UN SEGRETO
VOLUME PRIMO
UN SEGRETO ROMANZO DI SALVATORE FARINA
MILANO E. TREVES & C. EDITORI 1869
Proprietà Letteraria
Tipografia Letteraria — Via Marino, 3
I. Silvio ad Eugenio.
«Se i miei calcoli non fallano, a quest'ora sei ad Huesca, supponendo che tu non abbia mutato proposito, e che, attraversata la Francia, arrestandoti appena ad Avignone e a Tarbes, ti sia affrettato, com'era tuo disegno, a valicare i Pirenei durante la bella stagione. Ad ogni modo io ti scrivo ad Huesca, non bastandomi l'animo di attendere una tua lettera.
Mi pare un anno che tu sia lontano da me, e se penso che non sono invece che poche settimane, non so darmene pace, cotanto il mio tempo mi è diventato increscioso. Tu dirai come al solito che è la mia anima che è pigra, e che la sua lentezza indolente è quella appunto che mi fa parere più tardi che agli altri mortali i due movimenti del nostro pianeta. Ma questa volta t'inganni; e dico in sul serio che se mai vi fu momento della mia vita in cui abbia sentito il sangue giovanile pulsare violento ed ostinato alle arterie ed al cuore, questo gli è desso. E non ho più a rimpiangere come per lo passato gli stravizzi e le orgie che, come tu affermavi, avevano ottuso i miei sensi, e spuntato le spine del desiderio. Anzi io penso che questo raddoppiarsi della mia vita, questo nuovo vigore delle mie forze morali, mi facciano appunto parere lungo il tempo che trapasso. Non dico che io non mi annoji — la solitudine mi condanna a questo — ma l'avidità con cui aspiro ad un bene impossibile, il desiderio e la speranza sempre alimentati in segreto, sono senza dubbio più potenti della noia.
Non mi sono mai sentito così audace, e così gaio, come di questi giorni. Se qualche volta sospiro, lo faccio per abitudine, o anche per smania, all'incirca come un viaggiatore frettoloso sospira il momento che avrà toccato la meta. Accetta questo paragone disgraziato; so bene che non fa al caso mio. Io non ho una meta, peggio, non so neppure se io non l'abbia; i sentimenti che m'empiono il cuore sono così vaghi ed indeterminati, che sfumatura di pennello maestro non saprebbe renderne l'immagine. Ma tuttavia sono sentimenti — questo almeno sta fermo — però io me ne trovo pago, e cinguetto tuttodì da solo, da fare invidia ai passeri che in questo momento pispigliano inseguendosi e beccandosi fra i rami del vecchio platano del mio giardino, che tu hai cantato nei tuoi primi versi.
Ad ogni modo il tempo mi è increscioso. È questa una bizzarra contraddizione del mio spirito irrequieto, se pure in uno spirito irrequieto vi sono contraddizioni vere, o piuttosto il volere e disvolere a un tratto cento cose non è una condizione necessaria di quello stato.
Ma bando a sofisticherie; il tuo retto senso filosofico n'andrebbe come al solito intronato, e non mi daresti requie colle tue punture — ed io so bene quanto valga il tuo aculeo, perchè cerchi di starmene, se posso, alla lontana.
Confessami che a questo punto ti ho messo in una gran curiosità dei fatti miei. Potessi pagartene in qualche modo! Potessi darti la mia confidenza, ed averne in cambio i tuoi conforti! Ma dovrei scrivere un libro, e non basterebbe; e non sapresti nulla del mio cuore, perchè io stesso non so nulla. So che in questo momento sono lieto, e che di tali momenti non è povera la mia giornata; sento il sangue circolare più rapido, l'intelligenza più chiara, e più salda e vigorosa la potenza di amare.
Amare! — L'ho io scritta questa parola? La ci stia. Tu ne sorriderai con sarcasmo, e sarà tutto; e se interpretando a modo tuo la confusione di queste mie parole, mi dirai seriamente che io sono innamorato, ti crederò senza dibattere. Sarei così felice di innamorarmi un'altra volta! Ma ho paura, mio buon Eugenio, che ciò non sia, e che tutto il benessere che io provo in questi giorni si risolva in una quistione di nervi. Anzi se devo credere al Dottor L. gli è proprio così, e a discuterci sopra mi farei dare del gaglioffo. Colui dice che noi viviamo nelle nuvole, e che i nostri malanni derivano da ciò, che discendendo da quelle alture, vediamo le nostre ali tarparsi miseramente, e temiamo non bastino a reggerci al volo mai più. Ho spesso creduto che egli avesse ragione; ma ora non temo più di nulla; e se è vero che mortale ebbe mai le ali, io me le sento crescere sui fianchi così salde e robuste, da sfidare l'aquila a seguirmi. E davvero che da qualche tempo gli uccelli non mi fanno invidia, e guardo le nuvole senza desiderio, e misuro l'orizzonte con qualche sicurezza.
Mi par di vederti — e ti leggo negli occhi, nel sorriso e nel cuore una domanda; ma io non ti risponderò per ora. Cerca pure in questa lettera un nome di donna — non lo troverai. Se è vero che io debba provare ancora le dolcezze puerili — io dico puerili — dell'amore, vorrò essere il primo a sincerarmene; nè tu, nè altri, ne avrà la certezza che dalla mia bocca.
Ricorda che io conto inesorabilmente sopra le Impressioni di viaggio che tu hai promesso di scrivere. So che il far niente ti serena l'animo, e che contemplando ti parrà di vivere troppo bene, perchè abbia ad occuparti di questo strumento di tortura che è la penna del letterato in Italia.
Lavora per me; arrossisci di rivedere le Alpi, senza aver cantato i Pirenei. Oltre a che il tempo ti parrà più breve, e le noie degli avvocati meno amare; e quando le tue faccende siano all'ordine, e ritornerai fra le braccia dell'amico tuo, anch'egli sarà in qualche modo compensato della tua assenza. Amami».
II. Eugenio a Silvio.
«La tua lettera mi ha preceduto di due giorni. Or eccomi finalmente ad Huesca, dopo un viaggio abbastanza lungo, e se devo dirlo, poverissimo d'avvenimenti. Vedi che io dico avvenimenti, e non avventure; non perchè di queste ultime ne abbia avuto, ma perchè tu non immagini che io n'andassi in cerca. Per altro non mi sono annoiato; ho pensato, ho fantasticato molto, ho raccolto una gran messe di idee e di voli; e se le mie Impressioni di viaggio vedranno quando che sia la luce, tu stesso ne sarai giudice.
Come tu l'hai pensato, io ho mutato di molto il progetto del mio viaggio; ho incominciato dal cedere una volta, e invece di tirar diritto da Avignone a Tarbes, mi sono spaventato della distanza e ho fatto sosta a Montpellier. Il guaio volle che Montpellier mi piacesse, e vi dormii una notte — un dolce sonno te lo assicuro — ed è per lo appunto questa dolcezza che mi ha fatto invaghire dei viaggi a tappe. Infatti invece di partire il domani per Tarbes, come io aveva sacramentato meco medesimo di fare, me ne andai con animo di arrestarmi a Carcassona. A metà via discesi a Beziéres. Però d'allora in poi non fermai più nulla, e come Dio volle, venni man mano a Pamier, e poi a S. Gaudenzio, e a Tarbes — e se il diavolo ci ficcava meglio la coda, uscivo di via e mi spingevo fino a Pau — nè so come mi sia risoluto a discendere a Bagnéres, e a Baréges. In quest'ultima città mi disponevo ad attraversare i Pirenei presso il Monte Perduto, ma un inglese che viaggiava per diporto, e con cui avevo stretto relazione a Tarbes, scese in quel giorno allo stesso albergo, e poichè egli voleva visitare la famosa Valle d'Arran, mi decisi a deviare un breve tratto con lui. Così passai i Pirenei fra le gole del monte Maledetto. Non ti dico nulla dell'incanto di quella traversata — tanto varrebbe che io scrivessi per te solo le mie Impressioni di viaggio.
Di Huesca non ti parlo; mi è riuscita spiacevole a prima vista, e parmi che non mi ricrederò; ad ogni modo non ho a fermarmici molto, e, se Dio lo vuole, conto di trovarmi presto al tuo fianco. E tanto più ci conto e me ne struggo, se penso al piacere con cui ho visto i tuoi caratteri, e la parola Italia sul timbro postale della tua lettera.
Ma che! tu minacci dunque d'impazzire? E che modo è questo tuo di torturare il cervello d'un amico che ha i fianchi rotti, non so se più dai cavalli di posta, o da una mezza dozzina di curiali che gli stanno alla cintola giorno e notte? Che vuoi tu che io capisca di queste vaporose fantasime del tuo intelletto?
In verità io ho serio timore che assai valesse meglio la tua tetraggine d'una volta, che questa falsa allegria che ti contorce le labbra come la sardonica; e meglio era non uscirne mai, che uscirne così stoltamente.
Sei o no innamorato? Non lo sai! l'hai a sapere dico io. In queste miserie del cuore, se non ci vedi dentro tu, chi ci ha a vedere? Oltre a che tu sarai colto alla sprovveduta, come una fortezza sguarnita; e questo, credilo, è il peggior danno che possa toccare ad un galantuomo. Diffida, diffida sempre, e di tutti; e più che d'ogni altro, di te medesimo. Se gli uomini sapessero cacciarsi in mente questa verità: che le grandi sciagure sono tali per lo appunto, perchè inaspettate, il numero degli sciagurati n'andrebbe minorato d'assai.
In amore l'abbandono è pericoloso come in tutte le cose della vita — forse peggio — la vita non si ha già ad avere in conto d'un'infanzia perenne, nè l'amore s'ha a torre come un giocattolo da bimbi. Assai triste gioco è quello che fa l'amore, e in fede mia ci si dee pensare non una, ma cento volte.
Non dimenticare i tuoi ventisei anni, non rinfanciullire a un tratto dinanzi al volto d'una bella donna. Quale che ella sia, pensa che il suo sorriso nasconde un pugnale, e i suoi baci un veleno. Le suo braccia sono morbide come il velluto, e fragili e pieghevoli come uno stelo di giunco; ma tuttavia sanno stringere in amplessi soffocanti — la voluttà che spira dalle sue nivee forme è un fuoco che consuma.
Oh! io conosco troppo bene come le vanno queste cose — e tu pure. Ma all'occasione si è sempre arrendevoli; ingannati cento volte, cento volte la bestemmia è spirata sul nostro labbro — domani ci si ingannerà ancora.
«Gioventù e bellezza sono armi troppo potenti, perchè i virili propositi possano resistere a lungo». Verissimo — se si cadesse nella lotta, sopraffatti nobilmente — se non che — ed è questa vera codardia — disillusi, vagheggiamo col pensiero un nuovo fantasma di donna che raccatti il nostro cuore e voglia mentire un po' d'amore per lui.
Osceno mercato di sentimenti, di fantasie e di menzogne — e di voluttà. E se ricerchi ciò che vi ha di vero in questi rapporti, vedrai sbigottito una sola cosa, il sesso — e non potrai andar oltre.
Tu giuochi una scommessa perigliosa; v'ha per posta una parte, la più bella parte, del tuo avvenire.
Che potrai ottenere da questa donna, se tu l'amerai? Un momento di voluttà, un po' d'amore forse — ma sai tu ciò che vi perderai inesorabilmente?
Pensaci. Se mai avvenga che dal confronto tu ritragga qualche forza, combatti disperatamente; se sarai vinto, avrai qualche conforto più tardi; quando ti parrà d'aver tutto perduto, ritroverai dentro di te qualche cosa che non sarà morta coi tuoi amori — la compiacenza della propria forza adoperata nobilmente, e quella non minore di poter far carico alla sorte soltanto dei tuoi dolori.
Questi miei consigli — e non vogliono essere più che consigli, nè meno — ti giungeranno forse tardi, e ti saranno cagione d'inutili rimorsi. — Ma se la mia voce avrà mai la sorte di prevenire, d'un solo istante, l'estremo passo, oltre il quale è questo fatalissimo abisso dell'Amore, tu soffermati alquanto a meditarla. Forse la chimera pazza che vagheggi andrà sfrondata delle sue corone, e le seduzioni di una sirena non sapranno rimuoverti dall'austera saldezza che ti eri proposto di mantenere per tutta la vita.
Se poi a quest'ora il tuo spirito si culla nelle nenie voluttuose di questo tuo amore adultero, la pace sia teco; e tu perdona alla audacia di chi ha osato profanare il tuo tempio, parlandoti un linguaggio insensato.
Ho scritto «amore adultero». M'ingannerei io forse? Affè, che non saprei più raccapezzarmi. Ma questo è un dubbio passeggiero, e si è dileguato di già dal mio cervello senza lasciarvi traccia.
Scommetterei anzi di potermi spingere più oltre senza fallire, fino ad immaginare il pallido viso della ninfa che ti ha sedotto, e a poter ripetere il nome che i vaneggiamenti del tuo sonno tradiscono forse ogni notte. Ed è...
Ma io potrei errare, e ci farei pure la triste figura dopo aver vantato tanta avvedutezza; e forse anche — e questo sarebbe peggio — l'importanza del mio consiglio ne andrebbe scemata ai tuoi occhi, e ti parrebbe che le mie parole siano inspirate dalla persona e non dal principio, e sprezzeresti le mie teoriche. Però questo è per l'appunto ciò che io non voglio da te; e se posso, farò che tu non sorrida della mia filosofia balzana. Ad ogni modo tieni in mente questo che io ti ho detto: che credo d'avere indovinato il nome dell'eroina della tua nuova passione.
Se è rimasto un posticino nel tuo cuore, serbalo per me; ma ho paura di no — i nuovi amori sono come i nuovi proprietarii d'un campo; i quali, per far sentire il loro imperio, si cacciano dappertutto, e rimuovono e ricostruiscono i limiti, per attaccare in qualche modo la loro personalità alla nuova possessione».
III.
Come Eugenio lo aveva pensato, la sua lettera giunse tardi. Cotesta in generale è la sorte comune dei consigli, e in ispecie dei consigli agli innamorati, i quali sono incontrastabilmente la razza più ostinata che viva sulla terra.
Convien sapere per altro che se Eugenio, buon figliuolo in tutto il resto, si scaglia da poco in qua con compiacenza contro l'amore, e contro le donne, ne ha le sue buone ragioni. E chi l'avesse conosciuto due mesi prima, avrebbe udito ben altre sentenze sulle sue labbra. Si pretende di doverne incolpare una certa bruna, con certi occhioni neri, e certa chioma lussureggiante; ma siccome ciò non torna indispensabile al caso nostro, lasciamo che la maldicenza districhi del suo meglio questo nodo.
Una cosa intanto resta ferma, che Silvio alla lettura di questa lettera si strinse nelle spalle.
IV. Silvio ad Eugenio.
«Ritorno in questo momento dal vederla, dal parlarle, dall'adorarla in silenzio come un'immagine santa. Ho la mente ed il cuore pieni di lei.
Oramai non lo dissimulo più a me medesimo — se pure riuscissi ad ingannarmi, non ne avrei al certo giovamento — però vorrei gridarlo a tutto il mondo: «sono innamorato.»
Questa parola che qualche settimana addietro mi avrebbe fatto arrossire di vergogna, risuona dentro di me come una melodia soavissima. I miei nervi, le mie fibre, la cantano in coro.
E perchè dovrei io arrossire? perchè dovrei ostinarmi in questa ringhiosa inerzia, che impoverisce ogni dì più la sorgente degli affetti?
In fede mia, povero Eugenio, tutti i sermoni della filosofia accigliata non saprebbero arrestare un solo istante quest'inno che prorompe in mille suoni dalle corde della natura; nè la vanità d'essere chiamato filosofo può pagare un solo battito d'un cuore innamorato.
Poi che tu dici d'aver indovinato il suo nome, tanto meglio; lo scriverò senza titubanza: «Carlotta.»
Intendo il rimprovero che tu mi fai; non vo' affannarmi a ribatterlo, ma tuttavia ti giuro che non ho in mente una colpa.
Io non voglio nulla, non domando nulla, solo che mi si lasci amarla. La mia felicità è opera sua, ma pure non è in essa; è in me, nell'amor mio. In appresso... e che so io del futuro? ma ho fede che saprei resistermi in ogni evento.
Non tenermi il broncio se io non pongo mente alle tue raccomandazioni; se tu sapessi quante volte io ti ho benedetto per avermi fatto conoscere questa donna, se tu potessi vedere la mia gioia, non ti reggerebbe l'animo di contraddirmi più oltre; e la mia gratitudine ti compenserebbe ad usura della mia disobbedienza.
Tu ignori quanto si possa essere felici amando questa donna; la tua mente, comunque ci si affatichi, non può riprodurti che una pallida immagine della sua bellezza; però nella tua cecità tu accomuni questa creatura colle mille che paghi col disprezzo, mentre... Nè io vo' tormi la briga di farti ricredere; ma se tu la vedessi... Vestiva un abito nero semplicissimo, colle maniche che lasciavano vedere le sue braccia ignude; pure quanto più leggiadra di tutte le altre, nonostante i loro pizzi, le loro trine e i cento altri fronzoli a cui mendicavano la grazia!
Me le accostai tremante; mi sorrise, mi porse una mano breve, affilata, candidissima, e mi salutò per nome. Un nonnulla per l'indifferente, un'epopea pel mio cuore.
Oh! dimmi che questa mia non è illusione, che quel saluto e quel sorriso erano da più che non volessero parere, che io posso... No, non voglio nulla; non dirmi nulla — ho io bisogno d'alimentarmi di menzogne e di speranze audaci come un fanciullo? A che fine uscire dalla mia paga serenità, ed abbandonarmi ciecamente al desiderio?
Il desiderio! Oh! gli è questo un mare senza confini, un assai tristo mare per una nave sdruscita; nè io vo' avventurarvi il mio cuore».
V. Silvio ad Eugenio.
«Mancano ancora otto giorni all'arrivo del corriere che deve recarmi una tua lettera; però dovrei starmene tutto questo tempo ad aspettare in silenzio, mentre, se la mia impazienza non m'inganna, mi pare d'avere un mondo di cose a dirti. Quindi innanzi aspettati di sovente a siffatte anticipazioni; e questa sarà la tua parte di guaio, se ti ostini a credere che io non me la caverò da quest'amore senza malanni.
Giovedì scorso mi sono recato, secondo il consueto, in casa del signor Verni. L'impazienza, e da qualche tempo la turbolenta va facendomi spesso di siffatti tiri, mi vi aveva condotto mezz'ora prima; però consultato il mio orologio, e avvedutomi, stavo fra due se dovessi entrare od allontanarmi; e intanto non mi moveva dal limitare della porta.
Il signor Verni salì le scale in quel momento, e mi sorprese nella mia indecisione.
Vedendolo mi si imporporarono le guancie di rossore, e fu ventura che fosse notte, e mi trovassi quasi nascosto nell'ombra. Per meglio dissimulare il mio turbamento diedi una strappata vigorosa al campanello, poi mi rivolsi fingendo sorpresa e salutai il signor Verni. Mi corrispose cortesissimo, mi ringraziò della premura, dicendo di tenersene onorato, e cianciò meco cordialmente.
Il signor Verni è uomo di bei modi, colto, e facile parlatore. Ebbi agio d'esaminarlo, e mi parve anche bello, e quel che è più, di quella bellezza simpatica che si rivela prima al cuore che agli occhi.
Ho provato un senso di gelosia, che ho cercato invano di soffocare, e devo aver risposto al suo spirito con molte sciocchezze. Tuttavia egli è uomo che non potrei odiare giammai, che vorrei quasi amare, se sapessi perdonargli la felicità d'essere marito di Carlotta.
In quella mezz'ora di cicaleccio sono sceso dentro di me, e vi ho interrogato le mie debolezze che non sono poche. Ne uscii netto, te lo giuro: e guardai in volto quell'uomo con sicurezza e con orgoglio, come a dirgli: «io non abbasserò mai la mia fronte innanzi a te».
Nel pensarlo non ho titubato un solo istante, e mi compiacqui di me medesimo. E mancò poco che, preso da prepotente trasporto d'espansione, non confidassi a lui stesso il mio amore. Le convenienze uccisero in buon punto l'entusiasmo; ma giuro che la sola paura del ridicolo non avrebbe potuto abbastanza.
Che non darei io per poter dire a Carlotta l'animo mio? Parmi che il sapere conosciuto da lei il mio affetto, me lo farebbe più caro, ed allevierebbe il mio spirito.
Ho pensato mille modi, ho accarezzato i progetti più assurdi; e tuttavia, trovatomi solo al suo fianco, me ne è venuto meno l'ardire. Che mi ha trattenuto?...
Essa lo ama — ne ho la certezza; lo chiama teneramente: «mio buon Antonio» — e si attacca al suo braccio, e gli parla confidenzialmente, e gli sorride...
Affè, perchè non gli salta dunque al collo in mia presenza?...
Credilo, Eugenio, questa sì, è tortura. Egli è pur suo marito. — Qual merito? dico io. Se un villano raccatta una perla fra i solchi, s'ha a dire: fortuna, non merito.
Ma tanto è tutt'uno; la legge vuole che il tesoro appartenga a chi l'ha ritrovato, e che la moglie segua il marito. È cosa da smarrirne la ragione.
Perchè non l'ho io incontrata sul mio cammino prima di quell'uomo? Il cielo mi è testimonio se l'avrei amata; e tu sai quanto io avrei saputo amare in quel tempo. Pure, pensandoci, non so ribellarmi alla sorte. Forse è meglio che sia così — in fine essi si amano entrambi; Dio sa se ella avrebbe amato me altrettanto. E son pur degni l'uno dell'altro; e se questa mia natura codarda sapesse spogliarsi d'una gelosia insensata, e li incontrassi per via, da passeggiero pietoso io mi rivolgerei a benedire, e direi dentro di me: «che bella coppia!»
Che Iddio adunque li benedica, e l'azzurro del cielo sorrida loro, e gli astri danzino sullo loro teste innamorate, finchè la baldanza dei loro anni giovanili li allieterà sulla terra!
Tant'è, darei un anno della mia vita per averle detto che l'amo. Questo segreto — ed è pure un segreto, poichè tu solo ne sei a parte — mi pesa sul cuore come un rimorso. L'amore è come vampa — si può soffocare, nascondere non mai. Talvolta, soffocato un istante, riarde più potente e si svela. Le anime amanti ardono, le ardenti amano; però se l'amore è fiamma, può essere che la fiamma sia un amore».
VI.
Quando un figliuolo d'Adamo è arrivato a questo punto, non v'ha più dubbio ch'egli sia innamorato. S. Tommaso stesso non ne vorrebbe di più. Però di solito avviene che dopo le prime titubanze puerili, un po' per vergogna, un po' per una certa audacia che a tempo opportuno Amore non trascura mai di concedere, si finisce sempre per svelare la passione nascosta, ed offerire un cuore ricolmo fino all'orlo del più puro affetto che amante possa nutrire.
Anzi siccome il piccolo Cupido si compiace di certe gherminelle, ed è raro che si tenga sul sentiero battuto e non rasenti invece gli eccessi, così è che spesso i più timidi diventano a un tratto arrischiati, e dove da prima si tenevano morti per una parola e per un sorriso, si gettano a corpo perduto nella via delle audacie.
Le faccende di Silvio non dovevano andare altrimenti.
Una bella sera — le sere degli innamorati sono sempre belle — Silvio si vestì con una ricercata trascuranza, e andò in casa del signor Antonio Verni con animo di dire a Carlotta, «che i suoi occhi erano due soli, e il cuore che egli le offeriva una sterile landa da fecondare coi suoi raggi,» o qualche altra squisitezza di questo genere. Questa volta aveva avuto l'attenzione di consultare il suo orologio, ed era riuscito, a furia di resistenze e di lotte, ad arrivare pressochè degli ultimi. Secondo i suoi calcoli questo ritardo doveva chiudere gli occhi del marito, e guadagnargli qualche pollice di terreno sulla via della sua conquista.
La brutta parola è scritta. Egli non lo diceva a sè stesso, non voleva pensarlo, quasi non lo pensava, ma tuttavia quell'idea gli sorrideva in un cantuccio della mente; e dica chi conosce il cuore dell'uomo se poteva essere altrimenti.
In generale si comincia sempre allo stesso modo, e si corrono successivamente le stesse fasi — si ammira, si sospira, si desidera. La prima fase offre pochi pericoli, però i mariti possono dormire placidi sonni. Dalla seconda alla terza non v'ha che un passo, se pure non si confondono in una. Questo però resta fermo, e farà bene chi ne porrà in guardia i mariti, che il sospiro è lo smorzatoio del sacro fuoco coniugale.
Silvio aveva sospirato più d'una volta; senza accorgersene si travagliava da un pezzo col desiderio. Ad ogni modo egli si andava ripetendo che le sue intenzioni erano oneste, e che quando avrebbe fatto palesi i suoi sentimenti, non sarebbe andato più in là.
Carlotta lo avrebbe compianto, avrebbe conosciuto la nobiltà dell'animo suo disinteressato, e l'avrebbe forse stimato — era più che egli non desiderasse.
Forse queste sue fantasie avevano un lato vero — la vanità è l'unico rimedio dell'amore, e la compiacenza d'atteggiarsi a vittima sull'ara della virtù può lottare, con qualche speranza di vittoria, colla frenesia dei desiderii.
In quella sera le sale del signor Verni erano più affollate del solito. Silvio, che sul limitare della porta avea deposto gran parte dell'audacia che lo aveva sorretto per via nei suoi propositi, entrò alquanto imbarazzato, parendogli che gli occhi di tutti si fissassero sul suo volto e vi leggessero i suoi pensieri. In fondo, benchè egli facesse mestiere di letterato, non era dei più avveduti, e se aveva una macchia sulla coscienza, bisognava che gli salisse alle guancie.
Il signor Verni gli mosse incontro, gli porse la mano, lo chiamò: mio caro signore, e lo fece sedere al suo fianco.
Silvio guardava all'intorno in cerca di Carlotta. Ne domandò a lui, e lui rispose che ella sarebbe venuta a momenti; poi riprese il suo ragionare brioso.
Assolutamente in quella sera il signor Verni era di buon umore. Silvio lo pensò, e per un momento si sentì venir meno. Amareggiare così le gioie d'un uomo onesto! colpirlo nei suoi affetti, nella sua pace!... Ma Carlotta era così bella! Guardò ancora attorno a sè, ricercandola cogli occhi.
— Che cercate? gli domandò il signor Verni.
— Nulla — rispose Silvio imbarazzato; e per rassicurarsi, guardò la faccia di quell'uomo.
Era bello, assolutamente bello.
— È una cosa orribile — un marito! e da quale stampo è dunque uscito costui? pensò dentro di sè. Ma ciò è ancor peggio, che io mi sento attratto verso di lui, chè egli mi è simpatico, e mi pare quasi d'amarlo.
L'esame fu brevissimo, ma completo. E riconobbe per la prima volta sotto le linee di quel volto sorridente, una impronta di virile severità che non disarmonizzava tuttavia coll'abituale dolcezza con cui era uso trattare.
Da quel punto Silvio fu sulle spine; si contorceva sulla sua seggiola come un uomo annoiato, tanto che il sig. Verni, da quella compita persona ch'egli era, gli offerì di fare una partita agli scacchi.
— Ciò ci farà passare il tempo — aggiunse.
— Vi pare? rispose Silvio distratto; e intanto guardava sott'occhio una porta, da cui parevagli dovesse uscire Carlotta.
— Dunque accettate? replicò l'altro.
— Accetto — stava per dire Silvio senza badare — ma in quella l'uscio si aprì, e Carlotta entrò nella sala.
VII. Silvio ad Eugenio.
«Ciò che mi dici nella tua lettera d'ieri, mi fa male. Lo ignoro io forse perchè tu debba ammonirmene?
«Non è che un anno che essa è sposa a lui», perchè farmene sovvenire? e con qual animo mi faresti tu questo richiamo, se non dubitasti delle mie intenzioni?
Sii franco meco; l'amicizia te ne dà il diritto, te ne dà il dovere. Dimmi adunque, giacchè lo pensi, che io sto per commettere un'azione indegna, che sto insidiando codardamente la pace d'un uomo onesto, che vive al pari di me d'affetto e di speranze, che mi accoglie nella sua casa, che mi stringe la mano...
T'intendo, t'intendo — tu non credi alla mia forza, perchè non credi che nissuno possa amare una donna col solo fine di amarla. Il tuo scetticismo non si smentisce. Ma io ho creduto che le mie parole dovessero rassicurarti, e che non mi avresti stimato così debole da infrangere il mio giuramento, nè così stolido da comperare un'ora di voluttà a prezzo d'un rimorso.
Può essere che io m'inganni.
Da qualche tempo sono così mutato, sento l'amore in un modo così diverso, e il mio raziocinio si è così impoverito, che non riesco a darmi ragione dei fatti miei. Tuttavia mi pare che sarei forte, che, anzi che costarle una lagrima, vorrei prima morire. Ma sono pur stolto io! Parlo come se essa corrispondesse al mio amore... mentre...
A quest'ora ella sa tutto. Non so come l'animo mi reggesse a questa rivelazione; e ne sono quasi pentito, o vorrei fuggire per non rivederla mai più. Una forza più potente della mia volontà mi tiene qui soggiogato; io ritornerò dinanzi ad essa pauroso come uno schiavo...
A quest'ora forse ella pensa a me; ripeterà dentro di sè le mie parole — che dirà il suo cuore?... Il mio non batte più, s'è come paralizzato; da ieri io vaneggio come un pazzo — vorrei dimenticarmi, vorrei sfuggire a questa tortura del pensiero, e non mi è possibile. La notte di ieri mi è sempre dinanzi alla mente, nè io posso staccarmene un istante.
Me le ero seduto daccanto, e da un pezzo non le dicevo parola. Rimuginavo dentro di me cento maniere diverse, e non sapevo qual scegliere per palesarle l'amor mio. Più volte avevo aperto le labbra per incominciare, e il pentimento me le aveva richiuse in un sospiro.
— Fa molto caldo, mi disse Carlotta.
— Estremamente — risposi, e non mentivo.
Volli dir di più, ma mi venne meno l'ardire. Suo marito si accostò a noi, mi rivolse la parola, e mi sorrise; poi parlò lungamente con Carlotta. Quando si allontanò, vidi gli sguardi di Carlotta che lo seguivano con espressione di affetto; tutte le mie forze si accasciarono per un istante. Se non che mi risollevai poco dopo, e credo che la speranza non mi avrebbe mai dato tanto ardimento, quanto me ne venne dalla certezza della sua indifferenza.
— Ho una cosa a dirvi — dissi d'improvviso arditamente.
Ella rivolse la sua faccia verso di me, affissò i grandi occhi nei miei con espressione di meraviglia.
Non potevo più dare indietro.
— Non oso — aggiunsi balbettando.
— Diamine! diss'ella, scuotendo il capo con un sorriso mesto.
— Se voi l'indovinaste...
I suoi occhi non mi dissero nulla.
— Se potessi dirvelo in un orecchio... insistei sorridendo per dissimulare il mio strazio.
Ebbe pietà della mia vergogna, e non attese più oltre. Si rizzò in piedi. La guardai supplichevole, mi guardò senza rancore, senza disprezzo, serena e mesta ad un tempo. Ahimè! non era lo sguardo con cui ella avrebbe detto il suo amore.
M'allontanai precipitosamente da quella casa; mi cacciai in letto smaniando e piangendo.
Dimmi tu pure che io fui sciocco; è tutt'oggi che lo ripeto a me medesimo. Mi pare che in questo momento saprei pur rintracciar la vera via per giungere al suo cuore. Ma è meglio che sia così; tu ne sarai pago; il ridicolo mi ha condannato irremissibilmente — così tutto sarà finito. Io non avrò più forza di parlarle, non so neppure se avrò forza di rivederla.»
VIII.
Silvio stette tutto quel giorno combattuto fra mille pensieri.
Aveva stabilito di non recarsi in quella sera in casa di Carlotta, e tuttavia parevagli che il suo orologio camminasse troppo lento, e che tardasse troppo ad annottare. Verso il tramonto mutò proposito, e volle andarvi; si abbigliò ed uscì: gironzò lungo tempo indeciso, e finì col rientrare in casa più tetro di prima.
Stette alcuni giorni senza ritornare in casa del signor Verni. Finalmente si arrese al proprio desiderio, e vi andò ancora.
Carlotta gli sorrise senza affettazione, senza ironia, senza quella compiacenza che la certezza d'aver ispirato una passione genera nell'animo d'ogni donna. Era calcolo, dissimulazione delicata? era natura? Silvio lesse subito nel contegno di lei la sua sentenza, e chinò il capo.
Erano soli in un canto della camera; ella seduta sopra un divano, egli appoggiato ad una seggiola — la comitiva cianciava allegramente; le belle donne gettavano qua e là sguardi provocanti, i bellimbusti sciorinavano del loro meglio i loro giuochetti di spirito.
Silvio taceva — Carlotta agitava lentamente il suo ventaglio.
— Signor Silvio, disse ella volgendo all'improvviso la bella testa verso di lui.
Egli si scosse dalla sua meditazione, e balbettò con fioca voce: «signora.»
— Accostatevi, riprese Carlotta, scommetterei che vi annoiate.
— Siete in inganno; la vostra casa ha bandito la noia, rispose Silvio sforzandosi a sorridere.
Trasse la sedia d'accanto a Carlotta, e si assise.
La bella donna continuava ad agitare il suo ventaglio. Un'audace speranza balenò nella mente di Silvio; forse ella aveva accolto il suo affetto, e quel suo contegno era un invito. Si fe' rosso in volto dal piacere, mosse le labbra convulsamente per parlare.
Carlotta s'avvide.
— Ieri vi siete interrotto — disse con dolcezza, ma senza la titubanza che suggerisce l'amore.
— Ieri... ripetè tristamente Silvio, smarrendo a un tratto ogni energia.
— Avete fatto bene, aggiunse Carlotta con un leggiero tremito, gettando uno sguardo melanconico e pietoso sul povero Silvio.
Non dissero più nulla. Ella volgeva gli ocelli intorno, per nascondere il suo imbarazzo, egli guardava il suolo pensando la sua sventura.
Poco dopo Carlotta si levò, ed uscì da quella sala. Silvio la seguì cogli occhi, e rimase estatico a contemplare la porta per cui ella era uscita. La vide rientrare poco dopo al fianco di suo marito. Che voleva ella dirgli con ciò? Ahi! Silvio lo comprese troppo bene.
Passarono in una sala da giuoco; li seguì come attratto da una forza invisibile.
— M'ami? domandava ella al marito.
— Me lo dimandi!
— Mi pare d'amarti come non ti ho mai amato.
Il signor Verni stringeva più forte il braccio di madama.
Silvio si tenne al muro per non cadere. Carlotta si voltava in quel momento per districare la sua veste di raso che s'era impigliata ad un mobile.
Si guardarono, ed arrossirono entrambi.
Quella sera fu un supplizio per il cuore di Silvio.
E tuttavia egli non sapeva allontanarsi da quella casa. Più volte s'era trovato a fianco del signor Verni, e l'aveva guardato con un sentimento d'invidia che non aveva potuto soffocare. Ma quel signor Verni era così affabile, così espansivo, e così severo ad un tempo ne' suoi modi, che quasi Silvio si compiaceva del suo strazio, pensando di aver risparmiato peggio a quell'ottimo marito — e se non era la prepotenza della sua passione, egli avrebbe incolpato sè medesimo di codardia. Ad ogni modo ciò non è poco, specialmente per chi, al pari di Silvio, si tenga sicuro dell' onestà delle sue intenzioni.
Erano trascorse tre ore dacchè Silvio era giunto in casa Verni, e una pendola sopra un caminetto suonava con squilli argentini la mezzanotte.
Il povero innamorato passò una mano nei capelli, e si rizzò da una seggiola, su cui era rimasto lungo tempo, con animo di allontanarsi. Si accingeva alle fredde cerimonie della partenza, e pensava che avrebbe voluto essere sotto le lenzuola, e risparmiarsi, se gli fosse stato possibile, l'imbarazzo di quei saluti; quando un servo annunziò due nuovi personaggi.
Siccome le serate del signor Verni si protraevano di solito fino alle tre del mattino, non v'era nulla di strano che quei tali giungessero a quell'ora; ma tuttavia Silvio, che aveva lo spirito immiserito dalla battaglia del suo cuore, ne fu sorpreso, e s'arrestò.
Quei due erano un dottore, ed un cavaliere, Felice Salvani.
Il dottore era persona conosciutissima; frequentava assiduamente le serate del Verni, e godeva di qualche intimità con lui — il cavaliere Salvani era uomo nuovo, che si presentava per la prima volta in quelle sale — e ciò, secondo i calcoli di Silvio, cresceva l'inopportunità di quell'ora.
Del resto il cavaliere era un bell'uomo, sui trentacinque anni, d'aspetto serio, ma più per albagia che per dignità — infine era biondo; non ce ne voleva di più perchè Silvio lo trovasse antipatico.
Senza sapersene spiegare la ragione, egli cercò collo sguardo Carlotta. La vide in mezzo a un crocchio di signore; era pallida e guardava verso l'uscio d'ingresso con espressione di terrore. Involontariamente Silvio fe' un passo come per recarle soccorso; si rattenne in tempo. Il signor Verni si accostava alla moglie seguito dal cavaliere.
Silvio rimase immobile a guardare quella scena, dominato da una sensazione di paura e d'ira che non sapeva spiegare a sè medesimo. Vide Carlotta impallidire maggiormente, barcollare un istante, e reggersi allo schienale d'una seggiola per non cadere; vide la sua bocca aprirsi per balbettare un complimento, e un sorriso sfiorare forzatamente lo sue labbra, e indovinò l'ansia del suo petto, e lo straziante martello del suo cuore.
Tutto ciò aveva durato un istante, nè altri che Silvio avrebbe potuto vederlo — ma per lui era una rivelazione; egli guardava Carlotta, guardava quell'uomo, e parevagli di afferrare le fila d'un segreto. Ahimè! temeva d'indovinare.
Tuttavia poteva essere che egli s'ingannasse, che fosse stata un'illusione de' suoi sensi agitati. Infine quell'uomo veniva per la prima volta in casa Verni; e non era probabile che corresse una segreta intelligenza fra lui e Carlotta: egli avrebbe avuto mezzo di prevenirla, di prepararla, nè la sua venuta le sarebbe stata cagione di sorpresa. Oltre a che — e per poco che egli fosse avveduto non poteva ingannarsi su questo — non la sorpresa, ma il terrore aveva imbiancato le guancie di Carlotta. Che se invece il cavaliere fosse stato altre volte in qualche dimestichezza col Verni, come mai questi non aveva alcun sospetto, e non s'era accorto del turbamento di Carlotta?
In tali quesiti Silvio smarriva la coscienza di sè medesimo, del suo dolore; pensò al dottore che era uomo compitissimo e legato a lui da molto tempo da una di quelle relazioni di simpatia che sono così presso all'amicizia, e venne innanzi a lui con animo di averne qualche lume sul conto di questo cavalier Salvani.
— Sapete che immagrite? disse il dottore a Silvio stringendogli la mano.
— Vi pare...
— Ne sono sicuro; scommetterei che pesate due libbre di meno.
Silvio sorrise.
— È da un pezzo che non vi si vede; interruppe gentilmente; che cosa è stato di voi fin'ora?
— Fui ai bagni; i bagni sono un'ottima cura, che io consiglierei a voi pure; noi altri medici moderni diciamo che l' idroterapia è la pietra angolare della medicina. I contraddittori sono eccezioni che non hanno peso. Interrogatene i savii di tutti i tempi. Mosè ordinava che si pregasse nell'acqua corrente; ci si vuol vedere un simbolo, ma vi è anche un principio d'igiene...
Il dottore — nissuno lo chiamava con altro nome — aveva la debolezza di intrattenere tutto il mondo dell'arte sua e compensarsi in tal modo della mancanza d'una clientela. Buon uomo del resto, e pieno di spirito, rideva a tempo opportuno di sè medesimo, e confessava candidamente di non aver mandato nessuno all'altro mondo.
— Voi non siete venuto solo? domandò Silvio.
— Solo! è vero, volete alludere al cavalier Salvani.
— Per l'appunto. Che uomo è?
— Un cavaliere.
— Non è questo.
— Non so dirvene di più.
— Dunque non è vostro amico?
— Amico, precisamente, no. Lo conosco.
— Molto?
— Poco; i nostri rapporti sono recenti — qualche parola, e qualche mazzo di carte scambiate insieme — e più carte che parole. È un giocatore assai fortunato; io ho puntato spesso sulle sue carte, e gli sono riconoscente della sua fortuna. Ecco tutto; il cavaliere non è di Milano, conosce poche persone, mi ha pregato di fargli respirare in qualche modo l'aria delle nostre sale, e l'ho condotto qui.
Silvio non potè saperne di più; ma era già molto che egli avesse la certezza che l'incontro di Saivani con Carlotta non fosse soltanto effetto del caso.
Da quel punto mutò proposito, e non volle lasciar quella casa senza prima accertare in qualche modo i suoi sospetti.
Il cavaliere Salvani si tenne quasi sempre lontano da Carlotta; parlò due o tre volte col marito, entrò nella sala da giuoco, perdette alcuni biglietti di banca; impassibile sempre. Silvio lo seguiva come uno spettro.
Finalmente quell'uomo, dopo aver gironzato alcun poco attorno a Carlotta, prese il partito di sedersele vicino. Silvio si arrestò di botto; e pose una mano sul cuore a reprimerne la frequenza dei battiti.
Carlotta vedendo quell'uomo aveva fatto un movimento di ripugnanza, e aveva tentato allontanarsi; ma il cavaliere l'aveva guardata fisso con uno sguardo imperioso; la poveretta a quello sguardo aveva tremato come al tocco d'una pila, e s'era arrestata.
Silvio non pensò ad altro, e si fece innanzi per porsi anch'egli a fianco di Carlotta. Questa lo vide, ne indovinò l'intenzione, e fe' un atto di gioia — e facendogli posto sul divano:
— Qui, gli disse tremando, signor Silvio...
V'era tale abbandono in quelle parole, che Silvio ne fu commosso.
Senza dubbio Carlotta anch'essa s'accorse d'essersi spinta troppo oltre, e tentò di mitigare con uno scherzo stentato la vivacità di quel richiamo.
Silvio e Felice si trovarono così l'uno in faccia all'altro; si guardarono immobilmente un istante, sfidandosi a vicenda, e volendo costringere l'un l'altro ad abbassare gli occhi per il primo, Silvio non cedette punto; il cavaliere sogghignò amaramente, si levò in piedi, salutò, e si allontanò gettando un ultimo sguardo sopra Silvio, che lo accolse impassibile. In quello sguardo era giurato un'odio.
Carlotta aveva chinato gli occhi sopra un albo di paesaggi.
— Osservate, diss'ella a Silvio appena il cavaliere fu partito — che incantevole veduta! ci sono stata; ecco laggiù il lago di Costanza, e qui a sinistra la città di S. Gallo.
— Infatti..
— Non avete voi visitato la Svizzera?
— Infatti.... io non ho visitato la Svizzera.
IX. Silvio ad Eugenio.
«Ti avevo promesso di non parlarti più di questo mio amore, ti avevo promesso che mi sarei fatto forza, che avrei vinto me stesso ed avrei dimenticato. Non credere che io intenda fallire così al mio proposito; se te ne scrivo ancora non è perchè io non voglia dimenticare, ma sì perchè non ho ancora dimenticato.
Un istinto più potente della mia volontà, un istinto fatto più di compassione e di curiosità che d'amore, mi riavvicina a quella donna. Ho dovuto ritornare in sua casa dopo essermene allontanato alcun tempo, e ti giuro che, se non fosse stato di quell'uomo, io non vi sarei ritornato più; avrei subìto la mia sorte, avrei domandato la pace ad ogni cosa, anzi che straziarmi in questa sterile lotta d'un amore non corrisposto. Ma sapere che un altro era vicino a lei, e tentava forse con maggior fortuna le vie del suo cuore, era troppo gran strazio; io non poteva aggiungerlo alle mie torture, senza soccomberne.
Sono dunque ritornato in quella casa. Non l'avessi fatto mai! Vi ho perduto la sola cosa che mi fosse ancora cara, la fede incontaminata nella virtù di Carlotta.
Io non ho il diritto di farmi giudice delle sue azioni, ma tuttavia non posso chiudere dentro di me questa condanna che mi viene sulle labbra. Ho voluto difenderla, ho pensato l'amore che ella ha per suo marito, e l'apparente ripugnanza che dimostra per questo assiduo corteggiatore; ma tutto ciò non basta. Se fra di loro non v'ha vincolo d'amore o di colpa, quali diritti così possenti può egli vantare sull'animo di Carlotta?
Vorrei pure illudermi ancora, vorrei poter essere ancora in tempo, e fuggire recando meco la mesta croce dei miei dolori, e le mie ultimo illusioni. Oh! le mie illusioni! povera corona sfrondata!... Ma oggi è inutile; dovunque io andassi, avrei dinanzi agli occhi l'immagine di quest'uomo che mi ha avvelenato la sola gioia che m'era rimasta, la gioia del sacrificio. Nulla più può salvarmi, se non la certezza; di qualunque natura ella sia, pur che mi tolga da questo dubbio inesorabile che mi cammina a fianco, che si appoggia al mio capezzale e affanna i miei sonni coi suoi quesiti, che mi rode le viscere come un tarlo. Ma che dico! posso io dubitare ancora, dopo ciò che è avvenuto? Ah! se un dubbio v'è nella mia mente, è la mia mente che lo nutrisce; l'anima mia vigliacca vede la certezza, e ne rifugge impaurita, e si dibatte con un vacuo fantasima, meglio che desistere dalla lotta.
Giudicane tu stesso.
Erano venti giorni che io non andava più in casa di Carlotta. Vi andai oggi dopo il mezzodì. Avevo in mente di scusare per tal modo la mia assenza; in cuore di rivederla, di combattere ancora per contendere l'amore di Carlotta a quell'odiato rivale. A quell'ora io mi sarei trovato solo con essa, o almeno non avrei avuto intorno a me il volto marmoreo di quel biondo cavaliere; forse... che dico? io era giubilante di questa determinazione; guardai il cielo, e mi parve bello; i volti umani, e mi parvero più sereni; la speranza giovine e robusta rinasceva nel mio povero petto.
Entrai nella sua casa tremante; la signora era nelle sue camere, il sig. Verni uscito poco prima. Mi feci annunziare a Carlotta ed attesi. Il servitore ritornò a dirmi che la signora mi faceva pregare d'attenderla un istante nella sala. La gioia mi rendeva insensato: seguii macchinalmente il servo che mi precedeva.
Entrando nella sala, udii il rumore d'una porta sbattuta con violenza. Mi rivolsi; era la porta che metteva nelle camere di Carlotta; la spinta era stata così violenta, che l'uscio aveva rimbalzato senza chiudersi, e la maniglia tremolava ancora.
Rimasi solo, e contemplai sbigottito quel luogo in cui avevo passato tante sere felici; la luce del giorno me lo rendeva quasi irriconoscibile.
Fui tolto alle mie meste fantasie dal suono d'una voce che partiva dalle camere di Carlotta. M'accostai all'uscio che era rimasto socchiuso; la voce pareva venire dal fondo della camera; era d'uomo. Non potei vincere la mia curiosità; ahimè, era certamente assai più che curiosità! appoggiai la testa contro l'uscio, ed ascoltai vergognando della mia debolezza.
Erano due voci, e parevano contendere; l'una più robusta, più imperiosa, ed era quella d'un uomo; l'altra supplichevole e fioca, d'una donna, forse di Carlotta. Un freddo sudore spuntò sulla mia fronte; tesi l'orecchio per ascoltare, ma le parole non giungevano fino a me che stentatamente.
— Verrete? domandava quell'uomo, e l'altra replicava fra i singhiozzi.
— Verrete? insisteva il primo.
Mi venne in mente che fosse lui, il cavalier Salvani; e immaginai Carlotta pallida, lagrimante, stretta dalle mani audaci di quell'uomo.
La pietà me l'imponeva, il mio amore me ne dava diritto; posi la mano sulla maniglia della porta, e feci per entrare.
— Verrete? ripetè ancora una volta quella voce.
Un gemito straziante le rispose, poi alcuni passi affrettati, poi più nulla.
Mi appoggiai al muro un istante, e tentai invano di ricompormi.
Carlotta entrò; la salutai freddo, ella sorridente. La guardai negli occhi; aveva pianto... Mio Dio! Mio Dio! E quell'uomo dunque? ah! è cosa da perdere la ragione...
«Verrete?» Era una preghiera? no, era un comando — ma dove? quando? e qual sarà stata la risposta di lei? Stolto! e posso io dubitare ancora?»
X.
In tutta notte Silvio non potè dormire un solo istante; il fantasma della sua sciagura s'era seduto sul suo letto; i suoi occhi lo fuggivano, ma invano — quel fantasma gli era sempre dinanzi. E pigliava le forme più spaventose, e gli atteggiamenti più strani. Terribile strazio, notte interminabile; il primo raggio di sole illuminò la sua fronte madida di sudore. Egli salutò quella luce come un benefizio.
Abbandonò il suo letto ed uscì; che aveva in mente? nulla; e tuttavia non avrebbe potuto restare un istante di più sotto quella volta, fra quelle mura che erano state testimonii di quella notte passata nel delirio e nella febbre dell'insonnia. Gironzò a caso gran tempo; senza avvedersene e quasi istintivamente, egli si era spinto fin presso all'abitazione di Carlotta. S'inoltrò; vide le sue finestre e i suoi vasi di ciclamini, i fiori che essa amava sovra tutti gli altri, e si fermò sulla via a contemplarli melanconicamente. Gli ritornarono in mente le segrete battaglie del suo timido amore.
Trascorse gran parte della mattina senza che egli avesse potuto decidersi ad abbandonare quei luoghi. Guardava tratto tratto alle finestre, sperando il povero conforto di vederla ancora una volta prima di abbandonarla per sempre.
Improvvisamente si accorso d'una donna che lo precedeva di un centinaio di passi e che egli non aveva visto passare innanzi. Vestiva semplicemente, ma con eleganza; gli volgeva le spalle, e s'allontanava a passi rapidi. Il cuore di lui rianimava le suo tempeste; parevagli di riconoscere Carlotta; all'andatura e alle spalle avrebbe giurato che era dessa. La ragione lo veniva confortando in questa credenza; quella donna gli era apparsa dinanzi in un solo tratto; sarebbe stata troppo strana cosa che gli fosse passata dinanzi ed avesse tardato tanto a vederla. Era dunque uscita da una porta; la sua distrazione gli spiegava che non l'avesse vista ad uscire; ora la porta dell'abitazione di Carlotta si trovava per l'appunto a tal distanza che tornava bene coi suoi calcoli. Così pensando affrettava il passo dietro a quella donna, procurando di tenersi alle muraglie per celarsi.
Perchè la seguiva egli? non lo sapeva. Se pure avesse avuto la certezza che quella donna era Carlotta, avrebbe egli osato arrestarla sulla via e parlarle? E parlarle di che? Certamente non pensava nulla di tutto ciò; la seguiva non già per raggiungerla, ma per seguirla; anzi quando gli parve di guadagnare troppo cammino, rallentò il passo per mantenersi alla stessa distanza.
Ella s'era voltata più volte, ed egli aveva aguzzato il suo sguardo, ma un fitto velo le nascondeva il viso. Allora solo Silvio ricordò quella parola udita il giorno prima, e gli parve d'udirla ripetere ancora malignamente al suo orecchio:
Verrete?
— Oh! ella adunque si reca a quel convegno, non vi è più dubbio — disse fra sè gemendo, e accelerò il passo.
Quella donna camminava sempre innanzi a lui. Guardandola più attento, gli parve che si fosse ingannato e che non potesse essere Carlotta; le forme e le movenze eran di Carlotta, ma mancavano due linee alla sua statura, per poter dire che la fosse davvero. Egli non poteva errare; l'aveva vista tante volte....
— Oibò, conchiuse, non è Carlotta.
Tuttavia non seppe risolversi di arrestarsi e proseguì, sebbene più lento, nel cammino che gli veniva segnato da quell'incognita.
Ad uno svolto di via il cuore gli battè più celere, il velo di quella donna s'era sollevato alquanto, e gli occhi penetranti di Silvio erano passati come un dardo in una feritoia.
— È dessa, è dessa — ripetè sconfortato.
E questa volta accelerava il passo con frenesia; se non che non andò molto che si arrestò un'altra volta. Aveva misurato ancora la statura di quella donna, e assolutamente le mancavano due linee per farne una Carlotta.
Non osando più affermare nulla dentro di sè, si lasciò guidare macchinalmente, spinto da quella che si può chiamare la forza d'inerzia della volontà, e che è pelle nature variabili e deboli la sola direttrice delle azioni.
Camminò di tal guisa gran tempo; parea che quella donna errasse capricciosamente, come se temesse d'essere seguita, e volesse sviare ogni ricerca. Pure egli era certo di non essere stato veduto.
D'un tratto l'incognita si fermò, e guardandosi attorno, entrò d'un balzo in una carrozza da piazza, che pochi istanti dopo partì al galoppo.
Silvio s'arrestò sbigottito.
Un'altra carrozza gli veniva incontro, e il cocchiere dall'alto del cassetto agitava lo staffile per richiamarne l'attenzione ed offerirgli i suoi servigi.
Silvio corse incontro a quell'uomo.
— Hai tu veduto quella carrozza che è partita or ora?
— Il numero 102.
— Ti basta l'animo di raggiungerla e di seguirla?
— Per raggiungerla gli è l'affare di cinque minuti; le gambe di Lupo, ed accennava il suo cavallo, sono d'acciaio. In quanto a seguirla, se anche io chiudessi gli occhi, Lupo le terrebbe dietro ugualmente; egli conosce meglio di me il numero 102, perchè lo ha giorno e notte dinanzi agli orchi. Vedete ho il numero 103 io...
Silvio non aveva ascoltato che a metà le ciancie di quell'uomo; s'era cacciato in carrozza e avea rinchiuso, sbattendolo, lo sportello.
La carrozza partì come una furia.
In breve il numero 103 fu dietro al numero 102; allora rallentò il passo.
Il numero 102 svoltò in una via, svoltò in un'altra, in un'altra ancora, e il 103 dietro sempre come un'ombra. Allora parve che l'incognita si fosse accorta d'essere seguita, perchè d'un tratto il 102 si slanciò al galoppo. E il numero 103 dietro egli pure al galoppo.
A quella corsa sfrenata i passeggieri si davano da banda spaventati.
— Passale innanzi — gridò Silvio al cocchiere.
La povera rozza tremò sotto lo scoppiettio della frusta, e accelerò ancora la sua corsa. Silvio appoggiò il capo allo sportello, tenendosi nascosto dietro le tende; aveva speranza di veder quella donna e di riconoscerla, e voleva darle a credere di non essere inseguita, per non stornarla dal suo proposito.
Il numero 103 raggiunse il 102.
La corsa delle due carrozze era così rapida, che, prima di passar oltre, si trovarono di fronte un breve tratto. Silvio vide le tende calate, e l'estremità di una mano che spuntava dietro i vetri. Il volto di quella donna era là... dietro... sbigottito forse e tremante.
La carrozza passò oltre.
Il 102 approfittò di quel momento, e voltò a sinistra. Silvio non sentì più il rumore delle ruote dietro di sè. Ahi! essa dunque gli era sfuggita.
Lungi dall'arrestarsi, il cocchiere tirava diritto al galoppo, e giù staffilate sul disgraziato Lupo.
— Lasciatemi fare, gridava dal suo cassetto a Silvio che gli comandava d'arrestarsi.
La carrozza volava, radendo il terreno come una freccia. Silvio intese il rumore delle ruote farsi più sordo, e cessò affatto d'udire l'alternato scalpitare delle zampe di Lupo sul lastrico. Allora levò il capo dallo sportello, e conobbe d'essere nella Piazza d'Armi.
Una carrozza privata era ferma nel mezzo della piazza; parve che il cocchiere di quella, vedendo una carrozza accostarsi, si ripiegasse indietro per pigliare degli ordini; infatti poco dopo tirò le redini, e mosse lentamente incontro al numero 103. Il cocchiere del numero 103 dal suo canto rallentò le redini sul collo di Lupo, e lasciò che egli si avanzasse al piccolo trotto.
All'improvviso la carrozza privata mutò direzione, e volse a sinistra; da quella parte un'altra carrozza arrivava di galoppo. Silvio riconobbe in essa il numero 102, smarrì le forze, e dovette abbandonare lo sportello.
Un'istante dopo diede ordine al cocchiere di passar oltre per non insospettire.
Allora appoggiò la fronte ardentissima sul piccolo finestrino posteriore, e guardò con occhio smarrito ciò che stava per succedere. E vide le due carrozze arrestarsi l'una presso all'altra, e lo sportello del numero 102 aprirsi, e contemporaneamente aprirsi lo sportello dell'altra; poi un piede piccolo appoggiarsi sul predellino del numero 102, ed uscirne una donna velata. Silvio rattenne il respiro per concentrare negli occhi tutta la sua vita... Un grido proruppe soffocato dal suo petto; no, egli non poteva più oltre dubitare: quella donna era Carlotta.
La vide attraversare il breve tratto di via che la separava dall'altra carrozza; e una mano sporgersi per aiutarla a salire; poi null'altro; le lagrime gli oscuravano la vista.
Poco dopo un polverio lontano segnava ancora il sentiero di quella fuga.
— Devo seguirli?... domandò il cocchiere, accennando col dito la carrozza che si allontanava.
— No; rispose Silvio con voce cupa.
— Volete che mi accosti al numero 102?...
Senza aspettare la risposta, spinse Lupo al galoppo.
— Arresta; gridò Silvio.
La carrozza si fermò. Silvio si fe' condurre dinanzi all'abitazione del signor Verni; e quivi discese.
— Uscirò da questa incertezza fatale, mormorava fra i denti salendo le scalinate.
— Voi qui, signor Silvio! disse una voce daccanto a lui.
— Voi, signor Verni!
— Vi fa meraviglia?
— Tutt'altro, vi cercavo.
— A meraviglia; sono agli ordini vostri.
— Voi uscite?
— La mia solita passeggiata. E che cosa volevate dunque da me?
— E la vostra signora moglie?
— Sta bene; è uscita anch'essa.
— Uscita....
— Da un'ora, una visita ai suoi poverelli; quest'oggi è il sabbato. Attaccatevi al mio braccio, mi parlerete del vostro affare passeggiando.
XI. Silvio ad Eugenio.
«Non so darmene pace. Ed è possibile spingere la semplicità a questo punto? e voler ritessere di propria mano nuovi inganni alla mente, perchè ella asserisca ciò che non può pensare? Pure è questa da qualche giorno la mia tortura. E m'affatico stoltamente a deludere il mio buon senso, per poter credere ancora alla virtù di quella donna.
La virtù, la virtù! sempre questa parola che enfia pomposamente le gote degli ipocriti; questa che noi chiamiamo virtù è maschera di più fino lavoro delle altre, ma maschera al pari delle altre; il mondo tutto è una mascherata ridicola; e chi non ha labbra da ghigni beffardi, non ha petto da starsene fra gli uomini e farà meglio ad andarsene. Poni la virtù sopra una bilancia, e dimmi quanto pesi; interroga i mercati, e che ti si dica il prezzo di questa merce; incontrerai molte virtù da vendere — ma la virtù non già, perchè non è cosa di terra — Se oggi ci venisse un istante, un usuraio la porrebbe all'incanto, e domattina l'avrebbero violata.
Hai forse ragione, mio ottimo Eugenio; e in questo momento sono assai più disposto a convenire teco; ma sono ben otto giorni che mi arrovello a contraddirti e a persuadermi del contrario. Che vuoi? Sono oramai così debole, che mi appiglio ad ogni cosa che possa arrestarmi in qualche modo su questo fatalissimo pendio che mena all'apatia. Gli uomini sentono di buon'ora questo bisogno; se non che, quando si ha esuberanza di passioni e di forza, il dubbio sfiora il cuore senza passarlo; e se un disinganno tarpa le ali per un istante, bentosto la speranza le rinnova più robuste.
La gioventù è l'inno dell'amore — si è giovani, e si ama — a qualunque prezzo, anche a prezzo del dolore e del sagrifizio — si ama perchè giovani, si è giovani perchè si ama.
In questa effervescenza di vita e di affetti si esaurisce rapidamente la gioventù e l'amore — colla gioventù la forza, coll'amore la fede, però che la fede è un'amore.
L'indifferenza, fredda, muta, desolata ci galoppa alle spalle; ieri era l'avvenire e il passato; oggi è l'oggi — inesorabilmente.
Io lo sento, e vorrei sottrarmi a questa barbara legge, vorrei sottrarmi a me stesso, al peso della mia memoria e della inerzia della mia fantasia. Vorrei... oh! sì; strapparlo dal seno questo cuore impotente.
Ecco forse perchè m'affanno a credere ancora alla virtù di Carlotta.
È un fantasma vano, tu dici; che importa? è pur sempre una fede, è pur sempre un amore; non è più Carlotta che io domando al cielo, sono le mie passioni, i miei affetti, il mio cuore. Non è Carlotta, ma il pensiero di Carlotta.
Ah! la memoria di quel giorno mi toglie il senno. Spingere a tal punto la perfidia; ingannare un uomo che non vive che di lei, che ella dice d'amare, con cui divide il tetto, la mensa e l'avvenire.... e ingannarlo per chi?
Quel signor Verni è pure la buona persona; affettuoso, cortese, dignitosamente austero; ma che monta tutto ciò? egli è un marito; conviene che egli sia giudicato come tale, e amato come tale. Amato... sì; e non è possibile che io m'inganni. Carlotta ama suo marito... E perchè dunque?... Enigma tormentoso, indefinibile mistero del cuore d'una donna, chi mai saprà leggere nelle tue pagine capricciose?
Mi sono recato più volte, dopo quella giornata, in casa di Carlotta. La vidi mesta, pallida, stravolta: tale un giorno, tale sempre. Che può ella avere che l'affanni? Il rimorso forse? Menzognera e meschina e falsa riparazione questa del rimorso... «La poveretta ha errato, ne soffre». Infamia, infamia; nissuna pietà per la colpa che mendica il perdono colle vesti del pentimento.
Se l'immagine della vostra colpa può tanto sull'animo vostro da rendervi infelice, perchè mai non potè arrestarvi prima di commetterla? «Un istante di debolezza». Verissimo. Ma poichè foste deboli nell'errare, siate forti nel subirne la penitenza — non vogliate lavare l'onta colle lagrime, la debolezza colla debolezza, il vizio colla menzogna.
Quell'uomo, quel cavaliere Salvani, non è più venuto in casa Verni dopo quel giorno. M'ingannerei io dunque? Io sono pure lo stolto giocoliero ad affannarmi per ingannare me stesso. Potessi colle mie stupide querele arrestare un istante il fantasma della mia fede, e morire con essa! Morire benedicendo ed amando, morire col pensiero di lei, coll'immagine di lei dinanzi agli occhi, la mia bocca fremente sulla sua fronte purissima... la sua fronte purissima!... Irridimi cinico, irridimi; la tua beffa non può ferire il mio delirio».
XII. Silvio ad Eugenio.
«Ancora.... sì, ancora di lei; ne ho la mente piena, ne ho il cuore pieno. Non posso nulla contro la prepotenza di questo affetto.
Le dure parole della tua ultima di dieci giorni fa mi hanno ferito vivamente nel mio amor proprio. Ho voluto aspettare a risponderti per dirti: «Rifaccio i tuoi passi, sarò ad Huesca quanto prima...» Che mi rattiene ora dal farlo? Lo ignoro, ma mi è tuttavia impossibile abbandonare Milano. E d'altra parte abbandonare una città non è abbandonare i nostri affetti, le nostre memorie; e se potessi spogliarmi di queste, non vorrei allontanarmi da Milano.
È la centesima volta che io giuro a me stesso di non rivederla più; questa volta mancò poco che io riuscissi, e sarebbe stato merito tuo. Non è mia colpa se il mio proposito, ed era saldissimo, ha fallito; giudicane tu stesso.
Erano quindici giorni che non era stato in casa di Carlotta; non vi sarei andato più; se non fossero bastate le mie forze, avrei riparato nelle tue braccia per sottrarmi ad ogni tentazione. Propositi saggi, tu lo vedi. Questa mattina sono stato svegliato da un raggio di sole, e mi sono levato meno triste. Ho aperto le finestre, e un'onda di lieti pispigli ha invaso la mia piccola casa. Razza spensierata quei passeri! Uscii meglio disposto a sopportare la noia di me medesimo.
Ho gironzato alcune ore senza pensiero; mi sono cacciato dappertutto; ho guardato con molta attenzione le mostre dei negozii, ed ho interrogalo con insistenza il volto dei passanti. «Costoro sono tutti galantuomini, mi sussurrava il mio demonio; camminano a due a due; e si danno il braccio, e cianciano. Cianciano tutti, e di che mai? Vedi soave ricambio di sentimenti!»
Ascoltavo stupefatto le rotte frasi dei loro discorsi, e tentavo indovinarne il senso. Buona occupazione per gli sfaccendati; ma per me era più che un'occupazione, era meraviglia; e ti giuro che ce ne volle prima che mi ricordassi che appartengo anch'io alla razza dei galantuomini.
Suonava il mezzogiorno, e senza avvedermene io m'era spinto entro i viali serpeggianti dei giardini. Le belle anitrelle! le belle magnolie! e sopratutto i bei raggi di sole!
Guardai innanzi a me — povero mio cuore! — era dessa!
Veniva lentamente appoggiata al braccio di suo marito. Il mio primo pensiero, credilo, fu quello di sfuggirla, e girai intorno la sguardo ricercando un sentiero per la mia fuga; ma essi mi avevano già visto.
Carlotta era pallida, abbattuta, come se fosse uscita appena allora di malattia; il suo profilo s'era allungato, e i suoi grandi occhi pareano ingrossati più ancora, e guardavano con sguardi così languidi... Ma io sono pur sciocco a intrattenere il tuo cinismo di queste miserie.
Mi salutarono per i primi; il rossore mi salì alle guancie.
Domandai notizie della salute di Carlotta, balbettai alcune scuse per non essermi più recato in casa loro. Non udii le loro parole di rimprovero; ma mi parvero tali. Dolci rimproveri!
Quel signor Verni è proprio una carissima persona, e sua moglie così bella! Io vorrei pure amarli entrambi...
Mi accompagnai un breve tratto con essi, e vollero farmi promettere che sarei andato a far loro visita. Promisi. Poteva io non farlo?
Ed ora? Tutt'oggi non ho fatto che pensare ad essa: ho ripetuto mille volte ogni sua parola. È così dolce la sua voce! Ne sento ancora l'armonia, come fremito d'arpa lontana. Ho dimenticato i miei passeri; il loro cinguettìo mi è indifferente, quasi importuno; e se penso alla gioia d'essere amato da quella donna e udirlo ripetere dalle suo labbra... credo che impazzirei.
E dire!... ah, perchè non posso io contemplare un istante questa cara visione, senza che vi si mesca quell'orribile pensiero? E se io la calunniassi, se non fosse lei quella che ho veduto? Incertezza crudele.
Ritornerò, sì, ritornerò nella sua casa; un'ultima volta, e ti prometto che avrò fatto prima le mie valigie. E sarò teco a dividere la solitudine di quel dannato paese più presto che tu non immagini; e ci consoleremo a vicenda».
XIII.
Silvio lasciò passare alcuni giorni senza sapersi risolvere a ritornare in casa di Carlotta.
Se avesse dovuto ascoltare la voce della sua passione, egli vi si sarebbe recato molto prima, e già più volte era stato per arrendersi al desiderio; ma poichè egli aveva promesso ad Eugenio, e più a sè stesso, che quella visita sarebbe stata l'ultima, non aveva ritrovato ancora dentro di sè tanta forza da appigliarsi a quell'estremo partito.
Se non che suole avvenire delle anime deboli che spesso s'inducano dopo molta riluttanza ad affrontare un dolore, solo perchè non hanno forza di ribellarsi ad una determinazione presa. La scrupolosa osservanza delle promesse che gli uomini fanno a sè stessi, non è sempre, nè per tutti gli uomini, indizio di forza; anzi lo scrupolo è sempre debolezza. L'indugiare è una lotta, ma la lotta del debole; l'adempiere dopo l'indugio è un arrendersi dopo la lotta; novello indizio di debolezza.
Una mattina Silvio si alzò giurando che al pomeriggio sarebbe andato da Carlotta, e che il domani avrebbe lasciato Milano.
Non erano ancora lo due dopo mezzogiorno, ed egli entrava nel portone del palazzo Verni.
Su per le scale immaginò l'imbarazzo che avrebbe provato dinanzi a Carlotta, quando egli si fosse lasciato cogliere alla sprovveduta; però si premunì disponendo il corpo a certa disinvolta noncuranza, che, secondo i suoi calcoli, doveva fare una profonda impressione.
Carlotta era sola.
Sebbene Silvio fosse venuto con animo di salutare anche quel buon uomo del signor Verni, questa notizia gli fece piacere, e sentì ad un tratto svanire gran parte di quella forza fittizia su cui egli aveva riposato così securamente. Ad ogni modo non si diede per vinto, e col più insulso cinguettìo di cui fosse capace, domandò a Carlotta della sua salute, della preziosa salute del signor Verni. Carlotta s'era rimessa completamente, e il signor Verni era sempre stato a meraviglia. Silvio assicurò d'esserne lietissimo; e continuò a dire con una rapidità prodigiosa di cento ultime notizie che Carlotta ascoltava colla più bella grazia di questo mondo.
— Rimessa completamente — andava intanto ripetendo fra sè e sè, e gettava alla sfuggita uno sguardo sul viso fresco e rosato della vaga creatura, non osando contemplarla per paura di perderci il suo frasario.
— Io parto — disse alla fine con aria distratta.
— Partite! esclamò Carlotta con accento di sorpresa.
Silvio stava per aggiungere qualche cosa, ma levando gli occhi s'incontrò in quelli di Carlotta che lo guardavano con una strana espressione di mestizia. Allora fu perduto, s'ingarbugliò, balbettò frasi sconnesse, poi non disse più nulla.
Carlotta continuava a guardarlo sott'occhi; forse ella aveva letto nell'anima di lui, e quello sguardo rivelava la pietà.
Ma l'immaginazione degli innamorati ha le ali più robuste e s'accompagna nei voli colla speranza.
Per Silvio quello sguardo voleva dire ben altro; era un amore corrisposto, una fiamma celata, era il profumo che tradiva un affetto dissimulato. Tremante e pallido egli ricercò quello sguardo avidamente.
Carlotta volse gli occhi altrove. Era un riguardo; e tuttavia Silvio ne fu addolorato. Vi fu un istante di silenzio.
— Noi siamo pur soli — pensò Silvio; io potrei...
— Lasciate Milano per molto tempo? — domandò Carlotta all'improvviso.
— Lo ignoro... Dipenderà dalle circostanze.
Carlotta aveva strappato un giacinto bianco da un piccolo vaso, e lo sfogliava lasciandone cadere i petali sulle sue ginocchia. Silvio stava muto a guardarla.
La sua posizione diventava sempre più imbarazzata; ma egli non se ne accorgeva più; non temeva più il ridicolo; non cercava più di celare sotto un'apparenza fredda e contegnosa il tormento della sua passione.
Si era svelato, e lo sapeva. Non aveano detto parola, e pure s'erano compresi. Egli aveva detto l'amore; essa la pietà. Il silenzio ha delle grandi rivelazioni. Carlotta aveva pietà di lui; non poteva più dubitarne. Era bastato un momento ad apprendergli tutto, a farlo ricadere dall'altezza delle sue fantastiche speranze, nella rassegnazione dell'uomo che non domanda altro che il compianto. Uno sguardo aveva sprigionato nel suo petto i sogni e le ebbrezze del desiderio e dell'amore, uno sguardo lo aveva ricacciato nel suo nulla.
In questo breve periodo di folle abbandono egli aveva perduto la sola forza che potesse contrapporre allo slancio della sua passione, la maschera d'indifferenza sotto cui aveva celato il suo cuore.
Tuttavia la pietà della donna che si ama è un gran conforto per le sventure degli amanti; v'ha in essa un profumo soave, una dolcezza lusinghiera che compensa in certo modo del rifiuto dell'amore. Forse anche la pietà è amore; però le donne che vivono per amare, allora che non amano, compiangono.
Silvio s'era spogliato dell'orgoglio dell'uomo, e s'inchinava a raccogliere gli sguardi di quella pietosa. In quel punto non ricercava di più; gli pareva follia che si potesse preferire l'amore colpevole, alla virtuosa dolcezza di quel compianto.
— Forse ella mi avrebbe amato — pensò. Povero conforto per la vanità delle anime volgari; grande per la vanità delle anime elette.
— Dove andate? domandò ancora Carlotta.
— Che so io? In Ispagna forse, viaggierò per distrarmi. Vi è forse ancora disseminata pel mondo qualche gioia elio possa pagare l'aridità della mia vita presente. Cercherò.
Silvio sorrideva senza amarezza; quelle parole gli venivano dal cuore.
— Ne avete diritto: aggiunse Carlotta. Voi siete giovine.
E pronunziò queste parole con tale accento di mestizia, che Silvio ne rimase colpito.
— I dolori invecchiano, disse Silvio.
— È vero, i dolori invecchiano.
Per alcun tempo si rifecero mutoli. Silvio non cercava di rompere il silenzio; quel silenzio era per lui la sola cosa che dava ai suoi rapporti con Carlotta quella tinta di confidenza che gli era così cara.
— Viaggiate solo?
— Solo.
— Fate conto di ritornare a Milano?
— Lo spero.
— Ci rivedremo.
Silvio non rispose; e levò gli occhi al cielo.
— Vostro marito? domandò poi commosso.
— È uscito.
— Avrei avuto caro di salutarlo.
— Si offenderebbe se non lo faceste. Egli vi stima; gli siete simpatico.
— Egli!
— A qual giorno è fissata la vostra partenza?
— Più presto che mi sarà possibile. Vedrò vostro marito.
La conversazione morì un'altra volta sulle loro labbra; ma le loro anime parlavano un linguaggio ben più eloquente.
Ella scherzava col gambo sfogliato del giacinto; egli guardava i petali caduti sul tappeto. Pensavano entrambi, entrambi mesti e pronti a sorridere di quel sorriso che fa così bella la mestizia. Una soave intimità non rivelata da prima spirava dai loro atti. Si conoscevano appena e pure potevano leggere nel pensiero l'un dell'altro.
Silvio pensava a raccogliere i petali del giacinto; Carlotta si levò a metà, e battendo sulla veste, fece cadere quei petali che vi si erano attaccati. Silvio s'inchinò lentamente e li raccolse; risollevandosi incontrò il volto sereno di Carlotta. Non s'era offesa dell'audacia, ed egli lo sapeva.
— Li terrò sempre meco, disse Silvio sorridendo; mi porteranno fortuna.
— Sono fiori melanconici i giacinti.
— Li avrò più cari per questo. Mi faranno sovvenire di voi.... Siete così bella!.... aggiunse scuotendo il capo mestamente.
Carlotta tacque.
In quel punto un servo venne ad annunziare il cavaliere Salvani. A quel nome due grida morirono soffocate sulle labbra di Silvio e di Carlotta. Si guardarono in volto, entrambi muti e tremanti. In quello sguardo smarrito Silvio lesse la condanna che il dubbio aveva sempre trattenuto nel suo cuore. Quella donna meritava il suo disprezzo.
Il cavaliere Salvani entrò, e si tenne ritto un istante sull'uscio senza inoltrarsi. Carlotta pareva oppressa da un'ansia mortale.
— Io vi lascio, le disse Silvio; e fe' atto di allontanarsi.
Carlotta levò gli occhi verso di lui, come ad implorare la sua pietà e pregarlo di fermarsi.
Silvio non intese, o non volle; salutò, ed uscì.
XIV.
Non era facile cosa abbandonare quella casa; però Silvio non fu appena sulla via, che conobbe come quell'impresa fosse superiore alle sue forze. Avrebbe desiderato che una furia lo avesse trascinato seco, e tanto per dar prova della sincerità delle sue intenzioni, si mosse a passi agitati.
Ma la sua gelosia era più forte del suo sdegno, e gli troncò inesorabilmente il cammino.
Ritornò indietro lentamente, ma colla tempesta nel cuore. Che aveva in animo di fare? Egli non aveva ancora risposto a questo quesito. Cento propositi insensati turbinavano nella sua mente; non accettava, non respingeva nulla. Venuto dinanzi alla casa di Carlotta, egli si sentì crescere lo sdegno; collo sdegno il disprezzo. — Volle fuggire un'altra volta, ma non si mosse. Levò il capo e guardò le finestre, come ad interrogarle dei misteri che esse nascondevano. Allora in un lampo più forte d'ira, pensò di risalire le scale, di sorprendere quell'uomo, d'insultarlo, di strapparlo a forza dalle braccia di Carlotta. Ma quali diritti poteva egli vantare per far ciò? Diritti! V'era pure chi ne aveva.... il signor Verni! E perchè non l'avrebbe egli avvisato, perchè non sarebbe andato in cerca di lui a dirgli: «badate, vostra moglie v'inganna?» E Carlotta? Che sarebbe stato di lei? E poi, scendere a tale bassezza, farsi delatore, forse calunniatore.... Infine egli non aveva la certezza. Poteva ben essere che altri misteriosi legami unissero quell'uomo a Carlotta. Amante od amico, sarebbe stato accolto con piacere. Tale adunque non era, poichè Carlotta aveva dimostrato il contrario.
Ritessè nella mente tutta la tela dei suoi sospetti, e disse a sè stesso che Carlotta avrebbe potuto essere colpevole, ma non ingannatrice.
Sentire un affetto illegittimo è della debolezza della donna, mascherarlo colla simulazione è bassezza. Carlotta non sarebbe stata capace di tradimento; però se ella mostrava d'amare suo marito, lo amava. Ma intanto il tempo passava, e quell'uomo.... Le smanie di Silvio diventavano più violente. E si rifaceva da capo ai suoi vaneggiamenti. I suoi sguardi ricercavano ancora le finestre di quella camera in cui egli aveva visto morire le sue ultime speranze. Ahi! Le sue ultime illusioni morivano in quegli sguardi.
Un uomo entrò in quel punto nel portone di quella casa. Silvio lo vide, lo riconobbe; era il signor Verni.
— Lui! sclamò tenendosi istintivamente alla parete per non essere veduto; e in un baleno l'immagine di ciò che stava per succedere illuminò la sua mente agitata. Vide Carlotta pallida e tremante sotto il rimprovero; la pace di lei, la pace di lui distrutte ad un tratto.... Egli era ancora in tempo; poteva arrestare quell'uomo, fermarlo alcuni minuti, trattenerlo ad ogni costo nella sua ignoranza confidente, e risparmiare l'avvilimento a Carlotta.
Mosse alcuni passi spinto da un impeto generoso, ma si trattenne.
Aveva pensato ancora a quell'uomo, a quell'odiato rivale, cui la sua generosità insensata avrebbe prolungato il godimento, ed assicurato forse per sempre il possesso di Carlotta. Si sentì smarrire le forze e stette un istante dubbioso. Intanto il signor Verni scomparve; Silvio non attese più oltre e gli si slanciò dietro; ma non ebbe appena toccato l'ingresso della casa, che s'arrestò un'altra volta, e cacciandosi le mani nei capelli:
— È impossibile, è impossibile, ripetè con voce rotta; non posso farmi complice di questo tradimento.
Stette alcun tempo cogli occhi fissi sul terreno; un rumore di passi che scendevano le scale lo tolse al suo ansioso vaneggiare.
Per non essere sorpreso in quel luogo e in quell'atteggiamento, si allontanò. N'ebbe appena il tempo, che il cavalier Salvani uscì.
Silvio lo vide e si sentì serrare il cuore.
Non v'era più dubbio; l'arrivo del marito poneva in fuga l'amante. Che cosa dunque era avvenuto? A quel pensiero si sentì mordere il seno dal rimorso...
Tuttavia l'andatura di quell'uomo era calma ed indolente.
Silvio guardò ancora una volta alle finestre di Carlotta. Vide i vasi dei ciclamini, e contemplò con occhio umido di pianto le poche foglie di giacinto che gli rimanevano.
Una lagrima spuntò a forza sul suo ciglio; egli la deterse dispettoso, ma il suo cuore sanguinava.
Come fu solo, pose dinanzi a sè quelle foglie di giacinto, le sole reliquie del suo amore.
Egli era solo, nessuno poteva vedere le sue lagrime, e pianse.
XV.
Quella notte Silvio non dormì; l'immagine di Carlotta gli era sempre in mente, pallida, muta, inesorabile come fantasma.
Balzò più volte di letto, e passeggiò a gran passi per la camera; ma inutilmente; quel pensiero importuno lo seguiva dovunque.
Nel suo delirio si fece cento volte alle vetrate delle finestre, sperando di vedere spuntare il giorno.
— Eterna notte! — ripetè con voce cupa; — fosse l'ultima!
Verso il mattino cadde sfinito dalla stanchezza sul suo letto; si sentiva premere la fronte come da un cerchio di fuoco; tuttavia non trovò sonno. A poco a poco la luce ridestò la vita nella città; rumore di carri e schiudere d'imposte, e voci aperte e serene nella via, ma non un raggio di sole.
Silvio non poneva mente a nulla; cogli occhi socchiusi, vaneggiava fra le chimere di un assopimento fantastico. Egli sognava e pensava; il sonno e la veglia alternavano bizzarramente le loro immagini. Questo stato durò qualche ora.
Quando Silvio si scosse era assai tardi. Levò il capo, e si guardò intorno come istupidito.
Poco dopo si accostò come un automa alla finestra, e guardò sulla via, poi al cielo, un cielo plumbeo, senza luce e senza azzurro. Aprì un antico forziere, e ne trasse alcune valigie di cuoio che gettò nel mezzo della stanza. Vuotò i cassetti dei suoi mobili, e cacciò ogni cosa alla rinfusa in quelle valigie. Questa occupazione non richiese gran tempo.
— La Spagna è un paese d'avventure — disse a voce alta come se qualcuno fosse testimonio della sua millanteria — vedrò le sue donne e i suoi puledri.
Il suono della sua voce gli cagionò una specie di terrore; ammutolì.
— Eugenio è un buon amico — aggiunse poco dopo a voce sommessa.
In quel punto un raggio di sole uscì dalle nuvole, e illuminò d'una tinta di porpora le pareti della camera.
— Sia benedetto! — sciamò Silvio — Or via, le mie valigie sono pronte, non mi rimane che salutare i pochi amici...
I pochi amici erano veramente pochi, e si riducevano a tre o quattro antichi compagni d'orgia che egli aveva dimenticato da un pezzo, e che rammentava tanto per far numero, e al signor Verni. La curiosità più che l'amicizia lo richiamava in quella casa; e più ancora il bisogno di uscire da ogni incertezza, e forse la speranza di riacquistare una fede perduta.
— Porterò meco il disprezzo, ovvero la memoria incontaminata di Carlotta.
Il suo cuore aggiungeva in segreto: «la rivedrò ancora una volta.»
XVI.
Il primo sguardo di Silvio ricercò tutto intorno pella camera; il signor Verni era solo.
— Che sarà di Carlotta? — pensò.
Il signor Verni si disse lieto di veder Silvio; lo riceveva nelle sue camere, senza cerimonie, perchè fra amici non si doveva badar tanto all'etichetta; del resto la sua salute era floridissima, e in quella notte avea dormito saporitamente; tutte belle cose che empievano di giubilo il cuore di Silvio, il quale per non essere da meno assicurava alla sua volta il signor Verni che la sua vita era un bocciuolo di rosa.
— Che sarà di Carlotta? — domandò a sè stesso un'altra volta.
Per quanto egli continuasse ad interrogarne le pareti di quella camera, non gli veniva fatto di veder chiaro in quell'enigma.
Il volto del signor Verni non ne diceva di più; anzi la sua stessa serenità era un'enigma. Ma Silvio non era uomo da lasciarsi prendere alla prima apparenza, e volle andare più in fondo.
— La vostra signora moglie? — domandò Silvio.
— Ottimamente; è uscita.
Questa risposta era stata fatta con molta franchezza; Silvio riputandosi avveduto compiangeva in cuore i meschini artifizii di una inutile dissimulazione; del resto conveniva che quel signor Verni dissimulava assai bene.
— L'ho vista ieri, dopo il mezzodì — soggiunse lentamente, e guardava in volto il signor Verni.
Aggiuntavi una certa titubanza e un po' d'angoscia, il suo sguardo pareva volesse dire: ti ci colgo. Ma il signor Verni non si sgominò punto, e rispose semplicemente:
— Lo so.
— Se lo sa, sillogizzò Silvio fra sè e sè, qualcuno devo averglielo detto; e se questo qualcuno è Carlotta, assai probabilmente non è avvenuto nulla di quanto io ho immaginato.
Allora si ricordò dello scopo principale della sua visita, e senza attendere interrogazioni, disse mutando tuono:
— Io sono qui per salutarvi.
— Che dite?
— Io parto.
— Voi?
— Non lo sapevate?
E Silvio sillogizzò ancora, e conchiuse che se il signor Verni non sapeva nulla della sua partenza, non poteva neppure aver saputo da Carlotta della sua visita del giorno prima.
— E dove intendete andare?
— In Spagna.
— Il paese degli amori.
— E degli occhi neri.
— Che ci andate a fare?
— In cerca d'impressioni.
— Ne incontrerete molte, non avrete che a raccogliere.
E qui il signor Verni assicurava Silvio che egli lo avrebbe accompagnalo volontieri in quel viaggio se non avesse avuto la moglie.
— Peccato — disse Silvio.
— Ch'io abbia moglie?
— Che non possiate accompagnarmi.
Il signor Verni era imperturbabile; interrogava e rispondeva con una serenità che faceva rovinare ad ogni tratto gli edifizii della mente di Silvio.
— Non vi è dubbio, è avvenuto qualche cosa, pensava quest'ultimo, parendogli d'aver colto al volo una contrazione amara delle labbra, o un corrugare di sopracciglia, indizii poco lusinghieri sulla faccia d'un marito. Ma il signor Verni sorrideva con tanta bonomia, che era assolutamente impossibile durare in quel pensiero.
— Non è avvenuto nulla, concludeva Silvio. E così da capo più d'una volta.
Dopo aver parlato di viaggi d'ogni specie, e aver passato in rassegna i costumi spagnuoli, incominciando dalla Donna e dal Caballero fino ai guitarreros e ai suonatori di mandolino, il signor Verni, che era mostruosamente erudito, trasportò Silvio sulle vette della Sierra Nevada, e naturalizzò con lui, indicandogli la vegetazione sottostante, e cento altre cose così belle, che se Silvio non avesse avuto in animo d'andare in Spagna, se ne sarebbe sentito struggere di voglia; e a starsene in Italia più oltre, si sarebbe ammalato di nostalgia. Ed io giuro che mai marito fu più eloquente e più fortunato nello sbarazzarsi d'un pericolo pella castità del suo talamo.
Silvio stava per accommiatarsi.
— Saluterete per me la vostra signora.
— Non mancherò di farlo.
E qui una stretta di mano. D'improvviso il signor Verni si battè la fronte. S'era dimenticato di un piccolo affare, in cui forse la bontà del signor Silvio avrebbe potuto tornargli utile.
«Silvio, pensate! non domandava di meglio che di favorire la bontà del signor Verni».
— Voi non partite che domani?
— Così conto di fare. Le mie valigie sono già all'ordine.
— A che ora contate di partire?
— Alle due pomeridiane.
— È inutile, non posso farvi perdere la mattina; non ne parliamo più.
— Vi pare? La mia partenza non è che allo stato di progetto, posso differire.
— Non mette il conto.
— Del resto le mie ore del mattino sono perfettamente libere; un paio di visite, ed è l'affar di mezz'ora.
— Il mio sarebbe per l'appunto l'affar di mezz'ora.
— Vedete! Dite dunque, in che posso servirvi?
— Un'inezia; domani mattina ho uno scontro...
— Un duello?
— Un'inezia; e siccome non è gran tempo che io sono a Milano, ed avrei caro che le mie parti fossero trattate da amici, così...
— Sarò vostro padrino, disse Silvio agitato, e guardava il viso del signor Verni. E chi è il vostro avversario?
— Non so se voi lo conosciate, il cavalier Salvani.
Silvio impallidì.
— Lo conoscete?
— Lo conosco.
— Un gentiluomo.
— E la ragione?....
— Un'inezia, ve l'ho detto. Il cavalier Saivani si ostinava a credere che l'attuale ministro salverebbe il paese; ed io mi ostinava a dire che lo perderebbe. La politica è sempre perniciosa per le teste vulcaniche. Ne ho fatto esperimento, e dico che è meglio l'amore. Ci siamo scaldati un poco, egli mi ha detto con un giro di parole graziosissimo qualche cosa che è sinonimo di cretino, ed io altrettanto; per rincarire la dose ho fatto vedere che io l'avevo in conto d'uomo illiberale; ho parlato dell' altezza dei tempi.... Il cavaliere ha spiegazzato fremendo un paio di guanti, ho indovinato di che si trattava, e l'ho trattenuto dicendogli che gli avrei mandato i miei padrini... Ecco il fatto.
E il signor Verni rideva delle sue parole, gaio e spensierato come un fringuello. Silvio non rideva più.
— Ho avuto in mente, soggiungeva il signor Verni, di rappattumarmi con quell'uomo, per non dare al pubblico questo spettacolo insipido di due galantuomini che si tagliano le braccia per porre in salvo l'onore. Ma non ho saputo essere così forte da lottare contro il pregiudizio. Si direbbe di me che sono un vigliacco; non è egli vero?
Tutto questo dialogo era avvenuto sul limitare della porta. Silvio domandò dell'abitazione del Salvani; si tolse il carico di pensare a tutto, ed uscì col cuore angosciato.
XVII.
Carlotta era colpevole. Silvio aveva finalmente questa certezza crudele. Invano la speranza ritentava ancora le suo magiche lusinghe; l'animo suo era chiuso inesorabilmente. Illudersi ancora sarebbe stato mentire a sè medesimo.
Tuttavia, e benchè vi fosse stato preparato, il suo cuore era angosciato.
Rammentava ancora, non per discolpare Carlotta, ma per legittimare la propria cecità, il contegno severo di quella leggiadrissima creatura, l'espressione di candore che spirava dai suoi occhi, l'amore dimostrato con tanta apparenza di sincerità, e forse con sincerità, pel marito. Era cosa da impazzire! pensare che quella donna così giovane, così bella, così felice ed amata, avesse potuto dimenticare ogni cosa per abbandonarsi nelle braccia di un uomo come il cavalier Salvani.
Questo pensiero atroce martellò gran tempo la testa agitata di Silvio. A poco a poco però venne rasserenandosi.
L'amore non corrisposto o si perpetua coll'entusiasmo melanconico, o si spegne rapidamente col disprezzo.
L'anima di Silvio seppe disprezzare.
Andò in quella stessa sera presso il cavalier Salvani; s'accordò coi padrini, e il duello fu fissato in tutti i suoi particolari.
Poi andò a dormire, pregando il cielo per il signor Verni.
Quella notte, tra per la veglia dell'antecedente, e forse un poco perchè la sua guarigione era incominciata, dormì sonni profondi, e sognò che il signor Verni con un fendente fortunato aveva accorciato le orecchia del cavaliere.
XVIII.
Alla mattina si levò di buon'ora, e secondo l'accordo fatto andò in casa del signor Verni. Lo trovò pronto.
Per la prima volta Silvio pensava al pericolo cui quell'uomo andava incontro, pensava a Carlotta che n'era stata causa, e non sapea darsene pace. E tuttavia se egli guardava in volto il signor Verni, si sentiva venir meno nella sua convinzione; la calma di quell'uomo avrebbe tratto in inganno chicchessia.
— Siete disposto? domandò Silvio.
— Lo sono; rispose sorridendo il signor Verni; ma vi confesso che l'idea di pigliar parte ad una commedia di tal natura è tutt'altro che aggradevole; in cotesto genere di riparazioni d'onore che non riparano nulla, non ci si guadagna altro che il ridicolo.
— Diamine! il ridicolo!
— Certamente. E vi pare cosa assennata che due uomini si comportino come belve feroci rinchiuse nella stessa gabbia che contendono per una libbra di carne, che tanto tanto il domatore strapperà dalle zanne del vincitore? Ne va di mezzo l'onore? fate da senno e finitevi; che la vita dell'uno paghi la pace dell'altro! ma scendere nella lizza per versare qualche goccia di sangue, sotto il pretesto di salvare l'onore, in verità è cosa tanto sciocca, che non è a dire di più. Da bravi, miei cari leoni, divertite il pubblico, questo pubblico di conigli che circonda l'arena per sentenziare del vostro onore.
— Avete ragione; disse Silvio a malincuore, temendo d'indovinare a che mirassero le parole del signor Verni.
— Voi avete escluso i colpi di punta...
— E i fendenti al capo.
— Eccoci a quello che io dicevo; non vi pare?
— Non dico di no, ma poichè si tratta d'una bagattella...
— È giusto; la vita di due galantuomini non deve esporsi per una bagattella.
— Voi dite? esclamò Silvio turbato.
— Dico che l'uomo di cuore deve anteporre l'onore alla vita, e sacrificare questa a quello, se le circostanze lo comandino; ma che non mai uomo di senno debba farsi schiavo d'un pregiudizio, e battezzare quistione d'onore ciò che non è che stupida e inutile millanteria.
Silvio, convintissimo di tutto ciò, non vi poneva mente se non per immaginare a che cosa il signor Verni volesse riuscire.
— Ho pensato molto al mio duello, riprese quegli; ne parlerà tutta Milano, e il mio nome correrà pelle bocche di tutti, come quello del primo cialtrone che fa mestiere di spadaccino. È doloroso in fede mia. Vorrei porvi riparo, poichè sono ancora in tempo.
— Riparo? in qual modo?
— Direte al cavalier Salvani che io sono dolente di ciò che avvenne fra di noi, che io penso che due gentiluomini non debbano retrocedere vergognosi dinanzi ad una giusta e leale riconciliazione.
Silvio rimase estatico.
— Una scusa? balbettò egli.
— Se il cavaliere l'accetta, io sono soddisfatto.
— Soddisfatto!... E se non accettasse?...
— In tal caso si mutino le condizioni del duello; non mi si condanni ad una parte ridicola, e mi batterò.
Silvio respirò più libero. Gli parve di comprendere pienamente i progetti del signor Verni. Una vendetta seria, una riparazione solenne; un segreto seppellito eternamente nel seno d'un cadavere. Pensandoci, questa tela si rischiarava di maggior luce, ma ad intervalli si oscurava affatto, e allora Silvio non comprendeva più nulla, e volendo sbarazzarsi, si ingarbugliava di più nel suo labirinto. Infatti il cavaliere poteva tenersi pago delle scuse dell'avversario, e di tal guisa mandare a monte il duello. Ora, se ciò avveniva, la riparazione sarebbe sfuggita di mano al signor Verni; e non pareva probabile che questi, essendo stato ferito nell'onore, volesse offrire al cavaliere un mezzo di uscirsene onorevolmente senza danno. Bisognava adunque credere che la cagione del duello fosse in realtà quella indicata dal signor Verni; se pure non vi era fra i due avversarii una precedente intelligenza, chè in questo caso il cavaliere avrebbe rifiutato le scuse, e accettato le condizioni d'un duello più arrischiato.
Giunto a quest'ultimo partito delle supposizioni, Silvio ebbe il buon senso di non andar oltre nelle sue fantasticherie.
XIX.
Come Silvio aveva dubitato, il cavalier Salvani si acquetò alle scuse, e il duello non ebbe luogo. Riportando questa novella al signor Verni, Silvio immaginava che il dispetto avrebbe tradito in qualche modo il segreto pensiero di quell'uomo; ma per quanto egli si adoprasse a spiare ogni gesto, il volto del signor Verni rimase calmo e sorridente.
— Avevo fede nello spirito del cavaliere, disse con disinvoltura, e null'altro.
Benchè Silvio fosse disposto a pensare come il signor Verni, non poteva tuttavia dissimulare a sè stesso un certo rancore; e certamente, più che il duello fallito, poteva sull'animo suo la nuova tenebra che s'era fatta nella sua mente.
Il pensiero di Carlotta gli ritornava più importuno di prima; egli si affannava inutilmente a liberarsene. Aveva potuto lusingarsi di non stimare più quella donna; ma non era riuscito ancora a non amarla.
Non è vero che l'amore non possa sopravvivere alla stima; la leggenda degli affetti ha registrato assai spesso nelle sue pagine gli esempi di passioni veementi concepite per creature abbiette. Creature che non furono stimate mai, furono tuttavia potentemente amate. Il disprezzo incomincia spesso dove finisce la stima; l'indifferenza non mai; ma anche il disprezzo è un moto del cuore; non è più l'amore, ma è ancora la passione; non è l'amore, ma è la lotta, la ribellione dell'amore.
La condotta del signor Verni aveva avvivato nell'animo di Silvio, se non la fede, il dubbio sulla virtù di Carlotta.
Spesso chi dubita oggi, crede ed afferma domani; il dubbio è a metà strada della fede.
Tuttavia il dubbio di Silvio ne era lontanissimo; e se vagheggiava una certezza, era più quella della colpa, che quella della virtù di Carlotta.
Uno strano sentimento di egoismo e di debolezza lo spingeva a ciò. Se Carlotta fosse stata virtuosa, egli non avrebbe saputo non amarla; amarla senza volerla spingere alla colpa, era carico troppo superiore alle sue forze. Al contrario s'ella era colpevole, il disprezzo oggi, l'indifferenza più tardi, avrebbero sanato la sua piaga.
In questo vaneggiamento del suo spirito, v'era però un fondo virtuoso, il desiderio di non farsi egli stesso occasione d'un tradimento; e se vi spirava l'egoismo, non era quello che assicura la propria pace colla sciagura altrui, bensì quello di chi s'adopera per non essere trascinato nell'irreparabile disastro d'altro uomo. Carlotta colpevole oggi, risparmiava forse la colpa propria del domani, e quella di Silvio. Carlotta, virtuosa sempre, avrebbe avvelenato la pace di chi l'avesse amata senza speranza, e non senza desiderio — e quest'ultimo appunto era l'argomento dell'egoismo.
Il desiderio di Silvio non era adunque nè troppo ingiusto, nè troppo biasimevole e conveniva alla natura dell'anima sua, capace della forza battagliera che si espone agli sguardi del pubblico, ma non di quella forza segreta che non apparisce, e costa tuttavia lagrime e dolori assai più grandi: la rassegnazione.
Silvio era uomo onesto, ma non uomo virtuoso; aveva della virtù ciò che ne è rimasto all'età nostra dopo il turpe diguazzare nelle oscenità da trivio: l'incapacità a commettere di proposito una mala azione. Se l'occasione si porgeva, sapeva lottare contro le seduzioni della colpa; resisteva, ma piegava; quella robusta e serena operosità della virtù gli era ignota, perchè lo era pure al mondo in cui egli viveva. Egli avea preso dal mondo ciò che gli era stato offerto, sceverato il buono dal pessimo, ma non aveva potuto raccogliere ciò che il mondo non poteva dargli. Tuttavia Silvio era uomo virtuoso; se egli non corrisponde al tipo, si ha da incolparne l'attrito che ha sbiadito le linee dell'impronta. La pallida e slombata virtù dei giorni nostri riconosce in Silvio una sua creatura.
Tuttavia Silvio fu tratto un'altra volta da un raziocinio inesorabile a' suoi primi propositi. Rammentò tutti i particolari che accusavano Carlotta, e conchiuse che se il signor Verni non si batteva col Salvani non era prova dell'innocenza di Carlotta, ma al più della fortuna dei suoi inganni e della cecità proverbiale dei mariti.
Con questo convincimento nell'animo, pensò alle sue valigie, e ad Eugenio che lo aspettava alle falde dei Pirenei.
Egli ritornava a casa, ed affrettò il passo. D'un tratto vide innanzi a sè un uomo che gli veniva incontro sorridente, il cavalier Salvani.
— Lui! ruggì l'anima di Silvio, e l'espressione d'un odio profondo si dipinse sul suo volto.
Il cavaliere si accostò con disinvoltura.
«Era lieto che il signor Verni gli avesse offerto un mezzo per sciogliere una quistione che non aveva di serio che il pericolo».
«Silvio ne era lietissimo, anch'egli; ma protestava che la quistione gli pareva seriissima».
— Diamine! disse il cavaliere; che intendete di dire?
— Io sostengo precisamente l'opinione del signor Verni; il ministro attuale rovinerà il paese.
— Ah! voi credete?...
— Lo sosterrei in faccia a chicchessia.
— Opinioni; interruppe il cavalier Salvani con accento di dileggio.
— E aggiungo che chi lo pensa in modo diverso non è all'altezza dei tempi.
L'intenzione di Silvio si faceva palese.
— Opinioni; ripetè ironicamente il cavaliere. Infine voi convenite meco che il duello è una pazza cosa, tanto più per tali bazzeccole; e che si può pensarla diversamente su qualche punto di politica, e stringersi la mano come buoni galantuomini. In faccia al buon senso tutte le opinioni sono rispettabili... tranne quelle che mancano di buon senso.
In così dire il cavalier Salvani porgeva la mano a Silvio.
Quell'atto era una sfida allo spirito di Silvio; Silvio strinse la mano del cavaliere.
Qualche ora dopo partì giurando di non arrestarsi che ad Huesca.
XX.
Nell'estate successiva, e precisamente ai primi di luglio, un viaggiatore attraversava la Svizzera pedestre. Si arrestava ad ogni paese, ad ogni capanna; avido di cose nuove domandava a tutti se nei dintorni vi fosse qualche paesaggio che mettesse il conto d'essere veduto; non curava pericoli, e si arrampicava pei dirupi sfidando i lupi e i sentieri sdrucciolevoli. Una guida che lo aveva accompagnato sul monte di S. Gottardo giurava d'aver avuto a fare rarissime volte con uomo così intrepido. Quel viaggiatore aveva anche la borsa ben fornita e pagava senza lesinerie; i pastori delle rive dell'Aaar non avevano mai avuto più larga mercede in compenso dei loro formaggi e del loro latte fresco. Costeggiando le rive dell'Aaar e poi il Reno s'era spinto fino a Sciaffusa e v'aveva visto la famosa cascata, e poco più oltre il vasto ed incantevole lago di Costanza colle sue braccia snelle gettate audacemente frammezzo ad una vegetazione gagliarda.
Quel viaggiatore era Silvio.
Di ritorno dalla Spagna, ripassati i Pirenei ed attraversata un'altra volta la Francia, s'era internato per la via di Ginevra nella Svizzera, con quella spensieratezza che è propria degli artisti.
Eugenio lo aveva accompagnalo fino a Ginevra, ma quivi aveva protestato di non volere andar oltre; però dopo aver tentato invano Silvio perchè ritornasse con lui a Milano, vi si diresse solo.
Tutto quel tempo trascorso dal giorno della partenza di Silvio da Milano s'era passato per lui in una lotta penosa tra il disprezzo e l'amore. Confortate dalla lontananza, queste lotte raggiungono per lo più l'oblio e l'indifferenza.
Nei primi giorni Silvio s'era rimasto taciturno; aveva sfuggito il pensiero, ma il pensiero di quella donna che lasciava dietro di sè lo aveva accompagnato durante tutto il viaggio.
Eugenio, vedendolo in tale stato, se n'era spaventato, ed aveva chiesto la cagione. Silvio aveva detto tutto, e il cinismo d'Eugenio non ebbe sogghigni per quella confessione. Il male era serio, e la pietà, meglio che il conforto, suggeriva il silenzio.
A poco a poco Silvio diventò più calmo; anzi, con un mutamento repentino, si fece a un tratto ciarliero e gozzovigliatore. Eugenio tentennava il capo e ripeteva dentro di sè: «egli vi pensa ancora».
Una settimana dopo Silvio spargeva a piene mani il ridicolo sui suoi amori arcadici, e giurava di non essere mai stato così imbecille come presso Carlotta, e prometteva che non lo avrebbe fatto più, con atto di così buffo pentimento, che Eugenio lo guardò meravigliato.
Ma questa volta ancora tentennò il capo e ripetè a sè stesso: «egli vi pensa ancora».
Un'altra volta attraversando una boscaglia, Silvio si chinò a terra e raccolse un fiore, un ciclamino, il fiore che Carlotta amava tanto. Egli stette chino un pezzo e non raccolse più nulla; risollevandosi aveva la fronte impensierita. Eugenio lo guardò attento, guardò il fiore, ma non comprese. Silvio dopo alcuni passi gettò il fiore dietro di sè, ma non potè liberarsi così dal pensiero importuno di Carlotta.
Giunti a Montpellier, Eugenio aveva detto a Silvio:
— Lo sbocco del Rodano sul golfo è uno spettacolo incantevole; vuoi che proseguiamo il viaggio per mare?
Ma Silvio aveva risposto che non amava il mare, ed Eugenio aveva conchiuso che Silvio non voleva allungare il suo viaggio, e che gli premeva di arrivare presto a Milano.
A Gap Silvio era stato preso da improvvisa vaghezza di visitare la Svizzera, e aveva indotto Eugenio a seguirlo fino a Ginevra. Ed Eugenio aveva conchiuso che Silvio non voleva rivedere Carlotta.
A Ginevra Eugenio si ribellò affatto, e lasciò il suo amico, convinto oramai che sarebbe guarito, e che la natura avrebbe operato meglio dell'arte, e il tempo meglio dei consigli.
XXI. Silvio ad Eugenio.
«I magnifici soli di queste giornate mi hanno messo di buon umore. Sono venuto a Costanza, città incantevole per la sua posizione, e pel suo lago; non ho mai visto la natura così lusinghiera; i monti, le vallate fresche, le nevi in lontananza, e questo cielo purissimo!... È cosa da impazzirne; mi sento un brulichio per le vene come avessi la febbre.
Ieri ed oggi ho remigato guidandomi da solo sul lago per entro certe piccole barche di forma assai diversa dalle nostre che sono la delizia dei villeggianti. Ne ho contato poco anzi una trentina colle velette bianche e lucenti spiegate al vento inseguirsi radendo le onde come colombe selvatiche.
Questa mattina fui anche più allegro del solito, e avvenutomi in un ministro evangelico che asciolveva lautamente alla stessa mensa, mi sono cacciato con lui in un labirinto di sottigliezze teologiche. Quel ministro era uomo ancor giovine, pieno di fuoco, favellatore facile, arguto e, deggio dirlo, benevolo. Egli mi ha risparmiato più d'una volta, e fu davvero benignità, poichè io mi era fitto in capo di prendermi spasso delle sue credenze. Io guardava lui, e certe bistecche di maiale di cui egli alternava i bocconi colle citazioni, e poi ancora lui. Mi venne in mente ciò che scrisse Gian Giacomo dei preti cattolici e dei protestanti, e conclusi press'a poco come egli conclude nelle sue confessioni.
Mi ricordo ora di averti promesso di raggiungerti presto a Milano. Non dico ancora di no; ma comincio a prevenirti per ogni evento che mi sento assai poco disposto a lasciare questi paesi. Ci si respira un'aria che costì cercherei invano; e quel sapersi libero di pensare, di dire e di scrivere come il capriccio o le convinzioni suggeriscono è tal bene che appena ora apprendo a stimare quanto valga. Non è già che costì le mie opinioni possano essere condannate o soffocate — tu sai di che sorta d'opinioni, e di che picciol numero, si componga il mio arsenale politico — ma tanto tanto quel sapermi padrone assoluto di dire ciò che penso e di pensare diversamente dai reggitori del paese (vedi che dico reggitori ) è un potere che mi rialza qualche pollice in faccia al mio amor proprio, e mi fa credere d'essere in qualche guisa un uomo importante.
Qui il Governo ci è, ma tu non lo vedi ad ogni passo come nella tua benedetta Milano, e non ti ferisce nella dignità d'uomo collo spettacolo di livree salariate, e poi, e poi....
Ma è forse meglio che io mi trattenga dal dirtene di più; ritorniamo artisti, e serbiamoci tali per tutta la vita, se ci è possibile, almeno nel cuore. La politica ha guastato tutto; alla guisa di certi bruchi è passata su tutti i fiori, e ha stampato sul velluto dei vergini petali la lurida impronta del suo corpo.
Non profaniamo l'arte che è primogenita dell'idea. Se anche gli artisti si cacciano in capo di rubare il mestiere ai diplomatici, non vi sarà più altro al mondo; e se pensi alla cifra spietata dei politicanti, vedrai che non è poco danno. Infine anche quei messeri, ambasciadori, ministri plenipotenziarii, incaricati d'affari, e che so io, hanno cento ragioni d'arrabbiarsene; è il loro mestiere, il loro privilegio; e pensa se domani mandassero all'estero l'Arte — alma parens — conciata colle livree gallonate, col cappello a due punte, e le sue brave credenziali del nostro buon Governo...
Per carità ritorniamo artisti.
Poichè ho incominciato a lasciarti indovinare in qualche parte i miei progetti, sarò sincero e ti dirò ciò che all'incirca ho contato di fare.
Non pensare però che la confessione dei miei propositi — se pure sono propositi — debba obbligarmi ad attenermici. Dico questo perchè in generale si suole attribuire a leggerezza il mutamento frequente dei progetti, mentre il più delle volte, se si ha una colpa, è quella di aver palesato troppo presto il proprio pensiero, senza attenderne il frutto che è la determinazione vera, la quale è sempre una sola. Quegli uomini che dicono «farò questo» e fanno, non è già che abbiano, come si crede comunemente, la forza mirabile di fare quello che dicono, inalterabilmente e sempre, ma piuttosto che hanno l'astuzia o la prudenza, ed è tutt'uno, di non dire se non ciò che hanno assolutamente fermato di fare. Vedi che non è un giuochetto di parole, ma una verissima cosa, una specie di piramide, poco meno certamente, a puntellare la serietà e la fermezza dell'umana natura; serietà e fermezza a cui si crede meno che non convenga.
Voglio dire che domani io potrei pensare diversamente da quel che penso oggi, e non per questo dovrebbe venirmene taccia di volubile. Se io aspettassi la vigilia di compiere i miei disegni per palesarli, tu mi avresti in concetto di uomo ferreo; e ci avrei assai più del mio conto.
In conclusione Gossau è un bellissimo paese — così mi si dice — vi hanno belle villeggiature e molti villeggianti, tutte cose non indifferenti; aria buona, bel cielo, buone vivande, altre cose di cui sono avidissimo; ed ho in mente di recarmivi e passarvi questi mesi d'autunno.
Ecco ciò che mi passa ora per il capo; se domani avrò mutato consiglio, non sarà grave danno, e il peggio che possa capitarmi è di far ritorno a Milano e rivedere ciò che non vorrei rivedere mai più. L'ho detto; e se la prudenza è debolezza — e parmi davvero che le sia dato a torto l'appellativo di virtù, — dì pure che questa mia è debolezza. Forse io misuro male le mie forze, e saprei resistermi; ma non so pormi a questa prova.
Vederla ancora, parlarle ancora! non è possibile; tutto in lei mi farebbe male; la mia stessa indifferenza mi sarebbe penosa, nè io saprei essere impassibile se non a prezzo di nuovi dolori ancora più atroci. Guardarla senza lacrime e senza palpiti, dopo tanta frenesia! Ahi, sarebbe questo un disinganno assai più amaro, e vi getterei l'ultima illusione: la pazza fede che io l'avrei amata eternamente.
Non parliamone più. Mi preme che questa mia ti giunga presto, e so che vi è un pessimo servizio postale tra la Svizzera e l'Italia. Dimmi delle cose tue; dimmene lungamente, e persuadimi, se ti è possibile, a raggiungerti presto. Egli è pure il mio desiderio, ma una catena fatata mi lega a questo paese».
XXII. Silvio ad Eugenio.
«Di' pure che io sono un gran colpevole. Da venti giorni non faccio che lottare meco medesimo per decidermi a scriverti. «Scriverò domani, scriverò domani» e così sono giunto fino ad oggi.
La tua lettera, contro le mie aspettazioni, mi è venula assai presto. Pensa se io l'ho letta con avidità; mi aspettavo ad ogni linea di leggere quel nome, e trepidavo non per desiderio, ma per timore che il pensiero di lei avesse a darmi prova della mia debolezza; non temevo del mio cuore, ma temevo tuttavia l'esperimento. Tu non l'hai nominata, e te ne sono grato; la mia gratitudine ti sia prova del mio buon volere, se non della mia indifferenza. Non mi è possibile essere indifferente ai casi di quella donna; se tu mi avessi detto: l'ho veduta; il mio cuore avrebbe domandato: «era felice? era dolente?» io non avrei potuto frenare il mio cuore. Posso però non amarla e non l'amo.
È una settimana, dal 20 settembre, che io mi sono stabilito a Gossau. Il paese non merita che io te ne parli; ma la posizione è delle più ridenti, e i comodi della vita animale si hanno tutti, con poco dispendio. Gli Svizzeri non sono soltanto buoni orologieri, ma all'occasione sanno essere buoni ed eruditi gastronomi, e pazienti.
Non so più qual filosofo abbia posto la pazienza fra le virtù del perfetto gastronomo; ma io dico che la filosofia non ha mai rivelato verità così profonda, e così efficace.
Ho tolto a pigione a breve distanza dal paese una villetta graziosissima; quattro camere in tutto, ma pulite, piene di luce e di aria, elementi indispensabili per la vita del pensiero. Ho anche il mio pezzo di giardino, pochi palmi di terreno rubati agli scaglioni d'un colle, col suo bravo pergolato, e colle sue piante di rododendri e di dalie tutte in fiore.
Nel primo giorno mi ho fatto apprestare gli utensili col proposito patriarcale di coltivare io stesso i miei rododendri e le mie dalie; ma dopo alcune ore mi sentii tutto slogato, e ci ho perduto in una volta sola tutti questi gusti così primitivi. E mi pare che se mi fossi trovato nei panni di Adamo, e che Domine Iddio mi avesse condannato a «lavorare la terra col sudore della mia fronte», io, per tormene più presto d'impaccio, avrei scavata una fossa larga due piedi e profonda sette, e mi sarei sepellito a dirittura.
Regalerò il mio badile a qualche montanaro che se ne servirà a sgomberare i suoi passi dai cardi e dalle liane.
L'aria che si respira quassù è veramente benefica; mi pare che i miei polmoni si dilatino. Ogni mattina mi affaccio alle mie finestre, e assorbo a più riprese la brezza frizzante che viene a battermi sulla faccia. Questa ginnastica di polmoni, come tu la chiami, giova al mio sangue, il quale, ti giuro, non ha mai corso così sereno.
Ho seguito in tutto i tuoi consigli, e mi sono circondato di ossigeno; e siccome il rododendro e la mia dalia non ne esalano a sufficienza, io non ho che a passare nelle due camere posteriori, le finestre delle quali guardano sopra un altro giardino. Questo non è un giardino da burla, ma un giardino sul serio; non so di quante pertiche, ma l'occhio ci corre un buon tratto; e poi piante molte, e pini selvatici, e pergolati, e viali, e cento altre benedizioni; un guaio solo: non mio. Ma la vista è anche mia, sebbene un gran pergolato me ne rubi gran parte; non foss'altro, per la mia ginnastica è quel che mi ci vuole.
Ho spiato invano per vedere a chi appartenga questo giardino; non ci ho mai visto dentro alcuno; ho però sentito una volta dei passi sotto il pergolato, ma il fitto del fogliame mi ha tolto di vedere chi fosse. Ad ogni modo ho la certezza che questo Eden è abitato. Fosse almeno una divinità femminina! In fondo al giardino si vede la facciata di una bella casa di campagna, dipinta a foggia di castello; ma non ho mai visto i castellani.
Non ti faccia meraviglia se io mi fermo su queste inezie; e di' pure che io sono curioso, che non me l'avrò a male. Quando si è soli par di me, la scoperta di un vicino ha cento volte più importanza che non abbia per voi altri abitatori di città la scoperta di un monumento.
Aggiungi una certa tinta di misterioso, e vedrai che ce n'è più del bisogno per incuriosire un povero campagnuolo solitario come io mi sono.
Se tu fossi meco! Ma è inutile ripeterlo; tu non vorrai già deciderti ad una nuova peregrinazione per accompagnarti colla mia insulsa giocondità, come già facesti colla mia ridicola tetraggine.
Tuttavia si hanno in questa calma che mi circonda tali tranquille contemplazioni, e spettacoli di tramonti così infuocati, e certi piccoli formaggi così piccanti, che, a pensarci seriamente, un artista coscienzioso saprebbe rinvenire cento ragioni pro, e non una contro, per mettersi in viaggio un'altra volta».
XXIII. Silvio ad Eugenio.
«Una donna! Una donna! L'ho vista finalmente questa deità ritrosa che si nasconde in quest'angolo di terreno. È bella? È giovine? Senza dubbio; 22 anni, un corpicino snello, un volto bianco ed affilato, occhi grandi e cerulei, e una selva di capelli biondi. Ecco il ritratto ideale che io mi sono fatto di questa misteriosa creatura; e metterei pegno che le somiglia. In realtà però io non potrei giurare che dell'abito, il quale era nero; e ciò in causa di questo benedettissimo pergolato che frappone una barriera inesorabile innanzi ai miei occhi.
Avevo udito più volte dei passi sotto le mie finestre; ma non avevo visto alcuno ad attraversare quel tratto di giardino che tocca la casa (il solo su cui io possa guardare); pensai adunque che vi fosse qualche viale che comunicasse col mio pergolato.
Avevo tuttavia sperato che, tenendomi alla finestra, sarei riuscito a scoprire quello strano abitatore. Se non che pare che ove finisce il pergolato, incominci subito un viale fittissimo di pini, il quale attraversa il giardino e rimena alla casa. Guardando quel viale m'accorsi che al settimo pino, di quelli che io posso vedere, v'è un'interruzione, suppongo lo spazio di due pini mancanti. Pensa se vi ho tenuto sopra gli occhi nella speranza che qualcuno passasse per quel viale. Ma tutto ciò inutilmente.
Ieri finalmente è passato; non fu che un batter d'occhio; una visione non si dilegua più rapida; ma tuttavia basta perchè io ti possa dire che è una donna.
Di' tu la mia felicità. Una donna in questi luoghi, una compagna nella mia solitudine. Non è più solitudine, dirai. Vero, ma è di meglio; la corrispondenza tacita di due anime solitarie val più che la solitudine; ne ha i conforti e i vantaggi, non ne ha le ore di noia e i segreti e spietati rancori che ci fanno odiosi a noi stessi.
Che se l'anima solitaria che s'incontra nella tua è femmina, vi si aggiunge un avvicinamento elettivo, un'attrazione simpatica; la debolezza che si appoggia alla forza; la forza che si compiace di proteggere.
Meglio ancora; la mia incognita è giovine e bella.
Non canzonarmi se mi abbandono a queste illusioni; sono nato artista e vagheggio l'idillio per istinto; e intreccio il romanzo per abitudine.
La fantasia non può popolare meglio le ore oziose dell'arte. Lascia adunque che io sogni; giacchè cotali fantasmi sono i più ridenti della vita, e verrà giorno che ricorderemo d'aver vissuto e d'aver sognato, e pentiti delle realtà della vita, non sapremo benedire che i sogni».
XXIV. Silvio ad Eugenio.
«Tu mi rampogni perchè non so decidermi a lasciare Gossau e a ritornare costì, e per farmi arrendere mi dici che Carlotta non è più a Milano. E con ciò tu hai torto doppiamente; anzi tutto volendo che io cambii la serenità di questi luoghi, colla mefitica atmosfera delle vostre sale; e in secondo luogo credendo che io non saprei trovarmi innanzi a Carlotta senza imbecillire a un tratto e cadere nelle mie vecchie follie. Finchè io stesso lo temeva, te l'ho confessato; ma ora ti giuro che mi sentirei assai più forte; non voglio dire indifferente, perchè tu non la creda una millanteria inutile.
Del resto io sarei teco dalla metà d'ottobre, se la mia vicina non avesse tenuto così vivamente eccitata la mia curiosità. Lo crederesti che io non so ancora come si chiami, che cosa faccia, se sia bella e se abbia proprio 22 anni come la fantasia si ostina ad affermare? Lo scoprire tutte queste cose è diventato per me una occupazione seria; mezze le mie giornate le passo alle finestre che guardano nel suo giardino; le altre mezze a pensare alla mia incognita. Se mi partissi di qui senza avere la chiave di questo piccolo mistero, credo che non me ne conforterei più nella vita.
Ti parrà strano che io debba incontrare tante difficoltà in una cosa di così lieve importanza; ma pensa che la mia incognita non esce mai di casa, così suppongo, che i vetri delle sue finestre sono coperti da cortine a maglia, sempre troppo fitte per la distanza che le separa dalle mie; rammenta il pergolato benedettissimo che mi sta di sotto, e poi il viale di pini selvatici, e vedrai che tutte le mie risorse si confinano in quell'intervallo fra il settimo e l'ottavo pino.
Tuttavia sono già andato innanzi nelle mie ricerche; anzitutto ho pensato di fare il giro del muro di cinta del giardino per riuscire in faccia all'abitazione. Speravo di incontrare una porta aperta; ma fui deluso anche in ciò; l'uscio d'ingresso, che sta in cima ad una gradinata di pochi scalini, era chiuso; le finestre coperte come quelle che guardano sul giardino; così una volta, così sempre. Ieri soltanto mi avvenne di vedere allo svolto della via un uomo che saliva quella gradinata; affrettai il passo, ma, sia che quell'uomo mi avesse visto, o che avesse davvero molta premura, aprì frettoloso l'uscio e sparì richiudendolo dietro di sè, senza che avessi tempo di vederlo nel viso.
Stamattina mi sono levato più presto del solito e sono subito corso alle finestre. Ho visto ancora quell'uomo, mi volgeva ancora le spalle, ma tanto lo riconobbi egualmente. Egli non mi vide. Ma essa, essa!... perchè si nasconde? Io m'affanno a rappresentarmene col pensiero l'immagine; e la vedo ancora quale la vidi la prima volta. Se osassi dirlo, ti confesserei che mi sento disposto ad amarla; vedi se io sono ancora malato del mio vecchio male, come tu temi! Amarla! e perchè no? s'ella ha 22 anni, ed è bella, perchè non l'amerei io? Se la sorte ha confinato due persone di sesso diverso nei dirupi della Svizzera, e le ha collocate l'una rimpetto all'altra, non si può ribellarsi alla sorte. La natura ha fatto il resto in anticipazione, accendendo nel cuore di quelle creature ravvicinate fortuitamente le fiamme del desiderio e dell'amore.
Anzi, poi che mi pare che questo sillogismo mi riconforti, prometto d'amare questa incognita a qualunque costo, di amarla tranquillamente, allegramente, di accostarmi all'amore come un gastronomo si accosta alla mensa, o un freddoloso al focolare. Il cuore della donna è per lo appunto, come tu vuoi meglio, una tavola da pasti o un focolare: ci si sta un po' stipati, ma in molti. Sarà una passioncella meditata, ma sarà puro una passione; e forse sarò più fortunato che non lo sia stato con colei, e mi compenserò del passato.
E se non fosse giovine e bella? Non posso crederlo. La statura forse più alla di quella di Carlotta, il corpicino sottile, forse più sottile di quello di Carlotta, il passo lento ma franco, sono indizio di gioventù e di grazia. Sarebbe strano che la bellezza non vi si accompagnasse; infine gioventù e grazia unite sono già per sè stesse una bellezza; però se anche il naso di questa donna disarmonizzasse, o i suoi occhi sporgessero un po' troppo sulla fronte, prometto di starmene pago al resto, e di amarla ugualmente............»
XXV.
Il giorno 31 ottobre fu una giornata assai melanconica. Silvio si era messo, secondo il solito, alle finestre del giardino, e pensava all'incognita, portando a riprese lo sguardo sulla casa in cui essa abitava e sul viale dei pini nel quale l'aveva veduta. Egli pensava che quella donna e lui occupavano nello spazio due punti che una linea retta assai breve avrebbe potuto congiungere, e che tuttavia vivevano ignorati e lontani come se l'un dei due si trovasse al capo di Buona Speranza.
Intanto il vento autunnale sussurrava fra le fronde intatte dei pini, e sfogliava lentamente alcuni vecchi olmi che fiancheggiavano il pergolato. Quella solitudine, quella quiete, fecero brulicare nella sua testa una folla di idee assopite; ripensò a Milano, ad Eugenio, alle sue antiche abitudini d'artista, alla inerzia in cui vivea, a Carlotta; rammentò per associazione d'idee il platano secolare che sorgeva nel mezzo del giardino della sua abitazione in Milano, e gli parve che quel platano valesse meglio di quei pini... Intanto il vento sussurrava senza tregua; e pareva rianimarsi, e invadendo la camera, involava da un tavolo di disegno una dozzina di abozzi, e li sparpagliava sul pavimento e sui mobili.
Tuttavia Silvio non si mosse, e stando alla finestra e lenendo gli occhi socchiusi per difenderli dal polverio, riceveva sulla faccia quei freschi buffi di vento che accarezzavano scompigliandoli pazzamente i suoi capelli.
Guardò sotto di sè, e vide il pergolato ingiallito e i lunghi sarmenti agitati dal vento spogliarsi anch'essi delle loro foglie disseccate. Una speranza sorriso nel cuore di Silvio; fra pochi giorni quei pergolato sarebbe stato interamente nudo, i vecchi olmi del pari; nulla più si sarebbe frapposto a' suoi sguardi, il suo orizzonte si sarebbe allargato come per incanto, ed avrebbe visto la bella incognita. Da quel punto il sussurro del vento gli suonò dolce come una promessa.
Rianimato da questo pensiero, Silvio dimenticò ben presto il platano secolare e le altre fantasie milanesi. Una nuova idea occupò allora il suo cervello; un progetto audace ruminato da molto tempo e che non aspettava che l'occasione per tradursi in pratica.
Silvio non indugiò più oltre; prese un foglio di carta profumata, rimboccò le maniche come dovesse accingersi a una grande opera, e scrisse furiosamente una lettera così concepita:
« Signora,
«Un uomo che vi ama, vi prega a non chiudere inesorabilmente le vostre finestre. È inutile che vi nascondiate; il suo pensiero vi segue dappertutto, e vi domanda dappertutto ciò che voi forse non vorrete consentirgli giammai: un po' del vostro amore».
Scritta la lettera conveniva pensare a mandarla; e, per quanto la fantasia di Silvio vi si adoperasse, non venne a capo di nulla. Quella casa era inaccessibile, e quand'anche egli si fosse presentato alla porta e avesse affidato al primo venuto il suo foglio da consegnarsi alla signora, chi gli assicurava che non sarebbe invece pervenuto nelle mani di quell'uomo? E chi era quell'uomo? Assai probabilmente un marito geloso. E se il marito stesso fosse venuto ad aprirgli?... Quel primo progetto audace era impossibile, e fu respinto.
Non conosceva alcuno che avesse accesso in quella casa; non sapeva il nome di lei per informarsene nel paese, o per dirigerle la lettera per posta; oltre a che tutti questi mezzi erano imprudenti e pericolosi.
L'ultimo partito era dunque quello di aspettare; forse la Dea degli Amori gli avrebbe offerto un'occasione; quella donna si sarebbe trovata sola in giardino, egli l'avrebbe sorpresa, e fatta una pallottola dei suoi sentimenti, l'avrebbe gettata ai piedi della bella ritrosa.
I primi giorni di novembre furono giorni d'osservazione; il pergolato continuava a sfogliarsi, gli olmi levavano già al cielo le loro braccia nude; il vento fischiava sempre fra le fronde dei pini.
Silvio vedeva realizzarsi in parte i suoi progetti; guardando sotto di sè, poteva scorgere lo scheletro del pergolato e seguirlo coll'occhio finchè si congiungeva col viale dei pini; il settimo pino era divenuto prima l'ottavo, e più tardi il duodecimo. Il pergolato a poche braccia dalle sue finestre, formava un padiglione; sotto di esso era un enorme tavolo di pietra, e alcuni sedili pure di sasso, fatti a foggia di satiri accosciati che tenevano sul capo un disco. Era chiaro che in quel luogo l'incognita s'era riposata più volte.
Tutte queste nuove scoperte furono ben presto esaurite, e non potevano pagare per gran tempo la curiosità di Silvio. Egli aveva cercato per tutto dove il suo occhio giungeva, ma non avea più visto un solo indizio che accennasse alla sua incognita.
Finalmente un giorno, il 10 novembre — Silvio lo notò nel suo albo come un'epoca memorabile — la sorte gli fu benigna. Dubitando d'essere spiato, e che si cogliesse occasione della sua assenza, egli lasciò assai più presto del solito la mensa dell'Albergo di Costanza, e fece ritorno a casa, dove aveva avuto la prudenza di tener socchiuse le imposte d'una delle finestre che guardavano nel giardino.
Si fece alla finestra, colla sua pallottola stretta in una mano. Il cuore gli batteva in modo strano; raramente il cuore s'inganna nei suoi pronostici. Quella donna era seduta nel padiglione del pergolato; occupava uno di quei sedili di sasso a foggia di satiro, e un uomo le era daccanto.
Quei due personaggi non s'accorsero di Silvio, che nascosto dietro le imposte spiava con occhi avidissimi ogni piccolo movimento di quella donna. Era bella? Era giovine? In verità egli non potè saperne più delle altre volte; vestiva a nero; ecco tutto. E quell'uomo? Vestiva a nero anch'esso. Le teste d'entrambi erano piegate verso il suolo ed appoggiate fra le palme. Quella era senza dubbio l'attitudine del pensiero. A che pensavano?
La donna offriva agli occhi di Silvio una magnifica capigliatura nera, e un breve tratto del profilo (un profilo adorabile); una mano candidissima nascondeva il rimanente.
Silvio attese. Non andò molto che quell'uomo si mosse come per rizzarsi in piedi; Silvio si ritirò prudentemente, temendo d'essere scoperto e immaginando che la sua compagna avrebbe fatto altrettanto. Rimettendo il capo alla finestra, il suo volto era pallido per l'emozione; egli stava per vedere il volto dell'incognita, i suoi 22 anni e l'azzurro delle sue pupille.
Al contrario quella donna era sempre immobile, colla testa sempre china al suolo, colle mani sempre appoggiate al volto. L' altro si allontanava a passi celeri lungo il pergolato.
Era una fortuna insperata; Silvio non pensò altro; gli parve che la Provvidenza non avrebbe voluto favorirlo, così avvedutamente un'altra volta, e sporgendosi del corpo sul davanzale, gettò con un movimento rapidissimo l'amorosa pallottola, che per la sua leggierezza descrisse un breve arco e ricadde a due passi dalla bella pensosa.
Silvio fu ancora più ratto a ritirarsi indietro; quella donna, non vedendo alcuno, avrebbe esposto più lungamente e con maggior abbandono il suo volto.
Tutto l'edifizio dei suoi sogni stava per consolidarsi o rovinare in un punto.
Col capo appoggiato contro le gretole delle imposte, cogli occhi intenti ed immobili, col cuore palpitante e commosso, Silvio cercava i 22 anni di quella donna e l'azzurro delle sue pupille....
XXVI.
L'incognita si scosse, levò il capo; guardò la finestra dietro della quale si nascondeva Silvio; guardò la pallottola; titubò un istante, e s'allontanò senza rivolgersi.
Silvio rimase immobile e muto; aveva voluto mostrarsi e gridare per richiamarla, ma la voce erasi spenta nel suo petto. Coll'occhio immobilmente fisso e coll'anima agitata, egli seguiva quella donna, il fantasma redivivo del suo vecchio amore... Carlotta.
XXVII.
Colei era dunque Carlotta!
Il rimanente di quella giornata fu una tempesta pel cuore di Silvio. Questo incontro così inaspettato, o in tali circostanze, era per lui un avvenimento fatale. La mente piena del passato gli suggerì che il destino avesse vincolato inesorabilmente la sua vita alla vita di quella donna; allora non pensò più a sfuggirla. Aveva dimenticato facilmente tutto ciò che stava contro di lei; vedendola, tutto era risuscitato in un punto. Il disprezzo lottò un'altra volta coll'amore, lottò spietatamente, tenacemente; ma a questa lotta disperata aveva preso parte un nuovo sentimento. Egli aveva visto quella donna vestita a bruno, solitaria, dolente, straziata forse da segreto rimorso; la compassione potè più che l'amore, egli si senti ravvicinato dal dolore a Carlotta.
Silvio ripensò ogni minuto particolare di quell'incontro; riflettè sulle strane abitudini d'isolamento di Carlotta, per poterne trarre uno spiraglio di luce. Che cosa era adunque avvenuto in quel frattempo? Evidentemente l'uomo ch'egli aveva visto con Carlotta era il marito, il signor Verni. E come mai non l'aveva riconosciuto? E perchè s'era egli indotto a vivere così lontano dal mondo, ed a nascondere la moglie? Aveva dunque scoperto ogni cosa? E per tal modo era questa una punizione? E Carlotta una colpevole?
In questo labirinto di domande, che egli muoveva a sè medesimo senza potervi rispondere, aveva smarrito la memoria di tutti i suoi progetti anteriori. La donna che egli aveva spiato con tanta cura pel corso di alcuni mesi, la donna per la quale aveva tessuto tutta una tela di seduzione, e colla quale aveva sognato un idillio, era Carlotta; non avrebbe potuto essere altri; tutto adunque si perdeva in Carlotta. Il suo soggiorno in Isvizzera e i cento castelli della solitudine erano troppo misera cosa al confronto del passato che riviveva in quella donna, perchè egli potesse ancora averne la mente occupata.
Non dimenticò però che egli aveva gettato una lettera nel giardino; che quella lettera fatta per una sconosciuta avrebbe potuto offendere Carlotta; che avrebbe potuto pervenire in mani del signor Verni ch'era pure stato suo amico; infine che egli aveva fatto voto di non macchiare di colpa l'onore di quella donna, di non portare il suo amore come un ostacolo all'affetto di due sposi che si amavano.
Carlotta aveva potuto essere colpevole; non perciò egli era autorizzato a farla colpevole un'altra volta. Bisognava rinunziare; resistere ancora, poi che aveva resistito fino a quel punto.
Egli aveva dei doveri, e non li avrebbe dimenticati; un istante di oblio avrebbe aggiunto un'altra spina alla corona di rimorsi che faceva sanguinare il cuore di quella creatura adorata.
Ad ogni modo non l'avrebbe sfuggita; ciò era superiore alle sue forze; era forse contrario allo stesso destino che lo aveva riaccostato in un modo così strano a quella donna.
Silvio si prese il capo fra le mani. Un'idea fissa lo torturava senza frutto. Venne ancora alla finestra, e guardò all'intorno. Il giardino era deserto; le finestre della casa chiuse nel modo consueto; quella fatale pallottola di carta era ancora là, dove prima era caduta. S'egli avesse potuto ritrarnela! per istinto misurò d'uno sguardo l'altezza che separava il giardino dalla finestra, all'incirca venticinque piedi; il pergolato avrebbe potuto aiutarlo nella discesa; ma tanto era una prova assai pericolosa. E poi avrebbe abbisognato attendere la notte; e l'oscurità rendeva più grave il pericolo.
E tuttavia dover lasciare quel foglio nel giardino!... Ella forse avrebbe aspettato la notte per raccoglierlo, e la leggierezza di quelle parole l'avrebbe offesa. È ben vero che quella lettera non era diretta a lei; ma come dirglielo? Oltre a ciò, lo stesso signor Verni avrebbe potuto averne notizia....
Silvio guardò al cielo, meno per chiederne consiglio, che per vedere se promettesse soccorso. Chi sa? Un acquazzone avrebbe potuto lacerare quel malaugurato foglio e seppellirlo fra le zolle.
Ma il cielo era purissimo, e il sole tramontava lentamente dietro i colli.
Allora Silvio si rifece a misurare la strada che avrebbe dovuto percorrere per scendere in giardino. Egli avrebbe posto i piedi sopra un'asta di legno del pergolato, tenendosi al parapetto della finestra. Quindi, appoggiandosi alla muraglia, avrebbe guadagnato un palo che pareva più vigoroso degli altri, e si sarebbe lasciato scorrere lungh'esso fino al fondo. La risalita non doveva essere più difficile. Rifacendo i calcoli gli parve ora un'impresa semplicissima.
Con questo proposito aspettò la notte. Una mezz'ora dopo il tramonto, Silvio si accostò alla finestra, parendogli d'udire rumore nel giardino. Sperava e temeva che Carlotta lo avesse prevenuto; ma il giardino era deserto. Conveniva affrettare; alcuni istanti dopo non sarebbe forse stato più in tempo. Scavalcò il davanzale della finestra con una trepidanza indicibile; egli poteva essere visto, poteva incontrarsi con Carlotta, e quel che era peggio col marito. Pose i piedi sull'asse del pergolato e, prima di abbandonarvisi, ne provò con una scossa del corpo la resistenza. L'asse piegò sotto il peso, ma non si ruppe. Tuttavia fu col cuore serrato dal raccapriccio che egli si decise a distaccare le mani dalla pietra del davanzale. Senza volerlo, i suoi occhi guardarono sotto di sè, quel pergolato contava almeno 18 piedi d'altezza. Era un'inezia per chi aveva salito il San Gottardo, e Silvio sorrise della sua debolezza. Col corpo inclinato verso il muro si trascinò lentamente lungo quell'asse, e giunse al palo che aveva adocchiato. S'egli riuscva ad attaccarvisi colle mani, era tutto fatto; lo stesso palo l'avrebbe accompagnato fino a terra. Ma per afferrare quel palo gli toccava reggersi in equilibrio per un istante, senza alcun appoggio delle mani, e ripiegare il corpo lentamente, senza uscire da quel bilico difficilissimo. Silvio eseguì questa ginnastica con qualche disinvoltura, e in breve pose piede nel giardino. In quell'istante un'ombra nera passò nel viale dei pini. Era illusione cagionata dal turbamento di Silvio, od era realtà? Silvio non ebbe altro pensiero che di nascondersi; se il signor Verni l'avesse sorpreso in quel luogo, egli ne sarebbe morto di vergogna. Si rannicchiò in mezzo ad alcune piante di mirto, ed attese.
Quando gli parve d'essere al sicuro, uscì dal suo nascondiglio, e si rivolse verso il padiglione per rintracciare la lettera. Riconobbe il luogo ove era caduta, ma non vide più la malaugurata pallottola. Pensando d'essersi ingannato, guardò alla sua finestra, rifece coll'occhio l'arco descritto dalla pallottola, e conobbe di non essere in errore. Tuttavia cercò minutamente fin presso al padiglione. Non vi era dubbio; qualcheduno avea preso quel foglio; e chi mai se non Carlotta? Questo pensiero gli empiè il cuore di gioia; ma fu un istante. Che avrebbe pensato Carlotta della arditezza del suo linguaggio?
Senza accorgersene, s'era introdotto nel padiglione, e s'era seduto sullo stesso sedile su cui aveva visto Carlotta. Da quel luogo egli vedeva le finestre della casa illuminate, e gli pareva di vedere delle ombre passare dinanzi ai vetri. Colà era Carlotta. Dolce ed affannoso pensiero!
Passò un'ora. Silvio non s'era ancora mosso per risalire; le sue fantasie lo tenevano in quel luogo con una forza invincibile. Il pensiero, intento alle memorie che si succedevano a quadri svariati, aveva vinto ogni altro sentimento. Silvio non temeva più nulla: dimenticava in certo modo di vivere, rammentando di aver vissuto.
Passò ancora un'ora, poi un'altra; le finestre del piano superiore della casa s'erano oscurate; una luce brillava nel piano inferiore; quella luce si muoveva bizzarramente. Poi anch'essa si arrestò per pochi minuti, e si spense.
Silvio si sentì più libero. L'oscurità gli diede sicurezza; non pensò più a risalire nelle sue camere, e si abbandonò del tutto alle sue meditazioni.
Le notti incominciavano ad essere fredde; ben tosto l'immobilità gli intorpidì le membra. Si alzò risoluto, e guardò alla sua finestra come per misurare la fatica della risalita. Un istinto più forte della sua volontà lo trattenne; senza accorgersene, oltrepassò il padiglione e giunse al viale dei pini. Colà ella era passata più volte. Volle inoltrarsi, ma lo arrestò un ultimo senso di titubanza. Se qualcuno lo avesse sorpreso! Teso l'orecchio ad ascoltare; non si udiva che un fremito leggiero di vento, e un indefinito mormorio — il linguaggio della solitudine e della notte.
Fatto più ardito, Silvio percorse il viale a passi lenti, e giunse in faccia alla casa. La curiosità lo trasse più vicino; si accostò alle finestre del piano terreno, ma erano tutte chiuse. Una sola di esse avea le imposte socchiuse per modo che tra l'una e l'altra rimaneva una fenditura non più larga di due pollici. Silvio si rizzò sulle punte dei piedi e riuscì a guardar dentro. Egli vide un'ampia sala, dei grandi quadri antichi, ed un lumicino dal lucignolo carbonizzato che agonizzava in un angolo. Chi aveva posto quel lumicino in quel luogo? Ed a qual uso? Silvio guardò intorno alla camera, ma non vide alcuno.
Mezz'ora dopo ripassò innanzi a quella finestra, guardò ancora dentro; ma non vide più nulla. Il lumicino probabilmente s'era spento; ma se qualcuno lo avesse invece ritirato? In quel punto parve a Silvio d'udire un cigolio sommesso, come d'una porta che stridesse girando lentamente sui cardini.
Si arrestò. Poco dopo udì quello stesso rumore; questa volta non poteva essersi ingannato. L'istinto, più che la riflessione, gli consigliò la fuga; però, fatto ancora più agile dal timore d'essere scoperto, in breve ebbe raggiunto il padiglione. Senza neppur volgersi indietro, spiccò un salto ed afferrò lo stesso palo per cui era disceso: vi si attaccò colle mani e coi piedi, e ne raggiunse la cima rapidamente. Allora, tenendosi avviticchiato colle gambe, rovesciò il corpo all'indietro; ed afferrò d'una mano un'asta traversale che riuniva il palo alla muraglia. La notte non permettendogli d'usare lo stesso sistema adoperato nel discendere, egli pensò di portarsi fin sotto la sua finestra, appigliandosi successivamente alle aste traversali, e lasciando spenzolare il suo corpo nel vuoto. Il mezzo non richiedeva come l'altro la sicurezza dell'occhio e la fermezza dell'equilibrio, ma riposava tutto sulla credula solidità delle aste. Ad ogni sbalzo che Silvio faceva per passare da un'asta all'altra, egli sentiva tutto il pergolato scricchiolare; allora si aspettava di cadere, e misurava in cuor suo la lunghezza della distanza che il suo corpo avrebbe dovuto percorrere per arrivare fino a terra. Ahi! sempre troppo lunga distanza per tal sorta di viaggi...
Un raggio di luna rischiarò in quel punto il suo sentiero. Silvio ne approfittò per guardare dietro di sè ed assicurarsi di non essere stato veduto. Strana cosa; ancora una volta gli parve di vedere un'ombra nera che si dileguava, ma questa volta assai più vicina. Silvio non guardò altro; con uno slancio vigoroso riuscì a sedersi sull'asta da cui egli pendeva. Il più difficile era fatto. Non rimanevagli più che sollevarsi in piedi su quell'asta medesima, per poter afferrare la pietra del davanzale della sua finestra. Appoggiandosi con una mano al muro e tenendosi coll'altra all'asta, provò a rizzarsi. Vi riuscì a grande stento; fu un miracolo d'equilibrio. Mosse un passo con precauzione e tentò d'attaccarsi colle mani al davanzale della finestra. In quel punto uno scroscio, un terribile scroscio annunziò che l'asta su cui Silvio si reggeva incominciava a spezzarsi. Un grido rispose a breve distanza a quel rumore. Silvio tra il timore e la meraviglia rimase un istante perplesso. Intanto un altro scroscio e un altro grido. Silvio spinse il corpo innanzi, e tentò con uno slancio d'afferrarsi alla finestra; le sue dita toccarono la pietra; e si irrigidirono contraendosi nella stretta. Il suo corpo penzolò un momento nel vuoto, e cadde...
XXVIII.
Il mattino Silvio aprì gli occhi, e li girò intorno stupefatto. Non vide più la sua camera solita, e, in quei primi istanti di veglia che succedono al sonno, non seppe darsene ragione. Una sensazione viva di dolore al capo fu la prima cosa che ridestasse la sua memoria annebbiata. Ricordò la notte passata nel giardino, ricordò la salita del pergolato, quell'ombra che lo aveva seguito, poi il grido, e la caduta... E poi? più nulla; a questo punto le sue idee si confondevano coi fantasmi dei sogni. Quali sogni? Egli ne aveva fatto di così belli! ma anch'essi gli sfuggivano come agili farfalle.
Che cos'era dunque avvenuto di lui dopo la caduta? E come si trovava in quel letto? E a chi doveva egli l'ospitalità di quella notte? È assai naturale che Silvio cercasse di rispondere prima di tutto a quest'ultima domanda. Ora s'egli era caduto dal pergolato del giardino, evidentemente non aveva potuto cadere altrove che nel giardino. Il giardino era di Carlotta; dunque... la logica non eragli parsa mai così bella.
Dunque era stato raccolto per cura di Carlotta. Dunque egli si trovava in casa di Carlotta.
Intanto la luce penetrava a striscie traverso le imposte socchiuse.
Silvio era così felice che non s'affannò punto del suo stato. E tuttavia, quando volle provare a voltarsi sopra un fianco, si accorse che la sua spalla era malconcia; e abbandonandosi con troppa compiacenza al pensiero, sentì delle fitte dolorosissime al capo che lo consigliarono ad accarezzare le idee dell'amore con maggior parsimonia.
Ad ogni modo gli parve di poter concludere che nella caduta s'era slogato una spalla, e che aveva dato del capo su qualche cosa di duro che doveva avergli cagionato, insieme alla ferita, un deliquio od uno stordimento.
Poco stante si addormentò ancora cullandosi soavemente nel pensiero di Carlotta.
Ridestandosi, guardò un'altra volta intorno a sè; la camera era vuota.
La prima immagine che oscurò il lucido orizzonte che brillava innanzi al pensiero febbrile di Silvio, fu quella del signor Verni. Senza dubbio egli era a parte di questo avvenimento; senza dubbio egli aveva aiutato a prodigargli le prime cure; forse egli stesso, egli solo, aveva ordinato di raccoglierlo e gli aveva assegnato quella camera. E che aveva egli pensato di lui? La pietà era stata possibile in quell'anima buona; ma forse la stima non lo sarebbe più.
E come avrebbe egli osato levar gli occhi in faccia a quell'uomo? e con qual animo l'avrebbe ringraziato delle sue attenzioni? Per la prima volta sentì il peso di quell'ospitalità che poc'anzi lo aveva reso giubilante, e pensò con desiderio al letticciuolo solitario della sua camera da scapolo.
Quale sarebbe stata la prima parola di quell'uomo? Questo pensiero importuno, torturò la sua ragione vacillante.
Un'ora dopo udì dei passi che si accostavano all'uscio. In quel momento avrebbe voluto essere assai lontano. Non potendo colla sola forza della volontà soddisfare a questo voto, chiuse gli occhi e finse di dormire.
Udì la maniglia della porta girare lentamente, poi alcuni passi leggieri, e un bisbiglio sommesso di due voci maschili.
— Dorme; diceva l'uno dei due.
— Ha sempre dormito; rispondeva l'altro.
— Buon segno.
Il resto del dialogo non giunse alle orecchia di Silvio.
— Se ne vanno, pensò egli udendo ancor dei passi; ma questa volta s'ingannava; quei passi s'arrestarono al suo capezzale, e un alito lieve sfiorò la sua faccia. Il volto d'un uomo era lì, presso al suo. S'egli avesse potuto socchiudere un poco gli occhi e guardare senza tradire la sua finzione! Non n'ebbe l'ardire.
Un istante dopo quell'uomo s'allontanò dal letto.
— Se ne vanno, disse Silvio un'altra volta; e raddoppiò l'attenzione per assicurarsene. Non udì più nulla. La sua posizione diveniva imbarazzata; evidentemente quegli uomini attendevano che egli si svegliasse; era dunque inutile il suo strattagemma. Pure trovarsi faccia a faccia col signor Verni!... Si provò a socchiudere gli occhi e spingere uno sguardo innanzi a sè; un uomo era seduto in faccia a lui a pochi passi.
Vestiva un soprabito, ed aveva il cappello in una mano, e un paio di guanti nell'altra. Senza alcun dubbio egli non era di casa; assai probabilmente era un medico. Ad ogni modo non era il signor Verni; e per Silvio bastava questo.
Cercò coll'occhio l'altro uomo, e non potè vederlo. Pure egli era certo d'aver udito a parlare, e che nissuno era uscito dalla camera. Un istante di silenzio più profondo gli fe' udire distintamente il lieve e monotono rumore di due respirazioni. A questa indagine Silvio concluse che quell' altro s'era tenuto presso all'uscio; ora egli non avrebbe potuto guardare verso l'uscio senza voltarsi.
Vedendo inutile ogni scappatoia, Silvio si decise a svegliarsi; uno sbadiglio, un gemito leggiero strappato molto probabilmente dalla sensazione delle sue contusioni, poi una stiratura breve delle braccia, interrotta a mezzo da un altro gemito più verisimile del primo, poi finalmente la luce. Un uomo che ha dormito e che si sveglia batte le palpebre vedendo la luce, e si caccia i pugni negli occhi per stropicciarli; Silvio fece altrettanto.
Quel personaggio che stava seduto innanzi a lui si levò tacitamente e si appressò al letto; e siccome Silvio accennava di volersi sorprendere, e di manifestare la sua sorpresa con parole, quell'uomo pose l'indice attraverso le labbra consigliando il silenzio con atto di dolcezza, ma di una dolcezza contratta per abitudine.
Silvio non domandava di meglio, e tacque. Non aveva ancora avuto tempo di voltare il capo e di guardare quell'altro; ma siccome quell'altro non poteva essere che il signor Verni, così egli prese il partito di guardare il medico nel bianco degli occhi.
Il medico si accostò a Silvio, e gli levò la benda che gli legava il capo; i capelli s'erano attaccati alla tela, però quell'atto gli cagionò una sensazione poco gradevole. Silvio s'accorse che la ferita ricevuta al capo aveva fatto sangue, ma dall'espressione del volto del medico argomentò che doveva essere cosa di poco rilievo.
Il medico accennò col capo a quell'altro; e quell'altro si mosse per venirgli in aiuto.
— Non v'è più scampo, disse Silvio, e sbarrò tanto d'occhi in faccia al nuovo venuto.
Non era il signor Verni.
Tuttavia quel volto non gli era nuovo; in quel momento però non volle saperne di più.
I due uomini lo sollevarono alquanto e lo appoggiarono sui cuscini; il medico scoprì la spalla, e tastò colle dita l'osso. Anche questa volta il viso del medico indicò quella specie di disdegno col quale i sacerdoti di Ipocrate riconoscono che il caso con cui hanno a fare è di minima importanza. Il disdegno dei medici è sempre lusinghiero per gli ammalati, e Silvio ne fu lietissimo. La spalla non era slogata, come egli aveva temuto.
Silvio fece ancora atto di parlare; questa volta il medico, rassicurato sulla creduta gravità del male, non lo interruppe per consigliare il silenzio, ma per prevenirlo colle sue interrogazioni.
— Avete dormito sempre?
— Tutta notte.
— Volete dire tutto il mattino.
— Sarà come voi dite.
— Aveste delirio e sogni agitati?
Silvio, che incominciava a temere che la sua malattia dovesse permettergli troppo presto di abbandonare quella casa, volle essere del parere del medico, e rispose che aveva avuto delirio e sogni agitati.
— Non vi destaste qualche volta di soprasalto?
— Credo di sì.
Il medico visibilmente lusingato della sua infallibilità, sorrise a fior di labbro, e atteggiandosi come un senatore romano, domandò il polso.
— Cento pulsazioni al minuto, disse fra sè.
Silvio lo interrogava collo sguardo.
— Avrete la febbre, sentenziò l'Esculapio.
— Buono, pensò Silvio. E sarò guarito? aggiunse forte.
— Presto, mi lusingo. Conservatevi immobile più che vi è possibile; l'immobilità accelererà la guarigione.
— Ponete che io sia una pietra.
Quando la fasciatura della spalla fu compiuta, il medico se ne andò, e Silvio rimase solo. Poco dopo ritornò quell'uomo che aveva accompagnato il medico. Silvio vide una faccia serena, e prese confidenza.
— Signore, disse dolcemente.
Quell'uomo si appressò premuroso.
— Mi chiamo Giovanni.
— Volete dire?... balbettò Silvio imbarazzato.
— Sono un antico servitore della casa.
— Antico, voi dite? Vedendovi non lo si crederebbe.
— Ho sessant'anni.
— È un'età ragionevole.
— Ragionevolissima.
— E da quanto tempo servite il signor Verni?
Giovanni guardò Silvio in faccia con lieve atto di stupore.
— Da quindici anni.
— E come passa egli i suoi giorni il signor Verni?
Lo stupore di Giovanni questa volta fu assai più visibile.
— Avete la febbre? domandò premuroso.
— Cento pulsazioni al minuto; lo ha detto il medico.
— Se fossero di più?
— Può essere; da che lo argomentate?
— Ehi.... diamine; dal vostro volto... più arrossato di poc'anzi.
— Non monta. Vi dicevo adunque... che cosa vi dicevo?
— Il delirio incomincia; pensò Giovanni.
— Ah! Vi domandavo del signor Verni. Che sorta di vita è la sua?
— Di vita, avete detto? Un assai cattivo genere di vita, in fede mia, se così volete chiamarlo.
— Non vi comprendo; che cosa dunque è avvenuto all'ottimo signor Verni?
— Lo ignorate?
— Pare di sì.
— È strano; un amico di casa!
Silvio fe' un cenno del capo come per ringraziare di questo titolo onorifico.
— Il mio padrone vi rammentava spesso...
— Il vostro padrone è assai buono, interruppe Silvio, per cui l'amicizia del signor Verni era un rimprovero. Ho viaggiato; è molto tempo che viaggio...
— Quand'è così, poichè lo ignorate, il mio padrone...
— Ebbene?
Giovanni fece un gesto assai espressivo, e portò una mano sugli occhi per nascondere una lagrima.
— Morto! ripetè Silvio tra sè, meno addolorato che sorpreso di questa novella.
Per alcun tempo nissuno dei due fece motto. Silvio levava a quando a quando gli occhi, e incontrava la figura mesta di Giovanni, col capo sempre inchinato sul petto, e gli occhi fissi al suolo.
Questa notizia era così inaspettata, e per essa era stato così improvvisamente mutato tutto l'ordine delle idee e dei progetti di Silvio, che egli non seppe più riannodare il filo dell'interrogatorio incominciato. Giovanni fu il primo ad uscire dalle sue fantasie melanconiche, e ne uscì con un grosso sospiro più eloquente d'un'elegia.
— Avete fame...? domandò a Silvio.
Silvio non aveva ancora avuto tempo a pensarci; ma quando si ha ventisette anni, non si può dimenticare per ventidue ore il proprio pranzo senza qualche inconveniente. La caduta, la febbre, il sonno, l'emozione e l'amore, avevano potuto molto sul ventricolo di Silvio; ma infine egli aveva ventisette anni, e non aveva mangiato da ventidue ore; però, per quanto il dolore della triste novella poteva consentirlo, egli confessò candidamente che aveva appetito.
XXIX.
Nella notte successiva Silvio dormì assai poco.
La sua mente agitata si adoperava invano ad indagare il mistero che circondava la solitudine della donna che egli amava. La morte del marito mutava aspetto a tutte le apparenze della vita di Carlotta. Tutte le indagini fatte fino a quel punto, non erano state che tentativi vuoti; egli era partito dall'errore, e tutte le verisimiglianze che vi aveva connesso, dovevano adunque essere necessariamente false.
Così l'edifizio delle sue supposizioni rovinava a un tratto. L'isolamento di Carlotta non era più una punizione, ma un bisogno d'anima afflitta; non era la solitudine della colpa e del rimorso, ma la solitudine del dolore e del pianto.
Ella aveva amalo suo marito, e suo marito non era più. Il mondo non avrebbe potuto darle ciò che le era stato tolto, ed ella viveva separata dal mondo.
Questo pensiero riconfortò la fede vacillante di Silvio. Carlotta non era forse colpevole. Se essa fosse stata tale, la morte dell'unico uomo che avesse dei diritti sopra di lei l'avrebbe spinta in mezzo alla società, dove avrebbe trovato nei facili piaceri l'oblio del suo passato e di sè medesima.
No, Carlotta non era colpevole. Tutte le apparenze avevano lottato contro la sua fede, e il suo cuore codardo n'era stato vinto; ma ora il suo cuore risorgeva più forte a rinnovare la battaglia, ed usciva vincitore: Carlotta non era colpevole.
Ma quell'uomo che aveva visto con essa in giardino? Chi era egli? Un fugace sospetto gli suggerì il nome del cavalier Salvani; ma rifuggì inorridito da questo pensiero.
Carlotta avrebbe forse potuto profanare con tale infamia la memoria del marito, ma non si sarebbe infinta giammai fino a mascherare di virtù la propria abiezione.
Ora se non era il cavalier Salvani, chi mai era quell'uomo? Egli l'aveva visto non una, ma più volte; la convivenza nella stessa casa era dunque probabilissima. Lo aveva sorpreso al fianco di lei sotto il pergolato, in atteggiamento di gran domestichezza, tanto d'averlo creduto un marito; non era tale, era dunque un amante.
Con questo martello nel cuore, si addormentò più rannuvolato, ma giurando tutta via a sè stesso che Carlotta non era colpevole.
XXX.
Erano passati molti giorni. Silvio era quasi ristabilito; la sua ferita al capo s'era cicatrizzata completamente, e l'osso della spalla aveva ripreso la sua posizione normale.
Tuttavia un mutamento poco favorevole si era prodotto nel suo umore; egli era passato vivamente per tutta la scala dell'entusiasmo, e ne aveva ridisceso i gradini ad uno ad uno; ogni giorno che passava era un sospiro di più nell'anima di Silvio, e un fiore di meno nel giardino.
L'inverno si avvicinava a gran passi, e l'ipocondria del pari — un'inverno assai rigido ed un'ipocondria inguaribile; il termometro della natura, e quello del cuore segnavano la stessa distanza dallo zero.
Dapprincipio Silvio aveva vagheggiato tutte le fila di un'avventura; quella donna che egli aveva tanto amato viveva sotto lo stesso tetto, conosceva l'amor suo, lo sapeva ferito, la pietà se non l'amore l'avrebbe chiamata al suo fianco. Questa sicurezza di cui egli si compiaceva lo aveva reso più sdegnoso, quasi indolente; quelle poche reliquie d'un amor sepellito, avevano spezzato la pietra del loro sepolcro per irrompere violente — la sicurezza le aveva ricacciate nella tomba.
Il signor Verni era morto; Carlotta vedova; il deplorabile scetticismo, di cui Silvio avea corazzato il petto, traeva da quei due fatti due conseguenze che alimentavano le sue speranze e ponevano in pace la sua coscienza. I doveri d'amico e di moglie non si frapponevano più alla loro passione.
Silvio non domandava più un amore, domandava una passione; l'eccesso è bisogno delle anime malate e dei corpi affranti. Egli non reputava più sè stesso capace d'amore; fors'anco non reputava Carlotta degna. E tuttavia il suo cuore aveva lottato disperatamente per salvare quella donna da ogni macchia; tante volte il suo pensiero aveva voluto spingere le indagini audaci nel passato misterioso di colei, altrettante ne era stato respinto come un profanatore.
— Il passato non mi appartiene — disse Silvio a sè stesso — l'oggi è mio.
Malgrado ciò i giorni erano passati uguali, monotoni, senza che nessuna delle parvenze sperate della sua mente avesse preso corpo e vita vera.
Dopo il secondo giorno, la sua sicurezza si mutò in aspettazione che aveva tutti i travagli d'una vaga incertezza; dopo il terzo giorno l'aspettazione divenne desiderio ardente e pauroso. Tutto inutilmente — Carlotta non venne.
Giovanni era quasi sempre al suo capezzale; ma non era uomo da cui si potessero avere facilmente molte parole. Tuttavia egli avea istruito Silvio su molte cose; gli avea detto che Carlotta viveva sola con una cameriera, e che aveva fatto proposito di non abbandonare mai più quell'abitazione. Ad ogni altra domanda aveva risposto di non saper nulla.
Di tal guisa Silvio s'era visto ridotto alle sue fantasie e alla sua solitudine; fu allora che quel sentimento soffocato riarse più terribile nel suo petto, e per la prima volta conobbe d'amare tuttavia d'amore.
Alle vacue lusinghe del suo amor proprio succedette la frenesia del desiderio e l'ardenza dell'affetto; alle stolte compiacenze dell'oggi, la sospirosa evocazione del passato. L'ieri così pallido, così povero, così monotono riappariva alla mente di Silvio luminoso e fantastico, come le veglie d'un fumatore d'oppio.
Egli ripensava a quella sua finestra amica donde aveva tante volte sorpreso le pensose passeggiate della solitaria, al pergolato che aveva visto sfrondarsi sotto i suoi occhi, al sedile di sasso su cui, sotto le forme della solitudine e del mistero, egli aveva rinvenuto l'immagine di Carlotta. Ahimè! egli sarebbe rientrato nelle sue camere, avrebbe riveduto presto, troppo presto, quei luoghi, ma non avrebbe ritrovato più mai il bene che avea perduto. L'agile fantasma del suo amore lo avrebbe forse sfuggito.
E Silvio, che poco prima si riputava fortunato e indolente possessore d'una suprema felicità, rimpiangeva amaramente le chimere d'un tempo.
Sì, anche le chimere avrebbero abbandonato il suo cuore; egli sarebbe rimasto solo, solo colla fatale certezza che Carlotta non avrebbe sentito mai nulla per lui.
Uno spasimo dissimulato si aggiungeva alle sue torture. Quell'uomo, quell'uomo che egli aveva visto nel giardino non era forse un amante?
Ben è vero che Giovanni gli aveva detto che Carlotta viveva sola, ma supponendo anche che Giovanni non mentisse, la presenza di quell'uomo nel giardino non era meno sospetta. Ora chi era quell'uomo?
Silvio aveva cercato più volte di domandarne a Giovanni, ma un sentimento d'orgoglio l'aveva sempre trattenuto. Allora si provò a rammentare l'immagine di quel personaggio; egli non l'aveva veduto mai che alle spalle, e non ne aveva serbata quasi alcuna memoria.
— Vediamo, disse a sè stesso una mattina, quell'uomo non era il cavaliere Salvani; i suoi favoriti rossi e le sue spalle quadrate lo avrebbero tradito. Pareva alto, proseguì analizzando le sue memorie, poco più di me certamente, ma più alto di me; aveva movenze lente, più da uomo maturo che da giovine...
In quella entrò Giovanni.
Un'idea assai naturale, e che le nebbie della gelosia gli avevano celato fino a quel punto, balenò alla mente di Silvio.
— Se fosse mai!....
Giovanni si accostò al capezzale.
— Sto meglio, gli disse Silvio prevenendo la domanda. Che giorno è oggi?
— Venerdì.
— Quanti ne abbiamo del mese?
— Ventinove.
— Non vi pare che abbia nevicato?
— Sono sicuro di no.
— Credete che nevicherà presto?
— Lo credo. Le montagne sono già tutte coperte.
— Fatemi il favore di assicurarvene.
Giovanni si accostò alla finestra. Silvio guardò attentamente le sue spalle, e non parve soddisfatto del suo esame.
— Il tempo è asciutto, non è vero?
— Asciuttissimo.
— Dovreste farmi un favore.
— Cento.
— Andate a passeggiare in giardino.
— In giardino?
— Il tempo è asciutto; ve ne prego.
Giovanni parve titubare alquanto.
— Ve ne prego, ripetè Silvio.
— Come volete, disse Giovanni; e s'incamminava per uscire.
— Non ancora. Assai probabilmente voi non avete predilezione per l'una parte del giardino piuttosto che l'altra?
— Nessuna.
— Passeggiate lungo il viale dei pini, quand'è così; sarà molto meglio.
— Ci s'intende, disse Giovanni tentennando il capo nell'uscire.
Non appena Giovanni ebbe varcato la soglia, Silvio scese d'un balzo dal letto. Indossò frettoloso alcuni abiti e si accostò barcollando per la debolezza alla finestra che guardava nel giardino. Un uomo ed una donna, che parevano usciti in quel punto dalla casa, si allontanavano a fianco l'un dell'altro lungo un viale.
Quella donna era Carlotta; quell'uomo era lui.
Il cuore di Silvio si allargò per la gioia. Se non che in quel punto un altr'uomo uscì dalla casa, e si diresse alla volta dei due; quest'altro uomo era Giovanni.
Silvio dovette appoggiarsi alle imposte per non cadere; la gelosia lo teneva immobile; quell'eterna domanda, eterno supplizio, gli si parava un'altra volta dinanzi: chi era adunque quell'uomo?
Giovanni raggiunse la sua padrona, e camminò alcuni istanti vicino ad essa parlandole. Di che cosa?
Silvio non potò dubitarne molto lungamente, però che vide il volto di Carlotta voltarsi e guardare alla sfuggita la sua finestra, mentre Giovanni si cacciava per entro ad un sentiero trasversale che metteva capo al viale dei pini.
Giovanni era un servitore assai rispettoso, e Silvio avrebbe potuto averne prova, se lo avesse visto pochi istanti dopo passeggiare nel viale dei pini con uno zelo veramente ammirabile; ma Silvio aveva occhio a ben altro. Colla fronte ardente appoggiata ai vetri della finestra egli seguiva d'uno sguardo pauroso e smarrito i due che vedeva allontanarsi sempre più. Non v'era dubbio; quell'uomo che oggi vedeva al fianco di Carlotta era quello stesso che aveva visto tante volte; lo stesso passo, lo stesso abbandono confidenziale. Ma chi era dunque?
Egli stava per acquistare finalmente questa scienza fatale; fra poco essi sarebbero ritornati sui loro passi ed avrebbero offerto il volto ai suoi sguardi; pochi minuti, un minuto ancora.....
Intanto Giovanni continuava la sua coscienziosa passeggiata lungo il viale dei pini....
— Eccoli! gridò il cuore di Silvio.
Infatti Carlotta e il suo cavaliere s'erano voltati verso la casa. Un piccolo moto di stupore e di dispetto fu il primo indizio della scoperta di Silvio; quell'uomo era il medico. Un altro moto di gioia gli seguì ben tosto, quando ebbe notato due cose che parvero rassicurarlo: il pallore malaticcio di Carlotta, e i lineamenti del volto del medico. Convien sapere che il signor W**, medico e chirurgo di Gossau, aveva due occhietti grigi e un naso camuso, oltre ad alcune ciocche di capelli posticci, coll'aiuto delle quali s'ingegnava di arrivare alla cinquantina dimostrandone appena i quattro quinti.
Evidentemente il W** non era uomo pericoloso, e Silvio poteva dormire i suoi sonni tranquilli.
Silvio incominciò dal rimettersi a letto, ma in quanto a dormire, non pare che sapesse cavarsene colla stessa disinvoltura.
XXXI.
Tutto quel giorno Silvio ebbe la febbre dell'amore. La notte successiva non chiuse occhio.
Vi sono delle anime, generose ma deboli, che ad ogni apparenza di ragione si acquetano, e ad ogni nuova tempesta del cuore si abbandonano lamentevoli o disperate; nature monche, per le quali l'eterno sospiro alla felicità si tramuta in perpetua miseria — persuasi e dubitosi con bizzarra vicenda — talora a un punto solo — infelici sempre.
Silvio partecipava di questa natura; la sua fede seguiva ciecamente le fantastiche movenze del suo spirito irrequieto: accasciamenti subitanei, brevi e gagliarde riscosse, segnavano la sua vita intellettuale.
Così è che nei delirii della sua veglia era diventato un'altra volta entusiasta dell'amor suo; alla neghittosa fiducia era succeduto il fervido battagliare dell'amore che vuole l'amore. Egli non disperava più; amava. Carlotta era un angelo; non le domandava più il suo passato; non dubitava più del presente. Ogni ombra di gelosia era svanita; dinanzi agli occhi, dinanzi al cuore di Silvio una luce sola, una gran luce: l'avvenire. Quest'avvenire era l'amore.
In quella notte Silvio provò tutte le dolcezze e gli affanni d'una cara e melanconica visione; l'immagine di Carlotta gli fu sempre dinanzi agli occhi. L'atteggiamento molle di lei, le tinte pallide e i lineamenti patiti del suo volto, gli facevano fede d'una malattia che la Provvidenza, e non il caso, aveva con misterioso intendimento collegato al proprio stato.
In quella notte Silvio rinvenne le sue audacie d'un tempo.
FINE DEL VOLUME PRIMO.
ERRATA-CORRIGE
Nel Vol. 1.º pag. 8, lin. 15 e pag. 17, lin. 6 leggasi Eugenio invece di Ernesto.
E nel Vol. 2.º pag. 34, lin. 29, e pag. 35, lin. 25 leggasi pure Eugenio invece di Raimondo.