DALLA SPUMA DEL MARE

SALVATORE FARINA

DALLA SPUMA DEL MARE

RACCONTO

(SECONDA EDIZIONE)

TIPOGRAFIA EDITRICE LOMBARDA

MILANO STABILIMENTO Via Appiani, 10 SUCCURSALE Via Larga, 19. 1876.

Proprietà letteraria.INDICE

ALLA MIA CRISTINA DALLA SPUMA DEL MARE

I. Qui cominciate a vedere che nel mondo si danno combinazioni curiose.

Si danno le curiose combinazioni nel mondo. Io aveva lasciato appena quel quartierino al terzo piano, e mi era piaciuto vedendolo, e continuava a piacermi per istrada pensandoci, e me ne andavo del mio passo solito a descriverlo alla mia Annetta, che era rimasta all'albergo ad aspettarmi, quando....

Ma non incominciamo disordinatamente.

Qual quartierino avevo io visto? Chi era Annetta? E in che paese accadeva la cosa? Annetta è mia moglie, il paese Milano, il quartierino doveva essere il nostro futuro nido.

Ed ora sono nel mio diritto ripetendo che nel mondo si danno le combinazioni curiose.

Voi non immaginate nemmeno quanto sia nel mio diritto, ripetendo questo, perchè non sapete tutti i pensieri che ho fatto io sul caso e sulla combinazione.

Vediamo: non siete già di quelli che negano il caso?

No? bravissimi; il caso ci è, e bisogna fargli di cappello. Ma che cosa è il caso? È il disordine o l'ordine? Voi dite il disordine, perchè lo confondete coll'inaspettato e lo riferite alle facoltà limitate dell'uomo; io dico l'ordine, perchè ci ho pensato su, e lo piglio in sè stesso, e lo riferisco ad una serie di fatti di cui non mi rendo ragione, e lo ammiro nella sua stupenda simmetria. Spieghiamoci con un esempio: vi era una tegola sopra un tetto, ora non vi è più, perchè si stacca e cade; vi è un uomo che passa proprio in tempo per riceverla sul cranio. — Ecco il disordine, ecco il caso, voi dite, pensando che la tegola era fatta per istar sul tetto. — Ma chi ha consigliato a quell'uomo di uscire di casa proprio in quel minuto, di camminare di quel passo, di fermarsi quel tanto e non più dinanzi ad una bottega, e di passare per l'appunto sotto la perpendicolare tracciata dalla tegola?

E chi ha detto alla tegola di non perdere l'equilibrio (che è la pazienza delle tegole) finchè l' altro si trovasse nel piano della perpendicolare? La meravigliosa esattezza di questa serie di combinazioni è l'ordine, cioè il caso.

Vi sarete accorti che io sono un uomo ordinato, e che ci era in me la stoffa di un matematico; perciò vi farò stupire dicendovi che io sono anche un pittore — sissignori, pittore di ritratti e di genere ai vostri comandi, filosofo nelle ore d'ozio, che non sono molte, pur troppo! — non perchè mi piaccia molto l'ozio, ma perchè moltissimo mi piace la filosofia.

Ho trentatrè anni sonati, presi moglie a trenta per far le cose in regola; non ho figli. Il mio ideale era una progenitura simmetrica, un maschio ed una femmina, od il doppio, od il triplo, meglio che nulla. Annetta ed io non sappiamo che pensare; aspetta, aspetta, aspetta.... zero. — È un destino perverso; — dice lei; — io non fiato nemmeno, perchè mi spiace brontolare contro le cose che non capisco; ma se anche non è venuto, mi par di vederlo il primo paio; potrei farne il ritratto e metterlo in mostra colla scritta: dal vero.

Se vi dicessi che ho un gran talento, che sono un galantuomo, che il mio cuore è largo così, avreste ragione di mettervi a ridere e di non darmi retta; ma quando vi abbia detto che ho il naso grosso, gli occhi bigi, i capelli che tirano al biondo e non vogliono star fermi, che sono lungo, sottile e diritto come il manico d'un pennello, spero che non mi chiederete le prove.

Ed ora che mi sono dato a conoscere il tanto che basta per aver diritto di contarvi la storiella, mi ci metto proprio e vi prego di starmi a sentire.

Avevo dunque lasciato appena quel quartierino al terzo piano, e me n'andavo per la via a capo basso, distribuendo in bell'ordine le camere ed i mobili..., studiolo, tinello, stanza da letto, cucina, gabinetto per la fantesca.... benissimo.... il cavalletto in faccia alla finestra, i modelli, i ferravecchi del mestiere in giro, un tavolino nel mezzo, la poltroncina filosofica per i quarti d'ora d'ozio, nella parete sopra la poltroncina la pipa, accanto alla pipa il cassettino degli zolfanelli.... Io vedevo tutto ciò mano mano che si disponeva simmetricamente sul lastrico del marciapiedi; il quartierino con tutti i nostri mobili così ordinati mi camminava dinanzi precedendomi d'un passo.... quando un'idea nuova fermò tutte le altre ed il quartierino e me stesso. Mi volsi. — È lui! — mi aveva detto quell'idea; ed ora guardandolo alle spalle, esaminandone meglio la statura, le mosse, ripetevo dentro di me: — è proprio lui, Valente! — In un baleno vidi i portici di Torino, l'Università disertata per l'Accademia Albertina, la scuola di disegno, i modelli barbuti e le modelle famose, la Geltrude dalle belle braccia che si sarebbero potute attaccare alla Venere di Milo; la Marietta, che aveva due spalle da Giunone, la Nina la cui unica bellezza erano le mani piccolissime, la Bianca che.... lasciamo stare la Bianca. Io vidi tutto ciò in processione dietro i calcagni di Valente, il quale se ne andava del suo passo solito; e sebbene da due giorni soltanto avessi lasciato Torino per venire a cercare la fortuna in Milano, sentii che il cuore faceva lo scampanío. Il mio cuore fa sempre a modo suo, senza mai chiedermi il permesso — lo dico perchè non si creda che io fossi già pentito d'aver lasciato Torino, le spalle della Marietta, le manucce della Nina, le braccia della Geltrude e le altre bellezze della Bianca. — No, al contrario allora più che mai ero contento della mia deliberazione, e sarei corso dietro a Valente per fermarlo e dirgli che avevo trovato un bel quartierino che mi faceva felice, se egli non avesse avuto al fianco una signora. Una signora piuttosto piccina, che faceva i passi lunghi per camminare in cadenza, ed appoggiava un pochino la testa al braccio del suo cavaliere; una signorina elegante e senza dubbio bella. Ora io sono un po' timido colle signore giovani e belle; non è la parte più invidiabile della mia natura, ma non ci è che fare — sono così.

Valente svoltò alla prima cantonata, ed io proseguii a passo strascicato verso l'albergo, cercando stupidamente di persuadermi che avevo avuto torto. E quando contai ad Annetta tutta la faccenda come era andata, e finii col darmi centomila torti, ed essa mi disse che al contrario avevo avuto centomila ragioni di tirar diritto.... perchè non si sa mai.... — come potete credere, — non fui più contento di prima.

— Spiegami bene, dunque; la cucina comunica col tinello?

— Comunica, — rispondevo io; — e intanto pensavo: — «chi potrà essere quella signora?» —

— E il tinello è grande?

— Grande. «Valente non aveva sorelle!...»

— E la stanza da letto?

— È sua moglie! — dissi forte, e vedendo il musino sbalordito della mia, aggiunsi ridendo di cuore: — Sì, la camera da letto è la moglie del tinello...

— Grande egualmente?

— No, un po' più piccina, come dev'essere una moglie; se fosse stata grande egualmente avrei detto sorella.

E risi, e le diedi un bacio, che la consigliò di ridere anche lei.

— Andiamo subito a vedere, — disse, e non l'ebbe detto che già aveva la mantellina in dosso, e mi si era attaccata al braccio.

La mia Annetta non sa nascondere nulla; se ha un'allegria, una contentezza, od un malumore, bisogna che le venga fuori negli occhi, nelle parole, negli atti. Quando una cosa le piace, state sicuri che dirà: bella! e lo dirà con enfasi, anche se la prudenza consigli e raccomandi di non fiatare. La camera da letto era bellissima, il tinello bellissimo, bellissimo lo studiolo, la cucina bellissima, bellissimo tutto — e con enfasi; e siccome il portinaio, che ci accompagnava, non apriva finestra o porta senza farci notare che chiudevano benissimo, che erano tinte benissimo, e si provò persino a persuadermi (ma senza enfasi, siamo giusti) che certi fiori scellerati, dipinti sul soffitto parevano staccati or ora dagli steli e messi li per capriccio — così incominciai a temere che di fronte a tanti superlativi non mi avesse poi a riuscire un mio bel disegno, che era di ribattere cinquanta lire dal prezzo d'affitto. Perciò senza dar tempo al portinaio di trovarsi a quattr'occhi col padrone di casa, domandai se gli si poteva parlar subito, ed il portinaio rispose di, e si avviò innanzi, e noi dietro. Allora io dissi, come rispondendo a mia moglie, che non aveva aperto bocca: — Sì, sì, non ci è male! è un po' piccino però! — ma mia moglie, la quale quando è in festa non ci vede più, non badando alle mie occhiate, rispose: — per noi altri ce n'è di troppo! — Mi sarebbe venuta la tentazione di darle un pugno, se non fosse stata la mia buona Annetta.

Scendemmo quattro scale, ci fermammo al primo piano, dinanzi ad uno stoino che diceva: salve. Quella garbatezza messa lì, sull'uscio, per incominciare a fare gli onori di casa, mi piacque. Purchè il padrone non sia uno di quelli che, quando hanno incaricato uno stoino di dir salve al prossimo, si credono in diritto di misurarne la statura e la borsa, e di spendere tutta la loro superbia colla gente piccina e colle borse magre!

Così pensando, guardai alla scritta che luccicava sulla porta e lessi: Nebuli.

— È curioso!

— Che cosa? —

Ma non potei rispondere alla mia Annetta, perchè in quella s'aprì l'uscio e noi fummo propriamente sbalorditi dalla solennità del grosso servitore in livrea, e dal lusso dei mobili e dei tappeti che si vedevano in una fuga sterminata di stanze. Rinunzio a descrivere tutto quanto vi era di opprimente in quel lusso, vi basti sapere che dopo essermi fermato e seduto (perchè il servitore volle così) sopra una seggiola coperta di raso, come se mi ci avessero inchiodato, io non pensava più a ribattere cinquanta lire sulle seicento del fitto, e che se il proprietario avesse avuto la furberia di chiedermene mille per bocca del suo grosso servitore, io sul momento avrei trovato quella somma una miseria, a costo di non lasciarmi più vedere per sottoscrivere il contratto.

Entrò un uomo, noi ci rizzammo in piedi di scatto; io feci un inchino solenne, poi lo guardai; mi guardò.... — Ferdinando! — gridò egli; ed io dissi: — Valente! — E corsi a lui calpestando i tappeti, ed egli a me, e ci abbracciammo stretto.

La mia Annetta sorrideva. Fu allora che pensai quello che avreste pensato anche voi, cioè che si danno al mondo delle combinazioni curiose.

— Sei proprio tu? — chiesi a Valente misurandolo cogli occhi e dando un'occhiata fuggitiva ai mobili, alle dorature. — Sei proprio tu Valente Nebuli, il famoso pittore di prospettive lontane?...

La risata con cui mi rispose trovò una risonanza nell'ampia sala, specie di tentativo d'eco che i mobili imbottiti, le tappezzerie, i tappeti e le tende soffocarono come un'impertinenza.

— Proprio io! — disse poi l'amico, — l' uomo del domani, come mi avevate battezzato; e tu sei il mio Ferdinandone dell'oggi, anzi dell'ora, anzi del minuto secondo, il creatore della pittura filosofica e matematica! Come sono contento di rivederti! —

Non erano parole messe lì come lo stoino sull'uscio, venivano proprio dal cuore, gli si leggevano sulla faccia prima che le dicesse e vi rimanevano scritte dopo.

La mia Annetta continuava a guardarci sorridendo; non altro avrebbe potuto fare, perchè non conosceva Valente, avendola io sposata da tre anni, quando da dieci mesi l'amico era scomparso dall'Accademia.

— Ti presento mia moglie, — dissi, e volli aggiungere: «presentami la tua,» ma non so chi me ne tolse l'ardire; forse un chinese panciuto di porcellana, che mi faceva di col capo.

Siccome allora mi passava pel cervello un'idea che mi pareva piena di buon senso, ed il chinese di porcellana aveva l'aria d'averla indovinata e di darmi tutta la sua approvazione, così la voglio dire. La mia idea era che a torto ce la pigliamo colla fortuna, la quale ci cambia gli amici se, anche quando gli amici baciati dalla fortuna rimangono tal quali, ce li cambiamo noi nella nostra opinione. Vi giuro che se l'avessi visitato in una soffitta, Valente non mi avrebbe fatto accoglienza più cordiale; e pure perchè mi riceveva in una sala luccicante di dorature, io senza avvedermene lo andava allungando ed ingrossando fino a farne un colosso che mi dava ombra. Non lo stimavo più di prima, ora che pareva ricco, no di sicuro, ma sentivo per lui una specie di ammirazione stupida; non gli volevo meno bene, ma provavo una compiacenza scimunita nel ricordarmi ch'egli pure me ne aveva sempre voluto.

Non dissi dunque: «presentami tua moglie,» che sarebbe stata la scorciatoia, ma feci la via più lunga, chiedendogli se era lui quello che un'ora prima avevo visto sul Corso al braccio d'una signorina.

Era lui, naturalmente, ma come lo disse! Tacqui aspettando una spiegazione, che non venne; e quando vidi che il silenzio lo impacciava, e che si faceva rosso, mi affrettai a parlargli del quartierino al terzo piano.

— Ti piace? — mi chiese.

Era o non era turbato? Non lo so bene, perchè passò prima come un'ombra sul suo viso, poi mi strinse tutte e due le mani ed esclamò:

— Quanto sono contento che ti piaccia! —

Per essere schietto, confesso che questa volta le sue parole mi parvero uno stoino vero, messo lì come l'altro sull'uscio. Ma Valente proseguì enumerando tutti i pregi che il quartierino aveva e quelli pure che non aveva — la tromba in cucina, per esempio, mentre era sul pianerottolo (e glielo feci osservare), la tappezzeria d'una camera che invece era imbiancata.... (e corressi anche questo sbaglio), — e s'infervorava tanto, e cercava con così schietto entusiasmo di convincermi che quel quartierino era il fatto mio, che, a non saperlo spensierato, l'avrei creduto invaso da una paura immensa di non trovar inquilini, perchè il San Michele era passato.

— E quanto il fitto? — dissi serio serio.

Egli uscì a ridere.

— Ne parleremo poi.

— No, — protestai, — è questo il momento di parlarne.

— Ne parleremo poi.

— No, — insistei, — in tutte le ore della giornata, in tutte le giornate della settimana non troverai un momento come questo fatto apposta per parlarne.

— Di' tu la somma.

— No, a te sta il dirla; non sei tu il proprietario?

— Ma bada che d'inverno quel quartierino è freddo molto....

— Tutti i quartieri sono freddi d'inverno.

— Voglio dire che non è esposto al mezzogiorno; e poi perchè non ha l'acqua in cucina, e ad una camera manca la tappezzeria, e il pavimento.... non ci hai badato?... è bruttino.... —

Non capivo proprio dove volesse andare a finire.

— Perciò si stenta ad affittarlo, sebbene io mi contenti di poco.... quattrocento lire! —

Compresi, ma protestai che era una birbonata far pagare quattrocento lire un quartierino come quello.

Egli si vide scoperto e rise, ed io volli assolutamente pagarne cinquecento almeno, benchè mia moglie, mettendomisi al fianco, mi avesse dato un colpetto di gomito....

Al momento di separarci, mentre stavamo ancora sull'uscio a far ciance, sentii un passo leggero su per le scale, accompagnato da un fruscío di abiti di seta, e notai che Valente ebbe l'istinto di ritirarsi; ma si fermò.

— Ecco la mia Chiarina! — disse.

Era proprio il leggiadro fusticino di donna che avevo visto per via, svelta e pure rotondetta, rotondetta e pure elegante, una Venere greca a tre quarti di grandezza naturale.

Mentre guardavamo con un sorriso d'ammirazione, quel piccolo capolavoro ci fu al fianco, ed io vidi che, essendo molto più piccina di tutti noi, la signora Chiarina pareva grande egualmente. Era fin'ora il più bell'argomento che avessi trovato in prova di quella profonda verità filosofica: cioè che l'universo non ha grandezze, ma armonie, e che tutto è grande ad un modo rispetto all'ordine universale delle cose.

Se ne siete persuasi anche voi, tiriamo innanzi.

Era bella proprio la signora Chiarina? Oh! sì, bella proprio. Ma non chiedete come avesse il naso e la bocca, e di che colore gli occhi ed i capelli; ora io lo so, ma quel giorno non lo vidi; notai soltanto, e perciò s'ha a dirlo a questo punto, che aveva una faccetta bianca, e lo notai perchè quando io chiese a Valente: tua moglie? la faccetta bianca si fece tutta rossa.

— Il mio amico Ferdinando, di cui ti ho parlato tante volte, la sua signora.... — disse Valente con una disinvoltura curiosa, che pareva impaccio.

La signora Chiarina inchinò quel suo corpicciolo di fata, ci regalò un sorriso, un bel sorriso, poi sparve dietro l'uscio e la sentimmo correre e ridere nell'anticamera.

— È come una fanciulla! — disse Valente.

Ci stringemmo forte la mano, e addio, cioè, a rivederci.

Quando fummo da basso, mi piantai come un palo innanzi al portone a guardare la strada, che era larga e quasi diritta, una delle più aristocratiche di Milano; a guardare la facciata del palazzo, che aveva tre piani ed era stato costrutto senza economia; a guardare le doppie vetrate delle finestre; a guardare le cortine di pizzo che si vedevano dietro i vetri lucidi; ma quando vidi o mi parve di vedere una faccetta bianca dietro a quelle cortine, allora me ne andai subito.

— Ti piace? — domandai alla mia Annetta.

— Tanto, mi ha innamorata.... mi par già di volerle bene. —

Credevo che parlasse della nostra casa.

— La fortuna ci sorride; vedrai che quest'inverno farò dei ritratti e dei quadri di genere, e li venderemo. E l'amico Valente che cuore d'oro! —

Avrei voluto aggiungere: «E che bella donnina sua moglie!» ma la prudenza mi consigliava di tacere.

— E che bella donnina sua moglie! — disse Annetta.

— Sì.... bellina.... un po' piccola.

— Sentitelo! bellina! di' che è bellissima, non ne sono gelosa, è troppo bella!

II. L'amico Valente.

Bisognava vedere il nostro quartierino otto giorni dopo, quando mia moglie vi ebbe messo i suoi mobili ed io l'ordine! È più facile farsene un'idea, immaginando un insieme molto bellino, molto pulito, molto allegro, molto simmetrico, che descriverlo — perciò non lo descrivo.

Ho detto che i mobili erano di mia moglie, dirò il resto alla libera: anche le lenzuola, le tovaglie e le poche cedole al portatore, che ci innalzavano alla dignità di creditori dello Stato, tutto era di mia moglie; io non possedevo al mondo altro che due cavalletti, dodici pennelli, otto tavolozze, alcune tele di genere rimaste invendute, pochi spiccioli in un cassetto e molta economia. Non crediate però che, sposandoci, la mia Annetta credesse d'aver fatto un carrozzino (come si dice) ed io un buon affare; ci sposammo, perchè ci piacevamo, perchè ci volevamo bene, e se i nostri mobili si fossero provati a mettere la discordia fra noi due, credo che ne avrei fatto tanta legna da ardere senza metafora nel focolare domestico, e che mia moglie mi avrebbe dato mano. Erano mobili di noce, lucidi, ma serii, ben saldi sulle gambe, bene equilibrati, mobili poco mobili, che se ne stavano al loro posto. Tutti i cassetti aprivano e chiudevano senza farsi tirare, senza farsi mai mandare a quel paese dal marito, il che può essere pericoloso, quando i mobili sono della moglie — parlo per conto del prossimo.

Bisognava vedere — e perciò appunto un giorno il mio amico Valente fece le scale e se ne venne disopra a fare il curioso.

Provatevi ad indovinare quello che egli disse, quando ebbe messo il naso da per tutto; anzi non vi state a provare, perchè tanto non l'indovinereste mai.

— Come t'invidio! — così disse. — Lo guardai in faccia, perchè mi ricordavo che l'amico mio aveva una cert'aria, nel dir le cose, da non lasciar mai capire se dicesse proprio sui serio o da burla. Diceva sul serio, ve lo assicuro, prima di tutto perchè ora non aveva più quella cert'aria d'una volta, e poi perchè lo scherzo sarebbe stato di cattivo genere, e Valente anche nel far la burletta badava a non offendere menomamente gli amici.

Provai a ridere per accertarmi proprio. Non rise. Non sapevo che fantasticare, quando ad un tratto mi venne in mente (come non ci avevo pensato prima?) mi venne in mente la sua manía, e questa volta risi di cuore.

— Sì poveraccio! — esclamai — sei proprio da compiangere, tu nato, fatto per essere il miserabile più felice che campi sotto le stelle, tu ricco, tu padrone d'un palazzo splendido, tu servito da domestici in livrea, tu.... Ah! la sorte è senza giudizio, —

Cominciò dal fare eco alla mia risata, come per intonarsi più giusto, poi rispose tra il serio ed il faceto:

— Meno male che tu mi comprendi! Se non sono propriamente una vittima delle mie nuove ricchezze, ti assicuro che esse m'hanno rubato molto della mia ricchezza d'una volta, tanto più preziosa; la spensieratezza, la fantasticheria, le repentine gioie che ci dà un nonnulla, tutto questo va perduto facendo un'eredità. Prova e vedrai. —

Qui ci stava un sospiro, ed io ce lo misi tanto per fare il paio, perchè se v'era una cosa che desse ragione a Valente, poteva esser questa: che io non aveva un desiderio molto vivo di fare una eredità.

Valente aveva preso il filo: — Questa cameretta (eravamo nel tinello) può invidiare la mia sala, ma se ha giudizio non la invidierà; può però aspirare a diventar bella un po' più, ad avere prima la tappezzeria che le manca, poi le porte inverniciate di nuovo, poi la vòlta dipinta meglio, il mosaico per terra, ed infine le credenze più graziose, di rovere e palissandro..., guarda quanti bei sogni può fare questa cameretta, e quante gioie purissime le prepara l'avvenire. —

Egli diceva la cameretta, ma guardava me, parlava di me, ed io leggeva nel suo risolino che il preparatore di quelle gioie purissime voleva esser lui, e facevo le mie riserve.

— Invece la mia sala immensa, dorata, splendida, non ha più un desiderio, un bisogno, non si aspetta più alcuna gioia; tu metti le cortine di bucato alla stanzuccia; vedila ilare, contenta; io in mancanza di meglio caccio nella mia sala cento nonnulla costosi, che non mi costano niente, che una volta messi là par che si nascondano, che la lasciano fredda, superba, indifferente e stupida. —

Si accalorava un tantino nel dire queste parole: la sala era lui!

— Dunque non sei felice?

— Sì, sono felice, ma una volta ero di più. Ecco il mio stato; gli è che la nuova ricchezza non è soltanto la cessazione della povertà, ma l'agonia delle gioie più belle, dei desiderî più ardenti, delle speranze più balde, degli affetti più semplici, delle fantasticherie più alate. —

Ora mi andava nella lirica, bisognava fermarlo.

— Perchè tu manchi di regola — gli dissi — perchè tu non hai metodo, perchè, secondo il tuo modo di vedere, agi ed ozio sono sinonimi, perchè tu nelle ricchezze non vedi se non il possesso freddo, monotono, incapace di dare un palpito, mentre vi è la distribuzione che è varia, animata e conosce «gli affetti semplici,» e vede da vicino la «gioia,» e non volta le spalle alla «speranza.» Se io fossi in te avrei tante cose da fare, tante, tante, che non mi rimarrebbe un briciolo di tempo alle «fantasticherie alate....»

— Ah! oh! — disse crollando il capo, — l'unico, vero, purissimo conforto della vita è il fantasma; l'immaginazione è la felicità; non mi stare a compiangere i poeti morti all'ospedale, perchè per essi la vita era un giardino incantato, e lo spedale una reggia. Quando ero studente di pittura all'Accademia, e mi avevate battezzato «l'uomo del domani,» perchè non facevo che castelli in aria, allora sì che ero contento!

— Schiettamente: vorresti tornare a quei tempo, a quello stato?

— Schiettamente: no.

— Lo vedi!

— Lo vedi che non mi capisci! — esclamò egli trionfante.

In quella entrò mia moglie, che era rimasta di là a farsi un po' bella per ricevere la visita. L'amico Valente si inchinò, le strinse la mano, le chiese come stava, con una garbatezza sciolta, di cui un tempo l'avrei creduto incapace.

E non so come avvenne la solita trasformazione intorno a me; mi parve che l'amico mio si allungasse, si allungasse, e mentre finora io lo aveva lasciato sopra una seggiola, nell'atto che si rimetteva a sedere gli spinsi fra le gambe un seggiolone.

Valente fu gentilissimo colla mia Annetta, la lodò del buon gusto, della disposizione dei nostri mobili, e la poverina tenne così poco per sè protestando di non averci quasi merito, che io dovetti intervenire due volte perchè non mi facesse la parte larga più del giusto e del ragionevole.

Sul pianerottolo l'amico mi strinse forte le due mani e mi disse:

— Hai una donnina che vale un tesoro!

— E la tua!

Non mi rispose; stette un momento in pensiero, poi disse:

— No, non vorrei essere nei tuoi panni, e pure t'invidio; prova a diventar ricco e mi comprenderai.

— Se non ti spieghi ora, temo che non avrò mai occasione di comprenderti. —

E allora egli mi disse con una serietà da burla:

— Il primo furto che ti fa la ricchezza è la volontà: tu sei padrone di molto denaro e non più di te stesso; ci è un avversario in te, che dorme finchè sei.... (voleva dir povero ) finchè sei.... così; il mio s'è svegliato. Perciò io vorrei essere il Valente di una volta, ma lui non vuole.... andare a letto. —

Rise, risi; ci scrollammo le mani; egli scese le scale ed io mi buttai, contento come una pasqua, nelle braccia d'Annetta, che era lì, dietro l'uscio, ad aspettarmi.

III. Qui tiro su una cortina e comincio a vedere un mistero.

L'amico Valente passava delle ore buone nel mio studiolo, sdraiato nella mia poltroncina, dinanzi al mio cavalletto, fumando la mia pipa, e dandomi ogni tanto dei consigli con un'aria tutta sua, coll'aria di chiedermene, facendomi venire un dubbio, balenare un'idea col mostrarsi ingenuo e dubitoso egli stesso. A sentirlo, era un secolo che non toccava i pennelli, la tavolozza aveva certe croste di colori che non avrebbe sciolte nemmanco il diluvio, in somma doveva essersi dimenticato di tutto. Ma a volte mi diceva:

— Scusa un po', che te ne sembra? caricando un tantino quell'ombra, la figura non si staccherebbe meglio? prova per farmi piacere.... cancellerai dopo. —

Io provavo per fargli piacere e non cancellavo più; e il giorno di poi, rivedendo il quadro, non ci era pericolo che Valente dicesse, come avrebbe fatto un altro: — Oh! l'hai lasciata l'ombra? hai fatto bene! —

Peccato che egli avesse voltate le spalle all'arte; mi ricordavo di certi suoi studi di nudo all'Accademia che noi scolari mettevamo sotto voce sopra quelli del professore; egli aveva una certa sua maniera spiccia, sicura, che formava la disperazione degli emuli. Anche a me da principio aveva fatto dispetto, perchè gli volevo passare innanzi anch'io, volevo fare anch'io i nudi più belli de' suoi; ma quando Samuele, un vecchio modello con tanto di barba bianca, mi ebbe detto un paio di volte che i muscoli che avevo messo sulla tela non erano i suoi, la carne nemmeno, e che le mie costole non avevano nulla da vedere colle sue, ed ebbe soggiunto che il nudo non gli pareva il mio forte, che il mio genere era probabilmente il genere — allora andai ad offrire la mia amicizia a Valente, e cominciai a dire a quanti mi volevano intendere che i suoi nudi erano i migliori; che chi non è nato pel nudo, è inutile si ostini, faccia le donne e gli uomini vestiti; che ciascuno deve trovare la sua strada, e che il mio genere era sicuramente il genere.

Così si divenne indivisibili.

Ora sembravamo tornati a quei beatissimi tempi; la mia Annetta era proprio innamorata della signora Chiarina, di quella donnina-gingillo, donnina-tesoro, donnina-minuzzolo di paradiso, come diceva lei. E quando io facevo qualche restrizione, per tattica maritale, ella mi diceva ironica: — Davvero? come dovrebbero essere le donne, perchè il signore le trovasse perfette?

— Dovrebbero essere amate.... come te.

Allora mi chiamava ipocrita ridendo.

Quanto alla signora Chiarina, mi pare che volesse propriamente bene alla mia Annetta, perchè, vedendola, le correva incontro ed era la prima a porgere le guance per farsi baciare, e le restituiva un bacio appena appena ci stava lo spazio di tempo necessario; ma parlava pochino, massimamente in presenza mia, e mentre non si dava le arie di gran signora, aveva un certo ritegno che mi metteva in imbarazzo; lo avrei detto sussiego, senza quella grandissima facilità di ridere e di farsi rossa. Perchè si faceva rossa? Io non sono uno sguaiato, e le parole prima di lasciarmele venir fuori dalla bocca le misuro colla lingua, pure non potevo fare una parlatina di quattro periodi senza vedere arrossire quella faccetta bianca. Allora mi fermavo pensando: «che cosa ho detto?» Meno di nulla. S'era parlato di pittura, o di mia moglie, o di suo marito. Un paio di volte avevo nominato la Venere dei Medici, o messo in ridicolo le Pompeiane moderne, che sono sempre a sedere dinanzi allo specchio, o ritte senza camicia dinanzi al bagno. Si era fatta rossa, non ci era di che, però mi guardai bene dal ricascarci.

Parlandone con mia moglie, essa mi disse: — «non capisco nulla io pure, è una cosina tutta timida, tutta ingenua, è una sensitiva, sarà per questo.»

— Sensitiva quanto vuoi, è pure la moglie di suo marito, e certe cose deve.... —

Annetta non mi lasciò finire, e corse via tappandosi le orecchie — influenza del buon esempio!

Non in questo solo mia moglie cercava di assomigliare alla sua nuova amica; a spasso mi si attaccava al braccio appoggiando un tantino la testa al mio omero, come vedeva far lei ogni giorno, stando alla finestra, nelle ore che i padroni di casa erano soliti uscire; e ripeteva le esclamazioni favorite della signora; e si pettinava liscia come lei. È detto tutto in tre parole: ne era innamorata.

Ancora Valente non mi aveva fatto vedere i suoi cartoni, ed io mi proponevo ogni giorno di chiedere quanto non mi veniva offerto, ma differivo per una ragione semplicissima, ed è che ancora Valente non mi aveva condotto in giro per il suo appartamento. Alla fine ci condusse. Quante stanze! Quanti mobili! Quanto lusso! Sulle prime non mi potei fare un'idea chiara di quel labirinto, ma quando pensandoci me n'ebbi messa la pianta nel cervello, vi trovai alcuni difetti di distribuzione che sarebbe stato un peccato non correggere. Dov'era un salotto, uno dei tanti, ci doveva essere lo studiolo, che così avrebbe ricevuto una luce bellissima; quanto a renderlo indipendente, come lo voleva l'amico mio, bastava condannare un uscio; cosa elementare.

— Grazie — mi disse Valente, e tirammo innanzi. Giunti ad uno stanzino in fondo, ci affacciammo appena di qui e di là a due camere, i cui usci si guardavano; due camere identiche, un lettuccio in ciascuna; quella a dritta era della signora Chiarina, l'altra di Valente; dentro di me io non approvavo una disposizione simile, ma quando vidi la signora Chiarina tutta rossa, ed intesi Valente dire che la si faceva rossa, figuratevi! per timore ci rivelasse la paura orribile ch'ella aveva di notte, allora non mi potei trattenere dal pensare: — Ma se ha tanta paura!...

Diceva Valente:

— Quando ho guardato sotto i letti, nell'armadio, dietro le portiere, e fatto correre le poltroncine, e lasciati aperti gli usci delle nostre due camere e la lampada accesa, quest'eroina ha ancora paura.... —

E allora non mi seppi trattenere dal dire, come avevo pensato:

— Ma se ha tanta paura.... —

Non mi si lasciò finire; la signora Chiarina ebbe l'aria di fuggire; mia moglie e Valente le andarono dietro, ed io in coda.

Nel ripassare dinanzi allo studiolo, mi fermai a squadrarlo, così, sul limitare; era proprio vero: un cavalletto stava ripiegato ed addossato alla parete, alcune tavolozze pendevano appese ad un chiodo, una sopra l'altra, ed ecco i pennelli in fascio entro un secchiolino. Valente Nebuli non era più pittore! Sulle pareti si vedevano appese alcune tele sbozzate appena; qua e là pochi tocchi di carbone svelavano l'intenzione d'una signora mitologica qualunque — non più che l'intenzione; ma per un artista non vi hanno abbozzi; egli vede il quadro compiuto dove non sono che quattro linee, ci mette i colori del suo, l'aria, la luce, il fondo, — ecco, la figura si stacca bella come non potrà essere mai. Quanti capilavori ho fatto io così! Andavo in giro per la stanza, facendo il sordo, mentre Valente continuava a dirmi: — Vieni via, non c'è nulla di buono, lascia stare. —

La curiosità, non l'arte, mi fece fermare dinanzi ad un gran quadro; non l'arte, ma la curiosità; perchè quel quadro era interamente coperto da una cortina, come le Madonne miracolose degli altari. Cercavo la cordicella per tirar su la cortina, quando Valente mi prese per un braccio ripetendomi: — Vieni, lascia stare! —

Naturalmente non lasciai stare, la tenda andò su, e vidi....

Oh! la vaghissima delle creature! Un visino bianco, soave, un po' sbigottito, con due occhi, in cui brillava una luce modesta, coi capelli neri, morbidi, ondulati, scendenti giù giù per le spalle; tutto ciò disegnato e colorito da gran maestro. Ma perchè sbigottito? Stava dinanzi alla finestra, dove, oltre d'un garofano in fiore, nulla vi era da far sbigottire una signora.

Notai le vesti trascurate, notai la finestra ed il garofano fatti alla carlona, ed atteggiandomi dinanzi a Valente come un punto interrogativo, vidi che egli pure mi guardava, quasi volendomi leggere in faccia quel che ne pensassi.

— Il volto è meraviglioso — dissi — il resto, lo sai meglio di me, non vale un quattrino; se quelle pieghe non le hai copiate da una Madonna di legno, io non le capisco; garofani simili già non ne ho mai visti, il pavimento non ci è male.... ma che sorta di colori hai adoperato?...

— Volevo ben dire! — esclamò Valente; — è un quadro misto, ecco tutto il suo pregio; la testa è dipinta ad olio, le vesti, la finestra, il garofano ed il resto a tempera.... tanto per finirlo.

— Ma così non hai finito nulla! — esclamai.

— Lo finirò.

— Quando?

— Presto, ora lascia stare, e vieni.

— Ancora un pochino.... ah! quella testa!... oh! quegli occhi! ma perchè quell'espressione sbigottita? Nella finestra non c'è che un garofano e nel garofano che c'è da far sbigottire?

— Me lo domandi? Non dici tu stesso di non averne mai visti di garofani simili?

— Mai, te lo giuro.

— Anche la signora Valeria non ne ha visti probabilmente mai; «è un garofano? non è?» ecco perchè ha l'aria sbigottita. —

Rideva.

— Si chiama Valeria? — chiesi.

— Sì. —

E cessò di ridere.

Si mosse, gli tenni dietro, ma mi voltai sull'uscio ed in quell'ultima occhiata mi balenò un'idea. La signora Valeria rassomigliava a qualcheduno.... A chi?... Un quarto d'ora dopo non mi rimaneva dubbio; fatte le debite indagini, trovai che, tranne il colore dei capelli, la fronte, il naso, la bocca, gli occhi ed anche un pochino l'ovale del viso, tranne questo, la signora Valeria del quadro e la signora Chiarina, che mi stava dinanzi impacciata dai miei sguardi curiosi, si assomigliavano come due goccie d'acqua. Da pittore di ritratti coscienzioso, devo dire che non seppi per un pezzo in qual linea identica delle due faccette bianche collocare questa strana rassomiglianza, e dovetti accontentare la mia vanità col dire che tutte le perfezioni si rassomigliano, che le Veneri greche, dissimili tutte, sono pur sorelle, e tante altre cose solenni che quando si ha il carbone od il pennello in mano fanno ridere; ma finalmente trovai le linee (erano due), linee parallele e quasi impercettibili, che scendevano dalle narici al principio del mento, e dovevano costringere le due faccette bianche a ridere, a sorridere, a star serie ad un modo. Ho sporcato tanta carta per indovinare quelle linee, che ora le so a memoria, e le potrei metter qui colla penna, e ce le vorrei mettere se avessi speranza di farmi intendere meglio.

Naturalmente questa scoperta unita al mistero della cortina e dei modi dell'amico Valente, mi pose in una gran curiosità.

Dove scava l'immaginazione — tenetelo bene a mente, perchè è filosofia pratica — dove scava l'immaginazione invece del ragionamento, la profondità rimane il vuoto, quando non diventa il caos.

Messomi a fantasticare, feci dieci romanzetti, protagonisti i due capolavori, il quadro e la signora Chiarina, romanzetti uno più sconclusionato dell'altro, che per buona sorte rimasero uno più inedito dell'altro.

Veniamo al negozio della lite: non vi ho detto che vi era una lite pendente in casa Nebuli, perchè non me ne ero accorto prima di ricevere per isbaglio la visita di un usciere.

— È lei il signor.... — e qui una guardatina al suo scartafaccio — il signor Nebuli?

— Al primo piano.

— Qui sta scritto al terzo — nuova guardatina come sopra.

— Avranno sbagliato.... —

Non pareva persuaso.

— Sono l'usciere del Tribunale.... — disse con sussiego.

— Ciò non impedisce al signor Nebuli di stare al primo piano. —

Feci allora l'osservazione, comprovata di poi, che gli uscieri avvezzi allo stile ameno delle loro intimazioni non amano le amenità di stile degli altri. Quel sacerdote, cioè quel sacrestano d'Astrea, se ne andò senza salutarmi.

Il sacerdote venne più tardi, una sera che si rideva tutti insieme in casa dell'amico mio; e venne impettito in tutta la solennità de' suoi solini inamidati, de' suoi occhiali, del suo farsetto abbottonato, a far la parte di spegnitoio del nostro buon umore.

Si trascinò Valente in uno stanzino, stette un pezzo a nominargli i tribunali, le sentenze, l'appello, tutte queste grosse parole, che giungevano ogni tanto fino a me di mezzo agli squilli armoniosi della signora Chiarina che rideva, della mia Annetta che la faceva ridere; e finalmente ce lo restituì un po' pallido, salutò senza piegare la colonna vertebrale ed uscì solennemente, accompagnato dal servitore in livrea, che era più solenne di lui.

— Hai delle liti?

— Sì.

— E quello è il tuo procuratore?

— Sì.

— Come mi piacerebbe averlo per un'ora a mia disposizione... e anche l'usciere!

— Hai tu pure una lite?

— No, ma vorrei pregarli di posare un quarticino d'ora per un quadro di genere.... —

La signora Chiarina rise forte, lui no; la lite doveva essere grave.

IV. Corvi contro Corvi.

Era grave. Per quello che io ne capii, quando Valente mi spiegò la cosa, si trattava d'un testamento impugnato. Come si impugni un testamento, voi forse non lo sapete più di me, ed io prego il Signore che non vi metta mai nella condizione di doverlo chiedere ad un avvocato, perchè già chiederlo al vocabolario sarebbe inutile.

Quello che io interrogai per farmi un'idea chiara la prima volta che fui interessato nella cosa, m'insegnava ad impugnare la forchetta e la lancia e non so quante altre cose che io sapeva impugnare benissimo (almeno mi pareva), ma di testamenti non fiatava neppure. Si trattava di un testamento impugnato, — causa Corvi contro Corvi, perchè sebbene i due Corvi, attore e convenuto, fossero in sepoltura, le leggi continuavano a supporre che non potessero aver pace se non si litigava in nome loro.

Ora era Pasquali quello che impugnava; l'altro che non voleva lasciar fare era Nebuli, non già Valente, ma il suo autore (si dice così), cioè lo zio materno, da cui l'amico mio aveva ereditato i poderi e la lite. Ci siete? Ecco come era andata la cosa.

Lo zio Nebuli ed il signor Pasquali erano stati cari e buoni amici sempre, così buoni e così cari, che per far le cose proprio benino fino all'ultimo, senza sciupare la loro amicizia, avevano pensato di innamorarsi di due sorelle e di sposarsele. Il caso — il gran sensale di matrimoni — fece trovare le due sorelle Corvi disponibili, e le doppie nozze furono conchiuse; le spose portavano, unica dote, un monte di speranze sopra un avo mezzo milionario e mezzo morto, perchè era paralitico dal lato sinistro. Lo credereste? Diventati parenti, gli amici non furono più quelli; — colpa delle cognate — dicevano, le quali abusavano (pare) del diritto che la Natura e la Società danno ad ogni buona sorella di ficcare il naso in casa del cognato, per vederci un gran numero d'importantissime cosucce che erano così, mentre dovevano essere altrimenti.

Le cognate erano ottime massaie tutte e due, ma di due massaie ottime ce n'è sempre una che ha qualche cosa di sopraffino, a cui l'altra non arriva.

Costei coltivò tanto bene lo sperato campicello dotale, che gli fece fruttare il centocinquanta per cento — quesito matematico economico, che giuridicamente si può risolvere così: far testare il nonno in favor suo, senza pregiudizio della legittima. In queste parole in corsivo deve stare tutta la furberia, e se voi ce la sapete vedere alla prima così chiaro come non l'ho vista io, per quanto aguzzassi tutte le mie facoltà visive, andate là che vi potete vantare. Le due sorelle si vollero cavar gli occhi; gli amici, inseparabili un tempo, ora parenti per giunta, cominciarono dal dirsi non so che, nulla di buono di sicuro; poi quando si trovarono per istrada la prima volta, l'uno guardò le nuvole, l'altro il selciato, e finalmente riuscirono a passarsi rasente senza più aver l'aria di conoscersi.

Per giungere a questo risultato splendido le difficoltà non furono lievi, perchè l'uomo, come sapete, è una creatura piena di debolezze.

Fu allora che la signora Pasquali, consigliata da un avvocato, scoprì che il nonno doveva essere imbecillito, ed incominciò ad impugnare il testamento; e fu allora che la signora Nebuli cominciò a gridare, per bocca d'un altro avvocato, che era una vergogna calunniare un uomo pieno di giudizio come il nonno.

La signora Pasquali prima, la signora Nebuli poi, disperando del Codice di procedura civile, andarono a comporre il loro litigio al tribunale del Padre Eterno; ai tribunali ed agli avvocati di quaggiù rimasero i coniugi superstiti, uno dei quali convinto peggio che mai della necessità di impugnare, l'altro meglio che mai persuaso che a lui spettava difendere la libera volontà del defunto. Dissero, e scrissero, e disdissero tanto gli avvocati eloquenti, che i vecchi amici d'una volta ebbero tempo a diventare nemici, vecchi, reumatici e gottosi, e quando in buon'ora fu emanata la sentenza, che condannava l'amico Pasquali a tutte le spese della lite, ai danni ed agli interessi, l'amico Nebuli fu così felice da dimenticare la gotta, la quale approfittò di quel momento di sbadataggine per dargli uno spintone e farlo stramazzare al mondo di là. Fu allora che l'avvocato telegrafò all'erede unico in Torino, venisse a raccogliere l'eredità dei defunto, ed a rinnovargli il mandato, prevedendo che la parte avversaria avrebbe appellato in tempo utile. L'amico Valente disertò l'Accademia, corse a Milano, accettò l'eredità col benefizio d'inventario, rinnovò il mandato, e non so più che altro fece per far piacere all'avvocato, poi se ne andò a Parigi che non aveva mai visto ed era sempre stato il suo sogno; dove, appena giunto, seppe che «la parte avversaria era ricorsa in appello in tempo utile.»

Tutta la questione dunque si riduceva a questo: era o non era imbecillito dalla paralisi il nonno dello zio di Valente?

Valente diceva di no, ma il vecchio signor Pasquali non stava in questo mondo di reumi, se non per sostenere di con dieci documenti e quattro perizie; molti testimoni avevano deposto che era imbecille e che non era imbecille, ed erano morti dopo essersi alleggeriti di quell'enorme peso. Ma vi erano lettere del vecchio piene di buon senso e senza errori di ortografia e di grammatica: altre ve ne erano (oltre al testamento stesso) piene di errori di grammatica e di ortografia, e queste ultime posteriori. — Ora, diceva l'avvocato avversario, — la grammatica e l'ortografia non si perdono come una chiave od un fazzoletto (in cento fogli di caria bollata veniva ripetuto non so quante volte questo argomento, ed era sempre la chiave ed il fazzoletto che fornivano il paragone) — dunque il nonno era imbecillito.

Il tribunale non si era lasciato commovere dall'argomento; fu notato solo che un giudice si palpò le tasche per assicurarsi di non aver perduto la chiave di casa, e che il presidente si soffiò il naso; ma al momento di sentenziare lo fecero come ho detto.

Rimaneva il tribunale d'appello, di cui Valente si teneva sicuro, ma l'avvocato mostrava dei dubbî e così gravi, che anche l'amico mio aveva preso a dubitare — ed allora l'uomo della legge lo incoraggiò lasciandogli capire che la sua eloquenza gli avrebbe messo un'altra volta in pugno la vittoria.

A voi che ne sembra? Era o non era imbecillito il nonno dello zio di Valente?

A me pareva grave.

V. Assisto ad un miracolo.

Eravamo agli ultimi giorni di ottobre; le sere cominciavano a farsi rigide, e il tempo da una settimana durava nebbioso, umidiccio, melanconico.

Da un pezzo il cavalletto stava in faccia alla finestra; era tempo di mettermi io stesso in faccia al cavalletto. Mi ci ero messo una mattina; mi stava dinanzi una bella tela larga un metro, alta 70 centimetri, avevo indosso la mia veste da camera a scacchi bianchi e neri, in testa un'idea, un pezzo di carbone fra le dita, e già stavo per confidare a quella tela vergine la prima linea del mio segreto d'autore, quando entrò Valente.

Aveva il volto illuminato ed una solennità di modi sacerdotale. Senza aprir bocca, mi fece un cenno — impossibile resistere; così come mi trovavo, non lasciandomi sfuggire il carbone dalle dita, gli mossi incontro, ed egli, presomi a braccetto, mi trasse con sè.

— Che significa? — gli domandai.

— Significa che voglio esporre un quadro alla Mostra Permanente, un quadro, l'unica fatica di questi anni d'ozio, e mi abbisogna il tuo parere.

— Un quadro! — esclamai. — Finito?

— Finito.

— Io non l'ho visto.

— L'hai visto.

— La signora Valeria dinanzi al garofano fenomenale? — dissi scherzando.

— Appunto.

— L'hai finito dunque? e come? e quando? e perchè non me n'hai detto niente?

Non mi rispondeva; già eravamo sulla soglia dello studiolo; ammutolii.

Entrammo, egli prima, io dietro.

Vidi subito il cavalletto dinanzi alla finestra, un'enorme tela sovr'esso, e in piedi, col visino immerso in una melanconica contemplazione, la signora Chiarina.

Il rumore dei nostri passi non giunse fino a lei; poi ci vide, ci salutò, non si mosse. Andai a mettermele al fianco, e stetti anch'io a contemplare estatico quella meravigliosa faccia dipinta, che pareva di persona viva. Valente guardava noi sorridendo di compiacenza; alla fine andò a prendere una certa vaschetta di zinco dalle sponde basse, che pose sotto il cavalletto, un secchiolino ed una grossa spugna.

— Attenti! — disse ingrossando burlescamente la voce.

Ah!.... un piccolo grido rotto; la signora Chiarina mi passò dinanzi e sparve.

Valente buttava qua e là colpi di spugna bagnata sulla tela; l'avresti detto un maniaco; dove egli toccava, ecco.... luci, ombre, colori, tutto spariva dietro una spuma bianchiccia, sotto alla quale un piccolo rivo gocciolava nella vaschetta.

Quella lavatura frenetica, che a bella prima mi aveva sbigottito, ora mi estasiava; anch'io brontolavo parole rotte, esclamavo non so che, ed avrei voluto avere una spugna per fare anch'io tutto quello che faceva Valente, aiutare cioè una Venere gentile a spogliare quelle vesti, che erano una mascherata ridicola, a sprigionarsi dallo sfondo di sasso, dal pavimento a mosaico, per circondarsi dell'azzurro del cielo e del mare. Bastarono pochi minuti a compiere il miracolo, e quando gli ultimi sassolini del mosaico si furono staccati da una caviglia sottile ed asciutta, ed il piedino bianco apparve in mezzo all'onda spumosa, e indietro indietro si videro accorrere cento onde morbide e delicate, come manine carezzevoli o labbra mormoranti fra i baci, e tutt'intorno, per l'aria e per l'acqua, si accese una luce che era un sorriso d'amore — oh! allora, allora le sentii tutte in una volta le febbri dell'arte, le sentii come a vent'anni, come non credevo di poterle sentire mai più.

Non dicevamo nulla; lui la commozione, me la meraviglia avevano fatto immobili e muti.

È quando, passato un tempo lungo ad ammirare di facciata, di traverso, avvicinandomi ed allontanandomi, mettendo la mano a paralume sulla fronte, socchiudendo gli occhi, e guardando attraverso il pugno socchiuso come in un cannocchiale, e trovando sempre quella Venere la bellissima, la soavissima, la carissima, il superlativo assoluto delle Veneri, quando ebbi fatto tutto ciò e mi volsi grave, solenne, al suo autore, interrogando con tutta la mia persona sbalordita, ma muto sempre, allora egli sorridendo mi disse: Dalla spuma del mare.

Gli tremava la voce, io me lo strinsi al cuore, e finalmente:

— Hai fatto un capolavoro — balbettai.

Ed a me pure tremava la voce.

— Ora comprendo — soggiunsi piantandomi un'altra volta in osservazione dinanzi a quella marina innamorata, che creava un prodigio per regalarlo all'Olimpo di Giove — ora comprendo lo sbigottimento inverisimile della signora Valeria dinanzi ai garofano. Era l'ingenuo stupore di Venere, che si affaccia la prima volta al mondo; e questa luce che, sul volto di neve, le spira la sua natura divina pareva scenderle dalla finestra. Ma di', perchè la tua Venere ha forme tanto delicate e gentili? Non è questa la madre degli amori, non assomiglia a nessuna delle Veneri del Tiziano questa.... solo la Danae del Correggio....

— È Venere che nasce, fanciulla, donna e dea insieme: l'Olimpo le darà la maestà che ora le manca, questo volli dire, il difficile era questo.... Se ho sbagliato....

— Taci, non hai sbagliato, è sublime, è vero e parla subito all'immaginazione senza toccare il senso. Lascialo dire a me, che sono e sarò sempre un asino, ma schietto: hai fatto un capolavoro! —

Era evidentemente lusingato dal mio entusiasmo, pure non si teneva sicuro; guardava me negli occhi, guardava la sua tela, vedendoci difetti che non vi erano, girandole intorno come un fanciullo.

Passato il bollore artistico, io pensava: quanta castità in queste forme femminili nude! La bianchezza delle carni sbalordisce il senso, lo ingentilisce, lo purifica. Oh! come la bellezza vera è modesta!

E poi chiedevo e rispondevo a me stesso: Perchè la signora Chiarina è fuggita? Ah! ch'io lo indovino perchè....

Adattando il viso e l'accento ad un'ingenuità che era un tranello, chiesi di botto all'amico mio:

— Perchè la chiamavi Valeria?

— Perchè.... perchè così si chiamava la modella.

— Ah! ed esistono nella natura viva, modelli di tanta grazia?

— Una sola donna aveva quel viso....

— E si chiamava Valeria....

— Sì...

— E perchè tua moglie è fuggita, quando hai preso la spugna?...

— Perchè.... perchè.... te lo voglio dire, tanto un giorno o l'altro sarai il mio confidente di tutto — perchè Valeria era sua madre....

— L'hai tu conosciuta?

— No; morì mettendo al mondo la sua creatura.

— Ma allora....

Volli dire.... — mi trattenni, poi ripigliai correggendomi: — ma allora non hai preso dal vero?

— No..., ho copiato fedelmente il suo viso da una fotografia....

— E il corpo?

Lesse egli forse tutto il mio pensiero, perchè, buttandomi un braccio intorno al collo, mi trasse seco con lieve violenza. Attraversando le stanze, mi guardavo intorno; la signora Chiarina non si lasciò vedere.

— Ah! — dissi sulla soglia — tutta la notte ho pensato alla tua faccenda.

— Quale faccenda?

Corvi contro Corvi. — e per la prima volta vidi il bisticcio che aveva fatto il caso, e lo ripetei — Corvi contro Corvi.

— Sì, la cosa mi pareva imbrogliata; ci avevo capito poco, lo confesso, in quella matassa di sorelle, di cognati, di zii; sapevo solo che il bandolo era il nonno e che bisognava cominciare di lì, — ci ho pensato molto, ed ora ne ho un'idea limpidissima.... Vuoi che ti spieghi la tua lite?

— No, per carità....

— Ebbene, per me non v'è dubbio: il nonno era pieno di giudizio; se i giudici d'appello, mettendo insieme il loro, ne avranno almeno la metà del nonno, sta sicuro che daranno una volta ancora ragione a Corvi contro Corvi.... cioè a te.

— Speriamolo, — disse Valente sbadato.

— E quando si deciderà la causa?

— Tra due settimane.

VI. La signora Chiarina mi dà l'idea del mio capolavoro.

Otto giorni dopo la Venere dell'amico mio innamorava tutti i visitatori della Mostra Permanente di Belle Arti; si destò intorno al nome di Valente Nebuli quell'onda di simpatia, specie di febbre ammirativa, che accompagna sempre i nuovi venuti.

Non si parlò più che della spuma del mare; perfino le gazzette si svegliarono dai loro sonni politico-amministrativi, per dare un'occhiata alla Mostra Permanente, ove era apparso un ospite illustre, un ospite celebre, un capolavoro. La critica, o generosa o crudele, andava fino a maltrattare quante Veneri erano venute, prima di questa, a domandarle la sanzione d'una voga capricciosa. Vidi io stesso, coi miei occhi li vidi, maestri canuti, e buoni, e generosi, come tutti gli artisti veri, pittori celebri da mezzo secolo, che sarebbero stati felici di stringere la mano al loro giovine collega — li vidi, con questi miei occhi li vidi, arrestarsi mutoli dinanzi al quadro e guardarsi sospettosi intorno, come temendo d'essere mostrati a dito per buoni da nulla; e li vidi qualche volta passare accanto a Valente, e non guardarlo, o guardarlo e fingere di non conoscerlo, e non volersi voltare anche se un amico ingenuo, che camminava al loro fianco senza sentire come batteva il loro cuore, li avvisava allungando il dito per mostrare il giovine pittore divenuto celebre in un quarto d'ora, il quale era così felice e tanto modesto da non accorgersi di nulla.

Ed avrei voluto andare incontro a quei vecchi e dire: — stringiamoci tutti la mano e facciamo noi la critica alla critica; sorridiamo degli entusiasmi ciechi della folla, che si tirano dietro le loro sorelle cieche — le dimenticanze ingiuste; il capriccio e lo stordimento non ci rendano capricciosi e storditi; l'arte è un palio, noi che siamo.... cioè no, voi che siete gli arrivati non offenda il plauso frenetico che saluta noi.... cioè gli altri che arriveranno — è un quarto d'ora che passa per tutti — noi siamo l'arte, noi dobbiamo essere l'amore.

Avrei voluto dir tutte queste cose, e le avrei dette meglio di così, mi pare, ma con quale autorità entrare io di mezzo, anche potendo, a conciliare i celebri d'ieri coi celebri d'oggi, io che non era celebre niente affatto e non speravo di diventarlo mai? In qual modo dir noi senza cacciarci me come un intruso? Perchè.... sappiatelo, sotto la mia gran gioia di vedere Valente arrivato alla gloria, ci era il mio gran dolore, il mio sconforto immenso di non essere capace io pure di fare alcuna cosa di buono.

Nei primi giorni mi era come venuta la febbre di far miracoli, misuravo il mio studiolo a gran passi, sollevavo la fronte e nel soffitto guardavo audacemente i cieli dell'arte, e stemperavo i colori, dai quali mi proponevo di ricavare un superbo quadro di genere, e lavoravo, lavoravo; ma di repente svaporava la mia ubbriacatura, mi cadevano di mano i pennelli — ridiventavo me stesso, vale a dire un dodicesimo di una qualsiasi dozzina, il rifiuto delle matematiche e della filosofia, a cui l'arte aveva fatto l'elemosina.

In quest'occasione mi si fece palese più che mai l'indole generosa di Valente; avendo egli avuta una grossa fetta di gloria, e spiacendogli tenerla tutta per sè, nè sapendo in qual modo farmi entrare a dividerla, cominciò a trovare così grazioso il concetto, così giusto il disegno, così sobria l'espressione del mio nuovo quadro di genere, che finì col farci fare la pace.

— Ti sta bene medicare le mie ferite, — gli dicevo, — perchè sei stato tu, cioè stata la tua Venere, a sollevarmi prima fino alla sua altezza, a lasciarmi poi cadere di peso sul lastrico della via; tutte le opere di genio sono crudeli colla gente, che ha solo della buona volontà.

— Ma, tu sei un artista!

— Ah! Oh! Non me lo dire; io sono un uomo ordinato....

Calunniavo l'ordine, ma dicevo la verità; qualche volta, pigliandomi la febbre, mi pareva di dover incominciare di lì appunto, dal mettere cioè a soqquadro il mio studiolo, le tele capovolte, i pennelli coi manico immerso nel secchiello.... ma oltre che non sapevo immaginare che un disordine ordinato, pensavo: — È inutile, non resisterei a lungo, domani rimetterei le cose come stanno oggi, e la mia arte non farebbe un passo innanzi.

Il mio buon senso non mi abbandonava mai. Oh! se bastasse il buon senso per far tele meravigliose, come quelle che sogno alla notte, quando il mio buon senso dorme!

Valente fece di più, mi obbligò ad esporre alla Mostra Permanente le mie tele rimaste invendute.

— Quanto chiedi di prezzo?

— Cinquecento lire ciascuna, — balbettai.

— Vergognati, ecco perchè non le hai vendute.... se ne avessi domandato 1000, avrebbero lasciato lo studio da un pezzetto.

— E della tua Spuma del mare allora quanto chiederai?

— Quella non è da vendere.

Accettai il consiglio dell'amico, ed otto giorni dopo, avvicinandomi alle mie tele, una ne vidi che portava la scritta venduta.

— Sarà uno sbaglio, — pensai. Non è eccesso di modestia, ma vi giuro che pensai così, ed allo stesso tempo ero sicuro che non poteva essere uno sbaglio...

Corsi all'ufficio della Presidenza — il compratore era una straniera, la quale aveva snocciolate le mille lire, promettendo di mandar a prendere, il quadro lei stessa.

Gioie simile a quella di Annetta ed alla mia non si descrivono. Tenendoci per mano come due fanciulli, si corse giù a portare un po' della nostra allegria in casa Nebuli. La signora Chiarina baciò in volto l'amica, e rise, e rise. Così faceva sempre quando era contenta! Ed ah! come mi faceva bene sentire nelle note di quel riso l'eco della mia felicità, veder la nostra allegria riflessa in quel visino da fata! Valente invece stette serio. — Te lo diceva io! — così disse, niente più.

Come potete immaginare, la mia nuova tela andò più innanzi in due giorni che non avesse fatto in due settimane; m'interrompevo a volte, per andar gravemente a sollevare coll'indice la faccia soave della mia Annetta, china sul cucito, e dirle un'altra idea, che m'era venuta allora allora, un'altra, un'altra. Mi pullulavano le idee.

— Purchè non mi scappi! — dicevo.

E lei:

— La terrò a mente io. —

Quella sua testina pensosa divenne in pochi giorni uno scrigno.

— Se non mi buscherò un malanno, — pensavo, — se dura la vena, e se avrò fortuna, insomma se mi lasciano fare, provvederò di quadri di genere tutte le straniere che vengono in Milano e visitano la Mostra Permanente.

Valente era felicissimo di questo mio entusiasmo, mi diceva bravo stando seduto a fumare la mia pipa nella mia poltroncina filosofica, dandomi i suoi consigli senza averne l'aria.

— E tu, — gli domandai, — che fai ora?

— Io? Nulla.

— Non pensi a dare un successore al tuo quadro?

— Gliene ho dati cento nella mia fantasia, uno più bello dell'altro. Ma non provo nessun bisogno di mettermi al lavoro. Li vedo, sono cento, belli tutti, o almeno mi piacciono — e basta. Però un giorno o l'altro ne incomincierò uno.... domani forse!

— Eccolo lì l'uomo del domani. —

Invece di rispondere, continuava a far capolavori col fumo della mia pipa, ed i domani venivano e se ne andavano.

Dirò ora l'origine di quello che vien riputato il capolavoro mio — perchè ho io pure un capolavoro relativo, e tutti lo possono avere, pittori, scultori e letterati, birboni, purchè abbiano fatte delle birbonate grosse, mezzane e piccine; la più piccina — non si sbaglia — è il capolavoro.

Parlo d'una mattina di novembre, in cui Valente aveva costretto la mia Annetta e me a scendere da basso per far colazione con lui. Aveva qualche cosa da dirmi, ne ero sicuro, e me ne persuasi tanto più, quando vidi che a tavola non diceva nulla.

Alla fine del pasto dissi:

— Ho indovinato; tu hai qualcosa da dirmi.

— Hai indovinato, — rispose.

E non disse nulla.

— E indovino di che si tratta.... —

In quel punto — proprio in quello, ne sono sicuro — la signora Chiarina si levò da tavola, fece un cenno all'amica e sparvero entrambe.

— Tu hai un quadro nuovo in mente. —

La corbelleria era volontaria; sapevo benissimo che non di un quadro mi doveva parlare; ma bisognava pur sbagliare per farmi correggere.

Mi rispose sbadato, come ripetendo frasi che sapeva a memoria:

— Incominciare una tela è incominciare a sciuparla; finire una tela è sciuparsela del tutto. Quanti capolavori sono morti così, dopo aver agonizzato mesi e mesi sotto il pennello!... —

Lo interruppi:

— Tu non pensi a quello che dici.... —

Ed egli:

— Hai ragione, ma dico cose che ho pensato tante volte. Veniamo a noi; ho bisogno di tutta la tua amicizia, per chiederti il più gran servigio che si possa domandare ad un uomo: serbare un segreto.

— Scusa, — ribattei, colpito dalla solennità di queste parole, — hai proprio bisogno che te lo conservi io il tuo segreto? Non potresti custodirlo tu stesso? Sono curioso, lo confesso.... sono curiosissimo; ma la regola è questa; ci è anche un proverbio che dice....

— Lo so che cosa dice il proverbio; ma ciò che ti devo dire io mi pesa; non lo posso sopportare da me solo; la responsabilità è troppo grave; la spartiremo in due.... Ti accomoda? Mi darai un consiglio....

— Certo.... —

Ma in quella si aprì l'uscio ed apparve a' miei occhi sbigottiti il più bizzarro spettacolo che si possa immaginare: una signora bianca bianca, che teneva per mano un'ombra, no, una cosuccia nera, no, un'inezia animata e nera, con due occhi di porcellana in mezzo ad una faccia di carbone. Tutta la mia rettorica fu messa a cimento: io vidi ad un tratto l'Alba ed il figliuolo della Notte; Proserpina costretta a far da mamma ad un marmocchio di primo letto di Plutone; la luce meridiana fatta persona, che si tirava dietro la sua ombra tozza e sbilenca, e non so quante altre cose vidi nella signora Chiarina, che dava mano a quello spazzacamino.

La vaghissima donna doveva fare uno sforzo perchè il piccino si faceva un po' tirare.

— Guardatelo, — diceva essa — guardatelo come è bellino; con questa sua casacca a brandelli, che lo ingrossa, è più largo che lungo..... Guardatelo, non è vero che è bellino?

Annetta anch'essa guardava con occhio tra pietoso e meravigliato, sorridente.

— Sì, è bello, è bellissimo. —

Io non dissi nulla, perchè concepivo il mio capolavoro.

Allora la padrona di casa abbandonò la sua piccola preda, che barcollò tutta; e chinandosi per mettere il suo viso da Madonna in faccia al musetto vergognoso del bimbo:

— Vediamo — gli disse con un accento che era una carezza, — vediamo un po', come ti chiami? —

L'omino così interrogato era propriamente sbigottito; aveva perduto la parola e non la ritrovò che alla promessa d'un bel panetto bianco tutto per lui — cosa fenomenale, inaudita!

— Dillo; come ti chiami?

— Giovanni....

— E che Giovanni?

— Battista....

— Giovanni Battista che cosa? —

Silenzio.

— La mamma ce l'hai?

— No.

— Il babbo?

— No.

— E quanti anni hai? —

Quella cosuccia nera si rinfrancava; non gli splendori della sala lo avevano sbigottito, poichè era avvezzo a vederne, ma quei modi, quella bontà, quel panetto bianco, che appariva sul suo orizzonte.

— Vai alla scuola? — domandò Annetta.

— Sì.

— E che cosa impari?

— A leggere, a fare le aste.

— Conosceresti l' o? — Chiese ad un tratto la signora Chiarina.

L'amico fe' cenno modestamente di sì.

— Vediamo.... —

E prese una gazzetta, un Pungolo. Lo scolaro nero non si era vantato: egli non solo riconobbe tutti e due gli o del titolo, ma fece festa all' u come ad un vecchio amico.

— Bisogna conoscerle tutte, — disse la signora Chiarina — ci vai volentieri a scuola? E studii? Ecco, se a Natale conoscerai tutte le lettere, io ti darò uno scudo d'argento, ed una veste nuova.... — e vedendo che l'amico dell' o e dell' u pareva innamorato più che altro del panetto bianco, la signora soggiunse: — e dei panetti bianchi....

— Tanti? —

— Tanti, tanti.

Oh! la purissima gioia!

— Ora va a casa, non hai freddo?

— No.... —

Ed uscì di corsa. La signora Chiarina e la mia Annetta dietro.

— Ho il mio capolavoro, — dissi ridendo, — Venere ha trovato Amore nascosto nella carbonaia dell'Olimpo, e lo presenta agli Dei seduti a mensa; un bel quadro di genere, che farebbe la sua brava figura nelle pareti d'un paradiso pagano.

— Bravo! —

Io diceva per ridere; la mia idea seria era di riprodurre tal quale la scenetta di poc'anzi e d'intitolarla....

Venere ed Amore! — suggerì Valente.

— Accettato.

— E se dai retta a me, quando te l'abbi messo bene in mente, ce lo lascierai in sempiterno, senza guastartelo per metterlo in mostra al pubblico. —

Ma si corresse, e disse:

— Al contrario devi farlo subito subito, per conto mio, mettendoci la mia Chiarina, la tua Annetta e me stesso; per il prezzo c'intenderemo. —

Rientrarono le nostre donne, raggianti in volto tutte e due.

La signora Chiarina corse alla finestra e l'aprì; si affacciarono entrambe. E noi, che ci eravamo messi alle loro spalle in silenzio, senza sapere che accadeva, sentimmo ad un tratto una vocetta acuta fendere l'aria, e salire, su, su, più in alto del più alto dei camini.

— È Giovanni Battista! — disse Chiarina senza voltarsi — Se ne va colle mani in tasca, saltelloni... È scomparso. Come è bastato poco a farlo felice! — disse voltandosi e chiudendo la finestra.

— Tornerà a Natale a pigliare lo scudo?

— Tornerà. —

Quanto era adorabile e bella la signora Chiarina!

Annetta faceva forse la stessa riflessione, perchè di repente si buttò al collo dell'amica, e la baciò più volte. Avrei fatto anch'io come Annetta, senza i benedettissimi riguardi del mondo. E dissi a Valente:

— La devi baciare per me.

Così dissi, e non mi pare che ci fosse del male a dirlo, ma Valente faceva un risolino impacciato, e sua moglie divenne di bragia.

Tanto fu essa la prima a muoversi: si fece innanzi, appoggiò le manine sugli omeri del marito, e sollevandosi in punta di piedi, depose sulla sua guancia un bacio timido e discreto, uno di quelli che non fanno rumore.

VII. Faccio la conoscenza d'un incognito.

Questa volta era un Russo, lungo più di me, asciutto più di me, il mio peggiorativo, ma che cara persona! Gli piaceva molto la mia Famiglia d'un pescatore, moltissimo la rete che quella brava gente stava rattoppando, ma non voleva pagare mille lire; settecento parevano a lui abbastanza, a me no. Esaminava il quadro coll'occhialetto, pigliando arie da intelligente — era bello tutto, mi faceva giustizia, ma la rete!...

Insomma tanto gli piaceva quella rete, che vi si lasciò prendere — pagò ottocento lire!

Alla sera Annetta fece l'osservazione che le cose si mettevano benino, che erano probabilmente quelli i primi baci della fortuna, la quale si era forse proposto di buttarcisi nelle braccia un giorno o l'altro.

Altri quadri, dopo la Spuma dell'amico Nebuli, erano venuti a visitar la Mostra Permanente; paesaggi, marine, prospettive, natura viva e morta, tutto aveva confuso, oscurato, seppellito la Spuma trionfatrice.

Siccome Valente non aveva detto il prezzo del suo capolavoro, incominciarono le visite a domicilio; erano Inglesi, erano Tedeschi, ma per lo più erano Americani, che volevano fare attraversare l'Atlantico al piccolo mare ed alla Venere dell'amico mio. Se ne andavano colmi di garbatezze, ma coi loro dollari tentatori nel borsello — la Spuma del mare non era da vendere.

Voi sapete che una delle forme più visibili del trionfo è la critica severissima dei buoni a nulla, e non mancò nemmeno questa all'amico Valente. Ho inteso proprio io, e non sono morto dal ridere, un certo tale dire che in fin dei conti la Spuma del mare non era questo, non era quello, non era quest'altro, non era il diavolo, in una parola. — Verità sacrosanta: non era il diavolo, nè un quadro storico, nè un quadro di genere, e nemmeno un campanile od una piramide d'Egitto....

Quel certo tale mi guardò; non sospettava forse d'aver tanta ragione, e cominciò probabilmente a credere che potesse avere torto.

Altri cervelli avveduti pigliavano la cosa in diverso modo; invece di criticare nel quadro fortunato quello che non vi era, si persuasero che il suo fascino dipendeva tutto dalla cosa dipinta; che per fare un capolavoro bisognava assolutamente chiederlo all'acqua ed alle donne mitologiche. E fu nei mesi successivi una processione di sirene che non ammaliarono anima viva, di ninfe o Diane nel bagno, le quali cercavano cento modi di nascondere bellezze che neppure i collegiali si sognavano di guardare con desiderio.

Ma non voglio fare i passi più lunghi del racconto: torno dove l'ho lasciato.

Il piccolo Giovanni Battista, dandomi l'idea del mio capolavoro, me l'aveva fatta pagare a prezzo di curiosità, perchè, come sapete, proprio nel momento che egli entrò a rimorchio della signora Chiarina, l'amico Nebuli stava per dirmi.... — Che cosa? — Lo chiesi invano a me stesso tutto il giorno seguente; a lui non volli chiederlo, pensando che fosse meglio aspettare.

Era forse pentito; quasi mi leggesse sulle labbra la frase sacramentale: — che cosa stavi per dirmi? — sfuggì un paio di occasioni di trovarsi meco a quattr'occhi.

Alla sera, secondo il solito, si doveva andare alla birreria insieme — aspettavo la sera — ma quando fu l'ora, ed io scesi a prender lui solo, la signora Chiarina aveva sul capo un monte di fiori e di verdura, il suo orribile cappellino d'ultima moda che essa rendeva quasi sopportabile.

Bisognò correr su e mettere io stesso sulla testa vezzosa della mia Annetta il suo cappello alla bersagliera con una piuma di galletto, un cappello che se ne stava andando e che le mogli come la mia, di certi mariti come me, trattenevano con tutte le moine dell'adulazione, trovandolo infinitamente più grazioso del nuovo venuto.

Si uscì dunque insieme; le due mogli innanzi a braccetto, i due mariti seguivano.

L'amico Valente, parlando di cento cose, quasi non mi lasciava aprir bocca; a un tratto si arrestò, si volse, mi voltai; un uomo che ci seguiva alle spalle ci passò dinanzi frettoloso, e quando fu vicino alle nostre donne, piegò il capo per guardarle. Affrettammo il passo, tirò diritto.

— L'hai visto? — mi chiese Valente.

— Non bene; mi è parso un vecchio.

— È un vecchio. —

Non mi disse altro.

Era un peccato rintanarsi nella birreria, affumicare il visino bianco della signora Chiarina — così disse Annetta, a cui per altro piaceva la birra e non ispiaceva il fumo del tabacco; ma la signora Chiarina protestò, cacciandosi la prima nella birreria fumosa, dove molti avventori si cavarono il sigaro di bocca per contemplare senza nebbie dinanzi agli occhi quella visione gentile.

Ci andammo a sedere in un camerino remoto, contando di trovarci soli — no signori.

Un uomo, un vecchio, ci aveva preceduti e si sedeva proprio allora nel posto migliore.

Come ci vide, lo assalì uno scrupolo, e lasciando alla signora Chiarina la sua poltrona, fece un inchino ad Annetta, poi guardò noi, rizzandosi in tutta la sua lunghezza, che era la mia tale e quale. Lo salutammo, egli si ritrasse in un cantuccio e noi si ordinò la birra con un cert'impaccio. Avevamo riconosciuto l'uomo di poc'anzi.

Era un vecchio pulito, con una faccia piuttosto grave, sebbene priva di barba, con due occhi che avevano lampi di malizia; doveva essere curioso, perchè o guardava noi, o dall'immobilità dello sguardo fisso nel suo bicchiere, dove non era proprio nulla di molto singolare, era chiaro che porgeva orecchio alla musica chiacchierina che usciva dalle labbra delle nostre donne. Io che di curiosità ho la mia porzione — non la nascondo — lo vidi un paio di volte fregarsi le mani e sorridere come ad una bella creatura del suo cervello, poi, guardando noi, rifarsi serio: una volta si alzò in piedi: mi aspettavo che se ne andasse; niente affatto: aprì le labbra probabilmente per parlare, ma probabilmente corresse l'intenzione, si palpò le tasche, fece l'atto di meraviglia di chi ha smarrito qualche cosa, ed infine estrasse una pezzuola di seta, che ricacciò in un'altra tasca senza servirsene! Di nuovo si abbandonò sulla seggiola, ancora si fregò le mani e sorrise alla sua bella incognita.

Rimanemmo poco più d'un quarticino d'ora nella birreria: nell'andarcene ci toccò rispondere al più profondo degli inchini accompagnato dal più amabile dei sorrisi.

— Che vecchietto garbato! — disse Annetta.

— Che bel vecchietto! — diss'io.

— A chi somiglia? — mi domandò Valente.

Mi feci venire in mente tutte le nostre conoscenze; non somigliava a nessuna.

— Dev'essere il ritratto di suo padre o di suo nonno, ma un uomo di quell'età ha il diritto di assomigliare a sè stesso.

— Quanti anni credi che abbia quell'uomo?

— Se non ha afferrato i sessantacinque, ci ha le mani sopra di sicuro.

— Sbagli, deve appena aver passati i sessanta.

— Sarà benissimo, li avrà passati appena.

Il giorno dopo, mentre io attraversando i corridoi della Mostra Permanente, m'ero fermato a salutare la Spuma del mare, sentii qualcuno che diceva al mio fianco: — Oh bella! oh bellissima! oh stupenda!

Pensate come mi battesse il cuore; mi voltai, era l'incognito della vigilia. Aveva gli occhi fissi sopra di me; lo salutai, ed egli, come se non aspettasse altro:

— È proprio stupenda, — disse — non pare anche a lei?

— È meravigliosa, — dissi — osservi quelle carni che paiono luminose; e quell'aria.... si muove! e veda laggiù, nell'azzurro profondo, quelle nuvolette: non si direbbe che si affaccino a contemplare il miracolo?

— È un artista lei?

— Sì, signore.

— Ha qualche tela esposta?

— Ne ho quattro; due sono già vendute.

Le volle vedere, gli piacquero naturalmente moltissimo.

— Valente Nebuli, — soggiunse poco dopo, — è quel signore che era ieri con lei?

— Appunto....

— Il marito della signora Chiarina?

— Già....

— E sta bene?

— Benissimo, è sano come un pesce.

Non lo avevo capito.

— È ricco, — soggiunsi.

— Come lo sa? È proprio sicuro che sia ricco?

— Possiede un palazzo in via....

— Il palazzo non è suo.

— Le garantisco che è suo.

— Le garantisco che non è suo.

— Se sono io un inquilino, e gli ho pagato il fitto....

Il fitto non lo avevo pagato ancora, ma mi pareva quello il modo di tappargli la bocca più presto: eh sì! fiato sprecato. Il vecchio soggiunse:

— Egli dovette affittare due appartamenti che solitamente erano uniti: ne abita uno, e subaffitta l'altro, di cui non ha bisogno...

— Non mi ha mai detto nulla di questo....

— Perchè non glielo avrà mai chiesto.

Era vero.

— Ad ogni modo è ricco, — soggiunsi, — ha avuto un'eredità....

— Sì, ma ha una lite....

Come era informato l'amico!

Lo guardai in faccia senza fiatare; egli guardava (ora ne sono sicuro) la sua bella incognita della vigilia, le sorrideva e si fregava le mani.

— È una Spuma preziosa, — disse poi tornando a porsi in atto ammirativo dinanzi alla tela, — quanto crede lei che possa valere?

— Non è da vendere, — risposi.

— Lo so bene — sospirò, — lo so bene! Ha rifiutato molte offerte....

— Generosissime....

— Da pitocchi. Se il signor Nebuli volesse, c'è qualcuno che gli darebbe il doppio dell'Americano.

— Non vorrà.

Sorrise maliziosamente e disse:

— Se perde la lite, vorrà.

Era la seconda volta che mi faceva inarcar le ciglia e star mutolo; e di nuovo lo vidi sorridere a qualcuno che era nello spazio e fregarsi le mani con compiacenza genuina.

— Come fa a sapere della lite?

— È tanto facile sapere quello che riguarda Valente Nebuli, chi non lo sa? Il rifiuto dei dollari americani ha messo in moto i curiosi, gli sfaccendati, tutti coloro che non hanno orecchie se non per ascoltare i fatti degli altri e lingua per ripetere ciò che le orecchie hanno inteso.... i tribunali non sono segreti ai tempi nostri, gli avvocati non sono muti, come ella sa benissimo, gli uscieri nemmeno, e si mette in piazza tutto, anche quello che non ci si dovrebbe mettere.... cioè che Valente Nebuli perderà la lite e rimarrà povero in canna.

Io cominciavo a credere che fosse egli pure uno di coloro che non hanno orecchie eccetera, ma tanto la sua sicurezza mi spaventava!

— Dice sul serio?

— Non vi è ombra di dubbio, il vecchio Corvi era imbecillito dalla paralisi.

Lo guardai a bocca aperta.

— Perciò — soggiunse — gli dia un buon consiglio: «non aspetti a vendere la sua Spuma del mare quando sarà povero, è ora il momento;» glielo dia lei questo buon consiglio.

— Glielo dia lei — risposi con un risolino furbo, volendomi dar l'aria molto penetrativa....

— Sicuro che glielo darò, — ma da me non lo vorrà pigliare.

Tacque per rimettersi come prima in contemplazione dinanzi al quadro; io pensavo.... quante cose pensavo!

— Vuole che le faccia una confidenza? — mi disse ad un tratto l'incognito.

— Si accomodi — risposi.

Ed egli si accomodò benino, dicendomi d'una scommessa, d'un puntiglio, di un innamoramento, di sè medesimo e d'un cotale più incognito di lui, in modo che, quando ebbe finito, altro non capii se non quello che sapevo benissimo, cioè che l'amico si era messo in capo di comprar la Spuma del mare a tutti i costi e voleva me per alleato.

— Benissimo — dissi — io annunzierò la sua visita a Valente Nebuli — e chi devo annunziare?

— Sono forestiero, quasi nessuno mi conosce in Milano, mi ci trovavo di passaggio ed avrei tirato diritto menando i miei reumi per l'Italia centrale, finchè dura la bella stagione; questa Spuma mi ha fermato, gli dica così.

— Gli dirò così, — risposi col mio risolino furbo, che invece di sgominarlo lo fece ridere, — così gli dirò.

Egli mi porse una mano tutta tendini ed ossa, che sfiorai appena; ci separammo.

— Indovina chi era il vecchio della birreria, — dissi a Valente.

— Chi era? mi chiese ansioso.

— Un innamorato della signora Valeria, — soggiunsi scherzando, — un aspirante....

Ma ammutolii vedendo sul volto dell'amico tutti gli indizî d'una commozione vera.

— Te l'ha detto lui?

— Me l'ha detto lui.

— Ha proprio detto della signora Valeria?

— Che ti viene in mente? Come vuoi che sappia?

E tacqui guardandolo, mentre egli mi pigliava per mano e mi tirava a sedere sopra un canapè, al suo fianco.

— Dunque, quel vecchio è?...

— Chi sia non lo so.

— Non gli hai chiesto il suo nome?

— Sì, ma non me l'ha detto; è il signor X d'una equazione a più incognite, che, se ti ricordi, è un'equazione, in cui ci è anche un Y che non si sa chi sia. Io, come puoi credere, non l'ho sciolta, ma così tentoni, dico fin d'ora che il vecchio della birreria non vuol comperare il quadro per una speculazione, dal momento che è disposto a darti il doppio degli Americani, e suppongo non lo comperi per sè — dunque X è uguale ad un mediatore.

Valente stette alcuni istanti a far dei e dei no quasi impercettibili col capo, poi si volse a me, e come se continuasse un discorso bene avviato, senza preamboli di sorta, mi disse:

— Devi sapere....

VIII. Quello che io dovevo sapere.

Lo chiamavano Giorgione, perchè il suo nome era Giorgio, la sua circonferenza enorme; era pittore e viveva coi pittori, ai quali dava spesso un buon consiglio per nulla e talvolta qualche centinaio di lire per meno ancora, cioè a dire in prestito. Invero se i consigli buoni gli fruttavano la soddisfazione di vedere una particella del suo robusto ingegno nelle tele degli allievi e degli amici, solitamente i prestiti escludevano per l'avvenire i consigli, perchè chi aveva intascato cento lire non si lasciava più vedere per prender altro.

Giorgione guadagnava molto, ma aveva le mani bucate, come si dice; perciò quando egli aveva da pigliare una manata di napoleoni d'oro, ci era sempre qualcuno, a cui mancava il pane od il companatico od i colori o la tela o la cornice, ma mai la faccia tosta, per tirar su tutti i napoleoni che cadevano.

Italiano Giorgione, italiani la maggior parte degli allievi; non andava a Parigi uno del bel paese che non facesse visita allo studio od alla borsa del pittore famoso. Era una specie di colonia italiana nel mare magno della capitale francese.

Una volta Giorgione conobbe una coppia d'italiani sposi di fresco; la sposa era la signora Valeria, lo sposo un mediocre pittore, un uomo eccellente, che visse appena il tanto da farsi amare come un fratello, poi se ne morì. La vedova rimase abbandonata, senz'altre ricchezze che poche tele cattive del marito ed il suo visino da angelo in un paese indemoniato. Era savia ed ingenua quanto bella, si proponeva in buona fede di piangere tutta la vita il morto, credendo la poverina di potersi guadagnare il pane posando per le Madonne addolorate; ma se Giorgione non le veniva in aiuto comperando le cattive tele del morto e facendole propriamente da tutore, chi sa che sarebbe stato di lei. A quanti pittori la vedevano, pigliava un desiderio ardente di copiarne le mani e la testa, ma Giorgione era come geloso della sua Madonna ed a malincuore la imprestava ad altri.

A quel tempo andò a Parigi un gran signore, un conte, un marchese, un duca, che so io, un pezzo grosso; faceva l'ultimo suo viaggio da scapolo, ma questo non lo diceva a nessuno; amava le arti, imbrattava anche lui delle tele e lo faceva sapere a tutti. Naturalmente capitò nello studio di Giorgione, vide la signora Valeria, e sentì (non sarebbe stato artista se non l'avesse sentita) la smania irresistibile di copiare anche lui la testa e le mani della modella famosa. Giorgione gli fece mettere un cavalletto in uno stanzino, e gli permise di venire un'ora ogni giorno a dipingere una Madonna, curioso di vedere come se la sarebbe cavata quel dilettante; e visto che se la cavava benino, dopo la prima posa gli lasciò soli, credendo forse che l'immagine santa dovesse tutelare abbastanza l'originale. Giorgione chiedeva un miracolo, e lo chiedeva ad una Madonna incominciata appena; e pure Giorgione non credeva ai miracoli, ed in fatto di Madonne le adorava quando erano capilavori e dava un certo valore mercantile a quelle che faceva di commissione, niente più. Ma l'uomo non è sempre ragionevole a tempo.

Quel signore stava a cavallo della quarantina, ma saldo come se avesse trent'anni; era bello, aveva modi da gentiluomo artista che piacciono tanto alle donne vissute in povera condizione. Io m'immagino che, per cogliere il segreto della bellezza rara della sua Madonna, la fissasse a lungo a lungo, con due occhi, da cui si avventava il fluido magnetico, e dopo averle detto: «più su» troppo, «un po' più a sinistra» così «no» e simili, si alzasse talvolta tenendo il pennello tra i denti, e pigliasse il visino con mani carezzevoli per collocarlo come doveva essere, e sempre e ad ogni modo saettandola col fluido, finchè un giorno la signora Valeria si sentì vinta. Egli disse probabilmente — «mi sorrida» — ed ella fece un sorriso che apparve riprodotto tal quale sulla tela; poi egli, senza dir parola, ma tremante per desiderio, si accostò a lei tremante per paura, e sulle guance impallidite dalla commozione raccolse probabilmente colle labbra qualche cosa che nella tela non poteva mettere. E continuando ad immaginare, io dico che la Madonna impassibile e sorridente non somigliava per nulla in quel punto alla creatura terrena trasfigurata dall'amore.

Non le somigliò più; la signora Valeria divenne prima allegra troppo, poi troppo mesta e pallida.

E un giorno qualcuno avvertì Giorgione che la sua protetta, la sua pupilla, la sua figliola (perchè era tutto questo per lui) se ne andava di nascosto in una casa dirimpetto, dove il conte od il marchese, od il duca, od il diavolo l'aspettava per farla posare (povera Madonnina profanata!) in atto di Venere nascente dalla spuma del mare. Giorgione vide il quadro disegnato appena, comprese il resto — sapendo benissimo che non nascono Veneri innocenti dalla spuma del mare.

Un mese dopo la signora Valeria piangeva l'abbandono, e più tardi se ne moriva mettendo al mondo una creaturina — storia vecchia.

Il conte, il marchese, il duca, il che so io, era fidanzato ad una duchessina molto ricca e molto casta; il suo viaggio a Parigi aveva avuto per iscopo di comperare i doni alla sposa — quando seppe che una figlia eragli nata prima del suo matrimonio, e che la madre era morta, rispose con una lettera piena di lagrime e di biglietti di banca — invocando da Giorgione facesse lui il babbo alla bambina, e serbasse il segreto di quel disastro.

A qual fine svelare alla povera orfana la sua origine? Perchè farla affacciare alla porta d'un segreto che sarebbe stato il gran dolore di tutta la sua vita? Crebbe la fanciulla nella persuasione d'essere figlia di Giorgione, e più tardi, apprendendo che costui non era suo padre, pianse come se le venisse tolto davvero. Giorgione aveva passata la cinquantina da un pezzo; la fanciulla era giunta ai diciotto e per essere propriamente padre e figlia in faccia alla legge bastò il consenso d'entrambi, una domanda e la sentenza d'un tribunale — tutto ciò fu fatto dinanzi a due testimonî, che furono i due allievi prediletti di Giorgione: Valente ed un certo Salvioni, prodigioso ingegno, ma testa pazza e cuore bacato. E così Chiarina non seppe mai che il suo padre vero fosse....

— Chi?

Quando io feci questa domanda all'amico Nebuli, egli mi rispose crollando il capo che non lo sapeva neppur lui: Giorgione aveva custodito bene il suo segreto.

— Ma non temette egli di nuocere alla piccina tacendo?

— Temette di nuocerle parlando; ma forse chi sa?... Quando più non era in tempo, quando si avvide che era la sua ora d'andarsene, che Chiarina sarebbe rimasta sola nel mondo, forse allora si pentì, — era tardi.... —

Non ci comprendevo più nulla.

Valente mi guardò un pezzo titubante, poi prese le mie mani nelle sue, come per farmi una preghiera, come per strapparmi una promessa.

— Più nessun segreto con te; ti dirò tutto.

E mi disse tutto senza una reticenza, senza un turbamento.

Quel tal Salvioni, pittore, che era da molto tempo nella intimità del vecchio Giorgione, si accese per la fanciulla. Lo ammaliava la bellezza sovrana delle forme di lei bambina, che aveva dato al pennello del vecchio artista un capolavoro; egli si divorava la giovinetta cogli occhi, costringendola ad arrossire. Ma il vecchio aveva fatto una campagna, come si dice, ora ci vedeva chiaro e faceva la guardia come un veterano, tanto che il discepolo, non potendosi confessare a Chiarina, si confessò al maestro. Giorgione disse una sola parola; — Sposala! — Ma il Salvioni era come tanti; amava la fanciulla, abborriva il matrimonio; trovò la penitenza enorme e chiese tempo a pensarci.

Allora Giorgione consigliò al discepolo di non venire più nello studio, finchè avesse deliberato; e l'altro messo alle strette deliberò, venne e sposò Chiarina.

— La sposò proprio? — interrogai.

— La sposò proprio.

— E tua moglie... cioè, la signora Chiarina, si lasciò sposare?

— Aveva diciotto anni, le dissero di dir di sì, glielo dissi anch'io, lo disse.

— Anche tu!... Comprendo..., il Salvioni morì....

— Non comprendi, — interruppe Valente, con un sorriso melanconico, — non puoi nulla comprendere! Il Salvioni in capo a sei mesi di matrimonio, dopo aver fatto patire alla poveretta perfino la fame, senza che ella si lamentasse mai, un bel giorno, cioè un brutto giorno, se ne partì chiedendo il perdono di Giorgione e di Chiarina, promettendo di tornare quando fosse ricco. Intanto aveva consumato la piccola dote della sposa. All'improvviso annunzio Giorgione accorse alla casa vedovata, apprese a Chiarina la nuova sventura, preparandovela colle sue moine da babbo, poi le coprì di baci le guance pallide, le asciugò le lagrime colle carezze e di nuovo se la condusse a casa a braccetto. Quando ebbe accomodato tutto ciò, fece la sua brava malattia di due settimane, andò fino al limitare del mondo di là e tornò indietro a ripigliare le fatiche ed i doveri di padre.

— Dov'era andato il Salvioni? — mi arrischiai a domandare dopo alcuni istanti di silenzio.

— Non si seppe mai. Ma una volta avevo inteso Giorgione dire che quel capo scarico non lavorava più, perchè si era messo in testa di ritrovare il padre di sua moglie, e più d'una volta udii lui stesso, il Salvioni, quando era brillo, inveire contro gli snaturati che abbandonano le loro creature. Sapeva della mia eredità ed era chiaro che la sorte mia gli faceva invidia, anche lui voleva arricchire senza fatica.

Un giorno fui chiamato in fretta allo studio di Giorgione; si sentiva male, aveva una gran sonnolenza, contro cui si ribellava con coraggio. Mi vide, mi afferrò le mani nelle sue fredde, e trovò la forza di raccomandarmi Chiarina; si assopì, per poco; svegliandosi: — «dev'essere a Milano!» — disse, poi si assopì di nuovo, per sempre.

— E tua moglie? — chiesi quando mi parve che il silenzio durasse più del necessario.

Non ebbi risposta. Provai ancora ad offrirgli un mozzicone di frase, perchè mi usasse la cortesia di continuarlo.

— La signora Chiarina rimase.... —

Ma Valente muto come un pesce. Ed io:

— Rimase vedova.... naturalmente, e poi? —

L'amico Nebuli si rizzò in piedi.... ma qui ci sta un'osservazione e ce la metto. Nella settimana d'un uomo lungo vi sono momenti, in cui egli avrebbe bisogno di rimpicciolirsi; immagino che il contrario debba accadere più spesso ai piccini, e che i mezzani non siano in condizioni migliori, non si potendo accorciare od allungare come i cannocchiali; perciò quando l'amico Nebuli si rizzò in piedi con una certa solennità, compresi subito che quello che mi voleva dire gli sarebbe costato meno fatica scendendo dall'alto, e rimasi a sedere.

Ma per quanto egli si provasse, ed io lo incoraggiassi cogli occhi, non gli venne fuori una sillaba.

Allora abbassando la voce chiesi: — non è tua moglie? — ed egli abbandonò le mie mani e ricadde al mio fianco — non era sua moglie!

Il resto si racconta in due parole. Valente raccolse la bella ed i pochi, pochissimi spiccioli del padre adottivo di lei, ne vendette le tele ed i mobili all'incanto e fu lui stesso il maggior offerente; ripose il tutto nel suo quartierino da scapolo a Parigi, parlò al console italiano, scrisse e fece scrivere ad altri dieci consoli chiedendo notizie del pittore Salvioni, a cui voleva restituire il denaro e la moglie: passò un anno.

A lungo andare Valente e Chiarina cominciarono ad accorgersi che la loro condizione si faceva insopportabile, che un gran pericolo era sempre imminente, e la maldicenza ai loro calcagni, e la curiosità dei vicini invariabilmente alla finestra, scettica, maliziosa, beffarda, tanto che alla fine sentirono entrambi il bisogno di spacciare alla malizia della gente una bella menzogna e darsi al mondo per marito e moglie....

Così andarono le cose, secondo mi disse Valente, ma qui mettendo un po' d'immaginazione e di buona volontà dove l'amico metteva qualche reticenza, io supponevo, cioè non supponevo, ma avevo paura di supporre.... e mi pareva di vederla alla finestra la mia malizia di vicino di casa, scettica, curiosa e beffarda. Io che sono bonario non desideravo di meglio che di poter paragonare la signora Chiarina e Valente a quelle due isolette castissime scoperte da un poeta moderno; mi ci provavo, e quando a forza di buona volontà ero riescito a tirare a galla le due isolette nel piccolo mare della mia immaginazione, ecco un altro mare più piccolo, quello dipinto dall'amico Nebuli,...

— A te ora, — mi disse costui all'improvviso; — chi è il vecchio della birreria?

— Chi è il vecchio della birreria? — ripetei.

— Chi credi che sia?

— Il signor Salvioni, — risposi da vero sbadato. —

Ed accorgendomi d'averla detta grossa, corressi:

— Il signor Salvioni no, probabilmente; dev'essere più giovane un pezzetto.... Per altro... fammi il piacere.... Giorgione, prima di morire, disse: — dev'essere a Milano; di chi parlava se non del Salvioni?

— Sicuro; se avesse parlato del padre di Chiarina non avrebbe detto dev'essere, avrebbe detto è, perchè sapeva benissimo dov'era, od avrebbe proferito il nome, che era la più spiccia.

— Lo vedi!

— Sì, ma perchè mai sospettava che il Salvioni fosse a Milano, se non perchè?...

— Capisco! — interruppi con una specie di grido sommesso, — se non perchè credeva il marito di tua.... della signora Chiarina capace d'aver penetrato il mistero e di fare una corbelleria?

— Ci sei!

— Ci sono; e tu, venendo a Milano, cercavi il Salvioni o l'altro?

— Non lo so nemmeno io, — balbettò l'amico, — uno dei due, ma il Salvioni avevo quasi perduta la speranza d'incontrarlo, le nostre pratiche erano riuscite vane.

— E facendo la spuma del mare, e dando alla tua Venere il volto della signora Valeria, ed esponendo il quadro alla Mostra permanente tu speravi di costringere....

— Costringere no.... ma forse di rendere più facile il dovere ad un vecchio pentito.... di avvicinare d'un gran passo il padre e la figlia.... Venti volte mi battè il cuore affrettato alla vista d'un compratore....

— Dunque, secondo te, il vecchio della birreria?

— Il vecchio della birreria non è da oggi che me lo vedo fra i piedi, l'avevo già visto passar sotto le mie finestre e guardare in alto. L'altro ieri un signore, un vecchio, sottopose il portinaio ad un interrogatorio sul conto mio, sul conto di Chiarina, sul tuo; ieri ci inseguì per istrada, ci precedè nella birreria....

— E stamane, proseguii pigliando il filo, stamane appicca discorso con me.... s'innamora del tuo quadro che vuol pagare il doppio degli Americani, non mi dice il suo nome, è informato dei fatti tuoi.... verrà.... —

Tacemmo entrambi; collo sguardo e coll'atto ci proponevamo lo stesso quesito:

— Chi era il vecchio della birreria?

— Il signor Bini — entrò a dire il servitore in livrea, proprio come nelle commedie moderne.

Ci levammo di scatto tutti e due — un vecchio entrò — era lungo, era diritto, era anche un po' impacciato — era lui!

IX. In cui l'incognito comincia a tormentare la mia curiosità.

La mia presenza rese facile il colloquio e lo fece subito volgere ad una specie d'intimità. — Quel caro signor Bini aveva una sua venuzza ironica, sottile, ma perenne, che gocciolava sempre, cosicchè mentre lui era quello che, secondo tutte le leggi della fisiologia e della psicologia, doveva aver bisogno di rinfrancarsi, eravamo noi a commoverci per conto suo; era lui che si abbandonava sul canapè, noi che ci tenevamo impettiti sull'orlo della sedia a guardarlo cogli occhi grossi.

Unico indizio del suo grande affanno, una curiosità sfacciata, petulante, che fissava tutti gli oggetti a lungo e minuziosamente, senza perdere la sintassi del periodetto infilato; la sua lingua andava lenta, ma senza intoppi, come un movimento d'orologeria. — «A credergli, per ciò solo era.... venuto.... perchè aveva visto.... la Venere.... dell'amico Nebuli.... e con tutti i suoi anni.... che non eran pochi,... se n'era.... innamorato.»

Quanti erano i suoi anni?

Io lo chiesi, perchè pensai che, non chiedendolo allora, non avrei forse trovato un momento migliore, ed egli rispose che erano sessanta suonati, e continuò a svolgere comodamente la sua filastrocca.

Valente ed io ci guardammo alla sfuggita per dirci che il conto tornava benissimo.

L'amico Nebuli diè la risposta già data a tanti — «la sua Venere non era in vendita,» — ed il vecchio si accontentò di sorridere; non aveva premura, avrebbe aspettato.... sperando.... non si sa mai.... in un mutamento d'idee; intanto.... se gli si permetteva.... sarebbe venuto.... a trovar lui e l'ottimo signor Ferdinando.

Il signor Ferdinando ero io, come sapete, e vi assicuro che non me ne stupii, sebbene il mio nome non glielo avessi detto proprio. Quanto all' ottimo, che ne poteva saper egli? perciò lo respinsi garbatamente, protestando che era lui troppo buono.

Ancora poche ciancie inutili, molte occhiate in giro, poi il signor Bini spiegò di nuovo tutta la sua lunghezza, ci strinse le mani, ripetè che.... se non.... incomodava.... sarebbe tornato.

Nell'attraversar le camere con una lentezza adorabile, a me parve che facesse l'inventario dei mobili senza averne l'aria.

Della signora Chiarina non si era detto verbo; Valente mi confessò poi ch'era stato lì lì per andarla a chiamare, ma che non aveva trovato un pretesto.

La signora Chiarina — ecco l'esperimento solenne che ci voleva! ma ora che concludere, perchè sarebbe pur stato bello concludere qualche cosa dopo un colloquio di quella fatta?

Era lui? Non era lui?

— Non ti pare che le somigli? — mi disse l'amico mio.

In coscienza no, non mi pareva; ma io non l'aveva guardato che nell'insieme; forse bisognava esaminarne i particolari, come aveva fatto Valente, il quale si era fermato al naso come ad un indizio rivelatore....

Ma quando io mi trovai per la seconda volta faccia a faccia col vecchio, ed afferrai ben bene ed a lungo il suo naso co' miei due raggi visivi, dopo avere stentato a lasciarlo andare perchè stentavo a credere a me stesso, mi dovetti convincere che il cuore, od il sistema nervoso, od un'illusione ottica aveva tradito l'amico Nebuli. Era un naso dritto, sottile, come dritto e sottile lo aveva la signora Chiarina, ma i nasi hanno cento maniere d'essere dritti e sottili senza perciò assomigliarsi menomamente.

Piuttosto bisognava cercar la somiglianza altrove: — spianandone le rughe, spargendovi una profusione di biacca.... pareva a me....

Mentre io così fantasticava, non staccando gli occhi di dosso al vecchio, facendo ogni tanto di sì col capo, sorridendo quando lo vedevo sorridere, senza sentire una sillaba di quanto diceva, una parola mi venne a svegliare di botto.

— L' ordine.... — diceva il signor Bini.

Che cosa diceva dell' ordine? Ne diceva bene, lo metteva in alto, in alto, sopra tutte le virtù cardinali e teologali, lo vedeva in sè stesso, in me, nell'amico Valente, nella terra, nel cielo, nei fiori, nelle stelle, e si accalorava un tantino, come se l'avesse regalato lui al mondo, e facesse le difese d'una creatura sua propria.

Valente mi guardava sorridendo.

Confesso una debolezza che non so spiegare; sopra la compiacenza grande che mi cagionava il trovare le mie medesime opinioni in un altro, galleggiava un dispettuzzo piccino.

Provai a mettermi alle calcagna del vecchio per raggiungerlo; egli mi lasciava dire, finchè con un nuovo balzo si spingeva distante, ed io di nuovo dietro. L'ordine faceva questo — (lo avevo detto anch'io) — faceva anche quest'altro (questo pure avevo detto e ne chiamavo Valente in testimonio) — ma infine l'ordine fece cose, di cui io non l'avevo mai creduto capace, e allora mi rassegnai a restituire il suo sorriso malizioso all'amico Valente.

Una bizzarra maniera, tutta propria del signor Bini, era quella di non darsi mai vinto.

Mi provai una volta che egli diceva a dir di no, egli ripetè, io no.... — sì — no.... sì — ammutolii; un'altra volta egli disse no, io — no sì.... no — tornai ad ammutolire.

Immaginando che entrasse anche questo nella sua monomania dell'ordine, mi proposi di lasciarlo dire sempre, senza contrastargli. Ma egli non pareva contento della nostra approvazione muta; quando aveva dato alle sue idee una foggia paradossale e non si vedeva contraddetto, mandava in giro certe occhiate di sconforto e correggeva egli medesimo la sua sentenza.

Una volta aveva sentenziato:

Il disordine non esiste.

Valente uscì a ridere forte — io zitto.

Non esiste il disordine.

Se dicendo esiste, avessi potuto distruggerlo (il disordine, intendiamoci, non il signor Bini), non lo avrei detto.

E il vecchio, dopo d'avermi cimentato invano, sorrise e si corresse così:

— Non esiste il disordine, se non come manifestazione dell'ordine.

— Bravo! — esclamai.

Lessi negli occhi dell'ottimo signore la voglia prepotente di ribattere — non è vero — ma egli trionfò di sè medesimo, non lo disse.

In quella entrò la signora Chiarina.

Ci alzammo tutti e tre di scatto.

— Il signor Bini! — balbettò Valente — la mia signora. —

Il vecchio s'inchinò. La signora Chiarina sedette, fece due ciance soavissime, il suo visino di latte divenne come una fragola un paio di volte — sorrise — e innamorò il vecchio, come aveva innamorato ogni altro, compresa la mia Annetta.... e me stesso.

Come doveva battere il cuore del signor Bini!

Per me, che mi vanto d'essere penetrante, le sue occhiate tenere quando si figgevano nel volto angelico, le altre mandate in giro lentamente per la sala, le altre fuggitive lanciate a Valente, per me, dico, nessuna di queste occhiate andò perduta. Dicevo in cuor mio: — Ora pensa allo stato, in cui vivono, ed ora pensa che si amano, e non sa.... poveretto!... ed ahi! ora forse pensa che a lui non è concesso d'amarla in palese! —

Poi egli si distraeva ed io ne approfittavo per confrontare i volti ravvicinati della fanciulla e del vecchio.... la somiglianza forse vi era, impercettibile per un occhio profano, ma forse vi era! — E guardando Valente trovavo il suo sguardo fisso nel mio, ed egli diceva a me, ed io dicevo a lui che la somiglianza v'era.... forse.

Il signor Bini non tradì altrimenti il suo segreto; fu disinvolto quanto è possibile, fu curioso quanto è lecito, e forse un po' più, finalmente si rizzò, strinse la mano bianca della signora Chiarina nella sua rete di tendini, e fece un inchino profondo.

Quando se ne fu andato, la signora chiese: — Chi è quel vecchio?

Valente tardò a rispondere, io dissi commosso:

— Il signor Bini. —

E rimasti un istante soli, Valente ed io:

— Le somiglia? mi domandò.

— Forse le somiglia, risposi, ma nel naso no, di sicuro.

— Nel naso no, ripetè Valente; forse....

— Aspetta, interruppi.... — e tratto di tasca il taccuino, scrissi due linee — in che le somiglia?

— Nella bocca, mi pare.... che ha piccina; nelle labbra che, quando non sorridono con malizia, fanno il sorriso buono di Chiarina.... —

Così disse Valente.

E allora io lessi sconfortato quello che avevo scritto sul taccuino:

«Spianandone le rughe, aggiungendo i capelli mietuti dai tempo, spargendovi una profusione di biacca, la fronte è tale e quale.»

Tornò la signora Chiarina.

X. Il signor Bini continua.

Valente aveva aperto due finestre alla mia curiosità; una metteva nel passato, l'altra lasciava intravedere l'avvenire; ed io mi interrompevo spesso durante il lavoro per affacciarmi ad una delle due. La mia Annetta allora mi camminava intorno in punta di piedi, perchè mi credeva in contemplazione dinanzi ad un'idea da mettere in cornice, ed io, non le potendo dire la verità, che non era cosa mia, le davo un sorriso ed un bacio.

Passavano intanto i giorni, ed il signor Bini rimaneva impenetrabile come i geroglifici, quando nessuno ancora li aveva penetrati. La sua freddezza con noi era meravigliosa: solo messo in faccia alla signora Chiarina, egli pareva lasciarsi sfuggire un lembo del suo segreto, ma non mai tanto, che noi potessimo afferrarlo e strapparglielo ed esclamare: — ora l'abbiamo, è lui! —

Quando diceva qualche parolina amabile alla signora, o la chiamava «la mia bambina,» o la guardava a lungo negli occhi, tenendola per mano, e l'abbandonava appena si fosse fatta rossa, per ridere forte, dicendosene innamorato cotto: quando faceva tutto ciò, era propriamente un altro uomo uscito per arrendevolezza dalla sua buccia solita.

Del resto anche la sua buccia solita, veduta da vicino, non mi spiaceva, perchè la severità era in lui corretta da un certo umor testereccio e beffardo; il sussiego da un sorriso di malizia. Valente ed io ci trovammo pienamente d'accordo nel dire che il fondo del signor Bini doveva essere eccellente.

Solo non si sapeva più come tenerlo lontano, perchè ogni santo giorno il vecchio veniva a farci la visita e ce la faceva abbondante.

Forestiero in Milano, diceva lui, gli avanzava ogni giorno del tempo, di cui non sapeva che farsi; lo regalava a noi; e per di più voleva che smettessimo le cerimonie con lui, dando egli il buon esempio — insomma un capolavoro di faccia tosta.

Quando veniva in casa mia, si accomodava nella poltroncina dinanzi al cavalletto, e mi stava a guardare, oppure andava in giro per lo studio, cacciando il suo naso dritto e sottile ne' miei cartoni, che mi chiedeva il permesso di mettere in ordine.

— Faccia, faccia! — rispondevo; e lo stavo a guardare come un fenomeno.

Egli faceva, poi se ne veniva a me, dicendomi con accento paterno:

— Quanto tempo li lascerà stare? Vediamo..... ah! come è disordinato lei! Ma già tutti così loro artisti! —

Un po' di ragione l'aveva, perchè da quando mi ero incontrato in uno che voleva bene all'ordine più di me, mi pareva di volergliene io meno; ma buscarmi a quel prezzo del disordinato, era e non era un'iperbole superba e veramente curiosa? Ridevo.

Da un pezzo non si parlava della causa Corvi contro Corvi.

Una volta mi venne in mente di botto, mentre io stavo ritto dinanzi al cavalletto, il signor Bini a sedere.

— To'! — esclamai, — dev'essere domani il gran giorno....

— Non è domani, — m'interruppe il vecchio.

— E sa lei di qual giorno parlo?

Corvi contro Corvi.

— Appunto.... ma che mi dice?... è proprio domani....

— Non è domani. —

Stetti zitto.

— Fu chiesta una proroga — soggiunse il vecchio quando ebbe assaporato il suo trionfo.

— Come lo sa? domandai col pennello in aria.

— Mi sta a cuore la lite dell'amico suo; finchè non abbia perduta la lite, non mi venderà la Venere, ed io la voglio.

— Valente non perderà la lite — dissi io — i tribunali gli hanno già dato ragione una volta....

— I tribunali hanno spropositato una volta più del necessario, — disse il signor Bini senza accalorarsi; — vi sono prove evidenti dell'imbecillità del vecchio Corvi.

— A me il vecchio Corvi pare pieno di giudizio.

— Non dica che le pare.

— Mi pare, lo dico.

— Non lo dica, lo desidera, ecco tutto.

— Mettiamo che sia così; che ne risulterebbe?

— È così, e ne risulterà l'annullamento delle disposizioni testamentarie; l'amico suo sarà condannato a restituire un terzo dell'eredità avuta.

— Appena?

— Appena.... ma un terzo dell'eredità avuta dallo zio, il quale stette al mondo tanto da consumare la metà del fatto suo, cosicchè il terzo d'allora è diventato i due terzi del patrimonio d'oggi.

L'aritmetica non si poteva lamentare, perchè era scrupolosamente applicata. L'erudizione del signor Bini cominciava a spaventarmi.

— L'altro terzo — soggiunse il dottissimo signore — se ne andrà nelle spese della lite.

— È proprio sicuro di quello che dice?

— Lo domandi agli avvocati.

— E che farà Valente? — dissi io.

— Ricorrerà in Cassazione e venderà la Spuma del Mare.

— E qual è il vantaggio di ricorrere in Cassazione?

— Lo domandi agli avvocati — rispose il vecchio col suo sorriso malizioso — la lite potrà tirare in lungo un altro paio di annetti.... le par poco?

— Tutta colpa....

— Tutta colpa del vecchio Corvi.... — m'interruppe il vecchio.

— Ma se era imbecille?

— Appunto per questo.

— Dica invece tutta colpa dei due amici, perchè, deve sapere, se non lo sa.... lo sa?

— Dica, dica.

— Deve sapere che il Pasquali ed il Nebuli erano amici intimi, proprio come Valente ed io, e per una miserabile questione di denaro.... per un puntiglio meschino.... si ritolsero prima l'affetto... poi il saluto, poi la stima, poi la pace.... finchè l'uno morì strozzato dalla consolazione di lasciar l'altro mezzo strozzato dal dispetto. —

Avevo messo delle pause nel mio periodo, perchè m'aspettavo d'essere interrotto, invece fui lasciato dire.

— Me l'avevano detto che la storiella era andata così. —

Manco male che glielo avevano detto!

— E del signor Pasquali che cosa ne sa?

— So che è una specie d'orso, un brontolone, uno stravagante.

— Precisamente; vive in una sua villa sul lago di Como, non si muove mai, non ha figli....

— Non ha figli.

— La colpa è sua.

— Tutta sua, tutta sua.

— Non già di non aver figli — dissi sorridendo.

Ed egli sorridendo ripetè:

— Non già di non aver figli.

— Della lite....

— Della lite. —

Lo guardai sbalordito; non pensava più a contraddirmi, si fregava le mani, sorrideva a quella tale incognita della birreria o ad un'altra consimile.

Alcuni istanti dopo si rizzò in piedi, ed andò a chiamare a tutti gli uscî la mia Annetta; quando ella comparve ed egli le ebbe stretta la mano, scese le scale.

Una stranezza da aggiungere alle altre: dimenticò la solita promessa di ritornare, e fui io a gridargli dietro: — a rivederla! —

XI. Qui una signorina leggerà due volte senza comprendere.

Da un gran pezzo (due giorni lunghi) portavo di nascosto il mio segreto. Era pesante e fastidioso; mi legava le membra, chiudeva i miei gesti, solitamente larghi, in una piccola cornice di pochi centimetri di lato, mi mozzava le parole in bocca e mi faceva pigliare dinanzi a mia moglie l'aria d'un marito che ne avesse fatta una grossa; con tutto ciò non dicevo nulla, tenevo tutto per me.

Quel giorno, appena il signor Bini se ne fu andato ed io mi trovai faccia a faccia colla mia Annetta sorridente, non seppi più resistere, la trassi a sedere in un canto, e fattomi promettere tutto quello che avevo promesso io, mi parve di essere nel mio diritto, cacciando di casa quel segreto importuno. Bisognava pigliarlo per le spalle senza preamboli, ed io lo pigliai solennemente così:

— Hai da sapere, Annetta, che in casa dell'amico Nebuli vi è un mistero.

Essa mi guardò sbarrando gli occhi.

— Che la tua cara, la tua bella, la tua buona signora Chiarina, la tua innamorata in una parola, ha un segreto.... —

Annetta faceva segno di no con tanto seriume, che mi parve vedere in lei la scuola del signor Bini. Tacqui.

— Non l'ha più, — disse mia moglie — mi ha detto tutto.

— Tutto?

— Tutto.

— E tu non mi dicevi nulla?

Rise, per non rispondere. Ed io serio:

— La signora Chiarina ti ha detto quello che sa lei, cioè.... che Valente....

— Non è suo marito, che il marito suo è un altro, il quale dev'essere morto.... e che lei ama Valente, e che col tempo si sposeranno davvero.

— Col tempo! — sospirai — ma non ti ha potuto dire quello che essa medesima non sa e che ti voglio dir io.

Le narrai la faccenda della signora Valeria, della Spuma del Mare, ed i sospetti che aveva fatto nascere il misterioso signor Bini. —

— È lui! — sentenziò, — le somiglia....

— In che?

— Nel naso. —

Fu la mia volta di crollare la testa col sussiego del signor Bini; poi dissi:

— Se anche è lui, come costringerlo a confessare la sua paternità? Il codice non vuole, ed io dico che fa benissimo. Per me il signor Bini è il signor Bini, non ne dubito menomamente, ma se mai egli fosse quel duca, quel marchese, quel conte, quel pezzo grosso insomma che mise al mondo in un momento di distrazione la signora Chiarina, è evidente che non vuol darsi a conoscere. Ci avrà le sue ragioni, doveva prender moglie vent'anni sono; a quest'ora probabilmente l'ha presa ed ha figli o figlie da marito, alle quali non può regalare una sorella di contrabbando.... Questo è un romanzetto abbastanza verisimile; ti pare?... ne ho fatti una dozzina; intanto per me non vi è dubbio che il signor Bini è il signor Bini....

— Potrebbe essere.... notò Annetta.

— Sì, potrebbe essere, anzi deve essere un mediatore od un mandatario. Ma non mi par tanto liscia; e ad ogni modo costui o non sa nulla, o non dirà nulla; e sapendo e volendo dire, non muterebbe virgola all'articolo del codice.

— Il tuo codice è snaturato.

— Il mio codice è pieno di buon senso; ti pare che la società possa essere lasciata sotto la minaccia perpetua d'una legione di monelli, che ha approfittato dei minuti piaceri dei galantuomini per venire al mondo?.... E poi il mio codice non l'ho fatto io.... La conclusione è che al padre della signora bisogna rinunziarvi, e allora?

— E allora che cosa?

— Allora bisogna trovare il marito, — diss'io abbassando la voce — bisogna trovarlo a tutti i costi.

— E perchè farne del marito?

— Per restituirgli la moglie.... se ancora si è in tempo.

— Io credo di no, — disse Annetta ingenuamente — e poi il marito è morto. Chiarina ne è sicura.

— E Valente? — pensai. —

Il giorno dopo Valente venne da me; era pallido più del solito; senza dir parola, egli mi spiegò benissimo che aveva bisogno d'andare a spasso sul bastione con me solo, od almeno io l'intesi così; infilai il pastrano, piantai in testa il cappello a staio e gli tenni dietro.

Non tentai nemmeno di cacciare il mio braccio sotto il suo, perchè pensavo: se due che camminano a braccetto hanno bisogno di dire qualche cosa di grave, che fanno prima di tutto? si snodano; dunque...

Valente camminò al mio fianco un tratto, senza dir parola; seguiva coll'occhio le foglie secche che si staccavano dagli ippocastani e cadevano lentamente facendo i giri d'una spirale; all'ultimo disse le stesse mie parole di poc'anzi:

— Il signor Bini deve essere il signor Bini — non ne dubito più.

— Nemmeno io; e se anche si è cacciato in mezzo a noi per un incarico avuto, non è che un mediatore volgare, molto furbo, molto testereccio e troppo ordinato. —

Così risposi io per vedere di farlo almeno sorridere; non mi riuscì.

— Se ha un mandato da un altro, da lui, — tornò a dire l'amico Nebuli serio serio, — evidentemente non sa nulla di nulla.

— Però, notai, basterebbe sapere chi lo manda; e scoprir questo non dev'essere difficile, se tu gli vendi il quadro....

— Non gli venderò nulla; — m'interruppe con calore; — non capisci che quel quadro è mio?

— E Chiarina non è ancora tua, e forse non sarà mai.... —

Questo lo pensai, ma non lo dissi.

— Al padre bisogna rinunziarvi, ripigliò dolente, quand'ebbe fatti alcuni passi silenziosi.

— E il marito è morto.... —

Quello che mi aspettavo accadde: — non rispose.

— Dimmi il vero, è morto il marito?

— Che ne so? Chiarina ne è persuasa. Per molti mesi lo credetti anch'io.... da qualche tempo ne dubito....

— Hai avuto notizie? È accaduta qualche cosa?

— No, nessuna notizia, è accaduto che ora l'amo e mi ama. —

Io sono furbissimo certe volte; compresi.

— E da quanto tempo ne dubiti? — domandai facendo lo sbadato.

— Da un mese. —

Lo presi allora a braccetto, e cominciai a guardare anch'io le foglie secche, che cadevano disegnando una spirale.

— Senti, — mi disse a un tratto sprigionandosi dal mio braccio, — ho bisogno di un consiglio; che faresti nei panni miei?

— Cercherei il Salvioni.

— L'ho cercato, non si trova.

— Bisogna aver la certezza che non si trova; cercalo ancora; forse non hai adoperato tutti i mezzi con cui si va in traccia d'un galantuomo che si è perduto e non vuol lasciarsi trovare. Che hai fatto tu? hai messo in moto la questura, i consolati; un poveraccio fuggito dal carcere del matrimonio ha tutte le ragioni di credere che i consoli e la polizia ce lo vogliano rimettere; dobbiamo fargli sapere altrimenti che Giorgione è morto, che noi non si vuol costringerlo a rientrare nel talamo, che solo ci occorre sapere se è vivo, e che cosa ne pensa, e questo non glielo possiamo far dire che dalle gazzette.

— E se è morto?

— Aggiungiamo la promessa d'una mancia a chiunque ce ne saprà dare notizie certe.

— E se vive?

— Se vive, o risponde, o non risponde; e noi ci regoleremo secondo i casi.

— E se viene?

— Non verrà, ma se viene....

— Se viene, — proseguii dentro di me, — e pretende sua moglie, bisognerà restituirgliela.... come si trova. — Se viene ci penseremo — dissi con disinvoltura. —

Stette un altro po' in silenzio; giunto all'estremità del viale, lo fermai.

— Che pensi?

— Penso.... non lo so neppur io.... penso che hai ragione e che non rimane altra via onesta....

— Dunque si va all'ufficio del giornale?...

Non mi rispose.

— Si va?... insistei.

— Oggi no, oggi no.... domani.

— Eccolo lì l'uomo del domani! —

Era troppo serio, aveva tutti i muscoli della faccia penosamente contratti — ed io zitto. —

Tornato a casa, trovai Annetta di malumore.

— Che hai? —

Per non rispondermi mi consegnò una lettera ancora sigillata.

— Che hai?

— Che ti ha detto il signor Nebuli?

— Che ti ha detto la signora Chiarina? —

Essa guardò me, io lei, — mi venne un sospetto che fu subito certezza.

— Ah! poveretti! — dissi.

— Ah! poveretti! — disse. —

Intanto sbadatamente aprii la lettera: era d'uno che voleva comperare le mie ultime due tele della Mostra Permanente, ed offriva un po' meno del prezzo segnato nel catalogo e molto più di quello che mi potessi aspettare. Ed io freddo — «leggi» — dissi ad Annetta — ed essa pure fredda.

Non l'avrei mai creduto, e lo dovetti credere, ed ora ne sono persuaso: non tutti i momenti sono buoni per ricevere del denaro! Quella fortuna in quel punto — chi me l'avrebbe mai detto?... quasi non era un piacere!

— Risponderai domani... —

Ed io, che non uso mai differire, fui felice di trovare una risoluzione bell'e fatta in bocca d'Annetta.

— Risponderò domani.

E il domani avevo appena risposto — accetto — quando venne ancora Valente colla stessa faccia della vigilia, colla stessa voglia d'andare a spasso sui bastioni.

Questa volta non sapevo che dirgli; se mi avesse chiesto un consiglio, vi giuro, non quello della vigilia gli avrei dato, ma quest'altro: — Piglia la tua Chiarina, che è tua, che non può essere tua più di così, pigliala e fuggi, va in fondo ad una valle, va in cima ad un monte, va in un'isola deserta, va in una foresta vergine.... va dove vuoi, ma pigliala e fuggi. — Egli però non mi chiese nulla; solo quando fummo sull'uscio di casa sua, mi strinse la mano, e credendo di rispondere ad una mia muta insistenza, di cui non potevo essere più innocente:

— Oggi no, — mi disse, — domani forse... —

Suonò il campanello; io, invece di andar di sopra, rimasi per salutare la signora Chiarina, la quale, avendo al modo di suonare riconosciuto Valente, dall'uscio d'un salotto si affacciò nell'anticamera. Sorrideva come un raggio di sole.

— Come stai? — le domandò l'amico mio correndole incontro; mi parve che essa gli dicesse una parola ali' orecchio, ma non ne sono sicuro; è certo che si abbracciarono in mia presenza, e che da quella stretta d'amore Valente uscì tutto trasformato, raggiante.

— La signora Chiarina era malata? — domandai facendo l'ingenuo.

— Non si sentiva bene, mi rispose l'amico Nebuli, e gli tremava la voce.

La signora aveva il viso rosso, li lasciai soli.

Mezz'ora dopo, grave in volto, ma senza ansia nè spasimo di nervi, Valente mi pigliava in disparte:

— Ti accomoda che andiamo ora all'ufficio del giornale?

— Mi accomoda.

— Lo vuoi preparar tu l'annunzio?

— Lo preparo io.

Mentre cercavo la penna, dicevo dentro di me:

— Meno male; per questa volta il pericolo è passato!

— Quale pericolo? — vi domanderà una signorina di sedici anni, che non ha capito nulla.

Rispondetele che — «stava per cadere un trave» — non direte propriamente una bugia.

XII. Il signor Bini non è il signor Bini.

Due giorni dopo Valente tornava su da me; mi bastò un'occhiata per comprendere che anche questa volta aveva qualche gran cosa da dirmi, ma che, essendo lì mia moglie e credendola al buio di tutto, non voleva parlare innanzi a lei. Che fatica mettere insieme delle frasi che non si pensano! L'amico mio lavorava così di mosaico da un quarto d'ora, quando la mia Annetta, che ha buon naso, domandò scusa se ci lasciava un momento.

— Si accomodi, — rispose l'amico Nebuli; e si vedeva ancora un lembo della veste nel vano dell'uscio, quand'egli mi disse misteriosamente:

— Il signor Bini non è il signor Bini! —

Questa notizia era tanto inaspettata, che non la compresi a bella prima; ma Valente ripetè:

— Il signor Bini non è il signor Bini! —

Ed allora io chiesi:

— Come lo sai?

— Poc'anzi, — prese a dire l'amico mio, — ero alla posta; mi avvicino allo sportello, e mi metto alle spalle di cinque o sei persone, aspettando quando.... indovina chi si volta?...

— Lo indovino, ma non ci capisco nulla. Si volta il signor Bini.

— Propriamente lui! mi vede, mi fa un saluto senza scomporsi, e caccia nelle tasche un fascio di lettere; mi chiede di me, di Chiarina, della tua Annetta, di te, poi mi pianta e se ne va.

— E poi?

— Non capisci?... In cima allo sportello a cui m'ero accostato, stava scritto a caratteri enormi, Dall'M alla Z; era il mio sportello, non era il suo.... Dunque egli non si chiama Bini. —

Il ragionamento mi parve calzante: però mi provai ad osservare:

— Forse ha chiesto lettere per altri...

— È stata la mia prima idea, e sai che ho fatto?...

— Non lo so. Dimmelo.

— Sono andato dietro al vecchio fin sul portone di strada, e l'ho visto alle spalle, che si avviava lento lento, leggendosi le sue lettere; dunque.... —

Il resto era chiaro, e l'argomento calzante come il primo. Ma io volli dirne ancora una;

— Negli uffizii dello Stato succede che si cambino gli sportelli ed altre cose senza cambiare le istruzioni al pubblico immediatamente; ciò genera un pochino di confusione e di disordine, ma fa gridare le gazzette, le quali se no tante volte non saprebbero che dire. —

Dicevo queste cose scherzando, Valente m'interruppe dandosi il sussiego di un furbo:

— Andai allo sportello dall' A all' L e chiesi: Nebuli.

— Bravo!

— Il distributore se lo fece dire un'altra volta: Nebuli, — e mi mandò, come mi aspettavo, allo sportello vicino.

— E poi? — chiesi sbadatamente.

— E poi... nulla. Per me non ci erano lettere.... Ma come ce n'erano state per il signor Bini?

— Valente mio, hai ragione: il signor Bini non è il signor Bini. —

XIII. Mia moglie ne fa una grossa.

La sera del giorno successivo eravamo raccolti intorno al focolare, Valente, le nostre donne ed io; ma da un quarto d'ora una specie di muraglia di granito pareva dividerci.

Ogni tanto mi provavo a sparare qualche cannonata per demolirla, senza staccarne più di tre schegge: tre monosillabi; finalmente scoraggiato rinunziai all'impresa, e m'abbandonai anch'io alla china dei miei pensieri, i quali scendevano tutti verso la signora Chiarina e Valente.

A un tratto il grosso servitore entrò recando i giornali della sera ed una lettera per me.

— Il portinaio, — mi disse quell'uomo solenne, — andava su a portargliela; gli ho detto ch'era qui, me l'ha data.

Quando per caso il grosso servitore parlava a me che stavo a sedere, mi dovevo far forza per non dirgli: — si accomodi — ed ammiravo Annetta, la quale fin dal primo giorno si era sentita capace di spiattellargli sulla faccia il suo battesimo, che era Marco, e di dargli del voi.

Non crediate ch'io lo trattassi col lei, gli davo del voi anch'io, solamente non glielo davo mai.

— Grazie — dissi e presi la lettera.

La mia Annetta e la sua Chiarina si spartirono i giornali; Valente non staccò gli occhi dalla bragia, intanto che io scorrevo curiosamente la lettera, sulla cui soprascritta si leggeva urgente, e che non urgeva niente affatto, almeno secondo il mio modo di veder la cosa.

Ero arrivato alla sottoscrizione di quel caposcarico di Celestino (voi non conoscete Celestino, ma non ci perdete nulla), il quale mi chiedeva cento lire in prestito per nove giorni, non uno più nè uno meno, quando udii una specie di singhiozzo represso, e sollevando il capo vidi la signora Chiarina più bianca del solito, abbandonata sullo schienale della seggiola, e mia moglie che le si faceva presso lasciandosi cadere di mano la gazzetta, e Valente che rizzava sbigottito la testa arrossata dal calore.

Mi levai anch'io di scatto, ed ebbi l'intuito della verità.

— Che hai, Chiarina? — domandò l'amico Nebuli colla voce rotta dall'affanno.

— Nulla..., nulla, — rispose essa, una specie di capogiro, mi è parso di vedere.... qua.... sul giornale... avrò letto male.... —

Valente prese il Pungolo con mano tremante, e cercò degli occhi e trovò quello ch'io cercai e trovai sul Secolo.

«Si avverte il signor Giuseppe Salvioni pittore, dovunque egli si trovi, che Giorgione è morto e che Chiar.... aspetta sue notizie, senza nulla pretendere. Chiunque fosse in grado di dare informazioni esatte sul detto Salvioni Giuseppe (pittore, età trentadue anni, biondo, con una cicatrice sulla fronte) rivolgendosi in Milano al signor V. Nebuli, fermo in posta, riceverà una mancia corrispondente all'importanza delle notizie.»

Era il mio piccolo componimento della vigilia, tal quale era uscito da cento cancellature, che faceva la sua prima apparizione nei giornali della sera.

Valente passava una mano carezzevole fra i capelli della sua Chiarina, la quale si era abbandonata sul petto di Annetta; ed io, non sapendo che fare o che dire, tornavo a leggere: «Si avverte il signor Giuseppe Salvioni....», quando comparve il servitore solenne, annunziando il signor Bini, e subito Chiarina ed Annetta si allontanarono, Valente andò loro dietro, io solo rimasi.

Ebbi un gran fare per darmi un po' di disinvoltura, il vecchio furbo comprese che ci era qualche cosa in aria; si guardava intorno, e credo che leggesse nel disordine delle sedie.

— Si accomodi, — gli dissi — Valente verrà or ora, l'aspetto anch'io.

— Grazie.... oh! questa seggiola è calda, chi ci stava seduto? —

E siccome non risposi, egli si accostò all'altra e fece per suo conto l'osservazione che era calda anche quella.

— Smettila, — gli dicevo dentro di me, — smettila, noioso, — ed egli finalmente mi diè retta; si pose a sedere senza dir altro, raccolse il Pungolo da terra e s'avviò a leggere come se fosse in casa sua.

A un tratto disse:

— To'! ci è un altro Nebuli a Milano.... ed ha anche l'iniziale del nostro Valente.... ha visto, signor Ferdinando?... Si avverte il signor Giuseppe Salvioni.... — Siccome io fingevo d'essere tutto intento a leggere, masticò il resto fra i denti, e non disse più nulla, finchè tornò Valente.

Come trovassi la voglia di parlare, tanto per alleggerire l'amico, non lo so; vi basti che la trovai, e dissi la prima frase venutami in mente, questa:

— Che tempo fa, signor Bini?

— Non vi ho badato.

— Oggi minacciava di piovere.... scommetterei che domani pioverà.

— Le pare? non pioverà, non ci è pericolo che piova.... —

Ma avrei giurato che già aveva piovuto, almeno sulle mie parole e sulle sue, perchè non ci fu verso di accendere con esse nemmeno il solito fuocherello di botte e risposte, che durava quattro minuti. Finalmente entrò Annetta.

— Lei qui? — disse il signor Bini levandosi in piedi per salutare. — E la signora Chiarina?

— È di là, un po' incomodata... una cosa da nulla... che tempo ci porta lei?

— Eccellente. —

Quando un quarto d'ora dopo il vecchio signore si rizzò per andarsene, gli avrei dato un bacio.

— Domattina sarò da lei, — mi disse.

— Tutto il giorno a' suoi comandi, — gli risposi.

E appena fu scomparso dietro l'uscio:

— Come sta? — chiesi ansioso a Valente.

— Benissimo; si era fatta una paura più grossa della peggiore delle realtà; ora sa tutto; è come me, tranquilla.

— Tu non sei tranquillo, — pensai.

Annetta intanto era corsa nella camera attigua, e tornava tenendo per mano l'amica sua, la quale aveva messo sulle labbra pallide un sorrisino mesto, come per farsi perdonare la sua debolezza di poc'anzi, e mi porse la mano bianca.

— Ella sa tutto, dunque? — mi disse; — Valente ha fatto con lei quello che ho fatto io colla sua buona Annetta; ebbene, meglio così, saremo più forti, non è vero?

— Verissimo, — risposi esperimentando una risata che riuscì malamente; — verissimo, e vedrà che il cielo farà le cose benino.... —

Mi pareva d'aver preso il sentiero buono per avviarvi un periodetto baldanzoso.... ma la signora Chiarina non mi lasciò finire.

— E se non fosse?... —

Tacque un istante, come atterrita dal suo pensiero, poi soggiunse crollando il capo:

— Noi siamo qui in quattro a desiderare la morte d'un disgraziato, è una cosa crudele. Annetta e lei non ce n'hanno colpa, lo fanno per amor nostro; ma io sono cattiva, ho il cuore duro.... sono un egoista.... —

Si provò a sorridere, ma io vidi che aveva voglia di piangere, e le dissi:

— Pianga, pianga; quando una ha il cuor duro come lei, non le dovrebbe avere le glandule lacrimali.... ma posto che lei le ha, se ne serva, pianga; piangi tu pure, Valente, piangerà anche Annetta, piangerò anch'io.... già nessuno ci vede.... —

La cara donnina piangeva e rideva.

Il dì dopo stavo per uscire, quando Annetta mi disse:

— Se viene il signor Bini?

— Se viene, non mi trova; lo riceverai tu. Quel vecchio mi infastidisce oramai col suo mistero; quando si va in casa della gente, e vi si porta un nome ad imprestito, non si hanno intenzioni da galantuomo....

— Che dici? sospetteresti?...

— Non so nemmeno io che cosa, ma non mi piace espormi all'aperto dinanzi ad uno che se ne sta appiattato.... se io rimanessi e lui capitasse qui ora, sarei tentato di domandargli che viene a fare in casa mia, che intenzioni ha e come si chiama.

— Eccolo! — disse Annetta.

Infatti era il suo modo di suonare; posi l'indice attraverso le labbra e me ne andai nel tinello, intanto che si apriva l'uscio; dal tinello nello studio, mentre il signor Bini entrava nell'anticamera; dallo studio nell'anticamera, quando egli passava nel tinello; e dall'anticamera quatto quatto giù per le scale, forse nel preciso momento, in cui il vecchio disinvolto cacciava il naso diritto e sottile nello studio, per vedere se vi ero, come era solito fare.

Stetti quasi due ore fuori di casa; tornai quando fui certo che l'apocrifo signor Bini era al suo caffè, al suo tavolino, a mangiare la sua bistecca quotidiana, il suo panetto ed il suo bicchiere di Chianti.

Annetta mi venne incontro sul pianerottolo; le brillavano gli occhi, aveva le guance accese; pigliò il mio bacio, me lo restituì in fretta, e mi disse:

— Sai? ne ho fatta una!

— Una sola! A guardarti in viso ne avrei sospettato un paio per lo meno. È grossa, se non altro? —

Io scherzava, perchè mi veniva in mente che avesse fatta una compera convenientissima coi quattrini della spesa, od un'elemosina per mandarmi in paradiso, senza chiedermi il permesso, eccellenti affarucci, di cui ogni tanto si presentava l'occasione.

— È grossa! — mi rispose, — ma sono felice di averla fatta. Hai da sapere che appena il signor Bini è entrato, visto che tu non eri in casa, ha detto: tanto meglio.

— Birbone d'un vecchietto!

— E mi ha chiesto senza preamboli se sapevo chi era il signor Salvioni. Indovina che cosa ho risposto?...

— Che ti facesse il favore di dirtelo lui, se lo sapeva....

— Invece no: gli ho detto tutto: me lo sono tenuto lì, cogli occhi grossi, a bocca aperta, una mezz'ora, vuotando un sacco di garbatezze (te lo puoi immaginare) sopra quel padre senza coscienza, che lascia penare due creature così buone.... «perchè in fin dei conti, ho detto, se il signor Salvioni si trova, ed è un birbante, e gli viene il capriccio di voler la moglie, il codice, che par fatto apposta per i birbanti, gliela dà; mentre un padre potrebbe.... mi pare....» Così gli ho detto.... Ho fatto male?... Non dire che ho fatto male, perchè so d'aver fatto benissimo.... Non mi dicevi tu che il tuo codice non obbliga i padri che vogliono star nascosti a farsi vedere? Ho voluto provare se sapevo far meglio io del codice.

— E lui?

— Lui impassibile.... ah! oh! niente più. Allora gli ho detto che quel duca o quel marchese, al posto del cuore, doveva avere uno dei suoi quarti di nobiltà.... e che mi piacerebbe conoscerlo, e intanto lo guardavo in faccia.... così..,.

— E lui?

— Oh! Ah!... nient'altro, ma a un tratto si battè la fronte — (il commediante! come la fa bene la sua parte!) — e «bisogna trovarle il padre.... — disse — è la prima cosa, bisogna trovarglielo.» — Ne conviene anche lei? E dica un po' che cosa avevamo sospettato noi, vedendola? (tale e quale gli ho detto) «Che foss'io il padre?» — chiese ridendo. — Proprio che fosse lei! — Ed egli: «una buona idea, una buona idea, cara signora, sono io!» Mi fece ripetere tutta la storiella, prese alcune note nel taccuino, e se ne andò senza aspettarti... —

Stetti un momento in pensiero.

— Ho fatto bene o male? — mi chiese Annetta, impaziente del mio silenzio.

— Non so.... cioè sì, hai fatto bene, ma che cosa argomenti da tutto questo? Chi ti pare che sia il signor Bini?

— Prima di tutto non è il signor Bini, e poi mi pare che non sia il padre di Chiarina.

— Volevo ben dire!

— Ah! — sospirai crollando il capo, dopo un altro po' di riflessione.

— Almeno fosse morto! — mi rispose Annetta, leggendomi nel pensiero.

— Ebbene sì, almeno fosse morto! E non credere che sia augurare male al prossimo, perchè, vedi, bisogna considerare i morti a quest'ora come un numero fisso, inesorabile, che io non so, ma che la statistica sa benissimo. Se fra questi morti non ce n'è uno che si chiama Salvioni, ce ne sarà in vece sua un altro, il quale non ci ha fatto nulla e faceva forse benissimo a vivere.... Dunque.... —

Mia moglie mi guardava sbalordita; era l'effetto che mi aspettavo, perchè quell'idea che la mia coscienza era andata a pescare non so dove, sbalordiva me pure.

— Dunque.... — proseguii — noi non si vuol morto nessuno, noi non si regala nulla alla statistica dei cadaveri.... Si desidera solo.... insomma mi hai capito. Sei persuasa?

— Altro che persuasa! Per me il signor Salvioni è un birbone, che dovrebbe essere morto; se non è morto, farà bene a morir presto, che non abbiamo tempo da perdere, ed io glielo auguro con tutto il cuore. —

XIV. Il signor Salvioni scrive.

Chi mai ha detto che nelle gran gioie o nei gran dolori è impossibile conoscere il proprio simile? Qualcuno l'ha detto di sicuro, ed a costui rispondo che negli eccitamenti della passione appunto, e soltanto in essi, è possibile conoscere e giudicare il proprio simile. Guardate l'uomo di tutti i giorni: superficie lisciata dalle convenienze, dal sussiego, dall'abitudine; applicate all'uomo di tutti i giorni la lente di un dolore, d'una gioia, d'uno sgomento, d'un dispetto, e subito ciò che vi pareva liscio, diventa scabro. Intendiamoci: saper guardare bisogna; perchè se una pagnotta veduta col microscopio mi diventa una montagna, non mi è lecito sentenziare che ha cessato d'essere una pagnotta.

Fu quando io mi trovai innanzi agli occhi il grande affanno di Valente, che per la prima volta vidi come attraverso un microscopio il segreto delle sue abitudini indeterminate, neghittose e fantastiche.

Egli era propriamente trasformato, tanto esagerava sè stesso: la sua indolenza, da cui soleva uscire a scatti nervosi, mi diventava apatia, d'onde lo toglievano bizze, tenerezze, puntigli, sussulti di umor caparbio; già era motteggevole, eccolo pungente; non più bizzarro soltanto, ma stravagante; irto insomma come un'alpe alla superficie, ma sempre la stessa buona pagnotta di uomo nella sostanza.

Era il suo grande affanno che me lo faceva così; e se una volta mi rallegrai d'essere un po' filosofo, fu in quei giorni d'ansia muta e crudele.

Ogni mattina egli veniva su a prendermi, ma non lo voleva dire; ed io fingevo d'essere proprio sulle mosse, o di ricordarmi a un tratto d'un affaruccio che mi chiamava fuor di casa, tanto per potergli far compagnia.

Senza nemmeno fiatare, era cosa intesa — si andava alla posta. Era lui che si affacciava allo sportello a dire — Nebuli — era io che pigliavo le lettere e ne facevo l'esame. «Questa viene da Roma, questa da Napoli, questa da Torino....» Mi faceva cenno di aprirle, le aprivo «questa incomincia: caro Valente! ed è sottoscritta Serpoli — quest'altra dice: Illustre signore, ed è sottoscritta.... ecc.» Allora egli si pigliava le sue lettere, le guardava un po' in distanza con un resto di paura e le cacciava in tasca sbadato.... — Tornavamo a casa un po' più ciarlieri di prima, ma niente affatto ciarlieri — a domani! — a domani!

Se gli domandavo: — che hai fatto tutt'oggi? — mi rispondeva: — che vuoi ch'io faccia?... nulla!

— Te io dirò io che cosa hai fatto; — ti sei tormentato; — hai sofferto — di' la verità.

— Ebbene sì, mi sono tormentato; — è qualche cosa anche questo, e non so far altro; finchè non giunga quella maledetta lettera che ha da venire....

— E quando non aspettavi la lettera, ci era la lite....

— Ci è ancora.

— E quando non ci era la lite, aspettavi l'eredità....

— Allora avevo i miei venticinque anni che non ho più, aspettavo i trenta ed ora non ho più nemmeno quelli — aspettavo l'avvenire. —

Ed io, facendomi forza per non pigliare un tono solenne:

— L'avvenire, Valente mio, è il più gran nemico del presente ed è nemico fatale, perchè ci lusinga, perchè si nasconde — bisogna placarlo o domarlo l'avvenire.

— E come si placa, e come si doma?

— Lavorando.

— Ne sei sicuro? —

Veramente non ne ero sicuro, perchè non sempre, neppure lavorando, si placa o si doma; ma se la cosa non riesce, rimane il conforto.... voi sapete quale — io v'infastidisco e smetto.

Dicevo a me stesso: — quando Valente abbia vinta o perduta la lite, quando abbia intascato l'eredità e restituito la moglie — o viceversa, allora forse metterà un po' d'ordine nelle sue idee, e non è possibile che si lasci corbellare dall'avvenire.

Così dicevo a me stesso, ma senza fidarmi troppo.

Una mattina eravamo usciti dalia posta; le lettere erano molte, ed io me n'ero impadronito per forza d'abitudine e niente più, poichè, dopo tante paure vane, anche l'amico Nebuli cominciava a pigliar coraggio e sarebbe stato capacissimo di far di meno della mia assistenza.

Io avevo preso un tono corbellatorio, una specie di solennità nasale, di cui (chi sa?) Valente era anche capace di ridere.

Quel giorno dicevo:

— «Al celebre signor Valente Nebuli, pittore.... Sampierdarena — 20 novembre....» — è uno che ti vuol tentare a vendergli la Spuma del mare; se non ti lasci sedurre questa volta, ti metteremo sotto una campana di vetro.... indovina quello che ti offre.... mille lire.... e più se occorre, ma naturalmente spera che non occorra.... Che cosa dobbiamo rispondere al signor Campori?... Rispondiamogli che egli ha a Sampierdarena un mare meglio riuscito del tuo.... faccia mettere in cornice quello; spenderà meno.... —

Valente rideva.

— Questa è d'uno che ha conosciuto un certo Salvioni.... bresciano, studente di medicina a Pavia.. biondo.... non aveva ancora cicatrici, dice lui.... ma può essersele fatte dopo.... si rimette alla tua generosità pella mancia.... quest'altra.... —

Ma qui trovai un intoppo, un intoppo enorme. Non mi pareva vero, e tornavo a leggere.... non risi più.

Quella lettera diceva:

«Al signor V. Nebuli — ferma in posta — Milano.

«Stimatissimo signore,

«Se Giorgione è morto, me ne dispiace assai, perchè era certo migliore di tanti che sono vivi; mi si dica quando e dove posso trovare la persona che desidera le notizie su Giuseppe Salvioni; io gliele darò autentiche, perchè Giuseppe Salvioni sono io. — Scrivere fermo in posta; — Milano.»

Certo Valente mi lesse in faccia la brutta notizia, perchè, senza dir parola, mi tolse la lettera di mano, e mi guardò in volto ridendo d'un riso amaro.

— Ci siamo finalmente, — balbettò, — ebbene, tanto meglio, la farsa ha durato troppo. —

Piegò la lettera senza leggerla, la pose in tasca, e abbottonato il pastrano, s'avviò a gran passi.

Non sapendo che dirgli, gli camminavo al fianco in silenzio. Nel passo, nel modo di tenersi ritto e di guardare innanzi, l'amico mio aveva una bizzarra energia che era disperazione.

A un tratto si fermò, estrasse la lettera, lesse, impallidì.

— Egli qui, a Milano! Ah! povera Chiarina! —

E la sua falsa energia si sfasciò.

— Senti, gli dissi commosso, — tutto non è ancora finito, forse vi è un rimedio....

— Uno solo.... fuggire.... invertire le parti; essere io il colpevole, lui il purissimo.... no, no, venga, lo aspetto! —

Ma gli tremava la voce dicendo queste ultime parole.

— Gli scriverai?

— Sì.

— Gli confesserai ogni cosa?

— Sì. —

Non era il momento di dirgli quanto pensavo, ma pensavo che quello era il modo migliore di far la peggiore delle corbellerie — e mi proponevo di farglielo toccare con mano più tardi.

La signora Chiarina ci venne incontro, ed interrogò collo sguardo. — Valente ebbe la forza di ridere per ingannarla, ma la cara donnina leggeva cogli occhi dell'amore, e continuava ad interrogare lui e me.

Finalmente disse:

— Egli vive, non è vero? —

E siccome nessuno le rispose, — Ah! Valente! — mormorò; e stette immobile, nel mezzo della stanza, cogli occhi aperti, fissi e lagrimosi.

A un tratto Valente cacciò la testa fra le mani e fuggì per nascondermi le sue lagrime. Io guardai l'uscio, dietro il quale era scomparso, poi le finestre, a cui s'affacciava un raggio allegro di sole, poi il visino bianco e gli occhi aperti, fissi e lacrimosi della signora Chiarina. Sentii che me le dovevo accostare, mi accostai, ma nessuno mi suggerì una parola di conforto. All'ultimo le pigliai una mano che ella mi abbandonò senza resistere.

— Se sapeste quanto ci amavamo!... —

Questo solo disse: poi si asciugò le lagrime, tolse delicatamente la mano dalle mie, e chiedendomi scusa collo sguardo, andò a portare una carezza al mio povero amico.

Ed io le venni dietro come uno smemorato.

XV. Il signor Salvioni viene.

Fra tutti, la sola che, invece di sentirsi venir meno l'energia, se la sentì crescere, fu la mia Annetta. Cominciò dallo scendere in casa Nebuli, per dire alla sua Chiarina quelle parole senza senso comune, con cui si parla al cuore, poi venne su e mi si piantò dinanzi per annunziarmi che bisognava far qualche cosa....

— Facciamo qualche cosa — risposi — e che vuoi che facciamo?

— Discorriamone; quel disgraziato Salvioni viene, rivede la moglie, si degna di trovarla bellina, gli pare di sentirsi riardere qui o qua (si toccava il petto), non sa nemmeno lui dove, perchè il cuore non l'ha mai avuto; stupisce d'essere stato tanto tempo senza di lei, e se la porta via.... per piantarla un'altra volta dopo un mese. È così che la intende il tuo codice? —

Nemmeno a me, che dovevo saperne qualche cosa, pareva possibile che il mio codice la intendesse così.

— Ah'! volevo ben dire! — esclamò Annetta, — vediamo, tu l'hai un codice; guarda un po' se vi hanno messo una legge che provveda al caso nostro; non possono essi, Chiarina e Valente, andarsene a dichiarar le cose come stanno, per isciogliere quel primo matrimonio da burla e far accomodare quest'altro, a cui manca così poco?

Io facevo di no col capo.

— Guarda, sono sicura anch'io che non c'è.... posto che ci dovrebbe essere.... ma ad ogni modo guardare costa poco.

— Ti assicuro che non c'è.

— E allora quando due non si possono soffrire, quando il marito è un birbone, e ne fa vedere di tutti i colori alla moglie, che rimedio si piglia?

— Si piglia la separazione, mi pare.... ma non so se sia un rimedio.

— Meno male! nessuno può costringere Chiarina ad andare con quel figuro del Salvioni, ed essa non ci andrà, e si separeranno in regola.

— Purchè il Salvioni non si opponga.

— Vorrei vedere anche questa, che dopo tanti anni tornasse colle arie.... gliele faremo smettere.

— Con qual diritto? chi siamo noi?

— Gli amici di....

— Di Valente e di lei, vale a dire i complici della tresca.... t'accomoda?

— Niente affatto. —

Si stette un po' in silenzio.

— Bisogna proprio che si separino, — presi poi a dire — la signora Chiarina non può tornare con quell'uomo, che è quasi un estraneo per lei; ma perciò conviene indurre il marito a chiedere la separazione egli pure, perchè se si opponesse, io credo che bisognerebbe litigare.... e chi sa quanto.... io non lo so. E perchè il signor Salvioni si adatti a chiedere la separazione, bisognerà dargli del denaro e non fargli vedere la moglie; se no, chi ci assicura che non lo pigli un altro diavolo?

— Lo piglia, ti assicuro io che se vede Chiarina, lo piglia.

— Quando siano separati legalmente.... allora....

— Allora..,.

Allora?... Ci pensammo un pezzetto; tutto andava bene fin qui; il Salvioni tornava, gli si faceva una parlatina seria, lo si minacciava di costringerlo a mantenere la moglie, se aveva qualche soldo; se non ne aveva, gli se ne dava qualcuno.... si faceva la separazione, e allora....

— Allora — disse Annetta — Chiarina se ne andrà con Valente e noi gli accompagneremo alla stazione.... Oppure non se ne andranno.... ed io chiuderò gli occhi per non vedere.... e se tu li vorrai tenere aperti, vedrai che saranno felici, a dispetto del tuo codice.

— E sarà uno scandalo....

— Chi lo dice? il tuo codice, ma io non gli do retta. Immagina che domani ad uno dei pezzi grossi che fanno le leggi, venga in mente di cancellare uno sproposito dal vostro libraccio (in cui ce n'avete messi tanti, numerandoli come se fossero reliquie preziose) e che Valente e Chiarina potessero diventare marito e moglie, dove sarebbe lo scandalo? In nessun luogo. Dunque è il vostro sproposito che è scandaloso. —

Senza accalorarmi a difendere quello che Annetta chiamava il nostro sproposito, io mi accontentai di crollare il capo.

Da molti giorni il signor Bini non si era lasciato vedere, ed io dentro di me ne davo la colpa a mia moglie, pensando che sicuramente era stata lei, colla sua schiettezza, a spaventarmelo a quel modo; ma quando Annetta diceva male del codice, io pensavo tanto al signor Bini quanto.... alla nonna del signor Bini, tale e quale.

D'un tratto, rialzando il capo, vidi il noto naso dritto e sottile, il sorriso malizioso, gli occhi furbi ed il resto, e prima ancora che avessi avuto tempo di dire «si accomodi,» tutto il signor Bini quant'era lungo aveva fatto l'inchino, aveva stretta la mano a mia moglie e mi si era accomodato dinanzi.

— Notizie, notizie! — esclamò egli con quell'enfasi temperata, che era il massimo grado del suo entusiasmo. — Ho trovato otto Salvioni, li ho qui (e batteva sul taschino del panciotto), otto Salvioni morti tutti nel fiore dell'età; il più vecchio non aveva che 65 anni.

Lo guardai in faccia temendo che mi corbellasse; era serio.

— È consolante il vedere come muoiono questi Salvioni. Pare un'epidemia; ma d'altra parte è un orrore pensare come si riproducono. Sapete quanti Salvioni di sesso maschio vi sono a Milano?.... Quindici! quattro però vanno a scuola, cinque sono piuttosto maturi, hanno la mia età; degli altri il solo che si chiami Giuseppe non deve essere il marito della signora Chiarina, perchè piglia ancora il latte; tutto questo l'ho imparato all'ufficio dell'anagrafe.

Lo lasciavamo dire crollando il capo. — Egli comprese male e soggiunse:

— Non era la strada da pigliare. Lo so, non è colpa mia; un impiegato dello Stato Civile si ricordava, ma non era sicuro..., che un certo Salvioni Giuseppe.... appunto dell'età che dicevo io... — Da Brescia? Sì, da Brescia!... — era stato alcuni anni sono da lui.... a far ricerca d'un matrimonio, tra un incognito ed un'incognita, avvenuto vent'anni sono; la cosa era sembrata strana all'impiegato, che perciò se l'era tenuta in mente. — È lui! — diss'io. — Vogliamo vedere se nell'anagrafe si trova quel Giuseppe Salvioni bresciano? — Vediamo — Non si trova nulla. Allora vado alla Questura, interrogo: — ci deve essere una pratica avviata, in cui si fa ricerca d'un certo Salvioni Giuseppe bresciano, biondo, con una cicatrice sulla fronte; che n'è avvenuto? Mi si risponde che non se ne può saper nulla. — Insisto, si cerca. — Voi sapete che il mondo non è una pallottola, come qualcuno dice; e nessuna delle cose del mondo è propriamente una pallottola, — ci è chi ha questa storta opinione, e quando ha dato la spinta ad un negozio crede di farlo correre un pezzo. Che accade? Il negozio gira, ma al primo intoppo si ferma. Quella pratica si era fermata a metà strada, perchè a nessuno della questura premeva di aver notizie del Salvioni. Che aveva fatto il poveraccio? Si era dimenticato di pigliar seco la moglie? La gran cosa! Una sbadataggine simile domani può capitare anche ad un questore.

— Dunque? — dissi freddamente.

— Ora che la pratica è trovata, a darle la spinta, a darle dieci spinte, cento, tutte quelle che le abbisognano per fare il giro del globo, se occorre, ci penso io; e il signor Salvioni, vivo o morto, dovrà venir fuori. —

Egli stette zitto a guardarci meravigliato della nostra impassibilità; all'ultimo disse con un sorriso malizioso:

— Comprendo.... comprendo.... con che diritto m'immischio in questa faccenda?... Caro signor Ferdinando, lo dovrebbe pur sapere, a me abbisogna che Valente perda la lite, ma la moglie no, così mi darà la Spuma del mare più presto.

Quanto volontieri sarei stato zitto per fargli scontare con un po' di curiosità tutta la sua scienza impertinente! Ma Annetta avrebbe parlato prima di me, se io non avessi detto con un certo sussiego:

— Giuseppe Salvioni è vivo, è in Milano, ha scritto, verrà! —

Dove ora ci è una virgola, avevo messo una pausa breve ed un piccolo fulmine.

L'effetto fu straordinario. Il signor Bini si battè la fronte e non seppe che rispondere, egli che aveva risposta a tutto. Poi, come svegliandosi di botto, disse:

— Non è possibile!

— È vero.

— Non è possibile — ho tutti i Salvioni di Milano sulla punta delle dita.... l'anagrafe....

— La sua anagrafe, — entrò a dire Annetta continuando a fare uno strano abuso del pronome possessivo, — la sua anagrafe non avrà le mani abbastanza larghe, e vorrà stringer troppo, e un Salvioni le sarà scappato fra le dita....

— Oppure, — dissi io — questo signor Salvioni che si presenta non aveva il suo domicilio a Milano; e ciò è più naturale, perchè se fosse stato qua, avrebbe inteso parlare di Valente Nebuli e si sarebbe fatto vedere senza aspettar l'annunzio dei giornali. —

Avevo imbroccato giusto perchè il signor Bini finse di non badare alle mie parole, non sapendo che ribattere.

Cominciò, come me l'aspettavo, la grandine delle interrogazioni che ricevetti con garbo, rispondendo io o lasciando rispondere Annetta, per vedere se in tre ci venisse fatto di trovare un altro bandolo al garbuglio. Ma no, era sempre quello: il signor marito veniva, rinunziava o non rinunziava alla moglie; colle buone o colle brusche si faceva la separazione, e poi.... E poi?

Del resto nessun dubbio che la signora Chiarina non si doveva lasciar vedere, che i negoziati col marito doveva trattarli Valente, col sussidio di un diplomatico più sereno, e che bisognava inventare una bella fandonia per salvare il decoro....

— Il decoro è salvo, la fandonia ce l'ho io, disse il signor Bini; se sarà necessario, correrò al tribunale perchè tutti sappiano che la signora Chiarina è mia figlia!

— Ah!

— Oh!

— Vi stupisce? Me la sono fatta fare di commissione a Parigi, dove si fanno benino, mi pare. Del resto i tribunali non badano tanto pel sottile in queste faccende. Come è andata la cosa se io non sono mai andato a Parigi? L'ho da saper io solo. —

Lo guardavamo sbigottiti ancora di questa sua idea singolare. Pensavo: «scherza o vuol proprio adottar Chiarina?....» quando udimmo nell'anticamera rumore di passi affrettati — e una voce nota chiamò trepidante: Ferdinando! Ferdinando! — poi nel vano dell'uscio apparvero Chiarina e Valente, pallidi, colle mani allacciate.

Vedendo il signor Bini che non si aspettavano di trovare con noi, si trattennero un istante, un istante solo, perchè Annetta si strinse fra le braccia la sua Chiarina. Intanto il vecchio, facendo lo sbadato, aveva avuto il buon senso di cacciarsi nel mio studio.

Appena fummo soli, l'amico Nebuli balbettò con voce spenta: — lui! — ed io con voce spenta balbettai: — Coraggio! — E gli strinsi la mano.

— Ha veduto Chiarina? — chiesi, cercando di rendere salda la voce.

— No.

— E tu l'hai visto?

— Nemmeno. —

Mi si facevano innanzi cento domande che ricacciai indietro per pensar solo alla gravissima necessità del momento.

— Coraggio — ripetei — vado io. —

Ed uscii, dopo d'aver con un'ultima occhiata visto Annetta, la quale per confortar l'amica piangeva a dirotto, e Valente e Chiarina che rimanevano immobili, cogli occhi fissi.

Sul pianerottolo fui raggiunto dal signor Bini.

— Me ne andavo, — mi disse — perchè in questi momenti.... Ho compreso. —

Io non ne dubitavo menomamente, e pure questa volta egli non aveva compreso.

— L'amico suo ha perduto la lite!

— No, no, sbaglia....

— Non sbaglio; sono le due dopo mezzodì, a quest'ora l'ha perduta.

Le sue parole mi suonavano all'orecchio come un ronzío, perchè scendendo le scale, mulinavo altre idee.

Sul limitare di casa Nebuli trattenni il vecchio che se ne andava, e gli dissi:

— Vuol venire anche lei a riceverlo?

— Chi?

— Il signor Salvioni. —

Questa volta lo avevo propriamente sbalordito; ma misericordioso Iddio, a qual prezzo!

L'uscio si apri, e noi entrammo, solenni tutti e due, ma per quanto io facessi, più solenne lui di me.

XVI. Il signor Salvioni parla.

Quando noi entrammo, il signor Salvioni stava in piedi nel mezzo del salotto; ci volgeva le spalle, teneva il capo basso; udendoci si volse, ci diede un'occhiata fuggitiva che mi parve o bieca o paurosa, e ci salutò fissando gli occhi nella finestra dirimpetto.

Io me gli feci vicino, ingegnandomi di fargli credere che sorridevo e che ero pieno di disinvoltura; spinsi un seggiolone, che andò senza rumore a metterglisi fra le gambe, poi lo invitai ad accomodarvisi, ed egli vi si lasciò cadere di peso.

Ancora non avevamo proferito una parola, quando il signor Bini, che era rimasto come inchiodato sul limitare, si staccò, si volse, infilò l'uscio e sparve; ed io, rimasto solo, incominciai:

— Il signore... —

Lui zitto, cogli occhi fissi nelle vetrate.

— Il signore, — proseguii — è Giuseppe Salvioni... è lei che ha scritto una lettera al signor Nebuli?...

— L'ho scritta. —

Egli continuava ad esaminar le vetrate, io cominciavo ad esaminar lui. Ciò che fermava il mio sguardo era una grossa catena d'acciaio, la quale col suo peso gli faceva venir fuori più che mezza, dal taschino slabbrato del panciotto, una chiave piccina. — E povero il mio Salvioni, com'era vestito! — Una giacchetta d'un colore che non è in natura, d'una stoffa che in origine — Dio sa quando — era stata venduta forse per tutta lana, ma da cui era scomparsa oramai la poca lana che il fabbricante ci aveva messa per iscusare la sua bugia; gli annodava il collo una cravatta, anch'essa nera, ridotta dalle cattive pieghe, che sono come chi dicesse le cattive abitudini delle cravatte, a parere il cordone d'una bara.

A un tratto, mentre io faceva quell'esame, il signor Salvioni impacciato della mia curiosità uscì a parlare con una voce secca, nervosa e petulante:

— Sì, la lettera gliel'ho scritta io; non ho aspettato la sua risposta, perchè ho potuto sapere altrimenti dove stava di casa, e sono venuto! Lei cerca colle gazzette un Salvioni; eccone uno; ne faccia quello che vuole. —

Così parlò egli, senza staccare gli occhi dalla finestra, ed io tra sbigottito e commosso domandai:

— Il signore non sa di che si tratta?... Ma dunque...

— Dunque, — diss'egli, — sono un avventuriero, un vagabondo? sicuro sono un avventuriero ed un vagabondo, mi faccia chiudere in prigione, o mi dia da comperar del pane alla mia piccina che ha fame.

— Ma dunque?... — ripetei sollevandomi in piedi, — già... sicuro... lei non è biondo, e non ha nemmeno la cicatrice sulla fronte, non è Salvioni lei!

— Mi scusi, — mormorò l'incognito mansuefatto dall'espressione contenta che leggeva nel mio volto, — mi scusi, mi chiamo Salvioni, non sono Giuseppe, non sono biondo, la cicatrice non l'ho, ma che importa se la mia piccina ha fame? —

A quel punto il poveraccio s'interruppe e si guardò intorno sospettoso; ed io udii un sommesso bisbigliar di voci dietro l'uscio, che si aprì di repente.

Con un atto brusco, come se qualcuno l'avesse spinto alle spalle, entrò Valente, e subito dopo il signor Bini, e quando l'amico Nebuli ebbe esclamato — non è lui! — Chiarina ed Annetta si affacciarono anch'esse. Il signor Salvioni parve cercare uno scampo, poi si provò a reggere gli sguardi curiosi con un'occhiata cinica, ma la vergogna lo vinse, chinò il capo sul petto e pianse.

Tosto gli fummo intorno tutti.

Fin qui ero stato punto da un doppio desiderio, quello di pigliare per un orecchio il falso Salvioni e di piantargli un bacio nei mezzo della fronte, per punirlo dell'orribile paura che ci aveva fatta, per ringraziarlo della gioia immensa che era opera sua; ma qui, vedendolo, lui grande e grosso, piangere come un fanciullo, pensando che quelle lagrime amare che ora faceva cadere la vergogna non le aveva forse potute spremere la sventura, quando sarebbero state dolci, — il poco mio rancore scomparve sotto un'onda di tenerezza.

Alle parole buone del signor Bini, a quelle di Valente ed alle mie, il disgraziato rispose nascondendo la faccia tra le mani; allora io dissi alla signora Chiarina: — Gli domandi come si chiama la sua bambina.

— Ha una bambina lei? E come si chiama?

Fu la musica di quella vocetta che gli asciugò le lagrime, o fu la domanda? Fu anche una pezzuola non bianca, (tutt'altro) che il pover'uomo cavò di tasca, tenendola aggomitolata in mano per nasconderne i peccati.

Poi alzò il capo, fece una smorfia dolorosa per darci a credere che sorrideva e disse:

— Sì, signora... ho una bambina di nove anni... si chiama Angela. —

Noi stavamo zitti, ed egli, tenendo gli occhi immobili e come fissi nella sua sciagura, ripigliò:

— Sì, signore, ho una bambina di nove anni, si chiama Angela, e il suo nome non è una bugia... come... Fino a dieci mesi essa aveva la mamma che aiutava a cucire colla macchina, io, facendo lo scrivano da un avvocato, guadagnavo quasi due lire al giorno — si era troppo felici! Ecco mia moglie si ammala, sta un mese a letto, spendiamo tutti i nostri risparmi in medicine — muore. La piccina piange, vuole la mamma, si ammala essa pure — io abbandono l'avvocato per non lasciar sola la mia creatura; cerco lavoro di copista a casa — ma perchè ne ho troppo bisogno non ne posso trovare. E allora di nascosto vendo le vesti della povera morta!

A questo punto il signor Salvioni si credette in obbligo di farci vedere, colla smorfia di poc'anzi, che egli non era commosso niente affatto, che al contrario sorrideva.

Poi disse con invariabile monotonia d'accento:

— Angela aveva una grande amica, la sua macchina da cucire — le parlava, l'accarezzava, le voleva bene; le diceva d'andare più presto o più lenta, e se saltava i punti le faceva dei rimproveri. Quando il lavoro era avviato e lo vedeva correre senza intoppi, Angela cantava. — Dopo le vesti della morta, dopo alcuni oggetti che mi parevano inutili, dopo altri oggetti che prima mi erano parsi necessari, un giorno vendetti la macchina da cucire — scomparve l'ultima gioia della nostra casa. — Angela si provò a cucire a mano, ma non sapendo molto, si punzecchiava le dita per fare in un'ora di fatiche e di lagrime il lavoro di pochi minuti — non guadagnò più i suoi pochi soldi che me la facevano orgogliosa e contenta. Un giorno la bambina ebbe fame — essa non me lo disse sapendo che era inutile e non volendo affliggermi, ma io l'indovinai... perchè avevo fame anch'io — corsi da tutti i miei conoscenti, mostrai nuda la mia sventura, di cui fino allora ero stato geloso, tornai con poche lire, si cenò. Un altro giorno ritentai, ma non avevo più nulla di nuovo a dire, tranne che avevamo fame ancora... Ancora? — ed è questo l'orribile che si può aver fame tutti i giorni — e nessuno lo crede... Mi cadde sott'occhio l'avviso del giornale, mi venne un'idea — scrissi; quand'ebbi buttata la lettera nella buca già ero pentito — pensavo che quei foglio bugiardo avrebbe portato una falsa gioia od un falso dolore... il domani venni alla posta ad aspettare il signor Nebuli...

— Comprendo, — interruppi, — lei ci ha veduti e ci ha seguiti, per ispiegarci tutto, per toglierci forse da un'ansia crudele.

Il signor Salvioni crollò il capo amaramente.

— No, no.... avrei aspettato domani forse.... ma la piccina ha fame anche oggi.... —

Anche oggi! Come le disse queste due parole!

Chiarina ed Annetta erano commosse e volevano subito correre a vedere la piccina. L'amico Nebuli cavò di tasca il portafogli, ne tolse alcune carte di nessun valore, e pose il resto nelle mani tremanti del disgraziato, il quale, smessa la petulanza d'imprestito, non sapeva più far altro che piangere — e il signor Bini mi rubò un'idea, che mi stava venendo: restituire l'amica alla signora Angela, accompagnare cioè il padre infelice e comperare la macchina da cucire.

L'idea, dico, stava venendo a me pure, e se non era propriamente arrivata, è solo perchè la tratteneva per via il timore di essere sproporzionata alla mia borsa.

— Bravo! dissi sottovoce al vecchio; — ma sappia che mezza la macchina la voglio pagar io; mi dirà quello che spende. —

Il signor Bini mi guardò in faccia e si mise a ridere — ed io pensai che dovesse avere una vena di matto, perchè, ditelo voi, che c'era da ridere?

Eravamo sulla soglia; il Salvioni scendeva già gli scalini a quattro a quattro, quando Valente ci raggiunse:

— Prima della macchina da cucire si ricordi che hanno appetito.

— È vero, e devono averne molto, — disse il signor Bini; — non me ne ricordavo, perchè io non ne ho mai prima delle sei.

— Alle sei ne avrà per desinare con noi? Non dica di no, lei non è più un estraneo; oggi dev'essere giorno di festa, vogliamo stare allegri.... verrà?

— Verrò, verrò. —

E appena Valente fu scomparso, il vecchio fece un sospiro lungo.

— Poveraccio! — esclamò, — e dire che con quel cuore ha perduta la lite!

— L'ha proprio perduta?

— Sono le tre.... si figuri se a quest'ora non l'ha perduta! —

Egli scese le scale per raggiungere il Salvioni, io rientrai un po' turbato.

Ma Valente rideva così forte, e la signora Chiarina con tanta grazia, che non mi fu possibile ospitare per cinque minuti quella inquietudine, e la cacciai, dicendo dentro di me che il signor Bini andava matto per le facezie, e non sempre le sapeva scegliere. Avrei però avuto caro di sapere almeno se era quello il giorno della decisione della lite.

— Allegri — dissi — questo non è che un acconto sulla gioia futura; vedrete che il signor Giuseppe buon'anima ci manderà a dire di far le nozze e che saremo tolti dagli impicci della lite. —

Ma Valente non mi badava.

— Quando si tratta la tua lite? — domandai allora.

— Domani, credo.... ne ebbi l'avviso, ma no, si tratta oggi.... si è trattata — a quest'ora forse tutto è finito. —

E tornò a ridere, e tornai a farmi pensoso.

Il signor Bini recò le più liete notizie della ragazza, che era una bella bambina tutta occhi; del signor Salvioni, che era propriamente onesto e disgraziato; del loro appetito fenomenale e della macchina da cucire, che era di Elias Howe a doppio punto.

Quante ciancie a tavola! Quante risate! Quanti bicchieri! Solo sotto le mie ciancie rimaneva un sottinteso, e le mie risate avevano i sordini, e nei bicchieri che mi vuotavano in corpo il buon umore rimaneva la feccia d'un pensiero importuno. Ma tutto questo in principio; alle frutta, quando fui proprio saturo di buon umore, risi anch'io a gola spiegata, sprigionai anch'io tutti gli spiritelli che avevo sulla lingua.

Uno ne buttai in faccia al signor Bini — uno capace di farlo sparire sotto la mensa.

— Quel povero Salvioni, — dissi — com'era mortificato d'aver preso ad imprestito un nome non suo! Che anima candida deve avere! Ha fatto lo scrivano d'un avvocato senza farsi una macchia d'inchiostro! —

Naturalmente guardavo il signor Bini, e il signor Bini guardava me, e rideva e rideva. Invidiabile faccia tosta!

Fu proprio in mezzo al cozzo degli ultimi bicchieri che l'uscio si aprì, ed io compresi dal modo d'aprirsi che lasciava passare una brutta notizia.

Entrò Marco, l'enorme Marco, a cui dopo il tramesso coi pisellini avevo sempre dato del voi; entrò recando una lettera.,..

Valente l'aprì, la lesse, balbettò che era uno scherzo, rilesse — io mi ero rizzato in piedi.

— Andate pure, — consigliai a Marco, che rimaneva a fare il curioso.

— Va pure — ripetè Valente; non è nulla — disse poi con voce serena — è il mio avvocato, il quale mi scrive che abbiamo perduta la lite, che andremo in Cassazione, che possiamo mettere innanzi quattordici cause di nullità. —

Non crediate che facesse la commedia, parlava come sentiva; e siccome nessuno rispondeva, egli insistè:

— Allegri! Non sono già rovinato per questo! Lavorerò. E per incominciare, venderò la Spuma del mare! Non è vero, signor Bini? —

V'immaginerete che il signor Bini ridesse e si fregasse le mani; me l'aspettavo anch'io, ma quell'uomo mi contraddiceva in tutto, non si fregò le mani, non sorrise, appena appena disse: — verissimo! — e mutò discorso.

— Sta a vedere che si pente, — dissi più tardi ad Annetta.

— Peggio per lui; la Spuma del mare troverà compratori egualmente.

— Hai osservato — soggiunsi — come rimase sereno l'amico Nebuli all'annunzio della sua disgrazia.... E che ne hai argomentato?

— Che non gl'importava di perderla....

— E sai perchè?... perchè la sua gioia era troppo grande; domani ci ripenserà e ne avrà dolore.... E qual massima filosofica vien fuori da tutto questo?... —

Annetta mi guardava facendo un gesto discreto e scherzoso, che io intesi benissimo. E soggiunsi niente affatto ferito dall'allusione:

— Ne vien fuori questa massima, che se vi sono gioie che il denaro non può dare, vi sono gioie che il denaro non può togliere.

— Però ne può dare di belline — osservò Annetta, — l'hai visto il Salvioni!

Ed io che ero in vena, proseguii:

— Appunto! E quale altra massima di filosofia pratica ne deriva?

— Dilla, e poi smetti che ho sonno.

— Ne deriva che il denaro non si deve confondere colla gioia e colla felicità, ma bisogna stimarlo solo allora che dà la gioia e la felicità, e farlo servire a questo unico fine.

— Bravo, buona notte! —

XVII. La Venere se ne va.

La mattina seguente, quando dopo molte titubanze stavo per scendere a far visita all'amico, fu egli, Valente Nebuli, che entrò in casa mia. Aveva la fronte oscurata da un pensiero, che, senza affliggerlo propriamente, pareva importunarlo.

— La notizia la sai? — mi disse sfuggendo un istante alla stretta di quell'importuno — sono rovinato.

— So che hai perduta la lite.... stanotte ho sognato che era un brutto scherzo del tuo avvocato.... e invece.... però.... —

Non sapevo quello che mi dicessi, Valente uscì a ridere.

— Sì, ho perduta la lite, e pare che mi toccherà restituire, tra capitali, interessi e danni, un po' più di quello che posseggo; perchè, come immagini, mio zio si era mangiato un po' del fatto suo, che non era suo, ed io mi sono mangiato un po' del fatto mio, che non era mio; è venuto stamane l'avvocato a spiegarmi bene la cosa. E sai qual è la mia fortuna? (lo dice lui, io non l'avrei indovinata in cento) è che abbiamo accettata l'eredità col benefizio d'inventario, altrimenti dovrei ora, rimetterci del mio.... e mi troverei in un certo imbarazzo.... come ti puoi immaginare. Ci è un solo guaio, che anch'io ho speso, che la mia povera Venere me la sono quasi mangiata — non vi è rimedio. Quando vedi il signor Bini, mi farai piacere dicendogli che il quadro è a sua disposizione, se lo vuole ancora.... intanto domani lo manderò a prendere....

— Perchè?

— Per farne una copia, ma questo non glielo stare a dire.

— È capace d'indovinarlo. —

Valente si strinse nelle spalle, serrò le mie mani nelle sue, sorrise, e per poco non mi disse: — come sono felice!

— Sei di buon umore stamane.... — osservai.

— Sì, proprio, tanto. Ho ricevuto una buona notizia.

— Quale? —

Cambiò discorso per non dirmela, ma più tardi la seppi da mia moglie, che l'aveva saputa dalla signora Chiarina: la polizia era sulle tracce del signor Salvioni.... morto; lo aveva accompagnato fino al momento, in cui da Napoli partiva per il Cairo, dove allora infieriva il colera....

Qui anch'io, come l'amico Nebuli, avrei messo una reticenza lunga; ma mia moglie, niente scrupolosa, soggiungeva: — Per poco che il colera sappia il fatto suo, il primo che si è portato via è il vostro Salvioni!

— E che conti di fare, ora che sei.... che non sei più.... che sei.... così? — diss'io a Valente.

— Ho già fatto! — mi rispose, — ho già fatto dieci castelli in aria; prima di tutto vado in Cassazione, per guadagnare tempo; poi in campagna a vivere di pace e di lavoro. Farò scendere dalle nuvole tutti i quadri, a cui ho dato una cornice di stelle, imbratterò parecchi chilometri di tela, ed in pochi anni mi sarò rifatto ricco colle mie mani!

— E ti senti capace di tutto questo?

— Di che non mi sento capace, ora che l'avvenire ricomincia ad esser mio? Con quei procuratori ai fianchi, con quegli uscieri alle calcagna, mi pareva d'averla ipotecata la mia porzione di futuro. Ora sono povero, ma sono libero, e se mi rimane Chiarina!... —

Così parlò quello sventato, quel sonnambulo, quel delirante; io lo guardavo a bocca aperta, felice in fondo che egli pigliasse la cosa a quel modo, ma disgustato di vedere una testa piena di ingegno, così vuota di criterio. Il torto lo diedi alla Natura, la quale incomincia gli uomini bene, ma non li sa mai finire; al disgraziato Valente diedi invece centomila ragioni, non gli potendo dare qualche cosa che valesse meglio.

Qualcuno mi chiede se non mi venisse il sospetto che egli, non io, fosse il vero filosofo; quel sospetto mi venne, ma non resse alla riflessione e se ne andò; per me era chiaro che Valente, se pure operava da filosofo, non ne aveva coscienza e non metteva ordine nelle sue azioni, nè sistema nei suoi ragionamenti. Non dico che la filosofia sia unicamente sistema (come vogliono certuni); filosofi profondi alla mattina, i quali diventano infelici a colazione, se la bistecca è troppo cotta, infelicissimi alla sera se perdono qualche quattrino alla tombola, ne conosco anch'io; ma perchè ho il buon senso di non proporli come modelli all'amico Nebuli (il quale non mi darebbe retta), non dirò già che filosofo e capo scarico sono sinonimi.

Del resto, sì, Valente aveva in fondo qualche ragione di non affliggersi, oltre questa interamente stoica che tanto tanto affliggendosi non ci avrebbe guadagnato nulla: aveva il suo pennello, la sua fama, la sua donna più che mezza, ed il suo avvenire intero; ai bisogni del momento dovevano provvedere la Spuma del mare e l'avvocato colla Cassazione, colle liquidazioni, colle opposizioni, col Dio sa che diavolo.

E con tutto ciò, quando il signor Bini fu stato tre giorni senza farsi vivo e ci cominciò a venire il sospetto che, dopo aver rifiutato i dollari degli Americani, la famosa Spuma si dovesse accontentare delle lirette italiane, mi parve (non ne sono sicuro) che un po' dell'inalterabilità di Valente se ne fosse andata. Pur si mostrò disinvolto, ritirò dalla Mostra il suo capolavoro e si accinse a farne la copia.

Da 24 ore la Spuma del mare era rientrata nello studio paterno, quando giunse da me il signor Bini.

— Che ne è stato della Spuma? — disse.

— L'ha ritirata Valente, — risposi sorridendo.

— Lo so...

— Volevo ben dire!

— Lo so, ma che ne vuol fare?

— Venderla.

— Ci è chi la compera?

— Glielo vada a chiedere.

— Andiamoci. —

Scendemmo; l'amico si era appunto messo dinanzi ad una tela delle medesime dimensioni dell'altra, e tracciava le prime linee del disegno.

— Eccellente idea! — disse il signor Bini — lei vuol fare una dozzina di Veneri per mandarne una in America, una in Russia, una in Germania, eccetera. I compratori non mancheranno; chi ha preso l'originale si contenta?

— Nessuno l'ha preso ancora, — rispose Valente con nobiltà.

E allora io, mettendo muso duro, entrai a dire:

— L'amico Nebuli non ha voluto farle torto...

— To', — disse il furbone, colla sua flemma, — è vero, io volevo comprare il quadro, mi piaceva la Venere... superba Venere... mi piace ancora... ebbene sì, la compero;... ma allora è inutile, sa? che faccia la fatica di copiarla; preferisco pagarla qualche cosuccia di più e sapere che di Veneri come la mia non ce n'è alcuna al mondo... Un artista come lei, signor Valente, spenderà sempre meglio il suo tempo creando un miracolo nuovo, ed io pure spenderò meglio il mio denaro... E quanto domanda della Spuma del mare? —

Ed io mi affrettai a chiedere:

— Quanto ti aveva offerto quell'Americano?

— Ventimila lire; — balbettò Valente.

— Dunque? — dissi, rivolgendomi al signor Bini.

Mi pareva che il mio accento, il mio sguardo, aiutati dalla sua memoria, dovessero dirgli chiaro: «dunque, faccia il conto; lei ha offerto il doppio;...» ma lo smemorato fu anche cieco e sordo; non vide, non intese, non ricordò nulla: — negozio conchiuso, — disse — per ventimila lire il quadro è mio; lei lo faccia accomodare entro la sua cassa; io manderò a prenderlo oggi stesso. —

Tre ore dopo il signor Bini venne, accompagnato da due uomini, i quali si caricarono sulle spalle la Venere.

Noi, che ci eravamo messi alla finestra, la vedemmo passare un'ultima volta... Dove andava? Il vecchio non ce l'aveva detto; ed io balbettai sottovoce: — buon viaggio! —

Quando Valente non vide più i tre uomini, che avevano svoltata la cantonata, chiuse le vetrate e guardò il fascio di biglietti di banca che il vecchio gli aveva messo fra le mani.

Non disse parola e tornò nello studio. Io ammiccai dell'occhio; Chiarina ed Annetta mi compresero; lo lasciammo solo.

XVIII. Cose strane.

— Ma sai che è una combinazione strana! — disse Annetta per la ventesima volta.

— La ti par proprio una combinazione strana? — diss'io.

— Non ti capisco....

— Non mi puoi capire, perchè non hai fatto tutti i pensieri che ho fatto io sul caso e sulla combinazione. Vediamo. Ti giungono insieme due lettere, una delle quali (in ritardo) ti dice che una cosa da te desideratissima non si può fare, perchè si è presentato un ostacolo insuperabile, l'altra ti annunzia che l'ostacolo è scomparso e che la cosa si farà. Tu leggi la lettera sconfortante, leggi poi la seconda; senza volerlo, la gioia che ti ha dato questa ultima, dopo lo sconforto della prima, la metti in conto della combinazione, ed esclami: oh! la strana coincidenza! Ma se tu leggevi prima la lettera che ti annunziava tolto l'ostacolo, è molto se badavi alla combinazione del ritardo della seconda lettera e della coincidenza di entrambe: e pure nulla è mutato, fuorchè il tuo modo di sentire. —

Quando io infilo qualche androne filosofico un po' buio e m'ingegno di tirarmi dietro mia moglie, rischiarandole i passi, essa mi accompagna tra sbigottita e ridente, e qualche volta, come questa, mi domanda:

— Dove si va a finire?

— Or eccoti un altro aspetto della stessa cosa, — diss'io. — Bada di notte ai fanali d'una via dritta e lunga; sono distanti l'uno dall'altro cento buoni passi; ma se tu ti allontani e ti volti, li vedi ravvicinarsi e coincidere. Lo stesso accade nella storia, che è la notte dei tempi, dove gli avvenimenti memorandi sono i fanali d'una via diritta e buia, e pare che si tocchino per ragioni di prospettiva, ma non si toccano punto; e forse la storia è da rileggere con questo criterio, e forse tutte le superstizioni non hanno altra origine.... e forse....

— Insomma, — mi chiese Annetta, — ti pare o non ti pare una combinazione strana? —

Giudicatene voi; ecco la lettera che avevo ricevuto quella mattina:

«Caro parente,

«Senza che lo sappiate, vi sono parente; perciò senza conoscervi mi siete caro.

«La nostra parentela è un po' lontana, ed ho stentato a trovarne il filo; ma siccome non ho altri parenti al mondo che voi, e mi premeva di non perdervi, vi ho trovato.

«Io sono un po' ricco ed un po' vecchio; se morissi senza far testamento, è probabile che lo Stato vanterebbe diritti di parentela più prossimi dei vostri per non lasciarvi un quattrino del fatto mio.

«Ma prenderò le mie cautele; intanto siccome voi non siete ricco, comincio a darvi un acconto, perchè non ho nissuna fretta d'andarmene, spero di fare i miei comodi e mi preme che possiate aspettare pazientemente. Non vi offendete di questo linguaggio; parla l'esperienza d'un vecchio, il quale sa come il denaro guasti spesso i sentimenti più gentili e gli animi migliori.

«Ho una lite pendente, sarà sciolta domani, e vinta da me; queste monete che mi costano tanti anni di dispetti, di puntigli, di amarezze, non le voglio prendere colle mie mani; abbiatele voi; così io vendico la mia dignità d'uomo, offesa dal puntiglio meschino.

«Il mio avversario d'oggi vi è noto: è il signor Valente Nebuli, pittore, il quale si troverà nelle strette del bisogno, quando abbia perduta la lite.

«Il caso mi serve in tutto; voi gli siete amico, e non dubito che gli renderete quanto meno penosa è possibile la restituzione. Da voi accetterà un indugio, da me lo sdegnerebbe.

«Però un patto io pongo al mio dono: se la parte avversaria andrà in Cassazione, se venisse cassato il giudizio, voi non verrete a componimento mai e proseguirete la lite, in cui ho speso tanti anni.

«Io non vi conosco, ma il mio avvocato di Milano, che vi ha visto e si è informato di voi, sa che siete un uomo ordinato ed onesto, e che non farete offesa alla mia volontà.

«Alla vigilia del gran giorno, che deve darmi vinta la lunga ed odiosa guerricciuola, mi sento debole; temo le strette d'una gran gioia, e fuggo. — Facendo donazione a voi, mi pare di mettermi fuori di causa; ma per rassicurarmi interamente me ne vado, starò assente una settimana.

«Il notaio, impostando questa lettera quattro giorni dopo la sentenza, vi avvertirà pure dell'atto pubblico di donazione che ho fatto e sottoscritto oggi alla presenza dei testimonî....

«Accettate, caro parente, la prima prova del mio ultimo affetto.

Lecco, 13 dicembre.

« Il vostro Giulio Pasquali.»

— Ma sai che è proprio una strana combinazione! — esclamò Annetta per la ventunesima volta. —

E perchè io stava zitto, ella insistè:

— Ma insomma parla, di' qualche cosa anche tu....

— Vuoi proprio che te la dica come la penso?... Non mi pare una combinazione, mi pare uno scherzo.

— Uno scherzo di chi?...

— Non lo so; ma non vedi tu stessa come è inverisimile tutta questa storiella? Il signor Pasquali non ha parenti più prossimi di me, ed io non so nemmeno chi sia il signor Pasquali — egli dice meschini i puntigli che l'hanno fatto litigare molti anni, ma pretende ch'io continui a litigare in nome suo; ha paura che lo pigli un accidente per la gioia d'aver vinta la lite, ed è sicuro di vincerla e rinunzia ai benefizî;... cara mia, tutto ciò è troppo inverisimile, dunque non è vero. —

Ma quando due ore dopo mi giunse la lettera del notaio di Lecco, il quale, avvertendomi dell'atto pubblico, m'invitava a fare l'accettazione, allora senza dir nulla ad Annetta, mi andai a chiudere nel mio studiolo per pensare con metodo.

Questo era il quesito:

«Posto che la donazione è vera, indagare fino a che punto è verisimile.»

Mi passavano cento embrioni di idee nel cervello, ma un'idea intera non m'era venuta ancora.

Quando uscii dallo studiolo, mi era venuta.

Sapete che aveva fatto la mia Annetta? Era corsa dabbasso a dir tutto alla sua Chiarina.

— Ah! — esclamai — lo dirà a Valente!

— Mi ha promesso di non dir nulla; e poi bisogna pur che lo sappia un giorno o l'altro, se la cosa è vera; se invece è uno scherzo, che male ci è?

— Non è uno scherzo, — dissi.

— Sì? Ma allora siamo proprio ricchi!

— Sì, purchè ci adattiamo a spogliare la tua Chiarina e Valente!... —

Credevo d'aver gettato una doccia sul suo entusiasmo, ma ella soggiunse:

— Non gli spoglieremo, faremo a metà; l'ho già detto a Chiarina, ed è tanto contenta, tanto contenta....

— To', e tu disponi così senza dirmi nulla?... — dissi facendo il serio.

— Sei tu che disponi, sono sicuro che questa idea è venuta anche a te. Non vorresti già farti ricco colla miseria dei nostri migliori amici; dunque, meglio che rinunciare alla donazione per restar poveri tutti, tu accetti e fai due parti giuste....

— E credi che l'amico Nebuli sarà contento di spartire con me?...

— Vorrei vedere, non è lui che spartisce, siamo noi; e non si può pretendere di più, mi pare; se fossimo milionari, via.... ma poveri come siamo anche noi.... ci vorrebbe una bella faccia tosta a volere che ci spogliassimo per lui.

— Egli non pretenderà nulla, ma non vorrà niente da noi....

— E che farà colla sua superbia?

— Andrà in Cassazione.

— Ci vada, ci andremo anche noi; sarà peggio per lui; la lite non la vincerà egualmente....

— Perchè?

— Perchè se i tribunali questa volta hanno detto che il vecchio Corvi era imbecillito, è segno che lo era proprio.

— A te non pareva imbecillito per altro.

— E nemmeno a te.... Ma l'hai conosciuto tu? L'ho conosciuto io? Che ne sappiamo noi? Si diceva per dire.... —

A questo punto non mi trattenni più, le chiusi la bocca con un bacio, poi le dissi dolcemente: — taci, taci. —

Ella mi guardò sbigottita, comprese:

— Diventavo cattiva — disse — non è vero?

Entrò in quella l'amico Nebuli; al primo vederlo indovinai che egli sapeva tutto. Mi venne incontro e si sforzò di sorridermi, ma fui io a prendergli la mano che egli non mi dava.

— Che cosa dunque è accaduto di curioso? — mi disse.

— Ah! — risposi — gran cose! — leggi.

Lesse egli le due lettere del signor Pasquali e del notaio; e disse:

— Che combinazione strana! tu l'unico parente?... Che strana combinazione!...

— Non mi dici altro?

— Ah!... sono contento, proprio contento....

— Vuoi essere sincero? — dissi io mestamente — non sei contento....

— Perchè?... Che ci perdo io? Non è forse meglio che la mia disgrazia giovi ad un amico?

— Sì, è meglio, lo sai benissimo che è meglio; ma confessa che hai avuto un po' di dispetto a questa notizia, e ci è stato un momento, in cui l'istinto ti diceva che la peggior disgrazia che ti potesse capitare era questa di veder le tue spoglie indosso all'amico del cuore, e confessa che tu a quell'istinto cattivo non hai tappato la bocca subito....

— Ebbene, sì, è vero; ma ora è passato.... ti giuro che sono contento e me lo devi credere.

Ci stringemmo la mano forte.

— Dunque posso accettare la donazione? — chiesi ridendo.

— Accetta, capperi! Ma ti avverto che andremo in Cassazione, che abbiamo quattordici cause di nullità — non te ne avrai a male?

— Ti pare? nemmeno per sogno! ma in Cassazione non ci andrai, così la lite sarà finita ed il mio caro parente non troverà nulla a ridire che noi facciamo due parti di tutto; la mia porzione me la darai con tuo comodo, un po' per volta, quando avrai venduto una dozzina di quadri; lavoreremo entrambi e non imiteremo quei due buoni amici di tuo zio e del mio caro parente.... —

Valente stava serio.

— Che ne dici? — insistei.

— Non posso; la tua generosità è degna della nostra amicizia, ma io non posso accettare nulla da te.

— Già — dissi — da me no, dai tribunali sì; dillo chiaro che la mia generosità ti offende, che ti faccio l'elemosina....

— Senza amarezza — disse lui — non è forse vero?

— No, che non è vero! — esclamai — i tribunali hanno dato oggi ragione a me, ma ieri l'avevano data a te.... Siamo pari; se tu vai in Cassazione ed hai quattordici cause di nullità, si torna da capo: puoi perdere tu, posso perdere io: intanto gli avvocati ci mangiano le rendite e ci rosicano il capitale, e il puntiglio ci addenta l'amicizia. Fammi il piacere: scrivi al tuo avvocato che in Cassazione non ci vai, io cercherò il mio per accettare la donazione. —

Ero stato eloquente; l'amico mi si buttò al collo, e mi diede un bacio sonoro. Annetta non stava in sè dalla gioia.

— Il tuo avvocato lo conosci? — mi chiese Valente sorridendo.

— No, è lui che conosce me, almeno così dice la lettera del mio parente, ma io non l'ho mai veduto....

— Mi viene un'idea! — esclamò Annetta.

— Sbagli, — la interruppi leggendogliela negli occhi.

— Il signor Bini.... — insistè mia moglie.

— Sbagli, — ripetei; — ti assicuro che sbagli. —

E diedi in uno scoppio di risa.

— Il signor Bini verrà oggi, — soggiunsi, — lo chiederai a lui stesso, vedrai che sbagli....

— Come sai che verrà oggi?

— È una mia idea fissa, sono sicuro che verrà. —

XIX. Guardo sotto la maschera.

Infatti il signor Bini venne a farci visita, perchè da un pezzo non ci vedeva, perchè probabilmente doveva lasciar Milano, ed anche perchè non aveva voluto passar dinanzi a casa nostra senza salir le scale....

Non mancavano i perchè, come vedete!

A me, che lo guardavo curiosamente, pareva di non averlo visto mai più compassato; si era cancellato il suo risolino malizioso, si era spento lo scintillío de' suoi occhi penetranti.

Eravamo soli; nessuno ci poteva tradire, e provai anch'io a fare il commediante, sedendogli di rimpetto, stando impettito quanto lui, e costringendolo a strapparmi le parole ad una ad una come monete d'oro. In quel gioco il vecchio si impazientì prima di me; vedendo che non trovava il verso di farmi uscire dalla mia trincea nel campo aperto delle chiacchiere, dove egli si sapeva il più forte, vedendo che se lui taceva, tacevo io pure contro le regole della buona conversazione, che le sue domande di quattro parole ottenevano risposte d'una parola sola, vedendo tutto ciò, si decise finalmente a dirmi:

— Caro signor Ferdinando, io ho l'occhio buono, e vedo che lei ha qualche inquietudine che mi nasconde; non è capitato nulla di male?

— Nulla.... — dissi trionfante, — al contrario, legga. —

E di botto, senza altro, gli consegnai le due lettere.

Le prese egli e le lesse con ordine, guardando prima l'indirizzo di ciascuna; io non gli staccavo gli occhi di dosso, ed egli leggeva sempre, muovendo le labbra, accomodandosi meglio in faccia alla luce, quando trovava qualche intoppo....

— Che cosa le pare?

— È singolare.

— Già, è singolare. —

Un istante dopo il signor Bini incominciò le interrogazioni.

«Avevo risposto? Non avevo risposto? Che volevo fare? Valente sapeva?...»

— È una cosa delicata, — osservò poi.

— Sì, molto delicata....

— E pericolosa.

— Niente affatto, l'amicizia vera non corre alcun rischio per una miserabile questione d'interesse...

— Però se ci entra il puntiglio....

— Non lo lasceremo entrare.... ci è stato un momento, in cui....

— Ah! ci è stato un momento in cui?...

— Un momento solo; Valente ed io siamo ora d'accordo. —

E allora gli dissi tutto; per la prima volta dacchè conoscevo quell'uomo, lo vidi commosso; egli si rizzò, mi strinse la mano e mi disse: bravo!

Lo accompagnai fin sul pianerottolo e già stavo per chiudere l'uscio, quando, fingendo d'essermi dimenticato di qualche cosa, lo riaprii e dissi semplicemente:

— Signor Pasquali! —

Il vecchio, che aveva sceso alcuni gradini, si volse di botto, mi vide e rimase un istante a bocca aperta a contemplarmi.

— Signor Pasquali — ripetei colla massima naturalezza.

Allora l'apocrifo signor Bini risalì, pigliò le mie mani nelle sue, mi guardò negli occhi e finalmente diede il segnale — e rise, e risi — un bel duetto!

Per un pezzo non potemmo smettere; la nostra risata passò per tutti i toni maggiori, fece le modulazioni più strane, proruppe negli accenti più inusati — e sempre senza che sprigionassimo le nostre mani, anzi stringendoci più forte come per comunicarci saldezza e coraggio.

Quando finalmente a forza di far la prova ci riuscì di diventare serii un po' più del naturale (come sempre accade), io dissi:

— Signor Pasquali, capisco il suo inganno fino alla decisione della lite; avrei fatto io altrettanto; spiego la continuazione del mistero dopo la sentenza, perchè un uomo ordinato come lei, dopo aver avviata una commediola, non poteva piantarla un paio di scene prima dello scioglimento; ma sappia che oramai ha un pubblico, e non bisogna fargli perdere la pazienza. —

Così io dissi scherzando.

— Valente sa? — mi chiese il signor Pasquali.

— Non sa nulla.

— Mi lasci il gusto della catastrofe; non gli dica nulla....

— Fino a quando?

— Fino a domani sera.

— Benissimo, fino a domani sera.

Poi egli scese le scale ridendo, ed io ridendo finsi di tornarmene in casa; ma cinque minuti dopo andai a trovar Valente.

M'ero prefisso di non dirgli nulla e forse perciò appunto avevo bisogno di vederlo, di sentirlo parlare, di assaporare la dolcezza del mio segreto come un avaro.

Mi parve che Marco nel ricevermi in anticamera avesse un aspetto meno solenne del solito, il che avrebbe bastato a riempirmi di meraviglia; ma pensate l'enormità del mio stupore quando egli, con un accento bonario, di cui non lo credevo capace, mi trattenne per dirmi che aveva qualche cosa a dirmi.

— Che cosa? — chiesi io rizzandomi in tutta la mia lunghezza e dandogli mentalmente dei voi.

— L'altr'ieri il signore mi ha licenziato....

— Davvero?

— Proprio.... e siccome ho trovato un padrone che ha fretta, vorrei pregar lei di pregar lui, perchè mi lasci in libertà oggi stesso; non farei una cosa simile, sa? se non si trattasse del mio stato.... perchè veda, a perdere una buona casa si fa presto, se ci si mette il diavolo in mezzo, ma trovarne una è difficile.... —

E nel dire queste ultime parole aveva ripigliata la sua dignità veramente esemplare; ma nondimeno gli risposi:

— Parlerò del vostro desiderio, vi posso promettere che sarete lasciato in libertà anche subito.

— Grazie — disse lui.

Io entrai nello studiolo.... e che vidi? Una tela incominciata sopra un cavalletto, un'altra addossata al muro, e la signora Chiarina tutta impacciata, che si era messa dinanzi a quest'ultima con un vezzo pieno di grazioso sgomento. Valente era di là.

— Come sta? — diss'io.

— Bene, e lei?.... e Annetta? — balbettò la vaga creatura facendosi rossa.

Ed io scherzando:

— Che ha? Che cosa mi nasconde? Mi lasci veder quel quadro.... —

Si fece più rossa ancora, se è possibile; all'ultimo disse allungando il braccio e dandomi la sua manina come per far la pace, ma senza muoversi:

— Non se ne avrà a male?... mi perdonerà? Valente non ne ha colpa, glielo assicuro io.... è stata una mia idea, lo so bene che lei non aveva bisogno di questo....

— Che cosa?... Come?... Perchè?...

— Mi prometta di ridere, — insistè la bella.

Risi.

— Non si offenderà proprio?

— Ma di che? —

Allora si scostò lentamente, chinando un pochino gli occhi a terra, ed io vidi.... indovinate?... Il mio primo quadro che avevo mandato alla Mostra, e che si era venduto miracolosamente dopo otto giorni.

La straniera incognita era lei, era quella donnina pentita della sua idea gentile come d'una colpa.

Confesso che ne ebbi un briciolo di dispetto, un briciolo solo; poi la gratitudine m'invase il cuore e non lasciò posto alle grettezze della vanità, e quando mi sentii capace di ringraziar la signora Chiarina sinceramente, soltanto allora il Russo usci dalle nebbie della dimenticanza a consolarmi, e dietro a lui l'ignoto compratore delle altre due tele.

— Mi perdona?

— La ringrazio — risposi — purchè non mi abbia fatto il tiro di comperare anche la Famiglia del Pescatore.... Vediamo, non ha per caso incaricato un Russo lungo come me, asciutto e magro, di trovar bella la rete e di lasciarvisi pigliare per ottocento lire?

— No, no.... e poi — disse Chiarina, rinfrancandosi — il suo quadro mi piaceva tanto, eravamo ricchi.... che male c'era? Glielo volevamo dire, ma lei era così contento che il suo quadro fosse stato venduto ad una straniera, che.... —

È vero; io era stato così contento, che sarebbe stato un peccato guastarmi quella gioia. Ne convenni di buon grado, e quando apparve Valente, lo baciai sulle due guance per gratitudine.

— Hai da farmi un piacere, — gli dissi poi — tu hai licenziato quel buon diavolo di Marco....

— Sì, ed anche il cuoco, incomincio a far economia.

— Ebbene, quel poveraccio di Marco si raccomanda a me, perchè tu lo lasci libero oggi stesso; ha trovato un buon padrone.... e....

— Vada.... vada; — mi disse Valente ridendo fra sè e sè....

— Perchè ridi?

Non mi rispose, ma appena fummo soli un istante, si guardò intorno e mi disse con un risolino misterioso:

— Il signor Bini ne fa una delle sue....

— Davvero?

— Mi pose in mano una lettera, corsi coll'occhio alla sottoscrizione e lessi:

Il padre di Chiarina.

Il testo del foglio diceva:

«Sono solo al mondo, sono vecchio; il cielo mi manda una figlia quando meno ci pensavo; sia benedetto il cielo! Venga domani alle 5 in via Bigli nº 19, ho buone nuove da darle; conduca la moglie, l'amico suo Ferdinando e la signora Annetta: faremo la pace.... Ah! Che mia figlia non mi respinga!»

Milano. 20 dicembre.

— Già, non vi è dubbio, è lui! è un invito a desinare.

— Che pace vuol fare? siamo mai stati in guerra?

— È una metafora — risposi ridendo. Ci andrai?

— Devi dire: ci andremo?... Credo di sì.... ha buone nuove da darmi!....

Compresi la sua speranza fallace, ma gliela lasciai pensando: non può fargli male.

— È curioso — dissi gettando ancora un'occhiata alla lettera..., — mi pare di aver visto altra volta questi caratteri!

— Anche tu! mi pareva.... sai?... ma poi ho pensato che il signor Bini non mi ha mai scritto....

— Nemmeno a me.... pure, quei g colla coda ad uncino io li ho già incontrati in qualche luogo; con quegli o che paiono fatti col compasso, ci siamo visti altre volte di sicuro.

Stetti un momento a pensare.

— No! no, non ci ha mai scritto il signor Bini.... — e qui balenandomi un'idea, finsi di cercare fra le carte del mio portafogli, e intanto diedi un'occhiata alla missiva del signor Pasquali, che portava la data di Lecco. Nessuna somiglianza.

— No! no, non ci ha scritto mai.... — ripetei — e pure quei g.... quegli o.... —

Dieci volte in pochi minuti fui tentato di spifferare il segreto del signor Bini; mi accontentai di sorridere, perchè l'amico Nebuli chiedesse: che hai? — ed io gli potessi rispondere misteriosamente: nulla.... nulla.

XX. Il signor Salvioni legge.

Recandoci il domani in via dei Bigli nº 19, si sapeva un po' tutti di andare ad una specie di teatro, per ridere un po'; ma io solo credevo di conoscere appuntino il programma dello spettacolo: «il signor Bini ha trovato una figlia fabbricata a Parigi e non la vuol restituire...., tanto più che nessuno si presenta per reclamarla. Quando tutto è in regola il signor Bini si sdoppia, sfodera il suo alter ego, il signor Pasquali; costui per far la pace col suo avversario nella lite, gli dà in moglie la figlia del signor Bini

Ma il vecchio furbo incominciò dallo sgominare le mie idee, mettendo la catastrofe, cioè quella che io reputavo tale, propriamente fuori dell'uscio; perchè tutti potemmo leggere sulla soglia a caratteri molto visibili: Pasquali.

— Come! — esclamò Valente, allora non è il signor Bini....

Parendo a me che la scritta sulla soglia mi desse licenza di dir tutto quello che sapevo — risposi:

— È il signor Bini, e non è il signor Bini; perchè, come tu dicevi benissimo l'altro giorno, il signor Bini non è il signor Bini. Mi spiego: il tuo avversario nella lite, il misterioso compratore della tua Venere, il padre putativo della signora Chiarina, sono tre persone in una sola. Attenti — soggiunsi — vogliam ridere! —

E mentre le nostre donne ridevano sul pianerottolo, il campanello rise chiassosamente di là dall'uscio: poi l'uscio s'aprì, e comparve.... indovinatelo che non è difficile, comparve Marco, il solennissimo Marco, impassibile e dignitoso sotto la livrea nuova.

Ci guardammo in faccia, e tornammo a ridere, sperando di farne venir la voglia anche al servitore, il quale non si lasciò tentare, e c'introdusse in una «vasta e ricca sala, splendidamente illuminata» come nell'ultimo atto di una commedia allegra, in cui si fanno le nozze. Nel mezzo d'una parete si vedeva la Spuma del mare dell'amico Nebuli, fiancheggiata da due mie creature, le ultime che avevano lasciato la Mostra Permanente. Mi volsi con una gran paura d'incontrare la famiglia del pescatore nella parete opposta, e mi consolai non trovandocela. Almeno il mio Russo non aveva fatto per ridere!

Una verità dolorosa mi dicevano quelle due tele, ed è che vendere i quadri di genere non è poi tanto più facile a Milano che a Torino, come Annetta ed io ci eravamo messi in capo.

Un istante dopo entrò il signor Pasquali.

— Caro signor Bini, gli dissi....

— Signor Bini.... — ripetemmo tutti ridendo.

— Pasquali Bini ai loro comandi; rispose egli senza turbarsi — si accomodino; lei, figliola mia, segga in questa poltroncina a fianco dei babbo.... Perchè hanno da sapere, — proseguì, — che ho trovato una figlia.... eccola.... vuol venire nelle mie braccia, signora Chiarina?... no? ci verrà più tardi... —

Provammo ad interromperlo; non ci fu verso.

— Mi lascino dire; devono anche sapere che io sono un po' testereccio, voglio le cose a modo mio, e solitamente le cose non si fanno pregar troppo. Ora voglio che la signora Chiarina sia mia figlia, che mi chiami babbo, che mi dia del tu e ogni mattina un bacio.

— Ma lei non è mio padre! — osservò Chiarina.

— E che ne sa lei? Era forse al mondo la signorina quando accadde la cosa? Sappia che andrò all'ufficio dello Stato Civile, a dire che lei è mia figlia, e tutti lo crederanno; se lo chiamano Stato Civile è perchè ci è della gente garbata, incapace di dare una smentita ad un vecchio pieno di reumi e di rimorsi. Appena io l'abbia riconosciuta, lei si chiamerà Chiarina Pasquali, vedova Salvioni....

— Vedova! — esclamò Valente.

Ma il vecchio tirò dritto:

— Si chiamerà Chiarina Pasquali, e per mettersi in regola colla legge del sangue, incomincerà a volermi bene così (si toccava la prima falange d'un dito), poi così (toccava la seconda), poi un po' più, ed io ne avrò abbastanza; se col tempo mi vorrà adorare, mi lascerò dare dei vizii, e per farle piacere procurerò di stare al mondo il più possibile. No? tutto questo non le accomoda? e allora io me ne andrò presto, lasciandola erede del fatto mio.... Quanto a lei, signor Ferdinando, sa benissimo che siamo parenti.

— Lontani! — interruppi.

— Sì, lontani, ed è una fortuna per me ch'io non l'abbia perduto di vista; dunque mi farà la cortesia d'accettare la donazione, e non se ne parli altro.... —

Valente, dopo d'aver pagato il suo tributo all'ilarità comune, ridiventava pensoso.

— Che pensa?

— Penso che la sua è una burletta piena di grazia, ma che non posso permettere....

— Lei non ha nè da permettere, nè da impedire; lo domandi al suo avvocato; lei ha da star zitto; a suo tempo mi chiederà la mano di mia figlia.... e vedremo. —

Qui Valente fece un sospiro lungo, e la signora Chiarina abbassò il capo sul petto. Allora il vecchio si rizzò in piedi ed accostandosi ad un uscio, disse forte:

— Signor Salvioni, venga pure. —

A questo nome di Salvioni, Valente e Chiarina sollevarono la testa con titubanza. Anch'io ebbi un sospetto orribile, e come in un baleno vidi una commedia mostruosa e crudele; ma il signor Salvioni apparve, ed era la persona più innocua dell'universo, era il signor Salvioni da burla, era quello della piccina, della macchina da cucire, dell'appetito, della lettera che ci aveva messo indosso il famoso sgomento....

Il signor Pasquali Bini ce lo presentò come suo segretario.

— Indovino! — esclamò Valente. — È lui che ha scritto la letterina di ieri!?

— È lui, — aggiunsi, — che fa gli o col compasso, ed i g ad uncino!?... Oh niente di male sa?... signor Salvioni, continui pure a farli così....

— È lui; — rispose il vecchio, — e siccome fu lui a metterci in affanno a causa del suo omonimo, eccolo qui a fare la penitenza. Legga, signor Salvioni. —

Quanto mutato il signor Salvioni! la contentezza gli aveva raso la barba, aveva messo un po' d'ordine nei suoi capelli e un sorriso discreto sulle sue labbra di segretario.

Egli lesse ad alta voce una breve scrittura, un gioiellino di pensieri, di forma, di lingua. Dalla prima frase Chiarina e Valente si buttarono nelle braccia l'un dell'altro; all'ultima fu un amplesso generale; la signora Chiarina ebbe i baci di Annetta, del vecchio ed i miei, cioè il mio, uno solo. E rendo questa giustizia a mia moglie, che fu essa a spingermi perchè facessi quel furto.

Il signor Salvioni si era messo timidamente in un canto, e si accontentava d'aggiungere un sorriso alla festa, non comprendendo forse niente più di questo, che ci era stato al mondo un altro Salvioni, il quale, due anni prima, al Cairo, aveva avuto la felicissima idea d'andarsene.

Or come il signor Pasquali si era potuto procurare la notizia preziosa?

— Occupandomene sul serio, — rispose egli; — Valente Nebuli si diede forse qualche briga nei primi giorni dopo la morte di Giorgione, ma probabilmente si intiepidì poi; ci avrà avuto le sue ragioni.... Ho speso, s'intende, un po' di danaro per procurarmi questo pezzo di carta.... Non voglio offendere gl'impiegati dello Stato.... il cielo mi guardi dal calunniare della brava gente magra ed onesta, ma sapete.... il denaro, che guasta tante cose (ed io lo so a memoria), a saperlo spendere ne accomoda tante altre...

— E come ha fatto?... (Guardandomi intorno, vidi che il signor Salvioni era scomparso, e allora ripigliai:) — e come ha fatto lei, che viveva sul Lago di Lecco, ad avere un'idea così felice?

— Come ho fatto? E lo so forse come ho fatto? Le idee mi sono venute una alla volta. È una storia lunga.... se la volessi contare, perderebbero la pazienza e l'appetito....

— Dica, dica.... —

E allora egli disse: — è una storia breve, me ne sbrigo in quattro parole — e parlò press'a poco così:

«Ero solo, mi annoiavo; da molte settimane le gazzette, a cui sono associato, non mi portavano nessuna notizia curiosa; l'avvocato mi scriveva sempre lo stesso ritornello; a forza di sostenere che il vecchio Corvi era imbecillito, mi pareva che le gazzette, il mondo, l'avvocato ed io fossimo imbecilliti tutti senza saperlo, come probabilmente è accaduto al Corvi buon'anima.

«Vennero in buon'ora gli entusiasmi della Spuma del mare. Mattina, sera, notte le gazzette mi parlavano di Valente Nebuli; l'autore della Spuma era per tutti un grand'artista, per il mio avvocato soltanto continuava ad essere la parte avversaria.

«Mi saltò un ghiribizzo, vedere il capolavoro; vistolo, volli comprarlo, e quando mi fu detto che non era da vendere, volli conoscere la parte avversaria, e come l'ebbi conosciuta, m'innamorai di sua moglie.

«Mi parve di sentirmi un po' di sangue giovane nelle vene; volevo far questo, quello, quest'altro; che cosa non volevo io fare coi miei quattrini per rimediare al male che mi avevano fatto? Ma non si sta in tribunale tanti anni, non si perde un amico, la salute e l'eguaglianza d'umore per nulla; prima bisognava vincere la lite. Aspettai; intanto le cose si complicavano; finchè sospettavate di me, me la godevo; quando mi svelaste l'affanno vostro, mi affannai anch'io, finalmente i tribunali sentenziarono. L'ultimo atto della commedia vi è noto; lo scioglimento eccolo: Chiarina Pasquali, vedova Salvioni, ama il signor Nebuli, pittore — e viceversa; il babbo acconsente, fa la dote; nozze.»

Valente provò a ribellarsi; al solito, non voleva permettere, ma il vecchio Pasquali lo fece ammutolire con queste parole:

— Supponete che io sia morto — si apre il mio testamento, ereditate voi altri; se per caso rifiutate, eredita lo Stato, il quale non si fa scrupoli. Ora, invece d'un funerale, mettiamo un pranzo di nozze; lei, signor Valente, piglia la dote, e mi lascia vivere ancora un po'.... Io non ci vedo questo gran male.... —

Entrò Marco; si tenne un istante nel vano d'un uscio, poi spalancò le portiere.

E allora il signor Pasquali, curvando la lunga persona, si prese cavallerescamente a braccetto la signora Chiarina, che non sapeva trattenersi dal ridere per la contentezza. Valente diè il braccio a mia moglie, io venni in coda.

A tavola ne seppi ancora una: la figlioletta del Salvioni era entrata in un collegio, ben inteso portandovi l'amica sua, la macchina da cucire.

— Anzi, signor Ferdinando, la macchina è costata cento venti lire, — mi disse il vecchio, — lei mi deve sessanta lire. Non se ne dimentichi; glielo ricordi lei, signora Annetta, perchè suo marito è tanto disordinato! —

XXI. Dopo il quale, lascio la penna per tornare ai miei pennelli.

Oggi v'è nell'aria qualche cosa d'insolito; dalla finestra aperta entra l'alito di marzo, ad annunziare la primavera, e il nostro cuore si apre come per ricevere la gioia.

Stamane Annetta si è svegliata cantando, ed io colla smania di scrivere l'ultimo capitolo della nostra storiella. Ho fatto bene o male a scriverla? Mi conforto pensando che scriverla era pur necessario; perchè quando la sorte fa un romanzetto curioso ed allegro, a cui vi pare che non manchi più nulla, io dico che una cosa ancora manca, ed è qualcuno, il quale bene o male lo metta in carta.

Questo è nell'ordine delle cose, ed io dacchè il signor Pasquali è lontano, torno a credere di non essere poi quell'uomo disordinato che egli dice.

Il signor Pasquali è a Parigi da quasi due mesi e mezzo, e sono con lui Chiarina e Valente. Partirono il domani medesimo della scenetta in via dei Bigli numero 19, perchè il signor Pasquali fece notare che le cose allegre non si fanno mai troppo in fretta, e Chiarina e Valente trovarono che era quella una massima piena di giudizio.

Annetta si provò a dire che non bisogna mai esagerare nemmeno le massime piene di giudizio, ma infine, pensando che partire tanto tanto dovevano, si fece forza e disse anch'essa alla sua Chiarina: — parti domani, e scrivimi, e torna presto! —

Partirono il giorno 22 dicembre; il 23 ricevemmo la prima lettera di Chiarina, da Torino: eccola:

« Carissima Annetta,

«Sono poche ore che non ti vedo, e già mi pare d'aver tante cose da dirti. Sentine una che mi era uscita di mente; fra due giorni è Natale, il piccolo Giovanni Battista verrà a farmi vedere che conosce tutte le lettere dell'alfabeto, per aver lo scudo d'argento e la veste nuova. Che cosa dirà non trovandomi? Non bisogna che egli pensi male di me; e perciò ti prego di far tu le mie veci. Non potendo esserti vicina in quel giorno, io sarò felice di vedervi col pensiero, te e tuo marito, nell'atto di esaminare il mio piccolo amico. Badate di non fargli troppa paura, perchè Giovanni Battista non è un eroe. Mancano pochi minuti alla partenza, il signor Bini mi dice che ho appena il tempo di mettere qui un bacio per l'amica mia carissima, ed una stretta di mano per il signor Ferdinando.

« Chiarina.

« PS. Se Giovanni Battista non conoscesse ancora bene tutte le lettere, ti raccomando di chiudere un occhio.»

Alla vigilia del Natale ebbi io l'incarico di acquistare i calzoncini ed il giubbetto di grosso panno bigio, e di provvedere uno scudo d'argento nuovo di zecca, che luccicasse come una stella.

Avevamo avvertito il portinaio, perchè mandasse Giovanni Battista da noi, ed al mattino, appena desta, Annetta mi disse:

— Chi sa se il piccino verrà?

— Se non venisse! — risposi.

Se non fosse venuto, mi avrebbe fatto dispiacere; ma venne; anzi fu premuroso, perchè mentre noi lo aspettavamo verso il mezzodì, alle nove del mattino egli saliva la scala. Fu la fantesca ad avvertirci che ci era una bella cosa da vedere; Annetta ed io andammo a metterci al finestrino, che guarda nel pianerottolo, e vedemmo il piccolo Giovanni Battista, il quale faceva salti poderosi per afferrare il cordone del campanello, senza riescirvi.

All'ultimo gli venne aperto, entrò. Mi parve che una nuova luce gli illuminasse la faccia, se non propriamente bianca, certo più chiara della prima volta, ma non per la nuova luce della scienza o della civiltà, come dissi per ischerzo ad Annetta, soltanto per questo, che Giovanni Battista si era lavato il muso rispettando le orecchie ed il collo.

Rideva il poverino, volendo così vincere la tremarella; ma aveva un bel fare, non era no un eroe — tutt'altro, — e bastò la vista d'un B maiuscolo (che doveva essere un suo implacabile nemico) a farlo timoroso d'aver perduto tutto l'alfabeto.

— Vediamo, — dissi, — non è difficile: che lettera è? Perchè non me lo vuoi dire?

Erre — balbettò.

— No.... — disse Annetta.

— E quest'altra? — interruppi, facendo un cenno a mia moglie — guardala bene. —

Giovanni Battista non istette in forse un attimo; non ci era di che, un V! figuratevi! Quando ebbe lette tutte le lettere, allora io corressi dolcemente il suo primo errore, gli feci notare la profonda differenza che passa tra il B maiuscolo e l' R maiuscolo, e gli diedi norme sicure, facili ed indimenticabili per non trovarsi mai più esposto a simili equivoci.

Ah! se la signora Chiarina mi avesse inteso, e se avesse visto la gioia sulla faccetta bigia di Giovanni Battista, quando egli ebbe la bella veste, lo scudo bello ed i panetti saporiti!

Alla sera, nell'atto di scrivere fra le spese diarie il regalo fatto al nostro piccolo erudito, fermai Annetta, che se ne andava, per chiederle:

— In tutto dunque la buona azione ci è costata?

— 18 lire e 50 centesimi.

— E quanto credi che valga?

— 18 lire e cinquanta centesimi.

— Verissimo! — diss'io; — ma queste 18 lire e 50 centesimi hanno un valore enorme, hanno il valore di una gran gioia, d'una felicità intera. E stammi attenta a quello che io faccio.... —

Feci un richiamo accanto alle 18,50 così (1) e scrissi in margine:

«(1) Il denaro vale la gioia che dà, il benefizio che reca; chi disprezza il denaro è segno che non lo sa spendere; e chi crede di stimarlo troppo, solo perchè n'è avaro o lo misura a centesimi, costui invece lo disprezza.»

— E per chi le scrivi queste belle cose?

— Per i nostri figli che verranno; io voglio che essi trovino in questi libriccini della spesa diaria un po' dell'anima del babbo che li amava tanto.

— I nostri figli! — mormorò Annetta sorridendo senza averne voglia. — Io mi sono messa il cuore in pace.

— Io no; siamo da tre anni soli marito e moglie. La signora Carolina non ebbe forse una bella bimba dopo sette anni di nozze? E la tua amica di Torino, Clotilde? E quell'altra?.. come si chiama? —

Un passero è venuto a posarsi sul davanzale, ha fatto un mezzo giro a destra ed un mezzo giro a sinistra colla precisione d'un veterano, poi, guardando dalla mia parte, mi ha detto una parola che ho capito benissimo, e che sono tentato di scrivere: — fine.

Ma non mi fido; potrei aver dimenticata qualche cosa....

Ah! non vi ho detto che uno stupore magnifico si prepara a Chiarina e Valente. Nel loro quartiere se vi ricordate, vi erano alcuni errori da correggere; dello studio bisognava farne un salotto, d'un salotto lo studio, di due camere da letto una sola. Tutto ciò è fatto.

E non vi ho detto che in una lettera di quindici giorni sono Valente mi confidò d'essere preso da una smania insolita, quella di lavorare molto. Ed io capisco perchè: perchè oramai il suo avvenire, cessando d'essere indeterminato, non fa più la guerra al presente.

E non vi ho detto che da otto giorni essi, cioè Chiarina Pasquali e Valente Nebuli, sono proprio marito e moglie, e che se la mia Annetta viene ogni tanto in punta di piedi a mettermisi alle spalle, ed ha la mantellina in dosso ed il cappello in testa, è perchè mancano quaranta minuti all'arrivo del convoglio, e l'impazienza le fa calunniare il mio orologio, un modesto orologio di Ginevra, ma piantato in regola sulle sue otto pietre, ed incapacissimo di fare un passo più lungo o più breve del necessario.

Impaziente la mia parte sono anch'io, ma so che alla stazione ci andremo in quindici minuti e che mi basterà infilare il pastrano per essere pronto.

E non vi ho detto, ma l'avete indovinato, chi è che arriverà colla corsa delle undici e cinquantacinque.

Arriverà il prezioso signor Pasquali; arriverà il mio migliore amico; arriverà la donnina più adorabile dell'universo.... dopo mia moglie.

PS. Nota di mia moglie: Ipocrita!

FINE.

INDICE

Capitolo Pag.

I. Qui cominciate a vedere che nel mondo si danno combinazioni curiose 7

II. L'amico Valente 23

III. Qui tiro su una cortina e comincio a vedere un mistero 31

IV. Corvi contro Corvi 43

V. Assisto ad un miracolo 49

VI. La signora Chiarina mi dà l'idea del mio capolavoro 57

VII. Faccio la conoscenza d'un incognito 71

VIII. Quello che io dovevo sapere 83

IX. In cui l'incognito comincia a tormentare la mia curiosità 97

X. Il signor Bini continua 105

XI. Qui una signorina leggerà due volte senza comprendere 113

XII. Il signor Bini non è il signor Bini 123

XIII. Mia moglie ne fa una grossa 127

XIV. Il signor Salvioni scrive 139

XV. Il Signor Salvioni viene 147

XVI. Il signor Salvioni parla 159

XVII. La Venere se ne va 171

XVIII. Cose strane 179

XIX. Guardo sotto la maschera 189

XX. Il signor Salvioni legge 199

XXI. Dopo il quale, lascio la penna per tornare ai miei pennelli 209

DELLO STESSO AUTORE:

Capelli biondi L. 1 —

Un tiranno ai bagni di mare 1 —

Il tesoro di Donnina 3 —

Amore bendato 2 —

Fante di picche — Una separazione di Letto e di Mensa — Un uomo felice 1 50

Il romanzo di un vedovo 1 —

Fiamma vagabonda 1 —

Due amori — Un segreto 1 —

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina elaborata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.