IL PARLAMENTO NAZIONALE NAPOLETANO PER GLI ANNI 1820 E 1821
BIBLIOTECA STORICA DEL RISORGIMENTO ITALIANO
pubblicata da T. Casini e V. Fiorini. — Serie II, N. 10
IL PARLAMENTO NAZIONALE NAPOLETANO per gli anni 1820 e 1821
MEMORIE E DOCUMENTI
A CURA DI Vincenzo Fontanarosa
ROMA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI — 1900
PROPRIETÀ LETTERARIA DELLA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
Gli esemplari di questo volume non firmati dal gerente della Società si ritengono contraffatti.
(017) Roma, Tipografia Enrico Voghera.
PARTE PRIMA IL PARLAMENTO.
PARTE I.
Viva Dio, il Re e la Costituzione!
Agli albori del 2 luglio 1820, due sottotenenti, Morelli e Salvati[1], e centoventisette fra sergenti e soldati del reggimento Reale Borbone cavalleria, disertarono dai quartieri di Nola, secondati dal prete Menichini e da venti settari carbonari, volgendo tutti ad Avellino per unirsi ad altri settari giorni innanzi sbanditi da Salerno e riparati colà, dove la sètta era numerosa e potente. Da Nola ad Avellino si cammina dieci miglia fra città e sobborghi popolosi, essendo fertile il terreno, l'aere salubre, gli abitatori disposti alla fatica, d'animo industrioso ed avaro. In mezzo a tante genti quel drappello, fuggitivo, non frettoloso, andava gridando: — Viva Dio, Re, Costituzione! — e poichè il senso della politica voce non era ben compreso dagli ascoltanti, e direi dai promulgatori, ma per universali speranze i tributari vi scorgevano la minorazione dei tributi, i liberali la libertà, i buoni il bene, gli ambiziosi il potere, ognuno il suo meglio, a quel grido dissennato dei disertori rispondevano gli evviva di affascinato popolo. Vogliono le rivoluzioni una parola, sebben falsa, lusingatrice degli universali interessi; perocché le furie civili, mostrate nude, non troverebbero amatori o seguaci.
Giunto il Morelli a Mercogliano, pose il campo, e scrisse lettere al tenente colonnello De Concilj, che stava in Avellino con autorità militare e potenza civile, essendogli patria quella città ed egli ricco, nobile, audace. Le lettere dicevano ch'eglino, primi, non soli, promulgavano il comune voto di governo piú libero; aiutasse l'impresa, desse gloria eterna al suo nome. Prima delle lettere, la fama aveva divulgato quelle mosse e costernate le autorità, concitate le milizie, sollevato e rallegrato il popolo. De Concilj restava incerto tra il secondar Morelli e combatterlo; aveva il pensiero, intanto, volto al governo[2].
Cosí cominciò quel moto che costrinse Re Ferdinando a dare la Costituzione e giurarla[3]. La sedizione aumentava. Un reggimento alloggiato a Foggia s'era aggiunto ai rivoltosi. La Puglia ed il Molise eransi levate in armi, cosí pure Terra di Lavoro. A Napoli furono aumentate le guardie a custodia della Reggia e pattuglie armate percorrevano la città. Il generale Nunziante[4], dopo breve racconto dell'animo avverso dei soldati, in un rapporto al Re scriveva:
— Sire, la Costituzione è desiderio universale del vostro popolo; il nostro opporre sarà vano. Io prego V. M. di concederla.
Al generale Pepe — tenuto come sospetto — si fece credere che il governo del Re volesse incarcerarlo ed egli andò verso Monteforte, seguito da due reggimenti di cavalleria che trovavansi pronti al ponte della Maddalena. Piú tardi lo stesso Pepe si giustificò di questa sua fuga. Nelle sue Memorie, a proposito d'una visita da lui fatta al Re, dice:
— Il duca di Calabria m'interruppe, per farmi cosa grata, dicendo:
— Maestà, il generale Pepe se ne andò colla brigata in Monteforte perché gli dissero che qui sarebbe stato arrestato.
A ciò risposi:
— Altezza reale, io mal giustificherei la fidanza di cui mi onora in questo momento Sua Maestà, se confermassi ciò che a torto v'hanno riferito... La mossa dello squadrone di Nola fu un mero accidente senza del quale pochi giorni dopo, con ordini migliori, sarebbe successo quel che è successo: dacché ogni cosa era da me preparata: anzi ove alcuni miei ordinamenti non fossero stati ritardati, la sollevazione avrebbe avuto luogo negli ultimi giorni di giugno. La voce del supposto arresto di Pepe fe' sí che cinque Carbonari, di notte, penetrassero nella reggia fino agli appartamenti privati del Re e dicessero al duca d'Ascoli, don Trojano Marulli:
— Siamo delegati di dire al Re che la quiete della città non può durare se Sua Maestà non concede la bramata Costituzione. E settarî, cittadini e popolo sono in armi: i Carbonari sono pronti, tutti attendono la risposta del Re.
Il duca rispose: — Andrò a prenderla; — ed indi a poco tornato, aggiunse che il Re aveva in animo di dare la Costituzione e ne studiava in quel momento i termini coi suoi Ministri.
Gli fu chiesto:
— Quando sarà pubblicata?
— Subito.
— Ossia?
— Tra due ore.
Uno dei Carbonari si mosse e, distesa la mano senza parlare al pendaglio dell'orologio del duca, glielo tirò di tasca inurbanamente e vôlto il quadrante in modo ch'egli e il duca ne vedessero le ore, aggiunse:
— È un'ora dopo mezzanotte: alle tre la Costituzione verrà pubblicata.
L'audace Carbonaro fu il duca Piccolelli, genero dell'Ascoli.
Realmente i Ministri, in quell'ora, circondavano il Re intimorendolo, ed il marchese Circello in ispecie fu quello che lo convinse e lo fece arrendere.
L'editto fu il seguente:
ALLA NAZIONE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.
Essendosi manifestato il voto generale della nazione del regno delle Due Sicilie di volere un governo costituzionale, di piena volontà consentiamo e promettiamo nel corso di otto giorni di pubblicarne le basi. Sino alla pubblicazione della Costituzione le leggi veglianti saranno in vigore.
Soddisfatto in questo modo al voto pubblico, ordiniamo che le truppe ritornino ai loro corpi ed ogni altro alle sue ordinarie occupazioni.
Napoli, 6 luglio 1820.
Ferdinando
Questo editto fu anche firmato dal Segretario di Stato ministro cancelliere, marchese Tommasi, e fu pubblicato nel Giornale delle Due Sicilie, che dal giorno 8 luglio prese il nome di Giornale costituzionale delle Due Sicilie.
Nelle prime ore del giorno il Re s'affacciò al balcone centrale della reggia e fu accolto dai gridi del popolo: — Viva il Re! Viva la Costituzione[5].
Però i torbidi ricominciarono piú furiosi nella stessa giornata per la lettera scritta dal Re al figliuolo, duca di Calabria, colla quale deponeva nelle sue mani l'autorità regia, dichiarandosi infermo, e per l'editto al popolo in cui s'annunziava la medesima cosa[6].
Col cadere del giorno le grida aumentarono sí che nella reggia ne furono spaventati, ed il duca, vicario generale, invitò (l'invito diceva: comunque vestiti, tanta era la paura) pochi fidi generali ed alcuni antichi consiglieri, e disse loro di tentare di porre argine in un modo qualsiasi al movimento. Dopo molto discutere prò e contro si venne a conchiudere nel decreto che riporto integralmente:
La Costituzione del regno delle Due Sicilie sarà la stessa adottata per il regno della Spagna nel 1812 e sanzionata da S. M. Cattolica nel marzo di quest'anno corrente, salvo le modificazioni che la rappresentanza nazionale, costituzionalmente convocata, crederà di proporci per adattarla alle circostanze particolari dei reali dominii.
Francesco, Vicario
Questo però non bastò, perché il popolo diceva che il decreto doveva essere firmato dal Re; e di qui nuovi tumulti sino a che lo stesso decreto ricomparve firmato da Ferdinando di Borbone.
Le cose allora cambiarono d'aspetto: tornò la calma e l'allegrezza; la sera tutti gli edifizi di Toledo furono illuminati. Piú ricca d'ogni altra riuscí l'illuminazione nel palazzo del Nunzio Apostolico al largo della Carità.
Il giorno 9 l'esercito costituzionale comandato dal tenente generale Guglielmo Pepe[7] fece il suo solenne ingresso nella capitale e la sera nel reale teatro San Carlo si rappresentò Solimano secondo e Gli amanti alla presenza del Vicario generale, della principessa e del principe di Salerno. Erano presenti allo spettacolo anche il principe di Danimarca ed il principe di Benthneim. Quel giorno fu vista la nuova bandiera tricolore: rosso, nero ed azzurro[8].
I nuovi ministri furono: il conte Zurlo, il conte Ricciardi, il duca di Campochiaro, il generale Carascosa, il cav. Macedonio e Ruggero Settimo, parte designati dal Re, in parte imposti dal campo di Monteforte.
Con decreto del giorno nove fu creata una giunta provvisoria di quindici persone che dovevano essere consultati dal Vicario e dal governo fino all'installazione del Parlamento, e l'incarico di formare detta giunta fu dato al tenente generale Giuseppe Parisi, al cavaliere Melchiorre Delfico, al tenente generale Florestano Pepe, al barone Davide Whinspeare ed al cavaliere Giacinto Martucci.
La lista fu presentata e sulle venti persone proposte il Vicario scelse le seguenti: monsignor Cardosa vescovo di Cassano, il duca di Gallo, il procuratore generale della Suprema corte di giustizia Troysi, l'avvocato generale della stessa Felice Parrilli, il giudice della Gran corte civile di Napoli Angelo Abbatemarco, il colonnello Ferdinando Visconti, il colonnello di cavalleria Giovanni Russo[9], tutti Napoletani; il tenente generale Fardella, il principe di Camporeale ed il capitano di vascello Staiti, di Sicilia.
Fu fissato il giorno tredici[10] di luglio per la cerimonia del giuramento che ebbe luogo nella cappella privata di Palazzo Reale alle undici di mattina.
Il re aveva alla dritta[11] il duca di Calabria principe ereditario ed a sinistra il principe don Leopoldo di Salerno. Dietro si collocarono i ministri, il generale in capo dell'armata costituzionale Guglielmo Pepe ed i capi di Corte. Il cappellano maggiore, don Gabriele Maria Gravina arcivescovo di Melitene, era vicino all'altare. Il re, dopo di aver ricevuto dal presidente e da tutti i membri della giunta gli omaggi secondo l'etichetta di Corte, dichiarò che intendeva mandare ad effetto la sua ferma risoluzione di giurare l'osservanza della Costituzione; quindi avverti la giunta di avvicinarsi all'altare, disse al cappellano maggiore di presentargli i libri santi e pronunziò il seguente giuramento:
Io, Ferdinando di Borbone per la grazia di Dio e per la costituzione della Monarchia Napoletana, re, col nome di Ferdinando I, del regno delle due Sicilie, giuro in nome di Dio e sopra i Santi Evangeli che difenderò e conserverò....... ( seguivano le basi ordinarie della costituzione ). Se operassi contra il mio giuramento e centro qualunque articolo di esso non dovrò essere ubbidito, ed ogni operazione con cui vi contravvenissi sarà nulla e di nessun valore. Cosí facendo, Iddio mi aiuti e mi protegga; altrimenti me ne domandi conto.
Il giuramento profferito era scritto; finito di leggerlo il re alzò gli occhi al cielo, li fissò alla croce e spontaneamente aggiunse:
Onnipotente Iddio che collo sguardo infinito leggi nell'anima e nell'avvenire, se io mentisco o se dovrò mancare al giuramento, tu in questo istante dirigi sopra il mio capo i fulmini delle tue vendette.
Giurarono i figliuoli, dopo, ed immediatamente tutti gli altri; e il Pepe racconta:
Si avvicinò a me, che per debita modestia tenevami lungi fra gli ultimi, e mi disse col volto bagnato di lagrime: «Credimi, generale, questa volta ho giurato dal fondo del cuore»[12].
La sera vi fu spettacolo e grande illuminazione. A San Carlo fu rappresentato Khoa-Kang, la donna del lago; al Teatro Nuovo: La giardiniera abruzzese; al San Carlino: Le cantanti ed alla Fenice L'impostore[13].
Data la Costituzione, giuratala cosí solennemente, bisognava dar principio alle nuove riforme ed ai novelli ordinamenti, e cosí infatti si fece, col decretare le elezioni dei deputati al Parlamento Nazionale[14].
* * *
Ecco il decreto col quale si davano le norme per le elezioni:
Ferdinando I.
Per la grazia di Dio e per la costituzione della Monarchia Re del regno delle due Sicilie, re di Gerusalemme, ecc.: Infante di Spagna, duca di Parma, Piacenza, Castro, ecc.: Gran principe ereditario di Toscana, ecc. ecc.
Noi, Francesco duca di Calabria principe ereditario e vicario generale.
Intesa la Giunta provvisoria consultiva di governo abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
Art. 1. Il Parlamento nazionale per gli anni 1820 e 1821 si convoca secondo il prescritto degli articoli 104 e 108 al Capitolo VI Titolo III della Costituzione Spagnuola, adottata per lo regno delle due Sicilie.
Sarà convocato in Napoli.
Art. 2. A tale effetto si procederà alle elezioni conformemente a quanto ordina la Costituzione nei Capitoli I-V del Titolo III e secondo la forma che qui si prescrive.
Art. 3. Per questa prima volta l'apertura delle sessioni del Parlamento avrà luogo nel dí primo d'ottobre del corrente anno.
Art. 4. Attesa l'urgenza delle convocazioni del Parlamento non saranno per questa volta osservati gli intervalli stabiliti dalla Costituzione tra le Giunte parrocchiali, distrettuali e provinciali. Le parrocchiali si uniranno nella domenica 20 d'agosto, le distrettuali nella domenica 27 del suddetto mese d'agosto, e le provinciali nella domenica 3 di settembre; procedendosi in tutte conformemente alle istruzioni che accompagnano il seguente decreto.
Art. 5. Verificate le elezioni dei deputati, dovranno questi trovarsi nella città di Napoli dieci giorni innanzi l'apertura del Parlamento.
Art. 6. I deputati, nell'arrivare, assisteranno il Segretario di Stato ministro degli affari interni, onde far registrare i loro nomi e quello della provincia che gli ha eletti, come dovrebbesi praticare, se esistesse la deputazione permanente del Parlamento, in virtú dell'articolo III della Costituzione. Il Segretario di Stato farà comunicazione di tutto alla Giunta provvisoria consultiva di governo.
Art. 7. I deputati dovranno portare le ampie facoltà degli elettori, secondo la formola inserita nelle istruzioni che accompagnano il presente decreto.
Art. 8. Non esistendo la deputazione permanente che deve presiedere le Giunte preparatorie del Parlamento, e raccorre i nomi dei deputati, i deputati per supplire a tale mancanza si uniranno il dí 22 settembre in prima giunta preparatoria e nomineranno tra di loro a pluralità di voti e per questo solo oggetto il presidente, il segretario e gli esaminatori dei quali parla l'art. 112 della Costituzione in luogo delle commissioni di cinque e tre individui che prescrive l'art. 113 per l'esame delle facoltà. La seconda Giunta preparatoria si unirà il dí 25 di settembre, e le altre se fossero necessarie infino al dí 28 di questo mese, in cui si terrà l'ultima giunta provvisoria. A questo modo resterà costituito e formato il Parlamento che darà principio alle sue sessioni il dí 1º d'ottobre conformemente agli articoli 114-123 della Costituzione.
Art. 9. Sarà destinato con altro decreto un locale per le sessioni del Parlamento[15] in questo anno, salvo a determinare per le future sessioni di accordo col Parlamento un locale stabile.
Art. 10. In quanto alle variazioni contenute nel presente decreto per rispetto alla convocazione del Parlamento, alle giunte elettorali ed all'epoca dell'apertura del Parlamento medesimo, dichiariamo esser questo l'effetto indispensabile delle circostanze e della imminenza che è di stabilire il nuovo regime; dovendosi, col tempo successivo, eseguire letteralmente tutto quello che è stabilito nella Costituzione politica adottata, salvo le modificazioni che verranno proposte nel Parlamento medesimo.
Art. 11. Il nostro Segretario di Stato, ministro per gli affari interni è incaricato dell'esecuzione del presente decreto.
Napoli il dí 22 di luglio 1820.
FRANCESCO, Vicario generale.
Il Segretario di Stato per gli affari interni Giuseppe Zurlo.
Cosí gli animi si volsero alle cure delle prossime elezioni.
In questo spazio di tempo Palermo insorse, e fu mandato a domare la sedizione, dopo molte preghiere, Florestano Pepe fratello di Guglielmo, ed una squadriglia al comando di Bausan che salpò da Napoli sul finire d'agosto. Palermo si arrendeva agli 11 d'ottobre ed eccone l'avviso ufficiale[16]:
Ultime notizie di Palermo:
Palermo s'è resa. Le nostre truppe l'ànno tutta occupata. Una perfetta tranquillità è succeduta al disordine che ivi è dominato finora. Trentasette morti e 200 feriti è tutta la perdita che contiamo: tra i primi con rammarico si annovera il prode capitano Cosa[17].
Abbiamo questa lieta novella per mezzo d'una bombardiera comandata dal signor Michele Astarita, proveniente da quella città in 34 ore, ed ha recato sul suo bordo l'aiutante di campo di S. E. il generale don Florestano Pepe.
Tra le condizioni fissate fra questo bravo generale ed i Palermitani, per ora si sa che questi ultimi pagheranno le spese della guerra. Villafranca perseguitato s'è rifuggito in Trapani.
Napoli 11 ottobre 1820.
Per quella prima ed unica volta fu nominato un delegato speciale per presiedere la giunta preparatoria d'ogni provincia, nominato dal governo su triplice lista presentata dalla giunta provvisoria consultiva di governo.
Questi delegati speciali furono: per la provincia di Napoli, Tommaso de Liso; Terra di Lavoro, Carlo Cianciulli; Principato Ulteriore, il colonnello dei militi De Filippis; Principato Citeriore, Giustiniano Vecchio; Capitanata, Giulio Cassitti; Terra di Bari, Domenico Acclario; Terra d'Otranto, Benedetto Mangarelli; Molise, Eugenio Palassolo; Basilicata, Saverio Carelli; Calabria citeriore, il barone Ferrari; Calabria Ulteriore (seconda), Gregorio Rossi; 1ª Calabria Ulteriore, Giacinto Sacco; 2ª Abruzzo Ulteriore, marchese Quinzio; 1ª Abruzzo ulteriore, il presidente Arcovito; Abruzzo Citeriore, Francesco Mezzanotte; Valle di Palermo, Salvatore Finocchino; Messina, monsignor Grano; Catania, Carlo Pagliari; Siragusa, Gerolamo Bartolini; Caltanisetta, Mauro Cominelli; Girgenti, Giuseppe Sileggio; Trapani, Giuseppe Lombardo[18].
Ciascuno di questi delegati con un ecclesiastico ed un capo di famiglia nominarono altri quattro cittadini per precisare le diverse giunte preparatorie. Ognuna di esse poi, avvenuta l'elezione, doveva presentare al Segretariato di Stato degli affari interni le mappe relative, col nome di tutti gli elettori. Alla Nazionale di Napoli è conservato[19] il rapporto del delegato speciale de Liso per la giunta preparatoria della provincia di Napoli.
Ecco gli articoli della Costituzione Spagnuola dell'anno 1812 concernenti il sistema delle elezioni[20].
CAPITOLO II.
Della nomina dei deputati per le corti.
Art. 34. Per la nomina di questi deputati si convocheranno le Giunte elettorali di parrocchia, partito e provincia.
CAPITOLO III.
Delle giunte elettorali di parrocchia.
Art. 35. Le giunte elettorali di parrocchia si comporranno di tutti i cittadini domiciliati e residenti nel territorio rispettivo: fra i quali sono compresi gli ecclesiastici secolari.
Art. 36. Nella penisola, nelle isole e nelle possessioni adiacenti si convocheranno sempre queste Giunte la prima domenica del mese di ottobre dell'anno precedente a quello della convocazione delle Corti.
Art. 37. Nelle provincie di oltremare si convocheranno tali Giunte la prima domenica del mese di dicembre, e quindici mesi prima della convocazione delle Corti, in seguito dell'avviso che per le une e per le altre dovranno dare anticipatamente le pubbliche autorità.
Art. 38. Nelle Giunte di parrocchia si nominerà un elettore parrocchiale per ogni 200 capi di famiglia.
Art. 39. Quando il numero de' capi di famiglia della parrocchia ecceda quello di trecento, sebbene non giunga a 400 si nomineranno due elettori, quando ecceda il numero di 500, ne saranno nominati tre e cosí progressivamente.
Art. 40. Nelle parrocchie, il di cui numero di capi di famiglia non ascende a dugento né a cencinquanta almeno, si nominerà un elettore: nelle parrocchie in cui non si abbia almeno questo numero, i capi di famiglia si riuniranno a quei dell'altra immediata, che riuniti nomineranno l'elettore, o gli elettori, in proporzione del numero che risulti dalla loro riunione.
Art. 41. La Giunta parrocchiale eleggerà a pluralità di voti undici compromessarî:[21] ed essi nomineranno in seguito un elettore parrocchiale.
Art. 42. Quando nella Giunta parrocchiale dovessero eleggersi due elettori parrocchiali, si nomineranno preventivamente ventuno compromessarî. Quando il numero degli elettori fosse di tre, quello dei compromessarî sarà di trentuno. Lo stesso numero di trentuno compromessarî dovrà impiegarsi in tutti gli altri casi successivi che progressivamente potranno occorrere, onde schivare la confusione.
Art. 43. Ad oggetto di proporzionare dei mezzi facili e pronti anche alle piú piccole popolazioni, rimane stabilito che la parrocchia, i di cui capi di famiglia ascendano a venti nominerà un compromessario: la parrocchia che abbia trenta o quaranta capi di famiglia, nominerà due compromessarî e cosí via. La parrocchia che avesse meno di venti di detti capi, si riunirà alla piú immediata per la elezione dei compromessarî.
Art. 44. I compromessarî delle parrocchie delle piccole popolazioni eletti nel modo additato, si riuniranno nel sito piú atto all'uopo: o quando il numero monti a undici o a nove almeno nomineranno un elettore parrocchiale; se il numero dei compromessarî monti a ventuno o almeno a diciassette, nomineranno due elettori parrocchiali; quando il numero dei compromessarî monti a trentuno, nomineranno tre elettori o quelli che corrispondano al loro numero.
Art. 45. Per essere nominato elettore parrocchiale si richiede la qualità di cittadino, l'età di 25 anni compiti ed essere domiciliato nella parrocchia.
Art. 46. Le Giunte delle parrocchie saranno presiedute dal corpo politico o dell' alcaide[22] della città, paese o villaggio dove si congregassero: e dovrà assistervi il parroco per maggiore solennità dell'atto. Se in uno stesso luogo, per ragione di numero, dovessero congregarsi due o piú Giunte una di queste verrà presieduta dal capo politico o dall' alcaide del luogo, l'altra dall'altro alcaide e le rimanenti da reggitori eletti a sorte.
Art. 47. Giunta l'ora della riunione che seguirà nelle case comunali, o ne' luoghi ove sia solito riunirsi, dopo che i cittadini vi sieno giunti, passeranno insieme riuniti col di loro presidente alla parrocchia. In questa sarà quindi celebrata la messa solenne dello Spirito Santo dal parroco che pronunzierà altresí un discorso analogo alla circostanza.
Art. 48. Terminata la messa ritorneranno al luogo donde partirono, ed in esso si darà principio alla Giunta, nominando a questo riguardo, due scrutinatori ed un segretario tra i cittadini presenti: tutto a porta aperta.
Art. 49. Ciò seguito, domanderà il presidente se alcuno dei cittadini avesse doglienza alcuna da esporre, subornazione o corruzione, onde l'elezione ricada su qualche persona determinata che quando ciò fosse, dovrà immantinenti farsene pubblico processo verbale. Risultando certa l'accusa, saranno i delinquenti privati di voce attiva e passiva; risultando calunniosa, soffriranno i calunniatori la stessa pena: e di tal giudizio non si ammetterà gravame alcuno.
Art. 50. Se sorgessero dubbi su d'alcuno dei presenti, quanto alla concorrenza in questi delle qualità richieste per votare, la stessa Giunta deciderà sull'istante ciò che ne pensa; e le sue decisioni si eseguiranno senza gravame alcuno per questa sola volta, e per questo solo effetto.
Art. 51. Si procederà in seguito e senza ritardo alcuno alla nomina dei compromessarî. A tal uopo ogni cittadino si avvicinerà alla tavola presso di cui seggono il presidente, gli scrutinatori ed il segretario, e nominerà un numero di persone uguale a quello dei compromessarî da eleggersi. Il segretario formerà un elenco dei nomi delle persone nominate, e ciò in presenza del nominatore. Tanto in questo, quanto negli altri atti d'elezione, niuno potrà dare il voto a se stesso sotto pena di perdere il dritto di votare.
Art. 52. Terminato questo primo atto d'iscrizione, il presidente, gli scrutinatori ed il segretario scrutineranno le liste formate, indi verranno pubblicati ad alta voce dal segretario i nomi dei cittadini eletti compromessarî per aver riunito un numero maggiore di voti.
Art. 53. I compromessarî nominati si ritireranno in luogo separato da scegliersi dalla Giunta e conferendo fra essi procederanno alla nomina dell'elettore o degli elettori di quella parrocchia, eleggendo la persona o le persone che riuniscono piú della metà dei voti. Ciò fatto si nominerà tal nome dalla Giunta.
Art. 54. Il segretario distenderà un atto firmato da esso dal presidente e dai compromessarî e ne darà copia firmata dalle stesse persone all'eletto o agli eletti onde possano far constare la di loro nomina.
Art. 55. Niun cittadino potrà scusarsi a queste funzioni per qualsivoglia motivo o pretesto.
Art. 56. Nella Giunta parrocchiale niun cittadino potrà presentarsi armato.
Art. 57. Seguita che sarà la nomina degli elettori, la Giunta verrà immantinenti sciolta; e sarà nullo qualunque altro atto in cui volesse ingerirsi.
Art. 58. I cittadini che han composta la Giunta si trasferiranno nuovamente alla parrocchia, ove si canterà un Te Deum solenne, conducendo l'elettore ossia elettori fra essi, il presidente gli scrutinatori ed il segretario.
CAPITOLO IV.
Delle giunte elettorali di partito[23].
Art. 59. Le Giunte elettorali di Partito si comporranno di elettori parrocchiali che dovranno congregarsi nel capoluogo di ogni partito ad oggetto di nominare l'elettore o gli elettori, i quali debbono in seguito trasferirsi nel capoluogo della provincia, onde eleggere i deputati per le Corti.
Art. 60. Queste Giunte si convocheranno sempre nella penisola, nelle isole e nelle possessioni adiacenti, la prima domenica del mese di novembre dell'anno antecedente a quello in cui debbono formarsi le Corti.
Art. 61. Nelle provincie d'oltre mare si convocheranno tali Giunte la prima domenica del mese di gennaio prossimo seguente a quello di dicembre in cui siensi convocate le Giunte di parrocchia.
Art. 62. Per conoscere il numero degli elettori che ogni partito deve nominare si attenderà ai seguenti precetti:
Art. 63. Il numero degli elettori di partito sarà il triplo di quello dei deputati che debbonsi eleggere.
Art. 64. Se il numero dei partiti della provincia fosse maggiore di quello degli elettori che si richiedono in conformità dell'articolo precedente, per la nomina dei deputati che gli corrispondono, si nominerà, ciò non ostante, un elettore per ogni partito.
Art. 65. Se il numero dei partiti fosse minore di quello degli elettori che debbonsi nominare, ciascun partito ne eleggerà uno, due, tre o piú, fino al completo del numero che si richiede. Se mancasse un elettore, verrà questi nominato dal partito che abbia maggiore popolazione; se ne mancasse un secondo sarà nominato dal partito immediato che piú abbondi in popolazione e cosí successivamente.
Art. 66. Dopo ciò che si è stabilito negli art. 31, 32, 33 e nei tre ultimi precedenti, il censimento determina quanti deputati corrispondono ad ogni provincia e quanti elettori ad ogni partito.
Art. 67. Le Giunte elettorali di partito verranno presiedute dal capo politico o dal primo alcaide del capoluogo del partito: ed a questi funzionari si presenteranno gli elettori parrocchiali muniti dei documenti che assicurino la di loro elezione, onde i di loro nomi vengano registrati nel libro in cui debbono distendersi gli atti della Giunta.
Art. 68. Nel giorno stabilito si riuniranno gli elettori di parrocchia col presidente nelle sale decurionali, a porte aperte, e daranno principio alle di loro funzioni colla nomina d'un segretario e di due scrutinatori scelti tra' medesimi elettori.
Art. 69. Gli elettori presenteranno in seguito il certificato della di loro nomina, onde essere esaminati da essi segretario e scrutinatori, ove dovranno nel giorno seguente informare se i certificati presentati siano o no in regola. I certificati del segretario e degli scrutinatori saranno quindi esaminati da una commissione composta di tre individui della Giunta nominati a questo oggetto: ed essi dovranno del pari nel giorno seguente informare della validità di tali documenti.
Art. 70. In questo giorno, dopo che saranno nominati gli elettori parrocchiali, si leggeranno gli informi che risulteranno da' certificati presentati: e se vi sia cosa da opporre agli accennati documenti, o agli elettori per mancanza di alcuna delle circostanze richieste, la Giunta deciderà definitivamente, senza interrompere le sue funzioni, ciò che ne giudichi: e tali giudizi verranno eseguiti senza gravame.
Art. 71. Terminato questo atto gli elettori parrocchiali col di loro presidente si trasferiranno alla Chiesa maggiore, ove si canterà la messa solenne dello Spirito Santo dall'ecclesiastico di maggiore dignità che pronunzierà altresí un discorso analogo alle circostanze.
Art. 72. Dopo quest'atto religioso si restituiranno tutti alle case comunali: gli elettori si sederanno senza preferenza alcuna; ed il segretario leggerà alla di loro presenza questo capitolo della Costituzione. Il presidente quindi farà la stessa domanda enunciata nell'art. 49 ed a questo riguardo si osserverà quanto si prescrive nel medesimo articolo.
Art. 73. Si procederà immantinente alla nomina dell'elettore, o degli elettori di partito, eleggendoli da uno in uno per mezzo di scrutinio segreto, e con cartelli, nei quali sia notato il nome della persona che si elegge.
Art. 74. Tosto che siensi presi tutti i voti nella forma prescritta, il presidente, il segretario e gli scrutinatori li ordineranno, e rimarrà eletto quegli che ne abbia avuto almeno un voto piú della metà: ciò fatto, il presidente pubblicherà ciascuna elezione. Se niuno avesse riunito la pluralità assoluta di voti, pe' due che abbiano ottenuto il maggior numero si praticherà un secondo scrutinio, e rimarrà eletto quegli che abbia raccolto il maggior numero di voti. Nel caso di parità deciderà la sorte.
Art. 75. Per essere eletti di partito si richiede la qualità di cittadino nell'esercizio dei suoi diritti: l'età di venticinque anni almeno compiti e quella di capo di famiglia residente nel partito benché sia secolare, o ecclesiastico secolare. Nel fissare la circostanza di residente nel partito si è avuto presente quella elezione che potrebbe ricadere o nei cittadini che compongono la Giunta o in quelli assenti da questa.
Art. 76. Il segretario distenderà un atto firmato da esso, dal presidente e dagli scrutinatori e ne darà copia firmata dalle stesse persone all'eletto, o agli eletti, onde possano far constare la di loro nomina. Il presidente della Giunta rimetterà altra copia conforme firmata da esso e dal segretario al presidente della Giunta della provincia ove l'elezione avvenuta sarà iscritta nei pubblici fogli.
Art. 77. Nelle Giunte elettorali di partito si osserverà quanto si previene per le Giunte elettorali di parrocchia negli art. 55 e 58.
CAPITOLO V.
Delle giunte elettorali di provincia.
Art. 78. Le Giunte elettorali di provincia si comporranno dagli elettori di tutti i partiti della medesima, che si riuniranno nel capoluogo ad oggetto di nominare i corrispondenti deputati per assistere presso le Corti in qualità di rappresentanti della nazione.
Art. 79. Queste Giunte si convocheranno sempre nella penisola e nelle isole adiacenti la prima domenica del mese di dicembre dell'anno antecedente a quello della formazione delle Corti.
Art. 80. Nelle provincie d'oltremare si convocheranno la seconda domenica del mese di marzo dell'anno stesso in cui si convochino le Giunte di partito.
Art. 81. Le Giunte elettorali di provincia saranno presiedute dal capo politico del capoluogo della provincia a cui si presenteranno gli elettori di partito muniti del documento della di loro elezione, onde i nomi di essi vengano notati nel libro in cui si debbono distendere gli atti della Giunta.
Art. 82. Nel giorno designato si riuniranno gli elettori col presidente, a porte aperte, nelle case comunali, o in altro edifizio che si giudichi piú convenevole per adempire un atto cosí solenne. Daranno quindi principio alle di loro funzioni colla nomina a pluralità di voti d'un segretario e di due scrutinatori scelti fra gli stessi elettori.
Art. 83. Se ad alcuna provincia corrisponda un sol depurato, concorreranno nella di lui nomina almeno cinque elettori; distribuendosi questo numero tra i partiti che compongono la provincia o formandone dei nuovi per questo solo effetto.
Art. 84. Si leggeranno i quattro capitoli della presente Costituzione che trattano dell'elezione ed indi gli atti delle elezioni fatte nei capiluoghi dei partiti, rimesse dai rispettivi presidenti. Dovranno del pari gli elettori manifestare i certificati della di loro nomina, ond'essere esaminati dal segretario o dagli scrutinatori; e questi nel giorno seguente dovranno rappresentare se quei documenti sieno o no in regola. I certificati del segretario e degli scrutinatori sono esaminati da una commissione composta di tre individui della Giunta nominati a quest'oggetto, e dovranno essi altresí dare nel giorno susseguente il di loro parere dei medesimi documenti.
Art. 85. Riuniti che saranno in questo giorno gli elettori di partito si leggeranno gli informi rispettivi sui documenti manifestati e se sorgessero dei dubbî da apporre a tali documenti, agli elettori per deficienza di alcuna delle qualità richieste la Giunta risolverà definitivamente, e senza interruzione delle sue funzioni ciò che le sembri opportuno. Queste risoluzioni saranno eseguite senza gravame.
Art. 86. Gli elettori di partito col di loro presidente si dirigeranno in seguito alla cattedrale, ove si canterà la messa dello Spirito Santo; ed il vescovo pronunzierà un discorso[24].
Art. 87. Terminato quest'atto religioso, ritorneranno tutti al luogo donde partirono; ed a porte aperte dopo che gli elettori sieno seduti senza preferenza alcuna, farà il presidente la stessa domanda esposta nell'art. 49, osservandosi pienamente a questo riguardo, quanto si prescrive nell'articolo medesimo.
Art. 88. In seguito si procederà dagli elettori che sono presenti alla elezione del deputato, o dei deputati, da uno in uno; gli elettori a questo oggetto si avvicineranno alla tavola presso di cui seggono il presidente, gli scrutinatori ed il segretario, e questi nella presenza dei nominatori scriverà nei registri il nome della persona da essi eletta. Il segretario e gli scrutinatori saranno i primi a dare il loro voto.
Art. 89. Subito che siensi presi tutti i voti; il presidente, il segretario e gli scrutinatori gli ordineranno, e rimarrà eletto quelli che abbia raccolto almeno un voto piú della metà. Se niuno avesse raccolto la pluralità assoluta dei voti, pei due che ne avessero ottenuto il maggior numero si praticherà un secondo scrutinio, e rimarrà eletto quegli che riunisca la pluralità. Terminata l'elezione sarà immantinente pubblicata dal presidente.
Art. 90. Dopo l'elezione dei deputati si procederà a quella dei supplenti collo stesso metodo e forma; ed il di loro numero sarà in ogni provincia la terza parte dei suoi corrispondenti deputati. Se ad alcuna provincia spettasse soltanto la elezione di uno, o di due deputati, eleggerà ciò non ostante un deputato supplente. Questi assisteranno presso le Corti sempre quando si verifichi la morte del proprietario o a parere delle stesse Corti la sua impossibilità di rappresentare, e ciò in qualunque tempo che avvenga o l'uno o l'altro accidente, dopo seguita la elezione.
Art. 91. Per essere deputato si richiede la qualità di cittadino nello esercizio dei suoi diritti: l'età di venticinque anni compiuti, e la nascita nella stessa provincia, o il domicilio in essa con sette anni almeno di residenza, tanto se sia del ceto secolare quanto dell'ecclesiastico secolare.
Nel fissare l'accennata residenza si è avuto presente che l'elezione può ricadere nei cittadini che compongono la Giunta e nei cittadini assenti di questa.
Art. 92. Per essere deputato di Corti si richiede altresí il possesso d'una proporzionata rendita annuale procedente dai beni proprî.
Art. 93. La disposizione dell'articolo precedente rimane sospesa sino a che le Corti che dovranno riunirsi, dichiarino essere giunto il momento e disegnino cosí la quota della rendita, come la qualità dei beni da cui debba procedere. Ciò che le Corti decideranno a quell'epoca, si terrà per costituzionale, e come se fosse qui espresso.
Art. 94. Se avvenisse che la stessa persona sia eletta dalla provincia di sua nascita, e da quella in cui sta domiciliata sussisterà la elezione per causa di domicilio; e per la provincia di sua nascita verrà presso le Corti il supplente a cui corrisponda[25].
Art. 95. Le segreterie di Stato, i consiglieri di Stato, e tutti coloro che occupano impieghi della casa reale non potranno essere eletti deputati.
Art. 96. Neppure potrà essere eletto deputato qualunque straniero; sebbene abbia ottenuto decreto di nazionalità.
Art. 97. Niuno impiegato pubblico nominato dal governo potrà essere eletto deputato per la provincia in cui esercita le sue funzioni.
Art. 98. Il segretario distenderà l'atto della elezione, e lo firmerà una col presidente e con tutti gli elettori.
Art. 99. Tutti gli elettori in seguito, senza esenzione, daranno a tutti, ed a ciascuno dei deputati eletti ampli poteri nella forma che in appresso si prescrive, onde presentarsi nelle Corti. Ciascun deputato dovrà separatamente ricevere una copia uniforme di tali poteri.
Art. 100. I poteri saranno concepiti nei termini seguenti:
Nella città, o villaggio di..... il giorno..... del mese di..... dell'anno.... nella sala di.... essendosi congregati i signori ( seguiranno i nomi del presidente e degli elettori ) hanno dichiarate innanzi a me pubblico notaro ed a testimoni chiamati a quest'oggetto, che essendosi proceduto in conformità della Costituzione politica della Monarchia Spagnola, alla nomina degli elettori parrocchiali e di partito, con tutte le solennità prescritte dalla stessa Costituzione, siccome constava dai certificati originali a questo riguardo; ed essendosi riuniti in seguito gli elettori suddetti dei partiti della provincia di...... del corrente anno...... mese...... giorno...... hanno nominato i deputati che in nome di questa provincia debbano concorrere per rappresentarla alle Corti, e che furono eletti per tali deputati dalla stessa provincia i signori N. N. N. siccome consta dall'atto disteso e firmato. Per conseguenza i nominati elettori concedono ampli poteri ai medesimi deputati insieme riuniti ed a ciascuno d'essi in particolare, onde adempiere e disimpegnare le auguste funzioni dei di loro incarichi[26].
E perché riuniti cogli altri deputati di Corti come rappresentanti della Nazione Spagnola possano concedere e risolvere quanto giudichino convenevole al bene generale della stessa, dovendo in ciò usare delle facoltà fissate dalla Costituzione, e conservarsi nei limiti prescritti da questa, senza poter derogare, alterare o variare in modo e sotto pretesto alcuno niuno dei suoi articoli, gli stessi elettori quindi in virtú di tutte le facoltà ad essi concedute per l'adempimento del presente atto si obbligano, tanto in nome proprio quanto in quello di tutti i capi di famiglia di questa provincia a tener per valido, ubbidire ed adempiere tutto ciò che i nominati deputati di Corti facessero, e tuttociò che da queste si risolvesse in conformità della Costituzione politica della Monarchia Spagnola[27]. Tanto hanno dichiarato e concesso in presenza dei testimoni N. N. che insieme con essi elettori si sono firmati. Di tutto ciò fò fede, ecc.
Art. 101. Il presidente, gli scrutinatori e il segretario rimetteranno immantinenti una copia da essi firmata dell'atto seguito delle elezioni alla deputazione permanente delle Corti, e procureranno che tali elezioni si pubblichino per mezzo della stampa, e di queste si spedisca copia ad ognuna delle popolazioni della provincia.
Art. 102. I deputati godranno d'una indennità a carico delle rispettive Provincie e la di cui quantità verrà fissata dalle Corti nel second'anno d'ogni deputazione generale. A' deputati d'oltremare si abbonerà altresí per ispesa di gita e ritorno la somma che giudichino necessaria le rispettive Provincie a cui appartengono.
Art. 103. Nelle Giunte elettorali della Provincia si osserverà quanto si prescrive negli art. 55-58. In queste Giunte rimarrà luogo ciò che si prescrive nell'art. 328[28].
Stabilite cosí le cose, niente altro rimaneva a fare che nominare i deputati al solenne Congresso.
Nei tre mesi che precedettero le elezioni è fama che Ferdinando I passeggiando pei dorati saloni della sua reggia esclamasse in presenza dei suoi cortigiani piú devoti: — Sono nato libero e voglio morir libero! Significando che la sua libertà non era compatibile con quella dei suoi popoli. Certo che in quei giorni si mostrò sempre poco inchinevole al nuovo ordine di cose e non solo cessò di frequentare i teatri dei quali era amantissimo, ma si astenne dall'andare alla parata di Piedigrotta, il dí 8 di settembre, cosa che destò quasi uno scandalo in Napoli[29].
Ora bisogna notare che le provincie essendo tenute in ordine dall'esercito, ed essendo i militari elettori di primo grado, grande fu la loro influenza sugli elettori. I ministri ne aspettavano con ansia i risultati temendo che fossero scelti a deputati i patriotti piú caldi e piú avventati.
Pure fra i settantadue eletti nel Napoletano pochissimi avevano voce di sfrenati Carbonari. Dei deputati uno era cardinale[30], nove sacerdoti, ventiquattro possidenti, otto professori di scienze, undici magistrati, due impiegati del governo, nove dottori, cinque militari e tre negozianti.
Le elezioni furono fatte onestissimamente ed il Colletti si lagna che vi furono eletti due nobili unicamente. Ecco le sue precise parole:
I collegi elettorali mostraronsi avversi all'antica nobiltà, cui spesso disonestamente impedivano il diritto comune di dare il voto. Furono ingiusti ed ingrati, perciocchè la legge non esclude i nobili; e non vi ha in Napoli altra nobiltà che di nome e questi nomi, Colonna, Caracciolo, Pignatelli, Serra diedero alla scure il primo sangue per amore di nobiltà[31].
Terminate le elezioni, venuti gli eletti a Napoli si ebbero le sessioni preparatorie, che si tennero nell'antica biblioteca di Monteoliveto, e si fissò il giorno della solenne apertura.
Ferdinando I avrebbe voluto che mai fosse realmente giunto questo giorno, e, quando vide che non era piú possibile indietreggiare d'un passo solo, fece sentire pel Conte Zurlo che avrebbe dato l'incarico d'assistere alla cerimonia al figlio Francesco quale suo vicario.
I deputati energicamente risposero che ove il Re perseverasse in tale idea, essi non si sarebbero radunati ed avrebbero invitato il generale Pepe[32], a nome del bene pubblico, a non deporre il comando. Il Re intimidito promise di recarsi all'apertura del Congresso e di giurare.
Nell'ultima seduta tenuta dalla Giunta preparatoria si diede lettura di una lettera del ministro dell'interno, colla quale invece della chiesa di San Sebastiano si prescriveva per la cerimonia quella dello Spirito Santo a Toledo, molto piú vasta ed adatta all'uopo[33].
In quest'ultima adunanza furono eletti il presidente, il vicepresidente, ed i segretari del Parlamento, che nello stesso giorno 28 di settembre si recarono al Palazzo dove furono, pomposamente, ricevuti dal Re. Prese pel primo la parola il Cardinale Firrao proponendo che s'ordinasse un triduo all'Altissimo. Il Re approvò la proposta e promise formalmente d'intervenire all'apertura del Congresso.
Ed eccoci alla cerimonia che entusiasmò fino al delirio i Napoletani, accorsi da tutte le parti della città e dei paesi vicini nella strada antica di Toledo fin dalle prime ore del giorno gremendone le tre vaste piazze maggiori[34].
Il primo d'ottobre milleottocentoventi capitò anche di domenica ed appunto perciò fu maggiore il concorso del popolo.
Dalle prime ore del mattino il corpo delle truppe della guarnigione di Napoli e dei militi nazionali della Capitale e delle provincie erano disposte in due ale del reale palazzo lungo la strada di Toledo fino all'ingresso della chiesa dello Spirito Santo.
Il recinto in essa riserbato al Parlamento era separato dal resto della chiesa da una ringhiera che lo rendeva visibile a tutti ma separato dagli spettatori[35].
Il Re uscí dal palazzo alle dodici, quando già i deputati ed i ministri erano al luogo convenuto nel quale entrarono, come poco dopo anche il Sovrano, per una porta interna che dà nel Conservatorio omonimo. Precedevano il Re la scorta della cavalleria della guardia e le carrozze, nella prima delle quali era la duchessa di Calabria, Maria Isabella infante di Spagna[36], col duca di Noto Ferdinando suo figlio, che allora aveva soli dieci anni compiuti[37]; nella seconda gli infanti Carlo principe di Capua e Leopoldo conte di Siracusa; nella terza il principe di Salerno Leopoldo Giovanni[38]; e nella quarta le principesse Cristina e Antonietta, che dovevano andare incontro al Re al suo arrivo alla sala della cerimonia. Una deputazione di 22 rappresentanti della Nazione ricevettero questi personaggi reali accompagnandoli alla tribuna[39]. Seguiva il corteggio del Re, che era aperto da un distaccamento di usseri e dragoni della guardia di sicurezza in avanti che serviva al buon ordine della strada, lo stato maggiore del governo di Napoli, lo stato maggiore dei militi nazionali di Napoli, un distaccamento delle guardie nazionali a cavallo, gli alabardieri, i battitori della cavalleria della guardia, le carrozze con la corte di Sua Maestà[40]. Dopo un distaccamento di cavalleria della guardia, incedeva pianamente fra gli applausi dei popolani — dice il Pepe nelle sue Memorie — senza entusiasmo[41] la carrozza del Re col principe ereditario. Immediatamente cavalcava allo sportello Guglielmo Pepe come generale in capo dell'esercito costituzionale. Chiudeva lo splendido corteggio reale uno squadrone di cavalleria della guardia, ed un distaccamento della guardia reale a piedi.
Una salva d'artiglieria annunziò il suo arrivo ed una commissione di deputati venne ad incontrarlo[42].
Il Re era assistito dal suo maggiordomo maggiore, dal capitano delle guardie, dal cavallerizzo maggiore e dal somigliere del corpo che stavano dietro la sedia del Sovrano. I ministri ed il generale comandante dell'esercito costituzionale e tutta l'assemblea era in piedi al suo arrivo. Seduto sul trono aveva alla destra il principe ereditario, ed il principe di Salerno e i Segretari di Stato lo circondavano. Alla sua destra era un tabouret, sul quale erano deposte la corona e lo scettro d'oro. Il presidente del parlamento era a mano destra del trono, ma dopo gli scalini e sul pavimento della sala; i segretarii dirimpetto al presidente di contro ad un piccolo tavolo sul quale era il libro degli Evangeli.
Il Re fece un cenno, il presidente si accostò col libro santo nelle mani ed il Sovrano stesa su di esso la destra pronunciò il giuramento mentre il segretario Berni leggeva la formola scritta, da noi ripetuta già poco innanzi. Le ultime parole erano appena pronunziate che furono ricoperte dalle grida di gioia del popolo[43]. Dopo, il cavaliere Galdi sorse quale presidente del nuovo Parlamento a parlare:
Sacra reale maestà.
L'eterne leggi con le quali la Provvidenza regola e compone l'ordine dell'Universo, la loro costanza e la loro apparente discordia stessa, considerate dall'uomo religioso non men che filosofo, e quindi ridotte a chiari teoremi ed a formole generali, costituiscono il codice delle verità di uso comune a tutti i popoli inciviliti.
Se al contemplator geologo faran meraviglia il cangiato aspetto delle isole e delle terre, i laghi, ed i mari disseccati, i nuovi continenti sorti dal seno delle onde, l'abbassamento delle montagne, le piante e gli animali totalmente spariti dalla superficie del globo, e quelli che vi si rinvengono di nuova creazione; non minor maraviglia recar debbono al filosofo politico le vicessitudini delle nazioni, delle monarchie, delle repubbliche ed i cangiati costumi, le cangiate leggi, ed i cangiati governi e la loro grandezza e decadenza le cause che le producono.
Quell'energica forza della natura che fa cambiare di continuo l'aspetto del mondo fisico, tende ancora di continuo a far lo stesso del mondo morale. Ma l'Autor del tutto sostiene da solo con l'onnipossente mano, e conserva la gran mole dell'Universo; ed affida all'uomo, ai monarchi, ai governi il conservar l'ordine morale e civile dei popoli; quindi solo all'uomo di squisiti sensi, di ragion penetrante, un raggio infuse dell'eterna luce, lo rese inclinato alla sociabilità, a riunirsi in famiglia, in città e quindi a comporsi uno Stato bene organizzato, onde gradatamente poi nacquero le grandi società ed i grandi Imperi.
Finché l'uomo seguí i dettami della ragione e della giustizia, di poche semplicissime leggi ebbero bisogno le società civili: non vi furono ostinate guerre e frequenti: i vecchi Patriarchi ressero il tutto e non trovarono nei loro figli e concittadini che obbedienza e rispetto. Ma sopraggiunsero le ricchezze e l'ambizione di dominio, crebbero i bisogni delle società, crebbero i delitti, e divennero necessarii complicati codici di legislazione. In mezzo a queste vicissitudini nacque la funesta discordia civile, mostro che ha mille diverse lingue, mille aspetti e sotto mendicati pretesti va divorando le popolazioni della terra. Si credé di poter rimediare a tanti mali con nuove leggi, ma spesso inefficaci, perché mal sostenute dai costumi; si ricorse alla viva forza, e si aberrò fra gli eccessi della tirannide e della demagogia.
Talvolta per accrescere la felicità dei popoli si affrettò la loro rovina, facendo pompa d'uno spirito esagerato d'innovazione e di perfettibilità; e dall'altra parte, credendosi tanti mali della società prodotti dal filosofismo, si gridò contro le scienze e gli scienziati e si corse verso la barbarie.
Per questi vizii caddero in rovina i piú fiorenti imperi, quando credeansi giunti all'apice della loro grandezza e perché dominati dalla superbia e dall'avarizia, mentre senza tali sforzi della politica astratta, e solo per qualche resto di virtú antica, si rivelarono vegeti e robusti quelli che credeansi prossimi al loro decadimento. Restava ed ancor resta a sciogliersi il gran problema di moderare l'orgoglio delle nazioni nella loro grandezza e prosperità e di rincorarne lo spirito abbattuto dall'oppressione e dalle ingiustizie; ma il dito solo della Provvidenza, coll'onorata scuola delle sventure poteva indicare ai monarchi ed alle nazioni, la stella polare che doveva salvarli dall'oceano dei mali.
Questa stella consisteva in una Costituzione saggia, moderata, figlia di maturo sapere e di matura esperienza. Questa dovea consistere in un patto sociale che sottraesse i popoli dalle violenze dei governi arbitrari, e i governi moderati dalle esagerate pretensioni dei popoli; in un patto voluto dall'utile universale, sanzionato dalla religione piú augusta, e che giungesse finalmente a comporre le due cose pria credute insociabili, la libertà ed il principato. Verso il declinare del passato secolo, le cose d'Europa giunsero a tale di esser divenuto necessario il ricomporre i patti sociali. Ma dov'erano i Re, padri amorosi dei popoli? E dove erano i popoli figli obbedienti dei Re? I rimedi ai quali si ricorse furon veleni per l'ordine sociale; fummo minacciati di nuova barbarie e delle tenebre di notte eterna. Ed ancora non poche nazioni vanno fluttuando nell'incertezza di loro sorte: non trovano il vero punto di equilibrio ove fissarsi e nol troveranno per lungo tempo, se la divina mano del Creatore non le ricompone in miglior ordine, come intorno al sole, per le leggi di gravità, stabilí le orbite dei pianeti nel dí che trasse il mondo dal caos.
In mezzo alle sventure universali di Europa, le ultime Spagne erano state vie maggiormente afflitte da tutti i mali, onde Iddio suol fare esperienza della costanza d'un popolo. Quasi soggiogate da un bellicoso, e fino a quel momento creduto invincibile esercito straniero; il commercio distrutto, le colonie ribellate, espugnati i baluardi della penisola, incenerita la marina, sbaragliato l'esercito, prigioniero il Re; quando alla voce della religione e dell'onor nazionale si rammentano gli Ispani esser discendenti dei Consalvi e dei Mendozza corrono alle armi, debellano il nemico, liberano dai suoi timori l'Europa, riconquistano le loro franchigie e riconquistano il loro Re; si formano una Costituzione che ha servito a noi di modello, e che non sarà inutil monumento di ragion politica alle nazioni dell'universo.
Signore, questa costituzione è figlia di lunga esperienza, e di quel che meglio dettarono i pubblicisti d'Europa dalla metà del passato secolo finora. Ella sembra aver colto il vero punto di riposo e di contatto fra i diritti dei popoli e le prerogative dei monarchi. Ella ha saputo distribuire ai figli l'avuta eredità, lasciando al padre una ragionevole latitudine nelle sue disposizioni, è lontana da tutti gli estremi viziosi che lasciano sempre nell'incertezza le sorti delle nazioni. Questa costituzione procede e s'innalza con una maestosa piramide, ne formano l'ampia e solida base la dichiarazione dei dritti e doveri dei cittadini; prosegue, nelle ben calcolale elezioni, assicurando una scelta di rappresentanti nazionali, cui presiede sempre la religione, assiste al piú ch'è possibile il voto universale, si allontanano i germi di corruzione, si apre la strada al merito, che si fa passare al vaglio di molteplici e severi esperimenti. Questa Costituzione estesa definisce e circoscrive i limiti del potere legislativo, quind'insensibilmente lo avvicina all'esecutivo per mezzo del Consiglio di Stato e dell'Alta corte di giustizia e pianta alla sommità dell'edifizio il Monarca in tutta la sua grandezza circondato dai suoi ministri e da tutto lo splendore e la forza del potere esecutivo: tutto è ordine e simmetria, tutto solidamente costrutto; non resta luogo di aggiungere né di togliere una pietra angolare del grande edifizio senza deturparlo o farlo cadere in rovina.
Qual'è durerà immoto ed indistruttibile come la gran piramide di Egitto che da quaranta secoli sfida il tempo e le stagioni, e rimarrà a sostenerne gli oltraggi per quaranta secoli ancora.
S. R. M. Signore, noi abbiamo giurata colle lagrime agli occhi e con religioso rispetto, questa Costituzione. Il popolo ha veduta la nostra commozione e le nostre lagrime. Vostra Maestà ancora ha giurato lo stesso, e 'l discendente e l'erede della religione di S. Luigi e delle virtú civili di Carlo III non giura invano.
Ecco stabilito tra il Re ed il suo popolo un nuovo patto sociale che assicura ad entrambi la loro quiete e la felicità avvenire. Iddio d'Israele non sdegnò spesso di pattuire col popolo eletto e perché lo sdegnerebbero i Re?
Con questo fatto è assicurata la grandezza vostra, la vostra gloria e le legittimità della vostra dinastia. Ella non riposa piú sulla volontà d'un solo, non su precarie alleanze straniere, ma su la volontà decisa di sette milioni di cittadini pronti a versare l'ultima stilla del loro sangue in difesa della religione degli Avi, della Patria e del Re.
Quell'adorabile famiglia che vi fiorisce d'intorno, come all'ombra del maestoso cedro del Libano crescono le sacre palme, quei rampolli del vostro a noi sí caro primogenito figlio, cresceranno anch'essi nelle avite e domestiche virtú: dalla M. V. apprenderanno ad imitare le virtú degli avi, gli arcani dei governi, la sana politica e la dura milizia. Uno ne crescerà certamente tra essi, che di unita alle arti di pace saprà coltivare quella della guerra.
Egli accoppierà al brillante coraggio ed all'alma intrepida di Francesco I e di Enrico IV, il saper militare del gran Condé; e se, tolga il cielo l'augurio, sarà chiamato a combattere, lo vedremo circondato dai bellicosi Marsi, di Dauni, da Sanniti, da tutti i popoli della Magna Grecia e della Trinacria alle frontiere del regno come l'Angelo del Signore con l'adamantina spada stava alla difesa del Paradiso terrestre.
Ora finalmente, accettata e giurata la nostra Costituzione, non sarà piú chimerica e sprecata invano nell'isola la forza che ebbero nelle armi i nostri avi, ed il risorgimento della marina; non piú inceppati i progressi dello spirito umano e dell'istruzione pubblica; non disordinato e dilapidato l'erario; non compromessa la dignità del Monarca e della nazione nelle politiche transazioni. Le pagine del Codice di Astrea rimarranno immuni da qualunque macchia e custodite da incorruttibili sacerdoti; e il potente braccio e la volontà della maestà vostra e le assidue e regolari cura del Parlamento nazionale assicureranno sí bel retaggio fino alla nostra piú remota paternità. Risorgeranno i Geleuci e gli Architi, gli Archimedi ed i Tulli onore delle nostre regioni e del genere umano: risorgeranno i bei monumenti dell'arte antica su questa terra felice, riuniremo in una sola epoca tutti gli onori, onde fummo presenti dal fiorire degli Italo-Greci ai tempi d'Augusto, e dal regno di Alfonso di Aragona a quelli di Carlo III.
Deh! tu onnipotente Iddio, arridi dal Cielo a sí felice augurio: conserva nel Re il padre e benefattore del popolo: conserva nel popolo la famiglia ed il baluardo del Re: conserva nel Parlamento nazionale il vigile custode delle nostre Istituzioni e delle nostre leggi, e fa che viva e regni per lunghi anni l'augusto nostro Ferdinando, sí che divenga il Nestore dei Monarchi Costituzionali[44].
Il re rispose brevemente cosí:
Gradisco sommamente i bei sentimenti e leali che il Parlamento per l'organo del suo presidente mi esprime e spero con la sua cooperazione vedere sempre piú felice e tranquilla questa Nazione che per tanti anni ho governato e governo.
Indi Ferdinando primo, preso il discorso d'apertura, lo porse al figlio Francesco, duca di Calabria che lesse:
Signori Deputati,
Incomincio dal render grazie a Dio che ha conservato la mia vecchiezza, circondandomi di lumi pe' miei amatissimi sudditi. In voi considero la nazione come una famiglia, della quale potrò conoscere i bisogni e soddisfare i voti. Non altro è stato mai il mio desiderio nel lungo regno che il Signore mi ha concesso se non di ricercare il bene e di seguirlo. Voi mi presterete d'ora innanzi la vostra mano nell'adempimento di questo sacro dovere: ed io raccogliendo dalla vostra propria voce i voti della nazione, sarò liberato dall'incertezza di doverli interpetrare. Per conseguire l'oggetto delle nostre comuni cure, io debbo richiamare la vostra attenzione alle importanti operazioni che vi sono commesse ed alle difficoltà che noi dobbiamo superare. Il conoscer queste sarà un eccitamento maggiore alla vostra saviezza ed alla vostra prudenza: ci farà acquistare anche la gloria, se avremo saputo trionfare degli ostacoli che ci presentano le circostanze dei tempi, e le conseguenze stesse delle stesse nostre passate vicende.
Voi siete in primo luogo incaricati dell'importante opera delle modificazioni da farsi alla Costituzione Spagnuola, onde adattarla al nostro bisogno. Molte delle nostre istituzioni sono compatibili con qualsivoglia ordine politico. Tali sono la divisione del nostro territorio, il sistema di pubblica amministrazione, ed il nostro ordine giudiziario. Io sono sicuro che il Parlamento valuterà sopratutto il bene di evitare il piú che è possibile i cangiamenti dell'ordine interno, e tutto quello in generale che la nostra stessa esperienza ci raccomanda.
Noi consolideremo la Costituzione, se la fonderemo sulle basi delle nostre antiche instituzioni e delle idee che ci sono familiari. Non intendo già che questa considerazione vi ritenga dal proporre quegli inevitabili cambiamenti che sono necessari a rendere solido, durevole ed utile alle generalità il nuovo ordine politico che oggi fondiamo. Il mio animo riposa tranquillo nella saviezza del Parlamento, che saprà scegliere il giusto mezzo tra la necessità e l'utilità.
Vi raccomando principalmente di assicurare l'ordine pubblico, senza del quale ogni sistema politico e civile resterebbe privo d'effetto. Voi saprete dar vigore al governo, la forza del quale si confonde con quella delle leggi, quando il suo andamento è da questa diretto. Custodite gelosamente le guarentigie individuali dei cittadini: non sottoponete le volontà particolari alla generale; e rivestite l'autorità che la rappresenta di tutti i mezzi necessari a farla rispettare. Questo è il primo carattere d'ogni governo civile e d'ogni nazione che voglia far rispettare la propria indipendenza.
L'inviolabile attaccamento che la nostra nazione ha dimostrato alla nostra cattolica religione, mi rende sicuro che il Parlamento ne custodirà la serietà, e conserverà con ciò il piú bel pregio della Costituzione. Noi non siamo mai stati persecutori delle idee altrui ed abbiamo sempre lasciato a Dio il giudizio della credenza degli altri. Il nostro suolo non è stato mai macchiato di persecuzioni religiose, anche nel tempo del fanatismo e dei pregiudizii. Ma i popoli che professano un'altra credenza, non hanno il diritto di contaminare neppure coll'esempio, la verità e severità della nostra dottrina. I doveri dell'ospitalità non possono essere maggiori di quelli che noi abbiamo verso noi stessi.
Stabilite felicemente, come spero, le basi del nostro ordine politico, ed invocata l'assistenza e la protezione del Signore Iddio a tutti i travagli dai quali dipendono i riordinamenti del Regno, noi potremo facilmente provvedere a tutti i nostri interni bisogni.
Io debbo prima d'ogni altra cosa manifestarvi la soddisfazione che provo nel vedere intorno a me i deputati dell'una e dell'altra Sicilia. Queste due parti della mia famiglia egualmente a me care, e da ciascuna delle quali ho ricevute prove d'attaccamento, non sono state giammai per me divise.
I disordini parziali non decidono della volontà né dello spirito d'una nazione. Io sono stato sempre persuaso che la Sicilia al di là del Faro non avrebbe mai smentito il nobile carattere che l'ha sempre distinta; e mi compiaccio che ella siasi affrettata a confermare col fatto la mia opinione. Da' lumi uniti di due popoli, ai quali la natura è stata prodiga dispensatrice d'ingegno e di generosi sentimenti, io non posso non ripromettermi misure, leggi e regolamenti tali, che assicurino con indissolubili legami di unità e di reciprocazione le rispettive loro facoltà.
Affinché voi possiate avere una esatta notizia della situazione del regno, io ho ordinato a tutti i miei segretari e ministri di Stato di presentare al piú presto che potranno, un rapporto dello stato di ciascun ramo. Lo stesso desiderio per quanto riguarda le sue operazioni, ho manifestato alla Giunta provvisoria di governo, che ha col suo consiglio assistito il mio amatissimo figliuolo e vicario, che ha sí bene corrisposto alla fiducia mia e della nazione.
Lo stato delle nostre relazioni coll'estero è dilicato, ma presenta difficoltà, a superar le quali, può forse essere bastevole la moderazione unita ad un contegno nobile e fermo.
La necessità di questo contegno vi persuaderà altresí de' sacrifizii che la nazione dee fare nel ramo delle finanze. Lo stato di queste non è solamente la conseguenza della nostra attuale posizione; ma anche delle circostanze nelle quali ci troviamo dopo l'anno 1815.
Voi vedrete dal rapporto del segretario di Stato ministro di questo ramo gli sforzi da me fatti, onde soddisfare a tutti gli straordinari bisogni e proporre alla nazione una stabile prosperità.
Le medesime circostanze hanno influito e influiscono attualmente nel dipartimento della guerra. La vostra saviezza vi guiderà naturalmente a distinguere lo stato momentaneo dal permanente, onde l'armata serve al suo scopo e non divenga onerosa alla nazione.
Le nostre milizie ci presentano una forza interna che non aggrava il tesoro e che è della piú grande utilità a mantenere l'ordine e la tranquillità delle persone.
Le stesse considerazioni vi si presenteranno per la nostra marina che noi dobbiamo principalmente rivolgere alla protezione del commercio marittimo ed alla difesa delle nostre coste.
L'interesse del nostro commercio politicamente calcolato, vi sarà presentato dal nostro segretario di Stato ministro degli affari interni. Formerà questo uno dei piú gravi ed importanti argomenti delle vostre deliberazioni.
Voi troverete preparate tutte le altre instituzioni delle quali dipende l'interna prosperità del regno. Io ho conservato dopo il 1815 tutte quelle che l'esperienza ed il voto nazionale indicavano come necessarie ed utili.
Raccomando alle vostre cure gli stabilimenti d'educazione, di beneficenza e di umanità, le prigioni, sopratutto, lo stato delle quali è ancora lontano da quello a cui avrei desiderato di portarle.
Il dipartimento della giustizia presso a poco è fondato sulle stesse basi che io avrei stabilite.
Io mi sono giovato dell'esempio e dell'esperienza ed ho adottato le leggi che mi sono sembrate le migliori; perché di niun'altra passione sono stato capace fuorché del bene dei miei popoli. Il mio ministro di grazia e giustizia vi proporrà i progetti necessari per perfezionare questo ramo importante. Se altri miglioramenti giudicherete necessari alla libertà delle persone ed alla sicurezza delle proprietà voi dovete esser persuasi che proponendoli, andrete sempre incontro al mio desiderio.
Quanto agli affari ecclesiastici l'ultimo concordato ha fatto sparire tutte le antiche controversie con la Corte romana. Per esso è stata restituita la calma alle coscienze. Sono stati ridotti i vescovadi, e si è preparata la dotazione ed il miglioramento del clero. Per ottenere quei vantaggi è stato d'uopo di convenire di molte transazioni. Io vi ho consentito, perché le ho riguardate come prerogative, alle quali non ho voluto sacrificare l'interesse principale de' miei popoli. Io sono persuaso che in tutte le future transazioni il Parlamento si farà sempre guidare dal rispetto dovuto alla Santa Sede e dalla necessità di stringere sempre piú le relazioni di amicizia che debbono essere fra due Stati vicini ed insieme legati per un comune interesse.
Dopo questa breve esposizione dello stato nostro, mi rimane solamente a dirvi che non permettendomi ancora le mie forze di riprendere tutte le cure del governo io continuerò per ora ad affidarle al mio amato figliuolo ed erede Duca di Calabria nella qualità di mio Vicario generale. Io sono stato compiaciuto del modo onde egli ha corrisposto alla mia ed alla vostra fiducia.
L'esperienza servirà a renderlo piú maturo nel governo ed a voi piú caro. Io avrò verso la Nazione il merito di avere, non solamente formato il suo cuore, ma di avergli altresí additati i mezzi di rendervi felici.
Signori deputati, niun momento nella storia della monarchia è stato piú importante di questo. L'Europa tutta ha gli occhi sopra di noi. L'Onnipotente che regge il destino di tutti i popoli ci ha messi nella posizione di acquistare con la moderazione e con la saviezza la stima di tutte le nazioni.
È nelle nostre mani di consolidare le nostre istituzioni ed il renderle stabili, durevoli e tali che producano la nostra prosperità.
Quanto a me, non farò che secondare il voto dei miei popoli, e sarò unito ad essi con quella medesima fiducia che hanno a me dimostrata. Io desidero di portare con me nella tomba la vostra riconoscenza, e meritare il solo elogio di aver sempre voluto la vostra felicità.
Dopo le parole del Re, il Duca di Calabria baciò ripetutamente la mano al padre ed aggiunse — dicono i contemporanei — abbastanza commosso:
Nell'atto che ringrazio a Voi, mio amato Padre e Sovrano, della bontà con la quale vi siete degnato di esprimervi benignamente a mio riguardo, vi assicuro che tutti i miei sforzi, sinché avrò vita, saranno diretti al vostro servizio al vantaggio della Nazione.
Il presidente Galdi riprese la parola per ringraziare il Re, ed infine il tenente generale Pepe fece la solenne rinunzia del comando in capo dell'esercito nazionale cui re Ferdinando rispose accettando[45].
Terminata la cerimonia, il Re col suo corteggio pomposo uscí di Chiesa per tornare al palazzo. Ma il cielo che nel mattino era sereno si fe' scuro e quando il Re giunse s'addensarono le nubi e piovve. I superstiziosi temettero, e ricordarono il fatto quando la Costituzione fu abolita nell'anno seguente[46].
La sera vi fu uno spettacolo gratis in tutti i teatri della capitale, gran pranzo di gala a corte, ed al massimo San Carlo si recò il principe ereditario con la moglie ed il principe di Salerno. Quella sera il duca di Calabria indossava la divisa di colonnello di fanteria della milizia nazionale ed il principe di Salerno quella degli usseri della guardia di sicurezza interna.
Nella seduta del 2 ottobre[47] furono formate le commissioni — oggi uffici — all'oggetto di facilitare l'andamento ed il disbrigo degli affari interni. Furono, dunque cosí costituiti:
I. Commissione. — Legislazione: Lauria Francesco. Scrugli Francesco, Saponara Felice, Arcovito Guglielmo, Catalani Vincenzo, Tafuri Michele, Pelliccia Alessio, Ceraldi Pasquale, De Cesare Innocenzio.
II. Guerra, marina ed affari esteri: Begani Alessandro, Giovanni Bausan, Rossi Francesco, Morici Domenico, Macchiaroli Rosario, Poerio Giuseppe, De Concilii Ernesto, Firrao Giuseppe cardinale, de Donato Tommaso.
III. Milizie provinciali, gendarmeria ed altro oggetto di pubblica sicurezza: Sponsa Diodato, Perugini Pietro Paolo, Borrelli Pasquale, De Piccolellis Mario, Coletti Decio, Melchiorre Paolo, Mazziotti Gerardo, Vivacqua Francesco, Corbi Carlo.
IV. Finanze: Matera Domenico, Ginestous Cesare, Gerardi Giuseppe, Incarnati Francesco Saverio, Paglione Gennaro Domenico, Pessolani Saverio Arcangelo, Losapio Giuseppe, Dragonetti Luigi.
V. Commercio, agricoltura, arti ed industria: Angelini Gian Fedele, Netti Raffaele, Coletti abate Michele, Giovane Giuseppe Maria, Jacuzio Francesco, Riolo Paolino, Lozzi Giovannantonio, Corbi Vincenzo, Caracciolo Gerardo.
VI. Istruzione pubblica: Petruccelli Francesco, Semmola Mariano, Strano Francesco, Sonni Domenico, Jannantuono Papiniano, Lepiane Vincenzo, Flamma Paolo, Buonsanto Vito, Desiderio Giuseppe.
VII. Esame e tutela della Costituzione: Delfico Melchiorre, Ricciardi Amodio, Nicolai Domenico, Galanti Luigi, Maruggi Giovanni, Cassini Domenico, Vasta Tommaso, Ruggero Petrantonio, Imbriani Matteo.
VIII. Amministrazione provinciale e comunale: Carlino Ippazio, Rondinelli Benedetto, De Oraziis Biagio, Brasile Saverio, Trigona Salvatore Giuseppe, Fantacone Giancarlo, Castagna Michelangelo, De Luca Antonio Maria, Mercogliano Antonio.
IX. Governo interno: Presidente, segretario Berni, De Filippis Carlo, Mazzone Liberatore, Orazio Giuseppe.
I deputati entrati in carica ottennero un diploma di nomina, muniti del suggello del Parlamento nazionale[48], di questo tenore:
Parlamento delle Due Sicilie.
Certifichiamo noi qui sottoscritti, presidente e segretari pro tempore del parlamento nazionale, qualmente il signor ..... è stato nominato deputato al Parlamento per la provincia di Napoli, e che i suoi poteri sono stati esaminati e trovati in regola.
In fede di che, ne abbiamo sottoscritto il presente. Tutti i poteri in originale sono nel nostro archivio.
Cosí fu aperto il Parlamento nazionale di Napoli che doveva tanto brevemente esistere.
PARTE SECONDA I DEPUTATI.
PARTE II
Quadro delle abitazioni dei Deputati al Parlamento Nazionale.
Matteo Galdi, strada Magnovacallo n. 88.
Tito Berni, salita S. Sebastiano n. 58.
Vincenzo Natali, strada di Chiaia n. 66.
Nazario Colaneri, strada portici S. Tommaso d'Aquino n. 20.
Ferdinando de Luca, strada S. Liborio n. 65, 1º piano.
Francesco Lauria, S. Potito palazzo Solimena.
Francesco Scrugli, strada Concezione a Montecalvario n. 10.
Felice Saponara, strada S. Potito n. 37, 3º piano.
Girolamo Arcovito, strada S. Matteo n. 34.
Vincenzo Catalano, largo S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone n. 7, 3º piano.
Michele Tafuri, largo p. Piccola Rosario di Palazzo n. 17.
Alessio Pelliccia, Materdei vico Cangi n. 6.
Pasquale Ceraldi, vico Bisi collegio dei Nobili N. 34.
Francesco Strano, Salita Trinità dei Spagnoli.
Paolino Riolo, Salita Trinità dei Spagnoli.
Innocenzi de Cesare, strada Foria.
Alessandro Begani, vico Trevaccari n. 4, 1º piano.
Giovanni Bausan,.....[49]
Francesco Rossi, strada Incoronata n. 24, 1º piano.
Rosario Macchiaroli, vico Chianche a Palazzo n. 3.
Domenico Mayer, strada S. Cristoforo all'Olivella N. 36.
Giuseppe Poerio, strada Materdei case proprie.
Lorenzo de Conciliis, nel monistero di S. Orsola a Chiaia.
Giuseppe Cardinale Firrao (sic), palazzo Avellino Anticaglia n. 4, 1º piano.
Tommaso Donato, strada di Chiaia n. 209.
Diodato Sponsa, strada Baglivo n. 68, 2º piano.
Pietro Paolo Perugini, strada Guantari n. 99, locanda Lombardia.
Pasquale Borrelli, strada nuova Monteoliveto n. 29, 1º piano.
Ottavio de Piccolellis, largo delle Pigne n. 152.
Gerardo Mazziotti, vico storto Sant'Agostino degli Scalzi n. 12.
Francesco Vivacqua, vico del Carminello n. 51, 3º piano.
Carlo Corbi, vico Baglivo n. 68, 2º piano.
Decio Coletti, strada Stella n. 103, 1º piano nobile.
Paolo Melchiorre, vico largo dell'Avvocato n. 35.
Domenico Matera, locanda dell'Incoronata.
Cesare Ginestous, largo del Castello n. 81.
Giuseppe Grimaldi, strada Nardones n. 14.
Francesco Saverio Incarnati, strada Baglivo Uries n. 13, 1º piano.
Tommaso Giordano, strada S. Liborio n. 65.
Giov. Domenico Paglione, Pallonetto S. Chiara n. 12, 2º piano.
Saverio Arcangelo Pessolani, sopra del Sacramento, vico delle Nocelle n. 87.
Giuseppe Losapio, strada Corsea n. 65.
Luigi Dragonetti, strada S. Mattia n. 88, 2º piano.
Giovan Felice Angelini, strada Nardones n. 95.
Raffaele Netti, strada Atri n. 3, 3º piano.
Michele Coletti, calata S. Tomaso d'Aquino n. 6.
Giuseppe Maria Giovene, Fontana Medina al palazzo Caravita.
Francesco Jacuzio, strada S. Liborio n. 65 3º piano.
Giovanni Antonio Lozzi, vico Afflitto n. 28, 3º piano.
Geraldo Caracciolo, strada Foria.
Vincenzo Comi, strada Guantai nuovi n. 46.
Francesco Petruccelli, calata principe di S. Severo n. 20, 2º piano.
Mariano Semmola, vico dei Giganti n. 44, 2º appartamento.
Domenico Sonni, strada nuova dei Pellegrini n. 4, 1º piano.
Papiniano Jannantuono, strada S. Liborio n. 65, 2º piano.
Vincenzo Lepiane, strada Vicaria n. 339, 1º piano.
Paolo Flamma, strada Chiaia n. 160.
Vito Buonsanti, dentro S. Domenico Soriano.
Giuseppe Desiderio, dirimpetto la porteria del Monistero del Consiglio n. 3.
Melchiorre Delfico, alle case del marchese de Turris dietro il palazzo di Gravina.
Amodio Ricciardi, palazzo Monteroduni, Ponte di Chiaia.
Domenico Nicolai, strada Nardones n. 66.
Luigi Galante, vico Santo Spirito n. 41, 3º piano.
Giovanni Maruggi, Magnocavallo 88, ultimo piano.
Domenico Cassini, Pallonetto S. Chiara n. 8.
Tommaso Vasta, al largo del Vescovado n. 31, a destra.
Petrantonio Ruggiero, Cisterna dell'olio case di Petagna, 2º piano.
Matteo Imbriani, Cisterna dell'olio n. 25, 3º piano.
Ippazio Carlino, strada Montesanto n. 17.
Benedetto Rondinelli, vicoletto 2 della Quercia n. 6.
Biagio de Horatiis, strada Foria ultimo piano in casa di Nicolini.
Liberante Mazzone, vico Tedeschi a Toledo sopra lo speciale S. Giorgio.
Saverio Basile, vicoletto Tedeschi a Toledo n. 4, 1º piano.
Salvadore Giuseppe Trigona, strada Nardones n. 14, 3º piano.
Giovanni Carlo Fantacone, vico Figurella a Montecalvario n. 10.
Michelangiolo Castagna, vico Cinquesanti n. 9, 2º piano.
Antonio Maria de Luca, largo delle Pigne n. 140.
Antonio Mercogliano, locanda villa di Parigi nel chiostro di S. Tommaso d'Aquino.
Carlo de Filippis, strada nuova Pizzofalcone n. 45.
Giuseppe Orazio, strada vico Gerolomini n. 11, palazzo duca della Castelluccia.
Ferdinando Visconti, S. Lucia a Mare n. 64, ultimo piano, a sinistra.
Colonello Pepe Gabriele, alla locanda dei Fiorentini.
Principe di Biscari, dirimpetto la villa.
Queste notizie desunte dai documenti dell'epoca mi parvero d'un certo interesse per la storia delle nostre provincie meridionali: epperò le riprodussi integralmente.
1ª Classe. Preti. — Buonsanti, Coletti (Michele), De Luca (Antonio), De Luca (Ferdinando), Desiderio, Fiamma, Galanti, Geraldi, Giovane, Jacuzio, Jannantuono, Lepiane. Pelliccia, Riolo, Rondinelli, Semola, Sonni, Strano, Vasta — 19.
2ª Classe. Proprietarii. — Basile, Corbo, Falletti, Fantacone, de Filippis, Giordani, Imbriani, Incarnati, Macchiaroli, Mazzone, Netti, Paglione, Rossi — 13.
3ª Classe. Magistrati. — Arcovito, Catalani, de Cesare, Coletti (Decio), Melchiorre, Orazi, Ricciardi, Saya, Saponara, Scrugli, Tafuri, Vivacqua — 12.
4ª Classe. Avvocati. — Angelini, Berni, Carlini, Cassini, Colaneri, de Horatiis, Lauria, Losapio, Mazziotti, Pessolani, Poerio, Ruggero — 12.
5ª Classe. Militari. — Bausan, Begani, de Conciliis, Morice, Pepe, Piccolellis, Perugini, Sponsa.
6ª Classe. Nobili. — Principe di Biscari, Caracciolo (dei duchi di Martina), Marchese Dragonetti, Grimaldi di Terrasana, Nicolai (marchese di Canneto), Cavalier Trigona — 6.
7ª Classe. Medici. — Castagna, Comi, Maruggi, Mercogliano, Petruccelli, Romeo — 6.
8ª Classe. Impiegati. — Borrelli, Donato, Matera, Natale — 4.
9ª Classe. Ritirati con pensioni. — Delfico, Galdi — 2.
10ª Classe. Negozianti. — Ginestous, Lozzi — 2.
11ª Classe. Cardinali. — Firrao — 1.
Estratto dal giornale «La Minerva Napoletana» ( 1º trimestre 1820, agosto, settembre, ottobre, pag. 332-333 )[50].
Dal prospetto dei deputati, si può agevolmente osservare:
1º Che il termine medio delle loro età esclude la prima gioventú, e non tocca l'estrema vecchiezza; donde può sperarsi senno e moderazione con robustezza e virilità;
2º Che manca affatto la tendenza verso l'oligarchia, pochi essendo coloro che appartengono alla 6ª classe; ove per liberalità di principi si distinguono eminentemente il marchese Dragonetti ed il marchese di Canneto;
3º Che lo spirito demagogico non può allettare persone, delle quali tutte può dirsi... quobus est pater, et equus et res;
4º Che gli impiegati attivi del governo sono sí rari, che, ove i loro conosciuti sentimenti non fossero cosí onorevoli come sono, non sarebbe da tenersi sopra di essi alcuna ministeriale influenza;
5º Che nel gran numero di magistrati, scelti dal popolo mentre vivevano in lontane provincia, si scorge una testimonianza lusinghiera pel corpo della magistratura e consolante per la Nazione;
6º Che nel maggior numero degli ecclesiastici si vede con piacere premiato il merito non ordinario di molti, fra i quali giova ricordare Galanti, Giovane, Pelliccia, Semola, Strano, pubblici professori di scienza e nomi cari alle lettere.
Né andranno privi di lode Buonsami e Coletti, educatori della gioventú. Gli ecclesiastici, inviati al Parlamento di Napoli, sono tali che saprebbero, nel bisogno, e difendere a prezzo della vita la patria religione, e rigettar qualunque misura contraria alla dignità ed agli interessi corporali della monarchia, fosse ancor la misura piú favorevole al loro ordine sacerdotale.
Ma alcuni di questi e non per colpa dei vescovi, si mostrarono tiepidi per la causa della libertà costituzionale.
Nelle Provincie dell'Aquila, di Chieti, i preti — si dolgono alcuni — non predicano abbastanza i doveri, che questa impone, ed i vantaggi che ne risultano; e si fanno volentieri a seguire i grandi esempii, che somministra loro il rimanente del clero. Il potere esecutivo non deve tralasciare di porvi ordine e di far conoscere i nomi di quelli, che si distinguono pel loro zelo, e per la loro virtú, come il parroco d'Orazii;
7º Il numero degli avvocati, il quale ad alcuni sembra soverchio, può non credersi tale, se si riflette, che in questo ordine si restringeva pochi anni fa tutto il sapere civile della Nazione; e che in esso anche il talento poteva incontrar la fortuna, al patto, non rade volte, di rinunciare ai sentimenti piú generosi.
Quindi le osservazioni sul numero degli avvocati nel Parlamento non cadono sulle loro persone; ma sopra alcune memorie appartenenti alla loro classe, alle quali essi recano una felice eccezione.
Si desidera che l'eloquenza parlamentaria faccia dimenticar la forense[51]. Questa non saprebbe che oscurare l'evidenza delle cose, corrompere il dritto sentire, e sostituire lunghe parole alle forme amabili e severe della libertà.
Le biografie che seguono sono tratte dai protocolli di Polizia e dell'Interno del grande archivio di Stato di Napoli, dal giornale la «Minerva» del 1820-21, dall'«Omnibus» politico e dal «Pittoresco» diretti dal nap. Vincenzo Torelli e dagli elogi funebri recitati nelle varie occasioni di morte di quelli che appartennero al Parlamento del 1820.
Dei seguenti deputati non ho notizie — per quante ricerche io abbia fatte — e quelle poche che ho, non bastano, quantunque io abbia fatto inutile appello, nelle provincie meridionali, ai loro discendenti.
Angelini Giovan Felice — Basile Saverio — Carlino Ippazio — Castagna Michelangelo — Cassini Domenico — De Cesare Innocenzo — Comi Vincenzo — Coletta Michele — Conti Carlo — Giordano Tommaso — Jannantonio Papiniano — Losapio Giuseppe — Lozzi Antonio — Orazio Giuseppe — Paglione Giovan Domenico — Petruccelli Francesco — Rossi Francesco — Strano Francesco.
* * *
Arcovito Girolamo[52]. — Fu uno dei difensori di Vigliena nel 1799. Era nato nel 1771 in Reggio Calabria da Natale e da Teresa Ranieri. Fu chierico, ma gettata la sottana, si diede agli studi di legge in Napoli. Nel 1796, fu nominato capo-cantone in Calabria. Dopo i fatti del '99, chiuso in prigione e dannato a morte, fu invece mandato nel castello d'Ischia[53] e godé dell'indulto del 1801 e si laureò avvocato nel 1803. Dai Francesi fu fatto commissario delle colonne destinate alla repressione del brigantaggio, poi giudice, quindi presidente di G. C. Criminale. Tornati i Borboni restò in carica. Nel 1820 fu deputato operoso, e combattette la partenza del re per Lubiana. Nel 1821 fu presidente della Camera e firmò la nobile protesta, nel momento stesso che gli Austriaci entravano in Napoli.
Nella reazione perdette il posto di magistrato e fu latitante fino al 1825, anno in cui fu amnistiato; ma esiliato fino al 1829 in Salerno.
Morí il 1º dicembre 1847. Fu marito d'una Musitano e lasciò erede il figlio adottivo Natale Musitano.
Begani Alessandro. — Il nome del difensore di Gaeta è stato già raccolto dalla Storia e la sua vita va tra quelle dei piú strenui generali italiani.
Nacque in Napoli ai 20 giugno 1770 ed ebbe l'educazione nel nostro collegio militare che fu il vivaio di quanti, da piú d'un secolo, portano alta la divisa dell'esercito. Ne uscí per secondare la sua indole che lo chiamava alle armi, e cominciò la carriera come uffiziale di artiglieria. L'impresa di Tolone fu la sua prima campagna. Ma, quando ne tornò al 1794, ebbe a pagare in dura prigionia il culto che egli rendeva lealmente alle istituzioni liberali. Compreso nel numero dei patriotti fuorusciti napoletani che trovarono asilo in Francia, militò in quell'esercito partecipando con onore alle guerre d'Italia e prese parte anche alla famosa spedizione che si preparava sulle spiaggie della Manica per l'Inghilterra.
Reduce in Napoli nel 1806, percorse rapidamente i gradi militari superiori sino a quello di maresciallo di campo e prese parte in tutti i combattimenti del decennio[54].
Nel 1815 gli venne affidata la difesa della prima cittadella del regno di Napoli: Gaeta[55].
Il 31 maggio se ne chiusero le porte; l'8 di agosto fu resa non a quei che l'assediavano..... ma al Re.
Cosí furono salve per la nazione l'artiglierie e munizioni ivi abbondantemente raccolte, e Gaeta non ebbe a seguire la sorte di Ancona e di Pescara spogliate e mezzo demolite dai Tedeschi che in quell'epoca stessa le occuparono senza espugnarle.
Begani, vittima della bassa vendetta austriaca, ebbe l'esilio in premio della sua bella difesa. Privato d'ogni stipendio, dovette alla spontanea magnanimità del Re un sussidio che piacque alla... voracità del de Medici, risecare ancora d'un decimo!
Il principe Vicario non tardò a richiamarlo nella patria, dalla Corsica, ove egli viveva dimenticato, e lo nominò ispettore generale d'artiglieria. I suoi concittadini lo compresero nella deputazione di Napoli.
Il tenente colonnello Vinci che diresse i lavori della difesa di Gaeta ne pubblicò anche il giornale d'assedio.
Berni Tito. — Nacque nel 1788 da Federico Berni ferrarese e da Camilla Sagarriga in Bitonto (Terra di Bari). Passata la prima giovinezza nella sua patria, ed appresevi le prime istituzioni letterarie, fu menato in Napoli ad erudirsi nella giurisprudenza sotto il chiarissimo professore Nicola Valletta. Benché dedito al Foro, ei si piacque sempre degli studi classici nei quali si distinse, meritando di appartenere a molte accademie, ed alla Sebezia[56] di cui fu per parecchi anni segretario.
D'ingenuo carattere e d'incorrotti costumi, fu chiamato alla deputazione quasi conformato sul modello d'un rappresentante che egli stesso aveva ritratto in un suo giornale: l' Indipendente. Molte sue poesie sono sparse in piccole raccolte per nozze; e la stamperia della Biblioteca analitica nel 1819-21 cominciò a pubblicare due volumi di traduzioni sue dal latino e dal greco, sotto altro nome.
Biscari ( principe di ). — Nacque a Catania nel 1779. Nel 1820 seppe con la voce e col danaro contribuire alla tranquillità di quella terra di cui fu eletto deputato al Parlamento. Da quel tempo rimase sempre in Napoli, dandosi tutto all'archeologia, passione ereditata dal padre, menando vita ritirata e solitaria. Grandemente ricco, spese immense somme nell'acquisto di oggetti antichi e pietre preziose, nella conoscenza delle quali era cosí dotto da stare molto innanzi ai piú saputi nell'arte.
Aveva tale copia di oggetti che patí un furto di oltre dugentomila ducati senza alterare le collezioni. Veramente tutto fu — in breve tempo — riacquistato, mercé la sagacia del commissario di polizia Portalupi. Tra le gioie rubate erano quattordici grossi bottoni formati ciascuno da un rubino, da uno smeraldo e da un diamante l'uno nell'altro incastrati, straordinario lavoro, e un filo di cinquanta bellissimi diamanti ciascuno di venti grani.
La biblioteca ed il museo passarono, poi, in eredità al fratello. Morí nel 1844 (6 maggio). Passò la maggior parte della sua vita sempre seduto, circondato da antiquari, orafi e gioiellieri, da quanti oggetti d'arte che d'ogni specie possono immaginarsi, da libri, da pappagalli e da animali non comuni di cui era appassionatissimo[57].
Infermo di grave malore, non ricorse ai medici che molto tardi. Il principe di Biscari non credeva alla medicina: e pure aveva tanta fede nell'... archeologia!
Bausan Giovanni. — Nacque a Gaeta il 14 aprile 1757 da Giuseppe, tenente generale nell'esercito napoletano e da Rosa Pinto y Fonseca.
Fu ammesso a dieci anni nella regia accademia di marina di Napoli[58].
Dal marzo al settembre 1774, e dal giugno all'ottobre 1785 navigò sulla galera padrona e nel luglio seguente sulla fregata Santa Amalia, sulla galera San Germano e sulle fregate Santa Dorotea e Santa Chiara.
Serví sulle navi inglesi dove fu inviato con altri dal ministro Acton; nel 1782 combatté al fianco dell'ammiraglio Rodney, e nell'infruttuosa spedizione contro Algeri del 1774, Bausan comandò lo sciabecco Robusto e riportò una ferita nella coscia.
Nel 1788 combattette contro i barbareschi.
Nel 1798, alla fuga del re Ferdinando IV da Napoli, il Bausan trovavasi a Palermo colla corvetta Aurora per caricarvi armi.
Durante la repubblica partenopea stette col Caracciolo e dopo, promosso capitano di vascello, fu imprigionato ed esiliato in Francia.
Coi Francesi tornò in Napoli e fu preposto al supremo comando delle forze navali.
Vinse gli Inglesi ai 24 e 25 giugno 1809[59] e fu nominato barone da Gioacchino Murat con una donazione di 10,000 ducati in beni.
Negli anni 1812-13-14 tenne il comando della flottiglia leggera e dei vascelli Capri, Gioacchino, e della fregata Letizia.
Alla restaurazione del 1816 fu riformato e nominato giudice e presidente in diversi consessi di guerra e della marina.
Nel luglio 1820, scoppiati i moti di Sicilia, fu richiamato in attività di servizio.
Morí nel 1825; le sue ossa, trasportate nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, non ebbero onore di marmi.
Borrelli Pasquale. — Nacque a Tornareccio (Chieti) nel 1782 da Gaudenzio, dotto medico, e Concetta d'Antonio.
Ebbe la prima educazione in seminario, e nel 1796 fu avviato nel collegio di Chieti per apprendervi le matematiche e la filosofia. Nel 1798 tornossene a Napoli, dove volle addirsi alla medicina. Studiò presso Onorato Ricci, presso il Guidi, fisico, e medicina col Macry e nello stesso anno pubblicò per le stampe: Euricipia zooanosiae[60].
Compiuti appena gli studi di medicina, e divulgatosi il nome del Borrelli nella capitale, si vide tosto circondato da folto stuolo di giovani che lui volevano maestro nelle scienze mediche. E il Borrelli di buon grado secondò quelle istanze, insegnando, in una cattedra dell'ospedale di San Giacomo, la materia medica. Volgendo intanto l'anno 1805, gli amici lo persuasero ad entrare nel foro, dove la sua eloquenza avrebbe trovato un campo piú esteso, poiché prima prerogativa di lui era il parlare facondo e spontaneo. Epperò — tralasciati gli studi di medicina — divenne in breve tempo peritissimo in legge e nel mestiere d'avvocato salí in gran fama non solo in Napoli, ma in tutto il regno.
Amò nel 1807 passionatamente Rosina Scotti, bella e colta fanciulla, che immaturamente morí nell'età di ventuno anni. (Vedi Vincenzo Fontanarosa: Una congiura a Napoli nel 1807 ).
Fu inconsolabile il Borrelli di tale perdita e scrisse versi teneri e pietosi, bellissimi. Da quell'epoca egli lasciò il foro per tornare ancora una volta alla scienza ed alle lettere.
Sul finire di quell'anno vennero in luce i suoi Principii di zoaritmia. Guidato dai risultamenti di vari trovati algebrici, egli spiega in quest'opera — mercé una tavola numerica — i fenomeni principali della vita sana e della inferma; e benché, sí la zoognosia, che la zoaritmia partono dal sistema di Brown, tuttavia sono sparse d'idee originali e vere.
Nel 1809 comincia la vita pubblica di Pasquale Borrelli, perché fu eletto segretario generale della commissione feudale e quindi della prefettura di polizia. Nel quale impiego spiegò carattere di benignità verso i perseguitati e di liberalità verso i suoi subalterni; e si distinse sopra tutto per la eleganza di che faceva uso nella direzione degli atti amministrativi.
Nel 1811, la biblioteca analitica di scienze e belle arti pubblicò una sua prolusione sui poemi di Ossian. La quale, essendo ricca di pensieri originali e nuovi, fruttò bellissima lode all'autore di eruditissimo letterato, nella stessa guisa che da tutti era riputato valentissimo nelle severe filosofiche discipline.
Le sue cognizioni gli valsero la magistratura nel 1813, ed essendo giudice di appello, non sapremmo descrivere come fosse stato attivo, diligente ed accorto nel disimpegno del suo ministero.
Cambiato l'ordine del governo, tornò uomo privato.
Le piú stimabili e ragguardevoli persone della capitale lo visitarono; numerosa clientela ridomandò il suo patrocinio; fu accolto nel foro con una specie di trionfo e le sue arringhe, appena pronunciate, erano pubblicamente applaudite; e d'allora fu gridato sommo e profondo giureconsulto.
Nelle vicende del 1820 e 1821 lo Stato, la provincia e il Parlamento ebbero bisogno di lui. Sicchè lo Stato lo elesse presidente di pubblica sicurezza, la provincia suo deputato ed il Parlamento suo presidente. Sulla sua condotta molto si è detto non che scritto con varietà di giudizio e di passioni, ma noi parleremo, in altro lavoro, piú a lungo e meglio di lui.
Caduta la costituzione, andò in esilio a Gratz e vi stette tredici mesi, cinque a Baden e Vienna, e circa un anno e mezzo in Toscana.
Intorno a quest'epoca scrisse il suo corso filosofico, del quale fin dall'età di 18 anni aveva tracciate le linee generali. Pe' tipi di Lugano, venne pubblicata la sua introduzione alla filosofia del pensiero, sotto il nome anagrammatico di Pirro Lellabasque.
Dal 1825 al 1840 pubblicò le seguenti opere:
— I principii della scienza etimologica che coopera al gran Dizionario della lingua italiana pel ramo dell'etimologia. — Anno 1830.
L'anticholera. Osservazioni famigliari sul cholera di Napoli, sui vermi tricocefali rinvenuti nei cadaveri dei colerosi.
Il calendario dei principi, del quale venne in luce un solo semestre. — Anno 1829.
La memoria letta all'Accademia delle scienze sullo stato fisico e morale degli uomini allevati senza l'uso della parola. — Anno 1832.
Altra memoria letta alla Pontaniana su la guerra considerata nelle sue relazioni morali. — Anno 1839.
Gli elogi del chiar. cavaliere Giampaolo e del presidente Amadio Ricciardi.
Le note alla vita delle donne illustri della signora d'Abrantes.
Poche note alla medicina forense di Giovanpietro Frank.
Articoli di giornali.
Nella biblioteca analitica di sciente e belle arti è una novella lepidissima dal titolo: Breve storia morale-enciclopedico-sacro-profana, che va dalla creazione del mondo al 4 ottobre 1809, dedicata all'impareggiabile merito di chi vorrà lamentarsene.
Trentatré volumi di allegazioni forensi. Di queste memorie trovansi gli originali in Firenze, Bologna, Milano, Malta e Palermo.
Nel 1801 fu nominato membro dell'accademia italiana, nel 1832 socio ordinario dell'accademia delle scienze di Napoli, nel 1839 socio dell'istituto storico di Francia e della Pontaniana di cui fu presidente dall'anno 1840.
Morí nel 1849: ne scrisse l'elogio Ferdinando De Luca, negli atti dell'Accademia.
Buonsanto Vito[61]. — Nacque in San Vito di terra d'Otranto ai 22 giugno 1762 da Oronzio Buonsanto, ricco mercante e da Lucia Prina.
Vestí nella sua patria l'abito dei frati predicatori e, conseguiti gli ordini ecclesiastici superiori, pervenne ad essere Padre Maestro di teologia. Negli ultimi anni del secolo per scampare a persecuzioni popolari se ne venne a Napoli dove prese stanza nel convento di San Domenico Maggiore (1808), e, soppressi gli ordini religiosi, il Buonsanto si ritrovò in mezzo alla vita del mondo. Morí ai 29 maggio 1850.
Di lui abbiamo:
— L'Istruzione morale, o metodo facile per istruire i fanciulli nella lettura e negli elementi della storia cristiana, arricchito di 40 figure ecc.
Il catechismo di grammatica italiana.
Gli elementi di grammatica italiana generale.
La guida grammaticale della lingua italiana.
La lessigrafia latina. L'etimologia e la sintassi della lingua latina.
L'antologia latina.
La seconda categoria delle sue opere riguardo lo studio elementare dalla matematica, della geografia e della storia:
— Gli elementi d'aritmetica.
Introduzione alla geografia antica e moderna delle Due Sicilie.
Introduzione alla storia antica e moderna del regno di Napoli.
Gli elementi della storia cristiana.
La morte lo colse quando attendeva alla composizione di un dizionario di frasi e di modi scelti di lingua ad uso delle scuole.
Caracciolo Gherardo. — De' duchi di Martina: ebbe Vietri per patria. La sua prima carriera fu la militare. Serví prima nella cavalleria dell'esercito di linea, indi passò col grado di colonnello nelle milizie provinciali. Colto nella scienza agraria, si ritirò dalla vita pubblica per attendere nella rustica sua solitudine alle arti di Cerere e Minerva. La agricoltura e la pastorizia ebbero in lui un illuminato ed appassionato cultore. La conoscenza che si aveva del suo caldo patriottismo il fe' ricercare nella solitudine dei suoi ozii campestri per essere inviato a rappresentare la provincia ov'ebbe la culla. Era cinquantenne nel 1820.
Concilii (de) Lorenzo[62]. — Nacque ai 6 di luglio 1776 in Avellino da Donato e Maddalena Genovese. Ebbe i primi rudimenti di lettere da Ignazio Falconieri. Fu volontario nel reggimento Principe cavalleria ( i diavoli bianchi ) ai 24 d'agosto 1794 e fece la campagna di Lombardia.
Ecco senz'altro il suo stato di servizio:
— Cadetto, nello stesso reggimento 1796; primo tenente nel reggimento di cavalleria Principe Leopoldo ai 27 dicembre 1798; primo tenente reintegrato nella cavalleria urbana ai 6 aprile 1801 (campagna di Roma), capitano nel secondo leggiero 30 giugno 1806, nei veliti a piedi 12 dicembre 1808; nei veliti a cavallo 19 maggio 1809. Capo-squadrone nel terzo cavalleggieri 22 febbraio 1812; tenente colonnello in Re cavalleria agli 8 d'ottobre 1816; colonnello nel secondo dragoni 14 d'ottobre 1820. Fu sospeso al 1º agosto dell'anno seguente.
Fu colonnello della guardia nazionale al 6 maggio 1848; maggior generale al 1860, promosso tenente generale e collocato a riposo al 1º novembre 1861.
Vittorio Emmanuele II lo insigní della commenda dei Ss. Maurizio e Lazzaro.
Morí in Avellino al 1º d'ottobre del 1866, novantenne.
Ceraldi Pasquale[63] — Successore del Claresi nella rettorica del collegio cosentino nel novembre 1813 era rampollo di famiglia nobile di Fuscaldo. Abbracciata la carriera ecclesiastica, nel seminario di Napoli approfondí ed estese i suoi studi. Poscia attese sotto il Cavallari alla scienza legale e gli venne conferita la laurea dottorale. Montagna Francone vescovo di Cosenza, richiamandolo dalla capitale, nominollo professore di filosofia nel seminario. Per insinuazione del Lombardi e del cav. Michele Bombini segretario perpetuo dell'Accademia cosentina e per le autorevoli preghiere dell'intendente Flach, fu fatto rettore dell'Ateneo di Cosenza.
Nel 1820 fu eletto fra i deputati.
Catalano Vincenzo[64]. — Nacque il 26 gennaio del 1769 a Fiumara in provincia di Reggio-Calabria da Antonio e Maria Cutellé. S'ebbe a maestri in Napoli Longano e Conforti. Esiliato pei fatti del '99, ebbe cattedra di diritto a Marsiglia e di lingua italiana in quel liceo. Tornato nel regno tu promosso giudice d'appello in Lanciano ed alla restaurazione del 1815 presidente di G. C. Criminale. Ma l'ingegno versato piú nel diritto civile gli fece chiedere ed ottenere di far parte della G. C. Civile degli Abruzzi.
Fu poi procuratore generale a Catania e nel 1820 consigliere di Corte suprema a Catanzaro. Nel ventuno rinunziò a tutto e volle dedicarsi esclusivamente all'avvocheria.
Come giureconsulto dettò eruditissime memorie Sulle quistioni transitorie per la legittima dovuta ai figli sulle donazioni pie delle nuove LL.: quando la successione si fosse aperta sotto l'impero delle novelle.
È notevole di lui la raccolta delle decisioni della G. C. Civile degli Abruzzi.
Morí ai 23 di agosto 1843.
Coletti Decio. — Nato in Cisterna il 21 settembre 1753 fu educato nel seminario di Caiazzo, ove apprese le lingue dotte e le lettere; e quindi nel collegio di Capua, in cui venne ammaestrato nella filosofia e nelle matematiche. Compito il corso della giurisprudenza presso il professore Fighera, attese all'avvocheria. Nel 1799 però fu commissario del potere esecutivo a Capua, indi rappresentante del popolo nella Commissione legislativa.
Esiliato in Francia, passò dopo alcuni mesi in Torino, e quivi divenne segretario-archivista nel tribunale della salute. Il suo merito non tardò ad essere conosciuto e quantunque straniero fu nominato primo professore di matematiche in quelle pubbliche scuole; e di umane lettere nelle altre di Carignano.
L'accademia di storia e belle arti di Torino l'ascrisse tra i suoi membri ordinari. Di là potè nel 1806 restituirsi nella terra nativa: ma il governo di allora togliendolo alla sua solitudine lo promosse tre anni dopo a procuratore generale sostituto presso la Corte di appello di Altamura, della quale poi tenne la presidenza dal 1810 al 1817, quando coi semplici onori di presidente passò giudice nella gran corte civile di Trani.
Di là lo trassero i voti della provincia. Avvocato e matematico, poeta e magistrato seppe insieme conciliare le facoltà che sembrano tra loro piú insociabili.
Delfico Melchiorre[65]. — Nacque il 1º d'agosto 1744 in Leognano, castello baronale, da Bernardo e Margherita Civico, scampati all'invasione tedesca.
Fu nominato alfiere appena nato da Carlo III.
Fanciullo, fu inviato coi fratelli a Napoli, dove fu alunno del Genovesi e scrisse in favore del diritto sovrano riguardo ai limiti dello Stato vicino, incaricatone da don Ferdinando de Leon allora avvocato della Corona.
Trovossi in Napoli nel 1779 presente all'eruzione del Vesuvio e vi tornava nel 1782.
L'anno seguente scrisse una memoria sui risi e fu nominato assessore militare del tribunale di milizia della provincia di Teramo (20 giugno 1783).
Nel 1785 era nuovamente nella capitale. Scrisse nel 1787 una memoria sui regî stucchi o sia sulla servitú dei pascoli invernali nelle provincie marittime degli Abruzzi.
L'anno seguente diede pubblicità ad un'altra memoria sul tavoliere di Puglia, ed un'altra sui pesi e le misure del regno.
Nell'anno 1790 pubblicò delle riflessioni sulla vendita dei feudi devoluti con una lettera dedicatoria, e pubblicata poi a parte, al duca di Cantalupo sullo stesso argomento.
Nel 1791 diede alla luce le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, libro stampato a Firenze e per la terza volta a Napoli nel 1815. Nel 1757 Ferdinando IV lo decorò delle insegne di cavaliere dell'ordine Costantiniano. Fu ascritto alla cittadinanza di San Marino e ne scrisse le Memorie storiche.
Dettò in Firenze i pensieri sull' Incertezza e sull'inutilità della storia che parve ardimento grande.
Nel 1816 fece parte del Consiglio di Stato del regno di Napoli e si ha la stampa d'una sua memoria del 1809 sul sistema giudiziario che si riformava. Due anni prima era stato ascritto tra i primi soci dell'accademia Ercolanese rinata a vita novella e vi lesse parecchi lavori che per brevità omettiamo.
Restaurati i Borboni nel 1815, rimase presidente della Commissione generale degli archivii e diè in luce le Nuove ricerche sul bello, ed ebbe assegnata l'annua pensione di 507 ducati con un'indennità di duc. 900 pel soldo che aveva di consigliere di Stato.
Nel venti fu deputato, presidente della giunta provvisoria di governo. Tradita la costituzione, colse il pretesto della sua età e degli acciacchi per ritirarsi in patria.
Altre lettere e memorie pubblicò durante la sua ultima e lunga dimora in Teramo fra le quali è degno di nota il Saggio filosofico sulla storia del genere umano.
Colpito d'apoplessia ai 26 di maggio del 1830, dopo venticinque giorni di malattia morí ai 21 del giugno seguente.
Desiderio Giuseppe[66]. — Non abbiamo precise notizie sulla nascita del Desiderio; sappiamo solo, che, adolescente, fu chiuso nel seminario di S. Agata in Sant'Agata dei Goti e, presi gli ordini superiori se ne venne in Napoli. Quivi, all'università, ebbe diploma di diritto civile e canonico, e, promosso al vescovado monsignor Pezzuoli lo volle seco come maestro nel patrio seminario. Fu subito promosso canonico e, nel 1814 primicerio cantore e poco dopo arcidiacono. Rinunziò al vescovado a Napoli ed a Roma; nel 1820 fu deputato fra i preti. Morí il 1º settembre del 1836, in patria.
Donato Tommaso.[67] — Nel 1793 fu ufficiale maggiore nelle poste di Basilicata e di Melfi, e quando il governo rivoluzionario sei anni dopo lo chiamava direttore generale di quelle di Napoli, si dimise. Uscí di Napoli e visse in Toscana e quindi a Marsiglia.
Quivi fondò una casa di commercio, la quale durò solo quattro anni per le comunicazioni interrotte con la Sicilia dagli inglesi che l'avevano occupata.
Recossi allora a Parigi ove fu ammirato dagli artisti dai quali ottenne ogni suffragio per le estese conoscenze che mostrò in fatto di pittura. Tornato in patria, gli si affidò il segretariato della camera di commercio novellamente istituita. Dopo qualchetempo, durante il regno di Murat, il duca di Gallo, ministro degli affari esteri, lo chiamò a sé dandogli il carico dei consolati e del commercio.
Nel 1816 fu creato direttore del porto franco di Messina e nel 1843 gli onori ed il soldo di amministratore delle dogane.
Morí in patria, ai 12 d'ottobre 1844.
Fantacone Giovan Carlo. — Nel 1775 nacque in Roccaguglielma; fu educato in Napoli nel collegio di Caravaggio [ Barnabiti ] e si dedicò al fôro.
Ritornato nella sua patria fu piú volte eletto a consigliere provinciale ed a deputato delle opere pubbliche. Era uno dei piú ricchi proprietari di Terra di Lavoro.
Filippis (de) Carlo. — Nato in Serino nel 15 maggio 1773, fu educato nelle umane lettere da Ignazio Falconieri, morto sulle forche del 1799[68].
Intraprese la carriera amministrativa e fu consigliere dell'intendenza di Basilicata; fece parte della deputazione di principato Ultra.
Firrao Giuseppe, cardinale vescovo di Petra. — Nacque ai 20 di luglio 1736 da Pietro Firrao principe di Luzzi e da Livia Gallo dei duchi di Mondragone, in Fagnano, feudo di casa sua. Ebbe la prima educazione nel collegio Clementino di Roma, sotto la scorta dello zio paterno anche cardinale e segretario di Stato presso la suprema curia romana.
A vent'anni, il N. fu prescelto a recare la rosa d'oro al doge di Venezia ed un anno dopo fu nominato da Benedetto XIV vice-legato in Romagna.
Nel 1791 fu da Pio VI consacrato arcivescovo di Petra, fu inviato nunzio apostolico a Venezia, carica che onorevolmente copri per 13 anni; indi fu segretario a Roma della Congregazione dei vescovi e regolari.
Pio VII lo creò cardinale; ed a Napoli, durante il periodo francese del decennio, fu grande elemosiniere di Corte e ben voluto da Carolina Annunziata, sorella di Napoleone e dal re Gioacchino Murat[69].
Morí in Napoli ai 24 di gennaio del 1830 e ne recitò l'elogio il canonico Ciampitti dell'Università.
Flamma Paolo. — Nacque ai 17 gennaio del 1753 in Messina da Gaetano Flamma, dottore in medicina del reggimento svizzero Wirtz e da Marianna Giurlando.
Volle darsi al sacerdozio e se ne venne colla madre, passata a seconde nozze con tale Bartolommeo Masnada, a Napoli, dove vestí l'abito monastico agli 11 settembre 1773. Nel 1795 dimise l'abito e restò prete secolare. Fra le sue carte, dopo la morte, non si trovarono che pochi suoi manoscritti scolastici, alcuni brevissimi rudimenti di metrica italiana, di mitologia, di logica e diritto naturale.
Fu, in Parlamento, accanitamente avverso al mutamento di nomi delle provincie del regno. Morí nel novembre dell'anno 1836.
Galanti Luigi[70]. — Fu l'ultimo dei dodici figli di Giambattista ed Agata Musacchi e nacque il 1º di gennaio del 1765 in Santacroce del Sannio. Ebbe la prima educazione nel convento di Montevergine, dove a 12 anni quei cenobiti ne erano ammirati. Nel 1777 ne vestí l'abito, nel 1781 fece la sua professione di fede monastica e partí per Roma a proseguire i suoi studi.
Fu geografo e storico scrupoloso e rimasero di lui opere insigni.
Nel 1801 fu elevato da papa Pio VII alla dignità di abate benedettino. Nel 1806 fu nominato professore di geografia nella regia università degli studi, revisore di libri esteri e membro della commissione creata per il restauro della pubblica istruzione.
Nel 1811 fu professore di storia e di belle lettere sublimi nel reale istituto politecnico militare e membro del consiglio di perfezionamento.
Fu rappresentante del Sannio al Parlamento del 1820, e consacrò l'onorario di 180 ducati ai veterani ed alle vedove dei soldati morti in battaglia.
Morí in patria nel 1836.
Galdi Matteo. — Fu cavaliere della Corona di ferro, membro della giunta di pubblica istruzione, direttore della biblioteca della regia Università, socio dell'accademia Pontaniana e dell'accademia di Harlem.
Nacque in Coperchia, in quel di Salerno, ai 5 di ottobre del 1766 da Pasquale ed Eugenia Fiore, agiati proprietari.
Ebbe a Salerno la sua prima educazione e poi a Napoli. Nell'occasione della morte di Carlo III scrisse un poema in versi sciolti che gli procurò l'applauso universale ed il favore della Corte.
Abbracciò la carriera del foro, ma dovette abbandonarla nel 1794 e passare in Francia, dove iniziò la carriera delle armi, ottenendo perfino il grado di capitano.
Fu spedito dalla repubblica in Olanda in missione di ministro plenipotenziario, ed essendosi ivi trattenuto dal 1799 al 1809, pubblicò un quadro politico di quella nazione.
Tornò nel 1809 in Napoli e fu nominato intendente della provincia di Molise e poi di Calabria citeriore; finché nel 1812 fu elevato al posto di direttore della pubblica istruzione e nel 1815 direttore della biblioteca dell'Università col soldo di annui ducati duemila.
Fu deputato e morí di mal di fegato ai 31 ottobre del 1821.
Fu presidente dell'accademia delle scienze di Napoli, del reale istituto d'incoraggiamento, dell'accademia Ercolanese e della Pontaniana.
Le sue opere pubblicate sono:
— Poema in versi sciolti per la morte di re Carlo III, Salerno, 1780, in 8º.
Analisi ragionata del codice Ferdinandeo per gli abitanti di San Leucio, Napoli, 1789, in 8º.
Osservazioni sulla costituzione elvetica, Milano, 1798, in 8º.
Vicende del teatro italiano, Milano, 1798, in 8º.
Saggio del commercio d'Olanda, Milano, 1809, in 8º.
Quadro politico dell'Olanda, Milano, 2 vol., in 8º, 1809.
Pensieri sull'istruzione pubblica relativamente al regno delle Due Sicilie, Napoli 1813, in 8º.
Due memorie sull'economia dei boschi.
Memoria sul sistema commerciale d'Europa.
Memoria su d'una nuova divisione geografica del regno di Napoli.
Ginestous Cesare. — Figlio d'un negoziante francese stabilito in Napoli, nacque ai 22 gennaio 1765, e, compita la sua educazione, continuò la carriera del padre. La sua probità, i suoi modi dolci e concilianti, le sue commerciali cognizioni lo fecero chiamare ben presto ai pubblici impieghi.
Nel 1798 fu posto fra i governatori del banco dello Spirito Santo; ed anche allora che il nome francese tanto periglio recava, egli fu rispettato sempre dal popolo.
Creata in Napoli una camera di commercio in novembre 1808, egli fu dei primi che la composero. Nell'anno seguente entrò a far parte dei giudici del tribunale di commercio della capitale, quindi nel consiglio di commercio che nel febbraio 1811 fu nominato presso il ministero dell'interno. In quello stesso anno fu deputato al consiglio provinciale di Napoli, e sostenne con successo le ragioni della provincia che si voleva gravare della spesa della nuova strada di Posillipo, oggetto di delizia che altri, certo, non poteva interessare tranne la capitale.
Chiamato nuovamente nel 1813 al tribunale di commercio, egli rinunciò a questa carica, e visse tranquillo e privato sino al 6 settembre 1815, epoca in cui fu destinato per la seconda volta, ma dal re, al consiglio della provincia. Due anni, dopo il tribunale di commercio lo rivide fra i suoi giudici, in qualità di supplente, e nel 1819 egli ne rinunciò la presidenza.
Convocate le assemblee parrocchiali, particolari faccende gli vietarono d'intervenirvi: ciò non ostante fu scelto per uno degli elettori di provincia, Questi avevano già nominato al Parlamento otto deputati, allorché unanime voce si alzò, chiedendo un negoziante. Fu allora che la maggior parte dei voti si riunirono in favore di Ginestous. È rimarchevole nella sua vita pubblica l'aver egli appartenuto al collegio elettorale dei commercianti, i quali nel 1810 doveano far parte della costituzione di Baiona.
Giovane Giuseppe Maria[71]. — S'occupò di scienze e di lettere. Fu arciprete, socio dell'accademia italiana delle scienze, e dell'istituto borbonico di Napoli.
Nacque a Molfetta ai 23 gennaio 1753 da Giovanni e da Antonia Graziosi, nobili cittadini. Ebbe la prima educazione nella città nativa in un collegio dei gesuiti, e quando i seguaci di Loiola furono soppressi, egli, appena novizio, voleva uscire con essi dal regno. Invece fu trattenuto a Napoli in casa di Ciro Saverio Minervini, e riprese poco dopo il corso interrotto di matematiche e filosofia e fu elevato agli ordini minori. Apprese le scienze legali e vi si addottorò.
Varie sue opere nel 1789 erano state date alle stampe, tra le quali furono apprezzate la memoria sulla natura degli ulivi, la lettera diretta a Saverio Mattei colla quale argutamente dimostrò che Cristo allorché paragonò gli apostoli al Sale della terra intese di voler parlare del... sal-nitro; l'avviso sui vermi che rodono la polpa degli ulivi, la memoria sulla nitrosità generale delle Puglie che fu persino riprodotta in francese dallo Zimmermam.
Scrisse opuscoli sulla rosa prolifica e sulla pioggia rossa e varie memorie izziologiche e zoologiche che gli valsero fama ed onori.
Fu uomo di vastissimo talento e di svariata erudizione sempre profonda.
Nel 1804 era vicario generale della sua diocesi e sopraintendente del seminario e nel 1806 vicario apostolico di Lecce donde tornò in patria dieci anni dopo.
Fece dono al seminario della sua ricca biblioteca, del museo di storia naturale e geologia, della raccolta di numismatica e dei vasi italo-greci.
Fu deputato al Parlamento del 1820 e morí ai 2 di gennaio del 1837.
Jacuzio Francesco Paolo. — Nel 1831 gli fu permesso di tornare nel regno. Era conosciuto un suo scritto: A Carlo Alberto di Savoia... un Italiano.
Fu però sospeso l'ordine del rilascio del passaporto[72].
Imbriani Matteo[73]. — Nacque nel 1783 su un piccolo colle della Valle Caudina. S'occupò di lettere e filosofia. Rimangono di lui ancora inediti alcuni lavori intorno alla grammatica filosofica condotti con grande amore e con diligenza incredibile. Nell'antica biblioteca analitica e nell'effemeride che egli pubblicò durante gli anni 1820 e 21 si hanno bei saggi della sua mente.
Fu deputato al Parlamento del 1820 e non si scostò mai da quella savia temperanza opposta agli impeti dei demagoghi ed alle insidie di coloro che vorrebbero spenta ogni giusta speranza.
Visse a Roma e a Firenze in esilio in compagnia di Gabriele Pepe. Ebbe due figli: Emilio che sposò la figliuola del Poerio, e Rosario; morí nel 1847.
Le Piane Vincenzo. — Fu scrittore e traduttore in dialetto calabro del catechismo dei Carbonari. Fu canonico della chiesa cosentina, vicerettore del collegio di quella provincia e deputato nel 1820.
Altre notizie non abbiamo di lui, senonché dagli Annali di Citeriore Calabria[74] sappiamo che nel 1811, riaperta l'Accademia Cosentina col nome di Reale istituto, «... si commise la vicepresidenza a Vincenzo Piane, vago piú di filosofare, che di ecclesiastiche elucubrazioni, concionatore persuasivo, meno elegante che semplice».
Liberatore Raffaele[75]. — Era ex ufficiale di carico della reale segreteria degli Esteri col grado di uffiziale di ripartimento, destituito nel 1821, domandò di conseguire dalla reale clemenza il terzo del soldo che godeva: il re annuí alla domanda.
Lauria Francesco[76]. — Nacque ai 6 di giugno 1769 da Giuseppe Lauria, avvocato, e Antonia Ribas, figliuola de fiscale dell'udienza di Montefuscoli di Principato Ulteriore. In tenera età perdette il padre e fu rinchiuso al seminario di Nusco; non lasciò per allora l'abito clericale sí da essere nel 1792 rivestito della dignità di canonico nella chiesa di San Giovanni del Vaglio, nel suo paese, quando ancora non aveva ricevuti gli ordini sacri. Poi si recò a Napoli, dove si diede agli studi legali, abbandonando ad altri il canonicato.
La sua vita forense cominciò brillantemente nel 1794. La sua memoria era ferrea e gli effetti della sua eloquenza erano addirittura meravigliosi. Gli aneddoti sulla sua vita sono numerosissimi e non mette conto riportarli tutti. Fu insino al 1779 con Pagano, Raffaelli, e Serio, che non lo vincevano in valore ed in tattica forense e la reazione lo trovò al suo posto fermo ed immutabile nei piú rigidi principî di giustizia e di diritto.
I Francesi venuti dal 1806 al 1815[77] lo tennero in grandissimo onore. Nel 1807 fu professore di dritto criminale nell'Università di Napoli, dettandone le lezioni nel piú puro e classico idioma latino.
Scrisse poi un commento al codice francese, e piú tardi i pensieri su d'un codice criminale, ed il saggio sulla corruzione dei popoli letto nell'accademia Pontaniana ai 10 di ottobre 1810.
Morí nel 1829 in Napoli e lasciò undici figliuoli.
Luca (De) Ferdinando. — Nacque ai 15 d'agosto 1785 in Serracapriola (Capitanata). Fu educato nei primi anni nel seminario di Troia, quindi in quello di Larino. Della età di 18 anni sostenne due pubbliche conclusioni di filosofia e teologia e nelle stagioni autunnali insegnava umanità e rettorica ai giovani della sua patria.
Venne in Napoli nel 1806, si applicò allo studio delle leggi e cominciò quasi da capo a rifare la sua educazione scientifica, dandosi contemporaneamente allo studio delle matematiche, della fisica, della chimica e delle tre branche della storia naturale. Nel 1809 avendo scritto una memoria sulle ragioni e proporzioni colla teorica degli esperimenti, ed un'altra sulle applicazioni dell'algebra alla geometria, fu chiamato ad insegnare geometria nella scuola militare provvisoria; e nel 1811, essendosi ordinata la scuola politecnica, fu scelto per uno dei professori e gli fu affidato l'incarico di scrivere la geometria elementare, la trigonometria analitica e l'analisi a due coordinate. Durante tutto l'anno 1811 e parte del 1812, uscirono alla luce le accennate opere in quaderni separati che si stampavano come si componevano per farli studiare agli alunni. Sul finire del 1812, le tre accennate opere furono compiutamente stampate.
Il de Luca dette alle stampe anche molte memorie di fisica e geografia e sopratutto della geografia egli pubblicò un corso compiuto, ma diviso in periodi.
Appartenne a diverse accademie e dette alle stampe le seguenti opere:
— Geometria sintetica, pubblicata in Napoli nel 1810.
Geometria piana trattata con l'analisi geometrica degli antichi, 1811.
Trigonometria analitica con un saggio di poligonometria, 1811.
Geometria analitica trattata con l'analisi a due coordinate, e colla cartesiana, 1811.
Analisi a due coordinate, con molti problemi generali, un grosso volume di 35 fogli di stampa, 1812.
Agrimensura popolare ove il problema della divisione del poligono in data ragione è sciolto nella massima generalità ed in un modo geometrico, Napoli, 1842.
Memoria per rivendicare alla scuola italica tutta l'antica geometria, Napoli, 1845.
Geometria e trigonometria elementare sferica, dedotta da una sola formola analiticamente.
Pensieri sull'educazione, applicati all'istruzione dei seminarii, anno 1826.
Piano di un'educazione compiuta religiosa, letteraria, scientifica e navale, Napoli, 1835.
Sul miglior sistema di una pubblica istruzione, Napoli, 1836.
Nuovi elementi di geografia, disposti secondo l'ordine dell'insegnamento, Napoli, 1838.
Istituzioni elementari di geografia naturale, topografia politica, astronomica, fisica e morale, con un ramo per la geografia astronomica, Napoli, 1845.
Elementi di geografia antica, Napoli, 1834. Memoria per l'ordinamento degli studi geografici, letta nell'accademia Pontaniana.
Memoria della giusta nozione che bisogna dare alla geografia storica, letta nell'accademia delle scienze e commentata nel giornale dell'Istituto storico di Francia, t. 5, p. 187.
Memoria fisico-matematica sulla meteora americana comparsa a Filadelfia in novembre 1833, memoria prima e seconda letta alla regia Accademia delle scienze.
Memoria sul magneto-elettricismo, letta nella regia Accademia delle scienze.
Memoria sui varii punti della storia delle matematiche, inserita nel Progresso.
Tavola per la conversione reciproca dei pesi e delle misure antiche in quelle sanzionate dalla legge 6 aprile 1840.
Prese parte al VII congresso degli scienziati, tenuto in Napoli nel 1845 e morí nel 1869.
Luca (de) Antonio Maria. — Nacque nel comune di Colle e fu educato per opera dello zio, vescovo Lippi, nella congrega dei pp. Giuranisti. Iniziato nello stato sacerdotale, ottenne laurea in teologia, e poscia, mercé concorso, fu all'età di anni 30 nominato canonico penitenziere nella chiesa cattedrale di Policastro.
Arrestato come liberale nella proscrizione del 1799, ottenne la libertà col trattato di Firenze.
Nell'anno 1811 — morti quattro suoi fratelli — rinunziò alla carica ecclesiastica per dare opera alla domestica economia. Corrispondente della Società agraria dei Principati Citra ed Ultra, conosciuto per non aver giammai abbandonata la causa della libertà fu scelto a deputato nell'età di circa cinquant'anni.
Macchiaroli Rosario di Bellosguardo, nel distretto di Campagna, di circa anni quaranta.
I suoi primi studi furono per la carriera legale. Gli affari della sua famiglia lo richiamarono ancor giovane dalla capitale. Nel principio della dominazione francese fu eletto a capitano della legione provinciale; poscia trasferito nell'esercito di linea.
Dopo il 1815 venne creato consigliere dell'intendenza di Salerno. Sospetto di principî liberali, egli era vicino a soggiacere alle persecuzioni della polizia, quando il 6 luglio 1820, a cui dicesi di aver dato mano, gli acquistò quell'opinione per la quale fu eletto a rappresentante della sua provincia.
Mazziotti Gherardo. — Nato in Celso a quaranta miglia da Salerno, portossi in Napoli a percorrere la carriera forense. Nella rivoluzione del 1799 fu creato giudice di pace, indi imprigionato come liberale e bandito dal regno. Tornato in patria, nella organizzazione giudiziaria del 1809 venne eletto a giudice civile, e poco dopo elevato a giudice criminale in Campobasso, donde fu trasferito colla stessa carica in Avellino. Promosso a presidente del tribunale civile della provincia di Lecce, domandò di tenere la magistratura nella città capitale della sua provincia. Volendo il governo inviarlo a Reggio rinunziò alla toga ed esercitò in Salerno l'avvocheria. Egli toccava quarantacinque anni quando fu eletto deputato.
Mercogliano Antonio. — Vide la luce in Nola nel 1784, e dopo gli studi preliminari compiuti in provincia si recò a Napoli a studiare medicina. Andria e Cattolica furono i suoi maestri. Nel 1799, coinvolto nei tumulti, fu esiliato per quindici anni e risedette in Toscana.
Nel 1818 — scoverto di far parte d'una società segreta — fu rilegato in Pantelleria a disposizione del re.
Nell'agosto del seguente anno potette tornare in patria.
Nicolai Domenico, marchese di Canneto[78]. — Di lui esiste il seguente documento: «Supplica del figlio Carlo affinché il padre carico di anni e quasi cieco torni in patria in seno all'ammiserita famiglia.»
La supplica non fu accettata perchè il richiedente fu «... immoderato nelle discussioni parlamentari!»
Dalla corrispondenza dell'ex-magistrato Pisa emergono alcune lettere che il Nicolai e de Conciliis indirizzavano a Lucenti ed al Pisa mentre erano in Ispagna. Nel 1829 il Nicolai era a Barcellona in seguito di misura generale presa dal governo spagnuolo contro gli esiliati. Nel 30 dicembre 1830 trovavasi a Marsiglia. Il ministero degli esteri era convinto che il Nicolai fosse l'autore d'alcune stampe per la indipendenza italiana.
Pessolani Saverio Arcangelo. — Atena fu il luogo dei suoi natali. Istruito nelle leggi, reputato per maturità di consiglio e per disinteresse a niuno secondo nel suo distretto, difese per molti anni i diritti dei privati ed in particolare quelli dei poveri. Toccava il quarantesimo anno di età.
Pepe col. Gabriele. — Sannita e degno emulo di Florestano e di Guglielmo, calabresi. Combatté a Civita-Castellana e ad Otricoli contro i Francesi. Difese la Repubblica partenopea a Nola, a Torre Annunziata ed a Portici[79], ove fu ferito.
Combattette poi anche a Marengo nella legione italiana e fece la campagna del 1815. A Tolentino riportò quattro ferite d'arma bianca.
A Firenze sfidò a duello il Lamartine che osò chiamare l'Italia: — La terre des morts!
Poerio Giuseppe. — Ebbe i natali in Belcastro (Catanzaro) ai 6 gennaio 1775 da Carlo e Gaetana Poerio. Fu, adolescente, nel collegio dei nobili di Catanzaro ed a sedici anni esordí perorando nei tribunali e salvando un fanciullo di dodici anni, imputato di omicidio volontario.
Raggiunse nel 1799 lo Championnet e diventò suo aiutante di campo. Proclamata la repubblica fu nominato commissario in Catanzaro e tornò a Napoli per via di mare quando seppe della marcia del cardinal Ruffo.
Fu condannato a morte dalla Giunta di Stato, ma la pena gli fu poi commutata in ergastolo a vita col Torelli e con l'Abbamonte. Dopo 22 mesi di duro carcere, dopo la battaglia di Marengo, per gli accordi di Firenze, gli fu concesso di tornare in patria.
Tolse a moglie Carolina Sossisergio del Poggiando[80], e nel 1806 fu nominato da Giuseppe Bonaparte intendente e preside di Molise e Capitanata. Nel 1808 re Gioacchino lo prescelse a primo avvocato generale della Gran Corte di cassazione con Sirignano, Raffaelli, Cianciulli ed altri grandi. Contemporaneamente ottenne di essere relatore al Consiglio di Stato, indi regio commissario nelle Calabrie; e poi presidente della Commissione per la riforma del Codice penale, ed a 35 anni procuratore generale di Cassazione. Consigliere del re sostenne contro il Briot: — non potere senza acquistare nazionalità ottenere cariche e preminenze gli stranieri nel regno.
Fu anche in Bologna come commissario straordinario dei dipartimenti italici ed in prosieguo uno dei sette direttori del Consiglio di governo sedente in Roma col carico della giustizia.
Tornati i Borboni, il Poerio emigrò per Parigi e di là per Ginevra, dove ebbe notizia d'essere stato condannato all'esilio perpetuo.
Gli fu offerto, per rientrare in Italia, la cittadinanza della repubblica di San Marino, ma egli non accettò e si stabilí a Firenze fino al 1820.
Ai 19 marzo 1821 dettò la protesta con la quale dichiarava che — i corpi e non gli animi avevano ceduto alla forza del nemico; disciogliersi il Parlamento per la presenza del nemico, per volontà del principe, per mancata cooperazione del potere esecutivo; protestare contro la violazione del diritto delle genti, rimettersi alla giustizia di Dio la causa del trono e della indipendenza nazionale.
Fu arrestato, imprigionato per circa tre mesi e inviato a Trieste ed indi a Gratz con la moglie ed i figli[81], e finalmente ottenne di poter risiedere a Firenze.
Ai 14 novembre 1830, scacciato di Toscana, riparò in Francia col figlio Alessandro, mentre la moglie rimpatriava. Visitò l'Inghilterra e dopo 13 anni di esilio Ferdinando II gli permetteva il ritorno ai 28 ottobre 1833, ripigliando fervorosamente l'avvocheria.
Morí ai 15 d'agosto 1843, dopo un anno di languore e di sofferenza.
Perugini Pietro Paolo. — Di anni 48, nativo di S. Lorenzo Minore, nel distretto di Piedimonte. Si applicò alla medicina. Esiliato in Francia, nel 1799 tornò nella patria in grazia della pace di Firenze. Appartenne alla legione della sua provincia ove pervenne, di grado in grado, a maggiore. Egli era agiato proprietario ed esercitò le funzioni di consigliere distrettuale e provinciale. Socio corrispondente dell'accademia di Terra di Lavoro, della Cosentina e del reale Istituto d'Incoraggiamento di Napoli. Pubblicò nel 1819 una memoria sulle acque minerali di Telese.
Piccolellis Ottavio. — Nacque in San Nicola la Strada ai 4 di giugno 1786 e si ascrisse volontario alle guardie di onore nel 1806. Nello stesso anno fu tolto a tenente nel secondo reggimento dei cacciatori a cavallo; indi a capitano delle cennate guardie d'onore, nel quale grado fu inviato nel 1812 alla campagna di Russia. Nella sera del 6 dicembre, rimasto Napoleone in mezzo ad una boscaglia, intirizziti i suoi aiutanti di campo dal freddo, morti i vetturali, il de Piccolellis, che era al seguito, lo salvò menandolo a Vilna. Nel 1813 prese parte alla campagna di Germania. Distinto nelle tre famose giornate di Lipsia del 14, 16 e 18 ottobre, ricevé sul campo di battaglia la Legion d'onore dalle mani di Bonaparte e l'Ordine delle Due Sicilie da Gioacchino Murat.
Elevato da questi al grado di maggiore nel 4º reggimento cavalleggieri intervenne in Italia ai fatti d'arme di Reggio e del Taro.
Nel 1815 fu nominato tenente colonnello nel reggimento di cavalleria Principe.
Pelliccia Alessio. — Ebbe in Napoli i natali nel 1744. Educato nelle filosofiche discipline dall'abate Genovesi e nelle ecclesiastiche dal vescovo Giuseppe Rossi, diessi a coltivare, in preferenza degli altri, gli studi della diplomatica, ed ogni maniera di archeologiche dottrine. Innalzato al sacerdozio, dopo aver data prova dei suoi talenti e di sue cognizioni con due pubblici esperimenti l'uno in etica e l'altro in dritto canonico, fu chiamato a reggere nel 1781 la cattedra di antichità ecclesiastica nella reale Università di Napoli. Avido di conoscere le patrie memorie, visitò i grandi archivi del regno, ove raccolse grande messe di notizie preziose. Nel 1812 fu eletto professore di diplomatica e nello stesso anno a provicario generale della chiesa e diocesi di Napoli; poscia presidente del giurí di esame nella commissione dell'istruzione pubblica, carica che occupò sino alla fine del decennio.
Istituita una commissione per sovraintendere agli archivi, Pelliccia fu tra i membri di essa.
Si debbono a lui le seguenti opere:
— Dissertazione della disciplina della chiesa intorno alla preghiera pubblica pel sovrano, Napoli, 1760 (tradotta in tedesco nel 1760 per ordine dell'imperatrice Maria Teresa e stampato a Vienna; e recata in latino dall'autore medesimo, Napoli, 1789).
Corso di antichità ecclesiastiche, tomi 4, in-8º, Napoli, presso Morelli.
Quest'opera comprende sei libri, e vi sono descritti tutti i rami della polizia ecclesiastica dei riti greco e latino, principalmente per quello che riguarda la parte piú oscura, cioè i tempi di mezzo. Nel terzo e nel quarto tomo si leggono varie dissertazioni, in una delle quali è data una specie di istituzione lapidaria del medio evo; un'altra riguarda i tempietti portatili degli antichi; la piú insigne è quella sulle vecchie catacombe di Napoli, lavoro di molti anni, durante i quali l'autore passò lunghi giorni nelle tenebre di quelle caverne.
Cronache e diarj del regno di Napoli, cinque tomi in-4º, Napoli, stamperia del Perger (tale raccolta serve di continuazione a quella degli storici napoletani del Gravier, e contiene molti codici, la maggior parte di autori contemporanei all'epoche di che scrissero).
Dissertazione sul ramo degli Appennini che termina dirimpetto all'isola di Capri, Napoli.
Dissertazioni sopra l'antica città di Equi, Napoli.
Dissertazioni sul vero significato della Sheol nel testo ebraico.
Del culto della chiesa verso la Vergine, Napoli, 1820.
Istituzioni della scienza diplomatica, Napoli, 1821.
Promise il marchese Maffei una istituzione della scienza diplomatica, ma non la formò prima del Pelliccia.
La topografia di Napoli e sobborghi.
Origine e vicende della proprietà dalla discesa dei Longobardi (queste due ultime opere sono inedite).
Romeo Santi[82]. — Nacque in Messina il di 25 febbraio 1775. Suo padre Domenico professò medicina, ed ebbe nome di felice e sagace interprete della natura. Giovane ancora, Santi ascoltò le lezioni paterne con l'alacrità che muove gli spiriti cui sprona vivo genio e nascente amore di sapere. Compiutamente istrutto nelle scienze che concernono direttamente l'arte di curare le malattie, o servono a quella di aiuto e sostegno, venne in Napoli, città in quei dí fiorentissima nelle mediche discipline e udí Cotugno e lo sventurato Cirillo, ed ebbe particolare dimestichezza con Antonio Sementini, splendidissimo lume dell'Università nostra.
Reduce in patria, fu troppo presto salutato erede dell'ingegno e del nome paterno.
Jenner aveva dato al genere umano l'antidoto contro la peste vaiuolosa. A vincere l'ostinata renitenza di gran numero di madri contro quella pratica salutare, Santi tradusse le ricerche storiche e mediche di Huxon sulla vaccina nelle quali aggiunse doti teoriche, che comparò con belle e giudiziose osservazioni, le quali accrebbero i pregi della versione in tal maniera divenuta originale. La peste di Malta richiamò Romeo da quella specie di inerzia, in cui cade lo scienziato quando si consacra di soverchio all'esercizio della pratica. Le sue Ricerche sopra grave questione, se la peste bubbonica possa comunicarsi ai bruti come agli uomini, parvero spargere nuova luce sopra difficile soggetto, intorno al quale la medicina era ancora fanciulla. Malgrado la guerra che era allora di ostacolo ad ogni maniera di commercio, le Ricerche in quella occasione pubblicate vennero altamente commendate in tutte le opere di medicina.
Ottennero fortuna anche maggiore i suoi pensieri intorno alla febbre micidiale che nel 1817 visitò tutta l'Italia e che non infierí meno nel grande ospedale di Messina.
Obbligato dallo stato di salute ad allontanarsi per qualche tempo dalla patria, visitò le principali università della penisola, e si conciliò l'amicizia di tutti i professori italiani che visitò.
Nelle sue peregrinazioni scrisse utili ma semplici istruzioni per le genti di campagna della Sicilia, ad oggetto di prevenire i guasti che a quei giorni di là dal faro facea una feroce epizoozia.
Poco dopo aggiunse una dotta nota sulle fumigazioni solforose, le quali aveva nella sua dimora in Napoli sperimentato sommamente proficue sotto la cura del chiarissimo cavaliere Assalini.
Parecchie altre sue scritture date a stampa, o concernono l'utilità pubblica o tendono a campare i creduli dalle facili imposture dei falsi medici. Appartengono a questa classe la sua Relazione sull'ipocondria di un tal Lamaestra, ed un suo secondo ragionamento sullo stesso soggetto edito dal Nobili.
Fu professore di medicina nel ginnasio di Messina, medico di quel grande ospedale civico e consultore fisico della deputazione di salute.
Fu uno degli ultimi eletti e prese parte alla memorabile tornata dell'8 dicembre 1820.
Ricciardi Amodio. — Nacque nel 1756 a Palata nel Molise. Furono suoi genitori Paolo e donna Diana Carunchio. Venne in Napoli adolescente per darsi agli studi legali ed abbracciare la carriera nobilissima del foro.
Nel 1790 interruppe i suoi trionfi d'avvocato per esulare in Piemonte donde tornò nel 1808 e fu nominato da Murat procuratore generale presso la corte d'appello di Napoli. Nel maggio del 1812 fu creato consigliere di cassazione e nel 1817 destinato a presiedere — la reazione era incominciata — la gran corte di Aquila.
Il Parlamento lo ebbe fra i suoi piú ardenti e costanti membri, e poco dopo il suo ritorno nella capitale morí nel 1835 ai 3 d'agosto, di mattina.
Ruggieri (de') Petrantonio. — Mirabella, nel Principato ulteriore, fu la sua patria, e vi nacque ai 20 luglio 1766. Formato alla cultura delle lettere in paese, venne poi a compiere gli studi a Napoli, ove intraprese la carriera dell'avvocheria cogliendone non pochi allori. Nel 1814 fu nominato giudice del tribunale civile della Capitale ed indi a poco promosso pubblico ministero nel medesimo collegio. Amò piuttosto la difesa libera dei civili diritti che il penoso uffizio di magistrato al quale rinunziò spontaneamente. Conosciuto per la liberalità delle idee e per la inviolata probità della sua condotta, nei primi dí della riforma politica fu chiamato a far parte della commissione di pubblica sicurezza e conseguí l'approvazione generale nei piú difficili momenti.
La nazione lo designava alla rappresentanza e fu presto unanimemente eletto a deputato della provincia di Napoli. Era anche decorato dell'ordine gerosolimitano.
Rondinelli Benedetto. — Nacque in Campagna nel dí 20 giugno del 1772. Dedicatosi agli studi ecclesiastici fu nel 1805 creato canonico della cattedrale della sua patria.
Poscia nel seminario di quel comune insegnò per molti anni gli studi filosofici e le matematiche discipline. In appresso, tenne anche la carica di pievano nella mentovata chiesa, e nel 1818 fu dal governo eletto a giudice conciliatore.
Sonni Domenico Antonio. — Nacque in Falerno ai 12 giugno 1758, e nel 1776 entrò nel seminario di Tropea, (Calabria ulteriore). Fu ordinato sacerdote nel 1784 ed un anno dopo portossi in Napoli. Vi riuscí valoroso nelle scienze positive, tanto che con real dispaccio del 29 luglio 1792 fu chiamato a dettare matematica sublime nell'Università. Nel 1796 ebbe laurea di teologo e fu educatore del duca di Spezzano e de' principi d'Ischitella e Pignatelli.
Fu nominato professore di matematiche nella reale accademia militare con decreto 1º novembre 1802, regio revisore delle stampe ed esaminatore degli aspiranti al magistero delle matematiche nel 1805: fu professore trattatista ed esaminatore della r. accademia delle guardie marine (24 novembre 1806), esaminatore dei libri della biblioteca di San Severino ai 19 marzo 1807, membro della commissione per la statistica generale del regno (1808). Socio residente del R. Istituto d'incoraggiamento e della Pontaniana (11 luglio 1809). Nel 1815 tornò ad essere revisore della stampa, ispettore generale e segretario interino dell'istruzione pubblica, esaminatore del concorso alla cattedra dei concilii e successivamente delegato alla ispezione degli stabilimenti d'istruzione delle Calabrie, di Principato Citra e di Basilicata.
Colto da apoplessia mentre camminava, in Napoli, per la strada di Toledo, morí addí 4 febbraio 1840.
Sponsa Diodato. — Fu tra gli esiliati a Tunisi e tornò in patria dopo il 1831.
Semmola Mariano. — Del comune di Brusciano nel distretto di Nola. Dopo aver appreso nella patria i rudimenti delle lettere, fu dal vescovo Lopes inviato in Napoli agli studi delle scienze: all'età di anni 21 fu richiamato per insegnarle al seminario nolano. Intrapresa la carriera ecclesiastica dopo aver passato circa quattro lustri in quell'uffizio di professore al seminario, si riportò in Napoli ove die' un pubblico esperimento per ottenere la cattedra di fisica nella Regia Università degli studi, e benché non fosse riescito nell'intento ne ottenne riputazione, onde messosi privatamente ad insegnare le scienze filosofiche ebbe frequenza di giovani allievi.
Non molto dopo, conseguí nella stessa Università la sostituzione alla cattedra di logica e metafisica. Nel decennio francese fu ivi incaricato dell'insegnamento della Ideologia, e riconfermato poscia, dopo la espulsione dei Francesi, nell'insegnamento dell'antica logica e metafisica. Si hanno di lui pubblicate per le stampe in varie edizioni le istituzioni di logica e metafisica ad uso del suo studio privato.
Tafuri Michele. — Figliuolo del barone Tommaso di Melignano e di Teresa Perrone, nacque il dí 27 di maggio 1769 a Nardò (Lecce) nel cui seminario fu educato e poi inviato a Napoli, per studiarvi diritto canonico e poi prendervi gli ordini; invece egli s'accinse agli studi legali per la carriera del foro. Sposò nel 1799 Rosa di Masi. Durante il decennio, ministro nel 1807 il commendatore Pignatelli lo volle al ministero di grazia e giustizia e cosí anche Zurlo e Ricciardi.
Nel 1815, tornati i Borboni, si dimise e tornò a vita privata. Fu nominato, quindi, giudice della corte criminale di Salerno e nell'anno seguente (1816) andò alla corte criminale di Trani. Solo nel 1818 passò alla corte civile della medesima città.
Fu deputato nel 1820, e nella sessione che seguí tornossene, per sempre, a vita privata.
Morí di bronchite ai 7 settembre 1857.
Trigona Salv. Giuseppe, marchese di Camicaro e Dominamare. — Nacque in Noto (Sicilia) nell'anno 1792. Fra gli agi della famiglia non obbliò che la istruzione e lo studio aggiungono pregio alla nobiltà dei natali e si diede alacremente a coltivare le belle lettere, la filosofia e le leggi. La economia politica alla quale l'età nostra aggiunge importanza, divenne la sua precipua occupazione. Temperò quest'arduo studio coltivando la poesia, per la quale sentiva inclinazione particolare.
Visitò Parigi, Londra, vide tutta Italia, e dopo otto anni reduce in patria, si diede con molto impegno all'azienda dei domestici affari ed all'esercizio delle cariche municipali.
Dichiarato nel 1820 deputato del Parlamento non fu studioso che del bene del suo paese. Venne nominato ricevitore generale della provincia, ed ebbe tre volte la presidenza del consiglio generale della medesima, fu deputato delle opere pubbliche provinciali e della commissione di salute.
Queste serie occupazioni se lo distrassero al seguire con ardore i suoi studi, non lo tolsero interamente alle accademie scientifiche e letterarie. Fu ascritto all'Arcadia di Roma, ai Trasformati di Noto, e fra i pastori Aratusei. Fu socio ordinario della società economica del suo paese, corrispondente di quella di Girgenti. Fu ascritto anche al VII congresso degli scienziati.
Nel 1843 era stato nominato gentiluomo di camera, con esercizio, del re delle Due Sicilie Ferdinando II.
Vasto Tommaso. — Ebbe la cuna nel comune di Cardinale in sul finire del 1757. Fu educato nel seminario di Nola, ove professò poi, per ben trent'anni, diritto civile e canonico. Nel 1820 era canonico decano di quel capitolo e vicario generale della diocesi.
Visconti Ferdinando. — Nacque a Palermo ai 9 di gennaio 1772 da Domenico Visconti capitano del reggimento di fanteria Real Napoli. Nel 1778 fu nominato cadetto.
Dieci anni dopo entrò nella Reale accademia militare in cui compí l'educazione e gli studî, premio dei quali fu il grado di sottotenente nel reggimento Re del corpo reale di genio ed artiglieria, conseguito ai 27 febbraio 1791.
Come sospetto di professare dottrine liberali, nel 1794 fu posto in giudizio, congedato dal servizio militare e condannato alla reclusione d'un decennio nel castello di Pantelleria. Ivi passò sette anni ed alla pace di Firenze fu posto in libertà; ma non potendo trovare impiego in Napoli, andò a cercarlo a Milano. Al 1º settembre 1802 venne nominato tenente nel corpo degli ingegneri topografici della repubblica italiana. I suoi talenti superiori nelle scienze esatte non tardarono a farsi conoscere, sí che nel 1805 fu destinato per aggiunto al capo di quel corpo topografico per la parte riguardante le osservazioni astronomiche e le operazioni trigonometriche. In quell'anno istesso seguí a Bologna e nel Veneziano lo stato maggiore dell'esercito, comandato dal viceré d'Italia. E quando nel seguente anno tutti i Napoletani impiegati in Francia ed in Italia vennero congedati, egli meritò l'onorevole eccezione conceduta a pochissimi, di rimanere agli stipendi del regno italico.
Ricevette allora la missione di recarsi in Vienna per ottenere la consegna delle carte e dei documenti topografici relativi allo stato Veneto, i quali, pel trattato di Presburgo, l'Austria dové cedere all'Impero francese. Tornato a Milano con quelle spoglie, non rimase a lungo inoperoso. Dal maggio 1808 fino al gennaio 1809 egli percorse tutte le coste dell'Istria, delle isole del Quarnero, della Dalmazia e dell'Albania, determinando con osservazioni astronomiche la loro posizione geografica, affine di costruire la carta idrografica dell'Adriatico. Fu nominato cosí capitano in secondo nel corpo degli ingegneri geografici.
Nel 1810 gli venne affidata altra commissione allorché sotto gli ordini del generale Danthouard attese a stabilire nel Tirolo la nuova linea di confine tra il regno italico, la Baviera e le provincie illiriche; ciò che gli valse la promozione a capitano in primo nel corpo accennato e quindi nell'anno successivo quella a sotto direttore del deposito generale della guerra.
Nel 1813 fu capo squadrone nel corpo degli ingegneri geografi e nello stesso anno compí una ricognizione generale militare sulle frontiere delle provincie illiriche da Villach fino allo sbocco dell'Unna nella Sava.
Nel maggio del 1814 tornò in Napoli, dopo ripetute e vivacissime insistenze di re Murat[83]. Fu nominato capo-battaglione dello stato maggiore dell'esercito e direttore del gabinetto topografico per la morte di Rizzi-Zannoni[84]. Nel 1815 fu promosso colonnello di stato maggiore.
Creato deputato supplente, rimpiazzò il Bausan. Fu anche socio ordinario dell'Accademia delle scienze, della Società reale di Napoli e della Pontaniana.
Vivacqua Francesco. — Nacque in Tarsia e si addisse all'avvocheria. Asceso di poi alla magistratura, fu giudice di gran Corte criminale, segretario della Corte di cassazione, e quindi procuratore generale in Catanzaro.
Nel 1820 fu deputato. Socio dell'accademia Cosentina, vi lesse parecchie disquisizioni e discorsi di apertura che si fecero apprezzare per erudizione e per acume giudizioso.
Destituito, spogliato di ogni pubblico ufficio, dopo i moti del 1820, visse privatamente in patria, dove morí nel 1851.
PARTE TERZA LA FINE DEL PARLAMENTO.
PARTE III
I due documenti che seguono sono riprodotti da due foglietti volanti. Riguardano la partenza del Re per Lubiana. Ferdinando B. imbarcato a Napoli, sostò, a causa del pessimo tempo di mare, a Pozzuoli, dove — ornato l'abito della coccarda dei carbonari — ricevette la commissione del Parlamento con queste parole:
— Era inutile incomodarvi, con questo tempo, di venire fin qui!
E la rassicurò intorno alle buone intenzioni sue e del suocero.
I deputati, sospettosi d'un tranello, discesero dalla regia nave abbastanza male ed il malumore s'estese subito in tutta la capitale.
Fu allora che re Ferdinando scrisse la lettera e fu pubblicato il rapporto che riproduco:
FERDINANDO I ECC. ECC.
Ai miei fedeli deputati del Parlamento.
Ho con infinito dolore dell'animo mio appreso che non tutti han riguardato sotto un aspetto la mia risoluzione a voi comunicata in data di ieri, 7 del corrente.
Ad oggetto di dileguare ogni equivoco, dichiaro che non ho mai pensato di violare la Costituzione giurata; ma siccome nel mio real decreto dei 7 luglio, riserbai alla rappresentanza nazionale il potere di proporre delle modificazioni che essa avrebbe giudicato necessarie, alla Costituzione di Spagna, cosí ho creduto e credo che la mia intervenzione al congresso di Laybach potesse essere utile agli interessi della patria, onde far gradire anche alle potenze estere progetti tali di modificazioni che, senza nulla detrarre ai diritti della nazione, respingessero ogni cagione di guerra; bene inteso che in ogni caso, non potesse essere accettata alcuna modificazione che non fosse consentita dalla Nazione e da me.
Dichiaro inoltre, che, nel dirigermi al Parlamento, intesi ed intendo di conformarmi all'art. 172, § 2, della Costituzione.
E, finalmente, dichiaro che non ho inteso d'insinuare la sospensione (durante la mia assenza) degli atti di governo legislativo, ma di quelli solamente che riguardano le modificazioni della Costituzione.
Napoli, 8 dicembre 1820.
FERDINANDO
Il segretario di Stato, ministro degli affari esteri Duca di Campochiaro.
RAPPORTO TELEGRAFICO[85]
Sua Altezza Reale il duca di Calabria al tenente generale Colletta
Il Re, sovrano di Napoli, è stato chiamato al Congresso che sarà riunito a Laybach nell'impero austriaco; e parte col consenso del Parlamento ai termini della Costituzione.
Napoli, 12 dicembre 1820.
Per copia conforme: Tenente generale: Colletta.
Ecco ora un elenco esatto del personale che intervenne al Congresso. Naturalmente non vi possono essere comprese quelle persone diplomatiche, le quali, senza avere alcuna relazione col congresso, furono chiamate a Lubiana solo dagli affari correnti delle loro Corti e dei rispettivi gabinetti; e neppure quelle che vi furono condotte da oggetti di tutt'altra indole e senza speciali commissioni.
Austria, il principe di Metternich. Co-incaricato il barone Vincent, generale di cavalleria, ministro alla Corte di Francia.
Russia, il segretario di Stato, conte di Nessehode; il conte Capo d'Istria, il signor Pozzo di Borgo, luogotenente generale, ministro russo alla Corte di Francia.
Prussia, il principe di Hardenberg, cancelliere di Stato; il conte Bernstorff, ministro degli esteri. Co-incaricato il signor di Kresemark, luogotenente generale, ministro presso la Corte di Vienna.
Francia, il conte di Blacas, ambasciatore francese presso la Santa Sede ed il re delle Due Sicilie, il marchese di Caraman, ambasciatore alla Corte di Vienna; il conte La Ferronaye, ministro a Pietroburgo.
Gran Brettagna, Lord Stewart, ambasciatore inglese a Vienna; on. R. Gordon, ministro incaricato presso la stessa Corte.
Roma, il cardinale Spina, legato pontificio a Bologna.
Sardegna, il marchese di Saint Morsan, ministro degli affari esteri, il conte d'Aglié.
Toscana, il principe Neri Corsini.
Modena, il marchese di Molza.
* * *
Il signor di Gentz ebbe l'incarico di stendere il protocollo e gli altri documenti.
Articolo tolto dal giornale del 1820-21 La Minerva napoletana, vol. II, p. 139 (fondata da Giuseppe Ferrigni con Carlo Trova e Raffaele Liberatore).
Napoli, febbraio 1821.
Il Ministero
..... solve senescentem mature senus equum, ne peccet ad extremum ridendus et illa ducat.
Horat.
La patria è in pericolo! A questo annunzio debbono cessare le virtú timide: La Minerva napoletana è stata forse troppo moderata fin'oggi, e forse non aveva abbastanza di lodi verso i ministri: oggi i di lei doveri sono cangiati!
Lungi da noi l'idea che il ministero tradisca la nazione, o che l'essersi eletti nel 10 dicembre gli uomini rispettabili onde è composto, sia da riguardarsi come un secondo e piú funesto colpo di Stato! Cotal pensiero appartiene ai nemici.
Ma i ministri non possono per la loro età presiedere al movimento degli spiriti: questa sola ragione basta perché debbano rassegnare le cariche.
In un momento in cui forse una nuova religione politica, come la nostra, in un momento in cui nuovi Diocleziani senza talenti, si preparano ferocemente dall'Istro ad apprestarle i primi martirî e quindi un sicuro trionfo, egli è fuori di proposito che i vecchi, con deboli mani, si facciano a dirigere la gran lotta. Godano essi la ricompensa della loro probità, siano circondati dalla pubblica stima e riconoscenza, pei loro consigli si abbia il dovuto riguardo; ma cessino finalmente, se amano il loro paese, cessino di credersi atti a sostenere un peso — ahi! — cosí grave!
Se il signor Acclavio, già designato ministro dell'interno, avesse voluto scusarsi a cagione della sua età, qual migliore cittadino di lui?
Ma no: egli non adduceva tale pretesto, ed altro motivo gli attribuisce la fama. Noi siamo lieti che questo uomo del foro sia restato fra i suoi processi.
Legga egli Cuiacio; altri penseranno ad amministrare la cosa pubblica.
In verità, non si può pensare senza raccapriccio che un ministero cosí importante come quello dell'interno, sia stato quasi privo di capo per piú di due mesi. Il marchese d'Auletta non dovea sovrintenderlo che per pochi giorni. Non potendo servir di secondo ad Acclavio il ritroso, era facile il concepire che gli tornava impossibile di spiegare tutto lo zelo necessario a tempi tanto difficili. Ma la nostra causa è bella! Invano tardano i ministri di accorrere al loro posto, invano alcuni antichi intendenti si mostrano pigri a secondare il nobile impulso delle provincie: cresce in esse l'ardore quanto piú mancano gli stimoli dei loro amministratori!
Alla fine, gli affari interni sono stati affidati al cavaliere de Thomasis. Il Parlamento lo ha sciolto dall'accusa di aver preparato il 7 dicembre; ma la sua condotta per l'avvenire sarà la migliore delle assoluzioni.
Il ministero degli affari stranieri dà luogo a riflessioni di ben altra natura. L'antico uomo di corte[86] che oggi l'occupa sarebbe mai divenuto adoratore di libertà?
La storia del suo viaggio a Layback non somministra pruove assai forti di questa sua novella passione.
Arrestato lungamente in Gorizia, doveva egli sentire per lo meno al pari di noi l'indegnità dell'oltraggio, e se qualche cosa poteva consolarlo in quella infame prigione, era senza dubbio la speranza di alzare un giorno la voce per la sua patria. E il giorno giunse, ed egli è chiamato al congresso: ascoltatelo!...
— Se io potessi parlare... — egli dice. Ma niuna forza fisica gli si faceva, onde tacesse; ov'egli avesse aperto la bocca niuno il minacciava sia dello Knout sia del bastone. Se io potessi parlare!... cosí quel ministro compiva la sua orazione e cosí sosteneva i nostri diritti. Che se egli non parlava, perché dunque non preferiva di scrivere? Sarebbe stata inutile, noi lo sappiamo, qualunque protesta; ma almeno la dignità della nazione non era offesa con quella importuna reticenza!
L'egregio difensore della sovranità del popolo!
Se a lui non si concedeva di favellare, chi non l'obbligava di dare orecchio a tante diplomatiche insolenze contro di noi? Perché durare la lettura delle istruzioni destinate ai tre plenipotenziari presso la nostra corte? Un uomo, il quale sapeva sacrificarsi, ed avrebbe interrotto il leggitore ed esclamato che non aveva intrapreso cosí malagevole cammino per vedere insultati ed il suo re e la sua patria!
E fate che io ritorni alla mia prigione — rispondeva Filosseno a Dionigi. — Fate che io vi ritorni; i vostri scritti sono insoffribili! — Ma no; il ministro pregava, onde gli fosse accordata copia di quelle istruzioni gentili, come se diligenti corrieri non fossero già pronti a recarli in Napoli! Ecco ciò che chiedeva il nostro inviato, ecco ciò che a lui si negava.
Fedele istorico del suo silenzio, egli giungeva intanto fra noi. Grandi oggetti debbono richiamare le sue cure; grandi speranze si offrono alla nostra diplomazia.
Vedremo se il ministro saprà trattare gli uni e fecondare le altre: ma i principî non sembrano lieti.
Il principe di Partanna nostro rappresentante in Berlino persiste ostinato nel rifiuto di giurare la costituzione delle Due Sicilie: figlio della moglie del re, non per questo la sua sorte dev'essere diversa da quella dei due Ruffo di Parigi e di Vienna.
I primi figli dei re sono i popoli, diceva l'imperatore d'Austria, cosí quando comandava a sua figlia di sposare l'altrui marito, come quando le strappava dal seno l'unico figlio, relegando quel marito al di là dell'Oceano. Quindi giova sperare, e ciò riguarda la responsabilità del ministro d'affari esteri, che non sarà tollerato il novello insulto alla nazione; e che non si farà ingiustizia ai principi Ruffo e Castelcicala con l'impunità del principe di Partanna!
La nomina dei nostri agenti presso le Corti straniere merita del pari l'attenzione del ministero.
Coloro i quali partirono prima che il Parlamento s'aprisse, non sono i piú atti: essi non han veduto coi loro occhi ciò che dopo quel giorno avvenne tra noi, e forse non prestano fede a quel che loro si narra dello spirito della nazione.
Lo stato delle nostre relazioni politiche con le potenze neutrali è piú difficile di quel che sembra. Se ivi ci amano i popoli, ci detestano i gabinetti. L'oligarchia non è oggi che una specie di monachismo o, se si vuole, di massoneria sparsa in tutta l'Europa. Riti, misteri, linguaggio occulto ed universale, nulla le manca: bisogna quindi combattere dapertutto il mostro proteiforme, e, se sarà possibile, far comprendere alle Corti il loro vero interesse di stare uniti coi popoli.
Noi non sappiamo qual sia la condotta del nostro ministro, riguardo ai Portoghesi; ma ormai ella dovrebbe esser palese. Un inviato del Brasile ostenta in Napoli la sua burbanza contro gli avvenimenti del Portogallo; o ignorando o facendo mostra di obliare che i Portoghesi concedevano il trono alla casa di Braganza, costui avvisa di chiamarli ribelli, or che chieggono di non essere piú colonia del nuovo mondo! Noi non dobbiamo vedere queste cose, né predicare la nostra felice costituzione ad altri popoli; ma se spontanei questi l'adottano, certamente non possiamo trascurare di chiamarli nostri fratelli. Se Giovanni VI non ancora ha sanzionata la costituzione del Portogallo, bisogna credere che lo farà in appresso; ma a noi non è lecito di respingere i voti e forse i soccorsi di quella generosa nazione.
Il papa intanto che fa? Comincia egli a vedere quali ospiti sono i Tedeschi? Permetterà che Ancona e Civitavecchia siano occupate? Se noi saremo costretti di toccare i suoi dominii, non siamo stati certamente coloro i quali, primi, gli han chiesto ospitalità, e non vi combatteremo che per la nostra salvezza. Una volta i papi scioglievano i popoli dal giuramento di fedeltà verso i re della terra, oggi essi sciolgono i re dal giuramento di fedeltà verso la patria; segno evidente che i popoli sono divenuti i piú forti!
Quindi, giova ripeterlo, i monarchi debbono unirsi alle loro nazioni e saranno invincibili. Forse il pontefice comprende questa verità: ma la teocrazia cui egli presiede, gli vieta di recarla ad effetto, e forse non si aspetterà il termine della sua vita per punirlo di aver egli aperto l'adito a truppe straniere.
Allorché si é perduto il pudore politico fino al segno di essersi decretata l'impresa contro Napoli, qual piú agevole cosa di spogliare il papa, se le Sicilie saranno vinte?
Per farlo, basta che l'Austria comandi qualche movimento intestino negli Stati di lui, allorché egli griderà che i carbonari lo hanno prodotto; e poiché, per diritto divino ed imprescrittibile, le sponde del Po appartengono a Cesare, egli sarà evidentissimo per l' Osservatore austriaco, che Cesare deve occupare gli stati del papa con un esercito amico o con un esercito conquistatore.
Ma il papa fa vista di non comprendere nulla; e sembra desiderare la guerra contro Napoli. Si narra che egli ha ordinato di ristaurarsi la via che conduce a Ceprano; e ciò senza dubbio rende piú agevole il movimento dell'artiglieria tedesca. Grazie sieno rese al pontefice: egli ha cura della nostra gloria, e c'invita a combattere! E quindi giungono sommamente opportuni i richiami del suo agente in Napoli, perché il concordato fosse eseguito! Intanto, il nostro ministro di affari esteri o non domanda conto alla corte di Roma delle di lei intenzioni, o nasconde ancora al Parlamento, come non si trattasse delle nostre frontiere, quali sono i di lui provvedimenti intorno ad un soggetto di sí alta importanza.
Noi consigliamo al ministro di non compromettersi con alcuno. Alla sua età si è avuto il tempo d'imparare ad esser prudente!
Qui volevamo noi parlare del ministro di guerra e marina, per rendere omaggio ai suoi talenti ed alle sue virtú, ma egli si è ritirato; e quindi il nostro elogio non sarà riputato meno sincero. Egli ha saputo bene meritare della Patria; e gli succede un uomo, in cui tutti ripongono la fiducia di vedere in brevi giorni recato ad effetto ciò che il suo predecessore non aveva potuto compiere per la sua vecchiezza.
Il nuovo ministro combatterà certamente la calunnia sparsa dai timidi, che possano mancare le sussistenze all'esercito in un regno come quello di Napoli! Egli dee conoscere la furfanteria e l'avarizia degli appaltatori e degli abbondanzieri; non si tratta se non di dar esempi rigorosi, e di mozzare il capo, come vuole la legge, ai convinti di tradimento. Il maresciallo di Turenna disse una volta ad uno di costoro, che lo avrebbe fatto impiccare per la gola...
— Vostra Altezza, quegli rispose, dev'essere persuasa che non si può impiccare un uomo il quale in questo momento può spendere centomila scudi!
E non fu il maresciallo ch'ebbe ragione.
La difesa della capitale è uno dei piú alti soggetti, dei quali deve occuparsi il ministro della guerra. Bisogna persuadere al nemico che la capitale non è nulla in questa guerra: che Napoli può essere bruciata come Washington e come Mosca, senza che ciò riguardi la causa della libertà. Che per salvar Napoli, si debba commettere una viltà? No, sarebbe questo un vilissimo tradimento! Quindi conviene prepararsi; e poiché il Reggente ha sanzionato il decreto di doversi trasportare il Parlamento a Salerno, perché non si comincia da ora?
Perché non si fortificano le alture, onde Napoli è coronata? Né solo é necessario di togliere le armi e gli oggetti di guerra della capitale, ma le cose preziose appartenenti alla nazione, statue, preziosi quadri, manoscritti... Chi non sa di quali tesori la corte di Vienna s'impadroní sotto il regno di Carlo VI? L'insigne biblioteca dei manoscritti del cardinale Scripando in San Giovanni a Carbonara non formano oggi forse l'orgoglio della biblioteca viennese? L'Austria non solo vorrebbe rapirci l'onore, ma tutte le nostre ricchezze; che buon paese era per esso questo regno di Napoli! E qual rabbia di vederlo libero!
Noi parleremo altra volta de' ministeri di giustizia e di finanze; ma giova toccar brevemente la condotta di tutto il ministero riguardo al consiglio di Stato.
Questo è l'unico consiglio del Re; e dee principalmente trattar gli affari di guerra e di pace. Intanto dall'ozio e dal lento passeggiare dei consiglieri di Stato, scorgiamo che essi non sono di altro aggravati se non di qualche provvista di abati e di altri piccoli ufficiuzzi. Né si parla se non del consiglio de' ministri?
Speriamo che questo ordine di cose voglia cessare, e la costituzione aver tutto il suo effetto fra poco: senza di ciò vi potrebbe esser luogo ad accusa legale.
C. T.[87]
Al messaggio del re, pubblicato poc'anzi, il Parlamento rispose col Rapporto che segue:
RAPPORTO della commissione del Parlamento nazionale per l'intervento di S. M. al congresso di Leybach[88].
Signori,
Il messaggio che S. M. vi diresse nello scorso giorno, era ben giusto che occupasse tutti i vostri pensieri. Desideroso di rispondervi con quella calma prudente che non può essere divisa dalla maturità del consiglio, voi nominaste a tale uopo una commissione novella. Non potrei esibirvi i motivi della di lei opinione, se non riproducessi nella vostra mente la storia di taluni fatti notabili.
I rapidi e luttuosi avvenimenti, i quali distinsero la fine del secolo scorso, aveano alterato sensibilmente la marcia della nostra vita politica. La pietà ed il terrore aveano scossi gli spiriti; il sentimento patrio era diventato piú energico, e le cognizioni piú estese; la coscienza della propria forza non era piú muta nel popolo: e gli svantaggi d'una libertà intemperante avevano imparato a desiderarne un'altra piú moderata e piú cauta.
Le sempre nuove e sempre varie vicende che hanno sconvolta l'Europa, non avean fatto che fortificare questa disposizione del popolo. Essi non eran che errori della democrazia o della monarchia assoluta; ed eran quindi i piú atti ad indicare il bisogno d'un partito intermedio. Era facile d'altronde osservare, che contro gl'incerti fenomeni di talune repubbliche efimere reggea tuttora e prosperava la costituzione d'Inghilterra.
Mentre tali riflessioni serpeggiavano oscure nelle menti dei piú, gli amici del potere arbitrario o non erano capaci di scorgerle, o trovavano nel dissimularle il proprio vantaggio. Sorgeva quindi, fra l'opinione ed il governo, quel sordo e grave contrasto che annunzia sempre vicini i grandi cangiamenti. Invano il vigore di Gioacchino Murat e la sua premura di mostrarsi popolare avevan cercato di estinguere l'effervescenza degli animi. Invano il tentativo di rendersi liberi aveva richiamato negli infelici Abbruzzi la rabbia del despotismo militare. Il capo del governo era stato costretto ad accorgersi che la civilizzazione dei popoli non può mai essere illusa dagli artifizi delle Corti e molto meno superata dalla violenza. Dopo di aver vacillato per lungo tempo fra i voti del regno ed i propri, fra l'ambizione e il dovere, ei cadde in fine dal trono. Fu allora che lasciossi sfuggire una costituzione apparente, come l'avaro inseguito si lascia sfuggire un deposito che ha lungamente negato.
Il re legittimo si preparava intanto a rientrare nell'eredità dei suoi avi. Era per lui il coraggio di quegli eserciti immensi che avevan rotta la fortuna del conquistatore dell'Europa, ed avean cangiata la politica dell'universo. Ma la bontà naturale del di lui cuore, era stata perfezionata dalla sofferenza dei mali: egli aveva meditato per due lustri interi nel piú incomodo, ma piú istruttivo gabinetto dei principi, io vo' dire nel gabinetto della sventura. Ei conosceva la smania degli antichi suoi sudditi per isciogliere i vincoli del proprio servaggio. È dunque fama che riprendendo la comunicazione con essi, accarezzò la piú cara delle loro speranze, quella di essere liberi. Furon chiare le voci che, per quanto i fogli assicurano, egli emanò nel proclama del 1º maggio 1815, essendo ancora in Palermo. Egli promise la sovranità al popolo, e la piú energica e piú desiderevole costituzione allo Stato.
Professò anzi che avrebbe solo ritenuta per sé medesimo la piú bella e piú modesta facoltà dei monarchi, quella di serbare intatte e fare eseguire le leggi.
Una dichiarazione sí nobile e sí generosa, non mancò di produrre le conseguenze piú utili. Fu dessa e non il valore alemanno, che nei piani di Macerata dissipò ad un tratto le schiere dei nostri campioni.
Cosí la mano di Ferdinando IV impugnò di nuovo lo scettro: e la di lui anima non dimenticò le intenzioni con cui lo aveva racquistato. Si sa, infatti, che solamente fra i tristi la fortuna è la morte delle promesse.
Sventuratamente, dei rapporti fallaci, e non di rado maligni, della situazione dei suoi popoli, gli persuasero la necessità di ritardare l'effetto dei suoi proponimenti. Se le cose in seguito occorse han potuto occasionargli alcun dispiacere, è stato solamente quello di non aver prevenuti i desiderî coi beneficî.
Continuati intanto ed accesi, erano questi desiderî. Ciò non ostante rimasero in certa guisa inattivi, fino a che il governo blandilli con una condotta liberale. Non si tosto cominciarono a venire irritati dalla persecuzione, che proruppero all'improvviso in uno scoppio violento.
Egli è vero, che i primi segni ne apparvero su le vette dei colli di Monteforte. Ma venner prodotti da un movimento comune alle provincie finitime, e propriamente a quelle di Capitanata, Avellino e Salerno. Fu il popolo che dié la spinta a' 140 individui del reggimento Borbone; ed è perciò che la bandiera da essi inalberata non tardò a circondarsi di centomila proseliti.
Chi ritrova la origine di questo avvenimento nella diserzione militare, deduce in vero il principio della sua conseguenza. Ei crede nata la marea in quel punto del lido in cui l'onda s'è rotta.
Il grido del riscatto arrivò tosto alla Reggia, e risvegliò la memoria delle antiche promesse. Non tardò ad apparire l'effetto nel decreto de' 7 luglio 1820.
In esso il re si compiacque di fondare nei suoi Stati la costituzione di Spagna con quelle sole modificazioni che la rappresentanza nazionale avesse potuto proporre.
Era questa la maggior parte del regno allora quando venne scossa da questa nuova: né ascoltolla dai valorosi di Monteforte, ma dal proprio sovrano. In tal caso la libertà, che in alcuni siti era stata chiamata, giunse in altri inattesa: ma in tutti fu accolta con quel vivo entusiasmo che accompagna la soddisfazione delle lunghe speranze.
La riconoscenza del popolo superò la sua gioia.
Non acclamò egli giammai la costituzione di Spagna, senza mescervi il nome di colui che gliel'avea accordata; e Ferdinando I non mai potè tanto sulla sua nazione, che quando mise una legge al proprio potere.
Sentí egli la sua gloria ed accumulò tutti i mezzi di consolidarla. Sette giorni appena eran corsi, da che egli aveva adottata la costituzione di Spagna, ed innanzi alla Giunta provvisoria recentemente creata, ei ratificò la sua scelta col giuramento.
Tutti i principi suoi figli seguirono l'esempio: e la sua famiglia ed il suo popolo non ebbero quindi che un patto.
Comparve il giorno piú celebre nei nostri annali politici, il primo di ottobre. Nel volto d'infiniti spettatori si vedea brillare la sorpresa, la riverenza ed il gaudio. Un tenero e taciturno contegno era visibile nei vostri sguardi ed in tutti i vostri movimenti.
La conferma della costituzione di Spagna uscí appena dalle labbra del re; ebbe egli appena invocato il tremendo nome di Dio, ed un immenso concerto di voci che tutte insieme esprimeva gli affetti piú cari, scosse le mura del tempio. Egli vide che la piú soave sensazione di un monarca è il grido festoso e spontaneo della riconoscenza di un popolo.
Fa d'uopo osservare che sorbí egli la soddisfazione fino all'ultima stilla. Un fiore non fu sparso, non fu emesso un accento che non risvegliasse nel di lui cuore un piacere distinto. Egli adornò con l'augurio della vostra salute la giocondità della mensa; protestò che i suoi sonni eran divenuti piú dolci; non si nascose il vantaggio di aver vestito il suo trono d'una luce novella.
Fin da' 7 luglio dell'anno corrente aveva egli approvati con anticipazione quegli atti che il suo vicario generale avesse creduti opportuni per mandare ad effetto lo statuto di Spagna. Fu spiegato ai 22 luglio il piú importante fra essi: fu stabilita in fatti la pratica dell'elezione dei deputati, e fu determinata la formola de' vostri poteri. Il governo medesimo credette allora limitarli a mantenere salde le basi di quello statuto politico; né veruna modificazione vi lasciò in dritto di fare, quando non fosse richiesto dalla necessità di adattarlo alle circostanze del regno.
Unisoni a questa formola furono i vostri poteri: unisoni a questi poteri furono i vostri giuramenti, ed unisoni a questi giuramenti furono quelli del re ed il decreto del 7 luglio. L'obbligo di rispettare i principî dello statuto di Spagna, e l'impossibilità di sottometterlo a delle riforme importanti è dunque radicato nel nuovo patto sociale, nella stessa indole de' vostri mandati, nella religione del re e nella vostra.
So che l'invidia del bene ha posto in opera ogni macchina della calunnia.
So che la gloria di un monarca, il quale affrancava il suo popolo, si è deturpata con la taccia della violenza. I posteri crederanno appena che l'ardimento della menzogna sia stato condotto si oltre da voler togliere alla notorietà la sua evidenza. Ma se la natura istessa dei fatti non rispondesse all'accusa, gioverebbe a smentirla un documento della maggiore importanza.
Modificando la costituzione di Spagna, il Parlamento aveva prescritto che per ogni provincia si eleggesse un consigliere di Stato. S. M. si persuase che questa norma restringesse le sue prerogative. Non si stette allora in silenzio, e non si contentò di protestare. Usando anzi francamente dei regi suoi diritti, richiamò alla memoria dell'assemblea il patto sociale, il giuramento comune, l'inviolabile dovere di conservare le fondamenta della costituzione adottata. Mostrò in tal guisa di non essere egli men libero, allora quando aderiva alla rappresentanza del popolo, che allora quando resisteva alla di lei opinione. Se l'unità di questo caso è sufficiente ad escludere la soggezione del sovrano, non lo è meno a render noto l'accordo fra i due principali poteri che dirigon lo Stato.
Era questa la marcia sempre posata e prudente del nostro regime, allorché delle nuvole incominciarono a stringersi verso il nostro orizzonte politico. Gelosi della nostra indipendenza, non avevamo offesa l'altrui. Né ragioni di fratellanza, né opportunità di sito, né utilità di dominio ci avevano indotti a ricevere sotto il nostro patrocinio le città sollevate di Benevento e Pontecorvo.
Gli ambasciatori dei sovrani di Europa avevano goduto nelle nostre contrade di tutta la stima e di tutti i vantaggi che il loro grado esigeva. La nostra libertà era del pari innocente, che urbana e tranquilla.
Eppure i rappresentanti della nostra nazione trovavano chiuse le porte di varie Corti di Europa. Eppure delle penne vendute alla menzogna ed al biasimo, non tralasciavano di ventilar la fama della nostra anarchia.
La curiosità di sapere il motivo di questi modi spiacevoli, pareggiava la certezza di non averli meritati. Fra i nostri agenti diplomatici vi fu chi prese ad appagarla.
Ecco ciò che in data de' 14 novembre egli scriveva sull'uopo: «L'avversione dei gabinetti di Europa, a cagione del modo con cui la Costituzione si è ottenuta, sembra formare il nodo piú forte della questione europea per la sua essenza.
«La Camera unica dei deputati, le restrizioni della prerogativa reale, l'incoerenza di partecipare ad un'assemblea, le negoziazioni diplomatiche, la deputazione permanente, la nomina agli impieghi, dei quali dispone il Parlamento, l'inceppamento del potere esecutivo, l'odiosità del veto lasciato al solo governo, e questo veto anche inefficace, perché solamente sospensivo, ed altre disposizioni della costituzione spagnuola, si trovano dalle varie potenze come tanti germi di discordia e di anarchia, e come incompatibili con la tranquillità dell'Europa».
L'autore del rapporto indicava i mezzi opportuni a riparare questi mali: « — mi sembra, egli diceva, di potere asserire che tutti questi mezzi si riducono ad uno solo; la rifusione della costituzione spagnuola, o piú tosto la formazione di una costituzione napolitana. Mi pare che il punto decisivo sia questo. E riguardo a questo punto il dilemma è breve: o venire incontro con dignità ai desideri dell'Europa, o aspettarsi la guerra e le conseguenze che ne verranno; o modificare da noi stessi la costituzione o aspettare che altri venga a modificarla».
Il nostro agente diplomatico aggiungeva un consiglio. Era quello di domandare l'intervento d'una gran potenza dell'Europa, onde, in compenso delle riforme che avremmo apportate alla nostra legge politica, ci procurasse la pace.
Noi non fummo persuasi dell'esistenza dei mali, e detestammo i rimedi. L'unità della Camera aveva per noi un supplemento nel Consiglio di Stato; non ci sembrava ristretta la prerogativa reale, ma il potere dei ministri; non leggevamo prescritta la necessità d'indicare all'assemblea legislativa le negoziazioni diplomatiche, ma di renderle conto dei risultamenti di esse: trovavamo incapace di essere molesta al governo una deputazione destinata alla sola vigilanza: ignoravamo che il Parlamento nazionale avesse sugli impieghi altro diritto, fuorché quello di presentar le terne per lo stesso Consiglio: se la forza esecutiva è inceppata nel male, la vedevamo sciolta nel bene; o il veto non ci si mostrava sotto l'aspetto di odioso, o credevamo che la odiosità dovesse ferire il Consiglio assai piú che il monarca; ma ci era dato infine il convincerci della inefficacia di un atto che poteva differire per anni la sanzione delle leggi, e che necessitava con questo mezzo al consenso i due poteri sovrani.
Era ben lungi dalla nostra mente il pensiero che gli alti alleati d'Europa volessero gradire il progetto dell'autore del rapporto. La indipendenza del nostro regno è tanto sacra per essi, quanto il dritto delle genti e l'opinione illibata della loro giustizia. Quella storia, che avara per le generose azioni, ha profuso il suo lusso per gli illustri misfatti, non ci presenterà l'aspetto di un principe che abbia snudata la spada per costringere una nazione ad avvilire le sue leggi. L'abolizione dei sacrifici umani coronò una volta il trionfo d'un re di Siracusa: e fu scritto che egli allora stipulava per l'umana natura. La servitú insanguinata d'un popolo, disonorerebbe il piú grande di tutti i trionfi: e si scriverebbe che si è combattuto e si è vinto per lo vitupero del buon senso o per l'infortunio dell'uomo. Chi osò mai di supporre disposizioni sí tristi nei magnanimi regolatori dell'Europa attuale?
Che se aveste obliata la loro virtú e la di loro grandezza, non avreste potuto non sovvenirvi dei vostri poteri. Voi avreste sempre letta nel tenore di essi l'impossibilità di aderire ad un cangiamento essenziale del vostro statuto. Voi avreste riputato contrario alla dignità di quel popolo che rappresentate ed alla vostra costanza l'andare incontro all'intervento d'una potenza straniera, per offerirle di permutare la libertà con la pace.
Riceveste adunque con gratitudine quel messaggio reale, che dimandò il vostro parere sulla mediazione. Ma quando il ministro che vi presentò il soglio, congiunse ad esso i progetti dell'autore del rapporto, tutti i vostri sentimenti vi sboccarono dal cuore, e mi suggerirono l'indirizzo dei cinque novembre.
Esprimeste in esso l'attaccamento ai vostri doveri, la vostra piena fiducia ne' giuramenti reali, la decisione irremovibile dei vostri committenti: la vostra.
I troni di Austria, di Russia e di Prussia erano stati fin qui circondati da un cupo silenzio. La prima voce che da essi ci venne, fu la prima testimonianza della loro giustizia. Non c'internò quello sdegno che non abbiam meritato, ma il desiderio di accordare un posto nel di loro consesso al nostro monarca. Fu questo un introdurre nel gabinetto di Laybach la santità dei di lui giuramenti, la legittimità del nostro cangiamento politico, l'indipendenza e l'autorità del nostro patto sociale.
S. M. ci diresse il messaggio dei 7 ottobre, e noi vi scorgemmo due punti. Manifestò l'uno il disegno di consentire all'invito dei suoi alti alleati: manifestò l'altro le basi d'una costituzione novella, e ci premurò a sospendere alcuna delle nostre incombenze.
La vostra commissione, o signori, non può ravvisare nell'una che le intenzioni reali; non può ravvisare nell'altra che un dispiacevole equivoco del direttore del foglio. È sicuramente degno del cuore di Ferdinando I l'abbellire l'adunanza dei signori del mondo, ed il prendere parte nella sublimità dei loro consigli. Ma come mai avrebbe egli pensato di essere in caso di aderire ad una costituzione novella? Avrebbe egli cancellato il decreto dei 7 luglio, i suoi giuramenti solenni, le sue ripetute proteste, la nobiltà del proprio carattere? Piú non tornerebbero alla di lui rimembranza quelle lagrime di tenerezza, le quali vennero sparse nel primo di ottobre, quelle acclamazioni solenni che accompagnarono la conferma dello statuto di Spagna, quegli accenti interrotti, que' fiori che tanto interessarono il di lui cuore commosso?
La virtú e la condotta del capo della vostra nazione piú non sarebbero sinonimi? E colui che godeva chiamarsi il fondatore e protettore del vostro statuto, presterebbe la mano a divellerlo? E voi destinati, obbligati a mantenerne intatte le basi, potreste voi consentirvi? Un cangiamento preparato da 20 anni diventerebbe adunque per vostra colpa o per vostra negligenza retrogrado?
Rispetto, o signori, alla lealtà, alla fermezza del vostro Monarca.
Tutto ciò che è contrario alla di lui dignità, è per lui impossibile. Se egli è pronto a partire per il congresso di Laybach, non può essersi proposto che il generoso disegno di dileguare le calunnie dei vostri nemici, di rendere sicura la felicità con l'indipendenza del regno e di provare all'Universo che non il palpito del timore, ma lo slancio della gloria gli dirigeva la mano, allorché egli aderiva liberamente alla costituzione di Spagna. Immaginare in lui altri fini è non riputarlo inviolabile: è trasandar lo statuto. Non evvi infatti profanazione maggiore della persona sacra d'un Re, che il supporlo non ricordevole della propria parola.
Quale è dunque lo stato della controversia che voi avete a risolvere? Negherete all'unione dei sovrani il desiderio di chi ha stabilito fra voi il regime attuale, e vi priverete del piú grande difensore della vostra indipendenza?
Perderete la opportunità di spedire un argomento vivente del vostro buon diritto? Ed alla chiamata della giustizia risponderete ferocemente col grido di guerra?
No, cittadini, non è tale il parere che la vostra commissione m'impone di esporvi.
Ella ha creduto di unire nel decreto di cui vi rassegno il progetto, la vostra dignità, la vostra intrepidezza, la vostra fiducia nella virtú del monarca e de' suoi alti alleati, la franchezza e l'onore del popolo da cui tenete i poteri.
Il vostro criterio ne giudichi: il Dio della verità e della buona fede assicuri il vostro giudizio.
Pasquale Borrelli, relatore.
* * *
La commissione cui questo parere appartiene, era composta dei signori Galdi, Poerio, Berni, generale Begani, colonnello Bausan, di Donato, presidente Ricciardi, colonnello Visconti e Borrelli relatore.
L'ULTIMA SEDUTA DEL PARLAMENTO NAPOLETANO DEL 1820[89].
15 marzo 1821.
Presidenza del signor Arcovito.
Gli atti della tornata precedente sono approvati.
Il signor Poerio è invitato dal presidente a dare gli ultimi ragguagli venuti alla conoscenza della commissione di guerra sullo stato dei nostri eserciti. L'onorevole deputato è alla tribuna.
— Le ultime nuove del secondo corpo d'esercito recano che le gole di Popoli sono tuttavia libere; che i marescialli di campo Russo e Montemajor, ed il colonnello Manthoné concentrano le loro forze in Solmona: che un reggimento e due battaglioni di linea marciano da Venafro a Castel di Sangro; che il corpo del generale Verdinois era il di 12 del corrente in Ascoli; che l'intera legione Teramana comandata dall'intendente colonnello Lucente sotto gli ordini di quel generale e numerosa di seimila uomini era pronta a seguirlo. Il movimento retrogrado di quel corpo fatto non piú per il lungo cammino degli Abruzzi marittimi, ma per la strada consolare che conduce nel cuore degli Abruzzi, ed il movimento progressivo dei corpi che s'avanzavano da Castel di Sangro e da Solmona, uniti ai rinforzi che sicuramente spedirà il governo, faranno ben presto riprendere a quel nostro esercito le sue antiche posizioni. Confidiamo perciò — ha aggiunto l'oratore — nella previdenza di S. A. R. nell'accordo, nell'esperienza e nel patriottismo dei generali, nel valore e nella buona volontà delle truppe. Non dubitiamo dello slancio di tutte le milizie per la fantasia alterata di pochi battaglioni, né disperiamo della salvezza della patria per un disastro d'un sol momento e d'un sol luogo. Bandiamo le diffidenze. Vinciamo con la nostra calma l'altrui costernazione; e sopratutto non perdiamo di vista, che noi difendiamo la piú santa e la piú bella delle cause; quella della politica indipendenza del trono e della nazione. Rispetto profondo al Re, calda resistenza agli stranieri, moderazione nella prosperità, fortezza nell'infortunio; ecco i nostri doveri.
Adempiamoli, e costringeremo i nostri stessi nemici a stimarci. Può essere incerta la sorte delle armi; ma non deve essere incerta mai quella dell'onore!
( L'onorevole deputato discende dalla tribuna in mezzo ai vivissimi applausi ).
Il signor Borrelli. Voi avete emesso un decreto concernente la formazione delle guerriglie; ma voleste che ognuna di esse fosse formata di picciol numero di uomini. Ciò non potrebbe conseguire il grande oggetto di tribulare fortemente il nemico. Io vi propongo di aggiungere a quella saggia ed utile disposizione l'altra che vi presento nel progetto di decreto, il quale è diretto ad autorizzare la creazione di corpi franchi piú numerosi, e capaci perciò di recare al nemico grave danno, e di ritardarne in tutti i punti il cammino.
Comandati quei corpi da cittadini ardenti di concorrere alla salvezza della patria, serviranno essi di singolare aiuto ai corpi regolari dell'esercito, co' quali opereranno in tutti i punti di accordo. Ecco il progetto di decreto:
* * *
Considerando che niun mezzo dee trascurarsi per la difesa del regno e per la salute della patria.
Il Parlamento nazionale
decreta:
1. Il ministro della guerra è autorizzato ad ordinare, dovunque il creda opportuno, dei corpi franchi; preporre ai medesimi delle persone, le quali abbiano la sua fiducia e quella della nazione, e disporne in generale i movimenti.
2. La sussistenza di tali corpi franchi si regolerà come quella delle guerriglie; giusta il metodo prescritto dal decreto degli 11 dello stesso mese. ( Approvazioni ).
Il segretario Tumminelli. Legge officio del ministro della finanza, di risposta ad altro del Parlamento concernente i gravi inconvenienti che avvengono nella posta della Sicilia, ove nulla o poco è rispettato il segreto delle lettere. Il ministro domanda che gli sieno date specifiche indicazioni, perché possa procedere secondo la legge, contro gli impiegati infedeli.
Il signor Trigona. I deputati non possono rivelare i casi specifici; eglino indicarono al ministro la norma da seguirsi, quando lo tennero avvertito degli inconvenienti avvenuti. Nel nostro segretariato sono depositate prove contro parecchi impiegati delle poste.
Il signor Morici. Gli atti del Parlamento non giunsero mai in regola nelle provincie; essi o arrivarono in ritardo, o mancarono affatto. Noi abbiamo molte doglianze di questa natura.
Il signor Vivacqua. L'on. ministro avrebbe fatto meglio, se invece di chiedere notizie specifiche dal Parlamento, avesse inviato circolari ed ordini severi per far cessare tali colpevoli abusi e far serbare la fede e l'esattezza che si richiede nel servizio delle poste. La dimanda fatta dal ministro può solo fomentare gli abusi, e far crescere la speranza dell'impunità nei rei. Il Parlamento non può trasformarsi in autorità giudiziaria, cui spetta raccogliere le prove delle infrazioni delle leggi e punirle. Bisogna ripetere al ministro i medesimi uffizi in termini generali ed invitarlo a rendere esatto, regolare e fedele il servizio delle poste. ( Approvato ).
* * *
Il reggimento del terzo leggiero si duole di essere stato lasciato in Palermo; chiede di essere chiamato a far parte dell'esercito destinato alla difesa della patria.
Il presidente. Si rimetta la dimanda al ministro della guerra.
Il signor Colaneri. Non basta rimetterla al ministro della guerra. Quei soldati ed ufficiali valorosi, e vecchi alle armi, credono onta rimanere oziosi in Sicilia, privi dell'onore di aver parte in una lotta dalla quale dipende la indipendenza della nazione e del trono. Il loro zelo è degno della vostra estimazione, e simili domande meriterebbero la vostra approvazione. ( Onorevole menzione al ministro della guerra ).
Il signor Poerio osserva che il Parlamento in questa tornata deve attendere all'esame degli stati discussi di due anni: quello dell'anno 1821 e del prossimo 1822; osserva che la nazione ha diritto a conoscere lo stato delle sue finanze; egli domanda con istanza, che le commissioni attendano di urgenza a questo soggetto.
Luigi Alfonso chiede di armare un legno in corso contro il nemico ( al ministro di guerra e marina ).
Il signor presidente. Il ministro di grazia e giustizia fece conoscere al Parlamento la necessità d'una riforma nelle nostre leggi penali, per render queste accomodate alla nostra costituzione politica. La vostra commissione di legislazione vi presenta un progetto di appendice a quella parte del nostro codice.
Ecco il progetto della Commissione:
* * *
Appendice alle leggi penali del regno delle Due Sicilie.
Art 1. La seconda parte dell'art. 1º delle leggi penali è riformato nel modo seguente:
Ogni reato sarà punito con pene criminali, correzionali e di polizia.
La commissione, sul rapporto del ministro di grazia e giustizia, osservando che la seconda parte dell'articolo primo delle leggi penali, in cui si dice nessuna pena é infamante, sia contraddittoria coll'articolo 221 delle leggi civili: La condanna di uno dei coniugi a pene infamanti potrà essere causa di separazione...
Considerando che non è nelle mani del legislatore il dichiarare o il togliere l'infamia da un'azione o da una pena, è di parere di sopprimere la seconda parte dell'art. 1º del codice penale.
Il signor Mazziotti. — Io credo doversi conservare in quel primo articolo le parole: nessuna pena è infamante, come si legge nel codice. I legislatori non possono comandare alla pubblica opinione.
I signori Berni e Vivacqua sostengono il progetto della commissione ed opinano perciò di sopprimere le parole indicate. ( Rimane approvato il parere della commissione ).
2. L'art. 3º delle medesime leggi sarà espresso cosí:
Le pene criminali sono:
- 1. La morte.
- 2. L'ergastolo.
- 3. I ferri.
- 4. La reclusione.
- 5. La relegazione.
- 6. L'esilio dal regno.
- 7. L'interdizione dei diritti pubblici.
- 8. L'interdizione dai pubblici offizi.
- 9. L'interdizione patrimoniale.
Il signor Saponara. L'ergastolo non fu mai conosciuto dai codici dettati con filosofia ed umanità. Si lasci tal sorta di pena ai barbari legislatori. Ad una nazione libera mal si conviene una pena la quale, isolando per sempre dal consorzio degli uomini le vittime di privati delitti, toglie alla legge il singolare beneficio dell'esempio. Non si devono sottrarre dallo sguardo del popolo le tristi conseguenze a cui conduce il delitto. Io propongo di abolire la pena dell'ergastolo e sostituire ad essa i ferri a vita.
Il cardinal Firrao e molti altri onorevoli deputati secondano il preopinante. (Il Parlamento decide di sostituire alla pena dell'ergastolo quella dei ferri a vita).
Il signor Vivacqua. Adottata la pena dei ferri a vita, rimane a vedere se si debbano conservare le gradazioni nel codice prescritte per la pena dei ferri. Il maximum oggi giunge fino ai 30 anni.
Tolto l'ergastolo — pena intermedia — dai ferri a tempo alla morte, si passa per salto. L'ergastolo non viene rimpiazzato dai ferri a vita, i quali certamente si confondono coll'ultimo grado di questi a 30 anni. Io propongo ridurre il massimo dei ferri a tempo a 20 anni. Allora il primo grado sarà sino a 5 anni; il secondo sino a 10; il terzo sino a 15; il quarto sino a 20. (Il Parlamento approva il parere della commissione e la pena temporanea dei ferri rimane da 7 a 20 anni).
3. La pena di morte si esegue colla decapitazione, salvo le disposizioni dello statuto militare intorno alla fucilazione.
Sono aboliti tutti i gradi di pubblico esempio, stabiliti dall'art. 6º delle leggi penali.
L'esecuzione sul luogo del commesso misfatto, o in luogo vicino, potrà essere, secondo le circostanze, ordinata dal giudice.
Il signor Saponara. Saggia é la disposizione del codice francese per rendere esemplare e terribile la pena del parricida. Si conservi la benda nera e la veste rossa e tutto il triste apparato da quei legislatori sapientemente prescritto.
( Il Parlamento approva l'art. 3º, con l'aggiunzione indicata dal Saponara ).
Il Signor Tumminelli. La commissione di finanza ha preso in considerazione il rapporto del ministro dell'interno, il quale chiede fondi necessari all'acquisto di molti frumenti che trovansi sopra bastimenti destinati a consumare la loro contumacia di osservazione nel lazzaretto di Nisida.
La commissione è di parere di chiedere all'on. ministro schiarimenti sui bisogni dell'esercito e sui mezzi per avere i fondi richiesti.
Il signor Poerio. Prego il Parlamento perché ponga la piú matura ponderazione in questo esame. Noi abbiamo grande bisogno di danaro per l'esercito. Chi potrebbe consigliare di versarne ingente somma in mano dello straniero, comperando cinquantamila tomoli di frumento? Prima di deliberare intorno a sí grave oggetto, è d'uopo che il ministro della guerra ci faccia sapere in questa parte i bisogni dell'esercito. Lo zelo e l'energia del sindaco di Napoli ha già scoperto grandi magazzini e conserve di frumento in questa capitale. L'acquisto di quella derrata non è perciò oggi, come prima credeasi, d'urgenza. Non veggo la necessità di emettere oggi stesso la vostra decisione sulla domanda del ministro.
( È adottato il parere della commissione ).
L'adunanza si scioglie.
La Costituzione era finita. I tre ultimi documenti che riporto, segnano il principio del..... ritorno all'antico; d'una reazione ben più mite — in verità — di quelle del '99, ma che valse ancora essa a preparare le giornate del 1848 ed il trionfo unitario del '60.
Ministero della guerra.
Eccellenza,
Ieri fui a Torricella fino alle 4 e mezza pomeridiane; ritornai quindi a Casalanza per i movimenti della divisione d'Ambrosio. Nella notte mi è giunto rapporto dal tenente generale Filangieri da Torricella, col quale mi dava parte che quella brigata quasi in totalità s'era sbandata, tirando fucilate sugli uffiziali e particolarmente su di lui: fucilate che traforarono, a centinaia, la porta della stanza dov'egli abitava. Intanto, mi giungeva rapporto, che la brigata leggiera del generale Costa aveva avuto avvenimento simile verso Sessa.
E, mentre mi contristava di tutto ciò, intesi a poca distanza numerose fucilate, e verificai subito che queste partivano dai cinque battaglioni della 1ª divisione, arrivati e bivacquati a Casalanza, che i soldati dirigevano sui proprii ufficiali.
Di lí ad un momento furono caricati da quella canaglia i quartieri generali del generale d'Ambrosio e mio. Il generale d'Ambrosio fu salvo per una compagnia di zappatori che fu fedele ai suoi doveri, ed io il fui per una ventina di gendarmi che fecero fuoco sui soldati, i quali vili quanto iniqui si dispersero per la campagna. Ordinai allora alla cavalleria che li caricasse: ed in questa guisa ne ho raccolti molti e ricondotti nei ranghi: ma V. E. rifletta, che sono questi gli stessi uomini ammutinati e sbandati un'ora innanzi.
La prego di stabilire delle pattuglie di cavalleria sulla strada di Napoli ad Aversa: io farò altrettanto da Aversa a Capua: il dippiú è nelle mani di Dio.
Si degni V. E. di dar subito conoscenza di tutto ciò a S. A. R. il principe reggente.
Capua, 18 marzo 1821.
Carrascosa.
A S. E. il segretario di Stato ministro della guerra.
Per copia conforme: Il ministro della guerra Colletta.
FRANCESCO duca di Calabria reggente del Regno.
Le paterne intenzioni del Re, mio augusto genitore, vengono ad essere pienamente rischiarate con le ultime sue manifestazioni fattemi in data de' 19 corrente da Firenze e recatemi dal generale Fardella. Io credo non solo glorioso per Sua Maestà che utile a rassicurare tutti gli animi, il farle note, trascrivendole letteralmente:
«Figlio carissimo,
«Ho ricevute le lettere delle quali è stato da voi incaricato il generale Fardella. Dal contenuto delle vostre del 13 corrente rilevo col massimo dolore quanto voi mi esponete sullo stato in cui attualmente si trovano i miei amati sudditi. I ragionamenti che mi fate par che vogliono indicar me per causa de' mali della guerra, che affliggono il mio regno.
«È per l'appunto per evitar questi mali che io mi sono adoperato, e che vi scrissi la lettera del 28 gennaio da Lubiana, alla quale disgraziatamente nessuna attenzione si è fatta. Le ostilità non provocate sono state commesse dalle nostre truppe, e ciò su d'un territorio neutrale e ad onta fin anche del mio proclama del 23 febbraio.
«L'armata dei miei augusti alleati veniva come amica; i sovrani lo avevano dichiarato. Io avevo esplicitamente annunziato le loro e le mie intenzioni. A chi si devono attribuire i disastri? Chi ne ha la colpa?
«Le potenze alleate ed io abbiamo fatto di tutto per porre in veduta le circostanze infelici alle quali venivano esposti i miei popoli. Abbiamo offerto il modo di evitarle ed abbiamo fatto conoscere, che il bene ed il vantaggio del mio regno esigevano che la ragione dettasse l'immediata cessazione di tutto ciò che costà si era innovato. Ma con mio sommo cordoglio ho veduto che sordi alle voci magnanime dell'augusto Congresso, ed a quello dell'animo mio paterno, una cieca ostinazione ha presentato la resistenza la piú inutile e la piú fatale a quanto si è suggerito per la salvezza e pel vero interesse dello Stato.
«Che si dia una volta ascolto alle voci sincere d'un padre affettuoso. Tale sono sempre stato, e tale mi troveranno sempre gli amatissimi miei sudditi. Si abbiano presenti le mie esortazioni, i desiderii ed i voti che vi ho espressi.
«La mia lettera da Lubiana ed il mio proclama contengono tutto ciò che può e deve servire di norma ad una condotta che reclamano gli interessi del regno, i voti dei buoni e quelli che io non cesso di formare per la tranquillità dei miei Stati.
«Son sicuro, carissimo figlio, che contribuirete dal canto vostro, perché si pervenga all'ottenimento di ciò che non può essere disgiunto dai vostri serii ed ardenti desiderii. Teneramente vi abbraccio, vi benedico e sono il vostro
«Firenze, 19 marzo 1821.
« affezionatissimo padre « Ferdinando B. »
Regolamento delle truppe.
La guardia reale continuerà a prestare il servizio al quale essa è destinata e ad eseguire quello della guardia del Re e del palazzo.
L'entrata delle truppe austriache a Napoli, non lasciando la possibilità di acquartierarvi le truppe napoletane che vi si trovano tuttora, queste riceveranno oggi l'ordine di uscirne e saranno messe per l'ulteriore loro destino agli ordini di S. E. il comandante generale barone di Frimont.
Gli ordini dati da S. A. R. il principe reggente per l'entrata delle truppe austriache nelle piazze di Gaeta e di Pescara saranno rimessi domani prima dell'ingresso dell'armata nella città di Napoli a S. E. il comandante generale barone di Frimont, da S. E. il tenente generale Pedrinelli governatore di Napoli.
Le dette piazze e la città di Napoli saranno occupate nel modo fissato dalla convenzione del 20 marzo seguita innanzi Capua.
Le guarnigioni delle mentovate due piazze seguiranno la sorte delle altre truppe napoletane.
Fatto, conchiuso, e segnato in doppio tra S. E. il tenente generale Pedrinelli, governatore di Napoli ed il signor conte di Figuelmont, general maggiore, tutti e due muniti dei poteri necessarii a quest'oggetto.
Segnato ad Aversa, il 25 marzo 1821.
Pedrinelli. Figuelmont.
Per copia conforme: Il tenente generale capo dello stato maggiore generale F. Pepe.
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI
A
Avellino, città nel Molise,4.
Ascoli (d'), vedi Marulli.
Abatemarco Angelo, fe' parte della giunta di governo,11.
Astarita Michele, comandante d'una bombardiera,16.
Acclavio Domenico, del. giunta provvisoria di prep. terra di Bari,17.
Arcovito, marchese, del. giunta prep. Abruzzo Ultra I,17, riceve il re,36, comm. di legislazione,51, ab.,55, biografia,63.
Articoli della costituzione spagnuola sul sistema delle elezioni,18,31.
Alcaide,19,23.
Antonietta, principessa di Borbone, assiste alla cerimonia d'apertura,36.
Angelini, dep. riceve il re,37, comm. di commercio,51, ab.,57, biogr. 73.
B
Borbone, reggimento cavalleria squadrone disertato,3.
Benthneim, principe,10.
Bandiera tricolore,10.
Bausan, doma la rivolta di Palermo,16, comm. di marina,51, ab. 56, biogr. 66.
Bartolini Gerolamo, delegato giunta prep. valle di Siracusa,17.
Biblioteca di Monteoliveto,33.
Begani, dep. riceve il re,36, comm. di guerra,51, ab.,56, biogr.,63.
Brancaccio don Nicola principe di Ruffano, primo cavallerizzo del re,36.
Berni, dep. riceve il re,37, segr. del Parlamento,38, comm. IX,52, ab.,55, biogr.,65.
Brasile, dep. riceve il re,37, VIII commissione,52, ab.,58.
Borrelli Pasquale, dep. comm. sicurezza interna,51, ab.,56, biogr.,66.
Buonsanto, dep. VI commissione,52, ab.,58, biogr.,70.
Biscari (principe di), ab.,59, biografia,65.
C
Costituzione, il grido di luglio,3,4,5, di Spagna,14,23.
Conciliis (de), ten. colonnello,4, riceve il re,37, comm. di guerra,51, ab.,56, biogr.,72.
Colletta P. Si cita la sua storia del reame,4, contro le elezioni,33, sua critica al discorso di Galdi,43,44.
Carbonari alla Reggia,5.
Circello (marchese di), convince il re a dare la costituzione,7.
Calabria (duca di), vicario,8,9, sceglie i componenti la giunta di governo,11, duchessa, segue il re alla cerimonia di apertura,35, parla in risposta a Galdi,44,49, a San Carlo il 1º d'ottobre,50,55, manifesto al popolo, marzo,21,129.
Campochiaro (principe di), ministro luglio,10.
Carascosa, generale, ministro luglio,10.
Cardosa, vescovo di Cassano, fe' parte della giunta di governo,11.
Camporeale (principe di), fece parte della giunta di governo,11.
Cianciulli Carlo, delegato per la giunta prep. di Terra di Lavoro,17.
Cassitti Giulio, delegato per la giunta prep. di Capitanata,17
Carelli Saverio, del. giunta prep. Basilicata,17.
Cominelli Mauro, deleg. giunta prep. Vallo di Caltanissetta,17.
Compromessorii, elezioni per compromessi,19.
Corti, camere del Parlamento,19,23,26.
Carlo di Borbone, principe reale di Capua, assiste alla cer. d'apertura,35.
Cristina, principessa, assiste alla cer. d'apertura,35.
Ceraldi, dep. riceve il re,36, comm. di legislazione,51, ab.,55, biogr.,73.
Cassini, dep. riceve il re,36, ab.,58.
Cesare (de), dep. riceve il re,36, comm. di legisl.,51, ab.,55.
Capece Minutolo, don Giuseppe principe di Ruoti, generale comandante delle guardie del corpo,36.
Caccamo monsignor don Salvatore, confessore del re,36.
Carlino, dep. riceve il re,37, VIII comm.,52, ab.,58.
Castagna, dep. riceve il re,37, VIII comm.,52, ab.,59.
Comi, dep. ab.,57.
Coletti,37,51,57,74.
Catalano,37,51,55,73.
Cantù,44.
Commissioni parlamentari,51.
Corbi Carlo,51,57.
Coletta abate Michele,51.
Caracciolo dep. V commissione,51,57,71.
Colaneri,55.
D
Danimarca (principe di) a Napoli, 10.
Delfico Melchiorre,11, VII commissione,52,58,74.
Deputati, s'indicono le elezioni dei,13.
Delegati speciali per la giunta provvisoria,17.
Deputazione, per ricevere il re,36.
Dragonetti,36,51,57.
Desiderio,37, VI commissione,52,58,76.
Donato,37,51,76.
Diario del Parlamento (nota),51,121.
Diploma dei deputati, (nota),52.
E
Elezioni, s'indicono le...,14.
Elettori di Napoli,27.
Ecclissi,8 settembre,32.
F
Foggia, un reggimento che si ribellò,4.
Ferdinando I,7,8,11,32,33,34, risponde al discorso di Galdi,44, scene ai dep.,101.
Fardella, ten. generale,11.
Filippi (de),17, IX commissione,52,58,77.
Ferrari, barone,17.
Finocchino Salvatore,17.
Ferdinando, duca di Noto,36.
Firrao, cardinale,36,51,56,77.
Fantacone G. C.,36, VIII commissione,52,59,77.
Flamma, VI comm.,52, ab.,58,78.
G
Gallo, duca di,11.
Gravina don Gabriele Maria, cappellano di Corte,11.
Giuramento del re alla Costituzione,12, formola,38.
Giunta preparatoria del Parlamento,15.
Grano, monsignore, Vallo di Messina,17.
Giunta elettorale di Parrocchia, art.,18,22, di partito,22,26, di provincia,26,31.
Guardie d'interna sicurezza,27.
Giovine, dep.,36,57,81.
Gerardi,36,51.
Grimaldi,36,57.
Gaetani don Onorato, duca di Miranda, cacciatore maggiore del re,36.
Galoi,38,43,49,55,79.
Ginestous, commissione finanze,51,57,70.
Gerone,51.
Galanti, dep. VII commissione,52,58,78.
Giordano,57.
H
Horatiis (De),58.
I
Influenza dei ministri e dei carbonari sugli elettori,32.
Imbriani,36, VII commissione,52,58,82.
Incarnati,37,51,57.
Iannantuono, VI commissione,52,58.
Iacuzio,57,82.
L
Leopoldo, principe di Salerno,11,35,50.
Liso (de) Tommaso,17.
Lombardo Giuseppe,17.
Lauria Francesco, dep.,36,51,55,83.
Losapio,37,51,57.
Lozzi,37, V commissione,51,57.
Lepiane, VI commissione,52,58,83.
Luca (de), deputato, VIII commissione,52,55,58,84,86.
Liberatore,83.
Lubiana, congresso,101,103.
M
Morelli, sottotenente disertore,3,4.
Minichini, prete,3.
Mercogliano, prima tappa dello squadrone disertato,4.
Molise in rivolta,4.
Mayer,56.
Marulli don Troiano, duca di Ascoli,5, cavallerizzo maggiore,36.
Macedonio, cav. ministro di luglio,10.
Martucci Giacinto,11.
Mangarelli Benedetto, del. giunta preparatoria di Terra d'Otranto,17.
Mezzanotte Francesco, Abruzzo Citro,17.
Mappe coi nomi degli elettori,18.
Mastrilli don Vincenzo Maria, marchese della Schiava, capitano degli alabardieri del re,36.
Mazziotti,37, comm. di sicurezza interna,51,56,87.
Macchiaroli,37, commissione di guerra,51,56,87.
Morice,37,51.
Matera,37,51,57.
Mazzone,37, IX commissione,52,58.
Mercogliano,37, VIII commissione,52,58,88.
Melchiorre,37,51,57.
Molinaro del Chiaro Luigi, (nota),50.
Maruggi,52,58.
Minerva Napoletana, giornale, estratti di articoli,60.
Ministero, art. della Minerva della guerra ordine del giorno,128.
N
Nunziante marchese Vito,4,5.
Nunzio apostolico in Napoli,10.
Netti, dep.,37,51,57.
Nicolai, VII commissione,52,58,88.
Natali,55.
O
Opuscolo pubblicato nel '20 per modificare alcuni articoli sull'elezione dei deputati,30 (in nota).
Orazio, dep. IX commissione,52,58.
P
Puglie (in rivolta),4.
Pepe gen. Guglielmo,5,10,13,34,37, critica il discorso del Galdi,44, rinunzia al comando in capo dell'esercito costituzionale,49.
Pepe Gabriele,59,89.
Ponte della Maddalena,8.
Piccolellis (de), duca, genero del duca d'Ascoli,7,56.
Parise, generale, incaricato di formare la giunta di governo,10.
Pepe Florestano,11, è inviato a Palermo,16.
Parrilli Felice,11.
Parlamento (vedi Elezione e Deputati ),52, ultima seduta, resoconto,121.
Palermo, insorge,16, s'arrende,16.
Palazzolo Eugenio,17.
Pagliari Carlo,17.
Partito o distretto,22.
Perugini,36; commissione militare provvisoria,51.
Poerio,36,51,56,89.
Pessolani,37,51, ab.,57.
Piccolellis (de),37, commissione di sicurezza interna,51,91.
Pelliccia,51,55,91.
Petruccelli, VI commissione,52,57.
Perugini,56,91.
Q
Quinzio, marchese, delegato giunta preparatoria, Abruzzo II Ultra,17.
R
Reggia di Napoli,4,11.
Ricciardi, conte; ministro di luglio,50,39,58,95.
Russo Giovanni,11.
Rossi Gregorio, Calabria Ultra 2ª,17.
Reggitori, eletti a sorte,21.
Ruggieri,36, VII commissione,52,58,73.
Riolo,37, V commissione,51,55.
Rossi Francesco,37,51,56.
Rossetti Gabriele, suoi versi,38.
Ricciardi Amodio, dep. VII commissione,52.
Rondinelli, VIII commissione,52,58,93.
Romeo Santi, biografie,93.
Rapporto del parlamento al congresso di Lubiana,111.
Regolamento delle truppe, marzo 1821,131.
S
San Carlo, teatro,10,13,50.
Settimio Ruggiero, ministro di luglio,10.
Staiti, cap. di vascello,11.
Sacco Giacinto,17.
Saleggio Giuseppe, delegato giunta preparatoria, valle di Girgenti,17.
Sant'Eremo, marchese di, accompagna gli elettori alla messa dello Spirito Santo,27.
Spirito Santo, chiesa in cui ebbe luogo l'apertura del Parlamento,35.
Scrugli,36,51,55.
Semmola,36, VI commissione,52,58,97.
Strano,36, VI commissione,52,55.
Statella don Francesco principe di Cassaro, maggiordomo maggiore del re,36.
Sangro don Nicola dei duchi di...., Somigliere del corpo,36.
Sponza, dep.,37,51,56,96.
Sonni, dep.,37, VI commissione,52,58,96.
Samara Felice,51.
Suggello del Parlamento,52.
Saponara,55.
T
Terra di Lavoro, si ribella,4.
Tommasi, marchese, segretario di Stato firma l'editto del 6 luglio '20,8.
Troyse, proc. gen. della S. C. di G.,11.
Teatri di Napoli in luglio,13.
Tafuri,36,51,55,97.
Trigona,37, VIII commissione,52,59,98.
Troya, direttore del giornale La Minerva,60.
Torelli Vincenzo, direttore dell' Omnibus,61.
U — W
Winspeare, barone, incaricato di formare la giunta di governo,11.
V
Visconti Ferdinando, colonnello,11,58,99.
Villafranca principe di, perseguitato,17.
Vecchio Giustiniano,17.
Vasta,37, VII commissione,52,58,98.
Vivacqua,37, commissione sicurezza interna,51,56,100.
Z
Zurlo conte Giuseppe, ministro di luglio,10.
NOTE:
1. V. Appendice II in fine del presente lavoro.2. P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1754 al 1825, lib. II, cap. I.3. I popolani ignoranti, che non sapevano che si fosse la Costituzione, la chiamavano: Cauzione, quasi garanzia, salvaguardia, malleveria del Sovrano verso il popolo.4. Il marchese Vito Nunziante nacque il 17 aprile 1775 a Campagna e morí il 22 settembre 1836 a Torre Annunziata. I suoi genitori erano poveri e d'origine oscura. Nel 1794 s'arrolò in un reggimento di fanteria e fu licenziato alla fine della campagna del 1798. Tornato a casa riuní un migliaio d'uomini dell'antico esercito, si nominò egli stesso colonnello di questa truppa improvvisata e la mise a disposizione del cardinale Ruffo, che s'affrettò a confermarlo nel suo nuovo grado. Alla testa del suo reggimento assistette all'assedio di Capua e nel 1800 al combattimento di Siena per poco scampò dalle mani dei Francesi che l'avevano fatto prigioniero.
Nel 1806 diede il consiglio di lasciar Napoli senza resistenza e di ritirarsi nelle Calabrie; la retroguardia che egli comandava essendo stata dispersa a Campotenese, egli si gettò in Reggio e partecipò col resto del reggimento Real-Sannita alla difesa di questa piazza. La bravura e la fedeltà di cui diede prova gli valsero i gradi di brigadiere (1807) e di maresciallo di campo (1814). Dopo il ritorno dei Borboni a Napoli (1815) Nunziante nominato comandante superiore della Calabria fu incaricato di presiedere al giudizio contro Gioacchino Murat e seppe in tale penosa circostanza conciliare i suoi doveri col rispetto per una sí grande sventura.
Dopo quest'epoca la Corte lo colmò di favori. Oltre a considerevoli pensioni, nel 1815 ottenne il titolo di marchese e nel 1819 il grado di tenente generale e la gran croce di San Giorgio. Nel 1820 ebbe il comando di Salerno.
All'epoca di cui trattiamo, spedito a Nola, ricevette l'ordine di marciare contro gli insorti, ma avendolo abbandonato, per via, i soldati, egli tornò a Napoli redigendo il rapporto di cui abbiamo piú sopra tenuto parola. Dopo avere comandato le divisioni di Siracusa e Palermo divenne ispettore generale dell'esercito, quartier mastro generale, nel 1830 fu vice-re di Sicilia e fu creato nel 1831 Ministro di Stato col comando di tutte le truppe del Regno.
5. Giornale delle Due Sicilie, 6 luglio 1820, N. 161.6. Ecco la lettera:
Mio diletto ed amatissimo figlio Francesco, duca di Calabria. — Per indisposizione di mia salute, essendo io obbligato per consiglio dei medici, di tenermi lontano da ogni seria applicazione, crederei essere verso Iddio colpevole, se in questi tempi non provvedessi al governo del regno in modo che anche gli affari di maggior momento abbiano il loro corso, e la causa pubblica non soffra per le dette mie indisposizioni alcun danno. Volendo io adunque disgravarmi dal peso del governo sino a che a Dio non piaccia restituirmi lo stato di mia salute adatto a reggerlo, non posso ad altri piú condegnamente che a Voi affidarlo, mio dilettissimo figlio, e per essere Voi il mio legittimo successore e per l'esperienza che ho fatto della Vostra somma rettitudine e capacità.
Laonde di mia piena volontà vi costituisco e fò in questo mio regno delle Due Sicilie, mio Vicario generale, siccome lo siete stato altre volte in questi dominii ed in quelli oltre il Faro, e vi concedo ed in voi trasferisco colle pienissime clausole dell' Alter Ego l'esercizio d'ogni diritto, prerogativa, preeminenza e facoltà al modo istesso che da me si potrebbero esercitare.
Ed affinché questa mia volontà sia a tutti nota e da tutti eseguita, comando che questo mio foglio da me sottoscritto e munito del mio real suggello sia conservato e registrato dal nostro Segretario di Stato, Ministro cancelliere, e ne sia da Voi passata copia a tutti i Consiglieri Segretari di Stato per parteciparlo a chiunque loro convenga.
Napoli, 6 luglio 1820.
Firmato: Ferdinando.
7. Pepe G. — Memorie, I, 265-266.8. Colori essenzialmente fissati dai Carbonari: poiché, come diremo in un prossimo lavoro, il rosso significava la fiamma, il nero il carbone, l' azzurro il fumo.9. Era capo dei carbonari nella provincia di Foggia fino a tutto il Gargano.10. I superstiziosi dissero che una Costituzione giurata in un giorno nefasto (il 13) non poteva avere un esito felice!11. Giornale costituzionale delle Due Sicilie, 14 luglio 1820, Nº. 6.12. Op. cit. I. 419.13. Mss. Certosa di San Martino. Opere rappresentate nei teatri di Napoli fino al 1860. L'opera la Giardiniera abruzzese era di soggetto tutto carbonaro; poiché giardiniere chiamavansi fra di loro le mogli dei settari.14. Giovedí 27 luglio 1820.15. Un decreto dell'ottobre 1820 stabiliva che le sessioni del Parlamento Nazionale si tenessero in San Sebastiano alle spalle del largo Mercatello (piazza Dante).16. Bibl. Naz. di Napoli. Msc. 190. E. 1, foglio volante. Di questa insurrezione dovuta ai carbonari di Sicilia ed alle loro idee di indipendenza da Napoli dirò piú ampiamente altrove.17. Errico de Cosa.18. Decreto 22 luglio 1820.19. Coll. 190. E. 1.20. Della costituzione politica della Monarchia Spagnola tradotta per ordine del Governo (Edizione ufficiale, 1820). È preceduta da una breve spiegazione delle varie parole, che avrebbero potuto non essere comprese nel regno.
Riportiamo per intero gli articoli per essere importantissimi e avvertiamo che la traduzione in italiano venne fatta dal Masden di Barcellona.
21. S'intendono quegli individui nei quali i cittadini depositavano le loro volontà per nominare gli elettori parrocchiali. Questo modo di elezione si diceva per compromesso.22. Erano i principali agenti dell'amministrazione civile e della giudiziaria; ma piú particolarmente della prima come risulta dall'art. 309 della Costituzione: — «pel governo interno vi saranno degli aggiuntamenti composti dell' alcaide dai reggitori e dal sindaco procuratore: queste riunioni saranno presiedute dal capo politico, ove questo vi fosse ed in sua assenza dall' alcaide o dal piú antico di essi, quando ve ne fossero due».23. È lo stesso che distretto.24. Martedí, 29 agosto, gli elettori parrocchiali di Napoli riuniti nella sala delle adunanze in San Domenico Maggiore, si recarono all'arcivescovado per assistere alla messa dello Spirito Santo. Il corpo degli elettori fu scortato da un drappello di cavalleria della Guardia di sicurezza interna. Il marchese di Sant'Eramo, sindaco di Napoli, prese parte al corteggio. ( Giorn. Costituzionale delle Due Sicilie, giovedí 31 agosto n. 47).25. Abbiamo questo caso, proprio nel Parlamento napoletano del '20: Melchiorre Delfico era deputato di Napoli e dell'Abruzzo Ulteriore; Matteo Galdi di Napoli e di Principato Citeriore; Antonio Ruggeri di Napoli e Principato Ulteriore.26. Un opuscolo, d'innominato autore che vide la luce appunto nel 1820, censura questo mandato colle seguenti parole:
«Presso di noi, che per l'opposto debba adattarsi alle circostanze del Regno lo statuto politico, i poteri dei deputati debbono essere altri. Quindi gli stessi termini non ci convengono».
Difatti il governo con decreto del 7 luglio med. anno modificò cosí: I deputati dovranno portare le ampie facoltà degli elettori secondo la formola inserita nelle istruzioni che accompagnano il presente decreto.
27. Leggi: Napoletana.28. L'art. 328 della Costituzione Spagnuola era il seguente:
«L'elezione di tali individui si farà cogli elettori di partito nel giorno seguente a quello de' deputati delle Corti, e nella stessa guisa che si pratica per la nomina di questi deputati».
29. S'era annunziato anche per questa giornata un'ecclisse di sole visibile a Napoli; però l'ecclisse si limitò ad essere... anulare, pei Napoletani, quantunque fosse attesa con grande curiosità.30. V. 2ª parte di questo lavoro.31. A Londra nel 1820 vide la luce un opuscolo: Sketch of the late revolution of Naples by an Eye Witness. A proposito dell'elezione dei deputati, a carte 18 dice:
«Similar difficulties are to be totted to, in the mode of electing the deputies for the new Parliament, and in the establishement of prerogatives, which a people unused to advantages to novel, will be but too prone to abuse».
32. Aveva dichiarato di lasciare il comando in capo dell'esercito Costituzionale sin dai primi del settembre.33. È posto di rimpetto quasi al Palazzo d'Angri.34. Largo di palazzo (San Ferdinando); largo della Carità, largo del Mercatello (piazza Dante).35. Ordinanza del prefetto di Polizia (Arch. di Stato gen. di Napoli).36. Nata il 6 luglio 1789.37. Fu il famoso Ferdinando II penultimo dei Borboni nel regno di Napoli.38. Nato ai 2 di luglio 1790 e sposato ai 28 luglio 1816 con Maria Clementina, arciduchessa d'Austria nata il 1º di marzo 1798.39. Fecero parte di questa prima deputazione:
Scrugli, Firrao, Dragonetti, Perugini, Ceraldi, de Filippis, Poerio, Begani, Ricciardi, Cassini, Lauria, Ruggieri, Giovine, Tafuri, Semola, de Cesare, Strano, Arcovito, Gendano, Imbriani, Fantacone e Grimaldi.
40. Vi appartenevano il maggiordomo maggiore Don Francesco Statella, principe di Cassaro; il cavallerizzo maggiore don Trojano Marulli, duca d'Ascoli; il somigliere del corpo don Nicola dei duchi di Sangro; il generale comandante delle guardie del corpo don Giuseppe Capece Minutolo principe di Ruoti; il cacciatore maggiore don Onorato Gaetani duca di Miranda; il capitano degli alabardieri don Vincenzo Maria Mastrilli marchese della Schiava; il primo cavallerizzo don Nicola Brancaccio principe di Ruffano; ed il confessore del Re monsignor don Salvatore Càccamo arcivescovo di Melissa.41...... era facile scorgere che re, esercito e popolo sforzavansi a vicenda di far mostra di reciproca confidenza ed amore.42. Facevano parte di questa seconda commissione: Riolo, Vasto, Desiderio, Pergolani, De Conciliis, Mazziotti, Sponsa, Macchiaroli, Berni, Angelini, Netti, Losapio, Carlino, Francesco Rossi, Sonni, Brasile, Paglione, Morice, Matera, Lozzi, Incarnati, Castagna, Vivacqua, Mazzoni, Mercogliano, Coletti, Donato, Melchiorre, Catalano, De Piccolellis, e Trigona.43. Il Rossetti (Gabriele) che era stato impiegato al Museo Borbonico di Napoli, scrisse questi versi: Volontario distese la mano
Sul volume dei patti segnati,
E il volume dei patti giurati
Della patria sull'ara posò.
Una selva di lance si mosse
All'invito del bellico squillo:
Ed all'ombra del patrio vessillo,
Un sol voto discorde non fu.
Da fratelli si strinser la mano,
Dauno, Irpino, Lucano, Sannita,
Non estinta, ma solo sopita
Era in essi l'antica virtú.
44. Questo discorso fu detto «lungo» dal Colletta, che aggiunge (lib. IX, cap. II): «ed il re di tempo in tempo affermava col cenno».
Il Pepe dice al proposito ( Mem. II, 6):
— ... il Galdi profferí un discorso che fu piú lungo del dovere, ma pieno d'erudizione e di sensi patri.
Il Cantú scrisse:
— ... il re udito un discorso piú gonfio che sostanzioso...
45. Ecco come il Pepe, nelle sue Memorie, racconta il fatto della rinunzia:
— «... venne infine la mia volta. Io avevo scritto discorso affatto conciso ed energico, ma spiacque al conte Zurlo ministro dell'interno, il quale m'appuntò di parlar troppo da Spartano. Allora il pregai di scriverne uno per me dicendogli che io non sapevo scrivere ciò che non sentivo e però lessi poche parole non mie ma di Zurlo. E non potei leggerle con energia.»
46. Luigi Molinaro del Chiaro nella sua Raccolta di canti popolari napoletani, ne riporta uno che è proprio di quest'epoca: 'O re 'e Napule è re d'è maccarune
Vò fà la guerra senza un cannone
'O re e' Napoli è re d'è maccarune
Guerra vò fare contr'à Nazione!
47. Il diario del Parlamento nazionale delle due Sicilie 1820, Napoli nella stamperia Nazionale.
Questa copia è incompleta perché giunge alla seduta del 3 dicembre 1820, inclusivamente, cui sono aggiunti tre ordini del giorno delle sedute del 22 gennaio, 5 marzo e 17 marzo 1821. Il parlamento tu chiuso ai 31 gennaio 1821; poi riaperto, a causa delle decisioni dei sovrani alleati a Laybach, il 13 del febbraio seguente. È completa poi, invece quella di Carlo Colletta.
48. Il popolo ed il Re vestito alla Francese che si stringono le destre.49. Era imbarcato.50. Era scritto da G. Trova e Giuseppe Ferrigni. Debbo la visione dell'intera raccolta alla cortesia del professore Amerigo de Gennaro Ferrigni.51. Non fu possibile attuare questo desiderio!52. Ces. Morisani, Notizie biografiche di Girolamo Arcovito, Reggio Calabria, stamp. Silari.53. V. Fontanarosa, Vita di Domenico Cirillo, Napoli, 1899.54. V. Fontanarosa, Studi sul decennio, 1899, op. cit. 2ª ed.55. È di prossima pubblicazione un nostro studio sulla Difesa di Gaeta nel 1815, con copiosi documenti inediti.56. C. Minieri-Ricci, Accademie napoletane, fino al secolo XVIII, in Arch. stor. nap.57. V. C. De Sterlich, op. cit., pagg. 37 e seg.58. V. Fontanarosa, Studi sul decennio, 2ª ed. — La marina napoletana nel 1809, Italia Marinara editrice, 1897.59. Fontanarosa, op. cit.60. Riporto le notizie biografiche di lui da Gaetano Giucci: Degli scienziati italiani formanti parte del VII congresso in Napoli, nell'autunno del MDCCCLXV, pp. 70 e seguenti.61. P. E. Tulelli, Elogio di Vito Buonsanto, accademico Pontaniano. — Napoli, stamperia del Fibreno, 1851.62. Vincenzo Cannaviello, Lorenzo de Concilii, Avellino, tip. G. Pergola, 1898.63. Luigi M. Greco, Tentativo dei carbonari ecc.64. Raffaele Loschiavo, Discorso pronunziate sulla spoglia mortale di Vincenzo Catalano. — Stampato per cura di Domenico Corrado, cognato dell'estinto, 1843.65. Della vita e delle opere di Delfico Melchiorre, Teramo presso Ubaldo Angeletti, 1836.
Annali civili del regno delle Due Sicilie, p. XIV — pp. 121 e seg.
66. Angelo Balletta, Elogio funebre dell'arcidiacono Giuseppe Desiderio.67. V. C. de Sterlich, Commemorazione di persone ragguardevoli, mancate alle Due Sicilie dal 3 novembre 1843 al 2 novembre 1844.68. V. Fontanarosa, Studii sulla rivoluzione del 1799 in giornale Roma (maggio-ottobre 1799), Napoli.69. V. Fontanarosa, Studi sul decennio (cronache dell'entrata in Napoli di re Gioacchino), Napoli, 1896, It. Marinara, editrice.70. Alfonso Filippini, Elogio di Luigi Galanti.71. Giovanni Gioia, Elogio dell'arciprete G. M. Giovane, Napoli, a cura della Società filomatica, 1837.
— Annali civili del regno delle Due Sicilie, anno 1837: fog. 35 e seg., fasc. XXV.
72 . Dal protocollo di polizia generale in Arch. di Stato . 73 . Saverio Baldacchini , Morte di Matteo Imbriani , Roma, tipografia delle Belle Arti, 1847. 74 . L. M. Greco , Annali , ecc. 75 . Arch. di Stato , Protocollo 1831, aff. est. vol. IX. 76 . Elogio di Domenico Tartaglia , Napoli, presso Raffaele Miranda, 1830. 77 . Vincenzo Fontanarosa , Studi sul decennio, Italia Marinara editrice, 1897. 78 . Archivio di Stato , Protocollo di polizia generale vol. XV, 1831. 79 . Fontanarosa , op. cit. 80 . V. Vincenzo Fontanarosa , Le rime d'un martire (Alessandro Poerio), 1896, Napoli, in-8º. 81 . V. Fontanarosa , op. cit. 82 . Dalla Minerva del 1821, op. cit. 83 . v. Vinc. Fontanarosa , Studi sul decennio , 1897, Italia marinara editrice. 84 . Op. cit. 85 . In documenti Ferrigni, cit. 86 . Il duca di Gallo. 87 . Carlo Troja . 88 . Napoli 1821. Nella stamperia del Parlamento nazionale (9 dicembre). 89 . Diario del Parlamento nazionale delle Due Sicilie negli anni 1820-21 . Edizione fatta per cura di Carlo Colletta , Napoli, dalla stamperia dell' Iride , 1864.