MEZZO SECOLO DI PATRIOTISMO

MEZZO SECOLO DI PATRIOTISMO

SAGGI STORICI

DI

R. BONFADINI

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1886.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati i diritti di traduzione.

Milano. Tip. Treves.

AL NOBILE CARLO D'ADDA SENATORE DEL REGNO.

Caro amico,

A te, che mi precedi negli anni, nell'autorità e nel sapere, dirigo questo mio volume, che vorrebbe richiamare i vecchi alle vigorose emozioni della loro giovinezza e radicare nei giovani il rispetto per le antiche operosità e pei patriotismi antichi.

Apparteniamo entrambi ad un'epoca, in cui la foga del vivere consuma e getta molto pasto all'oblìo. Auguriamoci che non consumi almeno più di quanto produce, e che dall'oblìo si salvi, dov'è possibile, il bene. Dimentichiamo pure il male, o piuttosto perdoniamolo. Il perdono è più virile dell'oblìo.

M'è accaduto più volte, scrivendo questo volume, di pensare alle rapide evoluzioni che possono compiere, sotto la pressura degli interessi, le amicizie politiche.

Noi siamo stati per mezzo secolo accaniti avversari di un Impero, al quale ci legano ora vincoli d'alleanza, che credo leali e che spero durevoli.

Ciò non mi ha impedito di evocare, come le abbiamo sentite, le impressioni di quel cinquantennio e di tradurle col linguaggio e colla logica di quegli anni. La storia, a parer mio, non si può scrivere che così. Giacchè i fatti perderebbero la metà dei loro veri e dei loro insegnamenti, se si volessero costringere alle stesse metamorfosi che possono subire, e sono libere di subire, le idee. Il rispetto per gli uni non turba l'adesione alle altre. Molto più che fra popoli intelligenti nessuna lotta politica dura mai oltre la scomparsa della causa giusta che la rendeva necessaria. E gli Italiani sono un popolo intelligente. Sanno lottare al bisogno; ma lottano, secondo i consigli del Vangelo, perchè il peccatore si converta, non perchè muoja.

In questi pensieri e in questi desiderj so di averti compagno; e ciò mi lascia sperare che se il mio povero libro avrà censori severi, non gli mancherà l'indulgenza del tuo giudizio. In ogni caso, lo scriverlo e lo stamparlo non mi sarà stato inutile; poichè mi avrà permesso di esprimerti pubblicamente, malgrado la tua fiera modestia, il molto bene che penso di te.

Sondrio, 8 marzo 1886.

Tuo aff.

R. Bonfadini.

INDICE.

I.

Francesco Melzi e il periodo italiano. (pag. 1 a 56).

L'unità e la trinità del periodo. — Il Primo Console a Milano. — Le nuove idee. — I nuovi ordinamenti. — Il Comitato di Governo. — G. Battista Sommariva. — Corrotti e corruttori. — Carlo Porta e Francesco Melzi. — La Consulta di Lione. — Un'assemblea parlamentare operosa. — L'apogeo di Bonaparte. — Melzi e Talleyrand a Lione. — Una seduta solenne. — La Repubblica Italiana. — Gli antecedenti di Francesco Melzi. — Il contino a Parigi. — L'ingresso del Vice-Presidente. — Il governo di Melzi. — La lotta contro l'intrigo. — I generali francesi. — Alto sentire ed alto linguaggio. — L'Impero. — Eugenio Beauharnais. — Napoleone a Milano. — I delirj del dispotismo. — I consigli del duca di Lodi. — Un vero uomo di Stato.

II.

Giuseppe Prina e la fine dell'epoca Napoleonica. (pag. 57 a 128).

Il metodo e la fatalità nella storia. — Il primo Regno d'Italia. — Splendori e violenze. — Le previdenze di Melzi. — Lo scroscio. — Il duca di Lodi e il principe Eugenio. — I partiti politici a Milano nel 1814. — Gli austriaci, i conservatori, gli italici. — Federico Confalonieri e l'avvocato Traversi. — Il programma del duca di Lodi. — Il conte Diego Guicciardi. — Le rimembranze austriache a Milano. — Il Guicciardi in Senato. — La seduta del 17 aprile. — La protesta dell'aristocrazia milanese. — Nel cortile del Senato. — Il conte Carlo Verri e i prodromi della rivoluzione. — La fine del Senato. — La piazza di S. Fedele e la casa del Prina. — Pellegrino Rossi ed Alessandro Manzoni. — L'eccidio del 20 aprile. — Giuseppe Prina e le sue qualità. — La plebe e l'aristocrazia. — Il generale Pino. — La condotta leale di Eugenio Beauharnais. — Un episodio ignoto e un documento inedito. — L'istinto della situazione. — I tumulti e le rivoluzioni.

III.

Confalonieri e i processi politici. (pag. 129 a 196).

I rapporti fra l'individuo e la società. — Le pressioni dell'ambiente. — Un'epoca di repressione e di transizione. — Milano e l'Austria dopo la restaurazione. — Il quieto vivere. — Ancora il Manzoni. — Le società segrete e le polizie dei governi. — I delatori e le vittime. — La Prineide. — La cospirazione del 1821 e il conte Federico Confalonieri. — Una sfinge. — I Confalonieri dei secoli scorsi. — Le prime mosse del conte Federico. — Teresa Casati Confalonieri. — Il Confalonieri ed Eugenio Beauharnais. — Alle prese colla diplomazia europea. — L'imperatore Francesco d'Austria. — Il programma italiano di Federico Confalonieri. — Ugo Foscolo. — I viaggi e le iniziative. — Il Conciliatore e il conte Luigi Porro. — Illustri stranieri a Milano. — Il processo dei Federati. — Il principe Della Cisterna. — Giorgio Pallavicino e Gaetano Castillia. — Il barone Salvotti e la Commissione inquirente. — Il maresciallo Bubna. — Audace contegno del Gonfalonieri. — Suo arresto. — Un processo iniquo. — La fermezza di un imputato. — I Confalonieri a Vienna. — L'Imperatore e l'Imperatrice. — La grazia e la berlina. — Il colloquio col principe di Metternich. — Un uomo di Stato e un delegato di pubblica sicurezza. — I prigionieri dello Spielberg. — Le Memorie autografe di Federico Confalonieri. — La religione e l'amnistia. — Il Confalonieri in America. — A Parigi e a Vichy. — Ritorno di Confalonieri a Milano. — La generazione del 1821. — I funerali del conte.

IV.

Il quarantotto e le cinque giornate.

1.

LA PREPARAZIONE. (pag. 197 a 257).

L'Europa del 1886. — Due caffè distrutti dal rinnovamento edilizio. — Il caffè della Peppina. — Gli adepti della Giovane Italia. — Giuseppe Mazzini. — La sua influenza, i suoi difetti, le sue virtù. — Il caffè della Cecchina. — L'aristocrazia liberale. — I profughi milanesi. — Cesare Correnti. — Carlo Cattaneo. — Il federalismo riformatore e la rivoluzione unitaria. — La metamorfosi di Carlo Cattaneo. — Il suo deplorabile opuscolo sull' Insurrezione di Milano. — Carlo Alberto e i profughi del 21. — Un re patriota. — I primi rintocchi della rivoluzione. — Gli scienziati a Milano. — Pellegrino Rossi al Conclave. — L'elezione del nuovo Pontefice. — La lama di coltello e la bottiglia di Champagne. — Le riforme e la popolarità di Pio IX. — Metternich e Radetzki. — Una città in entusiasmo. — Le dimostrazioni. — Gli scritti rivoluzionarj. — Il Comitato. — Gli studenti liceali. — I giovani d'oggi. — Il cardinale Gaisruck. — Il conte Bolza. — L'arcivescovo Romilli e il suo ingresso. — Le irritazioni dell'autorità militare. — La politica del principe di Metternich. — G. B. Nazzari e la Congregazione Centrale. — Il conte di Ficquelmont e Fanny Elssler. — L'astensione dal tabacco. — Le prime provocazioni e il conte di Neipperg. — La sera del 3 gennaio 1848. — L'assassinio per le vie. — Il conte Gabrio Casati al palazzo Marino. — Monsignore Opizzoni e il conte Vitaliano Borromeo. — Il partito conservatore e l'alta burocrazia. — Il Procuratore camerale Enrico Guicciardi. — Lo stato d'assedio. — L'inspirazione di una donna.

2.

LA RIVOLUZIONE. (pag. 259 a 332).

I tre stadj di un movimento. — La preparazione materiale. — Carlo Alberto e Nino Bixio. — Il conte di Castagneto. — Carlo D'Adda a Torino. — La storia di un biglietto. — I preparativi a Milano. — La concordia degli animi. — Giuseppe Sandrini. — Le autorità governative dopo la rivoluzione di Vienna. — In casa di Cattaneo. — La politica del Municipio. — Il 18 marzo 1848. — Il primo sangue e il primo proclama. — Angelo Fava e Carlo Cattaneo. — La prima barricata. — Il sistema finanziario dell'epoca. — Uno per tutti e tutti per ciascuno. — Le campane a stormo. — La questione diplomatica. — Il conte Francesco Arese. — Enrico Martini ed Alessandro Manzoni. — La dichiarazione di guerra. — Gl'inviati milanesi nel Consiglio dei Ministri. — La questione politica e il programma municipale. — Le idee giuste e le idee ingiuste di Carlo Cattaneo. — Il Governo Provvisorio e il Comitato di Guerra. — La questione strategica. — Il discentramento e Luigi Torelli. — Ogni giornata ha il suo carattere. — Luciano Manara. — I combattenti borghesi. — Le sorprese e le incertezze del maresciallo Radetzki. — Le trattative per l'armistizio. — Il barone d'Ettinghausen e il conte Marco Greppi. — Una risposta di Vitaliano Borromeo. — L'opinione del ministro della guerra sull'armistizio. — La seconda trattativa. — Giuseppe Durini, Achille Mauri e Carlo Cattaneo. — L'opinione dei combattenti. — I no della storia. — Ciò che è vero e ciò che è giusto nella questione dell'armistizio. — Le cause della ritirata dell'esercito austriaco. — Orgogli e delusioni.

V.

Il decennio di resistenza. (pag. 333 a 410).

Le tristezze del 1849. — I pensieri di Milano. — La resistenza. — Gli emigrati. — Il partito albertista. — Cesare Giulini ed Emilio Dandolo. — Carlo Tenca e il Crepuscolo. — Il partito d'azione. — Attilio De-Luigi e Carlo De-Cristoforis. Emilio Visconti-Venosta. — Nobili, borghesi, popolani. — Il vuoto intorno ai nemici. — I duelli. — Annetta Olivari e le bastonature. — Il Comitato Centrale repubblicano. — Il prestito di Mazzini. — La morte del Vandoni. — Il colpo di Stato in Francia. — Il Piemonte risorge. — I Comitati provinciali lombardi. — Antonio Lazzati a Mantova. — Morte eroica di Giuseppe Pezzotti. — Il processo di Mantova. — Antonio Lazzati e Luigi Castellazzo. — L'Impero in Francia e il conte di Cavour. — La decadenza del partito repubblicano. — Il 6 febbraio 1853. — Illusioni e trepidazioni. — I consigli della ragione. — I capi ed i gregarj. — Gli effetti del 6 febbraio. — L'indirizzo all'imperatore d'Austria. — La ricomposizione dei partiti. — Prevalenza della politica moderata in Milano. — La fine dell'influenza mazziniana. — La reazione militare. — Il Congresso di Parigi e la mutazione della politica austriaca in Lombardia. — L'Imperatore a Milano. — Il conte Archinto e Cesare Cantù. — I conservatori milanesi e il loro programma. — L'arciduca Massimiliano e i suoi consiglieri. — Il duca Lodovico Melzi. — Programmi e illusioni dell'arciduca. — Le inquietudini del conte di Cavour. — Il barone di Burger e il maresciallo Giulay. — La nascita dell'arciduca Rodolfo. — Massimiliano a Vienna. — I consigli del duca Melzi. — Le incertezze della situazione. — La virtù nazionale. — La morte del maresciallo Radetzki. — I funerali di Emilio Dandolo. — Gli entusiasmi cittadini. — Il coro della Norma. — L'emigrazione militare in Piemonte. — L'ingresso di Vittorio Emanuele e di Napoleone III chiude la storia municipale lombarda. — La nuova Italia e la morale dell'opera.

FRANCESCO MELZI E IL PERIODO ITALIANO.

Quel brano di storia milanese e lombarda che corre dalla battaglia di Marengo alla catastrofe del Regno italico nel 1814 è stato, nei confusi ricordi popolari e negli studj superficiali, considerato quasi come un tutto omogeneo, fondato sugli stessi principj, fertile degli stessi beneficj, illustrato dai medesimi nomi e dalle stesse tradizioni di governo.

Nulla di più inesatto che questo modo di apprezzare quei tre lustri di storia. Essi hanno invece, come l'odierna cultura ha bene stabilito e sviscerato, tre stadj distinti di legislazione e d'influenze, tre fisonomie politiche notevolmente diverse.

La prima epoca va dal ritorno degli eserciti francesi fino alla Consulta di Lione; la seconda dalla Consulta di Lione alla proclamazione dell'impero napoleonico; la terza dalla proclamazione dell'impero al 20 aprile 1814.

La prima è l'epoca dei dubbj, delle confusioni, delle incertezze, delle precarietà governative, ed è la seconda Repubblica Cisalpina, conservatrice in teoria, anarchica in realtà, di poco superiore alla prima per disciplina di menti e d'indirizzo. La seconda epoca comprende gli anni della Repubblica Italiana, il vero periodo ricostruttore, sollecito dei principj e degli interessi, dei costumi, delle leggi, della pubblica dignità. Al terzo periodo, quello che la precisa dizione storica chiama propriamente Regno d'Italia, corrisponde il movimento più spiccato della legislazione, dei lavori pubblici, degli ordini militari, ma insieme il principio d'una nuova corruzione, che lima e sfata la libertà. Dallo stadio dell'intrigo e dell'agitazione infeconda si passa a quello dell'operosità onesta e dell'austera semplicità, per giungere allo stadio finale della magnificenza e dell'eccesso. Il malato guariva, ma il convalescente abusava della rifatta salute, e il cambiamento dei medici non riusciva sempre a vantaggio dell'igiene preservatrice.

L'organismo politico e amministrativo della prima epoca era stato deliberato e applicato negli otto giorni in cui Bonaparte rimase a Milano, dopo Marengo.

Egli era stato accolto in Milano coll'eguale entusiasmo, ma non si presentava più colle stesse forme e cogli stessi caratteri. In quell'esistenza straordinaria, destinata ad un'attività di corpo e di spirito che ci sembra ancora un enigma, tre anni dovevano bastare a meravigliose trasformazioni. Infatti, non era più il generale Bonaparte; era il Primo Console; un'altra fisonomia, fisica e morale; un altro indirizzo; una volontà egualmente energica, ma diretta a scopi diversi; un'intelligenza egualmente intuitiva, ma fatta più matura da più larghe esperienze; un uomo insomma che era passato dalle ipotesi dell'ambizione alle sue più sterminate realtà; che aveva divorato gli ultimi brani di una rapida giovinezza e che si presentava a trent'anni sulla scena del mondo con tre titoli nuovi aggiunti alla Campagna d'Italia: l'Egitto, il 18 brumale e Marengo.

Si vede subito che un altro sistema politico si elaborava nella mente del vincitore. Le sue parole ai magistrati cittadini, ai parroci, suonavano la più recisa condanna delle antiche demagogie del triennio. “Qu'on respecte les prêtres„ scriveva al Talleyrand “c'est le seul moyen de vivre en paix avec les paysans italiens.„ Affermava, con intera saviezza di programma politico, doversi riorganizzare come libera e indipendente la Repubblica Cisalpina, doversi rispettare l'esercizio della religione cattolica e punire ogni specie di oltraggio contro i suoi ministri e i suoi riti, doversi rispettare le proprietà di tutti senza eccezione, essere vietato usare denominazioni proprie a risuscitare divisioni ed ire di parte. Un proclama comparso in quei giorni sul Moniteur diceva: “Peuple cisalpin, dès que votre territoire sera délivré de l'ennemi, la république sera réorganisée sur les bases fixes de la réligion, de l'égalité et du bon ordre.„ Dell'antica trilogia repubblicana non era già più rimasta che l'eguaglianza. La religione e il buon ordine erano parole nuove, sorte dopo il 18 brumale.

I nomi erano per Bonaparte guarentigia delle cose; e nella Consulta legislativa, a cui spettava l'incarico di redigere le prime leggi di urgenza e di preparare la Costituzione definitiva della Repubblica, pose il Marliani, il Testi, il Luosi, il Serbelloni, il Moscati, il Caprara, il Mascheroni, il Lamberti, il Cicognara, tutte le notabilità di scienza, di nascita e di carattere che la politica del triennio aveva potuto offendere o disgustare. Fece riaprire l'Università di Pavia, chiusa durante i furori del precedente periodo e vi chiamò o vi richiamò alle cattedre i nomi più splendidi dell'intelligenza contemporanea, Gregorio Fontana, Lorenzo Mascheroni, Alessandro Volta, Antonio Scarpa, Vincenzo Monti, Tommaso Nani.

Altri provvedimenti prese sulle materie militari e di finanza; buoni, come al solito, i primi; duri, come al solito, i secondi; ma in quei giorni non ci si badava; la gioja d'essere o di credersi per sempre liberati da Russi e da Giacobini rendeva indulgenti sulle questioni di tasse. Il prestigio di Bonaparte era ancora maggiore che durante il triennio, perchè il genio era eguale, il potere cresciuto e la sua politica offendeva minori interessi. Quel rispetto per la religione conciliava alla repubblica patrizi e popolani senza riserva. Gli entusiasmi non cessavano, e crescevano le adesioni pensate. Un incidente, in apparenza spregevole, rivela questa mutazione in certe classi sociali. Nel 1796, un tenore dalla voce bianca, l'idolo della gioventù aristocratica, Marchesi, aveva osato rifiutarsi al generale Bonaparte che mostrava desiderio di udirlo[1]; nel 1800 si offerse egli stesso di cantare, e il Primo Console obliò generosamente l'antico rifiuto. Anche la Grassini, celebre prima donna del tempo, cantò in un concerto alla Scala così meravigliosamente, che Bonaparte volle riudirla in palazzo. Pur troppo, se il generale s'era modificato, l'uomo non era rimasto tal quale. La situazione psicologica subiva anch'essa un processo di rivolgimento. Giuseppina Bonaparte ebbe torto in quell'ora di essere a Parigi e non qui.

Però il Primo Console aveva fretta. Non poteva più abbandonarsi agli ozj eleganti di Mombello o allo studio paziente degli affari d'Italia. L'Europa cominciava a cadergli sulle braccia, ed all'Europa non poteva pensare che da Parigi. Partì il 25 giugno, lasciando a Milano organismi pubblici appena abbozzati, una Consulta legislativa piena di zelo ma soverchiata dall'incerta e larga responsabilità, una Commissione esecutiva troppo numerosa e poco omogenea, il generale Petiet come Ministro straordinario e quasi tutore della rinata Repubblica; uomo debole, incerto della propria azione, poco persuaso della sua autorità, e che perciò non sapeva usarla nè contro le corruzioni dei politici indigeni, nè contro gli abusi e gli arbitrj dei comandanti militari francesi, Brune, Massena, Murat.

Queste cause di male cominciarono subito a svolgersi con pessimi effetti, ed agli otto giorni di ordine e di lavoro che il Primo Console aveva così bene inaugurati seguirono venti mesi d'un governo fiacco, oscillante, senza prestigio e senza base; governo che se non potè dirsi affatto tristo, fu solo perchè due altri, di tanto peggiori, lo avevano preceduto.

La Consulta legislativa diede bensì notevoli esempj di attività intelligente e feconda. Rimise in pieno vigore le leggi emanate durante il triennio, eccettuate però le leggi deplorabili di finanza e di culto. Revocò gli ordinamenti politici e i sequestri illegali ordinati durante i tredici mesi; mantenendo però i giudicati già eseguiti, le successioni già verificate, i pagamenti e i contratti fatti secondo le leggi pubblicate nel periodo intermedio. Era un sistema savio e liberale, soprattutto per tempi, in cui il cassare con un tratto di penna tutto un insieme di ordinamenti e di diritti acquisiti pareva l'inevitabile concetto legislativo sorgente da ogni mutamento di governo, da ogni predominar di fazione.

I diritti civili furono poi subito argomento importante di studio per la Consulta. E dopo un solo anno si potè a buon conto pubblicare il Regolamento Giudiziario, unificazione salutare e progresso insperato sugli antichi sistemi, prevalenti nelle varie provincie del nuovo Stato, e anteriori per la massima parte alle stesse riforme prodotte dai libri del Filangieri e del Beccaria. Si pubblicò un'amnistia generale pei delitti politici, poi la legge 23 fiorile, anno 9.º sull'ordinamento amministrativo e territoriale della Repubblica. I provvedimenti militari furono spinti colla massima alacrità. Legge sulla guardia nazionale, legge sulla gendarmeria nazionale, legge sull'ampliamento della scuola militare di Modena; e finalmente la legge 8 brumale sulla coscrizione militare, novità ardita e non subito apprezzata dalle moltitudini, avvezze fino allora a vedere nella milizia o lo stromento di una tirannia straniera o il triste rifugio degli infingardi e dei mercenarj.

Ma a questo primo ripiglio dell'iniziativa italiana nell'opera riformatrice, non corrispondeva, anzi contrastava acremente l'azione del potere esecutivo.

Questo a poco a poco s'era venuto restringendo in mano agli elementi più inetti. Il Melzi rifiutava ostinatamente di farne parte, per manifesta sfiducia dei precarj ordinamenti, e continuava anzi a restare in Ispagna, donde non si decise ad uscire se non pei replicati inviti del Primo Console che lo volle a Parigi. A Parigi stava pure l'Aldini, inviato per trattare riduzioni di tributi e repressioni di angherie militari. Priva dei due intelletti maggiori, delle due esperienze politiche più consumate, il potere esecutivo lombardo andò a tentoni, finchè un decreto del plenipotenziario Petiet mutò ad un tratto la Commissione esecutiva in Comitato di Governo e lo compose di tre soli fra gli antichi commissarj, un Ruga, Francesco Visconti-Ajmi, e Gio. Battista Sommariva, di Lodi.

Giusto era forse il concetto di rendere meno numeroso il Consiglio esecutivo, ma ne guastò affatto i risultati la scelta infelice degli uomini, dovuta alle peggiori influenze da cui il Primo Console non seppe quella volta abbastanza schermirsi.

Francesco Visconti non era per verità uomo disonesto, e abbandonò il potere appena vide che i suoi colleghi ne facevano stromento di corruzioni. Ma per l'alta carica non aveva titoli sufficienti d'ingegno; forse dovettero parer tali al generale Berthier, influentissimo presso Bonaparte, e che, più costante del suo padrone, continuava a considerare la contessa Visconti come l'ideale della bellezza italiana.

Il Ruga, portato egli pure da influenze femminili, ebbe meno scrupoli del suo collega, e quando uscì dal governo era dieci volte più ricco che quando v'entrò.

Ma chi passò ogni misura di scandali nel salire, nel restare e nello scendere dal potere fu Gio. Battista Sommariva, che, impersonando in sè stesso il triumvirato, adunò anche sul proprio capo tutta la responsabilità di quella malaugurata amministrazione.

Nato barbiere e fattosi, per sorprese di tempi, avvocato, s'era buttato nel moto politico, imbrancandosi naturalmente fra i gruppi più romorosi e più estremi. Per influenza della Società popolare era stato nominato segretario generale del Direttorio cisalpino, ed esercitava così sugli ordini di governo una specie di sindacato costante, in nome e per gl'interessi della democrazia scapigliata.

Al sopraggiungere degli Austro-Russi, il Sommariva era corso a Parigi, e lì s'era accostato a tutti gli elementi equivoci della gran Babilonia, s'era perfezionato nella conoscenza dell'intrigo, nel maneggio degli uomini e nei segreti della corruzione. Così aveva ottenuto la confidenza e l'appoggio di alcuni fra i più alti personaggi del tempo, fra gli altri del Talleyrand e del generale Murat, che non erano troppo schifiltosi sulle qualità morali dei loro amici.

Forte di queste aderenze parigine e di quella furberia che ai mestatori tien luogo sempre d'ingegno, spadroneggiò presto nel Comitato di Governo; ostentò apparenze moderate e lasciò le briglie sul collo a' suoi antichi amici, perchè facessero rivivere le ire e le mascherate del triennio; parlava linguaggio pomposo d'indipendenza, ma ai generali francesi, protettori e complici suoi, accordava ogni più insana domanda: governò male insomma per cinica risoluzione, sapendo che soltanto dal malgoverno possono i cattivi cittadini trarre impunità e occasioni di turpi lucri.

Così dal centro partiva la corruzione e intorno al centro si allargava. Egli aveva segreti legami d'affari con un banchiere Marietti e con un giojelliere ebreo, Formiggini; i quali scontavano al 40 per 100 i boni rilasciati dallo stesso Sommariva per somministrazioni e per debiti dello Stato.

Mentre a Parigi l'Aldini e il Serbelloni trattavano col Primo Console per ridurre a due milioni mensili la contribuzione militare della Repubblica, il Sommariva la stipulava con Petiet e con Murat in una cifra di 2,700,000 lire. Si moltiplicarono misure finanziarie repentine e rovinose; vendite di beni demaniali, lotterie, imposizioni di guerra, prestiti sulle famiglie più ricche, senza criterj direttivi, senza guarentigie di pubblicità; veri agguati notturni, da cui le popolazioni uscivano impoverite e i governanti arricchiti. Il ministro della guerra, Pietro Teulié, avvocato milanese, datosi per inclinazione alle armi e divenuto uno dei generali più valenti dell'esercito napoleonico, aveva dovuto dimettersi per la sua resistenza agli avidi appaltatori militari, che il capo del governo, per solidarietà d'affari, turpemente proteggeva.

Si può pensare che conseguenze dovesse produrre siffatto indirizzo governativo. Tutti ne abusavano, a seconda dei loro istinti, di prepotenza, di vaniloquio o di avidità. Brune e Massena avevano ricominciato le loro estorsioni; il generale Miollis faceva rizzare un albero di libertà e diceva che questo avrebbe fatto rivivere le virtù, le scienze, le belle lettere e le arti. Il generale Varrin si faceva sborsare 440 lire al giorno pel suo pranzo; chiedeva approvvigionamenti anticipati pel doppio della forza che aveva sotto le armi; lacerava in faccia al presidente dell'amministrazione provinciale i documenti che questi allegava a sostegno delle sue ragioni.

Questa situazione non era ignota al Primo Console, a cui denunciavano fatti e chiedevano provvedimenti Paolo Greppi, Ferdinando Marescalchi, Antonio Aldini. E a quest'ultimo rispondeva Bonaparte: “So che laggiù le cose vanno molto male; non si commettono che bestialità e si ruba a precipizio. Quella è gente nata in uno stato mediocre, che si è messa in testa di fare una gran fortuna, profittando del posto.... Scrivete loro ch'io so bene tutte le loro bricconate e che creerò una Commissione per esaminarle.„

Ma intanto le altre cure del vasto Stato assorbivano il vasto intelletto; e il Sommariva, corazzato contro ogni severità di parole, continuava ad accrescere, coi metodi di corruzione, i complici d'oggi, che sperava potessero diventare gli ajuti dell'indomani. Lasciava quindi sempre maggiore libertà alle passioni, impunità maggiore ai disordini. I liberatori si atteggiavano da capo a conquistatori; e Carlo Porta flagellava di profondi sarcasmi i facili trionfi cittadini della milizia francese.

Onde Francesco Melzi, che conosceva i suoi paesi e i suoi tempi, scriveva al Primo Console, parlando dei Russi: “ils seront bien plus tôt oubliés que les Français; celui qui opprime et qui tue brutalement blesse encore moins que celui qui humilie.„ E infatti erano ricominciate le vendette personali. L'ajutante generale Hector, nel traversare piazza Fontana, veniva colpito da coltello al cuore; altri ufficiali subivano qua e là dal ferro notturno dei popolani la conseguenza dei rancori politici o più verosimilmente la pena di galanti misfatti. Il paese insomma era travagliato da una profonda malattia morale, e minacciava ricadere nell'odio per la libertà.

La Consulta di Lione ci trasse da queste abbiezioni e inaugurò veramente in Lombardia il periodo della ristorazione morale.

Fu una curiosa pagina di storia italiana e che vorrebb'essere illustrata più largamente di quanto non s'è fatto sinora.

Raccogliere la rappresentanza politica di un paese in una città straniera; elaborarvi tutto intero un organismo di Stato per questo paese; discutervi lo Statuto fondamentale; eleggervi come capo di questo paese un generale pure straniero, che era nel tempo stesso il primo magistrato della Repubblica in cui questa riunione avveniva; e datare da tutto questo guazzabuglio la prima vera epoca di libertà e d'indipendenza pel paese che si lasciava tranquillamente così regolare, sono fenomeni che bisogna giudicare solamente coi criterj di quell'età; straordinarj come i tempi, come gli eventi, come l'uomo che li dominava e li correggeva.

Tutto andava male in Lombardia e bisognava quindi tutto rifare. Chi poteva rifar tutto non era che un uomo, Napoleone Bonaparte. Egli però non poteva far solo e doveva fare rapidamente. Non poteva assentarsi dalla Francia, dove le sue mani movevano tutte le fila d'un febbrile riordinamento amministrativo; non poteva restare a Parigi, dove i rappresentanti italiani si sarebbero trovati in mezzo a troppe e troppo vivaci influenze. Bisognava che alle nuove istituzioni presiedessero gli uomini migliori, e che svanisse tra questi ogni gelosia personale, ogni dissidio d'idee. Si doveva dare al nuovo Stato tutta la forza che deriva da un'amministrazione autonoma, e impedire nel tempo stesso che il suo governo, staccato da ogni potente legame, si trovasse rimpetto a grosse complicazioni europee come

Nave senza nocchiero in gran tempesta.

Questo complesso di cose difficili e necessarie fu sciolto in un modo che allora non si poteva pensar migliore, mediante i Comizj di Lione. Questa città, a mezza via fra Milano e Parigi, dove non giungevano nè le influenze corruttrici del governo cisalpino, nè i propositi dominatori delle consorterie parigine, parve e fu veramente adatto luogo per quel convegno fra gli elementi italiani e gli elementi francesi, da cui doveva nascere il nuovo Stato repubblicano dell'alta Italia. Vi giunsero, nel cuore dell'inverno, frammezzo a intemperie che avevano reso pericolosi tutti i passaggi delle Alpi, parecchie centinaja di rappresentanti, nominati dal governo, dalle città, dalle provincie, dalle università, dalle camere di commercio, dai tribunali, dagli ecclesiastici, dalla guardia nazionale; vi stettero un mese e mezzo, suddividendosi in comitati, lavorando, discutendo, consigliando, studiando miglioramenti di cose ed elenchi di nomi.

Quel congresso presentò in embrione tutti i fenomeni buoni e i fenomeni cattivi che costituiscono il regime parlamentare; ma i fenomeni buoni vi prevalsero perchè erano alte le correnti del patriottismo. Vi apparvero ambizioni puerili che furono dissipate dalla serietà; vi si tentarono intrighi che si ruppero contro l'onestà. Il Prina, il Guicciardi, il Mariani, lo Strigelli, il Marescalchi vi guadagnarono o vi accrebbero la loro riputazione come oratori e come uomini di Stato. Lo zelo e la rapidità nel fare erano gli elementi costitutivi di quel patriotismo serio che la personalità del generale Bonaparte aveva saputo trarre dai ruderi delle parole e modellare a sapiente energia.

Certo, parrebbe incredibile ai nostri giorni, così saturi di abuso e di scetticismo in fatto di riunioni e di commissioni e di rappresentanze, che di 452 cittadini eletti a formar parte della Consulta di Lione, 450 si siano recati al loro posto e vi siano rimasti fino all'ultimo giorno. E sarà sempre un'umiliazione pei nostri meccanismi parlamentari il ricordare che quell'Assemblea costituente di 450 deputati, venuti da diverse provincie, nuovi per la massima parte a pubblici affari, non illuminati da giornali politici o da comitati elettorali, abbia trovato in sè stessa tanta forza e tanta virtù da deliberare e votare, con utile effetto e con perfetta tranquillità, un'intera legislazione politica, in un tempo minore di quello che oggi basterebbe appena per discutere un bilancio dei lavori pubblici.

Il Primo Console arrivò a Lione la sera dell'11 gennajo 1802. La Consulta vi era già radunata da un mese; egli s'era attardato in Parigi per dare le ultime spinte ai negoziati intrapresi coll'Inghilterra e che dovevano condurre alla posticcia pace d'Amiens. Arrivò come un trionfatore, come un sovrano. Era allora in tutta la forza del suo genio, al colmo della sua popolarità. La campagna d'Italia, il riordinamento della Francia, la savia pace stipulata a Luneville avevano circondato il suo nome di un'aureola che più fulgida potè sembrare di poi, non mai più serena nè più meritata. Aveva saputo domare l'anarchia senza elevarsi a tirannide, stravincere senza abusare della vittoria, ricostituire in due anni un paese, sfasciato da così lungo imperversare di guerre e di fazioni. Pochi uomini ricordava la storia, di cui l'ingegno avesse in sì breve tempo lasciata sì vasta orma. Onde la gratitudine toccava all'entusiasmo, e chi non amava, ammirava. Sei mesi dopo, la Francia gli avrebbe dato il Consolato a vita, e due anni dopo, l'Impero; ma fin d'allora il potere di Bonaparte non aveva altri limiti che la sua moderazione. Sventuratamente, questa doveva durare assai meno che il suo splendore.

La città di Lione aveva in quei giorni aspetto fantastico; Milano vi si era rovesciata, e i Francesi guardavano con simpatica meraviglia ad alcuni fra i nostri concittadini d'illustre nome, all'astronomo Oriani, al Cagnoli, al Moscati, al Bossi, pittore, al Longhi, incisore, ad Alessandro Volta, all'arcivescovo Filippo Visconti, che, vecchio di 82 anni, aveva superato le Alpi e non doveva più rivederle[2]. Oltre ad essere provvisoriamente la capitale lombarda, Lione pareva quasi divenuta, per una settimana, anche la capitale della Francia. I prefetti e le autorità di venti dipartimenti vi si trovavano raccolti ad aspettare l'arrivo del Primo Console. Una parte della guardia consolare v'era stata inviata da Parigi; la gioventù lionese aveva costituito per quella occasione un corpo di cavalleria d'onore dalle ricche armi e dalle brillanti uniformi. Generali e ministri erano accorsi da Parigi, da Milano, da Marsiglia; e più solenne di ogni spettacolo la vista dell'esercito d'Egitto, reduce in quei giorni dalla sfortunata epopea; laceri e gloriosi avanzi di Arcole, di Rivoli e delle Piramidi, arrivati a Lione in tempo da vedere nel più alto grado della potenza e dello splendore il generale che li aveva guidati a vincere alle foci del Nilo come alle sorgenti del Po.

Il Primo Console era atteso già da più giorni. La popolazione bivaccava nelle campagne per timore di perdere l'ora dell'arrivo; la cavalleria lionese caracollava da quarantotto ore sulla strada maestra; la città splendidamente illuminata; gli animi ebbri. Quando la carrozza comparve, un lungo urlo: viva Bonaparte lo accompagnò fino al palazzo municipale. Colà scese, accompagnato da Giuseppina e dal giovinetto, non ancor principe, Eugenio. Ricevette il dì dopo i magistrati della città, le autorità civili e militari dei dipartimenti, lo stato maggiore dell'esercito d'Egitto, i membri della Consulta, presentatigli dal Marescalchi. A questi ultimi parlava in lingua italiana, seduzione per italiani grandissima. La sera fu in teatro, ove rappresentossi la Merope. Poi, la notte appresso, ad un ballo, a cui Giuseppina e le signore del suo seguito comparvero abbigliate di sole stoffe lionesi.

In pochi giorni, col suo meraviglioso istinto d'affari, e sugli schiarimenti che otteneva dal Marescalchi, dall'Aldini, dal Melzi, dal Talleyrand, fu interamente edotto delle cose trattate e conchiuse, delle difficoltà che restavano ad appianare. V'era stata lunga e sorda lotta fra le idee che voleva applicare all'Italia il Talleyrand e quelle da cui non dipartivasi Francesco Melzi. Prevalsero le ultime che ottennero l'aperto suffragio del Primo Console. Il Talleyrand voleva Stato piccolo, costituzioni vecchie, principe fiacco; Melzi insisteva per istituzioni nuove, per ampio Stato governato da principe illustre. Il ministro cortigiano insinuava che Giuseppe Bonaparte sarebbe stato un egregio presidente della nuova Repubblica, e lo schietto cittadino rimbeccava con fine spirito: “l'existence des archiducs a toujours suivi, jamais précédé celle des rois dans les familles souveraines.„ Egli voleva il Primo Console a capo del suo paese, perchè in lui solo aveva trovato, fra la turba degli statisti contemporanei, concetti politici affini ai suoi e l'autorità necessaria per farli prevalere. Non voleva uno Stato satellite che girasse intorno all'orbita del pianeta; poichè un uomo solo era grande e a tutti pareva necessario, voleva che quello, e non altri, assumesse, dopo la responsabilità del creare, quella del dirigere e del mantenere.

Sicchè volse tutta l'influenza sua e quella de' suoi amici a far sì che la Consulta acclamasse il Primo Console a Presidente; e la Consulta, che già aveva designato nel Melzi il proprio candidato[3], misurando da quell'alto disinteresse la forza della sua convinzione, si piegò unanime a quel desiderio e incaricò un Comitato speciale di esprimere a Bonaparte la preghiera dei rappresentanti italiani.

Fu nella solenne adunanza del 26 gennajo che lo scioglimento politico si annunciò.

La Consulta era completa. Il Primo Console v'intervenne come a seduta reale, accolto da grandi applausi, e andò a sedersi nella parte più elevata della sala, accompagnato dalla sua famiglia, dai ministri Talleyrand e Chaptal, da un gran numero di generali, da venti prefetti, da quattro consiglieri di Stato. Quando l'acclamato Presidente si alzò per parlare, nell'ampia sala non s'udiva un respiro. Si afferravano le parole, s'indagavano gl'intenti. Bonaparte parlò in lingua italiana, con pronuncia netta e vibrata. Il suo discorso, abilmente conciso e improntato di quella grandiosa semplicità che distingueva il suo dir pubblico, toccava delicatamente molte corde e ne trattava altre con aspra franchezza. Si vedeva ch'egli s'era ricordato di parlare ad Italiani, ma di parlare in mezzo a Francesi.

Sulla questione capitale della Presidenza disse senza ambagi: “non ho trovato fra voi nessuno che avesse ancora abbastanza diritto sulla pubblica opinione, che fosse abbastanza superiore ad ogni spirito di località e che avesse resi tanto grandi servigi alla patria, da potergli affidare la carica di Presidente.... mi sono quindi determinato ad aderire al vostro voto, e, finchè le stesse circostanze lo vorranno, io m'incaricherò del pensiero dei vostri affari.„

Sul programma di governo, soggiungeva poi con sintesi sagace, e profonda: “voi non avete che leggi particolari ed avete bisogno di leggi generali; il vostro popolo non ha che costumi locali ed è necessario che acquisti costumi nazionali; voi finalmente non avete armate e le potenze che potrebbero diventar vostre nemiche ne hanno di molto forti.... Ma voi avete tutto ciò che può produrlo; una popolazione numerosa, campagne fertili, e l'esempio che in tutte le circostanze vi ha dato il primo popolo dell'Europa.„

Era difficile che tali parole, pronunciate in così straordinarie circostanze e da così straordinario oratore, non commovessero ad alto grado gli animi dei convenuti. Il discorso del Primo Console fu interrotto ad ogni periodo da clamorosi e vivissimi applausi. L'affetto della patria vibrava in tutti quei cuori. Li avvolgeva l'atmosfera della grandezza, il sentimento dell'avvenire. Parlarono il cittadino Mariani, il cittadino Prina, l'arcivescovo Codronchi. Si lessero gli articoli della Costituzione. Si aspettava con ansietà la proclamazione del nome del Vicepresidente che, in forza dell'art. 49, Titolo VIII, era di libera ed assoluta scelta del Presidente. Il Primo Console, con una di quelle mosse efficaci, di cui possedeva il segreto, levossi, chiamò a sè il conte Melzi, lo abbracciò e lo collocò a sedere al suo fianco; poi, presolo per la mano, lo additò all'Assemblea come quegli in cui riponeva piena fiducia e lo proclamò Vicepresidente della Repubblica Italiana. Il nome dell'uomo e il nome dello Stato accrebbero gli entusiasmi; qualche memoria del tempo pretende perfino che gli applausi al Melzi soverchiassero quelli dedicati a Bonaparte. Ad ogni modo il Primo Console poteva essere contento dell'opera sua. Aveva reso tutti contenti. Non gli doveva accader più nel corso successivo della sua meravigliosa carriera.

Francesco Melzi aveva quarantotto anni allorchè assumeva così alto incarico di governo frammezzo a così alte difficoltà. Avrebbe potuto dirsi nella pienezza delle sue facoltà morali e fisiche, se queste ultime non avessero già cominciato ad essere offese da frequenti attacchi di gotta.

Figlio del conte Gaspare e di Teresa d'Eril, damigella spagnuola del seguito della governatrice Rosa di Harrach, aveva appena 21 anni, quando Maria Teresa lo nominò fra i decurioni municipali, tratta dalla grande riputazione che in paese s'era già levata di lui per l'ingegno pronto e l'amabile vivacità. Era stato educato, come la massima parte dei patrizj d'allora, in un collegio di gesuiti, a Modena; ed aveva dovuto resistere, con sagacia e volontà maggiore degli anni, alle pressioni ed alle seduzioni di quei terribili educatori, che, indovinando le forti qualità del loro allievo, avevano concepita la speranza di chiuderlo nel loro bruno sodalizio.

Nella gioventù milanese ottenne presto quella prevalenza che non isfugge all'ingegno, soprattutto quando è sorretto dalla ricchezza. Era l'idolo delle riunioni gaje, l'oracolo delle adunanze pensose. Cognato di Pietro Verri, che aveva sposato in ultime nozze sua sorella Vincenza, era legato per mezzo suo a quel manipolo di preclari intelletti, che, ormai sul tramonto, si vedevano con soddisfazione rivivere in quel giovane forte, serio e gentile. Non era stato esente da un vizio, pur troppo caratteristico delle società eleganti, quello del giuoco; anzi vi si era abbandonato con una forza che ad alcuni amici pareva minacciosa pel suo avvenire. La nobiltà della sua indole doveva trionfare della bassa tentazione. Un giorno si trovava al verde, e si recò a chiedere duemila scudi in prestito ad un amico in cui riponeva grande fiducia. L'amico glieli rifiutò nettamente. “Sarebbero pochi„ gli rispose “pel conte Melzi; sono troppi per un giuocatore.„ Il giovane fu così tocco della severa risposta che abbandonò le bische e non giocò più.

Auspicj femminili lo trassero dalla vita brillante e spensierata dei circoli cittadini, per avviarlo a più vasti orizzonti. Primeggiava allora fra le gentildonne milanesi la marchesa Paola Castiglioni, colta e gentile Egeria di ogni Numa dell'epoca, la cui riputazione di eleganza, di bellezza e di spirito, consacrata nei serali convegni, traversò due generazioni per giungere ancora intera e vivace fino a quella che immediatamente ci ha preceduti.

Francesco Melzi, che allora chiamavano il contino, non era fra gli amici della marchesa il più trascurato. Anzi fu lui ch'essa volle compagno in un viaggio che intraprese in Francia; ed essa gli dischiuse l'ingresso in quelle celebrate riunioni parigine, dove, sotto la gonfia dottrina degli enciclopedisti, romoreggiavano i nuovi e minacciosi ardimenti degli uomini del terzo Stato. Fra quel meraviglioso turbinío di stranieri non si smarrì l'ingegno del Melzi, non ancora trentenne. Vi conobbe il D'Alembert, il Diderot, l'Helvetius, il Marmontel, il barone di Holbach, Vittorio Alfieri. Stette con loro come uomo a cui fosse famigliare qualunque forma di attività intellettuale. E non parve piccino fra quei giganti; tanto che madama di Stael, nelle sue Considerazioni sulla Rivoluzione Francese, ebbe a scrivere di lui: “non esserci stato mai uomo più distinto, neppure in Francia, pel sapore della conversazione, e nessuno averlo mai superato nell'arte di conoscere ed apprezzare tutti quelli che sostenevano una parte sulla scena politica.„

L'indole tutta italiana del Melzi non si sformò al contatto dei ribollimenti francesi. Chè anzi grave materia di esperienza e di studio trasse egli dallo spettacolo vivo di quella nazione, fra cui si elaborava tanta mole di novità. E pur tenendo l'animo aperto alla seduzione per ciò che v'era in quei concetti di generoso e di grande, l'acuto senno ne misurava il pericolo e intravedeva già, dietro il fascino delle parole, la futura intemperanza delle cose.

Innamoratosi dei viaggi e del largo osservare, dopo la Francia percorse la Spagna, il Portogallo, sopratutto l'Inghilterra, studiando ed annotando costumi, istituzioni, uomini, arti, paesi. Tornò, come cinquant'anni dopo il conte di Cavour, ammiratore della costituzione inglese, e convinto non essere possibile ad una nazione acquistare ordini e forze di libertà senza il beneficio principalissimo dell'indipendenza, cui egli giudicava fin d'allora doversi indirizzare il desiderio e lo sforzo di quanti amavano possedere, come le altre nazioni, una patria.

Così, nudrito di fatti e di pensieri nuovi, che lo rendevano, per intelletto e per carattere, singolarmente idoneo a cose di Stato, Francesco Melzi aspettava gli eventi.

Quando apparvero, soverchiando d'un tratto ogni argine di dottrina e di ragione, non si sgomentò. Resistette alla fiumana demagogica come doveva resistere più tardi al torrente del cesarismo. Ai giacobini fu subito in uggia perchè non si umiliava dinanzi a loro. Lo accusarono, nel loro stile barocco “di mettere il capo nel cielo e i piedi nell'inferno per essere nel centro degli affari[4].„ Non era vero. Nessuno più del Melzi era schivo di chiedere ed assumere importanza politica. Più tardi fu anzi questo un difetto che il paese poteva a buon diritto rimproverargli. Ma allora come poi, dir male degli uomini virtuosi era pei viziosi il modo più sicuro e più spiccio di salire in grazia alle turbe e far loro dimenticare le proprie magagne. I malvagi strepitavano, il Melzi taceva; era una prova evidente del torto di quest'ultimo e della ragione dei primi. Così fu imprigionato, sbandito, richiamato.

Non era però il Melzi tal uomo che dello sfregio a sè fatto tenesse broncio al paese. Onde, non appena la prevalenza degli uomini onesti cominciò a risorgere e seppe essere richiesti i suoi servigi, non pose tempo in mezzo a prestarli; e, come addetto ai Comitati di governo, come inviato diplomatico a Rastadt, come consigliere di Bonaparte a Mombello, come inviato a Parigi, come promotore e ordinatore della Consulta di Lione, sollecito in ogni occasione degli interessi e della dignità del paese, ben presto riebbe quella fiducia e quella stima che i suoi concittadini non gli ritolsero poi per tutta la vita. Tanto è vero che popolarità durevole ed unicamente apprezzabile non si acquista col blandire ogni traviamento di moltitudini, per istrapparne un facile applauso, ma coll'uniformare sempre la propria condotta ai dettami di quella onesta coscienza, la quale allora solo è fallace quando s'impaurisce o si fiacca per biasimi non meritati.

Tali erano i precedenti dell'uomo che il 7 febbraio 1802 entrava in Milano, per assumere, con istituzioni nuove, le redini di uno Stato, in cui tutto era sconvolto e tutto era da mutare e da rinnovare. Le accoglienze, com'era da aspettarsi, furono assai festose e sincere. Da un pezzo la Repubblica s'agitava nel vuoto; indispettita della larva di governo cattivo che possedeva; ignara se ne avrebbe avuto uno migliore; incerta fino agli ultimi giorni se dalla Consulta di Lione le sarebbero giunte fortune o delusioni.

“Quel contino se la caverà con onore„ aveva scritto Vittorio Alfieri, appena udita la nomina di Melzi a Vice-presidente. Ed era, più che il pensiero, la speranza di tutti; essendo tutti ansiosi di uscire dal lungo provvisorio e dalla lunga anarchia. Era inoltre confortato il sentimento pubblico dall'idea che questa volta l'omaggio suo non si volgeva ad uno spagnuolo, nè ad un francese, nè ad un tedesco, nè ad un russo. Erano dei secoli che un italiano non appariva più come capo, come guida politica di una così grossa e bella compagine di popolazioni italiane! Onde l'istinto nazionale si sentiva rialzato nella sua dignità e si aprivano gli animi a speranze maggiori di maggiori compagini.

L'arte e la poesia celebravano a gara l'auspicato rinnovamento.

La Costituzione di Lione, firmata da Bonaparte, da Melzi, da Marescalchi e da Guicciardi[5], si deponeva nell'Archivio pubblico, dove tuttora si trova. Andrea Appiani aveva disegnato una medaglia, il Manfredini ne incideva un'altra, Ugo Foscolo pubblicava la sua veemente Orazione a Bonaparte, Vincenzo Monti cantava le lodi del nuovo magistrato e lo chiamava

il mio Melzi, a cui rivola

Della patria il desío.

E il Melzi, serio e severo, perchè preoccupato della grave responsabilità, entrava da Porta Vercellina, in una carrozza preceduta e seguita da brillante accompagnamento di magistrati, di militari, di popolo. Il generale Pino era nella carrozza con lui; il generale Murat era corso ad incontrarlo a capo dello stato maggiore; nell'ultimo posto, ed obliato da tutti, chiudeva umilmente il corteggio — rappresentanza viva delle ironie della sorte — quel generale Despinoy, che sei anni prima aveva trattato i milanesi con tanta impertinenza e che aveva fatto arrestare, con brutalità soldatesca, Francesco Melzi.

Qui comincia il periodo dell'attività politica e della responsabilità per l'uomo insigne che s'era fino allora mantenuto nei più facili confini del consiglio e della censura. E non è piccola lode sua, non è prova leggiera delle sue alte qualità di Stato il poter dire che Melzi uscì con intatta, anzi con cresciuta riputazione, da questo periodo, che è sempre così pericoloso e spesso così fatale per le ambizioni politiche.

Non ci è dato poter qui giustificare questa asserzione. Per essere fedeli alle necessità ed alle proporzioni del nostro studio, dobbiamo respingere da tutte le parti argomenti e fatti che ci si affollano innanzi alla mente; dobbiamo chiudere gli occhi por non vedere il periodo, per dimenticare la moltiplicità degli ostacoli vinti, delle riforme cominciate, delle leggi votate, dei lavori compiuti; dobbiamo resistere alla tentazione di uscire dall'atmosfera dell'uomo per entrare in quella delle cose. Ed è qui soprattutto che sentiamo l'insufficienza del metodo che ci siamo imposti: è quì che dobbiamo chiedere scusa ai lettori se la parola sarà impotente a condensare in un capitolo la materia di un libro e se a questa irta contraddizione fra lo spazio e l'intento ciascuno di essi crederà sacrificate quelle speciali rimembranze e quelle glorie speciali, — militari, legislative, edilizie, — onde s'è composta fra noi la ricca e simpatica tradizione dell'amministrazione italiana.

A questa ha presieduto per più di tre anni Francesco Melzi, rialzando veramente in ogni pubblica azienda quel concetto alto e morale che s'era perduto durante gli ultimi rivolgimenti, e mettendo le basi a quasi tutte le istituzioni che i nove anni successivi del Regno italico avrebbero potuto svolgere e perfezionare.

Il governo di Melzi fu veramente un complesso di uomini, rispettabili nella vita privata, capaci nella vita pubblica, pieni di zelo e di attività salutare. Bonaparte gli aveva dato fin da Lione due soli collaboratori, lo Spanocchi, Gran Giudice, magistrato di severa dottrina e d'incorruttibile probità, e Diego Guicciardi, Segretario di Stato, amministratore sagace e ricco di espedienti, che delle persone e delle cose lombarde aveva conoscenza profonda e precisa.

Intorno a questo nucleo raccolse presto il Melzi gli altri elementi di cui aveva bisogno; e si ajutò di Carlo Verri e del Villa per gli affari interni, di Pietro Moscati per l'istruzione pubblica, di Prina e di Veneri per le finanze, di Bovara e di Giudici per gli affari del culto; all'importante dipartimento delle pubbliche costruzioni venne allora e durò poi lunghi anni quel conte Paradisi, sotto la cui amministrazione furono compiute così gigantesche opere stradali ed idrauliche, ed alla cui scuola si educarono ai futuri prodigi tanti giovani illustri, fra cui la nostra generazione non può dimenticare Elia Lombardini e Pietro Paleocapa.

Soprattutto al concetto morale badava il Melzi, e faceva convergere a rialzarlo tutti i suoi discorsi e l'opera sua. “L'uomo libero„ scriveva al parroco di Magenta “non è che l'uomo probo.„ E pubblicava, dover sopravvivere a tutte le divisioni passate quella sola che ponesse un muro di bronzo fra gli uomini onesti e quelli che non lo sono.

Gli erano dunque fieramente avversi tutti quegli elementi equivoci, che nel primo triennio e dopo la battaglia di Marengo avevano fatto sulle finanze pubbliche così turpi speculazioni. Il Sommariva, congedato con severa frase dal Melzi, ordiva intrighi a Parigi per isbalzarlo. Aveva tentato perfino di mettere contro di lui l'influenza ancora efficace di Giuseppina, facendole offrire dal suo complice Formiggini una collana del valore d'un milione. Giuseppina, onestissima malgrado la sua vanità, respinse il dono, che sotto altre apparenze poteva ricordare il famoso episodio fra Maria Antonietta e il cardinale di Rohan. Ebbe minori scrupoli il Talleyrand, che ritenne, senza chiederne la provenienza, un orologio a brillanti del valore di ottantamila lire.

Questo intrigo poteva essere tanto più pericoloso in quanto s'ajutava di tutte le ostilità, segrete o palesi, a cui la politica schiettamente italiana del Melzi dava pretesto. Giuseppe Bonaparte, che attribuiva all'opposizione sua di non essere Presidente della Repubblica Italiana, ostentava grandi accoglienze al Sommariva, che aveva sposato un'antica amante di Gian Giacomo Rousseau e che teneva in sua casa corte bandita per equivoci commensali, orpellando colle nuove ricchezze l'antica volgarità. Fra i generali, avvezzi all'impunità degli abusi, l'irremovibile severità del Vice-presidente suscitava fieri lamenti. Se n'era fatto il più romoroso banditore Giuseppe Lechi, uomo altrettanto immorale quanto valoroso, non molto dissimile per torbida indole dal fratello Galeano, tiranno di Bormio. Il generale Marmont non era schivo dal prestar mano a queste corruttele, che venivano ad allacciarsi intorno al comandante supremo dell'esercito francese a Milano, Gioachino Murat; cuore onesto, ma debole, che dal suo grado militare e dalla sua stretta parentela col Primo Console traeva un certo disdegno d'essere in qualunque paese il secondo, e a cui non era difficile persuadere che gli spettasse esser primo.

Un pettegolezzo letterario, a cui questa coalizione d'interessi aveva saputo dare le proporzioni d'una congiura, complicava la situazione e accresceva gl'imbarazzi del Vice-presidente. Da Parigi venivano ordini fulminanti, richieste di processi contro Cicognara, contro Magenta, contro Teuliè, per alcune poesie d'un capitano Ceroni, che affettava ostilità giacobine contro il governo del Primo Console. Il quale s'avviava già, per insensibile pendio, su quello sdrucciolo di despotismo violento, in fondo al quale doveva pochi anni dopo trovare la fine della sua grandezza. Scriveva al Melzi, ordinandogli di sfrattare dallo Stato una dama milanese, la signora Fossati, perchè teneva circolo serale di elementi non favorevoli al regime francese. E per queste minutaglie politiche si accalorava tanto da scrivere: “la faiblesse du Gouvernement à Milan passe tout ce qu'il est possible de concevoir.„

Melzi resistette a queste molteplici bufere con severa e tranquilla dignità. “Le général Murat„ scriveva al Primo Console “a couvert de son nom cette trame odieuse„, e se ne appellava alla stessa sorella di Bonaparte, Carolina Murat, donna di maggior senno e di maggiore energia del marito.

Degli intriganti parigini scriveva col più grande disdegno e si meravigliava che presso le alte influenze del Governo avesse “le plus grand jeu la faction de l'ancien gouvernement qui est celle des voleurs.„

Circa le violenze poi che Bonaparte imponeva o consigliava contro avversarj politici, rispondeva: “je crois fermement qu'il y aurait de la folie à combattre les folies, les erreurs, les passions des hommes par la force, car la force leur donne un caractère extrêmement plus dangereux par la réaction qu'elle provoque. Je crois également qu'il est juste et nécessaire de punir les actes ou faits qui portent un caractère criminel. Toute ma conduite a été réglée sur cette distinction.„

Non vi pare di veder qui riassunta con linguaggio preciso e liberale, fin dal 1802, quella famosa teoria del prevenire e del reprimere, che alcune ingenuità dottrinarie considerano come un trovato di tempi così recenti?

Il Melzi chiudeva finalmente le sue corrispondenze, respingendo alteramente qualunque sospetto intorno alla sua lealtà, ed offrendo, come un primo ministro odierno, le sue dimissioni. “Comme il serait aussi injuste qu'absurde d'accuser ma loyauté, ainsi il serait au-dessous de moi de descendre à la justifier.... J'avais pu sacrifier mon existence et mon repos au bonheur de ma patrie; mais je n'ai ni le courage ni l'envie de sacrifier mon bonheur à de viles intrigues.„

Bonaparte, reso ai sentimenti nobili e giusti da questa fiera dignità dell'amico suo, gli diede intera soddisfazione sopra ogni argomento. Cacciò da Parigi il Sommariva e i complici suoi, scrisse a Murat, biasimando la sua ostilità contro Melzi e dicendogli: “vivez bien avec lui.„ Al Cicognara, al Magenta, al Teuliè restituì, dopo poco tempo, libertà ed onori. Non accettò naturalmente le dimissioni offertegli, dicendogli anzi: “il est impossible qu'avec la confiance que je vous accorde, vous éprouviez aucune tracasserie.„ E, avendogli anche più tardi, sotto un altro accesso di stanchezza e di gotta, ridomandate il Melzi le sue dimissioni, Bonaparte gli rispondeva con una delle sue frasi sovrane: “vous êtes engagé dans la lice; il faut désormais que vous mouriez au milieu des hommes et des embarras du gouvernement des nations.„

Di questa tempra alta e veramente liberale del Melzi si potrebbe trovare la traccia in ognuna delle sue lettere, in ognuna delle sue disposizioni di governo. Era un ingegno equilibrato e coerente, che non aveva nessun pregiudizio di tempi e in parecchie cose preludeva a progressi futuri.

Quando riordinò l'Università di Bologna, nominò alla cattedra di lingua e letteratura greca una colta signora, Clotilde Tambroni. Costituì vigorosamente il servizio pubblico dell'innesto del vajuolo, disciplina ancora così discussa e così timidamente accettata, che Lorenzo d'Orlando scriveva qualche anno prima al conte Giberto Borromeo: “Mi rallegro con V. E. dell'esito felice d'una operazione tanto pericolosa come è l'innesto del vajuolo.„

Sollecito di cultura pubblica, incoraggiava di sussidj e di commissioni Ugo Foscolo, Francesco Soave, Andrea Appiani, Canova. Ordinò l'Esposizione annuale periodica di Brera; stabilì dodici pensioni pei giovani artisti che si recavano a Roma; destinava fondi dello Stato a incoraggiare la grandiosa pubblicazione dei Classici Italiani; sussidiava del proprio una splendida edizione dei celebri scritti militari del bolognese Francesco Marchi.

Delle grandi necessità politiche poi aveva un sentimento alto e sicuro. Patrocinava in ogni occasione l'ingrandimento territoriale della Repubblica, la cui mostruosa conformazione, prima dell'annessione del Veneto, diceva fonte di gravi danni e pericoli. Agli ordinamenti militari poneva tutto il suo zelo, e fin dalla prima riunione del Corpo Legislativo, aveva scritto nel suo Messaggio, con intonazione affatto napoleonica: “Poichè le armate d'Europa riappresero il cammino d'Italia, è pur forza sovvenirvi che a' suoi soldati apprese l'Italia un giorno le vie del mondo.„

Dopo tre anni di un'amministrazione governata con tanta prudenza e tanto affetto, ecco un nuovo turbine che scende dalle Alpi, l'Impero.

Un giorno, Francesco Melzi è invitato a recarsi senza indugio a Parigi dal Primo Console Presidente. La novità della richiesta fa presagire gravissimo abboccamento. Parte, lasciando il governo al Gran Giudice, colla raccomandazione di consultare negli affari importanti il Moscati e il Guicciardi. Giunge a Parigi a tarda notte, è subito condotto alla presenza del Console, e rimangono quattro ore in segreto colloquio. Quando ne usciva, la nuova rivoluzione politica era stabilita, la Repubblica Italiana diventava il Regno d'Italia, Napoleone I cingeva la sua corona e nominava Vicerè il suo figlio adottivo, il colonnello Eugenio Beauharnais.

È la terza fase del periodo italiano che ora incomincia: fase che ha usurpato, nella tradizione storica, tutta la gratitudine dovuta all'intero periodo, soltanto per quella fatale preferenza che l'uomo accorda sulle felicità oneste e tranquille alle glorie tragiche ed alle romorose sventure.

Nulla si mutava in apparenza, tranne i nomi, gli spettacoli e le uniformi; in realtà, delle due basi fondamentali su cui fino allora il governo s'era fondato, la saviezza e l'energia, la prima cominciava ad affondarsi, e la seconda, abbandonata dalla sua compagna, assumeva sempre più uno solo degli aspetti sotto cui suole presentarsi, quello della violenza.

Ad un uomo, invecchiato negli affari e nelle difficoltà politiche, come Francesco Melzi, succedeva un giovane di 23 anni, inesperto degli uomini, voglioso di piaceri e di gloria, che, soverchiato dalla immensa grandezza del genitore, non si permetteva di discutere il menomo dei cenni suoi.

Giacchè questa fu veramente la differenza caratteristica fra la Repubblica e il Regno. Nella prima, agli ordini impensati, talvolta impetuosi del Presidente era efficace correttivo la prudente fermezza del Vice-presidente; nel secondo, le volontà imperiose e precipitose del Re erano aggravate dalla leggerezza e dalla inesperienza del Vicerè. L'equilibrio era rotto fra l'autorità lontana e la saviezza vicina; questa spariva, quella cresceva; e gli eccessi napoleonici, spintisi, per la rottura dei freni, alla ricerca dell'universale e dell'impossibile, preparavano sordamente la riscossa dell'odio nelle popolazioni balestrate da così mobile tirannia.

Napoleone, divenuto imperatore, scese due volte ancora dalle Alpi a Milano; ma egli pure aveva subito la sua terza trasformazione. Non era più il generale Bonaparte, vivace, entusiasta, colla patria sul labbro e l'amore nel cuore; non era più il Primo Console, pensoso, gentile, prudente nel parlare e savio nell'operare; era un uomo ingrassato di corpo e irrigidito di animo, freddo, altiero, preoccupato di cerimonie e di etichette, insofferente di ogni contraddizione, duro cogli uomini, ineducato colle signore; il cui linguaggio era forza, la cui politica era forza; un uomo che credeva legge morale il suo capriccio, e giustizia la collera, e impertinenza la verità, e felicità del mondo la sua soddisfatta ambizione.

L'antico giacobino era imbarazzato sotto il manto imperiale. Lo portava talvolta con un fasto di cattivo gusto, talvolta se ne spogliava con soldatesca ruvidezza. Metteva la dignità nell'essere brusco anzichè nell'essere cortese. Sentenziava sopra ogni materia, e sovente, su quelle di cui era digiuno, spropositava. Si fece incoronare con pompe teatrali, con isfoggio di carrozze dorate, di cavalli bianchi, di mantelli d'ermellino, di corone, di scettri, di globi d'oro. Obbligava i parroci a vegliare di notte, nel rigido inverno, sulle porte delle chiese, per incensarlo quand'egli passava in carrozza chiusa. Aveva sulle braccia l'Europa, il blocco continentale, la prigionia del Papa, e rimproverava la marchesa Busca, figlia del suo amico Serbelloni, perchè si era presentata un giorno alla sua Corte collo stesso abito che portava il dì prima.

Questo sovrano, tutto a sbalzi e ad effetti, sterminato di genio e innamorato di forme, dava ad Eugenio consigli eccellenti in cose di governo, ma poi, giunto a Parigi, li dimenticava affatto e gli fulminava ordini e decreti in aperto contrasto coi consigli di prima. Gli diceva a Milano: “supremo interesse per voi è di ben trattare gl'Italiani:„ e da Parigi gli scriveva: “abbiate per divisa: la Francia innanzi tutto[6].„ Dall'antica dicitura presidenziale: “Je vous conseille, je crois nécessaire, je trouve convenable„ era passato alla formola pura e semplice del padrone: “je veux, je vous ordonne.„ Prescriveva da Parigi la dislocazione dei corpi d'esercito e la quantità di vino che doveva bere la vice-regina incinta. Negli ultimi anni, il suo despotismo era divenuto veramente un delirio, ed ogni traccia di genio spariva dietro il linguaggio brutale che usciva dal suo pensiero malato. Sopprimeva, con un tratto di penna, una delle istituzioni fondamentali dello Stato, il Corpo Legislativo; dava ordine che si fucilasse Andrea Hofer, violando le promesse fattegli all'epoca del suo arresto; in lotta col Papa, scriveva ad Eugenio di fare appiccare un librajo che ne pubblicava le encicliche, di mitragliare alla menoma apparenza di movimenti cittadini, di fucilare chi distribuisse coccarde papaline, fossero anche dei cardinali. Le istruzioni che mandava al principe Eugenio, per mezzo del maresciallo Duroc, respiravano una cinica frenesia di potere. “Si vous demandez a S. M. ses ordres ou son avis pour changer le plafond de vôtre chambre, vous devez les attendre; et si, Milan étant en feu, vous les lui demandez pour l'éteindre, il faudrait laisser brûler Milan et attendre les ordres...[7]

Ci volevano questi ebbri furori per paralizzare i beneficj sorti dagli ordini precedenti e gli splendori che erompevano a scatti dal genio disordinato. Dal 1802 al 1814, la vita di Milano era stata grandiosa. Sentiva per la prima volta, da Lodovico il Moro in poi, gli effetti di una vera preminenza politica e civile. Era la capitale di un grande Stato, che negli ultimi anni comprendeva ventiquattro dipartimenti ed una popolazione aggirantesi intorno a sette milioni. Dopo tanti anni di vita umile, isolata, ora compressa, ora fanatica, ma sempre secondaria, il popolo milanese respirava in un ambiente largo, importante; vedeva i grandi personaggi passeggiare per le sue vie; si sentiva legato, per autorevoli solidarietà, coi grandi affari d'Europa. Lo spirito pubblico, vivo e intelligente, si metteva a livello de' nuovi destini. Elaborava uomini politici e generali d'esercito, che tenevano con onore il loro posto in quella meravigliosa generazione europea. La conversazione sociale e i discorsi popolari trovavano pascolo educativo in fatti nuovi e memorabili, che li svezzavano dall'antico pettegolezzo. Ora si vedeva aprire la via del Sempione, ora sorgevano le fondamenta dell'Arco di Piazza d'Armi, ora si metteva mano alla facciata del Duomo, ora si scavavano navigli e canali, a favore di Milano, di Pavia, di Mantova, di Brescia. Oggi era l'incoronazione di Napoleone, domani il matrimonio del Vicerè. Un giorno si discorreva dell'annessione al Regno delle provincie venete o marchigiane, un altro giorno del famoso decreto di Milano intorno al blocco continentale; poi le glorie dei nostri militari infiammavano d'entusiasmo; si udiva con dolore ed orgoglio che al Teuliè morto a Colberg l'esercito francese innalzava un monumento; s'era altieri che Napoleone avesse detto ad Aldini: “gl'Italiani ridiventeranno i primi soldati d'Europa.„ Splendidissime feste celebravano il ritorno dalle campagne germaniche dell'eroica divisione di Pino. E dal fondo della Spagna giungevano altre notizie del valore italiano, tenuto alto dal Palombini, dal Severoli, dal sergente Bianchini. Il principe Eugenio, non felice negli affari, presiedeva meglio alle feste e sosteneva bravamente le guerre. La sua Corte era il regno dell'eleganza e dello splendore; vi teneva uno scettro indisputato quella donna squisita di bellezza e di bontà che era la Vice-regina Amalia di Baviera; e intorno ad essa brillavano di splendori proprj alcune gentildonne universalmente ammirate; la marchesa Litta, la contessa Parravicini, la contessa Arese; apparve più tardi in quelle sale, e vi portò un profumo di fiera amabilità quella gentile Teresa Casati-Confalonieri, predestinata ad essere di un cupo e pietoso dramma la vittima e l'eroina.

In tutto questo periodo di romori e di magnificenze, Francesco Melzi tiene silenziosamente ma efficacemente il posto suo. L'austero vecchio vede esplicarsi e allargarsi le conseguenze dell'onesta attività da lui impressa alle cose pubbliche, e se ne compiace; vede i pericoli che preparano allo Stato le passioni sfrenate o frivole de' suoi condottieri, e si rammarica di non poterli evitare; vede le popolazioni cementarsi, malgrado ciò, in una forte ed omogenea comunanza di vita politica, e ne trae lusinghiere speranze per un avvenire ch'egli non è destinato a vedere.

L'imperatore Napoleone non gli scema, anzi gli accresce dimostrazioni d'amicizia e di stima. Gli aveva proposto in moglie la sorella Paolina, vedova del generale Leclerc; onore che Melzi declinò con grande riconoscenza e con maggiore prudenza. Quando la Repubblica fu tramutata in Regno, Napoleone lo nominò Gran Cancelliere Guardasigilli, coll'onorario di trentasei mila franchi; poi gli accordò, unico fra tutti gli Italiani, uno dei grandi feudi della Corona, col titolo di duca di Lodi e un appannaggio di duecento mila lire. Quando venne a Milano nel 1807, andò con grande ostentazione a visitare il Melzi nel palazzo Serbelloni, e non permise che l'illustre gottoso si alzasse dalla sua seggiola per riceverlo.

Le lettere poi che Napoleone scriveva da ogni angolo dell'Europa all'antico amico suo respirano sempre la più grande benevolenza e la più solida stima. “Je vois avec peine que vôtre santé n'est pas aussi bonne que vôtre tête.„ “Depuis que vous gérez les affaires de l'État son administration s'est considérablement ameliorée.„ Al principio del 1812, sul punto d'intraprendere la campagna di Russia, Napoleone sente il bisogno di avere intorno alla lontana Italia informazioni sicure, ed ordina a Melzi di fargli ogni giorno un rapporto sulla situazione del Regno. Nell'archivio della famiglia si conserva il protocollo di queste relazioni giornaliere, che, senza offendere l'autorità diretta del Vice-re, servivano forse, nel concetto dell'imperatore, a controllarne l'inesperta politica.

Fu detto che Francesco Melzi fosse stato assai offeso di vedersi, negli onori supremi del nuovo Regno, posposto ad un giovinetto senza titoli come Eugenio Beauharnais, e che il suo contegno riservato negli ultimi anni movesse da questa causa.

Tutti i precedenti dell'uomo, i suoi carteggi col principe Eugenio e la sua condotta all'epoca della finale catastrofe dimostrano come questa supposizione non regga. Può darsi che Melzi sentisse abbastanza alteramente di sè da credersi meglio indicato e meglio atto del principe Beauharnais a dirigere, sotto e contro Napoleone, gli affari italiani. In ogni caso, era una opinione che sarebbe stato solo a non avere fra gli uomini intelligenti al di qua delle Alpi. Ma nessuna attitudine sua autorizza il sospetto che questa opinione lo avesse, nè prima nè poi, reso più indifferente alle cose del Regno o meno zelante a rimuovere, d'innanzi al principe Eugenio, le difficoltà del Governo.

La severità del carattere si univa in lui all'artritide per allontanarlo da quelle pompe e da quelle pubblicità, onde troppo si compiaceva la giovanile spensieratezza del figlio di Giuseppina. Ma dei doveri della sua carica non fu dimentico mai e, quando vennero i tempi grossi, non risparmiò ad Eugenio consigli insieme affettuosi e severi, che, seguiti, avrebbero forse dato alle cose del Regno un avviamento migliore e prevenuta la tragedia del 20 aprile 1814.

Intorno a questa, ed alle cause, dirette o indirette, che la produssero, c'intratterremo con qualche larghezza nel successivo capitolo.

Francesco Melzi sopravvisse pochi mesi a quella funesta rivoluzione.

Ridottosi a vita privata, alternava i soggiorni fra il palazzo di Milano e l'artistica villa che s'era fabbricata a Bellagio; riceveva pochi e sicuri amici; discorreva con essi di questioni politiche e di riforme educative[8]; si spense, religiosamente tranquillo, il 16 gennajo 1816. Uomo di carattere antico e di cultura moderna, che discende politicamente in retta linea dai grandi personaggi milanesi dei secoli antecedenti, dal Simonetta, dal Morene, da Bartolomeo Arese; austero come il primo, intelligente come il secondo; come il terzo, bramoso di conciliazioni fra le asprezze del tempo. Liberale di dottrina, perchè vissuto in mezzo ad abusi nobiliari ed a corruttele plebee, tenne sempre alti, innanzi a sè, interessi di paese, non di fazione; e per quelli non esitò ad affrontare nei pubblici uffizj Maria Teresa come i Giacobini, come il Primo Console, come l'Imperatore. Governò tempi di rivoluzione con guarentigie di conservazione; e dopo di lui bisogna giungere fino al conte di Cavour per trovare un altro italiano che abbia retto, con eguale autorità, compagine eguale di popoli appena riuniti. Ebbe a programma di rinnovazione la politica nazionale più unitaria che i tempi avessero consentito; come programma di conservazione, adottò un sistema di governo che non usciva dai limiti e non si perdeva per via; religione senza fanatismo, libertà senza frasi, disciplina senza pedanteria, ordine senza violenza, un gran sentimento di dignità dello Stato, una resistenza tranquilla ma severa alle tirannie che discendono e a quelle che salgono.

Nel complesso, può dirsi in Italia il creatore del partito liberale moderato negli ordini di governo; poichè, prima di lui, s'era governato o con riforme di principi assoluti o con assolutismi di apostoli democratici; e, se oggi vivesse, avrebbe poco a mutare degli scritti suoi, poco a modificare de' suoi metodi e de' suoi principj nelle questioni di Stato.

Quando morì, l'imperatore Francesco, pauroso della sua scomparsa come della sua presenza, vietò che i giornali ne annunciassero la morte. Era logico il sovrano straniero, desiderando di cancellare dall'affetto dei contemporanei e dalla memoria dei posteri il cittadino che aveva tratto governo riparatore da rivolgimento d'indipendenza. Ma non sarebbero logici i concittadini suoi, se a sentimenti affatto contrarj non dessero affermazione più decisa e più risoluta.

Milano ha tuttora un debito verso Francesco Melzi d'Eril, duca di Lodi. E noi ci uniamo al desiderio già espresso da un valente illustratore di storia patria[9], augurandoci che la nuova magistratura cittadina metta fra i cómpiti suoi quello di trarre dalla prossima riforma edilizia della città l'occasione di onorare in faccia ai posteri con durevole forma la memoria dell'unico milanese che nel corso dei secoli abbia governato sette milioni d'Italiani con metodi di libertà.

GIUSEPPE PRINA E LA FINE DELL'EPOCA NAPOLEONICA.

Si seguono ordinariamente due metodi nello studiare la storia. L'uno (ed era il metodo caro sopratutto agli antichi) considera l'uomo come fattore esclusivo dei fenomeni storici, come l'arbitro dei fatti e dei casi. Con questo metodo, la storia diventa in certo modo un dramma od una epopea. Lo svolgimento dei destini storici dipende dalla passione d'un uomo, da un affetto di donna, da un'eccentricità. Si può sostenere, per esempio, con questo metodo, che la Repubblica Romana è perita perchè Cesare aveva dei debiti da pagare; che l'Austria esiste perchè il pugnale di un fanatico, Ravaillac, ha spento trecent'anni fa il più formidabile dei suoi avversarj; che la riforma religiosa è divenuta potente in Europa perchè un Re libertino ha veduto due begli occhi in volto ad Anna Bolena. È un'esagerazione, che spegnerebbe ogni fede nelle ragioni del progresso e della civiltà.

Poi è venuto Bacone, è venuto G. B. Vico, è venuto Herder. La storia ha cessato d'essere un caso ed è diventata una legge; dalle peripezie del dramma è passata all'angolosa rigidezza della filosofia. Quello che accade, è accaduto perchè doveva accadere; lo svolgimento storico segue teorie prestabilite, malgrado e contro ogni risoluzione umana; non è più il libero arbitrio che regge la storia, è la fatalità. Siamo qui in un'altra esagerazione; e bisogna reagire, in nome del vero, contro le inflessibilità sistematiche, così dell'uno come dell'altro metodo. Cinquant'anni di storia non rappresentano che un atomo nello svolgimento dell'umanità; ma rappresentano la fortuna o la sventura di due intere generazioni, ed è possibilissimo che il genio o il vizio d'un uomo diano a questi cinquant'anni un avviamento buono o fatale. La storia non è nè tutta dramma, nè tutta legge; nè tutto metodo, nè tutta fatalità; non devia, per capriccio d'uomini anche potenti, dalla successione logica de' suoi sviluppi; ma non è neanche così rigida ne' suoi contorni da non lasciare gran posto alle virtù o agli errori, alla previdenza od alla spensieratezza degli uomini. Se fosse altrimenti, non varrebbe neanche la pena di studiarla; bisognerebbe incrociare le braccia e invocare il destino, a scusa delle nostre viltà.

Studiare la storia vuol dunque dire: esaminare quanta parte di responsabilità abbiano i casi e quanta gli uomini nello svolgimento o troppo tardo o troppo rapido delle grandi leggi morali; formarsi un giusto criterio delle situazioni storiche comparabili o affini; e cercare alla filosofia e alle scienze sociali il mezzo di coordinare il moto degli uomini a quello degli eventi, il segreto di quelle prudenze e di quelle tolleranze, per cui a questo duplice moto, irresistibilmente fatale, possano essere risparmiati gli urti, cagioni quasi sempre di dolori, talvolta di catastrofi.

Riflessioni di questa natura si presentano spontanee alla mente, quando si volge lo studio all'epoca fortunosa che si chiuse colla rivoluzione del 20 aprile 1814. Giacchè in poche catastrofi storiche si possono vedere e sceverare più chiaramente le forze per così dire eruttive degli avvenimenti; pochi esempj valgono più di questo a mostrare come la passione degli uomini abbia turbato, credendo di aiutarla, l'elaborazione degli effetti.

Eccederebbe troppo le proporzioni ordinarie di questi nostri saggi storici il riassumere, anche nella forma più breve, il processo evolutivo del primo Regno d'Italia. Creazione capricciosa e artificiale, come tutte quelle che uscivano quasi settimanalmente dal genio sfrenato e politicamente infecondo del primo Napoleone; un complesso di casi e di uomini, costretti ad assumere forma plastica e quasi compatta sotto l'influsso di quella potente volontà, aveva dato però a questo organismo politico una fisonomia così forte e così spiccata, da lasciare grandi speranze di una solidità maggiore e più duratura.

Aveva cominciato con quattro milioni d'abitanti e quattordici dipartimenti lombardi ed emiliani; vi si erano aggiunti man mano otto dipartimenti veneti, tre dipartimenti marchigiani, un dipartimento tirolese; aveva ormai raggiunto i sette milioni d'abitanti; era lo Stato più forte d'Italia, dopo il regno di Napoli. Possedeva un'amministrazione oculata e sopratutto energica; s'era fatto, dai ruderi delle legislazioni anteriori, un codice di leggi chiare, efficaci, assai previdenti; contava una plejade d'uomini distinti in ogni ramo di scienza, di arti, di pubblica e pratica attività; aveva un esercito nazionale di 80 mila uomini, condotto da brillanti generali, al cui valore e alla cui disciplina Napoleone, giudice non indulgente di questioni italiane, aveva reso più volte sincero omaggio[10]; vedeva sorgere od ampliarsi, per avvedute iniziative di governo, istituzioni pubbliche di alto e progressivo indirizzo, il Monte Napoleone, le Università di Pavia e di Bologna, le Accademie di Belle Arti, il Conservatorio di musica, il Collegio reale delle fanciulle. I lavori pubblici, così edilizj, come stradali ed idraulici, ebbero allora un impulso, per lo innanzi non ricordato mai; dalla strada del Sempione ai canali navigabili del Mincio e del Po, dalla facciata del Duomo all'arsenale di Venezia, dal parco di Monza alla villa di Stra, tutto il Regno era invaso da una febbre di costruzioni, condotte con larghi criterj e con isplendida munificenza. La politica finanziaria del governo era fiscale, ma non taccagna. Si faceva pagare, ma si spendeva.

A questo bagliore di prosperità materiale faceva duro contrasto la mancanza di libertà politica. L'arbitrio governativo era enorme; la polizia onnipotente; la noncuranza di ogni garanzia legale di ordine politico trasudava, per così dire, da tutti i pori dell'Amministrazione suprema. Un dì era Melchiorre Gioja che si sfrattava dallo Stato per avere scritto un opuscolo timidamente disapprovatore dei ministri in carica; un'altra volta era un giornalista, il Lattanzi, che si chiudeva — orribile a dirsi — in uno spedale di pazzi, per aver osato rivelare un segreto di governo che sarebbe stato pubblico otto giorni dopo[11]; una sentenza politica d'inaudita implacabilità colpiva il comune di Crespino e lo poneva per un anno fuori della legge, a discrezione di un brigadiere di gendarmeria, per aver accolto con applausi, durante la guerra, un drappello di nemici giunto ad impadronirsene.

Che più? il Corpo legislativo, stabilito dal terzo Statuto costituzionale del Regno, avendo voluto discutere un progetto di legge sul Registro, mandato da Parigi, e domandare qualche modificazione alla tariffa, l'imperatore Napoleone prescrisse al Vicerè che riproponesse tal quale il progetto al Corpo legislativo e lo facesse votare senza ulteriore disamina. E malgrado che dalla servilità di quell'assemblea avesse ottenuto quanto voleva, allorchè gli fu presentato il successivo bilancio, in cui era naturalmente impostata la cifra delle spese pel Corpo legislativo, si risparmiò anche la fatica di un decreto di soppressione; si limitò a cancellare, con un tratto di penna, la cifra assegnata a quel capitolo, e del Corpo Legislativo in Italia non si parlò più. Vi sostituì, due anni dopo, un corpo più ossequioso, di funzioni consulenti e d'indole non elettiva, il Senato.

Di questo miscuglio di beni e di mali aveva la responsabilità ufficiale un giovane di animo generoso e di molta inesperienza politica, Eugenio Beauharnais.

Assunto a Vicerè d'Italia in un'epoca, in cui pareva che la incredibile grandezza della fortuna napoleonica dovesse vincere ogni legge di tempo, il principe Eugenio s'inchinò coll'affetto d'un figlio e colla devozione d'un discepolo a quella grandezza, e pose ogni zelo nel secondarne gl'intenti, le volontà, il delirio. Persuaso che in quella intelligente tirannia stesse il segreto del governo delle nazioni, ubbidì come Napoleone voleva essere ubbidito, disapprovando talvolta in cuor suo la violenza di quei comandi, cercando spesso addolcirne la pratica esecuzione, assumendone sempre, con molto disinteresse, la diretta responsabilità. Esposto alle facili seduzioni della vita in quegli anni in cui l'austerità non invoglia, ebbe un primo periodo in cui teneva volentieri per sè le soddisfazioni del governo, ne lasciava i pesi e gli affari al suo segretario Méjean. Offese colle prime molte suscettività, come il segretario offendeva dal canto suo molti interessi. Verso gli ultimi anni del regno, divenuto più serio e più pensoso, reagì nobilmente contro quelle prime spensieratezze giovanili, gettandosi nelle cose militari, dove mostrò talenti distinti e raccolse plauso ed onori. Ma neanche lì risparmiò raccolta di avversarj, scoppio di rancori, addensati da rivalità di campo o da misure di disciplina. Nel complesso, non era odiato, ma era impopolare; impersonava diffidenze, pericoli, antipatie che avevano cagioni varie, non tutte e non le più gravi imputabili a lui; nè bastava a rompere questa corrente la dolce influenza della Vice-regina, Amalia di Baviera, a cui le tradizioni dell'epoca attribuiscono concordi lo scettro della gentilezza e della virtù.

Fra queste gare e queste influenze si veniva peggiorando lo spirito pubblico, a cui era venuta meno la saggia impulsione di Francesco Melzi. Infatti, il Gran Cancelliere, ridotto dal nuovo regime a funzioni di parata piuttosto che a direzione d'affari, perdeva sempre più l'occasione di esercitare sui suoi concittadini quell'influenza salutare che per tanto tempo la sua esperienza e il suo carattere gli avevano mantenuto. Il personale francese del gabinetto di Eugenio era geloso di lui. Più ancora del conte Méjean lo astiava un favorito del principe, Antonio Darnay, nominato, in uggia alla pubblica stima, Direttore generale delle Poste, e che non si peritava di abusare dell'ufficio suo per disuggellare le lettere e sorprendere i segreti dei cittadini.

Melzi, troppo altiero per scendere ad avversarj così minori di lui, si limitava ad offrire al Vicerè i suoi consigli, sempre assennati, ma non sempre accolti con quella serietà di propositi con cui erano dati. Egli vedeva le condizioni del Regno farsi sempre più gravi e ne avvertiva il pericolo. Fin dal 1811, più di 250 aggressioni a mano armata sulle pubbliche vie, più di cento invasioni nelle case private, con assassinj e ferimenti, dimostravano a che debole filo tenesse la pubblica sicurezza, il sintomo ordinario da cui si può giudicare il pregio di un governo.

Quando comincia la campagna di Russia, e il principe Eugenio deve partire per l'esercito, conducendo seco il fedele Méjean, le cure dello Stato ricadono forzatamente sulle spalle del Duca di Lodi, la cui corrispondenza col Vicerè e coll'Imperatore diventa più minuta e più frequente. E, quando giungono le prime notizie dell'immane disastro, che piomba nel lutto tante migliaja di famiglie italiane, Melzi non esita ad informare Eugenio della molta concitazione di animi che si manifesta a Milano e dell'avversione che comincia a destare una politica così spensieratamente ed ostinatamente guerriera.

In cosiffatte circostanze, le preoccupazioni del Vicerè si rivolgevano alla Corona di Ferro, e scriveva a Melzi (il 7 novembre 1813) che “se si dovrà evacuare il territorio e ritirarsi a Torino, incarichi Pino di recarsi a Monza e trasportare in salvo la Corona ferrea.„ Poi, da Verona (il 27 novembre) risponde agli avvisi di Melzi una lettera piena di amarezza, quantunque non priva di alti sentimenti. “Sono abbastanza sicuro del mio carattere per garantire che quelli che non avranno ferito che me non avranno motivo d'accorgersi che io mi sovvenga dei loro torti.... Io meritavo meglio di quello che ho ricevuto.... mi rimarrà, ne son certo, la stima degli uomini che, come voi, hanno potuto e voluto valutare le mie intenzioni e giudicare le mie azioni. L'opinione di questi mi basta[12].„

Ma il vecchio uomo di Stato non s'illudeva più da assai tempo intorno alla crisi del sistema napoleonico. E invano l'imperatore gli scriveva da Parigi il 18 novembre (1813): “J'ai ici 800,000 hommes en mouvement et, quelque chose qui arrive, les Autrichiens ne resteront point maîtres de l'Italie[13].„ Melzi accettava con rispettoso silenzio queste ultime confidenze del genio morente, ma non si lasciava avvolgere in quelle deliranti speranze.

Sicchè il 1.º febbrajo 1814, il principe Eugenio, che fronteggiava sull'Adige le schiere nemiche, riceveva dal Gran Cancelliere una lettera grave, che conteneva gravi consigli. Lo scongiurava a differire il richiamo dei figli unici nella nuova coscrizione militare “pour calmer la douleur des nombreuses familles qui y sont interessés.„ Gli pareva che importasse “dans l'heure qu'il est„ di allontanare “tout sujet de desagrément autant qu'il est possible, et de ne pas laisser à l'ennemi l'occasion de se concilier l'affection du peuple, en exécutant lui quelques jours après ce que nous aurions pu executer quelques jours avant[14].„ Soggiungeva il Melzi: “l'expérience des mois passés nous a prouvé que sur dix hommes qu'on appelle, il y en a six ou huit qui deviennent réfractaires et grossissent la masse des assassins„; tanta era già divenuta la ripugnanza del popolo al servigio militare e tanta già l'impotenza amministrativa a renderlo obbligatorio! Nè alle sole questioni militari si limitavano i suoi consigli, ma sentendo già profondo anche il malcontento finanziario, gli suggeriva di condonare parecchie quote non soddisfatte di un prestito forzato che alcuni mesi prima, dal suo quartier generale di Caldiero, il Vicerè aveva decretato, e che il Melzi affermava “malissimo basato fin dal principio.„ Fu inutile. Stimolato dalle pressioni dell'Imperatore, Eugenio metteva la sua forza nell'obbedirgli, nel racimolare ad ogni costo, per le ultime sue disperate campagne, armi, denari, soldati.

Gli è in queste circostanze che avviene e si annuncia lo scroscio del sistema napoleonico. Desiderato da molti, previsto da pochi, questo scroscio è cagione per tutti di una incertezza che s'avvicina allo sgomento. S'era così avvezzi a girare intorno a quel sole! Il suo sparire dovette fare su quelle generazioni l'effetto che cagiona una caduta nel vuoto. Eppure l'Europa s'avanzava tutta in armi, accintasi a debellare un uomo; e le nazioni allibite non sapevano a chi confidarsi, tra quella fiumana di principi che, traendosi dietro un milione di soldati, parlavano un linguaggio novo di pace, di nazionalità, e quel colosso che si sprofondava in silenzio, guizzando lampi di gloria, tra le bufere scatenate dall'irrequieto suo genio.

Fu verso la metà d'aprile che giunsero a Milano e in Lombardia le prime notizie dei risultati finali della campagna del 1814 e della capitolazione di Parigi. E sotto l'impulso di quella gran commozione cominciò subito a svolgersi un dramma politico, che doveva finire, dopo tre giorni, in una così turpe tragedia.

Milano era rimasta, per la condizione delle cose, quasi priva di quelle forze complessive di governo che, nei momenti supremi, sono la guarentigia dell'ordine pubblico. I ministri erano uomini fiacchi, avvezzi alla continua e costante direzione che veniva da Parigi, incapaci di assumere responsabilità e iniziative pari alle nuove difficoltà. Le forze militari v'erano scarsissime e delle meno efficaci. Tutto l'esercito valido e validamente organizzato era stato naturalmente chiamato al campo sotto gli ordini del Vicerè. Al campo era il ministro della guerra, generale Fontanelli; e in Milano, oltre qualche drappello di dragoni e di veliti, erano rimasti i convalescenti, i picchetti di guardia e una quarantina di granatieri; più numerosa di tutti la Guardia Civica, forza equivoca ed oscillante nei giorni d'interno commovimento.

Il Vicerè poi, costretto dalle mosse combinate degli Austriaci e di Murat, s'era ritirato lentamente dall'Isonzo all'Adige, dall'Adige al Mincio, e, ridottosi in Mantova, aveva, al primo annuncio della catastrofe di Parigi, conchiuso col maresciallo Bellegarde l'armistizio di Schiarino-Rizzino, che fu sottoscritto il 16 d'aprile. Di questa Convenzione militare Eugenio aveva comunicato le basi fondamentali al Gran Cancelliere fin dal dì prima. Gli aveva scritto che ciascun esercito avrebbe mantenute le proprie posizioni, e che due deputati avrebbero dovuto portare ai Sovrani Alleati l'espressione dei desiderj di indipendenza e di buon governo. Gli suggeriva d'incaricare Prina, Fontanelli o Testi di siffatta missione, e raccomandava ad ogni modo che si scegliessero fra rappresentanti appartenenti alle due sponde del Po. Si offriva, se i due deputati fossero passati per Mantova, di dar loro commendatizie per l'imperatore Francesco.

Ma già fin dall'11 aprile i dispacci di Melzi rivelavano maggiori preoccupazioni e proponevano risoluzioni più radicali. Egli affermava necessario di convocare i Collegi Elettorali, far loro proclamare l'indipendenza del Regno, che, ratificata poi dal Senato, sarebbe divenuta una base forte e legale di riassetto politico anche in faccia alle potenze coalizzate[15].

Questa iniziativa, afferrata allora con vigore pari alla previdenza, avrebbe probabilmente evitata la crisi milanese e reso possibile il regno indipendente d'Eugenio. Differita, fu, — come sempre avviene — impugnata come arma efficace dagli avversarj, e al 20 aprile la petizione pubblica per la riunione dei Collegi Elettorali divenne il pretesto della rivoluzione. Il principe Eugenio portava forse all'eccesso un sentimento generoso, quello della lealtà. Perciò non seppe mai prestarsi alle sollecitudini, atte, nel pensiero di Melzi, a rendergli negli ultimi giorni quella popolarità che la sua costante obbedienza all'Imperatore gli aveva fatto perdere, e che era pure così necessaria in quell'ora per le nuove combinazioni politiche. Ed era nel medesimo intento che Melzi aveva invano insistito perchè la Vice-regina, prossima al parto, rimanesse a Milano, invece di recarsi a Mantova. La sua presenza nella città, dov'era a tutti simpatica, era certamente una forza di governo, che il Gran Cancelliere, così privo di altre, considerava assai efficace. La nascita eventuale d'un principino, che sarebbe stato milanese fin dal primo giorno, avrebbe potuto disegnare il grato principio d'una soluzione avvenire; e ad ogni modo pareva al Melzi che, rimanendo la principessa Amalia in Milano, un gran freno ne avrebbero sentiti i propositi di violenza che già cominciavano a buccinarsi.

Ma a questi prudenti ed austeri consigli nessuno badava più. L'Imperatore avrebbe voluto che la Vice-regina andasse a Parigi per isgravarsi; il maresciallo Bellegarde le suggeriva Monza; Eugenio naturalmente la desiderava presso di sè, ed ella partì da Milano alla fine di marzo. Melzi non potè che esprimere schiettamente al Vicerè la dolorosa impressione che quella partenza aveva lasciato nella società milanese.

Nondimeno il duca di Lodi, vero uomo di Stato se mai ne fu, non rinunciava, per le debolezze o per le esitazioni di Eugenio, a quella che gli pareva la soluzione politica più favorevole agli interessi della sua patria. Teneva fiso lo sguardo alla monarchia nazionale sotto la famiglia Beauharnais, come all'unico modo di salvare un po' d'indipendenza e di libertà, frammezzo alla tempesta di cui tutti gli Stati d'Europa erano più o meno minacciati. Voleva quindi che, subito dopo firmato l'armistizio, Eugenio venisse a Milano. Sentiva crescere l'onda intorno a sè, e gli pareva d'essere solo a vederla, impotente, solo, a respingerla. “J'ai dû me convaincre (gli rispondeva il 17) que ces têtes sont dans une confusion inconcevable et tout-à-fait incapables de se mettre au niveau des circonstances; ceux-même qui ont voulu aider ont contribué plutôt à gâter les affaires[16].„ Nè gli risparmiava, con franca parola, gli ultimi ammonimenti. “V. A. va devenir Italien, et Elle doit l'être uniquement, c'est la seule manière de réussir ici. En bon et fidèle serviteur je ne lui cache pas qu'en gardant ces Français autour d'Elle, Elle partagerait, sans la mériter, la haine qu'on leur porte[17].„

Ma Cassandra era, come al solito, inascoltata, e l'ora della violenza giungeva. Abbandonato, o quasi, dal Vicerè, poco sorretto da ministri impreparati agli eventi, insidiato da rivalità occulte e da una polizia già scossa e pusillanime, il duca di Lodi si trovò soverchiato dall'audacia dei partiti politici, che dalla situazione della capitale, in momenti di un così grande sfascio d'autorità, traevano naturalmente un'influenza maggiore e più appassionata.

Per audacia e risolutezza d'intenti prevaleva il partito austriaco puro, di cui erano a un tempo gli stromenti e gl'inspiratori principali il conte Ghislieri, bolognese, e un conte Gambarana, pavese. Questi non avevano scrupoli; erano in corrispondenza diretta col principe di Metternich e col quartier generale austriaco; cospiratori innamorati di assolutismo, accettavano per ora la parte di delatori e di organizzatori d'una rivolta, la cui fine sanguinosa è lecito credere non fosse lontana dalle loro supposizioni.

Nel paese appartenevano a questo partito pochi signori tenaci di vecchio e nuovo legittimismo; di cui i più capaci e più noti erano il conte Alfonso Castiglioni e il conte Giacomo Mellerio.

Un'altra e più numerosa frazione dell'aristocrazia milanese si lasciava pure adescare da simpatie austriache, ma non scendeva a propositi di tumulti e di violenza. Erano uomini quieti, d'ordine, di affari, il vero partito conservatore religioso del tempo; aveva sopratutto nel Senato i suoi principali rappresentanti, il conte Diego Guicciardi e il conte Carlo Verri.

Contro questi stavano i così detti Italici, nobili e borghesi che s'erano, per varie cagioni, non tutte politiche, inaspriti col Vicerè, e che speravano trovare, nello sconvolgimento europeo, una forma di governo che rispettasse l'indipendenza del regno d'Italia, mutandone il capo. Non erano però d'accordo sulla sostituzione, com'erano d'accordo sulla negazione. Alcuni avrebbero volontieri veduto succedere all'odiato Beauharnais un altro personaggio franco-italiano, Gioachino Murat; altri fantasticava un re nazionale nel generale Domenico Pino, a cui la vanità naturale e l'esempio dei marescialli francesi non lasciava forse parere affatto assurda la speranza di una corona. Le frazioni politiche del partito accarezzavano soluzioni diverse; l'una accettava un principe austriaco, con separata costituzione pel Regno; l'altra aveva posto gli occhi sopra un principe inglese, il duca di Chiarenza, il secondo dei dodici figli di Giorgio III, e sperava con ciò di attirarsi la protezione e le simpatie di lord Castelreagh, l'onnipotente diplomatico della coalizione europea. Nè mancavano, come vedremo più tardi, altri progetti più serj, ma piuttosto individuali che di partito.

I personaggi più attivi fra questi gruppi erano senza dubbio il conte Federico Confalonieri e l'avv. Traversi; ma l'uno, aristocratico altiero e liberale, carattere rigido e forte, uomo d'istinti piuttosto che di combinazioni, camminava per la sua via, mosso da una vivace ambizione personale che non si disgiungeva da un alto sentimento di patria, accettando alleanze piuttosto che ricercandole; l'altro, vecchio ed astuto mestatore d'affari, volgare d'animo come d'ingegno, stretto in solidarietà di intrighi politici con una moglie avida di ricchezze e di onori, commensale e nel tempo stesso insidiatore del ministro Prina, non aveva ripugnanze nè di mezzi, nè di scopi, nè di alleati; e pare che su lui principalmente ricada la responsabilità di cupi accordi col conte Gambarana, mediante i quali, Austriaci ed Italici lasciarono poi tacita libertà di tumulto all'orda sanguinaria del 20 aprile.

Un quarto o quinto partito caldeggiava invece la nomina del principe Beauharnais, sottraendolo come sovrano indipendente ad ogni vincolo verso la Francia o verso la famiglia del vinto Imperatore. Era il partito di gran lunga men numeroso e pochissime aderenze noverava tra i nobili milanesi. Aveva l'esercito per sè, ma l'esercito era lontano, e subiva, quantunque valoroso, l'umiliazione della sconfitta. Aveva per sè i ministri, ma erano uomini impopolari, e perchè di un passato troppo ligio all'Imperatore e sopra tutto, bisogna dirlo, perchè estranei a Milano, essendo modenesi il Luosi, il Vaccari, il Veneri, bolognesi l'Aldini e il Marescalchi, novarese il Prina. L'autorità maggiore a questo partito veniva dal Cancelliere Guardasigilli, il duca Melzi d'Eril, uomo che naturalmente a tutti sovrastava per la grandezza della situazione personale, per la integrità del carattere, per la lunga e profonda esperienza delle cose di Stato. Sgraziatamente, l'abbiamo già detto, l'influenza del duca di Lodi sopra i suoi concittadini era sminuita; lo vedevano poco e lo avevano facilmente dimenticato; ai giovani pareva troppo vecchio, ed ignoravano che nelle questioni politiche l'età giovanile è piuttosto feconda di impeti che di energie.

Infatti fu da questo vecchio acciaccoso e solitario che partì la prima iniziativa virile, in tanta disgregazione di propositi; una iniziativa, che, se fosse stata secondata dalla fiducia pubblica come era stata concepita dal privato intelletto, avrebbe probabilmente dato alle sorti del regno italico quella forma d'indipendenza che invano si fantasticava per altre vie.

La sera del 16 aprile, un avviso di convocazione chiama il Senato ad una seduta straordinaria pel giorno dopo. Si buccina per la città che trattasi di un messaggio del duca di Lodi per invitare il principe Eugenio ad assumere il titolo di Re d'Italia. La notizia commove gli animi e dà la stura all'agitazione dei partiti. Gli ostili si rinfocolano nelle ire, contestano la competenza del Senato, deplorano, colla consueta ipocrisia dei partigiani, la sorpresa di siffatta convocazione. Quasichè la sorpresa maggiore non venisse dalla capitolazione di Parigi e quasichè in politica la peggiore delle sorprese non fosse quella di lasciarsi sorprendere!

I senatori, di ogni partito, accorrono numerosi, e il presidente, conte Veneri, raccomandando il segreto sugli oggetti posti all'ordine del giorno, dà comunicazione al Senato del messaggio di Melzi.

Questi proponeva, dopo gli opportuni preamboli, che il Senato inviasse all'imperatore d'Austria una deputazione, coll'incarico di richiedere la sua mediazione presso le potenze alleate, affinchè: 1.º cessassero tutte le ostilità nel territorio italiano; 2.º fosse consacrata e riconosciuta l'indipendenza del Regno; 3.º fosse riconosciuto Re il principe Eugenio, le cui virtù e la cui onorata condotta avevano meritato l'amore del popolo e la stima dell'Europa.

L'iniziativa di Melzi era piena di avvedutezza politica. Sapeva egli, per le sue vaste relazioni personali, che l'imperatore Alessandro di Russia era favorevolissimo al Beauharnais[18]. Rivolgendosi direttamente all'imperatore d'Austria, metteva questi nella necessità di consultare il suo imperiale alleato; il cui sicuro consenso rendeva poi difficile all'Austria di accampare per proprio conto pretese territoriali. D'altronde, una deputazione consimile stava per partire, in nome dell'esercito, secondo uno dei patti dell'armistizio conchiuso il giorno 16 col maresciallo Bellegarde. Questa doppia dimostrazione, che avrebbe additata una completa concordia degli elementi civili e militari del Regno in favore del principe Eugenio, non poteva non fare una grande impressione sui governi alleati, compromessi dalle loro magniloquenti dichiarazioni di rispetto per la nazionalità e l'indipendenza degli Stati. E finalmente, approfittando subito della simpatia che aveva destato la condotta leale ed onesta del Vicerè, in confronto di quella subdola ed ambiziosa del re di Napoli, si rendeva più facile che, data la disposizione delle potenze a conservare in Italia almeno una delle dinastie uscenti dalla famiglia napoleonica, la scelta cadesse piuttosto su quella di Beauharnais che su quella di Murat.

In un paese che avesse serbato, insieme col desiderio vago dell'indipendenza, un concetto serio e giusto delle situazioni politiche, il programma di Melzi avrebbe dovuto trovare un incoraggiamento larghissimo nel paese ed una votazione unanime fra i suoi rappresentanti. Ma non fu così. Svegliatosi per le questioni di materiale interesse, l'intelletto del paese s'era attutito circa le questioni di Stato. Il dispotismo napoleonico aveva irrigidito ogni elasticità di pensiero pubblico. Gli uomini politici erano spariti; non erano rimasti che degli amministratori e dei legulej.

L'opposizione scattò subito, dopo finita la lettura del messaggio di Melzi; e ne fu l'oratore più autorevole e più accanito il conte Diego Guicciardi.

Quest'uomo, già s'è detto, aveva riputazione di essere nel Senato il capo del partito austriaco; n'era effettivamente al di fuori uno dei capi. Però non bisogna credere che allora questa denominazione avesse il significato odioso e antinazionale che ebbe più tardi. È una delle abitudini che rendono più confusa la storia e più difficile l'indagine critica quella di attribuire parole di un'epoca a fatti di un'altra. Si creano delle storpiature morali, non dissimili da quelle di cui si renderebbe colpevole un artista che dipingesse Cleopatra col guardinfante o Carlo Magno colla parrucca di Luigi XIV.

A settant'anni di distanza, poche pagine possono essere utilmente impiegate a delineare la fisonomia di un uomo che fu tra i più operosi e i più influenti del tempo suo.

Ambizioso quanto attivo e sagace, fertile nelle difficoltà politiche di espedienti e di transazioni, ricco d'ingegno più che di cultura, di una esperienza d'affari da pochissimi superata in quei giorni, il Guicciardi s'era mescolato di buon'ora ai pubblici negozi, e sotto tutti i regimi aveva tenuto un posto importante.

Nato a Ponte, in Valtellina, era stato fino dai primi anni spettatore della sordidissima dominazione che i Grigioni esercitavano sul suo paese. Ne divenne tra i più caldi a volerne scuotere il giogo, e concepì il pensiero di allacciare con solidi nodi alle provincie italiane della sottoposta valle del Po, una provincia rimasta fino allora pressochè digiuna di tradizioni italiane, sebbene teatro di lunghe ed acerbe lotte, combattute, pel dominio d'Italia, da Svizzeri, da Francesi, da Spagnuoli, da Tedeschi. Quel pensiero lo seguì per tutta la vita e poteva certo bastare, in tempi così agitati, ad occupare tutte le facoltà di una mente attivissima.

Le rivolture cisalpine del 1796 fornirono ai patrioti valtellinesi la cercata occasione di sottrarsi al vassallaggio d'oltr'Alpi; e fu principalmente per le influenze del Guicciardi che il generale Bonaparte aderì allora ad emancipare la Valtellina, Chiavenna e Bormio, dichiarando quei territori irrevocabilmente uniti alla Repubblica Cisalpina.

D'allora potè datare il Guicciardi l'ingresso nella vita politica più larga e più attiva. Piacque dapprima a Bonaparte, gran nemico degli ideologhi, che ne fece un ministro dell'interno, per controbilanciare il vuoto frasario demagogico degli amministratori cisalpini. Ai Comizi di Lione, il Guicciardi fa, dopo il Melzi, nominato direttamente dal Primo Console come Segretario di Stato della nuova Repubblica Italiana; onore diviso unicamente con quell'altro eminente magistrato che fu il Gran Giudice, Spanocchi.

Nè fra così alte vicende obliava il Guicciardi gl'interessi della sua provincia nativa, a cui seppe mantenere, contro ogni sforzo di emule diplomazie, l'irrevocabilità dell'annessione italiana. Questo affetto di montanaro ostinato spiccava anzi nel Guicciardi così evidente, che partecipandogli l'alto grado a lui conferito, Bonaparte credeva necessario di scrivergli: “vous n'appartenez plus à aucun département. N'ayez jamais en vue que l'interêt et la politique de la République entière[19].

Melzi non amava Guicciardi, e non lo nascondeva. Sicchè, fattisi difficili i loro rapporti personali. Napoleone collocò Guicciardi alla Consulta di Stato. Ma costituitosi poco dopo il Regno d'Italia, lo volle ritornato a capo di un dicastero, e gli affidò la direzione generale della Polizia. Bisogna dire, ad onore del Guicciardi, che in tali funzioni egli non seppe interamente prestarsi alle sfrenate volontà del sovrano. Uomo pratico, voleva la moderazione; uomo onesto, voleva la legge. Onde scadde dalla fiducia dell'Imperatore, che gli tolse la Direzione della Polizia e gli inflisse, con metodo imitato spesso dappoi, la dignità di senatore del Regno.

Voltandosi all'Austria, contro il sistema francese, Diego Guicciardi non poteva dunque dirsi nè un ingrato, nè uno spensierato. Aveva servito con zelo il governo da cui era stato beneficato. Caduto quello, ricuperava il sentimento della sua indipendenza politica, e credette scorgere nell'Austria, vale a dire nel più forte dei governi allora segnalati sull'orizzonte, la sola potenza capace di guarentire i due scopi politici che gli erano cari: il mantenimento della Valtellina nel regime lombardo ed una libertà onesta pel Regno. L'avvenire ha dimostrato che s'ingannava almeno per metà. Ad ogni modo, la sua evoluzione politica suscitò allora e mantenne intorno al suo nome fino agli ultimi tempi un ambiente di sfiducia, a cui s'ispirarono con troppa ingiustizia alcuni scrittori contemporanei. Dopo l'avversione del Melzi, incontrò quella del Marescalchi; e irosamente ostile gli fu sopra tutti Ugo Foscolo, che lo chiamava con suo sarcasmo: l'uomo valtellinese, e che avrebbe dovuto, più d'ogni altro, essere indulgente verso le debolezze dell'epoca.

In realtà, il Guicciardi, che tante antipatie s'era nella vita pubblica ingrossate contro, aveva fra le pareti domestiche riputazione di animo buono e probo, cui sempre giustificarono legami di affetto famigliare vivi e durevoli. Ma il Guicciardi era figlio del suo tempo ed aveva subìto, non corretto, l'ambiente in cui era vissuto. La mobilità degli eventi, avendo educato tutta la generazione sua ad un certo scetticismo utilitario, — che ora torna di moda, — non gli permise di mostrare, nella sua vita pubblica, ciò che si è convenuti di chiamare carattere; ma sarebbe ingiusto affermare, col Foscolo, che in quella non si fosse proposto se non utili individuali. No, il Guicciardi aveva il sentimento del paese, il concetto della vita politica. Non gli sacrificava con larga generosità le sue convenienze personali e famigliari, ma non può dirsi che abbia cercato queste a ritroso della sua coscienza di uomo pubblico.

Gli è che il Guicciardi non poteva propriamente dirsi un uomo moderno. Per l'educazione, per le tradizioni, per le necessità degli eventi contro cui ebbe a lottare, egli apparteneva a quella scuola di statisti italiani, che dal Macchiavelli, dal Morone, da Vittorio Amedeo avevano imparato l'evoluzione dei metodi come unico avviamento ai successi del bene. La saldezza delle convinzioni politiche, divenuta, sotto l'influenza dell'odierno liberalismo, quasi guarentigia e sinonimo della onestà degli uomini pubblici, non poteva sembrare qualità egregia di governo in tempi, in cui contro la prepotenza dei dominatori unico schermo era l'astuzia, ed unica preoccupazione quella di assicurare quanto più si potesse delle vite e delle sostanze dei sudditi contro l'imperversare delle mutabili tirannie. Onde accadeva sovente che uomini di rette intenzioni e di vita illibata serbassero, nei loro rapporti politici, andamenti così incerti e così brusche mobilità, da eccitare la riprovazione di chi non abbia l'indulgenza, naturale allo storico, per le incoerenze di cui ogni epoca è necessariamente feconda.

Il programma austriaco del Guicciardi poteva dunque essere, e fu, un errore; ma non era un traviamento.

Dell'Austria non s'aveva allora fra gli uomini di governo quel concetto che dopo il 1815 divenne popolare in Italia. Il Guicciardi non l'aveva conosciuta che come potenza estera, e gli uomini di parte sua in Milano ne ricordavano il mite regime teresiano e leopoldino come un ideale di autonomia, in confronto delle prepotenze repubblicane e imperiali piovuteci dalla Francia. Quegli uomini mancarono piuttosto, e mancarono affatto, dell'esperienza politica, che s'acquista unicamente colla meditazione e colla lettura. Furono vittima di quella illusione, che seduce sempre le menti volgari, di credere che un partito o un governo, abbandonato ad un dato punto della vita, sia rimasto immobile e si possa riprendere e ripresentare colle stesse forme e cogli stessi caratteri, allo stesso punto in cui s'è lasciato.

Il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo

che non vede, non sente, non istudia le modificazioni che intorno a lui e in sè stesso cagiona la forza delle cose o lo spirito dei tempi, non sa immaginare che si sia mutato o in bene o in male quel partito, quel governo, quel sistema che da un pezzo ha perduto di vista. S'ostina a respingerlo o a ribramarlo, sulla base delle passate nozioni, inconscio dello squilibrio che vi può essere fra la sua ricordanza ed il vero; e quando poi la fortuna dei casi lo ripone in contatto con quella forma, desiderata o abborrita, dei tempi andati, s'accorge con sorpresa che quella forma è mutata, che ha subìta, affrettata, compiuta quella stessa evoluzione benefica o disastrosa da cui egli credeva che fosse rimasta lontana od immune.

Questo complesso di circostanze e di idee, unito probabilmente ad un senso di gelosia e ad un ricambio di antipatia pel duca di Lodi, unito ad una certa sfiducia dell'uomo d'affari per quella vaghezza di teorie e quella imprecisione di scopi che distinguevano il partito degli Italici puri, pose risolutamente il Guicciardi campione della resistenza contro il programma savio e patriottico esposto al Senato nella seduta del 17 aprile.

Rifar qui la storia di quella discussione parlamentare non sarebbe forse inutile, ma sarebbe certamente assai lungo; nel complesso, la sua intonazione fu meschina e rivelava la pochezza dei valori intellettuali rimasti in quella assemblea. È, del resto, uno dei fenomeni più volte ripetutisi nella storia, che, alla vigilia delle grandi crisi, l'eloquenza parlamentare si trovi quasi sempre inferiore all'urgenza delle situazioni o schiacciata da quelle. Invece di affrontare la discussione delle cose, si affronta quella delle apparenze; invece di trarre i fatti dalla necessità delle parole, si cerca di oscurare i primi sotto il viluppo delle seconde.

Il Guicciardi, secondato dai suoi, combattè innanzi tutto con mozioni d'ordine; mostrò dubitare che il Guardasigilli avesse facoltà di convocare straordinariamente il Senato; gli contestò il titolo di rappresentante dello Stato, mentre, a suo credere, lo era soltanto del governo; propose, vecchio espediente d'ogni nuova contesa, la nomina di una Commissione per istudiare l'argomento. Propostosi un Comitato segreto, per discutere subito l'affare e prendere una deliberazione, il Guicciardi si oppose di nuovo, sostenendo che un Regolamento organico del 1809 non consentiva al Senato il metodo dei comitati segreti.

Per uscirne, fu deciso che una Commissione, secondo il suggerimento di Guicciardi, si nominasse seduta stante e che il Senato fosse riconvocato la sera stessa alle otto per udirne la relazione. Guicciardi fu eletto naturalmente a far parte della Commissione, e fu incaricato, col Verri e col Dandolo, di recarsi dal duca di Lodi per udirne schiarimenti e notizie.

Questo colloquio e le gravi e dignitose parole del vecchio uomo di Stato parvero scuotere la Commissione; la quale, scelto a relatore il Dandolo, accettò e propose al Senato l'invio della Deputazione, dirigendola però a tutte le Potenze Alleate e sostituendo alla domanda esplicita del trono pel Vicerè un elogio cauto ed insignificante delle sue virtù. Questo inciso aveva, nella sua forma ipocrita, una significazione anche maggiore di indifferenza per la persona del Principe; e in tal modo lo commentò Carlo Verri, lasciando intendere che dubitava fossero i voti della nazione favorevoli a lui. L'imminenza del voto decisivo scosse i senatori del partito vicereale, e il Vaccari, il Paradisi, il Prina sostennero energicamente la forma del messaggio Melzi, facendo notare a ragione che, escludendo la domanda del principe a Re, lo scopo del decreto e della Deputazione si risolveva in una inutilità. Al che Guicciardi rispose, che essendo, per gli Statuti Costituzionali del Regno, erede diretto della corona d'Italia il figlio legittimo dell'imperatore Napoleone, i senatori, che erano tali in forza di quegli Statuti, non potevano chiedere un altro Re. Il ragionamento era rigido, ma non era leale; giacchè a nessun uomo di senno poteva sembrare possibile che la coalizione lasciasse un trono al successore immediato dell'uomo contro cui s'era rovesciata; e si ricadeva nel sofisma e nel bizantinismo, rifiutando di riconoscere la situazione di fatto per aggrovigliarsi nelle situazioni di forma.

Ben lo fecero notare Prina e Luosi, proponendo una nuova dizione che riservasse almeno il diritto eventuale del principe Eugenio. Guicciardi non cedette su nessun punto; ed essendosi venuti ai voti, piuttosto per istanchezza che per esaurimento della discussione, come accade nelle sedute parlamentari notturne, quasi tumultuariamente il Senato approvò a grande maggioranza il progetto della Commissione, nominando il Guicciardi e Luigi Castiglioni a deputati presso le potenze alleate. E i due deputati, accettato, sebbene a malincuore, l'incarico, e forniti dal duca di Lodi delle commendatizie necessarie presso i governi europei, partirono infatti da Milano il giorno susseguente e si trovarono in Mantova la sera del 19.

La seduta del 17 aprile ebbe un contraccolpo immediato sull'attitudine dei partiti in Milano.

I cospiratori del partito austriaco, visto che nel Senato il governo era ridotto ad una piccola minoranza, decisero di approfittare della circostanza per sollecitare quella rivolta di piazza, che doveva, nel pensier loro, rendere inevitabile l'intervento dell'esercito austriaco e quindi la definitiva occupazione, a tutela dell'ordine pubblico.

Gli Italici poi, indispettiti perchè nel Senato stesso neanche una voce si fosse levata a sostenere il loro programma, rivolsero i loro sforzi contro il Senato stesso, considerandolo, nella loro cecità, come l'unico ostacolo al trionfo della parte loro. Fra due partiti, chiaritisi ostili ad un terzo, una coalizione per distruggere è presto fatta. Gli Austriaci accordarono il loro appoggio e le loro firme ad una protesta che gli Italici presentavano, contro la deliberazione del Senato, per domandare l'immediata convocazione dei Collegi Elettorali, come unica legittima rappresentanza del Regno. Gli Italici dovettero tollerare, con trista e tacita complicità, l'agitazione popolare che il Ghislieri, il Gambarana e il Traversi organizzavano con torbidi elementi chiamati dal Pavese e dal Novarese.

La protesta in favore della convocazione dei Collegi Elettorali era imponente per la stessa moderazione con cui era redatta, pel numero e per la qualità delle firme ond'era accompagnata. Il primo nome sottoscritto era quello del generale Domenico Pino, e dietro a lui venivano tutti i nomi più noti dell'aristocrazia e dell'alto commercio, i Porro, i Trivulzi, i Confalonieri, i Fagnani, i Borromei, i Visconti, i Greppi, i D'Adda, i Cicogna, i Rasini, i Mellerio, i Sormani, i Trotti, i Brambilla, gli Arese, i Ciani, i Busca, i Silva, i Bossi, i Giovio, i Serbelloni, i Crivelli, i Castiglioni, gli Scotti, i Castelbarco, i De-Capitani, i Balabbio, i Besana, i Barbò; v'era il presidente del Consiglio comunale, conte Gian Luca Della Somaglia; vi erano il podestà di Milano, conte Durini, e tutti i Savj municipali; v'erano le illustrazioni intellettuali, Carlo Porta, il Monteggia, il Cagnola, Carlo Rosmini, e un giovane già alto nella riputazione cittadina, Alessandro Manzoni.

Questo documento parve atto così grave e così pieno d'incognite minaccie a Carlo Verri, uomo di animo retto e fermo, non indegno dei suoi illustri fratelli, che si recò senza indugio a casa del duca di Lodi, supplicandolo a prendere, come depositario del supremo potere, misure di previdenza. Fu inutile; il duca di Lodi, prostrato da un accesso di gotta, ingannato dai rapporti di una polizia che s'era fatta complice dei turbolenti, forse persuaso in cuor suo che ogni cosa precipitava e non v'erano più probabilità di salute, non volle far nulla. Era fatale che la catastrofe succedesse[20].

La mattina del 20 aprile era il giorno ordinario delle riunioni del Senato; e, malgrado l'eccitazione popolare, che già si annunziava, il presidente Veneri non ebbe il coraggio di sospendere la convocazione. Pioveva; e i senatori s'avviavano nelle loro carrozze verso il palazzo dove solevano radunarsi.

E allora, in quel palazzo dove oggi accorrono gli studiosi del tempo antico a frugare le polverose cartelle degli Archivj di Stato, in quel cortile dove un imperatore di bronzo aspetta, colla stessa imperturbabilità di cui fu simbolo in vita, che si risolva il quesito di giustizia storica e di libertà politica agitato intorno al suo nome, accadde la seguente scena. Quando le carrozze dei senatori si fermavano dinanzi al vestibolo, un uomo d'alta statura, domestico di una casa signorile, montava sopra uno sgabello, si accostava allo sportello e gettava alla folla il nome del senatore, dando egli stesso il segnale dei fischi o degli applausi, secondochè il personaggio appartenesse o no al partito vice-reale. La folla era variopinta: v'erano giovani delle primarie famiglie, con ombrelle di seta, v'erano lacchè, popolani, faccie truci come di sicarii assoldati, e perfino, asserisce il Coraccini, delle dame di Corte. Quando giunse la carrozza del conte Verri, fu accolta da applausi, voltisi poi in fischi nel salire lo scalone; e il senatore vide distintamente il conte Federico Confalonieri dare il segnale degli applausi. La folla cresceva ad ogni momento, e assumeva, come avviene, aspetto più minaccioso e propositi più torbidi dal maggior numero. Mentre il Senato, appena riunitosi, cominciava la lettura della protesta e delle firme, un capitano Marini fece annunciare che la Guardia Civica chiedeva di voler presidiare essa il Senato, invece dei soldati di linea. Era il primo procedimento metodico della rivoluzione. I senatori, già sgomentati di questi preliminari, non seppero neanche dare risposta. E il capitano Begnino Bossi, del partito italico, rimandando senza contrasto il picchetto di linea e i dragoni ch'erano di servizio, fece occupare dalla Guardia Civica il cortile e le scale. Voleva dire, e volle dire infatti, che la turba fosse padrona d'invadere le scale e i cortili con assai maggiore libertà di prima. Il romore della sommossa cominciò allora a penetrare nella sala senatoria, e il pallore degli uscieri avvertì del crescente pericolo. Il conte Carlo Verri, affidato alla notorietà del suo nome e della sua famiglia, si offrì di uscire e di arringare la turba. Lo fece infatti e più volte, man mano che si udiva ingrossare il tumulto. Ma ad ogni arringa sua, vedeva più inquieta e più cupa l'attitudine della folla, respinta più in alto la guardia, sempre più occupati dai tumultuanti gli accessi e le scale del palazzo. La terza volta che si presentò sul pianerottolo dello scalone, vide che ogni freno era spezzato; che l'invasione delle sale era imminente. Gli ufficiali della Guardia Civica gli si strinsero intorno, dicendosi pronti ad esporre la loro vita per salvarlo; egli, impotente a farsi udire frammezzo agli urli, agitò un fazzoletto bianco e visto poco lungi il conte Confalonieri, lo chiamò ad alta voce per nome, invitandolo ad esporre i lamenti e i desiderii dell'assembramento. Furono poche parole, ma chiare: che si convochino immediatamente i Collegi Elettorali e che si richiami la Deputazione del Senato. Poi, gli urli proruppero come prima e più di prima, e assunsero quel tono foriero delle imminenti violenze: abbasso il Vicerè! abbasso il Senato! che si sciolga la seduta!

Il Confalonieri si pose a lato del Verri, quasi per fargli scudo della sua momentanea popolarità, e lo accompagnò fino all'uscio della sala, rimanendo sul limitare. Nell'interno poi della sala, tutto il Consiglio era scompigliato; i senatori, sbigottiti, non idonei per tempra ad affrontare somiglianti tempeste, non chiedevano altro senonchè si cedesse. Il Verri confermò loro che, senza un'immediata adesione ai desiderii della folla, non si poteva guarentire la salvezza del Senato. Non v'era bisogno di più forti scongiuri. Un senatore stese il decreto, di forma semplicissima: il Senato richiama la Deputazione, riunisce i Collegi Elettorali, e la seduta è sciolta. Il presidente Veneri appose la firma; siccome la folla già batteva all'uscio ed occorreva pubblicare il decreto, tutti i senatori e gl'impiegati si posero a scriverne copie, che poi venivano gettate e diffuse tra il popolo tumultuante.

Questa risoluzione salvò probabilmente i senatori da un possibile eccidio; i capi della cospirazione riuscirono a calmare per un istante le turbe, tanto che i senatori potessero, sgusciando ad uno ad uno, sfilare lungo i corritoi, tra gli urli e i fischi di quella plebe sfrenata. Poi cominciò il saccheggio. Il ritratto di Napoleone, dipinto da Appiani, fu bucato dalla punta di un ombrello e gettato sul lastrico della via. Poi, tavoli, sedie, usci, specchi, stufe, persiane, le carte d'archivio e i libri della biblioteca, tutto fu rovesciato, divelto, rotto in frantumi, buttato dalla finestra.

La prima parte della Rivoluzione era compiuta; il Senato era esautorato, sgominato, poteva dirsi abolito. Gli ostacoli che parevano gravi al partito italico s'erano superati. Ma restava l'altra metà del programma; quella che stava più a cuore del partito austriaco puro; e anche questa, poche ore dopo, era inesorabilmente e atrocemente compiuta.

Bisogna ora che ci trasportiamo col pensiero in altra parte della città; sopra un'altra area, pure oggi immemore della tremenda tragedia, i cui edifici sono consacrati a quanto v'ha di sereno e di nobile nel consorzio umano, la religione, l'arte, l'amministrazione cittadina, l'ospitalità.

La piazza di S. Fedele non aveva allora nè quell'aspetto regolare nè quella sufficiente ampiezza che oggi le si riconosce. L'edificio in cui trovasi l'albergo della Bella Venezia si protendeva allora assai più innanzi, con un massiccio quadrato, diviso dal prolungamento della via del Marino dalla casa Imbonati, divenuta ora teatro Manzoni.

La facciata poi si prolungava tanto verso il palazzo Marino da lasciare adito ad una viuzza strettissima ad angolo retto colla via del Marino; tanto stretta quella viuzza che, come nota il compianto Cusani, obbligò il celebre architetto di Tomaso Marino a costruire questa fronte del suo palazzo senza euritmia; cosa che ognuno può verificare od avrà verificato, notando che la porta centrale ha otto finestre a diritta e soltanto sei a sinistra, per potere collocare quella porta d'ingresso in faccia alla contrada dell'Agnello e sottrarla all'oscura strettoia, per cui nessun rotabile avrebbe potuto passare.

Era quello il palazzo che la dizione pubblica chiamava la casa del Prina; e dove quella immaginazione popolare malata, che è propria di tutti i tempi e resiste a tutte le logiche della civiltà, vedeva ammucchiati sterminati tesori. Il ministro delle finanze abitava infatti in quella casa, che non era sua, ma che il Demanio aveva comperata dall'Ospitale Maggiore. E lì, fin del mattino, era un via vai di gente, che, avendo sentore dei preparati tumulti, instava perchè il ministro cercasse fuori di casa un asilo.

Uno sconosciuto gli s'era presentato, porgendogli un biglietto anonimo, in cui lo si consigliava a lasciar tosto Milano; due segretari del ministro, Pavesi e Pioltini, lo esortavano a nascondersi, temendo per sè stessi e per lui; il parroco di San Fedele si offriva di celarlo in modo sicuro nel sotterraneo della chiesa; suo cugino, l'abate Prina, professore a Pavia, stava presso di lui un quarto d'ora prima che la folla irrompesse, e lo supplicava a fuggire secolui, avendo pronta a poca distanza una vettura preparata a tal uopo.

Fosse imprevidenza, irresolutezza o coraggio, il Prina non badò a nessuno di questi avvisi e non si mosse di casa[21]. La fatalità lo traeva. Trentaquattro anni dopo, un altro ministro, egli pure avvertito dei sicarii che lo attendevano, non volle mutare la sua via e corse incontro alla morte: Pellegrino Rossi. Ed aveva egli pure alcune spiccate analogie col ministro delle finanze del Regno d'Italia; entrambi uomini rigidi, aspri, inflessibili, tenacissimi; entrambi alteri dispregiatori di popolarità; entrambi ultimi sostenitori di un potere che cadeva con essi.

Quando la turba ebbe finito di trionfare delle suppellettili del Senato, una certa irresolutezza si manifestava nell'attitudine sua; voleva evidentemente una vittima; e già s'era mossa, per cercarla, verso il palazzo del duca di Lodi, quando una voce autorevole, forse spinta — chi lo sa? — da un desiderio onesto di stornare per un pericolo incerto e remoto un pericolo certo e prossimo, gettò nella turba il nome di Prina. Dio solo sa a quest'ora se quella sia stata la voce del conte Federico Confalonieri. Certe accuse, non basta che siano ripetute dai contemporanei, perchè debbano supporsi vere. L'epoca nostra ce lo insegna troppo. Guai se il giudizio dei posteri su alcuno dei più illustri contemporanei nostri fosse basato sulle audaci improntitudini di alcuni giornali!

Comunque sia, quella voce bastò a fermare la turba, che si precipitò invece, come un torrente devastatore, verso la nuova direzione e il nuovo nome additato ai suoi cupi disegni.

Giunse sulla piazza di S. Fedele, quando il cugino di Prina, visti inutili i suoi tentativi, aveva spinto il ministro in una delle ultime cameruccie dell'ultimo piano, gettandogli un abito da prete; ridiscendendole scale, scontrò la ciurmaglia che già le saliva.

Ognuno ha innanzi alla memoria quelle pagine sublimi del romanzo immortale, in cui Alessandro Manzoni descrive la sommossa del 1628 e l'assalto dato alla casa del Vicario di provvisione, che era, fra parentesi, Lodovico Melzi, un antenato del duca di Lodi. È fama che l'ispirazione di quelle pagine si dovesse all'impressione lasciata nell'autore dall'eccidio del 20 aprile che succedeva a pochi passi dalla sua contrada. Certo è che gli episodii si rassomigliano tutti; l'inferocir della plebe, la viltà degli eccitamenti, l'intervento delle scale e dei martelli demolitori, l'assenza di forza pubblica, la pietà generosa e impotente di alcuni cittadini. Soltanto, al povero Prina mancò l'aiuto di Ferrer.

Un Colombo, trovatello, falegname addetto al teatro della Scala, si vantò finchè visse d'avere scoperto il ministro in quella stanzuccia dove stava infilandosi le calze e l'abito da prete, nella speranza che il travestimento potesse salvarlo. Mentre gli uomini pratici della turba rompevano gli scrigni e mettevano in tasca i titoli di credito, il rozzo operaio, più violento, ma forse meno spregevole, pensava alla vendetta personale, che probabilmente gli avranno fatto credere giusta.

L'infelice ministro è ruzzolato giù per le scale, gettato da manigoldi fuori di una finestra verso la contrada del Marino, e raccolto da altri manigoldi sulla punta delle ombrelle e dei bastoni. Un manipolo di pietosi — ce n'è sempre, in questi casi, per l'onore dell'umanità — lo accerchia, finge d'essere il più accanito contro di lui e lo attira nell'interno della casa Imbonati. Renzo doveva essere tra questi. Ma i sicari prezzolati avvertono il tentativo e non lo lasciano compiere. Prina è strappato di nuovo dal suo rifugio, condotto a spinte, a busse, a colpi d'ombrello lungo la viuzza già accennata, tra la sua casa e il palazzo Marino; lo si trascina verso l'angolo di S. Fedele e lì la turba imbocca, schiamazzante e feroce, la via di S. Giovanni alle Case Rotte. Invano tentano alcuni generosi di placare quelle iene; il frate, poi cardinale Orioli, ajo del marchese Lorenzo Litta-Modignani, il celebre cantante Filippo Galli dal suo balcone, Ugo Foscolo dalla piazzetta della Scala spendono invano la loro pietà, la loro voce, la loro eloquenza; soltanto quel drappello di generosi che non aveva rinunciato alla sua speranza — bisogna nominare fra questi, a titolo d'onore, un cameriere di G. Domenico Romagnosi, Angelo Castelli — riuscì per la seconda volta a spingere la vittima trascinata entro una porticina che metteva nel cortile di un mercante di vino, Perelli, quasi di fronte alla casa, dove ora si trova la libreria Pirola.

Nascosto lì, dietro un mucchio d'assi del falegname Bonfanti, il misero Prina, già livido di ferite, vide passare per l'ultima volta innanzi a' suoi occhi la speranza dell'esistenza. Avrebbe potuto salvarlo il caffettiere Borrani, aprendo un usciolo che dal cortile metteva nella sua bottega e ad altre case; ma il caffettiere ebbe paura del saccheggio e si rifiutò. Avrebbe potuto salvarlo il generale Pino, coll'impiego di pochi soldati che avessero fatta una punta energica in mezzo agli assassini, che sono sempre vili. Ma il generale Pino si divertiva sulla piazza ad arringarli, gli assassini, in luogo di disperderli; e gli assassini udivano l'arringa, ridevano sul viso all'arringatore e proseguivano il loro truce divisamento.

Dopo un'ora di questa inutile aspettativa, avendo la turba già rotta la porta e invaso il cortile e ammucchiato delle fascine per incendiare la casa, il Prina rinunciò nobilmente all'esistenza, uscì dal suo nascondiglio e si diede nelle mani dell'orda inferocita.

Qui ebbe luogo una scena d'orrore che soverchia ogni più atroce concepimento di fantasie sbrigliate. La storia è talvolta più crudele dell'immaginazione. L'infelice uomo fu da un colpo di martello sul viso rovesciato a terra, fu legato pei piedi sopra un asse e trascinato in quella foggia lungo le vie, col capo che rimbalzava sullo sconnesso selciato della città. La pioggia dirotta e il cader della notte dovevano aggiungere orrore a quella scena sinistra, certamente rischiarata dalla luce sanguigna delle torcie di resina, più che dai pallidi fanali cittadini dell'epoca. Giunta la folla, briaca d'urli e di sangue, dinanzi all'ufficio del Demanio, sulla piazzetta del Cordusio, rizzarono contro il muro quel semivivo lacerato, lo denudarono, e cercavano sfondare la bottega di un vicino droghiere, per trarne acqua ragia ed abbruciare il cadavere coll'edificio. Erano i precursori del petrolio politico. Quando Dio volle, un picchetto di Guardia Civica comparve sulla piazzetta e sgominò gli assassini. Fu slegato e adagiato nel cortile del Broletto quell'informe avanzo d'uomo; era morto; ma i chirurghi che lo visitarono non seppero rinvenire, fra tante e così orribili contusioni, una ferita mortale; s'era spento di spasimo e di angoscia.

Tal fine ebbe, per una spensierata coalizione di passioni, il conte Giuseppe Prina, novarese, uomo che ad alcuni difetti, di forma più che di indole, univa qualità preziose di amministratore e di ministro. Era dal 1791 nei più alti uffici della finanza; dal 1802 ministro, prima della Repubblica italiana, poi del Regno d'Italia. Nel 1797 aveva salvato le finanze del Regno di Sardegna, provocando, con una misura allora assai coraggiosa, la vendita dei beni ecclesiastici. Nel 1798, era uscito dal potere perchè si rifiutò di emanare un decreto fraudolento, con cui si voleva far perdere alla carta monetata due terzi del suo valore nominale.

Questi due atti bastano a dimostrare quale fosse il vigore e l'integrità del suo carattere. Come ministro delle finanze del Regno d'Italia, l'unica pecca sua fu un'eccessiva devozione personale all'imperatore Napoleone, alle cui esigenze di danaro non seppe resistere come doveva. Del resto, portava negli affari una grande oculatezza, una rigidità che contrastava colle abitudini dell'epoca e coll'amabilità che lo distingueva nella vita privata. Basava il suo sistema finanziario sulle imposte indirette piuttosto che sulle dirette; queste caricava moderatamente per potere, nelle frequenti occasioni di guerre, trarne aumenti straordinari di facile applicazione e che gli parevano allora giustificati dal rialzo dei prezzi che la guerra produceva, a favore dei proprietari fondiari. Così fu che nel 1805 e nel 1806 potè spingere l'imposta fondiaria da 48 a 60 centesimi, senza che paresse opprimente, e nel 1813 si fece dare un'anticipazione di due centesimi e mezzo, che l'estimo fondiario potè sopportare senza troppo disagio. Aveva immaginato il dazio della macina, ma vi rinunciò quando vide le enormi vessazioni a cui avrebbe dato adito quella forma d'imposta. Immaginò e tenne fermo il bollo; e fu l'imposta che lo rese più impopolare, quella che fu presa a pretesto del suo sterminio. Del resto, la regolarità della sua amministrazione era esemplare; i suoi resoconti, ch'egli, con esempio nuovo, rendeva pubblici ogni anno, erano modelli di chiarezza, di semplicità e di esattezza nei risultati; gl'impiegati del suo ministero non erano esuberanti; frammezzo alla rovinosa politica dell'Imperatore, aveva potuto consacrare in nove anni settantacinque milioni, somma per allora enorme, ad opere pubbliche nell'interno del Regno; le spese di esazione, sopra un bilancio di centocinquanta milioni, non superavano l'8 ½ per cento. Era insomma, come cittadino, un uomo della vecchia scuola, che preferiva il concetto di giustizia a quello di libertà; come ministro, un finanziere sullo stampo di Colbert e del barone Louis, che credeva la severità verso gli individui guarentigia necessaria dell'imparzialità verso il pubblico. Morì per non essersi saputo persuadere che, in un momento di vertigine, una città mite e gentile, governata da magistrati e da generali, potesse cercare nel cadavere d'un ministro la prova della sua attitudine a reggersi come Stato liberale e indipendente.

La catastrofe del 20 aprile ebbe un'eco dolorosa in tutta la Lombardia, e la pietà per la vittima non tardò a prevalere, dietro la guida di un poeta gentile, che vendicò col vernacolo popolare il popolare traviamento di quella giornata[22]. Sopra Milano pesò per lungo tempo la cupa tradizione di quella tragedia. Eppure, bisogna essere giusti, Milano non ne è responsabile che per metà. Tutto dimostra ormai che la maggior parte dei saccheggiatori e degli assassini era stata chiamata da fuori; dentro, pur troppo, erano gl'inspiratori, e questi la storia deve cercarli e punirli piuttosto nelle classi colte che nelle classi popolari della città.

La plebe milanese si trovò spinta al delitto dall'esempio attivo di altre plebi rovesciatesi in mezzo a lei e dalla colpevole tolleranza di uomini d'alto grado ch'essa era avvezza a rispettare. È un cumulo di responsabilità, maggiori o minori, di prima o di poi, d'influenza o di acquiescenza, che ormai nessuno può togliere più ad una parte dell'aristocrazia milanese del 1814. Tanto è vero che subito dopo molti sentirono la necessità di scolparsi, di giustificarsi, di discutere. Gli stessi coalizzati, come avviene dopo un delitto o dopo una sventura, si sconfessarono l'un l'altro, rispettivamente alle singole ingerenze prese da ciascuno in quella settimana di storia. Il generale Pino, il conte Confalonieri, il conte Guicciardi, il conte Giovio, il senatore Armaroli scrissero tutti e subito intorno a quei fatti, e non tutti li scrissero nel modo istesso. Carlo Verri lasciò pure le sue memorie autografe; memorie che non sempre combaciano colle altre scritture dei contemporanei, e che soltanto da due anni furono pubblicate. Il Confalonieri protestò fieramente contro i sospetti da cui si vedeva assalito, si appellò alla sua educazione, alla stessa riputazione sua di nobiliare alterigia, per negare gli atti volgari e violenti a lui attribuiti; invocò il giudizio e la stima del duca di Lodi, che questi, in una sua lettera, pacatamente accordò[23]. Vere od erronee quelle accuse dominarono per lunga pezza la vita successiva del Confalonieri; il quale, nelle sue irrequiete cospirazioni, nell'attività che pose ad ogni sviluppo d'istituzioni politiche ed educative, nella stessa audace noncuranza con cui affrontò nel 1821 l'arresto ed il processo che facilmente avrebbe potuto schivare, parve all'opinione pubblica invaso da un fervido desiderio di espiare con patriottiche sofferenze un pensiero di colpa o di rimorso. La sua lunga e nobile prigionia, la fiera calma del suo contegno in quel colloquio col principe di Metternich, che ci ha rivelato recentemente il biografo di Gino Capponi[24], hanno raggiunto quello scopo, se mai lo cercava; ed oggidì il nome di Federico Confalonieri è un nome che suona onore d'Italia, è il nome di un generoso che non si può rammentare senza emozione e senza rispetto.

Quanto al generale Pino, la sua situazione innanzi alla storia è tutt'altra. Pino s'è difeso con molti opuscoli contro le imputazioni che gli vennero mosse; ha creduto dimostrare la propria energia, asserendo di essere stato traverso la folla, alla casa del Prina, mentre era invasa, di non avervi trovato il ministro e di aver dovuto respingere degli insulti.... alle sue decorazioni. Ma i fatti sono questi.

Già fin dal mattino del giorno 17, dopo la prima seduta del Senato, il generale Pino aveva avuto un lungo abboccamento segreto con Giacomo Luini, direttore generale della Polizia; e il giorno 20, quando già la sommossa si disegnava, Giacomo Luini aveva mandato fuori di Milano due compagnie di truppa regolare a difendere il passaggio del Ticino.... che nessuno assaliva. E poche ore dopo, nel fitto della Rivoluzione, Giacomo Luini si nascondeva presso il conte Giberto Borromeo, uno dei capi del partito favorevole all'Austria.

Quando il generale Bianchi-d'Adda, facente funzione di ministro della guerra, dopo l'assalto al palazzo del Senato, incaricò Pino di assumere il comando di tutte le forze ed ordinò al capitano Vercellon di mettersi, con una quarantina di uomini, a disposizione del prefetto della polizia dipartimentale, Giovanni Villa, fu un ajutante del generale Pino che intimò a quello squadrone di retrocedere in castello, mentre già la folla cominciava a fuggire, al primo avanzarsi di quei granatieri per la via di S. Giuseppe.

L'intendente di finanza, Frigerio, che teneva duecento guardie doganali a propria disposizione nel locale di S. Giovanni alle Case Rotte, proprio nel centro della sommossa, mandò a chiedere a Pino la facoltà di farle uscire, garantendo di vincere il tumulto e di liberare il ministro. Il generale Pino non gli diede risposta. Ed il fatto era udito pochi anni dopo, raccontato dallo stesso Frigerio, da una persona vivente degna di tutta fede.

Non basta; il giorno dopo, essendosi arrestati parecchi sicarj, che volevano continuare le turbolenze, Pino ordinò al generale Paini che fossero tosto rimessi in libertà, e fu destituito il prefetto Villa, che aveva cominciato i processi, malgrado gli ordini datigli di non far nulla.

E finalmente, quando tre giorni dopo, i generali Teodoro Lechi, Paolucci e Palombini vennero a Milano, nella speranza di persuadere Pino a reagire contro gli avvenimenti e a tentare una resistenza armata contro l'Austria, si udirono cinicamente rispondere dal loro collega! “ la faccenda fu assai ben condotta, giacchè se volevasi una vittima, bastò una sola, nè fu scelta male.„

Quando sopra un uomo pesa la responsabilità di questi fatti e di queste parole, lo storico non ha più un processo da fare, ha un giudizio da pronunciare.

Colla giornata del 20 aprile fu raggiunto veramente lo scopo della Rivoluzione e distrutta ogni base su cui poggiava il primo Regno d'Italia. V'ebbero bensì tumulti e resistenze e saccheggi anche il dì dopo; ma la stessa facilità con cui fu repressa in quel giorno l'azione delle turbe sguinzagliate a disordini, prova quanto sia stata colpevole l'autorità pubblica nella tolleranza del giorno prima.

Eugenio Beauharnais seppe il 21 mattina, per un corriere speditogli durante la notte dal ministero della guerra, le prime notizie della Rivoluzione milanese. Aveva appunto spedito al generale Pino l'abbozzo di un decreto veramente esemplare per la legalità e lealtà delle sue disposizioni. In esso riconosceva cessati i propri poteri, per l'abdicazione dell'imperatore, da cui li aveva ricevuti; proponeva l'immediata convocazione dei Collegi elettorali e la formazione di un Governo provvisorio, presieduto dal duca di Lodi.

Le notizie di Milano ruppero bruscamente, con ogni sua speranza, ogni previdenza sua. Leale verso il paese, come lo era stato verso Napoleone, respinse le istanze di Teodoro Lechi, dirette a far marciare sopra Milano una parte dell'esercito, per ripristinarvi la sua autorità; pubblicò un proclama all'esercito ed uno al popolo italiano, congedandosi da entrambi con generose parole; e al duca Melzi scriveva, con mesta amarezza: “tous mes devoirs ont cessé... je n'ai plus d'ordres à donner.„

Sette giorni dopo la strage di Milano, il principe Eugenio, soddisfatti nobilmente tutti i doveri suoi, partiva da Mantova per Monaco, ricevendo i saluti commossi de' suoi antichi compagni d'arme, e accompagnando la convalescente Vice-regina, alla quale poco tempo prima aveva detto, lagnandosi di offerte che mettevano a prezzo la sua lealtà: “Oh stanne certa, giammai io sarò Re!„ E non lo fu mai infatti; ma gli ultimi giorni del suo comando in Italia dimostrarono che, una volta libero da prepotenti influenze — alle quali, per più ragioni, gli riusciva difficile sottrarsi — avrebbe potuto essere un sovrano illuminato e di alte qualità.

Le aveva probabilmente indovinate Francesco Melzi, patrocinando con tanta intelligenza e con tanto disinteresse la soluzione politica, che il 20 aprile 1814 gli soffocò nel tumulto e nel sangue. Intorno alla qual soluzione, parecchie opposizioni furono mosse, fondate sulla presunzione che mancasse di base pratica, dirimpetto all'attitudine ed alla preponderanza assunta in Italia dall'Austria.

Il condannare, come utopie, programmi che si sono spezzati contro la brutalità degli eventi è una filosofia facile pei programmi a cui questa brutalità ha invece giovato.

Certo, è abbastanza grave per lo storico il dover talvolta spiegare le cause di ciò che succede, perchè non si abbia ad esigere da lui che cerchi le ragioni di ciò che non è accaduto. E le leggi che reggono, a grandi distanze, i destini dei popoli possono essere così previdenti nella loro complicazione, da rendere più utile una soluzione momentaneamente cattiva, come necessario avviamento alla miglior soluzione avvenire, da nessuno prevista.

Tuttavia, a dimostrare le probabilità ragionevoli che aveva, nel 1814, il programma politico del duca di Lodi, crediamo opportuno aggiungere alle considerazioni già esposte un documento nuovo; di cui non sembra abbiano avuto cognizione, nè il Cusani, ne il Du Casse[25], nè lo stesso Melzi D'Eril[26], che certamente lo avrebbero inserito, in tutto o in parte, nelle loro diligenti e voluminose pubblicazioni.

È una lettera, d'indole riservatissima, che il principe Eugenio scriveva il 18 gennaio 1814 al duca di Lodi, e in cui gli dava ragguaglio d'una trattativa segreta, rimasta, crediamo, tale anche per gli stessi storici successivi[27]. Preferiamo riprodurre intero il documento, anzichè citarne dei brani a spizzico, affinchè i lettori possano giudicare da loro stessi del carattere e dell'importanza di questo episodio.

Monsieur le Duc de Lodi.

Je me fais un plaisir de vous informer, mais pour vous seul, de ce que j'ai tenté depuis deux jours, et qui malheureusement ne m'a pas réussi.

Un peu inquiet de tous les rapports que je recevais sur les intentions du roi de Naples, je me suis servi d'une occasion qui m'était offerte par le hasard, pour faire tâter l'ennemi, et voir s'il ne serait pas disposé à un armistice.

Dans la conversation qui a eu lieu, et qui avait en apparence un objet bien différent de celui que je voulais atteindre, l'Aide de Camp du Général Bellegarde a exprimé, même au nom de son Général, les sentiments les plus honorables pour ma personne; il a ensuite témoigné quelque étonnement que l'Empereur ne m'eût pas autorisé à traiter définitivement pour l'Italie. Il a ajouté: “l'Empereur sait pourtant bien les intentions des alliés sur l'Italie. Ces intentions ont fixé nos limites à l'Adige. Mais si on ne traite pas ici, nous serons obligés d'aller en avant; l'Empereur perdra certainement toute l'Italie, puisque nous sommes plus nombreux que vous et que d'ailleurs le roi de Naples est décidement notre allié; et vous comprenez bien que si nous nous emparons de l'Italie, les conditions proposées aujourd'hui ne pourront plus être les mêmes.„

Mon Aide de Camp a répliqué:

“Mais puisque votre intention n'était pas de passer l'Adige, pourquoi marcheriez vous en avant? peut-être le prince consentirait-il à conclure un armistice qui nous laisserait vous et nous dans le statu quo, pour un temps quelconque, pendant lequel il est probable que la paix serait signée.„

L'officier autrichien a repris:

“Oh cela n'est pas possible. Le Duc de Bellegarde se croirait bien autorisé à conclure un armistice avec le vice-roi aux conditions qui lui ont déjà été proposées; mais il ne l'est pas et ne le serait certainement pas aux conditions dont vouz parlez.„

La conférence a fini là. Je me suis fait devoir d'en informer l'Empereur. Je n'ai pas besoin de vous dire que pour mon compte je ne sortirai jamais de la ligne qui m'est tracée par mes devoirs et par mes serments.

Il faut donc que nous nous abandonnions aux évenéments et que nous reportions nos espérances sur les négociations de Bâle. D'ici là, je ferai certainement tout ce qui sera en mon pouvoir pour garantir d'une invasion toute la partie du Royaume qui n'a pas encore été touchée, et je ne désespère pas d'y réussir.

Les dernières nouvelles que j'ai reçu de Naples m'autorisent à croire que le Roi pourra bien être entraîné à signer un traité avec l'ennemi, mais qu'il persiste dans le réfus de porter ses armes contre le troupes de l'Empereur. D'un autre côté, les lettres les plus récentes de l'Allemagne et de la Suisse confirment les espérances de paix. — Sur ce, Mons. le Duc de Lodi, je vous renouvelle les assurances de mon estime particulière, et je prie Dieu qu'il vous ait en sa sainte garde.

Écrit à notre quartier général de Verone, le 18 janvier 1814.

Eugène Napoléon.

Monsieur le duc de Lodi,

En réfléchissant à la lettre que je vous ai adressée hier, il m'est venu une idée que je vous confie et dont vous ferez l'usage que vous jugerez convenable. Ne pensez vous pas que vous feriez bien d'écrire vous même à S. M. à peu prés dans le sens de la note que je joins â cette lettre?[28] Vous êtes mieux placé que moi pour dire tout cela, parce que vous êtes mieux à portée que moi de juger de l'intérieur. Au reste, vojez et ne faites que ce que vous jugerez convenable. Sur ce, ecc., ecc.

Qui appajono palesemente due fatti: 1.º che l'abbandono della Lombardia all'Austria non era in quell'epoca acconsentito, e che soltanto la catastrofe del 20 aprile allargò le ambizioni territoriali austriache, paralizzando naturalmente le resistenze degli alleati; 2º che gl'interessi del regno italiano erano fatalmente sacrificati, finchè Napoleone regnava, agli interessi francesi, e che urgeva svincolare gli uni dagli altri, dando alla dinastia italiana una base indipendente, come il Melzi voleva. Il primo fatto dimostra dunque la possibilità, il secondo la saviezza del suo programma. Eugenio non volle, o non osò, nel gennajo 1814, assumere la responsabilità di conchiudere questa pace, senza il permesso dell'Imperatore; ma dalle sue lettere traspira l'amarezza di non poterlo fare e la preoccupazione dell'avvenire. Questo avvenire avrebbe ancora potuto essere salvato, quando il duca di Lodi trasmise al Senato di Milano il suo messaggio del 17 aprile; poichè le condizioni militari non erano mutate, non erano mutate le disposizioni delle potenze, e la caduta di Napoleone rendeva liberissimo il principe Eugenio di assumere quella responsabilità che nel gennajo gli era parsa troppo temeraria.

Crediamo non occorrano più numerose ragioni a giustificare storicamente e politicamente la condotta di Francesco Melzi. In quell'ora, egli ebbe certamente l'istinto della situazione, e se avesse trovato nel Senato la cooperazione rapida ed energica che i momenti esigevano, l'eccidio di Prina si sarebbe potuto evitare, e con esso il dominio austriaco che pesò per nove lustri sulle contrade lombarde.

Sarebbe stato, per la futura unità italiana, un bene od un male? È un'altra “ardua sentenza,„ che neanche i “posteri„ saranno mai, crediamo, in grado di pronunciare.

Quanto a Milano, la parabola del suo destino si compieva rapidamente.

I tentativi di reagire contro l'eccesso e di trarre a carattere italiano le conseguenze della Rivoluzione, si ruppero presto contro l'attività dei cospiratori austriaci e contro la forza ineluttabile delle cose. Invano si costituì, a guisa di governo provvisorio, una Reggenza di cittadini milanesi; invano questa Reggenza inviò deputati alle grandi potenze, chiedendo il regno separato e la Costituzione speciale. Confalonieri si udì rispondere da lord Castelreagh che contro il paterno governo dell'Austria era una pretesa eccessiva il chiedere delle guarentigie; e, poco più d'un mese dopo l'assassinio del Prina, il maresciallo Bellegarde aveva preso possesso di Milano in nome dell'imperatore d'Austria, legittimo ed assoluto sovrano.

V'è qualche insegnamento a trarre da questi fatti? se v'è, crediamo sia questo: che i grandi commovimenti popolari, quelli che lasciano traccie, sono quasi sempre il portato di cause morali, anche quando pigliano a pretesto moventi d'indole semplicemente economica. I popoli sopportano facilmente anche gravi imbarazzi della vita pratica, quando hanno la coscienza che l'anima loro è libera; al contrario, se si sentono soffocata od uccisa la libertà, non sempre ne traggono lungo conforto dal benessere amministrativo.

La Rivoluzione francese ha cominciato colle grida contro i monopoli del grano; ma il primo atto di forza che il popolo ha potuto fare, non l'ha rivolto contro i fornai, lo ha lanciato contro la Bastiglia. L'insurrezione inglese contro gli Stuardi ha cominciato dal rifiuto di Hampden a pagare un'imposta; ma il processo di Carlo I non fu incoato e condotto a fine per pretesti di ordine amministrativo; fu una reazione violenta contro lo spregio dei diritti e delle libertà popolari.

Gli è che vere rivoluzioni, rivoluzioni che producano effetti, non si fanno se non sono promosse o condotte da classi pensanti. Non è il braccio, è l'idea quella che cagiona nell'ordinamento degli Stati mutazioni profonde e durature. Quando il braccio solo si move, si producono tumulti, non rivoluzioni; e l'eroe si chiama allora Masaniello, non Cromwell, non Mirabeau, non Cavour.

Il primo Regno d'Italia ha, colla sua completa negazione di libertà politica, coalizzate contro sè stesso le classi pensanti e le classi popolane, unitesi in un giorno nefasto nella trista spensieratezza dell'odio che non ragiona. È un errore ed un pericolo che il secondo Regno saprà certamente evitare. Noi non sappiamo per quali prove la nostra generazione sarà chiamata a passare e di che intoppi lo sviluppo del movimento italiano troverà ancora a sè dinanzi sbarrata la via. Quello che speriamo ed auguriamo è che in nessun caso queste prove e questi intoppi potranno piegare a catastrofi, se da un lato le classi popolari sapranno non ispingere la tentazione della violenza fino agli orrori della crudeltà, e se dall'altro le classi pensanti non abuseranno della passione politica fino a calpestare il sentimento morale.

CONFALONIERI E I PROCESSI POLITICI.

Si possono studiare in due modi, sotto due aspetti diversi, i rapporti fra un individuo ed una società.

La forma più generalmente studiata, quella che seduce per una maggiore precisione di cause ed uno svolgimento più evidente d'effetti, è l'influenza che un uomo esercita sull'ambiente in cui vive, sull'epoca da cui sorge. La forza dominante, in questi casi, appartiene all'individualismo sulla collettività. È il genio che si sprigiona dalle mistiche profondità dell'umanesimo, e combatte e vince fenomeni universali, trasformandoli intorno a sè, obbligandoli a percorrere traccie diverse, a subire leggi nuove, che talvolta si prolungano bene al di là del tempo e dell'ambiente.

Aristotele, Dante, Bacone da Verulamio creano e modificano ambienti sociali nella filosofia, nella letteratura, nella scienza; Giulio Cesare, Carlo Magno impongono al mondo organismi politici, la cui influenza durerà ben più lungamente che la vita degli individui creatori.

Si capisce che questi fatti colpiscano fortemente l'immaginazione degli scrittori; e che una folla di osservatori si stringa intorno a queste esistenze privilegiate, che appunto per la loro scarsità e pei forti contorni della loro fisonomia sono facili ad esaminare e a descrivere, se non facili ad imitare.

Ma ben diverse e più complesse sono le questioni e gli studi, allorchè si passa all'influenza che la collettività esercita sull'individualismo; allorchè si esamina in qual modo agisca un'epoca, con quale forza prema un ambiente sull'educazione, sulle attitudini, sugli istinti, sul pensiero dell'uomo che vi nasce e vi cresce.

Quanti uomini di genio sono soffocati da un'epoca di compressione? quante intelligenze lucide sono sviate o rese incerte da un'epoca di transizione? quanti caratteri robusti ed interi diventano tiranni od ipocriti, sotto la piegatura lenta e costante d'una società frolla, o bacchettona, o crudele? Terribili quesiti, che devono renderci bene indulgenti nel giudicare gli uomini, ben cauti nell'attribuire esclusivamente all'indole loro, deficienze o contraddizioni od eccessi, che talvolta a questa indole furono inoculati da forze estranee, da impulsi irresistibili di responsabilità collettive.

Un uomo può nascere con attitudini spiccate alla scienza od alla letteratura; gli basterebbe un incoraggiamento, un alito di libertà per segnare forse una traccia durevole nei campi dell'intelletto. Invece, si trova in mezzo ad un ambiente di compressione o di scetticismo; un censore ignorante gli mutilerà il suo primo libro; un'accademia formalista gli screditerà il suo trovato; avrà una fiera lotta da sostenere contro un editore avido od un pubblico arido; il genio in formazione si sentirà sfiduciato, schiacciato; l' homunculus si rimpiatterà nel suo germe; Tommaso Grossi farà rogiti di protesto cambiario; Piatti morirà povero e senza fama.

In ogni forma di attività questo fenomeno può manifestarsi; ogni carriera, ogni genio può essere alle prese colle rigide tenacità di un ambiente, può soccombere sotto la mole di un'epoca o di una società. Bonaparte, luogotenente d'artiglieria, trova innanzi a sè il mondo ridotto a frantumi, e diventa il genio della guerra per ricostruirlo a vantaggio suo; Cavour, scrittore di riviste, vede questo mondo bramoso di uscire dai ceppi antichi, e diventa il genio della politica per ricostruire la sua patria a vantaggio della libertà. Supponiamo che quelle due forze, quei due intelletti bisognosi d'azione avessero dovuto svolgersi nell'ambiente chiuso e tirannico in cui s'è trovata l'Europa dal 1815 al 1830; forse Bonaparte sarebbe divenuto colonnello nell'esercito del re di Francia; e il conte di Cavour avrebbe potuto aspirare al posto di direttore generale delle gabelle.

Se applichiamo criteri indagatori consimili alla storia milanese che va dall'eccidio del Prina agli albori del 1848, ci sarà forse più facile trovare la ragione dell'esaurimento politico in cui era caduta questa città, dove il periodo teresiano aveva prodotto gli eminenti economisti e giuristi del secolo scorso, e dove il periodo napoleonico s'era illustrato di Francesco Melzi, degli amministratori e dei generali, sorti con lui.

Quella fu un'epoca insieme di repressione e di transizione; di repressione in politica, di transizione nei costumi e nelle idee. Fu allora che cominciarono a sostituirsi abitudini di fusione sociale alle rigide distinzioni di classe dei tempi scorsi. Disparvero allora gli ultimi codini, le ultime parrucche, le ultime calze di seta bianca, gli ultimi spadini, le ultime giubbe ricamate e arabescate; l'abito rappresentò coll'esterna uniformità quella comunanza di pensieri e d'interessi che nobili e borghesi traevano dalla eguale umiliazione politica; nelle case, ai ritrovi pomposi, ai balli cadenzati, ai mobili pieni d'oro e di angoli, succedettero forme più famigliari, preferenze sempre maggiori per le comodità e le vivacità della vita.

Gli ultimi Arcadi morivano, uccisi dal ridicolo, sotto i colpi di quell' audace scuola boreal che tutto l'ingegno di Vincenzo Monti non era bastato a respingere ed a sfatare. Si sentiva tutto all'intorno un mondo che si sfasciava; e tra i ruderi del vecchio e l'ossatura del nuovo, gli spiriti erravano dubitosi, si slanciavano, retrocedevano, ripiegavano; la società lottava contro sè stessa per uscire dal passato, e si spaventava qualche volta d'avere già fatto troppo larghi passi verso il futuro.

Politicamente poi, il timore e il silenzio erano divenuti i capo-saldi della vita cittadina, della prudenza borghese. Dopo quelle sterminate catastrofi che avevano segnalato gli ultimi anni del regime napoleonico, dopo le coscrizioni doppie o anticipate che avevano spopolate e addolorate le pareti domestiche, dopo l'impressione di terrore che aveva lasciato negli spiriti l'ultima giornata del Regno Italico, s'era prodotta in paese una sete di tranquillità e di pace che nulla valeva a saziare.

Volevano corsi e carrozze e teatri e giornali di mode e sonni tranquilli e gendarmi per le contrade. L'Austria soddisfaceva ed ajutava questo indirizzo dello spirito pubblico. Venuta qui con larghe promesse d'indipendenza e di libertà, si accorse presto che poteva smentirle impunemente, e lo fece. In Europa le lasciavano ogni arbitrio, nel paese non trovava sufficiente scatto di opposizione. Ci diede il Codice civile e la Cassa di Risparmio, un Vicerè e una Vice-regina che facevano ballare e trottavano sul corso in tiro a sei, cantanti e ballerine di cartello, giornalisti che si accapigliavano per la Taglioni o per la Cerrito, gendarmi e poliziotti in abbondanza, sulle strade maestre, agli angoli delle vie, sotto i fumosi lampioni ad olio di noce, sugli impalcati delle vetture postali.

Sotto questo regime gli uomini che avevano avuto l'abitudine dei discorsi politici si racchiudevano nel silenzio; i giovani ne sentivano difficilmente il bisogno; la polizia era divenuta la maggiore istituzione europea, e il principe di Metternich voleva sapere da Vienna di che cosa si discorresse sotto i platani del bastione o nei palchi del teatro alla Scala. A poco a poco, il regime europeo ci soverchiò e s'impose. L'Austria, che aveva vinto Napoleone, parve divenuta la potenza invincibile, eterna, a cui l'Italia non sarebbe sfuggita più.

Si accettò la vita com'era. Si andò ai balli del Governatore, del Vicerè. Gli ufficiali austriaci, che ci avevano liberati dalla canaglia del 20 aprile, avevano forme cortesi, si accettarono cortesemente. Si leggevano i giornali ufficiali, la Gazzetta di Milano, la Biblioteca Italiana; più sovente i giornali musicali e teatrali, il Figaro, il Pirata; più tardi l' Indicatore e l' Eco della Borsa; i più rivoluzionari, leggevano il Journal des Débats. Ai giovani che crescevano, i padri, sfiduciati di cose vecchie e paurosi di cose nuove, raccomandavano prudenza, circospezione, rispetto ai superiori; il discorso di politica non si affrontava che sotto voce, fra gl'intimissimi, con mille reticenze di fatti e di nomi; si troncava presto, come di argomento che implicasse disgusto o pericolo; si parlava della Spagna o dell'Algeria, non dell'Italia. Le generazioni crescevano in quest'afa, sotto questa pressione, e perdevano a poco a poco ogni memoria, ogni coscienza di sè.

Com'era possibile uscire da queste molteplici difficoltà, vincere la compressione, sovrapporsi alla transizione, e riprendere in Lombardia la tradizione dei grandi caratteri e dei grandi intelletti?

Lo tentò e vi riuscì, con intero successo, un uomo solo, Alessandro Manzoni. Ma vi riuscì, allontanandosi da ogni complicità, da ogni attinenza colla politica contemporanea; vi riuscì, creando una letteratura nuova e potente, sotto cui i dominatori non avevano potuto indovinare nè punire l'alto sentimento di patria; vi riuscì, rigettando il suo genio fra le tenebre dei secoli precedenti, per trovarvi corruttele e discordie da flagellare, virtù ed audacie da segnalare, ad esempio dei tempi suoi.

Però intorno e al di sotto di lui, il pensiero politico, la vita pubblica trovavano pastoje difficili a superare, vincoli impossibili a rompere. Quei pochi, fra cui si conservava il fuoco sacro, o avanzi gloriosi del periodo militare napoleonico, o giovani sdegnosi di curvare la loro vita all'ossequio ignominioso dell'epoca, si riunivano, discutevano, deploravano, cercavano di sperare. Impotenti all'azione, si buttarono alla cospirazione; necessità dolorosa nei governi di servitù, deplorabile piaga nei liberi.

Quelle forme, quei segreti, quelle iniziazioni mistiche o paurose, ch'erano state fino allora espedienti per dare importanza ai mediocri od ai pessimi, cominciarono ad essere la seduzione dei cittadini migliori. Le società segrete pullularono, si moltiplicarono, si frazionarono secondo gli scopi, secondo le difficoltà materiali o morali d'ogni singolo centro. L'Italia fu piena di loggie, di vendite, di giuramenti, di motti, di segni di croce, di emblemi, di spade incrociate, di parole incomprensibili scritte col sangue o colla chimica. Tutti gli elementi di qualche valore intellettuale o di qualche vigore patriottico si ascrissero, per illusione di libere solidanze, ai frammassoni, ai carbonari, agli adelfi, ai federati, più tardi alla Giovane Italia. Le polizie non tardarono a fiutare i pericoli, a scoprire i misteri, e in ognuna di quelle illuse consorterie penetrarono elementi infidi, agenti diretti; che si acquistavano naturalmente fiducia, per essere sempre i più pronti e i più arditi nel manifestarsi.

Così l'organismo sotterraneo italiano cessava d'essere pericoloso pei governi e diventava invece un pericolo continuo pei patrioti. Il loro elenco, il loro censimento ufficiale stavano sul tavolino di tutti i direttori di polizia; i quali, ad ogni stormir di fronda, lanciavano i loro agenti a impadronirsi delle fila di congiure appena abbozzate, talvolta neanche pensate. E così passavano per le carceri, per le torture, per le forche uomini egregi, responsabili d'un biglietto ricevuto o d'un nome dato, ma che suscitavano colla loro riputazione o colla loro virtù i timori di un dispotismo, oscillante sulla stessa base della sua onnipotenza.

La storia d'Italia diventava null'altro che un protocollo di processi politici; la città del Parini e del Manzoni diventava l'ignobile anticamera d'una schiera di sbirri e di inquisitori, fra i quali erano destinati a trista celebrità un Trevisani, un Torresani, un Bolza, un Pachta, uno Zajotti, un Salvotti.

Il falso visconte di Saint-Aignan provocava e poi denunciava la cospirazione militare milanese del 1815; un Torelli complottava nel 1831 e poi svelava i complotti; il Boccheciampe tradiva, dopo averla incoraggiata, l'audace spedizione dei fratelli Bandiera; Attilio Partesotti s'insinuava nelle grazie di Giuseppe Mazzini e svelava all'Austria i nomi e i progetti dei mazziniani.

Infinita fu la schiera dei giovani deboli e degli uomini forti che da queste insidie e da questi terrori furono tratti a rompere la vita e l'ingegno contro le sbarre di una fiera prigione. Per non parlare che dell'alta Italia, il processo del 1815 avvolse Teodoro Lechi, Giovanni Rasori, Filippo Demester, Pietro Varese e una dozzina dei loro compagni; il processo del 1818 condusse a duro carcere, fra molti altri, Antonio Villa, Antonio Solera, Fortunato Oroboni, e quei due maschi caratteri di Felice Foresti e di Giovanni Bachiega. Poi venne il processo del 1820 contro Melchiorre Gioja, Domenico Romagnosi, Silvio Pellico, Piero Maroncelli, il conte Giovanni Arrivabene ed altri. Poi si arresta, come emissario d'una setta straniera, Alessandro Andryane; poi nel 1821 il Confalonieri, il Pallavicino, il Castillia, Pietro Borsieri, Andrea Tonelli. Poi, altri processi nel 31, nel 33, nel 35, e sfuggono all'arresto Pietro de Luigi, Francesco Arese, e sono presi con altri, Luigi Tinelli, uno Zambelli, Gabriele Rosa e Cesare Cantù.

La resistenza era tutta concentrata nelle classi superiori, fra i nobili soprattutto e fra i letterati. Le masse popolari non avevano ancora, come più tardi, aperte le loro fibre al fremito dell'indipendenza. Si commovevano alle sofferenze dei patrioti; ma non erano indifferenti alle feste dei persecutori. Subivano gli effetti dell'epoca di transizione. E l'imperatore Francesco e il principe di Metternich potevano, malgrado i processi iniqui e le più inique condanne, venire due o tre volte a Milano, senza che la moltitudine osasse turbare con atti di disapprovazione gli spettacoli e le luminarie. Soltanto uno studente dell'Università di Pavia, Tommaso Grossi, rispose nel 1819 alla sfida del viaggio imperiale, con una vigorosa e felicissima satira in dialetto popolano, la Prineide, che girò manoscritta e fu subito su tutte le bocche.

Fra questi tentativi politici, il più grave per la larghezza del disegno, per la qualità dei cospiratori, per le conseguenze che ne rimasero, fu certamente quello del 1821. E fra le vittime del tentativo, la figura più altera, la personalità più drammatica, il nome rimasto nella tradizione popolare e nel quesito istorico come il vero protagonista di quel dramma affannoso fu un patrizio milanese, il conte Federico Confalonieri.

Pochi uomini al tempo nostro sono stati più discussi di lui; pochi hanno avuto più devota schiera d'amici, più larga corrente di antipatie. Era nato al dolore e alla tragedia, come altri nascono all'idillio o all'amore. In tutte le fasi della sua vita, ha una pagina strana, che non lo porta mai al trionfo, ma che lo leva dal comune degli uomini. Giovane, è involto nei cupi andamenti di una rivoluzione che mette capo al delitto; sette anni dopo, gli si addossa la responsabilità di un altro movimento che mette capo a sconfitte e a supplizj; passa i quindici anni della sua virilità fra le nude pareti di un tetro carcere, amareggiato da ogni specie di sofferenze fisiche e di torture morali; muore, come pochi muojono, durante un viaggio, di pieno inverno, senza conforto di parenti o d'amici, in un albergo di villaggio, sulla cima del S. Gottardo. Il mistero s'è assiso, come dicono i poeti, al suo capezzale; lo offende nel 1814, lo perseguita nel 1821, esce con lui dallo Spielberg nel 1836, non lo risparmia nemmeno fra le pareti domestiche, in mezzo all'atmosfera di eleganza e di affetto che per pochi anni Teresa Casati ha potuto creargli intorno. È suo destino che lo si possa credere atto a cose grandi, capace di cose odiose. Nel complesso è una sfinge, contro cui non hanno cessato mai di scrosciare i venti e le tempeste, ma che resiste immota alle offese e che forza i viaggiatori del deserto a volgersi per guardarla e per occuparsi di lei.

Ora può dirsi giunto il tempo d'interpretare l'enigma di questa sfinge? possono dirsi vicini i posteri ad afferrare i confini di questa personalità, a strappare dalle pieghe dell'anima sua qualcuno fra i segreti, onde si compone e continuerà a comporsi la storia psicologica dell'ente umano?

Forse certi fenomeni dell'atavismo potrebbero essere utilmente invocati ad esplicare alcuni lati dell'indole di Federico Confalonieri.

Apparteneva al più antico patriziato milanese, senz'altro forse alla famiglia più antica; poichè, senza voler rimontare alla tradizione di S. Eustorgio, vi sono documenti del secolo ottavo, da cui appare già il privilegio dei Confalonieri di accompagnare nel loro ingresso gli arcivescovi di Milano. Fra i membri di quella prosapia parecchi avevano avuto vicende strane. Un Corrado, dopo avere appiccato incendj, s'era pentito, vedendo condannarsi alla morte un povero contadino pel delitto suo, ed era corso a chiudersi in un eremo, presso Noto, dove stette 36 anni e d'onde uscì beato, poi santo. I Confalonieri furono alleati di Carlo Magno e di Federico Barbarossa. Nel secolo XIII Stefano Confalonieri va ad appostarsi sulla strada di Barlassina ed uccide di sua mano, per fanatismo d'eretici, quel Pietro inquisitore che la Chiesa ha poi canonizzato col nome di S. Pietro Martire. Non vi sarebbe dunque a meravigliare se dall'insieme di queste tradizioni gentilizie uscisse nel conte Federico un tipo rigidamente aristocratico, duramente accentuato, e in lotta continua fra istinti vigorosi di ribellione e vaghe aspirazioni a misticismo religioso.

Durante il Regno Italico, Federico Confalonieri non ci appare che sotto le sembianze eleganti d'un giovane della buona società. È il migliore cavallerizzo, il re delle danze, l'oracolo nelle questioni di buon gusto, di spirito, di duelli. Il Cantù ha pubblicato in un suo libro pieno di sbalzi: il Conciliatore e i Carbonari, alcuni versi di Giovita Scalvini, da cui appare la grande seduzione che esercitava il giovane Confalonieri sugli uomini.... e sulle donne. Teresa Casati, bellissima e dolcissima fanciulla, gli rompe coll'amor suo la vita da scapolo. Ed egli è felicissimo di quell'amore; la giovane coppia conserva il primato delle simpatie cittadine; la Vice-regina vuole la sposa Confalonieri a sua dama di corte, e lo sposo vi acconsente senza entusiasmo.

Verso gli ultimi mesi del Regno, Federico Confalonieri comincia ad assumere atteggiamento politico. Non accetta un ufficio di Corte che Napoleone gli destina[29]; si astiene dallo intervenire ai ricevimenti del Vice-re; parla alto e forte contro le follíe dell'Impero e le sue guerre sterminatrici. Al 20 aprile, ha già fisi sopra di lui gli sguardi del pubblico, ed ogni suo passo è spiato, ogni mossa giudicata, piuttosto con diffidenza che con simpatia. È considerato già come il capo del partito italico; e si separano tanto da lui i capi della soluzione austriaca, il Verri, il Guicciardi, l'Armaroli, quanto egli cerca separarsi dal Melzi, dal Prina, dai capi della soluzione eugeniana. Come accade in tutte le giornate di tragiche commozioni, le accuse e le difese s'incrociano e non riescono a illuminare la scena. Il Verri asserisce di averlo visto nel cortile del Senato dare il segnale di applausi, ed egli afferma in un opuscolo[30] “nessuno potrà asserire d'avermi visto prender parte a que' clamori, sia di plauso, sia d'improbazione.„ L'Armaroli attribuisce a lui personalmente l'atto brutale di avere traforato coll'ombrello il ritratto dell'Imperatore dipinto dall'Appiani e di averlo buttato dalla finestra; e il Confalonieri risponde[31], denunciando al pubblico lo scrittore come “un vile calunniatore„ e protestando di “non avere mai posto, nell'aula del Senato, in quella giornata, il piede.„ Abbiamo visto come il duca di Lodi, uscendo dal suo cauto e silenzioso riserbo, rispondesse ad una lettera del Confalonieri, chiamando “uomini più che imprudenti„ i pubblicatori di quelle accuse contro di lui.

Certo, il Confalonieri agì in tutta quella giornata con impeti giovanili, dei quali pareva che il rancore, un rancore fiero e personale contro il principe Eugenio, fosse l'inspiratore. E s'è molto almanaccato, allora e poi, intorno a questo rancore. Gli si cercarono ragioni speciali, molto intime, punto politiche. Si sono immaginate imprudenze, passioni, vendette, di carattere medioevale.

Il nome, la gentilezza, la riputazione morale di Teresa Confalonieri ci pare che bastino a collocare simili supposizioni fra quelle troppo abusate a spiegare i fatti politici coll'elemento fantastico.

Può darsi che Federico Confalonieri fosse geloso. Lo si è quando si ama e quando non si ama. In tal caso, Dio gli ha riserbata una punizione ben grave. Ma dall'essere geloso ai cupi drammi che la tradizione popolare ha raccolto intorno a quell'altera figura, ci corre assai. Il principe Eugenio Beauharnais era un vagheggino; Teresa Confalonieri era bellissima; Federico era marito ed era orgoglioso; il dramma umano è lì, ma tutto induce a credere che sia stato unicamente lì. Ora, non basta una semplice galanteria di modi o di linguaggio a spiegare il contegno del Confalonieri verso il Vicerè. Un uomo dell'educazione e delle abitudini del conte non poteva spingere all'odio qualche momentanea irritazione per preferenze usate da un principe ad una bella signora, in un'epoca in cui le relazioni sociali non s'inspiravano a claustrali rigidità. D'altronde vi sono lettere del Confalonieri a sua moglie, da Parigi, nel maggio 1814, in cui si esprime intorno ad Eugenio nei termini della maggiore franchezza e intimità; con quell'accento verace di comunanza negli affetti e nei giudizj, che certo non avrebbe potuto usare, se il principe ormai spodestato fosse stato, in qualunque tempo, fra lui e sua moglie una causa di dolorosi rapporti. Si compiace con essa, p. es. perchè alla famiglia Beauharnais non sia stata riserbata, nelle trattative diplomatiche, nessuna principauté. Le dà ragguaglio d'un incontro fortuito avuto con lui nell'anticamera di lord Castelreagh; e le aggiunge scherzosamente: “Sostenni però la dignità della mia rappresentanza, ed egli certo trovavasi più di me imbarazzato.„ Un'altra volta, invitato a pranzo dal maresciallo Berthier, vi trova il conte Méjean, segretario di Eugenio, che gli dice essere stato il principe assai spiacente di non aver veduto da lui nessuno della Deputazione Italiana. E il Confalonieri risponde calmo “che una Deputazione politica non poteva agire individualmente e che anche la semplice urbanità doveva cedere alla posizione gelosa in cui si trovava, dovendo rispondere di sè alla nazione.„

Tutta questa corrispondenza insomma, dettagliata, intima, affettuosa, dimostra che nessuna nube gettava tra Federico e Teresa il nome del principe Eugenio. Sicchè è forza cercare una ragione veramente politica alla condotta sdegnosa ed ostile del Confalonieri verso il più alto rappresentante del regime napoleonico in Italia. A questo regime egli era e s'era manifestato profondamente avverso. Come tutta la gioventù non militare del tempo suo, disperava di un'ambizione che nessuna strage poteva disarmare. Quella nuova Iliade aveva stancato; il nome di Napoleone, ancora pieno di prestigio sugli uomini di guerra, aveva cessato di rappresentare, innanzi agli uomini di pace e di governo, nessuna speranza di benessere o di stabilità. Dopo la campagna di Russia, un lutto profondo aveva regnato nelle famiglie lombarde; di ventisette mila Italiani ascritti al grande esercito, soltanto mille rivedevano, col generale Pino, la patria; altri ventidue mila erano rimasti fra le zolle insanguinate di Spagna. Le guardie d'onore, meno cinque, erano tutte perite[32]. Non bastava la gloria a consolare tante madri. Onde la coscienza pubblica, attonita a questo duello fra un uomo e l'Europa, non osava più ricordarsi dell'idolo antico, a cui l'adorazione aveva pur troppo insegnata la via del male; e si allontanava da quel gigante, sotto i cui passi, come sotto quelli del dio d'Omero, tremava la terra.

V'è una lettera di Confalonieri a sua moglie, da Parigi, pochi giorni dopo l'atto di abdicazione, in cui parla quasi con ira dell'uomo “che ha fatto scannare centomila vittime in sostegno di tutt'altra causa che la loro propria.„ Era veramente la nota dominante, il grido di dolore dell'epoca.

E se a questa ragione di alta politica, un'altra dovesse unirsene d'indole personale, a giustificare l'antipatia che il Confalonieri nutriva pel Vicerè, non la cercheremmo in un amore ferito, ma in un'ambizione offesa. Il principe Eugenio aveva offerto al conte Federico di essere suo grande scudiere; e l'offerta dovette singolarmente umiliarlo. Al giovane altiero, che si sentiva un valore politico ed era forse troppo impaziente di politiche attività, quel posto di Corte, che gli dava il diritto o l'obbligo di cavalcare sul corso alla portiera del Vicerè, parve piuttosto un insulto che un segno di favore. Rifiutò sdegnosamente, e forse di lì muovono i primi impulsi alla sua tenace ostilità. Da una lettera sua alla moglie e da un'altra a lui scritta da Lodovico De Breme traspare quanto orgoglio venisse offeso da quell'incauta proposta vicereale.

Ad ogni modo, dopo la fatale giornata del 20 aprile, e malgrado l'incerta fama che ne rimane su lui, l'influenza politica del Confalonieri diventa subito grande.

La Reggenza Provvisoria di governo, tratta dal solo partito austriaco, lo sceglie fra i deputati inviati a patrocinare presso le potenze alleate le sorti del Regno. Ed egli, più giovane di tutti, è il capo morale della Deputazione, l'oratore incaricato di affrontare le questioni più delicate, i colloqui più decisivi.

Questa prima missione politica è piena di onore pel conte Federico. Il brillante ordinatore dei minuetti milanesi si muove come un diplomatico esperto frammezzo a quella plejade di imperatori e di marescialli. Non è imbarazzato, non è timido, non è provocante. Vede giusto fino dal primo giorno e non s'illude, nè illude. Il suo colloquio con lord Castelreagh, in cui quel plenipotenziario inglese gli annuncia chiaro e tondo che la Lombardia è data senza condizioni all'Austria, è stato già pubblicato[33]; ma non sono pubblicate ancora le molte lettere sue da Parigi alla moglie, in cui la informa della situazione di Parigi e de' suoi colloqui coi sovrani di Russia e d'Austria.

È appena giunto, e scrive il 4 maggio: “Milano è nell'inganno. Egli è ben doloroso il doverne sortire, quando l'inganno è dolce.... Un mese prima eravamo ancora in tempo per far qualche passo alla nostra politica esistenza; or non ci resta che ad implorarla. Ci verrà essa accordata? l'Austria è l'arbitra, la padrona assoluta dei nostri destini. Non trattasi più di domandare alle Alte Potenze costituzione liberale, indipendenza, Regno, ecc. Trattasi d'implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare.„

Assiste all'ingresso in Parigi di Luigi XVIII, e, meravigliato degli entusiasmi che l'accompagnano, scrive con vibrate parole: “Stordita nazione, ha bisogno d'esser condotta colla catena e col flagello! 24 anni di disastri non l'hanno ancor resa alla ragione. Ma l'orgoglio, ma la vanità francese è bassa.... si ubbidisce tremando a chi parla una lingua straniera....„

I suoi abboccamenti coll'imperatore Alessandro e coll'imperatore Francesco sono di notevole interesse storico. Alessandro riceve gl'inviati milanesi come illustri italiani, non come Deputazione. È garbato, ma breve e laconico, quasi per impedir loro affatto d'entrare in materia. Invano il Confalonieri e Alberto Litta prendono due volte la parola; egli la tronca con altiera urbanità sul labbro degli oratori, dice loro delle cose graziose e li congeda coi complimenti d'uso. Forse il contegno dell'imperatore Alessandro sarebbe stato diverso, se la Deputazione milanese avesse avuto il mandato di sollecitare una soluzione favorevole al principato indipendente di Eugenio Beauharnais. Questa soluzione avrebbe avuto tutto il favore dello Czar, che all'imperatrice Giuseppina lo aveva caldamente promesso. E forse in quel punto Federico Confalonieri avrà dovuto pensare come l'essere giovani e audaci non basti sempre a risolvere bene i gravi argomenti, e come il vecchio Melzi avesse avuto, nel suo tentativo politico di un mese prima, intuito più giusto e avvedimenti più sagaci de' suoi.

Quanto all'imperatore Francesco, le sue accoglienze sono egualmente cortesi, ma la sua volontà è inflessibile. “Voi mi appartenete per diritto di cessione e per diritto di conquista, vi amo come miei buoni sudditi, e come tali niente mi starà più a cuore del vostro bene;„ ecco le prime parole con cui l'Imperatore accoglie la Deputazione lombarda. E il Confalonieri scrive alla moglie: “nulla vi ha di lusingante e di paterno che non ci abbia detto in più di mezz'ora di amichevole conferenza, ma egli parlava da padrone, nè vi era luogo a patti.„ Richiesto se almeno acconsentiva che la Corona di Ferro brillasse sul suo capo, unitamente alle altre, ma dalle altre staccata, rispose: “Io non ho progetti ambiziosi, mi occuperò di questa idea, desidero assai farvi contenti; Regno Italico no, perchè io non ispingo le mani a quello che può essere d'altri.„ E cercava in quei giorni di spodestare la dinastia di Savoja!

Alle richieste di Confalonieri per un esercito indigeno, per lo sviluppo degli stabilimenti sorti durante il periodo italiano, per la restituzione dei capi d'arte involati sotto il periodo francese, rispondeva evasivamente: “Lo veggo, avete bisogno di una Corte; vi manderò un Arciduca; sarà ammogliato.„ Quanta meschinità di criterj in così grande sommovimento di cose!

L'Imperatore desiderava però compromettere più a fondo i delegati milanesi; diceva loro che desiderava vederli altre volte per valersi dei loro lumi. Al che rispondeva con prudente fermezza il Confalonieri che “la Deputazione non poteva allontanarsi dallo scopo per cui era stata mandata, senza avere nuove istruzioni.„

È rimasta nelle tradizioni storiche di quei giorni una grande oscurità intorno alla vera soluzione che il partito italico avrebbe voluto dare alle cose del Regno. Si conosce il programma dei Mellerio e dei Ghislieri, l'Austria assoluta; si conosce quello dei Verri, dei Guicciardi, della Reggenza, l'Austria con guarentigie amministrative; si conosce quello dei Melzi, dei Paradisi, dei generali italiani, il Regno autonomo colla dinastia di Beauharnais. Ma qual era il programma di Confalonieri, che a nessuno di questi aderiva e che di tutti s'era guadagnata l'ostilità?

Nessuno storico, a nostra conoscenza, l'ha finora accennato; ma fra le carte della famiglia[34] si trovano accenni ad una soluzione, che il conte Federico era forse allora solo a credere possibile, e che i tempi resero più tardi la soluzione trionfante. “Stiano gl'Italiani uniti„ scrive alla moglie fino dal 13 maggio 1814 “non presentino che un solo voto, si dimentichino quel fatale e malinteso patriottismo di città per non servire che al patriottismo di nazione; pronuncino pure i loro sensi altamente, energicamente, li facciano giungere fin qua, e la loro causa non è ancor disperata.„ E più tardi scrive: “Bando alle idee municipali e pregiudicate; la miglior consistenza di uno Stato è legata colla sua compattezza e conveniente linea di confini. Le città non possono essere tutte capitali; e una città grande di uno Stato grande val meglio di una capitale in uno Stato piccolo. Se nel sistema delle reintegrazioni, la Casa di Savoja, già la più forte dell'Italia nordica, dovesse divenirlo di più, è meglio appartenerle che aumentare il numero o far parte dei frazionarj Ducati italiani.„

Da queste lettere spunta veramente un programma; un programma forse — come il diplomatico di Scribe — unitario senza saperlo. Ma l'uomo che fin dal 1814 vedeva nella Casa di Savoja, allora negletta ed umiliata, la soluzione dell'avvenire; l'uomo che, affrontando con largo animo la questione municipale, intuiva le discordie del 1848 e le concordie del 1859; l'uomo che fin d'allora consigliava a Milano, splendida capitale d'un grande Stato, di abdicare, per intenti superiori di nazione, ad orgogli che potevano sembrare legittimi, — quest'uomo doveva unire ad un forte intelletto politico un alto sentimento di convenienza e di generosità[35].

Chiuse le trattative e stabilito irrevocabilmente il destino della Lombardia, Confalonieri non volle spiccarsi da Parigi senza visitar Londra. La sua riputazione vi era giunta prima di lui, ed egli ebbe ovazioni dal partito liberale e dai membri dell'opposizione parlamentare, malcontenta già del trattato di Parigi e della condotta, piena di assenso a tutte le avidità imperiali, che vi aveva tenuto lord Castlereagh. Non volendo aggiungere pretesti a lotte politiche in paese straniero, Confalonieri tornò subito a Milano. Vi prese atteggiamento di altiera disapprovazione per la condotta governativa dell'Austria e per la sleale dimenticanza delle sue promesse. Fu il rigido regolatore del piccolo partito nazionale rimasto in Milano; ed ebbe crude parole per le debolezze di amici suoi, del Pecchio fra gli altri e di Ugo Foscolo; col quale corsero sfide, perchè il suo contegno verso le autorità austriache non gli era parso così indipendente com'egli giudicava che il Foscolo avrebbe dovuto serbarsi. E forse dobbiamo alla severità morale del Confalonieri se quell'alto ingegno s'è potuto in quei giorni fermare sulla china pericolosa verso cui l'avviavano le spensierate prodigalità della sua vita gaudente; e se, determinandosi ad emigrare in Isvizzera e a Londra, trovò poi modo di rialzarsi a dignità di lavoro e di riconquistare l'amicizia dello stesso Confalonieri e degli altri liberali che a Milano ne avevano deplorata l'incerta condotta.

Dopo un anno di questa vita milanese, piena di virtù, di riflessioni, forse di pentimenti, il Confalonieri si decide a viaggiare; viaggia colla consorte, viaggia solo, con amici, percorre l'Italia, la Svizzera, e da capo la Francia e l'Inghilterra. Viaggia con molta serietà d'intenti, coll'animo sempre aperto alla patria e all'avvenire. Monsignor Pacca, governatore di Roma, annunciando a chi vi poneva interesse il passaggio per le Romagne del conte e della contessa Confalonieri, notava che a Roma e a Bologna essi frequentavano “la più cattiva compagnia.„ Voleva dire gli uomini che aspiravano a rivolgimenti d'indipendenza.

A Napoli il Confalonieri conosce i Poerio, i Carrascosa, i Cuoco, i Rossaroll e quei due generali Pepe, di uno dei quali, Guglielmo, scrive con tacitiana sentenza: “divenuto famoso senza essere nato a fama.„

In Toscana si stringe di nobile amicizia con quel Gino Capponi che è stato per tre generazioni il modello degli Italiani a cuor largo e a politica generosa. In Isvizzera visita gli istituti di Fellemberg e di Pestalozzi e vi si innamora delle questioni didattiche e dei metodi educativi. In Inghilterra studia tenacemente le istituzioni liberali; è ricevuto a braccia aperte da lord Holland, il patriarca dei liberali inglesi, e un fratello del Re, il duca di Sussex, lo inscrive nella loggia di Cambridge.

In Francia, si lascia attrarre dal vecchio Buonarroti nell'ambiente delle società segrete; nelle quali accetta di entrare, quasi con scettico disdegno, ricusando i giuramenti e gli altri vincoli della setta. È accolto ospite gradito nella compagnia del venerando Lafayette, e vi conosce i Broglie, i Dupin, i Constant, madama di Stael e Larochefoucault-Liancourt e Degerando e Alessandro Laborde. Dappertutto dove va, lo sentono uomo di valore e lo trattano come tale.

Al suo ritorno da questi viaggi, il suo nuovo programma è stabilito. “Federico mio„ gli aveva scritto in quei giorni un amico, profondo, si vede, nella conoscenza degli uomini “soffoca l'invidia colle azioni o l'invidia soffocherà te colle parole[36].„

E il Confalonieri agisce. Raduna un gruppo d'amici, colti, operosi, devotissimi all'Italia ed a lui. Si mettono a patrocinare nuove idee, ad iniziare progressi nuovi, introducono macchine per lavorare il lino, assettano la prima filanda a vapore, fanno solcare da un piroscafo di prova il lago di Pusiano, tentano in un palazzo di Milano[37] il primo esperimento d'illuminazione a gas. Il Confalonieri chiede al governo il permesso di aprire scuole popolari fondate sul sistema del mutuo insegnamento; sistema allora molto in voga per iniziative inglesi e francesi, ma del quale, come sovente, poteva rivendicarsi l'invenzione ad un nostro italiano, quel Castellino di Lecco la cui memoria è ricordata da una lapide municipale sopra una casa della via Alessandro Manzoni.

Il Governo accordava dapprima volentieri il permesso, ma poi, sospettoso degli scopi e visto il gran numero di scuole che si fondavano, ritirò l'autorizzazione e ne decretò la chiusura. Intanto, la novità aveva servito ad allacciare molte relazioni, ad agitare questioni d'istruzione pubblica, a mettere in evidenza la cultura e l'amor del paese che nutrivano i liberali. Il Confalonieri s'era posto in corrispondenza per tali imprese con uomini distinti d'ogni parte d'Italia, col Mompiani di Brescia, col conte Giovanni Arrivabene di Mantova; s'era fatto presentare per lettera da Gino Capponi a Carlo Alberto, principe di Carignano.

Per allargare e rassodare questo movimento di spiriti che doveva, secondo i suoi promotori, preludere a rinnovazioni politiche, si fondò un giornale, il Conciliatore; macchina di nazionalità e di progresso, di cui s'era avuto cinquant'anni prima l'inspirazione nel Caffè, e di cui si avrebbe avuto trent'anni dopo nel Crepuscolo una gloriosa ripetizione.

Il conte Luigi Porro-Lambertenghi era il braccio destro di Confalonieri in tutto questo tramestio. Anzi fu lui che sostenne le spese della pubblicazione e ne diresse gli andamenti. E con lui sul Conciliatore scrivevano, con pensieri rinnovatori, Gian Domenico Romagnosi, Giuseppe Niccolini, Silvio Pellico, Lodovico De Breme, il Sismondi, Ermes Visconti, Pietro Borsieri, Giuseppe Pecchio, Giovanni Arrivabene, Giovanni Rasori, Filippo Ugoni, Giovanni Berchet, tutto lo stato maggiore dell'ingegno lombardo, da cui sarebbero usciti i martiri e gli esuli del patriotismo.

Questo simpatico sodalizio ridava a Milano un po' di tono; si usciva ancora una volta dai discorsi volgari per muoversi in un'atmosfera di novità intellettuali[38]; in casa Trivulzio, in casa Porro, in casa Confalonieri, in casa Ciani, in casa Arconati si raccoglievano a piacevoli e dotte conversazioni i più distinti e i più intelligenti cittadini; non vi mancavano illustri stranieri, che ricercavano con premura l'ingresso a quei circoli, — e lord Byron e M. Necker e lord Brougham e Schlegel e il chimico Davy e il duca di Richelieu. Lo stesso comandante supremo dell'esercito austriaco in Italia, il maresciallo Bubna, frequentava quelle sale del patriziato; dacchè era e si manifestava volentieri uomo di progresso; e nel paese, piuttosto che l'elemento militare, si avversava in quell'epoca l'elemento civile austriaco, perchè il vero colpevole delle smentite promesse e degli abusi della polizia.

Questa non tardò infatti a fermare il moto e a perseguitare i motori.

Nell'ottobre del 1819, il Conciliatore veniva soppresso; nell'ottobre dell'anno successivo, si arrestavano Pellico, Gioja, Romagnosi, — il processo dei Carbonari — e non s'era che al principio; l'anno seguente, le carceri si riaprivano per nuovi illustri, e cominciava il mostruoso processo dei Federati.

A questa setta avevano politicamente aderito il Confalonieri e gli amici suoi lombardi; mentre la Carbonerìa aveva maggiormente invaso le Provincie venete, marchigiane e napoletane.

In queste ultime l'insurrezione era scoppiata nell'estate del 1820, e nell'inverno successivo cominciava a rumoreggiare in Piemonte.

Sui primi di marzo, parte da Parigi per Torino il principe Della Cisterna, gentiluomo nobilissimo e rispettabile, padre di quella che fu regina di Spagna e consorte ad Amedeo di Savoja. Un avviso segreto al conte Lodi, ministro della polizia, gli partecipava che in un doppio fondo della carrozza da viaggio del principe si sarebbero trovate carte compromettenti. La carrozza è visitata, e le carte si trovano. Si cominciano i primi arresti, lo stesso principe Della Cisterna, che parve estraneo alla congiura ordita per mezzo suo, il colonnello Ettore Perrone e il marchese di Priè. Quegli arresti provocano agitazioni, e a furia di spinte e di controspinte si giunge a quel movimento militare, il cui insuccesso procurò a Carlo Alberto così lunghe amarezze.

Il Confalonieri non voleva essere inerte spettatore delle novità piemontesi. Ma era malato di febbre e non poteva viaggiare. Incaricò due giovani amici suoi, Giorgio Pallavicino e Gaetano Castillia, di recarsi a Torino a proporre accordi. Quelli andarono, videro il generale Della Torre, parlarono a Carlo Alberto, e tornarono persuasi che non v'erano sufficienti forze militari per attaccare gli Austriaci. Saputo ciò, il Confalonieri disdisse prudentemente in Lombardia ogni disposizione di moto, e scrisse anzi, trasmessa dal Pecchio, una lettera al conte di San Marzano, sconsigliandolo dal tentare invasioni inefficaci al di qua del Ticino[39].

La polizia austriaca aveva notato questi andirivieni e stava in agguato. Fra le carte trovate nella carrozza del principe di Cisterna, v'erano indirizzi di varj personaggi italiani, e fra i lombardi si raccomandava Federico Confalonieri. Bastava perchè fosse attentamente vigilato, come si vigilavano il Pallavicini e il Castillia. Questi era inoltre sospetto per frequenti relazioni sue colla Spagna, allora in auge presso i congiurati per la sua Costituzione del 1812 e per l'appoggio che dava loro in Torino l'inviato diplomatico conte Bardaxi. Sopra un anello che il Castillia portava in dito, si potè leggere un motto che fu subito considerato come linguaggio settario: leggi e non Re; Italia c'è. Si decide una perquisizione nella casa di Castillia e il commissario Bolza trova, involta in una camicia, una lettera scritta ad Emanuele Marliani, noto liberale italiano, allora in Ispagna. Ciò basta perchè il Castillia venga imprigionato; ma non basta perchè si scoprano complici e fatti. Per alcuni giorni si va a tentoni; interrogando a destra e a sinistra, specialmente delle signore.[40]

Allora l'imperatore Francesco istituisce, per avviare il processo, una Commissione straordinaria inquirente, affidandone la direzione all'acuto ed accanito Salvotti. Questi ottiene dal consigliere Pagani, direttore di polizia, una relazione scritta, per incarico suo, da Carlo Castillia, fratello dell'arrestato, che, avendo fatto parte di una seduta cospiratoria in casa di Pecchio, con Benigno Bossi, Borsieri e il conte Arrivabene[41], ne aveva dato alla polizia i ragguagli ed informava su molte cose attinenti alla rivoluzione piemontese allora soffocata. Il processo comincia a prendere proporzioni e l'inquietudine si sparge fra i liberali.

Forse però sarebbe stato difficile procedere ad altri arresti, essendo il Pecchio fuori di Stato, se al marchese Giorgio Pallavicino, giovane di caldi sensi e di animo generoso, non fosse balenata una ispirazione che soltanto la mente affatto inesperta poteva fargli credere di antica virtù.

Supponendo che il Castillia fosse arrestato pel suo viaggio in Piemonte, si reca difilato dal direttore di polizia e gli dice: “Gaetano Castillia fu da me trascinato in Piemonte; se quel viaggio è riputato delitto, io solo sono il delinquente; io solo adunque sono meritevole di pena.„

È facile pensare che l'atto inconsiderato del marchese Pallavicino doveva perdere lui ed altri, non salvare nessuno. Per quel giorno lasciarono ritornare l'incauto giovane a casa e tesero le loro reti. La sera dopo, mentre il Pallavicino è nell'atrio del vecchio teatro Re, si vede a un tratto dirimpetto il conte Bolza, ai lati due gendarmi travestiti, e un altro commissario Cardani, che, con un sorriso sulle labbra, da disgradarne quello dei birri a Renzo, al momento di mettergli i manichini, gli dice rispettosamente: “signor marchese, il direttore generale di polizia vorrebbe dirle una sola parola.„

È la frase d'obbligo del tempo e del caso. Il Pallavicino non resiste, nè può resistere. Due giorni dopo, condotto innanzi alla Commissione inquirente, il Salvotti gli mostra sopra un pezzo di carta la firma del Confalonieri e gli dice che ha saputo da un esame suo tutte le circostanze della cospirazione. L'insidia volgare riesce; al giovane, già percosso di dolore e di stupore, richiamano alla memoria la madre sua che lo adora. Uno de' commissarj, con cinico inganno, dichiara d'averla or ora lasciata tutta convulsa ed in pianto. Il Pallavicino ha scritto egli stesso, con molta lealtà, la confessione di quel terribile quarto d'ora. “In quel momento io perdei l'uso della ragione; farneticavo, sopraffatto dal dolore.... caddi nel laccio.„

La deposizione del Pallavicino allarga il processo; si fanno arresti a Pavia, a Brescia, a Mantova. Invano lo sventurato, ravveduto dalla commozione e dall'inganno, cerca ritrattarsi, confondere i giudici, fingendosi pazzo e ostinandosi lungamente in questa finzione. Era troppo chiaro che una pazzia venuta dopo non poteva infirmare deposizioni fatte prima che quella sopraggiungesse.

Nella città intanto cresceva l'inquietudine, e tutti gli occhi si volgevano al Confalonieri, ritenuto il capo e l'anima di ogni cosa. Si arrestavano intorno a lui il Borsieri, il Tonelli, il colonnello Arese, ed egli non si moveva. Aveva fatto costruire nella sua alcova una scala segreta che metteva ad un abbaino, e aspettava. Invano gli amici lo esortavano a mettersi in salvo. Il maresciallo Bubna, trovatosi una sera colla contessa Confalonieri nel palco della duchessa Visconti di Modrone, le disse con marcato accento: “perchè il conte Federico non si reca in campagna? mi pare che l'aria libera gli farebbe gran bene.„ Vuolsi che la stessa moglie del maresciallo, dama di squisita educazione, avesse pregato, piangendo, la contessa Confalonieri a voler allontanarsi da Milano con suo marito.

Fu inutile. Quanto più pareva che il governo austriaco esitasse a mettere la mano sul gran colpevole, tanto più questi pareva ostinarsi a sfidarne le esitazioni. Era il pensiero che la sua fuga avrebbe potuto rendere più grave e più manifesta la colpa de' suoi amici nel carcere? Era, come fu più volte supposto, l'inconscio desiderio di un'espiazione patriottica per le responsabilità del 1814? Era, come altri gli rimproverarono, l'orgoglio di un uomo che si atteggiava a potenza, e che diceva, come Danton alla vigilia del suo arresto: non oseranno?

La sera del 31 dicembre 1821, Federico e Teresa sono soli in un gabinetto, nella loro casa, ora Lattuada, tra la via Romagnosi e il Monte di Pietà. Entra improvvisamente il solito conte Bolza con due commissarj. Vogliono solamente rovistare alcune carte, ma il Gonfalonieri ha visto nel cortile birri appiattati e comprende che l'ora del dolore è suonata. Teresa dà al marito in uno sguardo un poema di conforti, di ricordi e di addii. E mentre il commissario affetta di visitare lo scrittojo, Federico chiede il permesso di mutarsi d'abiti, entra nello spogliatojo ed apre l'usciuolo della scaletta segreta. Al remore, che non può interamente dissimularsi, il Bolza si precipita nella camera da letto, un altro commissario mette una pistola alla gola della contessa Confalonieri, gendarmi e birri entrano nelle stanze e inseguono su per le scale il fuggitivo. Questi giunge in tempo a calare dietro di sè la pesante botola che copriva la scaletta e si slancia verso il cancello dell'abbaino che ogni sera rimaneva aperto. Un urlo d'angoscia! il cancello è chiuso e la chiave non è sull'uscio.

Invano fruga con febbrile ansietà; invano scuote le rigide barre e cerca con disperato sforzo di sgretolare i mattoni; il tetto, lo spazio, la libertà son lì a due passi le sue mani vi si distendono traverso alle sbarre; ma la botola si risolleva; gli sbirri accorrono, si abbattono sulla loro preda; Federico Confalonieri dà un mesto addio al mondo, alla libertà, alla sua Teresa; è prigioniero.

Nessuno potè mai spiegare in qual modo la via di salvezza preparata con tanta cura si sia trovata al momento del bisogno così fatalmente ostruita. Un agente di casa Confalonieri asserì per molti anni che soltanto per misura di sicurezza interna, il maggiordomo di casa, ignaro del vero scopo di quell'apertura, avesse, qualche giorno prima, fatto chiudere il cancello. Nella famiglia durò lungamente la tradizione che un servitore, da poco tempo assunto, e boemo di nascita, avesse in quel mattino chiuso il cancello e nascosto la chiave.

Il processo del conte Confalonieri è una delle maggiori iniquità giuridiche di cui siano fecondi i moderni tribunali straordinarj. Nulla fu rispettato, nè le forme, nè la coscienza, nè i diritti del prigioniero. L'insidia e la ferocia ne vegliano le ore, durante il carcere d'inquisizione e durante quello di pena.

Domanda un Codice penale, e gli viene rifiutato. Esige, a tenore di legge, che due probiviri assistano agli interrogatorj per la regolarità del processo, e gli destinano due giudici tratti dal seno della Commissione straordinaria inquirente. Convintosi una volta della falsità di una deposizione presentatagli a firmare, la riassume nella sua risposta protocollata, ed il giudice gli straccia sul viso deposizione e protocollo, perchè non ne rimanga traccia negli atti. Si cerca interrogarlo di notte, rompendogli il sonno; durante accessi di febbre; subito dopo qualche colloquio colla moglie, da cui esca addolorato o commosso[42].

I capi d'accusa sono quattro. Gli contestano: 1.º di avere mandato ad annodare intelligenze col principe di Carignano; risponde di averlo fatto soltanto per gli scopi del mutuo insegnamento e sfida a produrre lettere che parlino d'altro; 2.º di essere notato fra le carte sequestrate al principe della Cisterna come l'individuo di maggiore influenza a cui far capo in Lombardia; risponde, non avere avuto corrispondenze di sorta, non essere responsabile di supposizioni o di opinioni che altri esponga sul conto suo; 3.º di essere entrato in conciliaboli diretti ad assassinare il maresciallo Bubna; risponde sdegnoso che le relazioni di amicizia personale esistente fra lui e il maresciallo lo avrebbero fatto correre in sua difesa se lo avesse supposto minacciato da altri; 4.º di avere insistito perchè i rivoluzionarj di Torino entrassero in Lombardia; risponde, provando d'avere scritto al San Marzano, per isconsigliarlo vigorosamente dal passare il Ticino.

Sopra nessun punto è debole, in nessun argomento si lascia vincere dallo sconforto. È un inquisito che mette in contraddizione i suoi giudici, non lascia mettere sè. Non accusa nessuno, ma si scolpa d'ogni imputazione[43]. Un tribunale onesto avrebbe dovuto dimetterlo per mancanza di prove. La Commissione straordinaria lo condannò a morte.

Ma lo si voleva condannare. Volevano che non isfuggisse allo Spielberg la sua maggior preda; che Milano fosse percossa di terrore, vedendo troncato il suo più alto papavero. Un inquirente novizio, un giorno che Salvotti era assente, gli aveva detto: “Della reità sua, signor conte, nessuno può dubitare; ma il trovarne le prove è un affare imbrogliato. Per condannare tutti gli altri a morte, abbiamo prove più del bisogno; ma se non si potesse condannar lei, che cosa direbbe il pubblico?„ Un altro giorno finalmente lo stesso ingenuo gli dice: “Il Salvotti ha studiato tutti questi giorni il suo processo, e questa mattina era tutto contento, dicendo d'averla trovata anche per lei.„

Che cosa aveva trovato questa tigre contenta? null'altro ancora fuorchè la lettera scritta al San Marzano per distoglierlo dalla spedizione. È quella il capo d'accusa, l'argomento che lo fa condannare a morte. Il Salvotti trova che non era scritta con buono spirito. “Le intenzioni„ risponde calmo il Confalonieri, “le vede Iddio. La mia lettera ha servito ad impedire l'impresa e non a favorirla. Ecco tutto quello che posso dire[44].„

Gli episodj che seguono la condanna del Confalonieri sono strazianti. Bisognerebbe possedere la tavolozza di Ary Schäffer o la penna dell'autore dell' Ildegonda per descrivere le emozioni di quell'infelice famiglia, la costernazione del pubblico sentimento; per interpretare quell'immenso dolore e quell'immensa pietà.

Il vecchio padre Vitaliano, la giovane sposa, il fratello Carlo, il giovinetto cognato Gabrio Casati partono precipitosamente per Vienna il 2 dicembre (1823); il cupo imperatore li fa aspettare fino al 24; e sceglie la vigilia di Natale per ricevere, non Teresa, che non volle veder mai[45], ma il padre e i due giovani e annunciar loro che ha confermato la sentenza di morte.

Il vecchio padre è per isvenire dal dolore a così crudele notizia. Gabrio Casati, forte della sua giovinezza e della sua innocenza, parla, prega, scongiura; e il Tiberio austriaco risponde freddo e sentenzioso: “valga l'esempio di siffatto castigo a voi giovane e a tutta la lombarda gioventù, perchè abborriate dalle congiure. Se vi preme di abbracciare anche una volta il congiunto, correte precipitosi a Milano.„ E quelli corrono, e con essi corre la sventurata Teresa, a cui l'imperatrice Carolina, confondendo le proprie lagrime colle sue, aveva promesso che insisterebbe colla maggior seduzione presso l'imperiale marito.

E insiste infatti, e nella notte del Natale, giovata da un dubbio sulla legalità del processo e dalla ingrata impressione fatta sulla città e sull'aristocrazia viennese dall'implacabile linguaggio dell'Imperatore, ottiene che una staffetta sia spedita a Milano coll'ordine di sospendere l'esecuzione. La previdenza tutta femminile dell'imperatrice le fa aggiungere l'invio di una seconda staffetta; e infatti è questa che giunge in tempo, essendosi l'altra attardata per via.

Però, crudele perfin nel bene, Francesco II impedisce alla consorte di partecipare questa notizia alla Teresa, che viaggia con tanta angoscia nell'animo, mentre una parola avrebbe potuto lenirla d'assai.

A Milano sa che Federico è ancor vivo, ma non può rivederlo. Si raccolgono firme per un indirizzo all'Imperatore, e la città commossa ne offre a centinaja, prima fra queste quella di Alessandro Manzoni. Gabrio Casati riparte a furia per Vienna, con queste firme, colle preghiere di grazia del Vicerè, dell'arcivescovo Gaisruck, di Maria Luigia, duchessa di Parma. E finalmente l'Imperatore, mosso piuttosto da pressioni viennesi che da preghiere italiane, faceva grazia della vita e permetteva che a Teresa fosse accordato un ultimo colloquio collo sposo infelice. Non permise però, — cuore di marmo, — che a Federico rimanesse un cuscino, trapunto dalle sue mani e su cui essa aveva versato tutta un'intimità di baci e di lagrime, atta a consolare per molti anni nella sua carcere il derelitto!

Il 20 gennajo 1824, i condannati, graziati della vita, furono esposti alla berlina fuori del palazzo criminale. Soldati e gendarmi circondavano il triste impalcato, e pur troppo non mancava una folla di mascalzoni e di baldracche all'ignobile esposizione[46]. La città fu quel giorno sotto l'incubo del terrore e dell'angoscia; le porte dei palazzi signorili rimasero chiuse; nessuno uscì per visite o per passeggio; al teatro della Scala i palchi furono coperti di nero. S'aprì quel giorno tra il governo austriaco e l'aristocrazia milanese un largo solco, che a poco a poco doveva diventare un abisso.

Prima di essere rinchiuso in quella cella sepolcrale dove gli restavano a passare altri dodici anni di vita, il conte Federico Confalonieri doveva però subire un'altra prova, sottoporsi ad un'altra insidia politica.

Il Tabarrini ha già pubblicato in un suo libro intorno a Gino Capponi quel brano delle memorie inedite di Confalonieri, in cui narra il suo colloquio a Vienna col principe di Metternich. È una pagina epica. Quel potentissimo uomo che si presenta al suo prigioniero come eguale innanzi ad eguale, che gli discorre lungamente, come uomo di Stato ad uomo di pensiero, che fa balenare innanzi a' suoi occhi tutti i miraggi della vita, dell'eleganza, del grado sociale, dell'influenza politica, per istrappare a questo prigioniero una rivelazione, una parola, su cui l'uomo potentissimo fonda tutta una speranza di sistemi e di combinazioni, — è un episodio storico degno di Polibio o di Tacito.

Quella parola, richiesta con tanta ansietà, il prigioniero non l'ha pronunciata. Si voleva da lui qualche cosa che compromettesse Carlo Alberto, che permettesse a' suoi nemici di chiudere ogni avvenire di regno a un principe italiano che pel quarto d'ora aveva contro di sè il sospetto e la sventura, ma nel quale l'Austria, infallibile nell'odio suo, presentiva da lungi il futuro determinato nemico. Federico Confalonieri ebbe in quell'ora nelle mani il destino d'Italia. E lo salvò; coll'intuizione del patriota, se non con quella del genio; lo salvò, sacrificando sè stesso, la sua gioventù, la sua gioja domestica. Il principe di Metternich gli offrì invano un colloquio liberatore coll'imperatore Francesco. Quel beneficio dell'augusta presenza, che il capo di un grande impero negava così duramente alla virtuosa moglie di un nobile gentiluomo, egli l'avrebbe accordato volentieri a quello stesso gentiluomo, fattosi delatore.

Ma il forte italiano ruppe i cupi disegni che sorridevano all'Imperatore e al ministro, e l'avvenire di Carlo Alberto fu libero. Il principe di Metternich si congedò dal suo interlocutore come un carnefice dalla sua vittima. “Signor conte„ gli disse colla più ironica disinvoltura “debbo intervenire ad un ballo e non posso farmi aspettare. Mi dispiace ch'ella si ostini a voler seguire diversa via.„ E, accendendo ad un doppiere il suo zigaro colla massima indifferenza, s'inchinò come avrebbe fatto a Milano nel palazzo Confalonieri, ed uscì dalla stanza.

Il richiudersi di quell'uscio dovette certamente essere pel conte Federico un istante di tremenda emozione. Aveva avuto un'ora di illusione dei vecchi tempi, degli urbani colloquj; ora gli si aprivano anni di umiliazioni, di fame, di catene. Quell'austero carattere non si piegò. Da quell'abboccamento il ministro usciva rimpicciolito, il prigioniero ingrandito. Il primo era un uomo di Stato che si tramutava in delegato di pubblica sicurezza, il secondo era un ribelle che si tramutava in uomo di Stato. Il primo s'avviava, uscendo da quella stanza, ai balli, ai congressi, a tutte le voluttà della vita, ma era e si sentiva vinto da quel pallido galeotto, che, avviandosi invece verso le regioni dello squallore, constatava ancora una volta in faccia alla storia l'impotenza della tirannide contro la virtù[47].

Del lungo martirologio di Confalonieri allo Spielberg possono avere esatta nozione tutti quelli che hanno letto i libri di Pellico o di Maroncelli o di Andryane o di Giorgio Pallavicino. Divenuto un numero, come tutti gli altri, Francesco imperatore li trattò tutti insieme coll'eguale squisitezza del tormentare[48]. Aveva nel proprio gabinetto il piano di quelle prigioni e credeva uno dei più sacri doveri dell'eccelsa dignità sua dirigere personalmente la gradazione di sofferenze de' suoi prigionieri. A lui si doveva ricorrere per aumentare o diminuire la razione di fagiuoli che si accordava ai condannati. Egli permise, dopo mesi di atroci dolori, che si amputasse la gamba a Piero Maroncelli. Ci volle un chirografo imperiale per munire il calvo capo di Costantino Munari d'una parrucca di pelo di cane. Il passero addomesticato, che era divenuto l'amico del prigioniero Bachiega, gli fu sequestrato, poi restituito, morto, per ordine dell'Imperatore. Fu egli che fece rinchiudere Giorgio Pallavicino in una cella con un matto furioso. Confalonieri pativa di asma e l'imperatore d'Austria fece togliere un cuscino disotto al capo dell'uomo che era stato ambasciatore presso di lui. La mente si confonde a pensare quanta ferocia può accumulare un odio politico nel cuore di un uomo che ha moglie, che ha figli, che prega Iddio! Perfino questo conforto del pregare era stato avvelenato al Confalonieri; ed egli, uomo di fede cattolica, dovette astenersi dalle pratiche religiose, perchè il sacerdote delle carceri ne approfittava per ispingerlo a confidenze, a rivelazioni, ad accuse contro Carlo Alberto.

Le discipline carcerarie erano vigilanti e rigorose; però gli affetti ch'egli aveva lasciato fuori del carcere si coalizzavano con efficacia ed erano riusciti a regolare un piano di fuga che aveva le maggiori probabilità di successo. Venutone a cognizione, il Confalonieri si dice avesse chiesto se al suo compagno di cospirazione e di carcere, Filippo Adryane, sarebbe pure stato concesso il mezzo di fuga. Rispostogli che la combinazione non poteva estendersi ad altri, senza certezza d'insuccesso, ricusò di approfittare solo di questo sforzo d'amici. La salute della contessa Confalonieri si aggravò del nuovo eroismo e del nuovo dolore.

Scrisse in carcere le sue Memorie; dieci fascicoli di carattere fitto che non si possono guardare senza emozione, pensando al luogo dove furono scritte e alle lagrime che avranno costato.

Le dirigeva, con affettuose parole, alla consorte Teresa, di cui certo in quegli anni avrà apprezzato l'amore più che in ogni altra epoca della sua vita.

Si struggeva dal desiderio di poterla rivedere, e lo sperava. Ma un giorno entra nel suo carcere un commissario ruvido e impettito. “Numero sette„ gli dice “S. M. l'Imperatore si degna di farvi sapere che vostra moglie è morta.„ La pagina che segue nelle sue Memorie a questo annuncio è straziante. Cessa di scrivere perchè non ha più il Nume che lo inspirava. Nelle ultime pagine, le sue riflessioni si volgono di preferenza ad argomenti spirituali. Quando Francesco muore, e il suo successore spalanca, non senza restrizioni, le porte delle prigioni politiche, Confalonieri è un uomo, come Pellico e più di Pellico, avvolto nell'atmosfera di un misticismo religioso profondo. Sicchè dovette certo suonargli gradita l'epigrafe apposta ad un libro che trovò a Gradisca, inviatogli dal suo condiscepolo e quasi fratello, Alessandro Manzoni.

“Che può l'amicizia lontana per mitigare le angosce del carcere, le amarezze dell'esiglio, la desolazione di una perdita irreparabile? Qualche cosa quando preghi; chè, se sterile è il compianto che nasce nell'uomo e finisce in lui, feconda è la preghiera che vien da Dio e a Dio ritorna. — Milano, 23 aprile 1836.„

Rispettiamo l'evoluzione di queste coscienze, che, dopo 15 anni di colloquio col proprio dolore, hanno trovato una via. Quante cose, al mondo, sembrano diverse, guardate al lume della solitudine e della sventura!

Federico Confalonieri fu, nell'ultima fase della sua vita, uomo e patriota alto d'istinti, com'era stato nella prima. Il carcere non lo aveva domato, la libertà non lo sbilanciò. Condottosi in America, vi trovò accoglienze così romorose quali non potevano convenire al suo carattere chiuso ed austero. Vi era stato preceduto da un articolo dell' Edimbourg Rewiew che ne faceva altissime lodi. Più, v'era conosciuto e assai popolare il nuovo libro di Pellico: Le mie prigioni, la cui traduzione si leggeva anche nei più meschini abituri. Il Confalonieri fu dunque accolto con quegli entusiasmi, di cui la razza anglo-sassone non cede in alcune occasioni il privilegio alle razze latine. Lo chiamavano il martire del miglioramento umano; lo pregavano di benedire, di battezzare i bambini; domandavano al suo cameriere qualcuno dei suoi grigi capelli.

Il proscritto milanese si sottraeva, come e quando poteva, a simili pubblicità. Studiava, secondo l'antica abitudine, uomini, istituzioni, movimento scientifico; e v'è una sua lunga lettera, in cui parla delle nuove applicazioni dell'elettricità, e suppone, con notevole preveggenza, che questa forza debba potere in seguito adoperarsi pei trasporti e per l'illuminazione.

In America trova Pietro Borsieri, suo compagno di sventura, e lo soccorre con fraterna larghezza; trova il principe Luigi Bonaparte, che lo colma di gentilezze, e vi risponde con severo riserbo.

Torna in Europa, va a Parigi, e Luigi Filippo lo sbandisce entro ventiquattro ore dal regno, per compiacere alle richieste dell'ambasciatore d'Austria.

Questi pretendeva che il Confalonieri avesse violato uno dei patti dell'amnistia concessagli, cercando di vivere in Europa. E lasciava che questa sua accusa si diffondesse, tanto che un giornale, il Temps, la raccolse per conto suo e stampò un articolo abbastanza ingiusto per l'esule milanese. Il Confalonieri non accettò di sopportare in silenzio questa duplice ostilità. Scrisse al Temps una lettera dignitosa per rivendicare i suoi diritti e ristabilire la verità delle cose[49]. L'incidente destò rumore; parve indegno che due governi si unissero per togliere ad un uomo la libertà del suo domicilio; e il ministero francese, spaventato dalle fiere proteste dell'opposizione parlamentare, revocò il suo decreto.

A Vichy s'incontra per la prima volta, dopo lo Spielberg, con Giorgio Pallavicino; e fra quei due uomini, così duramente provati dal destino, la prima impressione è piuttosto d'imbarazzo che di simpatia. Le origini del processo pesavano sulla loro memoria. Ma quel broncio, in terra straniera, fra due vecchi patrioti, addolorava un giovane patriota, e Carlo D'Adda si prese l'assunto di ravvicinarli e riconciliarli. Strano a dirsi, non fu il Confalonieri l'uomo di cui si dovettero vincere le esitazioni.

L'amnistia del 1838 riapre al profugo illustre le mura della sua Milano, ed egli vi trova le antiche amicizie, risaldate dal rispetto che impongono le sofferenze nobilmente patite. Trova la situazione politica migliore di quella che vi aveva lasciata; perchè la rivoluzione del 1830 ha data una nuova sconfitta alla reazione; e perchè il suo sacrificio e quello dei suoi compagni ha ingagliardita la fibra popolare, rialzando, colla virtù dell'esempio, le coscienze prostrate. L'antico prigioniero è affranto, malaticcio, solitario, aspro di umore e di carattere; ma il rispetto dei patrioti e dei giovani lo accompagna; quando passa a cavallo, dinanzi al ginnasio di S. Marta, gli scolari escono per vederlo e si scoprono il capo dinanzi a lui; Giuseppe Mazzini gli scrive: “fin dai miei primi anni di gioventù ho imparato a stimarvi e ad amarvi.... Parmi che uomini come voi debbano essere serbati non solamente a patire, ma a fare. E parmi che le occasioni non mancheranno.„

Sventuratamente, quando le occasioni vennero, Federico Confalonieri non v'era più. V'è e rimane la fama di lui, che per l'insieme dei fatti e per lo sdrucciolo delle odierne moralità politiche, bisogna sperare sia più vicina a crescere che a diminuire.

Quella generazione del 1821, resa sacra dal patriotismo, non possedeva nel suo complesso i requisiti necessari al còmpito che i tempi duri le avevano assegnato. Fra uomini colti e miti, come il Pellico, come l'Arrivabene, come l'Arconati, e giovani facilmente avventati, come il Pallavicino, il Trecchi, il Borsieri, soltanto Federico Confalonieri ebbe tutte le qualità del cospiratore, del capo di parte, dell'uomo di Stato. La generosità dell'indole sua è provata dalla grande solidità degli affetti che a molte persone superiori seppe inspirare. Dove si trovava era il primo, e nessuna gelosia turbava questa sua preminenza. Le lettere che gli scrivono Silvio Pellico, Lodovico de Breme, Pellegrino Rossi, il Mompiani, gli Ugoni sono calde di una vera amicizia. Teresa Casati crea per lui una leggenda di amor conjugale. Il Mazzini e il Manzoni lo amano di pari affetto. Alessandro Andryane gli dedica un culto idolatra. Quando i condannati camminano verso lo Spielberg, circondano lui d'ogni dimostrazione di simpatia e di rispetto. Il commissario che il conduce scrive: “sentivano essi ogni sua fisica e morale alterazione, nè di altro si occupavano che dello stato del Confalonieri[50].„

Un uomo che si concilia da persone così diverse, e in così diverse situazioni, sentimenti così profondi, doveva essere uomo di qualità superiori; la sola energia del carattere non sarebbe bastata a giustificarli. Forse le occasioni soltanto gli mancarono per essere un uomo grande. L'ambiente di compressione e l'epoca di transizione dovettero unirsi per impedirgli maggiore svolgimento di facoltà e di azione[51].

Quando il Confalonieri morì, i suoi funerali servirono al popolo ed alla nobiltà milanese di occasione per confondersi insieme sulla piazza di San Fedele e compiere la prima di quelle dimostrazioni politiche, alla cui serie doveva seguire l'ammirabile concordia delle cinque giornate. E certo quel generoso spirito dovette essere lieto nell'infinito che il suo cadavere giovasse a così fecondo suggello delle sue speranze. Era stato, vivendo, il martire; doveva essere, morendo, il profeta del patriotismo. V'è qualche sintesi a trarre, in vantaggio dei tempi nostri, dall'insieme doloroso e glorioso dei fatti che siamo venuti esponendo o riassumendo? Se v'è, potrebb'essere questa.

Per uno di quei contrasti che non sono nella storia infrequenti, sotto un regime assetato di despotismo e di vigliaccheria s'era educata una generazione di uomini forti e liberi che ci hanno preparata la patria. Ora che la patria l'abbiamo, siamo insofferenti d'ogni difetto di cose, e c'immaginiamo di poterli tutti correggere, improvvisando, contro ogni difetto, ordinamenti e decreti. Mutiamo il metodo; volgiamo l'intento nostro a fare dei caratteri e non dei decreti. Quando avremo i primi, trarremo anche da decreti mediocri effetti buoni. Ma se ci ostineremo esclusivamente intorno ai secondi, lasciando che dietro ad essi sorgano generazioni fiacche e prive di fede, avremo fatto una patria somigliante a quei busti di guerrieri a cavallo che si ammirano nelle nostre armerie medio-evali. Le corazze saranno lucide, i gambali perfetti, gli elmi eleganti; soltanto, il cavallo sarà di legno, e le brune armature nasconderanno il vuoto.

IL QUARANTOTTO E LE CINQUE GIORNATE.

Tocchiamo coi nostri studi ad epoche d'indagazione scabrosa, e più che mai sentiamo quanto sia difficile il camminare per ignes.

Parlare della rivoluzione del 1848 senza poterne fare la storia; ricordare fatti di uomini vivi e di uomini morti, colla certezza di non poter rendere nè a tutti i vivi, nè a tutti i morti quel giusto omaggio che richiederebbe giorni e volumi; esporre questa mezza storia e questi mezzi ricordi a giovani che non hanno sentita di quegli eventi neanche l'ultima onda, ed a vecchi, a cui non disdirebbe la frase del poeta: quorum pars magna fui; ecco certamente un'impresa che, come soverchia le nostre forze, così dovrebbe soverchiare il nostro coraggio.

Senonchè un altro pensiero ci risospinge; ed è che dopo avere osato evocare dal loro silenzio tanti e così diversi tipi storici milanesi, da S. Ambrogio a Federico Confalonieri; dopo avere, per quasi tre volumi, agitata la face dei dolori e delle discordie che ingemmarono il nostro passato; potrebbe sembrare una ingiustizia od una viltà il chiudere questo colloquio coi nostri lettori, senza tentare di farli rivivere, almeno per un'ora, in quella sola epoca di combattimento che fu una gloria per tutti, — in quel solo periodo, già pur troppo così lontano, in cui gli animi e i cuori dei nostri concittadini si sono trovati, per molti mesi, uniti da un solo pensiero, scaldati da un solo affetto.

L'Europa del 1886 muove per vie affatto diverse da quelle su cui ci eravamo incamminati trentasette anni fa. Quelle parole d'indipendenza, di nazionalità, di libero scambio, di fratellanza sociale, che allora ci facevano battere il cuore, sono divenute parole antiquate, idee puerili, sulle quali discende l'olimpico sorriso di compassione o di scetticismo degli uomini pratici. Oggi la nazionalità si seppellisce sotto i protocolli diplomatici di Londra o di Berlino; l'indipendenza si porta per l'Asia o per l'Africa a colpi di cannone; il libero scambio fa innalzare a regni ed a repubbliche barriere di dogane protezioniste; la fratellanza sociale si esplica, sotto repubbliche e sotto regni, cercando i modi per cui s'impedisca agli operai stranieri di cooperare coi nazionali nei prodigi del lavoro e dell'industria.

Quelle parole hanno avuto però la loro storia. Forse potranno riaverla. Ad ogni modo, è quando l'egoismo degl'interessi materiali corrode le società e “mena gli spirti nella sua rapina„ che bisogna irrigidirsi dal lato opposto e tenere alta la fiaccola degli ideali. A questi — tosto o tardi — ritornano le nazioni, quando giunge l'ora del dolore e della sventura. Allora piace intrattenersi colle nobili ombre, e trarre da nobili tradizioni la lena per rifare il cammino. E si comprende allora — tardi — come debba vedere disalvearsi presto i fiumi della sua prosperità materiale un popolo che lasci inaridire le fonti della sua morale dignità.

I. LA PREPARAZIONE.

Fra gli abituri che il rinnovamento edilizio di Milano ha trovato sul suo passaggio e che ha irrevocabilmente sacrificato ai tardi orgogli delle vie possibilmente larghe e passabilmente diritte, pochi ormai ricordano due bottegucce da caffè, tanto modeste da non avere quasi neanche un nome proprio, e che perciò si rifugiarono dietro il nome vezzeggiativo delle singole proprietarie.

L'una esisteva dietro gli attuali portici occidentali della piazza del Duomo tra le distrutte vie del Falcone e del Cappello, e si chiamava il caffè della Peppina; l'altra stava quasi di fronte al maggior Teatro, in quel massiccio di case che si dovette abbattere per preparare il giardino dove sorge il monumento a Leonardo da Vinci, e si chiamava il caffè della Cecchina.

Chi avesse frequentato, con ispirito di osservazione, quei due bugigattoli, negli anni che corsero dal 1840 al 1848, vi avrebbe spesse volte notato due gruppi d'amici, stretti a colloqui più intimi degli altri avventori; facilmente occupati a sfogliare giornali, a commentarli vivacemente, a ricevere e leggere biglietti, a scrivere risposte, a mandare e ricevere messaggeri. E forse un osservatore superficiale, pensando alle abitudini del tempo, all'età di quegli avventori, all'ubicazione dei due stabilimenti, avrebbe potuto immaginarsi che tutta quell'attività giovanile avesse per ultimo risultato i sorrisi delle ballerine e delle cantanti che passavano dinanzi al caffè della Cecchina o di deità anche minori che brulicavano nei paraggi del caffè della Peppina.

Eppure proprio in quei due bugigattoli si venivano preparando audacie grosse, e le due società intime che avevano scelti per le loro confidenze i tavolini di quei due caffè rappresentavano su per giù due diverse scuole di movimento politico, che riunendosi avrebbero provocato la rivoluzione del 1848.

La schiera che si radunava al caffè della Peppina usciva direttamente dalle numerose fila della Giovane Italia; e quando v'era a dibattere qualche argomento più geloso o più pericoloso dei soliti, si trasportava nella casa di uno dei suoi più intelligenti e più risoluti centurioni, Attilio De Luigi, dimorante in una delle vie curve e deserte dell'antica Milano, S. Ambrogio dei Disciplini. Lì complottavano, con maggiore o minore efficacia, ma con intera devozione e con intero sacrificio di sè; e l'osservatore vi avrebbe potuto notare, tra gli altri, il dottor Pietro Maestri, allora direttore della Casa di Salute a Porta Nuova, e Alberico Gerli, conosciuto nelle intimità rivoluzionarie col nomignolo di Pepe, e due giovani, che mescolavano la matematica colla politica, Giovanni Cantoni ed Angelo Tagliaferri, e quel fiero Pezzotti, che prometteva ai compagni di uccidersi, se fosse stato arrestato, e doveva più tardi mantenere la parola; vi bazzicavano, con minore frequenza, ma con eguale attività di preparazione, un altro matematico, già più alto nella scienza che negli anni, Francesco Brioschi, e due giovani, destinati a lunga e dolorosa sanzione di patriottismo, Giuseppe Finzi e il dott. Antonio Lazzati.

La Giovane Italia era rimasta ormai la sola fra le società segrete di carattere militante, dopo il naufragio che avevano fatto, colle sconfitte del 18, del 20, del 21 e del 31, i carbonari, i federati, gli adelfi. L'aveva fondata, nel 1832, un giovane, il cui nome cominciava ad essere influentissimo sugli elementi patriottici, Giuseppe Mazzini.

Di fede ardente, di vita immacolata, di pensoso ingegno e di stile concitato, il Mazzini pareva ordito veramente di quella stoffa di cui si fanno gli apostoli. Dedicatosi giovanissimo alla disciplina delle congiure, non seppe uscirne più per tutta la vita, e nella seconda parte di questa meritò il rimprovero di avere qualche volta sacrificato la realtà dello scopo all'amore del mezzo. La sua comparsa nel moto politico italiano era stata veramente una scossa di pila elettrica. Aveva dato alla società che fondava un intento assoluto di unità nazionale; programma che abbiamo visto inalberato anche trent'anni prima da pensatori e da uomini di Stato, ma a cui egli s'era buttato con maggiore speranza d'ogni altro e con quella efficacia di proselitismo che gli veniva dalla parola ardente, dall'aspetto simpatico, dall'onnipotente patrocinio femminile. Quei suoi primi pensieri, raccolti poi in tre volumi, sotto il titolo: Scritti letterarj d'un italiano vivente, avevano ottenuto un grande successo, specialmente fra i giovani, ai quali parevano aprire orizzonti nuovi e larghi, meravigliosamente dissimili dai metodi compassati di letteratura, di filosofia e di critica, a cui si tenevano fedeli i professori dei licei e delle università. Quei nostri giovanili intelletti trovavano a tante cognizioni vaghe, a studi pedanti, troppe volte contrastati dal bigliardo, uno scopo nuovo, imprevisto, tratteggiato con enfasi, — la patria. Non era più l'arte per l'arte. La patria era il faro a cui doveva giungere la navigazione affannosa: l'Italia una e libera, il nodo a cui si allacciavano con iscopi pratici gli studj morali, i progressi fisici, le indagini di storia e di geografia. Con questi ideali nell'animo si studiava di più, e lo studio allargava, colle simpatie pel Mazzini, l'aderenza a' suoi concetti politici, a' suoi organismi di setta.

Così cresceva l'influenza del grande agitatore genovese, che fu per alcuni anni lo spauracchio di tutte le polizie d'Europa. Uomo, che ha lasciato dietro a sè una fama assai contrastata, piuttosto, oseremmo dire, per colpa dell'ambiente che sua. Certo, la contraddizione umana non mancò in lui. Ebbe un indirizzo filosofico di alto spiritualismo, e lasciò troppe volte che dal suo labbro o dalla sua mano uscissero incoraggiamenti, diretti od indiretti, all'assassinio politico. S'era dichiarato pronto a sacrificare per l'unità della patria i suoi impulsi repubblicani, ed è morto nemico implacabile della monarchia che aveva fatto l'Italia. Passerà nella storia come un gran cospiratore che non aveva attitudini di governo, e crediamo che in questa, come in altre occasioni, la storia s'ingannerà. Il Mazzini aveva attitudini di governo; lo ha provato per pochi mesi, reggendo a Roma in situazione difficilissima, con sagacia e moderazione maggiori di quelle che gli si attribuivano. Forse anzi una esperienza più lunga di governo fu la sola cosa che gli sia mancata, per trarre interamente nell'orbita di una salutare efficacia le qualità politiche in lui sepolte sotto una mistica fraseologia. Come cospiratore, era improvvido ed impotente. Riceveva e dava confidenza, con una facilità di cui troppe volte abusarono le astute polizie. Non sapeva conservare il segreto. I suoi biglietti, i suoi indirizzi, le sue giaculatorie venivano sovente in possesso dei commissarj e dei gendarmi, prima che delle persone a cui erano dirette. Credeva ciecamente ad ogni informazione che gli dipingesse sollevamenti pronti, e se ne valeva per prepararne altrove, sulla base di queste ingannevoli cooperazioni.

È l'influenza personale di Mazzini che ha giovato alla patria; il suo ingegno pieno di slancio, il suo prestigio di esule; e soltanto una scuola fanaticamente innamorata d'ogni cosa sua ha potuto confonderne le egregie qualità del cuore e dell'animo con quegli sforzi inorganici, che erano invece il difetto o l'eccesso della sua inesperienza pratica.

A Giuseppe Mazzini l'Italia deve memoria grata e rispettosa per la vita austera, pel lungo esiglio, per l'instancabile apostolato dell'unità politica, per l'alto intento dato ai giovanili intelletti; non per le sue cospirazioni, che non sono riuscite mai, in nessuna parte d'Italia, dalla Calabria alla Valtellina; che dai moti savojardi del 1833 al 6 febbraio 1853 hanno dischiuso innanzi tempo il sepolcro a giovani ed illusi patrioti, gettando sempre piuttosto impacci che ajuti sul sentiero del risorgimento nazionale.

Tornando da questo illustre infelice ai più modesti casi del caffè della Cecchina, bisogna dire che in questo si raccoglieva un'altra schiera agitatrice, non meno generosa e non meno intelligente della prima, ma uscita da tutt'altro ambiente e inchinevole a soluzione diversa. Lì si adunavano specialmente i giovani delle famiglie ricche e patrizie, che sottraendosi alle influenze, generalmente retrive, dei vecchi genitori, guardavano al di là del Ticino cercandovi alleati contro la dominazione straniera. L'osservatore che fosse venuto in questi paraggi da quelli del Falcone, avrebbe facilmente riconosciuto fra gli avventori della Cecchina alcuni dei giovani più eleganti e nel tempo stesso più colti che brillassero nella società milanese: Carlo e Giovanni D'Adda, Giovanni Curioni, Carlo Taverna, i fratelli Guy, Alessandro Porro, i fratelli Prinetti, i fratelli Jacini, Rinaldo e Cesare Giulini della Porta. Questi giovani, per patriotismo e per tradizione politica, venivano in retta linea dalla generazione del 1821; avevano quasi tutti conosciuto e rispettato il Confalonieri, dalla cui vita e dalle cui sventure traevano un esempio alto e quasi un desiderio di patriottici sacrifici. Il loro programma era sopratutto l'indipendenza; ma, determinati a raggiungerla per ogni via, preferivano certamente quella che loro additavano i tentativi del 1821 e che da alcuni anni pareva schiudersi a maggiori probabilità per l'attitudine nuovamente assunta da quell'altro illustre infelice che fu Carlo Alberto, re di Sardegna.

Dopo le amnistie imperiali, erano ritornati in patria, oltre i prigionieri dello Spielberg, altri milanesi distinti che le persecuzioni di polizia avevano per alcuni anni costretto a vivere o a Parigi o a Londra o a Ginevra o a Bruxelles. I Battaglia, i Majnoni, i Rosales, Ignazio Prinetti, Francesco Arese, avendo vissuto lungamente nei centri maggiori della società politica europea, portavano a Milano le impressioni ultime e vere del loro esiglio; un desiderio cresciuto di far partecipare la loro patria ai vantaggi di quella vita larga e intellettuale a cui s'erano avvezzi; e insieme l'intonazione di una politica non meno rivoluzionaria ma più moderata, di quella politica che essi avevano veduto riuscire in Francia e nel Belgio a conciliare le guarentigie della monarchia con quelle della libertà.

Fra questi due gruppi principali d'azione, di cui l'uno penetrava colle sue influenze tutta la parte viva e popolare della città, l'altro avvinceva alla causa dell'indipendenza i potenti interessi e le vaste aderenze interne ed estere dell'aristocrazia lombarda, tenevano una situazione speciale due notevoli individualità, due uomini indipendenti allo stesso modo, ma per diversa ragione, da organismi compatti, — Carlo Cattaneo e Cesare Correnti.

Ingegno facile e largo, indole simpatica piena di scatti, di seduzioni, di entusiasmi e di mobilità, scrittore vibrato ed efficace di proclami, di opuscoli, di bollettini e di almanacchi, dai quali l'opportunità politica e il pensiero patriottico uscivano di mezzo a frasi nuove, a concisioni nervose, a mistiche oscurità e ad audaci eleganze, Cesare Correnti s'era buttato di buon'ora nel movimento e vi stava come uomo determinato a non uscirne senza vittoria. Amico a moltissimi, esercitava su tutti un ascendente che alcuni accettavano dall'ingegno, altri dalla vivace parola, altri da un'attività giunta allora al suo colmo. Che avesse un programma ben definito, nessuno lo saprebbe dire; forse l'ingegno coltissimo non lasciava nascoste a lui le difficoltà che ogni programma in quei giorni presentava e che altri non osava neanche studiare. Ad ogni modo, voleva fortemente l'indipendenza, la rivoluzione; e questo contribuì forse ad accrescere la sua influenza e la sua popolarità; perocchè la gran massa della popolazione, per una certa spensieratezza generosa che fu il carattere distintivo di tutta quell'epoca, costringeva volentieri ogni programma nella sola formola del mandar via gli Austriaci.

Questa conformità, non facile ad ottenersi, fra un uomo di pensiero e una folla di azione, fece del Correnti in quei giorni la personificazione più complessa del movimento. Se la rivoluzione del 48, contro la natura sua e la spontaneità de' suoi scoppj, avesse potuto darsi il lusso di un capo, forse sarebbe stato lui. Certo s'è ben lontani dal poter dire che abbia fatto ogni cosa, ma nessuna cosa importante s'è fatta senza di lui. I vecchi si fidavano del suo ardore, i giovani della sua dottrina. Quella stessa natura di letterato e d'artista, che lo rendeva schivo di politiche rigidità, lo metteva in grado di stare con molti e di agire su tutti con intento di accordo e di cooperazione. Fra il caffè della Peppina e quello della Cecchina era il vincolo naturale, la transizione più utile e più accettata. Coetaneo e condiscepolo degli uni, coi quali aveva divise, sui banchi universitarj, le aspirazioni della Giovane Italia, era accettissimo agli altri, per l'ingegno elegante e per le intime relazioni personali che aveva contratte coi Giulini, con Alessandro Porro, con Francesco Visconti-Venosta. E se agli uni portava l'assicurazione che il programma albertista non avrebbe impedito alla nobiltà milanese di spendere denari e sangue per la battaglia nazionale, garantiva altresì agli altri che nessun vincolo di setta avrebbe frastornate quelle combinazioni che portassero aiuto di armi fraterne e di monarchie militari a un popolo desideroso di combattere e incapace di eccessi. Negli ultimi tempi, questa azione sua, giovata man mano da altri elementi, da altre giovani e simpatiche individualità, da Enrico Besana, da Francesco Simonetta, da Manfredo Camperio, da Luciano Manara, era giunta a risultati completi; sicchè i due centri d'agitazione patriottica si erano, per così dire, fusi in uno solo; o, meglio, s'erano sminuzzati e moltiplicati in altrettanti sub-centri, che, pure annodandosi a quei due principali, assumevano ciascuno iniziative proprie e preparazioni speciali; certi tutti che qualunque impulso, qualunque energia, qualunque imprudenza, avrebbe trovato negli altri centri intera solidarietà, animi disposti ad affrontare responsabilità e pericoli, comunque creati.

Tutt'altra attitudine aveva assunto, e a tutt'altri impulsi intendeva l'animo, Carlo Cattaneo.

Era uomo di vasta cultura, di molta operosità intellettuale, di carattere integro ma diffidente. Come il Correnti, era estraneo a spiccati sodalizj politici; ma mentre il Correnti lo era perchè avrebbe bramato essere con tutti d'accordo, il Cattaneo ne rifuggiva perchè persuaso di avere con pochi solidarietà di opinione. Questi pochi si radunavano la sera da lui: discorrevano molto di scienza e meno di politica; erano gente di studio, piuttosto che di azione; antichi scolari di Gian Domenico Romagnosi, filosofi, economisti, giuristi, innamorati di cultura pubblica e di quesiti morali, ma che un certo orgoglio d'intelletto teneva in parte disgiunti dalle impressioni vivaci ed ingenue a cui la moltitudine si abbandonava con giovanile ebbrezza.

Politicamente, il Cattaneo era agli antipodi da Giuseppe Mazzini. Dove questi voleva unità d'Italia, congiure, impeti di popolo, idealità generose, ma sfumate, di educazione patriottica, quegli voleva ordinamenti di Stati piccoli, energie amministrative sostituite a slanci rivoluzionarj, svolgimento di questioni pratiche e di interessi positivi, di canali irrigatorj, di legislazione commerciale, di finanze precise.

Sulla questione di repubblica o di monarchia, il Cattaneo non aveva allora rigidezza di accentuazione. Vi fu un'epoca, dopo l'amnistia del 1838, in cui parve fortemente inchinevole ad accettare istituzioni autonome e liberali da un principe della dinastia d'Absburgo. E da alcuni articoli suoi sugli Annali Universali di Statistica e sul Politecnico questa disposizione si lasciava, tra il prudente viluppo delle frasi, chiaramente additare. In uno scritto, p. es. del marzo 1839, intorno alla piazza del Duomo, che cominciava a ventilarsi dopo l'incoronazione dell'imperatore Ferdinando, scriveva con uno spirito da cui ogni aspirazione repubblicana pareva esclusa: “Il nome di regno, sovrapposto alle ristrette signorie dei tempi andati, divenne una parola di riordinamento e di concordia; e la Corona Ferrea, non più controversa reliquia d'età remote, divenne già due volte, fra i penetrali del Duomo, segno vivo di forza e di unità.„ Non vi pare di udire un Crispi di quarantasei anni fa, esclamare colla stessa inspirazione di patriotismo: La monarchia ci unisce, la repubblica ci divide? Delle due volte in cui questa Corona Ferrea era stata, secondo il Cattaneo, segno vivo di forza e di unità, una volta s'era posata sopra un capo francese, l'imperatore Napoleone; ma l'altra non s'era posata che sopra un capo austriaco; o Giuseppe II, o Ferdinando I; due epoche diverse, ma una sola dinastia. Rincarava poi sulle stesse idee e sulle stesse disposizioni, soggiungendo: “Una piazza del Duomo, degna del tempio e della città, e del più bello ed ubertoso fra i regni d'Europa, è divenuta un desiderio universale. E la rappresentanza civica interpretò questo pubblico voto, deliberando appunto di aprire una piazza del Duomo e d'inaugurarla col nome del Principe regnante e a memoria del giorno solenne nel quale assunse la nostra nazionale Corona.„

Gli è che veramente, più della repubblica o della monarchia, l'idea politica fondamentale del Cattaneo era lo Stato piccolo, la federazione, l'autonomia. Spirito liberale per eccellenza, gli pareva di scorgere nelle grandi agglomerazioni politiche un pericolo per gli svolgimenti individuali, e, tenero di questi, contro quelle diventava feroce. Non si avvedeva che, restando largo nella questione scientifica, diventava angusto nella questione politica; poichè tutta l'Europa andava di corsa verso le grandi unità, e a non voler inaugurare programma di reazione contro l'indirizzo europeo, bisognava necessariamente, non opporsi ai grandi Stati, ma cercare i modi di far camminare i grandi Stati colle ragioni della libertà.

Si capisce come, dominato da questi concetti, il Cattaneo vivesse, nei mesi che precedettero le cinque giornate, sotto la tenda. Non aderiva alla parte democratica che voleva l'unità mazziniana; non accettava dalla parte aristocratica il progetto del regno dell'Alta Italia.

Forse si gettò alla repubblica per odio di questo; poichè era veramente odio l'opposizione ch'egli moveva a tutto quanto sentisse di albertismo, di piemontese, di unione territoriale coi paesi al di là del Ticino. Nessuno discuteva con maggior passione di lui certe questioni irritanti, su cui si cercava allora da tutti di scivolare: monarchia o repubblica, fusione immediata o dilazione, Statuto o Costituente, Milano o Torino. Pareva che preferisse, per una certa asprezza dell'animo, ingrandire d'un tratto tutte le difficoltà d'una soluzione ch'egli era impotente a sostituire.

S'era fatto da ultimo il vero patrocinatore, il capo d'un programma municipale, d'uno Stato Lombardo, tutt'al più d'uno Stato Lombardo-Veneto. Era ammiratore dell'antico Regno d'Italia, su cui aveva cognizioni nette e profonde, e il suo ideale dell'avvenire non si allontanava molto dall'ideale di quel passato. Il Piemonte in quel passato non entrava e però non trovava posto nel suo avvenire. Quando scoppiò, come un fulmine, l'insurrezione milanese, egli stava scrivendo il primo numero di un giornale, che intitolava Il Cisalpino. Perfin col nome voleva affermare la risurrezione di una compagine territoriale, in cui soltanto egli vedeva tradizioni buone di jeri e speranze migliori per l'indomani.

Chiediamo scusa se ci attardiamo intorno a questa fisonomia, che fu a quell'epoca una delle più discusse, e che fu più tardi una delle più ammirate. Appunto perciò ci pare che meriti quello studio largo a cui gli uomini superiori hanno diritto. Giacchè non è uno dei fenomeni meno strani che hanno segnalato la rivoluzione delle Cinque Giornate, questa metamorfosi che ha prodotto nell'organismo politico di Carlo Cattaneo. Ha trovato un uomo calmo, a istinti pratici, scrittore moderato sotto governo autocratico, l'ha lanciato per alcuni giorni in una specie di fornace ardente, e ne lo ha tratto scrittore furibondo contro governo liberale, uomo politico a forti passioni, consigliero insieme al Mazzini di audacie nazionali, che un patriota non dubbio come Giorgio Pallavicino dovette combattere, che un uomo come il generale Garibaldi dovette respingere come eccessive[52].

Non si potrebbero veramente credere usciti dalla stessa penna e dallo stesso ingegno gli scritti anteriori al marzo 1848 e alcuni degli scritti suoi posteriori, segnatamente quell'opuscolo sull' Insurrezione di Milano, che fa così grave torto alla serietà ed all'equanimità del suo criterio politico.

Negli scritti della prima fase è un ingegno pieno di pensieri; che li svolge con logica vigorosa e mirabile chiarezza di esposizione; che trae dalla scienza europea tutto il meglio ed il nuovo, lo assimila con potente elaborazione, e lo riassume pe' suoi concittadini in opuscoli ed articoli di rivista, certo i più efficaci e i più attraenti del tempo suo. Nella seconda fase è uno scrittore pieno di violenza, che pare abbia perduto il senso delle cose vere e dei fatti possibili; un uomo a cui la foga della passione ha fatto obliare i caratteri che distinguono dal libello il dolore patriottico. Nella prima fase è un benemerito educatore del pubblico; da cui la generazione contemporanea impara a staccarsi dagli antichi metodismi scientifici e a coordinare tutte le conquiste intellettuali ad un nesso civile e patriottico; nella seconda fase, par diventato l'eco d'ogni volgare aberrazione, il fantastico interprete di quelle illusioni e di quelle millanterie politiche, verso le quali affettava negli anni antecedenti un disdegno intellettuale niente dissimulato.

Quale fu la genesi, l'evoluzione di questa mente preclara, or troppo solitaria, or troppo cacciatasi nella folla?

Certo il Mazzini, per esempio, non iscrisse nulla che rasenti contro Carlo Alberto il linguaggio a cui s'è creduto autorizzato il Cattaneo. Il Mazzini, che nella sua famosa lettera a Carlo Alberto gli aveva promesso d'essere nella liberazione d'Italia insieme a lui, ripeteva anche nell'autunno del 1848, che se il Piemonte riprendeva la campagna, lo avrebbe aiutato. E con ciò dimostrava, da uomo politico superiore, di non credere a tutta quella leggenda d'intrighi, di viltà e di tradimenti, che intorno a Carlo Alberto s'era ammucchiata, e che ricorda, per la malata credulità dello spirito pubblico, gli untori del 1630.

Invece il Cattaneo, bollente d'ira dalla prima all'ultima pagina, crede tutto o scrive come se a tutto credesse. Per lui è inganno regio il passaggio del Ticino, tradimento la perdita delle battaglie, malvagia intenzione la venuta del Re a Milano, durante la ritirata finale. I membri del municipio, del governo provvisorio, sono faccendieri, ciambellani, servi di Corte; sono infidi, tentennanti, traditori i generali dell'esercito piemontese. Aveva gridato il 24 marzo, giorno dell'ingresso delle truppe regie in Lombardia: viva il Piemonte, infamia a Carlo Alberto[53]; chiude il suo libro, nel settembre 1848 colla frase: il Piemonte non è necessario.

Par di sognare a leggere oggi, dopo tanta esperienza, da un uomo di tanto ingegno, così grandi fantasticherie. Parla di centomila Italiani che sarebbero venuti, senza i Principi, a combattere la guerra di Lombardia; al Comitato di Difesa, negli ultimi giorni, raccomanda come prima e suprema di tutte le difese, nientemeno che questo: “chiudere le porte, e rompere sotto pena di morte ogni comunicazione coll'esercito del re, lasciandolo operare nella campagna come gli convenisse[54].„ Insomma, è il linguaggio d'un uomo in delirio di rivoluzione, e tale parve a quel venerando Giovanni Arrivabene, quando s'intese dire da lui: “Arrivabene, buone nuove; i Piemontesi sono stati battuti; ora saremo padroni di noi stessi[55].„

Appare tanto più eccentrica questa implacabilità del Cattaneo contro Carlo Alberto, quando si pensa che, proprio in quei giorni, Carlo Alberto era attorniato e acclamato quasi con entusiasmo da quegli stessi patrioti ai quali sarebbe spettato il maggiore diritto, pei casi del 1821, di essere assai guardinghi nella loro amnistia. Giacinto di Collegno e Moffa di Lisio, cospiratori di quell'epoca e condannati per quella, erano ministri suoi e nella sua politica intimità. Giorgio Pallavicino, così atto per l'indole sua e per le acerbe sventure a diffidare del principe al quale s'era nel 1821 inutilmente avvicinato, patrocinava con generoso impulso l'immediata annessione delle provincie lombarde alla corona di Carlo Alberto. E Giovanni Berchet, un altro dei processati e degli esuli, l'autore delle fiere strofe che assalivano il Carignano, supplicava in quei giorni gli amici suoi perchè si stringessero intorno al severo e mistico Re, ch'egli onorava ora pel suo energico patriottismo, quanto lo aveva nel passato percosso di sospetti e di versi.

Infatti questo re, in uggia a molti, indovinato da pochi, celatosi per molti anni quasi a sè stesso, usciva dal proprio paludamento, e si presentava sulla scena, attore preparato a delusioni e a catastrofi, risoluto dopo tante esitazioni, liberale dopo tante influenze di clericato. Giacche egli pure era un patriota; e doveva darne presto la prova nella più alta misura del sacrificio. Non era una religione come il Mazzini, non era un sentimento come il Correnti, non era una dottrina come il Cattaneo; il suo era un patriottismo da principe, non meno vivo perchè si debba presentare sotto forme frenate, più difficile perchè deve affrontare maggiori responsabilità. Un principe ha naturalmente il dovere di cercare che una bandiera di libertà innalzata a vantaggio d'altri, non provochi pericoli contro l'indipendenza dei sudditi proprj. Uomini come il Cattaneo, come il Correnti, come il Mazzini potevano balzare in mezzo ad armi e a congiure, senza che una sconfitta danneggiasse di molto i paesi che spronavano a mutamenti. Un uomo come Carlo Alberto doveva badare che moti intempestivi non aggiungessero in Italia agli Stati già servi quello che i suoi maggiori avevano, nel corso dei secoli, agglomerato e difeso contro durevoli servitù.

I tempi e i documenti hanno già sparso una luce assai più benevola intorno alla parte che spetta a Carlo Alberto nel sobbalzo costituzionale del 1821. È ad augurarsi che interamente chiara riesca a produrla, nella pubblicazione che sta preparando, l'autorevole ingegno di Domenico Berti. Ad ogni modo, se quei fatti avevano reso la situazione personale di Carlo Alberto dolorosa in faccia ai liberali italiani, l'avevano anche resa in faccia all'Austria ed alla reazione europea addirittura pericolosa.

I tentativi del principe di Metternich per dare al duca di Modena, invece che alla linea di Carignano, l'eredità di Savoja, non avevano smesso un istante. Abbiamo visto prima d'ora l'acuta ed insidiosa insistenza con cui s'era cercato dal vecchio diplomatico di strappare al Confalonieri prigione qualche segreto che potesse giovargli contro il Carignano. E forse era una reazione di razza contro questi tentativi, che aveva spinto un re di puro assolutismo come Carlo Felice, a protestare contro ingerenze austriache e a riconciliarsi interamente col principe di Carignano, in quel celebre colloquio al letto di morte, il cui segreto non fu sino ad ora svelato.

Quando salì al trono, poco dopo la rivoluzione francese del 1830, gli occhi di tutti i principi italiani e di tutti i despoti europei si posarono con grande sospetto sopra di lui. L'Austria, dal Ticino, teneva l'indice pronto sull'acciarino de' suoi fucili. Carlo Alberto aveva bisogno di regnare per appellarsi alla storia contro i torti della leggenda; e regnò, ostentando in faccia a questa Europa ostile ipocriti furori di reazione, come i Borboni di Napoli avevano ostentato dieci anni prima ipocriti amori di liberalismo. La storia giudicherà quale di queste due ipocrisie abbia avuto dai fatti successivi maggiori scuse. Onde s'ebbero allora i violenti processi del 1833 e la prevalenza nelle regioni del governo di uomini freneticamente assoluti, il Della Torre, il Della Scarena, il conte Solaro della Margherita.

Ma appena la situazione europea permise qualche alito di liberalismo, e in Italia cominciò una pubblica opinione a preoccupare dei fatti proprj ciascun governo, la politica di Carlo Alberto si accentuò con lento ma sicuro cammino verso la guerra d'indipendenza.

Già nel 1838, all'epoca dell'incoronazione, Carlo Alberto non aveva voluto venire, cogli altri sovrani d'Italia, a Milano. Nel 1840, rifiutava d'inserire nella Gazzetta Ufficiale del Regno una dichiarazione del governo austriaco, il quale minacciava di intervenire in qualunque territorio italiano dove scoppiassero dei movimenti. Nel 1844, diede al suo ministero una spinta liberale assai notata, chiamando a reggere gli studi Cesare Alfieri, le finanze Ottavio Revel e l'interno Luigi Desambrois, nomi che si sarebbero ripetuti con lode anche durante l'epoca statutaria. Nel 1845 iniziava contro l'Austria una lotta economica, nella quale i sali ed i vini erano pretesto per affermare con altere parole l'indipendenza della politica sarda. Nel 1846 riceveva Massimo d'Azeglio, parlandogli linguaggio italiano; e più tardi, salito Pio IX sulla cattedra di S. Pietro, scriveva al marchese Villamarina: “Una guerra d'indipendenza nazionale che si unisse alla difesa del Papa, sarebbe per me la più gran fortuna che mi potesse toccare.„ Frattanto il Gioberti, il Balbo, il Durando pubblicavano i loro libri, per allora audacemente patriottici. Ilarione Petitti e Camillo di Cavour scrivevano di strade ferrate come di avviamenti a solidanza italiana, si fondavano l'Associazione Agraria e l' Antologia italiana, in cui gli uomini di pensiero scrivevano e parlavano liberamente; si udivano insomma i primi rintocchi della rivoluzione.

Queste notizie cadevano l'una su l'altra sugli animi già commossi in Milano, ed ognuna aggiungeva un'esca al fuoco, un proselite al movimento. Nè soltanto le cose del Piemonte agitavano, ma fatti e notizie piovevano da ogni parte, dall'Italia come dall'Europa; nascevano in casa. Sorto il pensiero dei Congressi scientifici nelle varie città, Milano l'ebbe nel 1844; e lo presiedette, con intenti e destinazione piuttosto di politica che di scienza, il conte Vitaliano Borromeo. Molti Piemontesi erano venuti allora a Milano; il Petitti, amicissimo di Alessandro Porro, presentò ai nostri gli amici suoi, e il Brofferio fece stupire per la vivacità e la libertà dell'ingegno. I Piemontesi del 1844 fecero affatto dimenticare le diffidenze del 1821 e il programma della Cecchina cominciò a prevalere su quello della Peppina.

Poi spesseggiarono le notizie più gravi e i commovimenti di carattere europeo. L'occupazione di Cracovia e le stragi, — pensatamente provocate dal governo austriaco, — dei proprietarj polacchi, indebolivano tanto in Europa la politica del principe di Metternich quanto aumentavano la ragionevolezza delle nostre proteste e la simpatia che la nostra causa inspirava. Nella Svizzera, la guerra del Sonderbund dava trionfo agli elementi liberali, e si guardava con inconscia speranza a quelle milizie vincitrici così vicine, a quegli ufficiali così propensi a guerra di libertà. L'anno 1846 era stato, per condizioni climateriche, assai sventurato; il prezzo dei grani accennava a bisogno di classi popolari; e le nostre signore, doppiamente entusiaste per la carità e per la politica, raccoglievano denari, cucivano abiti, portavano soccorsi negli ospedali e nelle case, frammischiando alla parola del conforto quella parola della concordia ch'era nell'animo di tutti e che si rivolgeva contro un nemico impotente a trattenerla su labbra gentili.

Finalmente la morte di Gregorio XVI viene a stappare l'ultima valvola del movimento italiano. Il 13 giugno 1846 s'era aperto il Conclave e il 15 era già nominato il nuovo Papa. La pressione dello spirito pubblico era stata così viva che il consesso cardinalizio aveva dovuto ubbidirle. Quella politica papale tutta a processi, a sbirri e a sanfedisti, che era stata lo sforzo di Gregorio XVI, non poteva reggere più. Tutti lo sentivano, ma nessuno osava dirlo.

L'osò uno statista italiano, che l'ingegno suo e l'amicizia di Guizot avevano fatto ambasciatore del governo francese. Pellegrino Rossi, complimentando il Conclave, in nome del corpo diplomatico, uscì dalle forme tradizionali fino a dire “essere miserabile la situazione degli Stati Romani, gravi i falli del governo passato, urgenti i bisogni del popolo, necessarie le riforme.„ Chiuse augurandosi, in nome degli Italiani e del corpo diplomatico “che il Conclave scegliesse un uomo capace di comprendere la grandezza del tempo e la volontà delle popolazioni.„

Un tale linguaggio sulla bocca di un tale uomo era fatto per produrre molta impressione sugli eccelsi elettori. Videro che bisognava far presto e sceglier bene. Abbandonate le antiche gare e gli antichi partiti, il Conclave si divise subito in due schiere: l'una che voleva un Papa riformatore, l'altra che voleva un Papa di resistenza. Il cardinal Lambruschini era il candidato di quest'ultima schiera; gli altri erano incerti tra il cardinal Gizzi e il cardinale Mastai. Parendo più probabile la scelta del primo, l'ambasciatore d'Austria si affrettò a buon conto a valersi del suo privilegio per escluderlo. E un biglietto ricevuto dal cardinal Lambruschini sotto la doppia etichetta d'una bottiglia di Champagne, lo incoraggiava a lottare, poichè era in viaggio il cardinale Gaisruck arcivescovo di Milano, che avrebbe col suo grande ascendente rafforzata la schiera conservatrice.

Ma, poichè è destino che in ogni cosa debba cercarsi la femme, anche il cardinale Bernetti, di parte liberale, riceveva, nel manico cesellato d'un coltello da tavola, da cui si strappava la lama, un altro biglietto d'una principessa romana, amica sua, in cui lo pregava a votare e far votare pel cardinale Mastai[56].

La lama di coltello vinse la bottiglia di Champagne; e la parte riformatrice del Sacro Collegio votò compatta pel Mastai-Ferretti con 36 voti sopra 51. Le premeva di non lasciar giungere cardinali avversari. E infatti il cardinale Gaisruck passava in quel giorno i confini della Toscana. Aveva in tasca l'esclusione austriaca pel cardinale Mastai. Quante cose diverse al mondo se il cardinale Gaisruck fosse partito da Milano un giorno prima!

Il nuovo papa Pio IX giustificò subito, coi suoi primi andamenti, le speranze che la sua elezione aveva destate. Riforme, amnistie, larghezze di stampa e di riunione, parole di pace e di progresso che uscivano da quelle labbra, da quelle sale, risuonavano per tutta la penisola e afforzavano dappertutto il programma dell'indipendenza e delle riforme interne. In sei mesi, Pio IX era l'uomo più popolare d'Italia; non v'era angolo di paesuccio dove il suo ritratto non fosse appeso alle pareti; non v'era donna o fanciullo che non portasse medaglia o anello o ciondolo coll'immagine sua. Tutto si faceva coll'invocazione, sotto il patrocinio di Pio IX; e nulla può dare un'idea del fremito di emozione che corse dalle Alpi all'Etna, quando s'udì che dal Vaticano il Pontefice aveva detto ad alta voce: benedite, gran Dio, l'Italia.

Fu un terribile quarto d'ora pel vecchio e cocciuto principe di Metternich, il quale diceva al marchese Ricci, inviato sardo: che al mondo aveva tutto preveduto, — tranne un Papa liberale. Proprio questa tegola gli cadeva sul capo; ed egli non potè renderne men grave il colpo. Mandava a Roma esortazioni e ammonimenti che il cardinale Gizzi, Segretario di Stato, riponeva sotto il calamajo. Sperando meglio dall'antica violenza, ordinò al maresciallo Radetzki di occupare la cittadella di Ferrara, come avvertenza minacciosa di non lontano intervento. Fu peggio che mai. Protestò virilmente il Papa; protestò la diplomazia; Carlo Alberto offerse le sue truppe a Pio IX, per respingere gl'invasori; principi e popoli italiani furono d'accordo contro l'Austria e a favore del Papa; Radetzki dovette sgombrare la cittadella occupata, e questo nuovo scacco della politica di reazione finì di eccitare al più alto grado l'entusiasmo delle popolazioni.

Allora si produsse in Lombardia un fenomeno, che non ha il suo simile nella storia. Un popolo schiavo che diventa libero per la forza della sua fiducia. Una città che diventa un sol uomo; e quest'uomo che diventa un fanciullo, colla sua spensieratezza, col suo coraggio, colla sua innocente allegria.

Quella gran potenza dell'Austria faceva ridere. Se ne burlavano i monelli nelle strade, la sfidavano spose e fanciulle dai loro balconi o nei ritrovi pubblici. Ogni giorno se ne inventava una. Dopochè la religione aveva sanzionata la politica di liberazione, e il clero milanese s'era unito di cuore ai propositi ed ai preparativi della popolazione, tutto parve lecito, nessuna cosa imprudente o impossibile.

Un giorno veniva da Roma notizia di qualche liberalità del Pontefice, e le signore comparivano subito in teatro coll'abito bianco e giallo. Era la notizia della costituzione di Napoli? tutti gli uomini portavano in un batter d'occhio il cappello alla calabrese. La polizia proibiva i cappelli, e tre giorni dopo tutti vestivano abiti di velluto-cotone della fabbrica di Vaprio. Che cosa voleva dire? nulla; ma la polizia se ne inquietava ed era una ragione per farlo. Chi desse queste istruzioni, chi regolasse queste dimostrazioni, non si sapeva e non si cercava di sapere. Erano nell'aria, nell'istinto, nel cuore. Uno sconosciuto vi mormorava nell'orecchio: domani a Porta Nuova, e si andava a Porta Nuova; vi mettevano nelle mani un bigliettino: stasera in piazza del Duomo, e la piazza del Duomo si stipava di gente. A far che? non sempre lo si sapeva; nulla, molte volte; ma questa concordia di voleri, questa facilità di comunicazioni e di diffusione era una gran disciplina. Bisognava pure sapere se ad un dato momento, se nell'ora del bisogno, del pericolo, i direttori di una rivolta avrebbero potuto contare sulla popolazione, sull'attitudine sua a moversi, a credere, ad ubbidire. A ciò giovavano le dimostrazioni. E chi le pensava o le dirigeva — se erano pensate o dirette — compieva ufficio serio e patriottico; esercitava a manovre senz'armi un popolo a cui presto le armi dovevano darsi.

Per non so quale costituzione italiana, si disse un giorno che la domenica successiva bisognava andar tutti in Duomo all'ultima messa. La polizia fece spargere voce che avrebbe mandato travestiti trecento satelliti, i quali, al menomo grido, avrebbero menato le armi a dritta e a sinistra. Forse diecimila cittadini si assieparono in Duomo, un migliajo di donne, nobili e popolane; e sulla piazza, dinanzi al palazzo vice-reale, erano puntati i cannoni, intorno e dinanzi ai quali si fermavano, con disdegnosa noncuranza, i cocchj dei dimostranti.

Il governo fremeva; aveva soldati e bombe e forche e guardie di polizia, e non riusciva ad impedire una dimostrazione, a spaventare un monello. Domandava a Vienna che cosa si dovesse fare, e da Vienna rispondevano, meravigliandosi che non sapesse fare. Voleva trovare ad ogni costo il Comitato che metteva in tutto questo subbuglio la città. Si disse allora — o probabilmente un bello spirito immaginò — che un cittadino, affermando ad un commissario di polizia la sua conoscenza dei segreti del Comitato, lo avesse condotto sulla guglia del Duomo, e di là, mostrandogli il circuito delle mura, gli avesse detto: eccovi il Comitato! Si stampavano e s'introducevano libri, pubblicazioni, che il governo sapeva distribuite a migliaja e che non riusciva a sequestrare. Le poesie del Giusti, gli scritti del Mazzini, del Guerrazzi uscivano da tipografie clandestine. Il Nipote del Vesta-Verde creava a un linguaggio convenzionale che gli Austriaci non capivano e che al popolo dava tono e speranze. Il Correnti scriveva l'Austria e il suo avvenire, il Torelli i Pensieri sull'Italia (Anonimo Lombardo), Anselmo Guerrieri, l'Austria e la Lombardia, Luigi Sala intimava, in un opuscolo Un ultimo consiglio all'Austria, le condizioni a cui avrebbe potuto il movimento rivoluzionario rallentare del suo cammino e della sua energia.

E il governo non sapeva nulla, non trovava nulla. Arrestava a tentoni, sbandiva ora l'uno ora l'altro, credendo di colpir giusto. Frugava nomi tra la borghesia e la nobiltà; ora mandava a domicilio coatto Ignazio Prinetti e Manfredo Camperio; ora deportava il conte Rosales, il marchese Soncino, il principe Falcò.

Ma il Comitato non si trovava; le dimostrazioni continuavano; i monelli crescevano d'audacia e d'impunità. Sulla porta della casa Arconati, dove abitava il maresciallo Radetzki, s'era scritto, proprio a ridosso della sentinella: appartamento d'affittare; ogni notte l'Uomo di pietra era fregiato di motteggi e di bosinate; infamia a Bolza, fu trovato una mattina inciso in pietra dinanzi alla porta della sua casa; da un balcone di un palazzo disabitato sul corso di Porta Romana penzolò per molte ore un pomo appeso ad un filo, colla leggenda sopra un cartello: il pomo è maturo.

Gli studenti liceali erano oggetto di molta sorveglianza; ma era materia difficile a plasmare. Un giorno, nel liceo di Porta Nuova, compare con gran solennità il conte Folchino Schizzi, Direttore delle Scuole; Achille Mauri, che faceva la sua lezione, cessa di parlare senza scendere dalla cattedra. E noi zitti e attenti. Il conte Schizzi, dopo un preambolo, ci spiega che il governo non può approvare, — probabilmente per le condizioni dell'Europa — l'abitudine da noi presa di portare la fibbia del nastro dei nostri cappelli a sinistra piuttosto che a dritta. In un baleno le fibbie furono slacciate e i nastri piovvero a dozzine sul pavimento. Il conte Schizzi si ritira in buon ordine. Ma il giorno dopo s'era inventato di portare il cappello senza nastro e di strisciare a rovescio una parte del pelo, in modo da sembrare una piuma. La polizia s'inquietò ancora di queste piume. Rinunciammo ai cilindri e adottammo il cappello all'Ernani. Si sarebbe continuato così per mesi ed anni.

I giovani, a cui l'esperienza odierna dei pubblici affari è stata maturata dalla fortuna di libertà già fatte e di più facili studj, potranno certamente sorridere di queste politiche e di questi entusiasmi. Ma gli uomini che vi sono passati attraverso, colla coscienza di aver preparato con quegli entusiasmi la possibilità delle future politiche, una cosa sola desidererebbero: poter cambiare qualche anno di vita con una settimana di quella sublime spensieratezza; con un giorno di quella forte voluttà della patria, cui nulla allora turbava, — nè tarlo di sfiducia, nè ire implacabili di fazione, nè presagio d'incredibili indifferenze.

Stanca di far ridere, l'Austria cercò di far piangere. E vi riuscì. Quello a cui non riusciva mai, era d'impedire, di trattenere.

In tutto l'anno 1847 di collisioni sanguinose non v'era stata che un'occasione, l'8 settembre, quando si celebrò con grande solennità civile e chiesastica l'ingresso dell'arcivescovo Bartolomeo Romilli.

Il cardinale Gaisruck era morto alcuni mesi prima; austriaco di nascita e di convinzioni, ma uomo assennato, benevolo, conciliante, largo nelle idee religiose e nel consorzio sociale. Lo si diceva, — con fondamento — figlio illegittimo dell'imperatore Leopoldo; certo del padre aveva le tradizioni prudenti e riformatrici nelle questioni ecclesiastiche. Voleva i preti in chiesa; avverso ai conventi, che nella sua diocesi, finchè visse, non lasciò pullulare, teneva in casa sua riunioni settimanali, di uomini e di signore. Migliore nel complesso del successore suo; ma questi era italiano, era nominato da Pio IX; bastava perchè destasse senz'altro l'entusiasmo o le forme pensate dell'entusiasmo. L'illuminazione, la folla, le grida diedero sui nervi alla polizia. Viva il Papa, era allora un grido fazioso, ma era quello che sopratutto i popolani ripetevano con maggiore frequenza. Il direttore generale Torresani se ne aperse coll'antico stromento d'ogni iniquità poliziesca, il conte Bolza. Questi era uomo spregevole; padre di famiglia, viveva in concubinato e lasciava che la moglie si procurasse compensi; spartivano gli utili. Il governo austriaco se ne serviva, ma lo dipingeva sinistramente; in un rapporto, trovato in seguito, fra gli atti della Direzione generale di Polizia si dice di lui: “Suo idolo è il danaro, da qualunque parte venga, poco importa; napoleonista fanatico sino al 1815, dopo, austriaco in egual grado, e domani turco, se entrasse Solimano in questi Stati; capace d'ogni azione, tanto contro il nemico, quanto contro l'amico; non si conosce la sua morale nè la sua religione.„ Turco non divenne, perchè Solimano non era venuto; ma è morto vecchissimo, pochi anni fa, a Menaggio, in odore di repubblicano.

Il Bolza era però uomo risoluto e non recedeva da nulla. Appostò parecchie dozzine di satelliti nel cortile dell'arcivescovado, e quelli, ad un ordine dato, uscirono sulla piazza Fontana e calarono sulla folla fendenti di daghe. La folla, inerme, reagì; l'arcivescovo, inorridito, scese tra il popolo a rimpiangere, a benedire; e la scena si ripetè per due giorni. Parecchi rimasero feriti, uno fu morto. Il municipio denunciò i fatti al Governatore, protestò altamente contro i soprusi della polizia. S'incoarono processi contro arrestati, e i processi finirono, — pure essendo tribunali austriaci — colla condanna di agenti di polizia.

Nel complesso, quei fatti non ebbero altra conseguenza che di stringere in maggiore solidarietà le masse popolari coi patrizj e coi borghesi, di rendere più intenso ed universale il proposito della rivoluzione.

Visto che quel sangue non era bastato, si deliberò versarne in maggior copia. E poichè della polizia trionfavano i tribunali, entrò di mezzo l'esercito ad assumere francamente il cómpito dell'assassinio.

Il maresciallo Radetzki da lungo tempo domandava sussidio di truppe e poteri militari straordinarj, per sostituire quella che gli pareva fiacca politica dell'autorità civile, del Governatore, del Vicerè. Si vantava che avrebbe fatto rinnovare a Milano le stragi di Tarnow; e infatti s'era inviato a Pavia per contenere gli studenti il colonnello Benedek, trucemente mescolatosi in quelle stragi, e a Brescia si mandava un giudice Breindl, fratello al noto carnefice degli insorti polacchi.

Ma il Metternich si baloccava in dispacci. Aveva pensato e scritto per quarant'anni che gl'Italiani erano impotenti a battersi, e non voleva all'ultima ora ammettere d'essersi potuto ingannare. Per far qualche cosa mandò un diplomatico, il conte di Ficquelmont. E se ne attendeva mirabilia. Sono veramente miserabili le istruzioni che dettava, in circostanze così imponenti, il principe di Metternich. Al Vicerè scriveva essere chiaro che “le Gouvernement lombardo-vénitien reste paralisé s'il lui manque l'élément politique et diplomatique. Il fallait donc offrir à Vôtre Altesse le concours de la diplomatie, et c'est pour cela que le comte de Ficquelmont a été mis à votre disposition. Je n'aurais pas pu faire un meilleur choix.„

A questo inviato poi, che doveva essere il tocca e sana del Governo lombardo-veneto, dava norme e informazioni meravigliose per ingenuità. Lo incaricava, a quei lumi di luna, di “chercher à faire rentrer le Piémont dans notre alliance.„ Trovava tutto il guajo in due cose: l'influence du club des Lions e le manque d'action gouvernementale chez ceux qui sont chargés de gouverner. Dichiarava che se avesse governato a Milano, non avrebbe esitato — coraggio antico — a chiudere il club; e, quanto al secondo guajo, ordinava con un decreto una Conferenza giornaliera a Milano, composta del Vicerè, del Ficquelmont, del generale Wratislaw, del Torresani e del barone Salvotti; metteva questa Conferenza in relazione diretta con un'altra che si teneva a Vienna sotto la presidenza del conte di Hartig. E, avendo così regolato con due organismi burocratici l'action gouvernementale, credeva d'essersi liberato della rivoluzione.

Questa intanto aveva preso, dalla missione stessa del Ficquelmont, un avviamento anche maggiore. Agli antichi centri d'agitazione patriottica, della borghesia, del patriziato, del clero, dei popolani, se n'era aggiunto un altro, l'ultimo al quale si avrebbe potuto pensare, l'unico che mancava: l'alta burocrazia, il partito conservatore. L'Austria non aveva più nessuno per sè.

Alla Congregazione Centrale, larva rappresentativa di città e di provincie, che aveva posto e grado e uniforme di magistratura governativa, un bergamasco, il consigliere Giovan Battista Nazzari presentò formale istanza perchè “scegliesse una Commissione, composta d'altrettanti deputati quante sono le lombarde provincie, incaricata di redigere un rapporto sulla condizione del paese e sulle cause del malcontento del popolo.„ Come si vede, la proposta era discreta. Una Commissione! quante non se ne nominano al dì d'oggi? Pure, la situazione era così piena di brage, che l'atto parve audacissimo e destò un altro entusiasmo. La Congregazione Centrale accolse subito la proposta; le Congregazioni speciali delle varie provincie vi fecero adesione; il Governatore tentò invano di snaturare la proposta; Nazzari tenne fermo, e al suo domicilio furono portati quattro mila biglietti di visita. Il maresciallo Radetzki dichiarò che quei quattro mila biglietti esigevano quaranta mila soldati.

La mozione, discussa e votata dalla Congregazione Centrale, conchiudeva a quella domanda di Costituzione speciale pel Lombardo-Veneto che il generale Bellegarde aveva promesso fin dal 1814 e che era stata così slealmente dimenticata.

Ma il principe di Metternich aveva, sulla questione lombarda, altre idee. Scriveva al conte di Ficquelmont[57]: “Voulez-vous un jugement de ma part que vous n'avez peut-être point encore entendu prononcer, et qui, à mon avis, renferme la vérité sur l'une des grandes fautes commises par notre Gouvernement dans ses relations avec ses administrés italiens? vous le trouverez dans ce peu de mots: “Nous les avons ennuyés.„ Le peuple qui veut le panem et circenses ne veut pas être ennuyé. Il veut être gouverné avec une main ferme et amusé.„

E per tradurre in pratica un programma così solennemente annunciato, il principe di Metternich e il conte di Ficquelmont deliberavano la grave risoluzione politica di mandare a Milano.... Fanny Elssler, prima ballerina nel teatro alla Scala.

A questa gran macchina politica rispose uno dei soliti inviti anonimi, di cui amiamo citare un brano perchè ci riconduce nel più fitto di quel singolare movimento:

AI MILANESI.

“Un altro sacrificio, fratelli! Bisogna assolutamente astenersi dal teatro alle rappresentazioni dell'Elssler. Cedete il luogo ai Tedeschi che vorranno applaudirla anche in nome nostro. L'Elssler fu benefica verso i poveri, ed abbiasi tutta la riconoscenza, non il sacrificio del nostro decoro. Perchè non si possa dire: i Milanesi furono vinti dai vezzi di una ballerina, è necessario esserne lontani. La silfide può diventare una sirena ed ammaliarvi. Il silenzio di mille può essere guasto dall'applauso di pochi.„

È inutile soggiungere che il consiglio fu rigorosamente rispettato. La Elssler danzò ad esclusivo uso e consumo degli ufficiali austriaci. L'impresa della Scala fu una delle prime vittime del patriotismo. In una di quelle sere non s'aprirono che quattro palchi e si fecero nove biglietti. Una sera soltanto, gran folla e grande allegria; tutti i palchi pieni di dame. Gli ufficiali austriaci non sapevano che pensare di questa novità; — era giunta la notizia dell'insurrezione di Palermo. Il teatro tornò vuoto il giorno dopo.

Fu ai primi di gennajo che il dramma volse a tragedia.

La dimostrazione escogitata pel primo giorno dell'anno era di carattere più serio delle altre. Bisognava astenersi dal fumare, per danneggiare anche ne' suoi cespiti più vitali la finanza degli oppressori. L'invito che a quest'uopo era stato diramato s'appoggiava ad argomenti curiosissimi. Diceva fra le altre cose: “mal s'addice il fumo del tabacco fra le dolci aure olezzanti dei fiori d'Italia.„ La rettorica fu perdonata al Comitato in grazia della politica. Non era un pensiero nuovo. Già fin dal 1760 in Lombardia s'era adottato per alcuni giorni questo partito per dimostrare l'antipatia che suscitava la Ferma Generale. In America, la rivolta delle colonie inglesi era appunto cominciata con un'agitazione di questa natura, astenendosi di prendere il thè per non pagare la gabella che lo aggravava. In ventiquattr'ore, come al solito, il nuovo espediente fu conosciuto in tutta la Lombardia, e dappertutto, come al solito, vi si obbedì. Vecchi ed ostinati fumatori buttarono sulla via le loro provvigioni di zigari e da un'ora all'altra quella che pareva abitudine impossibile a sradicarsi completamente cessò.

Più che il danno, l'ira tolse ogni lume di moderazione alle autorità militari. Senza accordi nè col Fiquelmont, nè col Governatore, nè col Vicerè, trattarono Milano come paese di conquista. Il primo giorno, si limitarono a fare sfoggio di zigari sulle labbra dei loro ufficiali. A questi la moltitudine non si oppose; erano le persone in abito civile che s'invitavano, prima colle buone, poi colle brusche, a gettare lo zigaro. Solamente a un atto provocante di un giovane capitano, uscito da magnanimi lombi, che sulla porta di un caffè[58] affettava di cacciarsi in bocca tre o quattro zigari, fu risposto con una ceffata che ruppe fra i denti gli zigari al petulante ufficiale. Era il conte Gustavo di Neipperg, figlio di quell'Adamo Adalberto, conte di Montenuovo, che trent'anni prima aveva consolato de' suoi omaggi la moglie, non ancor vedova, del prigioniero di Sant'Elena.

Il secondo giorno, torme di sgherri travestiti, di canaglia uscita dalle prigioni, percorsero, provocando, le vie, a zigaro acceso, gettando il fumo negli occhi ai passanti. Alcuni si schivarono, altri reagirono; vi furono baruffe, arresti, ma tutto finì senza sangue. Al terzo giorno, si sguinzagliarono le torve brutalità. Lo Stato Maggiore distribuì trentamila zigari alla guarnigione; poi, venuta la sera, lanciò granatieri, croati, ussari, dragoni per le vie della sventurata città, con istruzione di fumare, di obbligare altri a fumare, di provocare, di usare delle armi. Si può immaginarsi che risultati doveva produrre in quei cervelli ottusi, in quei corpi ebbri, il consiglio d'essere turbolenti, — il disordine imposto in nome della disciplina.

Fu una terribile sera, il cui ricordo, oggi ancora, a 38 anni di distanza, ci scuote l'animo come la visione di una tregenda.

Quei cittadini passeggiavano tranquilli, colle spose al fianco, coi bimbi innanzi, sui noti selciati pacificamente percorsi da quarant'anni. Irrompevano soldati, a due, a dieci, a cinquanta insieme raccolti. Uscivano da un vicolo, da una bettola, affrontavano, inseguivano, gridando, agitando braccia, sguainando sciabole, bestemmiando. Le famigliuole fuggivano, le botteghe si chiudevano, le lampade municipali illuminavano di fioca luce la scena. E in quella semi-oscurità accaddero cose orrende. Giovanetti che si vollero obbligare ad accendere uno zigaro, e che, resistendo, vennero colpiti di bajonetta; uomini inoffensivi, padri di famiglia, operaj che tornavano dal lavoro, inseguiti, gettati a terra, percossi di piatto e di punta. Il terrore faceva fuggire alcuni, l'ira e il coraggio facevano resistere altri. Ma erano inermi contro armati, pochi contro molti. La zuffa era breve. Poi s'udiva lontano, dal fondo della via, sorgere e crescere un romore noto e pauroso: la cavalleria. E questa giungeva a galoppo, spazzava le contrade, calpestava i caduti, feriva di lancia chi non era pronto a schermirsi. Poi, i dragoni dai mantelli bianchi si allontanavano, e restavano sulla via deserta, oscura, i poveri feriti, i poveri morti.

Pajono racconti da far paura ai bimbi, e son cose vere! Nessuna parte della città fu risparmiata da questi assassinj. A Porta Comasina, a S. Angelo, a S. Celso, all'Orso Olmetto, sul corso dei Servi. Chi scrive s'è trovato con un amico appiccicato ad uno spigolo della chiusa profumeria di Pasquale Scandelari nella Galleria De Cristoforis, mentre un centinajo di granatieri ungheresi l'avevano invasa e la percorrevano con libertà forsennata. Ebbimo urti e bestemmie e fumo negli occhi, ma nessuna offesa. Un quarto d'ora dopo, a due passi di lì, il settuagenario Manganini, consigliere d'appello e amico del Torresani, ebbe il capo spaccato da un fendente di sciabola. Altrove, trovossi nella folla investita, e perì di lancia, il cuoco del conte di Ficquelmont[59]. Nella Piazza dei Mercanti, un sicario immergeva un pugnale nei cuore ad un fabbro-ottonajo, perchè aveva preso le difese d'un ragazzo maltrattato. Si disse allora e si stampò sulle bugiarde effemeridi che erano stati trenta i feriti in quella occasione. Si sa oggi, pei documenti raccolti, che furono cinquantanove le vittime dell'eccidio, cinque morti sul colpo.

La carneficina del 3 gennajo ebbe un'eco immensa in Italia. In Milano fu veramente il boute-selle, il rullo di tamburo della rivoluzione.

Dal Piemonte Roberto d'Azeglio, autorevole personaggio, rispose, con un brindisi ad una società di fabbri-ferraj, augurandosi che presto non avrebbero solamente usato il ferro come industria, ma come arma contro nemici assassini. A Torino, a Genova, a Firenze, si fecero solenni funerali per le vittime di Lombardia; e accorrevano in grande uniforme i ministri e i diplomatici presso le Corti; da Vicenza, da Verona, da Treviso, dove i funerali erano impossibili, giungevano soccorsi in denaro e indirizzi di fratellanza; le contesse Bentivoglio e Michiel sfidavano a Venezia le ire poliziesche, facendo pubblicamente questue pei feriti di Milano; a Roma, la principessa di Belgiojoso organizzava splendide esequie, a cui interveniva in pompa il gran dignitario ecclesiastico milanese, monsignor Borromeo.

Ma dove le proteste suonavano ancora maggiori di virtù e di efficacia, per l'aperto pericolo, era nella stessa città.

Il conte Gabrio Casati, podestà di Milano, non aveva potuto sfuggire nella giornata del 3 gennajo alle improntitudini della sbirraglia. Preso in mezzo da una pattuglia, mentre alzava la voce contro le ignobili provocazioni, fu trascinato a pugni e a calciate di fucili. Riconosciuto, lungo la via, da un delegato di pubblica sicurezza, non volle essere posto in libertà, ma esigette d'essere condotto innanzi al Direttore generale, barone Torresani, perchè vedesse come agivano i suoi dipendenti. Uscito di lì, corse dove sperava poter trovare pronti gli elementi d'una deputazione, al Casino allora dei Nobili, oggi dell'Unione. Quattordici o quindici persone ivi raccolte lo seguirono tutte, fra le quali ricordiamo Carlo D'Adda, Cesare Giulini, Manfredo Camperio, Enrico Besana. Andarono al vicino palazzo Marino, dove alloggiava il conte di Ficquelmont. Appena entrati nel cortile, le porte si chiudono e si trovano in mezzo ad un vero accampamento, che li guarda con bieca ostilità. Pochi minuti dopo, ecco scendere dallo scalone lo stesso conte di Ficquelmont, accompagnato dal governatore, conte di Spaur. Gabrio Casati si avanza come capo della deputazione ed espone con vive parole lo stato della città e l'eccidio che vi si consuma. Aggiunge fiere ed eloquenti parole il conte Cesare Giulini Della Porta. I due alti dignitarj rispondono imbarazzati, con parole incoerenti: “certo è deplorabile... daremo ordini... ma la colpa è degli individui che provocano le autorità.„ Qui s'ode una voce, quella di Carlo d'Adda che domanda con tono fra l'ironico e lo sdegnoso: “forse che il cuoco del signor conte di Ficquelmont era d'accordo con noi per provocare gli Austriaci?„

Il giorno dopo, le proteste diventano ancora più solenni e più gravi. Il venerando arciprete del Duomo, monsignor Opizzoni, vecchio di 85 anni, si presenta al Vicerè e gli dice: “Altezza, ho visto a' miei tempi i Russi, i Francesi e gli Austriaci invadere come nemici la nostra Milano; ma un giorno come quello di jeri non lo vidi mai; si assassinava per le strade, il mio ministero mi obbliga a ripeterlo, si assassinava.„

Il conte Vitaliano Borromeo, fregiato del più eccelso ordine cavalleresco dell'Austria, scriveva al Vicerè che se non si dava soddisfazione al paese avrebbe restituito il Toson d'Oro, macchiato di sangue. E l'arcivescovo, predicando dal pergamo del Duomo, diceva: “unite le vostre preghiere alle mie, onde quelli che ci governano siano più giusti e serbino modi più umani.„

Forse ancora più significativo e più caratteristico della situazione era il contegno assunto dalle stesse autorità civili austriache, dagli uomini più miti del partito conservatore.

Il conte Giorgio Giulini, padre di Cesare, era uno dei patrizj che nel 1814 avevano contribuito, nella Reggenza di Governo, alla ristorazione del regime austriaco. Ed egli era stato incaricato dal conte di Ficquelmont di presentargli, insieme coll'avvocato Robecchi, un rapporto sullo stato degli animi e sulle misure da prendersi. Questo rapporto era finito e copiato il 1.º gennajo. Lo presentarono il giorno 4 con un breve poscritto che i due onorandi cittadini chiudevano così: “Il sangue scava un abisso fra governanti e governati. Questi possono essere ancora compressi dalla forza brutale; ma il regno della forza è breve.„

Il cav. Decio, consigliere di Governo, presentò le sue dimissioni, allegando di non voler più oltre servire sicarj. Il Delegato Provinciale Bellati, uomo di studj e di coscienza, firmò la protesta pei fatti del 3 gennajo, aggiungendovi una frase dolorosa: “colui che diventò infame pel suo troppo attaccamento al governo austriaco.„ Più vigoroso di tutti, nella schiera dell'alta burocrazia, fu il Procuratore Camerale Enrico Guicciardi[60], che, armandosi d'un articolo elastico del Regolamento organico, denunciava al Governatore i Capi supremi della polizia e dell'esercito come responsabili, per abuso di competenza, degli ultimi fatti; e domandava, con alto sentimento del proprio ufficio, che la sua denuncia fosse mandata a Vienna, qualora il Governatore non si sentisse abbastanza autorizzato a provvedere, contro questi abusi, da sè.

Quella protesta, che infatti venne spedita a Vienna, è un atto notevole per la novità ardita e per l'acuta esposizione dei criterj d'indole amministrativa e politica. Voleva essere, secondo le forme burocratiche, un atto d'ufficio contenente “rispettose osservazioni.„ Ma a giudicare che tono avesse assunta in quei giorni, fra impiegati italiani e superiorità austriache, una “rispettosa osservazione„ basterebbero questi periodi: “.... oltre l'abuso della forza di polizia è intervenuta la forza militare per uccidere e ferire in seguito a provocazioni del genere di sopra da me indicato, per parte di molti militari, od isolati, od uniti in numero ben sensibile„. E altrove: “.... A sedare i disordini si è usata la forza di polizia e la forza militare. Come la medesima siasi usata, è troppo noto all'E. V. Si commisero degli atti che la sola barbara legge di guerra scuserebbe in una città presa d'assalto. „ Chiudeva dicendo: “L'intervento della forza militare, non richiesta da V. E., costituisce per subordinato avviso del procuratore camerale, un abuso di competenz a delle attribuzioni esclusivamente demandate dalle Sovrane Patenti all'E. V. perchè fa sottomettere alla polizia militare queste provincie, da S. M. assoggettate unicamente alla polizia civile[61].

Che cosa fu risposto a tutte queste proteste?

Il Guicciardi fu immediatamente destituito; gli fu negato ogni diritto a pensione e tolta anche la facoltà di esercitare privatamente l'avvocatura. Il Vicerè pubblicava il 5 gennajo un proclama ipocritamente mellifluo, nel quale deplorava “che la condotta dei cittadini paralizzasse le sue più fondate speranze di ottenere dal trono di S. M. benigni provvedimenti.„ Il Comando Militare faceva leggere il giorno 6 alle truppe un Befehl (ordine del giorno) nel quale lodava “l'obbedienza e la fermezza mostrata dai militari nella giornata del 3 corrente.„ L'imperatore Ferdinando pubblicava “non essere inclinato a fare ulteriori concessioni; fidarsi unicamente nella fedeltà e nel valore delle sue truppe.„ Finalmente, al giorno 22 febbrajo giunge l'ultima risposta e l'ultima concessione — la proclamazione dello stato d'assedio col giudizio statario. Il Vicerè, il Governatore, le alte autorità di governo partivano o stavano per partire; il Regno Lombardo-Veneto era consegnato senza guarentigie nelle mani dell'inflessibile maresciallo, che aveva detto, a proposito dei casi di gennajo: tre giorni di terrore, trent'anni di pace.

Qui ha termine lo stadio di preparazione, e comincia lo stadio della rivoluzione, di cui ci occuperemo più innanzi.

In tutto questo cupo periodo, un solo atto di bene scende dalle eccelse regioni del governo straniero.

Da Vienna arriva un giorno un plico suggellato all'ufficio che dirigeva la colletta apertasi pei feriti del 3 gennajo in casa Borromeo. Conteneva diecimila lire, e le mandava l'imperatrice d'Austria, quella Maria Anna, figlia di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, morta due anni or sono.

Ci par bene e giusto ricordare che da una donna, da una italiana, da una principessa di Casa Savoja era partita in quei giorni, frammezzo a così truce ribollir di passioni, l'unica inspirazione alta di politica e di umanità.

II. LA RIVOLUZIONE.

Un moto popolare di natura politica ha bisogno, per essere efficace, di tre diversi stadj o fenomeni: la preparazione morale, la preparazione materiale e l'azione. Sopprimiamo la prima, avremo ordinariamente un tumulto; sopprimiamo l'ultima, resteremo nei limiti di una congiura; togliamo la preparazione materiale, cadremo, nove volte su dieci, in una ribellione repressa.

Il moto milanese del 1848 fu una vera e propria rivoluzione, coronata di successo, perchè non gli è mancato nessuno dei tre fenomeni necessarj.

Abbiamo visto quanta preparazione morale avessero ammassata gli anni anteriori al 1848; dal 18 al 23 marzo l' azione non poteva essere più decisa e più vigorosa; ma il primo trimestre dell'anno aveva veduto svolgersi una preparazione materiale, che sarebbe ingiusto dimenticare, perchè non ebbe minori ostacoli nè minore virtù.

Infatti, le brutalità del 3 gennajo ebbero questo effetto immediato, di persuadere i direttori del movimento che la preparazione morale era completa e di spingerli a tutt'uomo verso la preparazione materiale. Della popolazione non si poteva più dubitare. Aveva chiaro l'istinto della situazione rivoluzionaria, aveva dimostrato di possedere in grado eminente il desiderio e l'intelletto della disciplina. Occorreva quindi stringere accordi rivolti a scopi pratici, avvicinarsi con altre operazioni al momento decisivo, che le occasioni avrebbero determinato.

Rinnovatesi a Pavia le stragi di Milano, una circolare segreta avvertiva che, per evitare nuovo sangue, si sarebbe posto fine alle dimostrazioni di carattere pubblico. “Adesso possiamo aspettare senza vergogna„ diceva; e infatti si aspettò, ma con una aspettazione piena di febbrile energia.

L'intento della concordia s'era ormai raggiunto al di là d'ogni previsione patriottica. I popolani ardevano dal desiderio di vendicare i loro morti e feriti, e traevano da questo stesso desiderio una fiducia, che nulla poteva scuotere, nei misteriosi scrittori dei bollettini. La parte più conservativa del patriziato aveva smesso, dopo il 3 gennajo, ogni esitazione; il conte Vitaliano Borromeo aveva voluto conoscere di persona Cesare Correnti, e in un colloquio tenuto in casa del marchese Anselmo Guerrieri, patrizio di scuola mazziniana e di larghissime aspirazioni, s'erano appianate le ultime difficoltà, schiarite e accettate le ultime modalità del programma.

Bisognavano denari, armi, alleanze; i tre nervi, le tre basi d'ogni guerra.

Le collette raccolte in casa Borromeo avevano fruttato più di 150 mila lire; primo fondo che servì a comperare utensili e mantenere operaj, ad organizzare un po' di spionaggio e di stazioni nelle campagne. Ma non era quella pel momento la maggiore preoccupazione. I forzieri del patriziato si sapevano pronti ad ogni richiesta, e infatti, appena sorsero le occasioni opportune, furono visti gareggiare di liberalità e il duca Litta e il conte Arese e il duca Scotti e il marchese Arconati e il conte Annoni e il duca Visconti di Modrone e quanti insomma avevano pari all'antichità della stirpe o alla tradizione del patriotismo la larghezza del censo[62].

Di alleanze non si poteva cercarne che al di là del Ticino. Un solo Stato in Italia aveva esercito valido e politica indipendente; un solo sovrano aveva mostrato da qualche tempo comunanza di aspirazioni coi rinnovatori lombardi.

Carlo Alberto aveva infatti mantenuta ed accentuata, col progredir degli eventi, la situazione politica e personale da lui presa in Italia. Era sempre il Re cauto, ma deliberato, che fronteggiava l'Austria nella questione italiana. Non aveva smesse ancora le forme assolute di governo, ma se ne valeva per moversi più liberamente nell'orbita sua, con intonazioni democratiche, di cui forse un ministero costituzionale non gli avrebbe lasciato libertà. Visitando Genova, durante il Congresso degli scienziati, s'era lasciato avvicinare, senza titubanza, da un giovane, non illustre allora, ma caldo di patriottismo, che ponendogli la mano ardita sulle briglie del cavallo, gli aveva detto, con voce squillante: “Maestà, bisogna prepararsi a combattere.„ Era Nino Bixio. Assai più tardi, recandosi a Casale per inaugurarvi congressi d'agricoltura, aveva detto a Lorenzo Valerio: “Quando l'ora sarà suonata, monterò a cavallo e combatterò per la patria come Sciamyl combatte nel Caucaso.„

Coi patriotti lombardi aveva sempre conservato indirette comunicazioni, specialmente per opera del suo segretario particolare, il conte di Castagneto, uomo di specchiata probità e di lealissimi sensi, a cui l'Italia deve, per quel periodo, una parte notevole della riconoscenza che sembra avere esclusivamente serbata per altri. Col Castagneto carteggiavano da parecchi mesi alcuni rappresentanti del patriziato, segnatamente il conte Gabrio Casati, col quale si dibattevano, senza chiasso, parecchie delle questioni fondamentali che l'unione presagita del Piemonte e della Lombardia metteva in primissima linea. Dopo il 3 gennajo, parve che a queste relazioni indirette fosse necessario sostituire azione più viva; che all'orecchio di Carlo Alberto dovesse giungere, con maggiore frequenza ed intimità, la parola di chi fosse più attivamente mescolato a tutta la situazione lombarda degli ultimi tempi.

Carlo D'Adda fu scelto a questa missione; ed egli recossi, secondo il desiderio degli amici, a Torino, dove il conte di Castagneto lo accolse con grande simpatia e lo presentò senza indugio a Carlo Alberto. Furono relazioni curiose quelle che si stabilirono allora fra questo Re di diritto divino ed un inviato, senza credenziali, d'un Comitato senza poteri. Carlo D'Adda saliva ordinariamente dal Re in ore eccentriche, in abito dimesso, condotto dal Castagneto per usci secreti, per corridoj polverosi, come un ladro... o come un adultero. Il Re lo riceveva ad ogni richiesta, accettava senza esitazione questi andamenti cospiratorj, voleva informazioni di persone e di fatti, dava assicurazioni, non si sdegnava di consigli. Uscito di lì, ripigliava la maschera severa, il linguaggio riservato e l'occhio freddo del monarca legittimo. Nessuno avrebbe indovinato il patriota sotto quella rigida fisonomia di Re; pochi si sarebbero accorti del Re, intrattenendo famigliarmente il patriota.

Nessuno ha finora raccontato pubblicamente un aneddoto caratteristico.

Un giorno, si aspettavano a Novara certe condotte di polveri, che dovevano essere tragittate in Lombardia. Le polveri non erano giunte col tramite per cui dovevano essere state inviate. Carlo D'Adda riceve un biglietto dal Comitato di Novara; un biglietto, scritto secondo lo stile di quei giorni, come l'impeto dettava, in fretta e in furia: “Nulla è arrivato, Carlo Alberto ci tradisce, come nel 1821.„ D'Adda si reca difilato dal Castagneto e il Castagneto lo conduce difilato dal Re. Ma v'è Consiglio di Ministri, e il Re non può assolutamente ricevere. La cosa pareva al D'Adda pressante. “Vuol far passare quel biglietto nelle mani di Sua Maestà?„ gli dice il conte di Castagneto. L'inviato milanese lo guarda meravigliato; ma l'aspetto severo, sicuro, dell'uomo non gli permette dubbio. E il biglietto crudele, naturalmente anonimo, è portato, in una busta, sul tavolino del Re. Dieci minuti di aspettazione, diciamo pure di ansia. Poi, un servitore gallonato, riporta, chiuso in un'altra busta, lo stesso biglietto, con un breve poscritto di mano reale: “Caro D'Adda, ho dato ordine in questo punto che le polveri partano.„

Quel biglietto è andato smarrito. Oggi sarebbe uno dei documenti più importanti e più curiosi della rivoluzione italiana.

Le polveri non si potevano adoperare senza le armi da fuoco. E a questo pure si pensò in quei due mesi; e se molto non potè farsi, certo si fece assai più che non consentissero le difficoltà e i rischj gravissimi dell'impresa, più che non sia comunemente noto per le pubblicazioni uscite intorno a quei fatti.

Nelle case dei cittadini saranno stati un trecento fucili da caccia, non più; poche pistole, pochissime armi da punta e da taglio; la vigilanza sulle botteghe d'armajuolo grandissima, e tale da non potersi eludere senza provocare immediate misure di cittadino disarmo. Si dovette dunque ricorrere all'importazione od alla riduzione di armi vecchissime ed inservibili, esistenti in casse o in soffitte, talune fin dall'epoca del primo Regno d'Italia. Pure, in poco tempo parecchie case di Milano furono tramutate in depositi d'armi; quasi tutte si munirono almeno di una per le sperate battaglie. I giovani del club della Cecchina trovarono modo, a peso d'oro, d'introdurre in città cento carabine inglesi e se le distribuirono. In casa Trotti, in casa Porro, in casa Dandolo, in casa Spini, nelle case Prinetti, Simonetta, Besana, in cento case v'era accolta di fucili e di pistole; Alessandro Antongini aveva riempiuto d'armi un magazzino fuori porta; ma il difficile era introdurle, e non si potè farlo che lentamente, senza giungere in tempo a farlo completamente. Si recavano i giovani, come a sollazzo, nelle osterie suburbane: rientravano, con apparenze gioconde, portando sotto il tabarro invernale o sotto il panciotto una canna, un calcio, una baionetta, i grilletti, tutte insomma le varie parti del fucile che si sarebbero più tardi ricomposte. Vera giudizio statario; ma chi vi badava? talvolta i pezzi non combaciavano, e la vita s'era arrischiata per nulla; si ritornava il giorno dopo a prendere i pezzi che combaciassero. Si diceva che queste armi erano male fabbricate, che sarebbero scoppiate in mano agli insorgenti nel giorno della battaglia. E altri giovani si prendevano il rischio e il compito di verificare le cose. Andavano in una cascina suburbana, proprietà d'un patrizio, il cui nome non permetteva sospetti austriaci, il conte Mellerio. S'erano procurati la doppia complicità patriottica d'un fittabile e d'un armajuolo; provavano le armi, facevano accomodare quelle che apparivano difettose, le reintroducevano su carri agricoli, preparate e impagliate come peri o albicocchi.

Nelle case poi, smessi gli usati passatempi, le signore fabbricavano cartuccie, gli scienziati preparavano projettili e cotone fulminante; gli esercizi d'arme e lo studio dei manuali militari, delle opere di Iomini, di Montecuccoli, di Dufour, avevano sostituito i componimenti rettorici e la lettura dei trattati politico-legali pubblicati dai professori dell'Università di Pavia. Luciano Manara, Carlo de Cristoforis, Francesco Simonetta attingevano a questi studj coscienza di attitudini e di responsabilità militari; li seguivano, per ardore di belliche discipline, giovani minori d'anni, ma eletti di mente, Pietro Rasnesi, Emilio ed Enrico Dandolo, e quel simpatico e vivace ingegno di Emilio Morosini, che avrebbe certamente occupato un posto notevole nella vita politica contemporanea se una palla francese non gli avesse spezzato, sulle mura di Roma, il giovane cuore.

Dei vivi non parliamo; son molti e prodi. Parlandone, offenderemmo lunghe e silenziose modestie, provocheremmo vibrazioni importune di commossi ricordi. D'altronde agli uomini di quell'epoca una coscienza rimane intera: quella di non dovere, in così grande solidarietà di fatti, rammaricarsi di nulla e di nessuno.

Un popolo intero era riuscito a vincere la legge delle eccezioni; e in un tempo in cui il segreto della patria era su tutte le labbra, non si ebbe ad arrossire nè di una corruzione nè di una viltà. Nessun'epoca della storia dimostrò più validamente come un gran sentimento patriottico equivalga a un gran sentimento morale.

Tutta questa agitazione non era sfuggita e non poteva sfuggire ai dominatori. Sicchè non mancavano tentativi di seduzione, indagini, sorprese, perquisizioni. Ma la complicità di tutti era all'erta contro i pericoli di ciascuno. E quando la polizia si moveva, un istinto, un Nume invisibile indicava dove sarebbe andata a scendere. Il vetturino allungava la strada, il portinaio alzava la voce perchè udissero al primo piano, il monello correva ad avvertire un amico, il cameriere non aveva la chiave d'un uscio, la cuoca offriva alle guardie un manicaretto, gl'inquilini aiutavano, le carte sparivano, le armi uscivano o per gli abbaini o per le fogne; e la polizia ritornava il più delle volte convinta d'essere stata mistificata, ma, come il demone della Basvilliana:

Vuota stringendo la terribil ugna.

Quando l'Austria fu stanca di queste inutili attività, venne finalmente il decreto che ordinava le perquisizioni generali e l'immediato disarmo, sotto le pene del giudizio statario. Ma allora era già scoppiata la rivoluzione francese del 24 febbrajo, era già stato proclamato lo Statuto di Carlo Alberto. Dappertutto in Europa suonava il dies iræ. Giuseppe Sandrini, segretario del Governo, che aveva intelligenze coi liberali, trovò modo di far differire di alcuni giorni il principio delle perquisizioni. Quei giorni bastarono perchè scoppiasse la rivoluzione di Vienna e perchè a Milano giungesse il 17 mattina la notizia che gli studenti e i Polacchi avevano fatto le barricate e che il principe di Metternich abbandonava, ramingo, la capitale dell'Impero.

Qui comincia veramente il periodo attivo della rivoluzione.

Le notizie di Vienna, producendo in Milano sulle varie autorità e sui gruppi cittadini eguale commozione, avevano mosso impressioni e risoluzioni assai diverse.

L'autorità governativa civile era piombata addirittura nello scoraggiamento. Il Vicerè, subodorando gli eventi, aveva lasciato la città fino dal giorno prima. Il Governatore Spaur, il conte di Ficquelmont lo avevano preceduto a Vienna per altri provvedimenti. Restava solo in Milano a sostenere una sterminata responsabilità il Vice-presidente del Governo, conte O'Donnell, burocratico di buoni istinti, ma affatto inadeguato a tempi e cose difficili. Aveva fatto subito pubblicare un telegramma da Vienna, annunciante che s'era abolita la censura e che pel giorno 3 luglio sarebbero state convocate le rappresentanze lombardo-venete. Sperava che questo avrebbe calmata la popolazione, e l'accese. Parvero promesse ridicole, e lo erano. Annunciavano però una debolezza politica del governo straniero e il momento opportuno per approfittarne.

Sulle autorità militari l'impressione fu alquanto diversa. Persuaso che Milano fosse inetta a sforzi militari e che il terrore sparso nelle giornate di gennajo avesse fiaccata efficacemente ogni reazione cittadina, il maresciallo Radetzky s'adagiò nella fiducia che le concessioni di Vienna avrebbero, almeno per qualche tempo, dato un altro indirizzo alla pubblica agitazione. In questo senso parlò a' suoi ufficiali e li prevenne che non dessero importanza a prossime adunanze di popolo perchè sarebbero state dimostrazioni di gioja e di fiducia nelle autorità. Non avevano veramente di queste illusioni ne il Torresani nè i suoi commissarj di Polizia; ma posti fra lo scoraggiamento dell'autorità civile e le ingenue speranze dell'autorità militare, si sentivano recisi i nervi ad ogni iniziativa di lotta.

Per questa triplice inazione, la cittadinanza fu, nei giorni 17 e 18, interamente padrona del campo. E in tutto il giorno 17, e nella notte dal 17 al 18, fu per la città, in tutte le riunioni private, un gran discorrere di quello che s'avesse a fare il giorno dopo, un grande incrociarsi di proposte, di piani, di accordi, di messaggi, di combinazioni.

V'erano tre opinioni, tre metodi principali in contrasto.

Carlo Cattaneo si manteneva risolutamente fedele all'attitudine presa. Non credeva opportuno e non giudicava fertile di successo un movimento armato. Estraneo a tutte le dimostrazioni[63] che s'erano fatte, e favorevole, tra queste, soltanto a quelle di carattere più conservativo, come ai reclami delle Congregazioni e delle Camere di Commercio, voleva che si facessero passi più larghi su quella via, ma non fuori di quella[64]. Non credeva che esistessero armi, disposizioni, attitudini militari. In una riunione che si tenne, la sera del 17, in casa sua, alla presenza del Brioschi, del Gadda, di Enrico Cernuschi, di altri, manifestò schiettamente questa opinione sua; sconsigliò pronunciamenti popolari di carattere rivoluzionario; disse doversi approfittare dei casi di Vienna per “stringere il governo alla vita„ per “tenere i nemici nel duro e spinoso campo della legalità„ per “estorcere immantinenti all'attonito governo quanto più si potesse di armamenti e di libertà„[65]. Con questi intendimenti preparava il primo numero del giornale che avrebbe pubblicato il giorno dopo, e certo l'avrebbe scritto da par suo.

A siffatto metodo, che in circostanze ordinarie sarebbe parso il più savio e il più sicuro, non s'acconciavano gli uomini del partito d'azione, i giovani che da tanti mesi arrischiavano la loro vita per adunare elementi d'insurrezione e di lotta. Temevano questi, — e a ragione, — che dopo tanti eccitamenti dati alle classi popolari, inalberare il vessillo della prudenza proprio nel momento in cui tutto pareva favorire quello dell'audacia, avrebbe ingenerato sfiducie o diffidenze difficili poi a dissipare più tardi. E d'altronde, il moto di Vienna poteva essere represso; una nuova reazione succedere nell'indirizzo del governo, e precipitare quelle misure di disarmo che si erano fino allora così fortunatamente evitate. A queste idee s'inspiravano i crocchi più attivi e più numerosi della città, e in una riunione tenutasi, pure in quella sera, nella trattoria del Rebecchino, alla presenza di Angelo Tagliaferri, del dott. Pietro Lazzati e di altri, Cesare Correnti aveva promesso pel giorno dopo novità grosse ed ardite.

Una terza schiera si proponeva d'agire con misti temperamenti. Si raccoglieva intorno al Municipio e specialmente al Podestà, conte Gabrio Casati, che per le sue molte aderenze cittadine, per le sue relazioni col governo piemontese, per la condotta vigorosa tenuta nelle giornate del settembre e del gennajo pareva l'uomo adatto a capitanare programma di cose nuove.[66] Far capo al Podestà, funzionario di nomina governativa, a nessuno doveva parere programma rivoluzionario. Nel tempo stesso, la scomparsa o lo sgomento delle altre autorità civili, autorizzava lo stesso Podestà ad assumere iniziative e poteri nell'interesse della pubblica sicurezza. Il Municipio si sarebbe tramutato man mano da autorità cittadina in autorità politica, senza provocare immediate ostilità militari e guadagnando alcuni giorni di tempo, per disporre l'insurrezione e sollecitare gli ajuti dell'esercito piemontese.

Come di solito accade, le risoluzioni prese non rispondevano a nessuna rigidità di programma; lasciavano al tempo, ai casi, all'energia delle persone gli svolgimenti dell'avvenire.

All'alba del 18, ciò che era stato possibile di concertare fu concertato. Nel pomeriggio, la popolazione si sarebbe agglomerata per le vie; avrebbe accompagnato, senz'armi, una deputazione municipale che si sarebbe recata dal Broletto al palazzo di governo per chiedere riforme d'urgenza; poi si sarebbe pubblicato un proclama, si sarebbero aperti gli arruolamenti per una guardia civica; poi si sarebbe veduto.

Alle due pomeridiane il programma era già sorpassato. La folla che accompagnava Gabrio Casati al palazzo di governo aveva tutta quella concitazione, quel fremito che non permette indugi, che non tollera transazioni. La rivoluzione era già nell'ambiente. Il Podestà era vestito di nero, con una coccarda tricolore all'occhiello, fra quattro pompieri non armati; lo precedeva una bandiera dai colori nazionali; forse ventimila persone lo seguivano. I balconi, le finestre, i tetti delle case si riempivano di uomini, di signore, già deliranti di entusiasmo, che agitavano fazzoletti, buttavano coccarde, gridavano: “viva l'Italia.„ I monelli s'arrampicavano sulle colonne, sui cornicioni. “Abbasso gli uomini„ si gridava dalla folla; e gli uomini scendevano, ingrossavano il corteo, e le donne applaudivano, e la commozione patriottica prorompeva.

Il primo sangue fu versato innanzi alla porta dello stesso palazzo. Allo apparire sul ponte di S. Damiano, di quella folla imponente, due sentinelle avevano commessa l'imprudenza di scaricare il fucile. Un tal Zafferoni, studente, uscito di seminario, cavò una pistola di tasca e ne uccise una; l'altra fu trapassata d'un colpo di bajonetta. Poi la moltitudine invase il palazzo; il conte Giulio Porro Lambertenghi ebbe la presenza di spirito di chiudere a chiave l'appartamento dove stava, colla sua famiglia, la contessa Spaur ed impedì probabilmente qualche deplorevole eccesso[67]. Enrico Cernuschi stanò il Vice-presidente O'Donnell, che cercava nascondersi, e lo condusse in una stanza dove Gabrio Casati, Anselmo Guerrieri, Marco Greppi, Antonio Beretta, Carlo Taverna, il Correnti, il Clerici, l'Oldofredi stavano deliberando.

Fu lì che il povero rappresentante del governo austriaco firmò, tramortito, i tre famosi decreti laconici, che istituivano la guardia civica, destituivano la Direzione di Polizia, e incaricavano il Municipio di provvedere alla pubblica sicurezza. E di lì, ottenuti questi decreti, si restituiva la Deputazione municipale al Broletto, conducendo seco prigioniero il conte O'Donnell; allorchè, giunta a mezzo la via del Monte Napoleone, una scarica partita da un drappello di soldati appostato al sommo della contrada, uccise un popolano, Pietro Rainoldi; la folla si sbandò gridando armi e correndo a cercarne; il Casati ed i suoi si chiudevano nella casa Vidiserti, divenuta per dodici ore il quartier generale dell'insurrezione.

Mentre queste cose accadevano. Cesare Correnti aveva scritto il primo proclama che domandava una Reggenza provvisoria del Regno, la libertà della stampa e la riunione dei consigli comunali per la nomina dei delegati all'Assemblea nazionale. Il difficile era di trovare in quei momenti un tipografo abbastanza coraggioso da stampare siffatto proclama. Due amici di Correnti s'incaricano della cosa; vanno dal tipografo Guglielmini e gli mostrano il manoscritto. Il tipografo resiste, reagisce, ricorda le disposizioni del giudizio statario, dichiara che non cederebbe fuorchè alla violenza. Subito fatto. I due amici estraggono tranquillamente un pajo di pistole e le appuntano al petto del tipografo, che allora passa il manoscritto in stamperia. Ohi ha conosciuto di persona questi due sicarj, questi uomini facinorosi così pronti alla violenza ed al sangue, dovrà stupirsi sapendo che portavano il nome di due fra i più colti e più miti uomini di lettere del tempo nostro: Giulio Carcano ed Angelo Fava. Haec mutatio dexteræ excelsi, avrebbe potuto dire anche in questa occasione il cardinal Federigo[68].

Ritornava da questa spedizione Angelo Fava quando trovò nel vicolo di Bagutta Carlo Cattaneo che s'avviava verso la contrada del Monte.

Il fiero dottrinario s'era bisticciato il mattino con alcuni amici suoi che volevano trarlo nel movimento. Chiedeva quanti combattenti avessero, quanti fucili, quali capi. E quelli rispondevano, colla fede dell'entusiasmo, che tutta la città sarebbe sorta, che v'era il Comitato, che v'erano fucili e più se ne attendevano dal Piemonte. E quegli replicava scettico: “andate prima a vedere se sono arrivati„[69]. Non s'erano potuti intendere ed egli era andato dallo stampatore a consegnare il manoscritto del suo giornale. Angelo Fava lo ferma e gli chiede de' suoi propositi per la giornata. “Quando i fanciulli scendono in piazza,„ risponde Cattaneo “gli uomini vanno a casa.„ Angelo Fava corse a casa egli pure; da buon cattolico, fece udire una messa ai suoi allievi, Dandolo e Morosini; poi li baciò, li vide armarsi, scendere sulla via; prese un fucile e scese con essi.

Il primo combattimento ebbe luogo al ponte di S. Damiano. Dopo quella tumultuosa invasione del palazzo e dopo il suo sgombro, un drappello di soldati, furiosi per l'uccisione delle due sentinelle, s'era raccozzato e dal bastione di Monforte minacciava penetrare nell'interno della città. In fretta e in furia s'innalzò la prima barricata a ridosso del ponte. Tavoli, sedie, travi, mattoni, il selciato delle vie, tutto servì a costruire quella prima difesa, a cui tante centinaja dovevano seguitarne. Una buona donna cala da un terzo piano un suo mobiluccio e raccomanda che glielo si guasti il meno possibile. Passava sul ponte un carro, pieno di bariletti, quali vuoti, quali ancor pieni. In un attimo, il carro è rovesciato e i bariletti si accatastano l'uno sull'altro, a duplice uso, di terrapieno e di feritoja. Strilla il bottajo, che vede sciupata in un baleno la merce a cui forse aveva consacrati gli ultimi suoi risparmj. E quei reclami non sembrano, neanche in quella pressura di casi, privi di ragione. Qualcuno fa appello, come s'usava in quei giorni, alle borse guernite. Son lì presso, e sentono questo appello, due patrizj che aiutavano a fare la barricata. Giacomo Visconti Ajmi si fruga nelle tasche, non ha che sessanta lire e le dà; il conte Litta-Modignani straccia una pagina dal suo portafoglio, vi scrive un bono per L. 6000 e lo porge al suo vicino, Antonio Lazzati, perchè se ne serva per quel caso e per casi analoghi. Era il sistema finanziario delle cinque giornate che s'inaugurava.

Da questo punto la storia perde la sua traccia e cominciano gli episodj. Ciascuna contrada ha il suo, ciascun quartiere la sua epopea, ciascuna casa il suo prode. Inutile cercar di riassumere in quadri sinottici o in rubriche cronologiche centoventi ore di febbre d'una città; impossibile delineare i sussulti, le depressioni, i delirj, i periodi, le allucinazioni. Se ogni sintesi è ardua, quando i fatti escono da volontà prefinite e disciplinate, eccede addirittura l'umano intelletto, quando si tratta di iniziative individuali, sparse, indipendenti, uniche nello scopo, ma affatto slegate nei mezzi e nel tempo. Le cinque giornate milanesi furono come l'assedio di Troja; Ajace che combatte da un lato; Diomede che resiste altrove; Ettore che è vinto in una terza località; Minerva sola vede tutto dall'alto dell'Olimpo, e scende dove la traggono le sue simpatie. Dove appariva un nemico, cominciava un combattimento; ogni edificio dove si chiudeva un drappello determinava un assedio. E l'ansia di quelle lotte parziali, di quei certami quasi individuali riempiva il tempo, l'attività d'ogni quartiere, d'ogni contrada, e non permetteva di allargare a movimenti d'insieme un'offensiva che ciascuno concentrava con energie personali intorno a sè. Pochi abbandonavano, per informazioni, per intelligenze col quartier generale, la barricata che avevano difeso, la caserma che avevano conquistato, l'amico che s'erano visti cadere allato. Ciascuno pensava, combattendo e vincendo, che tutti gli altri, vicini e lontani, avrebbero saputo combattere e vincere. Quando v'era un'ora di tregua, si rafforzava una barricata sfasciata dal cannone o se ne alzava un'altra venti metri più in là. E al nemico che si allontanava d'altrettanto, trasportando morti e feriti, rispondeva una nuova scarica dei combattenti, un nuovo urlo di gioja dai tetti delle case, dove uomini, donne, fanciulli, noncuranti delle granate che fendevano l'aria, tenevano pronti vasi, tegole, mattoni, projettili, per lanciare sui nemici, a piedi o a cavallo, che tentassero riprese offensive. E allora quei venti metri di terreno rappresentavano una grande conquista, equivalevano ad una grande vittoria. E si spiccavano messaggieri per annunciare al Comitato questo trionfo; e il Comitato, che riceveva nel tempo stesso venti di questi annunci, li riassumeva in un proclama che presagiva dappertutto successi definitivi; e questi proclami, affissi sulle muraglie o sulle barricate, destavano nuovi entusiasmi, determinavano impeti più vigorosi e un'altra conquista di avamposti nemici.

Tutte le case erano aperte ai combattenti; di notte come di giorno. Quando s'aveva fame o sete, s'infilava il primo uscio e si trovava un domestico che vi offriva del pane, una fanciulla che vi porgeva da bere. Le distinzioni, le antipatie della vita erano sparite dinanzi al gran pensiero, al gran desiderio di tutti; il popolano aveva dimenticato le invidie, il ricco non aveva più esclusivismi nè ripugnanze. Vitaliano Borromeo faceva la guardia alle barricate con una bajonetta ed una pistola; Giorgio Trivulzio era ferito da una fucilata al ponte di S. Celso; la signora Beretta, visto cadere ferito un giovane popolano in mezzo allo spesseggiare della mitraglia, stava per lanciarsi essa a raccoglierlo, se quattro altri popolani non l'avessero prevenuta. Non un furto disonorava quella fraterna e illimitata larghezza di ospitalità. Le grandi case dei Belgiojoso, dei Trivulzio, dei D'Adda, dei Beretta, dei Borromeo erano divenute istituti di pubblica necessita; vi si fondevano palle da fucile, vi si conducevano feriti da fasciare, prigionieri da custodire, provvigioni e munizioni da distribuire; e le gentili padrone di casa, fattesi per l'occasione infermiere, carceriere e magazziniere, sorreggevano dei loro entusiasmi le cose difficili, correggevano le cose dure colla loro bontà.

Per questo s'è potuto vivere e vincere in quei giorni; perchè gli elementi simpatici dominavano colla loro influenza le incognite del pericolo e del terrore; perchè la gentilezza patrizia e la virtù popolare, affratellate in un santo pensiero di resistenza, creavano un ambiente di patria così alto, così sereno, che gli uomini vi combattevano colla gioja sul viso, vi morivano colla speranza sul labbro.

La battaglia cittadina s'è continuata per cinque giorni sotto questi auspicj, in mezzo a queste effervescenze; dominate a loro volta da un altro fenomeno costante, universale, di effetto strano, ma irresistibile; il romore delle campane a martello, che per cinque giorni e per cinque notti, da tutte le torri della vasta città, interpretò, per così dire, l'anima guerriera della popolazione; romore ora stridente, ora cupo, pieno di vibrazioni e di minaccie; che di notte irritava i nemici, di giorno incoraggiava i cittadini; una specie di tam tam selvaggio che nè bombe, nè mitraglie valevano a far tacere; la fanfara delle barricate, — che portava lontano, fra le campagne e i villaggi, un grido di soccorso ed un appello all'esempio, — che piombava sugli Austriaci come un suono pregno d'ignoti spaventi, colla sua implacabile e fantastica continuità.

Alessandro Manzoni ha scolpito in una delle sue grandi pagine il linguaggio della campana notturna, che atterrisce i bravi e libera Menico. Moltiplicate quell'effetto per cinque giorni e per cinque notti, unitelo al rombo dei cannoni e al crepitare della moschetteria, ed avrete una pallida impressione di quel molteplice scampanío.

Dal labbro dei nemici si potrà, anche meglio che da qualunque descrizione, ritrarre il meraviglioso spettacolo di quelle giornate. “Milano è sconvolta dalle fondamenta„ scriveva il maresciallo Radetzki al conte di Ficquelmont “la natura di questo popolo mi sembra per incanto trasformata.„ E due ufficiali austriaci, fatti prigionieri a San Celso e chiusi in una anticamera, udendo di un forte assalto che i loro compagni davano in quel punto ad una delle barricate maggiori, espressero il desiderio di poter seguire da una finestra le fasi del combattimento. Al vedere quelle barricate imponenti, che si alzavano ai secondi piani delle più alte case, quel formicolio di combattenti e di difensori, quel coraggio con cui si affrontava la morte, quei balconi e quei tetti pieni di offensori e di offese, all'udire quelle grida umane, quei rintocchi del bronzo, quegli spari d'archibugio che s'incrociavano, partendo dalle finestre, dalle vie, dai tetti, dagli spiragli delle cantine, i due prigionieri si ritrassero attoniti nell'interno della stanza, dicendo: “Misericordia! e il maresciallo crede di poter riprendere questa città!„

Si capisce come, in una situazione siffatta, i partiti e i gruppi sorti di poi abbiano potuto sbizzarrirsi a reclamare, ognuno per sè, le glorio maggiori. Gli orizzonti erano molti e divisi, e ciascuno si onorava giustamente del proprio, credendolo più vasto o più importante degli altri. Probabilmente tutti i partiti furono veri nei fatti esposti a merito proprio; soltanto può darsi che nessuno sia stato esatto nell'esporre quelli a merito altrui. Ed anche può accordarsi a tutti la mitigante della buona fede; giacche, non essendovi stata mai una situazione dominante, molti possono credere d'essere stati i soli od i primi a far ciò che altri pure, tratti dagli stessi casi e dalle stesse necessità, avevano già fatto in altri luoghi, senza che gli uni potessero sapere degli altri.

Lo storico solo può rendere a tutti ragione severa ed imparziale; può dire che il popolo è stato sublime di coraggio e di devozione; che le classi medie e patrizie hanno gareggiato di energia direttiva, non risparmiando nè vita, nè ricchezze, nè responsabilità. Lo storico può dire che, come esigeva Nelson alla vigilia della battaglia di Trafalgar, tutti hanno fatto in quei giorni il loro dovere; può e deve dire di più, — che chi volesse scemare ad alcuno fra gli attori di quella rivoluzione qualche briciolo del loro patriottismo non riuscirebbe ad altro che a far dubitare del proprio.

Queste le impressioni, questi i caratteri generali della rivoluzione milanese.

Chè se si volesse tentare di riassumere in qualche modo con metodi sintetici quella moltiplicità di episodj, bisognerebbe forse raggrupparli intorno a tre questioni fondamentali; la questione strategica, la questione politica, la questione diplomatica.

L'ultima può esaurirsi senza molte complicazioni. Non ebbe e non poteva avere altro intento che l'ajuto del Re e dell'esercito piemontese.

Al primo rompere delle fucilate, il giorno 18, l'idea di spedire immediatamente a Torino persona di fiducia per annunciare il moto di Milano e chiedere l'intervento, era balenato agli uomini di senno, qualunque fosse la loro opinione politica. Enrico Cernuschi, fin dalla prima riunione in casa Vidiserti, ne aveva fatto formale proposta[70]. Ma già lo aveva prevenuto Luigi Torelli, che s'era recato dal conte Francesco Arese, sollecitandolo ad incaricarsi di questa necessaria missione.

L'Arese, messo alle strette dagli amici, rinuncia a malincuore alla lotta in cui sperava essere attore. Si reca da una cognata[71] e le consegna una forte somma in denaro, con ordine di distribuirne a quanti si presenteranno a richiederne per bisogni patriottici. Poi, si ficca in un carrozzino e corre alla più vicina barriera. Riesce a passarla, alcuni minuti prima che le porte si chiudano; ma al Ticino trova maggiori ostacoli, li supera e giunge a Torino la sera del 19.

Prima però ch'egli potesse adempiere la sua missione, il Re, avuto sentore del movimento, aveva mandato a chiamare Carlo D'Adda, che, ricevendo notizie per altra via, le aveva comunicate a Carlo Alberto insieme colle più vive preghiere per un immediato intervento. Il Re non gli aveva nascosto la risoluzione di venire alla guerra, ma gli soggiungeva scherzando “sicchè dovrò andare a Milano a proclamare la Repubblica.„ “Certo è, Sire„ rispondeva il D'Adda “che la Repubblica sarà proclamata se Vostra Maestà non parte.„ Erano, su per giù, le stesse parole che due giorni dopo il Cattaneo stampava nel suo proclama: “la parola gratitudine è la sola che possa far tacere la parola repubblica.„ Da che si vede come, in situazioni diverse, uomini diversissimi giudicassero pure con eguali criterj.

Subito dopo questo discorso, il conte Enrico Martini era stato inviato a Milano con una missione confidenziale, ed era già partito quando il conte Arese si presentò il 19, a tarda ora, e fu ricevuto dal Re.

A quell'egregio patriota ripetè Carlo Alberto con maggior precisione quello che già aveva detto al D'Adda e al Martini; anzi lo invitò a venire la mattina seguente nella piazza Castello per vedervi sfilare, avviata alle frontiere, la brigata delle Guardie[72].

Dopo aver veduto anche il ministro degli affari esteri e dopo avere assistito a quella consolante sfilata, l'Arese ripartiva immediatamente per Novara, sperando poter rientrare in Milano. Ma trovati ostacoli assai maggiori, e sapendo che il Martini aveva istruzioni più precise delle sue, insofferente d'ozio, si mischiò ad una colonna di volontarj improvvisati, varcò con essi il Ticino poco lungi da Oleggio e si diresse verso la città bloccata, non più diplomatico, ma bersagliere.

Intanto Enrico Martini s'era aggirato per molte ore intorno alla cinta esterna dei bastioni, senza trovar modo d'entrarvi. Finalmente, la mattina del 21, combinatosi col signor Angelo Cattaneo, commesso delle gabelle, che doveva portare del sale alle caserme in città, si travestì da garzone del magazzino, si caricò d'un sacchetto di sale, e potè non senza ostacoli e rischi, penetrare fino al quartier generale, presentando le sue commendatizie.

Il Re desiderava due cose: che una mossa d'insorgenti o di disertori trascinasse il nemico a qualche violazione del territorio sardo: che gli venisse spedito un indirizzo, firmato da quanti più si potesse cittadini notabili per censo, per intelletto, per ufficj coperti, per influenze personali. Enrico Martini aggiungeva di suo, che si costituisse subito un Governo Provvisorio, col mandato di offrire a Carlo Alberto il dominio della Lombardia.

Quest'ultima proposta parve a tutti ancora intempestiva e non fu da nessuno accettata. Lo furono le due prime; e mentre alcuni fra i combattenti s'incaricavano di combinare una finta presso alla frontiera, Achille Mauri stese l'indirizzo, che fu portato subito da parecchi in giro per le case e fra le barricate, raccogliendo in poche ore parecchie centinaja di firme. V'era tra queste il nome di Alessandro Manzoni, che al conte Martini diceva: “prevenga Sua Maestà che se la mia firma è un po' tremolante, non è perchè io abbia paura, ma perchè sono vecchio.„ Parole che ricordano le altre celebri dell'antico maire di Parigi, Bailly, quando, trascinato alla ghigliottina in gennajo, diceva: “je ne tremble pas de peur, mais de froid.„

Queste trattative erano necessarie per attutire un po' i romori della diplomazia europea; che a Torino pareva ostile ad ogni intervento piemontese; tanto che lo stesso ministro della nuova Repubblica Francese consigliava prudenza, e il ministro d'Inghilterra, signor Ralph Abercromby aveva in quei giorni dipinto al suo governo sotto cattivo aspetto la missione del conte Arese. Ad ogni modo, l'indirizzo non fu portato a Carlo Alberto che il giorno 23, poichè nè il 21 nè il 22 era stato possibile al conte Martini di sorpassare i bastioni. E il 23 mattina, come si sa, Milano era libera.

Le prime notizie di questa liberazione erano ancora giunte, dai paesi tra Milano e il Ticino, a Carlo D'Adda. E il Re lo aveva ancora mandato a chiamare per saperle; poichè erano tempi in cui i semplici cittadini conoscevano le cose prima dei governi. Giungono intanto gli speciali inviati del Governo provvisorio lombardo; Enrico Martini col suo indirizzo, e il conte Annoni con una lettera di Gabrio Casati pel conte di Castagneto, in calce alla quale Pompeo Litta, storico e veterano delle campagne napoleoniche, aveva aggiunto questo poscritto pel Re: “ J'attends mon astre, è una medaglia che mi fu spedita e da me pubblicata. Le occasioni sono straordinarie e perciò rare. È la Provvidenza, è Iddio che le manda. Possiamo rifiutarci?„

Carlo Alberto lesse questo poscritto con molta emozione e incaricò Castagneto di esprimere all'illustre patriota i suoi sentimenti.

Frattanto una grande agitazione invadeva Torino. In quel giorno stesso, era comparso sul Risorgimento, il periodico del patriziato liberale piemontese, quell'energico articolo di Camillo Cavour che incominciava: “L'ora suprema della dinastia sabauda è suonata.„ Già i volontarj s'organizzavano e partivano in colonne da varie parti del Regno. Il ministero, frenato sempre dalla diplomazia, esitava ancora a lanciare la dichiarazione di guerra. E la moltitudine, desiderosa di risoluzioni governative, s'assiepava intorno al palazzo reale, domandando notizie.

Era notte fatta, e la folla cresceva. Allora Carlo Alberto, questo re dalle forme rigide e compassate, esce sul balcone, avendo da un lato il Martini, dall'altro il D'Adda, con due valletti che portano, a sinistra e a dritta, le torcie. E lì, dal balcone, di notte, con questo apparato, a quella folla clamorosa, che all'inconsueta apparizione si chiude in un silenzio religioso, il Re annuncia con brevi parole la liberazione di Milano, e prendendo l'estremità di una fascia tricolore che il D'Adda portava ai fianchi, l'agitò con gesto sicuro intorno al suo capo, come simbolo di una bandiera sventolata. Equivaleva, in quell'ora e da quell'uomo, a una dichiarazione di guerra. L'urlo d'entusiasmo che si levò da quella folla in delirio è più facile immaginarlo che descriverlo.

Poi, non essendo questa folla ancor soddisfatta, Carlo D'Adda scende alla porta; vi trova una carrozza a due cavalli che stava attendendo uno degli ospiti del palazzo; sale sul predellino del cocchiere, e in piedi, sventolando un fazzoletto, patriottico novelliere, snocciola lì per lì le notizie più diffuse e gli ultimi particolari della liberazione di Milano. E allora la folla è soddisfatta e si scioglie.

Fu nella stessa sera che il Re convocò il Consiglio dei Ministri, per notificare la deliberazione, già da lui presa, della guerra immediata e per redigere il proclama da indirizzarsi alle popolazioni lombarde.

A quel Consiglio furono invitati i due inviati milanesi, Martini e D'Adda; e bene intonava la situazione il vedere fra quelle Eccellenze, tutte gravi, tutte in uniforme, due giovani in abito da viaggio o da camera, che portavano la coccarda tricolore al posto degli ordini cavallereschi e dei medaglioni.

Il conte Sclopis leggeva ad alta voce lo schema del famoso manifesto; e il Re, volgendosi ai due milanesi, a preferenza che agli altri ministri, diceva loro: “va bene così?„ Interpellati direttamente, quelli credettero dover esporre la loro opinione. Nel manifesto si faceva accenno alla protezione di Dio, ma non si parlava punto di Pio IX. Carlo D'Adda si levò a suggerire che non mancasse in quel solenne documento il nome dell'uomo, allora così acclamato, sotto la cui invocazione tanti sacerdoti e tanti popolani s'erano battuti. L'osservazione parve giusta e l'inciso relativo a Pio IX fu inserito nel manifesto[73].

Della questione politica, durante le cinque giornate, si può sbrigarsi anche in minori parole.

Il Municipio, posto dagli avvenimenti di fronte a una situazione così piena d'ignoto e grossa di responsabilità, ebbe fin da principio un concetto fondamentale generico: uscire il meno possibile dalla legge; posarsi fra la città e il governo militare come autorità tutrice e intermedia, che non ostentasse risoluzioni implacabili, ma che rigettasse su altri la colpa d'uno stato di guerra, contro cui era ben necessario che la popolazione si premunisse.

Per ciò, ad una prima brutale intimazione del maresciallo Radetzki, che la sera stessa del 18 marzo, alle 6 e mezzo pom. ordinava al Municipio di pubblicare immediatamente un proclama di biasimo e di disarmo, sotto pena di bombardamento e con una spavalda allusione a centomila uomini e a duecento cannoni, Gabrio Casati rispondeva con molta e savia tranquillità: “Quanto il Municipio ha operato precedentemente, lo ha fatto d'accordo col Capo attuale del Governo civile. La Congregazione deve quindi riservarsi fino a domani per deliberare; ed intanto interessa l'E. V. a sospendere ordini, atti a null'altro che a partorire danni incalcolabili per tutti.„

Non era infatti nè il primo nè il secondo giorno d'un movimento, il cui risultato pareva ancor dubbio ai più animosi, che il Municipio, tutore naturale della città, dovesse spogliarsi interamente d'ogni mezzo e d'ogni possibilità di una futura influenza mitigatrice. Di audaci la città in quei giorni non aveva difetto; ed era pur bene che, seguendo le costanti oscillazioni dei fatti umani, s'incaricasse qualcuno di tener deste le ragioni della prudenza.

Sicchè al mattino del giorno 20, senza mutar nome, nè dare alla propria autorità intonazioni ufficialmente provocatrici, il Municipio si aggiunse sei collaboratori, che parevano ed erano richiesti dalla maggior mole d'affari venuta a cadere sulle spalle della civica magistratura. Scelse a tal uopo il conte Francesco Borgia, il generale Teodoro Lechi, Alessandro Porro, Enrico Guicciardi, Anselmo Guerrieri e Giuseppe Durini.

Era così riuscito ad evitare fino allora nel centro dirigente dell'insurrezione la questione politica. Chi ve la portò fu, proprio in quel giorno stesso, Carlo Cattaneo, apparso nelle sale del quartier generale dopo due giorni di un'astensione gelosamente mantenuta e quasi accentuata.

Fu assai rimproverata al Cattaneo questa sua tarda partecipazione ad un movimento, in cui molti altri cittadini, di minore ingegno e di minore influenza, avevano fin dal primo giorno risolutamente gettata la loro responsabilità.

Forse questo rimprovero non è giusto. L'esitazione del Cattaneo non moveva da mancanza di patriottismo; bensì da minor fede nell'opportunità, nel consenso, nei mezzi della rivoluzione. Era un'opinione, già lo abbiamo detto, assai rispettabile, e che autorizzava per lo meno l'uomo da cui partiva a non assumere inziative da lui giudicate imprudenti. E non torna a suo biasimo, sibbene a sua lode se, esaminati gli andamenti di quei due giorni, e convintosi forse che ad ogni modo era giunta l'ora di spingere a fine quanto non s'era potuto da principio trattenere, il Cattaneo abbia creduto dover uscire dalla sua inazione ed offrire ai capi del movimento l'ajuto del suo consiglio e della sua attività.

Dove il Cattaneo ebbe torto fu nell'accentuare immediatamente un dissidio politico; e nello atteggiarsi quasi a censore ed a giudice degli uomini che fino allora, senza e prima di lui, avevano accettato, in faccia ad un nemico implacabile, quel posto d'onore e di pericolo che la forza delle cose, se anche non l'ingegno eminente, aveva loro additato.

Il Cattaneo portò un'idea e posò una questione. Quella era buona, questa era ingiusta. L'idea era di costituire un nucleo direttivo, esclusivamente preoccupato delle cose di guerra, lasciando in disparte ogni argomento relativo ad ordinamenti politici. E la proposta fu subito accolta, restando anzi il Cattaneo stesso investito di siffatto incarico, col Cernuschi, col Terzaghi, con Giorgio Clerici.

Ma egli aveva anche sollevata una questione di nomi. Diffidava così dei membri del Municipio come dei loro collaboratori. Per lui, Casati cercava un padrone; Durini e Porro erano cortigiani; non voleva i Giulini, i Strigelli, i Borromei, perchè i loro padri, trentacinque anni prima, erano stati coll'Austria contro Beauharnais; trattava con un disdegnoso epiteto Enrico Guicciardi, che in quell'ora istessa i generali austriaci cercavano a morte, invadendogli la casa e cacciandone, tra le fucilate, i molti e piccoli figli.

Era strano che un pensatore come Cattaneo facesse così ricadere sui figli, secondo la teoria biblica, le colpe dei padri. Ed era anche più strano che proprio in quei giorni egli credesse necessario scoraggiare con dure parole quei giovani, di cui appunto il patriottismo aveva dovuto superare una prova maggiore, vincendo tradizioni di famiglia e vincoli di paterna autorità.

Ad ogni modo, nè il Cattaneo trovò intorno a sè adesioni bastevoli a rovesciare le influenze che non gli parevano buone, nè gli uomini da lui combattuti posero il menomo ostacolo all'azione ed al patriottismo di chi li combatteva.

Il Comitato di Guerra e la Commissione Municipale coesistettero, durante il combattimento, senza intralciarsi; altri comitati anzi furono istituiti per disciplinare le sussistenze, la polizia, le finanze; la Commissione Municipale accentuò meglio ogni giorno la sua trasformazione politica, e finalmente, ricostituitasi il giorno 22, sotto forma e nome di Governo Provvisorio, ne proclamava i nuovi componenti. Casati, Borromeo, Durini, Pompeo Litta, Strigelli, Giulini, Antonio Beretta, Marco Greppi, Alessandro Porro e Anselmo Guerrieri. Cesare Correnti era nominato Segretario Generale; e, secondo la richiesta dello stesso Cattaneo, Pompeo Litta era destinato a presiedere un nuovo Comitato di Guerra, a cui si aggiungevano il Lissoni, il Ceroni, il Carnevali, Luigi Torelli.

Fu nello stesso giorno che il Governo Provvisorio, posto fra diverse esigenze, emanò quel proclama che doveva più tardi essere cagione di tanti contrasti: “A causa vinta i nostri destini verranno discussi e fissati dalla nazione.„

In quell'ultimo giorno la concordia politica era già piuttosto nei sottintesi che nei propositi. Ad ogni modo, il dissidio sorse e si mantenne nella piccola cerchia degli uomini che governavano, turbò ed agitò assai più tardi gli uomini che combattevano.

In questi risiedeva davvero la questione strategica della rivoluzione; questione difficile a cogliere, forse impossibile a precisare, ma intorno a cui si svolsero pure gli episodj principali e i più numerosi delle cinque giornate.

Uno dei caratteri più salienti di quella strategia fu l'assoluta mancanza di capi strategici. Nei primi due giorni non ve ne fu neanche il tentativo; al terzo giorno ne apparve uno, degnissimo, Augusto Anfossi, che, appena nominato, cadde morto all'attacco del Genio Militare. Teodoro Lechi, vecchio generale napoleonico, era stato nominato comandante di tutte le forze insurrezionali, ma era stato fatto prigioniero al Broletto, fino dal primo giorno del movimento. Al quarto giorno si cercò dal Consiglio di Guerra sostituire in qualche modo il generale in capo. Senonchè, rispettabilissimi per patriottismo e per intelletto, quegli uomini parevano l'ironia del nome, nessuno d'essi avendo fatto la guerra. D'altronde, i loro ordini non sempre giungevano, traverso alle barricate, dove importava che giungessero. E se giungevano, non sempre erano obbediti; conseguenza del tipo necessariamente autonomo e dei molteplici ambienti di quella battaglia. L'ottimo Torelli racconta a questo proposito un incidente occorsogli e che basta a dipingere intera quella situazione strategica.

Era stato nominato Direttore delle pattuglie, e in tal qualità si recava nel quartiere di Porta Ticinese per esaminare un posto. Al piede d'una barricata due individui armati lo arrestano. Declina il suo nome e il suo grado. “Ma che capo di pattuglie?„ rispondono “che Governo Provvisorio? Noi riceviamo i nostri ordini dal Comitato di casa Trivulzio e non da altri. Venga con noi.„ E il Direttore generale di tutte le pattuglie dovette farsi riconoscere da un gentiluomo di casa Trivulzio, perchè i popolani di Porta Ticinese lo lasciassero in libertà. Questo era davvero discentramento.

L'istinto della difesa e il senso comune supplivano a questa mancanza di direzione centrale. Ogni mattina il bisogno suggeriva l'attitudine e ciascun giorno aveva la propria destinazione. Senza disposizioni di Stato maggiore, può dirsi che in tutte le parti della città il programma di quei cinque giorni fu identico.

Il 18 fu una sorpresa; l'insurrezione parve un problema a quelli stessi che l'avevano incominciata; la sera e la notte passarono in una completa incertezza sul carattere, sulle proporzioni, sulle conseguenze del moto.

Il 19 cominciò la difesa; fu la giornata classica delle barricate; ogni quartiere le innalzò coi mezzi e colle materie che aveva sotto mano, nei punti da cui si poteva più facilmente respingere la cavalleria o paralizzare l'artiglieria. I seminaristi adoperarono i loro letti e i lastroni del Corso; al teatro alla Scala, le sedie e le panche della platea; a Porta Romana, le carrozze di Corte trovate nella soppressa chiesa di S. Giovanni in Conca; agli archi di Porta Nuova i materiali di fabbrica del cominciato palazzo d'Adda; al Cordusio, i bollettarj e le balle di carta degli ufficj di finanza; a S. Vicenzino, lastre di granito e terra e attrezzi di ferro, legati con solide catene attraverso la via. Si lasciava un pertugio della larghezza d'una persona; vi si metteva un uomo di guardia, perchè domandasse una parola d'ordine.... che tutti sapevano; e al buon umore ambrosiano non era mancata l'idea di collocare sulla cima della barricata il gatto tradizionale del proverbio lombardo[74].

Il 20 potrebbe dirsi la giornata della preparazione; si vollero sgombri i posti nemici collocati nell'interno della città; il Duomo, il palazzo di Corte, la Direzione di Polizia, il Broletto, le caserme. Fu in quel giorno che il conte Bolza venne trovato nascosto in un abbaino sotto un mucchio di fieno, allibito e contraffatto per la paura. Forse in quell'ora gli passarono dinanzi alla corrotta coscienza le molte vittime sue e il povero Confalonieri da lui ghermito con funesto ghigno in un altro abbaino. È nota la condotta generosa che il popolo serbò verso di lui e la frase, veramente alta e inspirata, di Carlo Cattaneo: “se lo ammazzate, fate una cosa giusta; se non lo ammazzate, fate una cosa santa.„

Il 21 l'operazione generale è l'attacco. Ciascuna zona, fattasi le spalle sicure, cerca di allontanare l'inimico, di allargare e indebolire la sua cerchia, di respingerlo agli ultimi baluardi dell'esterna periferia. Questo è già concetto strategico, e alla sera del quarto giorno l'operazione può dirsi riuscita; l'esercito nemico, stanco e scorato, bivacca tutto sulle mura di Ferrante Gonzaga, ormai cacciato dall'interno della città.

Finalmente il giorno 22 ha luogo la mossa definitiva, l'impeto sopra un punto del cordone nemico, per isfondarlo e romperlo in due, aprendo il varco alle comunicazioni colle campagne e colle città insorte di Lombardia. Il Cattaneo aveva proposto a tal uopo l'attacco di Porta Ticinese; fu scelta invece la Porta Tosa, e lì accadde il combattimento più lungo e più ostinato dei cinque giorni; dove Luciano Manara si coperse di gloria pel suo coraggio, dove Antonio Carnevali immaginava quelle fascine rotolanti, dietro a cui s'avanzavano i nostri in fitte schiere; dove si distinsero per freddo valore il pittore Borgo Carati e Andrea Cazzamini e il Croff e il Mangiagalli e il Dal Bono molti vivi.

Quando Luciano Manara, avanzandosi a petto scoperto contro le palle nemiche, appiccò di sua mano il fuoco a Porta Tosa, potè dirsi che lo scopo dell'insurrezione cittadina era raggiunto. Milano otteneva un risultato che in tutto il corso dei secoli non s'era visto mai: rovesciare fuor dalle mura un esercito straniero che vi si era accampato da anni e fornito di tutto ciò che ai cittadini mancava: capi, armi, disciplina, stromenti di distruzione.

Come s'erano lasciati vincere i quattordici mila uomini del maresciallo Radetzki? da quali armi s'erano lasciati snidare da tante caserme, da tanti palazzi, così facilmente difendibili? da poche centinaja di fucili buoni, da qualche migliaio di fucili cattivi, da 1523 barricate, dal suono incessante di cento campane a martello. Tutto ciò, ben inteso, aggiunto al valore individuale, che può essere elemento nuovo o mirabile in cittadini, ma che è o dovrebb'essere caratteristica costante e consueta in eserciti organizzati.

Questi combattenti borghesi potevano classificarsi in tre categorie. — La prima comprendeva quei pochi avanzi dell'antico esercito italico che avevano visto le guerre serie e i generali giganti. Ma erano per la massima parte vecchi, acciaccosi e, per le stesse rimembranze delle molte città conquistate e saccheggiate, poco inchinevoli a credere nell'efficacia delle barricate e delle campane a martello. D'altronde, Teodoro Lechi era stato, come dicemmo, fatto prigione fin dal primo giorno della rivolta e non fu liberato che il 23. Pompeo Litta, ballottato fra il Casati e il Cattaneo, s'ingegnava di metter pace fra i due, perchè una seconda guerra non s'aggiungesse alla prima. Il Lissoni, il Ceroni, il Iacopetti, il Cima si chiamavano ad organizzare i nuovi istituti militari in formazione, piuttosto che a dirigere il fuoco delle contrade. Soltanto Antonio Carnevali, ingegnere militare distinto, aveva potuto a Porta Tosa prestare attivamente l'opera sua.

La seconda categoria di combattenti constava di uomini che, senza avere partecipato a guerre importanti, avevano indossato assise militari e preso parte a combattimenti, in eserciti e paesi stranieri, o in Ispagna, o in Grecia o in Africa. Erano pochi, ma si distinsero tutti per coraggio e per energia. Giuseppe Broggi, tiratore meraviglioso, aveva, quasi solo, impedito nei primi due giorni, l'avanzarsi degli Austriaci oltre i ponti di S. Damiano e del Corso, abbattendo gli ufficiali superiori, il generale Wocher fra gli altri. Una palla di cannone lo uccideva nel pomeriggio del giorno 19. Augusto Anfossi, dopo avere diretto l'occupazione degli archi di Porta Nuova e del palazzo del Genio, moriva di fucilata il giorno 20. Girolamo Borgazzi, ispettore delle ferrovie, trovava modo di scalare ben quattro o cinque volte le mura, per combinare col Comitato di Guerra attacchi simultanei; e cadeva all'ultimo giorno, mentre più di quattromila uomini radunati da lui davano a Porta Comasina l'ultimo assalto. Il conte Ottaviano Vimercati diresse con fermezza il giorno 21 un tentativo contro la Porta Vigentina, che alcune centinaja d'insorti raccoltisi nelle campagne avrebbero voluto sfondare per portare soccorsi nella città.

Ma la categoria di gran lunga più numerosa di combattenti era quella dei cittadini rimasti quasi tutta la vita entro le mura della loro città, e che per la prima volta imparavano a caricare una pistola o a scaricare un fucile. E fra questi troviamo Luciano Manara, elegantissimo, che il soffio di patria tramuta in un eroe di Plutarco; Giovanni Meschia, lattivendolo, che, appostato dietro il fumaiuolo d'un camino a Sant'Eustorgio, uccide ad uno ad uno i soldati saliti sopra il campanile per moschettare le vie; Pasquale Sottocorno che, vecchio e zoppo, correva a portar paglia e fuoco a Manfredo Camperio, mentre abbatteva con una scure il portone del Genio; e Giuseppe Guy e Luigi Stelzi, vittime dei primi giorni; e i Dandolo e Morosini e Mozzoni, studenti di 18 anni, che si trovavano dappertutto dove si combatteva e si moriva, al ponte di Porta Renza, agli archi di Porta Nuova, al palazzo del Genio, all'assalto di Porta Tosa.

Che dinanzi a siffatti elementi il maresciallo Radetzki dovesse trovare difficoltà grosse e lotte aspre, facilmente si capisce; ma che abbia dovuto soccombere, co' suoi quattordicimila uomini, i suoi duecento cannoni, il suo castello munito e le forti posizioni occupate nell'interno della città, sarebbe un fenomeno nella storia delle guerre quasi eccezionale, se non concorressero a spiegarlo altre ragioni affatto estranee alla strategia.

Già era stata una sorpresa per gli Austriaci come pei cittadini la giornata del 18 marzo. Se l'insurrezione avesse avuto un capo, nulla sarebbe stato più facile che impadronirsi d'un colpo di tutto lo Stato Maggiore austriaco; poichè il maresciallo, col generale Wallmoden, tre altri generali e parecchi ufficiali, usciva dopo il tocco dalla casa Cagnola dov'era la cancelleria militare, senza il menomo sentore dell'agitazione che in quella stessa ora aveva già guadagnato le altre parti della città.

Se ne accorse quando vide chiudersi le botteghe e scendere i primi armati per le vie. E allora corse a furia in castello e deliberò la prima ed unica operazione offensiva di qualche importanza che in quei cinque giorni abbia potuto eseguire.

Pensando che alla sede del Municipio sarebbe stato il focolare della sommossa e la residenza dei capi, mandò verso sera buon nerbo di truppe ad accerchiare il Broletto, e dopo breve combattimento se ne impadronì. Colse infatti parecchie dozzine di cittadini che stavano preparando i quadri della guardia civica, e li fece trasportare, indegnamente maltrattati, in castello. V'erano anche tra questi dei personaggi d'influenza e di conto, il delegato Bellati, l'assessore Marco Greppi, il generale Teodoro Lechi, tre conti Porro, Guglielmo Fortis, Pietro Maestri, un Litta-Modignani, il Brioschi, il Tagliaferri ed altri. Ma quelli che intorno al Casati costituivano veramente il nucleo direttivo del movimento, fermati al palazzo Vidiserti da quella scarica di fucileria, non avevano potuto più ricondursi al Broletto, e s'erano invece trasportati, come in località più centrale e più difendibile, nel palazzo del conte Carlo Taverna in Via dei Bigli.

Dopo quella mossa offensiva riuscita a mezzo, parve che il maresciallo Radetzki avesse rinunciato ad ogni risoluto disegno di ostilità. Il secondo giorno lo passò in attitudine piuttosto di osservazione che di attacco. Lanciava da ogni largo imbocco di via scariche di plotone, che uccidevano o ferivano, ma non riuscivano ad impedire la costruzione delle barricate. Faceva avanzare drappelli di cavalleria, che retrocedevano di galoppo alla prima viva fucilata venuta dai cittadini. Eppure non è dubbio che, avendo in quel giorno ancora occupate militarmente tante forti posizioni nell'interno della città, e non essendo la difesa di questa nè completata dall'intero sistema delle barricate nè spinta, come nei giorni successivi, al più alto grado dell'energia e della cooperazione universale, un vigoroso movimento di ripresa che fosse partito simultaneamente da tutte le porte della città, aiutato dalla sortita di tutti i presidii collocati nelle caserme e nei palazzi governativi, sarebbe bastato, certo non senza molta lotta e molta strage, a strozzare l'insurrezione.

Ma evidentemente non vi fu nei consigli militari austriaci in quei giorni nè calma, nè intelligenza. Lo scoppio così imprevisto di una così grossa rivolta paralizzò i verbosi ardimenti del vecchio maresciallo. Forse, le comunicazioni interrotte gli fecero credere sorpresi e prigionieri fin dal secondo giorno i corpi di guardia interni. Certo, pensava assai maggiore che non fosse la preparazione strategica della città; poichè al Ficquelmont scriveva: “è chiaro che direttori militari prestati dall'estero stanno a capo della sollevazione.„ Era la stessa impressione che faceva scrivere un dispaccio alla Presse di Parigi: “25 mille insurgés armés sont descendus dès le premier jour dans la rue„[75].

S'aggiungano le notizie di Vienna che, non lasciando ancora scorgere intere le proporzioni e le conseguenze del moto, non permettevano di abbandonarsi ai vecchi criteri di repressione militare sfrenata, coi quali potevano trovarsi in aperto contrasto nuovi indirizzi di governo e di governanti.

Tutto ciò rendeva in quei primi due giorni pieni di curiosa incertezza gli andamenti dell'autorità militare. Pareva quasi ansiosa di trovare ogni pretesto per mostrare spirito conciliativo. E alla duchessa Litta che, valendosi di antiche relazioni personali, aveva scritto al maresciallo, lagnandosi di guasti arrecati dalle truppe al suo palazzo, rispondeva quegli con molta umiltà “avrebbe provveduto a che non si rinnovassero, ma esortare egli pure la duchessa a non lasciare che le sue genti maltrattassero o provocassero soldati.„

Finalmente al terzo giorno, quando vede tutta la città asserragliata e l'insurrezione divampare minacciosa, si decide a moltiplicare i colpi. Ma allora si accorge altresì che le munizioni da guerra non rispondono agli intenti di distruzione. Quei trentaquattro anni di pace avevano lasciato un po' di ruggine sui ferri del dominio straniero. Le racchette fendevano l'aria e cadevano sui tetti senza scoppiare; le bombe scoppiavano con tanto ritardo che, dopo le prime esperienze, i fanciulli avevano il tempo di toglierne i luminelli e renderle innocue.

Forse quest'ultima ragione o le due insieme spinsero il maresciallo a desiderare proposte di accomodamento.

E cominciarono allora quelle pratiche per un armistizio, che diedero così gran pascolo alle immaginazioni ed alle passioni di parte.

Dai documenti del tempo, dai libri fra loro comparati e dalle attestazioni dei testimonj superstiti si può ad ogni modo cogliere intera la verità anche intorno a questo episodio.

Il maresciallo Radetzki aveva rilasciato sulla parola uno de' suoi ostaggi, il conte Marco Greppi, assessore municipale, perchè si recasse in città e giudicasse della convenienza di venire a qualche sospensione d'armi. Contemporaneamente si presentava al quartier generale di casa Taverna un ufficiale croato, il maggiore D'Ettinghausen, non già come inviato del maresciallo, ma coll'offerta individuale di farsi latore presso il maresciallo stesso “di proposizioni che valessero ad arrestare l'effusione del sangue.„

La Commissione Municipale esaminò la situazione militare, considerò la situazione politica e la propria responsabilità. S'era a mezzo di quel terzo giorno, in cui la rivoluzione non aveva preso ancora il suo maggior slancio. Per quanto le barricate fossero quasi dappertutto compiute, nessun posto importante era stato occupato; i nemici erano ancora padroni del tetto del Duomo, della Direzione di Polizia, del palazzo del Genio, del Gran Comando, di tutte le grandi caserme della città interna; dal di fuori non si sapeva nulla; il movimento delle provincie non si conosceva; nelle campagne circostanti appena qualche indizio di assembramenti si notava dall'alto dei campanili; nessuna notizia dal Piemonte, nessun'altra da Vienna; non una informazione sicura intorno allo spirito morale ed all'armamento del nemico che ci stringeva da tutti i lati. In questo cumulo d'incertezze, respingere qualunque proposta di accomodamento parve, e sarebbe stata, da parte della Commissione Municipale, una vera temerità. Essa poteva dirsi ancora rimasta nei limiti del suo primo programma; era autorità legale, non potere rivoluzionario. Se una sconfitta, pur possibile, fosse seguita, quante maledizioni non sarebbero piombate su quei poveri capi, responsabili d'una risposta, e che sarebbero stati accusati d'imprevidenza da quelli stessi che, dopo il successo, li accusarono di debolezza!

Però, la Commissione Municipale propose patti larghissimi. La città doveva avere libere comunicazioni, da tutte le porte, col vicino contado. Il maresciallo doveva tener chiuse in otto determinati punti tutte le truppe. La guardia civica doveva essere organizzata regolarmente; mantenute tutte le situazioni occupate dai cittadini e conservato in istato pienamente servibile il sistema di difesa adottato. Su queste basi, la Commissione Municipale avrebbe autorizzato il Podestà a trattare col maresciallo Radetzki per un armistizio di quindici giorni.

Al barone d'Ettinghausen queste basi parvero inaccettabili. E allora la Commissione Municipale, volendo persuaderlo ch'esse erano le più moderate, anzi le uniche possibili, dirimpetto all'ardore guerriero dei combattenti, invitò nella sala le persone che si trovavano nel vicino appartamento del Consiglio di Guerra; ed entrarono infatti Carlo Cattaneo, Achille Mauri, Cesare Correnti, Giulio Terzaghi, Faustino Sanseverino ed Enrico Cernuschi. Esposta a questi signori la situazione, furono tutti d'accordo che le basi proposte dal Municipio erano anche troppo modeste; che i difensori delle barricate non avrebbero probabilmente accettato neanche quelle; e Carlo Cattaneo aggiunse che la conciliazione diverrebbe possibile soltanto quando il maresciallo acconsentisse a ritirare dal regno le truppe straniere e a comporre le guarnigioni con soldati italiani[76].

Discusso questo punto fra il Cattaneo e il maggiore croato, questi dichiarò che non avrebbe osato proporre al maresciallo simili condizioni; e la Commissione Municipale, facendo constatare al maggiore che la propria autorità era naturalmente limitata dalla forza delle cose, lo incaricò di riferire al maresciallo l'esito del colloquio, lasciando a lui, se veramente era desideroso di umani procedimenti, il considerare se altre basi gli paressero da proporre.

Fu allora che il D'Ettinghausen, sperando di trovare qualche appoggio maggiore presso gli uomini forniti, a' suoi occhi, di più alta responsabilità, si rivolse al conte Vitaliano Borromeo, ch'egli considerava, quale dignitario del Toson d'Oro, come cugino dell'imperatore, e gli domandò che cosa dovesse dire in suo nome al maresciallo Radetzki. Cattaneo ha obliato nel suo libro di riferire la risposta del conte Borromeo, che fu questa: “Dica al signor maresciallo che se continuerà la battaglia, i nobili di Milano sapranno farsi seppellire sotto le rovine dei loro palazzi.„

Le pratiche per l'armistizio non finirono lì. Furono riprese per iniziativa dei Consoli esteri la mattina seguente, il giorno 21; e furono essi che si presentarono al Castello, preceduti dal conte Marco Greppi, il quale, andate a vuoto le trattative del giorno prima, veniva lealmente a riconsegnarsi. Qui il maresciallo non volle essere meno magnanimo del suo prigioniero; ma, ammirando il contegno suo, gli concesse, senz'altre condizioni, la libertà. E, ristrettosi a colloquio coi Consoli, li incaricò di portare altre proposte alla Commissione Municipale.

Senonchè in questo frattempo la situazione militare e politica s'era mutata d'assai. Nella giornata antecedente i successi dell'insurrezione erano cresciuti; erano caduti in mano nostra parecchi dei presidj e dei punti militari interni; s'era cominciato a vedere che i mezzi di distruzione del maresciallo erano fiacchi; più, era giunto il messaggio del conte Martini, e il prossimo intervento dell'esercito piemontese appariva già una questione di ore. Non trattavasi dunque più d'un armistizio di due settimane per lasciar luogo a trattative politiche o ad istruzioni di Vienna; trattavasi d'un puro e semplice armistizio militare, limitato a tre giorni, che ciascuna delle parti combattenti doveva considerare sotto il solo punto di vista delle convenienze di guerra.

Queste prestavano pure argomento a discussione. E discussione vi fu. L'uomo che aveva visto, fra tutti quei governanti, le maggiori battaglie, a cominciare da quella d'Austerlitz, il conte Pompeo Litta, che il Cattaneo aveva scelto a presiedere il Comitato di Guerra, si mostrò subito favorevole all'armistizio. Questo avrebbe dato, si diceva, modo ai nostri di rifornirsi d'armi e di vettovaglie, di ricomporre le barricate lacere dal cannone, e sopratutto avrebbe lasciato giungere l'esercito piemontese in tempo da offrire battaglia nelle più favorevoli condizioni. E non è dubbio infatti che se in quell'ora si fosse trovato fra i generali di Carlo Alberto un uomo di genio, in tre giorni si sarebbe trovato per la via di Piacenza sulla linea dell'Adda, e l'esercito austriaco, preso fra quelle fresche schiere e la città vittoriosa, non avrebbe potuto sottrarsi ad una catastrofe.

Però non mancavano altre ragioni opposte, e prima fra tutte l'impossibilità di esercitare sui combattenti cittadini l'autorità necessaria per farli desistere, se l'armistizio non fosse stato nei loro intendimenti. Correnti e Fava, presenti a quella discussione, suggerirono allora che si mandassero persone a interrogare, prima di decidersi, il voto dei combattenti. Furono scelti a tale incarico il conte Sanseverino, il Mauri, il Cattaneo, il Cernuschi e il Terzaghi. E non ebbero a far molta strada, perchè, al primo sentore delle proposte conciliative, giungevano da tutti i quartieri della città incaricati speciali, con raccomandazioni vivissime che non si scoraggiasse o si sminuisse, con tregue d'incerto carattere, lo zelo dei valorosi ormai determinati e certi di vincere.

Ritornati dunque nella sala i delegati, e apertasi la discussione finale, il presidente Casati espose i patti proposti. Giuseppe Durini parlò perchè fossero accolti, ed appoggiò questa opinione con alcune parole il conte Borromeo. Parlò primo contro l'armistizio Achille Mauri, e parlò con tanta evidenza che subito il Durini dichiarò di rinunciare alla proposta sua. Parlarono poi, aggiungendo ragioni contro l'armistizio, Carlo Cattaneo e Luigi Torelli; alla votazione che ne seguì, su quindici presenti, tre soli opinarono per l'armistizio. Il Casati disse ad alta voce: dunque non si accetta, e Cesare Correnti portò primo fuori della sala la notizia del rifiuto, che fu accolta con grandi applausi e subito fatta conoscere di barricata in barricata ai combattenti giulivi.

Queste furono le circostanze fra cui si svolse il duplice episodio dell'armistizio; circostanze che abbiamo scrupolosamente vagliate, e sulle quali non temiamo di essere smentiti da nessuno dei testimonj o degli attori, fortunatamente ancor vivi, dell'episodio stesso. Ora ognuno può agevolmente vedere quanto dovrebbero allontanarsi dal vero quelli che volessero adoperare dei morti per inasprire le passioni dei vivi.

S'è tentato di sfruttare questo episodio per rimpicciolire il significato grande del pensiero di una città. S'è acuito l'orecchio, fra un coro innumerevole di negative, alla negativa di un uomo solo, per farne l'onore esclusivo di quest'uomo.... o l'accusa di altri. E il famoso no di Cattaneo è passato dall'immaginazione politica di Alberto Mario[77] alle immaginazioni drammatiche del palco scenico[78].

La storia è tutta composta di sì e di no; ed un partito politico che abbia lo sguardo nell'avvenire non ha interesse a confiscare questi monosillabi che si ritorcerebbero in troppe altre occasioni contro di esso. Infatti, se dei no si volessero fare delle bandiere politiche, vi sono altri partiti che potrebbero reclamare per sè il no di Vittorio Emanuele al maresciallo Radetzki, dopo la battaglia di Novara, o il no del barone Ricasoli ai diplomatici francesi che insistevano per l'autonomia toscana, o il no del generale Lamarmora all'imperatore d'Austria, che offriva di cedere il Veneto a patto che si lasciasse sola la Prussia.

Fare di questo no del 1848 il merito d'un solo cittadino, per quanto illustre, equivale ad abbassare la meravigliosa unanimità di voleri che fu il fenomeno caratteristico delle cinque giornate.

Forse che se Cattaneo avesse avuto, in un quarto d'ora di debolezza, l'inspirazione di sostituire un sì ad un no, forse che il popolo l'avrebbe seguito? lo ha seguito forse due giorni prima, quand'egli voleva, con un altro no, che si sostituissero agitazioni pacifiche a insurrezione popolare? Che sugo c'è, quando si hanno parecchi cittadini a cui far risalire l'onore di una decisione virile, nel volerla attribuire a beneficio di uno solo?

È tutta perdita per una nazione l'essere in pochi, peggio poi l'essere uno solo a veder giusto. E a noi fa meraviglia come la democrazia, smentendo di sè stessa la parola e l'idea, si affanni talvolta a sfrondare essa di questa gloria la cittadinanza milanese, consultata ne' suoi combattenti, per farne il patrimonio esclusivo di un uomo che, quand'anche ne avesse avuto la volontà, non aveva in quell'ora il potere di agitare, come Argante, fra le pieghe del suo mantello o la pace o la guerra.

Quanto meglio avremmo provveduto alle ragioni del vero ed alla dignità della nostra rivoluzione, se, abdicando almeno per cinque giorni sopra un secolo alle passioni di parte, avessimo francamente riconosciuto la lealtà e il patriottismo di tutti.

Giacchè è un'altra esagerazione, — è un'altra ingiustizia, dopo avere fatto merito ad uno solo dell'opinione trionfante, l'avere addossata a troppi l'opinione sconfitta. Quelle tre o quattro persone che l'avevano patrocinata erano uomini rispettabili, di sicuro amor patrio, e i cui argomenti, se anche non riconosciuti opportuni, s'inspiravano però a quello stesso programma d'indipendenza a cui si appoggiava l'opinione contraria. Negandolo, non si fa della storia, si scrivono dei libelli.

E il Cattaneo, che nella sua violenta pubblicazione non rifinisce di chiamare i suoi avversarj del Governo Provvisorio i servili o i ligi o i municipali o i ciambellani malcontenti o i faccendieri regi, dimentica troppo che questi stessi uomini, poco tempo dopo, respingevano, contro il desiderio di Carlo Alberto, la pace al Mincio offerta loro dall'Austria; e ciò per un'altra preoccupazione d'italianità, che oggi si può discutere, che si può forse biasimare, ma che ad ogni modo moveva da intenti assai diversi e affatto contrarj a quelli che il Cattaneo costantemente loro suppone[79].

Guai se l'orgoglio del successo ci fa dimenticare il quarto d'ora dell'incertezza! guai se portiamo nel giudizio postumo sugli eventi politici quella stessa intransigenza che talvolta è necessaria per compierli!

Gli uomini che avrebbero accettato l'armistizio come un modo più sicuro di vincere, non hanno poi esitato ad assumere intera, coi loro atti e coi loro nomi, la responsabilità e le conseguenze dell'opinione contraria, accettata dalla gran maggioranza. È tutto quello che si può domandare, in una discussione patriottica, ad uomini di cuore. Nè la storia giudica minore, nella spedizione di Marsala, la gloria di Sirtori, benchè, nel consiglio che la precedette, avesse espresso opinione contraria all'impresa.

Ci siamo alquanto dilungati intorno a questa pagina della rivoluzione milanese, perchè ci pare veramente una di quelle, intorno a cui le passioni o i pregiudizj di parte hanno piuttosto addensato il bujo che cercato il vero.

Ora, noi pensiamo che uno storico — per minuscolo che sia il suo nome o il valor suo — da nessuna passione deve lasciarsi investire, da nessun pregiudizio dominare. Anzi, dove scorge o gli pare di scorgere un pregiudizio od una passione, ivi è dover suo accumulare chiarezza di esposizione e lealtà di argomenti perchè solo rifulga il vero, che mette al loro posto uomini e partiti.

Viviamo in un tempo in cui l'indagine universale chiama alla propria sbarra gli scrittori del tempo antico, per controllare le loro asserzioni al lume di una critica inesorabile. Si sono pubblicati dei volumi per dimostrare inesatto un passo di Erodoto o appassionata un'affermazione di Tito Livio. Ci parrebbe dunque di andar contro allo spirito dell'epoca nostra, lasciando, per quanto sta in noi, che di cose accadute meno di quarant'anni fa, mentre son vive ancora le persone a cui quegli eventi s'annodano, si radichi senza contrasto un concetto sintetico pieno d'ingiustizia e di esagerazione. Le verità che urtiamo del gomito non debbono esserci meno sacre di quelle da cui ci dividono duemila anni.

E tanto più dobbiamo cercare e constatare lealmente questa verità contemporanea, perchè il travisarla o l'abbujarla parrebbe non avere ormai altro scopo che di gettare un'ombra sulla riputazione di tre o quattro cittadini, a cui tutti abbiamo riconosciuto onestà di vita e azione patriottica; mentre un morboso furore di riabilitazioni umanitarie ci spinge a disseppellire Tiberio, Lucrezia Borgia e Filippo II per rifar loro possibilmente fisonomie più dolci e virtuose.

Di errori nel 1848 se ne fecero più troppi che pochi; e la storia imparziale li additerà. Forse nessuno, al suo cospetto, andrà immune da rimproveri per quello che ha fatto o detto. È bene dunque cercare fin d'ora che le fonti, a cui attingeranno gli storici futuri, siano serene, e che a ciascuno si attribuisca non più e non meno di quello che ha detto o fatto.

Le cinque giornate toccarono alla più alta espressione dei loro entusiasmi la mattina del 23 marzo, quando, dopo il terribile cannoneggiamento dell'intera notte, corse per la città il grido frenetico che gli Austriaci erano partiti. Fu un'emozione immensa, insuperabile, il cui ricordo oggi ancora fa dare un tuffo al sangue; fu la frenesia della gioja, che per ventiquattr'ore fece di Milano una sola famiglia, — che faceva prodigare a sconosciuti le dimostrazioni d'affetto ordinariamente serbate all'intimità.

Il maresciallo Radetzki, decidendo di ritirarsi la sera del 22, ci lanciava però un nuovo tizzone che avrebbe più tardi ridestata un'altra delle nostre ardenti discussioni politiche.

Fu l'insurrezione cittadina o la sicurezza dell'intervento piemontese che consigliò la ritirata del maresciallo? ecco il tema, che parve di grande interesse il discutere alla massima parte di quelli che non avevano combattuto. Eppure nessuna questione è più oziosa, nessuna è più chiara. Gli eventi politici non hanno quasi mai una sola cagione. E quanto sarebbe odioso il negare che l'insurrezione milanese sia stata una vera e propria vittoria, altrettanto sarebbe puerile l'affermare che, senza la marcia offensiva dell'esercito piemontese, Radetzki avrebbe dovuto ritirarsi a Verona. Forse nessuno dei superstiti delle cinque giornate oserebbe oggi sostenere siffatta tesi.

Nè questa è necessaria alla gloriosa riputazione di quella battaglia cittadina. La quale, ripetutasi pochi mesi dopo, e certo con eroismo non minore, fra le patriottiche mura di Brescia, è finita con una tremenda catastrofe, appunto perchè nessun ajuto d'esercito ha potuto secondare in campo aperto la difesa delle contrade.

Non torturiamo i fatti per trarne più di quello che possono dare. Bisogna essere orgogliosi delle Cinque Giornate, perchè rappresentano una somma di attività morali e di virtù militari, che il patriottismo solo ha saputo far sorgere e disciplinare a splendidi risultati.

Non bisogna però avvezzare l'animo nostro a credere riassunta la virilità di una nazione in questi scatti d'audacia; disinganni durevoli seguirebbero da vicino la passeggiera vanità.

Dopo l'epopea delle cinque giornate, è venuta pur troppo un'elegia: elegia lunga e dolorosa, di cui furono in gran parte responsabili quelli stessi che erano stati fattori dell'epopea.

Vuol dire che nella vita dei popoli, come in quella degli individui, il dolore tien dietro presto alla gioja e rompe i facili orgogli.

Quei cinque giorni di virtù, di concordia, di devozione a grandi ideali partorirono quattro mesi di fiacchezze, di rancori, di lotte intestine e ingenerose. Sembrammo indegni di una libertà che s'era conquistata con tanto vigore. E la libertà ci abbandonò, infatti, presto. Ma, fuggendo da noi, sostò al di là del Ticino, in mezzo ad una popolazione forte, solidale con principato gagliardo.

E mentre essa rifaceva istituzioni, armi e politica, da noi si rifacevano gli animi. Ci persuadevamo che a popoli moderni l'eroismo non basta. Imparavamo a nostre spese che alle virtù necessarie per crearsi una patria bisogna saper aggiungere, sotto pena di morte, le virtù necessarie per conservarla.

IL DECENNIO DI RESISTENZA ( DAL 1849 AL 1859 ).

Nulla è più triste del 1849. Fu un'epoca di squallore del pensiero politico in tutta Italia, un'epoca di naufragio dei sentimenti ragionevoli e generosi.

Mentre la reazione od aveva vinto o si preparava a stravincere, il liberalismo si nascondeva sfiduciato, e la rivoluzione sperdeva in audacie, talvolta generose, ma sempre isolate e insufficienti, le forze materiali e morali che il pensiero nazionale aveva faticosamente raccolte.

Nessun governo indipendente in Italia, tranne quel piccolo Piemonte, strozzato dalle indennità di guerra e dall'occupazione militare austriaca. Radetzki padrone di Alessandria, D'Aspre di Firenze, Oudinot di Roma, Hoyos di Bologna, Haynau di Brescia; a Milano si bastonavano le donne, a Napoli s'accoppiavano Poerio e Spaventa cogli assassini; Garibaldi si trafugava per tutte le sinuosità dell'Appennino, traccheggiato da quattro eserciti e da cinque polizie; Venezia moriva di bombardamento e di colera; l'Ungheria, svenata, cadeva bocconi ai piedi dello Czar; e le nostre popolazioni, tradite nelle loro speranze, vacillanti nella loro fede, erano malmenate da giornali e da giornalisti senza pudore, che dopo averle abbeverate, nei giorni lieti, d'odio e di menzogna, s'erano rifugiati, nei giorni tristi, fra le schiere degli oppressori, mescolando il loro scettico ghigno al romore delle fucilazioni dei patrioti, da loro aizzati e abbandonati[80].

Alle catastrofi militari s'aggiungeva la catastrofe intellettuale e morale. Nulla di organico aveva potuto resistere ai colpi della sfortuna. Le autorità personali erano sfatate; i metodi di governo screditati; l'energia rivoluzionaria si svaporava in proclami, in coccarde, in feste, in saturnali di palazzo e di piazza; si diffidava degli onesti; si credeva ai birbi, che degli onesti sorgevano accusatori. Gli elettori politici, traviati dall'orgia delle idee false, preferivano un Pansoya al conte di Cavour. I patrioti erano diventati traditori, i traditori diventavano a loro volta patrioti. Era insomma un'aberrazione di menti da ricordare le follíe degli untori, — un palleggiarsi di accuse e di recriminazioni, che lasciava nelle maggioranze un infinito disgusto di cose pubbliche. I partiti politici erano saliti.... o discesi alla più acuta espressione dell'intolleranza. Monarchici e repubblicani, radicali e moderati, unitarj e federali parevano odiarsi fra loro ancora più che non si odiassero gli stranieri da ciascuno di loro. A Roma non si accordavano Mazzini e Garibaldi; a Firenze, Montanelli e Guerrazzi si tenevano il broncio; in Piemonte spesseggiavano le crisi ministeriali; Genova insorgeva contro Torino, Napoli inveiva contro Messina. Lo stesso esercito piemontese, — l'unica speranza dell'avvenire — era lacerato dalle fazioni; e una parte dei soldati non volevano battersi, perchè turbati da seduzioni clericali, e il generale Ramorino non si batteva perchè corrotto da seduzioni repubblicane.

È facile immaginare che effetti dovesse cagionare lo spettacolo di quest'anarchia italiana sulla popolazione milanese, ripiombata, dopo quattro mesi di romorosa illusione, sotto un regime reso senza paragone più duro dall'ebbrezza della vittoria e dal ricordo delle vicendevoli offese.

Forse anzi fu questa stessa durezza che la salvò. Fu la terribile realtà delle conseguenze che produce nella vita dei popoli la rettorica sostituita all'esperienza, la petulanza sostituita all'ingegno, che abbreviò meravigliosamente per Milano, e in genere per tutte le provincie ricadute sotto la dominazione straniera, il periodo della convalescenza. Milano si trovò come un ebbro sotto la doccia. Quel bagno gelato dissipò in un minuto i fantastici orgogli e le allucinazioni delle fibre eccitate. La città si trovò nuovamente di fronte alle altere uniformi bianche, allo strascico delle sciabole sui selciati, agli aspri suoni del linguaggio straniero, alle brutali intimazioni di pattuglie e di sentinelle, alla pettoruta insolenza di una bieca e irresponsabile polizia. Comprese che tutto ciò voleva dire la fine di un'egloga e il principio di un dramma. Si guardò intorno e si vide sola. Nessun ajuto possibile dall'interno, nessuna speranza, neanche lontana, da fuori.

Allora Milano rientrò in sè stessa; vide di essere la sentinella avanzata di un esercito impotente a riprendere l'offensiva; sentì la nobiltà della sua missione, la fiera ma gloriosa inesorabilità del suo dovere. Deliberò di restare al suo posto, finchè dietro ad essa l'esercito avesse potuto ricomporsi. Raccolse le sue forze; non contò i nemici, ma li guardò in faccia senza paura; e cominciò quella lotta giornaliera, multiforme, implacabile contro ogni elemento, contro ogni esigenza di dominio straniero; una lotta che il conquistatore leggeva in ogni sguardo e sospettava in ogni parola; una lotta che avvolgeva in una salda solidarietà d'affetti e d'intenti tutti i partiti, tutte le classi, tutti i gruppi della cittadinanza; — quella lotta che, dal 1849 al 1859, fu una pagina illustre della virtù nazionale.

Questa lotta fu combattuta da tutti, in tutti i modi, secondo le forme ed i metodi che a ciascuno, in ciascuna occasione, parvero preferibili. Noi non pretendiamo raccontarla, cercheremo riassumerla nelle sue linee principalissime. Chi la racconterà — assai più tardi — potrà essere giusto con tutte le persone; noi non potremo ora che essere giusti rispetto alle cose. Delle persone diremo con sobrietà quello soltanto di cui siamo sicuri. E non di tutte; giacchè, naturalmente, nè tutte conoscemmo, nè di molte sarebbe ancor bene dir tutto. A quelli che, pur essendo stati in prima linea, fossero o si credessero dimenticati, mandiamo fin d'ora schiettissime le nostre scuse. Si vendichino, dicendo che questo nostro non è neanche un riassunto, è semplicemente una sfumatura del poema. Noi non li smentiremo. Saremo paghi se gli uomini imparziali riconosceranno la nostra imparzialità, e se diranno che, avendo pure scritto il vero, abbiamo scritto soltanto il vero a noi noto.

Caduta, con Venezia, l'ultima fioca speranza di ripresa politica, l'opinione pubblica milanese subì un periodo sussultorio, quello che segue davvicino inevitabilmente le grandi catastrofi. L'onda commossa continua a spumeggiare sul lido lungo tempo dopo che la tempesta in alto mare è cessata. Però il periodo fu breve; e il partito nazionale si adagiò virilmente nella considerazione dell'avvenire, frazionandosi, secondo l'indole delle cose e la fisonomia morale degli individui, in tre compagini principali, che si proposero di camminare, con proprj metodi, verso l'intento comune dell'indipendenza.

Queste compagini ebbero subito e necessariamente capi locali, mezzi locali, direzioni indipendenti e locali. Le autorità intellettuali che avevano creato il movimento, le influenze statevi fino allora prevalenti erano tutte sparite. Gli uomini di maggiore notorietà del precedente periodo avevano dovuto subire le conseguenze della sconfitta. Il Cattaneo s'era ritratto a Lugano, inutilmente e ingiustamente sdegnoso; il Correnti cercava di rifar programmi a Torino, accarezzato pel fervido ingegno e per l'inquieto ideale; Casati, Borromeo, Arese, Mauri, Burini, Torelli, Guerrieri-Gonzaga, Giorgio Pallavicino, emigrati volontarj o forzati, reclutavano aderenze e simpatie fra i nuclei politici a cui appartenevano, o a Genova o a Torino o a Parigi. Luciano Manara era morto eroicamente coll'armi in pugno; Cernuschi e Maestri, appartati dal movimento paesano o imbronciati con esso, avevano trovato a Parigi, con diversa fortuna, nuove occupazioni e nuove clientele.

Ned era facile allora — come fu possibile poi — avviare cogli emigrati intelligenze dirette e costanti. Oltrechè, le necessità milanesi esigevano evoluzioni così rapide e così varie, che ogni direzione da fuori sarebbe stata inevitabilmente o tarda o inefficace o disastrosa. Bisognò dunque, sino dai primi giorni, rifare i quadri; e trarre da nuovi elementi, presenti sempre ed attivi, le virtù nuove rese necessarie dalla mutata natura delle difficoltà e dei pericoli.

Per chiarezza e semplicità di programma, se non per numero — allora — di aderenti, primeggiava quel nucleo di giovani patrizj che avevano risolutamente accettata, fin dal primo stadio della rivoluzione, l'iniziativa liberale e la direzione politica della monarchia piemontese. Si dicevano e si lasciavano chiamare albertisti, perchè in Carlo Alberto avevano confidato, come confidavano nel giovane ed energico suo successore. Conservatori per educazione e per interessi sociali, non erano men risoluti di ogni altro a volere, con inflessibile tenacia, l'indipendenza; ma credevano che per raggiungerla non fosse di troppo avere per sè le forze — momentaneamente impacciate — d'un vecchio Stato, d'un esercito regolare, d'una illustre e leale famiglia di principi italiani e costituzionali. L'esperienza delle discordie politiche e delle impotenze amministrative durate nei quattro mesi li avevano disgustati d'ogni soluzione provvisoria. Nè i capi, nè i programmi repubblicani, sorti durante lo stesso periodo, erano lor parsi tali da dover inspirare invincibili simpatie. Sicchè il Piemonte restava l'unico faro che illuminasse di qualche luce il tetro avvenire; ed essi, pur accettando dai loro amici di programma diverso ogni necessità di cospirazione o di lotta contro i governanti stranieri, mettevano la loro fede negli organismi della monarchia liberale; coordinavano la loro azione, il loro impulso, la loro propaganda morale alle situazioni che vedevano create o accettate da quelli fra i loro amici rimasti a Torino, per appoggiare delle loro influenze e rappresentare col loro nome la continuazione di una politica d'indipendenza.

Autorevole in questo nucleo per solidità di studj e di convinzioni era Alessandro Porro, ingegno calmo e colto, avvezzo a meditare prima di risolvere, a non pentirsi dopo avere risolto. Più spigliato d'indole e più mescolato agli aneddoti sociali ed a vivacità battagliere, Carlo D'Adda ajutava questo programma di tutte le intimità che il suo carattere e la sua schiettezza gli avevano ottenuto presso la Corte in Torino, dove Carlo Alberto gli era stato largo di così patriottici e confidenti colloquj. Uomini gravi e giovani intelligenti fra i Taverna, fra i Prinetti, fra i Greppi, fra i Trotti, fra i Litta-Modignani caldeggiavano simili aspirazioni, alle quali non mancava l'adesione, piena di modesto riserbo, dell'uomo più illustre che contasse in Italia il partito unitario, Alessandro Manzoni.

Due giovani però spiccavano sopra gli altri, in questo nucleo politico, pei loro precedenti e per la vasta azione, — il conte Cesare Giulini e il conte Emilio Dandolo.

Quest'ultimo, giovanissimo ancora e già ricco di fama, apportava al gruppo albertista tutto il profumo della squisitissima indole sua, tutto il prestigio della leggenda, che cominciava già a formarsi intorno alle vittime e ai difensori di Roma. Fratello, più che amico, di Manara e di Morosini, morti entrambi, si può dire, nelle sue braccia, Emilio Dandolo aveva potuto fare, a vent'anni, un'esperienza degli uomini che pochi sanno acquistare a quaranta, un'esperienza del dolore, che non lasciava più in lui nulla di frivolo o di spensierato. Era stato sulla breccia, coll'armi in pugno, finchè in Italia era rimasto un palmo di terra da difendere contro stranieri. Cessata la lotta, ridiventava uomo di pensiero ed aveva scritto un opuscolo: “ I volontarj ed i bersaglieri lombardi „ nel quale affrontava con molto coraggio civile alcuni fra i pregiudizj che avevano allora più corso fra l'inesperta gioventù liberale. Il volontario, fido soldato di Garibaldi e di Medici, non temeva di affermare che solamente da eserciti regolari doveva l'Italia attendere la sua liberazione; il valoroso difensore della Repubblica romana sosteneva vigorosamente il programma dell'Italia monarchica, sotto la guida della dinastia di Savoja. Più tardi, un'altra idea savia e feconda avrebbe sostenuto, in apparente contrasto coll'azione sua giovanile, — l'alleanza con quella Francia, i cui soldati avevano rotta, colle loro palle, la vita dei più cari amici che avesse al mondo, suo fratello Enrico, il Morosini, il Manara.

Ma non era da lui che potesse uscire il grido di un egoismo, o di una passione, pure larvata da patriottiche ipocrisie. Entusiasta, come lo s'è a vent'anni, sapeva però discernere un affetto individuale dal grande interesse della patria. Sapeva che nelle grosse questioni di politica internazionale, non sempre possono i governi — regni o repubbliche — lasciarsi guidare dai soli impulsi simpatici. Vedeva chiaro che gl'interessi della Francia avrebbero, tosto o tardi, combaciato coi nostri, e faceva volontieri il sacrificio delle sue rimembranze ai nuovi bisogni e alle nuove amicizie del suo paese.

Stringersi oggi a chi si ha combattuto jeri, o viceversa, è la legge storica di tutte le relazioni internazionali, l'andamento normale di quasi tutte le emancipazioni politiche. Guai se, adottando una politica di fanciulli o di furibondi, c'immaginassimo che i nemici trovati un giorno sopra un campo di battaglia vi fossero perchè ci odiavano! Tramuteremmo l'Europa in altrettanti campi trincerati quanti sono i popoli che, in una od altra epoca, si sono affrontati, e prostituiremmo le alte necessità della patria dinanzi alle volgari manifestazioni del rancore o della vendetta.

Uno Stato forte e intelligente prova anzi una certa voluttà virile nell'avvicinarsi ad una potenza contro cui s'è lottato sul campo o nella diplomazia. Le amicizie militari meglio sorrette dalla reciproca stima nascono ordinariamente, dopo la pace, fra gli ufficiali che si sono vigorosamente battuti durante la guerra. E se da un governo o da un principe che ci ha offesi, viene l'istante in cui la patria trae servigio o vantaggio, la grandezza d'animo consiste nel ricordarsi di questo, non nel piatire, come un compratore fedifrago, per scemare il prezzo d'una merce che s'è chiesta e accettata.

Così comprendeva il patriotismo Emilio Dandolo; e così, crediamo, lo avrebbe compreso in ogni futura epoca della sua vita, se non avesse dovuto soccombere, pochi anni dopo, al fiero morbo che già in quell'epoca si leggeva devastatore sull'emaciato e pallido viso.

Per ora, il nobile giovane, in cui l'Italia ha certamente perduto un uomo politico di prima riga, si accontentava d'essere un elemento di coesione e di forza in mezzo a tante cause di sfiducia e di dissoluzione. Simpatico di persona e di nome, gentile di modi, vigoroso di animo, gettato così presto nel vortice delle grandi emozioni, il Dandolo sentiva che il fragile tessuto della sua vita si logorava rapidamente. Questa sicurezza dava ordinariamente al suo viso una tinta di melanconia, ma nel tempo stesso — com'è natura del morbo — gli rendeva più dolce l'indole e più fine l'ingegno. Di tutti gli amici suoi, — di tutte le amiche — era l'idolo, e lo meritava. Nessuna cosa, può dirsi, facevasi intorno a lui, senza il consiglio suo. Ed egli della sua influenza non usava che per cose alte e fiere. Era di quegli uomini destinati a servire, persin morendo, la patria che amano.

Lo precedeva d'una decina d'anni il conte Cesare Giulini Della Porta, che alle stesse doti di animo e di cuore univa una vasta cultura appena dissimulata sotto la semplicità del discorso, una portentosa memoria, punto vulnerata dalle eccentriche distrazioni in lui proverbiali. Gentiluomo d'antico stampo e di largo censo, usava d'ogni forza sua, economica, intellettuale o sociale, per intenti di patria e di progresso. Nessuna iniziativa di studj[81], di beneficenza, di vigore politico, trovava chiusa la sua borsa o freddo il suo cuore. Le numerose relazioni personali ch'egli manteneva e accresceva con una instancabile corrispondenza, l'autorità che gli veniva dall'essere stato nel Governo Provvisorio di Lombardia, la considerazione di cui godeva in tutta l'aristocrazia lombarda e il molto bene che gli volevano le classi popolari da lui beneficate[82], lo rendevano anche rimpetto al Governo austriaco un uomo importante; ed egli ne approfittò per osare quello che altri forse non avrebbe potuto, ma che, scoperto, avrebbe tolto a lui come ad altri la libertà e probabilmente la vita.

In tutto il periodo che precedette i movimenti militari del 1859, fu il conte Giulini il centro e l'anima di quel vasto movimento di volontarj che s'avviavano ogni giorno al di là del Ticino, per accrescere combattenti all'esercito piemontese e sottrarne alle coscrizioni nemiche. Giovato dalle molte sue conoscenze e dall'affetto che avevano per lui gli affittuarj e i coloni delle sue varie tenute, il Giulini aggiungeva a questo lavoro quello di raccogliere tutti i dati relativi ai concentramenti ed alle dislocazioni delle truppe austriache; dati quasi sempre esattissimi e che, trasmessi giornalmente al quartier generale dell'esercito franco-sardo, gli furono parecchie volte d'inapprezzabile aiuto. Sprofondato in questa doppia bisogna egualmente pericolosa, ma il cui vantaggio pratico per la causa nazionale era egualmente chiaro, Cesare Giulini stette fino agli ultimi giorni in Milano, malgrado che la polizia militare avesse occhi attenti sopra di lui. Lo si vedeva nei soliti ritrovi serali, lo si incontrava per le solite vie coll'abito negletto, il passo obliquo e il sorriso distratto; ma la mente era pensosa, il cuore saldo, e tutte le sue nobili facoltà si concentravano operose in quello che per allora gli pareva il dover suo e il modo più immediato di giovare alla patria[83].

Il programma albertista non era però nei primi anni diviso da un altro nucleo di giovani intelligenti e coltissimi, che al Giulini, al Dandolo, al D'Adda erano congiunti dai più stretti vincoli di stima e di amicizia personale.

Erano gli antichi avventori del caffè della Peppina, a cui s'era aggiunta la schiera, anche più giovane, degli scrittori e dei pubblicisti maturati alla breve esperienza liberale dei quattro mesi. Caduta Milano, avevano girovagato qua e là per l'Italia, scrivendo, cospirando, stringendo relazioni letterarie e politiche, a Firenze, a Roma, a Torino. Rientrando, dopo le catastrofi italiane, sotto il domestico focolare, sentirono il bisogno di raccostarsi, di riprendere il filo delle antiche intimità, di coordinare, se era possibile, la loro singola azione allo svolgimento di un programma comune.

Quest'ultima ipotesi sembrava e si dimostrò infatti difficile. Le impressioni individuali non erano identiche e condussero presto alla formazione di due correnti patriottiche, concordi nello scopo, divise nel metodo.

Una prima schiera accettò presto l'indirizzo che proponeva, con pensato vigore, un uomo rimasto fino allora piuttosto soldato che capitano, Carlo Tenca.

Ingegno più solido che vasto, più preciso che immaginoso, di convinzioni austere, di alta coscienza e d'irremovibile tenacità, il Tenca univa a tutte le fiere qualità della sua origine popolana l'amore a tutte quelle eleganze d'intelletto, di studj e di istinti, che sogliono ordinariamente essere la base educativa delle classi superiori. Preparato alla politica, come tutta la gioventù d'allora, dai libri del Foscolo e del Mazzini, durante i quattro mesi della nostra effimera liberazione aveva scritto per qualche tempo nel giornale ufficiale del Governo Provvisorio, da cui s'era allontanato in seguito per desiderio di azione politica più indipendente. Non era stato partigiano dell'atto di fusione colla monarchia piemontese, e si mostrò severo censore di parecchie delle disposizioni che, a quello scopo, s'erano prese o si travedevano.

Quando giunse l'epoca dei rovesci, e si trattò di sostituire al Governo Provvisorio un Comitato di Difesa, che assumesse una specie di potere dittatorio, il Tenca si oppose apertamente alla prima combinazione, che si basava sui nomi del colonnello Varesi, del conte Francesco Arese e di Cesare Correnti. Gli pareva una combinazione d carattere troppo fusionista, e fu principalmente per le insistenze sue che si procedette ad un'altra combinazione, in cui entrarono il generale Fanti, il dottor Maestri e l'avvocato Restelli, rimanendo il Correnti segretario del Comitato. Dopo l'infausta giornata del 5 agosto[84], il Tenca, con altri amici suoi milanesi, s'era condotto a Firenze, dove, seguendo sempre il concetto della rivincita popolare, collaborò a giornali e ne fondò, aiutando talvolta, contrastando più spesso l'indirizzo governativo, che gli pareva or fiacco or violento, di quei governanti, in ispecie del Guerrazzi e del Montanelli.

Nel complesso, lo spettacolo di quei saturnali politici aveva fatto grande impressione sul retto ed austero animo suo. Tornava a Milano, dubitoso della efficacia d'ogni programma di azione immediata, sconfortato delle prove fatte, dolorosamente persuaso che, se poco felice era stata l'iniziativa del principato liberale, anche peggiore era stata quella delle torbide democrazie. Sicchè patrocinava un programma di ricostruzione intellettuale e morale, da lui posto come base unica e logica d'ogni futura azione. Disposto a spingere, come gli altri e più degli altri[85], il contegno di intransigenza contro ogni elemento e contro ogni istituzione d'indole straniera, non credeva però ad efficacia di congiure e non intendeva mescolarvisi. Voleva che si lasciasse per allora deporre alla rivoluzione il suo limo, e che si preparasse, con civile rinnovamento di studj filosofici, giuridici, politici, economici, la generazione atta a governare più tardi con maggiore competenza e maggiore esperienza l'ulteriore movimento che i tempi avrebbero consigliato.

All'opinione sua aderirono presto parecchi fra quelli che a somiglianti discussioni prendevano parte; e si deliberò la fondazione di un giornale che a siffatte idee desse tono e avviamento. Così nacque il Crepuscolo, che fu per nove anni l'efficace stromento di una vera educazione pubblica, e di cui scrisse recentemente la storia uno dei più autorevoli fra i suoi fondatori e scrittori[86].

Ma questo programma, di cui nessuno disconosceva la serietà e l'utilità, sembrò non bastare ad un'altra schiera di giovani, o più dominati da un prepotente bisogno di combattività, o meno disillusi dei primi sull'antico meccanismo delle cospirazioni politiche. E questi, raccogliendo intorno a sè gli antichi compagni e rannodando le antiche fila, deliberarono di continuare, per loro conto e con loro pericolo, quei metodi di propaganda rivoluzionaria che già erano parsi buoni molti anni prima, e da cui speravano poter trarre ancora utili occasioni di fortunate audacie.

Così venivano designandosi i tre partiti fra cui si sarebbero suddivisi, secondo le varie attitudini, tutti gli elementi politici della città. Partiti, diversi dagli attuali in ciò, che mentre questi si combattono con accanimento, quelli non solo si rispettavano, ma si aiutavano a vicenda; perchè certi che, qualunque programma trionfasse, qualunque metodo prevalesse, erano programmi e metodi di uomini onesti, devoti all'indipendenza, più che ad ogni altra fisima di organismi speciali.

I primi avevano il loro programma deciso, l'unione alla monarchia liberale; i secondi aspettavano che la monarchia facesse migliori prove, preparando intanto vigorosi elementi intellettuali e morali a una futura amministrazione politica; gli altri mantenevano la loro fede all'ipotesi repubblicana, collegandosi ai primi ed ai secondi ogniqualvolta il concetto dirigente della resistenza alla dominazione straniera rendesse necessario accrescere e accomunare le forze.

Principalissimo in quest'ultima schiera, per vigore d'animo e studio indefesso di ordini militari, era Carlo De-Cristoforis, un altro audace di antica tempra, che la prima campagna garibaldina lasciò cadavere, e che avrebbe forse emulato, nelle successive, i Sirtori, i Medici, i Bixio. Gli era eguale per influenza e per attività quell'Attilio De-Luigi che abbiamo già visto centro di preparazioni politiche e militari, prima delle Cinque Giornate. E, senza notare i moltissimi, ricordiamo fra i molti di questo nucleo il Pezzotti, il Majocchi, il Gerli, i Lazzati, il Guttierez, il Piolti de' Bianchi, e un giovane pavese allora in molta intrinsichezza coi nostri, Benedetto Cairoli.

Teneva una situazione quasi intermedia fra questi e il gruppo capitanato dal Tenca, un altro giovane, di cui cominciava a farsi autorevole il giudizio e simpatica l'influenza presso tutti gli elementi patriottici di Milano, — Emilio Visconti-Venosta.

Nessuno infatti avrebbe potuto in quell'epoca, meglio di lui, rappresentare quell'insieme di movenze che era necessario a tener vivo e continuo il nesso fra le compagini politiche milanesi. Accetto al patriziato liberale per le aderenze famigliari e personali e per una certa eleganza di educazione che ne lasciava intatta la solidità; amicissimo al Tenca e a' suoi collaboratori, fra i quali pigliava un posto notevole pei suoi articoli magistrali di critica e di dottrina politica; era nel tempo stesso in intime relazioni cogli uomini del programma avanzato, delle cui speranze e delle cui illusioni era stato fino allora e continuava, fino ad un certo punto, ad essere partecipe.

Il Visconti-Venosta usciva infatti politicamente egli pure da quell'ardente atmosfera dell'apostolato mazziniano, in cui s'era tuffata, come in un bagno di vapori patriottici, tutta la generazione del tempo suo. Anch'egli chiamava Mazzini il maestro e Mazzini gli rispondeva non sappiamo se figlio o fratello. Aveva scritto, durante i quattro mesi, sull' Italia del Popolo, articoli ridondanti di quella fraseologia mistica ed armoniosa che la scuola mazziniana traeva, esagerandola forse, dal suo fondatore. E quando, negli ultimi giorni, cessata la ragione dello scrivere, pareva ritornasse l'opportunità del combattere, il discepolo seguì religiosamente il maestro in quella colonna di volontarj a cui l'armistizio Salasco tolse presto ogni occasione possibile di sacrificio.

Gli avvenimenti del 1849 avevano esercitata sul pensoso intelletto suo, come su quello del Tenca, la loro azione o piuttosto la loro reazione. Più giovane del Tenca, egli durò tuttavia, più a lungo in quella cerchia di pensieri da cui aveva prima tratto la sua educazione politica. Nelle discussioni che s'erano agitate intorno al futuro indirizzo del partito nazionale, aveva optato per un programma di cospirazione. E, pur lavorando cogli amici suoi del Crepuscolo a creare un ambiente elevato negli ordini intellettuali, la sua attitudine accennava ad azione più vibrata e a maggiori vincoli colla parte democratica ancor dominata da ideali di popolari riscosse. Così non fu degli ultimi a caldeggiare la ripresa di un'agitazione rivoluzionaria disciplinata da concetti organici; e stancava in quei giorni le vetture cittadine, recandosi con altri amici a raccogliere, di casa in casa, i voti per la costituzione di un Comitato centrale milanese, che riuscì infatti composto di Attilio De-Luigi, di Alberico Gerli, del Pezzetti e di qualche altro.

Le condizioni, per così dire, strategiche della lotta che Milano si preparava di nuovo a sostenere, s'erano mutate notevolmente, — così in meglio come in peggio — dalle epoche antecedenti. Dal 1820 al 1844, i combattenti appartenevano quasi esclusivamente alle classi nobili o molto agiate della città. Dal 1844 al 1847 era scesa in campo, ricca di forze, anche la borghesia. Ma la classe popolare, operaia, era stata fino allora piuttosto spettatrice simpatica che energica cooperatrice alla lotta. Solamente negli ultimi mesi innanzi al 18 marzo, l'entusiasmo bellicoso l'aveva guadagnata; ma più avevano potuto sovr'essa le mistiche influenze del papato liberale e le giuste collere provocate dalla ferocia dell'8 settembre e del 3 gennaio, anzichè una chiara e viva percezione delle necessità che hanno i popoli di vivere di vita loro, senza vincolo di esterne dominazioni.

Però i cinque giorni di combattimento e i quattro mesi di libertà politica avevano prodotto anche fra le masse popolari un salutare rivolgimento intellettivo. Ora si affacciavano alla resistenza, per impulso proprio e per virtù di opinione, non solamente per vaghezza di novità o per adesione a programmi altrui. Avevano visto riunioni, letto giornali, discusso governi e governanti; cominciavano a capire che della libertà erano partecipi, della schiavitù politica soltanto stromenti o vittime. Sicchè le schiere nostre aumentavano di densità e di tutta quella forza che apportano elementi nuovi e robusti, sopratutto avvezzi, pei casi precedenti e per la fiducia personale vicendevolmente cementata, a subire la disciplina, non a discuterla.

D'altro canto, s'aveva però di fronte un avversario più deciso, più agguerrito, più inesorabile di prima. Tornando a Milano, dopo la guerra, l'Austria non aveva più o non fingeva più di avere illusioni di sorta. Sapeva di rientrare in una città nemica e di dover restarvi colla miccia accesa e i cavalli sellati. Ogni ipocrisia di linguaggio o di nomi era sparita. Gli Schwartzemberg, i Strasoldo, i Montecuccoli, i Burger si alternavano, con intonazioni di maggiore o minor durezza, al potere civile; ma il carattere intrinseco del governo era e restava una dittatura militare, temperata soltanto dai varj e mutabili interessi politici della dinastia imperiale. Sicchè gli stessi metodi della lotta dovettero essere profondamente modificati. Bisognava evitare assembramenti, che sarebbero subito diventati facile scopo a cariche di cavalleria. Le dimostrazioni cessarono, perchè non v'era più bisogno di affermare la disciplina e v'era bisogno di risparmiar vite e sangue. Ma cessarono nelle vie, per durare in permanenza nei ritrovi e nelle sale private; rinunciarono ad essere collettive, per diventare più tenacemente e più audacemente individuali.

Intorno agli elementi austriaci si fece il vuoto. Gli ufficiali militari, gli alti impiegati del Governo civile e politico trovarono chiuse le porte dei ritrovi famigliari e delle associazioni cittadine. Nei teatri, pochissimi palchi d'affitto erano aperti all'ufficialità, nessuno di proprietà privata. Si stipavano nelle sedie chiuse, al di là della sbarra; e dava già per sè indizio della situazione morale, quel vedere ogni sera, da un lato tutte uniformi, dall'altro tutti abiti neri. Se ad un ballo, ad una cerimonia si prevedeva l'impossibilità di escludere, per qualunque ragione, un ufficiale austriaco, il ballo non si dava, la cerimonia si sospendeva. Ai balli che davano le alte autorità politiche o militari, non intervenivano che impiegati o mogli d'impiegati, costrette dalla pressione ufficiale. Se qualche signora della società milanese osò talvolta od ebbe la debolezza di accettare alcuno di questi inviti, leggeva subito la riprovazione sul viso dei conoscenti e degli amici. Il vuoto si allargava anche intorno a queste belle colpevoli di peccati veniali. La necessità della resistenza politica rendeva inesorabili; si sacrificava al programma anche la cortesia, anche l'educazione, anche l'amore.

I giovani poi s'erano fatta una legge di non tollerare, in faccia agli elementi militari, neanche l'apparenza di una provocazione. Per un gesto, per una parola, per uno sguardo rivolto ad una dama, si flagellava l'ufficiale austriaco d'una fiera parola, d'una osservazione umiliante che conduceva al duello. Luigi Della Porta iniziò questa nuova forma di guerra, e ne restò sventuratamente la vittima. Il Camperio, il Fadini, il Viola, il Battaglia, il Carcano, altri ancora si misurarono sul terreno, con varia vicenda, non transigendo mai, non accettando scuse, affermando altamente lo scopo e il carattere di queste contese. Era veramente una guerra; ma non potendosi combattere, alla moderna, coi grossi battaglioni, si combatteva, all'antica, colle zuffe individuali, come i capitani d'Omero. Nè, a completare la tradizione epica, mancava a quei combattenti l'aiuto delle Dee. Minerva e Venere non scendevano sulla terra, ma v'erano già. Preludendo ad un concetto che il generale Garibaldi svolse più tardi ne' suoi proclami, il sorriso delle donne era serbato ai forti. L'implacabilità politica non era meno consueta alle signore che agli uomini; forse, per l'indole loro, più provocatrice. Certo, ebbero larga ed onorevole parte in tutta questa disciplina di affetti e di rigori patriottici. E fra le gentildonne che tenevano in quell'epoca riunioni più numerose e più ricercate, non si possono dimenticare, per la gentile e fiera influenza, Marianna Trivulzio, Mariquita d'Adda, Carolina Crivelli, Ermellina Dandolo, Carmelita Manara. Sopra tutti va ricordato il salotto letterario e politico di Clara Maffei; dove tutti gli elementi nazionali od esteri di qualche valore trovavano libertà d'accesso e intimità di ritrovi; e dove la padrona di casa, vincendo per necessità politica l'indole sua, accettava dai suoi amici quella disciplina d'intransigenza contro cui protestava la sua costante ed inesauribile amabilità.

Indispettiti da questa giornaliera implacabilità di contegno, da questo muro di bronzo che vedevano elevato fra essi ed ogni agevolezza di vita sociale, gli ufficiali reagivano, accentuavano la loro qualità di conquistatori e padroni, — aiutavano per ciò solo i desiderj degli avversarj e il programma della resistenza. Talvolta, acciecati dall'impotenza, diventavano brutali, perdevano il sentimento dei loro doveri di uomini e di gentiluomini.

In uno dei giorni onomastici dell'imperatore d'Austria, avendo una baldracca, molto intima cogli elementi soldateschi, Annetta Olivari, esposto un tappeto giallo e nero sul suo balcone, posto quasi dirimpetto alla Piazza del Duomo, lungo l'antica via dei Borsinari, un assembramento minaccioso di popolani e popolane tentò invadere quella casa e strappare quella bandiera. Si fecero degli arresti, e il giorno dopo ufficiali austriaci non sentirono l'onta di assistere nel cortile del Castello ai colpi di bastone che furono applicati sulle ignude reni di due o tre fanciulle artigiane.

Questi esempj e questi spettacoli esacerbavano naturalmente l'animo dei popolani, fra i quali trovò presto cooperatori audaci e sicuri la frazione politica che mirava a congiure e a sommovimenti.

Com'è abitudine e necessità di questi programmi, l'unità dirigente veniva meno. Gli organismi rivoluzionarj si moltiplicavano secondo i gruppi d'amici personali, secondo le diverse solidarietà sociali da cui partivano. Assumevano nomi speciali[87], avevano capi molteplici, che ordinariamente non erano conosciuti dai settarj minori. I loro scopi, i loro mezzi d'azione erano esclusivamente locali; abbozzavano progetti, li mutavano, li abbandonavano, secondo le diverse esigenze dei singoli avvenimenti milanesi. Solamente il Comitato Centrale, che abbiamo visto presieduto da Attilio De-Luigi, s'era posto in diretta comunicazione con Mazzini e con quel centro rivoluzionario europeo che allora dirigeva da Londra una vasta agitazione, a cui, col Mazzini, partecipavano il Kossuth, il Ruge, il Sirtori, Ledru-Rollin.

A poco a poco questo organismo di cospirazione era riuscito a darsi una specie di ordinamento stabile, mediante sub-centri o Comitati, che in ogni capoluogo di provincia agivano secondo le istruzioni del Comitato Europeo. Il Mazzini osò allora quello che nessun cospiratore aveva osato prima di lui, e che nessuno probabilmente oserà più, — aprire un prestito rivoluzionario di dieci milioni, con apposite cartelle, che si collocavano presso i privati di fede sicura o creduta sicura, dagli agenti dei Comitati, incaricati poi di spedire a Londra i fondi raccolti. Non sappiamo quanti di questi milioni siano giunti nelle casse del Comitato Europeo; certo se ne devono essere perduti alcuni per via. Ad ogni modo, il movimento di persone e di lettere, che un'impresa di questa natura determinava, non potè lungamente tenersi celato alle indagini di polizia.

Un tristo, il dottor Vandoni, protomedico addetto al Governo, denunciò un impiegato suo, il dottor Ciceri, quale possessore di cartelle del prestito Mazzini. Il denunciato non isfuggì al processo ed al carcere. Ma non isfuggì il denunciatore alla vendetta settaria. In pieno giorno, nella via del Durino, sotto gli occhi della famiglia, che dal balcone aspettava il suo arrivo, Vandoni fa pugnalato e il sicario sparì. L'indegnazione contro l'ucciso temperò quella contro l'uccisore; perocchè è triste privilegio delle situazioni consimili di abbuiare, nell'opinione pubblica, la limpidezza dei criterj morali. Però da quel giorno, la tensione politica divenne ancora più aspra e vibrata. L'autorità piegò maggiormente a tirannia, la cospirazione si sprofondò ne' suoi metodi, il terrore dominò da una parte e dall'altra le relazioni sociali.

Frattanto accadeva in Francia, il 2 dicembre 1851, il colpo di Stato napoleonico; un'altra pagina storica che non si può giudicare nè a tuono di frase nè a lampi di passione; ma che, indipendentemente da ogni genesi e da ogni effetto francese, ebbe sulle cose d'Italia e specialmente sull'attitudine dei Milanesi, un'influenza immediata e profonda.

Il partito d'azione, che fino allora aveva sperato nella Repubblica Francese, piuttosto per istinto che per ragionamento, sentì prepararsi in Europa una situazione politica nuova, contro cui l'azione del Mazzini e le sue iniziative sarebbero state impotenti. Quelli fra i cospiratori — ed erano di gran lunga i più — ai quali la Repubblica era parsa non altro che un metodo per raggiungere l'indipendenza, cominciarono a raccogliere più severamente i loro pensieri, a guardare con risorta fiducia verso il Piemonte, nelle cui sfere governative era apparso intanto un astro nuovo, pieno di vita, d'incognite e di speranze, — il conte Camillo di Cavour. Il gruppo dei patrioti monarchici crebbe d'influenza e di riputazione; molto più essendosi saputo che al conte Arese, amicissimo suo, il nuovo Presidente di Francia aveva detto, poche settimane dopo la rivoluzione da lui operata: “laissez-moi donner un peu d'ordre à la France, et puis je penserai à l'Italie.„

Frutto di questa doppia modificazione fu la risoluzione presa dal Comitato Centrale di temperare per qualche tempo la propria azione e di invitare i Comitati provinciali a frenare essi pure l'ardore di eccitamenti, sui quali la polizia stava già dappertutto in agguato. Fra i Comitati provinciali lombardi, il più attivo ed ardito pareva quello di Mantova, presieduto da un prete pio e deciso, Enrico Tazzoli, e di cui teneva le fila e le carte Luigi Castellazzo. A Mantova dunque si credè appunto necessario spedire un messaggiero di speciale fiducia, per esprimere interi i concetti del Comitato, e fu scelto a tal uopo il dottor Antonio Lazzati. Questi andò, parlò coi membri del Comitato mantovano, assistette ad una riunione anche più numerosa in cui le esigenze della situazione furono ventilate e discusse; ritornò a Milano, fiducioso che la sua gita dovesse servire a rendere più cauta e più segreta l'azione dei patrioti.

Invece, poco tempo dopo il suo ritorno, eccoti spesseggiare le indagini e i sospetti della polizia. Il primo che si arresta è Pezzotti, uno dei membri del Comitato Centrale. Quell'arresto mette in guardia tutti, ed ognuno dei compromessi provvede a precauzioni speciali. Ma pochi giorni dopo[88], il carceriere, entrando nella cella, vede il suo prigioniero appiccato per un fazzoletto all'inferriata del carcere. L'infelice giovane, presago di torture morali più che materiali, temeva che una reticenza, che una frase imprudente conducesse gli acuti interrogatori sulle traccie della cospirazione. Aveva promesso agli amici che, arrestato, si sarebbe ucciso; — mantenne la parola. Tali erano e tali si accettavano in quell'epoca le conseguenze delle audacie politiche, divenute talvolta in seguito così impunemente verbose![89]

Pareva che la morte di quell'eroico taciturno avesse dovuto interrompere le indagini, sviare gli andamenti dell'autorità. Ma pochi mesi dopo cominciano arresti, a Mantova, a Verona, a Brescia. I Comitati Provinciali forniscono il maggior contingente alle persecuzioni; qualche viltà le accresce; la polizia vede e colpisce giusto; in poco tempo più di duecento patrioti popolano le prigioni lombardo-venete e si apre il cupo ed omicida processo di Mantova.

Alle vittime di questo processo, che non è cómpito nostro riassumere, Milano diede il contingente minore. Il Cairoli, il De-Luigi, il Gerli poterono sottrarsi a tempo e distruggere ogni traccia rivelatrice della loro azione; Lazzati osò rimanere e fu arrestato con altri dei suoi fratelli. Prigioniero, non ismentì la sua fama di robustezza fisica e morale. Fu di quel glorioso manipolo che col Pinzi, col Cavalletto, col Pastro, col Mori, con alcuni altri, attinse all'implacabile negativa la virtù di non dare nè una traccia nè un nome all'insidiosa ricerca dell'auditore militare. Condannato, perchè il segretario del Comitato di Mantova, Castellazzo, affermò in suo confronto di ravvisare in lui il messaggiero del Comitato milanese, sfuggì al patibolo, resistendo sempre al laccio in cui caddero il Montanari, il Tazzoli ed altri, — di dir qualcosa per guadagnarsi la grazia. Ad un uomo contro cui non s'era potuto provar nulla di grave, la sentenza finale attribuì quindici anni di ferri. Stette chiuso a Josephstadt fino all'amnistia imperiale del 1857. Ne uscì col Finzi e cogli altri amici, a tempo per essere di nuovo utili alla patria, per vederla libera, e per amarla sempre, — se anche non sempre giusta.

È facile pensare che il tragico risultato di queste agitazioni[90] contribuì ad allargare quella evoluzione che già vedemmo disegnarsi nel pensiero politico milanese. Il consolidamento del nuovo ordine di cose in Francia, mediante il plebiscito che creava l'Impero del 10 dicembre 1852, tolse interamente ad ogni spirito assennato l'illusione che a moti repubblicani potesse sorridere eventualità d'appoggio europeo. Le fila della cospirazione lombardo-veneta erano interamente sgominate; fuggiaschi o prigionieri o impiccati i suoi capi. D'altro canto la politica del Piemonte cominciava a dimostrare una saldezza ed una saviezza che s'ammiravano in Europa; e il movimento parlamentare avvenuto in quel torno di tempo, con notevole spostamento dei vecchi partiti politici piemontesi, annunciava già nel conte di Cavour il capo intelligente e risoluto di un vero partito nazionale italiano.

L'opinione pubblica milanese non tardò a divinare la nuova via di salute apertasi innanzi al paese. L'iniziativa rivoluzionaria autonoma perdette seguaci; ne acquistò il programma moderato, che già abbandonava il suo nome di albertista e preludeva a chiamarsi cavouriano. Emilio Dandolo rese più frequenti le sue gite a Torino; il Tenca accentuò nel Crepuscolo questo indirizzo degli spiriti, mediante la corrispondenza politica dal Piemonte e i forti studj di economia rinnovatrice che vi andò pubblicando Antonio Allievi. Soltanto il Mazzini, infervorato nei metodi suoi, architettando da Londra o da Lugano un'Italia artificiale su cui studiava diagnosi e rimedj punto consoni alla verità delle cose, — soltanto il Mazzini, diciamo, non aderì a nessuna modificazione di condotta politica. Ricompose alla meglio i suoi comitati e le sue centurie, sostituendo ai vecchi e noti vessilliferi dell'idea repubblicana nuovi luogotenenti, devoti ai cenni suoi, ma privi di larghe influenze fra le varie notabilità cittadine. L'organismo rivoluzionario si restrinse e si sprofondò, invece di salire e di allargarsi. La setta, impostasi al partito politico, reclutò nella classe operaja adepti di forte indole e di forti passioni, come quell'eroico Sciesa, a cui Milano ha consacrata una lapide, più giusta di molte altre[91].

Ricominciarono i viaggi di emissarj segreti, le segrete distribuzioni di stili e di denari. Il Mazzini, che ad ogni primavera vedeva l'Europa pronta a mettersi in fiamme, immaginò che Milano, nel 1853, doveva essere il punto da cui l'incendio partisse. E così venimmo alla fatale giornata del 6 febbrajo.

Ma l'instancabile cospiratore non pensò mai, fra tanta mole di pensieri, ad un assioma confermato dagli insegnamenti della storia e dall'esperienza della sua vita stessa. Le rivoluzioni che riescono non sono ordinariamente quelle che si preparano. E la prova delle Cinque Giornate non era lontana.

Il moto milanese del 6 febbrajo 1853 non era stato una sorpresa per tutti. Se n'era discussa l'opportunità, la strategia, la data. Al generale Klapka il Mazzini l'aveva annunciato tre giorni prima come una grande rivoluzione. N'ebbe un fiero dolore quando seppe che era riuscito un tragico tafferuglio.

Eppure nessuno dei patrioti di qualche esperienza in Milano aveva creduto che siffatta congiura potesse ottenere effetti maggiori o migliori. A tutti aveva inspirata una grande inquietudine la conoscenza anticipata di così temerario divisamento. E alcuni avevano cercato di sconsigliarla, prevedendone vittime inutili e ribollimento di reazioni militari. Nel fatto, nessuna preparazione dello spirito pubblico a rivolture violente; armi poche o punte: il Piemonte inteso a febbrile riordinamento di partiti, di finanze, di esercito; la Francia nella piena luna di miele d'una reazione politica; l'Austria armata fino ai denti; l'Europa sospettosa d'ogni susurro, per timore di propagande napoleoniche. Ed era in mezzo a queste condizioni generali europee che il Mazzini si preparava tranquillamente a scagliare duecento popolani contro le sentinelle austriache. Fossero stati duemila, era difficile che la sorpresa scompigliasse le autorità militari più di ventiquattr'ore. Il giorno dopo, da Mantova, da Verona, da Piacenza sarebbero venute truppe e cannoni a josa. Eravamo ben lontani dalla situazione specialissima del 1848. L'esercito austriaco in Italia era forte per numero, per disciplina, per esatti armamenti. Nè Vienna era in subbuglio, nè l'Ungheria minacciava, nè Pio IX benediceva l'Italia. Per sognare che contro queste avversità estere una insurrezione improvvisa, e di soli elementi milanesi, potesse riuscire, bisognava davvero che la mente del Mazzini navigasse in un pelago sterminato di illusioni e di fanatismi.

Nè questi nè quelle facevano velo in Milano agli uomini che fino allora avevano diretta la politica di resistenza. Vedevano chiaro che l'impresa progettata avrebbe finito con lutti e supplizj. Il Majocchi, audacissimo di pensiero e d'azione, era assai esitante nel favorirla; gli antichi combattenti delle Cinque Giornate ricusavano di parteciparvi; la sconsigliarono fortemente il dottor Pietro Lazzati, Carlo De-Cristoforis ed Enrico Besana, patriota d'ogni occasione, d'ogni coraggio, d'ogni attività[92]. Piolti de Bianchi, sprofondato più d'ogni altro in quella preparazione, invitò Emilio Visconti-Venosta a dire le ragioni degli opponenti in un ritrovo di cospiratori. Ed egli v'andò; parlò linguaggio di ragione e di patriotismo in mezzo a gente inebbriata di visioni fantastiche[93]. Non fu ascoltato; si ritirò mesto e scorato, colla risoluzione di uscire da sodalizj, dove la discussione non era più considerata che come una ribellione alla volontà di Mazzini. Nondimeno fece un ultimo tentativo per prevenire la tragedia. Con Enrico Besana cercò di raggiungere il Mazzini a Lugano e di persuaderlo a dare il contr'ordine. Partivano infatti; ma la neve, la mancanza di vetture, la sorveglianza della polizia impedirono loro di oltrepassare il confine. Tornarono inquieti a Milano; il giorno dopo scoppiava il moto.

Lo aveva disposto, ne' suoi concetti strategici, un ingegnere Brizzi, emissario mazziniano, delle provincie meridionali. Avrebbe dovuto capitanarlo di persona un Assi, fabbricatore di cappelli, presidente della Fratellanza Repubblicana[94]. Nè l'uno nè l'altro furono visti nell'ora pericolosa. I popolani reclutati si avventarono animosi. Si credevano parecchie migliaja, — furono centocinquanta. Avevano avuto per istruzione di assalire le sentinelle e pugnalarle; ne uccisero dieci, ne ferirono cinquantadue; povere vittime anch'esse della medesima tirannia, che le traeva dai lontani tugurj di Croazia e di Boemia per gettarle contro odj e vendette, di cui nemmeno capivano la ragione.

Fu tutto. Due ore dopo, i Corpi di Guardia erano in pieno assetto di guerra; le pattuglie di cavalleria spazzavano le contrade; settanta popolani furono arrestati; sedici, impiccati due giorni dopo; e fra questi, come sempre, degli innocenti: Alessandro Scannini per tacer d'altri.

Quel sangue, — degli uni e degli altri — destò compassione ed orrore; non parve a nessuno utilmente versato. Ben altra era la lotta che i combattenti delle Cinque Giornate avevano cinque anni prima inaugurata; ben altra quella che sosteneva tutta la cittadinanza milanese, disdegnando apertamente ogni giorno relazioni coi dominatori o affrontando colla spada alla mano ufficiali stranieri, colpevoli personalmente, perchè liberi di continuare o di cessare il loro ajuto all'oppressione di un popolo. A questa lotta di uomini si trattava ora di sostituire una lotta di fiere; una sfida tra il pugnale e la corda. Il sentimento pubblico vi ripugnava; onde l'effetto del 6 febbrajo fu per alcuni giorni piuttosto di depressione che di ritempera.

Ne approfittarono senza indugio i governanti, racimolando firme ad un indirizzo, che fu spedito all'imperatore d'Austria, scampato in quei giorni egli pure a un tentativo d'assassinio politico. Lo firmarono un centinajo di persone o appartenenti all'alto patriziato conservatore o membri di Istituti Pubblici, di Corpi amministrativi tutelati dal Governo o dipendenti gerarchicamente da esso; uomini insomma che non erano stati o avevano cessato di essere nel moto politico attivo, e che credettero contribuire con questo atto, non contrario a' principj morali e religiosi, ad una mitigazione della reazione politica che andava ferocemente invadendo tutto il paese.

La condotta di quei firmatarj fu variamente giudicata; e più tardi i partiti politici, colla implacabilità che loro è consueta, fecero alcuni di quei nomi — non tutti — bersaglio a clamorose invettive. Allora, la situazione terribile del paese e la commozione degli animi fecero considerare con indulgenza quell'indirizzo. Certo, neanche fra quelli che lo firmarono, sarebbe parso possibile il 5 febbrajo. Visto oggi, a più di trentanni dall'epoca, con animo sgombro di passione, se non di affetto, pare piuttosto un atto di coraggio che di viltà. Nessuno di quelli che apposero all'indirizzo il loro nome poteva temere di essere considerato personalmente come partecipe, neanche lontano, neanche involontario, dei truci fatti. Se la reazione avesse inferocito anche più, su altri e non su loro ne sarebbero caduti i colpi.

Fu quella dunque — se anche inefficace od improvvida — una rassegnazione accettata pel beneficio d'altri e non ostentata pel proprio. E, del resto, in quell'ora, a Milano, non esigeva grande fortezza d'animo il tacere o lo star nella folla. Il difficile era d'uscirne.

Le conseguenze dirette ed immediate del tentativo furono proprio le più opposte che si potessero pensare alla speranza ed all'intenzione di chi lo aveva promosso.

Il partito repubblicano ne uscì fiaccato di credito e di autorità. Quella terribile inesperienza, quella spensierata prodigalità di vite umane indarno sacrificate allontanarono dalle sue fila il nucleo più numeroso e più intelligente degli uomini che mettevano lo scopo al disopra del metodo. In una sua celebre lettera ad Emilio Visconti-Venosta, il Mazzini mostrò sentire la necessità di questa ricomposizione politica; e si congedò da una parte de' suoi antichi seguaci, esprimendosi con un tono di mestizia profetica, sotto cui primeggiava quell'orgoglio de' proprj pensieri, che gli procurò più tardi dal generale Garibaldi giudizio così severo[95]. I patrioti milanesi accettarono senza esitazione questo distacco dal Mazzini; non dimenticando i servigi resi dall'uomo e il rispetto che gli si doveva, ma altrettanto convinti che r azione sua si trovava ora in completo disaccordo col pubblico sentimento e non poteva giovar più agli scopi nazionali, ormai avviati a soluzione diversa. Il ravvicinamento fra le tre correnti politiche di cui s'afforzava il programma di resistenza divenne sempre più stretto. Gli antichi albertisti trovarono nell'appoggio di elementi giovani e vigorosi una ragione a mosse più sicure e a maggiori ardimenti. Gli antichi repubblicani, scostatisi dal Mazzini, si confusero colla schiera capitanata dal Tenca, da cui soltanto questioni di opportunità li avevano anche in passato divisi. D'altronde l'imperversare della reazione militare aveva costretto i più noti cospiratori ad allontanarsi da Milano; il De-Cristoforis n'era uscito, travestito da cocchiere d'un patrizio beneviso al Governo, il Majocchi, sotto il vano d'una cassa in un carro pieno di calce. I popolani, avvezzi all'impulsione delle società segrete, accettarono quella che loro veniva da uomini noti e rispettati in paese, dei quali conoscevano o la vita integra o l'indole generosa.

Senza essere ancora precisamente legati ad un vero programma comune d'indole politica, tutti questi elementi cooperarono però d'allora in poi con vicendevole stima e vicendevole responsabilità. Si rifaceva, sotto la pressione delle necessità nazionali, una situazione cittadina moralmente identica a quella che aveva precorso le Cinque Giornate; la stessa fiducia nelle influenze patriottiche moderate; lo stesso vigore di manifestazioni individuali; il disdegno egualmente calmo di tutte le affettazioni di forza che il Governo moltiplicava. Solamente v'era un'esperienza più seria delle cose pubbliche, — quella che il dolore aveva maturata. Si comprendevano e si apprezzavano, meglio che nel 48, le relazioni fra gli Stati, le complesse necessità della politica e della diplomazia. Il patriottismo era rimasto, la rettorica era sparita. Non si metteva più la speranza della liberazione nei Polacchi, nei Magiari, negli Slavi, nei Rumeni; la si sentiva nell'attitudine operosa e virile della monarchia liberale italiana, nella vivace fierezza del suo grande ministro, nell'insieme — pure sconnesso e oscillante — della politica napoleonica, di cui la popolazione milanese, con quell'istinto che viene dalla cotidiana e indagatrice osservazione dei sofferenti, presagiva già inevitabile l'ultimo postulato, — la guerra all'Austria. Gli studj accennavano ad una rinata robustezza di fibra intellettuale e si volgevano ad argomenti di pratica attualità. Il Crepuscolo dava all'eletto manipolo de' suoi scrittori un vastissimo campo di affermare criterj nuovi nel progresso letterario e scientifico; un giovane di alto avvenire, Stefano Jacini, pubblicava un libro pensato e fortunato sulle condizioni agricole ed economiche del paese; alla Cassa d'Incoraggiamento d'Arti e Mestieri, dov'erano ancor fresche le feconde iniziative del Kramer e del Mylius, s'abbozzava un programma di laboriosità e di rinnovamento industriale, sotto l'impulso di Lorenzo Taverna, di Ignazio Vigoni, di Antonio Allievi, di Guido Susani.

Così si veniva preparando un'opinione pubblica illuminata, progressiva, atta a sostenere o a combattere programmi di governo. L'intransigenza politica, restando fiera, diventava effetto di logica più che di passione. Cominciò allora la prevalenza di quel complesso di metodi e di pensieri, che fa più tardi battezzato come politica moderata e che durò in Milano fin verso gli avvenimenti parlamentari del 1876. Certo, il Mazzini, dopo quell'epoca, non ebbe più in Milano l'efficacia da trascinare nè una massa ne un uomo. Il prestigio delle sue dottrine era caduto col mutarsi delle condizioni politiche a cui s'affacciava l'Italia. La sua decadenza politica era incominciata. Conservò ancora qualche influenza nelle provincie, dove la difficoltà di conoscere nelle sue origini e ne' suoi particolari l'impresa del 6 febbrajo prolungò di qualche anno le illusioni repubblicane. Ma il sistema suo di consigliare insurrezioni, sempre e dappertutto, lasciando credere che, dappertutto e sempre, vi fossero solidarietà insurrezionali, unicamente sognate nel credulo e mistico ambiente in cui egli viveva, svezzarono presto anche i più giovani dal metodo inefficace e antiquato della cospirazione mazziniana.

Quando sorsero gli avvenimenti del 1859, si udì con meraviglia che una quarantina d'individui in Italia aveva protestato contro l'alleanza francese e contro l'arrivo dell'esercito che avrebbe combattuto a Magenta e a Solferino. Parve una monomania come un'altra, e ne fu discorso per cinque minuti. Poi cominciò a risplendere l'astro di Garibaldi, e quello del vecchio profeta si ecclissò. A Samuele era successo Davide, che uccideva i giganti a colpi di fionda. Quanto v'era di patriotismo serio e bollente nella gioventù italiana stette con Davide, che conduceva a guerre meravigliose e a smaglianti vittorie. Samuele ebbe il torto di prolungare, oltre ogni misura, un periodo di predicazione che gli avvenimenti avevano sopravanzato. La vecchiaja di Mazzini fu triste. Ed è triste per tutti che un uomo della sua fede non abbia potuto passare gli ultimi anni, tranquillo e rispettato, in quella patria alla cui formazione aveva pur contribuito. Non fu colpa certo de' suoi concittadini; fu sua. E Iddio, in cui egli credeva, gli avrà certamente perdonato l'eccesso d'orgoglio, che è il tarlo della sua fama e fu quello della sua pace.

La reazione militare che susseguì al tumulto del 6 febbrajo fu, come accennammo, violenta.

Proclamato lo stato d'assedio e mantenuto per lungo tempo con tutte le sue rigidezze; sfrattati tutti gli Svizzeri del Canton Ticino perchè sospetti di relazioni rivoluzionarie; colpiti di sequestro i beni dei fuorusciti, anche di quelli a cui il Governo stesso aveva negato il ritorno e l'amnistia; chiuse le porte delle città; proibito il circolare delle vetture; proibito il suono delle campane; impedito a più di tre persone il raccogliersi; tutte le spese militari a carico della città; ronde e pattuglie ad ogni ora, di giorno e di notte; le sentinelle ricoverate entro recinti d'inferriate, quasi affettando di considerare un sicario in ognuno dei cittadini. Vi furono dei sordo-muti freddati dalla carabina delle scolte, per non aver potuto udire nè rispondere al lugubre halt wer da? (chi va là?) che ad ogni tratto risuonava.

La cittadinanza lasciava passare questi furori e non mutava contegno. Anzi la disciplina politica parve degli stessi furori avvantaggiarsi. Le questioni dei ticinesi e dei sequestri, diventando internazionali, provocavano difficoltà diplomatiche, da cui l'Austria non usciva sempre con riputazione. Le note piemontesi crescevano di energia; Vienna e Torino si restituivano a vicenda i loro ambasciatori, preludio di maggiori ostilità. Milano si sentiva fatta il nodo della questione italiana, e sopportava lietamente le proprie sofferenze, perchè convinta che queste affrettavano i tempi nuovi.

Tutto ciò ebbe a mutare di punto in bianco sul principio dell'anno 1857. Allora la Lombardia parve divenuta il beniamino, il cucco della dinastia degli Absburgo. L'imperatore Francesco Giuseppe venne a Milano, preceduto da una completa amnistia pei prigionieri di Stato; mostrò intenzioni piene di benevolenza; regalò milioni, a beneficio di comuni, di terreni inondati, di teatri, per la costruzione del giardino pubblico a Milano, per l'erezione di un monumento a Leonardo da Vinci.

Che cosa era avvenuto? nulla, di carattere milanese. Ma s'era in questo frattempo combattuta e terminata la campagna di Crimea; s'era conchiusa la pace di Parigi; il fiero plenipotenziario austriaco aveva dovuto subire, da pari a pari, i rimproveri del plenipotenziario piemontese; e la voce mesta ed affranta, ma interamente presaga, del vecchio principe di Metternich, aveva esclamato: “il n'y a plus qu'un diplomate en Europe, mais c'est le comte de Cavour.„

L'accoglienza simpatica che l'areopago europeo aveva fatta ai reclami politici del ministro piemontese contro i governi di Napoli e di Roma urtava in pieno petto, malgrado le ipocrisie ufficiali, l'Austria dispotica in Lombardia. A Vienna sentirono che bisognava mutar tono per non precipitare le cose, e fu deciso di sostituire politica di concessioni a politica di compressioni.

Sfortunatamente — o fortunatamente — apparve ai centralisti austriaci più facile proclamare la teoria che mettersi d'accordo sull'entità e sul numero delle concessioni. I ministri che avevano accompagnato l'Imperatore a Milano, discussero lungamente il da farsi. Non mancarono di rivolgersi per consiglio a qualche notabilità cittadina, rimasta fuori dal movimento politico. E il conte Giuseppe Archinto, gran proprietario, fra i pochissimi che bazzicassero a Corte, presentò, in nome d'un gruppo di cittadini, dei quali non si seppe mai precisamente nè il numero nè la qualità, una Memoria sul nuovo ordinamento da darsi alle Provincie lombardo-venete. Questa Memoria, a cui pare abbia largamente cooperato di scritto e di consiglio Cesare Cantù, e che il re Leopoldo del Belgio aveva veduta e appoggiata, proponeva molte di quelle istituzioni autonome che settant'anni prima Pietro Verri aveva chieste all'imperatore Leopoldo, e che nel 1848, Carlo Cattaneo considerava come i capo-saldi del suo programma di riforme nazionali. Vi si dimostravano i vantaggi dello scindere amministrativamente il governo delle provincie italiane dalla centralità dell'Impero; vi si chiedevano corpi consulenti locali, e forza militare locale, e impiegati paesani, e finanza propria, con tributo determinato per le spese generali della monarchia. Si proponeva a capo di questa specie di Stato autonomo e vassallo l'arciduca Massimiliano, fratello dell'Imperatore; giovane di qualità brillanti e simpatiche, occupato in quei giorni a trovarsi una compagna della sua vita, che appunto il conte Archinto andò poco dopo come ambasciatore suo, a chiedere alla Corte di Brusselles, — la principessa Carlotta.

Di tutta questa fantasticheria di riforme, i ministri austriaci accettarono soltanto quella che in fondo lasciava le cose com'erano: la destinazione dell'arciduca Massimiliano a Governatore generale del regno Lombardo-Veneto. Il De Bruck, il Bach, lo Schmerling erano certamente liberali, ma a casa loro. Qui non sapevano spogliarsi della solidarietà cogli elementi militari, i quali persistevano a dire che la Lombardia era paese di conquista e non poteva essere trattata come i territorj nazionali. Al postutto, non avevano torto.

Fu allora che apparve sulla scena politica un gruppo di conservatori, rimasti fino allora interamente estranei alle varie oscillazioni del movimento. E si manifestò con una mossa di cui è bene indagare le origini e le ragioni; perchè valse a creare per qualche tempo una situazione nuova, e minacciò di complicare con incidenti imprevisti il programma, fino allora sterile ma immutato, della politica di resistenza.

Erano appena finite, e non interamente, le pratiche per un nuovo riordinamento delle ferrovie austro-italiche. S'era divisa la rete complessiva in due gruppi, e nel Consiglio direttivo della rete che fu poi detta dell'Alta Italia s'erano voluti introdurre, per garanzia di molti interessi, alcuni dei patrizj lombardi e veneti di maggior nome e noti per indole conservativa. Il duca di Galliera aveva proposto per la Lombardia il cognato suo, duca Lodovico Melzi d'Eril, il conte Giuseppe Archinto e il conte Renato Borromeo. Fu in tale qualità di rappresentanti il Consiglio d'Amministrazione delle Ferrovie che il Melzi e l'Archinto si recarono a ricevere l'Imperatore a Venezia. Nel colloquio che necessariamente dovettero avere, il monarca austriaco, venuto per essere famigliare, chiese a Melzi perchè i Lombardi non fossero contenti del governo che annunciava con larga amnistia le sue intenzioni rinnovatrici. Stretto dalla necessità di rispondere ad una domanda che probabilmente non aveva preveduta, il patrizio milanese affermò che di queste intenzioni i cittadini non potevano saper nulla, perchè tra essi e le autorità politiche s'era innalzata la muraglia della China. Il motto, data la qualità dei tempi e degli interlocutori, potè sembrare audace e come tale fu ripetuto nelle sale dell'alta società viennese.

Ma quando l'arciduca Massimiliano, accettata l'alta sua carica, venne a Milano ad assumere le redini del Governo, si guardò intorno per cercare su quali elementi cittadini avrebbe potuto appoggiarsi. Il colloquio di Venezia indicava naturalmente fra questi il duca Melzi; e il conte Zichy, presidente del Consiglio d'Amministrazione delle Ferrovie, sollecitò vivamente il duca ad accettare presso il nuovo Governatore del Regno un posto indipendente di fiducia, nel quale avrebbe potuto — diceva lo Zichy — essere utile al paese, rimovendo equivoci e facendosi interprete di molti bisogni.

I consiglieri intimi dell'Arciduca erano uomini rispettabili per carattere e per ingegno; il conte di Bombelles, suo amico e confidente, il conte Hadig, ungherese, di opinioni assai liberali, suo primo ajutante di campo, il barone di Kubeck, suo consigliere diplomatico, che fu poi ambasciatore a Roma presso il governo del Re d'Italia. Il conte Andrea Cittadella Vigodarzere aveva accettato d'essere gran maggiordomo dell'arciduchessa Carlotta, e il conte Pietro Bembo collaborava come segretario arciducale ai progetti di materia economica ed amministrativa, in cui era abbastanza versato.

A questo onorevole sodalizio, in cui lo si pregava di entrare, non seppe il Melzi opporre un rifiuto; e vi stette per diciotto mesi, vedendo frequentemente l'Arciduca, che gli confidava i suoi progetti o le sue speranze di riordinamento italiano.

Per verità, il fratello dell'imperatore d'Austria esponeva, circa la sua missione in Italia, concetti larghi, nei quali è dubbio ancora se avesse vera fede o semplice compiacenza. Forse era un po' dell'una e un po' dell'altra, poichè l'animo suo, naturalmente generoso ma disadatto a serie meditazioni, oscillava spesso fra l'utopia e lo scoramento. Rassomigliava in ciò grandemente al suo amico e protettore — pur troppo inefficace pochi anni dopo — l'imperatore Napoleone III.

Politicamente, appoggiava il programma della federazione, presieduta dal Papa; risalendo alle aspirazioni italiane di nove anni prima[96], ma dimenticando che da quell'epoca in poi aveva mutato il Papa, come aveva mutato l'Italia. Avrebbe aumentato dei Ducati transpadani il territorio piemontese; voleva sbarazzarsi, con una pensione, del duca di Modena; far pratiche perchè al regno Lombardo-Veneto si aggiungessero le Legazioni. Pel conte di Cavour diceva nutrire gran simpatia, e ad una signora molto intima di casa Melzi aveva detto, non esser difficile ch'egli potesse ricevere ospite festeggiato a Milano il re Vittorio Emanuele. Tanto sognava!

Amministrativamente poi, — e qui ci pare che la sua buona fede possa essere stata intera, — voleva molta autonomia, una rappresentanza del paese in due rami, con forme di elezione, un grande sviluppo d'istruzione pubblica, la polizia sottratta ad ogni ingerenza militare e data ai Comuni, le truppe austriache limitate alle due grandi fortezze, e nel resto del territorio guarnigioni italiane con ufficiali italiani.

Si capisce come un simile programma abbia potuto esercitare qualche attrazione sul piccolo gruppo di Italiani che gli si erano avvicinati e che potevano forse non avere nessuna precisa nozione delle molte probabilità che già presentava in quell'ora il programma di una intiera indipendenza, sotto monarchia nazionale e con guarentigie parlamentari. Ed è giustizia ricordare che in quei giorni l'imperatore Napoleone, quasi arbitro dell'Europa, ostentava larghissime simpatie per la persona e per la politica di Massimiliano. Sicchè ad uomini tenutisi o tenuti al bujo delle pratiche personali e quasi della cospirazione diplomatica che il Cavour conduceva coll'imperatore francese, poteva sembrare interesse vero di libertà l'accoglimento di quel largo programma riformatore che le circostanze mutavano invece in un pericolo per la formazione della patria.

E pericolosa veramente per qualche tempo sembrò al programma unitario l'attitudine assunta dall'Arciduca in Lombardia. I liberali milanesi dovettero accentuare anche con maggiore asprezza il loro contegno intransigente, involgendovi pur quelli fra i loro concittadini che ai propositi dell'Arciduca sembrassero poco o punto piegare. Il conte di Cavour non si dissimulava le difficoltà che la sua politica avrebbe potuto trovare in una transazione, anche di breve durata, fra la popolazione lombarda e il suo governo. Mandava dire al conte Giulini: “fate piuttosto mettere Milano in istato d'assedio.„ E in un colloquio importante, ch'ebbe luogo in quell'anno tra Emilio Visconti-Venosta ed Emilio Dandolo, questi espose lungamente, per espresso incarico del Cavour, le trattative avviate e le ardite risoluzioni del Piemonte e gli impegni in cui era già entrato l'imperatore Napoleone. In quel colloquio furono gettate le basi di un'intima e definitiva adesione dei liberali lombardi al programma ed alla direzione politica del conte di Cavour; accordo che andò poi sempre crescendo e che non fu inutile nè all'unità della patria nè alla fortuna politica del grande uomo di Stato.

Una dopo l'altra, venivano poi ad avere sonora eco in Milano le notizie delle altre parti d'Italia; la spedizione di Sapri, la questione diplomatica pel Cagliari, la pubblicazione del libro Toscana ed Austria, la dichiarazione del rispettato Manin, che con Garibaldi, con Pallavicino, con La Farina, innalzava la bandiera: Italia e Vittorio Emanuele. Tutto ciò rendeva Milano pensosa e decisa; sentiva essa che finalmente, e non senza merito suo, la questione austro-lombarda s'era tramutata in austro-italica; fiduciosa nella virtù nazionale, aspettava il futuro, noncurante per esso dei dolori e dei sacrificj presenti.

Ad una popolazione munita di siffatti antidoti offriva invano l'Arciduca Governatore i lenocinj della sua carezzevole amministrazione. Faceva infatti studiare progetti e miglioramenti d'ogni natura; largheggiava cogli artisti e coi letterati; dava splendidi balli.... a quelle dieci o dodici ballerine che accettavano d'intervenirvi; nella speranza d'essere grato al popolo, sfoggiava eleganze nuove di cavalli, di equipaggi, di uniformi; e il popolo, acuto e burlesco, ne storpiava il nome con un bisticcio di lontano significato: “l'arciduca Mazza-Milano.„

Mandava ogni giorno a chiedere notizie del Manzoni ammalato; sperando sopra un'occasione di visita o di colloquio, che il fiero vecchio non accordò mai. Quando cominciò a discutersi dal Crepuscolo e nei pubblici ritrovi la questione dei disastri agricoli nella Valtellina, pregò Stefano Jacini di scrivere sull'argomento; e l'opuscolo dell'egregio scrittore fu un'acerba requisitoria contro l'amministrazione austriaca in quella provincia. Volendo far qualcosa e non sapendo che fare, vi si recò di persona col Bembo e col Valmarana. Da quelle autorità municipali ottenne fredde accoglienze e vigorosi reclami. Vi lasciò del denaro, — la solita goccia d'acqua che è la panacea dei dolori, pei principi assoluti e per gli amministratori impotenti.

Senonchè queste armi benevole si rintuzzavano non solamente contro la corazza patriottica dei milanesi, ma anche contro la disdegnosa ostilità degli alti personaggi dell'Impero, militari e civili.

A Vienna si canzonavano queste velleità liberali del giovine principe. Il barone di Burger, suo luogotenente in Lombardia, gli moveva una sorda guerra e otteneva spesso dal Ministero imperiale istruzioni affatto opposte a quelle che l'Arciduca gli soleva impartire. A queste istruzioni poi l'Arciduca disubbidiva, e una sanatoria dell'augusto fratello veniva ordinariamente a por fine a simili conflitti. Ma il prestigio dell'autorità sua non ne avvantaggiava. Quando morì il maresciallo Radetzki, e il suo successore Giulay trasportò da Verona a Milano la residenza del Gran Comando militare, l'azione politica di Massimiliano ne subì effetto d'indebolimento. S'annullò quasi interamente, allorchè la nascita dell'arciduca Rodolfo diede al partito centralista dinastico un dominio indisputato nelle eccelse regioni del Governo imperiale. Fu agevole persuadere all'imperatore d'Austria che il programma di Massimiliano, non aiutato neanche da nessun principio di successo politico, metteva in pericolo quell'unità dell'Impero che ormai trovava nel nato erede un nuovo avvenire di solidità.

L'Arciduca raccolse le sue casse di studii e di progetti, e si recò a Vienna, nella speranza di vincere personalmente gli ostacoli che da lontano lo trattenevano. Fu accolto cordialmente, ma non riuscì a far discutere i suoi progetti. Lo tennero a bada, come uomo con cui fosse pericoloso inimicarsi, ma di cui fosse inutile conoscere le idee.

Fu in quell'epoca, nell'estate del 1858, che il duca Lodovico Melzi, trovandosi a Vienna, manifestò all'Arciduca la sua intenzione di partire per Parigi. Massimiliano gli diede una lettera per l'imperatore Napoleone, sulla quale fu allora almanaccato fra i giornali politici, avvezzi a credere sempre fecondo di cose grosse ogni incidente di carattere italiano.

Nel fatto, quella lettera non aveva altro obbiettivo che di cortesie e di affari privati dell'arciduca Massimiliano. Questi però aveva inspirato di sè tali diffidenze, che il Melzi parve ambasciatore pericoloso, e il plenipotenziario austriaco, barone di Hübner, colmandolo di gentilezze, seppe trovar modo che non vedesse Napoleone da solo a solo.

Escluso dunque ogni discorso politico, Napoleone invitò Melzi alle caccie di Fontainebleau, e frattanto partì per Plombières, dove ebbe luogo il famoso colloquio col conte di Cavour. Di questo colloquio, e della situazione che si stava preparando agli affari d'Italia, il patrizio milanese ne potè sapere quanto bastava a persuaderlo che le iniziative dell'arciduca Massimiliano mancavano ormai da un lato e dall'altro di ogni solida base.

Ritornato a Milano, radunò subito i suoi colleghi, e propose loro di dare le dimissioni, per non separarsi dal nuovo indirizzo che il paese seguiva con migliori probabilità di successo. Anche all'Arciduca espose rispettosamente i suoi dubbi, e lo pregò a considerare se non gli convenisse personalmente rinunciare alla sua missione in Italia, avendo perduto coll'appoggio dell'imperatore Napoleone la maggior forza su cui poteva contare per l'esplicazione del suo programma.

L'Arciduca rispose che la sua fedeltà verso l'Imperatore d'Austria gli imponeva di continuare una missione, di cui non si dissimulava l'inutilità[97]. I conti Bembo e Cittadella dichiararono che, per riguardi personali, non potevano abbandonare Massimiliano. Il duca Melzi rassegnò per conto proprio il suo incarico a Corte e si ritirò a Genova fino dopo gli avvenimenti del 1859.

Tale fu lo svolgimento e la fine di questo singolare episodio, di cui fu discorso allora e dopo, nè con perfetta conoscenza di fatti, nè con perfetta giustizia di apprezzamenti.

Fu assai rimproverata, specialmente al duca Melzi, la partecipazione a siffatte trattative. E forse si può credere che non abbia il duca interamente misurata la responsabilità impostagli dall'illustre antenato, che aveva sostenuto quarantadue anni prima così diversa politica.

È certo però che la condotta degli uomini pubblici vuol essere considerata in rapporto alle circostanze, in rapporto all'ambiente che suole determinarla.

Gli uomini che s'erano lasciati attrarre dalla soluzione politica impersonata nell'arciduca Massimiliano avevano posto in prima riga una questione di riforme liberali, laddove il momento storico dava la preferenza ad una questione di agglomeramenti nazionali. Può essere stata da parte loro mancanza di previdenza, non più. E, come già abbiamo notato, nessuna ingerenza in altre politiche, in altre speranze, probabilmente ignorate, può aggravare in questo caso la mancanza di previdenza.

Appunto è dovere di quelli, al cui programma è stata prospera la fortuna, di non ispingere più in là del bisogno di lotta la riprovazione di un programma che è stato sconfitto. Le ipotesi che valgono a salvare od a perdere una nazione son molte, e la certezza della vittoria rade volte soccorre anche i capitani più eccelsi. Ned era senza preoccupazioni il partito della resistenza intransigente, pensando all'incerta fine di una politica, che una mancanza di successo all'ultimo istante avrebbe potuto far apparire, nell'opinione delle masse oscillanti, o meno savia o meno generosa di quello che fu. Napoleone III avrebbe potuto soccombere al pugnale di un sicario, la battaglia di Magenta poteva non essere una vittoria, il conte di Cavour poteva essere assalito due anni prima dal morbo che lo spense nel 1861. Ognuna di queste cause avrebbe obbligato ad una dura sosta il programma belligero e data, di ripicco, un'auge impreveduta al programma riformativo. D'altronde, al partito conservatore, che in ogni epoca è un numero, in ogni Stato una forza, in ogni istituzione una garanzia, non poteva negarsi il diritto di esprimere, col primo spiraglio di tolleranza, le proprie idee. Le quali, a voler essere giusti, rasentavano in quell'ora piuttosto l'audacia che la timidezza riformatrice; talchè avrebbero potuto servire perfettamente di base alla ricostruzione di uno Stato liberale, se la questione dell'indipendenza non avesse di tanto soverchiato quella dell'assetto organico. Ogni partito ha modi proprj di agire, che non si possono mutare senza distruggere con essi la stessa fisonomia del partito. E nella mutabilità dei pensieri e dei casi, vien sempre l'ora in cui un partito può rendere alla patria servigi che altri non potrebbero renderle più.

Sicchè, a voler guardare dopo trent'anni, e con criterj storici, l'episodio dell'arciduca Massimiliano in Lombardia, non ci pare che la tradizione italiana debba punto arrossirne. A buon conto ha dimostrato due cose: che, nella fatale ipotesi del rovescio di una politica, v'erano pronti degli elementi per sostituirne un'altra, atta a frenare le inevitabili reazioni; e che il paese aveva una fibra così energica e un apprezzamento così sicuro delle situazioni, da tracciare direttamente esso la via a' suoi consiglieri e a' suoi duci. Nel 1848 aveva risposto al Cattaneo: piuttosto la rivoluzione che le riforme; nel 1857 rispose al Melzi, all'Archinto, al Cantù: piuttosto che le riforme, la tirannia. “Nous ne demandons pas que l'Autriche nous gouverne bien„ scriveva da Parigi il Manin “nous lui demandons qu'elle s'en aille.„ Si può oggi e si poteva allora discutere sulla maggiore o minore convenienza pratica di questo concetto; ma non si può negare che il concetto fosse alto, e che torni a grande onore dell'intelligenza e della virtù nazionale l'averlo sostenuto in così diversi periodi con tenacità così fiera.

Le ultime pagine spiccate di questo decennio di lotta s'aggirano intorno a due tombe, a due funerali.

Quando morì, sul principio del 1858, vecchio di novantun anni, il maresciallo Radetzki, alle pressioni governative perchè il Municipio milanese onorasse della sua presenza il trasporto funebre, quei magistrati, pur non eletti dai loro concittadini, ma nominati dal Governo stesso, opposero un rigido rifiuto; memori di uno schifoso decreto del 1853 che poneva a carico del tesoro municipale le corde adoperate per le impiccagioni del 6 febbrajo. E v'erano pure fra quelli uomini, tali che potevano sembrare d'indole assai temperata per avere firmato in quell'epoca l'indirizzo all'imperatore d'Austria.

Ma quando, circa un anno dopo, si sparse per Milano la notizia che il lungo morbo aveva finalmente spenta la vita di Emilio Dandolo, la città si mosse tutta per onorare nel giovane morto l'eccellenza di quegli affetti e di quegli ardori da cui i vivi si sentivano penetrare. Fu invano che la polizia, indovinando questo scoppio di patriotismo, desse istruzioni severe e scaglionasse gran forze intorno alla casa, alla chiesa di S. Babila, lungo il percorso del corteggio funereo. Forse cinquantamila persone accompagnarono al cimitero quella nobile bara, trascinando in un fiotto irresistibile le stesse guardie incaricate di fermarlo e respingerlo. Nessuna misura precauzionale della polizia potette riuscire, nessun divieto suo fu rispettato. Sul feretro, portato da giovani patrioti e da intimi della famiglia, Lodovico Mancini ardì collocare una gigantesca corona di fiori, da cui spiccavano distintissimi i tre colori nazionali, e che nessun agente di polizia potè nè trattener prima, nè ghermir poi. Al cimitero parlarono con vivaci intonazioni d'attualità politica Antonio Allievi e Gaetano Bargnani. La polizia dovette quel giorno lasciar fare e lasciar dire, perchè impotente a reprimere.

Il giorno dopo, osò più sicura. Mandò a perquisire e ad arrestare quelli che trovò, un Carcano, il dottor Signoroni, Costantino Garavaglia; si sottrassero a tempo altri, cercati, come Lodovico Trotti, i fratelli Visconti-Venosta, Allievi, Bargnani, i fratelli Mancini. Ma erano più sgomenti gli arrestatori che gli arrestati. A questi i carcerieri si raccomandavano per essere perdonati della forzata custodia; si offrivano di portar loro abiti, cibi, giornali. La potenza era già passata dal terribile impero che aveva sul luogo duecentomila bajonette, a quei giovani inermi che rappresentavano unicamente un'idea.

Ma l'idea s'inoltrava. Già l'imperatore Napoleone aveva espresso al barone di Hübner il dispiacere di non essere più d'accordo col suo Governo; già il re Vittorio Emanuele aveva fatto echeggiare l'aula del Parlamento di quel maschio “grido di dolore„ che scosse dal sommo all'imo tutta l'atmosfera italiana. Contro queste due frasi l'Austria inviava cannoni e squadroni di cavalleria e truppe croate e boeme, che avrebbero voluto incutere terrore, e che i milanesi accoglievano con battimani, perchè dinotavano l'irrevocabilità della guerra. E la guerra si dichiarava proprio a voce alta nel teatro alla Scala, dove ogni sera al famoso coro della Norma il pubblico della platea e dei palchi si univa fremente d'entusiasmi, e a cui rispondevano irritati gli ufficiali austriaci stipati nelle sedie chiuse, gesticolando minacciosi ed estraendo a mezzo le sciabole dai foderi[98]. Nè queste erano guerre che si sarebbero fermate alle strida; poichè ogni sera ed ogni mattina i giovani schiamazzatori partivano solitarj o a drappelli, traversando, dove potevano e come potevano, il Po o il Ticino o il Lago Maggiore, per inscriversi nelle file dell'esercito sardo, o fra i volontarj di Garibaldi, o nelle scuole di Pinerolo e d'Ivrea.

L'Austria faceva dire alle sue gazzette che erano settarj, sobillati dalle fazioni anarchiche o mazziniane; e il conte di Cavour, soffregandosi le mani, additava nelle sue lettere e ne' suoi colloquj coi diplomatici europei i più bei nomi del patriziato storico lombardo, gli eredi dei Trivulzio, dei Litta, dei Visconti, dei Belgiojoso, dei Taverna, dei Del Majno, dei Borromei, arruolatisi come semplici coscritti nei battaglioni sardi, e pronti, per sentimento di patria, a portare sulle loro spalle le fascine pel rancio dei loro compagni.

In questa attitudine, che l'Austria avrebbe voluto più rivoluzionaria per poterla colpire, ma che trovava modo di rendere la rivoluzione efficace, trasportandola dall'interno all'estero, durò Milano fino alla battaglia di Magenta ed al memorabile ingresso di Vittorio Emanuele e di Napoleone III, dall'arco del Sempione.

In quell'urlo di entusiasmo, che ai superstiti dell'epoca servirà sempre di antidoto contro le indifferenze o le ingiustizie dei posteri, Milano estingueva, per così dire, il periodo millenario della storia lombarda e si rannicchiava serenamente in un cantuccio della futura storia italiana.

E noi chiuderemo a nostra volta la serie di queste ricordanze, dalle quali avranno tratto certamente maggior noja i nostri lettori che noi.

Abbiamo voluto indagare come nascessero e da chi fossero fecondati in Milano i germi di quella politica nazionale, che una legge storica quasi costante, benchè inavvertita, condusse, attraverso i secoli, alla fusione dei grandi municipj italiani nella sintesi di una patria. E siamo giunti, quasi senza avvedercene, dal 300 al 1859, evocando tipi e studiando caratteri, di cui ignoravamo noi stessi i contorni e l'influenza.

Noi non affronteremo il problema politico, — se la nuova Italia abbia fatto ne' suoi ordinamenti moderni una parte sufficiente a questi illustri focolari dell'antico senno italiano, — se abbia tratto durevole virtù di organismo da quel concetto unitario che le popolazioni hanno seguito, piuttosto tratte da un alto istinto politico che da una pensata filosofia.

A noi è bastato lumeggiare in parte il problema storico, citare innanzi ai contemporanei gli attori del passato, per trarre da loro la testimonianza delle necessità che ci hanno spinti su quella via e delle virtù che ce l'hanno potuta spianare.

Ed ora che la fatica è finita, abbiamo voluto, come Renzo, cercare se da questi fatti si possa imparare qualcosa. E ci par questo: che, nelle cose pubbliche, il male è facile, il bene difficile; e che, a voler servire davvero la patria e non un partito, bisogna diffidare sopratutto di quelle conclusioni individuali, che paiono giuste unicamente perchè rispondono ad una passione, — lottare contro le impressioni momentanee, che il pregiudizio ingrossa in ventiquattr'ore, ma che la ragione impiega degli anni, — talvolta dei secoli, — a dissipare.

FINE.