MILANO
TIPOGRAFIA EDITRICE LOMBARDA Via Larga, 19 1874.
Proprietà Letteraria.
A MIO PADRE
Mi è caduta l'altro di sottocchio una pagina di un critico bizzarro e profondo; leggendola, mi è tornata in mente come cosa che avevo già letto, e insieme ne rammentai l'occasione e il modo della prima lettura, e l'approvazione che tu davi alle idee espressevi, ed i dubbi che a me rimanevano, e che, pensandoci, ho poi risoluti d'accordo col nostro autore. Il quale non è altri che Carlo Baudelaire e nella prefazione ai Racconti Straordinarii di Poe espone i vantaggi che ha la novella sul romanzo, senza dire quelli che il romanzo ha sulla novella.
Non so se ricorderai questo brevissimo momento della vita. Io trascrivo qui quella pagina per vedere di ravvivartene l'immagine.
« La novella ha sul romanzo di vaste proporzioni l'immenso vantaggio che la sua brevità cresce l'intensità dell'effetto. La lettura che può farsi d'un fiato, lascia nello spirito una memoria assai più tenace d'una lettura sbocconcellata, interrotta spesso dalle faccende mondane. L'artista, se sarà abile, non adatterà, no, i propri pensieri agli incidenti, ma, avendo concepito di proposito, a suo genio, un effetto da produrre, inventerà e combinerà gli avvenimenti più adatti a produrre l'effetto voluto. Se la prima frase non è scritta coll'intento di preparare la finale impressione, l'opera è sbagliata dal principio. In tutta la composizione non deve entrar parola che non sia un'intenzione, e non tenda, direttamente od indirettamente, al disegno prestabilito.»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
A tutte queste idee e specialmente alle ultime che, mostrando la difficoltà della novella, le aggiungono valore e nobiltà, tu dicevi: «benissimo.»
Ed ecco perchè, invece d'un lavoro di maggior mole, dedico a te questi racconti.
SALVATORE.
FANTE DI PICCHE
I.
A ventidue anni Donato è un bel giovane bruno; sa tirar di sciabola e di pistola, caracollare con grazia sopra un cavallo, infilar come saetta le vie di Milano sul velocipede, e sa all'occorrenza camminare a piedi senza dinoccolar le gambe per far pompa d'una disadattagine che è l'ultima parola dell'arte del perfetto cavallerizzo. A ventidue anni Donato, non ostante il contagio della città dove vive da un pezzo, si è serbato figlio e fratello tenerissimo, adora la canizie del suo vecchio padre e non immagina al mondo cosa più soave della testolina bionda della sorella. Or ecco perchè il vecchio Norberto e Mariuccia in quella calda sera di luglio si lasciano rubare i sospiri dalla brezza senza quasi avvedersene: Donato deve abbandonare ancora una volta la paterna villetta di Romanò in Brianza, per tornarsene alle severe assiduità della Scuola d'Applicazione ed alle innocenti delizie del Veloce-Club di Milano.
Nè ciò soltanto affligge le due anime buone; all'occhio della loro tenerezza non è sfuggito che Donato, nei tre giorni passati in villa, fu inquieto più del solito.
Certo egli ebbe ancora sorrisi, ma brevi e fuggitivi, di quelli che appaiono a fior di labbro e di repente si cancellano senza lasciare alcuna traccia. Talvolta pure infilò le ciancie, gli si accesero le gote impallidite, gli brillò lo sguardo, ma d'un tratto ammutolì, si oscurò in volto, si ritrasse nella sua cameretta od uscì all'aperto, e quando si credette non visto si lasciò cadere sopra un sedile, e stette lungo tratto d'ora immobile, coll'occhio fisso a terra. Mariuccia ed il babbo lo spiarono senza saper l'un dell'altra; venti volte vennero entrambi da opposte vie ad incontrarsi per caso in faccia a Donato meditabondo; e allora il babbo si arrestò estatico a guardare un alberello, Mariuccia si chinò a cogliere una miosotide, per dar tempo al giovine di comporre il volto alla pietà d'un ingannevole sorriso. La sorellina, che potè tener dietro a Donato con assai maggior naturalezza e punto scrupoli, vide poc'anzi il fratello colla testa fra le mani… un pezzo… un pezzo, trattenne il respiro e sentì gonfiarsi il cuore dall'affanno, e finalmente non potendone più, diede in uno scoppio di pianto che costrinse Donato a scoprire la faccia lagrimosa. Egli corse a lei, si abbracciarono stretti, confusero le loro lagrime, finchè la giovinetta levò il bel viso, e pose negli occhi una domanda.
Donato si schermì, si chinò a raddrizzare una dalia curvata dal vento, poi appiccò discorso, costrinse la sorellina ad ammirare il ceruleo anfiteatro delle montagne lontane, si provò anche a cercar argomento scherzevole, e trovatone uno vi spese più barzellette che non meritasse, e delle barzellette rise più forte del solito, e fe' pure ridere la fanciulla; ma quando, esaurita quella forza fittizia, guardò negli occhi di Mariuccia, vi lesse chiaro la stessa dimanda di prima: «e perchè piangevi?»
«Sono uno sciocco, disse allora, mi vergogno di me stesso; piangevo perchè ho paura di presentarmi agli esami; un superbiaccio pari mio meritava questa umiliazione; a te lo posso dire: il Veloce-Club, e le cavalcate, ed altro mi hanno fatto trascurar la scuola di meccanica e di costruzioni, gioco una brutta carta…
E come se gli si ripresentasse alla mente l'immagine della propria sciagura, s'interruppe e non aggiunse parola.
Anche Mariuccia tacque, perchè vide venire il babbo da lontano. Altrimenti ella avrebbe pur detto al fratello che le sue paure erano fantasime vane, che d'esami ne aveva già superati un esercito senza averne mai trovato uno che gli facesse proprio paura, che per dieci o venti lezioni di meccanica perdute uno studente di matematica non è già in rovina, e può diventare ingegnere e dei buoni ugualmente. Ella avrebbe pur detto tutte queste cose ed altre, o piuttosto non avrebbe detto nulla, perchè s'era accorta che, per la prima volta in vita, Donato, il suo buon Donato… mentiva, e si teneva certa non altro essere tutta la storiella degli esami se non un nero tessuto di bugie per carpire la fede della sorellina ingenua.
Donato alla vista del babbo tornò ilare, passò il rovescio d'una mano sugli occhi per cancellare ogni traccia delle lagrime versate, si dimenò come una girandola che non piglia fuoco, facendo cento cose inutili, gettò qualche scintilla di buon umore… e finalmente si spense. E per non trovarsi innanzi alla tenera sollecitudine di quella faccia serena di vecchio, tutta rughe ed amore, girò sui tacchi come sopra un cardine, e se n'andò a testa bassa, curvandosi a raccogliere un fiore che non guardava nemmeno od un sassolino che lanciava distratto a saltellare sul viale…
Ed ecco perchè il vecchio babbo e Mariuccia, rimasti soli, guardano alle giogaie alpine baciate ancora dal sole, alla vallata del Lambro dai larghi piani d'un verde cupo, sentono in quell'ora melanconica come un'ansia paurosa, e non si avvedono che la brezza invola alle loro labbra un sospiro.
«Bella sera! dice Norberto.
—Bella! risponde Mariuccia.
E il babbo pensa che la fanciulla abbia ricevuto le confidenze di Donato, e la fanciulla dice a sè stessa che certo il babbo dev'essere informato della vita che Donato fa a Milano e di quanto può essergli accaduto.
Tacciono.
I raggi del sole valicano le ultime creste del Resegone e si perdono nello spazio azzurro, le ombre si addensano tutt'intorno, le campane dei paeselli si rispondono da lontano, e l'ala greve del pipistrello passa come un'ombra nera nella luce impallidita del crepuscolo.
«Partirà domani Donato? domanda la fanciulla.
—Domani…
—Povero Donato! È in pensiero pegli esami.
—Te l'ha detto lui?
—Sicuro.
—Ho notizie dai suoi stessi professori, non deve temer di nulla, è studioso, diligente ed assiduo.
—Anche alla meccanica?
—Anche a quella.
Mariuccia l'ha immaginato, non domanda altro; e il babbo che vorrebbe sapere dalla fanciulla… senza metterla inutilmente in malizia… non sa proprio come fare.
—Non ti ha confidato nulla Donato? chiede finalmente, tirandosi sotto il braccio la figliola ed avviandosi verso la palazzina.
—Null'altro.
Mariuccia, la scienza dei suoi sedici anni compiti, se anco non l'ha appresa da altri, l'ha indovinata benissimo, e però soggiunge dentro di sè:
«A questo avevo pensato anch'io! Ma se fosse innamorato, a me lo avrebbe detto!»
Due ore dopo la piccola Maria ed il vecchio Norberto si augurano la buona notte con un bacio. Ciascuno d'essi deve passare innanzi ali'uscio socchiuso della camera di Donato.
«Buona notte!
«Buona notte!
E alla voce argentina della fanciulla ed alla tremula voce del vecchio, Donato risponde facendosi sull'uscio a baciare in volto i suoi cari, poi rientra, si ferma nel mezzo della stanzetta ad ascoltare i passi della sorella e del padre, e quando non ode più nulla, altro che il rauco coro delle rane e il zirlo degli insetti nella campagna, si appoggia alla finestra, e sprofonda lo sguardo lontanamente nel buio.
II.
La notte è tenebrosa; terra e cielo si confondono nel buio infinito da cui si staccano, più neri, alcuni nugoli che viaggiano solitarii, ed i gelsi e le quercie in sembianza di giganteschi fantasmi. La brezza bisbiglia sottovoce e dondola i letti pensili degli uccelli e degli insetti.
Che pensa Donato colla fronte ardente nascosta fra le mani?
Non pensa, vaneggia.—È ritornato fanciullo, ha sei anni, ama giuocare alla palla, al cerchio, ha appreso a memoria dei versi che recita fra le ginocchia del babbo, si rizza sulla punta dei piedi per veder la sorellina in culla, non sa ancora che sia il mondo, non impaurisce per le incognite che gli prepara l'algebra della vita.
Pur l'avvenire, affretta col desiderio, s'impazienta degli indugi che lo trattengono per via, ha un ideale innanzi agli occhi—vent'anni! Ah! il superbo fascino di questa parola!
Eccolo cresciuto, eccolo alla scuola, ai cari studi, ai baldi propositi; ha inteso dire che il babbo non è ricco, che lavora per vivere, che affatica giocondamente in età quasi senile, per dare a lui un'educazione e preparare una dote a Mariuccia. Oh! sì, bisogna pensare a Mariuccia. Ora Donato sa l'algebra, la geometria… Mariuccia avrà la dote!
E viene un giorno lieto. Donato apprende che non si è così poveri come si diceva, poichè si possiede una villetta, dove il babbo, ora che ha i capelli bianchi, se ne andrà a riposare colla piccina. Donato solo rimarrà in città… e all'avvenire.
Ha promesso ai suoi cari, e più a sè medesimo, di darsi tutto allo studio. I compagni hanno le tazze e le belle, egli non ha vini nè amori di lusso. Una cosa lo tenta, Non gli occhi affumicati di donnette smorfiose, non i rubini delle bottiglie, ben altro: passar come saetta sul velocipede nelle vie di Milano, spingere a sfrenato galoppo un bel baio nei viali di circonvallazione; questo sì, lo tenta. Infine a venti anni si ha forse ragione di dire che la meccanica non basta.
Ma non per nulla Donato fu testimonio della dotta parsimonia del babbo; levandosi di bocca uno zigaro che appesta e che costa un occhio del capo, anch'egli cavalcherà il velocipede ed il baio. Certo si potrebbe mettere in disparte quel danaro per la dote di Mariuccia, ma infine a vent'anni, ditelo voi, può bastare la meccanica? E poi ora è studente, ma quando sarà ingegnere!
Ed oh! le belle miniere scavate col desiderio, i bei castelli a cui non manca il castellano canuto, nè la bionda castellana gentile! Ma un demone soffia in quelle sante visioni, il castello crolla, ed i castellani rimangono nella via più poveri di prima! Un istante ha cancellato tanti sogni affettuosi, un'ora di abbandono ha potuto più di ventidue anni di affetto… perchè vano è ora distogliere lo sguardo, una rovina si compie per opera sua; ecco il tavoliere, i mucchi d'oro che danno le vertigini, e la prima posta bramosa, e l'ultima posta tremante, e una folla di bassi sentimenti in cuore, e mille colpevoli idee nel capo, e, in un impeto di collera contro il vincitore, contro sè stesso, contro la sorte, contro Dio… ancora una posta disperata di denaro non suo!
«Hai perduto! Ancora e sempre hai perduto!»
Donato leva il capo dalle palme e sprofonda l'occhio nel buio, solcato a quando a quando dalle parabole delle lucciole e delle stelle cadenti. Non ode più la brezza che va mormorando di lui via via, dai gelsi più vicini alle acacie delle siepi ed agli olmi della vallata; mille immagini gli turbinano innanzi agli occhi, prima distinte e man mano più confuse; poi gli pare che l'aria della notte gli lambisca, la fronte come una fredda carezza, gli par di dormire, gli par di sognare.
Ora è l'alba, l'alba apportatrice dei propositi onesti, e uno solo ne rimane a Donato; si leva, corre alla camera del babbo, picchia tremante all'uscio, entra, si butta fra le braccia del vecchio e ne bagna la canizie veneranda di lagrime amare.
«Sai, babbo, io sono indegno di te, ho giocato, ho perduto, ho pregato il cielo che mi facesse morire.»
E nel cuore del padre queste ultime parole cancellano l'impressione delle prime. Il povero vecchio risponde con un bacio, e non trova parola di rimprovero. E concesso un istante ai muti singhiozzi, si stringe la testa del figlio al petto e dice, ponendo nella parola una dolcezza che arriva al cuore del colpevole più efficace d'ogni rimprovero:
«Quanto?
—Sei mila lire.
Un istante di silenzio, il vecchio tace, Donato nasconde la testa fra le mani disperatamente.
«Sei mila lire, dice Norberto; è molto, per noi che non siamo ricchi; ma non piangere così, le lagrime non rimediano a nulla; venderemo un'ala della nostra casetta e l'orticello; il mio vicino me ne ha pregato, gli farò servigio… Mariuccia aspetterà a prendere marito qualche anno di più, finchè tu abbia guadagnato il tanto da rattopparle la dote, e se sarà necessario io tornerò in città, cercherò di riavere il mio impiego, sono sano, mi sento forte…
Ah! Donato non può resistere a quelle parole benigne, a quella carezza tremante, a quell'accento commosso e melanconico di un vecchio adorato che considera la colpa del figlio come una disgrazia della sorte. È in piedi d'un balzo, riasciuga la faccia lagrimosa, si guarda intorno… Meglio così… non era che un sogno. È solo nella sua cameretta, appoggiato alla finestrella che guarda alla buia campagna; i neri fantasmi della vallata tentennano il capo, e le rane proseguono il loro rauco concerto, arrestandosi ogni tanto per ascoltare un altro coro che risponde da lontano.
Ci ha tanto pensato, sono molti giorni che ci pensa di continuo; che vale arrestarsi ancora in quell'immagine? No, egli non avrà mai il coraggio di dare a quel povero cuore di padre una simile angoscia, di vedere la serenità di quelle sembianze adorate sparire ad una parola. Meglio morire!
Meglio morire! E sprofonda l'occhio nel buio, e vi si avventa col desiderio. Potesse tuffarsi nell'infinito che gli sta dinanzi, distruggersi o dimenticarsi nella vertigine degli atomi che corrono nello spazio! Si ferma un istante a questo pensiero gigantesco e vi confronta la piccola causa del suo immenso affanno, ma non ne ritrae forza; tutto in quell'arcano gli par grande ad un modo, la parabola della lucciola, stella delle zolle, la parabola della stella cadente, lucciola dell'infinito. Ogni grandezza è vana, tranne quella del proprio affanno. Meglio morire!
Donato esce dalla sua camera, porge l'orecchio nel corridoio, non ode alcun rumore, rientra, afferra una rivoltella, la guarda, poi lascia cadere il braccio lungo il fianco, ascolta ancora… Nessuna voce lo trattiene; ha paura di sè stesso, fugge, scende le scale, esce all'aperto coll'arma in pugno, e si caccia in un viale che mena al boschetto. Tacciono le rane per lasciarlo passare, poi gli gridano dietro la loro rauca beffa. Ed egli fugge sempre brandendo l'arme funesta; finalmente si ferma, si butta al suolo, ritrova un singhiozzo.
Un uccello che ha avuto paura si è levato a volo per mutar letto, poi tutto tace, anche le voci beffarde della notte; poi sulle creste dei monti si disegna una striscia di oro pallido—è l'alba.
Una rondine mattiniera passa come una freccia e garrisce per svegliare il vicinato; un'altra rondine le risponde, poi un'altra, fin che l'aria si empie di garriti e di voli. Donato guarda a quelle creature agili e festose che volteggiano sul suo capo; da ogni cespuglio, da ogni zolla si avventano al cielo cento gaie personcine; sulla cima d'ogni albero è una conversazione animata, ed ogni ramoscello dondola al picciolo peso di quella turba saltellante e ciarliera, mentre da lontano i galli del paesello si rimandano la loro strofetta baldanzosa.
Donato segue sbadatamente coll'occhio quei voli, ascolta quelle ciancie, e si dimentica. La luce ha messo in rotta tutti i fantasmi paurosi, e sveglia la vita da per tutto; i monti par che si sollevino or ora dal piano, le querele e le acacie e gli alberelli e i fili d'erba si parano delle loro goccioline di rugiada per far festa al sole. A poco a poco la luce si fa più viva, penetra più addentro nelle boscaglie, nei cespi, nei pruneti, poi il sole si affaccia con quattro raggi alle giogaie lontane, e finalmente si leva maestoso, fruga in ogni cantuccio più riposto, costringe ogni più tetra creatura a rimandargli con un riflesso il suo sorriso amoroso.
Donato si guarda intorno; è in un breve spazzo scoperto, accanto alla silenziosa sorgente dove in altri tempi venne tante volte assetato; tutt'in giro gli alberi gli fanno siepe, presso al sentierolo è un formicaio che un raggio di sole ha svegliato or ora alle grandi faccende d'ogni giorno; una talpa, rimasta fuor di casa più tardi dell'usato, attraversa il sentiero come una palla nera e rientra nel suo piccolo labirinto; dormono i grilli e si destano le cicale stridule; nelle zolle, fra filo e filo d'ogni erba, è un brulichio di creature che ripigliano la vita festose; le portulache silvestri schiudono alla loro esistenza d'un giorno la pompa dei vivaci colori; lontanamente si ode il muggito dei buoi e il grido di un contadino che passa nella via maestra dove finisce il boschetto, e lo strider di ruote d'un carro sulla ghiaia.
Donato si sente ancora tornar come fanciullo quando amava la vita, quando lo impauriva la morte, quando ogni pensiero era avvenire, festa ogni sentimento. Ed ora!
Che farà ora il babbo? Che farà la sorellina? Dormono; i loro volti soavi sono composti alla serenità; non anco li ha turbati l'annunzio di una sciagura! E quale sciagura!
Guarda all'arme che gli sta accanto. Uccidersi! A ventidue anni, quando del mondo non si ha ancora visto nulla, quando di cento affetti non si ha ancora palpitato, e si ha il sangue ribollente, e i muscoli ferrei, e il pensiero gagliardo, e più gagliarda la fede negli uomini e nell'avvenire!
Pure sente che non avrà mai forza di confessare al babbo la propria colpa e di rimanere al mondo testimonio d'una infelicità uscita dalle sue mani; certo vi ha dell'egoismo in questa debolezza, ma vi ha pure un sentimento di giustizia e di orgoglio; sappia il babbo, sappia la sorellina che Donato aveva cuore d'uomo, che si pentì sinceramente, che volle espiare. Ah! sì, bisogna morire!… Afferra l'arme con mano tremante, e un colpo parte, e un grido vi risponde. Donato ha scaricato involontariamente la rivoltella che tiene ora lontano da sè inorridito; gli è sembrato un istante la sorte s'incaricasse della giustizia che egli tremava di compiere, si è sentito un brivido per tutto il corpo, poi si è guardato intorno, ed ora, lo dirà egli a sè stesso?… ora ha paura di morire! Pensa che se avesse posto in atto il fatale disegno, già tutto sarebbe finito, e riama la vita, e corre giù per la china del bosco coi capelli arruffati, coll'arme in pugno…
«Signor Donato! signor Donato!
III.
«Signor Donato! signor Donato!»
Così chiama alle spalle del fuggitivo una vocina fresca, d'un timbro giocondo. Donato si arresta, si volge; sul sentierolo si tien ritta una svelta personcina, con un viso da Madonna meridionale, piccolo, rotondo, bruno, irradiato dalla gaia luce di due grandi occhi neri. La giovinetta non sa come comporre il bel volto, ha sulle labbra un sorriso e nello sguardo intento un affanno; ha udito lo sparo, e subito dopo ha visto il giovine attraversare il sentieruolo, per cui ella saliva, coll'arme in pugno e coi capelli arruffati. Nè sa che pensare.
Donato anch'esso ha riconosciuto la giovinetta: Costanza! Ma parendogli già i due occhi lucenti gli abbiano letto in cuore, e sentendo l'impaccio della rivoltella che tiene tuttavia stretta in pugno, non sa risolversi a muoverle incontro, e lascia cadere le braccia lungo i fianchi. Allora Costanza non esita più, si volge come a cercare dell'occhio il suo compagno di viaggio, che apparisce tutto trafelato nella persona scamiciata d'un monelluzzo da campagna, si avanza fra le piante e vien diritta incontro a Donato.
«Se non mi fa male con quell'arnesaccio lì, vengo…» dice con voce scherzosa, e già gli è presso, e già ricerca pietosamente sulla faccia stravolta, negli occhi gonfi dalla veglia e dalle lagrime, nello sconforto dell'atto, la sciagura che si nasconde. Donato volge appena il capo, tenta un sorriso e dice, facendo un gran sforzo sopra sè stesso, con una compitezza che fa male al cuore: «Buon giorno, signorina, come sta?»
Costanza piglia nelle sue la mano che le viene offerta, e la trattiene, e di nuovo interroga cogli occhi e coll'ansia.
Donato è titubante; sente il bisogno di versare l'anima sua con una confidenza intera; un istinto lo spinge a confessare, ma un altro più forte lo trattiene; la lotta è breve, gli occhi pietosi della fanciulla squarciano il velo; il giovine rivela la sua sciagura, il suo proposito, tutto l'immenso affanno.
«È il cielo che la manda, aggiunge tremante; non so perchè ho subito sentito il bisogno di confessarle quanto mi passa in cuore, so che a nissun altro avrei fatto simile confidenza.
—Sì, è il cielo che mi manda, risponde Costanza con accento melanconico, ma dolce; è il cielo che ha fatto spezzare il timone della nostra carrozza sulla via maestra, ed ha costretto lo zio a tornarsene indietro fino al vicino paesello per farlo accomodare; è il cielo che mi ha messo in capo l'idea di attraversare il boschetto per risparmiare due buoni terzi di strada; è il cielo che mi ha fatto arrivare proprio oggi ed a quest'ora, mentre Mariuccia ed il signor Norberto non ci aspettano che domani… sì, tutto questo lo ha fatto il cielo per impedire una sciagura cento volte maggiore.
Donato porge orecchio alle parole della fanciulla come ad una musica, ne guarda il bel viso compassionevole come una cara visione, e istintivamente nasconde dietro le spalle l'arme che ha nella destra. Ora che ha tutto detto, gli par di sentirsi alleggerito; si dimentica quasi, ripiglia le mille fantasie della notte, rallegrate dai trilli delle rondini inquiete e dalla splendida luce del mattino; gli par di non essere mai stato colpevole di nulla, e sia la propria angoscia un brutto sogno della notte, ed egli si trovi in faccia a quella natura sorridente, a quel leggiadro volto amoroso, a quegli occhi fascinatori, attratto da un sentimento nuovo che è una festa, una luce; tutte le potenze dell'anima dimentica bisbigliano una parola, la stessa che gli ripetono i passeri ciarlieri e i tremoli riflessi delle rugiade ed i soffi tiepidi della brezza: «Amala!»
Amala! tu hai bisogno di un dolce nodo che ti trattenga nella vita, poichè gli affetti santi dei tuoi cari, per tua sciagura, ti fanno desiderare la morte, hai bisogno di un sentimento nuovo e tirannico che t'invada il petto da padrone e vi soffochi le angoscie vane, d'un pensiero che cancelli ogni altro pensiero, d'un caro fantasma rosato che disperda un'orda di fantasime nere; colma in un istante il vuoto di ventidue anni, apprendi qual sia la gran festa del cuore: «Amala!»
Vi sono palpiti che compendiano tutta l'esistenza; udite la vecchiaia volgersi indietro e ripetere: «Io vissi in quel giorno, in quell'ora, quel dolore e quella gioia sono cosa mia, il resto appartiene al tempo.»
Se non appar nulla in volto a Donato, perchè Costanza abbandona la mano del giovine, e, quando egli tenta di riafferrarla, sorride?
«Senta, dice la giovinetta con un accento determinato che le da un vezzo di più, senta, io le voglio bene, perchè siamo cresciuti, si può dire, insieme; crede ella che io abbia il diritto di interessarmi al suo dolore?
Cogli occhi, coll'atto, col fremito delle labbra, Donato risponde di sì, di sì, di sì—a parole non può;
—Ebbene, prosegue la fanciulla, se ho questo diritto, ho anche quello di pensare al rimedio.
—Non vi è rimedio, balbetta il giovine, tranne uno…
Costanza si arresta.
—Dica…
Ma Donato si turba, si fa rosso in viso, poi impallidisce e fissa l'occhio a terra ripetendo fra sè e sè: «Non vi ha rimedio.»
—Quando è così, la lasci dire a me che ve n'ha uno.
—Quale?
—Il più semplice; pagare le cinquemila lire quando sia il momento, senza dir nulla al babbo, lavorar poi assiduamente e riguadagnare il denaro perduto… è dell'altro insieme.
—E il denaro?
—Bisogna trovarlo in prestito…
Il giovine tentenna il capo.
—La cambiale scade fra otto giorni.
—E fra otto giorni bisogna avere le cinquemila lire, e le avremo. Io sono ricca, così dicono tutti nel paese, non ho il babbo da un pezzo, e l'anno passato mi è morta anche la mamma, non mi rimane che lo zio, il tutore; domani egli sarà a Romanò, gli dirò tutto, gli farò giurare che terrà il segreto col signor Norberto…
A Donato balenano negli occhi la gratitudine e l'amore, ma lo sconforto lo vince di nuovo.
—È impossibile, non posso accettare…
—Perchè è superbo.
—Simile sagrifizio…
—Nessun sagrifizio!… Mio zio è di quella razza di zii che fa miracoli per accontentare le nipotine, non dirà di no; giurerà tutto quello che vorrò io, e piglierà le sue precauzioni per assicurare il mio denaro, andrà da un notaio se occorre, insomma farà le cose in regola. Ella non conosce mio zio, perchè da soli sei mesi ha comperato da queste parti la filanda; se lo conoscesse direbbe che è cosa fatta.
La mente di Donato assediano mille idee, mille fantasie; non sa che rispondere, e intanto fissa gli occhi attoniti negli occhi lucenti della fanciulla, la quale, non sospettosa, gli sorride.
—Non se ne parli altro, dice finalmente la giovinetta, è cosa fatta—e porge la mano al giovane che la piglia melanconicamente e la porta alle labbra sospirose.
Costanza lascia fare crollando il capo.
—Ed ora la mi dia quell'arme, soggiunge con accento di soave imperio.
Gli va dietro le spalle, gli toglie di mano la rivoltella con mille cautele, poi la impugna e domanda al giovine, che si è voltato e la guarda tuttavia sbigottito: «Così bisogna premere?»
Donato fa per pigliarle l'arme, ma la fanciulla lo allontana colla mano manca, protende la destra, tira indietro quanto può il corpo, chiude gli occhi e preme coraggiosamente il grilletto. Un colpo parte, poi un altro, ed un altro, e ad ognuno Costanza si tira indietro, serra le labbra, socchiude gli occhi e ride. Quando l'arma è del tutto scaricata, la restituisce, al giovane, e gli si attacca a braccetto.
Si avviano senza dir nulla; all'atto di uscir dal bosco, la fanciulla si ferma e dice a Donato: «Non ha detto che accetta la mia offerta, lo dica ora, perchè non se ne parlerà più.»
Allo studente di matematica par finalmente che torni proprio la rettorica; incomincia una frase, va fino a metà, si ferma…
—Ella ha fatto molto per me, dice finalmente balbettando, mi ha tratto da morte a vita, faccia di più…
—Che cosa? domanda Costanza sorridendo.
—Permetta che io la baci in fronte.
E perchè Costanza si fa rossa, egli soggiunge:
—Non può rifiutarsi al capriccio d'uno che ha risuscitato…
Ma il piccolo monello che accompagna la giovinetta si è fermato anch'esso, e guarda curiosamente.
«Vieni qua, gli dice Donato, obbedendo ad un'ispirazione.
Il fanciullo si accosta titubante.
«Chiudi gli occhi, ed indovina che moneta è questa.»
Il fanciullo è sicuro d'indovinare e vuoi guadagnare il suo denaro onestamente. E allora Costanza, sorridendo, porge la fronte a Donato che vi imprime un bacio ardente e lungo.
—Un soldo!» dice il monello.
E non venendogli subito risposto, corregge: «Due soldi!»
Questa volta indovina e in premio ne ottiene altri sei. Che gioia pura, profonda e muta! Il fanciullo afferra il suo tesoro senza dir parola e corre a gambe levate giù pel bosco, mentre Costanza e Donato attraversano, a braccetto e pensosi, il viale che dalla chiesa mena a Romanò.
IV.
Sono passati sei giorni e sta per passare il settimo.
Donato non fu mai così assiduo alla scuola, nè così attento alle lezioni; se la storiella delle seimila lire non avesse fatto il giro della scolaresca nelle prime ventiquattr'ore, i velocipedisti della classe non avrebbero tralasciato di far segno alla comune riprovazione quell'ipocrita diligenza alla vigilia degli esami. Ma non si può credere quanto le seimila lire perdute a bassetta avessero arricchito Donato nell'estimazione dei colleghi; egli poteva ora comportarsi a modo suo, intervenire ogni santo giorno alla scuola, fare il sordomuto durante tutta la lezione, sporcar quinterni colla matita, mangiarsi cogli occhi il professore, e rimanere a lezione finita come inchiodato sulla panca per porre in ordine le proprie note; egli poteva anche non farsi più vedere al circolo o al caffè, come appunto faceva, che tanto nissuno pensava a fargliene un carico. A togliergli di dosso il ridicolo della nuova parte, ad ingrandirlo dieci buoni cubiti sul livello del volgo bastava quest'unico fatto, memorando negli annali della Scuola d'Applicazione, che egli aveva perduto sei mila lire e in grandissima parte non le aveva ancora pagate.
Tanta freddezza d'animo pareva indizio di natura eccezionale; la condotta scolasticamente esemplare al domani del giorno nefasto della bassetta, alla vigilia del giorno nefasto della scadenza della cambiale, pigliava aspetto di eroismo.
Il fatto è che Donato aveva il cervello in processione e il borsello vuoto. Nel lasciare la paterna villetta, egli si era pure reso conto, con un rapido esame di coscienza, di questo vero sacrosanto, che non gli rimaneva più un quattrinello in tasca, ma il signor padre non chiese informazioni e il signor figlio non osò darne; e Donato partì, e venne a Milano, e ci visse sei lunghi giorni e quasi il settimo, con mille idee nel capo e con un nuovissimo tesoro in cuore—ma senza uno spicciolo. Per fortuna lo scetticismo degli osti non regge quasi mai allo spettacolo dell'ingenuo entusiasmo con cui gli studiosi sogliono divorare le pagnotte e il resto; nell'età in cui si è buoni solo a consumare, e si consuma con tanta convinzione, è facile desinare a credenza; quando non si è più scolari l'accostarsi alla cattedra d'un oste per chiedergli da pranzo, in nome d'un vaglia che non si è potuto riscuotere perchè era chiuso lo sportello, o d'una somma che deve arrivare proprio al domani, può parere un atto pieno di difficoltà e di incertezze; a vent'anni è naturale e sicuro.
Donato adunque, vinte alcune lievissime velleità espiatorie che gli consigliavano il digiuno, si sfamò.
Quanto alle lezioni di meccanica applicata, non è da credere che egli le applicasse proprio come doveva. Certo lo scolaro era lì, immobile, cogli occhi negli occhi del professore; ma quante volte Donato piantò scolaro e maestro nella classe, per andarsene a Romanò a contemplare le linee d'un bel visino, a scomporre ed a ricomporre i mille congegni del proprio cuore? Tutto l'esser suo è ora fatto obbediente ad una leva, non sa se interresistente o interpotente od altro, ma prepotente certo: l'amore di Costanza; il dolce delirio si aggira sopra un perno solo: l'indimenticabile bacio.
Ah! se avesse dato retta al proprio desiderio, e se la fanciulla avesse dato retta a lui, egli avrebbe chiesto ed ella avrebbe dovuto concedere molti compagni a quell'unico bacio saporito!
Le tornava al fianco come un'ombra, intento, combattuto fra la trepidanza d'essere importuno ed il desiderio d'essere un eroe; rispondeva con un sorriso alla tenera sollecitudine di Mariuccia, la quale aveva visto il letto del fratello intatto e non sapeva che pensare, tappava la bocca al rimorso perchè stesse zitto, sentiva in cuore una gioconda danza di baldi propositi, si prometteva mille ricchezze, e smaniava perchè mancavano due ore sole alla partenza ed egli così perdeva il tempo senza far nulla. E che male ci sarebbe stato se egli avesse detto a Costanza: «ancora uno» e poi «ancora uno, ancora uno?» Un bacio di più non impoverisce chi lo dà e fa ricco chi lo riceve; così pareva a Donato. E siccome Mariuccia non se n'andava mai, gli veniva voglia di tirarsela fra le braccia, di farle chiudere gli occhi, di ripetere il gioco riuscito già così bene. E Costanza? Leggeva in cuore del giovane? Ci vedeva almeno l'amore nato poc'anzi ed ora già fatto gigante? Ci vedeva la gratitudine, il pentimento, la felicità nuova, e il timore di non essere inteso, e il desiderio di farsi intendere con musica di parole e di baci? I labbri rosei sorridevano, i nerissimi occhi saettavano sguardi brevi e sereni, troppo brevi e sereni. Ahi! Nemmeno l'ombra del turbamento amoroso in quel soave visino! E quando finalmente veniva l'oste di Romanò, col suo morello e col suo calesse, tre bei vecchi arzilli e puliti, e bisognava dire addio e partire, allora si stringeva forte al petto Mariuccia ed il babbo, i quali pigliavano in buona fede quell'amplesso per roba loro, stringeva la mano a Costanza, le diceva: «si conservi, signorina» e via di galoppo, trabalzando sul selciato e schioccando la frusta in aria innanzi ai curiosi ammirati per quelle prodezze senili. Allo svoltar dell'unica strada nei campi, Donato perdeva di vista due fazzoletti che sventolavano per aria; e l'oste, il calesse e Morello di comune accordo rimettevano il pazzo entusiasmo giovanile ad un'altra volta; si pigliava un'andatura ragionevolissima….
E Donato li piantava tutti e tre sulla via maestra e tornava in classe a far di sì col capo per dar a credere al professore che la sua meccanica gli era entrata tutta; e un istante dopo, con una devozione che metteva in sacco i colleghi, ficcava il naso nel cartolaro e pigliava le sue annotazioni così: «Cara Costanza!» o così: «Angelo mio! mia vita!…» e proseguiva dando del tu alla fanciulla e prodigandole tutto quel tesoro di rettorica che anche gli studenti di matematica hanno in disparte per le grandi occasioni.
A questo modo sono passati sei giorni e sta per passare il settimo.
V.
Dieci volte si è incontrato distrattamente con un'idea buia che gli passa ogni tanto dinanzi, ma ancora non sa bene che sia; ha l'occhio, il pensiero ed il cuore al solito fantasma dai labbruzzi rosati; ma l'ombra nera, instancabile, ripassarsi fa una luce di baleno nello spirito di Donato… è dessa, la cambiale che scade al domani!
Il fantasma dai labbruzzi rosati scompare, tutto un esercito di immagini paurose invade il campo dei suoi sogni ad occhi aperti; è un istante solo, ma quante amare ricordanze in un istante! Ah! che ha fatto! che ha fatto! Come sarebbe felice ora se…
Bizzarra beffa della sorte, che egli debba la felicità alla propria sciagura! Pure è così: senza quel denaro perduto, or non si sentirebbe tanto ricco! Gli viene un estro di filosofo. «Ecco, dice Donato a Donato, quando tu perdi di tasca uno scudo, ti si fa pagare con questa moneta quel tanto d'esperienza necessario a non mettere gli scudi nelle tasche sfondate.» Potrebbe moltiplicare gli esempi all'infinito, ma si pente, si arresta, e per non conchiudere che a lui l'esperienza fu fatta pagare troppo cara, avvia il pensiero da un'altra parte. E da qual parte? La cambiale che scade al domani anticipa, gli si presenta allo sconto, ed egli, non pratico di codeste operazioni bancarie, ci si confonde, ci perde il capo.
Viene la notte, una eterna notte di fantasie nere, viene il mattino.
Ora si inquieta: le cinque mila lire non ci sono ancora, se mancassero!… Costanza non ha scritto, lo zio non si è fatto vivo. Tutto ieri pareva una cosa naturale e logica che il denaro dovesse venire al domani; appena è l'alba del domani pare invece una cosa naturale e logica che il denaro doveva venire alla vigilia. Donato, frugando nel codice di commercio, ci ha trovato molte dozzine di articoli che lo riguardano, ha nel cervello una processione d'immagini disparatissime, scadenze, protesti, baci, tavolieri colmi d'oro, la canizie del padre, il coro delle rane di Romanò, e in coda a tutto… l'arresto personale.
Sono le dieci del mattino; qualcuno picchia all'uscio del suo domicilio legale; a Donato tremano le gambe nell'andare ad aprire. Se si sapesse già che egli non ha il denaro, che non può pagare, e si venisse ad arrestarlo!… Non ci è senso comune, lo sa, ma tanto tanto trema; e giunto sul limitare, si ferma e non osa tirare il catenaccio, che gli par già di vedere dietro l'uscio un volto freddo, marmoreo, un uomo dall'aspetto rigido, a cui dovrà dire…. che cosa?…
Egli non sa risolversi ad aprire e l'altro pare determinato ad entrare, perchè borbotta fra i denti contro la mancanza d'un campanello e tira calci all'uscio.
Qualcuno si affaccia al pianerottolo e dice all'impaziente: «dormirà!» E l'impaziente risponde: «quando si hanno da pagare cinque mila lire, non si dorme fino alle dieci e un quarto.»
E l'altro, un ottimo vicino: «E quando non si hanno….» Senza dubbio lo scherzo gli pare amenissimo perchè sghignazza forte.
Un istante di silenzio; Donato, ora che vorrebbe aprire, ha paura di lasciar entrare gli sguardi curiosi di quel vicino che ride. Ma il buco della toppa si oscura; forse qualcuno guarda… Donato si tira indietro quanto può, senza far rumore, per non esser visto; ma ode nuove ciancie, rumore di passi sul pianerottolo, giù per le scale, poi più nulla. Il buco della toppa è sempre oscurato; Donato ci va presso, guarda e vede una cartolina piegata; l'afferra, torna nella sua camera da letto e si lascia cadere fra le braccia d'una poltroncina. Ha la fronte coperta di sudore.
Quella cartolina dice press'a poco così: «Il signor Donato X è invitato a pagare alla Banca (qui una delle cento) Lire 5000 per un effetto scaduto oggi.»
Ci pensa, rilegge, non capisce, rilegge ancora:
«Il signor Donato X è invitato a pagare alla Banca…. lire 5000 per un effetto scaduto oggi.»
Ma si tirano nuovi calci all'uscio. Una speranza entra baldanzosa nel cuore del giovine, e gli dice: «va ad aprire.» Non ci va, ci corre.
Un ometto sottile e nervoso, con una faccia mobilissima e sorridente, si affaccia nel vano:
«Il signor Donato X?
—Sono io, per servirla.
—Vengo da parte del signor Martino Bruscoli.
Donato non ha mai inteso questo nome, e tira ad indovinare:
«Lo zio di Costanza?
—Precisamente lo zio della signorina Costanza.
E l'ometto in così dire è guizzato in camera, sorridendo e guardandosi intorno coll'aria d'uomo soddisfatto di sè medesimo.
Anche il giovine studente ne è soddisfatto; il volto, i modi, tutto gli piace nell'incognito, sente che se lo stringerebbe volentieri al petto, ma un naturale sussiego lo trattiene.
In quella vece accosta un seggiolone, invita il nuovo venuto a sedere, e gli domanda col miglior garbo possibile:
—Ella è il signor?…
—Come le ho detto, vengo da parte del signor Martino Bruscoli, ripete l'ometto, chiudendo un occhio e cacciando una mano nella tasca del farsettone.
Che modi, che sorriso, che uomo adorabile!
VI.
«Martino Bruscoli mi ha detto:—Compare, tu vai a Milano?—Sicuro, ho detto, ci vado e mi ci fermerò qualche giorno.—Ebbene hai da farmi un piacere.—Dieci.—È per un collocamento di denaro di mia nipote colà, cinque mila lire a mutuo, tu porterai la somma, mi ha detto.—La porterò.—Sono cinque mila lire, le consegnerai al signor Donato X studente di matematica, abitante in Via Moscova numero 11, entro il giorno di domani infallibilmente.—Con tua pace, ho detto, come fai a dare a mutuo i capitali di tua nipote ad uno studente di matematica? È almeno maggiore d'età il signor Donato X?—È maggiore d'età; ha talento e sarà presto ingegnere; gl'ingegneri di talento guadagnano molto denaro; faccio un ottimo negozio; il sei per cento netto; impiego sicuro; e poi il signor Donato ha anche l'eredità del vecchio padre in prospettiva; gli uomini non sono immortali, ed è nell'ordine naturale delle cose che….
Donato interrompe il dire dell'incognito, cacciando le mani nei capelli con un atto di dolore.
L'altro, da uomo che non vuol sprecar tempo nè fiato, ammutolisce, squaderna un pacco di carte che ha tolto dal portafogli, depone una busta chiusa sul tavolino, nasconde le altre carte nel portafogli e il portafogli in tasca, e quando Donato risolleva il capo, gli batte famigliarmente sull'omero, e prosegue:
«Bravo giovinotto! bravo giovinotto! Martino Bruscoli è un uomo d'affari nudo e crudo, va diritto alla quistione, non le gira intorno, come fa il cuore, come fa il sentimento—cattivi negozianti tutti e due—ed io sono un po' come Martino Bruscoli; scusi sa, si capisce che calcolare sulla morte di un padre per….
—Io ne sono la causa….
—È vero anche questo; se Martino Bruscoli pensa all'età del suo signor padre è perchè le dà il denaro della nipote, e le dà il denaro perchè oggi scade la cambiale, e la cambiale scade perchè ella l'ha fatta… ed ella l'ha fatta perchè si è data un po' di spasso… giuoco, baldorie, donnette, si sa, ventidue anni! li ho avuti anch'io—ventidue anni sono, ed ora che li ho due volte, le assicuro che non valgono la metà….
L'uomo d'affari ride del proprio scherzo, ma vedendo che Donato non gli bada, si batte sul ginocchio coll'aria di dire: «bravo, ci si badi o no, la tua arguzia è saporita!»
«Il signor Martino le ha detto tutto questo? domanda il giovane sollevando il capo fieramente.
—Nobile fierezza, giovinetto; non me l'ha detto lui, ma l'ho indovinato io; egli attribuisce tutto ad un momento di pazzia nel giuoco; è un buon figliolo il mio amico Martino; ha vissuto poco alla città, è un Sant'Antonio che non conosce le tentazioni nemmeno di vista….
—Il signor Martino ha avuto fede nelle mie parole e lo ringrazio; io non bazzico con donne, bevo il vino annacquato, non fumo quasi mai….
—Ella è un uomo perfetto, interrompe l'incognito chiudendo un occhio, dicevamo che sono cinque mila lire che scadono oggi; eccole….
E così dicendo rompe la busta e ne leva cinque biglietti della Banca Nazionale, che sventola ad uno ad uno e guarda attraverso la luce della finestra.
A quella vista, a quel fruscio, Donato sbarra tanto d'occhi e si sente come mozzare il fiato. Egli non ha visto mai tanto denaro in una volta, nemmeno sul tavoliere, dove pure ciascuno aveva sulle labbra parole infinitamente più grosse di quel capitale. Anch'egli ha giocato una parola, una parola piccina al paragone, ed ora deve pagare a contanti. Cinque mila lire! Quanto è facile perderle, e come dev'essere faticoso il guadagnarle!
E' par quasi che solo per suggerire queste fantasie al giovine studente l'amico del signor Bruscoli gli abbia squadernato quei pochi cenci innanzi agli occhi, perchè ora ripiglia il denaro, lo ripone nella busta, e poi nel tacquino che estrae ed inabissa un'altra volta nella tascaccia della giubba.
Donato lo guarda come istupidito. L'altro sorride, si rizza in piedi, e dice:
«Scusi, sa, non posso stare molto tempo seduto, ho bisogno di muovermi; e dica… si è già presentato qualcuno per il pagamento?
Il giovine addita senza dir parola l'avviso ricevuto poc'anzi.
«Alla Banca…, dice il bizzarro ometto, leggendo con un solo occhio aperto; sta bene, bisogna andarci subito, si avrebbe tempo fino a domani, ma è meglio sbrigarsi; mi vuole accompagnare? Ho l'ordine di riscuotere la cambiale colla ricevuta in regola; finiremo poi il negozio con una semplice scrittura privata. Per via mi faccia memoria di comperar la carta bollata…
Così dicendo abbottona il farsettone nero da cima a fondo, si pone innanzi allo specchio per tirare in positura perfettamente orizzontale il nodo della cravatta che pel tramenio della persona va ogni tanto a sghimbescio, infila un paio di guanti neri e larghissimi, in due tempi, brandisce il bastoncello di giunco e si avvia a passo di corsa.
A Donato rimane appena il tempo di ghermire il cappello, di guardarsi alla sfuggita nello specchio e di porsi alle calcagna del bizzarro visitatore, il quale scende le scale a due gradini alla volta.
«Signore, signore!
Il signore si ferma per fortuna, e in due salti Donato gli è presso.
«Non le ho detto il mio nome; mi chiami signor Asdrubale; a Milano non mi si conosce altrimenti.
Ora che Donato sa di aver a fare col signor Asdrubale, per occupare in qualche modo il silenzioso trotterello con cui gli cammina al fianco, piglia ad esaminarlo.
Il signor Asdrubale veste interamente di nero, secondo l'ultimo figurino domenicale della campagna; ha un volto asciutto, espressivo, con due occhi piccini, ma penetranti e sempre in agguato dietro folte ed ispide sopracciglia; ha le labbra sottili, ma socchiuse, perchè ci sta di mezzo un sorriso bonario; per altro ammicca di continuo cogli occhi, come per un ticchio nervoso, e ciò guasta un pochino l'impressione piacevole della bizzarra fisionomia.
Quanto all'andatura è quella d'un che abbia fretta, il contegno, non punto impacciato, ma dimesso, è d'uomo che conosce benissimo gli usi della città, ma si attiene alle lezioni dei campi.
Si giunge alla Banca.
L' operazione, come dice il signor Asdrubale, non richiede gran tempo; ecco Donato rimminchionito dinanzi ad un pezzo di carta, guardare la propria firma che gli è costata tanto cara. Non ci si fida quasi; quel nome e quel cognome gli paiono capaci di qualche tiro, vorrebbe lacerare la cambiale. Il signor Asdrubale lo trattiene; e giunto a casa tira fuori un foglio di carta bollata, mette la penna nelle mani del giovine e detta senza preamboli una breve ma succosa dichiarazione come qualmente Donato è debitore di lire cinquemila verso Costanza.
Questa volta lo studente di matematica firma senza titubare e suggella il tutto con una lagrima che gli sgocciola di nascosto,
«Buona Costanza!
—Cuor tenero; benissimo, dice il signor Asdrubale chiudendo maliziosamente un occhio; la signorina Costanza è molto ricca… non fa nissun sagrifizio; come vede, colloca i suoi capitali coll'interesse del sei per cento, impiego sicuro, perchè già ella è sulla via di diventar ricco ed alla prima tappa della fortuna non proseguirà certo il viaggio senza pagare i debiti. Quando si è ingegneri si può camminare spediti, e camminando spediti si può arrivare in tempo… la signorina Costanza è tanto giovane…
Finalmente apre l'occhio, e sghignazza forte; Donato, che si è fatto rosso fino alle orecchie, ora ripiglia animo e trova gusto in quelle allusioni.
«Ecco fatto, dice il signor Asdrubale, piegando l'obbligazione e mettendola in fascio con un mucchio di carte, non era più difficile di così.
Donato accompagna melanconicamente la scritta che ora sprofonda nell'ampia tasca, e le manda dietro un sospirone lungo.
Ci è qualcos'altro; è facile vederlo anche tenendo un occhio solo aperto, come il signor Asdrubale, il quale entra difilato nel cuore dell'argomento.
—La me lo dice, o l'ho da indovinare? Ella, con rispetto parlando, è al verde; si capisce, quando si è studenti non si possono pagare cinquemila lire da un momento all'altro senza trovarsi un po' dissestati… Non è così?
È così, è assolutamente così; e come dir di no, quando quell'adorabile signor Asdrubale mette un garbo tanto persuasivo ed una bonarietà tanto impertinente nelle sue interrogazioni?
—Ecco, dice Donato, facendosi di bragia; prima delle cinquemila lire io ne aveva perduto altre mille, e di queste ne avevo cinquecento sole…
—Dimodochè, interrompe l'altro, geloso di far prova di penetrazione, dimodochè ella ha un debituzzo di cinquecento lire e non ha un soldo in tasca.
—All'incirca, tranne che il debituzzo è di seicento lire… per gl'interessi.
—E scade?
—Fra due mesi.
—Il suo creditore si chiama?
—Cherubino Dolci, via Poslaghetto, N. 12.
—Un cherubino vero, della stoffa su cui si tagliano gli angioli custodi dei figli di famiglia.
—Un usuraio, un briccone.
—Ingrato! un uomo di cuore, un uomo onesto, che non la vedrebbe perdere di tasca un centesimo senza correrle dietro per restituirglielo; ella non sa come funziona il meccanismo del credito; e può dire lei dove incomincia l'inonesto nell'interesse? Ci ha un interesse legale, inferiore all'interesse commerciale, il quale poi sta sotto all'interesse bancario; il commercio fa un passo più della legge, la banca fa un passo più del commercio; e non sarà lecito ad un uomo di buona volontà fare un passo più della banca? Il signor Cherubino Dolci ne fa forse due o forse tre, ma in fondo è un galantuomo… Dicevamo dunque, via Poslaghetto, N. 12; sta bene; farò io questo piccolo negozio, riscatterò la sua obbligazione per mio conto.
E senza dar tempo al giovane di rispondere, ripiglia il cappello, se lo incassa sulla testa perpendicolarmente, abbottona l'abito ed infila l'uscio.
Un'ora dopo è di ritorno; Donato ha avuto le sue buone ragioni per non muoversi di casa e starlo ad aspettare.
«È andata a meraviglia, dice il signor Asdrubale sbottonandosi e buttando il cappello sopra una seggiola; il signor Cherubino Dolci è una pasta di zucchero; ha capito ciò che aveva da guadagnare se accettava subito il pagamento e non è stato a lesinare sullo sconto; ecco anche questa obbligazione; non ce n'è altre per caso?
—No, dice Donato con un accento di fierezza che mette l'altro di buon umore.
—Quand'è così ricapitoliamo: seicento lire per l'obbigazione, trecentocinquanta che le do in contanti, fanno mille lire tonde tonde che ella mi pagherà fra un anno cogli interessi commerciali.
Non per nulla Donato studia la matematica; facendo mentalmente il suo conto, egli trova che un po' di Cherubino Dolci ce l'ha anche il signor Asdrubale; ma nella gioia di vedersi liberato dai fastidii per un pezzo, nell'ebbrezza di sentirsi padrone ancora d'una sommetta, si dimentica volentieri di tutta la sua scienza numerica e ripete che va benissimo, che va benissimo, che va benissimo, e per poco non si stringe al petto quel caro, quel simpatico, quell'adorabile signor Asdrubale.
VII.
Non vorrei dare una cattiva notizia al lettore, ma è provato che egli ed io, e gli amici suoi ed i miei, abbiamo tutti un demonio alle calcagna. Donato, nostro amico comune, ora appunto è alle prese col suo, che è un demonietto sopraffino.
Poc'anzi costui gli ha detto: «Ora che tu hai trecentocinquanta lire in tasca, non andrai già al caffè ed al Circolo per far pompa innanzi agli amici d'una suprema indifferenza ai colpi della sorte, non ti darai il gusto di fumar loro sulla faccia un grosso avana, come nelle grandi occasioni, non ti uscirà di bocca, insieme coi nugoli di fumo, questa grossa spampanata che hai la meccanica, le costruzioni ed il resto in quel paese, no, Donato mio, tu non lo farai.»
Se avesse detto «tu lo farai,» Donato forse si sarebbe impuntato a non farlo; invece lo fa, e venuta la sera, col cuore leggiero, col cervello a spasso e con un sigaro d'avana in bocca, egli trotta allegramente al Circolo,—e il suo demonio dietro.
Atti di meraviglia, oh! ed ah! che gli si avventano da ogni parte, sorrisi, strette di mani robuste, interrogazioni parlate e mute—un trionfo.
Donato fa il suo ingresso con modesta dignità, compone il volto ad un'allegria che gli dà un sopravvento irresistibile sui colleghi, snoda la lingua a mille ciancie, dice un mondo di corbellerie che non pensa, è d'una fatuità sublime.
«Sai, dice Cosimo, il piccolo Bonaventura ha rubato l'innamorata a Faustino.
—E Faustino, per la disperazione, si farà la chierica, e si farà chiamare frate Bonaventura, dice un altro ridendo.
—Sai… Valente ha comperato un bel baio.
—E il virtuoso Felice ha giuocato ed ha perduto… cinquanta centesimi.
—Ieri abbiamo fatto una cena al Gnocchi,
—Giusto… che n'è del giornalista? chi ha visto Ilario?
—Io! È indisposto; la cena gli ha fatto male…
—Sempre la stessa mala lingua; non potendo fare un articolo critico, ha fatto un'indigestione.
Donato in mezzo ai razzi di buon umore e di spirito, si accontenta di star zitto e di dondolarsi sulla poltroncina fumando, e quando finalmente dice una parola, tutti ridono in coro, pronti a giurare che non hanno mai inteso nulla di così spiritoso. Così accade spesso nei circoli e fuori.
Ma al nostro eroe è entrata in capo un'idea, e checchè egli faccia, non vuole più uscirne… «Valente ha comperato un bel baio…» lui, Valente, quegli appunto che gli ha guadagnato le sei mila lire!
Certo il demonio gli ha detto: «Tu non penserai a questo, a te non importa dell'uso che Valente ha fatto del denaro guadagnato al gioco.»
«Valente è in gran vena, dice Cosimo, vince ogni sera…
—Chi viene? dice un altro.
—Io!
—Io!
—Io!
Escono. Donato sa dove vanno, non si muove. Il demonio gli dice: «Bada bene, tu non devi più mettere il piede nella casa da gioco, non lasciarti sedurre dalla curiosità di assistere a quello spettacolo, non dire a te stesso che non vi è male alcuno…»
E Donato si leva, esce, e quando è sulla via pensa che tanto vale passeggiare da una parte o dall'altra, e quando arriva dinanzi alla nota casa, conchiude che sarebbe proprio una debolezza il non salire le scale e che egli si sente forte, e che non giocherà…
Eccolo nella sala da gioco, sdraiato sopra un divano in aria di suprema indifferenza.
Il fortunato Valente gioca e vince.
«Osserva, dice qualcuno vicino a Donato, anche stasera Valente ha cambiato posto; egli afferma che la fortuna è una pazzerella e fa il giro del tavoliere, e che tutta l'arte di vincere consiste nel saperla precedere d'un passo.
«Oibò, risponde l'altro; la vera arte di vincere io la so, e non è quella.
—E qual'è?
—È un'arte che non s'insegna: saper aspettare il momento buono….
—E chi te ne avverte del momento buono?
—Non so chi, ma qualcuno certo; pigliando in mano i dadi o le carte, vi sono delle volte che io sono sicuro di fare un grosso punto e di vincere la partita; è come un buon vento che dura un quarticino d'ora, raramente mezz'ora; bisognerebbe saper cogliere il destro una volta, puntar grosso e poi non giocar più.
—E allora perchè non ti sei fatto milionario? Avessi io un vento simile!… Oibò, il vero sistema l'ho già esperimentato; è la teorica delle probabilità. Valente per esempio fa banco; io mi schiero fra i puntatori ed aspetto che egli abbia vinto tre o quattro volte; alla quinta punto ed ho quattro probabilità di vincere.
—E perdi, perchè ti manca la quinta.
—È possibile, ma è più facile ch'io vinca, e se perdo raddoppio.
—E se ti trovi per caso a camminare contro vento vai alla malora….
—Vuoi proprio saperlo, dice il demonio di Donato, qual'è il vero modo di vincere? Il vero modo di vincere è di non giocare; guardati bene dal pensare che in un quarticino d'ora, di buon vento potresti ricuperare il denaro perduto, arrischiando solo una piccola moneta….
Valente ha vinto ancora, sono quattro volte che vince, perderà alla quinta… e Donato non sa che sia, ma crede proprio di sentire come un estro, come un'onda che lo invada, il buon vento famoso forse. Davvero, se ci è una giustizia, non può Valente conservare il baio che ha comperato con denaro non suo… Potrebbe rischiare poco, cinquanta lire sole… perdendo glie ne rimarrebbero trecento, e fuggirebbe… e se vincesse, oh! se vincesse!…
Eccolo innanzi al tavoliere…. gli tremano le gambe, gli batte il cuore.
Qual mano gli si posa sulla spalla a trattenerlo? Volta la faccia impallidita…. è il signor Asdrubale, col farsettone nero abbottonato da cima a fondo, col nodo della cravatta a sghimbescio, col sorriso bonario sulle labbra.
A Donato vengono in mente mille idee in un punto solo. Come mai il signor Asdrubale si trova nella casa da giuoco? E che gli vuole? E perchè lo trattiene? Lo ha dunque spiato? Ha forse avuto incarico di stargli alle costole per impedire una ricaduta? Oppure—la cosa è men bella, ma più verisimile—oppure il signor Asdrubale bazzica nelle case da gioco per ragioni di mestiere? Or gli torna in mente più vivo il negozio stretto poche ore prima; rifà i calcoli fatti e conchiude che le due anime di Cherubino Dolci e dell'ometto dal farsettone nero abbottonato non solamente si assomigliano alla lontana, ma fanno un paio magnifico…. Tutto ciò in un istante, tra due sorrisi ed una stretta di mano.
Il signor Asdrubale non lascia il suo giovine amico, lo tira con lieve violenza in disparte, sorridendogli sempre e guardandolo con sguardo d'amore, e finalmente gli dice:
«Ella voleva giocare, dica il vero; tanto io son pratico di queste faccende, ne avevo quasi un sospetto—e per questo sono venuto, glielo dico schietto, perchè, via, se ella ha da giocare ancora, non vedo perchè abbia da farmi torto.
Donato spalanca tutti e due gli occhi e non gli basta; quello che il signor Asdrubale tiene chiuso non sarebbe di troppo per vederci chiaro,
E l'altro prosegue a dire:
«Ho giocato anch'io, e gioco ancora qualche volta; se crede, può far prima la pace del suo debito; io non desidero di meglio. Le carte sono traditrici, ella potrebbe perdere con altri, e mi dorrebbe molto, molto.
Il giovine capisce l'allusione, e vorrebbe offendersene; e sebbene un sentimento di giustizia gli dica che il signor Asdrubale ha ragione, si prova a fare il viso arcigno; ma l'ometto non gli bada, gli sorride, lo trae con lieve violenza ad un tavolino, lo costringe a sedersi e gli siede dirimpetto, e finalmente domanda un mazzo di carte; tutto ciò con una bonarietà schietta, con maniere tra serie e burlesche che finiscono a far ridere il giovane.
Ride e trema insieme, e si sente come oppresso dalla vergogna e dal rimorso, e ricerca di soppiatto un'accusa sul volto del signor Asdrubale, il quale ora è entrato nel guscio del giocatore vero e mesce le carte con sicurezza e depone il mazzo sul tavolino.
«Che gioco preferisce il signor Donato?
Il signor Donato non sa nemmanco lui, ha appena la forza di fare un gesto coll'animo di dichiarare che si rimette all'avversario, e intanto sbadatamente taglia il mazzo.
«Sta bene; risponde il signor Asdrubale errando sul significato di quel gesto; un gioco semplice, il gioco delle ultime ore, quando non si ha più tempo da perdere e si vuol tentare la sorte con colpi replicati e frettolosi, il solo gioco a due che non sia nè lungo, nè difficile; bravissimo, vedo in lei la stoffa del giocatore; la carta più alta vince…. benissimo; avrei però preferito qualche cosa di meno spiccio e di più interessante; questo suo gioco eroico non dà tempo alla commozione.
A Donato riesce finalmente di far capire con un mugolio che egli è indifferente a qualsiasi maniera di gioco; aggiungerò per debito di giustizia che in così dire egli si guarda intorno e che, se avesse in faccia l'uscio, forse pianterebbe in asso il signor Asdrubale. Intanto due o tre curiosi gli si sono stretti intorno per assistere alla partita.
—A meraviglia, prosegue a dire l'ometto abbottonando l'ultimo bottone della giubba fin sotto al mento; quand'è così le propongo un gioco pieno d'interesse e di commozioni, che permette di tirar l'orecchio alla carta, come si dice; ecco; spartiamo il mazzo per metà, stabiliamo prima una carta, e chi si trova d'averla vince. Le garba?
—Mi garba.
—La posta?
Donato fa un gran sforzo per non balbettare e balbetta:
«Cinquanta lire.»
Qui i tre curiosi, non vedendo denaro sul tavoliere e delusi nell'aspettazione d'un giuoco più forte, se ne vanno ad assistere alla fortuna di Valente.
Il signor Asdrubale non dice più parola, piglia il mazzo, lo mesce ancora e sembra concentrarsi tutto in quest'operazione; quando ha finito presenta le carte all'avversario perchè tagli, poi ne estrae una che deve decidere del gioco:
«Fante di picche!
VIII.
Incoraggiato da un cenno gentile e da un sorriso amoroso, Donato addenta il sigaro d'avana, raccoglie il fante di picche, lo caccia nel mazzo, e mescola copiando assai male la disinvoltura che gli è tanto piaciuta nell'avversario. Ed è squisita misericordia del cielo se il signor Asdrubale, tutto intento a tirare di qua e di là il farsettone abbottonato perchè non faccia grinze sul petto, taglia senza levar gli occhi; altrimenti si accorgerebbe che allo studente di matematica tremano le mani e si contraggono le labbra e si scolorisce il volto,
Il giovane rovescia le sue carte, le squaderna, fruga e rifruga, poi guarda titubante l'avversario, il quale, coi gomiti appuntati al tavolino e col mazzo sollevato all'altezza del naso, tira l'orecchio ad una carta ribelle.
A Donato non par vero di aver perduto, scompagina un'altra volta le carte che gli stanno dinanzi… poi risolleva il capo, impaziente della rivincita; il signor Asdrubale non gli bada, ha visto finalmente l'estremità d'una figura nera, ed affatica a farla uscire dal mazzo…
«Ho perduto, dice Donato.
L'altro gli fa cenno di aspettare, poi con uno sforzo scopre tutta intera la carta.
«Sissignore, ha perduto,» dice mostrando il fante di picche; e soggiunge modulando la voce con dolcezza melanconica: «mi lasci dire che se lo merita; non è così che si gioca; per vincere la sorte bisogna prima vincere la propria impazienza; scompaginare le carte, come ha fatto lei, è una profanazione.»
A Donato riesce di ridere, e l'altro «non rida, è un canone dell'arte.»
Intanto il signor Asdrubale ha sbottonato il farsettone, ha cavato di tasca il taccuino, e si è riabbottonato da cima a fondo. Il giovane leva anch'esso il taccuino ed estrae un biglietto di cinquanta lire che porge all'avversario.
Ricomincia la partita. Questa volta è il signor Asdrubale che mesce, ma è ancora Donato che perde.
Fa caldo—Donato suda; l'altro, impassibile, offre la rivincita… guadagna ancora. Fa un caldo orribile.
Non rimangono più che centoquarantanove lire nel taccuino dello studente, il resto si è sprofondato nella voragine di pelle di bulgaro del signor Asdrubale. Poco stante la voragine si apre un'ultima volta e le centoquarantanove vanno a raggiungere le compagne.
A Donato casca di bocca il mozzicone d'avana che gli è costato trecentocinquanta lire; le forze lo abbandonano, goccioloni di sudore gl'imperlano la fronte e gli rigano le guancie. La sciagura dovrebbe venir raffigurata in quell'atto.
Che fare ora, poichè non gli rimane nemmeno il tanto da ritentare la sorte?
Il signor Asdrubale finisce appunto di raccogliere il suo denaro, leva la faccia sorridente e porge le carte al giovine, dicendogli con una monotonia d'accento che parrebbe feroce: «La rivincita?»
Quale fortuna! Quell'ottimo signore si fida; è disposto a giocare a credito, si adatta a riperdere il denaro vinto ed a lasciarsene guadagnare dell'altro!…
Donato non ha forza di rispondere, ma l'avversario ne indovina gli scrupoli e lo previene:
«So quel che mi faccio, dice socchiudendo un occhio furbescamente, so quanto vale il signor Donato, so fin dove posso arrivare senza rischio.
E ripete colla stessa dolcissima monotonia:
«La rivincita?…
Donato ci pensa, ha paura.
«Cento lire!…
Questa volta vince, e si arrabbia di non aver arrischiato di più.
«Dugento cinquanta.»
«Dugento cinquanta,» ripete il signor Asdrubale come un eco, intanto che distribuisce le carte; e non faccia complimenti, caso mai il fante di picche non le accomodasse… scelga lei…
Ma Donato crede di udire una voce che gli grida di no, e risponde che il fante di picche gli accomoda, e lo cerca baldanzoso fra le proprie carte, sicuro come è di trovarlo. Quella voce ha mentito, Donato perde; il signor Asdrubale apre il taccuino e segna colla matita centocinquana lire a suo credito.
Un mutamento avviene nello spirito di Donato.
Quanto poc'anzi era pauroso, altrettanto ora è arrischiato; l'intrepidezza della prima audacia è sempre poca cosa appetto dell'intrepidezza che succede allo sgomento; il signor Asdrubale dice di sapere dove e quando si fermerà, Donato invece non sa nulla, è sulla via della rovina (questo lo sospetta), ma è disposto a correre ad occhi chiusi. Il terribile gioco incomincia ora; finchè il magro taccuino dello studente di matematica stava di fronte a quello ben pasciuto dell'uomo di affari, il pericolo della scaramuccia era determinato e palese come la posta; or si acciuffano le cifre, si fa posta di parole, si fa battaglia campale di numeri.
Le carte passano da una mano all'altra, una volta, due, tre; ma il fante di picche è sempre fedele al signor Asdrubale. Ah! il brutto pensiero che attraversa la mente di Donato! si prova a respingerlo, scrolla il capo e getta indietro i capelli, ma quel pensiero buio non se ne va.
«Badi, dice l'avversario guardandolo fisso, il fante di picche quest'oggi mi vuol bene, scelga un'altra carta.
Donato si sente smascherato e si fa di porpora… ma che colpa ne ha egli se ha pensato male? Ne ha inteso dir tante! Vi è della gente così destra, dicono!… Il meno che possa fare per rattoppare il sospetto è di dichiarare, come dichiara:
«Nossignore, nel gioco bisogna essere ostinati…
Vince, si rianima, raddoppia, perde un'altra volta. Assolutamente il signor Asdrubale tiene la fortuna per le briglie e la mena come vuole.
«Accetto il suo consiglio, balbetta lo studente, scelgo l'asso di denari e raddoppio la posta.
L'ometto fa un cenno affermativo, e si curva a notare sul taccuino la nuova vincita. Si ridanno le carte… Amara beffa della sorte! Ecco Donato in contemplazione innanzi al fante di picche.
Pare al giovane che la carta fatale obbedisca ad un occulto nemico, che prima gli ha conteso la fortuna ed ora gli reca la beffa. La guarda intento, si sente voglia di stropicciarla, di morderla. Gli passano strane idee nella mente sbalordita, ha una visione; fissando l'occhio nel corpicciatolo meschino di quel fanticello, ci vede come una somiglianza di famiglia col suo avversario fortunato; se prova a levare il casco metallico all'uno, od a mettere un casco metallico all'altro, i due si confondono in un solo; hanno entrambi una faccetta asciutta e petulantella, ammiccano entrambi dell'occhio, ed il farsettone abbottonato dell'uno par tagliato dalla stessa mano che ha fatto il giustacuore nero dell'altro.
La visione, che va a poco a poco acquistando caratteri d'evidenza, è interrotta sul meglio da un'esclamazione del signor Asdrubale, il quale si ricorda d'aver viscere di misericordia, come tutti i giocatori fortunati, e compone il volto, i modi e l'accento ad una tenerezza compassionevole.
«È una vena sciagurata la sua, egli dice, mostrando l'asso di denari, non ho mai visto scirocco più ostinato, parola d'onore non ne ho mai visto.
Non so per quale fascino occulto le parole che celebrano la disgrazia d'un giocatore faccian l'effetto d'un balsamo sulle ferite della borsa, pur nissuno a mente fredda vorrebbe dare un quattrino della compassione nuda e cruda d'un che gli avesse levato di tasca gli scudi.
In tutti i modi Donato è riconoscente all'avversario, e nella sua miseria trova ancora un sorriso da spendere; l'altro prosegue:
«Ecco, se mai volesse aspettare un altro giorno fortuna migliore, ed intanto desistere, perchè non è forse prudente quanto immagina l'ostinarsi, anzi nossignore, non è prudente niente affatto… io s'intende, sarò a sua disposizione domani, doman l'altro, quando crede….
Donato si scolora in volto, trema, ha paura che l'avversario cerchi una scappatoia, ed interrompe la melliflua proposta ripigliando il mazzo e dicendo:
«Ancora una prova; torniamo al fante di picche.
L'ometto ammutolisce, riaccomoda le pieghe della giubba ed il nodo della cravatta, si rimette in positura perpendicolare e dà un'occhiata di sbieco alle annotazioni dell'enorme taccuino.
Quell'occhiata ha un significato, ed il giovine lo comprende. Ma che importa? Non è più ora di calcoli, di ritegni, di titubanze; ha perduto molto, troppo, perderà ancora; uscito dai confini delle sue proprie forze, una sola è la rovina, si chiami dieci mila o cento mila. Perde, raddoppia, riperde, raddoppia ancora, senza tremito, senza ansia, quasi indifferente. Una cosa sola lo inquieta, il timore che l'avversario, ad un dato momento, si levi dal tavoliere e dica col suo sorriso mefistofelico: «Mi basta.» La speranza, se ne rimane una palese a Donato, conta sull'ostinazione; un soffio favorevole può cancellare in dieci minuti tutte le paurose cifre messe in fila sul taccuino e rendere l'infausta partita un trastullo da bimbi, feroce trastullo, ma vano.
Per la prima volta, dacchè si è seduto in faccia al signor Asdrubale, Donato gira l'occhio intorno; l'ampia sala brulica di gente affannosa; dal tavoliere di Valente si stacca ogni tanto uno che si rasciuga la fronte e stropiccia la pezzuola, e stringe le labbra nascondendo male il dispetto. Nè Donato scampa a quella miserabile vanità di giocatore; se qualcuno si accosta a lui, e lo interroga sulla sua fortuna, rizza il capo, sorride nel rispondere: «Perdo.»
E perde; la sorte implacabile non si stanca.
Gli passano innanzi, come fantasmi benigni che invano cerca di trattenere nell'afa della sala da gioco, il babbo canuto, la sorellina gentile, Costanza innamorata. Col pensiero abbandona un istante quelle pareti fatali, torna a vagar pei campi inaffiati dal Lambro, risale l'erta faticosa del boschetto e ricompone innanzi agli occhi tutte le note sembianze di quel notturno paesaggio. Ecco i bruni alberi dondolanti, ecco le lunghe schiere d'acacie e la via maestra che si allunga come un nastro bigio nelle tenebre, le stelle che ammiccano in un cielo nero, i nugoli che viaggiano lentamente e l'anfiteatro di montagne appena disegnato nell'oscurità. A quel quadro vivo nulla manca, nemmeno il coro intermittente delle rane beffarde.
E perde; la sorte non si placa; gli sorride un istante, gli fa balenare una speranza che lo rende più audace, poi s'invola beffandolo.
Il signor Asdrubale, finora impettito ed abbottonato, comincia a muoversi sulla seggiola, a guardarsi intorno, a mostrarsi inquieto; ha l'aria di voler dire qualche cosa e di non sapervisi indurre, finalmente si sbottona, trae dall'ampia tasca, tirandola per un capo, una pezzuola di seta non mai finita e si asciuga il sudore ipotetico della fronte. A vederlo in quell'atto pare un uomo che abbia fatto un'improba fatica; è invece semplicemente un uomo in imbarazzo.
«Oh! senta, dice finalmente, stringendo fra le due mani la pezzuola per farsi forza; devo proprio dirglielo; non posso andare innanzi; ella ha perduto tutto quanto poteva perdere; non dico già che la non abbia ad essere solvibile anche per il doppio, anche per il triplo, non dico questo, ella è giovane, è quasi ingegnere, e gl'ingegneri di talento… come dice Martino Bruscoli… tutto questo è probabile, è probabilissimo, ma è l'avvenire nudo nudo… senza altro fondamento.
S'interrompe perchè Donato dica qualche cosa, ma Donato guarda istupidito e non dice nulla; ed allora riattacca il filo a bassa voce come facendogli una confidenza:
«Ho voluto porgerle modo di rifarsi, ho giocato la sua eredità futura, e mi sono messo a rischio, perchè ella potrebbe, Dio la conservi, invertire l'ordine naturale delle cose, buscarsi un malanno, mi capisce; ma se non altro ci è un… fondamento; ora siamo arrivati al limite massimo, e se persistessimo a giocare sarebbe far le cose in aria… senza fondamento.
Ancora s'interrompe, ed ancora ripiglia con accento misericordioso:
«Ah! creda che mi duole vederla perdere così, è una disgrazia senza esempio, senza esempio… Ebbene senta, per mostrarle che non voglio abusare della sua situazione, accetterò ancora una posta, una sola; se la fortuna vuoi favorirlo e rifare la strada fatta, la non dirà almeno che io le ho sbarrato il passo.
Ah! Si allarga il cuore a Donato.
«Accetto, dice egli, e soggiunge come obbedendo ad un'ispirazione: ma questa volta chi ha il fante di picche perde.
È l'ultima posta, ansiosa come la prima; è la minaccia d'un male senza rimedio, è l'estrema parola della sciagura.
Il giovine mesce, taglia, fa tutto da sè; l'avversario lascia fare.
«Povero signore! dice poco dopo il signor Asdrubale, non ne imbrocca uno, non ne imbrocca; io non ce l'ho proprio il fante di picche, lo cerco… ma non ce l'ho proprio; povero signore!
E dette queste parole, nota nel taccuino il nuovo guadagno, raduna le proprie carte, nasconde il tutto nella giubba e si abbottona da cima a fondo per l'ultima volta.
Donato non lo intende, non lo vede neppure; rimane immobile, istupidito, cogli occhi negli occhi di quel fanticello di picche dalla faccetta petulante, dal giustacuore nero e dal casco metallico.
IX.
Il pendolo della sala da gioco segna le undici da tempo immemorabile; ma porgendo l'orecchio, in un intervallo di profondo silenzio, si odono le voci variamente fioche degli orologi lontani. Sono le due dopo mezzanotte.
La fortuna di Valente ha stancato gli avversarii che ad uno ad uno sono scomparsi; rimangono un paio di testerecci, ed una mezza dozzina di scioperati, i quali, non avendo un quattrino per pagarsi vizii proprii, campano sulle bricciole dei vizii degli altri. Costoro non se ne andranno che dopo l'ultima partita.
Donato, col capo curvo sul petto, sembra estraneo a quanto succede tutt'intorno, ed il signor Asdrubale, dopo essere stato un pezzo in silenzio, si decide a rammentare la sua presenza con un sospirone lungo lungo. Lo studente si scuote, si leva in piedi, e come colto da un improvviso pensiero, ricade sulla seggiola balbettando:
«Sono agli ordini suoi.
—Agli ordini miei, dice l'ometto con accento di evangelica pietà; agli ordini miei! ma io non ho ordini da darle, caro signore; il suo debito, ella sa benissimo che ascende a… ecco… lo dicevo, ella lo sa benissimo; dunque non ne parliamo altro; quanto al termine ed al modo di pagamento, io… (ah! le giuro che mi duole di aver guadagnato, non dico che preferirei aver perduto perchè non mi crederebbe e non sarebbe vero, ma in coscienza mi duole,)… quanto al termine nè io nè lei non ne sappiamo nulla, dipende dal cielo, il meno che posso fare per dimostrarle il mio… la mia… i miei, insomma il meno che posso fare è di augurare a quell'ottimo signor Norberto gli anni di Matusalemme.
Donato si fa forza per chiudere l'uscita ad un'onda amara di lagrime, ed arriva appena in tempo a trattener coi denti un singhiozzo che si perde in un mugolio lamentevole.
Il signor Asdrubale sembra proprio alla tortura
«Non ne parliamo più, egli dice; e se può, se ne dimentichi ella stessa, veda, io me ne sono bell'e scordato; la cosa è semplicissima, e deve passare fra noi due soltanto; anima viva non l'ha a sapere; di questo fatto doloroso nissuno avrà dolore, eccettuato lei ed… io. A suo tempo, fra venti anni, fra trenta, salderemo i nostri conti senza amarezze soverchie.
Bisogna dire che l'ometto trovi proprio irresistibile la sua eloquenza, perchè, interrompendosi un istante, ripiglia fiato così:
«Allora ella sarà in grado di non avvedersi nemmeno di questa piccola sventura… perchè è giovane, ha talento, buona volontà, ed i giovani ingegneri di talento, se lo lasci dire ancora una volta, hanno sempre una miniera sotto i piedi; un bel giorno battono il tacco e trovano il filone buono, afferrano la fortuna per i capelli d'oro e non la lasciano più scappare. Così farà lei; è il solo rimedio al suo male, è la sola via onesta…
Alla parola onesta, Donato rialza vivamente il capo; senza rendersene conto, ha una voglia pazza di regalare un paio d'impertinenze al suo avversario. Il quale interpreta quell'atto a modo suo e tira innanzi senza fermarsi:
«Bravissimo; così mi piace. Un uomo volgare, dopo una brutta notte come questa, penserebbe a mille corbellerie, a disperarsi, ad impazzire, a pigliare un semicupo nel naviglio, od a cacciarsi in corpo una palla, che spesso va di sghimbescio e ti inchioda a letto un paio di mesi… che so io; un giovane volenteroso e savio, come lei, medita invece una partita coraggiosa colla fortuna, combatte col lavoro e coll'ingegno, si piglia una rivincita solenne e fa onore ai propri impegni e paga i proprii debiti… Le ho detto che mi sono scordato del mio credito… sarò sincero, ci penso invece, e sono sicuro che ella non mi farà aspettare un pezzo.
Donato si rizza in piedi, finge di ravviarsi i capelli innanzi allo specchio, abbozza un sorriso a due o tre camerati, esce a passo fermo colla desolazione nel cuore—ed il signor Asdrubale dietro.
Uno degli orologi più frettolosi di Milano batte la mezz'ora, un altro gli risponde e dieci altri.
Donato cammina un breve tratto a gran passi, poi rallenta l'andatura.
E la voce fessa dell'ometto dal farsettone nero ripiglia a dire, mutando accento:
«Un istante di torpore è necessario a preparare le nobili cose; il filugello s'intorpidisce quattro volte prima di farsi il bozzolo; anche lei si farà il bozzolo, sissignore, se lo farà anche lei, se Dio le conserva questo tesoro di salute. Ed io spero di sì, perchè se ella morisse prima del tempo sarebbe una sciagura per tutti…
Donato si ferma nel mezzo della via, ed alla luce d'un lampione guarda la faccia contrita del suo compagno.
«Sissignore, per tutti, soggiunge costui, e prima di tutti per lei… poi per Martino Bruscoli, idest per la signorina Costanza, e in fine per il signor Asdrubale suo umilissimo servitore. Badi un po' quanto la sua vita è preziosa: morendo lei, l'eredità del signor Norberto toccherebbe tutta alla sorellina, ed addio crediti; la signorina Costanza non potrebbe nemmeno farsi i ricciolini colla sua obbigazione, perchè non porta ricciolini, mi pare, ed il signor Asdrubale non potrebbe nemmeno accendere la pipa colla obbligazione che ella gli farà… perchè non fuma; veda un po' se la sua vita è preziosa! E veda quanto è facile pagare i debiti quando non si ha coscienza, e veda che rischio si corre di appaiare in un istante di debolezza una corbelleria irrimediabile ed una cattiva azione…
Qui le intenzioni del vincitore cominciano a farsi palesi anche a Donato, il quale si arresta di botto e dice:
«La ringrazio del consiglio; so i miei doveri; domani venga da me, le scriverò l'obbligazione.
Lo studente di matematica, ciò detto, volta a mancina, ma il signor Asdrubale non lo lascia.
«Come mai da quella parte? non va dunque a casa?
—Non ho sonno, non dormirei stanotte…
—To'! anch'io non ho sonno…. e non dormirei; non le duole già che l'accompagni?… quanto all'obbligazione non ci è tutta la premura che ella immagina… ed è una cosa subito fatta, quattro parole sopra un foglio di carta bollata… vorrei che fosse già aperto uno spaccio di tabacchi che si leverebbe la seccatura subito… abbia pazienza fino a domattina. E dica… non vuole che andiamo al caffè a prendere una chicchera di latte caldo? Fa bene il latte caldo dopo una notte vegliata… pago io, s'intende, poichè, salvo errore…
L'oscurità non permette a Donato di vedere l'occhiata che il suo compagno gli lancia dal basso in alto con un occhio solo; ma nondimeno l'indovina, come l'altro indovina che lo studente si fa rosso in viso.
«Non ci è da arrossire; ella ha perduto tutto quanto aveva, e non ha più un soldo; ma sono qua io per lei; dica che cosa le occorre per i bisogni più urgenti e faremo un conto solo…
Suonano le tre, quando il signor Asdrubale spinge con lieve violenza il giovane nel caffè della stazione.
Non vi è anima viva, tranne due camerieri ed un grosso micio che sonnecchiano.
Vedendosi ancora faccia a faccia col suo avversario, col suo nemico, Donato sente come un impeto d'odio, come un'amarezza nuova, come uno spasimo indefinibile. Quella faccetta asciutta, quell'occhio che ammicca, quel labbro che sorride e par che ghigni, quel farsettone chiuso come una cassa forte dopo di aver inghiottito ogni sua ricchezza, quella voce monotona, uguale, stridula, quella disinvoltura provinciale, non vi è dubbio tutto ciò è lui—il fante di picche!
Non pensa, solo gli sta innanzi la fatale visione; non ragiona, ma sente un bisogno irresistibile: allontanarsi da quell'uomo.
Si alza bruscamente, e dice con voce rotta dallo sforzo che fa per contenersi:
«Ho bisogno d'esser solo, venga domani; come le ho detto, le farò la sua obbligazione.
Ma il signor Asdrubale non sembra avvedersi di quei modi nè di quell'accento, afferra il giovine per la falda dell'abito e lo costringe a sedersi, picchiando sul tavolino coll'altra mano per chiamare un cameriere.
«Due chicchere di latte caldo, ben caldo… Veda, caro signor Donato, come le dicevo, io non ho premura; fra un'ora albeggia, e se ha tanta fretta faremo subito l'atto; intanto eccole qui trecentocinquanta lire… le bastano?… non faccio che pigliarne nota e sono sue…
Tanta sicurezza dà l'ultimo crollo al giovine studente, il quale per la prima volta fissa gli occhi in faccia del compagno importuno; ma costui non batte palpebra, sorride bonariamente ed insiste per fargli accettare il denaro.
Sotto quelle sembianze di cortesia e di buona fede è un'ansia paurosa che non inganna nemmeno Donato.
«Ha paura che gli scappi!» pensa il giovane, «diffida di me.»
E ne ha ragione, figliuol mio; e che farnetica la tua mente scombuiata se non il modo di fuggirgli di mano? Non sai perchè, non immagini che farai, non vedi nulla oltre il bisogno del momento, perchè le tenebre ti si stringono intorno al cervello; ma questo tuo bisogno prepotente, l'hai pur detto, è sempre lo stesso—rimaner solo. E che farai quando sarai solo?
Così sembrano parlargli il sorriso bonario e la dolce insistenza del signor Asdrubale per fargli accettare il denaro.
E Donato accetta, beve il latte caldo, risponde a monosillabi alle chiacchiere del compagno, spinge l'occhio nel buio della sua mente quanto più gli riesce, cerca un'idea. Non trova; in quella ridda di fantasie strambe—carte, tavolieri, debiti, sorrisi di Costanza, lagrime del vecchio padre, carezze melanconiche di Mariuccia e quesiti di meccanica applicata—non vi è nulla che abbia l'aria d'un pensiero proprio.
Pure il bisogno di togliersi la seccatura del suo compagno ha preso a poco a poco il carattere di mania; cominciano a venirgli alcune idee di evasioni impossibili; pensa al conte di Montecristo, una delle poche reminiscenze romantiche della sua vita numerica; si guarda intorno cercando uno scampo; fa disegni insensati; fugge in cento mila modi, e invano, chè il signor Asdrubale gli è sempre alle calcagna come un'ombra.
E il tempo passa.
«Chi parte per Sesto, Monza, Seregno, Camerlata?» grida all'improvviso una voce stentorea nella sala.
Ah! ecco finalmente un'idea!
«Pagherò io, dice Donato levandosi di botto ed accostandosi al banco.
—Oibò, ribatte l'altro, è già pagato, e chiama a sè col gesto un cameriere.
Ma il giovine non gli bada e tira dritto, piglia l'altro cameriere in disparte e gli dice sommessamente mettendogli in mano cinque lire: «Un biglietto secondi posti per Seregno; spicciati, il resto è per te.»
Cinque minuti dopo la voce stentorea ripete: «Chi parte per Sesto, Monza, Seregno, Camerlata?»
E la campana annunzia la partenza.
Donato guarda attorno ansiosamente, non badando al signor Asdrubale, il quale per la ventesima volta ripete: «Ah! triste cosa il giuoco, non è contento chi perde, e non è nemmeno contento chi vince… Creda…
Il cameriere arriva, Donato scatta in piedi senza dir parola, afferra il biglietto ed infila l'uscio che gli sta in faccia.
Due minuti dopo il convoglio si muove, parte… lo studente di matematica respira.
X.
È solo. Può ora sprofondare l'occhio nell'abisso in cui è caduto, misurare l'immensità della sua sciagura. Ma che vale? Tutto quanto può dire il pentimento egli l'ha inteso altra volta—e nulla valse. Allora come oggi si trovava solo, faccia a faccia con un pauroso fantasma; allora come oggi lamentava nella sua colpa non la rovina propria, ma il dolore affannoso del vecchio padre—e nulla valse.
Or si aggiunge allo stesso strazio la morte della sua più cara speranza, un amore non pur confessato e già gigante, e già perduto per sempre; e su quel cumulo di sciagure—sciagura maggiore di ogni altra, perchè gli toglie anco il conforto delle lagrime—una sfiducia profonda di sè medesimo.
Ricercherà egli nelle voci della natura, nelle immagini de' suoi cari, nei mille vaneggiamenti febbrili, un alimento al rimorso, se già ebbe tutto questo e invano? Si farà zimbello di un giuoco bambinesco, e pur d'incrudelire contro sè medesimo, ripeterà ancora una volta il vacuo frasario della coscienza di che ha fatto inutile esperimento?
No, anche la coscienza tace; uno squallido silenzio è intorno all'anima sua; quel raggio di sole che percuote la pianura, illumina la morta calma d'un cuore che si disprezza.
La sua condizione è palese; ha giocato, ha perduto; ha perduto Costanza, la stima d'altrui e di sè stesso, il diritto di lasciarsi amare dal vecchio babbo e dalla sorellina, la fede nell'avvenire; era questa la posta, egli lo sapeva ed ha giocato—ed ha perduto. Non gli rimane nemmeno più il diritto di morire; uccidersi ora sarebbe «un troppo facile modo di pagare i proprii debiti»—il signor Asdrubale lo ha detto.
La mattina è splendida di luce, puro il cielo, l'aria fresca e carezzevole. La morta calma del cuore di Donato gli si riflette nell'occhio intorpidito che si arresta in una inconsapevole contemplazione. I pali del telegrafo gli passano dinanzi vertiginosamente in prima linea, le acacie delle siepi procedono più lente, e i gelsi più lenti; tutta la pianura scintillante se ne va; solo gli orizzonti rimangono immobili, anzi le vette delle montagne, con movimento opposto, par che lo seguano nel viaggio.
Così fugge il presente, così non possiamo staccarci dal nostro tempo lontano—dal passato che ci accompagna, dall'avvenire che ci aspetta.
Una volta, due, tre il convoglio si è arrestato; finalmente al noto fischio succede una monotona voce: «Seregno!»
Donato si scuote, balza fuori dal carrozzone, e si arrende all'invito del primo monello che, schioccando la frusta, offre un calessino sconquassato. La rozza, educata alla identica scuola del Morello famoso, attraversa come un fulmine o poco meno le vie di Seregno, poi strascica gli zoccoli nella polvere della via maestra.
Che fa lo sciagurato? Che propone?
Non lo sa egli stesso; ha bisogno di rivedere la casa dove fu tanto lieto, di sentirsi vicino, per l'ultima volta forse, a coloro che ama, di respirar l'aria della felicità di cui ora è immeritevole, poi… Poi fuggirà, e se non gli è lecito togliersi la vita, andrà in cerca di morte, domandandola agli uomini ed alla natura.
Attraversa i paeselli, osserva le case meschine, i villini eleganti, le fontane pubbliche, guarda a tutte quelle note fisonomie, che, alla tetra luce della nuova sventura, gli paion nuove e non più care come prima. Per tutta la via s'incontra in contadinelle che, canticchiando sommessamente, levano la bruna testa di mezzo all'immenso biondeggiare delle spighe mature… ecco l'ultima salita, ecco il colle, ecco Inverigo coi suoi viali di cipressi, colle sue casette bianche, col suo campanile scintillante al sole, ecco il tranquillo sentieruolo ombreggiato d'acacie, l'ultimo…
Donato fa arrestare il calesse, scende, rimane un istante immobile, poi si avvia a passo lento… e si trattiene innanzi al muricciolo di cinta del giardino, del babbo; gli batte il cuore, sente rumore di passi, si nasconde, ha paura di esser visto; poi si appressa, si arrampica d'un balzo allo sporto del muro, getta, spenzolandosi, un'occhiata di baleno nel giardino e si lascia ricadere a terra palpitante. Quante cose ha visto! la casetta bianca, le finestre dischiuse, non ancora baciate dal sole, il viale, il padiglione di glicinie, la quercia superba… Ascolta, gli par di udire una voce, è lei… no, sì, sono due voci note, la sorellina e Costanza. Le care creature hanno l'anima lieta come il limpido mattino che le ha destate, ridono… se salissero sulla montagnuola e si affacciassero al muricciuolo!… ecco si accostano, si allontanano, ridono ancora… se sapessero!…
Ah! questa volta Donato non regge più, una lagrima gli riga le guancie e, dietro a quell'una, mille.
Un rumore di passi nel sentiero lo toglie al sua affanno; vuol fuggire, vuol nascondere il proprio dolore alla stupida curiosità d'un contadino indifferente… troppo tardi, appena ha il tempo di celare la faccia lagrimosa fra le mani. Ma il passante si è fermato, non se ne va, e Donato ne sente lo sguardo curioso ed indagatore.
Allora si leva in piedi, guarda innanzi a sè e rimane come istupidito. È lui, ancora e sempre lui—il fante di picche!
XI.
Il signor Asdrubale, col pugno sull'anca, colla faccetta petulante, se non ha un aspetto odioso, come pare a Donato, ha certo una gran voglia di ridere. A momenti spalanca la bocca sorridente e se la lascia scappare la sonora risata di soddisfazione che gli spira da tutti i pori.
«Come ho fatto? Mi domandi come ho fatto, e si dia per vinto. Vede bene che io sono nato prima. «Uno secondi posti per Seregno;» ho l'orecchio fino io ed ho fatto il papagallo… «uno secondi posti per Seregno» ed ho viaggiato con lei, separato solo da un tramezzo, ed ho inghiottito la polvere del suo calesse, ed eccomi… Così ho fatto.
Questa volta non resiste più e dà in una risata che fa ammutolire i grilli mattinieri.
Donato si ricompone, fa un passo innanzi, si ferma e dice:
«Ignoro le sue intenzioni; le mie sono da galantuomo, non ho avuto in mente di sottrarmi alla mia sciagura, ma alla sua presenza odiosa che me la fa parere cento volte più amara.
Che ci è da ridere in queste parole, pronunziate con una solennità dignitosa?
Pure il signor Asdrubale minaccia di far saltare i quattro bottoni della giubba e si stringe i fianchi con tutte e due le mani. Finalmente si rifà serio, e risponde in falsetto:
«Non dirà sempre così, non dirà sempre così.
Certo l'eco della risata ha passato il muricciuolo ed è entrato in giardino, perchè lassù, sulla montagnuola, di mezzo alle foglie della vite ed ai grappoli immaturi, si affaccia una figurina gentile, e poi un'altra. Due esclamazioni di gioia, ed un replicato batter di palme e due voci amorose che gridano:
«Donato!
«Lo zio!
L'ometto dal farsettone nero leva il capo in alto e dice senza turbarsi:
«Sì, piccina mia! siamo noi; arrivati a piedi come due studenti; buon giorno, signorina Mariuccia.
Mariuccia non risponde nemmeno, è la prima a sparire, Costanza l'accompagna; si odono le loro voci fresche e festose che si allontanano gridando la buona novella; Donato non ha parole, si crede beffato da un'illusione, guarda l'ometto a bocca aperta, e l'ometto guarda lui con un sorriso incoraggiante.
«Il signor Martino Bruscoli? balbetta il giovane.
—Sono io per fortuna… perchè potrei anche essere il signor Asdrubale.
Lo studente non ha tempo di domandare spiegazioni delle parole incomprensibili, che dall'estremo punto del sentieruolo appariscono Costanza e Mariuccia, tenendosi per mano, ansimando e ridendo.
Eccoli stretti in un amplesso; fratello e sorella, zio e nipote. Poco stante apparisce il signor Norberto, col volto pieno di rughe e d'amore, coi capelli canuti accarezzati dalla brezza del mattino. Donato si stacca dalla sorella e corre a buttarsi nelle braccia del padre, lagrimando.
Ma Martino Bruscoli accorre, stringe la mano al vecchio e spiega l'improvviso arrivo e le lagrime così:
«Fra quattro giorni Donato incomincia gli esami; tutta la settimana ha studiato, ha studiato, ha studiato, ci ha voluto rimetter gli occhi questo bravo figliuolo; sono stato a Milano per certe mie faccenduole, ho visto una nuova macchina per la Filanda, ed ho parlato coi professori della Scuola d'applicazione… Fra un mese suo figlio è ingegnere. Ha voluto venire a salutarla un'ultima volta prima degli esami, ma questa sera stessa partirà, perchè non ha tempo da perdere, e, come vede, è soverchiamente impressionabile; ha torto, gliel'ho detto, ha torto!
Il tempo passa veloce; non anco sì è arrivati, che già è l'ora della colazione. Donato ha sempre Camillo Bruscoli alle costole; non se lo può levare d'attorno. Pure, non sa bene perchè, nella sua miseria gli par d'essere tanto felice, tanto felice!…
«Signor Martino, egli dice quando per la prima volta si trova con lui, se le ho mancato di rispetto, mi perdoni; io non sapeva che ella fosse lo zio della signora Costanza.
—Non mi basta, risponde l'ometto, tu devi (ti do del tu perchè mi piaci e ti voglio bene, e se vuoi fare altrettanto accomodati) tu devi prima fare ammenda di tutte le ingiurie che mi hai detto o che hai pensato.
—Io?
—Sta zitto… cioè che ho una figura odiosa; questo l'hai detto; guardami bene, ti pare proprio che io abbia una figura odiosa?
Donato ride.
«Hai sospettato che io fossi un usuraio; non è forse vero?
—È vero.
—E che ti rubassi al gioco?
—Questo poi…
—È vero o no?
—Ma perchè non darsi a conoscere?
—Oh! bella, perchè volevo conoscere te, e ti ho conosciuto.
Donato china gli occhi, e si perde in un labirinto di congetture… finalmente trova il bandolo e ne esce con un sospiro.
«Quando vuol che le faccia l'obbligazione… dice poi, cambiando tono di voce.
L'ometto leva le braccia in alto invocando la misericordia del cielo su quell'ingenuo, e risponde:
«Che obbligazione d'Egitto! Oh! non capisci dunque che ho fatto per ridere?
Donato sbarra tanto d'occhi e non trova parole; alla fine balbetta:
«Ma io ho fatto sul serio, ho perduto e devo pagare… il denaro del gioco è sacrosanto.
Martino Bruscoli scatta come una molla e tappa la bocca allo studente.
«Non mi ripetere queste corbellerie; non pretendere d'impormene con queste sentenze virtuosissime che escono dal tribunale della bisca, con questi postulati che non hanno altro valore se non di dare prestigio al vizio; le son ciancie che stanno bene in bocca al signor Asdrubale; ma io mi chiamo Martino Bruscoli, per grazia di Dio, e Martino Bruscoli non conosce altro denaro sacrosanto fuor quello che si è guadagnato col proprio lavoro. Tu non mi devi nulla, ti ripeto, ho fatto per guarirti in tempo da un brutto male; tocca il polso alla tua coscienza e se ti senti proprio sano, non ho perduto la notte. E fammi il famoso piacere di non fiatare nemmeno.
—Ma se avesse perduto lei?
—Se avessi perduto io, ti avrei fermato sulle sei mila lire, e ti avrei detto: «Figliuolo mio, hai riguadagnato il tuo denaro; il signor Asdrubale pagherà a Martino Bruscoli la somma che la signorina Costanza ti ha dato in prestito, eccoti l'obbligazione; non devi più nulla, bada che hai talento, hai cuore, ed eri sulla via di diventare un cattivo soggetto. Piglia la laurea d'ingegnere, fa felice il vecchio babbo, lavora, poi innamorati sul serio di una qualche bella ragazza e valla a domandare allo zio…»
L'ometto si tappa la bocca, ma oramai è scappata… conchiude: «Verrai a vedere la mia filanda; imparerai qualche cosa, perchè già la vita è una scuola d'applicazione, e ci è da imparare da per tutto; i bachi da seta, per esempio, t'insegneranno che prima di farsi il bozzolo prezioso bisogna intorpidirsi; tu ti sei intorpidito due volte; non pigliare alla lettera il sistema dei bachi, va e fatti il bozzolo.»
XII.
Che ore veloci! Donato ha appena avuto il tempo di gettare un'occhiata fuggitiva nella sua immensa felicità, ha appena specchiato il suo sorriso negli occhi di Costanza, le ha detto solo che le vuole tanto bene, ed ha paura di non essersi spiegato abbastanza chiaro—e già il focoso Morello scalpita impaziente sul lastrico, e l'oste afferra le redini e la frusta. Bisogna partire; replicati baci a tutti, perfino sulla faccetta petulante di Martino Bruscoli, ma non sulle guancie brune e vellutate di Costanza. Si parte.
Per via Donato fa come gli ha detto l'amico Martino, tocca il polso alla propria coscienza… è sano; or che ha visto la rovina da vicino, è sicuro di non giocar più, e lo dice a sè stesso senza l'inquietudine dei propositi malfermi.
I giorni passano, anche quelli terribili della meccanica e delle costruzioni; vengono e passano allegramente; e giunge il giorno famoso—Donato si copre di gloria; nulla più lo separa da una nuova rete di ferrovie o da una miniera… è ingegnere!
Uscendo dall'aula scolastica per lanciarsi nel mondo, chi lo accoglie a braccia aperte?… Martino Bruscoli, col farsettone nero abbottonato, colla cravatta a sghimbescio. Avesse anche in testa, invece del cappello a tubo, un casco metallico, la sua faccetta asciutta, la sua voce fessa, i suoi sguardi d'economia, fatti con un occhio solo, non avrebbero nulla di pauroso. Oggi Martino Bruscoli raffigura la bonarietà, la cordialità, tutti gli astratti onesti del vocabolario.
«Te lo leggo in faccia, tu sei ingegnere! Tutti gl'ingegneri appena sgusciati hanno la faccia che hai tu….
—Sono ingegnere! sì, sono ingegnere! risponde Donato… e il babbo, e Mariuccia… e Costanza?
La famigliarità con cui egli domanda della nipote non offende lo zio, il quale piglia il giovane a braccetto, lo sottrae con lieve violenza ai baci ed alle strette di mano dei compagni, esce dalla Scuola. d'Applicazione, volta a dritta, ed infila a passo di carica il portone del vicino Albergo Cavour.
In un salone deserto, Donato trova il mondo che l'aspetta a braccia aperte, il suo mondo che si chiama, Norberto, Mariuccia e Costanza. Questa volta inaugura la carriera d'ingegnere con un atto d'audacia; dopo aver baciato i suoi parenti, bacia anche Costanza. E nissuno ci trova a ridire.
In un cantuccio dell'ampia sala è preparata una mensa per cinque.
Martino Bruscoli da il segnale; seggono: il vecchio babbo a capo di mensa, Donato accanto a Costanza ed in faccia al… fante di picche. Ah! chi gli avrebbe detto allora che la partita formidabile doveva andare a finire così!
La sala si popola di forestieri, di comitive ciarliere o taciturne; bisogna essere felici a bassa voce, perchè della tranquilla gioia non esali nulla, non si perda un bricciolo.
Il desinare è splendido; alle frutta, Martino Bruscoli fa un brindisi all'ingegnere, ma l'ingegnere è distratto; protetto dalla complicità della tovaglia, egli si è impadronito colla destra della manina manca di Costanza, e tutta l'anima sua è sotto la tavola.
Alla sera si parte insieme; e giunti a Romanò, il signor Martino sbottona il farsettone, leva una busta chiusa e la dà a Donato, dicendogli:
«È un regalo per la laurea.
Donato rompe il suggello ed estrae dalla busta un omicciatolo magro e nervoso, con un giustacuore nero ed un casco metallico.
«Lo serberò prezioso, dice egli arditamente, ma non mi basta: signor Martino Bruscoli, le domando la mano di sua nipote…
E il signor Martino Bruscoli esce a ridere, chiude un occhio e risponde:
«Mariuolo d'un ingegnere… non hai fatto i tuoi comodi, non te la sei presa?… O credi che non ti abbia visto perchè ci era di mezzo la tovaglia?
UNA SEPARAZIONE DI LETTO E DI MENSA
I.
La camera che io abitava allora in via Bagutta era veramente in alto più del bisogno. Lo dicevo a me stesso quattro volte al giorno, sempre che salivo i cento e dodici gradini che mi separavano dalla folla, ma siccome quando si era su si godeva dalla finestra un magnifico panorama di tegole e di fumaioli, ci rimanevo. E poi in quattro mesi avevo fatto la conoscenza di tutti i vicini, e di solito fra i vicini d'uno scapolo ve n'è sempre qualcuno da cui dorrebbe esser lontani.
Fu là ch'io conobbi la più bizzarra coppia coniugale che si possa immaginare. Dire che il signor Sulpicio e la signora Concetta erano la legittima metà l'uno dell'altro non sarebbe una metafora, che tra tutti e due non so bene se avessero il tanto di polpe e di muscoli necessario a formare una sola creatura umana mediocremente pasciuta. Ponendo però insieme i loro annetti passavano il secolo e mezzo un bel tratto, e se coll'immaginazione (il decoro non consentiva altrimenti) collocavo la signora Concetta ritta in piedi sul cranio del signor Sulpicio, mi conveniva rassegnarmi a veder la testa della veneranda moglie sfondare il soffitto e passare dall'altra parte. Ora il soffitto della mia camera distava dal pavimento tre metri e mezzo.
Quando uno abbia sciolto tutti questi quesiti aritmetici si troverà, credo, innanzi il più preciso ritratto dei due coniugi, e li vedrà come io li vedo nel mio pensiero, lunghi, esili, allampanati, colle teste incanutite, coi volti tagliuzzati dalle rughe, cogli occhi sprofondati e lucenti.
Vivevano insieme dividendo il letto e la mensa e le tribolazioni da cinquantacinque anni, e s'erano tanto guardati nel bianco dell'occhio, che a poco a poco i due volti avevano come fatto la smorfia l'uno all'altro, e se non erano i nasi, si avrebbe detto che Sulpicio e Concetta fossero fratello e sorella. Ma i nasi, non ci era verso, avevano voluto rimaner tal quali, ed io dico che di nasi più in antitesi non mi toccò mai di vederne in vita; quello del marito, incurvato a becco d'aquila, come un curioso che guarda a tutto ciò che entra in bocca, quello della signora Concetta, rivolto in su, come un prudente che si tira indietro quanto può per non dar soggezione ai buoni bocconi. Le due similitudini non le ho fatte io, ma avevano avuto origine alla mensa dei due sposi, cinquantaquattro anni e undici mesi innanzi, in un momento di collera reciproca prodotta da non so quale intingolo che sapeva di fumo.
Fu la prima nuvola del loro azzurro, ma fu un nuvolone brutto, che come dall'intingolo si era passato ai nasi, così dai nasi si passò alle abitudini e dalle abitudini agli umori. Si finì a conchiudere che la catena del matrimonio non aveva mai appaiato due che la portassero insieme così di malavoglia; Concetta parlò di ritornare ai parenti e Sulpicio voleva che ci ritornasse subito, ma si considerò che, siccome viaggiavano per le nozze, i parenti di Concetta si trovavano a dugento miglia dal luogo della prima catastrofe matrimoniale, e si differì la cosa.
La gran parola era stata pronunciata «separazione di letto e di mensa!»
Al giorno dopo Sulpicio pensò che a lui era stato affidato il verginale tesoro della sua compagna, ricordò le parole d'un commovente discorsetto che gli aveva rivolto il suocero, ricordò d'aver giurato di farla felice, ricordò un mondo di oneste ricordanze, pensò un mondo di savii pensieri e conchiuse che gli bisognava indurre Concetta a rimanere nel tetto coniugale.
Dal canto suo Concetta, donna giudiziosa se mai ve n'ebbe, s'era tirata in mente i consigli della mamma, il sì pronunziato all'altare, l'invidia delle amiche rimaste zitellone, aveva pensato al dolore dei suoi, alla segreta gioia ed alla falsa compassione delle compagne e conchiuso che forse dopo tutto Sulpicio non era cattivo, e che se non fosse stato quel disgraziato intingolo che sapeva di fumo… Quando Sulpicio venne col suo più bel sorriso, Concetta aveva anch'essa il suo più bello, si strinsero le mani, si abbracciarono stretti e fecero la pace.
In fondo però rimaneva inteso che si davano l'uno all'altro in prova.
Quella prova era, per mille burrasche della stessa natura, giunta fino al quarto piano di via Bagutta, e durava ancora.
A volte il vicinato era messo improvvisamente sossopra da uno strillo acuto.
«È Concetta!» si diceva.
Era Concetta. La disgraziata vittima, dopo di aver lanciato al suo tiranno tutti gli epiteti graziosi ammucchiati in cinquantacinque anni di ricerche, senza riuscire a debellare il dizionario del marito, gli gettava finalmente uno strillo formidabile. Si accorreva e si trovava che il vecchio Sulpicio si era posto in salvo giù per le scale e che Concetta gli avventava un ultimo aggettivo qualificativo dal pianerottolo.
I primi uffizi di buon vicinato venivano prodigati a Concetta, e si sapeva a memoria che dovevano consistere nel lasciarla dire fino a tanto le fosse sbollita la collera. Guai a compiangerla o a dirle che non meritava la sua sorte e che suo marito era un disgraziato: anche quando pareva spenta, ripigliava fuoco come un fiammifero a protestare che il suo Sulpicio se l'era voluto lei e se l'avrebbe tenuto, che quello che era il suo Sulpicio lo sapeva lei sola e non doveva saperlo altri, e nessuno venisse ad insegnarle a leggere nel cuore del suo Sulpicio, e che essa da un pezzo lo sapeva a memoria e che in fondo lui valeva meglio di tanti.
Cessato l'impeto, e quando il pianerottolo era ridiventato solitario, la vecchia usciva di soppiatto dalle proprie camere, si guardava intorno colla testa tremante entro la larga cuffia di seta nera, scendeva due scalinate ed andava a picchiare all'uscio, della signora Nina, una giovine vedova che viveva con uno zio pieno di acciacchi, amico di Sulpicio. Concetta sapeva che il suo uomo voleva un gran bene a quella giovane donna e non solo non era gelosa, ma ne invocava l'intercessione per farle fare la pace.
Press'a poco nello stesso tempo il fuggitivo marito ritornava furtivamente in casa, saliva le scale ansando e faceva irruzione nella mia camera.
Sapeva che Concetta mi voleva bene come ad un figliuolo, che una mia parola poteva molto sull'animo di lei, e mi affidava il carico di ridargli la sua domestica tranquillità.
II.
A me la parte di conciliatore non costava gran fatto, e non credo che alla signora Nina contasse di più.
Quando Concetta mi vedeva, non mi lasciava proferir verbo dell'imbasciata, stringeva fra i nodi di ambe le mani la mia destra, e con un muto tentennar del capo e un levar d'occhi al soffitto, mi dimostrava tutto il suo dolore dell'accaduto, l'intenzione di ritornare nel talamo, la gratitudine per la mia buona opera.
In fondo era evidente che Concetta non poteva vivere separata dal suo Sulpicio, e che pensava nemmeno Sulpicio potesse stare senza la sua Concetta. Si amavano come si erano sempre amati, alla loro guisa battagliera, ma si amavano quanto è possibile che due si amino in terra.
Quando il convertito Sulpicio, il quale non aspettava altro, riappariva nel vano dell'uscio, dandosi un contegno sbadato ed indifferente per non parere commosso alla mia presenza, Concetta si ricordava non so qual rammendatura che doveva fare, e frugava in fondo alle tascaccie per trovare il ditale e l'agoraio.
Allora o infilavo l'uscio, o mettevo il capo ai vetri della finestra, o mi correvano gli occhi ad un libro o ad un quadro.
Sulpicio si accostava a Concetta, e Concetta si volgeva un pochino verso Sulpicio, ed entrambi un altro poco; poi vedevo colla coda dell'occhio stringersi due mani tremanti, ed avvicinarsi due volti illuminati da un magnifico sorriso, e due lagrime scendere incanalate lungo i solchi delle rughe…. Finalmente si abbracciavano stretti. Ed io continuava a guardare altrove, o mi voltavo sbadato, o dicevo che faceva un magnifico sole quando non faceva una pioggia diluviana, pensando dentro di me che quelle lagrime erano giovani e quei sorrisi in tutto degni della primavera di due volti rosati.
Una volta però la burrasca fu così tremenda, che prima che le due navi entrassero d'accordo nel porto matrimoniale ci vollero parecchie ore e molte ambascerie. La parola separazione di letto e di mensa era stata pronunziata da tutti e due, e nissuno voleva essere il primo a disdirsi.
A sgominare la vicendevole diplomazia, i due coniugi erano andati fuori di casa da due parti opposte. La domestica, una fanciullona mezzo scimunita che i due vecchi avevano raccolto, non capiva nulla di nulla, fuor che i suoi padroni erano usciti uno dopo l'altro. Mi sedetti innanzi al caminetto, attizzai il fuoco ed aspettai. Era una magnifica giornata d'inverno; il sole dardeggiava sui vetri, ed i tizzoni scoppiettavano allegri.
I miei pensieri erano giocondi.
Cercavo d'indovinare quale dei due dovesse ritornare primo al letto coniugale… Quale? Concetta senza dubbio. In quella appunto udii un fruscio di abiti, mi alzai, mi volsi… e mi trovai faccia a faccia colla signora Nina, la giovane vedova del terzo piano.
La signora parve meravigliata di vedermi e si mostrava imbarazzatissima, tanto più che, essendo entrata colla dimestichezza consueta, voleva non aver l'aria, d'aver commesso una indiscrezione, e si guardava intorno per vedere se qualcuno giungesse ad apprendermi indirettamente che ella usava d'un vecchio diritto.
Intanto io m'era inchinato a salutarla, ed aveva fatto per parlare.
Ella mi prevenne.
«La signora Concetta non è in casa? mi disse.
—Nè il signor Sulpicio, aspetto l'una o l'altro.
—Ed io cercava dell'uno o dell'altra, ritornerò…
Ma l'apprendere che i due coniugi erano entrambi fuor di casa pareva inquietarla e non si muoveva.
«Se desidera attendere qui, ritornerò io…
—Grazie… ella viene probabilmente per…
—Per lo stesso motivo…
Così dicendo mi trassi in disparte come per invitarla ad inoltrarsi, e un minuto dopo ella era seduta al mio posto in faccia al camino, ed io non me ne andava.
La signora Nina non mi conosceva, ma io conoscevo benissimo la signora Nina; molte volte, dalla mia finestra posta sopra la sua, avevo studiato a memoria il colore dei suoi capelli sperando invano che ella mi desse occasione di apprendere il colore delle sue pupille; una volta l'avevo posta in fuga tossendo, e d'allora in poi non avevo mai più tossito alla finestra. Ora quelle manine candide, che avevo visto battere la solfa sul davanzale, tenevano le molle innanzi al camino, e quel volto, che era quasi tuttavia un mistero per me, mi si mostrava aperto.
Ah! la signora Nina era bella, o almeno mi piaceva tanto!
Vedendo che mi stavo ritto, mi fe' un cenno cortese; sedetti; aspettammo alcuni momenti in silenzio; nessuno veniva.
A poco a poco quel silenzio ci pesò, e per uscirne ella mi parlò di Sulpicio, ed io le parlai di Concetta.
Quando seppe l'ufficio che io compiva dacchè avevo la fortuna d'essere il vicino dei due coniugi, la vedova sorrise lievemente. Che bel sorriso! Che magnifici denti!
«Quale disgrazia! uscì a dire poco dopo; passare cinquantacinque anni insieme senza riuscire ad intendersi!
—Debbe essere uno spasimo, osservai; ma in fondo si vogliono bene.
La vedova fe' una smorfietta e non rispose.
«Quei contrasti sono per essi come i venti che separano onda da onda e le avventano, per ritornarle, passata la burrasca, la superficie d'uno stesso mare. Non credo che due possano vivere insieme gran pezzo senza incollerire.
Assolutamente la vedova non voleva rispondere; crollò il capo e si die' a frugare impaziente nelle ceneri.
Tacqui.
«Quante ore sono? mi chiese avvedendosi che il suo silenzio mi offendeva.
—Le quattro.
—È tardi; bisogna che me ne vada; ritornerò…
—Mancano veramente tredici minuti alle quattro…
La signora Nina sorrise e non se ne andò. Io non comprendeva perchè, ma il cuore scampanava a festa…
Quand'ecco venire Sulpicio e Concetta, tutti due, tenendosi per mano.
«La pace è fatta? interrogammo coll'occhio la signora Nina ed io.
—Sissignori, ci risposero i due coniugi alla stessa maniera.
—Ero venuto per salutarla, disse forte la vedova a Concetta; ora è tardi e me ne vado.
Concetta era di buon umore; le sue rughe avevano la mobilità delle grandi gioie e gli occhietti mandavano lampi.
«Meno male che il signor Carlo le ha tenuto compagnia.
A quel riavvicinamento io sentii che il cuore picchiava più forte, e mi avvidi che la vedova arrossiva.
Se ne andò; me ne andai subito dopo…
E tutto il giorno pensai alla signora Nina, e la sognai tutta notte, e al giorno successivo stetti alla finestra l'intero mattino per vederla, e fui così fortunato che mi vide e si volse e la salutai, e per un mese non lasciai di andare alle stesse ore alla finestra, sempre colla stessa fortuna, e una volta ardii sorriderle, e un'altra volta ardì sorridermi… e cinque mesi e otto giorni dopo, io mi stringeva legittimamente al cuore la signora Nina… non più vedova.
III.
Eravamo felici. Abitavamo una casicciola molto lontana dal chiasso e dalla baraonda cittadina; le nostre finestre non guardavano in casa d'incomodi vicini; il sole ci veniva a trovare ogni giorno all'alba e ci lasciava dopo mezzodì, e la luce dava colori di festa ai nostri mobili nuovi.
Il vecchio zio di Nina non aveva voluto assolutamente, come egli diceva, porre i suoi acciacchi in comune per fare una casa sola, e se n'era andato a stare con una sorella la quale viveva in villa.
La compagnia dei nostri sogni, dei propositi nostri, bastava a tutto; qualunque altro sarebbe stato un importuno. Le nostre stanze color di rosa erano popolate di care fantasime dello stesso colore. L'avvenire ci appariva nei sogni, e ne facevano di così leggiadri! Bisogna dire che Nina aveva una rara squisitezza di maniere, un sorriso dolcissimo, uno sguardo sereno come un raggio di luna, una voce armoniosa come una parola di conforto, e una tal maniera vezzosa di appressarmisi, di pormi le mani sugli omeri e dirmi «ti voglio bene» senza dirmi nulla, che io avrei passato le ore intere a divorarmela cogli occhi.
Aveva un solo difetto: nell'andare da una stanza all'altra si tirava dietro gli usci con violenza. Molte volte, strappato alle mie fantasticherie dallo sbattere d'una porta, avrei ceduto ad un movimento dispettoso se subito dopo non mi fosse apparso il suo viso rosato.
Ciò nondimeno il cuore continuava a trotterellare allegro e non mi sarebbe riuscito di fargli prendere un'andatura più ragionevole.
Bisogna anche dire che io era per Nina un marito poco men che perfetto. Non la lasciavo sola mai, o più raramente e più brevemente che poteva, non la contraddiceva in nulla, prevenivo i suoi desideri, non le dicevo che parole buone, facevo cento fanciullaggini per tenerla di buon umore. Avevo però anch'io un diffettaccio: mi distraeva orribilmente; a certi momenti, per tener dietro ad una sciocca fantasia, non mi accorgevo che ella, sorridendo, mi domandava un sorriso, o rispondevo con un cenno serio del capo ad una proposta burlesca.
Certo la sorte non accoppia due colpe così nere per dare l'immagine della pace coniugale.
Venne il giorno in cui io mi mostrai più distratto del solito, ed ella sbattè gli usci più forte. Mi sfuggì un oh! ed ella l'intese, ed io me ne pentii. Inutilmente. Un'altra volta Nina mi lasciò pensoso, camminando sulle punte dei piedi, e chiuse l'uscio con mille precauzioni per non far rumore… Il frastuono delle fucine d'averno non mi avrebbe fatto dare un balzo più ratto dalla seggiola. La raggiunsi, l'abbracciai, e ridemmo insieme di gran cuore.
Ma il ghiaccio era rotto; ci avevamo detto in viso il pensiero nostro: non eravamo perfetti!
Per quanti sforzi facesse, Nina non riusciva a correggersi; solo quando aveva peccato, pigliava una certa aria tra il dolente e lo scherzoso che la faceva più bella.
Quanto a me avevo un gran scrollare il capo, o spalancar tanto d'occhi quando ero colto col cervello in processione—non ci guadagnavo nulla, assolutamente.
La luna di miele durava da molte lune, senza che la più lieve ombra avesse mai oscurato i nostri volti innamorati.
Fu un giorno, un brutto giorno di quel dispettoso mese di luglio, in cui il sole è così beffardo e il caldo così crudele… Ella giura d'essere stata la prima a dirmi: «vorrei un po' sapere a che pensi sempre col capo nelle nuvole, vorrei proprio saperlo…;» ma non le credete; la prima offesa uscì proprio dalle mie labbra in forma d'un piccolo sacramento che non mi riesci d'afferrare coi denti se non quand'era venuto fuori più di mezzo. Comunque sia, un di noi rispose con una lieve impertinenza, e l'altro con una meno lieve, e poi con un'ironia, e con un'altra ironia, e infine Nina colle lagrime agli occhi ed io col cuore gonfio.
Un'altra volta lo stesso esordio ci portò alla stessa conclusione, ed un'altra più in là,
—Questa vita non è più sopportabile, disse lei.
—Davvero! dissi io per farle dispetto.
—Davvero! Ah! davvero! Eh! lo sapeva io che sei già stanco di me: è quasi un anno che sei alla catena.
—Dieci mesi, risposi.
—Che ti sono parsi dieci anni; me ne sono accorta già da un pezzo; la nostra felicità ha già troppo durato; ah! come sono disgraziata! Finirai per odiarmi, se pure non mi odii fin d'ora; ma finirò anch'io per odiarti.
Mi struggevo di voglia di pigliarmela fra le braccia e di portarla in giro per le stanze, lei e tutta la sua collera insieme, sino a tanto che dicesse: basta ridendo; mi veniva voglia di buttarmele ai piedi ginocchioni e dire le mie orazioni maritali, di allacciarle il collo e rubarle tanti baci finchè lo sgomento me l'avesse rifatta docile—mi venivano in mente tutti i propositi buoni che possono venire alla miglior pasta di marito. La guardai sott'occhi, vide il mio sguardo e mi volse le spalle, mossi un passo verso di lei, ed ella via in un'altra camera… ed io dispettoso, via dalla parte opposta, e giù per le scale, pieno di rimorsi già prima di porre in atto la terribile vendetta,
Gironzai un pezzo, non mi potendo staccare dal vicinato e volgendomi ogni tanto a guardare la casicciola dov'era la mia felicità.
Mi tornavano al pensiero Concetta e Sulpicio, i buoni amici d'una volta, e dicevo a me stesso che io non aveva chi compiesse presso la mia Nina i buoni uffizii di paciere, e che dopo tutto non avrei patito di affidarli a chicchessia.
Pensavo: «È la prima volta, ma chi sa se non faremo più! Bisogna ritornare a lei, toglierla quanto è possibile alla sua pena, e confortarla, e dirle che non avremo più a bisticciarci mai… Ma se, invece di ascoltarmi benignamente, fa la ritrosa?… Ah! che non darei perchè alla prima parola buona rispondesse con un bacio saporito! E non se ne parlasse più e si piangesse e si ridesse insieme!» Tutte queste riflessioni, mi portarono due o tre volte sulla soglia di casa, ed altrettante me ne ritrassero; finalmente mi riuscì di rompere il fascino, infilai il portone d'un balzo, salii gli scalini a quattro a quattro, ed in un attimo fui innanzi a lei che mi era venuta incontro lagrimosa sul pianerottolo.
Nascondeva il viso fra le mani e non mi diceva nulla. Le cinsi il corpo con un braccio e la trassi nel salotto; me la feci sedere sulle ginocchia, le scostai con dolce violenza le mani dagli occhi, posi il mio volto sotto al suo, e le chiesi perdono. Ma invece di perdonarmi scoppiò in un altro singhiozzo, e mi buttò le braccia al collo, ed appoggiò la testina sul mio omero.
Mi batteva il cuore forte; gli atti di Nina esprimevano una disgrazia. Che era dunque avvenuto nella mia assenza? Di nuovo carezze di baci e di parole, e cento interrogazioni paurose e finalmente un altro singhiozzo più forte:
«È morta!
—Chi?
—Concetta, la povera Concetta!
Ammutolii. Se devo dire il vero, non me ne doleva moltissimo; la buona donna trotterellava giù dalla settantina da un pezzo, e il Paradiso aveva aspettato molto per avere una pergamena di più; ma rispettavo la sensibilità di Nina. Quando ebbe cessato di lagrimare, tentennò il capo e mi disse con un filo di voce melanconica:
«Eccoli separati di letto e di mensa!
—E chi ti ha dato questa notizia?…
—Un'amica che è venuta a trovarmi; la povera Concetta è mancata ieri l'altro quasi improvvisamente.
—E Sulpicio?
—È disperato; non dice parola, sembra sbigottito.
—Bisognerà andare a trovarlo,
—Amico mio, vacci subito.
Vi andai.
Oimè! Il povero cuore del vecchio non aveva potuto resistere agli affanni della solitudine, e nella notte, poche ore dopo che gli fu portata via la sua compagna, s'era posto nel vedovo letto colla sicurezza di non vedere un altro mattino.
Il cadaverico volto pareva sorridermi tristamente e dirmi che neppure la morte li aveva voluti divisi.
Ritornando a casa col cuore mesto, ma d'una mestizia dolce che mi faceva bene, non volli dire nulla alla mia compagna. La quale seppe la cosa da altri alla mia presenza, e come fummo soli mi si strinse paurosamente al petto…
«Carlo!
—Nina!
Levò gli occhi come per leggermi nel pensiero, e mormorò lentamente queste parole:
«Anche noi, non è vero?»
UN UOMO FELICE
I.
—… Un uomo felice!
—E contento del proprio stato?
—Così contento che non lo cambierebbe con quello di un principe…
—Secondo i principi…
A forza di ruminarci sopra, non potemmo più reggere alla tentazione, ed una bella mattina del mese di giugno il mio amico Antonio ed io ci provammo ad arrampicarci sul monte Barro, voltando le spalle al territorio di Lecco, per andare a vedere da vicino il prodigio vivente.
Il monte Barro è un monte rispettabile per ogni riguardo; ha due sagre, una delle quali, quella di S. Michele, è tenuta in molta considerazione in Paradiso; ha l'eco di Galbiate che ripete poco meno di due versi endecasillabi senza incespicare, e la sua vetta, in forma di gobba, apparisce a quando a quando involta fra le nuvole. Ci sarebbe da insuperbire per poco che un monte avesse le facoltà locomotrici del minimo insetto che campa la vita alle sue spalle e potesse andarsene dove meglio gli talenta; così inchiodato dove si trova, in faccia alla mascella enorme del Resegone ed alla vetta brulla del San Martino, ed a tutta quella famiglia di giganti che, più oltre, più oltre, sembrano rizzarsi sulle punte dei piedi per guardare dietro le spalle di chi li precede, il povero Barro ha la fisionomia burlesca d'un nano, e si direbbe che ci soffre. È tutt'uno. Ad arrampicarvisi non è punto comodo: è un monte niente affatto arrendevole, ed i sentieri che esso apre nelle sue coste non hanno l'aria di concessioni; si inerpicano diritti o quasi diritti, sassosi che non è una delizia. Ogni tanto siete costretti a fermarvi per respirare, e vi vien fuori senza avvedervene: «che monte!» Lo stratagemma gli è riuscito.
Vi ha, è vero, una via carrozzabile, ma è un'altra arguzia di quel monte imbronciato, perchè, ad un certo punto, poco prima di Galbiate, la salita si fa così ripida, che il peso della carrozza trascina il cavallo, e carrozza e cavallo pigliano l'andatura di un gambero enorme; quanto ai viaggiatori pedestri nulla di peggio, si sa, d'una strada carrozzabile.
L'amico Antonio, pratico dei luoghi, mi incoraggiava alla salita, assicurandomi che, giunto alla sagra di S. Michele, tutte le asperità avrebbero cessato come per intercessione del santo, e che avremmo camminato all'ombra delle acacie, e posto i piedi sopra un vero tappeto di velluto.
Coraggio e innanzi, e innanzi, a salti, piegando a dritta ed a sinistra, ascoltando l'allegra musica dei ciottoli che rotolano dietro i nostri passi, e ridendo… Eccoci giunti. Ecco la sagra. È una chiesa, o piuttosto uno scheletro di chiesa; mostra il tetto, le pareti e le fondamenta, il tutto disegnato con gusto e impiantato solidamente; le mancano le polpe—pavimento, volte, sagristia, altari: ci sono aperture di finestre e di porte ma senza porte e finestre, e il vento deve farvi strane scale cromatiche quando gli accomoda.
San Michele è benemerito per la sua sorgente di acqua leggiera come un soffio. Nulla di meglio d'una buona sorgente d'acqua per assicurare la devozione dei fedeli; a S. Michele non ci ha altro, ma basta perchè migliaia di devoti vi portino al 29 settembre l'occorrente per desinare sull'erba. Vi bevono l'acqua e si ubbriacano di vino, ed alla sera rotolano giù per la rapida china cantando e ridendo allegramente. Gran buona pasta di santo questo che si lascia adorare in tal maniera!
Via, ancora una ciottola d'acqua leggiera come un soffio, e innanzi… L'amico Antonio non mi ha lusingato inutilmente; ora si sale senza fatica; il sentiero gira intorno al cocuzzolo del monte, all'ombra delle boscaglie; l'aria frizzante del mattino ci batte in viso, e sotto di noi si schiera un panorama incantevole d'acque e di monti. A un certo punto ci pare d'entrare in un giardino; il vento ci ha portato un profumo di gelsomini selvatici in fiore. Vien la tentazione di raccoglierli tutti, ma ce n'è troppi, non ne raccogliamo nemmeno uno… Innanzi… Alle falde del monte, tra le, acacie, s'incontrano altri tesori: ecco un ciclamino bianco e per uno bianco mille color di rosa, e poi una famiglia stravagante di fiorellini dalle forme più curiose; ecco una spiga d'un rosso cupo che non avevamo ancor visto; la fiuto per far più ampia conoscenza; quale profumo squisito di vainiglia! quella che noi coltiviamo nei giardini col nome di elitropium peruvianum è molto lontana dall'aver un odore così squisito. Facciamola felice anche questa; diamole un battesimo dotto: vainiglia montana. La gran ventura!
II
Innanzi. La strada è sgombra, ma la salita si fa sempre più faticosa—bisogna rallentare il passo.
—Arriveremo in tempo per l'ora del desinare, dice Antonio.
—Supponendo che un uomo felice abbia un'ora per desinare.
—Nè avrà due, questo dev'essere il primo benefizio della vera felicità.
Ed il mio amico uscì in uno di quei scoppi sonori di risa che sa fare egli solo e che avevano già risvegliato parecchie volte gli echi delle vallate.
—Che uomo è questo Cuor Contento?
—Un ex baritono, che si era fatto un piccolo patrimonio stonando il Conte di Luna, e prestando i suoi quartali a Manrico; si vantava sempre che avrebbe tirato su l'edifizio della sua felicità, e pare che ci sia riuscito; un bel giorno rifiutò colle lagrime agli occhi una scrittura ed un quartale anticipato—era ricco.
—Ed è venuto subito ad inselvarsi nel Monte Barro?
—Oibò; pare che la felicità non sia così facile a ritrovare, perchè per un pezzo le corse dietro inutilmente; divenne prodigo, per sè solo si intende, offrì il cuore a varie prime donne assolute, la cena a parecchie seconde ballerine che aspettano ancora adesso l'assoluzione. Le cene trovavano subito la piazza, il cuore rimaneva disponibile. Allora si consacrò tutto al vino, che egli amava molto ed a cui doveva i più rumorosi trionfi della sua carriera baritonale; ebbe una cantina ben provveduta ed invitò alcune volte i compagni di chiave a desinare. Andava a tutte le rappresentazioni del Carcano e della Scala, e trovava che ai suoi tempi si cantava meglio. Tutto ciò non lo aveva portato un pollice più vicino alla sua felicità, e quando lo lasciai, or son due anni, correva ancora dietro la sottana della fuggitiva. Due settimane fa ricevetti finalmente la lettera in cui mi giura che è felice!
—Sia lodato il cielo!
—E l'altro dì la seconda lettera in cui ripete, sacramentando, che è felice, e che io dovrei levarmi il gusto di vedere un uomo felice.
—Peccato che la felicità stia tanto in alto!
—Non importa, ci arriveremo. Ecco, si vede già la casetta color di rosa, emblema dei pensieri e dei sentimenti ex-baritonali del suo abitatore.
Qui la via si biforcava, da un lato scendendo a precipizio e dall'altro girando intorno intorno verso Galbiate: noi ci mettemmo per un sentieruccio che si apriva nella siepe e moveva più diritto che poteva incontro alla vetta del monte.
Dopo venti minuti di cammino, fatto colle mani sulle ginocchia e col corpo piegato in arco, all'uscire da una boscaglia ci vedemmo finalmente innanzi la casicciola rosea. Aveva un solo piano, una piccola spianata dinanzi alla porta e quattro o cinque finestre colle persiane verdi in tutto. Levai il capo in alto; il cucuzzolo del monte pareva molto vicino e si staccava nero nero dall'azzurro fondo del cielo. Quel bocciolo di rosa in quel luogo aveva proprio l'aria d'un nido di amorini. Gli amorini ci erano, ma scalzi e scamiciati, e corsero non appena ci videro a nascondersi nel nido; subito dopo apparve una donna che pareva vecchia ed era invece la giovane venere, madre di quegli amori, e ci chiese chi cercassimo,
«Il signor Tallini.
—Dorme
—Sogni innocenti; beato lui!
—Però ha raccomandato di svegliarlo se venisse qualcuno….
—Viene spesso gente a trovarlo?…
—Mai.
—E come passa il tempo?
—Mangia, dorme e va a spasso.
—Ecco la vera felicità!
—Devo dirgli chi sono lor signori?
—Due disgraziati.
E siccome la buona donna ci guardava sospettosa, Antonio ripetè, premettendo una delle sue allegre risate:
«Sì, ditegli che due disgraziati lo aspettano.
In quel mentre una persiana verde si socchiuse, la faccia felice e rubizza dell'ex-baritono Tallini apparve nel vano, e si udì un grido, un do di petto della gioia più schietta e più stonata che io m'avessi mai udito.
E pensai fra me e me: «Come rende buoni la felicità!»
III.
Il signor Tallini scese le scale a precipizio, e si gettò nelle nostre braccia prima ancora che avessimo avuto il tempo di varcare la soglia della casa color di rosa. Nelle nostre braccia non è un modo di dire iperbolico, perchè l'ex-baritono, buttando ciecamente la mano diritta sul costato sinistro di Antonio e la mano manca sul mio costato diritto e premendoci l'un contro l'altro e premendosi egli stesso contro di noi, trovò modo di abbracciarci tutti e due in un tempo. Era un quadro che avrebbe tentato un pittore fiammingo.
«Bravissimo il mio Antonio, bravissimo anche il signore… bravissimi… bravissimi! Non potete credere il piacere che mi date; il primo quartale toccato per la mia prima scrittura non mi ha fatto così lieto!
Il suo volto era veramente illuminato a giorno, ed i suoi occhi mandavano bagliori. Pensavo che egli cedeva con troppo abbandono alla febbre della gioia, la quale è la più acre nemica della vera felicità!
Ci fe' entrare nel suo appartamento; due stanze in tutto, arredate con una scenica parsimonia di molto buon gusto; nel salotto si vedevano parecchie di quelle enormi sedie ad alto schienale, che frequentano il palcoscenico di tutti i teatri dell'orbe terraqueo; nel mezzo una tavola rettangolare con un gran tappeto che ne copriva le gambe, da un lato una cônsole e dall'opposto lato un pianoforte; la sola differenza tra il salotto dell'ex-baritono, ed una sala riccamente addobbata con due porte laterali, era che in fondo invece d'un'altra porta si vedeva un caminetto, un vero caminetto, ed uno specchio, un vero specchio, con cornice dorata sovr'esso. E però, quando l'ex-baritono volle mostrarci la sua camera da letto, io fui molto meravigliato che due comparse non venissero a toglierci le sedie di sotto per preparare il cambiamento di scena. Se non che nella camera contigua, oltre il letto nascosto dietro una cortina bianca, come nell'ultimo atto della Traviata, rividi le stesse sedie ad alto schienale e lo stesso tavolino coll'identico tappeto, ed allora compresi perchè le due brave comparse non avessero fatto la loro frettolosa apparizione.
La felicità non tolse all'ex-baritono la memoria del suo appetito e la fede nel nostro.
Erano le undici e die' ordine che si preparasse il desinare pel mezzodì. Antonio ed io udimmo alcuni momenti dopo, con un vero sentimento di gioia che non aveva invidia di quello del nostro ospite, correre dietro ad un branco di polli, i quali starnazzavano le ali fuggendo, e finalmente uno dei fuggitivi gridar più forte…. e poi il silenzio profondo.
«Così è, disse allora l'amico Antonio all'ex-baritono che ci aveva fatto uscire dall'abitato per farci vedere il suo campicello, così è, non ho potuto resistere al piacere di vedere in faccia un uomo felice.
—Ed un vecchio amico!
—Ma sai, che non è carità la tua di scrivere tante volte ad un disgraziato pari mio, che tu sei felice! Almeno ora che mi hai fatto arrampicare fin qui, dovresti insegnarmi la ricetta.
—È facile, rispose l'ex-baritono con visibile soddisfazione, e col miglior accento per far credere il contrario, è facile!
—Basta aver denari!…
Il nostro ospite lo interruppe prontamente, come per non lasciar più a lungo il suo tempio sotto la macchia di siffatta profanazione.
«Oibò; il denaro non serve a nulla; io che ti parlo sono stato ricco, e non sono mai stato felice, ed ora che non sono più ricco, sono felice!
—È una sciarada.
—Bravo! una sciarada, ma io l'ho sciolta, e me ne trovo bene. Il primo è la campagna, il secondo la solitudine, il terzo l'indipendenza, il quarto la serenità d'animo, e l' intero …
—E l' intero è il baritono Tallini, non può essere altri che lui, perchè io potrei ritirarmi in campagna, e starmene solo, ed essere indipendente, che nossignori, non sarei felice.
—Perchè ti mancherebbe il quarto, la serenità d'animo…
—E tu l'hai? chiese Antonio.
—L'ho, rispose gravemente l'ex-baritono.
—E come passi il tuo tempo nella solitudine?
—Non lo so, non son io che passo il mio tempo, è il mio tempo che passa da sè.
La risposta era così semplice che ci parve profondissima; Antonio si volse a me e tradusse il suo stupore in una risata, intanto che l'ex-baritono ci guardava in volto curiosamente, per spiare l'effetto delle sue parole.
—Osservate, ci disse poco dopo il nostro ospite, che incantevole panorama! Lecco laggiù, più oltre Pescarenico, che si guardano nell'immenso specchio delle acque…
—Stupendo! dissi io.
—Stupendo, ripetè Antonio; ma non si cambia mai scena mi pare; è un vero idillio; atto unico, scena unica…
—T'inganni; se ci arrampichiamo sulla vetta del Barro, vedrete l'altro versante, Valmadrera, Galbiate…
—Ma sempre Valmadrera e Galbiate,
—E il monte S. Martino e il Resegone…
—E quanto tempo tu consacri ogni giorno a contemplare tutto ciò?
—Nulla… ma io so di essere circondato da una bella natura, e questo mi fa bene… Ecco qua il mio campicello…
—Lo coltivi tu?
—Qualche volta sì… la botanica mi piace…
—Hai seminato tu quei fagiuoli?
—Sicuro… io stesso… è la mia passione. Antonio si rivolse a me ed uscì in uno scoppio di risa più sonoro dei precedenti.
Bisogna sapere che i fagiuoli seminati dall'ex-baritono Tallini erano una specie di cicoria, di cui si fa un'ottima insalata.
Ma il nostro ospite, nella serenità dell'animo suo, non si avvide dell'intenzione burlesca dell'amico e non prese in mala parte la sua ilarità. Antonio proseguì l'interrogatorio che cagionava all'ex-baritono un visibile piacere.
«A che ora ti levi di letto al mattino?
—All'alba; nulla di meglio d'una magnifica passeggiata sui monti, all'alba; si gode uno spettacolo incantevole, si respira un'aria frizzante e si acquista un appetito… un appetito… ritorno a casa e faccio colazione…
—E poi?…
—E poi fumo la pipa, e poi canto accompagnandomi sul pianoforte; e poi vado alla campagna a dare un'occhiata ai miei fondi… fino all'ora del desinare, che dura più d'un'ora… e poi leggo, o canto, o fumo la pipa… e appena annotta, mi caccio in letto…
—E al domani ricominci?…
—Ricomincio….
—E non ti stanchi mai?
—Mai.
—E non ti vien mai voglia di parlare con chicchessia?
—Se me ne venisse voglia, ci è il fattore, un uomo che si può far andare in estasi con una nota filata, che s'inginocchierebbe ad adorarmi se gli cantassi una romanza, e che dice le più innocenti schiocchezze che siano mai uscite da una bocca che non canta.
—E non ti vengono mai in mente i tuoi trionfi, le belle cene, i tuoi debutti, i sospirati quartali ed i non sospirosi amori delle quinte?
—Mi vengono, ma non li rimpiango, ne rido… insomma sono felice!
—To', disse Antonio guardando l'orologio; è mezzogiorno, voglio essere felice anch'io!
—Anch'io! dissi accontentandomi della parte secondaria che mi toccava in quella commediola.
Il desinare era ghiottamente casalingo, e se è vero che l'appetito sia il miglior condimento delle vivande, io dico che non furono mai vivande meglio condite di quelle della mensa del baritono Tallini. Il quale però, checchè dicesse e facesse, mi sembrava meglio un uomo nervosamente di buon umore, che un mortale baciato in volto dalla felicità. Non aveva dell'uomo felice, come io lo immaginava, la robustezza serena, la tranquilla indolenza, la beata apatia; vero è che codesto è il tipo iperbolico degli uomini felici, e che tutti gli uomini meno scontenti del loro stato escono dalla schiera operosa di quelli che non han tempo da proporsi quesiti psicologici—ma è anche vero che l'ex-baritono Tallini non apparteneva a quest'ultima schiera, e che, stando ai calcoli fatti sui termini forniti da lui stesso, gli dovevano rimanere sei buone ore al giorno per maledire l'esistenza.
Egli guardava ogni tanto alla sfuggita Antonio e me, e s'empiva la bocca, e ci rivelava fra un boccone e l'altro i mille artifizii con cui gli era riuscito finalmente di raggiungere la felicità in cima al monte Barro.
«Tu non sei più ricco? gli chiese Antonio.
—Non sono più ricco; dopo di essermi messo insieme un piccolo patrimonio colla mia voce, ho voluto speculare su quella degli altri; ho fatto l'impresario e ci ho rimesso tutti i miei quartali ed una porzione anche di quelli dei miei scritturati.
L'ex-baritono nel dire queste parole ingrossava la voce, volendo, per una vecchia vanità d'artista, sfoggiarne il volume. E proseguiva:
«Un giorno mi avvidi che mi avanzavano solo poche migliaia di lire, pensai che era tempo di voltare per sempre le spalle al palcoscenico, uscii dal teatro e presi la via dei monti. Avevo il cuore leggiero quando giunsi a Lecco; seppi che sul Barro ci era questa casicciola da vendere e la comperai. E ci venni, e qui finirò i miei giorni…
Queste ultime parole tragiche furono dette a boccia piena, il che ne temperava singolarmente il sinistro significato e dava alla felicità dell'ex-baritono un carattere durevole.
«Beato te! disse Antonio sospirando.
Non vidi mai faccia più solenne di quella del nostro ospite, a quel sospiro; egli si arrestò perfino dal mangiare per chiedere con aria di superba commiserazione:
«Non mi hai detto nulla di te… come vivi tu?
—Male… male; per una inveterata abitudine tengo a vivere più che posso e meglio che posso, ma non mi riesce di essere contento. Passo l'estate a Lecco, amo anch'io la campagna, ricevo molte visite…
—Ricevi molte visite?…
—Molte… sono seccato a tutte le ore; bisogna chiacchierar sempre, parlar di cento sciocchezze, tagliar i panni al prossimo… e leggere nei giornali altre chiacchiere, altre sciocchezze, altra maldicenza! Sempre chiacchiere, sciocchezze e maldicenza, con questo solo divario che nelle parole si trova qualche volta un po' di spirito e nelle scritture si trova qualche volta un po' di grammatica… All'inverno vado a Milano, perchè a Lecco non si spazza bene la neve… passo il tempo al teatro o al caffè Martini, o in galleria…
—Ah! tu all'inverno vai a Milano?
—Sicuro.
—Poveretto! ripetè l'ex-baritono vuotando d'un fiato un bicchiere ricolmo. E voi, signore, come vivete?
—Male anch'io, male anch'io; anzi peggio di voi altri; perchè sto sempre a Milano, vado a tutte le prime rappresentazioni, costretto ad ascoltare tutti gli artisti che hanno o che avevano o che vogliono avere in gola un filo di voce, ed a leggere tutte le cronache cittadine, ed a mostrare di prendere sul serio cento cose che non m'interessano punto. Beato voi che ve ne state qui, con questi bei monti in faccia, con questo bel lago sotto i piedi, che non pensate se non ai fagiuoli del vostro orticello ed a tener provvista la cantina di questo nettare delizioso!
—E chi viene a trovarti a Lecco? chiese l'ex-baritono, a cui il vinello snodava la lingua.
—Molti che ti conoscono. Agenti teatrali, maestri di musica, cantanti…
—E che dicono di me?
Questa domanda fu pronunziata sbadatamente, col bicchiere alle labbra e gli occhi fissi nel bicchiere. È impossibile comportarsi meglio per parere supremamente sdegnoso delle cose degli umani.
«Dicono, rispose Antonio, levando dal suo canto il bicchiere e ponendolo tra il raggio visuale e la luce della finestra, dicono…
—Dicono?
—Dicono… Non dicono nulla… Cioè!…. qualcuno dice che sei un pazzo… Niente di meglio per vivere felici che essere creduti pazzi dal prossimo…
—Già… sicuramente…
—E gli altri?
—Gli altri non si ricordano nemmeno che abbia esistito al mondo un baritono Tallini… Nulla di meglio che essere dimenticati dal prossimo per vivere felici…
—Già… sicuramente.
IV.
Il pranzo era al termine; una comitiva di bicchieri di vino s'era data ritrovo nel nostro ventricolo ed accendeva gli estri del buon umore.
Ci fu però un momento in cui il nostro anfitrione chinò la testa fra le mani e guardò fissamente la tovaglia. In quel punto il piede d'Antonio urtò sotto la tavola contro lo stinco della mia gamba; guardai. L'ex-baritono uscì in breve dalla sua beata fantasticheria, si pose al cembalo senza dir parola, e dopo alcuni accordi di preludio, intonò con voce stentorea la romanza del Trovatore.
«Che voce! esclamava ogni tratto Antonio, chinando il capo sul mento e guardandomi sott'occhi, che voce! benissimo! benissimo! Sai qual'è la disgrazia dei nostri teatri? aggiunse quando l'altro ebbe finito.
—E qual'è?
—Che siano al mondo tanti disgraziati, i quali implorano la misericordia del cielo in chiave di baritono, e che se ci è uno il quale abbia un organo a dovere, sia un uomo felice e non ne voglia sapere del palcoscenico.
Antonio temperò l'effetto della frase lusinghiera con una bella risata, ma l'ex-baritono non pose mente che alla prima parte e rispose modestamente all'elogio cantando il duetto e facendo in falsetto la parte della donna.
—Credete che, se volessi ancora cantare, troverei una scrittura? disse all'improvviso.
—Ma tu non vuoi! rispose Antonio.
—È vero! oh! come sono felice! ripetè per la centesima volta l'ex-baritono; bisogna bere un'altra bottiglia!…
Quel vinello generoso cresceva insolitamente la verbosità del nostro ospite e metteva noi pure alle porte della sua felicità. Io giurai che il monte S. Martino non mi era mai parso così bello, e che avrei passato la vita a contemplarle, sicuro di non poter spendere meglio l'esistenza. Antonio, che da prima pareva farsi beffe del singolar modo che l'ex-baritono aveva scelto per essere felice, assicurava che ora ne comprendeva la filosofia profonda, e l'anfitrione continuava ad assediarci di domande ed a farci ogni tanto quesiti ed ipotesi a cui non sapevamo troppo che rispondere.
«Che si dirà di me adesso al caffè Martini? Che si direbbe se mi si vedesse riapparire un bel giorno a Milano, o se annunziassi un'altra volta il mio debutto?
—Che lago! che magnifico lago! Che monti! Che panorama! ripeteva Antonio; mi par di amarli; ora comprendo come devono essere cari a te che li hai sempre dinanzi! Che buoni amici i monti! Che cara compagna la solitudine!
Del vinello, che aveva la maggior parte nel nostro entusiasmo, non una parola; questa è la gratitudine degli uomini.
Venne il momento di separarci dal nostro ospite, il quale aveva fatto di tutto per trattenerci, pregandoci, scongiurandoci, e dandoci perfino il tenero spettacolo delle lagrime d'un uomo felice,
—Beato te! disse Antonio sospirando, beato te! io mi sento ammalato di nostalgia al solo pensiero di lasciar questi luoghi. Se rimanessi un giorno ancora, Lecco mi parrebbe una sepoltura. Non verrai tu qualche volta a Lecco? Ma già, il difficile è spezzare le abitudini! Oramai tu sei un vecchio inquilino del monte e… Ci penso; non ne hai detto da quanto tempo abiti questo paradiso!…
L'ex-baritono stringeva le nostre mani nelle sue, e ci guardava come sbigottito della nostra sciagura e commosso dal nostro dolore… Egli uscì da quell'estasi con un sospirone lungo, e rispose:
«Da un mese!…
V.
…. Quando, scendendo giù per la china del monte, ci voltammo e non vedemmo più la casicciola rosea, l'amico Antonio ed io ci guardammo in volto ed uscimmo all'unisono in una sonora risata.
«L'hai visto bene quell'uomo felice?
—E non mi escirà più di mente!
Antonio ed io ci abbandonavamo così interi a quella ilarità, che giù per la rapida china non ci era più possibile fermarci, e fummo più volte a un pelo di provare, coll'esempio che l'eccessivo buon umore fa perdere la gravità. Non mai la nostra linea di direzione fu così in pericolo di uscire dalla base, nè il nostro naso più vicino ai ciottoli della via.
«Io leggo nella felicità di quell'uomo come in un libro aperto, disse Antonio.
—Ed io anche.
—E dico che quello è un uomo disgraziato come noi.
—E più di noi…
—E che la sua maggior disgrazia è d'essersi spacciato per un uomo felice…
—Amico dei monti e della solitudine, e che tanto ama egli i monti e la solitudine, quanto noi il digiuno.
—E si è spacciato per tale solo per cavarsi il gusto di dare invidia agli amici, e mi ha scritto perchè mi arrampicassi fino da lui, colla speranza che io gli facessi un po' di reclame …
—E per interrompere la sua noia profonda.
—È un uomo che vive della sua piccola vanità d'uomo felice, come un altro vive della sua piccola vanità d'autore in voga, o della sua piccola riputazione d'uomo di spirito…
—Vuoi dire che muore. Quella non è vita, è agonia. Immagina la sua giornata, e concedine pure larga parte al sonno, e al desinare, e alla cena, e alle due colazioni, e se vero è che il monte Barro eserciti sulle facoltà digestive un benefico influsso, aggiungi pure la merenda—tutto il resto non è che un lungo interminabile sbadiglio.
—Oh! disgraziato Tallini!
—Infelice baritono!
—Ed anche un pochino scimunito!
—Molto…
—Badiamo a non dirne male; stiamo ancora digerendo il suo desinare!
E qui da capo la stretta del nostro duetto di risate, come in un'opera buffa. I mille echi del monte Barro erano in gran faccende e duravano fatica a tenerci dietro; il sole spariva dietro i monti, ammiccando ancora con un paio di raggi all'onde del lago lievemente increspate, rugose ganze di vaporosi amori.
La china scoscesa era finita, e la via si stendeva ora con facilissimo pendìo.
«È proprio così, ripresi a dire; quell'eccellente baritono mi ha tutta l'aria di essere oppresso sotto il cumulo della sua immensa felicità…
—Una felicità che dura da un mese! È troppo! è troppo! Deve essere insopportabile!
—E che, dopo d'aver vestito i panni di un semidio, specie di fauno d'altri tempi, non sappia più come rientrare nella sua pelle di baritono, e ridiscendere al piano.
—Tanto più che coll'aver posto a base della sua felicità tutta l'altezza del monte Barro, egli crede in buona fede d'essere fatto visibile come una statua colossale, e che a Lecco ed a Milano non si faccia altro che guardare in alto per cercar di vederlo.
—Questo è in parte il danno della celebrità, osservai, obbedendo ad un filosofico istinto suggerito dal vinello; un uomo celebre ha due svantaggi: primo, che il mondo si occupa dei fatti suoi e lo guarda, come una bestia feroce in gabbia; secondo, di non essere sempre una bestia, tanto per non darsene pensiero.
— Qualche volta … corresse Antonio…
Fra i monti, la luce crepuscolare è più breve che in pianura; quando il sole fu scomparso, le ombre, come se si tenessero nascoste e pronte dietro i cespugli, uscirono in frotta ed invasero la scena, press'a poco colla rapidità dei fenomeni atmosferici melodrammatici. Anche la natura riportava a forza il pensiero ribelle al baritono Tallini.
Intanto gl'insetti si svegliavano nei prunai, ed alcuni uccelli, desti nel primo sonno dalle nostre ciancie e dai nostri passi, si levavano qua e là a brevi voli, per mutar letto.
«Quanto tempo credi tu che possa durare la felicità del baritono Tallini? mi chiese improvvisamente Antonio.
—Un mese… a conti fatti… un mese; una settimana per venire alla determinazione di lasciare il monte; il rimanente è il tempo minimo che egli deve supporre necessario agli uomini, perchè, non fiatando e non facendo più fiatare verbo dei fatti suoi, si disavvezzino dal pensare a lui.
—Io dico che non starà neppur tanto, e che il giorno che si sia determinato a lasciare il monte Barro, non ci potrà più rimanere un minuto, e salirà quel poco che lo separa dalla vetta per discendere non visto dalla parte di Valmadrera… rotolando a capo fitto, se occorre, per far più presto.
—Questo è vero… ma…
—Solo, invece di otto giorni, gliene concedo quindici; un baritono non è un tenore, voglio dire che non sempre è un eroe, e ad una determinazione eroica di questa fatta ci vorrà pensare lungamente.
—E credi che se ne andrà dai monti alla chetichella, senza nemmeno venirti a trovare?
—Ne sono convinto, e non più tardi di quindici giorni da oggi…
—D'un mese…
—Di quindici giorni, nemmeno uno di più; e se dobbiamo scommettere… fra due settimane ci inerpicheremo ancora sul monte e troveremo il nido color rosa, ma il baritono no, che avrà preso il volo…
Non so perchè io mi ostinassi a credere fermamente che il baritono Tallini dovesse rimanersi sul Barro ancora un mese, non un giorno di meno; per ciò probabilmente che il mio amico Antonio si ostinava a dire due settimane, non un giorno di più. Quella fede sconfinata nella propria opinione, fede che fa gli apostoli ed i tribuni, ci proveniva forse dal vinello bevuto a desinare.
—Quindici giorni, ripetè per la ventesima volta Antonio.
—Un mese! ribattei.
Questa volta la doppia risata che accompagnava inevitabilmente i termini della nostra scommessa, fu così sonora che gli insetti tacquero ad ascoltarla. Bisogna sapere che, dietro di noi, avevamo sentito un rumore di passi frettolosi, ed un ohè! gridato in cadenza, ma colla voce di un baritono di buoni mezzi a cui manchi il fiato.
Cinque minuti dopo ci stringevamo fra le braccia il baritono Tallini.
VI.
La corsa gli dava l'ansia e l'affanno e gli toglieva la parola; lo guardavamo sbigottiti senza interrogarlo.
«Sapete, ci disse finalmente, ho pensato che potrei venire a passare la notte a Lecco con voi e stare allegri ancora un poco; non so perchè non potevo star solo questa sera… È la prima volta.
Egli aspettava evidentemente d'essere interrotto, ed Antonio, che guardava ora lui ora me coll'intenzione di lasciarlo dire, si arrese impietosito.
«Hai fatto benissimo, disse, troverai a Lecco qualcuno che ti vedrà volentieri,
—Non voglio veder nessuno, ho bevuto troppo a desinare… domani all'alba risalirò in cima al mio nido d'aquila.
—Fai bene, fai bene, disse Antonio.
—Incominciò allora l'ultima china, la più rapida e la più sassosa, fatta formidabile dalla oscurità della notte e dalla eccessiva luce del nostro cervello.
I sassi rotolavano innanzi a noi, e noi con essi, a precipizio, inciampando, senza poterci fermare…. Un quarto d'ora dopo eravamo sul piano di Lecco.
Il baritono si guardava intorno sospettoso finchè non fummo rientrati in casa: quivi sprigionò il suo più bel sorriso, senza riuscire a cancellare dalla faccia una certa espressione bizzarra d'impaccio.
«O m'inganno, gli disse Antonio, o l'aria di pianura comincia già a guastare la serenità del tuo animo.
—No, non mi pare, non mi pare…
Sulla tavola erano sparsi alcuni giornali teatrali, arrivati poco prima; il baritono ne ruppe le fascie con una indifferenza mal simulata e lesse a voce alta coli'aria di beffarsene le ultime scritture.
«To', il C… che va a Londra, e il V… che va al Cairo, e il B. che canta al Carcano.
—Se tu avessi voluto! osserva Antonio, ci saresti andato anche tu…
—A Londra?… Non ci volli mai andare… e se volessi!…
—E se volessi, troveresti ancora cento scritture!
—Basterebbe una… ma buona… in un teatro di prim'ordine come baritono d'obbligo…
—Dopo tutto, credi a me, meglio la tua solitudine del Barro, osservò Antonio dicendo e contraddicendo con infinita disinvoltura.
—Cento volte meglio…
Antonio, volendo alla sua volta far gli onori della ospitalità, sprigionò una veneranda bottiglia di barolo; ma il baritono ne assaggiò a pena, ed un quarto d'ora dopo, dicendo di non sentirsi bene, volle andare a letto.
«Io posso accomodarti benissimo, gli disse Antonio.
Ma l'altro non ne volle sapere, e tanto fece che lo accompagnammo fin sull'uscio dell'albergo della Croce Bianca.
«Verremo a vederti domani.
—Grazie; verrò io… all'alba…
Rimasti soli, Antonio mi toccò il gomito e mi ripetè queste sole parole: «Quindici giorni…», «Un mese!» L'avevo sulle labbra, ma non lo dissi, incominciando a credere che avesse ragione.
Al mattino successivo aspettammo invano; incominciando a temere che il contagio delle abitudini cittadinesche tenesse il baritono a letto fino al mezzodì, andammo a chiedere di lui all'albergo—era proprio uscito all'alba, aveva pagato il conto e non s'era più visto.
«Avrà patito la nostalgia e sarà ritornato al suo nido d'aquila.
—Senza nemmeno salutarci?
—Gli uomini veramente felici non si ricordano dei disgraziati pari nostri.
—Dunque?… dissi io… un mese…
Questa volta fu l'amico a tacere…….
Otto giorni dopo, alle frutta, ci fu recato il solito giornale teatrale die ci visitava periodicamente; Antonio lo aprì, lo scorse coll'occhio, e die un grido improvviso…
«Che è stato?
—Indovina chi fu scritturato?
—Lo indovino! gridai, leggendogli nel volto la notizia… il baritono Tallini!
—Proprio lui!
—Per Londra?
—No… per teatri da destinarsi!!
Evidentemente, nella famosa alba, dopo aver pagato il conto dell'oste della Croce Bianca, l'ex-baritono, invece di risalire il monte, aveva preso la prima corsa: Lecco-Bergamo-Milano!