AI LETTORI.
Avendo alquanto coltivato la poesia sin da' giovenili anni, e trattone dolcezza, non so cessare d'amarla, e di lasciarmi talvolta da essa ispirare scrivendo i miei più intimi pensieri e sentimenti. Così son nati i versi che oggi m'avventuro di pubblicare, sebbene sia consapevole essere in questi il buon desiderio molto maggiore del merito, e sebbene soglia dirsi nell'età nostra, giovare che gli scrittori italiani gareggiano piuttosto in moltiplicare le buone prose, che in arricchire il tesoro della poesia patria, già cotanto abbondante ed egregio. Non condanno siffatta opinione a favore delle buone prose, le quali pur vorrei vedere aumentarsi ogni giorno nella nostra letteratura, ma dimando grazia anche per le poetiche produzioni. Se svolgono affetti lodevoli e verità religiose e civili, le impressioni che fanno su gli animi possono riuscire benefiche al pari d'impressioni destate da libri morali d'altro genere.
Non poca parte de' versi che do alla luce si riferisce precipuamente alle mie vicende, a' miei dolori, alle mie speranze, alle consolazioni recatemi dalla Fede. Mi sono chiesto se non era temerità il dipingere sì lungamente me stesso, e forse ell'è temerità infatti. M'è nondimeno sembrato che la pittura del mio cuore acquistasse un rilievo dagli oggetti nobilissimi che v'ho associato, e segnatamente dal più sublime di tutti—Iddio.
Sospetto che avrei fatto meglio a parlare di Lui, di Religione, di Virtù, senza tanto a me medesimo por mente, ma non ho saputo. Il benigno lettore gradirà con indulgenza questa confessione: ho argomento di sperarlo, sapendo che altra volta già m'è stato generalmente perdonato il rappresentare con tutta fiducia l'interno dell'anima mia.
AL MARCHESE TANCREDI FALLETTI DI BAROLO
ED ALLA MARCHESA GIULIETTA NATA COLBERT
SUA CONSORTE OMAGGIO DELL'AUTORE.
LA MIA GIOVENTÙ.
Cor mundum crea in me, Deus. ( Ps. 50).
Lamento sui fuggiti anni primieri, Che fecondi di speme Iddio mi dava, E di ricchi d'amore alti pensieri!
Tra giubili ed affanni io m'agitava, Ed incessanti studi, e bramosia Di sollevarmi dalla turba ignava;
E spesso dentro al cor parola udìa Che diceami dell'uom sublimi cose, Tali che d'esser uomo insuperbìa.
Pupille aver credea sì generose Il mio intelletto, che dovesser tutte Schiudersi a lui le verità nascose;
E di ragion nelle più forti lutte Io mi scagliava indomito; sognante Che sempre indagin lumi eccelsi frutte.
Quella vita arditissima ed amante Di scïenza e di gloria e di giustizia Alzarmi imprometteva a gioie sante.
Nè sol fremeva dell'altrui nequizia, Ma quando reo me stesso io discopriva, L'ore mi s'avvolgean d'onta e mestizia.
Poi dal perturbamento io risalíva A proposti elevati ed a preghiere, Me concitando a carità più viva.
Perocchè m'avvedea ch'uom possedere Stima non può di se medesmo e pace, S'ei non calca del Bel le vie sincere.
Ma allor che fulger più parea la face Di mia virtù, vi si mescea repente D'innato orgoglio il lucicar fallace.
E allor Dio si scostava da mia mente, E a gravi rischi mi traea baldanza, Ed infelice er'io novellamente.
Se così vissi in lunga titubanza, Ond'or vergogno, ah! tu pur sai, mio Dio, Che tremenda cingeami ostil possanza!
Sfavillante d'ingegno il secol mio, Ma da irreligiose ire insanito, Parlava audace, ed ascoltaval'io.
E perocchè tra' suoi sofismi ordito Pur tralucea qualche pregevol lampo, Spesso da quelli io mi sentìa irretito.
Egli imprecando ogni maligno inciampo Sciogliea della ragion laudi stupende, Ma insiem menava di bestemmie vampo.
Ed io, come colui che intento pende Da labbra eloquentissime e divine, E ogni lor detto all'alma gli s'apprende,
Meditando del secol le dottrine, Inclinava i miei sensi alcuna volta Di servil riverenza entro il confine.
Tardi vid'io ch'a indegne colpe avvolta Era sua sapïenza, e vidi tardi Ch'ei debaccava per superbia stolta.
Trasvolaron frattanto i dì gagliardi Della mia giovinezza, e sovra mille Splendide larve io posto avea gli sguardi;
E nulla oprai che d'alta luce brille! E si sprecar fra inani desidèri Dell'alma mia bollente le faville!
Lamento sui fuggiti anni primieri Che d'eccelse speranze ebbi fecondi, E di ricchi d'amore alti pensieri!
Ma sien grazie al Signor che, ne' profondi Delirii miei, pur non sorrisi io mai Agl'inimici suoi più furibondi:
Sempre attraverso tutte nebbie, i rai Del Vangel mi venian racconsolando; Sempre la Croce occultamente amai.
Ed il maggior mio gaudio era allorquando In una chiesa io stava, i dì beati Di mia credente infanzia rammentando:
Que' dì pieni di fede, in che insegnati Dal caro mi venian labbro materno I portenti onde al ciel siamo appellati!
Di nuovo fean di me poscia governo La incostanza, gli esempi, ed il timore Dell'altrui vile e tracotante scherno;
E l'ira tua mertai per tanto errore: Ma gl'indelebili anni che passaro Ritesser non m'è dato, o mio Signore!
Presentarti non posso altro riparo Che duolo e preci e fè nel divo sangue, Di cui non fosti sulla terra avaro
Per chiunque a' tuoi piè pentito langue.
A DIO.
Et anima mea illi vivet. ( Ps 21).
D'uopo ho d'amarti, e d'uopo ho che tu m'ami, O tu che per amar mi desti un cuore! Son mal fermi quaggiù tutti i legami, Tu sei solo immutabile, o Signore! S'amo creati cuor, fa ch'io rïami In essi te che mi comandi amore: Se d'altri il braccio mi sostiene alquanto, Sostenga essi con me tuo braccio santo.
Ov'anco intorno a me sien petti cari, No, mai bastar non ponno al mio conforto; Spesso agitato da cordogli amari Lo sguardo mio sui lor sembianti io porto; Ma del mio mal tosto li bramo ignari, E compongo a letizia il viso smorto, E so che anch'essi per affetto eguale Celan sovente del dolor lo strale.
E più volte ho provato in petti umani D'espandere l'arcana angoscia mia, E come a Giobbe i consiglier suoi vani, In me quelli accrescean melanconia; E chi i gemiti miei diceva insani, Chi crollava la testa e non capìa, Chi fingea compatir, mentre in secreto Io lo scorgea de' miei tormenti lieto.
Sì ch'or per la pietà che agli uni io deggio, Perchè tenera brama han del mio bene, Ora per non esportili al vil dileggio Dell'alme giubilanti alle mie pene, Poco agli uomini parlo, e poco alleggio Tra loro il duol che in me dominio tiene; Ma sfogar pur sospiro i lutti miei, E tu, Signor, mio confidente sei!
Fa ch'io ti senta sempre a me vicino: Troppo la solitudin m'addolora! Posar vo' il cor sovra il tuo cor divino Voglio dirti i miei sensi a ciascun'ora! Traggimi in qual pur sia fiero cammino, Purchè teco io respiri, e teco io mora: Tutti i dolori a te d'accanto accetto, Di viverti discaro io sol rigetto.
Per aver l'amor tuo che far degg'io? Pregar soltanto? Ah no, il pregar non basta! Debbo immagine in terra esser di Dio, Debbo luttar contro a natura guasta, Debbo aver di giustizia alto desìo, Debbo non abborrir chi mi contrasta, Debbo amar tutti, anco i più rei nemici, Ed, ove il possa, oprar che sien felici.
Donami quell'amor, ma il dona insieme A chi meco vïaggia sulla terra: Fra gl'inamanti cuori il cuor mio geme E impicciolisce, e sua virtù s'atterra; Fra i malignanti cuori il cuor mio freme, E orgoglio oppone a orgoglio, e guerra a guerra Fra gli odii altrui l'anima mia è infeconda; D'alti esempi d'amor, deh, la circonda!
Con te, Signor, con te stringo alleanza: Perdonerò a' mortali, a me perdona; Amerò tutti, perchè han tua sembianza, Perch'io son tua fattura, amor mi dona; Amerò tutti, ma con più esultanza Chi fra le braccia tue più s'abbandona; Amerò tutti, ma con più fervore Chi più simile al tuo mi mostra il core!
Amar vogl'io, di quell'amor che avvampa In te, e ne' tuoi più nobili viventi, Di quell'amor che da' rei lacci scampa, Di quell'amor che regge infra i tormenti, Di quell'amor che all'universo è lampa Nella chiesa infallibil de' redenti, Di quell'amor sì pio, sì ver, sì forte, Che abbella e vita, e gioie, e strazi, e morte!
DIO AMORE.
Domine, qui amas animas. ( Sap. 11,27.)
Amo, e sovra il cor mio palpitò il core Del mio Diletto, ed era—ah! la tremante Lingua osa dirlo appena—era il Signore!
Il Signor che di gloria sfavillante Regna ne' cieli, e sua delizia è pure Il picciol uomo in questa valle errante!
Ed attonite il mirano le pure Intelligenze scendere ammantato A questo erede di colpe e sciagure,
Ed il povero verme lacerato Sanar colle sue mani, e a tutti i mondi Ridir sua gioia, se da tale è amato.
Io lo vidi per baratri profondi Movermi incontro, e gridar dolcemente: «Perchè cotanto al mio desìo t'ascondi?»
E più e più appressavasi, e ridente Più e più del suo viso era il fulgore, E n'arsi ed arderonne eternamente.
Amo, e sovra il cor mio palpitò il core Del mio Diletto, ed era—ah sì! il proclamo All'universo in faccia—era il Signore!
Io lo vidi, il conobbi, ei m'ama, io l'amo!
MARIA.
Fac ut ardeat cor meum. ( Stab.)
Amo, e sovra il cor mio col nome santo Sta del Signor quel d'una Donna impresso Quel della Vergin che a Lui siede accanto!
Quel di Colei che gloria è del suo sesso! Quel di Colei ch'anima avea sì bella, Ch'a sue cure Dio volle esser commesso!
E bambin s'appendeva a sua mammella, Ed ha i merti di lei co' suoi contesti, E l'alzò dov'è a noi propizia stella!
Salve, o Maria! Tu con Gesù stringesti Fra le tue braccia tutti noi mortali; Tu per fratello il Redentor ne desti.
Su me pur, su me pur tue celestiali Pupille scintillaron di materna Pietà ineffabil, sin da' miei natali.
E a quel Figliuol che terra e ciel governa Per me chiedesti e vai chiedendo aïta, Sì, ch'io pur giunga alla sua pace eterna.
Ne' giorni più infelici di mia vita L'invisibil tua man mi terse il pianto; Ognor t'han miei rimorsi impietosita.
Amo, e sovra il cor mio porto col santo Nome di Dio quel di Maria stampato! Quel della Donna che a Lui siede accanto!
Della Madre che il Figlio ha per me dato!
L'UOMO.
Omia possum in eo qui me confortat. ( Philipp. 4, 13)
Capir non può l'umano spirto quale Fosse dell'uom la prima, alta natura, Pria che i suoi giorni avvelenasse il male.
Ma di natia grandezza un resto dura Pur d'Adam nel nipote sventurato, Che un Dio, piucchè una belva, in sè affigura.
Quel corrucciarsi del suo abbietto stato È ad un tempo alterigia e sentimento Ch'ei pel fango terren non fu creato.
Giocondo del suo pascolo è l'armento, E se rugge il leon, rugge per fame, E quand'è sazio, anch'ei posa contento.
Solo il mortal, benchè ogni senso sbrame, E si sforzi a letizia, ode una voce Che in cor gli grida:—L'ore tue son grame!
Sempre muta pensier, sempre lo cuoce Uopo sfrenato di scïenza o possa, Sempre una spina a sue calcagna nuoce.
Solo fra gli animali ei pur dall'ossa De' cari estinti aspetta vita, e crede Sovrastar gioie e danni oltre alla fossa.
In ogni secol l'uom si vanta erede D'avito senno e cresciutissime arti, Ed egualmente sitibondo incede.
Ambisce ragunar tutti i cosparti Lumi dell'universo, e farsi Iddio, E rifuggongli quei da cento parti.
Agogna fama, e lo ravvolge obblio, Sanità cerca, e infermità l'abbatte, Sa di peccare, e vorrebb'esser pio.
Contr'altri, contra sè freme e combatte, Vuol parer dignitoso ed assennato, E il premon fantasie luride e matte.
Egli è un astro smarrito ed oscurato Che di sua prisca gloria un raggio serba, E volge a rallumarsi ogni conato.
Egli è una cosa angelica e superba, Egli è un Nabucodonosor del cielo, Dannato co' giumenti a pascer l'erba.
Sull'intelletto suo s'è steso un velo, Ch'ei maledice ed agita, e attraverso Scorge il tesor perduto ond'è sì anelo.
Come offes'egli il Re dell'universo? Qual fu l'arbor vietata ch'egli ha tocca? Sin quando in mezzo a' vermi andrà disperso?
Basti che mentre di giustizia scocca L'ineluttabil folgore sull'uomo, Sull'uom misericordia anco trabocca.
Basti che sì da colpa ei non è domo, Che per mano di Dio non debba pure Frangere il giogo, e avere in ciel rinomo.
Basti ch'ei fra ignominie e fra sciagure Sta grande e conscio di virtù divine, E gli destan rossor vizi e lordure.
Ei molto ignora, ma le sue rovine Attestan quella origin ch'egli avea, E suda a restaurarle insino al fine;
E abborre l'angiol vil che il seducea, L'angiolo vil che invano ognor gli grida: «Nulla tu sei che argilla stolta e rea!»
Taci, bugiardo spirto! Iddio m'affida: Ei non m'ha tolto, come a te, l'amore: Uom si fe' perch'io 'l veda ed abbial guida.
Servo a lui son, ma sono a te signore; Mal cangi astutamente e viso e manto, Per trarmi fra tuoi schiavi al tuo dolore.
Mal di filosofia t'usurpi il vanto, Per insegnarmi il tuo esecrando scherno Sull'alte mire del tre volte Santo!
Io caddi al par di te dal regno eterno, Ma non sì basso; e se mi curvo al suolo, Non è per invocar fango ed inferno,
Bensì lui, che raddurmi al ciel può solo!
LA REDENZIONE.
Bibite ex eo omnes. ( Matth. 26,27.)
Uom, chi sei? Non t'inganni l'argilla Ov'hai stigma d'obbrobrio e di morte. In quel fral maledetto sfavilla Una luce che a Dio somigliò. Spaventosa e sublime parola! Dio nell'uom crea di luce uno spirto, Che dovunque Dio s'alzi trasvola, Che l'abbraccia, che in lui tutto può.
Antichissima colpa ed oscura Dal felice cospetto del Padre Quell'altissima un dì creatura Discacciò, preda a vermi e dolor. Disputar colle belve la terra L'uom fu visto, alle belve agguagliato; Gli elementi gli mossero guerra, Nulla il vinse: egli grande era ancor.
Ma più grande il fe' guardo d'amore Ch'ei pentito osò volgere al cielo: Da quel guardo fu preso il Signore, Scese un giorno, e coll'uomo s'unì. Non fu tolta alla colpa ogni pena Per giudizio ineffabil del Santo, Ma la coppa del duol fu ripiena Di quel Dio che coll'uomo patì.
Da quel giorno s'inchina al mortale Ogni mente che inchinisi a Dio, Perch'entrambe con palpito eguale Condivisero gaudio e martìr. Da quel giorno gli spirti del cielo, Cui straniera fu sempre sventura, Santa invidia portaro all'anelo Che per Dio può con gioia morir.
Dal suo abisso l'eterno perduto Leva il capo, e con perfido ghigno Grida:—Vieni, o tu forte caduto! A me vieni, io de' forti son re! E il fellon nega un Dio salvatore; Ma il mortale a quell'empio risponde: —Sento ignota virtù nel dolore, Ciò mi svela che il Provvido v'è!
Sì, v'è Dio, l'adorabile, il forte! Fatto l'uom a sua immagine avea: Ei dell'uom meritevol di morte Fessi immagine, e a sè il rïunì. Oh magnanimo, a tanta bassezza Sceso sei per restarne vicino! Più non nuoce, no, morte, se spezza L'incantesmo che a te ne rapì.
Oh mio Dio! più di morte, crudele È il dolor che dividemi il core, Ma il dolor convertì l'infedele, Anco i giusti migliora il dolor. Vero è il fatto, innegabil, tremendo: Non v'è in terra virtù senza pianto. Ecco il seno: ah! ch'io t'ami piangendo! Ecco il lacera, il lacera ancor!
Benchè al misero umano intelletto Sollevar non sia dato quel velo, Onde piace a colui ch'è perfetto Di sue vie le cagioni coprir, Pur traspar sapïenza divina, Tra la nube dell'alto mistero, In quel lutto che l'anime affina, In quel Dio che per noi vuol morir;
In quel nobile amor d'un fratello Che patisce per empi fratelli; In quel gran, di giustizia, modello Che ad un tempo è increato e mortal! In quel senno che sembra follia, Ed è stimolo a somme virtudi, Che qual ombra fugò idolatria, Che fra tutti i nemici preval!
LA CROCE.
Confidite: ego vici mundum! ( Ioh. c. 16.)
E chi ingannato non sariasi quando All'inesperto giovane intelletto Tal si volgea drappello venerando Per alta fama ed eloquente affetto, Che virtù promettendo, ed appellando A sublimanti indagini ogni petto, Dicea: «Siam nati a illuminar la terra, A tutte ipocrisie movendo guerra!»
Qual età vide mai zelo cotanto D'ardenti ingegni, or concitati all'ira Contro menzogna, or concitati al pianto Sulle stoltezze in che il mortal delira? Sì che spesso il lor dir quel grido santo Parea che il cielo a' suoi profeti ispira, Onde riscosse da letargo indegno, Movan le genti di giustizia al regno!
Tonerà in quanti secoli fien dati; Alla palestra degli spirti umani, Tonerà il giusto contro i danni oprati Da' fratelli perversi e dagl'insani; E quel tonar perenne i cor bennati Da ignobil opra tener può lontani, E più li infiamma od infiammar dovria A sacrifizi, a onore, a cortesia.
Ma sciagura sui popoli e sui regi Quando frammisti a nobili pensieri Potentissima scuola alza dispregi Sovra la fonte degli eterni veri! Sciagura sugli stessi animi egregi Che allor di luce esser vorrian forieri! Del vaneggiar d'illustre scuola tersi Arduo a loro medesmi è rimanersi.
Ed in simile tempo io son vissuto! Famosi audaci avean deriso l'are, E affascinata dallo scherno astuto Prendea quelli la turba a idolatrare; Bello parve ostentar disdegno arguto Verso chi preci a Cristo osasse alzare, E più d'un per viltà vituperava Quell'Evangel ch'ei pur nel cor portava,
Io dentro al cor portava l'Evangelo, Nè bestemmie contr'esso unqua avventai; Ma perchè s'irrideano e preci e zelo, Non curanza di Dio spesso mostrai, E agguagliato agli immemori del cielo, Plausi e piaceri e vanità anelai; E pur nell'alma ognor udia una voce, Che dicea: «Dove vai? Riedi alla Croce!
«Riedi alla Croce! mi dicea; sì sforza Calunnia indarno di tenerla a vile: La Croce sol gl'indegni fochi ammorza, La Croce sol fa l'uom grande e gentile, La Croce sol dà all'intelletto forza Di diventare all'Uomo Iddio simìle; Se ipocriti talor stanno a' suoi piedi, Non fuggirla perciò: gemine, e riedi!
«La Croce altro non è ch'alta dottrina Di generosi e giusti sacrifici; La forza d'affrontar doglie e rovina Per giovare a' tuoi cari e a' tuoi nemici; L'ardir congiunto ad amistà divina; La virtù che nel cielo ha sue radici. Chi per la Croce, ov'ei non sia demente, Meraviglia ed ossequio e amor non sente?
«E se tu vedi ciò ch'ell'è, se l'ami, Perchè di lei vilmente arrossirai? Perchè, se il travïato empia la chiami, All'impudente voce arriderai? Di lui spregia e compiangi i ghigni infami, Nè incodardir, sotto agli obbrobrii mai: Della Croce magnanimo seguace, Dimostra quanta in abbracciarla hai pace.
«Dimostra che la Croce a chi davvero Suoi pregi indaghi, scema ogni amarezza; Dimostra col tuo oprar, non esser vero Ch'ella guidi a torpore ed a fiacchezza; Dimostra che alto fa l'uman pensiero, Che a tutti i grandi e forti atti lo avvezza; Dimostra che se ride all'ignorante, Pur del nobil sapere è sempre amante!
«Pari ad ogni miglior vantata scuola La Croce insegna dignità ed amore; Ma in lei sol v'è possanza di parola Che inforzi, e persüada, e appuri il cuore; Unica le angosciate alme consola, Unica abbellir puote anco il dolore: Ogni scuola miglior tituba e illude, Dubbii ed error la Croce sola esclude».
Tal mi sonava in cor voce gagliarda, Or è gran tempo, e s'io non l'obbedìa, Del mio spirto esitanza era infingarda, E di rapidi, lieti anni malìa; La retta via scernendo, io la bugiarda Con secreti rimorsi ognor seguìa: Mesto or che tanto resistessi al vero, Miro la Croce—e in sue promesse io spero!
GLI ANGELI.
Qui facis angelos tuos spiritus. ( Ps. 103).
Con un sol cenno, è ver, l'Onnipossente Può governar gl'innumerati mondi, Scevro d'ausilio di creata mente;
Ma più degno è di lui ch'ami e fecondi L'universo d'angelici Intelletti, Di cui l'opra sue grandi opre secondi.
Ei così volle, e spirti a lui soggetti Adempion suoi decreti in ogni loco, Quali a premiar, quali a punire eletti.
L'Angiol del Sol, da quel beante foco Ai circostanti globi è fatto legge, E della luce incantali col gioco.
Ed ogni astro ha uno spirito che il regge, Od hanne molti, giusta ch'ivi è bello Esser vario de' duci il santo gregge.
La nostra terra di sventure ostello, Ostello è pur di squadre celestiali, Onde scempio non facciane il rubello.
Per fraterna pietà si fean coll'ali Agli occhi vel, lunge l'acciar rotando Ai cacciati quaggiù primi mortali.
E d'Adamo fu l'Angiol, che allorquando Reo lo mirò—«Non disperar! gli disse, «L'Eterno puoi placar, te umilïando!»
Poscia ogni volta che la colpa afflisse Cuori che si pentiano, il Signor tosto Di consolarli ad uno spirto indisse.
Chi al fido Abramo che sul rogo ha posto Il caro figlio ed il coltel già snuda, La man rattiene? Un Cherubin nascosto.
E quando l'infelice Agar di cruda Sete col figlio langue entro il deserto, Dio fa che l'acque un Angiolo dischiuda.
De' dolci Genii ognor s'accrebbe il merto Di quest'esule argilla a giovamento, Per cui sapean che Cristo avria sofferto.
Noi vediam nel soave accorgimento Di Rafael (perchè Tobia giungesse D'ogni più cara brama al compimento)
L'amor de' nostri Genii: in lor le stesse Ardono industri fiamme generose Per l'alme peregrine a lor commesse.
E più lieti n'avvampan, dacchè impose L'Eterno a Gabriello il gran messaggio, E Maria «la tua ancella ecco!» rispose.
In quel bel dì le sfere tutte omaggio Le prestaro, e degli Angioli reìna Brillò una Donna di terren lignaggio!
Qual fu la gioia lor quando in meschina Stalla videro nato il Dio lattante Al sen della Mortal, fatta Divina!
Oh felice lo stuolo vigilante De' pastori che l'inno udiron primi, Nuncio alla terra del celeste Infante!
Godo in pensar che allor fra que' sublimi Angioli avevi loco, Angiolo mio, Tu che guidarmi or degna cura estimi.
Tu l'hai veduto quell'amante Iddio Pender bambin fra le materne braccia, E già per me il pregavi, e t'esaudìo!
E poi seguisti di Gesù ogni traccia Pel cammin della vita, e poi vedesti Sul fero legno sua languente faccia,
E di dolor sui falli miei piangesti!
II.
L'Angiolo! Oh amabil creatura! Un Ente Tutto bellezza, e intelligenza e amore, Che tutto legge nell'eternamente!
L'uom qual angiol saria se affrontatore Della sconfitta sua stato non fosse, Bandiera alzando contro al suo Fattore.
Ma il reo di sua stoltizia addolorasse, E lagrime spargendo si sommise, E Dio intese sue preci, e si commosse.
Del mortale a custodia un Angiol mise, Che lo guidi e consoli, e ognor ripeta: «Tieni a salute le pupille fise».
Dal giorno poi che nostra afflitta creta Iddio venne a vestire ed a noi diessi, Dolorando e morendo, esempio e meta,
Portando noi del divin sangue impressi Sulla fronte i caratteri possenti, Più invidia non ci fan gli Angioli istessi.
Angioli siam noi pur, benchè gementi In questo passeggier regno di morte: Gesù nobilitò nostri tormenti!
Perdermi ancor potrei; ma la mia sorte Fidata venne ad un guerrier del cielo: Ei mi regge e difende con man forte.
L'Angiol che per mio bene arde di zelo Amo, e cerco, ed invoco, e benedico, E pur di poco amarlo io mi querelo.
Ei fra' creati fu il mio primo amico! Il Genio che svolgea ne' miei prim'anni Del Bel l'amore, ond'oggi il cor nutrico!
Il confidente de' secreti affanni! L'incanto che i pensier m'ha raddolciti! Il braccio che strappommi a crudi inganni!
Oh tutti voi, che da dolor colpiti Gemete in questa valle, abbiate spene Ne' tutelari Spirti a voi largiti!
Io troppo spesso ad amistà terrene Volli appoggiarmi, ed eran pochi i fidi Che davver s'attristasser di mie pene.
I più m'amavan per sè stessi, e vidi Taluni rinnegarmi, e perfid'eco Far contra me di vil calunnia a' gridi.
Ed io, folle, piangea!—Ma quand'io meco Sentìa il celeste amico mio verace, L'angosciato mio core effondea seco,
Ed ei benigno v'istillava pace!
III.
Angiol mio, dove sei? Mai dal mio fianco Non ti partir, che s'appo me non t'odo, Tu sai quanto al ben far divenga io stanco.
Di vane inquïetudini mi rodo, Se a me incessantemente non favelli, E ai vili penso, e d'abborrirli godo.
Ottienmi ch'io perdonar sappia ai felli, Ed opri ognor secondo te, secondo L'orme de' miei più nobili fratelli.
Gareggia cogli altr'Angioli che al mondo Offron nelle guidate anime forti D'ardue virtù spettacolo giocondo.
Perchè ne' dì lunghissimi che assorti Vissi in prigion, mi sfavillò sì grande La dolce carità de' tuoi conforti?
Perchè tratto m'hai poscia infra ammirande Anime care, ond'una al guardo mio Raggi con te di Paradiso espande?
Perchè in me suscitasti alto desìo D'obbedire a quell'una, e perchè festi Ch'ella a me dir curasse: «Amiamo Iddio»?
Grazie, grazie, Angiol mio, de' manifesti Segni di fratellanza! ah sì, tu m'ami! Tu vuoi condurmi a giubili celesti!
Tu in guise inenarrabili mi chiami, Per me paventi della colpa i lutti, E mi sveli d'inferno i lacci infami.
Salve, bell'Angiol mio! salvete tutti, Angioli tutelanti l'universo, Perch'egli a Dio suprema gloria frutti!
Quanti siete v'imploro, a fin che immerso Non vada alcun d'infra gli amati miei Nella voragin dello stuol perverso!
E te precipuo invoco, Angiol, che sei Protettor delle belle Itale rive, Difendi il popol mio da influssi rei!
Tuoni del Campidoglio in sul declive Sì possente la voce della Chiesa, Che salvatrice a tutte genti arrive!
E la face crudel della contesa Fra le varie contrade Itale spegni, E ferva ognuna al comun bene intesa!
E dell'alma Penisola i bei regni Di dura signoria non giaccian preda, Ne' di plebei sovvertitori ingegni!
Ad ogni alta virtù l'Italo creda! Ogni grazia da Dio l'Italo speri! E credendo e sperando ami, e proceda
Alla conquista degli eterni veri.
LE CHIESE.
Altaria tua! Domine virtutum. ( Ps. 83, p. 4 ).
Oh di preghiera e verità e conforto E sublimi pensieri amate case, Case di Dio! sin da' primi anni a voi Con rispettosa tenerezza il guardo Io rivolger godea, come a ricovro Di prole addolorata entro riposta D'ottimo padre stanza, a' filïali Lamenti sempre ascoltator benigno.
Lunghe l'infanzia mia tenner vicende D'infermità e mestizia. A me d'intorno Giubilavano vispi e saltellanti, E di bellezza angelica festosi, I pargoletti di que' giorni, ed io, Nato robusto al par di lor, caduto In rio languor vedeami, ed in secreti Indicibili spasmi; e spesse volte Morte ponea sovra il mio crin l'artiglio, Ma per gioco ponealo, e mi sdegnava. Così che pur ne' dì quando men egro Io strascinava il corpicciuolo, e lieta La voce uscìa dalle mie smorte labbra, Tra i floridi compagni, ascosamente Spesso mie brevi gioie interrompea La pietà di mia fral, misera forza; Ed impeti frequenti allor d'angoscia Il petto mi premean, sicch'io fuggiva A nasconder mie lagrime solinghe; E quei che mi scopriano indi piangente Per ignota cagion, mi dicean pazzo. Salve, o gotici, begli archi del Tempio Che di Saluzzo è gloria! Archi, ove m'ebbi Alle mistiche fonti il nome caro D'un tra i vati gentili, onde graditi Sonaron carmi per le patrie valli. Palpiti d'esultanza erano i miei Quando me tenerello a quell'angusta Chiesa portava a' dì festivi il pio Braccio materno; e ricordanza vive In questo cor della speranza arcana Che molcea i mali miei, quando su quelle Antiche, venerande are il mio ciglio Supplicemente ricercava Iddio. E salve, o tempio di men nobil foggia, Ma parlante a me pur dolci memorie, In Pinerol, città seconda, ov'io Riposai le mie inferme ossa crescenti! Là nelle vespertine ombre, al chiarore Della lampada santa, io colla madre E col fratel pregava la pietosa Degli Angioli Regina e degli afflitti, Ed in secreto a lei mi cordogliava De' malefici influssi, onde a' miei nerbi Strazio era dato, ed al mio cor tristezza, Ed aïta io chiedeale, ovver la tomba. Ma l'infantil querela uscìa con sensi D'aumentata fiducia, e allevïarsi In me sentìa l'affanno, e sentia l'alma Di pensier fecondarmisi e d'amore.
Nelle tue, Pinerolo, aure dilette L'adolescenza mia fu di soavi, Religïosi gaudii confortata; E indelebile è in me l'ora solenne, Quando, trepido il sen, mossi all'altare Tra drappelletto di fanciulli il grande Atto a compir, di confermar col proprio Conoscimento le promesse auguste, Che di virtù magnanima al battesmo Pronunciarono labbra altre per noi.
Oh nobil rito! oh santo olio! oh possente Grazia del Crisma! oh simboli che tanto A sublimi desiri alzan la mente!
Con pompa veneranda il Pastor santo Presentasi all'altare, e a lui corona Fan suoi pii Sacerdoti in aureo ammanto.
Celestiale armonia nel tempio suona Di cantici divoti, e di pietate Palpita il core a ogni gentil persona;
E più alle madri che nel vel celate Delle viscere lor sui cari frutti Tengono le pupille innamorate,
Scongiurando che a Dio s'elevin tutti.
«Re del ciel che noi madri volesti Di que' giovani spirti diletti, Nel dolore li abbiam benedetti Pria che i cigli schiudessero al dì; Nel dolore li abbiamo allattati, Custoditi li abbiam nel dolore: Ah, per essi t'offriamo, o Signore, Tutto ciò che nostr'alma patì!
Il tuo spirto divino discenda In que' teneri ingegni inesperti: Li fortifichi, li alzi, li accerti Della Croce per l'arduo cammin. Oggi intendano e intendan per sempre Che non nacquero a ignobile cura, Che son enti d'eccelsa natura, Che la palma celeste è lor fin!
Il tuo spirto divino addolcisca Que' germogli del sesso più forte: Non paventin perigli, nè morte, Ma li tempri alto senso d'amor! Il tuo spirto divino sostenga Que' germogli del sesso più amante: Sieno spose, o sien vergini sante, Ma in bell'opre virile abbian cor!
E delle accolte, lagrimose madri Col tacit'inno pe' figliuoli amati Il secreto consuona inno de' padri;
Sebbene i maschi petti ammaestrati Da esperïenza e fantasie più meste, Veggan su que' fanciulli or sì beati
Minacciose adunarsi, atre tempeste.
«Giovin'alme, or v'assecura Quella pace che gustate E all'Altissimo giurate, Immutabil fedeltà: Ma non conscii voi tocca l'aurora D'un'età di prestigi e di guerra, Che vi chiama, vi sprona, v'afferra, Vi strascina, a qual meta non sa!
Ah, noi pur dal Crisma santo Confermati esultavamo, E spogliar l'antico Adamo Era saldo in noi desir! Ma spuntato quel tempo tremendo Che i mortali a cimento conduce, Spesse volte falsissima luce In rei lacci ne fece languir.
Più gagliardi, più assistiti Da invisibili portenti Voi non domino i cimenti, Voi più traggano a virtù: Una stirpe formate di prodi Che agli esempi vigliacchi s'involi, Che la Chiesa gemente consoli, Ch'altre stirpi consacri a Gesù»!
Mentre de' genitori i voti accesi Sorgono per la prole benedetta, Stanno i fanciulli all'alta pompa intesi,
E ciascun d'essi palpitando aspetta Lo Spirto Santo e la percossa, donde L'alma a patir per nobil opre è eletta.
All'unzïone, al tocco, alle profonde Del Vescovo parole, il giovin core Con proposti magnanimi risponde.
Mai paventato non avea il Signore, Come il paventa in quest'istante, e mai Non avea per Lui tanto arso d'amore!
Nessun dica al fanciul: «Tu obblïerai Questo gran dì»: più non possibil crede Volgere a colpa affascinati i rai:
Trasmutato a quel rito in uom si vede; Sdegna le vanità, sdegna i piaceri; Più non vuol che Speranza e Amore e Fede,
E benefici, puri, alti pensieri, E studi gravi, e faticante vita Pe' divini del Golgota sentieri!
Ah! benchè poi dopo cotanto ardita Dolce fidanza, a tempo non lontano Trascorra ov'a lui d'uopo è nova aïta,
Al Crisma santo ei no, non mosse invano: Però che in lui ritorna con possanza Questa voce secreta: «Io son cristiano»!
E ripiglia la Croce, e al ciel s'avanza.
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A me quella secreta, amabil voce Più nella giovinezza non diè posa, Sì che sovente alla gettata Croce Rivolsi la pupilla timorosa; E sebben mi paresse incarco atroce, La riportai con esultanza ascosa, Rammentando mia infanzia, quella Chiesa, E quel Crisma, e la possa indi in me scesa.
E qual fu lo splendor d'un altro giorno: Il giorno in cui di sè nutrimmi Iddio! Ah! non in tempio di gran pompa adorno Trarre allor mi fu dato al festin pio: Genitori e fratei piangeanmi intorno, E venne il Pan celeste al letto mio! E l'accolsi agognando inclita sorte Dopo la sovrastante ora di morte
Ma l'offerta ch'io pronto a Dio porgea, Non fu accettata, e lunghi dì ancor vissi! Oh! chi può dir con qual d'amore idea Morte sperando al Salvator m'unissi? Mille fïate poscia a me riedea La ricordanza di quel giorno, e dissi: «Deh, possa ancor con sì sublime amore, Come in quel dì, ricever io il Signore!»
Quindi appena sui piè mi ressi alquanto Dopo quel memorando atto divino, Mossi alla chiesa, e di dolcezza ho pianto, Ivi tornando al sovruman festino: E mi parea che con dolor più santo Io sopportassi l'egro mio destino, E che tutto il mio core arder dovesse In avvenir di quelle fiamme istesse.
L'ombra del tempio al giovinetto è invito A pensieri gentili ed elevati: Tacite preci, canto, augusto rito, Tutto ivi il trae da' ciechi impeti usati; Tutto l'inizia a pregiar l'uom, munito Di ragione e d'affetti alti ispirati; Santa filosofia quivi il matura Sì che in terra egli stampi orma secura.
Che se ignobile in terra orma sovente Stampa il mortal che pio fu giovanetto, Non è già perchè sia guida impotente Religïone a obbedïente petto, Ma perchè alla celeste Conducente Sveltosi l'uom, s'affida a novo affetto, E segue il proprio orgoglio e i vili esempi, E teme la beffarda ira degli empi.
Oh come lor beffarda ira scagliata Contro gli altari l'alma mia percosse! Ed, ahi! la prima voce scellerata, Che da innocente fede mi rimosse, Uscì da tal, che, dopo aver sacrata Sua vita al tempio, il divin giogo scosse! Quanto è alta luce pio, ver Sacerdote, Tant'è funesto mastro ogni Iscariote!
D'inferno una smania Tormenta quel tristo, Che indegno consacra La coppa di Cristo, Che insegna il Vangelo Con labbro infedel; Che invidia de' laici Le vesti e la chioma, Che irato sogghigna Sui cenni di Roma, Che nutre eresia Mal cinta da vel.
Ossesso quel petto Quïete non gode Se in alme innocenti Non getta sua frode, Se non avvelena Lor candida fè: Ei spera, involando Credenti al Signore, Estinguere il verme Che rodegli il core, E dirsi: «Per gli empi »Castigo non v'è».
Tal fu lo sciagurato, onde la prima Fïata io stupefatto e impaurito Intesi accenti di bestemmia astuti Contro a' misteri, dietro cui l'eterna Maestà del Signore all'uom traluce. Avess'io a quell'apostata strappata L'indegna larva! L'avess'io al cospetto De' giusti vilipeso! Io stoltamente Tacqui, e volsi nel cor le rie parole Dell'incarnato Sàtana, e sorrisi Al suo ingegnoso e perfido sorriso, E in forse stetti, fra i dettami austeri Da verità segnatimi, e i dettami Lieti e superbi del parlante serpe. Da quel funesto giorno io non potei, No, disamar le sante are paterne, Ma a quando a quando io le mirava, incerto Se venerar le dovess'io, siccome Ne' miei dì d'innocenza, o se più senno Fosse obblïarle o irriderle, e aver soli Idoli i miei voleri e il mio ardimento. Così varcai l'adolescenza, e gli anni Toccai di giovinezza, ebbro di studi E di speranza nelle forze innate Del mio altero intelletto. E pure i templi Secreto avean per me fascino sempre! E sovente io gettava i baldanzosi Libri, e fuggìa le argute, empie congreghe, Per raddurmi solingo e sconfortato Sotto i tuoi grandïosi archi vetusti, Lugdunense Basilica, ove i primi Apostoli di Gallia hanno sepolcro! Oh bella chiesa! Quante volte prono Colà pregando e meditando io piansi Le natìe abbandonate Itale sponde, E il focolar lontano, ove la madre Ed il padre e i fratelli erano assisi, E piansi in un mie tenebre, miei dubbi, Mie passïoni, ed il perduto Iddio! Perduto, no, per me non era! e il lume Di lui mi sfolgorava alcune volte Sì che sparìan le tenebre, e di novo Io mandava dal core inni di gioia. Ma tempi erano quei di non verace Filosofia, sulle rovine sorta Di molti altari, e sovra molto sangue; E la Gallica terra, infra sue pesti, Di sacerdoti rinnegati avanzo Chiudea velenosissimo; e i più feri, Più studïosi e scaltri eran nemici De' sacri templi, rïaperti allora, E dal Corso magnanimo scettrato Arditamente in onoranza posti. Un di que' Giudi inverecondi a' passi Miei s'attaccò: l'ornavan lusinghieri Eletti modi, e pronto ingegno, e il foco De' sottili motteggi scoppiettanti, E facile parola, e d'infiniti Libri conoscimento, e quell'audace Sentenzïar che sicuranza appare. Sommessa voce ripetea d'orecchio In orecchio: «Ei fu monaco»! E la macchia Sciagurata d'apostata sembrava Sedergli orrenda sulla calva fronte, E dir: «Nessun più sulla terra l'ami!» E nessun più l'amava, e nondimeno Ascondean tutti l'intimo ribrezzo, E cortesi accoglieanlo, e davan plauso Alla dolce arte della sua favella. Quella canizie al disonor devota Orror metteami e in un pietà. Più giorni L'esecrai, l'osservai, gli porsi ascolto Come a stupendo rettile, e gli chiusi I miei pensieri; indi scemò l'occulto Raccapriccio, e piegai più tollerante L'alma alle grazie di quel falso ingegno. Oh pe' giovani cuori alta sventura Lo scontrarsi in sagaci empi, che fama Di lunghi studi grandeggiar fa al guardo Dell'attonito volgo, e d'intelletti Che pur volgo non sono! Al rinnegato, Pur non amandol, mi parea di stima Ir debitor per l'inclite faville Del possente suo spirto, e palesava Ei di mia riverenza e d'amistade Gentil, singolar brama; e questa brama Era al mio stolto orgoglio esca gradita. Lunghe non fur tra noi le avvicendate Confidenze ed indagini, e m'invase Giusto corruccio, e da colui mi svelsi: Ma le illudenti sue dottrine, a guisa Di succhiante invisibile vampiro, Stavan su me, riedean cacciate, e furmi A tutti i giovanili anni tormento.
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Più vivo in me si raccendea l'amore Delle case di Dio, quando rividi, Bella Italia, il tuo sole animatore, E m'accolsero i cari Insubri lidi, Dove gli avi mostrar quanto al Signore Fosser devoti e a grande intento fidi; Tal sacra ergendo maestosa mole, Che a lodarla il mortal non ha parole.
Troppo ancora in Milan l'anima mia Tra giochi e alteri studii vaneggiava, E glorïosi amici e fama ambìa, Ed ogni dì più folli ombre afferrava. Ma pur di salutar malinconia Frequente un'ora i gaudii miei turbava, E al tempio allora io rivolgeva il piede, E in me scendea consolatrice fede.
E l'amato mio Foscolo infelice, Sebben lui fede ancor non consolasse, Talor volea con umile cervice Mescersi all'alme per cordoglio lasse, Che la bella de' cieli Imperadrice Imploravan che a lor grazia impetrasse; E quando al tempio a sera ei mi seguiva, Indi commosso e pensieroso usciva.
Oh quante volte insiem quella scalea Ascendemmo del duomo inosservati! Quante volte in quegli archi ei mi traea, E là susurravam detti pacati Sul beneficio d'ogni eccelsa idea, Sui vantaggi dell'are all'uom recati, Sulla filosofia maravigliosa Che della Chiesa in ogni rito è ascosa!
Oh allorquando vi penso, io spero ognora Che, pria di morte almen, quell'alto ingegno Avrà veduta la söave aurora Del promesso agli umani eterno regno! Spero che quella forte anima ancora Nodrito avrà del ciel desìo sì degno, Che quel Dio che sol vuole essere amato Avrà i tardi sospiri anco accettato!
Con reverenza visitava io pure Altre in Milano vetustissim'are: Quella ov'a Sant'Ambrogio ama sue cure Il buon Lombardo con fiducia alzare, Ed il sacel, dove Agostin le impure Fiamme alfin volle in sacra onda smorzare, E colà volgev'io nella mesta alma Sete di verità, sete di calma.
Ed in talun di quegli alberghi santi Una donna io vedea ch'erami stella; E a lei movendo i guardi miei tremanti, S'umilïava mia ragion rubella: Mi parea ch'a me un angiolo davanti Stesse per me pregando, e allora in quella Amica del Signor ponendo io speme, «Ah sì, diceva, in ciel vivremo insieme!»
Ma de' templi alla mistica dolcezza Vinto non era appien l'orgoglio mio: Il passo indi io traea con leggerezza, E i gravi intenti rimettea in obblio: Rossor prendeami appo colui che sprezza Chi, pari al volgo, osa implorare Iddio: Io mi volgeva a Dio, ma come Piero, Interrogato, ahi! rinnegava il vero!
E poi non come Piero io mi pentiva Con dïuturno, generoso pianto; Incostante nodrìa fede mal viva, E a guisa d'infedele oprava intanto: Allor fu che la folgor mi colpiva, E ogni mortal mio giubilo andò franto, E in man mi vidi d'avversario forte, Me condannante a duri ceppi o morte.
Oh lunghi di catene e d'infiniti Strazi del core inenarrabili anni! Ed oh! com'anco in giorni sì abborriti Mia fantasia godea sciogliere i vanni, E fingersi ogni sera entro i graditi Templi, ed ivi esalar gli acerbi affanni! Poche amate persone e i patrii altari Erano allora i miei pensier più cari!
Oh quai mi parver secoli Que' primi anni di duolo, In che fra mura squallide Vissi cruciato e solo!
Nè mai con altri supplici Sorgea la prece mia, Ed il desìo del tempio La pace a me rapìa!
Mi si pingeano i fervidi Religïosi incanti, Le grazie che sfavillano D'in sugli altari santi:
E di Davidde i gemiti, E gli avvivanti lumi, E le armonie dell'organo, E i mistici profumi,
E l'ineffabil agape, Ove il Signore istesso Pasce e solleva ad inclite Speranze l'uomo oppresso.
Allor la vil perfidia Del mondo io ricordando, Dare ai profani gioliti Giurava eterno bando,
E con insonni pàlpebre, E con preghiera accesa Chiedea versar mie lagrime Ancora entro una chiesa.
Mi sovvenian le placide, Ombre de' monasteri, E le velate vergini, Ed i romiti austeri:
E tormentosa invidia Prendeami di que' petti Ch'appo gli altari effondere Doglia potean e affetti.
Ma in quella mia nel carcere Brama de' sacri ostelli, Söavi sensi teneri Pur si mescean novelli.
Rendeva al Cielo io grazie Che i genitori amati Piangere almen potessero Anzi all'altar prostrati.
Anzi all'altar che ai miseri Sol può istillar virtute, Che rïalzar può l'anime Da angoscia più abbattute!
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Un giorno alfine, oh fortunato giorno! Nunzio ne venne che sariane schiuso Della comun preghiera ivi il soggiorno:
E tratto per brev'ora allor dal chiuso, Rividi il tabernacolo, ove alberga Colui che in ciel di gloria è circonfuso.
Tempio quello non è ch'ardito s'erga Sovra eccelse colonne, e in maraviglia, Quasi reggia celeste, i cuori immerga.
Poco più che a magione umìl somiglia, E pur ivi m'invase quel tremore Che per solenne ossequio all'uom s'appiglia;
E per quell'ara palpitai d'amore, Come mai palpitato io non avea, E in ver sentii ch'ivi sedea il Signore!
Brev'ora fu, ma pure indi io sorgea Trasmutato in altr'uom, portando in seno Il Salvator che i mesti accoglie e bea.
E tale in que' momenti era il baleno Della luce divina in me raggiante, Che il patir mi parèa di gioia pieno,
E leve il ferro mi parea alle piante.
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Oh di Spielbergo semplice chiesuola, Ove non s'alzan preci altre giammai, Che del mortal che cingesivi la stola, E di viventi infra catene e guai, Ah, in te risplende pur Quei che consola! Quei, che del fiacco non respinge i lai! Quei, che l'amaro calice accettando, Com'uomo il rimovea raccapricciando!
Con qual desìo la settima festiva Aurora io nel mio carcere attendea! Per sei giorni in mestizia illanguidiva, O la mente pensosa egra fervea, E talor preda sì di larve giva, Che il lume di ragion perder temea: In quell'ore io talvolta Iddio cercava, E, inorridisco in dirlo! io nol trovava.
Ma il giorno del Signor rivedea alfine, E mettea lieto suon la pia campana, E a söavi pensier l'alme fea chine, E a ricordanze dell'età lontana: Potenze inespressibili, divine Scemar parean l'orror della mia tana, E a me, come a fanciul, batteva il petto Di quel festivo bronzo al suon diletto.
Poi tutte disparian mie cure atroci Quando il pietoso sgherro aprìa le porte, E de' compagni mi giungean le voci, E la imperante seguivam coorte; Gli avvinti si porgean cenni veloci Di costante amistà nell'aspra sorte; Ma non a tutti amici ivi era dato Incontrarsi, parlar, pregare allato.
Sempre, sempre novella, alta esultanza Il commosso m'invase animo, quando In quell'incolta ma pur sacra stanza Posi il piè, mie catene strascinando, E in simbolica vidi umil sembianza Suoi sfolgoranti rai Gesù ammantando Benedirci, e per noi con inesausto Amore offrirsi al Padre in olocausto.
Colà il Signor mi favellava al core, E la sua voce somigliava a quella D'amorevole, ansante genitore Che a sè un figliuolo sconsolato appella, E «Disgombra gli dite, ogni timore »Che mai mia tenerezza io da te svella! »Veggio che disamar tu me non sai, »E ciò che indi tu vuoi, tutto otterrai!»
Ei mi diceva inoltre:—«Io t'ho punito »Non già per rabbia onde avvampar non soglio, »Ma perchè il prego mio non era udito, »E sì correvi per le vie d'orgoglio, »Che obblïato me avresti, e lui seguìto »Che l'alme adesca all'eternal cordoglio: »Con forte piglio il correr tuo rattenni, »Ma t'amai, t'amo, e per salvarti io venni!»
Io mi gettava allora a' piedi suoi Con dolcezza ineffabile, e piangeva, E sclamava: «Signor, fa ciò che vuoi »Di questo figlio della debol Eva!» »Sordo vissi, pur troppo, a' cenni tuoi, »Ma tua incorante voce or mi solleva: »Nulla sperar dovrei, ma poichè m'ami, »Un don ti chieggo ancor—ch'io ti rïami!»
E poi prendea fiducia, e proseguìa A lui tutti schiudendo i miei desiri: Lo supplicava per la madre mia Che sparso avea per me tanti sospiri! Pel dolce padre calde preci offrìa! Per tutti quegli amati onde i martìri M'eran del martìr mio più dolorosi, E ch'io tanto di me sapea bramosi!
Del Moravo castello umil tempio, Quante grazie ti debbo soavi! Il mio spirto pöetico alzavi Dai terreni, opprimenti dolor. Io sentiva entro te que' dolori, Ma diversi, ma misti a contento: Io chiedea raddoppiato tormento, Purchè Dio m'addoppiasse l'amor.
Io il disprezzo acquistava de' ferri, Ma non più quel disprezzo superbo Che del vinto fa l'animo acerbo Contro quei che nel lutto il gettàr. Io sperava, io credea che i vincenti M'assegnasser destin sì tremendo, Non vil odio, ma sol rivolgendo Di giustizia rigor salutar.
Io dicea che se in pugno tenuto Uno scettro in que' giorni avess'io, Gli avversanti dell'animo mio Con isdegno atterrati avrei pur: E scernea che son fremiti ingiusti Que' dell'uom che da forti domato, Non ripensa ch'ei forza ha sfidato, Che d'un dritto essi i vindici fur.
Compiangea il fato mio, ma pensando Qual dover mosse i giudici miei: Ma pensando che in ciel li vedrei S'io perdon ritrovava al fallir. E di grazia per me sospiroso, Supplicava ogni grazia per essi, Presentendo i reciproci amplessi Là dov'ira non puossi nodrir.
Della chiesuola de' prigioni uscito, Io ritornava entro mia mesta cella Col sen da mille affetti intenerito, Con fantasia più generosa e bella: L'ineffabil poter del santo rito Avermi parea dato alma novella: Ed intero quel dì lieto sciogliea Di David gl'inni, ed inni altri tessea.
Oh facoltà di poëtar gioconda, Ma più negli anni orribili del lutto, Quando forza divina il core inonda E d'eccelsi pensier lo infiamma tutto! Quando nell'uom tal grazia sovrabbonda Che a benedir sue croci indi è condutto! Face di poesia! senza una chiesa, No, non saresti in me rimasta accesa!
E se tal possa amabil dell'ingegno In me si fosse per dolore estinta, Languito avrei d'ira e superbia pregno, O l'alma a vil furor sariasi spinta: Della vita un frenetico disdegno Spesso prendeami in tanti mali avvinta, Poi la luce de' sacri inni tornando, Io riponea l'empio disdegno in bando.
Il mortal che in mestizia s'inabissa, E fero soffre ineluttabil danno, Sempre in oggetti d'ira il guardo affissa; Ogni umano gli par vile o tiranno; L'altrui virtù al suo torbo occhio s'ecclissa; In tutti sogna i benefizi inganno; E fraterna pietà posta in obblio, Disama e niega e maledice Iddio.
Filosofar s'immagina il fremente Calunnïando il mondo e il Créatore; Ma chiudendo a' pensieri alti la mente Tutto mira a traverso empio livore, Bugiarda estima ogni men atra lente; Satana è il suo maestro e il suo autore; Armi date e coraggio a quell'ossesso, Ed eccol trucidare altri o sè stesso.
Vicino a quella infame insania giacqui Più d'una volta a' giorni incarcerati; Ed allor tetramente mi compiacqui Ricordando que' libri sciagurati, Che nell'audace secolo in cui nacqui Plausi a ferocia e suicidio han dati, E col velen de' rei volumi in petto, Volvea il fin dell'apostol maladetto.
Grazie, chiesuola, a' prigionieri amica! Da te emanava inenarrato incanto! Da te riedea la mia fiducia antica Nell'assistenza del tre volte Santo! In te il perdon non mi costò fatica! In te d'amore e di dolcezza ho pianto! In te ne' tristi dì ripigliai lena, E sino al termin sopportai mia pena!
Improvvisa comparve un'aurora Che distinguer dall'altre non seppi, E la sera ivan sciolti i miei ceppi! Ed uscii dall'orrendo castel! Del decennio l'angoscia mortale Un istante, un accento avea sgombra: Dalla fossa qual reduce un'ombra, Mi stupìan terra ed uomini e ciel.
Traversai valli e balze straniere, M'avvïai della patria a' bei lidi, L'Alpe ascesi, ed oh gioia! rividi La natíva penisola alfin. Al dolcissimo letto del padre Egro giunsi, ma giunsi felice: Lui rividi e la mia genitrice; Tra lor braccia mie pene avean fin!
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Ahi! nuove, pene sempre cingon l'uomo, Bench'ei talvolta in impeto giulivo Tutte calamità creda aver domo!
Piansi più cuori amati onde me privo Gli strali avean d'inesorata morte, E più d'un ch'io lasciato avea captivo!
Allegrar mi volea della mia sorte, Ma spesso in cupo involontario duolo Mie deboli potenze ivano assorte.
Ciò ch'io patissi, Iddio conosce solo, La mente rivolgendo a tanti cari Del cui lungo martir non mi consolo!
Il mondo mi dicea! «Se ancora impari Ad ambir le mie feste e i miei sorrisi, Sollevati saran tuoi giorni amari».
Ma indarno sovra lui le ciglia affisi: Ei più non mi rendea que' dì lontani Ch'io con altre dolci alme avea divisi!
Gratitudin destavanmi gli umani Che generosi mi plaudeano intorno, Ma i plausi lor pur rïuscianmi vani.
In sì frequente di dolor ritorno, Il loco ove ogni dì forza racquisto È quel dove le sante are han soggiorno:
Ogni mattin là prono a' piè di Cristo Breve, benefic'ora io volger amo, Ed esco allor più dolcemente tristo,
E conformarmi al divin cenno io bramo.
«Entro i templi, pari al volgo, Di prostrarti non vergogni? Lascia, stolto, i vieti sogni: Sol ne' sensi è verità. Pari a noi, sii glorïosa Del tuo secolo facella: Al pensar de' forti appella La crescente umanità».
«Al pensare de' forti l'appello; Forti son que' che regge l'Eterno: Molti errori nel volgo discerno, Ma non quando umil viene all'altar; Ma non quando suoi falli ripensa; Ma non quando li lava col pianto; Ma non quando de' Santi nel Santo Alza i lumi, e lo vuol seguitar».
«D'un Iddio pur si favelli; Ma di templi, ma di riti, Ma di spiriti contriti Fastidito è il pensator. Basta a gloria delle genti Predicar virtù civile, Maledir ogni opra vile, Intimar fraterno amor».
«Ch'altro grida la voce dell'Ara, Che civili, fraterne virtuti? Fiacchi sono del senno gli aiuti, Se l'Eterno virtù non impon. D'uomo il senno ch'a Dio non s'eleva Con qual dritto imporrà sacrifici? Senza Dio l'uom ne' giorni infelici Ruba, insidia, trucida a ragion».
«Se adorar si vuole un Nume, Sieno semplici omai l'are; Vane pompe ad esecrare Ne consiglia l'Evangel: Volgi l'alma a culto novo; Il vetusto s'abbandoni: Non più incensi, effigie, suoni; Ma qui l'uom, là il Re del ciel».
«Sventurati! v'abbagliano l'ire; Gl'intelletti ad amore schiudete, E virtù e verità scorgerete Nelle pompe che innalzano il cor: Non son vane se non pel fremente Che lor sacra potenza dileggia, Che il suo rigido spirto vagheggia Non il bel, non Iddio, non l'amor!»
«Chi son quegl'iniqui Che parlan di Dio? Chi sei che linguaggio Usurpi d'uom pio? Dai ceppi in che fosti Sol frode provien. Da noi t'allontana Ch'a Dio, a Sacerdoti Vivemmo fedeli Dagli anni remoti, Mentr'empie covavi Dubbianze nel sen!»
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«Felici voi che al lume eterno ingrati Non foste mai, siccome questo insano! Ma nulla tolgo a voi, se ardisco alzati Tener gli affetti al Salvator Sovrano. I templi non a soli intemerati S'apron, ma accolgon pure il pubblicano: Di voi, di me pietà prenda il Signore, Ed in noi colla fede istilli amore!»
LE PROCESSIONI.
Vexilla Regis prodeunt. ( Eccl. hymn.).
Dolce è l'aspetto De' templi santi, Dove tra faci Sfolgoreggianti, Dove tra incensi, Dove tra canti Di Dio grandeggia La maestà;
Dove al mortale Le sacre mura Tolgono il resto Della natura, Dove ogni oggetto Ch'ei raffigura Gli dice: «Adora, L'Eterno è là!»
Nondimeno allorquando dal tempio Uscir vedesi l'Onnipotente, Tra le mani d'un debil vivente, Pe' sentieri che tutti calchiam, Pare a noi che vieppiù ci sorrida, Che vieppiù ci si faccia fratello: Per pregarlo un impulso novello, Una nova speranza sentiam.
Egli è il Re che diffondersi brama, Che pacifico vien dalla reggia, Che fra i sudditi amati passeggia, Che lor volge parole d'amor: Egli è il padre che visita i figli, Che s'appressa a ciascun de' lor petti, Che lor mostra quant'ei si diletti Di cercarli, di starsi fra lor.
Oh nel moltiplicar tuoi benefici, Ricca d'industrie amabili e sublimi, Religïon che a' tuoi sinceri amici Con sì söavi grazie amore esprimi! Religïon, che pur ne' tuoi nemici A lor dispetto meraviglia imprimi! Religïon d'imperscrutati veri, Bella in tuoi grandi lampi e in tuoi misteri!
Splendono innumerati i santi modi Con che rammenti agli uomini il Signore, Con che il Signor medesmo offerir godi Alla vista de' popoli ed al core; A te non basta in mezzo a preci e lodi Sull'ara alzar la diva Ostia d'amore; Fuor de' delubri, tu la traggi, e in pie Feste l'elèvi per le dense vie.
Perchè iroso talun le venerande Processioni con ribrezzo guata? Perchè immagina ei tutta in miserande Cure avvolta la turba ivi adunata? In ogni loco, ottusa al Bello, al Grande Langue, è ver, più d'un'alma sciagurata, Ma gente è pur che il Grande, il Bello ancora Sente con forza, e, quando sente, adora. Alme sono, in cui ragione Ed amante fantasia Tal serbarono armonia Che abbellisce ogni pensier: Chi ragion vuol tutta gelo Senza slanci, senza affetto, Tarpa l'ali all'intelletto, Non s'innalza fino al ver.
Tutto Ciò che santo brilla, Che divelle dalla creta, Che solleva ad alta meta, Dobbiam credere ed amar: D'infelici sprezzatori Non confondaci lo scherno: Vile sforzo è dell'inferno ogni cosa dissacrar.
Quali volge a noi la Chiesa Rimembranze in tutti riti? Son materni, dolci inviti A speranza ed a fervor. Il Signor quando discende, Quando incede in mezzo a noi, Chiede amore a' figli suoi, Chiede e in un largisce amor.
Indelebil mi sei, giorno lontano Allor che in giovenili anni a me stanza Era söave lido oltramontano:
Cessava la sacrilega burbanza Dalla falsa republica ostentata Contro la dolce degli altar possanza;
E l'ardito mortal che, rovesciata La licenza volgar, lo scettro prese, Volle che laude fosse a Dio ridata.
Da lungo tempo augusta dalle chiese Pompa uscita non era d'alternanti Supplici turbe a fervid'inni intese,
Ricordavano solo alcuni santi Vecchi le amate feste, ove il Signore Passeggiava cogli uomini preganti.
Di repente riviver lo splendore Ecco di quelle feste a' Franchi lidi, Ad un cenno del Corso Imperadore.
E con gara magnifica allor vidi Il popolo esultar, che finalmente Fosser compressi di bestemmia i gridi: E la città del Rodano opulente Sfoggiò tappeti e drappi ed archi e troni Al quaggiù ridisceso Onnipotente.
Gioiva la caterva udendo i buoni Racconti de' vegliardi, ed esclamava: «Di novo esser del ciel vogliam campioni!»
Intanto ognun con dignità n'andava Qua e là per le strade brulicando, O a' pensili balconi susurrava,
Lo spettacol santissimo aspettando.
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Del cannone il fragor nuncio prorompe, E da ogni parte ecco seguir silenzio; La procedente pompa in quell'istante Prese le mosse avea del tempio. E oh quale In tutta quella turba apparìa senso Misto di gaudio, di stupor, d'ossequio, Di terror sacro! E nel quadrivio tutti Protendeano la testa, impazïenti D'appagar le pupille in quel sublime Intervenir del Re dell'universo Tra le infelici vie che de' mortali Cingon le case!
Il cinguettìo s'andava A poco a poco intorno rïalzando, Sin che ad un capo della via rifulse La prima Croce, e la seguia drappello Di devoti cantanti. Allor di novo Regnò silenzio. A quella prima Croce Ed al suo stuolo, stuoli altri seguìro, Con altre Croci ed elevate insegne, E varii ammanti, onde scerneansi varie Affratellanze di civili uffici E di sacerdotali. Inteneriva Quell'ineffabil mistica armonia Degli aspetti, moltiplici, e dell'inno Da tante bocche e tanti cuor sonante, E del brillar dell'infinite faci, Il pio simboleggianti amor ridesto.
Bello il mirar là sovra antiche gote Lagrime di piacer! Là, sovra gote Di dolci verginelle e di lor madri Lagrime d'agitate alme, ferventi Di carità reciproca e di gioia! E là l'ansante genitrice in alto Il suo bimbo elevar, sì ch'egli scorga La maestà del rito, ed insegnargli A riportar la tenera manina Sulla fronte e sul petto e sulle spalle, Balbettando la trina alma parola, Che de' cattolici è gloria e salute!
Poi tragittate le abbondanti schiere Che annunciavan l'Altissimo, ecco un nembo Di timïàmi, e fra quel nembo pria Vago drappello d'angioli incensanti, E fiori per la sacra aura spargenti; Indi—oh spavento! oh amore!—indi Colui Che la terra creò, che creò i cieli, Che l'uom creò, che all'uom s'unì, e divisa Dell'uom l'ambascia, il consolò e redense!
A cotal vista l'adorante folla Genuflessa cadeva, ed i singhiozzi Udii di molti che dicean: «Signore, »Pietà di me che te cotanto offesi, Ed ammenda desìo!»
—Stava fra i mille Colà prostrato un giovane infelice, Ch'empio non era stato, e sempre in core D'amor favilla avea per Dio nodrita, Ma pur sovente dal demòn superbo Delle dubbiezze invaso avea lo spirto. E certo le dubbiezze eran flagello Da Dio permesso, perchè umìl non era Di quel giovin lo spirto, e si credea D'altissima natura, atto all'acquisto D'ogni saper cui non s'aderge il volgo; E lungh'ore ogni dì sedea solingo Fra libri ottimi e pessimi, e scrutava La verità—dimenticando spesso D'invocarla dal ciel. Ma in quel gran giorno Dell'adorabil pompa, in quel momento Che a mille a mille si prostràr gli astanti, Ed anch'egli prostrassi; il giovin, pieno Poco prima di tenebre, una luce Vide novella, e umilïò l'altero Intelletto con gioia, e senza orgoglio Fu per più giorni e immacolato e forte.
E quando quell'audace irrequïeto Tornava a' suoi deliri, investigando Con indagin profana alti misteri, Scontento si sentiva e sen dolea; Ed in sè di quel giorno Lugdunense La ricordanza ridestava, in cui S'era con fede innanzi a Dio gettato; E tale avventurosa ricordanza Lui consolava, e gli rendea sovente, Od accresceagli della fede il raggio!
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V'amo, o Processïoni! e v'amo tutte, Pubbliche preci dalla Chiesa alzate Ad inforzarci in perigliose lutte!
Io son quell'un, che da dubbiezze ingrate Afflitto in gioventù, pur vi cercai, Ed hovvi schiettamente indi onorate.
E non sol nelle feste, ove, i suoi rai Nascondendo, intervien l'Ostia divina, D'indicibil dolcezza io m'esaltai;
Ch'ovunque l'uom pregando pellegrina Affratellato al suo simìle e canta, Sento un poter che a Dio mi ravvicina.
Quant'amo l'adunanza umile e santa De' confidenti nell'amor di Quello Che di bei fiori le convalli ammanta!
Congregati alle miti aure d'un bello Mattin di maggio, in copia anzi la chiesa Ecco stan villanel con villanello. Ed ecco, il piede innoltran per la scesa Giovani donne, e nel tugurio resta L'avola antica alle faccende intesa.
Ed il sacro Pastor move la festa, Guidando i parrocchiani in mezzo ai prati, E in mezzo a' campi e in mezzo alla foresta.
Mirano con dolcezza i germogliati Frutti di quel terreno, e pel ricolto Litanïando invocano i Bëati;
E il passegger da lunge dando ascolto Alla rustica prece, si commove, Ed anch'egli a pregar sentesi volto,
E forse da mal opra indi si move.
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Udran certo la prece devota I Bëati che sono appo Dio; L'udrà l'Angel del bosco e del rio, L'udrà l'Angel del monte e del pian; E le debili umane parole Commutando in concento divino, Le alzeran fino all'Unico-Trino, E felice la messe otterran.
Ma se pur le parole dell'uomo In concento divin commutate Al Signor non salissero grate, E vibrasse tremendo flagel, La preghiera che alzaro i credenti Infeconda giammai non si fora, Sempre i cor la preghiera migliora, Sempre l'uom riconcilia col ciel.
E dopo l'anno in cui sole o procella Di frutti la campagna han desertato, Riedono i contadini in la novella Stagion di maggio al supplicare usato. Di sue peccata ognun castigo appella L'arsura o i nembi del trist'anno andato; Ognun con penitenza più sincera Da Dio depreca tai sciagure, e spera.
Venga a que' giorni il vate ed il pittore Sulla bella collina d'Eridàno, E contempli quel quadro incantatore Cui son limite l'alpi da lontano. Di bellezza uno spirito e d'amore Diffuso è là sui monti, e là sul piano, E qui sui poggi, e sui due fiumi, donde Accarezzan Taurin le amabil onde.
Il vate ed il pittor vedrà un incanto; A sì bel quadro unirsi novo ancora: Escon le forosette in bianco ammanto Da diversi tuguri anzi all'aurora, Ed affrettano il passo al loco santo, Ove la campanetta suona l'or; Passar indi tra questo albero e quello Vedesi colla Croce il pio drappello.
Pingetemi raggiante dall'Empiro Degli Angiol la Regina che sorride: Dicesi che talor nel sacro giro Delle Rogazïoni alcun lei vide; Dicesi che commossa dal sospiro Di quell'anime semplici a lei fide, Col divin Figlio i campi benedisse, Nè gragnuola per molti anni li afflisse.
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E belle son le supplici Pompe di penitenza in alto lutto, Quando da morbo orribile A gran terrore un popolo è condutto.
Per alcun tempo attonite Portano le cittadi il flagel rio, Indi, poichè ogni provvida Arte inutile appar, volgonsi a Dio.
Ed allor sorgon uomini Per eloquenza e santo cor sublimi, E con ardir magnanimo Rinfacciano lor colpe ai grandi e agl'imi.
Della rampogna ridere Vorrìa il perverso, e già il malor lo afferra: Jeri con vil tripudio Opprimea l'innocenza, oggi è sotterra.
Prendon la Croce gli umili, E più d'un già superbo anche la prende, E il penitente cantico Da migliaia di cuori al cielo ascende.
Religïon fortifica Gli animi che depressi avea paura, E quindi all'aer malefico Più robusta resiste anco natura.
Religïon le torbide Coscïenze deterge, indi le calma, E più efficaci i farmachi Opran nell'uom, qualor pacata è l'alma.
Accumular prodigii Potria certo il Signor, ma senza questi Pur con sue leggi solite Sana e protegge chi a ben far si desti.
Il penitente popolo Dopo le preci meno ismorto riede, E più costante esercita Sua carità, perchè doppiata ha fede.
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Ed allor men sovente abbandonati Van gli egri da' famigli e da congiunti; E più d'un egro che di duol perito Fora per l'abbandon, s'altri l'aiuta, Forze ritrova, e più del morbo i dardi A lui non son mortiferi. In tal guisa Scema la strage a poco a poco, e cessa.
Ah! in questi miseri anni Europa invasa Dall'indica per l'aer corrente lue, Quanta per ogni loco alzar dee lode A te, Religion! Dove i più ardenti Soccorritori delle inferme turbe? Eran color che a beneficio spinti Venìan da fede! Eran le pie fanciulle Vincolate da voto a farsi ovunque Ancelle de' languenti! Eran dell'are Degni ministri! Erano illustri o scuri Concittadini che schernir solea La vigliacca empietà, perchè prostesi Sovente all'are onde traean virtude! E te fra tanti ardimentosi egregi, Ottogenario Vescovo, annovrava La nostra Cuneo dianzi, a' più tremendi Lunghi giorni di morte e di spavento!
Te col drappello de' tuoi forti amici Cingeano indarno gli ululi codardi, E i turpi esempli di color che aïta Negavano a' giacenti! Impallidìa, Ma per alta pietà, non per paura La vostra fronte, ed al pallor gentile Succedea sulle guance il nobil foco Della vergogna per l'altrui fiacchezza.
E quando truce cova, e già scoppiando Va in queste Taurinensi aure la lue, Chi a' bisogni provvede e rischi affronta, E sprona, e gare generose incìta? Alme prodi son desse, a cui ben nota Religion senno e costanza infonde! E fra tali, io con giubilo un amico Vidi primo scagliarsi all'ardue cure Che salvaron la patria; e fra i gagliardi Che il seguitavan, godo altri a me cari Scorgere e benedire, e vieppiù amarli!
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Ma il dolor pur rammentiamo D'altre turbe supplicanti: Stirpe misera d'Adamo, Numerar chi può tuoi pianti?
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Più d'una volta Furon vedute Disperar quasi Della salute Assedïate Degne città.
L'oste che i muri Ivi circonda; Desolò questa E quella sponda; Scevra si vanta D'ogni pietà.
Pubbliche preci La Chiesa intima, Anzi agli altari Ciascun s'adìma, Indi procede Ignudo il piè. La mescolanza Del lor dolore, Del loro grido Al Salvatore, In tutti i petti Cresce la fè.
Dopo la pompa Il capitano Ripon sull'elsa L'ardita mano, Ed ispirato Snuda l'acciar, «Chi di voi sente »Iddio con noi? »—Tutti il sentiamo!» Sclaman gli eroi. Apron le porte, Vanno a pugnar.
Scossa, atterrita L'oste nemica, A ripulsarli Mal s'affatica; Già si scompiglia, Si dà a fuggir. Mai non è, vinto Chi vincer crede: Negl'irrompenti, Opra la fede: Salva è la patria Presso a perir!
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Chi son que' feroci Che d'Asia partiti, Di tutto Occidente Percorrono i liti? Rapinan, devastano Campagne e città. Il lor capitano È demone od uomo? Da niuna possanza Giammai non fu domo. Flagello di Dio Nomar ei si fa.
Le Slaviche terre, Le terre Tedesche Sopportan sue stragi, Sue luride tresche; Le Gallie lo veggono Sovr'esse piombar. Ma il barbaro in mezzo Al sangue, alle prede Non gode, se Roma In polve non vede; Ed eccol dall'Alpi Furente calar.
Qual possa di braccio Avria soffermato Chi tanto al suo ferro Già, avea soggiogato? Qual gente dal Tevere Incontro gli vien? Un duce canuto, Magnanimo, forte, Non forte di schiere Datrici di morte; La sola sua fede Il guïda, il sostien.
Quel duce vestiva D'Apostolo il manto; Portava in sue mani Il Re sempre Santo; E folto seguialo Pregante drappel. Ed Attila, fero Flagello di Dio, Innanzi agl'inermi Tremò, impallidìo, E disse: «Non voglio «Pugnar contro il Ciel!»
Perchè retrocesse Con tanto spavento? Vid'ei nelle nubi Un vero portento, O tutto il prodigio Oproglisi in cor? Dicevano gli Unni Con rabida voce: «Per quale incantesmo »Ci vinse la Croce?» Ed Attila urlava: «Fuggiamo il Signor!»
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Ah! dolce siami ricordarmi ancora Processïoni d'altri cuori amanti, Volte a far sì ch'uom santamente mora;
Allorquando a' fratelli doloranti Sovra il letto di morte vien portato Quel Dio che si commove a' nostri pianti.
Brama la Chiesa intorno a sè adunato Stuolo di figli allora, ed indulgenza Materna a chi v'accorra ha pronunciato.
Per le vie con sollecita frequenza Suona la nota squilla annunziatrice Di quel mister d'amore e sapienza.
E già la donnicciuola, osservatrice De' pii dettami, il suo lavor sospende, E prega per l'incognito infelice,
E lascia l'officina, e il passo tende Con altri umili artieri al loco santo, E il cereo appo l'altar ciascuno accende.
Ivi ad artieri e a donnicciuole accanto S'inginocchiano tai, che più cortese Hanno il contegno e le sembianze e il manto.
Il vario grado qui sparisce; intese Tutte quell'almo al Re del Ciel si stanno Che in man dell'uom dalla sua gloria scese.
Sostegno quattro fidi ecco si fanno Al padiglion, sotto cui l'Ostia viene Riparatrice dell'eterno danno
Escon del tempio, e in meste cantilene Salmeggiano il bel carme in che il Profeta Reo si chiamava, ed estollea sua spene.
All'ansio mover della schiera è meta Il tetto di fratello o di sorella, Cui forse morte è già da Dio decreta.
E talor quell'afflitta anima in bella Giace magion, che al volgo ivi stupito Rammemoranza d'alte gioie appella.
Allor più d'un fra gl'infimi è colpito Dal sentir ch'è pur cosa egra e mortale Uomo a sorti sì splendide nodrito.
E tra sè dice: «Ai fortunati oh quale »Stolta invidia portai, se tutti dee »Involver duolo ed esterminio eguale!»
E mentre le atterrite alme plebee Il vil livor depongono, e commosse Pregan per lui che l'ultim'aure bee,
Con dolcezza rammentan com'ei fosse Modesto in sua possanza, e come pure L'altrui miseria a pietà sempre il mosse.
Ovver tristi rammentan le pressure Ch'oprate lunghi giorni ha il vïolento, Insultando degl'imi alle sventure.
Lagrime versa quei di pentimento, E scorge di perdon raggio felice Entro al cor ricevendo il Sacramento:
E a sè d'intorno mira e benedice La carità di quella pia congrèga, Che i torti obblìa dell'alma peccatrice,
E pel suo scampo sempiterno prega.
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Chi sì fredda laudar mente potrìa Sì del bello avversaria e del sublime, Che la potenza non ammiri ed ami Del gran mister? Mentre all'infermo è data Per patire o morir forza oltr'umana, Uno spirto di serii pensamenti E di mutua pietà gli astanti afferra; E ciascun dal palagio ov'oggi han regno Le dolorose infermità e la morte, Riede a sue ricche sale, o al suo tugurio, Più memore del cielo e più benigno. Nè spettacol men alto è quando tragge Il Pan celeste al miserando letto Dell'indigenza. Fra lo stuol seguace Dell'adorabil visita divina, Donna s'annovra illustre e generosa, Ben conscia già di luride scalee E di covili ov'han mendici albergo. Ed ella dietro al Salvatore ascende Alla povera stanza; e gentilmente Del suo splendido stato si vergogna, Ed aïtar tutti vorria gli afflitti. Egra giace una vedova, ed intorno Lagrimosi le stanno i figliuoletti Della fame dimentici, e accorati Sol perchè temon pe' materni giorni. Della Comunïon pur non vorrebbe Questa mirarli nel solenne istante; Pensar vorrebbe solo a Dio; ma gli occhi, Pensando a Dio, ricadon sovra i figli, E s'empiono di pianto.—«Oh figli miei! «All'infrenabil mio materno lutto »Deh non badate, e voi consoli Iddio! »A lui vi raccomando: ei padre ognora »Fu de' pupilli derelitti; piena »Fiducia abbiate in lui!» Così l'inferma Geme ed abbraccia ad uno ad uno i cari; Poi, vinta dall'angoscia, obblia di nuovo La voluta fiducia, e per delirio. Lamentosa prorompe: «Oh delle mie Viscere amati frutti! ov'è chi prenda Cura di voi, quand'io sarò sotterra? —Per mezzo mio li aiuterà il Signore!» Dice l'illustre donna ivi prostrata; E s'alza, ed alla vedova giacente Le braccia stende, e al sen la stringe; e questa Effonde il core in voci alte di gioia, Dicendo: «Io moro consolata! a' figli «Che in terra lascio, resterà una madre!» Io vidi, io stesso un giorno in mezzo a' campi Avvïarsi la visita d'Iddio A povera magion. Seguii la turba, Per l'infermo pregando, e quell'infermo Canuto essere intesi agricoltore Presso al centesim'anno. Ove giacea L'onorato vegliardo? In una stalla! A manca erano i buoi; spazio bastante Libero stava a destra, e un letticciuolo Ivi il padre capìa della famiglia. E in quella stalla il Creator del mondo Entra a soccorrer l'uomo! ad onorarlo! A nutrirlo di sè! tanto è il prodigio Dell'umiltà divina, o tanto agli occhi Del Crëator sublime cosa è l'uomo! Ah! ben desso è quel Dio che in una stalla Nascer degnava, e palesar che in pregio Gli era il mortal, non per potenza ed oro, Ma per l'umana sua nobil natura! Oh mirabile vista quel languente Che dal guancial la testa sollalzava, Bella per bianche chiome, e pel sorriso Della pace di Dio! mirabil vista L'atto in cui della debil creatura Cibo si fa il Signor! Chi non di dolce Stilla bagnate aver potea le ciglia, Ripetendo le preci?—E la pietosa, Ond'or parlai, che della vedov'egra L'oppresso spirto avea racconsolato, Non è del vate invenzion. Mi stava Quell'angelica donna appunto a fianco Or nella stalla del canuto. E quando Il Sacerdote retrocesse, allora Sorse l'egregia, e avvicinossi al letto, E favellò non so quai detti al vecchio, E nelle antiche palpebre io vedeva Gratitudin rifulgere e contento.
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Ma non così pacifiche Sempre si volgon l'ore Al figlio della polvere, Quando patisce e muore.
Colui tre volte misero Che in suoi peccati è spento, Di cui la gente mormora: «Non ebbe il Sacramento!»
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Assai meno, assai meno infelice Di chi muor senza luce d'ammenda È colui che da legge tremenda Vien dannato a precoce morir! Fur gravissimi forse i delitti Che macchiaron la vita del tristo; Ma piangendoli a' piedi di Cristo, Spera in ciel perdonato salir.
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Ed anco a tal dannato a fera morte Religïon moltiplica sua cura: Ella sola al gran passo il rende forte, Che vinta da terror fora natura. Arrivato d'un tempio appo le porte Perchè il fermano? Oh ciel! che raffigura? Dall'altar mossa l'Ostia avvivatrice, Conforta ancor la vittima infelice.
E la vittima piange benedetta L'ultima volta dal Signore in terra, E con più vigoroso animo accetta La fune onde il carnefice la serra: Che è mai la morte al misero che aspetta Grazia colà, dove non è più guerra? Ch'è mai la morte all'uom quaggiù imprecato, Se Iddio gli dice in cor: «T'ho perdonato!»
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Le varie pompe tutte Uopo non è che annovri il verso mio, Onde sovente addutte L'anime sono a rammentarsi Iddio, E onde abbelliti vanno Di vita il corso ed il postremo affanno.
Io tutte v'amo, quante Istitüì la provvidente Chiesa Processïoni sante! Sol per la mente a basse cose intesa, Il senno dell'altare Non benefizio, ma stoltezza appare.
Io v'amo, o pompe! ed amo Pur la più mesta; quella in cui giacente Nel fèretro seguiamo Il simil nostro, che di nobil ente Sulla terra mutossi In carne data a' vermi e in poveri ossi.
Oh commovente gara Il congregarsi ad onorar per via La sventurata bara! L'alzare ancora in fùnebre armonia Un voto pel fratello, Di cui le spoglie inghiottir dee l'avello.
Soleasi a' dì lontani, Che barbari a ragion forse son detti, Ed in cui pur gli umani Portavan reverenza a' begli affetti, Soleasi da' congiunti Pianto sacrar, solenne a' lor defunti!
Mutò la degna usanza, E quando un genitor serrato ha il ciglio, Più intorno non gli avanza Nè la consorte, nè un diletto figlio: Decenza impone a questi Sgombrar lochi per morte oggi funesti.
Ah! ben più venerando Era a' tempi de' barbari il compianto Delle famiglie, quando I figliuoli mescean lagrime e canto, Venendo primi dietro All'orribile e in un caro ferètro!
Fretta mi par non pia Il fuggire un amato, appena e' muore; Il non voler qual sia Prova a lui dar di pubblico dolore: Ma ben è ver, che ascoso Pur gronda il pianto—e spesso è più doglioso!
Se quei che vincolati Son per sangue col morto, alla gemente Pompa non son restati, Folta dietro la bara è pur la gente: Misto al terror, v'è un forte Amor nell'uom per l'alta idea di morte.
Chi vive puro, i grandi Proponimenti inforza a quella vista, E chi traea nefandi I giorni suoi, sogguarda e si contrista: D'ognuno a tal pensiero Scossa è la mente e richiamata al vero!
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Ma poichè il più giulivo e il più dolente Fra quanti riti a noi la Chiesa espone, Ha in sè di grazia spirto onnipossente, Che al cor favella ed a virtù dispone, Star giammai non si vegga ivi il credente Col vil sorriso che a bestemmia è sprone: Ne' templi e fuor de' templi ogni atto pio Puote e debbe nostr'alme alzare a Dio.
V'amo, o pompe divine! e prego il Cielo Ch'io mora in patria ove sien usi santi, Ove alla tomba il mio corporeo velo Dato non sia da ignoti o da sprezzanti, Ma pochi amici con pietoso zelo Seguano la mia bara salmeggianti, E valga sì de' lor sospiri il merto, Che tosto siami il sommo regno aperto!
I PARENTI.
Deus enim honoravit patrem in filiis (_Eccli. c. 3, v._ 3)
Inno di gratitudine e d'amore Al Creator de' nostri cuori amanti, Di tutte meraviglie Creatore!
Dacchè pel fallo prisco doloranti Alla luce veniam, qual dolci aïta Ne' genitorï è data a' nostri pianti!
In ogni coppia umana, onde la vita D'altri umani si svolge, ecco una diva Pe' figiuoletti carità infinita.
Vedi la vergin titubante e priva D'ogni ardimento, simile a cervetta Che intorno guata, e de' perigli è schiva.
Chi nella fievol, timida animetta Opra mutazione inaspettata, Quand'è fra il coro delle madri eletta?
Di progenie d'Adamo al ciel chiamata, Grave è il sen della dianzi paventosa, E il pondo regge da dolor cruciata.
Ed il porta con forza generosa! E dopo un figlio compro a tanto prezzo D'orrende angosce, altri portar pur osa!
Oh di strazii mirabile disprezzo In creatura sì gentil, che solo Parea nata de' fiori al molle olezzo,
Onde bëasse a lei d'intorno il suolo E le dolci aure col suo bel sorriso, E morisse alla prima ombra di duolo,
Per destarsi felice in Paradiso.
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Vedi la donna col suo piccol nato, Che suggendole il seno a lei sorride: Sebben abbiale tanto egli costato, La madre da lui mai non si divide. Insazïata il guarda, insazïato È il provveder ch'ei non s'affanni e gride: Animo lieto o da timore oppresso Nella veglia o nel sonno ha ognor per esso.
Lo sposo benchè a lei caro cotanto, È più caro perch'ei pur ride al figlio; Sovente, favellando a lei d'accanto, S'avvede ch'ella e core e mente e ciglio Tien sovra il pargol con sì forte incanto, Che non ha udito il marital consiglio: Allora ei tace e mira, e con dolcezza Il lattante e la madre egli accarezza.
Oh tristo il giorno, oh trista l'ora, quando Giace nella sua cuna egro il bambino, E la giovine madre sospirando Ad ogn'istante riede a lui vicino, E invan teneri detti prodigando Tien sulle amate labbra il petto chino, Ma l'offerta mammella ei bacia appena, E non la sugge, ed a vagir si sfrena!
Oh con qual lutto miserando allora La spaventata si rivolge a Dio! Oh come al dubbio che il figliuol le mora Trema se in lei fu reo qualche desìo, E perdono dimanda, e s'infervora, Promettendo al Signor viver più pio! I soli Angioli ponno anzi all'Eterno Sì ardente prego alzar, qual è il materno.
Giorno di liete voci, ora felice, Quando sceman del pargolo i vagiti! Quand'ei cerca la dolce genitrice Con isguardi dal riso ingentiliti! Quand'ei di novo il caro latte elice, E scherzoso riprende i suoi garriti! Tai porge allor la madre inni d'amore, Quai mandar può de' Serafini il core!
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Ov'alti rischi fervono, Vieppiù la madre ardita Pel frutto di sue viscere Pronta è a donar la vita.
Ella, se fera scoppïa Divoratrice vampa, Verso la cuna avventasi, E il pargoletto scampa.
Se il picciol piede illusero Di cupo rio le sponde, La madre piomba rapida, E il tragge, o muor nell'onde.
Ella, se il figlio palpita Tra infetto aere tremendo, Tenta i suoi dì redimere, Le piaghe a lui lambendo.
Se patria e tetto invadono Empie, omicide squadre, Stringe i suoi figli, e impavida Pugna per lor la madre.
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Tal è la nobil donna ingigantita Dalla materna celestial possanza, Che a tutte generose opre la invita.
Ma un sacrifizio v'è che ogni altro avanza, Ed è in lei quell'assidua ed operosa Sulla cara progenie vigilanza.
Alma di buona madre più non posa Finchè non ha ne' figli suoi destata Di virtù la favilla glorïosa.
Nè puote alma di figlio esser pacata Fra inique gioie, se ha una madre ancora Che i vestigi di lui tremando guata,
E occultamente prega, e s'addolora.
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Negli anni primieri Del forte maschietto, V'è mente selvaggia, V'è indocile affetto, Par ch'indi s'annunci Futur masnadier. La picciola belva Se alcun la minaccia, Vieppiù baldanzosa Innalza la faccia; Di colpi, di rischi Non prende pensier. Qual è quello sguardo, Qual è quella voce Che frena l'audacia Del picciol feroce? Incanto sì dolce La donna sol ha. Ed ella ripete, Ripete l'incanto, Frammesce sorriso, Disdegno, compianto, E amore gl'infonde, Gl'infonde pietà.
Non bada la saggia Se petti inumani Diran che a domarlo Suoi studi son vani; In cor d'una madre Speranza non muor. E quei che parea Futur masnadiero, S'infiamma del bello, S'infiamma del vero, Divien della patria Gentile decor.
La madre è il primo dell'infanzia amore! Poi di ragione al dolce lampo i teneri Fanciulli aman la madre e il Crëatore! Sõave affetto sentono Pel padre, pe' fratelli e per le suore, Ma il lor pensier più consolante ed ìntimo E quello ognor: la madre e il Crëatore!
E tutti quasi del Vangelo i forti, Che con grand'opre od immortali pagine Più ricchi di virtù sono al ciel sorti, Dal sen materno attinsero L'amor, l'ingegno e i nobili trasporti, E della madre caramente memori, Iddio amando, con lei sono al ciel sorti.
Quale stupor, se pienamente spanta D'un diletto figliuolo entro lo spirito Alta fiamma si sia di madre santa? D'uomini gravi assidua Cura in noi del sapere i germi pianta, Ma niuna cura è guida al cor del giovine Come riso gentil di madre santa.
In quello sguardo che posò primiero Sovra i nostri dolori e i nostri giubili, È un poter che strascina a pio sentiero. Mille congiuran fàscini A pervertir di gioventù il pensiero, Ma in lagrime di madre, o nel suo tumulo È un poter che ritragge a pio sentiero.
Agostin dagli errori avvincolato, Udendo della madre i sacri gemiti, Bramava consolar quel core amato; Nel rimirarla, a palpiti Religïosi si sentìa spronato; Doppiò il desìo del ver, doppiò le indagini, E terse il pianto di quel core amato.
Ne' giovani anni del Salesio santo, La madre, che il dovea da sè dividere, Un giorno mosse a lui solinga accanto: Sotto vetusta rovere In cima a giogo alpin fermata alquanto, L'opre di Dio mirando, esclamò: «Figlio! Pensa che quel gran Dio t'è sempre accanto!»
E gli parlò sì calde e generose Ricordanze dell'alta, unica gloria, Che Dio per meta all'uman viver pose, Che il giovin cor rifulgere Vide al suo sguardo le celesti cose, E il dir materno in lui restò indelebile, E saldo il piè pel cammin arduo pose.
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Ma di veri ed opposti elementi Vien temprata dell'uom la saggezza: Ei bisogno ha di freno e dolcezza, Ei bisogno ha di forza e d'ardir. Troppo i figli addolcir prolungata Indulgenza di madre potrìa; Ne' lor cuori animosa energìa Ogni padre è chiamato a nodrir.
Della madre il söave sembiante Il bambino con gioia mirando Brameria riprodurre quel blando Elegante sentir femminil. Ed insiem nel mirar si compiace Più severi del padre gli sguardi; In sè brama gli spirti gagliardi Che più bella fan l'indol viril.
Grazie, amabile Ingegno divino, Che, in donarci i duo cari parenti, Vuoi che sorga gentil nelle menti Armonia di contrarie virtù! Tutti grazie a te rendano i figli Che gustàr de' parenti l'amore! Ed ai mesti orfanelli, o Signore, Notte e dì padre e madre sii tu!
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Quanta in un padre e in una madre splende Luce emanata dall'Eterno Iddio! D'affetto pari al lor niun cor s'accende.
A' genitori miei come poss'io Render le gioie prodigate e il pianto, E gli esempi, e i consigli, e il pregar pio?
Troppo sovente immemor fui del santo Senno che ad essi per me il Ciel largiva, E baldanzoso i lor dettami ho franto.
Ma se per vie superbe io mi smarriva, Cercando il ben dove il Signor nol pose, E di mondani sapïenza ambiva,
Quai salutari spine a me le cose Pur rimanean, cui già m'aveano impresse L'anime de' parenti generose;
E contento io non era nelle stesse Più inebbrïanti glorie che il mio orgoglio E l'altrui vanità crëato avesse.
Inestirpabil resta il buon germoglio A que' dolci, infantili anni piantato, In cui d'alta malizia il cuore è spoglio.
Io m'avvolgea tra dubbi, e innamorato Pur mi sentìa secretamente ognora Di quell'Iddio ne' primi dì invocato.
E quando il Sol gli oggetti ricolora, Ed ammirandol poscia al suo tramonto, E nottetempo udendo batter l'ora,
E in mille di que' casi in cui più pronto Fassi a grave sentir l'intendimento, Sì che in lui nasce d'alte idee confronto,
Mi sovvenìa con dolce incantamento La carità del padre, e di colei Dal cui seno ebbi vita ed alimento; E allor tornava sovra i labbri miei Irresistibil uopo di preghiera, E i miei delirii m'appariano rei.
Nel ricordar la madre, un fascino era Che quasi mal mio grado m'attraea Alla credenza e all'amistà primiera,
E della madre ai templi indi io riedea!
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O padri! o genitrici! il più efficace V'è dato minister sovra la terra: Da voi pende de' figli la verace Intima calma, o la perpetua guerra.
Sentir non basta natural dolcezza A' cari vezzi di crescente prole; Non basta ch'uomo obblii truce fierezza, Come nel suo deserto il leon suole Quando sul leoncel ch'egli accarezza Spiegar le insanguinate ugne non vuole; Non basta ch'uom de' figli suoi le strida Tolleri, aïzzi, e i giochi lor divida.
Non basta ch'ei, mentre con essi scherza, Pur li brami al suo cenno obbedienti, E talor pigli l'esecrata sferza A domar le più irose audaci menti.
Uop'è che padri e madri abbian sublime Conoscimento dell'ufficio loro, E le impronte, che i figli accolgon prime, Sien d'amor, d'innocenza e di decoro. Uop'è che i genitor la prole estime, Perchè non da piaceri o sete d'oro O bassa invidia spinti unqua li miri, Ma da pii, generosi, alti desiri.
Gemer che val che nostra età sia guasta? Che abbondin tradimenti e fratricidii? Che del dubbiar l'orribile cerasta Strazii le menti e tragga a' suicidii?
Al torrente de' vizi argin chi pone, Se mal la patria a' figli suoi provvede? Se de' fanciulli il cor non si dispone Da' genitori ad alti sensi e fede? Se il giovine schernir religïone, O simularla da' canuti vede? Perchè t'onorerà, padre, il tuo figlio, Se in te virtù mai non brillò al suo ciglio?
Sia maledetta la progenie ingrata Ch'alza sul genitor risa di scherno! Mal s'affanni di giubilo assetata, E nell'alma sua vil regni l'inferno!
Ma al par de' figli iniqui e irreverenti, Voi sommamente sciagurati e abbietti, Che versate negli animi innocenti Mortifero velen con opre e detti! Vita lor deste, e por li avete spenti! Da Dio li avete, e contro a Dio concetti! Prodotto avete per l'età future! Germi rei di più ree progeniture!
Bella è di colta civiltà la luce, Che assai chimere d'ignoranza espelle! Ma se spoglia è di fè, non altro adduce Ch'arti affinate in basse anime felle.
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Altera iva, già tempo, i suoi tesori Di ricchezza e di fama e di possanza Roma pregiando, e sebben tocche avesse L'ignee quadrella di sventura, e sommo Più sulla terra il cenno suo non fosse, Ancor a sè dicea: «La invitta io sono! »L'accenditrice della sacra fiamma »Del saper nelle genti! e indarno lutta »Contra il mio genio di barbarie il genio!» Ma venne il dì che la città del mondo Fremebonda languendo in crudo assedio, Prevedea suo sterminio ed il trionfo Della barbarie propugnata e sparsa Dal valente Alarico. Una Sibilla Nel roman Foro passeggiava irata, Cinta da cittadini; e se speranza Fosse di gloria le chiedean coloro, E richiedeano con affanno.—Ed ella Con disprezzo miravali, e taceva, E passeggiava irata, e i dardeggianti Sguardi della divina alto terrore Nella plebe infondeano. E poichè sempre Insisteano le turbe a interrogarla Sovra i destini della patria, il riso Amaro del disprezzo in furor santo Volse; e, strappato dalle grigie chiome Il vel, la fronte colla destra palma Si percosse tre volte, e a' suoi pensieri «Uscite!» disse,—e uscirono tremendi! «Vaticinio d'obbrobrio e di morte »All'iniqua Regina del mondo! »Sette giorni; e poi veggo giocondo »Qui sue fiamme Alarico gettar! »In tre parti ecco Roma divisa: »Un'intera, altra mezzo abbattuta; »La maggiore ecco fumiga muta »Sovra l'ossa che un dì l'abitàr».
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Dell'antica Sibilla al disperante Grido colpiti di spavento, alzaro Miserevol lagnanza i cittadini, E a lei diceano, e al cielo: «Onde su noi, »Onde su figli così orrendo fato?» Guardolli la inspirata, e lungamente Tacque fremendo, indi il silenzio ruppe:
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«Onde mova sì fera condanna, »O perversa d'eroi discendenza! »Più da voi di virtù la credenza »A' figliuoli trasmessa non fu! »Non v'è popol che piombi in rovina, »Se non dove s'innalzi tal prole »Che non sa, che non può, che non vuole »Fuorchè oltraggio ed obblio di virtù!»
E vinse Alarico, E in fiamme andò Roma, E tutti la stirpe Latina fu doma! E invan quegli oppressi Dell'Itala terra Dicean: «Fummo grandi »In pace ed in guerra!» Disgiunte da forza Di mente e di cor, Le voci orgogliose Schernìa il vincitor.
E fama narra che la pia Sibilla Per le italiche sponde ramingando, Molle sovente avesse la pupilla Sui rei trionfi dell'estranio brando: Chiesta venìa talor se una favilla Prevedesse di scampo, e come, e quando; Ed allor rispondea più corrucciata: «Stirpe forse vegg'io dal fango alzata?»
Inteneriasi poscia, ed agli afflitti «Luce, dicea, non fulge or di speranza! »Ma da viltà cessate e da delitti, »E crescete ad onor la figliuolanza. »A nulla giova favellar di dritti, »E gli avi rammentar con gran burbanza: »D'ammendati parenti all'opre sole »Puote ribenedetta andar la prole».
Ma i più ascoltavan, e movean la testa, E tenean la fatidica per pazza; E lungh'anni durò la ria tempesta Degl'invasori sull'iniqua razza. Tutta convenne tracannar la infesta Di servitù e d'obbrobrio amara tazza; Sepolta andonne civiltà, e con pena Dopo secoli ancor ripigliò lena.
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Manda, o Signor, lo spiro tuo possente Ne' padri che al mio tempo han la tutela Della patria speranza adolescente!
Quanto sia gran tesoro ad essi svela Un'affidata nova alma immortale, Cui tanti move assalti corruttela.
In padri e genitrici un'ansia eguale Desta sì, che ne' figli i pensier santi La possa degli esempi non affrale!
La madre allor ne' dolci cuori pianti Profonda e pia di bell'amor semenza Per tutte l'opre ad alta fè guidanti;
E il genitor protegga, la innocenza, E la scorti, e la eserciti, e la inforzi Contr'ogni non vitale, empia, scienza.
Caldo zelo ad estinguer non si sforzi La nobil vigoria de' giovani anni, Ma pïamente il fidar troppo ammorzi,
Sì che delle inesperte anime i vanni Luce, lontan dal vero Sol, cercando, Non si perdan nel vuoto e negl'inganni.
A due falli i parenti omai dian bando: Uno è il vano agognar che tutto a' figli Nell'odïerna età paja esecrando.
I sempre spaventosi, irti consigli Ispiran diffidenza, e ciechi allora Vieppiù s'avventan quelli entro a' perigli.
E l'altro fallo è più funesto ancora: Quello di chi, spregiando i tempi andati, Del novo senno tutti i vanti adora,
E dall'are tue sante illuminati Non gli cale, o Signor, che i figli sieno, Ma li spera da orgoglio sublimati.
Lode a filosofia, ma quando in seno Porta umiltà ed amor; quando a' suoi voli Tuo infallibil Vangelo è guida e freno!
Altro lume non fia che mai consoli, Ed appuri, ed innalzi umani cuori, E per cui nelle vie de' lor figliuoli
Gloria acquistino e pace i genitori!
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Non v'è patria felice, se a Dio Consecrate non son le famiglie; A' parenti, a' garzoni ed a figlie Solo vincolo egregio è la Fè. Dove cresce magnanima stirpe, Talor anco sventura la preme, Ma non pere, non crolla, non teme Il Signor della forza ha con sè!
I SANTUARII.
Et induxit eos in montem sanctificationis suae. ( Ps. 77).
Infelice colui che ignobilmente Mira natura e le bell'opre umane, Ed allor più s'estima alto-veggente Che più freddo e schernevol si rimane! Quant'evvi di sublime e d'innocente Gli par macchiato di bruttezze strane: Per le spine la rosa gli par truce, E, perchè il Sole avvampa, odia la luce.
No, non è tal la verità, ma ad onta Delle sue spine amabile è la rosa, E l'alma luce immense gioie impronta, Benchè talor dardeggi anco dannosa; E il passegger che faticando monta, Pago sovra le balze indi si posa; E benchè abbondin gli empi in sulla terra, Frode non è per ogni dove o guerra.
L'ipocrita, ahi! s'accosta anco all'altare, Ma i non infinti quell'altar migliora: Ogni spirito umano, alto o volgare, Pervertesi dal dì che più non òra; Ed in ogni uso della Chiesa appare Celeste senso che a virtute incuora. Chi d'amor sante preci insania crede, Quai vuol foggiarle, e non quai son, le vede.
Voi pur, voi pur siete di scherno oggetto, Famosi Santuarii, ove i credenti Peregrinando anelan con diletto, Sebben plebee taluni abbian le menti. Menti han plebee, ma candido l'affetto, E l'esempio commun li fa più ardenti. O Santuarii, abbiatevi il mio canto: Io ne' delùbri di Varallo ho pianto!
Tutelare di Sesia Angiol gentile, Come nobile e vaga è tua vallea! Qual v'ha Meandro all'acque tue simile? Qual altra auretta i cor tanto ricrea? E come, fuor del consüeto stile, Qui il villanel di belle arti si bea! Qui leggiadri pittori ebbero cuna, E lor opre Varallo in copia aduna.
Ma più di tutti i Varallensi egregio Di virtù per la forte orma stampata Fu il buon Caüno ch'or sull'are ha pregio, Ei che alla valle nova gloria ha data, Ei che v'aggiunse così fregio a fregio, Che da' secoli andasse indi ammirata. Umil cappuccio lo coprìa, ma ardente D'alti pensier gli rifulgea la mente.
Caïmo giovin mosse in Terra Santa, Poi tornò pien di rimembranze il core, Ed ambìa che sua terra tutta quanta Innalzasse le brame al Crëatore; Ed era di color, cui non va infranta La volontà da inciampi o da timore. Ardüissima cosa immaginossi, La predicò, la volle, e gridò: «Puossi!»
»Puossi, gridò, glorificare Iddio, »A questi lochi eccelso lustro dando. »Ergasi un Santuario in un sì pio, »E sì per inclit'opere ammirando, »Che inviti pure il miscredente e il rio, »I quai vengan da pria maravigliando, »Poscia vinti si sentan dall'incanto »Del Bel, del Ver, del sommamente Santo.
»Puossi! e tristo colui che m'opporrebbe »Che opulenta non è questa convalle! »Dal voler forte ognor la forza crebbe, »E le ben chieste grazie il Signor dàlle. »Più costante di noi popol non v'ebbe, »Zelo non fia ch'indi all'impresa falle: »Diam chi l'or, chi le braccia, e chi lo ingegno, »E di Dio monumento alzerem degno».
In tal guisa ispirato predicava Il reduce da' liti Palestini, E col robusto dir comunicava Negli altrui cor suoi palpiti divini. Universale un plauso s'elevava Primamente da' borghi più vicini, Poi rapido quel plauso si diffonde Pur tra fedeli di lontane sponde.
E quasi per prodigio ecco tant'oro, E tanti chiari spirti, e tante braccia Moltiplicarsi e gareggiar fra loro Sì che novo Sïonne ivi si faccia. Non manca all'alta impresa alcun decoro; L'aspra montagna trasmutato ha faccia; Magnifico cammin fra ombrose piante Guida a esimii delùbri il vïandante.
Ascendendo quell'erta, evvi un mistero Tal nel loco e nell'aer, che pria che giunga A' consecrati muri il passeggero, Forz'è che preghi, ed ami, e si compunga. Vista non v'ha che noi ritragga al vero, Che dal mondo fallace nol disgiunga, Tanto, dovunque ei volga la pupilla, Del Crëator la mãestà gli brilla.
Quanto più progredisci alla salita, Tanto più ti stupiscon da ogni parte Quel bosco là della vallea romita: Là le fumanti capannette sparte; Là un torrente fra scogli che s'irrìta, E mormorando e spumeggiando parte; E colà un altro che sue rapid'onde Rotola verso il piano, e in lui s'infonde.
Qui il ciel sovente è limpido zaffiro, E spande fulgidissima la luce, Poscia improvvisa là sui gioghi io miro Nube che tuoni e fulmini conduce, E ne' rami degli alberi uno spiro Freme di vento, or lusingante, or truce, E in tutte quelle cose è un'armonia Che scuote l'alma ed al Signor l'avvia.
Venìa meco Tancredi, ed ammutiti Or contemplando questo, or quell'obbietto, Più gioïvam perchè fra noi partiti Sensi cotanti d'intimo diletto Scorger ne fean quanto da Dio forniti D'unanime eravam mente ed affetto: Tacean le lingue, ma l'alterno sguardo Il söave dicea sentir gagliardo.
Più oltre i passi producemmo, e alfine I delùbri toccammo desïati: Su ciascun di essi vaghe ombre son chine D'olmi vetusti, sotto a cui posati Già si son peregrini e peregrine, Ora in polve dispersi ed ignorati. Quanti, com'io, veduto han queste rive! Tutti son morti, e quella ombra sorvive!
Il pio silenzio di tai sedi appella A veridici e gravi pensamenti. Scende sul cor rimorso, e lo flagella, Ma speme santa mitiga i tormenti. Scerne l'uom ch'ogni vita si scancella, Quasi che gli anni suoi fosser momenti, E invaso allor da salutar terrore, S'umilia, e invoca, e trova il Redentore.
Oh! chi d'uopo non ha di chi il redima? Qual adulto vivente è immacolato? Chi non desìa tornar ciò che fu prima, Quando non era ad empietà varcato? E chi fia mai che irreverente imprima In Santuario i piedi, ove adorato Mirasi quanto, sceso in terra Iddio, Per redimerci tutti, oprò e patìo?
No, qui nulla è volgar, nulla è concetto Di scempi ingegni! tutto è sapïenza! Rider vorrìa l'incredulo intelletto, E falla qui a lui stesso la impudenza: Qui riconoscer debbe ei con dispetto Esservi un Bel che sforza a reverenza: Istorïate scene del Vangelo Han qui una voce che rammenta il Cielo.
Di Varallo i sacelli adorni sono Di cento effigie di gentil lavoro: Ed una v'ha che par d'angioli un dono, Cotanto pinge di Maria il martoro! Di Maria, che in orribile abbandono Indicibil, divin serba decoro, Di Maria che, abbracciando il morto Figlio, Frena le amare lagrime in sul ciglio!
Fra gli sparsi tempietti si divelle, Qual tra la prole sua la genitrice, Qual magnifica luna infra le stelle, Sommo Tempio che al loco appien s'addice. Egli è sacro a Maria, che fra le belle Schiere de' cherubin sorge felice, E dir sembra a' mortali:—«Oh figli miei! Meco voi tutti alzare in ciel vorrei!»
Non fulge dì, non fulge ora del giorno, Che sul monte preganti alme non meni. Sono pii villanelli del contorno Che invocan messi a' patrii lor terreni; Sono un padre sanato, e a lui d'intorno I figli suoi di gratitudin pieni; Son donne antiche e vergini montane Vestite a fogge in un leggiadre e strane.
E queste e quelli, a varii gruppi onesti, Van ramingando qua e là pel monte. Mormoran preci, e i rai tengon modesti, Ed in ogni sacel chinan la fronte, E più si ferman dolcemente mesti Dove San Carlo ha sue pedate impronte; E sotto voce ai figli il genitore Le virtù narra di quel gran Pastore.
Poscia ciascun pur là s'arresta molto, Dove il fulcro d'un letto anco si vede: Il letto fu di Carlo! Ivi quel volto Dormì e vegliò quando a lodar la fede De' Varallensi a lor si fu rivolto Dalla Lombarda glorïosa sede. Oh reliquia onorata! oh quanti ispira Di pietà desiderii in chi la mira!
E colà presso, d'un più antico Santo Venerevole avanzo è custodito: Un teschio egli è! Chi di facondia incanto Effuse da quel teschio ora ammutito? E chi da quelle or vote occhiaie ha pianto? Chi cogli sguardi i cuori indi ha colpito? Caïmo fu! quel forte che volea, Ed all'opre ardüissime impellea!
Adorator de' secoli vetusti No, non son io: so che barbarie assai Contro a' fiacchi porgeva arme agl'ingiusti, E alle vendette succedean più guai: Ma sfavillar pur si vedean tai giusti, Che d'obblio non saran preda giammai: Del secol lor vinceano il genio tristo, L'alme träendo a caritate e a Cristo.
Onore a nostra età per fatti egregi, Ma non per la calunnia e pel sogghigno, Con che vorriansi vilipesi i pregi Di chi fra rozzi oprò saggio e benigno! Ogni secolo ha menti onde si fregi; Ogni secolo impulsi ha dal maligno: Ah! in ogni età da' cuori ingentiliti Abbiansi laude gli atti a Dio graditi!
A Dio graditi certo erano e sono D'alta religïon que' monumenti, Ov'ansio d'impetrar pace e perdono Tutti elèva il mortal suoi sentimenti; Ove chi più fu sotto i vizi prono, Talor più sorge, e move a' begli intenti; Ove color che già inimici furo, Si rïabbraccian con fraterno giuro.
Ah! tutto ciò che alle passato sorti De' natii ne congiunge amati liti, È quasi suon di glorïosi morti, Che di virtù civil ne drizza inviti; E ben di patrio amor vincoli forti Son quindi i Templi e i Santuarii avìti; Ed ogni buon là grandi lumi scerne, Pregando ove pregàr l'alme paterne.
LE PASSIONI.
Gustate et videte quoniam suavis est Dominus. ( Ps. 39. 9).
Dov'è mia gioventù? Dove i bëati Anni d'amor, del Rodano appo l'onde? Dove il ritorno a' miei dolci penati, E mia stanza alle Insùbri aure gioconde Dove in Milano i glorïosi vati Che mi cingean dell'apollinea fronde? Dove mia gloria alle applaudite scene? E poi dove il decennio infra catene?
Io di carcere usciva egro, e piangendo Il mio buon Federico e gli altri cari, Cui dato ancor da quel recinto orrendo Rieder non era ai desïati lari: Poscia esultava, Italia rivedendo, Ed alfin temperando i giorni amari Fra gli amplessi de' miei sacri canuti, Per me sì lungamente in duol vissuti.
E omai da un lustro tutto ciò trascorse! E nuovi plausi a me la patria diede, E di nuovi Aristarchi ira mi morse, E dì nuovi propizi ebbe la fede, E nuova infanzia a me d'intorno sorse, E di morte vid'io novelle prede, E «Vana cosa è questo mondo!» esclamo, E separarmen voglio—ed ancor l'amo!
L'amo perch'alme vi trovai fraterne, Che all'alma mia s'avvinser dolcemente, E diviser mie gioie, e nell'alterne Pene collacrimàr sinceramente: E v'ha tali amistà che fièno eterne, Benchè tessute in questa ombra fuggente, Benchè tessute ov'ogni nobil core S'apre appena a virtù, lampeggia e muore.
Degg'io, poss'io da tutte cose amate Divellere una volta il mio pensiero? Io, le cui sorti furono esaltate Da tanto lutto e tanto gaudio vero! Io, le cui rimembranze innamorate Han su mia fantasia cotanto impero! Io, cui balzar fa sin talora il petto Vista di leve, inanimato oggetto!
Reduce a' lidi miei, dopo che giacqui Sepolto vivo per sì cupe notti, Agli affetti più teneri compiacqui Che la sventura non avea interrotti; Nè agli estinti carissimi pur tacqui Culto di preci e di sospir dirotti; Indi a rivisitar presi le antiche Pagine ch'ebbi a dolce veglia amiche.
E sovente su libri polverosi La man vo riponendo tremebonda, Ed apro, e parmi a' giorni studïosi Tornar di giovinezza, e il pianto gronda! E trovo i segni che ne' libri io posi, Ove con mente mi fermai profonda, Ove ad alti pensier d'amato autore Commento fei di verità o d'errore.
Pur con sensi diversi or vi rimiro, O libri tanto amati a' dì primieri: Vate son io, ma spento è in me il desiro Di prostrarmi idolatra anzi agli Omeri. Se volgendo lor carte ancor sospiro, Magìa non è de' grandi lor pensieri: Più d'un libro m'è caro, e pure in esso Di rado cerco lui; cerco me stesso.
E non sol me vi cerco: alla memoria Del me passato aggiugnesi indivisa Di palpiti d'amor söave istoria, Quando un'egregia m'infiammava in guisa, Ch'io per lei sola ambìa pietate e gloria, Ch'io sempre in lei tenea l'anima fisa, Che d'un sorriso suo per farmi degno, Sempre agognava ingentilir lo ingegno!
E se pio talor fui, pregio egli è stato Di quella generosa animatrice: Era ad essa straniero il forsennato Foco d'amor che mi rendea infelice; Ma compatìa mie pene, ed elevato Volea il mio spirto, e lo volea felice, Ed allor che più insano io le parea, S'affannava, e garrivami, e piangea.
Quella donna, onde il bel, nobile viso Polvere è da molt'anni, e l'alma in Dio, Non disamai, benchè da lei diviso, E onorerolla tutto il viver mio: Ma nuovi poscia affetti han me conquiso, E quel primiero ardor s'intiepidìo: Quel ch'era in me un incendio, è una favilla Che come lampa ad un sepolcro brilla.
Senza obblïar la già cotanto amata, Altra ammirai ch'or dipartita è anch'essa; E in me virtù credendo io sublimata Per averla a sì bello angiol commessa, L'anima mia da orgoglio inebbrïata Vana si fea di lungo ben promessa: Giorni d'alto dolor mi mosser guerra, E a lei pur venni tolto, ed è sotterra!
Sete d'amor, sete di studi, e sete D'innalzar sopra il volgo il nome mio, Gran tempo mi rapìan sonno e quiete, Nè scerno se ammendato oggi son io: Tu che del cor le làtebre secrete Solo ravvisi e mondar puoi, gran Dio, Pietà di me che tanto sempre amai, E sino a te l'amor non sollevai!
Tante cose sfumarono al mio sguardo, E tutto giorno sfumar altre io miro! Valga d'esperïenza il raggio tardo, In che forzatamente oggi m'aggiro, Ad oprar alfin sì, che più gagliardo A tua bellezza s'erga il mio desiro, E nulla tanto da' mortali io brami, Quanto ch'ognun tuoi pregi scorga ed ami!
La legge tua non è d'irto rigore, Sol le idolatre passïoni abborri: Lunge che a te dispiaccia amante cuore, Ad un cuor fatto gel più non accorri. Tu vuoi che a' miei fratelli io con ardore Così soccorra, come a me soccorri: Tu vuoi che in forte guisa il bello io senta, Tu vuoi che al giusto il plauso mio consenta.
Tu doni a' figli tuoi mente e parola, Non perchè il dono tuo venga sepolto; Tu non imprechi investigante scuola Su non vietato ver fra l'ombre avvolto: In odio a te l'indagin empia è sola Che contra il cenno tuo l'ardire ha volto: Tu gl'ignari del mal chiami felici, Ma il veggente non reo pur benedici.
Tu che sei tutto amor, la sacra stampa Della natura tua nell'uomo imprimi: Gagliardo sprone e inestinguibil lampa Tu sei di tutti aneliti sublimi. Tu godi quindi se il mio spirto avvampa Per que' tuoi fidi che in virtù son primi: Tu godi se fra lor taluni eleggo, E nel lor santo oprar meglio ti veggo.
A me tu dato hai queste fiamme ardenti, Con cui desìo de' petti amici il bene, E con cui studïando i tuoi portenti Traggo esultanza, e di capirti ho spene: Così caldo sentir più non diventi Esca giammai di vanità terrene: Mie passïoni in guisa tal governa, Che lode sièno a tua saggezza eterna.
Sempre le temo, e sempre sento ancora Che in amar altre cose io troppo m'amo: Cieca errò mia bollente alma sinora, E presa fu di sua superbia all'amo. Distruggi il suo sentire, o lei migliora; O vil torpore, od amor santo io bramo: Ah no, non vil torpor, dammi amor santo, Tu che le tue fatture ami cotanto!
I SECOLI.
Militia est vita hominis super terram. ( Job. 7).
Vidi un'età delle sue forze altera, E questa rifulgea dal greco lido: Superava i famosi Secoli che brillàr per altre sponde; Ed oltre ad immortal virtù guerriera, Sparsa per Asia d'Alessandro al grido, La irruzïon de' ladri generosi Impromettea alle genti fremebonde Sotto a' vincenti brandi Novi di civiltà raggi ammirandi.
Voce per ogni parte era d'Achivi: «Noi chiama Giove a illuminar la terra! Al nostro Omer, ch'è luce Prima alle menti, succedean tai vati, Onde a fiotti emanàr del bello i rivi; E, perchè il sommo Bel tutti rinserra Sensi gentili e sapïenza adduce, Gli Apelle e i Fidia in queste aure son nati, E Plato e gli altri mille, Che poste ne' misteri han le pupille».
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Gloria, sì, coronò le Achee pendici; Ma del grande Alessandro il trono cadde, E le barbare genti Contro il superbo eroe mosse a disdegno Dell'alto crollo si stimàr felici; Poi d'arti e di saver Grecia decadde, Sì ch'alle scuole sue contraddicenti Chi recava di lumi avido ingegno, Sol v'imparava come Darsi del ver possa a menzogna il nome.
Vidi un'età delle sue forze altera, E sfavillava questa in Campidoglio; Scherniva i preceduti Secoli, che dall'uom sommi fur detti. Tutto cedeva all'aquila guerriera Che ad ogni eccelsa meta ergea l'orgoglio. Sul Tebro convenìan co' lor tributi Della terra i più splendidi intelletti, Ogni altro core umano Dovea spezzarsi o diventar Romano.
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Latina voce in tutte aure s'udìa: «Noi siam chiamati a spegner l'ignoranza Che dagli antichi tempi Le varie schiatte de' parlanti regge; Noi soli alzar possiam tal monarchìa Che abbracci il mondo e il forzi a fratellanza, Che per ogni contrada atterri gli empi, Che in loco di furor ponga la legge; Filosofia fanciulla Vagì sinor, noi la traggiam di culla».
Gloria brillò sul Tebro incomparata; Ma i gagliardi imperanti all'universo D'onor si dispogliaro, E dier lo scettro a destre parricide: La immensa monarchia fu lacerata, E da' suoi prodi eserciti converso Contro agli Augusti suoi venne l'acciaro, E più stolto di pria l'orbe si vide: Gara di colti e rozzi Furon morte, perfidia e gaudii sozzi.
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Vidi un'età delle sue forze altera, E dava di sè mostra in varie sedi: I popoli che oppressi Avea di Roma il gigantesco ardire, Veggendo vacillar l'alta guerriera, Di sue virtù si dissero gli eredi: Fiato alle trombe in venti regni diessi, E tutti ardendo di terribili ire Giuràr pei nobili avi Che a Roma guasta non sarìano schiavi.
Voce sonò di barbare coorti: «Noi chiama il cielo a restaurar giustizia, Chè ne mentì il Romano Impromettendo civiltà e diritti; De' mortali tradite eran le sorti Per satollar di pochi l'avarizia; Tutti scettri afferrar non de' una mano; Tutti i popoli denno essere invitti! Oggi infiacchisce Roma, Si punisca, a lei spetta oggi esser doma!»
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Gloria sorrise a' Vandali ed a' Goti, Ma fu gloria di spirti usi a furore: Distrussero un Impero Che ad un sol giogo i popoli astringea, E ferrei gioghi imposero a' nepoti: De' vizi inorridirono al fetore, Onde il Tebro appestava il mondo intero; Ma gentilezza insiem credetter rea, E contro a lei pugnando Disonoràr l'insuperato brando.
Vidi un'età delle sue forze altera, E diè prima in Sïonne il maggior raggio: Fu virtù combattuta Sotto Romani e Barbari, e s'estese, Non per astuzia o gagliardìa guerriera, Ma per novo in patir, santo coraggio. Fra dileggi e patiboli cresciuta, Perdonando a' carnefici, li prese: Scandalezzava in pria, Poi volgari ed eccelse alme rapìa.
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Voce allor di Cristiani empì le terre: «Noi Dio sospinge a debellar gli errori! Finor saggezza umana Tentò regger le sorti, e fu delirio: L'uom dalle colpe è dissennato, e scerre Non può di verità gli alti splendori, Se da superbia il cor non allontana, Se nol consacra ad umiltà e martirio. Or che la Croce splende, A vera civiltà l'uomo trascende».
Gloria inaudita a' battezzati fulse, E perocchè d'Iddio quest'era l'opra, Se fidi al suo Vangelo Fosser vissuti i popoli redenti, State sarian tutte ingiustizie espulse. Sàtana accinto a volger sottossopra La indestruttibil via che guida al cielo, Seminò scismi ed odio infra i credenti; Onta il fellon ne colse, Ma pure in novi lutti il mondo avvolse.
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Vidi un'età delle sue forze altera: Il successor di Piero e Carlo Magno Destra si dier fraterna, Come agli antichi dì Mosè ed Aronne, Sì che il Monarca a sua virtù guerriera Visibilmente avesse Iddio compagno: Così doppiata la possanza alterna, Frenaro il vizio e umanità esultonne: Parea che mai contesa Più nascer non potrìa fra Trono e Chiesa.
Voce allor si levò d'Itali e Franchi: «L'atterrata da' barbari è risorta Imperïal tutela, Ed or che dagli altari è benedetta, Fia che i mortali a civiltà n'affranchi. Or ogni studio a sapïenza è scorta, Tutti or nobilitar la legge anela, Bandire anela schiavitù e vendetta: La prima volta è questa Che il trionfo del ver più non s'arresta!»
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Gloria abbellì di Carlo Magno i fatti, Ma sceso nel sepolcro, ebbe seguaci Di men gagliardo ingegno: Trono e Chiesa s'urtàr, si combattero, E da scandalo uscìr follie e misfatti: Nocquero a verità studi fallaci, Città e castella fur nemiche al regno; Libero sir divenne il masnadiero; E, franti i gioghi spesso, Piansene il popol da licenza oppresso.
Vidi un'età delle sue forze altera, Allorchè il Saracin recò dispregi Su tutti d'Asia i liti, E destò in Occidente ira e temenza. Ecco tacer le gare, ecco guerriera Fraternità fra i battezzati Regi: Ecco d'Europa i volghi rïuniti: Ecco mille poteri una potenza Scuote, strascina, incanta: Tutti soldati son di Roma santa.
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Voce s'alzò di folte osti crociate: «Ciò che saputo oprar non avean gli avi, Compiere è dato a noi! L'alme cristiane da concordia alfine A magnanima impresa suscitate Più ludibrio non son d'affetti pravi. Cristo ne scelse per campioni suoi, E rimerto n'avrem palme divine: Da noi frattanto il mondo D'ogni impulso a giustizia andrà giocondo».
Gloria i pro' cavalieri ebber traendo La tomba del Signor da giogo infame, E grazie a' loro acciari Non invase anch'Europa il Mussulmano; Ma in vile obblìo religïon ponendo, Aprirò il core ad esecrande brame, In rapina emulàr gli Arabi avari: Volsero a lacerarsi invida mano: Colpì i Crociati Iddio, E in Asia lor possente orma sparìo.
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Vidi un'età delle sue forze altera, E nell'Italo suol fulse più bella: Non già poter di brandi Sorse a magnificar la sua fortuna, Sebbene ovunque ardesse ira guerriera: Fu suo splendido pregio una novella Ambizïon di studii venerandi: Parve Italia con Dante uscir di cuna, Indi Petrarca venne, E la corona in Campidoglio ottenne.
Voce di qua dall'Alpe inclita alzossi: «Di civiltà sepolta era la luce; Ed or novellamente Sulla terra la spargono le Muse: L'idïoma oggi vivo affratellossi Agl'idïomi antichi, e si fa duce Anco agl'infimi spiriti possente, Sì ch'al ver tutte vie sono dischiuse; Gli studii più non regge Idolatrìa, ma del Vangel la legge».
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Gloria il novo Parnaso ornò stupenda, Nè più tutta disparve a' dì futuri; Ma non per ciò le vie Da' sommi ingegni al ver furono aperte: In cor del volgo non oprossi ammenda; Spirti v'ebbe più colti e più spergiuri: Sul Parnaso salite anco le arpìe Spesso di plauso e fiori andàr coverte, E con immonda cetra D'influssi rei contaminaron l'etra.
Vidi un'età delle sue forze altera, E fra le sue venture una fu tale Che nulla mai sì grande Non pareva la terra aver lucrato, Sebben non per real possa guerriera: Tre savi industri (ond'un con infernale Patto a scïenze occulte, abbominande, Esser dicea la turba inizïato) L'arte inventaron, donde Ratto il pensier si stampa e si diffonde.
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Voce sonò per l'Europee contrade: «Incivilir mai non potean le genti Finchè sì nobil arte Non rapivano al cielo od all'inferno I tre veggenti della nostra etade: Or moltiplici fien tutti eccellenti Frutti di verità, sì ch'ogni parte Prosperi della terra, al cibo eterno; Chè, s'error nasce ancora, Tosto convien che vilipeso mora».
Gloria sorrise all'immortal portento, Onde crebbe ogni scritto a mille a mille; Non più temuto danno Fu il perir de' giovanti, aurei volumi: Ma con sacre faville indi incremento Trasser tante malefiche faville, Che se qui il ver, là incensi ebbe l'inganno E fur cäosse ancor tenebre e lumi: Dei tre veggenti forse All'ombre irate il fatal don rimorse.
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Vidi un'età delle sue forze altera, E l'uom che in lei saldissim'orma impresse, Fu il Ligure che volse Su novello emisfer l'armi e la frode Dell'ingorda europea stirpe guerriera: Chiese ad Italia che colà il träesse Promettendole un mondo, e spregi colse; Mosse ad Ispania, e prore ottenne e lode; Trovò i promessi regni, E n'ebbe in guiderdon vincoli indegni.
Voce sublime alzàr d'Europa i liti: «Questo fra tutti eventi è il benedetto, Onde ignoranza cessa Nella sparsa d'Adam grande famiglia! Ambo emisferi dal battesmo uniti Scola esser denno a incivilir perfetto: Chè se per or la nova gente è oppressa Dall'invasor che a dirozzarla piglia, Succederà al conflitto Il trionfo dell'ara e del diritto».
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Gloria brillò sugli arbitri dell'acque; Ma l'assalita rozza gente, invece D'aver tutela amata Negli ospiti arricchiti in quel terreno, Parte ad orrenda tirannia soggiacque, Parte in pugne e miserie si disfece: Invidi per la terra conquistata I vincitori si squarciare il seno: Il novo mondo e il vecchio Fur di colpe e sciagure alterno specchio.
Vidi un'età delle sue forze altera, E il decimo Leon ne andò festoso, Intorno ad esso egregi Cotanti fur di civiltà i cultori. Oltremonti ferveano ira guerriera E furibondo zel religïoso, Sì che Roma schernìan popoli e regi; Ma ad onta delle guerre o degli errori, Di belle arti reìna Anzi al mondo brillò Roma divina.
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Voce tonò fra i nobili intelletti: «Questo è il secol fecondo, in cui gagliarde E fantasìa e ragione Le lor potenze spiegano a vicenda; Destano, è ver, gli spirti maledetti Nuove eresìe, ma vieppiù fervid'arde Zelo di verità nella tenzone, E fia che pel Concilio indi più splenda: Per queste grandi lutte Le insorte larve sperderansi tutte».
Gloria su quell'età fulse immortale; Ma nè per la gentil magìa de' carmi, Nè pei dipinti insigni, Nè per più gravi studi, e nè pel forte Dato da' santi di virtù segnale, Non s'antepose caritade all'armi, Non s'ambiron costumi alti e benigni; Chè di superbia sempre le ritorte Scevràr dai pochi buoni La turba degli stolti e de' ladroni.
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Vidi un'età delle sue forze altera, Che di filosofia luce si disse: Garrì coi re, coll'are, Supplizi eresse, e libertate offrìo; Indi men rea si fece, e più guerriera, Ed adorò il mortal che più l'afflisse; Poi veggendo crollato il Luminare, A somme altre fortune alzò il desìo; Sempre mutava insegna, Giurando inalberar la più condegna.
Voce sonava in gallica favella, E le favelle tutte eco le fero: «Squarciato il velo abbiamo, Che per gran tempo de' cristiani al ciglio Celò del ver la salutar facella! Ripigliam de' pagani il bel sentiero; Forza, piacere, astuzia idolatriamo; Sia vilipeso di pietà il consiglio; Così l'umana polve Sostien suoi dritti, e da viltà si svolve».
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Gloria di brandi e di scïenze e d'arti Cinse allor la fatal razza europea, Ma non s'udì che i petti Fosser men crudi che all'età trascorse: Vivi lampi emanàr da tutte parti, E folta nebbia pur vi si mescea; E spesso i furti eccelse opre fur detti, E il parricida a mieter laudi sorse; E senza amici il giusto Vivea schernito, e di calunnie onusto.
Io vidi i tempi, e mesto allor sorrisi Dell'uman replicato, allegro vanto, Che ai posteri s'appresti Carco minor di guerra e di perfidia: Dacchè del sangue del fratello intrisi I passi di Cäin furo e di pianto, La famiglia mortal sempre funesti Nutre germogli di fraterna invidia: Mutan le usanze, e ognora Convien che Abel gema, perdoni e mora.
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Orrenda è storia, e sarà sempre orrenda Questa milizia della umana vita, Tal che lo stesso Iddio Fattosi a noi fratel, fu strazïato! Inorridiam, ma non viltà ci prenda: Possente è umanità, benchè punita; La regge quel Divin che a lei s'unìo! Il figlio della creta è al duol dannato, Ma la terribil prova, S'egli ambisce il trionfo, a dargliel giova.
Non qui, non qui il trionfo inter!—ma pure Qui già comincia lo splendor de' giusti! Patiscon danni e morte, E il maligno sprezzarli indi s'infinge. Ei chiama lor virtù volgari e scure; Vorrìa che i rei fosser di laudi onusti; Ma tutte coscïenze un grido forte Son costrette ad alzar (Dio le costringe): «Falsa è, Cäin, tua gloria, Il grande è Abel, d'Abello è la vittoria!»
ALESSANDRO VOLTA.
Erat vir ille simplex et rectus, et timens Deum. ( Job. I. 1).
Europa e il mondo onor ti rende, o Volta, Per l'altissimo ingegno ond'hai natura Scrutata, e in gravi magisterii svolta.
E fin che indagin glorïosa dura Di scïenze tra i figli della terra, Il nome tuo d'obblio non fia pastura.
Ma non sol perchè piacque a te far guerra De' fisici misteri all'ignoranza, Giusta laude il cor mio qui ti disserra.
Vidi altro merto ch'ogni merto avanza Splender nella tua grande anima, ardente D'ogni santa e magnanima speranza.
In tua vecchiezza, a me giovin demente T'avvicinava il caso…. ah! non il caso, Ma la bontà del senno onnipotente!
E ti vidi anelar, perch'io süaso Dai falsi lumi d'empietà non gissi, Ma dal lume del ver crescessi invaso.
Un dì, seduto appo quel Sommo, io dissi Quai m'affliggesser dubbii sciagurati Sovra i destini a umanità prefissi;
E gli narrai quai mi tendesse aguati Mia fantasia superba, investigante Supremi arcani, a noi da Dio negati.
«O tu, gli dissi, che vedesti avante Più di molti mortali entro a' secreti, Fra cui traluce il sempiterno Amante,
Dimmi in qual foggia in mezzo a tante reti Di volgari credenze e d'incertezza, Circa la fede il tuo pensiero acqueti».
Il buon vegliardo a me con pia dolcezza: «Figlio, anch'io lungo tempo esaminando, Tenni la mente a dubitanze avvezza;
E a' giovani anni mi turbava, quando Mi parea che del secolo i primai Di Fè il giogo scotesser venerando,
E s'infingesser di scïenza a' rai Scoperto aver ch'Ara, Vangelo e Dio, Fuor ch'esca a plebe, altro non fosser mai.
Temea non forse alfin dovessi anch'io Da' miei studi esser tratto a dir:—La scuola, Che mi parlò d'un Crëator, mentìo.
Ma benchè ardito e avverso ad ogni fola, E benchè in secol tristo in ch'ebbe regno Quella filosofia che più sconsola,
E benchè procacciassi alzar lo ingegno, Sì che a Natura io lacerassi il velo, Sempre d'Iddio vidi innegabil segno».
Così Volta parlava, ergendo al cielo La cerulea pupilla generosa, Poi seguitava con paterno zelo:
«Degli audaci all'imper resister osa, Che da lor alta fama insuperbiti Noman religïone abbietta cosa!
Mal per dottrina ostentansi investiti Di maggior luce che non dan gli altari: Io negli studi ho i passi lor seguiti,
Nè scorto ho mai ch'uom veramente impari Saldo argomento a diniegar quel Nume, Che splende nel creato anco agl'ignari.
E se d'umano spinto all'acume Diniegare è impossibile l'Eterno, Lui trovo pur di coscïenza al lume».
«Lui troviam tutti! dissi; e mai governo Del mio cor non faranno atee dottrine, Ma fuor del tempio assai dëisti io scerno.
E tu forse a costor più t'avvicine, Che non a quei che dall'Uom-Dio portate Estiman del Vangel le discipline».
«T'inganni, o giovin! replicò (e sdegnate Sfavillaron le ciglia del vegliardo, Poi su me si rivolsero ammansate).
T'inganni, o giovin! Nel Vangel lo sguardo Figgo come ne' cieli, ed in lui sento Tutto il poter di verità gagliardo.
Sento che negli umani un vïolento S'oprò disordin per peccato antico, E che vizio e virtù son mio tormento,
Sento che il Crëator rimase amico De' puniti mortali; e, a noi disceso Per esserne modello, il benedico.
Sento che siccom'Egli uomo s'è reso, Divino debbo farmi, e tutto giorno Viver per lui d'amor sublime acceso.
Sento che puote ingegno essere adorno Di ricco intendimento e di scïenza, Della Croce adorando il santo scorno;
E m'umilio con gioia e reverenza Col cattolico volgo a questa Croce, E in lei sola di scampo ho confidenza».
Eloquente dal cor rompea la voce Del buon canuto, come a tal, cui forte Dell'error d'un amato angoscia cuoce.
«Tu mi garrisci e in un mi riconforte, Dissi, e poichè alla Chiesa un Volta crede, Spezzar de' dubbii spero le ritorte».
«Le spezzerai! quegli gridò con fede; Vedrai che bella fra' più colti ingegni Anco religïosa anima incede!
Nè immaginar che lungo tempo regni La gloria de' filosofi or vantati, Che fur di scherno e di superbia pregni:
Pochi anni ti prenunzio, e smascherati Vedrai que' mille turpi falsamenti, Con che in lor carte i fatti han travisati.
Il più splendido autor di que' furenti, Che tutto diffamò col vil sogghigno, E con tai grazie che parean portenti,
Malgrado i pregi del suo stil vòlpigno, E il suo bel Lusignano e sua Zaìra, Detto sarà filosofo maligno.
Ei tutti i dì già meno ossequio ispira, E Francia, ond'ei sembrò tanto dottore, Già del mentir di lui parla, e s'adira.
Ed al crollar del gran profanatore La ciurma crollerà dei men famosi, Che volean Dio strappar dall'uman core».
Io di Volta ridire i luminosi Sensi mal so, ma dell'egregio vecchio Amor mi prese, e più a lui mente posi.
Più fïate percossero il mio orecchio I suoi santi dettami, e più fïate Divisai farli di mia vita specchio.
Io meditando tue parole amate, O incomparabil uom, più non gustava Degli audaci le carte avvelenate.
Ancor pur troppo da te lungi errava, Ma pur m'innamoravan que' volumi Che il dolce genio tuo mi commendava.
Io debol era, ma ogni dì i costumi Del mondo a me tornavan più molesti: Chè li scernea della tua fede ai lumi.
Sovente i giorni miei trascorrean mesti, Perocchè i tuoi consigli io non seguìa, Mentre pur mi fulgean veri e celesti.
Varie sorti e distanze a quella mia Tenerezza per te scemàr vantaggio, E poco al tuo savere io mi nodrìa.
Vedendoti di rado, il mio coraggio Appo la Croce non durò abbastanza, E a follìe tributai novello omaggio.
Ahi! diè l'Onnipossente a mia incostanza Castigo di sventura e di catena, E lurid'antro a me divenne stanza!
Tu, certo, benchè allor pensieri e lena Ti s'infiacchisser per decrepiti anni, Raccapricciasti di mia orribil pena,
E con secreti gemiti ed affanni Per me a' pie' del Signore hai dimandato Sollievo e forza, ed alti disinganni.
Ei t'esaudiva, e il creder tuo stampato Così alfine in quest'alma addentro venne, Che più da dubbii non andò crollato.
E gaudio e libertà poscia m'avvenne, E rividi la madre e il genitore Dopo la sanguinosa ansia decenne.
Ma ne' giorni del mio lungo dolore Molte vite finìan la mortal traccia, E di batter cessò tuo nobil core.
Duolmi che più non posso infra tue braccia Gettarmi alcun momento, e alzare il ciglio In tua paterna, veneranda faccia.
In tutti i dì del mio terreno esiglio Pregherò Dio che schiuda a te sua reggia, Se mai fuor ti legasse aspro vinciglio.
Ma te già spero nell'eletta greggia! Di là mi vedi, e preghi impietosito Che in tua pace per sempre io ti riveggia.
Perdonami se tardi io t'ho obbedito! A tua amistà m'affido, e affido pure Quel diletto mio Porro, a te gradito!
Impetra il fin dell'alte sue sciagure; Impetra ch'io con esso e gli altri amici Troviam nel divo Amor gioie secure,
Sì che n'abbian giovato i dì infelici!
UGO FOSCOLO.
Claritas….omnia sperat. ( I. Cor. 13.7).
Ugo conobbi, e qual fratel l'amai, Chè l'alma avea per me piena d'amore: Dolcissimi al suo fianco anni passai, E ad alti sensi ei m'elevava il core. Scender nol vidi ad artifizi mai, E viltà gli mettea cruccio ed orrore: Vate era sommo, ed avea cinto l'armi, E alteri come il brando eran suoi carmi.
Tu fosti, o mio Luigi [1], il caro petto Che, allorch'io dalle Franche aure tornava, Me a quell'insigne amico tuo diletto Legasti d'amistà che non crollava: Oh quanto è salutare a giovinetto, Perchè avvolgersi sdegni in turba ignava, Lo stringer mente a mente e palma a palma Con celebre, gentil, fortissim'alma!
Ma, sventura, sventura! Uom così degno D'amar colla sua grande anima Iddio, In fresca età l'ardimentoso ingegno Ad infelici dubitanze aprìo: Che di natura l'ammirabil regno Opra di cieche sorti or gli apparìo, Or de' mondi il Signor gli tralucea, Ma incurante d'umani atti il credea.
Nondimen fra' suoi dubbii sfortunati, Ugo abborrìa l'inverecondo zelo Di que' superbi, che, di fè scevrati, Fremono ch'altri innalzin voti al cielo; E talor mesto invidïava i fati Del pio, cui divin raggio è l'Evangelo; E spesso entrava in solitario tempio, Come non v'entra il baldanzoso e l'empio.
E mi dicea che que' silenzi santi Della casa di Dio nella tard'ora, Quando qua e là da pochi meditanti Sovra i proprii dolor si geme ed òra, Ovvero i dolci vespertini canti Sacri alla Vergin ch'è del ciel Signora, Nell'alma gl'infondean pace profonda, O d'alta poesia la fean gioconda.
Sempre onoranza fra i più cari amici Rese al canuto Giovio venerando, E sue parole di virtù motrici Con benevol desio stava ascoltando, E a lui diceva:—«Anch'io giorni felici Ho sulla terra assaporati, quando Innamorata ancor la mia pupilla Vedea quel Nume che a' tuoi rai sfavilla».
E Giovio protendendo a lui la mano, Paternamente gli diceva:—«Io spero, Io per te spero assai, perocchè umano E magnanimo ferve il tuo pensiero! Invan t'ostini fra dubbiezze, invano Della grazia ricàlcitri all'impero: Iddio t'ama, ti vuol, nè ti dà pace, Sinchè d'amor non ardi alla sua face».
Tai detti al cor scendean del generoso Che il bel profondamente ne sentiva; E al vecchio amico rispondea:—«Non oso Sperar che in mar cotanto io giunga a riva; Ma vero è ben che più non ho riposo, Dacch'egli è forza che dubbiando io viva, E un dì tua sicuranza acquistar bramo, E il mister della Croce onoro ed amo».
E siccome al buon Giovio sorridea Con ossequio amantissimo di figlio, Così sul mio Manzoni Ugo volgea Quasi paterno, glorïante ciglio: In esso egli ammirava e predicea Di fantasìa grandezza e di consiglio, Forte garrendo, se taluno ardìa Di Manzoni schernir l'anima pia.
Tal eri, o mio sincero Ugo; e più volte Io pure udii tuoi gemiti secreti, Qualor non prevedute eransi accolte Su te cause di giorni irrequïeti. La guancia t'aspergean lagrime folte Ricordando i fuggiti anni tuoi lieti: —«Percuotenti, sclamavi, un Dio tremendo, Che offender non vorrei, ma certo offendo!»
Allora a dimostrar che titubante Mal tuo grado bolliva il tuo intelletto, Ed odio non portavi all'are sante, E di sete del ver t'ardeva il petto, Meco avvertivi nella Bibbia quante Splendesser tracce del divino affetto, E confessavi, in tue mestissim'ore Sol raddolcirti quel gran libro il core.
Un dì col genitor del mio Borsieri Io passeggiava al bosco suburbano, E tu ch'ivi leggendo sedut'eri, Ci vedesti, e gridasti da lontano: «Ecco il volume degli eterni veri!» Corsi, e il volume presi io da tua mano: Lessi: Evangelio! E—«Bacialo! dicesti; Gl'insegnamenti d'un Iddio son questi!»
Ah, sebbene quell'Ugo ottenebrato Mal sapesse scevrar natura e Dio, E talor supponesse annichilato Nella tomba il mortal che i dì compio; D'altro dopo l'esequie eccelso fato Nodrìa talor vivissimo desìo, E dir l'intesi:—«No, quest'alma forte Mai non potrà vil pasto esser di morte!»
E ben più udii dal labbro tuo eloquente, Quando insiem leggevam famose carte, Ove un illustre ingegno miscredente Rampogne avea contro alla Chiesa sparte: Dal seggio allor balzasti impazïente, E ti vidi magnanimo scagliarte A sostener con voci alte e robuste, Che le accuse ivi mosse erano ingiuste.
E quantunque a' Pontefici severo Si volgesse il tuo spirto e a' Sacerdoti, Ammiravi la cattedra di Piero Ne' giorni di sua possa più remoti; E di gentil nell'arti magistero Datrice l'appellavi a' pronepoti; E sovra ognun che fu decoro all'are Liberal laude ti piacea innalzare.
Se in alcuna tua carta eco facesti D'animi non cristiani alla favella; Se di soverchio duol semi funesti Sparsi hai ne' cuor che passïon flagella; Se del secolo errante in cui nascesti, Bench'alta, l'alma tua rimase ancella, Opra fu di fralezza e di prestigio, Non mai di petto a mire inique ligio.
E il tuo libro d'amore isconsolato, Benchè riscosso immensi plausi avesse, Benchè da te qual prima gloria amato, Bench'opra non indegna a te paresse, Talor gemer ti fea, ch'avvelenato Un sorso gioventù quivi beesse D'ira selvaggia contra i fati umani, Ed idolo Ortis fosse a ingegni insani.
Biasmo gagliardo quindi al giovin davi Che ti dicea suoi forsennati amori; E l'atterrarsi, codardìa nomavi, Sotto qual siasi incarco di dolori; E sua vita serbar gli comandavi Per la pietà dovuta a' genitori, Pel dovuto anelar d'ogni vivente, Sì che sacri a virtù sien braccio e mente.
Di molti io memor son tuoi forti detti Da core usciti di giustizia acceso, E a tue nascose carità assistetti, E al tuo perdon ver chi t'aveva offeso; E pochi vidi sì söavi petti Portar costanti il proprio e l'altrui peso, E quel pianto trovar, quella parola, Che gli afflitti commove, alza e consola.
Memor di tanto, io spero, e spero assai, Che, sebben conscio non ne andasse il mondo, Sul letto almen della tua morte avrai Sentito del Signor desìo profondo: Spero che l'Angiol degli eterni guai, Già di predar tua grande alma giocondo, L'avrà fremendo vista all'ultim'ora, Spiccato un volo al ciel, fuggirgli ancora.
E mia speranza addoppiasi pensando Che alla tua madre fosti figlio amante: Quella vedova pia vivea pregando Che tu riedessi alle dottrine sante: Di buoni genitor sacro è il dimando, E sul cuor dell'Eterno è trionfante, Nè da parenti assunti in Paradiso Figlio che amolli, no, non fia diviso.
L'inferma, antica genitrice ognora Benediceva a te con grande affetto, Perchè al minor fratello ed alla suora D'alta amicizia andar godevi stretto: Furono a Giulio giovincello ancora Quai di padre tue cure e il tuo precetto, Ed amai Giulio perocch'ei t'amava, E l'alma tua del nostro amor brillava.
Ah! tanto spero io più la tua salvezza, Che sventurato fosti in sulla terra! Or tuoi difetti, or tua leale asprezza Ti suscitàr di mille irati guerra: E di profughi dì lunga amarezza, E povertà t'accompagnàr sotterra: Nè lieve a te fu duol che dolci amici Fossero al pari, o più di te infelici.
Le lagrime vegg'io che certo hai spanto Quando l'annuncio orribil ti giungea Che, tronco della vita a me ogn'incanto, Per anni ed anni in ceppi esser dovea: Il Cielo sa se in mia prigion t'ho pianto, E quai voti il cor mio per te porgea! Sempre io chiesi per te l'inclita luce Che di tutto consola, e a Dio conduce.
Dolce mi fu dopo decenne pena Riedere alla paterna amata riva; Ma allo spezzarsi della mia catena D'immenso gaudio l'alma mia fu priva; Chè di tue rimembranze era ripiena, E già in Britannia il cener tuo dormiva! E seppi tue sciagure, e niun mi disse Se, morendo, il tuo core a Dio s'aprisse!
Di tua vita furenti indagatori, Per laudare o schernir la tua memoria, Di te narraro i deplorandi errori Quasi parte maggior della tua gloria: Falsato indegnamente hanno i colori! Del tuo core ignorato hanno l'istoria! Ugo conobbi, o ingiurïanti infidi, E tra' suoi falli alta virtude io vidi!
E tu, schietta e magnanima Quirina, Che appien di lui pur conoscesti il core, Meco ogni dì il rammenti alla divina, Infinita pietà del Salvatore: Come la mia, tua dolce alma s'inchina Con invitta fiducia e con fervore A pro del nostro amato, onde con esso Veder per sempre Iddio ne sia concesso.
Appagar te non ponno, e me neppure, Nessun ponno appagar su caro estinto Funebri canti o funebri scolture, Da cui pari ad eroe venga dipinto: Uopo han di Dio le amanti creature! A fede e speme han l'intelletto avvinto! Noi non chiamiamo eroe l'amico andato: Amiam, preghiam ch'ei sia con noi salvato!
Noi d'Ugo abbiamo un giudice pietoso, E tu sei quello, onniveggente Iddio: Non un de' suoi sospir ti fu nascoso; Anzi a te ogni sua giusta opra salìo. Che festi d'un mortal sì generoso? Dimmi se il perdonavi e a te s'unìo! Ah, se ancor di sue piaghe afflitto langue, Appien le asterga, o buon Gesù, il tuo sangue!
[1] Mio fratello primogenito.
LODOVICO DE BREME.
Non obliviscaris amici tui in animo tuo. ( Eccli. 37. 6).
Dacchè miei ceppi hai franto, e il subalpino Aere di novo, o sommo Iddio, respiro, Piena d'incanti è al guardo mio Taurino; Ma un caro ch'io v'avea cerco e sospiro.
Qui Lodovico nacque, e parte visse De' diletti suoi giorni, e qui patìo, E presso a morte qui le ciglia affisse L'ultima volta sul sembiante mio.
E m'indicò le vie dov'ei solea Trar verso sera i solitarii passi, E il loco della chiesa ov'ei porgea Preci, me lunge, perchè a lui tornassi.
Si ch'ogni giorno or qua or là lo veggio Smorto ed infermo, e pien di lena sempre, Ed in ispirto al fianco suo passeggio, E parmi che sua voce il cor mi tempre.
Negli estremi suoi dì quanto, o Signore, Altamente parlommi ei del Vangelo! Come esclamò che il rimordeano l'ore A gioie, a larve, e non sacrate al cielo!
Ah, que' detti m'affidano, e m'affida La tua clemenza, e lui beato io spero! Ma se ancor dolorasse, odi mie grida, Aprigli i gaudii del tuo santo impero.
Debitor fui di molto a Lodovico: Sprone agli studii miei si fea novello; Ai dolci amici suoi mi volle amico, E più al suo prediletto Emmanuello[1].
Ma in ver di Ludovico io l'amicizia Ingratamente troppo rimertai, Fera in quegli anni m'opprimea mestizia, Nè a lui la vita abbellir seppi io mai.
Con indulgenza infaticata il pondo Ei reggea di mia trista alma inquïeta, E spesse volte da dolor profondo A sorriso traeami e ad alta meta.
Per forte impulso de' suoi cari accenti Energìa forse conseguii più bella: Quell'energìa perch'uomo infra i tormenti Soffoca i lagni, e indomito s'appella.
La facondia, l'amor, la pöesia Perscrutante e gentil de' suoi pensieri Luce nova sovente all'alma mia Davan cercando i sempiterni veri.
Quante fïate a' gravi dubbii miei Mosse amichevol, generosa guerra, E me dai libri tracotanti e rei Svelse di lor, cui senza Dio è la terra!
Se arditi di sua mente erano i voli Quando la mente ei di Platon seguiva, Pur temev'anco di ragione i dòli, Ed a' piè dell'altar si rifuggiva.
Te sorpreso di morte sì precoce, Deh! amico, non avesse il fero artiglio! Più fido mi vedresti ora alla Croce, Più concorde or sarìa nostro consiglio.
E tu stesso maestri avendo gli anni, Con più sicura man rigetteresti Del secol nostro gli abbaglianti inganni, E tutti i lumi tuoi foran celesti.
Ma fu per te misericordia certo, Che tu morissi pria dell'ora, in cui Trassi prigione in bolgie, ove deserto In grandi strazi per due lustri io fui.
Le ambasce mie, le ambasce d'altri amici Troppo avrian tua pietosa alma squarciata: Chi vive sulla terra a' dì infelici, Troppo ne' danni i soli danni guata.
Invece, assunto, come spero, al loco Ove in tutte sue parti il ver risplende, Veduto avrai che di sventura il foco Talor sana gli spirti a cui s'apprende.
Veduto avrai siccome io, debol tanto Quando i miei dì fulgean più dilettosi, Nel supremo dolor contenni il pianto, E mia fiducia nell'Eterno posi.
Veduto avrai siccome, fatto io preda Di lunghe dubitanze sciagurate, Solo in carcer la diva afferrai teda, Che mie maggiori tenebre ha sgombrate.
Veduto avrai, dentr'anime più pure, Che non era la mia, nel duol costrette, Stimol gagliardo farsi le sciagure A volontà più fervide e più elette.
Commiserato avrai noi doloranti, E reso grazie a Dio, tutti scernendo Dell'oprar suo sublime i fini santi, Pur quando sovra l'uom tuona tremendo.
Tu mel dicevi un giorno, ed io superbo Crederlo non potea! Tu mel dicevi: «Dio non si mostra a sua fattura acerbo, Se non perchè l'amata a lui s'elèvi».
Non tutte sue fatture hann'uopo eguale Di venir da procella aspra battute, Ma tai ve n'ha che senza orrendo strale In fiacca letargìa sarian cadute.
Nondimen di mia forza ancor non posso, No, glorïarmi, e spesse volte ancora Son da tristezza e da pietà commosso, E con suoi lumi Iddio non mi ristora.
In quell'ore fantastiche di pena Godo passar dinanzi alle tue porte, E il core allor secreto pianto sfrena, Inconsolabil di tua infausta morte.
Ma poi le tue sentenze generose Mi tornan nella mente, e il tuo sorriso; E m'inondano il sen dolcezze ascose, Ed anelo abbracciarti in Paradiso.
Prego che tu vi sia! prego che appresso Al nostro Volta, ad ambiduo sì caro, Con lui mi guardi, e m'impetriate accesso Laddove col desìo già mi riparo!
Dio, salvator di molti amici miei, Ch'a te in vita e più in morte alzaro il core, Di te indegno e di loro io mi rendei; A farmi degno, ti domando amore!
[1] Il Principe Emmanuele della Cisterna.
LA PATRIA.
In Deo faciemus virtutem ( Ps. 107. 14).
Oh dolce patria! oh come Balza de' forti il core al tuo bel nome! Stimolo a generosi atti è desìo Ch'ella in senno e virtù splenda felice: La voce che nel dice, Voce è di carità, voce è d'Iddio!
Ma tu che in fondo al core Tutti gli arcani miei leggi, o Signore, Tu sai che l'amor patrio, onde mi vanto, Non è superba frenesìa di guerra, Perchè di sangue e pianto, A nome d'equità, grondi la terra.
Neppure a' dì lontani Quando me travolvean disegni insani, Quando far forza ai casi ambito avrei, Sì che a' brandi stranieri onta tornasse, Con chi gli altari odiasse Affratellato io mai non mi sarei.
Veggio con ira e sprezzo Color che tutto giorno osan, dal lezzo Del vizio che li ammorba, alzar la destra, E, brandendo il pugnal del masnadiero, Chiamar cittadin vero Chi a lor perfida scuola s'ammaestra.
Del santo patrio affetto Gl'ipocriti son dessi! In uman petto, Ove sì di pietà luce s'abbui, Non arde fiamma di virtù sublime: Son desse l'alme prime Che, s'uom pagarle vuol, vendono altrui.
Amara esperïenza Mostrommi ch'ove somma è vïolenza Di feroce linguaggio, ivi s'asconde Mal fermo spirto, prono a codardìa: Sol l'alme vereconde Spiegan ne' buoni intenti alta energìa.
Fida a virtù la mente Colui perchè terrìa che Iddio non sente? Anco in età pagane i veri forti, Che opraron per la patria atti mirandi, Chiedeano al ciel le sorti, E per religïon divenian grandi.
Ad onorar l'avita Terra chi meglio di Gesù ne invita? Di Gesù che ne impon fraterno amore! Che ne impon di giustizia ardente zelo! Che accenna premio il cielo A chi pel comun ben respira e muore!
Gagliarda ira tremenda Serbiam pel dì che a provocarne scenda La burbanzosa avidità straniera: Del Prence e della Patria allora a scampo, Precipitiamo in campo Col grido invitto:—«Si trionfi o pera!»
Accostin core a core Intanto pace, e begli studi, e amore! Chè troppo già da fazïoni stolte, Di perpetua ingiustizia eccitatrici, Fur l'Itale pendici In lutto e sangue ed ignominia avvolte.
L'estera invidia, quando Nostre glorie natìe vien visitando, Gli odii scorge, ed applaude alla maligna Fraterna gara, promettendo aiuti; E poi quando abbattuti Siam da discordia, ci disprezza e ghigna.
Non c'illudiam fra sogni, Onde lo spirto desto indi vergogni: Ma ai circondanti popoli mostriamo, Che in tutte fasi di grandezze umane Grandezza in noi rimane, Dacchè al vero ed al bel sempre aspiriamo.
Al vero e al bello sempre Aspiri chi sortiva itale tempre! Splendidissima a noi traccia segnaro Que' glorïosi, onde la sacra polve Tutte le glebe involve Di questo suolo, al cielo e a noi sì caro!
Penisola gentile, Che sovra il mondo pria la signorile Spada gran tempo trionfando alzasti, E sebben misto a lutti inevitati, Sui barbari domati Ampio tesor di civiltà versasti!
Penisola stupenda, Non nelle gioie sol, ma in sorte orrenda, Poichè per le tue colpe un dì prorotti Venti concordi popoli a vendetta, Da te fra lacci stretta Furo a degne arti, e al vero Dio condotti!
Penisola divina, Che dell'antico imper dalla rovina Così sorgesti, come pronto sorge Sopraffatto da pargoli un adulto, Che, ad onta dell'insulto, Maestra mano ai dissennati porge!
Penisola, ove siede Inconcussa da turbini la fede, Sì che per quanto annoveriamo estesi Della redenta umana stirpe i regni, Ognor ne' retti ingegni Da te i lumi del ver tornaro accesi!
Sembra per te il Signore Più che per altre terre arder d'amore! Sembra nelle tue dolci aure più vago Emanar de' suoi cieli il bel sorriso; Sembra del Paradiso Volerti Iddio sovra quest'orbe imago!
Sugli emuli tranquilla Rivolgi pur la tua regal pupilla. Or quel popolo or questo andare altero Può primeggiando in forza d'auro o ferri: Pur non ve n'ha che atterri Il tuo sublime sulle menti impero.
Se altrove è maledetta L'alma che striscia come serpe abbietta, L'alma che sorda a' grandi esempli aviti, Incurante di senno e di decoro, Serva si fa a coloro Che a sedurre e predar vengon suoi liti;
Quanto più reo non fora Chi, aperti gli occhi sotto Itala aurora, A patria di magnanimi cotanta Non sacrasse altamente opra e desìo! Il popol siam di Dio; Stampiam nostr'orme nella via più santa!
SALUZZO.
Et sit splendor Domini Dei nostri super nos. ( Ps. 89. 17).
Oh di Saluzzo antiche, amate mura! Oh città, dove a riso apersi io prima Il core e a lutto e a speme ed a paura!
Oh dolci colli! Oh mäestosa cima Del monte Viso, cui da lungo ammira La subalpina, immensa valle opima!
Oh come nuovamente or su te gira Lieti sguardi, Saluzzo, il ciglio mio, E sacri affetti l'äer tuo m'ispira!
Nelle sembianze del terren natìo V'è un potere indicibil che raccende Ogni ricordo, ogni desir più pio.
So che spiagge, quai siansi, inclite rende Più d'un merto söave a chi vi nacque, E bella è patria pur fra balze orrende;
Ma nessuna di grazia armonìa tacque, O Saluzzo, in tue rocce e in tue colline, E ne' tuoi campi e in tue purissim'acque.
Ogni spirto gentil che peregrine A piè di queste nostre Alpi si sente Letizïar da fantasie divine.
Sovra il tuo Carlo, e il dotto suo parente[1], Che pii vergaron le memorie avite, Spanda grazia immortal l'Onnipossente!
Dolce è saper, che di non pigre vite Progenie siamo, e qui tenzone e regno Fu d'alme da amor patrio ingentilite.
Più d'un estero suol di canti degno Porse a mie luci attonite dolcezza, E alti pensieri mi parlò all'ingegno:
Ma tu mi parli al cor con tenerezza, Qual madre che portommi infra sue braccia, E sul cui sen dormito ho in fanciullezza.
Ben è ver che stampata ho breve traccia Teco, o Saluzzo, e il dì ch'io ti lasciai A noi già lontanissimo s'affaccia.
Pargoletto ancor m'era, e mi strappai Non senza ambascia da tue dolci sponde, E, diviso da te, più t'apprezzai.
Perocchè più la lontananza asconde D'amata cosa i men leggiadri aspetti, E più forte magìa sul bello infonde.
Felice terra a me parea d'eletti La terra di mio Padre, e mi parea Altrove meno amanti essere i petti.
E mi sovvien ch'io mai non m'assidea Sui ginocchi paterni così pago, Come quando tuoi vanti ei mi dicea.
In me ingrandiasi ogni tua bella imago; Del nome saluzzese io insuperbiva; Di portarlo con laude io crescea vago.
E degl'illustri ingegni tuoi gioiva, E numerarli mi piacea, pensando Che in me d'onor tu non andresti priva.
Vennemi quel pensiero accompagnando Oltre i giorni infantili, allor che trassi Al di là delle care Alpi angosciando.
Nè t'obblïai, Saluzzo, allor che i passi All'Itale contrade io riportava, Benchè in tue mura il capo io non posassi.
Chè il bacio de' parenti m'aspettava Nella città ch'è in Lombardia regina, E colà con anelito io volava.
E colà vissi, e colsi la divina Fronde al suon di quel plauso generoso, Che premia, e inebbria, e suscita, e strascina.
Oh Saluzzo! al mio giubilo orgoglioso Pe' coronati miei tragici versi, Tua memoria aggiungea gaudio nascoso.
Oh quante volte allor che in me conversi Fulser gli occhi indulgenti del Lombardo, E spirti egregi ad onorarmi fersi,
Ridissi a me con palpito gagliardo La saluzzese cuna, e mi ridissi Che grata a me rivolto avresti il guardo!
E poi che in ogni Itala riva udissi Mentovar la mia scena innamorata, Ed ai mesti Aristarchi io sopravvissi,
L'aura vana, che fama era nomata, Pareami gran tesor, ma vieppiù bello Perchè a te gioia ne sarìa tornata.
Mie mille ardenti vanità un flagello Orribile di Dio ratto deluse, E negra carcer mi divenne ostello.
Non più sorriso d'immortali Muse! Non più suono di plausi! e tutte vie A crescente rinomo indi precluse!
Ma conforti reconditi alle mie Tristezze pur il Ciel mescolar volle, E il cor balzommi a rimembranze pie.
Del captivo l'afflitta alma s'estolle A vita di pensier, che in qualche guisa Il compensa di quanto uomo gli tolle.
E quella vita di pensier, divisa Fra le non molte più dilette cose, Ora è tormento ed ora imparadisa.
Io fra tai mura tetre e dolorose Pregava, e amava, e sentìa desto il raggio Del pöetar, che il cielo entro me pose.
Miei carmi erano amor, prece, e coraggio; E fra le brame ch'esprimeano, v'era Ch'essi alla cuna mia fossero omaggio.
Io alla rozza, ma buona alma straniera Del carcerier pingea miei patrii monti, E allor sua faccia apparìa men severa.
E m'esultava il sen, quando con pronti Impeti d'amistà quel torvo sgherro Commosso si mostrava a' miei racconti.
Pace allo spirto suo, che in mezzo al ferro Umanità serbava! A lui di certo Debbo s'io vivo, e a' lidi miei m'atterro.
Morto o insanito io fora in quel deserto, Se confortato non m'avesse un core Nato di donna, e a caritade aperto.
Scevra quasi or mia vita è di dolore, Ad Italia renduto e a' natii poggi, Ov'alte m'attendean prove d'amore.
Benedetti color, che dolci appoggi Mi fur nell'infortunio, e benedetti Color, che mia letizia addoppian oggi!
E benedetta l'ora in che sedetti, Saluzzo mia, di novo entro tue sale, E strinsi a me concittadini petti!
Non vana mai su te protenda l'ale Quell'Angiol, cui tuo scampo Iddio commise, Sì che nobil sia cosa in te il mortale!
L'alme de' figli tuoi non sien divise Da fraterna discordia, e mai le pene Dell'infelice qui non sien derise!
Le città circondanti ergan serene Lor pupille su te, siccome a suora Ch'orme incolpate a lor dinanzi tiene.
E le lontane madri amin che nuora Vergin ne venga di Saluzzo, e questa Abbian figliuola reverente ognora;
E la straniera vergin, che fu chiesta Da garzon saluzzese, in cor sorrida Come a lampo di grazia manifesta!
Pera ogni spirto vil, se in te s'annida! Vi regni indol pietosa ed elegante, E magnanimo ardire, e amistà fida!
Mai non cessino in te fantasìe sante, Che in dottrina gareggino, e sien luce A chi del bello, a chi del vero è amante;
E del saver tra' figli tuoi sia duce Non maligna arroganza, invereconda, Ma quella fè che ad ogni bene induce;
Quella fede che agli uomini feconda Le mentali potenze, a lor dicendo, Ch'uom non solo è dappiù di belva immonda.
Ma può farsi divin, virtù seguendo! Ma dee farsi divino, o di viltate L'involve eterno sentimento orrendo!
Tai son le preci che per te innalzate Da me son oggi, e sempre, o suol nativo: Breve soggiorno or fo in tue mura amate,
Ma, dovunque io m'aggiri, appo te vivo!
[1] Carlo Muletti, e Delfino suo padre, Storici di Saluzzo.—Io m'onoro dell'amicizia di Carlo, e parimente di quella del Maggiore Felice, suo fratello.
IL POETA.
Et stare fecit cantores contra altare. ( Eccli. 47. 11).
Perchè data m'hai questa ineffabile Sete di canto? Perchè poni tu in me questi palpiti Ricchi d'amor? —Questi doni a te fo perchè basso Non t'alletti nocevole incanto; Perchè vago del bello più santo, A tal bello tu spinga altri cor.
—Io t'ammiro, ed ahi! quelle mi mancano Voci stupende, Che dir ponno quai movi nell'anima Alti desir. —Non ambir le pompose loquele, Che la turba volgar non intende: Il Vangel che rapisce ed accende, Par d'ingenuo fanciullo il sospir.
—Del possente Manzoni l'energico Inno a te vola: Io versar solo gemiti e lagrime Posso a' tuoi piè. —L'alto carme ispirai d'Isaia, Ma pur d'Amos la rozza parola Ogni labbro sublima, consola, Se gli umani richiama ver me.
—Il tuo nome cantando alla patria, Quali degg'io Fra tue grazie e bellezze moltiplici Più memorar? —Dille ch'io per amor la fei bella, Dille ch'amo, ed affetti desìo: S'invaghisca del grande amor mio; Mia beltà, mia natura è d'amar!
—Ma non denno terribili fremere Gl'incliti vati, Imprecando, schernendo degl'improbi Opre e pensier? —Rei pensieri e mal opre dannando, Sieno i carmi a speranza temprati: Sii pietoso anco a' petti ingannati: Col furor non si suscita il ver.
—Da più secoli squarciano Italia Parti luttanti; Fa ch'io retto impostori e magnanimi Scerna fra lor. —Del Vangel l'amantissimo spirto Luce sia a tua ragione, a' tuoi canti: Spirar dèi l'amor patrio de' Santi, Ch'è bontà, sacrificio ed onor.
SOSPIRO.
Tuus sum ego! ( Ps. 118. 94).
Amore è sospiro D'un core gemente, Che solo si sente, Che brama pietà: Dolore è sospiro D'un cor senz'aìta, Per cui più la vita Incanto non ha.
Speranza è sospiro D'un core, se agogna, Se mira, se sogna Ridente balen: Timore è sospiro D'un core abbattuto, Che forse ha perduto Un'ombra di ben.
Timore, speranza, Dolore ed amore Del leve uman core Son vario sospir: Sospiro son breve La gioia, il martire, Son breve sospiro La vita, il morir.
E pure in sì breve Sospiro, o mio Dio, M'hai dato il desìo D'accoglierti in me! M'hai dato una luce Che diva si sente, M'hai dato una mente Ch'elevasi a te.
LA MENTE.
Conjungere Deo et sustine. ( Eccli. 2. 3).
E che importa ovunque gema Questa salma sciagurata, S'altra possa Iddio m'ha data Che null'uom può vincolar? Della creta dagl'inciampi Esce rapida la mente: Più d'un tempo è a lei presente, Cielo abbraccia e terra, e mar.
Io non son quest'egre membra Di poc'alito captive; Io son alma che in Dio vive, Io son libero pensier. Io son ente, che, securo Come l'aquila sul monte, Mira intorno, e l'ali ha pronte Ogni loco a posseder.
Invisibile discendo Or a questi, or a quei lari; Bevo l'aura de' miei cari, Piango e rido in mezzo a lor. De' lontani veggio i guardi, De' lontani ascolto i detti: Mille gaudii d'altrui petti Mi riverberan nel cor.
Essi pur, benchè da loro Lunge sia mio seno oppresso, San che li amo, san che spesso A lor palpito vicin: San che sol la minor parte Di me preda è degli affanni; San che l'alma ha forti vanni, Che il suo vol non ha confin.
Lode eterna al Re de' Cieli Che m'ha dato questa mente, Che lo immagina, che il sente, Che parlargli e udirlo può! Morte, invan brandisci il ferro Di che mai tremar degg'io? Sono spirto, e spirto è Dio; Nel suo sen mi salverò.
MESTIZIA.
In eo enim in quo passus est ipse et tentatus, potens est et eis qui tentantur auxiliari. ( Ep. ad Hebr. 2. 18).
Ah, nell'uom non v'è possa costante! E quell'io che poc'anzi era forte; Di repente in mestizia di morte Sento l'alma di novo languir! Grave incarco per me stesso Portar so di giorni amari, Ma pacato de' miei cari Ricordar non so il martìr.
Questa almen, questa grazia dimando Nell'affanno che oppresso mi tiene, Che del mio Federico alle pene Talor possa conforto versar: Ch'io tal volta ridir possa A quel mesto amico mio, Che per lui non cesso a Dio Preci e gemiti alternar.
Ma nessuno a mia brama risponde! Passan gli anni, e chi sa se frattanto Quell'amato i suoi giorni di pianto Sulla terra strascini tuttor? Alto duol pensarlo estinto, Alto duol pensarlo in vita! Gronda sangue la ferita Più profonda del mio cor.
A te volgo i miei lai, Divin Figlio, Che, sospeso in patibolo atroce, Una lagrima giù dalla croce Sulla Madre lasciavi cader. Pe' dolori tuoi mortali, Di tua Madre pe' dolori, Ah ti degna i nostri cuori Nell'angoscia sostener!
Dalla croce una lagrima pure Sull'eletto Giovanni spargevi: Ogni dolce pietà conoscevi, Benedetta è da te l'amistà. Benedici ogni memoria Che m'avvince a Federico: Voti innalzo per l'amico, Per me voti innalzerà!
E se avvien che il dovuto proposto Di non mai querelarci obblïamo, Ti sovvenga che debili siamo, E che i forti anche ponno languir. Ti sovvenga che tu pure D'uman frale andasti cinto, Che tristezza allor t'ha vinto, Ch'eri stanco di patir.
TERESA CONFALONIERI.
Lux justorum laetificat. ( Prov. 13. 9)
No, pia, no, gentile, Per me non sei morta! Ti veggio, simìle Ad angiolo sorta, Su sposo e fratelli E amici vegliar. Dal ciel mi risuona Tua dolce parola. Che spiriti innalza, Che petti consola: Così già solevi Di Dio favellar.
Se il cor mi si turba In me rivolgendo Che i giorni tuoi santi S'estinser, gemendo; Che giovin peristi In lungo patir; Io scerno che il pianto Mi tergi e sorridi! Io scerno che al cielo Ne inviti, ne guidi! Io t'odo che appelli Felice il martìr!
Ell'era di quelle Serafiche menti, Vissute nel mondo Sublimi, innocenti, Amando, pregando, Chiamando a virtù. Doloran pei cari, Doloran per Dio, Lor merto arrichisce Chi in avanti fallì Lor vita è Calvario, Lor norma è Gesù!
Ti piansi, ti piansi Con alto rammarco, Per me, pel tuo sposo D'angosce sì carco! Ma udii la tua voce Parlarmi nel cor. «Le fere sventure Son date a' mortali, Perchè dalla terra Dispieghino l'ali, Cogliendo le palme Che colse il Signor».
No, pia, no, gentile, Per me non sei morta! Ti veggio, simìle Ad angiolo sorta, Il vedovo amico. E me sostener. Ti veggio splendente Di gioie supreme; Ti veggio accennante Le sedi, ove insieme La pace de' forti Dovrem possedor!
L'ANIMA D'UNA FIGLIA.
( Parla qui MARIA VALPERGA DI MASINO alla Contessa EUFRASIA sua madre ).
Quonium pius e misericors est Deus. ( Eccli. 2)
Piangimi, o dolce Genitrice: a Dio No, non è oltraggio il tuo materno pianto. Della tua mente ogni pensier vegg'io, Leggo le pene onde il tuo core è infranto, Scerno fra cotai pene un gioìr pio, Me figurando al Re de' Cieli accanto; Scerno che tu il maggior de' sacrifici Rinnovelli ogni giorno e benedici.
Ma affinchè le tue lagrime pietose Grondino più soävi, o madre amata, Io ti paleserò cagioni ascose, Per cui sì tosto al ciel venni chiamata: Non fu olocausto sol che Iddio t'impose Per affinar l'anima tua elevata: Di me compassïone alta lo prese, E me sottrarre a sommi affanni intese.
La tempra ch'Egli al fianco tuo mi dava, Era tutta d'affetto e d'innocenza: Io caldamente i genitori amava, Io gioconda sentìami in lor presenta: Il caro guardo tuo mi confortava, Qual guardo di superna intelligenza: Io d'uopo ognor avea di starti unita, Tu della vita mia eri la vita.
Di congiunti e d'amici altr'alme belle: Dopo il padre e la madre eranmi care: Tanto v'amava, e tanto amava io quelle, Che più tesori io non sapea bramare. Il pensier che sorride alle donzelle Di rosei serti e nuzïale altare, A me non sorridea, temendo ognora Che a te vivrei meno vicina allora.
Dato m'avresti, è ver, degno consorte, E quindi io molto esso pregiato avrei; E d'esser madre avuto avrei la sorte, E rapita m'avriano i figli miei; Ma come inevitabili di morte Son su questo o su quello i dardi rei, Avrei veduto chi sa quali amati Anzi a me infelicissima atterrati!
Ah! s'io perduto avessi alcun di loro, E te precipuamente, o madre mia, Sì acerbo fora stato il mio martoro, Che capir mente d'uom non lo potria! Commosso fu quell'Ottimo che adoro Dai dolci sensi ch'egli in me nodrìa, E perchè strazi io non avessi atroci, Una invece mi diè di molte croci.
Quest'una era il lasciarvi, o miei diletti, E più, madre, il lasciar te sì dogliosa: Pesante croce fu! la ricevetti Come don dell'Eterno ond'era io sposa: Premendola al mio sen, piansi e gemetti, Ma investimmi Ei di grazia generosa: Pesante croce! ma in serrarla al core Sentii che al cor serrava il mio Signore!
Sai tu perchè negli ultimi momenti Io, nel parlar delle mie nozze eterne, Volsi ancora su te sguardi ridenti, Come talun che liete cose scerne? Dalle lor salme l'anime innocenti Divelte son con voluttadi interne: Perde per esse il pungol suo più forte La regnante sul mondo ira di morte.
Già pria di separarmi dalla spoglia Dotata fui di vista celestiale: Schiusa a me ravvisai l'eterea soglia, Vestita mi sentii d'angelich'ale: Tutto mi s'abbellì, fin la tua doglia, Cui di rado la terra ebbe l'eguale: Divina luce a me svelava il merto Del materno dolore a Gesù offerto.
E vidi allora, o madre mia, che il mondo De' rammarichi nostri non è degno: Vidi che frode e malignar profondo Han tal perpetuo fra' viventi regno, Che spirto ivi non puote andar giocondo, Benchè di virtù segua il santo segno: Compiangendo chi resta in tanta guerra, Io mi strappai contenta dalla terra.
E contenta vieppiù me ne strappai, Perchè i tuoi sensi mi fur noti appieno: Seppi che da tal madre io germogliai, In cui fortezza mai non verrà meno: Seppi che a dritto il caro padre amai, E ch'ambo in ciel ristringerovvi al seno; Seppi ch'io, precedendovi, ottenuto Avrei per voi d'eccelse grazie ajuto.
Piangimi, o dolce genitrice: a Dio No, non è oltraggio il tuo materno pianto; Ma pensa che felice or qui son io, Che degli sposi mi toccò il più santo; Che siccome eri tu l'angiolo mio, Angiolo or son che aleggio a te d'accanto, E, qual tu provvedevi a' gaudii miei, Così di me perenne cura or sei.
Duo carissimi spiriti celesti Meco sempre su te stanno vegliando, Cui pochi giorni tu per prole avesti, Poi ratti a Dio volaron giubilando: Nostra gara è scostare i dì funesti Dal tuo materno aspetto venerando: Una di nostre gioie è sul tuo viso Certo mirar suggel di Paradiso.
Possederti vorremmo in ciel sin d'ora, Ma carità ciò chieder non consente: Tale offri degno esempio a chi dolora, Tal sei provvida madre all'indigente; Se tarda viene a te la suprem'ora, Maggior gloria n'avrà l'Onnipotente, E, al suo cenno, da noi tua fronte amata Fia di più chiare stelle incoronata.
L'ANIMA DI CLEMENTINA.
( La Marchesa CLEMENTINA GUASCO, nata della Rovere),
Et sic semper cum Domino erimus. ( Ep. ad Thess. II, c. 4).
Sposo, sorella, figlia, e voi, per cui Data, o fratelli, avrei pur la mia vita, Amiamci in Dio! Per meglio amarvi in lui Io son partita.
Soffersi in vita, in agonia soffersi, Ma ne' dolori mi sostenne un Dio: Non ne gemete, que' dolor gli offersi, E a' suoi li unìo.
E s'ebbi in terra alcuni giorni amari, L'affetto vostro li abbellì cotanto, Che pur tai giorni a me tornaron cari Standovi accanto.
Svelar non debbo s'io già son felice, Ovver se il prego vostro ancor mi giova: Amo quel prego: Iddio ven benedice Con grazia nova.
Amo quel prego ed ogni dolce segno Di pia memoria che il mio nome onora; Ma il duol frenate: nell'eterno regno Vedremci ancora.
Il duolo frena, o generoso Carlo: Sol del mio aspetto nostra figlia è priva: A lei nel cor sempre del padre io parlo, In lei son viva.
Per quell'amor ch'ella a suo padre porta, Un dì fia moglie ad uom che t'assomigli, Ed alta gioia splenderà, risorta Di lei tra' figli.
Ed ecco un angiol pur che ti consola, Ecco una madre che alla figlia resta: Tal è mia suora; ogni atto, ogni parola Di lei l'attesta.
E Clementina pur, benchè offuscati, Sien vostri sguardi, presso a voi rimane: L'alme, che han vita in Dio, dai loro amati Non son lontane.
Fra le mie braccia siete ad ogni istante, E bacio vostre lagrime pietose, E forte amor v'ispiro a tutte sante Bellezze ascose.
Fuggon siccome rapid'ombra gli anni, Comun palestra a carità e dolore: Me troverete dopo brevi, affanni Appo il Signore!
VERITÀ E SOFISMO.
Resistite fortes in fide. ( Petri Ep. I. 5.9).
SOFISMO
Ov'è amistà? Chi cento volte e cento Sotto le spoglie d'amistà non vide Nei men turpi adulante approvamento, Che merca dono o laude, e ascoso ride, Negli altri la calunnia, il tradimento, La nera ingratitudine che intride La man nel sangue e i benefizi sprazza, E non può cancellarli e più ne impazza?
Ove son leggi d'equità? Il selvaggio Che, simile a Caïno, erra per balze, Libero è appena: ogni città è servaggio Sia che regnante scure un solo innalze, Sia che, brandita in man di molti, il raggio Vieppiù vario ed orrendo intorno balze; E chi succede ad atterrata possa, Ladro è che l'arme d'altro ladro indossa.
Ov'è religïon? Di sangue umano Fumar fu vista di più Numi l'ara; E veggio pur sotto mantel cristiano Egöismo; e viltà celarsi a gara: L'uom per natura ha ingegno empio e profano, Loda il Vangelo, e da lui nulla impara; Vuol carità, ma in altri sol la vuole, E tesse a proprio, lucro atti e parole.
VERITA'
Non v'inganni, o mortali un dispettoso Filosofar che tutte cose annera: Sdegno pur troppo ci sembra generoso Alla infelice de' maligni schiera: Giustificar così cercar l'ascoso Senso d'iniquità che li dispera, O pur malignan perchè infermi sono, E mertan, non già plauso ma perdono.
Ogni nobile petto ebbe un amico, O più d'un n'ebbe, e alcun ne serba ancora, E se perseguitato anco e mendico Visse fra indegni e fra più indegni mora, Ei si rammenta qualche amato antico, E alle umane virtù crede e le onora, E, morendo, ci consolasi al pensiero Che in cielo ei rivedrà quel cor sincero.
Ogni nobile petto ha reverenza Di giuste leggi, ed egualmente abborre La non volgare e la volgar licenza, Che dritto vanta, e ad ingiustizia corre: Ei sa, che se perfetta sapïenza Giammai non puossi a leggi umane, imporre, Pur son tal ordin, senza cui la terra Sarìa di tigri sanguinosa guerra.
Ogni nobile petto ama, ed è amato: Ogni nobile petto il giusto vede: Ogni nobile petto un deturpato. Culto deplora, e al vero culto crede; Dai lumi della grazia irradïato Ragiona, e a sua ragion guida è la fede; Sprezza le vanità, ma gli uomini ama, E a sublime sentier seco li chiama.
SOFISMO.
Che fate, o sciagurati, in sì ria valle, Stima alterna sognando, e alterno amore? Volgete ad ogni mira alta le spalle, Scambiatevi dispregio, odio, livore: Segua ognun della vita il mesto calle Fin che sotto a' suoi piè cresce alcun fiore, Poi, dacchè a tutti ei far non puossi boia, Si squarci il seno, e disperato muoia!
VERITA'
Che fate in questa valle, o sciagurati, Necessario sognando alterno sdegno? I mali suoi dall'uom sono addoppiati, Se di superba intolleranza è pregno: A dolor, sì, ma pure a gioia nati, Da mutua avrete carità sostegno; Forza non siede in vile ira feroce, Ma in portar con serena alma la croce. E forza siede in perdonar sovente Alle stolide colpe de' fratelli; In confessar che d'uom cieca la mente Sempre inciampa, se in Dio non si puntelli; In riedere ogni dì gagliardamente Rischi ed affanni a sostener novelli; In memorar, d'ogni fralezza ad onta, Che nel mortal v'è del Signor l'impronta.
SOFISMO.
Se tanto eccelsa, filosofich'ira Non arde in voi da pugnalarvi il seno, Vivete almen com'alto eroe che mira Tutto con ciglio di minaccia pieno; Dite che a voi sommo dispregio ispira Chi non è pronto a usar brando o veleno; Libri dettate in bile e sangue scritti, Per insegnar a umanità suoi dritti. E s'uomo studia e suscita incremento Di lumi e di virtù senza pugnali; S'ei non porge a plebee rabbie fomento, Perchè s'alzino a dar leggi a' mortali; S'ei non crede esser merto o tradimento L'avere o non aver grandi natali; S'egli ama il pio, sotto qual sia cappello, Dite ch'ei degli stolti è nel drappello.
VERITA'
Compiangete la stizza de' volgari, Che cieca sempre qua e là si scaglia; Filosofia seguite appo gli altari; Di calunnie e d'ingiurie non vi caglia; Sorridete ad ogn'uom che insegni e impari Quanto amore e indulgenza al mondo vaglia; De' frementi nè il plauso nè gli scherni Norma non sian che il vostro oprar governi.
Libri dettate a sollevar gli umani Dai lacci delle ignobili dottrine; Siate pensanti, ma non irti e strani, Non consiglier di scandali e rapine; Ponete mente che gl'ingegni sani Invocano edifizi e non ruine: Bando al Sofismo! egli è quel genio truce, Che al suo fango infernal l'alme conduce. È desso, è desso l'avversario antico, Che, d'angiol luminoso assunto il velo, Sempre de' vizi s'ostentò nemico, Vituperando umana razza e cielo; Ei trasse Giuda al maladetto fico; Esca egli fu del farisaico zelo; Ei repubbliche e regni urta, dissolve, Ed erge invece putridume e polve.
IL COLERA IN PIEMONTE,
Sursum corda! ( Praef.)
Eleviam fra le lagrime i cuori, Sosteniamo gli scossi intelletti! Siam colpiti, ma non maladetti, Man paterna è la man del Signor. Per provarci con prova più forte, Per destarci a più nobil costanza, Egli ha detto ad un angiol di morte: —Tue saette raddoppia su lor.
Invisibil quell'angiolo armato Scorre l'aer, e su' lidi ove passa Pianti ed urli e cadaveri lassa, E prosegue il mortifero vol. Del disordin la turba seguace Cade prima nell'orrido scempio, Ma co' rei più d'un giusto soggiace, Sì ch'avvolta è la patria nel duol.
Se non che negli estremi perigli Si rinforzan gli spirti più degni: La sventura, spavento de' regni, Pur de' regni salute esser può. Lor salute esser può se di Dio Meglio i cenni seguire han prefisso, Se rivolgon ogni opra e desìo Alla meta per cui li creò.
Debit'è che luttiamo incessanti Della patria a impedir maggior danno, Che tentiam con magnanimo affanno Da sterminio i fratelli strappar; Che accorriamo a' languenti, a' morenti, Che obblïato il mendico non pera, Che al drappel de' pupilli innocenti Ci affrettiam pane e lagrime a dar.
Debit'è doloroso, tremendo! Ma gagliarda è la mente dell'uomo: S'è con Dio, da che mai sarà domo? Patirà, ma con forza immortal. Ei con Dio? Chi di noi fia con esso? Tutti il siam, sebben consci di colpe; Se il piè nostro da lor retrocesso, Oggi a vie di giustizia risal;
Se d'aïta siam prodighi a tutti, S'alto amore in nostr'alme ragiona, Se il nemico al nemico perdona, Se discordia civil più non v'è; Se, coll'opre le preci alternando, Più null'uom d'esser pio si vergogna, Se sparisce lo scherno nefando Che alla croce vii guerra già fe'!
Eleviam fra le lagrime i cuori, Sosteniamo gli scossi intelletti: Siam colpiti, ma non maladetti; Man paterna è la man del Signor. Noi felici, ove questa procella Da colpevol letargo ci desti! Noi felici, ove gli animi impella A bei fatti, a sublime fervor!
Dopo noi sorgerà dignitosa In Piemonte di forti una schiatta, Che a benefiche gare fia tratta Dall'esempio che i padri lor dier: Ed allora a que' nobili figli Con amor dalle stelle arridendo, I lor genii sarem ne' perigli, Sarem luce a' lor santi voler!
CESSATO IL COLERA.
Cumque quaesieris ibi Dominum Deum tuum, invenies cum, si tamen toto corde quaesieris, et tota tribulatione animae tuae. ( Deut. 4. 29).
Crëato spirto che al mio fral sei vita, Potenze tutte onde m'esulta il core, Alziamo, alziam di gaudio intenerita Voce al Signore!
Dal ciel suoi doni sulla terra effuse, Noi li obblïammo, e ripetè i suoi doni: Ci flagellò, ma ne' flagelli incluse Grazie e perdoni. Egli è colui che i doloranti sana; Che dalla morte, ch'all'uom rugge intorno, Sotto il suo scudo amico lo allontana Di giorno in giorno.
Poi quando a molte umane brame arrise, Toglie quell'ente che vivendo amollo; Ma questo debol ente ei non uccise, Sugli astri alzollo.
Egli è colui che ai sopportanti oltraggio In guiderdone offre onoranza eterna; Colui che i fati del mortal lignaggio E il ciel governa.
Misericordia ed equità lo guida, Se crea, se cangia, se mantien, se spezza: Amico all'uomo, ei vuol che l'uom divida Sua tenerezza.
Un giorno scese dall'eccelsa sfera Per esser uomo e allevïarci il duolo; Calice orrendo, affinchè l'uom non pera, Tracannò solo.
Ci favellò non più come in Orebbe Con formidabil, mistica favella, Ma qual mortal che della donna crebbe Alla mammella.
E quella Madre ch'egli amò cotanto Diede alle donne qual modello e amica, Qual Madre a ognun ch'a lei con dolor santo Sue pene dica.
Le nostre pene, ah sì! dalle Taurine Sponde alla Madre del Signor dicemmo, E le pupille sue sovra noi chine Brillar vedemmo.
L'indica lue nostr'aure appena attinse, Ci risovvenne la pietà degli avi, E quella Madre col sospir respinse Gl'influssi pravi.
Andò assalendo il morbo alcune vite, Ma più rifulse indi il recato scampo: A gare insiem di carità squisite S'aperse un campo.
Anco una Forte del più debol sesso Accorse agli egri, sorbì l'aer funesto, E consolò con dolci cure e amplesso L'orfano mesto.
E visti fur della città i Maggiori Trar di Maria Consolatrice al piede, E in voto stringer tutti i nostri cuori A salda fede.
E visti furo i cittadin più culti Coll'umil volgo unirsi, in Dio sperando, Nè de' beffardi paventar gl'insulti Maria invocando.
Piace al Signor che la sua Vergin Madre Ne incori e affidi col suo bel sorriso, Sì ch'aspiriam con opre alte e leggiadre Al Paradiso.
Vera religïon, ch'è tutta bella, Gaudio ne pinge in Dio, non vil cipiglio, Se lo onoriam ne' Santi, e vieppiù in Quella, Cui nacque Figlio.
Guasta dall'uom, religïon ne pinge Non so qual Dio alterissimo, cui duole, Se a quella Madre che al suo sen lo stringe Drizziam parole.
Fede in te sempre avremo, o Genitrice Dell'umanato, ver Lume divino! Tu sei potente in ciel, tu salvatrice Sei di Taurino!
IL VOTO A MARIA.
Deinde dicit discipulo: «Ecce mater tua». ( Ioh. 19. 27).
Serpeggiava il malefico elemento Cui dal Gange svolgea l'ira divina, E, recato per l'aer morte e spavento, Pur la dolce assalìa sponda Taurina: Dalla nostra città s'alzò un lamento Alla Vergin, cui terra e ciel s'inchina; E come gli avi già correano ad essa, Corremmo a lei colla fidanza istessa. Sciolto è il voto, innalzata è la Colonna, Che, or volge un anno, il cittadin fervore Imprometteva alla superna Donna, Deprecando l'orribile malore: Speranza in lei vieppiù di noi s'indonna, Dacchè prova ci diè somma d'amore: Venne l'indica lue, tremenda apparve, Ma al cenno di Maria sedossi e sparve.
Ah! questo monumento una incessante Sarà preghiera delle nostre schiatte! Ei rammenterà sempre al vïandante L'inclite grazie che a Taurin son fatte. Ve' l'immagin di Lei col Figlio amante, Ch'orgoglio umano ed uman'ira abbatte! Deh! nessun passi mai per questa via Che il cor non alzi ver Gesù e Maria!
O Regina del Ciel, non è sgombrata La fera lue da tutti i nostri lidi! Piange al flagel Dertona sconsolata, E d'altre sponde a te s'elevan gridi: Pietà di loro! e sia Taurin salvata! Chiedi al Signor che a lui viviam più fidi; Digli che il vuoi; le menti in noi migliora, E il figlio tuo benediranne allora! Deh, ci ottieni ogni don, ma più virtute Di fraterna concordia e d'intelletto! Qui l'alme vili sien di gloria mute, Qui del bello e del ver splenda l'affetto! Qui insidie di stranier non sien tessute, Qui sia armonia di Prence e di soggetto! Qui in pace o in guerra, in giubilo od in pianto Stiane Maria sospitatrice accanto!
Tu, dopo il Dio che s'umano in tuo seno, Sei l'Ente più benefico del mondo; La nobil Eva in cui non fu veleno; La vincitrice dello spirto immondo; L'umano cor che al divin Rege appieno Gradì, perchè in amar fu il più profondo: Tu sei la donna in sua perfetta altezza; Degli Angioli e di Dio sei l'allegrezza!
Invan sonò in più secoli, ed invano Sonerà ancor di cieche menti il riso, Che il bel culto a Maria chiamano insano: Noi la Donna onoriam del Paradiso; Noi giubiliam che il Reggitor sovrano Volgane, in braccio a lei, clemente viso; Noi sentiamo l'incanto celestiale D'aver madre una madre al Dio immortale! Quindi risponderemo all'infelice Che corruccioso ti sogguarda e ghigna: «Degli avi nostri fu consolatrice, E nostr'umile pianto udì benigna! Divine cose il nome suo ne dice; Per esso in noi più cavitarie alligna! Non sappiamo amar Dio fuorchè con Quella, Che per noi l'ha nodrito a sua mammella!»
Che sono i monumenti? Iddio non chiede Statue e colonne, ma infiammati cuori. È ver, ma i sacri segni alzan la fede; Gridan d'età in etade: «Il Ciel s'onori!» Nobilitan le vie dov'hanno sede; Collegano i nepoti a' lor maggiori; Son degl'ingegni sconfortati al guardo, Qual movente a bell'opre, alto stendardo.
Or questo novo segno al vicin tempio Appellerà ogni giorno i passeggieri: Quivi la maestà, quivi l'esempio Degl'incessanti aneliti sinceri, Ad ossequio talor costringon l'empio, L'invaghiscon talor de' pii misteri; E s'egli te, Madre d'afflitti, implora, Il miri, il tocchi,—ed è tuo figlio ancora!
LA MADRE DEGLI AFFLITTI.
Monstra te esse matrem! ( Av. m. st.).
O Vergin santa, che il Signore elesse Per nascer dal tuo sen Uom de' dolori, Uom che modello a tutti noi splendesse!
Tu, benchè pura, non respingi i cuori Che a te sorgon macchiati, e come il Figlio Brami scampo e non lutto ai peccatori.
Deh, volgi anco su me quel divin ciglio Che sempre da clemenza è intenerito Verso chi prega dal suo tristo esiglio!
Io t'amai da fanciullo, indi partito Da te sembrai, ma spesso a te pensando, De' lunghi errori miei gemea pentito;
Ed in que' giorni di dubbiezza, quando Della fallacia dell'orgoglio mio Pur meco stesso mi venia crucciando,
Un bisogno invincibile d'Iddio Talvolta m'assaliva e mi parea Che a speranza da te mosso foss'io.
E se in un tempio allor mi ritraea, Cercava la tua immagine, e in quel viso Virgineo e celestial fede io ponea.
E gioiva al pensar che in paradiso, Appo il fulgor dell'eternal bellezza, Brillasse d'una femmina il sorriso!
Il sorriso di madre a pietà avvezza, Ed al desìo che in virtù crescan lieti Quei cari figli ch'ella tanto apprezza.
Non badar, no, se troppo a' consüeti Sentier d'infedeltà raddotto m'hanno Miei giovenili affetti irrequïeti,
Più fermo or t'amerò, più non trarranno Lunge i miei passi da tua dolce via: Fuor d'essa tutto vidi essere inganno.
Degna di te non è l'anima mia, Ma pensa ch'opra è pur del Benedetto Che da te nacque, e che per me patìa.
Riconduci quest'alma al tuo Diletto; Digli che sempre in esso e in te sperava. Digli che tu di confidar m'hai detto!
Digli che il danno mio t'addolorava, Digli che l'amor tuo salvo mi vuole, Digli che a te dal Golgota ei mi dava!
Tai dalla madre udendo alte parole Arriderà, siccome ai sapïenti Tuoi desiderii tutti arrider suole.
Se gli spiacquero in me cuore ed accenti, Cuore ed accenti mi darà novelli, Sì che più caro a dritto, io gli diventi.
Santificata l'arpa mia più belli, Più fervid'inni eleverà, dicendo Come gli afflitti dal periglio svelli.
E forse allor più d'un che va fuggendo Sdegnosamente la tua pia chiamata, Te d'illusi ignoranti idol credendo,
Fermerà il passo perch'io t'ho cantata, E ridirà:—Ma chi è mai costei, Che pur da quell'altero è commendata?
Alzando gli occhi imparerà chi sei; Stupirà, t'amerà, nobil rossore Avrà, qual ebbi degl'indugi rei.
Ma, deh! ti mostra madre al peccatore Pur se debole ei resta, e se talvolta Inchinato a viltà gli scerni il core.
Poca mia possa, ma tua possa è molta; Per balze, per fiumane or tremo, or cado, Ma, qual ch'io sia, tu le mie grida ascolta.
Spesse fiate in malagevol guado Mi porgesti la mano, e uscii dell'onde; M'alzi tua dolce man di grado in grado
Da questi rischi alle celesti sponde!
DIO E MARIA.
Astitit Regina a dextris tuis. ( Ps. 44).
Umile sì, ma ardimentoso il core Sorga dal fango e si sollevi a Dio: Cinto d'argilla, ma di te, Signore, Figlio son io!
Bella è la terra, e i favillanti strali Del nobil astro che il suo sen feconda, E il dì e la notte, e i fiori e gli animali, E l'aere e l'onda.
Bello è l'imper dell'uom su gli elementi: Ei gioia cerca, e gioia sogna o trova; Ma sete sempre han suoi desiri ardenti Di gioia nuova.
A me non bastan tue bellezze, o terra; Le indagai tutte, le ammirai, le ammiro; Ombre son vaghe, e morte a lor fa guerra: Io il ver sospiro.
Ed in te solo è il vero, o impermutato Bello ineffabil che allumasti il sole, Ed a' tuoi figli nella polve hai dato Vita e parole.
Chi sei? nol so. Chi son? nol so. Ma pure Traluci a me, benchè ti copra un velo; In mille voci annuncian tue fatture Il Re del Cielo.
Ma delle tue fatture la più bella, Quella che più di grazia è portatrice, Quella che più ti rappresenta, quella Che al cor più dice,
Ell'è Maria, la Vergine, la Figlia Dell'Uomo, in Ciel fatta a' fratei reina! La femminil pietà che s'assomiglia Alla divina!
UN FILOSOFO.
Lex lux. ( Prov. 6. 23).
Dopo indefessi studii, Sopra vantate carte Giustin vedea non fulgere Fuorchè bugiarda un'arte Con cui l'audacia illudere Del fervido mortal, E il ver col falso mescere, E la virtù col mal.
A nobil ira il mossero Il vil, cinico riso, L'epicurea mollizie, Il duro stoico viso; In tutte scuole un'invida Di laudi fame e d'or; Sul labbro la giustizia, L'iniquità nel cor.
E si squarciò dagli omeri Nel suo corruccio il manto; Gettò i volumi turgidi, Scevri per lui d'incanto, E con profondo-gemito Disse:—«Non v'è quaggiù Luce che guidi i miseri A verità e virtù!».—-
«Evvi!» gli grida un provvido Vecchio che i lagni udìa. Giustin lo mira attonito, Poi dice: «No! follìa!»— «Follìe ti svolser, gli uomini (L'altro risponde allor); Leggi quest'alte pagine!»— «Chi le dettò?»—«Il Signor!»
Tra speranzoso e incredulo Giustin quel libro afferra: Le carte eran profetiche Che a tutti error fan guerra, Che svelan ne' primordii D'umanità il fallir, Poi l'empio Giuda e il Gòlgota, E d'un Iddio il patir.
Gli sconosciuti oracoli Il dubitante aperse, E d'Isaia nel cantico Lo spirito sommerse. Legge:— Ascoltate, o popoli, D'ira divina il suon: Io Re del Ciel, di vittime Infastidito io son.
Incensi ed inni perfidi Il mio intelletto abborre: Premio di voti ipocriti Non mai sperate côrre; Sangue le mani grondano, E voi le alzate a me? Tergetele, o miei fulmini Diran che Dio ancor è!
Pur se le destre s'ergono Sincere a me tuttora, Se rei pensier non serbano Più in vostro cor dimora, Se torna altrui benefico De' figli miei l'oprar, Credete voi ch'io sappia Miei figli sterminar?
Oh! se a pupilli e vedove Esser vi veggio scampo, Venite a me: le folgori Non seguiranno il lampo: E fosser come porpora Sanguigne l'alme pur, Al par di neve candide Le rivedrà il futur!
Quelle or minaci or tenere Parole d'un Iddio Scosser Giustino, ed avido Le carte allor seguìo; E giorno e notte al mistico Libro lungh'ore ei diè: Novi conobbe gaudii; Amò, sperò, credè.
A mastri e condiscepoli De' suoi passati errori, Move, ed in pria l'accolgono Con risi e con furori: Stupiscon poi del placido Suo forte ragionar; Miransi, e forse pensano: «Filosofo ancor par».
Ed ei coll'invincibile Possa del dir verace Eccita santi aneliti Di carità e di pace: Più d'un mortal da glorie Superbe visto fu Trar con Giustino all'umile Scïenza di Gesù.
Invano, invan rammentano Vigliacchi amici al forte, Che della Croce ai nunzii Leggi minaccian morte: Invano a lui, se i vizii S'ostina a maledir, Tremanti vaticinano Scherno, prigion, martir.
—«Oh mal pietosi e timidi! Risponde al caro stuolo, Sappiate che un orribile Martirio esecro solo, Quel che patii nel misero Mio giovanile error, Quando tra fedi varie Mi vacillava il cor.
«Al vero nata l'anima Nel dubitar si snerva; Quindi a sospetti ignobili Fatta ogni dì più serva, Discrede l'amicizia, Discrede ogni virtù; Nessun eccelso palpito Suoi giorni abbella più.
«Ma, dacchè i vili dubbii Cacciai dall'intelletto, E potei diva accogliere Filosofia nel petto, Dacchè imparai qual abbia La vita alto valor, E affratellato agli uomini Conobbi il Redentor;
«Io da quel dì mi pascolo Di forza e di speranza, E questa è gioia intrinseca Che tutte gioie avanza: Il vivere emmi grazia, Grazia mi fia il morir; Uom mi potrebbe estinguere. Ei non può Dio rapir!»
Il predicar fulmineo, I trionfanti scritti Prima fur detti insania, Poi detti fur delitti; Ed ecco il pio filosofo In ceppi rei giacer: Eccol d'iniquo giudice Gl'insulti sostener.
—«Che ti giovar gli stolidi Del Nazareo costumi? Se brami scampo, ossequio Presta ad Augusto e a' numi: Mira per quei che agl'idoli Incenso negan dar, Mira i parati eculei, Mira i flagei d'acciar».
Non si smentì nell'ansia Della terribil ora; Mostrò come un Apostolo Opri, patisca e mora: Al giudice, a' carnefici Perdono oppose e amor, Ed il sublime esempio Nobilitò altri cor.
Venner con lui dal carcere Ai barbari supplici Intemerata vergine E cinque eletti amici: La giovin fra gli strazii Un gemito mandò; Giustin mirolla, e impavida Gli strazii sopportò [1].
[1] Con S. Giustino furono martirizzati cinque suoi amici ed una fanciulla per nome Caritana.
SAN CARLO.
Bonus pastor animam suam dat pro ovibus suis. ( Ioh. 10, v. 11).
Oh! quanto degno è di fiducia un grande Di pietà e sacrificii operatore, Che fu debol mortale, ed ammirande Forze trovò nel suo sublime amore! Fama antica non è che voci espande Sovra Carlo, d'Insubria almo Pastore; Ei visse quasi ieri, e sue pedate In tutto il suol natìo sono stampate.
E perocchè de' secoli non volve Oscura nube di sua vita i fatti, Dir non possiamo: «Era d'un'altra polve, Era di tempi al dolce errar men atti». Dir non possiam: «Noi tal etade involve, Che irresistibilmente al mal siam tratti». Ma ravvisiam come in orrendi tempi Possan pur di virtù fulgere esempi.
Sotto il tempio gigante di Milano Un delubro contien la sacra spoglia; Colà viene il devoto da lontano, E de' commessi falli si cordoglia, E fede ha ch'ivi niun pregar sia vano, E torna speranzoso alla sua soglia; E narrato è di cuori, un dì perversi, Che furono per sempre al ciel conversi.
Talora a quel delubro io discendea Dubbio su tutto, e quasi su Dio stesso, E lung'ora solingo ivi gemea Da sciagurate passioni ossesso, Poi vedea mover giù dalla scalèa Il poverel da' suoi malori oppresso, Ch'appo il corpo del Santo s'inchinava, E di lui la beata alma pregava.
La fè del poverello io con dolcezza Invidiando, era commosso al pianto, E vergognava della ria stoltezza Che sovente di senno usurpa il manto; E allor tutta splendeami la bellezza Del culto ch'elevar può l'uom cotanto; E Carlo io pur pregava, e in me largita Tosto sentìa di maggior fede aita.
Sempre onorai quel forte: ad onoranza M'astringon que' magnanimi mortali, Ch'osano concepir l'alta speranza Di sveller d'infra il mondo orrendi mali; Ch'osan, non per vendetta od arroganza Contro a poter di soverchianti eguali, Ma di Dio per amore e delle genti Confonder dell'iniquo i rei contenti.
Di Carlo a' tempi, vïolenza e orgoglio Spesso ne' sommi e oscenità regnava, E de' vili costumi il turpe loglio Indi più nella plebe pullulava; Innocenza per tema e per cordoglio Da ogni parte ascondeasi e palpitava, E se la raggiungea braccio nefando, Irrugginito era di legge il brando.
E perchè inetta era la legge ultrice, L'uomo spogliato del paterno avere, E il padre della vergine infelice Che a lui rapita avea truce potere, Fean la propria lor destra esecutrice Di cieche stragi e di perfidie nere, E in mezzo al sangue gli uomini cresciuti L'ire feroci esser credean virtuti.
E per maggior calamità d'allora Premeano Italia immiti ferri estrani, Onde tra parte e parte ardean tuttora Più frequenti gli oltraggi e gli odii insani; E perchè il volgo stolido peggiora Quando vien retto da esecrate mani, La podestà straniera incrudelìa Quanto più il volgo oppresso l'abborrìa.
E in sì gravi sciagure, onde cotanta L'ignoranza e l'obblio dell'Evangelo, Anche la schiera che dovrìa più santa Sfavillar, perchè interprete del Cielo, Campioni egregi aveva, sì, ma oh quanta Feccia sol mossa a farisaico zelo, Inimica di Roma, e sovvertente Co' rei costumi ipocriti la gente!
Su' tristi giorni suoi Carlo fremea: Data non gli era onnipossente mano, E pur argin gagliardo imporre ardea A quel di vizi orribile oceàno. Non disperò della sublime idea, Il soccorso affidandol sovrumano, Vide ch'altri giovar uomo può sempre, Se a virtù somma sè medesmo tempre.
Dio benedisse quell'eroica brama, Il suo servo su molti altri estollendo, E tal gli die di giusto Presul fama, E linguaggio amorevole e tremendo, Che, mentre de' perversi ad ogni trama Fu visto questi oppor senno stupendo, Ad amarlo costretti o a paventarlo, Tutti il messo di Dio scerneano in Carlo.
Chè se rigore e dignitosa vita Il Vescovo integerrimo imponeva, Ei pria mollezza avea da sè sbandila, E co' poveri il pan condivideva, E l'austera sua mente era addolcita Da quel sorriso che gli afflitti eleva; Co' superbi terribile soltanto, D'ogni infelice intenerialo il pianto.
Del paterno suo cor fur monumento Ospizi per famelici ed infermi, E istituti ove sprone ed alimento! Dato venia d'intelligenza a' germi, E il suo forte, moltiplice intervento, Ove occorrean contr'ingiustizia schermi, E l'impulso ch'ei diede a' patrii ingegni Verso i nobili fatti e i pensier degni.
Sua immensa carità, suo santo ardire Suscitogli appo il trono alti nemici; A impudenti rampogne, a spregi, ad ire, Grida si mescolar calunniatrici: Nudrir fu detto scellerate mire, Tutti i dolenti a sè facendo amici; Dei regi udissi schernitor chiamato, Che il lituo avea sopra gli scettri alzato.
Lasciava ei che la collera stridesse. E della Chiesa ognor sostenne il dritto: Finchè vestigi sulla terra impresse Contro a sè vide mosso empio conflitto; Ma se alcun della grazia ai lampi cesse, Con gioia obbliò Carlo ogni delitto; E spesso tal, che più l'aveva offeso, Alfin d'amor per lui sentiasi acceso.
Gl'implacati di Carlo abborritori Quai tra' mortali furo? I farisei! La più abbietta genìa di traditori! Color che in ogni età sono i più rei! Color che della Chiesa ambìan gli onori, Poi core e mente ribellaro a lei! Que' sacerdoti che fautor si fanno Di sfrenatezza eretica e d'inganno!
Chi è quell'infelice maledetto Che porta in fronte i torvi occhi di Giuda, E come Giuda si percuote il petto, Perchè più in rimirarlo altri s'illuda? Schiavo sempre viss'ei d'iniquo affetto? Di virtù l'alma ebb'egli sempre ignuda? O dopo aver d'amor di Dio avvampato, Cadde e non sorse, ed a Satàn s'è dato?
Per quai sequele di misfatti orrende Scritte nel libro degli eterni guai, Dove cancellatrice più non scende Del sangue di Gesù stilla giammai, Un mortifero bronzo oggi egli prende, E d'empia gioia brillano i suoi rai? A' rei socii sorride, esce del chiostro, E l'arme sotto il manto asconde il mostro.
Sì! del truce delitto ei socii avea! Ed appunto i supremi del convento! Eran tre questi indegni, e li stringea D'infernale amicizia giuramento. Lor chiostro che di santi un dì fulgea, Fatto avean di turpezze abitamento. Ministro e amico loro astuto e forte Era colui che or volge opra di morte.
Uscito appena il perfido omicida, Guardansi e impallidiscono i preposti, E un di costoro all'assassino grida: «Riedi! il sappiam che intrepido ognor fosti; Questo novo cimento or mal t'affida; Riedi! sii obbedïente a' cenni imposti!» Ma in covil di superbia e di licenza Vano e risibil nome è obbedïenza.
«Ahimè! questi prorompe, ei non m'ascolta! Che faceste, o compagni, a suscitarlo? Gagliarda fu l'offerta sua, ma stolta, Di tor dal mondo l'esecrato Carlo. Sempre scherniste di dolore avvolta La presaga alma mia, ma il vero io parlo: Tanto di colpa in colpa osi vi feste, Che omai l'abisso a tutti noi schiudeste».
«Codardo! esclama un de' compagni; pensa Che ognor la sorte al nostro messo arrise; La sua destrezza in tutte imprese è immensa, E altre volte le man di sangue ha intrise. Move or egli ad oprar fra turba densa, E fian le menti da terror conquise, Sì che non arduo esser gli dee celarsi, E illeso nelle tenebre ritrarsi».
Il terzo ostenta egual baldanza, e dice: «Purch'egli atterri il Vescovo odïato! S'anco andasse scoverto l'infelice, E in ferri tratto, e a morte strascinato, Chi potrà dimostrar ch'eccitatrice Fosse la nostra voglia all'insensato? Al venerevol Carlo inni alzeremo, E il suo uccisor cogli altri imprecheremo».
Intanto l'omicida affretta il passo, E sui preposti a sogghignar si sforza; Sembragli il loro cor vigliacco e basso, Quand'è più d'uopo irremovibil forza; E dice: «Io ben son certo che a me lasso, Se la prospera stella oggi si smorza, Intenti solo ad evitar lor danno, Costor l'amistà mia rinnegheranno.
Spero che gioïrò di mia vittoria, Ed eroe da lor labbra udrò chiamarmi! Quel Carlo ch'ogni nostra ascosa istoria Investigare osava e minacciarmi, Vedrà come del lituo anzi la boria Per la salute del mio chiostro io m'armi! Ma s'io perir dovessi?… oh allora tutto Meco trarrò l'empio convento in lutto!»
Giunge il ribaldo al vescovil ricinto, Ed ascende al tempietto, ove il Pastore, Da' famigliari sacerdoti cinto, La preghiera seral porgea al Signore. Ivi d'oranti assai stuolo indistinto Pïamente con esso effondea il core: Palpita mal suo grado l'omicida, E ancor «Ti penti!» l'angiol suo gli grida.
Ma soffocò tutti i rimorsi, e rise Dell'angiol suo e di Dio, come di larve. Con ira gli occhi sovra Carlo affise, Ed esecrando zelator gli parve. A liberarne il mondo si decise, E certo il proprio scampo gli trasparve; Allo scoppiar dell'avventata morte Ratto balzar fidava oltre le porte.
Salmi sciogliendo il Presul benedetto, Quel nobil verso di Davìd dicea: «Non si turbi, nè tremi ora il mio petto!» Quand'ecco sfolgorar la canna rea. Al fero tuono, ognun d'ambascia stretto Dal suol sorgendo, «Ov'è il fellon?» chiedea. Da tergo il colpo giunto era su Carlo, E, oh prodigio! non valse ad atterrarlo.
«Non si turbi nè tremi ora il cor mio!» Con ferma voce ripigliò il Prelato, E in ginocchio rimase a lodar Dio, Ed a pregar pel mostro sciagurato. S'udì questi ulular: «Preso son io!» E il giorno maledire in ch'era nato, Ed il padre e la madre, e più il perverso Chiostro, ov'ei s'era in tutti vizi immerso.
Taccia il mio carme le bestemmie atroci Del traditore e l'infernal suo riso, Quando mirò degli abborriti soci, Appo i supplizi, impallidito il viso; E taccia come, anco all'estreme voci, Ei sperar ricusò nel Paradiso: L'alma sua dal carnefice spiccata, Fu dal re dei demon presa e baciata.
Benchè mirasse nel suo clero istesso Carlo intelletti perfidi cotanto, Lo sperante suo cor non fu depresso, Ma allor anzi doppiò di zelo santo; Non ebber più nel santüario accesso Tai che d'avi o d'ingegno avean sol vanto; Purificata ei la lombarda Chiesa Volle ed ottenne, ad alti esempli intesa.
Mentre corregger egli e sublimare I suoi tempi ed i posteri anelava, E in peste orrenda visto fu esemplare Di pietà fra la turba afflitta e ignava, E in nessuna miseria il casolare Del poverello ei mai non obblïava, Pur non tacea di basse alme lo sdegno, Ed era ei spesso ai vilipendii segno.
La luce de' suoi fatti alle sincere Menti dimostra qual mortale ei fosse; E quando ascese alle superne sfere, Confusa alfin calunnia ammutolosse. Della Chiesa ogni santo condottiere Sovra l'orme di Carlo indirizzosse, Ed oggi ancor sulle lombarde rive Delle virtù del Grande il frutto vive.
Io nulla son, ma ad onorarti appresi, E so che sei possente appo il Signore, E con fè al tuo sepolcro mi prostesi, Ed il pensare a te m'innalza il core: Odimi, Carlo, e i miei sospiri accesi T'abbian per me ne' cieli intercessore! Delle giust'opre caldo amor chiegg'io, Chieggio vederti un giorno in seno a Dio!
Tra gl'Itali non v'ha petto gentile, Cui söave non sia la rimembranza Di pastor sì benefico all'ovile, D'uom ch'agli altari diè tanta onoranza. Chi, solcando il Verban con petto umìle, Non mirò intenerito in lontananza L'antica Arona, ove le limpid'acque Lietamente dir sembrano: «Ei qui nacque!»
In anni oggi remoti e sempre cari, Quell'amabil pur fei pellegrinaggio. Gli ultim'astri fulgean tremoli e rari, Perocch'era una prima alba di maggio, E sui monti segnava oggetti vari Impallidito della luna il raggio, Finchè cedendo a luce più gioconda, Più languidetta in cielo era e nell'onda.
Ed allor sulle cime orïentali Rosseggiavan leggère nugolette, E spuntavan del sole i dolci strali, Qua e là indorando le contrarie vette; Ed i fiotti del lago or dianzi eguali S'increspavano al tocco delle aurette, E nel lor fasto signorile e vago L'isole risplendeano in mezzo al lago.
E le spiagge lunghissime e distanti, E le molli e le ripide pendici Mostravan con moltiplici sembianti I lor tugurii poveri e felici, E i campanili de' tempietti santi, Ove già del mattino ai sacri uffici Del vigil bronzo l'eccheggianti note Chiamavan le rideste alme devote.
Oh quali eran miei palpiti veggendo Arona, verso cui più concitati Dal desiderio andavano battendo I remi de' nocchieri affaticati! Colà s'innalza, e sta benedicendo Colossale un'effigie i lidi amati: L'effigie del Pastor, per cui d'Arona Benedetto nel mondo il nome suona.
Su quell'alto colosso eran mie ciglia Lungamente fissate da lontano, E quella fè che a tutto il cor s'appiglia Da me espelleva ogni pensier profano. Parea al mio spirto pien di maraviglia, Che il Santo stesso, alzando ivi la mano, Accennasse di Dio le creature Benedir tutte, e benedir me pure!
Come allora, oggi esclamo con affetto: Proteggi, o Carlo, la Lombarda terra, Ed ogn'Itala sponda, ed ogni petto, Ovunque ei sia, che preci a te disserra! Se germe è in noi di ben, rendil perfetto, All'opre vili insegnaci a far guerra, Veglia su noi qual padre, ed i tuoi figli Sprona e guida a vittoria infra i perigli!
SANTA FORTUNULA.
Bonum certamen certavi. ( Tim. II. 4.7).
Ed a te pur, Fortunula immortale, La fronte mia s'atterra. Deh! chi sarà che ne discopra quale Vivesti in sulla terra?
Nulla di te sappiam, fuorchè il bel nome E la tomba che il porta, E a chiari indizi di martirio, come Per nostra fè sei morta.
L'ossa inadulte e il teschio venerando Sembran dir che donzella Eri trilustre, allor che iniquo brando Svenò tua salma bella.
Forse del padre e della madre amata Che per Gesù moriro, Piangendo sul sepolcro, indi infiammata Sentivi te al martiro;
Nè senza loro, e senza il paradiso Più viver, no, potesti, E magnanima gl'idoli hai deriso, Ed ai leon corresti.
Forse malgrado genitori insani Che con minacce e grida, E con tenere lagrime e con vani Spregi voleanti infida,
Dal lor sen con angoscia ti strappavi Per abbracciar la Croce, E spirando al battesmo li invitavi Con amorosa voce.
E forse allora e padre e genitrice Commossi al detto caro, Sclamavan: «Siam cristiani!» e la cervice Porgeano all'empio acciaro.
E forse della vergine alla morte, Tal, che sue nozze ambìa, Eternamente farsi a lei consorte Volle, e con lei morìa.
Noi pure eternamente in ciel vederti, O vergin, sospiriamo, E il pregarti n'è gioia, ed esser certi Che in te un'amica abbiamo.
Due menti pie tua spoglia hanno raccolta E tratta a queste sponde, Ambe quell'alme a te devote ascolta, E sien per te gioconde.
E chiunque a Fortunula s'inchina Gentile ottenga un core Che lieto porti alla beltà divina Immensurato amore!
E le afflitte, scampate appo quest'ara Dalle mondane frodi, Obbliin lor pene, celebrando a gara Di te, di Dio le lodi.
SANTA FILOMENA.
Laudate Dominum in sanctis ejus. ( Ps. 50. 1).
Vidi sembianti di disdegno accesi, Quando dapprima infra devoti cuori Nome sonar di Filomena intesi:
E chiesta la cagion di tai rancori, Udii fremiti alzar, che così poco L'unico Ver, l'unico Iddio s'onori!
«Perchè, gridavan con alterno foco, Perchè non al Signor dell'Universo, Ma a novelli suoi santi ognor dar loco?
«Culto quest'è risibile e perverso! Secoli di barbarie lo foggiaro! Distruggerlo omai dee secol più terso!»
De' corrucciati al querelarsi amaro Applaudiron taluni, ed applaudendo Senno svolger sublime essi agognaro.
Io non capii qual fosse lo stupendo Argomentar di quegl'ingegni acuti, E meditai, nè tuttodì il comprendo.
Alla luce del Bel mi sembran muti, Se stiman colpa o ignobiltà un amore Portato a petti in santità vissuti.
Nè so perchè sia di barbarie errore L'aver per sacre l'ossa di que' forti, Che a noi lasciàr d'alta virtù splendore;
Nè scorgo quale al nostro secol porti La Chiesa oltraggio, quando ancor favelli D'egregi estinti, e ad imitarli esorti;
E n'esorti a pensar che vivon quelli Non senza possa al Re del Cielo amici E lor pietate ad invocar ne appelli.
A te, Religïon, credo che il dici, Ma se tacessi, anco ragione il grida: Anzi al Giusto si curvin le cervici!
Io così sento, e quindi appien m'affida Ogni defunto sugli altari alzato, Bench'altri al volgo me pareggi, e rida.
E m'affida ogni tumulo illustrato Da indubitati segni, in cui ravviso Ch'ivi hann'ossa di martir riposato.
Chè, se storia pur manca onde provviso Venga al desìo dei posteri, a me basta Nome d'ignoto assunto in paradiso.
Il caro nome tuo solo sovrasta Evidente alla terra, o Filomena, Ma indarno inclito onor ti si contrasta.
Parla il tuo avello, e d'alta grazia è piena L'ampolla di quel sangue che spargesti Per Gesù, in chi sa qual crudele arena!
Sensi di fè, d'amor si son ridesti In color cui tue spoglie e il venerando Tuo dolce impero il Cielo ha manifesti.
Sensi di fè e d'amore, e donde e quando Cessaron d'esser palpiti gentili, Che a bassi affetti inducono a dar bando?
Ah no! Color che ad una Santa umìli Porgono omaggio, memori ch'è santa, Pronti non sono ad opre e pensier vili!
Nel memorar somme virtudi, oh quanta Riconoscenza per quel Dio si sente Che alzò i mortali a dignità cotanta!
Il tuo sepolcro a questi dì presente Ne dice, Filomena, alti dolori Pel vero sostenuti arditamente.
Nè discreder possiam che tu avvalori Di quei la prece che, a te innanzi proni, D'aver simile al tuo chieggon lor cuori.
Nè mi prende stupor se forse a' buoni Sembrò in lor sante visïoni udirti, E imparar di tua morte le cagioni,
E se degnando alle lor brame aprirti, Ottenesti da Dio che in premio a fede S'annoverasser fra i più eccelsi Spirti.
Infelice quel torbo occhio che vede Ne' culti, nostri amanti e generosi Frode o stoltezza, e accorto indi si crede!
Alma beata, impetra che siam osi D'amarti e benedirti infra gli scherni Degl'intelletti freddi e burbanzosi.
Ispirane il desìo de' lochi eterni, E anco i nemici tuoi vinci ed ispira! Chiedi al Signor che tutti noi governi
Luce di carità, non luce d'ira!
LA BENEFICENZA.
Esurivi enim, et dedistis mihi manducare. ( Matth. 26.35).
Mentre tanti di nome e d'òr potenti Volgono a vanitate e nome ed oro, Nè a taluni più bastano i contenti Che sulla terra Iddio concede loro; Mentre a meglio goder cercan furenti La propria gioia nell'altrui disdoro, Simili a falsi Dei d'età lontane Che a' lor piedi volean vittime umane; E mentre mirando Que' ricchi malvagi Il volgo fremente Che invidia lor agi, Esagera, infuria, Invoca dal Ciel Su tutti i felici Sanguigno flagel;
Que' flagelli rattiene il ricco pio Che riparar gli altrui misfatti agogna, E oprando assai per gli uomini e per Dio, Anco d'essere inutil si rampogna: Degl'innocenti aiuta il buon desìo, Gli erranti tragge a salutar vergogna; Onora l'arti ed anima l'artiero, E chiamar vorrìa tutti al bello, al vero.
Il volgo commosso Ripensa, si calma, Capisce che il ricco Può aver nobil alma: Insegna a' suoi figli, Che pace e lavor Del povero sono Salute e decor.
Salve, o di carità sacra fiammella Che accendi il cor del pio dovizïoso! Se a noi mortali fulgi or così bella, Qual fulgi tu dell'anime allo Sposo? A lui che, tutte mentre a sè le appella, Le appella a mutuo affetto generoso! A lui che quando cinse umano velo, Ci palesò che tutto amore è il Cielo!
Amore santifica Tesori e palagi, Amore santifica Tuguri e disagi; Amor sulla terra Può tutto abbellir, L'impero, il servire, La vita, il morir.
Amato molto, amato sia il Signore Ch'è modello de' ricchi impietositi! Amato molto, amato sia il Signore, Modello ai cuori da sventura attriti! Amato molto, amato sia il Signore Che noi vuol tutti alla sua mensa uniti! Amato molto, amato sia il Signore Che per l'anime umane arde d'amore!
Oscuro o potente, Di Dio tu sei figlio, Fratello degli Angioli, Ancor che in esiglio! Gran fallo ci avvolse Nel fango e nel duol: Amiam! ci fia reso Degli Angioli il vol!
UNA DONNA.
Quoniam mulier sancta es et timens Dominum. ( Judith. c.8.29).
Nota è a me sulla terra una mortale Che dal Ciel tutti i doni ebbe più chiari: Poch'alme han forza d'intelletto eguale, E fior dal meditar colgon sì rari: S'alza di fantasìa su fulgid'ale, E a' più posati ragionanti è pari: Pronta discerne il ver, pronta l'addita, E tanta luce è da umiltà addolcita.
Cinta ell'è di ricchezze e di splendore, E le aggradano brio, riso, favella; Tutte potrebbe del suo viver l'ore Incantar con magìa sempre novella: Par che delizïato il suo bel core Ogni affannoso sentimento espella; Ma questa d'eleganti arti regina Nutre d'egregi fatti ansia divina.
E color che l'ammirano raggiante D'ingegno e grazia in suoi ridenti crocchi. Ignoran che fissati ha poco avante Sopra miseria spaventosa gli occhi; Che sua candida man dianzi tremante Alzò il mendico prono a' suoi ginocchi; Che il delicato piè stanco or riposa D'aver recato ad egri aïta ascosa.
De' suoi giorni in sull'alba acerba morte Rapito a lei la dolce madre avea; Ma il padre in sen chiudeva anima forte, Anima avversa ad ogni bassa idea: Ei della figlia le pupille accorte Volgere a desideri alti sapea: Pensante crebbe, e in ogni tempo ambìo Il sorriso del padre e quel di Dio.
Data fu la sua destra a mortal degno Di tesauro sì bello e invidïato. Lontana dal natìo, gallico regno, Mosse al diletto suo compagno a lato: Non mirò i novelli usi con disdegno, Non portò di straniera orgoglio usato: Amò la nova patria, amò l'antica, Visse de' giusti d'ogni lido amica.
Il livor de' volgari alla gentile Perdonò l'esser nata in altre sponde, Tanto le piacque farsi a noi simìle Avvezzando le sue labbra faconde Non solo al bel, sonante italo stile, Ma al dïaletto che di Dora all'onde, E in tutte le dolci aure subalpine, Bench'irto, par che ad amicizia inchine.
Ai genitori dell'amato sposo Abbellì reverente i vecchi giorni, Però che ognor fu suo pensier pietoso Che da nostr'opre gloria al Signor torni, E da noi con amor religïoso La voce del vicin di rose s'orni, E dal Ciel maggiormente al dolce sesso Recar sollievo altrui venga commesso.
Ma a costei non bastava entro sue mura Spander pietà, sorriso, amore e pace: Dello spettacol dell'altrui sventura Nel petto le scendea duol sì verace, Che santa spesso l'assalìa paura D'appagarsi in virtù scarsa e fallace: Pareale ch'a indigenza oro gittando, Poco pur sia di carità al comando.
Allor si fu che a visitare assunse Il tugurio di gioia derelitto; Allor si fu che più desìo la punse Di commoversi al gemer dell'afflitto; Allor, com'angiol, fra i sospiri giunse Di tapine espïanti il lor delitto; Allora, insieme a facil don, largiva Fatiche, ambasce, carità più viva.
Per alcun tempo di celar s'impose Ai leggeri del mondo i passi santi: Non già che paventasse le vezzose Celie dell'alme vili ed inamanti, Ma perchè vereconda ella ognor pose L'orme sue pe' sentieri al ciel guidanti: Poi cotal luce sue bell'opre diero, Che ad alcun più sottrar non si potero.
Fra i tristi cuori ond'era impietosita S'annovravano quei delle infelici, Che, sebben colpa in lor venga punita Da universale scherno e leggi ultrici, A risorgere ancor bramano aïta, E affetti serban di virtute amici: Men proprii falli che gli altrui talvolta Più d'una d'esse han nell'obbrobrio avvolta,
In pria delle dolenti incarcerate Si fe' consiglio, e al lor governo diessi: Da lei furo ivi pene allevïate, E di religïon gaudii concessi: Furon le trepidanti alme incorate, E talor vinti i cuor più duri istessi: Dove eran pria disordine e furore, Addusse pace e penitenza e amore.
E non fugaci benefizi questi Brillàr di caldo ma incostante petto: Riede ogni giorno in quegli alberghi mesti, E vi sparge opportun, söave detto. Acqueta ivi gli spirti ad ira presti, Ispira cortesìa col dolce aspetto: Il sincero ammendarsi o loda o sprona, E i migliorati cuori guiderdona.
Ma pur fuori del carcere infinite Donne e fanciulle in duol veggionsi immerse, Che per amor falliro e fur tradite, Ed ahi! di fama più non vivon terse. Rïalzarsi vorrìan, ma da inaudite Sorti vittima son d'alme perverse: Sottrarsi anelan da periglio ed onta; Ov'è una destra a sostenerle pronta?
Tal destra ecco a lor tendersi! ed è quella D'una mortal, che, siccom'angiol monda, Pur contro al suo decoro non appella L'inchinarsi a infelice vagabonda, L'udirla con dolcezza di sorella, L'aprirle un tetto ove il suo pianto asconda. D'afflitte ed oltraggiate a molta schiera Quel pio rifugio è di virtù carriera.
Non somiglia a prigion, non è prigione; Ad entrarvi le ree non son costrette: Nè quelle, che invocata han tal magione, Ivi da forza fremon quindi strette. Asilo è d'alme per rimorso buone, Che lavorano e gemono solette, E pregano il Signor pel mondo tristo, Che il lor fallir con empio scherno ha visto.
Poscia che fu quel mite albergo eretto Per pensier della donna generosa, Provvide ella che attiguo un altro tetto Sorgesse a secondar vaghezza ascosa D'ammendate, che in velo benedetto L'anima aver chiedeano a Gesù sposa: Un solo tempio i duo ricovri unisce, E il mutuo canto i lutti ivi addolcisce.
Talor io di quel tempio in segregata Parte mi prostro, e mesco i preghi miei A quelli della pia turba scampata Dalla pietà operosa di colei. L'anima mia a quel canto si dilata, E occulto piango su miei giorni rei; E in cotal donna ad altri spirti duce Ravviso anco per me celestial luce.
Nè quest'amica degli afflitti cuori, Per ritrarli all'altezza del Vangelo, Li circonda di spregi e di rigori, Si ch'ognor tremin, quasi in ira al cielo: Del pentimento ai nobili dolori Vuol congiunta speranza e amante zelo; Vuol quella santa ilarità tranquilla, Per cui la Croce maggiormente brilla.
Certo, ell'avea le inique voci udito Contro a religïon vibrate spesso: Che selvaggia sia questa, ed avvilito Cada, se a lei si volge, un cuore oppresso; Mostrar quindi la saggia ha statüito, Che fede e cortesia si danno amplesso, Che penitenza e consolante riso Ponno concordi alzarci al Paradiso.
Ah sì! caratter questo è ben del vero, E sol di Cristo nella legge splende! Che in chiunque a virtù mova sincero, Santificati e duolo e gaudio rende: Retta è la via del penitente austero Che ne' deserti caritade accende: Retto altresì, purchè temprato e pio, È il civile consorzio innanzi a Dio.
Onore ai forti Anacoreti! e onore A tali, che bensì reggon la Croce, Bensì il proprio e l'altrui piangono errore, Nè ignoran di mestizia il carco atroce, Ma rimangon nel mondo, e con amore Spandendo van religïosa voce! Duo son diversi modi, ambo divini, Per cui l'uomo al Signor si ravvicini.
L'ammirata da me soccorritrice, Mentre al Signor ravvicinare anela Adulta moltitudine infelice, Pur di bimbi plebei prende tutela; Perocchè padre indarno e genitrice, Che faticando tutto il dì trafela, Vorrìa de' meschinelli assumer cura, E, negletta l'infanzia, ahi! si snatura.
Memore che sì cari il Dio umanato Dichiarò i pargoletti ond'era cinto, La pia nel proprio ostello ha radunato Stuol di fanciulli in duplice ricinto, Ove, mentre sostegno al corpo è dato, Viene a virtù il crescente animo spinto, Vigilando colà vergini umìli Ad addolcire i palpiti infantili.
Intanto, pur allor che senza asprezza Un cor religïon fervido porta, Consüetudin mai di vil mollezza, Nè per sè, nè per altri unqua sopporta. Poco gl'incanti della vita apprezza Chi di celeste amor l'alma conforta: Giorni in secreto mena penitenti, E se bello è il rischiar, corre ai cimenti.
Questa donna vegg'io quindi nel tristo Tempo in cui Dio l'indico morbo scaglia Trarre agl'infermi ad onta del previsto Pericolo che a molti il cuore ismaglia. Compiange, esorta, ajuta, e volge a Cristo Chi in angoscia di morte si travaglia, Poscia a piangenti vedove e orfanelli D'orrenda povertà tempra i flagelli.
In tai fatiche ed in quell'aure infette Langue della gentil la debol salma, Ma sinch'altri giovar Dio le permette, Ella non osa a sè conceder calma: Il benevol desìo forza le mette, E sua fiducia dal Signore ha palma: Dolora, ma prosegue, e con sant'arte Altrui suoi patimenti asconde in parte.
Tal esser può sì fievol creatura, Qual è donna cresciuta a splendid'agi, Quando al lume del Ciel che l'assecura, Pace e gloria non pone in bei palagi, E rammenta che un Dio prese figura Di poverello, e visse infra disagi, E di lui ne assevràr le labbra sante Che in ogni afflitto Ei stassi a noi davante!
Tal esser può, restando pur nel mondo E in convenevol, fulgida eleganza, Chi nutre del Vangel senno profondo, Chi gode esser di Dio fatto a sembianza, Chi sa che spirto uman d'opre fecondo Non dee in van'ombre usar la sua possanza, Ma in amar Dio! ma in dimostrargli amore, Sempre sacrando all'altrui bene il core!
LE SALE DI RICOVERO.
Qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo, me suscipit. ( Matth. 18.5).
«Son pargoletto e povero e ammalato; Abbi pietà di me, Gesù bambino, Tu che sei Dio, ma in povertà sei nato!
Me qui lascia la mamma ogni mattino Nel solingo tugurio, ed esce mesta Il nostro a procacciar vitto meschino.
Ancella move a quella casa e questa, Ed acqua attinge e lava e assai si stanca, E vive appena, ed indigente resta.
Qui soletto io mi volgo a destra, a manca, Senza dolcezza di parole amate, E fame ho spesse volte, e il pan mi manca.
Le melanconich'ore prolungate M'empion l'alma di pianto e di paure, E mi sfogo in ismanie sconsolate.
Amor la madre assai mi porta, e pure Quando al tugurio torna e pianger m'ode, Spesso le voci sue prorompon dure;
Talor mi batte, e duolo indi mi rode, Sì che allor quasi affetto io più non sento, E in maligni pensieri il cor mi gode.
Povera madre! il viver nello stento Estingue nel suo spirto ogni sorriso, Ed anch'io più cruccioso ognor divento.
Gesù, prendimi teco in Paradiso, O tempra la tristezza che m'irrita, E rasserena di mia madre il viso:
Fa ch'ella trovi ad allevarmi aïta, Fa che deserto io non mi strugga tanto, Fa che un po' d'allegrezza orni mia vita.
Se ad altri bimbi io respirassi accanto, E non sempre gemessi, e qualche mano Söavemente m'asciugasse il pianto,
Crescerei più benevolo e più sano, E più caro alla madre io mi vedrìa: Lassa! altrimenti ella fu madre invano!
Ella al mio fianco in pace invecchierìa, E per essa con gioia adoprerei A laudevol sudor mia vigorìa.
Le poche forze ai patimenti rei Soggiaceranno in breve, e, fuorchè pena, Nulla i miei giorni avran fruttato a lei.
Ovver, se presto a morte non mi mena Tanta miseria, crescerò doglioso, Me coll'afflitta madre amando appena.
Ed ella pur mi dice che odïoso Il povero alla terra e al ciel rimane, Quando alle brame sue non dà riposo,
Quando coll'ira in cor mangia il suo pane.
Ed ecco del bimbo La mamma ritorna: È stanca, ma un raggio Di gioia l'adorna; S'asside a lui presso, Lo stringe al suo sen. «Oh quanto sinora Mi dolse, o figliuolo, Lasciarti ogni giorno Sì tristo, sì solo! T'allegra: celeste Soccorso a noi vien.
«Nell'ore ch'ai figli Non ponno dar cura Le madri, cui preme Fatica e sventura, Da provvide menti Ricovro s'aprì. Alquanto risana, E là tu verrai: Son piene due sale Di pargoli omai: Giocando, imparando, Vi passano il dì.
«Al santo pensiero Che aprì quel ricetto, Ministre si fanno Con tenero affetto Più vergini umìli, Sacrate al Signor: Null'altro che amarti, Il sai, potev'io, Ma quelle söavi Ancelle di Dio Più dolce, più giusto Faranno il tuo cor.
«Io, conscia che al figlio Non manca un'aïta, Trarrò senza pianto Mia povera vita, L'usato lavoro Stimando leggèr. Al tetto materno Verrai verso sera, E sempre alzeremo Concorde preghiera Per l'alme pietose Che asilo ti dier».
Quel fanciulletto già infermiccio e tristo, Indi a non molto, in sì benigna scuola, Rosee le guance e lieti i rai fu visto.
Oh d'amorose labbra la parola Quanto a' cuori avviliti, e più a' bambini, Addolcisce le doglie e li consola!
D'entrambo i sessi i pargoli tapini Ivi sottratti vanno a rio squallore, Ed a costumi stolidi e ferini.
Che invan vorria la madre o il genitore Occhio assiduo tener sui cari pegni, Qua e là faticando per lungh'ore.
Abbandonati a sè, crescere indegni Veggionsi quindi d'assai plebe i figli, Egre le membra ed egri più gl'ingegni.
Per cadute e per cento altri perigli Vedi qual di storpiati e di languenti Esce turba da' poveri covigli!
Quanti avrian le persone alte e ridenti Ch'essi strascinan luride e contorte, Perchè guaste d'infanzia agli elementi!
Oh benedetti voi che sulla sorte Della schiatta plebea v'intenerite, E pensate a scemarle e vizi e morte!
In voi sì belle le grandezze avite Non son, quant'è il magnanimo disìo, Onde a tanti innocenti asilo aprite.
Memori siete di quell'Uomo-Iddio Che, cinto da drappel di bambinelli, Li confortava col suo sguardo pio,
Ed imponea d'assomigliare a quelli.
E voi benedette, Donzelle pietose, Che al Dio de' bambini Facendovi spose, Di madri assumete Le pene e l'amor. Per voi dalla terra Piacer non alligna: Fors'anco taluno Vi guarda e sogghigna, Vi chiama delire Da stolto fervor.
Ma voi non curanti Di plauso o di scherno, I poveri amando Amate l'Eterno, Ai bimbi servendo Servite a Gesù. Il mondo che ignora Del core i misteri, Non sa che più dolce Di tutti i piaceri È l'umil conflitto D'arcana virtù.
La vergine sacra Al Dio degl'infanti Sublima sue pene Con palpiti santi; È abbietta ai mortali, Ma l'anima ha in ciel. Con Dio nella mente Le cure più gravi, Le cure più vili Diventan söavi: Bassezza non tange Un'alma fedel.
La vergine sacra Al Dio de' bambini Vagheggia in Maria Affetti divini, Le impronte cercando Di lei seguitar. Non volgono ai bimbi Tirannico ciglio Color, che mirando Maria col suo Figlio, Li veggon dal cielo Sui bimbi vegliar.
Ah! sì, benedette Voi tutte, o bell'alme, Che ai miseri infanti Porgete le palme, Di padri e di madri Vestendo l'amor! Pensier non vi preme Di plauso o di scherno: I poveri amando Amate l'Eterno: Ai bimbi servendo Servite al Signor.
LA GUIDA.
Cuius anima est secundum animam tuam. ( Eccli. 37.16).
Ognor amai sublimi oggetti, e ognora Un più di tutti:—ah! quei non era Iddio, Non era il sommo Ben ch'or m'innamora!
Ma fra i cuori mortali era il più pio Ch'io conoscessi, era alcun nobil cuore Che a virtute innalzasse il desir mio.
Quai debbo grazie renderti, o Signore, Che fra mie cieche idolatrie pur mai In beltà vili non ponessi amore!
Nell'obblïar tua propria luce errai, Ma negl'idoli miei sempre io bramava L'ineffabile incanto de' tuoi rai.
Se creature troppo io venerava, Erano creature in te invaghite; Era qualch'angiol che ver te volava.
Tai luminose tracce ivan seguite Sol dagli sguardi miei maravigliati, E nel mondo io tenea l'orme irretite;
Ma perocch'io vedea gli angioli amati Anelare a' tuoi lumi e benedirti, Io pure i lumi tuoi sempre ho sperati.
Intero il voler mio non seppi offrirti Per lungo tempo, e nondimen io ardeva D'annoverarmi fra i più giusti spirti.
I conosciuti iniqui io respingeva, E quando d'amicizia ad uom m'unìa, Alto core a mio senno in lui fulgeva.
Or non più, non più voglio idolatrìa, Supremamente amar voglio te solo, Benchè ogni fido tuo caro a me sia.
Ma perdona se pure infra lo stuolo Delle tue creature predilette Una più ch'altre sulla terra io colo.
Ella a fere calunnie non credette, E mi difese da' nemici miei! Ella a ben far tutti i suoi passi mette,
Ella è mia guida, il nostro Sol tu sei!
L'ANTICO MESSALE,
Et benedictae reliquiae tuae! ( Deut. 28.5).
Oh ben a dritto più di gemme e d'oro Ch'abbian sol di ricchezza immenso pregio, Ami, o Donna gentil, questo tesoro, Che vetustà rarissima fa egregio: Muto è al cor de' mortali ogni lavoro Che splenda sol come opulento fregio: Qui de' secoli v'è l'alta parola Che percuote ed in un turba e consola.
Qui v'è un incanto ch'a noi stende innanzi Remotissimi giorni, i giorni alteri, Allorchè di barbarie infra gli avanzi Fiorian città, castella e monasteri, E non sol grandeggiavan ne' romanzi Le sante dame e i santi cavalieri, Ma di religïone e di portenti Tutte fervean le più elevate menti.
V'abbondavan dolori, e v'abbondava D'armati rei la vïolenza atroce; Ma mentr'era sì forte ogn'indol prava, Forte in cor degli eletti era la Croce! Di forza era un'età che suscitava Tra l'iniquo ed il buon guerra feroce: Stupor ci fa tal quadro e ci atterrisce, Ma con somme virtù pur ci rapisce.
Io non posso adorar l'età lontane, Ma nè pertanto adorar so la mia, Chè troppo da vicin veggo profane Opre d'assai maligna e vil genìa, Sì che gemendo alle speranze vane Di chi grida, or regnar filosofia, Io non ami onorar que' vetust'anni Di cui non sento almen tutti gli affanni.
Da qual lato pur penda la bilancia De' meriti maggiori e de' delitti, Gode la fantasìa quando si slancia Fra monumenti o per magìa di scritti In mezzo a quelle stirpi use alla lancia, Alle preghiere, ai mistici conflitti, Ai romeaggi, ai ruvidi cilìci, A tutta l'energìa de' sacrifici.
E ciascun che non basso abbia l'ingegno Ammira que' giovanti cenobiti, Ch'oggi il diffamator con riso indegno Pinge ozïosi, inutili, insaniti: Senza i loro intelletti, avrebbe il regno D'ignoranza coverto i nostri liti: Ingratitudin dementò la terra, Quando in sua civiltà lor mosse guerra.
L'anima langue e impicciolisce quando La ristringiam ne' quattro dì presenti: Nobil uopo ha di spargersi, abbracciando Avi e imperi e costumi e grandi eventi: Uopo ha di meditar, commiserando Coi nostri error quei delle scorse genti: Uopo ha d'uscir di sue natìe catene; Ogni tempo, ogni spazio le appartiene.
Tale, o Donna pensante e generosa, Tal è l'arcano che ti molce il core, Gli occhi ponendo su vetusta cosa, E più se esprime santità ed amore. Dove non sorge l'alma tua pietosa Con questo antico libro del Signore, Che già posò su chi sa quali altari A' giorni de' Crociati e de' Templari?
A que' dì tu vi scorgi il Re Luigi Forse vivente ancora, o appena estinto, La sua bontà, il suo senno, i suoi prodìgi, I prodi cavalieri ond'era cinto, Il suo partir dai campi di Parigi Per la fatale impresa ove fu vinto; Fors'ei nel visitar conventi ed are Queste pagine vide alluminare.
Il rimirar que' resti e quella polve Che a noi tramanda la lontana etate, Ci dice come Dio sempre dissolve Tutte le cose sulla terra nate; Ci sublima lo spirto, ci disvolve Dai vincoli di nostra vanitate: Per la scala de' secoli il pensiero Alza sull'orme dell'eterno Vero.
Di quanti regi e prenci e capitani Festeggiando la nascita o la morte Questo libro servì nei riti arcani Che al debol uomo uniscono il Dio forte! Di quanti celebranti e sguardo e mani Lo toccaro, onde ignota oggi è la sorte! Quante labbra baciàr questo Evangelo Di sacerdoti or glorïosi in cielo!
Forse colui che tante veglie stette Su queste venerate pergamene, Fu Paladin che il proprio sangue dette Col pio Luigi sull'Egizie arene, E al santo Re l'ultimo dì assistette, E fu ludibrio all'ire saracene, Poi ritornato nella dolce Francia Appese entro d'un chiostro e spada e lancia;
E venduti i suoi campi e dispensato Ogni suo avere a' poveri e alla Chiesa, Volle che il viver suo fosse immolato Ad oscura umiltà d'amore accesa; Eccol fattosi monaco e obblïato Dalla turba del mondo ai gaudi intesa! Eccolo salmeggiante assiso in coro, O in cella volto ad un gentil lavoro!
Al lavoro di splendido Messale Che pazïentemente ei sta vergando; E poichè per ferite più non vale Sua nobil destra a servir Dio col brando, Come già il sangue, ora con gioia eguale Gli offre l'ingegno, questo libro ornando, E gode in abbellir d'oro e di fiori Quelle preci che tanto alzano i cuori.
Egli il buon Salvator dipinger gode Per cui sì volentieri ha combattuto, E la Vergin Maria che lo fè' prode E sempre in guerra gli ha prestato aiuto; Del pennello ogni tocco è una sua lode, Un sospiro di grazie, un pio saluto: Circondano Angioletti il pittor santo Dando all'opera sua celeste incanto.
Ma tu meglio di me, Donna, volgendo Quest'antico Messal senti secrete Inaudite armonie che appena intendo, Che mal accenna il verso o mal ripete: Parla tu stessa, dal tuo labbro io pendo; Delle soavi tue parole ho sete. Tutta adorna con esse è l'arpa mia, Tutta luce è di te mia poesia!
FINE DEL PRIMO VOLUME.
INDICE.
La mia Gioventù…………..pag. 9. A Dio……………………… 14. Dio Amore………………….. 18. Maria……………………… 20. L'Uomo…………………….. 22. La Redenzione………………. 26. La Croce…………………… 30. Gli Angeli…………………. 35. Le Chiese………………….. 44. Le Processioni……………… 77. I Parenti…………………. 110. I Santuarii……………….. 131. Le Passioni……………….. 142. I Secoli………………….. 149. Alessandro Volta…………… 168. Ugo Foscolo……………….. 177. Lodovico de Breme………….. 188. La Patria…………………. 195. Saluzzo…………………… 201. Il Poeta………………….. 210. Sospiro…………………… 213. La Mente………………….. 215. Mestizia………………….. 218. Teresa Confalonieri………… 221. L'Anima d'una figlia……….. 224. L'Anima di Clementina………. 230. Verità e Sofismo…………… 233. Il Colera in Piemonte………. 239. Cessato il Colera………….. 243. Il Voto a Maria……………. 248. La Madre degli afflitti…….. 252. Dio e Maria……………….. 256. Un Filosofo……………….. 258. San Carlo…………………. 266. Santa Fortunula……………. 281. Santa Filomena…………….. 284. La Beneficenza…………….. 289. Una Donna…………………. 293. Le Sale di ricovero………… 304. La Guida………………….. 313.
Con permissione.