’Osservatorio di Harvard College, il quale venne eretto sul Pikes Peak nelle Montagne Rocciose a 4308 m. Recentemente si pubblicarono nei «Sitzungsberichte» dell’Accademia di Vienna le osservazioni sulla elettricità atmosferica e sui fuochi di S. Elmo fatte sulla vetta del Sonnblick, confermandosi il risultato di precedenti osservazioni che dimostrano la variazione dell’energia elettrica esservi poca, comparata a quella della base perchè l’Osservatorio si erge al disopra di quegli strati dell’atmosfera in cui sono più, frequenti i processi elettrici[21].
Tutti questi fatti giustificano quanto dissi dianzi che se non assolutamente mancanti, tuttavia le violenti scariche temporalesche che sono la sorgente più copiosa di composti nitrosi nell’aria, sono rare a grandi altezze; si comprende perciò come nella neve raccolta sulle vette si trovi in prevalenza e spesso sola l’ammoniaca che è diffusa nell’atmosfera e proviene dagli strati più bassi, e non i nitriti ed i nitrati la cui formazione a tali altezze è scarsa o nulla.
I risultati da me ottenuti relativamente ai composti azotati dell’acqua a grandi altitudini sono confermati da parecchi autori. Müntz e Aubin[22] al Picco del Mezzodì (m. 2877) hanno esaminato sei acque di pioggia, tre di nebbie e quattro di neve e trovarono quasi completamente assenti i nitrati. Per contro l’ammoniaca era dovunque presente in quantità variabile, ma sempre inferiore a quella rinvenuta in regioni basse.
Boussingault comunicò all’Accademia di Francia[23] alcune analisi di acque raccolte dal sig. Civiale nelle peregrinazioni da lui intraprese nelle Alpi. Non sono indicate le manipolazioni che abbia subito l’acqua, nè l’epoca dell’analisi rispetto a quella della raccolta, nè i metodi usati per il dosaggio.
I risultati sono:
millig. per litro ______/ \______ HNO 3 NH 3
1859 Gran S. Bernardo:
Id. Acqua di pioggia sul colle (2600 m.) 0,30 1,10
Id. Acqua di neve » » 0,05 traccie
Id. Acqua del lago » » 0,00 0,11
Monte Velan (3760 m.). Acqua di neve 0,00 0,10
1860 Mer de Glace (1350 m.) 0,26 0,13
1861 Ghiacciaio del Gorner (2400 m.) 0,00 0,00
1862 Ghiacciaio d’Aletsch (2200 m.) indizii indizii
1863 Ghiacciaio di Kaltenwasser (3565 m.) 0,00 0,00
1865 Ghiacciaio di Palu (3900 m.) 0,00 0,00
1866 Vallone Comboë (2100 m.) 0,66 0,30
Dall’esame di questo elenco risulta che in tutte le acque raccolte sopra ai 3000 metri mancava l’acido nitrico; l’ammoniaca invece si è rinvenuta anche a questa altezza al Velan, il picco che domina il passo del Gran S. Bernardo.
Per contro nella zona inferiore ai 3000 metri le quantità di ammoniaca e di acido nitrico sono variabili e spesso ragguardevoli, con questo tuttavia che i grandi ghiacciai alimentati da nevi la cui altitudine supera i 3000 metri anche più basso hanno poco o punto di acido nitrico; tali sono il ghiacciaio del Gorner formato appunto dalle nevi del Rosa di cui io studiai il versante meridionale, e quello di Aletsch le cui radici scendono per i fianchi della Jungfrau e delle altre vette più alte dell’Oberland Bernese.
Il fatto che la Mer de Glace ha dato invece molto acido nitrico e ammoniaca si spiega colla circostanza che si è esaminata la neve, e non il ghiaccio; ora al fondo del ghiacciaio e ad una altezza di 1350 m. questa neve era certamente d’origine locale, poichè quella alta fonde sul sito o si trasforma in ghiaccio. Un esame dei ghiacci compatti di questo estremo lembo del ghiacciaio avrebbe senza dubbio dato altri risultati e mi induce a pensarlo il fatto che esaminando in quest’anno 1895 il ghiaccio del limite più basso del ghiacciaio del Lys (2150 m.), che è una vera «Mer de glace», vi rinvenni ammoniaca in copia, e punto composti nitrosi.
È assai interessante il risultato delle analisi delle acque del circo Comboë che è un vallone aprentesi al sud d’Aosta, circondato da aspre roccie fra cui emerge il Monte Emilius; le nevi si raccolsero durante un temporale violento e siccome non esiste ghiacciaio in questa regione, dovevano essere di valanga, se pure non caddero nel momento stesso in cui infuriava il temporale; esse diedero un’acqua a reazione acida, contenente milligr. 0,66 di acido nitrico per litro.
Tutti questi dati confermano quanto ho detto dianzi che cioè, mentre anche in montagne alte si ha formazione di composti ossigenati dell’azoto quando vi siano veri temporali, al disopra di 3000 metri non si trovano più nitrati nè nitriti, il che deve essere in rapporto colla natura delle scariche elettriche in queste regioni.
Nella scarica elettrica temporalesca condizione essenziale per la combinazione dell’azoto coll’ossigeno è la temperatura elevata; col crescere della temperatura anche altre forme di scarica, e precisamente quella oscura, producono quantità sempre maggiori di composti nitrosi e nitrici. Questo fatto venne messo in luce da Hautefeuille e Chapuis[24]: essi trovarono che l’aria satura d’umidità e scaldata a 100° fatta passare in un tubo ad ozono ( appareil à effluves ) acquista 16 milligrammi d’acido nitrico per litro d’aria! mentre alla temperatura ordinaria, cæteris paribus, non si hanno che traccie di un acido che fuma all’aria. Se si pensa alle rigide temperature che regnano di sopra ai 3000 metri e alla natura delle scariche che si hanno, si può benissimo comprendere come la formazione di composti nitrosi cessi affatto.
Che i risultati negativi da me ottenuti possano ascriversi a scomparsa dei nitrati e nitriti dal ghiaccio non credo sia ammissibile (e lo provano le analisi delle acque del Civiale in cui quando esistevano i composti nitrosi si conservarono nel ghiaccio); l’ammoniaca nelle stesse condizioni persiste a lungo, mentre nell’acqua ed a temperatura più alta essa scompare dopo qualche tempo. Houzeau[25] trovò che in un’acqua contenente milligr. 4,7 di ammoniaca per litro, dopo essere lasciata 13 giorni al sole ne rimanevano solo più 0,3. All’oscuro la perdita è assai meno sensibile; nello stesso periodo di tempo l’acqua da milligr. 4,7 passa a 2,6. Nel ghiaccio, sopratutto profondo, concorre altrettanto la bassa temperatura quanto l’oscurità e la mancanza di aria atmosferica a mantenere l’ammoniaca in quantità costante. Ma appena mutano le condizioni, fonde il ghiaccio, e l’acqua di fondita corre liberamente all’aria ed alla luce, ecco che l’ammoniaca si diffonde nell’atmosfera e scompare rapidissimamente.
Ho già accennato che nelle circostanze ordinarie, l’acqua del torrente Indren a due chilometri dalla sua sorgente non ha più traccia di ammoniaca e solo eccezionalmente, durante le giornate canicolari che inducono abbondante fondita, ne conserva ancora inalterata una porzione. Così pure, nel lago dell’Olen l’ammoniaca si conserva qualche tempo nell’acqua, ma in piccola quantità.
II. Crioconite.
Nordenskiöld nel suo viaggio in Groenlandia nel 1870 aveva trovato disseminata alla superficie del ghiaccio continentale ( inlandsis ), tanto nella sua porzione marginale, quanto a 150 chilometri dalle coste, una polvere fina, amorfa, che egli battezzò col nome di crioconite. Studiandone la forma e la composizione la credette d’origine cosmica e in parte anche eolica, cioè dovuta al trasporto di particelle per opera dei venti.
Lo scienziato svedese confermava le prime sue osservazioni esaminando varii esemplari di polvisculi caduti durante un uragano di neve nel 1871 a Stoccolma, o raccolti in varie parti della penisola scandinava; nel 1872 ritrovava e ristudiava la crioconite sui ghiacci galleggianti presso le isole Spitzberg[26]; tornato poi nel 1888 in Groenlandia riprendeva lo studio della crioconite, che egli trovò abbondante, e che anzi fu uno dei maggiori ostacoli al progresso della sua spedizione[27].
La crioconite di Groenlandia è una polvere nera, fine, avente l’apparenza di fuliggine; si può trovare sparsa uniformemente alla superficie del ghiaccio in strati di spessore vario da 1 millimetro a 1 decimetro; spesso si raccoglie entro a cavità cilindriche verticali, veri pozzi in miniatura, profondi da pochi millimetri a 1 metro e larghi altrettanto. Il fondo è coperto d’un leggero strato di crioconite, mentre la cavità stessa contiene acqua, e la superficie per lo più è coperta da un velo di neve o di ghiaccio che nasconde il tutto. Nello spazio che è fra parecchi grandi fori si eleva un cono di ghiaccio annerito dal polviscolo. La superficie del ghiacciaio così tormentata è difficilissima a percorrersi; ad ogni passo la gamba affonda entro le trappole celate sotto la neve.
Nella crioconite di Groenlandia e di Spitzberg e nei corpuscoli trascinati e racchiusi nella neve delle bufere e delle nevicate esaminate dal Nordenskiöld si rinvennero costantemente granuli di ferro nativo con traccie di cobalto e di nickel, cristalli di quarzo, di mica, di augite e di altri minerali, sostanze organiche solubili in alcool ed etere, forme di vegetali monocellulari viventi, alcune volte (come per esempio dopo l’eruzione del vulcano Krakatoa) ceneri vulcaniche.
La presenza del ferro magnetico unito al cobalto ed al nickel, la costanza di composizione avente una certa indipendenza da quella delle roccie vicine, la diffusione in zone lontane fra di loro, sono altrettanti argomenti i quali inducono il Nordenskiöld ad attribuire alla crioconite un’origine eolica e cosmica.
Le idee dello scienziato svedese però non sono state accolte da tutti; parecchi vedono nella crioconite il prodotto dell’erosione e dello sgretolamento delle roccie fra cui è incassato il ghiacciaio, le quali anche in Groenlandia talora alzano il capo dal potentissimo mantello di ghiaccio, formando quei picchi isolati che si chiamano col nome di «Nunataks». Di più, un altro esploratore della Groenlandia, il Nansen, che, più fortunato di tutti i suoi predecessori, valicò dalla costa orientale alla occidentale percorrendo sempre l’ inlandsis, non rinvenne che in un solo punto del suo tragitto la crioconite, il che dimostra la sua zona di distribuzione non essere così vasta come il Nordenskiöld vorrebbe ammettere.
Una polvere avente tutti i caratteri della crioconite si può trovare qua e là sui nostri ghiacciai; e come essi sono una miniatura dei vasti campi di ghiaccio polari, così la crioconite vi si trova radunata in condizioni che riproducono su piccola scala quelle della Groenlandia.
Nelle mie ricerche trovai i depositi caratteristici di crioconite limitati a quella parte del ghiacciaio del Garstelet che scende a lambire la cresta rocciosa che spiccandosi dall’Hohes Licht sale fino a formare il mucchio di pietrame su cui posa la Capanna Gnifetti. Verso il Garstelet questo sprone di roccie non ha quasi alcuna sporgenza, sì che il ghiacciaio scende lievemente a morirvi sopra; verso il ghiacciaio inferiore del Lys, invece, è un precipizio vertiginoso. L’orlo inferiore del ghiacciaio è quasi pianeggiante, e per un tratto, che si avanza di forse un centinaio di metri verso la parte superiore del ghiacciaio stesso, si mostra tutto cribroso per innumerevoli fori. Sono queste le aperture di piccoli pozzetti verticali, cilindrici, della profondità di 10 a 15 o 20 centimetri, del diametro che varia da pochi millimetri ad 8-10 centimetri. Chiusi talora da un dischetto di ghiaccio sottile, sono ripieni d’acqua limpidissima, e al fondo hanno uno straterello d’una polvere nera, fioccosa, che pare fuliggine.
Non è difficile il comprendere la formazione di queste cavità: gli ammassi di questo materiale scuro, che assorbe intensamente il calore, provocano la fusione del ghiaccio circostante e si vanno seppellendo nella fossa che scavano da sè, finchè, giunti a tale profondità che il calore diurno non li tocca più, si fermano. Ho potuto constatare che dopo una nevicata che abbia seppellito tutto uno strato di pozzetti di crioconite, al disotto dello strato superficiale permane la superficie cribrosa; in una sezione verticale praticata in queste condizioni si scorge sotto l’ultima neve recente la traccia dei pozzetti e della crioconite primitiva.
Nel 1895 percorsi in vario senso il Garstelet per istudiarvi l’origine della crioconite; e potei farmi una idea più esatta della sua formazione, sebbene non abbia per varie circostanze avuto mezzo di farne raccolta sì da ripetere e completare le analisi che riporto qui sotto.
Il Garstelet è una superficie unita di ghiaccio che non presenta traccia di crepacci se non nella porzione superiore, dove si confonde coll’Indren per fasciare i fianchi della Piramide Vincent. Per questa sua continuità e per la sua disposizione a ventaglio le acque di fondita vi scorrono sopra in un velo continuo e si raccolgono in rivoletti tutt’intorno all’estremità del ghiacciaio. Sono queste acque superficiali che raccolgono e trascinano il polviscolo nero detto crioconite, il quale s’arresta qua e là e si affonda nei pozzetti la cui acqua fa parte del velo scorrente sul ghiacciaio stesso. La neve recente porosa ricopre alla sua volta di uno strato più o meno sottile la massa glaciale, i pozzetti superficiali di crioconite e lo strato acqueo continuamente fluente. In qualunque punto colla piccozza si rompa la prima crosta tenue di neve e ghiaccio friabile, sgorga subito l’acqua irrompendo da ogni lato, riempie e inonda i pozzetti esportandone il fine detrito nero. Il ghiaccio sottoposto è compatto, duro, purissimo; le analisi gli assegnano il residuo fisso più tenue, e l’ammoniaca in certi punti è scomparsa, lavata essa pure dalle acque.
Dove i ghiacciai sono molto inclinati, e fessurati dai crepacci, e solcati da quei ruscelli che nascono, crescono impetuosi col sole e muoiono con lui, la crioconite è trascinata nelle cascate e scende a mescolarsi col profondo limo glaciale. Alla superficie calma, riposata, unita del Garstelet invece rimane a lungo depositata sotto l’acqua dei pozzetti, spesso congelantesi durante la notte, e lentamente scende a seppellirsi sotto le morene e le roccie che incassano il ghiaccio. Più in alto, al Colle del Lys (4200 m.) la mancanza di fusione, anche diurna, spiega l’assenza di crioconite, che potrebbe benissimo formarsi per la poca inclinazione e la scarsità di crepacci.
Con questo meccanismo continuo, agevolato dalla pressione e dal movimento dei ghiacciai, la crioconite della superficie scende al profondo, dove si mescola colle sabbie moreniche, coi limi glaciali e passa nelle correnti inter- e sottoglaciali, dove non è più possibile isolarla.
La raccolta della crioconite si fece (nel 1894) colle solite precauzioni, racchiudendola insieme a un poco d’acqua, in una boccia che venne subito sigillata alla lampada. Non avendo meco il necessario per verificare la presenza del ferro nativo, trasportai il materiale nel laboratorio di Torino, dove venne esaminato nel gennaio 1895.
La crioconite del Rosa è un miscuglio di sostanze diverse, in diverso grado di suddivisione. Una parte è in polvere finissima che nell’acqua riposata rimane sospesa per lungo tempo, quindici o venti giorni, comunicandole un leggero grado di opalescenza. Siccome l’acqua dei pozzetti di crioconite è assolutamente limpida e chiara, conviene ammettere che la formazione di tali cavità e la discesa della crioconite si faccia con grande lentezza in modo da non disturbare punto la parte più leggera del deposito.
Allorchè nell’inverno aprii in laboratorio la boccia contenente la crioconite, constatai che si era fatto un vuoto parziale, e trovai, non senza sorpresa che il miscuglio sviluppava un forte lezzo di putrido, avente carattere deciso fecaloide o scatolico.
Filtrai tosto per carta senza ceneri; il filtrato avente reazione debolissimamente alcalina era giallognolo, si intorbidiva all’aria coprendosi di uno strato sottile iridescente, mentre nello spessore del liquido l’intorbidamento si andava sempre facendo maggiore fino a depositare uno straterello di precipitato giallo ocraceo. L’odore fecaloide si faceva sempre più manifesto, ed era sopra tutto percepibile fiutando delle listerelle di carta da filtro bagnate nel liquido. Il filtrato dopo alcalinizzato con idrato sodico venne estratto con etere, che lasciò alla evaporazione una goccia di residuo avente intenso odore fecaloide; non si ottennero tuttavia cristalli, nè si ebbe la formazione di nitrato di nitroso-indolo trattando con acido nitrico-nitroso. La minima quantità di sostanza non permise di stabilire le altre reazioni; ma l’odore caratteristico è una prova certa della presenza di uno dei due composti o indolo o scatolo, e più probabilmente di quest’ultimo.
Il residuo della estrazione eterea, fatto bollire per separare le ocre e svaporato, si acidificò con H 2 SO 4 e si distillò; il distillato, neutralizzato con un una traccia di NaOH e svaporato, lasciò un residuo piccolissimo di saponi. Questo residuo, introdotto in un piccolo palloncino e distillato con H 2 SO 4, diede poche goccie di un distillato acido, avente forte odore di burro rancido, e non riducente i sali di argento; si trattava dunque di traccie d’un acido grasso (escluso il formico), probabilissimamente butirrico.
La fermentazione avviatasi nella crioconite era dovuta a numerosi microorganismi che vedevansi muovere in ogni senso in una goccia del liquido esaminato al microscopio; ad essi era dovuta la scomparsa dell’ossigeno, mentre avevano consumata scarsa sostanza organica azotata che era contenuta in questo deposito glaciale.
La polvere nera di crioconite rimasta sul filtro conteneva pure numerosi organismi; fra questi erano alghe verdi, le quali, non avendo potuto svilupparsi nell’ambiente disossigenato della boccia chiusa, dove gli anaerobii avevano il sopravvento, appena ebbero aria a disposizione cominciarono a vegetare e produssero clorofilla che tingeva le ultime acque di lavaggio.
Ecco i risultati dell’esame dei vegetali contenuti nella crioconite, esame gentilmente intrapreso dal prof. Belli, assistente alla cattedra di Botanica:
Alghe ( Diatomeae ) appartenenti con tutta probabilità ai generi Pinnularia sp., Navicula sp., Frustulia sp.?
" ( Cyanophyceae ) Oscillaria sp.!!
" ( Chlorophyceae ) Pleurococcus sp., Chroococcus sp.! Hematococcus pluvialis Kh.!!
Funghi ( Bacteriaceae ) Bacillus sp., Bacterium sp., numerosissimi.
" ( Ascomycetes ) Spore con episporio echimato di difficile identificazione.
Gymnospermae. Polline di conifera (Gruppo Abietineae ). Inoltre: Pappi di Composite? o di Graminacee o Ciperacee. Fili o tricomi appartenenti probabilmente a semi piumosi ( Salix, Epilobium, Clematis, ecc.).
Il processo di putrefazione avviatosi nella crioconite del Rosa, la avvicina una volta di più alla crioconite boreale; anche Nordenskiöld trovò una quantità di detriti abbandonati dal ghiacciaio nel letto di un torrente, i quali erano caduti in preda a decomposizione putrida ed esalavano odore d’acido butirrico. Da questi ammassi di crioconite il Berggren isolò un certo numero di alghe, che descrisse nei resoconti dell’Accademia di Stoccolma[28]. Si è appunto in causa all’avviatasi decomposizione putrida che il ferro nativo che potesse essere contenuto nella crioconite del Rosa si combinò con altri elementi per passare allo stato ferroso, che alla sua volta si trasformò in ferrico quando aperta la boccia si diede libero accesso all’ossigeno. Dai dosaggi fatti risultò che la crioconite del Rosa in cui si era sviluppata la putrefazione, conteneva circa 16% di sostanza organica; il ferro rimasto allo stato insolubile rappresentava ancora il 3,5%.
È dunque assodato che anche la crioconite nostrana racchiude indubbiamente elementi eolici, ma non ho potuto accertarmi se vi esistano anche elementi cosmici, che sarebbero rappresentati dal ferro nativo.
La presenza di crioconite e la sua composizione serve a dimostrare con ogni certezza quanto ho sostenuto già da tempo[29] che cioè l’aria dell’alta montagna racchiude anch’essa numerosi corpi stranieri.
E qui fa d’uopo di ben precisare la questione; se si parla dell’aria di montagna nei periodi di calma, non c’è dubbio che essa si debba considerare come esente o quasi da ogni germe sospeso; questo fatto, già noto per l’esperienza di vari autori[30], abbiamo potuto confermare parecchie volte nel 1895 esponendo alcune scatole Petri, contenenti gelatine o agar sterilizzati, per 24 ore all’aria in varie località, al Corno del Camoscio sopra il Col di Olen, al Telcio e in prossimità dell’alpe Lavez. Nessuna di queste scatole accusò pure un germe. È troppo chiaro che l’atmosfera essendo calma, i germi sospesi nelle zone basse non possono salire, mentre quelli giacenti al suolo della montagna, i quali si van facendo più rari quanto più ci si allontana dai luoghi dove è più attiva la vita vegetale ed animale, non sono smossi che raramente per essere la regione quasi affatto disabitata.
Io credo inoltre che una parte considerevole dei germi viventi che siano pervenuti in qualsiasi modo a una certa altezza, vi periscono in breve tempo, e mi conforta in tale opinione, la quale tuttavia merita di essere confortata da altre più numerose osservazioni, il fatto che nella neve nei pressi delle Capanne-rifugio Gnifetti e Regina Margherita, dove sono numerose le deiezioni umane, non abbiamo trovato quella quantità di microorganismi che era ragionevole aspettarsi. Su questo fatto dirà più particolareggiatamente la relazione del dott. Scofone.
Ma appena s’alzi dal piano il vento ad assalire i fianchi del monte, ecco che l’aria di montagna si carica di polviscoli non meno di quella dei centri abitati. Questo stato di cose è pressochè abituale in alcune zone, dove il vento regna continuamente. La punta del Monte Marzo, sulla quale io feci le esperienze del 1883, si trova appunto in queste condizioni, poichè il contrafforte che chiude la Val d’Aosta a destra della Dora, di cui il Monte Marzo fa parte, è quasi di continuo esposto ai venti, e le nubi vi fanno dimora abituale. I nomi stessi di alcuni passaggi: Col Nivolé, Col della Nuva (da nuvola) indicano questo fatto. Perciò si comprende come io abbia allora trovato abbondanti germi, assai più numerosi sulla vetta dove era continuo quasi il soffiar del vento, che non a qualche centinaio di metri sotto, dove era il casolare che ci alloggiava[31].
Siccome lo stato atmosferico in montagna è soggetto a frequenti e improvvisi mutamenti, così è erroneo esprimere con una media il contenuto in corpuscoli sospesi nell’aria, come si fa per altri componenti quali sarebbero l’acido carbonico, o l’ammoniaca, i quali, benchè soggetti a leggere variazioni, sono pure continuamente presenti. E se si vogliono pure aver medie, non è filtrando qualche metro cubo d’aria per poche ore che si potranno avere i dati per stabilirle; ma bisognerà trarli ripetendo le osservazioni nelle varie condizioni meteorologiche che si succedono con tanta frequenza in montagna.
Il miglior metodo è ancora l’esame delle nevi, quali ho praticato in lavori precedenti[32], perchè, sebbene non dia dei risultati quantitativi, permette di ottenere un’idea completa dei materiali contenuti nell’atmosfera, mentre le correnti degli aspiratori non trascinano che i corpuscoli più sottili e leggeri.
È necessario sopratutto, discorrendo dell’aria di montagna e dei materiali che contiene sospesi, tener presente che le condizioni lassù non sono come quelle di una città in cui il continuo moto e il viavai riempie l’aria di polvere e le impedisce di purificarsi, sì che la polvere diventa un elemento costante dell’atmosfera; in montagna poche ore di calma o il sopravvenire d’una nevicata depurano quasi completamente l’aria; ma il sorgere subitaneo d’un vento o d’una procella di neve rigettano nell’aria i turbini di materie solide di cui s’era liberata.
Dott. Piero Giacosa (Sezione di Torino).
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NOTE:
[6] Debbo anche un ringraziamento alla Ditta Narizzano la quale ci regalò una quantità di scatole delle sue conserve alimentari veramente eccellenti e raccomandabili agli alpinisti per la loro ottima confezione. Anche il sig. dott. Robecchi ci spedì da Strevi una cassetta dei suoi rinomati vini e vermuth, che furono uno dei lussi maggiori della nostra modesta spedizione.[7] Vedi “Boll. C. A. I.„ vol. XXIII (n. 57) p. 313.[8] Forse si potrebbe utilmente sostituire la traversa inferiore cui si attacca il gancio in ferro per uncinare la correggia di cuoio, con una leggera sbarra di ferro, foderata di cuoio o di stoffa per addolcire gli spigoli. Colla traversa in legno attuale accade che nelle scosse inevitabili della discesa, allorchè la portantina è carica, si fenda il legno in corrispondenza delle viti che fissano gli uncini in ferro.[9] Nella carta dell’I. G. M., foglio 29, alla scala 1:50,000 al lago Salzia è assegnata l’altezza di 2270 metri; ciò è evidentemente un errore materiale di scrittura; l’altezza deve essere invece di m. 2670, come risulta anche dalle curve di livello. Nella stessa carta il sentiero del Colle d’Olen dal versante ovest è tracciato nel "Thalweg" mentre esso fa un largo giro per portarsi in alto sulle balze che scendono dal Corno del Camoscio verso il piano d’Indren, e poi giunge al colle tenendosi sempre a mezza costa.
E poichè sono su questo argomento debbo pure fare notare altre imperfezioni della carta sul versante di Gressoney: i due ghiacciai che coprono il fianco meridionale della Piramide Vincent, cioè quello di Garstelet a sinistra e quello di Indren a destra, non hanno nome sulla carta; il bel piano dove le acque del torrente che scende da questi ghiacciai indugiano in meandri fioriti, è chiamato piano di Zindra, mentre il nome suo è di Indren, come quello del ghiacciajo soprastante; il torrente stesso, come è detto più sopra, si chiama Indren e non Mos. La carta poi, benchè abbia una quota e l’indicazione di una morena al posto in cui sorge la capanna Gnifetti, non registra questo frequentatissimo ricovero, come non registra più in alto l’importantissimo Passo del Lys o Lysjoch. Eppure altri passi del Rosa meno importanti e meno frequentati, come p. es., lo Schwarzthor, il Verra Pass, il Felikjoch e lo stesso Passo della Sesia, sconsigliabile sempre se non ai pochissimi ardimentosi e in circostanze eccezionalmente favorevoli, sono tutti segnati, come lo è pure il canale Marinelli e il Jägernetzen che hanno una importanza esclusivamente alpinistica. Di siffatte disuguaglianze ed omissioni ho potuto constatare altri esempi. Uno di essi è di maggior rilievo: sulla strada d’accesso al Gran S. Bernardo, non è indicata la cantina che è a mezza via tra St.-Rhémy e l’Ospizio. La carta dell’1:100.000 pubblicata dal Ministero degli Interni di Francia (foglio XXVI-25, Chamonix) che si vende a basso prezzo ed è di una grande chiarezza per le sue diverse tinte, porta questa indicazione, la cui importanza è evidente.
[10] Queste cifre approssimative, ma fondamentalmente esatte, mi furono comunicate dal gentilissimo sig. cav. Gaspare Mongenet, consigliere provinciale, e si riferiscono al torrente al suo sbocco a Pont St.-Martin.[11] Alla calcinazione si riduce a milligr. 16,0.[12] “Vedi Berichte d. deutsch. chem. Gesell.„ anno XXVII, pag. 343.[13] Tiemann u. Gaertner: Die Chemische und mikroskopisch-bacteriologische Untersuchung des Wassers (Braunschweig, Wieweg, 1889) pag. 41.[14] Tiemann u. Gaertner, op. cit., pag. 107.[15] Tiemann u. Gaertner, op. cit., pag. 38-39.[16] Vedi Dammer, Handbuch der anorganischen Chemie, vol. II, parte 1ª, pag. 52. Per quanto si riferisce alla distribuzione dei composti azotati nell’aria in varie zone e latitudini, vedi pure i lavori di Schlösing nei Comptes rendus, vol. 81, pag. 1252; vol. 82, pag. 969; di Müntz e Aubin, ibid. vol. 95, pag. 788, 919; vol. 97, pag. 240; vol. 108, pag. 1062; di Marcano e Müntz, ib., vol. 113, pag. 779, e gli Annuaires de l’Observatoire de Montsouris.[17] Alfonso Sella, nei “Rend. R. Acc. dei Lincei„ del 18 gennaio 1891.[18] Porro, nel “Boll. C. A. I.„ vol. XXIV, pag. 121.[19] Annales de l’Observatoire météorologique du Mont-Blanc, Paris 1893, vol. I, prefazione.[20] “Riv. Mens. C. A. I.„ vol. IX, pag. 115.—Vedi pure “Zeitschr. d. Deutsch. u. Oesterr. Alpenverein„ XX.[21] “Nature„ 16 maggio 1895.—Riferisco qui una interessante relazione trasmessami dal dott. E. Oddone, direttore dell’Osservatorio geodinamico di Pavia, sopra i fenomeni elettrici osservati alla Capanna Margherita.
«Sui fenomeni luminosi al Monte Rosa la sera del 21, o 22 che sia, agosto 1893 ricordo che lassù sulla vetta era nebbioso e vi cadeva insignificante un nevischio. La temperatura era di -5°. Nella vallata della Sesia imperversava il temporale. Dapprima comparvero sui 6 parafulmini delle piccole stellette simili a brillanti di media grossezza illuminati dal sole. La luce loro era bianca. Ma quando i lampi in basso percotevano la montagna, quasi il suolo e le nubi fossero anodo e catodo di una gigantesca batteria, allora le stellette mutavansi in fiocchi allungati e sibilanti. Ed a me appariva che dopo fulmini azzurri si avessero fuochi negativi (stellette), dopo fulmini rossi si avessero fuochi positivi (fiocchi). Il suono era quello del vapore che esce dalla caldaia, attenuato ma distinto, o meglio s’avvicinava a quel zittìo che si fa nelle sale ove si ha piacere di udire la musica ed il vicino disturba. La lunghezza dei fiocchi era forse di un centimetro, ma l’occhio li giudicava più lunghi.
Nuovi lampi, e comparivano le stellette, nuovi lampi ancora e ritornavano i fiocchetti. L’intervallo era di due o tre primi. Avvicinatosi il temporale, non solo dalle punte sui tetti, ma da ogni asperità delle rupi, dagli spigoli dei disordinati assiti fuori della capanna, dalla balaustrata in legno uscivano grossi fiocchi bluastri e fatui lunghi almeno 5 centimetri. All’occhio sembravano più estesi, la luce però era smorta ed a stento si avrebbe potuto leggere con simili candele. In tutto se ne potevano contare una ventina e non mutavano più in stellette. Stavano fissi, offrendo solo un crescendo al momento del lampo (momenti che alcune volte col lampo sparivano totalmente per un secondo!!). Questi fiocchi dolcemente zittivano, come fu detto sopra, mentre la neve attorno, benchè non fosforescente, pure leggermente crepitava e schioppettava. Ho provato a mettere la mano sui parafulmini. Il fiocco spariva per un attimo, ma poi tornava e mi lambiva le mani senza provocare sensazioni. Eravamo in tre o quattro fuori della capanna appoggiati all’uscio di entrata. I capelli e la barba, ad eccezione di qualche luminosità sui peli isolati, non davano niente, ma se si toccavano colle mani se ne sprigionavano ramificazioni luminose molto più intense di quelle che escono dalle macchine di Holtz senza condensatori. La lunghezza di quelle vive fiammelle era di cm. 5, ma ne uscivano delle maggiori se si bagnavano le dita di saliva. La pelle irritata dava la sensazione ben nota.
L’alpenstock, alzato la punta in alto, dava fiocchi di cm. 10 di lunghezza e di 3 cm di diametro circa. Lo zittìo che emetteva incuteva timore. L’uomo colla bocca difficilmente sa fare più forte. Dopo ci siamo ritirati per prudenza, ma non credo che il temporale crescesse in intensità. Un portatore che uscì ancora rientrò atterrito: disse che allo scoppiare di un lampo ne aveva avuto la barba investita e la vista e la memoria momentaneamente offuscata, ma credo esagerasse.
Il tuono al massimo del temporale rumoreggiava forte, ma prima e dopo vedevansi i lampi ed esso a noi non giungeva.
[22] “Compt. rend.„ vol. 95 (1882), pag. 919.[23] “Compt. rend.„ vol. 95 (1882), pag. 1121.[24] “Compt. rend.„ 1892, pag. 134.[25] “Compt. rend.„ 1883, pag. 525.[26] Om kosmiskt stoft, som med nederbörden faller till jordytan. “Ofversigt a Kongl. Vetenshaps-Academiens Förhandlingar„ 1874, nº 1. Stockholm.[27] A. E. Nordenskiöld: La seconde expédition suédoise au Grönland (Paris, Hachette) pag. 194 e segg.[28] Anno 1871, p. 293 (citato da Nordenskiöld, Om kosmiskt stoft, ecc.).[29] “Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino„ vol. XVIII, 28 gennaio 1888.[30] Giacosa, loc. cit, e “Annuaire de l’Observatoire de Montsouris„, 1884-1885.[31] Le mie esperienze del 1883 non ebbero la ventura di essere approvate dal dottor Miquel, batteriologo dell’osservatorio municipale di Parigi, situato a Montsouris. Egli le critica vivamente nell’Annuario del 1884 a pag. 531, e la sua critica contrasta singolarmente colle lodi date al signor di Freundenreich di Berna che avendo eseguito ricerche analoghe sulle montagne era giunto a risultati che al Miquel parvero più attendibili. Non risposi allora alle critiche del batteriologo di Parigi e mi limito ora a dimostrare che il Freundenreich ed io non meritavamo ni cet excès d’honneur ni cette indignité. Le alte lodi per cui è additato alla riconoscenza del mondo degli scienziati il sig. di Freundenreich per avere preso la determinazione di salire sullo Schilthorn (2792 m.) e starci quattro ore per filtrarvi dell’aria (pag. 536) e quelle che gli si tributano l’anno seguente per essere stato al Niesen e al Théodule, non avranno avuto altro effetto che di far sorridere il dotto Bernese che sa come a queste altezze ci si giunga se non così facilmente come alla Torre Eiffel, certo senza incorrere in pericoli tali da meritare di essere tramandati alla posterità; mentre la confessione penosa d’impotenza a cui il Miquel vorrebbe costringermi, perchè essendo in montagna e sprovvisto di laboratorio non ebbi mezzi di far quello che non fece neppure il sig. di Freundenreich di coltivare cioè i germi trovati per accertarmi dei micrococchi esistenti, non mi ha punto commosso. Entrambi gli apprezzamenti provano soltanto che il signor Miquel in quell’epoca non sapeva ancora che cosa vuol dire montagna e lavorare in montagna. Forse a quest’ora l’avrà imparato.[32] “Giornale della R. Accad. di Medicina di Torino„, 1890, n. 1 e 2.
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Nelle Dolomiti di Ampezzo.
La seduzione irresistibile che due mesi d’alpinismo nelle Dolomiti avevano esercitato sopra di me, mi richiamava altre due volte (1894 e 1895) nella prediletta Cortina d’Ampezzo, alla quale tornavo e tornerò ancora sovente con quel conscio e profondo amore che la montagna sa ispirare ai suoi fedeli, e che prende sovente, com’è qui il caso, la veste d’una vera passione.
Ho già raccontato su altro «Bollettino»[33] le mie salite del 1893. Nel 1894 il cattivo tempo e altre circostanze avevano mandato a vuoto la progettata campagna alpina. Darò questa volta qualche cenno sopra alcune ascensioni che compii sullo scorcio dell’estate 1895, e il cui numero forzatamente dovette essere limitato, avendo già due anni prima esaurito quasi interamente il repertorio delle più interessanti cime delle Dolomiti d’Ampezzo.
Cadini di S. Lucano m. 2840.
Il gruppo dei Cadini appartiene alla serie ancora abbastanza numerosa di montagne completamente italiane, che sono dai nostri alpinisti quasi del tutto trascurate. I Cadini sorgono a sud delle Tre Cime di Lavaredo, a est di Misurina, eccellente punto di partenza per la loro salita. Essi non meritano davvero, malgrado la modesta elevazione, il poco conto in cui sono tenuti dalla più parte: perchè formano, nel loro piccolo, uno dei più pittoreschi gruppi delle Dolomiti di Sesto; hanno soltanto il torto—se così si può dire—di non darsi il più piccolo disturbo per piacere. Il loro esteriore è poco promettente e non richiama in modo particolare l’attenzione degli alpinisti, anche sotto l’aspetto pittoresco: mentre invece a quelli che non isdegnano di penetrare in quel piccolo mondo nascosto, ove si svelano le loro belle e fantastiche guglie, fasciate da un ghiacciaio in miniatura, i Cadini offrono ampio compenso, sotto qualunque punto di vista.
Molto di nuovo e di interessante vi è certamente da fare nei Cadini, e vorrei che fosse un italiano ad occuparsene, scrivendo anche una monografia illustrata di quel ristretto, ma bellissimo gruppo. Le due punte principali dei Cadini di Misurina sono i Cadini di San Lucano (la più alta m. 2840) e i Cadini del Neve (m. 2751). I primi sorgono, ben visibili da Misurina e Schluderbach, nella parte sud-est del gruppo, i Cadini del Neve nella parte occidentale, proprio sopra Misurina.
La prima salita dei Cadini di S. Lucano è verosimilmente dovuta ad A. Wachtler di Bozen, colla guida Santo Siorpaes, sin dal 1870: quella dei Cadini del Neve ad Anton Angerer, colle guide Michel e Hans Innerkofler. Delle punte secondarie sono notevoli la Punta Nord-Ovest, salita da Emil Artmann il 2 agosto 1890: essa è 40-50 m. più bassa dei Cadini di S. Lucano; e la Punta Nord-Est salita per la prima volta dallo stesso Artmann, che si occupò con speciale amore di questo gruppo e trovò pure una nuova via alla punta più alta, per le roccie a sinistra del canalone di ghiaccio, evitando questo; finalmente la punta più orientale, una splendida torre dall’aspetto ardito e imponente, superata per la prima volta dal noto alpinista luogotenente Wundt e da L. Nicolai, senza guide, il 27 luglio 1886.
Malgrado questo, ripeto, molto resta ancora a fare nei Cadini: in ogni caso è desiderabile che gli alpinisti cessino dal preferire i Cadini di S. Lucano ai Cadini del Neve, che sono infinitamente più pittoreschi ed attraenti, e offrono, a quanto pare, non disprezzabili difficoltà.
La sera del 22 agosto, in compagnia del noto alpinista signor Alberto De Falkner, che avevo avuto il piacere di conoscere pochi giorni prima, lasciavo Cortina, diretto a Misurina, sopra una di quelle pittoresche carrozzelle di montagna dall’aspetto poco rassicurante, ma che compiono, coi focosi cavalli ampezzani e guidate dall’abile e robusta mano di un Apollonio o di un Menardi, veri miracoli di resistenza e di velocità su per la stradetta ripidissima che conduce a Tre Croci.
Presto arrivammo all’Hôtel Tre Croci che ora è arricchito di una «dépendance» grazie al concorso straordinariamente crescente dei visitatori delle Dolomiti; toccammo, non senza che una patriottica vibrazione del cuore ce ne avvertisse, il confine italiano, e salutammo con ammirazione le eternamente irresistibili Cime di Lavaredo, sorgenti a nord del piano di Misurina.
Fu davvero eccellente idea—ora in avanzato corso di attuazione—quella di creare un grande albergo moderno a Misurina, che può e deve diventare un giorno il St.-Moritz delle Alpi Orientali italiane: la posizione splendida, l’elevazione, l’aria deliziosa, l’immunità dal vento, la ricchissima serie d’ascensioni che si possono compiere da Misurina, la predestinano a un grande avvenire che non le mancherà senza dubbio, ma al quale gli alpinisti italiani devono concorrere, scuotendo la loro apatia verso questa regione dell’Alpi.
L’attuale vecchio alberghetto di Misurina era diventato assolutamente insufficiente ai bisogni; con tutto ciò non vorremmo vederlo scomparire, ricordandone l’eccellente cucina e i commendevolissimi vini: e un poco anche per quella certa sentimentalità propria dell’alpinista, che gli fa preferire sovente, al vicino «Grand-Hôtel» dalle sibaritiche sontuosità, il piccolo vecchio alberghetto dove sa di trovare quella bottiglia «di fiducia», quello «stufato di camoscio» frutto delle personali fatiche del proprietario, e degno coronamento di una riuscita intrapresa. Nell’albergo passammo una piacevolissima serata in compagnia d’una simpatica famiglia genovese, i Loero, che ebbero la felice ispirazione di farsi costrurre una palazzina, nella immediata vicinanza; e col venerando patriota prof. Regnoli, di Bologna, il quale doveva nel 1895 cercare per l’ultima volta nell’aria vibrante di Misurina il sollievo alle invernali fatiche.
L’indomani alle 5, con tempo splendido, si partiva, accompagnati dalle guide Giovanni Barbaria e Zaccaria Pompanin. Nostro obbiettivo, non conoscendo ancora il gruppo, era la punta più alta, i Cadini di Lucano. L’esordio di questa escursione, prendendo le mosse da Misurina, è delizioso: si va per buon tratto su per la comoda strada che conduce alle Drei Zinnen e al Toblinger Riedel, poi la si lascia a sinistra, e si risale, su per un ben marcato sentiero, il vallone che ci deve guidare nel cuore dei Cadini e che è così ben coronato, alla sua estremità orientale, dal caratteristico torrione salito dai signori Wundt e Nicolai, di cui ho fatto cenno. La scena a misura che si procede innanzi, si fa sempre più interessante: le numerosissime guglie dei Cadini si svelano poco a poco, ed è una simpatica sorpresa quella che si gode dal sommo dell’erta, quando la grande «caldaia» attorno a cui sono disposti i Cadini Orientali (e che ha dato nome appunto al gruppo) compare improvvisamente nel suo insieme, col piccolo, ma pittoresco ghiacciaio, circondato da belle e svelte cime di schietto carattere Dolomitico, tra cui notevoli la più alta, che non è però la più attraente, e le due cime NE. e NO. salite dall’Artmann, e che devono offrire vivo interesse alpinistico.
Un ampio canalone di ghiaccio assorge dalla estremità occidentale del bacino, sino ad una specie di forcella fra la punta di S. Lucano e quella immediatamente a ovest, di pochi metri più bassa: è questa la consueta via di salita ai Cadini di San Lucano, e noi ci attenemmo «borghesemente» alla medesima, le roccie a sinistra non avendo l’aria particolarmente interessante. Intagliando gradini su pel non ripido canalone, presto se ne raggiunse il sommo: di qui, piegando ad est, pigliammo le roccie, e con breve e facile arrampicata, qua e là divertente per chi si proponga di percorrere fedelmente lo spigolo che guida alla cima, anzichè seguire la via solita, troppo noiosa, arrivammo alle 9 sulla vetta, cioè in 4 ore da Misurina, compresi 40 minuti di sosta.
Non potemmo goder la vista, che dev’essere bella, il gran caldo avendo già velato di nebbie tutte le cime culminanti: rimanemmo però fino alle 10,45, per quel fascino caratteristico dell’«ambiente» di una vetta, con un buon sole scottante, ma temperato, a tratti, da ondate della sana e fresca carezza del vento alpino, che fanno provare in grado così eminente il «piacere di vivere».
Nella discesa seguimmo in parte soltanto il canalone di ghiaccio: presto piegammo giù per le facili roccie di destra, e in un momento fummo ai piedi del massiccio. Sotto un caldo soffocante continuammo la discesa anelanti all’acqua che trovammo solo a 1 ora da Misurina, dove giungemmo alle 13,45, in tempo per «scritturare» un abilissimo vetturino, italiano (e lo dico non senza orgoglio), che divorò addirittura a rompicollo, spargendo la sorpresa e il terrore nei passanti, il tratto fra Misurina e Cortina, dove giunse inverosimilmente presto, e con slancio così fulmineo da lasciare durevole memoria di questo teatrale arrivo in coloro che ebbero la ventura di esserne spettatori.
Croda da Lago: Punta Sud 2716 m.
Prima ascensione per la parete Ovest e cresta Sud.
Fra le ardite cime che fanno grandiosa corona al ridente bacino di Ampezzo, la Croda da Lago, colla sua fiera e dentellata cresta, la sua linea nobile, quasi sdegnosa, la sua fama alpinistica (al giorno d’oggi però molto sminuita dalle numerosissime ascensioni), occupa senza dubbio il posto d’onore, e più d’ogni altra richiama subito l’attenzione degli alpinisti. Ma mentre questi si rivolgono quasi tutti alla punta Nord (quella salita per la prima volta dagli Zsigmondy nel 1881), essi trascurano l’ascensione della Punta Sud—di pochi metri più alta, ciò che è generalmente ignorato—perchè le maggiori difficoltà della sorella minore le creano assai maggiori attrattive.
La Punta Sud era stata salita per la prima volta sin dal 1878, dai signori Fröschels e Silberstein col vecchio Dimai, senza alcuna difficoltà: dopodichè venne quasi dimenticata.
Io pensai se fosse possibile guadagnar prestigio alla povera vecchia cima, per mezzo di una nuova via che la riabilitasse davanti agli alpinisti dell’oggi: e incoraggiato dall’autorevole opinione di Alessandro Lacedelli, il mattino del 27 agosto, alle 5,30, lasciavo Cortina in compagnia del signor Alberto de Falkner e colle guide Zaccaria Pompanin e Giuseppe Colli, nell’intento di provar l’indomani la Punta Sud della Croda per la parete Ovest, quella rivolta verso Valle Formin. Tale tentativo ci doveva anche servire come gita di ricognizione per un altro assai più importante, quello alla punta Nord, dallo stesso lato, che due giorni prima avevo in animo d’intraprendere, sebbene con assai poca fiducia nella riuscita.
Alle 6,15 eravamo al simpatico alberghetto di Pocól e alle 9,30 ne ripartivamo. Lasciando a destra la via che guida al Nuvolau, infilammo il romantico sentiero che percorre la valletta di Cordes, e sale a giravolte, su per una bellissima foresta, sino al cosidetto Cason di Formin, una baita dimenticata, ai piedi dei primi contrafforti settentrionali della Croda da Lago.
Sostammo qui un momento ad ammirare l’alba splendida, e il contrasto potentemente pittoresco fra il diroccato, frastagliato bastione della Croda, a Sud, e l’ampio circo delle cime più meridionali di Ampezzo, dal tricuspidale muraglione della Tofana di Razes, alla rosseggiante, nobile vetta della Croda Rossa e all’arrotondata mole del Cristallo.
Risalendo quindi il vallone di Formin, per una traccia di sentiero serpeggiante fra il macereto che lo ingombra, alle 9,20 arrivammo ai cosidetti «Lastoni» di Formin, curiosissimo avanzo geologico dell’epoca glaciale, i quali già avevano colpito l’attenzione del Grohmann nelle sue prime esplorazioni delle Dolomiti d’Ampezzo. Lì avevamo proprio sott’occhio tutta la parete occidentale della Croda da Lago, e lì sostammo a lungo esaminandone con avidità i possibili punti vulnerabili, mentre ricambiavamo allegri «jodler» colla guida Tobia Menardi, che aveva appena allora raggiunto con un inglese, la vetta della Croda, e di là pretendeva intavolare con noi una conversazione, che mise a dura prova i polmoni dall’una e dall’altra parte, ma con esito vittorioso malgrado l’altezza e la distanza rispettabili!
Alle 9,45 lasciavamo i Lastoni e ci dirigevamo verso quella specie di intaglio che s’apre all’estremità sud del vallone di Formin, e lo mette in comunicazione colla Forcella d’Ambrizzola, quella che s’apre tra la Croda da Lago e il Becco di Mezzodì. Il nostro piano d’attacco consisteva nel tentare la salita della Croda per la parete (Ovest) immediatamente sovrastante al detto intaglio, compiendo poi per la cresta Sud, vergine anch’essa, l’ultimo e brevissimo tratto che guida alla cima.
Alle 10 cominciammo l’arrampicata, che si presentò subito bella, sicura, e divertente, sebbene senza alcuna difficoltà degna di nota: è una successione variata di camini, cengie e lastroni, su pei quali progredivamo rapidamente, non disturbati dalle cadute di pietre che si temevano, avuto riguardo allo stato di disgregamento così evidente nelle roccie di questo versante della Croda. Così, quasi senza accorgercene, verso le 1 ½ avevamo guadagnato la cresta, dove facemmo una lunga sosta, il colpo d’occhio essendo bellissimo sugli imponenti precipizi della Croda stessa dal lato di Formin come da quello di Cortina.
A questo punto avevamo già risolto con insperata facilità, l’incognita della parete ovest: rimaneva ora quella della cresta sud, che sorgeva esile, aerea, piena d’attrattive, sino a culminare nella desiderata cima, senza che si potesse bene giudicare della possibilità di raggiungerla per questa via. Di qui proseguii solo, colle guide, mentre il signor De Falkner ci attendeva, seguendo con interesse, dalla cresta, le peripezie della rimanente salita. Gli inizi della quale, interessantissimi, mi ripagarono subito delle scarse difficoltà della parete: la cresta è sottilissima, a lama di coltello, in più d’un punto assai ripida, e nel peggiore la roccia è anche pessima: vi è specialmente un punto caratteristico nel quale si deve arrampicare a cavalcioni, abbracciando solidamente i lati della cresta che si sprofonda a sinistra e a destra in due imponenti dirupi, ed offre malsicuri e scarsi appigli; il seguente tratto orizzontale è ancora esilissimo e si percorre a cavallo, ma senza difficoltà: così raggiungemmo un primo torrione, sul quale erigemmo un omettino di pietra.
Davanti a noi, separata da un profondo intaglio, sorge l’estrema vetta. Ci caliamo nell’intaglio (per quanto, in queste circostanze, le guide raccomandino di non «cicalare»!) per un lastrone verticale e in un punto sorpiombante, ma non difficile; nel mezzo dell’intaglio, da cui scendono due profondi canaloni, uno verso Formin, l’altro verso Federa, prendiamo un’istantanea dello stupendo paesaggio, poi continuiamo la salita. Poco ci separa dalla meta: un ripido camino di cattiva roccia, che esige una certa cautela, con breve sforzo di braccia ci guida alla desiderata cima, che tocchiamo alle 12,20. Ivi troviamo soltanto il biglietto della nota alpinista Jeanne Immink, salitavi con Antonio Dimai per la via solita dei primi ascensori: d’altri seguenti nessuna traccia.
Alle 13 ripartiamo, e ricalcando, non senza attenzione, l’attraentissima cresta, raggiungiamo il signor De Falkner, col quale scendiamo per la parete Ovest, già pure percorsa nella salita fino alla forcella: di qui, piegando a sud e costeggiando i contrafforti meridionali della Croda, siamo in breve alla Forcella d’Ambrizzola, donde per la nota via dell’Alpe Federa e di Campo facciamo ritorno a Cortina.
La salita della Punta Sud per la parete Ovest e cresta Sud è breve, ma divertente e pittoresca in alto grado, a cominciare dal percorso del vallone di Formin (che si compie con notevole vantaggio sulla solita via, tutto in ombra) col suo colpo d’occhio meraviglioso sulla selvaggia parete occidentale della Croda. Dai piedi della parete fino alla cresta è una bella e facile arrampicata, sul genere di quella del Cristallo: il percorso della cresta sottile e vertiginosa, è «alpinistico», brevissimo—ma pieno d’interesse. Cosicchè si può sperare che d’ora innanzi la Punta Sud non sarà più quella modesta e dimenticata «Cenerentola» per la quale fu tenuta sin ora, e—senza pretendere di strappare il primato alla nordica sorella—verrà più sovente visitata dagli alpinisti, come si merita.
Croda da Lago: Punta Nord.
Prima ascensione per la parete Ovest.
In un suo bellissimo articolo sul «Tourist» il noto alpinista R. H. Schmitt, uno dei più arditi campioni del C. A. Tedesco-Austriaco, raccontando una salita che egli fece da solo, per la solita via, della Croda da Lago, diceva parlando della famosa parete Ovest: «Mi parve che questa dovesse essere la via avvenire della Croda!»—Queste parole dello Schmitt mi fecero pensare alla possibilità generica di trovare alla bellissima montagna una nuova via; e nel 1893, dopo aver escluso ogni tentativo per la parete Ovest, che ritenevo offrire quasi nessuna probabilità di successo, e per di più pericolosa per la cattiva roccia e le cadute di pietre, dedicai i miei sforzi alla cresta Nord: su per questa, in unione alla brava guida Pietro Dimai, ebbi la fortuna di scoprire una nuova e direttissima via più breve e più bella dell’antica, al punto che le viene adesso da molti preferita.
Incoraggiato da questo successo, cominciai sin d’allora a formulare vagamente un progetto d’assalto alla parete Ovest, e nel 1895 trovandomi a Cortina d’Ampezzo, deliberai di tentarla. La bravissima guida Z. Pompanin accettò con entusiasmo la mia proposta; ci aggregammo, come seconda guida, l’ottimo Angelo Zangiacomi, ed a tarda sera del 28 agosto lasciavamo Cortina pian piano, misteriosamente, col favore della notte... e andammo a dormire all’«Albergo Tofana» a Pocòl, per guadagnare una buona ora sull’indomani, e non dar conto a niuno dei nostri progetti.
Alle 3,30 del giorno 29, con bellissimo tempo, lasciavamo l’albergo e giungevamo in un’ora al Casòn di Formin. Di qui, a misura che si saliva, per una traccia di sentiero, fra i macereti di cui è tutta coperta la Valle Formin, e che attestano il formidabile sfacelo di questi tormentati precipitosi fianchi della Croda, le acute guglie e i potenti muraglioni della superba montagna si disegnavano sempre meglio sotto il sole nascente: né si poteva contemplare senza emozione una parete come quella cui intendevamo dar la scalata.
Già due giorni prima eravamo passati di là, quando raggiungemmo per la prima volta dalla parete Ovest e la cresta Sud, l’estrema punta meridionale della Croda, senza serie difficoltà: ma questa volta avevamo da fare colla Punta Nord, il che era un altro paio di maniche: e ci accingevamo ad un’impresa che valenti alpinisti non vollero tentare, o tentatala fallirono. Così, osservando e studiando la nostra parete, giungemmo presto quasi al sommo di quel curioso altipiano detto «i Lastoni di Formin», salendo più alto di quanto apparentemente non ci convenisse, per avere un miglior punto di vista sopra la Croda.
Piz Popena e Monte Cristallo dal Passo Schönleiter (versante Nord)
PIZ POPENA E MONTE CRISTALLO dal Passo Schönleiter (versante Nord) Prem. Stab. Calcografico A. Fusetti Milano
Croda da Lago (versante Sud-Ovest)
Croda da Lago (versante Sud-Ovest)
Quasi davanti a noi si rizzava arditissima la punta Nord, colla sua doppia vetta: specialmente formidabile ci si mostrava quella gola liscia, verticale, anzi sorpiombante, che solca la parete precisamente in corrispondenza della forcella a cui si arriva, salendo la Croda dal lato solito, prima di contornare all’Ovest l’estremo torrione. Su per la gola era impossibile salire, e il suo fianco sinistro (rispetto a chi guarda da Val Formin) offriva poco minor certezza negativa: di comune accordo ci parve che la sola vera probabilità di successo fosse nel tentare la salita direttamente alla punta per il costone che vi sale, ertissimo; attaccandolo subito a sinistra di un alto e nero camino verticale che ne solca, a metà, la base. Così, dopo lunga sosta ai Lastoni, ritornando di poco sui nostri passi, e tagliando diagonalmente i ghiaiosi fianchi della Croda, raggiungemmo la base delle roccie e alle 7,30, attaccavamo, nel predetto punto, la parete.
Parete Ovest della Croda da Lago (Punta Nord), da Val Formin.
Parete Ovest della Croda da Lago (Punta Nord), da Val Formin.
Le prime roccie, sebbene erte, sono facili e contro ogni attesa abbastanza solide, per cui si progredì con relativa rapidità, tendendo subito leggermente a sud-est nella direzione della punta. Trovammo presto dei passi divertenti: prima una lastra diritta, poi un breve spigolo e un erto camino di 6 metri circa; a questo seguì una bella traversata di 30 metri circa, verso destra, che ricorda molto quella della Kleine Zinne ed esige attenzione, sebbene il sottostante precipizio non sia così formidabile. Dalla estremità della traversata piegammo per pochi metri a sinistra, dopo aver provato un lastrone impraticabile: poi proseguimmo diritto, per una successione di ripidi salti di roccia, ma con buoni attacchi: quindi percorremmo una cenghia che ci riportò verso destra, e che interrompendosi in un punto, dà luogo ad una elegante «enjambée». Così giungemmo ad una piccola nicchia, nel sottoposto canalone: seguimmo poi per poco quest’ultimo, poi un’altra cenghia e una lastra, quasi diritto sopra noi: indi, piegando pochi metri a sinistra, trovammo un altro passo, sorpiombante (alto 4-5 metri), a scarsi appigli, che la guida superò montando sulle spalle del compagno; di qui seguimmo un diritto, ma non cattivo spigolo, poi traversammo a destra fino ad un alto camino chiuso a metà da un blocco: salimmo diagonalmente, con due belle traversate, verso destra, finchè ci trovammo all’estremità di un ripido colatoio, donde l’ulteriore procedere è difeso da un alto bastione sorpiombante.
Fin qui le cose erano andate bene, troppo bene: le difficoltà incontrate non erano maggiori che sull’altra solita via; ma sapevamo che la Croda ci riservava delle sorprese, e già sentivamo «l’odor della polvere». Un rapido colpo d’occhio ce ne fece accorti. La roccia era per 8-10 metri verticale, per un buon tratto sorpiombante: gli appigli quasi nulli, distanti, rivolti all’ingiù: un rigonfiamento della parete a destra (sotto il quale, come alla Kleine Zinne, era una nicchia ove aspettai) offriva solo qualche problematico punto di appoggio per sollevarsi sul braccio.
Pompanin mosse con brio all’assalto, e ci volle tutta la sua grande abilità per superare un osso duro di quella fatta: anche perchè, dopo il salto, vi era un buon tratto di lastrone quasi liscio; con grande stento riuscì, trascinandosi carponi, a giungerne a capo e trovare un buon posto, consumando tutta la lunghezza della corda..... e il dizionario delle interiezioni. Un grido trionfante me lo annunziò: sortii subito dalla nicchia, e, mettendo a partito tutte le mie risorse alpinistiche, riuscii a superare il passo; come, non so dir bene, poichè si sale più per aderenza che altro: il fatto si è che finalmente mi trovai anche io presso a Pompanin, e dopo ci raggiunse, avendo famosamente sudato anche lui, il bravo Zangiacomi. Questo passo magnifico è veramente difficile, assai più che l’ultimo camino della Kleine Zinne, al quale somiglia un poco: le mie guide lo mettono, come difficoltà, al di sopra di quello ben noto del Winklerthurm.
Preso un po’ di riposo, traversammo pochi metri a sinistra, indi, per un lastrone ed un facile camino, giungemmo in un ampio canalone, dove si apre una specie di larga nicchia o grotta: qui, non temendo le cadute di pietre, sostammo a rifocillarci. Erano le 9,30, nè ci sentivamo malcontenti dei nostri progressi.
Versante Sud-Ovest della Croda da Lago
Versante Sud-Ovest della Croda da Lago Disegno di L. Perrachio da una fotografia. AB Discesa dei signori F. L. e D. M. Gunther colla guida Pietro Dimai, il 23 agosto 1895.
CD ( Punta Nord ) 1ª Ascensione per la parete Ovest, di L. Sinigaglia colle guide Z. Pompanin e Zangiacomi, il 29 agosto 1895.
EF ( Punta Sud ) 1ª Ascensione per la parete Sud-Ovest e la cresta Sud, di L. Sinigaglia colle guide Z. Pompanin e G. Colli, il 27 agosto 1895.
Riprendemmo presto, con nuovo ardore la salita: dalla nicchia presso a cui, come in molti altri punti, erigemmo un piccolo ometto di pietra, attaccammo subito una ripida lastra di 6-7 metri che le incombe a destra: gli eccellenti attacchi la rendono facile. Dopo avemmo la sorpresa di un relativamente comodo e lungo canalone che ci portò presto assai in alto, verso la cima. Finito questo ci si offrì un bivio molto grave: a destra avevamo un ripidissimo e oscuro camino verticale, che pareva condurre molto in su, ma che a metà offriva un punto assai problematico: a sinistra roccie di migliore apparenza, ma di cui la parte superiore poco prometteva. Scegliemmo queste. Prima per non facili lastre, poi traversando un poco a nord giungemmo, avvicinandoci progressivamente alla cresta Nord della Croda, ai piedi di uno dei numerosi torrioni di questa e precisamente di quello che forma un curioso caminetto-cornice che ho descritto altrove nel raccontare la mia prima salita per tale via.
A questo punto «avevamo in tasca» la cima, come si dice: bastava raggiungere e seguire la cresta, ma noi eravamo risoluti a eseguire l’ascensione completamente per la parete Ovest, e voltando stoicamente la schiena alla cresta Nord, ritornammo verso destra e imprendemmo a contornare sul versante occidentale la formidabile parete. Questa manovra ci procurò il secondo vero «mauvais pas» della nostra salita, di un genere affatto diverso: qui avevamo una traversata di 25 metri circa, per una strettissima e in un punto rotta cornice, sospesa sopra un a-picco veramente impressionante, vertiginoso in alto grado. Colla più grande attenzione superammo anche questo arduo passo, uno dei più delicati che io conosca nel genere: riuscimmo così su una piccola piattaforma ai piedi d’un erto camino di pessima roccia, difeso da un acuto spigolo. Zangiacomi, contornato e arrampicato lo spigolo, riuscì, colle maggiori precauzioni, a tirarsi su per quel cattivo passaggio, dove i più grandi blocchi erano mal sicuri e pure non se ne poteva fare a meno: strisciando quasi su per essi, arrivò al sommo del camino, e noi tosto lo raggiungemmo. Così fummo sopra la cima di un torrione, davanti al quale si ergeva fiera, ma vicinissima, l’estrema punta.
La vittoria era ormai nostra. Eravamo veramente sulla cresta Nord; ma pochi minuti di facile salita ci separavano dalla meta, e non valeva più la pena di andare a cercare inutili difficoltà sul versante occidentale, in quel punto quasi a picco. Così scendemmo sulla cresta, e da questa in 10 minuti, superati gli ultimi due brevissimi salti, raggiungemmo la cima. Erano le 11,50.
Ridire la gioia provata in quel momento è difficile. Mai forse gustai a quel punto il piacere della vittoria, in alto grado condiviso dalle mie bravissime guide, che non si stancavano di empire di grida trionfanti gli echi della Croda, e di far segnali a Cortina, donde si sapevano guardate. Due deliziose ore rimanemmo lassù, assaporando il nostro successo, del quale iscrivemmo una breve nota nel libretto permanente della cima. Alle 13,30 imprendemmo la discesa per la vecchia via, dopo tutto sempre simpatica e interessante; dal piede delle roccie a Cortina fu poi una comoda «flânerie», l’ardore del sole e le dolci ombre e acque del Costeana inducendo a frequenti soste: cosicchè solo verso le 7 fummo di ritorno a Cortina, ove alla sera festeggiammo con numerosi brindisi la nuova via della Croda, la sospirata parete Ovest!
Riassumendo le mie impressioni su questa, debbo dire che è la più bella e, per ora, la più difficile scalata di roccie nelle Dolomiti d’Ampezzo; l’interesse è incessante dai piedi alla vetta, nulla di volgare in tutta la salita; le roccie relativamente non cattive, salvo nell’ultimo tratto: non udimmo cadute di pietre. Tecnicamente il passo più arduo è il salto di roccia sorpiombante, nella metà inferiore della salita; nella parte superiore la traversata, meno difficile ma sempre seria e altamente vertiginosa: l’ultimo camino di pessima roccia, e sovrastante a un forte salto, è di molta responsabilità per la prima guida. Il resto della salita non offre (per citare un esempio conosciuto) difficoltà maggiori della Kleine Zinne per la via solita.
Se la parete Ovest della Croda non potrà soppiantare almeno per molto tempo le altre due vie, troppo più facili, per la parete Est e per la Cresta Nord, tuttavia io spero che essa troverà un crescente favore tra i veri ed appassionati alpinisti, come si merita. In ogni caso è una salita che va intrapresa solo con guide di provata sicurezza, come le mie due (per non dire di parecchie altre a Cortina), alle quali fu per tanta parte dovuto il successo dell’impresa[34].
Grosse Zinne o Cima Grande di Lavaredo m. 3003.
Delle tre Cime di Lavaredo, la più alta è insieme la più frequentemente salita, almeno da quella numerosa categoria di alpinisti che, diffidando delle proprie forze per l’ascensione della Cima Piccola, preferiscono contemplarne comodamente dall’alto della Cima Grande, l’arditissima parete.
Nel vol. XXIº di questo «Bollettino» è già comparsa una briosa descrizione di una salita alla Grosse Zinne, per parte dell’egregio collega romano dott. Enrico Abbate; egli ha fatto precedere tale suo articolo da un’accurata monografia del gruppo. Nulla di nuovo, almeno di notevole, è successo da quella pubblicazione in poi, per riguardo alla Cima Grande: le varianti trovate finora alla via solita non hanno che una scarsa importanza: una nuova via non fu ancor possibile trovarla, e dubitiamo assai che vi si riesca in avvenire. Dal lato nord—un enorme muraglione liscio—la cosa è fuori questione: qualche probabilità di riuscita possono offrire tentativi per la cresta Est (prospiciente la Kleine Zinne) o la parete Sud-Ovest verso la Cima Occidentale. Ma crediamo che in un caso come nell’altro si debba finire per raggiungere o presto o tardi la vecchia via, sopratutto se si sceglie la cresta Est.
Avviandoci questa volta alla Cima Grande, la guida Pompanin ed io, non avevamo alcuna idea bellicosa; volevamo fare una semplice passeggiata, a scopo essenzialmente fotografico. E la sera del 5 settembre, con uno splendido cielo stellato e un tepore eccezionale, scendemmo da Cortina a Schluderbach in vettura, godendoci comodamente uno di quei meravigliosi tramonti dai colori magici, inverosimili, fantastici, così frequenti nel mondo incantato delle Dolomiti.
Alle 4 ½ dell’indomani lasciavamo Schluderbach, avviandoci comodamente su per la strada di Misurina; alle 7 eravamo sulla Forcella di Lavaredo, ove sostammo a prendere fotografie del gruppo dei Cadini, che di là si presenta assai favorevolmente, e delle nostre Cime di Lavaredo, delle quali la Occidentale era sopratutto in vista; magnifica punta, dall’architettura ciclopica e d’un’alta originalità, a torto negletta dalla più parte fra gli ascensori della Cima Grande e Piccola, perchè, a quanto mi fu assicurato, offre difficoltà di non poco conto, tanto che molte guide preferiscono a questa la salita della Piccola Cima, la cui roccia è solidissima, laddove quella della Cima Occidentale è assai cattiva.
Mentre stavamo fotografando, fummo, senza accorgercene, completamente circondati da un numeroso gregge di pecore, che ci si fecero attorno con tale impeto di curiosità, da compromettere seriamente il nostro equilibrio: la guida Pompanin, a colpi di piccozza, riuscì a liberarci da quell’imbroglio. Fu il solo punto nella salita della Grande Zinne, dove la piccozza ci offrì un valido e quasi indispensabile aiuto! Superata questa prima difficoltà, proseguimmo alacremente per il bel sentiero orizzontale che costeggia la base delle Tre Zinne, fino ai piedi del ripido canalone ghiaioso fra la Grande e la Piccola, e, risalendo questo, in breve fummo al punto d’attacco delle roccie, comune alla salita di entrambe le cime. Qui incontrammo la brava guida Watschinger di Sexten, con un alpinista tedesco, reduce dalla Kleine Zinne e diretto alla Occidentale, e sostammo mezz’ora, seguendo con vivo interesse un’altra carovana che stava compiendo la salita della Cima Piccola.
Alle 9 ripartimmo: la bellicosa frase d’obbligo «attaccammo le roccie» non è qui del caso, tanto comoda, elementare è sin da principio la salita, su per un caratteristico canalone a scaglioni simmetricamente sovrapposti, di buona e solida roccia, su pei quali è rapido il progredire: alla sommità del canalone un enorme masso ostruisce il diretto passaggio, ma pel solito buco provvidenziale si gira l’ostacolo e si riesce con tutta facilità su una prima piattaforma, donde l’occhio spazia già sopra un vasto orizzonte. Specialmente interessante è la vista della vicinissima Cima Occidentale, colle sue grandi scanalature verticali, e i suoi enormi torrioni merlati.
Torrione di roccia sulla Grosse Zinne.
Torrione di roccia sulla Grosse Zinne.
A questo punto si piega un poco verso nord, e per comodi gradini e striscie di roccia si raggiunge uno stretto camino dalle oscurità dantesche, assai erto e liscio, ma perfettamente facile se si mettono in opera, senza misericordia, le più classiche fra le angolosità del corpo umano: dal sommo del camino passammo sull’opposto spigolo, di eccellente roccia, e in breve fummo di nuovo all’aperto, in vista della nostra cima. Il rimanente della salita è—come quanto precedette—un gioco, un’arrampicata di elementare facilità, infiorata di «passi retorici» e di «luoghi comuni»: la Cima Grande di Lavaredo è il «Buon Giannetto» dei giovani alpinisti esordienti.
Alle 10,35 eravamo sulla vetta, avendo impiegato 1 ora ½ dalla base delle roccie. Il tempo splendido e la vista estesissima ci invitarono a una lunga sosta, e solo alle 12,20 riprendemmo la via del ritorno. Nella discesa, essendoci tenuti troppo sulla destra, per trovare una scorciatoia più interessante, ci impigliammo in difficoltà che divennero ben presto insuperabili; la stretta e bella cornice che avevamo seguìto coll’idea di riprendere più in basso la vecchia via, rompevasi improvvisamente facendo capo ad un rispettabile precipizio. Dovemmo quindi rifare tutta la parte nuova, e riportarci al punto di partenza, donde, per la via solita, in breve fummo di ritorno al piede delle roccie, e di qui a Misurina.
La salita della Cima Grande di Lavaredo è breve e facile, ma abbastanza divertente: la si può con tutta comodità coordinare a quella della Piccola Cima, anzi anche della Occidentale. Le Tre Cime, com’è noto, furono sovente salite in un giorno solo: ci fu poi un alpinista che, non contento di ciò, volle aggiungervi la salita del Monte Piano. Più d’una di questo genere d’imprese venne compita nelle Dolomiti d’Ampezzo; rispettabili fra le altre le salite del Pelmo e dell’Antelao nello stesso giorno: e quelle, pure in un solo giorno, del Becco di Mezzodì, della Croda da Lago, e della Tofana, compiute da un alpinista dai garretti d’acciaio, credo il Friedmann. Ma a questo alpinismo «cumulativo»—del quale d’altra parte nessuno ha fatto finora un sistema—sarà sempre preferibile quello «estetico» che ci ha procurato i libri di Tyndall e di Emil Zsigmondy.
Ancora un tentativo all’Antelao.
È fama che tra le innumerevoli specie del genere «homo sapiens» gli alpinisti abbiano la testa particolarmente dura, come le roccie che perseguitano: e v’ha chi asserisce che fra gli alpinisti italiani, nella «scala della durezza» occupino il primo posto quelli del Piemonte... Così avvenne che lo scorso anno, non pago di una solenne, esauriente disfatta avuta due anni prima in un tentativo all’Antelao dal versante Sud, volli ritentare la prova, sebbene colla quasi certezza di ritornarmene colle pive nel sacco, e confortato nella medesima da molto autorevoli opinioni di guide e d’alpinisti.
Soltanto, questa volta, decidemmo colle guide Zaccaria Pompanin e Angelo Zangiacomi, di prendere le mosse direttamente da Borca di Cadore, e cercare una via su per la parete, a dir vero molto poco promettente, che le incombe. Un enorme ripidissimo canalone taglia in senso verticale tutta questa parete: la prima parte della salita, a nostro avviso, avrebbe dovuto svolgersi a zig-zag su per le roccie a sinistra del medesimo, che non avevano l’aria di esser particolarmente difficili; a un dato punto, sorpiombando la parete, ci pareva dover scendere per una lunga cengia, a sinistra, nel canalone, su pel quale o per le immediatamente contigue roccie speravamo poter continuare la salita sino ai piedi del dentellato picco terminale: per raggiunger la sommità del medesimo alla peggio, contavamo portarci sulla cresta Nord-Nord-Ovest e per questa raggiungere la vetta. Per quanto era a nostra conoscenza neppure un tentativo era stato fatto da questo lato.
La sera del 1º settembre arrivavamo dunque all’ospitale Albergo di Borca, ove pernottammo: e l’indomani alle 2 precise partivamo per l’Antelao. L’ottimo e amabile albergatore ci aveva fornito un uomo pratico della località, che ci potesse guidare nella notte, pel più breve cammino, fino alla base delle roccie.
Ciò che credevo fosse affar d’un paio d’ore al più, ne durò invece quattro, che ci parvero interminabili, anche per la grande impazienza di impegnare il combattimento: nè è a dire che andassimo troppo comodamente, perchè anzi il nostro uomo, che era stato soldato sotto il generale Pianell, e se ne teneva giustamente assai, attaccò la salita con un tale passo da bersagliere che dovemmo presto invitarlo noi a andare... un po’ più «pianell» per non esser poi costretti a troppo attendere la luce del giorno al piede delle roccie.
Alle 6 precise, come Dio volle, vi giungevamo e facemmo una breve sosta: il punto è ben segnato da una permanente macchia di neve, sotto alla quale scorre in abbondanza l’acqua proveniente dal gran canalone, di qui solo parzialmente visibile. Qui calzammo le «kletterschuhe» e affidammo le scarpe al nostro bersagliere, coll’istruzione di non muoversi se non quando un nostro grido lo avvertisse che eravamo certi di riuscire: allora avrebbe potuto tornare a Borca. Sapemmo più tardi che la poco principesca generosità con cui lo avevamo fornito di provvigioni, gli aveva allungato lo stomaco durante l’interminabile attesa, a un punto tale che si dimenticò..... di star a sentire la nostra voce, e un bel momento infilò bravamente la via del ritorno, raggiungendo Borca con una rapidità proporzionale al numero di scarpe che aveva a propria disposizione!
L’inizio della salita è curiosissimo: si volge subito a destra della macchia di neve, per un enorme lastrone, dolcemente inclinato, lungo circa 120 metri, tutto solcato da profonde striscie parallele che attestano il lavoro d’erosione delle acque, e su pel quale le kletterschuhe sono, per mantenere l’equilibrio, assai gradevoli. Indi ci arrampichiamo per un facile camino di 25 metri circa, seguìto da una comoda cengia, sempre verso destra: dal limite della cengia scendendo pochi passi, ne troviamo un’altra che ci riporta a sinistra, verso il canalone: poi per una serie di facili terrazze e caminetti ci innalziamo rapidamente sino a che troviamo il primo ostacolo di qualche conto, un’assai diritta lastra dagli incomodi appigli, che superiamo non senza difficoltà. Pieghiamo di nuovo a destra, trovando presto un altro lastrone, più facile, poi una comoda cengia e uno spigolo che ci portano alla base d’un grande camino, alto 100 metri circa, che la cattiva roccia e gli incomodi appigli, la più parte rivolti all’ingiù, rendono abbastanza arduo; a questo camino, dopo alcune diritte lastre, ne segue un secondo in cui, come così sovente accade, s’è impigliato un enorme blocco, su dal quale, dopo una serie di appassionati abbracciamenti, riusciamo a sollevarci, raggiungendo una piccola piattaforma, ove facciamo una piccola sosta, anche per esaminare il resto della via (ore 9,40). Da questo esame poco possiamo ricavare. Per un buon tratto è possibile, e verosimilmente facile il continuare su per la parete; ma poi questa si erge in una muraglia dappertutto sorpiombante, e bisogna piegare a sinistra, verso il canalone, per quella cengia di cui abbiamo parlato, ma che di qui non è visibile, essendo mascherata da un gomito della parete.
Alle 9,50, ripreso il camino, saliamo, diritto sopra di noi, per buone e interessanti roccie, poi volgiamo a sinistra per una cengia breve, ma abbastanza vertiginosa, che esige cautela, torniamo a destra di poco, superiamo un bel camino, e si procede quindi a zig-zag, senza notevoli difficoltà, su per la parete, finchè un comodo canalone ci riporta alquanto a sinistra, sopra una lunga e interessante traversata diagonale, intersecata da parecchi camini che bisogna in parte risalire, e da un lastrone piuttosto cattivo. Poi, sempre verso sinistra, abbiamo una lunga (circa 70 metri), piuttosto vertiginosa cengia, che ricorda quella della Kleine Zinne; ad essa segue un bellissimo camino, non facile, di 60 metri circa, che ci conduce (ore 11,50) a un punto veramente caratteristico della salita: una splendida, spaziosa grotta (ben visibile anche dal basso), pittorescamente sospesa sul vuoto in una delle più aeree posizioni, vero nido d’aquila, senza immagine retorica, come attestano le numerose penne di uccelletti che (accanto a curiosissimi esemplari minerali, di cui racco gliamo interessanti pezzi) seminano la superficie della grotta. Nella medesima, che offrirebbe un eccellente asilo per la notte, capace com’è di una cinquantina di persone, sostiamo una mezz’ora per la prima colazione, dopo dieci ore di salita quasi continua. Intanto Pompanin, l’appassionato amatore delle nuove imprese, si slega e va in ricognizione giù per la cengia che comincia appunto qui, dove la parete sorpiomba e il procedere su per la medesima è assolutamente precluso.
La febbrile impazienza di andare avanti mi impedisce di gustare degnamente lo squisito piacere della splendida solitudine in cui ci troviamo, sospesi in quel breve semicircolo ospitale di roccie, cui incombono enormi pareti sorpiombanti, e che a sua volta incombe per enorme altezza sulla profonda valle dove serpeggia l’argentea linea del Boite. Dal campanile di Borca ci giunge debole debole il saluto del mezzogiorno, poi tutto ricade nella solenne, religiosa quiete delle grandi elevazioni...
Un grido di Pompanin, mentre stavo lasciandomi assorbire dalla contemplazione affascinante di un paesaggio come quello, mi ripiomba nella realtà.—«Che c’è di nuovo?» domando io.—«Impossibile!» risponde Pompanin, e presto lo vediamo ricomparire, coi pugni stretti, e la faccia scura..... ci racconta che la cengia dopo un breve tratto si rompe in un a piombo che è impossibile superare: e che in ogni caso il canalone stesso, quando in un modo o nell’altro ci si potesse giungere, si innalza presto in un salto verticale di 70-80 metri, il quale offre un insormontabile ostacolo. «Vuol andare a vedere anche lei?», mi dice Pompanin, che non sa darsi pace di dover rinunciare alla impresa. Capisco che se per caso gli accennassi a una lontana possibilità, a parer mio, di poter tentar la prova, egli vi si accingerebbe con entusiasmo: ma conosco troppo bene Pompanin; so che quando egli trova un passo molto cattivo, non siamo troppo lontani dall’impossibile, e quando lo trova impossibile, ci si può fidare.
Eccoci dunque un’altra volta, come nel 1893, dopo lunga e ostinata lotta, suonati in piena regola dal nostro implacabile avversario. Non ci rimaneva che riprendere, e senza indugio, la via della discesa, non breve nè facile. Quanto sia piacevole il ricalcare la medesima, in simili casi, è noto: pure, come Dio volle, a furia di bestemmie fra le più saracene che si possa immaginare, giungemmo anche a capo di questa, e verso le 18, proprio in buon punto, eravamo di nuovo al piede delle roccie. Là ci attendeva la dolce prospettiva di dover continuare colle kletterschuhe fino a Borca: degno coronamento della nostra sconfitta. Fortunatamente il sagace Pompanin scoperse un’altra più comoda via per raggiungere il villaggio, evitando il macereto, che nell’oscurità e colle kletterschuhe, dopo 14 ore di marcia e con un fiasco in corpo di quella forza, sarebbe stato un raffinato supplizio: invece procedemmo, con grande vantaggio, a zig-zag giù per costole erbose, poi per la foresta dove la romantica luce della luna ci fu guida per qualche tempo. Alle 21 eravamo di ritorno a Borca (dove una vettura ci accolse coi nostri sacchi... e le annesse pive) e verso mezzanotte, ora opportunissima per un così poco trionfale ritorno, a Cortina.—O che non ci sia proprio verso di spuntarla, con questo vecchio ostinato dell’Antelao?
Monte Cristallo m. 3199.
Avevo già salito due volte, nel 1893, questa bella e popolarissima cima, partendo da Cortina; la prima volta per la solita via di Tre Croci e del Passo del Cristallo, la seconda volta per la parete S.SO (nuova via). Sullo scorcio del settembre 1895, colla guida Zaccaria Pompanin, avendo raggiunto da Schluderbach, pel ghiacciaio del Cristallo, il passo omonimo, salimmo da questo, impiegandovi un’ora soltanto (cioè la metà del tempo solito) alla vetta del Cristallo. L’arrampicata, interessante e facile, si lascia forse compiere anche in più breve tempo, tanto «logica» è, dappertutto, la disposizione dei solidissimi appigli.
Giungemmo sulla cima alle 5 di sera, avendo impiegata la prima parte della giornata in esplorazione di un altro punto del gruppo; e vi sostammo un’ora con tempo mitissimo.
Consiglierei caldamente, trattandosi d’una cima che si raggiunge con tanta comodità, e dalla quale un buon camminatore può scendere in poco più di un’ora a Tre Croci, questa salita «serale» del Cristallo, che permetterà di assistere ad effetti di colorazione straordinariamente belli verso il tramonto: sopratutto le gigantesche pareti del Popena verso il Passo del Cristallo, assumono, nella luce vivissima, infuocata del sole cadente, un’imponenza ciclopica, qualcosa di veramente indimenticabile e come soltanto nelle Dolomiti è dato di ammirare!
Avv. Leone Sinigaglia (Sezione di Torino).
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NOTE:
[33] Vedi “Boll. C. A. I.„ pel 1893 (vol. XXVII, n. 60), pag. 71-170.[34] Una settimana prima della mia ascensione, i signori F. L. Gunther e D. M. Gunther di Berlino, colla guida Pietro Dimai, avendo salito la Croda da Lago per la vecchia via, e discesa la Cresta Nord, dai piedi di questa si calarono direttamente in Val Formin, eseguendo così una prima parziale discesa della parete Ovest. La via da me seguita nella 1ª salita qui descritta è in ogni caso completamente diversa e si svolge tutta (salvo gli ultimi 10 metri) sulla parete Ovest, della quale i signori Gunther intrapresero la discesa a metà altezza circa. Vedi “Mitth. D. Oe, A.-V.,„ 1895, n. 21 e 22.
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Il problema glaciale[A].
SOMMARIO.—1. Cosa si intende per êra glaciale, e fino a qual punto può interpretarsi come prodotta dai ghiacciai alpini.—2. Essa si deve intendere prodotta da un periodo freddo-umido del clima terrestre;—3. non da un periodo caldo; 4. nè da maggiore altezza dei sistemi alpini.—5. Studi di Brückner sulle attuali oscillazioni del clima terrestre, e sulle condizioni per un periodo di tempo freddo-umido.—6. Di quanti gradi doveva essere inferiore all’attuale la temperatura media nell’êra glaciale.—7. Il raffreddamento non può spiegarsi come effetto di una diminuzione della radiazione solare ricevuta dalla superficie terrestre.—8. Cause possibili di una siffatta diminuzione: variabilità del sole; ipotesi di Brückner e Dubois.—9. Ipotesi astronomica di Croll: argomento di Schiaparelli, recentemente riprodotto da Culverwell contro di essa; l’ipotesi è contraddetta dalle oscillazioni attuali dei climi e dei ghiacciai. Spostamento dei poli.—10. Calcolo della radiazione solare ricevuta dalla superficie terrestre;—11. e della radiazione del suolo verso il cielo. Cos’è la temperatura del cielo. Condizione d’equilibrio delle due radiazioni; temperatura solare media sulla terra e sul mare.—12. La temperatura media del cielo è eguale per tutta la terra: importanza di questo fatto.—13. Distribuzione media della temperatura su oceani e continenti. Influenza degli agenti meteorologici.—14. Effetto di una variazione nella trasparenza dell’atmosfera sulla temperatura media;—15. sulla escursione annua;—16. e sul dislivello di temperatura dall’equatore ai poli. La variabilità del sole sostenuta da Brückner e Dubois è incompatibile colla uniformità della distribuzione termica nell’epoca terziaria.—17. Il clima terziario era un clima d’altipiano oceanico; argomento offerto dal pianeta Marte.—18. Causa del successivo intorbidimento che produsse l’êra glaciale: ipotesi vulcanica. La natura si svolge per ritmi: l’atmosfera, come un organismo fisiologico, deve avere dei periodi di varia umidità e trasparenza.
1. Anzitutto ricordiamo brevemente i fatti. In un’epoca non remota nella storia del nostro globo, anzi recentissima relativamente alla cronologia geologica, una buona parte dell’Europa e dell’America Settentrionale erano coperte da enormi strati di ghiaccio. In Europa erano due le aree principali di ghiacciamento: l’una, la più grande, occupava forse senza interruzione, coprendo cioè perfino il mare del Nord e il Baltico, la zona dall’Irlanda alla Russia Centrale, dalle regioni polari alla Germania e Francia settentrionale; l’altra, assai minore, era intimamente connessa al sistema alpino, come una pesante coperta di ghiaccio distesa su di esso e che, assecondandone grossolanamente la struttura, coprisse co’ suoi lembi tutto il contorno di catene e di valli prealpine, invadendo a sud buona parte della valle del Po, e distendendosi a nord fino alla Baviera, fin quasi a congiungersi colla grande area settentrionale di ghiacciamento.
Sulla origine di questa invasione glaciale circumalpina non può esservi dubbio: gli anfiteatri morenici, che sbarbano le principali nostre valli lacuali e le tedesche, il contorno della zona dei depositi glaciali, che generalmente si protende più avanti nella pianura allo sbocco dei più vasti bacini idrografici alpini, il materiale morenico, la direzione delle strie glaciali sulle pareti delle valli, dimostrano all’evidenza che l’invasione è venuta dai monti. Essa non era altro che un ingigantimento, un’ipertrofia dei ghiacciai attuali, che, continuando a crescere per un lunghissimo periodo di anni, discesero alla pianura per centinaia di chilometri, coprendo nello stesso tempo fino a grandi altezze i pendii e le creste dei monti, fondendosi l’uno coll’altro al di sopra di queste attraverso i valichi, invadendo le valli minori, fino a formare quello strato quasi continuo, dello spessore di centinaia e migliaia di metri, che seppellì la regione alpina.
Argomenti analoghi portano la grande maggioranza dei geologi a ritenere che anche l’area di ghiacciamento dell’Europa settentrionale avesse il suo centro d’origine nella catena scandinava, e rappresentasse una espansione di quei ghiacciai, anche attualmente tanto maggiore degli alpini. Tuttavia non mancano climatologisti autorevoli, come il sig. Woeikof, cui ripugna l’ammettere una siffatta espansione delle correnti alpine di ghiaccio per centinaia di chilometri sulle pianure della Russia e della Germania: e nulla impedisce di ammettere che l’area di ghiacciamento siasi in parte accresciuta al suo lembo esterno, o per la maggiore copia e la permanenza delle nevi prodottevi e mantenutevi dall’azione refrigerante della massa glaciale discesa dai monti, o per congelamento della superficie dei mari che il signor Woeikof suppone estesi anche a buona parte della pianura ora asciutta[35]. Questa supposizione, per quanto non spieghi la potenza enorme di quegli strati di ghiaccio, può apparire ancor più giustificata se si considera l’espansione glaciale dell’America del Nord. I centri di emanazione erano ivi non nelle alte montagne della Colombia, ma nell’altipiano non molto elevato del Labrador e nella regione del Dominio del Canadà a nord del Lago Superiore, in regioni cioè dove non vi è attualmente un sistema di ghiacciai nemmeno paragonabile al nostro alpino. Eppure le traccie dell’invasione, il drift glaciale, si estendono ivi a latitudini assai più basse che da noi, toccando fino il 37° di latitudine, al punto di confluenza dell’Ohio col Missouri. L’area di ghiacciamento, che occupava così assai più della metà dell’America del Nord, si fondeva a settentrione coll’espansione emanante dalla Groenlandia, ma non si può considerare come un prolungamento di quest’ultima, perchè la direzione di moto della massa di ghiaccio era, a nord della Baia d’Hudson e sul versante settentrionale del Labrador, certamente verso la Baia di Baffin, cioè opposta a quella dei ghiacci groenlandesi.
Pare difficile spiegarsi come mai le correnti di ghiaccio emananti nel senso delle valli, da quei centri di espansione così poco elevati, per quanto alimentate da precipitazioni assai copiose (come lo sono, ma certo in scala assai minore, anche attualmente per il frequente passaggio delle aree cicloniche) potessero produrre una così vasta stesa di ghiaccio, e pare quindi ragionevole supporre che questa siasi accresciuta anche tutt’all’intorno per gli incrementi autonomi delle precipitazioni locali. Conforta tale supposizione il fatto singolarissimo che nel Wisconsin si riscontra un’area che è affatto priva di traccie glaciali, che certamente non fu coperta dal ghiaccio il quale pur la circondava da ogni parte, e che è anche ora una delle regioni più povere di pioggia[36].
Volendo anche tener conto di questa circostanza, che può contribuire a vincere la titubanza di chi non voglia ammettere una espansione dei ghiacciai alpini attuali come causa adeguata a così immensa invasione di ghiacci, rimane tuttavia indiscusso che da essa ne venne il primo impulso, e che nelle regioni temperate come la nostra, dove la permanenza delle nevi invernali è più difficile ad ammettersi, essa fu o la causa sola o quella di gran lunga predominante sulle altre. Così il Caucaso, l’Himalaya, la Nuova Zelanda, forse le Ande\equatoriali ebbero la loro espansione glaciale, ma ristretta alla regione montuosa, subordinata alla struttura orografica, semplice espansione dei ghiacciai attuali, se ne sono rimasti; o meglio, i ghiacciai attuali, dove ce n’è, non sono che i rimasugli, dei giganteschi ghiacciai quaternari.
2. Il problema glaciale si riduce quindi a cercare da quali condizioni fu determinata una così grande espansione dei ghiacciai. L’idea più spontanea è che essa sia un fenomeno affatto conforme, benchè in scala immensamente più vasta, alle espansioni periodiche che evidentemente si verificarono più volte in tempi recenti, e che alcuni ghiacciai presentano anche attualmente, sebbene la grande maggioranza dei ghiacciai alpini sia ora in un periodo di regresso. Le attuali oscillazioni periodiche dei ghiacciai sono indubbiamente il riflesso di alternative del clima, alternative che il Sonklar, il Forel, il Richter, l’Heim, ma sopratutto il Lang per la regione alpina, e poi il Brückner nel suo colossale lavoro sulle oscillazioni dei climi[37] per tutte le regioni climatologicamente note nel mondo, dimostrarono essersi verificate e verificarsi realmente.
Si alternano sui continenti dei periodi di anni nei quali la temperatura è alquanto minore, e la pioggia sensibilmente più abbondante, con periodi nei quali ad una temperatura alquanto più elevata si combina una maggiore secchezza. Le espansioni dei ghiacciai corrispondono, con un ritardo di parecchi anni, vario da ghiacciaio a ghiacciaio a seconda della loro forma e struttura, ai periodi freddo-umidi; i regressi corrispondono ai periodi caldo-asciutti.
Noi siamo quindi portati a ritenere, per ragioni di analogia, che anche la grande espansione glaciale dell’epoca postpliocenica corrisponda ad un periodo freddo-umido del clima continentale, e il problema glaciale si ridurrebbe così a ricercare le ragioni più probabili di un siffatto periodo, che doveva essere naturalmente assai più accentuato di quelli che giustificano i più recenti avanzamenti periodici dei ghiacciai.
In questo indirizzo sono infatti rivolti i più recenti studi sull’argomento, i quali io mi propongo di qui riassumere il più che potrò brevemente e chiaramente, cercando di evitare, dove potrò, la terminologia e i simboli matematici e meteorologici, che son pur necessari a una discussione rigorosa, ma che spauriscono, e talvolta insospettiscono coloro che non sono iniziati a usarne anche in forma elementare.
3. Prima però è necessario rimovere alcune teorie che non accettando, come troppo ardita o troppo piccina, l’analogia degli attuali periodi climatologici coi grandi periodi geologici del clima, ricorrono o a una causa non climatologica, una maggiore altezza delle montagne ( ipotesi orografica ), o ad una causa climatologica affatto opposta a quella che spiega gli attuali incrementi periodici dei ghiacciai. Questa seconda, per la sua stessa contraddizione ai fatti attuali, non meriterebbe molta discussione, se, consacrata in Italia dal venerato nome di Stoppani, che la sostenne vigorosamente, quando questi fatti attuali non erano ancora assodati e messi in luce, non contasse ancora fra noi proseliti abbastanza numerosi ed autorevoli. Secondo essa l’espansione glaciale suppone una maggior copia di precipitazione nevosa nelle alte regioni alpine, questa una maggior copia di vapore nell’atmosfera e quindi una più abbondante evaporazione dei mari, la quale non può spiegarsi che con una temperatura più elevata: dunque l’invasione glaciale fu provocata da una condizione climatologica più tepida dell’attuale.
È facile vedere dove si annida il paradosso di questa teoria. Essa tien conto dell’aumento di ghiaccio che può corrispondere a una maggiore evaporazione dei mari, ma non dell’aumento di consumo che è prodotto nella massa di ghiaccio da un aumento di temperatura. Essa cioè cura l’aumento degli introiti, nel bilancio del ghiacciaio, e non si occupa del contemporaneo e assai maggiore aumento delle spese. Il riscaldamento di un solo mezzo grado centigrado solleverebbe anzitutto il limite delle nevi perpetue di circa 100 metri in senso verticale; pochi gradi di aumento farebbero spogliare quasi tutte le Alpi dei loro depositi di ghiacci, come ne sono spogli o quasi (fatte le proporzioni) l’Himalaya e le Ande equatoriali, nonostante la loro altezza e la vicinanza di mari assai caldi, i quali danno abbondantissima evaporazione.
Non è possibile inoltre supporre che l’aumento di neve caduta compensi e superi l’aumento nella quantità di ghiaccio disciolto. Questa seconda si può ritenere all’ingrosso proporzionale al numero di gradi sopra lo zero a cui si mantiene in media l’aria in prossimità del ghiacciaio, e poichè questo numero è sempre piccolissimo (circa 4° nei mesi più caldi; la media annuale attorno a 0°) due o tre gradi di più rappresenterebbero un’ablazione doppia o tripla dell’attuale, mentre due o tre gradi di più alla superficie del mare non possono rappresentare che un aumento assai piccolo dell’evaporazione che dovrebbe alimentare le nevi.
4. L’ipotesi orografica ha ricevuto in questi ultimi anni l’appoggio di molti geologi, specialmente americani, pei quali il fatto di una maggiore elevazione delle regioni montuose sulla fine del terziario e di un susseguente abbassamento nei tempi più recenti rimane ormai assodato: essa trova poi facile consenso in quei fisici i quali, vedendo tramontare altre ipotesi puramente razionali che tennero validamente il campo per lungo tempo, come quella geografica di Lyell e quella astronomica di Croll, si rifugiano volentieri in una ipotesi che ha, pare, il conforto sicuro dei fatti. Per essi appare spontanea la spiegazione di un’espansione dei ghiacciai per mezzo di un sollevamento delle regioni alpine, che sarebbero state alla fine del periodo terziario di parecchie centinaia di metri più alte sul livello del mare di quel che lo sono attualmente. Un tale sollevamento farebbe entrare nella zona delle nevi perpetue e trasformerebbe in immensi nevai collettori una estensione grandissima di valli e montagne, ora spoglie di ghiaccio, nelle quali il pendìo medio è sensibilmente meno ripido che nelle regioni più elevate, sedi attuali dei ghiacciai, e dove quindi sarebbe stata assai più facile la permanenza dei ghiacci che dovevano alimentare gli immensi ghiacciai quaternari.
Questo effetto di un sollevamento alpino è incontrovertibile; e certo, se i geologi sono concordi nel ritenere che il sollevamento è avvenuto, o almeno che le Alpi, meno consunte dalla incessante e rapida demolizione prodotta dagli agenti atmosferici, erano assai più alte di quel che non lo siano ora, rimane assodata una delle condizioni che debbono aver favorito l’espansione dei ghiacciai. Ma questa condizione non può essere stata la sola: essa è di gran lunga insufficiente a spiegare un fenomeno così grandioso. A questa conclusione negativa io sarei condotto da un ragionamento molto semplice.
In un ghiacciaio si distinguono due regioni: quella, che dirò collettrice, dove la quantità di neve che cade è maggiore della quantità di ghiaccio che si scioglie, e quella, che dirò ablatrice, dove la quantità di ghiaccio sciolto è maggiore di quella che cade. Sia S l’area della prima, s quella della seconda; sia inoltre p l’altezza media di ghiaccio che rimane come residuo attivo per unità d’area della prima in un dato periodo di tempo, p. es. in un anno, e sia α il residuo passivo (medio) che viene sottratto alla seconda per unità d’area nello stesso tempo. Il bilancio del ghiacciaio può allora istituirsi così:
Avere = S × p; Dare = s × α
e se il ghiacciaio è in un periodo di sosta, ossia se il bilancio chiude in pareggio, deve essere
S × p = s × α
ossia
S = α
s p
Il rapporto fra l’area collettrice e l’area ablatrice dipende quindi, in un periodo di sosta del ghiacciaio, esclusivamente dalle condizioni climatologiche da cui dipendono α e p; se queste in una regione montuosa sono presso a poco uniformi, quel rapporto sarà costante. Ciò si verifica con sufficiente approssimazione, secondo le determinazioni di Brückner e Richter[38] nei ghiacciai meglio sviluppati della regione alpina, pei quali il valore di quel rapporto oscillerebbe intorno a 3.
Se noi passiamo invece ai ghiacciai della Nuova Zelanda, troviamo un valore assai minore; così pel ghiacciaio Tasman esso è di circa 1/10, cioè 30 volte minore che per le Alpi. Questo fatto, che al sig. Richter sembra inverosimile, si spiega facilmente secondo il nostro calcolo colla maggior copia di precipitazioni nevose che alimentando i ghiacciai di quell’isola continuamente battuta dai venti oceanici, ma più ancora, io credo, dalla bassa temperatura estiva, che diminuisce sensibilmente l’ablazione α.
Deriva da ciò che se in una data regione alpina si suppone invariata la condizione climatologica, da cui dipendono α e p, e variata invece l’area S del bacino collettore per uno spostamento verticale della regione stessa, l’area ablatrice s deve variare proporzionalmente. Se quindi il sollevamento mio-pliocenico delle Alpi si suppone col sig. Forel da 550 a 1000 e più metri in modo che la zona compresa nel limite delle nevi perpetue (supposto ad altezza invariata, quando non si ritengano variate le condizioni climatologiche) fosse anche 10 e più volte maggiore dell’attuale, anche l’area ablatrice, cioè la superficie del ghiacciaio propriamente detta avrebbe dovuto essere altrettante volte l’attuale; quindi, se si tien conto dell’aumento in larghezza, ogni ghiacciaio non avrebbe potuto allungarsi nella valle che per un piccolo multiplo della sua lunghezza attuale. Ora ciò è assai al di sotto della realtà.
Il ghiacciaio del Rodano che ora ha pochi chilometri di lunghezza, arrivava nell’epoca di sua maggiore espansione fin sotto Lione, cioè a 395 chilometri di distanza dalla sua origine. Per argomenti che esporremo in seguito, si ha ragione di ritenere che il limite delle nevi perpetue arrivasse allora press’a poco a una linea che attualmente è a 1200 m. sul mare, e che allora per la supposta maggiore elevazione alpina sarà stata di qualche centinaio di metri più elevata. Il bacino collettore del ghiacciaio veniva così ad assumere una base orizzontale di circa 30 chilometri, mentre alla regione ablatrice ne rimanevano nientemeno che 360; e lungo questi essa non restava più incassata nella valle, ma era distesa a ventaglio su buona parte della Svizzera e della Francia meridionale. L’area s era certamente centinaia di volte più grande della S, e il rapporto s : S che ora è circa 3 deve supporsi ridotto per quell’epoca a una frazione piccolissima. Questo fatto non può spiegarsi, come vedemmo, che con un aumento della precipitazione p e con una diminuzione dell’ablazione α e questa seconda deve ritenersi come la causa più probabile ed efficace, perchè non possiamo supporre una precipitazione nevosa che sia centinaia di volte l’attuale, mentre basta una diminuzione di pochi gradi nella temperatura, specialmente estiva, per annullare quasi l’ablazione, mantenendo prossima a zero la temperatura attorno al ghiacciaio.
5. Tale argomento, che parmi difficilmente oppugnabile, mentre elimina come insufficiente l’ipotesi orografica, conferma la necessità di una causa climatologica, diminuzione di temperatura e aumento di pioggie, a spiegare la gigantesca espansione dei ghiacciai. Le oscillazioni attuali del clima tra uno stadio freddo-umido e uno stadio caldo-asciutto indicherebbero del resto che un abbassamento di temperatura è inseparabile, nelle regioni continentali, da un aumento di pioggia, e il sig. Brückner, che ne fece con sì geniale pazienza l’analisi, crede di poter indicare da quale concatenamento di cause sarebbero collegati fra loro i due fenomeni. Eccolo in breve.
I periodi asciutti sarebbero contraddistinti specialmente da un accentuarsi della variazione annua della pressione barometrica tanto sull’oceano quanto nella parte più interna dei continenti. È nota qual’è la distribuzione media della pressione nelle due stagioni estreme. L’Oceano Atlantico, p. es., presenta sempre nella sua parte settentrionale, al di sotto dell’Islanda, un campo di bassa pressione che d’inverno si espande ad occupare tutta la zona temperata dell’oceano stesso, riducendo a un piccolo cuneo la zona subtropicale d’alta pressione da cui emanano gli alisei di NE.; intanto un campo di pressione molto alta, col massimo nella Siberia orientale, occupa quasi tutto il continente spingendosi con uno sprone sull’Europa centrale. D’estate il minimo atlantico si ritira nelle alte latitudini, schiacciato contro l’Islanda dalla zona subtropicale d’alta pressione che si espande anche alla zona temperata, invadendo con uno sprone l’Europa occidentale; intanto il continente diventa campo di una vasta area di bassa pressione col centro nell’Asia centrale.
Questo alternarsi di situazioni barometriche è effetto evidente dell’alternarsi delle stagioni. D’inverno l’aria si raffredda e si condensa fortemente sul continente, assai più che sul mare, e il peso della colonna atmosferica diventa quindi assai maggiore su quello che su questo, dove la pressione rimane perciò relativamente bassa, come si manifesta coll’espandersi dell’area di bassa pressione che, per altre ragioni troppo lunghe ad esporsi qui, ha sua sede nelle più alte latitudini. D’estate l’aria si riscalda e si dirada assai più sul continente che sul mare, e quindi la pressione diminuisce assai nelle parti più centrali del continente, e si mantiene relativamente elevata sul mare, come lo dimostra l’espandersi della zona subtropicale d’alta pressione.
L’afflusso dell’aria oceanica, apportatrice di umidità o di pioggia, verso il continente euro-asiatico è regolato in ambedue le stagioni dal dislivello di pressione fra l’Europa occidentale e l’oceano, dislivello che in media è inclinato in ambedue le stagioni dalla terra verso il mare; d’inverno per lo sprone spinto sull’Europa dal campo d’alta pressione dominante sull’Asia, d’estate per lo sprone d’alta pressione spintovi dalla zona subtropicale. Quanto maggiore è questo dislivello, cioè quanto maggiore è la pressione sull’Europa occidentale, che fa da barriera ai venti oceanici, tanto minore è la probabilità di pioggia nell’Europa e nell’Asia, e infatti il sig. Brückner rilevò dai dati barometrici dei sessant’anni 1826-1885 che i periodi piovosi d’Europa coincidettero coi periodi di pressione relativamente bassa, gli asciutti con quelli di pressione relativamente alta: mentre in Siberia, giusto secondo la sua teoria, si verifica precisamente l’opposto.
Ora questo dislivello di pressione dall’Europa all’Atlantico dipende a sua volta dall’intensità dell’oscillazione annua del barometro nelle parti centrali tanto dei continenti che dei mari, e quindi indirettamente dalla intensità dell’oscillazione annua della temperatura. Se l’inverno è relativamente molto freddo sul continente, l’area siberiana di alta pressione è molto intensa, e quindi più forte lo sprone che essa spinge sull’Europa; se l’estate è relativamente molto caldo sul continente, l’area asiatica di bassa pressione è più intensa, e quindi relativamente più forte l’alta pressione atlantica che si spinge con uno sprone sull’Europa occidentale. Questo sprone, che è d’inciampo all’afflusso di aria oceanica verso l’Europa e l’Asia, è quindi più forte quando maggiore è l’oscillazione annua della temperatura, specialmente sul continente, e quindi più accentuato il dislivello termico fra il continente e l’oceano; è più debole, e quindi, lasciando più libero l’afflusso dell’aria oceanica, può originare un periodo piovoso, quando l’oscillazione annua della temperatura e il suo dislivello fra continente e oceano sono minori.
È principalmente una variazione della temperatura estiva che può avere efficacia sulla maggiore o minore piovosità nei continenti, poichè i periodi di pioggia, semplice (estivo) o doppio (primaverile o autunnale), cadono ivi nei mesi più caldi, dall’aprile all’ottobre. Questa variazione estiva non può essere indipendente da una variazione invernale, generalmente opposta, perchè gli inverni più ricchi di precipitazione sono generalmente i più miti rispetto alla temperatura; ma nell’effetto complessivo della temperatura media dell’anno deve prevalere il raffreddamento estivo. Il sig. Brückner ha potuto infatti constatare, in mancanza di sufficienti dati termici per le stagioni estreme, che le temperature annuali sono alquanto più fredde nei periodi umidi che nei periodi asciutti. È una piccola diminuzione, alquanto minore di 1° C; piccola però per rispetto ai nostri mezzi d’osservazione, non per rispetto alla distribuzione termica sulla superficie della terra, perchè corrisponde ad uno spostamento delle isoterme annuali di circa 300 chilometri, o 3 gradi di latitudine, verso Sud.
Che la variazione termica sia causa antecedente alla variazione della piovosità è confermato, non soltanto dal concatenamento di fatti messo in luce da Brückner, ma più direttamente dal fatto che i periodi della temperatura nel secolo nostro precedettero di regola quelli della piovosità, come lo dimostra la seguente tabella:
Periodi
caldo 1791-1805 asciutto 1781-1805
freddo 1806-20 umido 1806-25
caldo 1821-35 asciutto 1826-40
freddo 1836-50 umido 1841-55
caldo 1851-70 asciutto 1856-70
freddo 1871-85 umido 1871-85
Il ritardo dei periodi della pioggia su quelli della temperatura fu quindi in media di un lustro.
6. La precedente discussione ci porta adunque a concludere che il fattore principale di un’invasione glaciale fu un abbassamento di temperatura, e che l’aumento di piovosità in basso, e di nevosità nelle regioni alimentatrici dei ghiacciai, non fu che un corollario di quello. Il problema glaciale si riduce quindi a cercare la causa che può aver prodotto tale raffreddamento.
Fin dal primo sorgere della questione glaciale il problema si presentò sotto questa forma: l’idea di ghiaccio è inseparabile dall’idea di freddo, e un’invasione così immensa di ghiaccio portava naturalmente all’ipotesi di un freddo straordinario, di un cataclisma climatologico che corrispondesse in certo modo al cataclisma glaciale. Ciò era tanto più giustificato quando si credeva che l’invasione glaciale fosse un’espansione della calotta di ghiaccio che occupa le regioni circumpolari, anzichè una espansione dei ghiacciai alpini: ma questa seconda, e ormai sicura, spiegazione ridusse d’assai il fabbisogno di freddo, e già fin dal 1847 il Martins nella sua brillante esposizione della questione glaciale, pubblicata nella «Revue des Deux Mondes» si contentava di un raffreddamento inferiore a 4° C. A dir il vero tale conclusione rispondeva a una rappresentazione inadeguata del fenomeno glaciale: secondo le scoperte fatte fino allora, i ghiacciai dell’Arve, dell’Isère e del Rodano non uscivano dalla pianura svizzera e potevano spiegarsi con un abbassamento del limite delle nevi perpetue da 2700 metri sul livello del mare, dove si trova ora, a 1050 e quindi dell’estremità dei ghiacciai da 1150, dov’è ora, a circa 400 metri o anche al di sotto, pel contemporaneo abbassamento dei bacini collettori. Ora invece si sa che quei ghiacciai uniti insieme invadevano buona parte non solo della Svizzera, ma della Francia orientale arrivando fino a Lione, e un allungamento dei ghiacciai proporzionale all’abbassamento del limite delle nevi perpetue non basta a spiegare un tal fatto. Tuttavia nuovi argomenti sono venuti a confermare la valutazione del raffreddamento preglaciale data dal Martins.
Un ragionamento assai semplice è valso infatti a determinare, con approssimazione relativamente grande, di quanto si era abbassato nelle varie regioni della terra il limite delle nevi perpetue nell’epoca di massima invasione glaciale. Ho detto in principio che il gran mantello di ghiacci che copriva le Alpi non era senza strappi. Il nucleo alpino centrale doveva essere tutto sepolto, tranne alcune punte troppo erte per lasciar presa alla neve e al ghiaccio; invece nella parte più esterna, dove le correnti di ghiaccio erano incanalate nelle valli, se un culmine di montagna, un dosso, una cresta erano abbastanza alti da superare il limite delle nevi perpetue, dovevano sporgere come isole dalla inondazione glaciale, e non debbono quindi portare attualmente alcuna traccia glaciale. Risalendo le valli e cercando tutti quei culmini che non portano traccia glaciale si è potuto determinare così fino a quale altezza se ne incontrano, e fissare perciò entro limiti abbastanza ristretti la linea delle nevi perpetue dell’era glaciale. Così nelle Alpi Bavaresi e nelle Orientali esso oscillò fra 1200 e 1500 m. d’altezza, fu cioè tra 1200 e 1300 m. più bassa di quello che è ora; ed egualmente nei Pirenei di 1000; nella Nuova Zelanda da 1100 a 1300; nel Tien-Scian di 1350; nelle Colline Naga in India di 1800 metri più bassa che ora. Questo generale abbassamento dei ghiacci perpetui, se dovesse attribuirsi esclusivamente a un abbassamento di temperatura, rappresenterebbe un raffreddamento da 6° a 10° gradi; ma in parte esso deve attribuirsi all’aumento di neve, che è intimamente collegato col raffreddamento, e questo poteva quindi essere assai minore[39]. Di più esso risponde all’apogeo dell’invasione glaciale, quando la massa invadente di ghiaccio esercitava a sua volta un’azione deprimente della temperatura: il raffreddamento iniziale, causa prima dell’invasione, doveva essere stato sensibilmente minore.
Del resto anche il nostro calcolo del bilancio del ghiacciaio ha dimostrato che un abbassamento di pochi gradi della temperatura annua, od anche solo della temperatura estiva, annullando quasi interamente l’ablazione dei ghiacciai, basterebbe a rendere grandissima l’area ablatrice s.
Non bisogna credere però che un tale mutamento nelle condizioni termiche dei continenti sia un fenomeno di poco conto. Una differenza di 4 o 5 gradi da un anno all’altro è un fatto, non ordinario, ma che può verificarsi: specialmente se ad una estate molto serena e calda succede un’estate molto piovosa, la media annuale può presentare una variazione di quest’ordine. Ma il fatto straordinario è che una tale condizione di cose siasi mantenuta per migliaia di anni, sia diventata normale. Le isoterme dell’epoca glaciale erano spostate, rispetto alle attuali, di 12 o 15 gradi di latitudine verso sud; ciò che corrisponde a portare nella valle del Po la temperatura annua di Berlino, nella Scandinavia e nel Labrador le temperature artiche; se a ciò aggiungiamo il corrispondente aumento di pioggia e nevi, comprendiamo che, se non siamo davanti a un cataclisma, lo siamo almeno a una vera trasformazione climatologica, di cui la gigantesca espansione dei ghiacciai fu un effetto adeguato.
Fin qui pare però che la conclusione a cui si è giunti con una così lunga catena di argomenti non sia essenzialmente diversa da quella di cinquant’anni fa, enunciata dal Martins: il fenomeno glaciale risponde a una diminuzione da 3° a 5° della temperatura annua normale. Cosa si è guadagnato in così lungo cammino?
7. Oltre una conferma più solida della conclusione stessa si è guadagnato anche una concezione più completa del processo climatologico pel quale una tale diminuzione di temperatura ha condotto al fenomeno glaciale. Tale diminuzione si è dimostrata intimamente connessa a una diminuzione anche della escursione annua della temperatura, specialmente sui continenti, e ad una diminuzione della differenza di temperatura, tanto estiva che invernale, ma specialmente estiva, tra continenti e oceani. Quest’ultima circostanza da sola spiega la maggiore piovosità sui continenti; epperò la maggior copia di pioggia e di nevi, alimentatrici dei ghiacciai e di tutta la esagerata idrografia postpliocenica, si è dimostrata un semplice corollario del fenomeno termico. Finalmente, ed è ciò che più importa per noi, tale concatenamento di fatti ci dimostra necessariamente che la causa prima di tutto non può essere che una diminuzione d’intensità della radiazione solare ricevuta dalla terra.
Esso dimostra infatti che i fattori meteorologici del clima sono messi in opera dalla distribuzione della temperatura, e non questa da quelli, benchè essi concorrano poi a modificarla sensibilmente. Ciò del resto risponde anche a un ragionamento di puro buon senso, perchè i fattori meteorologici non possono essere che effetto, diretto o indiretto, dei movimenti convettivi, provocati nell’atmosfera dalla ineguale distribuzione del calore[40]. La ragione principale di questa ineguaglianza di distribuzione è l’inclinazione dei raggi solari crescente colla latitudine e la presenza dei continenti e dei mari che si riscaldano e raffreddano diversamente: la causa principale della grandezza di questa ineguaglianza è l’intensità della radiazione solare. Il problema glaciale si riduce quindi alla seguente formola: Trovare qual’è la causa più probabile che può aver diminuita la quantità di calore solare ricevuta dalla superficie terrestre, almeno nelle latitudini più elevate, in modo da poter spiegare una più uniforme distribuzione della temperatura fra continenti e oceani, una sua minore oscillazione annua (specialmente rappresentata da una minore temperatura estiva) e, per riflesso di questa, una minore temperatura annua normale.
Tutti i tentativi fatti per mettere il problema su una strada diversa, avente cioè per punto di partenza non una variazione del calore solare ricevuto dalla superficie terrestre, ma una variazione nelle condizioni di questa superficie, o rimasero campati in aria o rientrarono nella strada maestra.
Così l’ipotesi geografica dai seguaci di Lyell, che attribuisce il raffreddamento preglaciale a una maggiore continentalità delle regioni artiche, o quella opposta dello Stoppani che l’attribuisce alla maggiore oceanicità di alcune regioni tropicali, oltrecchè sarebbero insufficienti se vere, sono smentite anche dai documenti geologici. Quella di Saint-Robert che l’attribuisce a una maggior abbondanza di vegetazione, che manteneva una grande umidità e «temperando gli ardori del sole durante la state ed opponendosi all’irradiazione durante il verno, tendeva a scemare la differenza di temperatura fra la stagione fredda e la calda e ad abbassare quindi il livello delle nevi perpetue[41] » è esagerata nel fondamento, perchè le regioni non coperte di vegetazione sono anche attualmente assai scarse, specie nei paesi che furono campo dell’invasione glaciale più estesa; e nelle conseguenze si connette alla teoria esposta sin qui portando al supposto di una diminuzione della radiazione solare, e giudicandone gli effetti secondo gli stessi principii della teoria di Brückner.
8. Accostiamoci adunque al problema come fu da noi enunciato. Una variazione della radiazione solare ricevuta dalla superficie terrestre può spiegarsi soltanto in uno di questi tre modi: 1º come effetto di una variazione nel potere radiante del sole, considerato come stella variabile; 2º come effetto di una diversa esposizione della terra al sole, prodotta da una variazione nella forma e nelle dimensioni dell’orbita terrestre, e nella inclinazione dell’asse della terra sull’orbita stessa; 3º come effetto di una variazione dell’atmosfera che diventi più o meno trasparente alle radiazioni solari che l’attraversano.
Il sig. Brückner mostra di attenersi al primo modo di soluzione, che è certamente il più semplice; e assai recentemente il sig. Eugenio Dubois in una memoria Sui climi del passato geologico da poco tradotta in inglese[42] la svolge più completamente ma con criteri diversi. Egli riferisce le principali fasi dello svolgimento climatologico della terra alle fasi del sole, che da una stato originario di stella bianca, durato fino al principio dell’era terziaria, sarebbe passato, per uno stadio transitorio di rapida raffreddamento, durato per tutto il terziario fino al pleistocene, ad uno stato di stella gialla nel quale si troverebbe attualmente. Dacchè esso è entrato in questo stadio assai più freddo del precedente, furono rese possibili nella sua atmosfera molte combinazioni chimiche, non concesse dall’alta temperatura dello stadio anteriore, le quali rendono la sua radiazione assai più variabile.
Così il periodo undecennale delle macchie solari sarebbe spiegabile chimicamente, come fu sostenuto recentemente anche da altri. Il sole sarebbe quindi ora una stella variabile, e presenterebbe tratto tratto dei periodi di stella rossa, che è, secondo la classificazione delle stelle data dal Secchi, l’ultimo periodo di vita delle stelle. Ad ognuno di questi periodi rossi del sole corrisponderebbe un periodo glaciale sulla terra, mentre ai periodi gialli corrisponderebbero periodi interglaciali, in uno dei quali noi viviamo. Non seguo l’Autore nel tentativo di determinare la lunghezza dei varii periodi in base alla attuale proporzione delle stelle di varia grandezza fin qui note: esso è certamente interessante per la copia di notizie e la fertilità di induzioni messe in campo dall’Autore, ma allo stato attuale della nostra conoscenza del cielo esso parmi di un ardimento non incoraggiabile. Ma parmi che anche il fatto stesso del successivo passaggio del sole attraverso i suoi tre stadii di vita e del collegamento di questo fatto coi fenomeni climatologici terrestri, se non può essere negato a priori, non può nemmeno essere accolto come provato. Siamo davanti a un ordine di fatti inaccessibile, non a una discussione teorica, ma ad una prova positiva. Se dovremo arrivare a una tale spiegazione della storia climatologica della terra, non potremo arrivarvi che indirettamente, con una dimostrazione ad absurdum, dimostrando cioè che tutte le altre possibili ipotesi, basate su fatti provabili, su principii sicuri, sono inammissibili.
Un’obbiezione spontanea si presenta tuttavia all’ipotesi di Dubois, obbiezione che l’Autore non si nasconde e che cerca di rimovere col sussidio di ipotesi meteorologiche. Come si può spiegare la grande uniformità dei climi nelle epoche più antiche della terra, se il sole, che era allora allo stato bianco, ci mandava una radiazione tanto più intensa dell’attuale? Poniamo che K sia la quantità di calore ricevuta in un anno all’equatore, per unità di superficie; a una latitudine qualsiasi la quantità ricevuta sarà una frazione mK di quella, dove m dipende dalla inclinazione media dei raggi solari sulla superficie e dalla trasparenza dell’atmosfera, che i raggi solari debbono attraversare per un tratto tanto maggiore quanto maggiore è la latitudine. La differenza fra le due quantità, che è la causa prima (ma non sola) della differenza di temperatura fra quelle due latitudini, è quindi K(1-m). Se K cresce, ed m non varia, anche questa differenza cresce: cioè ad ogni variazione della intensità radiante del sole deve corrispondere, cæteris paribus; una variazione nello stesso senso della differenza di temperatura fra l’equatore ed un parallelo qualsiasi. Se quindi nelle êre preterziarie il sole irradiava coll’intensità di stella bianca, in quelle êre doveva essere anche più rapida la caduta di temperatura dall’equatore ai poli, e se questi fruivano, com’è indiscutibile, di un grado di temperatura assai maggiore dell’attuale, l’equatore doveva essere a un grado di calore incompatibile con qualunque sviluppo della vita organica continentale. Il sig. Dubois si difende da questa obbiezione con due argomenti: 1º La maggiore energia solare manteneva una più intensa circolazione oceanica ed aerea che portava una maggior somma di calore alle latitudini superiori. 2º L’atmosfera era meno trasparente, sia perchè il sole bianco emetteva un maggior numero di raggi dell’estremità violetta dello spettro, pei quali l’aria è assai meno permeabile, sia perchè era assai maggiore la copia di vapori e di nubi, che arrestavano l’irradiazione del sole nelle alte latitudini. Abbiamo già accennato precedentemente alla fallacia del primo argomento: l’energia solare non può provocare movimenti convettivi nell’atmosfera e nell’oceano, se prima non provoca un dislivello di temperatura, e non può, aumentando essa, rendere più intensi i movimenti stessi, se prima non aumenta questo dislivello di temperatura. Supporre quindi una distribuzione uniforme prodotta da movimenti convettivi molto intensi è una contraddizione in terminis.
Il sig. Brückner ( Klimaschwankungen, pag. 315) viene logicamente a conclusioni opposte a quelle del sig. Dubois volendo spiegare come una diminuzione della costante solare possa aver condotto all’invasione glaciale. Secondo lui essa «diminuirebbe la differenza di temperatura fra il polo e l’equatore e quindi la circolazione generale dell’atmosfera, che si rifletterebbe in una diminuzione delle correnti oceaniche, che, alla superficie dei mari hanno notoriamente una prevalenza di direzione verso Nord. Il raffreddamento, incominciando all’equatore, si sarebbe quindi esteso man mano alle latitudini più alte ». Ma col suo ragionamento si verrebbe a conchiudere che nelle epoche preglaciali, quando la radiazione solare era più forte, si doveva avere una distribuzione di temperatura dai poli all’equatore meno uniforme che nella glaciale, conclusione la quale sarà difficilmente accolta dai geologi.
Anche l’altro argomento del sig. Dubois merita discussione, ma poichè esso tocca la questione più generale della trasparenza atmosferica, ne parleremo a suo luogo.
9. Tra le ipotesi astronomiche ideate a spiegazione del fenomeno glaciale, una sola ha tenuto per lungo tempo vittoriosamente il campo, e, benchè ormai battuta da tutte le parti, è difesa ostinatamente dai suoi tenaci e valenti difensori: è l’ipotesi di Croll, basata sul fatto indiscutibile delle variazioni d’eccentricità dell’orbita terrestre, combinato coll’altro fatto non meno indiscutibile della precessione degli equinozi. Eccola in breve secondo l’esposizione più rigorosa fattane recentemente dall’astronomo Ball[43].
Chiamando 100 la quantità di calore che ogni emisfero della terra riceve in un anno, di queste 100 unità esso ne riceve 63 nella stagione estiva, e 37 nella stagione invernale. Ma per effetto dell’eccentricità dell’orbita terrestre queste stagioni non hanno una eguale durata: l’emisfero boreale, che ha il solstizio invernale presso a poco nel punto dell’orbita più vicino al sole (perielio) e l’estivo nel più remoto (afelio), ha 186 giorni estivi contro 179 invernali: per l’emisfero australe si verifica naturalmente l’opposto. Così l’emisfero boreale riceve 63 unità di calore in 186 giorni, e 37 in 179, mentre l’australe ne riceve 63 in 179 e 37 in 186; e quindi la media giornata estiva è pel primo meno calda che pel secondo, mentre la media giornata invernale è più calda.
Questa differenza fra i due emisferi ora non è rilevabile (benchè non ne manchi qualche indizio), perchè la prevalenza degli oceani nell’emisfero australe esercita tale effetto moderatore delle variazioni termiche, che un così piccolo incremento dell’escursione annua vi si smarrisce; ma certamente quando per lo spostamento degli equinozii l’emisfero boreale si troverà di qui a circa tredici mila anni ad avere l’inverno in afelio e l’estate in perielio, se sarà mantenuta l’attuale distribuzione dei continenti, la differenza potrà essere abbastanza rilevante, essendo la temperatura media invernale di qualche grado inferiore all’attuale e l’estiva di altrettanto superiore. E quando l’eccentricità dell’orbita terrestre era tre volte l’attuale, come lo era circa 100,000 anni sono, la differenza doveva essere altrettante volte maggiore, ossia l’inverno doveva essere di 4 o 5 o più gradi più freddo dell’attuale e l’estate di altrettanto più caldo. Questo nell’ipotesi che gli elementi meteorologici non compensino in parte la differenza, come certamente la compenserebbero, perchè è ufficio principale dei movimenti convettivi dell’atmosfera e dell’oceano di attutire le differenze e le variazioni di temperatura.
La possibilità di produrre un mutamento climatologico colla variazione dell’eccentricità orbitale della terra, combinata colla inversione degli aspidi, parmi adunque innegabile. Il Croll e i suoi numerosi seguaci ne esagerarono invero la portata con un ragionamento che il nostro Schiaparelli dimostrò fin dal 1868 fallace[44] e che, nonostante tale dimostrazione (rimasta a dir vero affatto ignorata in Inghilterra, come quasi tutte le cose italiane), e la confutazione fattane nel 1886 dal Woeikof[45], trova ancora buon accoglimento in opere di autori sommi come il Ball, il Wallace e il Geikie. Il ragionamento è in breve il seguente.
Nel lungo inverno boreale in afelio corrispondente a un periodo di grande eccentricità la distanza della terra dal sole era sensibilmente maggiore di quel che lo è ora coll’inverno in perielio, e quindi la radiazione solare era, secondo la legge dell’inversa dei quadrati delle distanze, ancor più sensibilmente minore. Croll calcola che nel giorno centrale dell’inverno la diminuzione doveva essere nientemeno che del 16% minore della radiazione attuale. Ora la radiazione solare serve a mantenere la terra a una temperatura assai maggiore di quella dello spazio vuoto dove la terra si move. Croll ammette senz’altro che questa temperatura dello spazio sia stata misurata esattamente da Pouillet, Herschel ed altri in circa -150° C; l’aumento di temperatura prodotto dalla radiazione solare in un punto qualsiasi della terra, p. es. in Inghilterra, dove la temperatura media è di circa 5° C, è di 155° C´. Alla variazione di 16/100 della causa deve corrispondere una variazione proporzionale nell’effetto: l’Inghilterra doveva avere quindi la minima temperatura invernale nientemeno che di 25° C. inferiore all’attuale. E l’inverno di tanto più freddo durava molti giorni più dell’attuale, cioè 199 giorni invece di 179.
Non contenti di questa conclusione i Crolliani ricorrono anche all’azione indiretta del raffreddamento così ottenuto (e della grande massa di ghiaccio che secondo loro esso doveva generare) sui venti e sulle correnti oceaniche, che dovevano essere perturbate e deviate in modo da aumentare ancora il raffreddamento stesso, con un concatenamento di cause e di effetti che si rincalzano vicendevolmente, contro i principii fondamentali della fisica e della fisiologia, secondo i quali ogni causa perturbatrice di uno stato d’equilibrio stabile provoca sempre in natura dei fenomeni secondari a difesa di questo stato.
Non è qui il caso di ripetere tutti gli argomenti addotti da Schiaparelli, Woeikof, Newcomb ed altri contro questa troppo ardita teoria. Assai recentemente il sig. E. P. Culverwell ebbe il merito di risollevare la questione in Inghilterra[46], e la vivacità di polemica che le sue brevi osservazioni hanno suscitato[47] dimostra quanto tenace sia in quel paese l’attaccamento a un’idea una volta accettata. L’argomento suo fondamentale fu già addotto dallo Schiaparelli; ma il sig. Culverwell, che certamente ciò ignorava, lo svolse in forma meglio accessibile al pubblico inglese. Egli dimostra che l’intensità della radiazione solare nel cuore di un inverno in afelio quando l’eccentricità dell’orbita terrestre era in un periodo di massimo era per ogni parallelo quella che è attualmente per un parallelo di 2° o 3° più a nord: così i paralleli 43°, 52°, 61°, 70°, ecc., ricevono ora nel giorno centrale dell’inverno la quantità di calore che in un periodo di grande eccentricità ricevevano i paralleli 40°, 50°, 60°, 70°. Ciò equivale a supporre, per usare il paragone che rese forse più accessibile l’argomento in Inghilterra, che se in Cornovaglia cadesse la quantità di calore solare che ora cade nella contea di York si dovrebbe avere in Inghilterra un’invasione glaciale[48].
Tuttavia questo taglio radicale fatto ai calcoli del Crolliani non rimove interamente l’ipotesi fondamentale. Quei calcoli erano imposti dalla necessità di spiegare un raffreddamento fortissimo quale si credeva da Croll necessario a spiegare il fenomeno glaciale, ch’egli non ammetteva ancora d’origine alpina, ma riteneva dovuto esclusivamente alla permanenza delle nevi invernali. Ora che, come si è visto, il riallacciamento del fenomeno glaciale alle variazioni dei ghiacciai alpini ha ridotto a soli 4 o 5 gradi il raffreddamento necessario, la riduzione anche dei possibili effetti di un aumento di eccentricità potrebbe considerarsi piuttosto come un argomento in favore che un’obbiezione all’ipotesi di Croll.
Noi abbiamo veduto che le attuali alternative del clima rispondono a variazioni di meno di 1° nella temperatura media; non si può quindi escludere a priori che una variazione di parecchi gradi nella escursione annua della temperatura possa avere effetti climatologici straordinari. Il nodo dell’argomento sta nel dimostrare se questi effetti sarebbero appunto quelli che possono giustificare un’invasione dei ghiacciai alpini. Ora tutto il ragionamento da noi svolto fin qui porta a concludere negativamente: che cioè un aumento dell’escursione annua, rappresentato da una maggiore temperatura estiva, e da una minore temperatura invernale si dimostra, tanto in linea di fatto che in linea di teoria, favorevole non a una espansione ma ad un ritiro dei ghiacciai alpini.
In linea di fatto, perchè si è visto che le più recenti espansioni dei ghiacciai corrispondevano a periodi freddo-umidi del clima, nei quali l’escursione annua della temperatura dovette essere minore del suo valor medio; mentre i periodi di ritiro corrispondevano a periodi caldo-asciutti nei quali l’escursione annua della temperatura era maggiore della media.
In linea di teoria, perchè anche ammesso che un inverno di 2° o 3° C. più freddo del normale debba essere anche sensibilmente più nevoso (benchè un largo confronto dei climi attuali darebbe piuttosto una conclusione contraria), un aumento di 2° o 3° gradi nella temperatura estiva produrrebbe certamente uno scioglimento tanto più copioso dei ghiacci da consumare di gran lunga la maggiore provvista di nevi invernali.
Secondo il citato calcolo del sig. Culverwell l’effetto della variazione di eccentricità sarebbe inoltre tanto minore quanto maggiore è la latitudine: già a 70° Lat. esso sarebbe nullo[49].
Anche questo parrebbe in contraddizione col fatto che l’invasione glaciale era assai più imponente fra 60° e 70° Lat. N., dove aveva i suoi centri principali di espansione, che nelle latitudini inferiori.
Di proposito deliberato non espongo che le obbiezioni alla teoria Crolliana emananti dalle più recenti monografie sull’argomento, senza ricordare tutte le altre, che il lettore può trovare facilmente nei trattati, come nell’ Era glaciale dell’America del Nord di Wright e più vivacemente in quello strano lavoro dell’ Howort sull’ incubo glaciale[50]; le principali si trovano rapidamente riassunti anche nel mio libro.
Un’altra ipotesi astronomica tirata in campo a spiegazione del fenomeno glaciale, e alla quale le recenti scoperte e polemiche intorno alla possibilità di uno spostamento dell’asse terrestre, dànno sapore d’attualità, è quella che attribuisce il ghiacciamento europeo e nord-americano ad uno spostamento del polo artico verso l’Atlantico. Ma la geologia e l’astronomia protestano insieme contro la possibilità di un siffatto spostamento (che avrebbe dovuto essere di parecchi gradi) in un’epoca relativamente così recente. E il ghiacciamento di altre regioni della terra che sarebbero state per tale spostamento più vicine all’equatore lo esclude assolutamente anche con prova di fatto.
10. Veniamo finalmente al terzo modo con cui si può ottenere una diminuzione del calore solare alla superficie della terra: per effetto cioè di una diminuzione nella trasparenza dell’aria. Essa richiede una discussione più lunga e minuziosa.
Se il sole è allo zenith e la radiazione solare cade verticalmente, essa viene in parte assorbita e riflessa dall’atmosfera, e alla superficie della terra non ne arriva che una frazione che indicheremo con p: cioè se A è la costante solare (la quantità di calore solare ricevuta nell’unità di tempo e per unità di superficie ai limiti dell’atmosfera), la quantità di calore ricevuta per unità di tempo e di superficie al livello del mare sarà p A. Se lo strato d’aria attraversato fosse equivalente a due, tre... n volte lo spessore verticale dell’atmosfera si potrà immaginarlo diviso in tanti strati ciascuno equivalente a un’atmosfera, ognuno dei quali non lascierà passare che una frazione p del calore lasciato passare dai precedenti: al livello del mare arriveranno quindi rispettivamente delle quantità di calore
p × p A = p ²A p × p ²A = p ³A p × p n -1 A = p n A
In generale, se lo strato d’aria attraversato è Δ volte (dove Δ sia anche un numero non intero) lo strato atmosferico verticale, la radiazione solare dal limite dell’atmosfera al livello del mare viene diminuita nel rapporto di 1 a p Δ. Ora, quando il sole non è allo zenith, ma è discosto da esso di un angolo z, la sua radiazione deve attraversare uno spessore d’atmosfera Δ, che è assai approssimativamente misurato dalla secante di quell’angolo z (ossia da 1 diviso per il coseno di questo angolo), e quindi essa sarà ridotta nel rapporto di 1 a p sec z. Ma anche se non fosse assorbito dall’atmosfera, ogni pennello di raggi solari che abbia la sezione di un centimetro quadrato, incontrando obliquamente la superficie terrestre ne sarebbe tagliata su una sezione più grande, sulla quale andrebbe distribuita la stessa quantità di calore; la quantità di calore ricevuta da un centimetro quadrato di superficie sarebbe quindi minore e precisamente essa sarebbe per unità di tempo non più la costante solare A, ma A cos z, secondo la nota legge del coseno. La quantità di calore solare che riscalda ogni centimetro quadrato della superficie terrestre quando il sole è alla distanza angolare z dallo zenith (o all’altezza 90°- z sull’orizzonte) è quindi:
A cos z · p sec z.
Questa quantità è in continua variazione su ogni parallelo della terra, per effetto del periodo diurno e del periodo annuo: le condizioni medie della temperatura di ciascun parallelo, in quanto dipendono dal calore solare, sono date però dalla somma totale ricevuta nell’anno, somma che fu calcolata per diversi valori di p in un lavoro non meno geniale che paziente di Angot[51].
Si può immaginare che queste condizioni medie siano determinate da un sole fisso, avente una intensità radiante, fuori dell’atmosfera, Q, che sia presso a poco la terza parte dell’intensità reale, e che si mantenga a una distanza zenitale ξ, costante per ogni parallelo, ma variabile da un parallelo all’altro. Si possono calcolare questi angoli ξ corrispondenti ai varii paralleli e si ha
Lat. 0° 10° 20° 30° 40° 50° 60° 70° 80° 90°
ξ 0°.0´ 9°.31 19°.7´ 28°.15´ 37°.49´ 46°.52´ 55°.40´ 61°.17 64°.24´ 65°.31´
Di questa quantità media di calore solare, Q cos ξ p sec ξ, che viene ricevuta dal suolo, una buona parte viene assorbita in lavori fisici (principale l’evaporazione), chimici, meccanici, fisiologici, ecc. e solo una piccola frazione a di essa rimane all’ufficio diretto di riscaldamento, cioè di innalzare la temperatura del suolo.
11. Perchè il suolo sia mantenuto ad una data temperatura, senza cioè nè riscaldarsi, nè raffreddarsi, è necessario che questa frazione di calore solare a Q cos ξ p sec ξ faccia equilibrio alla quantità di calore che il suolo irradia verso il cielo.
Quando si dice verso il cielo non si intende già verso lo spazio planetario vuoto, ma verso tutta l’atmosfera visibile dal punto considerato del suolo, cioè verso una massa d’aria che per effetto del calore solare e terrestre assorbito, dei movimenti continui che la rimescolano, delle continue trasformazioni del vapor acqueo, ecc., ecc., irradia a sua volta verso la terra una certa quantità di calore, che compensa in parte la perdita che questa subisce per irradiazione. L’irradiazione del suolo si compie cioè come quella di un corpo in un vaso chiuso la cui parete interna abbia una data temperatura; la sua irradiazione vera è la differenza fra le irradiazioni assolute che il corpo stesso e la parete effettuerebbero nel vuoto indefinito.
Noi immagineremo perciò di sostituire all’atmosfera visibile dal punto considerato una superficie di nero fumo avente una temperatura t c, che chiameremo temperatura del cielo[52], e tale, da sostituire nell’effetto radiante l’atmosfera stessa, e porremo che la radiazione del suolo verso il cielo sia proporzionale, secondo la legge di Newton, alla differenza tra la sua temperatura t s e la t c; sia cioè espressa da una espressione
K (t s - t c )[53]
dove il coefficiente K ( irradiazione unitaria ) dipende non soltanto dalla natura della superficie irradiante, ma anche dalle condizioni dell’aria sovraincombente, che per varia purità e vario stato igrometrico può essere più o meno trasparente pel calore irradiato dal suolo. Sono notissime a questo proposito le esperienze di Tyndall sulla opacità dei vapori alle radiazioni termiche, e le conseguenze che egli ne trasse per spiegare i climi attuali e passati della terra, mediante l’azione protettrice che esercita l’aria umida o ricca di acido carbonico, rallentando o impedendo completamente la radiazione del suolo verso il cielo. Avremo quindi
K (t s - t c ) = a Q cosξ p secξ
ossia
t s = t c + a Q cosξ p sec ξ
K
la quale ci dice che la temperatura del suolo è mantenuta superiore alla temperatura del cielo di un numero di gradi che è proporzionale all’azione riscaldante del sole e inversamente proporzionale alla irradiazione unitaria del suolo. In questa radiazione unitaria noi dobbiamo distinguere due fattori, l’uno che dipende dalla natura della superficie, ed è il potere irradiante, r s; di questa: l’altro m s che dipende dalla trasparenza dell’aria. Si potrà scrivere cioè K = m s r s; e mettendo quindi in vista, per lo scopo nostro speciale, nella formola precedente i coefficienti di trasparenza dell’aria si avrà
t s = t c + B s p secξ
m s
dove si è posto per semplicità
B s = a s Q cosξ.
r s
Fin qui si è considerata la superficie terrestre come solida; nel caso della superficie oceanica l’effetto della radiazione solare è assai più complicato, in causa della riflessione e rifrazione dei raggi, della loro penetrazione fino a profondità sensibile, del moto ondoso, della evaporazione, per non parlare dei movimenti convettivi, i quali possono considerarsi dell’ordine dei fenomeni meteorologici il cui effetto non può finora essere preso in considerazione. Noi possiamo però facilmente ammettere che anche la temperatura della superficie oceanica in quanto dipende dall’equilibrio delle radiazioni termiche, è esprimibile con una formola analoga alla precedente
t a = t´ c + B a p secξ
m a
12. Finora il valore di t c, t´ c sono rimasti indeterminati, e fino a prova contraria si dovrebbero ritenere diversi fra loro e variabili da un punto all’altro della terra. Invece è facile dimostrare che la temperatura media del cielo si può approssimativamente ritenere costante per tutti i punti della terra, sia oceanici che continentali, al livello del mare[54]. La massa dell’atmosfera formerebbe cioè tutt’attorno al globo terrestre come un involucro a temperatura uniforme, che costituisce un vincolo di solidarietà climatologica fra tutte le regioni della superficie terrestre, per il quale non si può immaginare che varii sensibilmente e permanentemente la condizione termica di una regione senza che variino sensibilmente quelle di tutte le altre regioni della terra. Esso costituisce inoltre come un regolatore di tutte le variazioni di temperatura, poichè non si può ammettere che varii in modo generale e permanente la condizione termica al livello del mare, senza che varii la temperatura t c, ossia la condizione termica di tutta la massa atmosferica.
Viene così espressa in modo assai evidente la funzione regolatrice e conservatrice dell’atmosfera nella distribuzione del calore sulla superficie della terra, e viene anche messa in chiara luce la fallacia di Croll nel computare l’effetto di una variazione della distanza, e quindi della radiazione solare, a partire dalla temperatura dello spazio interplanetario, come se l’atmosfera non esistesse.
Potrà sembrare a prima vista sorprendente questa uniformità della radiazione termica dell’atmosfera su tutta la terra, ma la cosa può presentarsi come naturale quando si consideri che quest’azione radiante emana per la maggior parte dagli strati più elevati dell’aria dove il periodo annuo della temperatura è insensibile e dove ogni più piccola differenza orizzontale di temperatura viene rapidamente cancellata dai rapidi movimenti convettivi, non intralciati da alcun impedimento. Secondo un calcolo di Maurer anche la conduttività dell’aria pel calore sarebbe ivi, in ragione della immensa densità, immensamente maggiore che per l’aria a noi circostante[55].
13. Ma torniamo alle nostre formole. Da esse si possono ricavare con facile procedimento[56] due formole rappresentanti la temperatura dell’aria, l’una t 1 sopra una superficie continentale, l’altra t 0 sopra una superficie oceanica, sempre nella supposizione che non vi sia alcun scambio di calore per causa meteorologica. Esse ci rappresentano cioè quali temperature si osserverebbero su un globo terrestre, o interamente continentale o interamente oceanico, quando l’atmosfera o gli oceani fossero immobili.
Indicando inoltre con x la continentalità media di ogni parallelo, ossia la frazione del parallelo stesso che è occupata da continenti, la formola t = t 0 + x ( t 1 - t 0 ) ci dà la temperatura media di ogni parallelo nella attuale distribuzione di continenti e di mari; che se colla x si indica invece la continentalità di ogni singolo punto, ossia la frazione di temperatura teoricamente continentale che entra a determinare la temperatura del punto stesso (e che può facilmente esprimersi colla escursione annua della temperatura), la stessa formola ci dà la temperatura normale del punto stesso. In questo secondo caso è ammessa una reciproca influenza fra continenti e oceani, ma l’effetto delle correnti marine ed aeree, e delle influenze locali, non è valutato.
Siamo sempre, si dirà, assai lontani dal vero; ma si può verificare di quanto ce ne discostiamo e si trova che le differenze fra i dati delle nostre formole e i dati d’osservazione rispondono benissimo, in grandezza e distribuzione, agli elementi trascurati, in prima linea alle anomalie termiche prodotte dalle correnti marine ed aeree[57]. Alle nostre formole che esprimono le temperature solari, cioè quelle mantenute esclusivamente dall’equilibrio fra la radiazione del sole e quella della superficie terrestre, bisogna adunque aggiungere un termine di correzione, qui positivo e là negativo, esprimente l’effetto termico dei moti convettivi e degli agenti meteorologici. Questo termine, che è di parecchi gradi[58], ha una grande importanza nella definizione del clima, ma noi non possiamo ammettere che esso possa variare se non varia la temperatura solare, che è il fattore primo e principale del clima. E ciò è tanto più vero se, invece della temperatura dell’aria, consideriamo la temperatura della superficie terrestre la quale, sia oceanica sia continentale, è meno soggetta a variazioni locali e accidentali non provenienti dal calore solare ricevuto e assorbito, essendo assai minore su di essa l’influenza dei movimenti dell’aria.
14. Torniamo adunque alle nostre formole
t s = t c + B s p secξ ;
m s
t a = t c + B a p secξ
m a
e vediamo quale effetto potrà produrre una variazione di p.
Questa non può immaginarsi disgiunta da una, variazione di m s, m a; variazione che assai probabilmente sarà conforme a quella di p, e ne attenuerà quindi gli effetti. Ma mentre l’effetto di una variazione generale nella trasparenza dell’aria è, per ciò che riguarda la radiazione terrestre, costante a tutte le latitudini, per riguardo alla radiazione solare esso va rapidamente crescendo colla latitudine.
Poniamo per esempio che per uno speciale intorbidamento dell’aria tanto il valore di p quanto quello di m s o di m a siano diminuiti di un decimo del loro valore: il rapporto ( p secξ )/ m all’equatore rimarrà invariato; ma fra 60° e 70° Lat., nel punto dove ξ = 60° e quindi sec ξ = 2, esso è ridotto dal valore primitivo p ²/ m, al valore
( 9 p ) ² = 9 p ²
10
( 9 m ) 10 m
10
cioè sarà ridotto anch’esso di un decimo del suo valore primitivo.
Ad ogni diminuzione di questo rapporto deve corrispondere una diminuzione ad essa proporzionale della differenza t s - t c, o t a - t c tra la temperatura della superficie terrestre e la temperatura del cielo. Nel caso considerato, questa differenza sarà mantenuta invariata all’equatore, ma sarà ridotta di 1/10 presso il cerchio polare. Secondo le formole di Forbes le temperature medie dell’aria, e quindi con differenza di qualche grado in più quelle della superficie terrestre, sotto il cerchio polare, in una regione rigorosamente continentale (poniamo Werchojansk in Siberia) è -15° circa; mentre in una regione rigorosamente oceanica sarebbe 0°. Le differenze t s - t c, t a - t c sarebbero quindi, (posto t c = -45°), ora di 30° per le regioni più continentali e di 45° per le oceaniche; il raffreddamento prodotto tra 60° e 70° lat. da un intorbidimento dell’aria, che produca la diminuzione di 1/10 in ambedue i coefficienti di trasparenza, sarebbe quindi almeno di 3° nella regione continentale, di 4°,5 nella oceanica. Dico almeno perchè, raffreddandosi il suolo e l’aria degli strati inferiori su tutta la superficie della terra, dovrà diminuire anche la radiazione e la conduzione e ogni trasporto convettivo di calore verso la massa superiore dell’atmosfera, e quindi diminuire anche la temperatura del cielo t c: infatti anche nelle variazioni annuali questa segue in ogni paese un andamento parallelo all’andamento della temperatura degli strati inferiori. Il raffreddamento effettivo non sarà quindi soltanto del numero di gradi indicato, ma a questo va aggiunto il numero di gradi di cui si deve ritener diminuita la t c e che non possiamo dire quale possa essere.
Ma l’ipotesi che la trasparenza m per le variazioni terrestri varii proporzionalmente colla trasparenza p per le radiazioni solari, non è nemmeno la più probabile. Se la causa dell’intorbidamento atmosferico è, secondo la supposizione più spontanea, il vapore acqueo, probabilmente la variazione di m è proporzionalmente assai minore di quella di p, se pure non dobbiamo ritenere che essa è opposta a quest’ultima. È noto infatti che tra gli strati a immediato contatto col suolo e gli strati a qualche altezza vi è generalmente contrasto tanto nel periodo diurno che nel periodo annuo della umidità assoluta; le ore e la stagione più secche negli alti monti (ora notturne, inverno) sono quelle più umide al basso. Così si svolge una delle funzioni moderatrici del vapore acqueo, il quale si solleva negli strati alti durante le ore e la stagione più calde, temperando colla formazione di nubi la radiazione solare e lasciando più libera la radiazione refrigerante del suolo; si abbassa nelle ore e nella stagione più fredde lasciando più libere fino agli strati inferiori dell’atmosfera le radiazioni del sole e temperando la irradiazione refrigerante del suolo. Non è quindi assurdo supporre che ad una diminuzione di p corrisponda un aumento di m, e quindi una diminuzione ancor maggiore del rapporto
p secξ [59] .
m
Noi vediamo adunque la possibilità di spiegare con una leggiera variazione della trasparenza atmosferica un raffreddamento di parecchi gradi tanto nelle regioni assolutamente continentali come in quelle assolutamente oceaniche.
Questo raffreddamento è, fino a 45° Lat. circa, maggiore sui continenti che sui mari; nelle latitudini superiori è maggiore sui mari che sui continenti. Fino a quella latitudine infatti i continenti sono più caldi dei mari, ed è quindi maggiore anche il raffreddamento sui continenti che sui mari; oltre 45° Lat. si verifica l’opposto. Nell’un caso e nell’altro però si attenua il dislivello di temperatura fra continenti ed oceani.
Così è verificata una delle condizioni caratteristiche dei periodi freddo-umidi, secondo la teoria di Brückner.
15. Quanto all’escursione annua non è qui il caso di svolgerne la teoria assai complessa nella quale si deve tener conto dell’azione regolatrice esercitata dagli strati immediatamente sottostanti alla superficie terrestre, attraverso ai quali penetra e sorte alternativamente il calore per propagazione conduttiva, e l’azione ammorzatrice degli agenti atmosferici, che generalmente variano in senso inverso della radiazione solare, attenuando i massimi tanto di caldo che di freddo. Un altro elemento di incertezza sembra debba trovasi nella temperatura del cielo, la cui variazione è in massima incognita; ma l’osservazione indicherebbe che questo elemento può essere eliminato, perchè la temperatura del cielo presenterebbe un periodo annuo perfettamente parallelo a quello dell’aria presso terra[60].
Rimarrebbe così dimostrato che in ogni paese, pel quale i coefficienti di conduttività e di assorbimento del terreno siano dati e costanti, l’escursione annua della temperatura rimane espressa da due termini, l’uno proporzionale alla variazione annua della radiazione solare, l’altro esprimente l’azione moderatrice degli elementi meteorologici. Per la ragione tante volte ripetuta che i fattori meteorologici sono subordinati al fattore termico, non possiamo immaginare una generale diminuzione dell’escursione annua della temperatura senza immaginare una diminuzione nella escursione annua del calore solare, che deve intendersi come la causa prima di quella, e il cui effetto può soltanto essere modificato, ma non distrutto, da una conseguente variazione nei fattori meteorologici.
Ora, che una diminuzione nella trasparenza p dell’atmosfera debba portare necessariamente una diminuzione nel periodo annuo della radiazione solare che arriva alla superficie terrestre, lo dimostra presente la tabelletta tolta dal lavoro già citato del signor Angot. Essa ci dà le differenze fra le quantità di calore solare ricevute a varie latitudini nei due giorni solstiziali, estivo e invernale, in corrispondenza a quattro valori decrescenti della p, dato che la quantità ricevuta al limite dell’atmosfera in un giorno equinoziale all’equatore sia espresso da 1000.
Latitudine
p 30° 40° 50° 60°
0.9 572 728 846 942
0.8 518 644 727 750
0.7 455 562 614 603
0.1 393 493 502 472
Col decrescer di p le differenze diminuiscono, e tanto più quanto maggiore è la latitudine. In corrispondenza, debbono diminuire anche le variazioni annue della temperatura, il che è l’altra condizione caratteristica dei periodi freddo-umidi, secondo la teoria di Brückner.
16. Una terza conseguenza di una diminuzione della trasparenza atmosferica è un aumento nella differenza di temperatura dall’equatore ai poli. Abbiamo già veduto come il signor Brückner, dall’ipotesi che le oscillazioni del clima siano dovute ad oscillazioni nel potere radiante del sole, sia condotto alla conseguenza perfettamente opposta: secondo lui il dislivello termico dall’equatore ai poli deve essere minore nei periodi freddo-umidi che nei periodi caldo-asciutti. Le serie delle temperature tropicali non confermerebbero per sua stessa confessione tale conclusione, non accennando a oscillazioni più accentuate che altrove, ma egli ritiene che ciò dipenda dall’essere troppo sparse e incomplete; e come tali non permettono nemmeno una verifica dell’ipotesi nostra. Ma se dalle oscillazioni termiche quasi insensibili che contraddistinguono i periodi climatologici attuali noi passiamo a quelle che contraddistinsero l’era glaciale, io credo che i naturalisti saranno piuttosto proclivi ad accogliere l’ipotesi nostra. Quando alle nostre latitudini la temperatura media era di 4° o 5° minore dell’attuale, supporre che la differenza coll’equatore fosse minore equivale a supporre che nelle regioni equatoriali la temperatura media doveva essere di 7°, 8° o più gradi minore dell’attuale; supposizione ch’io non credo, per quanto ne so, che la flora e la fauna tropicale dell’êra postpliocenica giustifichino menomamente.
Ma ancor più difficile appare ad ammettersi l’ipotesi di Brückner se rimontiamo ancor più indietro alle epoche preglaciali, quando le alte latitudini circumpolari godevano, secondo le scoperte di Heer, di una flora assai ricca e sviluppata, incompatibile coll’idea dei ghiacci attuali; quando adunque le temperature a quelle latitudini dovevano essere di molti gradi superiori alle attuali. In quelle stesse epoche le regioni tropicali erano forse alquanto più calde di adesso, ma, secondo i testimoni della flora e della fauna confrontate colle attuali, la differenza doveva essere assai piccola. Vi doveva quindi essere un dislivello termico dall’equatore ai poli assai minore dell’attuale; e infatti la caratteristica principale di quelle epoche, per concorde attestazione di tutti i geologi, era una straodinaria uniformità climatologica, che sola può dar ragione della grande uniformità paleontologica. Ora, se le alternative geologiche dei climi debbono spiegarsi colla variabilità del sole, se p. es. i climi terziarii rispondevano a una maggiore intensità radiante dell’astro, il dislivello termico dall’equatore ai poli doveva essere assai maggiore dell’attuale e quindi se le regioni polari erano tanto più calde d’adesso, le tropicali dovevano avere temperature altissime, incompatibili con una flora e una fauna non molto diverse dalle attuali.
La maggiore estensione e reciproca connessione degli oceani avrà certamente contribuito a mantenere una maggiore uniformità, temperando specialmente, nelle regioni polari, i freddi invernali; ma non bisogna esagerarne gli effetti. La immensa oceanicità dell’emisfero australe impedisce forse la formazione e conservazione dei ghiacci antartici? Quanto all’artificio delle correnti marine ne ho già dimostrata la debolezza. E quanto al secondo degli argomenti del sig. Dubois, che attribuisce quella grande uniformità a una maggiore opacità dell’atmosfera, tutta la precedente discussione gli è contraria, dimostrando che così si arriverebbe all’effetto perfettamente opposto.
Invece, colla ipotesi di un aumento anche non molto forte della trasparenza atmosferica p, si spiegherebbe un aumento di molti gradi nelle regioni polari, mentre all’equatore si avrebbe una variazione appena accennata. Aumentando p ed m di un terzo del loro valore, t - t c rimarrebbe invariato all’equatore, mentre al cerchio polare crescerebbe di 15° in aperto oceano, di 10° nell’interno dei continenti. E nella supposizione che m varii meno di p, o varii in senso contrario a p, l’aumento di temperatura sarebbe assai maggiore, oppure basterebbe una variazione di p assai minore per produrre gli incrementi indicati di temperatura, che già bastano forse a spiegare le flore di Heer.
È vero che una maggiore trasparenza dell’aria avrebbe anche per conseguenza di aumentare l’escursione annua; essa porterebbe cioè calori estivi più forti degli attuali, ma anche rigori invernali assai maggiori, che sembrano incompatibili con uno sviluppo così singolare di piante superiori. Ma è a notarsi che tutti i fondi polari di piante fossili furono trovati in regioni litoranee (Islanda, Groenlandia, Grinnellandia, Arcipelago nord-americano, isole della Nuova Siberia), dove la variazione annua non poteva essere molto accentuata; doveva anzi essere minore dell’attuale, se la maggiore temperatura media dell’acqua e la minore estensione delle terre polari che sono ora i centri d’espansione degli icebergs, mantenevano, com’è evidente, assai più liberi di ghiacci la superficie del mare.
Nella Siberia orientale e nel Canadà, regioni ch’erano già continentali nelle epoche dell’eocene e del miocene, non si è trovato nulla di analogo a quelle flore. Il sig. Woeikof è d’avviso che ciò non sia effetto nè del caso nè di insufficiente ricerca, ma del fatto che l’inverno, non temperato dall’azione marina, doveva esservi assai rigido, da non permettere lo sviluppo di flore che pur attecchivano largamente a latitudini più elevate, ma in paesi litoranei[61].
Del resto si è esagerata anche l’influenza distruttrice del gelo sulle piante. Nella Siberia orientale resiste una flora ricca ed elevata a freddi invernali di -60°, e a una temperatura media di gennaio di -49°! Purchè non vi siano delle variazioni repentine e capricciose di temperatura, la pianta resiste anche a freddi assai intensi, e più che una temperatura invernale molto mite è necessaria, per lo sviluppo di flore elevate, una sufficiente somma estiva di calore alla quale si provvederebbe a esuberanza coll’ipotesi nostra.
17. Io credo quindi dimostrato che le grandi oscillazioni del clima terrestre nelle passate êre geologiche, almeno in quelle meno remote, si possono spiegare con variazioni non molto rilevanti nella trasparenza dell’atmosfera per le radiazioni termiche. Per una ragione qualsiasi, l’atmosfera attraverserebbe dei periodi di intorbidimento intercalati da periodi di maggior purezza e trasparenza: ai primi corrisponderebbero dei periodi freddo-umidi ai secondi dei periodi caldo-asciutti del clima continentale.
Può sembrare a prima vista strana l’idea di collegare i periodi di alta temperatura a una maggior trasparenza dell’atmosfera. Per noi, le regioni note dove l’aria è straordinariamente trasparente sono le alte regioni alpine che non danno certamente l’idea di un clima caldo: e le notti serene specialmente invernali, sono le più rigide. Una maggiore trasparenza dell’aria ci pare quindi logicamente connessa a un raffreddamento. D’altra parte la maggior mitezza delle invernate e delle notti nuvolose, e le citate esperienze di Tyndall sulla opacità dei vapori e quindi sull’azione coibente che un’atmosfera umida esercita sul calore irradiato dalla terra, hanno generalmente diffusa e radicata l’idea che un intorbidimento dell’aria, specialmente per opera del vapore acqueo, è condizione di clima più caldo.
Ma queste deduzioni sono false; sono il frutto o di un confronto di termini non paragonabili fra loro, o di una illusione soggettiva dell’europeo che, perchè soffre maggiormente il freddo che il caldo, giudica la bontà di un periodo climatologico più dalla mitezza dell’inverno che dalla mitezza dell’estate.
Non è il clima alpino, ma quello di vasti altipiani che dobbiamo paragonare a quel clima che sarebbe prodotto, secondo la nostra ipotesi, su tutta la terra da un appuramento dell’atmosfera. I gruppi montuosi non sono che piccole isole negli alti strati dell’aria. La temperatura che l’aria assume sulle loro creste e sui loro pendii non è tanto determinata dal riscaldamento della superficie montuosa (come lo è l’aria alla pianura dal riscaldamento della pianura stessa), quanto dalla temperatura dello strato d’aria a quell’altezza, e dai movimenti convettivi continuamente mantenuti lungo i pendii. La temperatura dello strato d’aria a quell’altezza è assai minore di quella alla pianura perchè la superficie riscaldante, che è la pianura stessa, è assai lontana, e perchè l’irradiazione verso il cielo è più intensa (vedi Nota a pag.119 ); i moti convettivi dell’aria tendono generalmente a impedire i riscaldamenti intensi, possibili soltanto in aria stagnante.
Negli altipiani elevati le condizioni sono diverse. La radiazione solare è ivi molto intensa per la maggior trasparenza dell’aria; le vaste pianure si riscaldano fortemente e riscaldano gli strati d’aria sovraincombenti, i quali, benchè a grande altezza, sono mantenuti vicini alla sorgente principale di calore, che è il suolo. Se le condizioni meteorologiche circostanti permettono che l’aria vi stagni, noi avremo ivi delle variazioni diurne ed annue di temperatura assai accentuate, ma la media annua vi sarà relativamente elevata. Così gli altipiani dell’Asia centrale hanno una media relativamente assai elevata: nel Pamir, a 4880 metri d’altezza, Wood trovò delle stazioni invernali dei Kara-Kirghisi con ricchi pascoli, mantenutivi anche da pioggie estive piuttosto copiose. Le regioni più centrali ed elevate del Sahara sono pure fra le regioni più calde del mondo, anche fatta ragione della latitudine, benchè per la grande serenità del cielo vi siano frequenti gli sbalzi di temperatura di 23, 24 gradi in un giorno. Lo stesso altipiano abissino, di cui i nostri poveri soldati lamentano i rigori notturni, è un paese relativamente assai caldo nella media normale[62]. L’uomo è assai sensibile agli sbalzi repentini di temperatura, e giudica come freddissima una notte africana, che in Europa giudicherebbe assai tiepida, perchè il corpo abituato alla cocentissima radiazione diurna del sole, non si accomoda subito alla nuova condizione che gli è fatta dopo il tramonto. Così il viaggiatore Robecchi-Bricchetti mi parlava delle rigide mattinate passate nell’altipiano Somalo, contro le quali non gli sembrava sufficiente il pastrano degli inverni lombardi, mentre il suo diario meteorologico raramente segna temperature inferiori a 20°. Immaginiamo attenuati questi sbalzi di temperatura dalla vicinanza del mare, e noi avremo una rappresentazione evidente del clima terziario.—Noi dobbiamo quindi rappresentarci il clima terziario come un clima d’altipiano, temperato dalla estensione degli oceani, allora assai maggiore dell’attuale.
In una condizione affatto analoga si troverebbe attualmente, secondo le scoperte di Schiaparelli (recentemente confermate con strumenti assai potenti e in condizioni di cielo assai migliori, dagli astronomi americani dell’osservatorio Lick), il pianeta Marte. L’atmosfera vi è costantemente limpidissima; i vapori vi si condensano senza passare attraverso lo stato di nube opaca, ma come negli alti strati della nostra atmosfera in cirri diafani, o forse anche si condensano direttamente a contatto col suolo. Sta il fatto che nonostante tale serenità dell’atmosfera ogni emisfero presenta nella rispettiva stagione invernale una vastissima calotta polare, certamente di neve o ghiaccio. Ma questa calotta viene nella successiva estate completamente (o quasi) disciolta, dimostrando così che la temperatura estiva è anche nelle regioni polari straordinariamente elevata, nonostante che l’inclinazione dell’asse di rotazione sia quasi identica a quella dell’asse terrestre; nonostante che la distanza dal sole sia una volta e mezza quella della terra, e la radiazione solare vi arrivi quindi con una intensità che non è nemmeno la metà di quella che arriva alla terra. Questo fatto non può spiegarsi che come una conseguenza della eccezionale trasparenza dell’aria, e così Marte ci dà una conferma all’ipotesi da noi proposta a spiegazione delle alte temperature circumpolari delle epoche terziarie.
18. Da tali condizioni la terra sarebbe uscita per un successivo intorbidimento dell’atmosfera.
Come si può spiegare tale intorbidimento? Noi non possiamo rispondere a tale domanda. L’idea più spontanea è che esso fosse dovuto a una maggior copia di vapore acqueo diffuso nell’atmosfera, e un’antica ipotesi di Charpentier, rinovellata recentemente dal prof. Taramelli, spiegherebbe tal fatto colla maggiore attività dei vulcani quaternari[63]. Con tale ipotesi, o con altra qualsiasi che spieghi una maggiore umidità dell’aria, si provvede infatti anche al materiale necessario per le abbondanti precipitazioni. Una maggiore umidità generale dell’atmosfera, temperando le oscillazioni annue della temperatura e il dislivello termico tra continenti e oceani, provocherebbe, secondo il processo di Brückner, una più intensa condensazione del vapore stesso sui continenti, dando così i materiali per l’espansione dei ghiacciai, espansione favorita dal raffreddamento, corrispondente alla minor trasparenza dell’aria, il quale conserva i ghiacci prodotti in maggior copia, sommando gli aumenti di molte annate successive. Fino a prova contraria, questo parmi il modo più semplice di spiegare il fenomeno glaciale e, più in piccolo, le attuali oscillazioni dei climi da cui dipendono le periodiche variazioni dei ghiacciai.
L’alternativa dell’umidità atmosferica tra fasi di massimo e fasi di minimo può anche ammettersi, senza ricorrere ai vulcani o, come sostiene Sterry Hunt, a comunicazione di vapore acqueo degli spazii planetari all’atmosfera; ma semplicemente come uno dei tanti ritmi che presenta la natura nel suo progressivo sviluppo. La terra colla sua atmosfera può considerarsi come un organismo fisiologico, nel quale alcuni organi hanno la funzione di produrre un dato elemento, altri hanno quello di eliminarlo, perchè il suo accumularsi sarebbe esiziale all’organismo stesso. I nostri muscoli lavorando producono dei veleni e il sangue li elimina; ma questo processo non continua in modo regolare, bensì i veleni, si accumulano provocando la sensazione della fatica, che arresta il lavoro del muscolo, per dar tempo al sangue di compiere il suo processo eliminativo. La nostra vita cerebrale dev’essere interrotta da periodi di sonno, per lasciar tempo di eliminarsi alle sostanze che il lavoro intellettuale ha prodotto.
Nell’organismo dell’atmosfera gli oceani hanno la funzione di produrre il vapore acqueo, i continenti quella di eliminarlo e di ritornarlo in gran parte come acqua agli oceani. Ma la funzione non continua in modo regolare; il vapore oceanico per certo tempo si accumula nell’atmosfera, perchè il processo di condensazione non è abbastanza rapido per eliminarlo tutto, man mano che si produce. Ciò dà origine a un intorbidimento dell’aria che, mentre rallenta la formazione di vapore sugli oceani, accelera, secondo il processo di Brückner, la sua condensazione sui continenti producendo su questi un periodo piovoso. Questo processo di più rapida condensazione continua anche oltre il limite medio di umidità atmosferica; segue quindi un periodo nel quale è maggiore la quantità di vapore sottratta all’atmosfera di quella prodotta dai mari, e si va incontro quindi a un periodo di maggior secchezza e trasparenza dell’aria, a cui corrisponde un periodo asciutto sui continenti.
Questo ritmo non è necessario che sia unico, ma a periodi assai lunghi, e naturalmente più accentuati, si intreccieranno periodi minori, di durata diversa, come nelle vibrazioni di una corda alla nota fondamentale si intrecciano le note armoniche minori. Tornando all’esempio della fatica muscolare, l’uomo che compie un lavoro, p. es. l’alpinista che sale una montagna, deve tratto tratto fermarsi a riposare per lasciar tempo di eliminarsi in parte ai veleni della fatica e per riacquistare così una parte del vigore perduto; ma di quei veleni ne resta però un residuo di volta in volta sempre maggiore, e l’organismo perde l’attitudine ad eliminarli, e vuole essere lasciato a un riposo assai più prolungato che ripristini interamente l’equilibrio. Così nel processo di distillazione atmosferica il lento diffondersi e accumularsi del vapore nell’aria dovrà o potrà essere tratto tratto interrotto da brevi periodi di sosta, provocati forse anche da cause accidentali, nei quali i continenti ne eliminano una parte con processo più rapido di condensazione, pur lasciandone un residuo che sarà di volta in volta sempre maggiore finchè provocherà una condensazione più forte e più prolungata che spazzerà molto più energicamente l’aria per dare origine a una nuova epoca asciutta. Così si spiegano e i periodi trentacinquennari di Brückner, e quelli secolari da lui stesso intravvisti e che le più antiche cronache alpine confermano, dimostrando come nei secoli passati le Alpi ebbero periodi nei quali erano quasi interamente sprovvisti di ghiacciai, e finalmente quelli geologici di cui i periodi glaciali interrotti dai periodi interglaciali sarebbero i testimoni più recenti.
Luigi De Marchi (Sezione di Milano).
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NOTE:
[A] Aderendo al lusinghiero invito fattomi dall’ing. O. Zanotti-Bianco nella “Rivista Mensile„ (giugno 1895) riassumo i principali risultati del mio recente lavoro sulle Cause dell’Êra Glaciale (Pavia, Fusi, 1895). Ciò mi dà occasione di accennare anche ad altri recenti lavori sull’argomento, e di rispondere implicitamente, cioè senza polemica, ad alcune obbiezioni oppostemi pubblicamente, o per lettere private, da critici benevoli.[35] Queste ultime supposizioni sarebbero contraddette dalle ricerche del Barone Von Toll sui giacimenti di ghiaccio fossile delle coste settentrionali della Siberia e delle isole della Nuova Siberia ( “Mémoires de l’Acad. de St. Petersbourg„ vol. 42, fasc. 13). Il ghiaccio di quei depositi ha la struttura granulare caratteristica del ghiaccio di ghiacciaio, o in generale del ghiaccio formato dalla neve: struttura che non si osserva nel ghiaccio formato direttamente dal congelamento dell’acqua.[36] Woeikof: Glaciers and glacial periods in their relation to climate (nel periodico “Nature„ tom. XXV, 1882).[37] Brückner: Klimaschwankungen seit 1700. Wien 1890.[38] Richter: Die Gletscher der Ostalpen. Stuttgart 1888.[39] Alle oscillazioni attuali della temperatura, che non toccano 1° C. di deviazione sopra e sotto la media, corrispondono variazioni rilevantissime della piovosità: in Europa l’oscillazione della piovosità rappresenta il 16% del suo valore medio annuale, in Asia il 30%. A una variazione termica di 3° a 5° C. deve quindi aver corrisposto un aumento assai più rilevante della piovosità sui continenti, raddoppiarla forse o triplicarla, dando così la ragione di molti di quei potenti fenomeni diluviali, precedenti o concomitanti al fenomeno glaciale, di cui fanno testimonio i potenti e tumultuarii depositi postpliocenici.[40] Questo argomento è troppo spesso dimenticato. Si attribuisce principalmente alle correnti marine ed aeree la distribuzione attuale e passata delle temperature; è comune argomento che la grande uniformità della temperatura nelle epoche terziarie e precedenti fosse dovuta principalmente ad una più intensa circolazione dei mari e dell’aria. Ma da che era mantenuta tale circolazione se la temperatura era distribuita in modo uniforme?[41] Vedi “Transunti dell’Accad. dei Lincei„ Serie III, t. 8º; 1894, p. 61.[42] The Climates of the geological Past (London, Swan Sonnenschein et C., 1895). Questo libro sarà letto con grande utilità da chi desidera una esposizione breve e completa dello stato attuale del problema sui climi geologici. Anche nella parte induttiva i principii meteorologici sono applicati con grande abilità, come lo prova l’assenso avutone da un climatologista dell’autorità del sig. Woelkof (Petermann’s Mittheilungen, novembre 1895). Ma io credo che la base della sua ipotesi sia fantastica, e che l’applicazione degli argomenti meteorologici non sia legittima.[43] The Cause of an Ice Age, London 1891.[44] “Rendiconti del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere„, Serie II, vol. I, parte 2ª. Milano 1868.[45] “American Journal of Science„. New Haven, 1886.[46] In “Geological Magazine„, genn. e febbr. 1895.[47] Vedi i numeri del “Nature„ del Dicembre 1895, Gennaio e Febbraio 1896.[48] Schiaparelli, ponendo che l’oscillazione annua della temperatura sia proporzionale all’oscillazione della radiazione polare, trova che a Milano essa avrebbe dovuto essere in un periodo di grande eccentricità 30°,7 invece di 25° com’è ora e aggiunge: «Anche ammettendo l’improbabile ipotesi che l’aumento di 5°,7 non sia prodotto per nulla dall’incremento del calore estivo, ma tutto debbasi ad un maggior rigore invernale, noi avremo un clima non peggiore di quello che si osserva in tanti luoghi del nostro parallelo, ed ancor sempre molto lontano da quello che si richiederebbe per dare ai nostri paesi il carattere dello Spitzberg e del Groenland.
« Si può anzi aggiungere che il clima del parallelo di 45° rimarrebbe ancora preferibile a quello che adesso corrisponde al 50° grado di latitudine. Infatti secondo il calcolo già accennato del sig. Meech i numeri esprimenti l’irradiazione presente sul parallelo 50° ai due solstizi sono 164 e 900, ambidue minori assai di 201 e 1025 che esprimono l’irradiazione sul parallelo di 45° nell’ipotesi dell’eccentricità 0,0473. Il clima di Milano non potrebbe neppure diventare quello di Praga o di Kiew. » (loc. cit., pagg. 919-920).
E la differenza appare ancor minore se si tien conto della influenza ammorzatrice dell’atmosfera ( Le cause dell’Êra glaciale, p. 157, Nota ).
[49] A un risultato analogo egli arriva confrontando non più le radiazioni solari rispondenti al giorno centrale dell’inverno ora e quando si aveva l’inverno in afelio con triplice eccentricità orbitale, ma le radiazioni solari rispondenti al giorno medio dell’inverno attuale di 179 giorni e del supposto inverno glaciale di 199. Egli trova così che le latitudini di 40°, 50°, 60°, 70°, 80° e 90° dovevano fruire allora nel giorno medio invernale della radiazione che ora fruiscono le latitudini di 43°.3, 52°.4, 61°.7, 71°.3, 84° e 90°. Lo spostamento delle isoterme iemali corrispondente a queste variazioni sarebbe quindi tanto minore quanto maggiore è la latitudine.
Il terzo modo di confronto istituito dal signor Culverwell tra la somma delle radiazioni di quei 199 giorni invernali, con quella dei 199 più freddi del nostro anno attuale non mi pare giustificabile in alcun modo, perchè 20 di questi ultimi che sono nel semestre d’estate (e hanno quindi una durata tanto maggiore quanto maggiore è la latitudine), non hanno termine di confronto tra i 199 del supposto periodo glaciale.
[50] Glacial Nightmare and the flood. London, 1893.[51] Vedi “Annales du Bureaux Central Météorologique de France„ 1883, I.[52] Se si ammette che anche da tutti i corpi celesti, visibili o invisibili, toltone il sole, arrivi alla terra una quantità di calore sensibile (che è misurata dalla temperatura di una superficie nera irradiante la stessa quantità di calore, detta temperatura dello spazio ), anche questa radiazione deve intendersi compenetrata in quella rappresentata da t c. Ma le misure fatte fin qui di questa ipotetica temperatura dello spazio non reggono alla discussione (Vedi il mio libro: Appendice I ), ed io accolgo finora l’opinione di Langley che la radiazione stellare è trascurabile.[53] È noto che la legge esprimente la dipendenza della radiazione dalla temperatura fu formulata in vario modo, dopo Newton, da Dulong e Petit, da Rossetti, da Stefan ed altri. Ora è generalmente accolta come più conforme all’esperienza la legge di Stefan secondo la quale la quantità di calore irradiata da un corpo alla temperatura t verso un involucro solido alla temperatura t c è proporzionale alla differenza delle quarte potenze delle due temperature, riferite allo zero assoluto: (273 + t) 4 - (273 + t c ) 4. Ma le esperienze di Maurer e le discussioni di Trabert hanno dimostrato che la radiazione notturna verso il cielo è espressa assai meglio dalla legge di Newton, alla quale del resto si riducono con sufficiente approssimazione anche le altre leggi, quando le temperature t, t c, contate dallo 0° ordinario, non siano molto elevate in confronto a 273°.[54] Questo fatto si ricava dal confronto tra l’equazione che esprime l’equilibrio termico dell’aria con una notissima formola empirica di Mendeleef largamente verificata in regioni della terra assai remote l’una dall’altra. L’equazione accennata è, secondo i principii svolti sopra,
mr (t - t c ) + nr (t - t s ) = S + V
la quale ci esprime che la somma della quantità di calore irradiata da una particella d’aria a temperatura t verso il cielo [ mr (t - t c ) ] e di quella irradiata verso il suolo o ricevuta dal suolo se negativa [ nr (t - t s ) ], fa equilibrio al calore solare (S) assorbito dalla particella stessa e al calore portato o (sottratto) (V) dal fenomeni meteorologici; r è il potere assorbente dell’aria, m, n due fattori esprimenti la trasparenza pel calore irradiato dalla particella degli strati d’aria ad essa sovrastante e sottostante. S è piccolissima, perchè l’aria è quasi perfettamente permeabile pel calore solare, V si potrà trascurare generalmente, perchè gli effetti dei fenomeni meteorologici si compenseranno. Allora si ha approssimativamente
t = t c + ( t s -t c ) n
m + n
che è del tipo della formola di Mendeleef
t =-42° + (T + 42°) p
P
dove p è la pressione barometrica nel punto considerato, P quella al livello del mare e T la temperatura dell’aria presso terra, che, nella media, è pochissimo diversa da t s. La formola di Mendeleef si può quindi considerare come espressione approssimata dell’equazione precedente, esprimendo che le frazioni di calore assorbite dai due strati d’aria sovrastante e sottostante alla particella (cioè 1 - m, 1 - n ) sono proporzionali alle masse degli strati stessi, e che queste masse si ritengono proporzionali alle rispettive pressioni p (per lo strato superiore) e P - p per l’inferiore; che precisamente è:
1 - m = p
P
1 - n = P - p
p
Di qui deriva che la t c coincide colla costante della formola di Mendeleef, è quindi costante, ed ha un valore prossimo a -42° C. Considerazioni secondarie porterebbero ad accettare un valore alquanto minore, prossimo a -45° C. Recenti misurazioni della temperatura negli alti strati dell’aria condurrebbero a valori ancor più bassi. È naturale che, quanto più alto è lo strato d’aria che si considera, tanto più basso dev’essere il valor medio di t c che se ne deduce.
[55] Il valore di t c se si può ritenere, almeno all’ingrosso, costante per tutti i punti allo stesso livello, deve naturalmente diminuire coll’altezza, perchè portandoci in alto lasciamo sotto di noi, e sottraggiamo quindi alla massa d’aria a noi sovrastante, al nostro cielo, gli strati più bassi che sono anche i più caldi, perchè più direttamente riscaldati dal suolo. È questa una delle cause della diminuzione della temperatura coll’altezza; altra, e forse principale, è la rapida diminuzione del coefficiente (vediNota precedente ) di trasparenza dello strato d’aria sottoposto al punto considerato, ossia, secondo la formola di Mendeleef, della pressione p, mentre m + n (ossia P) rimane presso a poco costante, perchè nello stesso tempo aumenta la trasparenza m dell’aria sovrastante.[56] Vedi nota al paragrafo precedente.[57] Tale verifica ci porterebbe troppo lontani dal nostro argomento: rimando per essa alla Sezione II della mia monografia, non senza notare però che l’ipotesi glaciale, che sarà proposta in seguito, non è affatto subordinata alle proposizioni di dettaglio svolte in quella Sezione, ma si appoggia esclusivamente sulle formule fondamentali qui addotte, la cui attendibilità non parmi discutibile.[58] Le temperature medie dei paralleli si scostano al massimo di 4° C. dai numeri teorici: le temperature locali si scostano ancora dai dati della formola (anche se in questa si pongano le temperature t 0 t 1, dedotte dalla formola empirica di Spitaler, per x = 0, x = 1, dove l’azione media degli agenti meteorologici è già valutata) di un numero di gradi generalmente compreso fra +4° e -4°.[59] Tale supposizione pare contraddetta dal fatto che la radiazione del suolo in una notte nuvolosa è assai minore che in una notte serena, anche se presso terra l’aria è molto trasparente; ma io credo che il fatto debba piuttosto interpretarsi come effetto di un fortissimo aumento di t c. Lo strato di nubi forma infatti un cielo fittizio a una temperatura certamente assai maggiore di quella del cielo sereno (-45° in media, e assai meno d’inverno).[60] Fu osservato da Wilson, poi da Parry e Scoresby e da Pouillet, e confermato dal Melloni, che un corpo esposto durante la notte all’azione di un cielo egualmente puro e sereno si raffredda sempre della stessa quantità qualunque sia la temperatura dell’aria, cioè tanto d’inverno che d’estate. Ciò vuol dire che la differenza t - t c è presso a poco costante nel periodo annuo.[61] Geologische Klimate (Petermann’s Mittheilungen, nov. 1895).[62] Dalle osservazioni di Prsehewalsky negli altipiani della Mongolia e del Tibet il sig. Woeikof ( Meteor. Zeitschrift, febr. 1896) ricava che le temperature del marzo e del luglio in vicinanza del lago Kuku-Nor (oltre 3200 m.), sono straordinariamente elevate per quell’altezza. Il lago eserciterebbe particolarmente un’azione moderatrice dei freddi notturni: nell’inverno l’azione moderatrice è insensibile perchè il lago è gelato. Nel Tibet NE. a 4300 m., le temperature delle acque superficiali di due grandi laghi (Orin-Nor e Clarin-Nor), in luglio e agosto risultarono sensibilmente più elevate delle temperature dell’aria.[63] Questa ipotesi è difficilmente verificabile. Le statistiche delle più recenti eruzioni vulcaniche su tutta la superficie del globo non segnerebbero alcun legame coi periodi climatologici scoperti da Brückner, mentre segnalerebbero una dipendenza dell’attività vulcanica dal periodo undecennale delle macchie solari. Ma le statistiche non dànno che il numero delle eruzioni, e anche questo certamente in modo assai incompleto, perchè chissà quante eruzioni in paesi ignoti o incivili sono loro sfuggite. Da questo risultato negativo non si può quindi dedurre una condanna dell’ipotesi, perchè, più che il numero, bisognerebbe conoscere l’importanza e la natura dell’eruzione, per riguardo specialmente alla copia di vapore acqueo eruttato. È recente il ricordo della spaventosa eruzione di Krakatoa, che diede origine a fenomeni ottici così singolari e duraturi per tutta l’atmosfera terrestre.
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Il Gruppo del Terminillo.
Uno dei gruppi montuosi importantissimi costituenti l’Apennino centrale è quello del Terminillo, la di cui vetta più alta s’eleva a 2213 metri sul livello del mare.
Esso sorge intieramente nell’Abruzzo, e facili e brevi sono le vie di accesso; finora però è stato poco percorso e per nulla studiato. Eppure le sue rocce di massiccio e grigiastro calcare che ne costituiscono il nocciolo centrale, le sue creste curiose nella loro denudazione, gli aspri e ripidi valloni che le acque hanno scavato nella compatta massa calcarea, le brulle e selvagge gole nelle quali cupi scorrono fiumi e torrenti, i ripidi pendii su cui si arrampicano pecore e capre in cerca di un misero pasto di pochi licheni, fanno vivo contrasto con le circostanti vallate, colline e pianure verdeggianti, ricche di prodotti, bene irrigate.
La disposizione orografica dell’Italia media presenta la riunione di tanti gruppi, di tante ristrette giogaie staccate, nelle quali lo spartiacque fra il mare Adriatico ed il Mediterraneo corre spesso non sulle più elevate cime, ma per piccoli sollevamenti. Questo sistema di gruppi si trova disposto con una regolarità grandissima; ciascun gruppo è foggiato a guisa di segmento di cerchio con la convessità rivolta verso l’Adriatico, rimanendo, in parte, come sovrapposto a quello che gli sorge verso nord, in modo che, incominciando dal sud, la parte estrema settentrionale di ogni gruppo ricopre verso est la parte estrema meridionale del gruppo sovrastante.
Nella regione Abruzzese che si stende dalle sorgenti della Nera a quelle del Trigno la conformazione orografica è rappresentata da un vasto altipiano, l’altipiano abruzzese, foggiato ad elisse allungata in direzione NO.-SE. e sostenuto verso l’Adriatico da un piano inclinato in direzione NE., solcato da numerose correnti. L’altipiano appartiene all’Apennino Centrale propriamente detto e si formò geologicamente durante l’età terziaria, quando una pressione laterale, diretta da SO. a NE. o viceversa (è ancor controverso), incurvò e pieghettò gli strati sottomarini di quel mare che si stendeva là ove oggi sorge l’Italia, i quali uscirono all’aria nei culmini delle loro crespe, mentre la supposta Tirrenia, regione montuosa che al termine dell’età mesozoica emergeva ove ora è il letto del mar Tirreno, andava sprofondandosi e sommergendosi.
Questo altipiano comprende tutta la provincia di Aquila, i confini della quale corrono precisamente sulla cresta della catena che ne forma l’orlo in forma di conca elissoidale. Oltre alle due linee che racchiudono l’altipiano, v’è una terza linea trasversale che divide l’altipiano in due parti: in conca Aquilana percorsa dall’Aterno, e in conca di Avezzano, le di cui acque sono raccolte dal Liri e dal Velino. Il versante NE. poi, cioè il piano inclinato suddetto, è diviso in due parti dal fiume Aterno-Pescara, le quali formano le provincie di Teramo a N. e di Chieti a S. Fra le tre linee poi si stendono parecchi altri gruppi montuosi, non molto alti e lunghi, i quali racchiudono vasti altipiani a diversa altezza, con facili passaggi dall’una all’altro fra la interruzione dei gruppi stessi.
L’asse maggiore dell’elisse formata dalle tre linee o gruppi principali è appoggiato coll’estremità settentrionale ai Monti Sibillini e con la meridionale ai monti napoletani per mezzo della cresta che congiunge il Monte Meta ai monti d’Isernia ed al Monte Miletto.
Delle tre linee, quella che costituisce l’orlo orientale dell’altipiano è formata da una serie di gruppi divisi in due dal corso del Pescara: essa comincia presso il gruppo dei Monti Sibillini alla gola di Arquata, per la quale esce il Tronto, coi Monti della Laga, tronco montuoso estendentesi dal Tronto al Vòmano per circa 30 km. in direzione di S. a SE. Prosegue, dopo la gola da cui esce il Vòmano fra Monte Cardito e Monte Piano, nel Gruppo del Gran Sasso (2921 m.) il quale ha il suo asse di direzione non nel prolungamento dell’asse dei Monti Sibillini e della Laga, ma sensibilmente piegato verso oriente fino al Monte della Guardiola a 32 km. dal mare. Dal Monte della Guardiola la linea riprende la direzione di SE, e si abbassa ed assottiglia sul Pescara col Monte Roccatagliata (975 m.). Tutte le diramazioni che partono da questi gruppi vanno a finire, ramificandosi, nell’Adriatico e formano i monti della provincia di Teramo (Abruzzo Ulteriore I). Al di là della gola o Passo di Popoli, sorgono a continuare la linea orientale le montagne del Morrone ed il gruppo della Maiella (2795 m.).
Fin qui la linea si è mantenuta pressochè parallela alla costa adriatica: ora si spiana nell’altipiano delle Cinque Miglia, poi volge verso O. rialzandosi nei Monti di Castel di Sangro coi quali va a riunirsi al Gruppo di Monte Meta. Tutte le diramazioni verso l’Adriatico delle montagne del Morrone e della Maiella, coi Monti di Atessa, formano i monti della provincia di Chieti (Abruzzo Citeriore).
La seconda linea che forma l’orlo occidentale dell’altipiano, a principiare dal N., è nel primo tratto costituita dal gruppo di Monte Terminillo che si stacca dai Sibillini e viene verso S. separando la valle del Velino e del Tronto, e cioè la conca aquilana, dagli altipiani di Leonessa, di Cascia e di Norcia i quali, inclinati verso la Nera, mandano a questa le loro acque per mezzo del torrente Corno. Nel secondo tratto la linea occidentale, incominciando con basse montagne fra Antrodoco e Cittaducale, per i monti del Turano e del Salto, si rialza col gruppo di Monte Autore nella provincia Romana, per arrivare sempre alta a Sora contro il Liri, al di là del quale segue una diramazione del Monte Meta.
Al fiume Velino comincia pure la linea centrale trasversale che divide in due parti l’altipiano abruzzese, separando così le acque del Velino e dell’Aterno da quelle del Salto. Si stacca di fronte al Terminillo e per i Monti Nuria (1892 m.), fra le Serre (1594 m.) e Monte Rotondo (2487 m.) viene verso SE. al Monte Velino (2487 m.) che è il più elevato nell’interno dell’altipiano, e poi al Monte Sirente (2349 m.). Di qui la linea piega più a mezzodì, racchiudendo col piano di Sulmona e le ultime pendici della Maiella l’altipiano delle Cinque Miglia, per finire sul Sangro a Castel di Sangro.
Il gruppo del Terminillo adunque, del quale intraprendiamo la descrizione, appartiene, anzi è la prima parte dell’orlo occidentale che circoscrive l’altipiano abruzzese. Quasi tutte le sue acque si versano nel Mediterraneo per mezzo dei fiumi Velino, Nera e Corno: esso quindi non appartiene, se non per le ultime sue diramazioni, alla linea spartiacque dei due mari.
I limiti che possiamo assegnare al gruppo del Terminillo sono a S., partendoci dal confine della provincia d’Aquila con quella di Perugia, il corso del fiume Velino che scorre dapprima nella bella e fertile piana di Rieti e, ricevuto al confine dell’Abruzzo Aquilano il fiume Salto, passa sotto Cittaducale e si volge a SE. con corso tortuoso per addentrarsi in anguste gole nelle quali correva l’antica via Salaria. Ad Antrodoco il confine meridionale del gruppo lascia il Velino e segue il corso del rio Corno; poi risale verso NE. la ripida valle fino a Sella di Corno (1000 m.) e scendendo pel versante opposto nella valle del Raiale raggiunge il fiume Aterno (che dopo la confluenza col Gizio nel piano di Sulmona prende il nome di Pescara). Il corso superiore dell’Aterno, dalle sue sorgenti che sono a NE. di Montereale in territorio di Aringo nel monte Capo Cancelli a 1347 m., segna il confine orientale, il quale da tali sorgenti pel Passo dell’Aringo prosegue lungo il fosso Basciano, lungo la stretta sua valle fino alla confluenza col Tronto a N. di Amatrice e poi per buon tratto lungo il fiume Tronto fino alla confluenza con la Neia. Qui comincia il confine settentrionale che segue il fosso la Neia dapprima e sale poi al Monte Pozzoni (1912 m.) a N. di Cittareale e raggiunge il confine montuoso della provincia aquilana coll’Umbria. Questo confine in direzione di NO. segna pure il limite da questo lato del gruppo del Terminillo, il quale passa per il Monte Oro (1295 m.), per il Monte del Trognano (1321 m.), per la Forca di Rescia e il Monte d’Ocri (1230 m.), attraversa il fosso Corno, e per la cima del Carpellone (1462 m.) volge a S. formando il limite occidentale: pel monte La Pelosa (1635 m.), il Colle Lungo (1652 m.), il Monte di Corno (1735 m.), i Monti di Ceresa (1522) e il colle La Forca (1294 m.) scende a raggiungere la valle del Velino nel punto già accennato della confluenza col Salto.
Tutto il territorio compreso entro questi limiti, abitato già dai Sabini, è assai interessante per il suo carattere e la sua varietà e può distinguersi in quattro principali giogaie.
Quella che possiamo chiamare giogaia centrale contiene la vetta più elevata, il Terminillo propriamente detto. Essa è un imponente massiccio di compatto calcare a grossi strati orizzontali verso l’alto e verticali verso il basso. La giogaia è racchiusa fra il corso superiore del Velino a E., da Antrodoco a Posta, fra il fosso Carpellone ed il piano di Leonessa a N., fra il fosso di Cantalice e il piano di Rieti a O., e a S. fra il corso inferiore del Velino da Rieti ad Antrodoco.
Il più terribile e spaventoso monte dei Sabini era il Mons Tetricus, dalla qual voce il grammatico Servio derivò il nome di tetrici agli uomini tristi e dolenti. Tetricae horrentes rupes, dice Virgilio; ed è ormai riconosciuto essere l’odierno Terminello, ora corrotto in Terminillo. Sovra tutti i monti, infatti, che si elevano nell’antico territorio dei Sabini, è desso il più orrido all’aspetto a causa dell’asperità delle sue rocce.
Lunghe costiere adducono alla vetta più elevata, mentre profondi e stretti burroni solcano specialmente il pendio settentrionale del monte; citeremo la costiera NO. che dal Monte Acquasanta (1850 m.) per i Sassatelli (2079 m.) giunge alla vetta più elevata (2213 m.), la costiera S.SO. che da questa vetta va al Terminilletto (2108 m.), e la costiera meno importante ma più lunga che in direzione dapprima di E. volge poi a N. e va a rilegarsi al Monte Porcini (2081 m.), costiere curiosissime, esili, scagliose, tormentate, ripide, a pareti fiancheggiate da precipizi, le quali s’innalzano sul pendio ripidissimo del monte, quasi ponti arditi a rilegarne le cime.
Aggruppati intorno alla vetta centrale, altri monti in questa giogaia sorgono quasi a difesa del gigante. Noteremo a N. il Monte di Cambio (2084 m.) dal quale si dirama ad E. il Monte Iazzo (1854 m.) e più dappresso il Monte Porcini (2081 m.) che si dirama in una lunga costiera, ad E. della punta più elevata, costiera che cessa nel monte i Valloni (2028 m.) cadente a picco sul vallone Ravara. A S., per tacere d’altri meno importanti, sta il monte detto Euce dagli scrittori dei primi anni del secolo, Enze in carte posteriori, ed Ove (1580 m.) nella carta dell’Istituto Geografico Militare a provare la strana corruzione che avviene nei nomi topografici.
A NE. della giogaia centrale sorge la seconda giogaia con la direzione di NE. Essa comincia di fronte ai Sibillini e termina di fronte alla centrale: è racchiusa a E. fra il corso superiore del Velino da Posta a Cittareale ed il corso del Tronto, fra i territori di Norcia a N., fra quelli di Cascia e di Leonessa a O., e fra il fosso di Carpellone a S. La giogaia come lunga costiera comincia a N. col Monte della Serra (1780 m.) formando il confine dell’Abruzzo coll’Umbria, prosegue coi monti i Ticcioni (1617 m.), coi monti i Pozzoni (1912 m.) e, staccandosi dal confine per addentrarsi nell’Abruzzo, continua coi monti La Speluca (1799 m.) a NO. di Cittareale, San Venanzio (1808 m.). La Boragine (1829 m.) e termina al monte La Cerasa (1550 m.) a N. di Posta.
La terza giogaia è a E. e a SE. della prima, e a S. della seconda. Essa è composta di un’ammasso di monti raggruppati senza apparente regolarità. È limitata a O. dal corso del Velino da Antrodoco a Posta: a N. dalla Neia, a NE. dal Tronto dalla sua confluenza con la Neia fino alle sorgenti che sono nel territorio di Poggio Cancelli, a SE. dal corso superiore dell’Aterno e a S. dal corso del Raiale e dal rio di Corno. Le vette principali di questo aggruppamento, procedendo da N. a S. sono il Monte Rota (1536 m.) a NE. di Cittareale, il Monte (1407 m.) a E. di detta città, il monte del Cimitero (1231 m.), il Colle Verrico (1306 m.) e più ad E. la costa dell’Aringo col monte Capo Cancelli (1391 m.) ove sono le sorgenti dell’Aterno, a NO. di Montereale, il Monte Gabbia (1502 m.), il Monte Rua (1238 m.), a SO. di Pizzoli, e principali sovra tutti il Monte Calvo (1901 m.), a N. di Rocca di Corno, ed il Monte Giano (1826 m.) a NE. di Antrodoco.
La quarta ed ultima giogaia che forma il gruppo del Terminillo è situata a NO. della centrale, a SO. della seconda giogaia. È anch’essa una lunga costiera, racchiusa fra il fosso di Cantalice e il piano di Leonessa a E., e la valle Nerina ed il piano di Rieti a O. Questa giogaia segna parte del confine fra l’Abruzzo e l’Umbria, cominciando alla cima del Carpellone (1462 m.) a NO. di Leonessa. Prosegue pel Colle Pérsico (1310 m.) pel monte La Pelosa (1647 m.), a SE. del quale è il Monte Tilia (1779 m.) sovrastante a Leonessa, pei monti di Corno (1738 m.) pel Passo della Fara (1525 m.), pel Colle La Tavola (1695 m.), ed il Monte Palloroso (1592 m.), per cessare con piccole diramazioni nel piano di Rieti.
È in quest’ultima giogaia che si son voluti riconoscere situati i monti Fiscellus, Gúrgures, e Severus degli antichi.
Il Monte Fiscello fu causa, per la sua topografia, di molti dissidi. Plinio lo ripose alla sorgiva del fiume Nera: Sabini Velinos adcolunt lacus roscidis collibus, Nar amnis exaurit illos e monte Fiscello labens (lib. III, cap. 12). Silio lo attribuisce ai Vestini:
. . . . . . . . Vestina iuventus
Agmina densavit venatu dura ferarum,
Qui, Fiscelle, tuas arces, Pinnamque virentem,
Pascuaque haud tarde redeuntia tondet Avellae.
Da Varrone lo si unì col Tétrico, confermando così che doveva essere dal lato dei Piceni e dei Vestini, nella parte dei Sabini che guardava i Vestini, dove scorre un ramo del fiume Nar (Nera). Seguendo queste indicazioni, il Monte Fiscello è stato riconosciuto in quella parte della costiera che s’erge fra i territori di Leonessa, di Labbro e di Morro, dove si univa alla catena dei monti Tétrici, ed è forse il monte La Pelosa (1647 m.) che domina a N. sul vallone detto di Fuscello, corruzione dell’antico nome.
Quanto ai monti Gúrguri, Varrone parlando dell’antica trasmigrazione dei bestiami dai pascoli di Puglia nell’inverno, a quelli dei monti nell’estate, dice che dalle amene pianure Reatine di qua e di là dal Velino, i muli si menavano nell’estate sugli alti monti Gúrguri: itaque greges ovium longe abiguntur ex Apulia in Samnium aestivatum..... Muli e Rosea campestri aestate exiguntur in Gurgures altos montes. Il Cluverio suppose che questi monti sorgessero verso Norcia, ma l’Olstenio li ha indicati fra Rieti e Leonessa, ove le loro falde ed alture prestano ancor oggi copiosi ed eccellenti pascoli estivi alle greggi: sunt haud dubie montes inter Reate et Leonessam pascuis ovium aestivis per omnem hanc Italiae partem celeberrimi. L’ab. Chaupy poi ne fissò la topografica loro ubicazione presso Poggio Bustone nell’Umbria, fra l’una e l’altra città menzionate dall’Olstenio.
Il Monte Severo poi, sebbene Virgilio lo descriva presso le orride rupi del Tétrico: Qui Tetricae horrentes rupes, montumque Severum, nondimeno il Biondo e Leonardo Alberti lo hanno riposto a Montenegro, e il Cluverio a Norcia: ma l’ab. Chaupy lo ha determinato nei monti di Cantalice, oggi Cima di Monte, monti di Corno e Tilia, divisi dal monte Fiscello dalla sopradetta valle del Fuscello. E sembra che quest’ultima opinione sia la più vera mediante il commento fatto da Servio al verso di Virgilio: Montemque Severum, proprium nomen montis est, sicut agri Roseus. Or si conosce bene che la rosea rura dello stesso poeta si applica alle pianure del fiume Velino e per conseguenza il Severus mons doveva avere base nel suo campo.
Descritto così topograficamente il gruppo del Terminillo, dobbiamo ora descrivere gli itinerari che si possono seguire per salire alla vetta principale. Essi sono sufficienti a dare nello stesso tempo una idea abbastanza esatta di tutto il gruppo.
Da quattro punti principalmente si può incominciare l’ascensione: da Rieti, da Antrodoco, da Sigillo e da Leonessa.
Rieti è la graziosa città Umbra di 16.822 abitanti che siede presso la riva destra del fiume Velino, ai piedi di una collina, in un vasto piano verdeggiante, cosparso di laghetti, fertilissimo, coperto di vigne. La linea ferroviaria che rilega Terni (stazione sulla linea Ancona—Orte—Roma) ad Aquila e Castellamare Adriatico, ha una stazione a Rieti a 41 chilometri da Terni, ed a 63 da Aquila.
Antrodoco è una piccola città bagnata dal fiume Velino, tutta intorno circondata da alte montagne ed addossata al Monte Giano, alto 1826 m. Bella è la sua posizione all’ingresso di parecchie valli ed anguste gole, principali quelle del Velino, che per Sigillo giungono fino a Posta, e quelle di Antrodoco per le quali passa tortuosa la via carrozzabile e la linea ferroviaria a tunnel elicoidali; gole memorande per la strage di circa 4000 francesi commessa nel 1799 dal popolo levatosi in massa.
La strategica posizione di Antrodoco, situato a 490 m. d’altezza, fu riconosciuta dagli antichi Sabini che vi avevano, come indicano le tavole itinerarie, una città, e non un vico, come disse Strabone, Interocrea, nome che accenna alla sua situazione fra i monti.
A difesa della città sorgeva sopra un colle nel medio evo una ròcca, della quale si vedono gli avanzi, che il Muratori nelle sue annotazioni alla «Storia d’Italia» chiama arx munitissima. In essa nell’anno 1231 si rifugiarono Bertoldo, fratello al Duca di Spoleto, il conte dei Marsi ed altri baroni, i quali, aiutati dai cittadini, fecero fronte ai soldati dell’imperatore Federico II fino al sopraggiungere dei soccorsi dei confederati che liberarono la ròcca dall’assedio.
Antrodoco pure ha stazione ferroviaria sulla linea Terni—Aquila—Solmona—Castellamare Adriatico, a km. 65 da Terni, ed a 39 da Aquila.
Nè vogliamo dimenticare, giacchè ci troviamo in questa regione, un’importante luogo degno di visita, situato fra Rieti e Antrodoco, a 5 km. ½ da Cittaducale, a 14 ½ da Rieti e quasi 8 da Antrodoco, vogliamo dire l’antica Cutilia ed il suo lago, ove Varrone pose l’umbilico o il centro d’Italia.
Cotila o Cotilia, riconosciuta nell’odierno borgo di Paterno, è di fondazione remotissima perchè presso di essa dovean trovar pace i Pelasgi, secondo l’antichissimo oracolo di Dodona, inciso al dir di Dionisio d’Alicarnasso in un tripode con caratteri antichi nel tempio di Giove:
Pergite quaerentes Siculum Saturnia rura
Atque Aborigenum Cotylen, ubi se insula vectat
Queis misti, decimas Clario transmittite Phoebo.
Certo è che Cotila fu dapprima in dominio degli Umbri, che ne furono cacciati dai Sabini, i quali la tennero fino ai tempi romani. Cotile è parola greca e sembra derivare dal prossimo lago, detto parimente Cotile, ossia conca o cratere. Questo lago, che è l’odierno Pozzo di Ratignano, vicino ad un altro più grande detto Lago di Paterno, era dai Sabini tenuto sacro alla Vittoria, detta Vacuna in lingua sabina, e custodito con recinti, come inaccessibile. Soltanto in alcuni tempi si facean sacrifizi e coloro che vi convenivano ascendevano all’isoletta coperta di erbe e virgulti, che col diametro di circa 50 piedi emergeva solo un piede e galleggiava nel lago ove spingevala il vento, a somiglianza di quelle isole mobili fatte di pietra pomice, formata certo da concrezioni prodotte dalla natura delle acque.
Presso Cotila sorse poi la villa paterna dell’imperatore Vespasiano, dove questi era solito recarsi nell’estate a godere le fredde acque che intorno vi scorrevano, acque solfuree ed acidule, villa che ei nomò Falacrine a ricordo del vico natale, e dove egli morì, e morì poi anche suo figlio Tito.
Sigillo, situato a 621 m. d’altezza, è un misero borgo, frazione del comune di Posta, che nulla offre d’importante: ma importante è invece la via che vi conduce. Questa via, di recente costruita carrozzabile, si svolge nelle anguste gole dette del Velino dal fiume che vi scorre. Si parte essa da Antrodoco e segue la riva destra del fiume addossata alle falde della giogaia centrale del Terminillo, mentre dal lato opposto sorge dirupato il Monte Giano (1826 m.).
Le gole profonde e strette fra monti dirupati, ammirevoli nella loro varietà e nel loro aspetto, selvaggio sì, ma pur sempre bellissimo, erano percorse dalla antica via Salaria che serviva di comunicazione fra i Sabini e i Sanniti, e si vedono tuttora tracce della via antica e sopratutto i tagli colossali fatti nelle rupi per aprir l’adito alla strada. Sigillo è a circa 10 chilometri da Antrodoco, ma le gole continuano fino quasi a Posta, due chilometri più oltre.
Da Posta il fiume Velino scorre in ampia valle; al di là di Cittareale (12 km. da Posta, 24 da Antrodoco) trova le sue sorgenti nel luogo detto Capo d’Acqua alle falde del monte La Speluca, nella piccola valle di Falacrine, ove a poco meno di 4 km. dall’attuale Cittareale, era l’antico borgo Sabino di Falacrine (altri dicono Phacina), il cui nome è rimasto alla valle, vico celebre nella storia per aver dato i natali a Vespasiano.
Leonessa, graziosa cittadella di 5359 abitanti, elevata 974 m. sul livello del mare, è in un altipiano circondato dai monti che sorgono da un lato sulla valle del Velino, dall’altro sulla valle della Nera, ai piedi del monte Tilia (1779 m.) che negli scrittori è, più correttamente che nelle carte dello I. G. M., denominato Attilia. A piccola distanza corre il fiumicello Corno che si scarica nella Nera. I monti vicini sono coperti di boschi di faggio, di quercie, di cerri, ed offrono ricca caccia di volatili, cinghiali, lepri, volpi, lupi ed anche qualche orso.
Questa cittadella, che fu costruita nel 1252, è menzionata nella storia per esser stata donata da Carlo V alla propria figlia Margherita, quando andò sposa ad Ottavio Farnese: e ricordano quest’epoca un superbo reliquario in argento di squisito lavoro, con lo stemma di casa Farnese, e la fontana fatta edificare da Margherita d’Austria nel 1548, sulla base della quale si leggono i seguenti distici che il tempo comincia a far scomparire:
Dulcior hac nulla est, hac nulla salubrior unda
Monstrorum licet e faucibus illa cadat
Austriacae donum est Divae, quae non modo nobis
Sed docet ingenium milius esse feris.
Leonessa è un luogo veramente alpino per la sua posizione bellissima, per le amene escursioni che offre, per la sua elevazione; ma pur troppo vi mancano tutte le comodità che si rendono indispensabili a chi voglia farvi lungo soggiorno.
A Leonessa adducono varie vie: la via carrozzabile di Antrodoco-Posta-Leonessa, lunga circa 26 km.; la via pure carrozzabile di Rieti-Morro-Leonessa, lunga circa 30 km. e quella che parte da Rieti o da Cittaducale ed è carrozzabile fino a Cantalice, e diventa poi mulattiera lungo il vallone di Cantalice dapprima e poi lungo il vallone del Tascino, ambedue pittoreschi.
Accennati così i principali luoghi dai quali possiamo partire per l’ascensione al Terminillo, vediamo ora le vie che dobbiamo seguire per compierla.
Partendo da Rieti si può scegliere fra due itinerarii: quello per Cantalice e quello per Lisciano.
Cantalice dista da Rieti circa km. 9 di via carrozzabile; Lisciano km. 7, pure di via carrozzabile.
Da Lisciano in direzione di N. si comincia subito a salire sulla costa di Monte Calcarone, poi a circa 850 m. d’altezza si volge, abbandonando le falde del cennato monte, verso E. sempre continuando a salire, per piegare quindi a NE. Volgendo poi verso SE., in due ore e mezzo circa da Lisciano si arriva alla località impropriamente detta Piano dei Faggi, la quale non è che il declivio di un colle, ove sgorga, in una serie di trogoli scavati nei tronchi d’albero e l’uno all’altro sovrapposti, una sorgente di limpida, fresca ed eccellente acqua. Maestosi faggi stendono i loro rami in tutte le direzioni. Si sale dipoi ad una specie di colle che è quasi un contrafforte del monte, e dopo una ripida salita si scoprono le prime rocce del Terminillo, tutte a picco, interrotte qua e là d’estate da piccoli nevai. Si trovano quindi vari pozzi di neve ed in 6 ore circa da Lisciano si giunge alla vetta del Terminilletto, denominazione omessa nella carta dell’Istituto Geografico Militare e che alcuni impropriamente denominano Terminillo, per dare il nome di Sassatelli alla cima più elevata, mentre il nome di Sassatelli spetta ad una punta alta 2079 m. che è sulla cresta che si parte in direzione di NO. dalla cresta più alta.
Dal Terminilletto (2108 m.) occorre un’ora (d’estate) per giungere al Terminillo (2213 m.) e la via, che presenta d’inverno difficoltà fortissime, tanto da dare il carattere di vera ascensione alpina di prim’ordine a questa del Terminillo, d’estate offre una piacevole e variata arrampicata non priva di emozioni.
Dal Terminilletto occorre discendere per un certo tratto sopra una cresta sottile di roccia frantumata che forma lo spartiacque dei due ripidissimi pendii del monte: qua e là sorgono spuntoni di roccia compatta che bisogna girare o attraversare; poi, dopo percorsa la lunga cresta, si sale ripidamente su per lungo dorso roccioso, per giungere al segnale trigonometrico elevato dall’Istituto Geografico Militare.
Sono in tutto 7 ore da Lisciano per la salita: per la discesa saranno bastanti 4, d’estate ben inteso. D’inverno è ben difficile fare un calcolo; tutto dipenderà dallo stato della neve. Io partito una volta d’inverno da Antrodoco alle 4,50 ant., non giunsi sulla vetta che alle 4,15 pom. avendo dovuto impiegare quasi tre ore e mezzo per passare dalla vetta del Terminilletto a quella del Terminillo.
Da Cantalice (680 m.) lasciando a sinistra il vallone omonimo, si esce in direzione di NE. per un sentiero che conduce al colle Varco (950 m.): quindi costeggiando a S. il colle Accuni (1218 m.), per un sentiero tutto sassoso attraverso alcune collinette si arriva al disopra del vallone di Tagliata, si piega a SE., si scende al vallone, si sale al di là verso il fosso delle Rocchette e quindi per un’erto pendio fra boschi si giunge alla cresta SE.-NO. che è fra Sassatelli (2079 m.) e il Terminillo (2213 m.). Anche questa cresta o schiena del monte, come quella NE. descritta, è molto irregolare e conviene ora salire, ora scendere, ora arrampicarsi su rocce; è però più breve e quindi più presto si arriva all’ultimo cono.
Da Cantalice occorrono circa 8 ore per l’ascensione e 5 per la discesa, nella stagione estiva.
Da Antrodoco si prende un sentiero che, attraverso una pittoresca zona di castagni, pel casale Manetti, conduce fino a monte Oro (1580 m.) e quindi ad una fontana detta fonte Corcina. Superata poi la zona dei faggi, si arriva alla regione più elevata e scoperta detta Campo Forogna (1751 m.) e quindi a Prato Comune, acrócori ondulati su cui si elevano i cocuzzoli e le erte rupi del monte. Si sale quindi al Terminilletto e da questo, per la via già descritta nell’itinerario da Lisciano, si arriva al Terminillo.
Anche da Antrodoco occorrono circa 7 ore per la salita e 4 per la discesa.
Da Leonessa (974 m.) si esce a SE. e si entra nella stretta gola dove scorre il fosso Tascino, dapprima fra i monti di Corno (1738 m.) a destra e della Croce (1873 m.) a sinistra, poi fra i monti La Tavola (1695 m.) e Catabio. Dopo un lungo percorso, là ove sbocca il sentiero che viene da Cantalice, la gola piega verso E. ed assume il nome di Valle Vallonina; più innanzi volge verso S.: siamo nel pittoresco bosco Vallonina e passando per le ruine di un convento (1175 m.) si sale su pel bosco verso il vallone della Meta. Si giunge così in un bacino (1500 m.) contornato dalle punte del masso centrale del Terminillo. Qui due vie si presentano: o prendere a destra in direzione SO. uno degli aspri e rocciosi canaloni che adducono alla cresta (2014 m.) fra Sassatelli e Terminillo sopra descritta, via pittoresca ma più faticosa, oppure proseguire in direzione SE. per la regione Costa Gioiosa, girare le rocce che scendono dalla lunga cresta rocciosa che si stacca dal monte i Porcini (2081 m.), da altri detto Pozzone, in direzione NS. e salire per l’erto pendio orientale dell’ultimo cono.
Anche da Leonessa si possono nella stagione estiva calcolare 7 ore per la salita e 5 per la discesa.
Aspra è la via da Sigillo per il Terminillo ed io che la percorsi in discesa, ne tornai coi piedi massacrati e le gambe rotte; è però molto pittoresca e sarebbe preferibile seguire questo itinerario in salita anzichè in discesa. La via segue il torrente di Valle Scura che s’apre a occidente del villaggio. La lunghissima valle, pittoresca per la sua varietà ed i suoi monti rocciosi, s’arresta (1200 m.) di fronte ad una ripida parete rocciosa a scaglioni, che costituisce il versante orientale della più volte accennata cresta che parte dal monte i Porcini. Bisogna arrampicarsi su per gli scaglioni della parete seguendo un’erto e dirupato sentiero. Si giunge così a 1965 m. e per pascoli e quindi per rocce si arriva al Terminillo per la seconda delle vie accennate nell’itinerario da Leonessa.
Da Sigillo l’ascensione richiede 6 ore in salita e 4 in discesa.
Descritti gli itinerari per salire alla vetta del monte, diamo uno sguardo al panorama che, se abbiamo fortuna di una serena e limpida giornata, esso offre alla nostra vista. La felice posizione del Terminillo dà agio di scorgere lunga distesa del Mediterraneo da un lato ed un breve tratto dell’Adriatico dall’altro. A N. si ha la cresta dei monti che divide l’Abruzzo dall’Umbria da Monte Pizzuto a Monte Carpellone e un poco verso E. il bellissimo gruppo dei Sibillini con Monte Vettore (2477 m.) e Monte Sibilla. Ad O. il verdeggiante piano di Rieti con i vaghi suoi laghetti ed al di là i monti dell’Umbria, principale di questi il Monte S. Pancrazio; a SO. oltre i colli Umbri nei quali primeggia la Tancia, la valle del Tevere e fino al mare Mediterraneo la campagna Romana, nella quale con un buon cannocchiale si distingue facilmente la città Eterna. Al S., dopo i colli Umbri che sorgono a mezzodì di Rieti e circondano Rocca Sinibalda, i monti della provincia Romana, i Simbruini, i Prenestini, gli Ernici. A SO. imponente sovra tutti il gruppo del Velino (2487 m.) che domina l’ampio bacino del Fucino, ed il Sirente (2349 m.). Ad E. il gigante dell’Apennino, il Gran Sasso d’Italia con le varie sue punte, Corno Grande (2921 m.), Corno Piccolo (2637 m.), Pizzo Cefalone (2532 m.) e Pizzo d’Intermesole (2646 m.). A NE. i monti della Laga col Pizzo di Sevo (2422 m.) e Pizzo di Moscio (2411 m.), al disopra di Amatrice. In una insenatura fra i monti della Laga ed il Gran Sasso una striscia azzurra indica il mare Adriatico.
Questo nelle sue linee generali il vasto ed interessante panorama abbellito dal verde dei piani, dalle cupe rocce sottostanti, dagli estesi campi di nevi sempiterne, dalle valli intersecanti in tutti i sensi l’esteso territorio, dai numerosi paesi situati sui colli, nelle pianure, nelle vallate, fino alla città dominatrice del mondo.
Ecco il gruppo degno d’essere studiato e percorso, che d’estate offre piacevoli passeggiate, d’inverno difficili salite, ecco il monte ardito e bello che reclama un Rifugio che ne renda più facile la lunga salita e più agevole lo studio.
Dott. Enrico Abbate (Sezione di Roma).
Ghiacciai di Valletta, di Patrì e ramo nord di Money, fra la Punta Vermiana e il Grand St.-Pierre
Ghiacciai di Valletta, di Patrì e ramo nord di Money, fra la Punta Vermiana e il Grand St.-Pierre Da una fotografia dell’ing. A. Druetti presa dal Colle Sud dell’Herbetet.
Il Gruppo del Terminillo. Schizzo topografico ricavato dalle pubblicazioni dell’Istituto Geografico Militare
Il Gruppo del Terminillo. Schizzo topografico ricavato dalle pubblicazioni dell’Istituto Geografico Militare
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Osservazioni sui Ghiacciai del Gruppo del Gran Paradiso.
All’appello rivolto dalla Commissione nominata dalla Sede Centrale del C. A. I.[64] a tutti i volonterosi perchè facessero ricerche atte a fornire elementi per lo studio del movimento dei ghiacciai, noi rispondemmo accingendoci con premura e con la massima buona volontà a compiere una campagna glaciologica nel gruppo del Gran Paradiso.
Nelle pagine seguenti rendiamo pertanto ragione delle poche osservazioni che vi potemmo fare, dolenti che alla nostra buona volontà non fossero adeguati nè i mezzi di cui potevamo disporre, nè la capacità. L’esperienza d’un anno ci ha insegnato molte cose, delle quali profittando, nutriamo fiducia di poter fare assai più e molto meglio in avvenire.
Per quanto siamo noi stessi convinti della pochezza dell’opera nostra, pur tuttavia ci siamo decisi a fare la presente pubblicazione e per corrispondere al gentile invito della Direzione Centrale del C. A. I. e perchè l’esempio nostro serva di sprone e decida altri più capaci e meglio forniti dei mezzi necessari a dedicare l’opera loro ad uno studio sulla cui importanza è qui inutile di insistere.
Serva poi a tutti di stimolo, quanto su questo argomento s’è fatto all’estero, in Germania, in Svizzera, in Francia, per impulso specialmente del prof. Forel, del sig. Marshall, del prof. Kilian, del principe Orlando Bonaparte.
I.
Per uno studio sistematico e razionale dei ghiacciai, il Gruppo del Gran Paradiso si presta mirabilmente in virtù della svariata sua configurazione orografica, della entità variabilissima dei suoi ghiacciai dall’umile vedretta alle enormi fiumane di ghiaccio, e dell’orientazione loro in ogni senso. Tutte queste condizioni mutabili da luogo a luogo, possono anche rendere meglio attendibili le conclusioni che si potranno ricavare circa l’influenza loro specifica sul regime dei ghiacciai a parità d’un altro fattore la cui influenza è per ora poco nota, ma che, certamente non trascurabile, merita d’essere studiata; cioè la natura litologica dei bacini alimentanti ed incassanti. Ed una tale ricerca riesce specialmente possibile nel gruppo del Gran Paradiso dove le vette, le creste e i valloni che più strettamente dipendono da quell’eccelsa cima o ad essa fanno corona, presentano una grande uniformità di costituzione litologica, appartenendo tutti per buon tratto all’intorno (specialmente verso sud e verso est) alla formazione prepaleozoica inferiore, al così detto gneiss centrale.
D’altra parte se il mutar della litologia d’una regione può esercitare influenza sul regime dei suoi ghiacciai, tale influenza può essere ricercata nelle vicine regioni più a nord e a nord-est dove emergono la Grìvola, la Tersiva, la Rosa de’ Banchi, ecc., nelle quali regioni si frammischiano con grande varietà i gneiss recenti e tabulari, i micascisti, i calcescisti, le quarziti ed i calcari cristallini, con le serpentine e rocce affini e con le numerose varietà di rocce anfiboliche, rocce tutte ascritte alla formazione prepaleozoica superiore.
Nella scelta da noi fatta di quella località per eseguirvi le nostre modeste osservazioni, fummo poi insperatamente felici per avervi trovato in alcuni punti dei dati preziosi e sicuri sul fenomeno glaciale locale, i quali ci permettono di ricostruire con certezza le sue vicende risalendo fino a parecchie diecine d’anni addietro.
Non è còmpito nostro dilungarci a descrivere una regione classica per l’alpinismo, molto nota e già da molti e valenti minutamente descritta; basteranno pertanto alcuni brevi cenni.
Il gruppo del Gran Paradiso, fra la Valle della Dora Baltea e la Valle dell’Orco, è costituito da un’ellissoide o nocciolo interno di gneiss centrale, rivestito tutt’intorno dalla numerosa famiglia di rocce appartenenti all’arcaico superiore o zona delle pietre verdi. La direzione del suo asse di sollevamento è all’incirca quella di SO.-NE. Un solco profondo, scavato dapprima e per breve tratto in direzione da nord a sud, quindi volgente verso sud-est, ed infine decisamente verso est, separa il gruppo del Gran Paradiso propriamente detto dalla Valle d’Aosta, interponendovi quel gruppo di montagne che si riannodano al Monte Æmilius (3559 m.) ed alla Tersiva (3513). Questo solco è costituito dalla valle di Cogne ad ovest e da quella di Champorcher ad est, spioventi dal comun colle della Finestra di Champorcher (2838 m. carta I. G. M. e 2826 carta Paganini) fra la Tersiva e la Rosa dei Banchi (3164).
L’anticlinale degli strati non passa per la massima elevazione del Gran Paradiso (4061), ma più in basso per il Becco della Tribolazione (3360), con un leggero ribaltamento verso sud-est, ciò che concorda col fatto della maggior inclinazione degli strati sul versante nord-est dell’ellissoide in confronto di quella degli strati sull’opposto versante nord-ovest[65].
Verso est il gruppo del Gran Paradiso vien limitato dalla Valle Soana che vi raggiunge l’elevata cresta Ondezzana-Lavina-Rosa de’ Banchi colle sue ultime ramificazioni di Forzo e di Campiglia, mentre la Valsavaranche limita verso ovest le formazioni montuose direttamente dipendenti dal Gran Paradiso.
Nei primi tentativi di uno studio sistematico dei ghiacciai da noi fatti l’anno scorso, abbiamo limitato le nostre osservazioni al bacino alimentante i valloni confluenti nella Valle di Cogne.
Questa penetra nel cuore del gruppo del Gran Paradiso e ne raggiunge le più elevate altezze insinuandovisi coi tre valloni di Bardoney, di Valeille e di Valnontey, dei quali quest’ultimo è il più importante.
Questi tre valloni si staccano quasi normalmente dalla Valle di Cogne, e penetrano nell’ellissoide del Gran Paradiso tagliando in direzione normale alla stratificazione, dapprima le rocce dell’arcaico superiore che fasciano tutt’intorno il gneiss centrale e poscia nella loro parte superiore quest’ultima formazione. Essi sono pertanto valloni di chiusa o d’erosione, a fianchi tanto più ripidi e dirupati quanto più la condizione della detta normalità è verificata, come appare dal confronto del vallone di Valeille, a fianchi ripidissimi, con quello di Valnontey, e del tronco inferiore di questo, normale alle formazioni arcaiche superiori, col suo tronco superiore scavato nel gneiss centrale alle cui stratificazioni riesce alquanto obliquo[66].
Le creste che contornano e separano questi valloni sono una lunga e numerosa serie di gigantesche muraglie sormontate da griglie e picchi arditissimi formanti degna corona al gran gigante delle Alpi totalmente italiano.
E così, da est procedendo verso ovest percorrendo la cresta spartiacque fra le valli della Dora Baltea e quelle dell’Orco, si incontrano:
La Punta Lavina (3308), la Grand’Arolla (3302), la Punta Sengie (3408), la Punta Ondezzana (3482), il Grand St.-Pierre (3692).
Dalla Grand’Arolla e dal Grand St.-Pierre si dipartono, in direzione da sud a nord, due catene che separano, la prima il vallone di Bardoney da quello di Valeille con la roccia Chesere (3118); la seconda questo vallone da quello di Valnontey con la Tour St.-André (3650), la Tour St.-Ours (3630), la Punta Patrì (3583), la Punta Cisseta (3417), la Punta Valletta (3375), la Punta Vermiana (3250) e la Punta Fenilia (3054).
Riprendendo l’interrotto cammino sulla cresta, dopo il Grand St.-Pierre s’incontrano la Testa di Money (3564), il Becco della Pazienza (3552), la Roccia Viva (3650), la Becca di Gay (3670), la Testa di Valnontey (3543), la Testa della Tribolazione (3642), la Punta di Ceresole (3773), la Cresta Castaldi (3862), la Becca di Moncorvé (3865) e finalmente il Gran Paradiso (4061).
Da quest’eccelsa altezza la cresta volge a nord separando il vallone di Valnontey dalla Valsavaranche, e vi si riscontrano ancora picchi arditissimi e piramidi gigantesche. Si succedono con ordine da sud a nord: il Piccolo Paradiso (3920), la Becca di Montandeyné (3850), le Punte Budden (3704-3687), l’Herbetet (3778); quindi il Grand Sertz (3510), la Punta del Tuf (3416), la Punta Timorion (3029), la Punta dell’Inferno (3384), e si arriva al Colle del Lauzon (3301), oltrepassato il quale un nuovo gruppo d’altissime vette s’affaccia, mentre che dal Colle di Pian Tsalende (3283) si distacca da ovest verso est la Costa della Vermiana a chiudere la Valnontey di fronte all’omonimo villaggio, separando il vallone del Lauzon da quello del Pousset. Del nuovo gruppo sovraccennato la prima vetta che s’incontra è la Punta Nera (3692), con a destra la Punta Rossa (3652) ed a sinistra la Punta Bianca (3801), donde s’arriva alla svelta piramide della Grìvola (3969). Dal gruppo della Grìvola discendono alla valle di Cogne tre valloni: quello del Pousset che sbocca a Crétaz; quello di Trajo che sbocca di fronte ad Epinel, e quello di Nomenon che scende su Silvenoire.
Le numerose vette nominate non sono che parte delle numerosissime che rendono interessante e tanto caro agli alpinisti il gruppo del Gran Paradiso.
Nell’epoca glaciale, quando in causa delle grandi precipitazioni ed accumulazioni nevose sulle Alpi successe la massima espansione di ghiacciai che diede luogo all’invasione glaciale fin nella Valle Padana, il gruppo del Gran Paradiso funzionò esso pure da grande accumulatore di ghiaccio e contribuì potentemente all’alimentazione e alla discesa alla pianura dell’unico immane ghiacciaio della Valle d’Aosta.
Coll’osservazione delle roccie lisciate, striate ed arrotondate, e dei più elevati lembi morenici dal ghiacciaio abbandonati su per i fianchi della valle, possiamo ricostruire l’entità e l’andamento del fenomeno glaciale ed immaginarci il grandioso spettacolo presentato da quell’immenso mare di ghiaccio dalla cui superficie emergevano, sotto forma di isole acuminate, allungate o tondeggianti, parte delle costiere e le vette sovranominate. I ghiacciai discendenti dai valloni di Grauson, d’Urtier, di Bardoney, di Valeille si riunivano a Cogne con quello maggiore di Valnontey, e, rinforzati ancora da quelli minori d’Arpisson sulla destra, del Pousset, del Trajo e di Nomenon sulla sinistra, costituivano il gran ghiacciaio della Valle di Cogne. Questo ghiacciaio a Cogne poteva raggiungere l’altitudine di circa 1800 metri (Cogne è a 1534) con una potenza di più che 250 metri. Unendo con una retta il punto sulla verticale di Cogne all’altitudine di 1800 m. con le parti più elevate dell’attuale ghiacciaio della Tribolazione a 3800 m. d’altitudine circa, si può ritenere che tale retta rappresenti la linea di massima pendenza del ghiacciaio di Valnontey nell’epoca della sua massima entità. Per tale dislivello di 2000 m. circa e per la distanza orizzontale di circa 12.500, la pendenza di tale linea risulta approssimativamente del 16 p.%.
Abbiamo così gli elementi per formarci un’idea di quell’immensa superficie ghiacciata, sulla quale, cadendo un macigno di gneiss centrale staccatosi dalla suprema vetta del Gran Paradiso, poteva, per il moto d’avanzamento del ghiacciaio, essere trasportato per la Valnontey, la Valle di Cogne e la Valle di Aosta alla fronte estrema del gran ghiacciaio della Valle d’Aosta, e, dopo un percorso di 120 chilometri circa, venir deposto con altri compagni di viaggio di diversa provenienza nella morena frontale di Candia, Caluso, Mazzè, ecc. Se si ammette per quel ghiacciaio una media velocità di avanzamento di 150 metri all’anno, per compiere tale percorso quel macigno avrebbe dovuto impiegare non meno di 800 anni.
Venuta meno l’intensità del fenomeno glaciale per l’aumentata trasparenza dell’atmosfera[67] e conseguente diminuzione delle precipitazioni nevose, i ghiacciai, per mancanza di nutrizione, dovettero retrocedere, ritirandosi poco a poco entro le valli alpine, restringendo sempre più il loro dominio intorno alle grandi altitudini, dove ora si trovano confinati. Delle vicende della loro ritirata, fattasi talora con lunghe fermate, e talvolta anche con deboli tentativi di nuovi avanzamenti, lasciarono numerosi segni, come già del loro avanzamento, nei cordoni morenici, livellamenti di fondo di valli, bacini lacustri, ecc.
Il ghiacciaio della Valle di Cogne di mano in mano che retrocedeva si distaccava dai suoi confluenti, si scindeva cioè nei suoi diversi costituenti ritirantisi ciascuno nel proprio vallone. Si osservano pertanto depositi morenici, alcuni caratteristici e ben conservati in molte località. Staccatosi il ghiacciaio della Valle di Cogne dal gran ghiacciaio della Valle d’Aosta, depositò una morena frontale a Pont d’El ed altra morena a Vièyes. Abbandonato quindi il ghiacciaio del vallone del Gran Nomenon che ritirandosi lasciò la morena di Pian Pessey, ammantava di depositi morenici molti punti di quel tratto di valle, quali Silvenoire, Senagy, Pian Bois, Sisoret, vallone di Tzasèche.
Analogamente successe nel vallone del Trajo, dove il suo ghiacciaio ritirandosi lasciò le morene di Grangette e Chinaz, ed il ghiacciaio principale costrusse quelle di Géofré e Pianesse, mentre addossava sul versante opposto della valle, ad Epinel, un ammanto morenico in cui il torrente d’Arpisson scavò il suo sbocco nella Grand’Eyvia.
Ad Epinel la valle s’allarga a costituire un vero bacino, l’incantevole bacino di Cogne, che si prolunga per 7 chilometri fino a Lilla; in questo bacino l’accumulazione dei detriti morenici raggiunse un altissimo valore, naturale conseguenza delle condizioni orografiche locali preesistenti, le quali vennero qui notevolmente modificate dal fenomeno glaciale, per la sovrapposizione di imponenti formazioni moreniche.
A Cogne infatti si riunivano in un’unica corrente, i ghiacciai d’Urtier, di Bardoney, di Valeille, di Valnontey e di Grauson, accumulando ivi un’enorme quantità di ghiaccio ricco di materiale morenico. Per l’allargata sezione e per il brusco cambiamento di direzione dovuto subire dalla grande corrente proveniente dalla Valnontey, si produsse un vero ristagno nella massa di ghiaccio premente contro il pendio di Gimilian, quasi un rigurgito con sopraelevazione di pelo. Approssimativamente possiamo anche calcolare che la massa glaciale addensatasi nel bacino fra le seguenti località: sul dorso di Moncuc, sopra Buttier, Rubat, il Ronc, Les Ors, e passando sul versante destro a valle di Crétaz e rimontando il versante stesso per Gimilian e Moline, avesse circa 4 chilometri quadrati di superficie, che per una potenza di 250 metri dànno un miliardo di metri cubi di ghiaccio.
È facile comprendere quale enorme quantità di detriti rocciosi una così colossale massa dovesse rinchiudere nel suo seno e quale ricchezza di morene dovesse portare sulla sua superficie.
Benchè in ragione minore, qualche cosa di analogo successe pure superiormente, cioè alla confluenza dei ghiacciai di Valeille e di Urtier a Lilla.
Si spiega quindi facilmente come lunghissimo debba essere stato il tempo di regresso del ghiacciaio da Epinel fino a Cogne e a Lilla, e si comprende come difficile e lungo sia stato il lavorìo d’ablazione necessario per distaccare l’uno dall’altro i ghiacciai di Valnontey, Urtier, Bardoney, Valeille e Grauson, quasi che «compagni fino allora ed uniti solidariamente in una sola fiumana di ghiaccio, si peritassero a separarsi per rimontare nei loro rispettivi bacini», come con frase felice si esprime il Baretti nei suoi «Studi Geologici sul Gruppo del Gran Paradiso».
Ecco pertanto come per spiegare un maggior attardarsi di ghiacciai nel bacino di Cogne durante il periodo di regresso, non sia nemmeno necessario ricorrere ad un vero periodo d’arresto nell’indietreggiamento, cioè ad una diminuzione del valore del rapporto fra la velocità di fusione e quella di alimentazione dei ghiacciai stessi.
Basta insomma considerare che può essere successo per quel ghiacciaio qualche cosa di paragonabile a ciò che vediamo succedere per un fiume in piena attraversante un grosso lago, e che il Lombardoni chiamò il potere moderatore dei laghi, quando all’ altezza di piena del fiume si sostituisca la velocità di regresso nel ghiacciaio. Ammessa l’uguaglianza in una data piena fra la portata integrale d’un fiume immittente in un lago e quella integrale dell’emissario, si sa che per questo l’altezza di piena è minore e la sua durata è maggiore rispettivamente all’altezza e alla durata della piena del fiume immittente. Così nel periodo di ritiro d’un ghiacciaio, ammessa costante la velocità di fusione, se vi ha un maggior addensamento di ghiaccio in una espansione valliva, a quella corrisponde una minor velocità di regresso della fronte del ghiacciaio, epperciò una maggior permanenza del ghiacciaio sul luogo.
L’accumulazione di depositi morenici raggiunse adunque la massima entità lungo tutto il versante destro da Epinel a Gimilian, dove venivano ad urtare e confondersi le principali morene discendenti dalla Valnontey con quelle d’Urtier, originandovi un immenso accumulo caotico prima di risvoltare quasi ad angolo retto per discendere lungo la valle.
Pertanto lungo quel tratto di versante le condizioni orografiche locali, combinate colla meccanica dei ghiacciai, facilitavano il depositarsi d’un poderoso mantello morenico durante tutto il periodo d’avanzamento del ghiacciaio e del suo regresso fino al punto in questione: così pure, sul dorso arrotondato di Moncuc, alla confluenza dei due ghiacciai e sul versante opposto Moline-Champlong, mentre minore doveva riuscire l’entità della deposizione morenica sul versante sinistro Buttier, Rubat, il Ronc, Les Ors, Le Fontane, Recougier, dove esercitavano un potere assai limitato i valloni del Pousset e del Lauzon.
Nel periodo adunque della massima potenzialità glaciale, il deposito morenico di Gimilian assunse per un certo tempo il carattere di morena d’ostacolo o di rivestimento.
Ma la massima deposizione morenica si verificò evidentemente dal momento in cui, ritirandosi quei ghiacciai, essi vennero ad avere la loro comune fronte nel bacino di Cogne, quando cioè tutte le loro morene vennero a confondersi in un unico, esteso e potentissimo deposito frontale.
Staccatosi finalmente il ghiacciaio di Valnontey da quello di Urtier-Bardoney-Valeille, il primo, come quello più poderoso, continuò ad occupare il bacino di Cogne, mentre il secondo ritiravasi sempre più su Lilla riempiendo quel tronco di valle di deposito morenico. Ed intanto il ghiacciaio di Grauson, rimontando il suo vallone, vi costruiva la bella morena che sulla sua destra da Gemilian per Terrabouc e Monro arriva fino all’alpe Pila, e sulla sinistra l’altra che discende a Moline.
È caratteristico il deposito morenico che alle falde di Moncuc costituisce l’attuale Piano di Selva Nera sulla sinistra della valle, il quale è «un tratto di terreno pianeggiante diretto da nord-ovest a sud-est, di larghezza variabile fra 200 e 300 metri, di 3 chilometri circa di lunghezza, e leggermente inclinato verso un secondo bacino, a monte di Cogne, nel quale giace il villaggio di Lilaz (m. 1607), allo sbocco dei valloni di Valeille e di Urtier; l’inclinazione è quindi in senso opposto a quella del tratto di valle compreso fra Cogne e Lilaz[68] ». Quest’altipiano, secondo il dott. F. Virgilio, sarebbe stato un tempo il fondo d’un lago formatosi per sbarramento glaciale «originato durante la fase di regresso del periodo glaciale dell’antico ghiacciaio di Valnontey, il quale, rimasto ad occupare colla sua parte terminale per un certo tempo il bacino di Cogne, formò barriera insieme colle sue morene laterale destra e frontale al libero defluire delle acque di fusione dei ghiacciai in ritiro di Grauson, d’Urtier, di Acquarossa, di Bardoney e di Valeille[69] », il quale lago si sarebbe poi vuotato in seguito allo sbrecciamento del morenico presso Moline per l’azione erodente delle acque.
Di tale opinione non è il prof. M. Baretti, il quale così obbietta: «Quando nel ritiro i ghiacciai di Grauson, di Urtier, di Bardoney, di Valeiglia, si confinarono nelle rispettive valli, l’ammasso morenico da essi accumulato allo sbocco del bacino di Cogne, potè aver trattenuto le acque nel bacino di Lilaz fino a sventramento dell’ostacolo morenico di Moline; un piccolo lago glaciale si sarà formato a Lilaz, ma non fino a Moline, come pare abbia immaginato in un suo lavoro il dott. Virgilio, giacchè il solco di valle fu completamente riempito dal morenico, tanto che il torrente fu poi obbligato ad aprirsi la via tra le rocce di destra ed il morenico; se lago allungato fosse esistito, esso avrebbe occupato gran parte del solco di valle in senso trasversale, ed il torrente, dopo svuotato il lago, avrebbe percorso un tratto pianeggiante verso il mezzo di detto solco. Se lago esistette, questo fu solo rispondentemente al piccolo bacino di Lilaz, e quindi in iscala molto ridotta a petto dei veri laghi glaciali, come quello di Combal ed altri[70] ».
Queste obbiezioni all’ipotesi del dott. Virgilio non ci paiono sufficienti per escludere la possibilità che nel tronco di valle a monte di Cogne fino a Lilla si fosse formato un notevole lago per sbarramento glaciale. Anzi, l’osservazione delle condizioni locali ci rende favorevoli a detta ipotesi.
Quando avvenne il distacco dal ghiacciaio di Valnontey, di quelli di Grauson da solo, e di quelli d’Urtier, di Bardoney e di Valeille, ancora uniti in un unico ghiacciaio, diminuì in questo l’elevazione della superficie superiore della sua fronte in confronto di quello di Valnontey sbarrante la valle, essendo cessata la causa del suo rigurgito che ne sopraelevava la superficie; inoltre, la sua potenza essendo minore di quella del Valnontey, anche minore doveva riuscirne il deposito morenico. Per conseguenza la superficie del deposito morenico caotico che occupò tutto il solco di valle superiormente a Cogne fino a Lilla, risultò di livello più basso della gran diga formata dal ghiacciaio di Valnontey e dalla sua potentissima morena laterale destra e terminale da Moncuc a Moline. Inoltre, il depositarsi di questa lungo il piede del ghiacciaio intercluse sul fondo della valle il corso delle acque di fusione dei ghiacciai superiori, obbligando queste a ristagnare, innalzarsi e costituirsi in lago.
Se si ammette che il deposito morenico lasciato dai ghiacciai ritiratisi a Lilla raggiungesse l’altitudine di 1700 (se poco più o se meno, non resta infirmato il ragionamento), la sua superficie orizzontale coperta dalle acque del lago, aveva un’estensione in senso trasversale di circa un chilometro, ed il torrente, dopo svuotato il lago, percorreva appunto un tratto pianeggiante verso il mezzo del deposito, tale essendo anche ora la posizione del suo percorso, cioè all’incirca a metà distanza orizzontale fra le curve di livello 1700 e 1800 dei due fianchi della valle. Più sottile e poggiante su pendio più ripido, il manto morenico di destra più facilmente franò in parecchi tratti mettendo a nudo la sottostante roccia. Ritirandosi esso pure il ghiacciaio di Valnontey, e battuta in breccia la sua morena terminale dal torrente Grauson presso Moline, in questo punto s’incise sempre più profondo lo sbocco alle acque provenienti dalla valle superiore, per cui si può ben dire che il torrente, dopo svuotatosi il lago, ne percorse il fondo verso il mezzo abbassandosi quasi verticalmente, senza cioè dar luogo a notevoli divagazioni laterali.
A dare maggior elevazione al piano di Selva Nera nella sua parte a valle contribuì anche la maggior quantità di detrito morenico contenuto nella maggior altezza posseduta ivi dal ghiacciaio per il sovraccennato rigurgito. Quel lago avrebbe coperto una superficie di circa 3 km. di lunghezza per 1 di larghezza.
Perdurando le cause del ritiro dei ghiacciai; anche il gran ghiacciaio di Valnontey abbandonò il bacino di Cogne ritirandosi nel suo vallone, ed il ghiacciaio ricoprente il piano di Lilla si separò anch’esso nelle diverse correnti di Valeille, Bardoney e Urtier ritirantisi esse pure nei rispettivi valloni. Le morene abbandonate in questo ritiro sono numerose, alcune assai potenti e ben conservate; così sono abbondanti i depositi morenici presso Lilla, come quello a monte del villaggio formato dalla confluenza delle due correnti di ghiaccio ivi convergenti; così pure è degna di nota la bella morena frontale dalla sottile cresta lasciata al Crêt dal ghiacciaio d’Urtier dopo separatosi da quello di Bardoney e d’Acquarossa.
Nel vallone di Valnontey sono pure numerose le morene antiche, alcune ammantate di belle pinete; le più belle si osservano a Reppiaz, Babein, Bova, Valnontey, Persipia, sopra Vermiana, ecc.
Oltre che dai depositi morenici, il passaggio dei ghiacciai è rivelato da numerose rocce arrotondate, levigate, striate, che si possono osservare ad ogni passo e che attestano della grande potenza del fenomeno glaciale.
Risalendo i valloni, l’aspetto del terreno va modificandosi gradatamente: le morene ricoperte da folta vegetazione con piante di alto fusto cedono il posto ad altre sulle quali la vegetazione va man mano diminuendo; agli alti alberi sottentrano i cespugli, agli ubertosi pascoli, freschi per copia d’acque, ne succedono altri a rare zolle, che poi si trasformano in aride ondulazioni di terreno su cui stentatamente allignano magre pianticelle d’erbe alpine.
Il viandante si trova quindi a camminare su un terreno dovunque sassoso, dal quale sui fianchi della valle fanno capolino spuntoni di roccia che più in alto si convertono in balze e rupi scoscese; quel terreno solcato in fondo alla valle dai divaganti torrentelli è comunque rimaneggiato e chiaramente dimostra formare il campo delle incursioni torrentizie; lateralmente e verso il termine della valle gli accumuli di ciottoli assumono forme ben distinte di cordoni regolari taluni molto allungati, altri arcuati oppure coniformi. Questi cordoni, sbrecciati in alcuni punti da qualche torrente che discende al thalweg della valle, si succedono l’un l’altro, si sovrappongono e si continuano fino allo sfondo della valle stessa dove si addossano alle rupi che la chiudono, attorniano le fronti dei ghiacciai che maestosi ne scavalcano le balze: su questi si arrampicano e si continuano lateralmente sulla loro superficie, sulla quale si perdono poi nelle più elevate altezze.
Così insensibilmente le morene antiche hanno ceduto il campo alle attuali, a quelle che vengono alimentate sotto i nostri occhi dagli attuali ghiacciai, che noi vediamo consolidarsi là dove i ghiacciai sono stazionari od in regresso, che noi vediamo rimosse e trasportate in avanti ed anche distrutte là dove i ghiacciai riprendono ad avanzarsi.
E questi ghiacciai, un tempo già così potenti, noi vediamo aver abbandonato non la gran valle soltanto, ma eziandio i rispettivi valloni, e per ritrovarli, dobbiamo risalire alle loro estremità superiori, alle loro ultime ramificazioni. Alcuni sono del tutto scomparsi, altri si sono trasformati in modeste vedrette, altri hanno sopravvissuto, e benchè non molto numerosi, sonvene nonpertanto ancora parecchi che presentano delle importanti masse che ricoprono parecchi chilometri quadrati di superficie, con un dislivello di più che un chilometro.
Nella regione di cui ci occupiamo sonvi attualmente i seguenti ghiacciai i quali mandano la loro acqua nella Valle di Cogne:
discendenti dalla Grìvola: il ghiacciaio di Nomenon nel vallone omonimo discendente a Vièyes, e quello del Trajo nel vallone discendente di fronte ad Épinel;
nella Valnontey: il piccolo ghiacciaio di Rayes Noires immittente nel vallone di Lauzon; il ghiacciaio di Lauzon con due piccoli ghiacciai sulla sua sinistra (questo ghiacciaio si divide in due rami, quello sinistro versa nel vallone di Lauzon, quello destro versa invece nel vallone di Gran Valle e viene anche detto ghiacciaio di Grand Sertz); il ghiacciaio dell’Herbetet, il ghiacciaio di Dzasset, il colossale ghiacciaio della Tribolazione, il ghiacciaio di Grand Croux, quello imponente di Money, quello di Patrì e quello di Valletta;
nella Valeille: il ghiacciaio di Valeille, quello delle Sengie, e quello di Arolla;
nel vallone di Bardoney: il ghiacciaio di Bardoney e quelli di Lavina;
nel vallone d’Urtier: il ghiacciaio di Peratza;
ed infine i piccoli ghiacciai del vallone di Grauson, fra i quali il più importante è quello di Tessonet o Dorère.
Sonvi inoltre altre piccole masse glaciali e vedrette disperse qua e là.
Orbene, ecco il gran problema: questi ghiacciai, residui di antichi potentissimi, seguono essi tuttora in modo generale la legge del loro ritiro, continuando oggi quello che da millennii andò verificandosi; sono cioè dessi destinati a scomparire totalmente in un tempo più o meno prossimo? Ovvero questa legge fatale del loro ritiro non ha essa subìto qualche radicale modificazione, o ceduto il posto ad un’altra legge per la quale i nostri ghiacciai rimangano stazionari, se pure non debbano nuovamente avanzarsi?
Il poter rispondere in modo sicuro a queste domande equivarrebbe a predire quale sarà l’avvenire del nostro paese. Mancante di due dei principali fattori della ricchezza nazionale, il ferro ed il carbone, l’Italia spera un prospero avvenire in due altri elementi: l’acqua ed il vino[71]; questo quale esplicazione della massima potenzialità agricola del nostro paese ed in ispecie della sua parte peninsulare; quella sotto un triplice aspetto, cioè: quale mezzo di comunicazione per i commerci (navigazione marittima e fluviatile), quale coefficiente necessario all’agricoltura (irrigazione), ed infine quale produttrice di forza motrice. Sotto quest’ultimo aspetto, le condizioni dell’Alta Italia sono eminentemente propizie in grazia della perennità dei suoi fiumi dovuta appunto ai ghiacciai alpini, i quali per conseguenza non soltanto sono serbatoi d’acqua, ma sono dei provvidenziali accumulatori di forza viva. E chi è che non veda quale immenso avvenire sia riserbato alla nostra regione, specialmente cogl’imprevedibili e stupefacenti progressi dell’elettrotecnica?
Ma che cosa accadrà di tutto ciò, se in un tempo anche assai lontano verrà a mancare la prima fonte delle sognate ricchezze, se verranno a mancare i ghiacciai? Certo, anche nella peggiore ipotesi, occorreranno molti secoli perchè ciò possa avverarsi, e noi non lo vedremo. Ma se un secolo è spazio di tempo enorme nella vita degl’individui, nella vita delle nazioni non sono trascurabili le scadenze assai maggiori, anche se di molti secoli.
Molto probabilmente l’ingegno e l’attività umana troveranno altri generatori di forza, altre trasformazioni di energie; ma sarà necessario un profondo e generale mutamento nelle condizioni di cose quali noi possiamo ora prevedere.
Ecco pertanto pienamente giustificato, non soltanto dal lato puramente scientifico, il movimento di attenzione, di indagini, di studi che in questi ultimi anni si è manifestato ed è andato accentuandosi circa i fenomeni glaciali.
II.
Un fatto accertato è quello dell’alternanza, a periodi di tempo più o meno lunghi, del movimento di ritiro con quello di avanzamento dei ghiacciai alpini. La durata di questi periodi non è ben nota, tanto più che varia assai da luogo a luogo. Un altro punto rimane a chiarire; se cioè queste oscillazioni nella lunghezza dei ghiacciai siano di ugual valore tanto nel verso positivo quanto nel negativo, epperciò si compensino, oppure se le singole ritirate non siano d’entità maggiore degli alternanti avanzamenti, per cui continui a verificarsi la legge generale del ritiro dei ghiacciai iniziatosi dopo la massima espansione glaciale.
Pare e si ritiene che quasi tutti i ghiacciai alpini abbiano subìto un notevole regresso nel venticinquennio 1850-1875, e si ritiene anche che da quest’anno vada operandosi invece un nuovo moto d’avanzamento, come si è verificato per più di 50 ghiacciai alpini.
Le nostre poche osservazioni fatte sui ghiacciai del gruppo del Gran Paradiso versanti le loro acque nella Valle di Cogne non ci confermano per generale tale stato d’avanzamento, e dobbiamo concludere che se «questo ultimo quarto di secolo segna una delle tanti fasi d’avanzamento dei ghiacciai»[72], le valli di Cogne costituiscono un’eccezione.
I ghiacciai che abbiamo particolarmente visitato e circa i quali abbiamo eseguito misure, segnalazioni o fotografie, sono il ghiacciaio nord-ovest di Lavina nel vallone di Bardoney; il ghiacciaio d’Arolla e quello di Valeille nel vallone omonimo; i ghiacciai di Money, di Grand Croux, della Tribolazione e dell’Herbetet in Valnontey; in alcune vedute panoramiche abbiamo pure fotografato quelli di Patrì e di Valletta.
Il sistema adottato per fissare il limite della fronte dei ghiacciai osservati, è quello di croci scolpite nella viva roccia e colorate con minio; dove ci fu possibile abbiamo, con due o più croci in linea retta ed a conveniente distanza, stabilito l’allineamento passante per detto limite; dove ciò non fu possibile l’allineamento l’abbiamo indicato con una croce scolpita da una parte del ghiacciaio, notando qualche vetta od accidentalità montuosa ben riconoscibile colpita dalla visuale dell’allineamento. In ogni caso poi abbiamo cercato di disporre gli allineamenti passanti per lo estremo limite dei ghiacciai il più che potemmo in direzione perpendicolare all’asse dell’ultimo tronco inferiore dei singoli ghiacciai. Ad ogni segnale abbiamo dato un numero d’ordine, a volte scolpito, a volte soltanto dipinto con minio, e vi abbiamo inoltre scritto il millesimo e le iniziali dei nostri nomi—D.P.—anche queste con lo scalpello ove potemmo. Per rendere poi più facilmente ritrovabili nell’avvenire i nostri segnali, abbiamo avuto cura di richiamare su di essi l’attenzione del cercatore con freccie od altri segni ben visibili dipinti con minio nelle roccie circostanti. Tutte le nostre osservazioni poi facemmo nel mese di agosto.
Con noi avevamo sempre le carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare alla scala di 1:50.000 e gli ingrandimenti al 25.000, la carta foto-topografica del Paganini e quella annessa alla guida «The Mountain of Cogne» dei sigg. Yeld e Coolidge. Quest’ultima, e per la sua scala (1:97.000) e per il modo con cui è disegnata, serve soltanto per fissare nettamente i fatti orografici salienti, ed è poi specialmente preziosa per la nomenclatura delle punte, creste e colli. La carta al 50.000 dell’I. G. M., levata nel 1881 e 1882 (così sta scritto in due copie della stessa tavoletta) e punto modificata posteriormente, ed il suo ingrandimento al 25.000 sono assai ricche di particolari, ma sono tutt’altro che prive di difetti e sono poi troppo deficenti per ciò che riguarda la rappresentazione dei ghiacciai. La carta infine del Paganini è una riproduzione fedele del vero, è accuratissima in ogni minimo particolare non solo di roccia, ma anche di ghiacciaio, e le coscienziose curve di livello e le numerose quote la rendono si può dire opera perfetta; l’unica cosa che rincresce si è che questa carta non sia ultimata e maggiormente estesa.
Avevamo pure con noi un barometro aneroide per la determinazione di alcune differenze di livello; ma disgraziatamente ben poco ce ne potemmo servire perchè uno dei tanti piccoli accidenti di montagna lo pose ben presto fuori servizio. Ci servimmo infine di un tacheometro per eseguire alcune operazioni topografiche, e per collegare alcuni punti di determinazione importante con quelli della rete geodetica italiana; ci spiace però che, per un complesso di circostanze sfavorevoli, non abbiamo potuto fare di tali collegamenti quel numero che avremmo desiderato.
Ghiacciai di Lavina.
Due sono i ghiacciai di Lavina, il nord-ovest ed il sud-ovest, il quale ultimo è anche il maggiore. Noi, per il crestone ovest, discendemmo sul ghiacciaio di nord-ovest calandoci dalla vetta alla quale eravamo saliti per la cresta nord, dopo aver risalito il vallone d’Acquarossa ed una discreta vedretta che ne riveste la parte superiore fino alla Bocchetta d’Acquarossa[73]. Questa vedretta non ci offerse nulla di notevole e tutti i suoi particolari ce la fecero ritenere attualmente stazionaria.
Il sopraddetto crestone diretto da est a ovest costituisce appunto la separazione fra i due ghiacciai di Lavina, dei quali quello a nord ci appariva più come semplice vedretta che non un vero ghiacciaio, ma a questa categoria dovemmo ascriverlo quando lo percorremmo. Ha una lunghezza orizzontale di 650 metri ed una larghezza massima di poco meno di 500 metri; la sua linea mediana di massima pendenza ha un andamento di poco oscillante intorno alla direzione sud-est—nord-ovest, con un dislivello massimo di 240 metri. Ha una bella morena frontale arcuata, recentissima, distante una ventina di metri dall’estremo limite inferiore del suo ghiaccio, e possiede pure belle morene laterali, specialmente la sinistra che è assai poderosa e molto regolare. La sua estremità inferiore è sopraelevata in media di più che 400 metri sul tronco del fondo del vallone corrispondente, e vi si discende dapprima per morene recenti di forme assai caratteristiche, e poscia per un deposito caotico morenico, franato in molti punti ed inciso in ogni dove dalle acque, e ricoperto da magro pascolo e stentati cespugli. Manifesta evidenti i segni di essere tuttora in regresso.
Prendemmo una fotografia del limite inferiore di questo ghiacciaio dalla morena laterale sinistra con visuale normale all’asse del ghiacciaio stesso, alle ore 15,30 del giorno 13 agosto, e scolpimmo il seguente segnale: +D.P. 95, colorato in minio e portante il N. 9 scritto semplicemente a minio, nelle rocce formanti la costiera che a nord incassa il ghiacciaio. La linea retta che unisce questo segnale al piede estremo della fronte del ghiacciaio passa per la marcatissima depressione che nella catena a sud-ovest forma il Colle di Arolla[74].
Ghiacciaio di Money fra la Punta Cisseta e la Roccia Viva
Ghiacciaio di Money fra la Punta Cisseta e la Roccia Viva Da una fotografia dell’ing. A. Druetti presa dall’estremità ovest della fronte del Ghiacciaio della Tribolazione.
Piede del Ghiacciaio di Grand-Croux con veduta del Ghiacciaio della Tribolazione
Piede del Ghiacciaio di Grand-Croux con veduta del Ghiacciaio della Tribolazione Da una fotografia dell’ing. A. Druetti presa da levante.
L’ora tarda ed il tempo male promettente non ci permisero di fare analoga segnalazione sul ghiacciaio sud il quale ha la sua linea di massima pendenza diretta da est ad ovest con una lunghezza orizzontale in quel verso di 925 metri; la sua larghezza massima è di quasi un chilometro ed il dislivello di 350 metri. Dal crestone sovraccennato potemmo osservare a volo d’uccello questo ghiacciaio il quale, salvo la mole maggiore, si trova nelle stesse condizioni di quello nord.
L’entità del loro detrito morenico, che pare sproporzionata alla potenzialità di questi due piccoli ghiacciai, si spiega colla natura delle rocce incassanti: gneiss tabulari eminentemente scistosi, calcescisti e calcari cristallini, nelle quali rocce la stratificazione molto accentuata con forte inclinazione favorisce la degradazione loro, i franamenti e le lavine.
Ghiacciai del Vallone di Valeille.
Se questo vallone, diretto da nord a sud, non può competere col vicino di Valnontey per copia e maestosità di ghiacciai, gli è però degno compagno per la ricchezza di vette che offre allo sguardo del visitatore e lo supera in regolarità d’andamento e selvatichezza di paesaggio.
E qui non possiamo trattenerci dal riportare integralmente la scultoria descrizione che ne fa l’amico G. Bobba nella sua interessante raccolta di escursioni[75].
«La sua forma regolare di enorme fosso rettilineo, scavato in modo uniforme fra due sponde che l’azione potente degli antichi ghiacciai andò spianando e lisciando, e la mancanza di risalti nella parte più bassa gli danno parvenza d’una via ciclopica, fiancheggiata da tetri edifizi. Il «thalweg» che conserva fin quasi ai piedi dell’ultimo ghiacciaio una larghezza costante di circa 1\2 km. era altra volta verdeggiante di prati; ora innumerevoli frane di sassi scese dalle sponde, massi giganti piombati dall’alto, e capricciose incursioni del torrente lo han ridotto in una triste maceria distendentesi senza tregua da un capo all’altro; alcuni miserabili pascoli quasi soffocati dalle macie, una capannuccia a mezzo il cammino, pochi alberi solitarii, tutto s’accorda nell’improntare di selvatichezza inospitale quel chiuso vallone.»
In questo vallone si verifica lo stesso fatto che in quello di Bardoney e che ancora non rilevammo: là tre piccoli ghiacciai i due di Lavina sul fianco est e con esposizione ad ovest, ed il piccolo ghiacciaio terminale di Bardoney con esposizione a nord: qui pure tre ghiacciai, due (Arolla e Sengie) sul fianco est con esposizione ad ovest, ed uno terminale, quello di Valeille, con esposizione prevalente a nord. In tutti due i valloni v’è mancanza pressochè assoluta di ghiacciai sul fianco ovest esposto ad oriente. Ora, essendo l’esposizione a levante più propizia alla conservazione dei ghiacciai che non quella a ponente, bisogna ricercare nella maggiore ripidezza del fianco ovest la causa della mancanza di ghiacciai.
Ghiacciaio d’Arolla. —Questo ghiacciaio, così chiamato nelle varie carte, compresa quella al 50.000 dell’I. G. M. portante l’indicazione «levata nel 1881», è invece detto ghiacciaio di Rol nell’altra carta al 50.000 dell’I. G. M. portante la dicitura «levata nel 1882» e nel suo ingrandimento al 25.000; lo stesso accade in dette tre carte per la denominazione della Punta detta Grand’Arolla in quella 1881 e Punta Rol in quella 1882 e nell’ingrandimento al 25.000; nasce inoltre confusione fra il M. Veso nella prima e la Punta di Forches (di Forzo) nelle altre due.
In tutte tre poi queste carte osservasi un grave errore, già segnalato nel suo citato lavoro dell’avv. Bobba, il quale, riferendosi alla carta al 50.000 dell’I. G. M., dice: «il ghiacciaio del Rol su di essa confonde la propria onda con quella del ghiacciaio delle Sengie tra la Punta Rol e la quota 3105, sicchè pare che dal vallone dell’Arolla si possa senz’altro, passando pel ghiacciaio omonimo e con tutta facilità, raggiungere il piano superiore del ghiacciaio delle Sengie e di là il Colle di Forzo o quel di Monveso, soltanto cioè con una traversata in piano di due ghiacciai. Invece, il ghiacciaio d’Arolla termina verso S. sopra l’orlo di una elevata scarpa, alta in media oltre 300 m., che altro non è se non il prolungamento della cresta O. della Punta di Forzo..... sulla carta Paganini tale bastione spicca in modo chiarissimo»; così pure sulla cartina dei signori Yeld e Coolidge e sulla carta al 100.000 annessa alla recentissima Guida delle Alpi Occidentali (Vol. IIº Graje e Pennine, Parte 2ª) dei signori G. Bobba e L. Vaccarone.
Il ghiacciaio d’Arolla ha un’estensione massima nel senso nord-sud di 1250 metri, per una media estensione est-ovest di 800 m., con un dislivello massimo di 300 metri. Nella fronte di questo ghiacciaio si possono considerare tre protuberanze, quasi tre rami. Abbiamo collocato il segnale + Nº 11-D.P.—1895 tutto scolpito e colorato in minio sulle rocce che limitano a nord il ramo mediano che è il più proteso. Una freccia scolpita nei due estremi e colorata a minio in tutta la sua lunghezza dà l’allineamento alla fronte: questo allineamento passa per il punto dove la cresta divisoria fra i due ghiacciai d’Arolla e delle Sengie cambia natura cessando le rocce d’aspetto liscio per succedervi invece quelle di aspetto scabro. Un analogo segnale disponemmo pure sul ramo sud del ghiacciaio e vi tracciammo l’indicazione + Nº 12—D.P.—1895.
Nel ghiaccio del ramo nord una caverna con vôlta che si protende oltre le rocce potrebbe essere indizio di avanzamento.
Ghiacciaio di Valeille. —È il più ampio del vallone, di cui forma un superbo sfondo ghiacciato; discende da quella cresta arcuata che dalla Punta Sengie, per la Punta Valeille ed il Picco d’Ondezzana, sale al Grand St.-Pierre. La parte sua più elevata è quella che discende dal Grand St.-Pierre presso al Colle di Teleccio (3326 m. secondo la carta I. G. M., 3296 secondo la carta Paganini); la sua fronte si trova invece a 2500 sovra un imbasamento di roccie a picco verso valle e sulle quali il ghiacciaio forma uno splendido coronamento sfavillante ai raggi del sole e sviluppantesi da est ad ovest per circa 400 metri.
Questo piedestallo roccioso presenta una profonda depressione verso ovest, e da questa effluisce un’alta lingua di ghiaccio che forma la parte più avanzata del ghiacciaio e dalla quale sbocca il torrente principale.
Della fronte generale del ghiacciaio abbiamo preso la fotografia addì 19 agosto, dal punto della strada di caccia ove questa è rotta ed attraversata da un torrentello che discende dal fianco sinistro del vallone; e così pure abbiamo preso la fotografia in dettaglio dell’estremità inferiore del ghiacciaio, della predetta lingua di ghiaccio. Sulle rocce a picco che si trovano alla destra della lingua effluente di ghiaccio abbiamo collocato il segnale + Nº 1—95 scolpito e colorato a minio: la retta che unisce questo segnale coll’estremità più protesa del ghiacciaio passa per il Colle di Teleccio nel punto che, osservato dal segnale, appare il più depresso.
Sulle roccie incassanti a sinistra il ghiacciaio, abbiamo pure scolpito il segnale Nº 7, il quale, unito mediante retta col punto A segnato su uno spuntone di roccia emergente dalle morene sul versante sinistro, permette di fissare le parti più prominenti della linea a festoni che costituisce la fronte generale del ghiacciaio sopra il sovraccennato piedestallo roccioso. Questa doppia segnalazione l’abbiamo fatta per le seguenti considerazioni.
La summentovata lingua di ghiaccio che costituisce la parte più avanzata del ghiacciaio deve evidentemente essere molto sensibile anche al più piccolo ingrossarsi del ghiacciaio sovrastante e premente, per cui s’allungherà sensibilmente; ma, per la sua piccola entità rispetto a quella di tutta la fronte del ghiacciaio, riesce certamente meno sensibile alle eventuali diminuzioni nel sovrastante ghiacciaio. Queste saranno pertanto meglio testificate dal superiore allineamento passante per il segnale N. 7 e per i punti più protesi della fronte generale del ghiacciaio, mentre questa fronte, per la sua posizione sull’orlo del piedestallo roccioso, non è adatta a far ben conoscere anche i piccoli avanzamenti del ghiacciaio obbligato a staccarsi e franare giù dal precipizio.—Il segnale N. 1 fu posto addì 7 agosto, e quello N. 7 nel giorno 11 agosto.
In relazione con la grandezza del ghiacciaio di Valeille stanno le sue morene, delle quali molte sono ben caratteristiche e disposte a cordoni molto regolari; ciò si verifica specialmente sul versante sinistro. Presso l’estremità della fronte del ghiacciaio s’innalza una gigantesca morena, terminata a valle da un colossale pignone conico; questa morena, che conviene salire per accedere al ghiacciaio, separa questo da una piccola vedretta che si trova alla sua sinistra, cioè ad ovest.
Il percorrere il ghiacciaio di Valeille riesce molto interessante; sopra la prima caduta di seracchi quasi marginale, la superficie del ghiacciaio si fa ad un tratto molto regolare e sale dolcemente limitata dall’accennata bella morena di sinistra; dopo un non lungo tratto percorso verso sud si arriva nell’interno del circo glaciale, dove il paesaggio è quanto mai strano e caratteristico. E qui l’amico Bobba ci perdoni se ancora una volta ci serviamo delle sue parole: «Mentre si attraversa il ghiacciaio, non so trattenermi dall’ammirare la chiostra strana che lo accerchia; la si direbbe opera d’uomo tanto è regolare: attorno ad una vasta distesa di ghiaccio sbiancato, la cui pianezza non è turbata da alcun rilievo, si eleva una muraglia scoscesa, macchiettata qua e là, e altrove variegata di striscie di neve cui numerosi pinnacoli dalla sembianza arcigna e selvatica coronano; verso ovest, al disopra d’una gradinata di seracchi, si rizza sovrano il Gran San Pietro col suo corteo di Apostoli: alla sua destra l’Ondezzana leva in alto la bruna cervice; verso la valle poi la vista è quasi chiusa dai contrafforti delle cime delle Sengie e della Patrì. Così nulla distoglie dalla contemplazione di quel solitario circo, e nulla turba la sensazione d’isolamento che vi si prova»[76].
Continuando a rimontare il ghiacciaio, risvoltando ad ovest si giunge al Colle di Teleccio, il quale (come il Colle di S. Théodule), per le sue presenti condizioni glaciologiche, attesterebbe una locale invasione di ghiaccio, essendone ora completamente coperto, «mentre le descrizioni italiane ed inglesi di trent’anni fa concordano nel parlare delle rocce sulla cima. Si hanno documenti per provare che i pascoli oltre questo colle appartenevano al comune di Cogne in epoca non troppo remota, e prove storiche, etnografiche, tradizionali svariate concordano nel dimostrare che la Valle di Cogne comunicava facilmente con la Valle Soana, attraverso i passi della Nouva e del Bardonney, le cui strade sono ora interrotte da ghiacciai»[77].
Ghiacciai del Vallone di Valnontey.
Ben altrimenti poderosi che non i precedenti sono i ghiacciai di Valnontey, come quelli che sono alimentati dai più estesi, elevati e potenti circhi glaciali.
In questo vallone, a differenza dei due precedenti, si hanno ghiacciai estesi, oltrechè sullo sfondo, su ambedue i versanti, i quali presentano quasi del pari le condizioni altimetriche atte a contenere la neve cadente dall’atmosfera ed alla sua trasformazione in ghiaccio.
A questo bacino abbiamo rivolto quelle speciali cure che, secondo noi, sono richieste per uno studio completo del fenomeno glaciale; e siccome un primo fattore a conoscersi è la superficie del bacino alimentante i ghiacciai, così con l’aiuto dei punti della rete geodetica e con osservazioni topografiche dirette abbiamo individuato con la massima cura la linea di cresta che circonda la Valnontey, dal Colle Lauzon per l’Herbetet, il Gran Paradiso, la Roccia Viva, il Grand St.-Pierre, fino alla Punta Valletta. Crediamo però cosa prematura il dare ora la lunga tabella delle coordinate topografiche di tutti i vertici di tale linea poligonale, inquantochè allo stato attuale molto incompleto delle nostre osservazioni, non ce ne possiamo ancora servire per veruna applicazione. Ci servirà poi per calcolare le superficie alimentanti i singoli ghiacciai, ed il rapporto dell’area di questi a quella dei rispettivi valloncini.
Se si avesse piena fiducia nelle diverse carte della regione nelle quali sono segnati i ghiacciai, evidentemente, conoscendo le date dei diversi rilevamenti, si avrebbero dei preziosi elementi, paragonando i limiti glaciali delle varie carte, per determinare il regime dei ghiacciai nell’intervallo trascorso tra un rilevamento e l’altro; ma ciò purtroppo non è. Perciò abbiamo pensato di procurarci noi stessi con un rilevamento diretto l’andamento della fronte dei diversi ghiacciai di Valnontey. Diamo qui appresso le coordinate di vari punti delle fronti glaciali, avvertendo però che, in causa del sistema delle intersezioni che dovemmo adottare, soltanto pochi punti potemmo fissare, per cui la spezzata che unisce tali punti non può ancora rappresentare il detto andamento in modo soddisfacente e definitivo.
Le coordinate sono riferite ad un punto facilmente ritrovabile e non discosto dalle fronti dei ghiacciai: esso è la testata sud del secondo ponte sopra Vermiana.
La convenzione per i segni è la solita, cioè: la retta Nord-Sud ci dà l’asse +X,-X, e la retta Est-Ovest l’asse +Y,-Y.
I diversi punti rilevati sulla fine dell’agosto 1895 hanno così le seguenti coordinate piane ortogonali:
Punto Nº X Y Punto Nº X Y
1 -1802 -1108 9 -1850 +29
2 -1839 -915 10 -2151 +615
3 -2205 -810 11 -2125 +978
4 -2241 -368 12 -1660 +852
5 -2100 -211 13 -1293 +811
6 -2011 -243 14 -1597 +1400
7 -1862 -162 15 -935 +2301
8 -2043 -13 16 -732 +2789
Il punto Nº 1 è la bocca orientale del ghiacciaio della Tribolazione.
Coordinato questo rilevamento con quello accennato precedentemente della linea di cresta, alcuni dei punti principali di essa, riferiti alla stessa origine, assumono le seguenti coordinate:
Colle del Lauzon X = +2820, Y = -4228
Punta dell’Herbetet » -871, » -3859
Vetta del Gran Paradiso » -3904, » -4311
Punta della Roccia Viva » -3690, » +497
Vetta del Grand St.-Pierre » -2980, » +2739
Punta Valletta » +1120, » +2948
ed il Campanile di Cogne » +6356, » +2548
Costrutte le coordinate di detti punti, e riportando questi sulla carta dell’I. G. M. al 25.000, si ha una coincidenza assai soddisfacente, le piccole differenze essendo logicamente ascrivibili ai difetti che alle tavolette dell’I. G. M. provengono dalla tiratura, dalla qualità della carta e dal loro stato di conservazione. Inoltre il punto Nº 1 viene a coincidere esattamente colla bocca del ghiacciaio della Tribolazione risultante dalla tavoletta al 25.000 ed ivi segnata colla quota 2394. Dichiariamo però che, per il motivo sovraccennato, non ci facciamo lecito inferire da questa coincidenza, che tutti gli scarti in più od in meno che si verificano nei punti da noi rilevati dalla linea frontale dei ghiacciai segnata su detta carta rappresentino altrettanti avanzamenti o regressi dei ghiacciai stessi. Anche la spezzata da noi rilevata ha bisogno di maggiori controlli e di essere completata, il che speriamo di poter far presto, punto dissimulandoci le gravi difficoltà, poichè trattasi di lavoro lungo, disagevole ed anche pericoloso per le frequenti cadute di massi dalle fronti dei ghiacciai.
Ghiacciaio dell’Herbetet. —Questo ghiacciaio è rinchiuso fra due alte creste, di cui quella a nord (sinistra) lo separa dal ghiacciaio di Grand Sertz, e quella a sud (destra) formante uno degli spigoli ascendenti al vertice della piramide dell’Herbetet, lo separa dal ghiacciaio di Dzasset detto della Gran Serra nella carta Paganini ed ancora dell’Herbetet nella carta dell’I. G. M.
Verso ovest è limitato da un’alta parete di roccia tagliata a picco presentante due depressioni a nord ed a sud: il Colle Nord (3260 m., carta Paganini) ed il Colle Sud (3315 m., carta Paganini) dell’Herbetet. La sua linea di massima pendenza discende pressochè dalla vetta dell’Herbetet (3778 metri) in direzione sud-ovest—nord-est per piegare poi a circa metà cammino ad est-nord-est, con un percorso orizzontale di 1700 metri e con un dislivello di quasi 820 metri.
La sua parte superiore forma per un’altezza di 450 metri un sottile manto di ghiaccio dell’ardita piramide, il quale interseca uno spigolo saliente diretto da sud a nord col ramo destro del contiguo ghiacciaio del Gran Neiron; la parte inferiore che costituisce la gran massa del ghiacciaio ha pendìo regolare, e la sua superficie pochissimo accidentata, con rari crepacci trasversali, è paragonabile a quella di un ellisse avente l’asse maggiore lungo m. 1350 ed il minore 600 metri. La sua fronte termina in una scarpa a pendìo assai forte e regolarissimo e poggia su un terreno pianeggiante e regolare sul quale l’acqua che esce dal ghiacciaio è obbligata a ristagnare in sottilissimi bacini prima d’arrivare all’orlo verso valle di tale spianata per precipitarsi quindi nel sottostante vallone. La lunghezza di quel «boden» glaciale è di una quarantina di metri; esso s’appoggia su una morena frontale intatta. La morena laterale destra è sviluppatissima specialmente in altezza e compresa per lungo fra due speroni rocciosi; oltre questa si vede un’altra morena gigantesca che, salendo, va ad unirsi con altra appartenente al Dzasset, e tutte due riunite vanno ad appoggiarsi in alto al crestone che sale alla punta dell’Herbetet. A sinistra del «boden» invece non vi è quasi morena, ma subito roccie lisciate e senza strie. Sovra queste poi, addossato ad una scoscesa ed alta parete, si vede un notevole e regolare cordone morenico che, sempre addossato a detta parete, risale tutto il fianco sinistro del ghiacciaio fin verso il Colle Nord. Questo cordone e la grossa morena laterale di destra appaiono contemporanee e costituirono in un certo tempo le due morene laterali del ghiacciaio.
Sulle sovraccennate roccie liscie abbiamo posto il segnale N. 10, + D.P. 95, scolpito e colorato in minio. L’allineamento passante per questo segnale e il piede della scarpa terminale del ghiacciaio colpisce l’estremità est della Testa di Valnontey.
La fotografia qui riprodotta della fronte di questo ghiacciaio fu presa dalla morena frontale un po’ a destra, alle ore 15 del giorno 15 agosto con cielo purissimo e sole ardente. In questa fotografia, del ghiacciaio non si vede che la scarpa terminale; una parte del «boden» antistante alla scarpa riesce evidente; le rocce su cui ponemmo il segnale N. 10 si osservano alla destra presso l’estremità della scarpa e sovra di esse il cordone morenico sinistro sul quale più a monte si riversano copiose lavine dalla scoscesa parete del fianco sinistro; sullo sfondo appariscono i due Colli citati, Nord e Sud, nelle due depressioni estreme a destra ed a sinistra; da quest’ultima si innalza la piramide dell’Herbetet.
Un’altra fotografia che qui pure si riproduce prendemmo alle ore 13,30 dello stesso giorno dal Colle Sud dell’Herbetet: nei piani anteriori primeggia il sottostante ghiacciaio; a sinistra si vede la sua morena laterale sinistra colle sovrastanti lavine; nello sfondo si ha il panorama dei ghiacciai di Valletta a sinistra, di Patrì nel mezzo, e la parte nord di quello di Money a destra.
Tutte le circostanze osservate alla fronte del ghiacciaio accusano in questo un periodo di ritiro verificantesi ancora all’atto della nostra visita.
Ghiacciaio della Tribolazione. —Questo, e per sviluppo e per dislivello, è il maggiore dei ghiacciai di Valnontey. Se si comprende nella sua superficie anche quella del ghiacciaio di Dzasset o della Gran Serra, il quale vi si unisce per la sua estremità inferiore (Vedi carta Paganini), la sua area orizzontale, depurata da quella occupata dalle creste e spuntoni rocciosi intermedi, risulta di non meno di sette chilometri quadrati e un quarto.
Nelle carte dell’I. G. M. al 50.000 ed al 25.000 ed in quella al 100.000 annessa alla recente «Guida» di Bobba e Vaccarone il ghiacciaio di Dzasset figura staccato da quello della Tribolazione; l’unione dei due ghiacciai risulta invece dalla cartina dei signori Yeld e Coolidge, ancora più intima che non dalla carta del Paganini.
In questa sua vasta estensione il ghiacciaio riceve alimentazione dal più elevato circo che in direzione nord-sud dall’Herbetet, per la Becca di Montandeyné, arriva al Gran Paradiso per risvoltare verso est fino alla Testa di Valnontey; di qui una cresta discendente da sud a nord lo separa dal ghiacciaio di Grand Croux, ma questa cresta alla quota 2950 presenta una breccia d’un centinaio di metri, per la quale una parte del suo ghiaccio si precipita con una rapida caduta di seracs sul sottostante ramo sinistro del Grand Croux.
Dalle sue massime altezze fino ai piedi delle sue fronti misura una caduta di livello di circa 1500 metri. Ha superficie relativamente pianeggiante e regolare nelle parti più elevate; presenta enormi crepacci nelle parti medie ed una superficie assai tormentata specialmente verso i lati; nelle sue parti inferiori per il forte pendìo precipita rapido a valle con lunga caduta di seracs, che visti dal basso appaiono sotto forma di spettacolosa gradinata.
Esso scavalca le ultime balze e raggiunge il fondo sassoso della valle dividendosi in due rami, ciascuno dei quali si protende con una fronte gigantesca suddivisa in altre minori. Queste particolarità risultano chiaramente dalla carta del Paganini, dove al piede del ramo sinistro è assegnata la quota 2407, ed al piede delle due teste in cui termina il ramo destro rispettivamente le due quote 2375 e 2391.
Come già dicemmo, la testa del ghiacciaio costituente la bocca orientale del ramo destro, l’abbiamo fissata con operazioni topografiche mediante le sue coordinate riferite alla testata sud del sovraccennato ponte sul torrente del vallone.
Il limite della testa del ramo sinistro l’abbiamo fissato mediante l’allineamento passante per esso e per i due segnali N. 5 e 6 scolpiti sulle roccie di sinistra a conveniente distanza e resi facilmente ritrovabili da colorazioni a minio; il segnale N. 6 riesce anche più visibile perchè è scolpito più in alto a sinistra, su una parete di roccia perfettamente piana e presentante numerosissime striature del ghiacciaio.
Di questa testata di ghiaccio abbiamo presa la qui riprodotta fotografia addì 9 agosto alle ore 15,15 dal lato ovest; in essa l’estrema protuberanza di ghiaccio, la bocca principale da cui esce il torrente in sulla sinistra (a destra nella fotografia), nonchè altre due minori più verso l’apice della testata, scorgonsi chiaramente. Il ghiaccio è cosparso di detriti e sporco di melma nella parte rientrante dove è aperta la bocca principale del torrente; è molto più pulito e limpido nella parte prominente che per le spaccature sulla cresta rassomiglia ad una piccola catena di rupi scoscese.
Del ghiacciaio della Tribolazione abbiamo pure preso una veduta panoramica addì 11 agosto da uno spuntone di roccia poco a sud dei casolari di Money, sul quale abbiamo posto l’indicazione a minio: S. F.—1895.
Nell’altra fotografia qui riprodotta, e che fu specialmente presa per avere il dettaglio della scarpa terminale del ghiacciaio di Grand Croux, si vede pure nello sfondo la gran discesa di seracs del ramo sinistro della Tribolazione, la testata di cui abbiamo parlato, e, verso destra, le roccie su cui stanno i due segnali numeri 5 e 6.
Le morene che si osservano presso la fronte glaciale sono recentissime; non si ha vera morena frontale caratteristica perchè il suo materiale viene travolto di mano in mano che si deposita; bella e potente la morena più antica che si addossa al fianco sinistro del vallone, sulla quale viene a terminare, nelle rovine d’un appostamento, la strada di caccia. Più verso il thalweg, in direzione della separazione fra il ghiacciaio della Tribolazione e quello di Grand Croux, si allunga un’altra morena recentissima di forma regolarissima e caratteristica.
Ghiacciai di Grand Croux e di Money. —Questi due ghiacciai li riuniamo in un solo capitolo, perchè havvi assai confusione a loro riguardo nelle diverse carte.
Nella carta dell’I. G. M. al 50.000 portante l’indicazione «levata nel 1882» e nel relativo ingrandimento al 25.000 è designata col nome di Grand Croux l’enorme e continua estensione di ghiaccio che dalle punte Testa di Valnontey, Becca di Gay, Roccia Viva, Grand St.-Pierre, Tour St.-André ed altre ancora, scende a valle suddividendosi più in basso in tre rami colossali. Porta poi il nome di ghiacciaio di Money quello che discende dalla Punta Patrì, dal Coupé di Money, dalla Tour St.-Ours ecc. Questo secondo ghiacciaio è invece il ghiacciaio di Patrì che è perfettamente separato da quello di Money dal crestone 3493-3333-3100 della carta Paganini.
Nell’altra carta al 50.000 pure dell’I. G. M., portante l’indicazione «levata nel 1881» il ghiacciaio di Grand Croux è limitato fra la Testa di Valnontey e la Roccia Viva; ghiacciaio di Money è denominata l’altra grande estensione di ghiaccio che si estende fin oltre la Tour St.-André e che discende al basso in due rami principali. Quello che abbiamo detto ghiacciaio di Patrì non porta ivi alcuna indicazione.
Nella cartina dei signori Yeld e Coolidge si chiama invece Grand Croux l’omonimo della carta precedente più il ramo sinistro (sud) del ghiacciaio di Money; sotto questa denominazione poi si comprende il restante ramo destro più una plaga di ghiaccio che si estende senza interruzione fino alla Punta Patrì corrispondente al ghiacciaio di Patrì, mentre l’indicazione di quest’ultimo è segnata oltre la punta ed in modo incerto.
La disposizione e la configurazione di tutte queste masse di ghiaccio risultano chiaramente dalla carta del Paganini; separazione netta fra il Grand Croux ed il Money non c’è, ma possiamo scegliere la linea che discende dalla Roccia Viva e raggiunge e si continua nel crestone 3287-2957 della carta Paganini[78]. Daremo al ghiacciaio di Money la stessa estensione della carta al 50.000 dell’I. G. M. levata nel 1881, oltre la quale havvi il ghiacciaio di Patrì. Analogamente hanno fatto i signori Bobba e Vaccarone nella carta al 100.000 annessa alla loro guida.
Se per la glaciologia le carte dell’I. G. M. fossero attendibili, dal confronto delle condizioni di estensione del ghiacciaio di Grand Croux ivi riferite al 1881 con quelle risultanti dalla carta del Paganini e con quelle osservate nell’estate scorsa, si dovrebbe dire che questo ghiacciaio si sia di molto allungato in un decennio, ma ciò non è: e la nostra asserzione fondiamo non soltanto sulla poca fede che abbiamo per questo riguardo su dette carte, ma su altre osservazioni di cui diremo. La fronte del ghiacciaio di Grand Croux è quella che attualmente discende più in basso di tutte le altre dei ghiacciai di Valnontey: ciò risulta anche dalla carta del Paganini dove essa porta la quota 2340.
La superficie di questo ghiacciaio è molto accidentata per un buon terzo della sua estensione in alto verso sud-est, diventa regolare nella parte centrale ed in tutta la sua parte sinistra dove apparisce quale potente fiumana di ghiaccio che discende fino all’estremo limite inferiore, e la cui regolarità non è disturbata che dalla non molto accentuata caduta di seracs fra le quote 2530 e 2420.
Il limite estremo della sua fronte l’abbiamo individuato con un allineamento passante per esso e per i tre segnali N. 2, 3, e 4 scolpiti colla solita croce su tre grossi massi stabili di parecchi metri cubi di volume, facilmente ritrovabili e così disposti: il masso portante il segnale N. 2 è sulla morena sinistra del vallone, poco discosto dal sovraccennato appostamento di caccia diroccato; il masso del segnale N. 3 è sulla cresta del lungo e regolarissimo cordone morenico che si trova sul prolungamento della separazione fra i due ghiacciai della Tribolazione e di Grand Croux; il segnale N. 4 infine trovasi su un colossale masso posto sulla destra della testata in questione, fra le molte ramificazioni di torrentelli scendenti dal ghiacciaio, e da essa poco discosto.
L’estremità della fronte di questo ghiacciaio, che sotto forma di cuneo gigantesco s’inoltra nel greto del fondo della valle, è riprodotta nell’annessa fotografia; questa fu presa addì 9 agosto alle ore 16,15 dalla parte di levante nei pressi del masso portante il segnale N. 4. In essa si scorgono pure sullo sfondo i seracs e l’estremità occidentale del ghiacciaio della Tribolazione, come già abbiamo accennato.
Il ghiacciaio di Money nella sua parte alta sud-ovest discendente dalla Roccia Viva è molto accidentato e si distingue malamente da quello di Grand Croux; nella restante sua parte elevata è diviso in due bacini alimentanti, o circhi terminali, dal crestone che discende dalla Tour St.-Ours (3602 m.) in direzione est-ovest. Queste due plaghe ghiacciate si riuniscono a valle di detto crestone alla quota 3219 per tosto separarsi nuovamente in due rami alla quota 3150 in causa di altra cresta di roccia.
Fatta astrazione della sovraccennata parte triangolare a sud-ovest presso la Roccia Viva, il ghiacciaio di Money ha superficie e pendìo assai regolare per due buoni terzi della sua estensione, regolarità alquanto turbata nella striscia che unisce la estremità inferiore con quella superiore dei due sovraccennati crestoni divisori. La regolarità va diminuendo e la pendenza aumentando nei due rami inferiori in cui si suddivide e termina il ghiacciaio. In complesso, la sua superficie è più pianeggiante e meno tormentata che non quella dei ghiacciai di Grand Croux e della Tribolazione.
Il ramo di destra del ghiacciaio di Money termina inferiormente con tre testate presso le quote 2605, 2673 e 2614 della carta Paganini.
Scelto un grosso blocco di gneiss sulla morena laterale destra, sulla sua parete che guarda il ghiacciaio scolpimmo il segnale + Nº 8, 1895, D.P. e sulla sua faccia superiore tracciammo col minio una freccia cogli estremi scolpiti. Questa freccia che, prolungata, passerebbe per il centro della sottostante croce, segna l’allineamento passante per il piede della testata di destra del ghiacciaio ed inoltre la sua visuale mira alla base a sinistra dell’osservatore della Testa di Valnontey. La visuale che dal segnale va all’estremità della testata intermedia del ghiacciaio colpisce esattamente la punta della Becca di Gay; finalmente, la visuale che passa per l’estremità della testata sinistra passa pure per il punto dove la cresta rocciosa discendente dalla Becca di Gay si proietta sulla cresta ghiacciata del Colle di Grand Croux.
Il ramo sinistro del Money discende invece di ben 300 metri più in basso; a 2600 si restringe bruscamente con una linea che è il prolungamento del limite del ramo destro; quindi alla quota 2411 si restringe nuovamente per discendere poi ancora un dislivello di 100 metri e raggiungere così l’estremo limite con una lingua di ghiaccio molto allungata.
È caratteristico l’aspetto che offre questo ramo del ghiacciaio di Money quando lo si osserva da certi punti della valle; osservato per es. dalla morena sinistra, presso la fronte del ghiacciaio della Tribolazione, esso appare come una gigantesca pelle di fiera distesa quale tappeto con una zampa protesa; e noi l’abbiamo chiamato la zampa di leone.
Tale aspetto apparisce molto bene dalla qui riprodotta fotografia presa alle ore 13 del 9 agosto dallo sprone roccioso presso l’estremità sinistra della fronte del ghiacciaio della Tribolazione e sul quale sta il segnale N. 5.
Le irregolarità superficiali del ghiacciaio coi conseguenti effetti d’ombra producono delle screziature che rendono grande l’accennata rassomiglianza. La fotografia abbraccia il tratto di cresta che va dalla Punta Cisseta alla Roccia Viva; vi si vedono nettamente i due rami in cui è diviso il ghiacciaio dal sovradescritto crestone roccioso; sulla destra del quadro appare pure l’estremo lembo destro del ghiacciaio del Grand Croux, separato dal Money da un grosso costolone di roccie.
III.
A quanto precede si riducono le osservazioni da noi fatte sulle condizioni attuali dei ghiacciai del Gruppo del Gran Paradiso; ci rimane a dire di alcune altre osservazioni fatte in passato, ora molto preziose per ricostrurre la storia glaciale contemporanea della Valnontey, risalendo fino a più di 60 anni addietro.
Sopra un macigno sporgentesi presso il letto del torrente, ad un quarto d’ora di cammino circa sopra il ponticello da noi scelto per origine delle nostre coordinate, ritrovammo il segnale postovi nel 1833 dal curato Chamonin ad indicare l’estremo limite cui arrivava in allora il gran ghiacciaio di Valnontey, costituito dall’unione di quelli di Money, di Grand Croux, della Tribolazione e, secondo alcune informazioni, anche da quello dell’Herbetet.
Le coordinate di questo segnale riferite al sovraindicato sistema d’assi ortogonali, sono:
X = -717,42, Y = -387,80.
Abbandonando questo segnale e raggiungendo la strada di caccia dell’Herbetet, dopo breve percorso si arriva al punto in cui questa è attraversata dal torrente che scende dall’Herbetet, dopo di che la strada s’arrampica con comode risvolte su alcune balze di roccie arrotondate e striate. Su una parete verticale di queste roccie sta scolpita la seguente iscrizione:
< GLACIER
1866
E. D’Albertis—J. P. Carrel.
Questo è il segnale che nel 1866 l’egregio abate valdostano Giovanni Pietro Carrel e l’illustre esploratore genovese Enrico D’Albertis ponevano per segnalare il limite inferiore del ghiacciaio di Valnontey. Questa segnalazione è completata da altro segnale, posto pure nello stesso anno più in basso presso il torrente: la retta che univa questi due segnali rappresentava, in direzione trasversale all’asse della valle, il detto limite.
Come già per il segnale Chamonin, abbiamo con tutta cura collegato colla nostra poligonale topografica questi due punti, le cui coordinate sono le seguenti:
1º segnale (superiore) X = -1004,17, Y = -547,45
2º segnale (inferiore) X = -1035,05, Y = -530,50
La retta che li unisce quasi in direzione di N.NO.—S.SE. fa colla linea N-S un angolo di 28° 45´ 39″, e la distanza fra i due punti risulta di m. 35,25.
Abbiamo così tre limiti ben accertati nel ghiacciaio di Valnontey in epoche diverse: nel 1833, nel 1866, ed i limiti attuali dei singoli ghiacciai in cui quello si è suddiviso ritirandosi.
Prendendo in considerazione la bocca orientale del ghiacciaio della Tribolazione, di cui conosciamo le coordinate
X = -1082, Y = -1108,
deduciamo che il cammino percorso nel suo regresso dal ghiacciaio dal 1833 al 1866 è di metri 348,21 in 33 anni, cioè m. 10,55 all’anno in media, e che il cammino percorso dal 1866 al 1895 per arrivare all’attuale limite orientale della Tribolazione fu di m. 960,06 in 29 anni, con una velocità media annua di m. 33,10 dato che il cammino siasi sempre effettuato nel senso del ritiro.
La velocità così risultante appare nel secondo trentennio considerato tripla di quella del trentennio precedente; ma tale valore non è applicabile certamente a tutto il periodo 1866-1895, perchè in questo dobbiamo distinguere tre parti, cioè il primo periodo che va dal 1866 al momento in cui il ghiacciaio di Money si è staccato dagli altri due; il secondo che va da questo momento a noi ignoto all’altro pure ignoto in cui si separarono anche i due ghiacciai di Grand Croux e della Tribolazione; il terzo infine che dal momento di quest’ultima separazione arriva fino all’agosto 1895.
In queste tre parti la velocità di regresso dovette evidentemente essere assai differente: dal 1866 fino a quando i tre ghiacciai continuarono ad essere riuniti, una sola era la fronte, e la superficie d’ablazione piccola in confronto della massa glaciale; nella seconda parte la velocità di regresso deve essersi notevolmente accresciuta per l’accresciuta superficie frontale di ablazione; nella terza parte, infine, tale velocità deve essersi ancora aumentata grandemente per i due ultimi ghiacciai, essendosi anche per questi più che raddoppiata la superficie frontale d’ablazione.
Con questa considerazione si potrebbe dar ragione dell’enorme differenza nelle due sovrascritte velocità di ritiro, senza bisogno d’ammettere che sia avvenuto qualche brusco cambiamento nelle condizioni locali regolanti il regime glaciale.
Del resto, l’ultimo valore della velocità di ritiro di quei ghiacciai può essere assai lontano dal vero, anche perchè noi non conosciamo esattamente il momento in cui le fronti dei singoli ghiacciai si disposero nell’attuale loro posizione.
Vedremo in seguito come da altri dati si deduca per la velocità di ritiro subito dopo il 1866 un valore assai maggiore, e come verso il 1885 questa sia diminuita assai; manteniamo ciononostante le considerazioni poc’anzi svolte perchè, nella grande incertezza in cui ora ci troviamo riguardo alla legge del ritiro di quei ghiacciai; esse servono, se non ad altro, a sviscerare sempre meglio tutte le particolarità del fenomeno.
Che quei ghiacciai si siano ritirati oltre il limite attuale e quindi nuovamente avanzati, lo neghiamo, e lo neghiamo con certezza almeno fino a tutto il 1889, e non crediamo nemmeno che ciò abbia potuto succedere nei successivi 6 anni, se dobbiamo prestar fede alle informazioni locali.
Che alcuni di quei ghiacciai dopo essersi ritirati si siano nuovamente avanzati dopo il 1881, lo afferma il dott. Virgilio di cui riportiamo integralmente il seguente lungo brano[79]: «I tre maggiori ghiacciai del massiccio del Gran Paradiso, compresi appunto nel Vallone di Valmontey, quelli cioè della Tribolazione, di Grancrou e di Money, hanno subìto in questi ultimi venti anni una marcatissima diminuzione. Nel 1875 le loro estremità riunivansi in una fronte terminale unica; ma dopo il 1875 esse si erano ritirate e disgiunte. Tale periodo di ritiro continua tuttora (1885) per il solo ghiacciaio di Money, mentre per gli altri due si è già iniziato circa dal 1881 il periodo d’avanzamento, per cui questi sono di nuovo uniti per le loro fronti terminali».
«La ragione di questa differenza nelle variazioni periodiche di tre ghiacciai vicinissimi fra di loro, per cui uno trovasi in ritardo circa l’iniziarsi del suo periodo d’avanzamento, periodo già cominciato negli altri due, sta a parer mio, nella conformazione ed orientazione dei rispettivi bacini di raccoglimento delle masse di ghiaccio. Infatti, i bacini glaciali della Tribolazione e di Grancrou sono ampi, pochissimo accidentati e rivolti a nord, mentre quello di Money è molto accidentato, interrotto da speroni rocciosi e rivolto ad ovest. In conseguenza di ciò deve risultare una maggior ablazione per quest’ultimo ghiacciaio.»
Piede del ramo ovest del Ghiacciaio della Tribolazione
Piede del ramo ovest del Ghiacciaio della Tribolazione Da una fotografia dell’ing. A. Druetti.
Scarpa terminale del Ghiacciaio dell’Herbetet
Scarpa terminale del Ghiacciaio dell’Herbetet Da una fotografia dell’ing. A. Druetti presa dalla parte destra della morena frontale.
Il Baretti, ricordato il fatto del constatato ritiro di quei ghiacciai dopo il 1865, è più prudente nel pronunciarsi circa un nuovo periodo d’avanzamento, ad ammettere il quale però è propenso. Ecco le sue parole: «Pei ghiacciai che scendono dal Gran Paradiso nel vallone di Valnontey abbiamo il seguente dato, da noi raccolto e consegnato in un lavoro, Per rupi e ghiacci, pubblicato nel 1875: i ghiacciai del bacino nel 1865 si fondevano assieme in una sola fiumana in basso: nel 1874 erano già disgiunti per ritiro di quasi 750 metri; il ritiro continuò fino al 1883. Non sappiamo quali varianti siano avvenute in questi ultimi nove anni; l’abate Carrel, studiosissimo di cose naturali ed abitante a Cogne, sarebbe la persona adatta in superior grado a tener nota delle variazioni che ora supponiamo nel senso di accrescimento.»[80]
Notiamo intanto che dalle osservazioni del Baretti si deduce una velocità di ritiro nel ghiacciaio di Valnontey di 83 metri all’anno in media nel periodo 1865-1874.
Per meglio conoscere le vicende del fenomeno glaciale in questione, noi ci serviamo appunto delle preziose osservazioni locali fatte dal 1871 al 1889 dall’ab. Carrel, circa la cui competenza in merito condividiamo pienamente l’opinione del Baretti.
L’abate Carrel addì 19 ottobre 1876 fece uno schizzo dei ghiacciai di Valnontey che porta, oltre la sua firma, l’indicazione: «Cette vue a été prise, en montant à l’Herbetet, au point culminant d’où la route royale redescend». In questo stesso punto si recò negli anni successivi a riprendere la stessa veduta e potè così raccogliere una serie di schizzi dai quali appariscono le condizioni di quei ghiacciai nelle epoche seguenti oltre la sovrascritta: 5 novembre 1877, 15 ottobre 1879, 23 settembre 1880, 22 agosto 1883, 2 settembre 1884, 1 ottobre 1886, nel 1888, e 6 settembre 1889[81].
Il cortese abate avendoci consegnati i suoi schizzi (del che vivamente lo ringraziamo) ce ne varremo fin d’ora per chiudere questo lavoro.
Dalla veduta presa il 19 ottobre 1876 il ghiacciaio di Money risulta completamente staccato dagli altri due e confinato nelle rupi scoscese sulle quali si distende attualmente la «zampa di leone»; la sua forma però non è così ristretta, ma presenta una larghezza assai maggiore. Vi si vede inoltre tracciata chiaramente la strada di caccia che, staccandosi da quella dell’Herbetet, attraversa su un ponticello il torrente e sale sul fianco destro della valle, dapprima con parecchi zig-zag e quindi, dopo una larga risvolta, rimonta le rupi sottostanti al ghiacciaio di Money con un’altra serie di fitti zig-zag fino ad un appostamento di caccia. Questa strada ci si disse costrutta nel 1872 o 1873; per cui già a quell’epoca il ghiacciaio di Money si era staccato dagli altri due. Questi costituenti un unico ghiacciaio, dal Carrel detto ora di Valnontey ora di Grand Croux, hanno il loro limite un poco a monte dei primi zig-zag sovraccennati, in un punto che ci pare di poter stabilire alla distanza di 500 metri dal limite del ghiacciaio nel 1866; ne risulterebbe pertanto una media velocità di regresso di 50 metri all’anno.
Dagli schizzi posteriori risulta che negli anni successivi il ghiacciaio di Valnontey andò gradatamente ritirando in alto il suo piede terminale, rimanendo pur sempre uniti i suoi due ghiacciai costituenti fino al 1884; nel 1886 apparisce la separazione dei due ghiacciai che andò sempre meglio accentuandosi negli schizzi relativi al 1888 e 1889.
Queste osservazioni contraddicono pertanto all’asserzione sovraricordata del dott. Virgilio, perchè, se dopo il 1881 quei due ghiacciai avevano la fronte comune, questo non era per causa d’un avanzamento, ma perchè ancora non s’erano separati, separazione avvenuta verso il 1886 ed esistente tuttora. E che nell’intervallo fra il 1884 ed il 1886 abbia continuato il ritiro in quei ghiacciai lo dimostra la seguente circostanziatissima affermazione scritta di pugno dell’abate Carrel a tergo dello schizzo che porta la data del 1º ottobre 1886 e che si riferisce al ghiacciaio di Grand Croux separato da quello della Tribolazione, ivi detto del Gran Paradiso: «Le 1 r octobre 1886 je suis parti de Cogne a 6 h ¼ du matin, et ayant passé par le sentier de l’Herbétet, je suis arrivé au point culminant d’observation a 9 h ¼. Le jour n’était pas propice pour dessiner parce que la dernière neige tombée couvrait en partie les roches et ne permettait pas de distinguer d’une manière sûre la roche du glacier. Cependant j’ai pu vérifier que le glacier a reculé de 27 mètres depuis le 2 septembre 1884».
Aggiungeremo ancora che i punti in cui sono segnati i limiti inferiori dei ghiacciai di Grand Croux e della Tribolazione negli ultimi schizzi del 1888 e 1889 ci paiono approssimativamente quelli attuali, ciò che però verificheremo. Inoltre, in tutti 9 gli schizzi il ghiacciaio di Money appare stazionario sulle roccie sulle quali arriva tuttora il suo ramo sinistro.
In quanto poi all’attribuire le differenze nelle variazioni periodiche di ghiacciai, anche vicinissimi, alla conformazione ed orientazione dei rispettivi bacini di raccoglimento delle masse di ghiaccio, siamo in massima d’accordo col dottor Virgilio; ma, venendo al caso concreto, dobbiamo però fare qualche osservazione. Da quanto abbiamo detto precedentemente e che chiaramente risulta dalla semplice ispezione della carta del Paganini, il bacino glaciale del Money è meno accidentato ed interrotto di quelli di Grand Croux e della Tribolazione; e, riguardo all’esposizione, quello di Money, quello di Grand Croux e parte di quello della Tribolazione sono nelle identiche condizioni, cioè con esposizione a nord-ovest, mentre soltanto quello della Tribolazione (e non tutto) è esposto a nord-est.
Noi crediamo più conveniente, per spiegare il più rapido ritiro del ghiacciaio di Money in confronto degli altri due, ricorrere ad un’altra legge esattamente verificata per i ghiacciai della Valnontey, quella cioè per la quale la resistenza dei ghiacciai all’ablazione è tanto maggiore quanto maggiore è l’elevazione dei loro circhi terminali a parità della loro estensione, ed a parità d’elevazione e d’esposizione è tanto maggiore quanto più i ghiacciai sono vicini al centro del massiccio ricoperto di ghiacci. Si sa infatti che la temperatura dell’atmosfera va diminuendo coll’altezza, e, nei limiti delle massime altezze delle nostre montagne, ciò favorisce una maggior precipitazione di acqua allo stato di neve.
Una gran massa ghiacciata, qual è il massiccio del Gran Paradiso, non può a meno di far sentire la sua azione refrigerante intorno e sè, e l’effetto suo va diminuendo naturalmente colla distanza. Ecco infatti che, a parità d’esposizione e d’altre circostanze, noi vediamo nella Valnontey i ghiacciai rialzare la quota del loro limite inferiore di mano in mano che s’allontanano dalle eccelse altezze (Gran Paradiso, Becca di Moncorvè, Punta di Ceresole e Testa di Valnontey) che costituiscono il nocciolo di quella regione ghiacciata. Così noi vediamo i ghiacciai della Tribolazione, di Grand Croux ed il ramo sinistro del Money discendere colle loro fronti sotto i 2400 metri; quindi a destra vanno salendo le fronti del Money a 2600 m. circa, di Patrì a 2750 circa e di Valletta a 2850; e finalmente sulla sinistra le fronti risalgono oltre i 2900 pei ghiacciai di Dzasset e d’Herbetet, a 2950 circa per quello del Sertz ed a circa 3000 per quello di Lauzon.
Da quanto abbiamo esposto si può adunque concludere che i ghiacciai della Valnontey hanno in poche diecine d’anni subìto un rilevantissimo regresso, che se questo non continuò anche negli ultimi anni, in questi si sarà mantenuto uno stato stazionario, ma che tutto porta ad escludere qualsiasi avanzamento.
In relazione coi movimenti oscillatori dei ghiacciai sta evidentemente la piovosità e caduta di neve in un dato periodo di tempo. Le osservazioni fatte a Cogne, ad Aosta e in altre località della valle dall’abate Carrel e da altri fanno constatare una notevole diminuzione nella piovosità della Valle d’Aosta. Non abbiamo ancora i dati relativi a Cogne che il Carrel sta compilando; ma tuttavia non sarà del tutto fuor di luogo riprodurre il seguente quadro compilato e pubblicato[82] da questo prete osservatore e studioso, e che porta la data del 1º luglio 1896. In esso sono comparate le quantità d’acqua caduta ad Aosta sotto forma di pioggia o di neve nel quinquennio 1841-1845 registrate dal canonico Georges Carrel, con quelle relative al quinquennio 1891-1895 notate da J. P. Carrel, esattamente cinquant’anni dopo.
1 er TABLEAU Millimètres d’eau de pluie ou de neige à la Cité d’Aoste II me TABLEAU Millimètres d’eau de pluie ou de neige à la Tour du Lépreux ( Cité d’Aoste )
Années 1841 1842 1843 1844 1845 Total Années 1891 1892 1893 1894 1895 Total
Janv. 39,0 57,3 77,9 23,8 173,7 371,7 Janv. 7,8 14,5 4,5 19,5 58,0 104,3
Fév. 191,0 12,3 196,7 92,1 40,0 532,1 Fév. 1,2 97,3 38,4 0,0 43,8 180,7
Mars 0,9 9,0 11,3 36,6 76,7 134,5 Mars 21,7 173,7 9,3 5,2 96,9 306,8
Avril 44,9 90,1 38,6 2,5 26,1 202,2 Avril 41,8 20,1 1,2 24,8 43,4 131,3
Mai 45,3 12,7 81,5 57,1 37,8 234,4 Mai 85,3 19,1 38,8 84,7 8,0 235,9
Juin 23,5 10,7 44,2 32,8 68,1 179,3 Juin 46,3 20,9 32,2 33,4 67,1 199,9
Juillet 29,0 58,4 124,7 38,3 18,0 268,4 Juillet 53,6 45,3 35,8 10,3 24,4 169,4
Août 27,0 55,2 38,6 21,0 129,2 271,0 Août 53,5 30,8 7,3 25,8 36,4 153,8
Septem. 55,1 87,5 0,1 69,8 45,5 258,0 Septem. 29,8 42,0 22,1 4,0 5,7 103,6
Octob. 220,0 20,7 120,0 125,5 47,5 533,7 Octob. 131,7 88,4 53,2 57,0 44,7 375,0
Novem. 52,5 31,5 108,5 25,3 100,0 317,8 Novem. 17,5 49,2 14,6 14,8 129,0 225,1
Décem. 55,9 12,0 0,0 70,0 46,0 183,9 Décem. 10,1 2,7 18,8 2,7 95,5 129,8
Totaux 784,1 457,4 842,1 594,8 808,6 3487,0 Totaux 500,3 604,0 276,2 282,2 652,9 2315,6
È veramente notevole la diminuzione di più che un terzo fra l’acqua caduta nel primo quinquennio e quella caduta nel secondo.
Quando si potessero avere per tutta la regione alpina i dati pluviometrici per lunga serie d’anni, allora il problema glaciale entrerebbe nel suo vero campo: nel campo della meteorologia.
Prima di por fine a queste pagine registriamo una parola di encomio per la guida Giuseppe Barmaz di Pré-St-Didier che ci fu compagno per una ventina di giorni nelle nostre peregrinazioni. Quanto egli ci fu guida capace e sicura nei pericoli, altrettanto si addimostrò paziente ed intelligente nell’aiutarci nelle nostre disagevoli ricerche e segnalazioni le quali se pur riuscirono così modeste, lo sarebbero forse state ancor più senza l’opera sua.
Torino, luglio 1896.
F. Porro della Sezione di Cremona. A. Druetti, Relatore.
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NOTE:
[64] Vedi “Riv. Mens. C. A. I.„ vol. XIV (1895) pag. 199.[65] Baretti M.: Studi geologici sul Gruppo del Gran Paradiso, nelle Mem. R. Acc. Lincei, Serie 3ª, vol. Iº, 1877.[66] Notiamo però che la suesposta legge che stabilisce una relazione fra la direzione degli strati e quella dell’asse della valle in essi scavata, ed il pendio dei fianchi di questa, non va intesa in senso assoluto essendochè nelle valli di comba o d’ interstratificazione il pendio dei fianchi dipende essenzialmente dalla inclinazione degli strati. Questa nelle valli di comba influisce altresì grandemente sulla degradazione superficiale, mentre nelle valli di perfetta chiusa tale degradazione dipende essenzialmente dalla natura litologica delle rocce.[67] De Marchi L.: Le cause dell’Êra glaciale. Pavia, Fusi, 1895.[68] Virgilio F.: Di un antico lago glaciale presso Cogne in Valle d’Aosta, negli Atti della R. Acc. Scienze di Torino, 1886.[69] Virgilio F., loc. cit.[70] Baretti M.: Geologia della Provincia di Torino. Torino, F. Casanova, 1893, p. 352-53.[71] Uzielli G. e Druetti A.: La Geologia e le sue relazioni con l’ingegneria italiana. Torino, 1890.[72] Sullo studio del movimento dei ghiacciai: Relazione della Commissione nominata dalla Sede Centrale del C. A. I. nella “Riv. Mens.„ vol. XIV (1895) pag. 199.[73] Santi F.: In Valle di Cogne, ecc., con appunti botanici, nella “Rivista Mensile del C. A. I.„ vol. XV (1896) num. 3.[74] In altra pubblicazione daremo gli schizzi particolareggiati di tutti i segnali eseguiti e visuali adottate, allorquando avremo maggior copia di materiale raccolto.[75] Bobba G.: Attorno al Gran Paradiso, nel "Boll. C. A. I." vol. XXVIII, pag. 218.[76] Bobba G.: Attorno al Gran Paradiso, nel citato “Bollettino„, pag. 227.[77] Porro F.: Sull’opportunità che le variazioni dei ghiacciai italiani siano sistematicamente studiate, e sulle ricerche iniziate a tale scopo. Estr. dagli “Atti del IIº Congresso Geografico Italiano„. Roma 22-27 settembre 1895.[78] Vaccarone L.: Il Gruppo del Gran Paradiso. Torino, V. Bona, 1894, pag. 23.[79] Virgilio F.: Di un antico lago glaciale presso Cagne, ecc., negli Atti della R. Acc. Sc. di Torino Vol. XXI 1885-86, pag. 294, nota in calce.[80] Baretti M.: Geologia della Provincia di Torino. Torino, F. Casanova, pag. 375.[81] Quando noi eravamo colla macchina fotografica nelle valli di Cogne ignoravamo questa circostanza, per cui non potemmo recarci nel punto sovrindacato della strada dell’Herbetet per ricavare colla fotografia la stessa veduta dall’abate Carrel stata schizzata in 9 anni diversi. Ci asteniamo pertanto dal pubblicare detti schizzi fino a quando (e sarà fra breve) avremo fotografata quella veduta, e potremo così su di essa riportare i disegni dell’abate Carrel, e ricostrurre nove diversi stati di quei ghiacciai in passato.[82] Vedi: Echo des Agriculteurs Valdôtains. II Année, N.º 13: 1 juillet 1896.
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Escursioni e studi nelle Alpi Marittime.
Felice colui che, avendo l’ordinario suo campo di lavoro in una grande città industriale, in mezzo ad un’interminabile pianura, trova pure il tempo e l’occasione di passare una parte dell’anno sulle Alpi! Così io, stanco della vita monotona e dei molteplici studi, facevo da 6 anni ogni estate il viaggio da Lipsia a Tenda, ove villeggiavano i miei genitori. E qui, fra quel clima stimolante, in mezzo a quei monti che m’invitavano a visitarli, non solo potei rinvigorire le mie forze e ritemprare i miei nervi, ma trovai anche una natura infinitamente degna d’attenzione e di studio; e fu per me, nei freddi e brumosi inverni di Lipsia, un conforto lo studiare quello che trovai scritto sulle Alpi e sui loro fenomeni, e riunire ciò che sui monti da me percorsi potevo dire, sia secondo le osservazioni da me raccolte coi miei poveri mezzi, sia secondo quelle che fecero altri visitatori. Ed ora presento un saggio dei miei studi, premessa una breve narrazione delle escursioni da me eseguite.
Il mio lavoro è certo pieno d’imperfezioni e di lacune; ma ad intraprenderlo mi spinse più che tutto l’amore di quelle Alpi, nelle quali ho passato i più bei giorni di mia vita.
I. Escursioni.
Dopo una salita alla Cima di Marguareis (m. 2649) che compii il 20 agosto 1892, il 12 settembre successivo, in compagnia del sig. P. Salvi, risalii con bellissimo tempo la Valle della Miniera, pernottando, dopo una breve gita al Lago di Fontanalba, nella bella casa del signor Pellegrino in Val Casterino, nella località segnata sulla carta col nome di S. Maria Maddalena.
Li 13 passammo per la Valmasca, il recesso lacustre dei laghi del Basto e la ripida Baissa di Valmasca (m. 2473), ove trovammo moltissima neve cadutavi una settimana prima, e scendemmo poi per l’orrido burrone delle Meraviglie, in cui a stento riuscimmo a scoprire taluna delle vantate incisioni. Alla sera, il sig. Salvi se ne tornò a Tenda, mentre io pernottai alle capanne di Tetto Nuovo, dal buon «Eumeo» Tribulla.
Il giorno dopo, fermatomi ai Laghi Lunghi per prendere un bagno nel rio, salii sul Passo del Trem, passando presso il Lago Carbone, benchè sia preferibile passare per i laghetti del Trem; sotto il passo v’è ancora un laghetto con pessima acqua, piena di bestioline rosse; però qui come altrove la sete mi vinse e, benchè con grave ripugnanza, dovetti bere tale liquido disgustoso. Verso le 14, mentre il cielo si copriva di nuvole, giunsi sulla Cima del Diavolo (m. 2687); tornato al Passo, misi circa un’ora per attraversare l’orrenda cassera che riempie il fondo del Vallone di Mairis; tale cassera è il più selvaggio ed il più caratteristico fra i numerosi campi di blocchi rocciosi che incontrai in quelle regioni, e non v’è, a quanto io sappia, altro mezzo di passarvi che scalando per diritto e per traverso quei grossi massi disposti in lunghe schiere in modo da formare un vero labirinto. Infine, vicino ad una fresca sorgente, trovai un sentieruzzo che rapidamente mi condusse, per l’angusto vallone disposto a scaglioni, sul terrazzo della Vastera Sottana, da cui una buona mulattiera scende per la Val Gordolasca; ivi pernottai alle Case Cluots (m. 1560).
Il giorno seguente rimontai la Gordolasca sino al Lago Lungo, la cui visita, che compiesi agevolmente per mezzo di facili sentieri da capre, raccomando caldamente ad ogni amatore di una natura veramente alpestre. Non sapendo che dal lago si può guadagnare direttamente il Passo di Monte Colomb, avevo lasciato parte dei miei bagagli alla Vastera Streit e dovetti tornarvi con molta perdita di tempo. Salii poscia ad un’insenatura della cresta ovest, più alta ed assai più a nord di quel passo; ma la cresta cominciando a velarsi dalle nebbie, fui costretto a discendere per una ripidissima frana che mi condusse sopra il laghetto di M. Colomb; ove non trovai nessuna traccia del sentiero che dovrebbe esservi, secondo la carta e la «Guida Martelli e Vaccarone»; il vallone facendosi impraticabile sotto il lago, feci un lungo giro per le roccie a nord, giungendo infine alla Vastera Sottana del Balour. Sorpreso poi dalla notte, a stento riuscii a guadagnare la Madonna delle Finestre, alle ore 20; l’albergo era chiuso, ma i pastori mi diedero un letto nell’antica trattoria.
Li 16, per la larga mulattiera che trovai in ottimo stato, attraversai il Colle delle Finestre, incontrando ancora molta neve. A San Giacomo fui accolto con squisita ospitalità dagli ufficiali della 13ª Compagnia Alpina, che conosceva fin da Tenda.
Nel 1893 feci a Tenda la conoscenza del sig. W. Symington, scozzese, il quale, avendo già visitato, come turista, tutte le Alpi Svizzere ed i paesi attorno al Mediterraneo, espresse il desiderio di conoscere anche le Alpi Marittime. Gli feci allora la proposta di accompagnarmi in una grande gita, a condizione che si conformasse ai miei disegni.
Li 17 agosto il predetto signore ed io partimmo da Tenda in compagnia di 4 altri signori e 10 signorine, passando la notte a Casterino, dopo una giornata molto allegra. Li 18, due giovani e le 6 più brave signorine ci accompagnarono sino al Lago inferiore di Valmasca; poi noi due rimanemmo soli a compire sino nella Val Gordolasca, lo stesso itinerario che avevo già seguìto nel 1892. Il giorno 19, dopo aver pernottato alle capanne del Tetto Nuovo, facemmo una gita alla Cima del Diavolo ove giungemmo assai tardi nel dopo pranzo. La cassera sotto il Passo del Trem fu pel sig. S. una cosa affatto nuova; qui ci rimase molto indietro, non essendo abituato a saltare da un masso all’altro o ad arrampicarsi su quei blocchi, di cui taluni hanno perfino da 3 a 5 metri di grossezza, giungendo infine senz’altro incidente alle case Cluots. Pernottato poi in un fienile, il giorno 20 non si fece altro che rimontare la valle fino alla Vastera Barma (m. 2160), dove il mandriano ci aveva detto esservi delle vacche; ma queste più non avendo trovate, fu fortuna che dopo parecchio passeggiare, fummo raggiunti verso sera da un capraio, che però scendeva più basso nella valle, il quale ci diede del latte.
Il ricovero del C. A. F. alla Vastera Barma, è a circa metri 50 sopra il rio, si compone di due stanze umide, con ingresso comune, munite di solide porte e chiudende di legno; la porta interna che conduce alla seconda stanza—più elevata—era chiusa a chiave[83], mentre nella prima stanza il suolo era così fangoso che non era possibile passarvi la notte. Ci decidemmo dunque di installarci nella Vastera sita poco discosto, ed acceso un fuoco di rododendri, ci avvolgemmo bene, coprendo i piedi con erba secca; la notte fu bella e molto mite.
Li 21, alle 5 proseguimmo pel grandioso anfiteatro prativo della Fous, circondato da monti ertissimi, poi per un buonissimo sentiero fra i due laghetti del Clapier sino ad una specie di terrazzo a circa m. 2600 di altezza, poco sotto il Passo Pagarì. Il tempo essendo bellissimo (si vedeva il mare), proposi al sig. S. di fare l’ascensione del Clapier che, visto da quel lato, ha l’aria tutt’altro che minacciosa. Però, sebbene sia di facile accesso, devo consigliare di non trascurare gli avvisi che danno Martelli e Vaccarone nella loro «Guida», giudicando per questa escursione necessaria la guida, poichè non è tanto semplice di trovare i passaggi più comodi per la salita, e fuori di questi non mancano i brutti posti.
Attraversata una lunga petraia, giungemmo sul grande nevato che, in forma di una striscia orizzontale, facendosi però ripida più sopra (verso nord), fiancheggia il monte ad ovest. Volevamo guadagnare l’estremità sud del nevato, dalla quale la salita si presenta più facile, ma era molto incomodo il camminare su quella neve ancora dura, e così preferimmo di salire per un ripidissimo e franoso canalone, col rischio che il signor S. mettesse in moto dei sassi, i quali m’avrebbero toccato senza che io potessi evitarli. Infine, giungemmo sul pendìo superiore del monte, che non offre la menoma difficoltà; verso le 10 ½ eravamo sulla cima (m. 3046) con aria così calma che si sarebbe potuto accendere un fiammifero (temp. +7° all’ombra); però le nebbie accumulavansi sull’orizzonte, velando il mare e la pianura. Sul maggiore dei due segnali v’era un bastone con un fazzoletto, postovi dal sig. tenente Cornaro nell’ottobre 1892.
Ci fermammo ¾ d’ora, e presi tre fotografie. Voleva poi scendere direttamente al Passo Pagarì, potendosi, secondo la citata «Guida» da questo passo «volgersi alla vetta, piegando leggermente sul versante della montagna a sinistra verso il ghiacciaio nord del Clapier, e quindi salendo per facili detriti lungo il fianco ovest». Devo confessare che, dalla cresta ovest, non vidi verso nord che rupi scoscese e nevai ripidissimi, non trovando un luogo opportuno per scendere al colle (alto poco più di m. 2800) il quale si apre immediatamente al piede del Clapier, separato dal Passo Pagarì per mezzo di una cresta quotata m. 2940.
Mentre allora il sig. S., più prudente, avrebbe preferito di fare il lunghissimo giro per la cresta sud, decisi di scendere direttamente sul fianco ovest, attraversando la parte superiore di un nevato inclinato e guadagnandone poi, per detriti, la base, che ivi si restringe e cessa bruscamente sopra una parete a picco, cosicchè chi volesse attraversarlo, se sdrucciolasse farebbe un salto mortale nel senso vero della parola. Non volendo nè arrischiare tale salto, nè risalire ancora, decisi di tenermi sulle rocce a destra, ove scendemmo talvolta coll’aiuto delle mani, giungendo infine sull’orlo superiore del grande nevato ovest del Clapier, il quale, prima di farsi piano, forma ivi una china di circa 20 a 30 m. di altezza, con una pendenza media di forse 30 gradi.
Non avendo nè piccozza nè ramponi, neppure bastoni ferrati, non ci rimase altro a fare che di scivolare giù. Il signor S. era giunto ad un punto più favorevole, almeno 5 metri più basso di me, senza che io potessi raggiungerlo, causa la ripidezza delle rocce frapposte; a stento potei ritenere una risata, vedendolo rotolare giù, con gambe e braccia per aria; i suoi effetti svolazzarono di qua e di là, ed essendosi lui seduto sulla sua giacca di lana per stare meno sul duro, questa gli rimase trattenuta in alto. Dal mio lato, il pendìo era assai più ripido; saltata la stretta, ma profonda bergsrunde, mi sentii spinto giù con rapidità vertiginosa, poichè la neve era affatto dura e di superficie molto ineguale, così venni scosso e riscosso con salti, la cui velocità ed ampiezza aumentava sempre. Credo che se l’altezza del pendìo fosse stata soltanto doppia, mi sarei rotte le ossa, mentre non ebbi che la pelle delle dita lacerata nel tentare di fermarmi. Vidi poi il sig. S. che invano tentava di riconquistare la sua giacca. Tentai anch’io e vi riuscii dopo molto tempo impiegato a intagliare passi, prima colla punta del mio stativo, poi con un miserabile temperino: discesi rifacendo la scivolata.
Riguadagnammo la base del Passo Pagarì, sul quale, per un ripidissimo pendìo, giungemmo alle ore 14. Questo passo non offre la menoma difficoltà ed è abbastanza facile il trovare la buona via; però, se è coperto di neve fresca, deve essere assai meno facile. La vista sino al mare e sui monti circostanti (specialmente sul Clapier) è molto bella, però non si vede il Lago Lungo, separato dal passo per mezzo di uno sperone roccioso. A nord comincia immediatamente il ghiacciaio della Maledìa; secondo la carta e la citata «Guida» credevo di dover scendere lungo questo, ed attraversato la piccola bergsrunde, seguii la sua parte inferiore, poco inclinata, pensando che il sig. S. mi seguisse. Voltatomi però, non lo vidi, e neppure rispose alle mie grida, ciocchè mi mise in non poca ansia; ma, mentre colla massima cautela scalavo i blocchi della morena frontale, sovrapposti in condizioni d’equilibrio veramente artistiche, lo vidi scendere rapidamente una facile china ad oriente: fu la sola volta che si discostò da me, e non ebbe a lagnarsene. Per facilissimo pendìo guadagnammo allora la strada di caccia.
È da deplorare che dalla morte del Re Galantuomo, queste strade, così ben tracciate, non siano più in maggior parte mantenute, cosicchè sono rovinate in molti punti, specialmente dove varcano torrenti; però sono ancora molto preferibili a quasi tutti i sentieri del lato sud di queste Alpi.
Non avendo nè bisogno nè voglia di scendere per le ripidissime scorciatoie, seguimmo le numerose giravolte che offrono stupende vedute sul Lago Bianco, sui nevati e sui monti circostanti (specialmente sull’altissimo muraglione di Monte Carbonè). Verso le 17 eravamo al gias Murajon. Scendendo infine la valle per la strada carreggiabile sotto il gias Colomb, riuscimmo poco prima delle 21 a San Giacomo, dopo circa 15 ore di lavoro interrotto appena da due ore di sosta.
Il giorno 22 scendemmo con sole caldissimo, il bellissimo vallone della Barra ombreggiato di boscaglie di faggi e dominato da roccie assai pittoresche, che talvolta sembrano quasi sospese sopra la testa di chi passa. Lasciata la strada carrozzabile, ci inoltrammo nel Vallone della Ruina, nel cui rio prendemmo un bel bagno, ciò che del resto facevamo quasi ogni giorno in qualche torrente (e perfino a 2000 metri nella Gordolasca, la cui temperatura era di soli 8° C).
Poi rimontammo la valle, affatto priva di boschi, sino al gias Monighet inferiore. Ivi il sig. ing. B. Sacerdote, che alloggiava coi suoi aiutanti, occupato a rilevare topograficamente i dintorni, ci ricevette colla più squisita cortesia offrendoci una buonissima cena ed un quartiere per la notte.
Avendo preso congedo da questi signori alla mattina del 23, sulle sponde del Lago della Ruina, salimmo per la buona mulattiera al gias Soprano, visitando anche il Lago Brocan. Rimontammo poi la strada di caccia del Colle Chiapous, alla cui sommità (m. 2520) si gode di una vista assai interessante e v’è un bel ricovero.
Il paesaggio del vallone Lourousa, nel quale poi si scende, è certo uno dei più grandiosi di queste Alpi, ma su tutto quel tragitto dal gias Monighet alle Terme di Valdieri non incontrammo acqua che in un solo punto, il rio Lourousa scorrendo nella valle superiore quasi continuamente sotto un ammasso di blocchi, cosicchè il suo mormorio cagiona veri supplizi di Tantalo.
Dal gias Lacarot (m. 1980), dove eravamo alle 19, la strada è quasi tutta carreggiabile, larga quasi 2 metri, e si svolge in interminabili giravolte attraverso una bella ma poco folta foresta. Qui ci avvenne uno strano incidente che dimostra bene come anche nei monti spesso si corre pericolo quando meno uno se lo aspetta. Un mulo, appartenente certo a boscaiuoli accampati in quei dintorni, stava ritto sulla strada, voltandoci la groppa; tentai di passar oltre, ma in quel momento mi sferrò due calci che mi avrebbero rotte le ginocchia, se non avessero invece toccato il mio stativo (piede dell’apparecchio fotografico). Siccome le ripide chine sotto la strada non si mostrarono praticabili, almeno in quel buio, non ci rimase altro mezzo che di cacciare giù innanzi a noi quell’animale per buon tratto, finchè ci si presentò una scorciatoia; passato poi il rio privo di ponte, giungemmo dopo le 21 alle Terme di Valdieri ove ci accolse una musica festosa, non però destinata a nostro onore; anzi i camerieri non si mostrarono entusiasmati a vedere il nostro esteriore piuttosto brigantesco, che molto contrastava colle belle toelette delle signore e colle brillanti divise degli ufficiali.
Il giorno seguente non proseguimmo che fino a Sant’Anna, ove cadde un po’ di pioggia, la sola che ebbi a vedere durante queste escursioni, anche nell’estate 1893, che sotto questo riguardo era piuttosto sfavorevole. Mangiammo e dormimmo nella Trattoria Piacenza, modestissima a dir vero, ma sufficiente per uno che è abituato allo scarso conforto dei gias.
Alla mattina, con tempo splendido, salimmo sul Monte Merqua (m. 2148), dal quale godemmo una bella veduta, poi scendemmo per boscaglie di rododendri ancora fioriti, nel vallone del Desertetto, senza trovar acqua che sotto il villaggio di San Bernardo. Alla sera eravamo ad Entraque, da dove il giorno 26 ripartimmo per Tenda.
Il risultato fotografico di questa spedizione essendo stato ben magro, mi decisi a tentarne un’altra, ciò che il pessimo tempo non mi permise per più settimane. Ma nella notte del 27 settembre, vedendo il cielo sereno e stellato, risolsi di mettermi tosto in marcia e dopo pochi preparativi partii alle ore 2. Rimontai lentamente al chiaro di luna il Vallone della Miniera e giunsi verso le 9 ai gias della Valmasca; proseguendo poi verso nord, attraverso macereti e dirupi, ebbi la fortuna di trovare subito la via di accesso più facile per guadagnare il Lago Agnel, passando a nord del rio che ne scende formando una bella cascata, che si precipita da una parete liscia, alta circa 200 metri; passai davanti all’imbocco di parecchie caverne, probabilmente poco profonde (il terreno essendo schistoso) e giunsi infine a una discreta altezza sopra il lago, senza che mai incontrassi traccia di sentiero.
Alle 14 quando mi fermai sulle sponde del lago, un vento di ovest spingeva davanti a sè la nebbia; speravo tuttavia che il tempo si rimettesse volendo ancora scendere pel Lago Bianco al gias Murajon e tornarmene l’indomani a Tenda pel Colle Vej del Bouc, quantunque tale percorso riuscisse assai faticoso. Aspettai invano fino alle 16 ½, ed allora la prudenza più elementare mi costrinse a tornare indietro. Volendo però evitare il giro sul lato nord, mi avventurai sulle roccie che fiancheggiano la cascata, e vi errai lungo tempo poichè giungevo sempre sull’orlo di precipizii, finchè sul far della notte mi decisi a rimontare sulle rive del lago. Alle 21 splendeva la luna, ma non sentendomi la voglia di ritentare la discesa, mi adattai a passare la notte dove ero. Non tirava vento, ma faceva freddo, tanto che le piccole pozze attorno a me si ghiacciavano; non trovai legna di sorta, nè un riparo qualunque, la casa rovinata, di cui parlava ancora il Coolidge nel 1879, essendo scomparsa.
Certo è che quella notte mi parve interminabile; passai il tempo alla meglio, recitando, cantando, urlando o rodendo le mie scarse provviste, ma specialmente contemplando l’indicibile orrore di quel paesaggio. Chi ebbe la fortuna di vedere un simile spettacolo, non l’avrà certo potuto dimenticare: la luce chiarissima, ma fredda dell’astro notturno si diffondeva su quelle rocce massiccie, brulle, fantastiche, scintillava sui nevati e si rifletteva nel nero ed immobile specchio del lago; le ombre poi parevano abissi senza fondo.
Alle ore 4, tremante di freddo, mi rimisi in marcia, seguendo la sponda nord del lago, molto sassosa. Alle 7 giunsi sull’altura del Colle dell’Agnel (m. 2568), giusto al levar del sole, salutato da me con una gioia che mi fe’ capire il fervore dei selvaggi adoratori di quell’astro benefico. Ebbi una vista grandiosissima sul Clapier, sui ghiacciai della Maledìa e sulle erte rupi dell’Argentera; sarebbe però difficile di immaginare una scena più desolata, più priva di ogni segno di vita; il Lago Bianco, sebbene situato quasi 100 m. sotto il Lago Agnel, era ricoperto da una spessa crosta di ghiaccio.
Il Colle dell’Agnel è certo tra quelli, che da Tenda conducono ad Entraque, il più degno di essere attraversato, ma è piuttosto malagevole, privo di ogni sentiero, e la discesa verso il Lago Bianco è piuttosto ripida; fa uno strano effetto il vedere, in mezzo a quel paesaggio squallido e polare, un palo coll’iscrizione: «Caccia riservata a S. M. il Re.»
Fermatomi a prender qualche fotografia, tornai indietro e, rifacendo l’itinerario del giorno precedente, giunsi a Casterino nel pomeriggio ed a Tenda alle 19, quasi sfinito dal sonno, al quale non avevo potuto pensare per ben 68 ore.
Nel 1894 cominciai la mia prima grande gita li 27 agosto, rimontando molto lentamente da Tenda per le case di Maima; la Ripa di Berno e la Baissa dell’Urno al Colle del Sabbione (m. 2264); il sole era caldissimo e l’insolito peso che m’ingombrava le spalle mi fece impiegare oltre 12 ore a compire quell’itinerario che si può facilmente effettuare in 5. Sul colle trovai da dormire in un casolare nel quale entrai per un finestrino: dentro vi era molta paglia, cosicchè non ebbi a soffrire dal freddo.
Il 28, passai al Lago della Vacca, vicino al quale vidi un piccolo stagno rotondo, ancora mezzo riempito di neve ghiacciata: 3 altri laghetti trovansi proprio a nord del colle, non segnati sulla nuova carta, bene invece sulla carta sarda; i due stagni sul lato sud non hanno acqua nell’estate. Poi per facile sentiero guadagnai la larga depressione del Colle Vej del Bouc (m. 2620); da questo volgendo verso nord, feci in un’ora, senza disagio, la salita della Cima della Valletta Grande (chiamata semplicemente «della Valletta» sulla nuova carta; m. 2812), la cui larga cresta, tutta frantumata, domina le petraie ed i dorsi della Schietta.
Il panorama è esteso e molto interessante; ma, se si eccettua la pianura piemontese e le pendici imboschite attorno al Vallone di Casterino, la vegetazione arborea manca quasi intieramente al paesaggio, come le due case vicino al Lago Vej del Bouc sono quasi i soli segni di vita umana in quei dintorni. Verso nord-ovest la lunga cresta dentellata di Monte Carbonè, le cui cime per buon tratto conservano un’altezza pressochè uguale (il punto più alto, chiamato Punta del Cairas sulla carta sarda, misura m. 2828), copre gran parte delle Alpi Graie e Pennine, mentre il selvaggio gruppo dell’Abisso, verso sud, cela i monti di Tenda. Brevi tratti di pascoli e qualche lago danno a quella natura desolata un aspetto più ameno: ben altro doveva essere quando folti boschi nereggiavano su tutte quelle pendici! Fra i laghi merita speciale menzione il Carboné (m. 2621), di cui si vede l’estremità orientale; esso è dominato a nord da un contrafforte con culmine quasi rettilineo (m. 2721).
Tornato al colle, scesi per un sentiero, rovinato in qualche punto, sulle sponde del bel Lago Vej del Bouc (m. 2060), attorniato in gran parte da pascoli; preso un bagno nella sua freddissima acqua ed ammirato il circo romantico di monti rocciosi che ne forma il quadro, andai a bere del latte dai pastori del vicino gias; v’è anche una bella casa che probabilmente è un ricovero di caccia del Re Vittorio Emanuele, e più sotto vedonsi ancora gli avanzi di una strada quasi carreggiabile, mentre il sentiero attuale, sebbene buonissimo, non è molto largo. Alle 20 ero al gias Colomb (m. 1460), ove mi feci fare un lettuccio all’aria aperta, poichè colla notte bellissima non mi sorrideva di rinchiudermi nella fumosa capanna.
Il 29, lasciando ivi parte dei miei bagagli, presi la strada che pel gias Murajon sale fin sotto il Passo Pagarì, colla intenzione di visitare il Lago Bianco ed il ghiacciaio del Clapier; però a tale scopo avrei dovuto a metà cammino volgere verso est, ma accorgendomene troppo tardi, mi contentai di visitare il piccolo ghiacciaio che chiamerò «di Peirabroc», attorno al quale incontrai qualche passo sdrucciolevole. Una grandinata che poco dopo scoppiò mi costrinse a rifugiarmi sotto una roccia sporgente ed a rinunciare al progetto, del resto un po’ temerario, di passare lungo le scoscese pendici orientali per guadagnare il Lago Bianco. Tornai dunque indietro, visitando ancora, verso sera, la bella cascata che si trova nel fondo del vallone di Peirabroc (m. 1627) e vicino alla quale si svolge sulla pendice una strada di caccia, ora abbandonata. Dormii ancora vicino al gias Colomb.
Il giorno 30 scesi ad Entraque, e nella sera del 31 mi recai a Sant’Anna di Valdieri, ove pernottai nella Trattoria Piacenza.
Il 1º settembre rimontai il bellissimo Vallone di Meiris per strada quasi carreggiabile sino al Lago Sottano della Sella; verso il tocco ero al Lago Soprano, ed alle 14 giunsi nel vallone superiore, al punto dove comincia la salita del Colle di Valmiana. Il tempo si era fatto un po’ minaccioso, ma le nubi essendo più tardi svanite, mi decisi a compiere l’ascensione del Matto. Però, avendo scambiato un contrafforte a nord poco elevato per la vetta orientale, salii direttamente in quella direzione, finchè mi trovai su ripido ed instabile macereto; accortomi dell’errore, dovetti fare un lungo giro non troppo comodo, finchè giunsi all’estremità del grande nevato ovest del Matto; tentai di rimontarlo per guadagnare la sua parte media, ben poco inclinata, ma sotto a questa la neve era troppo dura e sdrucciolevole; scivolai allora giù, fermandomi ad un piccolo sasso isolato, senza il quale sarei andato a battere con tutta forza contro i massi che fiancheggiano il nevato. Seguendo allora l’orlo settentrionale di questo, guadagnai in breve tempo, dopo 2 ore ½ di ascensione, la punta Est del Matto (m. 3087), per una china di detriti. Su quel culmine v’era una temperatura straordinariamente mite (+12° alle ore 17); in alto correvano le nuvole, velate erano la pianura e le Alpi, fuorchè le Marittime; osservai anche un grandissimo arcobaleno doppio che innalzavasi dietro la Val Gesso. La sommità rocciosa non offre posto che per sei o sette persone; non vi cresce più nessun fiore. Messo nel segnale, allora rovinato, un biglietto col mio nome, mi separai a malincuore da quel grandioso paesaggio.
Tentai quindi, per risparmiar tempo, di scivolare giù pel grande nevato nella sua parte più stretta, ma acquistai subito una velocità tale da non poterla tollerare pel rimanente tratto; così mi fermai e seguii al passo le numerose concavità della superficie, in parte ripiene di acqua. Poi presi a scendere lungo un facile dorso di rocce montoni, credendo di poter poi raggiungere il laghetto inferiore del Matto: ma me ne separavano dappertutto muri verticali, e così dovetti risalire con perdita di tempo quel dorso e girare poi a nord finchè guadagnai il detto laghetto. Prima di raggiungerlo fui sorpreso dalla notte su quelle interminabili petraie; però, sebbene non potessi distinguere bene che gli oggetti più vicini, avevo osservate le particolarità di quella valle abbastanza bene per raggiungere, senza smarrirmi, alle ore 20 ½, la strada, al punto dove avevo lasciato parte de’ miei bagagli. Ivi era una specie di misero rifugio (circa m. 2450) costituito da un solo muro; sebbene non fosse troppo aggradevole il passare una notte affatto buia in quel deserto di sassi, privo di ogni albero e distante ben due ore dall’ultimo gias, mi vi rassegnai avviluppandomi bene nella mantellina e ficcando le gambe in una piccola cavità; così riuscii perfino a dormire un poco. È certo che tali avventure non bisogna cercarle, potendo esse anche finir male; ma stimolano in modo singolare l’energia morale.
Quanto all’ascensione del Matto, osservo che dal lato del vallone di Meiris, si può facilmente eseguire in 2 ore dal punto dove si lascia la strada, passando per le chine erbose a nord del laghetto inferiore e volgendo poi, dietro quello di mezzo, sul dorso di rocce montoni. Dal lato di Val Vallasco, si guadagna questo stesso dorso dal fondo del vallone Cabrera per mezzo di una ripida e franosa china sul lato est, ed è questo il solo punto non tanto facile, mentre nel vallone Cabrera conduce, dalla strada di caccia, un buon sentiero che se ne diparte circa mezz’ora sopra il gias Valmiana; è del resto l’itinerario descritto dal signor Marinelli («Boll. C. A. I.» vol. XII). È da notarsi che la strada di caccia non varca punto la depressione (circa m. 2650) che trovasi immediatamente ad ovest del gruppo del Matto; questo colle è invece abbastanza malagevole. Quanto a scendere direttamente dalla punta Est alle Terme di Valdieri, difficilmente vi si deciderà chi dal disopra ha visto quelle precipitose balze; però potrebbe riuscirvi piegando un certo tratto verso sud.
La testata di Val Vallasco dal Colle di Valmiana
La testata di Val Vallasco dal Colle di Valmiana Disegno di A. Viglino da una fotografia di F. Mader.
Il 2 settembre all’alba proseguii sulla strada, passando accanto ad una buonissima sorgente ferruginosa e guadagnando alle ore 8 il Colle di Valmiana (m. 2920) sul quale v’è un ricovero ben costrutto. Il passo forma un largo terrazzo franoso e non è che lo sperone occidentale della Rocca Valmiana (m. 2990), la cui cima Est si può guadagnare facilmente in ¾ d’ora, mentre la seconda punta, di qualche metro più alta e coronata da un segnale, è un po’ meno comoda. Ad est del passo, un muro quasi verticale scende verso i laghi del Matto. La vista, poco meno estesa dal Passo che dalla Rocca, non vale quella del Matto, ma è pure bellissima, specialmente sui monti e sui laghi del Vallasco, sul magnifico gruppo dell’Argentera, sulle Alpi Cozie e sul Matto stesso, che verso sud si prolunga dietro il burrone di Cabrera, con rocce nerastre di aspetto oltremodo fantastico. La strada è sempre larga e ben riconoscibile, cosicchè ci vorrebbe poco a renderla di nuovo praticabile ai cavalli. Il lato sud del passo è anch’esso orrido e roccioso, ma offre sempre bei punti di vista. Più volte colà incontrai camosci che non si curarono di me, cosicchè potevo ammirare la loro straordinaria agilità.
Baissa di Valmasca, crestone del M. Capelet e monti a ovest del Lago del Basto
Baissa di Valmasca, crestone del M. Capelet e monti a ovest del Lago del Basto Disegno di L. Perrachio da una fotografia di F. Mader.
Un amante della natura apprezzerà certo l’effetto del divieto di caccia nei distretti riservati a S. M. il Re, poichè vi prospera la vita animale, della quale nelle valli di Tenda non si vede quasi traccia. Sul Matto non è raro il vedere sino a cento camosci; in altri punti vidi stormi di pernici, francolini ed altri uccelli, poi anche marmotte che non fuggivano che quando ero molto vicino; i rivi sono singolarmente ricchi di ghiozzi. Però, eccetto qualche aquila ed un certo numero di timorose vipere, il solo animale dannoso che incontrai in queste Alpi, fu un lupo che nel 1891 vidi sotto di me, sulle sponde del Lago del Trem.
Incontrata una fresca sorgente sopra il gias Valmiana ed attraversato un bellissimo e profumato bosco di larici, giunsi verso mezzogiorno nel piano di Vallasco. Dopo un po’ di riposo, scesi alle Terme di Valdieri, e verso sera rimontai ancora, per un delizioso sentiero, attraverso il magnifico bosco della Stella, ad un gias (m. 1753) sul lato sud del Vallone di Lourousa, passando poi per un ponte sull’altro lato, vicino al gias inf. Lourousa, ma si può anche proseguire sulla sponda sud fino al gias Lacarot.
Non saprei troppo raccomandare, a chi dalle Terme vuol recarsi al Colle Chiapous o sulla Punta dell’Argentera, di servirsi del detto sentiero invece delle 35 giravolte della strada di caccia; risparmierà molto tempo, senza contare il pregio di un’ombra continua. Ridiscesi per lo stesso cammino alle Terme, ove giunsi alle 20, e di là in vettura proseguii per Sant’Anna.
Il 3 settembre per bellissimi castagneti salii sul monte l’Arp, a ponente di Valdieri, senza però guadagnarne la cima, poichè il cielo cominciava a velarsi. Raccomando ad ogni visitatore della Val Gesso la facilissima ascensione di questo monte, coperto in gran parte da praterie e da faggeti. Alto pressochè come il Righi (ha m. 1830), esso deve la sua bellissima vista meno all’altezza che alla sua posizione singolarmente favorevole, centrale ed isolata nello stesso tempo; se gli mancano attorno i grandi laghi, ha invece ai suoi piedi le larghe ed ubertose valli di Demonte, Desertetto, Valdieri, Entraque, Barra e Trinità, e gli è vicinissima la grande pianura, coronata da verdi colli; vedonsi numerosi villaggi, lo stabilimento delle Terme di Valdieri, i gruppi di Monte Bussaja, del Clapier, dei Gelas, dell’Argentera, di Oriol, del Matto, con tutti i loro particolari, la bella piramide della Cima del Lausetto, in gran parte rivestita da praterie, il Nodo del Mulo a nord della Val Stura, il Monviso, le Alpi Graie e Pennine, ecc. Nello stesso giorno tornai da Valdieri a Tenda.
Non feci più altra gita prima del giorno 20, nel quale partii alle ore 6 pel Vallone di Rio Freddo, giungendo alle 13 ½ sulla Cima di Marguareis[84].
II. Osservazioni topografiche e scientifiche
1) Monti, roccie, ecc.
Della Cima di Marguareis e dei distretti rocciosi circostanti ho già data una descrizione abbastanza particolareggiata[85], e, come dissi or ora, avrò occasione di riparlarne per ulteriori studi che vi feci in parecchie visite alla medesima.
Passando alle Alpi Marittime proprie, non dirò che poco sul gruppo del Clapier.—Il Clapier stesso (m. 3046) si presenta molto diversamente, secondo il punto da cui lo si vede. Dal lato di Tenda ha quasi l’aspetto di un cubo, e si vede, all’estremità Est cadente a picco, una punta secondaria alta 3000 m. circa che costituisce l’estremità del crestone orientale. Dal lato nord, figura come una piramide rocciosa molto regolare ed acuta, la suddetta punta secondaria rimanendo nascosta. Dal lato di Val Gordolasca, infine, presenta un dolce declivio terminantesi con un corno arrotondato.
Tutto il fianco sud, dai 2800 m. in su, è coperto da massi di gneiss bruno chiaro, cosicchè il monte merita bene il suo nome; non vi trovai, oltre ai licheni, altra pianta che qualche «Leucanthemum coronopifolium», fiore abbastanza comune anche nei bassi monti e che ivi cresce fin oltre ai 3000 metri. Il muro di roccia a nord del Clapier è molto simile a quello del Marguareis; visto dal Colle dell’Agnel, non mi parve più alto di 300 a 400 metri; dalle rocce sporgenti sotto il segnale, non si vede la base della parete; al di sotto si stende il grande nevato, in parte ghiacciato, di cui parleremo più avanti.
Non ebbi la fortuna di trovarmi sul Clapier col tempo sereno, ma confesso che non credo di aver perduto molto. Le catene delle Graie e Pennine offrono quasi lo stesso aspetto, viste dal Colle di Tenda o dietro a Cuneo, come dal Clapier, e del resto, tra queste cime tanto lontane, non spiccano in modo imponente che pochi gruppi molto nevosi, quali il Gran Paradiso ed il Monte Rosa; il solo picco abbastanza lontano che per se stesso appare maestoso è il Monviso, che si vede da quasi dappertutto; molto attraente è certo l’aspetto della pianura che non è troppo lontana, ma pure spesso velata dalle nebbie; però la si vede ben meglio dalla Besimauda o dal monte l’Arp. Quanto al mare, anche nei giorni più limpidi, mai non vidi—dai monti di queste Alpi, distanti almeno 30 chilometri dalla costa—altro che una specie di piano abbastanza stretto, in apparenza immobile, senza lustro ed il cui uniforme colore bigiastro spiccava sull’azzurro dell’orizzonte. È vero che il Freshfield, dalla Cima di Nasta, vide una cappella vicina a Cannes ed il fumo del treno che proseguiva verso Nizza; ma questo deve essere un caso ben raro! In generale nelle vedute di paesaggi così lontani, c’entra più l’immaginazione che l’occhio, e l’immaginazione la si ha anche quando la nebbia vela l’orizzonte. Per me, le parti più amene del panorama del Clapier sono il bel bacino di San Grato, coronato da prati e boschi, le foreste di castagni dietro a Belvedere, i verdi monti della Valmasca ed attorno a Tenda, e sette laghetti, fra altri il Lago Bianco coperto di «icebergs» e gran parte del Lago Lungo. Imponente è invece l’aspetto di tutte quelle giogaie, per lo più nude, rocciose ed oscure; specialmente distinguonsi l’altissima Serra dell’Argentera, la lunga cresta del Carbonè, i picchi della Lusiera e del Ciaminejas, il Bego simile ad un cupolone, il Capelet, la Cima dei Gelas e la Punta della Maledìa. Quest’ultima, chiamata Cima di Caire Cabret sulla carta sarda, e lasciata senza nome sulla nuova dell’I. G. M., che le dà però 3004 m. d’altezza, mi parve visibilmente più bassa del Clapier, mentre al rev. Coolidge parve un po’ più alta; il sig. Bozano ne diede una descrizione abbastanza particolareggiata nella «Rivista Mensile» del 1891, ritenendo che la quota di m. 3004 sia alquanto inferiore al vero.
Il gruppo del Clapier e dei Gelas dal Monte Bego
Il gruppo del Clapier e dei Gelas dal Monte Bego Disegno di A. Viglino da una sua fotografia presa d’inverno.
Questo picco, che si vede benissimo dal Lago Lungo e dal Lago Agnel, forma una cresta molto acuta e tagliata quasi verticalmente, così che, da nord e da sud si presenta quale piramide tronca, dai lati molto ripidi; dall’est e dall’ovest invece (anche dal Clapier) perfettamente quale obelisco: il muro verticale a nord, sopra il ghiacciaio della Maledìa, è alto pressochè 200 metri (Vedi l’incisione qui contro).
Fra gli altri monti di questo gruppo, oltre la Cima dei Gelas (3135 m.), abbastanza conosciuta, meritano speciale menzione i due picchi rocciosi della Lusiera (m. 2913 e 2897), singolarmente acuti e precipitosi, con creste dentellate[86].
Anche le altre creste attorno ai laghi di Valmasca, ai laghi delle Meraviglie ed all’alta Valle della Gordolasca presentano forme oltremodo orride e fantastiche, cosicchè il Purtscheller le paragonò alle Alpi Dolomitiche, sebbene siano costituite tutte da schisti, da gneiss e da granito. Ripidissimo è il picco (m. 2600?) che s’innalza direttamente ad est della Vastera Barma: ma il monte più maestoso di tutto quel gruppo—non eccettuando il Gelas—è certo il Monte Capelet (m. 2927), che si presenta molto imponente dalla Cima del Diavolo, dal vallone di Mairis, dal Lago Lungo e dal Passo Pagarì, ma specialmente dalla giogaia occidentale di Val Gordolasca; la sua cresta frastagliata cade verso ovest con balze precipitose e nerastre, spesso velate dalle nebbie, ed alte circa 800 metri; si distinguono benissimo dai colli attorno a Nizza, di dove quel monte, colla Cima dei Gelas e la Punta dell’Argentera, sembra il gruppo più cospicuo di quelle Alpi.
Quanto alla Cima del Diavolo (m. 2687), così ben nominata a vederla dal macereto di Mairis, essa deve godere di un clima piuttosto mite, essendo protetta quasi affatto, verso nord, da monti più alti; infatti, le due volte che vi salii trovai l’aria tiepida e calma, e la flora vi è ancora veramente subalpina, crescendovi per esempio il «Veratrum album» ed il «Sempervivum arachnoideum». La vista è inferiore a quella del Bego verso nord ed est, ma certo più libera sugli altri lati; verso sud non si vede più nessun monte che ecceda i 2200 metri, e ciò produce un singolare fenomeno ottico; infatti gli altipiani boscosi e prativi del Raus, dell’Aution e di Milleforche (oltre 2000 m.) coi loro fortilizî, sembrano assai più bassi dei monti di Mentone, Monaco e Nizza (800 a 1500 m.) dai quali sono separati per mezzo di profonde valli; non meno curioso è il succedersi quasi interminabile di catene, sempre più lontane e meno distinte, verso ovest sin oltre alle sorgenti del Varo. La Valle dell’Inferno con cinque de’ suoi laghi appare piuttosto leggiadra, mentre asprissimo e severo è il carattere della profonda Val Gordolasca, coronata da rupi erte ed orride, simili ai paesaggi dei Tatra.
Punta della Maledìa e Cima del Murajon dal Passo del Pagarì.
Punta della Maledìa e Cima del Murajon dal Passo del Pagarì. Disegno di L. Perrachio da una fotografia di F. Mader.
Le catene sul lato nord delle Alpi Marittime, nelle Valli del Gesso, formano quasi tutte creste oltremodo precipitose e strette, acute quasi come coltelli e frastagliate come seghe; le creste sono spesso sostenute sui lati da contrafforti simili a bastioni, mentre l’ultimo sperone della cresta sembra una torre od un pane di zucchero. Le più caratteristiche fra tali creste, che assumono il nome di serre o serriera, sono quella del Carbonè, tra i valloni della Trinità e di Monte Colomb, poi quella tra i valloni della Ruina e della Barra, il cui punto culminante è la Punta Ciamberline (m. 2791).
La cresta dell’Argentera è di molto la più alta e la più maestosa delle Alpi Marittime; vista dall’Osservatorio di Nizza, dalla Valle del Varo e dalle cime ligustiche, essa appare già sensibilmente più elevata delle altre punte. Essa forma una sèrra molto sottile, lunga circa 1 km. e non mai più bassa di 3150 m., con 4 punte principali, tra le quali quella Sud (m. 3313) è la più alta, mentre delle due settentrionali quella Ovest ha sulla nuova carta (che la chiama Gelas di Lourousa) la quota di metri 3260; quella Est (il Monte della Stella di Isaia e Coolidge) sarebbe di altezza un po’ minore secondo quest’ultimo, mentre il sig. Isaia le dava 3271 m. Grandiosissimo è l’aspetto di questa giogaia dal Vallone di Lourousa, sul quale il Monte della Stella ergesi con parete quasi verticale, di aspetto oltremodo massiccio e liscio, alta ben 900 m.; essa è costituita da un granito bruno chiaro, e si estende per circa 2 chilometri fin oltre al Colle Chiapous.
Fra le altre cime di quel gruppo, la Cima del Baus (m. 3068), che torreggia sopra il Lago Brocan, colpisce più di tutte lo sguardo. Al di là del Colle Chiapous poi, ergesi il picco singolarmente aguzzo dell’ Oriol (m. 2961). Faccio qui osservare che il signor Purtscheller[87] dà questo nome alla punta occidentale più bassa (m. 2945) da lui ascesa per la prima volta e chiamata Punta dell’Asta sulla Carta Sarda; egli parla vagamente della vera Cima dell’Oriol come di un picco a sud (è invece ad est) dell’altra cima e che avrebbe il nome Letous. Vuole poi che la Cima dell’Asta (m. 2871) si trovi veramente al posto dove la carta ha segnata la Cima Dragonet (m. 2684); infatti, quest’ultima mi parve raggiungere almeno i 2880 m., ma però si trova—poco più a sud della «Cima dell’Asta» della carta—una punta secondaria poco meno alta, alla quale potrebbesi riferire la prima quota. Mentre tutte queste cime sono selvaggie e di accesso difficile, la Cima del Lausetto, che vicino ad Entraque raggiunge ancora i 2740 m., si presenta invece quale bella piramide molto regolare, con declivi piuttosto dolci.
Passiamo infine al Monte Matto, che, a vederlo sulla carta, si crederebbe una punta isolata alta m. 3087. Esso costituisce invece due creste molto ragguardevoli, il cui punto di congiunzione è il picco orientale al cui segnale si riferisce la detta quota delle carte; la prima cresta corre per circa 750 metri di lunghezza verso sud-ovest, raggiungendo circa 3095 m. con un largo massiccio granitico; e circa 3092 m. con un altro picco molto acuto, poi supera ancora i 3000 metri in almeno 4 punte secondarie, di cui la maggiore mi parve raggiunga ben 3050 m., e fra le quali trovansi insenature di poco rilievo; la cresta si termina con una specie di torre rocciosa tagliata a picco (circa m. 2950), sotto la quale roccie oltremodo orride, di color nerastro, scendono fra i valloncini di Cuogne e Cabrera. L’altra cresta invece corre per circa km. 1 ½ verso nord-ovest, superando i 3000 m. ancora in quattro o cinque spuntoni di roccia (il più alto sarà circa m. 3050) e terminandosi poi con due cime di altezza pressochè uguale, di cui la settentrionale (alla quale si riferisce la quota 2803 della carta) è tagliata a picco sul lato del Vallone di Meiris, formando un muro imponentissimo, verticale per ben 500 m. L’angolo fra le due creste, rivolto verso ovest, è riempito da un grande nevato, per lo più poco inclinato, che dà acque tanto al rio di Meiris che a quello di Cabrera (Vallasco); più sotto corre un dorso di roccie montoni che si estende fino alla stretta sella (m. 2650 circa) che separa il Matto dalla Rocca di Valmiana, di cui già parlai.
I pendii della punta orientale, coperta di massi di gneiss, verso nord (sul vallone del Latous), come anche le roccie che la continuano verso est—sino all’insenatura (circa m. 2450) che la separa dal gruppo della Merà—sono ripidissimi. Verso sud-est, il Matto forma il più alto e ininterrotto pendìo di tutte le Alpi Marittime, elevandosi senza alcun contrafforte a circa 1790 m. sopra la Valle del Gesso; la parte più alta è costituita da una parete ripidissima di granito bruno, massiccia, solcata appena da qualche burrone poco profondo, quasi priva di neve e di piante, alta ben 1200 m. Vale a dire che l’aspetto ne deve essere maestosissimo, però si deve salire assai alto sui monti ad est o nel Vallone di Lourousa per farsene un’idea giusta. Già il Freshfield chiamò il Matto una montagna singolare ed imponente, estremamente precipitosa, ma troppo piana ed uniforme al culmine per essere pittoresca; infatti, dall’est esso appare come una lunga serie di denti rocciosi, di altezza pressochè uguale e separati da selle poco profonde; inoltre, nel pomeriggio tutto il pendìo si trova nell’ombra ed appare scolorito e nero, tanto più che verso la sera quasi sempre le nebbie lo velano in parte, formando spesso una cappa sul culmine e dando al monte un aspetto misterioso, quasi diabolico.
Dalle Terme di Valdieri si vedono le due punte più alte, ma si è troppo sotto alla montagna per poterne apprezzare l’intiera grandiosità; più uno si allontana verso est e più il monte sembra alzarsi nel cielo. Una buona veduta complessiva la si avrebbe dal Monte Stella, o meglio dalla cresta dell’Asta; più pittoresco ne deve essere l’aspetto dalla Cima del Lausetto e dalla lunga serriera del Latous a sud del Chiot della Sella; di là, infatti, la punta Est appare come il culmine avanzato di una sottile cresta rocciosa, formando una bifida piramide con lati precipitosi di altezza inverosimile: è la stessa apparenza svelta ed acuta che presenta il monte, quando lo si vede dalla bassa Val Gesso o dalla pianura tra Cuneo e la Chiusa di Pesio. Osservo ancora che in scritture antiche il monte è sempre chiamato «Matto grosso» matto significando evidentemente massiccio o masso, come nella lingua portoghese; infatti, non conosco altro monte di apparenza così massiccia.
Salendo sulla punta Est, non trovai altro fiore che il Leucanthemum alpinum, sino ai 2900 m. di altezza; infatti tutte quelle cime coperte di detriti sono quasi prive di fanerogame, come osservai anche sul Clapier e sulla Cima di Marguareis, la quale, nel vallone di Lourousa, spunterebbe appena fuori delle foreste, mentre in verità il suo largo dorso non conta che circa 10 specie di poveri fiorellini. La Cima del Diavolo invece, tutta rocciosa, nutre malgrado la sua strettezza ben 20 specie, tra altre l’Artemisia spicata, che coll’Eritrichium nanum cresce perfino sulle creste dei Gelas e dell’Argentera.
La vista dal Matto è tra le più attraenti, sebbene la punta occidentale, di difficile accesso, mascheri il Vallasco e buona parte dei monti a sud; le Alpi Cozie, col Monviso, vedonsi assai più da vicino e perciò meglio che dai monti di Tenda. A nord, abissi spaventevoli scendono nel vallone del Latous, e più sotto stendonsi i due Laghi della Sella; ma più sorprendente ancora è il precipizio orientale: infatti, lo stabilimento delle Terme appare così vicino e così sotto alla cima, che da questa uno si ritiene certo di poter mandare un sasso sul tetto.
Ho ancora qualche cosa da soggiungere sulle roccie. Tutto questo gruppo che è il più elevato delle Alpi Marittime fa parte di un nucleo di rocce sia massiccie, sia indistintamente stratificate (così dette antiche), emergenti fra schisti permici (a sud) e calcari triassici (a nord); esso corrisponde ad altre simili isole di gneiss sul lato ovest delle Alpi Occidentali (tali i gruppi del Pelvoux e del Monte Bianco) ed è chiamato dallo Zaccagna «Massiccio del Mercantour» causa un singolare errore dei cartografi sardi che attribuirono 3167 m. invece di 2775 alla Cima di Mercantour, punta piuttosto secondaria, vicina al Colle Ciriegia, e che ancora adesso da San Martino Lantosca taluno confonde colla Cresta dell’Argentera.
Le rocce, affatto prive di fossili, sono molto variate per aspetto e per durezza, trovandovisi diverse specie di granito, protogino, gneiss e micaschisto dai colori talvolta vivi e bellissimi (biancastro, bruno chiaro, verde, violaceo, rosso scuro, nerastro, ecc.); la struttura è spesso cristallina, talvolta però oltremodo compatta ed uniforme; raramente incontrai minerali cristallizzati, ma se ne rinvengono di bellissimi sulla Rocca dell’Abisso e su qualche cresta dietro ad Entraque.
Altro fenomeno molto comune in queste Alpi, dove la denudazione ha assunto vaste proporzioni, è la presenza delle « clapere » o macereti, o petraie, dovute all’azione delle meteore e del gelo sulle nude e ripide creste di roccia; i massi che se ne staccano rotolano giù, nella fredda stagione, sui ripidi campi di neve sino al punto più basso che incontrano e talvolta perfino sul lato opposto della valle; nei circhi contornati su tre lati da catene rocciose, il fondo deve naturalmente riempirsi man mano con tali massi. È ciò che ha avuto luogo nei valloncini laterali della Gordolasca, nell’alto vallone della Barra dal Prajet al Colle delle Finestre, nel vallone di Lourousa e in quello di Meiris sopra il Lago Soprano, nei rami terminali del Vallasco ed in molti altri luoghi. Altre volte le petraie ricoprono dorsi ondeggianti (come sul M. Clapier), più raramente formano ripide falde. I macereti inferiori delle Alpi calcaree, invece, ricoprono d’ordinario i fianchi inclinati dei monti e si distinguono dal resto pel loro materiale assai più minuto. Però, anche nelle vere petraie incontrai raramente blocchi di oltre 1 a 2 metri cubici di volume, salvo nella grande cassera ad ovest del Passo del Trem, ove predominano elementi grossi.
Sviluppatissimi sono in tutta quella regione i fenomeni glaciali, specialmente le rocce montoni, che nel Vallone della Miniera scendono sino a circa 800 metri, vicino a S. Dalmazzo di Tenda. In molti punti esse formano larghi dorsi ondulati o pianeggianti che col loro fianco precipitoso sbarrano la vallata, mentre il rio ne scende d’ordinario per mezzo di stretta spaccatura che vi si è scavata; simili dorsi si osservano, per es., nella Val Gordolasca sotto il Lago Lungo e sotto la Vastera Streit, poi nella Val d’Inferno, sotto i Laghi di Valmasca e dell’Agnel, nel vallone di Peirabroc e specialmente dietro al Lago della Ruina. Di questo ultimo sito, notevole per lo sperone abbastanza alto, arrotondato e tutto levigato dal ghiaccio, che s’innalza tra il sentiero ed il burrone del rio (la carta sarda lo chiama Baus del Fasà), parla il Freshfield dicendo che mai non vide un luogo che dimostri meglio la capacità dei ghiacciai di levigare le roccie e l’incapacità di rimovere seri ostacoli. Ritroveremo le rocce montoni quando tratteremo dei laghi alpestri.
Quanto alle morene, se ne vedono delle ben sviluppate nel vallone di Vallasco, in quello di Meiris davanti al gias della Sella, e specialmente nel vallone Lourousa, sbarrato più volte da terrazzi morenici a mo’ di scale regolari. Le più basse, sul lato sud, si vedono nel bacino di Tenda, poi sotto a San Dalmazzo, vicino allo sbocco del rio della Miniera (circa 650 m.); nella parte nord ne sono singolarmente ricchi i dintorni di Demonte e di Entraque, quest’ultimo villaggio è tutto attorniato da dorsi morenici colla superficie pianeggiante, ora coltivata o ridotta a praterie, mentre il corso dei torrenti vi è molto incassato, come lo è anche quello della Stura a valle di Demonte. Il maggiore dei colli morenici a sud di Entraque, chiamato Serriera dei Castagni, forma un largo dorso quasi uniforme che corre diritto per ben 3 km., elevandosi man mano da 1100 a 1330 m. e dominando il rio della Trinità dall’altezza di circa 200 metri.
Nelle Alpi Ligustiche, i fenomeni glaciali sono di minor rilievo, eccetto forse a nord del Mongioje: invece l’erosione vi ha prodotte potenti formazioni carsoidi e le vallate settentrionali vi sono anche singolarmente ricche di caverne, tra le quali quelle di Bossèa, dell’Orso, di Nava, ecc., che hanno poche rivali in Italia.
2) Formazione delle Vallate.
Le valli delle Alpi Marittime sono in maggior parte trasversali. Le poche longitudinali o parallele alla catena principale, cioè quelle dell’alta Tinea, del Varo medio e inferiore, della Stura, del Tanaro e dell’Arroscia, non sono dovute, a quanto pare, esclusivamente all’azione dell’erosione, corrispondendo invece a breccie naturali, lungo il confine dei vari sistemi orografici. Esse valli—le più antiche —sono perciò più perfette in quanto concerne la loro direzione quasi uniforme e il loro «thalweg» profondo, largo e poco inclinato per lunghi tratti. Le valli più complete sotto questo riguardo sono: quella della Stura, che presentasi larga da 1 a 2 km. sotto Demonte e più sopra fino a Vinadio, poi quella del Tanaro dalla sorgente fino ad Ormea, e quella del Gesso fin sopra Valdieri; sul lato sud quella dell’Arroscia sino a Pieve di Teco, poi lunghi tratti delle Valli della Tinea (sotto Santo Stefano), del Varo, dell’Ubaye, ecc.
La maggior parte delle valli meridionali di queste Alpi costituiscono però tipi caratteristici di valli trasversali, scavate intieramente dalle acque, talvolta in terreno molto difficile, e non presentando il carattere di valli perfette e piane che verso il loro sbocco nel mare. Così la Valle del Roja non è che una interminabile serie di chiuse strette e talvolta meandriformi, separate tra loro da bacini più o meno larghi, il più lungo—quello della Giandola—non misurando oltre a 4 km. di lunghezza. Questi bacini, in parte letti di antichi laghi, apronsi quasi sempre là dove s’incontrano due o più rivi di qualche importanza.
Le chiuse meridionali delle Alpi Marittime, per carattere selvaggio e fantastico, sono veramente uniche in Europa. Quella della Vesubia, nel terreno orgoniano, era in gran parte affatto inaccessibile, finchè due anni fa si aprì una nuova strada strategica che da Lantosca mette nella Valle del Varo; la strada postale invece corre a 200 o 300 m. sopra il torrente, sull’asprissimo fianco sud, esposto alle valanghe d’inverno, attraversando per mezzo di una galleria la roccia a picco conosciuta sotto il nome di «Salto dei Francesi»; se qui non mancò la tragedia (i montanari esaltati vi precipitarono, a quanto si dice, molti «maraudeurs» francesi nelle guerre della prima Repubblica), almeno si deve confessare che il posto era straordinariamente adatto ad avvenimenti tragici; dalla strada per lo più non si vede il fondo del precipizio.
La gola del Ciaudan, dominata da pareti calcaree, parte con stratificazioni oblique molto ben accusate, parte liscie o strapiombanti, sopra le quali erte cime s’innalzano sino a 750 m. sopra la valle, è ora attraversata dalla nuova ferrovia da Nizza a Poggeto Teniers; il Varo vi appare molto copioso nel suo stretto alveo, e nei tempi di piena vi corre con velocità incredibile; all’ingresso, il villaggio di Baussone è letteralmente sospeso sul culmine di una roccia a picco alta 250 m.; simile posizione è, del resto, di regola per tutti i luoghi abitati di quella regione.
Le gole del Cians, del Loup e quella del Varo vicino a Daluis, che comincia per mezzo di una «porta fluviale» molto caratteristica, sono veri «cañons» cioè spaccature, per lo più colla forma della lettera U, scavate in altipiani aridi e poco ondulati, dalle stratificazioni orizzontali o quasi. Vedonsi, specialmente nella gola di Daluis, roccie dalle forme più singolari, e l’insieme di quegli stretti e tortuosi canaloni è così strano ed imponente, che in molti punti ricorda vivamente le incisioni del Dorè per l’Inferno di Dante. Si aggiunga poi la luce vivissima del sole contrastante colle ombre profonde, i colori svariati e d’ordinario molto vivaci (rossi, bianchi, gialli) delle rocce, i curiosi effetti dell’erosione e degli scoscendimenti, le numerose caverne, sorgenti e cascate, poi la flora quasi del tutto ancora mediterranea, che con ricchezza infinita di fiori e di arbusti sempreverdi ricopre le nicchie, le fenditure e le sporgenze della roccia, mentre questa in altri punti appare tutta nuda o ricoperta di piccole incisioni a mo’ di geroglifici.
Bellissima è anche la gola di Gaudarena, lunga 7 km., nella alta Val Roja, con paesaggi svariatissimi, rocce di forme molto diverse, alte sino a 300 metri, costituite in gran parte da schisti permici verdi, rossi, violacei o grigi, e popolato da molti vegetali più o meno meridionali, quali il castagno, il pino silvestro, vari ginepri, un acero (A. opulifolium), il sommaco (Rhus cotinus), l’edera, il fico selvatico, l’erica arborea, il cistus albidus, lo spartium junceum, l’ostria carpinifoglia, l’inula viscosa, ecc.
Tutto alpestre invece è il carattere della grande fessura di Val Negrone, lunga 14 km., tra Upega e Carnino ed i Ponti di Nava, ed accessibile soltanto per mezzo di difficili sentieri, impraticabili per chi soffre di vertigini; le sue orride rocce si alzano fino a 500 m. sopra il letto del torrente, e sul lato sud nereggiano ancora boschi popolati da lupi.
Quanto ai vertici delle valli, i meno modificati dal tempo—cioè i più giovani—sarebbero stretti burroni, poco incisi e più o meno ripidi, come riscontrasi alla testata di molte vallette secondarie. Una forma già più sviluppata è il circo, attorniato su quattro lati da ripide ed alte pareti, dalle quali sfugge l’acqua per mezzo di una stretta spaccatura; tali circhi, d’ordinario con fondo eguale e sassoso, altre volte o ancora adesso occupato da un lago, si osservano all’estremità superiore di molte valli alpestri: i più caratteristici sono quello del vallone di Gordolasca, colla bella prateria della Fous nel fondo, e quello del Lago Brocan nel vallone della Ruina.
Non meno numerosi sono gli altipiani, spesso riempiti da laghi, coronati da erte giogaie su tre lati, mentre un dorso morenico o di rocce montoni li chiude a valle; tali sono, per esempio, i bacini terminali del vallone della Miniera, gli altipiani lacustri della Valmasca, dell’Agnel, del Lago Lungo, di Fremamorta, di Valscura e molti altri. I circhi, come gli altipiani, esistevano evidentemente già nell’epoca glaciale, che lasciò la sua varia impronta nei loro dintorni.
La Gola di Gaudarena
La Gola di Gaudarena Disegno di A. Viglino da una fotografia di F. Mader.
Più antiche e più finite sono le valli che al loro vertice salgono con pendìo dolce verso un’insenatura della cresta, che le congiunge insensibilmente con un’altra valle, formando quasi un’interruzione della catena alpestre ed una via naturale per attraversarla; tale è il fondo della Val Stura, congiunto colla Valle dell’Ubayette per mezzo dell’altipiano della Maddalena (m. 1995), e su più piccola scala il bacino terminale del vallone di Carnino, verso il Colle dei Signori; ma è ben raro che una valle fin dal suo cominciamento raggiunga in simile modo il colmo della sua escavazione.
Sotto ai circhi od agli altipiani, le valli alpestri formano tutte una serie di scaglioni più o meno lunghi, d’ordinario con davanti una barriera di rocce montoni; strette gole o ripidi pendii con cascate congiungono questi scaglioni, al cui margine superiore si presenta spesso un pianoro ovale, antico bacino lacustre, come ve ne sono due bellissimi esempi nel vallone di Vallasco. Uno dei più estesi di tali piani è quello di Casterino, alto in media 1550 m.; lungo ben 4 chilometri e largo da 300 a 800 m.: esso costituisce certamente la più grande superficie piana del territorio di Tenda.
3) Clima, nevi, ecc.
Non essendovi, nelle Alpi Marittime, altre stazioni meteorologiche fuorchè quelle della costa, poi Cuneo e Boves, sul limitare della pianura, non possiamo dare sul clima delle alte regioni notizie di qualche rilievo. A Tenda, dal 1º luglio al 15 settembre, la temperatura di giorno è ben raramente superiore ai +25° C. (misurammo una volta +28°), mentre la notte si mantiene d’ordinario tra 15° e 19°. Però, in tutte quelle vallate aperte verso sud, ed accessibili ancora ai venti del mare, l’influenza del clima marino si fa sentire sino ad altezze molto ragguardevoli e vi cade relativamente poca neve, essendo un caso ben raro che questa, come nel 1895, perduri a Tenda più settimane. Del resto, dalla fine di giugno alla metà di settembre, è raro che nevichi nelle Alpi Marittime, mentre cade più spesso la grandine.
Il clima veramente alpestre è pertanto limitato, sul lato sud, a parecchie valli alte e molto chiuse, come quelle di Valmasca, di Gordolasca, del Borreone, di Ciastiglione, ecc. Il lato nord invece ha, causa l’alta catena che si erge per lungo tratto a meriggio, un clima singolarmente continentale ed un inverno rigidissimo, comparativamente alla sua latitudine piuttosto meridionale ed alla vicinanza del mare. Le Valli di Valdieri hanno un clima certo meno mite di quello della Lombardia e perfino della Valle d’Aosta. Nell’inverno vi cade neve in quantità straordinaria, raggiungendo, per es., ad Entraque nel febbraio 1888 quasi m. 4 ½ di altezza; anche l’estate è assai meno secca e meno stabile che sul lato sud, e alle Terme di Valdieri, protette dai venti su quasi ogni lato, la temperatura media del giorno, nei mesi più caldi, sarà poco superiore a +15°.
Risulta già da questi pochi dati che nella parte sud delle Alpi Marittime non s’avrà da aspettare molta neve eterna. Che però se ne incontri in taluni luoghi bassi favoriti dalla struttura orografica, dall’esposizione verso nord, dalla protezione contro i raggi del sole (almeno per molte ore), non può sorprendere chi conosca l’ingente volume di neve che cade d’inverno.
Nella parte sud della grande catena nevati di qualche estensione non trovai che su fianchi esposti verso nord od ovest, o almeno protetti da alte pareti verso meriggio; ve ne sono due abbastanza grandi, sovrapposti sul fianco occidentale del Clapier, scendenti sino ai 2600 m., poi uno nel canalone a nord del Monte Capelet, sopra il Lago Autier, e due cospicui sotto la Cima dei Gelas, dietro il Lago Lungo, sino alle cui sponde (m. 2572) scendono piccoli campi di neve perpetua; altri stendonsi nei rami terminali di Val Vesubia sotto il Gelas, dietro ai laghi del Balour, dove il sig. Bozano ebbe da attraversare, come dice, una larga vedretta; poi a sud del Lago Agnel ed attorno al Lago Gelato, nella Valmasca, ed in qualche altro luogo di questo alto gruppo.
Quasi affatto prive di neve estiva, sono le Alpi Ligustiche, facendo astrazione dei buchi profondi nella regione degli Scevolai a circa 2200 m. e forse di qualche avallamento al piede della grande parete nord della Cima di Marguareis.
Sulla parte nord delle Alpi Marittime, trovammo prima, li 17 agosto 1890, un grande nevato a circa 1800 m. di altezza nel circo a nord del Colle del Sabbione, e più basso, sin verso 1650 m., due altri, nei quali il torrente si era scavato delle gallerie, il cui vôlto era ancora saldo abbastanza per potervi saltare sopra con tutta forza. È vero che questi nevai non v’erano più nel 1894, e che l’inverno 1889-90 era stato particolarmente ricco di neve; però, nell’estate 1885, perdurò una quantità di neve ancora molto maggiore.
In generale non c’è forse nella parte nord un monte che superi i 2700 m., senza essere troppo ripido, che non ritenga, almeno su uno de’ suoi lati, un po’ di neve per tutto l’anno. Le più basse nevi estive si trovano nel fondo di fessure che servono regolarmente di raccoglitori delle valanghe; così trovai alla fine d’agosto 1893 un ammasso cospicuo di neve sul lato est di Val Ruina, ad appena 1450 m. d’altezza. Nevi eterne di maggiore estensione trovansi (non sotto i 2400 m.) nei recessi terminali del Vallone di Vallasco, a nord della Cima dell’Oriol e sui fianchi delle alte catene che fanno capo al Lago Brocan; ma i nevati più estesi sono limitati ai tre più alti gruppi delle Alpi Marittime.
Immediatamente sulla parte nord della catena principale, per un tratto di circa 4 km. di estensione, dal Monte Clapier alla Cima dei Gelas, v’è un complesso abbastanza considerevole di nevaj e perfino di ghiacciaj di secondo ordine (vedrette). Di questi non esisteva finora, a quanto io sappia, una descrizione qualunque. La carta sarda li segna assai inesattamente; Coolidge, che li percorse, menziona appena il loro nome e così pure Purtscheller, che parla di due soli ghiacciai, quello dei Gelas con kmq. 1 ½ e quello del Clapier con 1 ¼ di superficie; queste dimensioni sono molto esagerate, ma nel tempo in cui il sig. Purtscheller visitò questo distretto, v’era ancora tanta neve da non poter determinare l’ampiezza dei nevati eterni.
Eppure questo gruppo avrebbe meritata un’attenzione tutta speciale, costituendo la massa di ghiaccio più meridionale di tutte le Alpi, eccetto la piccolissima sul lato nord del Monte Capelet. Del resto, in tutto il sistema delle Alpi Occidentali non si trovano ghiacciai di maggiore estensione a sud del massiccio del Pelvoux e del nodo del Tabor, l’altissimo Monviso non avendo che il piccolo ghiacciaio del Triangolo, inferiore in estensione anche ai «glaciers de Marinet» sull’Aiguille de Chambeyron.
Il versante Nord del gruppo dei Gelas dalla Cima della Valletta Grande
Il versante Nord del gruppo dei Gelas dalla Cima della Valletta Grande Disegno di A. Viglino da una fotografia di F. Mader.
Parlandosi d’ordinario di soli due ghiacciai in quella regione, cioè quelli della Maledìa e del Clapier, osservo prima che se ne devono contare 6 principali, affatto distinti tra loro, e parecchi di grandezza molto minore. Il nome Maledìa è una denominazione generica usata per tutti i ghiacciai e nevai del gruppo dei Gelas, alludendo forse al loro carattere sempre invernale, nemico all’uomo, o, come si vuole anche, ad una curiosa leggenda corrente nelle Valli del Gesso.
La nuova carta dell’I. G. M. segna abbastanza bene quei ghiacciai, ma esagera non poco la loro estensione verso la valle; inoltre, il piccolo muro di roccia che separa i due ghiacciai di Murajon non vi è ben segnato; il ghiacciaio del Clapier invece, nella sua parte superiore, mi apparve veramente assai più largo che non sulla carta.
Do qui appresso, procedendo da ovest ad est, alcune notizie sommarie sui 6 principali ghiacciai, che propongo di distinguere coi nomi qui aggiunti:
Lunghezza metri: Larghezza massima Superficie ettari: Altitudine metri: Pendenza media
Ghiacc. dei Gelas 850 600 35 2550 a 3050 19°
Ghiacc. occidentale di Murajon 650 250 13 2650 a 3000 30°
Ghiacc. orientale di Murajon 750 500 26 ½ 2600 a 2900 15°
Ghiacc. della Maledìa 750 500 26 2600 a 2800 9°
Ghiacc. di Peirabroc 700 350 17 ½ 2475 a 2650 18°
Ghiacc. del Clapier 1000 500 35 2550 a 2800 11°
Le sovra riferite cifre s’intendono approssimative e senza tener conto delle irregolarità della superficie dei ghiacciai.
Il Ghiacciaio dei Gelas, dalla cima omonima, scende verso nord nel vallone omonimo, nel quale si riversa per mezzo di 4 o 5 rivi. Una cresta poco ragguardevole—che però costituisce lo spartiacque tra i valloni della Barra e di Monte Colomb—lo separa dai due ghiacciai di Murajon, distinti tra loro per mezzo di un’altra cresta, stretta e poco elevata, ma continua; essi estendonsi a nord-ovest del gias del Murajon e formano per lo più nevati larghi, ripidi e molto bianchi, terminantisi in basso con lingue di neve ghiacciata di spessore piuttosto esiguo. Tratti ghiacciati alquanto cospicui vedonsi lungo le roccie della Cima dei Gelas, verso l’estremità superiore dei nevati. Nell’angolo nord-ovest del grande anfiteatro nel quale questi sono racchiusi, trovasi il Laghetto Bianco (m. 2544), alimentato dalle acque di neve e trattenuto da una grande morena; esso non ha emissario visibile, ma più sotto un grande rio raccoglie tutte le acque che scendono dai ghiacciai, guadagnando il rio di Monte Colomb sotto il gias Murajon. Sulla carta, pare che il nevato si estenda sino al laghetto, mentre cessa assai più in alto; però pochi lembi di neve scendono ancora sino a circa 2500 m. Altri due nevati meno importanti scendono dalla Cima dei Gelas verso ovest.
Il Ghiacciaio della Maledìa, ossia quello più particolarmente conosciuto sotto questo nome (si potrebbe anche chiamarlo «di Pagarì», dal passo sul quale comincia), è separato dai due di Murajon per mezzo della cresta chiamata Caire Murajon, molto ripida sul lato est; esso scende quasi sempre con declivio dolce, abbastanza precipitoso soltanto nella parte media, sotto la Punta della Maledìa; ivi è anche più largo di 250 metri. È attorniato lungo tutto la sua estensione dalle cosidette crepaccie periferiche (bergschrund), rare volte larghe oltre 1 metro; la sua superficie è in gran parte agevole da percorrere. Pochi tratti trovai di puro ghiaccio, di color grigiastro, raramente azzurrognolo; nella parte inferiore trovansi piccole crepaccie mediane, poi alcuni tratti foggiati a scala, con sassi disposti attorno ad ogni scalino. La morena frontale è regolare, alta circa 5 m., e consiste di blocchi abbastanza grandi disposti l’uno sopra l’altro in sorprendenti condizioni d’equilibrio; il rio vi passa sotto, precipitandosi poi tra rocce montoni ed infine per uno stretto burrone nel vallone Peirabroc[88].
Osservo qui che le morene frontali ben caratterizzate di questi ghiacciai dimostrano come essi non siano più retrocessi da molto tempo; così la lunghezza esagerata che assegna loro la carta può tutto al più dipendere dal fatto che i cartografi li rilevarono in una stagione ancora molto nevosa. Immediatamente ad est del ghiacciaio della Maledìa, altro nevato più piccolo (circa 6 ettari) scende sino a circa 2605 metri; nei giorni caldi le acque che ne scolano formano, dietro alla morena, uno stagno biancastro.
Il Ghiacciaio che chiamerò « di Peirabroc » dal nome della valle sottostante, dominato da una cresta alta m. 2940 scende più basso di tutti gli altri ed è nello stesso tempo quello sviluppato più normalmente, costituendo quasi un piccolo modello dei grandi ghiacciai alpestri. Lungo il suo orlo non mancano le crepaccie trasversali, però di modesta estensione. Nelle minori concavità osservai talvolta piccole «pulci» (probabilmente «Desoria glacialis»). Il ghiacciaio si termina con una lingua triangolare di ghiaccio puro, coperto di sassi in tal modo da potersi attraversare in ogni senso; vi trovai anche un esemplare minuscolo di tavola di ghiacciaio. Le due ripide morene laterali di questa lingua di ghiaccio hanno dimensioni veramente smisurate, e, viste dal basso, sembrano due grandissimi coni di sabbia; quella occidentale, molto regolare, è alta ben 20 m. dal lato interno e 30 dal lato esterno; vi cresce qualche Linaria alpina. La morena frontale è invece abbastanza piccola; il rio che vi passa scorre poi per un precipitoso burrone, incontrando più sotto gli emissari del ghiacciaio del Clapier, coi quali forma il rio di Peirabroc. Nel detto burrone vidi ancora qualche piccolo nevato, tra 2250 e 2350 metri.
Il Ghiacciaio del Clapier, infine, che ad oriente del monte omonimo sale fin sulle creste, spingendo parecchi rami sui ripidissimi fianchi ad ovest, forma in gran parte un campo ondulato e ininterrotto di neve piuttosto impura, con qua e là piccole morene mediane, però tutte isolate; la morena frontale è invece molto cospicua. Più sotto, parecchi lembi di neve stendonsi verso il Lago Bianco (m. 2328). Il ghiacciaio del Clapier è il più meridionale delle Alpi, trovandosi sotto la latitudine di 44°7´ e 45 km. direttamente a nord di Monaco, cioè del punto più caldo della Riviera.
La Cresta dell’Argentera, stante la sua estrema ripidezza, non contiene nevati proporzionati alla sua altezza. La carta Sarda ne segna due grandi, sovrapposti sul lato ovest; ma veramente non se ne trovano ivi che pochi di minore estensione; il più grande ha forse 2500 m., dietro il vallone dell’Argentera, sul cui lato nord osservai anche qualche stretto e ripidissimo canalone di neve. Più scarsa ancora è la quantità di neve estiva sul lato est, sopra il gias del Baus. Trovai invece parecchi nevati assai grandi, in parte ripidi, con piccole morene, nel fondo del vallone Lourousa, sotto la gran parete del M. Stella (m. 2200-2500).
Più importante è il Ghiacciaio di Lourousa o dell’Argentera, che si estende in una conca laterale, coronata da rocce ertissime; è lungo circa 720 m., largo sino ai 250 ed alto 150, con pendenza media tutto al più di 10 gradi (superficie circa 18 ettari); la sua grande e larga morena frontale trovasi a circa 2400 o 2450 metri di altitudine; sul lato sud, il famoso canalone di neve del Monte Stella sale sino a m. 3150; Coolidge, per accedervi, dovette attraversare una bergsrunde per mezzo di un ponte di neve. Nell’agosto, la salita del canalone—impraticabile agli alpinisti inesperti—è piuttosto pericolosa, causa la durezza della ripidissima neve e l’esposizione del burrone ai sassi cadenti.
Anche il Gruppo del Matto contiene parecchi nevati, fra cui uno quasi pendente sul lato della grande parete nord, e due altri più bassi, quello inferiore scendendo forse sino a 2250 m.: essi hanno piccole morene frontali ed alimentano il rio del Latous. Assai più grande è il nevato che scende dalla sella fra le due punte principali (circa m. 3040) verso ovest; esso ha un declivio piuttosto dolce, molto più risentito però lungo le rocce meridionali, e contiene molte concavità acquose, dando acque ai rivi Meiris e Cabrera; si termina con una piccola morena (m. 2950) sopra un lungo dorso di rocce montoni; verso nord, scende sino a circa 2850 m. In complesso, la sua lunghezza è di circa 600 m. con altrettanto di larghezza massima (superficie circa ettari 22).
Dal limite inferiore dei principali nevati persistenti sul lato nord delle Alpi Marittime, risulta un’altitudine di pressochè m. 2550 quale limite medio; questa cifra dimostra bene come la costituzione orografica modifichi profondamente le condizioni naturali di un paese. Infatti, se qui a 2600 m. non è raro di incontrare neve nell’estate, non ve n’è invece, o quasi non ve n’è, al disopra di 3000 m.; e la Punta dell’Argentera dovrebbe essere forse centinaia di metri più alta per avere il culmine coperto di neve perpetua.
4) Idrografia.
I corsi d’acqua alpestri della regione di cui si tratta appartengono, sul lato nord al bacino del Tanaro; sul lato sud a quello di 5 fiumi o torrenti di costa (il Varo, il Roja, il Nervia, l’Argentina ed il Centa). Non abbiamo misure perfette in ciò che concerne la lunghezza di questi fiumi e l’estensione dei loro bacini (quest’ultima assai più importante della lunghezza dal lato idrografico); ecco però misure approssimative:
Lunghezza chilom. Ampiezza del bacino chilom. quadrati
Tanaro (dal rio Upega sino allo sbocco nel Po) 260 7988
Tanaro sino a Ceva 62 540
Negrone (dal rio Upega) 15 ½ 63
Tanarello 12 52
Pesio (dal rio Marguareis) 48 340
(sino a Chiusa) 19
Corsaglia 42 320
Ellero 41 215
Stura di Demonte (sino a Cherasco) 111 1320
Stura (sino a Cuneo) 73 600
Gesso (dal rio Balma Ghiliè) 45 540
Gesso della Valletta 22 135
Gesso d’Entraque (dal ghiacc. Clapier) 19 165
Vermenagna (dal rio dell’Abisso) 29 163
Varo (dalla sorgente al mare) 105 2279
(dal rio Sanguinière) 111
Varo sino al confluente della Tinea 890
Tinea 62 550
Vesubia (dal rio Borreone) 45 280
Roja (dal piede del Colle di Tenda al mare) 55 } 550
Roja, dal Lago del Basto al mare 63
Miniera, id. id. a S. Dalmazzo 20 75
Bevera 39 135
Nervia (dal rio Incisa) 29 200
Argentina (dal rio Quattrina) 36 220
Centa (dal Monte Frontè al mare) 41 450
Arroscia 37 290
NB. La lunghezza, d’ordinario, s’intende quella del principale rio che costituisce il ramo originale del fiume; nelle misure dei bacini idrografici (eccetto quelli del Tanaro e del Varo, misurati più accuratamente da altri) non si potè tener conto abbastanza delle irregolarità del suolo, così che i risultati saranno alquanto inferiori alla vera estensione.
I corsi d’acqua alpestri distinguonsi secondo che sono alimentati principalmente da sorgenti, da nevi eterne o da laghi.—Le sorgenti sono meno numerose e meno copiose nel gneiss centrale delle Alpi Marittime che nei monti calcarei; però, il gruppo granitico possiede due complessi di numerose sorgenti termali (quelle di Valdieri e di Vinadio), distinte tanto per la copia, che per l’alta temperatura dell’acqua e per la sua ricchezza di sostanze minerali. Specialmente ricchi di sorgenti sono i bacini dell’alto Tanaro, del Pesio, dell’Ellero e della Levenza; quest’ultima è alimentata dalla grande fontana intermittente vicina alla Cappella del Fontan.
I corsi d’acqua di quella regione sono raramente continui, e nelle valli superiori incontransi tratti ove gli alvei, tortuosi e riempiti da una sabbia porosa, sono quasi sempre a secco. Così mostrasi la Levenza sotto Briga, mentre più alto ha molta acqua. Su maggiore scala, tali fiumi alimentati principalmente da sorgenti osservansi nel Carso ed anche nella Provenza: ivi, quelli ad occidente del Varo sono affatto differenti dai torrenti liguri. Altra distintiva dei rivi precitati è il deposito bruno o rossastro col quale rivestono le pietre del loro letto, e che accenna alle sostanze calcaree ed al ferro contenuti nell’acqua.
Se il gruppo Centrale delle Alpi Marittime non ha molte sorgenti (pochissime si trovano sopra ai 2200, talune però fin verso i 2600 m.), i nevati ed i laghi servono invece a mantenervi i rivi più copiosi ancora di quelli delle Alpi calcaree. Il rio della Miniera, alimentato da molti laghi, è, quasi in ogni stagione, la corrente più copiosa di tutto il bacino del Roja, sebbene la parte superiore di questo, la cui valle è assai più profonda e più continua, abbia quasi la doppia estensione. La Gordolasca, i rivi di Vallasco, di Meiris, della Ruina, e quasi tutti quelli che scendono dalla catena principale, distinguonsi parimente per la costanza delle loro acque, copiose anche nell’estate e quasi sempre chiare, molto fresche e popolate da numerosi pesci. Anche nell’ottobre trovai il rio della Miniera, sebbene il suo volume fosse quasi raddoppiato, coll’acqua tutta chiara, poichè, provenendo dallo squagliarsi delle nevi o dai temporali, essa quasi tutta si purifica nei laghi.
I principali corsi d’acqua alimentati, almeno in gran parte, da nevi eterne sono la Gordolasca, il rio Meiris, quello di Lourousa ed i rami che formano il Gesso di Entraque, specialmente il rio di Monte Colomb. Anche essi hanno molta acqua tutta l’estate, e la loro portata è inoltre singolarmente regolata, sia da laghi, sia da petraie o campi di blocchi rocciosi, sotto i quali l’acqua corre per buon tratto, come nelle valli dietro ad Entraque, nel rio di Lourousa e nel bacino superiore di Meiris, nel quale s’inoltrano gli emissari dei nevati del Matto, cadenti da oltre 2900 m. Le petraie inoltre assorbono l’acqua risultante dalla neve che le ricopre nella fredda stagione. Il rio di Meiris non appare definitivamente che poco a monte del Lago soprano della Sella; quello di Lourousa solo vicino al gias Lacarot (m. 1980), e quello della Barra sotto il Prajet (m. 1800), mentre più sopra essi appaiono tutto al più per brevi tratti, lasciando però spesso sentire il loro mormorio sotto i sassi: così le petraie qui compiono quasi la stessa funzione moderatrice delle caverne sotterranee nelle regioni calcaree. Anche i boschi, naturalmente, servono a mantenere una valle umida nell’estate, come si vede per es. nel vallone del Borreone, che per profondità del rio e per costanza della sua portata è da considerarsi quale ramo terminale della Vesubia; poi anche nella Valmasca, nel cui fondo ombroso scorrono molti rigagnoli nerastri.
In media, i corsi d’acqua settentrionali delle Alpi Marittime sono comparativamente più copiosi di quelli meridionali, lo che è naturale, considerandosi l’inverno molto più nevoso, l’estate meno secca, la vegetazione più densa delle basse parti e la minore estensione che in genere detti rivi hanno da percorrere, nel tratto che sono fra i monti.
Il Tanaro, al suo sbocco nel Po, ha una portata media di circa 133 mc. al secondo, mentre nelle piene essa rimonta a circa 1700 mc.; però, in confronto a tale variabilità abbastanza grande, v’è da notare che, dopo entrato in pianura, esso si accresce di molte arterie di indole piuttosto torrenziale, talvolta importantissime, quali la Bormida. Lo stesso è da dirsi anche della Stura, che assai meno del Gesso ha il carattere di un fiume. Questo ultimo corso d’acqua, verso la fine di un’estate secca ha ancora circa 7 mc. di portata sotto a Sant’Anna, la portata del Gesso d’Entraque essendo almeno uguale. Nell’autunno e specialmente nella tarda primavera, esso appare veramente maestoso: il sig. Bodenmann, abituato ai fiumi della Svizzera, lo vide nel giugno 1890 e lo chiama uno dei più bei fiumi montani che conosca.
Tutti questi corsi d’acqua, e più ancora quelli del lato sud, hanno del resto una portata sensibilmente minore della somma delle acque che scolano nel loro bacino. Infatti, lasciano infiltrare molta acqua nel suolo sassoso ed arenoso dei loro larghi letti, ne perdono poi molta per evaporazione e per l’alimentazione dei canali fertilizzanti le basse valli e la pianura, cosicchè a Cuneo il letto del Gesso è soventi a secco.
I corsi d’acqua meridionali sono soggetti a variazioni ingenti cagionate dall’irregolarità e abbondanza delle pioggie, come anche dall’aridezza e ripidezza del suolo. Nelle Alpi Marittime occidentali, tutte francesi, costituite da roccie calcaree o da schisti molto friabili, vi sono tali torrenti perfino nelle regioni più alte: dopo forti temporali ed in seguito allo sciogliersi delle nevi, essi scorrono con rapidità veramente spaventosa, e dalle pendici rocciose si precipitano vere valanghe di acqua, che dimostrano bene i terribili effetti di un completo disboscamento. Inoltre, questi torrenti traggono seco quantità insolite di terre sciolte; in taluni, un ventesimo dell’acqua consiste in simili materie, così che essa appare tutta spessa, di colore nero come inchiostro, o rosso come sangue, o bianco come latte, o bruno come cioccolatte, secondo le rocce su cui scorre. Se già il Roja sotto a Tenda nell’autunno ha talvolta ben 10 volte più di acqua che nei mesi più caldi, non è da meravigliarsi se tali torrenti assumono talvolta un impeto pericoloso; così, nel 1892, una piena della Vesubia, fece gran danno a San Martino e nei dintorni; il villaggio di Roccabigliera ebbe più volte a soffrirne.
Il Varo inferiore, che raccoglie gran numero di rivi alpestri e di veri torrenti, ha una portata estremamente varia, secondo le stagioni. Nell’estate è sempre ancora abbastanza copioso, con circa 25 mc. di acqua, scorrente con una velocità di circa m. 1,2 al secondo e riempie forse un sesto del letto, largo da 400 a 800 metri. La portata media è di circa 40 mc., la massima, secondo Villeneuve-Flayost, di ben 4000 mc., portata assai superiore alla media del Rodano e del Reno inferiori; tuttavia non credo esagerata tale cifra, poichè il Varo, in piena assoluta, offre uno spettacolo d’una grandiosità incredibile: tutto il letto è riempito, per una profondità di almeno 2 metri, da un liquido bruno e fangoso che emana un forte odore di terra e che scorre con una velocità di ben 4 m. al secondo, facendo tremare i ponti più solidi e lasciando sentire a molta distanza il suo cupo rumore. Nelle gole del Ciaudan, dove il Varo è ristretto in un letto largo meno di 40 m., la sua velocità si aumenta talmente da essere uguale a quella di un treno ordinario.
La Tinea ha, nei tempi di magra, almeno 6 mc., il Roja 8 mc. di acqua (dei quali ben 4 forniti dal rio della Miniera); ma nelle piene sono fiumi potenti. Inutile dire che fiumi così rapidi e così variabili non possono essere navigabili, neppure con barche.
La foce di tutti i corsi d’acqua liguri, dal Varo all’Arno, assume la forma di « limani » ossia stagni di costa, prodotti dal fatto che, in tempo di basse acque, le onde del mare hanno un impeto superiore a quello del torrente, accumulando perciò le ghiaie e le sabbie davanti al largo letto di questo, cosicchè esso si espande in forma di laghetto, d’ordinario unito al mare per mezzo di un piccolo canale, mentre i limani dei rivi più piccoli ne sono talvolta affatto separati per mezzo delle ghiaie. Il Varo ed il Centa escono nel mare divisi in parecchi rami, però non hanno un vero delta, poichè ciascun ramo si termina con uno stagno. Naturalmente, nel tempo di piena gli stagni spariscono e le acque scorrono con impeto nel mare, intorbidandolo sino a parecchi chilometri dalla costa; là dove lottano contro le onde marine si formano «barre» molto alte. In sèguito alle immense quantità di materie terrose che il Varo trasporta nel mare, nei tempi di piena, le terre basse attorno alla foce del fiume si avanzano sempre più, e la linea batimetrica di 200 m., dista ben 2400 m. a sud-est della foce, mentre a Nizza è distante solo 300 m. dalla costa.—Aggiungerò che conviene distinguere i limani dagli estuarj, i quali sono pressochè limitati ai mari con forte flusso e riflusso; essi risultano dalla lotta—con forze piuttosto uguali—tra grandi fiumi e l’Oceano.
Dirò poco sulle cascate dei rivi alpestri; nelle Alpi Marittime ve ne sono di due specie. Le prime sono formate da corsi di acqua copiosi, nei punti dove la valle è sbarrata da rocce, e non raggiungono d’ordinario un’altezza molto grande: belle sono quelle della Miniera ai Conventi ed alle Mescie, della Valmasca inferiore, del Tanarello, del Nervia a Pigna, della Gordolasca sotto la Vastera Streit, e specialmente del Borreone a Ciriegia[89]. Sul lato nord, meritano menzione speciale le cascate dei rivi Meiris, Vallasco, Lourousa e del Pesio.
Assai più alte sono le cascate che scendono dalle pareti laterali o nei burroni terminali delle vallate. Sul lato sud però, esse sono d’ordinario molto piccole nell’estate, e conviene vederle nell’autunno: quella sotto il Lago Agnel, alta ben 200 m., è bellissima anche nei mesi caldi. Sul lato nord ve ne sono delle molto copiose, però il loro letto è in generale scavato profondamente nelle pareti rocciose, cosicchè non se ne può vedere bene che un certo tratto; tra le più rimarchevoli sono quelle del rivo dei Gelas, dell’Argentera, della Ruina (sopra il lago omonimo), ma particolarmente ricco ne è il vallone di M. Colomb, nel quale ogni rio ne forma delle bellissime. Quella della Valletta Grande, dietro alla Trinità (comune di Entraque), è alta oltre 400 m., e così per altezza conta ben poche rivali nelle Alpi.
Le Alpi Marittime sono singolarmente ricche di laghetti alpestri; senza contare i « gourgs » o stagni poco profondi, alimentati dalle nevi ed in parte periodici o sempre più ricolmi da materiali terrosi, se ne trovano almeno 250, dei quali ben 130 sul territorio italiano, solo fra i colli di Tenda e della Lombarda, lungo la catena principale. Le Alpi Ligustiche, che già si distinguono per le loro rocce tutte stratificate, in gran parte calcaree, e per l’assenza quasi assoluta di nevi perpetue, non ne vantano invece che pochissimi e piccoli, tra i quali quelli della Brignola e di Rascaira sono piuttosto stagni torbosi.
La superficie complessiva di tutti i laghi delle Alpi Marittime difficilmente sarà superiore ai 10 chilometri quadrati; i 13 più grandi, insieme, ne ricoprono 3. Ecco, sui più importanti di tali laghi, dei particolari presi dalle più recenti carte:
LAGHI lunghezza metri larghezza metri circonf. metri superficie ettari altitud. metri
Di Allos 1350 700 3100 68,6 2237
Del Basto (soprano) 880 460 2150 27,8 2339
Inferiore di Rabuons 840 460 2800 25 cª 2230
Agnel 820 520 2475 24,6 2426
Lungo (Gordolasca) 870 400 2200 21,3 2572
Soprano della Sella 780 320 1710 20,8 2328
Sottano del Basto 580 575 1520 15,8 2219
Sottano della Sella 450 380 1400 15,7 1851
Della Ruina 800 300 1800 15 1560
Brocan 460 420 1320 13 2015
Negrè 580 300 1340 12,5 2345
Di las Portetas 400 350 1100 12 2358
Del Claus 420 320 1180 12 2349
Di mezzo del Basto 400 380 1440 11,4 2280
Nero della Valletta 540 230 1340 10,8 2228
Vi sono poi 16 laghi che hanno tra 5 e 10 ettari, circa altri 30 da 3 a 5 ett., dei rimanenti la maggior parte almeno 1 ettaro di superficie.—Quanto poi all’altitudine sul mare, solo 9 laghi (nelle Alpi Marittime proprie) trovansi al disotto di 2000 m., i più bassi essendo quelli della Ruina e di San Grato di Gordolasca (m. 1505); ve ne sono circa 30 tra 2000 a 2200 m. ed altrettanti tra 2500 e 2600 m., quest’ultima altitudine essendo superata da circa 15 laghetti; la maggior parte però trovasi fra 2200 e 2500 metri. Fra i più elevati sono da citare, oltre al Lago Lungo: il Lago soprano dell’Ischiatour (m. 2770), quello del Balour sotto la Cima dei Gelas, i Laghi superiori di Rabuons (circa 2625 m., il maggiore misura ettari 4,3), il Lago Carbone (m. 2621, ett. 3,3) ed il Lago Gelato (ett. 3).
Noto qui che in Isvizzera e nel Tirolo pare che non ci sia lago al disopra di 2600 m., mentre sul lato italiano delle Alpi Occidentali, coperte in minor grado da nevi e ghiacci, se ne trovano 4 o 5 perfino oltre a 3000 m. (così il Lago Mongioia a m. 3092, nelle Alpi Cozie).
I laghi sono qui in maggior parte situati sia ne’ circhi terminali delle valli o vallette, sia sugli altipiani d’ordinario semicircolari o conchiformi che trovansi nel fondo o sui fianchi delle vallate; talvolta la conca è molto stretta e il lago prende una forma allungata. Sui terrazzi inferiori delle valli, ben pochi laghi hanno perdurato fin’oggi (tali il Lago sottano della Sella, quelli della Valletta, dell’Ischiatour, della Ruina), ma ve n’erano molti e grandi in un’epoca geologica assai recente, come lo dimostrano i bacini lacustri del Vallasco, del gias del Prato (Meiris), di Casterino, di Marberga, del Piz, ecc. Non è impossibile poi che la parte bassa delle grandi valli settentrionali sia stata una volta occupata da estesi laghi, come quelli della Lombardia; ma se c’erano, le tracce sono scomparse sotto le alluvioni torrenziali.
Quanto alla loro origine, i piccoli laghi alpestri appartengono all’ultima delle epoche geologiche, e sono condannati a sparire in un tempo relativamente breve, causa i materiali che i rivi e le valanghe vi accumulano man mano nel fondo; però, appunto i più grandi ed i più profondi sono situati immediatamente sotto alte catene ed alimentati da rivi molto esigui, cosicchè ci vorranno molti secoli per cambiarli sensibilmente; dei piccoli «gourgs» invece, taluni spariscono a vista d’occhio.
I laghi delle Alpi Marittime hanno raramente un bacino idrografico di oltre 4 kmq. (Lago Lungo 1,2, Lago del Basto 2,2, Lago di Allos 4, Lago Brocan 4 ½); e quelli che hanno bacino più grande (perchè alimentati da rivi importanti), ricevono quasi tutti emissari di altri laghi, con acque perciò già moderate e purificate; così il Lago sottano della Sella e quello della Ruina, i cui bacini misurano rispettivamente circa 15 e circa 13 kmq.; i rivi che li formano hanno già colmati larghi bacini a monte del lago, ora ridotti a praterie, e sboccano per mezzo di un perfetto delta che s’avanza sempre più.
Dei più piccoli laghi, taluni, di profondità molto esigua, riempiono solo piccole ineguaglianze del suolo, tra rocce montoni od altre formazioni glaciali: così i laghetti Brignola e Rascaira, i gourgs morenici dei ghiacciai della Maledìa, ecc.; altri poi si sono formati in seguito a scoscendimenti od alle alluvioni dei torrenti. Però la maggior parte dei laghetti alpestri sono chiusi a valle da una barriera poco elevata di rocce montoni, più raramente da antiche morene (come quelle del Lago della Ruina e del Lago Brocan); se con ciò è evidente la loro intima congiunzione coi fenomeni dell’epoca glaciale, non ne risulta però che siano stati scavati dai ghiacciai, e il Freshfield nota giustamente che, se questi avessero potuto scavare quei bacini per lo più molto profondi, trasportando via tutto il materiale che contenevano, non si potrebbe spiegare come quelle potenti masse di ghiaccio non abbiano neppure potuto togliere delle sporgenze poco alte delle rocce da loro lisciate.
Si dovrà dunque cercare l’origine dei bacini lacustri nella stessa struttura orografica. La profondità dei detti laghi è, infatti, abbastanza ragguardevole, ma finora non pare che sia stata misurata (eccetto che pel Lago d’Allos); sotto questo riguardo, è curioso che quasi dappertutto ove tali laghetti si trovano, la loro profondità sia considerata dai montanari quale immensurabile; le stesse fiabe circolano sullo Scaffaiolo e su certi laghi della Foresta Nera e dei Tatra. Nei Laghi di Valmasca, nel Lago Lungo, nel Lago soprano della Sella non mancano tratti di 3 a 10 m. di profondità già immediatamente sotto la riva, ma la massima, nel mezzo, difficilmente supererà i 20 o 30 m.; al Ghigliotti i valligiani dissero che quella del Lago della Ruina era di 120 m., cifra certamente esagerata. Il fondo costituisce quasi sempre un piano melmoso, pressochè uguale, interrotto soltanto qua e là da frane e più spesso da blocchi rocciosi.
La maggior parte dei laghi è alimentata da rivi che ne escono poi, d’ordinario, assai più copiosi, causa il lento scolare delle acque accumulatesi nella bassa stagione, talvolta anche causa sorgenti sotterranee; non mancano del resto—almeno nell’estate—i laghi che non hanno affluente o emissario, talvolta nè l’uno nè l’altro. Già sopra accennammo all’importantissima e felicissima influenza moderatrice e regolatrice che quei laghetti esercitano sui rivi alpestri, formando magazzeni di acqua per la stagione secca e ritenendo gran numero di materie terrose che aumenterebbero l’impeto devastatore dei torrenti.
La temperatura dei laghi varia molto secondo la grandezza, la profondità, l’altitudine, ecc. Trovai in un pomeriggio d’agosto quella dei laghi della Valle dell’Inferno pressochè uguale a quella dell’aria (però era un giorno molto mite; la temperatura del Lago Lungo superiore vi era di + 11° C.); un po’ superiore il 22 ottobre 1894 (quasi 0° nell’aria, mentre il Lago dell’Olio ne aveva + 2°). I più grandi laghi non si congelano che a parecchi gradi sotto zero; sopra i 2200 m. essi rimangono liberi d’ordinario per 5 o 6 mesi; molti però ritengono il ghiaccio sino nel maggio o nel giugno (così perfino il Lago sottano della Sella), il Lago Lungo spesso da ottobre a luglio, e parecchi più piccoli si congelano ogni notte e non sono mai affatto privi di ghiaccio, quali il Lago Gelato superiore (sopra la Valmasca), il Lago di Larè ed il piccolo Lago Bianco (m. 2328, ett. 1,4) che s’allarga dietro una grande morena sotto il ghiacciaio del Clapier, portando molti «icebergs» nell’agosto. Il 28 settembre 1893 esso era tutto ghiacciato.
Soltanto nei più bassi laghi, non molto profondi (così i Laghi Lunghi, il Lago di Fontanalba), trovai ancora piante di acqua, alghe, potamogetoni, ecc., mentre le rive ne sono talvolta paludose, con sfagni, giunchi, eriofori, primule, ecc. In molti laghi, specialmente in quelli settentrionali—nei quali la pesca è riservata a S. M. il Re—si trovano numerose le trote di grandezza notevole (perfino nel Lago delle Finestre, a 2271 m.); in altri sono numerosissime le rane (R. esculenta), specialmente nei Laghi Lunghi dell’Inferno, mentre più in alto alimentano ancora ditici, radiolarie ed infusori. Secondo il Purtscheller, il Lago Lungo di Gordolasca (2572 m.) sarebbe ancora popolato da pesci!
Circondati dalla più orrida e desolata natura alpestre, quegli specchi così solitari e tranquilli hanno una bellezza tutta speciale, quasi affascinante, dovuta specialmente al contrasto del loro piano trasparente colle creste oltremodo frastagliate e tormentate, colle squallide petraie tutt’all’intorno, poi alla singolare chiarezza della loro acqua che quasi vi suggerisce la voglia di precipitarvisi. Nessuno di questi laghi rassomiglia affatto ad un altro per forma, colore, grandezza o fisionomia; eppure se ne incontrano spesso oltre a 10 nello spazio di un giorno, e se ne vedono in complesso da 15 a 20, da parecchi belvederi, quali il Bego ed il Tinibras.
Il colore di uno stesso lago è sottoposto a grandi variazioni secondo il punto di vista, la profondità, la luce, la stagione, ecc. D’ordinario, esso è più o meno verde, mostrando—se le acque sono poco profonde—tinte pallide e grigiastre od il verde chiaro dei prati, mentre i laghi più ragguardevoli hanno un bellissimo colore di smeraldo od appaiono molto scuri; taluni sono quasi neri, come il Lago Negrè e quello della Valletta; altri sono chiari lungo le sponde, mentre, col rapido aumentare della profondità, diventano sempre più cupi verso il centro, cosicchè sembrano occhi; infine ve ne ha con tinte azzurrognole e pochi—alimentati dai nevati—appaiono biancastri, cioè con un liquido latteo diffondentesi tra il verde puro dell’acqua, come nel Lago Bianco di Peirabroc. La predominanza delle tinte verdi è certo meno dovuta al colore del fondo (questo è in generale grigio e nerastro, con numerosi massi bruni o rossastri) che alla purezza dell’acqua, la quale contiene pochissimo acido carbonico, che in maggiore quantità le darebbe una tinta azzurra e più fosca, e manca quasi affatto di materie organiche, le quali la renderebbero piuttosto grigia o bruna. Naturalmente i colori dei laghi appaiono più intensi con bel tempo e con calma perfetta; quando il sole non batte direttamente sulla loro superficie, facendola scintillare come oro, essi rispecchiano in modo stupendo i loro dintorni; quando invece il vento vi solleva striscie bizzarre o piccole onde, essi appaiono cupi ed incolori.—Sembra pure che questi laghi guadagnino molto ad essere visitati sul cominciare dell’estate, quando c’è ancora molta neve nei dintorni. Il Purtscheller, che ne vide parecchi nel giugno 1890, vi trovò una varietà di colori che non hanno più nell’agosto. Il Lago Brocan—che io vidi verdastro, in parte intorbidito dai rivi che scendevano dai nevati—lo descrive come brillante in tutti i riflessi, dal verde profondo della malachite al più splendido azzurro; sulla sua acqua chiara come cristallo galleggiavano ancora pezzi di ghiaccio. L’azzurro del Lago della Ruina (verde invece nell’agosto) sembrava quello del vetriolo, ed il meraviglioso Lago superiore di Rabuons era di colore celeste chiaro. Però, in ogni stagione e con ogni tempo, queste gemme liquide e viventi costituiscono il più bell’ornamento delle alte montagne, così meste e selvaggie.
Già il Freshfield accennò sul lato ovest della Cresta dell’Argentera, tra le Cime di Nasta e del Baus, un bel laghetto non segnato su alcuna carta; io ne trovai poi tre alla sommità del Vallone di Meiris (sotto il nevato del Matto), di cui l’inferiore (circa m. 2450) ed il superiore (circa m. 2600) mi sembrava che misurassero almeno 1 ettaro; però essi, come parecchi altri meno importanti, non si vedono sulla nuova carta. Coolidge parla di una bella distesa di acqua sotto il Lago Agnel e (sulla carta aggiunta) segna un lago di ben 15 ettari a sud del rio dell’Agnel; ma deve essersi sbagliato, poichè un lago di qualche estensione ivi non esiste; ve n’è invece uno non troppo piccolo fra il lago principale ed il Colle dell’Agnel.
In molti luoghi, i laghi sono riuniti in gran numero, formando gruppi o lunghe schiere, quali i 9 laghi della Valle dell’Inferno, i 6 settentrionali ed i 6 meridionali di Fremamorta, ecc.; talvolta ve ne sono parecchi a poca distanza l’uno dall’altro, riuniti per mezzo di un rio e formando così una catena.—Il più bel gruppo è quello dei tre Laghi del Basto, distanti appena 500 m. tra loro, ma con sponde rocciose, talvolta a picco e sempre malagevoli da percorrere; sulla sponda est del lago inferiore crescono ancora bei larici, mentre attorno a quello superiore non vive pianta legnosa, se non qualche piccolo rododendro; il bacino piano a meriggio ed il terrazzo orientale sono però coperti da erba.
Il Lago soprano è veramente maestoso, specialmente visto dal detto terrazzo; il vasto circo che esso occupa sembra un immenso cratere, e la ripida cresta occidentale offre l’aspetto più fantastico che si possa immaginare.
Lago del Basto
Pochi sono i laghi dai dintorni ameni ed agresti, quali il Laghetto di Fontanalba, il Lago Verde (nella stessa valle, con un isolotto coperto di piante), il Lago di San Grato. Fra i più grandi, si potrebbe aspettare una natura più mite e più ricca attorno al Lago della Ruina, a soli 1560 m. sul mare, ma esso ha ora sponde squallide e nude, con flora piuttosto alpestre, mentre altre volte vi crescevano boschi di alto fusto, come ci dimostrò un grande tronco giacente nell’acqua; però, sul lato sud s’innalza una scoscesa barriera di rocce, coperta da fresche boscaglie ed ornata da bella cascata, rendendo così molto pittoresco il paesaggio.—Assai più ameno è il Lago sottano della Sella, il più bello nel suo genere in queste Alpi; di forma quasi rotonda, attorniato in parte da praterie, sulle quali v’è una piccola capanna, in parte da più erte pendici e da rocce montoni, coperte da bei gruppi di larici, esso è dominato da ripidi e cupi monti, fra cui si presentano imponentissime le piramidi del Matto, ricco di nevi, e del suo contrafforte settentrionale; l’insieme costituisce un quadro affatto placido ed idillico; visto dall’alto, il lago sembra di velluto verde scuro.
L’impressione più indimenticabile però l’ebbi dal Lago Lungo, il più grande delle Alpi a tale altezza (m. 2572), rinserrato fra due erte creste di roccia bruna dalle forme più orride e circondato da petraie quasi prive perfino della più umile flora. Nel fondo, specialmente dal lato della Punta della Maledìa, piccoli nevati scendono lentamente alla sponda spingendosi poco a poco nell’acqua, finchè dalla loro estremità ghiacciata si staccano piccoli icebergs, la cui parte immersa mostra il più splendido azzurro, mentre la cappa superiore è bianca o grigia, il tutto contrastando stranamente col verde scuro delle acque profonde. Dalle sponde si ha una estesa vista sopra i monti lontani imboschiti o soleggiati, sino al mare: pochi saranno i punti dove si possa contemplare nello stesso tempo il caldo Mediterraneo ed un tale oceano polare in miniatura.
Fra tanti laghi primeggia sotto ogni rapporto il Lago di Allos, sul territorio francese, nel dipartimento delle Basses-Alpes. Il Ball lo descrive quale uno dei più grandi e profondi delle Alpi Francesi, quasi rotondo, con una circonferenza di quasi 4 miglia inglesi; il Mont Pelat s’innalza nel modo più superbo dal lago. Non c’è forse parte delle Alpi più selvaggia e così chiusa come la valle ove si trova; i monti circostanti sono coperti di neve e di parecchie conifere intristite, accanto a grandi precipizi ed a profondi burroni. Il Coolidge dice seccamente che il lago è povera cosa in confronto a quello che fanno supporre le descrizioni delle guide. Tale giudizio deve risultare da aspettative esagerate in quanto concerne la grandezza del lago e l’altezza dei monti circostanti; infatti, il giro del lago è ben minore di 5 a 6 chilometri; poi il Monte Pelat (m. 3053) è distante quasi 3 chilometri dalle sue sponde, essendone separato da un vallone abbastanza profondo, e fra le cime che dominano immediatamente lo specchio, la più alta—les Grandes Tours du Lac (m. 2745)—è distante ancora 1 km. È vero però che il Lago d’Allos, in tutte le Alpi occidentali franco-italiane (senza però contare le colline lungo le pianure del Rodano e del Po), non ha per grandezza che 6 rivali, dal Lago di Ginevra a quello del Moncenisio; in tutta la regione alpestre delle Alpi, poi, soli 6 o 7 laghi sono più grandi, nessuno dei quali però trovasi ad oltre 2000 m. d’altezza; tutti i laghi dei Pirenei e dei Tatra sono, a quanto pare, più piccoli. Da ciò non è da dedursi che il Lago d’Allos sia di grandezza straordinaria; è maestoso anch’esso, ma di una maestà tutta differente, risultando dall’attonimento di vedere, frammezzo ad erte creste che sembra abbiano appena posto per strette chiuse, una piana estensione di acqua, lunga una buona mezz’ora di percorso. Quanto influisca, del resto, l’aspettativa, lo si vede dal fatto che lo stesso Coolidge chiama magnifico il Lago Agnel, il quale non è descritto in alcuna guida; ma, per bello che sia, è certo inferiore a quello di Allos per grandezza, varietà delle attrattive e perfino per l’altezza relativa dei monti circostanti.
Il Lago di Allos è dominato in parte da ripide pendici e da rocce a picco che si ergono sino a 180 m., ed in parte (ad ovest specialmente) da declivi più dolci, ricoperti da erbe offrenti nel giugno una magnifica flora. Oltre a 6 o 7 sorgenti minori esso è alimentato da un rio lungo quasi 2 km. che vi si immette dal lato sud; non ha emissario apparente, ma a poca distanza ad ovest esce dal monte, a 60 m. sotto il lago, la copiosissima sorgente del Chadoulin, affluente del Verdone; i valligiani credono che anche la grande sorgente del Varo, assai più distante, ne sia alimentata, basandosi sul fatto che il Varo, come il Chadoulin, s’intorbidisce subitaneamente, quando frane o valanghe cadono nel lago.
La profondità massima è di m. 42,5, la media di metri 12, ciò che corrisponde ad un volume di acqua di quasi 83.000.000 di mc. Si ebbe il progetto di ricolmare parte del lago per alzarne il letto, coll’intento di aumentare la sua estensione e di procurargli un emissario visibile, il quale avrebbe forniti 2 mc. al secondo al Verdone ogni estate, durante un mese. Il lago è popolato da trote rinomate; sulla sponda ovest v’è una capanna da pescatore.
5) Vegetazione.
Secondo la «Flore analytique du département des Alpes-Maritimes» di Ardoino, il lato meridionale delle Alpi Marittime, sopra uno spazio di 4500 kmq., possiede non meno di 2466 specie di piante vascolari selvatiche, che si ripartiscono sopra 708 generi e su oltre 120 ordini. Detta cifra è ancora molto inferiore alla somma di tutte le specie delle Alpi Marittime, poichè l’Ardoino seguì un metodo molto sintetico, trascurando anche qualche specie e specialmente molte varietà interessanti; poi il bacino della Duranza, il lato nord e le Alpi Ligustiche possiedono un gran numero di piante che non crescono nella regione da lui descritta; nella sola «Guida» del Dellepiane sono menzionate, tra il Roja, il Tanaro ed il Centa, 50 specie non figuranti nel detto libro. Neppure 45 specie citate da Ardoino sono rarissime, mentre 35 si sono inselvatichite in un tempo piuttosto recente.
Nell’Europa, ed in genere all’infuori di qualche paese tropicale, difficilmente si trova un altro distretto così piccolo che possieda così gran numero di specie; tutta la Lombardia e la Sicilia, contrade vaste e molto ricche di vegetazione, ne hanno poche di più, e la Svizzera non ne ha che 2213.
La ragione della straordinaria ricchezza botanica delle Alpi Marittime è da cercarsi: 1º nella riunione di tutti i climi, dal subtropicale al polare, in una zona larga appena 45 km.;—2º nella intima congiunzione della regione tiepida o subtropicale avente due grandi divisioni del regno florale del Mediterraneo (l’Italia e la Spagna, colla quale è congiunta la Provenza) colla regione fredda o polare del più grande ed alto sistema montuoso dell’Europa centrale, al quale poi ivi si unisce altro sistema importante (quello degli Appennini);—3º nella struttura orografica molto complicata, che favorisce sia l’isolamento che la diffusione delle specie, mentre, unita col clima piuttosto secco, essa produce una estrema varietà tanto di luoghi chiusi, umidi, bene irrigati, quanto di alture aride, soleggiate ed apriche;—4º nell’incontro dei bacini del Rodano e del Po, ricchi ambidue di specie appartenenti schiettamente alle regioni temperate (Europa centrale);—5º nel disboscamento, che lasciò molto spazio libero, specialmente per le piante che amano la siccità, poi per le specie avventizie.
Le Alpi Marittime si possono suddividere in più zone vegetali: generalmente se ne contano tre; quella litorale o mediterranea (sempreverde), quella montana, e quella alpestre, potendosi inoltre distinguere una zona di collina o submontana, poi una subalpina. Sul lato nord manca affatto una zona mediterranea, ma quella di collina è più distinta dalla montana che sul lato sud. Inutile dire che queste zone non sono limitate esattamente da linee altimetriche, variando invece molto la loro estensione in verticalità secondo l’esposizione, i venti dominanti, la topografia, ecc. Così le cifre proposte da Ardoino non hanno che un valore approssimativo: egli limita la zona litorale con una linea distante 12 km. dalla costa, eccettuandone i posti alti oltre a 800 m., i quali fanno parte della zona montana, come pure tutto il resto del paese sino ai 1600 m. di altitudine.
Tralasciando di occuparci della vera zona litorale, la cui flora poco invade la regione montuosa che costituisce l’esclusivo argomento di questa pubblicazione, fermiamoci a dire alcunchè del limite superiore della regione mediterranea che ci porta già a qualche centinaio di metri sul livello del mare.
Sull’estensione di tale limite mancano dati precisi pei monti di Mentone e San Remo, come per le valli della Nervia e della Bevera; probabilmente questi sono i luoghi dove essa raggiunge il suo massimo di altitudine. I cespugli delle macchie, sui monti dietro a Nizza, non salgono oltre 700 od 800 m.; fra gli alberi forestali, il Pinus pinaster sul Monte Cima tocca 875 m., e nella sua forma più piccola e più resistente al freddo circa i 1050 m. a nord di Grasse, mentre ivi il lauro ed il rosmarino rimontano fino a 600; le querce sempre verdi col ginepro ossicedro e l’ulivo sino a circa 750, il pino d’Aleppo sino a 800 m. L’ulivo, che può sopportare un freddo sino a 15 gradi senza che il tronco perisca, rimonterebbe sino a 780 m. vicino a Nizza, secondo Daum; è questa circa l’altitudine che esso raggiunge a Utelle e sul lato est del Colle di Braus.
Le lunghe vallate, massime quelle orientate da ovest ad est, se sufficientemente protette dai venti del nord, sono particolarmente favorite dal clima, così le valli della Bevera inferiore, del Varo medio (l’ulivo giungendovi sino alla chiusa di Gueydan, a 75 chilometri dalla costa), dello Sterone e dell’Arroscia. In genere, le vallate conservano una flora mediterranea sino a grande altezza nei siti ben riparati, nelle strette chiuse e sui colli che li dominano; così la Val Vesubia sino allo stretto di Lantosca (m. 500) la Val Roja sino alla Gola di Gaudarena, ecc. Sugli alti monti isolati che s’innalzano dietro alla costa, specialmente sopra Mentone, e sulle pendici esposte ai venti sopra le valli dirette a meriggio, la flora montana e perfino la subalpina scendono molto basso, mescolandosi stranamente colla mediterranea, cosicchè ne risulta una varietà straordinaria di vegetali.
Nella Val Roja, esposta alla tramontana verso il suo sbocco, le piante caratteristiche della Riviera cessano ben presto, i limoni e le palme non rimontando che sino al primo stretto dietro a Ventimiglia; l’arancio prosegue sino a Bevera; l’eucalitto, insieme al mirto, al rosmarino, al fico d’India, ecc., sino ad Airole (130 m., 12 km. dalla costa); il lauro, il leandro, la quercia sempre verde sino a San Michele (140 m., 3 km. più in là); il pino nero o marittimo (P. Pinaster) quasi sino a Giandola (380 m.), mentre quivi cresce ancora sul lato orientale una piccola foresta di pini bianchi o d’Aleppo (a 400 m.), la quale specie, secondo Raiberti, sarebbe stata usata per rimboscare le pendici sotto a Venanzone (900 a 1100 m.) nella Val Vesubia, il che ci pare dubbioso.
Nel giardino ben riparato della Causica (m. 450), a Fontana (34 km. dal mare), crescono all’aperto il lauro, il rosmarino, l’arancio (senza però maturare), il leandro, il mespilo del Giappone, ecc. Sul lato est trovansi qui gli ultimi ulivi della valle (600 m.), mentre a nord-ovest, tra la gola di Gaudarena ed il villaggio di Berghe, se ne trovano insieme a fichi sin quasi a 800 metri: vidi perfino un ulivo isolato con frutti sul territorio di Tenda, in un seno roccioso molto riparato a nord di Gragnile, a 809 m. sul mare.
Fra le specie mediterranee della Gola di Gaudarena, rimontando fin verso 800 m. sotto a Berghe, sarebbero ancora da menzionare l’Ostria, lo Spartium junceum che fiorisce ancora a Briga, l’Inula viscosa, l’Erica arborea e scoparia, l’Euforbia nicænsis, qualche cespuglio di lauro, vari citisi e cisti (specialmente il C. salvifolius), ecc. Il cedro di Spagna (Juniperus oxycedrus), che forma spesso un piccolo albero, trovasi sino a 1000 metri, a nord-ovest di San Dalmazzo di Tenda, ed a nord di Briga; dietro il piano di Tenda, su di una pendice scoscesa e calda (850 m.) esso cresce insieme ad alcuni alberi di vita (Thuya orientalis) ivi piantati ed a esemplari nani del Quercus ilex, di cui ne prosperano invece due colossali, con tronchi da metri 3 a 3-½ di circonferenza e con rami molto estesi, davanti al monastero di Cimella sopra Nizza, e trovansi alberi secolari di questa specie ancora perfino a Courmettes sopra Vence (850 m.). Sotto le arcate della strada maestra, a quasi 800 m., prima di giungere a Tenda, vedonsi pochi esemplari dell’Arundo donax, la quale più in giù nella valle non vedemmo che ben sotto Breglio (a 200 m.); sino a Briga rimonta poi l’Osyris alba; sino a Tenda e sul lato sud della Colla di Briga il Centranthus ruber, fiorente quasi tutto l’anno, e nell’ultima delle dette località, come anche oltre a 1000 m. vicino a Gragnile, incontrasi un bellissimo cardo (Echinops ritro), il quale sale ai 1200 m. dietro a Grasse. Il fico cresce a Briga (m. 770), selvatico incontrasi fin sulla Colla di Briga e, sotto una roccia riparata, vicino a Canaresse (m. 1017), un po’ a sud di Vievola. Pesche e mandorle maturano a Tenda (800 m.) verso la fine di ottobre.
La regione montana, nel suo insieme, comprende circa 1450 specie di piante. Nelle vallate, il sostituirsi della flora montana alla mediterranea è segnalato specialmente dai prati, dalle file di alberi a foglie caduche e dalla mancanza ormai quasi assoluta delle colture arboree sui terrazzi costrutti lungo le scoscese pendici. Ma non v’è, nella parte meridionale delle Alpi Marittime, una zona continua di foreste a foglie caduche, predominando invece le conifere dalla costa al limite della vegetazione arborea, specialmente nei grandi ed antichi boschi. Però tali boschi, nella regione montana, cominciano d’ordinario a discreta altezza sopra il fondo delle vallate, caratterizzati da gruppi di alberi verdi solo nella calda stagione, i quali con poche eccezioni non escono dalla zona submontana, potendosi così denominare questa la regione del castagno e della quercia, mentre l’albero più comune della vera zona montana è il pino selvatico (sul lato nord invece il faggio).—È notevole che il castagno sul lato meridionale non scende così basso come la maggior parte degli altri amentacei, mentre nello stesso tempo sale più in alto che quasi tutti. Il Risso menziona 38 varietà di questo albero, tanto magnifico quanto utile, e che ivi deve esistere dai tempi più remoti, essendosene trovati residui fossili. Sebbene esso non cresca in generale che nei terreni primordiali o schistosi, non è raro qui anche in parecchie regioni calcaree, mancando però quasi affatto all’altipiano giurassico a nord di Grasse; verso Nizza, lungo il Varo, pare che non si trovi sotto ai 350 m. Nella Val Roja, esso non diventa comune che da Saorgio in su, colla disparizione dell’ulivo, ed è dapprima piantato sopra terrazzi artificiali, mentre attorno a S. Dalmazzo, e specialmente nella bassa Valle delle Miniere, trovasi in folte foreste e cresce perfino su pendii rocciosi; nella valle principale, esso cessa già, cogli schisti permici, a 750 m. tra San Dalmazzo e Tenda, non incontrandosi più in alto che un piccolo gruppo dietro a questo borgo, mentre se ne trovano nella Val Levenza sino a Marignol (1000 m.) ed in quella della Miniera sino ai 1020 m.; a nord-ovest di S. Dalmazzo, nella regione degli Spegi, esso albero rimonta perfino a 1250 o 1300 m., raggiungendo un’altitudine simile anche vicino alla Bollina (comune di Valdiblora). Spesso se ne vedono in queste valli degli esemplari maestosi con una circonferenza di 4 a 6 metri.
Il nocciuolo, il bosso, il Rhus cotinus crescono in questi boschi, accompagnati da felci, ginestri (Genista germanica, mantica, sagittalis), da grandi umbellifere (Angelica silvestre, Peucedanum cervaria), da talune piante rampicanti (il luppolo, l’edera, la clematite, ecc.) e da fiori ed erbe più o meno comuni (Malva moschata, Geranium silvaticum, Odontites lutea, Melampyrum nemorosum, Dantonia provincialis, ecc.) L’edera, sulle rocce a nord-ovest di Tenda, rimonta sino a 1050 m., e si trova anche sul lato nord a Demonte (m. 800).
Mentre il castagno è stimato pel prodotto dei suoi frutti, e perciò raramente soccombe al disboscamento, gli altri alberi forestali della zona submontana sono diventati ben rari. I pochi boschi a foglie caduche che ivi si trovano sono quasi tutti di origine recente, dovuti ad un pur troppo scarso rimboscamento; se ne trovano sui due lati di Val Roja vicino a Breglio ed a Giandola, nel bacino del Varo medio, ecc. Molto diffuso è dappertutto l’ Ailanthus glandulosa, albero giapponese dalle foglie simili a quelle della robinia pseudo-acacia; esso cresce rapidamente anche sul suolo più ingrato, per esempio sugli aridi macereti calcarei dietro a Tenda, sino a 1000 m.
La quercia (Q. pubescens Willd) forma, insieme agli stessi cespugli che crescono nei boschi di castagni, delle folte ed estese boscaglie, di apparenza ancora giovani, sugli aridi altipiani tra Grasse e la gola del Loup, in Provenza; è poi comune sulle pendici superiori di Val Roja sopra Fontana, rimontando sino ai 1100 m. dietro a Gragnile; però, gli alberi quivi sono molto distanti tra loro ed hanno rami piccolissimi, taluni essendone affatto privi, causa probabilmente la rapacità della popolazione; la pianta ridiventa poi comune nelle Alpi Ligustiche, verso Albenga. E sotto a questa quercia che s’incontrano specialmente i tartufi. Più raramente trovansi le due altre specie o forme di quercia dell’Europa centrale (Quercus sessiliflora Sm. e Q. pedunculata Ehrh).
Ancora più raro è il tiglio (Tilia silvestris Desf.), se non piantato sulle passeggiate; esso s’incontra selvatico nelle gole di Saorgio, nella parte inferiore della foresta del Siruol (Val Vesubia, ad oltre 1000 m., ove se ne trovano esemplari colossali), e nella foresta del Piné sopra Briga (1450 m.).
L’ olmo (Ulmus campestris) nella zona montana spesseggia sulle piazze pubbliche dei villaggi, da Nizza a Tenda, non incontrandosi però in istato selvatico, almeno nella Val Roja, mentre abbonda nelle vallette nizzardi. In pochi luoghi vedonsi boscaglie di pioppi (P. tremula) o gruppi di aceri (A. campestre: sopra la gola di Gaudarena, ecc., qua e là sino ai valloni del litorale).
Il faggio è abbastanza diffuso in quella zona, da Tenda in su, ma sparso in generale nelle foreste ed abbondante solo in pochi siti, come la valle delle sorgenti di Berthemont, sopra Roccabigliera; è invece comunissimo nell’alta Provenza, cominciando dai monti a nord-ovest di Grasse, poi di nuovo nelle Alpi Ligustiche, ove se ne trova un bel bosco sul Monte Ceppo (fin verso i 1500 m.), mentre più ad oriente esso sostituisce man mano affatto il pino selvatico, quale albero principale delle foreste montane.
Lungo i corsi d’acqua delle vallate più larghe (raramente sopra i 1000 m.) corrono fitte, ma semplici o tutto al più doppie file di vari alberi, specialmente pioppi (P. tremula, alba, nigra), ontani (Alnus glutinosa, incana), frassini (F. excelsior), carpini, ailanti e salici (S. alba, fragilis, caprea), ai quali unisconsi nocciuoli, clematidi e diverse erbe abbastanza alte; nella fresca ombra crescono talvolta anche piante delle foreste subalpine, cosicchè trovai attorno a Tenda (800 m.), la fragola, la genziana cruciata e l’aconito napello.
Le piante che nella regione montana compongono i prati o crescono lungo i rivi, sono più o meno comuni in tutta l’Europa, e così anche le erbe che si trovano nei luoghi coltivati o sulle macerie; ci basti dire che in tutte queste località la flora è singolarmente svariata. I prati, perfino nell’agosto (molto meno florido del maggio), sono smaltati di fiori bianchi (Daucus carota, Achillea millefolium, Leucanthemun vulgare), gialli (Ranunculus acris), rosei (Onobrychis montana, Trifolium pratense), violacei (Medicago sativa, Campanula persicifolia, Prunella vulgaris), ecc. Nei luoghi fangosi e sulle sponde dei rivi crescono, tra arbusti di salici, erbe rigogliose, quali il Petasites officinalis con foglie larghe sino a 1 metro, la Mentha aquatica, l’Eupatorium cannabinum, grandi umbellifere (Peucedanum venetum, Oenanthe peucedanifolia), Lythrum salicaria, Vincetoxicum officinale (molto più grande che nei luoghi aridi), diverse Felci e l’Equisetum ramosissimum. Mancano invece quasi affatto le piante palustri, causa la rarità e l’esiguità dei luoghi proprii al loro sviluppo, non trovandosi quasi piccole paludi che sugli altipiani giurassici a nord di Grasse.
Più importanti sono le formazioni siepiformi lungo le sponde inferiori delle vallate submontane, specialmente sulle pendici che separano tra loro i terrazzi coltivati: esse si compongono di una grande varietà di arbusti, d’ordinario strettamente intrecciati; predominano le rosacee, quali Rosa sphærica, R. sepium, ecc., Rubus discolor, Prunus spinosa, Cratægus monogyna, Cotoneaster vulgaris, poi i sambuchi (S. nigra, S. ebulus), il Ligustrum vulgare, il Cornus sanguinea, il Ginepro, varj Salici; aggiungonsi parecchie piante rampicanti (Clematis vitalba, Aristolochia clematitis, Bryonia dioica) e varie erbe molto grandi (Campanula, rapunculus, Galium aparine, Artemisia vulgaris, Vicia sepium, Ægopodium podagraria, Calamintha clinopodium, Urtica dioica, varii cardi, ecc.).
Quanto poi alle piante coltivate della zona submontana, la principale è la vite, allo sviluppo della quale il clima ed il suolo sono molto propizi, eccetto nei luoghi troppo secchi. Se la viticoltura qui non ha, a dir vero, che un’importanza puramente locale, ci sembra dipendere meno dalla natura del paese che dall’inesperienza dei contadini e dall’insufficienza dei loro mezzi; pure vi hanno anche qui vini rinomati, quali il vino di Bellet (territorio di Nizza), quello di Cosio d’Arroscia, la cui vite alligna a 760 m. sul mare, ecc. Nel dipartimento delle Alpi Marittime si calcolò che verso il 1890 la superficie delle terre piantate a viti era di pressochè 9700 ettari. La vite è quasi del tutto limitata alla zona submontana; sul lato sud della Colletta di Briga si coltiva sino a 1000 m. sul mare, e dietro a Gragnile sino a circa 1050 m. Fra le piante che qui abitualmente l’accompagnano, talune non escono dai colli vicino al mare; così il Phytolacca decandra, il Melagrano ed il Mandorlo, tutti e tre inselvatichiti; il Physalis alkekengi rimonta sino al vallone di Rio Freddo vicino a Tenda.
Fra i cereali il più comune è il frumento (Triticum vulgare), che rimonta, in luoghi riparati, sin verso i 1300 m.; ben pochi comuni però ne fanno un raccolto bastante pel proprio consumo.
Gli alberi fruttiferi più importanti sono: il gelso bianco (però non molto diffuso nelle vallate meridionali), che insieme al pero nella Val Roja rimonta sino a 850 m.; il noce, di cui robustissimi esemplari trovansi tra 1000 e 1200 m., nella Val Vesubia secondo Raiberti sino a 1300 m., insieme al melo che sul territorio di Tenda non si vede al disopra di 1125 m. (nel vallone di Rio Freddo); infine il pruno, abbondantissimo nelle vallate e sugli altipiani della Provenza sin oltre a 1000 m., ed il ciliegio che rimonta a 1300 m., e perfino a 1550 m. nei valloni di Casterino e di Rio Freddo, ove però sembra che ben raramente il frutto maturi.
Assai più originale di quella dei luoghi umidi e coltivati è la flora dei luoghi aridi in tutta la zona montana, il suo carattere essendo ancora in gran parte meridionale, assai differente dalla flora montana delle Alpi Settentrionali. Le formazioni di cespugli delle macchie litorali distinguonsi specialmente perchè prevale d’ordinario una sola specie: è sopratutto abbondante il nocciuolo, che, limitato nella zona litorale ai posti più ombrosi ed umidi, quivi invece riveste le pendici soleggiate non troppo sassose; lo si incontra spesso perfino a 1500 m. sul mare, però al disopra di 1200 m. abita di preferenza i boschi; eccezionalmente lo vedemmo sul lato nord del vallone di Rio Freddo, formante boscaglie sino ai 1600 m. Nei luoghi molto aridi lo surroga un ginestro (G. cincrea) dai rami grigiastri e sfilati, con foglie piccolissime, mentre il Sarothamnus scoparius, più grande, è assai più raro, abbondantissimo però nella Provenza. Il bosso (Buxus sempervirens) è comune sul lato settentrionale dei monti di questa zona: nella foresta del Siruol (Val Vesubia) se ne trovano esemplari di straordinaria grandezza. Veramente caratteristico è questo vegetale pei Carsi o altipiani calcarei di Caussols, a nord di Grasse, ove cresce tra 1050 e 1200 m. (nella Valle della Miniera sino a 1100 m.). Il sommaco o albero a parrucche (Rhus cotinus), talvolta abbastanza elevato, riveste specialmente pendici rocciose col suo fogliame verde-chiaro nella primavera e rosso di fuoco nell’autunno; abbonda già nelle aride foreste della zona litorale, ma specialmente nelle gole del Ciaudan (Varo) e di Gaudarena, rimontando attorno a Tenda e dietro a Briga sino ai 950 m. Similmente diffuso è il Prunus mahaleb, comune nei boschi sassosi della regione di collina.
Le erbe, che nei luoghi più secchi prendono il posto degli arbusti, hanno qui un carattere simile a quelle crescenti nei luoghi analoghi della zona litorale, ma costituiscono in gran parte specie differenti; quasi tutte sono aromatiche e profumate. Le più diffuse sono: Iberis umbellata, Anthyllis vulneraria, Laserpitium gallicum (abbondante sino ai 1400 m.), L. siler, Pimpinella magna, Eryngium campestre, Cephalaria leucantha, Carlina vulgaris, C. acanthifolia con fiori di 18 cm. di diametro, simili a piccoli soli; Inula montana, Anthemis tinctoria, Artemisia campestris, A. absinthium (abbondante sino ai 1500 m. e ricercato per la distillazione del vermouth), A. camphorata, Linaria striata, Globularia vulgaris, Alchemilla vulgaris, numerosi liliacei, il graminaceo Lasiagrostis calamagrostis, e sopratutto molte labiate, quali la Calamintha nepeta, il Timo volgare, ecc.
Sulle scoscese rocce crescono specie di Rosa, Rubus e Prunus, l’Amelanchier vulgaris, l’Acer opulifolium, ecc.; ma l’arbusto più interessante di tali rocce è un grande ginepro ( Juniperus phœnicea ) simile ad un cipresso e che, comunissimo sulle rupi del litorale, abbonda sulle calde rocce calcaree attorno a Tenda, rimontando perfino a circa 1420 m. sul lato nord del Vallone di Rio Freddo (sulla Rocca di Turno), mentre sull’altro lato a simile altezza cresce già il larice, incontrandosi dunque qui le conifere della Siria e della Siberia. Fra le altre piante rupestri citeremo: la Pæonia peregrina con grandissimi fiori rosei (sui caldi monti tra 900 e 1300 m.), l’Hesperis laciniata, la Pimpinella saxifraga, il Lilium pomponium, l’Allium pulchellum, diverse specie di Sedum e di Sassifraghe, ecc. Infine, sarebbero da menzionare parecchie specie che predominano specialmente nei boschi di pini, rimanendo limitate quasi affatto alla regione submontana; tali sono il Cistus salvifolius, il Cytisus hirsutus, la bella Colutea arborescens, l’Ilex aquifolium (non comune), la Daphne laureola, la Vinca minor, l’Asfodelo cerasifero, varie orchidee, ecc.
Nella zona montana superiore, solo i boschi e le formazioni aride mostransi veramente distinte dalle formazioni analoghe della zona di collina. Nei boschi predomina, come già dicemmo, il pino volgare (P. silvestris), specialmente nella varietà con scorza rossa. È questo un albero di aspetto molto variabile: gli esemplari isolati assumono d’ordinario la forma del pino parasole, il tronco ramificandosi soltanto a discreta altezza, mentre nelle foreste gli alberi appariscono piuttosto piramidali; i pini giovani hanno più grossi e più lunghi ciuffi di foglie; del resto questa specie cresce anche in luoghi aridissimi, sui macereti e perfino sulle pareti di roccia, insinuando le sue radici nelle piccole fenditure; quivi poi si mostra in generale quale umile arbusto, talvolta con rami depressi. Incontreremo quest’albero ancora nella regione alpestre. Le foreste di pini sono d’ordinario poco folte, di aspetto piuttosto severo; sui tronchi cresce qua e là il Viscum album; tra le numerose erbe che ricoprono il suolo citeremo l’Antriscus silvestris, l’Astrantia major, il Melampyrum nemorosum; tra i cespugli il Rhamnus cathartica ed il caprifolio (Lonicera Xylosteum).
La regione montana è quella nella quale il disboscamento raggiunge le più estese proporzioni: nel dipartimento delle Alpi Marittime nel 1890 si contarono ancora 90.418 ettari, in quello delle Basse Alpi 115.000 coperti da boschi, cioè rispettivamente quasi un quarto e neppure un sesto della superficie totale. Ritenendo che nelle zone litorale e subalpina un terzo del suolo è ancora imboschito, non rimangono—nel primo dipartimento—che circa 40.000 ettari imboschiti nella zona montana, cioè un quinto del totale: nelle Basse Alpi poi, le lande e le terre incolte occupano un buon terzo di tutto il paese; infatti, questo dipartimento, la cui popolazione diminuisce rapidamente, minacciava di diventare uno spaventoso deserto di roccia, dimostrando su grande scala le funeste conseguenze del disboscamento: isterilimento delle terre, disseccamento delle sorgenti, incredibile variabilità dei corsi d’acqua, torrenti devastatori e perfino vere «valanghe di acqua» cadenti dalle scoscese pendici in seguito ai temporali ed al rapido sciogliersi delle nevi. Così il governo francese si vide costretto ad istituire, con spese molto ragguardevoli, importantissimi lavori di rimboscamento generale e di regolamento nei corsi d’acqua. Nelle vere Alpi Marittime, il male non è così grande, eccettuati gli altipiani rocciosi della Provenza, tra Grasse ed il Cheirone, che sembrano paesaggi dell’Arabia, un ottavo del suolo essendo appena coperto da alberi; ivi infatti, la popolazione dei 20 comuni diminuì di ben 1700 anime dal 1870 al 1890, e vi si contano circa 15 comunità disertate dopo il medio evo.
Anche nel Nizzardo non mancano simili scene di orrenda desolazione, ed in parecchi punti, dove il suolo consiste in ghiaie poco coerenti od in conglomerati, si produssero e produconsi ancora spesso scoscendimenti notevoli, i quali per es. più volte interruppero la strada che conduce da Ventimiglia a Breglio. Però, qua e là sulle Alpi Marittime incontransi ancora foreste piuttosto estese, specialmente sul lato nord, nei bacini italiani del Gesso, della Vermenagna e del Pesio, ove tratti di terreno abbastanza grandi furono rimboscati da parecchie decine di anni, poi anche nelle Alpi Ligustiche, tra il Nervia e l’Arroscia; sul lato francese, Napoleone III fece piantare grandi foreste attorno a Nizza, ed ora si ripiantarono parecchie pendici nella Val Vesubia con pini austriaci, ailanti, ecc.; molto però rimane da fare, massime nel bacino della Tinea, nel territorio di Tenda, ecc.
È poi da deplorare che, a quanto pare, non ci sia (come c’è in Baviera ed in Isvizzera) una legge che divieti il taglio dei boschi sui fianchi scoscesi dominanti le vallate. Infatti, tali fianchi—come spesso si può vedere—sono interamente rovinati, talvolta in pochi anni, dopo la sparizione degli alberi. Altro inconveniente è la troppo grande libertà che si accorda al piccolo bestiame che distrugge le giovani piante e schiaccia la terra; vedemmo su un monte vicino a Tenda un palo coll’iscrizione: «proibito per capre»; ma siccome non v’è guardiano apposito, e nè le capre nè i pastorelli sanno leggere, dubito dell’efficacia di tale divieto.
Fra gli arbusti che crescono nei luoghi aridi di questa zona, il più volgare è il ginepro (Juniperus communis), che talvolta forma un piccolo albero, associandosi spesso alla Genista cinerea sino ai 1450 m. e trovandosi ancora fin verso 1600 m. nei boschi. L’ Erica (Calluna vulgaris) spesseggia parimente nelle foreste e nelle boscaglie aride fin verso 1500 m.
Le erbe caratteristiche di quelle pendici crescono, tra 800 e 1400 m., insieme a quelle della zona submontana, ma salgono assai più alto, trovandosene molte ancora sul culmine del Monte Corto (m. 1719), a nord di Tenda. Primeggiano fra esse: l’Helleborus fœtidus, dalle foglie palmate, l’Helianthemum italicum, la Polygala chamæbuxus (sui monti soleggiati delle Prealpi fino a circa 1800 m.), la Carlina acaulis, l’Erinus alpinus, che scende fin sulle roccie vicino a Mentone, la Chondrilla juncea, il Vincetoxicum officinale, il Thymus serpyllum, la Lavandula officinalis, l’Hyssopus officinalis (abbondante in alcuni punti delle rocce calcaree attorno a Tenda), l’Origanum vulgare, la Saturcia montana, la Stachys recta, la Calamintha nepetoides e alpina, la Nepeta nepetella, l’Euphorbia falcata, la Daphne mezereum e la felce comune (Pteris aquilina: molto abbondante su parecchie pendici secchissime sin verso i 1800 m.). Fra le piante rupestri citeremo il Sempervivum arachnoideum, parecchie sassifraghe (S. stellaris, S. aizoides), l’Antennaria dioica, l’Hieracium lanatum, la Globularia cordifolia.
Assai spiccata è nelle zone montane la differenza floristica fra il Giura Provenzale, le vere Alpi Marittime, le Alpi Ligustiche ed il lato nord (bacino del Po). Oltre a 20 specie non trovansi, a quanto pare, ad est del Varo, tra altre un tiglio (T. platyphylla Scop.) e la Fritillaria caussolensis, limitata agli altipiani rocciosi tra Grasse e la Valle dello Sterone. L’antico contado di Nizza possiede una varietà speciale del pino nero (Pinus pinaster f. Hamiltonii, Pinus Escarena del Risso) che si trovò sui monti attorno alla Valle del Paglione. Ardoino dice poi che un pruno (vicino al P. brigantiaca) incontrato nella foresta della Mairis, con foglie obovate e pubescenti sul lato inferiore, potrebbe bene costituire una specie distinta. Altre specialità interessanti sono: il Cytisus Ardoini, molto differente dai suoi congeneri, trovato sulle rocce tra Mentone e Scarena; il Ranunculus Canuti Coss. del Colle di Braus, la rara Asperula hexaphylla (dal Gran Monte sopra Mentone fino alle vallette subalpine del Roja e della Vesubia), la Micromeria piperella Benth (non rara da Tenda al Bress e all’Aggel, a 1000 m. sopra Mentone) e la subalpina Saxifraga lantoscana; la Saxifraga lingulata è più diffusa, dai monti di Grasse all’Appennino genovese, e la bellissima S. cochlearis, abbondante nel bacino del Roja, incontrasi ancora nella Liguria orientale, sul capo di Portofino. Il Plagius Allionii L’Hérit., assai distinto dai leucantemi, trovasi dalla bassa Valle del Varo sino a Tenda e sui monti di Genova. La Campanula macrorrhiza, con radice legnosa, abbonda sulle rocce del Nizzardo, passando anche su quelle dietro a Grasse; similmente diffusa è la singolare Potentilla saxifraga Ard., bella pianta con radici legnose e foglie argentee sul lato inferiore, trovata a 870 m. sopra Mentone, a Saorgio, a Briga, sulle rupi del Varo, ed a Thorenc dietro a Grasse.
Tra le specie che ivi non sembrano uscire dalle Alpi Ligustiche, citeremo: l’Asperula odorata, l’Inula oculus Christi (Monte Toraggio), la Saxifraga valdensis, il Cyclamen europæum (Rocca Ferraira, sopra Ormea, a 1300 m.), la Koniga halimifolia, l’Aquilegia Reuteri Boiss., il Leucojum vernum.—V’è da notare poi la mancanza di certe specie diffuse nelle attigue regioni della Provenza e dell’Italia, quali l’Elæagnus angustifolia, il Juniperus sabina, l’Ephedra Villarsii (speciale delle Bassi Alpi) e sopratutto il pino di Corsica (Pinus laricio f. Poiretiana), che negli Appennini e nella Corsica forma magnifiche foreste, notevoli per l’altezza e la regolarità delle piante; questa specie molto resinosa, di cui il pino austriaco non è che una varietà, dovrebbe introdursi qui a scopo di rimboscamento, essendo utile pel suo legno apprezzatissimo e offrendo il vantaggio assai importante di essere quasi affatto ribelle agli insetti che rovinano i pini selvatichi.
Della flora del lato nord delle Alpi Marittime non esiste, a quanto sappiamo, un catalogo, essendosi perduta la Flora limonese di G. Viale, che contava 1500 specie. È probabile che un numero abbastanza grande di piante montane si trovi su quel lato, mancando su quello meridionale, e forse v’è anche qualche specie indigena; certo è però che un numero assai più grande di specie diffuse sul fianco sud manca a quello nord, essendovi minore la varietà della flora. Siccome specialmente i bacini del Gesso, della Stura e del Pesio sono affatto chiusi ai venti marini, per cui il loro clima è assai continentale, ben poche sono le specie mediterranee che ivi crescono, mancandovi perfino molte specie che si trovano nelle Alpi Lombarde o nel Vallese. Vedemmo nel giardino della prefettura a Cuneo palme nane, jucche ed acacie, ma certo esse dovranno coprirsi nell’inverno. Senza contare piante di clima meridionale, che però vegetano anche in Lombardia (quali Pistacia lentiscus, Osyris alba, Celtis australis, Erica arborea, varii Cisti), nè il Ginepro fenicio, essenzialmente mediterraneo, avremo da citare, quali specie caratteristiche del lato sud che non incontrammo su quello nord: Genista cinerea, il Bosso (allo stato selvatico), il Rhus cotinus, il Timo, l’Issopo, la Cephalaria leucantha, il Centranthus ruber, ecc. Del resto, la flora dei luoghi aridi è molto simile a quella delle vallate meridionali, senonchè le formazioni di arbusti e specialmente le siepi delle pendici inferiori sono assai meno sviluppate; attorno a Valdieri, il Biancospino, il Pruno spinoso e la Calluna volgare rimontano sino a 1300 m., il Nocciuolo ed il Rubus discolor sino a 1400 m. Le piante palustri ed acquatiche, invece, trovano le loro condizioni di esistenza in assai maggior numero di siti che sull’altro lato dei monti.
All’intima correlazione climatica ed orografica di queste valli settentrionali colla pianura padana, devesi un’ indole detta vegetazione assai diversa di quella delle vallate mediterranee, essendo anche molto più notevole la quantità delle piogge (specialmente estive) e delle nevi, come pure quella delle acque usate per l’irrigazione. I larghi piani della Val Stura sino a Vinadio, della Valle del Tanaro sino ad Ormea, della Val Gesso sotto ad Entraque, mostransi molto fertili ed ubertosi, coi loro vasti prati, coi campi di grano turco, di fromento e di canape (sino a circa 1100 metri nella Val Stura), colle viti (sino a 920 m. vicino a Vinadio), con numerosi e grandi alberi; il gelso raggiunge gli 800 m. sotto ad Entraque ed a Demonte, fichi e peschi trovansi a Valdieri (750 m.); il pero ivi (nel vallone del Colletto) sale a 1000 m., il melo, il pruno ed il noce a 1200 m., il ciliegio trovasi ancora a San Giacomo (m. 1250).
Come quasi tutta la penisola appenninica e come la pianura del Po, il lato nord delle Alpi Marittime distinguesi per la prevalenza assoluta degli alberi a foglie caduche, prevalenza dovuta forse meno a ragioni climatiche che all’isolamento di queste vallate, aperte soltanto verso la pianura, ed agli anteriori disboscamenti, usandosi poi quasi soltanto castagni, faggi e simili pel rimboscamento. Le numerose vecchie foreste isolate di conifere lungo l’Appennino e nelle Alpi Ligustiche (bacino del Pesio, ecc.) sembrano infatti accennare ad un’antica zona continua di foreste resinose, ora in gran parte distrutte. Il pino selvatico, che del resto manca quasi affatto all’Appennino, non incontrasi, a quanto io sappia, sul lato nord che in pochi esemplari coltivati (per esempio ai Bagni di Vinadio), e così non v’è, in quelle valli inferiori, nessuna conifera selvatica, se non il ginepro. Anche sul lato sud delle Alpi Ligustiche, partendo da San Remo, il pino diventa raro nella stessa misura che cresce il numero dei faggi. Tutti quelli che passarono il Colle di Tenda saranno certo stati colpiti da tale cambiamento di carattere della vegetazione.
Il castagno forma, sui colli che cingono la pianura, bellissime foreste che non la cedono in maestà alle più belle che si conoscono del genere (nella Corsica e nelle Alpi Graie). L’estensione complessiva di quelle foreste non sarà minore di 300 kmq. tra il Gesso ed il Tanaro. Magnifici esemplari secolari crescono specialmente nella Valle del Pesio e di Casotto; piuttosto raro attorno ad Entraque e nella Val Vermenagna (sino a 1000 m.), esso albero raggiunge, in esemplari spesso intristiti, i 1200 m. sopra le Pianche nella Val Stura. Circa nella stessa zona v’è la quercia che mostra quasi sempre un fusto a mo’ di colonna, simile al pioppo di Lombardia (Quercus pedunculata f. fastigiata), e che trovasi spesso lungo le Alpi Ligustiche, dal Colle di Melogno ad ovest, rimontando ai 1200 m. sopra Sant’Anna di Valdieri.
La stessa forma slanciata è del resto qui particolare a molti alberi e troppo comune per essere casuale; la mostrano la tremula, il frassino (di cui non incontrammo che un solo esemplare a corona rotonda, a Valdieri), l’ontano nero, il sorbo, il biancospino arboreo, il ciliegio e spesso il sicomoro, più raramente il faggio ed il salice. L’albero più comune delle vallate settentrionali è il frassino (F. excelsior), dal tronco tutto rivestito da foglie nerastre e pinnate; esso rimonta fin quasi a 1400 m. sul Colle di Tenda, e nel vallone della Trinità, a 1300 m., forma un bel bosco insieme al nocciuolo; vicino alla strada sotto ad Entraque, si vede un frassino abbastanza grande che cresce nei detriti accumulatisi fra la cima di un largo salice. Nella stessa zona tengonsi poi, rimontando raramente più alto di 1200 m., l’ontano nero e bianco, i salici (S. alba, incana ecc., sino a 1200 m.), il pioppo bianco, la tremula (nel vallone di Vallasco a 1500 m.) e la forma arborescente del biancospino; più rari sono il tiglio (m. 1020 a Limone), il carpino e l’ olmo (a 1150 m. sul Colle di Tenda); di quest’ultimo però trovansi esemplari secolari con una circonferenza di 5 metri sulle piazze pubbliche di Roccavione, Robilante e Boves.
Talune piante rampicanti adornano i castagni e i suddetti alberi, così la Clematis vitalba, il Luppolo (a 1200 m. sul Colle di Tenda), la Cuscuta major (nello stesso sito, sui sambuchi), il Convolvulus sepium.
Per la regione montana superiore del lato nord è caratteristico il faggio (Fagus silvatica) che forma belle foreste sulle Alpi Ligustiche, dal Monte Settepani al Monte Armetta sopra Ormea, poi dalla Valle del Tanaro a quella del Gesso. Nella Val Stura, al cui lato settentrionale sembra manchi affatto, s’incontra raramente sopra Vinadio; gli esemplari colossali e secolari che si vedono nella foresta bandita di Callières, dietro ai bagni di Vinadio, sono probabilmente i più occidentali che ivi s’incontrino. Quando il faggio, per ragioni climatiche, non può più raggiungere le proporzioni di un albero, esso forma un cespuglio spesso disteso e depresso, costituendo grandi boscaglie, di cui parleremo trattando della regione alpestre. Sono rari gli alberi di faggi sopra i 1500 m.; di alto fusto ne crescono ancora dei bellissimi sul monte l’Arp sopra Valdieri (m. 1200 a 1750) e nel bosco della Stella ad est delle Terme di Valdieri (m. 1700), gli esemplari più in alto essendo però assai più piccoli di quelli inferiori e con tronchi spesso contorti.—Nella stessa zona tengonsi: il sambuco nero (in tutte queste valli, specialmente la Val Stura, e sino a 1460 m. nel vallone di Monte Colomb), formante d’ordinario un grande cespuglio, il sicomoro (Acer pseudo-platanus: val Pesio, Pianche di Vinadio, Colle di Tenda fra 1200 e 1300 m.), molto meno grande che nelle Alpi Settentrionali e ridotto ad arbusto nei luoghi più alti (parete di roccia a sud del Lago di Ruina e vallone di Meiris, circa a 1700 m.) e la betulla (B. alba f. verrucosa: fra i castagni nella Val Vermenagna, a 1300 m. a nord di Valdieri, a meriggio di Vinadio e nel vallone dei Bagni; in quello di Vallasco a 1600 m.). I due ultimi alberi nominati mancano quasi affatto sul lato sud, trovandosi appena in parecchie vallate della Tinea, della Vesubia e del Roja, verso il limite superiore della zona montana.
Passiamo ora alla regione alpestre, dalla quale potrebbesi distinguere la zona subalpina, stendentesi sino al limite superiore degli alberi. La superficie di tutta la regione (sopra i 1600 m.) nelle Alpi Marittime e Ligustiche (solo ad oriente della Tinea) è di circa 1000 kmq., che possonsi dividere approssimativamente così:
Terre coltivate, edifizi, ecc.: ettari 2000
Foreste subalpine » 23000
Boscaglie » 8000
Prati (alpi) » 19000
Rocce, detriti, acque (zona subalpina) » 13000
Zona più alta del limite climatico dei boschi (creste, nevi, ecc.) » 18000
Da queste cifre risulta che i boschi occupano ancora adesso circa la metà dei terreni che dovrebbero coprire, secondo il clima naturale; però v’è da considerare che forse un terzo o più dei terreni scarsi di vegetazione, al disotto del limite climatico dei boschi, sono tali in seguito a condizioni naturali e non al disboscamento, risultandone che la zona subalpina è relativamente la meglio imboschita di queste Alpi. Però, le foreste vi sono diffuse molto inegualmente, e vi sono grandi tratti affatto spogli; sul lato nord, le sole valli veramente ricche di alberi in questa zona sono quelle del Tanarello, dell’Upega, del Pesio, del Gesso superiore e dei bagni di Vinadio, cosicchè su quel lato gli alberi ricoprono forse appena 2500 ettari, cioè un ventesimo circa della superficie totale, mentre nella zona montana quivi abbondano i boschi.
Una differenza notevole fra le Alpi Marittime e quelle settentrionali è poi la mancanza, superiormente alle foreste, di quella zona quasi continua di prati alpestri che attornia gran parte delle valli svizzere. L’estensione dei prati è qui di poco rilievo, specialmente sul lato sud, ove occupano appena 3000 ettari, mentre su quello nord si estendono almeno a 16.000. Sulle catene meridionali s’incontrano poche belle praterie (sugli altipiani di Marta, di Peirafica, del Piano Tendasco, dell’Aution, di Prals, di Millefuons, ecc.), predominando, sulle pendici poco inclinate, le erbe sottili, secche e giallastre. Il lato nord vanta bei prati, specialmente lungo certi dorsi montuosi (e sulle loro pendici superiori) quali il Colle Sestrera, la Colla Piana, la cresta Pianard, la cui bellissima prateria (1500 a 2200 m. sul mare) ricopre oltre a 800 ettari, il monte Merqua, ecc., poi nelle depressioni delle catene e nei circhi delle alte vallate. Quanto alle colture, esse forse in nessun punto raggiungono qui il loro limite climatico, rimanendo talvolta molto disotto a questo, causa le condizioni orografiche sfavorevoli; anche i campi di segala e di patate, nelle vere Alpi Marittime, non s’incontrano mai sopra ai 1800 metri.
Passando ora alla composizione ed al carattere della flora, troviamo ancora 325 specie nelle Prealpi e 274 nella zona veramente alpina (sopra i 2500 m.), la zona subalpina contando ancora 51 piante legnose e 16 piante annuali. Quasi tutte queste specie sono strettamente alpestri, mancando ben poche specie diffuse generalmente nelle Alpi; anzi vi si trovano ancora quasi tutte quelle pianticelle che in Isvizzera crescono perfino sulle più alte rocce, contandosi qui, fra una trentina di specie nivali, il Ranunculus glacialis, la Silene acaulis, la Cherleria sedoides, la Saxifraga moschata e la bryoides, la Gaya simplex, l’Artemisia spicata e la glacialis, il Senecio incanus, l’Eritrichium nanum, la Gregoria Vitaliana, ecc.; e, tra le specie eminentemente alpestri che però scendono più basso, l’Aster alpinus (scende a Casterino a m. 1560), la Viola tricolor e calcarata, la Sagina glabra, il Mulgedium alpinum, la Campanula Allionii Vill., la Linaria alpina, il Papaver alpinum, la Soldanella alpina, la Primula viscosa e hirsuta, la Nigritella angustifolia, la Gentiana verna e la germanica, ecc. Poche specie mostrano un carattere generico piuttosto mediterraneo: così la Iberis nana, il Linum alpinum, la Nepeta nuda.
In genere, la flora delle Alpi Marittime superiori si distingue per la grande varietà delle specie, ma ben raramente forma un tappeto denso, quasi pratoide. La maggior parte delle piante fiorisce nel giugno e nel luglio; le epoche più splendide però sono il principio di giugno, quando accanto alle nevi tuttora abbondantissime, sui detriti appena scoperti, si aprono numerosi fiorellini, quando le boscaglie di rododendri rivestonsi con miriadi di campanelle rosee, quando spuntano gli aghi del larice e le foglie degli ontani, dal colore così vivido; poi l’ autunno, quando, sotto le creste già ricoperte da candido manto, i mirtilli, che rivestono vasti tratti delle vallate settentrionali, risplendono con una incredibile varietà di tinte verdi, brune, gialle e rosse.
La differenza floristica tra i due lati delle Alpi Marittime non è molto risentita nella zona alpestre, essendo molto più notevole quella fra le Alpi Ligustiche (o anche i monti calcarei in genere) ed il massiccio centrale delle Marittime. Fra le specie qui limitate, a quanto pare, sui monti calcarei e calcescistici, citeremo: Helianthemum italicum, Polygala alpestris e chamœbuxus, Rhamnus pumilus, Cytisus pumilus, Astragalus aristatus, Paronychia serpyllifolia, Scabiosa graminifolia e italica, Erica carnea (a sud-ovest del Colle di Tenda tra 1100 e 2050 m.; Val Pesio), Nepeta nepetella, Stachys alpina, Globularia nudicaulis, Crocus vernus; di specie alpestri poi Ranunculus glacialis, Aquilegia alpina, Iberis nana, Helianthemum œlandicus, Rhamnus alpina, Papaver alpinum, le specie di Oxytropis e di Phaca, Dryas octopetala, Saxifraga moschata, Ligusticum ferulaceum, Myrrhis odorata, Campanula stenocodon, ecc. Speciali di quelle formazioni subalpine sono il Trifolium Balbisianum Dc., le Sassifraghe già menzionate nella regione montana e l’Iberis garrexiana, diffusa dalla Valle del Tanaro sino al dipartimento delle Basse Alpi.—Fra le specie ligustiche non trovate, a quanto pare, ad ovest del Colle di Tenda citeremo: Helianthemum lunulatum, Dianthus Carthusianorum, Cerastium alpinum, Trifolium pannonicum, Libanotis montana, Cephalaria alpina, Anthemis Triumfetti, Hieracium Morisianum, Loiseleuria procumbens, Gentiana tenella e germanica, Salix myrsinites, Calamagrostis arundinacea, Poa sudetica. Speciale alle Alpi Ligustiche è forse il Senecio Persoonii De Not. della catena a nord dell’alto Tanaro (Pizzo di Cornia e creste vicine).
Le specie che sembrano limitate al massiccio centrale, passando tutto al più sulle roccie permiche, sono per lo più vere piante nivali; tra le altre citeremo Dianthus deltoides, Sagina procumbens, Sibbaldia procumbens, Sedum Rhodiola, Senecio incanus e Balbisianus, Tozzia alpina, Scabiosa vestita, Lloydia serotina, Oreochloa pedemontana. Originari di questo gruppo delle Alpi Marittime (però diffuse per lo più anche sulle alte catene calcaree) sono, a quanto pare: il Cytisus alpestris Thuret (alte vallate della Vesubia), la Viola valderia All., la Viola nummularifolia (abbondante attorno ai laghi di Mercantour e di Rabuons), la Silene cordifolia All., la Potentilla valderia, la Centaurea uniflora, l’Achillea herba rota, il Cirsium Allionii Thuret (praterie umide del bacino della Vesubia, Sant’Anna di Vinadio), ma sopratutto la magnifica Saxifraga florulenta Morr., specie differentissima dai suoi congeneri e ben raramente fiorita.
Le paludi subalpine occupano, nelle Alpi Marittime, un posto ben modesto, cosicchè la flora limitata ai luoghi umidi v’è abbastanza povera; trovansi fra altri il Thalictrum alpinum, il Cirsium palustre, l’Epilobium parviflorum e alpinum, la Primula farinosa, la Tofielda calyculata, vari Eriofori (E. alpinum, ecc.), lo Sfagno; poi, accanto ai rivi e nelle loro acque, la Caltha palustris, la Saxifraga aizoides, l’Adenostyles albifrons, il Petasites albus, la Pinguicula vulgaris, l’Umbilicus pendulinus, il Nasturtium pyrenaicum, il Myriophyllum verticillatum; nei laghetti vegetano ancora Potamogetoni (P. alpinus, P. marinus). E nei siti umidi che talune specie alpestri scendono più basso, come l’Erinus alpinus, la Gentiana acaulis (insieme all’Arnica montana ed all’Asphodelus albus sul monte Fascia dietro a Genova, ad appena 605 m. sul mare).
Le formazioni più degne d’interesse, in questa regione, si possono raggruppare così: le foreste subalpine, le boscaglie di arbusti, le associazioni di grandi erbe, ed infine la vegetazione caratteristica dei luoghi aridi delle Prealpi.
I boschi superiori delle Alpi Marittime non la cedono in maestà ai più belli d’Europa; sono molto meno monotoni di quelli della Foresta Nera e della Norvegia, e, con tutto il loro aspetto severo, col silenzio profondo che vi regna d’ordinario, mostrano pure un lusso di vegetazione, una varietà di forme e di colori che li rende assai più attraenti di quelle antichissime foreste bandite della Svizzera e della Boemia. Così essi boschi portano la vita vegetale nella sua forma più grandiosa e più svariata sino nei più selvaggi recessi montuosi; manca loro il fogliame spesso, largo e fresco delle basse foreste, ma se queste sono più leggiadre, quelle invece sono più nobili. Chi ha percorsi quei boschi, d’ordinario solitari e ben lontani dai villaggi, pensa certo con mestizia ai tempi passati, quando tutt’attorno le pendici erano rivestite in simile modo dagli alberi. Ora il disboscamento, anche nelle valli superiori (specialmente in quelle della Gordolasca, del Borreone, di Mollières), ha fatto rapidi progressi, essendosi perfino costrutte importanti dighe per ritenere i rivi, nei quali accumulansi i tronchi tagliati, aprendo poi le cataratte, cosicchè il torrente con forza raddoppiata trascina il legno fino nelle basse valli. I Laghi dell’Inferno, che Gioffredo, due secoli fa, chiamava «attorniati da fitta selva di larici», hanno ora sponde squallide e nude, ed appena mostrasi nei loro dintorni qualche vecchio larice isolato. In molti boschi i larici sono ora così radi che vedonsi due volte tanti tronchi tagliati quanti viventi, e spesso incontransi pendici intieramente spogliate sulle quali spuntano ancora i ceppi degli alberi scomparsi.
Le più belle foreste subalpine vedonsi tuttora sulle alte catene meridionali: tra la Tinea e la Vesubia esse ricoprono almeno 4500 ettari, estendendosi da Clanzo, da Valdiblora e da Venanzone fino sui monti Tournairet (m. 2085) e Siruol; ancora oggidì vi sono abbastanza numerosi i lupi, le linci, le volpi, ecc., mentre nel medio evo ricoveravano anche cinghiali, daini e caprioli; sin verso il 1830 la foresta di Clanzo era una vera foresta vergine. Quella di Saleses, che dal passo omonimo (m. 2020) per un’amenissima valletta scende a Ciriegia sul Borreone, misura quasi 500 ettari, distinguendosi per le acque chiare ed abbondanti che vi scorrono, per lo splendore della flora che vi conta specie rarissime e talune piuttosto meridionali, per la bellezza dei prati intercalati, poi per il fusto regolare delle piante, la rimarchevole beltà delle essenze e la grandezza degli alberi, di cui taluni raggiungono 40 m. di altezza. Magnifici boschi sono poi quelli di Fremamorta, del Cavallé, di Devensè, di Clapeiruole (Val Gordolasca), della Mairis (tra la Vesubia e la Bevera), della Valmasca; nelle Alpi Ligustiche quelli della Bendola, del Gerbonte, di Rezzo, delle Navette, di Sestrera (Val Pesio), ecc. La più bella foresta che incontrammo nel bacino del Roja è quella che colle sue varie ramificazioni si stende da Briga in Val Levenza sin sotto alla Cima di Marta (2138 m.), tra le vallette della Madonna e del Riosecco, occupando quasi 1100 ettari e portando, nelle sue diverse parti, i nomi di Piné, Montneir, Sanson e Nava. La varietà della flora, stante il grande dislivello fra i suoi estremi (800 a 1900 m.), vi è infinita, ed inoltre essa è qua e là interrotta da belle praterie, da scoscesi burroni e da radure rocciose dalle quali si hanno estese vedute e si può apprezzare lo strano cambiamento di fisionomia prodotto dal disboscamento nelle catene tutt’attorno, di pari altezza, le quali sono per lo più affatto squallide, appena popolate da ginepri o ginestri. Nelle precipitose vallette che scendono verso il Riosecco sonvi ancora abeti giganteschi; sul lato del vallone di Sanson v’è un vecchio abete di circa m. 5 ½ di circonferenza. La foresta è percorsa da parecchie strade orizzontali ad uso dei boscaiuoli.
I caratteri distintivi di tutte le precitate foreste sono: la varietà abbastanza grande degli alberi, essendo però dappertutto rari quegli a foglie caduche; lo spazio abbondante fra i tronchi, permettendo il libero sviluppo di ciascun individuo; infine la foltezza, l’altezza e la ricchezza dei cespugli, come delle erbe che vegetano negli spazi: si contano ben 40 specie di arbusti, limitati in parte alle località più basse, quali il Clematis vitalba che cresce ancora a 1450 m. sul Piné e sopra le Terme di Valdieri; poi varie Rose, il Nocciuolo, il Biancospino, il Rubus discolor, il Ribes uva crispa, il Salix nigricans, il Faggio, il Sicomoro, il Ginepro, ecc.; in parte ai siti veramente alpestri, quali l’Atragene alpina, il Cytisus alpinus, la Rosa alpina e spinosissima, il Lampone (comune tra 900 e 1800 m.), il Cotoneaster vulgaris, il Sorbus aucuparia, il Ribes alpinum, la Lonicera nigra, i Mirtilli, l’Uva d’orso, il Rododendro, la Daphne mezereum, il Ginepro nano, ecc.—Tra le erbe, trovansi, nelle parti più secche dei boschi: Carlina vulgaris, Solidago virga aurea, Prenanthes purpurea, Euphrasia officinalis, Melampyrum nemorosum; poi, più in alto, Cirsium erisithales dai fiori gialli, Carlina acaulis, Arnica montana, varie Orchidee (O. odoratissima, ecc.), Pteris aquilina (talvolta molto grande). Predominano invece nei siti più ombreggiati ed umidi: il Ranunculus ficaria, l’Oxalis acetosella, la Viola silvestris, la Polygala vulgaris, il Geranium silvaticum, la Potentilla tormentilla, la Fragola (diffusa da 800 a 1200 m.), varie umbellifere talvolta alte sino a 2 m. (Trochiscanthes nodiflorus, Laserpitium latifolium, Molopospermum cicutarium), il Senecio silvaticus, il Phyteuma orbicolare, l’Atropa belladonna, la Salvia glutinosa, la Pulmonaria azurea, il Myosotis silvatica, il Digitalis lutea, l’Euphorbia hibernica, la Paris quadrifolia, il Polygonatum officinale, il magnifico Lilium martagon, la Fritillaria involucrata e delphinensis, l’Asphodelus cerasifer, la Scilla bifolia, il graminaceo Festuca gigantea (abbastanza raro, alto da 1 a 2 m.), varie felci (Polypodium dryopteris, Aspidium lonchitis, A. filix mas, A. oreopteris, Asplenium filix fœmina), la Selaginella helvetica; poi, in simili località, ma generalmente non sotto ai 1500 m.: Anemone narcissiflora, Pirola minor, Dianthus silvestris, Sagina Linnei, Stellaria nemorum, Epilobium spicatum (alto sino a m. 1 ½), Peucedanum Ostruthium, Astrantia minor, Doronicum Pardalianches (boschi del Borreone), Senecio aurantiacus, Leucanthemum maximum (bosco di Nava tra 1400 e 1900 m.), Achillea tanacetifolia, Phyteuma Michelii, Ph. Halleri, Gentiana lutea, G. cruciata, Digitalis ambigua, Urtica dioica, Convallaria maialis (Mollières, Val Pesio), Veratrum album, Allosurus crispus, Lycopodium selago, Selaginella spinulosa, ecc. Sulle larghe radici degli alberi, le muffe formano spessissimi tappeti verdi, mentre dai rami pende la strana Usnea barbata; ricchissimi sono poi quei boschi di funghi sia mangerecci (quali Boletus edulis e fragrans, Agaricus cæsareus, A. deliciosus, Morchella esculenta), sia velenosi, ma molto belli (quali Agaricus phalloides, A. muscarius, ecc.).
Attorno al limite superiore della vegetazione arborea, v’è da notare in genere che esso è in media molto più basso di quanto le condizioni climatiche dovrebbero farlo trovare; però, tale fatto non proviene dappertutto dal disboscamento. A che altitudine ivi fosse altre volte il limite della vegetazione arborea, non possiamo dirlo; forse era molto vicino alle cime. Peraltro non mancano nel basso delle vallate i luoghi che dall’epoca glaciale in poi non portarono mai boschi: così molte pareti scoscese, le rocce montoni così sviluppate in queste valli, certe gole strette e cupe, i passi dell’alte creste ove si scatenano troppo spesso forti venti, i carsi delle Alpi Ligustiche, i circhi terminali delle valli, esposti alle valanghe e ripieni gran parte dell’anno di ingenti masse di neve, ecc. È poi facilmente spiegabile come gli alberi rimontino più alto sui fianchi delle valli (specialmente verso lo sbocco) che nel loro fondo, più freddo e meno esposto al sole, come pure che le valli longitudinali siano più favorite sotto questo aspetto che quelle trasversali.
Assai più complicato, ma troppo generale per essere fortuito, è il fatto che sempre su uno dei lati delle valli gli alberi salgono molto più alto, od i boschi vi sono meglio sviluppati. Nelle valli dirette da est ad ovest o viceversa, è quasi senza eccezione il fianco meridionale che mostrasi più favorito, sebbene sia mena esposto al sole ed ai venti del sud, più esposto invece a quelli del nord. Su grande scala questo si osserva nelle Valli della Stura e del Tanaro (di questa il lato nord è spoglio di alberi fin da Carnino, da 1500 m. sul mare!), inoltre specialmente nelle Valli del Rio Freddo di Tenda, della Levenza, della Valmasca, del Cairos, di Ceva, del Borreone, di Mollières, di Ciastiglione, di Meiris, di Vallasco, ecc. È da osservare qui che i fianchi meridionali di queste valli sono d’ordinario più irregolari, più solcati da vallette secondarie che i fianchi opposti, offrendo quindi una maggiore varietà di luoghi propizi agli alberi ed essendo inoltre meno facilmente percorribili. Infatti, in parecchi casi dove ha luogo il contrario (così per brevi tratti nei valloni di Ciastiglione, di Valmasca, di Fontanalba, ecc.), il lato nord è anche favorito sotto il detto riguardo. Inoltre, lo spartiacque principale, quale limite nord di molte vallate trasversali, riceve assai più precipitazioni (specialmente sotto forma di neve) che non le catene meridionali, ed il suo clima, in ragione dell’altezza, è sensibilmente più freddo. Nelle valli settentrionali è da ritenersi che pendici favorevoli alla formazione di valanghe o all’accumulo delle nevi non potranno nutrire alberi, stante le ingenti quantità di neve che vi cadono e perdurano talvolta da 5 a 8 mesi ben sotto ai 2000 m. A tale fatto (non meno spesso che alla difficoltà di accesso che allontana gli uomini e le capre) sarà in parte dovuto il curioso fenomeno che in molte valli le sponde dei torrenti e le pendici inferiori sono prive di alberi, mentre ne crescono assai più in alto, sugli stretti terrazzi lungo le pareti a picco, e perfino sulle creste rocciose. Nelle valli longitudinali, il fianco orientale è più spesso il favorito, così nelle Valli della Gordolasca, del Pesio, della Vermenagna, dei Bagni, ecc.
Da una comparazione del limite superiore approssimativo degli alberi avemmo per 14 valli sul lato sud di queste Alpi (dalla Levenza al Ciastiglione) la media generale di soli m. 2095 per il punto culminante (media nel fondo della valle 1893, sui fianchi meridionali 2230, sui settentrionali 2186, sugli occidentali 2200, sugli orientali 2116); per 10 valli a nord del grande spartiacque, dal Pesio al Vallasco ed al Meiris, la media è di circa m. 1895 (nel fondo delle valli m. 1805, sui fianchi meridionali m. 2520, su quelli settentrionali 2016, su quelli occidentali 1950, sugli orientali 1750); ne risulta, quale media generale sui due lati, un’altitudine di m. 2035. Si deve però notare che in alcune valli, il detto limite degli alberi (specialmente laddove mancano le conifere) è enormemente abbassato; sul lato nord, le valli della Ruina, della Barra, di Monte Colomb, del Sabbione, della Vermenagna, dell’Ellero, e forse anche del Corsaglia, sono affatto prive di foreste al disopra di 1500 m.; trovansi però degli alberi isolati superiormente a questa quota nei tre primi dei suddetti valloni.
Trattandosi ora degli alberi che rimontano nella zona alpestre, comincieremo col pino selvatico, abbastanza diffuso nelle foreste superiori di Val Vesubia, del Tournairet, dell’Aution e di Val Roja, e spesso limitato ad uno dei fianchi, mentre sull’altro primeggiano abeti o larici. In generale, il pino si mostra nei siti più secchi, contentandosi di un suolo piuttosto ingrato. Laddove esso forma il limite arboreo (così sul Monte Tavan, a nord di Tenda, tra 1700 e 1900 m., sul Colle di Tenda a 1709, nel vallone di Caramagna a 2050, a nord della Valmasca a 1900 e sul lato est del vallone di Casterino, a circa 2120 m. sul mare), esso raramente è ridotto ad arbusto, mostrandosi però molto differente dagli esemplari della zona montana, di cui taluni scendono fin verso Mentone. La forma più comune è quella di un piccolo albero, con cima depressa, simile ad una cappa, con rami brevi e contorti; spesso due o più alberi escono da una sola radice, formando tronchi di oltre 3 m. di circonferenza, mentre la loro altezza non eccede i 10 m. Nel vallone delle Finestre, dove grandi pini crescono sino ai 2000 m., il Reclus ne menziona uno, il cui tronco mostra protuberanze anulari e semi-anulari tra loro divise da spazi regolari; quivi anche, nel bellissimo anfiteatro della Poncia (1678 m.), trovansi, secondo Broilliart, parecchi begli esemplari giovani di una forma tanto eccezionale che maestosa, il pino di alberatura, dritto, con forti radici, terminantesi con una cima sagittiforme dai rami brevi e sottili.
L’ abete bianco (Abies pectinata) è quivi diffuso dalle foreste dell’Esterel e dalla vallata di Thorenc, dietro a Grasse, sino al Bric dell’Agnellino, tra Finale e Bardineto, scendendo però appena più basso di 800 m. ed in generale meno comune del pino e del larice; però, esso forma gran parte delle folte foreste subalpine nelle Alpi Ligustiche, specialmente a sud di Briga, ove sale sino ai 1900 m., e perfino nel bacino del Nervia, ove ne crescono esemplari colossali sul Monte Frasce (territorio di Apricale); spesseggia poi nelle foreste della Valmasca, dell’Urno (sino ai 1950 m., e un esemplare isolato trovasi a 2000 m.), dell’Aution, di Venanzone, di Mollières, ecc. Sul lato nord, se ne trovano dei secolari, insieme a faggi ed a larici, nella foresta del vallone di Sauma, che protegge dalle valanghe il villaggio di Callieri, poi sopra le Terme di Vinadio, e in tutte le vallate attorno a questo ultimo paese. Nel bacino del Gesso, pare che non si trovi se non attorno alle Terme di Valdieri, ove ne crescono bellissime e numerose piante sino ai 1800 m. (sulla Rocca di San Giovanni); infine è comune nel bacino del Pesio.
L’ abete rosso (Picea vulgaris Lk.), l’albero più comune delle Alpi Svizzere e Bavaresi, ed anche della Norvegia, non si trova, a sud delle Alpi Marittime, che nei Pirenei, e pare manchi affatto alle Alpi Ligustiche. Nel bacino del Roja non vedemmo che un solo esemplare, a 1400 m., nella foresta di Maima, e in Val Gordolasca soli due; però non è rara questa specie nelle foreste di Mollières, Clanzo, Meiris, Salèses, Cavallé e delle Finestre (a 2000 m.), raggiungendovi talvolta una grandezza ed una bellezza rimarchevoli; taluni esemplari scendono fin vicino a Mentone. Sul lato nord, non trovammo quest’abete che attorno alle Terme di Valdieri. Giovani alberi di questa specie trasportansi nel dicembre sulla Riviera, ad uso dei tedeschi che conservano la bella usanza dell’albero di Natale.
Il larice (Larix europea), il prossimo parente del cedro nell’Europa e nello stesso tempo l’albero più ribelle al freddo che si conosca, non cresce selvatico che nella Siberia (ove una sua varietà poco distinta dalla nostrana forma il limite settentrionale della vegetazione arborea), nelle Alpi e, a quanto si dice, nella Corsica. È l’albero più comune della regione alpestre, dalle Basse Alpi e dai monti di Val Stura sino ai bacini del Roja, del Tanarello e dell’Upega. Sugli altipiani provenzali cresce forse vicino a Thorenc, sopra Grasse; manca, a quanto pare, ai monti di Mentone, in Val Nervia e ad oriente del Colle di Nava; nel bacino del Gesso è limitato ai valloni di Valletta, Vallasco, Lourousa e Meiris; trovansi inoltre pochi esemplari isolati sulla parete a sud del Lago della Ruina. Ben raramente scende sotto ai 1200 m. (nel vallone della Miniera a 1160 m., nella Val Stura a 1100 m.); prospera però ancora nel giardino dell’albergo di San Dalmazzo di Tenda (m. 690).
Il larice, che offre un aspetto così ridente nell’estate coi suoi aghi verde-smeraldo, così strano nell’autunno col fogliame tutto color d’arancio, così triste nell’inverno quando i suoi sottili rami sono tutti nudi, si compiace di un clima piuttosto secco e sereno, soffrendo molto meno dai freddi venti, dalle nevi invernali o dalla povertà del suolo che dall’umidità del terreno o da nebbie continue. Vale a dire che esso deve trovarsi benissimo nelle Alpi Marittime, le quali perciò, su tutte le altre catene montuose attorno al Mediterraneo, hanno il notevole vantaggio di contenere l’albero che, anche nel resto delle Alpi, sale più alto di tutti, ed inoltre di offrirgli condizioni di esistenza molto favorevoli, ciocchè dimostrano bene i bellissimi esemplari che s’incontrano in tutte queste valli; e sono appunto i larici dei siti più elevati che hanno d’ordinario un fusto superbo, se anche sono vecchi e talvolta danneggiati dai fulmini. Però, sul lato sud del grande spartiacque, anche laddove forma da sè solo estesi boschi, il larice non raggiunge un’altitudine molto grande; è vero che supera sempre d’assai, sotto questo riguardo, il pino e gli abeti, formando spesso, nelle foreste ove questi predominano più o meno, una zona superiore speciale.
Nei valloni del Borreone, di Mollières e di Ciastiglione, il larice oltrepassa appena i 2350 m., altitudine che non sembra raggiunga nel bacino della Stura, avvicinandosi però ai 2300 m., attorno alle Terme di Vinadio e nel Bosco Bandito a sud di Argentera. I larici più alti del lato sud sembrano essere quelli sulla ripidissima parete del monte (m. 2751) che separa il vallone dell’Agnel dal Lago sottano di Valmasca; ivi gli alberi crescono, crediamo, sino ai 2450 m., mentre sull’altro lato della comba dell’Agnel salgono solo a circa 2350 m.; mancano invece quasi affatto alla parte più orientale della sponda nord della Valmasca. Anche sopra la Val Gordolasca (senza tener conto della foresta di Clapeiruole) i larici rimontano più alto sulle creste inaccessibili, specialmente su una torre di roccia (m. 2361) a sud del valloncino di Mairis, il cui fondo non contiene alberi sopra i 2000 m.; il fianco ovest della valle è quasi privo di alberi sopra San Grato (m. 1505), ed ogni vegetazione arborea cessa al grandissimo muro di rocce montoni che chiude la valle sotto alla Vastera Streit, essendo aridi in simile modo i recessi rocciosi terminali di tutte queste valli, per esempio i circhi del Lago del Basto, del Lago Agnel, delle Meraviglie, ecc. A nord del grande spartiacque, il larice manca sui fianchi settentrionali della Valle del Tanaro (da Ormea al Colle dei Signori) e del vallone di Meiris, affatto spoglio di alberi (a nord della strada) partendo da 1400 m.; manca poi anche a tutta la Valle del Pesio. Del resto, laddove incontrasi nelle vallate settentrionali, esso sale a singolare altezza: a circa m. 2300 nel vallone Balma di Ghiliè e sotto alla Cima di Mercantour, a circa 2400 nel vallone dell’Argentera (il cui fianco sud ne porta ad un’altezza di almeno 2440 m., secondo Freshfield) e sul fianco ovest della Stella, ove il bosco continuo cessa a 2300 m.; infine a forse m. 2450, sul Becco di San Giovanni. Sulla parete quasi verticale del contrafforte nord del Matto (m. 2803), il quale domina il Lago sottano della Sella, i larici salgono dal vallone di Latous ad incredibile altezza, non inferiore a 2500 m.
In nessun luogo però trovammo il limite della vegetazione arborea spinto così in alto come nel vallone di Lourousa, ad est delle Terme di Valdieri. Ivi i pendii dei terrazzi morenici sono quasi i soli luoghi rivestiti da alberi, sino a m. 2300 circa; un grandissimo larice cresce vicino al gias inferiore. Sul fianco nord però vedonsene gruppi più o meno folti fin sul dorso dell’Asta (m. 2520: chiamato Cresta della Marzarea sulla Carta Sarda), e se ne hanno altri ancora assai più in alto sul fianco della Cima Dragonet; almeno, i luoghi dove crescono sono visibilmente più alti del Colle Chiapous (m. 2520), dal quale ebbi occasione di osservarli. Il fianco sud della valle è affatto privo di alberi tra il detto colle ed il burrone che dal ghiacciaio di Lourousa scende al gias Lacarot (m. 1980), la roccia essendovi troppo ripida e liscia per portare altri vegetali che non siano licheni e fiorellini minuscoli. Più sotto invece, il folto bosco della Stella sale almeno a 2500 m., e, a quanto ci parve, gruppi di larici rimontano ancora sino alla cima del monte omonimo (m. 2612); nel burrone più ad est, essi rimontano fino sulla morena del ghiacciaio di Lourousa, salendo poi a ragguardevolissima altezza (forse più alto ancora della Cima Stella) sul ripidissimo fianco della cresta meridionale (m. 2820).
Ad ogni, modo, ci pare quasi certo che i larici della Stella siano gli alberi viventi più in alto non solo dell’Europa, ma anche di tutte le catene attorno al Mediterraneo e sino alle isole Canarie, eccettuando forse il Caucaso. Nelle Alpi settentrionali non vi sono alberi sopra i 2450 m.; nel Delfinato, secondo Schlagintweit, crescono larici ed arole sino ai 2500 m., e nei Pirenei, sul Canigou, abeti rossi a 2410 m.; perfino il Juniperus fœtidissima, nel Tauro, non sembra superi i 2600 m. È vero che non sappiamo niente di sicuro sul limite degli alberi nelle Alpi Marittime ad ovest della Tinea; ma, stante la denudazione molto avanzata di quelle montagne, è molto improbabile che abbiano alberi sopra i 2500 m., tranne forse nel vecchio e bandito bosco della Sylve, sul fianco meridionale della Valle dell’Ubayette.
Rileviamo qui il fatto che la cresta della Stella si trova sul lato nord delle Alpi Marittime, quindi essa non ha più alcun rapporto col clima mediterraneo; inoltre è degna di nota (sebbene fortuita) la sua vicinanza alla più alta montagna delle Alpi Marittime, di cui non è che un contrafforte. Non è però difficile spiegare la straordinaria estensione in altitudine degli alberi sopra il vallone Lourousa: i fianchi della Stella formano un dorso diretto a nord-ovest, dai fianchi ripidi, ma non troppo precipitosi per impedire lo sviluppo di un bosco, e sempre più dolci man mano che si scende; vi mancano i burroni sassosi, le frane ed i canali di valanghe; i monti a settentrione ritengono i venti del nord, e densi vapori caldi salgono, quasi ogni sera, dalle sorgenti solforose verso oriente. Più importante ancora è il fatto, che il bosco della Stella è molto distante dall’abitato di Valdieri e poche decine di anni fa era accessibile con difficoltà; ora, da oltre trenta anni, esso fu lasciato e perfino ingrandito, affine di proteggere lo stabilimento delle Terme contro possibili valanghe e per offrire piacevole passeggio ai villeggianti. Esso occupa circa cento ettari, cominciando immediatamente dietro lo Stabilimento, dal quale un delizioso sentiero conduce per esso nel vallone Lourousa. Le radure prative, i solchi che servono allo scolo delle acque nella primavera, ed i dirupi che ne interrompono qua e là la continuità, aumentano il pittoresco del paesaggio, e permettono di gettare lo sguardo sui monti veramente colossali che s’innalzano d’attorno. Nella parte più bassa abbondano i faggi, tra i quali vedonsi esemplari di magnifico fusto, slanciati e diritti: uno dei più grossi porta sulla corteccia le parole «Dio grande» incise da un ammiratore. Più in alto cominciano a predominare gli abeti bianchi, generalmente molto regolari ed eleganti. Sopra i 1500 m. mostransi poi magnifici abeti rossi, e quindi i larici si fanno sempre più numerosi, finchè rimangono i soli rappresentanti.
Oltre al pino, ai due abeti ed al larice, le Alpi Marittime superiori vantano ancora tre conifere assai meno comuni.—Il tasso (taxus baccata), albero diffuso dalla Siberia orientale sino all’Algeria ed alle isole Azzorre e di cui nell’Inghilterra trovansi esemplari la cui età venne calcolata a circa 4000 anni, oggidì è dappertutto raro, cosicchè sparirà tosto o tardi dalle foreste. Nelle Alpi Marittime si trova sparso qua e là, tra 1000 e 1800 m. nei boschi di Mairis, di Libarè vicino a Venanzone, di Beuil tra il Varo e la Tinea, di Courmes (circondario di Grasse), ecc.; secondo il dott. Henry se ne incontrerebbero parecchi grandi tronchi nel basso vallone di Fontanalba, sopra Casterino, in mezzo ai larici, ed uno di essi misura 5 m. di circonferenza, ciò che corrisponderebbe ad una età molto ragguardevole tenuto conto del lentissimo sviluppo di questa specie, di cui ivi mancano affatto gli esemplari giovani.
Il pinus montana Mill., limitato ai sistemi montuosi centrali dell’Europa, con numerose e svariate forme, si distingue dal pino selvatico per il suo fusto più compatto, i suoi aghi pronunziatamente verdi, i coni ottusi e talvolta curvati, ecc. La sua forma arborea (f. uncinata) predomina sul versante spagnuolo dei Pirenei, mentre nelle Alpi è diffusa dal Ventoux all’Engadina. Nelle Alpi Marittime viene menzionata nelle foreste di Mollières, di Fremamorta, di Salèses, di Cavallé, delle Finestre e dell’Aution; trovasi anche, secondo l’Ardoino, sul Colle di Tenda, mentre noi non lo trovammo nel bacino del Roja, ma nella Valmasca (da m. 1750 sul fianco sud a 2150 m. nel vallone dell’Agnel) e su ambidue i fianchi del Monte Urno, ove cresce a 2100 m. insieme agli ultimi larici. V’è una delle varietà arbustiformi di questa specie, probabilmente la f. pumilio, la quale dalle Alpi, in cui non fu finora menzionata a sud del Delfinato, passa ai Carpazi, al sistema Sudetico ed ai Balcani settentrionali, mentre sull’Appennino, dalla Majella all’Aspromonte, cresce un’altra forma (f. magellensis, da taluni però considerata quale varietà nana del pino di Corsica). Gli esemplari che trovai sono arbusti alti da 1 a 3 m., con tronchi in parte abbastanza larghi e lunghi, però curvati in forma di S, con rami drizzati all’estremità, gli aghi mostranti un verde vivo, e coi coni radunati tre per tre (due orizzontali ed uno verticale). Il Dellepiane menziona foreste di Pinus montana sui fianchi meridionali dei Pizzi di Cornia e d’Ormea, sopra la Valle del Tanaro, quasi sino a 2400 m.
L’ arola (Pinus cembra) è, come il larice, un’albero di Siberia confinato, nell’Europa, alle Alpi ed ai Tatra, e facentesi sempre più raro. Però, nelle Alpi Marittime non è così raro come lo fa credere Ardoino, che lo menziona solo in pochi luoghi isolati, tra il vallone di Jallorgues sopra San Dalmazzo Selvatico e la Cima di Nauca sopra Fontana; sul fianco sud delle Alpi Ligustiche pare manchi affatto, eccettuati gli esemplari recentemente piantati a sud-est del Colle di Tenda; non credo poi che si trovi nelle valli di Vinadio. Quest’albero si trova qui ben raramente sotto a 1750 m. (in Val Gordolasca forse già a 1600 m.); è comune nei boschi di larici della Valmasca, ove rimonta quasi tanto alto che il larice, sul Monte Peiracuerta e sopra il vallone dell’Agnel (forse ad oltre 2300 m.), nella Valle dell’Inferno (sino a 2350 m. a sud-est del Lago Carbone) e sul fianco orientale della Val Gordolasca; trovasi poi nelle foreste del Borreone, del Cavallé, di Saléses e di Fremamorta (quivi sino a 2350 m.). Ma specialmente rimarchevole è la sua diffusione sul lato nord delle Alpi Marittime. Già nel 1892 notammo, nel vallone della Barra, dietro a San Giacomo, ad oltre 2000 m. sulle ripide creste laterali, alberi nerastri molto distinti dalle boscaglie di faggi ed ontani, che soli crescono sui fianchi inferiori; negli anni seguenti, ritrovammo lo stesso fenomeno nelle valli attigue, e riconoscemmo che tali alberi erano arole. Nel vallone di Monte Colomb, ove trovansi giovani boscaglie di faggi, al di sopra di questi da 1850 m. in su, vedonsi in molti siti le arole, sempre separate tra loro da spazi abbastanza grandi e spesso affatto isolate, raramente riunite in piccoli gruppi; sulle scoscese creste che dominano il gias Murajon, se ne vedono sino a 2350 m.; sulla cresta del Tor sino a circa 2400 m., ed a simile altitudine ne crescono numerose tra le balze sotto il Lago della Roccia, mentre mancano affatto nel vallone del Vej del Bouc. Nel vallone della Ruina, oggidì affatto privo di boschi, le prime arole si mostrano tra 1700 e 1800 m. sulla parete a sud del lago e sulla cresta orientale; sopra il bacino del Monighet soprano rimontano molto alto su ambidue i lati, specialmente sulla Rocca Barbis, sotto il Colle Chiapous, ove ve n’è una a 2400 m. Nei boschi di conifere attorno alle Terme di Valdieri non incontrammo arole, ma se ne trovano nel vallone di Meiris, insieme a larici, a sud del Lago Sottano (1850 m.) ed a 2000 m. sulle rocce vicino alla strada. Da questa diffusione dell’arola si potrà argomentare che in queste valli v’erano un tempo grandi foreste di tali alberi, rivestenti le pendici forse da 1600 m. in su; ora non ne sono rimaste che poche traccie nei siti più favorevoli od inaccessibili all’uomo.
Le boscaglie della regione alpestre si possono suddividere in quelle dei luoghi freschi e bene irrigati, ove predomina una grande varietà di cespugli a foglie caduche e in quelle delle secche pendici, costituite per lo più da una specie sola.—Le prime trovansi specialmente nei burroni umidi, lungo i rivi e su pendii non troppo ripidi, esposti verso nord; le più estese sono nelle vallate settentrionali, specialmente dietro al gias Murajon, nel vallone della Barra sotto il Prajet, sulla parete a sud del Lago della Ruina, sul fianco ovest di Val Pesio, ecc., mentre a meriggio della grande catena le trovammo meglio sviluppate nella Valmasca. La loro fisonomia è molto differente da quella delle foreste subalpine, rassomigliando esse piuttosto alle boscaglie di betulle nane della Lapponia. Scendendo dalle tristissime petraie dei circhi superiori, si giunge quasi all’improvviso in quei folti e freschi recessi di grandi arbusti verdi, il cui fogliame molto svariato, ma sempre abbastanza largo, mantiene l’umidità del suolo, cosicchè tra le muffe e lungo i ruscelli crescono alte erbe e felci, che mancano quasi affatto ai radi e secchi boschi di larici; gli animali vi trovano un sicuro riparo, le farfalle, gli insetti e gli uccellini animano questa vegetazione attraente, che nell’autunno brilla dei più vivi colori, mentre nell’inverno sparisce affatto sotto le nevi.
Nelle valli settentrionali è specialmente comune il faggio, che, sotto forma di arbusto, riveste pendici abbastanza ripide, nel vallone di Meiris (lungo la strada fino a pressochè m. 1850), sul Matto dietro le Terme di Valdieri, nel vallone di Monte Colomb (a m. 1700 sul fianco orientale, a quasi m. 1800 sulla Cucetta e vicino al gias Murajon), nei burroni ad ovest della Val Pesio (tra 1400 e 1800 m.), ecc.
L’ ontano verde (Alnus viridis), che comincia in generale laddove cessa il nocciuolo, accompagna spesso gli arbusti di faggi, mentre più in alto forma talvolta per sè solo boscaglie abbastanza estese, lungo le balze rocciose; sul lato sud, scende a 1200 m. ad ovest di Tenda e a 1300 m. sul Monte Mulacier dietro a Mentone. Nel vallone di Meiris trovasi fra 1500 e 2250 m.; ad est del Lago Brocan e a sud del gias Murajon sino a 2150; sul fianco del Colle Chiapous, come sulle creste della Mourionera e della Cucetta, sino a circa 2300 m.
Il sorbo (S. aucuparia) non è raro già lungo i rivi delle vallate montane, scendendo fino a Robilante (m. 700) sulla Vermenagna, a Demonte, ecc.; nelle valli superiori trovasi specialmente sotto forma di arbusto bellissimo, col suo fogliame pinnato, verde chiaro, dentellato e colle ombrelle di frutti simili a coralli; però non è raro incontrarlo, sino ai più alti siti dove cresce, sotto forma di albero alto parecchi metri; trovasi in tutte queste valli, a 1750 m. nel vallone di Vallasco, a 1800 m. nella Valmasca, nel bosco della Stella, a sud del Lago della Ruina, e perfino a 2000 m. tra le arole a sud del gias Murajon.
Il Cotoneaster vulgaris ed il Prunus brigantiaca non sembrano oltrepassare i 1800 m., essendo questo anche pressochè il limite superiore di diverse rose (R. alpina a m. 1850, sopra il vallone Vej del Bouc) e del Rhamnus alpinus. Il lampone (Rubus idæus) rimonta talvolta più alto di 2000 m. (a 2300 m. sul fianco est del Colle Chiapous). Il Salix nigricans (sugli schisti umidi) a 2050 m. (vallone di Caramagna, ecc.). Il Cytisus alpinus, sotto forma di piccolo albero, è comune tra 1400 e 1700 m. nelle boscaglie e nelle foreste attorno alle Terme di Valdieri, poi nella Val Gordolasca, ecc., mentre il Sambucus racemosa si tiene circa nella stessa zona. A tutti questi cespugli aggiungesi poi il rododendro, che nelle boscaglie a sud del Lago della Ruina vedesi in esemplari molto cospicui, con foglie abbastanza lunghe; più raramente il Ginepro nano e la Dafne alpina.
Assai più bassi sono i vaccinii, che specialmente nelle valli settentrionali rivestono da loro soli gran parte delle pendici superiori; predomina il mirtillo (V. myrtillus), che scende raramente sotto ai 1600 m. (a 1500 m. nei valloni di Meiris e Desertetto), rimontando a 2300 m. sopra il Lago sottano di Valmasca e quello dell’Olio come anche ad est del Colle Chiapous, a 2350 m. dietro il Lago Vej del Bouc, ecc. Il V. uliginosum, più piccolo, non si trova quasi sotto a 1800 m. (nel bosco della Stella a 1700 m.), ma cresce ancora tra aride rocce, perfino sulle cime del Diavolo e della Valletta Grande, e sul Passo di Valmiana (circa m. 2920). Il V. vitis idæa, dal fogliame sempre verde, sembra sia limitato qui alle alte vallate della Stura e della Tinea. Nella stessa zona trovansi l’Arctostaphylos uva-ursi (Cima del Diavolo, ecc.) e l’Empetrum nigrum, abbastanza raro, mentre tre piccolissimi salici (S. reticulata, S. retusa, S. herbacea) sono limitati alle alte cime, quest’ultima trovandosi per esempio sulla Cima del Diavolo (m. 2687).
Sulle pendici più aride, formano a loro soli grandi boscaglie il rododendro ed il ginepro nano, quasi mai riuniti, ma dividendosi talvolta i due fianchi di una valletta. Il rododendro (R. ferrugineum), alto sino ad un metro, è il più comune fra tutti gli arbusti delle Alpi Marittime, tra 1500 e 2200 m.; però non abbiamo particolari sulla sua diffusione nel territorio francese, ove manca almeno, a quanto pare, alle calde montagne calcaree dei circondari di Grasse e di Nizza, mentre nelle Alpi Ligustiche trovasi ancora sul lato nord del Bric dell’Agnellino tra Finale e Bardineto, ad appena m. 1300 sul mare, la cui costa rivestita da palme ed aranci è ivi distante appena 10 chilometri. Nella Val Roja, vedonsi rododendri a 1400 m. nella foresta di Maima a nord-ovest di Tenda. Il magnifico aspetto di quei cespugli fioriti si può avere qui nel giugno e sino alla metà di luglio; sul lato nord non raramente ancora verso la fine d’agosto, mentre trovai perfino un’esemplare fiorito il 15 settembre 1892 nella Val Gordolasca; sui rami trovansi escrescenze simili a piccole pesche e che hanno un gusto dolcigno, alquanto resinoso.
Il rododendro, come anche tutti i cespugli robusti, manca affatto ai carsi che attorniano la Cima di Marguareis, ma si trova però nelle Alpi Ligustiche, sulle rocce marmoree del Colle della Boaira, sulla Cima di Velega, nei rami terminali di Val Pesio, sul Monte Armetta sopra Ormea, ecc. Nel gruppo centrale delle Alpi Marittime esso forma invece spesso boscaglie fittissime, quasi impenetrabili all’uomo, cosicchè costituiscono il rifugio preferito dai fagiani e da altra selvaggina. Nella Valmasca, piccoli esemplari vedonsi ancora sopra il Lago del Basto e poco sotto al Lago Agnel (m. 2426), mentre sui fianchi dei valloni della Gordolasca e di Peirabroc trovansi sino a 2500 m.; i più alto-viventi li vedemmo sulla Cima del Diavolo (m. 2687), nelle fessure ad oriente del Colletto Ciaminejas (m. 2770), sul Colle Chiapous (a quasi m. 2520) ed attraverso i massi sul fianco nord del Passo di Valmiana, a circa 2700 m.
Il Juniperus nana, che pare non scenda sotto ai 1600 m., è specialmente diffuso nei burroni laterali di Val Gordolasca, sui colli Chiapous e Vej del Bouc (sino a 2300 m.), ecc.
Accanto alle boscaglie crescono spesso grandi e fittissime erbe, che ricoprono, per es., gran parte dei valloncini ad ovest della Val Pesio, del vallone della Barra, delle balze a sud del Lago della Ruina, ecc., distinguendosi pel loro fogliame largo ed elegante, come per la varietà dei loro vistosissimi fiori. Primeggiano fra essi: Delphinium elatum (talvolta alto da 1 a 2 metri), Aconitum napellus e lycoctonum, Anemone alpina, Aquilegia alpina (lungo i rivi nel bacino del Roja, ecc.), Polygala alpestris, Fragaria vesca, Athamanta cretensis, Eryngium alpinum (la «regina delle Alpi», abbastanza rara: vallone di Finestre, del Piz, ecc.), Valeriana montana e saliunca, Cirsium eriophorum e spinosissimum, Carlina acaulis, Solidago virgo aurea, Petasites albus, Aster alpinus, Arnica montana, Phyteuma orbiculare e Halleri, Campanula spicata, diverse genziane (così la G. asclepiadea, coi fiori d’un bell’azzurro), Digitalis ambigua, Nepeta nepetella (nei luoghi piuttosto secchi, così sul Colle di Tenda), Plantago alpina, Polygonum bistorta (attorno ai gias), Chenopodium Bonus Henricus, Thesium alpinum, Urtica dioica, Alchemilla alpina, Veratrum album, Fritillaria involucrata, Allium Schœnoprasum, Pteris aquilina, Lycopodium selago, ecc.
Fra i tratti aridi della zona subalpina i più tristi forse, sotto il riguardo della flora, sono gli altipiani calcarei del Marguareis, ove non cresce altra pianta legnosa tranne la Daphne cneorum, mentre primeggiano erbe grigie e spinose che ricordano i monti della Siria; numerosi sono i cardi. Poco più ricca è la flora delle clapere, comprendendo oltre ai licheni (Lecidea geographica, ecc.), parecchie delle grandi erbe già citate. Spesseggiano l’Aconitum lycoctonum, la Scabiosa vestita, l’Adenostyles leucophylla (Lago Agnel ecc.) e alpina (ancora oltre i 2900 m. sul Passo di Valmiana), l’Arnica montana, l’Aronicum doronicum, l’Armeria alpina, il Myosotis alpestris, il Verbascum nigrum, il Thymus serpyllum (a quasi 2620 m. sul lato ovest del Colle Vej del Bouc, ecc.), la Stipa pennata e parecchie felci (Pteris aquilina, sui fianchi del Passo di Valmiana a quasi m. 2500; Allosurus crispus, sulla Cima del Diavolo e su quella della Valletta Grande m. 2812).
Fra le specie che crescono nelle anfrattuosità delle rocce meritano speciale menzione: Paronychia serpyllifolia (rocce calcaree), Dianthus neglectus, Sedum anacampseros, Sempervivum piliferum e arachnoideum, Saxifraga aspera, S. aizoon, S. cæsia, Hieracium villosum, Gentiana verna, Allium narcissiflorum, ecc.; in una zona più elevata tengonsi Viola calcarata, Lychnis flos Jovis, Arenaria recurva, Meum athamanticum, Erigeron alpinus, Phyteuma pauciflorum, Veronica Allionii e alpina, Pedicularis Allionii, Carex sempervirens, ecc.
L’ edelweiss (Leontopodium alpinum) non fu trovato da noi nel massiccio di gneiss; però, a quanto si dice, esiste sui monti attorno al Lago Agnel. Sulle alture di Peirafica è forse più comune che in nessun altro luogo delle Alpi, e sulle rupi scoscese calcaree delle Alpi Ligustiche se ne trovano bellissimi esemplari (sin oltre a 4 centim. di diametro). Il più basso punto ove cresce questo celebre fiore è forse la cresta di Monte Armetta (m. 1700), il più alto invece il Capelet di Raus (m. 2627).
Ponendo qui termine a questo nostro saggio, certamente incompleto per quanto risulti esteso, non esitiamo a soggiungere che ben altro di notevole vi è da dire sulle Alpi Marittime. Chi volesse descrivere la loro fauna, avrebbe da menzionare specie affatto meridionali, quali il gecco, la lacerta ocellata (lunga quasi un metro), la genetta, il fiammingo, la tarantola, non mancando per contro gli animali strettamente alpini.
Dai tempi più remoti poi, questo paese, limitrofo tra Gallia e Italia, offrendo i passi alpestri più vicini al mare, fu attraversato e disputato dai popoli più diversi, occupandolo in parte i Fenici, gli Etruschi, i Greci, i Celti, i Romani, i Longobardi, i Saraceni, ecc. Delle epoche storiche più diverse rimangono traccie: le imponenti fortezze neolitiche, costrutte con enormi massi sulle alture di Grasse e del Varo; le rozze incisioni delle Meraviglie, i dolmen, le tombe celtiche e romane, la strada militare che anticamente conduceva dalla Valle della Tinea alle Alpi Cozie, l’altare romano sul Monte Tournairet, le antiche escavazioni della Miniera di Valauria, attribuite ai Saraceni, le numerose e ben conservate rovine medioevali, come il borgo abbandonato di Castelnuovo sopra Nizza, e mille altre vestigia di più civiltà.
Quanto varie sono poi anche oggidì le condizioni della popolazione e dell’incivilimento: a Nizza il lusso più raffinato, la vita parigina, le splendide feste, e poco lungi contrade selvaggie, poveri villaggi piantati su rocce a picco;—a Monaco, giardini affascinanti, nei quali pur troppo spesso giacciono le salme degli infelici che v’hanno perduto la loro fortuna, ed in fondo alla Val Tinea i casolari di Prat, i cui abitanti non poterono trovare finora le seicento lire necessarie per acquistare un terreno ad uso di cimitero, cosicchè devono seppellire i loro morti in un’orribile sentina!
Ma lasciamo le miserie umane, e torniamo fra la semplice e cordiale popolazione alpestre, la più naturale forse che ora esiste. Facciamo di meglio, saliamo sulle alte cime ove spira quella vivida aria che ritempra il corpo e l’anima. Ed allora vedremo con uno sguardo, distesa sotto di noi, tutta questa ricchezza e varietà degli incanti, dal mare alla pianura, dai sempreverdi giardini alle cupe foreste, ai prati alpestri ed ai fiorellini che crescono sull’orlo dei nevati. E se allora non sentiamo in noi qualche riflesso dell’eterna forza e virtù della natura, avremo perduto il sentimento che dà il maggior pregio alla vita umana ed a cui si deve ogni progresso: l’amore dell’alto!
Fritz Mader (Sezione di Torino).
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NOTE:
[83] Il rifugio della Barma fu trovato da noi, l’anno scorso 1895, completamente devastato, la porta della camera riservata agli alpinisti aperta e mancante perfino di serratura.[84] Di questa cima, poichè ebbi occasione di ritornarvi e di fare uno speciale e minuto studio della regione in cui sorge, mi riservo di trattarne in apposito articolo.[85] Vedi “Riv. Mens. C. A. I.„ 1892, pag. 82.[86] Vedi l’articolo di A. Viglino: Quattro giorni fra le Alpi Marittime, nella “Rivista Mensile„, vol. XIV (1895), pag. 460-469.[87] Vedi “Boll. C. A. I.„ vol. XXVI, pag. 310.[88] Nel settembre del 1895, dopo una stagione molto nevosa, trovammo il ghiacciaio assai più esteso, coperto da neve molle e mancante della bergsrunde. La morena era più larga e ferma.[89] Quest’ultima, alta 35 m., è in un sito molto romantico; l’abisso largo 5 m., che essa forma, fu saltato dal sig. tenente Cornaro, presenti parecchi signori di Nizza.
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INDICE
Vigna Nicola R. H. Budden (biografia) Pag. 1
Brocherel Giulio Emilio Rey (biografia) » 23
Giacosa Piero Spedizione scientifica al Monte Rosa (1894 e 1895). Indagini sulle acque e sulle nevi delle alte regioni » 45
Sinigaglia Leone Nelle Dolomiti d’Ampezzo » 73
De Marchi Luigi Il problema glaciale » 93
Abbate Enrico Il Gruppo del Terminillo » 131
Porro F. e Druetti A. Osservazioni sui ghiacciai del Gruppo del Gran Paradiso » 145
Mader Fritz Escursioni e studi nelle Alpi Marittime » 181
ILLUSTRAZIONI.
1. Ritratto di R. H. Budden (acquaforte di C. Chessa) Pag. 1
2. Ritratto della guida Emilio Rey (disegno a penna di C. Chessa) » 32
VEDUTE (fotografie e disegni).
3. Piz Popena e Monte Cristallo (versante Nord) » 80
4. Croda da Lago (versante Sud-Ovest) » 80
5. Parete Ovest della Croda da Lago da Val Formin » 81
6. Versante Sud-Ovest dalla Croda da Lago (disegno con itinerari) » 83
7. Torrione di roccia sulla Grosse Zinne » 87
8. Ghiacciai di Valletta, di Patrì e ramo nord di Money, fra la Punta Vermiana e il Grand St.-Pierre » 144
9. Ghiacciaio di Money fra la Punta Cisseta e la Roccia Viva » 160
10. Piede del Ghiacciaio di Grand Croux con veduta del Ghiacciaio della Tribolazione » 160
11. Scarpa terminale del Ghiacciaio dell’Herbetet » 176
12. Piede del ramo ovest del Ghiacciaio della Tribolazione » 176
13. La testata di Val Vallasco dal Colle di Valmiana » 192
14. Baissa di Valmasca, crestone del Monte Capelet e monti ad ovest del Lago del Basto » 192
15. Il Gruppo del Clapier e dei Gelas dal Monte Bego » 196
16. Punta della Maledìa e Cima del Murajon dal Passo del Pagarì » 197
17. La gola di Gaudarena » 205
18. Il versante Nord del Gruppo dei Gelas dalla Cima della Valletta Grande » 208
19. Lago del Basto » 222
CARTE.
20. Il Gruppo del Terminillo. Schizzo topografico ricavato dalle pubblicazioni dell’Istituto Geografico Militare Pag. 144
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ERRATA-CORRIGE
Pag. 1 lin. 18 invece di 1816 leggere 1826
» 31 » 23 » Talêfre » Talèfre
» 42 » 31 » marina » marinai
» 146 » 17 » gneis » gneiss
» 146 » 36 » Baltea » Baltea e
Nota del Trascrittore
L'ortografia originale è stata mantenuta. Minimi errori di stampa sono stati corretti senza annotazione. Inoltre sono stati corretti i seguenti refusi:
Pagina Testo originale Correzione
14 Ne con ciò intendeva di vedere Nè con ciò intendeva di vedere
35 conosciuta e di fama, resiamo conosciuta e di fama, restiamo
36 marcia delli 5 gennaio, marcia del 5 gennaio,
43 per la cresta del Tienfenmattenjoch per la cresta del Tiefenmattenjoch
44 26. Monte Scersen m. 3966 26. Monte Scerscen m. 3966
49 torrente; ma ho determiminato torrente; ma ho determinato
50 che di grammi 0,00011. che è di grammi 0,00011.
54 alla stadio di passaggio allo stadio di passaggio
62 HNO³ HNO 3
68 si acidificò con H²SO 4 si acidificò con H 2 SO 4
69 e distillato con H²SO 4 , e distillato con H 2 SO 4 ,
96 periodiche che evidententemente si verificarono periodiche che evidentemente si verificarono
Nota 37 Brükner : Klimaschwankungen seit 1700 . Brückner : Klimaschwankungen seit 1700 .
116 K (t s - t c ) = a Q cosξ - p secξ K (t s - t c ) = a Q cosξ p secξ
Nota 54 mn(t - t c ) + nr (t - t s ) = S + V mr(t - t c ) + nr (t - t s ) = S + V
125 oppure basterebbe una vaziazione di p oppure basterebbe una variazione di p
127 sono mantenuti vicini alla sorgente pricipale sono mantenuti vicini alla sorgente principale
143 scorgere lunga distesa del Meterraneo scorgere lunga distesa del Mediterraneo
180 Milimètres d’eau de pluie Millimètres d’eau de pluie
186 bel bagno, cio che del resto facevamo bel bagno, ciò che del resto facevamo
230 quali Rosa sphœrica, R. sepium, ecc., Rubus discolor, quali Rosa sphærica, R. sepium, ecc., Rubus discolor,
Cratœgus monogyna, Cotoneaster vulgaris, poi i sambuchi Cratægus monogyna, Cotoneaster vulgaris, poi i sambuchi
233 citeremo: la Pœonia peregrina con grandissimi citeremo: la Pæonia peregrina con grandissimi
235 l’Helianthemum italicum, la Polygala chamœbuxus l’Helianthemum italicum, la Polygala chamæbuxus
236 la Saxifraga valdensis, il Cyclamen europœum la Saxifraga valdensis, il Cyclamen europæum
241 Polygala alpestris e chamœbuxus, Rhamnus pumilus, Polygala alpestris e chamæbuxus, Rhamnus pumilus,
245 Agaricus cœsareus, A. deliciosus, Morchella esculenta), Agaricus cæsareus, A. deliciosus, Morchella esculenta),
247 trovansi, secondo Broilliart, pareccchi begli trovansi, secondo Broilliart, parecchi begli
251 ad una età molto ragguardevele tenuto ad una età molto ragguardevole tenuto
L’illustrazione di pagina196 nel testo originale si trova a pagina195.