NELLA VITA
SALVATORE DI GIACOMO
Nella Vita
NOVELLE
1903 GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI BARI
INDICE A VITTORIA AGANOOR POMPILJ
L'IGNOTO.
Sul «Piazzale di Porta Roma» erano poche persone: deserta la via del laboratorio pirotecnico, deserta l'altra di faccia ad essa, ove, in sul principio, è la semplice e nuda fabbrica dell'Arcivescovado e seguono appresso altre fabbriche basse e si arriva finalmente alla «Riviera Casilina,» incoronata da una fila di case.
L'ora del tramonto avanzava. Un lume dorato che, poc'anzi, aveva tutto acceso, nel lontano, il dosso fuggevole de' Tifati, si raccoglieva in coda a' monti, laggiù, a manca, ove la terra e la collina s'univano e dove pareva che l'ultima arborea decorazione di quelle gobbe immani declinasse nell'immensa e aperta campagna, verso Roma lontana. Tutto intorno taceva di quel greve silenzio invernale che pesa su Capua, la triste città delle chiese e delle caserme.
Sul ponte del Volturno, rivolte le spalle alla «Riviera Casilina,» e alta dal parapetto, si stagliava sul livido cielo la statua di San Giovanni Nepomuceno: un braccio era steso al fiume e ne benediceva il queto cammino trascorrente lungo l'umide rive, ad occidente. Erano ancor vive, nel marmo barocco, la testa del santo e il busto suo quasi tutto: le parti inferiori, già investite dall'ombra, aveano apparenza confusa. Sotto la statua, addossati al parapetto, due uomini contemplavano il tramonto e, di volta in volta, accennavano a qualcosa lontana, in quel punto nota soltanto a' lor occhi o alla loro immaginazione poi che di faccia ad essi, oltre al ponte ferroviario, parallelo a questo su cui stavano e ch'era di remota origine romana, nulla pareva che turbasse, lungo il fiume e nel cielo e nel piano sterminato, la silenziosa agonia del giorno. A un momento una rapida nuvola si librò e si scompose alle origini del ponte di ferro, mascherate da un breve caseggiato e dai pioppi della sponda cittadina. Apparve un treno, fischiante, nero, sterminato, il treno di Roma, che per due o tre secondi fuggì su per le arcate romoreggianti e d'un subito sparve, come penetrando, rimpetto, nelle viscere della collina, all'opposta sponda del fiume. Rimasero nell'aria vibrante, per pochi attimi, l'eco lamentosa dell'ultimo grido della macchina e un lieve fumo diffuso, che subito si sciolse. Allora i due uomini si staccarono dal parapetto e parlando piano, con le mani in saccoccia, col capo basso, scesero lentamente dal ponte nella piazza. Alle spalle loro cominciava a nereggiare la torre del ponte; la scaletta che va fino al sommo di essa appena s'intravedeva. Ma un lume brillò a un tratto in cima ad un palo forcuto, piantato sul parapetto destro ove esso quasi s'univa alle mura della torre; e allora gli ultimi gradini biancheggiarono, mentre il soldato che aveva acceso il lume scivolava lungo il palo e il parapetto a terra e scompariva sotto l'androne abbuiato, la cui sonorità fu brevemente risvegliata da un acuto zufolio, che cessò pur subito. Tornò, alto, il silenzio, e il vecchio ponte rimase deserto affatto.
Chi si fosse in quell'ora, arrivando dal «Corso Appio» soffermato sul «Piazzale di Porta Roma» avrebbe potuto cogliere nel suo più penetrante momento lo spettacolo della caduta del giorno. Erano le cose più vicine allo sguardo il fiume, il ponte antico, le rive scure e la torre che terminava il passo del ponte: di là dalla riva superiore erano campagne invisibili, nascoste, e più in là finalmente stavano i monti, con interrotto disegno, coloriti d'un verde ancor tenero. Un roseo lume persisteva ov'essi inclinavano al piano: qui l'ultima fiamma del sole v'accendeva le cime d'un bosco. Ma sotto quel dolce fuoco il fiume, lento, quasi immoto in quel punto, non se ne colorava. Rispecchiava, invece, la verde e soprastante collina e le acque luccicavano verdeggiando, immobili come quelle d'un lago percosso dal mite chiarore della luna. Il ponte di ferro, nero e tagliente, correva su quell'acque. E sul ponte, e sul fiume e sul tramonto era un cielo minaccioso: alcune nuvole basse vi si rincorrevano, si gonfiavano a mano a mano, s'aggrovigliavano: le lor creste mobili e serpentine lambivano nell'alto una sottile fascia di cielo rimasta pallida e pura, e lentamente la conquistavano. Fra tanto, come generata dalla lontana e invisibile campagna, una massa vaporosa, grigiastra e fitta, assorgeva rapidamente all'orizzonte: era come una uguale cortina di fumo che si levasse da terra e cercasse di raggiungere, progredendo, le nuvole sparse più in alto. Difatti le investì a un tratto e con quelle si confuse e si allargò. Nel medesimo tempo fu un borbottio dietro la cortina, un rombo lieve e trascorrente, che per poco parlò pur al dosso dei monti con più debole voce, e quivi si spense. Ora il cielo s'era tutto oscurato. Tuttavia durava ancora in coda a' Tifati, il lume del sole: la rosea fiamma, diminuita ma viva, ardeva ancora in quel punto.
Un'ombra scivolò rapidamente sotto il muro dell'Arcivescovado e, a un tratto, se ne spiccò e prese forma, dirizzandosi al «Ponte d'Annibale». Una donna. E pareva giovane, dal facile moto, e dal disegno della persona e dall'incesso. Pareva, da che le pieghe di uno scialle scuro, che dalla testa le ricascava sulle spalle e sul petto, le ombreggiavano tutta la faccia. L'ora già tarda raddoppiava il pallido mistero di quel volto, biancheggiante, con apparenza indefinibile, tra lo sparato del panno. Tuttavia, com'ella, per un momento, quasi irresoluta, s'arrestava nel piazzale, un fanciullo la riconobbe e le si fece da presso. Il fanciullo veniva dal «Corso Appio» e andava verso «Riva Casilina»: portava la cartella dei suoi libri attaccata al dosso con due brevi corregge che passavano sotto le scapule e in una mano aveva una riga di legno con la quale, camminando e zufolando, egli si percoteva la coscia.
— Letizia! — esclamò.
E ristette davanti alla donna, interrogandola con gli azzurri occhi contenti, pieni di candido e inconscio riso infantile.
La donna, sorpresa, si trasse addietro e si guardò attorno. Altri non era sul piazzale in fuori di lei e dello scolaretto; le lor due figure nere, vicine, differenti segnavano, solitarie, la vastità della via, chiara ancora per lungo tratto e pulita. La donna tremava, borbottava parole che il fanciulletto non riesciva a comprendere. Lo guardò, a un punto, smarritamente, come se più non lo riconoscesse, e seguitò a restar muta.
— Dove vai? — disse il piccino.
E subito soggiunse:
— Io vengo dalla scuola. È finita più tardi, oggi. Ora vado a casa. Ho i guanti: guarda.
E le mostrò la mano inguantata, in cui serrava il quadrello. L'altra egli aveva ficcata nella saccoccia dei pantaloncini, fino al gomito. La cavò, lentamente, e la levò, aperta. Era gonfia e arrossata; l'epidermide, sul dosso, vi si screpolava e si rigava di piccoli solchi lividi. Il piccino la mostrò, lamentando.
— Vedi, ho i geloni.
Ella taceva, guardandolo. Non lo ascoltava. Il piccino non seppe dir altro e tornò a domandare:
— Dove vai, Letizia?
Or ella, improvvisamente si chinava sopra di lui, gli gettava un braccio attorno al collo, si traeva addosso il ragazzetto, obbediente, sorridente ancora. E com'egli credeva che volesse baciarlo accostò la gota e atteggiò le labbra. Ella non lo baciò. Gli disse piano, rapidamente, guardandolo negli occhi:
— Tu non devi dire a nessuno che m'hai vista. Hai capito? A nessuno!
E l'atto e il suono della voce furono così imperativi che il piccino, istintivamente, si ritrasse e, voltando la faccia, cercò di liberarsi. Ma Letizia gli prese il mento nella mano, costrinse, più dolcemente, quel piccolo volto quasi impaurito, e lo rigirò e si piegò fino a disfiorarlo col suo. Ripetette, con voce più bassa, con un soffio di voce:
— A nessuno! Dimmi che non lo dirai a nessuno! Me lo prometti, Paolino? Su, guardami, guarda Letizia tua....... Me lo prometti?.....
Il piccino balbettò:
— Sì..... Non lo dico a nessuno.
Come la donna lo baciava forte sulla guancia, egli le mormorò sulla gelida gota:
— E a mamma tua? Neppure?
— Dio! — fece Letizia, inorridita — Vuoi dirlo a mamma?
— No, no! — disse lo scolare, raccogliendo il quadrello che gli era sfuggito.
Lo levò, con la piccola mano inguantata, e promise, solenne:
— A nessuno.
Si rincamminò a piccoli passi, serio. A metà della via la infantile sua curiosità lo punse: si volse. Letizia moveva al ponte, dirittamente, e la sua figura nera si rilevava, con fine disegno, sul tramonto. Parve a un tratto, ch'ella, soffermata, incerta, facesse per tornare addietro. Subito lo scolare riprese la sua strada verso «Riva Casilina». Ma avanti di arrivare a un vico traverso incontro al quale moveva, si fermò ancora una volta e, sicuro di non esser visto, allungò il collo, voltandosi addietro, verso il piazzale già lontano. Ora Letizia, immobile, stava a mezzo il gran ponte, contro il parapetto. Il segno della sua testa liberata dallo scialle, del suo busto proteso, delle sue braccia, lungo le quali lo scialle ricascava e che s'allargavano, premendolo co' gomiti, sul parapetto, era evidente. Il fuoco del tramonto ella raggiungeva col capo, eretto, immoto. Una dorata aureola s'effondeva attorno a quel capo e quasi lo penetrava e lo immaterializzava; pareva che a momenti in quel roseo vapore esso fosse per dissolversi, mentre al vento lieve ed opposto una ciocca di capelli, volta a volta, vi palpitava e, investito dallo stesso vento, un lembo dello scialle sbatteva i fili della sua frangia su quell'incendio lontano.
II.
Due, tre volte, perdutamente. Letizia s'era sporta dal parapetto sul fiume tacito e lento. Avea chiuso gli occhi, s'era allungata sul parapetto col busto, col ventre, lasciando penzolar le gambe dentro del ponte; e con le braccia stese, irrigidite quasi sul vuoto, aveva aspettato che una forza misteriosa, fatale, implacata la sospingesse d'un subito. Ma al senso pauroso del vuoto s'erano ritratte le sue braccia tremanti, gli occhi suoi s'erano aperti e subito chiusi sull'acqua tragica e scura e più greve, più rilassato era rimasto quel corpo senza volontà, sul muretto. Or ella temeva quasi di spiccarsene, anzi le pareva che sul punto di scivolarne a terra qualcosa dovesse risospingerla e precipitarla dall'alto. Rimase prona sul parapetto e pianamente riaperse gli occhi e guardò il fiume, disotto. Il Volturno trascorreva lento e silenzioso tra le quattro arcate di fabbrica imperatoria: l'acqua torva, pareva, a tratti, stagnante, così tardo era il suo cammino. Ma, di volta in volta, dei gorghi l'agitavano, e su per la giallastra superficie si rincorrevano pezzi di fradicio legno e batuffoli di paglia o di fimo. Nereggiavano lateralmente le rive, e, più in là, sotto il ponte ferroviario, prima di far gomito, l'acqua, incorrotta, luceva, con aspetto diverso.
La donna interrogò un'ultima volta il fiume. Or ne saliva un alito d'umidità e il liquido fangoso, che lambiva alle basi immani i pilastri quadrati degli archi, aveva un fascino freddo. La chiamava. Nulla pareva più propizio del silenzio circostante, dell'ora solitaria.
— Che morte! — ella mormorò.
E come, nell'atto in cui s'indugiava, le cupe acque la tentavano, l'attiravano ancora, pallidissima, vibrante per tutto il corpo d'un tremore improvviso, Letizia scivolò sul ponte dal parapetto e a questo s'addossò, quasi mancando. Confusamente le appariva, ora, uno spettacolo novello. A man destra l'Arcivescovado, le case basse, una via che procedendo lungo le case si stringeva, e, nell'alto, più in là, sul cielo bianchiccio, la cupola della «Santella». In fondo, rimpetto a lei, l'alto anfiteatro della «Riviera Casilina» il cui largo arco era terminato dalla fabbrica rozza e massiccia della polveriera. Le finestre di «Riva Casilina» trattenevano ancora il lume del tramonto e se ne accendevano; abbasso, quasi sull'argine del fiume, l'infame contrada «Mazzamauriello» sciorinava su d'un sentiero invisibile le sue due o tre casucce a un sol piano.
Con la bocca serrata, con le braccia penzoloni, volte le spalle al tramonto la donna non distaccava lo sguardo da quel gruppo di case. Di là, su pel fiume, pareva che le arrivasse una voce aspettata, un susurro incitante. E fascinata, immobile, ella rimase lì ritta, tra le ombre che scendevano rapidamente sul ponte.
L'ora scoccò all'Arcivescovado. Letizia si volse attorno, smarrita. Era notte. S'era spento l'incendio del bosco, il cielo s'era chiuso, un velo plumbeo, subitamente, scendeva sulla «Riviera Casilina» e la nascondeva. Nell'ombra, alcune forme confuse passavano sullo spiazzo e si disperdevano. Allora ella scese dal ponte verso il «Corso Appio». Traversò lo spiazzo con celere passo, tutta raccolta nello scialle, frettolosamente. E pur, sul punto di penetrar nella via cittadina illuminata e viva, per un momento si soffermò, parve incerta. Ma ella voleva soffocare nello scialle un singhiozzo e nascondervi le sue lagrime, poi che piangeva, procedendo. Fu un attimo. Poi mormorò:
— Andiamo. Volontà di Dio.
Rabbrividì. Si premette le labbra con un lembo dello scialle, come per soffocarvi nell'atto stesso che ne uscivano quelle parole orrorose. Ma vide, davanti a lei, luminoso, felice il «Corso Appio»: alcune donne ridevano sulla soglia d'una bottega, un cuoiaio tranquillamente fumava presso alla sua, appoggiato allo stipite, e con un cicaleccio allegro, parlando di cose vane e giovanili, sbucavano da un palazzo tre o quattro fanciulle e passavano.
— Sì, sì — disse Letizia, disperatamente, nel cospetto di questa provocante pace d'anime e di cose — Volontà di Dio!.. Volontà di Dio!
Entrò nel «Corso Appio», e andò avanti, risoluta.
III.
Andava, andava, senza fermarsi, con la testa bassa. In «Piazza dei Giudici», ove metteva il primo tratto del Corso, da un globo enorme si diffondeva la luce elettrica e il vaporoso pulviscolo d'una pioggerella fitta e fredda roteava, penetrato da quel lume, per breve spazio attorno. Alle prime avvisaglie della pioggia i capuani avevano disertata la piazza: vi rimanevano de' soldati d'artiglieria, in piccoli gruppi, un crocchio di borghesi che s'avviava, per ripararvi, all'androne del palazzo municipale, due carabinieri ammantellati, gravi, lenti, solenni e lo scemo del «Vico Cimino», un piccolo uomo di forme e di fisonomia scimiesche le cui membra piteciche s'aggrovigliavano al palo del lume elettrico, sferzate dalla pioggia e tremanti.
Come Letizia passò d'avanti all'«Arco Mazzocchi», una folla d'operaie del laboratorio pirotecnico ne sbucò fuori con alte voci confuse, imprecanti alla pioggia, e si rincorse lungo la murata del Municipio, trascorrendo verso «Porta Napoli» ove il Corso finisce. Letizia si mescolò a quella folla e andò avanti. Di tratto in tratto se ne spiccavano due o tre operaie e pigliavano, per rincasare, altre strade. Presso «Porta Napoli» la comitiva s'era diradata: le tre femmine di un ultimo gruppetto che Letizia seguiva a un tratto si misero a correre, rincorandosi, strillando, con le gonne raccolte, e presto sparvero nel buio. Letizia s'arrestò: si guardò attorno, cercando di risovvenirsi. Poi fece ancora quattro o cinque altri passi e scomparve in un palazzetto a una delle cui finestre basse penzolava, sbattuta dal vento, l'insegna tarlata di una locanda.
Per la scala salì a tentoni. Non v'era lume, ma ella conosceva il numero dei gradini e il posto della porticina alla quale picchiò, con la mano spiegata, due volte.
— Viene! — fece, di dentro, una roca voce maschile.
S'aperse la porta e un fiotto di luce dilagò sul pianerottolo. L'uomo che aveva aperto reggeva il lume nella destra e stringeva gli occhi cercando d'affisar bene la sconosciuta e traendosi addietro per lasciarla passare.
— Bè — disse ancora, dopo aver chiuso l'uscio, cautamente — In che vi devo servire?
Levò il lume fino al volto della donna e con l'altra mano fece visiera alla fiamma.
Ma com'ella si liberava dello scialle, raccogliendolo sul braccio, e gli si rivelava, immobile, ritta di contro a lui e muta e tutta illuminata nella pallida faccia, l'uomo esclamò:
— Letizia! Ah, tu sei, dunque?
E annunziò, voltandosi a una porticina socchiusa, dietro la quale una voce borbottava.
— È Letizia di «Riva Casilina». Letiziella. Quella del furiere.
Letizia si coperse la faccia. Cessò il borbottìo dietro l'uscio socchiuso. Una voce chioccia, mentre l'uomo riponeva il lume sulla mensa dalla quale s'era levato, salutò:
— Buona sera. Ora vengo.
— È Chiarina — disse l'uomo, sedendo presso alla tavola — Ha le gambe enfiate, con rispetto, e le unge con certa pomata che ho preso a Napoli. E, per giunta, ha un'emicrania da cavallo. Sarà lo scirocco.
Indicò una seggiola. Soggiunse:
— Non siedi? Vuoi crescere?
— Devo parlarvi — disse Letizia.
— Meglio. Dunque siedi. Che mi dici? Il furiere che fa?
— Il furiere m'ha lasciata, don Placido.
— Ah! — fece l'uomo, battendo la mano aperta sulla tavola — Possibile? Senti, Chiarina — e si girò sulla seggiola, parlando forte all'uscio socchiuso — Dice che il furiere l'ha lasciata.
— Vengo — rispose ancora la voce.
Don Placido, un grosso uomo rossastro, quasi calvo, animalesco, tese la mano a un piatto ov'era della carne d'agnello e se ne recò un pezzo alla bocca, strappandogli, co' forti molari, fin l'ultime cartilagini. Si versò del vino. Sotto il lume, stretta al collo della bottiglia, la sua mano tremava come per impeto di sangue; sul dosso vi rigurgitavano le vene enfiate e le dita vellose ed unte, terminate da unghie, corte e schiacciate, lucevano del recente contatto della vivanda. Un alito impuro emanava da quella stanza e dai suoi abitatori, come un fiato di anime e di materie corrotte: alle nari di Letizia, dal mensale chiazzato da larghe macchie di unto e di vino, saliva un lezzo disgustoso. Il lume a petrolio, per la vampa troppo viva, fumava, e il fumo, in sottile spira nerastra, si levava, interrottamente.
— Don Placido, — disse Letizia, vincendo il suo turbamento — io non posso restar più a Capua. Capite, don Placido? Sono rovinata, e la rovina mia non la posso nascondere.
L'uomo la guardò fisamente e gli occhi suoi piccoli e vivi, trascorrendole addosso, s'indugiarono, interrogandolo, su quel piccolo corpo palpitante e raccolto.
Letizia arrossì e raggruppò in grembo lo scialle e vi stese su le pallide e piccole mani.
— Ho capito — disse don Placido.
E si grattò in capo con l'indice della sinistra; con quel della destra e col pollice strinse e trasse avanti il labbro inferiore. Levò la testa e parve interrogare il soffitto. Poi disse ancora:
— E a casa tua?
— Ne sono fuggita.
— Quando?
— Ora.
— Sei andata da lui?
— No: sono venuta qui.
— Parla più basso.
Vi fu un silenzio. La grondaia del cortile gorgogliava: il romore era distinto, continuo. La pioggia non era cessata. Don Placido moderò la fiamma del lume, si levò, fece, pesantemente, due o tre passi nella stanzuccia e Letizia lo udì borbottare, due o tre volte:
— Evviva il furiere!
All'improvviso le si piantò di faccia presso alla tavola, e le domandò brutalmente e bruscamente:
— E ora che vuoi fare? La vita?
Ella aperse le braccia e chinò la testa, rassegnata. Meglio delle parole rispondeva l'atto e Don Placido ne comprese tutta la muta disperazione. Ma rimase indifferente, senza pietà, come abituato a cose somiglianti.
— Andresti a Napoli? — chiese, dopo un momento.
— A Napoli? — balbettò Letizia.
— Vi ho un amico. Ti raccomanderò. La città è grande, vedrai: e qualche altra vi ha fatto fortuna.....
S'interruppe. Un colpo di tosse suonava in un'altra stanza la cui porticina, alle spalle di Letizia, era pur chiusa. Letizia trasalì e l'uomo si mise a ridere.
— È la bionda — disse, guardando a quell'uscio — Una di Caserta. Parte a momenti per Napoli e io l'accompagno alla stazione.
La breve tossicina risuonò un'altra volta. Don Placido, senza badarvi, — soggiunse:
— Per questo ti domandavo se ti piace Napoli. Se ti piace vi andrete assieme. Ora deciditi. Sai, grande città, gran gente, gran romore, gran vita. Mica questi sordomuti di Capua, bella mia.
Tese l'orecchio: pioveva ancora, e il borbottio della grondaia era superato dal crepitar della pioggia sulle lastre del cortile.
— Se vuoi veder la bionda è di là, in cucina. Quando hai picchiato vi s'è nascosta: si vergogna. Intanto io vado per un affare mio, fino all'Annunziata. Parla con mia moglie, con Chiarina: tra femmine v'intenderete meglio.....
E aggiunse, alto, cercando il mantello e il cappello in un cantuccio della stanza:
— Chiarina, io scendo.
La voce chioccia rispose dall'oscurità:
— E il treno?
— Parte alle dieci — disse l'uomo, aprendo la porta delle scale — V'è il tempo. Torno subito.
Sulla soglia, voltandosi, disse a Letizia:
— La casa la conosci: accomodati pure. Parla con Chiarina.
Uscì. La porta si chiuse, Letizia rimase sola. Si guardò attorno, guardò l'uscio socchiuso dietro del quale era donna Chiara e per un attimo, tra un nuovo terrore, ebbe la visione dell'orribile vecchia, gigantesca come il marito, quasi calva all'occipite rigato di filze di capelli tinti, copiosa di carne molle e ondeggiante dal petto enorme sul ventre.
L'uscio si mosse, difatti: Letizia si levò impiedi, spaventata. Ma non v'apparve la vecchia. Un gatto rossiccio uscì, sbadigliando, da quella penombra. Avanzò nella camera, si fermò a guardare per un momento Letizia e s'allontanò, scomparendo. Risuonò un'altra volta la tossicina dall'altra parte. Letizia si volse. Macchinalmente spinse l'uscio della cucina ed entrò.
La bionda era seduta a una tavola, presso al focolare: un fagottino era davanti a lei sul quale ella poggiava le mani aperte e la faccia. Un alito inclinava la fiammella del lume ad olio, posto pur sulla tavola, tra le bucce di un'arancia.
Come la porta s'aperse la bionda levò la testa.
— Marta! — urlò Letizia.
Dio! Dio! La donna che il furiere aveva amata dopo di lei, quella per la quale l'avea lasciata, forse! Marta! Marta era lì, per lo stesso orribile destino! Una volta sola l'aveva vista, alla fiera di Santamaria e mai più s'era scordata di quella gran giovane fulva, rosea, piena di salute, piena di schietto sangue rurale. Ma che strani avvenimenti seguivano, dunque, nella vita? Marta! Come lei, come lei, dunque! Destinata alla medesima sorte?
Di su il fagottino la bionda la guardò, senza sorpresa. Sorrideva, anzi, benevola.
Disse, piano:
— Tu sei Letizia di «Riva Casilina». Ho udito tutto. Dammi la mano, perdonami...
Sorrideva, incertamente: ma il pianto era nella sua voce dimessa ed ella s'adoperava invano a soffocarlo. Stese una mano, e con l'altra appressò una seggiola. Letizia vinta, atterrita, vi cadde.
La bionda le passò la mano sulla testa reclinata, la carezzò e quasi se la trasse in grembo, mormorando:
— Io non t'odio... Non t'odio, no... Guarda, pensaci: or avremo la stessa sorte. Bisogna farsi coraggio... Non piangere....
E fra tanto ella stessa piangeva: la sua voce si velava. E con le mani di Letizia nelle sue, con quasi poggiata alla testa di costei l'umida sua gota calda, Marta seguitava a balbettare:
— Non piangere... Non piangere...
IV.
— Avanti, avanti! — gridava Don Placido, nella notte, precedendo le due donne lungo la strada della ferrovia — Fra cinque minuti avremo addosso tutta l'acqua del santissimo cielo! Corpo di Cristo! Con una serataccia come questa!...
E a gran passi veloci l'ombra sua nera fuggiva lungo i muri. Le donne lo seguivano, tenendosi per mano, chiuse nei loro scialli doppii, inciampando di tratto in tratto, ove era più profonda l'oscurità. Così passarono per via «Gran Quartiere», davanti alla villa Ferdinandea, le cui statue impallidivano confusamente davanti al teatro. Erano alle porte della città. Sotto l'androne alcune guardie di finanza si scaldavano a una gran fiammata di fascine, e quella di piantone alla porta cantava, con le mani in saccoccia, addossata allo stipite.
— Salute! — fece Don Placido.
— Salute e bene! — rispose la guardia.
E come, a un tempo, gli fuggivan davanti le donne gridò, ridendo, a Don Placido, già lontano:
— Ferma! V'è contrabbando!
Ora le loro tre ombre erano sul ponte delle fortificazioni: l'acciottolato crepitava sotto gli stivaloni di Don Placido. Più in là i fossati nereggiavano, lateralmente, e vi s'intravedevano paurose profondità. Un'ombra uguale era scesa sulla vallata, alla quale le donne avventavano, di volta in volta, lo sguardo. In un desolato silenzio la campagna pareva conscia e lagrimante della sorte.
— Avanti! Siamo giunti! — gridò ancora Don Placido — Io vado avanti pei biglietti. Terza classe! Passate per l'ultima porta a destra e aspettatemi sul marciapiedi!...
Bruscamente la fabbrica della stazione appariva. Letizia si volse. Tutto era scomparso nella notte, dietro di lei: la città, i bastioni, la campagna medesima, ove nessun lume brillava più. Tutto dunque finiva. Stese le braccia, perdutamente, verso Capua e singhiozzò, disperata:
— Addio! Addio! Addio!....
Si sentì trascinare. La bionda l'avea quasi sollevata per la vita, e le mormorava qualcosa ch'ella non udì. Si vide, a un tratto, sul marciapiedi della stazione, d'avanti al treno nero, interminabile. Vide ancora l'orribile lor conduttore aggirarsi frettoloso pel marciapiedi, udì grida confuse e una voce più chiara, tra lo sbattere degli sportelli, urlare:
— In vettura! In vettura!
E d'un subito uno sportello si spalancò. Salì per la prima la bionda e stese le braccia. Afferrò Letizia, la sollevò quasi di peso e la trasse dentro.
Un'altra bestemmia di Don Placido accompagnò l'atto. E a un tempo, mentre lo sportello si chiudeva, il treno partì, con una scossa che gettò l'una addosso all'altra le due sciagurate.
— Dove siamo? — mormorò Letizia, cui man mano tornavano i sensi e la coscienza delle cose.
Marta la cingeva con le braccia, la teneva stretta al seno, come una bambina. Lo scompartimento era quasi deserto: alcuni fattori fumavano, più in là, sull'opposto sedile, e parlavano di derrate, a voce alta. La pioggia scrosciava a' vetri dei finestrini.
— Arriviamo — le susurrò Marta — Fatti coraggio...
Le si strinse più da presso. Soggiunse, sottovoce, rapidamente:
— Ora ascolta. Napoli io non la conosco. Ma mi hanno detto che è una immensa città, terribile città, piena di pericoli sconosciuti, una città ove la gente si perde e non si ritrova mai più... M'ascolti tu, Letizia?...
Ella assentì, col capo reclinato sul petto di Marta che le parlava all'orecchio, pianissimo.
Marta disse ancora:
— Lo stesso uomo ci ha perdute, ma tu non m'odii e io non t'odio. Siamo come due che si son conosciute da un pezzo e si amano. Tu ora mi vuoi bene, lo so, lo sento, e tu sai che io ti voglio bene.... Non è vero?....
La sua voce s'inteneriva sempre più, maternamente. Palpitavano tutte e due, i loro cuori battevano forte. E seguitava fra tanto, a scrosciar la pioggia contro i vetri e i fattori parlavano più alto, per intendersi. Il lume dello scompartimento vagolava.
— Io non ti lascerò mai! — disse ancora la bionda. E in quel patto supremo cercò le mani di Letizia e le strinse — Mai, mai! E tu giurami che non mi lascerai mai, che resterai sempre con me, che m'aiuterai come io t'aiuterò, che mi difenderai come io ti difenderò. Giurami questo, Letizia! Noi siamo due abbandonate e l'una ha bisogno dell'altra. Se ci disperdiamo, a Napoli, siamo perdute.... Letizia, Letizia!... Giura questo a Marta tua, a tua sorella, Letizia! Or io son tua sorella.... Tu non mi lascerai mai, non è vero?....
Letizia le afferrò la testa fra le mani e la baciò, singhiozzando:
— Mai! Mai!.. Mai!..
Il treno entrava sotto la tettoia e passava sugli scambii con un fragore assordante. I fattori si levarono e agguantarono in fretta le loro valigie. Una voce, due, tre gridarono nell'oscurità:
— Napoli! Napoli! Napoli!
Marta scese per la prima e aperse le braccia a Letizia, che quasi vi si gettò. A un tempo s'apersero gli sportelli di tutte le vetture e queste vomitarono sul marciapiedi ondate di soldati. Il 28º reggimento di artiglieria, il reggimento del furiere, era partito per Napoli da Capua, con loro, non visto. Il treno interminabile n'era pieno fino all'ultime carrozze, e ora, mentre i primi ranghi si formavano agli urli degli ufficiali sotto la gran tettoia luminosa, confusamente lampeggiavano altre armi nel lontano, in coda al treno.
— Vieni — disse Marta, trascinando la compagna.
Sorpassarono i cancelli, e per un momento s'arrestarono, ignare e indecise, sotto le arcate della stazione, all'uscita sulla piazza.
Era quasi la mezzanotte. La pioggia sferzava il selciato con estrema violenza: migliaia di lumi, alti, bassi, ora bianchicci, ora rossastri occhieggiavano nella vasta piazza e nelle vie circostanti ove le case, abbattute a mezzo, pel Rettifilo, apparivano come dissolventisi in quella furia d'uragano.
Come le due donne, attonite, incerte scendevano dal marciapiedi l'onda dei soldati, che le aveva rincorse, fu sopra di loro e le separò. Tutto il reggimento passò, fuggendo, sotto la pioggia, e un battaglione, che se ne staccava, ricacciò Letizia fino ai giardini, dalla parte del Vasto. Gli altri presero pel «Corso Garibaldi» e presto scomparvero.
Letizia sbarrò nella oscurità i suoi grandi occhi pieni d'orrore.
Urlò:
— Marta! Marta!
Nessuno le rispose. Ella si sentì mancare. S'addossò a un fanale. Ripetette con un grido più acuto, con uno sforzo supremo:
— Marta! Marta!
Nessuno, nessuno! Or ella era a fronte dell'ignoto, nella misteriosa notte del suo destino: sola.
UN «CASO».
I.
Ai «Fossi», laggiù dietro la via larga e popolosa della Ferrovia, terminava il mercato dei panni. Le mercantesse si sbandavano. Alcune pigliavano per la strada della marina, altre s'indirizzavano alla Via Nolana, dalla quale si levava, nel lontano, un fitto polverio bianco. Altre infilavano l'arco aragonese di Forcella e si cacciavano, a gruppi di due o tre, coi lor mucchi di panni in capo, ne' vicoletti della Vicaria, ne' laberinti di quelli della Duchesca ove, qua e là, sotto il sole di agosto, i rigagnoletti e le pozze luccicavano di riflessi metallici.
Lentamente il mercato si vuotava. Era cominciata tardi la vendita, verso il tocco, e terminava alle sedici, nell'ora del sole alto. Era andata avanti assai fiaccamente: le voci della malattia s'udivano un poco da per tutto, le note di cronaca del Roma e i bollettini si leggevano da gente commossa e paurosa or qua or là, d'avanti a' bassi e dentro alle botteghe e nella via stessa, ove si radunavano capannelli di popolani impensieriti. Certo, più della paura poteva la necessità: ma, da una settimana, il mercato de' panni languiva. Le donne di Cardito, di Pugliano, di Pomigliano, d'Acerra lo avevano addirittura abbandonato, esse così tenere di coltri di seta gialla, di seta verde, imbottite di bambagia, trapuntate a mostaccioli, orlate di frange barocche argentate. E invano andavano su e giù le venditrici: davanti ai mucchi di pantaloni a quadrelli, di giacchette di velluto stinto, di corpetti rabberciati e grembiali di ogni forma, provenienze misteriose della miseria, della morte, del furto, nessuno si soffermava. Nessuno comprava. Nello inutile va e vieni perfino veniva a mancare la voglia di gridar la mercanzia: moriva in un susurro l'alto vocìo de' buoni giorni di vendita e nell'afa insopportabile, sotto la sferza del sole, era tutto uno sfinimento. Dalla strada della Ferrovia la cupa eco del passaggio de' grandi carri carichi di derrate o di botti o di carboni, delle vetture d'albergo, de' carretti d'erbaggi delle paludi s'affievoliva: tutto quel transito pareva che non seguisse più come prima. Risuonava, soltanto, a tratti, la cornetta rauca d'un tramwai due, tre volte: squillavano i campanellini di un carretto solitario e, spento quel suono, pareva più alto il silenzio.
Due o tre ancora delle mercantesse si aggiravano per la via dei Fossi, occupata da un chiarore abbagliante. A una a una disparvero anche esse. L'ultima veniva in sulla piazzetta, lentamente, come trascinandosi. Era un gran donnone: forte, alta, bruna. Il sudore le rigava le guance dalla fronte, le imperlava sotto gli occhi la fine epidermide, le riluceva sul labbro superiore, segnato d'una fitta pelurie. In braccio ella si recava una pila di que' comuni berretti a visiera di panno che gli sbarazzini amano di portare di sghembo: uno de' berretti, per ripararsi dal sole, s'era proprio posto in capo. Ciò le conferiva un assai curioso aspetto.
Com'ella giunse allo spiazzato si arrestò: passava, tra due carabinieri, un giovanotto ammanettato. Andava alle carceri della Vicaria. L'ammanettato la salutò con un lieve cenno del capo e si fermò un momento anche lui e levò le mani incatenate, avvicinando la faccia al panno della manica, lì ove il braccio fa gomito. Passò e ripassò le gote sudate sul panno, soffregando forte. I carabinieri aspettando, guardavano la donna e sorridevano. Poi ripresero la lor via: la berrettaia si rimise in cammino. Scavalcò un mucchio di pietre accatastate lì nella piazza per un guasto del selciato e, a un tratto, apostrofò il cocchiere di una vettura da nolo, il quale s'appisolava al sole, in serpa, nella piazza quasi deserta.
— Rocco, salute e bene!
— Salute e bene — sbadigliò quello, rizzandosi in serpa e raccogliendo le redini che gli erano cascate su' piedi — E voi dove ve ne andate?
— Dove, figlio? A casa, cuore mio bello. Che ci resto a fare laggiù? Non s'è venduto uno spillo!
— E io che son qui da mezzogiorno a bruciarmi al sole! Poc'anzi m'ha preso il sonno.......
Vi fu un silenzio. Poi Rocco domandò alla mercantessa:
— E del colèra che si dice?
L'altra sgranò tanto d'occhi e scosse la testa.
— Ieri cento e due casi — mormorò — Mio marito ha letto il giornale.
Seguì, daccapo, il silenzio. Dopo un poco la mercantessa si licenziò, col suo sorriso bonario.
— Così vuol Dio. Dunque, buona giornata, Rocco!
— Buona giornata anche a voi — disse il cocchiere.
E si chinò un'altra volta a raccoglier le redini che gli erano scivolate di su le ginocchia.
Una voce femminile lo chiamò, dal lato del marciapiedi.
— Cocchiere?.....
Rocco si volse. Era una signorinella pallida e piccola con certi grandi occhi neri lucenti, vestita di nero: qualcosa tra la maestrina e la cameriera di buona famiglia.
— Montate — disse Rocco — Dove andiamo?
Ella rimase in forse un momento. Poi disse:
— Alla Posta.
La vettura si mise in moto. A un tratto il cocchiere gridò:
— Bada, ohè!
E con la punta della frusta picchiò, per celia, sulla spalla della berrettaia, che rincasava a piccoli passi.
— Vado alla Posta — disse Rocco.
— Avete visto? — sorrise la berrettaia, scansandosi — V'ho portato fortuna.
Più in là, presso il Castello del Carmine, il cocchiere si girò indietro sulla serpa:
— E alla Posta v'aspetto?
La piccola pallida lo guardò come smarrita. S'era tutta rimpiccinita in un angolo della vettura. Le sue mani tormentavano la pezzuola. Balbettò:
— Alla Posta?... Sì... certo... m'aspetterete...
E ancora mormorò qualcosa che il vetturino non intese, e si gettò indietro come abbandonandosi, con lo sguardo nell'alto, spaurito.
II.
Quale viaggio strano, faticoso, irresoluto, in quell'afa ardente e insopportabile! Dove si andava? Si andava da per tutto: Rocco Longo era sfinito, era sfinita la sua bestia e anche pareva che la vettura malconcia a un tratto si dovesse sfasciare. S'andava in giro da tre o quattro ore: da prima la signorina s'era voluta fermare alla Posta e lì, allo sportello delle lettere, avea chiesto qualcosa che non aveva avuto, che non c'era. Palpitante, incerta, s'era trascinata fino alla vettura, e quasi vi s'era lasciata cader dentro.
— Dove andiamo?
— Dov'è l'albergo delle Tre Rose?
Il cocchiere aveva fatto spallucce.
— E chi lo sa? Voi non lo sapete?
— Dove sono i Lanzieri?
— A Porto.
— È lì....... Andiamo!
La vettura avea preso per Piazza Francese e s'era ficcata ne' vicoli di Porto. Ai Lanzieri la sconosciuta scese d'avanti alla porta d'una delle tante miserabili e tristi locande del quartiere. Dalla serpa Longo domandò:
— V'aspetto?
E come ella pareva indecisa il vetturino soggiunse:
— Bene, andate pure: io vi aspetto.
Da' Lanzieri erano andati alla Marinella e dalla Marinella a Mercanti, e appresso alla Giudecca, al Vico Coltellari, a Rua Catalana. Ella a ogni sosta, si precipitava dalla vettura, si cacciava in un palazzetto e riappariva poco dopo muta, livida, con gli occhi pieni di lacrime. Risaliva a stento in vettura: s'afferrava alla serpa talvolta. L'ultima volta Longo dovette aiutarla. Per via la udì singhiozzare.
Si volse, seccato.
— Ma che avete dunque?
Ella mormorò:
— Nulla....... nulla.
Annottava. A un tratto Longo sentì che ella gli batteva lievemente, in punta di dita, sulla spalla.
— Dove andate? — disse lei.
Difatti, ove andava Longo, con la sua vettura polverosa, con la sua rozza affamata e zoppicante, sognando in serpa e guidando macchinalmente la bestia? S'arrestò, si guardò intorno. Erano sulla via nuova, deserta e buia, dell'Arenaccia. Sulla destra si disegnava confusamente l'immane tettoia della stazione ferroviaria, tutta nera: i grandi occhi immobili delle locomotive rossi, verdi, giallognoli ammiccavano nell'oscurità. Un fischio acuto e breve ruppe il silenzio: l'aria vibrò tutta al fragore d'un treno che passava sulle piattaforme metalliche. Dalla via si vide il treno svolgersi rapidamente, e trascorrere, come un gran serpe nero che scompariva nella notte.
III.
La giovane disfece il nodo alla sua pezzuola e ne cavò una moneta da due lire.
— Questo m'è rimasto — mormorò.
Longo era sceso di serpa. Guardò appena le due lire, al lume del fanaletto, e le gettò in grembo alla giovane.
— Volete scherzare? Che mi mettete in mano? Due lire?... Andiamo, non ho voglia di scherzare!
Ella balbettava:
— Sull'anima di mia madre che m'è morta ieri l'altro.....
— Ma che! — fece Longo — Ora mi si mette a giurare! V'ho portato in giro per tre ore di seguito e il meno che mi spetta son cinque lire! Su! O mettete fuori le cinque lire o vi porto alla questura com'è vero il santo ch'è oggi!
Nel silenzio della strada la sua voce minacciosa suonava chiaramente. La signorina nascose la faccia tra le palme.
— Andiamo — insistè Longo — Spicciatevi!
Ella singhiozzava:
— Ascoltatemi... Io non sono di Napoli... Sono di Capua..... Non sono pratica... Ho perso tutto e mia madre m'è morta, ieri l'altro... Avevo... lui... E mi son messa a ritrovarlo. M'ha lasciata. Voi avete visto: non l'ho più trovato... Lasciata!... Abbandonata!... Abbiate compassione... Non ho più nulla... Perdonatemi!...
Longo, con le braccia conserte la guardava.
La sconosciuta soggiunse, piano, come parlando a sè stessa:
— Sono stata tradita... Era un cameriere d'albergo..... l'albergo delle Tre Rose a Lanzieri, dove siamo stati... Non v'è più... Partito... Sparito... Non v'è più...
Longo si mise a frustare il selciato e a bestemmiare.
Ella supplicava:
— È vero... Avete ragione... Perdonatemi...
D'un subito il cocchiere le si fece accosto, l'afferrò pel braccio e le disse:
— Com'è vero Dio, stasera prendo un guaio per voi! Chi vi conosce? E avete scelto la vettura mia e me per correre appresso al vostro uomo? Ma lo sapete voi che due lire non mi bastano neppure per l'avena al cavallo, e me l'avete ammazzato!
Ella mormorava:
— Perdonatemi..... perdonatemi.....
— Così fate, voialtre! — urlò Rocco — Così ingannate la gente, razza di bagasce!..
All'improvviso le piantò sulla spalla la mano pesante e si chinò sopra di lei che s'era gettata addietro sui cuscini.
— Almeno — sogghignò, frugando — Ch'io vi veda in faccia, carina! Come siete in faccia?... Bella... brutta... vediamo un poco.....
Ma smise e indietreggiò, spaventato. Ella era diaccia: un sudor gelido le veniva giù pel volto e le bagnava pur le mani, tremanti convulsamente.
Longo, sbalordito, la scosse:
— Signorina... signorina... Che avete?.. Non v'impaurite...
La giovane s'irrigidiva. De' conati di vomito la facevan sobbalzare sui cuscini, gli occhi le diventavano vitrei.
— Ho freddo... — mormorò — Ho freddo... Muoio...
Allora Longo comprese.
— Ah, Cristo! Un caso fulminante!...
Si voltò, si guardò intorno, assalito da un così vivo terrore che per due o tre secondi i suoi movimenti ne vennero paralizzati. La sconosciuta seguitava a torcersi e rantolava:
— Freddo... freddo... Oh mamma!...
E come lo vide fuggire a gambe levate per l'Arenaccia, si levò quasi in piedi nella vettura, con un ultimo sforzo, e stese un braccio.
— Aiuto! Aiuto!
Ricadde. Si ripiegò sui cuscini: v'annaspò con le dita raggranchite. E al sereno cielo che si popolava di stelle palpitanti e la vedeva morir sola, nella notte, levò uno sguardo disperato.
Balbettò ancora:
— Mamma..... mamma.....
E seguì un profondo silenzio.
A un tratto il cavallo affamato si mise a nitrire e a batter sul selciato con l'unghia ferrata.
Poi fece un passo, poi un altro. E si rincamminò, portandosi lentamente la piccola bruna, immota, per l'oscurità, verso la nascosta rete dei binari.....
VECCHIE CONOSCENZE.
— La buona sera alla compagnia!
Mi volsi. E al suono della rauca voce grossolana si voltarono pur a guardare verso la porta i miei compagni di tavolino del Caffè Grande al Corso. Era l'ercole della troupe d'acrobati attendata a Giffuni, dietro il mercato bovino.
— Buonasera — risposi — Che c'è? Non si lavora?
— Macchè! — fece l'ercole, raggiustando sulla piccola testa quasi calva un sudicio berretto di pelo marrone — A Giffuni Vallepiana? E Pompei non è meglio? Città morta, caro lei, città di barbari, non dico per offenderla. Già lei non è giffunino... o giffunese... Come si dice?
E sedette al nostro tavolino e cavò la pipetta da una saccoccia d'un grande panciotto stinto, di velluto rossastro.
— Giffunese — disse il telegrafista di Bartolo, levando gli occhi dalla Gazzetta di Venezia che gli mandava ogni giorno un suo ex collega di laggiù, ove il di Bartolo era stato quattro anni.
Seguì un silenzio. Il Caffè Grande era quasi deserto: due mercanti ragionavano del raccolto a un cantuccio, e a un altro sedeva, solitario, il giovine professore di lettere del Liceo Cotugno. S'era fatto portare il calamaio e rivedeva le bozze del suo studio sull' Hecatelegium di Pacifico Massimi, comunicando alla ruvida carta da stampe un acre e molesto profumo di patchouli ch'egli usava portare addosso. Appiè del banco del principale erano due o tre cacciatori di Casalferrato e sentenziavano di cani e di fucili col caffettiere, Nemrod impenitente anche lui.
— Un rhum! — chiese l'ercole, dopo un po', lanciando al soffitto la prima boccata di fumo. — Almeno — soggiunse, e si trasse davanti il bicchierino — qui c'è calduccio, ci si sta bene. Hanno visto fuori? Mezzo palmo di neve e nemmeno un cane per la via. La neve in Ottobre? Ma dico, dove siamo? In Russia?
— Cattiva stagione — disse il di Bartolo, per dir qualcosa.
— E voi che farete? — chiesi all'ercole, che si grattava il mento e guardava davanti a sè, nel vuoto, con certo sguardo sgomento.
— E che devo fare? Domani o doman l'altro si va via. Domani è domenica e vorrei profittare della giornata. Chissà! Bel paese Giffuni! In tre sere ventotto lire! Cosa vuole, che ci lasci in pegno Mahmud?
Il di Bartolo si volse, con l'indice puntato sulla Gazzetta al passo che leggeva.
— Mahmud?
— L'orso bianco — disse l'ercole, grave.
— Difatti — io dissi — avrete le vostre spese...
— Spese? Altro! E poi gli incerti, caro lei. Se sapesse!
Bevve un goccetto di rhum, si passò il dorso della mano vellosa e enorme sulle labbra e soggiunse:
— Guardi, tre cavalli m'erano rimasti e uno m'è finito a Roccadaspide, col carbonchio. Il pagliaccio mi s'è affiochito per via e ha mezzo persa la voce; sua sorella, la Gilda, è cotta d'un impiegato di ferrovia che le faceva l'asino a Tricarico, e gli scrive lettere tutta la santa giornata e non mi lavora più come prima. E la Rosetta che a un tratto mi vien fuori con l'isterismo! Che? Contentezze grandi, caro signor dottore!
E fregò palma a palma con una furia che pareva si volesse spellar le mani.
— Mi dica, dottore, lei che se ne intende: che roba è codesta? Malattia grave?
— L'isterismo?
— Ecco.
— E vostra moglie è isterica? Davvero non mi pareva. E che ha? Che accusa?
— E che so, io? Dolori in petto, dolori allo stomaco, alle gambe, ai polsi. In faccia, di certo è smagrita. L'avesse vista quattro o cinque anni fa! Le dico, un bisciù! L'ha vista al trapezio?
— Sì, mi pare...
— Eh?... — fece l'ercole, strizzando l'occhio — Ha visto che lavoro preciso?
Accennavo di sì, col capo. In quel punto pensavo ad altro. Il di Bartolo s'era sprofondato nella lettura del suo giornale, ma, di volta in volta, ne levava lo sguardo per lasciarlo posare sul mio interlocutore, ch'egli affisava, silenzioso, per qualche minuto, come si fa con certe persone nuove le quali vi suscitano un curioso interessamento nell'animo.
— Ha un cerino? — chiese l'ercole, che aveva vuotato nel cavo della mano il fornellino della pipetta e or la ricaricava, lentamente.
Ne prese un fascetto dalla scatola che gli porgevo e se li mise in saccoccia.
— Scusi se mi permetto..... Ma qui a Giffuni non v'è un solo cortile che abbia uno straccio di lume. L'altra notte per poco non mi sono spaccato il capo a un muro... Ma lei che ha, dottore? La vedo così uggioso! Che ha? S'annoia, non è vero? Certo son pene di cuore!
Sorrisi, malinconicamente. E mentre, voltandomi, cercavo sul divanetto ov'ero seduto, il mio bambù e l'ultimo fascicolo della Rivista Clinica sulla quale il di Bartolo s'era adagiato, l'ercole, frugando nel taschino del panciotto, borbottò:
— S'intende: questo non è paese per gente che vive. Denari in giro niente: divertimenti niente. Nemmeno un teatro. Prefettura e Municipio nello stesso palazzo, all'ultimo piano! Macchè. Dopo dimani adios!
— Lei resta? — feci al di Bartolo.
L'altro nostro compagno di tavolino, Bazza, cancelliere alla Pretura, al solito s'era addormentato. Usava di far questo ogni sera, e lo svegliava il cameriere quando il caffè si chiudeva.
— Ma è presto — osservò il di Bartolo — Guardi, non sono le dieci. Io resto ancora un poco e accompagno Bazza. Ma lei proprio vuole andar via?
— Ho sonno — risposi — Arrivederci.
— Signori! — salutò l'ercole, che pur s'era levato e si sberrettava.
Fuori, rialzando il bavero della sua giacchetta e tossendo a piccoli colpetti secchi, egli mi si mise allato e prese con me pel Corso tutto scuro e deserto.
S'era liquefatta la neve: al raro lume di qualche bottega ancora aperta lucevano qua e là delle pozze e dei rigagnoli. L'ercole mi pigliava pel braccio, dolcemente, e me li faceva schivare.
Facemmo una ventina di passi in silenzio.
— Abita lontano? — chiese lui a un tratto.
— Non così lontano. Ma dal Caffè Grande a casa mia c'è un bel tratto. Sono in via del Mercato.
Lui si fermò su due piedi.
— Come? Ma dunque siamo vicini! Io son lì, di rimpetto. Non ha visto il mio carrozzone?
— Sì... difatti.
Ripigliammo il cammino e si rifece il silenzio fra noi, per un tratto. Dopo un po' l'ercole riprese:
— E Bamboccetta, l'ha vista?
Lo guardai. Scossi la testa per dir di no. Egli parve meravigliato.
— Non ha mai visto Bamboccetta? Mia figlia? La piccina? Ma al circo c'è mai stato, lei?
— Sì, una volta: non ho troppo tempo...
— Ma scusi, ci deve venire. M'onori domani ch'è domenica. Senza complimenti... Lei mi fa chiamare alla porta e sarò ben felice. Almeno vedrà Bamboccetta.
Pronunziando quel nome il vocione s'inteneriva. L'ercole si arrestò un'altra volta, per un momento, come a meditare, e io pur dovetti arrestarmi. Il silenzio era alto. A un tratto, nel lontano, fendette l'aria il fischio del diretto che partiva per le Calabrie e ne vibrò, per qualche secondo, l'eco malinconica.
Come spuntammo dal Corso nella Via del Seminario ci apparvero di faccia, nell'alto, le tre finestre del Circolo, rosse nel buio profondo.
— La vita, caro signore — continuò l'ercole seguitando nel suo vaniloquio — è una cosa triste e pesante. Non le pare? Ho una moglie, la Rosina, che m'è nemica mortale. Non se la può figurare: dispetti, furie, malattie, ogni sorta di birbonate. L'ho presa a Settignano, in Toscana, una volta che vi sono passato con tanti bei denari in saccoccia, che ora non si vedono più. Era lì con un signore titolato, un conte, gran femminiero, e costui l'aveva conosciuta in compagnia Roussel, a Firenze, e se l'era portata via in campagna. Bene; dopo un po' eccoti il signorino che ti pianta lì quella creatura senza neppur dirle: obbligato. Arrivo io, comincio a lavorare, la Rosina mi viene a narrare i suoi patimenti e senz'altro me la metto in casa. Sarà stato un sette anni fa: dico bene: l'anno appresso m'è nata Bamboccetta. La rosa fra le spine, caro lei, la...
S'interruppe, si piegò, per frugare con lo sguardo nella oscurità della strada. E in quell'atto, col capo avanzato, rimase qualche secondo.
Lontano, nella piazza del mercato, ove il carrozzone degli acrobati scompariva nel buio fitto, brillò, come una lucciola sorvolante, la piccola e rapida fiamma d'uno zolfanello, e subito si spense. Io la vidi: all'ercole forse sfuggì. Egli si era quasi rivolto addietro e continuava a spiare.
— Chi va là? — fece a un tratto — Rigo?... Sei tu, Rigo?...
Non rispose alcuno. Ma un'ombra era scivolata lungo il muro, dall'altra parte, e aveva svoltato al cantone.
— Che volete fare? — dissi all'ercole, piano — Qui a Giffuni non sono ladri. Sarà qualche amante...
— M'era parso Rigo — borbottò — Sa, quello che mangia la stoppa accesa. Il gobbetto. Una vipera... Ma lei è arrivata?
Ero giunto a casa, difatti, e m'arrestavo davanti al portone. Accesi un moccoletto che portavo addosso per la bisogna e si fece un po' di lume sotto l'arco barocco. E a quella luce indecisa che saliva a stento fin alla testa dell'ercole, mi parve di vedere impallidito il suo volto e diventati minacciosi quei piccoli occhi tondi, fin allora così inespressivi.
Stesi macchinalmente la mano. Egli la strinse fra le sue, diacce, e dell'atto che non s'aspettava parve sorpreso a un tempo e commosso. D'un subito lasciò la mano, mi voltò le spalle e scappò fuori. Andava lesto. Risuonò per buon tratto il romore dei suoi passi precipitosi, nella notte, e poi daccapo tutto tacque.
Come entrai nella mia stanza da letto mi feci al balcone che dava sulla via e lo apersi e ficcai lo sguardo laggiù nelle misteriose tenebre del mercato bovino.
La notte era fredda. Sgusciò nella mia camera, per lo schiuso delle vetrate, una folata di vento e quasi me le spalancò a dietro. Mi rivoltavo per tornar dentro quando un grido, all'improvviso, ruppe il profondo silenzio e seguirono al grido un romor confuso, un tramestio, laggiù, presso alla baracca, e subito un va e vieni di lumi e d'ombre. S'illuminò dopo un poco — ero rimasto lì inchiodato al balcone — la finestra terrena della caserma dei carabinieri, poco lontana dalla baracca, e novelle ombre frettolose passarono e ripassarono in quel chiaro. Appresso i lumi si spensero tutto intorno e tornò il buio impenetrabile.
All'aria m'era entrato addosso un gran freddo. La naturale emozione che anche mi penetrava mi tenne desto sotto le coltri per un bel po'. Che cosa dunque era seguito nella baracca dell'ercole? Al mattino lo seppi. La Rosina se ne era scappata via col pagliaccio, e quel Rigo, il gobbetto, le aveva tenuto mano. E l'ercole aveva accoltellato il gobbetto.
II.
Cominciò Giffuni a parermi detestabile, a un tratto.
Fin qua, da un paio d'anni durante i quali vi avevo tranquillamente esercitato la mia professione di medico condotto, nella piccola cittadina mercantile e malinconica io avevo represso, fin da quando vi ero arrivato, ogni moto ribelle del mio carattere così ombroso, è vero, e pur così passionato e sincero. Bisognava mutar vita addirittura. Io stesso, al quale erano state offerte residenze migliori, avevo preferito questa che mi dicevano uggiosa e difficile e dove m'avevano accompagnato da Napoli, in una triste giornata di marzo, il vento, la pioggia fitta e un'aria scura e fredda, così che m'era parso come mi avessero inteso e pianto fin gli elementi della natura. Una piccola camera ch'era già stata d'un pretore e poi d'un commesso viaggiatore, lì, in via del Mercato, in un vecchio e sdrucito palazzo del seicento, detto la Casa del Conte, m'accolse da' primi giorni in cui giunsi. M'ero, a mano a mano, constituita una clientela, difficile ma sicura, tra la gente del vicinato: e l' onesta mia maniera di vivere me l'aveva accresciuta. In provincia si continua ad essere stimati per questo. Avrei pure, voglio dirlo, potuto bene ammogliarmi là basso: ma mi sarebbe toccato di seppellirmi a Girifalco, addirittura in mezzo a contadini sorvegliati e maltrattati da qualcuno di que' possidenti che mi avrebbe, sì, preso a genero ma del quale avrei finito per ereditar con le sostanze pur quella missione autocratica.
In verità, già da quattro o cinque mesi prima del fatto dell'ercole, scrivevo e riscrivevo a Napoli per farmi cavar via da Giffuni. Se vi dico che dalla sera delle coltellate a quel Rigo il mio desiderio assunse quasi una forma di nevropatia, d'impazienza, di sofferenza angosciosa crederete che io esageri. Ma fu proprio così. La mattina dopo quel fatto l'ercole m'era passato sotto gli occhi mentre mi rasciugavo la faccia al balcone, dietro i vetri appannati. Vedevo venir dal mercato alla mia volta una folla che a mano a mano ingrossava. Fregai l'asciugamani a un vetro e distinsi ben tutto nella via. L'ercole era lì, tra' carabinieri, ammanettato. Gli avevano buttato addosso un gran cappotto, ed egli, muto, procedeva, scotendo il capo. I carabinieri, infilavano i guanti. Lo conducevano alla prigione.
Non mi vide. Ah, fu meglio! Roba da niente, direte, solite storie che seguono tutti i giorni, cose che s'incontrano a ogni passo. Sì, è vero. E pur io non potrò mai dimenticare quel triste corteo silenzioso, sotto quel cielo opalino di Giffuni, nell'angusta via fiancheggiata da scure bottegucce — e quell'infelice che strappavano al romoroso suo Circo per serrarlo in un carcere.
Per tre o quattro giorni si rifece alla memoria degli occhi miei, doloroso e insistente, quello spettacolo. Seppi fra tanto che Bamboccetta, la piccina, se l'era portata via la madre; che per la Gilda, rimasta a Giffuni, s'era fatta una colletta — e mi vi dovetti anch'io sottoscrivere — per farla partire per Tricarico ov'ella andava a cascare addosso all'impiegato postale; che la roba dell'ercole era stata sparsa un po' qua un po' là in consegna al Tribunale. I carabinieri presero l'orso bianco e lo chiusero in un sottoscala: il figlio del sindaco accolse i due cavalli nella sua scuderia. Ogni giorno, a prima ora e daccapo verso il tramonto, s'udivano gli urli rauchi dell'orso, che forse aveva fame.
Nel gennaio dell'anno seguente ottenni di passare a Casagiove, in Terra di Lavoro. Toccavo, come si dice, il cielo col dito. Casagiove è lontano da Santamaria di Capua un tiro di fucile e da Santamaria si viene a Napoli in un'ora di ferrovia. A Napoli, nelle frequenti scappate che vi feci, tastavo terreno ogni volta. Alla residenza leggevo giornali, e badavo a guardare in terza pagina se mai vi fossero annunzii di concorsi. Mi facevo fin mandare da Napoli la Gazzetta Ufficiale, da un mio ex compagno di scuola diventato giornalista.
Passarono così altri due anni, quando la morte di un mio zio mi fece ottenere un congedo di quindici giorni, durante i quali mi sostituì a Casagiove un medico di Caserta.
A Napoli volli, tra l'altro, rivedere e salutare i miei maestri. La vecchia via di Sant'Aniello, che avevo tante volte percorso per recarmi dall'Università alle cattedre anatomiche, io ritrovavo immutata, deserta sempre e silenziosa, con la sua piazzetta nuda e sudicia, sparsa di rifiuti e di mucchi di pietre tra le quali perfino era nata l'erba. Ripensavo, attraversandola, agli allegri anni in cui m'ero posto, come si dice, in carriera, all'anno emozionato in cui m'ero addottorato medico, all' internato nello spedale degl' Incurabili, così impressionante per me, in quel vasto e solenne ricovero, ove avevo tanto visto soffrire.
Or ne ascendevo lentamente le scale marmoree e dietro di me vi si affaticava un'itterica contadina, incinta, che sospirava forte e a ogni gradino s'arrestava a ripigliar fiato. Di sopra, appoggiato a due infermieri, scendeva al gran cortile soleggiato — ove i parenti, aspettandolo, gli preparavano cuscini in una carrozza — un giovane, convalescente, ancora assai pallido, ma così lieto, così felice d'andarsene!
Quelli inservienti mi riconobbero.
— Oh, signor dottore nostro! Riverito dottore! Beato chi vi rivede!
Mi sorrideva anche il convalescente, con lievi cenni di saluto. E, a poco a poco, rividi, lassù, tutti. Nella spaziosa e luminosa Sala Cotugno, ch'era stata, anni a dietro, la mia seconda casa, rividi le suore, gl'infermieri, il farmacista, il reverendo confessore, sempre florido e roseo tra tante bianche facce esangui.
— Guardate chi vi riconduco! — esclamò l'adorabile vecchia suor Agata che, al solito, m'aveva preso per mano e or mi poneva di faccia al primario professore X... mentre costui dalla sala Severino entrava nella Cotugno in mezzo ai discepoli.
— Giovannino! — fece lui, che usava di chiamar ciascuno col suo nome di battesimo e ricordava mirabilmente quelli di tutti — Chi si rivede! Che c'è? Ritorno del figliuol prodigo! Vieni, vieni dentro...
Si avviò, seguitando:
— Benissimo. T'invito a pranzo. Uno che s'è fatto onore, signori miei. Medico condotto in Terra di Lavoro. Bene, benissimo. Come dite voi, suor Agata? On revient toujours... S'era arrestato presso un letto intorno al quale già quattro o cinque degli scolari si radunavano.
Il malato, con un bianco berretto da notte in capo, col petto scoverto, si lasciava tastare.
Lo riconobbi subito. Era l'ercole di Giffuni.
III.
— Ma sa che ho pensato a lei più volte da che sono qua dentro? Mi dia la mano almeno: ora non gliela lascio più come quella sera, si ricorda? Mi avrà perdonato? Non può immaginare cosa mi sentivo dentro, allora... Non si mette a sedere?
Sedetti accanto al letto. La mano che premeva la mia sulle coltri era calda: mi pareva febbricitante. Egli era rimasto addossato a' cuscini, col bianco e largo petto scoverto.
— Ricopritevi — dissi — E non vi rigirate per guardarmi. V'ascolto lo stesso.
L'ercole sorrise, con quell'aria sua solita d'amarezza e di bontà. Il suo corpo rimase immobile. La testa, soltanto, si volse lentamente dalla mia parte.
— Egli è che ho piacere di vederla. Non la vedo da tanto tempo! Saranno tre anni, o sbaglio?
— Due anni e tre mesi. S'era in ottobre...
— È vero... E lei ricorda quella sera della fuga? Lo sa che la Rosina mi scappò via col pagliaccio? Ah, lo sa? Bene. C'era stato di mezzo quel Rigo, il gobbo, che aveva preparata la fuga e mi sorvegliava. L'ombra che scivolò lungo il muro... La ricorda? Rigo. Maledetto!
Si tacque per un momento. Respirava forte, quasi a stento.
Stavo per dirgli che smettesse di parlare quand'egli continuò:
— Presi un anno e tre mesi di prigione per ferite volontarie. Rigo se la cavò con quaranta giorni d'ospedale: ha il diavolo che l'aiuta, il mostro. E poi? Poi, si figuri, caro lei, che vita allegra quando sono uscito dal carcere! Tutto perso, bestie, roba, arnesi: una rovina. E poi la solitudine. Solo, solo! Tutti scomparsi, e io solo come un cane!
S'accendeva e ansimava. Il respiro faticoso gli sollevava le coltri sul petto.
Seguì un silenzio. Qua e là degl'infermi si lamentavano, qualcuno chiedeva da bere, con un piagnucolio da bambino.
L'ercole riprese, più lentamente e più basso:
— Ho ricominciato a lavorar da solo. Cercavo di farmi coraggio. Ma che vuole, a volte mi cascavan le braccia. I ricordi la mancanza di esercizio... specie i ricordi, caro lei, che mi tormentano sempre. Cercavo di scordare, d'avvezzarmi a questa vita nuova. Macchè! E a un bel momento ecco che principia a pungermi in petto qualcosa come una spina... Ma davvero, sa, un dolore, una fitta che lei non se lo può immaginare...
Lo guardai più attentamente. L'abito della diagnosi da' caratteri fisici soffermava il mio sguardo sullo sciagurato. Labbra esangui, muscoli denutriti, cianosi al lobulo degli orecchi, a' pomelli, al lobulo del naso: l'occhio destro gonfio, il collo tumido, turgide le giugulari...
— V'hanno osservato il petto? Picchiato in petto?
— Picchiato? Altro! Non fanno che questo. Ma scusi, che vogliono dire tutte queste linee che mi segnano in petto con la matita rossa?
— Regioni in cui si ritrova ottusità — mormorai, come se parlassi a me stesso.
Egli rimase muto per un poco, meditando. Poi soggiunse:
— Ha mai riveduta la Rosina?
— No: mai più.
— Lo sa che mi portò via pur Bamboccetta? La piccola?.. Figlia del pagliaccio, sa, non mia... Lo lessi in certi pezzettini d'una lettera che rinvenni laggiù, nella baracca...
La sua voce si velava. Egli era commosso. Strinse i pugni, fece per sollevarsi e non potette. Levò gli occhi al cielo e li riabbassò, inumiditi. Due lagrime gli scesero, lente, su per le pallide gote e vi brillarono.
— Andiamo!.... — balbettai — Coraggio! Guarirete e dimenticherete.
— Sì — mormorò, cupo — Voglio guarire e mi voglio vendicare!
— Perchè non cercate di riposare un tantino?..
E mi levai. Vedevo mover daccapo alla volta del letto dell'ercole il professore e i suoi scolari.
— La rivedrò ancora?
E l'ercole mi strinse la mano, aspettando che glielo promettessi.
— Certo. Tornerò.
— Lei è buono... Ha visto che cosa è la vita?... E la mia, signore?... Che Calvario!.... L'ingratitudine... Bamboccetta...
Balbettava ancora parole che io non compresi. Il professore gli s'era avvicinato: gli scolari circondavano il letto.
Mi trassi da parte. L'ercole, come preoccupato, si guardava attorno, guardava i giovani che, fra tanto, gli scoprivano il petto un'altra volta.
La lezione pratica principiava. Mi trassi a dietro a poco a poco, giunsi fino alla porta della sala e lì quasi sperai di non udir la voce del mio ex maestro che parlava, alto, a' discepoli. Ma nel silenzio che s'era fatto nella corsia essa suonava chiara e distinta, con quel leggero suo tono declamatorio:
— L'influenza del sesso si spiega assai naturalmente pel genere di vita speciale a ciascuno d'esso, che imponendo all'uomo — come nel caso — sforzi muscolari più violenti e dei movimenti più energici, aumenta in lui l'energia della impulsione cardiaca e dispone le sue arterie a pressioni e a stiramenti che possono essere fatali, che sono anzi, quasi sempre, fatali.
Addossato allo stipite della porta mi sentivo quasi male. Ah, la vita, la vita! Povero Ercole! E ora comprendeva egli la sua condanna?... Chiusi gli occhi. Rividi, come in un sogno, Giffuni, la piazzetta del mercato, la grande baracca, quelle viuzze malinconiche e anguste. Le immagini della Rosina, del pagliaccio, dell'ercole passarono e ripassarono confusamente davanti agli occhi miei, come in una nebbia...
La voce del professore continuava, fra tanto, implacabile:
— Noi definiremo l'aneurisma un tumore pieno di sangue liquido e coagulato, distinto, si noti, dal canale dell'arteria con cui esso comunica e consecutivo alla rottura totale o parziale delle tuniche arteriose. Voi conoscete, o signori, la conseguenza fulminante e inevitabile...
IL POSTO.
L'ultima sera di dicembre del 18.. il mio portinaio mi mise sul deschetto che mi serviva da tavola da pranzo e da studio una lettera sulla cui busta era stampato tanto di Ministero della Publica Istruzione. Il decreto di nomina. Professore — finalmente!
Ed eccoti — pensai, spiegando quel foglio e scorrendolo con una rapida occhiata — eccoti dunque pedagogo a venticinque anni, nel meglio della vita e con tante altre e ben diverse illusioni nel cuore! Ora va: e insegna ai giovanetti sulla scorta dei soliti programmi, e ragiona loro de' fatti di Pirro e di Leonida, delle guerre peloponnesiache e della ritirata dei Macedoni.......
Lentamente, ricacciai quel foglio nella busta e la riposi sulla tavola. E rimasi lì, seduto davanti ad essa e quasi meravigliato della serenità con cui accoglievo quella notizia pur così attesa e che quasi non così presto mi aspettavo. Come! — pensavo — Tu conquisti un posto sicuro e che t'assicura la vecchiaia — tu riesci a procurarti uno stipendio certo quando tanti altri, più vecchi di te, e più meritevoli, e più umili ne sognano invano uno pur minore; tu raggiungi la piccola gloria dell'insegnamento, un titolo, l'avvenire infine — e non benedici la provvidenza, e non ti reputi felice?
Vero, vero: solo al mondo, oramai — mia madre era morta nel luglio dell'anno precedente e avea seguito mio padre laggiù nel breve cimitero del mio paesello — io avevo dovuto, fin qua, vivere a Napoli — in questa città così grande, così espressiva, così movimentata — la vita dello studente povero e sconosciuto che si può appena permettere il lusso d'un solo e parco asciolvere al giorno e di un unico vestito all'anno. Un altro, dunque, al posto mio sarebbe stato davvero più contento.
Ma io rimasi lì, al cospetto di quella partecipazione, che parecchi dei miei compagni m'avrebbero certo invidiata, quasi a malinconicamente contemplarla. Per altri la vita cominciava di là, da quella carta. Per me, pareva che lì si dovesse arrestare. Sì, sì, arrestare! Come ritorcer l'animo mio, che si voltava addietro e vedeva a mano a mano allontanarsi, svanir quasi come in una nebbia fredda i più teneri ideali ch'esso aveva accolto fino ad ora? L'arte, la poesia, la letteratura, tutto un miraggio luminoso di plauso e di successo si dissolveva — e agli occhi della mia fantasia, che or andava architettando cose e persone e luoghi novelli, già, con una gelida evidenza, apparivano la scuola, la simmetrica linea dei banchi, le austere pareti, e l'ardesia e la cattedra dalla quale sarebbe suonata, su d'un tono ammonitivo, la mia povera voce non avvezza alla formola pedagogica.
Tornai ad aprir la busta, macchinalmente. Tornai a gettar gli occhi su quel foglio timbrato, percorso da una di quelle perfette calligrafie d'amanuensi le quali constituiscono il merito più considerevole degl'impiegati a' Ministeri. La partecipazione era estetica: il mio nome era scritto in rondino.....
Una voce squillò improvvisamente nella mia camera...
— Carlo! Carlo!
S'era spalancata la porta e Matteo Barra, il mio compagno di studio e di stanza, quasi mi si precipitava addosso.
Io m'ero levato, commosso. Buon figliuolo! Il portinaio, o qualche comune amico, o il solito bollettino del Ministero gli avevano partecipato la mia nomina...
— Come hai saputo?.. Da chi?
C'eravamo abbracciati e baciati. Egli mi guardava, ora, con gli occhi ridenti.
— Ho fatto la scala d'un fiato! — balbettò, ansimando.
Mise la mano in petto. Cavò il portafogli, le sue carte d'appunti di «Dritto Costituzionale», il librettino in cui segnava le mie e sue spese giornaliere. Spuntò di mezzo alle carte un telegramma. Egli lo spiegò, mi trasse al balcone, me lo pose sotto gli occhi.
— Ecco leggi! — mi fece — È mia madre. L'ho saputo da lei.....
Lessi, sorpreso:
«Caterina acconsente assieme famiglia. Tutto pronto. Vieni passare qui feste. Ti benedico. Carmela».
— Non capisci? — esclamò Matteo Barra — Non hai capito? Io mi sposo. Io parto.
— Parti!....
— Ma certamente! — e si mise a misurar la stanza a gran passi — E che vuoi che aspetti? Non hai letto? Dice «tutto pronto».....
Mi si arrestò d'avanti. Mi mise la mano sulla spalla.
— Tu ti ricordi di Caterina, non è vero? Della sua zia monaca?.... Quella è morta, la zia, a ottant'anni! Requiescat! E Caterina eredita. Ricordi che lotte, che battaglie, che disperazioni? Bene: ora non più..... Tutto è a posto..... I parenti di lei mi scrivono lettere affettuosissime..... E lei!.... Lei, non ti puoi figurare! È felice: è orgogliosa della mia laurea. Capirai, abbiamo una laurea adesso... Dottore in utroque!.... Ah, mio Dio! Son contento, guarda, son contento! Andiamo a pranzo. Pago io. Voglio pagare io!....
S'interruppe. Mi guardò, meravigliato. M'afferrò pel braccio e mi scosse, faccia a faccia.
— Ma, che hai? Carlo? Che hai?...
Guardò intorno, come a interrogar sul mio silenzio le dolorose e fredde pareti della nostra stanzuccia. Io ero rimasto impiedi tra la vetrata e le imposte del balcone. Era un momento in cui l'oscuro Vico Majorani, laggiù a' Tribunali, taceva, penetrato tutto quanto da quella natural malinconia della sera che cade, dalla particolare tristezza dell'ora in cui pare che tutte le anime si raccolgano. Brillò un lume, di fuori, a un tratto. Di faccia al nostro balcone al primo piano s'accendeva il fanale al cantone. Arrossato nel volto da quell'improvviso fuoco esteriore, ritto, rimpetto a me, Barra mi stendeva le mani. Io le presi e le serrai, muto.
— Ma che hai? — mi ripetette — Tu tremi?.... Tu hai le mani gelate!
Balbettai:
— Senti..... Credevo..... M'era parso che tu sapessi.....
— Ebbene? Che cosa?..
— Ho avuto il decreto, ecco: il decreto di professore.....
— Come! — esclamò — Ma davvero?..
Gl'indicavo il deschetto, sul quale il lume esterno a pena riesciva a far biancheggiare, nella oscurità, quel provvido foglio. Barra lo prese, s'appressò alle vetrate un'altra volta, lo lesse in fretta.
— Perdio!.... Ma come!... E non mi hai detto nulla!
— Che importava?
— Come! A me! Ma importava moltissimo, importava! Ma è una consolazione, per un amico!.. Carlo! Che diavolo! Dovevi subito dirmelo!.. Bravo!.. Son contento... Dunque, eccoti a posto. Son contentone!
Aveva acceso l'ultimo mozzicone di candela che ci era rimasto e ora badava a cacciare e a pestare in fretta e furia in una valigetta qualche camicia, de' libri, un paio di scarpe, una spazzola. Andava su e giù per la stanzuccia, frugandovi, accrescendo a mano a mano il suo bagaglietto. E durante la bisogna continuava:
— Sì..... ti devi chiamar fortunato, via. Non ti pare?.... La vita assicurata. Ma scherzi?.... Dimmi, hai visto niente i miei pettini?.... Non ti scomodare. Eccoli. Dunque..... Ti dicevo, ringrazia Dio!... Sì, sì, son soddisfazioni meritate... Tu sei buono, tu hai un magnifico talento, tu faresti cose grandi. Sì, sì. Ma di questi tempi... La vita... l'avvenire...
Quali parole vuote, nulle, abituali! E gli premeva davvero la mia fortuna?....
Nella penombra, ricadendo a sedere davanti alla tavola, sorrisi amaramente. Ora Barra interrompeva il suo vaniloquio. Aveva preparato la valigetta. E pareva indeciso, mortificato, quasi. Certo, egli mi voleva dire che l'ora della partenza si appressava, che occorreva che egli se ne andasse.
E in quel silenzio della cameretta, quasi senza distintamente vederci, c'intendemmo: il fluido dei nostri pensieri s'incontrò. La nostra amicizia si spezzava: a nessuno di noi importava più dell'altro.
— Va pure — mormorai.
E mi parve di rispondere, freddamente, a quel che egli non aveva il coraggio di dirmi.
— Senti — disse lui, decidendosi — Ho un'ora. Il tempo per pigliare un boccone assieme. Vieni?
— No. Non ho fame.
— Non vieni?
— No.
— Hai mangiato?
— Ho mangiato.
— No, non è vero.....
— Voglio dormire. Sono stanco.
Seguì un silenzio.
— Buon viaggio — soggiunsi — Buona fortuna.....
M'ero levato. Egli mi si avvicinava, confuso.
— Almeno — mormorò — Abbracciami, almeno!....
L'abbracciai. Sentii, in quel punto, sciogliersi il mio cuore così gonfio. Sentii che Barra era stato, dopo tutto, il mio compagno di speranze, di privazioni, di gioie... Il suo cuore batteva sul mio, così forte, così forte!.... E mi prese un tremito invincibile: la gola mi si serrò...
Ma, novellamente, e d'un subito, rampollò dall'orgoglioso e inasprito animo mio il tedio di questo ambiguo momento. Barra mi parve volgare e ipocrita: la sua frettolosa espansione mi disgustò.
— Vai, vai! — gli feci.
E, sulla porta, mentre ancora gli stendevo la mano, un impeto di collera e di disprezzo me la fece ritrarre.
— Va! — dissi — Addio!... Va pure!... Sii felice!...
— Addio... — mormorò Barra, timidamente.
Scese le scale, da prima lento, poi proprio a rompicollo. Io rinchiusi l'uscio. Mossi diritto al lume e lo spensi.
Si rifece l'oscurità nella stanzuccia. Nell'angolo della vetrata tornò, più vivo, il riflesso rossastro del fanale, e mi parve che il Vico Majorani diventasse più cupo e più silenzioso.
Mi sentivo piegare. Cercai il letto, tastai la fredda coltre, mi vi gettai sopra, bocconi. Il silenzio era alto. La fruttivendola, una storpia, addormentava il suo piccolo giù, nel vico, con una cantilena lamentosa.
Nascosi la faccia nelli origlieri. E a un tratto mi misi a singhiozzare, convulsamente.
TOTÒ CUOR D'ORO.
Due disgrazie, una più terribile dell'altra, colpirono, tre anni fa, nel febbraio, il mio amico artista Totò del Lago. Morì improvvisamente un suo zio presso il quale Totò mangiava, beveva, e scriveva le sue poesie larmoyantes, i suoi sonetti pieni d'anima, come dicono adesso, i suoi straziantissimi drammoni, brani d'un cuore esulcerato ch'egli, con un sorriso amaro, gettava di volta in volta a quel cane del publico. E un male misterioso — lo scoppio, a sentire i medici, d'una latente infermità nervosa che finiva per molto stranamente esprimersi — gli annebbiava in tale maniera la vista da nascondergli a un tratto e completamente ogni miseria umana.
Gli amici, non si dice neppure, figurarsi se rimasero atterriti da questo duplice disastro, capitato — vedete un po' che ingiusto destino! — proprio al poeta sentimentale, al pietoso scrittore del « Calvario d'una derelitta », all'espositore commosso delle privazioni degli oppressi, a Totò del Lago, il vero socialista della penna, soprannominato fra noi «Totò cuor d'oro» per le sue rare e nobili qualità della psiche.
La povertà! La cecità! Ci pensate voi? Roba da far rabbrividire, veri castighi immeritati. Ed ecco per un anno la Vedetta Letteraria, L' Humanum, il Giornale del Socialismo Artistico privati, deserti dei versi e della prosa del nostro buon Totò. Ed eccolo sparito, seppellito chissà dove, muto per tutti, ma sopportante, certamente, con quell'animo forte che posseggono le creature fatte come lui, le sue due immani sventure.
Dopo un anno da questi fatti dolorosi, mentre una sera leggevo tranquillamente il processo Dreyfus, la posta mi recapitò, fra l'altre, una lettera sulla cui busta era scritto, con calligrafia evidentemente muliebre, il mio nome.
Io non sono un donnaiuolo, non intrattengo corrispondenza epistolare con le ammiratrici del mio nobile ingegno, non eccito gli scambii spirituali con le letterate. Quella calligrafia donnesca mi sorprese, dunque, e m'intrigò. Apersi la busta, guardai in fondo alla breve letterina e vi lessi con meraviglia non poca la firma del mio amico Totò! Lì per lì, non ricordando la sua triste infermità d'occhi, mi domandai perchè mi scrivesse a quel modo, servendosi di quelle pattes de mouche così peculiari a un sesso che non era il suo. Poi mi risovvenni della fatal necessità ch'egli aveva di ricorrere a un'altra mano per le sue epistole, e mi rimase, soltanto, nello spirito la curiosità di conoscere per quale ragione egli affidasse la sua corrispondenza a una donna. La lettera, per altro, me lo spiegò subito.
«Conoscete, mio caro amico, l'ex monastero di Santa Patrizia, lì nella vecchia Napoli, ricoverante famiglie povere e vergognose della loro povertà, antichi impiegati pensionati e pinzochere e attori decaduti? Lo conoscerete certamente. Ebbene, io son lì, anzi qui, in questo decrepito locale: secondo corridoio del secondo piano, terza porta a sinistra. Vado dal medico ogni tre o quattro giorni e aspetto, pazientemente, l'operazione alla quale egli mi dovrà sottoporre e che, dice lui, riescirà completamente. Le mie condizioni finanziarie non sono, ahimè, mutate. Se spero di riacquistar la vista non così spero di potere trovar presto un posticino, un'occupazione quale che sia, tanto, insomma, che mi dia da vivere. Pazienza! Sapete, d'altra parte, che cosa veramente desidero? Una vostra visita. Verrete dunque? Vi aspetta il vostro affezionatissimo del Lago. Ave!»
«P. S. — La mano che vi scrive questa lettera è quella d'una buona vicina che mi fa da segretario. Il cuore è sempre quello del vostro Totò. Arrivederci!»
Povero Totò! Non misi tempo in mezzo e andai a trovarlo nel vecchio monastero di Santa Patrizia. Era una di quelle uggiose, piovigginose, grige giornate di marzo che vi mettono la tristezza in cuore e l'umido nelle ossa. Trovai Totò del suo solito umore quasi allegro e fu egli stesso, anzi, che avviò la conversazione per via non funebre.
— Guarirò — mi disse — Il dottore me l'ha proprio assicurato. L'operazione sarà dolorosa, sarà lunghetta, ma io tornerò a vedere.
— Ma davvero?
— Oh! Ne sono certissimo. Lo sento, ecco. E sento che al mio cuore tormentato è riserbata la più alta, la più gentile delle soddisfazioni. Quella di poter vedere, di poter ringraziare non solo col vivo della mia voce, ma col baleno del mio sguardo commosso la più santa delle creature di questo mondo, colei che durante la mia infermità non s'è mai per un momento solo allontanata da me, che m'ha prodigato tutte le sue cure, tutto il suo affetto, tutta la sua bontà! Oh, le sarò ben riconoscente, amico mio! Ora io non desidero di vedere che per lei, per lei solamente!
Parlava forte. La sua voce s'era riscaldata, tutta la sua persona vibrava.
Mi parve di udire un fruscìo di gonne, fuori la porta della celletta. Qualcuno che forse origliava lì, nella penombra, ora s'allontanava in fretta.
— Lei — mormorò il mio amico.
E mi parlò della sua vicina, lungamente. Un angelo. Tutti i giorni gli portava il caffè, gli sedeva accanto, lo consolava, gli leggeva i libri e i giornali, gli scriveva le lettere, badava alla sua biancheria, gli spazzolava gli abiti...
— Dunque un idillio?..
— Mah! — fece lui, sorridendo.
— Bella?
Totò sorrise ancora, amaramente. E io m'accorsi della mia storditaggine. Che poteva sapere, il povero cieco, del fisico dell'angelo? Ma egli continuava a narrarmi di tante piccole circostanze sentimentali per cui nell'anima di lui, se non davanti agli occhi suoi, la visione della misteriosa benefattrice era delle più delicate e suggestive. E in quello strano, caratteristico ambiente del monastero di Santa Patrizia, il romanzo di Totò si coloriva de' colori più delicati.
— Mi scriverete ancora qualche volta? — chiesi al mio amico sul punto di lasciarlo.
— Ma certamente. Spero di potervi presto annunziare la mia guarigione.
— È la felice soluzione del vostro idillio — soggiunsi.
— Chissà?... — disse lui.
II.
Passarono, da quel giorno, sei o sette mesi. Notizie di Totò, durante tutto quel tempo, io non avevo potuto più apprendere poi ch'ero dovuto partire, appena qualche settimana dopo di averlo visto, per la Germania. Lassù, di volta in volta, mi si rifaceva vivo il ricordo de' miei amici di Napoli e spesso, nella nebbia nicotizzata d'una qualche birraria di Magonza o di Heidelberg, tra' fumi del prosciutto caldo e del saüercraut, la ideale e dolorosa figura di Totò del Lago mi appariva come quella d'un personaggio poetico e tragico di quella nordica letteratura.
— Sarà egli guarito? mi domandavo — E come sarà andato a finire il suo malinconico flirt?
Tornato a Napoli trovai, fra le parecchie che il mio portinaio aveva avuto la splendida idea di serbarmi per tre mesi nel suo casotto, una lettera di Totò. Questa volta egli scriveva manu propria, con la sua bella calligrafia chiara e grande, indizio, come osservano i grafologi, d'una passionalità generosa.
«Sono guarito! — annunziava la lettera — Vedo! Vedo!»
Nient'altro.
Evviva! Ma dove ottener più precise notizie, dove potermi congratulare con quel poveretto, dove poterlo riabbracciare? Corsi all'ex monastero di Santa Patrizia, infilai daccapo quel lungo e oscuro corridoio che m'aveva guidato alla cella di Totò e, con una indescrivibile emozione, picchiai al numero 40.
Mi venne ad aprire un vecchietto che aveva fra mani un berrettino tondo intorno al quale egli stesso andava cucendo un nastro di felpa. Dallo schiuso della porta s'intravedevano un lettuccio basso, una vecchia sciabola e due grandi stivaloni appesi al muro, delle immagini, delle fotografie, un ritratto di Ferdinando II, attaccati alle pareti. La stanzuccia mi parve quella d'un qualche militare in ritiro, d'un solitiero, come dicono a Napoli. Il vecchietto aveva ancor l'aria marziale, un bel paio di bianchi baffi rialzati, una giacchetta soldatesca, abbottonata fino al mento.
— Scusi, Totò del Lago?
Egli esclamò, sorpreso:
— Come! Chi?..
— Domando perdono — soggiunsi — Ha forse sloggiato?
— Da un pezzo — disse lui.
— Sono un suo amico. Venivo a vederlo. A congratularmi con lui anzi, che, pare, ha riacquistato la vista... Lei... scusi, ne sa niente?.. Vedo che occupa la sua stanza...
Egli mi continuava a sgranar gli occhi in faccia e taceva.
— Lo conosce? — soggiunsi — È pur un suo amico lei?
— Io!? — fece, come se gli avessi dato uno schiaffo.
Vi fu un silenzio. Ero confuso, non sapevo più che dire e quasi facevo per salutare il vecchietto e andarmene. Egli si volse addietro per deporre il berrettino e l'ago su un tavolinetto: uscì nel corridoio, mi prese per mano, silenziosamente, e mi condusse rimpetto, d'avanti a un'altra porticella. Si chinò a guardare pel buco della serratura, poi mi fece atto perchè lo imitassi. Guardai dentro quella celletta, a quel modo.
V'era una giovane donna, bruttina, piccola, biondiccia, seduta per terra, al sole che la illuminava tutta, accanto a un di que' grossi cestoni ne' quali le povere madri napoletane, le donne del popolo, mettono a dormire i loro piccini. La piccola bionda si chinava su quel cesto e, di volta in volta, agitava la mano per cacciar via qualche mosca.
— Ha visto? — fece il vecchietto.
E come io non sapevo proprio che cosa rispondere egli, nel corridoio scuro, avvicinando quasi alla mia la sua faccia, mormorò:
— Il suo amico ci ha lasciato questo grazioso ricordo. Ah, non sa nulla? Bene, glielo dico io. Partito... Il signor del Lago è partito per l'America, coi denari dell'eredità d'uno zio prete... Non sa nulla, di questo?
Sorrideva ora, con tal sorriso che mi gelò il sangue. Le sue mani tremavano.
— Totò del Lago! — esclamai — Totò ha fatto questo!...
— Già — disse il vecchietto, continuando a sorridere e rincamminandosi verso la sua stanza — Totò del Lago ha fatto questo. Ha fatto una madre. E te l'ha piantata col figliuolo. Che? Bello! Magnifico! Grandioso! Per gratitudine, l'ha fatto. Quella è la signorina che lo ha assistito durante tutta la sua infermità...
Fece ancora due passi e si volse.
— Totò cuor d'oro, se non mi sbaglio — esclamò — Totò cuor d'oro!.... Il poeta!.... Accidenti! Totò cuor d'oro!
Sulla soglia della sua stanza mi salutò con la mano.
— La riverisco, sa! E lei me lo riverisca!
Suonò una risata ironica, sghignazzante, terribile. Il vecchietto sparve nella sua camera.
La porticina si chiuse, sbattuta forte.
QUELLA DELLE CILIEGE.
Stesa supina sul piccolo divanetto della sala terrena dell' Ospedale degl'Incurabili, lì ove si fanno le immediate medicature a' feriti che vi capitano di tanto in tanto da' rioni popolani di Napoli, una giovane donna ripigliava i sensi a mano a mano.
Erano le dieci ore di una magnifica sera di primavera. La lampadina elettrica, che la suora di guardia aveva incappucciata con un pezzo di carta rosea, bagnava il divanetto e quella donna di un dolce lume colorito diffuso e uguale.
In qua, presso a una tavola sulla quale era squadernato un registro per le Ricezioni notturne, il medico di servizio preparava, sbadigliando, le bende e l'ovatta. Quando ebbe tutto allestito per la medicatura, sedette alla tavola, si trasse davanti il calamaio e il registro, sbadigliò ancora una volta e accese un'altra lampadina, per vederci meglio.
— Dunque? — disse, voltandosi — Voialtri, fatevi avanti.
Due guardie di publica sicurezza uscirono dalla penombra e si posero di faccia al medico. Il brigadiere salutò, militarmente.
— Il fatto? — disse il dottore.
— Vico Astuti, sezione Porto — disse il brigadiere.
— Scusi, brigadiere — corresse l'altra guardia — Sezione Mercato.
Il medico scosse la testa, nervoso.
— Vi ho chiesto del fatto, non del luogo. Come è andato? Spicciatevi.
— Il fatto del ferimento? — disse il brigadiere — Ecco. Io e la guardia scelta Cosentino, qui presente, passavamo pel Vico Astuti, verso le nove e mezza. Costei urlava, in mezzo a certe femmine. Ci siamo avvicinati al gruppetto. Be'? — dico — di che si tratta? Dice una di quelle femmine: Brigadiere, portatela all'ospedale: l'hanno sfregiata e perde sangue. E così l'abbiamo portata qui, in vettura...
Il dottore s'era levato e s'avvicinava al divanetto.
— Dove ti hanno ferita, eh, bella bimba?
La donna, che premeva sulla guancia destra una pezzuola la quale s'era tutta arrossata, ne la disgiunse pian piano. Apparve la guancia, sanguinante. Ella strinse i denti, con un brivido, e tornò a chiuder gli occhi.
— Rasoio: — mormorava il medico, reclinato sulla donna — colpo scorrente dalla tempia all'angolo mascellare inferiore. Ferita abbastanza profonda. Aspetta... Anche qui? Anche al braccio?
Gli agenti s'accostarono per guardare.
— Ferita anche al braccio! — esclamò il brigadiere — Ah! Era per questo che mi sentivo scorrere il sangue nella manica quando l'ho afferrata pel braccio! Vuol dire che ha parato un altro colpo, e ha preso anche quello.
— Ah, Signore Iddio! — sospirò la suora.
— Come ti chiami? — chiese il dottore. La donna balbettò:
— Sofia Ercolano.
— Soprannominata la rossa — disse il brigadiere.
— E lo vuoi dire chi è stato?
Attraverso alla pezzuola, che or le nascondeva quasi tutta la faccia, la rossa mormorò:
— Non lo so.... Non l'ho visto...
— Sangue d'un cane! — esclamò la guardia Cosentino — Ma senti se non fanno tutte così: «Non lo so! Non lo conosco! È stato uno sbaglio!....» Ah, brutte bagasce!...
— Basta! — fece il dottore.
— Ma Cristo! — mormorò il brigadiere alla guardia — Vuoi star zitto? Non vedi che c'è la suora madre?
Soggiunse, levando la mano spiegata al keppì:
— Possiamo andare?
Senza badargli il chirurgo si volse alla monaca.
— La catinella.
La rossa sgranò gli occhi, spaventata, e tentò rizzarsi.
— No! No!... Che mi volete fare?..
— Pazienza, bella mia. Poca roba. Ce la caveremo in cinque minuti.
Rimboccò fino a' gomiti le maniche del lungo camice grigiastro e si mise a frugare tra' suoi ferri. Intanto, piegato sulla cassetta ov'erano riposti, senza nemmen voltarsi, diceva alle guardie:
— Voialtri, andatevene, pel momento. Poi vi chiamerò.
— Andiamocene — disse il Guglielmi a Cosentino.
Nel corridoio incontrarono la suora che portava la catinella.
Il brigadiere le domandò:
— Scusi, resta qui la rossa?
— Ma s'intende — disse la suora, passando.
Vi fu un breve silenzio. Poi s'udì la voce dell'Ercolano, alta, squillante:
— No! No!.. Ah, bella Vergine!... Ah, Madonna del Carmine!..
Ora, nello spazioso cortile tutto inondato dal chiaro lume della luna le guardie, stanche, s'avviavano al largo sedile di marmo su cui, presso alla scala scoperta e marmorea, un gigantesco eucaliptus spandeva un'ombra nerastra.
Sedettero. Il brigadiere accese un sigaro e lanciò alla fresca e pura aria notturna una copiosa boccata di fumo.
Risuonò, ancora, più cupo, un urlo della rossa. Si rifece il silenzio.
— Guardi che luna! — mormorò Cosentino, levando gli occhi in alto.
— Luna piena — disse il brigadiere, beatamente — Pare giorno.
Dopo un po', Cosentino disse:
— Ha mezzo sigaro, per caso?
II.
Nella sala « Ramaglia », al buon sole che v'entrava pe' larghi finestroni, le ricoverate nell'ospedale chiacchieravano. Delle frasi allegre correvano di letto in letto fino in fondo allo stanzone, ove, presso alla bella porta di marmo e accanto a una tavola coperta da un tappeto verdognolo, una suora preparava filacce. Seduto alla medesima tavola l'impiegato delle entrate ricopiava in un quaderno le prescrizioni farmaceutiche. Era l'ora della visita. I parenti delle ricoverate arrivavano a gruppi, continuamente, e si sparpagliavano intorno a' letti e subito vi si andavano a sedere accapo o nel corsello tra muro e letto, o rimanevano davanti a' letti, impiedi, con l'aria triste e meravigliata delle persone di buona salute che si trovano al cospetto d'un qualche loro caro diventato là dentro così pallido, così triste, così sfinito! Laggiù, verso gli ultimi letti, una giovane contadina itterica baciucchiava il figliuolo che le avevano portato dal villaggio, un marmocchietto bianco e roseo il cui vivo incarnato dava maggior rilievo all'orribile color giallastro della madre. Un altro figliuoletto di lei s'era arrampicato sul letto e là dove la coltre si alzava ad angolo sulle ginocchia della mamma egli si piegava, e abbracciava ridendo quelle ginocchia nascoste e baciucchiava a quel posto.
La suora di guardia sospese la sua bisogna e mormorò all'impiegato:
— Guardi che bella scenetta per un pittore!
— Idroclorato di morfina — fece l'impiegato, con l'indice della sinistra puntato sul foglio dal quale ricopiava — Ovatta pacchi nove Diceva, suora?... Già: di fatti. Scena per un pittore. Oggi dunque v'è la visita?
— Certo. È giovedì.
— Non ci avevo badato.
Rimasero muti per un pezzo, guardando a uno a uno i nuovi venuti dei quali qualcuno, capitato lì per la prima volta, cercava il letto che gli avevano indicato.
— Quella lì non ha proprio nessuno che la venga a trovare — disse la suora, a un tratto.
— Chi?
— L'ottantuno. Laggiù.
— La rossa? E chi vuole che la venga a trovare? Ecco... se proprio ci volessero venire tutti quelli che la conoscono...... avremmo qui un reggimento, suora....
— Come? E perchè?....
— Perchè?.. Perchè queste cose lei non le sa. Sono piccole miserie della vita, ecco. Quella signorina è un po'..... Come devo dire? Un po' la signorina Omnibus.
La suora arrossì e si levò. Minacciava l'impiegato, con l'indice teso.
— Ah, quella linguaccia!
— Già, già: ha ragione — fece quello e si rimise a ricopiare — Ovatta pacchi nove, garza tre, bende sette.....
La suora mosse direttamente al lettuccio della Ercolano, che pareva assopita. Contemplò a lungo quel volto ancor pallido, segnato dalla tempia all'angolo della bocca dalla ferita recente, che ora s'andava rimarginando. E come l'Ercolano lasciava penzolare fuori del letto un braccio ella glielo sollevò, dolcemente, e lo ripose sulle coltri.
La rossa aperse gli occhi e sorrise.
— Quel povero braccio! — disse la suora — Il braccio malato! E lei se lo lascia cascar giù fuori dal letto!
— È guarito.
— Ah, sì? Come andiamo dunque? Bene?
— Bene, sì, sì. E domani me ne voglio andare. Ecco già undici giorni che son qui. Ci perdo la salute, suora! Peggio d'un carcere!
— Ma dove vuole andare? Parenti ne ha lei?
— Non ho alcuno — rispose l'Ercolano, un po' triste, un po' impazientita.
S'era messa a sedere in mezzo al letto e le sue mani esangui e nervose tormentavano le lenzuola. Il suo sguardo errava, senza volontà. E su' letti in fila, sul viavai della gente esso passava come quello già abituato e senza curiosità delle vecchie clientele dell'ospedale. A un momento, più a lungo, s'arrestò sulla cappelletta che veniva fuori da un angolo dello stanzone, nascosta da pesanti cortine a fiorami.
La suora immaginò che pregasse. Si intenerì. Stese la mano, dopo un poco, e lievemente gliela posò sulla spalla.
— A che pensa?
— Penso — mormorò l'Ercolano — al sogno che ho fatto stanotte. Ho sognato delle ciliege. E mi pareva di averne pieno il grembiale e di mangiarne tante, tante!..
— Le piacciono?
— Le adoro.
S'era fatta lieta. Si dimenticava.
— Tante volte, quando mi cercano, chiedono di quella delle ciliege.....
— È il tempo loro — disse la suora, arrossendo — Domani glie ne faccio avere.
— Domani me ne vado.
— Macchè! — esclamò l'altra, scotendo il capo — Non voglio che se ne vada così presto! Ancora non siamo in gambe, figliuola!
E le carezzò i capelli, col suo solito atto materno che le ingraziava le ricoverate più difficili.
Lentamente l'Ercolano si riaddossò ai cuscini e vi affondò il capo. Sulla sua pallida faccia passò un'ombra di tedio e di stanchezza.
— Dunque si resta intese — disse la suora — Domani non si va via. E le porterò le ciliege, domani.
La rossa avea chiuso gli occhi. Pareva assopita. La suora si chinò sopra di lei e le mormorò:
— Arrivederci, non è vero?
— Arrivederci..... — balbettò la convalescente.
III.
A poco a poco il sole risaliva su per le coltri del letto. Una chiazza ancor abbagliante dilagava sulla bianca parete, a capo; ancora gli origlieri se ne bagnavano e, come un casco dorato, lì, copiosa e lucida, la capigliatura dell'Ercolano accoglieva riflessi quasi metallici. Le coltri estive disegnavano una sagoma voluttuosa, un ricco e palpitante seno giovanile, eretto.
Era terminata la visita. Dei ritardatarii s'indugiavano presso a' letti, impiedi, con le mani ancora poggiate sulle spalliere delle seggiole dalle quali s'erano levati e dove parea che stessero lì per rimettersi a sedere e per tornare a discorrere coi loro malati.
Un giovanotto piccolo, bruno, col cappello di feltro molle su gli occhi, ronzava da un pezzo attorno al letto della rossa. Ed era adesso così intento a contemplare l'Ercolano, così conquistato da quella dolce immobilità sopita, che non s'accorse null'affatto di due altri borghesi che gli stavano alle costole e spiavano ogni atto di lui.
A un tratto si decise. Fece due passi verso il letto e cacciò la mano in saccoccia.
— Fermo! — urlò uno dei borghesi, ch'era il brigadiere Guglielmi.
E gli fu addosso e lo abbrancò pel colletto. La guardia Cosentino gli afferrava le braccia, di fianco.
— Che vuoi fare? Un'altra rasoiata, che? Fermo, corpo di Dio!..
L'uomo, agguantato così d'un subito, sulle prime non aveva fatto resistenza. Ma ora cercava dì divincolarsi.
— Fermo! — gridava il Guglielmi.
Cosentino gridava anche lui, voltato alla porta:
— Qua, quà! Custodi!
E mentre di laggiù, dal fondo alla sala, qualche inserviente accorreva e un mormorio correva pe' letti, la rossa si svegliò, di soprassalto. Ora quel giovanotto le stava quasi di faccia.
Lo riconobbe. Gli era cascato il cappello, a piè del letto.
Mise un grido rauco:
— Tu! Tu!....
— Cuccia! — le fece il Guglielmi.
Cosentino le diceva:
— Il sorcio è in trappola! Ora ce lo dirà lui chi è stato che t'ha sfregiata!
Lo sconosciuto mormorava, perdutamente:
— Io..... sì... è vero.....
Ma, protesa dal letto, l'Ercolano urlava, con le braccia stese:
— No! No!.. Non è stato lui!..
— Va bene! — rise il brigadiere — E ti credo va! Parola d'onore. Vi metterete d'accordo, davanti al presidente.
Cosentino si frugava, cercando le manette, e canticchiava:
E ll'ammore è na catena,
nun se po' cchiù scatenà!
— Perquisiscilo — disse il Guglielmi.
L'uomo, pallido come un morto, si lasciò fare.
— Ha le saccoccie piene di ciliege — annunziò Cosentino.
Ne gettò sul letto due schiocche.
E alla rossa, che urlava e si torceva tra le coltri, soggiunse, ridendo:
— Toh, rossa! Prendi! E fattene buccole!..
LA TAGLIA.
Il giorno di San Filippo Neri c'era un solleone che bruciava le pietre — Mariangela Santella si sentì cogliere da' dolori del parto proprio sul punto in cui, piegata sull'arsa terra che dal suo casolare raggiungeva la via maestra, ella sciorinava al sole i piccoli peperoni rossicci destinati alle grevi minestre del verno. Sotto l'uscio di casa il più piccolo de' suoi bambini, nudo, buttato per terra con la pancia all'aria, brancicava e annaspava attorno con le manine insudiciate di terriccio: i pulcini della chioccia gli erano saltati sul petto e glie lo vellicavano, ed egli rideva e si schermiva. L'altro, un rossiccio dagli occhi grandi e stupidi, mezzo scemo, sbocconcellava un pezzo di pane bruno e contemplava or il fratello or la madre, silenzioso e indifferente.
— Ah, santa Marta! Ah, santa Filomena! — si mise a urlare Mariangela, premendosi le mani sul ventre.
Barcollando rientrò nel casolare e si gettò sul pagliericcio.
Il rosso, con la bocca piena, annunziò:
— Viene tata.....
E Bernardino Santella apparve sotto l'uscio, con le mani sul dosso, con la pipetta in bocca, lento, pensoso, tutto bianco di polvere fin ne' capelli, rossicci come quelli del figliuolo. Trasse una scranna accosto al pagliericcio e si mise a sedere rimpetto alla moglie. Mariangela continuava a lamentarsi, più piano adesso, e socchiudeva gli occhi lagrimosi.
Con le gambe aperte, con le grandi mani vellose posate sulle ginocchia, reclinato verso la moglie, alla quale il respiro difficile gonfiava il petto come un mantice, Bernardino disse:
— Vengo da Durazzano. Donna Sofia la levatrice se n'è fuggita a Bisaccia con le figlie e col farmacista che se la mantiene.
Tutti scappati, di que' giorni. I briganti scorazzavano ad Atina, a Esperia, a Durazzano: non si poteva più fare un passo fuori dell'uscio e la gente si chiudeva in casa come se ci fosse il colèra. Fra tanto le male notizie le portava il vento: oggi il saccheggio alla casa del sindaco d'Atina, ieri un orecchio di Benedetto Caruso spedito al padre di costui in una lettera che chiedeva mille ducati pel riscatto: e il mandriano del signor marchese di Sant'Angelo bruciato vivo, e le due mule di Fortunato Sacco sparite, una notte, col basto e con la cavezza! Un orrore, un orrore! La gente si raccomandava l'anima per le brutte morti che sentiva: il notaio di Durazzano, co' due nipoti preti, si fabbricava la polvere in casa e non usciva più di casa da un mese, nemmeno per sentir messa. Il prefetto spediva telegrammi, prometteva soldati e costoro non arrivavano mai. Nel giorno del Corpus Domini, sì, ne erano giunti una cinquantina. S'erano sbandati qua e là pe' campi arsi, per la fitta boscaglia ch'essi non conoscevano, ed erano tornati a Durazzano sfiniti, dopo sette ore di fucilate, con tre compagni morti. Ma fruga e rifruga erano riusciti a far qualcosa, poichè due della banda di Battista di Limatola erano capitati nelle loro mani, e ora, per le viuzze di Durazzano, i soldati inferociti se li cacciavano innanzi, legati, a furia di colpi di calcio degli schioppi. Mariangela, che era stata a vederli passare, per poco non s'era sconciata dal ribrezzo. E diceva sempre che avrebbe fatto un figlio col labbro superiore spezzato, come l'aveva visto a un di quei briganti il quale l'aveva squadrata con certi occhi pieni di sangue.
Dopo un breve silenzio — Mariangela non si lamentava più — il marito soggiunse:
— Senti... Hanno posto la taglia a Battista di Limatola.
La donna raccolse le forze e si mise quasi a sedere sul pagliericcio. Un nugolo di mosche se ne levò al tempo stesso.
— Mille ducati — disse Bernardino, togliendosi la pipa di bocca e scotendo il capo fulvo.
La donna lo guardava, con gli occhi sgranati, pieni di desiderio.
— E quanto fanno?
— Fanno mille ducati, fanno. E tutta Durazzano non li vale.
Seguì un breve silenzio. Lentamente Mariangela si riaddossò al capezzale e poi vi tornò a posare la testa. Le mosche tornarono. Ella agitò la mano, e poi anche la mano ricadde. Fuori, i bambini giocavano al sole, con la chioccia e coi pulcini. Un'afa ardente alitava nella capanna.
Bernardino trasse più accosto al pagliericcio la sua scranna, si chinò, quasi, all'orecchio della moglie e le mormorò:
— Non sanno ov'è nascosto; non lo sanno. Senti... io lo so...
La donna trascinava la testa sull'origliere e ne la levava, a fatica, per appressarla alla bocca di lui. Il marito s'era levato. Posava or le grandi mani sul letto, vi si chinava; e il letto scricchiolava.
Più piano, egli disse:
— Nella pagliaia di Donato Auricchio...
E subito si voltò dalla parte dell'uscio, come se qualcuno lo avesse udito.
— Ah, santa Sofia!.... — urlò Mariangela, che ricominciava a spasimare sul pagliericcio e a torcervisi come una serpe.
Per Gesù Cristo! La moglie con i dolori del parto, la miseria in casa, la vacca venduta, i figliuoli nudi!
E Bernardino si levò co' denti stretti, girando attorno lo sguardo fosco e disperato. Si chinò, a un tratto, e rovistò in un fascio di paglia sul quale, in un cantuccio, dormiva il cagnolo. Ne cavò la pistola a due canne che aveva portato addosso anni addietro, quando accompagnava pe' sentieri deserti il medico condotto. Forse l'aveva nascosta lì, sottomano, di recente, poichè non ebbe bisogno di caricarla. Ne volse la bocca alla porta ed esaminò l'arma, lungamente.
Ora Mariangela pareva assopita.
Bernardino si fece il segno della croce e uscì.
— Se mamma ti chiama, tu dille che torno presto — disse al rosso, passando.
II.
Il sole si levava in un immenso bagliore accecante. Si vedeva dalla finestrella del casolare la via larga e deserta, sbarrata dai castagni. Un cuculo piagnucolava, lontanamente.
Ora, sotto un panno che s'era posto sulla faccia per difenderla dalle mosche, la Santella pareva assopita. Trascorse un'ora, quasi. Il cagnolo, assetato, si metteva a lambir l'acqua tepida e sporca raccolta in un vaso, e lo rovesciava. Il rosso rise forte. La Santella si mise a sedere in mezzo al letto.
— Dov'è tata?
Il rosso si appressò, balbettando:
— Tata se n'è andato..... s'ha cavato le scarpe e se n'è andato.....
— Ah, Santa Caterina! E così mi lascia!.....
Allora lo scemo si pose per la via che aveva fatto Bernardino, pel sentieruolo che metteva al bosco. Correva. Ove il bosco cominciava ad apparire egli s'arrestò, trafelato.
Un gran pino spandeva per terra la sua ombra gigantesca: una piccola pina, caduta dall'albero, s'apriva al sole. Il piccino la raccolse e la mise in saccoccia. Poi si rincamminò, lentamente. Allo svoltare che fece da un sentieruolo pieno di foglie cadute adocchiò una lucertola che s'era stesa pigramente al sole. Si gettò carponi e l'acchiappò sotto il berretto. Sedette a terra, avvolse la bestiolina palpitante in una pezzuola e la cacciò in tasca. Si levò e si rimise a correre.
Dopo cinquanta passi gli si parò davanti il muricciuolo su cui s'affacciava la pagliaia di Donato Auricchio. Era quasi diroccato tra l'erbe selvaggie e un roveto arso lo assaliva alle spalle.
Il rosso s'arrampicò sul muricciuolo e sporse il capo dalla sua cresta. La pagliaia bruciava ancora: il bizzarro scheletro delle ultime sue canne ardeva, scoppiettando nella cenere nera; una spira di fumo saliva nell'aria.
E lì, a pochi passi, tra l'erba arrossata, un corpo giaceva bocconi.
Il rosso riconobbe suo padre.
Chiamò, dal muretto:
— Tata!.... Tata!....
Gli rispose il silenzio. L'ammazzato si vedeva poco in faccia: si vedeva appena l'adunco profilo del suo naso sotto una ciocca di capelli rossastri e scompigliati. Una mano aperta, tutta pesta e sanguinosa, spuntava tra l'erbe.
Lo scemo non si sentiva l'animo di saltare il muricciuolo. Guardava quel corpo, senza comprendere.
Tornò a chiamare:
— Tata! Tata! Mamma piange e ti vuole!.... Ohi, Tata!
Scese dal muro, sedette per terra, e aspettò.
Il sole volgeva al tramonto. Pel puro cielo procedevano due nuvole macchiate nel loro candore argenteo da strisce brunastre, come se per entro vi fossero passati i denti d'un pettine immane. Nel lontano, ove lo sguardo raggiungeva la immensa distesa dei campi, dalla parte del sole, una nuvola aranciata s'orlava di rosso vivo. E dai campi, dalla boscaglia respirante a ondate un caldo vento, arrivavano susurri indefinibili e incessanti, ronzii d'insetti, pispigli brevi e sommessi.
— Tata! — balbettava il piccino — Mamma ti vuole!....
Poi non insistette oltre. Lo coglievano la stanchezza ed il sonno.
E laggiù, nel silenzio tragico ed alto, a un punto lo scemo si stese sull'erba, chiuse gli occhi e s'addormentò.
PESCI FUOR D'ACQUA.
— Sì, sì — ripetette, seduto di faccia a me alla medesima tavola, il mio compagno d'ufficio de Laurenzi — io son deciso a resistere! Staremo a vedere! L'ufficio? I doveri dell'ufficio? L'orario? Ma l'ufficio non conta nulla, mio caro, a fronte di tutta una vita, di tutti i ricordi che v'inchiodano al posto ov'è stato il padre. Il padre, capisci? E io dunque dovrei rinunziare alla scrivania di mio padre, alla stanza dov'è stato mio padre, all'aria che ha respirato mio padre! Ah, sì per esempio! Ma voglio vederlo, voglio!
S'interruppe. Il cameriere, un de' più anziani di quella ignobile gargotte ove s'andava a far colazione tra preti, avvocati, studenti, e cantanti del teatro vicino ora gli poneva davanti un piatto di baccalà alla livornese fumigante in una brodaglia rossastra. Gli occhi miopi del de Laurenzi s'appressarono al piatto e vi si sprofondarono e lo interrogarono avidamente: tra quel vapor succulento le nari d'un lungo naso floscio palpitarono e si dilatarono.
— Alla livornese, professore — disse il cameriere — Poi me ne parlerà. E appresso ha ordinato?
— Un formaggio e un finocchio.
— Il vino solito?
— Solito.
Si mise a mangiare, voracemente. E io, che avevo terminato il mio modesto asciolvere, sorseggiando un caffè e fumando mezzo toscano mi misi a guardarlo come se lo vedessi per la prima volta.
Alto, magro, con le spalle incurvate, con una gran barba grigiastra e incolta pel cui pelo intricato or si disseminavano le briciole del pane e le gocce del brodo untuoso, con orribili mani dalle dita nodose e lunghe che parevano artigli, mal vestito, tutto chiuso in un vecchio cappotto stinto e rattoppato il cui bavero che un tempo era stato ornato di pelo marrone or ne serbava sol quattro o cinque ignobili ciuffetti, il mio compagno di ufficio de Laurenzi, un uomo sui cinquantacinque anni suonati, incarnava pittorescamente la pietosa straccioneria del travettismo. Ammogliato, carico di figliuoli e di piccoli debiti, pe' quali il suo stipendio era strappato a brani e giorno per giorno alla cassa dell'economo, egli era un di quelli sciagurati il cui contatto uggioso ve ne sollecita quasi a non indulgere alle volgari abitudini e a' miserabili vizii, ma ch'io m'inducevo a creder degno, il più delle volte, della più malinconica commiserazione.
Era stato — raccontava — giornalista di grido, nell'Alta Italia, a' suoi be' tempi: lo era ancora qui, adesso, in una gazzetta quotidiana che stentava parecchio la vita e nelle cui trascurate colonne il de Laurenzi poneva, di volta in volta, certe sue rievocative narrazioni partenopee scialbe e sciatte, disseminate di ampollosi rimpianti e miserabilmente intessute sulle cronache de' giornali del tempo, in cui frugava tutta la santa giornata.
Nella biblioteca governativa ov'ero anch'io il de Laurenzi era entrato quando essa aveva a capo un prelato di cui bastava soltanto soddisfare l'olimpica vanità per guadagnare, se non la stima, la indifferente acquiescenza. Morto costui la biblioteca non aveva più potuto offerire alle gratuite libertà, che l'ex giornalista vi s'era conquistate, un comodo asilo remuneratore. Ora bisognava lavorare e frequentare l'ufficio. Il nuovo bibliotecario era severissimo: guardava nel registro d'ingresso degl'impiegati, segnava le ore e i minuti a' tardi arrivati, mandava in giro, di volta in volta, ordini del giorno in cui si raccomandavano lo zelo, l'ossequenza all'orario, la diligenza ne' compiti, e pretendeva che tutti firmassero quelli ukase in segno di rispettosa adesione.
Una schiavitù, sissignori: una soppressione spietata, implacabile dell'ingegno e della personalità, una scettica considerazione dell'io pensante e creante, degli altrui nervi, dell'altrui cultura quando non fosse quella delle scienze naturali e delle matematiche, nelle quali quel nuovo direttore era spaventosamente agguerrito.
Ah, sì: portate in questi polverosi e silenziosi antri foderati della storia cartacea del pensiero umano, portatevi, se vi riesce, la giovialità, l'arditezza, il libero arbitrio, la poesia, l'indipendenza: portatevi il vostro talento, la vostra modernità, le vostre abitudini sincere e svegliate, se vi vorrete vedere a mano a mano sfiorire tutta codesta ancor viva giovinezza dell'animo vostro! Mio Dio, che aridità e che tristezza tra queste mute pareti, gravi d' in folio e d'enciclopedie: tra queste mura sorde a ogni voce impulsiva e pur così impregnate de' pettegolezzi, delle invidie e delle guerricciuole che constituiscono il tessuto connettivo della vita degl'impiegati, il continuo esercizio della loro parola aspra e mordace, l'alimentazione quotidiana dell'ozio e dell'ignoranza del loro pensiero!
Che diamine, dunque, pretendeva di non volere lasciare qui, come un brano del suo cuore dolente, il mio compagno de Laurenzi? E di dove gli veniva tutto questo attaccamento atavo-topografico, espresso con tanto impeto melodrammatico? Io non sapevo, in verità, figurarmi e ammettere tra il baccalà alla livornese e l'evocazione paterna alcuna tollerabile analogia. Quest'uomo dunque componeva con tanta assoluta ignoranza della loro espressione dissimile le sensazioni della psiche con la più brutale delle soddisfazioni fisiologiche?
— Comprenderai — disse lui, quasi come per rispondere al mio pensiero, e dopo aver vuotato il suo terzo bicchiere di vino bianco siciliano — comprenderai ch'io mi trovo nelle biblioteche non per le mie aspirazioni, non per elezione mia. Ti pare? Un impiego governativo! Cioè una sgobbatura! Una servitù! Ma, poi che là dentro mio padre, ch'era uno studioso, v'è stato impiegato anche lui e vi ha vissuto metà della sua vita io vi ho voluto iniziare come una tradizione metodica ed esemplare nella storia di queste successioni familiari. Usciamo?
— Usciamo. Difatti è ora di tornare lassù.
De Laurenzi afferrò un tovagliolo e si forbì le labbra, in fretta, e poi lo buttò sulla tavola tutto insudiciato, come uno straccio. Si levò: cacciò la mano nella profondità d'una delle saccocce del suo cappotto, vi pescò e ripescò per buon tratto e infine cavò fuori quell'artiglio armato d'un mozzicone di sigaro.
— Andiamo — mi fece, dopo avere acceso il mozzicone.
Sulla soglia della trattoria s'arrestò, per ricominciare il discorso.
— E così eccomi in guerra aperta col signor direttore. Si capisce: io sono uno straordinario, pel momento, io sono entrato nel sancta sanctorum senza i titoli che ci vogliono. Titoli? E il mio ingegno, il mio passato? Questi signori non vedono che bibliografia, schedatura, inventarii: e guai a chi è qualcuno o qualcosa! E poi sotterfugi, rapporti segreti, denunzie: ecco la loro maniera di battagliare. Ora, come l'hanno insegnata anche a me, loro mandano ufficii — e io mi dò per malato e vado a Roma.
Si scappellò, con un saluto profondo.
Colui ch'egli avea salutato gli fece pur di cappello e passò via, in mezzo a quattro o cinque altri che lo accompagnavano e con cui discuteva calorosamente.
— Lupus in fabula — disse de Laurenzi — L'onorevole Maliberti. Non lo conosci?
— No.
— Vuoi che ti presenti, un'altra volta?
— Ma no!..
— Fai male. Una potenza sai. È lui che m'ha presentato al ministro. Ed è così che sono a posto, adesso.
Riaccese il suo mozzicone di sigaro, che s'era spento. E soggiunse:
— Vedrai, mio caro. S'è battagliato, a Roma, giorni addietro. Ma l'ho spuntata, questa volta. Francamente, se io fossi te, cercherei di conoscere l'onorevole. Non sei elettore, tu? No? Come, non sei elettore, non ti sei fatto inscrivere?..
Affrettavo il passo. Egli s'accorse della poca attenzione onde accoglievo le sue parole e s'arrestò, a un tratto.
— Tu dunque rientri in ufficio?
— E tu non ci vieni?
— Io no. Vado al giornale. Ho un articolo da correggere in bozze di stampa. E mi preme più quello, naturalmente.
Feci l'atto di rincamminarmi.
— Se domandano di me...
— Ebbene?
— Ecco Si potrebbe inventare una frottola. Un figlio malato, per esempio. L'influenza. Si può dire che mi son venuti a chiamare da casa mia, d'urgenza. Una malattia a tua scelta. E poi mi telefoni al giornale. D'accordo?
— Sì — mormorai — d'accordo.
Egli s'era già allontanato, a gran passi, trascinando pel fango di via Costantinopoli le sue scarpacce inzaccherate sulle quali sbattevano, molli e intrise di mota, le bocche larghe e logore de' suoi pantaloni.
Ora passava un carro funebre, di quelli che fanno continuamente la via di Foria e s'avviano al cimitero. Il de Laurenzi, curvo, con la mano alla falda del cappello, scivolò accanto all'enorme e nero carrozzone, dalla cui cimasa dorata pareva che volessero spiccare il volo, ad ali spiegate, quattro deformi angioletti di legno. La via, su quel transito, s'era fatta silenziosa, a un tratto. E a me parve che tanto da quel lento carro come da quell'uomo pur funebre si sprigionasse in quel punto una medesima espressione mortuaria il cui senso mi durò dentro per qualche secondo. Poi tutto si tolse dalla mia vista. Ma sopra di me e sull'animo mio, mentre m'avviavo alla porta del mio ufficio, pesava ancora, come l'ultimo segno di tanta malinconia, un cielo invernale plumbeo e greve. L'aria mi pareva satura d'una umidità uggiosa, e associata a tutta quella tristezza, a tutta quella miseria.
— Spero che non mi chieggano di costui — m'auguravo, salendo le scale della biblioteca.
Come mi seccava di dover mentire, se mai! Una collera sorda, commista d'insofferenza e di sprezzo, or m'agitava contro quest'uomo che intendeva piegarmi a una ripugnante complicità. Lui tenero dell'ufficio, della stanza paterna, della vita di quel luogo severo e nobile, lui così svogliato, così cinico, così pronto a barattare la sua dignità e il suo amor proprio con una menzogna da scolare?
Un uomo di quasi sessant'anni!
II.
— Stazza l'aspetta — mi disse l'usciere di guardia alla porta, come mi vide — Ha domandato di lei più volte.
— Stazza? E che vuole? Dov'è?
— Nella stanza del direttore.
Era un degl'impiegati più anziani, un uomo eccellente, nel cui bonario sorriso io m'abbattevo ogni mattina, da quattro o cinque anni che frequentavo l'ufficio: il solo sincero sorriso che ritrovassi là dentro. Nella biblioteca Stazza era entrato a trent'anni; or ne aveva sessantacinque suonati. Era ancora un colosso: nelle sue larghe mani poderose s'ammucchiavano pile enormi di libri ed egli le reggeva e le portava qua e là senza alcuno sforzo visibile, con le braccia tese, lento, paziente, tranquillo. E come la pratica scienza del luogo ove quasi aveva vissuto tutta la sua vita ve lo ritrovava acconcio e disposto alle fatiche più improbe egli non se ne stancava. Si conosceva illetterato, sapeva la insufficienza della sua cultura men che mediocre e null'affatto accresciuta nemmen dalle più immediate e continue comunioni co' sapienti compagni locali e con i lettori — e però badava, offerendo e adoperando come un valor succedaneo la forza delle sue membra poderose, a compensare questa sua grande pochezza spirituale.
Di volta in volta, quando per cercare qualche libro mi capitava di entrare nella sua stanza — ov'egli non s'era fatto portare che una delle più vecchie e più umili scrivanie e due seggiole, una delle quali per riporvi il cappello — la bonaria semplicità di quell'uomo mi vi tratteneva per un pezzo. Era la mezz'ora in cui Stazza si concedeva un breve riposo. Facevamo quattro chiacchiere, io addossato a uno scaffale, con tra le mani il libro che mi occorreva, lui seduto alla sua scrivania, coi gomiti sulla tavola.
Una volta, non so come, non ricordo più perchè, gli chiesi, sorridendo:
— E lei crede che si possa aver passione per la biblioteca, noialtri?
Stazza, serio, socchiuse gli occhi, con quel suo solito vezzo di quando voleva dir cose gravi.
— Si possa? Si deve, caro collega. Guardi, io non ho moglie, non genitori, non fratelli. E per me la biblioteca è la moglie, è la madre, qualcosa come una famiglia. Penso, talvolta, che avrei avuto quasi il diritto di nascer qui, in una di queste stanze. Lei ride?
— No, anzi, trovo naturale. S'intende, naturale per lei che non fa altro, che non conosce altro, perdoni.
— Già, lei fa un'altra vita. E poi...
Rimase in forse un momento. Poi soggiunse, con aria di sincera umiliazione:
— E poi lei sa tante cose ch'io non so. E poi è giovane, e ha da pensare a tante altre cose.
— No, non è questo. Dica che ciascuno non comprende se non quel che ritrova in se stesso.
— Sarà. Ma glie ne voglio dire una: stanotte, per esempio, sa lei che cosa ho sognato? Il nostro gatto rosso che scorazzava nella sala degl'incunaboli.
Sorrideva, candidamente. In quel punto mi sentii quasi intenerito da quella innocenza pacata e soddisfatta, illuminata, come da un dolce riverbero dell'anima, da due limpidi occhi azzurrini. No, non ponevo, è vero, quell'inconscia virtù in relazione con tante altre della vita, più stimabili, più alte, e non mi pareva di doverne cavare ammaestramento: quella era una forma nulla, una espressione quasi brutale di accontentamento, l'indizio ignaro e pietoso d'una natura inferiore, tranquillamente passiva. Tuttavia quella felicità fortificante, d'un tonico effetto morale, pareva che mi volesse ammonire sulle cose della vita.
O non avevo davanti a me un essere ch'io forse giudicavo troppo frettolosamente? La mia fantasia, disposta ad architettare, ora mi offeriva un più sottile giudizio intorno ad esso: io gli supponevo, adesso, una rinunzia progressiva, una riduzione continuata delle sue pretensioni, delle sue speranze, della sua libertà, e tutto questo mi sembrava mascherato da quel faccione rosso e pletorico, traspirante una giovalità e una contentezza fanciullesche e rischiarato da un sorriso perenne.
Così, talvolta, quando potevo coglierlo in qualche momento in cui mi si mettesse tutto quanto sottocchi, io facevo scorrere sulla superficie di quest'uomo il mio sguardo investigatore e tentavo di penetrarla. Sapevo ch'egli era solo, che in casa non aveva che una vecchia serva, che l'abito suo di trovarsi sempre pel primo in ufficio e d'uscirne sempre l'ultimo — urtante metodicità per gli apprezzamenti d'un malato di nervi com'io sono — non s'era mutato una sola volta da quando Stazza era entrato in biblioteca. Costui dunque non aveva avuto gioventù, passioni, disillusioni, scoraggiamenti? Che cosa era nel passato di questo gigante rubicondo che violentava e superava tutte le leggi impulsive alle quali tre quarti dell'umanità va soggetta?
Finii per arrendermi a quella impenetrabilità pacifica e indifferente. Ma un senso di tedio e di stanchezza mi allontanò dal mio compagno. Lo incontravo, ci salutavamo freddamente, ed io gli sfuggivo, accrescendo così, senza forse desiderarlo, il numero delle persone la cui comunione mi diventava, là dentro, ogni giorno più insopportabile.
III.
Entrai nella stanza del direttore.
Stazza, impiedi davanti alla costui scrivania, si voltò. Mi venne incontro e mi tese le mani.
— Mille scuse! Ma io non potevo andarmene senza averla salutato. Addio, caro signore. Io me ne vado.
Interrogavo con gli occhi il direttore e gli altri miei compagni, che circondavano Stazza, silenziosi.
— Un fatto deplorevole — disse il direttore, rompendo il silenzio — L'ottimo Stazza è stato collocato a riposo. Ci lascia.
— Come! — esclamai — Così! Di punto in bianco?
Stazza chinò la testa.
Il direttore con la punta del tagliacarte additò un foglio, sulla sua tavola.
— M'arriva ora la comunicazione ministeriale. Le solite sorprese. Ma, Dio mio, non avrei mai immaginato!....
Le mani di Stazza mi si protendevano, tremanti. Lasciai cadere in quelle le mie, e le strinsi, due, tre volte. Guardai in faccia il colosso: era turbato, ma si sforzava di parer tranquillo. Soltanto s'era arrossato un poco più, nella faccia. Si passò una mano sulla fronte, si guardò intorno, tornò a voltarsi verso la tavola del direttore, smarritamente.
— Dunque — gli balbettò — Se lei mi permette... Vado. Spero bene di rivederla, qualche volta.
— Macchè! Ma vuole andarsene proprio adesso? Ma v'è tempo. Guardi, faccia come se il decreto non glie l'avessi comunicato ancora.....
— No, no! — disse lui — Mi permetta, mi scusi. Voglio essere ossequente....
— Peccato! — esclamò il direttore, come lo vide uscire e scomparir dietro l'uscio. Dopo trent'anni!
Si levò, s'incamminò fino alla porta, si arrestò sulla soglia. Di fuori s'udivano le voci degl'impiegati, la voce di Stazza che si licenziava, confuse.
Il direttore rientrò. Andò al balcone, guardò nella via, senza badarvi.
Eravamo rimasti soli. Lui, tornò addietro, s'appressò alla scrivania, vi cercò qualche carta, la lesse e la buttò lì, sulla tavola, con un moto sdegnoso.
— Mi permette? — chiedevo.
— Guardi, guardi — esclamò — Guardi un po' con chi mi sostituiscono quel disgraziato. Aspetti. Legga pure.
Mi pose quella carta sottocchi.
— Come! De Laurenzi!
— Già, s'intende, ha brigato e v'è riescito. Entra in organico e prende il posto di Stazza.
Soggiunse, dopo un momento, rimettendosi a sedere alla sua scrivania:
— S'accomodi pure.
IV.
Passò un mese. In questo tempo gli studenti fecero chiasso, al solito, e ruppero vetri e banchi: l'Università fu chiusa e il numero de' lettori, nella nostra biblioteca, s'accrebbe del doppio. Vi fu un gran da fare e Stazza fu dimenticato. Soltanto qualche volta, in un momento di tregua, il suo nome ricorreva nel vaniloquio degl'impiegati raccolti nella sala della distribuzione intorno all'ultimo bollettino del ministero, ove apparivano — già indicati, con una crocetta, da qualche necrologo de' nostri compagni — i nomi di coloro che o eran morti o erano stati collocati a riposo. La constatazione de' decessi e de' ritiri — un refrigerio per i superstiti — occupava quelle constatazioni e quelle conversazioni fredde e indifferenti; per lo più si discuteva sugli anni di servizio del croce segnato o sulla somma della sua pensione. Ma la psicologia di queste sparizioni — un legame di troppo sottili o pietose induzioni che in altri spiriti potevano forse rampollare dall'esame di casi somiglianti — non veniva certo a turbare l'animo de' miei compagni. Stazza, dopo tutto, sottobibliotecario a tremila, liquidava, come si dice, quasi dugento lire al mese. Una fortuna per un illetterato, una tabula rasa come lui, che la doveva a quei benedetti tempi borbonici ne' quali era così facile di entrare, senza le qualità di cultura che vi occorrono, in un instituto scientifico come di mettersi a tavola in una publica taverna.
— Vuol vedere Stazza? — mi fece un di que' giorni l'usciere addetto alla spolveratura della mia camera.
Con lo straccio tra le mani s'era avvicinato al balcone chiuso e guardava nella via, traverso a' vetri.
— Venga, venga! Eccolo lì...
Mi levai e corsi al balcone.
— Lo vede?
— Dov'è?
— Non lo vede? Lì, seduto fuori al caffè di rimpetto. Lo vede? A quel tavolo a sinistra della porta. Eccolo che leva gli occhi. Guarda quassù, guarda i nostri balconi.
— Difatti.
Il colosso era lì, seduto a una tavola sulla quale stavano il vassoio e la chicchera del caffè. Posava le mani sulle ginocchia e di volta in volta alzava gli occhi e li faceva correre sulla facciata della biblioteca, lentamente.
— Così fa ogni giorno, da un mese — disse l'usciere.
E ripassò lo straccio sui vetri perchè ci vedessi meglio.
— Arriva al caffè sulle nove ore, si mette a sedere lì fuori, e vi resta fino a mezzodì. Poi torna dopo pranzo e si rimette alla stessa tavola e non se ne leva che alle quindici.
— E tu come fai a saper tutto questo?
— Me l'ha detto il caffettiere. Il signor Stazza gli dà una lira al giorno, per l'incomodo.
Mi rimisi a sedere, pensoso. L'usciere, che non si partiva dal balcone, rideva e continuava a guardare rimpetto. E come l'alito suo tepido appannava la vetrata di volta in volta egli tornava a soffregarla con lo straccio.
— Insomma — seguitava — la biblioteca non se la vuol proprio scordare. Se n'è dovuto andare e nemmeno la lascia in pace. Adesso ci fa all'amore da lontano, tutti i giorni.
Non risposi. Ordinavo macchinalmente un mucchio di schede ed aspettavo, con una certa nervosità, che l'inserviente smettesse e se ne andasse.
— Ecco che s'addormenta — fece lui a un tratto — Venga a vedere. S'è addormentato.
Tornai a levarmi e mi accostai daccapo alla vetrata. Stazza aveva allungato un braccio sul tavolino e reclinato la testa sul braccio. Il cappello di paglia gli era scivolato, di su le ginocchia, a terra. Ora un lustrascarpe, che aveva posta la sua cassetta all'ombra, a pochi passi, glie lo raccoglieva e lo posava sul tavolo, accanto al vassoio.
L'ora meridiana avanzava: il sole batteva su' muri. Uscì, a un tratto, dalla bottega il garzone del caffettiere e si mise a girar la manovella per fare abbassare la tenda, che scese lenta, e sul deserto e largo marciapiedi, su' tavoli, su Stazza diffuse un'ombra uguale, per buon tratto.
Mancava qualche diecina di minuti alla chiusura della biblioteca. E svogliatamente, aspettando che trascorressero, ricominciavo a ordinar le mie schede. L'inserviente se n'era andato: le vaste sale, fino a poco prima turbate dal molesto vocio de' distributori, s'acchetavano, adesso, in una pace profonda.
Improvvisamente — mi dimenticavo nella mia bisogna — il grande orologio della stanza de' manoscritti suonò le quindici. Vibrò quel suono nel silenzio, con un tintinno allegro, come di cristalli percossi. Era l'ora. M'avviai alla porta.
Ma, sulla soglia, uscendo, m'arrestai, sorpreso. Lì sulla soglia, sul ballatoio, su per le scale vedevo agitarsi una folla attonita, mormorante, che quasi m'impediva il passo.
Risaliva le scale, di furia, Pandolfelli, un distributore.
Una voce gli chiese, dal ballatoio:
— Dì, è vero? È vero?
Pandolfelli rispose, alto:
— Si, è morto.
Mi vidi di faccia l'inserviente, in quel punto. Apriva le braccia, smarrito.
— Stazza! — mi fece.
E battè palma a palma, convulso.
— Lì davanti al caffè, poco prima. Un colpo. Si ricorda? Quando pareva addormentato.
Apparve il direttore, pallidissimo. Accorrevano altri compagni. Tre o quattro lettori s'indugiavano sul ballatoio, curiosamente.
Il direttore mi chiese:
— Scende?
Non mi sentivo la forza. Ma lo seguii, e ci seguirono pur tutti gli altri.
Nella via, come uscimmo dal palazzo della biblioteca, il caffè ci apparve subito, rimpetto.
La folla si pigiava davanti alla porta.
Pandolfelli si fece largo ed entrò nella bottega.
Subito ne riuscì, annunziando:
— L'hanno posto in una vettura e portato ai Pellegrini. Ma era morto. Ho parlato col medico che s'è trovato a passare. Una sincope.
Uscì sulla via il padrone del caffè, con le lagrime agli occhi.
— Quel povero signore! Che disgrazia, hanno visto? Veniva qui ogni giorno, sempre alla medesima ora. Anzi, ieri, m'aveva detto, col suo solito buon sorriso: Lei si meraviglia non è vero? Già: son puntuale. Mi hanno mandato via di là — e mi mostrava il palazzo ove stanno lor signori — ma io ci continuo a stare, col pensiero, almeno.
La moglie del caffettiere, una piccola donnetta, era uscita anche lei sulla strada.
Mi pose una mano sul braccio. Mormorò:
— Ma è vero che l'hanno mandato via?
La guardavo, senza risponderle. Udivo dietro di me le voci, tranquille, de' miei compagni.
Diceva Pandolfelli a un altro:
— È morto in orario, hai visto?
La voce di quello che segnava le crocette fece notare, lenta:
— Un posto vuoto.
DONNA CLORINDA.
Una mattina d'autunno donna Clorinda, destandosi, si vide accanto, stecchito, il poveruomo che le aveva tenuto compagnia per quarantacinque anni. Era morto d'apoplessia nella notte, e lei non se ne era accorta.
Da prima immaginò che fosse seguìta una di quelle solite sincopi alle quali lo sciagurato andava soggetto. Poi, come lo scoteva e quello se ne rimaneva lì irrigidito, già quasi nero e con certi occhiacci spalancati e freddo freddo, la vecchia pazza si mise a sedere in mezzo al letto e con le mani in grembo, muta, indifferente, s'indugiò a contemplare quel corpo immoto, chiazzato nella faccia — la quale pareva che rispecchiasse ancora il terrore dell'ultimo momento — di alcune macchie di livido.
Il lume del giorno veniva dentro in quella stanza, ch'era tutto il loro quartiere, per una finestra che guardava sul vasto cortile scoverto dell'antico monastero di Santa Caterina a Formiello: una scialba luce autunnale bagnava freddamente le coltri del letto, ma qualche angolo della cameretta — che un tempo era stata cella — accoglieva ancor l'ombra. Lì, tra due seggiole zoppe, era per terra un piattello con l'acqua, e il cane in quel punto vi si dissetava: un barbone sudicio, che accompagnava su' vapori inglesi e nelle trattorie del Piliero il marito di donna Clorinda, Mastia, un siciliano, pittore di paesaggi. Nel silenzio dell'ora si udì per un pezzo il chioccolare dell'acqua che il barbone lambiva avidamente. La vecchia si volse e guardò da quella parte. Poi tornò a contemplare il marito, con occhio tranquillo. E gli parlò piano, lentamente:
— T'u dissi: nun bíviri!
Null'altro. Era ella così disposta, per naturale sua filosofia, a tenere per fatali somiglianti circostanze della vita e a non farsene vincere? O quel vecchio cuore indurito non avea mai palpitato? Oppure con gli anni e con la vita stentata e per il nessun amore che Mastia le aveva dimostrato fin da principio, s'era inaridito ogni sentimento in lei, che un tempo era stata pur giovane e bella e amorosa? Chi lo sa? Sul silenzioso orrore della nuda e fredda stanza pesava come un rigido mistero, e quella morte improvvisa non certo lo discioglieva. Intorno alla camera di Mastia erano altre povere camere abitate da gente anche più povera di lui: l'immenso fabbricato di Santa Caterina a Formiello, una volta claustro impenetrabile, accoglieva ora centinaia d'oscure e miserabili creature, e ciascuna covava là dentro il suo segreto e il suo dolore. Di volta in volta, tra quelle spesse mura di convento che ammorzavano ogni romore e soffocavano gridi angosciosi o selvaggi, scoppiava la catastrofe di un dramma: talvolta fin v'era scorso il sangue. Tuttavia, non la più comune manifestazione della vigile curiosità partenopea s'era espressa in quel momento da parte degli altri inquilini: solo qualche porta pesante s'era schiusa sul corridoio in penombra per subito rinserrarsi, ricacciando a dietro una pallida e paurosa testa femminile. A ciascuno bastava la propria miseria. E sulla sera, dopo l'accaduto, era rimasto deserto quel lungo e vasto corridoio, sorvegliato solamente dalla luce rossiccia del lanternone che il custode v'attaccava a una parete e che per breve tratto coloriva, disotto, le antiche mattonelle del pavimento, componenti a quel posto una stinta e barocca decorazione secentesca, tutta svolazzi verdi e giallicci. Cumuli di spazzatura, ammonticchiata qua e là sotto le vasche di marmo che le monache non avevano avuto tempo di svellere dal muro istoriato a fresco, alitavano un lezzo insopportabile. Quando il barbone tornava a casa con Mastia era lì che s'indugiava assai spesso.
II.
Donna Clorinda scivolò giù dal letto, in camicia, rabbrividendo al gelido contatto del pavimento sul quale i suoi piedi nudi avanzavano. Attaccato al muro di faccia uno specchio accolse d'un subito, e a mezzo, la sua bizzarra figura bianca procedente con la lentezza d'un fantasma. A un momento ella ristette, e, vinta da un'abitudine irresistibile, vi si rimirò, quasi atteggiandosi. Fra tanto principiava laggiù nel cortile la fatica de' fabbri: della legna arsa crepitava: guizzava e lambiva un alto muro annerito il fumo azzurrino di una fiammata: i martelli picchiavano già sulle incudini e un carro di botti entrava, con sordo fragore, nell'ex monastero.
Stanno intorno ad esso le torri aragonesi, che Ferrante pose a difesa della Porta Capuana: ora, sul cielo perlaceo, que' baloardi si stagliavano con un colore plumbeo rilevato da un fitto d'erbe selvagge ch'erano rampollate ne' loro crepacci e prosperavano sulla lor cresta interrotta. Da case e da fucine invisibili altre colonne di fumo, più lontane e sottili, salivano ritte nell'aria: la città si svegliava a mano a mano, e un'esterna sonorità crescente e confusa faceva sembrare più cupa, più appartata la fabbrica solitaria dell'antico convento.
Donna Clorinda si raccolse su d'una seggiola, di faccia al letto, e si cominciò tranquillamente a vestire.
Da parecchi anni la vecchia era dominata da un'innocente follia, che si esprimeva nella sconfinata considerazione di tutte le sue presunte qualità, e più precisamente di quelle fisiche. Ella si adorava, in un apatico egoismo nel quale non riesciva a far breccia alcun caso esteriore. La felicità o la sventura altrui contemplava di sfuggita, con un sorriso melenso: ogni più straordinario avvenimento nè la stupiva, nè la sconvolgeva. Era altrove il suo spirito e rincorreva fantasime trascorrenti fra la gioventù, la nobiltà, la ricchezza. Le pareva che la casa di Mastia, ottenuta in carità dal Municipio, fosse una reggia, che vi troneggiasse lei da regina, che un ammirativo mormorio la seguisse quand'ella ne usciva e che fosse abituale argomento d'ogni discorso de' vicini l'incesso magnifico di lei e la sua benevola maestà.
Pianger Mastia? Macchè! Nell'anima della vecchia, già da tempo, s'era spento ogni affetto: e poi, da quando la prima volta il marito l'aveva picchiata, un odio cupo e muto le era man mano cresciuto dentro per quell'ubriacone brutale che era stato il tiranno della sua gioventù. Ora, vestendosi, due o tre volte la povera pazza sorrise, di faccia al cadavere. Pareva davvero soddisfatta. Si mise il cappello, tornò a riguardarsi allo specchio, aperse la porta e se ne andò via col suo solito e tardo passo un po' zoppicante.
Qualcuno la vide scendere, lenta, le scale. Borbottava frasi che parevano rivolte ad esseri invisibili a' quali, di volta in volta, soffermata sul pianerottolo, ella stendeva la mano, inguantata di seta. Fu pure osservato che la vecchia s'era più che mai infagottata: pareva che portasse addosso due o tre gonne una sopra l'altra e due o tre corpetti. Quello esteriore era verdognolo, orlato di antico jais. Sotto il braccio sinistro ella aveva l'ombrello: il destro era infilato nel manico d'un cestino, che doveva esser ben greve: la piegava, quasi. E disparve. Poco appresso giunse lassù il delegato di pubblica sicurezza con un medico frequentatore della Farmacia della Rosa in piazza Carbonara. Donna Clorinda era passata per l'ufficio di pubblica sicurezza, aveva informato il piantone della morte di Mastia e se n'era andata.
La bisogna fa breve: constatazione del decesso — come si dice in gergo legale — processo verbale e disposizioni per la rimozione del cadavere.
— Bel caso, eh? — fece il delegato al medico. — Crepa il marito, e la moglie lo pianta come un cane rognoso.
Il medico, un giovane ch'era al principio della sua professione, si guardava attorno meravigliato, assalito, in quella desolante misera della stanzuccia, da una tristezza profonda.
— Se lei mi mette subito il visto alla carta di accompagnamento — soggiunse il delegato — io mando via quel signore oggi stesso. Non sente? V'è già cattivo odore.
Accese un sigaro. Il medico sottoscrisse la carta, si levò, guardò ancora Mastia, la cui faccia deformata si copriva di ombre turchinicce. Le due guardie che avevano accompagnato il loro superiore contemplavano e comentavano le quattro o cinque tele addossate al muro: una copia della Beatrice Cenci del Reni, un paesaggio di Taormina, il tempio di Pesto, la scena rosseggiante d'una eruzione del Vesuvio, con una fiumana di lava che affluiva fino al mare in convulsione...
In giornata il cadavere di Mastia fu portato al cimitero nel carro dei poveri. La stanza rimase vuota e deserta. Donna Clorinda non vi tornò più.
III.
Fu proprio in quel tempo che il bisogno d'una modella della sua età e del suo stampo divenne per me urgentissimo: un mio quadro di caratteristici costumi partenopei, colorito della vivacità del color nostro e materiato degli elementi tra malinconici e grotteschi che offrono all'assaporante o meditante gastronomia dello sguardo certe nostre vie popolane mancava appunto di quell'assai pittoresca figura senile, ch'io ricordavo d'aver più volte incontrata per la via, rincorsa dall'odiosa ragazzaglia plebea che non rispetta alcuna peripatetica sventura: una vecchia bizzarramente vestita, con certi buccoli argentei che le scappavano disotto al cappelletto tutto piume e nastrini e le sbattevano sulle gote infossate, una vecchia con un cestino infilato al braccio e, attaccato al polso ossuto della mano destra, un bastone con cui minacciava i suoi persecutori infantili.
— Quella? — mi dissero, come ne parlavo una volta tra conoscenti — Quella è donna Clorinda.
Finalmente la ripescai, una sera di estate, in una taverna di Piazza Francese. La vecchia era seduta in fondo, quasi accanto al focolare, e di faccia a lei, alla medesima tavola, cenavano due facchini del Molo Piccolo e un soldato della vicina caserma. Donna Clorinda reggeva a due mani la scodella della minestra e con tutta precauzione l'accostava alle labbra e beveva il brodo. In un tondino era un mucchietto di pesce fritto. Come l'oste seguitava a frigger pesce e ne lasciava cadere una minuzzaglia infarinata nella padella piena d'olio bollente e un fumo acre e denso si spandeva attorno, la testa architettata di donna Clorinda appariva e spariva in quel fumo. Rimpetto a lei i due facchini parlavano di sciopero, picchiando di volta in volta sulla tavola con le larghe mani callose, dalle unghie lucenti d'untume: il soldato, un settentrionale biondiccio, beveva silenziosamente, e fumava.
— No, no, domani non posso: — mi dichiarò gravemente la vecchia — di domenica non posso. Domani ci ho la messa. Vado in chiesa, a San Giacomo degli Spagnuoli, a pregare pe' miei antenati. Sa lei che discendo dagli Aragona, dal grande Alfonso?
Il soldato si volse, sorpreso. Con un sorriso concessivo e dignitoso, inoltrando le dita nel pesce fritto, di cui si mise un pizzico in bocca, donna Clorinda soggiunse, a bocca piena:
— Verrò da voi lunedì. V'accomoda?
— Ma mi dovrete giurare di venire. Sul grande Alfonso, non è vero?
Lei levò la mano con un altro pizzico di pesce, solenne.
— Sul grande Alfonso d'Aragona!
E mancò al giuramento. L'aspettai tutto il giorno, e in quello seguente mi rimisi a rintracciarla. Per fortuna ella m'aveva indicata la casa ove pernottava da un anno, dalla morte di Mastia.
— Se mai, mandate a chiamarmi lì, sotto l'arco, accanto al teatro del Fondo. A destra, sotto l'arco, è una scaletta. Fate chiedere della baronessa.
L'arco così detto del Fondo dal teatro al quale è attaccato da una parte, è ancor quello scuro e sozzo passaggio che dalla via dell'Arsenale, lungo un de' muri del teatro, mette a Piazza Francese. Mi vi avventurai tra' mucchi di spazzatura e il copioso rigagnolo d'una fontanina di cui i monelli avevano deviato il corso. Cercai, sulla mia destra, la scaletta che la vecchia m'aveva indicata. V'era, difatti; anzi là sotto non v'era che quella. E come ne ascendevo, cautamente, gli sconnessi gradini lubrificati dall'umido e dal traffico, una fresca voce femminile m'incitò, dall'alto.
— Avanti, signorino! Avanti!
Ero giunto al sommo della scala. Mi trovai faccia a faccia con una ragazzona in camicia color di rosa.
— Bè? — mi fece, seguitando ad arrotolare una sigaretta — Non entra? Se ne resta lì? Favorisca.
— Chi è? — chiese una voce, di dentro.
— Un signore.
Avevo ben compreso ove fossi cascato. Diamine! Non v'era proprio da ingannarsi. E pure — confesso — lì per lì fui preso da quel minuto d'irresolutezza che può far passare anche un provetto per un ingenuo.
— Ha un cerino, per caso? — disse la ragazza in camicia, che avea passata e ripassata la punta della lingua sulla Satin della sigaretta — S'accomodi, intanto: si metta a sedere. Sa, ce ne sono delle altre.
Si voltò a dietro e chiamò:
— Chiarina! Armida! Ida! La romana!
A una a una, in quella piccola stanza ov'era solo un divano in giro sul quale ricorrevano specchi appannati in tante cornici barocche, apparvero altre femmine seminude, sonnolenti, sbadiglianti.
Una si buttò sul divano, appena entrata; un'altra, rannodando sull'occipite i lunghi capelli neri, balbettò un buongiorno svogliato. S'aperse, sulla destra della sala, una porta e vi si affacciò un donnone gigantesco con fra le mani, che parevan gonfie, il macinino del caffè. Alle sue spalle, per lo schiuso della porta, apparve un pezzo del focolare e subito nella sala si sparse un odore acre di frittata alla cipolla. Si udiva scorrer l'acqua della fontanina nella vaschetta e quel remore copriva le voci.
— Buongiorno al signore — disse il donnone — Scuserà. Ci trova in desabigliè. Queste principesse si levano tardi. S'accomodi. Ida, vai a chiudere il robinetto!
Quella della sigaretta entrò in cucina. Cessò il romore dell'acqua.
Il donnone soggiunse:
— Forse cerca la Virginia?
Ora la sua voce sonora, maschile s'accompagnava di volta in volta con la musica del macinino, del quale ella girava, a tratti, la manovella.
Credetti di non dover perdere più tempo.
— Cerco di donna Clorinda...
M'interruppe uno scoppio di risa.
— La baronessa! — gridò Chiarina — Ma guarda!
Le ragazze urlavano:
— La baronessa! La baronessa!
— Voialtre! — minacciò il donnone — Su! Dentro tutte!...
Ma già quelle mi sospingevano, seguitando a gridare e a ridere, per uno scuro corridoio ove, in fondo, era una piccola porta.
— È qui, è qui...
— Picchio? — chiese alle compagne una bionda.
— Picchia forte! Ohe! Baronessa! Signora baronessa, aprite!
La bionda picchiava forte, con la mano spiegata. Di fuori s'udiva la voce del donnone:
— Troie! Non fate chiasso!
— S'è chiusa dentro — disse Chiarina, che guardava pel buco della serratura.
E si mise a picchiare, anche lei.
— Che volete? Chi volete?
Riconobbi la voce aspra, incollerita della vecchia.
— Aprite! C'è un signore!
— Virginia non riceve! — urlò la vecchia, di dentro.
— Ma cerca di voi!
— Vuol vedervi!
— È il vostro innamorato!
— Cristo! — fece il donnone, intervenendo — V'ho detto via! Via tutte!
La chiave stridette nella toppa. S'aperse a mezzo la porticina e tra la porta e lo stipite apparve una piccola figura femminile, immota. Era una biondina, sottile, pallida, con due occhi dolci e timidi che interrogavano or me ora quelle donne.
Vi fu un breve silenzio. Un fiotto di luce si riversò dalla piccola stanzuccia nel corridoio.
— Che volete? — disse la biondina.
— Niente, niente — disse il donnone — Il signore cerca la baronessa.
La biondina aperse tutta la porta e si trasse da parte. Ora si illuminava tutta quanta. Era vestita d'un camice azzurrino e già pettinata, semplicemente. Nella mano destra chiudeva un mazzo di carte da gioco: l'altra mano, pur bianca, fine, esangue, abbottonava il camice sul petto.
— È la Virginia — mi soffiò all'orecchio il donnone — Tipo signorile.
Da un letto, in fondo alla camera la stridula voce di donna Clorinda gridò:
— Ho capito! È il pittore. Verrò, verrò, signor pittore! Verrò domani senz'altro!
— Non potreste oggi?
— Oggi? Ebbene, sì, oggi! Oggi senz'altro!
Era beatamente adagiata nel letto della Virginia, con la bianca testa su due capezzali, con una collana di grossi coralli al collo. Sulla coltre erano sparse alcune altre carte da giuoco. Accanto al letto era una poltrona sudicia e sdrucita, in cui la biondina avea fatto il fosso.
— Ha visto la Virginia? — mi fece il donnone riconducendomi all'uscio di strada — È un peccato. S'è legata alla vecchia e perfino le lascia il suo letto. E giusto adesso che avrebbe bisogno tanto di riposare. È malata, sa: ma è cocciuta...
Pensavo a quel fosso, nella poltrona.
— E dorme lì, nella poltrona?
— Se n'è accorto? Già. Ma guardi! Si può esser più bestia di così! Farmi le nottate intere accanto alla pazza, che le cava la ventura dalle carte!..
— Che diceva lei? Ch'è malata?
— Ah! Signore! — sospirò la virago.
E con la punta del medio si toccò a più riprese in mezzo al petto enorme e molle, ondeggiante a ogni suo più piccolo moto.
— Qui, capisce?
Scendevo le scale, scusandomi.
Il donnone mi faceva dietro:
— Sa, badi: si tenga a sinistra. E non dubiti: penso io a mandarle oggi la baronessa. E mille rispetti! E ci venga a trovare!
Difatti la pazza m'arrivò allo studio qualche ora appresso, nella sua solita grottesca toilette. Durante il primo riposo cercai di farmi narrare la storia della Virginia: doveva bene avere una storia la biondina. Ma mi riescì di sapere poco o nulla: la vecchia anzi s'era rabbuiata e mostrava di non volersi troppo intrattenere dell'argomento. Sì, la Virginia le aveva ceduto il suo letto, l'aveva fatta accogliere in quella casa per carità, s'era impietosita, ecco tutto. Figlia di signori, la Virginia: sapeva leggere e scrivere e aveva pur cantato a teatro.
Tutto questo ella m'andò borbottando con la sua solita disordinata maniera di narrazione, così che non riescii che a comprendere ben poco: il vaniloquio della pazza raffittiva l'oscurità che io avevo cercato di penetrare e in cui si perdeva la figura, pur così interessante, della piccola bionda.
Costei morì sullo scorcio di novembre e donna Clorinda morì due settimane appresso. La virago mi raccontò che la vecchia s'era seduta nella poltrona di Virginia e lì s'era lasciata finire. La collana di corallo se l'era presa la virago: glie la vidi al collo. Chiarina mi disse che alla pazza non avevano trovato nulla addosso, infuori d'un piccolo e logoro portafogli nel quale erano due o tre soldi e, avvolto in un biglietto del lotto, un bel ricciolo di capelli biondi che somigliavano tanto a quelli della Virginia.
— Ah, caro Lei, — mi fece il donnone, sull'uscio di strada — non può immaginare che s'è patito con quelle due! E lei?.. Tornerà?.. Ora son finite le malinconie... Badi... si tenga a sinistra... Mille rispetti. Ci venga a trovare, neh? E per cose allegre, ora, per cose allegre!..
QUARTO PIANO, INTERNO 4.
Al quarto piano d'uno de' mastodontici palazzi del Vasto, un nuovo rione risultato dalla bonifica delle paludi, rimpetto la stazione ferroviaria, il maestro direttore d'orchestra Sponzilli — la cui moglie, scappatagli di casa con un tenore, era finita di febbre gialla in America — abitava l'interno 4 con la figliuola Sofia e una servetta, l'Emilia, che in casa chiamavan Milia — una contadinotta di Corleto Perticara.
S'era nel luglio. Presso alla finestra che affacciava sul vasto cortile del palazzo Milia s'era posta a lavorare all'uncinetto. Le mani pienotte e arrossate che, poco prima, avevano risciacquato panni e pentole andavan lente: di volta in volta l'uncinetto, tra quelle impratiche dita poco agili, s'arrestava e ricascava in grembo alla giovanetta. E di su il davanzale della finestra, tra un vaso di menta e i fascicoli d'un romanzo illustrato, il gatto di casa, che lì aveva trovato il suo posticino al sole, la contemplava, ammiccando. Un'afa sciroccale pesava sul cortile silenzioso: le ore d'un torrido pomeriggio scorrevano tardissime.
Improvvisamente suonò, breve, una voce. La servetta trasalì e levò il capo: si levò pure il gatto e fece arco della schiena e sbadigliò. La voce veniva dalla camera da letto della signorina Sofia.
— Milia! Milia!
Il gatto scese dalla finestra e s'avviò. La servetta raccolse il merlettino, il gomitolo, l'uncinetto e ammucchiò tutto sui fascicoli del romanzo. Si levò e scosse il grembiale.
La voce interna insisteva:
— Milia! Milia!
— Uff! — fece Milia.
E rispose forte:
— Vengo, vengo! Son qua!
Nella cameretta della signorina era buio: gli scuri del balcone ella aveva chiusi. Ma da quella commessura, avanzando fino a piè del letto, si partiva come una sottil lama d'oro. Attorno l'ombra si raffittiva.
— Dove siete? — disse Milia.
— Qui, qui. Vien qui: senti...
E la sagoma del letto si svelò a poco a poco agli occhi della servetta. Vagamente, nella penombra, cominciarono a pigliar rilievo un tavolo tondo, il canterano, il divanetto.
— Senti, Milia, senti...
Dal letto si stese un braccio e l'agguantò. Una mano febbrile le strinse il polso.
— Oh, Gesù! — fece Milia, impaurita.
Di su le coltri — s'era gettata bell'e vestita sul letto — la signorina Sofia, sollevata sopra un gomito, si protendeva. Gli occhi di lei lucevano nell'oscurità e la Milia, immota, si sentiva figgere addosso quello sguardo ansioso.
— Milia, dimmi... Mi vuoi bene? E se la signorina tua ti chiede un favore..... dimmi se ti chiede un favore, che le rispondi?
— Oh, signorinella! — balbettò Milia.
— Senti, un favore da niente... Ascolta bene. Tu devi andare da Enrico... Alla ferrovia... Alle partenze, lo sai, dove si prendono i biglietti...
La signorina frugava sotto l'origliere.
— Lo farai chiamare e gli darai questa lettera.
Nella penombra la busta della lettera biancheggiava. Milia ritrasse le mani.
— Non vuoi? Non vuoi andare?..
Ora la signorina s'era levata a sedere sul letto e ricercava le piccole ruvide mani che le erano sfuggite. Le ritrovò, le strinse, dolcemente, lasciò tra quelle mani scivolare la lettera e le rinserrò.
— Perchè non vuoi? Di che hai paura? Tu lo sai, fino a stasera papà non torna. Nessuno saprà nulla. Su, Milia! Come te lo devo dire? Vacci! Fammi questa carità!
L'altra, irresoluta, taceva, rigirando la lettera fra le mani.
— Rispondi! Che vuoi fare? Non vuoi? Dunque alla signorina tua non le vuoi più bene? Dì, non le vuoi più bene?
E a un tratto ruppe, afferrandole e squassandole le braccia:
— O vai tu, o mi levo e ci vado io!
— Date qua — piagnucolava la servetta — Ci vado, ci vado.....
La lettera era caduta a piè del letto. La servetta si chinò, sospirando, e la raccolse.
— Che gli devo dire?
— Che voglio subito la risposta. E... se è vero.....
— Se è vero?..
— Se è vero quello che si dice.
— Che volete la risposta a quello che gli avete scritto e se è vero quello che si dice.
— Così. Ora va. Ti ricordi? Alle partenze. Chiamalo fuori dell'ufficio.
La servetta si cacciò la lettera nel busto e uscì. Ripassando per la stanza che poco fa aveva lasciato si fece alla finestra e guardò nel cortile. Il gran cortile era deserto: a un angolo, per una delle porte d'entrata, passava un gran chiaro e si diffondeva e dilagava sull'arido selciato. La moglie del portinaio avea piantata al sole una seggiola e appeso alla sua spalliera un sudicio lino del suo poppante. All'opposto angolo, nell'ombra, la ruota immane per la fornitura dell'acqua gocciolava e lo stillicidio incessante turbava una pozza d'acqua, là sotto. Di fuori l'immenso rione nuovo del Vasto pareva morto: il silenzio era alto: nessun romore, nessuna voce! Tratto tratto, dalla parte delle paludi, lungo la ferrovia, fischiava lamentosamente una locomotiva, due, tre volte.
Di faccia alla finestra ove la servetta s'indugiava era quella della Marangi, la maestrina comunale. A poca distanza dal parapetto, seduta a una tavola sulla quale posava la piccola macchina da cucire, la Marangi scriveva, piegata su un mucchio di carte. Di volta in volta, sostando, si leccava il medio della mano destra che s'era insudiciato d'inchiostro e lo fregava a una pezzuola.
— Signorina Marangi — disse Milia — scusate tanto se vi disturbo. Io vado per una commissione e lascio sola la mia signorina. Mi volete dare un occhio alla porta?
La Marangi levò il capo. Rispose, breve:
— Va bene.
Si rimise a scrivere. S'udì lo sbattere della porta e Milia scese le scale, canticchiando. Era così alto il silenzio che la Marangi udì, chiaramente, la voce della servetta in cortile. Milia diceva al portinaio:
— Don Angelo, non lasciate salire alcuno. La signorina è rimasta sola in casa. Io vado per un soldo d'aghi e subito torno.
La Marangi, che aveva abbandonato il braccio sulla tavola e schiuse le dita dalle quali era sfuggita la penna, sospirò profondamente. I suoi grandi e dolci occhi azzurrini si velarono, stanchi, fra le ciglia. Appena tornata dalla scuola s'era posta a rivedere i compiti delle sue scolarette. Un mucchio di scritti infantili aspettava ancora i suoi segni di correzione a matita azzurra. E la notte precedente avea così poco dormito!
— Pazienza! — mormorò, passando e ripassando le dita sulle palpebre grevi.
Come un'eco, dalla finestra dirimpetto, una voce ripetette:
— Pazienza!
— Oh, Sofia! Sei tu? — disse la Marangi.
Immobile, ritta presso il davanzale della sua finestra, la signorina Sofia la guardava.
— Che fai, Laura!
La maestrina sorrise, malinconicamente. Con gli occhi indicò gli scritti sparsi sulla tavola.
— Non vedi? Correggo compiti.
Rimasero mute per un po' tutte e due, contemplandosi.
— E tu che fai? — disse la Marangi.
— Nulla.
— Nulla? Troppo poco... Tu soffri, Sofia, tu soffri, lo so. Lo vedo. Come sei pallida!
E il suo accento era buono e pietoso come i suoi buoni e dolci occhi azzurrini.
Si levò dalla tavola e venne a porsi davanti alla finestra. Mise le mani spiegate sul davanzale. E, gravemente, soggiunse:
— Senti, Sofia, lascialo! Io te lo volevo dire da tanto tempo! Pensa a te, pensa a te! Quell'uomo lì non è fatto pel tuo carattere nobile e fine. Lascialo. Egli ti lascerà, se non lo lasci. È tristo, è ingeneroso... Perdonami, sai, non ti dolere..... È tristo, è tristo!..
Sofia Sponzilli tremava, bianca come un cencio. Tremavano le sue piccole mani nervose e tormentavano i fascicoli del romanzo, il gomitolo, il ricamo che Milia aveva dimenticato sulla finestra.
Rispose, piano:
— No... non posso.
— Ti lascerà! Lo vedrai.
— Ebbene se fa questo..... Vedrai, Laura!
La maestrina scosse la testa, pietosa. E si mise a riordinare, macchinalmente, i suoi compiti sulla tavola.
— Tu non hai cuore per certe cose! — disse la Sponzilli, all'improvviso — Tu non hai mai amato!
— Oh, figlia mia! — balbettò la maestrina, con tutta la commossa voce del suo cuore pieno di ricordi e di rimprovero.
E le carte le sfuggirono di mano, ed ella chinò la testa e si sentì piegare.
La Sponzilli era scomparsa. Laura Marangi scivolò lentamente lungo la tavola, tornò a sedere al suo posto, riprese la penna e contemplò, muta, meditando, i suoi compiti. Gli occhi le si erano empiti di lagrime. Bagnò due o tre volte la penna, cercò un degli scritti nel mucchietto che se n'era posto davanti. La mano e lo scritto, rimasero lì, immoti. Ella si risovveniva, ora, di tutte le sue pene, di tutto l'amor suo finito miseramente per una volgare questione d'interessi, di denaro. Povera, anche lei: con una mamma vecchia, cieca, poveramente pensionata, con un fratello ferroviere che or le voleva abbandonare per ammogliarsi, e senz'altro, senz'altro, che uno stipendio meschino! E senza più amore, e senza più speranza davanti allo oscuro avvenire!
Reclinò la testa bionda sul braccio e ve la posò e vi nascose la faccia.
Ora tornava Milia, dalla ferrovia: si udiva il romore de' suoi zoccoletti, su per le scale. La porta di casa della Sponzilli s'aperse e sbattette con uno strepito breve. La Marangi non si mosse, non levò il capo. Piangeva piano, col volto sul braccio piegato: piangeva amaramente, senza sapere perchè.
Suonò, all'improvviso, un alto grido angoscioso. La servetta apparì alla finestra, con le mani ne' capelli, con la faccia stravolta.
— Milia! — gridò la Marangi.
— S'è buttata dal balcone! S'è buttata giù!.. — urlava Milia — Ah, Madonna del Carmine! Signorina! Oh, Dio! La signorina mia ha avuto la risposta da quel giovane e s'è buttata!..
La Marangi si coperse la faccia con le mani. Tentò di levarsi. Ricadde sulla seggiola.
Balbettava:
— Oh, Sofia! Oh, Sofia mia!.. Oh, Dio! Dio! Dio!..
Milia si schiaffeggiava, pazzamente, urlando:
— Dal balcone! Dal balcone!..
Sparse. La porta di casa s'aperse con un fracasso spaventoso. La servetta si precipitò per le scale. E su per ogni pianerottolo s'apersero subito altri usci, e nel cortile si popolarono tutte le finestre.
Una voce, dall'alto disse:
— Chi s'è buttata?
Un'altra rispose:
— La Sponzilli... La figlia del maestro di musica. Dall'altra parte. Nella via Brindisi.
E dalla via Brindisi un vocio confuso e crescente salì alle finestre. Ora la folla entrava nel cortile, e se ne udiva il susurro. Portavano qualcuno.
La Marangi inorridita, si trasse addietro e s'appoggiò allo spigolo della tavola. Si sentì mancare. Si provò a chiamar la madre e la voce le venne meno.
Qualcuno, di furia, scendeva dall'ultimo piano. Un prete. Era il fratello d'una vedova, capellano a Santa Maria delle Paludi.
Si affrettava, pallidissimo, abbottonando la sottana al sommo del petto, con la stola sul braccio.
«COCOTTE»
Erano le cinque ore del mattino. La grande lampada posta davanti alla statua di legno di Sant'Ignazio ardeva nella cappella del carcere femminile di Santa Maria ad Agnone, ancora addormentato. Fra poco le recluse avrebbero udito la campana della sveglia e sarebbero scese a borbottare le solite preghiere nella penombra di quel tempietto freddo e malinconico, i cui quattro finestroni affacciano sul tortuoso vicolo afrodisiaco intitolato dallo stesso nome delle prigioni e frequentato da soldati e da vagabondi.
In quell'ora — l'ottobre era sugli ultimi suoi giorni — il vicolo, affatto deserto, offeriva a' ratti o a qualche cagnuolo abbandonato e vagante la copiosa vettovaglia de' suoi rifiuti e della sua spazzatura, ammonticchiati qua e là. Due fanali a gas, dal muro di faccia alle carceri — il muro cieco e altissimo d'un monastero di Clarisse — stendevano due braccia di ferro, una delle quali, spiccandosi di su la piccola porta antica del monastero, coronata da un festone marmoreo e dallo stemma quattrocentesco d'una famiglia illustre, si puntava proprio rimpetto a un dei finestroni della cappelletta e ne inquadrava la sagoma sulla interna e prospiciente parete della chiesuola, ove parte d'un vecchio quadro se ne illuminava anch'essa, vagamente. L'altro fanale, molto più lontano, stava sulla garitta della sentinella, addossata allo stesso muro claustrale, lì ove il vicolo cominciava a far gomito, e a qualche passo dalla porta delle prigioni.
Il silenzio era alto, la notte fresca.
La sentinella — un soldato di fanteria, che s'era posto il fucile ad armacollo — passeggiava, con le mani in saccoccia, e zufolava. Talvolta, lasciandosi a dietro per buon tratto la sua garitta, allungava il passo fino all'arco depresso ed oscuro ove il vicolo terminava, in sopra, verso la deserta via de' Santi Apostoli. Talvolta, soffermandosi, piantato sulle gambe allargate, il soldato interrogava lungamente, con gli occhi in su, quella fetta di cielo che le alte mura della prigione e del monastero parea che quasi attingessero con le loro creste taglienti: un brano di cielo sereno, rischiarato come da un lume prossimo e invisibile. Era imminente l'alba. Difatti, a poco a poco, cominciò a mancare sopra la interna parete della chiesetta quel riverbero giallastro che il lume del fanale vi stampava. Si liberarono a mano a mano dall'ombra l'altare, le scranne in fila, i muri coperti di vecchie tele e di quadretti votivi, il piccolo confessionile di cui lo sportello era rimasto schiuso e uno scarabattolo a vetri, custodia d'un presepe, addossato ad un de' pilastri.
Pareva come se da gran tempo quel luogo fosse rimasto abbandonato: vi avevano conquistato ogni angolo le ragnatele, la poca cura della suppellettile ve la lasciava coprirsi di polvere o di muffa e l'umidità esalava un tanfo di terriccio rimosso. Continuando la luce a mostrare quelle cose la breve navata del tempio anch'ella se ne abbeverò a poco a poco tutta quanta. Si svelò, dietro l'altare, la porticina della sagrestia e l'altare medesimo, carico di frasche e di candelieri, si bagnò tutto del freddo chiaror mattinale: la tovaglia ad orlo ricamato che v'era stesa sopra vi sembrava appiccicata con l'acqua. E come, per un vetro rotto d'un de' finestroni, penetrava là dentro il vento di volta in volta e sibilava, qualche volta, davanti alla statua di Santo Ignazio, la fiamma della lampada, investita da una folata più veemente, si inclinava e parea che si volesse spegnere a un tratto.
Era giorno, oramai. Le ore suonavano al vicino orologio dell'edificio della Vicaria, lente e chiare. Nel vicolo s'arrestò in quel punto il romore de' passi della sentinella: il soldato numerava que' rintocchi della campana e aspettava il cambio. Difatti s'udirono altri passi, frettolosi e pesanti, accostarsi dal lontano e subitamente davanti alla garitta si posarono sul selciato, con uno strepito breve e ferreo, i fucili: una voce dava la consegna, nel silenzio, e la voce della sentinella rimossa le rispondeva piano, brevemente. Poi daccapo risuonaron passi cadenzati e pesanti e s'allontanarono.
D'improvviso la porticella della sacrestia s'aperse tutta quanta. A una a una, entrarono di là nella chiesa dodici suore della Carità e sedettero a un banco, rimpetto all'altarino. L'ultima, una vecchietta, si chiuse la porta a dietro e rimase impiedi, ritta, d'avanti alla mensola dell'altare. Non s'era udito romore e quelle donne erano come scivolate sul pavimento: dalle loro gonne molli e copiose non s'era partito alcun fruscio. Ora, nella mezza luce, le cornette bianche s'allineavano, quasi immobilmente.
Un colpetto di tosse ne scosse una, per un momento.
II.
La suora addossata all'altare si fece il segno della croce e disse:
— Sorelle mie, questo in cui ci troviamo per ordine della nostra reverenda madre generale è il carcere femminile detto di Santa Maria ad Agnone. Fino ad ora la cura delle sciagurate donne che sono qua dentro è rimasta affidata ai Gesuiti. Ma vi sono tante necessità, tante circostanze, non so come dire, per cui in una prigione femminile valgono meglio le donne che gli uomini. Insomma, s'è creduto necessario di farci venire qui a regolare non dico meglio, perchè i buoni padri Gesuiti lo hanno fatto assai bene per quindici anni, ma con affetto, con amore di sorelle, con tutte le cure di cui hanno bisogno, queste povere anime vissute nel peccato.
S'interruppe. Il suo sguardo percorse la bianca fila delle cornette e vi frugò sotto, come a interrogare le pallide facce che nascondevano, in parecchie delle quali sarebbe stato difficile leggere: erano volti da cui nulla traspariva per gli occhi, erano pupille immote, inespressive, abituate al riverbero della passività di anime apatiche, depresse dalla preghiera e dalla regola.
— Ho ancora qualche cosa da dirvi — soggiunse la superiora.
E mentre la chiesuola si rischiarava tutta quanta e di fuori già suonavano voci confuse nel vicolo ella annunziò con voce più alta e più lenta:
— Non tutte voialtre rimarrete qui, in servizio. Vi resterò io con otto di voi. Basteremo.
Subitamente fu picchiato forte all'uscio della chiesa. Di fuori, dal vasto cortile ove le recluse s'adunavano ogni giorno, una rauca voce femminile urlò:
— Monache! Ohè, monache! Ove siete?..
La superiora additò l'uscio alle compagne e ordinò:
— Aprite.
La porta s'aperse. Un fiotto di luce si riversò dal cortile nella chiesa e ne illuminò l'ultime scranne. Tre o quattro femmine apparvero sul limitare dell'uscio e vi si arrestarono, irresolute.
Una di esse, con le mani in cintola, protese la testa arruffata.
— Ove siete? — gridò.
S'udiva, nel silenzio, il loro ansimare: come se avessero voluto per le prime arrivare alla porticella della chiesa quelle donne respiravano forte. E, fra tanto, per la scala de' dormitorii altre recluse scendevano di furia nel cortile, urlando, ridendo, schiamazzando.
— Fuori, fuori! — strillò una che sopraggiungeva — Venite fuori, monache! Vi vogliamo vedere!
Si fece largo tra le compagne, stese le braccia e tornò a gridare, in fondo alla chiesa:
— Fuori! Fuori!
Le fece eco un urlio assordante.
— Fuori le monache!
Il cortile s'era affollato. Cento braccia si levavano, cento bocche continuavano a urlare. Sul pozzo coverto tre o quattro delle recluse erano saltate in piedi, per veder meglio. E a un tratto, nella folla, avanzando, le suore apparvero e si raccolsero in un silenzioso gruppo, di faccia al pozzo.
La superiora balbettò:
— Figliuole...
Gli urli copersero la sua voce. E si mescolarono a quello schiamazzo spaventevole le apostrofi più insultanti, le più feroci invettive, delle risate scroscianti, delle frasi impure e minacciose. Intanto la scala de' dormitorii seguitava a rifornire il cortile: ora, più lentamente, scendevano le anziane, orribili megere, discinte, qualcuna scalza perfino, qualcuna appoggiata a un bastone.
Vi fu un momento di silenzio. La fila delle suore si rinserrava: strette l'una all'altra, pallide, palpitanti, gli occhi pieni dell'orrore della scena, esse affisavano sullo spettacolo insolito il loro sguardo esterrefatto. E s'udiva in quel silenzio un balbettio cadenzato, quasi un canto sommesso: una idiota sedeva al sommo della scala dei dormitorii e cullava sulle ginocchia un fantoccio di stracci la cui testa informe aveva incappucciata in una piccola cuffia bianca. Il fantoccio andava su e giù in grembo all'idiota ed ella, piegata su quel sudicio fagotto, seguitava a ninnarlo:
— Oh, oh!.. Dormi, figlio... oh, oh!..
— Taci! — le gridò una che le stava più da presso — Finiscila! Tutta la santa giornata il lamento di questa scema!
— Insomma? — fece un'altra, rivolta alla superiora — Tu non parli, eh, mamma vecchia?
— Ve lo dico io perchè non parla — esclamò un'altra — Questa santa donna...
Scoppiò a ridere. E mosse incontro alla suora, minacciosa.
III.
Era una delle più singolari di quelle sciagurate. Alta, bionda, vestita d'un camice roseo dalle larghe maniche orlate d'un pizzo gialletto che s'era sciupato e sbrandellato, ella aveva dei braccialetti a' polsi, e al collo nudo un filo d'oro da cui pendeva una medaglietta. Con la mano sinistra ora raccoglieva sul fianco la vestaglia, e appariva da quel lato, fino al polpaccio, la gamba calzata di seta nera; a' piedi aveva scarpini bianchi, trapunti, d'un taglio elegante, e li trascinava su pel sudicio selciato del cortile. Certo era stata bella un tempo: ma adesso faceva paura. La sua voce rauca, alcoolizzata, d'un timbro maschile, superava tutte le altre: un tremito spasmodico le agitava di volta in volta le labbra, a' cui umidi angoli si raccoglieva una lieve e lucente schiuma bavosa. De' grandi occhi azzurrini nei quali palpitava quell'aura epilettica onde lo sguardo si esprime singolarmente tra il terrore e lo spasimo, entro gli orli arrossati delle palpebre ammiccavano di tanto in tanto, come offesi dalla troppa luce.
— Non parla poichè ha scorno! Noi le facciamo scorno, si capisce! Non è avvezza la santa donna!
Fece un altro passo. E posò la mano sulle braccia conserte della suora. Sporse il capo. L'affisava, muta.
— Ti secca non è vero? Hai ragione. Delle suore tra le omicide, le ladre, le male femmine!..
Incrociò le braccia anche lei. E a una a una, curiosamente, squadrò le altre monache, immobili. Nessuna di costoro sostenne quello sguardo sfacciato: le suore abbassarono gli occhi, rabbrividendo.
— Dunque rimarrete con noi, eh? — disse la bionda — Onoratissime!
— Rispondi! — urlò un'altra alla superiora — Rispondi a Cocotte!
La superiora mormorò:
— Sì; otto di noi. Le sceglierete voi stesse.
— Come! — disse quella che chiamavano Cocotte — Ma davvero?
— La nostra madre generale vi accorda questa facoltà.
— Ohè! La sentite? Abbiamo il diritto di scegliere!
E Cocotte si voltò a dietro, chiamando con la mano.
Cento voci urlarono:
— Alla scelta! Alla scelta!
L'orribile turba frenetica si riversò sulle suore e le circondò, le agguantò, se le contese.
Proruppe un assordante vocio.
— Io voglio quella!
— Io questa!
— Io quest'altra!
— La bruna!
— La grassa!
— Quella più modesta!
— Di qua, di qua! Da questa parte!
— Silenzio! La vecchia vuol parlare!
— Ascoltate!..
— Un momento! Bisogna contare le prescelte! — disse una dal viso sconciamente butterato — Devono essere otto...
Nel sole, davanti al pozzo, la fila delle suore aspettava.
Ora la butterata, con l'indice teso, s'era messa a contare.
— Una, due, tre, quattro...
— Sono sette — la interruppe Cocotte — Ne manca una...
Lievemente una mano le sfiorò il gomito. Una voce le mormorò, piano:
— Prenda me...
Cocotte si volse. La suora che le aveva parlato ora chinava la testa: le sue braccia, nelle larghe maniche chiuse a' polsi, pendevano, come abbandonate. Un tremito impercettibile le correva lungo le mani bianche e nervose, che a un tratto s'afferrarono alla molle sottana azzurrina, convulsamente, e se ne empirono, come se volessero strapparla.
Gli occhi arrossati della vecchia peccatrice cercarono di spiare tra quel soggolo e quella cornetta.
Gli urli ricominciavano.
— Alla scelta! Alla scelta!
Disse Cocotte:
— Tocca a me. Scelgo io.
Stese la mano: prese il mento della suora tra pollice ed indice e lentamente le sollevò la testa. Un viso quasi ancor infantile, una pallida faccia di giovinetta si coperse subitamente di luce. Due grandi occhi cilestrini s'affisarono sulla reclusa, ansiosi e sbigottiti.
— Ma guarda! — fece Cocotte — È carina! Come ti chiamano?
La suora mormorò:
— Suora Vittoria.
Cocotte le mise la mano sulla spalla, si volse alle compagne e annunziò:
— Io scelgo questa.
IV.
A poco a poco il cortile si era vuotato. Ora un'improvvisa calura sciroccale umida e greve occupava l'aria; il sole scottava. In quello spiazzato irregolare, tutt'intorno rinserrato da muri alti e interrotti da linee non simmetriche di finestre e di poggiuoli, la luce pioveva come in un pozzo e vi si raccoglieva pesantemente. A uno de' poggiuoli era seduta una reclusa, incinta, e rammendava un panno bianco che le si distendeva sul ventre rotondo e gonfio: ella guardava abbasso, di volta in volta, e levava un lembo del panno per passarlo e ripassarlo sulla fronte sudata. Due altre donne, affacciate alla finestra accanto, chiacchieravano, e una fumava una sigaretta e sputava continuamente sotto, su un mucchio di calcinacci. E passavano e ripassavano davanti alle alte finestre altre recluse e attraversavano corridoi e dormitorii, dai quali usciva un confuso vocio, uno strepito di voci discordi e di risate, un fracasso di porte e di vetrate sbattute. Nella infermeria, i cui quattro poggiuoli stampavano sul bianco muro rivolto a mezzodì il vivace colore de' loro stipiti dipinti di verde, una suora già era sopraggiunta e apriva le persiane, sbattacchiandole sul cortile. Accanto, vestita d'un camice grigiastro e tutta raccolta sopra uno sgabelletto, a un cantone d'un altro poggiuolo, una malata infilava alla gamba nuda una calza, e si voltava a quel romore.
Improvvisamente la campanella del refettorio tintinnò: le tre porte del refettorio s'apersero, giù a pianterreno, sotto gli archi che da quel lato gli facevano ricorrere davanti un breve peristilio. Erano le otto del mattino e a quell'ora le recluse scendevano a sorbire il caffè. S'udì subito là dentro un romore di panche trascinate sul pavimento, s'udirono cozzare le chicchere e a un tratto, mentre si faceva un silenzio profondo, una voce lenta, e nasale giunse di là fino al cortile.
— Figliuole, un'altra giornata della nostra vita principia. Ringraziamo la santa Vergine Maria che ci ha concesso di vivere quest'altra giornata, e promettiamole di averla presente in tutte le nostre azioni. Un'avemaria secondo la intenzione di ciascuna di voi.
Seguì un breve mormorio come di preghiere recitate sommessamente. Poi ricominciarono lo strepito e il vocio.
— Hai sentito? — fece Cocotte a una spilungona che si trascinava dietro una seggiola in cortile e vi cercava un posto all'ombra — Ci raccomandano alla santa Vergine. I Gesuiti ci raccomandavano a quel bravo Eterno Padre, ti ricordi?
Levò il braccio e puntò al refettorio la mano spiegata.
— Idiote! — minacciò.
E subito dette in una risata folle, tenendosi i fianchi, battendo i piedi a terra, scotendo i pugni stretti.
L'altra aveva trovato l'ombra e s'era seduta. Aveva cavato un coltellino e s'era messa a sbucciare un'arancia.
— Levati dal sole — ammonì.
E una voce, da una finestra, ripetette, forte:
— Cocotte, levati dal sole!
— Ieri il Padre Eterno, oggi la santa Vergine! — strillò Cocotte, — Napoli! Roma! Firenze! Si cambia!
Ora s'accendeva e s'agitava, sorpresa da que' suoi vapori convulsivi per cui si cominciava a mano a mano a mutare nel viso, a tremare, a balbettare parole senza senso.
Fece ancora qualche passo verso gli archi del peristilio, e a un punto si soffermò, piegandosi quasi, allungando il collo, spiando.
— La piccola!.. — mormorò.
Suora Vittoria appariva sotto un di quelli archi.
Allora l'epilettica le si avvicinò, pian piano, con un sorriso ebete.
— Badi! — fece alla suora quella dell'arancia, e si levò — Badi! È malata!..
Suora Vittoria stese la mano, come per difendersi. Cocotte glie l'afferrò a volo e la strinse forte e la tenne fra le sue, borbottando.
Vi fu un silenzio pauroso. Ora l'epilettica, estatica, la bocca spalancata, affisava la suora. E sul suo volto inquieto, impallidito improvvisamente, e negli occhi suoi stralunati cresceva un terrore subitaneo e angoscioso. Le sue labbra si sforzavano di articolar parole che vi s'interrompevano confusamente e vi morivano tra un suono gutturale. Poi, lentamente, le sue mani si rilassarono. Il balbettio scemò, s'udì appena. Or ella si ritraeva, tutta raccolta sopra se stessa, piegata, in un atteggiamento di bestia.
Mise un alto strido, d'un subito, e barcollò.
— Scendi, Rita! — gridò la spilungona a una finestra — Porta un cuscino!
Accorreva, con la bocca ancor piena.
— Qui! Qui! Voialtre! — vociava.
Sopraggiungevano le recluse, dal refettorio. Cocotte era caduta sul selciato, con un tonfo sordo. E come la suora, in quel punto, le aveva profferto le braccia l'epilettica le si era avvinghiata a' fianchi, se l'era trascinata addosso e se la premeva sul petto ansante.
Al sole ardente che lo investiva quel groppo di membra s'aggrovigliava e sobbalzava. Le braccia di Cocotte, nude fino alla scapola percotevano l'aria, i suoi denti stridevano, ed ella mugolava, come un bruto ferito.
— Lasciala! — gridò la butterata alla suora — Scostati!..
Si chinò, l'afferrò per la vita e tentò di svellerla da quelle braccia irrigidite e tenaci.
— Lasciala! — incalzava.
Ora Cocotte, sfinita, ricadeva di peso e restava immota.
La suora le passò una mano sotto il capo, si piegò, posò la sua guancia su quella faccia stravolta e bruttata di sozza bava sanguigna.
La butterata, ginocchioni, le urlava, faccia a faccia:
— Ma sei pazza?..
La suora balbettò, soffocata da' singhiozzi:
— Mia madre.
INDICE
L'ignoto pag. 9
Un «caso» 41
Vecchie conoscenze 57
Il posto 83
Totò cuor d'oro 95
Quella delle ciliege 109
La taglia 125
Pesci fuor d'acqua 137
Donna Clorinda 165
Quarto piano, interno 4 187
«Cocotte» 201
GIUS. LATERZA & FIGLI — Editori
RECENTISSIME:
M. GORKI
I Vagabondi
MALVA — KONOVALOV — TCKELKACHE — IL PRINCIPE CHARCKO PTADZÈ
... In queste quattro novelle l'autore narra la esistenza errabonda dei miserabili, dei ladri, dei pezzenti fra i quali egli trascorse la sua adolescenza, la sua giovinezza. Sono pagine tristi senza alcun raggio di sole, dominate da una filosofia ironica e da un pessimismo intenso, dove un'anima veramente soffre, anelando alla luce, in una manifestazione d'arte irrequieta e convulsa, fantastica certe volte, quando l'autore si abbandona agl'impeti della fantasia gagliarda...
L. 2,50 — Un volume in-16 di pagine 300 — L. 2,50
R. DE LEONARDIS
Occhi Sereni
NOVELLE E PROFILI PER GIOVINETTE
Occhi sereni — Via Rattazzi — I capricci di Ninì — Ricordi di scuola — L'ospite — Su la soglia del dolore — «Er pupetto»
Sono sette composizioni di argomenti vari dedicate alle giovanette, ma destinate a piacere anche ai babbi ed alle mamme. Tutto il libro, per la sua aria modesta e senza pretese, per i buoni sentimenti che vi sono descritti, per un fondo di ottimismo sereno e confortante, merita di trovare buona accoglienza fra quelle persone che nelle letture non cercano l'acre sapore di passioni, ma bensì il riposo dell'anima e il profumo della bontà.
L. 2,50 — Un volume in-16 di pagine 260, con 28 incis. e copertina a colori — L. 2,50
GIUS. LATERZA & FIGLI — Editori
Biblioteca di Cultura Moderna
1.º Paolo Orano — Psicologia sociale L. 3,00
2.º B. King e T. Okey — L'Italia d'oggi » 4,00
3.º Ettore Ciccotti — Psicologia del Movimento socialista » 3,00
4.º G. Amadori-Virgilj — L'Istituto famigliare nelle società primordiali » 2,50
5.º A. Martin — L'educazione del carattere » 5,00
6.º G. De Lorenzo — India e Buddhismo antico » 3,50
7.º V. Spinazzola — Le origini ed il cammino dell'Arte » 3,50
In preparazione:
F. Carabellese — Nord e Sud attraverso i secoli.
Piccola biblioteca di Cultura Moderna
1.º A. G. Amatucci — Il pensiero di E. Ibsen. (Esaurito).
2.º C. Chiarini — La Casa della Fama L. 1,00
3.º A. Baragiola — Il Canto popolare tedesco » 1,00
4.º P. Chimienti — Bismarck nei suoi ricordi e pensieri » 1,00
5.º Italo Pizzi — Pessimismo orientale » 1,00
In preparazione:
E. Bartoli — Sacuntala.
F. Carabellese — Nicolò Spinelli da Giovinazzo.