INDICE.
- 1 Al Lettore
- Pag. 1 Francesca da Rimini
- 79 Rosilde
- 115 Adello
- 169 Ebelino
- 213 Ildegarde
- 251 Aroldo e Clara
- 277 Poesie liriche
FINE DELL'INDICE.
AL LETTORE.
Amore sotto le più nobili forme ne' gaudi, amore e rassegnazione ne' mali sono anima al vivere di Pellico, sono l'espressione de' suoi versi; chè in essi l'anima di lui tutta è diffusa. In questo giudizio speriamo verran coloro che leggeranno le seguenti poesie, le quali abbiam scelte, toltone la Francesca, dalle molte pubblicate dall'autore dopo la sua liberazione dallo Spielberg.
Inclinando alquanto col secolo fummo parchi nel dare di quelle rime del nostro autore in cui egli trascorre alla contemplazione delle cose divine. Un libro ascetico o quasi ascetico sarebbe letto da pochi, forse da nessuno di coloro che ne abbisognano, e resterebbe quindi senza frutto. L'armi spirituali lampeggino sole nelle sacre bigonce, ma ne' libri di amena letteratura portino miste agli umani diletti le salutari punture.
A. Ronna.
FRANCESCA
DA RIMINI
TRAGEDIA.
Noi leggevamo un giorno per diletto,
Di Lancillotto come amor lo strinse,
Soli eravamo e senza alcun sospetto.
Per più fiate gli occhi ci sospinse
Quella lettura e scolorocci il viso.
Ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso,
Esser baciato da cotanto amante,
Questi, che mai da me non fia diviso,
La bocca mi baciò tutto tremante.
PERSONAGGI.
- LANCIOTTO, signor di Rimini.
- PAOLO, suo fratello.
- GUIDO, signore di Ravenna.
- FRANCESCA, sua figlia e moglie di Lanciotto.
- Un Paggio.
- Guardie.
La scena è in Rimini nel palazzo signorile.
FRANCESCA DA RIMINI.
ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Esce LANCIOTTO dalle sue stanze per andare all'incontro di GUIDO, il quale giunge. Si abbracciano affettuosamente.
GUIDO.
Vedermi dunque ella chiedea? Ravenna
Tosto lasciai; men della figlia caro
Sariami il trono della terra.
LANCIOTTO.
Oh Guido!
Come diverso tu rivedi questo
Palagio mio dal dì che sposo io fui!
Di Rimini le vie più non son liete
Di canti e danze; più non odi alcuno
Che di me dica: Non v'ha rege al mondo
Felice al pari di Lanciotto. Invidia
Avean di me tutti d'Italia i prenci:
Or degno son di lor pietà. Francesca
Soavemente commoveva a un tempo
Colla bellezza i cuori, e con quel tenue
Vel di malinconia che più celeste
Fea il suo sembiante. L'apponeva ognuno
All'abbandono delle patrie case
E al pudor di santissima fanciulla,
Che ad imene ed al trono ed agli applausi
Ritrosa ha l'alma.—Il tempo ir diradando
Parve alfin quel dolor. Meno dimessi
Gli occhi Francesca al suo sposo volgea;
Più non cercava ognor d'esser solinga;
Pietosa cura in lei nascea d'udire
Degl'infelici le querele, e spesso
Me le recava; e mi diceva.... Io t'amo.
Perchè sei giusto e con clemenza regni.
GUIDO.
Mi sforzi al pianto.—Pargoletta, ell'era
Tutta sorriso, tutta gioja, ai fiori
Parea in mezzo volar nel più felice
Sentiero della vita; il suo vivace
Sguardo in chi la mirava, infondea tutto
Il gajo spirto de' suoi giovani anni.
Chi presagir potealo? Ecco ad un tratto
Di tanta gioja estinto il raggio, estinto
Al primo assalto del dolor! La guerra,
Ahimè, un fratel teneramente amato
Rapiale!... Oh infausta rimembranza!.. Il cielo
Con preghiere continue ella stancava
Pel guerreggiante suo caro fratello...
LANCIOTTO.
Inconsolabil del fratel perduto
Vive, e n'abborre l'uccisor; quell'alma
Sì pia, sì dolce, mortalmente abborre!
Invan le dico: I nostri padri guerra
Moveansi; Paolo, il fratel mio, t'uccise
Un fratello, ma in guerra; assai dorragli
L'averlo ucciso; egli ha leggiadri, umani,
Di generoso cavaliero i sensi.
Di Paolo il nome la conturba. Io gemo
Però che sento del fratel lontano
Tenero amore. Avviso ebbi ch'ei riede
In patria, il core men balzò di gioja;
Alla mia sposa supplicando il dissi,
Onde benigna l'accogliesse. Un grido
A tal annunzio mise. Egli ritorna!
Sclamò tremando, e semiviva cadde.
Dirtelo deggio? Ahi l'ho creduta estinta,
E furente giurai che la sua morte
Io vendicato avrei... nel fratel mio.
GUIDO.
Lasso! e potevi?...
LANCIOTTO.
Il ciel disperda l'empio
Giuramento! L'udì ripeter ella,
Ed orror n'ebbe, e a me le man stendendo:
Giura, sclamò, giura d'amarlo: ei solo,
Quand'io più non sarò, pietoso amico
Ti rimarrà... Ch'io l'ami impone, e l'odia,
La disumana! E andar chiede a Ravenna
Nel suo natio palagio, onde gli sguardi
Non sostener dell'uccisor del suo
Germano.
GUIDO.
Appena ebbi il tuo scritto, inferma
Temei foss'ella. Ah, quanto io l'ami, il sai!
Che troppo io viva... tu mi intendi... io sempre
Tremo.
LANCIOTTO.
Oh, non dirlo!.. Io pur, quando sopita
La guardo... e chiuse le palpebre e il bianco
Volto segno non dan quasi di vita,
Con orrenda ansietà pongo il mio labbro
Sovra il suo labbro per sentir se spiri:
E del tremor tuo tremo.—In feste e giochi
Tenerla volli, e sen tediò: di gemme
Dovizïosa e d'oro e di possanza
Farla, e fu grata ma non lieta. Al cielo
Devota è assai: novelle are costrussi.
Cento vergini e cento alzano ognora
Preci per lei, che le protegge ed ama.
Ella s'avvede ch'ogni studio adopro
Onde piacerle, e me lo dice, e piange.
Talor mi sorge un reo pensier... Avessi
Qualche rivale? O ciel! ma se da tutta
La sua persona le traluce il core
Candidissimo e puro!... Eccola.
SCENA II.
FRANCESCA e Detti.
GUIDO.
Figlia,
Abbracciami. Son io...
FRANCESCA.
Padre... ah, la destra
ch'io ti copra di baci!
GUIDO.
Al seno mio,
Qui... qui confondi i tuoi palpiti a' miei
Vieni, prence. Ambidue siete miei figli:
Ambidue qui... Vi benedica il cielo!
Così vi strinsi ambi quel dì che sposi
Vi nomaste.
FRANCESCA.
Ah, quel dì!... fosti felice,
O padre.
LANCIOTTO.
E che? forse dir vuoi che il padre
Felice, e te misera festi?
FRANCESCA.
Io vero
Presagio avea, che male avrei lo sposo
Mio rimertato con perenne pianto,
E te lo dissi, o genitor: chiamata
Alle nozze io non era. Il vel ti chiesi;
Tu mi dicesti che felice il mio
Imen sol ti farebbe... io t'obbedii.
GUIDO.
Ingrata, il vel chieder potevi a un padre
A cui viva restavi unica prole?
Negar potevi a un genitor canuto
D'avere un dì sulle ginocchia un figlio
Della sua figlia?
FRANCESCA.
Non per me mi pento.
Iddio m'ha posto un incredibil peso
D'angoscia sovra il core, e a sopportarlo
Rassegnata son io. Gli anni miei tutti
Di lagrime incessanti abbeverato
Avrei del pari in solitaria cella
Come nel mondo. Ma di me dolente
Niuno avrei fatto!... liberi dal seno
Sariano usciti i miei gemiti a Dio,
Onde guardasse con pietà la sua
Creatura infelice, e la togliesse
Da questa valle di dolor!... Non posso
Nè bramar pure di morir: te affliggo,
O generoso sposo mio, vivendo:
T'affliggerei più, s'io morissi.
LANCIOTTO.
O pia
E in un crudele! Affliggimi, cospargi
Di velen tutte l'ore mie, ma vivi.
FRANCESCA.
Troppo tu m'ami. E temo ognor che in odio
Cangiar tu debba l'amor tuo... punirmi...
Di colpa ch'io non ho... d'involontaria
Colpa almeno....
LANCIOTTO.
Qual colpa?
FRANCESCA.
Io... debolmente
Amor t'esprimo...
LANCIOTTO.
E il senti? Ah, dirti cosa
Mai non volea ch'ora dal cor mi fugge!
Vorresti, e amarmi, oh ciel! nol puoi...
FRANCESCA.
Che pensi?
LANCIOTTO.
Rea non ti tengo... involontarii sono
Spesso gli affetti...
FRANCESCA.
Che?
LANCIOTTO.
Perdona. Rea
Io non ti tengo, tel ridico, o donna:
Ma il tuo dolor... sarebbe mai... di forte
Alma in conflitto con biasmato... amore?
FRANCESCA.
(
Gettandosi nelle braccia di Guido.
)
Ah, padre, salva la mia fama. Digli,
E giuramento abbine tu, che giorni
Incolpabili io trassi al fianco tuo,
E che al suo fianco io non credea che un'ombra
Pur di sospetto mai data gli avessi.
LANCIOTTO.
Perdona: amore è di sospetti fabbro.—
Io fra me spesso ben dicea: Se pure,
Fanciulla ancor, d'immacolato amore
Si fosse accesa, e or tacita serbasse
Il sovvenir d'un mio rival, cui certo
Ella antepone il suo dover, qual dritto
Di esacerbar la cruda piaga avrei,
Indagando l'arcano? Eterno giaccia
Nel suo innocente cor, s'ella ha un arcano!
Ma dirlo deggio? Il dubbio mio s'accrebbe
Un dì che al fratel tuo lodi tessendo,
Io m'accingeva a consolarti. Invasa
Da trasporto invincibile, sclamasti:
Dove, o segreto amico mio del cuore,
Dove n'andasti? Perchè mai non torni,
Sì che pria di morire io ti riveggia?
FRANCESCA.
Io dissi?
LANCIOTTO.
Nè a fratel volti que' detti
Parean.
FRANCESCA.
Fin nel delirio, agl'infelici
Scrutar vuolsi il pensier? Sono infelici,
Nè basta: infami anch'esser denno. Ognuno
Contro l'afflitto spirto lor congiura;
Ognun... pietà di lor fingendo... gli odia;
Non pietà no, la tomba chieggon... Quando
Più sopportarmi non potrai, la tomba
Aprimi sì; discenderovvi io lieta:
Lieta pur ch'io... da ogn'uom fugga!
GUIDO.
Vaneggi?
Figlia...
LANCIOTTO.
Quai su di me vibri tremendi
Sguardi! Che li fec'io?
FRANCESCA.
Di mie sciagure
La cagion non sei tu?... Perchè strapparmi
Dal suol che le materne ossa racchiude?
Là calmato avria il tempo il dolor mio;
Qui tutto il desta, e lo rinnova ognora...
Passo non fo ch'io non rimembri...—Oh insana!
Fuor di me son. Non creder, no...
LANCIOTTO.
... A Ravenna,
Francesca, sì, col genitor n'andrai.
GUIDO.
Prence, t'arresta.
LANCIOTTO.
Oh, a' dritti miei rinunzio.
Dalla tua patria non verrò a ritorti:
Chi orror t'ispira, ed è tuo sposo, e t'ama
Pur tanto, più non rivedrai... se forse
Pentita un giorno e a pietà mossa, al tuo
Misero sposo non ritorni... E forse,
Dall'angosce cangiato, ah, ravvisarmi
Più non saprai! Ben io, ben io nel core
La tua presenza sentirò: al tuo seno
Volerò perdonandoti.
FRANCESCA.
Lanciotto,
Tu piangi?
GUIDO.
Ah figlia!
FRANCESCA.
Padre mio! Vedesti
Figlia più rea, più ingrata moglie? iniqui
Detti mi sfuggon nel dolor, ma il labbro
Sol li pronuncia.
GUIDO.
Ah, di tuo padre i giorni
Non accorciar, nè del marito vane
Far le virtù per cui degna e adorata
Consorte il ciel gli concedea! Più lieve
Sarà la terra sovra il mio sepolcro,
Se un dì, toccando, giurerai che lieto
Di prole festi e del tuo amor lo sposo.
FRANCESCA.
Io accorcerei del padre mio la vita?
No. Figlia e moglie esser vogl'io: men doni
Lo forza il ciel. Meco il pregate!
GUIDO.
Rendi
A mia figlia la pace!
LANCIOTTO.
... Alla mia sposa!
SCENA III.
Un Paggio e Detti.
PAGGIO.
L'ingresso chiede un cavalier.
FRANCESCA.
(
A Guido.
)
Tu d'uopo
Hai di riposo: alle tue stanze, o padre,
Vieni.
(
Parte con Guido.
)
SCENA IV.
LANCIOTTO e il Paggio.
LANCIOTTO.
Il suo nome?
PAGGIO.
Il nome suo tacea:
Supporlo io posso. Entrò negli atrii, e forte
Commozïone l'agitò: con gioja
Guardava l'armi de' tuoi avi appese
Alle pareti: di tuo padre l'asta
E lo scudo conobbe.
LANCIOTTO.
Oh Paolo! Oh mio
Fratello!
PAGGIO.
Ecco a te viene.
SCENA V.
PAOLO e LANCIOTTO
si corrono incontro e restano lungamente abbracciati.
LANCIOTTO.
Ah, tu sei desso,
Fratel!
PAOLO.
Lanciotto! mio fratello!—Oh sfogo
Di dolcissime lacrime!
LANCIOTTO.
L'amico,
L'unico amico de' miei teneri anni
Da te diviso, oh, come a lungo io stetti.
PAOLO.
Qui t'abbracciai l'ultima volta... Teco
Un altr'uomo io abbracciava: ei pur piangea...
Più rivederlo io non doveva?
LANCIOTTO.
Oh padre!
PAOLO.
Tu gli chiudesti i moribondi lumi.
Nulla ti disse del suo Paolo?
LANCIOTTO.
Il suo
Figliuol lontano egli moria chiamando.
PAOLO.
Me benedisse?—Egli dal ciel ci guarda,
Ci vede uniti e ne gioisce. Uniti
Sempre saremo d'ora innanzi. Stanco
Son d'ogni vana ombra di gloria. Ho sparso
Di Bizanzio pel trono il sangue mio,
Debellando città ch'io non odiava,
E fama ebbi di grande, e d'onor colmo
Fui dal clemente imperador: dispetto
In me facean gli universali applausi.
Per chi di stragi si macchiò il mio brando?
Per lo straniero. E non ho patria forse
Cui sacro sia de' cittadini il sangue?
Per te, per te, che cittadini hai prodi,
Italia mia, combatterò; se oltraggio
Ti moverà la invidia. E il più gentile
Terren non sei di quanti scalda il sole?
D'ogni bell'arte non sei madre, o Italia?
Polve d'eroi non è la polve tua?
Agli avi miei tu valor desti e seggio,
E tutto quanto ho di più caro alberghi!
LANCIOTTO.
Vederti, udirti, e non amarti... umana
Cosa non è.—Sien grazie al cielo, odiarti
Ella, no, non potrà.
PAOLO.
Chi?
LANCIOTTO.
Tu non sai:
Manca alla mia felicità qui un altro
Tenero pegno.
PAOLO.
Ami tu forse?
LANCIOTTO.
Oh se amo!
La più angelica donna amo... e la donna
Più sventurata.
PAOLO.
Io pur amo; a vicenda
Le nostre pene confidiamci.
LANCIOTTO.
Il padre
Pria di morire un imeneo m'impose,
Onde stabile a noi pace venisse.
Il comando eseguii.
PAOLO.
Sposa t'è dunque
La donna tua? nè lieto sei? Chi è dessa?
Non t'ama?
LANCIOTTO.
Ingiusto accusator, non posso
Dir che non m'ami. Ella così te amasse!
Ma tu un fratello le uccidesti in guerra,
Orror le fai, vederti niega.
PAOLO.
Parla,
Chi è dessa? chi?
LANCIOTTO.
Tu la vedesti allora
Che alla corte di Guido...
PAOLO.
Essa...
(
Reprimendo la sua orribile agitazione.
)
LANCIOTTO.
La figlia
Di Guido.
PAOLO.
E t'ama! Ed è tua sposa?—È vero;
Un fratello... le uccisi...
LANCIOTTO.
Ed incessante
Duolo ne serba. Poichè udì che in patria
Tu ritornavi, desolata abborre
Questo tetto.
PAOLO.
(
Reprimendosi sempre.
)
Vedermi, anco vedermi
Niega?—Felice io mi credeva accanto
Al mio fratel.—Ripartirò... in eterno
Vivrò lontano dal mio patrio tetto.
LANCIOTTO.
Fausto ad ambi ugualmente il patrio tetto
Sarà. Non fia che tu mi lasci.
PAOLO.
In pace
Vivi; a una sposa l'uom tutto pospone.
Amala...—Ah, prendi questo brando, il tuo
Mi dona! rimembranza abbilo eterna
Del tuo Paolo.
(
Eseguisce con dolce violenza questo cambio.
)
LANCIOTTO.
Fratel...
PAOLO.
Se un giorno mai
Ci rivedrem, s'io pur vivrò... più freddo
Batterà allora il nostro cuor... il tempo
Che tutto estingue, estinto avrà... in Francesca
L'odio... e fratel mi chiamerà.
LANCIOTTO.
Tu piangi.
PAOLO.
Io pure amai! Fanciulla unica al mondo
Era quella al mio sguardo.... ah, non m'odiava,
No; non m'odiava.
LANCIOTTO.
E la perdesti?
PAOLO.
Il cielo
Me l'ha rapita!
LANCIOTTO.
D'un fratel l'amore
Ti sia conforto. Alla tua vista, a' modi
Tuoi generosi placherassi il core
Di Francesca medesma... Or vieni...
PAOLO.
Dove?...
A lei dinanzi... non fia mai ch'io venga!
FINE DELL'ATTO PRIMO.
ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
GUIDO e FRANCESCA.
FRANCESCA.
Qui... più libera è l'aura.
GUIDO.
Ove t'aggiri
Dubitando così?
FRANCESCA.
Non ti parea
La voce udir... di... Paolo?
GUIDO.
Timore
Or di vederlo non ti prenda. Innanzi
Non ti verrà, se tu nol brami.
FRANCESCA.
Alcuno
Gli disse ch'io... l'abborro? glien duol forse?
GUIDO.
Assai glien duol. Volea partir; Lanciotto
Ne lo trattenne.
FRANCESCA.
Egli partir volea?
GUIDO.
Or più quieto hai lo spirto. Oggi Lanciotto
Spera che del fratel suo la presenza
Tu sosterrai.
FRANCESCA.
Padre, mio padre! Ah, senti...
Questo arrivo... deh, senti, come forti
Palpiti desta nel mio sen!—Deserta
Rimini mi parea; muta, funebre
Mi parea questa casa; ora... Deh, padre,
Mai non lasciarmi, deh, mai più! Sol teco
Giubilar oso e piangere; nemico
Tu non mi sei... Pietà di me tu avresti,
Se...
GUIDO.
Che?
FRANCESCA.
Se tu sapessi...—Oh, quanto amaro
M'è il vivere solinga! Ah, tu pietoso
Consolator mi sei!... Fuorchè te, o padre,
Non evvi alcun dinanzi a cui non tremi,
Dinanzi a cui tutti del core i moti
Io non debba reprimere... Nascosto
Non tengo il cor; facil s'allegra e piange:
E mostrar mai nè l'allegria nè il pianto
Lecito m'è. Tradirmi posso; guai,
Guai se con altri un detto mi sfuggisse!...
Tu... più benigno guarderesti i mali
Della tua figlia... E se in periglio fosse...
Ne la trarresti con benigna mano.
GUIDO.
No, il cor nascosto tu non tieni... I tuoi
Pensier segreti... più non son segreti,
Quando col tuo tenero padre stai.
FRANCESCA.
Tutto... svelarti bramerei... Che dico?
Ove mi celo? Oh terra, apriti, cela
La mia vergogna!
GUIDO.
Parla; il ciel t'ispira.
Abbi fiducia. Il fingere è supplizio
Per te...
FRANCESCA.
Dovere è il fingere, dovere
Il tacer, colpa il dimandar conforto;
Colpa il narrar sì reo delitto a un padre,
Che il miglior degli sposi alla sua figlia
Diede... e felice non la fe'!
GUIDO.
Me lasso!
Il carnefice tuo dunque son io?
FRANCESCA.
Oh buon padre! nol sei...—Vacillar sento
La mia debol virtù.—Tremendo sforzo,
Ma necessario! Salvami, sostienmi!
Lunga battaglia fin ad ora io vinsi;
Ma questi di mia vita ultimi giorni
Tremarmi fanno... Aita, o padre, ond'io
Santamente li chiuda.—Ah, sì! Lanciotto
Ben sospettò, ma rea non son! fedele
Moglie a lui son, fedel moglie esser chieggo!..—
Padre... sudar la tua fronte vegg'io...
Da me torci gli sguardi... inorridisci...
GUIDO.
Nulla, figlia, raccontami...
FRANCESCA.
Ti manca
Lo spirto. Oh ciel!
GUIDO.
Nulla, mia figlia.—Un breve
Disordin qui... qui nella mente...—Ah, dolce
A vecchio padre è l'appoggiar le inferme
Membra su figli non ingrati!
FRANCESCA.
Oh, è vero!
Giusta è la tua rampogna; ingrata figlia,
Ingrata io son: puniscimi.
GUIDO.
—Qual empio
Di sacrilega fiamma il cor t'accese?
FRANCESCA.
Empio ei non è, non sa, non sa ch'io l'amo;
Egli non m'ama.
GUIDO.
Ov'è? Per rivederlo
Forse a Ravenna ritornar volevi?
FRANCESCA.
Per fuggirlo, mio padre!
GUIDO.
Ov'è colui?
Rispondi; ov'è?
FRANCESCA.
Pietà mi promettesti;
Non adirarti. È in Rimini...
GUIDO.
—Chi giunge!
SCENA II.
LANCIOTTO e Detti.
LANCIOTTO.
Turbati siete?... Eri placata or dianzi.
GUIDO.
Diman, Francesca, partirem.
LANCIOTTO.
Che dici?
GUIDO.
Francesca il vuol.
FRANCESCA.
Padre!
GUIDO.
Oseresti?...
(
Parte guardandola minacciosamente.
)
SCENA III.
LANCIOTTO e FRANCESCA.
FRANCESCA.
Ahi, crudo
Più di tutti è mio padre!
LANCIOTTO.
Abbandonarmi
Più non volevi; io ti credea commossa
Dal dolor mio. Per fuggir Paolo, d'uopo
Che tu parta non è; partir vuol egli.
FRANCESCA.
Partir?
LANCIOTTO.
Funesta gli parria la vita
Ne' suoi penati, ove abborrito ei fosse.
FRANCESCA.
Tanto gl'incresce?
LANCIOTTO.
Invan distornel volli;
Di ripartir fe' giuramento.
FRANCESCA.
Ei molto
Te ama...
LANCIOTTO.
Soave e generoso ha il core.
Debole amor (pari m'è in ciò) non sente...
E pari a me, d'amor vittima ei vive!
FRANCESCA.
D'amor vittima?
LANCIOTTO.
Sì. Non reggerebbe
Il tuo medesmo cuor, se tu l'udissi...
FRANCESCA.
Or perchè viene a queste piagge adunque?
Cred'ei che m'abbia alcun altro fratello
Onde rapirmel?... Per mio solo danno,
Certo, ei qui venne.
LANCIOTTO.
Ingiusta donna! Ei prega,
Pria di partir, che un sol istante l'oda,
Che un solo istante tu lo veggia.—Ah, pensa
Ch'ei t'è cognato; che novelli imprende
Lunghi viaggi; che più forse mai
Nol rivedrem! Religion ti parli.
Se un nemico avess'io, che l'oceàno
In procinto a varcar, la destra in pria
A porgermi venisse... io quella destra
Con tenerezza stringerei, sì dolce
È il perdonar.
FRANCESCA.
Deh, cessa!.. Oh mia vergogna!
LANCIOTTO.
Chi sa, direi, se quel vasto oceàno,
Fin che viviam, frapposto ognor non fia
Tra quel mortale e me? Sol dopo morte,
In cielo... E tutti noi là ci vedremo...
Là non potremo esser divisi. Oh donna,
Il fratello abborrir là non potrai!
FRANCESCA.
Sposo, deh, sappi... Ah, mi perdona!
LANCIOTTO.
Vieni,
Fratello!
FRANCESCA.
Oh Dio!
(
Si getta nelle braccia di Lanciotto.
)
SCENA IV.
PAOLO e Detti.
PAOLO.
—Francesca!... eccola... dessa!
LANCIOTTO.
Paolo, t'avanza.
PAOLO.
E che dirò?—Tu dessa?—
Ma s'ella niega di vedermi, udirmi
Consentirà? Meglio è ch'io parta, in odio
Le sarò men.—Fratel, dille che al suo
Odio perdono, e che nol merto. Un caro
German le uccisi; io nol volea. Feroce
Ei che perdenti avea le schiere, ei stesso
S'avventò sul mio brando; io di mia vita
Salvo a costo l'avria.—
FRANCESCA.
(
Sempre abbracciata al marito, senza osar di levar la faccia.
)
—Sposo, è partito?
Partito è Paolo?.. Alcuno odo che piange;
Chi è?
PAOLO.
Francesca io piango; io de' mortali
Sono il più sventurato! Anche la pace
De' lari miei non m'è concessa. Il core
Assai non era lacerato? assai
Non era il perder... l'adorata donna?
Anche il fratello, anche la patria io perdo!
FRANCESCA.
Cagion mai non sarò ch'un fratel l'altro
Debba fuggir. Partir vogl'io; tu resta,
Uopo ha Lanciotto d'un amico.
PAOLO.
Oh! l'ami?...
A ragion l'ami. Io pur l'amo... E pugnando
In remote contrade... e quando i vinti
E le spose e le vergini io salvava
Dal furor delle mie turbe vincenti,
E d'ogni parte m'acclamavan tutti
Fortissimo guerrier, ma guerrier pio...
Dolce memoria del fratello amato
Mi ricorreva, e mi parea che un giorno
Mi rivedrebbe con gentile orgoglio...
E tutta Italia e sue leggiadre donne
Avrian proferto amabilmente il nome
Dell'incolpabil cavaliero.—Ah, infausti
M'erano que' trionfi! il valor mio
Infausto m'era!
FRANCESCA.
Dunque tu in remote
Contrade combattendo... ai vinti usavi
Spesso pietà? Le vergini e le spose
Salvavi? Là colei forse vedesti
Che nell'anima tua regna.—Che parlo?
Oh insana.—Vanne. Io t'odio, sì!
PAOLO.
(
Risolutamente.
)
Lanciotto,
Addio.—Francesca!...
FRANCESCA.
(
Udendo ch'egli parte, gli getta involontariamente uno sguardo.
)
PAOLO.
(
Vorrebbe parlare; è in una convulsione terribile, e temendo di tradirsi fugge.
)
LANCIOTTO.
Paolo: deh, ti ferma!
SCENA V.
LANCIOTTO e FRANCESCA.
FRANCESCA.
Paolo... Misera me!
LANCIOTTO.
Pietà di lui
Senti, barbara, o fingi? A che ti stempri
In lagrime or, se noi tutti infelici
Render vuoi tu? Favella; io ragion chieggo
De' tuoi strani pensieri; alfin son stanco
Di sofferirli.
FRANCESCA.
E sono pure io stanca
Di tue ingiuste rampogne; ed avrò pace
Sol quando fia ch'io più non veggia... il mondo!
FINE DELL'ATTO SECONDO.
ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
PAOLO.
Vederla... sì, l'ultima volta. Amore
Mi fa sordo al dover. Sacro dovere
Saria il partir, più non vederla mai!...
Nol posso. Oh! come mi guardò! Più bella
La fa il dolor: più bella, sì, mi parve;
Più sovrumana! E la perdei? Lanciotto
Me l'ha rapita? oh rabbia! oh!.. il fratel mio
Non amo? Egli è felice... ei lungamente
Lo sia... Ma che? per farsi egli felice
Squarciar doveva ei d'un fratello il core?
SCENA II.
FRANCESCA
s'avanza senza veder
PAOLO.
FRANCESCA.
Ov'è mio padre? almen da lui sapessi
Se ancor qui alberga... il mio... cognato!—Io queste
Mura avrò care sempre... Ah, sì, lo spirto
Esalerò su questo sacro suolo
Ch'egli asperse di pianto!... Empia, discaccia
Sì rei pensieri: io son moglie!...
PAOLO.
—Favella
Seco medesma, e geme.
FRANCESCA.
Ah, questo loco
Lasciar io deggio: di lui pieno è troppo!
Al domestico altar ritrarmi io deggio...
E giorno e notte innanzi a Dio prostrata
Chieder mercè de' falli miei; che tutta
Non m'abbandoni, degli afflitti cuori
Refugio unico, Iddio.
(
Per partire.
)
PAOLO.
(
Avanzandosi.
)
Francesca...
FRANCESCA.
Oh vista!—
Signor... che vuoi?
PAOLO.
Parlarti ancor.
FRANCESCA.
Parlarmi?—
Ahi, sola io son!... Sola mi lasci, o padre?
Padre, ove sei? la tua figlia soccorri!—
Di fuggir forza avrò.
PAOLO.
Dove?
FRANCESCA.
Signore...
Deh, non seguirmi! il voler mio rispetta;
Al domestico altar qui mi ritraggo:
Del cielo han d'uopo gl'infelici.
PAOLO.
A' piedi
De' miei paterni altar teco verronne.
Chi di me più infelice? Ivi frammisti
I sospir nostri s'alzeranno. Oh donna!
Tu invocherai la morte mia, la morte
Dell'uom che abborri... io pregherò che il cielo
Tuoi voti ascolti e all'odio tuo perdoni,
E letizia t'infonda, e lunga serbi
Giovinezza e beltà sul tuo sembiante,
E a te dia tutto che desiri!... tutto!...
Anche... l'amor del tuo consorte... e figli
Da lui beati!
FRANCESCA.
Paolo, deh!—Che dico?—
Deh, non pianger. La tua morte non chieggo.
PAOLO.
Pur tu m'abborri...
FRANCESCA.
E che ten cal, s'io deggio
Abborrirti?... La tua vita non turbo.
Diman io qui più non sarò. Pietosa
Al tuo germano compagnia farai.
Della perdita mia tu lo consola:
Piangerà ei certo... Ah, in Rimini, egli solo
Piangerà, quando gli fia noto!...—Ascolta.
Per or, non digliel. Ma tu, sappi... ch'io
Non tornerò più in Rimini: il cordoglio
M'ucciderà. Quando al mio sposo noto
Ciò fia, tu lo consola: e tu... per lui...
Tu pur versa una lagrima.
PAOLO.
Francesca,
Se tu m'abborri che mi cale? e il chiedi?
E l'odio tuo la mia vita non turba?
E questi tuoi detti funesti?...—Bella
Come un angiol, che Dio crea nel più ardente
Suo trasporto d'amor... cara ad ognuno...
Sposa felice... e osi parlar di morte?
A me s'aspetta, che per vani onori
Fui strascinato da mia patria lunge,
E perdei...—Lasso! un genitor perdei.
Rïabbracciarlo ognor sperava. Ei fatto
Non m'avrebbe infelice, ove il mio cuore
Discoperto gli avessi... e colei data
M'avria... colei, che per sempre ho perduta.
FRANCESCA.
Che vuoi tu dir? Della tua donna parli...
E senza lei sì misero tu vivi?
Sì prepotente è nel tuo petto amore?
Unica fiamma esser non dee nel petto
Di valoroso cavaliere, amore.
Caro gli è il brando e la sua fama; egregi
Affetti son. Tu seguili; non fia
Che t'avvilisca amor.
PAOLO.
Quai detti? Avresti
Di me pietà? Cessar d'odiarmi alquanto
Potresti, se col brando io m'acquistassi
Fama maggior? Un tuo comando basta.
Prescrivi il luogo e gli anni. A' più remoti
Lidi mi recherò; quanto più gravi
E perigliose troverò le imprese,
Vie più dolci mi fien, poichè Francesca
Imposte me l'avrà. L'onore assai
E l'ardimento mi fan prode il braccio;
Più il farà prode il tuo adorato nome.
Contaminate non saran mie glorie
Da tirannico intento. Altra corona,
Fuorchè d'alloro, ma da te intrecciata,
Non bramerò, solo un tuo applauso, un detto,
Un sorriso, uno sguardo...
FRANCESCA.
Eterno Iddio!
Che è questo mai?
PAOLO.
T'amo, Francesca, t'amo,
E disperato è l'amor mio!
FRANCESCA.
Che intendo?
Deliro io forse? che dicesti?
PAOLO.
Io t'amo!
FRANCESCA.
Che ardisci? Ah taci! Udir potrian... Tu m'ami!
Sì repentina è la tua fiamma? Ignori
Che tua cognata io son? Porre in obblìo
Sì tosto puoi la tua perduta amante?...
Misera me! questa mia man, deh, lascia!
Delitto sono i baci tuoi!
PAOLO.
Repente
Non è, non è la fiamma mia. Perduta
Ho una donna, e sei tu; di te parlava
Di te piangea; te amava; te sempre amo;
Te amerò sino all'ultim'ora! e s'anco
Dell'empio amor soffrir dovessi eterno
Il castigo sotterra, eternamente
Più e più sempre t'amerò!
FRANCESCA.
Fia vero?
M'amavi?
PAOLO.
Il giorno che a Ravenna io giunsi
Ambasciator del padre mio, ti vidi
Varcare un atrio col feral corteggio
Di meste donne, ed arrestarti a' piedi
D'un recente sepolcro, e ossequïosa
Ivi prostrarti, e le man giunte al cielo
Alzar con muto ma dirotto pianto.
Chi è colei? dissi a talun.—La figlia
Di Guido, mi rispose.—E quel sepolcro?—
Di sua madre il sepolcro.—Oh, quanta al core
Pietà sentii di quell'afflitta figlia!
Oh qual confuso palpitar!... Velata
Eri, o Francesca: gli occhi tuoi non vidi
Quel giorno, ma t'amai fin da quel giorno.
FRANCESCA.
Tu... deh, cessa!... m'amavi?
PAOLO.
Io questa fiamma
Alcun tempo celai, ma un dì mi parve
Che tu nel cor letto m'avessi. Il piede
Dalle virginee tue stanze volgevi
Al secreto giardino. E presso al lago
In mezzo ai fior prosteso, io sospirando
Le tue stanze guardava: e al venir tuo
Tremando sorsi.—Sopra un libro attenti
Non mi vedeano gli occhi tuoi; sul libro
Ti cadeva una lagrima... Commosso
Mi t'accostai. Perplessi eran miei detti,
Perplessi pure erano i tuoi. Quel libro
Mi porgesti e leggemmo. Insiem leggemmo
«Di Lancillotto come amor lo strinse.
«Soli eravamo e senza alcun sospetto...
Gli sguardi nostri s'incontraro... il viso
Mio scolorossi... tu tremavi... e ratta
Ti dileguasti.
FRANCESCA.
Oh giorno! A te quel libro
Restava.
PAOLO.
Ei posa sul mio cuor. Felice
Nella mia lontananza egli mi fea.
Ecco: vedi le carte che leggemmo.
Ecco: vedi, la lagrima qui cadde
Dagli occhi tuoi quel dì.
FRANCESCA.
Va' ti scongiuro,
Altra memoria conservar non debbo
Che del trafitto mio fratel.
PAOLO.
Quel sangue
Ancor versato io non aveva. Oh patrie
Guerre funeste! Quel versato sangue
Ardir mi tolse. La tua man non chiesi:
E in Asia trassi a militar. Sperava
Rieder tosto, e placata indi trovarti,
Ed ottenerti. Ah, d'ottenerti speme
Nutria, il confesso.
FRANCESCA.
Ohimè! ten prego, vanne:
Il doler mio, la mia virtù rispetta.—
Chi mi da forza, ond'io resista?
PAOLO.
Ah, stretta
Hai la mia destra? Oh gioja! dimmi: stretta
Perchè hai la destra mia?
FRANCESCA.
Paolo!
PAOLO.
Non m'odii?
Non m'odii tu?
FRANCESCA.
Convien ch'io t'odii.
PAOLO.
E il puoi?
FRANCESCA.
Nol posso.
PAOLO.
Oh detto! ah, mel ripeti! Donna,
Non m'odii tu?
FRANCESCA.
Troppo ti dissi. Ah crudo!
Non ti basta? Va', lasciami.
PAOLO.
Finisci.
Non ti lascio, se in pria tutto non dici.
FRANCESCA.
E non tel dissi... ch'io t'amo.—Ah, dal labbro
M'uscì l'empia parola!.. io t'amo, io muojo
D'amor per te... Morir bramo innocente:
Abbi pietà!
PAOLO.
Tu m'ami? tu?... L'orrendo
Mio affanno vedi. Disperato io sono:
Ma la gioja che in me scorre fra questo
Disperato furor, tale e sì grande
Gioja è, che dirla non poss'io. Fia vero
Che tu m'amassi?... E ti perdei!
FRANCESCA.
Tu stesso
M'abbandonasti, o Paolo. Io da te amata
Creder non mi potea.—Vanne: sia questa
L'ultima volta...
PAOLO.
Ch'io mai t'abbandoni
Possibile non è. Vederci almeno
Ogni giorno!...
FRANCESCA.
E tradirci? e nel mio sposo
Destar sospetti ingiuriosi? e macchia
Al nome mio recar? Paolo, se m'ami,
Fuggimi.
PAOLO.
Oh sorte irreparabil! Macchia
Al tuo nome io recar? No!—Sposa d'altri
Tu sei. Morir degg'io. La rimembranza
Di me scancella dal tuo seno: in pace
Vivi. Io turbai la pace tua: perdona.—
Deh, no, non pianger! non amarmi!—Ah, lasso!
Che dico? Amami, si: piangi sul mio
Precoce fato...—Odo Lanciotto. Oh cielo,
Dammi tu forza!—(
Chiamando.
) A me, fratel!
SCENA III.
LANCIOTTO, GUIDO
e Detti.
PAOLO.
L'estremo
Amplesso or dammi.
LANCIOTTO.
E invan...
PAOLO.
Nè un detto solo
A' miei voleri oppor. Funesti augurii
Qui meco trassi: guai s'io!...
LANCIOTTO.
Che favelli?
Sdegno ti sta sul ciglio!
PAOLO.
—Ah! non di noi...
Del destino è la colpa.—Addio, Francesca.
FRANCESCA.
(
Quasi fuor di se con grido convulsivo.
)
Paolo... Ferma!
LANCIOTTO.
Qual voce!
GUIDO.
(
Reggendo la figlia.
)
Oimè le manca
Il respiro.
PAOLO.
(
In atto di partire.
)
Francesca...
FRANCESCA.
Ei parte... io muojo.
(
Sviene nelle braccia di Guido.
)
PAOLO.
Francesca... oh vista... si soccorra.
GUIDO.
Figlia...
(
Francesca è recata nelle sue stanze.
)
SCENA IV.
LANCIOTTO E PAOLO.
LANCIOTTO.
Paolo... Che intendo?... Orrendo lampo scorre
Sugli occhi miei.
PAOLO.
Barbaro! godi: è spenta...
Morir mi lascia: fuggimi.
(
Parte.
)
SCENA V.
LANCIOTTO.
Fia vero?
Essa amarlo? E fingea!...No: dall'inferno
Questo pensier mi vien... pur...—Dalla reggia
L'uscire a Paolo s'interdica: a forza
Gli s'interdica.—Oh truce vel! si squarci.
FINE DELL'ATTO TERZO.
ATTO QUARTO.
SCENA PRIMA.
LANCIOTTO e Paggio.
LANCIOTTO.
Che? Guido affretta il suo partir? Vederla
Voglio, veder voglio Francesca. Innanzi
Anche colui mi venga... Paolo.
PAGGIO.
Il tuo
Fratello?
LANCIOTTO.
Il mio... fratello.
SCENA II.
LANCIOTTO.
Il mio fratello!
Fratello m'è: più orribile è il delitto.—
Essa l'odiava! ah menzognera! Io pure
A quell'odio credei. La lontananza
Di lui, cagione di sue lagrime era.
A rieder forse in Rimini Francesca
Secretamente l'invitò.—Ti frena,
O pensier mio; feroce mi consigli
La mandi porre ahi! su quest'elsa...io tremo!
SCENA III.
GUIDO e LANCIOTTO.
LANCIOTTO.
Fuggirmi forse è di tua figlia intento?
Senza ch'io'l sappia spera ella fuggirmi!
E tu a sue brame...
GUIDO.
È necessario!
LANCIOTTO.
Ah, rea
Dunque è tua figlia!
GUIDO.
No: tremendo fato
Noi tutti danna a interminabil pianto!
LANCIOTTO.
Rea non la chiami, e d'esecrando foco
Arde?
GUIDO.
Ma forte duol ne sente, e implora
Di fuggir da colui.—Ripigliò appena
I sensi, e pieno io di vergogna e d'ira
Dagli occhi tuoi la trassi: ed obbliando
Quasi d'esserle padre, a' piè d'un santo
Simulacro prostratala, snudai
Sul suo capo l'acciaro, ahi, minacciando
Di trucidarla e in un di maledirla,
Se il ver taceva. Fra singhiozzi orrendi
Favellò l'infelice.
LANCIOTTO.
E che ti disse?
GUIDO.
M'affoga il pianto. Ella è mia figlia...—Porse
La sua gola all'acciaro, e lagrimosi
Figgeva gli occhi negli asciutti miei.—
Sei tu colpevol? (le gridai) rispondi,
Sei tu colpevol?... pronunciar parola
Non poteva ella dall'angoscia... A forza
Mi si commosse il cor. Per non vederla
Torsi gli sguardi, e mi sentii le piante
Abbracciare, e lei, prono a terra il volto,
Sclamar con voce moribonda: Padre,
Sono innocente.—Giuralo.—Tel giuro!...
Ed io in silenzio m'asciugava il ciglio.—
Sono innocente, replicò tre volte...
Gettai l'acciar, l'alzai: la strinsi al seno...
Padre infelice e offeso son, ma padre.
LANCIOTTO.
Oh rabbia! L'ama ed innocenza vanta?
Lunge dagli occhi miei, più allegro amore
Con Paolo spera; ah, sen lusinga in vano!
Di seguirla a Ravenna ei le promette...
Oh traditor!.. Siete in mie mani ancora.
GUIDO.
Queste canute mie chiome rispetta.
Salvarla io deggio... tu, più non vederla.
(
Parte.
)
SCENA IV.
LANCIOTTO e PAOLO.
LANCIOTTO.
Sciagurato, t'avanza.
PAOLO.
Uso non sono
Ad ascoltar sì acerbi modi: in altri
Rintuzzarli saprei. Ma in te del padre
L'autorità con sofferenza onoro.—
Parli a fratello o a suddito?
LANCIOTTO.
...A fratello.—
Rispondi, Paolo. Se tua sposa fosse
Colei; se alcuno a te il suo cor rapisse,
E se quei fosse il tuo più dolce amico...
Un uom che, mentre ti tradia, stringevi
Come più che fratello al seno tuo...
Che faresti di lui?—Pensavi.
PAOLO.
Io sento
Quanto ti costa l'esser mite.
LANCIOTTO.
Il senti?
Fratello, il senti quanto costa?—Il nostro
Padre nomasti. Ei mite era co' figli,
Anche se rei credevali.
PAOLO.
Tu solo
Succedergli mertavi. E che mai dirti?
Oh, come atterri la baldanza mia!
Anch'io talor magnanimo mi credo:
Al par di te nol son.
LANCIOTTO.
Di': se tua sposa
Fosse?
PAOLO.
Francesca? Ah, d'un rival pur l'ombra
Non soffrirei.
LANCIOTTO.
Se un tuo fratello amarla
Osasse?
PAOLO.
Più non mi sarìa fratello.
Guai a colui! Lo sbranerei col mio
Pugnal, chiunque il traditor si fosse.
LANCIOTTO.
Me pure assal questo desio feroce,
E trattengo la man che al brando corre:
Credilo, a stento la trattengo. Ed osi
Del tuo delitto convenir? Sedurre
La sposa altrui, del tuo fratel la sposa!
PAOLO.
Meno crudel saresti, or se col brando
Tu mi svenassi. Un vil non son. Sedurre
Io quel purissimo angiolo del cielo?
Non fora mai. Chi di Francesca è amante
Un vil non è: lo foss'ei stato pria,
Più nol sarebbe amandola: sublime
Fassi ogni cor, dacchè v'è impressa quella
Sublime donna. Io perchè l'amo, ambisco
D'esser uman, religïoso e prode:
E perch'io l'amo, assai più forse il sono
Ch'esser non usan nè guerrier nè prenci.
LANCIOTTO.
E inverecondo più d'ogn'uom tu sei.
Vantarmi ardisci l'amor tuo?
PAOLO.
Se iniquo
Fosse il mio amor, tacer saprei, ma puro
È quanto immenso l'amor mio. Morire
Mille volte saprei pria che macchiarlo.—
Nondimen... veggio di partir la forte
Necessità.—Per la tua donna al tuo
Fratel rinuncia... ed in eterno!
LANCIOTTO.
Iniquo
Non è il tuo amore? E misero in eterno
Tu non mi rendi?... Obblierò ch'io m'ebbi
Un fratel caro: ma potrò dal core
Di Francesca strapparlo? E il cor di lei
Non porterai teco dovunque? Odiato
Vivrò al suo fianco. Nol dirà, pietosa,
Non mel dirà, ma ben il sento; ah, m'odia,
E tu, fellone, la cagion ne sei.
PAOLO.
L'amo, il confesso... Ma Francesca, oh cielo
Di lei non sospettar.
LANCIOTTO.
Anco ingannarmi
Vorresti? Il pensier tuo scerno. Tu temi
Che un giorno in lei mi vendichi, in Francesca,
Nella tua amante: e or più desio men prendi
Che? d'immolarvi non ho dritto? io regno:
Tradito sposo ed oltraggiato prence
Son io. Di me narri che vuoi la fama:
Di voi dirà: perfidi fur.
PAOLO.
La fama
Dirà: Qual colpa avea, se giovinetto
Paolo a Ravenna fu mandato, ed arse
Pel più leggiadro de' terrestri spirti?—
E tu quai dritti hai su di lei? Veduto
Mai non t'avea: sol per ragion di stato
La bramasti in isposa. Umani affetti
Non diè natura anco de' prenci ai figli?
Perchè il suo cor non indagasti pria
Di farla tua?
LANCIOTTO.
Che ardisci? aggiungi insulto
A insulto ancor? No, più non reggo.
(
Mette mano alla spada.
)
SCENA V.
GUIDO, FRANCESCA e Detti.
FRANCESCA.
(
Prima di uscire.
)
Padre!
Stringer l'arme li veggio.
GUIDO.
(
Vuol prima trattener Francesca; quindi si frappone tra Paolo e Lanciotto.
)
Ferma.—Ah, pace,
O esacerbati spiriti fraterni!
PAOLO.
Più della vita mi togliesti: poco
Del mio sangue mi cal, versalo.
FRANCESCA.
Il mio
Sangue versate: io sol v'offesi.
GUIDO.
Oh figlia!
LANCIOTTO.
Il sacro aspetto di tuo padre, o iniqua,
Per tua ventura ti difende. Statti
Fra le sue braccia: guai s'ei t'abbandona!
Obblierò che regia fu tua culla:
Peggio di schiava tratterotti. Infame
È l'amor tuo: più d'una schiava è infame
Una moglie infedel... Questa parola
Forsennato mi rende. Io tanto amarti,
Tanto adorarti, e tu spregiarmi?... Altero
Ho il cor, nol sai? tremendamente altero:
E oltraggi v'han, che perdonar non posso.
Onor mel vieta... Onor? che dissi? noto
Questo nome t'è forse?
GUIDO.
Arresta.
LANCIOTTO.
Io intendo,
Io dell'onor l'onnipossente voce:
Nè allorch'ei parla, più altra voce intendo,
E vibro il ferro ovunque accenni.
FRANCESCA.
Ah padre!
Ei non m'uccide, uccidimi tu, padre!
LANCIOTTO.
Vaneggio?... Voi raccapricciate?...—Oh Guido!
Quando canute avrò le chiome anch'io,
E vivrò nel passato, e freddamente
Guarderò i vizi e le virtù mie antiche...
Anche allor rimembrando un'adorata
Sposa che mi tradia, tutta l'antica
Disperata ira sentirò nel petto,
Ed imprecando fuggirò col guardo
Verso il sepolcro, onde mie angosce asconda.
Ma non verrà quel dì. Verso il sepolcro
Mi precipita l'empia oggi: del mio
Vicin sepolcro già il pensier l'allegra:
Di calpestarlo essa godrà... Seco altri,
A calpestarlo verrà forse!
FRANCESCA.
Oh cielo!
Dammi tu forza, ond'io risponda.—Io sorda
Alle voci d'onor... Se Paolo amai,
Vil non era il mio foco: Italo prence,
Cavalier prode, altro ei per me non era.
Popoli e regi lo lodavan. Tua
Sposa io non era... Ah, che favello? Giusto
È il tuo furor; dal petto mio non seppi
Scancellar mai quel primo amor! E il volli
Scancellar pur... Con quell'arcano io morta
Sarei, se Paolo or non riedea, tel giuro.
PAOLO.
Misera donna!
FRANCESCA.
A lui solo perdona;
Non al mio amante, al fratel tuo perdona.
LANCIOTTO.
Per Paolo preghi? Oh scellerata!...Uscirne
Di queste mura ambi credete? Insieme
Di riunirvi concertaste. Al padre
Di rapirti fors'anco ei ti promise.
PAOLO.
Oh vil pensier!
LANCIOTTO
Io vil?—Partirà l'empia
Sì; ma più te mai non vedrà.—Di guardie
Si circondi costui. Passo ei non muova
Fuor della reggia.
PAOLO.
Tanta ingiuria mai
Non soffrirò nel tetto mio paterno.
(
Vuol difendersi.
)
LANCIOTTO.
Tuo signor sono. Quel ribelle brando
Cedi.
PAOLO.
(
Oppresso dalle guardie.
)
Fratel... tu disarmarmi... Oh come
Cangiato sei!
FRANCESCA.
Pietà!... Paolo!
PAOLO.
Francesca!
LANCIOTTO.
Donna...
GUIDO.
Vieni; sottrati al furor suo.
FINE DELL'ATTO QUARTO.
ATTO QUINTO.
SCENA PRIMA.
(La sala è illuminata da una lampada)
FRANCESCA e GUIDO.
FRANCESCA.
Deh, lo placasti?
GUIDO.
(
Venendo dalle stanze di Lanciotto.
)
Egli mi vide, e sorse
Spaventato dal letto.—Oh cielo! è giunta,
Sclamò, quest'alba sciagurata. Io debbo
Perder Francesca?... Ogni consiglio or cangio:
Senza lei viver non poss'io.—Frattanto
Lagrime amare gli piovean sul volto:
E or te nomando infuriava, or pieno
D'amor ti compiangea. Fra le mie braccia
Lungamente lo tenni, e con lui piansi,
Libero freno al suo dolor lasciando.
L'acquetai poscia con soavi detti,
E il convinsi che meglio è che tu parta
Senza vederlo. Andiam.
FRANCESCA.
Padre, non fia:
S'or nol riveggio, nol vedrò più mai.
Rancore ei serba contro di me: secura
Del suo perdono esser vogl'io.
GUIDO.
Ti calma.
Perdonato egli t'ha; perdonar Paolo
Pur mi promise.
FRANCESCA.
Oh gioja! Ma, deh, in questo
Sacro momento, non nomar, ten prego,
Colui che appieno obbliar deggio... e il bramo!
Già meno forte egli nel cor mi parla:
Già mi riparla la virtù perduta,
E il pentimento e la memoria sola
Dello sposo fedel che tu mi desti,
E ch'io non seppi amar.—Parlargli chieggo
Anco una volta. Deh, non adirarti!
Questa grazia m'ottieni. I miei rimorsi
Per la passata ingratitudin tutti
Mostrar gli vo': prostrarmi a' piedi suoi:
Di non sprezzarmi scongiurarlo. Vanne:
Digli che, s'io non lo riveggio, ahi parmi
Del perdono del ciel chiusa ogni speme.
GUIDO.
A forza il vuoi? Qui il condurrò.
SCENA II.
FRANCESCA.
—Per sempre
Dunque ti lascio, o Rimini diletta.
Addio, città fatale! addio, voi mura
Infelici, ma care! amata culla
Di... quei prenci... Che dico!—Eterno Iddio,
Per questa casa ultima prece io t'offro,
Bench'io sia rea, non chiuder, no, l'orecchio.
Nulla chieggo per me: per que' fratelli
Prego: tua destra onnipossente posi
Sul capo lor... Chi veggio?
SCENA III.
FRANCESCA e PAOLO.
PAOLO.
(
Prorompendo forsennato con una spada alla mano.
)
Oh sovrumana
Gioja! Vederla ancor m'è dato.—Ah, ferma!
Se tu fuggì, io t'inseguo.
FRANCESCA.
Audace! ahi lassa!
E come in armi?
PAOLO.
Sgombre ho le mie guardie
Coll'oro.
FRANCESCA.
Oh ciel! nuovi delitti...
PAOLO.
Io vengo
I delitti a impedir. Paga non fora
Contro me, credi, la gelosa rabbia
Del fratel mio; te immolar pensa. Orrendo
Spavento è quel ch'or qui mi tragge.—Al sonno
Chiusi dianzi le ciglia, ed oh qual truce
Visïone m'assalse! Immersa io vidi
Te nel tuo sangue moribonda: a terra
Mi gettai per soccorrerti... il mio nome
Proferivi, e spiravi!—Ahi disperato
Delirio! Invano mi svegliava, il fero
Sogno mi sta dinanzi agli occhi. Mira:
Sudor di morte da mie chiome gronda
Al rammentarlo.
FRANCESCA.
Calmati...
PAOLO.
Furente
M'alzai, corruppi i vili sgherri: un brando
Strinsi... Ahi, temea di più non rivederti!
Qui ti ritrovo: oh me felice!... Imponi:
Come del cor, del Braccio mio reina
Tu sei: morir per te desìo.
FRANCESCA.
Rientra,
Oh insano, in te. Quell'uom che oltraggi, a noi
Già perdonava. Fuggirai. Che speri?
PAOLO.
Se te col padre tuo salva non veggio
Fuor di queste pareti, abbandonarti
Non posso. Infausto, orribile presagio
Pe' giorni tuoi m'affanna.—Ah, tu non m'ami!
Tu rassegnata...
FRANCESCA.
Esserlo è d'uopo.
PAOLO.
Or dimmi:
Quando, ove mai ci rivedrem?
FRANCESCA.
Se in terra
Fine avrà... l'empio nostro amor...
PAOLO.
Non mai!...
Dunque non mai ci rivedrem!—Francesca,
Su questo cor poni la man. Talora
Tu questa mano ti porrai sul core
E de' palpiti miei ricorderatti:
Feroci sono: pochi fien!
FRANCESCA.
Oh amore!
PAOLO.
Adorata t'avrei: non fora un giorno
Passato mai ch'io non cercato avessi
Di farti ognora più e più felice...
M'avresti reso (oh incantatrice idea!)
Padre di prole a te simile: avrei
A' miei figli insegnato ad onorarti.
Dopo Dio prima, e come io t'amo amarti!
FRANCESCA.
Il solo udir questi tuoi detti è colpa.
PAOLO.
Nè mia giammai!...
FRANCESCA.
Che parli? Eternamente
Quant'io deggia al mio sposo e a' generosi
Suoi sacrifici sentirò. Solenne
Protesta or odi:—Se l'ingiusto fato
Lui seppellisse pria di me, perpetue
Conserverò le vedovili bende:
Nè coll'amarti mai, fuorchè in silenzio,
Offenderò la sua santa memoria.
PAOLO.
Mal m'intendesti: augurii empii non formo:
Viva e m'uccida il fratel mio. Ma lungi
Dall'ira sua tu pur, Francesca, ah, vivi:
Vivi, e in silenzio amami, sì!... Ne' mesti
Tuoi sogni spesso mi vedrai. Beata
Ombra dì e notte al fianco tuo starommi
Adorandoti ognor.
FRANCESCA.
Paolo...
PAOLO.
Tiranni
Gli uomini e il cielo fur con noi.
FRANCESCA.
T'acqueta.
Misera me! Non ci perdiamo... Ah, padre!
(
Chiamando.
)
PAOLO.
Più non ha dritti alla sua prole un padre
Che a sue voglie tiranniche l'immola.
Chi de' tuoi giovanili anni sepolto
Ha il fior nel pianto? Chi questa tremenda
Febbre in te mosse onde tutta ardi? All'orlo
Chi della tomba li spingeva?... Il padre!
FRANCESCA.
Empio, che dici?...—Odo fragor.
PAOLO.
Null'uomo
Potrà strapparti da mie braccia.
SCENA IV.
GUIDO, LANCIOTTO
e Detti
.
LANCIOTTO.
Oh vista!
Paolo?... Tradito da mie guardie sono...
Oh rabbia! e ad esser testimon di tanta
Infamia, o Guido, mi chiamasti? Ad arte
Ella a me ti mandò. Fuggire o farsi.
Ribelli a me volean: muojano entrambi.
(
Snuda il ferro e combatte contro Paolo.
)
FRANCESCA.
Oh rio sospetto!
GUIDO.
Scellerata figlia,
A maledirti mi costringi.
PAOLO.
Tutti,
O Francesca, t'abborrono: me solo
Difensor hai.
FRANCESCA.
Placatevi, o fratelli:
Fra i vostri ferri io mi porrò. La rea
Son io...
LANCIOTTO.
Muori!
(
La trafigge.
)
GUIDO.
Me misero!
LANCIOTTO.
E tu, vile,
Difenditi.
PAOLO.
(
Getta a terra la spada e si lascia ferire.
)
Trafiggimi.
GUIDO.
Che festi?
LANCIOTTO.
Oh ciel! qual sangue!
PAOLO.
Deh... Francesca...
FRANCESCA.
Ah, Padre!...
Padre... da te fui maledetta...
GUIDO.
Figlia,
Ti perdono!
PAOLO.
Francesca... ah!... mi perdona...
Io la cagion son di tua morte.
FRANCESCA.
Eterno...
Martir... sotterra... oimè... ci aspetta!
PAOLO.
Eterno
Fia il nostro amore... Ella è spirata... io muojo...
LANCIOTTO.
Ella è spirata.—Oh Paolo!—Ahi, questo ferro
Tu mi donasti! in me si torca.
GUIDO.
Ferma,
Già è tuo quel sangue; e basta, onde tra poco
Inorridisca al suo ritorno il sole.
FINE DELL'ATTO QUINTO ED ULTIMO.
ROSILDE
CANTICA.
Dove il trovatore componesse questa cantica non appare; soltanto vedesi ch'egli era fuori di patria ed infelice nelle agitazioni in cui si trovavano a que' tempi le repubbliche lombarde—presso le quali si ricava dai suoi poemi ch'egli peregrinò diverse volte—è probabile che ivi s'attraesse lo sdegno d'alcuna di esse o di Federigo.
ROSILDE.
Canzoni de' miei padri, antiche istorie
Che a' felici d'infanzia anni imparai
Nel mio alpestre idioma (inculta lingua
Ma d'affetti guerrieri e di mestizia
Gentilmente temprata e dolce al core!)
Riedete nel mio spirto: e col soave
Risovvenir delle pietose note
Illudetemi sì che a' miei dolori
E al carcere ov'espio vani ardimenti
Togliermi io creda, e a me ritornin l'ore
Di mie gioje infantili—o di Saluzzo
Nell'amato che prima aere spirai—
O sui fragranti colli onde di fiori
E limpid'acque Pinerolo è lieta—
O per gli Eridanini ameni poggi,
Ove la sera il Torinese ascolta
Della lontana villanella il metro
Che avventure d'eroi dice e d'amore.
Oh poetica terra! oh popolata
D'alte cavalieresche rimembranze
Or gaje or triste, commoventi sempre!
Tu la prima onda porgi e le tue valli
Il primo letto al giovin re de' fiumi,
Ed ei ne' campi tuoi cresce educato
Come in orto di fiori! E di quell'orto
Mentre il voluttuoso aere m'inebbria
Veggio intorno—ove ch'io l'occhio sollevi—
Con fiero atto seder sovra le alture
Negre castella, e scemasi a tal vista,
Ma no, non cessa e sol natura cangia
La voluttà che mi ridea nel core
E più seria diventa e non men dolce;
E allora il pastoral flauto lasciando
Toccar desio la trobadoric'arpa.
Musa, o patria, a me sien le tue memorie:
Rosilde io canto.—
Bella era ed amata
E al suo sposo e signor tenera amante:
E—come a fiore un fiorellin s'appoggia—
Nelle braccia materne un pargoletto
Della madre al sorriso sorridea.
Se torna dalla caccia il cavaliere
Teodomiro, oh quanto gli par lunga
La salita al castel! non perchè il domi
Grave stanchezza, ma perchè alla sposa
Adorata il pensier vola ed al figlio:
Erge ei gli occhi alla torre—e v'apparìa
Lui desiando la venusta dama
Col leggiadro bambin, quasi dal cielo
Scesa fosse d'Iddio la Vergin Madre
A consolar d'un suo sguardo i mortali.
Ma improvviso precipita il dolore
Sui dì felici! Era un mattino, e in riva
Stava al Lemna natio Teodomiro
Inseguendo il cinghial. Vibra la freccia,
E tra questa e la belva, ahi, dal cavallo
Spinto è il giovin Denigi, e cade esangue!
Denigi il fratel d'arme, il fido amico
Dell'uccisore! (Vive ancor negli inni
Di tue vaghe fanciulle, o Pinerolo,
La beltà di Denigi e il suo coraggio.)
Oh rammarco! rammarco! e dacchè tinto
Del sangue dell'amico è il cavaliero,
Sfuma ogni gioja sua. Sovra il castello,
Così beato in pria, siede e vi spande
I negri vanni suoi l'angiol del male;
E dello spirto scellerato il riso
Fama è che molti udir di notte tempo,
Quando consunto da languor si spense
Di Rosilde il figliuolo, e del materno
Pianto ulular le desolate sale.
Nè qui del mal le orribili minacce
Termine han pure. Ahi! di Rosilde istessa
Le giovanili guance scolorarsi
Vede lo sposo, e andarsi a poco a poco
Estinguendo in que' grandi occhi il bel raggio
Onde dianzi splendean con tanta vita:
E in segreto ei sospira, e mentre asconde
Con ridenti parole il suo timore,
Gli s'arriccian le chiome immaginando
Un'altra tomba—e in questa tomba chiusi,
Chiusi quegli adorati occhi per sempre!
Presso a morte ella venne. E allor proruppe
Nel già incredulo cor del cavaliero
Religïon con tutta sua possanza:
E sceso a Pinerolo, al maggior tempio
Ricchi doni profonde, e con solenni
Riti espiar l'involontario cerca
Omicidio commesso, e (se mai peni)
Suffragar di Denigi il caro spirto,
Onde placato il ciel renda a Rosilde
Vita e gioja e di madre il dolce nome.
Ahi! nel sonno gli appar l'amico spettro,
E non irato è il volto suo, ma mesto
Come d'un che pietoso asconder brami
Le proprie, e più d'altrui senta le pene,
Nè gli si doni il sollevarle; e porti
Una coppa amarissima, e non sia
Quella coppa un rimedio, e ber si debba!
—Deh, spiegati! dicea Teodomiro,
Spiegati!—Ed il fantasma una lontana
Strada additava, e in fondo a quella strada
Con eccelse basiliche sorgea
Una grande città: dir sembra—«Vanne,
Là Dio ti chiama!» e mentre ivi lo affretta
Con una man si copre il volto e piange.
Atterrito si desta il cavaliere:
L'oscuro sogno medita; ispirato
Alfin si crede. «Ah! non v'ha dubbio, è Roma
Quella grande città: col pio vïaggio
Te, Denigi, da tue fiamme, e da morte
La cara donna liberar degg'io»—
Dice, e ad un tempo a ciò s'astringe in voto.
Esultate, o colline! ad abbellirvi
Torna col redivivo occhio Rosilde.
Di festive ghirlande olezzan tutte
Del castello le sale: echeggian l'arpe;
Stagion tornò di danze e di conviti:
L'angiol della sventura è dileguato.
Ma fido al voto suo prende il bordone
Teodomiro e seco uno scudiero,
Nè che la sposa il segua egli consente;
Perocchè a lei vicino ardua non fora
Più penitenza alcuna, e potrìa il cielo
Gravemente punirnelo.—«Addio, sempre
Più sempre amata! i giorni tuoi mi serba
E l'amor tuo! qui fra due lune io riedo.»
Piangea Rosilde, e dalle care braccia
Strapparsi non potea: nè di Rosilde
Tutte eran quelle lagrime che il volto
Inondavano al sire.—Oh dolorose
Partenze, sì, ma di dolcezza miste,
Quando due cuori che batteano insieme
Breve tempo si staccano, ma l'ora,
La lieta ora si dicon del ritorno!
Ahimè che di partenze altre son conscio
Più dolorose! allorchè a forza svelti
Da geloso tiranno eran due cori,
Nè dirsi addio potean, nè lor rimase
Speme che di ritorno ora risplenda!
Compie una luna dacchè orando e cinta
D'umil cilicio, infra i digiuni e il pianto,
Quasi pia vedovella, entro il solingo
Castel vivea la innamorata donna,
Di niun pensier curando altro che un solo,
Quando dal suo veron gli occhi volgendo
Giù sul pendio, salir vede un canuto
Che pare (ed è) il fedele Ugger, che il sire
Accompagnato ha in romeaggio.—«Ahi lassa!
Solo ritorna? Oh palpiti! oh funesti
Presentimenti!»—E indietro si ritrae:
Si riaffaccia indi al veron: prestigio
Creder vorria ciò ch'ella vede; e il santo
Segno si fa della salute, e sclama,
«No, mio Gesù, no, non sia ver! non sia!»
Ma giunto è il vecchio, e a' pie della signora
Singhiozzando si getta.
«O mio buon servo!
Tu mi rechi la morte, io già t'intendo:
Narra ov'ei cadde; ah, ch'io sovra la terra
Che lo ricopre, almen mi tragga e spiri!»
«O Donna, il fido Uggero a te dinanzi
Non tornerìa, se del suo sir la tomba
Veduto avesse.»
«Che dicesti? Ei vive?
Ah! sciagurata più non sono.»
«Ascolta,
Signora mia: non lusingarti, grave,
È grave assai questa sciagura: è incerto
Del mio sire il destino. Appena giunti
A quel varco eravam dove la terra
Al Piacentin del Po bagnano l'onde,
Allorchè un passegger, forte spronando
Il cavallo ver noi: fuggite, grida,
Fuggite, e pelegrini! un'orrenda oste
Invaso ha la contrada: il fero Otlusco
Co' suoi prodi vaganti Ungari il fianco
Occupò di Piacenza, e impossessato
S'è d'un vicin castello, e in quel castello
Quanti più può, chiude prigioni, e immensi
Indi al riscatto vuol tesori o il sangue
Versa degli infelici.—Il cavaliere
Che così ne parlava era un prigione
Al cui riscatto i teneri parenti
Tutto venduto avean, servi e poderi
E rocche avite. E il giovin cavaliere
S'era con altri prodi a fratellanza
Religïosa consacrato, e il voto
Di que' frati guerrieri è i pellegrini
Difendere e gli oppressi e la innocenza;
Ma nè il coraggio lor, nè tutti i brandi
Dell'afflitta città respinger ponno
Il fero Otlusco: sue terribili armi
Son gli stessi prigioni onde la strage
Minaccia se assalirlo osin le genti.—
Mercè rendiamo al generoso, e in fretta
Ricalchiamo la via. Ma quando soli
Teodomiro ed io per una selva
Ci scostiam dal periglio, «aita! aita!»
Sentiam gridar da lunge: onor ci vieta
Negare aita a chi la implora: il ferro
Snuda Teodomiro: il seguo: a zuffa
Con gli Ungari veniamo. Avean rapita
Al suo sposo una dama. Ahi, che potero
Contro a sì forte stuol soli due brandi?
Mira sul petto mio le non ben salde
Ancor ferite, onde i nemici a terra
Mi lasciar, mentre vinto e prigioniero
Strascinavano il sire. Allorchè appena
Riavermi e sorreggermi sull'egro
Fianco potei, mossi ad Otlusco e chiesi
Del mio signor divider la sciagura:
Ma il barbaro esultò, mi risospinse,
E appeso ad una croce un uman tronco
Mostrandomi:—«Al tuo sir, disse, egual sorte
Fra pochi dì sovrasta, ove quant'oro
Val sì nobile vita io non riceva.»
«E ch'è mai l'or? grida Rosilde: ah, tutto
Si sagrifichi tosto: assai di gemme
Erede io fui...»
«Deh, ciò bastasse, o donna!
Ma tal chiede riscatto il masnadiero,
Cui ben pavento non s'adegui alcuna
Di tue ricchezze. E il tempo incalza: i giorni
Numerati ha il crudel.»
—Quando la donna
L'enorme udì richiesta somma, il lume
D'ogni speranza a' guardi suoi s'estinse:
E come il Giusto
[1]
in Idumea, percosso
Dall'eccesso de' mali, osò il suo grido
Elevar verso Dio, ragion chiedendo
Del non mertato aspro flagel—Rosilde
Così, nel colmo del suo affanno, obblia
Che col suo Creator, dritto la polve
Di contender non ha: ma il Creatore
Come allor per quel Giusto, or si commove
Per la infelice delirante, e a detti
Che nell'angoscia le sfuggian, perdona.
E che sai tu, cieco mortal, se Iddio
Non conduce le sorti e non ti scaglia
Incontro alla sciagura, onde il tuo spirto
In più che umane lotte trionfando
Vieppiù a Lui s'assomigli? Al Sempiterno
Mancheran forse i modi e le delizie
Onde il lor guiderdone abbiano i forti?
Va', pia Rosilde, al tuo destin: che sono
Mai di Teodomiro e di te stessa
La pace e i giorni, ove allo scampo Iddio
D'una intera città voglia immolarli?
Scuotesi: amor le ridà forza, e nulla
D'intentato consente.—E drappi d'oro
E splendidi monili e vasi e perle
Tutto che mobil sia d'alto valore
Sui giumenti si carca. In fretta e campi
Vendere e torri non poteansi: in pegno
Alla Badia li affida, e ne ritrae
Non picciolo tesoro.
«O mia signora,
Deh! non avventurarti,» invan ripete
Il prudente scudiero; «a me abbandona
Questo messaggio.»
«A tutto, il barbaro Unno
Resister può, non d'una moglie al pianto,»
Sclama la dolorosa.
«Eppur, deh! pensa
Che non è fede ne' malvagi. E s'egli
I tesori rapisse, e te prigione,
Donna, tenesse?»
«Ah! del mio sposo al fianco
Andar carca di ferri, anzi che lunge
Aver tesori e libertà, ben chieggio.»
Dice, e comanda, e vuole. E sulla via
Col fido Ugger, co' pochi servi, assisa
Eccola sulla mula.—Ahi! così un tempo
Da' Francesi inseguito io colla madre
Pargoletto fuggìa: si soffermava
Il viandante attonito e chiedea
Da qual parte calato era il nemico.
Oh cavalieri improvidi, ch'a imbelli
Arti educate le fanciulle! Or d'uopo
Qui sarìa di valore! In mezzo all'armi
E all'arroganza od all'insidie forse
Troverassi Rosilde, e le vien meno
Segretamente al sol pensarvi il core.
Dal palagio paterno uscita mai
Pria non era del giorno in che da Susa
Mosse al castel dello sposato amante:
E qualche volta appena ivi la faccia
D'alcun ospite vide, e tutto serba
Il pudor dell'infanzia e la paura.
E quel debole petto or notte e giorno
Per le selve cavalca! e ad ogni fischio
Trema di fronda, e gli urli della lupa
Ode, e vede la sera da lontano
I fochi, ove, chi sa? forse cenando
Novi omicidii medita un ladrone!—
«Per me non tremerei: ma se rapiti
Mi fossero que' carchi, onde salvezza
A te verria, Teodomiro, allora?»—
Ed ei, Teodomir—dall'alte mura
Ove geme prigion, stassi alle doppie
Sbarre aggrappato della sua fenestra:
Ad ore ad ore immobilmente figge
Sovra l'ampio orizzon l'occhio bramoso:
Bramoso? e che mai spera?—Ah! nulla spera!
Estinto credo il fido Ugger: Rosilde
Saper di lui non può.—«Questo vil cibo,
Che invan mi si largisce, alfin dispendio
Parrà soverchio, e m'alzeran la croce;
Venga, venga quel dì!»—Tal è il febbrile
Suo frequente desio. Fero contrasto,
Bramar come riposo unico morte,
E inorridir pensando al disperato
Lamento di chi t'ama, allorchè il grido
Udrà del tuo martirio! e nuovamente,
Quasi l'orribil vita che tu vivi
Bramar di proseguire, onde non giunga
Alle tue sale mai quel desolante
Indubitabil grido
Ei più non vive!
—
Da quelle sbarre guarda, e nulla spera
Teodomir: ma i dì passan talvolta,
Ed umana figura egli non vede,
Perocchè a tergo della torre il campo
Giace degli Unni, e a questa parte è un vasto
Tratto deserto di palude e arena
Che ad un bosco confina, e solo a manca
Veggonsi dietro agli olmi i campanili
Della città, e se il vento agita i rami
Si scoprono gli spaldi... Agita, o vento,
Agita quelle fronde! e il prigioniero
Veggia talor sovra gli spaldi il passo
Di vivente persona! È un indistinto
Tormentoso bisogno al solitario
Il veder l'uomo—Almen da lunge! un santo
Misterioso amor lega i mortali,
Se distanza li scevra: ah! come a noja
Puon da presso venirsi e farsi guerra?
Anco i nemici quasi ama, se ascolta
Lor selvaggia canzon Teodomiro,
Che pur l'Ungaro canto è umana voce.
E se nel bosco alcuna volta udìa
La percossa lontana della scure,
Pur frenava il respiro, e da que' colpi
Alcun piacer traea, perocchè all'occhio
Della mente pingeasi il buon villano
Che coll'ardua fatica alla diletta
Moglie porgeva e a' dolci figli il pane.
Ahimè, ben d'uopo è ch'uom giaccia all'estremo
D'ogni miseria onde gli sien ricchezza
Così povere gioje!—E se nel bosco
Tace la scure—e taccion gli Unni—e tace
Negli olmi il vento—e dalle torri il caro
A' meditanti suon della campana—
Chi allor molce, o prigion, tue tetre noje?
Oh allor—quel ciglio ch'uom giammai non vide
Nel lutto inumidirsi, in mesta guisa
Abbassandosi a terra, a larghe stille
Versa il dolore!
«Oh mia Rosilde! io sono
L'autor di tua sciagura! Io da celeste
Credea ispirazione essere al pio
Viaggio mosso, e m'illudea il consiglio
Dello spirto a cui gioco è l'uman pianto!»
«A cavallo! a cavallo! ecco una preda!»
Così sclama, e già sprona, e già seguito
Da cento lance è Otlusco. Oh, qual fu l'alma
Della timida donna al furibondo
Proromper d'una squadra! oh spaventose
Urla che assordan l'aere, e men saccheggio
Sembran nunciar che rapido macello!
Discende dalla mula. Il cor le manca,
Ma invoca il suo buon angiolo e confida
Nel suo soccorso, e pallida e smarrita—
Pur risoluta—avanzasi all'incontro
De' masnadieri, e con la mano accenna
Che raffrenino il corso ed ascoltarla
Vogliano per pietà.—V'è nell'aspetto
Dell'inerme e del debole un arcano
Che ispira reverenza anco ai feroci:
E se il debole opprimono, è un comando
Che natura non fece, è un altro moto
Che senza sforzo non si compie, e il compie
Pensata voglia di trionfo o lucro.
Commovente spettacolo! Un istante,
E dalle scalpitanti ugne pestata
Esser potea la misera—un istante,
E l'avventata squadra immobil sta:
Così Otlusco imperò.
Smonta, s'appressa
All'atterrita dama: e sopra il viso
Dell'assassin colla insultante gioja
Della propria potenza e colle dure
Tracce di crudeltà, v'è come un fosco
Lume che quelle tracce e quella gioja
Addolcisce un momento, e sembra quasi
Raggio di cortesìa. L'opra era forse
Di tua beltà, o Rosilde? o forse innanzi
Ch'atti inumani il trasformasser, grande
Fu dell'eroe lo spirito, e quel raggio
Di cortesìa reliquia è di quel tempo?
Ma in alme dal delitto degradato
A' moti generosi un pentimento
Di sentirli succede, e—unica a loro
Nota virtù—della virtù il dispregio.
«Signor, la sposa io son d'un prigioniero
Di cui t'offro il riscatto. Ove regina
Nata foss'io, per quel riscatto un regno
Dato t'avrei: ma ciò ch'io m'ebbi or pongo
Tutto a' tuoi piedi, e supplice scongiuro
Che il mio Teodomir tu mi ridoni.»
«Donna, ravviso il tuo scudier. Recato
T'avrà il pregio in che tengo il signor tuo:
Nè mai per men del valor suo di tanto
Peregrino giojel fia che mi spogli.»
«Deh! non macchiar tue forti gesta, o sire,
Schernendo gl'infelici: ecco non vile
Tesoro, e tu il gradisci: e fa' che priva
Di quanto io possedea, tranne il consorte,
Di mia miseria non curante, io possa
Ogni dì benedirti.»
«Olà mi segua
Quel convoglio al castel.»
Trema e rimonta
Rosilde la sua mula, e a fianco a Otlusco
Dinanzi agli altri avviasi, e da lontano
Guarda con desiderio e con affanno
Quelle mura ove chiuso è il suo diletto.
Ma l'avaro ladron vede l'amore
E la bellezza della dama, e volge
Nell'astuto pensier nova perfidia.
Arrivano al castel: spiegansi i doni,
E Otlusco a sè venir fa il prigioniero.
Oh emozion de' due teneri sposi
Nel rivedersi! Udì Teodomiro
Ciò che a salvarlo fea Rosilde, e gioja,
Stupore e gratitudine è in lui tanta
Che parole non trova.—Il sospettoso
Unno quel muto giubilar mirando,
«No» sclama «non è ver, queste non sono
Vostre sole dovizie; in voi non fora
Sì poco duol nel perderle: al riscatto
Ben puon di te, o guerriero, esser bastanti,
Ma pari a questi quattro volte un dono
Vo' per la donna che prigion ritengo.»
Piansero, supplicàr. Barbaramente
Sono divisi, e dal castello a forza
Dagli Ungari cacciato è il cavaliero.
Che diverrà la misera? E ove mai
Teodomir ritroverà tant'oro
Qual dal perfido vuolsi? Il pio scudiere
Gli rammenta i congiunti. «Ah, i miei congiunti
Possenti son, ma antiche guerre e invidia
A me feali inimici, e non che ajuto,
Scherno n'attendo nella rea fortuna!
Vendere il mio retaggio? E lenta è l'opra;
Nè molto indi trarrei, poichè sì pingue
Già ne diè somma chi toglieali in pegno.»
Mentre varii nel cor volge pensieri,
E un furibondo più dell'altro, e tutti
Fausti a vendetta sì, inefficaci
A liberar la cara sposa—e mentre
Tenta indarno in agguato al masnadiero
Toglier la vita—e mentre indarno ai prodi
Frati guerrieri e all'armi piacentine
Recasi e prega e stimola e, a gran rischio
Di cagionar d'ogni prigion la strage,
Pur li spinge a battaglia, e dieci volte
(Con finti attacchi) in lontananza spera
Trarre l'oste malvagia e della rocca
Rapidamente impadronirsi, e sempre
La vigile degli Unni arte il delude—
A investir la città pensa in segreto
Con audacia incredibile il ladrone.
Oh scellerata notte! Un tradimento
Forse ad Otlusco aprì le porte: il ferro
E il foco cinque giorni orribilmente
Scorre per ogni via, per ogni chiesa,
Per ogni ostello, e disperato sembra
Del popol vinto il più risorger mai.
Nè per l'amor sol della preda esulta
Di sue vittorie il barbaro: egli esulta
Perocchè quanto più temuto e forte,
Tanto più grande apparir crede al guardo
Dell'altera Rosilde. Il ferreo core,
Non si sa come, al pianto di Rosilde
S'era commosso, e in guisa ch'ei sul punto
Fu alcune volte d'asciugar quel ciglio,
Libera rimandandola al marito:
E se eseguia il magnanimo pensiero
Non avrebbe sol lei, ma seco tutti
I suoi tesori rimandati. Un giorno
Alla stanza ei movea della dolente
Col nobile proposto, ahi! ma rivide
Quelle angeliche forme, intese il suono
Di quella voce, e gli morì sul labbro
La pensata parola, e generoso
Esser più non potè. Parlò d'amore,
E, ciò che mai sofferto ei non avea,
I dispregi sofferse, e quei dispregi
Eran pugnali all'alma del superbo,
Eppur chi li avventava era a lui caro.
Nè degli altri prigion pari alla sorte
Di Rosilde è la sorte. A lei l'uscita
Sol tolta è del castel, ma le si dona
E visitar gli altri infelici e alquanto
Alleviar lor pene e dalla croce
Redimer chi dannato era e taluni
Render senza riscatto a lor famiglie.
Con benefico intento e varia speme
Va serbando la vita, e all'esecrato
Ladron si finge meno irata, e volta
Tutta è a cercarsi occasïon di fuga.
Ma maggior di lor possa è il breve sforzo
Di gentilezza e di pudor nei vili;
Parer grandi vorriano e oprar da grandi
Incominciato appena avean—nel basso
Sentiero ecco ricalcali natura,
O abitudin d'infamia, o delirante
De' sensi ebbrezza, o il giubilo del male.
Prudenza e preghi e dignità e disdegno
Più a Rosilde non val. Fra le volgari
Delle coppe esultanze, il masnadiero
Motti d'amor—ma temerarii—vibra,
Ed orgogliosi (ah, il tuo bel nome, Amore,
Non merta il foco de' profani!)
«O stolta,
A che ostinarti contra il fato? E credi
Che, dacchè l'ha perduta, in vedovanza
Perenne stiasi il tuo primier compagno?
Ah, ch'ei ben già di tua mancanza in braccio
D'amante altra consolasi! A cercarti
Forse riedea? Ti vendica: le nozze
D'Otlusco accetta. Splendida ben altra
Che non Teodomir t'offro ventura:
Invitte squadre io guido, un regno innalzo
Cui le più ardite signorie curvarsi
Dovran d'Italia: te possanza e pompa
E adoramenti faran lieta, e madre
Sarai di regi.» (E in così dir con guardo
inverecondo alla pudica un braccio
Osa afferrar.)
«Deh, signor mio! Te irrito
Se il passato rammento e i dì felici
Che da te lunge io trassi: a sgombrar l'ire
Dal ciglio tuo, quindi in silenzio io pongo
Il prisco ond'arsi immenso amor: ti basti
Questo silenzio. E se ostinata speme
Nutrir pur vuoi ch'amor novel me accenda,
Fa' che d'atti tirannici e scortesi
Io mai capace non ti scorga, e al tempo
Lascia il mutarsi del cor mio.»
Tra umile
E maestosa così parla: e tenta
Allontanar pur quel terribil punto
Cui già da lungo con preghiere e pianto
S'è apparecchiata.—Mesi e mesi invano
Sperò in Teodomir: più non ritorna.
Nelle pugne sperò, ma invan: la palma
Sempre è dell'Unno. Invan sperò d'aprirsi
Qualche strada alla fuga: omai non resta
Scampo ad infamia, altro che un sol—la morte.
A timid'alma arduo dover, la morte.—
Ma non feroci tutte fur le donne
Di cui l'alto morir narran le istorie.
A talune, o pittor, forse tra quelle
E maschi tratti e gigantesca possa
E spirito guerrier dar non dovevi:
E mite cor portavano, e formate
Eran solo ad amore, e d'una spada
Inorridiano al lampo, eppure (oh grande,
Oh ben più grande era virtù!) a dispetto
Della dolce indol femminile, il seno,
Anzi ch'a onore o amor farlo spergiuro,
Colla tremante man si laceravano!—
Ahi giunta è l'ora per Rosilde! Un varco
Era all'audacia del fellon, quel varco
Or più non è. Nè avvidesi ei che l'armi
Appese alla parete ella adocchiasse:
La parete adocchiava e già scagliata
Col volo d'un baleno erasi a un ferro
La generosa... allor che risonanti
Di spaventose grida ode le sale.
Due i momenti non furo: assaliti ode
Rosilde gli Unni, e un rapido pensiero
Non mai previsto or le risplende, e il ferro
Che in sè volger dovea, vibra al tiranno.
Cade—e su lei rovesciasi—e quel ferro
Dal seno Otlusco a sè strappando il pianta
Ed il ripianta dieci volte e in viso
E nel fianco alla misera, e fra gli urli
E i colpi e il duolo e le bestemmie ei spira.
Tal nel castel la spaventevol scena
Presentavasi agli Ungari, allorquando
Prorompea l'oste. Impugnano le lance,
A far fronte s'accingon, ma l'orrenda
Morte del condottiero e la sorpresa
Sì gli atterrìa che immemori son fatti
Dell'antica lor possa e a vergognosa
Fuga si dan per la campagna.—I prodi
Esuli Piacentini al forte, fatto
Duce Teodomiro, eransi spinti
Perir giurando o vincere: e mai fermo
Da moltitudin ciò non fu che tutti,
Per quanto lunghi sien feri gli inciampi,
Visti a crollar sotto ai suoi piè non li abbia.
Ma come or sì poco ardua è la vittoria?
Donde il terror de' barbari? Nè Otlusco
Fu veduto pugnar.
Parla un morente
Ungaro e accenna del suo sir la sorte:
«Femminea man lo trucidò!» Ai vincenti
Raddoppiasi la gioja.—Ov'è la santa,
La salvatrice della patria?—Schiuse
Son le carceri: mischiasi col grido
De' redentori il grido di cinquanta
Liberati prigioni.
«E tu, Rosilde,
Che non accorri? Dove sei? Rosilde!
Diletta sposa!»
Ardea fosca una lampa
Nella gran sala. Spaventato n'esce
Il vecchio Ugger: nel suo signor s'incontra;
Ritrarnel vuol. Ma già Teodomiro,
Tra rovesciate mense e armi, scoverto
Ha l'immane cadavere d'Otlusco:
Con gioja gli s'appressa—oh vista! un altro
Cadavere ei copria! Rosilde—
E intanto
Che il più infelice de' mortali esclama
Miserandi lamenti (oh mescolanza
Che drizzar fa le chiome!) urla di gaudio
Metteano, ignari i suoi compagni ancora,
E con festa il chiamavano: «A te dessi
Questa lieta vittoria! A' fuggitivi
Riposo non si dia! Guidane, o prode!
La città si riacquisti!»—
A poco a poco
Cessa il giulivo dissonante strepito:
Il luttuoso caso odono: muti
Reverenti s'affollano alla sala:
Tutti lor gioja oblian: l'egregia donna
Mirano—e oh che pietà! quel cavaliere
Dianzi sì dignitoso, or nella polve
E nel sangue si rotola ululando,
Nè più gli cal che forse altri il dispregi.
«Ite, o felici: agevol cosa è omai
Il ripigliar la città vostra. Otlusco
Da costei fu atterrato... oh, ma vedete
La generosa!»
E il sen tutto squarciato
Di Rosilde accennava e quelle care,
Or deformi sembianze: ed oltraggiando
Il fido Ugger che il contenea, una spada
Afferrava, ma indarno, onde svenarsi.
Riacquistò le sue mura il fortunato
Popolo piacentino. Ebber perenne
Del vedovo stranier cura i pietosi
Ospiti, ed a Rosilde a eterna gloria
In mezzo al foro alzaro un monumento;
E allorquando, tra pochi anni recisa
Fu dal dolor la vita di quel prode,
Chiuse le sue infelici ossa nell'arca
Venner dov'eran di Rosilde l'ossa.
Ahi! quell'arca vedeasi a' tempi ancora
Della mia fanciullezza, e il padre mio
La visitò: ma quando pellegrino
Adulto mossi tra i Lombardi, e volli
A mia debol virtù porger conforto
Quelle sacre onorando ossa d'eroi,
Più non rinvenni che un'infranta pietra,
E su quella sedea, laide canzoni
Vil giullare cantando, e gli fea cerchio
Con ghigni infami la plaudente plebe!
[1]
Giobbe.
NOTE.
Tu la prima onda porgi....
Il Po scaturisce dal Monviso nel marchesato di Saluzzo. In questa apostrofe sembra comprendersi tutto ciò che or forma il Piemonte, o gran parte.
Stava a Lemna natio....
Lemina, o Lemna, è un torrente presso Pinerolo.
S'era con altri prodi a fratellanza
Religïosa....
Nel medio evo il bisogno di difendersi contro gli abusi d'ogni specie fece sorgere molte confraternite benemerite della società. Gli aggregati rimanevano laici, e il loro ufficio non era che l'adempimento di qualche penoso dovere: proteggere i viaggiatori, assistere i feriti, gl'infermi, ec. Così i vincoli della grande fratellanza umana stati spezzati dalla barbarie si andavano con vincoli parziali riannodando. Ma il fervore si cangiò ne' secoli seguenti in manìa: da tutte parti s'elevarono confraternite che invece di beneficare l'umanità l'infettavano di superstizioni; tali furono i beguini, i fratelli e sorelle dello Spirito Santo, i flagellanti, ecc.
.... Il fero Otlusco
Co' suoi prodi vaganti Ungari....
Molte orde di Ungari scesero in Italia nel principio del secolo X; ciò fa congetturare che la storia di Rosilde appartenga a quel tempo. Esse furono prima respinte dall'imperatore Berengario, ma poi egli stesso le chiamò per far fronte a Rodolfo, re della Borgogna transjurana, e se ne pentì. Invece di obbedirgli, si sbandarono per tutta la Lombardia, devastando campagne e città; da queste orde allora Pavia fu saccheggiata e incendiata.
.... Ma i dì passan talvolta
Ed umana figura egli non vede....
Vedi l'Ecclesiaste che forse commisera particolarmente la prostrazione dello spirito: Væ soli! quia cum ceciderit non habet sublevantem se!
A talune, o pittor.
Questo cenno d'un pittore potrebbe sorprendere chi si ricorda d'aver letto che il Cimabue fu il primo, dopo la barbarie de' mezzi tempi, a ristabilire la pittura in Italia. Ma vedasi il Tiraboschi il quale prova con molti esempii che anche ne' secoli anteriori l'Italia non mancò mai di pittori: essi erano in gran parte Greci, ma molti pure nazionali.—Siccome il poeta non nomina il suo pittore, forse si trattava di uno o più quadri allora famosi, alla cognizione de' quali bastasse l'indicarli; o forse null'altro volle il trovatore che esprimere quel suo sentimento, non doversi dall'artista mai togliere alla donna—nè anche quando è tratta da dolore o virtù a qualche grande atto di coraggio—il bello ideale della donna che è la dolcezza. Pare che per quanto il comportava il soggetto ei non si sia dipartito da questo sentimento anche nel dipingere una amazone, una selvaggia, la Tancreda: in più d'un passo di quel poema cerca d'attenuare ciò che ha di forte il carattere della guerriera. Chi conosce il teatro sarà dell'opinione del trovatore: avrà veduto che un'attrice per quanto sia valente, s'ella crede di dover dare alle eroine i tratti degli eroi, essa può far raccapricciare, ma non mai commuovere; se invece l'attrice non è che eroina, cioè donna nel suo più nobile significato, allora le sue lagrime ne strappano molte.
A eterna gloria
In mezzo al foro.
Ciò non regge colla chiusa. Ma il trovatore parlava dell'intenzione di chi eresse il monumento. Non è egli così di lutto ciò che si fa per la ricordanza de' posteri? Si suppone sempre l'infinità dei secoli: e un furore popolare, un terremoto, cento cause possono distruggere oggi ciò che jeri si credeva eterno.
Più non rinvenni che un'infranta pietra....
Piacenza fu, tra le altre città lombarde, spesse volte desolata dalle accanite guerre tra nobili e popolo, e il partito vincente distruggeva non di rado ciò che era stato onorato dal vinto.
Vil giullare cantando....
I trovatori di genere elevato chiamavano giullari i poeti vili e buffoni: e questi non erano già gli adulatori soltanto del volgo. Trattandosi qui d'una storia molto anteriore alla poesia a noi nota de' trovatori, parrebbe che la voce giullare, fosse un anacronismo. Ma è certo che in tutti i tempi vi furono poeti, e particolarmente poeti vili e buffoni: nè a qualunque età questi appartengano, sconviene loro la voce giullare, che significa giocoliere, ciarlatano.
E gli fea cerchio
Con ghigni infami la plaudente plebe!
Questa pittura d'anime abbiette profananti un monumento eroico induce a credere, che ciò fosse in un tempo d'anarchia.
ADELLO
CANTICA.
Questa cantica è divisa in tre parti. La prima si riferisce ai tempi di Berengario I, negli ultimi anni del suo regno, e ai tempi del breve regno di Rudolfo in Italia: la seconda verte sulla prima impresa d'Adello, regnante in Italia Ugo di Provenza succeduto a Rudolfo: la terza scorre sovra alcuni tratti della vita di Adello, che possono riferirsi ai tempi di Ugo, e d'alcuni fra i successori di questo, cioè Lotario suo figlio, Berengario II marchese d'Ivrea, Ottone I, ecc.; giacchè è detto che Adello morì vecchio.
ADELLO.
I.
Quando oltre l'Alpi il giovinetto Adello
Dal povero movea tetto paterno,
Pria di varcarle, un guardo all'orizzonte
Natìo rivolse e pianse: e rammentando
De' genitori la virtù e l'affetto
Ripetè il pronunciato innanzi a loro
Fervido giuramento.—
«Ah, no, al tuo nome,
Patria degli avi miei, nè al vostro, o santi
Parenti alcun disdor l'opre d'Adello
Non recheranno mai! Verrà in Italia
Il cortese straniero, e dirà—Pace,
O terra, di gentili alme nutrice!
Poi la via proseguì.—Scudiero al vecchio
Suo consanguineo ei già che, di possanza
Ricco e di fama, appo Lïon, sui colli
Della Sonna fioriti e sulla Rocca
Incisa dominava. Al giovinetto
Accoglienza amorevole il canuto
Giorgio far si degnò. Molto gli parla
De' cari genitori, e si compiace,
Perocchè del garzon commossa uscìa
Dal cor la voce, e gli soggiunge—«Il cielo
Non prosperò del padre tuo i destini,
Ma un ospite leal diegli, un amico
Che a lui la destra, e a chi da lui ne venga
A stender pronto è ognor.»
Quell'onorata
Destra baciava Adello, e umile e fida
Servitù prometteva al suo signore.
Degli antichi scudieri e famigliari
Già l'ossequio acquistossi il verecondo
Italo garzoncello: e i cavalieri
Col sir congratulavansi e le dame
Per l'onestà del nuovo alunno: e lieto
Questi fra sè dicea: «Giungervi possa
Autori de' miei dì, quanto il lontano
Vostro figliuol dagli stranieri è amato!»
Ma di Giorgio crescea la bionda figlia
E di beltà un miracolo e d'amore
E di grazia era, e di virtù, Eloisa:
Ambìan la mano sua molti di Francia
Illustri cavalieri, e al prode Arnaldo
Il padre la destina. Era negli occhi
Della fanciulla e sulle labbra un pronto
Di cortesìa e candor nobil sorriso,
Ch'ove volgeasi consolava: e quando
Ella uscìa del castel, gl'infimi servi
E il passeggiar mendico avidamente
A mirarla si feano, e ognun tornava
Più sereno al suo ufficio e a' suoi dolori.
Ma quel tenue sorriso era qual pio
Raggio di luna che ricrea il ramingo,
Eppur misterioso un sentimento
Move che non è gioja—e più soave—
Della gioja fors'è, ma dolce ispira
Di meditar vaghezza e di silenzio:
Tal la sera in un tempio è melodia
Di giocondo ma augusto organo—ascolta
Delizïando l'anima pensosa.
Quella tinta lievissima, quell'aura
Che alla beltà del timido sembiante
Beltà diresti aggiunga, e par sia nube—
Non nube di dolor, ma di gentile
Malinconia, e pietosa indole un cenno—
Quell'è l'incanto irresistibil donde
Sì affettuosi a lei volgonsi i guardi.
Nel tetto suo, dalle verginee stanze
Fuori di rado appar: ma dagli aerei
Passi se il fievol suon per le echeggianti
Sale s'annunzia—o al genitor si rechi,
O a visitar famiglio infermo—e Adello
Sulla sua via si trovi, oppur da lungi
Trasvolar l'abbia vista, ei di sè ignaro
Palpita, e quasi un angiolo trascorso
Ivi fosse e beato abbia quell'aere,
Ei le sale ricalca ove Eloisa
Passò e santificar sentesi il core.
Ai conviti paterni, infra le antiche
Sue dame e il padre assisa—o accanto ad essi
Passeggiando tra i fiori—o nella barca
Che a' giorni estivi a tarda ora per l'onde
Va qua e là gli zefiri cercando,
Della donzella i saggi detti ammira
Il giovine scudier: ma pochi sempre
S'udian, nè quel silenzio era quel velo
O infecondo o superbo; era quel velo
Onde beltà pudica asconder crede
I suoi tesori, e più pregiati e certi
L'altrui commossa fantasia li adora.
No, all'intelletto uman, o esterno mondo,
Non sei bastante; esprimer tutto, indarno
Agogneresti, i sensi percotendo
Co' tuoi colori e suoni: egli in su porta
Più grande un mondo—l'ineffabil regno
Di quel principio che in noi pensa e scerne
L'alta armonia delle create cose.
In quel regno mental l'uomo adorando
Contempla il bello, e più e più il vagheggia
Qui, perchè in tutto il suo fulgor qui splende!
Perciò di caste immagini è silenzio
Quell'arcana vaghezza, onde men cara
È talor la parola.—Oh, che mai sono
Le scritte bende, onde il pennel presunse
Della madre di Dio dirti l'amore?
Non le ingegnose bende, il sacro volto
Dica al Figliuolo «Io t'amo:» ivi un indizio
L'immaginante spettatore, e tutta
Troverà in sè di quell'amor la istoria.
Ma quella possa, ohimè! ch'hanno le menti
Di penetrarsi una nell'altra, ad onta
Che di mister si cingano, scoverto
A Eloisa e Adello ha la vicenda
Del lor misero affetto. Ambi più volte
Guardandosi arrossiro: e—inosservato—
Talora Adel della fanciulla il volto
Atteggiarsi a mestizia ed a profonda
Estasi vide, e impallidir se udìa
Reduce dalla caccia il giovin prence
Ch'esser le dee consorte, e più se udìa
Di costui rammentarsi i genitori
Che dal Reno s'aspettano, e allorquando
Giunti essi fien, si compieran le nozze.
Nè lieto ad Eloisa è più il festivo
Giorno del padre suo? l'inclito giorno
Sacro al santo de' prodi, al generoso
Di Cappadocia cavaliere?
[2]
Ah! tutto
L'affettuoso adopra onde il sereno
Ritrovar de' passati anni, e compiuta
Far l'allegrezza del buon sir.—Gioiva
Questi alle danze e al canto de' vassalli,
Ma più d'ogni altro è a lui grato l'omaggio
Della tenera figlia e dell'amato
Italo suo scudiero.
Essa dell'armi
Le glorie ignora, e sol del padre canta
I pacifici giorni, e la clemenza
Verso i nemici, e il benedir concorde
De' felici suoi servi, e il dolce ospizio
Che appo il suo focolar trova l'illustre
Pellegrino e l'oscuro, ed il credente
E l'infedel—ed ogni strofa chiude
Intercalando un giubilo d'amore:
«Ah sì, tal d'Eloisa è il genitore!»
Ond'è che men degli altri anni gioconda
Comparia la donzella, e più diletto
Pur la sua voce trasfondea ne' cuori?
Ah, dovunque la tua fiamma s'apprende,
Ivi, o Amor, è una vita, ivi un incanto
Che tutte le gentili arti sublima!
Universal lode era, e d'Adello
Non pur motto s'udìa: ma il guardo a caso
Sovra lui pon la giovin dama, e il guardo
Innamorato incontra—e, oh, d'ogni lode
Ben più le parve!
Il mutuo turbamento
Perocchè romoroso era l'applauso,
Null'uom vide o capì.—Si ricompone
Adel: sulla infiorata arpa coll'agili
Dita preludo, e l'armonia celeste
Gli versa in cor de' mali suoi l'obblio.
Son guerrieri i suoi carmi. Ei di san Giorgio
Dice l'eroico spirto—E della figlia
Di quel re dice il pianto e le sciagure
Che divorata esser dovea dal drago,
Quando il cappadocèo redentor venne
Della beltà e dell'innocenza. Ignuda
La vergine regale al drago esposta
Pinger non osa Adel: cinta d'un velo,
Il sembiante ei le dona d'Eloisa,
E il biondo crine ed il ceruleo sguardo
E sì amabil ne trae quadro pietoso
Che a tutti molce gli ascoltanti il petto.
L'arrivo ei dice del campione e l'ira
Contro a' codardi cavalier che il brando
Non consacrano a' deboli, e a quel sesso
In che onorar dobbiam Maria: e descrive
La terribil battaglia; e la sconfitta
Del mostro immane; e il giubbilo e il trionfo
Che la turba apparecchia; e la modestia
Del vincitor che involasi, e a novelle
Per la terra trascorre inclite imprese.
Oh, allor d'Adel, nell'inno suo di fuoco,
Tutto il cavalleresco animo splende!
I bei fatti lo esaltano; una viva
Sete di gloria lo divora: in vago
Disordin, nella mente i grandi esempi
Gli si confondon del guerrier ch'è in cielo
E quelli del suo sir, e a entrambi aita
Chiede e virtù perchè lor orme ei prema.
Quell'affanno, quel nobile desìo,
Più che le lodi avutene commove
Il magnanimo vecchio:
«Eccoti, o figlio,
L'onorato mio ferro; i dì verranno
Ch'io giacerò cogli avi, e questo ferro
Mieterà ancor per mano tua gli allori!»
Al valente cantor doni gentili
Porgean le dame, e il sir dicea: «Tu sola,
Figlia, sconosci la virtù e le nieghi
L'amabil guiderdone?»—Alla paterna
Dolce rampogna ella sorride, e tosto,
Vergognando, discignesi dal petto
Candida sottil zona, e sovra l'arpa
Leggiadramente del cantor la posa.
Oh che son gli altri fregi? Il tempo forse
Potrà la rimembranza o scancellarne
O almen scemar; ma questa zona!—
«Il seno
D'Eloisa cingevi! e tu sentito
Hai di quel seno i palpiti! e sentito
Forse li hai raddoppiarsi (ahimè, pur troppo
Ell'è certezza!) allor che o la mia voce
Udia da lunge o i guardi miei trovava
E mie pene leggeavi!» Ah, da quell'ora
Così delira Adel!
Spesso un tintinno
D'arpa s'ode la notte entro il castello:
Egli è il misero amante che riposo
Sul letto non rinvenne, e con dimesso
Suon quelle melodie va ricordando
Che più son care ad Eloisa—e il bianco
Lin che dal musical legno discende.
Sopra il volto li ondeggia e sopra il core,
E reverenti baci egli v'imprime,
E gli parla e il ribacia, e talor forse
D'una lagrima il bagna.
Il destin move
Un dì la giovin dama a errar solinga
Tra le rose dell'orto, ed ivi il caro
De' suoi pensier segreti idolo incontra.
Ambi treman, ritrarsi ambi vorriano:
Ma, perch'egli era mesto, una soave
Parola essa gli volse—«Adello, udiste
Favellar d'uno spirto che ogni notte
Già da alcun tempo bea il castel di queti
Armonici sospir?»
«A quello spirto,
O cortese mia donna, era speranza
Che i suoi sommessi asconditi sospiri
Ignorati sarien: s'alcun li udiva,
Uopo è ben che nemico abbiasi il sonno—E
a quello spirto assai dorria se il sonno
Mancasse ad altri come a lui.»
Nullo era
In se quel dir; d'eluderlo v'avea
Pur mill'arti o troncarlo: ahimè, quell'arti
Ad Eloisa non sovvengon! Pochi
Confusi detti replicò, e que' detti
Molta pietà spiravano. Ah, d'ossequio
Sol parlò Adel, ma questa voce uscìa
Sì tenera e tremante, che simile
Era alla voce «amore!» Ed ei soggiunse
Sì meste cose di quei dì in che privi
Saranno questi fiori e quel castello
Di chi li fea sinor giocondi—e, spesso
Interrotto, pur dice anco di fiori
A cui del sol manca la luce, e a terra
Allor chinan la testa... e più non sorge!
«Oh Adel, t'intesi! il tuo proposto è orrendo:
Tu vagheggi la morte!»
«Oh donna! Il giorno
Che tanto audace io fui d'innalzar gli occhi
Sovra cosa divina, era decreta
La morte mia dal ciel quel giorno.»
Il pianto
Sgorga a forza dagli occhi d'Eloisa;
Ma dignitosa ell'è tutt'ora, e gravi
I modi e le parole. Un lampo d'ira
Le balenò piangendo e dir parca:
Così m'astringi ad avvilirmi?—Ei muto
Angosciato abbassava le pupille
Più che mai reverenti onde la donna,
Lagrimando non vista, il duro peso
Della vergogna non sentisse. E il pio
Riguardo ella scerneva, e in petto quindi
Pietà maggior la inteneria.—
—Tal'era
Di que' semplici eventi la catena
Che (impreveduta) avea le due inesperte
Alme condotto alla fidente e vana
Compassïon del vicendevol duolo.
Ma oh come quelle bell'alme, incapaci
Pur d'un pensier che da virtù non tragga,
Accusansi ciascuna in sè medesma
Del biasmevol colloquio!
È questa adunque,
Pensava Adel, la mercè ingrata è questa
Ch'io rendo al mio signore? a lui che tanti
Su me profuse beneficii e pegni
D'amistà nobilissima ed esempi
Alti d'onor? Così rammento i cenni
De' genitori miei, la veneranda
Storia de' lor martirii e come in venti
Ben più gravi sciagure immolàr tutto
Fuor che lor fede a' cari prenci e al dritto?
In chi di giusti nacque, è onnipossente
La rimembranza de' dettami austeri
Nell'infanzia bevuti e il sacro accento
Con che amando addolcianli e padre e madre.
Disonorar con vili atti egli teme
L'immacolata lor canizie, e questo
Gentil timor, ne' gran cimenti—allora
Che virtù langue—di virtù lien loco.
«Ahi, che feci, Eloisa? Ove trascorse
L'incauto labbro! Oh, un infelice obblia
Che ardì il tuo sdegno provocar! L'insania
Onde vittima gemo, ancor la voce
Del dover mio non soffocava appieno.
Che insano fui—non vil—tel dirà il pronto
Mio abbandonar questo adorato albergo
Onde più mai non rivederti. Un alto
Delitto le contrade itale afflisse
E vendetta domanda: io la grand'ombra
Di Berengario a vendicar mi reco.
Cadrò nel campo dell'onore: udrai
Forse in breve il mio nome e dirai «Basso
Fu il viver suo, ma egli moria da forte.»
Ma non men che in Adel s'avviva in petto
Ad Eloisa di virtù il bel raggio:
E ipocrisia sdegnando e vano orgoglio,
Qual sorella gli parla e con decoro
Quasi di madre e di regina—eppure
Sol favellar così potea un'amante.
Un celeste idïoma era, onde i pochi
Predestinati cuori han conoscenza
Che amaron come Adello, e un'Eloisa
Sulla terra trovarono, e una volta
Piansero insieme, e da quel dì migliori
Si sentir—benchè forse, ahi, più infelici!
Ella accenna infrangibil l'imeneo
Che del suo padre la saggezza ha fermo,
E dice sacro quel dover che legge
A entrambi lor fa il separarsi e pace
Ricercar nell'assenza: e poi soggiunge
Con enfasi gentil quanto l'uom possa
Sublime farsi nel dolor, se invitto
Ai colpi di fortuna animo opponga,
E più, se nel dolore ei sempre aneli
A far sì, che ad un lito (ond'esul mosse)
Spesso la fama sua giunga e tai fatti
Narri di lui, che ognun qui dire ambisca:
Io lo vidi, io 'l conobbi, ei mi fu caro!
Con più tenera voce indi Eloisa
Il rampogna che morte ei nelle prime
Pugne minacci d'incontrar; gl'intima
Di viver—
«Donna, ah da te lunge?—
«Vivi
Alla patria, a' parenti... ed al conforto
Pur d'Eloisa!»
Questo detto ha fisso
Del futur campion l'alto destino!
[2]
San Giorgio, principe di Cappadocia.
II.
«Ben t'avvenga, o stranier, che non disdegni
Del proscritto la stanza! Oh, il curïoso
Mio desir non t'offenda: avresti il suolo
Di Verona toccato? o nulla almeno
Dell'infelice mia patria t'è noto?»
«Verona tua, gran Valafrido, ancora
Non visitai, ma qui di Francia io movo
Per quella volta.»
Adel così dicendo,
Una scritta porgeva: e con ossequio
(Mentre quei legge) osserva le sembianze
Dell'eroe cui per molte cicatrici
Beltà non scema: è in Valafrido un misto
Tal di guerriera cortesìa e fierezza
Che affetto ispira e in un tema e stupore.
«Che? Tu del sir di Rocca Incisa alunno,
Di lui ch'a Eligi mio chiuse le ciglia?—
E dal felice tetto del vegliardo
L'ardente febbre involati de' prodi,
Il bisogno di gloria? Oh, dritto ei parla,
Con paterna amarezza lamentando
Giorgio il tuo dipartir!
Ne' generosi
V'è un impulso di Dio che li sospinge:
Uopo è onorarlo, anche se il cor ne pianga.
»
Adel s'inteneria rammemorando
Del suo signor l'affettuoso sdegno,
Quando i suoi preghi a forza il combattuto
Congedo ottenner. Poi dalle ospitali
Accoglienze animato—«O Valafrido,
Guida mi sieno i tuoi consigli: acceso
Dall'alta istoria di tua eroica fede
Pel trucidato nostro italo Augusto,
Al sitibondo mio ferro ho la morte
Del traditor giurata.»
«O giovinetto,
il cor mi brilla udendoti. Perduta
Tutta de' giusti ancor dunque la stirpe
Non è in Italia? I giusti—oh, ma son rare
Stille che pure cadono dal cielo
In torbido ocean, che inosservate
Nelle giganti sue schiume le ingoja!
T'arrida un giorno la fortuna: or tempo
È di sostar: te perderesti indarno
E del trafitto Cesare quel sacro
Unico avanzo su cui pende il brando
Dell'assassin.»
«Ciò che a salvar la figlia
Di Berengario lungamente opravi
Noto m'è o Valafrido...»
«E non t'è noto
Che al novo italo sire Ugo negando
Chinar l'insegna mia, se dalle mani
Dell'assassin Rasperto ei non togliea
La donzella regal, meco possente
Esercito ebbi che d'onore al sacro
Nome parea tutto avvampar? L'infido
Ugo mi trae ne' lacci suoi chiedendo
A me di pace il parlamento: i dritti
Son vïolati delle genti: in ferri
Tratto mi veggio. Ov'eran le promesse
Dell'esercito mio? dove la sete
Di giustizia e vendetta? Oh vitupero!
I creduti leoni eran conigli
Che un fischio sperde. Alla prigion m'involo,
A mie castella mi ricovro, ai servi
Do franchigia e virtù: la fede e il grato
Animo in prodi trasmutò gli abbietti:
Pugnar, morirò al fianco mio. Ma invano
Sperai che gara in petti altri e gentile
Pudor si ridestasse. Il soverchiante
Numero mi sconfigge: Ugo e Rasperto
Al suoi adeguan le mie rocche, e a stento—
Ramingo, insidiato, egro—l'afflitta
Testa posar m'è in questi monti dato.»
«Signor, tu il sai, soccombe il retto, e vana
Però non è la sua caduta: è crollo
Che desta le sopite alme e del retto
A compir le sublimi opre le incalza.»
«Adel, m'ascolta: speme una accarezzo,
Sol una.»
«Qual?»
«La grande alma d'Ottone.
Io in Lamagna trarrò, moverò l'ira
Del generoso: il vindice d'Italia
E del tradito imperador fia Ottone.»
Al quarto dì si separar gli eroi:
Valafrido oltre l'Alpi, e Adello mosse
Alla città infelice ove vassallo
Del re malvagio domina nel sangue
Il feroce Rasperto. Avea costui
Folto stuol di satelliti, raccolti
Tutti d'infra le truci orde venute
Di stranie terre alla rapina.—Adello,
Onde vie meglio ascondere che in petto
Lombarde cure ci prema, avventuriere
Natìo di Francia fingesi, cui sorte,
O errori giovanili, o irrequïeta
Brama d'eventi fuor di patria spinse.
Tacitamente a lungo ogni suo passo
Esplorato venìa. Seco si stringe
Un burgundo guerrier: cieca fidanza
Mostragli Adel, sognati casi narra,
Forte invaghito del mestier dell'armi
Dicesi, e a poco a poco ode gli offerti
Patti, e ingaggiarsi appo Rasperto assente.
L'avvenenza d'Adel, la signorile
Sua destrezza nell'armi attirò in breve
Del tiranno gli sguardi, e di sua corte
Agli ufficii l'assunse.
Adel fremea
Nell'incurvar l'altera alma alle bieche
Non imparate ancor del debole arti:
Ma incurvarla era forza, o prorompendo
Mal augurata far l'impresa. È lieve,
Di Berengario sulla tomba il mostro
Strascinar per le chiome e trucidarlo;
Ma di Rasperto riman poscia il crudo
Nipote Euger, che in sua balia rinchiusa
Tien nella torre Sigismonda e il sangue
Versar della infelice orfana puote.
Pria che vendetta dell'estinto or vuolsi
Dell'oppressa innocenza oprar lo scampo.
Cauto osservar gli spiriti, una tela,
Se arride il tempo, ir preparando, e il cenno
Di Valafrido attendere—tal era
Lo spettante ad Adello inteso incarco.
Ma più lune trascorsero, e l'eroe
Di Lamagna non torna, e orrende nozze
(Onde gli ambiziosi emuli tronche
Sien le speranze) intimansi alla figlia
Di Berengario coll'infame Eugero.
Repente sulle piazze alla sommossa
Chiamar la turba? Ed a qual pro? Non altri
Tentaron questa via? Tosto immolati.
Dalla viltà del volgo,—od a ritrarsi
Costretti si vedeano, onde il tiranno
Non estinguesse del lor re la figlia.
Dar l'assalto alla torre? e con quai brandi?
Ah, in molti petti è l'ira, il desio in tutti
Della vendetta, la virtù—in nessuno!
O almeno Adel non la scoverse.—Un fido
Servo, che collattaneo era del vecchio
Padre d'Adello, e indivisibil sempre,
Fin dal natal del giovin sir gli stette,
De' suoi segreti è il sol custode: oh, gli anni
La destra aggravan d'Almadeo; compagno
Fora mal certo nel ferir!
«Buon padre,
Urge il tempo, ho deciso: ad ogni rischio
Sol rimango io, ma Sigismonda è salva.»
«Che dici o mio signor?»
«Sotto l'ammanto
D'altra grave cagion, rapido cocchio
E destrieri apparecchiansi: al tramonto
Portator de' messaggi io di Rasperlo
Al re m'invio—ciò crederassi—il cocchio
Tu guiderai; più prezïoso un pegno
In mio loco ivi fia. Non della corte
D'Ugo il cammin, ma di Vinegia prendi:
Sino al mar non ristarti: un agil legno
Senza indugio v'accolga, ed al suo illustre
Proscritto zio la vergine conduci.»
«Deh, l'arcano mi spiega!
«Odi: tu sai
Che alla prigion della regal donzella,
Fuorch'a entrambi i tiranni e alle lor guardie,
Ad uom recarsi non è dato. Appena
Due antiche ancelle—e l'una a Sigismonda
Nutrice fu—ponno ogni dì all'afflitta
Di compianto e amistà porger ristoro.
Ad esse favellai. Della nutrice
Le spoglie io vesto, all'altra m'accompagno,
In carcer resto, e assuntesi le spoglie
Della nutrice, Sigismonda fugge.
Ir non può in fallo il colpo: occhio severo
Su queste donne non s'estende. Inferma
Da lungo è quella onde la voce io tolgo:
Muta sol ivi penetrar, ravvolta
In ampio velo: al scender della torre
Al lor umile tetto uom non le segue.
Buje or sono le notti: al destro lato
Del vicin tempio le fuggiasche trovi.
Salgano il carro immantinente: sferza
Senza posa i cavalli.»
«O signor mio,
Che fai? tua vita perdi: a' genitori
Pensa.»
«Agli esempii lor penso: la vita
Posposer sempre al maggior ben—l'onore!»
«Del tinto personaggio a me la cura
Dona, all'illustre zio tu stesso adduci
La salvata donzella.»
«Oh, ben da tanto
M'estimo io sì! nè a tue virtù, la gloria
Di morir per sì giusto atto, minore
Certo sarìa! Ma di soverchia mole
È, Almadeo, tua presenza: in guisa niuna
Dal travestir s'illuderian gli sgherri:
Me affida inoltre il valor mio: l'acciaro
Del padre d'Eloisa io sotto ai lini
Donneschi porto, e allor che s'avvedranno
(Dopo molte ore, deh, ciò sia!) le guardie
Dell'inganno sofferto, io d'atterrarle
E scampar non dispero; e piena l'opra
Forse eseguir che il morto re domanda.»
Resistenza e preghiere e ammonimenti
Ripetè invan l'antico.—I fatti egregi
Pensa anche il vil talvolta: il sol gagliardo
Li pensa e compie—e tra il pensiero e il fatto
È una ferrea catena, e niuna scossa
Quella catena fa ondeggiar.
Le donne
Alla torre presentansi. Il guardiano—
«Dio ti ridoni la salute o inferma!»
E la sana risponde: «Oggi l'affanno
Più dell'usato la meschina opprime,
Nè a veglia quindi appo la dama a lungo
Starci forse potremo.» E ciò dicendo,
Al saluto venal porgea cortese
Qualche mercede.
Inesplorate i neri
Avvolgimenti della torre ascendono,
E lor la trista cella si disserra
Di Sigismonda; indi il guardian sen parte.
Tutto in breve ode la fanciulla. Invasa
Da sorpresa e rossor, confusi, incerti
Detti favella. Il giovin cavaliero
E la vecchia fedel con premurose
Istanze le fan forza. Ah, d'involarsi
Dall'infame imeneo trattasi, i dubbi
Stolti, funesta ogni esitanza fora!
Della nutrice a Sigismonda i veli
S'appongono.—L'inferma appo la dama
Lunga dimora far non può: al suo letto
Già si ritira. In fondo era alla cella
Adel quando il guardian chiuse, e le donne
Fuor della torre addusse; ed osservato
Perciò non venne.
Poich'è sol, del manto
Che il cingea si discioglie, e il suo guerriero
Aspetto ripigliando, avido tende
E inquïeto l'orecchio. Ei di sventura
Trema—non già per sè: sull'elsa ha il pugno:
I perigli ricorda in cui quel brando
Conquistò a Giorgio la vittoria: stretta
Si tien sul cor la zona d'Eloisa—
E sovrumana forza alla sua destra
Tal s'infonde, che intrepido i suoi giorni
Venderia e cari a folta schiera innanzi,
Ma alla fuggiasca pensa e per lei trema.
«Che direbbero Italia e Valafrido,
E i miei parenti e un dì Eloisa, ov'io
Con improvvida audacia a morte spinta
Avessi Sigismonda? Eppur la scelta
Di più partiti io non avea, e il peggiore
Era l'indugio. Strepito non odo:
Oh cielo, arriso avresti? Ale ai corsieri
Presta, lor tracce agli inseguenti ascondi!
Propizii sovra il mar spira i tuoi venti!
In porto adduci l'innocente afflitta,
E ch'io pera, se il vuoi, ma inglorioso
Non sia il mio fato!»
Secoli son l'ore,
Ma pur segue una l'altra, ed ogni istante
Reca in Adel nova speranza e gioja.
Verso il mattin—prostratto era ei davanti
A un crocefisso, e per la patria orava,
E per tutti i mortali, e più pei cuori
Che sono al suo più strettamente avvinti—
Quando un suono di passi e di parole
Pei rimbombanti angusti anditi giunge
Al prigioniero. Stridono le chiavi
E gli orrendi cancelli. In piedi ei balza:
Ascolta—e i ghigni scellerati scerne
Dell'impudente Euger. Venìa il malvagio
Ad annunciar, che irrevocabil cenno
Dell'empio sir, ferme ha in quel dì le nozze.
Ma la porta dischiudesi—oh sorpresa
Spaventevole al reo, d'imbelle donna
In loco all'affacciarglisi improvviso
Incalzante guerrier! Pongon la mano
Alle spade i satelliti e il lor duce,
Urla mettono orrende, orrendi colpi
Metton, ma invan: già steso è al suolo Eugero,
Già spiccia il sangue da più petti: in cerca
D'aita e in fuga altri si volge: umana
Opra questa non credon, ma prodigio
Invincibil del cielo. Adel si slancia
Con volo irrefrenabile atterrando
Tutti gl'inciampi, e della torre è uscito.
Al popol corre, con possente voce
Incita a compier l'alta impresa: ei narra
Dell'involata all'esecrande nozze
Figlia di Berengario.
«Avventuriero,
Qual credeste, io non son, d'estrania terra!
De' Saluzzesi monti, italo io sono,
Figlio del sire Adel, che antico servo
Fu dell'ucciso imperador! Vendetta
L'adirata onoranda ombra a me chiese,
A voi tutti la chiede. Oggi la taccia
Si lavi che (già omai volge il terz'anno)
Vi disonora e dican la fraterne
Ed emule città—
Giacea nel fango
Per rio destin, non per viltà, Verona!
»
Il suo apparir maraviglioso, i caldi
Accenti del guerrier, la reverenza
E la pietà che spiran le ferite
Onde il volto gronda—e par ch'ei solo
Conscio non siane—un inatteso effetto
Producon nella turba. Al denso stuolo
Delle feroci mercenarie lance,
Che con Rasperto irrompono, non cede
Come altre volte il volgo: aspra battaglia
Le vie e le piazze insanguina: le opposte
Ire in eroi trasmuta anco i più vili.
Adel s'azzuffa col tiranno. Ivi era,
Ivi a mirarsi spaventevol cosa
Il furor de' gagliardi, il mortal odio,
E di disperazion l'ultima prova!
Lunga è la lotta, dubbia è la vittoria:
Si soffermano il popolo e i guerrieri,
E alterno è il plauso ed il terror. Ma alfine
Precipita il tiranno: a quella vista
Sgomentati si sperdono gli sgherri:
Grida di gioja il popolo manda—e Adello
Trionfator, ma semivivo, cade
De' suoi compagni d'arme infra le braccia.
Dio quella vita ad altre angosce ed altre
Glorie serbava: ma all'esauste vene
Del campion di Verona a grave stento
Riedè salute.
Un dì, al suo letto ei vede
Inoltrarsi due duci. Uno ei ravvisa:
È Valafrido. Di Lamagna i prenci
Questi trovato avea sì nelle interne
Discordie avvolti, che niun d'essi cura
Prender potea dell'itale fortune.
Oh come Valafrido i dolci amplessi
Rende al ferito eroe! come gentile
Dal labbro suo suona la lode al forte
Fatto d'Adel! Nè men commosso e onesto
Favellando applaudìa l'altro guerriero.
Il magnanimo zio di Sigismonda
Quegli è che ad onorar venne l'ignoto
Della nipote redentor:—Più giorni
Con delicata indagine il vegliardo
Spiò se in cor d'Adel fiamma d'amore,
Eccitatrice d'alte gesta, ardesse
Per l'augusta donzella, e dagli accorti
E amici detti un raggio tralucea,
Qual di desio che Adello osi a tai nozze
Elevar sue speranze.
Il perspicace
Garzon di quel linguaggio i sensi intende:
Ma cortesìa vuol che li ignori, e aperto
Scansi rifiuto. Quindi uopo tingendo
D'amichevol conforto e di fidanza
A sollevar del mesto animo il pondo,
Con fil e candor narra al buon vecchio
L'umile istoria de' suoi giovani anni,
E il foco inestinguibile che inceso
Le virtù d'Eloisa e la bellezza
Han nel suo petto, e tutto dice—tranne
Che riamato ei sia.—Ben gli era nota
La sfolgorante venustà e la dolce
Alma di Sigismonda, e come i prenci
Si contendan sua destra e quella destra
Porti forse venture alte di regno;
Ma più che ogni tesoro e più che i troni
È a lui la sua Eloisa—oh doloroso
Sovvenir d'un bel sogno! inutil culto!
Inutil no, giacchè sublima il core!
III.
Nell'arduo calle della gloria i primi
Cantai passi d'Adello: or trasvolando
Sull'ali rapidissime del tempo,
Additerò sol come lampi i lunghi
Patimenti e le gesta onde l'eroe
Gli anni suoi segnalava.
Ugo, insultando
Delle città, de' vescovi e de' forti
Itali castellani a' privilegi
E schernendo i trattati ed impunita
La libidin lasciando e la rapacia
De' suoi baroni, acceso avea nel regno
Di civil guerra la esecranda face.
Dal furor della plebe i regii messi
Lacerati venian: le inesorate
Lance del sire offeso alla vendetta
Trucemente scagliavansi. Ammucchiati
I cadaveri ingombrano le strade,
Nè v'ha chi li sotterri: il pellegrino
Riede al natio villaggio, e indizio appena
Del loco ov'ei sorgea songli i mezz'arsi
Rottami delle pietre e pochi teschi—Forse
del padre e dei fratelli i teschi!
Tal de' Lombardi era lo stato. Adello
De' depredati borghi e monasteri
In difesa accorrea: di lui, nemico
Più formidabil non avea il tiranno.
Ma in breve queste guerre han tratto all'imo
D'ogni miseria la contrada: il mese
Della messe venia, ma il sol versata
La sua virtù feconda avea ne' semi
Dell'ortica e del cardo; e da lontano
Il fuggiasco villan piangea sul brando
Che a' dì più lieti gli falciava i campi.
Ride Burgundia. «Or tempo è di riporre
I nostri ferri agl'Itali divisi!»
E già possente esercito calava
A sicura vittoria. Allora Adello
Vede la gran rovina: ad impedirla
Non v'è che la concordia, e alla concordia
Città rivali stringer sol può un scettro.
Del nome suo l'autorità sopisce
Gli odii: ei radduce le cosparse insegne
Appo la regia insegna. Or la salute
Dell'itala corona oprisi, e il guardo
Sulle colpe ond'è tinta uom non sollevi.
L'impulso dell'eroe quasi un novello
Spirto ne' pria diversi animi ha infuso.
Ugo, con maraviglia, in sua difesa
Color vede morir cui dianzi ha raso
Le castella o i tugurii: il crudo petto
A forza inteneriasi: ambir la gloria
Parve di scancellar co' benefizii
E con la giusta signoria le cieche
Ire sue prime. Adello, e altri guerrieri
D'onesta fama, sedi ebbero somme
Nel consiglio del re—ma quando piena
Fu de' Burgundi la sconfitta e saldo
Novellamente il trono, ecco, al tiranno
Ombra fa il nome del suo prode, e al dritto
Favellar suo magnanimo la taccia
Dassi ben tosto di ribelle orgoglio.
Dicon vetuste cantiche il giudizio
Scellerato ch'espulso ha dalla patria
Chi la patria avea salva.
Andò il ramingo
Del veneto leone agli stendardi
E lor sacrò la spada sua.—I superbi
Isolani, già tempo, avean le spiagge
Di Dalmazia predate e con la frode
Tolto di là tal venerando oggetto
Che da secoli e secoli a fraterno
Pellegrinaggio i Dalmati adunava
E fea d'un ricco monister la gloria:
Era la lancia d'un antico eroe
Che dal giogo pagano in molte pugne
Sottratto avea le natie valli. Il grido
Degli eccelsi miracoli, operati
Dalla reliquia di quel santo, al furto
I mal devoti veneti sospinse.
Ma intanto rotte più fiate, e sempre
Rinascenti nell'ira e più tremende,
Di padre in figlio le tribù selvagge
Con giuramento avvinconsi al racquisto
Dell'onorata lancia o a eterna guerra.
Un feroce lor capo, Adeoniro,
Col manto di pio zelo, infesta il mare
D'incessanti, audacissime, inaudite
Piraterie. Sui piccioli sui legni,
Di ladroni invincibili una turba
Ei radunò che d'uom, fuorchè l'aspetto
Null'altro serban; fama appo i lontani
Sparse ch'uomin non erano, ma mostri
Prodotti dai nefandi abbracciamenti
Delle dalmate streghe e de' demoni.
Niuna legge li stringe altra che un voto—
Pronunciato col rito abbominando
Di libare in un calice una stilla
Di caldo ancor veneto sangue—e il voto
È d'assalir qualsiasi veleggiante
Pin di San Marco, o scompagnato corra
O a torme, o debol sembri o poderoso,
E dalla pugna non ristar ch'o estinti
O vincitori. A queste anime atroci
Ogni pietà verso i nemici è ignota,
Ma tra loro mirabile è una gara
D'assistenza e giustizia e comunanza
Di beni e mali. Adeonir divide
Il bottin, nè maggior parte a sè dona
Che al più abbietto compagno. In gozzoviglie
E in limosine sprecan, non curanti
Tutti del pari, ogni tesor soverchio,
Quand'armi e barche e attrezzi hanno, ed ai figli
E alle donne e a' feriti han provveduto.
Tal delle imprese loro è la ventura,
E con tali atti di barbarie han tinto
Di stragi l'onde, che il nocchier più ardito
Nell'adriaca laguna inoperose
Tien le sue sarte, e unanime la voce
Dell'atterrito popolo s'innalza
Perchè il furto s'espii ch'a furor tratto
Ha de' Dalmati il santo, e a' loro altari
Con doni la fatale asta si renda.
Il senato assentì: ma col ritorno
Della reliquia, pur mutar natura
Non potè l'indomato avido spirto
De' bugiardi pirati: e con più angoscia
Pianse Vinegia le nuove onte, e mosse
Con alte navi e prodi capitani
Ad estirpar di que' malnati il seme.
Ahimè, che de' suoi prodi il morir forte
Non giovò alla repubblica! In tai giorni
Di lutto universale, uno straniero
Sorge e il linguaggio degli eroi parlando,
Radduce nelle curve alme il coraggio.
Quello stranier pugnato avea sui pini
Della sconfitta armata, e al valor suo
De' pochi avanzi si dovea lo scampo.
Era Adello! Il magnanimo senato
Plaude all'ardir del cavaliero; un novo
Armamento decreta: Adel le prore
Capitanando, alla vittoria corre,
E sepolcro i pirati ebber nell'onde.
Favorita canzon del marinaro
Divenne questa istoria, e tutti i liti
D'Italia l'impararono, e ne' gioghi
Più segregati d'Apennino—allora
Che un sir bandisce all'ospite il festino—
Dice al suo vate: cantaci il bel nome
Del vincitor de' dalmati pirati.
Memoria non restò delle sciagure
O degli affronti perchè Adel partissi
Dalle bandiere del leone. Amalfi
Diede ospizio e onoranza al capitano,
E per lui prosperò; la terra e l'acque,
Più d'una volta, del suo sangue intrise,
Ma invitto il vider sempre e più tremendo.
Tacerò quelle pugne e dirò il giorno
Che—tempo era di pace e vincolato
D'Amalfi all'armi il brando ei non tenea—
Adel coll'oro suo recossi ai Mori
Che in Tunisi avean sede, e quanti schiavi
Potè redense. Il sacrificio ei compie
D'ogni suo aver, perocchè morti entrambi
Son gli adorati genitori, e il pio
Figlio all'anime lor schiudere il cielo
Spera con opre che al Signor sien grate.
Un dì, secondi egli aspettava i venti
Per la reddìta, ed ecco entra nel porto
Con festive urla un predator; parecchie
Sbarca gementi vittime, e fra quelle—Oh
sorpresa! oh sciagura! Adel ravvisa
Un cavalier troppo a lui noto, è desso,
D'Eloisa lo sposo!
Ai primi amplessi
(Ed oh quanti dolori in quegli amplessi
Squarcian d'Adello il nobil cor! qual misto
D'antica gelosia, di riverenza
Per le virtù del sir, di generosa
Compassïon, d'affanno immaginando
Le pene d'Eloisa in udir preda
Ai scellerati masnadier lo sposo!)
Ai primi sfoghi di pietà, succede
L'interrogar sollecito dell'uno
E il racconto dell'altro.
«Oh Adel compiuta
È la sventura mia! Tu vedi il figlio
Del felice Usignan, già di castella
Sì ricco e d'armi, cui possenti trame
Di perfidi congiunti han da sei lune
Rapito ogni dominio. I figli miei
E lor misera madre (ah, poich'al duolo
Il tuo signore e mio, Giorgio soggiacque!)
In salvo a Nizza appo mia suora addussi.
Ivi una notte una masnada irrompe
Di Saracini. Io d'Eloisa, e quanti
Dolci pegni m'avanzano, la fuga
Combattendo proteggo: oh, almen per loro
M'arrise il ciel! Ma cinto, disarmato,
Carco di ferri io vengo. Anzi il mattino
Salpan le collegate arabe navi:
Quai di Spagna eran, quai del Sardo e quali
Di quest'africo lito; a me la somma
Lontananza toccò!»
Frenava Arnaldo
Con viril forza il pianto: Adel, compreso
Da tanta folla d'infelici e cari
Pensieri, il volto si copria e lasciava
Alle lagrime sue libero sfogo.
«E anche il mio antico sire è nel sepolcro!
Sì lunghi anni di gloria, e poi nel lutto
Morir miseramente! ecco, empia terra,
Il guiderdon che alla virtù largisci!—
Ma no, delle onorate opre la meta
Non è il sorrider di mortal fortuna:
Amaro a' giusti è il vivere, e beato
Solo quel dì che al mondo vil ti toglie!»
Così esclamava Adel, sazio de' giorni
Glorïosi, ma sterili di gioja
Ch'ei tratto avea, da quando allontanato
Erasi da Eloisa. E or par che tutta
Da mal estinte ceneri risorga
La giovenil sua fiamma: i detti, il volto
D'Arnaldo lo riportano ai remoti
Tempi del suo delirio. Ei vede i colli
Della Sonna fioriti—il santuario
Ove la pia fanciulla iva sovente
A lagrimar sulla materna tomba—
L'inghirlandata barca ove ella, assisa
Sulle ginocchia di suo padre, al canto
Talor sciogliea la voce; e talor l'inno
Era d'Adello; e allor della donzella
Più timido era il canto e più pietoso!
Che pensa, Adel, tua nobil alma? I campi
E le rocche d'Arnaldo andrai col brando
A racquistar pe' figli suoi? ma in ceppi
Ei qui rimansi: squallido, languente
È il suo sembiante: il duol forse e la dura
Servitù in breve troncheranno il filo
Di quella vita... Libera Eloisa?
Oh pensiero infernal! Ma nella mente
Anche de' giusti sfolgora i suoi foschi
Lampi l'inferno—e più son giusti appunto
Perchè talvolta eguali a' rei son quasi,
Ed allor non soccombono, e con arduo
Sforzo sopra il mortal fango s'innalzano.
D'altri schiavi al riscatto ogni tesoro
Già avea consunto Adello: al predatore
D'Arnaldo in cambio, egli offresi. Accettato
Venne il partito, perocch'egro il primo
Schiavo parea, e salute e forza spira
Del novel la persona. Il sir francese
Queste mosse ignorava, e i suoi voraci
Crucci addoppiava l'esser conscio, ahi troppo
Degli affetti d'Adello. Alta è la stima
Che la virtù dell'Italo gli desta;
Ma pur già scorge nel futuro, accanto
Alla donna (e ancor bella era Eloisa)
Il rival cavaliere, e quella stessa
Virtù che in esso ammira è il suo spavento.
Ma oh come in sè medesmo ei si vergogna
Di sì bassi concetti, allor che tolte
Vede a sè le catene, ed alle braccia
Poste d'Adel!
«Che fia? Non mai! Sublime
Insania, Adel, ma insania è questa! infermi
Giorni redimer di chi tutte ha tronche
Le vie di rimertarti e così all'imo
Cadde che d'ogni grande atto la speme
Da fortuna gli è tolta—e invece i giorni
Preziosi immolar di chi seconde
Tutte ha le sorti e per la gloria vive!»
«Arnaldo, i pregi tuoi taccio che sommo
Ti fer sempre a' miei guardi; or sol rammento
Quanta importanza i giorni han di chi i sacri
Titoli vesta di marito e padre:
Appo tal, nulla è la deserta vita
Di chi solingo passeggia la terra
(E tal son io), di chi, s'allegri o gema,
Niun bea il suo riso e niun piange al suo pianto.»
Volea soggiunger l'altro. Adel temendo
D'aver con triste voci intenerito
Il suo rivale e forse appalesato
Della stanca dolente alma il segreto,
Apre un gentil sorriso—Va', gli dice,
A consolar la tua dolce famiglia;
Cura nostra primiera esser de' questa:
Indi per me non t'affannar: lontane
Non son l'itale sponde, e ivi sì egregi
Cuori mi fean di loro amistà dono,
Che in me certezza è la lor gara al pronto
Riscatto mio.
«So, generoso Adello,
Che in sue nuove tempeste Ugo invocava
Il braccio tuo; so che anelò Vinegia
Di ritorti ad Amalfi, e che in ciascuna
Itala signoria ferve la brama
Di possederti a suo campion: ma esporti
Di fortuna a' capricci, ah no, non posso!
Sol crederei, se in mia balìa fosse indi
Il tuo pronto riscatto: oh, ma ti dissi
La mia piena miseria!»
Uopo ad Arnaldo
Il ceder fu. Partì sulla primiera
Cristiana prora: agl'Itali l'annunzio
Esso, con altri dall'eroe redenti,
Portar di questo fatto. Onor parea
Stringer più d'una terra alla salvezza
Del guerriero in catene: il sir francese
Non osò dubitarne; Adello stesso,
Benchè scevro d'orgoglio, aver sul grato
Animo altrui credea qualche dritto—
Tutti obbliaro il misero! quattr'anni
Le afriche solitudini l'han visto,
Con abbietti compagni ad opre abbiette
Sotto varii tiranni i suoi sudori
Spargere oscuramente—ed eroe ancora
Esser per gl'infelici, o alleviando,
Con gravarne sè stesso, i lor dolori,
O al rassegnato suo religïoso
Senso le svigorite alme estollendo.
Chi ai Saracini il tardo inaspettato
Prezzo portò del cavaliero? Un messo
Che dalle rocche vien d'Arnaldo. Il sire
Fedeli colleganze e alto valore
Ricondotto hanno a' suoi dominii e a tutta
La paterna sua gloria.
Adello è asceso
Sull'ospital naviglio: al marsigliese
Porto ei veleggia. Oh come dir la gioja,
La gratitudin che il bel cuore inonda?
Come i diversi palpiti, approdando?
Poi, sul corsier veloce alle castella
Del suo benefattore e d'Eloisa
Senza posa traendo?
«Ei giunge: incontro
Moveangli il sire ed Eloisa e i figli
(Figli di quell'imen; pur cari all'alma
Gentil d'Adello!) Mutui i commoventi
Detti suonano e i teneri singhiozzi
E la sincera nobil lode. Un riso
Del ciel parea per que' mortali eletti
Aver portato sulla terra il gaudio
Che dal suo trono Iddìo raggia ai beati!
Ma quel foco di vita che nel ciglio
Brillava ad Eloisa, insolito era.
Da lungo tempo in essa è illanguidito
Il fior della salute. Adel s'accorse
Ch'ella reggeasi con fatica; e intende
Che nella notte in che da Nizza a fuga
Ella errava co' figli, un dardo colse
Leggermente un di questi: ahi, velenato
Fors'era il dardo! Il bambinel da orrenda
Crescente piaga si struggea: la madre
Quella piaga lambendo al figliuol suo
Crede render la vita e, ohimè, s'illuse!
Sotterra è il pargoletto, e da quel tempo
A stento l'arte di Salerno e i voti
Appesi sugli altari e i benedetti
Maravigliosi farmachi al dolente
Sen dell'eroica madre addur novello
Sembran vigor.
Ben tosto Adel conobbe
Che sol gli affetti subitanei un breve
Ponean rossor su quelle guance. Il dolce
Soggiorno alcuni mesi ei protraèa
Appo gli ospiti amati, e con Arnaldo
Il timore alternava e la speranza
Per l'egra donna—Ahi lasso! inferocisce
Rapidamente il morbo!—Adel sul letto
Di morte la mirò. Tutta obblïava
Ei sua virtù: chiedea ragione al cielo
Dei mali onde a gran fiotti il mondo inonda
Ch'egli ha creato, e in quegli orrendi fiotti
Indistinto sobbissa e il buono e il reo.
«Oh Adel (rispose la morente—e furo
Questi gli ultimi accenti) oh Adel, ritraggi
La insensata parola! È il duol cimento
Ove Dio prova degli umani il core.
Te a egregi fatti i lunghi sacrifici
Portaron: nè t'incresca! e parver lunghi;
Ma, come stral per l'aer, fugge quest'ombra
Ch'uom vita appella e salda cosa estima!
Nè infelice è chi muor, ma chi morendo
Guarda gli anni volati ed alcun'orma
Da lui lasciata di virtù non trova!»
Voce a Eloisa allor mancò: sorrise,
Strinse al seno i figliuoli, all'onorato
Sposo si volse—e dir parea «Co' figli,
Adel ti raccomando»—e più non era.
Così passò la santa.
Incerte storie
Narrano d'un Adel ch'appo i Toscani,
Dopo quel tempo gli Ungari sconfisse:
Fors'era il nostro eroe; forse in più gesta
Ancor brillò la gloria sua. Ma il vate
Che del sepolcro suo cantò, non dice
Se non che vecchio Adel morì e mendico,
Perdonando agl'ingrati, e ripetendo
Que' detti d'Eloisa: «È il duol cimento
Ove Dio prova degli umani il core;
Nè infelice è chi muor, ma chi morendo
Guarda gli anni volati ed alcun'orma
Da lui lasciata di virtù non trova!»
NOTE.
.... Sui colli
Della Sonna fioriti e sulla Rocca
Invisa dominava.
V'è presso Lione, sulle rive della Saône, una rupe che ritiene il nome di Pierre-Encise.
In chi di giusti nacque è onnipossente....
Tutta la cantica sembra avere per iscopo morale queste verità:—che uno de' più grandi stimoli alla virtù si è l'esempio di parenti irreprensibili, e quindi il desiderio di consolare con bei fatti la loro vecchiaja—che nelle passioni in lotta col dovere, quanto più il sacrificarle a questo è doloroso, tanto più l'uomo che compie questo sacrificio ha luogo in appresso di congratularsene, trovandosi nobilitato ai proprii sguardi e più capace di grandi azioni—che finalmente se sulla terra il premio della virtù è spesso l'ingratitudine degli uomini e la sventura, al giusto sono abbondante compenso la sua fama, il testimonio della buona coscienza, e la pace e le speranze con cui egli solo può scendere nella tomba.
.... Io la grand'ombra
Di Berengario a vendicar mi reco.
Berengario I, dopo gli infelici successi della sua guerra con Rudolfo, fu assassinato a Verona da alcuni congiurati, capo de' quali era Flamberto. Tre giorni dopo Milone guerriero fedele all'infelice imperatore ne fece la vendetta, vincendo i colpevoli e condannandoli al supplizio: così le cronache. Ma secondo questa cantica uno d'essi congiurati, Rasperto, riacquistò potere in Verona, ed ebbe in seguito il favore del re Ugo, che gli lasciò il governo di quella città.
Che al novo italo sire, Ugo....
Rudolfo tenne poco tempo il regno d'Italia: ei dovette cederlo ad Ugo, duca di Provenza, che segnalò il suo dominio con le crudeltà e la perfidia.
.... La grande alma d'Otone....
Pare che debba essere Ottone di Sassonia, il quale circa 14 anni dopo quest'epoca conquistò l'Italia.
Tolto di là tal venerando oggetto.
Leggasi la storia de' bassi tempi e si vedrà quanto fossero frequenti i furti delle reliquie. Un popolo credeva d'appropriarsi la prosperità dell'altro, togliendogli o il corpo o qualsiasi altra reliquia del santo protettore del luogo.
.... Che il nocchier più ardito
Nell'adriatica laguna inoperose
Tien le sue sarte.
Che un piccol numero di pirati sparga tanto spavento parrebbe un'esagerazione, se la storia non dicesse come nel secolo XVII i filibustieri, ammasso di pochi audacissimi ladroni, divennero il terrore dei navigatori europei, a segno dì tener talvolta interrotta la comunicazione della Spagna colle colonie americane.
A stento l'arte di Salerno...,
Nel secolo X Salerno era già famosa per la sua scuola di medicina. (V. il Tiraboschi.)
EBELINO
CANTICA.
L'idea di questa cantica non è tutta mia. Il tema vennemi fornito da un romanzo storico tedesco, ch'io lessi già tempo, e di cui ignoro l'autore. Il merito letterario di quel libro mi pareva debole, ma il personaggio d'Ebelino vi spiccava con tratti forti, e mi rimase vivamente impresso nella fantasia, come nobile modello di pazienza ne' dolori. Ivi narravasi d'Ebelino, non so con qual fondamento, ch'ei fosse un povero cavaliero scacciato nell'adolescenza con atroci minaccie di morte da sette disumani fratelli, e divenuto uno de' liberatori della regina Adelaide. Questo giovane prode passato in Germania coll'illustre vedova di Lotario, allorch'ella sposò in seconde nozze Ottone I, dipingevasi dal mio autore quale un nuovo Giuseppe alla corte d'Egitto, potentissimo e sapientissimo; e a fine di meglio somigliare al vicerè di Faraone, Ebelino scopriva anche i suoi fratelli, venuti d'Italia a Bamberga senza che immaginassero chi egli fosse, e perdonava loro. Conservata alcun tempo la sua alta fortuna sotto Ottone II, cadeva poscia vittima d'un traditore collegato a molti invidi rivali; ma il traditore stesso, agitato da visioni spaventevoli, confessava indi a poco l'innocenza dell'immolato Ebelino.
EBELINO.
Si bona suscepimus de manu Dei, mala quare non suscipiamus!
JOB. 2, 10.
Inno d'amore e di compianto al giusto,
Al giusto denigrato! Ebelin, fido
Campion del magno Ottone e consigliero,
Colui che al generoso Imperadore
Verità generose favellava,
E i biasimati torti indi con mente
Pronta e amorevol correggea e sagace;
Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio,
Spesso invece del sir ponea la destra
Al timon dell'impero, e lo volgea
Del sir con tanta gloria e securanza,
Che questi, anco in cimento arduo serrando
Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea:
«Vigila or tu, che il signor tuo riposa;»
Quell'Ebelin, che, lagrimato il sacro
Cener del magno Otton, d'Otton novello
Fu parimente lunghi anni sostegno
Di giustizia nel calle, e guida e sprone;
Sì che a nessun parea che dilettoso
Ne' poveri tuguri e nelle sale
Fervesse crocchio, ove lodato il nome
Non fosse d'Ebelin,—quell'Ebelino
Morì esecrato, ed era giusto! Amore
E compianto agli oppressi!
Un dì l'Eterno,
Come a' giorni di Giobbe, al suo cospetto
Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse:
—Onde vieni?
E il maligno:—Ho circuita
Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
Ed il Signore:—O di calunnie padre,
Non vedestù l'amico mio Ebelino,
Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo
Tanta in prosperi dì serba innocenza?
E l'angiol di menzogna ambe le labbra
Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso
Disse:—Ebelin? Dov'è il suo pregio? Ei t'ama
Perchè di beni è colmo. Il braccio or alza,
Percuotilo, e vedrai s'ei non t'imprechi.
Ed il Signor:—Giorni di prova a' retti
Forse non io so stabilir? Va; pongo
Entro a tue mani dispietate or quanto
Agli occhi della terra Ebelin porta,
Fuorchè la vita.
L'avversario allora
Avventossi precipite dal grembo
Della nembosa nube, onde i mortali
Atterria lampeggiando; ed in un punto
Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
Si soffermò, e da questo lato i campi
Della lieta penisola mirando,
E dall'altro le selve popolose
De' boreali, l'una all'altra palma
Battè plaudendo al sovrastante lutto
D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!
La più squisita voluttà del male
Pensò un momento qual si fosse, e al giusto
Fermò ignominia cagionar per mano...
Di chi?—D'amico traditore! Il colpo
Più doloroso e a dementar più adatto
Chi molto amando irreprensibil visse!
—Un Giuda voglio! Il dèmone ruggia
Giù dall'alpe scagliandosi e correndo
Pe' teutonici boschi, e visitando
Con infernal, veloce accorgimento
Città e castella.
Iva ei cercando l'uomo,
In cui scernesse il dolce volto, e i dolci
Atti, e l'irrequïeto occhio geloso
Del venditor di Cristo; e non volgare
Mente si fosse, ma gentil, ma calda
Di lodevoli brame, ed inscia quasi
Di sè si pervertisse, e vaneggiasse
D'amor per tutte le virtù, e seguirle
Tutte paresse, e infedel fosse a tutte.
Tale, od un vero giusto esser dovea
Chi affascinasse d'Ebelino il core;
E Sàtan nol trovava, e con dispregio
Maledicea la lealtà nativa
De' figli del Trïon, popol rapace
Nelle battaglie, e in sue pareti onesto.
Ma quando già il crudel quasi dispera,
Ecco s'incontra in uomo onde il sembiante
Tosto il colpisce; e fra sè dice:—«È desso!»
Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta.
Quel benedetto dall'orribil genio
Era un prode straniero, e fama tace
Di qual progenie, e nome avea Guelardo.
Sul suo destrier peregrinava, e ladri
Or assaliva, degli oppressi a scampo,
Or dispogliava ei stesso i passeggeri,
Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio
Pur quelli avrìa, se a povertà costretto
Non l'avesse un fratel, che del paterno
Retaggio spossessollo.
A che di bosco
In bosco errasse, ei non sapea. Sperava
Dal caso alte venture, e perchè tarde
Erano al suo desìo, volgea frequente
Il pensier di distruggersi; e più volte
Dall'altissime balze misurava
Coll'occhio i precipizi, e mestamente
Rideagli il core, e si sarìa slanciato
Nelle cupe voragini, se voce,
O aspetto di mortali, o speranze altre
Non l'avesser ritratto.
—O cavaliere,
Salve.
—Scòstati, scòstati, o romito;
Oro non tengo.
—Ed oro a te non chieggo;
Ben d'acquistarne santa via t'accenno.
Vile è il mestier cui t'adducea sciagura,
Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti
Occulta sapïenza ha rivelate:
Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra:
Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai
A' clementi occhi del regnante istesso.
Così Satan, e sparve.
Incerto è quegli
Se fu delirio o visïone. Al cielo
Volge supplice il viso: in cor gl'irrompe
De' suoi misfatti alta vergogna; aspira
A cancellarli, e quindi in poi di tutte
Virtù di cavaliere andare ornato.
In quel fervor del pentimento, incontra
Un mendico, e su lui getta il mantello,
E sen compiace, e dice:—Uom non m'avanza
In carità e giustizia.
E Sàtan rise,
E non veduto gli baciò la fronte.
Alla real Bamberga andò Guelardo,
Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino
Supplice presentossi, e pïamente
Da quella bella e grande alma si vide
Ascoltato, compianto, e di non tarda
Aïta lieto. Un fascino infernale
Sovra la fronte di Guelardo imposto
Ha del demone il bacio. Allo straniero
Conglutinossi d'Ebelino il core
In breve tempo; e nella reggia e in campo
Quei Gionata parea, questi Davidde.
Mirabile brillava ad ogni ciglio
Quella forte amistà: Saran fremeva
Ch'ella durasse, e il volgersi degli anni
Affrettar non potea. Nè ratto varco
Sperabil era tra i pensieri onesti
Che Guelardo nodriva e la sua infamia,
Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce
Nella virtù emularlo, e il desiderio
Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo
Angiol si confortava misurando
L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi
Secoli, breve istante eran poch'anni.
Ed intanto ci godeva, a quell'imago
Che tigre, sebben avida di sangue,
Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo
Tragge di quella contemplando i moti
E l'amabil fidanza, ed assapora
Più lentamente la decreta strage.
Dopo tanto aspettar, s'appressa il giorno
Sospirato dall'invido. Al novello
Otton contrarie qua e là in Italia
Eran le menti di non pochi, e speme
Vivea secreta ch'italo Ebelino
Secretamente lor plaudesse. Il core
Di molti era per esso, e nelle ardite
Congrèghe entro a' castelli, ed appo il volgo
Susurravan, più splendido rinomo
Non avervi del suo; null'uom più voti
A suo pro riunir; doversi acciaro
Dittatorio offerirgli, o regio scettro.
L'augusto sir dalla germana sede
Contezza ebbe di fremiti e lamenti
Nell'alme de' Lombardi esasperate,
Ed a sedarle con prudenza invìa
Ebelino e Guelardo.
Alla venuta
Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido
Che fama addoppia de' lor alti pregi,
E più de' pregi di colui, che sembra
D'onnipotenza quasi insignorito,
Ferve ognor più l'insana speme, e tutta
In congressi pacifici prorompe,
Ove i duo messi imperïali invano
Senno indiceano e obbedïenza.
—O prodi!
Così Ebelin risponde al temerario
De' corrucciosi invito; io condottiero
Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto
Gli son da conoscente animo e onore,
E il portai fra mie braccia. E quando insieme
Del moribondo padre suo le coltri
Inondavam di pianto, il sacro vecchio
Nostre mani congiunse, e disse:—Un figlio,
O Ebelino, ti lascio;—ed a te lascio,
O figlio, un padre in Ebelino!—Ed era
In tai detti spirato. Allora il figlio
Gettommi al collo ambe le braccia, e molto
Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi,
E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti
Violati con voi fosse il mio sire,
Biasmo sincer da mie labbra paterne
Avriane, sì; retti n'avrìa consigli,
Ma non odio, non guerra, non perfidia!
—Deh! taccïano, Ebelin, privati affetti,
Ov'è causa di popoli. Ed ignota
Mal tu presumi essere a noi l'ingrata
Alma d'Ottone anco ver te, che dritti
Tanti acquistasti a guiderdone e lode.
Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti
Finge, ma stolta è finzione omai
Ond'ogni cor magnanimo s'adira.
Possente sei, ma più non sei quel desso
Che ne' duo regni un dì tutto volvea.
Tëofanìa il governa, e da Bisanzio
Sul germanico seggio ov'ei l'assunse
Recò le greche astuzie, e lo circonda
Di greci consiglieri. Essi con lei
Van macchinando contro te ogni giorno;
Che se finor cadute anco non sono
Le podestà che a te largì il monarca,
Della tua rinomanza egli è prodigio,
E nel tiranno è di pudor reliquia.
Bada a' perigli, a tua salvezza bada:
D'Otton l'iniquità rotto ha i legami
D'ogni giusto con esso.
Un de' maggiori
Così parlò fra gli adunati audaci.
Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa
La parola di sdegno e di sospetto
Circa l'imperadrice e i cortegiani
Ch'ella a sue nozze addotti avea di Grecia.
Ma la candida e ferma alma del pio
Ebelin s'adirò. L'imperadrice
E Otton con nobil gagliardìa difese,
E de' Greci sorrise. Ei sì facondo
Favellava, e amichevole e verace,
Che i più irati l'udìan con reverenza:
Con tenerezza quasi, ancor che invitti
Nel feroce astio e nell'ardente brama.
Di Guelardo lo spirto a quel congresso
Funestamente s'esaltò. Il diletto
Ebelino ei vedea, nella commossa
Fantasia, re, suscitator di gloria
Ad un popol redento. Il vedea bello
Giganteggiare in immortali istorie,
Com'un di que' supremi, onde la terra
Lunghi secoli è priva; e sè medesmo
Socio vedea di quel supremo, e a lui
Successor forse, e... Che non sogna audace
Ambizïon, se raggio ha di speranza?
Quand'ei fu sol con Ebelin, ridisse
Le voci insieme intese, e commentolle
Coll'insistenza del favore; e aggiunse
Maligno esame de' pensier, degli atti
D'Ottone, e della Greca in trono assisa,
E degli astuti amici ond'ella è cinta.
Quasi certezza accolse i più irritanti
Dubbi e i minimi indizi di periglio,
E gridò ingratitudine, e diritto
Alla rivolta. E a grado a grado questa
Ei necessaria osò chiamare, e il pio
Ebelin concitarvi. Lo interruppe
Finalmente Ebelin; duplice tela
Come già svolto aveva agli adunati,
Svolse di novo al tentatore amico:
Qua la turpezza del tradir, là i vani
Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata
È nazïon da lunghi odii fraterni.
Negli aneliti suoi s'ostinò il core
Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia
A ridir con sofistica, inesausta
Facondia per più dì l'empie sue brame;
Sì che non poche volte il generoso
Ebelino in resistergli, dal mite
Considerare e dai soavi detti
Passò a dogliosa maraviglia e sdegno.
Turbossene colui, ma il turbamento
Ascose e il disamore, e da quel tempo
Crescente invidia in sen covò tremenda.
Novi succedon fortunati eventi,
Ch'ognuno attesta glorïosi al senno
Dell'ottimo Ebelin; ma più Guelardo,
Come negli anni primi, or della gloria
Del suo benefattor non va giocondo.
Ei con geloso sospettante ciglio
Mira la sua grandezza, e superarla
Vorria e non puote; e detestando, sogna
Dall'amico esser detestate; e pargli,
Laddove pria si belle in Ebelino
Virtù vedea, più non veder che scaltra
Ipocrisia. De' pervertiti è proprio
Non credere a virtù; d'ogni più certo
Generoso atto dubitar motivi
Turpi, ed asseverarli: in ogni etade
Così abborriti fur dal mondo i santi.
Da quello stato di rancor, di mente
Ognor proclive a gettar fango ascoso
Sovra l'opre del giusto, è breve il passo
Ad assoluto di giustizia scherno.
In Lamagna Guelardo ad altri uffizi
Di grande onor da Ottone è richiamato,
Mentre Ebelin nell'itale contrade
Resta moderator. L'ingrato amico
Sospetta ch'Ebelino abbia con arte
Tal partenza promosso, a fin di trarsi
Uom dal cospetto che in secreto esècri.
Del congedo gli amplessi ei rende a quello,
Ma senza avvicendar come altre volte
Palpiti dolci di desìo e di pena.
Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento
Del più sincero degli umani, e parte
Coi fremiti dell'odio, e maturando
Di non avute offese alta vendetta.
—Cieco tanto io sarò che vero estimi
Suo rifiuto ai ribelli? Or che si vaste
Son le congiure? Or che da lunghe e infauste
Guerre è stanco l'impero? Or che d'illustre
Nome a capitanarla, e di null'altro,
La penisola ha d'uopo? Or che oltraggiata
Dalla superba, greca, invida nuora
È quell'antica d'Ebelin fautrice,
La vantata Adelaide, che alle umìli
Ombre de' chiostri dalla reggia mosse?
Or che Tëofania palesemente
Lacci a lui tende e sua rovina agogna?
Il menzogner di me diffida: i vili
Diffidan sempre! Allontanarmi volle
Non senza mira ostil: me di qui toglie
Per regnar sol, per non aver chi forse
Sua sapïenza e sue prodezze oscuri.
All'amico ei rinuncia; ei nelle schiere
Del suo tradito Imperador mi brama,
Nelle schiere d'Otton, contro a cui l'asta
Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui,
Che nè lo sdegno mio, nè la sagacia
Non teme, nè il valor! Perfido! io mai
Stato non fora a tua amicizia ingrato;
Alla mia ingrato ardisci farti: trema!
Valor non manca al vilipeso e senno
Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio
Ne fur bastantemente il sire, i grandi,
Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso!
Così nel suo vaneggiamento infame
S'agita l'infelice, e non s'accorge
Che il re d'abisso più e più il possede;
Così travolve le apparenze ogn'uomo
Che a livor s'abbandoni:
Ecco Guelardo
Giunto ai reali di Bamberga ostelli;
Eccolo assaporante i nuovi onori,
Ma com'egro che, misto ad ogni cibo,
Sente l'amaro della propria bile.
Più sovra il labbro di Guelardo il nome,
Come già tempo, d'Ebelin non suona,
O su quel labbro se talvolta suona,
Laude non l'accompagna, e il favellante
Impallidisce, e torvamente abbassa
La pensosa pupilla irrequïeta,
E la rïalza sfavillando; e ognuno
Scerne che di compressa ira sfavilla.
Del mutamento avvedasi esultando
Tëofania, s'avvedono i suoi fidi,
E al convito di lei con gran decoro
Visto sovente è quel Guelardo assiso,
Ch'ella tanto agli scorsi anni abborria.
Ordiscono essi alcuna trama insieme
Contro al lontano giusto? o la perfidia
Tutta covossi di Guelardo in petto?
Un dì da quel convito esce il fellone,
E quasi esterrefatto si presenta
Agli occhi del monarca, e a lui si prostra,
Ed esclama:—Ebelino è traditore!
Le rivolte fomenta; alla corona
D'Italia aspira: sciolta è l'amistade
Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta!
E false carte adduce in prova, e adduce
Di vili già ribelli, or prigionieri,
Menzogne tai, che faccia avean di vero.
Ed il monarca trabalzò, fu vinto
Dalle inique apparenze. Esitò ancora,
Dubitar volle novamente; a novo
Esame ripiegò la scrupolosa
Afflitta anima sua; ma le apparenze
Trionfaron più orrende e più secure.
Indi egli irato invìa turba di sgherri
All'italo paese, onde sia tratto
Carico di catene il formidato
Duce a Bamberga.
L'innocente duce
Stanza a que' giorni avea in Milan. Posava
Una notte, ed in sogno a lui s'affaccia
Lo stuol de' cari, in varia guerra estinti,
Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre
«Fuggi, gridava, sei tradito!» E gli altri
Con affanno e singhiozzi ad una voce
Ripetean: «Fuggi, fuggi!»
Ei si risveglia,
E per quell'alme prega, e s'addormenta
Un'altra volta. E in sogno ecco apparirgli
Il magno Otton primiero ed Adelaide,
Non cinta ancor di monacali bende,
Ma il serto imperial sopra la fronte.
Meste eran lor sembianze, ed a lui: «Fuggi
Fuggi, dicean, del figlio nostro l'ira!
Ira per te sarìa mortal!»
Si desta
Il nobil duce, e per quell'alme prega,
E s'addormenta un'altra volta. E vede
Il tempo antico e la città solenne
Ove sorge il Calvario, e là pur vede
Di Getsèmani l'orto, ed appressarsi
Una frotta d'armati, e Iscarïote
Dare il bacio alla vittima!... Ed oh vista!
Iscarïote era Guelardo!
Balza
Spaventato destandosi Ebelino,
E que' tre sogni avvertimento estima
Dell'angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove?
Ma perchè? Fugge l'innocente mai?
Pochi istanti anelò fra que' pensieri
Di stupor, di tristezza, e piena d'armi
Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino
Che dal suo Imperador venìan que' ferri,
E il cenno di seguirli: ai manigoldi
Cesse con muto fremito la spada,
E porse ai ceppi gli onorati pugni.
Quasi ladro il trascinano, e Milano
E tutta Lombardia mira quel crollo
Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri
Soffre inauditi; e non sarìagli pena
Dagli sgherri soffrirli: itale voci
Lo irridon per la via, maledicenti
Al passato suo lustro. E quale esclama:
—Va, di rivolte eccitator maligno!
Va, scellerata causa, onde su noi
Cesare versa il suo tremendo sdegno!—
Qual:—Va, codardo degli Otton mancipio,
Che d'Italia campion far ti negasti!
Ben or ti sta de' tuoi servigi il premio!—
Qual più schietto prorompe:—Erami noia
Udir chiamarti
il giusto
; alfin delitti
Potrem di te sapere ed abborrirti!
Quant'è lunga la via sino a' confini
Delle italiche valli, Ebelin tacque
Degli spregi sofferti. Allor che in cima
Dell'alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando
Le incatenate braccia,—Oh maledetta
Troppo da' vizi tuoi, misera patria,
Sclamò, non io ti maledico! Il cielo
Figli ti dia che s'amino fra loro,
Ed amin te com'io t'amava e t'amo,
E più di me felici acquistin gloria
Senza espïarla con dolori e insulti!
—Maledicila! gridagli all'orecchio
Una voce infernal.
—Ti benedico
L'ultima volta! ripres'egli.
E pianse
Siccome pio figliuol sulla ignominia
D'una madre infelice; e gli sovvenne
Quanto già quella madre avea prefulso
In virtù fra le genti, e a depravarla
Quante cagioni eran concorse! E grande
Su lei di Dio misericordia chiese;
E dal dolce aer suo, dalle ridenti
Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti
Ciglia diveller, nè il pensier poteva!
Satan che indarno occultamente spinto
Avealo ad imprecar la patria terra,
Urlò di rabbia le sue preci udendo;
E di Lamagna per alture e piani
Corse con questo grido:
—È alfin caduto
L'italo malïardo, il seduttore
De' nostri augusti, il protettor di quanti
Di Lombardia traeano ad impinguarsi
Sul germanico suol, genìa predace
Onde la tanta povertà cresciuta
In quest'anni da noi! Tutti Ebelino
Nostri tesori al lido suo recava,
E colà un trono alzar voleasi, allora
Che ad atterrar le ribellanti spade
Inetto fosse per miseria Ottone?
—Ebelin mora! Universal risposta
Fu del tedesco volgo. Ed obblïato
Da migliaia di cuori in un dì venne
Quanto a lodarlo aveali invece astretti
La sua mansüetudine, il modesto
Non curar le ricchezze, il riversarle
Sulle infelici plebi, il non mostrarsi,
Benchè pio verso gl'Itali, men pio
Ver gli stranieri. Quella dianzi nota
Serie di virtù splendide cotanto,
Un incantesimo vil parve ad un tratto,
Una menzogna. Convenìa disdirla:
Riconoscenza è grave pondo ai bassi.
Esultan se pretesto a lor si porga
Di rigettarla, e attaccaticci morbi
Son odio, ingratitudine e calunnia.
Conscio de' benefizi innumerati
Ch'egli avea sparso, avea creduto ognora
L'irreprensibil cavalier che stretti,
A lui fosser d'amor cuori infiniti.
Le ripetute indegne contumelie
Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta
Pravità de' mortali meditando,
Arrossì d'esser uomo, e innanzi a Dio
Umilïossi. E vanamente ancora
Stette Satan mirandolo e aspettando
Il desìo di vendetta e le bestemmie.
Chiama l'Onnipossente al suo cospetto
Tutti i ministri spirti, e a Satan dice:
—Onde vieni?
E il maligno:—Ho circüita
Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
Ed il Signore:—O di calunnie padre,
Non vedestù l'amico mio Ebelino,
Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo,
Tanta nel suo dolor serba innocenza?
E l'angiol di menzogna ambe le labbra
Si morse, e disse:—Ov'è il suo pregio? Ei t'ama,
Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata
In breve spera sua innocenza. Il braccio
Estendi, e più percuotilo, e vedrai
Se non t'impreca.
Ed il Signor:—Non forse
Giorni di prova assegno a' retti? Vanne:
Ebelino è in tua mano; anco sua vita,
Anco la fama sua, perchè maggiore
Torni suo vanto e tua immortal vergogna.
L'avversario precipite avventossi
Dal grembo della nube, onde i mortali
Atterrìa lampeggiando, ed in un punto
Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
Si soffermò, e da questo lato i campi
Della lieta penisola mirando,
E dall'altro le selve popolose
De' boreali, l'una e l'altra palma
Battè plaudendo al sovrastante lutto
D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!
Di là scagliossi alla città del trono
E de' cento felici incliti alberghi,
E delle orrende mura ove trascina
Sua catena Ebelin. Desta il demonio
Ne' giudici, che Ottone a indagin chiama
Dell'alta causa, aneliti vigliacchi.
Temon, se reo non trovan l'accusato,
L'ira d'Otton, l'ira d'Augusta, l'ira
Di quel Guelardo che per essi or regna;
E dove il trovin reo, speran più pingui
Gli onorati salarii, e maggior lustro.
Chi primiero è fra' giudici? Oh impudenza
Guelardo stesso!
Oh come il core all'empio
Nondimen trema, udendo che s'appressa
L'irreprensibil catenato! E questi
Entra con umil, sì, ma non prostrato
Animo, e reca sulla smorta fronte
Quell'alterezza ch'a innocenza spetta.
Cela Guelardo il suo tremore, e prende
Così ad interrogar:
—Qual è il tuo nome,
O sciagurato reo?
—Sono Ebelino
Da Villanova, amico tuo.
—Rigetto
L'amistà d'un fello: giudice seggo.
Che macchinasti co' Lombardi?
In viso
L'accusato guardollo, e non rispose.
E Guelardo:—A lor trame eri secreto
Eccitator; t'offrìan lo scettro, e pronta
Stava tua destra ad accettarlo in giorno
Ch'ansio esitavi a stabilire, in giorno
Che, la mercè di Dio, non è spuntato.
V'ha fra i complici tuoi chi tua perfidia
Al tribunale attesta.
E poichè muto
Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno
Que' testimoni nella sala addotti.
Eran duo di que' truci esclamatori
Di libertà, di civiche vendette,
Di patrio amor, che ne' consessi audaci
Della rivolta più fervean, più scherno
Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti,
E più capaci d'affrontar qualunque
Parean supplizio, anzi che mai parola
Di codardia pel proprio scampo sciorre.
Questi eroi da macelli, questi atroci
Ostentatori d'invicibil rabbia,
Come fur tolti a lor gioconde cene,
E gravato di ferri ebbero il pugno,
E il patibolo vider,—tremebondi
Quasi cinèdi, le arroganti grida
Volsero in turpi lagrime e in più turpi
Esibimenti di riscatto infame,
Altre teste al carnefice segnando.
Ad Ebelino in riveder coloro
Isfuggì un atto di stupor:—Voi dunque?
Voi?... Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto
Io sempre le feroci alme ho spregiato,
E ben diceami il cor quali voi foste!
Ed appunto perchè troppe vid'io
Alme siffatte là nelle congrèghe
Ove il mio plauso si cercava indarno,
E pochi vidi eccelsi petti, avversi
Ad insolenza e a stragi, io mestamente
Presentii di mia patria obbrobri e pianto,
S'ella sorda restava a' preghi miei,
E alle minacce mie, quando insensata
Io vostr'impresa nominava e iniqua.
I testimoni balbettaro, e fisi
Gli occhi loro in Guelardo, il concertato
Calunnïar sostennero. Ebelino
Più non degnolli di risposta, e chiese
D'esser condotto anzi ad Ottone a cui
Parlar volea.
Respinge inutilmente
Guelardo quest'inchiesta, e così forte
La ripete Ebelin, ch'un de' seduti
A giudicarlo generoso alzossi,
Sclamando:—La tua brama, o il più infelice
Fra gli accusati, porteranno al trono
Le labbra mie.
Null'uom potè di quella
Anima schietta rattenere i passi:
Move all'Imperador, franco gli parla,
E il pio monarca inducesi al colloquio.
Mentre dunque l'afflitto incoronato
Nelle regali, splendide pareti
Aspettava che a lui tratto venisse
Il già caro Ebelin, nella memoria
Gli ritornavan gli alti e numerosi
Servigi di quel prode, e l'amicizia
Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto;
E commoveasi ripensando quante
Volte quell'Ebelin con tenerezza
Lui prence fanciulletto infra le braccia
Portato avea, quante paterne cure
Prese per lui, quanti affrontati in guerra
Per sua difesa ardui perigli,—e il core
Gli si volgea a clemenza.
Ode sonanti
Nelle vicine sale i trascinati
Ferri del prigioniero, e gli si gela
Di pietà il sangue. E quand'entrare il vede
Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio,
E magnanimo pianto a stento cela.
Ebelin pur commosso era, calcando
Con vincolato piede oggi i tappeti,
Che tante volte avea con dominante
Passo calcati, e intorno a sè veggendo
Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi
S'inchinavan temendo, ovver felici
Andavan s'egli a lor stringea la destra,
E ch'or s'atteggian contegnosi, e quali
A sterile pietà, quali ad insulto.
Giunto Ebelino alla presenza augusta,
Piegasi reverente, e aspetta il cenno:
—Favella, sciagurato: uom con più caldo
Fervor non brama tue discolpe.
—Sire,
La mia innocenza esser dovriati scritta
Ne' lunghi intemerati anni ch'io vissi
Di tua casa al servizio e dell'onore.
In inganno te volto han miei nemici,
E me calunnia opprime.
—A tue parole
Aggiungi prova, e riputato il sommo
De' tuoi servigi questo fia da Ottone.
—Se a te prova non son gli atti che oprai
Alla luce del sol, l'abborrimento
Sperimentato mio contra ogni fraude,
Contr'ogni ingiusta ambizïon; se nulla
A te non dicon queste mie sembianze
Imperturbate in così ria sventura,
Preclusa è a me di scampo ogni fiducia;
Anzi alle leggi mia supposta colpa
È attestata abbastanza. Altro non posso
Se non gli estremi del mio zelo sforzi
In quest'istante consecrarti, o sire,
Tai verità parlandoti, che forse
Più non udresti, se da me non le odi.
—T'ascolto, disse il rege.
Ed Ebelino
La propria causa obblïar parve, e diessi
A svolgere di stato alti consigli,
I bisogni quai fossero additando
Delle schiere, del popol, dell'altare,
De' tribunali, e della reggia stessa:
Quali i provvedimenti unici, rotti
Ed efficaci ad impedir l'ebbrezza
Delle rivolte, a raffermar lo impero:
Quali de' prischi imperadori, e quali
Del magno Otton le più laudabili opre,
E quai le insane; e come arduo ognor sia
Seguir le prime e non errare; e come
Gli egregi prenci a errar tragge talvolta
Adulante caterva. Accennò alcuni
Del sir lusingatori, accennò il vile
Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo
Su lor suoi detti, e non degnò que' nomi
D'anime basse proferir neppure.
Ma que' rapidi detti eran gagliardi,
Siccome piglio di paterno braccio,
Che sovra l'orlo d'un dirupo afferra
Perigliante figliuolo.
Otton si scuote.
Da verità sì energiche, da senno
Sì giusto e luminoso ed esaltante
Non era stato mai colpito. In altri
Colloqui a' dì felici il buon ministro
Parlava il ver, ma forse in più gradita
Guisa, sparmiante del suo re l'orgoglio.
Ora è il parlar solenne, il grido urgente
D'uom, che vicino a morte anco un tributo
Di fedeltà solve al monarca e al dritto,
Tutto dicendo che giovar del pari
Sembrigli al trono e alle regnate genti.
Alla beltà del vero e del coraggio,
E di quel dignitoso intenerirsi
Che da alterezza vien compresso, e pure
Nella voce si sente e ne' benigni
Sguardi si vede, unìasi in Ebelino
Da natura sortita un'armonìa
Di nobili sembianze e di contegno,
Talchè valor più prepotente dava
A sua favella, ed escludea il supposto
D'ogni viltà, d'ogni codarda astuzia,
E facea forza a Otton. Perocchè Ottone
Stranier non era a simpatia per cuori
Di grandissima tempra. E fu vicino
A cedere, a gettare ambe le braccia
Del prigioniero al collo, al gridar:—Falsa
Tengo ogni accusa contro al mio fedele!
Ma Sàtan vide quell'istante, e spinse
Tëofania d'Augusto in cerca.
Bella
Era la greca donna e di vivaci
Grazie adorna, e scaltrissima e pungente
Ne' suoi sarcasmi, ed irridea talvolta
La bonaria alemanna indol con motti
Quasi di spregio; e di quei motti spesso
Arrossia Ottone. E perocch'egli amava,
L'affascinante sposa, ambìa piacerle
E far pompa d'accorta alma inconcussa,
E a tal cagion solea de' generosi
Sensi in cor frenar gl'impeti al suo fianco.
Salutata dall'armi, il passo inoltra
Fra le colonne di que' regii lochi
La incoronata, e stabilisce e freme
In vedere Ebelino; e sovra Ottone
Lancia quel guardo che dir sembra:—Stolto!
Sedur ti lasci?
Tanto, oimè, bastava
A confondere il sire! Eccol a un tratto
Con più severa maestà atteggiarsi
Verso il captivo, e dir:—Riedi: a me il vero
Tutto paleserassi; e tu, innocente,
Gloria n'avrai; prevaricato, morte.
Torna Ebelino al carcere, e già scerne
Che inevitata è per lui morte. Oh come
Lenti di nuovo i dì, lente le notti
Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi
D'una all'altr'ora, e la perpetua veglia,
Ed il perpetuo tenebrore—e i cibi
Immondi e scarsi—e l'aspreggiante voce
Di questo o quello sgherro—e il frequent'urlo
D'altri prigioni disperati, in cupe
Vicine volte seppelliti—e il suono
De' ceppi loro, e quel de' propri—e il canto
Osceno del ladron che, bestemmiando,
La forca aspetta—e i gemiti dell'egro
Forse non reo che sulla paglia spira—
E il sollecito passo delle guardie
Che dicono: «È spirato!»—e questo detto
Che l'echeggiante corridoio in guisa
Ripete orrenda—e il pianto d'un amico
Che, udendo il nome dell'estinto, grida
Dal fondo d'un covile: «Ahi! gli sorvivo!»—
E per dispregio di quel pianto il ghigno
Od il sibilo infame di coloro
Che trascinano il morto—e, con siffatta
Serie d'inenarrabili vicende
Di castel, che i perenni affigurava
Dell'abisso tormenti, il ricordarsi
De' dì sereni che svanìr, de' plausi,
Delle liete speranze, e, più di tutto,
De' dolci affetti—ah! quella è tale immensa
Congerie di dolori e di spaventi,
Che dissennar minaccia ogni più forte
E sdegnoso intelletto! E se si ponno
Da intelletto simil serbar talvolta
Contro all'empia fortuna altero scherno,
O pensieri di pace e di perdono,
E di fede nel cielo, ahi! pur quell'ora
Amarissima vien che ineluttata
Mestizia il cor miseramente serra,
E non v'è chi consoli! Ed altre pari
A quell'ora succedono, e d'angoscia
In angoscia si cade! Ed un'ardente
Smania investe il cervello, ed impazzato
Esser si teme o brama! E il generoso
Petto chiuder non puossi all'irrüente
Piena dell'odio che in lui versan mille
Della viltà degli uomini memorie!
E feroce si resta, e di sè stesso
S'inorridisce e sclamasi:—«Son io,
Benchè non conscio di mie colpe, un empio?»
E chiedesi all'Eterno, e lungamente
Chiedesi invan, d'amore una scintilla!
Quelle angosce conobbe anco Ebelino,
Ed allora invisibile al suo fianco
Sàtan sedeva, e gli pingea coll'arte,
Ch'è propria a lui, tutto che meglio ad ira
E a disperazïon trarlo potesse.
Ed Ebelin pur resistea, e pensava,
In mezzo alle sue smanie, all'Uomo-Iddio,
Che sublimò i dolori, e fu ludibrio
D'ingrati e di crudeli: e quel pensiero,
Che insensatezza all'occhio è de' felici,
Insensatezza non pareagli, ed alta
Storia pareagli che gli oppressi in tutti
Lor martirii nobilita; e volgendo
Quella storia ammiranda, a poco a poco
Ammansava gli sdegni e perdonava.
Ma la parte del cor, che più dolente
Sanguinava, era quella ove scolpite
Stavan due care fronti. Una è la fronte
Della madre decrepita che in pace,
All'ombra degli altar, da parecchi anni
Viveasi in Quedlimburgo, e l'altra è quella
Della madre d'Augusto. Ambe le antiche
Serrava il chiostro istesso, e raramente
Alla reggia venìan; che ad Adelaide
Odïosa la reggia erasi fatta
Per l'imperar della superba nuora.
—Qual sarà stato di mia madre, e quale
Dell'onoranda Imperadrice il core,
Allorchè udir la mia sventura? Iniquo
Esse, no, non mi tengono! Esse almeno,
Mentre a tutti i mortali il nome mio
In abbominio fia; caro l'avranno!
Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto
La madre alfine ha di vederlo, e scende
Alla prigion del figlio. Oh inenarrati
Di quel colloquio i sacri detti e i sacri
Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre
Che riscattar col sangue suo non puote
Di sue viscere il frutto! ed il più amante
Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto
Deplorar dee la lunga vita!
Il giorno
Che dalla inconsolabil genitrice
Fu Ebelin visitato, oh da qual notte
Seguito fu! L'espandersi de' cuori
Nella sventura, è de' sollievi il sommo;
Ma dopo tal sollievo, allor che mesto
Il prigionier dalle pietose braccia
Di persona carissima è staccato,
E solingo riman, quanto più dura
Gli è solitudin! Quanto più affannoso
Il desiderio de' bei tempi in cui
Fra gli amati vivea! Quanto più viva,
Più lacerante la pietà ch'ei sente
Di sè stesso e d'altrui!
Me a tal dolore
Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti,
O decennio del carcere, infiniti
Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse
Quand'io, abbracciato il genitor, partirsi
Da me il vedea; quand'io, calde le labbra,
Del bacio suo, dicea:—Questo è l'estremo!
Non un decennio, ma più lune ancora
Durar gli allarmi d'Ebelino. Ei forse
Nel
giudizio di Dio
gli accusatori
Sperava iniqui col possente acciaro
Düellando atterrar. Chi d'Ebelino
Avea la forza e la destrezza? E quanta
Forza o destrezza in düellar non dona
Senso d'intemerata anima offesa!
Ma tai
giudizi
Iddio forse abborrendo,
Non volle che sancito il reo costume
Per Ebelin venisse; o del demonio
Opra fu l'impedirlo. Il pestilente
Aere del carcer nell'oppresso infonde
Maligni influssi, ed eccolo abbattuto
Da insanabili febbri. Il derelitto
Pur talvolta illudeasi, immaginando
Che alcun de' tanti, su cui sparsi avea
Suoi benefizi, or con repente mossa
D'onore e gratitudin s'offerisse
A combatter per esso:—attese indarno.
Spunta il dì della morte, ed Ebelino
Vien tratto innanzi a' giudici; e Guelardo
La sentenza gli legge! Il condannato
Udì, chinò la fronte, e rese grazie
Tacitamente a Dio che al sacrificio
Termine alfin ponesse; e bramò ancora
Una volta veder la genitrice.
Venne l'antica, e insiem si consolaro
Con nobil forza alterna, e con alterne
Religïose cure. Ella ed un pio
Ministro del Signor soli eran consci
Dell'innocenza d'Ebelin. Veloce
Scorre quel sacro tempo, e omai gl'istanti
Sovrastan del patibolo. Umilmente
Prostrasi ancora innanzi al sacerdote
Il giusto cavalier; quindi si prostra
Anzi alla madre, ed ella il benedice,
E si dividon sorridendo, e in cielo
Riabbracciarsi in breve speran.
Move
Per le vie tra i carnefici, agguagliato
Al più vil masnadiero, e contro a lui
Insane urla di scherno alzan le turbe.
Di quegl'inverecondi ultimi segni
Dell'odio altrui stupìa, ma per le turbe
Egli pregava. Ed arrivato al palco,
Con fermo passo ascese, e parlar volle;
Ma sue parole non s'udir, sì orrendi
Vituperi sonavano. Ed allora
Accennò egli medesimo al percussore,
E siede sullo scanno, e tosto il collo
Mise sul ceppo—e la mannaia cadde!
L'angiol della calunnia, abbenchè indurre
Non avesse potuto alla bestemmia
Il retto cavaliere, e or si rodesse
Invido i pugni, l'alta anima a Dio
Salir veggendo—audacemente «Ho vinto!»
Volea sclamar. Ma pria che la menzogna
Intera uscisse dell'infame petto,
Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo
Spirto ravvolser negli eterni abissi.
Ov'è il Giuda novel?—Perchè perduto
Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza
Della voce e del guardo?—E perchè al riso
Che da Tëofania volto gli è spesso
Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato
Mira a destra e sinistra?—E perchè a sera,
Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede
A illuminata parte, e ansante giunge
Quasi inseguito fosse?—E perchè cerca
Talor per via i mendici, e su lor versa
A piene mani l'oro, e di lor preci
L'aiuto invoca, e inefficaci poscia
Di quei le preci ei furibondo chiama?—
E perchè ne' festini alcune volte
Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta
Contro a tutte paure, e quando a letto
Va nell'ebbrezza, trema ed urla, e al fido
Servo chiede il cilicio e se lo cinge?
Pentimento ei bramava, e scellerata
L'alma era fredda, e a pentimento chiusa.
Un dì, colui con altri sommi duci
Passò a fianco d'Otton sovra la piazza,
Ove ancor d'Ebelino ad alto palo
Vedeasi infisso il teschio. Il traditore
Volea finger letizia, e le pupille
Miseramente stralunava, e insieme
Forte i denti batteangli. Ottone il guarda,
E vacillar sovra l'arcione il vede,
E a sostenerlo accorre.
—Oh! che ti turba?
Oh! che ti turba? Gli ripete.
—È desso!
Sclama Guelardo, il mio tradito amico!
Chi dal giusto immolato mi sottragge?
E prepotenza di rimorso invitta,
Ma non pia, lo costringe. Ei maledice
E terra e ciel, ma l'alto arcano svela.
Folto drappello d'ottimati, e folta
Moltitudin di volgo al confessante
Fa cerchio, e inorridisce a sue parole,
Tutta imparando la esecrata istoria.
Da tanti petti universal s'innalza
Un lamento:—Oh sventura! oh atroce colpa!
Il caduto Ebelino era innocente!
Ed Otton più che gli altri inconsolato
Raccapricciando grida:—Oh me infelice!
Era innocente, e trarre a morte il feci!
Il traditor nel suo sangue stramazza.
Qual mano il colpo diè primier? Mal puote
Fama saperlo. I più disser che ratto
Un ferro in cor si configgesse il tristo,
Altri che Otton percosselo. Il tumulto
Ferve con rabbia orrenda. In cento brani
Ecco lacero, pesto, annichilato
Il cadavere infame. E s'inchinaro
D'Ebelino anzi il teschio e imperadore
Ed ottimati e popolo, e nel tempio
Dato fu loco alla reliquia santa.
Alto clamor di giubilo e di rabbia
Rimbombò nell'inferno, al piombar quivi
Il traditor, ma sol menonne festa
L'abbietta e sciocca de' demonii plebe:
Il lor superbo re, poste con ira
Su Guelardo le luci e le calcagna,
Urlò:—Che gloria alma sì vil mi reca!
ILDEGARDE
CANTICA.
Anche l' Ildegarde è una di quelle cantiche ch'io aveva in lontani anni disegnate, e già era questa eseguita in gran parte, ed onorata degli amichevoli suffragi del nostro Monti e di Byron. Spariti quegli abbozzi con altre carte da me in dolorosa vicenda perdute, ho tentato dodici anni dappoi di ricomporre la stessa produzione, quantunque non ignaro che difficilmente in età provetta si ritrovano le felici ispirazioni della gioventù.
ILDEGARDE.
Pars bona mulier bona.
( Eccle. c. 26, 3.)
—Perchè alle torri del superbo Irnando
Sempre drizzi lo sguardo, o mio Camillo?
—Sposa, io molto l'amava; e in questi giorni
Di nevose bufère, ognor la dolce
Nostra infanzia mi torna alla memoria,
Quando, arridenti il padre suo ed il mio,
O di soppiatto noi dalle castella
Usciti, incontravamci appo la riva
Congelata del Pellice, e lung'ora
Qua e là sdrucciolon ci vibravamo
Ridendo e punzecchiandoci e luttando,
E sul ghiaccio cadendo, e (bozzoluta
Indi spesso la fronte o insanguinata)
Tornando a casa lieti e tracotanti.
Allora il padre suo, se all'un di noi
Vedea della caduta in fronte il segno,
Chiedevagli: «Hai tu pianto?» Ed il ferito
Gridava: «No.» Ed a tal risposta il vecchio
Lo prendea fra le braccia e lo baciava,
L'amor lodando de' perigli e il gaio
Scherno d'un mal, che sol le carni impiaga,
E nulla può sull'anima del forte.
Un dì, com'or, fioccava a larghe falde
Di dicembre la neve, ed ambo agli occhi
De' parenti sottrattici e de' servi
Discendemmo ciascun nostra pendice,
E ai cari ghiacci convenimmo. Assai
Sdrucciolammo e ruzzammo, e le condense
Pallottole durissime a diversa
Meta lontana, in alto o pe' dirupi,
Scagliammo a gara, acute urla di gioia
Ripercosse da acuti echi levando.
Men da stanchezza mossi che da fame
Ci abbracciamo, e ciascun monta i suoi greppi
Anelante alla cena. A quando a quando
Ci volgevam guardandoci, ed allora
Che, già molto remoti, un veder l'altro
Più non potea, salutavamci ancora
Con prolungati affettüosi strilli;
E questi udìansi dalle due castella,
E mia madre s'alzava, e tremebonda
Al balcon della torre s'affacciava,
Incerta se di gioco o di dolore
Voci eran quelle. Ah! in voci di dolore
Odo mutarsi quella sera infatti
Le grida dell'amico: «Al lupo! al lupo!»
Ripeteva egli disperato. Io sudo
Di spavento, ciò udito, e immaginando
Di quel caro il periglio. I clivi scendo
Novamente precipite: il ghiacciato
Pellice varco, e per gli opposti greppi
Affannato m'arrampico ed appello:
«Irnando mio! Irnando mio!» Salito
Egli era sovra un olmo. Eccol veloce
Scendere a me. Ma il lupo allontanato
Ritorce il passo, e verso noi s'avventa.
Ambo ascendiam sull'arbore, e costrettï
Lunghissim'ora ivi restiam; chè intorno
Incessante giravasi la fiera.
Oh come su quell'olmo il dolce amico
Teneramente mi stringea al suo seno,
Il mio ardir rampognandomi! Ei dicea
Aver alto gridato «Al lupo! al lupo!»
Per la speranza ch'io vieppiù fuggissi,
E tristo incontro pari al suo scansassi.
«E tu invece, oh insensato! ei ripetea
Vanamente arrischiasti i cari giorni
Per aïtar l'amico, o coll'amico
Preda morir di quelle orrende zanne!»
Ciò dicendo ei piangeva, ed io piangeva
Suoi cari lacrimosi occhi baciando,
E tal commozïone era profonda,
Delizïosa per entrambe! oh come
Sentivamo d'amarci! oh quanto vere
Sonavan le proteste, asseverando
Che l'un per l'altro volontier la vita
Donata avrìa!—Dall'olmo alfin veggiamo
Scender di qua e di là dalle pendici
Fiaccole ardenti. Eran d'Irnando il padre
Ed il mio che venìan, co' loro servi,
Degli smarriti figliuoletti in cerca.
Sgombrava il lupo a quella vista; e noi
Dall'arbore ospital lieti calammo,
E saltellanti sulla neve, incontro
Movemmo ai genitor, con infinito
Cinguettìo raccontando, io la paura
Ch'ebbi di perder l'adorato amico,
Egli la mia temerità e la prova
Che in questa aveavi di gagliardo amore.
Oh qual sera di gaudio! oh quanta lode
Al fratellevol nostro affetto i duo
Parenti davan! Come altero Irnando
Mostravasi di me! Com'io di lui!—
Di nostra püerizia i dolci giorni
Da mille vicenduole ivan cosparsi,
Che all'uno e all'altro certa fean la mutua
E generosa fede! E così stretto
Vincol di due schiettissim'alme... il tempo
Dovea spezzarlo!
In questa guisa geme
Il cavalier Camillo. Ed Ildegarde
Dalle corvine chiome e dalla svelta,
Maestosa statura:—O sposo amato,
Perdona, prego, al mio pensier; non colpa
Fu in te forse d'orgoglio! Hai tu alcun passo
Nobilmente tentato al benedetto
Dagli Angioli e da Dio pacificarvi?
—Di nostre nozze intera anco non volge
La luna, o mia diletta, e mal conosci
Del tuo Camillo il cor. Non di rossore
Perciò si tinga il tuo bel volto, o donna:
Garrir, no, non ti voglio: imparerai
Col tempo qual possanza in questo core
Abbian gli affetti. Se tentai? Se dieci
Volte l'orgoglio mio non s'immolava
Per racquistarmi quell'amico? Indarno
Ei più non è quello di pria: uno spirto
Di maligna superbia il signoreggia:
Ei (tu vedi s'io fremo a questo detto!)
Ei mi dispregia!—
L'arrossita dianzi
Ildegarde a tai detti impallidiva,
Mostrüoso sembrandole il destarsi
Dispregio in chi che sia verso un mortale
Sì per cavallereschi atti famoso,
Qual era il pio Camillo. E l'abbracciava
Vibrando sguardi or con gentil disdegno
Alla torre d'Irnando, or con desìo
Passïonato al caro sposo. E sguardi
Tai gli dicean: «S'altri spregiarti ardisce,
La stima ten compensi in ch'io ti tengo.»
Qual della inimistà la cagion fosse
De' duo generosissimi, in diversi
Inni diversamente i trovadori
Cantan d'Italia. Applaudon gli uni a Irnando,
Che, ito in Lamagna giovinetto, ad uno
De' contendenti re sacrò il suo ferro;
Altri a Camillo applaudon, che s'accese
Pel secondo aspirante al real trono,
Ma aspirante illegittimo. Speraro
Camillo e Irnando un l'altro süadersi
All'abbracciata parte. E l'un de' duo,
Non si sa qual, trascorse a villanìa.
Furor di fazïon trasse dapprima
Questo e quello davvero a stimar vile
Il già sì caro amico. Assai palese
Delle avversarie crude ire sembrava
L'iniquità ad Irnando: ei non potea
Creder che onesto intento in alcun fosse,
Il qual per esse parteggiasse. Al pari
A Camillo parea dell'altra causa
Evidente l'infamia essere al mondo.
In qualunque dei duo fallisse primo
La carità di confratello, e germe
Altro o no di rancor vi si aggiungesse,
Furon veduti inferocir nel campo
Come leoni. Ma l'atroce guerra
E l'alterna fortuna delle insegne
Loco porgean a esercitar da entrambe
Parti eccelse virtù. Cento fïate
Camillo e Irnando, ad ammirarsi astretti,
Dicean ciascun tra sè: «L'amico mio,
Sebben malvagio, egli è un eroe pur
sempre!»
Già quegli anni di sangue or son passati;
Già molte spente sono illusïoni
Nelle agitate lor menti guerriere,
Benchè in età ancor verde. Eppur concordia
Lor generose palme, ahi! non rinserra.
Beato d'una sposa era anche Irnando,
E questa il dolce avea nome d'Elina,
E di più figli era già madre. Il cielo
Dato le ha cor fervente, ed intelletto
Gentil, ma entusïastico. Natìe
Le pedemontanine aure in che vive
A lei non son; romano è sangue; e il padre
D'Elina, de' ribelli ognor nemico,
Morì con gloria in campo. Ella supporre
Non potria mai che Irnando ingiustamente
Odio porti a Camillo. A lei Camillo
Noto non è, ma sel figura indegno,
Irreconcilïabile, covante
Sempre perfidie. E motto mai non dice
Per calmare il marito allor che l'ode
Fremer contra il vicin.
Folli stranezze
Del core umano! Irnando, ancorchè fiero
Più di Camillo, e a malignar proclive,
Più bei momenti non avea di quelli,
In che, pensando alla sua dolce infanzia,
Questo o quel nobil detto o nobil atto
Del caro, oggi abborrito, ei ricordava.
In quei momenti (e rivenian di spesso)
L'alma gli sorrideva, immaginando
Quando ad entrambo tornerìa dolcezza
Esser amici ancor: ma appena accorto
Di questo desiderio, ei ripigliava
A esacerbarsi, a biasimar sè stesso
Di soverchia indulgenza, ed intimarsi
Perseveranza d'astio e di disprezzo.
Vedute in tanti cavalieri avea
Mutazïoni di principii abbiette!
Gli uni servi al buon prence, indi congiunti
Perfidamente all'avversario suo;
Gli altri farsi un Iddio del tracotante
Contenditore al trono, e poi, caduta
La sua potenza, irriderlo. E di tali
Apostasie si repetea sovente
La turpe inverecondia. E le più altere
Alme se ne sdegnavano, e temendo
Apostate parer, persistean truci
Ne' giurati decreti, ove decreti
Sconsigliati pur fossero. Ogni volta
Che Irnando dalle sue balze rimira
Il castel di Camillo, e rivolgendo
Va quanto spesso col diletto amico
In quelle sale, a quel verron, su quelle
Mura, per quel pendìo, sovra quell'erto
Ciglione, in quella valle, avea di santi
Affanni e santi gaudii conversato,
Di repente corrucciasi, e la fronte
Colla palma fregando, a sè ridice:
«Via quelle stolte rimembranze! obbrobrio
L'onorar d'un sospiro i dì bugiardi,
Che amabil tanto mi pingean quel tristo!»
Men concitato da alterigia, avea
Camillo a dame ed a baroni ufficio
Pacifero richiesto. E quelle e questi
Sordo trovaro a lor parole Irnando.
Ma alla dolce Ildegarde or molto incresce
Questa fera discordia; ognor paventa
Che i fremebondi prorompano a guerra.
—Freddi interceditori, o sposo mio,
Forse fur quelle dame e que' baroni
Di cui mi narri. Di te degno oh come
Stato sarebbe il presentar te stesso
Con amabil fidanza e quell'iroso!
—Che parli, o donna? Io, non colpevol, io
Codardamente supplice a' suoi piedi!
—Codardìa consigliarti, o mio diletto,
Potrebbe mai la sposa tua? Dinanzi
A lui, supplice no, ma con onesta
Securtà mosso io ti vorrei. Da quanto
Pinger mi suoli di quel prode offeso,
Incapace ci sarìa di fare ingiuria
A chi chiedesse entro sue torri ospizio.—
Se il pio consiglio accolga, esita alcuni
Giorni Camillo; indi alla sposa:—O amica,
A tanto, no, non posso umilïarmi;
Ma non perciò mi ristarò da speme
Di pacificamento. Un messaggero
Mai non mandai direttamente ancora
Con parole d'onore all'orgoglioso.
Forse gli estranei intercessori sdegna,
Ma vedendo a sè innanzi un mio scudiero,
E amici detti per mia parte udendo,
Commoverassi, e non vorrà esser meno
Generoso di me.—
Compie Camillo
La divisata prova. Indi attendea
Il ritorno del messo, e d'una sala
Passava in altra irrequïeto, e indugio
Soverchio gli sembrava.
—Il furibondo
Sdegnasse dare all'invïato ascolto?
O frodoloso intento, o vil lusinga
D'animo impaurito ei sospettasse,
E rispondesse coll'atroce insulto
Di vïolar con carcere o con morte
La sacra testa dell'araldo mio?
Fellon! Guai se ciò fosse! A molta scese
Mansuëtudin questo cor; ma un cenno,
E rïascender lo vedresti ad odio
Maggior del tuo, più spaventoso, eterno!
Che dico? Bassa villania in quell'alma
Inebbrïata da gigante orgoglio
Non può capir. Abbietto spirto io sono
Che immaginar sì turpe fatto ardisco.
Intenerito si sarà; lung'ora
Colmerà di dolcissime domande
E d'onoranza il mio scudier; seguirlo
Qui vorrà forse, o rattenuto or fia
Da momentanee cure. A mezzo solo
Esser seppi magnanimo. Io medesmo,
Come la donna mia mi consigliava
Io, non un messo, a lui mover dovea.
Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certo
Stato non foran più parole; in braccio
Gettato a me sariasi, e senza vane
Spiegazïoni, e dolorose, entrambo
Rïappellati ci saremmo amici.
Così tra sè il bramoso. Ed evitava,
Per nasconderle il suo perturbamento,
Della diletta sposa il dolce incontro.
Ei cammina a gran passi; o nella sedia
Breve momento s'agita, e risorge
Tosto con ansia ad amor mista e ad ira,
Or all'una effacciandosi, or all'altra
Delle fenestre, or fuor della ferrata
Negra sua porta uscendo, e non badando
Al can che gli si appressa, e rispettoso
Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e spera
Dalla man signorile esser palpato.
Dai merli del terrazzo alfin gli sembra
Lo scudier ravvisare. È desso, è desso.
Al cavalier rimescolasi il sangue,
E contener non puossi. Il ponte varca,
Discende in fretta la pendice; incontro
Al vegnente lo stimola sfrenata
Smania d'udir.
—Perchè sì tardo movi?
Gridagli.—
I passi addoppia il fido, e parla:
—Signor del tuo nemico entro la soglia
Appena addotto io fui...
Camillo udendo
Suo nemico nomarlo, impallidisce:
E l'altro segue:
—Appena addotto io fui,
I sensi tuoi gli esposi.
—In quali accenti?
—Quali a me li dettasti.
Oh cavaliero!
Dissigli,
il signor mio, dopo ondeggiante
Con sè stesso luttar, cede al bisogno
Di ricordarti sua amistà, di sciorre,
Per quanto è in lui, quel gel, che rie vicende
Frapposto aveano fra il suo core e il tuo.
Io proseguir volea. Rise il superbo
Amaramente, ed esclamò:
Non gelo,
Ma orrendo sangue è fra i due cor frapposto!
—
Proseguii nondimen, tuoi decorosi
Sensi esponendo. A' primi istanti vinto
Da prepotente anelito parea,
Sebbene al riso s'atteggiasse ognora,
Ed ostentasse di vibrarmi i guardi
Della minaccia e del dispregio. Ei detti
Di maggiore umiltà dal labbro mio
Certo aspettava. Non trascesi: umìle,
Ma dignitosa serbai fronte e voce;
Ed ei sognò ch'io lo schernissi.
Audaci
Son tue pupille, o giovine!
proruppe;
Abbassale!—Non già! Timor non sente
,
Risposi,
di Camillo un messaggero.
—Mandotti il temerario ad insultarmi
?
Riprese urlando,
a far vigliacca prova
Della mia pazïenza? A tentar s'io
Contaminar vo' mia illibata fama,
Tua vil pelle col mio ferro toccando,
O alle fruste segnandola? Va, stolto
Incettator di vituperi e busse;
Riporta al signor tuo, ch'uom che si pente
De' tradimenti suoi, ch'uom che desìa
L'amistà racquistar d'un generoso,
Con ambagi non parla, e schiettamente
Dice: Il cammin ch'io tenni era turpezza.
A sì indegne parole arsi di sdegno
Per l'onor tuo.
Via di turpezza mai
Non calcherà, mai non calcò il mio sire!
Gridai. Ruppe il mio grido, e con un fiume
Di fulminea infrenabile eloquenza,
Tutta rammemorò la sciagurata
Storia del trono combattuto. E questa
Fu una trama, al dir suo, d'illustri iniqui
Striscianti a piè del volgo, e lordamente
Convenuti d'illuderlo e spogliarlo.
E tu.... fremo in ridirlo.
—Io? Segui.
—Un vile
Patteggiator di condivisa infamia,
E condivisi lucri.
—Ei ciò non disse!
Ei ciò non disse!
—Il giuro.
—E non troncasti
La scellerata voce entro sua gola?
—La troncai svergognandolo. E costretto
Fu ad arrossire e replicar:
Non dico
Ch'ei fosse, ma parea di condivisi
Lucri patteggiatore, e per lavarsi
Di macchia tal non bastano le ambagi.
Solennemente si ricreda, e provi
Che insensato, ma mondo era il suo core;
Provi ch'egli esecrato ha le perfidie
De' nemici del re; ch'egli esecrato
Ha l'opre inique ond'or l'impero è afflitto!
Viltà sembrato mi sarìa modesti
Accenti opporre ad arroganza tanta.
Tel confesso, signor: ciò che gli dissi
Appena il so. Non l'insultai, ma cose
Di foco, certo, mi piovean dal labbro
Contro a' denigratori; e di te laude
Tal gli tessei, che fu colpito e plause.
Va, buon servo
, mi disse;
amo il tuo ardire,
ma non del tuo signor la ipocrisia
.
—Oh ciel! diss'egli ipocrisia? Ingannato
Non t'han le orecchie tue?
Disselo, il giuro.—
A queste voci il cavalier si torse
Rabbïoso le mani, e con un misto
Di voluttà e di fremito, in più pezzi
Franse un anel, che dono era d'Irnando,
Ed a' caduti pezzi impallidendo
Il piede impose, e li calcò nel fango.
—È finito! proruppe.—Ed iracondo
Lagrimava, nè udia del messaggero
Parola più, nè rispondeagli.
A guerra
Precipitato contra Irnando ei fora;
Ma nol permise il ciel. D'una sorella
Alla difesa mover dee Camillo,
La qual di Monferrato all'erme balze
Co' pargoletti suoi vedova geme,
Da illustri masnadieri assedïata.
Solinga intanto ecco Ildegarde. E voti
Per la salute dello sposo alzando,
E per la sua vittoria, e pel ritorno,
Pur trema che allorquando ei dalle pugne
Rieda di Monferrato, incontro al sire
Del vicino castel rompa la guerra.
Un dì mirando quel castel, le cade
Nell'animo un pensiero;—E s'io medesma
Colà traessi, e mia nobil fidanza
Vincesse il cor della romana altera
E del truce baron?—
V'ha certi miti
Senni, e tal era d'Ildegarde il senno,
Che pur sono arditissimi, e formato
Gentil proposto, se pur arduo ei paia,
Tentennan poco, ed oprano. Tranquilla
Il seguente mattin, poichè alla messa
Nel delubro domestico ha innalzato
Il femminil suo spirto appo lo Spirto
Che regge i mondi e agli atomi dà forza,
Ildegarde s'avvia sovra il suo bianco
Palafreno seduta. A lei corteggio
Sono una damigella e due famigli.
Quand'ella giunse a' piè dell'alte mura
Del castello d'Irnando, un momentaneo
Palpitamento presela, e memoria
Di perfidie tornolle, ahi troppo allora
Frequenti fra baroni! e pensò quale
Disperato dolor fora a Camillo,
Se il visitato sire oggi smentisse,
Brïaco d'odio, il vanto invïolato
Che di leal s'ebbe sinora! Il guardo
Volse alla damigella; e impallidita
Era al par d'essa. Il guardo volse ai duo
Famigli, e impalliditi erano, e osaro
Interroganti dir:—Retrocediamo?
—Stolti! diss'ella; e rise, ed innoltrossi.
Intanto del castello in ampia sala
La romana bellissima traea
Dalla ricca di gemme ed indorata
Conocchia il molle lino, e fra le punte
Di due candide dita lo umidiva;
Indi con grazia angelica all'eburneo
Fuso il pizzico dava, e con accento,
Che a labbra subalpine il ciel ricusa,
Cavalleresche melodie cantava.
Belli come la madre accanto a Elina
Sedeano un bimbo ed una bimba, a lei
Innamoratamente le pupille,
Da negre e lunghe palpebre ombreggiate,
Alzando vispe, e ogni ultima parola
Della strofa materna ripetendo
Con cantilena armonïosa d'eco.
Ed a quest'eco s'aggiungea la grave
Voce del padre lor, che per la caccia
Un arco preparava, e spesso l'arco
Ponea in obblìo, l'affascinante donna
Mirando e i figli, ed i lor canti udendo.
Portavan l'aure il suon del fervid'inno
D'Ildegarde all'orecchio. Ella scendea
Dell'arcione, ed a' paggi sorridente,
Ma con trepido cor, dicea il suo nome.
Qual fu d'Irnando la sorpresa! Ascolto
E onore a dama diniegò egli mai?
Qual pur siasi Ildegarde, ei le va incontro
Con reverente cortesìa, e l'adduce
Innanzi a Elina. Alzasi questa, e posa
L'aurea conocchia, e di seder le accenna.
—Vicina mia gentil (prende Ildegarde
Così a parlar), da lungo tempo agogno
Veder tuo dolce volto, e palesarti
Un mio desìo.
—Qual? le dimanda Elina.
—D'ottener tua amistà, di consolarmi
Teco de' miei dolori.
—E che? Infelice
Sei tu? Come?...
E nel troppo accelerato
Immaginar, già Elina e il cavaliero
Presumon ch'ella fugga il ritornante
Camillo forse, ch'a lor occhi un mostro
Verso tant'altri, un mostro esser dee pure
Verso la sciagurata a lui consorte.
Ad Ildegarde appressansi amendue,
Ed Irnando le dice:—Il ferro mio
Non fallirà, s'hai di mestier difesa.
Ma oh stupor! La soave, in altro modo
Che non credean, prosegue:
—Il sol non vede
Donna di me più dal suo sposo amata,
O buona Elina, e anch'io, quando al castello
È il mio signore, ed io filo cantando,
Spesso il miro al mio fianco, ed accompagna
La mia colla sua voce; e molte volte
Abbaian nel cortile i guinzagliati
Cani pronti alla caccia, ed alla caccia
Propizio è l'aer di levi nubi sparso,
Ed ei pur meco stassi, ed al cignale
Fino al seguente dì tregua consente.
Ignoto ad ambo è il tedio, o se noi colse
Alcuna volta, mai non fu quand'uno
All'altro amato cor battea vicino.
Ed oh a qual segno in esso, in me, di nostra
Solinga vila crescerà l'incanto,
Allor che a noi (se il ciel pietoso arrida
Alla dolce speranza!) uno o più figli,
Siccome questi, fioriranno a lato!
S'interrompe Ildegarde, e per gentile
Impeto d'amorosa alma commossa,
O per arte gentile, o per un misto
D'impeto ed arte, i due bambin si prende,
Uno a destra uno a manca, e li accarezza
Con baci alterni e voluttà di madre,
Sì che la madre vera e il genitore
Inteneriti esultano, e amicati
Tanto per lei vieppiù si senton, quanto
A' pargoletti lor vieppiù è cortese.
—Oh come a te in bellezza, o mia vicina,
Questa bimba somiglia!
E ciò Ildegarde
Dicendo, preme lungamente il labbro
Sovra la rosea guancia paffutella
Della cara angioletta, e la baciucchia.
Poscia gitta la mano amabilmente
Sulle ricciute chiome del fanciullo,
E qua e là le palpa, indi pel ciuffo
A sè lo trae, e, baciatolo, gli dice:
—Sai tu che appunto sei, qual mi fu pinto
Da fedel dipintore, il padre tuo
Ne' suoi giorni d'infanzia? Inanellato
Il fulvo crin, larga la fronte, arditi
E amorevoli gli occhi...
E questi detti
Pronunciando Ildegarde, involontaria
O accorta, alzava paventoso un guardo
Sul cavaliero. Ed ei si perturbava
Ricordando Camillo. Allor la pia
Ambagi più non volve; e con candore
Dice quanta cagion siale di tristo
Rincrescimento il dissentir d'Irnando
E di Camillo.
—O degna Elina! ov'anco
D'uno dei duo per indomato orgoglio
Quella discordia non cessasse, amiche
Esser non possiam noi? Commiserarci
Non possiam noi di questa ria fortuna,
Ed amar nostri sposi, e niun furore
Lor condivider che sia oltraggio al dritto?
Dall'anima d'Elina un «sì!» prorompe,
E si stringono al seno.
Irnando balza
Rapito a quella vista, a quegli accenti,
E vorrìa discolparsi; ad Ildegarde
Vorrìa provar nessuna esso aver colpa
Nell'odio sorto fra Camillo e lui.
Strano mortal! mentr'ei d'inenarrati
Spregi e d'ingratitudine a Camillo
Accusa vibra, il corruccioso lagno
Con cui ne parla, non par quel dell'odio,
Ma d'un amor geloso. Ei non perdona
All'uom ch'ei tanto amava, essersi fatto
Un idol d'altra gente! aver potuto
Per nemici obblïar sì sviscerato
Fratel, qual gli era dall'infanzia Irnando.
Ciò non isfugge all'ospite avveduta,
E con lenta eloquenza insinüante,
Che più e più le udenti anime scuote,
Pinge in Camillo a que' trascorsi tempi
Un fautor generoso (errante forse,
Ma generoso) d'abbagliante insegna,
E che a virtù immolar tutto credea,
Fin le dolcezze d'amistà più care.
E come pur tal amistà in Camillo
Vivesse, ella soggiugne, e come i giorni
Sospirass'egli della pace, in cui,
Placato Irnando, il rïamasse ancora.
Dice inoltre com'ei, reduce all'onde
Del Pellice natìo, concilïarsi
Con Irnando agognava, e si valea
D'intercessori invan; come ad Irnando
Mandò il proprio scudiero, e fu respinto.
Dice gli sguardi mesti e affascinati
Di Camillo al castel del primo amico,
E a quell'arbore e a questa, e a quel vallone
Ed a quel poggio, e del torrente ai flutti
Ove insieme natavano, ed ai ghiacci
Ove lungh'ore sdrucciolon vibravansi,
Ridendo e punzecchiandosi e luttando,
E sui ghiacci cadendo, e (bozzoluta
Indi spesso la fronte o insanguinata)
Tornando a casa lieti e tracotanti.
—Oh che facesti, sposo mio? prorompe
La fervida Romana; un altro, un altro
T'eri foggiato e l'abborrivi. Io pure,
Qual lo foggiavi, l'abborrìa; ma il mostro
Che innanzi agli alterati occhi ci stava,
No, non era quel pio, cui sì dilette
Son dell'infanzia le memorie tutte,
Cui tu sempre sei caro, e che sì caro
Ad Ildegarde non sarìa, se iniquo.
—Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglio
Gli si rïempie di söave pianto.
Ei m'amerebbe ancora? Ei non per beffe
A me mandò que' freddi intercessori
Che sì mal peroravano, e quel troppo
Zelante messagger che m'inaspriva
Col suo ardimento? E ch'altro volli io mai
Ch'esser amato da colui ch'io amava?
D'odiarlo io giurava, e non potea!
Ma e se la tua benignità, Ildegarde,
Ti traesse in error! S'ei mentre alcuna
Rammemoranza di me pia conserva,
E quasi m'ama nel passato ancora,
Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmi
Collegato di vili anco s'ardisse?
Se sconsigliati egli dicesse i passi
Che al mio castello hai mossi, e dall'irato
Cor prorompesse: «Amar non posso, Irnando!
Amarlo più non posso!»
I dolorosi
Dubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri,
Col ricordar sull'amicizia antica
Questo o quel detto di Camillo.
—Io dunque
Era il superbo! esclama il cavaliero:
Espïar debbo mia ingiustizia. In guerra
Lunge da me l'amico mio periglia;
Ad aïtarlo di mie lance io volo.
E i suoi fidi raguna, ed abbracciate
La palpitante Elina ed Ildegarde
E i pargoletti, in sella monta e parte.
Per molti dì le due vicine a gara
Si consolavan, si pascean di speme,
E alterne visitavansi, aspettando
De' baroni il ritorno, o messaggero
Che di lor favellasse. Ascondon ambe
Il lor perturbamento, e sol ciascuna,
Quando al proprio castel siede romita,
Numera i giorni ed angosciata piange.
Quella dicendo: «Oh non avess'io mai
Conosciuto Ildegarde! Ella funesta
Forse è cagion che il mio signore è spento!»
L'altra a Dio ripetendo: «Il mio Camillo
Salva, e s'a me rapirlo è tuo decreto,
Deh ch'io presto lo segua, e per mia causa
Vedova Elina ed orfani i suoi figli
Ah no, non restin!»
Cede alla possanza
Del suo rammarco alfin l'inconsolata
Moglie d'Irnando, ed una sera asceso
Il solito cíglion con Ildegarde,
Donde vedeasi per più lunga tratta
La polverosa via, nè comparendo
I cavalieri, o messo alcun, prorompe
Abbracciando i figliuoli in disperato
Pianto, e respinge dell'amica il bacio.
—Va, sciagurata, lasciami; a' miei figli
Rapisti il genitore! A me rapisti
Colui che tutto era al cor mio! Colui,
Pel qual degli avi miei la dolce terra
Senza cordoglio abbandonata avea!
Viver senz'esso non poss'io: qual sorte
A queste derelitte creature
Verrà serbata, dacchè al padre i ferri
Tolgon la vita, ed alla madre il lutto?
Voler, voler del cielo era d'Irnando
L'inimistà pel tuo fatal consorte!
Maledetto l'istante in che, ispirata
Da infernal consiglier, lieta movevi
A mia ruina! Maledetto il nome
Di suora che ti diedi!—
Al furibondo
Grido geme Ildegarde, e invan desìa
Trovar parole per placar l'afflitta;
Invan gli amplessi iterar tenta. Ognora
Più duramente rigettata e carca
Di rimbrotti amarissimi, il cordoglio
Rispetta dell'amica, e ridiscende
Dietro a lei mestamente la collina,
D'ancella a guisa che garrita piange,
E risponder non osa. A quando a quando
Si sofferma Ildegarde, e confidata
Tende l'orecchio e nella valle mira,
Che voci udir le sembra; e quelle voci,
Ahi! manda il villanel, che dagli arati
Campi co' buoi ritorna, ed a lui cara
Son compagnia l'antica madre, curva
Sotto il fascio dell'erbe, e la robusta
Moglie, peso maggior di rudi sterpi
Con elegante alacrità portando.
Ne' dì seguenti, al consüeto poggio
Le due donne riedean, ma fremebonda
Sempre era Elina, e, tramontato il sole,
Moveva a casa delirante d'ira
E di dolore; ognor vituperata
Ma affettüosa la seguìa Ildegarde.
Odon lontane grida, e nella valle,
Come all'usato i guardi avidamente
Con palpiti d'amor gettano entrambe
E di speranza e di paura. Il cane
Drizza i villosi orecchi, ed un acuto
Insolito latrato alza, e si scaglia
Giù per la praterìa precipitoso,
Folte siepi saltando ed ardui fossi
E scoscesi macigni. E ad intervalli
Sparisce e ricompare, e tace, e abbaia,
Nè mai s'arresta.
—E sarà ver? Son dessi,
Son dessi certo! Esclamano a vicenda
Con ebbrezza febbril le desïose.
Ma se alle lance reduci or mancasse
Uno de' capitani, od ambo forse?
Oh spaventoso dubbio! Oh sventurate!
Chi ne assecura?
Sì dicendo, il passo
Raddoppiano affannate. Al piano giunte,
Odon le scalpitanti ugne veloci
D'uno o duo corridori: ah fosser duo!
Fosser de' duo baroni i corridori!
Scerner gli oggetti mal lasciava un denso
Nembo di polve. Ah sì! Lor lance appunto
Camillo e Irnando precedean, con ansia
Di riveder le dolci spose. Oh gioia!
Oh certezza felice! Il lor saluto
Suona per l'aer, ben son lor voci queste.
Eccoli; balzan dall'arcione. Oh amplessi!
Oh istante indescrittibile! E il consorte,
Poichè ciascuna ha stretto al seno, e assai
L'ha coperto di lagrime e di baci,
Ciascuna dell'amica infra le braccia
Gittasi giubilando.
—Il dolor mio
Aspra mi fea: perdonami Ildegarde.
E Ildegarde alla suora il detto tronca,
Ponendo bocca sovra bocca, ed ambe
Pur di lagrime bagnansi. I fanciulli
Preso frattanto ha fra le braccia Irnando,
E accarezzato li accarezza, e gode
Porgendoli a Camillo, e di Camillo
La nova tenerezza rimirando.
Mentre ascendono il colle, evvi un bisbiglio,
Un esclamar, un alternarsi accenti
Di cortesìa e d'amore, un romper folle
In pianto e in riso, un mescolar dimande
E risposte e racconti, e i cominciati
Detti obblïar per detti altri frapporre,
Che niun di lor cosa veruna intende.
Nel castello d'Irnando entrano. E assisi
Nella gran sala—e da donzelle e fanti
Portate l'ampie coppe—e zampillato
Fuor de' fiaschi ospitali il ribollente
Dal roseo spumeggiar bel nibbïolo—
E del giocondo brindisi i sonanti
Tocchi osservati—e roborato il core—
Allor le maschie voci alzano a gara
I baroni, e ripigliano il racconto
In più seguìta, intelligibil foggia:
—Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde,
Te in così tempestiva ora spingendo
A rannodar fra Irnando e me l'amato
Vincol che stoltamente io franto avea!—
Così Camillo, e l'interrompe l'altro:
Io lo stolto! Io il feroce!—
E quei la mano
Sovra il labbro gli pon rïassumendo:
—Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde!
Perduto er'io, se redentrice possa
D'amistà non venìa. L'assedïante
Ladron dapprima sbaragliai, ma il tristo
Novella frotta ragunò. Me chiuso
Nel castel della suora, egli ogni giorno
Schernìa e sfidava. Io sul fellone indarno
Prorompeva ogni giorno: ahimè! gli sforzi
Del valor mio nulla potean su tanto
Nover crescente di nemici. A noi
Già le biade fallìan, già fallìan l'armi,
E già il cessar d'ogni speranza e il cruccio
Rabido della fame a' guerrier nostri
Consigliavan rivolta ed abbandono.
Universal divenne voce alfine:
«Arrendiamci! arrendiamci!» Il masnadiero
Promettea vita a ognun fuorchè a mia suora
E a' suoi figliuoli e a me. Tra minaccioso
E supplicante, io i perfidi arringava,
Che della rocca aprir volean le porte:
—«Sino a dimane il tradimento, o iniqui,
Sino a dimane sospendete!» Un resto
Di pietà e di rispetto, al grido mio,
Rïentrò in cor de' più. «Sino a dimane!
Sclamarono, e se Dio pria dell'aurora
Portenti oprato non avrà a tuo scampo,
Lo scampo nostro procacciar n'è forza.»
Oh spaventosa notte! Oh fugaci ore!
Oh come orrenda cosa eraci il suono
Del bronzo che segnavale! Oh angosciato
Appressarsi dell'alba! Oh sbigottiti
Muti sembianti della mia sorella
E de' suoi pargoletti! Oh contrastante
Dignità di parole in prepararci
A' vicini supplizi! Ed oh com'io
Tra me dicea: «Deh! che non seppi amico
Tutta la vita conservarmi Irnando?—
Improvviso frastuono udiam levarsi
Fuor delle mura. Che sarà? Oh prodigio!
Una pugna! E con chi?—«La man di Dio!
La man di Dio!» gridan mie turbe: a terra
Mi si prostran pentite, il giuramento
Di fedeltà rinnovano; a gagliarda
Sortita le süado, ed infinito
Macel lung'ora de' nemici è fatto.
Qui il narrar di Camillo Irnando tronca:
—Ah! s'impeto cotanto, e se cotanta
Prodezza ad ammirar non m'astringevi,
Me gli assaliti sconfiggeano! In fuga
Eran molti de' miei, già in fuga io stesso
Omai volgeami disperato: i colpi
Tuoi scomposer l'esercito inimico,
E di salvezza io debitor t'andai!—
S'avvicendan la lode i cavalieri,
L'uno dell'altro memorando i fatti.
Alfine Elina sclama:—Ad Ildegarde
Spettan tutte le lodi! Innanzi a lei
Prostratevi, e la sua destra baciate.—
E i cavalieri prostratisi, e la destra
Baciano d'Ildegarde, e penitenza
Le chieggon del furente odio passato;
Ed ella in penitenza un'annua festa
Intima in questo e in quel castel, che festa
Dell'amistà si chiami, e dove uficio
De' vati sia cantar quanti sospetti
Calunnïosi partorisce l'ira,
E quanto l'ira accrescano le ambagi
De' falsi intercessori, e quanto egregia
Sappia interceditrice esser la donna.
—E da me, per mia ingiusta ira, qual vuoi
Penitenza? soggiugne in umil atto
Palma a palma accostando, ed il ginocchio
Piegando Elina.—
Ed Ildegarde:—Il primo
Figlio, o diletta, che ti nasca, il nome
Porti del mio Camillo; e mi sia dato,
Se figli avrò, chiamarli Irnando o Elina.
AROLDO E CLARA
CANTICA.
Questa cantica nacque in giorni di somma sventura, ne' quali io, sentendomi troppo inclinato a sentimenti di sdegno, procacciava di vincerli col ragionare fra me stesso sulla bellezza della mansuetudine. Era in me indelebile un consiglio del buon Alessandro Volta, il quale un dì m'aveva detto queste parole, distogliendomi dallo scrivere satire:—«La poesia arrabbiata non migliora nessuno; e se v'avviene di sentirvi iracondo e propenso a spargere la bile in versi, paventate di diventar maligno. Vorrei anzi che allora cercaste di raddolcirvi, poetando sopra qualche nobile esempio di carità e d'indulgenza.»
AROLDO E CLARA.
Sed si esurierit inimicus tuus, ciba illum; si sitit, potum da illi.
(Ep. ad Rom. 12.)
I.
Piangi, o la più gentil fra le convalli
Dello spumante Pellice, ove un giorno
Alle sale d'Aroldo i Saluzzesi
Cavalieri affluìano ad alte feste.
Più non vedrai delle sue torri a sera
Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo,
Caramente appoggiando un braccio e l'altro
Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto
Ciglio volgendo con amor, ma indarno,
Ai dolci rai del tramontante sole.
Que' figli suoi nascean gemelli, e santa
Tenerezza li univa. Or sola e mesta
Clara accompagna il cieco padre a sera
Fuor della torre, perocchè il gagliardo
Fratel devote ha l'armi alla difesa
Del pio Tommaso suo ramingo prence
Contro i nemici della patria terra.
Rosseggiava bellissimo un tramonto
Sulle nevi lontane, e stupefatto
Pareva il sol che dal romito albergo
A salutarlo non venisse il vecchio.
Ahimè, quell'era di sventura un novo
Spaventevole dì! Schiudesi alfine
La porta del castello, e con veloci
Passi agitatamente escono Aroldo,
Clara e più servi; nè il canuto ciglio
Ai soavi del sole ultimi rai
Volger si cura. Che avvenia?—Dal campo
Infausto messo è giunto. Il pro' Ioffrido
Contro l'usurpator del saluzzese
Seggio osando tropp'oltre avventurarsi
Nel calor della pugna, il circondaro
L'empie straniere spade, e prigion cadde.
Speme di riscattar sì cara vita
Nutre il barone antico; e vuole ei stesso
Trar supplichevol senza indugio al truce
Fortunato invasor, che se talora
Immolar gode i miseri captivi,
Talor si placa a ricca d'oro offerta,
Molto dovendo da sua iniqua sede
Oro il tiranno effonder sulle bande
Dell'alleato provenzal monarca.
Giunto al margin vicino ove al tragitto
Nel rigonfiato Pellice è apprestata
La navicella, Aroldo porge il bacio
Del congedo alla figlia. Allora al collo
Gli s'avvinghia la pia.—Sola a mie stanze
Non riederò, buon genitor; pupilla
Esser della tua fronte a chi s'aspetta
Se non a me? Forse pietà maggiore
Assalirà dello sdegnato sire
Il cor, s'umano ha cor, prona a' suoi piedi
La veneranda tua canizie e gli anni
Giovenili di vergine scorgendo,
Che colla vita del fratel la vita
Chiede del padre.
Vuole opporsi Aroldo,
Ma mentre in barca ei scende, ella d'un balzo
Già vel precede, e al consentir paterno
Fa cogli amplessi vïolenza, e l'onde
Perigliose attraversano. Ma ov'era
L'Angiol del vecchio afflitto e l'Angiol tuo,
Generosa innocente? A voi non velo
Fecer colle tutrici ale a celarvi
Alla vista de' prossimi ladroni
Che irrompono co' brandi alla rapina.
Voler divino ai nembi di sfortuna
Lascia possanza sovra i giusti un tempo;
Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana
Nei patimenti una virtù Dio pose
Ch'anco i giusti migliora e a sè li innalza.
Sbandato di predoni era un drappello,
Che della guerra col favor raccolto
S'era d'Itale spiagge e di straniere
A rubamenti ed omicidii, altero
Linguaggio alzando di zelanti eroi,
Campioni della patria e di Manfredo.
S'azzuffan del baron coi fidi servi,
E nell'orrenda mischia ad uno ad uno
Dal soverchiante numero feriti
Vengon que' servi, e de' vincenti in mano
Son le ricchezze che a comprar la vita
Destinava del figlio il cieco sire.
Intero un dì per boschi e per dirupi
Ei trascinato colla figlia venne,
Ma il manto della notte ai duo infelici
Prestò propizie tenebre, e dal mezzo
Del brïaco drappel de' masnadieri
Quetamente si trassero alla valle.
Come lontani fur dall'empia frotta,
E ardiron favellare, il cieco strinse
La figlia al seno, e grazie alte le rese
D'averlo addotto a salvamento, e lei
Per l'accorto suo senno e per la dolce
Filial carità ribenedisse.
—Or dove, o padre, senza aïta alcuna
Ci avvïeremo?
—O Clara mia, remoti
Siam dal nostro castello, e a ritornarvi
Il tempo mancheria; son prezïosi
Tutti gl'istanti; acceleriamo il passo
Verso il campo nemico, appo le triste
Di Saluzzo rovine. O senza doni
Compariremo anzi al tremendo sire,
Ma sincere promesse il piegherranno
A moti di clemenza. Inoltre ho fede
In mia canizie e in queste spente occhiaie
E nel pianto che versano, e ben anco,
Figlia, nel tuo.
Pensava Aroldo ospizio
Prender non lunge, ove la figlia al raggio
Della luna scorgea l'amica torre
D'un consanguineo sir. Ma là giugnendo,
Odon che il giorno pria furibonda oste
Era quivi passata e avea deserta
La rocca e trucidato il castellano,
E devastato a' villici i tugurii.
Il negro pan de' villici dispersi
Piangendo rompe colla figlia Aroldo,
E beono alle lor tazze. Indi sen vanno
Per tutti i casolari, invan cercando
Palafreno o giumento: avean le schiere
De' nemici avidissime votata
In que' lochi ogni stalla.
—Ahi, dilungati
Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre!
Or dove andrem?
—Pedon la via si segua
Sino al mattin: buio non è, dicesti.
Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo
D'altri ladron te, mia dovizia or sola,
Te il ciel pietoso asconderà.
Sì disse,
E di padre l'affetto e di sorella
Lena lor porge insino all'alba. Il campo
Mostrossi allora al pauroso orecchio
Della fanciulla pria che agli occhi.
—O padre,
Odi tu, disse, odi tu roco un suono
Simile al suon della bufèra o a quello
Di molte acque correnti?
Il vecchio capo
Ei soffermò, ed immemore un istante
Delle sue angosce, alzò la barba e rise.
—Oh di qual gioia quel fragor m'empiea
Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia!
Noto è ad orecchio di guerrier quel suono,
Come voce di sposa al suo diletto.
Un dì così fremente io il bellicoso
Aere appena sentia, sovra il mio scudo
Battea forte l'acciaro, e dai precordii
Metteva un grido che atterrìa da lunge
Del nemico le scolte. E i miei congiunti
Dicean: «Voce è d'Aroldo, oggi si pugni,
Chè dove è Aroldo, è la vittoria.» Or fiacca
È questa voce, e più la destra, e al breve
Giubilo del guerrier tosto succede
In me a quel suono il trepidar del padre.
Proseguiro alcun tempo, e quindi Clara,
Che sino allor söavemente a' detti
Del genitore avea frammisti i suoi,
Incominciò a interrompersi, e risposte
Dar che, non conscio l'intelletto, un moto
Parean sol delle labbra. A poco spazio
Vedea della distante oste per l'aure
Quasi di nave altissimi duo pini
Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi
Come al suolo confitti. E secondata
Venìa quell'opra da un clamor che il primo
Clamor non era, ma or fischiante or rotto
Da infami ghigni o da cupo silenzio.
A' sensi suoi creder dovea? Le cime
Parean gravate de' duo legni, e il pondo
Che le gravava non scerneasi. Udito
Spesso Clara ha di barbari supplizi,
Ove ad appesa vittima lo strale
Drizzano i bersaglieri, ed ottïen palma.
Quei che divide dalle ciglia il teschio.
Di tai supplizi un questo fora? Oh dubbio
Peggior di morte! E chi alla sbigottita
Dice s'uno colà de' morïenti
L'amato suo fratello ora non sia?
Chi le dice se il passo al genitore
Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa!
E se il padre trattien, non di Ioffrido,
Che forse ancor sull'albero non pende,
Cagionerà la morte?... Ad ogni costo
Vadasi al fatal loco!
Il piè, tremando
In ciò pensare, affretta. In man la mano
Della meschina Aroldo tien.—Di gelo,
Fra sè diceva, è questa man, siccome
Quella ch'io strinsi di sua madre al letto
Ove s'estinse.
Indi il vegliardo scuote
Il capo, quasi scuotere volesse
Un malaugurio, e non potea.—Di morte,
Figlia, i negri m'inseguon pensamenti.
Abbi pietà di mia vecchiaia, e i cari
Detti mi porgi che tue labbra sciorre
Uniche san, quando scorato è il padre.
Nata ne' giorni di sventura, e in erma
Torre cresciuta, ove sorelle e madre
Vide spirar, sollecita a sinistri
Presentimenti schiuder l'alma, è fatto
In lei religïon. Si raccapriccia
In udir che s'affaccin alla mente
Del genitore e in quest'istante i negri
Pensamenti di morte. A lui si volge,
Apre le labbra—e i consolanti detti
Ch'uniche sciorre un dì sapean, non trova:
Non trova, ed ahi! la prima volta è questa
Che inobbedito di suo padre è il cenno.
—Più de' pensier miei tristi or malaugurio
M'è il tuo silenzio, ei dice.
E lo spavento
In lei crescendo, e a' rai primi del sole
Splender veggendo le volanti frecce,
Improvviso s'arresta.—Oh genitore!
Non c'inoltriam: non odi tu le strida
Degli assassini?
—Il figlio, il figlio mio
Forse a morte strascinano: affrettiamci.
—Deh, padre, ferma! a' piedi tuoi ten prego.
Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido
In vita è ancor, di novo al fianco tuo
Tosto mi rendo, ma te... O ciel! raddurre
Te vivo a casa allor io posso almeno!
—Sciagurata, che parli? Orrende cose
Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero
Fra quelle voci che il mio antico orecchio
Non distinte percuotono, tu scerni
Voci di morte e del fratello il nome.
Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio
Porta il tumultüoso aere d'atroce?
—Nulla, o buon padre. Ma t'arresta; pensa
Che se tu, giunto appo i nemici, udissi
L'orribil caso... tu m'intendi... allora
Orfana forse rimarrei nel campo.
—Me perder temi, e non t'avvedi, insana,
Che scellerata è tua pietà? Egli muore,
E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra,
Tel comando, obbedisci.
All'inusata
Ira paterna impaurissi Clara;
S'alzò. Con passi rapidi il cammino
Misura il cieco, e strascinata quasi
La giovinetta il segue. Erasi spersa
La turba intanto che cingea i duo pini,
E presso a questi il padre e la sorella
Arrivan di Ioffrido. Ella più volte
Erse il ciglio tremando, e insanguinate
Scorse due salme, e incontanente a terra
Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr'esse
Fiso tenerlo ad indagar; chè franta
Han la coppa del cranio, e dal mozzato
Lor sembiante piovea cèrebro e sangue.
Ma quell'orrida vista e lo spavento
Forza a' ginocchi tolgonle ed al core:
—Padre! dic'ella, padre!... E qui stramazza
A' piè d'Aroldo.
E mentre brancolando
Col caro pegno tra le braccia fugge
D'in mezzo della via, però che udito
Brigata di cavalli ha scalpitante
Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro
Ad un de' lati fermasi, ove un tronco
D'albero sente; innanzi a lui lo stuolo
Giunge de' cavalieri. Era Manfredo,
Che di baroni provenzali cinto
Per intenti di guerra iva il terreno
Intorno visitando. Una fanciulla
Scorge egli tramortita ed un vegliardo;
E voltosi ad Aroldo, acerbamente
Così gli grida:—O discortese e stolto,
Perchè nel sangue d'un fellone e sotto
Il patibolo tratta hai quell'afflitta,
Cui toglie i sensi il raccapriccio?
—Oh sire,
Oh novo sire di Saluzzo! esclama
L'antico cavalier, cui non intera
L'aspra parola del crudel pungea,
Nota è ad Aroldo ancor la voce tua:
Aroldo io son dalle romite torri
Che si specchian nel Pellice. E l'illustre
Tuo genitor te adolescente spesso
Adduceva a mie sale, e co' miei figli
In un calice sol beevi a mensa.
Ah per memoria del tuo estinto padre
Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio
Ch'unico maschio avanza a mia vecchiaia,
E cadde tuo prigion, deh non rapirmi!
Io non leggeri doni a te in riscatto
Dal mio castel portato avea, ma iniqui
Predatori per via m'hanno assalito.
Alle mie braccia il caro figlio rendi,
E qual tributo m'imporrai ti solvo,
Pareggiasse anco de' miei campi aviti
L'intero pregio.
—O sciagurato Aroldo,
Di qual osi tributo or favellarmi,
Se finor tutto mi negasti? È tardi.
—Tardi, o sire, non è. Seguita, è vero,
Fu da bollente figlio mio l'insegna
De' prischi Saluzzesi e di Tommaso,
E la vittoria a tua prodezza arride.
Ma tu il fervido oprar del giovinetto
Dona pietosamente al supplicante
Suo genitor che in venti pugne il sangue
Versò pel nobil padre tuo, quand'esso
Con tanta gloria signorìa qui tenne.
—È tardi, o vecchio, e duolmene. In te accogli
Tutta la forza ond'è capace il core
D'un cavalier. Sovra quel legno pende
Un trafitto cui grazia altra non posso
Conceder più che di ritorlo ai corvi,
E consentirgli de' suoi cari il pianto.
Disse, e accennando che una guardia il morto
Dalla croce calasse e all'infelice
Lo rimettesse, cogli sproni un tocco
Dïede al cavallo e col suo stuol disparve.
Clara i sensi racquista, e oh di dolore
Qual novo orrendo palpito! Era dunque
Il fratel suo quel miserando ucciso!
Eccolo tolto dal funesto legno;
Ed ella il raffigura a cicatrici
Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio
E l'angosciata giovin su quel corpo
S'abbandonan piangendo! Ella in lino
L'infranta testa pïamente avvolge,
E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce
Carità si commove una famiglia
Di Saluzzesi agricoltori, e dato
Viene un carro con bovi, onde al lontano
Castello il morto cavalier si tragga.
II.
Or da quel giorno d'ineffabil lutto
Rivolgiamo la mente oltre a sei lune,
E la mesta mia cantica, i solinghi
Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia
Commiserando, svolga altra vicenda.
Era una sera: alle vetuste mura
Del baron s'appresenta un fuggitivo,
A cui ferite e febbril sete esausta
Miseramente avean la voce. Aroldo
Piena di vino gli mandò una coppa
Con questi detti: Al focolar t'accosta
Sin che apprestata sia la cena, e al sire
Perdona del castel s'ei di sue stanze
Non uscirà, dove cordoglio il tiene.
Clara portò que' detti, e il fuggitivo
Che al maestoso inceder cavaliero
Parea e mendìco a' finti panni, il volto
Pria si coverse, indi con pronti passi
Balzar tentò fuor della soglia, a guisa
Di mortal che, caduto in impensato
Orribile periglio, aneli scampo.
Ma nella mossa impetuosa a lui
Manca il fievole spirto, e piomba a terra.
Clara il soccorre, il mira, ed alla negra
Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa.
Chi era? Chi!... Manfredo! il già possente
Desolator della sua patria! il ladro
Che alla corona del nepote osava
Stender la man sacrilega, e sul capo
Inverecondo imporsela, e i diritti
Calpestar più sanciti, e di Saluzzo
Dirsi benefattor, serva a stranieri
Brandi facendo la natìa contrada!
Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco
Da compiuta sconfitta è l'empio sire,
E per sottrarsi agl'inseguenti ferri
Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote
Calcò deserte rupi. Indi pel sangue
Nella pugna perduto e per la rabbia
Gli s'era da brev'ora intorbidato
Sì fattamente il lume del pensiero,
Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto
Era ai campi d'Aroldo altra credendo
Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo
D'adolescenza riportate mai
Non avea l'orme, ed alberi e tugurii
Mutato avean l'aspetto della terra.
Sol quand'ei vide Clara, appien le soglie
Raffigurò d'Aroldo, e se bastata
A lui fosse la possa, ei rifuggìa.
Manfredo! e senza guardie! e semivivo,
Sotto il tetto dell'uom cui trucidato
Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio!
Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti
I famigli richiamano, ella corre
Alle stanze del padre, e già già quasi
A lui così sclamava:—Esci, un prodigio
Ad ammirar del Dio delle vendette:
Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene
Il suo assassin!
Ma in quell'istante gli occhi
Della donzella alzaronsi a parete,
Onde pendea dell'Uomo-Dio morente
Effigie veneranda, e a quella vista
L'irrompente parola in cor rattenne.
Religïoso fremito la invase
Dinanzi a quell'effigie.
—Oh mio Signore!
Quai voci arcane alla tua ancella parli?
Tu irreprensibil fosti e sì infelice!
E a quei che l'uccidean pur perdonavi!
Or chi sa? Forse il dolce mio fratello
Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia,
In carcer sotterraneo, o d'inquieti
Elementi per l'alte aure ludibrio
Sta ancor penando, e a liberarlo vane
Fervon le preci, e in loco d'esse un atto
Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio!
Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma
È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando
Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo
Come a noi perdonato ha il Redentore!
Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa
Delle forze d'un padre il dare aïta
D'un caro figlio all'uccisor. La lancia
Ei no giammai non bagnerìa nel sangue
D'uom che toccò la mensa sua... Ma pure
Chi può segnar dove talor trascorra
Nella foga dell'ira un core offeso?
Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo!
Disse, e prona curvossi, e lungamente
Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio
Esser tentata; innanzi a Dio temea
Calunnïar la santa alma del padre.
Ma nella mente repentino un raggio
Di fidanza pienissima le splende,
E ratta sorge e dice:—Ah sì, fratello!
Questo è il momento in che del ciel la porta
A tue brame si schiude: io di tua gioia
Sento il reflesso, e quella gioia è Dio!
Un servo entrava:—Damigella, o carco
D'inaudite peccata, o fuor di senno
È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio
Parla tra sè com'uom cui prema occulto
Di vendette terribili spavento,
E di qui vuol fuggir.
—Tosto bardata
Per lui sia mia cavalla.
Il servo parte
Maravigliato, ed obbedisce. Intanto
Antico armadio la fanciulla schiude,
Ed indi tratto un de' paterni manti,
Al leve suo tesor poscia s'affretta
D'auree monete, e in una borsa il pone.
Così ver l'agitato ospite mosse,
E que' doni offerendogli—D'Aroldo
Questa, gli disse, è la vendetta, o sire.
Fremea la generosa in lui mirando
L'uccisor di Ioffrido e il formidato
Di Saluzzo oppressor, ma pïamente
Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte
Del castello accennando, a lui soggiunse:
—Ecco a' tuoi cenni un corridor: se lena
Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo!
Clara sparve, ciò detto. E l'infelice
Tiranno—Angiol! gridò.—Poi diè dal core
Uno scroscio di pianto. Ed allor forse
Pentimento verace a lui fu strazio,
Le proprie atroci colpe rammentando,
E rammentando il giovine Ioffrido,
E quel misero cieco che appoggiato
Ad un alber credeasi, e gli grondava
Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue!
Frettoloso Manfredo i doni tolse;
L'inaudita pietà benedicendo,
D'Aroldo cinse su le spalle il manto,
E quindi a pochi tratti il vide Clara
Dalla fenestra, che, al cortil venuto,
Con sembiante commosso intorno intorno
Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo
In atto di preghiera ergea le mani,
Poi le briglie toccava ed era in sella.
Fermato ivi un istante, ad alta voce
Mise queste parole:—Aroldo! Aroldo!
Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto
Seggio e de' vituperi onde vo sazio,
Consolarmi potrò; non potrò mai
Consolarmi d'aver tua nobil alma
Col più truce rigore insanguinata.
Udì il vecchio baron quel forte grido,
E balzò dalla seggiola esclamando:
—Figlia! il nemico nostro! il maledetto
Uccisor di Ioffrido!
E sul rugoso
Pallido volto del canuto il foco
S'accese del furore. A' piedi suoi
Clara gettasi allora, e gli palesa
Ciò che d'oprar le ispirò Iddio.
—No, Iddio
Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo;
Manfredo è un empio! ei di dominio sete
Portò infernal su queste invase terre,
Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse!
Infame della patria e del suo prence
Manfredo è traditor. Per sollevarsi
Sulla sede non sua, trasse alleati
E Provenzali e Càlabri e venduti
Guelfi di tutta Italia allo sterminio
De' nostri feudi e delle nostre plebi,
E incenerì Saluzzo!... e il figlio mio,
Il figlio mio su scellerata croce
A' carnefici suoi diede bersaglio!
Lunga e tremenda di rammarco e d'ira
Fu l'eloquenza dell'antico. A lui
Clara abbracciava le ginocchia, e santi
Detti porgea con supplice dolcezza:
—Le iniquità punir sol puote Iddio;
Noi non possiam sul misero fuggiasco
Punirle coll'acciar: solo a punirle
Una guisa n'è data, ed è il perdono.
Càlmati, o genitor; pensa che o degno
Per penitenza diverrà Manfredo,
O, rimanendo iniquo, a lui carboni
Saranno inestinguibili sul core,
Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi
E fra l'alme perverse il danno eterno.
A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore,
E il benefico palpito e l'eccesso
Della pietà non sol sugl'innocenti,
Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo
Del perdono di Dio morendo avremo!
—Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo,
Ti benedico; santamente oprasti!
L'alza, al petto la stringe, e lagrimando
Mercè le rende che alla prova il senno
D'esacerbato padre ella non mise.
Un dì alle torri del baron fu visto
Giungere di Manfredo un messaggero
Da lontana contrada, e apportatore
Venìa di ricchi doni. Eran tre lune
Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto
Era il castello, ed in vicino chiostro
Cinta di sacre lane, i dolci salmi
L'orfana, per la cara alma del padre
E del fratel, tutte le notti ergea.
POESIE LIRICHE.
LA MIA GIOVENTÙ.
Cor mundum crea in me, Deus.
( Ps. 50. )
Lamento sui fuggiti anni primieri,
Che fecondi di speme Iddio mi dava,
E di ricchi d'amore alti pensieri!
Tra giubili ed affanni io m'agitava,
Ed incessanti studi, e bramosia
Di sollevarmi dalla turba ignava;
E spesso dentro al cor parola udìa
Che diceami dell'uom sublimi cose,
Tali che d'esser uomo insuperbìa.
Pupille aver credea sì generose
Il mio intelletto, che dovesser tutte
Schiudersi a lui le verità nascose;
E di ragion nelle più forti lutte
Io mi scagliava indomito; sognante
Che sempre indagin lumi eccelsi frutte.
Quella vita arditissima ed amante
Di scienza e di gloria e di giustizia
Alzarmi imprometteva a gioie sante.
Nè sol fremeva dell'altrui nequizia,
Ma quando reo me stesso io discopriva,
L'ore mi s'avvolgean d'onta e mestizia.
Poi dal perturbamento io risaliva
A proposti elevati ed a preghiere,
Me concitando a carità più viva.
Perocchè m'avvedea ch'uom possedere
Stima non può di se medesmo e pace,
S'ei non calca del Bel le vie sincere.
Ma allor che fulger più parea la face
Di mia virtù, vi si mescea repente
D'innato orgoglio il luccicar fallace.
E allor Dio si scostava da mia mente,
E a gravi rischi mi traea baldanza,
Ed infelice er'io novellamente.
Se così vissi in lunga titubanza,
Ond'or vergogno, ah! tu pur sai, mio Dio,
Che tremenda cingeami ostil possanza!
Sfavillante d'ingegno il secol mio,
Ma da irreligiose ire insanito,
Parlava audace, ed ascoltaval'io.
E perocchè tra' suoi sofismi ordito
Pur tralucea qualche pregevol lampo,
Spesso da quelli io mi sentìa irretito.
Egli imprecando ogni maligno inciampo
Sciogliea della ragion laudi stupende,
Ma insiem menava di bestemmie vampo.
Ed io, come colui che intento pende
Da labbra eloquentissime e divine,
E ogni lor detto all'alma gli s'apprende;
Meditando del secol le dottrine,
Inclinava i miei sensi alcuna volta
Di servil riverenza entro il confine.
Tardi vid'io ch'a indegne colpe avvolta
Era sua sapïenza, e vidi tardi
Ch'ei debaccava per superbia stolta.
Trasvolaron frattanto i dì gagliardi
Della mia giovinezza, e sovra mille
Splendide larve io posto avea gli sguardi;
E nulla oprai che d'alta luce brille!
E si sprecar fra inani desideri
Dell'alma mia bollente le faville!
Lamento sui fuggiti anni primieri
Che d'eccelse speranze ebbi fecondi,
E di ricchi d'amore alti pensieri!
Ma sien grazie al Signor che, ne' profondi
Delirii miei, pur non sorrisi io mai
Agl'inimici suoi più furibondi:
Sempre attraverso tutte nebbie, i rai
Del Vangel mi venian racconsolando;
Sempre la Croce occultamente amai.
Ed il maggior mio gaudio era allorquando
In una chiesa io stava, i dì beati
Di mia credente infanzia rammentando:
Que' dì pieni di fede, in che insegnati
Dal caro mi venian labbro materno
I portenti onde al ciel siamo appellati!
Di nuovo fean di me poscia governo
La incostanza, gli esempi, ed il timore
Dell'altrui vile e tracotante scherno;
E l'ira tua mertai per tanto errore:
Ma gl'indelebili anni che passaro
Ritesser non m'è dato, o mio Signore!
Presentarti non posso altro riparo
Che duolo e preci e fè nel divo sangue,
Di cui non fosti sulla terra avaro
Per chiunque a' tuoi piè pentito langue.
I PARENTI.
Deus enim honoravit patrem in filiis.
( Eccli. c. 3, v. 3.)
Inno di gratitudine e d'amore
Al Creator de' nostri cuori amanti,
Di tutte meraviglie al Creatore!
Dacchè pel fallo prisco doloranti
Alla luce veniam, qual dolce aïta
Nè' genitori è data a' nostri pianti!
In ogni coppia umana, onde la vita
D'altri umani si svolge, ecco una diva
Pe' figliuoletti carità infinita.
Vedi la vergin titubante e priva
D'ogni ardimento, simile a cervetta
Che intorno guata, e de' perigli è schiva.
Chi nella fievol, timida animetta
Opra mutazïone inaspettata,
Quand'è fra il coro delle madri eletta?
Di progenie d'Adamo al ciel chiamata,
Grave è il sen della dianzi paventosa,
E il pondo regge da dolor cruciata.
Ed il porta con forza generosa!
E dopo un figlio compro a tanto prezzo
D'orrende angosce, altri portar pur osa!
Oh di strazii mirabile disprezzo
In creatura sì gentil, che solo
Parea nata de' fiori al molle olezzo,
Onde bëasse a lei d'intorno il suolo
E le dolci aure col suo bel sorriso,
E morisse alla prima ombra di duolo
Per destarsi felice in Paradiso!
Vedi la donna col suo piccol nato,
Che suggendole il seno a lei sorride
Sebben abbiale tanto egli costato,
La madre da lui mai non si divide.
Insazïata il guarda, insazïato
È il provveder ch'ei non s'affanni e gride:
Animo lieto o da timore oppresso
Nella veglia o nel sonno ha ognor per esso.
Lo sposo benchè a lei caro cotanto,
È più caro perch'ei pur ride al figlio;
Sovente, favellando a lei d'accanto,
S'avvede ch'ella e core e mente e ciglio
Tien sovra il pargol con sì forte incanto,
Che non ha udito il marital consiglio:
Allora ei tace e mira, e con dolcezza
Il lattante e la madre egli accarezza.
Oh tristo il giorno, oh trista l'ora, quando
Giace nella sua cuna egro il bambino,
E la giovine madre sospirando
Ad ogn'istante riede a lui vicino,
E invan teneri detti prodigando
Tien sulle amate labbra il petto chino,
Ma l'offerta mammella ei bacia appena,
E non la sugge, ed a vagir si sfrena!
Oh con qual lutto miserando allora
La spaventata si rivolge a Dio!
Oh come al dubbio che il figliuol le mora
Trema se in lei fu reo qualche desìo,
E perdono dimanda, e s'infervora,
Promettendo al Signor viver più pio!
I soli Angioli ponno anzi all'Eterno
Sì ardente prego alzar, qual è il materno.
Giorno di liete voci, ora felice,
Quando seman del pargolo i vagiti!
Quand'ei cerca la dolce genitrice
Con isguardi dal riso ingentiliti!
Quand'ei di novo il caro latte elice,
E scherzoso riprende i suoi garriti!
Tai porge allor la madre inni d'amore,
Quai mandar può de' Serafini il core!
Ov'alti rischi fervono,
Vieppiù la madre ardita
Pel frutto di sue viscere
Pronta è a donar la vita.
Ella, se fera scoppïa
Divoratrice vampa,
Verso la cuna avventasi,
E il pargoletto scampa.
Se il picciol piede illusero
Di cupo rio le sponde,
La madre piomba rapida,
E il tragge, o muor nell'onde.
Ella, se il figlio palpita
Tra infetto aere tremendo,
Tenta i suoi dì redimere,
Le piaghe a lui lambendo.
Se patria e tetto invadono
Empie, omicide squadre,
Stringe i suoi figli, e impavida
Pugna per lor la madre.
Tal è la nobil donna ingigantita
Dalla materna celestial possanza,
Che a tutte generose opre la invita.
Ma un sacrifizio v'è che ogni altro avanza,
Ed è in lei quell'assidua ed operosa
Sulla cara progenie vigilanza.
Alma di buona madre più non posa
Finchè non ha ne' figli suoi destata
Di virtù la favilla glorïosa.
Nè puote alma di figlio esser pacata
Fra inique gioie, se ha una madre anco
Che i vestigi di lui tremando guata,
E occultamente prega, e s'addolora.
Negli anni primieri
Del forte maschietto,
V'è mente selvaggia,
V'è indocile affetto;
Par ch'indi s'annunci
Futur masnadier.
La picciola belva
Se alcun la minaccia,
Vieppiù baldanzosa
Innalza la faccia;
Di colpi, di rischi
Non prende pensier.
Qual è quello sguardo,
Qual è quella voce
Che frena l'audacia
Del picciol feroce,
Incanto sì dolce
La donna sol ha.
Ed ella ripete,
Ripete l'incanto,
Frammesce sorriso,
Disdegno, compianto,
E amore gl'infonde,
Gl'infonde pietà.
Non bada la saggia
Se petti inumani
Diran che a domarlo
Suoi studi son vani;
In cor d'una madre
Speranza non muor.
E quei che parea
Futur masnadiero,
S'infiamma del bello,
S'infiamma del vero,
Divien della patria
Gentile decor.
. . . . . . . .
LE PASSIONI.
Gustate et videte quoniam suavis est Dominus.
( Ps. 39, 9.)
Dov'è mia gioventù? Dove i bëati
Anni d'amor, del Rodano appo l'onde?
Dove il ritorno a' miei dolci penati,
E mia stanza alle Insùbri aure gioconde?
Dove in Milano i glorïosi vati
Che mi cingean dell'apollinea fronde?
Dove mia gloria alle applaudite scene?
E poi dove il decennio infra catene?
Io di carcere usciva egro, e piangendo
Il mio buon Federico e gli altri cari,
Cui dato ancor da quel recinto orrendo
Rieder non era ai desïati lari:
Poscia esultava, Italia rivedendo,
Ed alfin temperando i giorni amari
Fra gli amplessi de' mei sacri canuti,
Per me sì lungamente in duol vissuti.
E omai da un lustro tutto ciò trascorse!
E nuovi plausi a me la patria diede,
E di nuovi Aristarchi ira mi morse,
E di nuovi propizi ebbe la fede,
E nuova infanzia a me d'intorno sorse,
E di morte vid'io novelle prede,
E «Vana cosa è questo mondo!» esclamo,
E separarmen voglio—ed ancor l'amo!
L'amo perch'alme vi trovai fraterne,
Che all'alma mia s'avvinser dolcemente,
E diviser mie gioie, e nell'alterne
Pene collacrimàr sinceramente:
E v'ha tali amistà che fièno eterne,
Benchè tessute in questa ombra fuggente,
Benchè tessute ov'ogni nobil core
S'apre appena a virtù, lampeggia e muore.
Degg'io, poss'io da tutte cose amate
Divellere una volta il mio pensiero?
Io, le cui sorti furono esaltate
Da tanto lutto e tanto gaudio vero!
Io, le cui rimembranze innamorate
Han su mia fantasia cotanto impero!
Io, cui balzar fa sin talora il petto
Vista di leve, inanimato oggetto!
Reduce a lidi miei, dopo che giacqui
Sepolto vivo per sì cupe notti,
Agli affetti più teneri compiacqui
Che la sventura non avea interrotti;
Nè agli estinti carissimi pur tacqui
Culto di preci e di sospir dirotti;
Indi a rivisitar presi le antiche
Pagine ch'ebbi a dolce veglia amiche.
E sovente su libri polverosi
La man vo riponendo tremebonda,
Ed apro, e parmi a' giorni studïosi
Tornar di giovinezza, e il pianto gronda!
E trovo i segni che ne' libri io posi,
Ove con mente mi fermai profonda,
Ove ad alti pensier d'amato autore
Commento fei di verità o d'errore.
Pur con sensi diversi or vi rimiro;
O libri tanto amati a' dì primieri:
Vate son io, ma spento è in me il desiro
Di prostrarmi idolatra anzi agli Omeri.
Se volgendo lor carte ancor sospiro,
Magia non è de' grandi lor pensieri:
Più d'un libro m'è caro, e pure in esso
Di rado cerco lui; cerco me stesso.
E non sol me vi cerco: alla memoria
Del me passato aggiugnesi indivisa
Di palpiti d'amor söave istoria,
Quando un'egregia m'infiammava in guisa,
Ch'io per lei sola ambìa pietate e gloria,
Ch'io sempre in lei tenea l'anima fisa,
Che d'un sorriso suo per farmi degno,
Sempre agognava ingentilir lo ingegno!
E se pio talor fui, pregio egli è stato
Di quella generosa animatrice:
Era ad essa straniero il forsennato
Foco d'amor che mi rendea infelice;
Ma compatìa mie pene, ed elevato
Volea il mio spirto, e lo volea felice,
Ed allor che più insano io le parea,
S'affannava, e garrivami, e piangea.
Quella donna, onde il bel, nobile viso
Polvere è da molt'anni, e l'alma in Dio,
Non disamai, benchè da lei diviso,
E onorerolla tutto il viver mio:
Ma nuovi poscia affetti han me conquiso,
E quel primiero ardor s'intiepidìo:
Quel ch'era in me un incendio, è una favilla
Che come lampa ad un sepolcro brilla.
Senza obblïar la già cotanto amata,
Altra ammirai ch'or dispartita è anch'essa;
E in me virtù credendo io sublimata
Per averla a sì bello angiol commessa,
L'anima mia da orgoglio inebbrïata
Vana si fea di lungo ben promessa:
Giorni d'alto dolor mi mosser guerra,
E a lei pur venni tolto, ed è sotterra!
Sete d'amor, sete di studi, e sete
D'innalzar sopra il volgo il nome mio,
Gran tempo mi rapìan sonno e quiete,
Nè scerno se ammendato oggi son io:
Tu che del cor le latebre secrete
Solo ravvisi e mondar puoi, gran Dio,
Pietà di me che tanto sempre amai,
E sino a te l'amor non sollevai!
Tante cose sfumarono al mio sguardo,
E tutto giorno sfumar altre io miro!
Valga d'esperïenza il raggio tardo,
In che sforzatamente oggi m'aggiro,
Ad oprar alfin sì che più gagliardo
A tua bellezza s'erga il mio desiro,
E nulla tanto da' mortali io brami,
Quanto ch'ognun tuoi pregi scorga ed ami!
La legge tua non è d'irto rigore,
Sol le idolatre passïoni abborri:
Lunge che a te dispaccia amante cuore,
Ad un cuor fatto gel più non accorri.
Tu vuoi che a' miei fratelli io con ardore
Così soccorra, come a me soccorri:
Tu vuoi che in forte guisa il bello io senta,
Tu vuoi che al giusto il plauso mio consenta.
Tu doni a' figli tuoi mente e parola,
Non perchè il dono tuo venga sepolto;
Tu non imprechi investigante scuola
Su non vietato ver fra l'ombre avvolto:
In odio a te l'indagin empia è sola
Che contra il cenno tuo l'ardire ha volto:
Tu gl'ignari del mal chiami felici,
Ma il veggente non reo pur benedici.
Tu che sei tutto amor, la sacra stampa
Della natura tua nell'uomo imprimi:
Gagliardo sprone e inestinguibil lampa
Tu sei di tutti aneliti sublimi.
Tu godi quindi se il mio spirto avvampa
Per que' tuoi fidi che in virtù son primi:
Tu godi se fra lor taluni eleggo,
E nel lor santo oprar meglio ti veggo.
A me tu dato hai queste fiamme ardenti,
Con cui desìo de' petti amici il bene,
E con cui studïando i tuoi portenti
Traggo esultanza, e di capirti ho spene:
Così caldo sentir più non diventi
Esca giammai di vanità terrene:
Mie passïoni in guisa tal governa,
Che lode sièno a tua saggezza eterna.
Sempre le temo, e sempre sento ancora
Che in amar altre cose io troppo m'amo:
Cieca errò mia bollente alma sinora,
E presa fu di sua superbia all'amo.
Distruggi il suo sentire, o lei migliora;
O vil torpore, od amor santo io bramo;
Ah no, non vil torpor, dammi amor santo,
Tu che le tue fatture ami cotanto!
SALUZZO.
Et sit splendor Domini Dei nostri super nos.
( Ps. 89, 17.)
Oh di Saluzzo antiche, amate mura!
Oh città, dove a riso apersi io prima
Il coro e a lutto e a speme ed a paura!
Oh dolci colli! Oh maëstosa cima
Del monte Viso, cui da lunge ammira
La subalpina, immensa valle opima!
Oh come nuovamente or su te gira
Lieti sguardi, Saluzzo, il ciglio mio,
E sacri affetti l'aër tuo m'ispira!
Nelle sembianze del terren natìo
V'è un potere indicibil che raccende
Ogni ricordo, ogni desir più pio.
So che spiagge, quai siansi, inclite rende
Più d'un merto soave a chi vi nacque,
E bella è patria pur fra balze orrende;
Ma nessuna di grazia armonìa tacque,
O Saluzzo, in tue rocce e in tue colline,
E ne' tuoi campi e in tue purissim'acque.
Ogni spirto gentil che peregrine
A piè di queste nostre Alpi si sente
Letizïar da fantasie divine.
Sovra il tuo Carlo, e il dotto suo parente
[3]
,
Che pii vergaron le memorie avite,
Spanda grazia immortal l'Onnipossente!
Dolce è saper che di non pigre vite
Progenie siamo, e qui tenzone e regno
Fu d'alme da amor patrio ingentilite.
Più d'un estero suol di canti degno
Porse a mie luci attonite dolcezza,
E alti pensieri mi parlò all'ingegno:
Ma tu mi parli al cor con tenerezza,
Qual madre che portommi in fra sue braccia
E sul cui sen dormito ho in fanciullezza.
Ben è ver che stampata ho breve traccia
Teco, o Saluzzo, e il dì ch'io ti lasciai
A noi già lontanissimo s'affaccia.
Pargoletto ancor m'era, e mi strappai
Non senza ambascia da tue dolci sponde,
E, diviso da te, più t'apprezzai.
Perocchè più la lontananza asconde
D'amata cosa i men leggiadri aspetti,
E più forte magìa sul bello infonde.
Felice terra a me parea d'eletti
La terra di mio Padre, e mi parea
Altrove meno amanti essere i petti.
E mi sovvien ch'io mai non m'assidea
Sui ginocchi paterni così pago,
Come quando tuoi vanti ei mi dicea.
In me ingrandiasi ogni tua bella imago;
Del nome saluzzese io insuperbiva;
Di portarlo con laude io crescea vago.
E degl'illustri ingegni tuoi gioiva,
E numerarli mi piacea, pensando
Che in me d'onor tu non andresti priva.
Vennemi quel pensiero accompagnando
Oltre i giorni infantili, allor che trassi
Al di là delle care Alpi angosciando.
Nè t'obblïai, Saluzzo, allor che i passi
All'Itale contrade io riportava,
Benchè in tue mura il capo io non posassi.
Chè il bacio de' parenti m'aspettava
Nella città ch'è in Lombardia regina,
E colà con anelito io volava.
E colà vissi, e colsi la divina
Fronde al suon di quel plauso generoso,
Che premia, e inebbria, e suscita, e strascina.
Oh Saluzzo! al mio giubilo orgoglioso
Pe' coronati miei tragici versi,
Tua memoria aggiungea gaudio nascoso.
Oh quante volte allor che in me conversi
Fulser gli occhi indulgenti del Lombardo,
E spirti egregi ad onorarmi fersi,
Ridissi a me con palpito gagliardo
La saluzzese cuna, e mi ridissi
Che grata a me rivolto avresti il guardo!
E poi che in ogni Itala riva udissi
Mentovar la mia scena innamorata,
Ed ai mesti Aristarchi io sopravvissi,
L'aura vana, che fama era nomata,
Pareami gran tesor, ma vieppiù bello
Perchè a te gioia ne sarìa tornata.
Mie mille ardenti vanità un flagello
Orribile di Dio ratto deluse,
E negra carcer mi divenne ostello.
Non più sorriso d'immortali Muse!
Non più suono di plausi! e tutte vie
A crescente rinomo indi precluse!
Ma conforti reconditi alle mie
Tristezze pur il Ciel mescolar volle,
E il cor balzommi a rimembranze pie.
Del captivo l'afflitta alma s'estolle
A vita di pensier, che in qualche guisa
Il compensa di quanto uomo gli tolle.
E quella vita di pensier, divisa
Fra le non molte più dilette cose,
Ora è tormento ed ora imparadisa.
Io fra tai mura tetre e dolorose
Pregava, e amava, e sentìa desto il raggio
Del poëtar, che il cielo entro me pose.
Miei carmi erano amor, prece e coraggio;
E fra le brame ch'esprimeano, v'era
Ch'essi alla cuna mia fossero omaggio.
Io alla rozza, ma buona alma straniera
Del carcerier pingea miei patrii monti,
E allor sua faccia apparìa men severa.
E m'esultava il sen, quando con pronti
Impeti d'amistà quel torvo sgherro
Commosso si mostrava a' miei racconti.
Pace allo spirto suo, che in mezzo al ferro
Umanità serbava! A lui di certo
Debbo s'io vivo, e a' lidi miei m'atterro.
Morto o insanito io fora in quel deserto,
Se confortato non m'avesse un core
Nato di donna, e a caritade aperto.
Scevra quasi or mia vita è di dolore,
Ad Italia renduto e a' natii poggi,
Ov'alte m'attendean prove d'amore.
Benedetti color, che dolci appoggi
Mi fur nell'infortunio, e benedetti
Color, che mia letizia addoppian oggi!
E benedetta l'ora in che sedetti,
Saluzzo mia, di novo entro tue sale,
E strinsi a me concittadini petti!
Non vana mai su te protenda l'ale
Quell'Angiol, cui tuo scampo Iddio commise,
Sì che nobil sia cosa in te il mortale!
L'alme de' figli tuoi non sien divise
Da fraterna discordia, e mai le pene
Dell'infelice qui non sien derise!
Le città circondanti ergan serene
Lor pupille su te, siccome a suora
Ch'orme incolpate a lor dinanzi tiene.
E le lontane madri amin che nuora
Vergin ne venga di Saluzzo, e questa
Abbia figliuola reverente ognora;
E la straniera vergin, che fu chiesta
Da garzon saluzzese, in cor sorrida
Come a lampo di grazia manifesta!
Pera ogni spirto vil, se in te s'annida!
Vi regni indol pietosa ed elegante,
E magnanimo ardire, e amistà fida!
Mai non cessino in te fantasìe sante,
Che in dottrina gareggino, e sien luce
A chi del bello, a chi del vero è amante;
E del saver tra' figli tuoi sia duce
Non maligna arroganza, invereconda;
Ma quella fè che ad ogni bene induce;
Quella fede che agli uomini feconda
Le mentali potenze, a lor dicendo,
Ch'uom non solo è dappiù di belva immonda,
Ma può farsi divin, virtù seguendo!
Ma dee farsi divino, o di viltate
L'involve eterno sentimento orrendo!
Tai son le preci che per te innalzate
Da me son oggi, e sempre, o suol nativo:
Breve soggiorno or fo in tue mura amate,
Ma, dovunque io m'aggiri, appo te vivo!
[3]
Carlo Muletti e Delfino suo padre, storici di Saluzzo.—Io m'onoro dell'amicizia di Carlo, e parimente di quella del maggiore Felice, suo fratello.
LA BENEFICENZA.
Esurivi enim, et dedistis mihi manducare.
( Matth. 26, 35. )
Mentre tanti di nome e d'or potenti
Volgono a vanitate e nome ed oro,
Nè a taluni più bastano i contenti
Che sulla terra Iddio concede loro,
Mentre a meglio goder cercan furenti
La propria gioia nell'altrui disdoro,
Simili a falsi Dei d'età lontane
Che a' lor piedi volean vittime umane;
E mentre mirando
Que' ricchi malvagi
Il volgo fremente
Che invidia lor agi,
Esagera, infuria,
Invoca dal Ciel
Su tutti i felici
Sanguigno flagel;
Que' flagelli rattiene il ricco pio
Che riparar gli altrui misfatti agogna,
E oprando assai per gli uomini e per Dio,
Anco d'essere inutil si rampogna:
Degl'innocenti aiuta il buon desìo,
Gli erranti tragge a salutar vergogna;
Onora l'arti ed anima l'artiero,
E chiamar vorrìa tutti al bello, al vero.
Il volgo commosso
Ripensa, si calma,
Capisce che il ricco
Può aver nobil alma;
Insegna a' suoi figli,
Che pace e lavor
Del povero sono
Salute e decor.
Salve, o di carità sacra fiammella
Che accendi il cor del pio dovizioso!
Se a noi mortali fulgi or così bella,
Qual fulgi tu dell'anime allo Sposo?
A lui che, tutte mentre a sè le appella,
Le appella a mutuo affetto generoso!
A lui che quando cinse umano velo,
Ci palesò che tutto amore è il Cielo!
Amore santifica
Tesori e palagi,
Amore santifica
Tuguri e disagi;
Amor sulla terra
Può tutto abbellir,
L'impero, il servire,
La vita, il morir.
Amato molto, amato sia il Signore
Ch'è modello de' ricchi impietositi!
Amato molto, amato sia il Signore,
Modello ai cuori da sventura attriti!
Amato molto, amato sia il Signore
Che noi vuol tutti alla sua mensa uniti!
Amato molto, amato sia il Signore
Che per l'anime umane arde d'amore!
Oscuro o potente,
Di Dio tu sei figlio,
Fratello degli Angioli,
Ancor che in esiglio!
Gran fallo ci avvolse
Nel fango e nel duol:
Amiam! ci fia reso
Degli Angioli il vol!
LE SALE DI RICOVERO.
Qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo, me suscipit.
( Matth. 18, 5.)
«Son pargoletto e povero e ammalato;
Abbi pietà di me, Gesù bambino,
Tu che sei Dio, ma in povertà sei nato!
Me qui lascia la mamma ogni mattino
Nel solingo tugurio, ed esce mesta
Il nostro a procacciar vitto meschino.
Ancella move a quella casa e questa,
Ed acqua attinge e lava e assai si stanca,
E vive appena, ed indigente resta.
Qui soletto io mi volgo a destra, a manca,
Senza dolcezza di parole amate,
E fame ho spesse volte, e il pan mi manca.
Le melanconich'ore prolungate
M'empion l'alma di pianto e di paure,
E mi sfogo in ismanie sconsolate.
Amor la madre assai mi porta, e pure
Quando al tugurio torna e pianger m'ode,
Spesso le voci sue prorompon dure;
Talor mi batte, e duolo indi mi rode,
Sì che allor quasi affetto io più non sento,
E in maligni pensieri il cor mi gode.
Povera madre! il viver nello stento
Estingue nel suo spirto ogni sorriso,
Ed anch'io più cruccioso ognor divento.
Gesù, prendimi teco in Paradiso,
O tempra la tristezza che m'irrita,
E rasserena di mia madre il viso:
Fa ch'ella trovi ad allevarmi aïta,
Fa che deserto io non mi strugga tanto
Fa che un po' d'allegrezza orni mia vita.
Se ad altri bimbi io respirassi accanto,
E non sempre gemessi, e qualche mano
Söavemente m'asciugasse il pianto,
Crescerei più benevolo e più sano
E più caro a la madre io mi vedrìa:
Lassa! altrimenti ella fu madre invano!
Ella al mio fianco in pace invecchierìa,
E per essa con gioia adoprerei
A laudevol sudor mia vigorìa.
Le poche forze ai patimenti rei
Soggiaceranno in breve, e, fuorchè pena,
Nulla i miei giorni avran fruttato a lei.
Ovver, se presto a morte non mi mena
Tanta miseria, crescerò doglioso,
Me coll'afflitta madre amando appena.
Ed ella pur mi dice che odïoso
Il povero alla terra e al ciel rimane,
Quando alle brame sue non dà riposo,
Quando coll'ira in cor mangia il suo pane.»
Ed ecco del bimbo
La mamma ritorna:
È stanca, ma un raggio
Di gioia l'adorna;
S'asside a lui presso,
Lo stringe al suo sen,
«Oh quanto sinora
Mi dolse, o figliuolo,
Lasciarti ogni giorno
Sì tristo, sì solo!
T'allegra: celeste
Soccorso a noi vien.
«Nell'ore ch'ai figli
Non ponno dar cura
Le madri, cui preme
Fatica e sventura,
Da provvide menti
Ricovro s'aprì.
Alquanto risana,
E là tu verrai:
Son piene due sale
Di pargoli omai:
Giocando, imparando,
Vi passano il dì.
«Al santo pensiero
Che aprì quel ricetto,
Ministre si fanno
Con tenero affetto
Più vergini umìli,
Sacrate al Signor:
Null'altro che amarti,
Il sai, potev'io,
Ma quelle söavi
Ancelle di Dio
Più dolce, più giusto
Faranno il tuo cor.
«Io, conscia che al figlio
Non manca un'aïta,
Trarrò senza pianto
Mia povera vita,
L'usato lavoro
Stimando leggèr.
Al tetto materno
Verrai verso sera,
E sempre alzeremo
Concorde preghiera
Per l'alme pietose
Che asilo ti dier.»
Quel fanciulletto già infermiccio e tristo,
Indi a non molto, in sì benigna scuola,
Rosee le guance e lieti i rai fu visto.
Oh d'amorose labbra la parola
Quanto a' cuori avviliti, e più a' bambini,
Addolcisce le doglie e li consola!
D'entrambo i sessi i pargoli tapini
Ivi sottratti vanno a rio squallore,
Ed a costumi stolidi e ferini.
Che invan vorria la madre o il genitore
Occhio assiduo tener sui cari pegni,
Qua e là faticando per lungh'ore.
Abbandonati a sè, crescere indegni
Veggionsi quindi d'assai plebe i figli,
Egre le membra ed egri più gl'ingegni.
Per cadute e per cento altri perigli
Vedi qual di storpiati e di languenti
Esce turba da' poveri covigli!
Quanti avrian le persone alte e ridenti
Ch'essi strascinan luride e contorte,
Perchè guaste d'infanzia agli elementi!
Oh benedetti voi che sulla sorte
Della schiatta plebea v'intenerite,
E pensate a scemarle e vizi e morte!
In voi sì belle le grandezze avite
Non son, quant'è il magnanimo disìo,
Onde a tanti innocenti asilo aprite.
Memori siete di quell'Uomo-Iddio
Che, cinto da drappel di bambinelli,
Li confortava col suo sguardo pio,
Ed imponea d'assomigliare a quelli.
E voi benedette,
Donzelle pietose,
Che al Dio de' bambini
Facendovi spose,
Di madri assumete
Le pene e l'amor.
Per voi dalla terra
Piacer non alligna:
Fors'anco taluno
Vi guarda e sogghigna,
Vi chiama delire
Da stolto fervor.
Ma voi non curanti
Di plauso o di scherno,
I poveri amando
Amate l'Eterno,
Ai bimbi servendo
Servite a Gesù.
Il mondo che ignora
Del core i misteri,
Non sa che più dolce
Di tutti i piaceri
È l'umil conflitto
D'arcana virtù.
La vergine sacra
Al Dio degl'infanti
Sublima sue pene
Con palpiti santi;
È abbietta ai mortali,
Ma l'anima ha in ciel.
Con Dio nella mente
Le cure più gravi,
Le cure più vili
Diventan söavi:
Bassezza non tange
Un'alma fedel.
La vergine sacra
Al Dio de' bambini
Vagheggia in Maria
Affetti divini,
Le impronte cercando
Di lei seguitar.
Non volgono ai bimbi
Tirannico ciglio
Color, che mirando
Maria col suo Figlio,
Li veggon dal cielo
Sui bimbi vegliar.
Ah! sì, benedette
Voi tutte, o bell'alme,
Che ai miseri infanti
Porgete le palme,
Di padri e di madri
Vestendo l'amor!
Pensier non vi preme
Di plauso o di scherno:
I poveri amando
Amate l'Eterno:
Ai bimbi servendo
Servite al Signor.