1

I membri del Consiglio Mondiale sedevano gravi e solenni, mentre lui camminava verso di loro. Erano dodici, e tutti avevano occhi penetranti, capelli grigi o bianchi, e facce segnate dal tempo e dalle esperienze. In silenzio, con le labbra tese e le bocche serrate, lo guardarono avanzare, mentre il folto tappeto frusciava sotto i suoi piedi.

Il silenzio dell’attesa, gli sguardi intenti, il frusciare del tappeto e l’atmosfera pesante di ansietà inespressa, dimostravano che quello era un momento grave, di quelli che vanno ben oltre lo scorrere delle lancette.

Raggiunto il grande tavolo a ferro di cavallo dove sedevano i membri del Consiglio, lui si fermò a guardarli a uno a uno, cominciando dall’uomo sciatto che sedeva all’estremità sinistra, per passare, con deliberata lentezza, fino a quello grasso che occupava l’ultimo posto a destra.

Il suo sguardo penetrante aumentò il loro nervosismo. Alcuni si mossero a disagio come chi sente la propria sicurezza svanire lentamente. E ognuno dimostrò sollievo quando l’occhiata intensa passava su chi gli stava accanto.

Alla fine, la sua attenzione tornò all’uomo dalla criniera leonina, Oswald Heraty, che sedeva al centro del tavolo. Mentre fissava Heraty, le sue pupille brillarono, e le iridi si punteggiarono d’argento. Parlò lentamente, con tono misurato.

— Capitano David Raven, ai vostri ordini, signore — disse. Appoggiandosi allo schienale della poltrona, Heraty si lasciò sfuggire un sospiro e fissò l’attenzione sull’immenso lampadario di cristallo che pendeva dal soffitto. Era difficile dire se stava riordinando le proprie idee, se cercava accuratamente di evitare lo sguardo dell’altro, o se reputava necessario fare questa seconda cosa per riuscire nella prima. Gli altri membri del Consiglio tenevano ora la testa girata verso Heraty, un po’ per prestare piena attenzione a quello che avrebbe detto, un po’ perché fissare Heraty era un buon pretesto per non guardare Raven. Tutti avevano seguito con lo sguardo l’ingresso di quest’ultimo, però nessuno voleva esaminarlo approfonditamente, nessuno voleva essere esaminato da lui.

Sempre fissando il lampadario, Heraty parlò con il tono della persona che ha sulle spalle una pesante responsabilità alla quale non può sottrarsi.

— Siamo in guerra.

Tutti rimasero in silenziosa attesa.

— Sarò franco, capitano: mi rivolgo a voi vocalmente perché non ho altra alternativa — continuò Heraty. — Vi prego cortesemente di rispondere nello stesso modo.

— Sì, signore — fu la laconica risposta di Raven.

— Siamo in guerra — ripeté Heraty con leggera irritazione. — Non vi sorprende?

— No, signore.

— Eppure dovrebbe sorprendervi — disse uno dei membri del Consiglio, seccato per l’impassibilità di Raven. — Siamo in guerra da circa diciotto mesi, e soltanto ora lo scopriamo.

— Lasciate parlare me — disse Heraty agitando una mano per interrompere un collega. E per un istante, un solo istante, incontrò lo sguardo di Raven nel formulare la sua domanda.

— Sapevate o sospettavate che eravamo in guerra?

Raven sorrise tra sé.

— Che prima o poi saremmo stati coinvolti, era ovvio fin dall’inizio.

— Da quale inizio? — chiese l’uomo grasso che sedeva all’estrema destra.

— Fin dal momento in cui abbiamo attraversato lo spazio interplanetario e ci siamo stabiliti su un altro mondo — rispose Raven con impassibilità sconcertante. — Da quel momento la possibilità di una guerra è entrata a far parte delle nuove circostanze.

— Volete dire che abbiamo sbagliato, in un modo o nell’altro?

— No. Il progresso si paga. E prima o poi viene presentato il conto.

La risposta non soddisfece nessuno. Il suo modo di ragionare correva con troppa rapidità dalle premesse alla conclusione, e quelli del Consiglio non riuscivano a seguirne la logica.

— Il passato non ha importanza. Noi, come individui di oggi, non possiamo controllarlo. Nostro compito è quello di lottare contro i problemi immediati e quelli del prossimo futuro. — Heraty si passò una mano sulla mascella. — Il problema numero uno è questa guerra. Venere e Marte ci attaccano, e noi, ufficialmente, non possiamo fare niente. Per la semplice ragione che si tratta di una guerra che non è una guerra.

— Una divergenza di opinioni? — chiese Raven.

— All’inizio era così. Ora le cose si sono spinte molto più in là. Dalle parole si è passati ai fatti, e senza alcuna dichiarazione formale di guerra, per la verità. Con tutte le apparenze esterne di amicizia e di fratellanza, quelli stanno attuando la loro linea politica in modo militare, se si può chiamare militare… io non so in quale altro modo descriverlo. — La sua voce prese un tono più irritato. — Stanno comportandosi così da circa diciotto mesi, e solo ora poi scopriamo di essere stati colpiti parecchie volte e duramente. Questo stato di cose potrebbe andare avanti troppo a lungo.

— Tutte le guerre durano troppo a lungo — disse Raven.

I membri del Consiglio considerarono quelle parole come un pensiero profondo. Ci fu un mormorio di consenso, e molti agitarono la testa in segno di approvazione. Due membri si arrischiarono perfino a guardarlo negli occhi, anche se il più brevemente possibile.

— La cosa peggiore — riprese Heraty — è che ci hanno abilmente rivoltato contro la situazione che noi stessi avevamo creato e, almeno ufficialmente, non abbiamo via d’uscita. Cosa possiamo fare? — Senza attendere suggerimenti dalle persone che aveva attorno, rispose alla sua stessa domanda. — Dobbiamo intraprendere una azione che non sia ufficiale.

— E io dovrei essere il capro espiatorio? — chiese Raven.

— Voi sarete il capro espiatorio — confermò Heraty.

Per un attimo tornò il silenzio. Raven aspettò cortesemente che quelli del Consiglio si concentrassero sui loro pensieri. Avevano ottimi motivi per ponderare. Nel passato, in un passato molto lontano, c’erano state delle guerre. Alcune lente e tortuose, altre rapide e catastrofiche. Ma erano state guerre della Terra.

Un conflitto tra i mondi era qualcosa di nuovo, qualcosa di molto diverso. Creava problemi ai quali le antiche lezioni non potevano essere applicate. Inoltre, una guerra di nuovo stile, condotta con nuove armi e che si doveva servire di tecniche mai usate prima di allora, poneva problemi nuovi non certo risolvibili sulla base delle passate esperienze.

Dopo qualche istante Heraty riprese a parlare. — Venere e Marte sono stati da molto tempo occupati dall’ Homo sapiens, dalla nostra stessa razza, sangue del nostro sangue — disse con tristezza. — I loro abitanti sono nostri figli, ma da qualche tempo non si considerano più tali. Pensano di essere cresciuti abbastanza e di poter andare dove vogliono, di fare quello che vogliono, e di tornare a casa all’ora che vogliono. Negli ultimi due secoli, si sono agitati per avere un governo proprio. Domandavano la chiave di casa quando erano ancora bagnati dall’acqua del battesimo. Noi abbiamo costantemente rifiutato questo loro desiderio. Abbiamo detto di aspettare, di essere pazienti — Sospirò profondamente. — E guardate dove siamo finiti.

— Dove? — chiese Raven, sorridendo.

— In un bivio. Un bivio le cui strade sono entrambe difficili da percorrere. Senza un governo autonomo i Marziani e i Venusiani rimangono Terrestri, ufficialmente e legalmente, dividono questo mondo con noi e godono di tutti i nostri diritti, come se ne fossero veri cittadini.

— E allora?

— Significa che possono venire sulla Terra tutte le volte che vogliono e fermarsi per tutto il tempo che credono, senza limitazione di numero. — Protendendosi in avanti, Heraty batté un pugno sul tavolo per mettere in risalto la sua collera. — Possono varcare la porta sempre aperta anche quelli decisi a incendiare, sabotare, o compiere qualsiasi altra azione dolosa. Non possiamo escluderli. E non possiamo rifiutare loro l’ingresso se non trasformandoli proprio in quello che loro vogliono diventare, cioè degli stranieri. Noi non vogliamo fare di loro degli stranieri.

— Peccato — disse Raven. — Immagino che abbiate le vostre buone ragioni.

— Certamente. Ne abbiamo a dozzine. Non è per cattiveria che vogliamo mettere un freno al progresso di qualcuno. Ci sono tempi in cui è meglio sacrificare quello che è desiderabile per poter avere quello che è disperatamente necessario.

— Se foste più aperto sarebbe tutto molto più chiaro — disse Raven.

Heraty esitò per qualche secondo, poi riprese a parlare. — Una delle principali ragioni è conosciuta soltanto da poche persone. Ma ve la voglio dire. Siamo pronti a raggiungere i pianeti esterni. È un vero salto, un grande salto. Per portare a termine questa colossale impresa e per poterci stabilire in forze sui pianeti esterni, abbiamo bisogno delle risorse di tre mondi, non divisi da punti di vista divergenti.

— Lo credo bene — disse Raven, pensando alla posizione strategica di Marte e ai ricchissimi giacimenti di carburante che si trovavano su Venere.

— E non è tutto. — Heraty abbassò la voce per dare maggior valore alle sue parole. — Entro breve tempo ci sarà un secondo salto. Ci porterà ad Alpha Centauri, e forse anche più lontano. Ci sono prove non ancora divulgate ma sicure, secondo le quali forse verremo a trovarci in contatto con un’altra forma di vita di grande intelligenza. Se questo dovesse accadere, noi lo dovremo affrontare uniti. Non ci sarà posto per Marziani, Venusiani, Terrestri o Gioviani, o altre tribù planetarie. Dovremo essere tutti Solariani, per sopravvivere o soccombere uniti. Così deve essere, e così sarà, piaccia o non piaccia ai nazionalisti.

— Dunque, vi trovate di fronte a un nuovo dilemma — disse Raven.

— La pace potrebbe essere assicurata rendendo pubblici i fatti che stanno dietro la vostra politica, ma nello stesso tempo si verrebbe a creare un allarme generale che determinerebbe una considerevole opposizione alla spinta espansionistica.

— Esatto. L’avete detto in poche parole. C’è un conflitto di interessi che è stato portato troppo oltre.

— Già! Una bella situazione! La più bella animosità reciproca che si possa immaginare. Mi piace… Ha il sapore di un interessante problema di scacchi.

— Proprio come la vede Carson — disse Heraty. — Lo chiama il gioco dei superscacchi, ma dovete ancora scoprire per quale ragione. Dice che è giunto il momento di mettere un nuovo pezzo sulla scacchiera. Dovrete andare immediatamente a parlare con Carson: è lui che vi ha scelto tra tutti i possibili candidati.

— Come mai proprio me? — chiese David Raven in tono di sorpresa. — Cosa trova di tanto speciale in me?

— Non lo so. — Heraty non si dimostrò ansioso di insistere sull’argomento. — Queste cose sono lasciate interamente a Carson, che mantiene i suoi segreti. Dovete andare da lui immediatamente.

— Molto bene, signore. C’è altro?

— Soltanto questo. Vi abbiamo fatto venire sia per soddisfare la nostra curiosità sia per dimostrarvi che il Consiglio Mondiale vi appoggia, anche se non ufficialmente. Il vostro compito è quello di trovare il modo per mettere fine alla guerra. Non avrete distintivi né documenti, né autorità. Niente che serva a dimostrare che la vostra psiziene personale eRq didersa daersa da quella di un qualsiasi altro individuo. Dovrete basarvi soltanto sulla vostra abilità e sul nostro appoggio morale. Nient’altro.

— Pensate che possa essere sufficiente?

— Non lo so — disse Heraty, a disagio. — Non sono in grado di giudicare. Carson invece ha la possibilità di farlo. — Si protvanti per dare maggior valore alle sue parole. — Per quel poco che può valere la mia opinione, dico soltanto che fra poco la vostra vita non avrà più alcun valore… Ma spero sinceramente di sbagliarmi.

— Lo spero anch’io — disse Raven, impassibile.

I consiglieri si mossero ancora, a disagio, sospettando che lui si stesse segretamente divertendo alle loro spalle, e un profondo silenzio ridiscese nella sala. Poi gli sguardi di tutti si concentrarono su Raven che si inchinava e andava verso la porta, lentamente, con lo stesso passo sicuro di quando era entrato. Si sentiva soltanto il fruscio del tappeto, e quando lui uscì dalla sala, la porta si richiuse silenziosamente alle sue spalle.

— La guerra — disse Heraty — è una partita che viene giocata da due parti.

Nell’aspetto, Carson faceva pensare a un impresario di pompe funebri. Era alto, magro, con la faccia triste. Aveva l’atteggiamento di chi condanna l’inutile spesa in fiori. Ma era una maschera dietro cui si agitava una mente agile. Una mente che poteva parlare senza l’uso delle labbra. In altre parole, era un Mutante di Tipo Uno, un vero telepate. A questo proposito bisogna fare una distinzione. Un vero telepate differisce da un sub-telepate in quanto il primo può chiudere la mente a volontà.

Osservando con approvazione la statura di Raven, identica alla sua, e notando la corporatura più massiccia, gli occhi grigio scuro e i capelli neri, la mente di Carson si mise in contatto senza esitazioni. Un Tipo Uno riconosce un altro Tipo Uno a prima vista.

— Heraty vi ha informato? — chiese la mente.

— Sì… In modo drammatico e non molto esauriente.

Mettendosi a sedere, Raven vide la placca di metallo sistemata su un angolo della scrivania. Portava la scritta: CARSON, DIRETTORE DELL’UFFICIO SICUREZZA TERRESTRE. La indicò. — È per richiamare alla vostra memoria chi siete quando diventate troppo confuso per ricordare?

— In un certo senso, sì. La placca è regolata sul sistema nervoso e irradia il messaggio che reca inciso. I tecnici affermano che è anti-ipnotica. — Sorrise con amarezza. — Finora non ho avuto occasione di provarla. E poi non ho nessuna fretta di farlo. Un ipnotico che avesse il coraggio di arrivare fin qui non verrebbe certo fermato da questo stupido aggeggio.

— Comunque, il semplice fatto che qualcuno ha pensato che correte questo pericolo è di cattivo augurio — commentò Raven. — Hanno tutti la tremarella, qui in giro? Heraty ha detto che ho già un piede nella fossa.

— È una esagerazione, ma non priva di fondamento. Heraty, come me, ha il sospetto che nel Consiglio stesso ci sia almeno un elemento della quinta colonna. È solo un sospetto, ma se fosse la verità, da questo momento voi sareste un uomo segnato.

— Molto piacevole. Mi avete tirato fuori per farmi seppellire.

— La vostra comparsa di fronte al Consiglio era inevitabile — disse Carson. — Hanno insistito per volervi conoscere, che approvassi o no. Io non volevo, ma Heraty ha combattuto le mie obiezioni rivolgendo i miei argomenti contro di me.

— In che modo? — chiese Raven.

— Affermando che se eravate abile soltanto un decimo di quanto affermavo, non ci sarebbe stato nessun motivo di preoccuparsi. Tutte le preoccupazioni avrebbero dovuto averle i nemici.

— E così ci si aspetta che io mi dimostri all’altezza di questa immaginaria reputazione che voi mi avete creato in anticipo. Non pensate che abbia già abbastanza guai?

— Cacciarvi in un mare di guai è appunto il mio piano — disse Carson, mostrando una insospettata durezza. — Siamo in una brutta situazione, e non possiamo fare altro che frustare il cavallo a disposizione.

— Mezz’ora fa ero un capro. Ora sono un cavallo… o forse soltanto la parte posteriore di un cavallo. Non avreste qualche altro paragone con animali? Che ne direste di qualche richiamo per uccelli?

— Dovreste cercare degli uccelli molto insoliti per tenere il passo con l’opposizione, se non proprio superarla. — Carson prese un foglio di carta dal cassetto e lo guardò con espressione preoccupata. — Questa è la lista segreta che siamo riusciti a compilare sulle varietà extraterrestri. In teoria, e secondo la legge, sono tutti esempi di Homo sapiens. In realtà però sono homo e qualcos’altro. - Tornò a guardare Raven. — Fino a oggi, Venere e Marte hanno prodotto almeno dodici diversi tipi di mutanti. Quelli del Tipo Sei, per esempio, sono Malleabili.

— Cosa? — disse Raven irrigidendosi sulla poltrona.

— Malleabili — ripeté Carson, schioccando le labbra come davanti a un cadavere particolarmente appetitoso. — Non lo sono al cento per cento. E non subiscono nessuna radicale trasformazione al fisico. Dal punto di vista clinico non presentano nessuna caratteristica sorprendente. Ma in loro le ossa facciali sono sostituite da cartilagini e i loro lineamenti sono incredibilmente elastici. E sono tipi abili, molto abili. Bacereste uno di loro credendo di baciare vostra madre, se a questo qualcuno venisse in mente di somigliare a vostra madre.

— Questo resta da vedere — disse Raven.

— Avete capito cosa voglio dire — insistette Carson. — Bisogna vedere, per poter credere alla loro mimica facciale. — Indicò il lucido ripiano della scrivania. — Immaginate che questa sia una scacchiera con una infinità di riquadri. Usiamo delle minuscole pedine e giochiamo col bianco. Ci sono due miliardi e mezzo di noi, contro trentadue milioni di Venusiani e diciotti milioni di Marziani. La preponderanza è spaventosa. Il nostro soprannumero li schiaccia. — Fece un gesto di disprezzo. Soprannumero in che cosa? In pedine!

— Evidente — convenne Raven.

— Potete capire il modo in cui i nostri nemici vedono la situazione. Sono minori di numero, ma hanno il vantaggio di poter usare pezzi superiori. Re, alfieri, torri, regine e, cosa per noi ancora peggiore, nuovi pezzi dotati di poteri particolari, che soltanto loro possono usare. Sono convinti di poterne produrre fino a batterci completamente. Uno solo dei loro mutanti vale più di un reggimento di nostre pedine.

— L’accelerazione dei fattori di evoluzione, come diretta conseguenza delle conquiste spaziali, era una cosa scontata — disse Raven soprappensiero. — E non capisco come non se ne siano resi conto fin dal primo momento. Anche un bambino avrebbe potuto vedere quali sarebbero state le conseguenze logiche.

— In quei giorni i nostri antenati erano ossessionati dall’energia atomica — rispose Carson. — Secondo il loro modo di pensare, sarebbe stato necessario un olocausto mondiale, creato da materiali radioattivi, per produrre mutazioni su larga scala. Non si sono resi conto che le masse di colonizzatori diretti a Venere non potevano trascorrere cinque interi mesi di viaggio nello spazio, sotto un intenso bombardamento di raggi cosmici, con i geni colpiti ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, senza sottostare alla legge elementare causa-effetto.

— Se ne rendono conto adesso, comunque.

— Sì, ma allora non distinguevano il bosco dalle piante. Accidenti, hanno costruito astronavi a scafo doppio per inserire nell’intercapedine una fascia di ozono compresso, capace di assorbire le radiazioni, riducendole così a circa ottanta volte l’intensità presente sulla superficie della Terra… Tuttavia non si sono resi conto che una riduzione simile è ancora minima. I capricci del caso, uniti al lungo periodo di tempo, ci permettono ora di affermare che i viaggi verso Venere hanno creato ottanta mutanti per ciascun essere che lo sarebbe divenuto normalmente.

— La situazione su Marte è ancora peggiore — osservò Raven.

— Potete ben dirlo — fece Carson. — Nonostante il minor numero della popolazione, Marte ha più o meno lo stesso numero e la stessa varietà di mutanti che si trovano su Venere. La ragione è che per raggiungere il pianeta occorrono undici mesi di viaggio. Il colonizzatore di Marte deve sopportare le radiazioni per un tempo quasi doppio di quello dei colonizzatori di Venere… e deve sopportarle anche in seguito, perché Marte ha un’atmosfera molto meno filtrante. I geni umani hanno una forte tolleranza alle particelle dure, quali possono essere quelle dei raggi cosmici. Possono essere colpiti, colpiti ancora, e ancora… ma ci sono dei limiti. — Rimase in silenzio e si concentrò battendo la punta delle dita sulla scrivania. — A questo punto, dato che il mutante ha un valore militare, il potenziale bellico di Marte risulta identico a quello di Venere. In teoria… sbagliata, come dobbiamo dimostrare loro… Marte e Venere uniti possono mettere in campo quel tanto che basta per sistemarci a dovere. Ed è proprio quello che stanno tentando di fare. Fino a questo momento hanno potuto fare quello che hanno voluto. Ora però hanno raggiunto un limite in cui cessano di essere divertenti.

— Mi sembra che stiano facendo lo stesso sbaglio commesso dai primi pionieri — disse Raven, pensoso. — Nel loro eccesso di entusiasmo stanno sottovalutando le cose ovvie.

— Volete dire che questo pianeta equipaggia la flotta spaziale e che, di conseguenza, può trovare qualche mutante suo?

— Proprio così.

— Impareranno a loro spese quello che noi abbiamo imparato a nostre spese. E sarete voi a insegnarglielo… lo spero.

— La speranza è sempre l’ultima a morire. Mi potete suggerire qualche tipo di insegnamento?

— Questo è compito vostro — disse Carson, scaricandosi abilmente di ogni responsabilità. Poi frugò tra le carte che aveva sulla scrivania e prese alcuni fogli. — Vi voglio parlare di un caso che illustra la contesa in cui ci troviamo e i metodi usati. È stato questo particolare incidente che ci ha fatto comprendere di essere in guerra. Avevamo già dei sospetti, per via di una lunga serie di incidenti in apparenza non legati tra di essi, e avevamo collocato diverse telecamere nascoste. Quasi tutte sono state messe fuori uso. Alcune, per misteriose ragioni, non hanno funzionato. Ma una ha ripreso.

— Ah! — Raven si protese in avanti, e i suoi occhi si fecero attenti.

— I fotogrammi mostrano tre uomini che sono riusciti a distruggere gli importantissimi dati di un’astronave, dati che non possono essere rimpiazzati in meno di un anno. Il primo dei tre, un Mutante di Tipo Uno, un vero telepate, ha fatto la guardia mentale contro quelli che li potevano sorprendere. Il secondo, un Tipo Due, un galleggiante…

— Volete dire un levitante? — lo interruppe Raven.

— Sì, un levitante. Con l’aiuto di una scala a corda gli ha fatto scavalcare due muri alti più di sei metri; poi ha agganciato la scala a una finestra. Il terzo, un Mutante di Tipo Sette, un ipnotico, si è occupato delle tre guardie intervenute a intervalli. Le ha irrigidite nell’immobilità, ha cancellato dalle loro menti l’incidente, e ha dato loro falsi ricordi a copertura dei minuti in cui sono rimaste senza memoria. Le guardie non sapevano degli obiettivi nascosti, così non l’hanno potuto rivelare al telepate. Se non fosse stato per quella telecamera non avremmo mai saputo niente, tranne che in qualche misteriosa maniera i preziosi dati si erano trasformati in fumo.

— Però! — fece Raven, e sembrava più divertito che stupefatto.

— Ci sono stati diversi incendi di importanza strategica, e siamo inclini a incolpare i pirotici… anche se non abbiamo le prove. — Carson scosse la testa. — Che guerra! Fanno i piani mentre compiono l’azione stessa. Le loro stravaganze fanno a pugni con la logica militare, e se al giorno d’oggi ci fossero ancora i grandi strateghi ne uscirebbero pazzi.

— I tempi sono cambiati — disse Raven.

— Lo so, lo so. Viviamo in un’epoca moderna. — Diede uno dei fogli a Raven. — È la copia della lista che elenca tutte le mutazioni conosciute di Marte e Venere. Portano il numero secondo il tipo, e una lettera secondo il valore militare, se così lo si può chiamare. — Rimase un attimo soprappensiero, come se avesse qualche dubbio sull’esattezza di quella definizione. — P sta per pericoloso, P-più per molto pericoloso, mentre I significa innocuo… forse. Questa lista potrebbe anche non essere completa. Comunque è quella che siamo riusciti a compilare fino ad oggi.

Raven scorse rapidamente la lista, poi chiese: — Da quello che vi risulta, tutti questi rimangono aderenti al loro tipo? Voglio dire, i levitanti possono levitare soltanto se stessi e ciò che possono trasportare, o sono in grado di sollevare anche oggetti indipendenti? I telecinetici possono far sollevare gli oggetti, o possono levitare anche se stessi? I veri telepati sono ipnotici, e gli ipnotici sono telepatici?

— No. Ciascuno possiede una sola capacità supernormale.

Raven cominciò a studiare attentamente la lista.

1 VERI TELEPATICI P+ 2 LEVITANTI P 3 PIROTICI P+ 4 MIMETICI I 5 NOTTURNI I 6 MALLEABILI P 7 IPNOTICI P+ 8 SUPERSONICI I 9 MICROTECNICI P+ 10 RADIOSENSITIVI P 11 INSETTIVOCI P+ 12 TELECINETICI P+

— Bene! — Sorridendo tra sé, Raven si mise il foglio in tasca, si alzò e si diresse verso la porta.

— E tutti sono convinti che la vecchia Madre Terra non è più quella di una volta?

— Proprio così — confermò Carson. — Dicono che è decrepita, senza più ingegno e disperatamente lontana dai fatti della vita. Può dare solo un’ultima pedata agonizzante. Pensate voi a fargliela sferrare… e fate che la sentano molto bene.

— È quello che mi riprometto — disse Raven — ammesso che mi concedano il tempo sufficiente. — Uscì e si chiuse la porta alle spalle.

Era solo.

2

Il divertimento cominciò non appena mise piede nella strada. Difficilmente avrebbe potuto essere più tempestivo, ma naturalmente mancava di quella finezza che sarebbe stata ovvia se gli organizzatori fossero stati messi in allarme con maggiore anticipo e avessero avuto più tempo per prepararsi. Un poco più di libertà d’azione, e ci sarebbe scappato il morto. Stando così le cose, la tattica studiata al momento guadagnava certo in rapidità, ma perdeva nella precisione.

Raven uscì con decisione dalla porta dell’edificio che ospitava i Servizi di Sicurezza e fece un cenno a un aerotaxi che passava sopra di lui. Il mezzo fece una cabrata per scendere al livello del traffico sottostante e si posò sulla strada con un leggero sobbalzo elastico.

Il taxi era una sfera trasparente, montata su un anello di sfere più piccole studiate per assorbire gli urti degli atterraggi. Non aveva ali, reattori o eliche. Era l’ultimo modello di veicolo antigravità e costava circa dodicimila crediti, ma il conducente non si era preso la briga di sottoporsi a un trattamento depilatorio che costava una cifra irrisoria.

Mentre apriva la portiera, l’autista dall’espressione bovina si profuse in inchini di tipo tutto professionale, finche non si accorse che il cliente non si decideva a salire. I sorrisi sparirono lentamente dalle labbra. Corrugò la fronte e con un’unghia spezzata si grattò il mento ispido.

— Ehi, voi — disse con voce rauca — se non mi sbaglio, mi avete fatto segno di…

— State zitto fino al momento in cui sarò pronto a salire — lo interruppe Raven restando fermo sul marciapiede, a circa tre metri dal veicolo. I suoi occhi non fissavano niente in particolare e il suo sguardo si perdeva lontano, come se Raven stesse ascoltando un rintocco di campane lontane, con una sensazione di fastidio.

Il tassista accentuò il cipiglio e si diede un’altra grattata al mento, fornendo un’ottima imitazione sonora di un meccanico spaziale che passasse la carta vetrata su un venturimetro. Aveva il braccio destro ancora teso e teneva la mano appoggiata alla portiera. Qualcosa agitò la manica, come se fosse stata colpita dal soffio invisibile del vento. Ma lui non se ne accorse.

Raven riportò l’attenzione al taxi, fece qualche passo in avanti, ma non salì.

— Avete un fusore? — chiese.

— Certo! Dove andrei a finire, altrimenti, se capitasse qualche guasto improvviso? — Il tassista si chinò a frugare nella cassetta del cruscotto accanto al posto di guida, e quando si rialzò nella mano stringeva un oggetto che somigliava a una piccola pistola. — Cosa volete farne?

— Voglio bruciarvi il didietro — disse Raven prendendo il fusore.

— Davvero? È una bella idea! — Gli occhi infossati dell’autista si fecero ancora più piccoli, poi l’uomo scoppiò in una risata che mise in mostra due molari mancanti. — Però questo è il vostro giorno sfortunato. — Si chinò di nuovo e prese un secondo fusore. — Ne porto in macchina sempre un paio. Così, voi bruciate i miei pantaloni, e io brucio i vostri. Giusto, no?

— Lo spettacolo di due che si bruciano i pantaloni dovrebbe interessare parecchio molti scienziati — disse Raven — specialmente se si usano strumenti che possono bruciare soltanto i metalli. — Sorrise all’improvvisa aria incerta dell’altro. — Mi riferivo al didietro della vostra macchina. — Indirizzò la punta del piccolo apparecchio verso il sedile posteriore e strinse l’impugnatura. Niente di visibile uscì dal fusore, anche se la mano di Raven ebbe un piccolo sobbalzo. Una sottile striscia di fumo puzzolente uscì invece dalla tappezzeria di plastica, come se qualcosa nascosta sotto i sedili stesse fondendo all’alto calore. Poi Raven salì con calma nella vettura e richiuse la porta. — Bene, ora potete andare — disse, e protesosi in avanti rimise il fusore al suo posto.

Impacciatissimo, il tassista manovrò i comandi. L’auto antigravità si sollevò fino a 1500 metri di altezza e puntò verso sud, mentre il pilota corrugava la fronte nello sforzo di comprendere cos’era accaduto e girava continuamente lo sguardo verso lo specchietto retrovisore, per osservare furtivamente il passeggero, pensando che quello poteva essere capace di tutto, anche d’incendiare il mondo.

Senza badare alle occhiate dell’altro, Raven infilò una mano nel buco ancora caldo che si era formato nella tappezzeria. Le sue dita incontrarono un oggetto metallico e sollevarono un apparecchio contorto, non più grande di una sigaretta. Luccicava come l’oro e aveva due tozze ali, contorte dal calore. Nella parte anteriore scintillava una piccola lente, delle dimensioni di una piccola perla. La parte posteriore, piatta, era perforata da sette minuscoli forellini, che servivano da microscopici reattori.

Raven non ebbe bisogno di aprire l’ordigno e di guardarvi dentro: sapeva già cosa era nascosto all’interno: un motore piccolissimo, l’analizzatore di guida, il minuscolo circuito radio che poteva trasmettere un bip-bip per ore e ore, il dispositivo di autodistruzione, grande quanto la capocchia di un fiammifero… Il tutto in un apparecchio che pesava meno di novanta grammi, capace però di lasciare una scia elettronica che gli inseguitori avrebbero potuto seguire per chilometri e chilometri, nelle tre dimensioni.

Raven girò la testa per guardare attraverso il vetro posteriore. C’erano troppi taxi e macchine private in circolazione ai vari livelli per poter stabilire se qualcuno lo stava pedinando. Comunque, la cosa non aveva importanza: l’intensità del traffico che nascondeva così bene gli eventuali cacciatori poteva benissimo nascondere anche la preda.

Lasciò cadere il piccolo cilindro alato nella cassetta in cui aveva messo il fusore.

— Potete tenerlo tutto per voi — disse al tassista. — Contiene pezzi che possono valere una cinquantina di crediti… se riuscite a trovare qualcuno capace di smontarlo senza fracassarlo completamente.

— Me ne dovete già dieci per il buco sul sedile.

— Vi pagherò quando scendo.

— Bene. — Soddisfatto, l’autista raccolse il cilindro alato dal cassetto e lo osservò curiosamente. Poi lo lasciò ricadere.

— Dite un po’! Come facevate a sapere che era nascosto sotto il sedile?

— Qualcuno lo aveva in mente.

— Come?

— La gente che spara oggetti attraverso le portiere aperte dei taxi non dovrebbe pensare a quello che sta facendo, anche se si trova a cinquecento metri di distanza e in un luogo che non si può individuare. A volte i pensieri si possono ascoltare e possono mettere in guardia quanto una sirena di allarme. — Raven fissò lo sguardo sulla nuca del tassista.

— Siete mai stato capace di fare qualcosa senza pensare a quello che stavate facendo?

— Soltanto una volta. — L’autista sollevò la mano sinistra per mostrare il pollice mozzo. — Mi è costato questo.

— Un bel ricordo — disse Raven. Poi, più a se stesso che all’altro, aggiunse: — Peccato che i microtecnici non siano anche veri telepati.

In silenzio percorsero altri sessantacinque chilometri, sempre alla stessa quota. Erano usciti di parecchio dai confini della città e il traffico era molto diminuito.

— Ho dimenticato di portare i guanti — disse a un tratto l’autista. — Non avrei dovuto lasciarli a casa. Al Polo Sud mi potrebbero essere utili.

— In questo caso ci fermeremo prima di averlo raggiunto. Vi farò sapere quando. — Raven si guardò ancora una volta alle spalle. — Intanto, potreste esercitarvi nello scrollarvi di dosso gli inseguitori. Non so dirvi se ce ne sono, ma è probabile.

— Liberarci della processione vi costerà un cinquantone — disse l’autista osservando il passeggero nello specchietto e chiedendosi se aveva chiesto un prezzo troppo alto o troppo basso. — Nella tariffa è compresa anche la bocca chiusa, con la garanzia che non si aprirà — aggiunse.

— Siete imprudente a rilasciare questa garanzia. Con loro aprirete la bocca, perché non potrete fare altrimenti — disse Raven, cupo. — Hanno diversi metodi, compresa la costrizione. E non verrete pagato. — Si lasciò sfuggire un sospiro di rassegnazione. — Comunque quando parlerete sarà ormai troppo tardi per potermi nuocere. Il cinquantone è vostro, basta che riusciate a guadagnare ancora un po’ di tempo.

Si afferrò alla maniglia mentre l’aerotaxi girava bruscamente per tuffarsi in una nuvola. Il mondo rimase nascosto dalla nebbia che passava loro accanto in macchie di giallo e di bianco sporco.

— Dovete fare qualcosa di meglio. Non siete anti-radar.

— Datemi tempo. Non ho ancora cominciato.

Due ore dopo scesero sul prato posteriore di una casa lunga e bassa. Nel cielo si vedeva solo una pattuglia della polizia diretta a nord che continuò la sua corsa senza curarsi della sfera ferma a terra.

La donna che abitava nella casa era un po’ troppo alta e un po’ troppo grossa, e si muoveva con la goffaggine di chi supera il peso medio. Aveva gli occhi grandi neri e luminosi. Anche la bocca era grande, e grandi erano le orecchie. I capelli erano una voluminosa zazzera nera. Il petto voluminoso e i fianchi pesanti non erano certo attributi rispondenti al gusto della maggior parte degli uomini. Tuttavia, per quanto non fosse una bellezza, una ventina di spasimanti l’avevano corteggiata, e tutti si erano disperati al suo rifiuto perché la donna possedeva un fascino irresistibile: i grandi occhi e la luce che vi brillava la rendevano sorprendentemente bella. Porse a Raven la mano e gli diede una calorosa stretta.

— David! Cosa ti porta da queste parti?

— Dovresti già saperlo, dato che non ho usato l’espediente di tenere la mente chiusa.

— È vero. — La donna passò dal linguaggio vocale al sistema di comunicazione telepatico, per il semplice motivo che le riusciva più facile.

— Di che si tratta?

Raven rispose alla stessa maniera, e cioè mentalmente. — Di due uccelli. — Le sorrise. — I due uccelli che io spero di uccidere con un solo sasso.

— Uccidere? Perché devi usare lo spaventoso termine uccidere? — Un’espressione di ansia le comparve sul volto. — Ti hanno convinto a compiere qualcosa. Lo so. Lo sento, anche se tu cerchi di tenerlo nascosto nella mente. Ti hanno convinto a intervenire. — Si mise a sedere su un divano pneumatico e fissò lo sguardo alla parete. — C’è una legge, non scritta, che ci prescrive di non essere mai tentati a intervenire tranne che per il motivo primario di opporsi ai Deneb. Inoltre, la non-interferenza addormenta tutti i sospetti, e li incoraggia a pensare che siamo incapaci.

— È una logica eccellente, ammesso che le tue premesse siano esatte. Ma sfortunatamente non lo sono. Le circostanze sono cambiate. — Si sedette di fronte alla donna e la guardò. — Leina, su un punto abbiamo sbagliato. Sono più abili di quanto pensassimo.

— In che senso?

— Aggrovigliati nelle loro stesse contraddizioni, sono giunti al punto di frugare il mondo, nell’unica probabilità contro un milione di trovare qualcuno in grado di sbrogliare i loro nodi. E mi hanno trovato!

— Ti hanno trovato? — chiese lei, allarmata. — Come hanno fatto?

— Nell’unico modo possibile. Geneticamente, attraverso gli archivi. Devono aver classificato, sezionato e analizzato forse dieci, quindici, o anche venti successive generazioni, avanzando tra dati di nascite, matrimoni e morti, senza sapere esattamente cosa stavano cercando, ma sperando di trovare qualcosa. I miei convenzionali psuedo-antenati hanno legalizzato tutte le loro unioni e hanno lasciato una lunga serie di documenti che hanno portato a me. Così hanno riavvolto la lenza, e io ero il pesce attaccato all’amo.

— Se lo hanno fatto con te possono farlo anche con gli altri — disse con disappunto la donna.

— Su questo particolare pianeta non ci sono altri - le ricordò Raven. — Ci siamo soltanto noi due. E tu sei esclusa.

— Lo sono davvero? Come puoi esserne sicuro?

— Il processo di scelta è ormai terminato. E hanno preso me, non te… Forse perché sei una donna. O forse per merito dei tuoi antenati allergici ai documenti ufficiali, come quel paio di pirati sani e forti e immorali.

— Grazie — disse la donna, leggermente offesa.

— Il piacere è tutto mio — ribatté lui sorridendo.

Gli occhi della donna si fissarono in quelli di Raven.

— David, cosa vogliono farti fare? Dimmi tutto!

Lui raccontò che cos’era accaduto e alla fine concluse: — Fino a questo momento, l’alleanza Marte-Venere si è limitata a colpire a gradi, con la tecnica dell’attendere e aumentare lentamente la pressione. Sanno che finiremo col crollare, a meno che non si riesca a escogitare una efficiente controffensiva. Per dirla in altre parole, ci stanno succhiando una goccia di sangue ogni volta che capita l’occasione. Un giorno saremo troppo deboli per restare in piedi, e non avremo più la forza di difenderci.

— Non sono affari nostri — decise la donna. — Lascia che i mondi si combattano tra loro.

— È proprio il modo in cui ho cercato di vedere la situazione — disse Raven. — Poi mi sono ricordato l’insegnamento della storia. Un maledetto avvenimento porta sempre a qualcos’altro. Leina, sarebbe solo questione di tempo, poi la Terra deciderebbe di averne abbastanza, e colpirebbe con forza: e non potendo colpire di precisione, colpirebbe a caso, e con durezza. Marte e Venere si irriterebbero più che mai, rispondendo con la stessa durezza. Gli animi si accenderebbero, aizzandosi a vicenda. I freni verrebbero superati uno a uno, poi tutti in blocco. Nessuno avrebbe più scrupoli e alla fine qualche pazzo terrorizzato, di una parte o dell’altra, deciderebbe di lanciare una bomba all’idride per mostrare chi è il più forte. A questo punto puoi immaginare che cosa succederebbe in seguito.

— Certo — ammise lei a disagio.

— Per quanto non mi piaccia occuparmi degli affari umani — continuò Raven — mi piace ancora meno l’idea di starmene nascosto sotto una montagna mentre l’atmosfera si incedia, la terra trema in ogni angolo, e molti milioni di esseri umani abbandonano per sempre il palcoscenico della vita. Carson pensa con grande ottimismo che io possa fare qualcosa, da solo. E io voglio tentare, ammesso che l’opposizione mi conceda di vivere il tempo sufficiente. Niente rischi, niente guadagno.

— Perché queste creature debbono essere tanto testarde e idiote? — disse Leina, stringendosi nervosamente le mani. — Cosa devo fare, David?

— Evitare di farti coinvolgere. Sono venuto per distruggere certe carte, ecco tutto. C’è la possibilità di vederli arrivare prima che io possa andarmene. In questo caso, mi dovresti fare un piccolo favore.

— E sarebbe?

— Badare per un po’ di tempo al mio miglior vestito. — Si batté significativamente un dito sul petto. — Mi si addice perfettamente, ed è l’unico che ho. Mi piace, e non voglio perderlo.

— David! - L’impulso mentale della donna fu secco e terribilmente scosso. — Non questo! Non puoi farlo. Non senza permesso. È una violazione grave. E non è morale.

— Non lo è neppure la guerra. Neppure il suicidio di massa.

— Ma…

— Sss! — Sollevò un dito nell’aria. — Stanno arrivando. Non ci hanno messo molto. — Guardò l’orologio appeso alla parete. — Non sono ancora passate tre ore da quando sono uscito dagli uffici. Questa sì che si chiama efficienza! — Tornò a fissare la donna. — Li senti arrivare?

Lei rimase seduta in silenzio e fece un cenno affermativo. Raven si allontanò in fretta e andò a distruggere i documenti. Rientrò nel momento in cui suonava il campanello della porta. Leina si alzò e fissò incerta il compagno: Raven le fece un cenno rassegnato e lei andò ad aprire la porta. Aveva i modi della persona che agisce senza iniziativa.

Cinque uomini erano raggruppati vicino a uno scafo a forma di proiettile, fermo a quattrocento metri dalla casa, e due erano in attesa di fronte alla porta. Tutti indossavano l’uniforme nera e argento degli agenti della polizia politica. I due alla porta erano corpulenti, con la faccia tirata, e tanto somiglianti da poter essere fratelli. Ma era solo una somiglianza fisica, perché internamente erano diversi. La mente di uno dei due scrutò quella di Leina, l’altra non lo fece. Uno era telepate, l’altro doveva essere qualcos’altro. L’improvviso attacco della mente, che scrutava nella sua, impedì a Leina di esaminare il secondo individuo e di capire quali fossero le sue particolari capacità. Fu costretta a respingere l’attacco chiudendo la mente. L’altro se ne accorse all’istante, e smise il tentativo di frugare nei pensieri della donna.

— Un altro tele — disse al compagno. — Abbiamo fatto bene a venire in parecchi, non ti pare? — Senza aspettare risposta, si rivolse a Leina vocalmente. — Potete parlare a me di vostra spontanea volontà. — Fece una leggera pausa per ridere. — Oppure potete parlare con il mio amico contro la vostra volontà. A voi la scelta. Come potete vedere dalla divisa, siamo della polizia.

Leina smise improvvisamente di stare sulla difensiva.

— Non lo siete per niente. Un agente di polizia avrebbe parlato di collega, non di amico. E non si sarebbe scomodato a specificare la sua professione e a minacciare.

Il secondo uomo, rimasto in silenzio fino a quel momento, si intromise nella conversazione.

— Preferite parlare con me? — disse mentre i suoi occhi si accendevano di una luce strana, simile a quella di due piccole lune. Era un ipnotico.

Leina lo ignorò e si rivolse al primo. — Cosa volete?

— Raven.

— Come?

— È qui — disse l’uomo cercando di guardare al di là delle spalle della donna. — Sappiamo che è qui.

— E allora?

— Deve venire con noi per essere interrogato.

Dall’interno della casa giunse la voce di Raven. — Sei gentile, Leina, a voler trattenere i signori. Ma è inutile. Falli pure entrare.

La donna ebbe un leggero brivido e la sua faccia diventò uno specchio di emozioni, mentre si spostava per farli passare. I due uomini avanzarono smaniosi, come buoi che entrano al macello. Nella mano della donna la maniglia si fece gelata. Sapeva cosa sarebbe successo.

3

Gli intrusi si fermarono non appena varcata la soglia. Avevano un’espressione circospetta, stringevano un’arma in pugno e si tenevano lontani l’uno dall’altro, come temendo che la loro preda fosse capace di eliminarli con un colpo solo.

Raven non si preoccupò di alzarsi dal divano e parve molto divertito della loro paura.

— Oh, il signor Grayson e il signor Steen — disse non appena ebbe lette le loro identità nelle loro menti. — Un telepatico e un ipnotico… con una banda di altri anormali che aspettano fuori. Sono molto onorato.

Grayson, il telepatico, si girò di scatto verso il compagno. — Hai sentito? Ci chiama normali — esclamò. Poi fece un cenno secco a Raven. — Bene, lettore di pensieri, alzatevi in piedi e cominciate a camminare.

— Per andare dove?

— Lo saprete quando sarete arrivato.

— Pare proprio che sia così — disse Raven. — La destinazione ultima non è registrata nelle vostre menti. Da questo posso capire che non godete la fiducia dei vostri superiori.

— Neanche voi — disse Grayson. — E ora alzatevi. Non possiamo starcene qui a perdere tutto il giorno.

— Capisco. — Raven si alzò stirandosi e sbadigliò. Poi fermò lo sguardo su Steen, l’ipnotico. — Che vi prende, Strabico? Mai stato tanto affascinato, prima d’ora?

Continuando a fissare Raven con la stessa curiosità con cui lo aveva osservato fin dall’inizio, Steen rispose: — Quando c’è da affascinare qualcuno, sono io a farlo. E perché mai dovrei esserlo, poi? Non avete né quattro braccia, né due teste. Cosa vi fa pensare di essere tanto interessante?

— Non lo è per niente — disse Grayson con impazienza — e credo che i capi siano stati messi in allarme da voci esagerate. Conosco le sue capacità, e non sono certo eccezionali.

— Davvero? — chiese Raven girando la testa verso di lui.

— Sì, voi siete soltanto un nuovo tipo di telepate. Voi potete fruga re nelle menti degli altri anche quando la vostra è chiusa A differenza di noi, potete leggere i pensieri degli altri mantenendo, impenetrabili i vostri. Un trucco interessante e utile. — Fece un gesto di sprezzo. — Ma anche se interessante, non può certo preoccupare due pianeti.

— Allora, di cosa avete paura? — disse Raven. — Saputo questo, non c’è più nient’altro da sapere. Ora lasciatemi meditare con piacere sui peccati della mia passata gioventù.

— Abbiamo avuto ordine di portarvi via tutto intero. Ed eseguiremo l’ordine. — Lo sprezzo di Grayson si fece più evidente. — Siamo venuti a catturare la grande tigre. Però a me sembra che puzzi di gatto.

— E da chi verrò interrogato? Dal grande capo, o da qualche subalterno?

— Non sono affari miei — disse Grayson. — Se volete una risposta, non dovete fare altro che venire con noi.

Raven lanciò una evidente strizzata d’occhio verso la porta, dove la donna era rimasta ferma in silenzio.

— Leina, vuoi andarmi a prendere il cappello e la borsa?

Grayson afferrò la donna per un braccio. Evidentemente non gli piaceva la situazione. — No, voi restate qui. — Poi girò la testa verso Raven. — Andate a prenderli voi. Tu, Steen, vai con lui. Io curo la grassona. Se mostra i denti, sai quello che devi fare.

I due scomparvero nella stanza accanto. Raven davanti e Steen dietro, con gli occhi che brillavano già di quella luce più pericolosa dei proiettili. Grayson si mise a sedere sul bracciolo di una poltrona pneumatica, appoggiò l’arma sulle ginocchia e fissò attentamente la donna.

— Siete anche voi un’ostrica mentale, vero? — disse. — Comunque, se sperate che riesca a liberarsi di Steen, risparmiatevi il disturbo di doverlo pensare. Non ce la farà mai, anche se avesse tutto il tempo da oggi a Natale.

Leina non fece commenti e continuò a tenere lo sguardo fisso alla parete, senza mostrare alcuna preoccupazione.

— Il telepatico può schivare l’ipnotico a distanza perché può leggere le intenzioni dell’altro e ha lo spazio che lo protegge — disse Grayson con l’autorità della persona che ha fatto delle esperienze personali.

— Ma a distanza ravvicinata non ha possibilità di scampo. L’ipnotico risulta sempre vincitore. Lo so perfettamente! Gli ipno mi hanno fatto parecchi scherzi, specialmente dopo che avevo bevuto qualche bicchiere di whisky venusiano.

La donna non rispose. I suoi lineamenti rimasero impassibili, nello sforzo di ascoltare dietro e oltre le chiacchiere dell’altro.

Grayson fece un rapido tentativo di scrutare la mente della donna, sperando di coglierla di sorpresa. Ma andò a colpire uno scudo impenetrabile. Lei era riuscita a resistergli senza sforzo, e continuava ad ascoltare, ascoltare. Il rumore quasi impercettibile di una zuffa giunse dall’altra stanza, seguito da un respiro affannoso.

Grayson si girò leggermente, come la persona che sospetta di aver sentito qualcosa che non doveva sentire. — Comunque, ci sono ancora io, con questa pistola, e il gruppo di amici che aspetta fuori. — Girò la testa verso la porta della stanza.

— Sono troppo lenti, là dentro.

— Non c’è possibilità — disse la donna con voce appena udibile. — A distanza ravvicinata non c’è possibilità di scampo.

Qualcosa della sua faccia, dei suoi occhi, della sua voce, fece rinascere in Grayson i sospetti che aveva soffocato, e l’uomo provò un vago senso di allarme: strinse le labbra e fece un cenno con la pistola. — Muovetevi. Camminate davanti a me. Andiamo a vedere perché non escono.

Leina si alzò, appoggiandosi al bracciolo della poltrona pneumatica. Poi si girò lentamente verso la porta, abbassando gli occhi, come per ritardare la visione di quello che avrebbe scorto dall’altra parte o che sarebbe comparso sulla soglia.

Ne uscì Steen. Si passava una mano sul mento e sorrideva soddisfatto. Era solo. — Ha cercato di fare il furbo — annunciò rivolgendosi a Grayson e senza minimamente badare a Leina. — Avevo la sensazione che avrebbe tentato qualcosa. Risultato: è più rigido di una pietra sepolcrale. Dovremo trasportarlo su un’asse.

— Bene! — esclamò Grayson tranquillizzato, mentre l’altro si avvicinava. Abbassò la pistola e si girò verso Leina.

— Cosa vi avevo detto? È stato stupido tentare a distanza ravvicinata. Certa gente non imparerà mai.

— Sì — ammise Steen facendosi più vicino. — È stato uno stupido. — Si fermò di fronte a Grayson e lo fissò negli occhi. — Troppo da vicino per avere possibilità di scampo.

I suoi occhi si erano fatti luminosi e grandissimi. Le dita di Grayson si irrigidirono e la pistola cadde sul tappeto. L’uomo aprì e richiuse la bocca, e le parole uscirono con difficoltà.

— Steen… cosa diavolo… stai… facendo?

Gli occhi di Steen divennero enormi, mostruosi, irresistibili. Il loro bagliore parve riempire il cosmo e bruciare il cervello della persona che li stava fissando. Una voce profonda, tuonante, venne con il bagliore. Giunse da una immensa distanza, e si avvicinò a una immensa velocità, fino a diventare un rombo pauroso.

— Raven non c’è.

— Raven non c’è — balbettò Grayson, meccanicamente. Il suo cervello era stato vinto.

— Non l’abbiamo visto. Siamo arrivati troppo tardi.

Grayson ripeté le parole come un automa.

— In ritardo di quaranta minuti — precisò la paralizzante voce mentale di Steen.

— In ritardo di quaranta minuti — approvò Grayson.

— È partito su uno scafo dorato da velocità a venti reattori, matricola XB 109, di proprietà del Consiglio Mondiale.

Grayson ripeté parola per parola. Aveva l’aspetto rigido e l’espressione vuota di un manichino che raccoglie polvere nella vetrina di un sarto.

— Destinazione sconosciuta.

Anche questo venne ripetuto.

— In questa casa abbiamo trovato solo una donna grassa. Una telepatica innocua.

— In questa casa — ripeté Grayson — abbiamo trovato solo una donna grassa. Una telepatica innocua.

Steen riprese a parlare. — Raccogli la pistola. E andiamo a informare Haller.

Passò davanti alla telepatica innocua, e Grayson lo seguì come una pecora. Nessuno dei due degnò Leina del minimo sguardo. Lei concentrò tutta la sua attenzione su Steen, scrutandone la faccia, cercando quello che c’era dietro la maschera, parlandogli in silenzio, e rimproverandolo. Ma lui non le fece caso: la sua impassibilità era deliberata e completa.

La donna chiuse la porta alle loro spalle, poi si lasciò sfuggire un sospiro e si strinse nervosamente le mani, come fanno tutte le donne dall’inizio dei tempi.

Sentì un rumore alle proprie spalle e si girò. La figura di David Raven stava avanzando incerta nella stanza.

L’uomo camminava piegato in due e si teneva le mani sulla faccia, tastandosi, quasi per accertarsi da quale parte della testa fossero collocati i lineamenti. E sembrava terrorizzato da quello che le sue dita stavano toccando. Quando staccò le mani, la faccia aveva un’espressione tormentata e gli occhi erano pieni di sgomento.

— Era mio — disse con voce che non era né quella di Raven né quella di Steen, ma una combinazione delle caratteristiche di tutte e due. — Se n’è andato con quello che era mio e mio soltanto! Mi ha derubato di me stesso!

Guardò la donna con cattiveria, mentre i lineamenti continuavano a esprimere il tormento interiore. Sollevò le braccia e avanzò di qualche passo.

— Voi lo sapevate! Lo sapevate e lo avete aiutato. Maledetta intrigante. Potrei uccidervi!

Le dita si piegarono ad artigli intorno al collo della donna, ma lei rimase immobile, mentre una luce indescrivibile le si accendeva negli occhi.

Quando le dita cominciarono a stringere, lei non fece nessun movimento per resistere. Per diversi secondi lui rimase fermo in quella posizione, la faccia sconvolta da una serie di contrazioni. Poi allentò la stretta e si allontanò di scatto, scosso da un tremito.

— Mio Dio — balbettò quando fu nuovamente in grado di parlare. — Anche voi!

— Quello che può essere fatto da uno può essere fatto anche dall’altro. Questo è il legame che esiste tra noi. — La donna lo osservò mentre lui si sedeva e si tastava quella faccia che non gli era familiare. — C’è una legge valida e basilare quanto quella della sopravvivenza fisica — disse ancora lei. — Dice: Io sono Io, e non posso essere Non-Io.

L’uomo rimase in silenzio, ma continuò a passarsi le mani sulla faccia. La donna riprese a parlare.

— Così, continuerete a desiderare quello che vi appartiene di diritto. Continuerete a desiderarlo, come desidera la vita chi si trova in imminente pericolo di morte. Lo desidererete per sempre, disperatamente, rabbiosamente. E non avrete mai pace ne tranquillità. Non potrete mai conoscere la completezza a meno che…

— A meno che? — chiese lui togliendo le mani dalla faccia e alzando gli occhi.

— A meno che non facciate quello che vi diremo. Allora quello che è stato fatto potrà essere disfatto.

— Cosa volete da me? — Si era alzato, e negli occhi aveva una luce di speranza.

— Obbedienza assoluta.

— L’avrete — promise lui con fervore.

Lei si sentì sollevata. In pochi minuti aveva risolto il problema del vestito di Ravel e del proprietario-che-non-ne-era-proprietario.

Il comandante della squadra in attesa era un individuo magro, alto circa uno e ottanta. Si chiamava Haller, era nato su Marte ed era un mutante di Tipo Tre, un pirotico. Appoggiato alla coda dello scafo giocherellava con un bottone d’argento della falsa divisa da poliziotto. Mostrò un certo disappunto quando vide comparire Steen e Grayson, soli.

— Allora? — chiese.

— Siamo stati sfortunati — disse Steen. — Se ne è andato.

— Da quanto?

— Da quaranta minuti — rispose Steen.

— Aveva tre ore di vantaggio — disse Haller battendosi un dito sui denti. — Significa che stiamo guadagnando terreno. Dov’è andato?

— Questo non l’ha detto alla prosperosa signora che abbiamo trovato in quella casa — rispose Steen. — Lei sapeva soltanto che è arrivato con un aerotaxi, che ha preso alcune sue cose che aveva lasciato in deposito e che è ripartito con lo scafo XB 109.

— C’era una donna? — chiese Haller. — Che posizione occupa nella sua vita?

Steen sogghignò.

— Capisco — disse Haller, senza aver capito niente. Spostò lo sguardo sull’inebetito Grayson e rimase a scrutarlo per qualche istante. Poi corrugò la fronte.

— Che diavolo hai?

— Come? — Grayson batté le palpebre, incerto. — Dite a me?

— Sei un telepatico e dovresti saper leggere nella mia mente anche se io non sono in grado di leggere nella tua. Ti ho chiesto mentalmente una decina di volte se hai mal di pancia o qualcosa del genere, e tu hai reagito come se il pensiero fosse uno strano fenomeno confinato in qualche inaccessibile regione sull’altra faccia di Giove. Cosa ti succede? Sembra quasi che ti abbiano dato una dose eccessiva di ipnosi.

— È stata una dose eccessiva della sua stessa medicina — disse Steen rapidamente, per allontanare i sospetti di Haller. — La donna in quella casa era del suo stesso tipo, e lui ha voluto fare il furbo. Potete immaginare cosa significhi farsi graffiare telepaticamente oltre che vocalmente.

— Capisco — disse Haller, convinto. E smise di indagare oltre sulla scarsa loquacità di Grayson. — Meglio ripartire subito. Questo Raven non ci lascerà nemmeno un attimo di riposo.

Entrò nello scafo e gli altri lo seguirono. Mentre venivano chiusi i portelli e accesi i reattori, Haller prese il registro interplanetario e lo sfogliò rapidamente. Trovò quello che stava cercando.

— Eccolo. XB 109. Monoposto con scafo in berillio. Venti reattori. Massa a terra trecento tonnellate. Autonomia massima, ottocentomila chilometri. Scafo del Consiglio Mondiale, esente dai controlli di polizia e di dogana. Sarà difficile fermarlo, con tutti i testimoni che possono esserci attorno.

— Ammesso che si riesca a trovarlo — osservò Steen. — Il mondo è alquanto grande.

— Finirà col passare davanti a qualche nostro apparecchio di ricerca — assicurò Haller, fiducioso. — Questa autonomia di ottocentomila chilometri è consolante: lo tiene relegato tra Terra e Luna. E così sappiamo che non può essersene andato direttamente su Marte o su Venere. — Consultò il codice dei canali radio e delle ore. Le tre e mezzo: Canale nove. Schiacciò il pulsante del canale e parlò al microfono. Quello che disse fu troppo breve e distorto per concedere alle stazioni di ascolto di poterli localizzare. — Chiamata. Haller a Dean. Trovate XB 109.

Girò leggermente la poltroncina di pilotaggio e accese un nero sigaro venusiano. Aspirò voluttuosamente qualche boccata di fumo, poi appoggiò i piedi sul pannello di comando e fissò gli occhi sull’altoparlante.

— XB 109. Non elencato nelle partenze di oggi. Non elencato nei rapporti di osservazione della polizia — fu la risposta. — Restate in ascolto.

— Che servizio! — esclamò Haller. Guardò soddisfatto il suo sigaro, poi Steen.

Passarono cinque minuti, poi:

— XB 109. Non si trova nei parcheggi del Consiglio da uno a ventotto. Restate in ascolto.

— Strano — disse Haller, soffiando un anello di fumo. — Se non è a terra, deve essere nell’aria. Ma non può essere partito oggi senza il permesso di decollo.

— Forse è partito ieri, o l’altro ieri, ed è rimasto nascosto vicino alla casa — disse Steen.

Chiuse il portello della cabina di pilotaggio e si assicurò che fosse ben chiuso. Si mise poi a sedere sul pannello dei comandi, accanto ai piedi di Haller. Il messaggio giunse dopo dieci minuti.

— Dean a Haller. XB~109 affidato al Corriere Joseph McArd, Dome City, Luna. Ha fatto rifornimento per il rientro. Canale nove chiuso.

— Impossibile! — esclamò Haller. — Impossibile! — Si alzò, morse la punta del sigaro e sputò a terra. — Qualcuno sta mentendo! — Sollevò lo sguardo rabbioso su Steen. — Tu per caso?

— Io? — Steen si alzò con espressione addolorata e venne a trovarsi faccia a faccia con l’altro.

— O tu, o la donna che ti ha dato il falso numero di matricola, o Grayson, troppo stordito per capire che quel cervello stava mentendo. — Haller agitò il sigaro nell’aria. — Forse è stata la donna. Vi ha lanciati lungo un vicolo cieco, e deve aver riso quando vi ha visti correre in quella direzione. Se è così, la colpa ricade tutta su Grayson. Era lui il lettore mentale. Mandalo da me… voglio andare in fondo a questa faccenda.

— Come poteva leggere in una mente piatta e impenetrabile quanto una pietra tombale? — disse Steen.

— Avrebbe dovuto avvertirti che si trovava in difficoltà e lasciarti fare alla tua maniera. Se riducevi la donna a una statua, lui poi avrebbe potuto ricavare da quel cervello qualsiasi informazione. Non è così? A che serve mandarvi in coppia, se poi siete troppo stupidi per cooperare?

— Non siamo stupidi — protestò Steen.

— Qualcuno sta raccontando frottole — insistette Haller. — Lo sento. Quella maledetta donna deve aver imbottito Grayson di menzogne. Aveva ancora l’aria stupita di chi non riesce a convincersi di qualcosa. Non è da Grayson. Vai a chiamarlo… voglio dargli una strigliata.

— Non credo che sia necessario — disse Steen, con calma. — Questa è una faccenda fra noi due.

— Davvero? — L’autocontrollo di Haller e la sua assoluta mancanza di stupore rivelarono che aveva un carattere energico. C’era una pistola sul piano del pannello. Haller si girò per appoggiare il sigaro, ma non fece nessun gesto per afferrarla. — Ho la sensazione che sia tu a mentire — disse tornando a guardare Steen. — Non so cosa tu abbia in mente, ma ti consiglio di non andare troppo lontano.

— No?

— No. Tu sei un ipno, ma cosa significa? Io posso incenerire i tuoi centri nervosi tre o quattro secondi prima che tu riesca a paralizzare i miei. Inoltre, la paralisi scompare dopo qualche ora, le ceneri invece rimangono. Sono permanenti.

— Lo so, lo so. Sei un potente pirotico.

Steen fece un gesto, e la sua mano toccò casualmente quella di Haller.

Le due mani si unirono e Haller cercò di staccarsi, ma non ci riuscì. Le due mani aderivano quasi al punto di essere carne con carne. E qualcosa di terribile stava passando attraverso il punto di contatto.

— Anche questo è potere — disse Steen.

Molto sotto l’innocuo raggruppamento di magazzini appartenenti alla Transpatial Trading Company esisteva una città in miniatura che non apparteneva alla Terra, anche se si trovava sul suo territorio. Per quanto sconosciuta e insospettata dalla maggior parte degli abitanti della superficie, la città esisteva già da molto tempo.

Lì si trovava il quartier generale del movimento clandestino di Marte e di Venere: era il cuore di tutta l’organizzazione. Un migliaio di persone andavano e venivano lungo i freddi passaggi interminabili e attraverso la serie di grandi sale. Un migliaio di uomini scelti, ma nessuno di loro era uomo come lo sono gli uomini.

In una sala lavoravano una dozzina di anziani dalle dita sottili. Si muovevano lentamente, a tastoni, come le persone che hanno soltanto due decimi di vista. I loro occhi non erano occhi, ma qualcos’altro. Erano troppo miopi per poter vedere distintamente una cosa lontana più di tre o quattro centimetri dalla punta del naso. Tuttavia, erano organi che potevano distinguere, entro il loro breve raggio, gli angeli danzanti sulla punta di uno spillo.

Questi anziani lavoravano come se stessero continuamente annusando gli oggetti che stavano costruendo. Tenevano le dita all’altezza del naso. Gli occhi assumevano una angolazione impressionante, ma potevano vedere con chiarezza molto al di sopra del normale.

Erano mutanti di Tipo Nove, generalmente chiamati microtecnici. Potevano costruire un radiocronometro tanto piccolo da poter essere incastonato al centro di un anello di diamanti.

In una sala adiacente lavoravano alcuni individui che si assomigliavano senza però essere identici, e che provavano di continuo, gli uni sugli altri, le loro strane capacità. Due uomini sedevano di fronte. Un rapido movimento del viso cambiava completamente i lineamenti.

«Ecco fatto» diceva il primo «io sono Peters».

Un altrettanto rapido movimento cambiava i lineamenti dell’altro, che rispondeva: «Strano! Anch’io».

Scoppiavano due sonore risate. Poi, sempre identici come gemelli, sedevano a un tavolo e si mettevano a giocare a carte. Entrambi si osservavano furtivamente, in attesa di quella mossa distratta del viso che avrebbe tradito la vera identità dell’altro.

Entrarono altre due persone e dissero di voler giocare con loro. Uno dei due ebbe un attimo di intenso sforzo mentale, poi volò sopra il tavolo e andò a sedersi sulla sedia che stava al lato opposto. Il secondo fissò lo sguardo sulla sedia più vicina: la sedia si mosse ondeggiando e venne a collocarsi sotto di lui, come spostata da mani invisibili. I gemelli accettarono questi fenomeni con assoluta indifferenza, come cosa di ordinaria amministrazione, e cominciarono a ridistribuire le carte.

Quello che aveva mosso la sedia, fece saltare il mazzetto di carte nella sua mano e cominciò a studiarle.

— Se voi due volete a tutti i costi essere Peters, mantenete almeno i vostri odori, in modo che noi si sappia chi siete — disse, e riprese a esaminare le carte.

— Passo.

Una persona si fermò sulla soglia a osservare il tavolo dei giocatori, poi si allontanò sogghignando. Dieci secondi dopo, il primo Peters prese la sigaretta dal portacenere e si accorse che era accesa da tutte e due le parti. Lanciò una imprecazione e si alzò per andare a richiudere la porta. Portò con sé le carte, per timore che durante la sua assenza saltassero nelle mani di qualcun altro.

Grayson entrò nelle gallerie del sotterraneo. Teneva la mente chiusa contro ogni possibile intrusione e avanzò guardandosi attorno con sospetto. Sembrava una persona che avesse le sue buone ragioni di temere la propria ombra. Al termine di un lungo corridoio che terminava con una pesante porta di ferro, Grayson venne a trovarsi faccia faccia con una guardia ipno.

— Devi tornartene indietro, amico. Qui è dove vive il capo.

— Sì, lo so. Voglio vedere Kayder immediatamente — disse Grayson, girando la testa per osservare la galleria alle sue spalle e facendo un gesto di impazienza. — Digli che gli conviene ricevermi, a meno che non voglia veder saltare all’aria il nostro rifugio.

La guardia lo scrutò attentamente, poi aprì il piccolo sportello che nascondeva il microfono e riferì quanto gli era stato detto. Qualche secondo dopo la porta si aprì. Grayson varcò la soglia e attraversò la grande sala dirigendosi verso l’unica persona presente.

Kayder, un tale tarchiato, dalle spalle larghe e dalla mascella volitiva, era Venusiano di nascita ed era forse l’unico mutante di Tipo Undici dislocato sulla Terra. Poteva conversare a voce bassa, in maniera quasi impercettibile, con nove specie di insetti venusiani. Sette di queste erano velenosissime e pronte a fare qualunque favore al loro amico. Kayder disponeva quindi della spaventosa forza di un esercito non umano troppo numeroso per poter essere distrutto.

— Di che cosa si tratta, questa volta? — chiese seccamente, distogliendo l’attenzione da un fascio di documenti. — Fate alla svelta e venite subito al punto. Questa mattina non mi sento molto bene. L’aria della Terra non mi si addice.

— Nemmeno a me — disse Grayson. — Voi avevate scoperto qualcosa su un certo David Raven e avete dato ordine di andarlo a prendere.

— Certo. Non so cosa abbia di speciale ma immagino che sia un elemento utile. Dove l’avete messo?

— Da nessuna parte. È scappato.

— Non per molto — assicurò Kayder con convinzione. — Immagino che sia andato a nascondersi in qualche posto. Ma finiremo per trovarlo. — Fece un cenno di congedo. — Continuate le ricerche.

— Ma lo avevamo preso — osservò Grayson. — Era una volpe in trappola, allo stremo delle forze. Ed è fuggito.

Kayder inclinò indietro la sedia facendola stare in bilico sulle gambe posteriori.

— Volete dire che lo avevate veramente preso? E ve lo siete lasciato scappare? Com’è possibile?

— Non lo so. — Grayson era terribilmente preoccupato e non cercava di nasconderlo. — Non so… Non riesco a capire, e sono sconcertato. Ecco perché sono venuto da voi.

— Siate più preciso. Cos’è successo?

— Siamo entrati nella casa in cui era nascosto. Con lui c’era una donna… una vera telepatica, come lui. Steen era con me. È un ottimo ipno. E Raven è riuscito a giocarlo.

— Continuate. E tralasciate le pause teatrali.

— Steen ha fatto il trattamento a me - continuò Grayson. — Mi ha colto di sorpresa e mi ha privato di ogni volontà. È riuscito a convincermi di tornare allo scafo e dire a Haller che Raven non c’era. Poi lui si è ritirato nella cabina di pilotaggio con Haller.

Un piccolo ragno si arrampicò sui pantaloni di Kayder, e lui tese la mano per aiutare l’insetto a salire sul piano della scrivania. Il ragno era di un verde lucente, con otto piccole capocchie di spillo rosse al posto degli occhi.

Guardando disgustato l’insetto, Grayson continuò a parlare.

— Qualche ora dopo mi è ritornata la memoria. E ho scoperto che Haller era diventato pazzo, e che Steen era scomparso.

— Dite che Haller è impazzito?

— Sì. Quando l’ho visto balbettava cose senza senso. Sembrava che il cervello gli si fosse rivoltato. Accennava alla futilità infantile della lotta di Marte-Venere contro la Terra, alle sorprendenti meraviglie dell’universo, alla gloria della morte, e così via. Agiva come se volesse passare a miglior vita, ma avesse bisogno ancora di un po’ di tempo per convincersene.

— Haller è un pirotico — disse Kayder. — Voi siete un telepatico. Ve ne siete forse dimenticato? O eravate ancora troppo scosso dagli eventi per ricordarlo?

— No. Ho guardato nella sua mente.

— E cos’avete trovato?

— Era sconvolto in modo terribile. Un numero impressionante di pensieri slegati gli turbinava nella mente. Uno di questi diceva: Steen è me, è Raven, sei tu, è gli altri, è tutti. Un altro: Vita è non-vita, è vita rapida, è vita meravigliosa, ma non altra vita. - Si fece roteare un dito sulla tempia destra. — Completamente pazzo.

— Una brutta ed eccessiva dose ipnotica — diagnosticò Kayder, senza scomporsi. — Haller deve essere allergico all’ipnosi. Non c’è modo di accorgersene finché la vittima non ne mostra i sintomi. Con tutta probabilità, è anche permanente.

— Forse è stato accidentale. Forse Steen non sapeva che Haller avrebbe sofferto. È quello che voglio credere, almeno.

— Questo perché odiate pensare che un vostro amico abbia potuto o voluto nuocere ai suoi compagni. Comunque, caso o no, Steen si è ribellato a una persona che faceva parte della sua squadra, a un suo superiore. Abbiamo una brutta parola per definire una azione del genere. Ed è tradimento!

— Non credo — insistette Grayson, cocciuto. — Raven deve aver avuto qualcosa a che fare con quello che è successo. Steen non avrebbe mai fatto una cosa del genere senza una buona ragione.

— Certo — disse Kayder sorridendo sardonico. Fece una serie di trilli all’indirizzo del ragno, e l’insetto si esibì in una danza che forse voleva significare qualcosa.

— Tutti hanno una ragione — continuò Kayder — buona o cattiva o priva di qualsiasi interesse. Prendete me, per esempio. La ragione per cui io sono un onesto, leale e assolutamente fidato cittadino di Venere, va ricercata nel fatto che nessuno mi ha mai offerto l’incentivo sufficiente per indurmi a fare altrimenti. Il mio prezzo è troppo alto. — Diede un’occhiata significativa a Grayson. — Posso quasi immaginare con esattezza cos’è successo a Steen. È un uomo che costa poco, e Raven l’ha scoperto.

— Anche se è il tipo che può essere comprato, ma ne dubito, come ha potuto fare? Non ha avuto contatti.

— È rimasto solo con Raven, vero?

— Sì — ammise Grayson. — Si sono spostati per qualche minuto nella stanza vicina. Ma io sono sempre rimasto in ascolto. La mente di Raven era vuota. Quella di Steen mi ha detto che Raven si è girato verso di lui, come per dire qualcosa. Lo ha toccato… e improvvisamente anche la mente di Steen si è vuotata. Un ipno non può fare una cosa del genere. Gli ipnotici non possono chiudere la mente come fanno i telepatici… eppure l’ha fatto!

— Ah! — fece Kayder osservandolo.

— La cosa mi ha colpito subito. Era molto strana. Mi sono alzato per andare a vedere cosa stava succedendo, e in quel momento Steen è ricomparso sulla soglia. Ho provato un tale senso di sollievo da non accorgermi che la sua mente era ancora vuota. Prima ancora di potermene rendere conto, lui mi aveva ridotto alla sua volontà. Naturalmente — concluse Grayson in tono di scusa — io diffidavo di Raven e non ho fatto nessun caso a Steen. Non ci si aspetta che un compagno ti si rivolti improvvisamente contro.

— Certamente no — ammise Kayder. Fece alcuni strani suoni e il ragno si spostò per lasciargli prendere il microfono. — Faremo una caccia doppia. È altrettanto facile cercare due persone che una sola. Prenderemo Steen per poterlo esaminare.

— Dimenticate una cosa — obiettò Grayson. — Io sono qui. - Fece una leggera pausa, per dare maggior valore a quel fatto. — E Steen sa dove si trova questo nostro nascondiglio.

— Pensate che possa averci traditi e che ci si debba aspettare un’incursione?

— Sì.

— Ne dubito. — Con calma Kayder considerò la situazione. — Se le forze terrestri avessero saputo dove si trova questa base e avessero deciso di fare un’incursione si sarebbero mosse prima. L’attacco sarebbe avvenuto ore fa, quando poteva rappresentare un elemento di sorpresa.

— Cosa può impedire loro di agire con furberia per poi colpire con maggiore forza? Potrebbero aver impiegato tutto questo tempo nei preparativi per distruggerci interamente.

— Frenate la fantasia, Grayson — disse Kayder. — Ci sono troppi elementi di valore con noi… Tra le altre cose, se i Terrestri dovessero fallire, noi andremmo a nasconderci in qualche altro luogo. Meglio per loro sapere dove si trova il pericolo, anziché non saperlo per niente.

— Forse avete ragione — disse Grayson, non del tutto convinto.

— Comunque, non hanno nessuna giustificazione pubblica per prendere misure drastiche. Non possono partecipare attivamente a una guerra che fingono non esista. Finché non ammetteranno quello che non vogliono ammettere, noi li abbiamo in pugno. L’iniziativa è nostra, e rimane nostra.

— Spero che abbiate ragione.

— Sono pronto a scommetterci — disse Kayder, e fece una smorfia di disprezzo per le opinioni di Grayson. Premette il pulsante del microfono. — D727, l’ipno Steen ci ha traditi. Catturatelo a tutti i costi e nel più breve tempo possibile!

Soffocato dalla pesante porta, giunse l’eco delle sue parole ripetute dall’altoparlante esterno.

“D727, l’ipno Steen…” Poi la voce di un altro altoparlante lontano, perso nel labirinto dei corridoi. “D727, l’ipno Steen… Catturatelo… nel più breve tempo possibile!”

Dall’altra parte di quel mondo sotterraneo, vicino all’entrata segreta, uno dei lavoratori miopi guardò irritato verso l’altoparlante che non riusciva a vedere, poi inserì delicatamente nel piccolo apparecchio che stava costruendo un microcircuito non più grande della capocchia di un fiammifero. Nella sala vicina, un pirotico barbuto scagliò il fante di picche sul cinque di cuori di un levitante.

— Socko, me ne devi cinquanta! — Si appoggiò allo schienale della poltroncina e si passò una mano sul mento. — Ci ha traditi? Mai sentita una cosa simile.

— Se ne pentirà — disse uno che si era fermato a osservare la partita.

— Balle! — disse il primo. — Nessuno può pentirsi dopo essere morto!

4

Leina lo sentì tornare. Guardò attraverso la finestra e lo vide avvicinarsi lungo il vialetto. Si staccò dai vetri, mentre negli occhi le si accendeva un lampo di biasimo. — Sta tornando. Qualcosa deve essere andato storto — disse e aprì la porta della stanza attigua. — Non voglio essere spettatrice del vostro incontro. Quello che è sbagliato è sbagliato, e quello che è giusto è giusto. Non posso pensarla in modo diverso, anche se sarebbe più conveniente.

— Non lasciarmi solo con lui. Te ne prego. Non sarò capace di controllarmi! Tenterò di ucciderlo, anche a rischio di farmi uccidere da lui. Io…

— Non farai niente del genere — disse la donna. — Saresti tanto pazzo da uccidere il tuo vero io?

Fece una breve pausa. Aveva sentito una voce mentale che la stava chiamando. Ma non rispose.

— Ricorda la tua promessa. Obbedienza assoluta! Devi fare quello che ti dice. È la tua sola possibilità.

Uscì dalla stanza e chiuse la porta, lasciandolo solo ad affrontare la sua sorte. Prese una sedia e si mise a sedere, rigida. Aveva assunto l’aria della maestra di scuola che non vuole lasciarsi coinvolgere in qualcosa di imperdonabile.

Qualcuno entrò nell’altra stanza. Una voce attraversò la parete e raggiunse la sua mente.

— Tutto bene, Leina. Puoi uscire tra un minuto. — Poi sentì che si rivolgeva vocalmente all’altro. — Siete pronto a tornare? — Silenzio. — Vorrete certo ritornare, vero?

Rispose una voce sibilata.

— Maledetto vampiro! Lo sapete perfettamente che voglio.

— Eccomi, allora.

Leina chiuse gli occhi.

Dalla stanza accanto le giunse un respiro affannoso e un singhiozzo soffocato. Poi sentì un profondo respiro di sollievo. Si alzò, con la faccia tesa, e raggiunse la porta.

Steen sedeva pallido e disfatto sulla poltrona pneumatica. I suoi occhi, quelli che un tempo potevano bruciare di intensità magnetica, ora si guardavano attorno sgomenti.

— Ho preso possesso del vostro corpo — disse Raven. — Anche se siete un nemico, io vi chiedo scusa. Non è giusto prendere possesso del corpo di un vivente senza il suo permesso.

— Di un vivente? — Nel pronunciare la domanda, Steen impallidì visibilmente. Era dunque giusto prendere possesso del corpo di un morto? La mente gli venne afferrata da un vortice. — Volete dire che…

— Non saltate a conclusioni fantastiche — lo interruppe Raven, leggendo con chiarezza nei pensieri dell’altro, come su una pagina stampata. — Potreste aver ragione. O potreste sbagliarvi completamente. In ogni caso non vi servirebbe a nulla.

— David — disse Leina, guardando la finestra — che cosa potrebbe succedere se fra poco arrivassero in maggior numero e meglio preparati?

— Verranno — rispose David senza mostrare la minima preoccupazione — ma non subito. Sono pronto a scommettere che considerano assurdo che la preda ritorni nella trappola. Passerà un po’ di tempo, poi verranno a controllare. E sarà troppo tardi. — Tornò a rivolgere la sua attenzione a Steen. — Mi stanno cercando su tutto il pianeta, dandomi un’importanza assolutamente sproporzionata. Qualcuno deve averli informati, per metterli tanto in allarme. Qualche alta personalità degli affari terrestri deve aver tradito la fiducia riposta in lui. Voi sapete chi è?

— No.

Accettò la negazione senza obiettare, perché era indelebilmente scritta nella mente dell’altro.

— Ora stanno dando la caccia anche a voi.

— A me? — chiese Steen, cercando di scuotersi.

— Sì. Ho fatto un grosso sbaglio. Ho fallito nel tentativo di dominare il comandante del vostro scafo. Ha dimostrato di essere qualcosa di più che un semplice pirotico. Aveva una percettività intuitiva, una visione extrasensoriale molto ben sviluppata. Gli permetteva di vedere, o sentire, o stimare cose che non avrebbe dovuto sapere. — Girò la testa. Leina si era lasciata sfuggire un ansito e si era portata una mano alla gola. — Non me lo aspettavo — continuò Raven. — La cosa non era evidente e mi ha colto di sorpresa. È l’inizio di un Tipo Tredici. Un pirotico con capacità percettive extrasensoriali. Non se ne è ancora reso conto, e non sa di essere leggermente diverso dagli altri. — Fissò gli occhi a terra e fece scorrere la punta di una scarpa lungo la frangia del tappeto. — Nell’istante stesso in cui siamo venuti in contatto, mi ha conosciuto come voi non mi verrete mai a conoscere… Ed è stata per lui una cosa troppo terribile da sopportare: si è freneticamente afferrato a quella che ha considerato l’unica forma di legittima difesa. Si è sbagliato, naturalmente, ma le persone, nei momenti di pericolo, non riescono a pensare in modo logico. E si è reso inutile al mio scopo.

— Cioè? — chiese Steen allibito.

— È diventato pazzo — rispose Raven. — E danno la colpa a voi.

— A me? Al mio corpo? — Steen si alzò per andare davanti a uno specchio e toccarsi il petto e la faccia. Sembrava un bambino che si osserva il vestito nuovo. — Il mio corpo — ripeté. Poi alzò la voce in tono di protesta. — Ma non ero io!

— Dovrete cercare di convincerli.

— Mi faranno esaminare da un telepatico. E lui scoprirà la verità. Non posso raccontare delle menzogne… è impossibile.

— La parola impossibile dovrebbe essere cancellata dal dizionario. Potreste raccontare le più oltraggiose menzogne per tutta la durata di un viaggio da qui ad Aldebaran. Basta che vi condizioni un ipnotico più potente di voi.

— Non mi uccideranno — sussurrò Steen, preoccupato. — Mi manderanno in un luogo lontano, dove potranno tenermi d’occhio. Essere rinchiusi è una cosa ancora peggiore. Non potrò resistere. Preferirei morire.

Raven scoppiò a ridere. — Forse non lo sapete, ma avete detto qualcosa di vero.

— Voi siete nella posizione di poter considerare la cosa divertente — gridò Steen, senza avere perfettamente compreso quello che Raven aveva detto. — Non c’è nessuno in grado di tenervi prigioniero. In cinque minuti potreste confiscare il corpo della guardia e andarvene. A questo punto potreste anche impadronirvi del corpo dell’ufficiale adatto e firmare il foglio del vostro stesso rilascio. Potreste… potreste…

Nel cercare le infinite possibilità, quelle che portavano a un limite fantastico, la sua mente venne travolta da una violenta marea.

Leggendogli i pensieri, Raven sorrise appena. — Sì, è possibile pensare quello che si vuole. Ma anche se riuscissi a prendere il posto del capo della alleanza segreta Marte-Venere, non so se sposando la reginetta della Terra suggellerei una pace duratura. Voi avete letto troppi di quei volgari romanzi economici marziani, o li guardate sullo spettro-schermo.

— Può darsi — ammise Steen, ormai abituato al fatto che qualcuno leggesse i suoi pensieri e li criticasse. — Comunque, per fermare voi non c’è altro mezzo che uccidervi. — Girò un attimo lo sguardo verso Leina, poi tornò a rivolgersi a Raven. — E anche in questo modo non si otterrebbe niente, se ci sono altri mutanti come voi sempre pronti a prendere il vostro posto.

— Cominciate a considerare che saremo i vincitori, vero? — Raven tornò a sorridere, poi disse a Leina. — Sembra che abbia fatto bene a impadronirmi del suo corpo.

— Io dico che hai fatto uno sbaglio — rispose Leina con fermezza. — È sempre stato un male e sempre lo sarà.

— Su questo principio sono pienamente d’accordo — rispose Raven. Tornò a guardare Steen. — Sentite, io non sono tornato qui solo per divertirmi. Avevo delle buone ragioni, e riguardano voi.

— In che senso?

— Prima di tutto, volete passare dalla nostra parte, o insistete nel restare contro di noi?

— Dopo questa esperienza — disse Steen con un certo imbarazzo — sento che il cambiare bandiera sarebbe la cosa più sicura. Ma non posso farlo. — Scosse lentamente la testa. — Non è da me. Quelli che rinnegano la loro razza sono dei vigliacchi.

— Così preferite rimanere schierato contro i Terrestri?

— No! — Steen mosse i piedi, a disagio, e cercò di evitare lo sguardo fisso dell’altro. — Non voglio essere un traditore. E nello stesso tempo comprendo che la lotta contro la Terra è una pazzia… inutile. — La sua voce cambiò leggermente di tono. — Io voglio soltanto tornarmene a casa, starmene tranquillo, e soprattutto rimanere neutrale.

Era vero. Il suo pensiero lo esprimeva chiaramente. Steen aveva subito una scossa profonda e aveva perso tutto l’entusiasmo di una volta. È già terribile perdere un braccio o una gamba, ma è più terribile ancora essere privati del corpo intero.

— A casa forse vi sarà difficile fare da semplice spettatore — suggerì Raven. — Quando i fanatici vanno in cerca di qualcuno su cui sfogare il loro disprezzo, normalmente scelgono un neutrale.

— Correrò il rischio.

— Come volete — concluse Raven, facendo un cenno verso la porta. — Quella è la strada verso la libertà. Il prezzo da pagare è una sola informazione.

— Cosa volete sapere?

— Come vi ho detto, qualche alta personalità mi ha denunciato. Tra noi abbiamo un traditore. Voi avete detto di non sapere chi è. Chi può saperlo?

— Kayder — disse Steen, più che altro per il fatto che non era in condizioni di rifiutare l’informazione. Il nome gli era balzato in mente all’istante, e l’altro lo avrebbe potuto leggere facilmente, come se fosse stato una grande insegna luminosa.

— Chi è? Dove vive?

Era una risposta più facile, e non troppo pericolosa. Descrisse Kayder e parlò della sua residenza privata senza pensare al centro sotterraneo. La sua coscienza non avrebbe avuto rimorsi. Oltre la base segreta, Kayder dirigeva una piccola agenzia di importazioni da Venere, e per questo fatto poteva tranquillamente fruire di tutti i diritti di cittadino della Terra. Inoltre, era una persona perfettamente in grado di badare a se stessa.

— Quali sono le sue capacità speciali? — chiese Raven, dopo aver letto la risposta.

— Non lo so con precisione. Ho sentito dire che parla con gli insetti.

— Mi può bastare. — Raven sollevò il pollice verso la porta. — Andatevene. Se restate neutrale, avrete fortuna, forse.

— Lo spero — disse Steen. — Si fermò sul primo gradino e girò la testa. — E spero anche di non vedere mai più né voi, né lei. — Alzò lo sguardo al cielo e si allontanò rapido.

— Hai notato? — disse Leina un po’ in ansia. — Ha guardato in alto, ha mantenuto il controllo dell’espressione, ma la sua mente ha rivelato quello che gli occhi stavano vedendo. C’è un elicottero in arrivo. — Si avvicinò alla porta per controllare. — Sì, e scende rapido. David, ti sei dilungato troppo a parlare e ti sei fermato più del necessario. Cosa vuoi fare, adesso?

Raven la guardò, calmo. — Le donne non cambieranno mai.

— Cosa vuoi dire?

— Quando ti agiti diventi come un essere umano. Ti metti a pensare al pericolo e dimentichi di ascoltare. Non tutti sono nemici.

Leina cercò di controllare l’ansietà e si mise in ascolto. Adesso che la sua attenzione era completamente tornata normale, poteva percepire il groviglio di pensieri che provenivano dall’elicottero. C’erano quattro persone a bordo dell’apparecchio. Gli impulsi mentali diventavano più forti a ogni secondo, e nessuno faceva il minimo tentativo per controllarli. Erano menti comuni, tutte quante.

“La casa sembra tranquilla. Chi sta camminando sul vialetto che porta alla strada?”

“Non so. Comunque non è lui. È troppo piccolo e tarchiato.”

Una breve pausa.

“Carson ha detto che dovrebbe esserci una voluttuosa amazzone. Possiamo parlare con lei, se non troviamo Raven.”

— Hai sentito? — disse Raven. — Carson è un tuo segreto ammiratore.

— Io non l’ho mai conosciuto. Devi essere stato tu a dirgli qualcosa. Leina guardò attraverso i vetri della finestra e riprese l’ascolto. Le strane voci mentali si trovavano ora sul tetto.

“Avrebbero potuto mandare con noi anche un telepatico. Ho sentito dire che i migliori sanno leggere il pensiero di una persona che si trova lontanissima.”

“Non ci saranno mai lettori di pensiero tra noi. Il pubblico non vuole. Dopo le proteste di due secoli fa, quando volevano istituire il corpo di polizia sensoria, è nata la regola che nessun telepatico potesse mai entrare nella polizia.”

“Il pubblico!” esclamò un terzo, in tono di sprezzo.

“Fa’ girare un po’ più forte le eliche. Il giardino è fatto di terra, non di spugna. Non puoi parlare senza chiudere gli occhi?”

“Chi sta pilotando, tu o io? Quando tu succhiavi ancora i bastoncini di zucchero, io sapevo già atterrare su pezzi di terra grandi quanto un fazzoletto.”

Pausa.

“Tenetevi. Stiamo per toccare.”

L’elicottero scese di fronte alla finestra. Sembrava penzolare da due anelli di luce. Poi affondò i pneumatici in un’aiuola fiorita, e dallo scafo scesero quattro uomini. Uno si appoggiò stancamente all’apparecchio e gli altri si diressero verso la casa. Erano tutti in abiti borghesi.

Raven andò alla porta e l’aprì.

— Cosa c’è? Qualcosa di urgente? — chiese.

— Non so — disse quello che comandava il gruppo, squadrandolo dalla testa ai piedi. — Sì, siete Raven. Carson vuole parlarvi. — Fece un cenno verso l’apparecchio.

— Siamo venuti con questo perché è dotato di un raggio di sicurezza. Potete parlare da qui.

— Bene.

Nella cabina, Raven si mise a sedere e lasciò che l’altro collegasse la linea. A poco a poco lo schermo si accese, e dopo qualche istante comparve l’immagine di Carson.

— Hanno fatto presto — disse con un cenno di approvazione. — Ho mandato dieci pattuglie alla vostra ricerca, e pensavo che avrebbero impiegato settimane per trovarvi. — Carson regolò alcuni pulsanti del pannello e l’immagine sullo schermo divenne più nitida. — È successo qualcosa, nel frattempo?

— Non molto — disse Raven. — L’opposizione ha fatto due mosse contro di me. E io ne ho fatte due contro di loro. Nessuno ha vinto la battaglia. In questo momento, siamo seduti nei nostri angoli, succhiamo limoni, aspettiamo il colpo di gong, e ci lanciamo occhiate torve.

Carson corrugò la fronte. — Avete comunque finito la prima mano. La nostra posizione è invece molto meno brillante. La situazione sta precipitando.

— Cos’è successo?

— Questa mattina è saltata in aria la Baxter United. La notizia verrà diffusa il più tardi possibile.

Raven strinse involontariamente i pugni. — La Baxter è un grande stabilimento, vero?

— Grande? — Carson contorse la faccia in una smorfia. — Il turno di notte, quello che impiega il minor numero di personale, era appena terminato. Questo ha fortunatamente ridotto il numero delle vittime a circa quattromila.

— Mio Dio!

— La cosa ha tutta l’apparenza di un disastro industriale causato da qualche misterioso incidente — continuò Carson con voce secca. — Ed è una storia maledetta, perché da qualche tempo tutte le disgrazie simili sembrano avvenire per incidente. E non potremo mai affermare il contrario a meno che qualche nostro dispositivo nascosto non scatti.

— Ce n’erano in questo caso?

— Molti. A decine. Il posto è di grande valore strategico ed era ben sorvegliato. Tenevamo gli occhi aperti. Capite?

— Allora?

— Il novantacinque per cento dei nostri compagni è andato completamente distrutto. I pochi rimasti erano troppo danneggiati per funzionare o per registrare qualcosa di incriminante. Il gruppo di sentinelle, composto da telepatici e da ipnotici è scomparso in mezzo alle macerie.

— Nessun superstite? — chiese Raven.

— Non esattamente. Ci sono alcuni testimoni oculari. Ma non si può chiamarli superstiti, perché il più vicino si trovava a un chilometro dallo stabilimento. Dicono di aver sentito un forte tremito della terra e un boato tremendo: poi l’intero complesso è saltato in aria. Una locomotiva di duecento tonnellate è stata scagliata a mille metri di distanza.

— Secondo quanto mi avevate detto, la tecnica nemica era quella di compiere gravi sabotaggi senza creare forti perdite di vite umane, senza grandi spargimenti di sangue. Dopo tutto, siamo sempre legati da vincoli di parentela. — Raven fissò in silenzio lo schermo. — Se questa esplosione è opera loro, significa che hanno deciso di cambiare tattica e che ci vogliono combattere con la violenza.

— È proprio quello che temiamo — affermò Carson. — Ubriachi dei loro successi, alcuni Venusiani o Marziani fanatici possono aver deciso di infiammare l’opinione pubblica del loro mondo stringendo i tempi con ogni mezzo. Noi non possiamo permetterlo.

Raven fece un cenno affermativo e guardò fuori della piccola cabina. L’equipaggio dell’elicottero era distante quel tanto che bastava per non sentire. Gli uomini parlavano tra loro e fumavano guardando il cielo. Lontano, a est, qualcosa si alzò sopra l’orizzonte e scomparve nel blu lasciandosi dietro una sottile scia di vapore: un’astronave di linea che partiva per il suo viaggio.

— Perché mi avete chiamato? Dovevate dirmi qualcosa di particolare?

— No — disse Carson. — Sta a voi decidere quello che è meglio fare. Io vi ho dato l’informazione: tocca a voi scoprire che cosa può significare. — Si lasciò sfuggire un sospiro e si passò una mano sulla fronte. — L’idea di Marte e Venere è quella di provocare una catena di catastrofi che sembrino naturali, di minare la nostra potenza e di costringerci alla resa. Ma le catastrofi vere avvengono, di tanto in tanto. Senza prove evidenti, noi non possiamo distinguere un disastro casuale da uno provocato.

— Infatti.

— È forte la tentazione di indicarli come responsabili di incidenti che forse atterriscono loro quanto noi. D’altra parte, se noi avessimo la prova che sono loro i colpevoli e se sapessimo chi ha compiuto i sabotaggi li conceremmo per le feste, e la loro cittadinanza terrestre non li salverebbe. L’omicidio rimane omicidio in qualsiasi parte del cosmo.

— Volete che lasci tutto il resto e che faccia qualche indagine a questo riguardo?

La faccia di Carson si contrasse.

— Assolutamente no. Far finire l’inutile disputa… se è possibile… è molto più importante che dare la caccia a chi provoca i disastri. Vi consiglio di continuare secondo il piano che avete in mente. Però vorrei che non trascuraste la minima opportunità di raccogliere notizie sull’esplosione di questa mattina. Se scoprite qualcosa, informatemi il più in fretta possibile. Irrigidì la mascella e strinse gli occhi. — E io entrerò subito in azione.

— D’accordo. Terrò gli occhi aperti e le orecchie tese. Vi farò sapere tutto quanto mi capiterà di scoprire. — Raven guardò l’altro con curiosità. — In questo stabilimento Baxter, cosa stavano facendo?

— Volete proprio saperlo?

— È forse un segreto?

— Ecco… — Carson ebbe un attimo di incertezza, poi riprese: — Non vedo per quale motivo non dovrei dirlo. Se Heraty disapprova, dovrà rassegnarsi. Non capisco perché i nostri agenti debbano essere informati soltanto a metà. — Guardò attentamente lo schermo, come se cercasse di vedere alle spalle di Raven. — Avete nelle vicinanze qualcuno che può ascoltare i nostri discorsi?

— No.

— Bene. Non rivelate a nessuno quello che sto per dirvi. Entro due mesi la Baxter avrebbe portato a termine dodici prototipi di un nuovo motore azionato da un carburante nuovo e rivoluzionario. Verso la fine dell’anno scorso, una piccola astronave con questo motore, radiocomandata, ha fatto il viaggio di andata e ritorno fino alla Cintura degli Asteroidi. Nessun comunicato ufficiale è stato mai diramato al pubblico.

— Volete dire che siamo pronti a fare il Grande Salto? — chiese Raven sempre impassibile.

— Lo eravamo — rispose Carson, e nel pronunciare il verbo al passato la sua voce si velò di amarezza.

— Quattro astronavi trimotori erano quasi pronte a partire per il sistema di Giove. Quel viaggio sarebbe stato solo un collaudo, una semplice gita, il principio. Se avessero compiuto il viaggio senza difficoltà…

Lasciò la frase in sospeso.

— Avremmo raggiunto i pianeti più lontani? Plutone?

— Anche quella sarebbe stata una gita — ripeté Carson.

— Alpha Centauri?

— Forse anche più in là. È ancora troppo presto per stabilire dei limiti, ma dovrebbero essere molto lontani. — Carson concentrò l’attenzione su Raven. — Sembra che la notizia non vi abbia scosso minimamente.

Raven non diede nessuna spiegazione della sua strana flemma. — Il nuovo carburante è altamente esplosivo?

— Sì. Ecco cosa ci mette con le spalle al muro. Potrebbe sempre trattarsi di un incidente, anche se sono state prese tutte le precauzioni immaginabili.

— Capisco. — Raven rimase qualche attimo in silenzio. — C’è in circolazione un tipo sospetto. Si tratta di un certo Kayder, un Venusiano. Dirige la Morning Star Trading Company. Gli darò la caccia.

— Avete scoperto qualcosa sul suo conto?

— Soltanto che di sicuro si trova sulla Terra anche per altri scopi, oltre a quelli del commercio. Il mio informatore sembra certo che sia lui il Pezzo Grosso dell’altra parte della barricata.

— Kayder — ripeté Carson, prendendo nota su un foglio fuori dall’inquadratura dello schermo. — Farò controllare dai servizi di sicurezza. Anche se si trova legalmente sulla Terra, dovrebbe esserci una scheda su di lui, quale nativo di Venere. — Finì di scrivere e alzò lo sguardo.

— Bene. Servitevi dell’elicottero, se ne avete bisogno. Vi serve altro?

— Un asteroide fertile tutto per me.

— Quando ne avremo occupati un centinaio, ve ne farò riservare uno — promise Carson senza sorridere. — Ma se andiamo avanti di questo passo, riusciremo a occuparli soltanto qualche centinaio di anni dopo la vostra morte. — Mosse una mano per raggiungere un invisibile pulsante, e lo schermo si spense.

Per qualche istante Raven rimase a fissare lo schermo con espressione leggermente divertita. Un centinaio d’anni dopo la sua morte, aveva detto Carson. Era una data completamente priva di senso. Un punto nel tempo che non esisteva. C’erano persone di cui l’angelo delle tenebre non poteva impadronirsi. C’erano persone che nessuna mano umana avrebbe mai potuto distruggere.

— Nessuna mano umana, David — lo interruppe il pensiero di Leina dalla casa. — Ricordalo! Ricordalo sempre!

— È impossibile dimenticarlo — rispose il pensiero di Raven.

— Forse no… Comunque cerca di non dimenticarlo neppure per un istante.

— Perché? Siamo in due, no? Uno ricorda, e l’altro si occupa delle cose da fare.

Lei non rispose. Non c’era una risposta da dare. Divideva con lui quella reciproca funzione, e aveva accettato spontaneamente che fosse così. Questo doveva ricordarlo sempre, ma non doveva parlarne.

Leina non temeva né uomo né mostro, né luce né tenebre, né vita né morte. Tutte le sue ansietà provenivano da una sola fonte: aveva paura della solitudine. La terribile, pungente solitudine di chi ha un intero mondo per sé.

Sceso dal piccolo apparecchio, Raven fece qualche passo per sgranchirsi le gambe e si tolse Leina dalla mente. Uno non tenta di consolare con la comprensione una intelligenza superiore pari alla propria.

I quattro vennero verso di lui, e Raven si rivolse al pilota. — Portatemi a questo indirizzo. Vorrei arrivare poco dopo il tramonto.

5

Kayder arrivò a casa nel momento in cui la luce del giorno stava già cedendo all’oscurità della notte. Fermò lo scafo sportivo dietro la casa e rimase a guardare i due uomini che, spinto l’apparecchio nel piccolo hangar, chiusero le porte scorrevoli. Poi i due lo raggiunsero e lo seguirono verso la porta posteriore della casa.

— Ho fatto tardi ancora una volta — borbottò Kayder. — Questa sera i poliziotti sono in agitazione. Pattugliano ogni angolo del cielo. Mi hanno fermato tre volte. «Possiamo vedere la vostra licenza?» «Ci potete mostrare il brevetto di pilota?» «Possiamo vedere il certificato di abilitazione al volo?» — Sbuffò con rabbia. — Poco mancava che volessero vedere anche le voglie.

— Deve essere successo qualcosa — disse uno degli altri. — Sugli spettroschermi però non è apparsa nessuna notizia particolare.

— Fanno spesso così — disse il secondo. — Sono già passate tre settimane e non hanno ancora ammesso l’incursione al…

— Sss! — Kayder gli diede una violenta gomitata per farlo tacere. — Quante volte devo ripetere che non si deve parlare di queste cose?

Si fermò sui gradini, con le chiavi in mano, e scrutò l’orizzonte nella vana speranza di scorgere il bagliore bianco che vedeva tanto di rado. Era un’abitudine di cui non riusciva a fare a meno anche se sapeva che il puntino bianco sarebbe apparso soltanto nelle prime ore del mattino. Dalla parte opposta, quasi allo zenit, splendeva una luce rosa, ma Kayder non vi fece caso. Era il loro alleato, ma non significava altro. Kayder considerava Marte un opportunista che si era affiancato a Venere nella lotta per pura convenienza. Aprì la porta, entrò, e andò a scaldarsi le mani al pannello termico. — Che cosa c’è da mangiare? — chiese.

— Arrosto di anatra venusiana con mandorle e…

I gong della porta echeggiarono rumorosamente e Kayder si voltò di scatto a guardare il più alto dei suoi due compagni.

— Chi è? — chiese.

L’uomo diresse la mente verso la porta anteriore. — Un certo David Raven — disse dopo un attimo. Kayder si mise a sedere. — Ne sei sicuro?

— Così stava pensando.

— Cos’altro pensava?

— Niente. Soltanto che si chiamava David Raven. Il resto del cervello era vuoto.

— Aspetta un attimo, poi fallo entrare.

Raggiunta la grande scrivania, Kayder tolse da un cassetto una scatola decorata, fatta col legno di un albero venusiano di palude. Sollevò il coperchio. Sotto c’era uno spesso strato di foglie rossastre e di bizzarri fiori secchi. Al centro del cuscino di foglie c’era un mucchietto bianco che sembrava sale. Kayder sollevò la scatola fino alla bocca ed emise una serie di suoni bizzarri. Immediatamente i piccoli granelli lucenti si mossero e presero a girare per la scatola.

— Sa che lo state facendo aspettare, e sa il perché — disse l’uomo alto, guardando con disagio la scatola. — Sa esattamente cosa state facendo e cosa avete in mente di fare. Vi può strappare tutti i pensieri dalla mente.

— Lasciamolo fare, tanto non gli serve a niente. — Mise la scatola al centro della scrivania e avvicinò la poltrona che stava di fronte. Alcuni granelli luminosi uscirono dalla scatola e si alzarono in volo sparpagliandosi per la stanza. — Ti preoccupi troppo, Santil. Voi telepatici siete tutti uguali. Ossessionati dai fantasiosi pericoli di un pensiero svelato. — Emise altre vibrazioni sonore atteggiando le labbra in modo curioso e creando suoni che quasi oltrepassavano la soglia dell’udibilità. Altri puntini si alzarono in volo e scomparvero alla vista. — Fallo entrare.

Santil fu felice di andarsene. E anche il suo compagno. Quando Kayder cominciava a giocare con le sue scatole era meglio stare alla larga da lui. Tutti i pensieri riguardo l’anatra venusiana e le mandorle si potevano rimandare a un momento migliore.

L’atteggiamento dei due piaceva a Kayder perché aumentava il suo senso di potere. La superiorità sulle pedine era una cosa assolutamente necessaria, ma l’emergere sugli altri dotati di indubbio talento significava grandezza. Girò lentamente uno sguardo soddisfatto per la stanza, spostandolo dalla scatola a una cassetta, da un vaso esotico a un cofanetto laccato. Alcuni erano aperti, altri erano chiusi, e non si preoccupò che qualcuno potesse leggere nella sua mente. In fondo alla tasca destra, un piccolo ragno verde si mosse nel sonno. Kayder era l’unico al mondo in possesso di un’armata coraggiosa e quasi invincibile sempre a portata di mano.

Quando Raven entrò, sulle labbra di Kayder comparve il sorriso professionale del commerciante che saluta il cliente importante. Poi il Venusiano indicò una sedia e osservò in silenzio i capelli lucidi e neri, le spalle larghe e i fianchi stretti del visitatore. Il tipo del manichino pensò, a parte gli occhi punteggiati d’argento.

Non gli piacevano, nemmeno un po’. Avevano qualcosa che non andava. Sembravano guardare troppo lontano, penetrare troppo profondamente.

— Proprio così — disse Raven senza una particolare inflessione nella voce. — Avete perfettamente ragione.

Senza scomporsi, Kayder disse: — Non sono sorpreso, sapete? Sono troppo abituato ad avere attorno lettori-di-mente. A volte non riesco a pensare a una barzelletta spiritosa senza che cinque o sei persone si mettano a ridere prima che io abbia avuto il tempo di raccontarla. — Poi si concesse un’altra occhiata calcolatrice. — Vi stavo cercando.

— Quindi sono stato gentile a venire. Cosa volevate?

— Sapere cosa avete di speciale. — In realtà, Kayder avrebbe voluto dire qualcosa di subdolo per portare l’altro su una falsa pista, ma come aveva detto, conosceva bene i telepati. Quando la mente è aperta e palese come uno schermo acceso, l’unica cosa da fare è ammettere tutto quello che è visibile. — Mi è stato riferito che sareste un elemento a dir poco speciale.

Raven si protese in avanti e appoggiò le mani sulle ginocchia. — Chi ve l’ha riferito?

Kayder scoppiò in una risata. — Mi chiedete una cosa che potete leggere nella mia mente?

— Nella vostra mente non c’è. Forse, di tanto in tanto, per precauzione, un ipnotico vi cancella dalla mente ogni ricordo. Se è così, è possibile fare qualcosa. Un marchio può essere cancellato, ma non il segno dell’impressione sottostante.

— Per essere uno speciale mancate di acume — disse Kayder, sempre felice quando poteva ridimensionare un telepate. — Quello che un ipno fa, può essere disfatto da un ipno più bravo. Perciò, se voglio tener lontano un pensiero dalla mia mente, uso sistemi migliori e più efficaci.

— Quali?

— Per esempio, non far entrare il dato nella mente.

— Volete dire che ricevete le informazioni da una fonte sconosciuta?

— Proprio così. Sono stato io a chiederlo. Se non so una cosa, non la posso riferire, e nessuno può strapparmela nemmeno contro la mia volontà. Il miglior telepate di tutto il creato non può leggere quello che in una mente non c’è.

— Ottima precauzione — ammise Raven. Diede una manata a qualcosa che volava nell’aria. Poi ripeté il gesto.

— Non fatelo! — disse Kayder guardandolo torvo.

— Perché?

— Quei moscerini di palude mi appartengono.

— Questo non li autorizza a ronzarmi vicino all’orecchio, non vi pare? — Raven batté le mani e schiacciò due puntini quasi invisibili. Tutti gli altri insetti si allontanarono simili a una piccola nuvola di polvere. — Inoltre, nel posto dove li avete presi, ce ne sono molti altri.

Kayder si alzò, cupo in viso e disse minaccioso: — Quei moscerini possono fare all’uomo cose molto spiacevoli. Possono pungergli una gamba e fargliela gonfiare finché raggiunge le dimensioni del suo torace. Poi il gonfiore sale. E il corpo diventa una specie di ammasso elefantino, assolutamente incapace di muoversi. — Era evidente che provava una soddisfazione sadica per la potenza del suo esercito privato. — Quando il gonfiore raggiunge il cuore, la vittima muore. Ma la morte non elimina il processo. Il collo diventa due volte più grande della testa. E alla fine la testa si gonfia come un pallone, e tutti i capelli si rizzano sulla pelle del cranio, tesa, incredibilmente distanziati uno dall’altro. A questo punto gli occhi sono ridotti a due cavità affondate di almeno quindici centimetri nella faccia ridotta a una maschera grottesca e mostruosa. — Fece una breve pausa per congratularsi della propria abilità descrittiva, poi concluse: — Una vittima di questi moscerini è certamente il cadavere più repellente che si possa trovare tra qui e Sirio.

— Interessante, anche se melodrammatico — commentò Raven, freddo e impassibile. — Molto spiacevole sapere che non posso essere oggetto delle loro attenzioni.

— Cosa ve lo fa pensare? — domandò Kayder, aggrottando la fronte.

— Un paio di particolari. Per esempio, quali informazioni potreste cavare da un cadavere gonfio e disgustoso?

— Nessuna. Ma non ne avrei più bisogno se foste morto.

— E commettereste un errore, peraltro scusabile, carissimo amico. Un giorno potreste scoprire con sorpresa la mancanza di informazioni di importanza vitale… informazioni ottenibili.

— Cosa volete dire?

— Niente. — Raven fece un gesto con la mano. — Mettetevi a sedere e state calmo. Pensate a quali conseguenze avrebbe per voi trasformarmi in un pallone. Soltanto un insettivoco venusiano potrebbe fare una cosa simile. E per quanto sappiamo voi siete l’unico sulla Terra.

— Infatti — disse Kayder con un certo orgoglio.

— Questo restringerebbe i sospetti, non vi pare? I servizi di polizia terrestri esaminerebbero il cadavere e punterebbero il dito contro di voi, dichiarando che si tratta di un omicidio. E l’omicidio prevede una pena.

Kayder diede un’occhiata alla nuvola di insetti. — Ammesso che esista un cadavere da esaminare — disse in tono pieno di sottintesi. — E se non ci fosse?

— Il cadavere non ci sarà. Farò in modo che venga disintegrato. E in un certo senso questo rimetterebbe a posto le cose.

— Farete in modo? Stiamo parlando del vostro cadavere, non del mio.

— Stiamo parlando di qualcosa che non è né vostro né mio.

— Siete completamente partito — disse Kayder, con un senso di gelo alla nuca. — Avete una decina di rotelle in meno. — Si piegò in avanti per premere un pulsante sulla scrivania e non staccò mai lo sguardo dal suo interlocutore, come se temesse di trovarsi alla presenza di un pazzo.

Santil aprì la porta e avanzò di qualche passo. Sembrava intimorito, ed era evidente che avrebbe volentieri fatto a meno di entrare.

— Hai sentito qualcosa? — chiese Kayder.

— No.

— Hai tentato?

— Inutile. Posso sentire soltanto la vostra mente. Può parlare e pensare con la mente immersa nel vuoto assoluto. Può fare qualcosa più di me, qualcosa più di qualsiasi telepate che abbia mai conosciuto.

— Bene. Puoi andare. — Kayder. Aspettò che la porta si fosse richiusa alle spalle di Santil. — Quindi, voi siete una nuova specie di lettore-di-cervelli, un tipo di telepatico corazzato. Uno che può scrutare senza essere scrutato. Questo conferma quanto Grayson mi ha detto.

— Grayson? — chiese Raven, poi scosse le spalle. — Chi è mezzo informato è male informato.

— Questo però vale anche per voi.

— Naturalmente. Ho ancora cose da apprendere. — Raven dondolò una gamba osservandosi il piede con aria annoiata. — Mi piacerebbe sapere chi ha organizzato la distruzione della Baxter — disse inaspettatamente.

— Come?

— La catastrofe è avvenuta questa mattina. È stata davvero grave.

— E che cosa c’entro io, in tutto questo?

— Niente — ammise Raven con disappunto.

Aveva le sue buone ragioni per essere contrariato. In quei pochi secondi, nella mente di Kayder era passata un’onda di pensieri, e lui li aveva letti tutti.

Un’esplosione alla Baxter? Cosa c’entro io? Dove vuole arrivare? Distruggere quel grosso impianto sarebbe un bel colpo, ma non siamo ancora pronti. Quelli del pianeta forse hanno iniziato una serie di operazioni speciali senza darmene notizia. No, i capi non potrebbero fare una cosa simile. Non c’è motivo di creare una seconda organizzazione separata dalla prima. Comunque, lui sospetta che io sappia qualcosa. Perché? Ci sono forse indizi che lo hanno portato su questa falsa pista? Sono stati i Marziani ad agire di loro iniziativa e a fare in modo che la colpa ricadesse su di noi? Non ci sarebbe da meravigliarsi. Non mi sono mai fidato dei Marziani.

Raven pose fine al corso di quei pensieri.

— Secondo me, voi non avete fiducia in niente e in nessuno, tranne forse in questi vostri insetti. — Girò lo sguardo verso la nuvola che volteggiava ancora nell’aria. Sembrava che non avesse nessuna difficoltà nello scorgere ogni piccola creatura che la formava. Poi osservò le scatole, le piccole cassette, i cofanetti e i vasi, per calcolare la potenza che potevano contenere. — E un giorno anche questi vi tradiranno, perché gli insetti rimangono sempre insetti.

— Quando parlate degli insetti con me, parlate a una autorità in materia — borbottò Kayder guardandolo fisso. — Avete letto tutti i miei pensieri. Non li posso cancellare, come fanno i telepatici. Quindi sapete che non ho niente a che fare con il disastro della Baxter. Non ho avuto assolutamente niente a che farci.

— Ve lo concedo. Nessun ipnotico avrebbe potuto cancellarvi il ricordo dalla mente e lasciarvi tanto confuso e sincero nel sentirne parlare. — Raven si grattò un orecchio. — Un’ora fa avrei scommesso che eravate colpevole. E avrei perso. Ringrazio di non aver giocato dei soldi.

— Dovete avere bisogno di parecchi quattrini, voi. Quanto avete dato a Steen?

— Niente. Neanche un soldo.

— Non pretenderete che vi creda?

— Come tutti, anche Steen non ha resistito oltre un certo limite — disse Raven. — In certi momenti un uomo si trova di fronte a cose che non può sopportare. O cede quando gli rimangono ancora delle buone probabilità, o resiste finché si spezza. Vi conviene cancellare Steen e considerarlo perso in battaglia.

— Verrà trattato come merita — disse Kayder in tono minaccioso. — Cos’avete fatto a Haller?

— Non molto. Il guaio è stato che ha una potenza eccezionale e ha cercato di opporre una certa resistenza. Morirà presto.

— Mi hanno detto che il suo cervello è… — Kayder s’interruppe e, alzando la voce, aggiunse: — Avete detto morirà?

— Sì — confermò Raven, guardandolo con freddo divertimento. — Cosa c’è di strano? Prima o poi, tutti dobbiamo morire. Anche voi morirete un giorno. Qualche minuto fa vi divertivate apertamente all’immagine di me punto dai vostri insetti. In quel momento la morte vi dava una certa soddisfazione!

— Potrei divertirmi veramente — disse Kayder, mentre le labbra sottili si atteggiavano a una smorfia strana. Il telefono sulla scrivania suonò quasi in segno di protesta. Kayder guardò l’apparecchio come se ne avesse completamente dimenticato l’esistenza. Poi sollevò il ricevitore. — Sì?

Dal ricevitore uscì il suono di una voce metallica, e una serie di espressioni diverse comparvero sulla faccia di Kayder, che infine riappese, si appoggiò allo schienale e si asciugò la fronte.

— Haller è morto — disse.

Raven si strinse nelle spalle con un’indifferenza che sbigottì Kayder.

— Hanno detto — continuò Kayder — che ha blaterato una infinità di cose pazzesche su falene dagli occhi luminosi che volavano nel buio. Poi è morto.

— Era sposato?

— No.

— Quindi, poco male. — Sembrava che Raven stesse parlando di un incidente al quale non valeva la pena di prestare molta attenzione. — Era da prevedere. Come vi ho detto, lui era troppo accanito.

— Cosa volete dire, con questo?

— Non pensateci. È troppo presto. Non avete ancora l’età sufficiente per sapere certe cose. — Raven si alzò e parve torreggiare sull’altro. Con la mano destra allontanò sdegnosamente la nuvola d’insetti. — Voglio dirvi soltanto questo: nelle stesse circostanze, voi vi mettereste a sedere di fronte a me e allegramente vi tagliereste la gola da un orecchio all’altro, ridendo anche.

— Figuriamoci!

— Certo, lo fareste.

Kayder gli puntò contro un dito. — Sentite! Ci siamo conosciuti. Ci siamo illusi a vicenda di poter prendere il sopravvento l’uno sull’altro e abbiamo scoperto che non ne vale la pena. Voi non mi avete strappato niente. Assolutamente niente. Io invece ho scoperto tutto quello che volevo sapere. Più che a un supermutante, voi somigliate a un pneumatico sgonfio. Quella è la porta.

— Pensate quello che vi pare — disse Raven con un sorriso irritante. — Io desideravo solo conoscere l’identità di un traditore e forse qualcosa sul caso Baxter. I servizi di spionaggio si occuperanno di tutto il resto.

Kayder appoggiò il dorso della mano sul ripiano della scrivania e fece alcuni sibili con le labbra. I piccoli punti volteggianti scesero per appoggiarsi sulle sue dita.

— I servizi di spionaggio della Terra mi stanno pedinando da mesi. Sono così abituato alla loro compagnia, che mi sentirei perso senza di loro. Devono trovare degli ipno migliori dei nostri per poter fare qualcosa di veramente efficace. — Batté le dita sull’orlo della scatola e osservò gli insetti rotolare all’interno come granelli di polvere. — Tanto per dimostrarvi quanto poco mi preoccupi di loro, vi dirò che hanno tutte le ragioni di pedinarmi. E con questo? Io sto svolgendo un lavoro legittimo, e nessuno può provare niente contro di me.

— Non ancora — osservò Raven avviandosi verso la porta. — Comunque, ricordate le falene dagli occhi luminosi citate da Haller. Dato che parlate la lingua degli insetti, vi dovrebbero interessare. — Aprì la porta e tornò a girarsi, come se all’ultimo momento si fosse ricordato di qualcosa. — Grazie per tutte le informazioni sulla vostra base sotterranea.

— Cosa? - Kayder lasciò cadere scatola, moscerini e tutto.

— Non rimproveratevi e non date la colpa all’ipno che vi cancella i ricordi ogni volta che lasciate la base. Ha fatto un ottimo lavoro. Non è rimasta alcuna traccia. Però nella mente dell’amico Santil ho potuto vedere tutti i particolari che volevo.

Lo scatto della serratura risuonò sulle sue ultime parole.

Kayder tuffò la mano sotto la scrivania, prese un microfono e fece scattare il pulsante. Le dita gli tremavano e grosse vene gli comparvero sulla fronte.

— Avvisare immediatamente tutti — urlò con voce rauca. — Fra poco ci sarà un’irruzione. Il piano numero uno di copertura deve essere messo immediatamente in atto. Preparatevi subito al piano numero due. — Girò lo sguardo furente verso la porta. Sapeva bene che la persona uscita doveva aver sentito tutte le sue parole. — David Raven lascia la mia casa in questo momento. Non dovete perderlo di vista. Bisogna eliminarlo, in qualsiasi modo. Priorità assoluta. Occuparsi di Raven!

La porta si aprì e comparve Santil.

— Sentite, mi ha colto alla sprovvista, in un modo che io…

— Idiota — interruppe Kayder, fremendo. — Voi telepatici vi vantate di essere i migliori dell’universo. Al diavolo! Io ringrazio con tutto il cuore di non esserlo. Tra tutti i fenomeni della mente, il tuo rappresenta di certo il limite inferiore.

— Era completamente vuoto, capite? — protestò Santil arrossendo. — Quando si nasce e si cresce telepatici non si può fare altro che essere condizionati da questo fatto. Ho dimenticato che quel tale poteva scrutare anche tenendo il cervello più morto di un cane morto, e distrattamente mi sono lasciato sfuggire un pensiero. Lo ha raccolto con la massima rapidità e io me ne sono accorto soltanto quando ve ne ha parlato.

— «Ho dimenticato» — lo schernì Kayder. — È in cima alla lista delle ultime frasi famose. «Ho dimenticato». — La faccia gli si fece furente, e il suo sguardo si spostò verso l’angolo in cui si trovava una cassetta ricoperta da una rete. — Se quei calabroni di foresta fossero capaci di riconoscere una persona, li manderei all’inseguimento. Lo ridurrebbero a uno scheletro prima che avesse il tempo di lanciare un grido. — Distolse lo sguardo dalla cassetta. Santil non disse niente. — Tu hai un cervello, o quello che passa per tale — continuò Kayder in tono acido. — Perciò usalo! Dimmi dove si trova.

— Non posso. Sto tentando ma è inutile.

— Come te. — Kayder sollevò il ricevitore del telefono e compose un numero. Aspettò un istante. — Sei tu, Dean? Trasmetti la chiamata d’emergenza. Sì, voglio parlare con l’uomo-che-non-conosciamo. Se telefona, digli che probabilmente Raven tenterà qualcosa contro la nostra base locale. Voglio che usi la sua influenza per ritardare l’irruzione o ridurne gli effetti al minimo. — Depose il ricevitore e rimase pensoso a tormentarsi il labbro inferiore.

— Ha un raggio eccezionale. Scommetto dieci a uno che può ancora sentirvi — disse Santil.

— Questo è certo. Ma non gli servirà a niente. Nemmeno noi sappiamo con chi parliamo.

Il telefono tornò a suonare.

— Qui è Murray — disse la voce all’altro capo del filo. — Mi avevate incaricato di fare indagini su Raven.

— Cos’avete scoperto?

— Non molto. Secondo me, i Terrestri sono giunti alla disperazione, setacciano il pianeta e fanno le congetture più assurde.

— Cercate di non farne anche voi — grugnì Kayder. — Heraty, Carson e gli altri non sono stupidi, anche se sono bloccati da una palla al piede. Ditemi cosa avete scoperto e lasciate a me il compito di trarre le conclusioni.

— Suo padre era pilota delle astronavi di linea per Marte. Un telepate eccezionale nato da quattro generazioni di telepati. Non ci sono stati miscugli di talenti, in senso coniugale, fino a quando i genitori di Raven non si sono incontrati.

— Continuate.

— La madre era radiosensitiva, con antenati radiosensitivi più un supersonico. Secondo il professor Hartman, con tutta probabilità, il prodotto di una simile unione dovrebbe ereditare solo il talento dominante. È lontanamente possibile che il risultato, Raven in questo caso, abbia una ricezione telepatica su una banda eccezionalmente ampia.

— Su questo Hartman si sbaglia. Il nostro uomo può penetrare la mente altrui e nello stesso tempo impedisce agli altri di penetrare nella sua.

— Non so cosa dirvi. Non sono un esperto in materia — disse Murray. — Io vi ho ripetuto soltanto quello che ha detto Hartman.

— Lasciate perdere. Ditemi il resto.

— Fino a un certo punto Raven ha seguito la carriera del padre. Ha ottenuto il brevetto di pilota per le astronavi sulla linea di Marte, e con il brevetto anche il grado di capitano. Non ha fatto altro. Per quanto ottimamente qualificato, non ha mai pilotato un’astronave per Marte. Dopo aver ottenuto il grado, non ha fatto altro che aggirarsi senza scopo qui attorno. Poi Carson l’ha chiamato.

— Hmm! Molto strano! — Kayder corrugò la fronte. — Siete riuscito a scoprirne la ragione?

— Forse crede che la sua salute non possa permettergli i viaggi su Marte — azzardò Murray. — Dal giorno in cui è stato ucciso.

— Cosa? — I capelli di Kayder si rizzarono sulla testa. — Volete ripetere?

— Dieci anni fa, quando il vecchio Rimfire è scoppiato come una bomba, Raven si trovava allo spazioporto. L’esplosione ha fatto cadere la torre di controllo e c’è stata una carneficina. Ricordate?

— Sì. L’ho vista sullo spettroschermo.

— Raven venne raccolto con gli altri corpi. Era definitivamente uno dei cari estinti. Un giovane medico, quasi per divertimento, si è messo a giocherellare con il cadavere di Raven. Ha sistemato le costole spezzate, ha iniettato adrenalina, ha messo la testa in un polmone a ossigeno e ha fatto il massaggio cardiaco. Raven è ritornato in vita: è uno di quei rari casi di uscita dalla tomba. — Murray fece una leggera pausa. — Probabile che da quel momento abbia perso il coraggio.

— Nient’altro?

— È tutto.

Dopo aver riappeso, Kayder si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò Santil. — Ha perso il coraggio. Balle! Da quello che ho visto, Raven non ne ha mai avuto di coraggio da perdere. È una faccenda diversa.

— Chi ha mai detto una cosa simile? — chiese Santil.

— Tieni la bocca chiusa e lasciami pensare.

Il ragno uscì dalla tasca e si guardò attorno. Kayder mise l’insetto sul ripiano della scrivania e lo lasciò giocare con la punta del suo dito.

— Raven ha verso la morte un atteggiamento non umano — rifletté a voce alta. — Ha indovinato che Haller sarebbe morto, dieci minuti prima che questo avvenisse… perché un simile sa riconoscere il suo simile.

— Forse avete ragione.

— C’è da pensare che lo scampato pericolo gli abbia lasciato qualcosa di storto nella testa. Guarda la morte come qualcosa da disprezzare anziché temere. Perché l’ha sfidata una volta e immagina di poterlo fare ancora. — Spostò lo sguardo dal ragno a Santil. — Il suo rientro dall’oltretomba è veramente insolito, e lui deve aver tratto conclusioni pazzesche. Capisci cosa significa?

— Cosa? — chiese Santil a disagio.

— Illimitata temerarietà e coraggio pazzesco. È un telepate superiore a quelli normali, e ha la disposizione mentale del fanatico religioso. Aver conosciuto la morte ha ucciso tutta la paura che poteva averne. È probabile che faccia qualsiasi cosa che gli salti in mente, e in qualsiasi momento. Questo lo rende totalmente imprevedibile. Forse Carson conta proprio su questi fattori. In lui ha trovato un agente dai poteri eccezionali che non teme di correre nei luoghi che intimoriscono anche gli angeli… come ha fatto poco fa.

— Immaginavo che fosse qualcosa di più — disse Santil.

— Anch’io. Dimostra che più la voce si spande, più diventa esagerata. Ora ho l’esatta misura di lui. Dagli una corda lunga abbastanza, e lui ci si impiccherà da solo.

— Cosa volete dire?

— Che sono sempre gli animali che caricano a testa bassa a cadere nella rete. — Kayder solleticò il ragno sul ventre rugoso. — È il tipo che esce da una trappola per lanciarsi subito in un’altra. Non dobbiamo fare altro che aspettare il momento opportuno e si eliminerà da solo. — Qualcosa ticchettò sotto il pavimento. Kayder aprì un cassetto e sollevò un piccolo telefono. — Kayder.

— Qui Ardern. Irruzione in corso.

— Come procede?

— Vi mettereste a ridere. Gli ipno stavano pesando e imballando alberi di mandorlo; i microtecnici montano orologi da donna; i telecinetici stampano le ultime notizie giunte da Venere, e tutti si comportano come scolari disciplinati. Il posto è sereno, tranquillo, insospettabile.

— Avete fatto in tempo a trattare tutti?

— La maggior parte. Quando il controspionaggio ha fatto l’irruzione ne mancavano sei. Li abbiamo fatti uscire dal condotto. Si sono allontanati senza incidenti.

— Bene — fece Kayder soddisfatto.

— Non è tutto. Voi avete diramato certi ordini riguardo un tale che si chiama David Raven. Bene, l’abbiamo preso.

— Come avete fatto? — sussultò Kayder.

— Non è stato difficile. Metaforicamente parlando, si è cacciato nella gabbia, si è chiuso la porta alle spalle, ha incollato il suo biglietto da visita alle sbarre, e ci ha gridato di andarlo a vedere. — Attraverso il microfono giunse una risata soddisfatta. — Si è cacciato in un sacco e si è consegnato a noi.

— Sono troppo diffidente per poterla pensare alla stessa maniera. Dev’esserci sotto qualcosa. Verrò a controllare di persona. Sarò lì fra una decina di minuti. — Kayder tornò a nascondere il telefono nel cassetto e rimase con gli occhi fissi sul ripiano della scrivania, senza più occuparsi né di Santil né del ragno. Per qualche ragione che non poteva comprendere, si sentiva preoccupato. E per gualche altra ragione ugualmente oscura ricordò le falene dagli occhi lucenti che volavano nell’oscurità.

Brillanti, abbaglianti, si libravano in un buio senza fine.

6

Kayder fece la strada in sette minuti. La modesta casa in cui entrò era lo sbocco del passaggio segreto che partiva dalla base sotterranea: di lì erano usciti i sei uomini che non erano stati condizionati prima dell’incursione e di lì avevano preso strade diverse e si erano allontanati con la più grande naturalezza.

L’uomo che lo stava aspettando era piccolo e magro, e aveva la pelle permanentemente ingiallita da una vecchia febbre contratta nelle valli di Venere. Era un mutante di Tipo Due, un levitante che zoppicava fortemente da quando, in gioventù, si era sollevato troppo in alto e aveva esaurito la forza mentale al momento della discesa.

— Allora? — chiese Kayder, guardandosi attorno.

— Raven è a bordo del Fantôme - disse Ardern.

L’ira di Kayder esplose di scatto.

— Perché mi avete raccontato la panzana di averlo chiuso in una gabbia con il cartellino sulle sbarre?

— Infatti, lo è — insistette Ardern senza scomporsi. — Come sapete, il Fantôme è un’astronave in partenza per Venere.

— Con equipaggio terrestre. Tutti gli equipaggi delle astronavi sono composti di Terrestri.

— E con questo? Né Raven né l’equipaggio possono fare qualcosa mentre si trovano nello spazio. E dovranno atterrare. Allora Raven si troverà sul nostro pianeta, in mezzo a milioni di noi. e soggetto alle nostre autorità locali. Cosa volete di più?

— Occuparmene di persona — Kayder si avvicinò alla finestra e fissò le luci verdi del lontano spazioporto in cui si trovava il Fantôme.

Ardern attraversò zoppicando la stanza e raggiunse Kayder. — Ero vicino alla passerella, quando ho visto quel tale scendere rapidamente da un elicottero, come se mancassero soltanto pochi secondi alla partenza dell’astronave. Al controllo ha detto di chiamarsi David Raven e ha chiesto una cabina. Tra me ho pensato: “Quello deve essere l’uomo che Kayder sta cercando”. In quel momento lui si è girato verso di me e si è messo a sogghignare, come sogghigna un coccodrillo che vede un nuotatore nudo nelle acque del fiume. «Avete ragione», mi ha detto. — Si strinse nelle spalle. — Così, naturalmente, mi sono precipitato alla più vicina cabina telefonica e vi ho informato.

— Ha più impudenza di dieci impudenti assieme — borbottò Kayder. — Crede forse di essere invincibile? — Si mise a camminare avanti e indietro, tormentato dall’indecisione. — Potrei nascondere una scatola di insetti nello scafo, ma con quale utilità? I miei piccoli soldati non sanno riconoscere un individuo da un altro, a meno che uno non possa parlare con loro.

— Non avete molte probabilità di salire a bordo — disse Ardern. — Il Fantôme parte tra cinque minuti circa.

— C’è qualcuno che conosciamo, a bordo dell’astronave?

— È troppo tardi per avere la lista completa dei passeggeri. Trasporta circa trecento persone, senza contare l’equipaggio. Parte sono Terrestri, il resto Venusiani o Marziani incapaci di pensare o di fare qualcosa che non sia collegato al commercio. — Ardern rimase un attimo soprappensiero. — Peccato che non sia possibile raggiungere i passeggeri. I soli che conosco sono dodici nostri uomini che partono per la licenza del quarto anno.

— Di che tipo sono?

— Dieci microtecnici e due telecinetici.

— La combinazione ideale di talenti per mandare attraverso la serratura della sua cabina un miniesploratore in grado di schiacciarlo sul letto — disse Kayder con sarcasmo.

— Verrebbe immediatamente a conoscere le loro intenzioni, e potrebbe tenersi a distanza di sicurezza per tutta la durata del viaggio.

— Dovrà pur dormire — disse Ardern.

— Come facciamo a saperlo? I notturni non dormono mai, e forse anche lui può fare a meno del sonno.

— Siamo ancora in contatto radio. Possiamo incaricare quei dodici di cercare un passeggero telepatico dei nostri e farsi aiutare.

— Non servirebbe a niente — disse Kayder scuotendo la testa.

— Raven può trasformare la sua mente in una lastra di marmo. Se un telepatico lo raggiunge attraverso la porta della cabina e trova il vuoto assoluto, come può dire se Raven è sveglio o addormentato? E come può essere sicuro che l’altro non gli frughi in testa?

— Riconosco che è impossibile — ammise Ardern corrugando la fronte.

— Certi fatti legati alle mutazioni mi lasciano perplesso — disse Kayder, tornando a spostare lo sguardo sulle luci lontane. — Di tanto in tanto, mi stufo di sentir parlare del nostro cosiddetto spiegamento di talenti superiori. Gli insetti sono la cosa migliore. Nessuno può leggere nella mente di un insetto. E nessuno può ipnotizzare un insetto. Obbediscono alle persone che amano, ed è tutto. Posso dirvi che non serve altro.

— Una volta ho visto un pirotico bruciare un migliaio di insetti.

— Davvero? E cos’è successo dopo?

— Ne sono venuti diecimila e hanno divorato il pirotico.

— Ecco! — disse Kayder, con intima soddisfazione. — Gli insetti… non li si può battere! — Riprese a passeggiare avanti e indietro, fermandosi di tanto in tanto a fissare le luci. — Non possiamo fare altro che lasciar perdere.

— Cosa volete dire? — chiese Ardern.

— Lasceremo che se ne occupino quelli che si trovano dall’altra parte. Se un intero pianeta non può competere con una sola persona, allora tanto vale rinunciare alla lotta.

—  Proprio come vi ho detto fin dall’inizio. Si è messo in gabbia.

— Forse sì, e forse no. Io mi trovo sul suo pianeta e non sono in gabbia, vero?

Le luci lontane scomparvero improvvisamente lasciando il posto alla vivida fiammata bianca che si alzò da terra per spingersi verso il cielo. Poco dopo giunse un profondo boato che fece tremare i vetri delle finestre. Alla fine tornò il buio, e le luci verdi lontane ricomparvero. Sembravano diventate molto più deboli.

Ardern corrugò la pelle gialla della fronte. Sembrava preoccupato.

— Mi sono allontanato dalla passerella per venirvi a telefonare…

— E con questo?

— Come possiamo avere la certezza che Raven si trovi sullo scafo? Ha avuto tutto il tempo di uscire tranquillamente dall’astroporto. Chiedere una cabina può essere stata una mossa per metterci su una pista sbagliata.

— Potrebbe essere — borbottò Kayder. — È abbastanza furbo da escogitare una cosa del genere. Comunque, possiamo controllare. Quei maledetti se ne sono andati tutti, dalla base?

— Chiedo subito. — Ardern premette un piccolo pulsante inserito nella parete e parlò nell’apertura che si apriva poco più in alto. — C’è ancora attorno qualche ficcanaso?

— Se ne sono andati tutti.

— Bene, Philby. Scendo con Kayder per…

— Bene, un corno — interruppe Philby. — Hanno portato via otto dei nostri.

— Otto? E per quale ragione?

— Li vogliono sottoporre ad altri interrogatori.

— Erano accuratamente trattati? — chiese Kayder, avvicinandosi alla parete.

— Certo!

— Allora non c’è da preoccuparsi. Noi scendiamo per usare la trasmittente a onde corte. Cominciate ad accenderla. — Ardern riportò il pulsante nella posizione primitiva. — È la prima volta che portano via qualcuno per interrogarlo. Non mi piace. Credete che abbiano trovato il modo di rompere il blocco mentale?

— Perché allora non fermare tutti quanti, voi e me compresi? — Kayder fece un gesto di disprezzo. — È soltanto un modo per dimostrare che si stanno guadagnando la loro paga. Venite. Occupiamoci di una cosa alla volta. Ora dobbiamo parlare con il Fantôme.

Il grosso schermo della ricevente si illuminò e comparvero i lineamenti di una persona dalla pelle scura. Era l’operatore radio del Fantôme.

— Presto, Ardern, datemi i nomi dei nostri uomini — mormorò Kayder. Prese la lista e si inumidì le labbra, preparandosi a parlare.

— Nome, prego — disse l’operatore fissandolo.

— Arthur Kayder. Vorrei parlare con…

— Kayder? — ripeté l’operatore.

L’immagine si annebbiò leggermente, poi lo schermo si coprì di linee diagonali luminose. Alla fine ricomparve l’immagine. — C’è un passeggero in attesa di parlare con voi. Aspettava la vostra chiamata.

— Ecco! — disse Ardern annuendo. — Deve essere uno dei nostri uomini che l’ha individuato.

Prima che Kayder potesse rispondere, l’operatore si protese in avanti per premere dei pulsanti che non erano in vista. La sua faccia scomparve dallo schermo, che ne inquadrò subito un’altra: quella di Raven.

— Cominciate a volermi un po’ di bene, domatore di pulci? — chiese Raven.

— Voi? — esclamò Kayder, spalancando gli occhi.

— In persona. Pensavo che sareste venuto a controllare prima della partenza dell’astronave, ma siete stato lento, molto lento. — Raven scosse la testa in segno di rimprovero.

— Aspettavo la vostra chiamata. Come potete vedere sono proprio a bordo di questa astronave.

— E ve ne pentirete — promise Kayder.

— Per quello che mi aspetta allo sbarco? So che li avviserete del mio arrivo. Vi attaccherete alla radio per mettere in allarme l’intero pianeta. Vi assicuro che mi sento lusingato.

— Vi accorgerete di quanto vi state sbagliando — rispose Kayder, in tono di oscura minaccia.

— Questo sarà da vedere. Preferisco vivere nella speanza che morire in disperazione.

— Una cosa seguirà l’altra, vi piaccia o no.

— Ne dubito, Pidocchio, perché…

— Non chiamatemi Pidocchio! — gridò Kayder, rosso di collera.

— Calma, calma! — lo ammonì Raven. — Se il vostro sguardo potesse uccidere, sarei morto in questo momento.

— Morirete comunque — urlò Kayder, completamente fuori di sé. — Non appena sarà possibile farvi morire. Ve ne accorgerete.

— È bello sentirvi dire una cosa simile. Le confessioni pubbliche danno conforto all’anima. — Raven rimase un attimo a guardarlo in silenzio.

— Vi consiglio di mettere le vostre cose a posto il più presto possibile — disse poi. — Potreste assentarvi per parecchio tempo.

Tolse il contatto senza dare al furioso Kayder la possibilità di rispondere. E sullo schermo ricomparve l’immagine dell’operatore.

— Volete parlare con qualcun altro, signor Kayder?

— No… non ha più importanza. — Spense con rabbia la trasmittente e si girò verso Ardern. — Cosa voleva dire affermando che potrei assentarmi per parecchio tempo? Non riesco a capire.

— Nemmeno io.

Rimasero in silenzio a studiare quella frase sibillina, preoccupati. Poi entrò Philby.

— C’è una chiamata per voi da non-si-sa-chi-è.

Kayder prese il microfono e si mise in ascolto. Dall’altro capo della linea gli giunse la voce familiare dell’uomo che lui non conosceva.

— Ho già seccature sufficienti anche senza dover correre altri rischi per coprire quello che viene gridato ai quattro venti dal primo idiota.

— Come? — chiese Kayder fissando l’apparecchio e sbattendo le palpebre.

— Con mezzo controspionaggio in ascolto, proferire minacce di morte da una trasmittente a circuito aperto è come mettersi in ginocchio ai piedi di qualcuno e pregarlo di sferrarci un calcio nel sedere — continuò la voce in tono acido. — Con le leggi della Terra, la pena è dai cinque ai sette anni di carcere. E io non potrei intervenire.

— Ma…

— Voi siete un collerico, e lui lo sa. Vi ha spinto a gridare per tutto l’etere le vostre intenzioni illegali. Idiota! — Una breve pausa. — Non posso proteggervi senza tradirmi, quindi dovete scomparire alla svelta. Prendete le vostre scatole e bruciatele, con tutto il contenuto. Poi andatevi a nascondere, fino a quando non riusciremo a farvi lasciare il pianeta in qualche modo.

— Come posso fare? — chiese Kayder, completamente annichilito.

— Sono affari vostri. Lasciate immediatamente la base… Non devono trovarvi là. E siate prudente nel rientrare in casa per prendere le scatole. Possono già aver messo l’edificio sotto sorveglianza. Se non riuscite a recuperarle entro un’ora, lasciate perdere.

— Ma contengono il mio esercito. Con quelle scatole potrei…

— Non potreste fare niente — lo interruppe, secca, la voce — perché non vi darebbero la possibilità di usarle. Ora non perdete tempo a discutere con me. Sparite dalla circolazione e statevene tranquillo. Quando il chiasso si sarà un po’ calmato, cercheremo di nascondervi su qualche astronave diretta a Venere.

— Potrei difendermi dall’accusa — disse Kayder con tono supplichevole. — Potrei dire che si trattava soltanto di frasi dette senza intenzione in un momento di collera.

— Sentite — disse stancamente la voce — il controspionaggio vuole togliervi dalla circolazione. Da mesi sta cercando un pretesto per farlo. Niente può salvarvi tranne una deposizione di Raven in cui dica di sapere che si trattava di parole senza importanza… E io non credo che riuscirete a ottenerla. Ora piantatela e cercate di non farvi trovare.

All’altro capo delle linee la comunicazione venne tolta, e Kayder riappese cupo il ricevitore.

— Che cosa succede? — chiese Ardern guardandolo fisso.

— Cercano di mettermi in gabbia per cinque o sette anni.

— Perché?

— Minaccia di omicidio.

— Possono farlo, se veramente ne hanno l’intenzione — disse Ardern. Dalla sua espressione trapelava l’intenso sforzo mentale. Poi i suoi piedi si staccarono da terra, e lui si sollevò lentamente verso la presa d’aria che si apriva nel soffitto. — Me ne vado finché sono ancora in tempo. Io non vi conosco. Mi siete completamente sconosciuto. — E scomparve nel condotto.

Kayder uscì. Si fermò a una certa distanza dalla sua casa per osservare l’edificio, e scoprì che era già piantonato. Camminò per strade e vicoli fino alle due del mattino, pensando alle potenti scatole che si trovavano nello studio della sua casa. Senza di esse si sentiva una comune pedina. Come poteva entrare in casa senza farsi vedere? Da quale distanza, dietro l’anello di guardie, poteva lanciare il sibilo che solo gli insetti potevano sentire?

Stava scivolando silenziosamente nella parte più buia di una piazza, quando quattro uomini uscirono da un portone e gli sbarrarono il passo.

Uno di loro, un telepatico, parlò con sicurezza assoluta. — Voi siete Arthur Kayder. Vi stavamo cercando.

Era inutile negare a chi poteva leggere nella sua mente. Li seguì docilmente, sempre pensando alle sue preziose scatole, sempre convinto che gli insetti erano la migliore delle armi.

7

Le nebbie striscianti di Venere si addensavano in un fitto strato giallo sui portelli delle stive. Quando Raven entrò nella cabina principale per osservare lo schermo radar, una linea luminosa seghettata segnava la gigantesca catena delle Sawtooths Mountains. Dietro, fino alle grandi lussureggianti pianure dove l’uomo aveva stabilito il più forte caposaldo, si stendevano digradanti le foreste pluviali.

Una vibrazione costante scosse il Fantôme durante tutta la manovra più difficile, quella della decelerazione del gigante progettato per velocità incredibile. Non era una cosa semplice. Non lo era mai.

In basso, profondamente nascosti dal verde delle foreste giacevano quattro cilindri contorti di vecchie astronavi. In quel momento i piloti del Fantóme si preoccupavano unicamente di non far salire il numero a cinque.

Anche i passeggeri sapevano che quello era il momento più critico del viaggio. Gli accaniti giocatori di carte si fecero tesi e silenziosi, le discussioni terminarono e i bevitori di tambar divennero improvvisamente sobrii.

Tutti gli occhi erano intenti a osservare sullo schermo radar i denti di roccia che ingigantivano per poi sparire dietro lo scafo in fase di discesa.

Dagli altoparlanti giungeva la voce monotona di un ufficiale che si trovava nella cabina di pilotaggio.

— Quarantaduemila, quarantamila, trentaseimila…

Senza partecipare all’ansietà generale, Raven osservò lo schermo in attesa del momento opportuno. Le catene di montagne sorpassarono il centro dello schermo, scivolarono verso il basso e scomparvero. Qualcuno sospirò di sollievo.

Apparve l’estremità ovale della grande pianura, che a poco a poco diventò più chiara, più dettagliata. E comparvero i grandi fiumi, le vibrazioni dello scafo si fecero violente sotto lo sforzo di controbilanciare la forza di gravità del pianeta.

— Seimila. Cinquemilacinquecento…

Raven abbandonò il suo posto e uscì dalla cabina. Alcuni lo guardarono sorpresi per l’insolito comportamento.

Camminando in fretta lungo un corridoio metallico, raggiunse il portello anteriore. Quello era il momento migliore. L’equipaggio aveva il suo da fare, e tutte le menti erano occupate in tutt’altro. I passeggeri, invece, si preoccupavano per la salvezza della loro pelle.

Per quanto abituato al grande senso di autoconservazione degli esseri umani, Raven trovò la cosa divertente. Essere in apprensione, per quanto li riguardava, era un caso di totale ignoranza. Se fossero stati meglio informati…

Nel manovrare la porta automatica sorrise tra sé. Poi entrò nella camera stagna e richiuse il portello. Quell’azione avrebbe fatto accendere una lampadina rossa nella cabina di pilotaggio e avrebbe fatto squillare un campanello di allarme. Qualcuno sarebbe accorso per vedere chi era il pazzo che si divertiva con le uscite in quel momento delicato dell’atterraggio. Ma non aveva importanza. Il furente ufficiale sarebbe arrivato con almeno mezzo minuto di ritardo.

Il piccolo altoparlante della camera stagna, sintonizzato con la cabina di pilotaggio, continuava a dare informazioni.

— Quattromiladuecento, quattromila, tremilaseicento…

Raven manovrò rapidamente la leva del portello esterno, e lo spalancò. Non il minimo soffio d’aria uscì dallo scafo. Fu anzi l’atmosfera del pianeta a entrare, con il suo calore, la sua umidità e il forte odore della vegetazione.

Qualcuno cominciò a battere con violenza contro il portello interno, con il rabbioso vigore dell’autorità sfidata. In quello stesso momento dall’altoparlante giunse uno scatto, e una nuova voce cominciò a gridare: — Voi, nel Compartimento Quattro, chiudete il portello esterno e aprite quello interno. Vi avvertiamo: la manovra dei portelli da parte di personale non autorizzato comporta la pena di…

Raven fece uno scherzoso gesto di saluto all’altoparlante e saltò dallo scafo. Cadde a testa in avanti nell’aria umida e cominciò a rotolare su se stesso. Un attimo dopo, il Fantôme era un cilindro nero che volava alto sopra di lui, mentre un mondo di piante e di fiumi gli correva incontro.

Se qualcuno dall’astronave fosse stato tanto pronto da afferrare un binocolo per osservare la figura allargata nell’aria, che rotolava in caduta apparentemente incontrollata, avrebbe avuto qualcosa di strano cui pensare. Di solito, soltanto due tipi di persone saltavano da un’astronave in volo: i suicidi e i levitanti che volevano fuggire. Questi ultimi usavano le loro capacità extranormali per discendere a velocità di sicurezza. Soltanto i suicidi cadevano come pietre. Due tipi di persone saltavano da una astronave in corsa… e non era concepibile che ci fossero esseri che non erano esattamente persone.

La caduta durò più a lungo di quanto sarebbe durata sulla Terra. Una persona cade con accelerazione regolare finché non viene frenata dall’aumento della pressione atmosferica, e lì, la densa atmosfera del pianeta si accumulò contro il corpo in movimento.

Quando Raven fu a cento metri dalla cima degli alberi, il Fantôme era ormai ridotto alle dimensioni di una matita e stava iniziando l’ultima fase dell’atterraggio. Era impossibile che da bordo lo potessero vedere. In quel momento Raven rallentò la velocità di caduta.

La frenata fu un curioso fenomeno, senza niente in comune con i contorcimenti di volo e gli sforzi mentali che compivano i levitanti. Il rallentamento avvenne con regolarità, in modo naturale, come quando un ragno cambia improvvisamente idea e riduce di colpo l’emissione del filo.

All’altezza delle piante, a circa cento metri dal suolo, Raven scese come sospeso a un paracadute invisibile. In mezzo agli enormi rami, grossi quanto il tronco di un vecchio albero terrestre, cominciò a volteggiare come una foglia. Toccò il suolo lasciando soltanto una leggera impronta di tacchi sul terriccio.

Era disceso a poco più di un chilometro dal limite della grande pianura. Lì le gigantesche piante crescevano più distanziate l’una dall’altra, lasciando filtrare raggi di luce simili a quelli che piovono dalle vetrate di una cattedrale. Cinquanta o sessanta chilometri a ovest cominciava la vera giungla venusiana, con tutta la moltitudine di feroci creature da incubo, che solo ultimamente avevano imparato a mantenersi debitamente lontane dall’ancora più pericolosa creatura chiamata Uomo.

Raven non era affatto preoccupato dalla possibilità di veder comparire un solitario esemplare di qualcuno dei mille tipi di bestie feroci che abitavano le foreste del pianeta, e non si preoccupò nemmeno degli ancora più terribili cacciatori di uomini che si sarebbero lanciati fra poco alla sua ricerca.

La notizia del suo salto avrebbe irritato quelli che lo stavano aspettando allo spazioporto. Ma l’irritazione non sarebbe durata a lungo. Il messaggio di Kayder, se l’avevano ricevuto, doveva descriverlo, come un fenomeno telepatico al quale personaggi terrestri come Heraty e Carson sembravano attribuire più importanza di quanto meritava. Da questo avrebbero dedotto che tutta la sua importanza doveva essere ricercata in qualcosa che Kayder non aveva notato e che loro dovevano scoprire. Ora sapevano che aveva lasciato l’astronave alla maniera dei levitanti, ma che era precipitato nel vuoto in modo diverso. Senza esitazione avrebbero accettato l’esistenza di un nuovo e insospettato essere di talento para-levitante. Sommando la notizia a quanto già sapevano, sarebbero giunti a classificarlo quale primo esempio della creatura spesse volte immaginata e terribilmente temuta: una creatura dotata di molti talenti, che discendeva dall’unione di mutanti diversi. Mettendosi a sedere su uno spesso pezzo di corteccia verde, Raven sorrise tra sé divertito. Un esempio di “mutante multiplo”nato dall’unione di mutanti diversi. Un essere simile, per quanto i tre pianeti fossero tenuti costantemente sotto controllo, non era mai stato scoperto. E c’erano ottime ragioni genetiche per credere che un mutante del genere non sarebbe mai stato trovato, né che potesse esistere.

Per ragioni sue la Natura aveva stabilito che i figli nati dall’unione di mutanti diversi dovessero ereditare il solo talento dominante, o nessuno. L’attitudine secondaria scompariva sempre. Spesse volte il talento dominante saltava una generazione. In questo caso, la generazione saltata contava esseri assolutamente normali.

Il concetto di supertelepatico superlevitante era decisamente assurdo… ma quelli che lo affermavano si sarebbero rimangiati tutto il giorno in cui fosse apparsa la prova evidente della loro esistenza. Quando avrebbero saputo che la prima mossa della pedina posta sulla scacchiera dai Terrestri era stata quella di abolire una legge naturale, ai capi del movimento clandestino sarebbe venuto un considerevole aumento di pressione sanguigna. Avrebbero voluto catturarlo a ogni costo e con la massima rapidità, prima che potesse sconvolgere anche altre leggi che l’uomo aveva creato per conquistare ricchezza o potere.

Il pensiero fu di grande soddisfazione per Raven. Fino a quel momento non aveva compiuto niente di spettacolare per gli standard di quell’epoca, e aveva fatto benissimo. Non conveniva essere troppo spettacolari. Proprio come la pensava Leina: interferire il meno possibile. Per questo aveva disapprovato certe sue azioni come quella di trasferirsi nel corpo di un altro essere vivente. Era necessario restare sempre nell’ombra e non lasciarsi mai tentare dall’azione.

Lui, comunque, aveva creato un considerevole disagio nelle file del nemico fin troppo fiducioso. Infatti, se gli avversari, digerita l’idea dell’esistenza di un mutante dai molti talenti, avessero pensato alla possibilità dell’arrivo di nuovi esseri forse ancora più potenti, avrebbero avuto ogni ragione di temere. E i loro timori li avrebbe portati sempre più lontano dalla verità, da quella verità che non avrebbero mai dovuto sapere, per evitare che altri la potessero poi leggere nelle loro menti.

Peccato che non si potesse dire loro la verità… Ma ci sono cose che non possono essere raccontate agli immaturi.

Nessuna legge naturale era mai stata o poteva essere abolita. Un fenomeno soprannaturale è qualcosa che obbedisce a delle leggi che ancora non si conoscono o che non sono state identificate. Non esistevano mutanti multipli. C’erano solo falene dagli occhi lucenti che svolazzavano nell’infinità del buio eterno.

Raven lanciò un raggio mentale di chiamata su una banda molto più alta di quella telepatica normale.

— Charles!

— Sì. David?

La risposta giunse immediatamente, mostrando che dall’altra parte stavano aspettando la sua chiamata. Gli impulsi mentali in arrivo urtarono i centri di ascolto con una lieve distorsione.

Raven girò la testa in direzione di chi gli aveva risposto, istintivamente, come si fosse girato verso una persona presente.

— Sono saltato dall’astronave. Forse non era necessario, ma non ho voluto correre rischi.

— Lo so — rispose la mente lontana. — Mavis è stata chiamata da Leina. Come al solito, hanno chiacchierato per un’ora di faccende personali, poi, finalmente, Leina si è ricordata di aver chiamato per dirci che eri sul Fantôme.

— Le donne rimarranno donne per tutta l’eternità — disse Raven.

— Così sono venuto allo spazio-porto — continuò Charles. — In questo momento mi trovo vicino al cancello d’ingresso. Non sono riuscito a entrare perché hanno proibito l’accesso al pubblico. Il campo è completamente circondato. Quelli che sono venuti a ricevere parenti e amici stanno camminando nervosamente avanti e indietro, formulando le congetture più insensate. Lo scafo è ormai a terra, e un gruppo di bellicosi ufficiali si sta comportando come se qualcuno avesse appena rubato gli assegni delle loro paghe.

— Temo che sia tutta colpa mia.

— A ogni modo, perché venire con un’astronave? — chiese Charles. — Se per qualche misteriosa ragione dovevi compiere il viaggio lentamente, avresti potuto gonfiare un piccolo pallone per fare la traversata, non ti pare?

— A volte ci sono considerazioni molto più importanti della velocità — rispose Raven senza stupirsi di quello che l’altro aveva detto. — Per esempio, sto indossando un corpo.

— È proprio al tuo corpo che stanno dando la caccia. È una maniera sicura per tradirsi.

— Forse. Ma io voglio che mi cerchino. Dare la caccia a un corpo impedisce loro di pensare ad altro.

— Hai ragione — disse Charles. — Vieni da noi?

— Certo. Ho chiamato per accertarmi che foste lì.

— Bene. Ci vediamo tra poco.

— Parto subito.

S’incamminò tra le ombre del bosco verso la pianura. Avanzava in fretta, vigile più con la mente che con gli occhi. Per lui era sempre possibile percepire gli esseri che lo potevano osservare, perché era impossibile spiarlo senza irradiare un pensiero, anche se elementare come quello dei due gufi che lo stavano guardando dal buco di un albero, a una cinquantina di metri dal suolo.

— Cosa-uomo sotto! Aaargsh!

Ai margini della foresta comparvero i primi segni della caccia scatenata contro di lui. Raven si nascose nell’ombra di un grosso albero e lasciò passare l’elicottero che volava sopra il grande ombrello di rami. Era un grosso apparecchio sostenuto da quattro rotori a più pale, e trasportava un equipaggio di dieci elementi. Raven riuscì a contare le menti mentre gli uomini scrutavano il groviglio che si stendeva sotto di loro.

C’erano sei telepatici che ascoltavano, ascoltavano, attenti a raccogliere il primo impulso mentale che lui avesse avuto l’imprudenza di lasciarsi sfuggire. E c’era un insettivora con una gabbia di formiche-tigri volanti, da lanciare sul punto che i telepatici avessero indicato.

Il secondo pilota era un notturno, felice di restare a riposo in attesa del suo turno, nel caso che la caccia fosse continuata anche durante la notte. Gli altri due erano un ipnotico che imprecava contro Raven perché era stato strappato a una partita di jimbo-jimbo che stava vincendo e un supersonico con le orecchie a sventola tese nello sforzo di percepire il lievissimo sibilo del cronometro al radio che erroneamente secondo loro la preda doveva avere.

Il gruppo dei mutanti passò proprio sopra la sua testa e si allontanò zigzagando, senza immaginare minimamente di essergli stato tanto vicino. Un secondo equipaggio simile stava sorvolando una zona parallela, due chilometri circa più a sud, e un terzo tre chilometri più a nord.

Raven lasciò che si allontanassero parecchio, poi uscì dal nascondiglio e riprese il cammino. Seguì il margine della foresta fino a una strada, e da lì si diresse verso la città, con minore precauzione.

Le squadre aeree di ricerca potevano essere composte da esseri umani con doti eccezionali, molto superiori a quelle comuni, ma tendevano a cadere negli errori degli esseri normali: pensavano cioè che nessun uomo in marcia lungo una strada, alla vista di tutti, potesse avere qualcosa da nascondere. Ma nella eventualità che uno di questi gruppi, preso da eccesso di zelo, fosse sceso verso di lui per scrutare nel suo cranio, lui avrebbe fornito una selezione di banali pensieri come: Cosa ci sarà da mangiare? Se trovo ancora pesce fritto faccio una scenata!

Rimaneva comunque il rischio, anche se minimo, che le squadre avessero la sua fotografia, e che uno degli apparecchi scendesse a bassa quota per poterlo osservare in faccia.

Ma nessuno gli prestò particolare attenzione. A poca distanza da Plain City, un elicottero andò a volteggiare sopra la sua testa, e lui sentì quattro menti frugare nella sua. Per il disturbo che si erano presi, Raven elargì un quadro dettagliato di una violenta lite familiare tra le pareti di un tugurio. Nell’attimo in cui si ritiravano dalla sua mente, riuscì quasi a sentire il disprezzo che avevano provato. Immediatamente i rotori cominciarono a girare con maggiore velocità, e l’apparecchio si diresse di nuovo verso la foresta.

Alla periferia della città, Raven si portò al margine della strada per lasciar passare un enorme trattore che trascinava a rimorchio una grande gabbia di ferro. Due ipnotici e un telecinetico avevano l’incarico di svolgere quella tardiva parte della caccia con i gatti selvatici che si trovavano nella gabbia. Quegli animali potevano seguire una traccia vecchia di una settimana e salire agilmente in cima a tutti i giganteschi alberi della foresta che non fossero coperti di spine.

Dovendo fingersi un essere comune, Raven prese a masticare un filo d’erba rossa e fissò con occhi pieni di curiosità il gruppo di persone che gli stava passando accanto. Le menti di tutti risultarono aperte come libri: uno degli ipnotici era impegnato a smaltire rapidamente una sbornia di tambar, l’altro aveva passato una notte insonne e aveva la sola preoccupazione di restare sveglio. Stranamente, il telecinetico era preoccupato dal fatto di catturare la preda e di essere poi accusato dalle autorità terrestri. In gioventù aveva subito diverse volte le conseguenze dell’aver obbedito a certi ordini, e non l’avrebbe mai dimenticato.

Anche i gatti selvatici trasmettevano i loro desideri felini. Da dietro le sbarre, dieci animali fissarono Raven sbavando, e promisero a se stessi che un giorno o l’altro avrebbero finito con l’assaggiare la carne della razza che dominava. Sei pensavano alla possibilità di fuggire nella foresta e di trovare riparo dove l’uomo non poteva raggiungerli. Gli altri quattro pensavano a cosa avrebbero fatto nel caso che la pista dell’uomo da inseguire si fosse incrociata con quella di una gatta selvatica. Evidentemente gli sarebbe piaciuto unire l’utile al dilettevole.

Il ridicolo gruppo si allontanò lungo la strada sotto gli occhi della preda. Probabilmente sarebbero tornati verso sera, rossi d’orgoglio per il successo, dopo aver fatto a pezzi qualche povero diavolo che vagabondava nella giungla, o qualche distillatore clandestino di tambar.

Continuando il cammino verso la città, Raven raggiunse una piccola casa in granito, con brillanti orchidee dietro i vetri delle finestre. Non ebbe difficoltà nel trovare la strada, anche se era la prima volta che visitava Plain City. Raggiunse la destinazione come se si fosse trattato di raggiungere una luce lontana nel pieno della notte. E quando arrivò alla porta non ebbe bisogno di bussare. Quelli che lo stavano aspettando avevano contato ogni suo passo e sapevano perfettamente che lui sarebbe arrivato in quel momento.

8

Mavis, piccola, bionda, con occhi azzurri, si rannicchiò nella poltrona e fissò Raven con lo stesso sguardo penetrante con cui spesso lui metteva a disagio gli altri. Era come se lo volesse osservare internamente, per vedere il vero io che si nascondeva dietro la maschera di carne.

Charles era un tipo grasso e alquanto pomposo, affetto dallo sguardo inespressivo degli esseri di grado inferiore. Qualsiasi umano superiore osservando Charles avrebbe dichiarato senza esitazione che doveva essere un idiota. Un rivestimento di stoltezza gli avvolgeva il cervello, e questo serviva a convalidare la prima impressione di quelli che avessero voluto scrutargli nella mente. Charles era un’entità nascosta in modo eccezionale, più per fortuna che per artificio.

— Naturalmente siamo felici di vederti — disse Mavis vocalmente, per il piacere di sentirsi muovere la lingua in bocca. — Ma cosa ne è stato della disposizione che ciascuno deve restare sulla sua palla di polvere?

— Le circostanze modificano i casi — rispose Raven. — Comunque, Leina è al suo posto. Può risolvere lei qualsiasi problema improvviso.

— Però è sola, interamente sola — disse Mavis, mettendosi dalla parte di Leina. — Nessuno può risolvere questa situazione.

— Hai ragione, certo. Ma nessuno rimane isolato per sempre. Alla fine ci si riunisce — Raven rise in modo strano. — Anche se solo nel dolce futuro — aggiunse.

— La tua teologia si manifesta con chiarezza — commentò Charles. Si mise a sedere nella pneumopoltrona accanto a Mavis, distese le gambe e si posò le mani sulla pancia. — Secondo quanto dice Leina, tu hai voluto cacciare il naso negli affari degli altri. È vero?

— Per metà. Ma voi non siete ancora al corrente di tutta la storia. Qualcuno di questo pianeta, aiutato da sconosciuti che si trovano su Marte, si diverte a tirare la Terra per i capelli. Sono come bambini cattivi che giocano con un fucile, senza preoccuparsi del fatto che potrebbe essere carico. Vogliono conquistare l’indipendenza completa attraverso una forma di coercizione che equivale a un nuovo tipo di guerra.

— Guerra? — chiese Charles incredulo.

— Proprio così. Il fatto è che le guerre hanno il vizio di sfuggire sempre di mano. Di solito chi ne comincia una non è mai in grado di fermarla. Se è possibile, bisogna impedire che questo conflitto cominci sul serio, cioè che diventi ancor più cruento.

— Mmm! — fece Charles grattandosi il doppio mento. — Sappiamo che su questo pianeta esiste un forte movimento nazionalista, ma l’abbiamo ignorato, perché non riveste nessun interesse particolare dal nostro punto di vista. Anche se arrivano a lanciarsi bombe e a distruggersi l’un l’altro, che importanza ha? Per noi è una fortuna, non ti pare? Loro perdono, e noi ci guadagniamo.

— In un senso, ma non nell’altro.

— Perché?

— I Terrestri hanno assolutamente bisogno di unità perché stanno puntando verso i Deneb.

— Stanno puntando… — La voce di Charles si spense nella gola. Per un attimo gli occhi privi di espressione brillarono di una luce intensa. — Stai dicendo che le autorità terrestri sono veramente a conoscenza dei Deneb? Come diavolo fanno a saperlo?

— Perché si trovano allo stadio di sviluppo numero quattro — spiegò Raven. — Sono accadute cose che il grosso pubblico ancora non conosce, e che sono ancora meno conosciute qui e su Marte. I Terrestri hanno prodotto e sperimentato un reattore potentissimo. Ora lo vogliono provare su una distanza maggiore e non sono in grado di stabilire quali siano i suoi limiti. Per esseri materiali come loro, si comportano abbastanza bene.

— È evidente — disse Charles.

— Non sono stato in grado di scoprire con esattezza fin dove sono arrivati, né ho saputo i dati che gli astronauti hanno riferito, ma sono sicuro che hanno in mano elementi che hanno fatto nascere in loro il sospetto che prima o poi verranno a trovarsi in contatto con qualche forma di vita sconosciuta. Voi e io sappiamo che può trattarsi soltanto dei Deneb — Raven agitò un dito nell’aria. — Noi sappiamo anche che i Deneb stanno scorrazzando da lungo tempo come un branco di cani con cinquecento piste da seguire. Non sanno esattamente quale strada prendere, ma il loro spostamento generale si verifica in questa direzione.

— È vero — disse Mavis — ma le ultime previsioni stabilivano un minimo di duecento anni prima che potessero scoprire questo sistema solare.

— Una conclusione ragionevole, basata sui dati che avevamo in precedenza — rispose Raven. — Ora abbiamo dati nuovi e importanti da aggiungere al calcolo. Per la precisione, l’ Homo sapiens è pronto a partire per andare loro incontro. Hanno innalzato la bandiera, hanno acceso i falò e hanno fatto il possibile per attirare l’attenzione verso questa parte del cosmo. Questo genere di scherzo è in grado di ridurre il tempo previsto dello spostamento dei Deneb in questa direzione.

— Hai riferito tutto questo? — chiese Charles.

— Certamente.

— E qual è stata la risposta?

— Grazie per l’informazione.

— Niente altro? — Charles inarcò le sopracciglia.

— Niente — assicurò Raven. — Cosa ti aspettavi?

— Qualcosa di più sentito e di meno freddo — disse Mavis. — Voi uomini siete tutti uguali. Siete tanti Buddha di bronzo. Perché non siete capaci di saltare su un tavolo e non vi mettete a gridare?

— Servirebbe a qualcosa? — chiese Charles.

— Non cercare di fare il superlogico con me — disse la ragazza. — Servirebbe a togliere un po’ di pressione dalle ghiandole. Io ne ho qualcuna, nel caso non lo sapessi.

— È un argomento che conosco abbastanza bene — rispose Charles, asciutto. — Inoltre, ho qualche ghiandola anch’io. Una di queste mi ha fatto diventare grasso e incline alla pigrizia. Con tutta probabilità, mi manca quella che ti tormenta in questo momento — sollevò un dito. — Ecco un tavolo. Saltaci sopra e lancia qualche strillo. Non ci faremo caso.

— Gridare non è mia abitudine — disse Mavis.

— Ecco! — Charles girò lo sguardo verso Raven e scosse la testa.

— Ti lascio tutte le donne. Sono fredde e calcolatrici. Non sanno far uscire il vapore dalla valvola di sicurezza.

— Un giorno ti taglierò le ali, Grassone! — promise Mavis.

— Dovrei essere carino, con le ali! — Charles scoppiò in una risata che gli fece ballonzolare la pancia. — Io, con la mia mole, che volteggio nell’aria come un angelo. O che svolazzo come una falena obesa — si asciugò gli occhi e riprese a ridere. — Che bello spettacolo!

Mavis prese un piccolo fazzoletto dall’orlo di pizzo e cominciò a singhiozzare in silenzio.

Charles la guardò, stupito. — Be’, cos’ho detto, adesso, che non va?

— Deve esser stato il tuo tono a stimolare questa reazione — disse Raven, e avvicinatosi a Mavis le batté una mano sulla spalla. — Via! Non devi restare qui se i ricordi si sono fatti troppo oppressivi. Puoi andartene, se vuoi. Possiamo trovare altri due che…

Lei allontanò il fazzoletto dagli occhi e parlò con rabbia. — Io rimango. Me ne andrò quando sarà il momento, e non prima. Che tipo credi che sia? Una ragazza non può piangere quando ne ha voglia?

— Certo che può, ma…

— Non farci caso. — Mavis mise il fazzoletto in tasca e chiuse un attimo gli occhi. Poi gli sorrise. — Ora sto bene.

— Anche Leina si comporta in questo modo? — chiese Charles a Raven.

— Non quando le sono vicino.

— Leina era più vecchia quando… quando… — disse Mavis, ma non concluse la frase.

Tutti sapevano esattamente cosa voleva dire. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Neppure i Deneb. Ma loro sì.

Rimasero qualche istante in silenzio. Ciascuno si era immerso in pensieri personali che rimanevano nascosti dietro lo scudo della mente. Charles fu il primo a parlare vocalmente: — Torniamo al lavoro, David. Quali sono i tuoi piani, e in che modo ti possiamo essere utili?

— I piani sono elementari. Voglio trovare, identificare e affrontare l’uomo chiave dell’opposizione che si trova su Venere. Quello che stabilisce il bello e il brutto tempo, che compone le dispute, che dirige il movimento nazionalistico e che è senza dubbio il grande capo. Togli la pietra principale, e tutto l’arco crolla.

— Non sempre.

— È vero — ammise Raven. — Se la loro organizzazione vale soltanto la metà di quello che sarebbe necessario, hanno certo una persona pronta a sostituire il capo, in caso di bisogno. Forse anche più di una. Se è così, il nostro compito sarà molto più complesso.

— Poi rimangono sempre i Marziani — osservò Charles.

— Forse no. Tutto dipende da come reagiscono a quello che succede qui. Il legame tra Marte e Venere dev’essere più che altro basato sul reciproco incoraggiamento. Ciascuno applaude l’altro. Togli l’applauso, e la commedia non sembrerà più tanto bella. Io spero che Marte vorrà desistere il giorno in cui avremo tolto di mezzo Venere.

— C’è una cosa che non riesco a capire — disse Charles pensieroso. — Cosa impedisce alla Terra di ripagare gli insorti alla stessa maniera, dopo i sabotaggi e tutte le altre cose che hanno fatto contro di essa?

Raven lo disse.

— Ah! — Charles si grattò di nuovo il doppio mento. — E così, Marziani e Venusiani possono distruggere quello che considerano proprietà di un altro popolo, mentre per i Terrestri non esistono proprietà di altri, ma solo beni comuni, e tutti di proprietà della Terra.

— Non sono affari nostri — disse Mavis — se lo fossero, saremmo stati informati di tutto. — Girò lo sguardo e fissò Raven. — Sono stati soltanto i Terrestri a chiedere il tuo intervento?

— Sì, finora. E con tutta probabilità non ci saranno altre richieste. Perché per quanto importante possa apparire la situazione in questo piccolo angolo della galassia, è invece piccola e insignificante se la paragoniamo alle situazioni di altri luoghi. Le cose sembrano diverse se si guardano da molto, molto lontano. — Raven parlava con il tono di voce della persona che sa di dire cose perfettamente familiari a chi lo ascolta. — Il regolamento dice che possiamo agire di nostra iniziativa in tutte le questioni di piccola importanza. Ed è proprio quello che sto facendo.

— Sono d’accordo — disse Charles. — Cosa vuoi da noi?

— Non molto. Questo è il vostro dominio e lo conoscete meglio di qualsiasi altro. Ditemi il nome dell’uomo che potete considerare l’ispiratore della follia separatista. Ditemi quello che sapete sui suoi poteri e ditemi dove posso trovarlo. Voglio soltanto informazioni precise. A voi decidere se offrire altri aiuti.

— Io direi di metterci a sua disposizione — disse Charles rivolgendosi alla ragazza. — Che ne dici, Mavis?

— Non contare su di me. Io intendo seguire l’esempio di Leina e continuare l’osservazione. Dopo tutto, è per questo che siamo qui. Qualcuno deve pur farlo, mentre voi maschi ve ne andate cocciutamente in giro a starnazzare.

— Hai ragione — disse Raven. — Osservare è molto importante. Meno male che le dolci femmine sono avvedute. Noi teste di legno così siamo liberi di compiere le nostre dannose interferenze.

La ragazza alzò lo sguardo imbrociata verso di lui, ma non fece commenti.

— Qui la situazione è divertente — disse Charles. — Abbiamo un fervente governatore terrestre, che proclama i suoi sentimenti e che rimane diplomaticamente all’oscuro del fatto che il movimento clandestino nazionalista domina quasi al novanta per cento. Il grande capo di questo movimento, il suo simbolo, è un’abile canaglia che si chiama Wollencott.

— Cos’ha che gli altri non hanno?

— La faccia, l’aspetto e la personalità che servono alla sua parte — spiegò Charles. — È un Venusiano, mutante di Tipo Sei. Un malleabile con una imponente massa di capelli bianchi, e una voce altrettanto imponente. Può trasformarsi nella perfetta immagine di un dio ogni volta che vuole. E può anche parlare come un oracolo… posto che abbia imparato prima le parole a memoria. È incapace di formulare un pensiero autonomamente.

— Non mi sembra tanto formidabile — osservò Raven.

— Aspetta un momento. Non ho ancora finito. Wollencott è il perfetto ritratto del dinamico capo di un movimento patriottico clandestino, tanto da fare pensare che sia una persona chiamata a recitare una parte. Ed è proprio così.

— Da chi?

— Da un certo Thorstern, il vero capo, la potenza che sta dietro il trono, quello che cospira nell’ombra, l’uomo che continuerà a vivere dopo l’impiccagione di Wollencott.

— Il burattinaio, vero? Sai qualcosa di particolare sul suo conto?

— Sì e no. La cosa più sorprendente è che non si tratta di un mutante. Non ha una sola attitudine paranormale. — Charles fece una pausa e rimase un attimo a riflettere. — Ma è spietato, ambizioso, astuto. Uno psicologo di prim’ordine, con un cervello sorprendentemente agile.

— Un comune con quoziente d’intelligenza altissimo.

— Esatto! E questo significa tutto, quando i talenti temibili non hanno menti temibili. Data una lucidità di prim’ordine, anche un essere comune può mettere nel sacco un telepatico dai riflessi lenti. Il suo pensiero si muoverebbe di una frazione più veloce, tanto da impedire la reazione del telepatico.

— Lo so. Ho già sentito parlare di un paio di casi del genere. È facile che i mutanti commettano lo sbaglio di sottovalutare un avversario per il solo fatto che è un essere comune. Inoltre, la forza in sé non è mai sufficiente. Bisogna anche possedere una grande abilità per applicarla. Ecco dove eccellono i Deneb. Fanno pieno uso di tutto quello che possiedono. — Raven si alzò e andò alla porta. — Ma non dobbiamo ancora occuparci di loro. Non qui. Adesso il nostro primo obiettivo è Thorstern.

— Vengo con te. — Charles si sollevò dalla pneumopoltrona e si girò verso Mavis. — Ti affido il forte, cara. Se qualcuno mi cerca, racconta che papà è andato a pescare… ma non dire che cosa.

— Cerca di tornare — disse Mavis. — Possibilmente intero.

— In questa strana fase di esistenza di vita nella morte non si può promettere niente. — Charles scoppiò a ridere facendo tremare la pancia.

— Comunque farò il possibile.

Uscì con Raven, lasciando la ragazza al compito che si era scelta: quello di fare la guardia a cose della Terra ma non terrestri.

E come Leina, Mavis rimase sola a osservare… ad ascoltare… Unica consolazione, il pensiero che la sua solitudine era condivisa da altre sentinelle lontane.

9

La solita nebbia serale stava avanzando sulla città e rotolava con pigra decisione lungo le strade e i viali. A poco a poco, con il calar del sole, la massa giallastra diventava sempre più densa. Verso mezzanotte sarebbe stata una calda e umida coperta nera che nessuno avrebbe potuto attraversare speditamente. Soltanto i ciechi, gli agitati e gli insonni notturni, e qualche supersonico dotato di eco-radar, che riusciva a trovare la strada come i pipistrelli.

Nelle foreste era diverso. Le piante si stendevano su una zona considerevolmente più alta, e la nebbia scendeva a ricoprire soltanto le valli e la pianura. La caccia sarebbe continuata. Gli elicotteri avrebbero sorvolato senza interruzione le cime degli alberi, e le squadre a terra avrebbero frugato in tutte le radure.

Charles e Raven passarono di fronte a una vetrina in cui uno spettroschermo proiettava dei ballerini che danzavano Le Silfidi. La prima ballerina attraversò la scena con grazia infinita, pallida e fragile come un fiocco di neve.

A qualche chilometro di distanza, avvolte nell’oscurità, creature mostruose e alberi spaventosi segnavano il confine tra il quasi-conosciuto e l’ignoto. Era un contrasto di estremi che pochi notavano, a cui pochi pensavano. Quando un pianeta risultava occupato da un periodo tanto lungo da possedere una popolazione composta quasi totalmente di esseri nati sul pianeta stesso, gli antichi sogni diventavano monotonia, lo sconosciuto diventava il familiare, e le fantasie di un tempo venivano sostituite con fantasie nuove e totalmente diverse.

Charles si fermò di fronte alla vetrina per guardare la scena del balletto. — Osserva la facilità e la grazia con cui volteggia, la sottigliezza degli arti, la calma impassibile, e la bellezza quasi eterea del suo viso. Nota come si ferma, come esita, e come riprende a danzare. Sembra una rara e stupenda farfalla. Quella ragazza è un ottimo esempio di quel tipo quasi irreale che ha entusiasmato l’umanità per secoli interi. Il tipo “balletto”. Quella ragazza mi affascina perché mi costringe a pormi un quesito.

— Quale? — chiese Raven.

— Se per caso le persone come lei sono di un tipo paranormale, non riconosciuto e da loro stesse insospettato. Io penso che possa esistere un talento troppo fine per essere definito e classificato.

— Spiegati meglio.

— Mi chiedo se gli esseri come lei non abbiano una forma subconscia di percezioni extrasensoriali che le obbliga a tendersi in modo poetico verso una meta che non conoscono né sanno descrivere. Questa consapevolezza intuitiva dà loro un intenso anelito che possono esprimere in un solo modo. — Charles indicò la ragazza sullo schermo. — Sembra una farfalla. La farfalla… una falena che ama il giorno.

— Può esserci qualcosa di vero in questo.

— Io ne sono certo, David. — Charles si staccò dalla vetrina e riprese il cammino insieme all’amico. — Come forma di vita libera, gli esseri umani hanno acquisito un gran cumulo di conoscenze. Quanto immensamente più grandi sarebbero se potessero sommare anche quelle nozioni che nascono istintive nel subconscio, ma che loro non possono portare al livello di conoscenza.

— Fratello Carson pensa la stessa cosa — disse Raven. — Mi ha mostrato una lista dei tipi di mutanti conosciuti, poi mi ha detto che poteva non essere completa… Possono esistere dei tipi che non hanno ancora scoperto le qualità che possiedono, e che non sono mai stati scoperti da altri. È difficile identificarsi come stranezza, a meno che la stranezza non si manifesti in modo evidente.

Charles fece un cenno affermativo. — Questa settimana si è sparsa la voce della scoperta accidentale di un tipo completamente diverso. Un giovane operaio ha perso la mano mentre lavorava con una sega circolare e ora pare che gli stia crescendo una nuova mano.

— Un biomeccanico — lo definì Raven. — Può procurarsi nuove parti del corpo. Be’, si tratta di una facoltà innocua, cosa che non possiamo dire di certe altre.

— Sì, certo. Il fatto è che fino a oggi non sapeva di possedere questa dote perché non gli era mai capitato di perdere parti del corpo. Senza l’incidente occorsogli, sarebbe magari giunto fino al giorno della morte senza sospettare di avere poteri paranormali. Spesso mi domando quante altre persone mancano di una adeguata conoscenza di se stesse.

— Moltissime. Considera quello che sappiamo noi.

— Certo — rispose Charles con calma. — Sarebbe sufficiente a scuotere un migliaio di mondi. — Afferrò il braccio dell’amico e strinse le dita con forza. — Infatti, ne sappiamo tanto da essere convinti che sia tutto. David, pensi che… che…?

Raven si fermò di scatto. Gli occhi punteggiati d’argento si erano accesi, esattamente come quelli dell’altro. — Continua, Charles. Fini sci quello che stavi dicendo.

— Pensi forse che noi sappiamo soltanto la metà di quanto c’è da sapere? Che quanto sappiamo è ben lungi dall’essere l’intera storia? Che ci sono altri più informati di noi, che ci osservano attentamente come noi osserviamo questi altri? Per deriderci, talvolta, e per compiangerci?

— Non posso saperlo — disse Raven, piegando le labbra con amarezza. — Ma se esistono, noi sappiamo una cosa: e cioè che non interferiscono nelle nostre faccende.

— No? Come possiamo esserne certi?

— Non lo fanno in modo che possa risultarci evidente, almeno.

— Abbiamo scoperto la tattica dei Deneb — osservò Charles. — Si sono dati da fare parecchio, ma non ci hanno mai toccato. Viceversa potrebbero esserci altri che ci spingono senza sapere chi stanno spingendo, né noi sapere chi ci sta spingendo.

— Meglio ancora, potrebbero usare i nostri stessi metodi per metterci in confusione — disse Raven, scettico, ma con l’intenzione di continuare il discorso. — Potrebbero apparire a te e a me come noi appariamo a questi altri: perfettamente comuni. — Fece un gesto della mano per indicare la città. — Come uno qualsiasi di questi abitanti. Supponi che io di tica di essere un Deneb travestito di carne… Avresti il coraggio di dirmi che sono un bugiardo?

— Certo — disse Charles senza esitazione. — Sei uno sporco bugiardo.

— Mi spiace di doverlo ammettere. — Diede una manata amichevole sulle spalle di Charles. — Vedi, tu sai chi sono. Quindi devi avere una consapevolezza intuitiva. Sei decisamente un paranormale, e ti dovrestri esprimere con la danza.

— Come? — Charles abbassò gli occhi e si guardò il grosso ventre. Sporgeva come un pacco-dono natalizio, nascosto sotto il vestito. — Questo è prendermi in giro.

Tacque nell’attimo in cui tre uomini in uniforme girarono l’angolo della casa e si fermarono sul loro cammino.

Indossavano l’uniforme delle guardie forestali, l’unico corpo organizzato, a parte le speciali squadre di polizia, ufficialmente autorizzato a girare con le armi. Rimasero uno vicino all’altro, come tre amici che terminano le loro chiacchiere prima di tornare a casa. Ma la loro attenzione era rivolta verso le due persone che stavano andando verso di loro. Le loro menti dicevano che si trattava di pirotici a caccia di un certo Raven.

Il capo della piccola squadra tenne d’occhio i due che stavano avanzando e aspettò che fossero giunti alla loro altezza. Poi si spostò di scatto per sbarrare la strada.

— Vi chiamate David Raven? — chiese in tono autoritario.

Raven si fermò, spalancando gli occhi con espressione sorpresa.

— Come avete fatto a indovinarlo?

— Non fate lo stupido — ammonì la guardia fissandolo con rabbia.

Raven si girò verso Charles: la sua espressione si era fatta triste.

— Mi ha detto di non fare lo stupido. Pensi che io lo sia?

— Sì — rispose Charles con prontezza. — Lo sei da quando hai battuto la testa da bambino. — Poi girò interrogativamente gli occhi verso la guardia. — Perché cercate questa persona di nome… di nome…

— Raven — suggerì Raven, per essergli di aiuto.

— Oh, sì, Raven. Perché lo cercate?

— Ha una taglia sulla testa. Non guardate mai lo spettroschermo?

— Di tanto in tanto — rispose Charles. — Il più delle volte trasmettono programmi che mi annoiano a morte, e così non lo accendo.

La guardia sogghignò verso i compagni. — Adesso avrete capito come fa certa gente a restare povera. La fortuna bussa alla porta di tutti, ma certi si rifiutano di ascoltarla. — Riprese a parlare con Charles, senza minimamente badare a Raven. — Dallo spettroschermo hanno comunicato che è necessario catturarlo al più presto possibile.

— Cos’ha fatto?

— Ha messo in pericolo l’equipaggio e i passeggeri del Fantôme. Ha spalancato un portello violando il regolamento, si è rifiutato di obbedire al comandante dell’astronave, è sceso in una zona proibita, ha eluso la visita medica dell’arrivo, ha evitato il controllo doganale, si è rifiutato di passare nella camera di sterilizzazione antibatterica e… — Fece una pausa per riprendere fiato e girò la testa verso i compagni. — C’è qualcos’altro?

— Ha sputato nella cabina principale — suggerì uno, che era sempre stato tentato di farlo, ma non aveva mai osato.

— Io non sputo mai — disse Raven guardandolo gelidamente.

— Zitto, voi! — ordinò il capo, per far comprendere che non voleva essere interrotto da estranei, poi tornò a girarsi verso Charles, persona molto più a modo.

— Se vi capita di incontrare questo David Raven, o se vi capita di sentire qualcosa, chiamate Westwood diciassette diciassette e diteci dove si trova. È un individuo molto pericoloso. — Strizzò l’occhio ai compagni e ottenne un muto cenno di conferma. — Faremo in modo che possiate ricevere la vostra parte di taglia.

— Grazie — disse Charles, con umile gratitudine. Si girò verso Raven. — Vieni. Siamo già in ritardo.

Si allontanarono, consapevoli che gli altri li stavano osservando. I loro commenti li raggiungevano sotto forma di impulsi mentali di estrema chiarezza.

“Ci hanno proprio presi per guardie forestali”

“Speriamo che gli ufficiali la pensino alla stessa maniera se ci capita di incontrare qualcuno.”

“Stiamo perdendo tempo perché un tale sullo spettroschermo ha nominato i quattrini. Avremmo potuto impiegare questo tempo in modo molto migliore. A due isolati di qua c’è una rivendita di tambar. Che ne direste…”

“Perché non hanno trasmesso una sua foto?”

“Un telepate, come ho detto, ci sarebbe stato di grande aiuto. Avremmo dovuto solo aspettare la sua indicazione. Poi, avremmo fatto fuoco e fiamme. E non ci sarebbe rimasto che allungare le dita per ricevere il denaro.”

“A proposito di quei soldi, mi sembra che la taglia sia alquanto strana. Non hanno offerto una cifra tanto alta neppure per Squinty Mason, che pure aveva rapinato diverse banche e aveva ucciso parecchie persone.”

“Forse Wollencott lo vuole per qualche suo motivo personale.”

“Sentite, ragazzi, c’è una rivendita di tambar …”

“D’accordo, ci andremo per una mezz’ora. Se qualcuno ci trova in quella rivendita, abbiamo una scusa buona. Abbiamo sentito delle voci secondo cui Raven avrebbe dovuto incontrarsi in quel posto con una certa persona.”

La trasmissione mentale cominciò a diminuire lentamente.

“Se Wollencott lo vuole…”

Continuarono a parlare di Wollencott finché i pensieri non si persero in lontananza. Pensarono a circa venti motivi per cui Wollencott poteva essere stato offeso dalla persona in fuga, quaranta maniere per costringerlo alla resa dei conti, cento modi diversi in cui Wollencott avrebbe potuto condannare il colpevole per portarlo a esempio.

Era sempre Wollencott, Wollencott, Wollencott. Nessuno mai menzionò Thorstern, né lo pensò minimamente.

La qual cosa risultava una specie di tributo al cervello dell’uomo che portava quel nome.

10

Un gran castello di basalto nero era la casa di Emmanuel Thorstern; risaliva ai primi tempi della colonizzazione, quando le pareti lisce, spesse due metri, significavano una sicura protezione contro i grossi nemici della giungla. Lì il piccolo gruppo dei pionieri venuti dalla Terra si era abbarbicato con ostinazione, fino a quando altre astronavi non avevano portato rinforzi di uomini e di armi. Poi avevano cominciato a muoversi, conquistando sempre maggior terreno.

Sette altri castelli simili, in altri punti del pianeta, costruiti per lo stesso scopo, erano stati abbandonati quando avevano cessato di essere utili. Ora si ergevano, vuoti e cadenti, come cupi monumenti agli oscuri giorni della conquista.

Ma Thorstern ne aveva occupato uno e lo aveva fatto restaurare. Le mura erano state rinforzate ed erano state innalzate nuove torri e bastioni fortificati. Thorstern aveva speso con dovizia, come se la sua discrezione calcolata nelle faccende di potere dovesse venire bilanciata da qualcosa che tutti potevano vedere. Il risultato era una sinistra mostruosità architettonica che si ergeva sopra la densa nebbia come il rifugio di un maniaco signorotto medievale.

Passandosi pensosamente una mano sul lobo dell’orecchio, Raven rimase fermo in mezzo alla nebbia a osservare l’edificio. Da dove si trovava lui, era visibile soltanto la base. Il resto si confondeva nel buio della notte e negli strati più alti della nebbia. Eppure, lo sguardo di Raven andava dal basso in alto, come se potesse perfettamente vedere quello che era nascosto agli occhi normali.

— Sembra una fortezza — osservò. — Come lo chiama? Palazzo Imperiale, Villino Magnolia, o cosa?

— Originariamente veniva chiamato Base Quattro - disse Charles. — Thorstern lo ha ribattezzato Blackstone. Però in città tutti lo chiamano il Castello. - Spostò lo sguardo verso l’alto, come se anche lui avesse la stessa facoltà di vedere quello che non era visibile. — E adesso? Dobbiamo entrare alla nostra maniera, o vogliamo aspettare che esca?

— Entriamo. Non voglio girare qua attorno fino a un’ora imprecisata di domani mattina.

— Neanch’io. — Charles indicò versò l’alto. — Entriamo dalla cima di una torre, o vogliamo passare da una porta?

— Entreremo come dei gentiluomini. In modo civile — decise Raven. — Cioè, attraverso il cancello principale. — Diede un’altra occhiata all’edificio. — Tu parlerai. Io resterò attaccato al tuo braccio e terrò la lingua penzoloni fuori della bocca. Così faremo tutti e due la figura degli idioti.

— Ti ringrazio — disse Charles; ma non aveva il tono offeso. Avanzò con Raven fino al cancello e suonò.

Immediatamente quattro cervelli furiosi lanciarono quattro imprecazioni diverse, ma tutte efficaci. Erano menti di esseri normali. Non c’era un solo mutante tra loro.

Ma era una cosa logica. Come individuo senza talenti, dotato solo di un cervello eccezionale, Thorstern si serviva di individui in possesso di facoltà paranormali, ma preferiva rifuggire la loro compagnia. Quindi, era molto probabile che le persone attorno a lui, quelle che abitavano nel castello, fossero esseri normali, scelti per meriti di lealtà, di fiducia e di servilismo.

Sotto questo riguardo, il padrone del castello nero si manteneva al livello del più basso dei servitori. Tutti gli esseri umani normali, intelligenti o ignoranti, guardavano i paranormali di traverso, e cercavano di tenerli il più lontano possibile. Era una reazione psicologica naturale, basata sull’intimo complesso d’inferiorità dell’Homo Odierno alla presenza incomoda di quello che poteva essere l’Homo Futuro. Le forze terrestri controllate da Carson e da Heraty avrebbero potuto sfruttare quell’istintivo antagonismo per mettere in difficoltà gli avversari… ma questo avrebbe portato a un accentuarsi delle divisioni umane proprio quando si mirava a una umanità unita.

Inoltre, aizzare le masse di esseri comuni contro la potente minoranza dei mutanti sarebbe stato come fomentare una rivolta simile alle lotte razziali di molto, molto tempo prima. Era un movimento che poteva sfuggire ad ogni controllo ed estendersi molto più del desiderato. Anche la Terra aveva alcuni suoi mutanti.

Un essere comune, dalle guance mal rasate, uscì da una porticina che si apriva nella grossa parete e andò a sbirciare attraverso le sbarre del cancello. Era un tipo tarchiato, dalle spalle quadrate, pieno di collera, ma abbastanza disciplinato da nascondere la sua ira.

— Chi volete?

— Thorstern — disse Charles con disinvoltura.

— Per voi è il signor Thorstern - corresse l’altro. — Avete un appuntamento?

— No.

— Senza appuntamento, non riceve nessuno. È molto occupato.

— Noi non siamo nessuno — disse Raven. — Noi siamo qualcuno.

— Non ha nessuna importanza. È un uomo che ha sempre molto da fare.

— Se ha molto da fare vorrà riceverci senza perdere altro tempo — disse Charles.

La guardia corrugò la fronte. Aveva un quoziente d’intelligenza che si aggirava sul settanta, e si lasciava guidare più che altro dal suo fegato. Non voleva usare il telefono per consultare un superiore, dato che forse gli sarebbe giunto un rimprovero. Luì voleva soltanto trovare una scusa ragionevole per allontanare i seccatori. Aveva vinto la prima mano di jimbo-jimbo e voleva ritornare immediatamente alla sua partita.

— Be’ — insistette Charles in tono bellicoso — volete farci aspettare fino alla prossima settimana?

Sulla faccia dell’altro comparve l’espressione disorientata della persona che si vede costretta a prendere una decisione. La scusa plausibile che stava cercando sembrava stranamente introvabile. Rimase con gli occhi fissi alle due persone oltre il cancello, accigliato.

Forse doveva fare qualcosa. I molti affari trattati da Thorstern portavano al castello gli individui più strani, a volte proprio durante la notte. Alcuni erano stati ammessi, altri no. Ed era capitato di aver fatto passare vagabondi e tipi strambi e di aver respinto persone dall’aria importante. Comunque, lui aveva il compito di badare al cancello, non quello di giudicare le persone che venivano a bussare.

Sì inumidì le labbra. — Come vi chiamate?

— I nostri nomi non hanno nessuna importanza — disse Charles.

— Di cosa vi occupate?

— Questa invece è una cosa molto importante.

— Accidenti, non vorrete che riferisca un discorso strampalato come questo!

— Provate — suggerì Charles.

La guardia rimase un attimo a guardare prima uno e poi l’altro, infine tornò verso la porticina e scomparve. I suoi compagni che si trovavano nella piccola stanza lo accolsero con un coro di domande. Le grosse pareti soffocavano il suono delle voci, ma l’onda dei pensieri giunse con chiarezza fin oltre il cancello.

“Non potevi sbrigarti? Ci hai fatto interrompere la partita.”

“Chi sono quei deficienti che vengono a quest’ora? Fra poco sarà più buio che dentro lo stomaco di un gatto.”

“Era qualche persona importante, Jesmond?”

“Non me l’hanno detto” disse la guardia.

Staccò il ricevitore del videofono a muro e aspettò che sullo schermo apparisse la persona da lui chiamata.

Nel giro di pochi secondi, il suo volto si era fatto rosso fiamma e il tono della voce gli si era fatto tremante.

Riappese il microfono e fissò smarrito i tre compagni impazienti che sedevano attorno al tavolo. L’impulso mentale che lo aveva spinto a comunicare la visita dei due sconosciuti era scomparso, ma non se ne rese conto, come non si era reso conto della costrizione.

Uscì dalla porticina e si avviò verso il cancello. — Ehi, voi due, sentite… — Si fermò per scrutare attraverso le sbarre. In quei pochi minuti di assenza la notte si era fatta più cupa. Non si poteva vedere più in là di quattro o cinque metri di distanza. E in quel piccolo raggio visivo non c’era nessuno. Assolutamente nessuno. — Ehi! — gridò verso il muro di nebbia. Ma non giunse risposta. — Ehi! — gridò più forte.

Niente. Al suo orecchio giungevano soltanto il gocciolio dell’acqua che cadeva da una parete e i suoni ovattati della città lontana.

— Imbecilli!

Si avviò verso la porta, ma un improvviso dubbio lo fece ritornare al cancello. Esaminò il catenaccio e scosse le sbarre. Erano chiuse. Guardò verso l’alto. Quattro file di punte acuminate impedivano di scavalcare il muro. — Idioti!

Stranamente a disagio, tornò verso la porticina ed entrò. Immediatamente la bottiglia che stava sul tavolo diventò il centro della sua attenzione. Non pensò che il catenaccio, il punto più forte del cancello, poteva anche essere il più debole. Non si rese conto che anche la più complicata serratura poteva essere aperta da una chiave… o da un oggetto non materiale adatto! L’oscurità si era già fatta completa come se fosse stata tirata una gigantesca serranda attraverso il cielo del pianeta. Nello stretto e lungo cortile che si stendeva dietro il cancello, la visibilità si era ridotta a circa un metro. L’aria umida era satura dei profumi esotici che la nebbia venusiana trasportava sempre dalla foresta.

I due intrusi si fermarono in mezzo al cortile. Nella parete alla loro destra si apriva un grande portone borchiato. Anche se perfettamente nascosto dalla densa coltre di nebbia, loro sapevano che esisteva: si avvicinarono per esaminarlo.

— Al cancello hanno messo una serratura con quattordici tipi di seghettatura. Poi l’hanno collegata a una suoneria di allarme contro chi volesse forzare, e alla fine hanno inserito un contatto che interrompe l’allarme per tutto il tempo in cui la guardia deve parlare con quelli che si trovano all’esterno — disse Charles. Poi sogghignò. — Un modo di essere ingegnosi che rasenta l’imbecillità.

— Non mi sembra — disse Raven. — Il congegno è fatto per difesa contro quelli della loro razza, mutanti o no. Per difendersi dai Deneb, o da esseri come noi, il problema è completamente diverso. Thorstern e tutti i suoi amici perderebbero il loro tempo se volessero cercare di risolverlo.

— Forse hai ragione. Secondo il concetto difensivo di questo mondo, il cancello rappresenta qualcosa di invalicabile. — Charles spostò lo sguardo verso la grossa porta e lo stipite che la circondava. — Vedi anche tu quello che vedo io?

— Sì, immediatamente dietro la porta c’è un invisibile raggio di luce che attraversa il passaggio. Aprendo il battente si interrompe il raggio, e subito entrerebbero in azione tutti i campanelli d’allarme.

— Tutto per farci perdere tempo — borbottò Charles, seccato di dover superare delle difficoltà di poco conto. — Sembra che lo abbiano fatto apposta. — Si guardò la pancia. — Ecco cosa ci è d’intralcio — aggiunse con amarezza — il nostro travestimento! Se non lo avessimo, potremmo entrare senza tante difficoltà.

— Potevamo dire la stessa cosa qualche minuto fa. Abbiamo a che fare con degli uomini, e di conseguenza dobbiamo agire come loro. — Raven studiò Charles e sorrise divertito. — Siamo degli uomini, vero?

— No… certe sono donne.

— Sai perfettamente cosa voglio dire. Siamo uomini e donne.

— Certo. Però a volte… — Charles si interruppe e corrugò la fronte. — Questo mi ricorda un pensiero ricorrente, David.

— Quale?

— Quanti cavalli sono veramente cavalli? E quanti cani sono veramente cani?

— È un problema che potremo studiare quando avremo cose meno importanti da risolvere — disse Raven. — Ci può tenere occupati un paio di millenni futuri. — Fece un cenno verso la porta. — Ora ci troviamo di fronte a un piccolo congegno d’allarme. Se qualcuno vuole aprire la porta dall’interno deve prima spegnere il raggio luminoso. Quindi, seguendo i fili, verremo a scoprire dove si trova l’interruttore. Ci vorrà un po’ di tempo.

— Tu rintraccia l’interruttore — disse Charles. — Io mi occupo della porta. Un lavoro ciascuno.

Si occupò immediatamente della parte di lavoro che si era scelta: non ebbe da fare altro che starsene con le mani in tasca e fissare intensamente l’ostacolo.

Raven spostò lo sguardo e fissò con identica concentrazione lo stipite in pietra. La parete non presentava nessun particolare, ma le sue pupille cominciarono a spostarsi verso destra e verso l’alto.

Nessuno disse una parola. Rimasero concentrati nel loro lavoro, uno accanto all’altro, immobili, con gli occhi fissi, come assorbiti da una visione soprannaturale che soltanto loro erano in grado di vedere. Dopo qualche istante Charles si rilassò, ma rimase in silenzio per non disturbare il compagno.

Mezzo minuto dopo, anche Raven allentò la rigidità che aveva assunto.

— Il filo percorre un corridoio, poi gira a destra in un corridoio più piccolo e termina in una specie di piccola anticamera. Quando ho schiacciato l’interruttore si è sentito uno scatto secco, ma per fortuna la stanza era deserta.

Sollevò il braccio e spinse la porta. Il battente girò sui cardini senza il minimo rumore. Varcarono la soglia, si richiusero la porta alle spalle e si incamminarono lungo un corridoio illuminato da una fila di lampade incassate nel soffitto. Raven e Charles sembravano i due nuovi padroni del castello che visitassero la loro proprietà per studiare un nuovo arredamento.

— Ogni cosa ci dà qualche indicazione sulla psicologia di Thorstern — disse Raven. — La serratura complicata, le sbarre e il raggio di luce invisibile potevano essere localizzati da un qualsiasi mutante dotato di buone qualità extrasensoriali… anche se naturalmente, non avrebbe avuto modo di aprirsi la strada. D’altra parte, un telecinetico in grado di vedere i sistemi di sicurezza potrebbe annullare tutti i congegni con estrema facilità. Quindi, il castello è spalancato a tutti i telecinetici con qualità extrasensoriali. Thorstern vive nella convinzione che non esistono creature simili. Si pentirà di aver pensato una cosa sbagliata.

— Non mi sembra che sia in errore. Non esistono umani dotati di…

— Non ancora. Ma un giorno può darsi. Haller, per esempio, era classificato come pirotico e basta, tuttavia, nel momento in cui l’ho toccato ha capito fin troppe cose. Possedeva una forma rudimentale di percezione extrasensoriale, ma lo ha capito solo in quell’attimo. Possedeva un talento intero, più un decimo degli altri.

— Un capriccio della natura.

— Puoi chiamarlo così. Quindi il nostro caro Thorstern, quando si troverà di fronte a due capricci di natura come noi, non ci accoglierà con grande cortesia. Essendo un essere normale, anche se superiore ai suoi simili, ha verso i mutanti un atteggiamento determinato più dalla paura repressa che non da una gelosia aperta.

— Sarà un ostacolo, considerato che il nostro scopo è quello di convincerlo a ragionare.

— Proprio così, Charles. Non sarà facile inculcare un po’ di buonsenso in un individuo potente dominato dalla paura. Il fatto poi di non potergli dimostrare che le sue supposizioni sono errate e che le sue paure sono del tutto infondate renderà il compito ancora più arduo.

— Hai mai immaginato quali potrebbero essere, fra mille, le possibili reazioni di questo mondo se noi fossimo liberi di raccontare alcune verità persuasive? — chiese Charles.

— Sì, molte volte. Ma a che scopo pensarci? Un giorno i Deneb finiranno con l’arrivare. Meno sanno, meglio è.

— Le probabilità sono di almeno un milione contro una che trovino qualcosa degno di essere scoperto — disse Charles, ed era molto sicuro su questo punto. — Guarda Tashgar, Lumina e il gruppo Bootes i Deneb hanno esplorato, hanno trattato con disprezzo le forme di vita trovate, e sono ripartiti nella loro ricerca senza mai trovare il luogo adatto. Diventerebbero pazzi se venissero a sapere che per centinaia di volte hanno stretto in mano quello che cercavano ma che non hanno mai saputo riconoscerlo. — Si permise un leggero sogghigno. — I Deneb sono geni che mancano della capacità elementare di sommare due più due.

— In alcune circostanze, sommare due più due può anche creare grossi problemi matematici — osservò Raven. — A volte i Deneb mi fanno compassione. Se io fossi uno di loro, sarei già matto furioso e… — Nel girare a destra nel corridoio più piccolo, Raven si interruppe di colpo. Diversi uomini stavano venendo verso di loro.

Prima che in uno di questi potesse nascere qualche sospetto, Raven, con sicurezza disarmante, rivolse loro la parola. — Scusate, potreste dirmi da che parte si trova l’ufficio del signor Thorstern?

Rispose l’uomo che camminava al centro e che si dava un leggero tono di autorità sugli altri.

— Primo corridoio a sinistra, seconda porta a sinistra.

— Grazie.

Si spostarono per cedere il passo ai due visitatori e li osservarono in silenzio. Tutte le facce rimasero impassibili, ma le loro menti gridavano anche il minimo pensiero.

“Non c’è stata nessuna chiamata dalla porta per far accompagnare due visitatori da Thorstern. Come fanno a girare da soli per i corridoi?”

“C’è qualcosa che non va” pensava un altro. “ Non è normale che due visitatori non siano accompagnati da qualcuno di noi. Non è mai capitato.”

“Non mi piace” stava pensando un terzo. “ Ma perché non dovrebbe piacermi? Forse perché non ho abbastanza grattacapi per conto mio? Ne ho in abbondanza!” La mente si perse in mille pensieri e concluse: “ Che vadano all’inferno”.

“Seconda porta a sinistra, vero?” pensava una quarta mente divertita. “ Gargan è stato rapido nel prendere la decisione. Non vuole mai correre rischi. Ecco perché non è mai diventato qualcuno. Gli piace sempre giocare sul sicuro.”

Quello di loro che aveva dato l’indicazione, Gargan, concluse il suo pensiero. “ Quando girano l’angolo del corridoio, suono l’allarme per il capo.” E cominciò ad avviarsi verso il punto della parete in cui si trovava il pulsante.

Non appena si trovarono nell’altro corridoio, Raven fece un cenno d’intesa a Charles, e insieme raggiunsero la seconda porta che si apriva sulla loro sinistra. — Posso raccogliere un’infinità di onde pensiero, ma nessuna viene da Thorstern — disse Raven, indicando la porta. — E qui dietro non ci sono menti pensanti. La sala è vuota. Non c’è anima viva. — Rimase per qualche istante con gli occhi fissi al battente. — Ci sono una mezza dozzina di sedie, un tavolo e uno schermo per le comunicazioni interne. Le pareti sono di pietra. La porta può essere chiusa, con un comando a distanza e aperta soltanto a distanza. Hmm!

— Una trappola per topi, migliorata — disse Charles, e sulla sua faccia grassoccia, attorno alla bocca, si disegnarono alcune rughe. Aveva assunto l’espressione di un ragazzo che si accinge a rompere la finestra di un vicino. — Proprio il posto in cui sono tentato di entrare per far vedere quanto poco io consideri certe cose.

— Anch’io — disse Raven, e spinse la porta, il cui battente girò sui cardini senza rumore. Poi si andò a sedere su una sedia al centro della stanza e fissò lo schermo spento.

Charles si accomodò accanto a lui, e la sedia scricchiolò sotto il suo peso. Rivolse l’attenzione allo schermo, ma la sua mente, come quella di Raven, scrutava in tutte le direzioni, cercando di comprendere qualcosa nel confuso vocio che proveniva da dietro le pareti di pietra.

“Avevo due assi. Se tu… una tipica locanda marziana con aria fresca e la birra calda…, …c’è stata un’esplosione che ha scosso tutta la città. Noi abbiamo raggiunto di corsa gli elicotteri e…, …aveva dei capelli biondi che scendevano fino alle ginocchia…, …le pattuglie dei Terrestri hanno cominciato a girare come pazze…, … così quello sporco individuo stava leggendo i miei pensieri e…, …sì, un ipno, un certo Steen. Lo vogliono a tutti i costi. Io non so…, …vi dico che quei due non dovrebbero essere…, …Cosa? Cosa sta succedendo?”

— Ci siamo — disse Raven, girando leggermente la testa.

“…dicono che questo Steen abbia… Dove? Nella stanza dieci? Come hanno fatto a entrare?…, …ne ho avuto fin sopra i capelli di stare su Marte. Non so come facciano quei disgraziati… Bene, Gargan. Ci penso io, …è precipitato nella foresta e ha scavato una buca profonda…”

Click! Un piccolo scatto e una dozzina di grosse serrature chiusero la porta che si trovava alle spalle di Raven e di Charles. Lo schermo si illuminò, e dopo qualche istante comparve una faccia.

— Allora, Gargan aveva ragione. Cosa fate voi due in quella stanza?

— Stiamo seduti ad aspettare — disse Raven, e distese le gambe come uno che si accomodi di fronte allo schermo di casa.

— Questo lo vedo. Ora non potete fare altro. — La faccia sfoderò un sorriso che mise in evidenza una orribile fila di denti. — La guardia al cancello giura di non aver fatto entrare nessuno. Eppure voi due siete passati. C’è una sola risposta a questo. Siete degli ipnotici. Lo avete costretto ad aprire il cancello, poi gli avete cancellato dalla mente il ricordo di quel che aveva fatto. — Scoppiò in una risata. — Molto abili. Ma siete in trappola. Provate a ipnotizzare lo schermo.

— A quanto pare, considerate un crimine il fatto di essere ipnotici — disse Raven colpendo il punto debole del tipico essere comune.

— È un crimine l’usare l’ipnosi per scopi illegali — ribatté l’altro. — E, qualora non lo sappiate, la violazione di domicilio è un altro reato. Raven si rese conto che quelle chiacchiere erano solo una perdita di tempo.

— Secondo me è un reato anche il concedersi un divertimento da bambino e fare attendere il capo. Siamo venuti per parlare con Thorstern. Mandatelo a chiamare, prima che qualcuno vi insegni il buon senso a suon di legnate in testa.

— Sporco insolente! — urlò l’altro diventando livido. — Io potrei…

— Potreste cosa, Vinson? — chiese la voce profonda di una persona uscendo perentoria dall’altoparlante. — È un grave errore perdere la calma, qualunque sia la circostanza. Bisogna conservare il controllo in qualsiasi momento, Vinson. Con chi state parlando?

Charles diede una lieve gomitata a Raven. — Sembra che sia finalmente arrivato l’onnipotente Thorstern.

La faccia sullo schermo si era girata e fissava di lato con sguardo sottomesso.

— Ci sono due anormali che vogliono fare i furbi. Sono entrati non si sa come. Siamo riusciti a rinchiuderli nella Sala Dieci.

— Davvero? — La voce della persona era pacata e sicura. — Vi hanno spiegato il motivo per cui sono entrati in questa casa?

— Hanno detto di voler parlare con voi.

— Non vedo per quale motivo li dovrei accontentare. Oltre tutto creerebbe un precedente e darebbe libero accesso a tutti quelli che riescono a superare le mura del castello. Credono che possa restare sempre a disposizione di tutti?

— Non so, signore.

L’interlocutore non inquadrato cambiò idea. — Oh, be’… purché questa occasione non serva da pretesto per occasioni future, potrei anche sentire cos’hanno da dire. Per quanto improbabile, è possibile che apprenda qualcosa di utile. Mi saprò regolare meglio, molto meglio, se scoprirò che mi stanno prendendo in giro.

— Certo, signore — annuì la faccia, servile, poi sparì dallo schermo e si fece avanti un individuo dal viso largo e quadrato. Thorstern, che aveva superata la mezza età, aveva i capelli bianchi e grosse borse sotto gli occhi; il suo aspetto era simpatico e virile, e i suoi lineamenti rivelavano chiaramente uno spirito intelligente e ambizioso.

Thorstern fissò prima Charles, scrutandolo dalla testa ai piedi, poi girò lo sguardo. — Io vi conosco — disse senza mostrare la minima sorpresa. — Qualche minuto fa mi hanno consegnato la vostra fotografia. Voi siete David Raven.

11

Raven continuò a fissare lo schermo, senza scomporsi.

— Come mai avete voluto una mia foto?

— Non sono stato io a chiederla — rispose Thorstern, troppo pronto per lasciarsi sfuggire un’ammissione. — Mi è stata consegnata dalle autorità, che su questo pianeta agiscono con vera efficienza. In questo momento la vostra foto circola in ogni angolo della città. Pare che la polizia abbia una gran voglia di mettervi le mani addosso.

— Chissà poi perché — disse Raven, fingendosi stupito.

Thorstern tossicchiò per schiarirsi la voce. — Una persona con la mia posizione sociale si troverebbe in grande imbarazzo se si venisse a scoprire che ha dato asilo a un ricercato. Quindi, se avete qualcosa da dire, non perdete tempo. Non ne avete molto a disposizione.

— E poi?

Thorstern si strinse nelle spalle. Aveva l’espressione che poteva assumere un imperatore romano nel gesto del pollice verso.

— La polizia verrà a prendervi, così non avrò responsabilità di sorta.

Il tono della voce dimostrava la massima sicurezza. Thorstern non voleva certo nascondere che lui poteva manovrare la polizia a suo piacimento, al punto che, se lo avesse voluto, avrebbe potuto far eliminare una persona trincerandosi dietro la solita e banale scusa della resistenza all’arresto.

E, per la verità, Thorstern aveva davvero simili poteri.

— Siete un uomo molto in vista — disse Raven, ammirandolo apertamente. — Peccato che vogliate insistere nel prendere parte a tutti i disordini in corso.

— E voi siete impertinente — disse Thorstern. — Lo so che sperate di confondere le mie idee e di farmi irritare. Ma non sono tanto ingenuo. Le emozioni incontrollate sono un lusso che solo gli stupidi possono permettersi.

— Comunque, non avete negato l’accusa.

— Non posso smentire né confermare una cosa assolutamente senza senso.

Raven sospirò, sconsolato. — Se assumete questo atteggiamento, la nostra missione diventa più difficile. Comunque, resta necessaria.

— Quale missione?

— Quella di convincervi a mettere fine alla guerra non dichiarata che state conducendo contro la Terra.

— Santo cielo! — Thorstern finse di sbarrare gli occhi per lo stupore. — Non vorrete farmi credere che la Terra mi ha mandato un criminale per discutere di una guerra che esiste soltanto nella vostra fantasia.

— La guerra è in atto, e voi la dirigete manovrando i burattini che avete su questo pianeta e su Marte.

— Che prove avete?

— Non sono necessarie — disse Raven.

— Perché no?

— Perché sapete che ho detto la verità, anche se non volete ammetterlo. Le prove occorrebbero solo nel caso di dover convincere una terza parte interessata. Ma siamo soli. È una cosa che rimane interamente tra voi e noi due.

Thorstern rimase un attimo a meditare. — Una persona che ha sempre per le mani affari importanti — disse alla fine — finisce inevitabilmente col diventare il bersaglio di dicerie anche poco lusinghiere. Io non ci faccio più caso. Sono cose che non mi toccano minimamente. Rappresentano il pedaggio che si deve pagare per correre lungo la strada del successo. I gelosi e gli ostili ci sono sempre fra i piedi, e ci saranno sempre, e io li considero indegni perfino di disprezzo. Devo però ammettere che questa assurda e fantastica storia dell’essere il fomentatore di una guerra è la più oltraggiosa offesa che mi sia mai giunta alle orecchie.

— Non è né assurda né fantastica — ribatté Raven. — Sfortunatamente è un fatto vero, e che non vi offende. Anzi, ne provate un segreto orgoglio. Siete intimamente felice che qualcuno abbia avuto l’intelligenza di intuire che siete il grande capo. Siete soddisfatto che, una volta tanto, il vostro burattino Wollencott non attiri su di sé tutte le luci dei riflettori.

— Wollencott? — disse Thorstern, con la massima impassibilità.

— Ora comincio a capire qualcosa. Evidentemente, Wollencott, da mediocre agitatore di masse qual è, ha finito col pestare i calli a qualcuno. E voi avete stupidamente seguito una falsa traccia che vi ha portato a me.

Charles si agitò sulla sedia e disse: — Non sono abituato a seguire piste sbagliate.

— No? — Thorstern lo studiò attentamente una seconda volta, ma vide solo un individuo grasso, dalla faccia cordiale e dallo sguardo quasi privo di espressione. — Così, siete voi che reclamate il merito di avermi identificato quale animatore di una guerra che non esiste.

— Ammesso che si possa chiamare merito.

— Allora non siete soltanto pazzo, ma anche pericoloso! — Thorstern fece un gesto di disprezzo. — Non ho tempo da perdere con i pazzi. Meglio che me ne lavi le mani e vi consegni alla polizia. — Li fissò con sguardo freddo e severo. — Da buon cittadino, ho piena fiducia nell’opera dei nostri agenti.

Charles fece una smorfia. — State parlando certamente di quelli che ricevono soldi da voi. Li conosco. Sono i più temuti poliziotti del pianeta, e a ragione. — All’improvviso i suoi lineamenti si fecero tesi, e per un attimo la sua faccia non sembrò più né grassa né bonaria. — Tuttavia devo dirvi che noi non li temiamo.

— Cambierete opinione, vedrete. — Thorstern rivolse di nuovo la sua attenzione a Raven. — Nego tutte le accuse prive di senso che mi avete fatto. È tutto! Se la Terra pensa di ristabilire la sua autorità su Venere, lo faccia nel modo più appropriato. Wollencott può anche essere la causa dei guai che esistono con la Terra. Ma la loro risoluzione è un problema che non mi riguarda.

— Sentite, noi non ci lasciamo ingannare dai vostri burattini. Se togliamo di mezzo Wollencott, vi fareste una bella risata perché subito lo sostituireste con uno dei burattini che avete in lista di attesa, e perché fareste subito di lui un martire buono a fare dell’ottima propaganda contro la Terra.

— Davvero?

— Voi non alzerete un dito per salvare Wollencott. Anzi, gli fareste fare la parte del primo martire venusiano per la libertà. La Terra non ha tempo da perdere per fornire uno o due santi e un piccolo dio.

— Questa divinità sarei io? — chiese Thorstern sogghignando.

— Sì — disse Raven. — La nostra mossa logica è stata di giungere alla persona che muove le corde dei burattini. Ecco perché siamo venuti a parlare con voi. Ora, però, siamo convinti che è impossibile farvi ragionare; quindi non ci rimane che usare le maniere drastiche.

— Questa è una minaccia — disse Thorstern, mostrando una fila di denti bianchi. — Ed è strano che venga da una persona in mio potere. Mi dispiace deludervi, ma debbo informarvi che vi trovate in una solida prigione di pietra, completamente isolata dal mondo esterno.

— Divertitevi, finché potete.

— Comincio a credere che siate completamente pazzo — continuò Thorstern, senza badare all’interruzione. — Secondo me avete bisogno di uno psichiatra. Siete spinto dall’ossessione che io, Emmanuel Thorstern, ricco commerciante di Venere, sia una specie di Golia contro cui dovete recitare la parte di David. — Abbassò gli occhi per guardare qualcosa che non veniva inquadrato dallo schermo. — Sì, vedo che vi chiamate proprio David. Evidentemente siete rimasto condizionato dal nome.

— Non più di quanto lo siate voi per il fatto di chiamarvi Thor o Emmanuel.

Sulla faccia di Thorstern comparve la prima reazione visibile. La fronte gli si coprì un attimo di rughe. Riuscì tuttavia a sorridere con alterigia. — Ho piegato uomini per molto meno di questo! Li ho spezzati — disse stringendo rabbiosamente i pugni. — Li ho ridotti in uno stato pietoso.

— Vedo che conoscete i significati dei vostri nomi.

— Non sono un ignorante. — Thorstern inarcò le folte sopracciglia. — Ma mi occupo soltanto del mio commercio… non di fanatismi. Voi siete l’ossessionato, non io. Voglio il potere, certo, ma solo delle cose materiali. I vostri insulti non sono pericolosi per me, ma per voi.

— Le vostre minacce sono del tutto inutili. Sì, voi potrete annientare certi uomini, ma non riuscirete mai a vincere la Terra. Fate cessare la guerra, finché siete in tempo.

— E se non lo facessi?

— La Terra deciderà di averne più che abbastanza e di dover colpire a modo suo. Volete sapere come?

— Sto ascoltando.

— Eliminerà gli uomini dell’opposizione, uno a uno, cominciando da voi.

Thorstern rimase impassibile. Spinse indietro una ciocca di capelli bianchi e abbassò lo sguardo per consultare alcune carte che non venivano inquadrate dallo schermo.

— La mia coscienza è a posto, quindi non ho alcuna paura. Inoltre, noi siamo tutti Terrestri, soggetti alla legislazione terrestre che stabilisce la colpevolezza di un cittadino soltanto quando si possono produrre prove inconfutabili. Queste prove sarà impossibile produrle, dato che mancheranno i testimoni, inclusi voi due.

— Questa è una minaccia — disse Raven.

— Consideratela come volete. A quanto pare, non capite la posizione in cui siete venuti a trovarvi.

— Sì, sì, lo sappiamo… siamo in trappola… Almeno così sperate!

— Siete rinchiusi in una stanza dalle pareti solidissime e senza finestre. L’unica porta è chiusa da un congegno di serrature che possono essere aperte soltanto da qui. Usavamo la sala in cui vi trovate per i colloqui con i paranormali che venivano in visita senza chiari motivi. L’abbiamo già usata diverse volte.

— Capisco.

— Non sono tanto stupido da sentirmi al sicuro dietro una cancellata che si può facilmente superare, come avete fatto voi. Ma adesso avrete certamente capito che chi vuole lottare contro di me deve farlo nel momento e nel luogo da me scelti.

— Precauzioni piuttosto elaborate per la casa di un onesto commerciante, non vi pare? — disse Raven.

— Ho grandi interessi, da proteggere. I mezzi difensivi che ho studiato non si limitano certo a quelli che avete scoperto nella casa. Voi avete raggiunto soltanto la seconda linea di difesa. — Si protese verso lo schermo e li fissò con sguardo trionfante. — Anche se foste arrivati nella stanza in cui mi trovo, avreste scoperto che sono invulnerabile.

Raven sorrise.

— Sarebbe interessante fare la prova.

— Non ne avrete la possibilità. È ora che facciate entrare nei vostri piccoli cervelli l’idea che l’uomo comune non manca d’ingegno. Certi di noi… io in particolar modo… sanno come regolarsi con i mutanti. Sappiamo pensare con maggior rapidità, in qualsiasi momento.

— Pensate in ritardo, ma non lo sapete.

— Se siete tanto fieri dei vostri poteri telecinetici, provate a scardinare le serrature della porta. O forse siete due ipnotici. Provate allora a incantarmi attraverso lo schermo. Se invece siete telepatici, provate a leggere i miei pensieri. È impossibile, vero? Non sapete dove mi trovo, né in quale direzione, né a quale distanza. Potrei essere a dieci metri da voi, e avere i pensieri protetti da uno schermo d’argento, o essere in una stanza che si trova dall’altra parte del pianeta.

— Si direbbe che abbiate paura di qualcuno.

— Non temo nessuno — disse Thorstern, e stava affermando la verità. — Ma riconosco l’esistenza di poteri paranormali che non ho. Per questo sono prudente. Su Venere e su Marte non si può fare diversamente. Il numero dei mutanti è altissimo. È un fattore che la Terra dovrebbe tenere in considerazione, prima di scatenare qualcosa che forse non saprebbe poi come fermare.

— Anche la Terra ha i suoi mutanti — disse Raven. — Più di quanti possiate immaginare. Siete convinti di avere un gran numero di mutanti e non considerate quelli che possono esserci sulla Terra. Chi vi ha portato su questo pianeta? La flotta di astronavi terrestri, pilotata allora, e ancora oggi, da equipaggi che trascorrono quindici o venti anni in volo, soggetti alle radiazioni dello spazio. I figli di questi lupi dello spazio non sono come i figli di tutti gli altri.

— Su questo sono d’accordo — disse Thorstern, poi assunse il tono della persona che sta per affermare qualcosa che non si può discutere. — Se c’è davvero una guerra in atto, perché mai la Terra non schiera i suoi mutanti contro quelli di Venere?

— Chi ha mai detto che Venere stia usando i mutanti?

Thorstern impiegò un decimo di secondo per darsi dell’imbecille. Aveva commesso un grosso sbaglio e doveva rimediarlo. — Non è così? — chiese fingendosi candidamente sorpreso.

— No.

— Che cosa succede allora?

— Qualcosa di infinitamente peggio. I Venusiani si servono di un nuovo tipo di raggio che rende sterili le nostre donne.

— È una sporca menzogna! — esclamò Thorstern, arrossendo di collera.

— Esatto — disse Raven con calma. — E voi lo sapete. Lo avete ammesso in questo momento. Come fate a saperlo?

— Nessuno potrebbe permettersi di combattere in un modo tanto indegno — disse Thorstern, e segretamente si maledì per aver fatto un secondo errore. Avrebbe dovuto stare molto più attento. — Mi sono stancato di questo colloquio. Non è interessante né piacevole. Vi voglio sistemare come farei con qualsiasi pazzo che viene a minacciarmi in casa mia.

— Se vi riesce.

— Sarà facile. Gli anormali come voi hanno lo stesso tipo di polmoni degli altri. Anche un notturno cadrebbe addormentato in pochi attimi. Nonostante la sua qualità rimarrebbe inerme di fronte al sonno quanto un bambino appena nato. Non sarebbe più l’individuo biologicamente superiore che si vanta di essere. Addormentato, non è altro che un pezzo di carne. E chiunque potrebbe sistemarlo.

— Ci volete addormentare con il gas?

— Proprio così — disse Thorstern, compiaciuto di poter usare i suoi poteri contro i potenti.

— Ci sono dei tubi che portano il gas fino alla sala in cui vi trovate. Fanno parte del sistema difensivo. Come potete vedere, la nostra immaginazione è più fertile della vostra. — Si strinse un labbro tra le dita. — Mi piace fare le cose nel modo più semplice, in silenzio, e senza troppe difficoltà.

— Ma rifiutate di fare qualcosa per fermare la guerra.

— Non siate stupidi. Non posso proprio ammettere che ce ne sia una, né tantomeno che sia implicato io. Questa vostra guerra immaginaria ha smesso d’interessarmi. Vi tratterò come due malfattori penetrati nella mia casa. Farò in modo che la polizia vi possa prendere senza la minima difficoltà.

Si piegò in avanti e afferrò qualcosa che si trovava all’estremità della scrivania. Improvvisamente Charles si accasciò contro lo schienale della sedia e scivolò in avanti. La faccia gli si fece pallida e gli occhi si chiusero, come per sempre.

Raven distolse l’attenzione dallo schermo e si alzò di scatto per impedire che il compagno cadesse. Poi gli mise una mano sotto l’abito e cominciò a massaggiare all’altezza del cuore.

— Una commedia abbastanza divertente — disse Thorstern piegando le labbra con sarcasmo. Era ancora piegato verso lo schermo, ma la sua mano si era momentaneamente fermata a mezz’aria. — Il grassone finge di essere ammalato. Voi gli massaggiate il petto con grande serietà. E fra un istante mi verrete a dire che è stato colpito da un attacco cardiaco, o qualcosa del genere. Affermerete che bisogna fare subito qualcosa. A questo punto, io dovrei chiudere il gas, aprire la porta della sala in cui vi trovate, e mandare di corsa qualcuno con una bottiglia di tambar.

Raven rimase con la schiena voltata allo schermo. Non rispose e continuò a massaggiare il petto di Charles.

— Non attacca! — gridò Thorstern con rabbia. — State recitando una commedia tanto infantile che non riuscirebbe a convincere uno scemo. E io la considero un insulto alla mia intelligenza. Inoltre, se l’attacco del grassone fosse vero, io me ne starei tranquillamente seduto a vederlo morire. Chi sono io per voler fermare l’opera del destino?

— Sono contento che abbiate detto una cosa del genere — fece Raven senza voltarsi, con grande indifferenza per quello che Thorstern poteva fare. — La gente come noi è spesso ostacolata dalle considerazioni morali. Perdiamo un’infinità di tempo nel convincere altri a non farci fare cose che devono essere fatte. Cerchiamo di rimandare l’inevitabile fino a quando non si può più esitare oltre. È una nostra debolezza caratteristica. Siamo deboli nelle cose in cui gli uomini senza scrupoli, come voi, sono forti.

— Vi ringrazio — disse Thorstern.

— Quindi ci è di grande sollievo il fatto che la vittima cancelli i nostri scrupoli — aggiunse Raven, e sentì che quello era il preciso istante, l’esatto momento. Girò di scatto la testa e fissò gli occhi scintillanti d’argento sullo schermo. — Addio, Emmanuel! Un giorno forse ci incontreremo di nuovo.

Thorstern non rispose. Non ne fu capace. I suoi lineamenti aggressivi vennero scossi da una serie di violente contrazioni e gli occhi parvero voler schizzare dalle orbite. Le labbra si mossero, ma non ne uscirono suoni. La fronte si coprì di sudore. Thorstern sembrava sottoposto a una violenta tortura.

Raven osservò la scena senza mostrare la minima sorpresa, e continuò a massaggiare il petto di Charles. La faccia di Thorstern scomparve sotto il limite inferiore dello schermo. Una mano si sollevò per annaspare spasmodicamente nell’aria. Poi ricomparve la faccia, sempre contratta in maniera spaventosa. Tutta la scena si era svolta in meno di venti secondi.

Alla fine, lo strano fenomeno cessò con la stessa rapidità con cui era cominciato. I muscoli della faccia si rilassarono e l’espressione tornò quella di prima. Rimase solo il sudore sulla fronte. La voce profonda riprese a parlare, calma e fredda. Era la voce di Thorstern, con un leggero timbro che non gli apparteneva. Bocca, laringe e corde vocali sembravano essere diventate quelle del pupazzo di un ventriloquo. L’uomo girò la testa verso un microfono situato alla sinistra dello schermo e disse: — Jesmond, i miei visitatori stanno per uscire. Fate in modo che non vengano fermati.

Il pupazzo Thorstern distese il braccio, premette un pulsante, e tutte le serrature si aprirono. Fu l’ultimo atto della sua vita. L’espressione del viso cambiò ancora una volta, la bocca si aprì, e tutti i muscoli ebbero rapidissime alterazioni. Poi la testa svanì dallo schermo. Nell’attimo in cui il corpo crollava a terra parve quasi di sentirne il tonfo.

Charles si agitò. Quando Raven lo scosse con vigore, socchiuse gli occhi e cercò di sollevarsi. Tremava leggermente e aveva il respiro affannoso.

— Dobbiamo fare presto, David. Credevo di poterlo tenere sotto controllo, ma quel maledetto…

— Lo so. Ho visto la sua faccia. Andiamo!

Balzò verso la porta e la spalancò.

Poi aiutò Charles a uscire. La sala era immersa nel silenzio e lo schermo continuava a brillare vuoto. Raven richiuse il battente e svoltò nel corridoio. Era deserto.

— Quel maledetto! — disse Charles, ansimando.

— Stai zitto. Risparmia il fiato.

Superarono la porta protetta dal raggio invisibile e si trovarono nel cortile avvolto nella nebbia. Il flusso di pensieri che giungeva da ogni angolo consigliò loro di allungare il passo.

“… la ballerina avanza contorcendosi come un serpente e… È morto, te lo assicuro. È impossibile che…, ci vuole altro per incendiare quel magazzino…, …sono riusciti a colpirlo nel momento in cui stava per premere il pulsante del gas. Non so come abbiano…, …si dice che qualche anno fa un apparecchio monoposto abbia raggiunto Giove. Io immagino che siano voci sparse dai Terrestri per…, …devono esserci mutanti con diversi talenti, anche se qualcuno afferma il contrario. In questo caso…, …ha scoperto un filone d’argento su un versante delle Sawtooths, così…, …non possono essere andati lontano. Suona l’allarme, idiota! Non startene a contemplare un morto mentre quelli…, …il levitante si solleva per mettersi a camminare sul soffitto e dalla tasca gli esce una fotografia che cade ai piedi della moglie. Lei la raccoglie e…, …non possono essere ancora arrivati al cancello. Mettete in azione la sirene, e sparate a vista… Avresti dovuto giocare l’asso. Ehi, cos’è tutto questo baccano?…, …non importa chi siano e cosa sanno fare. Possono morire come tutti gli altri.”

Jesmond, arcigno come sempre, stava aspettando vicino al cancello. La pessima visibilità gli impedì di riconoscerli fino a quando non furono a pochi passi. Allora spalancò gli occhi.

— Voi? Come avete fatto a entrare?

— Non sono affari che vi riguardano — disse Raven, poi fece un cenno verso il cancello. — Obbedite agli ordini e aprite.

— Va bene, state calmo.

Borbottando tra sé, Jesmond cominciò ad armeggiare attorno alla complicata serratura. Tutti gli avvenimenti di quella sera lo avevano già seccato abbastanza.

— Presto. Non abbiamo tempo da perdere.

— Davvero? — La guardia si girò per guardarli, risentito. — Chi sta tribolando con la serratura, voi o io?

— Io — disse Raven con rabbia, e sferrò un pugno potente sul naso di Jesmond. Poi si massaggiò le nocche indolenzite. — Scusami, amico.

Jesmond cadde a terra di schianto e dalle narici cominciò a uscire un filo di sangue. Gli occhi si erano chiusi e la mente doveva ondeggiare in qualche punto in mezzo alle stelle.

Raven terminò di aprire e spalancò il cancello. — Hai già fatto abbastanza — disse a Charles. — È ora che te ne torni a casa.

— Non ci penso nemmeno — rispose Charles, fissando l’amico con occhio esperto. — Il cancello aperto è una finta, altrimenti non avresti colpito con tanta forza quel disgraziato. Tu vuoi rientrare nel castello, e io voglio venire con te.

In quel momento, la sirena collocata sulla torre più alta si mise a suonare. Il suono, dapprima rauco, in pochi attimi si trasformò in un ululato lacerante che penetrò nella nebbia per echeggiare in tutta la regione circostante.

12

Avanzarono in mezzo alla nebbia fredda e umida. La scarsa visibilità, comunque, non impedì loro di procedere celermente. Camminavano come se si trovassero alla piena luce del giorno. In fondo al cortile, molto oltre la porta che avevano aperto per entrare nel castello, c’era uno stretto voltone di pietra con una lanterna appesa al centro. Di ottone smaltato, ricca di fregi ornamentali, la lanterna penzolava innocentemente e proiettava un tenue ventaglio di luce invisibile su una serie di cellule microscopiche incassate nel gradino sotto l’arcata.

La sirena continuava a lanciare il suo lugubre ululato, mentre Raven cercava di rintracciare il circuito che azionava quel sistema di sicurezza così ben mascherato. Infine superò l’arcata, seguito da Charles. Un attimo dopo la sirena ammutolì con una specie di rantolo.

L’improvviso silenzio fu rotto da un coro di voci rabbiose e da un’orda di pensieri altrettanto furenti.

— Pensavo di dover impiegare più tempo — disse Raven. — I fili corrono per quasi tutto il castello e terminano a un grande pannello di comando. Comunque, sono stato fortunato.

— In che senso?

— Quando ho interrotto il contatto si è accesa una spia luminosa… e nessuno ci ha fatto caso. Sembra che tutti al castello siano in preda al panico. Continuano a scambiarsi ordini a vicenda senza concludere niente.

Si sporse un poco oltre l’angolo per guardare verso il cancello. Si sentì il rumore di molti piedi in corsa; poi dalla porta sbucarono diversi uomini che si lanciarono verso l’uscita. Ci fu un confuso incrociarsi di voci che cercavano di dominarsi a vicenda.

Era molto più facile ascoltare i pensieri.

“Troppo tardi. Il cancello è aperto, e Jesmond è tramortito.”

“Voi tre eravate nella stanza delle guardie. Cosa stavate facendo? Giocavate a jimbo? Ma guarda che roba! Due anormali escono tranquillamente dal castello, e loro continuano a giocare!”

“Vi siete mossi soltanto quando è suonato l’allarme! Be’, avevate ormai un’ora di ritardo!”

“Basta con le discussioni! Non stiamo facendo un’inchiesta! I due fuggitivi non posso essersi allontanati troppo. Inseguiamoli.”

“In che modo? Avanzando a tastoni come i ciechi? Non siamo mica dei radiosensitivi, sai!”

“Chiudi il becco! Anche loro si trovano nelle nostre stesse condizioni.”

“Niente affatto. Ti dico che quelli hanno qualità speciali, e sono pronto a scommettere che in questo momento stanno correndo in mezzo alla nebbia come se non esistesse.”

— Se fossi uno di loro, odierei a morte la gente come noi — disse Charles.

— Infatti ci odiano. E non posso biasimarli — disse Raven, e fece un gesto per imporre il silenzio. — Ascolta.

“Voi fate come volete, io li inseguo. Non possono correre senza fare rumore, e io sparerò in direzione di qualsiasi rumore dovessi sentire. Vieni con me, Sweeny?”

“Sì, certo.”

Un rumore di passi crepitò sulla ghiaia oltre il cancello e si allontanò con cautela nella notte.

“E se fossero telecinetici? Possono evitare di farsi sentire.”

“Un telecinetico non può rimanere sospeso in aria per sempre. Per me, il vero superdotato è chi può digerire un confetto di piombo.”

“Piantala, Sweeny. Come facciamo a sentirli se continui a chiacchierare?”

Continuarono ad allontanarsi mentre le loro menti si concentravano soltanto nell’ascolto degli eventuali rumori fatti dai fuggitivi. Gli uomini rimasti al cancello continuavano a rimproverare le guardie per quella partita a jimbo che le aveva distolte dal servizio, e nello stesso tempo cercavano di rianimare il povero Jesmond.

Un’onda di onde neurali giungeva invece dall’interno del castello.

“Niente indica cosa l’ha ucciso. Sembra che sia stato colpito da un attacco di cuore. Vi dico che si tratta di una disgraziata coincidenza. Nessun ipnotico può servirsi dei propri poteri attraverso uno schermo, né tantomeno può uccidere una persona a distanza.”

“No? Allora perché Thorstern ha spalancato loro la porta e ha ordinato alle guardie di aprire il cancello? L’hanno ipnotizzato, ne sono sicuro, e attraverso lo schermo. Quei due hanno un potere che nessun essere umano dovrebbe possedere.”

— Sei stato in gamba — disse Charles. — Guardando lo schermo al momento giusto, li hai indirizzati sulla pista sbagliata. Danno tutta la colpa a te, pensano che in qualche modo tu sia riuscito a farlo coi tuoi begli occhi.

— Non vorrei che scoprissero la verità.

— Già. Almeno ci fosse il modo di raccontare loro qualcosa sulla verità, ma senza tirare in ballo i Deneb.

— Non c’è. Nel modo più assoluto.

— Lo so. Ed è un vero peccato.

Rimasero in silenzio ad ascoltare le menti.

“Hai avvisato Plain City?”

“Sì. Stanno arrivando in forze. Un paio di telepatici per localizzarli con la mente, se ci riescono, una mezza dozzina di ipnotici, un pirotico e un tale con una muta di gatti selvatici. Una combriccola di fenomeni da circo capaci di camminare sulla corda e di fare altre cose del genere.”

“Al capo verrà un colpo quando vedrà cos’è successo.”

“Credo che un insettivoco con una scatola dei suoi insetti potrebbe fare molto di più che…”

— Hai sentito? — disse Raven facendo un piccolo cenno al compagno. — Proprio quello che volevamo sapere. Thorstern non era al castello, ma lo stanno aspettando. Infatti l’uomo nella sala di trasmissione, quando l’ho visto cadere a terra, non somigliava minimamente a Thorstern. Doveva essere un malleabile.

— Io me ne sono accorto nel momento in cui sono entrato in contatto — disse Charles. — Recitava molto bene, e non avevo avuto il minimo sospetto. È stata una sorpresa… Ma non certo paragonabile a quella che ha provato lui grazie a me.

— Ormai ha finito di restare sorpreso! La morte mette fine a tutto, vero?

Charles ignorò la domanda, perché la risposta era ovvia.

— La sala di trasmissione era protetta da schermi d’argento per evitare penetrazioni mentali dall’esterno. Si chiamava Greatorex. Ed era uno dei tre mutanti che avevano libero accesso al castello.

— Per motivi speciali.

— Sì. L’avevano addestrato a impersonare Thorstern, e Thorstern era diventato il suo secondo io. Ecco perché diceva di essere invulnerabile. Lui parlava a nome di due persone. Il vero grande capo era invulnerabile soltanto perché non si trovava in quella stanza. — Charles rimase un attimo in silenzio. — I tre mutanti fanno il loro servizio e turni al castello ogni volta che Sua Eccellenza, lo richiede.

— Dove sono gli altri due? Ha detto qualcosa la sua mente?

— Sono da qualche parte in città, in attesa di essere chiamati in servizio.

— Puoi capire cosa significa. Se stanno aspettando Thorstern, e lui non sa ancora cos’è successo, può darsi che arrivi di persona. A meno che non riescano ad avvisarlo e lui non ci mandi una seconda copia di se stesso. Gli conviene gettarci un’altra esca perché non potremo rifiutarci di abboccare.

— Ma non riuscirà a prenderci.

— Però nemmeno noi prenderemo lui… Ecco cosa mi preoccupa. — Corrugò la fronte, poi rivolse improvvisamente l’attenzione altrove. — Ascolta… comincia a rendersi conto di qualcosa, questo tipo.

I pensieri giungevano da una delle stanze del castello.

“D’accordo, il cancello era aperto e una delle guardie era stesa a terra. Significa proprio che sono fuggiti? O vogliono soltanto farcelo credere? Forse non sono fuggiti. Forse si stanno ancora aggirando per il castello. Se fossi una volpe mi vestirei da cacciatore e mi metterei in groppa a un cavallo. Vivrei più a lungo. Non importa che possano leggere nella mia mente… sono sempre in grado di pensare. Io dico che bisogna cercare all’interno del castello, al più presto possibile.”

Rispose una seconda mente più agitata. “ Tu hai la testa piena di se, di ma e di forse. Se non avessi di meglio da fare, saprei dedurre le stesse cose. Potrei pensare alla possibilità che siano dei supermalleabili. E allora? Dovremmo preoccuparci non soltanto di scoprire dove sono, ma anche di sapere chi sono. Ti rendi conto che uno di loro potrebbe essersi fatto uscire sangue dal naso e essersi sdraiato vicino al cancello fingendo di essere Jesmond? Fece una pausa. Di questo passo, come fate a sapere che io sono proprio io?”

“In questo caso non avresti molto da vivere. Dalla città stanno arrivando alcuni telepati in grado di scoprire rapidamente chi sei. Io ripeto che dobbiamo setacciare il castello. Il capo andrà su tutte le furie se non lo facciamo.”

“D’accordo. Facciamo come vuoi, Signor Agitato. Ordinerò di cominciare le ricerche. Sarà inutile, ma lo faremo. Dirò anche che si armino e sparino a qualsiasi ombra sospetta.”

— Certi mancano totalmente di buon senso — borbottò Raven. — Perché non ci lasciano in pace?

— Senti chi parla! — disse Charles sorridendo.

Raven studiò le pareti del castello. — La caccia è cominciata. Dobbiamo cercare di tenerli a bada fino all’arrivo di Thorstern o di uno dei sosia.

Tenerli a bada non fu difficile. Andarono a sedersi su un bastione avvolto dalla nebbia e alto una quindicina di metri. Un gatto selvatico li avrebbe potuti scoprire, un supersonico li avrebbe potuti localizzare con l’eco, e un levitante li avrebbe saputi scorgere per quel suo istinto di curiosare nei punti che gli esseri normali trascuravano.

Ma quelli che stavano dando loro la caccia erano esseri normali, con tutte le limitazioni imposte alle normali forme di vita.

Così i due rimasero appollaiati in cima alla muraglia, come due gufi, a scrutare gli esseri inferiori che strisciavano con le armi in pugno attorno alla rocca di basalto nei cortili, pronti a far fuoco, e scossi dalla paura dell’ignoto.

Per le loro povere menti normali, il mutante era un essere che aveva sviluppato manie di grandezza, sempre pronto a ridurre in schiavitù i normali esseri umani. Un mutante con più poteri doveva essere qualcosa di infinitamente peggiore. Forse era una creatura non umana, camuffata da uomo e capace di tutto.

Il pensiero di trovarsi improvvisamente di fronte a una mostruosità biologica quale poteva essere un tele-piro-ipnotico e chissà che altro, e di doversi difendere con semplici pallottole, era addirittura insostenibile per alcuni degli uomini impegnati nelle ricerche.

Un uomo passò sotto l’arcata puntando una lampada portatile particolare sulle cellule per non disattivarle. Cercò invano nei paraggi, gli occhi spalancati, i peli ritti, e passò un paio di volte proprio sotto i piedi della preda, prima di arrendersi e tornare sui suoi passi.

Nel medesimo istante un secondo uomo emerse dalla porta del cortile, percepì dei rumori furtivi provenienti dall’arcata e fissò in quella direzione. Le armi in pugno, i due avanzarono in punta di piedi… Videro una forma vaga stagliarsi nella nebbia.

— Chi va là? — gridarono insieme, e fecero fuoco.

Uno venne mancato di pochi centimetri, l’altro fu ferito a un braccio. Lontano, oltre il cancello, qualcuno sparò in aria a un immaginario levitante, centrando un banco di nebbia.

Raven guardò verso il basso per osservare quello che stava succedendo nel cortile. Charles invece alzò di scatto la testa.

— Sento qualcosa. Non te ne sei accorto?

— Sì. Sta arrivando qualcuno. Ho la sensazione che sia il nostro uomo.

Si udiva il rumore delle grosse eliche di un elicottero che volava a considerevole altezza: stava arrivando da est, e volava sopra la coltre di nebbia.

Un sottile raggio di luce arancione partì da una delle torri del castello e rimase fisso nella notte. L’elicottero cominciò a scendere verso il faro e il rumore delle eliche diventò assordante. Infine l’apparecchio venne a trovarsi sopra il castello.

Guidato dagli strumenti di bordo o da istruzioni radio impartite da terra, l’elicottero s’immerse nella nebbia e toccò terra nello spiazzo di fronte al cancello. Il faro arancione si spense. Poi tre o quattro persone attraversarono di corsa il cortile per andare incontro ai nuovi arrivati.

— Raggiungiamo il comitato di ricevimento — disse Raven.

Si sporse dal muro e si lasciò cadere nel cortile. Ma non andò giù come avrebbe fatto un levitante. Scese alla stessa maniera con cui era piombato nella foresta. Una caduta normale, e un’improvvisa decelerazione a pochi centimetri dal suolo.

Charles lo seguì imperturbabile.

Attorno all’elicottero, si agitavano una decina di persone che cercavano di parlare tutte contemporaneamente. Quelli di guardia al cancello stavano scrutando nella nebbia, in direzione dell’apparecchio, e non fecero caso ai due che varcarono di corsa il passaggio per poi sparire.

I due fecero soltanto pochi passi in direzione dell’elicottero, il tanto necessario per togliersi alla vista di quelli fermi al cancello, poi descrissero un ampio giro per andare dietro l’elicottero. Nessuno fece caso a loro. La foschia era molto fitta e la discussione assorbiva troppo il gruppo.

Un uomo era fermo in cima alla scaletta dell’apparecchio e ascoltava cupo quello che urlavano gli uomini a terra. Sembrava il gemello dello sventurato Greatorex.

Le menti di quelli radunati ai piedi della scaletta rivelavano una curiosa situazione. Nessuno sapeva con certezza se il vero Thorstern era morto e se loro stavano parlando con uno dei sosia, o se era morto un sosia e loro si trovavano di fronte a Thorstern in persona… o se riferivano i fatti a un altro dei sosia.

Con autoritaria abilità, l’aspirante dittatore del mondo aveva condizionato i suoi uomini a rispettare la sua quadruplicità e a considerare ogni suo sosia come il vero Thorstern. Si erano tanto abituati a questa idea che per loro il vero Thorstern e i tre malleabili erano diventati una sola persona con tanti corpi. Era un grande tributo all’uomo che li comandava e un tributo ancora più grande ai tre sosia.

Il trucco riusciva a essere di utilità estrema. Nessuno scrutacervelli avversario poteva stabilire le sostituzioni che avvenivano nella camera protetta dagli schermi. Sarebbe stato necessario trovarsi in presenza diretta di Thorstern per poterlo identificare… se fosse stato possibile trovarlo.

Nessuno dei subalterni di Thorstern aveva mai accarezzato l’idea di commettere un attentato, sia perché le possibilità erano tre contro una, sia per timore delle rappresaglie che sarebbero seguite. All’interno dell’organizzazione, per quella esistenza dei sosia, era venuto a crearsi uno stato di dubbio che scoraggiava chiunque avesse voluto tentare una scalata al potere mediante il tradimento.

Ma, una volta tanto, nonostante le precauzioni, l’uomo che si trovava in cima alla scala era stato colto di sorpresa. Nessuno schermo d’argento proteggeva il segreto dei suoi pensieri. Si trovava allo scoperto ed era preoccupato di comprendere con la massima rapidità che cos’era successo. Poi avrebbe deciso se gli conveniva restare lì.

La sua mente ammetteva che si trattava di Emmanuel Thorstern e nessun altro, circostanza che avrebbe fatto felice il gruppo vociante di uomini che lo attorniava, se tra loro ci fosse stato un telepatico. Thorstern stava già pensando di tornare a Plain City a intensificare la caccia, mandando al castello un sosia nel caso avessero deciso di sferrare un secondo colpo contro la sua persona.

— Allora questo tale l’ha fissato negli occhi come per dire spero che tu possa cadere stecchito - continuò quello più vicino a lui. — Ed è stato proprio così! Lasciate che ve lo dica, capo, non è una cosa naturale. Quei due saprebbero mettere lo scompiglio in un intero gruppo di paranormali, figuratevi quindi con gente normale come noi. — Sputò a terra con rabbia. — Quando due esseri che non sono normali possono entrare tranquillamente…

— Superando il cancello e i sistemi di allarme — lo interruppe un secondo — come se non esistessero. Poi sono usciti da una sala chiusa da serrature complicatissime.

Una terza voce espose proprio quello che stava passando nella mente dell’uomo in cima alla scala. — Io sono preoccupato per questo… se l’hanno fatto una volta possono farlo ancora, e ancora, e ancora…

Thorstern fece un mezzo passo indietro. — Avete setacciato il castello? Bene?

— Centimetro per centimetro, capo. E non abbiamo trovato traccia di nessuno dei due. Ora aspettiamo una muta di gatti selvatici e un gruppo di superdotati, richiesti in città. Il fuoco si combatte con il fuoco.

Quasi a conferma di quanto era stato detto si sentì in lontananza il rabbioso miagolìo dei gatti selvatici.

— Non serviranno a niente — dichiarò con pessimismo il primo uomo. — A meno che non si imbattano per caso in Raven e in quel suo socio panciuto. Ormai hanno troppo vantaggio. Sweeny e i suoi ragazzi non li intercetteranno più, e nemmeno le squadre di città… E neppure io, se posso evitarlo.

Thorstern decise improvvisamente di aver ascoltato abbastanza. — Tutto considerato è meglio che io torni in città. Ordinerò alle autorità di prendere decisioni drastiche. Non mi manca certo l’influenza per farlo.

— Certo, capo. Certo.

— Tornerò non appena mi sarò reso conto che viene fatto tutto il possibile. Fra due o tre ore al massimo.

Lo disse sapendo benissimo che non sarebbe tornato fino a quando la situazione poteva rappresentare un pericolo per la sua persona: avrebbe mandato uno dei sosia.

— Se qualcun altro mi viene a cercare, dite che sono partito e che non sapete dove ero diretto. Se chi mi cerca è Raven, o se gli somiglia, o se parla e agisce come lui, o se vi nasce il sospetto che abbia le sue stesse idee, non state a discutere. Sparate. E sparate bene. Nel caso di un errore di persona, io mi assumerò tutte le responsabilità.

Al che Thorstern scomparve all’interno dell’elicottero. Si comportava come una persona sicura di sé, ma internamente era scosso dal desiderio di allontanarsi il più presto possibile.

Qualcuno non si era lasciato ingannare dall’opinione diffusa che fosse Wollencott il capo del movimento, anche se poi aveva finito col trovarsi di fronte a Greatorex. Qualcuno aveva faticosamente seguito i fili nascosti e aveva trovato che portavano a Thorstern. Qualcuno aveva molto più potere di lui e una crudeltà quasi identica. Qualcuno aveva deciso di rovesciarlo dalla posizione che si era tortuosamente costruito e, nonostante il primo insuccesso, aveva dimostrato di poterlo fare con estrema facilità.

— Andiamo — borbottò al pilota, e si lasciò cadere nella sua poltroncina.

Le eliche girarono, l’apparecchio ebbe un lieve sobbalzo, si inclinò leggermente e cominciò a sollevarsi. Raven e il compagno raggiunsero di corsa l’apparecchio e si misero a sedere sui pattini di atterraggio. Fino a un attimo prima, erano rimasti nascosti dietro la grossa mole dell’elicottero, ma ora diventarono perfettamente visibili. Un gruppo di facce sorprese si levò a guardarli per due o tre secondi, fino a quando l’apparecchio non scomparve nella nebbia. Poi ci fu una reazione rabbiosa e confusa.

“Dammi il fucile, presto!”

“Sei pazzo? Vuoi sparare alla cieca? Ormai non puoi più vederli!”

“Calma, Meaghan, potresti colpire il capo.”

“O il pilota. Vuoi farci cadere addosso l’apparecchio?”

“Ma dobbiamo fare qualcosa. Maledetti paranormali! Dipendesse da me, li ucciderei non appena nascono. Avremmo una vita tranquilla.”

“Telefoniamo in città. Li uccideranno non appena l’apparecchio tocca terra.”

“Sarebbero utili due levitanti bene armati. Perché non…”

“Sta’ zitto, Dillworth. Forse il pilota si è accorto di qualcosa e sta tornando verso il castello.” Tese l’orecchio, ma il rumore delle eliche si stava allontanando. “ No, continua verso la città. Io vado.”

“Dove?”

“Dentro. Voglio mettermi in contatto radio con il capo e avvisarlo.”

“Ottima idea. Una scarica di proiettili attraverso il pavimento della cabina li farà cadere dal loro trespolo.”

L’apparecchio emerse dal banco di nebbia e proseguì il viaggio sotto un cielo di stelle lucenti. All’orizzonte, le Sawtooths si stagliavano contro lo sfondo dei punti luminosi. Più vicino, ovattato dalla nebbia, il bagliore delle luci di Plain City con il raggio arancione di un faro che puntava verso il cielo. Lontano, verso sud, si poteva distinguere il leggerissimo bagliore delle luci di Big Mines. Il pilota puntò verso il faro di Plain City e si mantenne una trentina di metri sopra il banco di nebbia. Non era necessario salire a una altezza maggiore per un viaggio tanto breve. Era piegato sui comandi, gli occhi fissi sulla luce del faro. Nel subconscio sentiva che l’apparecchio era più pesante, più lento, di un’ora prima, ma non se ne preoccupò. Durante la notte il contenuto di ossigeno dell’atmosfera variava da un’ora all’altra, e i motori sembravano subirne l’influenza.

Quando l’apparecchio fu quasi sopra la città, la spia della radio si accese, e il pilota allungò il braccio per premere l’interruttore. Nello stesso istante la porta della cabina si aprì a Raven avanzò all’interno.

— Buona sera — disse rivolgendosi a Thorstern.

Con la mano sospesa a mezz’aria, il pilota diede una rapida occhiata fuori dal finestrino per accertarsi che stavano ancora volando, poi sbottò: — Ma come diavolo…

— Clandestino a rapporto, signore — disse Raven sogghignando. — E ce n’è un altro appollaiato sul pattino, più grosso di me. — Rivolse la sua attenzione a Thorstern e vide che stava guardando con insistenza un piccolo scomparto. — Non lo farei se fossi in voi — lo ammonì Raven con un tono di voce tanto normale da risultare estremamente minaccioso.

Il pilota decise che poteva rispondere alla radio e premette il pulsante. — Qui Corry.

Dal piccolo altoparlante uscì una voce squillante. — Dite al signor Thorstern di prendere la pistola e sparare attraverso il pavimento. I due che cerchiamo sono attaccati ai pattini di atterraggio.

— Lo sa — rispose il pilota.

— Lo sa?

— Proprio così!

— Mio Dio! — La voce parve rivolgersi a delle persone che gli stavano accanto. — Dice che il capo lo sa. — Tornò a parlare al microfono. — Cos’ha intenzione di fare?

— Niente — rispose il pilota.

— Niente? Com’è possibile?

— Non chiedetelo a me. Io sono il pilota.

— Non vorrete… — La voce si interruppe all’improvviso, poi si sentì lo scatto della radio che veniva spenta.

— È giunto a una conclusione — disse Raven. — Ha pensato che voi e il signor Corry foste legati saldamente… che fossi io alla radio.

— Voi, chi siete? — chiese Corry con il tono di chi considera vagabondi tutti quelli che saltano a bordo di velivoli in moto.

Thorstern fece finalmente udire la sua voce. — Lasciate perdere… non potete fare niente.

Il suo cervello preoccupato espose un interessante esempio di come i pensieri incongruenti aumentino a volte nei momenti di crisi. Thorstern era assolutamente sconvolto. Giudicando da quanto era successo al castello, lui si trovava in una posizione pericolosa, aveva ottimi motivi per credere che la sua vita fosse in pericolo e che quanto prima avrebbe raggiunto il povero Greatorex. A tutto questo doveva aggiungere una specie di senso di colpa per essere andato a cercare i guai e per non potersi quindi lamentare, di averli trovati.

In quel momento, invece, Thorstern pensava ad altre cose.

“Un taxi antigravitazionale può portare un carico massimo di duecentocinquanta chili. Un elicottero, invece, può trasportare una tonnellata. Se avessi preso un taxi non mi troverei in questa situazione: non si sarebbe potuto sollevare con due persone a bordo e due appese all’esterno. Questa è l’ultima volta che prendo un elicottero… a meno che non venga accompagnato da una scorta.”

— Ma voi avete una scorta… Avete me e il mio amico — disse Raven. Poi aprì lo sportello. — Venite. Dobbiamo scendere.

Thorstern si alzò lentamente.

— Mi romperò il collo.

— Andrà tutto bene. Ci siamo noi a sostenervi.

— Potreste cambiare idea e lasciarmi precipitare, no?

— No.

Il pilota intervenne nella discussione. — Se siete dei levitanti vi devo avvisare che è contro la legge saltare da un apparecchio in volo sopra una città.

Raven non gli fece caso e continuò a parlare con Thorstern.

— Comunque, avete altre alternative. Potete tentare di prendere la pistola che c’è nel cassetto e vedere cosa succede. Oppure potete tentare la fuga balzando dall’apparecchio in volo e scoprire a che altezza sapete rimbalzare. O far precipitare l’elicottero e trasformarlo in un rogo. Se invece scendete con noi, toccherete terra incolume.

“Mi può ipnotizzare e costringere a fare quello che vuole, anche a morire, come ha fatto con Greatorex. Sarebbe meglio agire di testa mia. Ma conviene guadagnare tempo. Ora vincono loro… poi verrà anche il mio turno. In circostanze diverse anche le mie opportunità saranno diverse.”

— Questo si chiama usare il buonsenso — disse Raven. — Restate con noi fino a quando non faremo un passo falso. Poi ci potrete sbranare.

— So che siete un telepate e che potete leggere i miei pensieri — disse Thorstern avvicinandosi allo sportello. — So che potete fare anche molto di più. Sono impotente di fronte a voi… per ora…

Chiamò a raccolta tutto il suo coraggio. In quel momento Raven lo prese per un braccio e Charles gli afferrò l’altro. Come i levitanti hanno la mente condizionata da questa loro particolare abilità, così gli altri sono condizionati dalle loro limitazioni.

Thorstern aveva il cervello e il coraggio di una belva, tuttavia la sua natura si ribellava con tutte le forze a un salto nel vuoto. Con un paracadute o una cintura antigravità non avrebbe esitato un attimo. Stretto tra le mani di quei due avversari si sentiva invece terrorizzato.

Nel momento in cui si staccarono dall’elicottero, Thorstern chiuse gli occhi e trattenne il respiro. Sentì un vuoto alla bocca dello stomaco e l’aria cominciò a fischiargli attorno alle orecchie.

Ebbe la momentanea visione di un tetto che saliva vertiginosamente per fracassargli le gambe e il corpo. Poi un energico strattone rallentò la sua caduta. Tenne gli occhi chiusi finché non sentì il terreno sotto i piedi. Erano scesi in mezzo a una strada.

In alto, nel cielo, il pilota aveva afferrato il microfono. — Due tipi lo hanno preso e lo hanno costretto a saltare con loro da oltre seicento metri. Ero convinto che fossero levitanti, invece li ho visti cadere come sassi. Come? No, non ha opposto resistenza né mi ha dato ordini. Per quanto posso dire, io penso che siano caduti nel Settore Nove, nei paraggi di Reece Avenue. — Ci fu una breve pausa. — No, se lo conosco bene. È stato molto strano. Non voleva saltare dall’elicottero, ma l’ha fatto.

— Il vostro pilota sta chiedendo aiuto alla polizia — disse Raven.

— Non credo che possa servire — rispose Thorstern, guardandosi disperatamente attorno nella nebbia per scoprire dove si trovavano. — Ma non ha importanza.

— State diventando fatalista?

— Accetto temporaneamente le situazioni che non posso cambiare. Al gioco non si può vincere sempre. — Prese un fazzoletto e si asciugò il sudore. — È sempre l’ultima mossa quella che conta.

L’affermazione venne detta senza tono di vanto. Era la voce dell’esperienza, la considerazione di un uomo abituato a vedere i propri piani ostacolati e costretto spesso a rimandarli di una settimana, di un mese, di un anno. Sapeva armarsi d’infinita pazienza, quando se ne presentava la necessità. Ma era l’uomo che non perdeva mai di vista la meta, pronto a riprendere la marcia non appena fosse stato possibile.

Ammetteva di essere stato battuto quella notte, ma ammoniva gli avversari che ci sarebbe sempre stato un domani, un altro giorno. Era un modo di sfidarli, di mostrare i denti. In quel momento non poteva fare altro.

13

Mavis andò ad aprire la porta prima che qualcuno di loro avesse bussato o suonato il campanello. Non dimostrò né gioia né sorpresa nel rivedere Raven e Charles, e mantenne l’indifferenza tipica di chi sa benissimo quello che è successo.

— Ti pentirai per quello che hai fatto — disse rivolgendosi a Charles col tono della madre che rimprovera il bambino. — Me lo sento. — Poi Mavis tornò nella sua cucina.

— Ecco che abbiamo un nuovo tipo di mutante — borbottò Charles senza scomporsi. Si lasciò cadere pesantemente su una poltrona. — Abbiamo il chiaroveggente.

Thqrstern indicò la cucina in segno di approvazione verso la donna.

— È un piacere sentire finalmente qualcuno che parla con un po’ di buonsenso.

— Ciascuno parla assennatamente secondo il suo particolare punto di vista. Ogni uomo è l’oracolo di se stesso — disse Raven spingendo una poltrona verso Thorstern. — Accomodatevi. È inutile restare impalati per il solo fatto che si è in cattiva compagnia.

Thorstern si mise a sedere e cercò disperatamente di scacciare una serie di pensieri che cercavano di formarsi nella sua mente. Sapeva che le due persone sedute di fronte gli potevano leggere nel cervello e, per quanto poteva immaginare, lo stavano sondando anche in quel momento.

Non poteva però stabilire se lo scrutavano di continuo. Un telepatico si accorge quando una mente estranea penetra nella sua, ma al nontelepatico non è possibile. Thorstern si rendeva perfettamente conto di essere in posizione di enorme svantaggio. In altri casi, nel suo castello, sarebbe corso ai ripari facendo allontanare i telepatici. Ora cercò di scacciare i pensieri, come avrebbe fatto con una nuvola di mosche moleste, ma, come le mosche, i pensieri continuarono a ronzargli attorno.

“Questi mutanti con pluripoteri possono proteggere le loro menti. Forse anche la donna può farlo. Ma io non posso nascondere i miei pensieri, e dubito che loro possano schermare i flussi mentali degli altri. Le pattuglie della polizia staranno già setacciando le strade, e forse qualcuna si trova già qui vicino. Le avranno rinforzate con tutti i telepatici che sono stati in grado di trovare a quest’ora di notte. Così, a meno che la stanza non sia protetta da schermi, c’è la possibilità che qualcuno rintracci le mie onde mentali e che scopra da dove provengono. Le pattuglie convergerebbero subito in questa zona e…”

Riuscì a scacciare il pensiero, ma dopo qualche secondo fu costretto a concluderlo.

“Vorrei sapere se le onde dei pensieri hanno la stessa tonalità individuale della voce. Forse sono tutti identici. In questo caso devo lanciare il pensiero adatto nel momento esatto. Se questi lo raccolgono, può succedere un finimondo. Comunque, devo tentare.”

Fissò lo sguardo su Raven, accigliato.

— Mi avete fatto saltare nel vuoto. Mi sono messo a sedere quando me lo avete detto. Mi sono sottomesso a tutti i vostri ordini. Che cosa facciamo adesso?

— Parliamo.

— Sono le due di notte. Si potrebbe parlare domani mattina, a un’ora ragionevole. — Thorstern arricciò le labbra. — Era proprio necessario fare tutte queste scene melodrammatiche?

— Sfortunatamente, sì. È molto difficile giungere fino a voi. Inoltre mi state facendo dare la caccia come se fossi il cane che ha rubato l’arrosto della domenica.

— Io? — disse Thorstern, spalancando gli occhi stupito.

— Voi e l’organizzazione che comandate.

— State parlando della mia ditta commerciale? Ma è un controsenso! Abbiamo altro da fare che molestare la gente. Mi sembra che soffriate di mania di persecuzione.

— Sentite, di questo abbiamo già parlato. E la cosa comincia a perdere d’interesse. Non avete ascoltato la registrazione del nostro colloquio con Greatorex?

Thorstern avrebbe voluto negare l’esistenza dei malleabili che recitavano la sua parte, ma era troppo abile per negare qualcosa che la sua mente ammetteva. Non poteva sperare di convincerli con le parole. Poteva soltanto cercare di rispondere in modo evasivo, per guadagnare tempo.

— Non so cosa abbiate detto a Greatorex — disse. — So soltanto che è morto e che voi c’entrate in qualcosa. Non mi piace. E un giorno non piacerà neanche a voi due!

Charles scoppiò a ridere. — Ecco una perfetta immagine di due persone con la corda al collo. La vostra mente pensa a colori. Mi piace il modo in cui avete fatto uscire le lingue dalla bocca, gonfie e nere. Però, certi particolari sono imprecisi. I nodi non sono fatti nel modo giusto… e io non ho due piedi sinistri.

— Devo sopportare anche la critica, oltre al fatto che mi state leggendo nel pensiero? — chiese Thorstern, rivolgendosi a Raven.

— Non ho potuto farne a meno. I pensieri sadici richiedono una risposta adatta — disse Raven. Poi cominciò a passeggiare avanti e indietro. — Convinti che Greatorex foste voi, noi gli abbiamo chiesto di non pestare i piedi alla Terra. Ha negato e noi lo abbiamo ammonito che il pestare i piedi a qualcuno è una pratica che può giustamente far risentire la vittima. Lui ha continuato a negare. In modo superbo, anche se frenato da certe limitazioni.

— Quali? — chiese Thorstern.

— Il fatto di non essere voi e di non poter prendere decisioni senza il vostro consenso. Conoscendovi, non ha osato. Si è limitato soltanto a recitare la parte imparata a memoria. Si è trovato a non poter disporre di quella iniziativa che gli avrebbe salvato la vita. — Raven fece un gesto sconsolato. — Ed è morto.

— Vi pentite di questo?

— Pentirci? — Raven lo guardò con occhi scintillanti di punti di argento. — No di certo. Non ce ne importa niente!

Un brivido percorse la schiena di Thorstern. Anche lui, quando si trattava di raggiungere un suo fine, sapeva essere freddo all’estremo, ma non lo dimostrava mai con tanto cinismo e spietatezza. Quando c’era di mezzo un cadavere, lui se ne lavava le mani esprimendo ufficialmente la sua deplorazione. Se Greatorex, molto meno colpevole di lui, era stato eliminato in quel modo…

— Sembra che ci siano altri che si divertono in modo sadico — osservò caustico.

— Non avete capito. Noi non siamo felici di aver ucciso Greatorex, né ci mettiamo a piangere. La cosa ci lascia del tutto indifferenti.

— Praticamente è la stessa cosa. — Quello era il momento opportuno per lanciare il suo messaggio telepatico alle pattuglie. — Non so come abbiate fatto, ma voi avete commesso un omicidio!

Mavis entrò con un vassoio e versò da bere in tre tazze. Poi depose sul tavolo un piatto di dolci e tornò in cucina, senza dire una parola.

— Volete parlare di omicidio? — chiese Raven. — Un argomento che siete qualificato a discutere.

Thorstern pensò che era una battuta stupida e immeritata. Si poteva dire qualsiasi cosa sul suo conto, ma non che fosse un mostro sanguinario. Era vero che stava conducendo una guerra non dichiarata contro la Terra, ma nella realtà si trattava di un movimento di liberazione. Ed era anche vero che aveva causato delle vittime, nonostante le raccomandazioni di colpire senza provocare perdite di vite umane e di badare soltanto al danno economico.

Quei pochi morti erano stati inevitabili. Aveva approvato soltanto quelli assolutamente necessari per poter compiere la missione. Non uno di più. Fino a quel momento era il conquistatore più umano della storia, quello che avrebbe conquistato la vittoria più spettacolare con perdite minime.

— Volete spiegarmi la vostra insinuazione? Se mi accusate di massacri, io vi prego di citarmene uno.

— Nel passato ci sono stati soltanto casi individuali. Le grandi atrocità avverranno in futuro, se le riterrete necessarie… e se vivrete abbastanza a lungo.

— Oh! Ecco un altro chiaroveggente — disse Charles. Tuttavia capiva che quella previsione poteva essere esatta.

Raven continuò a parlare con Thorstern.

— Soltanto voi sapete il prezzo di vite che siete disposto a pagare per la conquista del vostro mondo. Comunque, è perfettamente visibile quello che sta scritto a lettere di fuoco nella vostra mente: nessun prezzo è troppo alto.

Thorstern non seppe cosa rispondere. Non c’era una risposta. Lui voleva il dominio senza spargere molto sangue e senza grandi difficoltà. Ma se la resistenza si fosse fatta violenta e il prezzo di vite e di rovine fosse enormemente salito lui lo avrebbe pagato ugualmente, pur con profondo rammarico.

In quel momento, però, si trovava nelle mani di due avversari. Avrebbero potuto troncare le sue ambizioni, uccidendolo come avevano ucciso Greatorex. Nessun dubbio che ne avessero la possibilità. Restava tuttavia da vedere se ne avevano l’intenzione.

Lentamente, sperando che nessuno se ne accorgesse, girò lo sguardo verso la porta. Ma non riuscì a nascondere i pensieri che gli vennero nello stesso momento, e cioè che se una pattuglia della polizia avesse captato i discorsi sull’omicidio, forse non avrebbe osato fare irruzione nella casa e probabilmente sarebbe andata a chiedere rinforzi. Forse, entro pochi minuti, lui sarebbe stato nuovamente libero.

Raven continuò a parlare, anche se l’altro lo ascoltava appena.

— Se il movimento nazionalista venusiano volesse soltanto conquistare l’indipendenza, noi potremmo simpatizzare, nonostante i metodi violenti che vengono usati. Ma non è quello che dice di essere. Il vostro cervello rivela che si tratta di un vostro strumento personale per la conquista del potere. È destinato soltanto alla conquista di quella supremazia che voi desiderate. Povero piccolo verme strisciante!

— Cosa? — Di colpo Thorstern prestò nuovamente tutta la sua attenzione.

— Ho detto, povero piccolo verme strisciante, che si nasconde alla luce, che brancola nel buio e che è pateticamente atterrito da mille piccole cose, anche dall’anonimato.

— Io non ho paura…

— Voi mirate al dominio su una colonia di piccoli vermi, a un dominio che può durare soltanto un battito di cuore nello scorrere infinito del tempo. Dopo di che, sparirete per sempre. Polvere alla polvere. Un nome insignificante stampato su un libro inutile, mormorato da storici miopi e maledetto dagli studenti. In un lontano futuro per punire qualche bambino cattivo forse gli faranno scrivere un noiosissimo saggio su di voi. L’ascesa e la caduta dell’Imperatore Emmanuel. - Raven sbuffò sprezzante. — Immagino che la consideriate immortalità.

Era troppo, perché colpiva Thorstern nel suo punto debole. Gioiva degli insulti perché erano un riconoscimento alla sua forza e abilità. Apprezzava le inimicizie perché il sapere di essere temuto esaltava il suo Io. Considerava le gelosie come una forma contorta di venerazione. L’odio gli serviva per elevarsi. L’unica cosa che non poteva sopportare era l’essere considerato un individuo senza importanza, un buono a niente, un accattone di cicche. Non tollerava che qualcuno lo giudicasse una nullità.

Livido in volto, si alzò. Nervosamente infilò una mano nella tasca e prese tre fotografie che lanciò sul tavolo.

— Voi avete delle buone carte in mano, e vi possono esaltare. Ma io le conosco. Ora, date un’occhiata alle mie. Non sono tutte, naturalmente. Le altre non le vedrete mai.

Raven raccolse quella che stava sopra le altre e l’osservò senza scomporsi. Era una sua foto alquanto vecchia e leggermente sfuocata. Tuttavia, poteva servire abbastanza bene per una identificazione.

— Viene proiettata dagli spettroschermi ogni ora — disse Thorstern, con malvagio compiacimento. — Copie di questa foto vengono a mano a mano distribuite a tutte le pattuglie. Entro mezzogiorno di domani, tutti conosceranno la vostra faccia… e la taglia spingerà tutti a darvi la caccia. — Fissò Raven con un’occhiata di trionfo. — Più duro sarete con me, più inflessibili saranno gli altri nei vostri riguardi. Siete riuscito a sbarcare su questo pianeta nonostante i preparativi fatti per arrestarvi all’arrivo. Provate ora ad andarvene. — Si girò verso Charles. — Questo riguarda anche voi, grassone.

— Non è vero. Io non ho nessuna intenzione di partire. — Charles si accomodò meglio sulla poltrona. — Mi trovo bene qui. Venere mi piace… come potrebbe piacermi una qualsiasi altra palla di polvere. A ogni modo il mio lavoro si svolge qui. Come farei senza lavoro?

— Quale lavoro?

— Questo — disse Charles — non riuscireste a capirlo.

— Porta a passeggio i cani, ma si vergogna a dirlo — spiegò Raven. Mise la sua foto sul tavolo e prese la seconda. Improvvisamente si irrigidì.

— Cosa gli avete fatto? — chiese girando la foto verso Thorstern.

— Io? Niente.

— Avete fatto fare lo sporco lavoro per procura.

— Io non ho dato istruzioni precise — disse Thorstern, colto alla sprovvista per la reazione di Raven. — Io ho detto soltanto di prendere Steen e di fargli dire cos’era successo. — Portò nuovamente lo sguardo alla fotografia e assunse l’espressione di uno che deplori quello che sta osservando. — E così loro hanno fatto.

— Devono essersi divertiti parecchio a giudicare da come l’hanno conciato. — Raven era seccato e lo dimostrava apertamente. — Steen è morto senza colpa. Comunque, non rimpiango la sua fine come non deve averla rimpianta lui.

— Davvero? — disse Thorstern, sorpreso per il commento tanto in contrasto con la reazione di Raven.

— La sua fine non ha la minima importanza. Prima o poi sarebbe venuta anche fosse vissuto cent’anni. — Raven lasciò cadere la fotografia sul tavolo. — Deploro soltanto che la sua fine sia stata lenta. Deve aver impiegato parecchio a morire e questo è un male. Una cosa imperdonabile. — Improvvisamente i suoi occhi divennero scintillanti. — Tutto questo sarà ricordato, quando verrà il vostro turno.

Di nuovo Thorstern sentì un brivido freddo percorrergli la schiena e si sforzò di dominare la paura: la paura era una cosa che non poteva ammettere. Aveva giocato le sue carte, nella speranza che potessero servire come ammonimento, ma doveva ammettere che forse aveva sbagliato.

— Sono andati oltre i miei ordini. E ho rimproverato i miei uomini severamente — disse.

— Li ha rimproverati — disse Raven rivolgendosi a Charles. — Che carino!

— Si sono giustificati dicendo che Steen era cocciuto e che li ha costretti ad andare oltre le loro intenzioni. — Thorstern decise che era il caso di restare su quell’argomento. Nessuna pattuglia aveva risposto ai loro discorsi sul delitto. Forse qualcuna avrebbe captato il loro colloquio su Steen. Qualsiasi forma di temporeggiamento avrebbe potuto portare a buoni risultati. — Hanno usato un telepatico per leggere nella sua mente. È rimasto a una certa distanza per evitare che Steen lo sistemasse. Ma è stato inutile. Riuscivano a leggere soltanto quello che Steen stava pensando, e pensava sempre ad altre cose. Così hanno cercato di convincere Steen con altri mezzi a rivelare cosa lo avesse costretto a giocarci quello scherzo. — Allargò le braccia in un gesto sconsolato. — Quando ha cominciato a collaborare era ormai troppo tardi.

— Sarebbe a dire?

— La sua mente aveva smesso di ragionare, come quella di Haller. Ha cominciato a balbettare cose folli, poi è morto.

— Quali sarebbero state, queste cose folli?

— Diceva che voi eravate un tipo assolutamente nuovo e insospettato di mutante. Che avete un Io separabile. Che gli avete preso il corpo contro la sua volontà.

— Oh, Dio! — intervenne Charles spalancando gli occhi in espressione di finto stupore. — Ora avremmo anche i biomeccanici, i chiaroveggenti, i padroni di personalità e via dicendo. Continuando in questo modo, avremo un elenco senza fine.

— Erano parole senza senso — continuò Thorstern. — Ho consultato le maggiori autorità nel campo delle facoltà paranormali: hanno detto che era ridicolo… ma che sapevano perché Steen l’aveva detto.

— Quale sarebbe la diagnosi?

— Che è stato trattato da uno del suo stesso tipo, ma molto più potente di lui. Non ci sono mai stati casi di un simile dominio ipnotico assoluto, ma è teoricamente possibile.

Thorstern girò lo sguardo, e solo allora si accorse della tazza di caffè che era sul tavolo. La prese e bevve alcuni sorsi. — Per un certo periodo avete convinto Steen di essere voi. E lo avete costretto a sistemare Haller, dopo di che l’effetto è passato. Ora, per quanto essere comune, posso fare anch’io qualche lettura di pensiero. Voi pensate che se non agisco come volete, io subirò la sorte di Steen.

— Davvero?

— O questo, o mi eliminerete come avete fatto con Greatorex. Sarà comunque tutto inutile. Potete ipnotizzarmi come Steen, ma le ipnosi cessano nel giro di ventiquattr’ore. Qualsiasi cosa abbia fatto in questo periodo, la posso benissimo disfare.

— Vero — ammise Raven serio.

— Se mi uccidete, vi resta in mano un cadavere. E i cadaveri non possono far cessare una guerra. Voi mi avete detto almeno sei volte che i morti se ne infischiano. Pensate dunque in base alla vostra filosofia che m’importerà a quel punto dei guai della Terra! Me ne importerà ancor meno che a Greatorex! — Di colpo gli venne in mente qualcosa. — Come avete fatto a uccidere Greatorex? Anche un super-super-super-ipnotico non può convincere un uomo a morire. Cosa gli avete fatto?

— La stessa cosa che faremo a voi quando ci saremo convinti di non avere alternative. — Raven lo guardò fisso negli occhi. — Ficcatevi in quella testa cocciuta che non abbiamo scrupoli, quando si tratta di eliminare un ostacolo. Differiamo da voi soltanto per la rapidità indolore dell’azione. Noi non facciamo soffrire le nostre vittime. Il vero crimine è prolungare deliberatamente l’agonia! — Rimase un attimo in silenzio. — Greatorex è morto senza accorgersi di morire. A Steen, questo privilegio fondamentale è stato negato.

— Vi ho detto…

Raven gli fece cenno di tacere. — Non riuscirete mai a estendere il vostro dominio personale sul pianeta Venere. E in futuro non vi unirete a Marte per sottomettere la Terra. Se l’umanità verrà a trovarsi in posizione disperata, sarà l’umanità a combattere, non solo i Terrestri. Tutti noi dovremo combattere! Perciò, voi cesserete le ostilità contro la Terra e convincerete i Marziani a seguire il vostro esempio. In caso contrario, vi faremo sparire per sempre dalla scena, dopo di che riserveremo lo stesso trattamento ai vostri successori, chiunque siano. Li annienteremo uno a uno, fino a quando l’intero movimento dovrà crollare per mancanza di capi. — Indicò il piccolo cronometro incastonato nell’anello che Thorstern portava al dito medio.

— Avete cinque minuti per prendere la vostra decisione.

— Ho molto di più. Molto. Ho tutto il tempo che voglio. — Thorstern spinse in avanti la terza fotografia. — Guardate questa.

Raven si piegò in avanti e osservò la fotografia senza raccoglierla. Rimase impassibile a guardarla.

— Chi è — chiese Charles, troppo pigro per sollevarsi.

— Leina — disse Raven.

Thorstern rise soddisfatto: gioiva per essere riuscito a eliminare fino a quel momento il pensiero di Leina dalla propria mente. Ancora una volta, un essere normale come lui aveva vinto un mutante.

Niente lo rendeva più felice del fatto di precedere un paranormale. Era una sua debolezza caratteristica, che sarebbe stata fonte di grande interesse per un ecologo che studiasse gli effetti di un ambiente contenente forme di vita superiori.

— La vostra donna — disse con disprezzo. — Conosciamo le sue abitudini, i suoi movimenti, le sue facoltà. Sappiamo, per esempio, che è una ipnotica di tipo superiore, come voi. Lo ha detto Steen. E non mentiva, in quel momento. Forse è per questo che vi siete legato a quell’enorme sgualdrina. A meno che non abbiate un debole per gli elefanti e…

— Lasciate perdere le proporzioni fisiche. Leina non è stata fatta per voi. Venite al punto.

— È questo — disse Thorstern senza cessare di mostrarsi soddisfatto. — Nell’esatto momento in cui dovessi morire, o diventare pazzo, o non fossi più io… — batté con un dito sulla fotografia — …lei paga.

— Questo è uno scherzo — disse Raven. — Ridicolo!

— Spero che possiate pensarla allo stesso modo quando la troverete morta.

— Non mi metterò certo a piangere — assicurò Raven con tranquillità. E non mentiva. Quella era la pura verità.

Thorstern fu scosso da quell’atteggiamento. Guardò incerto Charles, sperando di trovare solidarietà nel disgusto che aveva provato al cinismo di quelle parole, ma Charles stava guardando distrattamente il soffitto. Girò la testa verso Raven, incredulo.

— Potrebbe morire lentamente — disse Thorstern.

— Credete?

— Ne sono certo. A meno che non sia debole di cuore, possiamo farla morire molto più lentamente di Steen. Che ne dite?

— È disgustoso.

— Come?

— La mente eccelsa, il grande conquistatore, si nasconde dietro le sottane di una donna.

Thorstern fu nuovamente preso dalla collera, ma riuscì a controllarsi. — Sentite chi parla… la persona disposta a far scontare i suoi peccati alla donna.

— A lei non importa — disse Raven sorridendo, e spiazzandolo con quella rivelazione del tutto inaspettata.

— Voi siete pazzo! — esclamò Thorstern, che cominciava a crederlo seriamente.

— A Greatorex non importa minimamente. E neppure ad Haller. Steen è del tutto incurante. Perché mai dovrebbe preoccuparsi Leina?

— Siete un maniaco omicida! — disse Thorstern scattando in piedi. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche delle dita e riprese a parlare con voce vibrante di tensione mista a esultanza.

— Comunque, è ormai troppo tardi. Avete voluto parlare tutta la notte. E hanno captato i nostri pensieri. — Fece un gesto teatrale verso la porta. — Sentite questi passi? Sono di venti persone. Di cinquanta. Di cento. Sono i passi di tutti gli uomini della città!

— Peccato — disse Raven guardandolo impassibile.

— Provate a toccarmi e vedrete cosa otterrete! — invitò Thorstern. — Fra qualche secondo irromperanno nella casa e sarete trattato come vi meritate. — Girò lentamente la testa senza perdere di vista la porta. — A meno che io non sia in pieno possesso di tutte le mie facoltà e non dia l’ordine preciso di risparmiarvi.

— Pare che ci siamo cacciati in un brutto guaio — disse Charles, spostando lo sguardo dal soffitto alla porta, leggermente contrariato.

Thorstern si era irrigidito in mezzo alla stanza e lanciava pensieri con tutta la sua forza, senza preoccuparsi del fatto che i due li potevano captare. “ Non possono avere il coraggio di uccidermi in questo momento. Il pericolo sarebbe troppo grande. Rimanderanno i loro piani a un momento che non verrà mai. Verranno giudicati secondo le leggi terrestri. Rapidamente, prima che Heraty possa intervenire. O potrei simulare un incidente. Sarebbe più rapido e più sicuro. Sì, in un modo o nell’altro…” La sua attenzione, come quella di Charles, era rivolta verso la porta. Poco prima aveva sentito, o gli era parso di sentire, lo strisciare cauto di molti piedi. “ Devono aver sentito la presenza di questi due tipi formidabili, e procedono lentamente. Sono molto pericolosi. Quando irromperanno dovrò farmi riconoscere all’istante, prima che qualcuno tocchi con troppa precipitazione il grilletto.”

Con la coda dell’occhio guardò i due seduti sulle poltrone. Non si erano mossi e sembravano rassegnati a quella situazione senza via d’uscita. Comandata da una energia mentale lontana, la maniglia cominciò a girare, da sola.

14

La porta si socchiuse lentamente, centimetro per centimetro, come spinta da un leggero soffio di vento o da una mano invisibile e cauta che si trovava all’esterno. Un filo giallo di nebbia entrò dallo spiraglio e diffuse nella stanza il profumo della foresta.

Alle orecchie dei tre uomini giunse il rumore lontano delle pompe in funzione allo spazioporto, e le note di una musica che proveniva da uno dei locali in cui i notturni cercavano di divertirsi secondo le loro abitudini. All’interno della stanza, invece, regnava il silenzio assoluto. Non si udiva nemmeno il respiro dei tre uomini. Questo e il lento socchiudersi della porta crearono una tensione che Thorstern non riusciva a sopportare.

Tenne lo sguardo fissò sullo spiraglio e le orecchie tese per raccogliere il minimo rumore proveniente dall’esterno. Chi c’era in agguato là fuori? Stringevano già le armi in mano? Se avesse fatto un balzo verso la porta, sarebbe stato bersaglio di una raffica micidiale?

O disponevano di telepatici che tenevano gli agenti armati al corrente delle sue intenzioni? Certo, in quel momento, non potevano ancora aver dato ordine di trattenere il fuoco, perché lui esitava, non aveva ancora preso la decisione. Un telepatico poteva leggere i suoi pensieri, ma non poteva certo prevedere il momento esatto in cui li avrebbe messi in atto. No, non c’era scampo in quel senso.

La porta smise di muoversi e rimase aperta in maniera invitante. Il salto verso il buio della strada lo tentò.

Ma che diavolo stavano aspettando? Avevano paura di poterlo colpire durante l’irruzione nella stanza? Avevano forse un piano che richiedeva un’azione simultanea da parte sua? In nome del cielo, perché stavano aspettando?

Altra nebbia entrò nella stanza. Thorstern se ne accorse solo in quel momento e subito gli balenò quella che poteva essere la possibile soluzione. Il gas! Certo, quella doveva essere l’idea. Mescolare il gas con la nebbia. Quelli del castello, quelli che conoscevano la stanza Numero Dieci, dovevano aver suggerito l’idea. Lui non doveva fare altro che restarsene tranquillo e cadere a terra addormentato con quelli che lo tenevano prigioniero.

Era probabile che Raven e il grassone sapessero quello che stava succedendo. La nebbia era ormai perfettamente visibile, e lui aveva pensato al gas con molta chiarezza… A meno che non fossero troppo occupati a scrutare nelle menti di chi stava in agguato all’esterno. Un telepatico poteva leggere in più di un cervello alla volta? Thorstern non lo sapeva, mancava di dati al riguardo. Comunque, anche nelle menti degli altri doveva esserci un solo pensiero. Il gas! Cosa potevano fare per difendersi? Niente! Anche i mutanti, come tutti gli esseri normali, non potevano fare a meno di respirare.

Annusò l’aria per scoprire l’invisibile arrivo dell’arma che lo avrebbe liberato, anche se sapeva che doveva essere inodore. Ma c’erano altri segni capaci di indicare la presenza del gas: il rallentamento delle pulsazioni, una respirazione leggermente più affannosa, una improvvisa confusione della mente.

Si controllò per scoprire uno dei sintomi, e rimase in attesa per una manciata di secondi interminabili. Poi crollò. La tensione era diventata insopportabile e lui non poteva più aspettare.

Si mise a gridare con voce agonizzante. — Non sparate! Non sparate! — Si lanciò con un balzo verso la porta. — Sono io! Sono Thor…

La voce gli morì nella gola.

Rimase con gli occhi fissi verso il buio della notte. E passarono diversi secondi prima che la sua mente comprendesse la verità.

“Non c’è nessuno! Nessuno! Mi hanno ingannato. Mi hanno fatto sentire i rumori e immaginare le cose. Mi hanno trattato come una cavia da laboratorio. Hanno fatto girare la maniglia e hanno aperto la porta da lontano. Ipnotici e telecinetici nello stesso tempo. Possiedono talenti multipli nonostante quello che affermano gli scienziati!” Improvvisamente non riuscì più a controllare il nervosismo. “ Corri, idiota! Mettiti in salvo!”

Poi accadde l’inatteso, l’avvenimento che sconvolge i piani meglio studiati: fu il tremendo sforzo nervoso di Thorstern a provocarlo.

Fermo sulla soglia, di fronte a una strada deserta, con la certezza che le pattuglie armate dovevano trovarsi nelle vicinanze, Thorstern sollevò un piede per fare il primo passo verso la libertà. Ma si fermò.

Rimase immobile, e sulla faccia gli comparve un’espressione di sgomento. Appoggiò il piede a terra e si lasciò cadere in ginocchio, come di fronte a una divinità invisibile. Un turbine di pensieri agitati trovò espressione in una serie di frasi e di parole prive di legame.

— No… oh, non fatelo!… Non posso. Io vi dico… Lasciatemi… Steen… Non è stata colpa mia… Oh, lasciatemi…

Cadde in avanti, scosso da un tremito violento. Raven gli si chinò accanto e Charles si alzò di scatto dalla poltrona, sinceramente sorpreso. Mavis comparve sulla soglia della cucina e fissò la scena con sguardo di condanna ma non disse niente.

Raven afferrò la mano destra dell’uomo disteso a terra, e immediatamente le contorsioni cessarono; sempre stringendo, cominciò a scuotere il braccio come se avesse toccato un filo percorso da alta tensione. Sembrava che stesse combattendo contro una entità invisibile. Thorstern aprì le labbra e boccheggiò come un pesce fuor d’acqua.

— No, no, andate via… lasciatemi… io…

Charles andò all’altro lato dell’uomo disteso e aiutò Raven a trasportarlo su una poltrona. Mavis chiuse la porta, poi rientrò in cucina, accigliata.

Dopo qualche istante, Thorstern riprese a respirare regolarmente e aprì gli occhi. Sentiva strani fremiti in tutti il corpo, e aveva la spiacevole sensazione che il suo sangue fosse diventato effervescente. Gli arti avevano perso la loro forza, e i muscoli sembravano essersi trasformati in acqua. Per quanto gli seccasse ammetterlo anche con se stesso, non si era mai sentito così scosso in vita sua. La faccia era diventata cerea. Ma c’era un fatto molto più curioso: la sua mente aveva perso ogni ricordo di quanto aveva detto in quei terribili momenti, di quanto era accaduto.

Fissò Raven. — Mi avete bloccato il cuore — disse con voce tremante.

— Non è vero.

— Mi avete quasi ucciso.

— Non sono stato io.

— Allora è colpa vostra — disse girando lo sguardo adirato verso Charles.

— No. Per la verità, noi vi abbiamo salvato… se la potete chiamare salvezza — disse Charles sorridendo. — Se non fosse stato per noi, ora sareste uno dei tanti poveri defunti.

— Pretendete che vi creda? Deve essere stato uno di voi.

— E come? — chiese Raven osservandolo esternamente e internamente.

— Uno di voi è telecinetico. Ha girato la maniglia e ha spalancato la porta senza muovere un dito. E nello stesso modo mi ha stretto il cuore. Ecco cos’avete fatto a Greatorex.

— Un telecinetico muove gli oggetti per influenza esterna — osservò Raven. — Non può penetrare all’interno di un corpo umano per sconvolgerne gli organi.

— Per poco non morivo — insistette Thorstern, ancora sconvolto dal pericolo corso. — Ho sentito il mio cuore che veniva compresso… il mio corpo cadere. Come se qualcuno stesse cercando di strapparmi dal mio stesso corpo. Deve essere stato qualcuno a farlo!

— Non necessariamente. Ogni giorno muoiono milioni di persone.

— Io non posso morire in questo modo — piagnucolò Thorstern.

— Perché?

— Ho cinquantotto anni, e non soffro di nessuna malattia. — Si passò una mano sul petto per sentire i battiti del cuore. — Sono sano come un pesce.

— Così pare — osservò Raven.

— Se sono destinato a morire di morte naturale, per un attacco cardiaco, è una strana coincidenza che mi sia venuto proprio in quel momento.

Thorstern ritenne di aver conquistato un buon punto a favore scaricando su di loro la responsabilità di quanto gli era successo. Anche se non poteva essergli di utilità, lui aveva provato una gran gioia nel dare la colpa a loro. Comunque non riusciva a capire… Perché mai negare di averlo fermato sulla porta, quando potevano vantarsene per intimidirlo maggiormente?

Ma a poco a poco, in un angolo oscuro del suo intimo, cominciò a formarsi lo spaventoso sospetto che avessero detto la verità: forse aveva veramente i giorni contati, dal destino. Nessun uomo è immortale. Forse gli restava poco tempo di vita, e il tempo passa veloce.

— Se siete destinato a morire per un attacco cardiaco — disse Raven — è logico che questi attacchi vi vengano nei momenti di maggiore tensione nervosa. Ecco spiegata la coincidenza. Comunque, non siete fuggito e non siete morto. Forse vi capiterà di morire la settimana prossima. O domani. O prima dell’alba. Nessuno conosce il giorno e l’ora della propria morte. — Indicò il piccolo cronometro di Thorstern. — Intanto i cinque minuti sono diventati quindici.

— Mi arrendo. — Thorstern prese un grosso fazzoletto e se lo passò sulla fronte. Respirava ancora a fatica e aveva la faccia bianca come un lenzuolo. — Mi arrendo.

Era vero. Nella mente gli si poteva leggere la decisione che aveva ormai preso per una mezza dozzina di ragioni, alcune contrastanti, ma tutte soddisfacenti.

“Non si può correre per sempre al massimo. Per vivere più a lungo, mi devo fermare. Devo badare a me stesso. Perché costruire qualcosa che poi godranno gli altri? Wollencott è di dodici anni più giovane di me. Diventerà lui il grande capo, quando io sarò nella fossa. Perché sudare per lui? È un mediocre. Un malleabile che ho tolto dalla strada e che ho trasformato in uomo. Un semplice mutante bersaglio. Floreat Venusia… sotto un mutante puzzolente! Anche la Terra riesce a fare di meglio. Heraty e quasi tutti quelli del Consiglio sono esseri normali… Gilchist me lo ha assicurato.”

Raven prese mentalmente nota del nome: Gilchist, uno del Consiglio Mondiale. Il traditore nelle loro file, e senza dubbio l’uomo che aveva fatto il suo nome al movimento clandestino che agiva sulla Terra. L’uomo che né Kayder né gli altri conoscevano perché non volevano conoscerlo.

“Se non sarà un mutante, sarà un altro” continuò a pensare la mente di Thorstern. “ Uno di loro saprà aspettare fino al momento di raccogliere senza difficoltà il mio impero. Ero al sicuro finché l’attenzione era concentrata su Wollencott, ora invece mi hanno scoperto. I mutanti sono una potenza. Un giorno o l’altro si organizzeranno per mettersi contro i comuni esseri umani. E io non voglio trovarmi nella mischia allora.”

Alzò gli occhi, e vide che gli altri lo stavano osservando attenti.

— Vi ho già detto che mi arrendo. Cos’altro volete?

— Niente — disse Raven. Poi indicò il telefono alla parete. — Volete che vi chiami un aerotaxi?

— No. Preferiscono andare a piedi. Tra l’altro, non mi fido di voi.

Si alzò lentamente e si portò ancora una volta la mano sul petto. Non era convinto… avevano accettato la sua resa con troppa disinvoltura, e adesso lo lasciavano andare come se niente fosse. Aveva la sensazione, quasi la certezza, che gli avrebbero teso una trappola chissà dove. Sarebbe scattata in fondo alla strada, lontano dalla loro casa? Gli sarebbe venuto un secondo collasso cardiaco?

— Ci fidiamo di voi perché possiamo leggervi nella mente — disse Raven. — È un peccato che non possiate sapere, senza ombra di dubbio, che stiamo dicendo la verità. Non vi toccheremo… sempre che manteniate la vostra promessa.

Thorstern raggiunse la porta e si voltò a guardarli un’ultima volta, sempre pallido; sembrava leggermente invecchiato, ma aveva ritrovato una certa dignità.

— Ho promesso di far cessare gli atti ostili contro la Terra — disse, — e manterrò la promessa alla lettera. Questo, è nient’altro!

Uscì nella notte e chiuse accuratamente la porta: era un tocco di assurdità alla sua uscita dalla scena. Sarebbe stato più logico lasciare la porta aperta, o chiuderla con tanta violenza da far tremare la casa. Ma cinquant’anni prima una donna acida gli aveva ingiunto mille volte di non sbattere le porte, e quelle parole, inconsciamente, risuonavano ancora nelle sue orecchie.

Avanzò il più rapidamente possibile, rasentando i muri delle case. La visibilità scarsissima gli dava la sensazione di essere cieco.

Si fermò due o tre volte ad ascoltare nella nebbia, poi riprese il cammino. A quell’ora di notte, oltre i soliti notturni perennemente irrequieti avrebbe dovuto incontrare le pattuglie di polizia. Dopo aver percorso una distanza che non poteva calcolare, sentì dei rumori alla sua sinistra.

Si portò le mani alla bocca. — C’è qualcuno? — gridò.

Sentì dei passi che si avvicinavano, poi una pattuglia di sei uomini armati uscì dal giallo della nebbia.

— Che succede?

— Vi posso dire dove si trova David Raven.

Nella stanza, Charles smise di ascoltare attentamente. — Ha cercato di ricordare, ma è stato inutile. Ha la mente confusa, e non sa da che parte mandarli. Fra poco capirà che gli conviene tornarsene a casa. — Si sprofondò nella poltrona e si accarezzò la pancia. — Quando l’ho visto cadere davanti alla porta, ho pensato che fosse stata opera tua. Poi ho sentito la tua esclamazione mentale di sorpresa…

— E io ho pensato che fossi stato tu — disse Raven. — Mi ha colto alla sprovvista. Per fortuna gli sono andato subito vicino, altrimenti sarebbe morto.

— Già, un collasso cardiaco — disse Charles, mentre i suoi occhi prendevano a brillare come due piccole lune.

— Un’altra bravata del genere e si spargerà la voce.

— Qualcuno è stato irrazionale e avventato — commentò Raven serio. — Qualcuno coi paraocchi, che non ha saputo aspettare. Sbagliato, malissimo. Non deve più accadere!

— Ha tenuto duro un bel pezzo e ha ceduto lentamente, così è stato un invito quasi irresistibile — gli ricordò Charles, col tono di chi spiega tutto. — Sì, l’aspirante imperatore di Venere è stato davvero fortunato. Se fosse morto sarebbe stata una fine relativamente rapida… Oh, be’, ha un carattere duro, con una tempra superiore alla media. Nient’altro avrebbe potuto spaventarlo abbastanza da indurlo a un pacifismo ragionevole. Forse è stato tutto a fin di bene. La sua mente non ha la più pallida idea di cosa sia successo in realtà, ed è questo l’importante.

— Forse hai ragione. Tra l’altro, se fosse morto, avremmo dovuto ricominciare tutto da capo e fare i conti con Wollencott, e forse anche con i due sosia di Thorstern. Uno dei due avrebbe potuto mettersi al posto del capo e ingannare tutti tranne i telepatici. A questi dobbiamo aggiungere la lista degli uomini normali che forse Thorstern ha designato come suoi successori. Un paio di questi potrebbero trovarsi anche su Marte. Sì, la sua resa ha risolto la situazione.

— Una resa con riserve — commentò Charles. — Nell’attimo in cui usciva dalla porta non ha potuto fare a meno di porle.

— Sì, ho sentito.

— È un uomo tenace, se non altro. Per prima cosa si riserva il diritto di rimangiarsi la promessa il giorno in cui dovesse scoprire come diventare a-prova-di-mutante. Calcola di avere una sola probabilità contro un milione, ma ne tiene conto. In secondo luogo si riserva il diritto di scaraventarti nella più vicina galassia, ma non sa in che modo.

— E non è tutto — aggiunse Raven. — Giudicando dal suo carattere, immagino che si metterà immediatamente in contatto con il Consiglio Mondiale, criticherà Wollencott, condannerà il movimento clandestino, deplorerà gli attentati, simpatizzerà con la Terra e offrirà di far cessare la guerra per delle considerazioni quanto mai nobili. Insomma, cercherà di negoziare la sua resa per ricavarne un buon profitto.

— Ne è capace, eccome!

— E noi lo lasceremo fare. Non sono cose che ci riguardano. Lo scopo della nostra missione è stato raggiunto, ed è ciò che conta. — Raven rimase un attimo soprappensiero. — Thorstern non vorrà certo sciogliere la sua organizzazione. Può fermarsi, ma non distruggere quello che ha costruito. Probabilmente cercherà di fondare un’organizzazione più potente. Un’organizzazione legale. L’unico mezzo a sua disposizione sarà quello di ottenere il benestare dei più influenti avversari di oggi… quello di Heraty e quello degli altri componenti del Consiglio Mondiale.

— A che scopo? Non sanno niente dei Deneb, quindi…

— Ho detto a Thorstern che l’umanità combatterà unita. Forse ricorderà queste parole. Può non sapere dei Deneb, come hai detto, ma può decidere… e può convincere gli altri che l’ora del cimento è vicina. Esseri normali contro i mutanti! Fatto com’è, Thorstern ritiene automaticamente che soltanto gli esseri normali sono quelli della sua razza. Per lui i mutanti sono esseri non-umani, o quasi-umani.

Charles socchiuse gli occhi. — Esiste già molta intolleranza. E non sarebbe difficile farla esplodere.

Raven si strinse nelle spalle. — Chi lo sa meglio di noi? Considera quale sarebbe il suo guadagno se riuscisse a convincere i tre pianeti a uno sterminio simultaneo dei paranormali. Riavrebbe il suo esercito privato, e per di più composto solo di esseri normali… questo gratificherebbe il suo Io, darebbe soddisfazione al suo odio verso i mutanti e gli fornirebbe la scusa per eliminare quelli che rappresentano il principale pericolo per la sua posizione. Ha cervello e coraggio per farlo, ed è cocciuto.

— Non sarà facile. I mutanti rappresentano una minoranza, ma sono sempre sufficientemente numerosi per rendere problematico il loro sterminio.

— La proporzione numerica non è il problema principale — disse Raven appoggiandosi al tavolo. — Io posso vedere altri due grossi ostacoli.

— E sarebbero?

— Primo, possono eliminare soltanto i paranormali conosciuti. Quanti ne rimangono di sconosciuti? Quanti non possono venire identificati dalle menti normali e intendono rimanere nell’incognito?

— Questo rende impossibile compiere un’opera completa. Forse Thorstern non vorrà neppure cominciarla, se riesce a comprenderlo.

— Forse — convenne Raven, in tono di dubbio. — Il secondo ostacolo proviene dalle conseguenze naturali di una civiltà coesistente su tre pianeti. Immagina che Thorstern cerchi di convincere i tre pianeti a un massacro simultaneo per liberare l’umanità di tutti quei ragazzi che si dimostrano “troppo intelligenti”. Ogni pianeta sospetterebbe immediatamente una trappola. Se sterminano i loro mutanti mentre gli altri non lo fanno…

— Sfiducia reciproca — disse Charles facendo un cenno affermativo. — Nessun pianeta vorrebbe correre un rischio che potrebbe metterlo in grande svantaggio rispetto agli altri. — Rifletté un attimo. — Potrebbe essere davvero un grosso rischio. Cosa potrebbe succedere se due pianeti attuassero lo sterminio e il terzo non lo facesse? In breve tempo potrebbe conquistare il dominio sugli altri due! Posso quasi immaginare quale sarebbe il pianeta e chi ne diventerebbe il capo.

— Tre pianeti con lo stesso sospetto. I Terrestri e i Marziani non sono più stupidi o meno stupidi degli abitanti di Venere. Qualunque sia la sua decisione, Thorstern non avrà vita facile. Comunque, sono convinto che sentiremo ancora parlare di lui.

— Anch’io. Poi, David, ricorda che siamo in cima alla sua lista delle persone da eliminare. — Charles scoppiò a ridere. — Se ci riesce.

— Io torno sulla Terra. Grazie dell’ospitalità. — Raven attraversò la stanza e sporse la testa in cucina. — Addio, bellezza — salutò Mavis.

— Lieta che te ne vada, seccatore!

Raven le fece una smorfia scherzosa, poi richiuse la porta e salutò Charles con un cenno della mano.

— Sei stato un ottimo compagno. Arrivederci all’obitorio.

— Certo — promise Charles. — Prima o poi…

Rimase a guardare l’amico che scompariva nella nebbia, poi richiuse la porta e andò a sedersi sulla sua poltrona.

Dalla cucina gli giunse la voce mentale di Mavis.

“Ti pentirai di tutto questo.”

“Lo so, cara.”

15

Un singolare assortimento di apparecchi era sparso in diversi punti dello spazioporto. Mezzi antigravità, elicotteri piccoli e grandi, diversi vecchi autogiro che appartenevano a irsuti cercatori di metalli preziosi, due eleganti astronavi del servizio diplomatico del Consiglio Mondiale, un pallone con motori ausiliari che veniva usato da un gruppo di scienziati addetti alle ricerche sui virus, una carcassa marziana che portava il nome Phodeimos, due astronavi passeggeri, una in attesa della posta e l’altra in cantiere di riparazione, e infine un vecchio trespolo arrugginito, mezzo giro e mezzo motocicletta, abbandonato da qualche inventore estroso.

Le lampade al sodio diffondevano una luce fredda su tutta la raccolta dei mezzi meccanici. La nebbia si era alquanto diradata, ed entro un’ora, con lo spuntare del sole all’orizzonte, sarebbe completamente scomparsa.

L’intera zona dello spazioporto era sorvegliata da un folto numero di guardie. Ma in modo inefficiente. Un gruppo stava chiacchierando accanto ai serbatoi del carburante, altri si erano fermati vicino all’officina delle riparazioni. Alcuni uomini isolati camminavano distrattamente lungo il perimetro dell’astroporto e attorno agli scafi. Nessuno di loro era mentalmente vigile. Annoiati dalla lunga notte trascorsa senza incidenti, a mezz’ora dal cambio della guardia, tutti pensavano solo ai minuti che li separavano dalla colazione e dal letto.

Raven fu grato dello stato mentale di quegli uomini. Creava uno stato psicologico a suo favore. La scelta di tempo è un fattore importante per il successo in ogni cosa, e l’orologio è il più grande autocrate che esista. Nel tentare un’impresa difficile si può fallire quando le lancette si trovano in una posizione e riuscire quando si trovano in un’altra.

Giunto a un centinaio di metri dal perimetro, cominciò ad avanzare con cautela. Senza dubbio le guardie dovevano aver ricevuto l’ordine di intercettarlo. La resa di Thorstern non poteva certo aver fatto revocare l’ordine di cattura.

La maggior parte delle guardie erano uomini normali, privi di qualsiasi facoltà. Alcuni dovevano essere seguaci di Thorstern o di Wollencott, e potevano aver ricevuto ordini particolari a riguardo di Raven nel caso fosse comparso all’astroporto. Ma non c’era modo di scoprire quali fossero, perché tutti stavano pensando al termine del servizio di ronda e alle piacevoli occupazioni che sarebbero seguite.

Il tizio che si stava avvicinando aveva nella mente la chiara immagine di un piatto di uova e prosciutto. Non aveva un punto fisso del campo da sorvegliare ed era un levitante.

Dopo averlo osservato per qualche tempo, Raven scoprì che il giovanotto era libero di andare dove voleva, e che compiva un giro irregolare in mezzo alle astronavi. Lo vide fermarsi due o tre volte, sollevarsi nell’aria e scavalcare quegli scafi ai quali non aveva voglia di girare attorno. Le altre guardie, tutti uomini che non si potevano staccare da terra, osservavano con annoiata indifferenza i voli del compagno. Il dieci per cento di loro aveva differenti particolari capacità, e tutti si consideravano superiori agli altri.

Attirato da quello che considerava un semplice impulso, senza motivo di dover sospettare qualcosa, la guardia si avviò al ripostiglio dietro cui Raven stava aspettando. Per un identico impulso, proveniente dalla stessa fonte, il giovane sollevò il mento per portarlo a un angolo adatto. Era parecchio cooperante, e Raven si rammaricò di doverlo ricompensare troppo sgarbatamente: lo colpì al mento, mentre il giovane stava ancora pensando al suo piatto di uova e prosciutto. Indossò berretto e impermeabile della guardia abbattuta, fece il giro dell’edificio e si addentrò nel campo. La sua vittima era bassa di statura, e l’impermeabile gli arrivava a stento alle ginocchia. Ma nessuno se ne accorse. Le guardie più vicine si trovavano a duecento metri, e i guai potevano venire soltanto da un telepatico. Se qualcuno avesse cercato di leggergli i pensieri avrebbe trovato il vuoto assoluto e avrebbe capito subito che si trattava di qualcosa di diverso da un semplice levitante… allora, sarebbe cominciata la musica a pieno ritmo.

Raven piegò il braccio per tenere l’arma nello stesso modo in cui l’aveva tenuta l’altro e giunse indisturbato nelle vicinanze dell’astronave passeggeri in attesa della posta. Era la Star Wraith, un modello recente, completamente rifornita di carburante e pronta per partire. Non c’era ancora nessuno a bordo. Raven si sollevò lentamente da terra e passò dall’altra parte dello scafo.

Nonostante il grande numero di scafi che si trovavano sul campo, dovendo scegliere un mezzo per la fuga, Raven aveva una scelta molto limitata. I giro, gli elicotteri e i mezzi antigravità potevano soltanto servire per spostamenti locali sul pianeta. Di mezzi adatti ad affrontare lo spazio c’erano soltanto la Star Wraith e le due astronavi del servizio diplomatico.

Queste ultime venivano rifornite di carburante proprio in quel momento. Fortunatamente, su quel mondo senza luna, Raven non correva pericolo di prendere per sbaglio uno scafo rifornito soltanto del carburante sufficiente per raggiungere il satellite. Lo scafo diplomatico più vicino aveva ormai i serbatoi pieni ed era pronto per la partenza, ma Raven lo sorpassò per dare un’occhiata allo scafo gemello. Anche questo era ormai pronto alla partenza. Mancava soltanto il pilota. Tutte e due gli scafi viaggiavano senza personale di bordo, e tutti e due avevano i portelli aperti. Raven scelse il secondo in considerazione del fatto che aveva circa mezzo chilometro di spazio libero dietro la coda. L’altro avrebbe distrutto un autogiro che forse il proprietario amava più di sua madre.

In quel momento la mente della persona stesa a terra dietro il magazzino fece ritorno dalla sua involontaria vacanza, e Raven la percepì all’istante. Si aspettava una cosa del genere. Il pugno avrebbe dovuto permettergli di guadagnare un paio di minuti, un tempo più che sufficiente. Così aveva sperato.

“Dove sono andato a sbattere?” si chiese il giovane, con la testa ancora confusa. E dopo qualche secondo, “ Mi hanno dato un pugno!” Una pausa leggermente più lunga, poi giunse il pensiero sconvolto. “ Il mio berretto! Il mio fucile! Qualche maledetto mi ha…”

Con aria indifferente, Raven si alzò da terra, come per passare dall’altra parte dello scafo che gli stava di fronte, ma si fermò all’altezza del portello aperto ed entrò. Accostò il battente circolare e tirò la leva che chiudeva ermeticamente il portello, poi si avviò verso la cabina di pilotaggio.

“Qualcuno mi ha colpito” continuò la mente dell’altro. “ Doveva essere in attesa del mio passaggio!” Seguì un attimo di pensieri confusi, poi ci fu l’urlo mentale e vocale. — Ehi, voi, addormentati! Qualcuno è penetrato nel campo! Mi ha rubato il…

In mezzo alla confusione di pensieri che giunsero dalle guardie che stavano per smontare e che solo adesso si ricordavano di essere ancora in servizio, quattro menti più forti parvero emergere dal nulla e avanzarono in mezzo al campo per scrutare negli scafi. Quando raggiunsero la piccola astronave le quattro menti urtarono contro lo scudo mentale di Raven, si sforzarono, rimbalzarono.

“Chi siete?”

Raven non rispose. In quel momento le pompe e gli iniettori dello scafo cominciarono a entrare in azione.

“Rispondete! Chi siete?”

Erano menti molto diverse dalle altre che si aggiravano per il campo. Erano acute, precise, e avevano saputo riconoscere lo schermo mentale nell’attimo in cui lo avevano incontrato.

“È un telepatico. Non vuole parlare e tiene la mente serrata. Si trova sul KM 44. Meglio circondare lo scafo.”

“Circondarlo? No! Se mette in azione i propulsori incenerirà tutti quelli che si trovano dietro la coda.”

“Non credo. Non oserà partire prima che si sollevi la nebbia.”

“Se è Raven avremo delle grane, perché avremmo dovuto…”

“Vi ho detto che non sappiamo chi sia. Potrebbe trattarsi soltanto di un maniaco del volo nello spazio che tenta di rubare un’astronave. Se parte, spero che vada a fracassarsi.”

“Vuoi scommettere che è Raven?”

La lampada rossa della radio si accese, e Raven premette il pulsante.

La voce furente di un uomo che si trovava nella torre di controllo uscì dagli altoparlanti.

— Voi, sul KM 44, aprite il portello!

Anche questa volta Raven non rispose. A metà dello scafo, i motori continuavano a pulsare. Nella cabina un indice rosso si spostò lentamente fino a raggiungere il punto segnato con la parola PRONTO.

— Voi, sul KM 44, vi avverto che…

Raven sorrise e guardò nel periscopio retrovisore. Una fila di guardie armate era sparsa a ventaglio, a un paio di centinaia di metri dai propulsori. Appoggiò il dito indice su uno dei pulsanti e lo tenne schiacciato per una frazione di secondo. Lo scafo ebbe un leggero sobbalzo, e una bianca nube di vapori surriscaldati venne proiettata all’indietro. Le guardie fuggirono disordinatamente in tutte le direzioni.

L’addetto furente che si trovava nella torre di controllo cominciò a recitare una serie di pene e provvedimenti che stralciò dai paragrafi del regolamento. Era tanto preso dalla esposizione che non si accorse di quanto stava succedendo all’esterno.

Raven premette una seconda volta il pulsante, e una terrificante esplosione di fiamme bianco-arancione uscì dai reattori. Il rombo assordò tutti quelli che si trovavano nel raggio di un chilometro, ma all’interno dello scafo non parve che un lieve gemito.

La voce alla radio continuò a parlare con sadica soddisfazione.

— …ma quando il menzionato crimine associa anche infrazioni ai regolamenti di polizia e di dogana, la pena sarà quattro volte superiore a quella prevista dal comma D 7, senza pregiudizio per gli aumenti che…

Raven abbassò una leva e si mise in comunicazione radio con la torre.

— Senti, amico! Nessuno riuscirà mai a vivere tanto a lungo — disse, e interruppe il contatto radio.

Poi spinse una leva in avanti, e l’astronave si innalzò su una colonna di fuoco.

Dopo un milione di chilometri, Raven inserì il pilota automatico e scrutò lo schermo visivo posteriore per vedere se qualcuno lo stava inseguendo. Non c’era nessuno. La probabilità di essere inseguito da astronavi partite da Venere era minima, perché sarebbe stata una fatica inutile. Non esistevano scafi capaci di competere in velocità con quello che stava pilotando.

Era veramente possibile, ma non probabile, che a qualche astronave in volo nello spazio venisse dato ordine di intercettarlo. Ma la immensa distesa tra la Terra e Venere, in quella fase particolare dello sviluppo interplanetario, non era affollata di astronavi.

Lo schermo anteriore e i rilevatori non mostravano niente di interessante, tranne un piccolo punto di radiazioni infrarosse, troppo lontano per essere identificato. Forse era il Fantôme in rotta per la Terra. Avrebbe proprio dovuto trovarsi circa in quella zona.

Raven lasciò che il pilota automatico compisse il suo lavoro e si rilassò sulla poltroncina per osservare l’immensità del cosmo. Aveva l’aria di chi pur avendo contemplato lo spettacolo migliaia di volte spera di poterlo rivedere per altre decine di migliaia. Non si sarebbe mai stancato di quello splendore tremendo.

Tuttavia, smise la contemplazione. Si coricò in cuccetta, chiuse gli occhi, ma non per dormire. Li chiuse per meglio aprire la mente e ascoltare come non aveva mai fatto quando si era trattato di ascoltare i pensieri degli uomini normali. Le vibrazioni non lo distrassero, né lo disturbavano i rari sibili delle particelle di polvere cosmica che di tanto in tanto urtavano lo scafo. In quel momento, la sua facoltà uditiva aveva cessato di esistere, ma la mente aveva sviluppato la massima potenza di ascolto.

I suoni che stava cercando erano appena udibili. Erano voci mentali che vibravano nel buio dello spazio senza fine. Molti di questi impulsi mancavano di chiarezza ed erano attenuati dal viaggio attraverso distanze illimitate. Altri erano più chiari perché provenivano da zone relativamente vicine, ma sempre molto, molto lontane.

“Astronave nera diretta su Zaxsis. La lasciamo andare senza intralci.”

“Sono in partenza per Badur Nove, una nana rossa con quattro pianeti, tutti sterili. Difficilmente ritorneranno.”

“Hanno ignorato il pianeta e si sono impossessati del satellite più grande perché ricco di cristalli di ematite.”

“È scesa una squadra di quaranta astronavi e ha perlustrato il pianeta da un polo all’altro. Sembrava che avessero una gran fretta.”

“… nelle vicinanze di Hero, un gigante bianco-blu nel settore dodici di Andromeda. Centottanta astronavi nere, in tre formazioni di sessanta, sono transitate procedendo a tutta velocità. Una vera spedizione Deneb.”

“Un Deneb ha compiuto un atterraggio di fortuna. La sua astronave aveva due reattori guasti. È rimasto in difficoltà fino a quando non siamo accorsi ad aiutarlo. Naturalmente abbiamo finto di essere degli stupidi. Si è dimostrato riconoscente. Ha regalato delle collane di perle arcobaleno ai ragazzi ed è ripartito senza il minimo sospetto.”

“Un’astronave nera, un incrociatore, era diretta su Tharre. Abbiamo confuso le menti dei piloti e li abbiamo fatti tornare indietro.”

“Credo che l’abbia capito per intuito, ma non aveva modo di provarlo. Era pericolosamente vicino alla verità, e non lo sapeva. L’idea gli è comunque piaciuta e vuol farne la base di una nuova religione. Se i Deneb avessero accettato anche parte della sua teologia, si sarebbe venuta a creare una situazione esplosiva. Così abbiamo deciso di fermarlo all’inizio e…”

“Enormi astronavi nere da battaglia, con ottomila Deneb, hanno preso possesso di una luna minore. Hanno detto che manderanno una lancia per scambi commerciali con noi, ma non sembrano entusiasti. Ci hanno visto… e noi ci siamo mostrati loro come una colonia di primitivi aborigeni.”

“…e si sono lanciati tutti e dodici all’inseguimento. È divertente il fatto che non possano fare a meno di dare la caccia a cose irraggiungibili.”

“Ecco, io sto bene, ma lei è vecchia e stanca e vuole riposare. Gli anni passano tanto per noi quanto per quelli che stiamo sorvegliando. Se qualche altra coppia…”

“…radunati su tutto l’asteroide per dare un caldo benvenuto, e i Deneb si sono comportati come al solito. Sono scesi e hanno ridotto l’asteroide in polvere, poi si sono allontanati felici. Non ci era mai piaciuto quell’asteroide. Aveva degli strani…”

“Il convoglio ha proseguito per la Testa di Cavallo, settore sette, ma si è lasciato alle spalle uno scafo di salvataggio sconquassato con un anziano Deneb a bordo. Dice che andrà in cerca di cristalli. Gli altri sono andati avanti per trovare quello che lui ha proprio sotto il naso.”

“Un’armata di ottomila astronavi è partita da Scoria per vendicare le due astronavi scomparse. Hanno protetto con caschi di platino i cervelli dei piloti e hanno armato tutti gli scafi con nuovi proiettori di energia. Fanno sul serio!”

“Hanno pensato di non correre rischi e di incenerire l’intero pianeta, solo perché le creature che lo abitavano erano lucenti, semivisibili e sospettosamente diverse dai Deneb nell’aspetto. Non lo potevamo permettere. Così abbiamo manomesso il loro carico di armi. La loro missione è stata un completo fallimento!”

La radio amatoriale non aveva niente a che fare con questo genere di trasmissioni. Erano messaggi telepatici lanciati a lunga distanza, e decisamente professionali.

Lo scambio di comunicazioni durò per tutto il viaggio di Raven. Un’astronave nera qua, un’altra là, cento altre dirette verso una certa zona dello spazio. I Deneb facevano questo, facevano quello, erano atterrati su certi pianeti, erano ripartiti da certi altri, venivano abilmente attirati in una direzione e ne ignoravano un’altra… sempre aiutati o ostacolati da quella diffusa moltitudine di entità remote secondo le regole sconosciute di un gioco sconosciuto.

In complesso i Deneb sembravano scartare la maggior parte dei pianeti. Alcuni a prima vista, altri dopo una breve permanenza. E continuavano le ricerche. Con metodo o senza, setacciavano il cosmo alla ricerca di quello che non potevano trovare. Una sola cosa si poteva stabilire con sicurezza: erano incurabilmente agitati.

Rayen passò il tempo ad ascoltare i discorsi che provenivano dalle grandi profondità dell’infinito o a osservare attraverso l’oblò anteriore lo spiegamento delle stelle. Di tanto in tanto spalancava gli occhi in estasi, e sulla sua faccia compariva un’espressione di curiosa avidità. Tutti i pensieri riguardo Thorstern, Wollencott, Carson ed Heraty erano stati accantonati. Le loro ambizioni e le loro rivalità, paragonate agli eventi in corso altrove avevano assunto un’importanza submicroscopica.

“I Deneb hanno setacciato centomila menti prima di capire che non avevano abbastanza tempo per esaminarne cinquecento milioni. Così se ne sono andati, ignoranti come al loro arrivo.”

“…sono rimasti per tre interi circumsolari. Hanno ridacchiato di fronte ai nostri razzi, se ne sono fatti prestare un paio per giocarci e ce li hanno restituiti con tanti ringraziamenti. Ma quando avete abbattuto quell’incrociatore che vi avevano messo alle calcagna, si sono infuriati davvero e sono decollati come…”

“Per una ragione che solo loro conoscono, si stanno dirigendo verso Bootes. Meglio che vi prepariate a riceverli!”

“… Laethe, Morcin, Elstar, Gnosst, Weltenstile, Va, Perie e Klain. Su ogni pianeta ci sono dai duemila ai diecimila Deneb, e tutti cercano minerali rari. Trattano gli abitanti come animali inutili. Fino a questo momento…”

“Nove astronavi stanno scendendo. Avanzano pieni di sospetto, come al solito.”

Erano messaggi che potevano venire ascoltati solo da menti naturalmente adatte. Nessun cervello comune avrebbe potuto captarli. E nessuna mente di Deneb.

Erano messaggi che parlavano di astri solitari, di pianeti, di asteroidi vaganti. E ne parlavano in tono familiare, come se fossero stati strade di una città. Riferirono migliaia di pianeti, ma non nominarono mai né la Terra, né Marte, né Venere, né qualche altro pianeta del Sistema Solare.

Era inutile parlare di questi mondi, perché il loro momento non era ancora venuto.

Due scafi a sei posti della polizia si staccarono dalla Luna nel tentativo di seguire l’astronave rubata. Ma non ebbero fortuna. Raven si tuffò verso la Terra alla massima velocità, come se dovesse percorrere ancora una distanza di cinquanta anni luce, e quando ebbe gli inseguitori a una certa distanza saettò di lato, scomparendo dietro la faccia della Terra. Quando i suoi inseguitori oltrepassarono a loro volta la curva terrestre, Raven era ormai atterrato e l’astronave si era persa in uno scenario che dodici paia d’occhi non potevano certo scrutare.

Lo scafo riposava su una distesa rocciosa dal quale avrebbe potuto ripartire senza recare danno a proprietà di Terrestri. Raven si portò vicino ai reattori che si stavano raffreddando e si mise a studiare il cielo. Ma gli scafi della polizia non comparvero neppure all’orizzonte. Con tutta probabilità stavano inutilmente perlustrando una zona forse a seicento chilometri più a est o a ovest.

Raven raggiunse una strada di campagna ed entrò nella fattoria che aveva visto mentre atterrava. Per telefono chiamò dal più vicino villaggio un taxi antigravità, che arrivò immediatamente. Un’ora dopo si trovava al comando del controspionaggio terrestre.

Con la faccia lunga e lugubre come sempre, Carson gli fece cenno di sedere e congiunse le mani, quasi in atto di preghiera. Poi gli parlò con la mente.

— Siete peggio di un terribile mal di testa. In una settimana mi avete dato più lavoro di quanto faccio normalmente in un mese.

— E che ne dite del lavoro che avete dato a me?

— Non deve essere stato tanto difficile, a giudicare dalla rapidità con cui l’avete svolto. Siete uscito di qui e siete tornato con la cravatta dritta e senza un solo graffio. Nel frattempo avete molestato o spaventato uomini importanti. Inoltre, avete infranto ogni legge del codice, e io dovrò coprire le vostre malefatte. Il cielo sa come.

— Non esagerate — disse Raven. — Alcune leggi non le ho infrante. Per esempio, non mi sono mai messo a distillare tambar sulle colline. Comunque vorrei sapere se siete disposto a proteggermi. Le pattuglie di polizia di stanza sulla Luna mi hanno inseguito benché fossi a bordo di uno scafo del Consiglio.

— Rubato — precisò Carson, e indicò un grosso pacco di documenti che stava sulla scrivania. — Avete commesso infrazioni con più disinvoltura di quanta ce ne voglia per bere un bicchier d’acqua. Ora cercherò di accomodare anche la faccenda dell’astronave. Ma non preoccupatevi. Tutta la responsabilità sarà mia. Certi pensano che io sia al mondo per questo. Devo trovare il modo di far sembrare che si è trattato di una appropriazione ufficialmente autorizzata. — Si grattò il mento, poi guardò Raven con aria mesta. — E non venite a dirmi che avete fracassato lo scafo nell’atterraggio. Dove l’avete lasciato?

Raven glielo disse. — Sarei atterrato direttamente all’astroporto, ma i due scafi della polizia mi hanno fatto cambiare idea. Sembrava che mi volessero arrestare. In questi ultimi tempi c’è stata fin troppa gente che mi voleva mettere le mani addosso.

— Manderò un pilota a prendere l’apparecchio. — Carson scostò con rabbia le carte che aveva davanti. — Grane, grane. Su questo tavolo arrivano soltanto delle grane.

— Per venire da Venere a qui c’è voluto un po’ di tempo, anche se mi trovavo a bordo di uno scafo superveloce. E così non ho notizie degli ultimi avvenimenti. Quali sarebbero queste grane?

— La settimana scorsa abbiamo ucciso due uomini che cercavano di far saltare un grosso ponte. Erano due Marziani. Il giorno dopo è saltata in aria una centrale elettrica. Dieci città sono rimaste senza luce e tutte le industrie entro un raggio di centocinquanta chilometri sono rimaste bloccate. Sabato abbiamo trovato un ingegnoso dispositivo alla base di una diga. È stato tolto appena in tempo. Se fosse esploso, le conseguenze sarebbero state disastrose.

— Ma non hanno…

— D’altra parte — continuò Carson, senza badare all’interruzione — gli scienziati hanno provato che l’esplosione della Baxter è quasi certamente dipesa da un incidente autentico. Dicono che il carburante, in certe condizioni eccezionali, diventa altamente instabile. Affermano comunque di aver già trovato il modo di impedire catastrofi analoghe.

— Questa è una cosa interessante.

Carson fece un gesto d’impazienza. — Io ricevo i rapporti, e devo considerare ogni disastro come una vera e propria opera di sabotaggio, fino al momento in cui non mi si viene a provare il contrario. Siamo ostacolati dall’impossibilità di distinguere all’istante l’incidente dovuto a! caso da quello dovuto a sabotaggio. Non possiamo neppure liberarci degli elementi sospetti. Teniamo ancora in carcere otto uomini catturati nella base sotterranea. Sono tutti Marziani e Venusiani. Personalmente li farei deportare e negherei loro il visto di ingresso. Ma è impossibile. Legalmente sono Terrestri, capito?

— Già, è un guaio. — Raven si protese sulla scrivania. — Mi state dicendo, con questo, che la guerra continua?

— No. È certamente continuata fino alla fine della settimana scorsa, ma forse adesso è finita. — Carson guardò interrogativamente Raven. — L’altro ieri Heraty è venuto a dirmi che tutte le nostre preoccupazioni sono terminate. E da quel momento non sono più avvenuti sabotaggi. Io non so cosa abbiate fatto. Comunque, è stata un’azione efficace, se quello che dice Heraty è vero.

— Avete per caso saputo di un certo Thorstern?

— Esatto. — Carson si agitò a disagio sulla poltrona, ma riuscì a controllare i pensieri. — Da parecchio avevamo i nostri agenti alle calcagna di Wollencott, l’uomo che tutti indicavano quale capo della rivolta. Alla fine due nostri agenti avevano riferito che Thorstern era la vera forza nell’ombra, ma non erano riusciti a trovare prove convincenti. Thorstern ha sempre agito con molta prudenza, e nessuno può provare la minima cosa a suo carico.

— È tutto?

— No — ammise Carson con riluttanza, quasi che non volesse dilungarsi sull’argomento. — Heraty ha detto che Thorstern sta trattando con lui.

— Davvero? Vi ha detto a che proposito? Vi ha dato dei dettagli?

— Ha osservato che dubitava della buona fede di Thorstern, o meglio, che dubitava che fosse veramente la persona che diceva di essere, cioè l’uomo capace di fermare l’intransigenza venusiana. E Thorstern si è offerto di provarlo.

— Come?

— Togliendo di mezzo Wollencott… Così! — soggiunse Carson facendo schioccare le dita. Rimase qualche istante in silenzio, poi sospirò e riprese a parlare. — Questo è successo l’altro ieri. Oggi abbiamo ricevuto un messaggio da Venere con l’annuncio che Wollencott è caduto da un apparecchio antigravità ed è morto sul colpo.

— Uhm! — Raven riuscì quasi a vedere la disgrazia e a sentire lo schianto delle ossa. — Bel modo di licenziare un fedele servitore, vero?

— Meglio non dirlo apertamente… Sarebbe una insinuazione.

— Potrei farne qualcun’altra. Potrei parlare di un membro del Consiglio Mondiale. Di Gilchist, per esempio. È un individuo che si potrebbe tranquillamente chiamare un lurido pidocchio.

— Perché dite questo? — chiese Carson, facendosi improvvisamente attento.

— È la mosca sospetta che vola sul piatto. Thorstern stesso lo ha detto, senza sapere che stava tradendo un traditore. — Raven rimase un attimo soprappensiero. — Non so che faccia abbia questo Gilchist. Il giorno in cui mi trovavo al Consiglio ho annusato i presenti, e non ho sentito puzzo di bruciato. Com’è possibile?

— Non c’era. — Carson scrisse alcune annotazioni su un pezzo di carta. — Mancavano quattro membri. Due per malattia, due per affari urgenti. Uno di questi era Gilchist. È arrivato pochi minuti dopo la vostra partenza.

— Il suo affare urgente era il denunciarmi ai suoi complici — disse Raven. — Cosa farete adesso?

— Niente. La vostra informazione non basta. Passerò la notizia a Heraty, e il Consiglio Mondiale prenderà le sue decisioni. Una cosa è lanciare un’accusa, un’altra è provarla.

— Credo che abbiate ragione. Comunque non ha importanza, sia che non lo puniscano, sia che gli diano una medaglia d’oro per il suo tradimento. In fondo, ben poche cose sulla Terra hanno delle vere conseguenze. — Raven si alzò e raggiunse la porta. — Ma c’è una cosa che conta, per quel piccolo peso che possono avere le cose. Thorstern è un essere normale. E anche Heraty. Voi e io non lo siamo.

— E con questo? — chiese Carson a disagio.

— Ci sono uomini che non possono accettare la sconfitta. Ci sono uomini che possono starsene seduti in un apparecchio antigravità e guardare il compagno fedele che precipita nel vuoto. Ci sono uomini che cadono in preda al panico se stimolati nel modo adatto. Questa è la grande maledizione del mondo… la paura! — Fissò Carson negli occhi. — Sapete cosa atterrisce gli uomini?

— La morte — rispose Carson con voce sepolcrale.

— Gli altri uomini — lo corresse Raven. — Ricordatelo… specialmente quando Heraty vi riferisce parte delle cose e trascura accuratamente il resto.

Carson non chiese cosa intendesse dire. Da tempo era abituato alle tecniche difensive degli esseri normali. Gli venivano a parlare di persona quando non avevano niente da nascondere, in caso contrario gli scrivevano o gli telefonavano. E quasi sempre c’era qualcosa da tenere nascosto.

Rimase in silenzio a guardare Raven che se ne andava. Era un mutante, e non aveva mancato di comprendere l’avvertimento di Raven.

A Heraty piaceva forse troppo sbrigare gli affari per telefono.

Il piccolo e vistoso ufficio in cima a quattro rampe di luride scale erano il rifugio di Samuel Glaustrab, un povero ipno capace appena di incantare un passero. Certi suoi antenati dovevano essere stati mutanti, poi il talento doveva aver saltato alcune generazioni ed era ricomparso ma molto indebolito.

Da altri antenati aveva ereditato una mentalità legale e una lingua pronta, doti che lui valutava molto più dei trucchi di qualsiasi mutante.

Entrato nell’ufficio, Raven raggiunse la scrivania sporca d’inchiostro e salutò. — Buon giorno, Sam.

Glaustrab lo guardò da dietro le spesse lenti degli occhiali cerchiati di corno. — Ci conosciamo?

— No.

— Oh, pensavo di sì — spinse da parte alcuni documenti che stava consultando e si alzò.

“Perché mi chiama per nome?” si chiese. “ Chi si crede di essere? Non sono mica il suo valletto.”

Raven si protese sulla scrivania e fissò i pantaloni sdruciti dall’altro.

— Con quegli abiti non ne avete proprio l’aria.

— Un telepatico, vero? — disse Glaustrab e si passò imbarazzato una mano sui pantaloni. — Be’, io non ci faccio caso. Fortunatamente ho la coscienza pulita.

— Vi invidio. Pochi possono dire la stessa cosa.

L’altro si accigliò, perché la frase gli era parsa ironica. — Che cosa posso fare per voi?

— Avete un cliente che si chiama Arthur Kayder?

— Sì, la sua causa verrà discussa domani mattina. — Scosse lentamente la testa. — Dovrò difenderlo con tutta la mia abilità, ma temo che la mia fatica andrà sprecata.

— Perché?

— È accusato di aver fatto pubblicamente minacce d’omicidio, e dato che la parte lesa è assente l’accusa verrà sostenuta dal pubblico ministero. Questo rende il mio compito molto più difficile. Le minacce sono registrate su nastro audiovisivo. Questo nastro verrà presentato alla Corte, e io non potrò negare l’evidenza. — Guardò Raven con aria triste. — Siete un suo amico?

— Sono il suo peggior nemico, per quanto mi risulta.

Glaustrab fece una risatina forzata. — Immagino che stiate scherzando.

— Vi sbagliate, Sammy. Sono l’uomo che lui voleva uccidere.

— Eh? — Spalancò la bocca, poi si piegò sulla scrivania e sfogliò nervosamente alcune carte.

— Vi chiamate David Raven?

— Esatto.

Glaustrab pareva completamente sconvolto. Si tolse gli occhiali, li appoggiò sulla scrivania, se li rimise e li cercò sulla scrivania.

— Li avete sul naso — lo informò Raven.

— Come? — Si scosse di colpo, poi rimase un attimo impacciato. — Già. Che sciocco. — Si rialzò, e infine tornò a sedersi. — Bene, voi siete il signor Raven. Il testimone d’accusa!

— Chi ha detto che voglio testimoniare contro il vostro cliente?

— Lo immagino. Essendo tornato alla vigilia del processo io…

— Supponiamo che non mi presenti al processo… Cosa succederebbe?

— Niente. Le prove registrate saranno più che sufficienti per farlo condannare.

— Già, ma solo perché si presume che io confermi i capi d’accusa. Cosa succederebbe se dicessi di sapere che Kayder stava scherzando?

— Signor Raven, volete dire che… — Le mani di Glaustrab cominciarono a tremare. — Credete veramente che lui…

— Non lo credo affatto. Parlava seriamente. Kayder avrebbe voluto sdraiarsi su cuscini di seta e gioire delle mie grida mentre gli insetti mi divoravano.

— Allora perché… Perché? — chiese Glaustrab, confuso.

— Preferisco uccidere un uomo con le mie mani piuttosto che fargli perdere anni in una prigione. In ogni modo, non penso che Kayder debba essere rinchiuso soltanto perché ha gridato delle minacce. — Guardò fisso Glaustrab. — Che ne pensate?

— Chi? Io? No… No di certo! — Glaustrab si mosse a disagio. — Avete intenzione di comparire al processo per difendere il mio cliente?

— No, se c’è un sistema più semplice.

— Potreste rilasciarmi una dichiarazione giurata — suggerì l’avvocato, con un tono misto di dubbio, sospetto, e speranza.

— Per me va bene. Dove devo giurare?

Glaustrab afferrò il cappello, cercò gli occhiali sulla scrivania, li trovò sul naso e fece segno a Raven di seguirlo. Scesero di due piani ed entrarono in un altro ufficio dove c’erano quattro uomini. Col loro aiuto preparò il documento, e Raven, dopo averlo riletto attentamente, firmò.

— Eccovi a posto, Sam.

— È stato molto generoso da parte vostra, signor Raven. — Strinse il foglio tra le dita e con la mente vide la scena che si sarebbe svolta al processo, quando si sarebbe alzato in mezzo alla sala silenziosa per presentare il documento. Un vero colpo di scena. Per una volta tanto, Glaustrab era felice. — Molto generoso — ripeté. — Il mio cliente apprezzerà il vostro gesto.

— È quello che voglio — disse Raven cupo.

— Sono sicuro che potrete contare su di lui e… — Improvvisamente Glaustrab cambiò espressione. Gli era venuto il terribile sospetto che la dichiarazione firmata da Raven avesse un prezzo. — Come avete detto?

— Voglio che il vostro cliente apprezzi il mio gesto. Voglio che mi consideri una specie di Babbo Natale, capite? — Puntò l’indice contro il petto dell’avvocato. — Quando un branco di tipacci vuole la tua pelle, basta un po’ di gratitudine per creare discordia nelle loro file.

— Davvero? — Glaustrab osservò che quella mattina certi concetti gli sfuggivano. Si portò una mano alla tempia.

— Questa volta li avete in tasca — disse Raven, e uscì.

16

La casa era piacevolmente silenziosa, e Leina lo stava aspettando. Raven lo sapeva con certezza. La vostra donna, aveva detto Thorstern in tono di riprovazione. Tuttavia la loro unione, per quanto non convenzionale, era perfettamente priva di immoralità.

Si fermò vicino al cancello a osservare la specie di cratere che si era aperto nel campo vicino. Era abbastanza grande per contenere un taxi antigravità. A parte la strana buca, i dintorni della casa erano esattamente come li aveva visti l’ultima volta. Alzò lo sguardo verso il cielo per osservare la scia bianca di un’astronave da carico diretta verso Marte.

Avviandosi alla porta girò la maniglia e scostò il battente servendosi della forza telecinetica, come aveva fatto Charles per aprire il cancello della fortezza di Thorstern. Leina lo stava aspettando in soggiorno. Teneva le mani intrecciate sulle ginocchia e aveva gli occhi scintillanti di gioia.

— Sono leggermente in ritardo. — Raven non disse altro, né la baciò. La loro felicità era evidente e non aveva bisogno di futili espressioni fisiche. Non l’aveva mai baciata, non aveva mai desiderato di farlo, né l’avrebbe mai fatto. — Mi sono trattenuto per togliere Kayder dai guai. Prima della mia partenza era necessario metterlo in condizioni di non nuocere. Ora non è più necessario. Le cose sono cambiate.

— Le cose non cambiano mai — disse Leina.

— Mi riferivo alle piccole cose, non alle grandi.

— Sono le grandi che contano.

— Hai ragione, Occhi Lucenti, ma non sono d’accordo su quanto vuoi dire. Anche le piccole cose hanno una loro importanza. — Sotto lo sguardo fermo di Leina, Raven giudicò opportuno giustificarsi — Non vogliamo che si scontrino coi Deneb… ma non vogliamo neanche che si distruggano da soli.

— La seconda soluzione sarebbe il minore dei due mali… Spiacevole, ma non disastrosa. I Deneb non apprenderebbero niente.

— Non potranno mai essere più edotti di quanto sono.

— Può darsi — disse Leina. — Ma tu hai gettato alcuni semi di conoscenza proibita. Prima o poi, sarai costretto a estirparli.

— Intuizione femminile, vero? — Raven sorrise come un bambino malizioso. — Anche Mavis la pensa come te.

— E ha ragione.

— Quando arriverà il momento, i semi potranno venire distrutti, dal primo all’ultimo. Lo sai benissimo.

— Certo. Tu sarai pronto e io sarò pronta. Dove andrai tu verrò anch’io — disse Leina con fermezza. — Tuttavia penso ancora che il tuo intervento non sia stato opportuno. Hai corso un grosso rischio.

— A volte è necessario. Comunque, la guerra è finita. E in teoria l’umanità è ora in condizioni di concentrarsi e di proseguire il suo cammino.

— Perché dici in teoria?

Raven si accigliò. — Può darsi che si scateni un nuovo e diverso conflitto.

— Capisco. — Leina andò alla finestra e rimase a osservare il paesaggio. — David, in un caso simile, intendi intervenire una seconda volta?

— No, decisamente no. Questa guerra verrebbe scatenata contro quelli che sono della nostra stessa specie e contro quelli ritenuti come noi. Non mi sarà data la possibilità di intervenire. Verrò colpito senza il minimo avvertimento. — Si avvicinò a Leina e le mise una mano sulla spalla. — Potranno colpire anche te, nello stesso modo e nello stesso momento. Ti preoccupa?

— No, finché ogni cosa può rimanere nascosta.

— Potrebbe anche non accadere. — Raven spostò lo sguardo fuori della finestra, e all’improvviso cambiò argomento. — Quando compri le anatre?

— Le anatre?

— Da mettere nello stagno — disse Raven indicando il cratere. — Cos’è successo? — chiese.

— Venerdì pomeriggio, quando sono tornata dalla città, nell’attimo di aprire la porta ho sentito qualcosa nella serratura.

— Cos’era?

— Una piccola pallina azzurra con un puntino bianco, l’ho vista con la niente. Era messa in modo che introducendo la chiave avrei toccato il punto bianco. L’ho teleportata dalla serratura al campo accanto, poi ho scagliato un sasso sul puntino. La casa ha tremato fino alle fondamenta.

— Il lavoro di un microtecnico — commentò Raven — e del telecinetico che l’ha introdotta nella serratura. — L’ultima frase rivelò di nuovo la sua insensibilità. — Se il trucco fosse riuscito avresti provato una bella sorpresa.

— Ma ci sarebbe stata una persona ancor più sorpresa di me — disse Leina. — Tu.

La notte era eccezionalmente limpida e il cielo era punteggiato di stelle. I crateri che si allungavano sul limite della faccia illuminata della Luna erano perfettamente visibili a occhio nudo. Da un orizzonte all’altro, la volta dello spazio somigliava a un drappo di velluto nero cosparso di punti luminosi, alcuni a luce fissa, altri con bagliori intermittenti di tutti i colori, bianchi, azzurri, gialli, rosa e verde pallido.

Semisdraiato su una poltrona inclinata, sotto la cupola di vetro del tetto, Raven studiava quella scena di incomparabile maestosità. Poi chiuse gli occhi per mettersi in ascolto. Accanto, su una poltrona identica, Leina stava facendo la stessa cosa. Quelle erano le loro notti intime. Sotto la cupola, in osservazione e in ascolto. In quella casa non c’erano camere da letto, né letti. Non ne avevano bisogno. A loro bastavano le poltrone e la cupola.

Anche durante il giorno osservavano e restavano in ascolto. Ma lo facevano con meno concentrazione e in modo più spasmodico, con l’attenzione rivolta al mondo, non alle infinità dello spazio. Insieme avevano osservato e ascoltato, giorno e notte, per anni. Il compito sarebbe stato insopportabilmente monotono, ma erano in due. La presenza dell’uno rompeva la solitudine dell’altro. Inoltre, le cose che loro vedevano e sentivano, avevano il pregio di essere infinitamente varie.

Sulla Terra e lontano, molto lontano, accadevano sempre nuovi fatti. Sempre. E nessun incidente capitava mai due volte. Questo era il compito di quelli che osservavano eternamente. Era un lavoro di responsabilità e di grande importanza. Ciascuno era come una sentinella che protegge la città addormentata dalla cima di una torre. Molti facevano quello stesso lavoro, pronti a lanciare l’allarme alla prima necessità. C’erano Charles e Mavis su Venere, Horst e Karin su Marte, migliaia d’altri… decine di migliaia… tutti in coppia.

Raven pensò a quelli che si trovavano su Marte e spostò gli occhi verso un puntino rosa che si trovava quasi all’altezza dell’orizzonte. E chiamò.

“Horst! Horst!”

La risposta venne dopo qualche secondo, leggermente soffocata dalla fascia atmosferica della Terra.

“Sì, David?”

“Sai cosa stanno facendo i ribelli del tuo pianeta?”

“Più che altro discutono tra di loro, David. Si sono divisi in diversi gruppi. Alcuni vogliono continuare la lotta contro la Terra, altri dicono che Venere ha tradito e vogliono scagliarsi contro di lei, altri ancora si sono trasformati in anti-mutanti. La maggior parte, però, è disgustata e pensa di abbandonare tutto.”

“Quindi stanno attraversando un periodo di indecisione cronica?”

“Più o meno.”

“Grazie, Horst. Salutami Karin.”

Diresse la mente verso un altro punto del cielo.

“Charles… Charles!”

Questa volta la risposta giunse all’istante, e con maggior chiarezza.

“Sì, David?”

“Ci sono novità?”

“Thorstern è partito ieri per la Terra.”

“Sai per quale motivo?”

“No, ma posso immaginarlo. Dev’essere per qualcosa che gli porta un vantaggio personale.”

“Questo era scontato. Comunque lo terrò d’occhio non appena arriva. Ti farò sapere cosa scopro.”

“Grazie. Hai sentito di Wollencott?”

“Sì. Brutta faccenda.”

“Orribile” rincarò Charles. “ Qui il movimento clandestino tende a sciogliersi. Comunque, in potenza rimane, e può ricostituirsi da un momento all’altro. Non posso fare a meno di pensarci.”

“E io ne so il motivo.”

“Sarebbe?”

“Mavis continua a ripeterti che hai sbagliato.”

“È vero” ammise Charles. “ E io so come hai fatto a indovinarlo.”

“Come?”

“Leina ti sta’ ripetendo la stessa cosa.”

“Esatto” pensò Raven. “ Ci siamo messi d’accordo nel non andare d’accordo.”

“Anche noi. A volte, da come mi guarda, diresti che sono un deliquente minorile. La cosa più importante sarà protetta qualsiasi cosa accada. Ma perché mai le donne devono sempre avere tanta paura?”

“Perché guardano questi mondi da un punto di vista femminile e materno. Tu e io abbiamo lanciato il pargolo troppo in alto.”

“Penso che tu abbia ragione.” Poi il pensiero di Charles divenne ironico. “ Ma come fai a saperlo? Quanti pargoli hai…”

“Uso l’immaginazione” interruppe Raven. “ Ciao, Charles.”

Rispose un borbottìo telepatico di saluto.

Raven girò lo sguardo verso Leina: stava sdraiata a occhi chiusi nella poltrona, e teneva la faccia rivolta alle stelle. La osservò per un attimo con tenerezza, ma non il corpo di carne che era visibile agli uomini normali: quella faccia era solo una maschera presa a prestito, dietro cui Raven poteva vedere la vera Leina. A volte dimenticava che lei aveva una faccia, la faccia di un’altra e vedeva soltanto quello che le brillava negli occhi.

Leina non si rese conto che Raven la stava guardando. Aveva la mente rivolta lontano, ed era assorta nell’ascolto dell’interminabile chiacchierio che proveniva dallo spazio.

Raven seguì l’esempio della donna.

“Perlustrare attentamente attorno a Bluefire, un gigante in formazione. Erano venti astronavi nere, tipo incrociatore.”

“…ripetutamente, ma la completa mancanza di un mezzo comune rende impossibile la comunicazione con questi Flutterer. Non possiamo neanche far loro comprendere che vogliamo parlare con loro. Se i Deneb arrivano e si mostrano ostili verso di loro, noi dovremo prendere le misure necessarie per…”

“Parlo da Thais. Sono entrato senza destare sospetti. Ho avuto la fortuna di trovare un tipo adatto che se ne stava andando. Ha preso rapidamente la decisione e mi ha detto: ‘Sì, disponete pure di me’.”

“I Bender hanno una notevole potenza visiva, tuttavia sono di un livello culturale piuttosto basso. Ci vedono chiaramente, ci chiamano gli Scintillanti e insistono nel volerci adorare. È alquanto imbarazzante.”

“Siamo passati accanto a Jilderdeen senza farci scorgere, e abbiamo visto che i Deneb stanno costruendo un immenso impianto per la produzione dei cristalli. Significa che vogliono fermarsi sul pianeta…”

“…i poveri selvaggi hanno scelto noi per il sacrificio annuale ai Soli Gemelli. Una vera sfortuna essere stati scelti in mezzo a tutta una tribù. Ormai è questione di pochi giorni. Meglio che qualcuno si tenga pronto a prendere il nostro posto.”

L’ultimo messaggio lo colpì. Poveri selvaggi! Tutti i mondi osservati potevano essere considerati alla stessa maniera, incluso quello su cui si trovava. Tutti i bambini possono essere considerati selvaggi rispetto al vero adulto. Si alzò. Le stelle brillavano, ma il mondo che lo circondava era buio, molto buio.

Nelle tre settimane che seguirono, Raven rimase attento alle notizie che venivano diffuse dalla radio e dagli spettroschermi. Fu una cosa noiosa, ma continuò ad ascoltare, con l’ostinazione della persona in attesa di qualcosa che forse non accadrà mai.

Non vennero menzionate attività anti-terrestri, né vennero date notizie sugli sviluppi di progetti per la conquista dello spazio sconosciuto. Il burocratico amore per il segreto aveva vinto ancora una volta. Le menti dei disposti avevano stabilito come sempre che le notizie di pubblico interesse non dovessero venire divulgate nell’interesse del pubblico.

Ascoltò con pazienza non solo le notizie, ma anche tutte quelle interminabili chiacchiere che venivano fatte per divertire il pubblico. Considerava ogni frase con attenzione, e esaminava ogni cosa nella vera monotona completezza. Sotto un certo punto di vista, poteva considerarsi una persona anziana costretta a sorbirsi ore e ore di uno spettacolo fatto per divertire un branco di bambini piagnucolosi.

Alla fine della terza settimana, lo spettroschermo tridimensionale a colori iniziò la nuova serie di uno spettacolo in quattro puntate. Uno dei soliti romanzi sceneggiati che venivano trasmessi con regolarità. Il protagonista, un telepatico, aveva spiato nella mente della donna amata, una non mutante, e l’aveva trovata pura, dolce e onesta. Il malvagio era impersonato da un insettivora, dalla fronte bassa, che nutriva una particolare passione per i millepiedi velenosi.

Era uno di quei polpettoni destinati a occupare le menti e a impedire loro di pensare. Tuttavia Raven seguì le quattro puntate con l’avidità di chi va matto per quel genere di spettacoli. Alla fine, il cattivo veniva punito e la virtù trionfava. Nell’ultima scena un simbolico stivale schiacciava un simbolico millepiedi.

Al termine dello spettacolo, Raven sospirò annoiato e andò a trovare Kayder.

L’uomo che andò ad aprirgli la porta era un essere normale, che somigliava a un pugile suonato. Aveva il naso schiacciato e le orecchie che sembravano di cartapecora. Indossava un maglione grigio.

— C’è Kayder?

— Non so — mentì l’uomo. — Vado a vedere. — Socchiuse gli occhi per osservare meglio il visitatore. — Chi devo annunciare?

— David Raven.

Quel nome non disse niente all’uomo che si allontanò lungo il corridoio, continuando a ripetere mentalmente il nome, come se fosse troppo difficile da ricordare. Tornò dopo qualche minuto.

— Potete passare.

Facendo dondolare le braccia lungo i fianchi, fece strada fino alla parte posteriore della casa.

— Il signor Raven — annunciò con voce rauca, e scomparve.

Era lo stesso studio, con gli stessi mobili e la stessa scrivania, ma tutte le piccole scatole erano scomparse. Kayder si alzò e rimase incer to se porgergli la mano o no. Alla fine indicò una poltrona.

Raven si mise a sedere e distese le gambe.

— Così, Sammy ce l’ha fatta. Ha ottenuto il suo quarto d’ora di celebrità — disse.

— Sono stato condannato soltanto al pagamento delle spese. Cento crediti. Comunque, posso dire di essermela cavata a buon mercato. — Kayder fece una leggera smorfia. — Il vecchio buffone seduto nel suo scranno di giudice ci ha tenuto a dire che dichiarazioni come la vostra non mi potranno salvare nel caso ripetessi lo stesso reato.

— Forse Sammy lo ha seccato esagerando nel mettere in risalto il suo colpo di scena — disse Raven. — Comunque, è finito tutto bene.

— Già — si protese in avanti fissando negli occhi Raven. — E adesso siete venuto a riscuotere.

— Un’astuta deduzione espressa in modo un po’ troppo crudo — disse Raven. — Diciamo che sono venuto a darvi una leggera strizzata.

Kayder aprì rassegnato un cassetto. — Quanto?

— Quanto cosa?

— Denaro.

— Denaro? — ripeté Raven, incredulo. — Credete proprio che voglia quattrini? — E alzò gli occhi al soffitto.

Kayder richiuse il cassetto con rabbia. — Sentite, voglio sapere una cosa. A un certo punto avete voluto mettermi nei guai, e subito dopo siete venuto a salvarmi. Perché?

— I momenti erano diversi.

— Davvero? In che senso?

— Prima c’era un conflitto, voi eravate un pericolo ed era consigliabile togliervi di mezzo. Poi il conflitto è terminato, o stava per terminare, ed era inutile farvi finire sotto chiave.

— Così, sapete che la guerra è finita?

— Sì. Avete ricevuto ordini in proposito?

— Infatti — ammise Kayder con una certa acidità. — E non mi piacciono. — Allargò le braccia in un gesto di impotenza. — Devo essere sincero con voi. Non ho altra possibilità, dato che potete leggermi i pensieri. Non mi piace questa improvvisa rinuncia al conflitto, ma non posso farci niente. Tutto il movimento clandestino sta andando a rotoli.

— Ed è la cosa migliore. Voi stavate combattendo per un governo autonomo… ammesso che la dittatura segreta di un uomo possa chiamarsi governo autonomo.

— Wollencott era un condottiero nato, ma non aveva la grinta del dittatore.

— Non ne aveva bisogno — disse Raven. — Tutta la grinta gliela forniva Thorstern.

Kayder spalancò gli occhi sorpreso. — Che c’entra Thorstern in tutto questo?

— Lo conoscete?

— Tutti i Venusiani lo conoscono. È uno dei sette uomini più influenti del pianeta.

— Il più forte di tutti — lo corresse Raven. — Infatti pensa che Venere dovrebbe essere sua proprietà personale. Aveva comperato Wollencott anima e corpo, fino al momento in cui gli ha ridato la libertà.

— Gli ha ridato la libertà? Volete dire… — Kayder comprese all’istante. Si irrigidì sulla poltrona e tamburellò con le dita sul tavolo. Dopo qualche secondò disse: — Può anche darsi. Non ho mai conosciuto Thorstern personalmente. Però sapevo del suo carattere duro e ambizioso. Se Wollencott prendeva direttive da qualcuno, questa persona poteva benissimo essere Thorstern. — Corrugò la fronte. — Non l’avevo mai sospettato. Evidentemente si teneva ben nascosto.

— Infatti.

— Thorstern, eh? — Fissò Raven attentamente. — Allora, perché si è sbarazzato di Wollencott?

— Thorstern è stato convinto a smettere la guerriglia contro la Terra e a dedicarsi ad attività più legali. Così Wollencott, utile fino a poco prima è diventato un legame imbarazzante. E Thorstern ha un suo modo particolare per liberarsi dei legami scomodi.

— Non vorrei credere a una cosa simile — disse Kayder con risentimento — ma debbo accettarla. Tutto concorda.

— La vostra mente dice qualcosa di più — osservò Raven. — Dice che l’organizzazione anti-terrestre si è divisa in piccoli gruppi. Voi temete che uno di questi gruppi, per ingraziarsi le autorità, finisca col tradire gli altri. Pensate che ci sia troppa gente a conoscenza di quanto stava accadendo.

— Correrò il rischio — disse Kayder. — Il tradimento è una partita che può essere giocata da entrambe le parti. Ho la coscienza meno sporca di molti altri.

— Avete sulla coscienza un ipnotico che si chiama Steen?

— Steen? — Kajder guardò Raven sorpreso. — Non sono mai riuscito a prenderlo. È scappato a bordo della Star Wraith, qualche giorno dopo la vostra partenza a bordo del Fantôme. In quel periodo avevo qualcosa di molto più importante a cui pensare. Non ricordate?

— Ricordo.

— Non ho mai saputo cosa gli sia successo.

— È morto… lentamente.

— Anche Haller! — rispose Kayder con improvviso vigore.

— In due modi diversi. Haller ha voluto morire. Ed è morto rapidamente.

— Non vedo la differenza. Sono cadaveri tutti e due.

— La differenza non sta nella loro condizione ultima — spiegò Raven con serietà — ma nella velocità con cui è avvenuto il passaggio. Una volta avevate il desiderio di ridurmi a scheletro. Se fosse stata una cosa rapida, mi sarei messo a ridere. Ma se vi foste divertito a prolungare le sofferenze, allora avrei potuto anche risentirmi.

Kayder spalancò gli occhi per la sorpresa ed esclamò: — È la cosa più pazza che mi sia mai capitato di sentire.

— È pazzo anche questo tris di pianeti su cui viviamo.

— D’accordo, ma…

— Inoltre — riprese Raven, senza far caso all’interruzione — non avete ancora sentito quello che devo dirvi. Non sono venuto per fare inutili chiacchiere.

— L’avete già detto. Volete qualcosa, ma non si tratta di denaro.

— Io vi ho fatto un favore. Ora ne voglio uno da voi.

— Ci siamo! — disse Kayder, muovendosi a disagio. — Cosa volete?

— Che uccidiate Thorstern, qualora se ne presenti la necessità.

— Cosa? Sentite, voi mi avete salvato, anche se non so da cosa. Il massimo sarebbero stati sette anni di carcere, ma mi avrebbero potuto anche condannare a una pena di sei mesi. Diciamo quindi che mi avete risparmiato sei mesi di carcere… Pensate che valgano un omicidio?

— Non avete ascoltato attentamente le mie parole. Ho detto: qualora se ne presenti la necessità. Allora non sarebbe un omicidio… ma una esecuzione sommaria.

— Chi mi dirà quando giunge il momento? — chiese Kayder.

— Voi.

— In questo caso, non prenderò mai la decisione.

— Qualche settimana fa non eravate tanto tenero.

— Ne ho avuto abbastanza. Voglio dedicarmi al mio commercio, badare a me stesso e fare in modo che gli altri mi lascino in pace. Inoltre, per quanto le autorità insistano nell’affermare che sono un Terrestre, io mi considero un Venusiano, e non voglio uccidere una persona del mio pianeta per dimostrare gratitudine a un terrestre. — Kayder infilò in tasca i pollici e assunse un’espressione ostinata. — Sarei felice di potervi fare un favore, ma chiedete troppo.

— Se foste in grado di capire, sapreste che vi chiedo poco.

— Troppo! — ripeté Kayder. — E voglio dirvi qualcos’altro. Quando si tratta di uccidere, voi ne siete perfettamente capace. Perché non ve la sbrigate da solo, il vostro sporco lavoro?

— Ottima domanda. Ci sono due valide ragioni.

— Sarebbero.

— Primo, ho già attirato troppa attenzione sulla mia persona e non voglio attirarne altra. In secondo luogo, se si dovesse presentare la necessità di uccidere Thorstern, il primo segno di questa necessità verrà dato dalla mia partenza da questa valle di lacrime.

— Volete dire…

— Che sarò morto.

— Voi sapete cosa penso. Sono in debito con voi, quindi la vostra morte non mi renderà felice. Comunque non fingerò di essere triste.

— Dovreste, invece — disse Raven.

— Vi spiacerebbe dirmi perché?

— Significherebbe che voi sareste il secondo.

— Il secondo? A fare cosa?

— A scomparire da questo mondo.

Kayder si alzò di scatto dalla poltrona. — Ma chi volete che mi uccida? Perché dovrebbero farlo? Voi e io ci troviamo in campi avversi. Perché mai dovremmo essere sulla stessa lista?

Raven gli fece cenno di rimettersi a sedere. — Dal punto di vista delle masse, noi abbiamo una cosa in comune… Nessuno di noi due è normale.

— E che cosa significa?

— Gli esseri normali guardano i paranormali di traverso. Non si può proprio dire che li amino.

— Non sento il bisogno di essere amato. Sono abituato al loro modo di comportarsi nei miei riguardi. — Kayder scrollò le spalle con indifferenza. — Riconoscono le persone meglio dotate di loro, e le invidiano.

— Si tratta anche di una cautela istintiva che si avvicina alla paura. È una parte radicata nel loro meccanismo di difesa. Sollevando la paura delle masse, controllandola e potendola dirigere, si possono ottenere risultati notevoli.

— Io non so leggere il pensiero degli altri — disse Kayder — ma non significa che sia uno stupido. Vedo dove volete arrivare. Voi pensate che Thorstern voglia riguadagnare il potere perduto scatenando una crociata anti-mutanti, vero?

— Potrebbe farlo. Ha usato le capacità dei mutanti, come ha usato le vostre, per suo scopo personale. Ora può pensare a questo. Alcuni mutanti lo hanno ostacolato, gli hanno negato la vittoria, hanno anche minacciato la sua vita. Essendo un essere normale, può convincersi di poter guadagnare maggiore ascendente sulla massa dei suoi simili.

— Sono solo congetture — disse Kayder, a disagio.

— Esatto — disse Raven. — Può non succedere niente. Thorstern può dedicarsi a occupazioni innocue. In questo caso, non sarà necessario eliminarlo.

— Potrebbe essere molto pericoloso per lui tentare una crociata simile. I mutanti sono inferiori di numero, ma una volta visti di fronte a un pericolo comune…

— Ecco che siete giunto al mio punto di vista iniziale — disse Raven. — Ma l’ho abbandonato. Sono andato oltre.

— Cosa volete dire?

— Thorstern ha cinquantotto anni. Di questi tempi, molte persone raggiungono i cento e conservano tutte le facoltà mentali fino ai novant’anni. Così, eliminando incidenti e l’omicidio, gli rimangono ancora parecchi anni di vita.

— E con questo?

— Potrebbe concedersi di essere paziente, prendere la via più lunga e ottenere gli stessi risultati.

Kayder lo guardò senza capire. — Volete essere più chiaro?

— In passato — disse Raven — qualche sapientone ha notato che la tecnica più valida non è quella di combattere una cosa, ma di separare le sue parti perché si combattano a vicenda.

Kayder trasalì.

— Cambiate il vostro modo di pensare — lo invitò Raven. — Passate dal generale al particolare. Non esiste un solo tipo di mutante. Il mondo è pieno di tipi diversi. Voi, per esempio, appartenete a una certa specie. E sono pronto a scommettere che considerate la vostra specie superiore a tutte le altre.

— Anche i telepatici pensano la stessa cosa di se stessi — replicò Kayder.

— Questo è un colpo diretto contro di me, ma non ha importanza. Ciascuna specie di mutanti si considera superiore alle altre. Tutte sono sospettose e gelose come i semplici esseri normali.

— E allora?

— Questo stato d’animo può essere sfruttato. Un tipo può essere messo contro un altro tipo. Ricordate una cosa, mio caro amico degli insetti, le capacità superiori non sono necessariamente accompagnate da cervelli superiori.

— Lo so.

— Esistono telepati tanto ricettivi da poter leggere il vostro pensiero anche se vi trovate all’orizzonte, ma che sono dotati di una levatura mentale minima. I mutanti sono esseri umani con tutti i difetti degli esseri umani. Thorstern, essendo psicologo per istinto, non mancherà di rilevare questa utile caratteristica.

Ora Kayder vedeva le cose con maggiore chiarezza. Comprendeva le estreme possibilità, ed era costretto ad ammettere che esistevano. Il quadro non era tanto felice.

— Se dovesse tentare una cosa simile, come credete che vorrà cominciare?

— Con sistema — disse Raven. — Anzitutto cercherà di conquistare l’appoggio di Heraty, del Consiglio Mondiale e di tutti gli esseri normali che hanno una certa influenza sui tre pianeti. Il secondo passo sarà quello di raccogliere più dati possibili sui mutanti, compilare un elenco, analizzarlo e stabilire quali siano i più pericolosi e distruttivi. Sceglierà il tipo mutante che deve fare il cavaliere senza macchia e quello che dovrà recitare la parte del drago divoratore di bambini.

— E poi?

— Supponiamo che decida di organizzare lo sterminio degli insettivoci per mano dei pirotici… Anzitutto i servizi di propaganda dei tre pianeti cominceranno a nominare gli insettivoci in modo casuale, ma per metterli sempre in cattiva luce. Questo farà nascere un inconscio pregiudizio contro di loro. La propaganda, allora, si farà più acida, e alla fine, per la maggior parte, gli esseri umani, intendo normali e mutanti, si convinceranno che gli insettivoci non meritano di continuare a esistere.

Kayder fece segno di aver capito.

— Fatto questo — riprese Raven — cominceranno le ingannevoli insinuazioni che gli insettivoci odiano i pirotici perché questi ultimi hanno un potere capace di uccidere gli insetti. A poco a poco alla gente si suggerirà che è un bene avere vicino i pirotici. Al momento opportuno, e la scelta del momento è importante, un discorso ufficiale a favore degli insettivoci farà appello all’unità e alla tolleranza, e proclamerà assurde le voci circa un complotto di insetti guidati che vogliono conquistare il dominio dei pianeti con l’aiuto degli insettivoci. Il discorso otterrà il suo effetto. E il pubblico, includo sempre gli altri tipi di mutanti, si convincerà che non c’è fumo senza arrosto.

— La gente non berrà una panzana simile — protestò Kayder, convinto però che la cosa era possibilissima.

— La gente berrà qualsiasi cosa, anche se pazzesca, basterà che la notizia abbia il sigillo di garanzia ufficiale, che sia sostenuta a lungo, che non venga mai contraddetta, e che faccia presa sulla paura — ribatté Raven. — Ora ammettiamo che la gente sia suggestionata a dovere: che succede?

— Ditelo voi.

— Succede qualcosa capace di far precipitare la situazione creata. — Raven s’interruppe un attimo per cercare un esempio. — Uno scheletro viene trovato su un versante delle Sawtooths, e al fatto viene data molta più pubblicità di quanta meriti. Poi si diffonde la voce che un innocente pirotico è stato dilaniato dallo sciame di un insettivoco. Immediatamente si diffondono altre voci. Un agitatore di masse scatena la folla contro gli insettivoci, proprio quando, per una strana coincidenza, le forze di polizia sono mobilitate da un’altra parte. La notizia si diffonde rapidamente. — Raven guardò Kayder con occhi freddi. — Prima che possiate rendervene conto, vi troverete alle calcagna normali e mutanti, con i pirotici in testa.

— Mentre Thorstern se ne sta a ridere in disparte — concluse Kayder.

— Avete afferrato il concetto. Con l’aiuto dell’umanità atterrita, scova tutti gli insettivoci che esistono e ne estingue la razza. Segue un periodo calcolato di pace e tranquillità, poi i servizi di propaganda iniziano il loro gioco con la nuova vittima: i microtecnici, per esempio.

— Non farà mai una cosa simile.

— Forse no… e forse sì. Avete visto l’ultimo romanzo sceneggiato, sullo spettroschermo?

— No. Ho modi migliori per perdere il mio tempo.

— Avete mancato un’occasione interessante. Parlava di mutanti.

— Spettacoli del genere se ne sono già visti.

— Infatti. Quello spettacolo poteva anche essere privo di significato. O poteva anche essere l’inizio di una insidiosa campagna per sterminare tutti quelli che hanno dei poteri paranormali. — Raven, fece una breve pausa, poi aggiunse: — L’eroe era un telepatico, e il malvagio un insettivoco.

— Non farà mai una cosa simile — ripeté Kayder con rabbia. — Lo ucciderei!

— È quello che vi avevo chiesto. Sono venuto da voi perché eravate in debito di un favore. E anche perché fino a pochi giorni fa eravate il capo di un gruppo assortito di mutanti che probabilmente potete ancora radunare. Avete in mano una forza notevole e siete in grado di usarla. Lasciate che Thorstern viva in pace, ma tenetelo d’occhio, per vedere che strada prende. Se vi accorgete che ha intenzione di sconvolgere il genere umano…

— Non vivrà abbastanza — promise Kayder con decisione. — Ma non per farvi un favore. Soltanto per proteggere me stesso. In questo caso non avrei il minimo scrupolo. Si tratta di legittima difesa. — Guardò Raven attentamente. — Immagino che voi dovrete proteggervi molto prima di me. Cosa intendete fare?

— Niente — disse Raven alzandosi.

— Niente? Perché mai?

— Forse, al contrario di voi, sono incapace di fare qualcosa per difendermi. — Aprì la porta. — O forse mi piace l’idea di diventare un martire.

— Se si tratta di una battuta, non la capisco. Se non lo è, allora siete proprio pazzo!

17

Raven si sdraiò nella poltrona pneumatica e si rivolse a Leina. — Ci saranno altre interferenze, se gli avvenimenti lo richiedono. Ma non da parte nostra. I progetti degli esseri umani saranno ostacolati da altri esseri umani. Sei contenta di questo?

— Avrei preferito che fosse stato così fin dall’inizio — rispose Leina in tono aspro.

— Hanno pure diritto al loro piccolo frammento di destino, non ti pare?

Leina sospirò rassegnata. — Il guaio dei maschi è che non crescono mai. Rimangono incurabilmente romantici. — Girò lo sguardo per fissarlo negli occhi. — Sai benissimo che dobbiamo limitarci a difenderli dai Deneb… questi fragili bipedi.

— Pensala come vuoi — disse Raven per concludere l’argomento. Era inutile discutere con lei… dato che aveva ragione.

— Inoltre — riprese Leina — mentre ti occupavi di affari trascurabili, io sono rimasta in ascolto. Dodici astronavi nere sono state viste nella regione di Vega.

Raven si irrigidì. — Vega! È il punto più vicino che abbiano mai raggiunto.

— Potrebbero anche venire più vicini. Potrebbero raggiungere questo Sistema Solare. O potrebbero allontanarsi in un’altra direzione e lasciare questo settore cosmico per altri diecimila anni. — Non disse altro, ma Raven comprese perfettamente. — È un brutto momento per correre rischi inutili.

— Un errore tattico non ha importanza, quando abbiamo la capacità di nasconderlo e correggerlo — rispose Raven, quindi si alzò. — Vado in cupola ad ascoltare.

Di sopra si accomodò, aprendo la mente, e cercò di isolare dal chiacchiericcio dell’etere la parte di dati provenienti dalla regione di Vega. Non era facile. C’erano tantissime voci che si accavallavano…

“I saltatori tripedi di Raemis sono fuggiti nelle paludi e per la paura rifiutano qualsiasi contatto coi Deneb. Pare che i Deneb lo ritengano un mondo inadatto a qualsiasi scopo. Si apprestano a partire.”

“…influenzato le menti dei piloti, deviando l’intero convoglio verso Zebulam, una quasi-nova nel settore cinquantuno del Crepaccio. Conti nuano a filare imperterriti, convinti di trovarsi sulla giusta rotta.”

“Gliel’ho chiesto. L’aveva abbandonato così all’improvviso e con tanta violenza che era troppo confuso per dare il permesso. Quando si è riavuto era troppo tardi, l’occasione era andata in fumo. Così adesso dovrò aspettarne un altro. Intanto…”

“Questi Weltenstile si sono spaventati a morte quando un incrociatore è sbucato dall’oscurità e li ha bloccati con dei raggi trattori. I Deneb hanno capito subito di aver preso una nave rudimentale con a bordo dei selvaggi, e l’hanno lasciata andare senza nuocere.”

“…dodici in formazione a ventaglio, sempre dirette verso Vega, biancazzurra del settore uno-novantuno, ai bordi del Lungo Spruzzo.”

Raven si drizzò e contemplò il cielo notturno. Il Lungo Spruzzo scintillava allo zenit come un velo impalpabile. I Terrestri lo chiamavano Via Lattea. Tra quel punto e un altro puntolino insignificante perso nell’oscurità c’erano mille mondi capaci di distogliere l’attenzione delle navi in arrivo. Ma quelle navi avrebbero anche potuto insistere sulla loro rotta, ignorando qualsiasi altra attrazione. Quando li si lasciava liberi di agire a modo loro, i cari Deneb erano imprevedibili.

La fine prevista da Leina giunse dopo tre settimane. In quel periodo, né la radio né le reti degli spettroschermi diedero notizia di recenti animosità interplanetarie. Gli altri spettacoli non rivelarono nessun minaccioso spostamento di tendenze verso una particolare direzione. I mutanti venivano sempre rappresentati nei diversi spettacoli, ma i ruoli di eroe, eroina e antagonista venivano distribuiti con imparzialità.

Lontano, dodici astronavi nere avevano deviato leggermente verso destra e stavano puntando verso gli otto pianeti disabitati di un sistema binario minore. Per il momento, la marcia verso Vega era stata interrotta.

Il sole del mattino splendeva caldo. Il cielo era una limpida distesa azzurra segnata soltanto da qualche nube all’orizzonte e da una scia di vapore che si innalzava nella stratosfera. Ancora una volta, il Fantôme era partito per Venere.

Un elicottero a quattro posti diede la prima indicazione sul fatto che gli errori si devono pagare, e che il passato ha sempre modi antipatici per intralciare il presente. Giunse da ovest e atterrò nelle vicinanze del cratere ormai cosparso di erbe colorate. Ne scese un uomo.

Leina lo fece entrare. Si trattava di un giovane alto, robusto, dall’espressione leale. Era un agente del Servizio Segreto della Terra, un subtelepate, capace di leggere il pensiero degli altri ma non di chiudere la propria mente. Secondo quelli che l’avevano mandato, era il tipo più adatto alla missione. Un uomo aperto, che sapeva immediatamente conquistarsi la fiducia degli altri.

— Mi chiamo Grant — disse. Condizionato dalla sua limitazione, aveva parlato vocalmente. Altrimenti dovendo parlare con dei veri telepati si sarebbe trovato in grande svantaggio.

— Sono venuto a riferirvi che il maggiore Lomax, del Servizio Segreto, vorrebbe vedervi al più presto possibile.

— È urgente? — chiese Raven.

— Credo di sì. Se siete pronti, posso portare voi e la signora con questo stesso elicottero.

— Ci vuole tutti e due?

— Sì, ha detto voi e la signora.

— Sapete cosa vuole?

— No, signore. — Aveva l’espressione sincera, e la sua mente confermava le parole.

Raven si girò per interrogare Leina con lo sguardo. — Possiamo anche andare subito. Che ne dici?

— Io sono pronta — rispose lei fissando gli occhi sul visitatore.

Grant arrossì e imprecò contro l’incapacità di nascondere i propri pensieri.

“Mi sta scrutando” pensò. “ Mi sta scrutando profondamente. Vorrei che non lo facesse. O vorrei poterla scrutare allo stesso modo. È grande e grossa… ma è molto bella.”

Leina sorrise, ma non fece osservazioni. — Vado a prendere la borsetta — disse.

Al suo ritorno, si avviarono verso l’elicottero. La macchina si sollevò dolcemente da terra e puntò verso ovest. In tutta l’ora del volo, nessuno disse una parola. Grant rimase concentrato sugli strumenti di bordo e cercò di controllare il più possibile i pensieri.

Leina continuò a fissare il paesaggio che sfilava sotto di loro, come se fosse la prima volta che lo vedeva… o l’ultima. Raven chiuse gli occhi per sintonizzarsi su una banda molto al di sopra della banda telepatica normale.

“David! David!”

“Sì, Charles?”

“Ci stanno portando via.”

“Anche noi, Charles.”

L’elicottero scese verso un edificio isolato al centro di un tratto desolato battuto dal vento. Era una costruzione quadrata e somigliava a una centrale elettrica abbandonata o a un vecchio deposito di esplosivi.

Toccando terra, l’elicottero sobbalzò un paio di volte, poi rimase immobile. Grant saltò dall’apparecchio e aiutò impacciato Leina a scendere. Poi si avviarono tutti insieme verso la porta blindata che si apriva nella parete. Grant premette un pulsante, e subito una piccola apertura a iride si aprì nella porta mostrando la lente di un obiettivo.

La feritoia si richiuse quasi all’istante e dall’interno giunse il leggero cigolio del meccanismo che spostava i catenacci.

— Sembra una fortezza — disse Grant in tono ingenuo.

La porta si aprì, e le due persone convocate oltrepassarono la soglia. Grant li lasciò e tornò all’elicottero.

— A me sembra un crematorio — gridò Raven dalla soglia, girandosi verso Grant.

Poi la porta metallica si richiuse e i catenacci tornarono al loro posto. Grant rimase un attimo a osservare i battenti di ferro e le pareti senza finestre. Ed ebbe un brivido.

Dal fondo del corridoio in cui Raven e Leina si trovavano, giunse l’eco di una voce.

— Percorrete tutto il corridoio. Mi troverete nell’ultima stanza. Avrei voluto venire a ricevervi, ma sono certo che mi scuserete.

Era una voce cortese ma estremamente impersonale, priva di calore. Quando si trovarono di fronte alla persona che aveva parlato, notarono che aveva un aspetto corrispondente alla voce.

Il maggiore Lomax sedeva dietro una lunga scrivania. Era un uomo magro, di poco più di trent’anni, e aveva occhi azzurri che guardavano con una strana fissità. Portava i capelli biondi tagliati a spazzola. Ma le cose più caratteristiche erano l’estremo pallore del viso, quasi cereo, e la guancia permanentemente contratta da un lato. Indicò le uniche due poltrone esistenti nella sala.

— Sedetevi, prego. Vi ringrazio di essere venuti immediatamente. — Spostò gli occhi su Leina, poi tornò a fissare Raven. — Mi scuso per non essere venuto alla porta. Riesco a stare in piedi con difficoltà, e camminare mi è quasi impossibile.

— Mi spiace — disse Leina con compassione femminile.

Non era facile comprendere quale fosse stata la reazione di Lomax. Un rapido sondaggio mostrò che era un telepate di prima qualità, e che aveva uno schermo mentale efficientissimo. Volendo, però, Raven e Leina avrebbero forse potuto perforare le sue difese con un affondo simultaneo e violento. Per mutuo consenso, decisero di non tentare. Lomax doveva essersi accorto del primo tentativo di sondaggio, ma la sua faccia era rimasta impassibile.

Lomax prese alcuni fogli dattiloscritti che erano sulla scrivania, poi parlò con la stessa voce fredda e impersonale.

— Non so se sospettate il motivo della vostra convocazione, né posso immaginare quali saranno le vostre reazioni dopo che vi avrò parlato Comunque, prima di dare inizio al colloquio voglio farvi sapere che le mie funzioni sono stabilite qui.

Batté un dito sui fogli che stringeva nell’altra mano. — Sono dettagliate al massimo, e mi devo attenere strettamente alle istruzioni.

— Sembra tutto molto minaccioso — disse Raven. — Continuate.

Non ci furono reazioni visibili. La faccia pallida rimase fredda e impassibile come quella di una mummia. Sembrava che Lomax volesse recitare la parte del perfetto automa.

Prese il primo foglio e cominciò a leggere.

— Anzitutto devo comunicarvi un messaggio personale del signor Carson, capo dei Servizi di Spionaggio terrestri. Quando ha saputo di questa convocazione ha disapprovato con tutte le sue forze e ha usato tutti i mezzi in suo potere per impedirla. Ma è stato inutile. Vuole che vi porga i suoi saluti e che vi assicuri che qualsiasi cosa possa succedere in questo edificio, lui vi terrà sempre in grandissima stima.

— Povero me! — esclamò Raven. — Le cose si mettono male!

Lomax non perse la sua impassibilità.

— Questa conversazione dovrà essere svolta vocalmente, perché verrà registrata per un eventuale controllo da parte di chi l’ha voluta. — Prese un altro foglio e continuò a parlare come un robot. — È importante che sappiate che sono stato scelto per una strana combinazione di qualità. Sono membro del Servizio di Spionaggio, sono un telepate capace di nascondere i pensieri, e infine, cosa non senza importanza, sono una specie di relitto fisico. — Alzò gli occhi dal foglio, incontrando lo sguardo penetrante di Leina, e per la prima volta dimostrò un certo disagio. Riprese rapidamente a parlare. — Non vi annoierò con tutti i particolari. Sono rimasto ferito gravemente in un incidente. È stato fatto il possibile per salvarmi, però non mi rimangono ancora molti giorni di vita. Questa attesa è estremamente penosa, quindi sono felice di andarmene. — Alzò di nuovo gli occhi e guardò i due con espressione di sfida. — Voglio che lo ricordiate, perché è molto importante. Io vivo nell’anormale stato di mente dell’uomo che desidera morire. Quindi le minacce di morte non mi spaventano.

— Non intimidiscono nemmeno noi — disse Raven pacato.

Lomax li guardò sconcertato. Si era aspettato che gli domandassero chi mai intendesse minacciarlo. Riuscì comunque a nascondere la propria sorpresa, e riprese a parlare.

— Inoltre, per quanto non abbia paura di morire, sarò costretto a reagire nel caso che la mia esistenza venga minacciata. Sono stato sottoposto a uno speciale corso di condizionamento mentale che mi costringe alla reazione. Non fa parte del mio normale processo mentale e non può essere controllato da nessun telepate. Questo circuito entra automaticamente in azione quando corro il pericolo di perdere la vita o il controllo della mia personalità. Mi costringe ad agire senza pensarci, istintivamente. E il risultato sarà l’immeditata distruzione di noi tre.

Raven corrugò la fronte. — Dietro questa faccenda ci deve essere un uomo seriamente spaventato.

Lomax ignorò l’interruzione. — Io farò qualcosa che mi sarà ignota fino al momento esatto in cui la dovrò compiere — riprese. — Quindi non ci guadagnerete niente ad infrangere il mio scudo mentale e a frugare in ogni mio pensiero. E non avrete niente da guadagnare a ipnotizzarmi o a cercare di controllarmi con altri mezzi paranormali. Al contrario, avrete tutto da perdere. Cioè la vostra vita.

I due seduti davanti a lui si fissarono un attimo e fecero del loro meglio per apparire costernati. Lomax aveva una sua parte da recitare… ma anche loro.

Era una strana situazione che non aveva precedenti in tutta la storia umana. Ciascuna delle due parti teneva nascosti i pensieri alla mente dell’altra, ciascuna aveva in mano un asso sotto forma di potere di vita e di morte, e ciascuna parte sapeva che avrebbe avuto una vittoria certa. E ciascuna, in un certo senso, aveva anche ragione!

Leina girò lo sguardò verso Lomax.

— Noi siamo venuti in buona fede, pensando che aveste bisogno del nostro aiuto. E ci troviamo trattati come criminali colpevoli di chissà quale reato. Nessuna accusa è stata mossa contro di noi e ci vengono negati i diritti legali. Cosa abbiamo fatto per meritarci questo trattamento?

— Ai casi eccezionali si applicano metodi eccezionali — disse Lomax, impassibile. — Non si tratta di quello che avete fatto, ma di quello che eventualmente potreste fare.

— Vi dispiacerebbe essere più chiaro?

— Vi prego di avere pazienza, vengo subito al punto. — Lomax prese di nuovo i fogli che erano sulla scrivania. — Questo è un riassunto dei fatti, sufficiente a farvi comprendere la ragione di questo incontro. Certi fatti portati all’attenzione del Consiglio Mondiale…

— Da quell’intrigante di Thorstern? — disse Raven pensando alla faccia che avrebbe fatto Emmanuel il giorno in cui fosse stata riascoltata la registrazione.

— … hanno reso necessaria un’inchiesta sulle vostre attività, specialmente su quelle svolte recentemente per conto del servizio di controspionaggio — continuò Lomax. — Questa inchiesta è stata in seguito estesa anche alle attività della donna con cui… abitate.

— Da come lo dite sembra una cosa sconveniente — protestò Leina.

— Da fonti attendibili — riprese Lomax senza rilevare l’interruzione — sono stati raccolti molti dati, e il rapporto, completo ed esauriente, ha convinto il presidente Heraty a convocare una commissione speciale per lo studio dei provvedimenti da prendere.

— Sembra che qualcuno ci consideri molto importanti — disse Raven rivolgendosi a Leina, e Leina gli rispose con una occhiata che significava te-l’avevo-detto, io.

— La commissione, composta da due membri del Consiglio Mondiale e da dieci scienziati, sulla base delle prove raccolte, ha stabilito che voi avete usato poteri paranormali di otto tipi distinti, sei conosciuti e due completamente nuovi. Oppure che voi, oltre al potere telepatico che non avete mai nascosto di possedere, sareste un ipnotico di tale potenza da costringere i testimoni a credere che avete doti mai possedute. I casi sono due. I testimoni dicono la verità, o sono stati ingannati. Il risultato resta però identico. Voi siete un mutante con più poteri. — Batté con la mano sul foglio. — Qui c’è un errore. La dizione esatta dovrebbe essere: voi siete due mutanti con più poteri.

— È forse un delitto, questo? — chiese Raven, senza preoccuparsi di contraddirlo.

— Non ho punti di vista personali al riguardo. — Lomax si protese leggermente in avanti e diventò ancora più pallido. — Lasciatemi continuare, per favore. Se le testimonianze avessero affermato solo questo, il Consiglio Mondiale sarebbe stato costretto ad ammettere che i mutanti con pluripoteri esistono nonostante le cosiddette leggi naturali. Ma i dati conducono a una seconda teoria, che alcuni membri della commissione avallano, e che altri respingono definendola fantastica.

Raven e Leina rimasero ad ascoltare senza eccessivo interesse. Non mostravano né apprensione, né paura. E in ogni istante vivevano la parte che avevano voluto recitare, decisi quanto Lomax ad arrivare fino in fondo.

— Voi avete diritto di conoscere tutti questi dati — continuò Lomax, prendendo un altro foglio. — Un attento riesame dei vostri antenati mostra che siete persone considerevolmente diverse da ogni altra. In sostanza, è stato usato lo stesso metodo adottato dal signor Carson per rintracciarvi, e se ne sono tratte identiche conclusioni. — Rimase un attimo in silenzio e fece una smorfia per una improvvisa fitta di dolore. — Ma gli antenati di David Raven avrebbero dovuto generare al massimo un telepate, un lettore di pensiero eccezionale dotato di acuta potenza ricettiva. È concepibile, anche se contrario alle leggi della natura, che una forza mentale di eccezione gli dia la capacità di resistere all’ipnotismo. Sarebbe il primo telepate a prova di ipnosi della storia. Questo sì. Ma nient’altro. È il limite delle facoltà ereditarie. — Fece una leggera pausa per dare maggiore importanza alle sue parole. — È impossìbile esercitare poteri ipnotici, o quasi-ipnotici, anche ammettendo che si tratti di un mutante con molti talenti, quando tra gli antenati non esiste un solo ipnotico!

— Potrebbe darsi che… — osservò Leina.

— Le stesse considerazioni valgono anche per voi — la interruppe Lomax. — E si applicano anche ai vostri due amici di Venere. In questo momento stanno svolgendo un colloquio identico a questo, e sono state prese le identiche misure precauzionali.

— Con la stessa minaccia sospesa sulla testa? — chiese Raven. Lomax non rispose.

— Elemento numero due — riprese. — Abbiamo scoperto che David Raven è morto o presentava tutti i sintomi della morte, e che è stato resuscitato. Il medico che ha compiuto questa impresa non può essere chiamato a testimoniare perché è morto tre anni fa. Il fatto in sé, come caso isolato, non ha nessuna importanza. Cose di questo genere accadono, anche se di rado. Diventano degne di nota soltanto quando si esaminano unite ad altri fatti. — Rivolse lo sguardo a Leina. — Come il fatto che la signora, mentre stava nuotando, venne afferrata da una forte corrente e trascinata sott’acqua. Sembrava morta ma tornò in vita dopo la respirazione artificiale. Inoltre, anche i vostri due amici di Venere sono in vita per casi miracolosi identici ai vostri.

— Anche voi avete avuto un pauroso incidente — osservò Raven. — L’avete detto prima. E avete la fortuna di vivere… se la si può chiamare fortuna!

Lomax fu tentato di ammettere il miracolo e negare che fosse un piacere vivere in quelle condizioni. Ma continuò a leggere quello che stava scritto sulle carte.

— L’elemento numero tre ha un’importanza indiretta. Il signor Carson vi ha già parlato di certi esperimenti spaziali compiuti dai Terrestri, quindi posso dirvi anche il resto, quello che lui non vi aveva voluto rivelare. Comunque, il nostro ultimo scafo d’esplorazione si è allontanato nello spazio molto più di quanto non possiate immaginare. Al ritorno, il nostro pilota ha riferito di essere stato inseguito da oggetti non identificati o di origine sconosciuta. Gli strumenti di bordo hanno saputo indicargli che si trattava di oggeti metallici e che emanavano calore. Avanzavano in quattro, affiancati, ma erano troppo lontani per poter essere osservati a occhio nudo. Il nostro pilota ha cambiato rotta, ma loro hanno continuato a seguirlo. Avevano una maggiore manovrabilità e una velocità spaventosa.

— A ogni modo, è riuscito a fuggire? — disse Raven con un sorriso scettico.

— Il fatto che sia sfuggito all’inseguimento è misterioso quanto il fatto che sia stato inseguito — rispose Lomax. — Il pilota afferma che i quattro oggetti si stavano avvicinando rapidamente, e che poi delle strane scintille abbaglianti sono apparse all’improvviso di fronte a loro. I quattro oggetti allora hanno fatto rapidamente marcia indietro. Il pilota è convinto che fossero quattro oggetti di fabbricazione artificiale, e la sua convinzione è ufficialmente condivisa.

— Cosa c’entriamo noi, con questo?

Lomax si lasciò sfuggire un lungo sospiro, poi riprese a parlare con solennità. — C’è altra vita nel cosmo, e non molto lontano. Le sue forme, i poteri, le tecniche di questi esseri e il loro modo di pensare sono cose che possiamo soltanto immaginare. Potrebbero essere umanoidi al punto da sembrare esseri umani e prendere l’identità di uomini che sono morti. — S’interruppe un attimo, girò il foglio e riprese la lettura. — O potrebbero essere parassiti per natura, capaci di impossessarsi e di animare i corpi di altre creature e di camuffarsi in un modo che rasenta quasi la perfezione. Non abbiamo dati a questo riguardo, ma possiamo pensare, immaginare e concepire le infinite possibilità.

— Gli uomini spaventati fanno brutti sogni — osservò Raven.

— A me sembra tutto terribilmente sciocco — disse Leina. — Pensate seriamente che possano essere degli zombi comandati da parassiti intelligenti venuti da chissà dove?

— Signora, io non penso niente. Sto semplicemente leggendo dei fogli compilati dai miei superiori. Non sono autorizzato a discutere le loro conclusioni. È il mio lavoro.

— Dove ci portano queste loro conclusioni? — chiese Raven.

— A questo… La commissione ha informato il presidente Heraty che voi quattro, la coppia di Venere e voi due, siete di uno stesso e identico tipo. In secondo luogo è impossibile stabilire con ragionevole certezza le origini di questo tipo. Nonostante la regola per cui viene ereditato soltanto il talento dominante, voi potete essere mutanti in possesso di talenti diversi, di origine umana. In questo caso tutte le leggi della genetica dovrebbero essere modificate. In caso contrario, potete rappresentare una forma di vita non umana, camuffata con le nostre sembianze per vivere in mezzo a noi senza destare sospetti.

— A quale scopo?

Lomax si passò una mano sui capelli e, con voce stanca, rispose: — Gli scopi delle altre forme di vita ci sono oscuri. Non ne sappiamo ancora niente. Tuttavia possiamo fare qualche congettura accettabile.

— E sarebbe?

— Se le loro intenzioni fossero amichevoli, si metterebbero in contatto con noi apertamente, senza cercare di starsene nascoste.

— Quindi, ogni presa di contatto non diretta è una prova di ostilità.

— Esattamente!

— Secondo me, non c’è niente di più assurdo dell’affermazione che degli esseri umani non sono esseri umani — disse Leina con una certa morbosità.

— Lo ripeto per la seconda volta, signora — disse Lomax con fredda cortesia — io non faccio ipotesi. Io sono incaricato soltanto di leggervi le conclusioni degli esperti. Loro affermano che siete dei mutanti con molteplici capacità, o siete delle forme di vita non umana… considerando comunque più probabile la seconda ipotesi.

— Secondo me sono dei veri impertinenti — disse Leina con fermminile illogicità.

Lomax non fece caso all’osservazione. — Se davvero una forma di vita ha mandato sui nostri tre pianeti degli osservatori a nostra insaputa, la conclusione logica è che si tratti di avversari. Il ladro passa attraverso la finestra, la persona onesta bussa alla porta.

— Su questo avete ragione — ammise Raven.

— Inoltre, se una forma di vita è in grado di conquistare lo spazio prima di noi, tanto da mandare sui nostri pianeti delle vedette, significa che l’umanità in un futuro molto prossimo, dovrà affrontare una delle sue più terribili crisi. — Lomax indicò con un gesto della mano l’edificio in cui si trovavano. — Ecco il perché di questa procedura particolare. Gli esseri di un altro mondo sono al di fuori della nostra legge, e non possono appellarsi alla sua protezione.

— Capisco — disse Raven, passandosi una mano sul mento. — E cosa dovremo fare, dopo quanto ci avete detto?

— Dovrete provare, senza lasciare ombra di dubbio, che siete dei veri esseri umani e non altre forme di vita. La prova dovrà essere convincente e inconfutabile.

18

Raven finse di andare in collera. — Voi potete provare di non essere qualcuno venuto da Sirio?

— Non voglio discutere con voi, né voglio permettere che vengano scossi i miei nervi. — Lomax indicò l’ultimo foglio di carta. — Tutto quello che mi riguarda è scritto qui. Dice che voi dovrete produrre prove inconfutabili che siete esseri umani. Con questo si intende la forma di vita superiore nata sulla Terra.

— Altrimenti?

— La Terra trarrà le debite conclusioni e farà i passi necessari per proteggere se stessa. Per cominciare, eliminerà tutti e tre noi che ci troviamo in questa stanza, e nello stesso tempo eliminerà quelli che si trovano su Venere. Poi, si preparerà a respingere gli attacchi che possono venire lanciati dallo spazio.

— Tutti e tre, avete detto. È duro per voi, vero?

— Vi ho già detto perché sono stato scelto — gli ricordò Lomax. — Sono pronto a morire, anche perché mi hanno assicurato che sarà una morte istantanea.

— Questo ci è di grande conforto — disse Leina enigmatica.

Lomax guardò prima uno e poi l’altra. — Morirò con voi soltanto per impedirvi ogni possibile via d’uscita, e voi non avrete la minima speranza di salvarvi impadronendovi della mia persona. Nessun’altra forma di vita, se si tratta di questo, uscirà mai da questa stanza sotto le spoglie di un uomo che si chiama Lomax. Vivremo insieme o moriremo insieme, a seconda che riusciate a produrre le prove richieste o meno.

Era leggermente compiaciuto delle sue parole. Per la prima volta le sue condizioni fisiche gli davano una forza invincibile. Nelle circostanze in cui si trovava, il fatto di poter guardare alla morte con assoluta calma poteva davvero essere una sbalorditiva prova di forza.

Se una delle parti non aveva paura, il conflitto poteva finire in un modo soltanto, con la disfatta dei vigliacchi. Lomax, al pari delle persone che lo avevano scelto, dava per scontato che qualsiasi forma di vita, umana o non umana, non potesse condividere la sua indifferenza di fronte alla distruzione.

A questo proposito, né lui, né quelli che avevano studiato la situazione avrebbero potuto fare uno sbaglio più grande. In quel momento, la cosa più difficile per le presunte vittime era di nascondere quello che provavano. Era assolutamente necessario che il nastro registrasse reazioni assolutamente umane.

Perciò Raven finse un tono di voce preoccupato. — Molti innocenti sono stati uccisi per i sospetti infondati e per le paure incontrollate di altri. Su questo mondo non sono mai mancati i cacciatori di streghe. — Si agitò nervosamente sulla poltrona. — Quanto tempo abbiamo a disposizione per produrre le prove? Esiste un limite di tempo?

— Non esistono limiti. O riuscite a presentare la prova, o non ne siete in grado — disse Lomax, con stanca indifferenza. — Se credete di poter fornire una prova qualsiasi, cominciate a pensare senza perdere tempo. Se invece non ne siete in grado, il fatto di sapere che non avete una via di scampo, prima o poi vi porterà alla disperazione. È evidente che a questo punto io…

— Reagirete?

— Esatto. — Lomax appoggiò i gomiti sulla scrivania, con l’aria di chi si prepara ad aspettare una cosa inevitabile. — Ho molta pazienza, e potete trarne un vantaggio. Ma vi avverto di non cercare di guadagnar tempo e di farmi aspettare inutilmente per una settimana.

— Sembra una nuova minaccia.

— È solo un avvertimento amichevole. Per quanto la coppia di Venere abbia dato meno motivi di sospetto, viene trattata come voi. Siete quattro uccelli della stessa nidiata, e verrete liberati o uccisi insieme.

— Così, i due casi sono collegati? — chiese Raven.

— Esatto. Uno stato di emergenza sulla Terra azionerà un segnale che provocherà un’identica reazione su Venere. E viceversa. Ecco perché abbiamo tenuto le due coppie separate. Più tempo fanno perdere gli uni, più grande è la possibilità che gli altri giungano rapidamente a una decisione.

— Un piano ben pensato — ammise Raven.

— Avete due modi per lasciare questo mondo. Per mia mano, nel caso di una vostra reazione, o per mano dei vostri alleati di Venere. — Lomax fece un leggero sorriso. — Vi trovate nella infelice situazione di chi si rende conto di poter battere i nemici, ma che non è certo di portersi salvare dagli amici.

Raven si lasciò sfuggire un profondo sospiro. Si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi, come per concentrarsi sul problema che doveva risolvere. Il fatto che Lomax gli potesse leggere i pensieri non lo preoccupò. Aveva assoluta fiducia nella inviolabilità del suo scudo mentale e sapeva che i telepati di tipo terrestre non potevano sintonizzarsi su una banda mentale tanto alta.

“Charles… Charles!”

La risposta giunse parecchio tempo dopo, perché la mente dell’altro era stata assorta nei propri pensieri.

“Sì, David?”

“A che punto siete?”

“Ci hanno detto in questo momento che quattro astronavi deneb hanno inseguito uno scafo terrestre, ma che sono state distolte dalla caccia… Non riesco proprio a capire cosa possa averle indotte a cambiare proposito.” Seguì una risatina mentale.

“Siete in ritardo di qualche minuto. Noi siamo arrivati alla fine. Chi vi sta interrogando?”

“Un uomo molto vecchio. Pronto di mente, ma agli ultimi giorni di vita.”

“Da noi c’è un uomo giovane” informò Raven. “ Un caso pietoso. E non ci sarebbe da stupirsi se venisse colto da un attacco e morisse sotto lo sforzo di questo colloquio. Sui nastri verrebbe registrata una morte naturale. Spiacevole, ma naturale. Penso che si possa trarre vantaggio dalle sue condizioni.”

“Cosa proponi?”

“Recitare ai microfoni una specie di piccolo dramma. Lo faremo per offrire maggiore plausibilità di innocenza. Poi, lui avrà il suo attacco. Noi reagiremo in modo naturale, e anche lui, perché non ne può fare a meno. Il risultato toglierà tutti dall’imbarazzo.”

“Quanto tempo ti ci vorrà?”

“Un paio di minuti.”

Raven si raddrizzò sulla sedia e spalancò gli occhi, come se avesse trovato la possibile soluzione. — Sentite, se la mia vita è conosciuta in ogni minimo particolare, è ovvio che il mio corpo può essere stato occupato soltanto al momento della mia morte e della rinascita.

— Non mi riguarda — fece Lomax. — Saranno gli altri a decidere.

— Dovranno convenirne — disse Raven, con voce piena di speranza. — Ora, se si accetta l’assurda teoria che qualcuno possa essersi impossessato del mio corpo, com’è possibile che si sia impossessato anche di una cosa tanto immateriale quali possono essere i miei ricordi?

— Non chiedetelo a me. Non sono un esperto in materia. — Lomax prese alcuni appunti su un foglio. — Continuate.

— Se posso ricordare fatti della mia fanciullezza, di quando avevo tre o quattro anni — continuò Raven con il tono di chi ha trovato la soluzione a tutti i suoi guai — e se posso farli confermare da persone ancora in vita, in che situazione mi verrei a trovare?

— Non lo so — disse Lomax. — In questo momento le vostre parole vengono considerate da competenti. Un segnale mi dirà se potete illustrare il vostro argomento.

— Che cosa succederebbe se dimostrassi che, nella mia giovinezza, ho volontariamente represso i miei poteri perché mi consideravo una specie di mostro? Cosa succederebbe se dimostrassi che l’amicizia fra questi quattro mostri è dovuta semplicemente al fatto che ogni simile ama il suo simile?

— Forse può bastare — disse Lomax — e forse no. Lo sapremo presto. — Improvvisamente la sua faccia ebbe una contrazione di dolore e grosse gocce di sudore gli segnarono la fronte. Ma si controllò subito. — Se avete qualcos’altro da dire siete ancora in tempo.

Guardandosi attorno, Raven vide le lenti delle telecamere, i cavi di registrazione nascosti nella parete, il piccolo pulsante vicino ai piedi di Lomax, e i fili che correvano dal pulsante alla macchina situata nel sotterraneo. Senza la minima difficoltà riuscì a studiare la macchina e a calcolare la potenza del suo raggio distruttivo.

Lui e Leina si erano resi conto di tutto questo fin dal momento in cui erano entrati nella stanza. Sarebbe stato facile, per loro, staccare tutti i contatti anche senza muoversi dalla loro poltrona. Sebbene Lomax pensasse il contrario, la via della salvezza era aperta… Ma una fuga sarebbe stata la completa confessione di ogni loro segreto.

La situazione del momento indicava che molte cose erano ormai trapelate. In qualsiasi modo, dovevano far cessare i sospetti e far trarre conclusioni false.

Nello stesso tempo dovevano far scomparire per sempre, e in modo plausibile, le persone che erano la loro unica fonte di informazione. Le ombre che stavano all’altro capo dei fili avrebbero dovuto ricevere dati che portassero soltanto a conclusioni sbagliate.

Restare nascosti era l’obiettivo primario. Nessun frammento di verità doveva rimanere nelle menti degli uomini altrimenti un giorno qualcuno avrebbe potuto capirla. Gli esseri umani vivevano in una ignoranza protettiva, e dovevano restarci. Un briciolo di conoscenza sarebbe stato pericolosissimo e doveva essere loro negato per sempre.

La libertà che stava oltre la porta di ferro era una libertà ben misera… come quella del bambino che vuole giocare per la strada, o del neonato che può bagnare le lenzuola e agitare il sonaglio, o del bruco che striscia sotto una foglia per cercare una salvezza illusoria.

Come casualmente, Raven toccò la mano di Leina, era un gesto fatto di comune accordo. C’erano gli obiettivi da ingannare, e bisognava agire con molta prudenza. E poi c’erano il nastro di registrazione, il piccolo pulsante, e il proiettore mortale.

— Ci sono sempre stati mutanti sconosciuti — disse Raven, in tono che voleva essere persuasivo. — È un fatto che rende tutti i vecchi dati insufficienti e inesatti. Per esempio, il mio nonno materno, essendo un mascalzone, avesse cercato per tutta la vita di tenere nascosti i suoi poteri ipnotici per servirsene per scopi illegali, ne conseguirebbe che…

S’interruppe per osservare Lomax che aveva fatto una nuova smorfia di dolore e si era piegato in avanti. Prima che l’uomo alla scrivania potesse riprendersi. Leina lanciò un grido di sorpresa.

— Oh, David. Guarda! — Poi con tono atterrito: — Che cosa vi sta succedendo, Lomax?

Nello stesso momento le due menti si scatenarono con forza per vincere lo scudo mentale dell’altro. Lomax non ebbe il tempo di chiedere di che cosa stessero parlando né di affermare che non gli era successo niente di preoccupante. Sentì l’esclamazione di Leina e una fitta dolorosa al cervello. Cadde con la testa sulla scrivania. Nello stesso istante, il circuito di reazione scattò. Automaticamente il piede raggiunse il pulsante.

Per una frazione di secondo la mente di Lomax urlò disperatamente:

“L’ho fatto! Mio Dio, l’ho…”

Poi il grido s’interruppe.

Seguì un periodo di caos e di assoluto stupore. Lomax non poteva stabilire se fosse breve o lungo, se fosse stata una questione di secondi o di secoli. E non riuscì a stabilire se ci fosse la luce o l’oscurità, il freddo o il caldo, se fosse in piedi o sdraiato, se si stesse muovendo o fosse immobile.

Cos’era successo quando aveva premuto il pulsante? Avevano sperimentato su di lui e sulle due cavie qualche diavoleria spaventosa? Era stato scagliato nel passato, nel futuro, in qualche altra dimensione? O, peggio ancora, infinitamente peggio, avevano aggiunto una mente mutilata a un corpo mutilato?

Poi si rese conto che non sentiva più i dolori che gli avevano tormentato la vita negli ultimi due anni. Fu una lieta sorpresa, che gli fece cessare il pazzo turbinio della mente. E a poco a poco cominciò a coordinare le idee, incerto, come un bambino.

Gli sembrò di volteggiare in mezzo a una miriade di bolle lucenti, colorate, piccole e grandi. Gli parve di essere una piccola barca senza timone, trascinata dalla corrente di un grande fiume iridescente di bolle.

Il dolore era scomparso, e c’era soltanto questo ondeggiare sonnolento in mezzo a una corrente di mille colori, in una pace infinita. Lomax aveva sonno, ed era felice di questa sonnolenza. Avrebbe voluto che durasse per sempre.

Poi la sua mente si scosse, si fece attiva e venne sollecitata all’attenzione.

Gli parve che dalle bolle sorgessero mille voci che non erano vere voci ma che potevano essere comprese come se fossero normali.

Qualcuna parlava da molto lontano con brevi frasi staccate. Altre giungevano da più vicino. Curioso. Avevano tutte una udibilità unicamente mentale, ma lui poteva anche stabilire con precisione, per un motivo che non riusciva ancora a comprendere, la direzione da cui provenivano, e da quale distanza.

“Restate con lui.”

“Può darsi che non abbia motivo di vendicarsi, ma restate con lui. Non vogliamo più impulsi pericolosi come quelli di Steen.”

“Ha detto di essere pronto. Perciò dovrebbe adattarsi presto.”

“Non è mai facile, anche se si è pronti.”

“Deve imparare che nessun uomo deve essere un nemico.”

A poco a poco, cominciò a comprendere qualcosa, pur continuando a chiedersi se si trattava di un delirio dovuto a una mutilazione mentale. In modo confuso si rese conto che le entità conosciute come Raven e Leina erano ancora presenti. Lo stavano tenendo, benché senza toccarlo, e volteggiavano insieme a lui in mezzo alla nebbia di bolle.

Non erano gli stessi, eppure sentiva che erano loro, senza ombra di dubbio. Era come se li vedesse guardandoli internamente.

D’un tratto, il senso di percezione divenne chiaro. La miriade di bolle si allontanò prendendo posizione a una enorme distanza. Divennero soli e pianeti luccicanti in mezzo allo spazio di eterna oscurità.

La nuova visione non era stereoscopica e mancava di prospettiva, tuttavia Lomax poteva calcolare con estrema precisione le distanze relative. Sapeva quali bolle fossero più vicine, e quali più lontane. E a quale distanza si trovassero.

“Charles! Charles!”, sentì chiamare Lomax mentre si trovava ancora in compagnia delle due creature.

La risposta giunse da lontano.

“Eccomi, David!”

Non erano stati usati quei nomi, ma pensò a quelli perché non aveva potuto afferrare i nomi nuovi. Tuttavia sapeva a chi si riferivano. Questo fenomeno non gli suscitò curiosità, né lo fece pensare, perché si era concentrato nella contemplazione delle bolle che riempivano il cosmo.

Le superfici di certe sfere erano perfettamente visibili in ogni particolare. Molte erano abitate da creature di strane forme… esseri che saltavano, che strisciavano, che vibravano, esseri di fiamma, esseri ondeggianti… una varietà infinita di creature, per lo più di livello evolutivo basso.

Soltanto una forma aveva raggiunto un livello superiore. Si trattava di esseri con un corpo allungato e sinuoso, ricoperto di pelle grigia. Avevano un cervello molto sviluppato, e organi di percezione extrasensoriale. Avevano poteri telepatici, ma su una banda limitata alla loro specie. Potevano pensare come singoli individui, oppure combinarsi mentalmente e pensare come massa.

Questi esseri giravano per lo spazio in lunghi scafi neri, esploravano gli altri mondi, pattugliavano gli abissi, stendevano carte delle costellazioni, riferivano alle loro basi, e continuavano le ricerche, senza mai fermarsi.

I Deneb!

Si credevano i signori del creato.

Assimilando dati inviatigli da chissà dove, Lomax comprese parecchie cose che riguardavano i Deneb. Erano in cima alla scala delle forme di vita e avevano grande tolleranza per gli esseri che consideravano inferiori. Ma non potevano ammettere di dividere il cosmo con una forma di vita identica alla loro… o superiore.

Eppure esisteva!

Così, da innumerevoli secoli i Deneb esploravano i mondi alla ricerca di quella forma di vita che poteva competere con loro. Avrebbero distrutto immediatamente i rivali, se fossero riusciti a individuarli. I loro scafi neri esploravano, ed erano giunti nelle vicinanze delle colonie che certi bruchi bianchi, bipedi avevano fondato su vari pianeti distanziati.

Lomax provò un particolare interesse per queste piccole creature. Poveri piccoli bruchi operosi, che cercavano o speravano di costruire astronavi che non sarebbero mai riuscite ad attraversare che una minuscola parte del creato. Bruchi malinconici, pensierosi, estatici, ambiziosi, e anche dittatori.

Con tutta probabilità, c’erano tra loro individui leggermente meglio dotati, con capacità superiori a quelle dei bruchi normali. Si consideravano di certo superiori perché potevano esercitare una porzione di poteri del tutto normali, ma che venivano definiti paranormali. Qualcuno forse poteva leggere la mente di un bruco al limite irrisorio dell’orizzonte di una sfera. Altri forse potevano incantare un bruco e costringerlo alla completa obbedienza.

Ciascuna colonia senza dubbio aveva sviluppato una bruco-cultura, una bruco-filosofia e una bruco-teologia. Essendo incapaci di concepire qualcosa di infinitamente più alto, forse alcuni pensavano di essere l’immagine del superbruco onnipotente.

Di tanto in tanto, qualche audace forse si azzardava a sporgere il capo dal nascondiglio per scrutare nell’oscurità la falena dagli occhi lucenti che volava nella notte senza fine. Poi si ritirava impaurito, tremante, del tutto incapace di riconoscere… se stesso!

Un enorme impeto di vita s’impadronì di Lomax, man mano che comprendeva gli elementi. I bruchi! I piccoli! Dotati di una potenza enorme, vide Raven e Leina, Charles e Mavis come mai aveva visto nessuno prima di allora. Gli stavano ancora vicino, e lo aiutavano, lo curavano, lo incitavano ad adattarsi al nuovo ambiente.

“I piccoli bruchi a due gambe!” stava gridando. “ I nostri! Le nostre larve che stanno aspettando la loro metamorfosi naturale! Se i Deneb, incapaci finora di riconoscerli per quello che sono, dovessero apprendere la verità da una mente illuminata su una delle colonie, distruggeranno sistematicamente tutti i bruchi. Se un bruco apprenderà troppo, tutti i bruchi forse saranno distrutti, da un capo all’altro del cielo.”

“Non accadrà mai!” assicurò quello che Lomax aveva conosciuto come Raven. “ Non verranno mai a saperlo. Su ogni nido ci sono due osservatori che vivono nel corpo di un bruco, preso col permesso del vecchio proprietario, come io ho fatto con David Raven. Sono dei guardiani. In coppia. Ne basterebbe uno, ma il secondo serve per rompere la solitudine.”

“Il posto che abbiamo… che avete lasciato?”

“È già stato preso da altri due.”

Si staccarono da lui, muovendosi silenziosamente nelle immense profondità che erano il loro campo d’azione naturale. I Deneb erano la forma di vita più elevata legata alle bolle planetarie. Ma questi, più elevati di loro, finita la fanciullezza di bruchi, non erano legati a niente. Diventavano le creature supersensibili, dai molteplici poteri e dai grandi occhi, che solcavano gli spazi.

“Quelle pallide e fragili creature a due gambe, come si chiamavano?”, si chiese Lomax. “ Oh, sì: Homo sapiens. Alcuni di loro erano precoci e si consideravano Homo superior. Una cosa pietosa, in un certo senso. E patetica.”

Istintivamente, come un bambino che muove i primi passi senza rendersi conto di avere i piedi, Lomax spiegò grandi campi di forze lucenti a forma di ventaglio e si lanciò nella scia dei compagni.

Era vivo come non lo era mai stato prima.

E pieno di esultanza.

Perché sapeva cos’era diventato, e cosa sarebbero diventati i piccoli bruchi bianchi.

Homo in Excelsis!