UN SEGRETO
VOLUME SECONDO

UN SEGRETO

ROMANZO

DI

SALVATORE FARINA

VOLUME SECONDO

MILANO E. TREVES & C. EDITORI 1869

Proprietà Letteraria

Tipografia Letteraria — Via Marino, 3

XXXI. (Seguito.)

Un pensiero, frammezzo alla turba sconvolta nelle sue idee, aveva brillato un istante nella mente di Silvio; e da quel punto era diventato il più importuno di tutti: «scrivere a Carlotta.» E come mai egli non vi avea pensato prima?

«Le scriverò domani» disse a sè stesso, pensando acquetare di tal guisa la sua smania; e a prevenire l'effetto di questo partito così efficace, andò fantasticando gran pezzo intorno al difficilissimo edifizio che si toglieva carico di costruire al domani. A capo di due ore qualche cosa che assomigliava, secondo Silvio, ad un capolavoro epistolare, incominciò a giganteggiare nel suo cervello, come la famosa piramide di Cheope. Da qualunque lato egli guardasse questo tipo, gli pareva perfettissimo, e che una sillaba di più o di meno avrebbe tradito l'intimo senso del suo cuore. Chi sa come il sonno arruffi le matasse delle idee, e come di tal guisa mille capolavori letterarii siano stati soffocati in embrione, troverà ragionevole l'imprudenza di Silvio, che gettate da una parte le lenzuola, e balzato di letto e indossata alla meglio una veste da camera, si accinse a vergare la famosa lettera a Carlotta.

Quella lettera diceva press'a poco così:

« Signora,

«Un uomo che ha avuto la fortuna dì slogarsi una spalla e d'essere raccolto nel vostro tetto, ha qualche cosa più che il semplice dovere di esservi riconoscente. Le disgrazie pagate d'uno sguardo pietoso di colei che si ama ci diventano care come lo stesso amore; io benedico adunque la mia caduta che mi ha fatto ospite vostro.

Non vi spaventate del mio linguaggio; non attribuite a questo mio ardimento alcun disegno oltraggioso verso di voi; se la mia franchezza potesse servire di migliore riparazione al ridicolo, vi direi che appunto la paura del ridicolo mi ha suggerito questa impudenza che forse vi ha offeso.

Voi non mi avete amato mai, ed io non mi sono stancato mai d'amarvi e di domandarvi in silenzio il vostro amore; il mio silenzio era assai più palese della perorazione d'uno sciancato che mendica sul canto della via. Ne siete stata impietosita un istante solo? questo io non so, ma so d'essere stato importuno molto. Abbiate dunque pietà del mio affetto disperato; la rivelazione che io vi faccio mi dà tutto in vostre mani: potrete ridere molto di me, fatelo pure senza riguardi. La riconoscenza ci chiama assai più verso coloro che ci fanno ridere, che verso coloro che si ostinano a volere le nostre lagrime; e voi adunque siatemi alla volta vostra riconoscente; questo sentimento di reciproca generosità sarà un alimento alla sete insaziabile che io ho di partecipare in qualche modo della vostra vita, come partecipo della vostra casa.

Sapete voi perchè io vi scrivo? Vorrei pur dirlo a me stesso, ma è inutile; meglio è tacerne.

Ad ogni modo, poi che non mi è dato di sapere notizie della mia gentile castellana, non troverete biasimevole che io vi rammenti l'antica amicizia che mi lega alla vostra casa, per testimoniarvi con questo pretesto la mia gratitudine e la mia stima. Aggiungerei il mio amore.... ma non so in qual modo vorreste accogliere questa mia dichiarazione. Nella peggiore delle ipotesi, fate conto che io vi scriva durante il delirio della febbre, e perdonatemi; nulla al mondo mi dorrebbe tanto, quanto il vedere le mie intenzioni interpretate sinistramente. Io sarei assai disgraziato se volendo ispirarvi un po'.... di compassione, non riuscissi che a suscitare il vostro sdegno.

Quell'ottimo signor W** che voi avete inviato al mio letto, e che si è occupato religiosamente della mia spalla e della mia ferita al capo, assicura che fra due o tre giorni sarò completamente ristabilito. Quando egli mi ha dato questa notizia consolante, ho pensato che sarei sempre stato in tempo di buttarmi un'altra volta sotto il vostro pergolato. Più tardi ho rinsavito.

Vi prometto che non spezzerò più le aste del vostro pergolato, e non esporrò la vostra pietà ad un rifiuto.»

Silvio volle scrivere di più, ma il freddo era così intenso, ed egli così poco riparato, che una sensazione penosa lo interruppe sul più bello. Volle provare a farsi forza, ma la mano agitata da strani brividi si ribellò a quell'uffizio. Allora abbandonò la sedia e si accostò tremante di freddo al suo letto....

Al mattino successivo ebbe la febbre; questa volta, se si vuol credere al signor W** medico e chirurgo di Gossau, non era più la febbre dell'amore.

XXXII.

Giovanni venne a dire a Silvio che la pozione ordinatagli dal medico era pronta; e siccome Silvio insisteva dello sguardo, soggiunse che «il messaggio era compiuto», ciò che voleva dire che il capolavoro epistolare di Silvio era pervenuto nelle mani di Carlotta. Silvio continuava ad insistere nello stesso linguaggio, ma Giovanni questa volta si strinse nelle spalle e non rispose per la buona ragione che non comprendeva la dimanda.

— Che cosa ha detto? s'arrischiò a balbettare l'ammalato.

Carlotta non aveva detto nulla.

— Che cosa ha fatto? volle soggiungere Silvio, ma venutogliene meno l'ardire, soffocò la frase in un sospiro.

Del resto era naturale che Carlotta non avesse fatto nulla di straordinario, nè il buon Giovanni avrebbe saputo rispondere altrimenti.

Tutto quel giorno febbre, aspettazione, e null'altro.

Siccome Silvio aveva rifiutato il cibo, Giovanni, da infermiere poco pratico, ebbe subito gravi apprensioni e si tenne presso al letto dell'ammalato, silenzioso ed immobile come una statua — una statua uscita da una galleria di uomini illustri del nostro secolo, coll'inevitabile panneggiamento della moda parigina del secolo scorso.

Verso il tramonto parve a Giovanni d'udire un tocco ben noto di campanello; si assicurò che Silvio era assopito, e uscì frettoloso dalla camera. Ma non così piano, che Silvio non si destasse, e non indovinasse a un secondo tocco di campanello di che si trattava. Forse... ahi! tutte le speranze e i timori risorsero in un baleno nel suo cuore — un cuore assai grande che si diede a battere disperatamente, tanto da raggiungere e lasciarsi indietro di molto le cento e venti pulsazioni al minuto che il signor W..., medico e chirurgo, aveva accertato scrupolosamente col suo cronometro di Ginevra.

Giovanni rientrò poco dopo; recava in mano un involto che consegnò a Silvio. Questi si fe' pallido in viso, e colle mani tremanti afferrò l'involto e ne ruppe il nastro verde che lo legava; l'impazienza e la speranza erano nei suoi occhi e nel suo cuore... Quell'involto conteneva due lettere: ahi! le due lettere che egli aveva spedito a Carlotta....

Il volto di Silvio si accese di vivo rossore; ma il suo dispetto fu breve, e il dolore ne diradò ogni traccia. Le sue braccia caddero abbandonate lungo i banchi; le sue mani si rallentarono involontariamente lasciando sfuggire sulle lenzuola le lettere fatali. Giovanni in un angolo della camera, ritto ed immobile, colla testa inclinata sul petto alla guisa d'un fantasma dolente, guardava sott'occhio lo sciagurato effetto del suo messaggio.

Ciò che si passò nell'anima agitata di Silvio non è difficile cosa immaginare per chi, almeno una volta in vita, si sia trovato involto nelle tele insidiose dell'amore.

XXXIII. Silvio a Carlotta.

«Non crediate che io vi scriva per farvi rimprovero. In compenso dell'ospitalità e delle cure che m'avete fatto prodigare nella vostra casa, io vi perdono il male che avete cagionato al mio cuore. Il vostro silenzio mi aveva detto l'indifferenza; oggi vi avete aggiunto il disprezzo. Nè io me ne dolgo; una speranza gagliardamente alimentata mi ha suggerito l'audacia che vi ha offeso; però se il mio contegno mi ha meritato la vostra collera, il mio cuore non domandava che la vostra pietà.

Voi foste forse giusta, ma spesso la giustizia è crudele. Sia pure; poi che il rapido corso di molti mesi non ha saputo ispirare ed alimentare nel vostro cuore altro sentimento che l'indifferenza e il disprezzo, io saprò rinunziare un'altra volta al mio sogno, a quel sogno che, dacchè vi conobbi, fu la sola mia vita: essere amato da voi. Un sacro dovere si frappose un tempo fra voi e me; vi lasciai col cuore straziato, ma confortato da una stolta e fallace compiacenza: forse il vostro cuore mi aveva fatto l'elemosina del compianto; forse i vostri occhi mi avevano fatto elemosina d'una lagrima....

Oggi è ben altro.

Assai probabilmente non mi rivedrete più; partirò domani stesso dalla vostra casa, e domani stesso lascierò questo paese. Spero di poter andare abbastanza lontano, perchè voi non abbiate così facilmente la spiacevole sorpresa d'incontrarvi un'altra volta con me.

Questo io debbo fare per voi; lo posso, e mi basta. Se la mia riconoscenza non può dimostrarvisi che a questo patto, non potrete, spero, accusarmi d'ingratitudine. Che se le baldanze mie vi hanno tratta in inganno sui miei sentimenti, l'avvenire vi dirà forse quanto profondamente io vi stimi e vi abbia stimato sempre.»

XXXIV.

Le ore numerate dall'insonnia non sono mai brevi; e tuttavia Silvio, che aveva avuto le sue buone ragioni per non chiudere occhio tutta notte, trovò che l'alba spuntava troppo più presto che non si convenisse alla più pigra stagione dell'anno. Le battaglie del suo cuore erano state crudeli e lunghe, ma la sua risoluzione non aveva piegato un istante. Il primo raggio di luce penetrò nella sua stanza gravido di nuove tempeste e di nuovi assalti. E in un baleno ripensò tutte le accarezzate illusioni del suo spirito, melanconiche rovine d'un audace edifizio di sogni. Pensò a Carlotta, alla mesta casa che lo aveva raccolto, e parendogli d'uscire improvvisamente da una lunga visione, volse gli occhi in giro per sincerarsene. Una profonda melanconia lo invase al pensiero di dover abbandonare quelle pareti per sempre. Quivi egli si era abbandonato alle sue fantasie d'infermo, alle ansie dell'aspettazione, agli accasciamenti della disperanza — quivi egli aveva sofferto, amato e sperato molto — quella camera era stata per lui, per lui solo, tutto un mondo vastissimo che egli aveva popolato d'immagini lusinghiere.

Nelle lunghe ore di solitudine che egli aveva passato immobile sul suo letto, egli aveva numerato cento volte il doppio giro di scacchi bianchi ed azzurri che si alternavano sulla volta; aveva seguito coll'occhio i bizzarri fiorami dipinti sulle pareti fino agli stipiti dorati degli angoli, donde era tornato indietro rifacendo senza stancarsi mai gli stessi sentieri tortuosi. E poi in quella camera vi erano cento altri affetti che erano sorti per opera sua, affetti di creature enigmatiche a cui egli solo aveva dato la vita. Là era un drago colle fauci spalancate, che fino all'arrivo di Silvio era stato tenuto in conto d'una foglia di certa pianta strana a cui nissuno avrebbe saputo dare un nome; altrove una testa assai burlesca d'uomo, altrove un busto di bella donna, o un amorino senz'ali, tutta brava gente che vivevano alla buona senz'altra pretesa al mondo che quella di essere guardati ad un'ora determinata e dal guanciale di Silvio.

Pensate voi se dovesse essere lieve dolore abbandonare tutto ciò.

Più volte Silvio provò a drizzarsi appuntando i gomiti sul guanciale; più volte disse a sè stesso che era tempo di mostrarsi forte, ma sempre gliene mancò l'animo; il suo pensiero ribelle ritornava senza posa a Carlotta, e il suo corpo ricadeva inerte sul guanciale. Un sospiro mal represso veniva a quando a quando dal suo petto; ed egli avrebbe certamente arrossito confessandolo a sè medesimo, ma il suo cuore diceva assai chiaro il pentimento di aversi tolto un carico tanto grave.

— Domani stesso partirò dalla vostra casa!...

Queste parole, indarno dissimulate, si ripetevano come un lungo eco nel suo seno. Qual demone gliele aveva dettate? e perchè mai s'egli non aveva saputo resistere alle tentazioni dell'orgoglio, non era, almeno in quel momento, fatto insensibile alle lusinghe infruttuose dell'amore?

In quel punto venne picchiato all'uscio. Il signor W..., medico e chirurgo di Gossau, entrò sulla punta dei piedi. Il cuore di Silvio martellò disperatamente, vedendo l'eterno sorriso e l'eterna marsina nera dell'Esculapio.

— Come state voi?

— Benissimo, balbettò Silvio.

Il sorriso del signor W..., medico e chirurgo di Gossau, parve voler dire: «Adagio, mio signore; prima di sentenziare con tanta sicurezza ci ho da entrare anch'io.»

— Vediamo la lingua, disse dopo aver tastato il polso con molta gravità.

Silvio mise fuori la lingua colla maggior grazia possibile.

L'esame parve non andare a genio al signor W..., il quale fe' sentire un debole grugnito assai espressivo.

— Abusi, abusi!... ripetè egli scotendo il capo; eccoci di nuovo colla febbre...

E s'arrestò atteggiandosi come un punto, interrogativo. Questa volta il suo sorriso fu molto eloquente, e fu come la sintesi d'un discorso la cui perorazione dimostrava assai chiaro: come sarebbe stato sconveniente che il signor W..., medico e chirurgo di Gossau, non avesse indovinato la causa di questa ricaduta.

Ma sia che Silvio non avesse inteso l'oratorio significato di quel sorriso, o non vi avesse posto mente, prese a dire con voce titubante «come avesse in animo di partire....»

— Diamine! sclamò il medico.... e quando?

La lingua di Silvio incespicò più d'una volta prima di rispondere, e ne venne fuor un «presto» così ingarbugliato, da essere quasi irriconoscibile.

Ma, il signor W** non se ne appagò e insistè con un «per esempio?» così netto ed aperto, che era impossibile potersene schermire.

— Fra quanto tempo credete che io possa lasciare il letto? domandò Silvio, invece di rispondere.

— Secondo i casi.

— Nella migliore ipotesi?

— Supponendo una crisi favorevole, prestissimo.

— Prestissimo! Per esempio?

Il per esempio? di Silvio fu più fortunato.

— Anche domani.

Silvio impallidì, ed aggiunse con un tremito pauroso:

— E se si trattasse d'un bisogno urgente?...

Il medico parve non comprendere. Silvio tacque un istante.

— Se io dovessi partire.... oggi?

— Oggi! Diamine!

E un nuovo grugnito dell'ottimo signor W**, medico e chirurgo di Gossau, avvertì Silvio della difficoltà della cosa.

— Impossibile, voi dite?... interruppe questi con un impeto di rammarico, che poteva parere un impeto di gioia.

— Non ho detto ciò....

A questo punto il rammarico di Silvio parve meglio definito.

— Ma lo dirò certamente.... È impossibile; fate conto d'avere le catene delle Alpi alle sponde del vostro letto....

E tratto dal paragone il signor W**, medico e chirurgo di Gossau, s'agitò come invaso da un brivido di freddo, e volse istintivamente gli occhi al caminetto, su cui tremolavano ancora alcune scintille avanzate dalla notte precedente.

— Dunque? insistè Silvio con uno sguardo pieno di speranza.

Il medico si strinse nelle spalle.

Silvio non disse più nulla, e parve riflettere. Il suo volto era come irraggiato da un dolce e pago languore; ma un istante dopo la sua fronte si oscurò, e i suoi occhi si chiusero penosamente, mentre l'affanno usciva dal suo petto in un sospiro.

— È inutile, disse, è necessario che io parta oggi.

E senza punto badare al signor W** che se ne stava immobile per lo stupore, fece atto di levarsi. Il medicò lo arrestò con uno sguardo di preghiera, ed a crescervi forza aggiunse un gesto in cui era scolpito tutto l'entusiasmo d'una perorazione. Ma quella eloquenza muta non fu molto fortunata.

— È necessario che io parta oggi, ripetè mestamente Silvio; e poichè il signor W** accennava di voler insistere, lo interruppe con un «è necessario» così riciso, che a volerci trovar da ridire era qualche cosa più che una montagna da valicare.

Infatti, il signor W** non ci trovò a ridire, e pensando che la sua presenza non potesse riuscire che importuna, salutò ed usci dalla camera.

Rimasto solo Silvio, che s'era drizzato a gran stento, ed aveva messo una gamba fuori del letto, sentì a un tratto venir meno ogni energia. Col capo inchinato sul petto, cogli occhi fissi, egli ripensava melanconicamente per l'ultima volta le accarezzate parvenze del suo sogno....

Il buon Giovanni lo sorprese in quell'atteggiamento.

Silvio, tratto bruscamente al suo estatico fantasiare, levò gli occhi smarriti in volto al nuovo arrivato.

Giovanni recava una lettera; Silvio la prese senza emozione, ne ruppe il sigillo, spiegò distratto il foglio innanzi agli occhi, e lesse una sola parola:

«Restate.»

Una gioia suprema imporporò le sue pallide guancie; il suo cuore batteva così violento, che quasi gli veniva meno il respiro.

— Dessa! non è vero?... balbettò tremante, fissando gli occhi spalancati in quelli di Giovanni; e senza attendere la risposta, si lasciò cadere con delirante abbandono sul suo guanciale.

XXXV. Silvio a Carlotta.

«Rimango. Non vi dirò quanto io sia felice di questa determinazione; ma solo che io non l'avrei presa giammai se non per ubbidire ad un vostro comando. La mia volontà non ha potuto ribellarsi alla vostra, ma avrebbe resistito al mio amore.

Ho domandato a me stesso la ragione di ciò che avviene, e la mia stolta vanità si è lusingata per un istante del vostro affetto. Non sorridete della debolezza della mia natura; io mi sono ricreduto ben tosto. Sia benedetta la pietà che vi ha fatto superiore al vostro risentimento.

Il vostro risentimento! So d'averlo meritato, ma so pure che se voi aveste potuto leggermi in cuore, m'avreste perdonato. Oh! ditemi, in nome di Dio, posso io credere che, almeno in parte, la vostra pietà sia suggerita dal perdono?

Alcuni giorni tuttavia, ed io sarò ristabilito pienamente; nè vi vedrò una sola volta ancora nella vita? Deh! fate che la memoria dei vostro volto sereno s'imprima nel mio cuore prima di abbandonarvi per sempre. Partirò felice se mi avrete assolto dal vostro corruccio».

XXXVI.

Come Silvio ebbe scritto a gran fatica questa lettera, si lasciò ricadere con molta soddisfazione sul suo letto, pensando per la prima volta che se egli fosse stato a quell'ora sulle panche d'una diligenza, non si sarebbe per avventura trovato così bene.

Suonò il campanello, ed entrò Giovanni cui accennò senza parlare la lettera; poi, siccome la notte antecedente non era stata troppo propizia al suo sonno, chiuse gli occhi ripetendo dentro di sè il nome di Carlotta. A poco a poco si addormentò, ed è probabile che la visione invocata gli apparisse nei sogni.

Quando si destò, vide la camera illuminata da una pallida luce porporina, e una bruna figura seduta accanto al suo letto... Si stropicciò gli occhi, ma la visione non sparì... Un grido morì soffocato sulle sue labbra... Carlotta!...

Era pur dessa!... pallida e sorridente come fantastica creatura di sogno. Aveva un libro in una mano; dell'altra faceva cenno a Silvio di tacere. Vi fu un istante di silenzio. Carlotta guardava Silvio con fronte serena; Silvio guardava Carlotta coll'anima negli occhi, seguendone ogni più lieve movimento, quasi timoroso che l'adorata larva dovesse svanire s'egli ne avesse distratto lo sguardo.

«Lo vedete... sono venuta;» disse Carlotta con dolcezza.

Gli occhi di Silvio non dissero che la riconoscenza, ma una riconoscenza così ardente, che Carlotta sorrise suo malgrado.

— Non sono offesa con voi; aggiunse come a modificare l'interpretazione che Silvio aveva forse dato alla sua venuta.

Silvio comprese il senso intimo di quelle parole, e sospirò mestamente.

— Vi ringrazio, disse; non avrei osato sperarlo.

E da capo nuovo silenzio.

La posizione di Silvio non era veramente priva d'imbarazzo; egli era così poco preparato ad una visita di Carlotta, era stato così lungi dal pensare ad un incontro di quella natura, che le frasi galanti, di cui di solito non era sprovvisto, gli fallirono miseramente. Fors'anche la prepotenza d'un sentimento vero aveva debellato il suo coraggio.

Egli guardava Carlotta, rimuginando una frase, che, a calcoli fatti, doveva essere come una specie di bomba infallibile, e pareva misurare la distanza per non fallire il suo tiro; ma la frase si contorceva nella sua testa in mille modi, senza comporsi mai a quel tipo vagheggiato. Ogni momento che passava cresceva il suo imbarazzo, e un vivo rossore accendeva sempre più il suo volto. Carlotta gli venne in aiuto.

— Come state? domandò con un lieve sorriso.

Silvio stava benissimo, e non sapendo fare di meglio, lo disse sospirando. Quel sospiro non fu fortunato; Carlotta si fece seria in volto.

Ma Silvio non si die' per vinto, ed aggiunse melanconicamente: «il medico assicura che presto potrò partire....»

Avrebbe voluto dire domani, ma gli parve d'arrischiare troppo, e disse presto; e lo disse pauroso ed indeciso come chi getta un dado da cui dipenda la sua fortuna.

— Lascerete Gossau? domandò freddamente Carlotta.

Un po' più di calore e la parola Gossau pronunziata con maggior indifferenza, ed era per l'appunto la dimanda a cui Silvio s'attendeva. Quelle lievi modificazioni sconcertarono i suoi disegni; tuttavia s'avventurò a rispondere:

— Non devo abusare della vostra cortesia... e si tenne in aspettazione spiando sott'occhi l'effetto delle sue parole.

Carlotta sfogliò sbadatamente il libro che aveva fra le mani, e non rispose. Un gemito partì dal petto straziato di Silvio.

— Che cosa avrete pensato di me! balbettò poco dopo con voce fioca.

— Nulla: rispose Carlotta, temperando la durezza della risposta con una inflessione dolcissima di voce.

— Nulla! ripetè Silvio amaramente; nulla!

Carlotta fu visibilmente commossa da quell'accento di rimprovero e di dolore.

— La vostra ferita fu assai grave, disse sbadatamente, volendo volgere ad altro il discorso.

— Non quanto avrebbe potuto essere, rispose Silvio.

— È vero.

Non le venne detta questa parola, che Carlotta levò gli occhi in volto a Silvio.

Quelle brevi parole avevano ridestato una memoria assai delicata; entrambi compresero che il loro pensiero raffigurava in quel punto la stessa immagine ed arrossirono entrambi.

In quel punto la rosea luce che illuminava la camera impallidì a un tratto.

Carlotta si drizzò.

— Vorreste?... domandò Silvio giungendo le mani.

— È tardi, fra dieci minuti sarà notte.

— Non partite, ve ne scongiuro.

— È necessario.

— Non sono che pochi momenti che io vi vedo.

— È un'ora che io sono in questa camera.

— Un'ora! tristo me! ed io dormiva.... sognava; sognava di voi, di che potrei sognare?

L'accento con cui Silvio parlava era così languidamente mesto, che Carlotta non potè trattenersi dal pagare d'un sorriso quella passione così sincera.

— Sorridetemi così; proseguiva Silvio, cui il pensiero di rimaner solo, di perdere un'altra volta quella donna adorata, restituiva in un punto tutta l'audacia smarrita; sorridetemi così; voi ignorate il bene che mi fate in questo momento.

— È necessario che io vi lasci, disse Carlotta con dolcezza.

— Ancora un istante; ho tante cose a dirvi.

— È inutile.

— Inutile!

E Silvio chinò il capo con abbandono.

— Promettetemi almeno di ritornare.... insistè coll'ansietà di chi vede un ultimo barlume di speranza.

Carlotta tentennò il capo.

— Un rifiuto!

— No, non è un rifiuto....

— Promettete adunque?

— Non prometto mai nulla.

Silvio ricadde sul guanciale senza dir motto.

Carlotta s'appressò all'uscio, ma all'atto di afferrare la maniglia, si arrestò e si rivolse.

— Buona notte, disse.

— Buona notte, ripetè Silvio con un filo di voce.

— Forse.....

— Forse?....

— Aspettatemi....

— Quando?

— Aspettatemi.

— Domani?

Ma l'uscio s'era aperto, e la vezzosa creatura s'era involata come un fantasma....

Nella camera solitaria di Silvio, errò lungamente un profumo di donna amata, parte di sè medesima abbandonata da Carlotta ai cupidi sensi dell'ardente amatore.

XXXVII. Silvio a Carlotta.

«Vi ho aspettato; dite voi stessa se io v'ho aspettato!

Perchè dunque?... perchè?... È avvenuta forse alcuna cosa che vi abbia impedito di attendere la vostra promessa?... O dovrò io rammentarvi che mi avete fatto una promessa?»

XXXVIII. Carlotta a Silvio.

«Non nego che io v'abbia fatto una promessa, ma non ho detto nè il giorno, nè le condizioni che io ponevo all'adempimento. Poichè pare che la vostra solitudine vi sia incresciosa, e desideriate d'averne sollievo, dipende da voi che io venga a far quattro chiacchiere nella vostra camera. Promettete di non parlare mai di cose del cuore, e di non usare certe frasi vaghe che vi si riferiscono.»

XXXIX. Silvio a Carlotta.

«Per quanto avete di caro al mondo, vi scongiuro: non ostinatevi in questa pretesa. Deh! che i miei sentimenti, i sentimenti di un cuore devoto, non vi trovino inesorabile!»

XL. Silvio a Carlotta.

«Ditemi almeno che cosa intendete per frasi vaghe che si riferiscono a cose del cuore

XLI. Carlotta a Silvio.

«Voi sapete troppo bene dove incominci e dove finisca il vocabolario dei sentimenti dei cuori devoti. Risparmiatemi un'enumerazione lunga e spinosa.»

XLII. Silvio a Carlotta.

«Accetto. Non vi dirò quanto mi costi, benchè non potreste impedirmelo. So di non vincolarmi che a non parlarvi di cose del cuore, nè voi sarete così ingenerosa da voler estendere più oltre la mia promessa. Accetto adunque.

Lasciate però che alla mia volta io faccia, non già una condizione, ma una preghiera: venite oggi stesso

XLIII.

Carlotta venne; aspettata come un'alba di tripudio, bella e raggiante più d'un'alba.

Cogli occhi ardenti di passione, col cuore palpitante, Silvio seguiva i passi della leggiadra creatura che pallida e serena come una visione, attraversò la stanza lentamente, e venne a sedersi a qualche passo dal letto.

— Più vicino... balbettò Silvio.

Carlotta trasse la seggiola presso al capezzale.

Immerso nell'egoismo della sua felicità, Silvio non pensò neppure a ringraziarla; non volle o non seppe sorriderle, non le disse parola — che cosa le avrebbe egli detto, poichè gli era contesa la favella del cuore?... Il solo suo sguardo si animò, e fisso sulla fronte della donna amata, parve ricercare le vie tortuose del suo pensiero, per rapirle un segreto. Carlotta sostenne quello sguardo senza abbassare gli occhi; Silvio sospirò.

I sospiri non erano stati compresi nel patto; però Carlotta, che fino a quel punto si era tenuta in silenzio, s'affrettò a domandare a Silvio della sua salute.

Sventuratamente Silvio stava benissimo, e lo disse con un altro sospiro assai più lungo e più profondo del primo.

Quest'esordio parve spaventare Carlotta, la quale, non osando muoverne lamento direttamente, guardò Silvio con una cert'aria, come di chi volesse mettere in dubbio la legittimità di quei sospiri. Silvio le rispose di rimando nello stesso linguaggio «essere dolentissimo che si volesse mettere in dubbio la legittimità dei suoi sospiri.»

Dopo questo primo armeggio, la conversazione si animò vivamente. Silvio parlò con entusiasmo della stagione che minacciava di essere fredda, c Carlotta convenne pienamente con lui, aggiungendo che l'inverno era stato precoce. Silvio si affrettò a dividere questa opinione, e incoraggiato dal primo successo, disse qualche parola della giornata che era stata bellissima. Anche questa sentenza non trovò seria opposizione.

— Ma fredda, osservò Carlotta con qualche titubanza.

— Freddissima, confermò Silvio sbadatamente; poichè lo dite, aggiunse sorridendo; io già non ho potuto accorgermene.... sebbene.... sì, ne sono sicuro, il gelo aveva disegnato assai bizzarri fiori sui vetri della finestra. Il sole me li ha tolti ben tosto...

— E il gelo i miei... figuratevi; avevo un'aiola di cappuccine gialle che non s'erano potute raccogliere nella serra — sono morte tutte...

— Poverette!

Silvio pensò di dover unire un sospiro per significare meglio il suo compianto; questa volta Carlotta non ne parve spaventata e rispose con un sorriso.

— Amate i fiori? domandò poco dopo.

— E chi non li amerebbe?

E qui Silvio con uno slancio inspirato parlò del loro profumo, dei loro colori, e stava per parlare del loro linguaggio, se una occhiata assai espressiva di Carlotta non l'avesse interrotto in buon punto. Silvio pose la mano destra sul cuore coll'atto con cui l'avrebbe posta sulla bocca d'un ciarliero, e domandò scusa sorridendo.

Se Carlotta rispondeva a quel sorriso, addio patti! ma Carlotta non parve avvedersi del gesto, nè del senso burlesco che gli era stato dato. Quell'indifferenza sconcertò forse i segreti disegni di Silvio, il quale da quel punto si fece serio in volto, e divenne più parco di parole.

Carlotta, sia che fosse rassicurata da quel contegno, sia che sentisse in cuore alcuna pietà mista di riconoscenza, o forse per l'una cosa e l'altra insieme, acquistò per l'appunto quanto Silvio aveva perduto, e lo interrogò sui suoi viaggi.

Silvio si tolse d'impaccio assai male; nè mai racconto di viaggi fu fatto con tanta inettitudine e con così poca compiacenza.

Convien sapere che fin dal primo dialogo avuto con Carlotta, egli era stato torturato dal desiderio di fare una domanda; ma il timore di ridestare memorie spiacevoli, lo aveva consigliato a non farla, sebbene il silenzio gli paresse incontrastabilmente una mancanza di riguardo, e potesse essere creduto ispirato da un sospetto ingiurioso.

— Tutto sta nel modo di farla, aveva detto a sè stesso, e da un quarto d'ora torturava il suo cervello, domandandogli una frase restia che gli sfuggiva.

Appena gli parve d'avere il fatto suo, compose il volto a mestizia, ed aprì bocca per parlare; ma in quel punto il sole che tramontava dietro i monti, involò seco i raggi d'oro che si frangevano contro le vetrate della finestra. A quella vista Silvio si turbò, e il nome del signor Verni morì soffocato sulle sue labbra. Allo stesso tempo Carlotta si levò in piedi.

— A domani? disse Silvio con voce agitata.

— Forse.

— Forse!... E un ultimo sospiro chiuse questo secondo colloquio amoroso.

XLIV. Silvio a Carlotta.

«È inutile. Una forza superiore alla mia volontà mi trascina ciecamente ai vostri piedi. Lasciate che io mi illuda ancora una volta, e non veda la vostra indifferenza e il vostro disprezzo, e possa dirvi l'amor mio. Lasciate che il mio cuore possa conoscere ancora per poco i battiti della speranza.

Sarò vostro schiavo, se voi lo vorrete; bacierò festante le mie catene, ma non contendete al mio cuore la facoltà d'amarvi, la sola virtù che lo purifica e lo fa grande. Se la franchezza è virtù, e lo è sempre quando non nuoce ad altrui, io voglio avere anche questa.

A che giova il dissimularlo, a che giova il tacerlo? Io vi amo. Voi avete creduto che si possa spegnere un affetto, come si può spegnere un'incendio, isolandolo. Vi siete ingannata; condannando il mio cuore a tacere, a serbare gelosamente il suo amore solitario, voi non fate che ritemprarlo e rinvigorirlo in esso. Ciò che la favella non può esprimere si scolpisce incancellabilmente nel petto; il mio amore durerà quanto la mia vita.

Se pure vi ha ancora una speranza di guarigione, solo una confessione completa può compiere il miracolo. Ponete che io voglia guarire, e lasciatemi dire che io vi amo, che io vi amo, che io vi amo. Rispondetemi che io vi sono odioso, che la mia passione è ridicola, che la mia insistenza vi annoia. Tutto ciò mi farà assai male, ma potrà guarirmi.

Datemi il vostro disprezzo, tutto ed apertamente, o il vostro amore, tutto ed apertamente. Questo travaglio in cui ora vivo è peggiore della morte; voi potete liberarmene; fatelo ed affrettate. Non mi parlate d'amicizia; questa povera larva sarebbe un amaro scherno per chi domanda il vostro amore. Soprattutto siate franca; non vi trattenga un falso sentimento di pietà; la pietà, come io la intendo, è l'amore che risuscita, o il fuoco che purifica e risana; non vi ha via di mezzo: datemi il sorriso della Dea, o l'opera rude del chirurgo; benefica nell'uno e nell'altro modo io saprò benedirvi.... Qualunque altro partito sarebbe menzogna.

Voi siete stata testimone di ciò che possa in me una promessa; il ridicolo non mi ha impaurito, e rimasi vicino a voi come un fanciullo; non vogliate condannarmi ancora ad una parte così ingrata; io saprò abbandonarvi se voi me lo comanderete.

Quali sentimenti voi nutrite per me? quali sentimenti desterà nel vostro cuore questa mia ruvida franchezza? Lo ignoro. Non mi trattengo neppure ad immaginarlo. L'ho detto; una forza fatale mi trascina ciecamente ai vostri piedi. Io non so nulla di voi, se non che siete bella e che vi amo, che siete buona e che vi amo. Tutto il resto per me è un mistero; vi vedo mesta e dolente; di che? Non importa; io vi amo. Avete dei dolori? Non importa: io so che vorrei poterli dividere. Lo volete voi? volete voi esser mia?... Pazza audacia del mio povero cuore! Posso io ingannarmi più a lungo sulla sentenza che uscirà dalle vostre labbra?... E tuttavia io ve lo ripeto orgogliosamente; volete voi esser mia? Io non voglio pensare alla probabilità d'un vostro rifiuto; io così altero e sdegnoso, sentirei frangersi quest'anima da fanciullo. Mi pare che ne piangerei molto, come d'una rovina irreparabile; ma fuggirei da voi perchè le mie lagrime non suscitassero la vostra pietà, quella vana pietà che non sa dare che affanni a chi la prova e a chi la riceve.

Volete voi esser mia? Mi pare un sogno che io possa farvi questa domanda senza arrossire, o farvi arrossire.

Io penso talvolta che la sorte abbia voluto collegare in qualche modo la vostra vita alla mia, e mi inebbrio di questo pensiero.

Talora invece discendo nelle vie più segrete del mio cuore, e v'interrogo la mia passione; allora provo delle torture inesprimibili, e m'infliggo delle angoscie crudeli; anatomizzo ogni fibra e mi domando se io saprei amarvi come voi meritate. Ebbene, io ne ho acquistata la certezza; non è un amore volgare, non è l'amore dell'uomo alla donna, quel sentimento inebbriante in cui ha parte più la fantasia e il desiderio, che la stima; non è questo l'amore che io vi offro. È un amore sereno, l'amore di un'anima ad un'anima.

Voi siete bella, estremamente bella; lo so; ciò ha potuto altra volta inebbriare i miei sensi; ma non appena io vidi la vostra anima, indietreggiai per serbare il vostro profumo di virtù; l'acre voluttà della colpa mi ha sedotto, ma non mi ha vinto. Fuggii lontano da voi, recando meco la memoria della vostra bellezza, il mio vagheggiato ideale di artista.

Oggi è ben altro; voi siete libera; per qual filo misterioso io sia stato guidato innanzi a voi, non so; ma so che è la Provvidenza che lo vuole. Oggi è ben altro; altra volta io ho amato la vostra bellezza e il vostro spirito, oggi io amo l'anima vostra; vi ho visto appena, e pure mi sento trascinato a voi da una forza magnetica; e una stima immensa si è ingenerata in me al solo vostro sguardo.

So bene che attribuirete le mie parole ad esaltazione, e forse a menzogna; pure io non fui mai così calmo e così sincero come in questo momento. Crediatelo; non è più il vostro corpo che io amo; io posso dimenticare per un istante la vostra bellezza, posso anche pensare per un istante che un'altra donna può vincervi in avvenenza, ma non posso cessare un solo momento di amarvi, o credere un solo momento che io potrei amare un'altra donna, come amo voi.»

XLV.

Ponete — e non sarete lontani dal vero — che Silvio dopo questa lettera si sia lusingato per un quarto d'ora, e abbia numerato nell'inquietudine le lunghe ore della giornata; ponete che due ore prima del tramonto abbia udito una prima volta il fruscio delle vesti di Carlotta, e poi ancora cento altre volte, e che cento volte abbia teso l'orecchio col cuore agitato, e cento troncato le sue speranze con un sospiro; ponete che alla centesima un passo, un vero passo, si sia arrestato alla porta, e una mano abbia fatto girare la maniglia, e poi dite se il signor W**, medico chirurgo di Gossau, potesse giungere opportuno.

Opportuno o no, era proprio lui.

Silvio si lasciò sfuggire un'esclamazione di sorpresa. Non so che vi possa essere di gradevole nella visita di un medico; ad ogni modo fosse gradevole o sgradevole la sorpresa — e pare che dovesse essere l'una o l'altra, non avendo mai udito dire che vi siano sorprese d'altra natura — il signor W** non se ne avvide, o mostrò non avvedersene.

Egli entrò col solito passo saltellante, colla faccia agro-dolce, si accostò al capezzale col solito sorriso, e interrogò l'ammalato col solito accento melato.

— Il signor Silvio si sentiva bene?

«Il signor Silvio si sentiva bene.»

— Non aveva avuto più febbre?

«Il signor Silvio credeva di non averne più avuto.»

Erano le solite domande, e le solito risposte svogliate.

Poi il signor W** volle vedere la lingua del signor Silvio, e la lingua del signor Silvio si compiacque d'arrendersi all'invito.

— Benissimo.

Si passò all'esame del polso, che era regolato come un cronometro di Ginevra, e il cronometro di Ginevra del signor W**, medico e chirurgo di Gossau, era lì a farne fede.

— Benissimo.

Questa seconda approvazione tolse Silvio alla sua svogliatezza; una vaga paura s'impossessò di lui, e i suoi occhi si spalancarono ad un tratto.

— Appetito? domandò il medico.

Silvio, che aveva mangiato due ore prima, in quel punto non si sentiva gran fatto disposto a ricominciare, e credette bene di non mentire rispondendo negativamente.

— Avete provato a levarvi di letto?

— Non ho voluto arrischiarmi, balbettò Silvio.

— Non avreste corso pericolo... Voi dovete essere forte... Non vi pare di sentirvi forte?...

— Infatti... sarà come voi dite.

— Bisognerà provare.

— Senza dubbio... pure... nel sollevarmi sui guanciali, sento dei dolori...

— L'inerzia, appunto l'inerzia. Una lunga passeggiata vi guarirà affatto.

— Lunga voi dite?

— Volevate partire, se non erro; e ve l'ho impedito; oggi ve lo consiglio; il moto vi farà bene.

Silvio volle sottrarsi con qualche pretesto a questa sentenza, ma senti il rossore salirgli alle guancie, e tacque.

Pochi minuti dopo egli era un'altra volta solo; un'ora dopo le ombre bigie del tramonto incominciavano ad affollarsi intorno al suo letto, ed egli era ancora solo.

Carlotta non era venuta.

XLVI. Silvio a Eugenio.

················

Ed ecco perchè non ti ho scritto. Potrai tu farmene una colpa? Non lo credo; mi piace crederti generoso, e il pensiero della mia debolezza fisica, e, deggio pur dirlo, della mia passione, legittimerà agli occhi tuoi la debolezza morale che, facendomi temere il tuo scherno, ha contribuito non poco a prolungare il mio silenzio. Aggiungi che soltanto oggi io ho incontrato le tue lettere; però dalla premura con cui mi accingo a risponderti, potrai avere nuovo argomento delle mie buone intenzioni.

Promettimi che non ti farai beffa di me; che il tuo sorriso cinico si spunterà contro il mio cuore innamorato. Se tu sapessi quanto è bella, se tu sapessi la immensa folla di promesse che si slancia da' suoi occhi; se tu potessi numerare tutte le ansie che hanno combattuto il mio petto, tutti gli spasimi della sfiducia, e le dolci frenesie della speranza!... Oh! tutto ciò è ben dolce e ben crudele, ma è la vita.

Dì pure che io vaneggio, che sono un fanciullo incorreggibile, ma lasciami dire alla mia volta che tu non sai vivere. Illusioni, follie!... Sia pure, mio buon Eugenio, ma stolto ed illuso colui che rifiuta il calice della vita, perchè non vi vede brillare in fondo l'eternità! Non è egli forse filosofia più sana e più utile, quella che benedice l'oggi, se ne appaga e ne vive, di quella che anticipando il domani con boriosa audacia, s'accascia nell'inerzia, sopportando il peso d'un'esistenza neghittosa?

Domani sia che si voglia; oggi amo, e basta. Ma io ho anche ragioni per lusingarmi del domani, e se volessi mostrarmi audace nell'asserire, quanto voi altri cinici lo siete nel negare, potrei dire una parola che farebbe palpitare i cuori innamorati; e mille voci s'unirebbero alla mia, e benedirebbero questo benefico ideale dell'amore: l'eternità dell'amore.

Infatti tu lo sai al pari di me; non è da oggi che io amo questa creatura; il mio affetto è passato attraverso il tempo, mascherato di cinismo come il tuo cuore, ma non si è spento. Così i semi delle piante passano attraverso i secoli serbando tutta la loro potenza di vita, sospirosi dell'amplesso fecondo della terra che li farà germogliare. Anche l'amore ha i suoi germogli.

E poi, oggi è ben altro: io posso pensare senza arrossire agli enormi desideri che torturano dolcemente il cuore di chi ama, posso pensare a farla mia, a' suoi baci di fuoco, al suo seno palpitante sul mio. Nulla più s'oppone alla mia felicità. Il signor Verni è morto; il tuo silenzio su ciò mi lascia credere che tu lo ignori. Io stesso non so dirtene di più. Pare che il destino si compiaccia di circondare di mistero tutto ciò che riguarda questa donna: il suo stesso sorriso è un enigma; vicino a lei io smarrisco le mie audacie, e il suo sguardo dolce mi affascina e m'impietosisce ad un tempo. No; non posso ingannarmi; su quel volto sereno è scolpita una grande sventura. Questo fantastico sentimento di pietà che si aggiunge alla mia passione ne raddoppia l'energia. Vorrei comperare le sue lagrime col mio sangue, vorrei travolgere il suo affanno nel mio amore, e confonderlo in esso — il mio amore è immenso.

Non sono che poche ore che ho lasciato la sua casa, e pochi passi soltanto mi separano da lei, e tuttavia mi pare che un abisso sterminato di spazio e di tempo si distenda innanzi a me per isolare il mio amore.

Un'angoscia segreta mi opprime; e mi muovo cento domande — cento torture — a cui non posso rispondere. Perchè mai ella mi ha sorriso più dolcemente dell'usato, nel separarci? Voleva darmi una speranza? se così era, perchè tenersi a fianco quel benedettissimo signor W**? Temeva ella di restar sola con me? Mio Dio! Mio Dio! La mia testa si perde in questo labirinto...

Queste mie camere solitarie che ho già amato tanto, mi sembrano fredde, mute come sepolcri. Ho aperto le finestre che guardano sul suo giardino, ho riveduto il pergolato, il viale dei pini, il sedile di sasso; tutto ciò è assai triste, assai desolato; la brina inargenta i rami e le zolle; quella nudità della natura mi ha agghiacciato il cuore. Una sola cosa non ha mutato; le sue finestre; esse sono sempre là, chiuse gelosamente, colle cortine calate... E tuttavia il mio occhio non erra smarrito sulle pareti come una volta, ma si spinge oltre audacemente, e vede una pallida figura di donna... Il mio cuore palpita più vivamente... Carlotta! Carlotta!

Ho avuto per un istante la pazza speranza che una finestra si aprisse a un tratto, e che ella vi si affacciasse per rispondere all'appello del mio cuore. Poi ho cercato la finestra della camera che ho abitato tanto tempo; ho riveduto il mio letto, le seggiole, gli specchi, i fiorami delle pareti... E dire che poc'anzi io era là, che vedevo la luce attraverso quella finestra!... È finita, è finita!... la mia ragione è minacciata da due forze opposte; impazzirò di gioia o di affanno......

XLVII. Silvio a Carlotta.

«Che cosa devo pensare di voi? È la terza volta che vengo in casa vostra per rivedervi, ed è la terza volta che mi si dice che voi non siete in casa. Io non ho dubitato un istante che ciò fosso vero; non ne ho dubitato, e non ne dubito, ve lo giuro; ma un vago timore si è impossessato di me, e non so aver pace in nissun modo. Che cosa è dunque avvenuto? che cosa sta per avvenire, mio Dio?

Lo so, è una strana audacia la mia; pure vi scongiuro, toglietemi da quest'affanno; ditemi che la vostra assenza è affatto casuale, che non si rannoda con alcun dolore, con alcuna circostanza penosa; soprattutto che io non vi ho parte alcuna.

Ho pensato di scrivervi, perchè non oserei presentarmi alla vostra casa con questo dubbio; perchè un nuovo tentativo di rivedervi fallito getterebbe forse nel mio cuore dei fallaci sospetti sulla vostra lealtà; perchè forse, se una dura verità deve partire dal vostro labbro, voi stessa troverete più facile mezzo affidandola ad una lettera. Rispondetemi adunque, ve ne prego. Qualunque sia la sentenza con cui risponderete al voto del mio cuore, io saprò obbedirvi, io saprò forse rassegnarmi ad una sciagura su cui il mio pensiero osa appena arrestarsi: «riperdervi per sempre.»

Soprattutto siate franca, e procurate di rispondere liberamente a questa domanda che io vi faccio per l'ultima volta col cuore affranto dalla lunga speranza: «Volete voi esser mia?»

XLVIII. Carlotta a Silvio.

«Sarò franca con voi, perchè lo volete. E vi dirò che la vostra proposta mi ha fatto versare delle lagrime di riconoscenza. Voi non saprete mai tutto il bene che le vostre parole mi hanno fatto, non saprete mai quanto acerbamente io soffra dovendovi rispondere con un rifiuto. Non insistete, ve ne prego; voi non fareste che crescere la mia angoscia, senza mutare il mio proposito. V'ha qualche cosa d'insormontabile che si frappone fra me e voi, fra me e il mondo, un sepolcro inviolabile. Quell'uomo che oggi non è più, quell'uomo che mi ha amato e che io ho amato con tutte le mie forze, stende le sue braccia per circondarmi ancora del suo amore.... No, il suo amore non è sepolto con lui; io lo sento; è solo per questa fiamma misteriosa che ha sopravvissuto al suo corpo che io accetto ancora la vita. Senza di essa io non sarei forse più, o non sarei più che una pallida larva del mio passato, un'anima mutilata. Potrei io accettare il vostro amore? Che cosa potrei darvi in contraccambio? potrei io amarvi come voi meritereste d'essere amato? che dico? potrei io darvi la minima parte del mio amore senza involarlo a lui? e dovrei io ritogliere alla morte per donare alla vita? Impossibile! impossibile! Quando anche il culto del passato potesse isterilire nel mio cuore senza incenerirlo, un imperioso dovere mi vieterebbe di farlo. Io sono sua, non potrei essere d'altri mai, senza turbare la pace della sua tomba. E d'altra parte, forse che voi potreste accettare un amore diviso con un altro essere che, sebbene non sia più nella vita, mi è tuttavia compagno nel pensiero, nel sonno, sempre e dappertutto? Forse che se fossi vostra e mi amaste, non sareste ugualmente infelice sapendo che io ho amato un altro più di quello che potrei amar voi?

Lo vedete, è impossibile. Voi siete generoso, e vi ho creduto sincero; perciò volli essere sincera e generosa con voi. Sarei stata assai più ingrata se avessi alimentato un istante di più le vostre speranze. Ho fede nella vostra energia d'uomo; tuttavia non abbiate a male se io oso farvi appello e muovervi una preghiera: «non insistete.»

XLIX. Silvio a Carlotta.

«Non posso, non posso! La mia energia d'uomo si è spezzata, io non sono che un fanciullo, uno sciagurato fanciullo che non ha altro che lagrime.

Non potreste amarmi come avete amato lui? che importa se voi potrete amarmi? vi ho domandato il vostro amore, e voi potete darmelo; non pretendo di più: una parte del vostro amore è sempre il vostro amore.

«Impossibile!» Non ditelo in nome del cielo; non immaginate che le ombre dei defunti possano turbare col loro egoismo la felicità dei superstiti. La loro pace è assai profonda, assai più dolce delle burrasche della vita; esse sanno quel che hanno perduto e quel che hanno guadagnato morendo, confrontano e compiangono. Noi soli siamo i ciechi, e barcolliamo inseguendo l'amore.

I defunti non hanno invidia di noi; vorrebbero essi contenderci l'amore, e spingere le loro mani scheletrite per staccare questo solo frutto benefico dell'albero della vita?

Respingete queste paure; interrogate il vostro cuore, se egli può palpitare vicino al mio, siate mia. Io non mi opporrò a questa religione delle memorie che vi fa santa ai miei occhi; vorrò dividerla, vorrò piangere e benedire anch'io; la felicità immensa di sapervi mia, di vivere al vostro fianco, di vedere ogni giorno il vostro sorriso, mi farà buono; mi farà generoso; apprenderò da voi il sentiero della pace, apprenderò a piangere e a benedire.»

L. Carlotta a Silvio.

«Voi v'illudete; il vostro cuore v'inganna; il tempo muterebbe l'animo vostro, inesorabilmente. Domani vorreste da me ciò che io non potrei darvi.

E poi... è inutile. Il mio passato vi si oppone; se voi poteste leggere in esso, rifiutereste forse con disdegno ciò che oggi domandate con insistenza; nè io potrei più esser vostra, nè lo vorrei.

Non domandate di più.

Credetemi; voi potete esser felice in altro modo; io non posso aver pace che nella solitudine del cuore. Siate generoso. Lasciate che io parta da questi luoghi, e non cercate di seguirmi.»

LI.

Il cuore di Silvio traboccava di speranza; nonostante le prime ripulse, egli si era lusingato che Carlotta avrebbe aderito al suo desiderio.

Questa lettera sfasciò d'un tratto, come un soffio malvagio d'uragano, il dorato edifizio delle sue illusioni. Oggimai nulla più era a sperare; la fermezza d'una decisione presa traspariva da ogni parola. Un immenso sentimento di amara melanconia si diffuse e serpeggiò per le vene di Silvio, a guisa di tossico mortale.

Pensando al suo passato, alle care parvenze vagheggiate così lungamente, alla vanità dei suoi sforzi per dominare il suo cuore, al destino che lo aveva così stoltamente riavvicinato ad una donna che egli doveva riperdere per sempre, egli si sentì vinto da un'ambascia compassionevole, e più intenerito che attristato dalla sua sciagura, si gettò nel suo letto singhiozzando.

La notte che sopravvenne fu un lungo strazio per lo spirito agitato di Silvio. Le segrete paure della veglia, le fitte d'un pensiero atroce, i vaneggiamenti dell'amore deluso, lo tennero desto gran parte della notte. Quando finalmente, vinto dalla stanchezza, chiuse gli occhi al sonno, i fantasmi dei sogni gli amareggiarono il riposo. Un fantasma lungo e severo passeggiava per la sua camera; gli occhi atterriti di Silvio seguivano i passi uguali, monotoni, di quell'essere misterioso, paurosi e avidi a un tempo di ricercare i lineamenti di quel volto. Un grido morì soffocato nel suo petto; egli aveva ravvisato la larva disseppellita del sig. Verni...

Si destò di soprassalto, e si cacciò d'un balzo fuori del letto; un sudore minuto gli bagnava la fronte, e un brivido agitava le sue membra. La stagione era fredda, e il suo focolare spento; ma il suo cuore era in sussulto. Camminò alcun tempo per la camera, inciampando nelle sedie; quando fu più queto, accese la sua lampada notturna, e si guardò intorno pauroso, e quasi atterrito del suo coraggio. Le ombre dei mobili avevano atteggiamenti strani, il silenzio era profondo.

Che avrebbe egli fatto? Guardò il suo letto con espressione di rammarico, come si guarda un nemico, e indossò frettoloso una veste da camera; poi si trasse accanto al camino, ravvivò i tizzoni spenti, e si lasciò cadere sopra un seggiolone di cuoio. Due ore dopo, col capo fra le mani, cogli occhi immobili, guardava il guizzo crepitante della fiamma.

A un tratto si drizzò come spinto da una molla; un'idea aveva attraversato la tenebrosa solitudine della sua mente senza pensiero...

— Ella parte! Ella parte! disse sordamente scuotendo il capo con un gesto disperato.

— E se questa notte medesima...

In un baleno fu alla finestra, e ne spalancò le imposte. La notte era serena, una di quelle notti così frequenti negli inverni dei climi freddi. Non si udiva un alito di vento, non un susurro, non una voce: dinanzi agli occhi le tenebre, alcune stelle silenziose nel cielo.

Un lumicino brillava ad una delle finestre dell'abitazione di Carlotta. L'immaginazione di Silvio andò più oltre e credette di vedere un'ombra passare e ripassare più volte dietro i vetri.

— Ella parte, ella parte! ripetè con voce fioca; «non la vedrò più!» e afferrò il capo colle mani come a raccogliere le idee.

— Vediamo, proseguì con una calma straziante; ella parte, ella lascia questi luoghi che le sono cari, questa solitudine che ama, i suoi fiori, la sua casa tranquilla... E tutto ciò per fuggirmi, per non vedermi, per sottrarsi alle persecuzioni del mio amore importuno. E che farò io in questa casa, in questo paese, se ella non sarà più vicino a me?... Impossibile che io vi rimanga... fuggirò anch'io, mi trascinerò dietro di lei come un pezzente, e le domanderò l'elemosina di uno sguardo. Che essa mi odii, che essa mi disprezzi, poichè non può amarmi!...

Allora si die' a passeggiare a gran passi, sfogando il suo dolore in gemiti selvaggi. Questo impeto fu breve, e spossando le fibre del suo cuore, rinvigorì quelle della sua mente.

— Essa mi prega di non seguirla; soggiunse con profondo abbattimento, come se ripetesse a sè stesso una sentenza inappellabile.

Allora in uno slancio generoso si proponeva di fuggirla, di lasciarla alla sua pace, di recarsi un'ultima volta innanzi a lei e pregarla di rimanere. L'idea del sagrifizio gli sorrideva dal profondo del cuore; essa gli avrebbe stretto la mano nell'estremo addio, ed avrebbe forse versato una lagrima in segreto...

L'alba lo trovò irresoluto.

Si recò più volte innanzi alla casa di Carlotta senza osare di varcarne la soglia; era troppo presto, poteva riuscire importuno...

Rifece i suoi passi e ritornò nelle sue camere dove si tenne appostato alla finestra spiando tutto ciò che avveniva nell'appartamento di Carlotta. Di tal guisa acquistò la certezza che Carlotta si apprestava per partire.

Suonava il mezzogiorno, e Silvio lottava tuttavia col suo demonio senza grande vantaggio; un'ora dopo le condizioni della lotta parevano promettergli la vittoria; alle due la battaglia era vinta, e Silvio saliva le scale dell'abitazione di Carlotta. Era pallido o stravolto, ma fermo.

Carlotta era uscita con Giovanni; solo la cameriera era in casa.

Buona figliuola in tutto, non faceva torto al ceto cui apparteneva, e chiaccherava volontieri. Silvio non ebbe ad ascoltare molto, che ne seppe abbastanza.

Uscì e si diresse verso il cimitero. Uno stretto sentiero dietro la casa vi guidava abbreviandone la distanza. Quel sentiero era poco battuto, e vi spuntava un'erba gialliccia, coperta ancora della brina che l'ombra della casa aveva protetto; fatti pochi passi appena, riconobbe le pedate di due persone: Carlotta e Giovanni senza dubbio. Più in là la brina era stata disciolta dal sole, cosicchè le traccie del piede di Carlotta diventavano quasi impercettibili; il piede di Giovanni aveva stampato orme più profonde... Silvio esaminava tutto ciò con una attenzione che era presso alla puerilità; il suo spirito smarrito aveva perduto la coscienza di sè medesimo.

In breve giunse dinanzi al cancello di ferro del ricinto.

Era un piccolo campo seminato di croci, circondato da quattro mura poco più alte di un uomo, e da un doppio giro di cipressi. Sul cancello era scolpito un teschio con due ossa incrociate, e l'iscrizione: Hodie mihi, cras tibi.

Sui pilastri che reggevano i battenti erano due lapidi di marmo bianco; in una di esse si leggeva un versetto dei salmi di Davide, scritto a matita, e più sotto una data ed un nome, un nome di donna....

Silvio lesse e sorrise tristamente.

Spinse il cancello, che girò sui cardini senza rumore, ed entrò nel recinto.

Un grido troncò la sua atonia — quel grido era di Carlotta...

LII.

Tutte le fibre di Silvio risposero a quel grido: la sua mente smarrita ritrovò il sentiero del dolore; pensò allo scopo per cui era venuto, e fissò gli occhi nel suolo con uno sforzo disperato, quasi volesse scavare una fossa per seppellire le sue illusioni.

Carlotta era inginocchiata presso una tomba, e nascondeva la faccia fra le mani; il vecchio Giovanni, ritto accanto ad essa, teneva il capo inchinato sul petto.

Vi furono alcuni istanti d'immobilità e di silenzio.

Finalmente Carlotta sollevò il capo lentamente, e drizzandosi in piedi, aprì gli occhi velati dalle lagrime, fissando Silvio d'uno sguardo lungo e sereno, come raggio di sole dopo una tempesta. Silvio barcollò e fece alcuni passi; intanto Giovanni s'era spinto inosservato fuori del ricinto.

Alcuni istanti dopo, quasi senza avvedersene, Carlotta e Silvio si trovarono seduti l'uno a fianco dell'altro a' piedi della tomba.

— Mi perdonate? domandò Silvio con voce fioca.

Carlotta non rispose, ma il suo sguardo parve dire: «vi perdono.» E poichè Silvio tentava d'afferrarle una mano, essa gliel'abbandonò senza ritrosia — una piccola mano candida, affilata, con vene azzurre, come quella d'un bambino.

Questa arrendevolezza non meravigliò Silvio, il quale in quel momento era incapace di misurarne il valore. Trovarsi seduto accanto a Carlotta, sentire la mano di lei nella sua, udire il suo respiro affannoso, l'ansia del suo petto, e quasi i battiti affrettati del suo core, e dire che tutto ciò non era che un sogno che non si sarebbe rinnovato più mai, era tale tortura che soffocava il piacere.

— Ho voluto vedervi un'ultima volta, prese a dire Silvio balbettando, per dirvi...

E qui si arrestò titubante. Carlotta, sbagliando sul significato di quell'interruzione, si mostrò agitata, e ripiegando indietro il capo guardò la lapide presso la quale erano seduti. Silvio seguì istintivamente quello sguardo, e lesse su quel marmo un nome, il nome di lui.... Egli lo aveva immaginato già prima, e tuttavia impallidì; e gli parve che quel muto richiamo, in quel momento, e per parte di Carlotta, palesasse una certa trepidanza mal dissimulata, ed ora invece la sicurezza. Ad ogni modo l'intenzione di troncare la via ad ogni audacia, v'era palese, e gli tornarono in mente quelle parole che erano cadute sul suo cuore come un martello: «v'ha qualche cosa che si frappone fra me e voi, un sepolcro inviolabile.»

Quello sguardo aveva ridestato uno sciame di pensieri importuni, che volteggiarono in giro per alcuni istanti nel capo di Silvio, prima di posarsi un'altra volta.

— Per dirvi... proseguì egli sorridendo mestamente come per dinotare che aveva indovinato il dubbio di Carlotta, per dirvi che io parto.

— Voi partite! esclamò Carlotta colla sorpresa indeterminata di chi non sa se debba corrucciarsi o ringraziare.

— Vi lascio; aggiunse Silvio con voce soffocata.

Carlotta chinò gli occhi a terra per nascondere l'emozione; ma la sua mano incontrò un'altra volta la mano di Silvio e disse con un linguaggio eloquentissimo la riconoscenza.

— Poichè voi lo volete; prese a dir Silvio con vivacità, e siccome la mano di Carlotta minacciava di allontanarsi, soggiunse più vivamente ancora: poichè Dio lo vuole. Non affannerò più oltre la vostra solitudine, non turberò i fantasmi del vostro passato; non mendicherò senza frutto ciò che voi non volete darmi; non tenterò più le vie del vostro cuore che non saprebbe amarmi giammai.

Carlotta non rispose, ma il suo seno agitato palesava apertamente l'affanno.

— Voi l'avete detto. Iddio lo vuole.

Silvio sorrise amaramente, e tentennò il capo con un gesto disperato.

Carlotta impallidì. Evidentemente ella temeva di aver confidato troppo nella fermezza del proposito di Silvio; forse lo stesso Silvio aveva troppo fidato sulla sua forza.

Dite al naufrago che si lasci seppellire dalle onde, che tanto tanto il lottare non gli gioverà a nulla — dite ad un amante che l'insistenza della domanda non potrà vincere mai l'ostinazione del rifiuto d'una bella ritrosa....

Silvio, sentendo il bel corpo di Carlotta vicino al suo, ebbe la debolezza di pensare all'immensa frenesia di piacere che egli avrebbe potuto provare vivendo al suo fianco. Il sangue gli salì al cervello, e vide in una nube di fuoco tutta un'infinita schiera di fantasmi fuggitivi.... Un'eloquenza suggerita dal cuore ispirò irresistibilmente il suo labbro; strinse la mano di Carlotta e parlò nuove profferte e nuove preghiere; i suoi occhi sfavillavano come fiamme, il suo petto si sollevava e s'abbassava come onda di mare tempestoso.

Carlotta turbata all'improvviso assalto, tremava come uno stelo, e guardava Silvio con un'espressione che pendeva tra il rimprovero e la preghiera, ma che diceva più che tutto lo sgomento.

Silvio tacque arrossendo; abbandonò la mano di Carlotta, e chinò il capo al suolo; Carlotta levò gli occhi al cielo.

— Non dirò che una parola, disse ella poco dopo con accento commosso; e voi desisterete, spero, da una vana insistenza....

Si arrestò titubante; Silvio continuava a tenere il capo abbassato, e non vide sul volto di Carlotta le traccie della lotta che si combatteva nel suo petto.

Il silenzio ridestò l'attenzione di Silvio; egli si scosse e guardò Carlotta in viso; quello sguardo era mesto e dolce, e tuttavia la poveretta tremò come sotto una minaccia; indi con un supremo sforzo che vinse la sua natura di donna, pronunziò con voce ferma il nome del cavalier Salvani....

Un grido, un ruggito di belva imprecò sulle labbra di Silvio.

Carlotta nascose il capo fra le mani.

LIII.

Quel nome ridestava in un punto solo tutte le passate torture di Silvio. Egli rivide la faccia trista e il contegno arrogante di quell'uomo odiato. Mille pensieri assalirono la sua mente abbattuta, come orda inviperita che infierisce sul caduto.

Quel Salvani era dunque stato un amante? Carlotta era dunque colpevole? Quale altro significato attribuire a quel nome pronunciato da Carlotta, se non quello d'una confessione? E perchè una confessione? La credeva essa indispensabile? E come mai aveva potuto immaginare che dovesse bastare il solo nome del Salvani a tale effetto? Conosceva essa adunque i sospetti che egli aveva nutrito un tempo?...

A poco a poco la sua mente afferrò il filo di questo labirinto d'idee.

Volse l'occhio verso Carlotta, e la vide immobile, abbattuta, colla faccia sempre nascosta fra le mani; il suo petto era agitato come un piccolo mare, immenso mare di amore e di voluttà.... Una lagrima spuntava fra le sue rosee dita, e scorreva lentamente lungo il braccio.

Silvio sentì nel seno un artiglio spietato che gli stringeva il cuore; i suoi occhi anch'essi versavano delle lagrime; e perchè non le avrebbe egli mescolate, queste dolci lagrime della pietà e dell'amore, con quelle purificatrici del rimorso?

Allora una nuova idea balenò nella sua mente. Se questo appunto, questo solo, fosse stato il motivo dell'ostinato rifiuto di Carlotta? Ciò era naturale; pensandoci meglio, non poteva essere altrimenti. Carlotta aveva dubitato di lui, aveva stimato che l'amore che le veniva offerto era uno di quegli amori volgari che, nati di desiderio, hanno tutta la prepotenza della passione, ma non la forza dell'affetto, e se sanno affrontare lo stesso pericolo della vita, s'impauriscono però al solo pensiero del ridicolo e della maldicenza. Ora, interrogando il suo cuore, Silvio lo sentiva più saldo che non avesse creduto, e disse a sè stesso che i pregiudizi sociali non avrebbero avuto virtù di farlo piegare un solo istante dai suoi propositi.

Chi sa?... Forse Carlotta lo amava in segreto, forse... Buon Dio! come è meravigliosamente intessuta la tela bizzarra delle umane illusioni!

Silvio immaginò la riconoscenza affettuosa di Carlotta, la sua pace domestica, la solitudine. Guardò un'altra volta al suo fianco... un angelo, l'angelo del pentimento!

Oh! sì; Dio è grande e misericordioso!

Se una colpa s'imprime sulla riputazione d'una donna, il pentimento deve lavare ogni macchia; infine essa confessava... l'onore del marito era salvo...

LIV.

Silvio prese dolcemente una mano di Carlotta, e con lieve violenza la allontanò dalla sua faccia. Carlotta cedette come un automa.

— Ascoltatemi, prese a dire Silvio, ascoltatemi, in nome del cielo; voi non sapete quale sterminata distesa di speranze avete fatto riapparire al mio sguardo con una parola. Sarà dunque vero? Potrò io ancora? oh! dite, dite che io non m'illudo stoltamente, che io posso ancora farvi mia...

Colui! Che importa a me di colui, se voi mi amerete? che importa a me del passato, quando mi rimane il presente, quando questo presente è l'amore? Dimenticate, dimenticate tutto, distraete il vostro sguardo da un fantasma che vi offende, che vi impaurisce.

Quali rapporti vi hanno stretta a quell'uomo? Io non lo so, non lo dimando; io so che vi amo, che innanzi a voi io divento fanciullo, che guardo la vostra fronte, e vi leggo il candore dell'anima vostra. Qualunque sia quest'affannosa memoria che vi ha fatto piangere, io non ho che una parola per confortarvi: «ai miei occhi voi siete pura come il bacio della mia povera madre.» Non respingete la mia proposta, non la respingete, siate mia, dividete la mia solitudine, dividete meco il culto che avete sacrato alla morte; lo vedete, ho pianto anch'io; saprò piangere anch'io.

— Vi ringrazio, disse Carlotta commossa, vi ringrazio; sa il cielo se io lo vorrei... non posso.

— Non lo dite, non lo dite; abbiate pietà di me. È nelle leggi della natura che la donna debba amare; compiacetevi pure dei vincoli che vi legano alla morte, ma non dimenticale i vincoli che vi legano alla vita. Amate le vostre memorie, ma amate pure l'amore; rinunziate all'idea di un sagrifizio irragionevole; oppure sagrificatevi doppiamente; fate felice un uomo che vi ama, cercate d'amarmi, siate mia.

Così dicendo Silvio stringeva convulsamente la mano di Carlotta, cercando d'incontrarne lo sguardo che si teneva ostinatamente fisso al suolo.

Quando egli tacque, Carlotta risollevò il capo, e si lasciò sfuggire un lieve sospiro. Silvio la interrogò con un gesto d'insistenza disperata; tutta la sua anima era nei suoi occhi. Carlotta fece atto di parlare, ma mancandogliene la forza, scosse tristamente il capo senza dir motto. Silvio lasciò sfuggire la mano che teneva stretta fra le sue, e si battè la fronte gemendo sordamente.

Per alcuni istanti non si udì altro che il rantolo di Silvio e la respirazione affannosa di Carlotta.

La poveretta non piangeva, non aveva più lagrime, ma l'espressione del suo pallido volto era così profondamente compassionevole, che pareva riflettere lo stesso dolore.

— Siate forte; prese a dire poco dopo con dolcezza; siate uomo; io non merito tanto dolore... E tuttavia, soggiunse con voce cui cercava di dare una fermezza impossibile, e tuttavia io vi ringrazio con tutte le forze della mia anima; questo linguaggio che mi avete parlato ha prodotto in me la sola gioia che io non avrei creduto di riprovare più mai sulla terra, quella di ingrandire, di risollevare me stessa ai miei occhi. Se voi credete alla riconoscenza degli uomini, fidate sulla mia; è un povero tributo infecondo, il solo che io possa darvi, ma mi viene dal cuore e mi fa bene il potervelo pagare. Credete a me: io non posso esser vostra, non lo posso; non fatemi dire di più. Se voi sapeste il terribile segreto che mi opprime, se conosceste il rimorso che mi divora... Eppure, sì, io lo debbo, io sono forte e lo posso: una confessione. Voi ne avete il diritto; avete anche il dovere di ascoltarla; forse apprenderete a stimarmi di più, e ad amarmi meno. Io non ho più nessun desiderio nella vita, non vedo innanzi alcuno scopo, fuor uno: espiare; pure il pensiero di sapermi stimata da voi allieterà la mia solitudine. Forse siete il solo cui le apparenze abbiano concesso questo fatale diritto di disprezzarmi; voi non ne avete abusato; mi avete amato. Io credo al vostro amore, e ne piango come di una sciagura; credo pure alla vostra stima, ma il tempo muterebbe le disposizioni dell'animo vostro; e forse un giorno non avreste per me che compianto. Io voglio la vostra stima; voi solo guarderete in questo povero cuore così colpevole e così sciagurato: giudicherete voi, voi solo. Direte voi stesso se un legame diverso dall'amicizia può stringere ad un altro cuore questo cuore straziato di donna.

Carlotta aveva detto queste ultime parole collo sguardo francamente aperto e sereno; la sua voce non tremava più. Silvio affranto e scoraggiato, seguiva colla docilità di un bambino le inflessioni soavi di quella voce argentina.

Carlotta tacque un istante; poi prese a parlare in questi termini.

LV.

«La natura ha posto un limite alle lagrime, ed io posso volgermi indietro, e contemplare le più remote memorie dei miei dolori, senza piangere.

Non è gran tempo. Io era ciò che si suol dire una fanciulla da marito, e mi si teneva in conto di tale; ma nel cuore io mi sentivo ancora una bambina. Mio padre, un vecchio negoziante che aveva accumulato un patrimonio coi suoi guadagni, mi aveva fatto dare un'educazione compita, e pretendeva che io ne facessi mostra. Era un buon uomo, e mi amava; io lo compiaceva del mio meglio, ma dentro di me sospiravo quelle dolci ed innocenti puerilità che allietano la facile carriera dei primi anni della vita; in mezzo alle feste, ai suoni, alle danze, a quelle cure che compiacevano la mia nascente vanità di donna, io pensavo a quella festa della vita che si chiama l'infanzia, a quell'età di spensieratezza e di petulanza che folleggia nelle vie, nei fossati, nei giardini, col suo lusso di teste bionde, e coi suoi cori di voci argentine.

Mia madre non era più al mio fianco; la poveretta mi aveva lasciato sola da un pezzo; a me adunque le cure della casa, piccole noie desiderate e care a diciotto anni, ma ingrate a sedici; a me le brighe dei ricevimenti, «madamigella,» «signore,» e poi i soliti complimenti di rigore; e tutto ciò senza sbadigliare, senza uscire fuor di sè stessa, come soleva dire mio padre — terribile carico per il mio piccolo dorso. Io che avrei amato tanto correre per la campagna, inseguire le farfalle e cogliere le more selvatiche!... «Non sei più una bambina» diceva mio padre; «madamigella» mi si diceva da ogni canto; ed io povera creatura, sottratta ai miei piccoli amori, mi rassegnava sospirando.

La nostra casa era frequentata da molta gente; uomini e donne, la più parte vecchi, si davano convegno alla sera per prendere il thè con mio padre. Queste radunanze settimanali erano il mio più gran supplizio; era in esse per l'appunto che io udiva ad ogni momento quella terribile parola madamigella. Era forse una stoltezza la mia; ma questo titolo, che ad altre fa battere il cuore, mi irritava, mi offendeva.

Ho ritenuto sempre in mente la memoria del giorno in cui udii profferire quel titolo fatale per la prima volta; fu in bocca d'un vecchio sensale di operazioni di banca. Costui era amico della famiglia, e m'avea sempre chiamato per nome; io credo che lo facesse per compiacere il segreto desiderio di mio padre; ma so che n'ebbi stizza, e che da quel giorno all'incirca incominciarono i ricevimenti settimanali, nei quali io doveva far la parte di padrona di casa. Mio padre andava orgoglioso di me, e non faceva nulla per nasconderlo. Egli stesso diceva che io era bella, e tutti gli altri me lo ripetevano in coro. Le prime volte fui turbata, e me ne lagnai con mio padre; più tardi ascoltai senza arrossire; più tardi con compiacenza.

Mi fermo sopra queste inezie, perchè è appunto ad esse che io attribuisco le mie sciagure. Il mio povero padre mi amava certamente; ma la sua cecità fu la prima causa, forse la sola, delle mie colpe. Io non era nata vanitosa; questo sentimento che abbandona l'uomo in balia del più destro, e trascina così fatalmente la donna alla dimenticanza dei suoi doveri, era come assopito nel mio cuore; non si sarebbe forse risvegliato mai, o non si sarebbe risvegliato che assai tardi. Ma l'educazione che mi si aveva dato, le cure precoci che mi si aveva addossato, le amiche, i divertimenti, le adulazioni che avviluppavano da ogni parte il mio spirito, tutto in una parola congiurò contro di me.

Venne un giorno, fatal giorno, in cui un uomo parlò al mio orecchio un linguaggio diverso da quello che io era solita udire.

Quell'uomo era giovane; mi aveva detto che io era bella, e mi ero stretta nelle spalle; tutti mi avevano detto altrettanto; mi aveva detto che io gli piaceva, ed io l'aveva guardato in volto, ed aveva visto che non era brutto e che non mi dispiaceva; finalmente mi disse che mi amava.

Io non risposi nulla, ma arrossii e sentii dentro di me qualche cosa che mi lusingava e m'impauriva ad un tempo.

La notte non chiusi occhio; una sensazione nuova mi costringeva a vegliare. Io volgeva e rivolgeva in mente quelle misteriose parole che avevano tanto potuto sul mio cuore; dove era il segreto che me le faceva così care? L'immagine dell'uomo che le aveva profferite si mesceva talvolta alle mie fantasie, ma così vaporosa ed incerta, che io stentava a riunirne coll'occhio i profili. Io non posso dubitarne: il labbro che le aveva profferite aveva ben piccola parte nell'influenza meravigliosa di quelle parole. L'amante era l'accessorio — un nonnulla; l'amore era tutto. Essere amata! sapere che si ha inspirato dell'amore! è forse questa segreta compiacenza che abbellisce il primo palpito del cuore della donna. Ieri le feste, le etichette, le mode; ma nonostante tutto ciò la coscienza, e, più che la coscienza, il desiderio d'essere bambina; oggi invece la donna colle sue ardenze, coi suoi desiderii, coi suoi affetti. L'amore è una rivelazione; la farfalla dalle ali di raso si abbandona al fuoco che la seduce — la fanciulla muore e nasce la donna.

Quell'uomo era bello, era simpatico? che so io? Mi amava, ecco tutto. Io non l'amavo, ma pensavo talvolta a lui, e mi compiaceva di questo pensiero. Io sentiva qualche cosa per lui; forse più riconoscenza che simpatia, amore no certamente; ad ogni modo io sentiva qualche cosa. Era stato lui il primo! Aveva sopra di me come un diritto di conquista; avessi anche sentito simpatia per un altro, mi sarebbe sembrato di rendermi infedele, di mancare ad un dovere. A quella età si sente l'istinto del sagrifizio, e se ne ha la forza.

Il giorno successivo fui pensierosa; erano i primi pensieri, i primi affanni.

Lo rividi; volli sfuggirlo quasi per istinto, ed egli mi si fece vicino addolorato. Quel dolore mi ferì vivamente; fui gentile con lui; risi delle sue parole, ma dentro di me mi lusingai. Le abitudini sociali mi apprestavano le prime armi dell'amore, la dissimulazione.

Un'altra volta fu più ardente, ed io risi meno; finalmente mi domandò se io l'amassi, ed io gli dissi ingenuamente di. Ero io certa di non ingannarmi? non credo; ero però certa di non mentire.

Di quel tempo mio padre ammalò; per la prima volta in mia vita pensai che sarebbe venuto un giorno in cui anch'egli mi avrebbe lasciato. Pur troppo i miei timori non tardarono ad avverarsi!

Durante la sua infermità io fui sempre al suo fianco; ma il mio pensiero era sempre con lui.

Ci rivedemmo più volte presso il capezzale di mio padre; gli parlai dell'avvenire; mi parlò dell'avvenire. In fondo al mio cuore era un pensiero che si rivelava dai miei sguardi; mi parlò di nozze. Battei palma a palma le mani; non ne era troppo certa, ma doveva esser questo. Il matrimonio per me era l'amore.

A poco a poco mi assuefai a vederlo, a pensare a lui, ai nostri progetti. Allora fui assalita da una specie di rimorso; incapace di apprezzare giustamente la natura dei miei sentimenti, volli analizzare l'affetto che io sentiva per lui, e convincermi che io l'amavo. Frugai nel mio cuore con severità, disposta ad accusarmi di non avergli dato tutto ciò che il mio cuore poteva dargli. Il risultato di queste indagini mi afflisse; io non era certa d'aver la coscienza netta; quando avevo domandato a me stessa che cosa amassi in lui, era rimasta attonita. Il suo naso, la sua fronte, la sua bocca? No certamente; un altro naso, un'altra fronte, un'altra bocca, mi avrebbero trovata arrendevole allo stesso modo: amavo lui. Questo lui concretizzava le mie aspirazioni, il mio ideale: ma questa vaga indeterminazione mi era incresciosa, e me ne faceva un carico.

Come per vendicare questa colpa, presi a dimostrargli maggior tenerezza. Ridivenni bambina per lui, perchè egli potesse comandarmi, perchè io ricercassi avidamente le sue carezze; la mia innocenza non mi impediva il rossore; la natura stessa ci avverte dell'errore in un linguaggio pieno di mistero e di eloquenza.

Quell'uomo approfittò della mia debolezza, dell'impero fatale che esercitava sopra di me; un giorno.... e come oserò io ripeterlo? egli pregava, mi stringeva le mani, si gettava ai miei piedi; io pallida, sbigottita, tremante, senza coscienza. La vergogna mi teneva immobile, l'amore, la pietà mi facevano deboli; la sua audacia, le sue promesse, mi soggiogavano; fui colpevole.»

LVI.

Carlotta nascose la faccia fra le mani.

Silvio colle labbra tremanti, con una espressione indescrivibile d'ansietà o di paura, girava uno sguardo torvo intorno a sè.

— E quell'uomo? domandò egli con voce fioca, facendo forza a sè stesso.

— Il cavalier Salvani; rispose Carlotta rialzando la fronte pallidissima.

Silvio soffocò un gemito; e fece segno a Carlotta di continuare la sua narrazione.

LVII.

«Conobbi ben tosto l'enormità del mio fallo; benchè io cercassi di stordirmi nel pensiero dell'amore, la coscienza mi accasciava ogni giorno sotto il peso del rimorso. Una segreta ed invincibile paura s'aggiungeva al mio strazio.

La prima colpa mi aveva abbandonata inerme in balia di lui; io sentiva di appartenergli, parevami che forza umana non avrebbe potuto strapparmi dal suo seno, che i nostri destini fossero stati congiunti lassù. Questa assoluta dipendenza dai suoi voleri mi atterriva; il peso dei doveri che mi stringevano a lui non era alleviato da alcun diritto; io sapeva troppo bene di non averne alcuno.

Per la prima volta pensai al matrimonio come ad una riparazione; glielo dissi fra le lagrime, ed egli mi rassicurò, ridendo della mia debolezza.

Io non lo amavo più come prima, nè certamente lo amavo più di prima; pareva che la mia anima avesse mutato natura. La colpa aveva concretizzato a un tratto le astrazioni del mio culto; prima era l'amore; oggi era l'uomo a cui mi era abbandonata. Era tuttavia un modo assai strano d'amarlo; v'era dell'ammirazione, e quasi del timore per il suo corpo maschio, così vigoroso al confronto del mio; v'era del rispetto, ma poca tenerezza. Io sentiva che avrei potuto amare altrimenti, che in fondo al mio cuore v'era qualche cosa che invano anelava di prorompere. Che cosa me ne tratteneva? Non lo sapeva dire.

Tuttavia io era felice; mi compiacevo dei miei sentimenti, e cercando d'ingannare me stessa, mi compiaceva perfino della mia colpa. Le sue carezze, le sue promesse, mi pagavano di tutto; quando mi vedeva mesta sapeva mostrarsi tenero per rasserenarmi.

Passarono di tal guisa alcune settimane. La malattia di mio padre s'era aggravata; pensando che io deludevo la fiducia del povero infermo, e che v'erano stati dei momenti in cui m'era quasi rallegrata della sua infermità, io mi sentiva riavvicinata a lui, più ancora che dall'affetto e dal sentimento di pietà dal bisogno di meritare il suo perdono.

La sua malattia si prolungò alcuni mesi.

In quell'intervallo di tempo Salvani era venuto assiduamente a vedermi; i suoi modi erano però mutati; alla dolcezza delle sue parole era succeduta una specie di rozzezza dissimulata a stento; alla spontaneità ardente un'indifferenza che mi agghiacciava.

Io gliene faceva rimprovero palesemente; egli si schermiva con una parola: «affari», ed io, che non amavo di meglio che di credergli, mi acquetavo.

I miei timori non erano che troppo fondati; in breve n'ebbi la certezza.

Non dirò per qual via mi giungesse la forza per sopportare quel colpo crudele; io lo sopportai. Il suo abbandono mi trovò preparata; da qualche tempo l'affetto s'era spuntato nel mio cuore contro la vergogna; la virtù oltraggiata mi consenti una forza che non avrei osato sperare; egli spezzò i suoi giuramenti, ed io non ne morii. La vergogna non uccide.

La mia debole natura di donna si fortificò nell'odio; odiai quell'uomo assai più che non lo avessi amato».

LVIII.

«Risparmierò al mio cuore una narrazione penosa ed inutile; la narrazione dei dolori che accompagnarono il mio disinganno.

Mio padre riacquistò a poco a poco la salute; a poco a poco invece io andai perdendo la mia. Il cielo mi è testimonio se il pensiero d'ammalarmi e di morire mi ha fatto battere il cuore! Ma la mia speranza fu vana. Un pallore estremo aveva cancellato sulle mie guancie le rose della fanciullezza e dell'innocenza, ma non fui costretta a letto. Assai più fatale era il mutamento avvenuto nel mio spirito; quella mia natura facile, scherzosa, puerile, aveva preso il sussiego della meditazione, e un'indolenza assai prossima all'apatia.

Mio padre cercò invano di distrarmi, interrogò invano i medici, invano interrogò il mio cuore.

Le sale della nostra casa si ripopolarono un'altra volta di convitati; un'altra volta toccarono a me le brighe dei ricevimenti; ed io mi vi assoggettai senza riluttanza, senza troppo gran noia, come ad una necessità indifferente.

Un ricco negoziante, ancor giovane, aspirò alla mia mano. Mio padre me ne parlò con quella leggiera insistenza che nei cuori benevoli e delicati tiene luogo dell'autorità. Rifiutai, e non se ne parlò più. Ma il mio cuore n'ebbe per un pezzo, e tutti i fantasmi del rimorso ritornarono in folla a torturarmi dopo quel rifiuto. Il mio partito era preso; per la donna che ha dimenticato i suoi doveri, non ve ne ha più che uno: soffrire in silenzio, soffrire sola; associare un uomo alla mia vita sarebbe stato associarlo alla mia vergogna. Il pentimento mi rendeva crudele contro me stessa; conobbi più tardi che un altro rimedio era possibile, ma non ebbi il coraggio d'accettarlo.»

LIX.

«Passarono di tal guisa diciotto mesi; io ora presso al ventesimo anno. Mio padre mi colmava di carezze senza riuscire a darsi ragione della mia tristezza. Di Salvani non avevo saputo più nulla; tremavo al pensiero di rivederlo, sebbene sapessi troppo bene che egli mi avrebbe sfuggito.

L'aspetto di mio padre era una continua minaccia per me; benchè egli si adoperasse a non lasciarlo parere, io indovinavo dal suo volto l'affanno che lo torturava; comprendevo che il mio stato di zitella lo poneva in gravi timori pel mio avvenire. I suoi discorsi miravano tutti istintivamente ad uno stesso fine: ispirarmi l'amore della famiglia e il pensiero d'uno sposo; io fingevo di non comprendere l'allusione, e mi schermivo con qualche domanda d'altra natura, a cui egli rispondeva sospirando.

Una sera, io l'ho in mente come fosse ieri, ci fu presentato il figlio d'un ricco negoziante svizzero, che era in rapporti di commercio con mio padre.

Era un giovane sui ventotto anni, alto della persona, di lineamenti severi e belli. Non so perchè, vedendolo la prima volta, mi sentii così potentemente attratta verso di lui; v'ha certamente al di fuori di noi una forza misteriosa che ci trascina inesorabilmente sul sentiero che ci è stato segnato; noi non siamo che strumenti.

Quell'uomo voi lo avete conosciuto, si chiamava Antonio Verni.»

LX.

«Io aveva lottato disperatamente col mio cuore, e mi era lusingata d'avergli strappato per sempre ogni altra facoltà, tranne quella del dolore. Quel giorno compresi d'aver fidato a torto sulle mie forze; io sentivo nel mio seno la facoltà, e più ancora, il bisogno d'amare. Anzi, ora appunto che mi sapevo indegna di questo nobile sentimento, m'accorgevo di comprenderne per la prima volta la vera natura. Salvani non aveva avuto che la mia innocenza, oggi io potevo dare il mio vero, il mio primo amore.

Tuttavia non mi arresi al prepotente desiderio del mio cuore, e combattei questa passione che divampava ogni giorno più violenta.

Il signor Verni — allora io lo chiamavo arrossendo «signore» — pareva non vedere l'imbarazzo che mi cagionava la sua presenza, nè dal canto suo aveva fatto nulla per suscitarlo. Rare parole ed indifferenti, qualche sguardo smarrito che s'era incontrato alla sfuggita nel mio, e null'altro. La mia vanità di donna non sarebbe stata certamente lusingata dal suo contegno; ma io non era più vanitosa. La vanità è una debolezza che esige una coscienza, non dirò pura, ma tranquilla; essa vive e s'alimenta di cento inezie che solo la virtù senza macchia o il vizio spudorato possono procacciarle; un'anima tormentata dal rimorso non lo potrebbe giammai.

Dal sapere che il mio affetto era solitario e non corrisposto, ritrassi nuovo vigore per combatterlo. Invano. Il mio cuore era più forte della mia volontà. A poco a poco rinunziai a resistere; mi ripetei che la sua indifferenza allontanava il pericolo della passione; che io sarei stata libera d'amare senza temere le conseguenze cui un amore corrisposto avrebbe potuto trascinarmi; io non sarei stata mai la sposa di quell'uomo, ma ne sarei stata l'amante sempre. Avrei vissuto di questo affetto; nissuno avrebbe potuto rapirlo dal mio cuore, però che nessuno avrebbe letto nel mio cuore.

Io non mi faccio colpa di questa segreta determinazione, sebbene per essa io mi sia trovata più debole nel momento in cui più avrei avuto bisogno di forza — così era stabilito lassù.

Se rivolgo lo sguardo al mio passato, io non vedo che una cieca fatalità in lotta colla mia debolezza. Le mie colpe sono, ahimè, grandi e vere, ma i cimenti a cui fui provata furono troppo lunghi e troppo crudeli, perchè potesse essere incerto l'esito della lotta.

Una sera io mi trovai senza avvedermene seduta vicino al signor Verni. Levando gli occhi, incontrai il suo sguardo fisso sopra di me.

Non era la prima volta che io sorprendeva il suo sguardo che aveva virtù di farmi arrossire. Quella sera però, forse perchè lontana dall'aspettarmelo o forse perchè più debole nel sostenerlo, la mia emozione fu così palese che egli se ne avvide. Io chinai gli occhi al suolo, egli li tenne fissi nel mio volto; risollevandoli, toccò a lui ad abbassarli e ad arrossire. Fu il primo segno di un'intelligenza misteriosa fra le nostre anime; ma fu eloquentissimo. Provai un piacere vivo, ma crudele come fitta di dolore.

La mia mente non ebbe altra immagine che quel rossore, nè altro pensiero che a quella muta rivelazione.

Un'altra volta egli mi si fece incontro per salutarmi; indovinai dal suo sguardo che era commosso, e la mia mano tremò nella sua; — egli la trattenne con insensibile violenza — un solo istante, eterno per il mio cuore. Quel giorno lo sfuggii: il suo amore era a un tempo un conforto ineffabile ed uno spasimo atroce; quel che io sentivo al pensiero di essere amata da lui era un sentimento indefinito di desiderio e di paura — ma più assai di paura.

Finalmente egli mi svelò il suo affetto; fu una prova suprema, terribile; io non so più quale linguaggio egli adoperasse, ma mi parve un linguaggio non mai udito; l'impressione che io ne provai era certamente affatto nuova per me. Mi tornò in mente il passato, questo inesorabile passato che pesava sulla mia coscienza; impallidii, tremai, non risposi; che cosa avrei potuto rispondere?

Il signor Verni non si diè per vinto; insistè con cortesia squisita ed ottenne da me delle parole smarrite, senza senso, che pure lo colmarono di gioia. Era una gioia schietta, serena, che illuminava il suo volto di una luce straordinaria.

Alcuni giorni dopo mi chiese il permesso di parlare di me a mio padre. Che voleva egli dire? Poteva la mia povera mente agitata comprendere ancora alcuna cosa di ciò che avveniva intorno a me? Mio padre mi parlò di nozze, di nozze col signor Verni. Rifiutai con voce spenta, e poichè mio padre si meravigliava, e per la prima volta in sua vita insisteva, dissimulando a stento la sua collera, mi gettai piangendo nelle sue braccia.

Il signor Verni non parve aversene a male; si mostrò sempre cortese verso di me, e studiò con ogni cura tutte le vie del mio cuore. Egli non sapeva quanto io l'amassi, quanto sarei stata felice d'essere sua!

L'amore mi guadagnò; a poco a poco tutte le mie armi di difesa diventarono uno schermo impotente. Una cosa sola rimaneva incrollabile in me: il proposito di non ingannare quell'uomo così generoso. Un giorno egli era venuto a farci visita, e mio padre era assente; trovandomi sola con lui tremai come uno stelo di giunco. Mi parlò del suo amore. Che avrei potuto fare io, io che l'amava ardentissimamente?

Ascoltai senza interromperlo; mi chiese se io l'amassi; mi schermii male, titubai, arrossii, un fuggi dal mio petto. Da quel punto fui vinta. Confessato il mio amore, io non poteva più ostinarmi nel rifiuto della sua mano senza darne le ragioni; ed avrei io osato?...

Risposi alle nuove profferte di nozze con dei pretesti per indugiare; accettò giubilante, sarebbe stato ai miei voleri. Mio padre era fuor di sè dalla gioia.

Tutto ciò era avvenuto senza che quasi io ne avessi coscienza, come opera di malia. Passarono alcune settimane, rapide come pagine d'un libro sfogliate da una mano impaziente. Il mio supplizio divenne ogni giorno più atroce; io comprendeva che oramai non mi rimaneva che un partito: confessare tutto, purificarmi per questo mezzo.

Nessun'altra via erami aperta per divenire sposa di quell'uomo; portare nel mio nuovo stato di moglie il segreto del mio passato, sarebbe stato aggiungere un nuovo rimorso alle mie torture. Ingannare la buona fede d'un uomo che mi amava, era ai miei occhi tale bassezza di cui non avrei creduto giammai di potermi macchiare.

Mio padre era ricaduto improvvisamente ammalato; mi pregava colla voce e colle lagrime: «affrettassi, non lo lasciassi morire senza dargli il conforto di vedermi unita ad un uomo onesto.» Mi feci forza e diedi convegno al signor Verni. In quel momento era disposta ad affrontare la vergogna; s'egli si fosse trovato innanzi a me non avrei esitato un solo istante.

Quella fu per me una giornata d'angoscia. La ragione mi rappresentò agli occhi le conseguenze di ciò che io stavo per fare; un basso istinto d'egoismo e di paura ne alterò stranamente le sembianze. Ciò che da prima era dovere prese aspetto d'eroismo; la bassezza e l'inganno ebbero battesimo di prudenza.

Che cosa avrebbe fatto il signor Verni dopo la mia confessione? Mi avrebbe stimata per la franchezza, e il suo amore avrebbe saputo perdonare ad un passato che infine non gli apparteneva... Ciò era probabile. Ma se invece egli avesse sdegnato di dare la sua mano ad una donna colpevole? Ciò era pure possibile; nella più parte dei casi sarebbe stato anzi il partito più verisimile. E in tal caso che cosa mi sarebbe rimasto? La vergogna della confessione, la vergogna di sapere che un altro uomo aveva penetrato questo secreto fatale della mia vita sciagurata. Al contrario il silenzio salvava ogni cosa; se il passato non apparteneva che a me sola, nessuno aveva diritto di indagarne il mistero; nè io falliva ad un dovere tacendo una colpa che la mia nuova vita avrebbe dovuto far dimenticare a me stessa. Che se pure il signor Verni avesse accolto la mia confessione ed accettato senza arrossire il carico di farmi dimenticare coll'amore il tormento delle memorie, chi poteva dire quanto tempo avrebbe durato il suo coraggio? chi poteva dire che un giorno egli non si sarebbe pentito della sua debolezza ed avrebbe pagato col disprezzo da prima, coll'indifferenza più tardi, la memoria incancellabile d'una colpa?

Venne il domani; venne l'ora del convegno; venne il signor Verni.

Il mio proposito aveva resistito alla lotta; io era pallida in viso, ma pronta a sfidare l'abbandono e il disprezzo di quell'uomo che amavo.

Egli era bello, dolce, amorevole; si rinnovarono ancora una volta nella mia mente le indecisioni che mi avevano travagliato fino a quel punto. Avvelenare la sua pace, uccidere forse il nostro amore, perderlo forse per sempre! Affannoso pensiero!.... E tuttavia io mi sentiva in petto una forza prodigiosa....

Lo feci sedere vicino a me, radunai le mie idee, cercai la frase che poc'anzi avevo ripetuto cento volte dentro di me; la cercai spasimando, istupidita, atterrita del mio coraggio....

Lo guardai in volto; era così sereno! ed avrei? Orribile! Orribile! ed avrei io osato palesare a lui? e in quali termini, mio Dio?

La vergogna mi vinse; mi abbandonai piangendo sopra il divano.

— Che avete? mi domandò egli commosso.

— Che ho?

Mi rialzai con un nuovo impeto, aprii le labbra per parlare, ma la voce mi mancò, e il fatale segreto morì soffocalo nel mio seno.»

LXI.

«La fermezza della volontà mi aveva ingrandita ai miei occhi; giudicate voi dell'accasciamento che vi succedette. Una sfiducia, tanto più profonda quanto più saldo era stato il mio proposito, dominò il mio spirito. Incapace dell'eroismo che purifica, (allora la confessione mi apparì come eroismo ) mi sentii mancare a un tratto anche la forza di resistere ad un nuovo fallo.

Codesto è spesso il sentiero fatale della colpa; si rifiuta per debolezza il solo rimedio che risana, si sdegna un pentimento inutile, e si cerca la dimenticanza in quella sorgente dove si ha attinto il rimorso. Sciagurata miseria del cuore! — non di rado il rimorso lava il rimorso.

Desistei dalla lotta; mi assoggettai come una bambina, subii senza riscuotermi il peso della mia apatia. Il mio amore cresceva gigante; il cuore soffocava la coscienza.

Ebbi dei rari intervalli di vigore, degli slanci improvvisi di virtù e di sagrifizio. Tentai molte lettere per lui, tutte incominciavano a un modo «non posso essere vostra.» Poche andavano più oltre; le lagrime me l'avevano sempre impedito.

Avrei voluto darmi la morte per uscire onestamente da questo supplizio. Rinunziare al suo amore! Io l'avrei potuto. Non fu l'egoismo che me ne trattenne, ma la vergogna, mi era impossibile di rinunziare alla sua stima. Non v'era scampo; egli avrebbe voluto sapere le ragioni d'un rifiuto, ne aveva diritto; e poi, mio padre, il mio povero padre infermo, di cui avrei avvelenato le ultime ore, che avrebbe recato nella tomba il disprezzo per la sua unica figlia...

Fu stabilito il giorno del contratto; non mi opposi. Se non che alla vigilia di quel giorno la virtù rinnovò per l'ultima volta i suoi assalti. Fu una notte di delirio e d'insonnia; alla mattina io aveva preso una determinazione; col cuore gonfio dal dolore scrissi una lettera che bagnai delle mie lagrime. Giovanni, il vecchio servitore, il vecchio amico della famiglia, ebbe l'incarico di portarla al signor Verni. Intanto dalla mia camera io udiva il rumore dei servi affacendati per la cerimonia che doveva aver luogo prima del mezzodì.

Alle dieci mio padre mi chiamò a sè; si meravigliò del mio aspetto stravolto, io non cercai di dissimularlo e piansi abbracciando la sua fronte serena.

Alle undici venne il signor Verni; riconobbi i suoi passi e dovetti appoggiarmi al letto per non cadere. Egli entrò, era mesto, ma calmo; il cuore mi palpitava... Mi si avvicinò, mi sorrise, mi porse la destra. Non osai levare lo sguardo sul suo volto, tanto la vergogna imporporava il mio. Ma il mio stupore era ancora più grande della mia vergogna. Che cosa era adunque avvenuto? La sua calma era indizio di perdono? Le mie idee si confondevano; tutto ciò che succedeva intorno a me pareva non mi toccasse da vicino. Venne il notaio, vennero molte altre persone amiche della famiglia che erano state invitate ad assistere alla segnatura del contratto.

Egli sedette vicino a me, mi disse poche parole; quali? io non le udii; tremavo tutta.

«Oggi è il più bel giorno della mia vita,» soggiunse accostando le labbra alle mie orecchia. Non udii altro. «Sarete mia!» Il mio cuore non era capace abbastanza per contenere la gioia di quelle parole. Egli dunque mi perdonava, egli mi amava ancora, egli aveva compreso il mio strazio, e voleva farmelo dimenticare coll'amore!

Risollevai il capo come una regina; sentivo in quel momento un orgoglio che mi veniva dalla coscienza, orgoglio nobile e grande, l'orgoglio della virtù caduta che si risolleva pentita.

Poco dopo il notaio si rivolse verso di noi; il signor Verni mi lasciò sorridendo, lacerò il guanto della mano destra ed appose la sua firma al contratto.

In quel punto Giovanni si affacciò alla portiera; non so qual voce favellasse dentro di me — arcana voce e fatale; mi levai rapidissima e gli mossi incontro.

— La lettera? domandai agitata.

— Ho corso tutta Milano inutilmente.

Ciò che io provai a quella notizia inaspettata non è descrivibile.

Tutte le torture che mi avevano straziata si rinnovarono in un punto. Quella lettera che io credeva nelle mani di lui ritentava ancora una volta la mia debolezza. La fatalità mi trascinava alla colpa. Mi balenò in mente il pensiero di interrompere la cerimonia, di svelare tutto in quel momento. Mi rivolsi; tutti gli sguardi erano fissi sopra di me; il notaio aspettava colla penna in mano; il signor Verni mi sorrideva e mi faceva segno che era venuta la mia volta.

Avrei io sfidato la maligna curiosità di tutti quegli sguardi allora così benevoli? avrei io rinunziato per sempre a quella felicità che mi attendeva?... Io lo dovevo, sì, lo dovevo; la mia coscienza parlava assai chiaro; ma il cuore, questo misero cuore affranto da tante lotte!...

Non fu che un baleno; il pensiero che quella lettera potesse pervenire nelle sue mani troncò la mia irresolutezza.

— Dov'è la lettera?

— Eccola.

Gliela strappai di mano, e la nascosi nel mio seno; respirai più libera e a un tempo più oppressa — io aveva risepellito il mio segreto.

LXII.

«Da quel giorno fui vinta. Non dirò le deboli titubanze e le lotte codarde che vi succedettero — povere scintille d'una virtù semispenta. Una settimana dopo il voto del mio cuore era compito; legata da nodo indissolubile al signor Verni, lo fui del pari al mio rimorso.

Incominciarono giorni d'amore e d'angoscia; l'immenso affetto che io sentiva per mio marito era soverchiato dall'affanno di averlo ingannato; anzi più io l'amavo, più egli mi amava, e più grande parevami la mia colpa.

I primi giorni del mio matrimonio furono funestati da un avvenimento temuto da gran tempo, la morte del mio povero padre.

Morì calmo e sorridente, come aveva vissuto. Nelle ore che precedettero la sua ultima ora parlò della morte senza ribrezzo; il suo voto era esaudito: vedere i suoi figli amantissimi ed uniti.

Benchè io fossi preparata a questa perdita, ne piansi come d'una sventura inattesa. Voi sapete forse che cosa sia perdere un padre, ma non potrete tuttavia immaginare che cosa fosse per il mio cuore. Mi pareva di rimaner sola sulla terra. Tutta la mia vita, tutti i miei affetti, dovevano quindi innanzi essere consacrati a mio marito; allora più che mai sentii quanto egli fosse per me, quanto valesse il suo amore, e quanto io ne fossi indegna.

L'amore, l'isolamento mi riaccostavano potentemente a lui; il mio passato, questo segreto angoscioso che mi divorava, si innalzava innanzi a me come una barriera.

Mio marito non sospettava di nulla; la mia mestizia agli occhi suoi era natura, però che egli mi aveva sempre conosciuta mesta; non se ne doleva, non cercava di condurmi bruscamente ad una falsa allegria, ma pagandomi di molto amore, di molta tenerezza, mi trascinava irresistibilmente ad amarlo. Io avrei voluto mostrargli il mio cuore e dirgli il mio amore, e rispondere alle sue carezze, ma anche l'espressione dei miei sentimenti era contesa al mio petto straziato; un ritegno pauroso, un rossore segreto soffocava gli slanci dell'anima; la voce del rimorso gemeva sordamente dentro di me più potente della mia volontà — più potente della voce dell'amore.

Mi venne più volte in mente il pensiero di gettarmi ai suoi piedi, di chiedergli perdono, di rivelargli tutto... Ma mi avrebbe egli perdonato, lo avrebbe egli potuto? E qual prò da questa tarda confessione? oramai il male era fatto; una confessione fatta quando le conseguenze potevano ricadere a mio danno, tornava a vanto della mia virtù; fatta quando nulla poteva minacciare una unione indissolubile agli occhi del mondo, poteva parere ipocrisia mascherata di pentimento. Io non conosceva allora quanto il suo cuore fosse grande e generoso, quanto fosse grande e generoso il suo amore!

Più tardi lo conobbi, e fu vano. Uno sciagurato destino aveva seminato il rimorso sul sentiero della mia vita.»

LXIII.

«Questa tortura aveva durato un anno, quando voi veniste per la prima volta in mia casa.

Ciò che mi rimane a dirvi è assai affannoso, nè so dove io attinga la forza per osare di esaminare così da vicino la mia vergogna e il mio dolore. Ma è necessario che voi leggiate in tutto il mio passato, che non una pagina di questo libro sciagurato vi sia celata; quando pure questa confessione non mutasse i vostri sentimenti e il vostro desiderio, varrà tuttavia ad apprendervene la vanità. Io pongo questa confessione fra me e voi, come un vincolo e come una barriera; io non sarò giammai vostra perchè non potrei dare giammai ad altro uomo più che io abbia dato a lui, e vi avrei dato di più. Se non sdegnerete la mia amicizia, vi appagherete di essa; non domanderete il mio amore che non è più della terra.

Giudicherete dal racconto degli ultimi avvenimenti della mia vita, se la determinazione che ho preso sia frutto d'un sentimento passeggiero, o piuttosto d'un dovere inalterabile».

LXIV.

«Il passato pesava inesorabilmente sopra il mio cuore, le memorie occupavano tutta la mia mente. Io non aveva mai spinto lo sguardo innanzi a me, non aveva mai indagato i misteri del mio avvenire, aveva quasi dimenticato d'averne uno. Parevami che il rimorso avrebbe riempito la mia misera esistenza; nè poteva immaginare che nuovi dolori si sarebbero aggiunti al fardello delle mie pene.

Dov'è il limite che la natura ha stabilito al dolore? dov'è il limite che ha stabilito alla sofferenza? Io ho spesso cercato di dire all'anima mia: «fin qui, fino a quel punto, non oltre». Ma le mie fibre furono più forti della mia volontà e del mio dolore; la mia fragile natura di donna ha resistito all'urto senza spezzarsi. Le anime deboli si piegano e s'infrangono — le forti resistono, ma soffrono più a lungo; il segreto dei grandi dolori è la forza.

Voi rammenterete forse la sera in cui quell'uomo abborrito osò oltrepassare la soglia della mia casa.

Tutto l'odio di cui il mio cuore era capace si ridestò a quella vista; non fu che un istante, compresi che il male che quell'uomo mi aveva fatto era nulla in confronto di quello che poteva farmi. Per la prima volta pensai all'avvenire; all'immensità del mio odio per lui si unì un sentimento angoscioso di paura. Quell'uomo poteva perdermi, voleva perdermi; la sua venuta in mia casa non poteva avere altro scopo. Io tremai come alla vista d'un pericolo imminente; raccolsi le mie forze per resistervi, pregai il cielo che mi salvasse o mi facesse morire... Ma il cielo è sordo alle preghiere della colpa...

Misurai un'altra volta dalla grandezza del mio affanno l'immensità del mio fallo. Ciò che mi rimaneva a temere me ne dava l'immagine più nettamente e più inesorabilmente dello stesso rimorso. Il terribile segreto che aveva straziato fino a quel punto la mia esistenza, si arroventava dentro il mio seno come uno strumento di tortura. Io avrei potuto essere felice del mio amore, orgogliosa della mia virtù; avrei potuto levare la fronte in faccia a quell'uomo che aveva abusato della mia innocenza, vendicare l'ingiuria col disprezzo, riparare nelle braccia del mio amico, del mio sposo, e trionfare colla sicurezza suggerita dal pentimento d'una memoria che richiamava la mia mente ad una vergogna... Al contrario ero costretta a chinare gli occhi sotto il suo sguardo ingiuriosamente sfacciato: dovea subire l'oltraggio ed arrossire e tremare come un colpevole che si vede in balìa del suo complice. La colpa, che lunghi anni d'espiazione mi avevano fatto credere lavata, risorgeva a un tratto col suo più brutale rimprovero; tutti i miei dolori avevano pesato inutilmente sulla bilancia che misura il perdono. Oimè! sì, io l'ho meritato; il mio pentimento non era stato nè forte, nè sincero, poichè s'era arretrato dinanzi ad una confessione.

Non mi dissimulai punto i miei torti; non m'adoperai a scemarne la gravità o a legittimarli con ragionamenti mendicati alla debolezza. Questa crudeltà con cui flagellai il mio cuore mi consentì una forza ed un coraggio che avrei creduto superiore alla mia natura di donna, la forza e il coraggio d'intraprendere la lotta...

Una lotta spietata. Fu allora che io conobbi per la prima volta quanto sieno meschine le armi dell'amor proprio offeso, e quanto fiacca la rivolta della dignità che non si accompagna colla coscienza. Tutti i rimproveri che io poteva fare a quell'uomo si spuntavano contro il suo sorriso glaciale; al contrario le accuse che io stessa muoveva alla mia condotta passata ricadevano sul mio cuore a soffocare gli impeti generosi dell'ira. Nondimeno lottai... Sfidai il suo sguardo insistente ed ingiurioso, e lo costrinsi più volte ad abbassarlo. Io ne andava lieta come di un gran trionfo; sentivo il sangue affluire più rapido e più copioso alla testa ed al cuore, ma poco dopo tremavo tutta, impallidivo e chinavo a terra la fronte umiliata; risollevandola incontravo un'altra volta la pupilla fredda e penetrante di lui... Quelle lotte esaurirono le mie forze; la mia energia rimase fiaccata a poco a poco da quell'urto. Vi fu un momento in cui ebbi paura, in cui un'immensa sfiducia, ed un accasciamento improvviso dominarono tutto il mio spirito. L'avvenire mi parve assai nero; guardai innanzi a me atterrita come un viaggiatore che all'improvviso vede sprofondarsi sul suo sentiero una voragine.

Quell'uomo indovinò dal mio volto, dal mio atteggiamento, ciò che si passava dentro di me. Quando non seppi più simulare la forza e l'indifferenza, fui altresì incapace di dissimulare la debolezza e la paura.

Da quel momento io non mi appartenevo più; ciò che era in me non poteva quindi innanzi bastare a me medesima; la mia pace, la mia salvezza erano al di fuori della mia natura. Mio marito! egli solo avrebbe potuto difendermi, io doveva gettarmi nelle sue braccia e versare nel suo seno pieno d'amore il mio seno traboccante d'angoscia.

Ad altro patto non era più possibile sottrarmi alla vergogna. Il cavaliere Salvani avrebbe indovinato ben tosto, se pure non lo aveva diggià indovinato, l'intervallo che si frapponeva tra me e mio marito; egli possessore del mio segreto, non avrebbe tardato ad abusarne; autore del mio disonore, ne avrebbe fatto pesare le conseguenze sul mio povero capo.

Se io avessi potuto resistere ancora, avrei forse ingannato quell'uomo, fors'anco lo avrei reso pauroso; sperare di trionfarne per altra via era lusinga non solo inutile, ma perniciosa.

E tuttavia non mi bastò l'animo. La franchezza d'una confessione avrebbe sollevato il mio cuore, ma ucciso inesorabilmente la pace di mio marito. Perdonarmi! l'avrebbe egli potuto? qual'uomo lo avrebbe potuto?

«Chi sa, dissi a me stessa, se la mia franchezza non avrebbe invece battesimo di paura, se la mia confessione anzi che spontanea, non parrebbe invece strappata dalla necessità e dall'imminenza del pericolo? Egli saprebbe ben tosto tutto; qual merito avrei io d'anticipare di alcune ore quella scienza sciagurata? E chi può dire che al contrario la mia confessione, distruggendo a un tratto l'immagine della mia debolezza, non celerà a suoi occhi le mie lotte del passato, e non gli farà attribuire a mal animo e a finzione ciò che fu frutto di vergogna? E poichè le conseguenze d'una rivelazione, da qualunque parte venisse fatta, erano oggimai immutabili, per qual fine avrei io attribuito al mio cuore questo penoso fardello, mentre gli avvenimenti stessi avrebbero palesato il segreto dell'anima mia? La vergogna! oggi non era ciò che io temessi di più; era l'amore di lui che io vedeva minacciato, non il mio orgoglio; e poteva io sfidare il momento in cui egli mi avrebbe ritolto il suo amore?»

Attraverso questa confusa vicenda di paure, e di propositi, io smarrii affatto l'imperio del mio spirito.

Da gran tempo mi era abituata a considerare i vincoli che mi legavano a mio marito, il suo amore, e la sua stima, come un tesoro minaccialo dalla mano avara del destino. In mezzo a questo inesorabile ed incessante timore, balenava talvolta qualche raggio di speranza — e qual'è il cuore che non speri? — ma moriva bentosto nelle tenebre profonde della mia anima.

Il mio pensiero, sempre stanco e sempre infaticabile, ritornava alle immagini desolate del mio avvenire.»

LXV.

«L'idea di trovarmi sola col cavaliere aveva attraversato più volte lo scompiglio della mia mente. Quel pensiero a poco a poco aveva occupato tutto il mio spirito. Una paura invincibile s'impadronì di me. Avrei voluto che mio marito non si fosse mai allontanato dal mio fianco, che non mi avesse lasciata sola in casa un istante; volli pregarnelo — ciò avrebbe bastato al suo cuore amantissimo — ma non l'osai; e come avrei io potuto osarlo?

Quando era sola mi chiudeva nelle mie stanze, e ordinavo che non si lasciasse entrare alcuno; uno di quei giorni per l'appunto venne il cavaliere e lasciò il suo biglietto di visita. Mi rallegrai d'averlo potuto sfuggire, tremando al pensiero di quell'incontro. Che mi avrebbe egli detto? come si sarebbe comportato in mia presenza? come mi sarei comportata io?

Quest'ultima idea fu un raggio di luce; fino a quel punto io non ci aveva pensato; oramai diveniva indispensabile. Il cavaliere non era uomo da sbigottirsi al primo tentativo fallito; se egli aveva in animo d'incontrarsi solo con me, sarebbe ritornato; non accolto, sarebbe ritornato ancora; la sua insistenza avrebbe vinto o tardi o tosto il mio proposito. Nè io poteva senza destar sospetti ostinarmi in un contegno così poco naturale e così opposto alle mie abitudini. I miei servi ne avrebbero fatto ben presto l'osservazione; la malizia e la maldicenza avrebbero affrettato lo scandalo che io voleva evitare.

Rinunziai adunque ad un sistema di difesa che non offriva speranze di vittoria. Mi conveniva affrontare quell'uomo, sopportare i suoi sguardi. Egli avrebbe forse mentito un affetto per vincere il mio cuore e trascinarmi un'altra volta alla colpa; in questo caso io mi sentiva forte; sarebbe forse disceso fino alla minaccia, ed io mi lusingava di opporre saldamente il mio disprezzo.

Il cavaliere Salvani venne. Questa volta io mi sentiva preparata a riceverlo.

Le sue prime parole come io lo aveva immaginato furono un prodigio di iniquità e di menzogna, quale io non avrei creduto possibile nell'anima d'un uomo. Mi cadde ai piedi domandandomi perdono, incolpando il destino che lo aveva macchiato dell' apparenza d'un tradimento, e gli aveva involato il suo amore.

A tanta audacia io sentii mancarmi gran parte delle forze sulle quali aveva confidato; tuttavia risposi con dignità, evitando l'ironia e il rimprovero. La mia freddezza parve sventare i suoi progetti; evidentemente egli aveva calcolato sulla mia collera e sul mio dispetto come sopra una breccia che mi avrebbe data in sue mani. Tuttavia non desistette, e facendo ciò che io non aveva fatto, finse un improvviso sentimento di gelosia e mi colmò di rimproveri, lamentandosi che io non lo avessi compreso, e non avessi saputo aspettare il suo ritorno. Questo secondo tentativo mi trovò inalterabile; un sorriso di disprezzo sfiorò il mio labbro, e riunendo tutte le mie forze per non tradire la mia angoscia, gli dissi freddamente che mio marito sarebbe ritornato fra breve. Quello fu il segnale della lotta più terribile; ma io era pronta a sostenere le minaccie come aveva sostenuto le preghiere ed i rimproveri.

Se non che io non aveva indagato che la natura dell'assalto, non ne aveva misurato la violenza; una minaccia fredda, calma, sarcastica, mi avrebbe trovata fredda, calma e sarcastica del pari; l'impeto con cui il cavaliere irruppe contro di me mi fe' correre un brivido di spavento per le vene; le mie fibre fragili e dilicate si commossero e tremarono tutte; il timore dello scandalo mi rese debole e paurosa; compresi di esser vinta.

Il cavaliere pareva fuor di sè; lo era egli, o fingeva? lo ignoro; ma la sua collera non era meno terribile.

Mi abbandonai sul divano in preda ad un affanno mortale. In quella strana ed angosciosa fantasmagoria di rimorsi e di paure, mi pervennero distintamente all'orecchio queste parole, che furono un dardo avvelenato pel mio cuore.

— Che credete? Siete mia; lo siete stata, lo sarete. La vostra coscienza ha dimenticato troppo presto il vincolo che vi congiunge eternamente a me. Eternamente, intendete? Vorreste sottrarvene? Provate. Vi sfido; il vostro passato mi dà diritto su voi; l'ieri mi fa giustizia dell'oggi.»

Ohimè! sì, io era in sue mani; e tuttavia io lo sentiva, non era lui, non era il mio passato che esercitasse tale potere misterioso sopra di me — era questo segreto fatale che mi mordeva il petto come un serpente.»

LXVI.

«In quel momento udimmo un passo avvicinarsi; tremai come al contatto d'una pila, e nascosi la faccia fra le mani. Il cavaliere mi afferrò per un braccio; levai gli occhi istupiditi; la sua faccia era pallida per la paura. Quella vista rianimò il mio coraggio, e mi ridonò un poco di calma.

Entrò un servo e mi fu annunziata la vostra visita.

Il cavaliere aveva ripreso il dominio di sè stesso, ed aveva composto le labbra ad un sogghigno...

Compresi, tuttavia non esitai; ordinai vi si facesse attendere un istante in sala. Gli occhi del cavaliere avvamparono d'ira; io ne sostenni il lampo senza battere palpebra. Ciò che avvenne dopo quello sguardo ha lasciato un solco assai profondo nella mia memoria.

Il cavaliere si accostò furibondo all'uscio che comunicava colla sala; per un'istante credetti che vi muovesse incontro; ma egli afferrò la porta e la rinchiuse sbattendola con tale impeto che fece tremare i vetri delle finestre; poi venne a me, e con voce resa ancora più truce dallo sforzo che egli faceva per abbassarla, volle che io promettessi di recarmi da lui ad un suo cenno. Insistei. Minacciò — una terribile minaccia... Che doveva io fare? Ero sola, paurosa di uno scandalo; voi eravate lì presso, io avea udito i vostri passi — lui era immobile, ritto innanzi a me, col volto contraffatto dall'ira...

— Verrete? Verrete? Un soffocato partì dal mio petto.»

LXVII.

«Venni innanzi a voi col sorriso sulle labbra, colla disperazione nell'anima. Avevate voi udito? Sospettavate?... Non ve ne faccio colpa; il vostro contegno mi diceva di; la vostra cortesia fredda mi accusava e mi feriva.

Quando fui sola mi chiusi nelle mie stanze come per involarmi agli occhi di tutti; avessi io potuto sottrarmi alla mia stessa coscienza!... Parevami che il mondo avesse letto la mia vergogna....»

LXVIII.

«Il domani mattina verso le nove, Giovanni mi consegnò segretamente un biglietto che uno sconosciuto aveva portato poco prima. I caratteri del cavaliere mi erano noti, e li riconobbi; tremai per il pericolo che io aveva corso e nascosi istintivamente quella lettera perchè non pervenisse in mano di mio marito.... Egli era là, nel suo letto, sorridente, tranquillo, felice.... Mi sanguinava il cuore per doverlo ingannare.

L'audacia dei cavaliere Salvani riuscì a quell'effetto cui evidentemente aveva mirato, a debellare il mio spirito colla pompa del suo sangue freddo, a farmi apprezzare vieppiù per mezzo dell'esempio l'importanza del pericolo che mi minacciava qualora avessi voluto sottrarmi alla mia promessa.

Quella lettera non conteneva che alcune indicazioni per il convegno al quale io aveva dato l'assenso. Il laconismo di quelle parole era temperato da una preghiera che non mancassi.

Nondimeno la mia vanità di donna non se ne offese. Io aveva ben altra spina nel cuore. «Fra due ore!» Quella lettera mi fissava il convegno per le undici. Un termine così breve per decidere! Anche questo era un sotterfugio per trionfare più facilmente della mia debolezza. Un tempo lungo avrebbe forse rinvigorita la mia volontà, e fattala uscire vincitrice; un termine breve mi costringeva ad arrendermi senza lottare. La virtù non può trionfare che dopo aver combattuto, ad uno ad uno, corpo a corpo, tutti gli assalitori; non è che la passione che vince al primo assalto.

In quello spazio di tempo che precedette l'ora fatale, mille pensieri, mille progetti, mille propositi morirono un'altra volta nel mio petto.

Vi fu un istante in cui, tratta da un invincibile trasporto di abnegazione e di sagrifizio, venni presso al letto di mio marito. Che voleva io fare?... Rivelare, sì, rivelare tutto; affrontare il disprezzo; il suo abbandono....

Levai il capo verso di lui.

.... Egli era là, sorridente, tranquillo, felice....

Mio Dio! Mio Dio! Avrei io avvelenato di un tratto la sua pace, avrei io sagrificato tutto il suo avvenire d'affetti ad un sentimento poco caritatevole di tarda ed infruttuosa severità? Però che io l'amavo, mio marito; ardentissimamente.... E poi, io non volevo già tradire la sua fede; se mi recava ad un convegno era per assicurare la sua pace, la nostra felicità; chi sa; le mie lagrime, le mie preghiere avrebbero forse ritrovato il sentiero nascosto di quel cuore insensibile.... io avrei saputo piangere e pregar tanto, che egli avrebbe avuto pietà della mia angoscia.,.. L'ora si appressava....

Balbettai non so più quale pretesto per uscire di casa senza insospettire mio marito, e mi recai al convegno.

LXIX.

«Una carrozza mi attendeva; non vi dirò lo spasimo che torturò il mio cuore per via; non vi dirò come io vi arrivassi, istupidita, senza pensiero, senza coscienza.

Mi era parso d'essere stata seguita e spiata, il terrore aveva soffocato il rimorso, e riparai in quella carrozza come in un asilo che avrebbe celato la mia vergogna.

Il cavalier Salvani era seduto in faccia a me; io non lo riconobbi, non lo vidi quasi; il timore d'essere scoperta vinceva la mia anima, l'occupava tutta.

La carrozza partì al galoppo. A poco a poco mi rincorai, l'immagine d'un altro pericolo assai più fatale fu la prima che venne a troncare l'atonia del mio pensiero; un sentimento ben definito di terrore succedette alle vaghe paure che m'avevano sbigottita. Tuttavia non mi smarrii d'animo; di fronte alla minaccia d'una immensa sciagura, serbai la calma per meditare le vie d'assicurare la mia salvezza.

La carrozza camminò gran tempo senza arrestarsi; io teneva gli occhi abbassati; il cavaliere non diceva parola. Nondimeno io indovinavo i suoi pensieri, e, senza guardare, vedevo il suo sguardo penetrante fisso ostinatamente sopra di me.

Ciò che stava per avvenire era una prova terribile, suprema; io non me ne dissimulavo la gravezza; mi era parso che il primo bisogno del mio cuore era di non ingannarsi sulla natura della lotta, per non fallire nella misura delle sue forze. Una speranza troppo audacemente nutrita, un'illusione troppo ingenuamente serbata, mi avrebbero strappata la vittoria dal pugno. Doveva spogliarmi di tutto, guardare in faccia il pericolo, prevederlo, aspettarlo; di tal guisa il fascino dell'ignoto non avrebbe potuto nulla sopra di me.

Che poteva io sperare da quel colloquio? Che sperava, che pretendeva quell'uomo?

Previdi le preghiere, i giuramenti, le menzogne, le minaccie; la mia forza avrebbe bastato a resistere. Riconfortata da questa fede, sollevai lo sguardo in faccia al cavaliere con aria di sì fredda ed irremovibile sicurezza, che le guancie di lui s'imporporarono non so se per vergogna o per dispetto.

Non dissi motto — non disse motto; gli fui grata del suo silenzio.

Finalmente la carrozza si arrestò; un brivido mi corse per le vene... Che facevo io? dove andavo? a qual fine? che sarebbe stato di me? Mio Dio! mio Dio! avessi potuto strapparmi il cuore, strapparlo, salvarlo dai rimorsi questo misero cuore!

Tutto il mio coraggio mi venne meno a un tratto. Sentii la mano del cavaliere posarsi sul mio braccio, e levai lo sguardo pauroso per implorare la sua pietà.

Il suo aspetto impassibile ferì il mio orgoglio; mi divincolai dalle sue mani e lo guardai fisso, colle labbra tremanti, col cuore agitato. Sorrise senza sarcasmo, ma freddo; e chinandosi alquanto, mi disse all'orecchio: «abbassate il velo.»

La dolcezza con cui pronunziò queste parole mi vinse; obbedii senza rispondere, accettai macchinalmente la mano che egli mi porgeva per discendere di carrozza, e lo seguii a capo chino. Su per le scale vi fu un istante in cui credetti di svenire; il sangue mi corse alla fronte, sentii un grande frastuono alle orecchia e mi si piegarono le gambe... Il cavaliere se ne avvide, e mi porse il braccio; mi vi appoggiai con un senso invincibile di ribrezzo.»

LXIX.

«Mi trovai sola con lui in un'ampia sala. Non ho serbato altra memoria di quel luogo se non quella di alcuni ritratti antichi a cornici nere che pendevano dalle pareti.

Mi ero lusingata di poter contrapporre il sarcasmo al sarcasmo, la freddezza all'ingiuria; l'immagine del pericolo mi aveva trovata forte: il pericolo mi trovò debole e paurosa come un bambino. Non seppi che piangere in silenzio.

Il cavalier Salvani si assise al mio fianco, mi afferrò una mano o cercò di ritenerla fra le sue; io la ritrassi con lieve violenza, raccapricciando di me medesima. In quel momento avrei voluto poter sfuggire a quell'uomo e ritornare nella mia casa che non avrei dovuto abbandonare giammai; guardai intorno a me con occhi smarriti; le finestre erano chiuse... Lo sguardo di lui immobilmente fisso sul mio rossore leggeva le mie intenzioni, un lieve tremito delle sue labbra tradiva il dileggio di quell'anima abbietta.

Nondimeno io non rinvenni più il mio vigore; abbassai gli occhi al suolo non osando levarli al cielo che mi aveva abbandonato; se collo sguardo avessi potuto scavare ai miei piedi una tomba, io mi sarei sepolta per sottrarmi allo spasimo della vergogna.

Quel silenzio durò gran tempo. Il cavaliere Salvani lo ruppe uscendo in un scoppio di risa. Lo stento di quel riso mi passava il seno come un pugnale. Arrossii più forte ma non risposi.

Questa volta il silenzio fu meno lungo.

Il cavaliere si levò, misurò a gran passi la camera, s'arrestò innanzi a me improvvisamente, poi come pentito, riprese a passeggiare apparentemente agitato.

Come vide che io mi ostinavo nel silenzio, ritornò presso di me; e poichè io non levava gli occhi a guardarlo, si assise ancora al mio fianco. Lo lasciai fare, ma non mi rivolsi; oramai era questa l'unica forza che mi rimaneva; in cuore tremavo d'avvilimento e di paura.

Egli si curvò verso di me, e ritentò di afferrarmi le mani; volli divincolarmi come prima, ma non riuscii; le dita d'acciaio di quell'uomo mi stringevano come una morsa. Quando vidi vano ogni mio sforzo, mi sollevai col cuore pieno di sdegno, colle narici dilatate, pallida in volto e minacciosa.... Incontrai la sua fronte corrugata, le sue pupille dilatate e sanguigne... Ebbi paura, e, rifuggendo inorridita da quella vista, volsi il capo e ricaddi sulla seggiola.

Egli continuò a stringere le mie mani nelle sue, senza dir motto. Allora mi tornò in mente mio marito; lo rividi bello, sereno e forte, lo rividi nel suo letto dove io lo aveva lasciato ingannandolo infamemente; immaginai che egli mi vedesse, che egli volesse venirmi in aiuto, e mi animasse con un rimprovero mesto.... Ahi! la terribile visione!...

Mi volsi colle lagrime agli occhi.

— Che cosa hai? mi domandò egli con una dolcezza che contrastava coll'espressione del suo volto; perchè piangi?

Quell'accento, quel linguaggio confidenziale, quel contegno mi sferzarono il volto come un'ingiuria atroce. Nondimeno le lagrime frenarono l'impeto della collera.

— Che volete da me? domandai singhiozzando; perchè mi avete voluto costringere a questo convegno abborrito? Che cosa potete rapirmi ancora? Non vi basta lo strazio che avete imposto al mio cuore; che volete aggiungere?

— Ti amo.

— Amarmi! Voi! Forse che voi lo potete, forse che ne avete il diritto?

— Ti amo!

— Ed io vi odio e vi disprezzo; il passato che mi ha congiunta a voi fu troppo crudelmente espiato, perchè possiate farmi ancora paura. No, io non vi temo; vi odio e vi disprezzo.

— Ti amo!

Un lampo attraversò la mia mente. Nella insistenza fredda e monotona di quelle parole vidi scolpita una determinazione inesorabile. Il terrore mi trasse fuor di senno; mi sollevai d'un balzo, e fu tale l'impeto e così impreveduto, che giunsi a liberarmi dalle mani di quell'uomo. Corsi pazzamente per la camera, vidi un uscio, cercai uno scampo da quella parte, ma l'uscio era chiuso e la chiave era stata tolta dalla toppa; mi provai a spingere con tutte le mie forze, a battere coi pugni colla speranza che qualcuno accorresse; tutto fu vano.

Il cavaliere mi guardava tentennando il capo con un sorriso pieno di sarcasmo e di dileggio; le forze mi abbandonarono, e caddi sulla soglia.

Rimasi accasciata, colla testa fra le mani; non so quanto tempo; il cavaliere non si mosse; se egli si fosse accostato a me, credo che in quel momento sarei morta di terrore.

Il coraggio e la forza mi erano falliti in un punto solo, irreparabilmente; la mia volontà non poteva più nulla sopra di me; il mio cuore e la mia mente non videro altre armi, che quelle della debolezza: le lagrime e la preghiera.

Mi trascinai ai suoi piedi, afferrai la sua mano, e la bagnai di lagrime; pregai smaniando mi lasciasse alla mia pace, mi perdonasse le acerbe parole strappatemi dalla collera, correggesse colla generosità tutto il male che mi aveva fatto.

Mi lasciò dire senza interrompermi, guardò le mie lagrime senza commuoversi; quando io tacqui, sorrise. Io non indovinai la terribile espressione di quel sorriso, e i miei occhi continuavano ad implorare ed a piangere. Il cavaliere sorrideva sempre; mi porse le mani e mi sollevò da terra; poi tentò di farmi sedere sulle sue ginocchia. Istupidita dal dolore io mi arrendevo come un automa; ma a quest'ultimo atto resistei con violenza. Inasprito dal rifiuto egli mi afferrò per le braccia, mi strinse ruvidamente e s'adoperò a costringermivi colla forza. La vergogna, l'umiliazione che io sentii a quell'atto brutale, l'orgoglio ferito, e più che tutto un gagliardo sentimento di virtù, mi consentirono un vigore straordinario. Con uno sforzo riuscii a liberare una mano; egli tentò di riafferrarla e intanto riteneva l'altra con tutte le sue forze. Vi fu un istante di lotta, inutile e terribile lotta; la mia energia stava per abbandonarmi; io vedevo la sua faccia presso alla mia, sentivo il suo respiro alitare sulla mia bocca, il suo sguardo minaccioso ricercare il mio sguardo... Ansante, sfinita, disperata, mi drizzai di tutta la persona in faccia al cavaliere, levai il braccio, e lasciandolo ricadere con impeto cieco, lo percossi più volte sulle guancie.

La sorpresa lo rese mutolo ed inerte; le sue mani si allentarono ed io sfuggii senza fatica. L'istinto mi trasse inconscia e delirante dinanzi ad una finestra; volli aprirla e gridare; ma una mano poderosa pesò improvvisamente sul mio omero, e uno sguardo feroce brillò di collera selvaggia vicino al mio volto. Gettai un grido e caddi. Il cavaliere mi sollevò nelle sue braccia, aprì una porta, ne aprì un'altra, poi un'altra ancora; poi non vidi più nulla.

Quando rinvenni io era coricata sopra un divano; il cavaliere mi sorreggeva il capo e mi bagnava la fronte con aceto. Tutti gli oggetti che mi circondavano prendevano uno strano aspetto ai miei occhi; quella specie di ritorno alla vita abbelliva le prime sensazioni che me ne davano la coscienza, perfino il volto del cavaliere mi parve compassionevole o dolce.

Quell'illusione fu breve.

Risensata, tornai col pensiero ai miei timori, alle mie ansie, ai miei rimorsi. Il pericolo che mi minacciava balenò ai miei occhi come una lama tagliente, la mia posizione mi apparì in tutto il suo orrore.

Giunsi le mani in atto di preghiera, e non dissi parola. Il cavaliere mi rassicurò con uno sguardo. Fallace e stolta sicurezza!

Ricordai mio marito che in quell'ora mi aspettava forse con ansietà, e girai lo sguardo intorno alla camera cercando un pendolo di cui sentivo le oscillazioni lente e monotone. In quel punto udii lo scatto d'una molla, poi gli squilli argentini, uguali, delle ore. Erano le tre. Mi sollevai impetuosamente per uscire. Il cavaliere stese un braccio verso di me e mi fe' segno d'aspettare.

— Che volete? domandai tremando.

Non rispose, ma mi prese le mani e mi costrinse a sedere al suo fianco.

— Che volete? insistei con voce spenta dall'ansia e dal terrore.

— E lo so io che voglio? Voglio che non mi lasciate, che rimaniate ancora con me.

— Mio marito... balbettai cercando di dissimulare a me stessa le mie paure.

— Vostro marito è un uomo ragionevole e non troverà strano che sua moglie si trattenga un'ora di più fuori di casa.

— Un'ora, diss'io sforzandomi di sorridere.

— Un'ora, sì, un'ora di dolcezze, di abbandoni, un'ora di amore... Per lui gli anni, la vicinanza continua, la proprietà assoluta, per me il momento, il breve ma ardente possesso; uno per mille, uno solo. Vedete che io sono generoso.

Queste parole mi fecero sentire il peso della mia vergogna; radunai tutta la mia energia e tentai uno sforzo supremo per liberarmi dalle mani di quell'uomo. Terribile sforzo, superiore alla mia natura di donna, ma impotente. Ricaddi sul divano vinta, spossata, senz'anima. Egli continuò:

— Volete fuggirmi? perchè? vi faccio paura? potrebbe ciò che vi ha ispirato l'amore ispirare oggi il ribrezzo? O non vi pare che il passato legittimi le mie pretese, i miei desiderii? Non siete voi stata mia? non mi avete detto d'amarmi?

— Mi sono ingannata: non vi ho mai amato.

— E perchè non dite: vi ho ingannato? Avete mentito un affetto che non nutrivate in cuore? ebbene, siate oggi più franca d'allora: siate mia senza ingannarmi, senza mentire. Ciò sarà più onesto e più leale.

Celai la faccia fra le mani e domandai al cielo che mi facesse morire. Quel linguaggio, quel cinismo, io sentiva d'averlo meritato!

Non udii più nulla; il mio spirito cadde in una specie di vaneggiamento straziante; nuovi rimorsi, nuove paure, nuove sfiducie; e ciò in un modo confuso, vago, agitato, diverso da tutte le sensazioni che appartengono alla veglia, serbando solo la coscienza e la volontà a far fede che non era un sogno. Frammezzo a quella confusa alternativa di idee che stancavano la mia mente, continuava a giungere fino a me il suono della voce del cavaliere, ma indistinto e fioco come venisse da lontano.

Questo stato durò alcuni minuti che mi parvero eterni. Mi riscossi improvvisamente sentendo la bocca audace di quell'uomo sfiorare le mie guancie; m'arretrai con un grido; egli mi strinse fra le sue braccia, mi sollevò come un bambino, e mi portò per la stanza ripetendo con voce rotta dall'ansia: «sei mia, sei mia.»

Vi era tanta energia selvaggia in quell'atto, in quelle parole, che la mia anima ne fu soprafatta. Nondimeno resistetti a lungo; lottai come può lottare una donna; adoperando le mie deboli braccia, e piangendo in silenzio. Egli era forte, fui vinta.

Allora mi si gettò in ginocchio, mi chiese perdono, implorò colla dolcezza e colla preghiera ciò che ormai avrebbe potuto ottenere colla forza. «Sarebbe stato l'ultimo mio sagrifizio, egli avrebbe lasciato Milano, non avrebbe amareggiato più oltre la mia pace, mi sarei abbandonata quindi innanzi con sicurezza all'amore di mio marito.»

Tutto ciò era ben dolce, e il suo accento pareva tanto sincero.... Che avrei fatto io? Avrei io dovuto con un rifiuto impotente contrastare al desiderio di quell'uomo che aveva nelle mani il segreto della mia pace?

— Giuratemi... gridai nascondendo la faccia per la vergogna.

— Giuro.

— Sul vostro onore.

— Sul mio onore.

— Per la memoria di vostra madre.

— Per la memoria di mia madre.

Il patto della vergogna era sancito; la colpa doveva assicurare l'impunità della colpa.»

LXX.

«Ritornando a casa aveva tremato al pensiero d'incontrarmi con mio marito. Egli era uscito. Atroce ironia della fortuna! senza di ciò io non sarei riuscita a mascherare il mio rossore, non avrei saputo aggiungere al tradimento l'inganno.

Rividi le mie stanze, e m'aggirai per esse smaniando; voleva fuggirmi, sottrarmi alla mia coscienza, liberarmi dalla vergogna che mi camminava a fianco come un compagno di catena.

Mio marito rientrò; mi guardò, mi sorrise, mi baciò in volto. Io guardai la sua faccia serena, gli sorrisi e gli restituii il bacio.... Il rimorso mi cercava il cuore come una mano spietata.»

LXXI.

«Mi ammalai. Se ciò non fosse avvenuto, non avrei potuto nascondere il mio fallo. Nei primi giorni della mia malattia, sperai che ne sarei morta. Una febbre ardente mi distruggeva ogni dì più; smarrii ben presto la ragione, e i miei sensi perdettero mano mano il loro vigore. Non ho che una memoria confusa di quei giorni; so che udiva bisbigliare al mio capezzale delle voci sommesse, che mi ponevano sulla fronte delle pezzuole rinfrescate al ghiaccio; so che io aveva coscienza del pericolo in cui versavo, e che, senza sapermi dire perchè, lo amavo e me ne rallegravo. Questa dimenticanza cagionatami dalla febbre fu, io credo, la mia salvezza; di tal guisa la causa fu vinta coll'effetto. La memoria della mia colpa che allora mi avrebbe uccisa, trovò nella debolezza eccessiva dei miei sensi una barriera; più tardi le mie nuove forze dovevano trovare quella memoria impotente ad uccidermi.

Quei giorni di febbre furono accompagnati da delirio. Che ha proferito il mio labbro in quei giorni? mi sono io accusata senza volerlo? Lo ignoro — certamente però mio marito non ne concepì alcun sospetto. Egli fu sempre al mio fianco, la notte e il giorno; non voleva abbandonarmi un solo istante; quando il sonno lo vinceva, si gettava sopra un seggiolone che trascinava daccanto al letto. Aveva però cura di osservare prima se io dormissi.

Me ne accorgevo, e simulavo spesso il sonno per trarlo in inganno; quando udivo il suo respiro farsi regolare, riaprivo gli occhi e lo guardavo con sicurezza, con quella dolce sicurezza che io non doveva provare mai più sotto il suo sguardo sereno. Allora mi veniva in mente la mia colpa, e rinasceva più straziante il rimorso.

Guardavo la sua fronte ampia ed aperta, le sue labbra che si aprivano a mormorare nel sonno il mio nome. Aimè! egli non sapeva quanto il suo affetto e le sue cure mi torturassero il cuore!

Ben presto mi abituai a quel supplizio; non ne sarei morta; ben presto guarii.

L'egoismo mi fu largo di promesse a compensarmi dei dolori patiti; pensai con un sentimento di compiacenza che la mia colpa mi aveva almeno assicurato l'amore di mio marito....

Un giorno, sciagurato giorno, il cavaliere venne improvvisamente in casa mia. Voi eravate meco, non vedeste o non voleste vedere il mio affanno, e mi lasciaste sola con lui.

Che voleva da me quell'uomo? con quali intenzioni egli veniva?

La mente, meschino e stolto fabbro di chimere e d'inganni, mi suggerì in un istante cento pazze fantasie per alimentare le mie speranze, ma il cuore no, non mentiva i suoi palpiti.

L'audacia del cavaliere mi era nota; ma io non avrei mai creduto che lo avesse potuto spingere a tanto. Sapeva egli che mio marito era assente? E se non lo sapeva, quali progetti aveva potuto concepire la sua perfidia? Fino a qual punto sarebbe egli andato senza arretrarsi?

Mi feci cuore, e senza attendere le sue parole, ruppi prima il silenzio.

— Avete mentito? interrogai severa.

— Ho mentito, rispose freddamente.

Mi guardava; lo guardai minacciosa, ma egli non piegò. Sorrise sdegnosamente, e tacque.

Poco dopo si accostò, mi additò l'uscio donde eravate uscito, e gettandosi sbadatamente sul divano incrociò le gambe l'una sull'altra. Rimasi in piedi, immobile, atterrita da quel cinismo.

— Chi era? domandò egli ammiccando degli occhi.

Non risposi. Quelle interrogazioni, quel contegno, mi pungevano come il più sanguinoso insulto.

Il mio silenzio non mutò i suoi modi; si sollevò un momento, appoggiando le mani al divano e portando innanzi il corpo, mi guardò fisso, e si lasciò ricadere con abbandono.

— Il vostro ganzo? interrogò pronunziando quest'ingiuria atroce con lentezza, quasi a farmela parere più amara e più lunga.

La vergogna mi trasse fuor di me.

— Uscite, gridai con impeto, avventandomi sopra di lui come una tigre, uscite!

— Vi pare? ribattè con ironia; egli è uscito al mio arrivo, io uscirò all'arrivo di lui, di vostro marito.

— Uscite, gridai, fatta cieca dalla collera, uscite, o vi farò cacciare dai miei servi.

— Provatevi, disse egli calmo.

Feci atto di accostarmi al campanello; ma egli mi prevenne. D'un balzo fu in piedi, mi arrestò per un braccio, mi respinse, e afferrato il cordone del campanello diede una strappata vigorosa.

A quell'atto improvviso, inaspettato, terribile per la forza di volontà e di audacia che mi rivelava, rimasi come colpita dalla folgore. Tutte le mie forze, tutto il mio coraggio, mi vennero meno. Sentii di non poter lottare con quella natura troppo più grande nella forza e nella perversità della mia; sentii che la mia individualità era domata, che la morte sola avrebbe potuto sottrarmi all'imperio fatale di quell'uomo.

L'ignoranza delle sue intenzioni, la paura dello scandalo mi trascinarono ai suoi piedi supplichevole. Lo scongiurai mi risparmiasse la vergogna in faccia ai miei servi... Egli mi guardò, si drizzò orgogliosamente come a farmi sentire il peso del suo potere, e non fece atto per rialzarmi... Intanto alcuni passi si accostarono frettolosi all'uscio; ebbi appena il tempo di sollevarmi e di volgere il capo per nascondere il volto bagnato di lagrime, che la porta s'aprì con una spinta così vigorosa che i battenti percossero con impeto contro le pareti. A quel rumore mi rivolsi e vidi sulla soglia, immobile, pallido, severo come uno spettro, mio marito!

Il grido che partì dal mio petto fu un grido di gioia; senza pensiero, senza timori, tranne quello del nuovo pericolo che io aveva corso, mi lanciai incontro a lui a braccia aperte, mi gettai nel suo seno, e nascondendo la faccia, gli gridai con voce soffocata:

— Salvami, salvami, in nome del nostro amore!

Mio marito mi allontanò con un braccio, mi guardò negli occhi, vide le mie lagrime, guardò il cavaliere che teneva il capo ostinatamente abbassato al suolo, indi con un gesto di raccapriccio che non so rammentare senza sentire spezzarmisi il cuore, mi respinse da sè inorridito.

Quell'abbandono, quel rifiuto, illuminarono la mia mente come un baleno. Compresi per la prima volta che vi ha qualche cosa assai più crudele del rimorso, ed è il disprezzo di colui che ci ha amato.

Caddi al suolo sbigottita e tremante, colle mani giunte in atto di preghiera.

Accasciala sulle ginocchia io vidi Antonio accostarsi al cavaliere con passo lento e sicuro; sollevai lo sguardo pauroso e tesi l'orecchio per ascoltare. Salvani fece atto di trarre un biglietto di visita da un portafogli; mio marito lo rifiutò e disse con accento calmo:

— Il mio nome è il nome d'un uomo onesto... Poi additò l'uscio al cavaliere, che uscì senza dir motto.

Rimanemmo soli. Egli immobile innanzi a me, io colle pupille smarrite, ricercando uno sguardo di pietà. Vidi brillare una lagrima, mi trascinai carponi, implorai con un gesto il suo perdono; fu vano; egli così buono verso di me fu vinto dal dolore e dalla vergogna. Per la prima volta io fui respinta dalle sue braccia.»

LXXII.

«I giorni si succedettero uguali, angosciosi, tetramente monotoni. La mia coscienza si era ripiegata inorridita all'aspetto dell'immensa sciagura che il mio fallo aveva provocato. La solitudine, il silenzio, il rimorso si assieparono come una nube sul mio intelletto.

Ciò che avvenne dopo quel giorno fatale è ancor oggi un mistero per me. Quando seppi del duello, tremai per mio marito; volli scongiurarlo di desistere; ma, sapendolo vano, soffocai nelle lagrime il mio proposito. Quando seppi che il duello non avrebbe avuto luogo, il timore vinse in me la meraviglia. Da quel punto un enigma tormentoso si propose alla mia mente scombuiata: — che sarebbe avvenuto più tardi?

Io era troppo abituata a leggere nel cuore di Antonio, per potermi lasciar trarre in inganno dall'apparente impassibilità del suo volto. Quella calma era ai miei occhi più eloquente d'ogni altro linguaggio.

Il suo contegno verso di me, meno l'abbandono affettuoso, fu qual era stato sempre, dolce e cortese. Avesse egli adoperato meco la collera, il rimprovero, il disprezzo, non ne avrei avuto tanto dolore quanto me ne proveniva da quella dolcezza. Io taceva e piangeva in segreto — piangeva la mia pace seppellita per sempre col mio amore.

Non andò molto che i miei timori si avverarono. Era passato un mese. Mio marito venne nelle mie camere, era la prima volta dopo quel giorno... Tremai al vederlo, e non osai tener la fronte sollevata innanzi a lui, lui mio accusatore, mio giudice... Mi salutò, trasse una sedia accanto a me, e si assise. La sua voce mi scese al cuore come un'amara ironia. Egli era calmo, nondimeno i suoi sguardi tradivano a quando a quando una segreta inquietudine; compresi che una terribile sciagura minacciava le rovine del mio cuore.

Mi pregò scrivessi una lettera, una lettera a lui, a Salvani. Questo colpo inaspettato superava le mie forze e il mio coraggio. Uno sgomento indefinibile s'impadronì del mio spirito; per la prima volta in vita guardai con occhio di terrore la faccia di mio marito. Vi lessi la fermezza e la pietà. Tentai rimuoverlo con uno sguardo supplichevole, ma egli insistè con tale espressione di dolcezza che valeva per me assai più che il comando.

Obbedii come un automa; egli mi fu grato e me ne rimeritò con un sorriso. Quel sorriso ha impresso un solco profondo nel mio cuore.

Egli dettò ed io scrissi; poche parole che non mi fecero arrossire; un convegno necessario, una preghiera dignitosa, il mio nome, nulla più.

Quando ebbi finito, lasciai cadere la penna e mi abbandonai esausta di forze sullo schienale della seggiola. Antonio mi guardò, lottò un istante colla pietà e col rancore; volli risparmiargli una penosa testimonianza d'affetto di cui mi sentiva indegna, e raccolsi tutta la mia energia per dissimulare ciò che io soffriva. Egli prese il foglio, lo piegò, e me lo pose innanzi, presentandomi la penna con un gesto urbano, ma freddo ed insistente.

Compresi, e vergai la soprascritta con mano tremante; gli consegnai la lettera e nascosi il volto fra le mani. Mio marito si tenne alcuni istanti ritto innanzi a me, ma non disse parola. Udii il suo respiro affrettato; poi alcuni passi leggieri, poi più nulla... Rialzai il capo smaniando... egli era uscito.»

LXXIII.

«Tutto quel giorno stetti accasciata sotto il peso d'uno sgomento indicibile; ad ogni istante parevami di dover udire la voce di quell'uomo abborrito, di Salvani. Che voleva mio marito da lui? Quali ragioni così possenti avevano consigliato lui, così franco e leale, ad adoperare uno stratagemma per attirarlo con maggior sicurezza a quel convegno? Aimè! poteva io ingannarmi su quelle ragioni, poteva io dubitarne un solo istante?

L'ora stabilita trascorse, e il cavaliere non compariva ancora; io mi era spinta inosservata nella biblioteca che comunicava colla camera di mio marito; colà avrei potuto vedere ed udir tutto, intervenire, difenderlo forse, pagare colla mia vita il dolore e la vergogna che io gli aveva cagionato.

Passò un'ora, ne passò un'altra; il cavaliere non venne. Le tenebre incominciavano a farsi fitte intorno a me. Io udiva il passo agitato di Antonio e le oscillazioni calme e regolari d'un pendolo che numerava le mie angoscie.

Vi fu un'istante in cui ebbi quasi paura e mi guardai intorno sbigottita e tremante; ma questo sentimento, che era frutto della cessazione d'un timore assai più grande, fu di breve durata.

Un uomo entrò nella camera di mio marito; nello stesso tempo un raggio di luce attraversò il buco della toppa e venne a battere sul mio volto. Accostai l'occhio e vidi Giovanni, con un lume in mano, intento ad accendere i candelabri sopra il caminetto. Quando ebbe finito, si rivolse verso il divano dove immaginai che fosse mio marito, si tenne un istante in atto d'aspettazione, poi fece un gesto d'assenso ed uscì.

Il cuore mi batteva concitato.

Poco stante la porta si riaprì, ed entrò Salvani. Un grido, un terribile grido di dolore, di paura, di vergogna, morì soffocato sulle mie labbra. Mi appoggiai all'uscio per non cadere; ricuperato il mio vigore, vinsi il raccapriccio che destava in me quella scena, e origliai per non perdere una sillaba di quel colloquio temuto.»

LXXIV.

« — Vi fa meraviglia il trovarvi con me? domandò mio marito con un lieve accento d'ironia. Infatti ciò è naturale; voi vi attendevate ad un altro convegno.

— Che volete dire?

— È inutile; voi m'intendete.

L'accento tranquillo e risoluto con cui Antonio parlava, allo stesso tempo che mi faceva fremere al pensiero delle conseguenze di quella determinazione temuta, mi destava nell'anima un sentimento di compiacenza e d'orgoglio che m'innalzava ai miei occhi. Oh! perchè non avevo io saputo serbare la stima d'un uomo che stimavo tanto io medesima?

Vi furono alcuni istanti di silenzio; posi l'occhio alla toppa, ed osservai. Mio marito e il cavaliere erano in piedi, l'uno in faccia all'altro, l'uno e l'altro pallidissimi. Il silenzio era così profondo, che se avesse durato ancora un istante la mia respirazione affannosa avrebbe tradito la mia presenza.

— Era dunque un sotterfugio? disse Salvani con accento di dileggio dispettoso.

— Chiamatelo così, se vi piace. Convenite però che era necessario, e che è riuscito. Se vi avessi scritto io, è probabile che voi non sareste venuto.

— La mia casa è sempre aperta.

— È la risposta che ho immaginato, e che mi ha eccitato a farvi scrivere. Le cose che io devo dirvi esperimenteranno la vostra condiscendenza e forse anche il vostro coraggio. Ora poichè io non conosco il vostro coraggio, aveva ragione di temere della vostra condiscendenza. In casa mia....

— In casa vostra?

— In casa mia è tutt'altro.

Antonio pronunziò queste parole con lentezza, rispondendo colla calma all'accento di collera che fremeva sulle labbra di Salvani.

— È una minaccia? domandò il cavaliere con sarcasmo.

— No, è un consiglio. Siate ragionevole. Non è la prima volta che voi venite in casa mia; vi siete venuto senza che io vi abbia chiamato, non vi dolga ora di venirvi per aderire ad un mio invito. Qui voi siete a vostro agio più che io non sarei stato in casa vostra, venendovi per la prima volta e per un affare sgradevole. Le parti non erano pari. Se ho dovuto mancare di riguardi in questa circostanza, appagatevi delle mie scuse; tra gentiluomini devono bastare.

Il cavaliere non rispose.

— Accomodatevi dunque, soggiunse mio marito; sul tavolo vi sono dei sigari; ciancieremo come due buoni amici.

Udii il rumore di un seggiolone trascinato lentamente; poi da capo nuovo silenzio.

Col cuore trepidante riaccostai l'occhio alla serratura per seguire collo sguardo tutti i particolari di quella scena.

— Questo sigaro non ha aria, disse Antonio.

Gettò lo sigaro in mezzo della camera, ne prese un altro e l'accese alla fiamma del candelabro. Poi si lasciò cadere sul seggiolone con abbandono indolente.

Quella calma, o meglio quella simulazione di calma, mi atterrì. Io non aveva mai visto Antonio, il mio buon Antonio, sotto quell'aspetto; non aveva neppure immaginato che egli fosse capace di vestire così un'apparenza menzognera, e che vi potessero essere circostanze da spingerlo a tanto.

— Posso sapere?... prese a dire il cavaliere.

— Senza dubbio, interruppe mio marito. Tutto è detto in due parole: noi dobbiamo batterci.

— Batterci! esclamò Salvani con finta sorpresa; e la ragione?

— La ragione, voi dite? Già, ciò è naturalissimo; due galantuomini non si ammazzano senza una ragione. Ho pensato anche a questo; la ragione ci è.

Salvani guardò mio marito con aria d'uomo che non capisce; io stessa incominciavo a non comprendere più nulla; era come trasognata, istupidita, una nebbia fitta ingombrava la mia mente.

— Leggete, disse Antonio, e porse un giornale a Salvani indicandogli col dito ciò che doveva leggere.

Il cavaliere lesse in silenzio.

— È una calunnia, disse levandosi in piedi.

Mio marito lo costrinse a sedere con cortese violenza.

L'espressione del volto di Salvani era affatto mutata; il sarcasmo aveva ceduto alla franchezza; la trepidanza dispettosa ad una sicurezza serena. Io stessa incominciavo a credere d'essermi ingannata sulla vera ragione che aveva provocato quei colloquio.

Mio marito si dondolava sul seggiolone, lasciando errare sulle labbra un sorriso intraducibile.

— L'articolo è firmato da voi, disse egli sbadatamente.

Salvani fe' un atto di sorpresa, e gettò gli occhi sul giornale.

— Qui non vi è nome.

— Vi sono le iniziali, le vostre. Agli occhi del mondo basta.

— Ma io non ho scritto quest'articolo; fra gentiluomini, voi l'avete detto, bastano le scuse. Se vi rimangono dei sospetti, sono pronto ad asserire in faccia a chicchessia che quelle iniziali non si riferiscono al mio nome.

— Ed è appunto ciò che io non voglio.

— Non v'intendo. Quell'articolo?...

— Non è scritto da voi.

— Lo credete?

— Ne sono certo; e so anche chi lo ha scritto.

— Chi mai?

— Io.

— Voi! ma questa è un'infamia!

— Vi pare?

Gli occhi di Antonio brillarono d'un fuoco così improvviso e così vivo, che Salvani fu costretto ad abbassare lo sguardo.

— Infine qual'è lo scopo di questo tranello? domandò poco dopo con voce che si sforzava invano di render ferma.

— Ve l'ho detto: batterci.

Quell'insistenza fredda ed eguale rivelava una risoluzione incrollabile. Suo malgrado Salvani stesso ne fu atterrito; io tremava come una foglia.

— Io non vi capisco, balbettò il cavaliere.

— Voi mi capite.

— Quand'è così, lasciate che io dica che questo vostro modo d'agire non è leale, nè opportuno. Dovevate cogliere l'occasione allora che vi si porgeva; la vostra condotta inesplicabile allora, lo è tanto più oggi.

— È vero; io vi ho fatto delle scuse...

— Ed io me ne sono appagato, e ne sono pago.

— Vostra bontà. Or bene, ciò che non è avvenuto allora deve avvenire; noi ci batteremo.

— Io non mi batterò.

— Noi ci batteremo. Avete potuto credere che io lasciassi impunito un insulto al mio nome, e vi siete ingannato; non ho fatto che differire. Io ho alimentato il mio odio, l'ho educato come un sentimento caro; oggi è gigante.

Salvani rabbrividì. Mio marito continuò con un accento intraducibile.

— Io vi odio. Voi stesso ignorate tutto il male che avete fatto al mio cuore. Per voi io sono un marito ingannato; e nulla più; ma voi non siete sceso nel mio seno a vedere la rovina che vi ha prodotto il tradimento; voi non sapete che gli affetti che avete inaridito erano la sorgente della mia vita, voi non sapete che le fila che avete reciso erano le fila dorate del mio avvenire. Se voi poteste comprendere tutto ciò, comprendereste il mio odio. Non mi parlate di lealtà; è vana parola quando è il cuore che parla. Se vi ha ancora una via per uscirne meno slealmente è questa di arrendervi al mio desiderio senza costringermi a farvi arrendere. Vi è una cosa che voi non mi avete tolto, ed è quella appunto di cui il mondo vorrebbe credervi reo, quella forse di cui la vostra coscienza vi accusa: l' onore. Guardatemi in fronte; vi pare che io possa sollevar gli occhi in faccia al mondo senza arrossire? Or bene, siate generoso anche con essa. Risparmiatele la vergogna. Io che l'amo ho voluto risparmiargliela, voi non sarete da meno; la vera causa del nostro duello deve rimanere segreta fra di noi.

Salvani era vinto. La sua natura superba si era piegata sotto la tranquilla e severa insistenza di quel linguaggio. Tuttavia parve lottare ancora un istante, sollevò lo sguardo vivamente, ma lo riabbassò come preso da subito pentimento.

— Sono agli ordini vostri, disse poco dopo, tentando invano di ricomporre il volto alla primitiva alterezza.

— Vi ringrazio, vi manderò i miei secondi.

Per un istante nessuno dei due fe' motto; Salvani visibilmente impacciato, aveva appuntato le mani sulle ginocchia come per rialzarsi. Mio marito continuava a fumare senza badargli.

— Non avete altro a dirmi? domandò Salvani dispettoso.

— Non altro.

Senza attendere oltre, Salvani si diresse verso l'uscio.

Antonio senza levarsi suonò un campanello; e Giovanni comparve sulla soglia.

— Accompagna il signore.

Quando fu solo tutta la sua energia gli venne meno a un tratto; lasciò la seggiola, gettò il sigaro e si cacciò le mani nei capelli.

A quel gesto così disperato sentii tutte le fibre del mio cuore intenerirsi, e ritrovai la via del pianto. Aprii l'uscio, mi lanciai nella camera, e mi gettai lagrimosa nelle sue braccia, implorando perdono.

Egli si tolse ruvidamente dalle mie stretta, e nascondendo la faccia si buttò sul divano singhiozzando.

Mi trascinai ai suoi piedi, gli afferrai una mano e la portai alle labbra frementi. Sentivo istintivamente che il pentimento e l'umiliazione mi riabilitavano innanzi alla mia coscienza.

— Lasciami, mi disse respingendomi con dolcezza.

— No, non ti lascio; tu vuoi batterti, tu vuoi morire, e sarò io che ti avrò ucciso.

Si drizzò, piegò il capo verso di me, trasse indietro i miei capelli che mi cadevano scomposti sulla faccia, e mi guardò negli occhi con una espressione selvaggia di speranza.

— Non è per lui dunque che tu piangi?

— Per lui! Oh! Antonio, Antonio mio!

V'era tanta disperazione nelle mie parole, tanto e così vivo affanno, che egli ne fu intenerito, e non mi nascose più le sue lagrime.

— Senti, mi disse, la mia natura si è franta, il mio cuore si è inaridito. Io non aveva altro affetto che il tuo, non aveva speranze o sogni che non fossero in te riposti; ed ho perduto tutto in una volta. Questa favilla che tu hai fatto brillare nell'immensa tenebra della mia mente, questo dubbio che hai gettato nel mio seno, è ora tutto ciò che mi rimane. Lo vedi, io piango come un fanciullo, io non sono che un fanciullo. Affrettati a trarrai d'inganno, ridonami la mia fede, o ritoglimi questa affannosa illusione.

— Sì, gridai io con esaltamento, sì, ti dirò tutto; tu leggerai ogni pagina di questo cuore che è rimasto puro. Ti svelerò il mio passato, ti svelerò le mie colpe, le colpe di un passato che non era tuo...

— Sarebbe vero? interruppe con un grido. Oh! dimmi che mi hai amato, dimmi che mi ami!...

Sollevai lo sguardo e lo fissai nel suo sguardo. La gioia, la speranza, l'amore, lo illuminavano d'una luce vivissima.

Gli narrai la mia infanzia, il mio primo fallo, evocai i dolci fantasmi dei primi giorni del nostro amore, le sue proposte e le mie ritrosie, e le segrete battaglie che precedettero il mio inganno.

Egli pendeva dalle mie labbra trepidante; sentivo le sue mani stringere impazienti le mie mani, il suo seno palpitante appoggiarsi al mio seno, e l'ansia del suo respiro confondersi colle mie parole.

— E poi?...

E poi! Lo guardai paurosa, egli insistè collo sguardo.

Mio Dio! Fu un lampo fatale. Donde avrei io tratto la forza per compiere la mia confessione? e facendolo, qual frutto avrei osato sperare? No, io non era soltanto una donna colpevole, era una donna adultera! La coscienza di quest'ultima vergogna, assopita per un istante, risorse più adirata. Adultera! Adultera! E poteva io sperare che il perdono di mio marito si sarebbe spinto fino al tradimento? Avrebbe egli potuto credere al mio amore? Ed avrei osato ingannarlo ancora negando il mio inganno?

— E poi?

Mi gettai sulle sue ginocchia istupidita. Egli chinò il capo verso di me; udii le sue parole rotte dall'affanno. Era un conforto, era una preghiera, uno spasimo atroce.

— Discolpati... discolpati!

Non risposi, non l'osai; piansi e nascosi la faccia fra le mani.

Egli diè un picciolo grido invano represso, si alzò con impeto, mi rovesciò sul pavimento, e ripetè come un eco il rimprovero della mia coscienza:

— Adultera! Adultera!»

LXXV.

«Tacerò le torture del mio spirito nel giorno che succedette a quella notte fatale. Il cuore si rifiuta a rivelare i proprii dolori; ne è geloso e li serba; volendo, non saprebbe rendere un'immagine verisimile, e ne rinnoverebbe a sè stesso lo strazio. Vi basti di conoscere le cause che li hanno provocati.

Al mattino del secondo giorno, Giovanni venne a me, recandomi una lettera. Una lettera di mio marito! L'aprii smaniando, la lessi... Giusto cielo! egli era partito. Avrebbe passato la frontiera della Svizzera e si sarebbe arrestato a Chiasso, all'Albergo Federale. Possibilmente mi avrebbe scritto al domani. Null'altro; non una parola di conforto, non una parola di consiglio; non un cenno sulla cagione della sua assenza. Che dico? E poteva io dubitarne? poteva io esitare un solo istante sul partito da scegliere?

Ordinai le mie valigie, e un'ora dopo partii con Giovanni.

Due ore dopo all'incirca io era a Chiasso all'Albergo Federale. Le indicazioni che io ebbi non mi lasciarono più alcun dubbio, se pure io potevo ancora lusingarmi con qualche speranza.

Mio marito e Salvani erano arrivati due ore prima di me, in compagnia di altri due gentiluomini; erano usciti quasi subito; le mie indagini non valsero a farmi conoscere da qual parte si fossero diretti. Che avrei potuto fare? Corsi all'impazzata nei dintorni, colla speranza di rinvenirli e di giungere ancora in tempo per impedire il duello. Le mie forze si esaurirono in breve, e mi abbandonai sul suolo smarrita. Giovanni mi faceva cuore col gesto, ma egli stesso non poteva parlare per l'emozione.

Uno scoramento profondo s'impadronì di me; girai l'occhio intorno; la natura serena e ridente stendeva le sue fresche e brevi praterie limitate da severe e svelte colline. Il cielo era sereno, il sole del mezzodì dardeggiava sulla mia fronte. Tutto sorrideva fuori di me; dentro di me ruggiva la tempesta.

Mi rappresentai alla mente lo spettacolo orribile di quel duello; vedeva mio marito e Salvani scendere per una vallata e sparire, li rivedevo poco dopo risalire l'opposto pendio, guadagnare la cima più elevata del colle, collocarsi l'uno di fronte all'altro in un breve spianato, impugnare le armi... Mio Dio! Nascosi nelle mani la faccia lagrimosa, e soffocai un grido d'orrore.

Mi levai impetuosamente, e senza dir parola mossi a passi concitati verso Chiasso. Un istinto più forte della mia volontà mi trascinava inconscia e sbigottita. Giovanni stentava a tenermi dietro.

Lo spettacolo che si presentò al mio sguardo, quando varcai la soglia dell'albergo, è così orribile che appena oso rammentarlo.

Mio marito, sorretto da uomini ignoti, saliva a stento le scale; alcune goccie di sangue segnavano sui primi gradini l'impronta del suo passaggio.

Sentii un dolore acuto come se qualche cosa si spezzasse nel mio seno; volli correre in aiuto, e rimasi mio malgrado immobile; non ebbi nè un grido, nè una lagrima.

Antonio udì i miei passi, e giunto sulla cima della scala, rivolse faticosamente il capo verso di me. Mi guardò con l'occhio velato, udii un gemito, e vidi il suo corpo pesare con maggior abbandono sulle braccia di coloro che lo sorreggevano.

— Egli muore! egli muore!

Mi lanciai su per le scale ed entrai nella camera d'Antonio un istante dopo che egli vi era entrato.

Lo avevano adagialo sopra un letto; un medico avea lacerato gli abiti e la camicia, ed esaminava una ferita sotto l'omero destro.

Caddi in ginocchio sulla soglia; il medico mi guardò compassionevole; io guardai lui implorando un conforto.

— È grave? domandò poco dopo mio marito.

— È grave! rispose il medico.

— Mortale?

— Spero di no.

— Potrei dire una sola parola a mia moglie?

Quei due personaggi si trassero senza dir motto daccanto ad una finestra; io mi accostai lagrimando.

Antonio mi guardò, mi sorrise, mi tese la mano; io la strinsi tremando nelle mie e la baciai con trasporto.

— È morto; susurrò egli, facendo uno sforzo per accostare le labbra alle mie orecchia.

— Chi?

— Lui!

Lui! Lo guardai in volto; tutta la sua vita era raccolta negli occhi. Compresi il significato di quello sguardo.

Non risposi, ma le mie lagrime furono più eloquenti delle parole. Vidi errare sul suo volto una dolce soavità, e sentii la sua mano fremere nelle mie.

— Tu mi ami? tu mi hai amato? mi domandò guardandosi attorno pauroso.

— Oh! sì, io t'ho amato!

In quel punto un'altro uomo apparve sulla soglia. Il medico lo vide e gli mosse incontro. Le guancie di Antonio si tinsero d'un lieve rossore.

Il medico si accostò a noi.

— Il cavalier Salvani... prese a dire con dolcezza.

Mio marito cercò d'interromperlo con un gesto; il medico non comprese.

— Il cavalier Salvani manda a chiedere notizie del vostro stato, e vi esprime il suo rammarico.

Antonio voltò la faccia verso la parete; io inchinai il capo sul petto; egli nascose il suo rossore, io le mie lagrime.»

LXXVI.

«Passai tutta la notte successiva al fianco di mio marito.

Il medico mi aveva lasciato poche speranze di salvezza, la palla aveva leso il polmone destro, ed era uscita dalla schiena, la perdita di sangue era stata abbondante; la respirazione si faceva sempre più affannosa, ed usciva dalla bocca come un fischio.

Ciò che io provai in quella notte non è concepibile; ancor oggi pensandoci mi pare un sogno, nè so come il mio cuore abbia potuto reggere a quella prova suprema.

Una disperazione muta, angosciosa, s'era impadronita di me. Ebbi dei momenti di fiducia e di speranza, ma rari e brevi.

Antonio mi sorrideva, mi guardava con amore. Era felice di sapersi amato e me lo diceva con un accento che mi passava il cuore. Vedeva il mio strazio, ne aveva pietà, e si faceva forza per dissimulare i suoi dolori; mi parlava dell'avvenire, spiegava alla mia mente tutta una tela di progetti festosi.

Sarebbe guarito, saremmo andati a Gossau, al suo paese natale, ci saremmo sottratti al mondo in una sua villetta isolata, avremmo vissuto di pace, di sogni e d'amore.

Assentivo colle labbra, e tentavo anch'io il sorriso. Quale sorriso!...

Quella notte di dolore e d'amore corse rapidissima. Tutte le riluttanze, tutti i dubbii che avevano attraversato la nostra pace caddero a un tratto; in quella notte non mi arrestai dinanzi alla vergogna, palesai tutta la mia colpa, svelai tutto il mio cuore.

Egli mi ascoltò in silenzio; quando tacqui, vidi le sue pupille rivolte verso di me con un'espressione intraducibile di dolcezza.

Volli inginocchiarmi a' piedi del letto; egli indovinò la mia intenzione, me ne trattenne con un gesto, e portò la mano agli occhi per nascondere la sua emozione.

Vidi due grosse lagrime scorrere lentamente lungo le sue guancie.... egli, il mio buon Antonio, mi aveva perdonato!»

LXXVII.

«Verso l'alba lo spasimo della sua ferita parve quetato; la stanchezza della veglia mi costrinse al sonno; appoggiai la testa al capezzale e m'addormentai.

Sognai; io non rammento più quel che sognai; sogni incomposti, agitati; v'era nel mio assopimento una specie di oppressione, un'idea paurosa, indefinita, che si mesceva ad ogni fantasma.

Ignoro quanto durasse quello stato; all'improvviso parve che l'orizzonte s'illuminasse ai miei occhi; tutte le cose oscure diventarono chiare, le paure si diradarono, i misteri ebbero delle rivelazioni... non era più sola in quello spazio sconfinato; mio marito era meco, bello, sereno, affettuoso: la sua voce aveva l'incanto dell'usignuolo, i suoi occhi la luce delle stelle. Le stelle erano in alto, più lucenti, più grandi; attraversavamo uno spazio di silenzii e di profumi. I bei fantasmi dorati, le belle chimere, i bei fiori!... Eravamo giunti ad un punto estremo dell'orizzonte; al di là era una luce, una gran luce che abbarbagliava la mia vista. Ci arrestammo. Antonio mi guardò, mi disse addio, mi strinse la destra... Sentii un fremito corrermi per le vene... Egli mi additò l'opposto limite dell'orizzonte... guardai, e vidi la camera dell'albergo dove io mi era addormentata, vidi il letto, il corpo di mio marito, il mio corpo, immobili entrambi.... Rimasi sola, gridai...

Mi risvegliai di soprassalto. Mi guardai intorno paurosa, era giorno chiaro; sentii la mano di Antonio nella mia, ma fredda, rigida... Mi levai d'un balzo, chinai il mio capo sulla sua faccia. Aveva gli occhi aperti, mi guardava con uno sguardo vitreo, immobile; le labbra semiaperte mi sorridevano un sorriso ineffabile.

Un orrendo pensiero mi balenò alla mente. Smaniosa, fuor di me stessa, lo chiamai a nome, lo scossi; egli non mi rispose....»

LXXVIII.

Carlotta tacque, e chinò gli occhi a terra. Una profonda mestizia oscurava la sua fronte. Le immagini ridestate per un istante avevano popolato il suo pensiero, avevano risuscitato nel suo cuore tatto le lotte d'un tempo; il suo labbro aveva taciuto, ma la sua anima parlava ancora di lui.

Silvio comprendeva e non osava dire parola a rimuoverla da quell'estasi melanconica.

Un misterioso istinto lo invitava al silenzio e alla meditazione.

Era l'ora del tramonto; il cielo si tingeva d'una tinta di porpora e d'oro; più lungi, fin dove giungeva l'occhio, un fascio di raggi infuocati si frangeva contro le vette dei monti; per l'immensa distesa di pianure, di colline e di valli, non un rumore, non un eco; una calma infinita circondava il campicello della morte.

Le cime delle piante dei cipressi, ombreggiate dalla luce infiacchita, sorgevano dietro il muricciolo di cinta, immobili, severe, a simiglianza di ombre che si affacciassero ad un misterioso convegno.

Silvio guardava le zolle, le croci nere curvate l'una verso dell'altra come se volessero unire le loro braccia in un estremo amplesso; le pareti coperte di lapidi, colle iscrizioni nere mezzo cancellate dal tempo... guardava il cielo che schierava in alto, come una immensa promessa, le prime stelle che si coloravano d'una pallida luce... guardava la mano candida ed affilata di Carlotta, che una intimità improvvisa aveva unito quasi senza avvedersene alla sua...

— Lo sentite? domandò Carlotta, uscendo d'un tratto dalla sua contemplazione.

— Chi?

Carlotta non rispose, parve seguire cogli occhi qualche cosa che le sfuggisse... poi lasciò ricadere il capo sul petto.

Poco dopo lo risollevò con un moto risoluto.

— Il resto del mio racconto, diss'ella, è facile ad immaginare. Gossau era il suo paese natale; vi feci trasportare il suo corpo; egli è ritornato alla sua prima origine. L'anima sua si è lanciata nell'infinito.

Tacque un'altra volta, levò gli occhi al cielo, e ve li tenne fissi gran tempo.

Intanto la notte scendeva colle sue ombre; una leggiera brezza incurvava i cipressi, gl'insetti, melanconici amici della notte, inneggiavano nelle siepi; le stelle si accendevano ad una ad una come piccoli fari collocati nell'ignoto, i focolari delle capanne sparse qua e colà sulle colline circostanti riflettevano la loro luce tremolante.

A poco a poco il viso di Carlotta si scolorì, si confuse; le croci nere si oscurarono affatto, le lapidi biancheggiavano a stento come attraverso una fitta nebbia.

— Voi lo vedete, disse Carlotta con voce commossa; egli mi chiama, egli mi aspetta.

Silvio non rispose.

— Lasciate che io parta; non vogliate contrastarmi questo breve sentiero che mi rimane e che mi riconduce al mio amore.

— Al mio amore! ripetè Silvio come se parlasse a sè medesimo.

— Alla tomba, aggiunse Carlotta sommessamente. Scendete nel vostro cuore: dite voi stesso se io posso esser vostra o d'altri giammai.

Silvio tacque, accostò la mano di Carlotta alle labbra, e si levò in piedi.

— Rimanete, disse con voce spenta, io parto.

— Grazie, mormorò Carlotta, voi non sapete l'importanza di questo beneficio.

Stettero alcuni istanti silenziosi; egli ritto innanzi a lei, colla mano di lei stretta nella sua, ella appoggiata al marmo della tomba, entrambi smarriti e lagrimosi.

Silvio chinò il capo tino a sfiorare coll'alito i capelli di Carlotta.

— Ditemi almeno se mi amate, balbettò col cuore affranto dall'angoscia.

Carlotta rispose con un gemito.

— Ditemi almeno se mi avreste amato.

Carlotta sollevò il capo in atto di preghiera così umile, che Silvio ne fu commosso.

— È vero, disse egli, è vero; possiate esser felice! Addio.

La mano di Carlotta lo trattenne.

L'alito della notte, meglio che una voce umana, ripetè queste parole:

— Possiate esser felice!

Silvio senti un brivido per le vene. Il volto di Carlotta sollevato verso di lui, era così presso al suo volto, da confondere quasi il respiro. Un desiderio irresistibile, impetuoso, lo vinse... baciare quelle labbra adorate... Si trattenne a mezzo l'atto. Carlotta comprese, gettò indietro con un moto della testa alcune anella che le scendevano sulla faccia, e porse la fronte a Silvio, che vi appoggiò le labbra ebbro di felicità e di dolore.

Un doppio addio risuonò in quel bacio.

Silvio si lanciò fuori del cancello, vide il vecchio Giovanni e una lagrima errare fra le rughe del suo volto.

Strinse la mano di quel vecchio amico, gettò un ultimo sguardo dietro il cimitero, e sparì rapidamente dietro la collina...

FINE.

ERRATA-CORRIGE

Nel Vol. 1.º pag. 8, lin. 15 e pag. 17, lin. 6 leggasi Eugenio invece di Ernesto.

E nel Vol. 2.º pag. 34, lin. 29, e pag. 35, lin. 25 leggasi pure Eugenio invece di Raimondo.