AI LETTORI
Erano da me stati immaginati alcuni poemetti narrativi, a cui dava nome di Cantiche, ponendoli, per finzione poetica, in bocca d'antico Trovadore Saluzzese; finzione che poscia ho rigettata, non avendo più in animo di tessere, siccome io divisava, un romanzo, il quale a tali Cantiche dovesse collegarsi.
Dato alla luce, anni sono, un saggio di esse, mi sembrò venisse gradito dal Pubblico Italiano, e perciò m'induco ora a consegnarne alle stampe altre sette.
Sebbene io senta essere scarse le mie forze nel mettere in esecuzione simili quadretti epici, mi pare non di meno d'accennare con essi una via lodevole a quegl'ingegni che hanno disposizione al genere narrativo, e alla pittura de' caratteri e delle passioni. Non molte storie offrono tema di grande poema epico, ma fra loro havvene assai, le quali possono porgere degno soggetto di brevi racconti eroici o pietosi, dandoci a rappresentare fatti avvenuti, od anche ad inventare dignitose favole, relative a questo o a quel paese, a questo od a quel secolo. Il raccontare azioni magnanime, ed errori e colpe, è uno de' modi con che la poesia può confortare lo spirito umano all'amore delle domestiche e civili perfezioni.
Chi avrà più vigore di me, potrà desumere molte morali Cantiche, più splendide delle mie, dagli annali delle varie parti d'Italia, niuna nazione essendovi che abbia avuto più luttuose e più felici vicende, più diritti alla stima e più torti, più uomini insigni d'ogni qualità. Ho fatto la mia prova con poemetti piuttosto semplici di tessitura, e non adorni di grande splendore pel soggetto. Se ottengono qualche suffragio, resterà vie meglio dimostrato quale buon successo potrebbe conseguirsi, traendo poetiche narrazioni di consimile foggia dai punti veramente luminosi delle storie nostre.
Le Cantiche da me eseguite sinora, vennero tutte poste nel medio evo, non già che io non discerna essere stati i pregi di quell'età contaminati da molta barbarie, ma bensì perchè tai secoli sono, per chi li vede in lontananza, un'età acconcia alla poesia, stante la forte lotta del bene e del male che allora sorse, e lungamente agitassi per ogni dove. Inoltre quei tempi non meritano vilipendio, e ciò ben dimostrano e quegli uomini che vi operarono alte cose, e quelli che le tentarono, e le potenti città che vi crebbero, e le istituzioni con che s'andò scemando l'ignoranza e la sventura, per impulso principalmente dei Sommi Pontefici e del Clero.
L'età presente offrirebbe altresì, a parer mio, un fondo eccellente per racconti poetici, nobilitati da scopo morale. Le gagliarde e terribili vicende che abbiamo vedute nel breve spazio di cinquant'anni, tante deluse promesse, tanti errori, tante guerre giuste ed ingiuste, sublimi e pazze, tanto cozzamento di popoli, d'opinioni, di sistemi, tutto ciò è grande per la poesia; tutto ciò abbonda di dolori umani, e quindi anche di lezioni. Ma possa l'impresa di dipingere poeticamente sì i nostri tempi, sì altre parti della storia patria, venire assunta da scrittori di nobile tempra, e non maligni nè cinici; da scrittori che pensino con forza, ma con forza religiosa, ed amino i progressi veri della civiltà, cioè i progressi delle virtù pubbliche e private. La poesia e la letteratura in generale non valgono niente, quando non tendono a destare sentimenti alti e benefici, e ad allontanare i concittadini dalle turpitudini dell'incredulità e dell'egoismo.
Se pubblicherò ancora altri versi, procaccerò di presentare qualche saggio di Cantiche relative ai secoli XVIII e XIX. Molti nomi ragguardevoli vi si possono mescere, e segnatamente nomi d'Italiani, che hanno con meriti di varia specie onorato la nativa terra e gli anni in cui sono vissuti, sfavillando quali di pregio purissimo, quali di pregio non incontaminato da deplorabili errori.
RAFAELLA.
Cantica.
La Cantica di Rafaella doveva essere il principio d'un'azione più vasta che non è quella presentemente qui disegnata. Fu il primo saggio ch'io abbia eseguito di tal genere di componimenti, or sono molti anni; ma siffatto lavoro essendo andato perduto con altri scritti dalla mia gioventù, ho pigliato più tardi a ricomporlo con affezione, ma non più come episodio di poema esteso. Quel poema, nella guisa ideata dapprima, aveva per oggetto di far sentire quanta debba e possa essere sugli uomini l'efficacia delle virtù della donna. Io congegnava a tal uopo una serie di fatti, collocandoli in Italia a' tempi dell'Imperadore Ottone II, e divisando con simili diversi quadri di mostrare altresì qual fosse l'Italia d'allora sì in bene sì in male, e quanti bei temi a poesia possa offerire la vita del medio evo. Foscolo bramava che ci dividessimo l'assunto di dipingere que' secoli, egli con una serie di tragedie della qualità della sua Ricciarda, ed io con poesie narrative. Sebbene fossa fautore caldissimo degli studii classici, amava egli pure i soggetti de' mezzi tempi, soltanto volendo che si trattassero con gusto severo, e non con quelle soverchie licenze d'invenzione e di stile, che da taluni della scuola romantica s'andavano introducendo.
RAFAELLA.
Responsio mollis frangit iram, sermo durus suscitat furorem. (Prov. 15. 1)
O bell'arte de' carmi! Onde l'amore, Il dolcissimo amor, che sin dagli anni D'adolescenza io ti portava, e afflitto Da lunghi disinganni anco ti porto? Non per la melodìa, misterïosa Sol de' söavi accenti, e non per l'aura. Degli applausi sonanti entro le sale De' colti ingegni, e non per la più cara. Delle lodi,—la lagrima e il sorriso Delle donne gentili. Innamorato, O bell'arte de' carmi, hai la mia mente Colle nobili istorie. Il tuo incantesmo È per me la parola alta e pittrice De' secreti dell'anima, ed un misto Di semplice e di grande e di pietoso, Che nessun'altra bella arte con tanta Efficacia produce. A te ne' voli, Cui fantasìa ti trae, tutte concede Sue grazie il vero; e tu, se Poesia Inclita sei, quella ond'amante io vivo, Tutte del ver serbi le grazie, e ornarle Sai di delicatissimo splendore Che non punto le offende e non le muta, E pur le fa per molti occhi più dive, Più affascinanti l'intelletto. Incede Senza carmi e con leggi altre men gravi Più scioltamente un narrator, siccome Senza cinto la vergine; ma il cinto Converte la vaghezza in eleganza. Suoni sull'arpa mia, suoni la lode Delle forti sull'uom dolci potenze, Onde il femmineo cor va glorïoso; E mia cantica dica oggi le pompe Del Parlamento di Verona, e quale D'un magnanimo vate era il periglio, E più il periglio d'un illustre oppresso Se vergin trovadrice alla crucciata Alma d'un generoso imperadore Pacificanti melodìe opportune Dal mite e saggio cor non effondea. Quando Italia ordinar, lacera in mille Avversanti poteri, ebbe promesso. Il rege Ottone, e di Verona al circo Chiamò l'alta adunanza, ove concorse; Ogni baron d'elmo o di mitra ornato, Ch'oltre o di qua dell'alpi avesse nome, Immensa moltitudin coronava Sull'anfiteatrale ampia scalea La vasta piazza, in mezzo a cui d'Augusto La maestà fulger vedeasi, e quella De' reggenti minori. A gara e dritti S'agitavano e accuse. Ora fremente Rattenendo la giusta ira nel petto, Or con dolce sorriso, il re supremo Ascoltava e tacea dissimulando, Però che pria di pronunciar sue leggi, Gli altri indagava e maturava il senno. Fra le orrende in que' dì scagliate accuse Contro a veri o supposti empi, colpita D'Insubre cavalier venne la fama, La fama d'Ugonel. Gli s'apponea Da un ribaldo, il qual retti avea vissuti, A giudizio del popolo, molt'anni, Atroce fatto di perfidia e sangue: Una lunga covata inimicizia Verso il prode Emerigo, e astute fila Per ingannarlo sotto il sacro ammanto Delle gioie amichevoli; ed in fine La morte stessa d'Emerigo, oprata, Per artifizi d'Ugonel, con feri Di streghe incantamenti o con veleno.
Carissimo al regnante era Emerigo Per assai merti in guerra e pace, e quando Avvenne del baron la crudel morte, Fu visto nella reggia il coronato Balzar dal soglio, e impallidire, e gli occhi Empirglisi di lagrime, e le grandi Rammemorar virtù del cavaliero, Giurando alta vendetta. Ora Ugonello Vincolato ecco giace entro i profondi Umidi cavi di vetusta torre; E provata apparendo omai la nera Trama ed i sortilegi e l'omicidio, Gode l'accusator, gode una turba D'invidïosi or satisfatta, e ognuno Di que' nemici aspetta la imminente Del prigionier condanna; e non pertanto V'ha moltitudin pur d'illustri e d'imi, Che reo stimar non san quel, già fra' sommi Seguaci di virtude annoverato. Le cure mille del Tedesco Impero E del regale Italo serto, e il vivo Desìo di non fallir, tengon sospesa L'alma d'Otton per varii giorni. Intanto Veniva egli nel circo alle adunanze, E più del consüeto era cruccioso, E de' suoi fidi gl'intelletti ognora Feansi industri con feste a serenarlo. Misti alla densa spettatrice folla Palpitavan due petti, usi coll'arpa A ridir cose non del volgo: a loro D'ogni grande spettacolo la vista Era di grandi sensi ispiratrice. Uno è il vecchio Romeo, guerrier de' monti Onde scende Eridan; l'altro Aldigero, Suo figliuolo e discepolo: Aldigero Non noto sol per gl'inni suoi gagliardi, Ma formidabil nelle patrie pugne, E cor, cui sublimato ha degno amore Per la vergin de' cantici lombardi, Rafaella, a que' dì gloria d'Olona. Fascino avea sull'anima d'entrambi Que' bellicosi spiriti la luce De' poetici studi. Il vïandante Le valli attraversando in notti estive, Vïolarsi i dolcissimi silenzi Da dilette armonie sui colli udiva; Ed erano i due vati, ardenti spesso Di quell'estro recondito e divino, Che più tra il riso degli ameni campi Che nel fragor delle città sfavilla. Ma l'estro sempre non traean da' belli, Maravigliosi di natura aspetti. Or contemplavan, bianchi di spavento, Le tempeste che visitan la terra Come i ladroni, e menan beffe al pianto De' poveri, cui tutto han divorato; Or lunge ramingavano, e sui laghi; E sui precipitevoli torrenti E sulle oceanine onde le spume Ivan solcando ne' perigli, all'urto Più feroce de' venti, allor che il legno E s'innalza e sprofondasi impazzato, E qual degl'imbarcati urla, qual prega Con pentimento e con secrete angosce, Quale il nocchiero interroga, e il nocchiero Non risponde, ma sibila convulso. Oltre a tai casi di terrore, a cui Aldigero e Romeo s'eran per lungo Vario peregrinar dimesticati, Da' lor nobili cuori assaporata Era la voluttà delle battaglie: Nelle imprese santissime, e il terrore Conoscean delle stragi, e l'alta febbre Della sconfitta, e del trionfo i gaudii. E sovente il canuto ad Aldigero Avea parlato questi detti: —A' vati Uopo è molto veder, che terra e cielo Offran lor di magnifico e tremendo, E ciò che s'è veduto indi in solinghe Ore volger nell'alma, conversando Colla propria mestizia, e colle sacre Memorie degli estinti, e col Signore Eccoli ambi in Verona. Ivi li trasse La fama dell'eccelso intendimento, Che tanti spirti còngrega da mille Contrade lontanissime, e la fama Delle regali, portentose pompe. Spalanca i bei cilestri occhi Aldigero Nel vasto anfiteatro, inclito avanzo Degli antichi Romani. Oh quanta folla Sugli estesi gradini è brulicante! Quanto splender nel sottoposto foro, Intorno al soglio di colui che Italia Regge e Lamagna, e in Occidente è primo! —Oh padre! ei dice; qual soggetto a carme D'italo trovadore, e come il labbro Di Rafaella, se in Verona or fosse, L' alzerebbe sublime! Un gran monarca Che di due nazïoni i sommi aduna Per drizzar tutti i torti! E quel monarca Giudice è tal, che può cotante sciorre Inveterate liti, e le può sciorre O com'angiol di Dio, disseminando Sapïenza ed anelito di pace, O com'angiol di Sàtana, con ratto Piglio i buoni strozzando od illudendo! —Figlio, taci per or; bevi a larg'onda I robusti concetti, e le speranze, E il paventar magnanimo. Indi cresce Dell'ingegno l'acume, e in avvenire, A fulminar le laide opre de' vili, E a cingere di luce i generosi, Ti detterà più invigoriti i canti. Terminò dell'augusto parlamento L'affaccendato primo giorno, e allora Fino al seguente dì venner le regie Cure sospese, ed il pensoso Sire Collo scettro i baroni accomiatava. Gli applausi de' baroni Imperadore L'acclamavan del mondo, e le caterve Piene di maraviglia e di letizia Ripetean l'alto grido. Asceso Ottone Sul candido destrier, per la più larga Trapassa delle vie (dall'eccheggiante Arena al suo palagio) ampia corsìa Tutta sparsa di fiori e di tappeti E d'ardenti profumi, entro le mura Della città scorrendo. A tanti viva Il festoso clangor si maritava Di cento e cento trombe; ed a' guerrieri Ed a' cavalli il cor battea sì lieto, Qual batter suol della vittoria al suono. Quel moversi de' popoli irruente Verso le regie case, un mar parea, Che traripando inondi la campagna, E le universe voci, ancor ch'allegre, Rombavan sì moltiplici e sì ferme, Che la tremenda ricordavan foga Di città che o si scagli alla rivolta, O per subiti incendi o per tremoto Impetüosa dagli alberghi spanda Uomini e donne, e per le vie cozzante Strilli fuggendo la insensata turba. Si discernea ch'ell'era gioia, e pure Era una gioia che mettea spavento. A quel mar traripato argine intorno Incrollabil si feano estesi armenti D'italici corsieri e di tedeschi, Affrenati da' prodi, irti di lance, E le precipitose onde giganti S'agitavan represse gorgogliando. In tali urti di gente il buon Romeo Da una parte fu spinto, e da altra parte Spinto venne il suo figlio, e vanamente Qua e là si cercan lungo tempo un l'altro, E a chiamarsi a vicenda alzan la voce. Il sole iva all'occaso, e detto avresti Ch'ei discendesse in mezzo al gregge umano, Tutto affollato sulla immensa terra. Quella vista, e la splendida vaghezza De' nugoletti occidentali, e il molle Nell'aere della sera innominato Religïoso incantamento, e in blandi Fremiti omai converso il fracassìo, Ed a que' blandi fremiti commista La grata dissonanza or de' nitriti Che le briglie scotendo alza, presago Della vicina stalla, il corridore; Or di persone salutanti, o mosse A subitanee risa; or d'allungato Grido di chi da lunge appellar sembra Con dolce affetto un qualche suo smarrito, De' trovadori commovea lo spirto. Alle söavi rimembranze è schiuso, Più in quella vespertina ora che in altre Dell'intero suo giorno, il cor dell'uomo, Perocchè il dileguarsi della lampa Che a tutti è lieta, inchina ogni pensante Ad affetti patetici, e al ricordo Del dileguarsi della vita. Allora Diciam la requie a' nostri pii, che insieme Un dì con noi frangeano il pane, e al sacro Ospital nappo s'estinguean la sete, E che falce di morte indi ha mietuto; E se remota è la natìa convalle, L'invochiam sospirando, e riportiamo Alle cene domestiche e alla pace Del proprio letto il desïoso sguardo. E le vergini piangono a quell'ora Più dolcemente o la perduta madre, O l'amica, od il prode, a cui risposto Avea già il cor, se non le labbra: «Io t'amo!» Ed a quell'ora tutto ciò nell'alma Sente un alto poeta, e più che mai Con mistica armonia s'ordinan belle D'egregi fatti istorie entro sua mente. Tal ben era Aldigero, e in sè volgea Fantasie nobilissime, e lui pure Premeva uopo di carmi. E nondimeno Sue fantasie turbava una tristezza, La tristezza gentil de' generosi, Nel dire entro il cor suo, che, mentre tanta Qui la festa fervea, mentre brïaca Di piaceri e spettacoli e conviti Era pur la genìa, carco di ferri, In cupe volte di prigion, nel lezzo E nel dolore un Ugonel giacesse Senza conforto di parola amata, Nè di soave illusïon, presago Di quell'orrendo palco e di que' neri Veli, e del manigoldo, e della scure! E quell'oppresso era Ugonel! Colui, Che il senno de' miglior dicea innocente! Di loco in loco errò Aldiger lung'ora, Indi all'ansante petto altra potenza Tormentosa s'aggiunse. Udì levarsi Dalle regie pareti una celeste Musica d'inni e corde, e a quelle sedi Egli tragge, vi giugne, e appena dice: «Son trovador», si schiudono le cinte Dell'amplissima sala, ove al fulgore Di faci innumerevoli e di gemme, Alla guisa d'un Dio, da inebbrïante Pompa sedea bëato il re de' regi. Cinquanta arpe sonavano, ed eletti Trovadori ed elette trovadrici, Bellissime di forma e verecondia, Coralmente cantavano salute. Al formidato e caro sir. Fra quelle Vergini illustri, chi s'affaccia al guardo Maravigliato d'Aldigero? È dessa! L'inimitabil Rafaella! Alcuna Ei dianzi speme non nutrìa che addotta Ivi da' consanguinei ella venisse, Inenarrabil giubilo s'indonna Dell'amante garzon; ma il foco ei cela, E mira, e pènsa, e ascolta, e più di prima Vago di carmi ha il fervido intelletto. Qual di lui fassi l'esultanza, quando Onorevol romor da tutte parti S'alza di gente che il ravvisa e dice: —Non è quegli Aldiger? Certo, è Aldigero! Il famoso Aldiger!—Lo stesso Ottone Ode il pronto susurro, e poichè tanta Dell'estro d'Aldigero è qui la fama, Vuole che un'arpa a lui si porga e canti. Penetrato era intanto ivi Romeo, E testimon d'onor sì grande al figlio, Di tenerezza lagrimò: tremava Nondimeno il canuto, a cui più noto Era che al figlio suo, quanta abbisogni Innanzi ai re prudenza; egli tremava, Conscio dell'arditissimo desìo Di verità che in Aldiger fervea. Ed infatti Aldiger, poste le dita Sull'auree corde, e dolcemente svolta Ossequïosa melodìa, la sacra Maestà benedisse, indi i sublimi Doveri commendando de' regnanti, Osò mischiar con reverenti encomii Sentenze tai, ch'eran flagello al core Di taluni fra i grandi, e l'infiammato Inno rivolse a pingere l'uom giusto, Che i maligni allontanano dal trono Con atroci calunnie. E la pittura Dell'improvvido vate apertamente D'Ugonel presentava e le sembianze, E le virtù, ed il carcere. In suo cieco Zelo pel vero il trovador pregava D'Augusto la giustizia a diffidenza Contro orribili accuse, e predicea Indi a lui gloria, ed agl'iniqui infamia.
Otton s'alzò sdegnato, e mise un cenno, E l'inno s'interruppe, e dalle mani D'uno scudier tolta al cantor fu l'arpa; E la popolosissima assemblea Alzò lungo susurro, in cui sommesso Plauso verso Aldiger mostravan molti, Ma plauso da rispetto e da paura Alternamente soffocato. I cuori Più ad Ugonello e ad Aldiger propensi Nuocer temeano maggiormente ad ambi, Se quel plauso sciogliean. Qui l'assennato Imperador volle calmare il moto Di quella moltitudine di menti, Mostrando alma pacifica, e di novo Sovra il trono s'assise, e chiese il canto Delle arpatrici. Ognuno imitò il sire, Dissimulando la imprudente scossa Data ai pensieri dal gagliardo vate, E dolcissima scese sugli spirti Delle virginee voci insiem sonanti La musica celeste. Ognun per altro, Benchè temprato a palpiti più miti, Volgendo la pupilla in sul monarca, Contristar si sentìa; chè nell'augusta Faccia, atteggiata indarno alla quïete, Balenava recondito corruccio, E l'occhio suo fulmineo esser parea D'imminente rigor nuncio tremendo. I più avveduti spettatori scritta La morte vi scorgean del pro' Ugonello. Ad Aldiger s'approssimò Romeo, E—Che festi? gli disse sotto voce; Che fia di te? Finta indulgenza è questa, Che te impunito breve tempo lascia: Libero uscirai tu di questa cinta? E se pur libero esci, ove allo sdegno Ti sottrarrai del rege? Oh potess'io Trarti di qui! Pietosa a lor d'intorno Volea la folla schiudersi allo scampo Del perigliante vate.—Uso alla fuga Non son, disse Aldiger; se travïommi Nell'impeto dell'estro il buon desìo, Tal non è colpa che celarmi io debba, E molta ho fè nel retto cor del sire. Sebbene irremovibil dal suo loco, Pur mesto era Aldiger, tardi mirando Assai sciagure sovrastanti, e prima L'accelerato d'Ugonel supplizio, E rimordeagli coscïenza.—Io reo, Secretamente a sè dicea, d'audace Orgoglio fui; me ne punisce Iddio! Dopo il virgineo insiem sonante accordo, Palma Ottone degnò batter con palma, E sorridendo già sorgea, bramoso Di portar lunge da cotanti sguardi Alfin l'arcana impazïenza. Il passo Rafaella avanzò, novo tintinno Assumendo sull'arpa, ed il cortese Imperador si rifermò nel seggio, Brevi credendo reverenti augurii Dalla ispirata udir vergine illustre. Rafaella tremanti avea le bianche Mani sovra le corde, e uscìa tremante Dal dolce petto il modulato suono, E le guance arrossìano e di pallore Si ricoprìano, e il grande occhio fulgente Errava intimidito, e s'atterriva Del re incontrando il formidato sguardo. Quel gentil trepidar della fanciulla Di tutte grazie adorna, intenerìa, E maggiormente a lei tutti amicava. Oh! prepotenza de' söavi incanti Che la donna somigliano al bambino, E pur la spargon di virtù nascosa Che ratta vince ogni viril fortezza! Oh! come l'uom, quell'apparente infanzia Mirando in viso della donna, e in tutti I morbidissimi atti di quell'ente, Gli s'avvicina con fiducia, e ardisce Dirsi maggiore,—ed a quell'ente quindi Che sì debol parea, tributi solve Di reverenza, e a sè maggior lo estima! Per quel poter che nelle forme regna E nella voce della donna, e astringe, Le feroci, virili alme ad ossequio, Dato alla donna è svolger ne' suoi detti Mirabili ardimenti; ed ardimenti Non sembran quasi, ma sospiri e preghi. Chi rivelato avea tal maestrìa Alla vergin de' cantici? Addolcisce A sua voglia e fortifica. Ispirava Pietà col suo tremor; poi quella voce Dianzi timida tanto, e quell'aspetto Sembran di cherubin conscio a sè stesso Di grazia e d'autorevole potenza Irresistibil. Ne stupisce Ottone, Ma non puote adirarsene, e diletto Anzi ne prova sommo. E Rafaella Seppe scansar ne' generosi carmi Quel periglioso, indefinibil punto Di baldanza per ottimi consigli, Che irritar puote qual pungente biasmo; E non pertanto ella assai disse a laude Della giustizia ne' regnanti, e disse Necessarii gl'indugi, ove affrettata Da esortatori fremebondi venga Di talun la caduta. Ogni pensiero Della bella arpatrice era incalzante A virtù, ma siccome i detti blandi Di madre, che a virtù sprona e accarezza L'indociletto garzoncello, o come I detti d'una figlia a piè del padre. Quell'umiltà, quella dolcissim'arte, Que' prorotti dal cor supplici versi Vinser l'alma del grande Imperadore, E gl'intenti ei capì di Rafaella. Battè le regie palme, e alla percossa Unissona fur segno, onde gli astanti Baroni il plauso prolungàr sì forte, Che ne tremaro il suolo e le colonne. Otton chiamò la vergine, le cinse L'eburneo collo di splendenti gemme, E dal suoi rïalzandola, degnossi Dirle:—Qual grazia chiederesti?—Ed ella: —Se t'offese Aldiger, deh! gli perdona, E mite sii nelle condanne, o sire! Cessò la festa, e pieno di söave Commozïone era d'Otton lo spirto, Ed all'intime stanze dei riposi Riträendosi, disse al più fidato De' cancellieri suoi:—M'avea lo schietto, Ma severo Aldiger mosso a tal ira, Ch'io divisava d'Ugonel la morte; Pacato or sono, e indugierò. Felice Quel freno ai moti del rigor! felice La sapïente vergine che a brame Di verità togliea l'impeto scabro Delle audaci parole, e ammorbidìa Con abbondante carità i consigli! Il sospendersi i fulmini, die' loco A gravi scoprimenti: entrò discordia Fra gl'inimici d'Ugonel; le accuse Si contraddisser; la menzogna apparve; Del Sassone Emerigo l'omicida Fu manifesto e dato a morte; e colmo Di gloria uscì del carcer suo Ugonello. Fu grato all'Imperante il liberato Ed alla vergin trovadrice; e vide Ch'ella amava Aldigero, e che Aldigero Per l'emula ne'carmi si struggea, E fra i varii parenti accordo trasse, E l'imen si compiè. Sorrise Ottone Ai degni sposi, e a Rafaella disse: —Temprato dal tuo pio genio celeste, Il vigor d'Aldiger più non m'irrìta. Nè da quel dì Romeo gl'impeti incauti Non temè del figliuol: fatto era questi Prode leon che a gentil maga è ligio.
EBELINO
CANTICA.
L'idea di questa cantica non è tutta mia. Il tema vennemi fornito da un romanzo storico tedesco, ch'io lessi già tempo, e di cui ignoro l'autore. Il merito letterario di quel libro mi pareva debole, ma il personaggio d'Ebelino vi spiccava con tratti forti, e mi rimase vivamente impresso nella fantasia, come nobile modello di pazienza ne' dolori. Ivi narravasi d'Ebelino, non so con qual fondamento, ch'ei fosse un povero cavaliero scacciato nell'adolescenza con atroci minaccie di morte da sette disumani fratelli, e divenuto uno de' liberatori della regina Adelaide. Questo giovane prode passato in Germania coll'illustre vedova di Lotario, allorch'ella sposò in seconde nozze Ottone I, dipingevasi dal mio autore quale un nuovo Giuseppe alla corte d'Egitto, potentissimo e sapientissimo; e a fine di meglio somigliare al vicerè di Faraone, Ebelino scopriva anche i suoi fratelli, venuti d'Italia a Bamberga senza che immaginassero chi egli fosse, e perdonava loro. Conservata alcun tempo la sua alta fortuna sotto Ottone II, cadeva poscia vittima d'un traditore collegato a molti invidi rivali; ma il traditore stesso, agitato da visioni spaventevoli, confessava indi a poco l'innocenza dell'immolato Ebelino.
EBELINO.
Si bona suscepimus de manu Dei, mala quare non suscipiamus! Job. 2, 10.
Inno d'amore e di compianto al giusto, Al giusto denigrato! Ebelin, fido Campion del magno Ottone e consigliero, Colui che al generoso Imperadore Verità generose favellava, E i biasimati torti indi con mente Pronta e amorevol correggea e sagace; Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio, Spesso invece del sir ponea la destra Al timon dell'impero, e lo volgea Del sir con tanta gloria e securanza, Che questi, anco in cimento arduo serrando Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea: «Vigila or tu, che il signor tuo riposa;» Quell'Ebelin, che, lagrimato il sacro Cener del magno Otton, d'Otton novello Fu parimente lunghi anni sostegno Di giustizia nel calle, e guida e sprone; Sì che a nessun parea che dilettoso Ne' poveri tuguri e nelle sale Fervesse crocchio, ove lodato il nome Non fosse d'Ebelin,—quell'Ebelino Morì esecrato, ed era giusto! Amore E compianto agli oppressi! Un dì l'Eterno, Come a' giorni di Giobbe, al suo cospetto Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse: —Onde vieni? E il maligno:—Ho circuita Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo. Ed il Signore:—O di calunnie padre, Non vedestù l'amico mio Ebelino, Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo Tanta in prosperi dì serba innocenza? E l'angiol di menzogna ambe le labbra Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso Disse:—Ebelin? Dov'è il suo pregio? Ei t'ama Perchè di beni è colmo. Il braccio or alza, Percuotilo, e vedrai s'ei non t'imprechi. Ed il Signor:—Giorni di prova a' retti Forse non io so stabilir? Va; pongo Entro a tue mani dispietate or quanto Agli occhi della terra Ebelin porta, Fuorchè la vita. L'avversario allora Avventossi precipite dal grembo Della nembosa nube, onde i mortali Atterria lampeggiando; ed in un punto Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante Si soffermò, e da questo lato i campi Della lieta penisola mirando, E dall'altro le selve popolose De' boreali, l'una all'altra palma Battè plaudendo al sovrastante lutto D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria! La più squisita voluttà del male Pensò un momento qual si fosse, e al giusto Fermò ignominia cagionar per mano… Di chi?—D'amico traditore! Il colpo Più doloroso e a dementar più adatto Chi molto amando irreprensibil visse! —Un Giuda voglio! Il dèmone ruggia Giù dall'alpe scagliandosi e correndo Pe' teutonici boschi, e visitando Con infernal, veloce accorgimento Città e castella. Iva ei cercando l'uomo, In cui scernesse il dolce volto, e i dolci Atti, e l'irrequïeto occhio geloso Del venditor di Cristo; e non volgare Mente si fosse, ma gentil, ma calda Di lodevoli brame, ed inscia quasi Di sè si pervertisse, e vaneggiasse D'amor per tutte le virtù, e seguirle Tutte paresse, e infedel fosse a tutte. Tale, od un vero giusto esser dovea Chi affascinasse d'Ebelino il core; E Sàtan nol trovava, e con dispregio Maledicea la lealtà nativa De' figli del Trïon, popol rapace Nelle battaglie, e in sue pareti onesto. Ma quando già il crudel quasi dispera, Ecco s'incontra in uomo onde il sembiante Tosto il colpisce; e fra sè dice:—«È desso!» Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta. Quel benedetto dall'orribil genio Era un prode straniero, e fama tace Di qual progenie, e nome avea Guelardo. Sul suo destrier peregrinava, e ladri Or assaliva, degli oppressi a scampo, Or dispogliava ei stesso i passeggeri, Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio Pur quelli avrìa, se a povertà costretto Non l'avesse un fratel, che del paterno Retaggio spossessollo. A che di bosco In bosco errasse, ei non sapea. Sperava Dal caso alte venture, e perchè tarde Erano al suo desìo, volgea frequente Il pensier di distruggersi; e più volte Dall'altissime balze misurava Coll'occhio i precipizi, e mestamente Rideagli il core, e si sarìa slanciato Nelle cupe voragini, se voce, O aspetto di mortali, o speranze altre Non l'avesser ritratto. —O cavaliere, Salve. —Scòstati, scòstati, o romito; Oro non tengo. —Ed oro a te non chieggo; Ben d'acquistarne santa via t'accenno. Vile è il mestier cui t'adducea sciagura, Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti Occulta sapïenza ha rivelate: Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra: Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai A' clementi occhi del regnante istesso. Così Satan, e sparve. Incerto è quegli Se fu delirio o visïone. Al cielo Volge supplice il viso: in cor gl'irrompe De' suoi misfatti alta vergogna; aspira A cancellarli, e quindi in poi di tutte Virtù di cavaliere andare ornato. In quel fervor del pentimento, incontra Un mendico, e su lui getta il mantello, E sen compiace, e dice:—Uom non m'avanza In carità e giustizia. E Sàtan rise, E non veduto gli baciò la fronte. Alla real Bamberga andò Guelardo, Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino Supplice presentossi, e pïamente Da quella bella e grande alma si vide Ascoltato, compianto, e di non tarda Aïta lieto. Un fascino infernale Sovra la fronte di Guelardo imposto Ha del demone il bacio. Allo straniero Conglutinossi d'Ebelino il core In breve tempo; e nella reggia e in campo Quei Gionata parea, questi Davidde. Mirabile brillava ad ogni ciglio Quella forte amistà: Saran fremeva Ch'ella durasse, e il volgersi degli anni Affrettar non potea. Nè ratto varco Sperabil era tra i pensieri onesti Che Guelardo nodriva e la sua infamia, Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce Nella virtù emularlo, e il desiderio Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo Angiol si confortava misurando L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi Secoli, breve istante eran poch'anni. Ed intanto ci godeva, a quell'imago Che tigre, sebben avida di sangue, Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo Tragge di quella contemplando i moti E l'amabil fidanza, ed assapora Più lentamente la decreta strage. Dopo tanto aspettar, s'appressa il giorno Sospirato dall'invido. Al novello Otton contrarie qua e là in Italia Eran le menti di non pochi, e speme Vivea secreta ch'italo Ebelino Secretamente lor plaudesse. Il core Di molti era per esso, e nelle ardite Congrèghe entro a' castelli, ed appo il volgo Susurravan, più splendido rinomo Non avervi del suo; null'uom più voti A suo pro riunir; doversi acciaro Dittatorio offerirgli, o regio scettro. L'augusto sir dalla germana sede Contezza ebbe di fremiti e lamenti Nell'alme de' Lombardi esasperate, Ed a sedarle con prudenza invìa Ebelino e Guelardo. Alla venuta Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido Che fama addoppia de' lor alti pregi, E più de' pregi di colui, che sembra D'onnipotenza quasi insignorito, Ferve ognor più l'insana speme, e tutta In congressi pacifici prorompe, Ove i duo messi imperïali invano Senno indiceano e obbedïenza. —O prodi! Così Ebelin risponde al temerario De' corrucciosi invito; io condottiero Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto Gli son da conoscente animo e onore, E il portai fra mie braccia. E quando insieme Del moribondo padre suo le coltri Inondavam di pianto, il sacro vecchio Nostre mani congiunse, e disse:—Un figlio, O Ebelino, ti lascio;—ed a te lascio, O figlio, un padre in Ebelino!—Ed era In tai detti spirato. Allora il figlio Gettommi al collo ambe le braccia, e molto Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi, E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti Violati con voi fosse il mio sire, Biasmo sincer da mie labbra paterne Avriane, sì; retti n'avrìa consigli, Ma non odio, non guerra, non perfidia! —Deh! taccïano, Ebelin, privati affetti, Ov'è causa di popoli. Ed ignota Mal tu presumi essere a noi l'ingrata Alma d'Ottone anco ver te, che dritti Tanti acquistasti a guiderdone e lode. Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti Finge, ma stolta è finzione omai Ond'ogni cor magnanimo s'adira. Possente sei, ma più non sei quel desso Che ne' duo regni un dì tutto volvea. Tëofanìa il governa, e da Bisanzio Sul germanico seggio ov'ei l'assunse Recò le greche astuzie, e lo circonda Di greci consiglieri. Essi con lei Van macchinando contro te ogni giorno; Che se finor cadute anco non sono Le podestà che a te largì il monarca, Della tua rinomanza egli è prodigio, E nel tiranno è di pudor reliquia. Bada a' perigli, a tua salvezza bada: D'Otton l'iniquità rotto ha i legami D'ogni giusto con esso. Un de' maggiori Così parlò fra gli adunati audaci. Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa La parola di sdegno e di sospetto Circa l'imperadrice e i cortegiani Ch'ella a sue nozze addotti avea di Grecia. Ma la candida e ferma alma del pio Ebelin s'adirò. L'imperadrice E Otton con nobil gagliardìa difese, E de' Greci sorrise. Ei sì facondo Favellava, e amichevole e verace, Che i più irati l'udìan con reverenza: Con tenerezza quasi, ancor che invitti Nel feroce astio e nell'ardente brama. Di Guelardo lo spirto a quel congresso Funestamente s'esaltò. Il diletto Ebelino ei vedea, nella commossa Fantasia, re, suscitator di gloria Ad un popol redento. Il vedea bello Giganteggiare in immortali istorie, Com'un di que' supremi, onde la terra Lunghi secoli è priva; e sè medesmo Socio vedea di quel supremo, e a lui Successor forse, e… Che non sogna audace Ambizïon, se raggio ha di speranza? Quand'ei fu sol con Ebelin, ridisse Le voci insieme intese, e commentolle Coll'insistenza del favore; e aggiunse Maligno esame de' pensier, degli atti D'Ottone, e della Greca in trono assisa, E degli astuti amici ond'ella è cinta. Quasi certezza accolse i più irritanti Dubbi e i minimi indizi di periglio, E gridò ingratitudine, e diritto Alla rivolta. E a grado a grado questa Ei necessaria osò chiamare, e il pio Ebelin concitarvi. Lo interruppe Finalmente Ebelin; duplice tela Come già svolto aveva agli adunati, Svolse di novo al tentatore amico: Qua la turpezza del tradir, là i vani Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata È nazïon da lunghi odii fraterni. Negli aneliti suoi s'ostinò il core Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia A ridir con sofistica, inesausta Facondia per più dì l'empie sue brame; Sì che non poche volte il generoso Ebelino in resistergli, dal mite Considerare e dai soavi detti Passò a dogliosa maraviglia e sdegno. Turbossene colui, ma il turbamento Ascose e il disamore, e da quel tempo Crescente invidia in sen covò tremenda. Novi succedon fortunati eventi, Ch'ognuno attesta glorïosi al senno Dell'ottimo Ebelin; ma più Guelardo, Come negli anni primi, or della gloria Del suo benefattor non va giocondo. Ei con geloso sospettante ciglio Mira la sua grandezza, e superarla Vorria e non puote; e detestando, sogna Dall'amico esser detestate; e pargli, Laddove pria si belle in Ebelino Virtù vedea, più non veder che scaltra Ipocrisia. De' pervertiti è proprio Non credere a virtù; d'ogni più certo Generoso atto dubitar motivi Turpi, ed asseverarli: in ogni etade Così abborriti fur dal mondo i santi. Da quello stato di rancor, di mente Ognor proclive a gettar fango ascoso Sovra l'opre del giusto, è breve il passo Ad assoluto di giustizia scherno. In Lamagna Guelardo ad altri uffizi Di grande onor da Ottone è richiamato, Mentre Ebelin nell'itale contrade Resta moderator. L'ingrato amico Sospetta ch'Ebelino abbia con arte Tal partenza promosso, a fin di trarsi Uom dal cospetto che in secreto esècri. Del congedo gli amplessi ei rende a quello, Ma senza avvicendar come altre volte Palpiti dolci di desìo e di pena. Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento Del più sincero degli umani, e parte Coi fremiti dell'odio, e maturando Di non avute offese alta vendetta. —Cieco tanto io sarò che vero estimi Suo rifiuto ai ribelli? Or che si vaste Son le congiure? Or che da lunghe e infauste Guerre è stanco l'impero? Or che d'illustre Nome a capitanarla, e di null'altro, La penisola ha d'uopo? Or che oltraggiata Dalla superba, greca, invida nuora È quell'antica d'Ebelin fautrice, La vantata Adelaide, che alle umìli Ombre de' chiostri dalla reggia mosse? Or che Tëofania palesemente Lacci a lui tende e sua rovina agogna? Il menzogner di me diffida: i vili Diffidan sempre! Allontanarmi volle Non senza mira ostil: me di qui toglie Per regnar sol, per non aver chi forse Sua sapïenza e sue prodezze oscuri. All'amico ei rinuncia; ei nelle schiere Del suo tradito Imperador mi brama, Nelle schiere d'Otton, contro a cui l'asta Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui, Che nè lo sdegno mio, nè la sagacia Non teme, nè il valor! Perfido! io mai Stato non fora a tua amicizia ingrato; Alla mia ingrato ardisci farti: trema! Valor non manca al vilipeso e senno Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio Ne fur bastantemente il sire, i grandi, Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso! Così nel suo vaneggiamento infame S'agita l'infelice, e non s'accorge Che il re d'abisso più e più il possede; Così travolve le apparenze ogn'uomo Che a livor s'abbandoni: Ecco Guelardo Giunto ai reali di Bamberga ostelli; Eccolo assaporante i nuovi onori, Ma com'egro che, misto ad ogni cibo, Sente l'amaro della propria bile. Più sovra il labbro di Guelardo il nome, Come già tempo, d'Ebelin non suona, O su quel labbro se talvolta suona, Laude non l'accompagna, e il favellante Impallidisce, e torvamente abbassa La pensosa pupilla irrequïeta, E la rïalza sfavillando; e ognuno Scerne che di compressa ira sfavilla. Del mutamento avvedasi esultando Tëofania, s'avvedono i suoi fidi, E al convito di lei con gran decoro Visto sovente è quel Guelardo assiso, Ch'ella tanto agli scorsi anni abborria. Ordiscono essi alcuna trama insieme Contro al lontano giusto? o la perfidia Tutta covossi di Guelardo in petto? Un dì da quel convito esce il fellone, E quasi esterrefatto si presenta Agli occhi del monarca, e a lui si prostra, Ed esclama:—Ebelino è traditore! Le rivolte fomenta; alla corona D'Italia aspira: sciolta è l'amistade Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta! E false carte adduce in prova, e adduce Di vili già ribelli, or prigionieri, Menzogne tai, che faccia avean di vero. Ed il monarca trabalzò, fu vinto Dalle inique apparenze. Esitò ancora, Dubitar volle novamente; a novo Esame ripiegò la scrupolosa Afflitta anima sua; ma le apparenze Trionfaron più orrende e più secure. Indi egli irato invìa turba di sgherri All'italo paese, onde sia tratto Carico di catene il formidato Duce a Bamberga. L'innocente duce Stanza a que' giorni avea in Milan. Posava Una notte, ed in sogno a lui s'affaccia Lo stuol de' cari, in varia guerra estinti, Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre «Fuggi, gridava, sei tradito!» E gli altri Con affanno e singhiozzi ad una voce Ripetean: «Fuggi, fuggi!» Ei si risveglia, E per quell'alme prega, e s'addormenta Un'altra volta. E in sogno ecco apparirgli Il magno Otton primiero ed Adelaide, Non cinta ancor di monacali bende, Ma il serto imperial sopra la fronte. Meste eran lor sembianze, ed a lui: «Fuggi Fuggi, dicean, del figlio nostro l'ira! Ira per te sarìa mortal!» Si desta Il nobil duce, e per quell'alme prega, E s'addormenta un'altra volta. E vede Il tempo antico e la città solenne Ove sorge il Calvario, e là pur vede Di Getsèmani l'orto, ed appressarsi Una frotta d'armati, e Iscarïote Dare il bacio alla vittima!… Ed oh vista! Iscarïote era Guelardo! Balza Spaventato destandosi Ebelino, E que' tre sogni avvertimento estima Dell'angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove? Ma perchè? Fugge l'innocente mai? Pochi istanti anelò fra que' pensieri Di stupor, di tristezza, e piena d'armi Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino Che dal suo Imperador venìan que' ferri, E il cenno di seguirli: ai manigoldi Cesse con muto fremito la spada, E porse ai ceppi gli onorati pugni. Quasi ladro il trascinano, e Milano E tutta Lombardia mira quel crollo Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri Soffre inauditi; e non sarìagli pena Dagli sgherri soffrirli: itale voci Lo irridon per la via, maledicenti Al passato suo lustro. E quale esclama: —Va, di rivolte eccitator maligno! Va, scellerata causa, onde su noi Cesare versa il suo tremendo sdegno!— Qual:—Va, codardo degli Otton mancipio, Che d'Italia campion far ti negasti! Ben or ti sta de' tuoi servigi il premio!— Qual più schietto prorompe:—Erami noia Udir chiamarti il giusto; alfin delitti Potrem di te sapere ed abborrirti! Quant'è lunga la via sino a' confini Delle italiche valli, Ebelin tacque Degli spregi sofferti. Allor che in cima Dell'alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando Le incatenate braccia,—Oh maledetta Troppo da' vizi tuoi, misera patria, Sclamò, non io ti maledico! Il cielo Figli ti dia che s'amino fra loro, Ed amin te com'io t'amava e t'amo, E più di me felici acquistin gloria Senza espïarla con dolori e insulti! —Maledicila! gridagli all'orecchio Una voce infernal. —Ti benedico L'ultima volta! ripres'egli. E pianse Siccome pio figliuol sulla ignominia D'una madre infelice; e gli sovvenne Quanto già quella madre avea prefulso In virtù fra le genti, e a depravarla Quante cagioni eran concorse! E grande Su lei di Dio misericordia chiese; E dal dolce aer suo, dalle ridenti Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti Ciglia diveller, nè il pensier poteva! Satan che indarno occultamente spinto Avealo ad imprecar la patria terra, Urlò di rabbia le sue preci udendo; E di Lamagna per alture e piani Corse con questo grido: —È alfin caduto L'italo malïardo, il seduttore De' nostri augusti, il protettor di quanti Di Lombardia traeano ad impinguarsi Sul germanico suol, genìa predace Onde la tanta povertà cresciuta In quest'anni da noi! Tutti Ebelino Nostri tesori al lido suo recava, E colà un trono alzar voleasi, allora Che ad atterrar le ribellanti spade Inetto fosse per miseria Ottone? —Ebelin mora! Universal risposta Fu del tedesco volgo. Ed obblïato Da migliaia di cuori in un dì venne Quanto a lodarlo aveali invece astretti La sua mansüetudine, il modesto Non curar le ricchezze, il riversarle Sulle infelici plebi, il non mostrarsi, Benchè pio verso gl'Itali, men pio Ver gli stranieri. Quella dianzi nota Serie di virtù splendide cotanto, Un incantesimo vil parve ad un tratto, Una menzogna. Convenìa disdirla: Riconoscenza è grave pondo ai bassi. Esultan se pretesto a lor si porga Di rigettarla, e attaccaticci morbi Son odio, ingratitudine e calunnia. Conscio de' benefizi innumerati Ch'egli avea sparso, avea creduto ognora L'irreprensibil cavalier che stretti, A lui fosser d'amor cuori infiniti. Le ripetute indegne contumelie Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta Pravità de' mortali meditando, Arrossì d'esser uomo, e innanzi a Dio Umilïossi. E vanamente ancora Stette Satan mirandolo e aspettando Il desìo di vendetta e le bestemmie. Chiama l'Onnipossente al suo cospetto Tutti i ministri spirti, e a Satan dice: —Onde vieni? E il maligno:—Ho circüita Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo. Ed il Signore:—O di calunnie padre, Non vedestù l'amico mio Ebelino, Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo, Tanta nel suo dolor serba innocenza? E l'angiol di menzogna ambe le labbra Si morse, e disse:—Ov'è il suo pregio? Ei t'ama, Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata In breve spera sua innocenza. Il braccio Estendi, e più percuotilo, e vedrai Se non t'impreca. Ed il Signor:—Non forse Giorni di prova assegno a' retti? Vanne: Ebelino è in tua mano; anco sua vita, Anco la fama sua, perchè maggiore Torni suo vanto e tua immortal vergogna. L'avversario precipite avventossi Dal grembo della nube, onde i mortali Atterrìa lampeggiando, ed in un punto Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante Si soffermò, e da questo lato i campi Della lieta penisola mirando, E dall'altro le selve popolose De' boreali, l'una e l'altra palma Battè plaudendo al sovrastante lutto D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria! Di là scagliossi alla città del trono E de' cento felici incliti alberghi, E delle orrende mura ove trascina Sua catena Ebelin. Desta il demonio Ne' giudici, che Ottone a indagin chiama Dell'alta causa, aneliti vigliacchi. Temon, se reo non trovan l'accusato, L'ira d'Otton, l'ira d'Augusta, l'ira Di quel Guelardo che per essi or regna; E dove il trovin reo, speran più pingui Gli onorati salarii, e maggior lustro. Chi primiero è fra' giudici? Oh impudenza Guelardo stesso! Oh come il core all'empio Nondimen trema, udendo che s'appressa L'irreprensibil catenato! E questi Entra con umil, sì, ma non prostrato Animo, e reca sulla smorta fronte Quell'alterezza ch'a innocenza spetta. Cela Guelardo il suo tremore, e prende Così ad interrogar: —Qual è il tuo nome, O sciagurato reo? —Sono Ebelino Da Villanova, amico tuo. —Rigetto L'amistà d'un fello: giudice seggo. Che macchinasti co' Lombardi? In viso L'accusato guardollo, e non rispose. E Guelardo:—A lor trame eri secreto Eccitator; t'offrìan lo scettro, e pronta Stava tua destra ad accettarlo in giorno Ch'ansio esitavi a stabilire, in giorno Che, la mercè di Dio, non è spuntato. V'ha fra i complici tuoi chi tua perfidia Al tribunale attesta. E poichè muto Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno Que' testimoni nella sala addotti. Eran duo di que' truci esclamatori Di libertà, di civiche vendette, Di patrio amor, che ne' consessi audaci Della rivolta più fervean, più scherno Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti, E più capaci d'affrontar qualunque Parean supplizio, anzi che mai parola Di codardia pel proprio scampo sciorre. Questi eroi da macelli, questi atroci Ostentatori d'invicibil rabbia, Come fur tolti a lor gioconde cene, E gravato di ferri ebbero il pugno, E il patibolo vider,—tremebondi Quasi cinèdi, le arroganti grida Volsero in turpi lagrime e in più turpi Esibimenti di riscatto infame, Altre teste al carnefice segnando. Ad Ebelino in riveder coloro Isfuggì un atto di stupor:—Voi dunque? Voi?… Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto Io sempre le feroci alme ho spregiato, E ben diceami il cor quali voi foste! Ed appunto perchè troppe vid'io Alme siffatte là nelle congrèghe Ove il mio plauso si cercava indarno, E pochi vidi eccelsi petti, avversi Ad insolenza e a stragi, io mestamente Presentii di mia patria obbrobri e pianto, S'ella sorda restava a' preghi miei, E alle minacce mie, quando insensata Io vostr'impresa nominava e iniqua. I testimoni balbettaro, e fisi Gli occhi loro in Guelardo, il concertato Calunnïar sostennero. Ebelino Più non degnolli di risposta, e chiese D'esser condotto anzi ad Ottone a cui Parlar volea. Respinge inutilmente Guelardo quest'inchiesta, e così forte La ripete Ebelin, ch'un de' seduti A giudicarlo generoso alzossi, Sclamando:—La tua brama, o il più infelice Fra gli accusati, porteranno al trono Le labbra mie. Null'uom potè di quella Anima schietta rattenere i passi: Move all'Imperador, franco gli parla, E il pio monarca inducesi al colloquio. Mentre dunque l'afflitto incoronato Nelle regali, splendide pareti Aspettava che a lui tratto venisse Il già caro Ebelin, nella memoria Gli ritornavan gli alti e numerosi Servigi di quel prode, e l'amicizia Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto; E commoveasi ripensando quante Volte quell'Ebelin con tenerezza Lui prence fanciulletto infra le braccia Portato avea, quante paterne cure Prese per lui, quanti affrontati in guerra Per sua difesa ardui perigli,—e il core Gli si volgea a clemenza. Ode sonanti Nelle vicine sale i trascinati Ferri del prigioniero, e gli si gela Di pietà il sangue. E quand'entrare il vede Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio, E magnanimo pianto a stento cela. Ebelin pur commosso era, calcando Con vincolato piede oggi i tappeti, Che tante volte avea con dominante Passo calcati, e intorno a sè veggendo Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi S'inchinavan temendo, ovver felici Andavan s'egli a lor stringea la destra, E ch'or s'atteggian contegnosi, e quali A sterile pietà, quali ad insulto. Giunto Ebelino alla presenza augusta, Piegasi reverente, e aspetta il cenno: —Favella, sciagurato: uom con più caldo Fervor non brama tue discolpe. —Sire, La mia innocenza esser dovriati scritta Ne' lunghi intemerati anni ch'io vissi Di tua casa al servizio e dell'onore. In inganno te volto han miei nemici, E me calunnia opprime. —A tue parole Aggiungi prova, e riputato il sommo De' tuoi servigi questo fia da Ottone. —Se a te prova non son gli atti che oprai Alla luce del sol, l'abborrimento Sperimentato mio contra ogni fraude, Contr'ogni ingiusta ambizïon; se nulla A te non dicon queste mie sembianze Imperturbate in così ria sventura, Preclusa è a me di scampo ogni fiducia; Anzi alle leggi mia supposta colpa È attestata abbastanza. Altro non posso Se non gli estremi del mio zelo sforzi In quest'istante consecrarti, o sire, Tai verità parlandoti, che forse Più non udresti, se da me non le odi. —T'ascolto, disse il rege. Ed Ebelino La propria causa obblïar parve, e diessi A svolgere di stato alti consigli, I bisogni quai fossero additando Delle schiere, del popol, dell'altare, De' tribunali, e della reggia stessa: Quali i provvedimenti unici, rotti Ed efficaci ad impedir l'ebbrezza Delle rivolte, a raffermar lo impero: Quali de' prischi imperadori, e quali Del magno Otton le più laudabili opre, E quai le insane; e come arduo ognor sia Seguir le prime e non errare; e come Gli egregi prenci a errar tragge talvolta Adulante caterva. Accennò alcuni Del sir lusingatori, accennò il vile Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo Su lor suoi detti, e non degnò que' nomi D'anime basse proferir neppure. Ma que' rapidi detti eran gagliardi, Siccome piglio di paterno braccio, Che sovra l'orlo d'un dirupo afferra Perigliante figliuolo. Otton si scuote. Da verità sì energiche, da senno Sì giusto e luminoso ed esaltante Non era stato mai colpito. In altri Colloqui a' dì felici il buon ministro Parlava il ver, ma forse in più gradita Guisa, sparmiante del suo re l'orgoglio. Ora è il parlar solenne, il grido urgente D'uom, che vicino a morte anco un tributo Di fedeltà solve al monarca e al dritto, Tutto dicendo che giovar del pari Sembrigli al trono e alle regnate genti. Alla beltà del vero e del coraggio, E di quel dignitoso intenerirsi Che da alterezza vien compresso, e pure Nella voce si sente e ne' benigni Sguardi si vede, unìasi in Ebelino Da natura sortita un'armonìa Di nobili sembianze e di contegno, Talchè valor più prepotente dava A sua favella, ed escludea il supposto D'ogni viltà, d'ogni codarda astuzia, E facea forza a Otton. Perocchè Ottone Stranier non era a simpatia per cuori Di grandissima tempra. E fu vicino A cedere, a gettare ambe le braccia Del prigioniero al collo, al gridar:—Falsa Tengo ogni accusa contro al mio fedele! Ma Sàtan vide quell'istante, e spinse Tëofania d'Augusto in cerca. Bella Era la greca donna e di vivaci Grazie adorna, e scaltrissima e pungente Ne' suoi sarcasmi, ed irridea talvolta La bonaria alemanna indol con motti Quasi di spregio; e di quei motti spesso Arrossia Ottone. E perocch'egli amava, L'affascinante sposa, ambìa piacerle E far pompa d'accorta alma inconcussa, E a tal cagion solea de' generosi Sensi in cor frenar gl'impeti al suo fianco. Salutata dall'armi, il passo inoltra Fra le colonne di que' regii lochi La incoronata, e stabilisce e freme In vedere Ebelino; e sovra Ottone Lancia quel guardo che dir sembra:—Stolto! Sedur ti lasci? Tanto, oimè, bastava A confondere il sire! Eccol a un tratto Con più severa maestà atteggiarsi Verso il captivo, e dir:—Riedi: a me il vero Tutto paleserassi; e tu, innocente, Gloria n'avrai; prevaricato, morte. Torna Ebelino al carcere, e già scerne Che inevitata è per lui morte. Oh come Lenti di nuovo i dì, lente le notti Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi D'una all'altr'ora, e la perpetua veglia, Ed il perpetuo tenebrore—e i cibi Immondi e scarsi—e l'aspreggiante voce Di questo o quello sgherro—e il frequent'urlo D'altri prigioni disperati, in cupe Vicine volte seppelliti—e il suono De' ceppi loro, e quel de' propri—e il canto Osceno del ladron che, bestemmiando, La forca aspetta—e i gemiti dell'egro Forse non reo che sulla paglia spira— E il sollecito passo delle guardie Che dicono: «È spirato!»—e questo detto Che l'echeggiante corridoio in guisa Ripete orrenda—e il pianto d'un amico Che, udendo il nome dell'estinto, grida Dal fondo d'un covile: «Ahi! gli sorvivo!»— E per dispregio di quel pianto il ghigno Od il sibilo infame di coloro Che trascinano il morto—e, con siffatta Serie d'inenarrabili vicende Di castel, che i perenni affigurava Dell'abisso tormenti, il ricordarsi De' dì sereni che svanìr, de' plausi, Delle liete speranze, e, più di tutto, De' dolci affetti—ah! quella è tale immensa Congerie di dolori e di spaventi, Che dissennar minaccia ogni più forte E sdegnoso intelletto! E se si ponno Da intelletto simil serbar talvolta Contro all'empia fortuna altero scherno, O pensieri di pace e di perdono, E di fede nel cielo, ahi! pur quell'ora Amarissima vien che ineluttata Mestizia il cor miseramente serra, E non v'è chi consoli! Ed altre pari A quell'ora succedono, e d'angoscia In angoscia si cade! Ed un'ardente Smania investe il cervello, ed impazzato Esser si teme o brama! E il generoso Petto chiuder non puossi all'irrüente Piena dell'odio che in lui versan mille Della viltà degli uomini memorie! E feroce si resta, e di sè stesso S'inorridisce e sclamasi:—«Son io, Benchè non conscio di mie colpe, un empio?» E chiedesi all'Eterno, e lungamente Chiedesi invan, d'amore una scintilla! Quelle angosce conobbe anco Ebelino, Ed allora invisibile al suo fianco Sàtan sedeva, e gli pingea coll'arte, Ch'è propria a lui, tutto che meglio ad ira E a disperazïon trarlo potesse. Ed Ebelin pur resistea, e pensava, In mezzo alle sue smanie, all'Uomo-Iddio, Che sublimò i dolori, e fu ludibrio D'ingrati e di crudeli: e quel pensiero, Che insensatezza all'occhio è de' felici, Insensatezza non pareagli, ed alta Storia pareagli che gli oppressi in tutti Lor martirii nobilita; e volgendo Quella storia ammiranda, a poco a poco Ammansava gli sdegni e perdonava. Ma la parte del cor, che più dolente Sanguinava, era quella ove scolpite Stavan due care fronti. Una è la fronte Della madre decrepita che in pace, All'ombra degli altar, da parecchi anni Viveasi in Quedlimburgo, e l'altra è quella Della madre d'Augusto. Ambe le antiche Serrava il chiostro istesso, e raramente Alla reggia venìan; che ad Adelaide Odïosa la reggia erasi fatta Per l'imperar della superba nuora. —Qual sarà stato di mia madre, e quale Dell'onoranda Imperadrice il core, Allorchè udir la mia sventura? Iniquo Esse, no, non mi tengono! Esse almeno, Mentre a tutti i mortali il nome mio In abbominio fia; caro l'avranno! Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto La madre alfine ha di vederlo, e scende Alla prigion del figlio. Oh inenarrati Di quel colloquio i sacri detti e i sacri Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre Che riscattar col sangue suo non puote Di sue viscere il frutto! ed il più amante Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto Deplorar dee la lunga vita! Il giorno Che dalla inconsolabil genitrice Fu Ebelin visitato, oh da qual notte Seguito fu! L'espandersi de' cuori Nella sventura, è de' sollievi il sommo; Ma dopo tal sollievo, allor che mesto Il prigionier dalle pietose braccia Di persona carissima è staccato, E solingo riman, quanto più dura Gli è solitudin! Quanto più affannoso Il desiderio de' bei tempi in cui Fra gli amati vivea! Quanto più viva, Più lacerante la pietà ch'ei sente Di sè stesso e d'altrui! Me a tal dolore Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti, O decennio del carcere, infiniti Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse Quand'io, abbracciato il genitor, partirsi Da me il vedea; quand'io, calde le labbra, Del bacio suo, dicea:—Questo è l'estremo! Non un decennio, ma più lune ancora Durar gli allarmi d'Ebelino. Ei forse Nel giudizio di Dio gli accusatori Sperava iniqui col possente acciaro Düellando atterrar. Chi d'Ebelino Avea la forza e la destrezza? E quanta Forza o destrezza in düellar non dona Senso d'intemerata anima offesa! Ma tai giudizi Iddio forse abborrendo, Non volle che sancito il reo costume Per Ebelin venisse; o del demonio Opra fu l'impedirlo. Il pestilente Aere del carcer nell'oppresso infonde Maligni influssi, ed eccolo abbattuto Da insanabili febbri. Il derelitto Pur talvolta illudeasi, immaginando Che alcun de' tanti, su cui sparsi avea Suoi benefizi, or con repente mossa D'onore e gratitudin s'offerisse A combatter per esso:—attese indarno. Spunta il dì della morte, ed Ebelino Vien tratto innanzi a' giudici; e Guelardo La sentenza gli legge! Il condannato Udì, chinò la fronte, e rese grazie Tacitamente a Dio che al sacrificio Termine alfin ponesse; e bramò ancora Una volta veder la genitrice. Venne l'antica, e insiem si consolaro Con nobil forza alterna, e con alterne Religïose cure. Ella ed un pio Ministro del Signor soli eran consci Dell'innocenza d'Ebelin. Veloce Scorre quel sacro tempo, e omai gl'istanti Sovrastan del patibolo. Umilmente Prostrasi ancora innanzi al sacerdote Il giusto cavalier; quindi si prostra Anzi alla madre, ed ella il benedice, E si dividon sorridendo, e in cielo Riabbracciarsi in breve speran. Move Per le vie tra i carnefici, agguagliato Al più vil masnadiero, e contro a lui Insane urla di scherno alzan le turbe. Di quegl'inverecondi ultimi segni Dell'odio altrui stupìa, ma per le turbe Egli pregava. Ed arrivato al palco, Con fermo passo ascese, e parlar volle; Ma sue parole non s'udir, sì orrendi Vituperi sonavano. Ed allora Accennò egli medesimo al percussore, E siede sullo scanno, e tosto il collo Mise sul ceppo—e la mannaia cadde! L'angiol della calunnia, abbenchè indurre Non avesse potuto alla bestemmia Il retto cavaliere, e or si rodesse Invido i pugni, l'alta anima a Dio Salir veggendo—audacemente «Ho vinto!» Volea sclamar. Ma pria che la menzogna Intera uscisse dell'infame petto, Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo Spirto ravvolser negli eterni abissi. Ov'è il Giuda novel?—Perchè perduto Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza Della voce e del guardo?—E perchè al riso Che da Tëofania volto gli è spesso Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato Mira a destra e sinistra?—E perchè a sera, Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede A illuminata parte, e ansante giunge Quasi inseguito fosse?—E perchè cerca Talor per via i mendici, e su lor versa A piene mani l'oro, e di lor preci L'aiuto invoca, e inefficaci poscia Di quei le preci ei furibondo chiama?— E perchè ne' festini alcune volte Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta Contro a tutte paure, e quando a letto Va nell'ebbrezza, trema ed urla, e al fido Servo chiede il cilicio e se lo cinge? Pentimento ei bramava, e scellerata L'alma era fredda, e a pentimento chiusa. Un dì, colui con altri sommi duci Passò a fianco d'Otton sovra la piazza, Ove ancor d'Ebelino ad alto palo Vedeasi infisso il teschio. Il traditore Volea finger letizia, e le pupille Miseramente stralunava, e insieme Forte i denti batteangli. Ottone il guarda, E vacillar sovra l'arcione il vede, E a sostenerlo accorre. —Oh! che ti turba? Oh! che ti turba? Gli ripete. —È desso! Sclama Guelardo, il mio tradito amico! Chi dal giusto immolato mi sottragge? E prepotenza di rimorso invitta, Ma non pia, lo costringe. Ei maledice E terra e ciel, ma l'alto arcano svela. Folto drappello d'ottimati, e folta Moltitudin di volgo al confessante Fa cerchio, e inorridisce a sue parole, Tutta imparando la esecrata istoria. Da tanti petti universal s'innalza Un lamento:—Oh sventura! oh atroce colpa! Il caduto Ebelino era innocente! Ed Otton più che gli altri inconsolato Raccapricciando grida:—Oh me infelice! Era innocente, e trarre a morte il feci! Il traditor nel suo sangue stramazza. Qual mano il colpo diè primier? Mal puote Fama saperlo. I più disser che ratto Un ferro in cor si configgesse il tristo, Altri che Otton percosselo. Il tumulto Ferve con rabbia orrenda. In cento brani Ecco lacero, pesto, annichilato Il cadavere infame. E s'inchinaro D'Ebelino anzi il teschio e imperadore Ed ottimati e popolo, e nel tempio Dato fu loco alla reliquia santa. Alto clamor di giubilo e di rabbia Rimbombò nell'inferno, al piombar quivi Il traditor, ma sol menonne festa L'abbietta e sciocca de' demonii plebe: Il lor superbo re, poste con ira Su Guelardo le luci e le calcagna, Urlò:—Che gloria alma sì vil mi reca!
ILDEGARDE
CANTICA.
Anche l' Ildegarde è una di quelle cantiche ch'io aveva in lontani anni disegnate, e già era questa eseguita in gran parte, ed onorata degli amichevoli suffragi del nostro Monti e di Byron. Spariti quegli abbozzi con altre carte da me in dolorosa vicenda perdute, ho tentato dodici anni dappoi di ricomporre la stessa produzione, quantunque non ignaro che difficilmente in età provetta si ritrovano le felici ispirazioni della gioventù.
ILDEGARDE.
Pars bona mulier bona. ( Eccle. c. 26, 3.)
—Perchè alle torri del superbo Irnando Sempre drizzi lo sguardo, o mio Camillo? —Sposa, io molto l'amava; e in questi giorni Di nevose bufère, ognor la dolce Nostra infanzia mi torna alla memoria, Quando, arridenti il padre suo ed il mio, O di soppiatto noi dalle castella Usciti, incontravamci appo la riva Congelata del Pellice, e lung'ora Qua e là sdrucciolon ci vibravamo Ridendo e punzecchiandoci e luttando, E sul ghiaccio cadendo, e (bozzoluta Indi spesso la fronte o insanguinata) Tornando a casa lieti e tracotanti. Allora il padre suo, se all'un di noi Vedea della caduta in fronte il segno, Chiedevagli: «Hai tu pianto?» Ed il ferito Gridava: «No.» Ed a tal risposta il vecchio Lo prendea fra le braccia e lo baciava, L'amor lodando de' perigli e il gaio Scherno d'un mal, che sol le carni impiaga, E nulla può sull'anima del forte. Un dì, com'or, fioccava a larghe falde Di dicembre la neve, ed ambo agli occhi De' parenti sottrattici e de' servi Discendemmo ciascun nostra pendice, E ai cari ghiacci convenimmo. Assai Sdrucciolammo e ruzzammo, e le condense Pallottole durissime a diversa Meta lontana, in alto o pe' dirupi, Scagliammo a gara, acute urla di gioia Ripercosse da acuti echi levando. Men da stanchezza mossi che da fame Ci abbracciamo, e ciascun monta i suoi greppi Anelante alla cena. A quando a quando Ci volgevam guardandoci, ed allora Che, già molto remoti, un veder l'altro Più non potea, salutavamci ancora Con prolungati affettüosi strilli; E questi udìansi dalle due castella, E mia madre s'alzava, e tremebonda Al balcon della torre s'affacciava, Incerta se di gioco o di dolore Voci eran quelle. Ah! in voci di dolore Odo mutarsi quella sera infatti Le grida dell'amico: «Al lupo! al lupo!» Ripeteva egli disperato. Io sudo Di spavento, ciò udito, e immaginando Di quel caro il periglio. I clivi scendo Novamente precipite: il ghiacciato Pellice varco, e per gli opposti greppi Affannato m'arrampico ed appello: «Irnando mio! Irnando mio!» Salito Egli era sovra un olmo. Eccol veloce Scendere a me. Ma il lupo allontanato Ritorce il passo, e verso noi s'avventa. Ambo ascendiam sull'arbore, e costrettï Lunghissim'ora ivi restiam; chè intorno Incessante giravasi la fiera. Oh come su quell'olmo il dolce amico Teneramente mi stringea al suo seno, Il mio ardir rampognandomi! Ei dicea Aver alto gridato «Al lupo! al lupo!» Per la speranza ch'io vieppiù fuggissi, E tristo incontro pari al suo scansassi. «E tu invece, oh insensato! ei ripetea Vanamente arrischiasti i cari giorni Per aïtar l'amico, o coll'amico Preda morir di quelle orrende zanne!» Ciò dicendo ei piangeva, ed io piangeva Suoi cari lacrimosi occhi baciando, E tal commozïone era profonda, Delizïosa per entrambe! oh come Sentivamo d'amarci! oh quanto vere Sonavan le proteste, asseverando Che l'un per l'altro volontier la vita Donata avrìa!—Dall'olmo alfin veggiamo Scender di qua e di là dalle pendici Fiaccole ardenti. Eran d'Irnando il padre Ed il mio che venìan, co' loro servi, Degli smarriti figliuoletti in cerca. Sgombrava il lupo a quella vista; e noi Dall'arbore ospital lieti calammo, E saltellanti sulla neve, incontro Movemmo ai genitor, con infinito Cinguettìo raccontando, io la paura Ch'ebbi di perder l'adorato amico, Egli la mia temerità e la prova Che in questa aveavi di gagliardo amore. Oh qual sera di gaudio! oh quanta lode Al fratellevol nostro affetto i duo Parenti davan! Come altero Irnando Mostravasi di me! Com'io di lui!— Di nostra püerizia i dolci giorni Da mille vicenduole ivan cosparsi, Che all'uno e all'altro certa fean la mutua E generosa fede! E così stretto Vincol di due schiettissim'alme… il tempo Dovea spezzarlo! In questa guisa geme Il cavalier Camillo. Ed Ildegarde Dalle corvine chiome e dalla svelta, Maestosa statura:—O sposo amato, Perdona, prego, al mio pensier; non colpa Fu in te forse d'orgoglio! Hai tu alcun passo Nobilmente tentato al benedetto Dagli Angioli e da Dio pacificarvi? —Di nostre nozze intera anco non volge La luna, o mia diletta, e mal conosci Del tuo Camillo il cor. Non di rossore Perciò si tinga il tuo bel volto, o donna: Garrir, no, non ti voglio: imparerai Col tempo qual possanza in questo core Abbian gli affetti. Se tentai? Se dieci Volte l'orgoglio mio non s'immolava Per racquistarmi quell'amico? Indarno Ei più non è quello di pria: uno spirto Di maligna superbia il signoreggia: Ei (tu vedi s'io fremo a questo detto!) Ei mi dispregia!— L'arrossita dianzi Ildegarde a tai detti impallidiva, Mostrüoso sembrandole il destarsi Dispregio in chi che sia verso un mortale Sì per cavallereschi atti famoso, Qual era il pio Camillo. E l'abbracciava Vibrando sguardi or con gentil disdegno Alla torre d'Irnando, or con desìo Passïonato al caro sposo. E sguardi Tai gli dicean: «S'altri spregiarti ardisce, La stima ten compensi in ch'io ti tengo.» Qual della inimistà la cagion fosse De' duo generosissimi, in diversi Inni diversamente i trovadori Cantan d'Italia. Applaudon gli uni a Irnando, Che, ito in Lamagna giovinetto, ad uno De' contendenti re sacrò il suo ferro; Altri a Camillo applaudon, che s'accese Pel secondo aspirante al real trono, Ma aspirante illegittimo. Speraro Camillo e Irnando un l'altro süadersi All'abbracciata parte. E l'un de' duo, Non si sa qual, trascorse a villanìa. Furor di fazïon trasse dapprima Questo e quello davvero a stimar vile Il già sì caro amico. Assai palese Delle avversarie crude ire sembrava L'iniquità ad Irnando: ei non potea Creder che onesto intento in alcun fosse, Il qual per esse parteggiasse. Al pari A Camillo parea dell'altra causa Evidente l'infamia essere al mondo. In qualunque dei duo fallisse primo La carità di confratello, e germe Altro o no di rancor vi si aggiungesse, Furon veduti inferocir nel campo Come leoni. Ma l'atroce guerra E l'alterna fortuna delle insegne Loco porgean a esercitar da entrambe Parti eccelse virtù. Cento fïate Camillo e Irnando, ad ammirarsi astretti, Dicean ciascun tra sè: «L'amico mio, Sebben malvagio, egli è un eroe pur sempre!» Già quegli anni di sangue or son passati; Già molte spente sono illusïoni Nelle agitate lor menti guerriere, Benchè in età ancor verde. Eppur concordia Lor generose palme, ahi! non rinserra. Beato d'una sposa era anche Irnando, E questa il dolce avea nome d'Elina, E di più figli era già madre. Il cielo Dato le ha cor fervente, ed intelletto Gentil, ma entusïastico. Natìe Le pedemontanine aure in che vive A lei non son; romano è sangue; e il padre D'Elina, de' ribelli ognor nemico, Morì con gloria in campo. Ella supporre Non potria mai che Irnando ingiustamente Odio porti a Camillo. A lei Camillo Noto non è, ma sel figura indegno, Irreconcilïabile, covante Sempre perfidie. E motto mai non dice Per calmare il marito allor che l'ode Fremer contra il vicin. Folli stranezze Del core umano! Irnando, ancorchè fiero Più di Camillo, e a malignar proclive, Più bei momenti non avea di quelli, In che, pensando alla sua dolce infanzia, Questo o quel nobil detto o nobil atto Del caro, oggi abborrito, ei ricordava. In quei momenti (e rivenian di spesso) L'alma gli sorrideva, immaginando Quando ad entrambo tornerìa dolcezza Esser amici ancor: ma appena accorto Di questo desiderio, ei ripigliava A esacerbarsi, a biasimar sè stesso Di soverchia indulgenza, ed intimarsi Perseveranza d'astio e di disprezzo. Vedute in tanti cavalieri avea Mutazïoni di principii abbiette! Gli uni servi al buon prence, indi congiunti Perfidamente all'avversario suo; Gli altri farsi un Iddio del tracotante Contenditore al trono, e poi, caduta La sua potenza, irriderlo. E di tali Apostasie si repetea sovente La turpe inverecondia. E le più altere Alme se ne sdegnavano, e temendo Apostate parer, persistean truci Ne' giurati decreti, ove decreti Sconsigliati pur fossero. Ogni volta Che Irnando dalle sue balze rimira Il castel di Camillo, e rivolgendo Va quanto spesso col diletto amico In quelle sale, a quel verron, su quelle Mura, per quel pendìo, sovra quell'erto Ciglione, in quella valle, avea di santi Affanni e santi gaudii conversato, Di repente corrucciasi, e la fronte Colla palma fregando, a sè ridice: «Via quelle stolte rimembranze! obbrobrio L'onorar d'un sospiro i dì bugiardi, Che amabil tanto mi pingean quel tristo!» Men concitato da alterigia, avea Camillo a dame ed a baroni ufficio Pacifero richiesto. E quelle e questi Sordo trovaro a lor parole Irnando. Ma alla dolce Ildegarde or molto incresce Questa fera discordia; ognor paventa Che i fremebondi prorompano a guerra. —Freddi interceditori, o sposo mio, Forse fur quelle dame e que' baroni Di cui mi narri. Di te degno oh come Stato sarebbe il presentar te stesso Con amabil fidanza e quell'iroso! —Che parli, o donna? Io, non colpevol, io Codardamente supplice a' suoi piedi! —Codardìa consigliarti, o mio diletto, Potrebbe mai la sposa tua? Dinanzi A lui, supplice no, ma con onesta Securtà mosso io ti vorrei. Da quanto Pinger mi suoli di quel prode offeso, Incapace ci sarìa di fare ingiuria A chi chiedesse entro sue torri ospizio.— Se il pio consiglio accolga, esita alcuni Giorni Camillo; indi alla sposa:—O amica, A tanto, no, non posso umilïarmi; Ma non perciò mi ristarò da speme Di pacificamento. Un messaggero Mai non mandai direttamente ancora Con parole d'onore all'orgoglioso. Forse gli estranei intercessori sdegna, Ma vedendo a sè innanzi un mio scudiero, E amici detti per mia parte udendo, Commoverassi, e non vorrà esser meno Generoso di me.— Compie Camillo La divisata prova. Indi attendea Il ritorno del messo, e d'una sala Passava in altra irrequïeto, e indugio Soverchio gli sembrava. —Il furibondo Sdegnasse dare all'invïato ascolto? O frodoloso intento, o vil lusinga D'animo impaurito ei sospettasse, E rispondesse coll'atroce insulto Di vïolar con carcere o con morte La sacra testa dell'araldo mio? Fellon! Guai se ciò fosse! A molta scese Mansuëtudin questo cor; ma un cenno, E rïascender lo vedresti ad odio Maggior del tuo, più spaventoso, eterno! Che dico? Bassa villania in quell'alma Inebbrïata da gigante orgoglio Non può capir. Abbietto spirto io sono Che immaginar sì turpe fatto ardisco. Intenerito si sarà; lung'ora Colmerà di dolcissime domande E d'onoranza il mio scudier; seguirlo Qui vorrà forse, o rattenuto or fia Da momentanee cure. A mezzo solo Esser seppi magnanimo. Io medesmo, Come la donna mia mi consigliava Io, non un messo, a lui mover dovea. Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certo Stato non foran più parole; in braccio Gettato a me sariasi, e senza vane Spiegazïoni, e dolorose, entrambo Rïappellati ci saremmo amici. Così tra sè il bramoso. Ed evitava, Per nasconderle il suo perturbamento, Della diletta sposa il dolce incontro. Ei cammina a gran passi; o nella sedia Breve momento s'agita, e risorge Tosto con ansia ad amor mista e ad ira, Or all'una effacciandosi, or all'altra Delle fenestre, or fuor della ferrata Negra sua porta uscendo, e non badando Al can che gli si appressa, e rispettoso Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e spera Dalla man signorile esser palpato. Dai merli del terrazzo alfin gli sembra Lo scudier ravvisare. È desso, è desso. Al cavalier rimescolasi il sangue, E contener non puossi. Il ponte varca, Discende in fretta la pendice; incontro Al vegnente lo stimola sfrenata Smania d'udir. —Perchè sì tardo movi? Gridagli.— I passi addoppia il fido, e parla: —Signor del tuo nemico entro la soglia Appena addotto io fui… Camillo udendo Suo nemico nomarlo, impallidisce: E l'altro segue: —Appena addotto io fui, I sensi tuoi gli esposi. —In quali accenti? —Quali a me li dettasti. Oh cavaliero! Dissigli, il signor mio, dopo ondeggiante Con sè stesso luttar, cede al bisogno Di ricordarti sua amistà, di sciorre, Per quanto è in lui, quel gel, che rie vicende Frapposto aveano fra il suo core e il tuo. Io proseguir volea. Rise il superbo Amaramente, ed esclamò: Non gelo, Ma orrendo sangue è fra i due cor frapposto! — Proseguii nondimen, tuoi decorosi Sensi esponendo. A' primi istanti vinto Da prepotente anelito parea, Sebbene al riso s'atteggiasse ognora, Ed ostentasse di vibrarmi i guardi Della minaccia e del dispregio. Ei detti Di maggiore umiltà dal labbro mio Certo aspettava. Non trascesi: umìle, Ma dignitosa serbai fronte e voce; Ed ei sognò ch'io lo schernissi. Audaci Son tue pupille, o giovine! proruppe; Abbassale!—Non già! Timor non sente, Risposi, di Camillo un messaggero. —Mandotti il temerario ad insultarmi? Riprese urlando, a far vigliacca prova Della mia pazïenza? A tentar s'io Contaminar vo' mia illibata fama, Tua vil pelle col mio ferro toccando, O alle fruste segnandola? Va, stolto Incettator di vituperi e busse; Riporta al signor tuo, ch'uom che si pente De' tradimenti suoi, ch'uom che desìa L'amistà racquistar d'un generoso, Con ambagi non parla, e schiettamente Dice: Il cammin ch'io tenni era turpezza. A sì indegne parole arsi di sdegno Per l'onor tuo. Via di turpezza mai Non calcherà, mai non calcò il mio sire! Gridai. Ruppe il mio grido, e con un fiume Di fulminea infrenabile eloquenza, Tutta rammemorò la sciagurata Storia del trono combattuto. E questa Fu una trama, al dir suo, d'illustri iniqui Striscianti a piè del volgo, e lordamente Convenuti d'illuderlo e spogliarlo. E tu…. fremo in ridirlo. —Io? Segui. —Un vile Patteggiator di condivisa infamia, E condivisi lucri. —Ei ciò non disse! Ei ciò non disse! —Il giuro. —E non troncasti La scellerata voce entro sua gola? —La troncai svergognandolo. E costretto Fu ad arrossire e replicar: Non dico Ch'ei fosse, ma parea di condivisi Lucri patteggiatore, e per lavarsi Di macchia tal non bastano le ambagi. Solennemente si ricreda, e provi Che insensato, ma mondo era il suo core; Provi ch'egli esecrato ha le perfidie De' nemici del re; ch'egli esecrato Ha l'opre inique ond'or l'impero è afflitto! Viltà sembrato mi sarìa modesti Accenti opporre ad arroganza tanta. Tel confesso, signor: ciò che gli dissi Appena il so. Non l'insultai, ma cose Di foco, certo, mi piovean dal labbro Contro a' denigratori; e di te laude Tal gli tessei, che fu colpito e plause. Va, buon servo, mi disse; amo il tuo ardire, ma non del tuo signor la ipocrisia. —Oh ciel! diss'egli ipocrisia? Ingannato Non t'han le orecchie tue? —Disselo, il giuro.— A queste voci il cavalier si torse Rabbïoso le mani, e con un misto Di voluttà e di fremito, in più pezzi Franse un anel, che dono era d'Irnando, Ed a' caduti pezzi impallidendo Il piede impose, e li calcò nel fango. —È finito! proruppe.—Ed iracondo Lagrimava, nè udia del messaggero Parola più, nè rispondeagli. A guerra Precipitato contra Irnando ei fora; Ma nol permise il ciel. D'una sorella Alla difesa mover dee Camillo, La qual di Monferrato all'erme balze Co' pargoletti suoi vedova geme, Da illustri masnadieri assedïata. Solinga intanto ecco Ildegarde. E voti Per la salute dello sposo alzando, E per la sua vittoria, e pel ritorno, Pur trema che allorquando ei dalle pugne Rieda di Monferrato, incontro al sire Del vicino castel rompa la guerra. Un dì mirando quel castel, le cade Nell'animo un pensiero;—E s'io medesma Colà traessi, e mia nobil fidanza Vincesse il cor della romana altera E del truce baron?— V'ha certi miti Senni, e tal era d'Ildegarde il senno, Che pur sono arditissimi, e formato Gentil proposto, se pur arduo ei paia, Tentennan poco, ed oprano. Tranquilla Il seguente mattin, poichè alla messa Nel delubro domestico ha innalzato Il femminil suo spirto appo lo Spirto Che regge i mondi e agli atomi dà forza, Ildegarde s'avvia sovra il suo bianco Palafreno seduta. A lei corteggio Sono una damigella e due famigli. Quand'ella giunse a' piè dell'alte mura Del castello d'Irnando, un momentaneo Palpitamento presela, e memoria Di perfidie tornolle, ahi troppo allora Frequenti fra baroni! e pensò quale Disperato dolor fora a Camillo, Se il visitato sire oggi smentisse, Brïaco d'odio, il vanto invïolato Che di leal s'ebbe sinora! Il guardo Volse alla damigella; e impallidita Era al par d'essa. Il guardo volse ai duo Famigli, e impalliditi erano, e osaro Interroganti dir:—Retrocediamo? —Stolti! diss'ella; e rise, ed innoltrossi. Intanto del castello in ampia sala La romana bellissima traea Dalla ricca di gemme ed indorata Conocchia il molle lino, e fra le punte Di due candide dita lo umidiva; Indi con grazia angelica all'eburneo Fuso il pizzico dava, e con accento, Che a labbra subalpine il ciel ricusa, Cavalleresche melodie cantava. Belli come la madre accanto a Elina Sedeano un bimbo ed una bimba, a lei Innamoratamente le pupille, Da negre e lunghe palpebre ombreggiate, Alzando vispe, e ogni ultima parola Della strofa materna ripetendo Con cantilena armonïosa d'eco. Ed a quest'eco s'aggiungea la grave Voce del padre lor, che per la caccia Un arco preparava, e spesso l'arco Ponea in obblìo, l'affascinante donna Mirando e i figli, ed i lor canti udendo. Portavan l'aure il suon del fervid'inno D'Ildegarde all'orecchio. Ella scendea Dell'arcione, ed a' paggi sorridente, Ma con trepido cor, dicea il suo nome. Qual fu d'Irnando la sorpresa! Ascolto E onore a dama diniegò egli mai? Qual pur siasi Ildegarde, ei le va incontro Con reverente cortesìa, e l'adduce Innanzi a Elina. Alzasi questa, e posa L'aurea conocchia, e di seder le accenna. —Vicina mia gentil (prende Ildegarde Così a parlar), da lungo tempo agogno Veder tuo dolce volto, e palesarti Un mio desìo. —Qual? le dimanda Elina. —D'ottener tua amistà, di consolarmi Teco de' miei dolori. —E che? Infelice Sei tu? Come?… E nel troppo accelerato Immaginar, già Elina e il cavaliero Presumon ch'ella fugga il ritornante Camillo forse, ch'a lor occhi un mostro Verso tant'altri, un mostro esser dee pure Verso la sciagurata a lui consorte. Ad Ildegarde appressansi amendue, Ed Irnando le dice:—Il ferro mio Non fallirà, s'hai di mestier difesa. Ma oh stupor! La soave, in altro modo Che non credean, prosegue: —Il sol non vede Donna di me più dal suo sposo amata, O buona Elina, e anch'io, quando al castello È il mio signore, ed io filo cantando, Spesso il miro al mio fianco, ed accompagna La mia colla sua voce; e molte volte Abbaian nel cortile i guinzagliati Cani pronti alla caccia, ed alla caccia Propizio è l'aer di levi nubi sparso, Ed ei pur meco stassi, ed al cignale Fino al seguente dì tregua consente. Ignoto ad ambo è il tedio, o se noi colse Alcuna volta, mai non fu quand'uno All'altro amato cor battea vicino. Ed oh a qual segno in esso, in me, di nostra Solinga vila crescerà l'incanto, Allor che a noi (se il ciel pietoso arrida Alla dolce speranza!) uno o più figli, Siccome questi, fioriranno a lato! S'interrompe Ildegarde, e per gentile Impeto d'amorosa alma commossa, O per arte gentile, o per un misto D'impeto ed arte, i due bambin si prende, Uno a destra uno a manca, e li accarezza Con baci alterni e voluttà di madre, Sì che la madre vera e il genitore Inteneriti esultano, e amicati Tanto per lei vieppiù si senton, quanto A' pargoletti lor vieppiù è cortese. —Oh come a te in bellezza, o mia vicina, Questa bimba somiglia! E ciò Ildegarde Dicendo, preme lungamente il labbro Sovra la rosea guancia paffutella Della cara angioletta, e la baciucchia. Poscia gitta la mano amabilmente Sulle ricciute chiome del fanciullo, E qua e là le palpa, indi pel ciuffo A sè lo trae, e, baciatolo, gli dice: —Sai tu che appunto sei, qual mi fu pinto Da fedel dipintore, il padre tuo Ne' suoi giorni d'infanzia? Inanellato Il fulvo crin, larga la fronte, arditi E amorevoli gli occhi… E questi detti Pronunciando Ildegarde, involontaria O accorta, alzava paventoso un guardo Sul cavaliero. Ed ei si perturbava Ricordando Camillo. Allor la pia Ambagi più non volve; e con candore Dice quanta cagion siale di tristo Rincrescimento il dissentir d'Irnando E di Camillo. —O degna Elina! ov'anco D'uno dei duo per indomato orgoglio Quella discordia non cessasse, amiche Esser non possiam noi? Commiserarci Non possiam noi di questa ria fortuna, Ed amar nostri sposi, e niun furore Lor condivider che sia oltraggio al dritto? Dall'anima d'Elina un «sì!» prorompe, E si stringono al seno. Irnando balza Rapito a quella vista, a quegli accenti, E vorrìa discolparsi; ad Ildegarde Vorrìa provar nessuna esso aver colpa Nell'odio sorto fra Camillo e lui. Strano mortal! mentr'ei d'inenarrati Spregi e d'ingratitudine a Camillo Accusa vibra, il corruccioso lagno Con cui ne parla, non par quel dell'odio, Ma d'un amor geloso. Ei non perdona All'uom ch'ei tanto amava, essersi fatto Un idol d'altra gente! aver potuto Per nemici obblïar sì sviscerato Fratel, qual gli era dall'infanzia Irnando. Ciò non isfugge all'ospite avveduta, E con lenta eloquenza insinüante, Che più e più le udenti anime scuote, Pinge in Camillo a que' trascorsi tempi Un fautor generoso (errante forse, Ma generoso) d'abbagliante insegna, E che a virtù immolar tutto credea, Fin le dolcezze d'amistà più care. E come pur tal amistà in Camillo Vivesse, ella soggiugne, e come i giorni Sospirass'egli della pace, in cui, Placato Irnando, il rïamasse ancora. Dice inoltre com'ei, reduce all'onde Del Pellice natìo, concilïarsi Con Irnando agognava, e si valea D'intercessori invan; come ad Irnando Mandò il proprio scudiero, e fu respinto. Dice gli sguardi mesti e affascinati Di Camillo al castel del primo amico, E a quell'arbore e a questa, e a quel vallone Ed a quel poggio, e del torrente ai flutti Ove insieme natavano, ed ai ghiacci Ove lungh'ore sdrucciolon vibravansi, Ridendo e punzecchiandosi e luttando, E sui ghiacci cadendo, e (bozzoluta Indi spesso la fronte o insanguinata) Tornando a casa lieti e tracotanti. —Oh che facesti, sposo mio? prorompe La fervida Romana; un altro, un altro T'eri foggiato e l'abborrivi. Io pure, Qual lo foggiavi, l'abborrìa; ma il mostro Che innanzi agli alterati occhi ci stava, No, non era quel pio, cui sì dilette Son dell'infanzia le memorie tutte, Cui tu sempre sei caro, e che sì caro Ad Ildegarde non sarìa, se iniquo. —Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglio Gli si rïempie di söave pianto. Ei m'amerebbe ancora? Ei non per beffe A me mandò que' freddi intercessori Che sì mal peroravano, e quel troppo Zelante messagger che m'inaspriva Col suo ardimento? E ch'altro volli io mai Ch'esser amato da colui ch'io amava? D'odiarlo io giurava, e non potea! Ma e se la tua benignità, Ildegarde, Ti traesse in error! S'ei mentre alcuna Rammemoranza di me pia conserva, E quasi m'ama nel passato ancora, Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmi Collegato di vili anco s'ardisse? Se sconsigliati egli dicesse i passi Che al mio castello hai mossi, e dall'irato Cor prorompesse: «Amar non posso, Irnando! Amarlo più non posso!» I dolorosi Dubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri, Col ricordar sull'amicizia antica Questo o quel detto di Camillo. —Io dunque Era il superbo! esclama il cavaliero: Espïar debbo mia ingiustizia. In guerra Lunge da me l'amico mio periglia; Ad aïtarlo di mie lance io volo. E i suoi fidi raguna, ed abbracciate La palpitante Elina ed Ildegarde E i pargoletti, in sella monta e parte. Per molti dì le due vicine a gara Si consolavan, si pascean di speme, E alterne visitavansi, aspettando De' baroni il ritorno, o messaggero Che di lor favellasse. Ascondon ambe Il lor perturbamento, e sol ciascuna, Quando al proprio castel siede romita, Numera i giorni ed angosciata piange. Quella dicendo: «Oh non avess'io mai Conosciuto Ildegarde! Ella funesta Forse è cagion che il mio signore è spento!» L'altra a Dio ripetendo: «Il mio Camillo Salva, e s'a me rapirlo è tuo decreto, Deh ch'io presto lo segua, e per mia causa Vedova Elina ed orfani i suoi figli Ah no, non restin!» Cede alla possanza Del suo rammarco alfin l'inconsolata Moglie d'Irnando, ed una sera asceso Il solito cíglion con Ildegarde, Donde vedeasi per più lunga tratta La polverosa via, nè comparendo I cavalieri, o messo alcun, prorompe Abbracciando i figliuoli in disperato Pianto, e respinge dell'amica il bacio. —Va, sciagurata, lasciami; a' miei figli Rapisti il genitore! A me rapisti Colui che tutto era al cor mio! Colui, Pel qual degli avi miei la dolce terra Senza cordoglio abbandonata avea! Viver senz'esso non poss'io: qual sorte A queste derelitte creature Verrà serbata, dacchè al padre i ferri Tolgon la vita, ed alla madre il lutto? Voler, voler del cielo era d'Irnando L'inimistà pel tuo fatal consorte! Maledetto l'istante in che, ispirata Da infernal consiglier, lieta movevi A mia ruina! Maledetto il nome Di suora che ti diedi!— Al furibondo Grido geme Ildegarde, e invan desìa Trovar parole per placar l'afflitta; Invan gli amplessi iterar tenta. Ognora Più duramente rigettata e carca Di rimbrotti amarissimi, il cordoglio Rispetta dell'amica, e ridiscende Dietro a lei mestamente la collina, D'ancella a guisa che garrita piange, E risponder non osa. A quando a quando Si sofferma Ildegarde, e confidata Tende l'orecchio e nella valle mira, Che voci udir le sembra; e quelle voci, Ahi! manda il villanel, che dagli arati Campi co' buoi ritorna, ed a lui cara Son compagnia l'antica madre, curva Sotto il fascio dell'erbe, e la robusta Moglie, peso maggior di rudi sterpi Con elegante alacrità portando. Ne' dì seguenti, al consüeto poggio Le due donne riedean, ma fremebonda Sempre era Elina, e, tramontato il sole, Moveva a casa delirante d'ira E di dolore; ognor vituperata Ma affettüosa la seguìa Ildegarde. Odon lontane grida, e nella valle, Come all'usato i guardi avidamente Con palpiti d'amor gettano entrambe E di speranza e di paura. Il cane Drizza i villosi orecchi, ed un acuto Insolito latrato alza, e si scaglia Giù per la praterìa precipitoso, Folte siepi saltando ed ardui fossi E scoscesi macigni. E ad intervalli Sparisce e ricompare, e tace, e abbaia, Nè mai s'arresta. —E sarà ver? Son dessi, Son dessi certo! Esclamano a vicenda Con ebbrezza febbril le desïose. Ma se alle lance reduci or mancasse Uno de' capitani, od ambo forse? Oh spaventoso dubbio! Oh sventurate! Chi ne assecura? Sì dicendo, il passo Raddoppiano affannate. Al piano giunte, Odon le scalpitanti ugne veloci D'uno o duo corridori: ah fosser duo! Fosser de' duo baroni i corridori! Scerner gli oggetti mal lasciava un denso Nembo di polve. Ah sì! Lor lance appunto Camillo e Irnando precedean, con ansia Di riveder le dolci spose. Oh gioia! Oh certezza felice! Il lor saluto Suona per l'aer, ben son lor voci queste. Eccoli; balzan dall'arcione. Oh amplessi! Oh istante indescrittibile! E il consorte, Poichè ciascuna ha stretto al seno, e assai L'ha coperto di lagrime e di baci, Ciascuna dell'amica infra le braccia Gittasi giubilando. —Il dolor mio Aspra mi fea: perdonami Ildegarde. E Ildegarde alla suora il detto tronca, Ponendo bocca sovra bocca, ed ambe Pur di lagrime bagnansi. I fanciulli Preso frattanto ha fra le braccia Irnando, E accarezzato li accarezza, e gode Porgendoli a Camillo, e di Camillo La nova tenerezza rimirando. Mentre ascendono il colle, evvi un bisbiglio, Un esclamar, un alternarsi accenti Di cortesìa e d'amore, un romper folle In pianto e in riso, un mescolar dimande E risposte e racconti, e i cominciati Detti obblïar per detti altri frapporre, Che niun di lor cosa veruna intende. Nel castello d'Irnando entrano. E assisi Nella gran sala—e da donzelle e fanti Portate l'ampie coppe—e zampillato Fuor de' fiaschi ospitali il ribollente Dal roseo spumeggiar bel nibbïolo— E del giocondo brindisi i sonanti Tocchi osservati—e roborato il core— Allor le maschie voci alzano a gara I baroni, e ripigliano il racconto In più seguìta, intelligibil foggia: —Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde, Te in così tempestiva ora spingendo A rannodar fra Irnando e me l'amato Vincol che stoltamente io franto avea!— Così Camillo, e l'interrompe l'altro: Io lo stolto! Io il feroce!— E quei la mano Sovra il labbro gli pon rïassumendo: —Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde! Perduto er'io, se redentrice possa D'amistà non venìa. L'assedïante Ladron dapprima sbaragliai, ma il tristo Novella frotta ragunò. Me chiuso Nel castel della suora, egli ogni giorno Schernìa e sfidava. Io sul fellone indarno Prorompeva ogni giorno: ahimè! gli sforzi Del valor mio nulla potean su tanto Nover crescente di nemici. A noi Già le biade fallìan, già fallìan l'armi, E già il cessar d'ogni speranza e il cruccio Rabido della fame a' guerrier nostri Consigliavan rivolta ed abbandono. Universal divenne voce alfine: «Arrendiamci! arrendiamci!» Il masnadiero Promettea vita a ognun fuorchè a mia suora E a' suoi figliuoli e a me. Tra minaccioso E supplicante, io i perfidi arringava, Che della rocca aprir volean le porte: —«Sino a dimane il tradimento, o iniqui, Sino a dimane sospendete!» Un resto Di pietà e di rispetto, al grido mio, Rïentrò in cor de' più. «Sino a dimane! Sclamarono, e se Dio pria dell'aurora Portenti oprato non avrà a tuo scampo, Lo scampo nostro procacciar n'è forza.» Oh spaventosa notte! Oh fugaci ore! Oh come orrenda cosa eraci il suono Del bronzo che segnavale! Oh angosciato Appressarsi dell'alba! Oh sbigottiti Muti sembianti della mia sorella E de' suoi pargoletti! Oh contrastante Dignità di parole in prepararci A' vicini supplizi! Ed oh com'io Tra me dicea: «Deh! che non seppi amico Tutta la vita conservarmi Irnando?— Improvviso frastuono udiam levarsi Fuor delle mura. Che sarà? Oh prodigio! Una pugna! E con chi?—«La man di Dio! La man di Dio!» gridan mie turbe: a terra Mi si prostran pentite, il giuramento Di fedeltà rinnovano; a gagliarda Sortita le süado, ed infinito Macel lung'ora de' nemici è fatto. Qui il narrar di Camillo Irnando tronca: —Ah! s'impeto cotanto, e se cotanta Prodezza ad ammirar non m'astringevi, Me gli assaliti sconfiggeano! In fuga Eran molti de' miei, già in fuga io stesso Omai volgeami disperato: i colpi Tuoi scomposer l'esercito inimico, E di salvezza io debitor t'andai!— S'avvicendan la lode i cavalieri, L'uno dell'altro memorando i fatti. Alfine Elina sclama:—Ad Ildegarde Spettan tutte le lodi! Innanzi a lei Prostratevi, e la sua destra baciate.— E i cavalieri prostratisi, e la destra Baciano d'Ildegarde, e penitenza Le chieggon del furente odio passato; Ed ella in penitenza un'annua festa Intima in questo e in quel castel, che festa Dell'amistà si chiami, e dove uficio De' vati sia cantar quanti sospetti Calunnïosi partorisce l'ira, E quanto l'ira accrescano le ambagi De' falsi intercessori, e quanto egregia Sappia interceditrice esser la donna. —E da me, per mia ingiusta ira, qual vuoi Penitenza? soggiugne in umil atto Palma a palma accostando, ed il ginocchio Piegando Elina.— Ed Ildegarde:—Il primo Figlio, o diletta, che ti nasca, il nome Porti del mio Camillo; e mi sia dato, Se figli avrò, chiamarli Irnando o Elina.
I SALUZZESI.
Cantica.
L'amore che porto a Saluzzo, mia città nativa, m'ha indotto a cantare un fatto luttuosissimo, che trovasi ne' suoi annali, al secolo XIV. Il Marchesato di Saluzzo era di qualche importanza a quei tempi, e la vicenda di cui parlo si collegava colle passioni che ferveano per tutta Italia.
Nel 1336 Tommaso II succedette al padre nella signorìa di Saluzzo, ma gli fu contrastato il seggio da Manfredo suo zio. Tommaso avea per moglie Riccarda Visconti di Milano, ed era quindi uno de' Principi ghibellini, ai quali i Visconti erano capo, tutte le speranze della parte ghibellina appoggiandosi a quel tempo sovra Azzo fratello di Riccarda di Saluzzo, e poscia sovra Luchino Visconti, loro zio.
Manfredo si professò guelfo per avere la protezione del potentissimo capo de' guelfi, Roberto Re di Napoli, della casa d'Angiò. Era questi un ragguardevole monarca per ingegno e per possedimenti. Oltre al suo regno ed alla contea di Provenza, suo avito dominio, gli appartenevano, per diritti veri o dubbii, parecchie signorìe qua a là in tutta la lunghezza della penisola. Roma e Firenze lo riconoscevano per protettore. Sventolava la sua bandiera sopra molte castella delle terre Lombarde, Monferrine, Astigiane, Piemontesi. A lui obbedivano Savigliano, Fossano, Cuneo ec. Non conduceva eserciti egli medesimo, e teneva, tutti quei disseminati dominii con masnade Provenzali, Napoletane o d'altre razze, sotto al comando di valorosi baroni, i quali, governando ciascuno a modo suo, mal sapeano affezionare le genti al loro sovrano. Voleva Roberto far cadere la potenza ghibellina de' Visconti, e domare tutti gli Stati Italiani; ma non essendo egli d'indole guerriera, operava con lentezza, e non conseguì mai l'ardito proposto. Guelfi e ghibellini si vantavano a vicenda d'essere i veri amanti della nazione, i veri fautori della civiltà, della giustizia, della causa di Dio; ed intanto mal si sarebbe distinto da qual lato fossero più errori e più colpe, benchè in tali tenebre pur lampeggiassero alcune alte virtù. L'età era cavalieresca e religiosa, con elementi di gelosie repubblicane. Tutto ciò è sommamente poetico.
A que' giorni viveano con immensa fama di dottrina Petrarca e Boccaccio, ed altri uomini sommi; ed il re Roberto ed i Visconti si gloriavano d'averli ad amici. Siccome il Marchesato di Saluzzo attraeva gli occhi della corte di Napoli, non è maraviglia che il Boccaccio abbia dato luogo fra le sue più nobili novelle alla Saluzzese Griselda.
Mentre quella splendida corte era modello di gentilezza, le schiere di Roberto, capitanate dal siniscalco Bertrando del Balzo, provenzale, e congiunte con altre armi, proruppero ne' nostri paesi per sostenere i pretesi diritti di Manfredo, empierono di rubamenti e di carnificine la contrada, espugnarono ed incendiarono Saluzzo, presero prigione il marchese Tommaso co' suoi figliuoli, gareggiarono con Manfredo a commettere ogni barbarie, e così in breve disingannarono coloro fra i prodi Saluzzesi che avevano sognato in Roberto un semidio, e ne' suoi guelfi altri semidei, chiamati ad abolire le antiche ingiustizie, ed a stabilire in Italia il secolo della sapienza e della rettitudine.
Ottenne Tommaso per riscatto la libertà, e trovando che Manfredo e tutti i guelfi erano esecrati, si volse ad adunare nuova oste di ghibellini, v'aggiunse uno stuolo assoldato di lance straniere, ma ben disciplinate, guerreggiò e vinse. Il tiranno Manfredo e i suoi alleati furono espulsi.
Questi avvenimenti di Saluzzo sono il soggetto della mia Cantica. Tratta di essi con assai numero di rilevanti particolarità la storia di Saluzzo di Delfino Muletti, e di Carlo suo figlio; ed ivi leggesi pubblicato la prima volta da esso Carlo uno scritto, in cui il cominciamento di quella guerra e delle crudeltà di Manfredo è dipinto con forza da autore di quel secolo, stato anzi egli medesimo testimonio della distruzione del luogo nativo. Quello scritto intitolato Calamitas calamitatum, Commentariolum Iohannis Iacobi de Fia, rivela nell'uomo che lo dettava una mente colta e generosa. Ei dimandava al cielo, e presagiva la caduta degl'invasori.—( Ploremus ergo coram Deo, poeniteat nos iniquitatum nostrarum, et a praesenti calamitate calamitatum maxima liberi facti erimus ).
La cacciata degli stranieri diede novella virtù ai Saluzzesi; le discordie civili scemarono, e s'estinse a que' giorni con Roberto la gloria della fatale casa d'Angiò, che aveva cotanto illuso ed insanguinato l'Italia. Carlo, figlio di Roberto, era premorto al padre, e lo scettro passò nelle mani di Giovanna, figlia di Carlo, la quale, rea dell'uccisione d'un marito, patì infiniti guai, ed infine dal vendicatore del primo marito fu data a morte.
I SALUZZESI.
Odium suscitat rixas, et universa delicta operit charitas. ( Prov. 10. 12).
I.
Dolce Saluzzo mia! terra d'antiche Nobili pugne, e d'alternate sorti Prospere e infelicissime, e d'ingegni Che t'onoràr con gravi magisteri, O con bell'arti, o con sincere istorie, O coll'affettüoso estro che splende In ognun che ti canta, e vieppiù splende. Sovra l'arpa gentil di Dëodata[1], Tua prediletta figlia! Io ti saluto, O terra de' miei padri, e dall'affetto Che ti porto, m'ispiro oggi cantando Un tuo illustre dolor d'anni lontani, Che fu dolor da forti alme compianto, E da forti alme sopportato e misto Ahi troppo! a colpe, ma pur misto a esempi Di patrio amor, di lealtà e di senno. O fantasia, sulle tue magich'ali Toglimi a' dì presenti, e con gagliardo Vol ritocchiamo il secolo guerriero Di Tommaso e Manfredo; il secol pieno Di guelfe e ghibelline ire, che servo Parve e non fu dell'ultimo Angioìno; Il pöetico secol, che dall'ombra Gigantesca di Dante e dalle pure Armonìe di Petrarca, e più dal lume D'ammirabili Santi, era di molti Olocausti di sangue consolato. Fra gl'Itali dominii, ecco Saluzzo Non ultima in possanza: eccola altera Di lunga tratta di montagne e valli E feconde pianure, e di castella Governate da prodi: eccola altera De' prenci suoi. La marchional corona Fregia Tommaso, affratellato ai grandi Ghibellini Visconti, onde Roberto Angiöin dalla sua Napoletana Splendida reggia freme, e agguati ordisce, Impor bramando con novello prence A' Saluzzesi il guelfo suo stendardo. Volgea quella stagion, quando Saluzzo Vede scemar pe' campi suoi le nevi, E ogni dì s'avvicendano i gelati Estremi soffi dell'inverno, e l'aure Che già vorrebbe intepidir l'amica Possa del Sol che a ricrëarci torna. E volgeva una sera, ed a tard'ora Entro alla cara sua celletta prono Stava orando il canuto Ugo, dolente Che involontaria a' preghi si mescesse Nel suo intelletto or questa cura or quella Di Staffarda pel chiostro, onde ei cingea L'infula veneranda. E benchè antico Nelle salde virtù di pazïenza E d'umiltà, pur non potea ne' preghi Trovar facìl quïete, anco ove miti Talor del monaster fosser gli affanni, Perocch'ei molte conoscea secrete D'alti alberghi sfortune e di tugurii, E d'innocenti peregrini oppressi; E la mente magnanima del vecchio Compatìa in tutti i cuori illustri o bassi Delle colpe gli strazi e quei del pianto. Or mentre inginocchiato ei le divine Grazie per tutti invoca, ode la squilla Che a notte suona il vïator venuto Alla porta ospital. Sospeso allora Il conversar con Dio, s'alza ed appella Un de' laici fratelli, e—Va, gli dice; Provvedi tu che all'arrivante abbondi Di carità dolcissima il conforto, Chiunque ei sia. Quindi, umilmente curva La nivea fronte, eccol di nuovo a' piedi Del Crocefisso, e nell'orar diceva: —Or chi sarà questo ramingo? Oh fosse Tal di que' mesti a cui giovar potessi! D'accelerati e poderosi passi D'un cavalier sonar sembran le volte; Poscia addotto dal laico entro la cella Viene… Eleardo. —Oh amato zio! —Nepote, Onde tu di Staffarda alla Badìa? Il laico si ritrasse. I duo congiunti Si strinsero le destre, e il giovin prode Sovra la scarna destra del canuto Le labbra pose, ed ambe allor le braccia Aperse questi, e al sen paternamente Il figlio accolse dell'estinta suora. Così il giovin comincia: —Alto mistero Son chiamato a svelarti. —In me fiducia Sai qual tua madre avesse; abbila pari. —Dacchè in Saluzzo reduce son io Dalla corte di Napoli e dal Tebro, Poche fïate al fianco tuo m'assisi, E assai pensieri d'Eleardo ignori. —E l'ignorarli mi mettea paure, Che forse sgombrerai. —Padre, mentita È la fama che sparsa han da Milano I perfidi Visconti incontro al vero Proteggitor d'Italia tutta e nostro. In benefizi alto, fedel, possente È il regio cor del Provenzal Roberto: Ei la Chiesa vuol grande: ci de' tiranni Flagello fia; de' buoni prenci scampo.
—Bada, o giovin bollente, omai tremenda Splender la luce di quel re straniero Che di Napoli al serto altre aggiungendo Minori signorìe, stende sue lance Di castello in castel, di villa in villa, Fra' Romani, fra' Toschi e fra' Lombardi, E feudi suoi non pochi ha in Monferrato E in Piemontesi sponde. A molti egregi Dubbia pietà è la sua sulle miserie Delle irate, cozzanti, Itale stirpi. —Dubbia fu dianzi, or più non è. Sol una Appalesasi speme, un sol desìo In re Roberto e nel Pastor del mondo: Concordia vonno e giuste leggi, e freno Ad eresìe, a tirannidi, a macelli: Collegare in un patto a comun gloria Vonno e prenci e repubbliche e baroni. —Del supremo Pastor ferve nel petto Ansïetà pe' figli suoi sublime; Il so: ma in petto di Roberto ferve Pericolosa ambizïon. —Tal grida Del ghibellin Visconte la calunnia, Ma smascherato è l'impostor. Lui regge Ed ognor resse ambizïon! Lui preme Sete d'oro e di sangue! In Lombardia Ei d'un mortal più non possede il core: Sospiran ivi tutti i buoni o il braccio Liberator dell'Alemanno Augusto, O della serpe Viscontèa sul capo La folgor pontificia, e i benedetti Brandi del re. Quanto i Lombardi omai Da quella fatal serpe avviluppati, Contaminati, laceri, scherniti Non ci vediam noi Saluzzesi forse, Dacchè sposa al Marchese incantatrice Venne Riccarda, e tracotante stormo D'Insubri cortegiani accompagnolla?
—Figlio, ricorda ch'altre volte io seppi Quell'ira tua sedar. Ragioni mille Di Saluzzo il dominio alla fortuna Stringono di Milano. —Oggi disciolta È l'infernal necessità. —Che intendi? —Svelta alfin oggi dall'ignobil crine Del marchese Tommaso è la corona. —Oh ciel! che parli? Come? —Oggi Saluzzo E delle valli sue tutti i baroni Mutan sommo signor: nel seggio ascende Del marchesato… —Chi? —Manfredo. —Un sogno, Un sogno è il tuo: Manfredo osò la mano Stendere al serto del nepote un giorno, Ma pochi il secondaro, e giurò pace. —Fur vïolati da Tommaso i sacri Vincoli della pace, e l'insultato Manfredo sorge con diritto, e pugna. —Foggiati insulti! Agli occhi miei rifulge Di Tommaso la fede. —Or cessa, o zio, Di compianger l'iniquo, e sostenerlo. A quest'ora medesma in ch'io ti parlo, Invitte squadre ascosamente tratte Son da più lati del Piemonte, l'une Da Savigliano e circostanti borghi Obbedïenti al re, l'altre portando La Taurinense e la Sabauda insegna; Ed a lor si congiunge Asti, ed il nerbo De' Monferrini guelfi; e, pria che albeggi, Saluzzo investiranno, e di Saluzzo Da interni guelfi s'apriran le porte.
—Perfidia tanta ah! non permetta il cielo! —Manfredo, signor nostro, a te m'invia, A te ch'egli ama e venera, e possente Crede appo Dio. —Che vuol da me il fellone? —T'acqueta. —Che vuol ei? —Rende onoranza A quella fama tua che in parte celi Per umiltade, e forse in parte ignori, Ma che sul volgo e sui baroni è immensa. Il vigor de' Profeti, è nel tuo sguardo, Nella parola tua, nell'inclit'opre! Nè fur poste in obblìo le ardimentose Verità che portate hai cento volte In nome dell'Eterno a' piè de' forti. Banditor oggi te desìa, te vuole Di verità terribili Manfredo: Vieni i Visconti a maledir nel campo, Vieni in Saluzzo a maledirli; vieni Tommaso a maledir, che a' ghibellini Fatto s'era mancipio; e il tuo ispirato Ingegno volgi a secondar gl'intenti Di chi protegge i popoli e il diritto. Balza a tai detti dal suo antico seggio Il sacro vecchio, e grida:—Oh sconsigliati! Oh foss'io in tempo! Oh, me vestisse Iddio Del vigor de' Profeti un giorno solo! Ov'è Manfredo? —Il menan le notturne Ombre colla invadente oste a lui fida. —Mi si bardi il corsier, prorompe l'altro. E mentre il laico diligente move Ad obbedir, l'illustre coppia ancora Entro la cella si sofferma, e scambia Dell'agitato alterno animo i sensi. —Figlio, sedotto sei. Più che a te noti Di Roberto e Manfredo i cor mi sono. Ottimo è il re, ma in Napoli, ove lieto Di splendid'arti e cortesìa sfavilla: Lunge di là, malefico è il suo genio, Però che illude cavalieri e volgo, Con brame empie di guerra e di rivolta. E mentre a chi gli sta vicino ei mostra Amabili virtù, sparge per tutte Le vie della penisola protetta Superbi capitani a intimar pace, Depredando, uccidendo e soggiogando. Tal è il vantato amico re. Gli giova Scemar la possa de' Visconti, a noi Unici grandi appoggi; ed a quel fine Oggi stromento egli Manfredo elegge. —A Manfredo parlando e a' regii duci, Dissiperassi il tuo terror. Brandite Furon le generose armi con alto, Solenne giuro d'elevar gli oppressi, Ed atterrar chi leggi ed are spregia. —Di chi s'avventa a qual sia guerra, è il giuro. —Vedrai di stirpe Saluzzese egregi Baroni alzar la Manfredesca insegna. —So che vedrovvi tra i cospicui illusi Quell'Arrigo Elïon che ti governa, Sua figlia promettendoti. Arrossisci? Pur troppo non errai. —Più che gli affetti, Seguir ragione e coscïenza intendo. Bardato del canuto è il palafreno, E accanto ad esso scalpita il corsiero Del giovin cavalier. Brevi l'abate Lascia a' monaci suoi caute parole; Di sua man l'acqua santa a lor comparte, Li benedice, ed eccolo salito Guerrescamente sull'arcion, siccome Uom, che pria della tonaca ha vestito Corazza e maglia, e nome ebbe di prode.
Stride sui ferrei cardini la porta Del monastero, e si spalanca. Entrambo Escon gl'illustri, e su minor cavalli Duo servïenti; e soffermato resta In sulla soglia il monacal drappello, Cui s'abboccò l'abate alla partita. —Che fia? Si dicon con alterno sguardo Paventando sciagure, ed ignorando Le sovrastanti stragi. Intanto s'ode La campanella de' notturni salmi, E vien chiusa la porta, e traversato L'ampio cortil, tutta la pia famiglia Entra nel tempio e tragge al coro, e canta.
[1] La Contessa DEODATA ROERO DI REVELLO, nata SALUZZO.
II.
All'ombra delle chiese oh fortunata Pace, in secoli d'odii e tradimenti! Ivi mentre ne' campi arse talora Venìan le messi, e al villanello afflitto Il guerriero aggiugnea scherni e percosse, E mentre in borghi ed in città i fratelli Trucidavan fratelli, e mentre noto Andava questo e quel castel per nappi Di velen ministrati, e per pugnali Vibrati nelle tenebre, e per donne, Che il geloso, implacabile barone Seppellìa vive delle torri in fondo, Il monaco espïava or sue passate Colpe, or le colpe delle stirpi inique: E non di rado quelle sacre lane Coprìano ingegni sapïenti e miti, Stranieri al secol lor, com'è straniero Fra malefici sterpi il fior gentile, E fra cocenti arene il zampillìo Ospital d'una fonte, e fra selvagge Masnade un cor che sopra i vinti gema. Intanto che a Staffarda i coccollati Salmeggiavano in coro, e che l'antico Ugo sul palafreno i pantanosi Sentieri e le boscaglie attraversava, Mossa da Moncalier, tragge a Saluzzo Moltitudine varia e spaventosa: Di regie insegne e d'alleati, e insieme Co' guerrieri diversi orrende bande Di comprati ladroni. Il sommo duce È Bertrando del Balzo, altero e prode Siniscalco del rege, e di Bertrando Primo seguace è il traditor Manfredo, Ch'entrambe i suoi fratelli sconsigliati Seco strascina alla malvagia impresa.
Giunger vonno di notte appo le mura Insidïate, e lor sorride speme Ch'a suon di trombe s'apra ivi la porta. Ma precorsa è la fama, e quando arriva L'oste a' piè di Saluzzo, e dagli araldi Si suonano le trombe, al suono audace Interna intelligenza non risponde, E nessun ponte levatoio scende Degl'invasori al passo. Irte le mura Stan di lance fedeli, scintillanti Al raggio della luna, e dal lor grembo Piovon sull'oste urli di rabbia e dardi; Ed a quegli urli universal succede Il grido popolar:—«Viva Tommaso!». Sì che Manfredo per livor si morde Ambe le labbra, e al baldanzoso volgo Giura dar pena d'infinite stragi. Il Provenzal Bertrando, alma beffarda Dell'amistà del rege insuperbita, Quasi rege teneasi, e agevolmente Sovr'ogn'italo sir vibrava scherni. Prorompe ei quindi in tracotante riso, E voltosi a Manfredo:—Ecco, gli dice, Quel che ne promettesti universale Amor per te de' Saluzzesi spirti!
Poi dopo il riso atteggiasi a disdegno: —Tutti siete così! Promesse, vanti, Folli speranze! ed ardui indi i perigli, Lunghe le imprese, ed il mio re frattanto Per vantaggi non suoi perde i suoi prodi! —T'acqueta, dice con infinta calma Il fremente Manfredo; oltre poch'ore Non dureran gl'inciampi: un solo basta Gagliardo assalto, e il disporrem veloci. Mentre a dispor l'assalto ardimentosi Coopran gl'intelletti de' supremi E l'obbedir delle volgari turbe, Congegnando, apprestando armi, brocchieri, Ferrate travi e macchine scaglianti, E tutta la pianura è voce e moto E cigolìo di carri, e picchiamento Di mannaie che atterrano le piante, E stridere di pietre agglomerate, E in mezzo alle fatiche or la bestemmia E l'impudente ghigno, ed ora il canto— Dentro Saluzzo non minor s'avviva Il poter delle menti e delle braccia Per la sacra difesa. Ignoti e pochi Sono gl'interni traditori, e a mille Ardono i cuori allo stendardo uniti Del marchese Tommaso. Ei di que' prenci Magnanimi era, ch'ove rischio appaia, Brillan di nova luce, e più sublime Han la parola, e più sublime il guardo, E quasi per magìa destan ne' petti Della poc'anzi malignante plebe Amor, concordia, ambizïon gentile. Pressochè in tutte l'alme ivi obblïato È questo o quell'error che, apposto o vero, Jer gran macchia parea sovra Tommaso: Più non vedesi in lui che un assalito Posseditore di paterni dritti, Un amato signor, una man pia Che premiava e puniva e sorreggeva, E ch'uopo è conservar. Sì che la stessa Bellissima Riccarda, onde cotanto A' Saluzzesi dispiacea la stirpe, Più d'abborrita origine non sembra, Or che il popol la vede paventosa, Ma non già vil, dividere i perigli E le cure del sir. La sua bellezza Molce i fedeli armati; il suo linguaggio Più non suona stranier, benchè lombardo. E quand'ella e Tommaso, a destra, a manca, Parlan di speme nell'accorrer pronto Dell'armi de' Visconti a lor salvezza, Esultan gli ascoltanti e mandan plauso. Al declinar di quell'orribil notte Ugo nella invadente oste arrivava Con Eleardo, e trassero al cospetto Del regio siniscalco e di Manfredo. Alzò Manfredo un grido di contento All'apparir del vecchio, ed a Bertrando Lo presentò dicendo:—O sir del Balzo, Eccoti di Staffarda il presul santo, Colui, che per bell'opre onnipossente Fama sul popol di Saluzzo ottenne! Il cor certo gli splende a questa aurora D'un avvenir pe' nostri patrii lidi Più glorïoso e fortunato e giusto. Avvicinossi ad Ugo il siniscalco, E celando nell'alma dispettosa Il disamore e il tedio, un reverente Foggiò sorriso, e disse:—Anco il monarca Serba di te memoria, o illustre padre, E qui trionfo, non dall'arme tanto, Che ben darglielo ponno, egli desìa, Quanto dall'opra del tuo amico senno. Indi Manfredo ripigliò i motivi A spiegar della guerra, annoverando Frodi e stoltezze e ineluttabili onte Sul nome di Tommaso accumulate, Perchè ligio all'astuta Insubre possa, Ed uopi urgenti di riparo, e prove Che il maggior uopo a' Saluzzesi fosse E a tutta Italia l'unità d'omaggio Di quanti erano feudi al re Roberto. Ed Ugo ai cavalieri:—Il mio suffragio Certo sarìa per la comun concordia Sotto uno scettro o ghibellino o guelfo, Ma non basta d'afflitti animi il voto Perchè cessi il poter dell'ire antiche In un popol di stirpi concitate Ad aneliti varii e a varii lucri; E ragioni si schierano possenti Al mio intelletto, sì ch'io neghi al regno D'uno straniero in Puglia incoronato Il giunger con sua fama e co' suoi brandi A collegarci a reverenza e pace. —Pensa, o canuto, ch'alto assunto è il nostro: Degna è di te l'aïta. —Aïta bramo Recarvi, sì: guisa sol una io scorgo. —Qual? —Del popolo agli occhi e degli armati Intercessor presenterommi a voi, E per relïgione ambi e clemenza Sospenderete le battaglie, e intanto A Napoli n'andrò. Placherò, spero, L'augusto re; lo distorrò da impresa Onde gli torneria danno ed obbrobrio; E se leso alcun dritto era a Manfredo, Per saldi patti ei risarcito andranne. —Proporne indugio alle battaglie è vano: Impermutabil di Roberto è il cenno; E mal vai profetando obbrobrio e danno A chi certezza piena ha di vittoria. Solo uno sguardo a nostre schiere volgi, E vedrai che Saluzzo oggi s'espugna. —Espugnarla potrete, ed il ricovro Forse tor del castello al vinto sire, E prigion trascinarlo, e dalle chiome L'avito serto marchional strappargli, E tu, Manfredo, ornartene la fronte. Io non ciò vi contendo; io, per l'antico Conoscimento mio di questa terra E degli animi suoi, sol vi dichiaro, Che al crollar di Tommaso, ardua e non ferma Vittoria avreste. In cor de' più, gagliarde Son le eredate ghibelline fiamme, Gagliarda quindi l'amistà a' Visconti, Gagliardo l'odio per le guelfe insegne. Picciol popolo siam, ma ci dan forza E l'arme de' Visconti e il nostro ardire, E l'indol Saluzzese, aspra, selvaggia, Che paure non piegan ne' supplizi. —Obblii ch'io pur son Saluzzese, e mai Non mi piegan paure. —In te, Manfredo, Splenda il miglior degli ardimenti: quello D'anteporre alle gioie empie del brando Una gloria più pia, l'amabil gloria D'allontanar dalle tue patrie rive Una guerra funesta! —Altra favella, Assumi, o vecchio. Se t'è caro ufizio Scemar l'orror d'inevitata guerra, Sposa il vessillo mio, movi alle mura Assedïate, i cittadini arringa, Traggili a sottopormisi. —Non posso! Nol debbo! Ufizio mio giovevol solo Esser ponno le supplici parole, E l'aprirvi, quai Dio me li palesa, I forti avvisi. Trattenete i brandi, E se ingiustizia fu in Tommaso, al dritto Basteran le ragioni a richiamarlo, Ed indi a pochi dì voi satisfatti E glorïosi e senza ira di sangue, Benedetti dai popoli e dal cielo, Trarrete a vostre sedi. Ove sospinto Da ambizïone e da rancori antichi Tu inesorabilmente alla corona Di Saluzzo, o Manfredo, oggi agognassi, E afferrarla potessi, in odio fora Il nome tuo a' soggetti, e, pur volendo, Felici farli non potresti. Iniqua Necessità di gelosie e vendette Nasce da civil guerra, e l'usurpante Non si sostien fuorchè a perpetuo patto Di timori e carnefici. E si ponga Che dianzi mal reggesse il prence vinto, L'esser vinto o fuggiasco ovver sotterra Amicherà al suo nome i cuori molti Che offeso avrai; s'obblïeranno i torti Del perduto signor; s'abbelliranno Le ricordate sue virtù. Lui spento, Sorgeran prenci astuti o generosi Per vendicarlo, e s'anco astuti ed empi Fossero in cor, venereralli il volgo, Giocondo sempre d'abborrire un forte, Che per ingegno e vïolenza regni. E a cotal colleganza d'assalenti Quai son le forze che opporrìa Manfredo? —Le regie forze! esclama furibondo Il Provenzal barone. —In molte guerre Il vostro re s'avvolge, Ugo ripiglia, E ove sia con gagliarde armi assalito Per altri lidi, a propugnarli io veggo Receder queste schiere, e te, Manfredo, Veggo fremente e povero d'acciari, E tradito da' tuoi!… Qui del profeta Interrompon la voce i capitani. Egli alza il Crocefisso, ed umilmente Prega i superbi, e pregali pel nome Del Redentor. Respinto viene, e sorge Più d'un ferro dell'oste a minacciarlo. Scudo al monaco feansi alcuni prodi, E fra questi Eleardo. Il santo vecchio Di scherni non tremò, nè di minacce, E più fïate ripetè ai felloni: —L'impresa vostra maledice Iddio!
III.
Di te, Religïon, nobile è ufficio, L'affrontare imperterrita coll'arme Delle temute verità i superbi, Pur con periglio d'onta e di martirio! E quell'uficio, oh quante volte i veri Sacerdoti di Dio forti adempièro! Talor sotto l'acciar de' vïolenti Perìan que' venerandi, e talor rotti E insanguinati, e carichi di ferro Venìan sepolti in erma, orrida torre: Nè dai tremendi esempi sbigottito Era il cor d'altri santi. E se la voce D'un'alma pura e consecrata all'are Da iniqui prodi spesso iva schernita, Pur non inutil pienamente ell'era: Schernita andava, ma ponea ne' petti Di que' feroci inverecondi un germe Che forse un dì fruttava; ed era un germe Religïoso di terrore. E in mezzo A tai feroci petti, alcun pur sempre Ve n'avea di men guasto, a cui l'ardita Sacerdotal, magnanima parola Or di cospicui presuli, or d'umili Fraticelli o romiti in patrocinio Degl'innocenti, era parola invitta Che con pronti rimorsi il tormentava, Sì che riedesse a carità ed onore. Compagno fessi al vecchio Ugo per molti Passi Eleardo oltre al terren coperto Da quelle schiere di crudeli armati, Indi, con grave d'ambidue cordoglio, Il nipote strappossi dalle invano Tenaci braccia dell'amato antico. Ahi! senza pro sclamava questi:—Oh figlio! Qui non m'abbandonar! Più fra quell'empie Insegne che il Signore ha maledette Pel labbro mio, deh non ritrarre il piede! Te ne scongiuro per la sacra polve Della mia suora, a te sì dolce madre! Te ne scongiuro per la polve illustre Del tuo buon genitore e de' nostr'avi, Che fidi cavalieri ed incolpati Furon sostegni tutti a chi in Saluzzo Stringea con dritto il signorile acciaro! Esci dal laccio che al tuo core han teso I rapaci stranieri! A me, alla patria, Al tuo prence ritorna. Infamia e lutto Sta con Manfredo, con Tommaso il cielo!
Udìa Eleardo il prolungato grido Del supplice canuto, ed il veloce Corso intanto seguìa. Ma benchè sordo Paresse e irreverente, a lui que' detti Eran quai dardi all'anima commossa, E vïolenza a sè medesmo ei fea Non fermando il suo corso, e non volgendo Il piè per rigittarsi alle ginocchia Del caro supplicante. Il pro' Eleardo S'ostinava per varii ignoti impulsi A ritornar fra i collegati duci, Cercando creder ch'ei virtù seguisse, Ed Ugo fosse un tentatore, un cieco D'errori amico. Intende il cavaliero Ad ogni vil tentazïon lo spirto Incolume serbare: idolo intende Virtù, virtù, non larva farsi alcuna! Virtù vuol ravvisar, virtù secura Nelle giurate splendide fortune, Che il re Angioìno ai Saluzzesi e a tutta La penisola appresta. Ei quel monarca Ed i suoi capitani, e più Manfredo Vuol reputar veraci eroi. Ma pure…. Ad onta del proposto, il sen gli rode Nascente dubbio irresistibil. Cela Questo dubbio, ma il porta, e così giunge Turbato, afflitto ai Manfredeschi brandi. A molti il cela, sì, non a sè stesso; E ondeggia alquanto, indi neppur celarlo Può al genitor della donzella amata, Guerrier, cui lo stringea più che ad ogn'altro Pia reverenza. E sì gli parla: —Oh Arrigo! Appartiamci, m'ascolta: allevïarmi D'occulta angoscia non poss'io, se teco Non ne ragiono come a padre. Il fero Barone attento il mira, e con presaga Severità:—Vacilleresti? —Lievi Estimar bramerei del venerando Ugo le voci, e non so dirti quale In siffatte or benigne or fulminanti Parole di tant'uom, che onoro ed amo, Splender raggio tremendo oggi mi paia! Aggrotta il ciglio Arrigo, e l'interrompe: —Bada, Eleardo, che al rischioso passo Dopo lungo pensar ci risolvemmo; Or paventar nel cominciato calle Obbrobrio fora. Ma sebbene Arrigo Al giovin cavalier biasmo gettasse, Non men del giovin si sentìa colui Perturbato nel cor, per l'ardimento Del fatidico abate, e nel futuro Nubi scorger pareagli atre e sinistre. Dissimulava non pertanto, e saldo Stava come mortal che da gran tempo Il proprio senno e i proprii fatti adora. Tal era il truce Arrigo: ei mille volte Morto sarìa, pria che mostrarsi in gravi Opre dapprima certo, indi esitante. Il ferreo vecchio avea ne' precedenti Anni, coll'inquïeta ed iraconda Sua desïanza di giustizia e gloria, E col non mai pieghevole intelletto, Molti alla corte di Tommaso offesi. L'esacerbaron quelli, ed egli volse L'animo suo secretamente a' guelfi Ed a Manfredo, ivi lor duce occulto. Parve a Manfredo egregio essere acquisto L'amistà di tal forte, incanutito In severi costumi; e scaltramente Il seppe avvincolar con dimostranze Di sommo ossequio, affinchè il guelfo volgo, Affidato d'Arrigo alla canizie, Argomentasse tutti esser maturi, Tutti esser giusti gli audacissimi atti Cui Manfredo appigliavasi. Ahi! d'Arrigo La canizie coprìa pochi pensieri, Benchè gagliardi, e quell'ardito prence Consigli non chiedea, ma obbedïenza. Arrigo sè medesmo in alto pregio Reputa nella mente di Manfredo: A lui si crede necessario, e spesso Immagina que' dì, quando in Saluzzo Dominerà quel novo sire, ed ivi Migliorate n'andran tutte le leggi. Giubila e fra sè dice:—A tanto bene Della mia patria io dato avrò l'impulso! Io sono il genio di Manfredo! Io lui Illuminato avrò! Tener lontana Saprò da lui l'adulatrice turba, E gli ottimi innalzar! Beneficate L'adoreran le Saluzzesi terre, Ma unito al nome suo splenderà il mio! Sì grande speme ad Eleardo egli apre, Voglioso d'infiammarlo. Il giovin ode, Ma sta sospeso e mesto, indi ripiglia: —Rimaner con Manfredo obbligo è nostro, S'egli, mantenitor delle più sacre Fra le promesse, non vendetta anela, Ma podestà di padre, e di supremo Difenditor de' nostri antichi dritti. Chè s'egli, come d'Ugo oggi è temenza, Sol esca avesse ambizione ed ira, E gettasse la larva, e m'apparisse Malefico signor, oh! apertamente Gli disdirei servigio, e a cielo e terra Confesserei ch'io per error lo amava! Del magnanimo detto d'Eleardo Stupisce Arrigo, e corrucciato esclama: —Supposto indegno è il tuo! Pensa che solo A impermutabil, vero animo guelfo Sposa n'andrà dell'inconcusso Arrigo L'obbedïente figlia! Il disdegnoso Vecchio si scosta, e resta ivi solingo Col suo dolore, e colla sua turbata Ma non corrotta coscïenza il prode Amante cavalier. —Volli del giusto Seguir la insegna, e voglio: in me desìo Altro capir non potrà mai! Sospetti Sol mi ponno assalir che non qui sorga, Non qui del giusto la bramata insegna. E se ingannato mi foss'io? Se falsi Scorgessi i dritti di Manfredo? Ligio Ad armi inique ratterriami forse Perfido orgoglio? O ad armi inique ligio Mi ratterrìa questa laudevol fiamma Che in petto chiudo per Maria, per tale, Che tutte illustri damigelle avanza In bellezza e virtù? Mi farei vile Per ottener la mano sua? Non mai! Amarti debbo degnamente, o donna Di tutti i miei pensier; debbo onorarti Ogni virtù seguendo e suscitando, S'anco per onorarti, ah! il più crudele Mi colpisse infortunio, e te perdessi! Del maggior tempio di Saluzzo all'alto Vertice non lontano erge le ciglia, E curvando ei lo spirto anzi alla croce Che colassù sfavilla, al Signor chiede Lume a scernere il vero e a praticarlo. Il divin lume balenogli e crebbe Al guardo suo ne' dì seguenti, alcuna Non vedendo in Manfredo esser pietosa, Verace cura nel funesto assedio Di tutelar gli oppressi e vendicarli, Mentre la invaditrice oste pe' campi S'andava ad ogni infamia iscatenando. A tutelare o vendicar gli oppressi Bensì Eleardo qua e là accorreva, Ma non di lui bastanti eran gli sforzi, Nè bastanti gli sforzi erano d'altri D'animo pari al suo cavalleresco, Che insiem con esso or s'avvedean fremendo Quanta in Manfredo, e ne' fratelli suoi Ed in Bertrando e nelle rie caterve Indol, non già d'amici eroi si fosse, Ma d'impudenti ladri e di nemici. Insin dal primo giorno i brandi iniqui Della straniera turba entro innocenti Tugurii sparser miserando affanno. Qui sgozzarono vergini inseguìte, Là genitori che alle amate figlie Difensori si fean. Volge ma indarno La sua voce imperterrita Eleardo Or a questo or a quel de' condottieri. Il siniscalco move il capo e ride, E Manfredo le accuse ode in silenzio, Guarda le torri di Saluzzo, e sembra Dir:—Che mi cal d'iniquità e di pianto, Purchè in breve là entro io signoreggi? Vengono a tutta la contrada imposte Inaudite gravezze, e ad ogni adulto Legge s'intima, sì ch'ei giuri ossequio Al marchese novel. L'abbominato Giuro negavan molti; indi tremende Carnificine a spegnerli, ed i tetti Diroccati e consunti dalle fiamme, E borghi interi in cenere ed in sangue! Fama nel campo giunge aver Lunello, Antico sir di Cervignasco, il giuro Negato agl'intimanti, e colà sorta Esser numerosissima una plebe A difender quel sir.—Temono i duci Che di Lunel la resistenza esempio Ad altri arditi feudatari avvenga, Ed invìan fero stuolo a Cervignasco, Che tutto abbatta, e in ogni dove insegua Il valoroso sire, e in brani il faccia. Consanguineo Lunello è d'Eleardo, Ed il giovin l'amava. Ahimè! non puote Questi il cenno arrestar, ma prontamente Scagliasi dietro all'orme de' ladroni, E moderarli spera, o spera almeno Sottrarre agli omicidi i cari giorni Del congiunto barone e de' suoi figli, O almen d'alcun di loro. Ah! dalle spade Distruggitrici invaso, saccheggiato, Pieno di strage è il borgo! Il prò Lunello Ferito fugge, e a stento si ricovra All'ombre sacre d'una chiesa, e seco Tragge l'antica moglie e le sue nuore E i lattanti nepoti. Ecco nel tempio I sacrileghi brandi! Ecco all'altare Abbracciate le vittime! Eleardo Entra, s'inoltra, grida: i truci colpi Eran vibrati! A' pie' di lui nel sangue Stramazzando Lunel, queste supreme Voci mettea:—Se tu Eleardo sei, Non prestar fede al rio Manfredo; imìta L'esempio mio: pria che avvilirti, muori! Dato alla chiesa il guasto, escon gli armati In cerca d'altre prede, e fra que' morti, Appo quell'ara, in disperata angoscia Resta Eleardo, e piange ed urla, e i crini Dalla fronte si strappa. Oh! chi l'afferra Gagliardamente per un braccio e parla? Il presul di Staffarda. Il qual veniva Di Lunel suo cugino ai dolci alberghi, Ed impensata vi trovò battaglia Ed orribile eccidio, e dalla fama Venne sospinto ai sanguinosi altari. Il braccio afferra del nipote, e dice Con autorevol grido: —O sciagurato, Non di lagrime è d'uopo in queste colpe, Ma di nobil rimorso! A me la cura Lascia di queste miserande spoglie: Di giusti da feroci arme sgozzati, E volgi ad opre valorose. Espìa Il breve tuo delirio: appella, aduna, Suscita i forti delle valli. Insieme V'avvincolate con possenti giuri: Pio ghibellino ridivieni e pugna. Abbracciò il giovin cavalier le piante Del magnanimo zio. Questi con forza Lo rïalzò, gli ripetè il comando, Gli mostrò i consanguinei trucidati E il rosso altare e le spezzate croci; Raccapricciò Eleardo, il cor gl'invase Lampo di speme, si riscosse e sparve. Che avvien di lui, mentre lo zio infelice Riman nel tempio e fra dolenti voci D'alcuni inconsolati villanelli E di pietose donne, a tanti uccisi D'ultima carità rende gli ufizi?
Strazïato Eleardo dal conflitto De' sinistri pensieri, asceso in sella, Simile a forsennato errò per vie, Per prati e per arene di torrenti, Chiedendo a sè medesmo e al ciel chiedendo Che fare omai dovesse. Un forte impulso L'agitava, e diceagli ad ogni istante D'obbedir senza indugio ai sacri detti Del morente Lunello e ai detti d'Ugo, Ridivenendo ghibellin. Ma in core L'astuto angiol del mal gli rinnovava Quel lusinglliero dubbio:—E se agli scempi Inevitati di que' giorni atroci, Che forse gettan falsa ombra maligna Sul benefico intento di Manfredo, Succedesser davvero inclite prove D'alto senno in Manfredo e di giustizia, Sì che alla patria giovamento e lustro Per lunga età tornasse? Impresa egregia Senza olocausti non compìasi mai, Nè per questi dar loco a terror debbe L'alma del forte, a giusta gloria inteso. Così fra le incertezze e le speranze E i rimbrotti del cor riede Eleardo Delle masnade assedïanti al campo.
IV.
Miseramente ricca è d'infinite Fallaci industrie coscïenza, i cari Proponimenti ad abbellir, pur quando Luce severa di ragion li danna. Ma chi d'iniquità volonteroso Per l'infame sentier non move il piede, Sente per quel sentier, sebben cosparso Da inferne mani di stupendi fiori, Un ribrezzo frequente, un indistinto Fetor che si frammesce a que' profumi, Ed il ferma e il sospinge ad arretrarsi; Simile a que' timori innominati Che invadon ne' deserti il buon destriero, S'ivi non lungi s'accovaccia il tigre; E simile a que' taciti spaventi Che fanno impallidir la verginella, Quando in sembiante d'uom che di bellezza Adorno splende, ella ravvisa ignoto Lineamento, o non so qual favilla Nel sorridente sguardo, o non so quale Moto di labbro che le dice:«Trema!» In que' presaghi palpiti d'un core Ch'è vicino al periglio, e per potenza Misterïosa se n'accorge e guata, V'è la voce di qualche angiolo amante Che tutti sforzi a pro dell'uomo adopra: V'è la possa d'Iddio che lume sempre Bastevol dona a illuminar suoi figli. Vane di coscïenza in Eleardo Son le fallaci industrie: ei sulla fronte Porta il corruccio di talun che vive Fra scoperti ribaldi, e più li mira, Più inorridisce; e nondimen vorrebbe Insensato scusarli e amarli ancora. Oh come trista di quel dì esecrando Giunse la sera, e qual più trista notte Agitò ognun che, pari ad Eleardo, Alti e pietosi sensi ivi serbasse! Ma la dimane di quel dì pur troppo Sorse peggior! Repente una perfidia Entro le mura di Saluzzo avvenne, Che affrettò la caduta. In vari alberghi Scoppiano incendi orribili, ed il volgo De' cittadini si sgomenta, accoglie Di calunnia le voci. Un grido s'alza Esser Tommaso degl'incendi autore, Affinchè al buon Manfredo omai vincente Nulla Saluzzo fuorchè cener resti.
Da poche mani congiurate i fochi Erano stati per le soglie accesi, E poche fur le labbra che dapprima Spargere osaro il grido abbominoso. Ma frenesìa nel popolo s'appiglia, E ratto si moltiplica il pensiero, Esser Tommaso un barbaro oppressore Abborrito dal ciel. Lui benedetto Asseriscon invan con generosa Gara i ministri delle chiese e i sempre Pacificanti Francescani e il colto Stuol di color, che stretti avea la legge Di Domenico santo all'esercizio De' forti studi e della pia parola. Benefiche potenze eran que' frati Sullo spirto de' popoli, e sovente, In tai secoli d'impeti e di sangue, Ma di gagliarda fè, coi gonfaloni Di Francesco e Domenico a feroci Animi imponean calma e pentimento. Ma spuntano ai viventi ore talvolta Di contagiosa irrefrenabil rabbia, E sotto ore sì infauste debaccava Del Saluzzese popolo assai parte. Dal di fuori frattanto a que' momenti Ecco irromper l'assalto! ecco le mura Scalate, superate! ecco Tommaso Astretto a ceder le abitate vie, A salir frettoloso all'alta rocca A lui ricovro ed a' suoi cari estremo! Non eccelsa metropoli prostrata Da infinite falangi era Saluzzo, Nè i suoi dolori fur soggetto a carmi Di stupefatte illustri nazïoni, Ma fur sommi dolori! E li divise Quel Iacopo da Fia, che vergò in forti Carte la istoria del tremendo eccidio. Ah, inorridisco in leggerle, e m'ispiro Io tardo trovadore al mesto canto! La fella di Manfredo anima irosa Crucciavan nuovi aneliti a vendetta, Perocchè a' piedi suoi sotto le mura Fracassati da travi e da macigni Dianzi veduto alcuni cari avea, E fra loro un fratello, il più diletto De' prodi e truci due degni fratelli. In ogni vinto armato cittadino, Ed anco negl'inermi e ne' vegliardi, E nelle donne stesse il furibondo Immaginava la nemica destra Ch'orbo l'avea di quel fratello, e tutti Ei sterminati indi li avrìa. Frenava Il proprio acciar, ma non frenava quelli Della brïaca moltitudin varia Ivi con esso a imperversar prorotta. Rifugge l'estro mio dalla pittura Degl'inauditi singolari strazi Che segnalàr quel giorno. Oh vane e stolte Speranze dei domati! oh retrospinte Preghiere fervidissime, innalzate Da' miseri che proni eran nel sangne De' figli loro o nel fraterno sangue! Oh giustamente non curati applausi Della stolida feccia scellerata Che menar volea festa ai vincitori, Liberator' chiamandoli, e mandati A raddrizzar tutti i plebei diritti! Oh inutil congregarsi trepidando Di lagrimose vergini e di madri E di fanciulli anzi ai predoni infami, Ricordando a costoro i dolci nomi Di pietà, di giustizia e d'innocenza! Oh ingiurie non dicibili! Oh colpiti Dalle scuri sacrileghe gl'ingressi Di più case di Dio, dove sgozzati Cadono antichi sacerdoti, e gioco Reliquie vanno e sacri vasi ai ladri! Tutto è dileggio e rubamento e morte Intero un giorno e la seguente notte, E già parte dell'armi e de' congegni Ratta si volge ad investir la rocca. Magnifico sorgea d'aprile un sole, E delle pompe di sì splendid'astro Raccapricciaron di Saluzzo i vinti, Lor macerie e cadaveri mirando, Quand'a lor s'apprestàr novelle ambasce. Clangor repente innalzasi di tromba, E nel nome abborrito di Manfredo Gridan gli araldi questo atroce bando: «Esser giusto castigo al contumace Popol de' ribellanti soggiogati, Ch'ivi su pietra più non resti pietra, E irremovibilmente or quel castigo Compiersi pria che il sol giunga all'occaso; Ma perdonata andare ancor la vita Ai puniti felloni, e per clemenza Che maggiormente moderi il flagello, Concedersi ad ognuno il portar seco Qual ch'egli serbi di tesori avanzo». Tal legge uscita, il raddoppiato pianto
Chi dirìa degli oppressi? A que' lamenti Inesorata del tiranno è l'alma, Inesorata al supplicar di molti Infra suoi cavalieri e d'Eleardo: Forz'è ch'ogni abitante i cari tetti Sgombri innanzi la sera, e chi sa dove Ramingo vada. Non v'è tempo a indugi, E vedi con sollecito, confuso Moto d'alme avvilite e disperate, Fra i singhiozzi e fra gli urli incominciarsi L'infelice spettacolo. Agl'infermi Ed agli avi decrepiti sostegno Fansi gli adulti d'ambo i sessi, e cinte D'adolescenti e pargoli e lattanti Collacrimar vedi le donne. Ognuno Che già d'averi non sia privo, or seco Gli ultimi tragge vestimenti e arredi. Di sì misera vista i vincitori Gioìron crudelmente insin che tutta Fosse la turba delle case uscita. Frodolento il decreto era a sol fine Di scovrir se ricchezza aveavi ancora Che al saccheggio primier fosse sfuggita. Or poichè tutti di lor robe carchi Furono i cittadini, il rio Manfredo Misericorde spirito ostentando, Disse che rasi non andrian gli ostelli, Ma diè barbaro cenno alle coorti Che assalisser la turba, e d'ogni spoglia La derubasser. Così il vil tiranno Suoi debiti solveva ai masnadieri, Che a quel regno di sangue aveanlo alzato. L'inverecondo estremo predamento Desta a furor gli sventurati. Allora Più non resiste agl'impeti possenti Del suo sdegno Eleardo:—Io m'ingannai, Alto grida fra il popolo; io sognava Esser Manfredo della patria padre; Usurpator mi s'appalesa infame! Con lui rompo ogni vincolo, al cospetto Di voi, di lui medesmo! Intorno al prode Cento gagliardi giovani un celato Ferro traggon dal seno, od ai nemici Tolgon con forza l'arme, e questo pronto Saluzzese drappello osa brev'ora Sperar prodìgi. Orribile, ostinato Combattimento per le piazze ferve, E più fïate incontrasi Eleardo Coll'iniquo Manfredo, e mescolati Sono i lor brandi valorosi indarno. S'incontrano Eleardo e Arrigo pure, E quei più volte può svenare il vecchio Ma con affetto filïal lo sparmia, Benchè Arrigo lo imprechi. Alfin dal troppo Numero sopraffatta è l'animosa Schiera de' cento, e arretra, e quasi intera Esce fuor delle mura, ed inseguìta Viene per la campagna infin che l'ombre Delle selve la involano ai crudeli. Intanto agli occhi di Saluzzo un nuovo Si compiva infortunio. In man degli empi Cade la rocca stessa, e prigioniero Indi co' dolci figli esce Tommaso, E tratti van gli sciagurati illustri In carceri diverse. Alta ventura Ancor si fu che in piena sua balìa Non li avesse Manfredo: ei li avrìa spenti. Il fero siniscalco uman s'è fatto, Sì perchè non abbietto era il suo core, Sì perchè astutamente al rio Manfredo Volea serbar temuto un avversario, E sì perch'egli al generoso senno Ed alle scaltre previdenze unìa Non leve sete d'oro: immenso chiede Pel vinto sir riscatto ai ghibellini. Ma che diss'io, nel provenzal barone Immaginando non abbietto il core? Qual fu pietà la sua, mentre di scherni Osò abbevrar fuor di Saluzzo, a' piedi De' trionfati muri, innanzi a tutte Le invereconde vincitrici squadre, L'illustre prigionier, lui dichiarando Spoglio di signorìa? lui dividendo Da' lagrimosi tenerelli infanti, Che al sir d'Acaia fur commessi e tratti Di Pinerol nella superba rocca? L'infelice Tommaso a sorso a sorso D'amara prigionìa sorbì la tazza, Prima in Cardato brevi dì, poi chiuso Di Savigliano entro il castel, poi tolto Maggiormente alla vista de' mortali, E seppellito in solitaria torre, Di Pocapaglia sovra l'erta cima, Indi levato da quel forse troppo Mal securo deserto, e fra le mura Di Cuneo inespugnabili nascoso. Non sì tosto compita, ahi! di Tommaso Fu la caduta dall' avito seggio, Volò del tristo avvenimento il grido Pe' saluzzesi piani e per le balze, E l'intese Eleardo entro a' suoi boschi. Disconfortati allora esso e i compagni, Depongon le arditissime speranze Accarezzate nella prima ebbrezza, O se tutti non vonno appien deporle, In avvenir remoto, indefinito Le vagheggiano omai. Son ripetuti D'amicizia fra loro e di costante Cor ghibellino i dolci giuramenti, E con dolor s'abbracciano bagnando Di lagrime fraterne i forti petti, E chi per questa sponda e chi per quella, A diverso destin ciascun si trae.
V.
Oh fra i più strazïanti umani affanni Quello di non perversa alma che rea Ad un tratto si tiene, ove sciagure Piovon non tanto sulla sua cervice, Quanto sulle cervici de' suoi cari E dell'intera patria sua, ch'ei vede Agonizzar, nè può recarle aïta! E più quando quell'alma, in suoi terrori Disamata s'estima, e disamata Da tal cuor ch'era suo! da tal diletto Cuor, che per sempre ei scorge ora perduto! Così da lunge qua e là mirando E pensando a Maria, come colui Che vedovato delle sue pupille Pensa a quel sol ch'ei non vedrà più mai,— Giunge di nottetempo alla badìa D'Ugo il nepote, e chiede ivi l'ingresso. —Dov'è lo zio? —Signor, finiti dianzi Erano i salmi, ed ei restò nel tempio. —Colà n'andrò. —Perturberesti forse Le più calde sue preci. Odi, ti ferma. A tai voci non bada il cavaliero, Ed il portico varca, e l'infrapposto Varca esteso cortile, e al tempio move. Apre la porta, inoltrasi tremando; E della sacra lampada al pallore Scorge prostrato il solitario antico Appo l'altar. Questi repente s'alza Al rimbombo de' passi. —Olà chi sei? Assaliti siam noi dalle masnade De' traditori? Oh che ravviso? Oh iniquo! Tu nella casa del Signor? T'arretra: Tinto di sangue cittadin tu vieni. Sino all'ingresso s'arretrò Eleardo, Confuso, esterrefatto, e dalle fauci Mettea supplici grida. Alfine a' piedi Dello zio inginocchiossi, e in abbondanti Lagrime ruppe; indi a' singulti amari Impose freno, alzò la fronte e disse: —Uomo di Dio, non maledirmi ancora, Porgi a mia strazïata anima ascolto! —Che di Saluzzo avvenne? —Ell'è caduta! Saccheggiata! arsa! —Che del sire avvenne? —Strascinato è prigion. —Quali i pensieri, Quai sono i fatti di Manfredo? —Orrendi! —E il proteggente provenzal vessillo? —Esulta negli oltraggi e ne' delitti! —E l'empio figlio di mia suora il brando Rotò per lor! —L'infame brando io ruppi, E qui vengo ad ascondere a' viventi La mia vergogna. E per quell'ara santa Giuro che illuso fui! Giuro che guerra Credei seguir magnanima, e salute Alla patria recar! Mi si è svelata L'ipocrit'alma di Manfredo alfine: Al par di te sue perfid'opre abborro, E disdico mie stolte ire nutrite Contro alla signorìa ch'oggi è crollata, E per Tommaso prego Iddio! e lo prego Che gli susciti vindici possenti, Sì che il traggan di carcere, e le insegne Espulsino straniere, ed ei risalga Al seggio avito, e il patrio suol conforti! —Oh Eleardo! mio figlio! àlzati; al cielo Chi delle colpe si ricrede, è caro. Piangi fra le mie braccia il breve fallo, E nobile fidanza indi ripiglia. —Unica posso una fidanza accorre Dopo tanto error mio; posso divina Misericordia chiedere e sperarla, Ma lontano dagli uomini, ma scevro D'ogni gloria del mondo. Io tutto perdo Ciò che più sorrideami, e affronto l'odio Del padre stesso dell'amata donna! L'odio di lei medesma! Alle terrene Cose son morto; seppellir qui voglio Tra penitenti angosce il nome mio! —Monaco tu? Vera sarebbe questa Vocazïon del Re del Cielo?… Ascolta. —Ugo, non contrastar; non mover dubbio Sulla chiamata che a me volge Iddio. Onor, dover m'astringono a deporre L'armi impugnate pel tiranno, e questa Ritratta mia decreto è che per sempre A me toglie la vergin ch'io adorava! Dopo tal sacrifìcio, il mondo spregio; Più non resta per me che o disperata Morte, o d'un chiostro il confortato pianto. —Figlio, se così scritto è dall'Eterno, Così sarà. Ma intanto a me l'Eterno Pon nell'alma un consiglio: odi e obbedisci. —Fede ti presto; obbedirò. —Disdici Con voci ed opre apertamente il rio Vincol che ti stringeva agl'invasori. Gloria rendi al diritto; offri il tuo sangue Pel patrio suolo. Ingegno e braccia al sire Che oppresso giace e salvatori chiede, Generoso consacra. Eccita i forti, I deboli rincora, e lor rammenta. Che speranza e virtù prodigii ponno. Arrossiva Eleardo, impallidiva A questi detti, ed arrossìa di novo, E balbettava:—Obbedirò, ma… —Tronca, Gli disse il vecchio, ogni esitanza, e parti. Servi al tuo prence ed a Saluzzo. —Come? —Volgiti a Dio; t'ispirerà. T'adopra Sì che, per gara de' baroni, l'oro Di Tommaso al riscatto or si fornisca: Scuoti la possa de' Visconti, scuoti I nostri prodi. Combattete: egregio Acquista un loco tra' vincenti, o muori! —Ch'io snudi il ferro, e di Maria nel padre Forse mi scontri, e di svenarlo io rischi? Troppo, troppo dimandi. A me bastante Sforzo è perder Maria, qui seppellendo I giorni miei fra lagrime e rimorsi. —Più degna del Signor, dopo alti fatti, Riporterai qui la tua fronte, io spero, E non che il padre di Maria tu sveni, Di salvare i suoi dì forse avrai campo! Profetici parean gli atti, gli sguardi, E la voce del vecchio. E ciò dicendo, Forte afferrò la destra d'Eleardo, E dalla porta appo l'altar lo trasse. Ivi dalla parete una pesante Antica spada sciolse, e a lui:—La spada Quest'è che strinsi in gioventù, e di sangue Saracin l'abbevrai; prendila e pugna Com'io pugnava per fratelli oppressi. Eleardo s'infiamma; il sacro ferro Prende, snuda, lo bacia, il pon sull'ara; Attesta Iddio che il roterà sugli empi; Le preci implora del canuto, e parte. E quand'ei fu partito, Ugo prostrossi Novamente nel tempio, e pel nipote Orò gran tempo, insin che all'altro ufficio Mosser ver l'alba in coro i cenobiti. Allora il santo abate al pio drappello Disse:—Pregate per Saluzzo! E pianse; E diè contezza dell'orrenda guerra; Ed i monaci in cor si rammentaro Parenti e amici, e lagrimaro anch'essi. Pregaron per Tommaso e pe' suoi fidi, E pregare altresì per gli oppressori, Solo Iddio supplicando a spodestarli Della vittoria che li fea superbi.
VI.
In popol da' civili ire diviso Speranza poca è di salute, allora Che sol gagliarde fervono le incaute Anime giovanili, intente a còrre Bella, sognata, non possibil palma, Mentre della canizie intorpidito Vacilla il senno, sì che norma e freno Agli audaci inesperti alcuna sacra Fronte non sorge di guerriero antico. Mancanza tal di celebrato prode Che vero prode alla sua patria splenda, Nel colmo avvien de' tralignati tempi, E lunga indi stagion regna di pazzo, Sanguinoso dominio e d'anarchìa, Molteplice opra di fanciulli eroi, Fintanto che spossati e fatti vili Piegano il collo a tranquillante giogo. Non a tal segno eran corrotti i giorni Di Saluzzo ch'io canto, abbenchè tristi. Gioventù inferocìa, ma valorosi Vecchi brillavan sui crescenti ingegni Per nobil fama di bontà e prodezza. Fra tai canuti un prence grandeggiava, E Giovanni era, l'invincibil sire Dell'alte torri di Dogliani. Ei nato All'avo di Tommaso era fratello, E niun de' feudatarii dominanti S'agguagliava a Giovanni in virtù schiette D'amico e padre e leal servo a quelli Che abbisognavan di consiglio o scampo. In dì lontani ei superava i mille Cavalieri compagni in patrie pugne, Ed in pugne oltremar, sotto il vessillo De' campioni di Cristo: or men robusto È il braccio suo, ma pronta sempre e forte La intelligenza e immacolato il core. Grande è la fè del venerato prode Pel suo nipote or prigionier, ch'egli ama Siccome dolce padre ama il suo figlio, E ad un tempo siccome un pio guerriero Ama il signor cui vassallaggio debbe. Giovanni con baroni altri devoti A ghibellina parte ed a Tommaso S'adopravan solleciti, sì ch'oro Adunar si potesse e adunar gemme, Al fine urgente di comporre il chiesto Spaventoso tesoro, onde al marchese E a sua progenie libertà riedesse.
Un dì alle sale di Dogliani aveva A non lieto convito egli parecchi Fervidi amici accolto, a consultarsi Coi lor fidi intelletti e a stimolarli, Prodigando con bello accorgimento Lodi e parole di speranza e preghi. Dopo la mensa i congregati forti, Nel bollor de' pensieri e de' colloqui, Facean di voci rintronar le auguste, Adornate di ferri, alle pareti, Allor ch'entrò il valletto d'armi, e nunzio Fu dell'arrivo d'Eleardo. Al nome D'Eleardo s'aggrottano le ciglia De' ghibellini. —Ingresso entro tue mura Darai, Giovanni, all'arrogante guelfo? —Venga il fellon. Certo, Manfredo il manda: Udirlo giova. Non sapeano alcuni Infra quei generosi fremebondi Ch'Eleardo si fosse un di coloro, I quai, vedute l'ultime rapine, Disperata battaglia avean con gloria, Benchè indarno, arrischiato entro Saluzzo. Ei nella sala addotto vien. Severo Salutevole cenno appena a lui Movon gl'irati ghibellini. —Donde Tu, guelfo, a me? —Sir di Dogliani, al cielo Piacque arricchir le avite mie castella Di non lieve tesor. Vedi tal borsa E orïentali perle ed adamanti, Che saranno alcun che, perchè s'affretti Dell'infelice signor mio il riscatto. —-Che veggo? Agli occhi miei creder poss'io? Tu che a Manfredo!… —A lui sacrato ho l'armi Credendol pio liberator: lo vidi Menzognero e tiranno, e gli ho disdetto Il non dovuto mio servigio. Ai torvi Cavalieri asserenansi le fronti: Esultan, cingon l'arrivato prode, Gli stringono la destra, e per quegli ori Da lui recati, soverchiare omai Veggion quanto al riscatto era mestieri, E benedicon Dio. Quel dì medesmo Andò il sir di Dogliani al regio campo; La libertà ricomperò del prence E de' figli di lui; volaron messi A Cuneo, a Pinerolo: e nel seguente Giorno redenti uscirono il felice Padre dai torrïon che il Gesso bagna, E dall'altra fortezza i giovinetti, E si rïabbracciar con dolce pianto; E dal suolo, natìo trasser raminghi Con Riccarda all'Insùbre ospitai reggia. Gli esuli amati accompagnò Giovanni Con altri pochi; e fra costor v'avea Un cavalier cui nascondea il sembiante Ferrea visiera. Di Dogliani il sire Narra per via a Tommaso, onde l'estrema Voluta somma gli venisse. Il prence Chiede ove sia il benefico Eleardo; E il pro' Giovanni sottovoce:—Vedi Quel cavalier che le sembianze cela, E accostarsi non osa: egli è Eleardo. Sino a' confini ei t'accompagna, e poscia Rieder vuole a sue torri, e mantenervi L'insegna tua ed apparecchiarti aiuti Pel dì che il ciel te chiamerà a vittoria. Serbar silenzio non potè il commosso Esul marchese, e, volto il palafreno, Ad Eleardo s'accostò, e per nome Chiamandol con affetto,—A te perenni Sien grazie, disse; or mi si svela quanto Debitor ti son io. Balzar di sella Volle e prostrarsi il giovin, ricordando La frenesìa che inimicollo al sire. Ma smontò questi insieme, e lo rattenne Con vivo amplesso, e intorno al cavaliero Venner anco Riccarda e i dolci figli, Mercè rendendo, chè senz'esso lunga Durar potea la prigionìa tuttora. Più da temersi non parea Tommaso A' nemici frattanto, e sovra lui Liete canzoni alzavano beffarde. Ma tacquer le canzoni indi a non molto Al grido inaspettato, esser Tommaso, Non nella reggia de' Visconti, in vana Mestizia ed in abbietti ozi sepolto; Bensì già di colà rapidamente Tornato a' gioghi saluzzesi, in mezzo A falange d'armati, inalberando Il vessillo di guerra. Allor Manfredo Sovra il suo seggio impallidisce, e copre Il timor collo sdegno, alto sclamando: —La prima volta i dì sparmiammo al tristo; In nostre mani or riede, e, qual lo merta, Guiderdon di sua audacia avrà la scure. Solleciti provveggono Manfredo E il sir del Balzo al moversi di lance Che di Tommaso sperdano i fautori, E s'odon rinnovar le invereconde Del patrio ben promesse. Odonsi voci D'increscimento onde si dice afflitto Degli scempii Manfredo. Odonsi voci Di futura clemenza irrevocata, E di leggi paterne, e di novello Tribunale integerrimo, e d'onori A chi giovi col senno e colla spada Al marchese, allo stato, ai sacri altari. Uso antico, perenne è di potenze Su rapina fondate, allor che spunta Il giorno del periglio, il serrar l'ugne Sovra l'oppresso volgo e accarezzarlo, E sfoggiar mire eccelse a sgombrar tutti Alfin gli avanzi de' passati danni. Di nuovo suona piucchè mai d'astuti Stranieri l'eloquenza: essi la mente San di Roberto; un re sì pio, sì grande Ne' benefici intenti, unqua non visse. Ei vuol felice Italia, ei vuol felici I prodi Saluzzesi. Attribüirsi Non denno a lui nè a' capitani suoi Nè all'ottimo Manfredo i brevi strazi Recati dalla guerra al marchesato. Si saneran le cicatrici, e in loco Della prisca Saluzzo, è già decreta Sulle rovine sue più vasta e bella E forte una città che degna appaia Di cotanto dominio, e faccia invidia Alla rival Taurino. Al guelfo rege Cosa non è che sì altamente prema, Come il dispor che a' piè dell'Alpi sia Il regio feudo Saluzzese un nido Glorïoso di prodi, atto a far fronte Ai vicini avversari. Indi i confini Di questo feudo estendere or si vonno, Sì che divenga ampia duchea gagliarda, A' Visconti terrore ed a' Sabaudi. Tal dipintura offerta è dagli scaltri Alle volgari fantasìe. Nè il lustro Della reggia di Napoli si tace, Che l'egual non fu visto, e il portentoso Incivilir de' popoli ove impulso A piena civiltà dona sì forte Il gran Roberto; il gran Roberto, amico Di dottrine e bell'arti; il gran Roberto Che pone il core in luminosi ingegni, E più in Petrarca, uomo divino, a cui Sulle chiome Roberto in Campidoglio Metteva fregio d'immortal corona. E si dice che tosto il re a Saluzzo Con Petrarca verranne e coll'arguto Narrator di Certaldo, il cui volume Fra le più vaghe istorie annoverati Ha d'una sposa Saluzzese i vanti, Onde per tutti d'Occidente i regni L'alme gentili, in onorar Griselda, Onoran di Saluzzo il caro nome. Ed in qual secol e in qual mai contrada Mancaron voci splendide e robuste Ad adular la moltitudin cieca, Schernendo quasi barbara e compiuta La vicenda de' scorsi anni infelici, E asseverando ch'ora alfin comincia L'età de' veggentissimi intelletti? Ma tempi v'ha più di prestigio ricchi Per quest'amabil fola; e simil tempo Era quel di Roberto e delle tante Suscitate degl'Itali speranze, Ch'indi la morte di quel re disperse. Tai brillanti menzogne avriano forse Illuso ancor le Saluzzesi valli, Se a governar l'esercito severa D'un retto capitan sì fosse stesa La destra allor, frenando de' guerrieri L'esecranda licenza. Al siniscalco Tanta giustizia non premea; invocata Venìa talor, ma indarno da Manfredo. Ambo imperar voleano, e il Provenzale Non consentìa che un suo guerrier giammai, Per quante iniquità sui vinti oprasse, Colpevol fosse detto e avesse pena. Del supremo stranier la tracotanza, E quindi le ribalde opre di mille Armati suoi sovra l'inulta plebe Qui riprodusser quel furor, che visto S'era in Sicilia poco innanzi, quando Per l'isola scoppiar vespri di sangue. Se non che men secreti i Saluzzesi Scorger lasciaro improvvidi le trame, E più avveduti e unanimi vegliaro Gl'investiti oppressori alla difesa.
Tace il mio carme i varii assalti e i varii Destini delle insegne ora fuggiasche Or vincitrìci. Sempre a' ghibellini Anima principale era il Dogliani, Come già tempo il Procida a sue terre, E fra i ministri al suo comando egregi Splendea per senno e per virtù Eleardo.
VII.
Amor di patria in vani sogni il core No, non agita allor, ma di divina Potenza il nutre e lo sublima, quando Svolgesi in terra da stranieri oppressa: Allor non dubbia è sua purezza; allora Tutte s'intendon l'alme generose Che fremono del giogo; allor divisi In discordanti aneliti e dottrine Non son nobili e volgo: unica han meta L'espulsïon delle insultanti spade, E della prisca dignità il ritorno. Quanto in que' dì contrario al patrio bene Fosse pe' Saluzzesi il guelfo spirto, Meglio comprese ognuno all'improvvisa Morte del vecchio provenzal monarca. Orbo questi del figlio, al debil pugno Della nepote abbandonò lo scettro; E della incauta il leve cor s'avvolse In infelici amori, e la sua fama Fu dalla morte del trafitto sposo Più orrendamente deturpata, e i novi Mariti la tradìan, sin che il feroce Vendicator carnefice a lei fessi. Sceso Roberto nella tomba, crebbe Per tutta Italia il ghibellin coraggio, E si volser de' più le speranzose Ciglia novellamente alle promesse Della potente signorìa Lombarda. Moltiplicati vidersi gli esempli Di fraterna concordia e di valore Ne' nostri lidi Saluzzesi. Al bello De' popoli fervor corrispondea La virtù di Tommaso: egli emulava De' suoi più forti la prodezza. Il nome Di Tommaso era sola indi una cosa Col nome della patria al cor de' giusti; E da lunga, sfortuna raffinato, Il suo spirto gentil s'affratellava Sinceramente co' minori, e segni Dava di gratitudin commoventi A cavalieri e ad infimi mortali Che ponean fede in esso, ed olocausto Con lui fean degli averi e della vita. Godea l'animo a tutti i generosi In vederlo onorar gli alti consigli Del canuto Giovanni. Eran Tommaso E di Dogliani il sir qual figlio e padre, E il portentoso vecchio corregnando Söavemente sulle suddit'alme Più e più le affidava. Alcune volte Lievi nascean principii di discordia Nelle diverse ghibelline schiere, Perocchè a' Saluzzesi andavan misti Sotto il vessillo di Tommaso e Insùbri E assoldati Germani. Alla parola Dell'antico Giovanni i dissidenti Animi s'acquetavano, e sebbene Cagion di lagno non restasse agli altri, Pur gioìa il Saluzzese, ognor veggendo Che anteposto a lui mai nell'intelletto De' sommi duci lo stranier non era. L'opposto caso tuttodì avvenìa Nella parte de' guelfi. Il rio Manfredo Dell'odio de' nativi esacerbossi Più feramente ciascun giorno; e volle Col terror contenerli: indi suprema Grazia spargea sugli esteri comprati, E verso ogni nativo anco più fido Scorger lasciava diffidenza ed ira. Giunse a tal, ne' suoi dì più disperati, La tirannide sua, che i prigionieri, Se patria avean la saluzzese terra, Considerava ribellanti degni Dell'ultimo supplizio, e senza indugio Strage ne fea. Tal rabida inclemenza Costrinse i ghibellini a rappresaglia, Sì che perdòn più non brillò sui vinti. A quel tempo si vide in ambo i campi Accorrer di Staffarda il santo abate, Misericordia supplicando invano Pe' guerrieri captivi. A lui Manfredo Con vilipendio rispondea, sgozzando Innanzi a lui le vittime, e nell'altro Campo l'udìano con ossequio i prodi, Ma rispondean che giusto uso di guerra Stabilìa le vendette, unico modo A frenar gli avversari in tal barbarie. Per tutti gl'immolati Ugo gemea, E notte e giorno l'atterrìa il timore Che prigion di Manfredo in qualche pugna Eleardo restasse. Ah! insiem con esso Un altro cuor da quel pensier tremendo Era a que' tempi strazïato: il cuore Della figlia d'Arrigo. Avea creduto L'infelice Maria poter nemica Vivere ad Eleardo, allor che intese Ch'ei dipartito dalle guelfe insegne Alla destra di lei più non ambiva. L'avea davvero alcuni dì abborrito Com'uom che lei tradìa, com' uom che l'armi Tradìa de' generosi. Ah! nel sincero Animo della vergin quello sdegno Fu breve fiamma, e sfavillò al suo ciglio De' ghibellini la giustizia, e pianse Riconoscendo in qual funesto errore Il padre s'avvolgesse. Ella in Envìe Nel paterno castel traea la vita Colle dilette ancelle, trepidando Pel genitore e per l'amante. Ascesa I passegger vedeanla da lontano Su questo ovver su quel dei sette grigi Torrïoni d'Envìe. La sventurata Scorgea nella pianura o sovra i colli Gl'incontri delle avverse aste feroci, E talor le parea per que' remoti Lochi discerner dal fulgor degli elmi Arrigo od Eleardo, od ambidue Cozzanti insiem. Prostravasi la pia Lagrimando e pregando il Re del Cielo E la Donna degli Angioli; e sovente Restava lunghi giorni il dilicato Corpo affliggendo con digiuni, e intere Vigilava le notti in calde preci, I proprii patimenti a Dio offerendo Per la salvezza de' suoi cari. E seco Viveano in lutto e assidua penitenza Le fide ancelle e antichi servi. L'alme Angosciate si schiudono a paure Di superstizïone. Or dalla torre Nelle nubi scorgean croci di sangue, E sembianze di scheletri, e l'immensa Falce e dell'Angiol della morte il pugno; Or di sciagure sovrastanti indizio Lo strido era dell'ùpupa ed il mesto Urlo notturno dell'errante cagna; Or dagli armati servi a mezzanotte L'estinta madre di Maria s'udiva Singhiozzar nel sepolcro, o lentamente Scoperchiarlo ed uscirne, e per le brune Scale salire, ed appellar con fioca Voce il marito o la diletta figlia.
A calmar quelle ambasce e que' terrori E a consolarsi fra i soavi amplessi Dell'innocente vergine, il cruccioso Padre venìa talor. Con duri modi L'aspreggiava e garriala del suo pianto, Poi commoveasi e l'abbracciava, e preci La supplicava d'innalzar pe' guelfi. E nelle rughe della smorta fronte Ella più e più leggea del genitore I sinistri presagi. Insinüante Sonava un non so che nella pietosa Voce di lei che costringea il canuto A poco a poco a palesarle occulti Sempre novi dolori. Un dì le disse: —Più non pregar pe' guelfi! abbandonati Siamo da Dio! Deluse ha mie speranze Il superbo Manfredo: i miei consigli, I preghi miei non cura. Adulatrici Parole ei vuol; darle non so. Un drappello D'infami lusinghieri applaude a tutte Sue tirannie, le suscita, il fa cieco Stromento a loro insazïabil sete Di tesori e vendette. Apportar senno Volevamo e giustizia; abbiam delitti E stoltezza apportato. Ad uno ad uno Da noi si dipartìano i prodi amici: Pochi omai siamo ed esecrati, e all'orlo Dell'estrema ignominia! —Oh sciagurate Voci! oh misero padre! I vaticinii Ecco d'Ugo avverati! Il reo vessillo Lascia tu dunque di Manfredo: accetta Di Tommaso la grazia! —È tardi, o figlia! Errò Manfredo, ma infelice il veggo: Mai da prence infelice non si scosta Fuorchè il vigliacco! —Oh padre amato, pensa… —Che vigliacco non son, che con Manfredo Debbo cader. —Mai di vigliacco taccia Ad Eleardo non darassi. —Ei corse Quando da noi si svincolò, a bandiera D'un prence espulso: audace era il partito, Ma generoso. Non così oggi fora, Correndo a sir cui la fortuna arride. Cessa il tuo supplicar, cessa il tuo pianto: Dimane si combatte, e se non opra Per noi prodìgi Iddio… dimane, o figlia, Più non hai padre! —Oh feri detti! —Io vengo L'ultima volta a benedirti forse: Con vigor di te degno, odimi: stirpe Di codardi non siam. Tergi le ciglia, Frena i singhiozzi; te l'intìmo. Ascolta: Un patto pongo al benedirti. —Quale? —Bada che guelfo io moro, e maledetta Sarà tua man se a ghibellin la porgi! —T'affida, o padre: intendo. Amo Eleardo, Ma te guelfo perdendo, a ghibellino Moglie mai non sarei! —Tutti il Signore Dunque sul capo tuo spanda i suoi doni! Me sol, me sol de' falli miei punendo, Sparmii l'anima tua! Disse. Ad un servo L'accomandò; da lor si svelse e sparve.
VIII.
Infelici ambidue!—Ma più infelice Forse d'ogni innocente addolorato È quel mortal che temerario corse A illusïoni infauste, onde tormento Ineluttabil ridondò a' suoi cari! Oh come allor, nella pietà ch'ei sente Di questa o quella vittima diletta, Tardi vede primier debito d'uomo Esser religïon, carità, pace, Provvedimento a dolce sicurezza Di domestiche gioie, e non desìo Imprudente di gloria e di perigli. Tal verità gli splende, or che non puote Più sollievo ritrarne il vecchio Arrigo; E forte è assai per sè medesmo in tutte Avversità, ma non è forte, al duolo Della figlia pensando, e sebben mostri In mezzo a' suoi guerrieri animo invitto, Spesso ei nel manto si rinchiude e piange. Tre dì Maria si stette in disperati Non cessanti delirii: —Empio Eleardo! Perchè movevi alle felici insegne Destinate al trionfo, e il padre mio Per dolci preghi e dolce vïolenza Teco a salvezza non traevi? Oh fossi Tu restato co' guelfi! il valoroso Tuo braccio avriali sostenuti. Un prode Fatal perdemmo in te: spesso deciso A pro de' ghibellini hai la vittoria. Possente impulso hai dato alla fortuna Del profugo Tommaso: alta, primiera Cagion tu sei delle sconfitte nostre. Ah, non m'amavi, ingrato! E insino ad ora Io figlia iniqua, immemor de' perigli Del caro padre mio, secretamente Alzato sempre voti ho pe' tuoi giorni! Que' voti abborro! quell'amor disdico! Il padre mio si serbi! il padre vinca! Il padre atterri i suoi nemici, i miei! Guelfa, guelfa son io! Mendace è il grido Che di virtù civile ai ghibellini Or dona palma. I nostri petti infiamma Vero di patria amor: calunnïato È Manfredo da voi; calunnïato È il padre mio, di giuste opre seguace; Ma vinti siamo, e il mondo vil ne impreca! Così l'immenso affanno isconsolata Iva Maria sfogando; e avvicendava Accenti d'ira e di pietà, e d'umìle Fervida prece. E promettea al Signore, Se dagli eccidii salvo andasse il padre, Essa tutrice farsi ad orfanelli, A vedove, ad infermi, a pellegrini, E tutti gli anni un dono offrire eletto Sì di Riffredo al monister famoso, Sì ad altri santi d'innocenza asìli. Ella avrebbe voluto alle promesse Che le dettava il core, aggiunger quella Di cingere in Riffredo il santo velo, Ma la meschina non potea, pensando Al solitario padre orbo di figli! Ed, ahi, forse non conscia ella a sè stessa, Anco pensava mal suo grado ognora A colui, che ne' scorsi anni felici Erale stato così caro! Oh come La infelice Maria sta dalla torre Investigando ogni lontano moto D'armi o di passeggieri, ed in lei cresce Indicibil timor ch'ella securo Presentimento d'alto lutto estima! Chi son que' duo che sull'arcion veloci Movon per la pianura? Ad essi lunghe Soverchiamente son le usate strade, E là passano un rio, là per gli sterpi D'una macchia s'inoltrano, agognando Il più diretto corso. Alla borgata Pareano volti di Revello, e pure Quivi non si soffermano, e alla terra Certo d'Envìe sospingono i cavalli. Oh di Maria nell'anima dubbiante Ansïetà novella? Or si protende A guardare in silenzio, or si dispera, E grida e trema di saper chi sièno Que' frettolosi. Omai discerne alfine Che non guerriera è la lor veste; e poscia Sospetta, avvisa che l'un d'essi il giusto Presule sia col fido laico. Un dubbio No, più non è; son dessi! A quella vista Le ginocchia le mancano, ma i sensi Non perde ancor. La reggono le ancelle, E la misera esclama:—Ugo! tu vieni A me del padre ad annunciar la morte! Ma quando intese appo il castel d'Envìe Scalpitare i corsieri, allor sì grande Fu la tema e il dolor, che appieno svenne. Ahimè! spenta la credon qualche tempo Le ancelle e i servi. Alfine in sè ritorna, Ed entrar vede pallido, turbato, Lagrimoso il canuto. —Il padre mio… Parla… dov'è sua spoglia? —Ei vive ancora; Ma prigionier, ma dalla cruda legge Che a morte danna i prigionieri, oppresso! —Oh sventurato! oh più felici quelli Che in battaglia cadeano! E tu a supplizi Lasci lui trarre? Intercessor non debbe Uom di Dio farsi a disarmar le atroci Ire de'vincitori? —Ah! da te sono, O vergine, ignorati i vani sforzi Che tentai da Tommaso! I suoi nemici, Or volgon pochi dì, sacrificaro Barbaramente dieci illustri teste Di ghibellin captivi. Universale Nell'oste ghibellina è quindi il grido, Che gl'immolati abbian vendetta. Arrigo Morrà domane con nov'altri: il cenno Tommaso niega rivocar; respinto Venni da lui. Prova sol una or resta: Seguimi al campo: sforzerem l'ingresso Della tenda del sir; forse il tuo pianto Ammollirà il suo nobil cor, dai truci Fatti d'alterna rabbia incrudelito. —Il ciel t'ispira: andiam. Rapidamente La vergin s'allestì; rapidamente Ella e pochi fedeli in sui corsieri Volser con Ugo al saluzzese campo. Ad un tronco giaceva incatenato Tra i furenti nemici Arrigo, a breve Di Saluzzo distanza. Ei siccom'uomo Che avea la gloria di Saluzzo amata Vagheggiando per essa e per Manfredo Fortune alte, impossibili, or mirava Con istupor, qual visïon non vera, Quell'ultima sconfitta, e quell'orrendo Svanir d'ogni speranza, e quel ritorno De' ghibellini e di Tommaso, e quella Guerra in veloci tratti or consumata Con nessun frutto, fuorchè stragi e scherni E povertà ed obbrobrio e sacrilegii! E tutto ciò per vicendevol, grande, Creduto zelo di virtù e di patria! E innanzi a lui mirando egli quel loco Dove a prosperi dì sorgea Saluzzo, E dove diroccato oggi è il recinto, E dentro quel, fra orribili macerie, Non v'ha che rari antichi alberghi e templi Con negri campanili, e qualche novo Incominciato cittadino ostello, Sente Arrigo la dura alma infiacchirsi Da pietà inusitata. Ei nella foga Delle gioie guerresche avea con occhi Di ferocia le fiamme un dì veduto Ed il saccheggio devastar Saluzzo. Or cessata l'ebbrezza, il cavaliero Delle avvenute iniquità s'affligge, E dice mal suo grado:—Ecco onde il CieIo Manfredo e i guelfi e me con lor condanna! Poi caccia quel pensiero, e, benchè rieda, Celarlo vuole, e alta la fronte ei tiene, Con dispregio guardando i vincitori. Cacciar vorrebbe altro pensier più dolce, Ma in un più divorante. Ei nelle meste Sale d'Envìe scorge la figlia, ed ode Il miserando suo lamento, e sola, Orfana, senza prossimi congiunti, Senza soccorsi d'amistà la mira; E le canute palpebre di pianto Amarissimo grondano e i singhiozzi Frenar non puote, e colle scarne mani Si copre il volto per vergogna e rugge. Un de' custodi come un tempo i falsi Di Giobbe amici, lo compiange e incuora. —Non avvilirti, o prode; in cielo è scritto Il destin de' mortali; adorar sempre Dobbiam di Dio gl'imperscrutati cenni: Non accettarli è codardia e bestemmia. —Taci, impudente ghibellin; m'è noto Che giusto è Iddio, che i falli miei punisce, Che l'are sue mal onorai, che vissi D'ira e d'orgoglio più d'ogn'uom, che merto Cader per mani inesorate e inique. Non mi ribello contro a lui; non biasmo Il suo rigor, non tremiti codardi Me presso a morte invadono: un'angoscia Non ignobil mi preme. Ho una figliuola Ch'orfana resta, e sua sventura io piango! —Padre ai pupilli derelitti è Iddio. —Vero favelli, ma la terra è piena Di pupilli derisi, insidïati, Spogli di tutto; ed ahi! su lor punite Forse da Dio son le paterne colpe! Indi io pavento, io peccator, sul fato Che all'innocente figlia mia sovrasta. —Ben paventate, o sciagurati guelfi, Che tanti alberghi incendïaste, e tanti Olocausti sacrileghi immolaste: Men empio è il ghibellino. —Empi siam tutti, Amor vantando di giustizia a gara, E ognor con nostre stolte ambizïoni Opprimendo la patria e calpestando Natura e dritti ed innocenza e onore! Così dal labbro del feroce vecchio Usciva un misto d'indomata audacia E di sincero pentimento. Il capo Piegava sotto ai fulmini divini, Ma i consigli degli uomini esecrava, E negli sguardi suoi sì presso a morte Indistinti fulgean Cielo ed Inferno.
IX.
Bella fra tutte umane imprese è quella Dell'uom che avvampa di desìo di pace E di perdon, non per suo proprio bene, Ma per altrui! ma per servire a Dio, Ed alla dolce patria e ad infelici Cuori ch'egli ama e consolare anela! Tal nell'ire civili è il vostro uficio, O vegliardi autorevoli che all'ara Del Dio di pace consecraste i giorni! Ecco arrivare al campo Ugo e Maria: E mentre del marchese al padiglione Van rivolgendo accelerati i passi, Veggono appunto da catena stretto A fisso legno fra custodi Arrigo. Con qual pianto e quali impeti di grida Prorompe la fanciulla infra le care Braccia paterne! e qual celeste han suono Sue filïali tenere parole A genitor così infelice? Ei serra Al sen quella innocente; e sclama: —Oh gioia! Ma insana gioia! Oh nuovi affanni orrendi! Deh, perchè a me non li sparmiava Iddio? Non misero abbastanza era il mio fato, Ugo crudel? Tu qui la figlia traggi A vedermi morir! —Padre, ei mi tragge A salvare i tuoi dì. —Che? supplicando Codardamente il vincitor maligno Di largirmi il perdon? Non sarà mai! La stirpe mia non annovrò guerrieri Che morir non sapessero da forti. D'espor ti vieto il virginal sembiante Al barbaro sorriso de' felici! Io so morir, io morir voglio prima Che la mia figlia a'piedi altrui si prostri! —Padre, lasciami: il so, ti disdirebbe Di coraggio scarsezza ai più tremendi Giorni della sconfitta, e se il nemico Te immolar vuol, da prode cavaliero E da cristiano perirai pregando Non gli uomini, ma Dio. Lasciami: un altro Dovere è quel di figlia. A me ignominia Fora il non chieder la tua vita al sire. —Vilipesa sarai. —Pur vilipesa, Degna sarò d'ossequio e di compianto: Avrò adempiuto quanto amor di figlia, Quanto la voce del Signor m'impone. Contendeano in tal foggia, e l'ostinato Arrigo persistea nel suo divieto; Ma di Staffarda l'infulato duce Strappò Maria dalle paterne braccia, Ed attraverso a numerose tende Corrono di Tommaso al padiglione. Udivan essi da lontano gli urli Del corrucciato Arrigo: —A tutte dunque Serbato io son le più esecrabili onte! Di me la figlia indegnamente stesa Ad implorar la vita mia, la vita Che mi si fa spregevol, che non posso, Che non voglio accettar! Riedi, ten prego, Tel comando! paventa il furor mio, Il maledir d'un genitor morente! Ghibellino fu sempre Ugo, e nol move Pietà di noi. L'ipocrita vegliardo Del nostro duolo infamemente esulta, E per farlo maggior vuol che d'Arrigo L'ultima figlia esempio doni abbietto. Del minacciar, paterno e delle ingiuste Voci contr'Ugo questa inorridiva; Ma il venerando abate alla fanciulla Reggeva il cor, dicendole:—Salvarlo Dobbiam malgrado l'ira sua superba. Ma qual d'entrambi è l'animo allorquando Dalle guardie interdetto al padiglione Vien lor l'ingresso! Non bastàr nè preghi, Nè lagrime, nè strida. Un assoluto Cenno del sir faceva inesorati Tutti i guerrieri che cingean la tenda. Stavano dentro a quella in assemblea Col supremo signor parecchi duci; E questi duci tutti eran da lunghi Danni e da amare perdite innaspriti, Sì che spinto da lor venìa il marchese A costante fierezza, insin che, espulsi Pienamente i nemici, astro securo Di comun gioia sfavillar potesse. Entro la rocca di Saluzzo chiuso Erasi il rio Manfredo, e colà ancora Ei da stranieri iva sperando aïta, Benchè spersi fuggissero, inseguiti Dall'antico Giovanni e da Eleardo. Di questi duo suoi fidi cavalieri Or più Tommaso non avea contezza Già da due dì. Certo parea il trionfo; Ma se fallito avesse? e se impensate Novelle squadre di possenti guelfi Nel paese irrompessero? Que' dubbii Nutron lo sdegno di Tommaso. Impone Che congedati sien Ugo e Maria, E quai si fosser supplicanti. Allora Pria di ritrarsi il presul generoso Resistendo alle guardie, alzò la voce: —Nobil marchese di Saluzzo, ascolta I moti del cor tuo: non meritato Da' tuoi nemici è di tua grazia il raggio, Ma so ch'aneli d'emanarlo, e Iddio L'adempimento di tua brama aspetta Per benedirti più e più… Troncato, Fu duramente da' guerrieri il pio Grido del vecchio, e fu troncato il grido Dell'angosciata vergine, e repente Lunge dal padiglion venner sospinti. Videli Arrigo a sè tornare, e disse Con amaro sogghigno:—Il pianto vostro Non terse dunque il vincitor? Lucraste, E ben vi sta, gli ultimi oltraggi: io puro Son di codesto obbrobrio vostro almeno! A Dio mi curvo; a nessun uomo in terra! Ma dopo quel sogghigno e quell'acerba Favella, intenerissi alle dirotte Lagrime di Maria. Con lui rimase La sconsolata, e ritornò alla tenda Il santo amico lor, novellamente Tentar volendo di Tommaso il core; Ed intanto la vergine abbracciando Del padre le ginocchia, or lo pregava Di placar Dio con miti sensi, ed ora A Dio medesmo rivolgea sue preci. Ugo, ahimè, ricompar! nulla otteneva, Nulla ottener più spera! Alta mestizia Al degno sacerdote in volto siede, Ma mestizia di forte alma che viene Un moribondo a regger nel tremendo Agonizzar dell'ore sue supreme. Maria l'intende, e misera prorompe In impeti di duolo inenarrati; Smarrisce i sensi, e inconsapevol tratta Viene appartatamente infra pietose Donne che a lei soccorrono. Prostrossi Arrigo allor del sacerdote a' piedi, E confessò sue colpe. E dacchè sciolto Gli fu in nome di Dio di queste il laccio, Si rïalzò con pacatezza altera, Ma non di quella indomita alterigia Che in lui dianzi apparia, qual di nociva Fosca meteora formidabil luce. Or quell'ardito e dignitoso sguardo Porta di pace e d'umiltà un'impronta Che vien dal Ciel, dal Cielo, autor sublime Di stupende armonie! —Dov'è mia figlia? Ugo, traggila a me: l'estrema volta, Benedirla degg'io. Meco brev'ora Star si potrà. Fu ricondotta al padre La sventurata, ed ancorchè d'affanno Le sanguinasse il cor, pur di lui vide Con maraviglia la quiete, e grazie Alla Donna degli Angioli ne rese, Ed impose a se stessa umiltà, pace, Eroica forza. Ella piangea, ma freno Ponea a' lamenti, e con devote ciglia Mirava il padre, e sue parole tutte Accoglieva nell'anima, siccome Parole d'uom che santamente muoia. Festivo era quel giorno, e perciò l'altro Pei supplizi aspettavasi. Omai tarda Era la sera, ed Ugo apparecchiati A pio morire aveva altri prigioni. Ritorna ei quindi presso Arrigo, e i proprii Palpitamenti di pietà vorrìa Celare in parte:—O cavaliere! o donna!… Tutto puossi con Dio!… —Dal padre amato Deh, ch'io non venga separata ancora! Lontana è l'alba. —Più crudel sarìa Vicino all'alba separarvi. Arrigo Stringeva al sen la figlia, e lei disporre Desïava a partir. Ma la infelice Alla prova tremenda obblïò i miti Sentimenti di pace, e la ragione Le si turbò miseramente.—Oh guerre Scellerate di popoli! oh stendardi Di virtù menzognere! oh glorie infami D'emuli cavalieri, onde son frutto Crudeltà e morte! Ah! perchè Dio fecondi Alla feroce umana stirpe ognora Fa gl'imenei, se la catena intera De' secoli spruzzata è d'uman sangue? E qual di sì esecrande ire perenni Colpa abbiam noi, dell'uom compagne e figlie, Nate ad amar, nate a compianger, nate A viver senza offesa, assorte in Dio! Di qual delitto intrisa son perch'oggi A me tolgano il padre i masnadieri, Nè generoso pur vi sia terrestre O celeste poter, che degli oppressi Alla difesa accorra? Ed Eleardo In ch'io tanto fidava, anco Eleardo Ch'io tanto amava, abbandonommi! Il campo Suona improvviso di festanti grida. Balza il core a Maria; porge ella ascolto: Che sarà mai? Reduci sono il prode Antico Doglianese ed Eleardo, Apportatori di vittoria piena. Brillan del presul le ispirate luci Per novella speranza, e i passi affretta Ver l'amato nepote; il giunge, il ferma, E d'Arrigo gli parla. Intanto usciva Del padiglion Tommaso, e lieto amplesso Porgeva a' trionfanti; e ratto a lui Volgea tai detti di Dogliani il sire, Indicando Eleardo;—Alla prodezza Di questo forte molto devi, o prence; Le più valenti squadre egli ha sconfitte. Stende il marchese al giovin glorïoso L'amica destra. Ei gliela bacia, e prono. —Signor, grida, signor, me qui tu miri Astretto a chieder dalla tua clemenza A' pochi miei servigi alta mercede. —Quai pur sieno tue brame, o campion mio, Le manifesta, e saran paghe. —I giorni Chieggo salvi d'Arrigo. Il so, fu reo: Non corrucciarti del mio ardito prego. Arrigo a me qual padre ebbi molt'anni, E padre è di colei che sul mio core Sin dall'infanzia regna. Ondeggia alquanto Il magnanimo prence, indi prevale Benignità sugli altri affetti, e sclama: —Ho perdonato! ogni prigion si sciolga, Ed a' suoi tetti rieda, apparecchiando A più nobile oprar suoi dì futuri. A quella augusta consolante voce Mill'altre voci eccheggiano, e fra loro Quella del vecchio di Dogliani, e quella Del presul di Staffarda, e più robusta Quella del giovin che all'amata donna Rendere può del genitor la vita. A tanti applausi si nasconde il prence Rïentrando commosso entro sua tenda: Ed ecco volan Ugo ed Eleardo A scior d'Arrigo i lacci. Il prigioniero Uso ad ira e superbia, esitò prima, Poi fu da conoscente animo vinto E da dolcezza, ed Eleardo al seno Colla figlia serrando, inginocchiossi, E disse a Dio:—Sovra Tommaso schiudi Tuo più giocondo riso, e prosperato Sia nel dominio e nella prole, e cessi A lui d'intorno ogni fraterna guerra! Modestia e gratitudine e contento E maraviglia e amor davano agli occhi Della vergin bellissima un novello Indicibile incanto, onde il fedele Suo cavalier gioìva inebbrïato. Scorge i lor voti il padre, e prende e unisce Le destre loro. Un grido alza di gioia Il felice Eleardo, e la tremante Fanciulla irrompe in lagrime soavi, Benedicendo la celeste aïta Che i lunghi affanni in tanto gaudio volse. Di Saluzzo la rocca indi a tre giorni Spalancar si dovette. Uscì Manfredo Con pochi suoi compagni ed esularo; E in sua paterna sede il buon Tommaso, Se non durevol pace, almen godette Signorìa da virtudi alte illustrata, E alle rovine di Saluzzo orrende Nuovi successer tetti e nuovi prodi.
AROLDO E CLARA
CANTICA.
Questa cantica nacque in giorni di somma sventura, ne' quali io, sentendomi troppo inclinato a sentimenti di sdegno, procacciava di vincerli col ragionare fra me stesso sulla bellezza della mansuetudine. Era in me indelebile un consiglio del buon Alessandro Volta, il quale un dì m'aveva detto queste parole, distogliendomi dallo scrivere satire:—«La poesia arrabbiata non migliora nessuno; e se v'avviene di sentirvi iracondo e propenso a spargere la bile in versi, paventate di diventar maligno. Vorrei anzi che allora cercaste di raddolcirvi, poetando sopra qualche nobile esempio di carità e d'indulgenza.»
AROLDO E CLARA.
Sed si esurierit inimicus tuus, ciba illum; si sitit, potum da illi. (Ep. ad Rom. 12.)
I.
Piangi, o la più gentil fra le convalli Dello spumante Pellice, ove un giorno Alle sale d'Aroldo i Saluzzesi Cavalieri affluìano ad alte feste. Più non vedrai delle sue torri a sera Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo, Caramente appoggiando un braccio e l'altro Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto Ciglio volgendo con amor, ma indarno, Ai dolci rai del tramontante sole. Que' figli suoi nascean gemelli, e santa Tenerezza li univa. Or sola e mesta Clara accompagna il cieco padre a sera Fuor della torre, perocchè il gagliardo Fratel devote ha l'armi alla difesa Del pio Tommaso suo ramingo prence Contro i nemici della patria terra. Rosseggiava bellissimo un tramonto Sulle nevi lontane, e stupefatto Pareva il sol che dal romito albergo A salutarlo non venisse il vecchio. Ahimè, quell'era di sventura un novo Spaventevole dì! Schiudesi alfine La porta del castello, e con veloci Passi agitatamente escono Aroldo, Clara e più servi; nè il canuto ciglio Ai soavi del sole ultimi rai Volger si cura. Che avvenia?—Dal campo Infausto messo è giunto. Il pro' Ioffrido Contro l'usurpator del saluzzese Seggio osando tropp'oltre avventurarsi Nel calor della pugna, il circondaro L'empie straniere spade, e prigion cadde. Speme di riscattar sì cara vita Nutre il barone antico; e vuole ei stesso Trar supplichevol senza indugio al truce Fortunato invasor, che se talora Immolar gode i miseri captivi, Talor si placa a ricca d'oro offerta, Molto dovendo da sua iniqua sede Oro il tiranno effonder sulle bande Dell'alleato provenzal monarca. Giunto al margin vicino ove al tragitto Nel rigonfiato Pellice è apprestata La navicella, Aroldo porge il bacio Del congedo alla figlia. Allora al collo Gli s'avvinghia la pia.—Sola a mie stanze Non riederò, buon genitor; pupilla Esser della tua fronte a chi s'aspetta Se non a me? Forse pietà maggiore Assalirà dello sdegnato sire Il cor, s'umano ha cor, prona a' suoi piedi La veneranda tua canizie e gli anni Giovenili di vergine scorgendo, Che colla vita del fratel la vita Chiede del padre. Vuole opporsi Aroldo, Ma mentre in barca ei scende, ella d'un balzo Già vel precede, e al consentir paterno Fa cogli amplessi vïolenza, e l'onde Perigliose attraversano. Ma ov'era L'Angiol del vecchio afflitto e l'Angiol tuo, Generosa innocente? A voi non velo Fecer colle tutrici ale a celarvi Alla vista de' prossimi ladroni Che irrompono co' brandi alla rapina. Voler divino ai nembi di sfortuna Lascia possanza sovra i giusti un tempo; Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana Nei patimenti una virtù Dio pose Ch'anco i giusti migliora e a sè li innalza. Sbandato di predoni era un drappello, Che della guerra col favor raccolto S'era d'Itale spiagge e di straniere A rubamenti ed omicidii, altero Linguaggio alzando di zelanti eroi, Campioni della patria e di Manfredo. S'azzuffan del baron coi fidi servi, E nell'orrenda mischia ad uno ad uno Dal soverchiante numero feriti Vengon que' servi, e de' vincenti in mano Son le ricchezze che a comprar la vita Destinava del figlio il cieco sire. Intero un dì per boschi e per dirupi Ei trascinato colla figlia venne, Ma il manto della notte ai duo infelici Prestò propizie tenebre, e dal mezzo Del brïaco drappel de' masnadieri Quetamente si trassero alla valle. Come lontani fur dall'empia frotta, E ardiron favellare, il cieco strinse La figlia al seno, e grazie alte le rese D'averlo addotto a salvamento, e lei Per l'accorto suo senno e per la dolce Filial carità ribenedisse. —Or dove, o padre, senza aïta alcuna Ci avvïeremo? —O Clara mia, remoti Siam dal nostro castello, e a ritornarvi Il tempo mancheria; son prezïosi Tutti gl'istanti; acceleriamo il passo Verso il campo nemico, appo le triste Di Saluzzo rovine. O senza doni Compariremo anzi al tremendo sire, Ma sincere promesse il piegherranno A moti di clemenza. Inoltre ho fede In mia canizie e in queste spente occhiaie E nel pianto che versano, e ben anco, Figlia, nel tuo. Pensava Aroldo ospizio Prender non lunge, ove la figlia al raggio Della luna scorgea l'amica torre D'un consanguineo sir. Ma là giugnendo, Odon che il giorno pria furibonda oste Era quivi passata e avea deserta La rocca e trucidato il castellano, E devastato a' villici i tugurii. Il negro pan de' villici dispersi Piangendo rompe colla figlia Aroldo, E beono alle lor tazze. Indi sen vanno Per tutti i casolari, invan cercando Palafreno o giumento: avean le schiere De' nemici avidissime votata In que' lochi ogni stalla. —Ahi, dilungati Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre! Or dove andrem? —Pedon la via si segua Sino al mattin: buio non è, dicesti. Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo D'altri ladron te, mia dovizia or sola, Te il ciel pietoso asconderà. Sì disse, E di padre l'affetto e di sorella Lena lor porge insino all'alba. Il campo Mostrossi allora al pauroso orecchio Della fanciulla pria che agli occhi. —O padre, Odi tu, disse, odi tu roco un suono Simile al suon della bufèra o a quello Di molte acque correnti? Il vecchio capo Ei soffermò, ed immemore un istante Delle sue angosce, alzò la barba e rise. —Oh di qual gioia quel fragor m'empiea Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia! Noto è ad orecchio di guerrier quel suono, Come voce di sposa al suo diletto. Un dì così fremente io il bellicoso Aere appena sentia, sovra il mio scudo Battea forte l'acciaro, e dai precordii Metteva un grido che atterrìa da lunge Del nemico le scolte. E i miei congiunti Dicean: «Voce è d'Aroldo, oggi si pugni, Chè dove è Aroldo, è la vittoria.» Or fiacca È questa voce, e più la destra, e al breve Giubilo del guerrier tosto succede In me a quel suono il trepidar del padre. Proseguiro alcun tempo, e quindi Clara, Che sino allor söavemente a' detti Del genitore avea frammisti i suoi, Incominciò a interrompersi, e risposte Dar che, non conscio l'intelletto, un moto Parean sol delle labbra. A poco spazio Vedea della distante oste per l'aure Quasi di nave altissimi duo pini Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi Come al suolo confitti. E secondata Venìa quell'opra da un clamor che il primo Clamor non era, ma or fischiante or rotto Da infami ghigni o da cupo silenzio. A' sensi suoi creder dovea? Le cime Parean gravate de' duo legni, e il pondo Che le gravava non scerneasi. Udito Spesso Clara ha di barbari supplizi, Ove ad appesa vittima lo strale Drizzano i bersaglieri, ed ottïen palma. Quei che divide dalle ciglia il teschio. Di tai supplizi un questo fora? Oh dubbio Peggior di morte! E chi alla sbigottita Dice s'uno colà de' morïenti L'amato suo fratello ora non sia? Chi le dice se il passo al genitore Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa! E se il padre trattien, non di Ioffrido, Che forse ancor sull'albero non pende, Cagionerà la morte?… Ad ogni costo Vadasi al fatal loco! Il piè, tremando In ciò pensare, affretta. In man la mano Della meschina Aroldo tien.—Di gelo, Fra sè diceva, è questa man, siccome Quella ch'io strinsi di sua madre al letto Ove s'estinse. Indi il vegliardo scuote Il capo, quasi scuotere volesse Un malaugurio, e non potea.—Di morte, Figlia, i negri m'inseguon pensamenti. Abbi pietà di mia vecchiaia, e i cari Detti mi porgi che tue labbra sciorre Uniche san, quando scorato è il padre. Nata ne' giorni di sventura, e in erma Torre cresciuta, ove sorelle e madre Vide spirar, sollecita a sinistri Presentimenti schiuder l'alma, è fatto In lei religïon. Si raccapriccia In udir che s'affaccin alla mente Del genitore e in quest'istante i negri Pensamenti di morte. A lui si volge, Apre le labbra—e i consolanti detti Ch'uniche sciorre un dì sapean, non trova: Non trova, ed ahi! la prima volta è questa Che inobbedito di suo padre è il cenno. —Più de' pensier miei tristi or malaugurio M'è il tuo silenzio, ei dice. E lo spavento In lei crescendo, e a' rai primi del sole Splender veggendo le volanti frecce, Improvviso s'arresta.—Oh genitore! Non c'inoltriam: non odi tu le strida Degli assassini? —Il figlio, il figlio mio Forse a morte strascinano: affrettiamci. —Deh, padre, ferma! a' piedi tuoi ten prego. Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido In vita è ancor, di novo al fianco tuo Tosto mi rendo, ma te… O ciel! raddurre Te vivo a casa allor io posso almeno! —Sciagurata, che parli? Orrende cose Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero Fra quelle voci che il mio antico orecchio Non distinte percuotono, tu scerni Voci di morte e del fratello il nome. Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio Porta il tumultüoso aere d'atroce? —Nulla, o buon padre. Ma t'arresta; pensa Che se tu, giunto appo i nemici, udissi L'orribil caso… tu m'intendi… allora Orfana forse rimarrei nel campo. —Me perder temi, e non t'avvedi, insana, Che scellerata è tua pietà? Egli muore, E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra, Tel comando, obbedisci. All'inusata Ira paterna impaurissi Clara; S'alzò. Con passi rapidi il cammino Misura il cieco, e strascinata quasi La giovinetta il segue. Erasi spersa La turba intanto che cingea i duo pini, E presso a questi il padre e la sorella Arrivan di Ioffrido. Ella più volte Erse il ciglio tremando, e insanguinate Scorse due salme, e incontanente a terra Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr'esse Fiso tenerlo ad indagar; chè franta Han la coppa del cranio, e dal mozzato Lor sembiante piovea cèrebro e sangue. Ma quell'orrida vista e lo spavento Forza a' ginocchi tolgonle ed al core: —Padre! dic'ella, padre!… E qui stramazza A' piè d'Aroldo. E mentre brancolando Col caro pegno tra le braccia fugge D'in mezzo della via, però che udito Brigata di cavalli ha scalpitante Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro Ad un de' lati fermasi, ove un tronco D'albero sente; innanzi a lui lo stuolo Giunge de' cavalieri. Era Manfredo, Che di baroni provenzali cinto Per intenti di guerra iva il terreno Intorno visitando. Una fanciulla Scorge egli tramortita ed un vegliardo; E voltosi ad Aroldo, acerbamente Così gli grida:—O discortese e stolto, Perchè nel sangue d'un fellone e sotto Il patibolo tratta hai quell'afflitta, Cui toglie i sensi il raccapriccio? —Oh sire, Oh novo sire di Saluzzo! esclama L'antico cavalier, cui non intera L'aspra parola del crudel pungea, Nota è ad Aroldo ancor la voce tua: Aroldo io son dalle romite torri Che si specchian nel Pellice. E l'illustre Tuo genitor te adolescente spesso Adduceva a mie sale, e co' miei figli In un calice sol beevi a mensa. Ah per memoria del tuo estinto padre Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio Ch'unico maschio avanza a mia vecchiaia, E cadde tuo prigion, deh non rapirmi! Io non leggeri doni a te in riscatto Dal mio castel portato avea, ma iniqui Predatori per via m'hanno assalito. Alle mie braccia il caro figlio rendi, E qual tributo m'imporrai ti solvo, Pareggiasse anco de' miei campi aviti L'intero pregio. —O sciagurato Aroldo, Di qual osi tributo or favellarmi, Se finor tutto mi negasti? È tardi. —Tardi, o sire, non è. Seguita, è vero, Fu da bollente figlio mio l'insegna De' prischi Saluzzesi e di Tommaso, E la vittoria a tua prodezza arride. Ma tu il fervido oprar del giovinetto Dona pietosamente al supplicante Suo genitor che in venti pugne il sangue Versò pel nobil padre tuo, quand'esso Con tanta gloria signorìa qui tenne. —È tardi, o vecchio, e duolmene. In te accogli Tutta la forza ond'è capace il core D'un cavalier. Sovra quel legno pende Un trafitto cui grazia altra non posso Conceder più che di ritorlo ai corvi, E consentirgli de' suoi cari il pianto. Disse, e accennando che una guardia il morto Dalla croce calasse e all'infelice Lo rimettesse, cogli sproni un tocco Dïede al cavallo e col suo stuol disparve. Clara i sensi racquista, e oh di dolore Qual novo orrendo palpito! Era dunque Il fratel suo quel miserando ucciso! Eccolo tolto dal funesto legno; Ed ella il raffigura a cicatrici Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio E l'angosciata giovin su quel corpo S'abbandonan piangendo! Ella in lino L'infranta testa pïamente avvolge, E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce Carità si commove una famiglia Di Saluzzesi agricoltori, e dato Viene un carro con bovi, onde al lontano Castello il morto cavalier si tragga.
II.
Or da quel giorno d'ineffabil lutto Rivolgiamo la mente oltre a sei lune, E la mesta mia cantica, i solinghi Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia Commiserando, svolga altra vicenda. Era una sera: alle vetuste mura Del baron s'appresenta un fuggitivo, A cui ferite e febbril sete esausta Miseramente avean la voce. Aroldo Piena di vino gli mandò una coppa Con questi detti: Al focolar t'accosta Sin che apprestata sia la cena, e al sire Perdona del castel s'ei di sue stanze Non uscirà, dove cordoglio il tiene. Clara portò que' detti, e il fuggitivo Che al maestoso inceder cavaliero Parea e mendìco a' finti panni, il volto Pria si coverse, indi con pronti passi Balzar tentò fuor della soglia, a guisa Di mortal che, caduto in impensato Orribile periglio, aneli scampo. Ma nella mossa impetuosa a lui Manca il fievole spirto, e piomba a terra. Clara il soccorre, il mira, ed alla negra Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa. Chi era? Chi!… Manfredo! il già possente Desolator della sua patria! il ladro Che alla corona del nepote osava Stender la man sacrilega, e sul capo Inverecondo imporsela, e i diritti Calpestar più sanciti, e di Saluzzo Dirsi benefattor, serva a stranieri Brandi facendo la natìa contrada! Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco Da compiuta sconfitta è l'empio sire, E per sottrarsi agl'inseguenti ferri Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote Calcò deserte rupi. Indi pel sangue Nella pugna perduto e per la rabbia Gli s'era da brev'ora intorbidato Sì fattamente il lume del pensiero, Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto Era ai campi d'Aroldo altra credendo Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo D'adolescenza riportate mai Non avea l'orme, ed alberi e tugurii Mutato avean l'aspetto della terra. Sol quand'ei vide Clara, appien le soglie Raffigurò d'Aroldo, e se bastata A lui fosse la possa, ei rifuggìa. Manfredo! e senza guardie! e semivivo, Sotto il tetto dell'uom cui trucidato Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio! Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti I famigli richiamano, ella corre Alle stanze del padre, e già già quasi A lui così sclamava:—Esci, un prodigio Ad ammirar del Dio delle vendette: Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene Il suo assassin! Ma in quell'istante gli occhi Della donzella alzaronsi a parete, Onde pendea dell'Uomo-Dio morente Effigie veneranda, e a quella vista L'irrompente parola in cor rattenne. Religïoso fremito la invase Dinanzi a quell'effigie. —Oh mio Signore! Quai voci arcane alla tua ancella parli? Tu irreprensibil fosti e sì infelice! E a quei che l'uccidean pur perdonavi! Or chi sa? Forse il dolce mio fratello Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia, In carcer sotterraneo, o d'inquieti Elementi per l'alte aure ludibrio Sta ancor penando, e a liberarlo vane Fervon le preci, e in loco d'esse un atto Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio! Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo Come a noi perdonato ha il Redentore! Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa Delle forze d'un padre il dare aïta D'un caro figlio all'uccisor. La lancia Ei no giammai non bagnerìa nel sangue D'uom che toccò la mensa sua… Ma pure Chi può segnar dove talor trascorra Nella foga dell'ira un core offeso? Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo! Disse, e prona curvossi, e lungamente Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio Esser tentata; innanzi a Dio temea Calunnïar la santa alma del padre. Ma nella mente repentino un raggio Di fidanza pienissima le splende, E ratta sorge e dice:—Ah sì, fratello! Questo è il momento in che del ciel la porta A tue brame si schiude: io di tua gioia Sento il reflesso, e quella gioia è Dio! Un servo entrava:—Damigella, o carco D'inaudite peccata, o fuor di senno È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio Parla tra sè com'uom cui prema occulto Di vendette terribili spavento, E di qui vuol fuggir. —Tosto bardata Per lui sia mia cavalla. Il servo parte Maravigliato, ed obbedisce. Intanto Antico armadio la fanciulla schiude, Ed indi tratto un de' paterni manti, Al leve suo tesor poscia s'affretta D'auree monete, e in una borsa il pone. Così ver l'agitato ospite mosse, E que' doni offerendogli—D'Aroldo Questa, gli disse, è la vendetta, o sire. Fremea la generosa in lui mirando L'uccisor di Ioffrido e il formidato Di Saluzzo oppressor, ma pïamente Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte Del castello accennando, a lui soggiunse: —Ecco a' tuoi cenni un corridor: se lena Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo! Clara sparve, ciò detto. E l'infelice Tiranno—Angiol! gridò.—Poi diè dal core Uno scroscio di pianto. Ed allor forse Pentimento verace a lui fu strazio, Le proprie atroci colpe rammentando, E rammentando il giovine Ioffrido, E quel misero cieco che appoggiato Ad un alber credeasi, e gli grondava Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue! Frettoloso Manfredo i doni tolse; L'inaudita pietà benedicendo, D'Aroldo cinse su le spalle il manto, E quindi a pochi tratti il vide Clara Dalla fenestra, che, al cortil venuto, Con sembiante commosso intorno intorno Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo In atto di preghiera ergea le mani, Poi le briglie toccava ed era in sella. Fermato ivi un istante, ad alta voce Mise queste parole:—Aroldo! Aroldo! Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto Seggio e de' vituperi onde vo sazio, Consolarmi potrò; non potrò mai Consolarmi d'aver tua nobil alma Col più truce rigore insanguinata. Udì il vecchio baron quel forte grido, E balzò dalla seggiola esclamando: —Figlia! il nemico nostro! il maledetto Uccisor di Ioffrido! E sul rugoso Pallido volto del canuto il foco S'accese del furore. A' piedi suoi Clara gettasi allora, e gli palesa Ciò che d'oprar le ispirò Iddio. —No, Iddio Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo; Manfredo è un empio! ei di dominio sete Portò infernal su queste invase terre, Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse! Infame della patria e del suo prence Manfredo è traditor. Per sollevarsi Sulla sede non sua, trasse alleati E Provenzali e Càlabri e venduti Guelfi di tutta Italia allo sterminio De' nostri feudi e delle nostre plebi, E incenerì Saluzzo!… e il figlio mio, Il figlio mio su scellerata croce A' carnefici suoi diede bersaglio! Lunga e tremenda di rammarco e d'ira Fu l'eloquenza dell'antico. A lui Clara abbracciava le ginocchia, e santi Detti porgea con supplice dolcezza: —Le iniquità punir sol puote Iddio; Noi non possiam sul misero fuggiasco Punirle coll'acciar: solo a punirle Una guisa n'è data, ed è il perdono. Càlmati, o genitor; pensa che o degno Per penitenza diverrà Manfredo, O, rimanendo iniquo, a lui carboni Saranno inestinguibili sul core, Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi E fra l'alme perverse il danno eterno. A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore, E il benefico palpito e l'eccesso Della pietà non sol sugl'innocenti, Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo Del perdono di Dio morendo avremo! —Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo, Ti benedico; santamente oprasti! L'alza, al petto la stringe, e lagrimando Mercè le rende che alla prova il senno D'esacerbato padre ella non mise. Un dì alle torri del baron fu visto Giungere di Manfredo un messaggero Da lontana contrada, e apportatore Venìa di ricchi doni. Eran tre lune Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto Era il castello, ed in vicino chiostro Cinta di sacre lane, i dolci salmi L'orfana, per la cara alma del padre E del fratel, tutte le notti ergea.
ROCCELLO.
Cantica.
M'era sembrato si potesse fare una specie di romanzo in due o tre volumi, dipingendo un generoso cavaliero italiano del secolo decimoquarto, il quale visitasse una dopo l'altra le varie dominazioni in cui stava divisa la nostra penisola, e così si disingannasse di molti sogni. Provatomi a tal lavoro, incontrai troppi scogli, stante l'obbligo che ha di svolgere con minutezza molti argomenti chi assume lunga prosa relativa a punti storici. Convertendo il soggetto in cantica, tutti i quadri si sono impiccioliti; ma forse così il lettore non avendo tempo d'annojarsi, potrà meglio afferrarne le armonie morali.
Ogni cosa veduta dal mio Roccello nella Italia de' suoi tempi è esattamente storica.
ROCCELLO.
Nec memor eris iniuriae civium tuorum. ( Levit. 19.18).
Oh sospirato d'indulgenza alterna Malagevol ritorno, allor che fiamma Di discordia civil tocche ha l'irose Schiatte de' forti! Nè bastò la fuga Delle guelfe di Napoli bandiere E del lor collegato empio Manfredo A raddur tosto pe' Saluzzii lidi L'armonia del perdono e delle paci. Aperti scherni ed avventate punte Di calunnia secreta e più crudele Affliggean le famiglie, e singolari Ne seguìano certami e vïolenti Scoppi a vendette. Il buon Roccel, perduti Ambo i vecchi parenti, e contristato Dallo spettacol di cotanti sdegni, Caduta in troppe a lui sembrò bassezze La stirpe umana entro la patria terra. Di Milan sorrideagli e de' Visconti La rimembranza, ed a Milan s'avvia Vagheggiando col fervido pensiero I costumi leali e generosi Della città lombarda.—Oh dell'estinta Mia genitrice amata culla! Oh pie Torri de' suoi congiunti! Oh come tutta Combacian quest'amante anima i fatti De' cavalieri che in Milano io vidi! Là s'albergo pur v'hanno alcuni indegni, I degnissimi abbondano: là i cuori Intemerati a cuori intemerati Unir si ponno e confortarsi. Un tempo Anco Saluzzo e le sue valli amene Eran così; mietute ha cruda guerra Le magnanime vite, e brulicante Vil di rettili resta oggi semenza. Scotea le spalle il suo scudier Gilnero Dietro a lui cavalcando:—Illustre sire, Trista per ogni dove è l'agitata De' mortali progenie, e sol da lunge Sfavillan di virtù le stranie rive. —Gilner, tu ignori l'età nostra: eccelse Speranze arridon per più genti, e il loco Onde arridono più, certo è Milano. Grandi cose avverran: d'uopo il mio core Ha di batter fra giusti e fra gagliardi. —Signor, di giusti e di gagliardi copia Non nutre alcun terren. —Grandi ti dico Avverran cose in questo secol. Rozza, Ignara del presente e del futuro È la nostra Saluzzo; io nella sede Degli operanti e de' veggenti spirti Nato a viver mi sento. —Udite, o sire… —Taci. E Gilner tacea; ma affettuose Occhiate indietro qua e là gettava Ai Saluzzesi campanili, ai poggi Che dalle mura estendonsi con tanta Varïetà e vaghezza di contorni Per le verdi convalli, ed agli acuti Gioghi che più remote alzan le teste Coronate di neve. A quell'aspetto Sin da' prim'anni a lui sì caro, il mesto Scudier sospira e brontola:—Contrade Si cerchin pur simili a questa! Il mondo Alquanto anch'io stolidamente ho corso: V'è un sol Monviso sulla terra, un solo Gruppo di monti come quello, un solo Pian che s'agguagli di Saluzzo al piano. Su via, vediam quel de' Lombardi. Un tempo So che di maestose ombre penuria Patìa pe' molli prati, e su quel guazzo Giacean fetide nebbie. Or sarà, certo, Ricco di piante al par di questo, e scarso Di pantani e di febbri; e trasportate Le bige nebbie si saranno oltr'Alpe. —Gilner, non adirarmi: e quando cieco Ti parvi di mia patria alla bellezza? Non questa fuggo, ma color che iniquo Su terra sì gentil traggon respiro. Brontolava sovente il buon seguace, E gemiti mandava, e sovra gli occhi Talor di furto colla destra il pianto Mal compresso tergeva; e se Roccello Vedea quel pianto, commoveasi anch'esso Ma celava del dolce animo i sensi, E si fea beffe di Gilner.—Cinquanta Anni, e sei debol come donna! —Ingrato A mia terra non son, dicea con ira Il rozzo Saluzzese: amo ed onoro Tutte le sponde sue, tutti i suoi rivi, Perchè infinita all'alma mia recaro Per molt'anni letizia! Un Saluzzese Che s'innamori di straniere spiagge, Sire, oltre voi, lo cercherete indarno. In tali avvicendati impeti il suolo Di Piemonte magnifico varcaro I duo peregrinanti, e nella Insùbre Signorìa de' Visconti eccoli alfine. Bello l'aspetto della reggia altera Ove rinnovellato han de' Lombardi La monarchia i Visconti, esterminando La invecchiata repubblica! E del forte Imperante Luchin bella col saggio Fratel Giovanni l'armonia perpetua, Mentre Giovanni dall'Olona il lituo Stendeva episcopal per così vasta Regïon cisalpina! Ambo i fratelli Sprona eccelso desìo: giustizia, freno Alle gare de' grandi e alle plebee, Accrescimento di virtù guerriera, Civil, religïosa. Ogni sublime Italo indegno è loro amico: il sommo Petrarca istesso ad Avignone omai Vuol Milano anteporre. Oh bella, oh piena Di nobili destini una contrada Signoreggiata da potente senno, Il qual sue lance dilatando astringe Popoletti ad unirsi, e così sempre Prosperità, studi e fortezza aumenta! In tal guisa Roccel solea dapprima In Milano esclamare. Esilarati Venìan gli spirti suoi dalle splendenti Feste del prence in Lombardia primiero Che a lui dal seggio sorridea, siccome A tutti sorridea gli ospiti illustri, Anelando in occulto alle sue mire Ambizïose partigiani farli. E ricolmo di grazie iva Roccello Dalla moglie del prence incantatrice, Isabella del Fiesco, emula a grandi Regine della terra in gemme ed auro E di corte eleganza e di conviti. Tali accoglienze un fàscino alla mente Poser del saluzzese ospite, a segno Che men trista gli parve una sciagura, Il non trovar tra' Milanesi amati Alcuni volti consanguinei. Morte Ed esilio colpite avean più teste Ne' giorni infausti in che Luchino ad uno De' suoi proprii fratelli, al bellicoso Marco, troncò le trame e in un la vita. Roccel creder non può che nell'orrenda, Storia del fratricidio il gran Visconte Da tiranno operasse. Ode assai bocche Giustificarlo ed attestar che il sire Dannò, costretto da giustizia e rischio, L'empio fratello, e in condannarlo pianse. Sol dopo trenta giorni al buon Gilnero Badò Roccello alquanto.—Il cor, signore, Quei gli dicea, voi nella reggia aprite Alle voci di tali infra i Lombardi, Cui prodiga Luchino ogni onoranza: Io parlo al popol. Di Luchino il regno Regno è di frodi e sangue. Il trucidato Marco avea queste colpe: alti pensieri Pel comun bene e invitta spada e senno. Tolta la vita all'innocente prode, Vite molt'altre caddero. Il terrore Per le vie di Milan muto passeggia, E questa in ogni dove or celebrata Prosperità, è menzogna. A signoria Dritti non ha Luchino, e dove manca La possanza de' dritti, usasi il ferro. —Fole, Gilnero mio. —Fole? E l'indegna Di Luchino alleanza oggi col rio Filippin de' Gonzaghi, uom che fregiato Della corona mantovana obblìa Ogni fè signorile, e omai s'agguaglia Con sue perfidie ai masnadier più vili? Udiste pur di Filippin l'infame Sovr'Obizzo degli Esti tradimento, Promettendogli il passo, e su lui quindi Con oste scellerata prorompendo Che fe' de' pellegrini ampio macello? Vero, inaudito, orribile misfatto Mentovava Gilnero, e collegato Col truce sire infatti era il Visconte. —Taci, dicea Roccello al temerario Ragionator. Ma breve tempo quegli Ammutolisce e a mormorar ripiglia: —Luchino un grande cavalier? Luchino Degno di regio serto? Il salvatore Ei dell'itale glorie? Alma villana Mascherata da re! Col fratricidio Non si pianta un impero a' dì cristiani. Indarno ei rapinava una dop'altra Città qui intorno tante, e si curvaro Alla vipera alzata in sanguinosi Stendardi Alba, Cherasco, Asti, Alessandria, E intero omai s'arroga egli il Piemonte. Gloria oggidì al ladrone, e doman forse La fune al collo! Eroe lo chiaman oggi; Doman da quei che gli movean più laudi, Si scaglierà sulla sua tomba oltraggio! —Taci! era il grido di Roccello ancora. Ma ruminava ei di Gilnero i motti, E scrutando iva poscia altri pensanti; E a poco a poco discoprìa infelice La città Milanese, e fremebonda Di rancori indelebili e di trame. Vide egli stesso di Luchin nel tetto Paure e inimicizie ed immolate Nobilissime fronti; e vide il sommo Vate Petrarca abbrevïar l'ospizio Largito a lui dal protettor Visconte; E dalle labbra di quel sommo intese Questo secreto, spaventevol detto: —Qui sovrasta ogni dì spada o veleno! La bellissima Ligure Isabella, De' Milanesi ammalïante donna, Al Veneto san Marco un voto sciorre A que' tempi volea. Glielo consente Il signor suo. Con sontüosa, immensa Di liete dame e lieti cavalieri Cavalcante brigata ella al devoto Vïaggio move[1]. Italia mai non ebbe Lusso più vago di monili e insegne E vesti ed armi e splendidi corsieri, Ed arpe e trombe e canti. Anco Roccello Quelle pompe seguì, vago ad un tempo Di visitar la veneta laguna, Ed ansio nel cor suo di trarsi a lochi Men da rammarchi e tirannia infestati. —Nasconder non tel vo, fido Gilnero: Con letizia abbandono or quelle mura Che più non son la mia gentil Milano Degli anni andati, quando tanti avea La genitrice mia concittadini A lei pari in contento e cortesìa.
[1] Vedi il libro del SANTAROSA, intitolato Scene istoriche del Medio Evo Spenti sono i migliori, e succeduta È qui razza di mesti e di discordi Ch'ogni dì più contristerìami. Or voglio Questa regal magnificente corsa Assaporar per via; fermo in Vinegia Prendere ostello intendo poi: Vinegia, La città senza esempio! il più bel frutto Dell'italica mente! il seggio dove, La maestà si ricovrò latina! Barbara cosa è tutto il resto: i soli Veneti han leggi e libertà e senato Come i prischi Romani, e ad emularli Chiamati son per l'universa terra. —Vedrem, dicea Gilner, vedrem codesta Città di fetid'acque e di palagi. Piantati nella melma! E veneranda Nazïon certo ne parrà una ciurma Di possenti pirati, usi a galere E traffichi e saccheggi, ingentilita Men fra cristiani che fra turchi e mori! Ma giunsero a Verona, e qui la moglie Del temuto Luchin maravigliose Accoglienze gioconde ebbe dai duo Scaligeri fratelli ivi regnanti, Mastino e Alberto: illustre coppia e forte D'unanimi signori, anch'essi audaci In desiderio di supremo impero. Il saluzzese cavalier si piacque Su' bei liti dell'Adige, e più lieta D'ogni altra corte or giudicando questa, Disse a Gilner:—Se poi Vinegia a noi Stanza grata non fosse, io, vedi, ho fermo Di trarmi a queste sponde. Il sai, prosapia È d'eroi la Scaligera, e la insidia Qui della serpe Viscontèa non cova. Dante Alighier, quel lume delle genti Che passato e presente e avvenir seppe, Com'esul fu dalla sua ingrata terra Qui portò i passi, ed altre itale reggie Non onorò sì lungamente. È fama Che l'ispirato ingegno presagisse A questa prode casa alte fortune. In Mastino ed Alberto io veramente D'anime grandi e voci e modi scerno. —Signor, non volge lungo tempo, il guardo Accarezzante e astuto del Visconte Apparìavi innocenza di colomba. —Taci! —Que' nomi di Mastino e Cane Che di Verona usano i prenci, un segno Mi par di minacciosa indol cagnesca Più che di santa carità e di pace. Proseguiro il viaggio e finalmente Videro la laguna e di san Marco Le mura incomparabil. Il superbo Doge e il Senato e innumerevol folla D'uomini e donne illustri a Dea simile Tenner la bella di Milan signora, E d'onoranze pie la inebbrïaro. Fulgeano i giorni dell'Ascensa e il ricco Sfoggio di tutte merci e tutti giochi E in Vinegia fervea gente di cento Itale spiagge e greche e saracine; E il portentoso Bucentor dai mille Remi indorati recò il doge in trono Sulle sparse di fiori onde spumanti Ed allor dalle dita il doge trasse L'anel, gettollo, e si sposò col mare. Più d'Isabella forse inebbriato Da sì vaghi spettacoli era il core Immaginoso di Roccello.—Oh primo Popolo di quest'orbe! Oh manifeste Testimonianze d'opulenza e regno Che crebbe e cresce e crescerà. Oh ridenti E colte labbra anco del volgo! Oh dolce D'amor linguaggio e d'intima blandizie Costringente a fiducia! Oh maga stirpe Che da pantani eleva case e templi, Ed eserciti crea, manda, alimenta, E miete palme, e serto a serto aggiunge! Qui respirar vogl'io; qui mi vo scerre Gentil compagna, e padre esser di prole Cui toccar possa virtù chiara e gloria. Brontolava Gilner, ma—Taci! taci! Gridò con più vigor l'acceso sire; Veneto voglio farmi, allo stendardo. Sacrar della repubblica il mio brando Mescer di prode Saluzzese il nome Ad immortali Adriaci nomi. In guerra Sta Vinegia co' Dàlmati: sottratte Al cenno suo di Zara son le torri, Per impulso degli Ungheri; ma il forte Leon non perde sue conquiste mai. Ciò meditava il cavaliere, e intanto Fama gli arriva di severe, atroci Opre de' reggitori. E Zara ed altre Città soggette fremono di leggi E di capricci d'avidi mercanti Fattisi quasi prenci. Entro la stessa Celebrata laguna, appo quel vampo Di libertà e di rìso e di saggezza, S'odon sommessamente acerbe storie Di tribunal secreto e di profonde Fosse per vivi seppelliti, a piedi Della reggia de' dogi; e su tal reggia Mentovavansi bolge arse dal sole Sotto infocati piombi, e là espïati Venìan da illustri vittime delitti Che il volgo mal sapea, che il volgo in dubbio Osava por. Malediche, oltrespinte Eran tai voci del terrore, e niuno Forse dalla repubblica iva tolto Dal dolce liber'aer, se d'esecrandi Fatti non reo. Ma all'alma di Roccello Que' vivi seppelliti e quelle bolge Che son corona a tal palagio, un sogno Angoscioso divennero. Imprudenti Quesiti usò su quelle storie, ed ecco Farglisi incontro, un dì, cortese fante De' vigili patrizi imperadori, Il qual l'avverte pronta esser la nave, E l'affretta a salirvi, e gli pronuncia, Sotto pena di scure, eterno bando. Non è a ridirsi il sogghignare amaro Del fremente Gilner. Giunti alla riva, E risaliti sull'arcion, guardossi Intorno intorno lo scudier, poi volto Ver la città dell'acque, alzò la destra. E a mezza voce' fulminò parole Di maledizïon. Non l'interruppe Con dirgli «Taci» in sulle prime il sire, Ma diessi poscia ad acquetarlo. —Eh via! Non t'infiammar con tal corruccio il sangue. Tedio noi già prendea di quelle meste Gondole e de' canali impegolati, E i piedi nostri e de' corsier le zampe Nascean per batter sul terren, le impronte. —M'era dolce, o signor, che di quel lezzo Ci traessimo alfin, ma volontarii, Non come coppia di birboni espulsi! Ed espulsi da chi? Da insolentita Di possenti usurai turba corsara! —Oibò, Gilner! qualche rigor molesto Ponno i Veneti oprar, nè però cessa Delle lor leggi il venerevol lustro: Fu colpa mia; chè di maggiore ossequio Era a tai leggi debitor. Creduto M'hanno inimico, e pur, tu vedi, in ceppi Non siam ne' pozzi o nell'aeree buche. —Meglio infatti così! sclamò Gilnero; Ma dove andiam? —Mel chiedi? Al cor mio nota Città non è che in leggiadria e costumi Cavallereschi agguaglisi a Verona: Da lei scostarmi io non doveva; e l'orme Sacre di Dante ivi mi legan. —Parmi Che qua e là, come le nostre, erranti Vagasser l'orme di quel vate, ognora Fiori di senno e carità cercando, Ed abbrancando non que' fior, ma spine E morte frasche e laidi insetti e rospi. Ma l'esul Fiorentin dritto al compianto Avea d'ogni gentil, chiuse dall'arme Veggendosi le valli, ove ne' campi Degli avi suoi vissuto fora, amando Se non tutti i mortali, almen taluno De' servi e cani delle sue pareti. Noi, sir, compianto non mertiam, fuggendo Senza esilio que' lochi ove la polve De' padri nostri giace, ove ogni zolla Rammenta di que' padri angosce o gioie Ad essi sacre, e non men sacre ai figli. —Taci! disse Roccello. Ed ambidue S'asciugaron le ciglia. Entro il regnetto Della prosapia da Carrara i passi Misero i vïaggianti, ed ivi i dotti Portici Padovani appena tocchi Venner dal cavaliero, a questo un fante Cortese come il Veneto affacciossi. —Illustre sir, picciolo prence è il nostro, E l'ira di san Marco evitar debbe: A voi di là bandito i Padovani Dar non possono ospizio: uscir vi piaccia. Sulle cavalcature i Saluzzesi Risaliron mirandosi, e Gilnero Vermiglia come brage avea la faccia. —Spero, disse a Roccel, che da ogni lido Sarem cacciati come ladri, e grazia Poca non fia se n'è sparmiato il laccio. Ma novamente in breve eccoli a riva Stanzïati dell'Adige, il fremente Gilnero sbadigliando, e il lieto sire Gioie di cavalieri assaporando Ora a torneamenti, or a pompose Sere di corte, ove su nobili arpe La scaligera gloria i trovadori Su tutte glorie esaltano, e obblïato Non è l'ospizio e l'amistà che v'ebbe Il ramingo signor de' patrii canti. Ma dopo il giro di due lune, oppressi Cittadini conobbe il Saluzzese, Che si dolean secretamente: il tempo Esser dicean per sempre estinto, in cui Davver fiorìa Verona, uomini insigni Recando in seggio. Or tralignato il seme Stimavan de' lor prenci. Or su Verona Primeggiante vedean di giorno in giorno Vieppiù Milano: or non fulgea più raggio Di grandezza ai nepoti; ora infamato Iva il nome scaligero da paci Ed alleanze instabili e bugiarde, E pazze guerre e di giustizia spregio. S'attristava Roccel considerando Come per ogni umana gente, accanto A superbe allegrezze e a larghi incensi Tributati al natìo suolo beato, Ferva di sconsolate alme il dolore, Ch'ivi non veggion fuorchè fango ed onta. —Dunque, ei dicea (non a Gilner, ma chiuso Entro se stesso), a che vogl'io contrade Trovar migliori di Saluzzo? Inferma L'umana razza non è tutta al pari? Vana apparenza ognor non sono il lustro E l'albagìa de' più cospicui lidi? Vana apparenza non è tutto, i retti Pensieri tranne e le magnanim'opre? Meditava ei così, ma fantasie Più splendide e men vere indi volgea, Che bello il secol gli pingeano, e bello il vincolarsi all'inclito destino De' prenci più operosi e più possenti: Alte dal secol suo cose aspettava, E da Verona or presagìane il cenno. Del bando a lui da' Veneti scagliato Voce traspira intanto, e da maligni O sospettosi inventansi novelle Sulla cagion del fatto. Ei di Luchino Viene estimato esploratore astuto, E cessano per lui gli accoglimenti Nelle sale de' sommi ed il sorriso Delle dame scaligere. Egli espulso Per comando non vien, ma dai serrati Cuori si scosta disdegnoso e parte. Invan Gilnero, il curïoso adunco Naso arricciando, investigar tentava Dal taciturno signor suo le cause Del pronto dipartir.—M'era avvezzato, Sire, a quelle bell'onde, a que' bei colli, Aquel sublime anfiteatro, a quella Cavalleresca, franca indol soave Della incorrotta Veronese stirpe. E da lei ci togliam? Sire, io non penso Che pur qui v' abbian detto: «Ite in mal'ora». —Temerario! —Ma dunque… —Ognor vaghezza Di Fiorenza ebbi, e visitarla or voglio, E so ch'ella Verona in pregio vince. —Bel pregio, parmi, esser madrigna atroce A quel re de' poeti, onde cotanto Italia e tutta umanità s'onora! —Dell'Alighieri a' tempi incrudeliva Parte malvagia entro Fiorenza; or pio Vi campeggia stendardo, e all'Alighieri Culto, siccome a patrio angiol, si rende. Mossi i duo Saluzzesi ecco alla volta Delle tosche amenissime colline, E toccan pria le fertili campagne Dell'Abdüano, e non si ferman, tanta Ira colà nutrono i petti al nome Di Filippin di Mantova tiranno; E varcan per Ferrara, egregia sede D'Obizzo Estense, ma laddove il ferro Sempre sovrasta del vicin Gonzaga E del Visconte, e queta alba non sorge; E varcan per Bologna, ove l'acciaro Stendon robusti i Pepoli, ma dove Da' nemici de' Pepoli ogni notte S'alza tumulto, e pallidi il mattino I passegger pacifici bagnate Veggion di sangue cittadin le vie, Od appesi alle forche i ribellanti. —Salve, Fiorenza! un dì sclamò Roccello Con ardente esultanza, allor che alfine Vide sulla pendice i generosi Tetti della repubblica più ardita Che in cor d' Italia splenda. A te serbata Di tutta Etruria è signorìa secura, Dacchè il ciel maledetta ha l'esecranda Torre di Pisa, ove perìan di fame I figli d'Ugolin: Pisa, già donna Di tanti mari e terre, oggi da guelfi E ghibellini lacera e da nuovi Ospiti protettori ogni dì spoglia. Salve, o patria di vati e di guerrieri, Che non han pari altrove! Oh, finalmente Avrà qui posa il mio agitato spirto, Avido d'alti fatti e di verace Gara per dritti e libertà ed onore! —Ma parmi, o sir, che, non ha molto, un grido Universal vilissima chiamasse Questa prosapia di toscani eroi, Curva a lambir d'un cavalier francese L'orme sanguigne. —Oibò, Gilnero! Il tristo Gualtier duca d'Atene avea la stolta Sua gallica arroganza ivi recato, Soggiogarli sperando; e più rifulse Di Fiorenza il valor! più la concordia Contro a straniere tirannie! Di laude Più che mai degna è questa illustre terra. Così in Fiorenza entrarono, e tre giorni Roccel d'amor s'inebbriò e d'ossequio Per quelle mura, per quel ciel, per quelle Argute faccie, per quel dolce vezzo D'un idïoma che le grazie vince Pur de' veneti suoni, e per palagi E chiese e monumenti, ove di grandi Anime tante la memoria vive: E d'amore e d'ossequio inebbrïossi Per le repubblicane alto-sonanti Paterne leggi, onde con bello orgoglio Favellava ne' trivii anco l'artiero. Volgea la terza notte, i Saluzzesi Desta ad un tratto un rombo, ed era a guisa Di nembo e terremoto. Ed ecco rugge Di strida l'aura, e splendono attraverso La fenestra giganti orrende fiamme Divoratrici di civili alberghi. S'alza Roccel, s'alza Gilnero: ascolto Porgono all'empie voci, e gridar morte Odono a' guelfi e morte a' ghibellini, E viva i buoni popolani, e viva Le patrizie famiglie! Intanto ferve Carnificina sino all'alba; e poscia Ecco feste e clamori di vittoria, Ed a suono di trombe un proclamarsi Felicità, cui mischiasi condanna Di scure o strozzamento a' reggitori Che regnavano ier, se alcun di loro Fia che al notturno scempio anco sorvivan Ed insiem si proclama uno stupendo Magistrato di plebe imperadrice, Tutto saggezza e libertà e confische, E carità di patria e manigoldi. In tal trionfo di giustizia e senno Roccello e lo scudier venner percossi E ingiurïati e rapinati, e a stento Salvo recàr lunge dall'Arno il capo. Frenar Giluero or chi potea?—Villana Di beccai libertà! sozza di schiavi Sollevati repubblica! Ed è questa Dell'itale divine arti la terra? La degna patria d'Alighier? la gente Che se vivo il dannò, morto l'adora? Oh! nella schietta saluzzese lingua, Razza di!… —Taci; andiamo. Oggi qui palma Pur troppo han colto i rei. Se piace a Dio, Roma ci appagherà. —Roma? Neppure Il Padre Santo più v'alberga! —I tempi Trapiantavan la sede in Avignone, Ma al Tebro, il sai, riede Clemente alfine. —Quando vedrollo, il crederò: promesso Da molt'anni è il ritorno; ad impedirlo Troppi s'adopran fra romani istessi. Lasciamo, o sire, i vani sogni. Il mondo S'approssima al suo fin, tutto è rapina, Fraude, eresia, bestemmia; e più si muta, Più si peggiora. Un angolo men tristo In quest'ampia penisola rimane All'alme generose, ed è Saluzzo: Colà si nasce ancor come nasceste, Come nacqui io: garrula gente, ardita, Prona ad afferrar brandi e a menar busse, Ma larga di compianti e di perdoni. Rivolto a Roma, non badò Roccello Al consiglier che lo seguìa cruccioso; E più cruccioso, imperocchè per via Cose orrende s'udìan dell'empia stirpe Onde in Ravenna uscita era Francesca, La trucidata in Rimini infelice. Regnava Ostasio, e morto questo, il serto E i mutui dì s'insidïaro i figli Con nere trame, ed un de' tre sgabello Fece a sua gloria i duo fratelli in ferri. Odono i vïatori anco tragedie De' Malatesti a Rimini imperanti, E de' tiranni di Forlì Ordelaffi, E de' Trinci in Foligno, e delle venti Schiatte di masnadieri insignoriti Di Romagna e di Marca e dell'antico Patrimonio di Pier. Mille fïate Più di pria sanguinose eran le genti Di quel latino suol, dacchè lontana La tïara gemea quasi captiva. Sconfortato Roccel da tante voci Di sciagure e di colpe, arrivò un giorno Alle sette colline, e messe appena Nella sacra città l'umili piante, Andò ne' templi a lagrimar. Chi puote Non lagrimar mirando Roma e tali Di sua crollata possa orme famose, Ed orme di miracoli e martirii, E pur troppo fra i santi anco frammiste Alme d' Iscarïoti e di perenni Del Figliuolo di Dio crocefissori! E assai giorni Roccello e il suo scudiero, Le romane basiliche ammirando E le mille rüine e le vetuste Effigie e le colonne e gli obelischi, Alternàr gioia e lutto ed ira e scherno E penitenza e preci, ogni pensiero Della terra obblïando oltre a' pensieri Che in lor destava la città rëina, Afflitta sì, ma ognor rëina al mondo Per memorie e speranze e immortal ara. A far vieppiù maravigliosa e grande La città de' portenti, ecco a tai giorni Sorger Cola di Rienzo, uom che insanito Pareva e saggio, e invaso da potenza Non si sapea se inferna o celestiale. Abbietto di prosapia, alto d'ardire, Vissuto in gravi studii, amico a' sommi Di dottrina e di cor, predicò, volle Che da Avignon la Pontificia Sede Sul Tevere tornasse, e poichè udita Non fu sua voce, sguainò la spada, Quasi guerrier profeta, e intitolossi Tribuno e sire e correttor dell'orbe. Tal fu l'audace senno o gl'incantesmi Del plebeo fatto eroe, che al suo comando Patrizi e popol si curvaro, e plausi Ebbe da re lontani, e il suo stendardo Parve a Petrarca stesso il destinato Per ristaurar giustizia e fede e pace. Ratto elevossi e ratto cadde, e ratto S'elevò ancor l'incomprensibil forte, Adorato e imprecato. Oh quante in esso L'alma fidente di Roccel sognava Forze divine! Or nella vera patria Ei sì credea de' generosi, e patria A se medesmo Roma indi eleggea! Sublimi, eterne gli parean le leggi Di quel re popolano: alme d'eroi Pareangli tutti, e sommi ed imi, in Roma. E che a Roccello non parea?… Gilnero Zufolava fremendo e intercalando: —Cola di Rienzo il tavernar! costui Aver senno da Cesari! Albagìa D'uom che impazzì su que' vetusti libri Di cui la gente il dice dotto, e breve Reca stupor! ne ghignerem dimane. E la dimane da Gilner predetta Spuntò non tarda. Il dotto imbaldanzito Sol ne' volumi conoscea la grande Arte del regno, e in suoi pensier foggiava Uomini antichi, ed ignorava il core De' respiranti, e gioco alto imprendea Da giocator frenetico. Trasparve Tra' suoi lampi d'ingegno al mobil volgo La stoltezza di Cola, e fin que' lampi Gli si negaro, e l'appellar buffone, E riser di sue leggi e dalle spalle Strappargli voller di tribuno il manto, Ed ei chiamò i suoi fidi alla battaglia, E quei che fidi ei riputava, il ferro Volser sull'idol loro e il laceraro! In quella orrenda civil pugna, il folle Parteggiar di Roccel per l'assalito L'espose a risse ed a coltelli. A stento Si strascinò ferito alle ospitali Soglie d'un chiostro, e le pietose cure Di Gilnero e de' frati il serbàr vivo. Il magnanimo infermo cavaliero Più dì e più notti delirò, imprecando I nemici di Cola e Cola istesso, E le promesse e le speranze e l'ire Del suo secol maligno, e ciascheduna Delle da lui percorse itale spiagge. Gilner l'interrompea:—Saluzzo in vero Non è paese come questi, e vale Tutte le Rome della terra: ad ogni Paio di birbi abbiam cinquanta onesti! Ad ogni donna vil, cento zitelle E cento mogli che son perle! Andate Dove volete, una Saluzzo è sola! L'infermo cavalier ne' suoi delirii Tai di Gilnero udendo amate voci, Non discernea chi il parlator si fosse, E a lui diceva:—Oh! chi se' tu, cortese Venerando filosofo, che alfine Sveli al mio indagatore, avido spirto La contrada cui tende ogni mia brama, La contrada de' buoni? —Io son Gilnero, E a Dio piacesse ch'io vi fossi ognora Sembrato un venerando! Io vi consiglio Di risanar dalle ferite e in uno Dalle vostre follìe. Cercando eroi Si trovan coltellate, e si consuma Inutilmente sanità e danaro. —Dunque? —A Saluzzo torneram. —No: vista Non ho Napoli ancor, la fortunata Monarchia di Giovanna: ah troppo dure Son le maschie superbe anime, e solo Dove bella Reina un popol regge, Imperar ponno amore e pace e gloria. Ito a Napoli fora il cavaliero, Ma mentre ei stava risanando, crebbe Contro Giovanna in tutta Italia il grido, Aver dessa aguzzato i brandi infami Che la francàr dall'abborrito sposo, Ed esser già del novo sposo stanca, Ed avvilirsi in empi amori, e tutto Esser rivolte ed omicidii il regno Ed alterne vendette e sacrilegio. —Dunque? ridisse al buon Gilner. —Saluzzo! Ripigliò questi. E uscirono del chiostro, Mercè rendendo alla ospital famiglia De' fraticelli. E uscirono di Roma, E verso le dilette Alpi lontane Venner ricavalcando. Ardui perigli Incontran mille, ma le sponde un giorno Ritoccan del Piemonte, e omai vicina La maestà riveggion del Monviso, E le pendici amene, innamoranti Del marchesato. Oh grande, oh incomparata Gioia a chi mosse ramingando in cerca D'egregi umani e di felici terre, Ed incontrò per ogni dove umani Da colpa travagliati e da sventura, E ritornando alle natìe convalli Gli amici primi si ricorda, e i fatti Glorïosi degli avi e l'indol cara Della fraterna stirpe! Invaso il seno Da quella nova gioia avea Roccello, Nè il suo Gilner con palpiti men dolci Salutava l'Eridano ed i poggi Di Taurino eleganti e la pianura D'arbori e prati e campi e ruscei vaga, E i monti di Saluzzo, e finalmente Saluzzo istessa. —Ah vi siam giunti! esclama Quegli e questi a vicenda; e il cavaliero, Fervido sempre, altissime, abbondanti Mette dal cor voci di laude al loco, Al principe, alle leggi, a' consanguinei, Al volgo, agli usi, alla favella, a tutto. —Temprate il foco del contento, o sire, Dice il savio Gilner: senza magagne Non evvi terra, ed ha le sue pur questa. Ma poichè pieno è di magagne il mondo, Indulgete de' vostri avi alla terra Più che ad ogni altra, e pïamente a lei Sacrate il senno ed i tesori e il brando.
LA MORTE DI DANTE.
Cantica.
Non ho mai capito in qual modo Dante, perch'egli fra i magnanimi suoi versi ne ha alcuni iratissimi di varii generi, sia potuto sembrare ai nemici della Chiesa Cattolica un loro corifeo; cioè un rabbioso filosofo, il quale o non credesse nulla, o professasse un cristianesimo diverso dal Romano. Tutto il suo poema a chi di buona fede lo legga, e non per impegno di sistema, attesta un pensatore, sì, ma sdegnoso di scismi e d'eresìe, e consonissimo a tutte le cattoliche dottrine. Giovani che sì giustamente ammirate quel sommo, studiatelo col vostro nativo candore, e scorgerete che non volle mai esservi maestro di furori e d'incredulità, ma bensì di virtù religiose e civili.
LA MORTE DI DANTE.
Lavamini, mundi estote! ( Is. I)
E perchè l'arpa mia—debol, ma vaga Di ritrarre in devoti, alti racconti, A conforto degli altri e di me stesso, Gioie e dolori di supremi spirti— Perchè in sue melodìe qualche felice O mesta ora de' sommi itali vati, Qualche virtù del cor, qualche sublime Effondimento de' lor sacri ingegni Non ridirebbe? Oh quante volte ad essi M'è grato alzar gli ossequïosi sguardi Come figlio a parenti, investigando Lor nobile natura, e divisando Quasi funerea su ciascun di loro Scior tal pietosa cantica di laude, Che, senza nè adular que' generosi, Nè tacer pur di colpe ov'ebber colpe, Sia gentile tributo alle lor tombe! Non avrai tu, per tragich'ira primo, Possentissimo Alfieri, onde reliquia[1] Sì prezïosa a me largì Quirina, Tu che maestro all'arte mia più cara Sì fortemente in giovinezza amai, Tu che ad Italia ed a' nativi nostri Pedemontani lidi onor sei tanto, Non avrai tu dalle mie labbra un carme? L'avrai.—Nè per Parini anco fia scevra Di parole d'amor l'alma di Silvio; Nè per Monti e per chiari altri intelletti Di non remoti dì.—Ma se più d'una Cantica aspettan molte ombre di vati, Più l'aspettan le antiche.—Oggi tu, Dante, All'anima mi parli. I tuoi divini Versi non seguo, nè dipingo i giorni Del tuo esular; di te la morte io canto. Splendeva all'Alighier l'ultima aurora, E sulle coltri sue muto ed assorto. Ne' pensieri santissimi ei giacea Munito già del Dio che alle fedeli Alme è quaggiù ineffabile alimento. Umile fraticel presso gli stava, Or con brevi parole or collo sguardo Le divine speranze rammentando; E presso al letto, e qua e là per l'ampia Sala, in piedi o sedenti, erano il vecchio Guido sir di Ravenna e i figli suoi, Ed assai cavalieri. Impallidite Presso alla porta si vedean le facce De' giovincelli paggi e delle guardie. Dopo i riti adorabili, in silenzio Stette gran tempo l'Alighier, ma gli occhi: Significavan prece e consolante Vista di cose celestiali e amore. Poi si riscosse, mirò intorno, e grato Salutevole cenno ai circostanti Volse, e coll'imperar della possente Sua volontà rinvigorì lo spirto, La voce, i guardi, e levò il capo, e disse: —Sia benedetta la pietà di Guido Ch'ospital posa al mio morir provvide! Sia benedetto, o amici tutti, il dolce Vostro compianto, e benedetto ognuno Di que' che al tosco esule vate il tristo Pellegrinaggio consolâr d'onore E d'applausi magnanimi—e di pane! Ma non però il mio benedir ti manchi, Patria crudel che a me noverca fosti, Ed io qual madre amava ed amo! Andate Le mie voci a ridirle e il mio perdono, E i miei consigli e il lagrimar di Dante Sulle materne iniquità e sventure! Qui pianse e tacque. Indi il febbril tumulto De' generosi suoi dolori il senso Addoppiò della vita entro il suo petto, E la parola gli tornò sul labbro Non tremula, non fiacca. Ognun si stava Rispettoso ed attonito, ascoltando Di quel gran cor gli oracoli supremi. —Dite a Fiorenza, e in un con essa a quante Son dell'amata Italia mia le spiagge, Che s'io censor severo e fremebondo Ne' miei carmi di foco ira esalai, Men da rabbia dettati eran que' carmi Che da desìo perenne e tormentoso Di ritrarre e caduti e vacillanti D'infra il sozzume lor di melma e sangue. E se nell'ira mia sfolgorò vampa D'orgoglio e d'odio, or ne' pensier di morte La condanno e l'estinguo, e prego pace A' miei nemici sì viventi ancora, Sì nella notte dell'avel sepolti. Tacque di novo, e sollalzato meglio L'infermo fianco, assisesi, ed eresse La fronte, e colla palma la percosse:, E disse:—Io veggo l'avvenir! Nell'ossa Degli uditori un gel di reverenza Rapido corse e di spavento. —Io veggo In quel lezzo di fango e di macelli Volversi le repubbliche di questa Agitata penisola, e gli scettri De' Visconti e Scaligeri, e le inique Insegne vostre, o guelfi e ghibellini, E bianchi e neri, e quanti siete, o falsi Promettitori di virtù e di gloria! Giù que' brandi sacrileghi e que' nomi Di maledizione e di discordia! E giù quelle speranze, ahi, da me pure Nutrite un dì, nelle straniere spade! Gloria non sorge da esecrande leghe, E da trame e da perfidi pugnali Innalzati col vanto inverecondo Del patrio ben, nè da fraterne guerre. Cessate i mutui di vittoria sogni Per primeggiar sull'abborrita parte, Chè vane son fuggevoli vittorie Onde un nemico trae letizia e lucro, E la patria dissanguasi e s'infama. —Chi è quel grande che non par che curi Nè la bassezza della propria stirpe, Nè gli altrui ferri, nè i diritti altrui, Nè il mobil genio delle stolte plebi, E sale in Campidoglio, e de' Romani S'intitola tribuno, e or par del santo Seggio il forte campione, or l'irrisore? Insano! Ei grida libertà e ritorno D'Itala imperiale onnipotenza A rïalzar per l'orbe ogni giustizia, Ed, ingiusto ei medesmo, irrìta Iddio, E le folgori scoppiano, e quell'alto Simulacro d'eroe crolla, ed è polve! —Chi son color che un idolo si fanno Dell'Angioïna Gallica burbanza Da Carlo in trono appo il Vesevo assisa, E la dicon sublime esca a future Italiche armonie di leggi e forza E civiltà! Strappatevi la benda: Straniero è il Gallo! sua virtude è oltr'Alpe, Qui pianta è che traligna, e non soave Olezzo, ma fetor manda e veleno! Qui tutela è bugiarda e si converte, In laido furto ed in più laido oltraggio! Qui farmachi alle piaghe offre, e vi sparge Aceto e sale, e ficcavi gli artigli, E de' ruggiti degl'infermi ride! Onoriamolo oltr'Alpe, o quando inerme Visita le latine illustri terre, Non quando s'arma ed amistà ne giura! Lui quasi imbelli pargoli maestro Non invochiam, non invochiamlo padre: Adulti siam se ci crediamo adulti! E ad esser tai, non fremiti, non risse, Non sommosse vi vogliono, ma senno, E fede ai patti, ed indulgenza e amore! Tacque come spossato e intenerito Un'altra volta l'Alighier. Poi lena Ripigliando sclamò:—Quanto sei bella Fiorenza mia! Quanto sei bella, o Italia, In tutte le tue valli, ancorchè sparse D'ossa infelici e di crudeli istorie! E che monta che in genti altre sfavilli D'eccelsi troni maestà maggiore, Mentre per varie signorie te reggi? Chi può sfrondar della tua gloria il serto? Chi a te delle gentili arti l'impero Involar mai? Chi scancellar dal core D'ogn'uom che bevve al nascer suo quest'aure La gioia d'esser Italo? la gioia D'esser nepote dell'antica Roma E figlio della nuova? Abbian fortune Luminose altri popoli: in disdoro Mai non cadrà la venerata terra Che domò l'universo, e dove eretta Dall'Apostolo Pier fu la immortale Face che tutti a salvaménto chiama! Ma bastan forse aviti pregi? Il grido Non vi colpì de' miei robusti carmi? E ch'altro, poetando io per lungh'anni, Vi dissi, Itali, mai, fuorchè d'apporre Nobiltà a nobiltà, virtù a virtude Innanzi al mondo, e a voi medesmi, e a Dio? Oh gioventù d'alte speranze, i gioghi Del vizio esecra e non i santi gioghi! Le gare tue sien di pietà le gare E degli esimii studi, onde ammirato Il vïator che d'oltremonte viene, T'onori e dica: «Ben ne' figli brilla De' prischi forti la mental potenza!» Ahi! delle giovin'alme i novi errori A che biasmate, o corrucciosi vecchi, Maledicendo al secolo perverso? Che opraste voi per migliorarlo, e prole Ad Italia lasciar che alteramente Fosse sdegnosa di licenza e scismi, E santamente amasse ara, scïenza, Cavalleresca fede e patrio onore? Provvedete a' crescenti! egregia scola Sien le famiglie a' nati; egregia scola Patrizi e dotti alla ignorante plebe; Egregia scola per città e convalli La sapïente carità de' cherci! Ah sì! primiero, o Sacerdoti, esempio Siate tra voi di pace e bei costumi! Non sia drappel ch'altro drappello imprechi! Umiltà vi congiunga imi con sommi Sotto l'imper benedicente e sacro Dell'Apostol supremo! Ognun di voi Decoro sia del tempio, e sparga incanto D'innocenza e di grazia: allor null'uomo Luce di verità cercherà altrove! D'Alighier le profetiche rampogne E il supplice sospir profondamente Commovean gli ascoltanti. E più commossi Fur quando l'egro venerando vate, Dopo quella versata onda robusta D'autorevoli detti, e quell'ardente Sguardo che nuncio ancor parea di vita, Più languid'occhi intorno volse, e sparve Il foco onde suffuse eran le gote, E i fianchi più nol ressero, e la sacra Testa cercò dell'origlier l'appoggio, E la palpante man tremula corse Al crocefisso, e lo portò alle labbra. Presso all'infermo palpitàr concordi Gl'impauriti cuori, e mal frenate Voci s'udìr di pianto. Il vecchio Guido Mirò i piangenti ed accennò silenzio; Ma involontaria dal suo ciglio eruppe Sovra Dante una lagrima, e il poeta Sull'ospite magnanimo la grata Pupilla alzando, gli serrò la destra. Un de' figli di Guido al suol prostrossi Presso al letto, sclamando:—Eterno Iddio, Prendi l'inutil vita mia! conserva Quella del re degl'itali intelletti! Tutti gli accenti suoi son luce e scampo! Tutta la vita sua fu impareggiato Rimbrotto ai vili e sprone ai generosi! Un uom divino egli è! —Giovine insano! Disse con voce moribonda il vate: Deh, sii miglior di me! Mia forza imìta, Non l'ire mie superbe. —O padre Dante, Ripigliò quegli, se i miei dì non ponno Invece de' tuoi dì farsi olocausto, Consiglia, impera; dimmi: ov'è la insegna Nel secol mio più santa? ov'è la insegna Cui darà palma Iddio sovra gl'iniqui? Ov'è la insegna destinata a cose Sulla terra sublimi? Io vo' seguirla! E il vate a lui:—Non chieder tanto: il ferro E la mente consacra al natio prence, Al natio lido, e lascia a Dio l'arcana Delle sorti bilancia: ogni stendardo Che non sia traditor guida a virtude. Disse, e pose la man sovra la testa Del fervido garzon. Questi aspettava, Tutti aspettavan che parola ancora Benedicendo da quel labbro uscisse: Irrigidita era la man, gelata Nelle fauci la lingua, estinto l'occhio… L'alma di Dante era salita al Cielo!
[1] L'orologio d'Alfieri mandatomi in dono da Firenze nel 1833 dalla signora Quirina Magiotti.
FINE.
INDICE DELLE CANTICHE.
Raffaella……………….Pag. 9. Ebelino…………………… 35. Ildegarde…………………. 81. I Saluzzesi………………. 121. Aroldo e Clara……………. 219. Roccello…………………. 247. La morte di Dante…………. 285.
Con permissione.