INDICE.

  • 1 Al Lettore
  • Pag. 1 Francesca da Rimini
  • 79 Rosilde
  • 115 Adello
  • 169 Ebelino
  • 213 Ildegarde
  • 251 Aroldo e Clara
  • 277 Poesie liriche

FINE DELL'INDICE.

AL LETTORE.

Amore sotto le più nobili forme ne' gaudi, amore e rassegnazione ne' mali sono anima al vivere di Pellico, sono l'espressione de' suoi versi; chè in essi l'anima di lui tutta è diffusa. In questo giudizio speriamo verran coloro che leggeranno le seguenti poesie, le quali abbiam scelte, toltone la Francesca, dalle molte pubblicate dall'autore dopo la sua liberazione dallo Spielberg.

Inclinando alquanto col secolo fummo parchi nel dare di quelle rime del nostro autore in cui egli trascorre alla contemplazione delle cose divine. Un libro ascetico o quasi ascetico sarebbe letto da pochi, forse da nessuno di coloro che ne abbisognano, e resterebbe quindi senza frutto. L'armi spirituali lampeggino sole nelle sacre bigonce, ma ne' libri di amena letteratura portino miste agli umani diletti le salutari punture.

A. Ronna.

FRANCESCA

DA RIMINI

TRAGEDIA.

Noi leggevamo un giorno per diletto,

Di Lancillotto come amor lo strinse,

Soli eravamo e senza alcun sospetto.

Per più fiate gli occhi ci sospinse

Quella lettura e scolorocci il viso.

Ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso,

Esser baciato da cotanto amante,

Questi, che mai da me non fia diviso,

La bocca mi baciò tutto tremante.

PERSONAGGI.

  • LANCIOTTO, signor di Rimini.
  • PAOLO, suo fratello.
  • GUIDO, signore di Ravenna.
  • FRANCESCA, sua figlia e moglie di Lanciotto.
  • Un Paggio.
  • Guardie.

La scena è in Rimini nel palazzo signorile.

FRANCESCA DA RIMINI.

ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Esce LANCIOTTO dalle sue stanze per andare all'incontro di GUIDO, il quale giunge. Si abbracciano affettuosamente.

GUIDO.

Vedermi dunque ella chiedea? Ravenna

Tosto lasciai; men della figlia caro

Sariami il trono della terra.

LANCIOTTO.

Oh Guido!

Come diverso tu rivedi questo

Palagio mio dal dì che sposo io fui!

Di Rimini le vie più non son liete

Di canti e danze; più non odi alcuno

Che di me dica: Non v'ha rege al mondo

Felice al pari di Lanciotto. Invidia

Avean di me tutti d'Italia i prenci:

Or degno son di lor pietà. Francesca

Soavemente commoveva a un tempo

Colla bellezza i cuori, e con quel tenue

Vel di malinconia che più celeste

Fea il suo sembiante. L'apponeva ognuno

All'abbandono delle patrie case

E al pudor di santissima fanciulla,

Che ad imene ed al trono ed agli applausi

Ritrosa ha l'alma.—Il tempo ir diradando

Parve alfin quel dolor. Meno dimessi

Gli occhi Francesca al suo sposo volgea;

Più non cercava ognor d'esser solinga;

Pietosa cura in lei nascea d'udire

Degl'infelici le querele, e spesso

Me le recava; e mi diceva.... Io t'amo.

Perchè sei giusto e con clemenza regni.

GUIDO.

Mi sforzi al pianto.—Pargoletta, ell'era

Tutta sorriso, tutta gioja, ai fiori

Parea in mezzo volar nel più felice

Sentiero della vita; il suo vivace

Sguardo in chi la mirava, infondea tutto

Il gajo spirto de' suoi giovani anni.

Chi presagir potealo? Ecco ad un tratto

Di tanta gioja estinto il raggio, estinto

Al primo assalto del dolor! La guerra,

Ahimè, un fratel teneramente amato

Rapiale!... Oh infausta rimembranza!.. Il cielo

Con preghiere continue ella stancava

Pel guerreggiante suo caro fratello...

LANCIOTTO.

Inconsolabil del fratel perduto

Vive, e n'abborre l'uccisor; quell'alma

Sì pia, sì dolce, mortalmente abborre!

Invan le dico: I nostri padri guerra

Moveansi; Paolo, il fratel mio, t'uccise

Un fratello, ma in guerra; assai dorragli

L'averlo ucciso; egli ha leggiadri, umani,

Di generoso cavaliero i sensi.

Di Paolo il nome la conturba. Io gemo

Però che sento del fratel lontano

Tenero amore. Avviso ebbi ch'ei riede

In patria, il core men balzò di gioja;

Alla mia sposa supplicando il dissi,

Onde benigna l'accogliesse. Un grido

A tal annunzio mise. Egli ritorna!

Sclamò tremando, e semiviva cadde.

Dirtelo deggio? Ahi l'ho creduta estinta,

E furente giurai che la sua morte

Io vendicato avrei... nel fratel mio.

GUIDO.

Lasso! e potevi?...

LANCIOTTO.

Il ciel disperda l'empio

Giuramento! L'udì ripeter ella,

Ed orror n'ebbe, e a me le man stendendo:

Giura, sclamò, giura d'amarlo: ei solo,

Quand'io più non sarò, pietoso amico

Ti rimarrà... Ch'io l'ami impone, e l'odia,

La disumana! E andar chiede a Ravenna

Nel suo natio palagio, onde gli sguardi

Non sostener dell'uccisor del suo

Germano.

GUIDO.

Appena ebbi il tuo scritto, inferma

Temei foss'ella. Ah, quanto io l'ami, il sai!

Che troppo io viva... tu mi intendi... io sempre

Tremo.

LANCIOTTO.

Oh, non dirlo!.. Io pur, quando sopita

La guardo... e chiuse le palpebre e il bianco

Volto segno non dan quasi di vita,

Con orrenda ansietà pongo il mio labbro

Sovra il suo labbro per sentir se spiri:

E del tremor tuo tremo.—In feste e giochi

Tenerla volli, e sen tediò: di gemme

Dovizïosa e d'oro e di possanza

Farla, e fu grata ma non lieta. Al cielo

Devota è assai: novelle are costrussi.

Cento vergini e cento alzano ognora

Preci per lei, che le protegge ed ama.

Ella s'avvede ch'ogni studio adopro

Onde piacerle, e me lo dice, e piange.

Talor mi sorge un reo pensier... Avessi

Qualche rivale? O ciel! ma se da tutta

La sua persona le traluce il core

Candidissimo e puro!... Eccola.

SCENA II.

FRANCESCA e Detti.

GUIDO.

Figlia,

Abbracciami. Son io...

FRANCESCA.

Padre... ah, la destra

ch'io ti copra di baci!

GUIDO.

Al seno mio,

Qui... qui confondi i tuoi palpiti a' miei

Vieni, prence. Ambidue siete miei figli:

Ambidue qui... Vi benedica il cielo!

Così vi strinsi ambi quel dì che sposi

Vi nomaste.

FRANCESCA.

Ah, quel dì!... fosti felice,

O padre.

LANCIOTTO.

E che? forse dir vuoi che il padre

Felice, e te misera festi?

FRANCESCA.

Io vero

Presagio avea, che male avrei lo sposo

Mio rimertato con perenne pianto,

E te lo dissi, o genitor: chiamata

Alle nozze io non era. Il vel ti chiesi;

Tu mi dicesti che felice il mio

Imen sol ti farebbe... io t'obbedii.

GUIDO.

Ingrata, il vel chieder potevi a un padre

A cui viva restavi unica prole?

Negar potevi a un genitor canuto

D'avere un dì sulle ginocchia un figlio

Della sua figlia?

FRANCESCA.

Non per me mi pento.

Iddio m'ha posto un incredibil peso

D'angoscia sovra il core, e a sopportarlo

Rassegnata son io. Gli anni miei tutti

Di lagrime incessanti abbeverato

Avrei del pari in solitaria cella

Come nel mondo. Ma di me dolente

Niuno avrei fatto!... liberi dal seno

Sariano usciti i miei gemiti a Dio,

Onde guardasse con pietà la sua

Creatura infelice, e la togliesse

Da questa valle di dolor!... Non posso

Nè bramar pure di morir: te affliggo,

O generoso sposo mio, vivendo:

T'affliggerei più, s'io morissi.

LANCIOTTO.

O pia

E in un crudele! Affliggimi, cospargi

Di velen tutte l'ore mie, ma vivi.

FRANCESCA.

Troppo tu m'ami. E temo ognor che in odio

Cangiar tu debba l'amor tuo... punirmi...

Di colpa ch'io non ho... d'involontaria

Colpa almeno....

LANCIOTTO.

Qual colpa?

FRANCESCA.

Io... debolmente

Amor t'esprimo...

LANCIOTTO.

E il senti? Ah, dirti cosa

Mai non volea ch'ora dal cor mi fugge!

Vorresti, e amarmi, oh ciel! nol puoi...

FRANCESCA.

Che pensi?

LANCIOTTO.

Rea non ti tengo... involontarii sono

Spesso gli affetti...

FRANCESCA.

Che?

LANCIOTTO.

Perdona. Rea

Io non ti tengo, tel ridico, o donna:

Ma il tuo dolor... sarebbe mai... di forte

Alma in conflitto con biasmato... amore?

FRANCESCA.

(
Gettandosi nelle braccia di Guido.
)

Ah, padre, salva la mia fama. Digli,

E giuramento abbine tu, che giorni

Incolpabili io trassi al fianco tuo,

E che al suo fianco io non credea che un'ombra

Pur di sospetto mai data gli avessi.

LANCIOTTO.

Perdona: amore è di sospetti fabbro.—

Io fra me spesso ben dicea: Se pure,

Fanciulla ancor, d'immacolato amore

Si fosse accesa, e or tacita serbasse

Il sovvenir d'un mio rival, cui certo

Ella antepone il suo dover, qual dritto

Di esacerbar la cruda piaga avrei,

Indagando l'arcano? Eterno giaccia

Nel suo innocente cor, s'ella ha un arcano!

Ma dirlo deggio? Il dubbio mio s'accrebbe

Un dì che al fratel tuo lodi tessendo,

Io m'accingeva a consolarti. Invasa

Da trasporto invincibile, sclamasti:

Dove, o segreto amico mio del cuore,

Dove n'andasti? Perchè mai non torni,

Sì che pria di morire io ti riveggia?

FRANCESCA.

Io dissi?

LANCIOTTO.

Nè a fratel volti que' detti

Parean.

FRANCESCA.

Fin nel delirio, agl'infelici

Scrutar vuolsi il pensier? Sono infelici,

Nè basta: infami anch'esser denno. Ognuno

Contro l'afflitto spirto lor congiura;

Ognun... pietà di lor fingendo... gli odia;

Non pietà no, la tomba chieggon... Quando

Più sopportarmi non potrai, la tomba

Aprimi sì; discenderovvi io lieta:

Lieta pur ch'io... da ogn'uom fugga!

GUIDO.

Vaneggi?

Figlia...

LANCIOTTO.

Quai su di me vibri tremendi

Sguardi! Che li fec'io?

FRANCESCA.

Di mie sciagure

La cagion non sei tu?... Perchè strapparmi

Dal suol che le materne ossa racchiude?

Là calmato avria il tempo il dolor mio;

Qui tutto il desta, e lo rinnova ognora...

Passo non fo ch'io non rimembri...—Oh insana!

Fuor di me son. Non creder, no...

LANCIOTTO.

... A Ravenna,

Francesca, sì, col genitor n'andrai.

GUIDO.

Prence, t'arresta.

LANCIOTTO.

Oh, a' dritti miei rinunzio.

Dalla tua patria non verrò a ritorti:

Chi orror t'ispira, ed è tuo sposo, e t'ama

Pur tanto, più non rivedrai... se forse

Pentita un giorno e a pietà mossa, al tuo

Misero sposo non ritorni... E forse,

Dall'angosce cangiato, ah, ravvisarmi

Più non saprai! Ben io, ben io nel core

La tua presenza sentirò: al tuo seno

Volerò perdonandoti.

FRANCESCA.

Lanciotto,

Tu piangi?

GUIDO.

Ah figlia!

FRANCESCA.

Padre mio! Vedesti

Figlia più rea, più ingrata moglie? iniqui

Detti mi sfuggon nel dolor, ma il labbro

Sol li pronuncia.

GUIDO.

Ah, di tuo padre i giorni

Non accorciar, nè del marito vane

Far le virtù per cui degna e adorata

Consorte il ciel gli concedea! Più lieve

Sarà la terra sovra il mio sepolcro,

Se un dì, toccando, giurerai che lieto

Di prole festi e del tuo amor lo sposo.

FRANCESCA.

Io accorcerei del padre mio la vita?

No. Figlia e moglie esser vogl'io: men doni

Lo forza il ciel. Meco il pregate!

GUIDO.

Rendi

A mia figlia la pace!

LANCIOTTO.

... Alla mia sposa!

SCENA III.

Un Paggio e Detti.

PAGGIO.

L'ingresso chiede un cavalier.

FRANCESCA.

(
A Guido.
)

Tu d'uopo

Hai di riposo: alle tue stanze, o padre,

Vieni.
(
Parte con Guido.
)

SCENA IV.

LANCIOTTO e il Paggio.

LANCIOTTO.

Il suo nome?

PAGGIO.

Il nome suo tacea:

Supporlo io posso. Entrò negli atrii, e forte

Commozïone l'agitò: con gioja

Guardava l'armi de' tuoi avi appese

Alle pareti: di tuo padre l'asta

E lo scudo conobbe.

LANCIOTTO.

Oh Paolo! Oh mio

Fratello!

PAGGIO.

Ecco a te viene.

SCENA V.

PAOLO e LANCIOTTO
si corrono incontro e restano lungamente abbracciati.

LANCIOTTO.

Ah, tu sei desso,

Fratel!

PAOLO.

Lanciotto! mio fratello!—Oh sfogo

Di dolcissime lacrime!

LANCIOTTO.

L'amico,

L'unico amico de' miei teneri anni

Da te diviso, oh, come a lungo io stetti.

PAOLO.

Qui t'abbracciai l'ultima volta... Teco

Un altr'uomo io abbracciava: ei pur piangea...

Più rivederlo io non doveva?

LANCIOTTO.

Oh padre!

PAOLO.

Tu gli chiudesti i moribondi lumi.

Nulla ti disse del suo Paolo?

LANCIOTTO.

Il suo

Figliuol lontano egli moria chiamando.

PAOLO.

Me benedisse?—Egli dal ciel ci guarda,

Ci vede uniti e ne gioisce. Uniti

Sempre saremo d'ora innanzi. Stanco

Son d'ogni vana ombra di gloria. Ho sparso

Di Bizanzio pel trono il sangue mio,

Debellando città ch'io non odiava,

E fama ebbi di grande, e d'onor colmo

Fui dal clemente imperador: dispetto

In me facean gli universali applausi.

Per chi di stragi si macchiò il mio brando?

Per lo straniero. E non ho patria forse

Cui sacro sia de' cittadini il sangue?

Per te, per te, che cittadini hai prodi,

Italia mia, combatterò; se oltraggio

Ti moverà la invidia. E il più gentile

Terren non sei di quanti scalda il sole?

D'ogni bell'arte non sei madre, o Italia?

Polve d'eroi non è la polve tua?

Agli avi miei tu valor desti e seggio,

E tutto quanto ho di più caro alberghi!

LANCIOTTO.

Vederti, udirti, e non amarti... umana

Cosa non è.—Sien grazie al cielo, odiarti

Ella, no, non potrà.

PAOLO.

Chi?

LANCIOTTO.

Tu non sai:

Manca alla mia felicità qui un altro

Tenero pegno.

PAOLO.

Ami tu forse?

LANCIOTTO.

Oh se amo!

La più angelica donna amo... e la donna

Più sventurata.

PAOLO.

Io pur amo; a vicenda

Le nostre pene confidiamci.

LANCIOTTO.

Il padre

Pria di morire un imeneo m'impose,

Onde stabile a noi pace venisse.

Il comando eseguii.

PAOLO.

Sposa t'è dunque

La donna tua? nè lieto sei? Chi è dessa?

Non t'ama?

LANCIOTTO.

Ingiusto accusator, non posso

Dir che non m'ami. Ella così te amasse!

Ma tu un fratello le uccidesti in guerra,

Orror le fai, vederti niega.

PAOLO.

Parla,

Chi è dessa? chi?

LANCIOTTO.

Tu la vedesti allora

Che alla corte di Guido...

PAOLO.

Essa...

(
Reprimendo la sua orribile agitazione.
)

LANCIOTTO.

La figlia

Di Guido.

PAOLO.

E t'ama! Ed è tua sposa?—È vero;

Un fratello... le uccisi...

LANCIOTTO.

Ed incessante

Duolo ne serba. Poichè udì che in patria

Tu ritornavi, desolata abborre

Questo tetto.

PAOLO.

(
Reprimendosi sempre.
)

Vedermi, anco vedermi

Niega?—Felice io mi credeva accanto

Al mio fratel.—Ripartirò... in eterno

Vivrò lontano dal mio patrio tetto.

LANCIOTTO.

Fausto ad ambi ugualmente il patrio tetto

Sarà. Non fia che tu mi lasci.

PAOLO.

In pace

Vivi; a una sposa l'uom tutto pospone.

Amala...—Ah, prendi questo brando, il tuo

Mi dona! rimembranza abbilo eterna

Del tuo Paolo.

(
Eseguisce con dolce violenza questo cambio.
)

LANCIOTTO.

Fratel...

PAOLO.

Se un giorno mai

Ci rivedrem, s'io pur vivrò... più freddo

Batterà allora il nostro cuor... il tempo

Che tutto estingue, estinto avrà... in Francesca

L'odio... e fratel mi chiamerà.

LANCIOTTO.

Tu piangi.

PAOLO.

Io pure amai! Fanciulla unica al mondo

Era quella al mio sguardo.... ah, non m'odiava,

No; non m'odiava.

LANCIOTTO.

E la perdesti?

PAOLO.

Il cielo

Me l'ha rapita!

LANCIOTTO.

D'un fratel l'amore

Ti sia conforto. Alla tua vista, a' modi

Tuoi generosi placherassi il core

Di Francesca medesma... Or vieni...

PAOLO.

Dove?...

A lei dinanzi... non fia mai ch'io venga!

FINE DELL'ATTO PRIMO.

ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

GUIDO e FRANCESCA.

FRANCESCA.

Qui... più libera è l'aura.

GUIDO.

Ove t'aggiri

Dubitando così?

FRANCESCA.

Non ti parea

La voce udir... di... Paolo?

GUIDO.

Timore

Or di vederlo non ti prenda. Innanzi

Non ti verrà, se tu nol brami.

FRANCESCA.

Alcuno

Gli disse ch'io... l'abborro? glien duol forse?

GUIDO.

Assai glien duol. Volea partir; Lanciotto

Ne lo trattenne.

FRANCESCA.

Egli partir volea?

GUIDO.

Or più quieto hai lo spirto. Oggi Lanciotto

Spera che del fratel suo la presenza

Tu sosterrai.

FRANCESCA.

Padre, mio padre! Ah, senti...

Questo arrivo... deh, senti, come forti

Palpiti desta nel mio sen!—Deserta

Rimini mi parea; muta, funebre

Mi parea questa casa; ora... Deh, padre,

Mai non lasciarmi, deh, mai più! Sol teco

Giubilar oso e piangere; nemico

Tu non mi sei... Pietà di me tu avresti,

Se...

GUIDO.

Che?

FRANCESCA.

Se tu sapessi...—Oh, quanto amaro

M'è il vivere solinga! Ah, tu pietoso

Consolator mi sei!... Fuorchè te, o padre,

Non evvi alcun dinanzi a cui non tremi,

Dinanzi a cui tutti del core i moti

Io non debba reprimere... Nascosto

Non tengo il cor; facil s'allegra e piange:

E mostrar mai nè l'allegria nè il pianto

Lecito m'è. Tradirmi posso; guai,

Guai se con altri un detto mi sfuggisse!...

Tu... più benigno guarderesti i mali

Della tua figlia... E se in periglio fosse...

Ne la trarresti con benigna mano.

GUIDO.

No, il cor nascosto tu non tieni... I tuoi

Pensier segreti... più non son segreti,

Quando col tuo tenero padre stai.

FRANCESCA.

Tutto... svelarti bramerei... Che dico?

Ove mi celo? Oh terra, apriti, cela

La mia vergogna!

GUIDO.

Parla; il ciel t'ispira.

Abbi fiducia. Il fingere è supplizio

Per te...

FRANCESCA.

Dovere è il fingere, dovere

Il tacer, colpa il dimandar conforto;

Colpa il narrar sì reo delitto a un padre,

Che il miglior degli sposi alla sua figlia

Diede... e felice non la fe'!

GUIDO.

Me lasso!

Il carnefice tuo dunque son io?

FRANCESCA.

Oh buon padre! nol sei...—Vacillar sento

La mia debol virtù.—Tremendo sforzo,

Ma necessario! Salvami, sostienmi!

Lunga battaglia fin ad ora io vinsi;

Ma questi di mia vita ultimi giorni

Tremarmi fanno... Aita, o padre, ond'io

Santamente li chiuda.—Ah, sì! Lanciotto

Ben sospettò, ma rea non son! fedele

Moglie a lui son, fedel moglie esser chieggo!..—

Padre... sudar la tua fronte vegg'io...

Da me torci gli sguardi... inorridisci...

GUIDO.

Nulla, figlia, raccontami...

FRANCESCA.

Ti manca

Lo spirto. Oh ciel!

GUIDO.

Nulla, mia figlia.—Un breve

Disordin qui... qui nella mente...—Ah, dolce

A vecchio padre è l'appoggiar le inferme

Membra su figli non ingrati!

FRANCESCA.

Oh, è vero!

Giusta è la tua rampogna; ingrata figlia,

Ingrata io son: puniscimi.

GUIDO.

—Qual empio

Di sacrilega fiamma il cor t'accese?

FRANCESCA.

Empio ei non è, non sa, non sa ch'io l'amo;

Egli non m'ama.

GUIDO.

Ov'è? Per rivederlo

Forse a Ravenna ritornar volevi?

FRANCESCA.

Per fuggirlo, mio padre!

GUIDO.

Ov'è colui?

Rispondi; ov'è?

FRANCESCA.

Pietà mi promettesti;

Non adirarti. È in Rimini...

GUIDO.

—Chi giunge!

SCENA II.

LANCIOTTO e Detti.

LANCIOTTO.

Turbati siete?... Eri placata or dianzi.

GUIDO.

Diman, Francesca, partirem.

LANCIOTTO.

Che dici?

GUIDO.

Francesca il vuol.

FRANCESCA.

Padre!

GUIDO.

Oseresti?...

(
Parte guardandola minacciosamente.
)

SCENA III.

LANCIOTTO e FRANCESCA.

FRANCESCA.

Ahi, crudo

Più di tutti è mio padre!

LANCIOTTO.

Abbandonarmi

Più non volevi; io ti credea commossa

Dal dolor mio. Per fuggir Paolo, d'uopo

Che tu parta non è; partir vuol egli.

FRANCESCA.

Partir?

LANCIOTTO.

Funesta gli parria la vita

Ne' suoi penati, ove abborrito ei fosse.

FRANCESCA.

Tanto gl'incresce?

LANCIOTTO.

Invan distornel volli;

Di ripartir fe' giuramento.

FRANCESCA.

Ei molto

Te ama...

LANCIOTTO.

Soave e generoso ha il core.

Debole amor (pari m'è in ciò) non sente...

E pari a me, d'amor vittima ei vive!

FRANCESCA.

D'amor vittima?

LANCIOTTO.

Sì. Non reggerebbe

Il tuo medesmo cuor, se tu l'udissi...

FRANCESCA.

Or perchè viene a queste piagge adunque?

Cred'ei che m'abbia alcun altro fratello

Onde rapirmel?... Per mio solo danno,

Certo, ei qui venne.

LANCIOTTO.

Ingiusta donna! Ei prega,

Pria di partir, che un sol istante l'oda,

Che un solo istante tu lo veggia.—Ah, pensa

Ch'ei t'è cognato; che novelli imprende

Lunghi viaggi; che più forse mai

Nol rivedrem! Religion ti parli.

Se un nemico avess'io, che l'oceàno

In procinto a varcar, la destra in pria

A porgermi venisse... io quella destra

Con tenerezza stringerei, sì dolce

È il perdonar.

FRANCESCA.

Deh, cessa!.. Oh mia vergogna!

LANCIOTTO.

Chi sa, direi, se quel vasto oceàno,

Fin che viviam, frapposto ognor non fia

Tra quel mortale e me? Sol dopo morte,

In cielo... E tutti noi là ci vedremo...

Là non potremo esser divisi. Oh donna,

Il fratello abborrir là non potrai!

FRANCESCA.

Sposo, deh, sappi... Ah, mi perdona!

LANCIOTTO.

Vieni,

Fratello!

FRANCESCA.

Oh Dio!

(
Si getta nelle braccia di Lanciotto.
)

SCENA IV.

PAOLO e Detti.

PAOLO.

—Francesca!... eccola... dessa!

LANCIOTTO.

Paolo, t'avanza.

PAOLO.

E che dirò?—Tu dessa?—

Ma s'ella niega di vedermi, udirmi

Consentirà? Meglio è ch'io parta, in odio

Le sarò men.—Fratel, dille che al suo

Odio perdono, e che nol merto. Un caro

German le uccisi; io nol volea. Feroce

Ei che perdenti avea le schiere, ei stesso

S'avventò sul mio brando; io di mia vita

Salvo a costo l'avria.—

FRANCESCA.

(
Sempre abbracciata al marito, senza osar di levar la faccia.
)

—Sposo, è partito?

Partito è Paolo?.. Alcuno odo che piange;

Chi è?

PAOLO.

Francesca io piango; io de' mortali

Sono il più sventurato! Anche la pace

De' lari miei non m'è concessa. Il core

Assai non era lacerato? assai

Non era il perder... l'adorata donna?

Anche il fratello, anche la patria io perdo!

FRANCESCA.

Cagion mai non sarò ch'un fratel l'altro

Debba fuggir. Partir vogl'io; tu resta,

Uopo ha Lanciotto d'un amico.

PAOLO.

Oh! l'ami?...

A ragion l'ami. Io pur l'amo... E pugnando

In remote contrade... e quando i vinti

E le spose e le vergini io salvava

Dal furor delle mie turbe vincenti,

E d'ogni parte m'acclamavan tutti

Fortissimo guerrier, ma guerrier pio...

Dolce memoria del fratello amato

Mi ricorreva, e mi parea che un giorno

Mi rivedrebbe con gentile orgoglio...

E tutta Italia e sue leggiadre donne

Avrian proferto amabilmente il nome

Dell'incolpabil cavaliero.—Ah, infausti

M'erano que' trionfi! il valor mio

Infausto m'era!

FRANCESCA.

Dunque tu in remote

Contrade combattendo... ai vinti usavi

Spesso pietà? Le vergini e le spose

Salvavi? Là colei forse vedesti

Che nell'anima tua regna.—Che parlo?

Oh insana.—Vanne. Io t'odio, sì!

PAOLO.

(
Risolutamente.
)

Lanciotto,

Addio.—Francesca!...

FRANCESCA.

(
Udendo ch'egli parte, gli getta involontariamente uno sguardo.
)

PAOLO.

(
Vorrebbe parlare; è in una convulsione terribile, e temendo di tradirsi fugge.
)

LANCIOTTO.

Paolo: deh, ti ferma!

SCENA V.

LANCIOTTO e FRANCESCA.

FRANCESCA.

Paolo... Misera me!

LANCIOTTO.

Pietà di lui

Senti, barbara, o fingi? A che ti stempri

In lagrime or, se noi tutti infelici

Render vuoi tu? Favella; io ragion chieggo

De' tuoi strani pensieri; alfin son stanco

Di sofferirli.

FRANCESCA.

E sono pure io stanca

Di tue ingiuste rampogne; ed avrò pace

Sol quando fia ch'io più non veggia... il mondo!

FINE DELL'ATTO SECONDO.

ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

PAOLO.

Vederla... sì, l'ultima volta. Amore

Mi fa sordo al dover. Sacro dovere

Saria il partir, più non vederla mai!...

Nol posso. Oh! come mi guardò! Più bella

La fa il dolor: più bella, sì, mi parve;

Più sovrumana! E la perdei? Lanciotto

Me l'ha rapita? oh rabbia! oh!.. il fratel mio

Non amo? Egli è felice... ei lungamente

Lo sia... Ma che? per farsi egli felice

Squarciar doveva ei d'un fratello il core?

SCENA II.

FRANCESCA
s'avanza senza veder
PAOLO.

FRANCESCA.

Ov'è mio padre? almen da lui sapessi

Se ancor qui alberga... il mio... cognato!—Io queste

Mura avrò care sempre... Ah, sì, lo spirto

Esalerò su questo sacro suolo

Ch'egli asperse di pianto!... Empia, discaccia

Sì rei pensieri: io son moglie!...

PAOLO.

—Favella

Seco medesma, e geme.

FRANCESCA.

Ah, questo loco

Lasciar io deggio: di lui pieno è troppo!

Al domestico altar ritrarmi io deggio...

E giorno e notte innanzi a Dio prostrata

Chieder mercè de' falli miei; che tutta

Non m'abbandoni, degli afflitti cuori

Refugio unico, Iddio.
(
Per partire.
)

PAOLO.

(
Avanzandosi.
)

Francesca...

FRANCESCA.

Oh vista!—

Signor... che vuoi?

PAOLO.

Parlarti ancor.

FRANCESCA.

Parlarmi?—

Ahi, sola io son!... Sola mi lasci, o padre?

Padre, ove sei? la tua figlia soccorri!—

Di fuggir forza avrò.

PAOLO.

Dove?

FRANCESCA.

Signore...

Deh, non seguirmi! il voler mio rispetta;

Al domestico altar qui mi ritraggo:

Del cielo han d'uopo gl'infelici.

PAOLO.

A' piedi

De' miei paterni altar teco verronne.

Chi di me più infelice? Ivi frammisti

I sospir nostri s'alzeranno. Oh donna!

Tu invocherai la morte mia, la morte

Dell'uom che abborri... io pregherò che il cielo

Tuoi voti ascolti e all'odio tuo perdoni,

E letizia t'infonda, e lunga serbi

Giovinezza e beltà sul tuo sembiante,

E a te dia tutto che desiri!... tutto!...

Anche... l'amor del tuo consorte... e figli

Da lui beati!

FRANCESCA.

Paolo, deh!—Che dico?—

Deh, non pianger. La tua morte non chieggo.

PAOLO.

Pur tu m'abborri...

FRANCESCA.

E che ten cal, s'io deggio

Abborrirti?... La tua vita non turbo.

Diman io qui più non sarò. Pietosa

Al tuo germano compagnia farai.

Della perdita mia tu lo consola:

Piangerà ei certo... Ah, in Rimini, egli solo

Piangerà, quando gli fia noto!...—Ascolta.

Per or, non digliel. Ma tu, sappi... ch'io

Non tornerò più in Rimini: il cordoglio

M'ucciderà. Quando al mio sposo noto

Ciò fia, tu lo consola: e tu... per lui...

Tu pur versa una lagrima.

PAOLO.

Francesca,

Se tu m'abborri che mi cale? e il chiedi?

E l'odio tuo la mia vita non turba?

E questi tuoi detti funesti?...—Bella

Come un angiol, che Dio crea nel più ardente

Suo trasporto d'amor... cara ad ognuno...

Sposa felice... e osi parlar di morte?

A me s'aspetta, che per vani onori

Fui strascinato da mia patria lunge,

E perdei...—Lasso! un genitor perdei.

Rïabbracciarlo ognor sperava. Ei fatto

Non m'avrebbe infelice, ove il mio cuore

Discoperto gli avessi... e colei data

M'avria... colei, che per sempre ho perduta.

FRANCESCA.

Che vuoi tu dir? Della tua donna parli...

E senza lei sì misero tu vivi?

Sì prepotente è nel tuo petto amore?

Unica fiamma esser non dee nel petto

Di valoroso cavaliere, amore.

Caro gli è il brando e la sua fama; egregi

Affetti son. Tu seguili; non fia

Che t'avvilisca amor.

PAOLO.

Quai detti? Avresti

Di me pietà? Cessar d'odiarmi alquanto

Potresti, se col brando io m'acquistassi

Fama maggior? Un tuo comando basta.

Prescrivi il luogo e gli anni. A' più remoti

Lidi mi recherò; quanto più gravi

E perigliose troverò le imprese,

Vie più dolci mi fien, poichè Francesca

Imposte me l'avrà. L'onore assai

E l'ardimento mi fan prode il braccio;

Più il farà prode il tuo adorato nome.

Contaminate non saran mie glorie

Da tirannico intento. Altra corona,

Fuorchè d'alloro, ma da te intrecciata,

Non bramerò, solo un tuo applauso, un detto,

Un sorriso, uno sguardo...

FRANCESCA.

Eterno Iddio!

Che è questo mai?

PAOLO.

T'amo, Francesca, t'amo,

E disperato è l'amor mio!

FRANCESCA.

Che intendo?

Deliro io forse? che dicesti?

PAOLO.

Io t'amo!

FRANCESCA.

Che ardisci? Ah taci! Udir potrian... Tu m'ami!

Sì repentina è la tua fiamma? Ignori

Che tua cognata io son? Porre in obblìo

Sì tosto puoi la tua perduta amante?...

Misera me! questa mia man, deh, lascia!

Delitto sono i baci tuoi!

PAOLO.

Repente

Non è, non è la fiamma mia. Perduta

Ho una donna, e sei tu; di te parlava

Di te piangea; te amava; te sempre amo;

Te amerò sino all'ultim'ora! e s'anco

Dell'empio amor soffrir dovessi eterno

Il castigo sotterra, eternamente

Più e più sempre t'amerò!

FRANCESCA.

Fia vero?

M'amavi?

PAOLO.

Il giorno che a Ravenna io giunsi

Ambasciator del padre mio, ti vidi

Varcare un atrio col feral corteggio

Di meste donne, ed arrestarti a' piedi

D'un recente sepolcro, e ossequïosa

Ivi prostrarti, e le man giunte al cielo

Alzar con muto ma dirotto pianto.

Chi è colei? dissi a talun.—La figlia

Di Guido, mi rispose.—E quel sepolcro?—

Di sua madre il sepolcro.—Oh, quanta al core

Pietà sentii di quell'afflitta figlia!

Oh qual confuso palpitar!... Velata

Eri, o Francesca: gli occhi tuoi non vidi

Quel giorno, ma t'amai fin da quel giorno.

FRANCESCA.

Tu... deh, cessa!... m'amavi?

PAOLO.

Io questa fiamma

Alcun tempo celai, ma un dì mi parve

Che tu nel cor letto m'avessi. Il piede

Dalle virginee tue stanze volgevi

Al secreto giardino. E presso al lago

In mezzo ai fior prosteso, io sospirando

Le tue stanze guardava: e al venir tuo

Tremando sorsi.—Sopra un libro attenti

Non mi vedeano gli occhi tuoi; sul libro

Ti cadeva una lagrima... Commosso

Mi t'accostai. Perplessi eran miei detti,

Perplessi pure erano i tuoi. Quel libro

Mi porgesti e leggemmo. Insiem leggemmo

«Di Lancillotto come amor lo strinse.

«Soli eravamo e senza alcun sospetto...

Gli sguardi nostri s'incontraro... il viso

Mio scolorossi... tu tremavi... e ratta

Ti dileguasti.

FRANCESCA.

Oh giorno! A te quel libro

Restava.

PAOLO.

Ei posa sul mio cuor. Felice

Nella mia lontananza egli mi fea.

Ecco: vedi le carte che leggemmo.

Ecco: vedi, la lagrima qui cadde

Dagli occhi tuoi quel dì.

FRANCESCA.

Va' ti scongiuro,

Altra memoria conservar non debbo

Che del trafitto mio fratel.

PAOLO.

Quel sangue

Ancor versato io non aveva. Oh patrie

Guerre funeste! Quel versato sangue

Ardir mi tolse. La tua man non chiesi:

E in Asia trassi a militar. Sperava

Rieder tosto, e placata indi trovarti,

Ed ottenerti. Ah, d'ottenerti speme

Nutria, il confesso.

FRANCESCA.

Ohimè! ten prego, vanne:

Il doler mio, la mia virtù rispetta.—

Chi mi da forza, ond'io resista?

PAOLO.

Ah, stretta

Hai la mia destra? Oh gioja! dimmi: stretta

Perchè hai la destra mia?

FRANCESCA.

Paolo!

PAOLO.

Non m'odii?

Non m'odii tu?

FRANCESCA.

Convien ch'io t'odii.

PAOLO.

E il puoi?

FRANCESCA.

Nol posso.

PAOLO.

Oh detto! ah, mel ripeti! Donna,

Non m'odii tu?

FRANCESCA.

Troppo ti dissi. Ah crudo!

Non ti basta? Va', lasciami.

PAOLO.

Finisci.

Non ti lascio, se in pria tutto non dici.

FRANCESCA.

E non tel dissi... ch'io t'amo.—Ah, dal labbro

M'uscì l'empia parola!.. io t'amo, io muojo

D'amor per te... Morir bramo innocente:

Abbi pietà!

PAOLO.

Tu m'ami? tu?... L'orrendo

Mio affanno vedi. Disperato io sono:

Ma la gioja che in me scorre fra questo

Disperato furor, tale e sì grande

Gioja è, che dirla non poss'io. Fia vero

Che tu m'amassi?... E ti perdei!

FRANCESCA.

Tu stesso

M'abbandonasti, o Paolo. Io da te amata

Creder non mi potea.—Vanne: sia questa

L'ultima volta...

PAOLO.

Ch'io mai t'abbandoni

Possibile non è. Vederci almeno

Ogni giorno!...

FRANCESCA.

E tradirci? e nel mio sposo

Destar sospetti ingiuriosi? e macchia

Al nome mio recar? Paolo, se m'ami,

Fuggimi.

PAOLO.

Oh sorte irreparabil! Macchia

Al tuo nome io recar? No!—Sposa d'altri

Tu sei. Morir degg'io. La rimembranza

Di me scancella dal tuo seno: in pace

Vivi. Io turbai la pace tua: perdona.—

Deh, no, non pianger! non amarmi!—Ah, lasso!

Che dico? Amami, si: piangi sul mio

Precoce fato...—Odo Lanciotto. Oh cielo,

Dammi tu forza!—(
Chiamando.
) A me, fratel!

SCENA III.

LANCIOTTO, GUIDO
e Detti.

PAOLO.

L'estremo

Amplesso or dammi.

LANCIOTTO.

E invan...

PAOLO.

Nè un detto solo

A' miei voleri oppor. Funesti augurii

Qui meco trassi: guai s'io!...

LANCIOTTO.

Che favelli?

Sdegno ti sta sul ciglio!

PAOLO.

—Ah! non di noi...

Del destino è la colpa.—Addio, Francesca.

FRANCESCA.

(
Quasi fuor di se con grido convulsivo.
)

Paolo... Ferma!

LANCIOTTO.

Qual voce!

GUIDO.

(
Reggendo la figlia.
)

Oimè le manca

Il respiro.

PAOLO.

(
In atto di partire.
)

Francesca...

FRANCESCA.

Ei parte... io muojo.

(
Sviene nelle braccia di Guido.
)

PAOLO.

Francesca... oh vista... si soccorra.

GUIDO.

Figlia...

(
Francesca è recata nelle sue stanze.
)

SCENA IV.

LANCIOTTO E PAOLO.

LANCIOTTO.

Paolo... Che intendo?... Orrendo lampo scorre

Sugli occhi miei.

PAOLO.

Barbaro! godi: è spenta...

Morir mi lascia: fuggimi.
(
Parte.
)

SCENA V.

LANCIOTTO.

Fia vero?

Essa amarlo? E fingea!...No: dall'inferno

Questo pensier mi vien... pur...—Dalla reggia

L'uscire a Paolo s'interdica: a forza

Gli s'interdica.—Oh truce vel! si squarci.

FINE DELL'ATTO TERZO.

ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

LANCIOTTO e Paggio.

LANCIOTTO.

Che? Guido affretta il suo partir? Vederla

Voglio, veder voglio Francesca. Innanzi

Anche colui mi venga... Paolo.

PAGGIO.

Il tuo

Fratello?

LANCIOTTO.

Il mio... fratello.

SCENA II.

LANCIOTTO.

Il mio fratello!

Fratello m'è: più orribile è il delitto.—

Essa l'odiava! ah menzognera! Io pure

A quell'odio credei. La lontananza

Di lui, cagione di sue lagrime era.

A rieder forse in Rimini Francesca

Secretamente l'invitò.—Ti frena,

O pensier mio; feroce mi consigli

La mandi porre ahi! su quest'elsa...io tremo!

SCENA III.

GUIDO e LANCIOTTO.

LANCIOTTO.

Fuggirmi forse è di tua figlia intento?

Senza ch'io'l sappia spera ella fuggirmi!

E tu a sue brame...

GUIDO.

È necessario!

LANCIOTTO.

Ah, rea

Dunque è tua figlia!

GUIDO.

No: tremendo fato

Noi tutti danna a interminabil pianto!

LANCIOTTO.

Rea non la chiami, e d'esecrando foco

Arde?

GUIDO.

Ma forte duol ne sente, e implora

Di fuggir da colui.—Ripigliò appena

I sensi, e pieno io di vergogna e d'ira

Dagli occhi tuoi la trassi: ed obbliando

Quasi d'esserle padre, a' piè d'un santo

Simulacro prostratala, snudai

Sul suo capo l'acciaro, ahi, minacciando

Di trucidarla e in un di maledirla,

Se il ver taceva. Fra singhiozzi orrendi

Favellò l'infelice.

LANCIOTTO.

E che ti disse?

GUIDO.

M'affoga il pianto. Ella è mia figlia...—Porse

La sua gola all'acciaro, e lagrimosi

Figgeva gli occhi negli asciutti miei.—

Sei tu colpevol? (le gridai) rispondi,

Sei tu colpevol?... pronunciar parola

Non poteva ella dall'angoscia... A forza

Mi si commosse il cor. Per non vederla

Torsi gli sguardi, e mi sentii le piante

Abbracciare, e lei, prono a terra il volto,

Sclamar con voce moribonda: Padre,

Sono innocente.—Giuralo.—Tel giuro!...

Ed io in silenzio m'asciugava il ciglio.—

Sono innocente, replicò tre volte...

Gettai l'acciar, l'alzai: la strinsi al seno...

Padre infelice e offeso son, ma padre.

LANCIOTTO.

Oh rabbia! L'ama ed innocenza vanta?

Lunge dagli occhi miei, più allegro amore

Con Paolo spera; ah, sen lusinga in vano!

Di seguirla a Ravenna ei le promette...

Oh traditor!.. Siete in mie mani ancora.

GUIDO.

Queste canute mie chiome rispetta.

Salvarla io deggio... tu, più non vederla.

(
Parte.
)

SCENA IV.

LANCIOTTO e PAOLO.

LANCIOTTO.

Sciagurato, t'avanza.

PAOLO.

Uso non sono

Ad ascoltar sì acerbi modi: in altri

Rintuzzarli saprei. Ma in te del padre

L'autorità con sofferenza onoro.—

Parli a fratello o a suddito?

LANCIOTTO.

...A fratello.—

Rispondi, Paolo. Se tua sposa fosse

Colei; se alcuno a te il suo cor rapisse,

E se quei fosse il tuo più dolce amico...

Un uom che, mentre ti tradia, stringevi

Come più che fratello al seno tuo...

Che faresti di lui?—Pensavi.

PAOLO.

Io sento

Quanto ti costa l'esser mite.

LANCIOTTO.

Il senti?

Fratello, il senti quanto costa?—Il nostro

Padre nomasti. Ei mite era co' figli,

Anche se rei credevali.

PAOLO.

Tu solo

Succedergli mertavi. E che mai dirti?

Oh, come atterri la baldanza mia!

Anch'io talor magnanimo mi credo:

Al par di te nol son.

LANCIOTTO.

Di': se tua sposa

Fosse?

PAOLO.

Francesca? Ah, d'un rival pur l'ombra

Non soffrirei.

LANCIOTTO.

Se un tuo fratello amarla

Osasse?

PAOLO.

Più non mi sarìa fratello.

Guai a colui! Lo sbranerei col mio

Pugnal, chiunque il traditor si fosse.

LANCIOTTO.

Me pure assal questo desio feroce,

E trattengo la man che al brando corre:

Credilo, a stento la trattengo. Ed osi

Del tuo delitto convenir? Sedurre

La sposa altrui, del tuo fratel la sposa!

PAOLO.

Meno crudel saresti, or se col brando

Tu mi svenassi. Un vil non son. Sedurre

Io quel purissimo angiolo del cielo?

Non fora mai. Chi di Francesca è amante

Un vil non è: lo foss'ei stato pria,

Più nol sarebbe amandola: sublime

Fassi ogni cor, dacchè v'è impressa quella

Sublime donna. Io perchè l'amo, ambisco

D'esser uman, religïoso e prode:

E perch'io l'amo, assai più forse il sono

Ch'esser non usan nè guerrier nè prenci.

LANCIOTTO.

E inverecondo più d'ogn'uom tu sei.

Vantarmi ardisci l'amor tuo?

PAOLO.

Se iniquo

Fosse il mio amor, tacer saprei, ma puro

È quanto immenso l'amor mio. Morire

Mille volte saprei pria che macchiarlo.—

Nondimen... veggio di partir la forte

Necessità.—Per la tua donna al tuo

Fratel rinuncia... ed in eterno!

LANCIOTTO.

Iniquo

Non è il tuo amore? E misero in eterno

Tu non mi rendi?... Obblierò ch'io m'ebbi

Un fratel caro: ma potrò dal core

Di Francesca strapparlo? E il cor di lei

Non porterai teco dovunque? Odiato

Vivrò al suo fianco. Nol dirà, pietosa,

Non mel dirà, ma ben il sento; ah, m'odia,

E tu, fellone, la cagion ne sei.

PAOLO.

L'amo, il confesso... Ma Francesca, oh cielo

Di lei non sospettar.

LANCIOTTO.

Anco ingannarmi

Vorresti? Il pensier tuo scerno. Tu temi

Che un giorno in lei mi vendichi, in Francesca,

Nella tua amante: e or più desio men prendi

Che? d'immolarvi non ho dritto? io regno:

Tradito sposo ed oltraggiato prence

Son io. Di me narri che vuoi la fama:

Di voi dirà: perfidi fur.

PAOLO.

La fama

Dirà: Qual colpa avea, se giovinetto

Paolo a Ravenna fu mandato, ed arse

Pel più leggiadro de' terrestri spirti?—

E tu quai dritti hai su di lei? Veduto

Mai non t'avea: sol per ragion di stato

La bramasti in isposa. Umani affetti

Non diè natura anco de' prenci ai figli?

Perchè il suo cor non indagasti pria

Di farla tua?

LANCIOTTO.

Che ardisci? aggiungi insulto

A insulto ancor? No, più non reggo.

(
Mette mano alla spada.
)

SCENA V.

GUIDO, FRANCESCA e Detti.

FRANCESCA.

(
Prima di uscire.
)

Padre!

Stringer l'arme li veggio.

GUIDO.

(
Vuol prima trattener Francesca; quindi si frappone tra Paolo e Lanciotto.
)

Ferma.—Ah, pace,

O esacerbati spiriti fraterni!

PAOLO.

Più della vita mi togliesti: poco

Del mio sangue mi cal, versalo.

FRANCESCA.

Il mio

Sangue versate: io sol v'offesi.

GUIDO.

Oh figlia!

LANCIOTTO.

Il sacro aspetto di tuo padre, o iniqua,

Per tua ventura ti difende. Statti

Fra le sue braccia: guai s'ei t'abbandona!

Obblierò che regia fu tua culla:

Peggio di schiava tratterotti. Infame

È l'amor tuo: più d'una schiava è infame

Una moglie infedel... Questa parola

Forsennato mi rende. Io tanto amarti,

Tanto adorarti, e tu spregiarmi?... Altero

Ho il cor, nol sai? tremendamente altero:

E oltraggi v'han, che perdonar non posso.

Onor mel vieta... Onor? che dissi? noto

Questo nome t'è forse?

GUIDO.

Arresta.

LANCIOTTO.

Io intendo,

Io dell'onor l'onnipossente voce:

Nè allorch'ei parla, più altra voce intendo,

E vibro il ferro ovunque accenni.

FRANCESCA.

Ah padre!

Ei non m'uccide, uccidimi tu, padre!

LANCIOTTO.

Vaneggio?... Voi raccapricciate?...—Oh Guido!

Quando canute avrò le chiome anch'io,

E vivrò nel passato, e freddamente

Guarderò i vizi e le virtù mie antiche...

Anche allor rimembrando un'adorata

Sposa che mi tradia, tutta l'antica

Disperata ira sentirò nel petto,

Ed imprecando fuggirò col guardo

Verso il sepolcro, onde mie angosce asconda.

Ma non verrà quel dì. Verso il sepolcro

Mi precipita l'empia oggi: del mio

Vicin sepolcro già il pensier l'allegra:

Di calpestarlo essa godrà... Seco altri,

A calpestarlo verrà forse!

FRANCESCA.

Oh cielo!

Dammi tu forza, ond'io risponda.—Io sorda

Alle voci d'onor... Se Paolo amai,

Vil non era il mio foco: Italo prence,

Cavalier prode, altro ei per me non era.

Popoli e regi lo lodavan. Tua

Sposa io non era... Ah, che favello? Giusto

È il tuo furor; dal petto mio non seppi

Scancellar mai quel primo amor! E il volli

Scancellar pur... Con quell'arcano io morta

Sarei, se Paolo or non riedea, tel giuro.

PAOLO.

Misera donna!

FRANCESCA.

A lui solo perdona;

Non al mio amante, al fratel tuo perdona.

LANCIOTTO.

Per Paolo preghi? Oh scellerata!...Uscirne

Di queste mura ambi credete? Insieme

Di riunirvi concertaste. Al padre

Di rapirti fors'anco ei ti promise.

PAOLO.

Oh vil pensier!

LANCIOTTO

Io vil?—Partirà l'empia

Sì; ma più te mai non vedrà.—Di guardie

Si circondi costui. Passo ei non muova

Fuor della reggia.

PAOLO.

Tanta ingiuria mai

Non soffrirò nel tetto mio paterno.

(
Vuol difendersi.
)

LANCIOTTO.

Tuo signor sono. Quel ribelle brando

Cedi.

PAOLO.

(
Oppresso dalle guardie.
)

Fratel... tu disarmarmi... Oh come

Cangiato sei!

FRANCESCA.

Pietà!... Paolo!

PAOLO.

Francesca!

LANCIOTTO.

Donna...

GUIDO.

Vieni; sottrati al furor suo.

FINE DELL'ATTO QUARTO.

ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

(La sala è illuminata da una lampada)

FRANCESCA e GUIDO.

FRANCESCA.

Deh, lo placasti?

GUIDO.

(
Venendo dalle stanze di Lanciotto.
)

Egli mi vide, e sorse

Spaventato dal letto.—Oh cielo! è giunta,

Sclamò, quest'alba sciagurata. Io debbo

Perder Francesca?... Ogni consiglio or cangio:

Senza lei viver non poss'io.—Frattanto

Lagrime amare gli piovean sul volto:

E or te nomando infuriava, or pieno

D'amor ti compiangea. Fra le mie braccia

Lungamente lo tenni, e con lui piansi,

Libero freno al suo dolor lasciando.

L'acquetai poscia con soavi detti,

E il convinsi che meglio è che tu parta

Senza vederlo. Andiam.

FRANCESCA.

Padre, non fia:

S'or nol riveggio, nol vedrò più mai.

Rancore ei serba contro di me: secura

Del suo perdono esser vogl'io.

GUIDO.

Ti calma.

Perdonato egli t'ha; perdonar Paolo

Pur mi promise.

FRANCESCA.

Oh gioja! Ma, deh, in questo

Sacro momento, non nomar, ten prego,

Colui che appieno obbliar deggio... e il bramo!

Già meno forte egli nel cor mi parla:

Già mi riparla la virtù perduta,

E il pentimento e la memoria sola

Dello sposo fedel che tu mi desti,

E ch'io non seppi amar.—Parlargli chieggo

Anco una volta. Deh, non adirarti!

Questa grazia m'ottieni. I miei rimorsi

Per la passata ingratitudin tutti

Mostrar gli vo': prostrarmi a' piedi suoi:

Di non sprezzarmi scongiurarlo. Vanne:

Digli che, s'io non lo riveggio, ahi parmi

Del perdono del ciel chiusa ogni speme.

GUIDO.

A forza il vuoi? Qui il condurrò.

SCENA II.

FRANCESCA.

—Per sempre

Dunque ti lascio, o Rimini diletta.

Addio, città fatale! addio, voi mura

Infelici, ma care! amata culla

Di... quei prenci... Che dico!—Eterno Iddio,

Per questa casa ultima prece io t'offro,

Bench'io sia rea, non chiuder, no, l'orecchio.

Nulla chieggo per me: per que' fratelli

Prego: tua destra onnipossente posi

Sul capo lor... Chi veggio?

SCENA III.

FRANCESCA e PAOLO.

PAOLO.

(
Prorompendo forsennato con una spada alla mano.
)

Oh sovrumana

Gioja! Vederla ancor m'è dato.—Ah, ferma!

Se tu fuggì, io t'inseguo.

FRANCESCA.

Audace! ahi lassa!

E come in armi?

PAOLO.

Sgombre ho le mie guardie

Coll'oro.

FRANCESCA.

Oh ciel! nuovi delitti...

PAOLO.

Io vengo

I delitti a impedir. Paga non fora

Contro me, credi, la gelosa rabbia

Del fratel mio; te immolar pensa. Orrendo

Spavento è quel ch'or qui mi tragge.—Al sonno

Chiusi dianzi le ciglia, ed oh qual truce

Visïone m'assalse! Immersa io vidi

Te nel tuo sangue moribonda: a terra

Mi gettai per soccorrerti... il mio nome

Proferivi, e spiravi!—Ahi disperato

Delirio! Invano mi svegliava, il fero

Sogno mi sta dinanzi agli occhi. Mira:

Sudor di morte da mie chiome gronda

Al rammentarlo.

FRANCESCA.

Calmati...

PAOLO.

Furente

M'alzai, corruppi i vili sgherri: un brando

Strinsi... Ahi, temea di più non rivederti!

Qui ti ritrovo: oh me felice!... Imponi:

Come del cor, del Braccio mio reina

Tu sei: morir per te desìo.

FRANCESCA.

Rientra,

Oh insano, in te. Quell'uom che oltraggi, a noi

Già perdonava. Fuggirai. Che speri?

PAOLO.

Se te col padre tuo salva non veggio

Fuor di queste pareti, abbandonarti

Non posso. Infausto, orribile presagio

Pe' giorni tuoi m'affanna.—Ah, tu non m'ami!

Tu rassegnata...

FRANCESCA.

Esserlo è d'uopo.

PAOLO.

Or dimmi:

Quando, ove mai ci rivedrem?

FRANCESCA.

Se in terra

Fine avrà... l'empio nostro amor...

PAOLO.

Non mai!...

Dunque non mai ci rivedrem!—Francesca,

Su questo cor poni la man. Talora

Tu questa mano ti porrai sul core

E de' palpiti miei ricorderatti:

Feroci sono: pochi fien!

FRANCESCA.

Oh amore!

PAOLO.

Adorata t'avrei: non fora un giorno

Passato mai ch'io non cercato avessi

Di farti ognora più e più felice...

M'avresti reso (oh incantatrice idea!)

Padre di prole a te simile: avrei

A' miei figli insegnato ad onorarti.

Dopo Dio prima, e come io t'amo amarti!

FRANCESCA.

Il solo udir questi tuoi detti è colpa.

PAOLO.

Nè mia giammai!...

FRANCESCA.

Che parli? Eternamente

Quant'io deggia al mio sposo e a' generosi

Suoi sacrifici sentirò. Solenne

Protesta or odi:—Se l'ingiusto fato

Lui seppellisse pria di me, perpetue

Conserverò le vedovili bende:

Nè coll'amarti mai, fuorchè in silenzio,

Offenderò la sua santa memoria.

PAOLO.

Mal m'intendesti: augurii empii non formo:

Viva e m'uccida il fratel mio. Ma lungi

Dall'ira sua tu pur, Francesca, ah, vivi:

Vivi, e in silenzio amami, sì!... Ne' mesti

Tuoi sogni spesso mi vedrai. Beata

Ombra dì e notte al fianco tuo starommi

Adorandoti ognor.

FRANCESCA.

Paolo...

PAOLO.

Tiranni

Gli uomini e il cielo fur con noi.

FRANCESCA.

T'acqueta.

Misera me! Non ci perdiamo... Ah, padre!

(
Chiamando.
)

PAOLO.

Più non ha dritti alla sua prole un padre

Che a sue voglie tiranniche l'immola.

Chi de' tuoi giovanili anni sepolto

Ha il fior nel pianto? Chi questa tremenda

Febbre in te mosse onde tutta ardi? All'orlo

Chi della tomba li spingeva?... Il padre!

FRANCESCA.

Empio, che dici?...—Odo fragor.

PAOLO.

Null'uomo

Potrà strapparti da mie braccia.

SCENA IV.

GUIDO, LANCIOTTO
e Detti
.

LANCIOTTO.

Oh vista!

Paolo?... Tradito da mie guardie sono...

Oh rabbia! e ad esser testimon di tanta

Infamia, o Guido, mi chiamasti? Ad arte

Ella a me ti mandò. Fuggire o farsi.

Ribelli a me volean: muojano entrambi.

(
Snuda il ferro e combatte contro Paolo.
)

FRANCESCA.

Oh rio sospetto!

GUIDO.

Scellerata figlia,

A maledirti mi costringi.

PAOLO.

Tutti,

O Francesca, t'abborrono: me solo

Difensor hai.

FRANCESCA.

Placatevi, o fratelli:

Fra i vostri ferri io mi porrò. La rea

Son io...

LANCIOTTO.

Muori!
(
La trafigge.
)

GUIDO.

Me misero!

LANCIOTTO.

E tu, vile,

Difenditi.

PAOLO.

(
Getta a terra la spada e si lascia ferire.
)

Trafiggimi.

GUIDO.

Che festi?

LANCIOTTO.

Oh ciel! qual sangue!

PAOLO.

Deh... Francesca...

FRANCESCA.

Ah, Padre!...

Padre... da te fui maledetta...

GUIDO.

Figlia,

Ti perdono!

PAOLO.

Francesca... ah!... mi perdona...

Io la cagion son di tua morte.

FRANCESCA.

Eterno...

Martir... sotterra... oimè... ci aspetta!

PAOLO.

Eterno

Fia il nostro amore... Ella è spirata... io muojo...

LANCIOTTO.

Ella è spirata.—Oh Paolo!—Ahi, questo ferro

Tu mi donasti! in me si torca.

GUIDO.

Ferma,

Già è tuo quel sangue; e basta, onde tra poco

Inorridisca al suo ritorno il sole.

FINE DELL'ATTO QUINTO ED ULTIMO.

ROSILDE

CANTICA.

Dove il trovatore componesse questa cantica non appare; soltanto vedesi ch'egli era fuori di patria ed infelice nelle agitazioni in cui si trovavano a que' tempi le repubbliche lombarde—presso le quali si ricava dai suoi poemi ch'egli peregrinò diverse volte—è probabile che ivi s'attraesse lo sdegno d'alcuna di esse o di Federigo.

ROSILDE.

Canzoni de' miei padri, antiche istorie

Che a' felici d'infanzia anni imparai

Nel mio alpestre idioma (inculta lingua

Ma d'affetti guerrieri e di mestizia

Gentilmente temprata e dolce al core!)

Riedete nel mio spirto: e col soave

Risovvenir delle pietose note

Illudetemi sì che a' miei dolori

E al carcere ov'espio vani ardimenti

Togliermi io creda, e a me ritornin l'ore

Di mie gioje infantili—o di Saluzzo

Nell'amato che prima aere spirai—

O sui fragranti colli onde di fiori

E limpid'acque Pinerolo è lieta—

O per gli Eridanini ameni poggi,

Ove la sera il Torinese ascolta

Della lontana villanella il metro

Che avventure d'eroi dice e d'amore.

Oh poetica terra! oh popolata

D'alte cavalieresche rimembranze

Or gaje or triste, commoventi sempre!

Tu la prima onda porgi e le tue valli

Il primo letto al giovin re de' fiumi,

Ed ei ne' campi tuoi cresce educato

Come in orto di fiori! E di quell'orto

Mentre il voluttuoso aere m'inebbria

Veggio intorno—ove ch'io l'occhio sollevi—

Con fiero atto seder sovra le alture

Negre castella, e scemasi a tal vista,

Ma no, non cessa e sol natura cangia

La voluttà che mi ridea nel core

E più seria diventa e non men dolce;

E allora il pastoral flauto lasciando

Toccar desio la trobadoric'arpa.

Musa, o patria, a me sien le tue memorie:

Rosilde io canto.—

Bella era ed amata

E al suo sposo e signor tenera amante:

E—come a fiore un fiorellin s'appoggia—

Nelle braccia materne un pargoletto

Della madre al sorriso sorridea.

Se torna dalla caccia il cavaliere

Teodomiro, oh quanto gli par lunga

La salita al castel! non perchè il domi

Grave stanchezza, ma perchè alla sposa

Adorata il pensier vola ed al figlio:

Erge ei gli occhi alla torre—e v'apparìa

Lui desiando la venusta dama

Col leggiadro bambin, quasi dal cielo

Scesa fosse d'Iddio la Vergin Madre

A consolar d'un suo sguardo i mortali.

Ma improvviso precipita il dolore

Sui dì felici! Era un mattino, e in riva

Stava al Lemna natio Teodomiro

Inseguendo il cinghial. Vibra la freccia,

E tra questa e la belva, ahi, dal cavallo

Spinto è il giovin Denigi, e cade esangue!

Denigi il fratel d'arme, il fido amico

Dell'uccisore! (Vive ancor negli inni

Di tue vaghe fanciulle, o Pinerolo,

La beltà di Denigi e il suo coraggio.)

Oh rammarco! rammarco! e dacchè tinto

Del sangue dell'amico è il cavaliero,

Sfuma ogni gioja sua. Sovra il castello,

Così beato in pria, siede e vi spande

I negri vanni suoi l'angiol del male;

E dello spirto scellerato il riso

Fama è che molti udir di notte tempo,

Quando consunto da languor si spense

Di Rosilde il figliuolo, e del materno

Pianto ulular le desolate sale.

Nè qui del mal le orribili minacce

Termine han pure. Ahi! di Rosilde istessa

Le giovanili guance scolorarsi

Vede lo sposo, e andarsi a poco a poco

Estinguendo in que' grandi occhi il bel raggio

Onde dianzi splendean con tanta vita:

E in segreto ei sospira, e mentre asconde

Con ridenti parole il suo timore,

Gli s'arriccian le chiome immaginando

Un'altra tomba—e in questa tomba chiusi,

Chiusi quegli adorati occhi per sempre!

Presso a morte ella venne. E allor proruppe

Nel già incredulo cor del cavaliero

Religïon con tutta sua possanza:

E sceso a Pinerolo, al maggior tempio

Ricchi doni profonde, e con solenni

Riti espiar l'involontario cerca

Omicidio commesso, e (se mai peni)

Suffragar di Denigi il caro spirto,

Onde placato il ciel renda a Rosilde

Vita e gioja e di madre il dolce nome.

Ahi! nel sonno gli appar l'amico spettro,

E non irato è il volto suo, ma mesto

Come d'un che pietoso asconder brami

Le proprie, e più d'altrui senta le pene,

Nè gli si doni il sollevarle; e porti

Una coppa amarissima, e non sia

Quella coppa un rimedio, e ber si debba!

—Deh, spiegati! dicea Teodomiro,

Spiegati!—Ed il fantasma una lontana

Strada additava, e in fondo a quella strada

Con eccelse basiliche sorgea

Una grande città: dir sembra—«Vanne,

Là Dio ti chiama!» e mentre ivi lo affretta

Con una man si copre il volto e piange.

Atterrito si desta il cavaliere:

L'oscuro sogno medita; ispirato

Alfin si crede. «Ah! non v'ha dubbio, è Roma

Quella grande città: col pio vïaggio

Te, Denigi, da tue fiamme, e da morte

La cara donna liberar degg'io»—

Dice, e ad un tempo a ciò s'astringe in voto.

Esultate, o colline! ad abbellirvi

Torna col redivivo occhio Rosilde.

Di festive ghirlande olezzan tutte

Del castello le sale: echeggian l'arpe;

Stagion tornò di danze e di conviti:

L'angiol della sventura è dileguato.

Ma fido al voto suo prende il bordone

Teodomiro e seco uno scudiero,

Nè che la sposa il segua egli consente;

Perocchè a lei vicino ardua non fora

Più penitenza alcuna, e potrìa il cielo

Gravemente punirnelo.—«Addio, sempre

Più sempre amata! i giorni tuoi mi serba

E l'amor tuo! qui fra due lune io riedo.»

Piangea Rosilde, e dalle care braccia

Strapparsi non potea: nè di Rosilde

Tutte eran quelle lagrime che il volto

Inondavano al sire.—Oh dolorose

Partenze, sì, ma di dolcezza miste,

Quando due cuori che batteano insieme

Breve tempo si staccano, ma l'ora,

La lieta ora si dicon del ritorno!

Ahimè che di partenze altre son conscio

Più dolorose! allorchè a forza svelti

Da geloso tiranno eran due cori,

Nè dirsi addio potean, nè lor rimase

Speme che di ritorno ora risplenda!

Compie una luna dacchè orando e cinta

D'umil cilicio, infra i digiuni e il pianto,

Quasi pia vedovella, entro il solingo

Castel vivea la innamorata donna,

Di niun pensier curando altro che un solo,

Quando dal suo veron gli occhi volgendo

Giù sul pendio, salir vede un canuto

Che pare (ed è) il fedele Ugger, che il sire

Accompagnato ha in romeaggio.—«Ahi lassa!

Solo ritorna? Oh palpiti! oh funesti

Presentimenti!»—E indietro si ritrae:

Si riaffaccia indi al veron: prestigio

Creder vorria ciò ch'ella vede; e il santo

Segno si fa della salute, e sclama,

«No, mio Gesù, no, non sia ver! non sia!»

Ma giunto è il vecchio, e a' pie della signora

Singhiozzando si getta.

«O mio buon servo!

Tu mi rechi la morte, io già t'intendo:

Narra ov'ei cadde; ah, ch'io sovra la terra

Che lo ricopre, almen mi tragga e spiri!»

«O Donna, il fido Uggero a te dinanzi

Non tornerìa, se del suo sir la tomba

Veduto avesse.»

«Che dicesti? Ei vive?

Ah! sciagurata più non sono.»

«Ascolta,

Signora mia: non lusingarti, grave,

È grave assai questa sciagura: è incerto

Del mio sire il destino. Appena giunti

A quel varco eravam dove la terra

Al Piacentin del Po bagnano l'onde,

Allorchè un passegger, forte spronando

Il cavallo ver noi: fuggite, grida,

Fuggite, e pelegrini! un'orrenda oste

Invaso ha la contrada: il fero Otlusco

Co' suoi prodi vaganti Ungari il fianco

Occupò di Piacenza, e impossessato

S'è d'un vicin castello, e in quel castello

Quanti più può, chiude prigioni, e immensi

Indi al riscatto vuol tesori o il sangue

Versa degli infelici.—Il cavaliere

Che così ne parlava era un prigione

Al cui riscatto i teneri parenti

Tutto venduto avean, servi e poderi

E rocche avite. E il giovin cavaliere

S'era con altri prodi a fratellanza

Religïosa consacrato, e il voto

Di que' frati guerrieri è i pellegrini

Difendere e gli oppressi e la innocenza;

Ma nè il coraggio lor, nè tutti i brandi

Dell'afflitta città respinger ponno

Il fero Otlusco: sue terribili armi

Son gli stessi prigioni onde la strage

Minaccia se assalirlo osin le genti.—

Mercè rendiamo al generoso, e in fretta

Ricalchiamo la via. Ma quando soli

Teodomiro ed io per una selva

Ci scostiam dal periglio, «aita! aita!»

Sentiam gridar da lunge: onor ci vieta

Negare aita a chi la implora: il ferro

Snuda Teodomiro: il seguo: a zuffa

Con gli Ungari veniamo. Avean rapita

Al suo sposo una dama. Ahi, che potero

Contro a sì forte stuol soli due brandi?

Mira sul petto mio le non ben salde

Ancor ferite, onde i nemici a terra

Mi lasciar, mentre vinto e prigioniero

Strascinavano il sire. Allorchè appena

Riavermi e sorreggermi sull'egro

Fianco potei, mossi ad Otlusco e chiesi

Del mio signor divider la sciagura:

Ma il barbaro esultò, mi risospinse,

E appeso ad una croce un uman tronco

Mostrandomi:—«Al tuo sir, disse, egual sorte

Fra pochi dì sovrasta, ove quant'oro

Val sì nobile vita io non riceva.»

«E ch'è mai l'or? grida Rosilde: ah, tutto

Si sagrifichi tosto: assai di gemme

Erede io fui...»

«Deh, ciò bastasse, o donna!

Ma tal chiede riscatto il masnadiero,

Cui ben pavento non s'adegui alcuna

Di tue ricchezze. E il tempo incalza: i giorni

Numerati ha il crudel.»

—Quando la donna

L'enorme udì richiesta somma, il lume

D'ogni speranza a' guardi suoi s'estinse:

E come il Giusto
[1]
in Idumea, percosso

Dall'eccesso de' mali, osò il suo grido

Elevar verso Dio, ragion chiedendo

Del non mertato aspro flagel—Rosilde

Così, nel colmo del suo affanno, obblia

Che col suo Creator, dritto la polve

Di contender non ha: ma il Creatore

Come allor per quel Giusto, or si commove

Per la infelice delirante, e a detti

Che nell'angoscia le sfuggian, perdona.

E che sai tu, cieco mortal, se Iddio

Non conduce le sorti e non ti scaglia

Incontro alla sciagura, onde il tuo spirto

In più che umane lotte trionfando

Vieppiù a Lui s'assomigli? Al Sempiterno

Mancheran forse i modi e le delizie

Onde il lor guiderdone abbiano i forti?

Va', pia Rosilde, al tuo destin: che sono

Mai di Teodomiro e di te stessa

La pace e i giorni, ove allo scampo Iddio

D'una intera città voglia immolarli?

Scuotesi: amor le ridà forza, e nulla

D'intentato consente.—E drappi d'oro

E splendidi monili e vasi e perle

Tutto che mobil sia d'alto valore

Sui giumenti si carca. In fretta e campi

Vendere e torri non poteansi: in pegno

Alla Badia li affida, e ne ritrae

Non picciolo tesoro.

«O mia signora,

Deh! non avventurarti,» invan ripete

Il prudente scudiero; «a me abbandona

Questo messaggio.»

«A tutto, il barbaro Unno

Resister può, non d'una moglie al pianto,»

Sclama la dolorosa.

«Eppur, deh! pensa

Che non è fede ne' malvagi. E s'egli

I tesori rapisse, e te prigione,

Donna, tenesse?»

«Ah! del mio sposo al fianco

Andar carca di ferri, anzi che lunge

Aver tesori e libertà, ben chieggio.»

Dice, e comanda, e vuole. E sulla via

Col fido Ugger, co' pochi servi, assisa

Eccola sulla mula.—Ahi! così un tempo

Da' Francesi inseguito io colla madre

Pargoletto fuggìa: si soffermava

Il viandante attonito e chiedea

Da qual parte calato era il nemico.

Oh cavalieri improvidi, ch'a imbelli

Arti educate le fanciulle! Or d'uopo

Qui sarìa di valore! In mezzo all'armi

E all'arroganza od all'insidie forse

Troverassi Rosilde, e le vien meno

Segretamente al sol pensarvi il core.

Dal palagio paterno uscita mai

Pria non era del giorno in che da Susa

Mosse al castel dello sposato amante:

E qualche volta appena ivi la faccia

D'alcun ospite vide, e tutto serba

Il pudor dell'infanzia e la paura.

E quel debole petto or notte e giorno

Per le selve cavalca! e ad ogni fischio

Trema di fronda, e gli urli della lupa

Ode, e vede la sera da lontano

I fochi, ove, chi sa? forse cenando

Novi omicidii medita un ladrone!—

«Per me non tremerei: ma se rapiti

Mi fossero que' carchi, onde salvezza

A te verria, Teodomiro, allora?»—

Ed ei, Teodomir—dall'alte mura

Ove geme prigion, stassi alle doppie

Sbarre aggrappato della sua fenestra:

Ad ore ad ore immobilmente figge

Sovra l'ampio orizzon l'occhio bramoso:

Bramoso? e che mai spera?—Ah! nulla spera!

Estinto credo il fido Ugger: Rosilde

Saper di lui non può.—«Questo vil cibo,

Che invan mi si largisce, alfin dispendio

Parrà soverchio, e m'alzeran la croce;

Venga, venga quel dì!»—Tal è il febbrile

Suo frequente desio. Fero contrasto,

Bramar come riposo unico morte,

E inorridir pensando al disperato

Lamento di chi t'ama, allorchè il grido

Udrà del tuo martirio! e nuovamente,

Quasi l'orribil vita che tu vivi

Bramar di proseguire, onde non giunga

Alle tue sale mai quel desolante

Indubitabil grido
Ei più non vive!

Da quelle sbarre guarda, e nulla spera

Teodomir: ma i dì passan talvolta,

Ed umana figura egli non vede,

Perocchè a tergo della torre il campo

Giace degli Unni, e a questa parte è un vasto

Tratto deserto di palude e arena

Che ad un bosco confina, e solo a manca

Veggonsi dietro agli olmi i campanili

Della città, e se il vento agita i rami

Si scoprono gli spaldi... Agita, o vento,

Agita quelle fronde! e il prigioniero

Veggia talor sovra gli spaldi il passo

Di vivente persona! È un indistinto

Tormentoso bisogno al solitario

Il veder l'uomo—Almen da lunge! un santo

Misterioso amor lega i mortali,

Se distanza li scevra: ah! come a noja

Puon da presso venirsi e farsi guerra?

Anco i nemici quasi ama, se ascolta

Lor selvaggia canzon Teodomiro,

Che pur l'Ungaro canto è umana voce.

E se nel bosco alcuna volta udìa

La percossa lontana della scure,

Pur frenava il respiro, e da que' colpi

Alcun piacer traea, perocchè all'occhio

Della mente pingeasi il buon villano

Che coll'ardua fatica alla diletta

Moglie porgeva e a' dolci figli il pane.

Ahimè, ben d'uopo è ch'uom giaccia all'estremo

D'ogni miseria onde gli sien ricchezza

Così povere gioje!—E se nel bosco

Tace la scure—e taccion gli Unni—e tace

Negli olmi il vento—e dalle torri il caro

A' meditanti suon della campana—

Chi allor molce, o prigion, tue tetre noje?

Oh allor—quel ciglio ch'uom giammai non vide

Nel lutto inumidirsi, in mesta guisa

Abbassandosi a terra, a larghe stille

Versa il dolore!

«Oh mia Rosilde! io sono

L'autor di tua sciagura! Io da celeste

Credea ispirazione essere al pio

Viaggio mosso, e m'illudea il consiglio

Dello spirto a cui gioco è l'uman pianto!»

«A cavallo! a cavallo! ecco una preda!»

Così sclama, e già sprona, e già seguito

Da cento lance è Otlusco. Oh, qual fu l'alma

Della timida donna al furibondo

Proromper d'una squadra! oh spaventose

Urla che assordan l'aere, e men saccheggio

Sembran nunciar che rapido macello!

Discende dalla mula. Il cor le manca,

Ma invoca il suo buon angiolo e confida

Nel suo soccorso, e pallida e smarrita—

Pur risoluta—avanzasi all'incontro

De' masnadieri, e con la mano accenna

Che raffrenino il corso ed ascoltarla

Vogliano per pietà.—V'è nell'aspetto

Dell'inerme e del debole un arcano

Che ispira reverenza anco ai feroci:

E se il debole opprimono, è un comando

Che natura non fece, è un altro moto

Che senza sforzo non si compie, e il compie

Pensata voglia di trionfo o lucro.

Commovente spettacolo! Un istante,

E dalle scalpitanti ugne pestata

Esser potea la misera—un istante,

E l'avventata squadra immobil sta:

Così Otlusco imperò.

Smonta, s'appressa

All'atterrita dama: e sopra il viso

Dell'assassin colla insultante gioja

Della propria potenza e colle dure

Tracce di crudeltà, v'è come un fosco

Lume che quelle tracce e quella gioja

Addolcisce un momento, e sembra quasi

Raggio di cortesìa. L'opra era forse

Di tua beltà, o Rosilde? o forse innanzi

Ch'atti inumani il trasformasser, grande

Fu dell'eroe lo spirito, e quel raggio

Di cortesìa reliquia è di quel tempo?

Ma in alme dal delitto degradato

A' moti generosi un pentimento

Di sentirli succede, e—unica a loro

Nota virtù—della virtù il dispregio.

«Signor, la sposa io son d'un prigioniero

Di cui t'offro il riscatto. Ove regina

Nata foss'io, per quel riscatto un regno

Dato t'avrei: ma ciò ch'io m'ebbi or pongo

Tutto a' tuoi piedi, e supplice scongiuro

Che il mio Teodomir tu mi ridoni.»

«Donna, ravviso il tuo scudier. Recato

T'avrà il pregio in che tengo il signor tuo:

Nè mai per men del valor suo di tanto

Peregrino giojel fia che mi spogli.»

«Deh! non macchiar tue forti gesta, o sire,

Schernendo gl'infelici: ecco non vile

Tesoro, e tu il gradisci: e fa' che priva

Di quanto io possedea, tranne il consorte,

Di mia miseria non curante, io possa

Ogni dì benedirti.»

«Olà mi segua

Quel convoglio al castel.»

Trema e rimonta

Rosilde la sua mula, e a fianco a Otlusco

Dinanzi agli altri avviasi, e da lontano

Guarda con desiderio e con affanno

Quelle mura ove chiuso è il suo diletto.

Ma l'avaro ladron vede l'amore

E la bellezza della dama, e volge

Nell'astuto pensier nova perfidia.

Arrivano al castel: spiegansi i doni,

E Otlusco a sè venir fa il prigioniero.

Oh emozion de' due teneri sposi

Nel rivedersi! Udì Teodomiro

Ciò che a salvarlo fea Rosilde, e gioja,

Stupore e gratitudine è in lui tanta

Che parole non trova.—Il sospettoso

Unno quel muto giubilar mirando,

«No» sclama «non è ver, queste non sono

Vostre sole dovizie; in voi non fora

Sì poco duol nel perderle: al riscatto

Ben puon di te, o guerriero, esser bastanti,

Ma pari a questi quattro volte un dono

Vo' per la donna che prigion ritengo.»

Piansero, supplicàr. Barbaramente

Sono divisi, e dal castello a forza

Dagli Ungari cacciato è il cavaliero.

Che diverrà la misera? E ove mai

Teodomir ritroverà tant'oro

Qual dal perfido vuolsi? Il pio scudiere

Gli rammenta i congiunti. «Ah, i miei congiunti

Possenti son, ma antiche guerre e invidia

A me feali inimici, e non che ajuto,

Scherno n'attendo nella rea fortuna!

Vendere il mio retaggio? E lenta è l'opra;

Nè molto indi trarrei, poichè sì pingue

Già ne diè somma chi toglieali in pegno.»

Mentre varii nel cor volge pensieri,

E un furibondo più dell'altro, e tutti

Fausti a vendetta sì, inefficaci

A liberar la cara sposa—e mentre

Tenta indarno in agguato al masnadiero

Toglier la vita—e mentre indarno ai prodi

Frati guerrieri e all'armi piacentine

Recasi e prega e stimola e, a gran rischio

Di cagionar d'ogni prigion la strage,

Pur li spinge a battaglia, e dieci volte

(Con finti attacchi) in lontananza spera

Trarre l'oste malvagia e della rocca

Rapidamente impadronirsi, e sempre

La vigile degli Unni arte il delude—

A investir la città pensa in segreto

Con audacia incredibile il ladrone.

Oh scellerata notte! Un tradimento

Forse ad Otlusco aprì le porte: il ferro

E il foco cinque giorni orribilmente

Scorre per ogni via, per ogni chiesa,

Per ogni ostello, e disperato sembra

Del popol vinto il più risorger mai.

Nè per l'amor sol della preda esulta

Di sue vittorie il barbaro: egli esulta

Perocchè quanto più temuto e forte,

Tanto più grande apparir crede al guardo

Dell'altera Rosilde. Il ferreo core,

Non si sa come, al pianto di Rosilde

S'era commosso, e in guisa ch'ei sul punto

Fu alcune volte d'asciugar quel ciglio,

Libera rimandandola al marito:

E se eseguia il magnanimo pensiero

Non avrebbe sol lei, ma seco tutti

I suoi tesori rimandati. Un giorno

Alla stanza ei movea della dolente

Col nobile proposto, ahi! ma rivide

Quelle angeliche forme, intese il suono

Di quella voce, e gli morì sul labbro

La pensata parola, e generoso

Esser più non potè. Parlò d'amore,

E, ciò che mai sofferto ei non avea,

I dispregi sofferse, e quei dispregi

Eran pugnali all'alma del superbo,

Eppur chi li avventava era a lui caro.

Nè degli altri prigion pari alla sorte

Di Rosilde è la sorte. A lei l'uscita

Sol tolta è del castel, ma le si dona

E visitar gli altri infelici e alquanto

Alleviar lor pene e dalla croce

Redimer chi dannato era e taluni

Render senza riscatto a lor famiglie.

Con benefico intento e varia speme

Va serbando la vita, e all'esecrato

Ladron si finge meno irata, e volta

Tutta è a cercarsi occasïon di fuga.

Ma maggior di lor possa è il breve sforzo

Di gentilezza e di pudor nei vili;

Parer grandi vorriano e oprar da grandi

Incominciato appena avean—nel basso

Sentiero ecco ricalcali natura,

O abitudin d'infamia, o delirante

De' sensi ebbrezza, o il giubilo del male.

Prudenza e preghi e dignità e disdegno

Più a Rosilde non val. Fra le volgari

Delle coppe esultanze, il masnadiero

Motti d'amor—ma temerarii—vibra,

Ed orgogliosi (ah, il tuo bel nome, Amore,

Non merta il foco de' profani!)

«O stolta,

A che ostinarti contra il fato? E credi

Che, dacchè l'ha perduta, in vedovanza

Perenne stiasi il tuo primier compagno?

Ah, ch'ei ben già di tua mancanza in braccio

D'amante altra consolasi! A cercarti

Forse riedea? Ti vendica: le nozze

D'Otlusco accetta. Splendida ben altra

Che non Teodomir t'offro ventura:

Invitte squadre io guido, un regno innalzo

Cui le più ardite signorie curvarsi

Dovran d'Italia: te possanza e pompa

E adoramenti faran lieta, e madre

Sarai di regi.» (E in così dir con guardo

inverecondo alla pudica un braccio

Osa afferrar.)

«Deh, signor mio! Te irrito

Se il passato rammento e i dì felici

Che da te lunge io trassi: a sgombrar l'ire

Dal ciglio tuo, quindi in silenzio io pongo

Il prisco ond'arsi immenso amor: ti basti

Questo silenzio. E se ostinata speme

Nutrir pur vuoi ch'amor novel me accenda,

Fa' che d'atti tirannici e scortesi

Io mai capace non ti scorga, e al tempo

Lascia il mutarsi del cor mio.»

Tra umile

E maestosa così parla: e tenta

Allontanar pur quel terribil punto

Cui già da lungo con preghiere e pianto

S'è apparecchiata.—Mesi e mesi invano

Sperò in Teodomir: più non ritorna.

Nelle pugne sperò, ma invan: la palma

Sempre è dell'Unno. Invan sperò d'aprirsi

Qualche strada alla fuga: omai non resta

Scampo ad infamia, altro che un sol—la morte.

A timid'alma arduo dover, la morte.—

Ma non feroci tutte fur le donne

Di cui l'alto morir narran le istorie.

A talune, o pittor, forse tra quelle

E maschi tratti e gigantesca possa

E spirito guerrier dar non dovevi:

E mite cor portavano, e formate

Eran solo ad amore, e d'una spada

Inorridiano al lampo, eppure (oh grande,

Oh ben più grande era virtù!) a dispetto

Della dolce indol femminile, il seno,

Anzi ch'a onore o amor farlo spergiuro,

Colla tremante man si laceravano!—

Ahi giunta è l'ora per Rosilde! Un varco

Era all'audacia del fellon, quel varco

Or più non è. Nè avvidesi ei che l'armi

Appese alla parete ella adocchiasse:

La parete adocchiava e già scagliata

Col volo d'un baleno erasi a un ferro

La generosa... allor che risonanti

Di spaventose grida ode le sale.

Due i momenti non furo: assaliti ode

Rosilde gli Unni, e un rapido pensiero

Non mai previsto or le risplende, e il ferro

Che in sè volger dovea, vibra al tiranno.

Cade—e su lei rovesciasi—e quel ferro

Dal seno Otlusco a sè strappando il pianta

Ed il ripianta dieci volte e in viso

E nel fianco alla misera, e fra gli urli

E i colpi e il duolo e le bestemmie ei spira.

Tal nel castel la spaventevol scena

Presentavasi agli Ungari, allorquando

Prorompea l'oste. Impugnano le lance,

A far fronte s'accingon, ma l'orrenda

Morte del condottiero e la sorpresa

Sì gli atterrìa che immemori son fatti

Dell'antica lor possa e a vergognosa

Fuga si dan per la campagna.—I prodi

Esuli Piacentini al forte, fatto

Duce Teodomiro, eransi spinti

Perir giurando o vincere: e mai fermo

Da moltitudin ciò non fu che tutti,

Per quanto lunghi sien feri gli inciampi,

Visti a crollar sotto ai suoi piè non li abbia.

Ma come or sì poco ardua è la vittoria?

Donde il terror de' barbari? Nè Otlusco

Fu veduto pugnar.

Parla un morente

Ungaro e accenna del suo sir la sorte:

«Femminea man lo trucidò!» Ai vincenti

Raddoppiasi la gioja.—Ov'è la santa,

La salvatrice della patria?—Schiuse

Son le carceri: mischiasi col grido

De' redentori il grido di cinquanta

Liberati prigioni.

«E tu, Rosilde,

Che non accorri? Dove sei? Rosilde!

Diletta sposa!»

Ardea fosca una lampa

Nella gran sala. Spaventato n'esce

Il vecchio Ugger: nel suo signor s'incontra;

Ritrarnel vuol. Ma già Teodomiro,

Tra rovesciate mense e armi, scoverto

Ha l'immane cadavere d'Otlusco:

Con gioja gli s'appressa—oh vista! un altro

Cadavere ei copria! Rosilde—

E intanto

Che il più infelice de' mortali esclama

Miserandi lamenti (oh mescolanza

Che drizzar fa le chiome!) urla di gaudio

Metteano, ignari i suoi compagni ancora,

E con festa il chiamavano: «A te dessi

Questa lieta vittoria! A' fuggitivi

Riposo non si dia! Guidane, o prode!

La città si riacquisti!»—

A poco a poco

Cessa il giulivo dissonante strepito:

Il luttuoso caso odono: muti

Reverenti s'affollano alla sala:

Tutti lor gioja oblian: l'egregia donna

Mirano—e oh che pietà! quel cavaliere

Dianzi sì dignitoso, or nella polve

E nel sangue si rotola ululando,

Nè più gli cal che forse altri il dispregi.

«Ite, o felici: agevol cosa è omai

Il ripigliar la città vostra. Otlusco

Da costei fu atterrato... oh, ma vedete

La generosa!»

E il sen tutto squarciato

Di Rosilde accennava e quelle care,

Or deformi sembianze: ed oltraggiando

Il fido Ugger che il contenea, una spada

Afferrava, ma indarno, onde svenarsi.

Riacquistò le sue mura il fortunato

Popolo piacentino. Ebber perenne

Del vedovo stranier cura i pietosi

Ospiti, ed a Rosilde a eterna gloria

In mezzo al foro alzaro un monumento;

E allorquando, tra pochi anni recisa

Fu dal dolor la vita di quel prode,

Chiuse le sue infelici ossa nell'arca

Venner dov'eran di Rosilde l'ossa.

Ahi! quell'arca vedeasi a' tempi ancora

Della mia fanciullezza, e il padre mio

La visitò: ma quando pellegrino

Adulto mossi tra i Lombardi, e volli

A mia debol virtù porger conforto

Quelle sacre onorando ossa d'eroi,

Più non rinvenni che un'infranta pietra,

E su quella sedea, laide canzoni

Vil giullare cantando, e gli fea cerchio

Con ghigni infami la plaudente plebe!

[1]

Giobbe.

NOTE.

Tu la prima onda porgi....

Il Po scaturisce dal Monviso nel marchesato di Saluzzo. In questa apostrofe sembra comprendersi tutto ciò che or forma il Piemonte, o gran parte.

Stava a Lemna natio....

Lemina, o Lemna, è un torrente presso Pinerolo.

S'era con altri prodi a fratellanza

Religïosa....

Nel medio evo il bisogno di difendersi contro gli abusi d'ogni specie fece sorgere molte confraternite benemerite della società. Gli aggregati rimanevano laici, e il loro ufficio non era che l'adempimento di qualche penoso dovere: proteggere i viaggiatori, assistere i feriti, gl'infermi, ec. Così i vincoli della grande fratellanza umana stati spezzati dalla barbarie si andavano con vincoli parziali riannodando. Ma il fervore si cangiò ne' secoli seguenti in manìa: da tutte parti s'elevarono confraternite che invece di beneficare l'umanità l'infettavano di superstizioni; tali furono i beguini, i fratelli e sorelle dello Spirito Santo, i flagellanti, ecc.

.... Il fero Otlusco

Co' suoi prodi vaganti Ungari....

Molte orde di Ungari scesero in Italia nel principio del secolo X; ciò fa congetturare che la storia di Rosilde appartenga a quel tempo. Esse furono prima respinte dall'imperatore Berengario, ma poi egli stesso le chiamò per far fronte a Rodolfo, re della Borgogna transjurana, e se ne pentì. Invece di obbedirgli, si sbandarono per tutta la Lombardia, devastando campagne e città; da queste orde allora Pavia fu saccheggiata e incendiata.

.... Ma i dì passan talvolta

Ed umana figura egli non vede....

Vedi l'Ecclesiaste che forse commisera particolarmente la prostrazione dello spirito: Væ soli! quia cum ceciderit non habet sublevantem se!

A talune, o pittor.

Questo cenno d'un pittore potrebbe sorprendere chi si ricorda d'aver letto che il Cimabue fu il primo, dopo la barbarie de' mezzi tempi, a ristabilire la pittura in Italia. Ma vedasi il Tiraboschi il quale prova con molti esempii che anche ne' secoli anteriori l'Italia non mancò mai di pittori: essi erano in gran parte Greci, ma molti pure nazionali.—Siccome il poeta non nomina il suo pittore, forse si trattava di uno o più quadri allora famosi, alla cognizione de' quali bastasse l'indicarli; o forse null'altro volle il trovatore che esprimere quel suo sentimento, non doversi dall'artista mai togliere alla donna—nè anche quando è tratta da dolore o virtù a qualche grande atto di coraggio—il bello ideale della donna che è la dolcezza. Pare che per quanto il comportava il soggetto ei non si sia dipartito da questo sentimento anche nel dipingere una amazone, una selvaggia, la Tancreda: in più d'un passo di quel poema cerca d'attenuare ciò che ha di forte il carattere della guerriera. Chi conosce il teatro sarà dell'opinione del trovatore: avrà veduto che un'attrice per quanto sia valente, s'ella crede di dover dare alle eroine i tratti degli eroi, essa può far raccapricciare, ma non mai commuovere; se invece l'attrice non è che eroina, cioè donna nel suo più nobile significato, allora le sue lagrime ne strappano molte.

A eterna gloria

In mezzo al foro.

Ciò non regge colla chiusa. Ma il trovatore parlava dell'intenzione di chi eresse il monumento. Non è egli così di lutto ciò che si fa per la ricordanza de' posteri? Si suppone sempre l'infinità dei secoli: e un furore popolare, un terremoto, cento cause possono distruggere oggi ciò che jeri si credeva eterno.

Più non rinvenni che un'infranta pietra....

Piacenza fu, tra le altre città lombarde, spesse volte desolata dalle accanite guerre tra nobili e popolo, e il partito vincente distruggeva non di rado ciò che era stato onorato dal vinto.

Vil giullare cantando....

I trovatori di genere elevato chiamavano giullari i poeti vili e buffoni: e questi non erano già gli adulatori soltanto del volgo. Trattandosi qui d'una storia molto anteriore alla poesia a noi nota de' trovatori, parrebbe che la voce giullare, fosse un anacronismo. Ma è certo che in tutti i tempi vi furono poeti, e particolarmente poeti vili e buffoni: nè a qualunque età questi appartengano, sconviene loro la voce giullare, che significa giocoliere, ciarlatano.

E gli fea cerchio

Con ghigni infami la plaudente plebe!

Questa pittura d'anime abbiette profananti un monumento eroico induce a credere, che ciò fosse in un tempo d'anarchia.

ADELLO

CANTICA.

Questa cantica è divisa in tre parti. La prima si riferisce ai tempi di Berengario I, negli ultimi anni del suo regno, e ai tempi del breve regno di Rudolfo in Italia: la seconda verte sulla prima impresa d'Adello, regnante in Italia Ugo di Provenza succeduto a Rudolfo: la terza scorre sovra alcuni tratti della vita di Adello, che possono riferirsi ai tempi di Ugo, e d'alcuni fra i successori di questo, cioè Lotario suo figlio, Berengario II marchese d'Ivrea, Ottone I, ecc.; giacchè è detto che Adello morì vecchio.

ADELLO.

I.

Quando oltre l'Alpi il giovinetto Adello

Dal povero movea tetto paterno,

Pria di varcarle, un guardo all'orizzonte

Natìo rivolse e pianse: e rammentando

De' genitori la virtù e l'affetto

Ripetè il pronunciato innanzi a loro

Fervido giuramento.—

«Ah, no, al tuo nome,

Patria degli avi miei, nè al vostro, o santi

Parenti alcun disdor l'opre d'Adello

Non recheranno mai! Verrà in Italia

Il cortese straniero, e dirà—Pace,

O terra, di gentili alme nutrice!

Poi la via proseguì.—Scudiero al vecchio

Suo consanguineo ei già che, di possanza

Ricco e di fama, appo Lïon, sui colli

Della Sonna fioriti e sulla Rocca

Incisa dominava. Al giovinetto

Accoglienza amorevole il canuto

Giorgio far si degnò. Molto gli parla

De' cari genitori, e si compiace,

Perocchè del garzon commossa uscìa

Dal cor la voce, e gli soggiunge—«Il cielo

Non prosperò del padre tuo i destini,

Ma un ospite leal diegli, un amico

Che a lui la destra, e a chi da lui ne venga

A stender pronto è ognor.»

Quell'onorata

Destra baciava Adello, e umile e fida

Servitù prometteva al suo signore.

Degli antichi scudieri e famigliari

Già l'ossequio acquistossi il verecondo

Italo garzoncello: e i cavalieri

Col sir congratulavansi e le dame

Per l'onestà del nuovo alunno: e lieto

Questi fra sè dicea: «Giungervi possa

Autori de' miei dì, quanto il lontano

Vostro figliuol dagli stranieri è amato!»

Ma di Giorgio crescea la bionda figlia

E di beltà un miracolo e d'amore

E di grazia era, e di virtù, Eloisa:

Ambìan la mano sua molti di Francia

Illustri cavalieri, e al prode Arnaldo

Il padre la destina. Era negli occhi

Della fanciulla e sulle labbra un pronto

Di cortesìa e candor nobil sorriso,

Ch'ove volgeasi consolava: e quando

Ella uscìa del castel, gl'infimi servi

E il passeggiar mendico avidamente

A mirarla si feano, e ognun tornava

Più sereno al suo ufficio e a' suoi dolori.

Ma quel tenue sorriso era qual pio

Raggio di luna che ricrea il ramingo,

Eppur misterioso un sentimento

Move che non è gioja—e più soave—

Della gioja fors'è, ma dolce ispira

Di meditar vaghezza e di silenzio:

Tal la sera in un tempio è melodia

Di giocondo ma augusto organo—ascolta

Delizïando l'anima pensosa.

Quella tinta lievissima, quell'aura

Che alla beltà del timido sembiante

Beltà diresti aggiunga, e par sia nube—

Non nube di dolor, ma di gentile

Malinconia, e pietosa indole un cenno—

Quell'è l'incanto irresistibil donde

Sì affettuosi a lei volgonsi i guardi.

Nel tetto suo, dalle verginee stanze

Fuori di rado appar: ma dagli aerei

Passi se il fievol suon per le echeggianti

Sale s'annunzia—o al genitor si rechi,

O a visitar famiglio infermo—e Adello

Sulla sua via si trovi, oppur da lungi

Trasvolar l'abbia vista, ei di sè ignaro

Palpita, e quasi un angiolo trascorso

Ivi fosse e beato abbia quell'aere,

Ei le sale ricalca ove Eloisa

Passò e santificar sentesi il core.

Ai conviti paterni, infra le antiche

Sue dame e il padre assisa—o accanto ad essi

Passeggiando tra i fiori—o nella barca

Che a' giorni estivi a tarda ora per l'onde

Va qua e là gli zefiri cercando,

Della donzella i saggi detti ammira

Il giovine scudier: ma pochi sempre

S'udian, nè quel silenzio era quel velo

O infecondo o superbo; era quel velo

Onde beltà pudica asconder crede

I suoi tesori, e più pregiati e certi

L'altrui commossa fantasia li adora.

No, all'intelletto uman, o esterno mondo,

Non sei bastante; esprimer tutto, indarno

Agogneresti, i sensi percotendo

Co' tuoi colori e suoni: egli in su porta

Più grande un mondo—l'ineffabil regno

Di quel principio che in noi pensa e scerne

L'alta armonia delle create cose.

In quel regno mental l'uomo adorando

Contempla il bello, e più e più il vagheggia

Qui, perchè in tutto il suo fulgor qui splende!

Perciò di caste immagini è silenzio

Quell'arcana vaghezza, onde men cara

È talor la parola.—Oh, che mai sono

Le scritte bende, onde il pennel presunse

Della madre di Dio dirti l'amore?

Non le ingegnose bende, il sacro volto

Dica al Figliuolo «Io t'amo:» ivi un indizio

L'immaginante spettatore, e tutta

Troverà in sè di quell'amor la istoria.

Ma quella possa, ohimè! ch'hanno le menti

Di penetrarsi una nell'altra, ad onta

Che di mister si cingano, scoverto

A Eloisa e Adello ha la vicenda

Del lor misero affetto. Ambi più volte

Guardandosi arrossiro: e—inosservato—

Talora Adel della fanciulla il volto

Atteggiarsi a mestizia ed a profonda

Estasi vide, e impallidir se udìa

Reduce dalla caccia il giovin prence

Ch'esser le dee consorte, e più se udìa

Di costui rammentarsi i genitori

Che dal Reno s'aspettano, e allorquando

Giunti essi fien, si compieran le nozze.

Nè lieto ad Eloisa è più il festivo

Giorno del padre suo? l'inclito giorno

Sacro al santo de' prodi, al generoso

Di Cappadocia cavaliere?
[2]
Ah! tutto

L'affettuoso adopra onde il sereno

Ritrovar de' passati anni, e compiuta

Far l'allegrezza del buon sir.—Gioiva

Questi alle danze e al canto de' vassalli,

Ma più d'ogni altro è a lui grato l'omaggio

Della tenera figlia e dell'amato

Italo suo scudiero.

Essa dell'armi

Le glorie ignora, e sol del padre canta

I pacifici giorni, e la clemenza

Verso i nemici, e il benedir concorde

De' felici suoi servi, e il dolce ospizio

Che appo il suo focolar trova l'illustre

Pellegrino e l'oscuro, ed il credente

E l'infedel—ed ogni strofa chiude

Intercalando un giubilo d'amore:

«Ah sì, tal d'Eloisa è il genitore!»

Ond'è che men degli altri anni gioconda

Comparia la donzella, e più diletto

Pur la sua voce trasfondea ne' cuori?

Ah, dovunque la tua fiamma s'apprende,

Ivi, o Amor, è una vita, ivi un incanto

Che tutte le gentili arti sublima!

Universal lode era, e d'Adello

Non pur motto s'udìa: ma il guardo a caso

Sovra lui pon la giovin dama, e il guardo

Innamorato incontra—e, oh, d'ogni lode

Ben più le parve!

Il mutuo turbamento

Perocchè romoroso era l'applauso,

Null'uom vide o capì.—Si ricompone

Adel: sulla infiorata arpa coll'agili

Dita preludo, e l'armonia celeste

Gli versa in cor de' mali suoi l'obblio.

Son guerrieri i suoi carmi. Ei di san Giorgio

Dice l'eroico spirto—E della figlia

Di quel re dice il pianto e le sciagure

Che divorata esser dovea dal drago,

Quando il cappadocèo redentor venne

Della beltà e dell'innocenza. Ignuda

La vergine regale al drago esposta

Pinger non osa Adel: cinta d'un velo,

Il sembiante ei le dona d'Eloisa,

E il biondo crine ed il ceruleo sguardo

E sì amabil ne trae quadro pietoso

Che a tutti molce gli ascoltanti il petto.

L'arrivo ei dice del campione e l'ira

Contro a' codardi cavalier che il brando

Non consacrano a' deboli, e a quel sesso

In che onorar dobbiam Maria: e descrive

La terribil battaglia; e la sconfitta

Del mostro immane; e il giubbilo e il trionfo

Che la turba apparecchia; e la modestia

Del vincitor che involasi, e a novelle

Per la terra trascorre inclite imprese.

Oh, allor d'Adel, nell'inno suo di fuoco,

Tutto il cavalleresco animo splende!

I bei fatti lo esaltano; una viva

Sete di gloria lo divora: in vago

Disordin, nella mente i grandi esempi

Gli si confondon del guerrier ch'è in cielo

E quelli del suo sir, e a entrambi aita

Chiede e virtù perchè lor orme ei prema.

Quell'affanno, quel nobile desìo,

Più che le lodi avutene commove

Il magnanimo vecchio:

«Eccoti, o figlio,

L'onorato mio ferro; i dì verranno

Ch'io giacerò cogli avi, e questo ferro

Mieterà ancor per mano tua gli allori!»

Al valente cantor doni gentili

Porgean le dame, e il sir dicea: «Tu sola,

Figlia, sconosci la virtù e le nieghi

L'amabil guiderdone?»—Alla paterna

Dolce rampogna ella sorride, e tosto,

Vergognando, discignesi dal petto

Candida sottil zona, e sovra l'arpa

Leggiadramente del cantor la posa.

Oh che son gli altri fregi? Il tempo forse

Potrà la rimembranza o scancellarne

O almen scemar; ma questa zona!—

«Il seno

D'Eloisa cingevi! e tu sentito

Hai di quel seno i palpiti! e sentito

Forse li hai raddoppiarsi (ahimè, pur troppo

Ell'è certezza!) allor che o la mia voce

Udia da lunge o i guardi miei trovava

E mie pene leggeavi!» Ah, da quell'ora

Così delira Adel!

Spesso un tintinno

D'arpa s'ode la notte entro il castello:

Egli è il misero amante che riposo

Sul letto non rinvenne, e con dimesso

Suon quelle melodie va ricordando

Che più son care ad Eloisa—e il bianco

Lin che dal musical legno discende.

Sopra il volto li ondeggia e sopra il core,

E reverenti baci egli v'imprime,

E gli parla e il ribacia, e talor forse

D'una lagrima il bagna.

Il destin move

Un dì la giovin dama a errar solinga

Tra le rose dell'orto, ed ivi il caro

De' suoi pensier segreti idolo incontra.

Ambi treman, ritrarsi ambi vorriano:

Ma, perch'egli era mesto, una soave

Parola essa gli volse—«Adello, udiste

Favellar d'uno spirto che ogni notte

Già da alcun tempo bea il castel di queti

Armonici sospir?»

«A quello spirto,

O cortese mia donna, era speranza

Che i suoi sommessi asconditi sospiri

Ignorati sarien: s'alcun li udiva,

Uopo è ben che nemico abbiasi il sonno—E

a quello spirto assai dorria se il sonno

Mancasse ad altri come a lui.»

Nullo era

In se quel dir; d'eluderlo v'avea

Pur mill'arti o troncarlo: ahimè, quell'arti

Ad Eloisa non sovvengon! Pochi

Confusi detti replicò, e que' detti

Molta pietà spiravano. Ah, d'ossequio

Sol parlò Adel, ma questa voce uscìa

Sì tenera e tremante, che simile

Era alla voce «amore!» Ed ei soggiunse

Sì meste cose di quei dì in che privi

Saranno questi fiori e quel castello

Di chi li fea sinor giocondi—e, spesso

Interrotto, pur dice anco di fiori

A cui del sol manca la luce, e a terra

Allor chinan la testa... e più non sorge!

«Oh Adel, t'intesi! il tuo proposto è orrendo:

Tu vagheggi la morte!»

«Oh donna! Il giorno

Che tanto audace io fui d'innalzar gli occhi

Sovra cosa divina, era decreta

La morte mia dal ciel quel giorno.»

Il pianto

Sgorga a forza dagli occhi d'Eloisa;

Ma dignitosa ell'è tutt'ora, e gravi

I modi e le parole. Un lampo d'ira

Le balenò piangendo e dir parca:

Così m'astringi ad avvilirmi?—Ei muto

Angosciato abbassava le pupille

Più che mai reverenti onde la donna,

Lagrimando non vista, il duro peso

Della vergogna non sentisse. E il pio

Riguardo ella scerneva, e in petto quindi

Pietà maggior la inteneria.—

—Tal'era

Di que' semplici eventi la catena

Che (impreveduta) avea le due inesperte

Alme condotto alla fidente e vana

Compassïon del vicendevol duolo.

Ma oh come quelle bell'alme, incapaci

Pur d'un pensier che da virtù non tragga,

Accusansi ciascuna in sè medesma

Del biasmevol colloquio!

È questa adunque,

Pensava Adel, la mercè ingrata è questa

Ch'io rendo al mio signore? a lui che tanti

Su me profuse beneficii e pegni

D'amistà nobilissima ed esempi

Alti d'onor? Così rammento i cenni

De' genitori miei, la veneranda

Storia de' lor martirii e come in venti

Ben più gravi sciagure immolàr tutto

Fuor che lor fede a' cari prenci e al dritto?

In chi di giusti nacque, è onnipossente

La rimembranza de' dettami austeri

Nell'infanzia bevuti e il sacro accento

Con che amando addolcianli e padre e madre.

Disonorar con vili atti egli teme

L'immacolata lor canizie, e questo

Gentil timor, ne' gran cimenti—allora

Che virtù langue—di virtù lien loco.

«Ahi, che feci, Eloisa? Ove trascorse

L'incauto labbro! Oh, un infelice obblia

Che ardì il tuo sdegno provocar! L'insania

Onde vittima gemo, ancor la voce

Del dover mio non soffocava appieno.

Che insano fui—non vil—tel dirà il pronto

Mio abbandonar questo adorato albergo

Onde più mai non rivederti. Un alto

Delitto le contrade itale afflisse

E vendetta domanda: io la grand'ombra

Di Berengario a vendicar mi reco.

Cadrò nel campo dell'onore: udrai

Forse in breve il mio nome e dirai «Basso

Fu il viver suo, ma egli moria da forte.»

Ma non men che in Adel s'avviva in petto

Ad Eloisa di virtù il bel raggio:

E ipocrisia sdegnando e vano orgoglio,

Qual sorella gli parla e con decoro

Quasi di madre e di regina—eppure

Sol favellar così potea un'amante.

Un celeste idïoma era, onde i pochi

Predestinati cuori han conoscenza

Che amaron come Adello, e un'Eloisa

Sulla terra trovarono, e una volta

Piansero insieme, e da quel dì migliori

Si sentir—benchè forse, ahi, più infelici!

Ella accenna infrangibil l'imeneo

Che del suo padre la saggezza ha fermo,

E dice sacro quel dover che legge

A entrambi lor fa il separarsi e pace

Ricercar nell'assenza: e poi soggiunge

Con enfasi gentil quanto l'uom possa

Sublime farsi nel dolor, se invitto

Ai colpi di fortuna animo opponga,

E più, se nel dolore ei sempre aneli

A far sì, che ad un lito (ond'esul mosse)

Spesso la fama sua giunga e tai fatti

Narri di lui, che ognun qui dire ambisca:

Io lo vidi, io 'l conobbi, ei mi fu caro!

Con più tenera voce indi Eloisa

Il rampogna che morte ei nelle prime

Pugne minacci d'incontrar; gl'intima

Di viver—

«Donna, ah da te lunge?—

«Vivi

Alla patria, a' parenti... ed al conforto

Pur d'Eloisa!»

Questo detto ha fisso

Del futur campion l'alto destino!

[2]

San Giorgio, principe di Cappadocia.

II.

«Ben t'avvenga, o stranier, che non disdegni

Del proscritto la stanza! Oh, il curïoso

Mio desir non t'offenda: avresti il suolo

Di Verona toccato? o nulla almeno

Dell'infelice mia patria t'è noto?»

«Verona tua, gran Valafrido, ancora

Non visitai, ma qui di Francia io movo

Per quella volta.»

Adel così dicendo,

Una scritta porgeva: e con ossequio

(Mentre quei legge) osserva le sembianze

Dell'eroe cui per molte cicatrici

Beltà non scema: è in Valafrido un misto

Tal di guerriera cortesìa e fierezza

Che affetto ispira e in un tema e stupore.

«Che? Tu del sir di Rocca Incisa alunno,

Di lui ch'a Eligi mio chiuse le ciglia?—

E dal felice tetto del vegliardo

L'ardente febbre involati de' prodi,

Il bisogno di gloria? Oh, dritto ei parla,

Con paterna amarezza lamentando

Giorgio il tuo dipartir!
Ne' generosi

V'è un impulso di Dio che li sospinge:

Uopo è onorarlo, anche se il cor ne pianga.
»

Adel s'inteneria rammemorando

Del suo signor l'affettuoso sdegno,

Quando i suoi preghi a forza il combattuto

Congedo ottenner. Poi dalle ospitali

Accoglienze animato—«O Valafrido,

Guida mi sieno i tuoi consigli: acceso

Dall'alta istoria di tua eroica fede

Pel trucidato nostro italo Augusto,

Al sitibondo mio ferro ho la morte

Del traditor giurata.»

«O giovinetto,

il cor mi brilla udendoti. Perduta

Tutta de' giusti ancor dunque la stirpe

Non è in Italia? I giusti—oh, ma son rare

Stille che pure cadono dal cielo

In torbido ocean, che inosservate

Nelle giganti sue schiume le ingoja!

T'arrida un giorno la fortuna: or tempo

È di sostar: te perderesti indarno

E del trafitto Cesare quel sacro

Unico avanzo su cui pende il brando

Dell'assassin.»

«Ciò che a salvar la figlia

Di Berengario lungamente opravi

Noto m'è o Valafrido...»

«E non t'è noto

Che al novo italo sire Ugo negando

Chinar l'insegna mia, se dalle mani

Dell'assassin Rasperto ei non togliea

La donzella regal, meco possente

Esercito ebbi che d'onore al sacro

Nome parea tutto avvampar? L'infido

Ugo mi trae ne' lacci suoi chiedendo

A me di pace il parlamento: i dritti

Son vïolati delle genti: in ferri

Tratto mi veggio. Ov'eran le promesse

Dell'esercito mio? dove la sete

Di giustizia e vendetta? Oh vitupero!

I creduti leoni eran conigli

Che un fischio sperde. Alla prigion m'involo,

A mie castella mi ricovro, ai servi

Do franchigia e virtù: la fede e il grato

Animo in prodi trasmutò gli abbietti:

Pugnar, morirò al fianco mio. Ma invano

Sperai che gara in petti altri e gentile

Pudor si ridestasse. Il soverchiante

Numero mi sconfigge: Ugo e Rasperto

Al suoi adeguan le mie rocche, e a stento—

Ramingo, insidiato, egro—l'afflitta

Testa posar m'è in questi monti dato.»

«Signor, tu il sai, soccombe il retto, e vana

Però non è la sua caduta: è crollo

Che desta le sopite alme e del retto

A compir le sublimi opre le incalza.»

«Adel, m'ascolta: speme una accarezzo,

Sol una.»

«Qual?»

«La grande alma d'Ottone.

Io in Lamagna trarrò, moverò l'ira

Del generoso: il vindice d'Italia

E del tradito imperador fia Ottone.»

Al quarto dì si separar gli eroi:

Valafrido oltre l'Alpi, e Adello mosse

Alla città infelice ove vassallo

Del re malvagio domina nel sangue

Il feroce Rasperto. Avea costui

Folto stuol di satelliti, raccolti

Tutti d'infra le truci orde venute

Di stranie terre alla rapina.—Adello,

Onde vie meglio ascondere che in petto

Lombarde cure ci prema, avventuriere

Natìo di Francia fingesi, cui sorte,

O errori giovanili, o irrequïeta

Brama d'eventi fuor di patria spinse.

Tacitamente a lungo ogni suo passo

Esplorato venìa. Seco si stringe

Un burgundo guerrier: cieca fidanza

Mostragli Adel, sognati casi narra,

Forte invaghito del mestier dell'armi

Dicesi, e a poco a poco ode gli offerti

Patti, e ingaggiarsi appo Rasperto assente.

L'avvenenza d'Adel, la signorile

Sua destrezza nell'armi attirò in breve

Del tiranno gli sguardi, e di sua corte

Agli ufficii l'assunse.

Adel fremea

Nell'incurvar l'altera alma alle bieche

Non imparate ancor del debole arti:

Ma incurvarla era forza, o prorompendo

Mal augurata far l'impresa. È lieve,

Di Berengario sulla tomba il mostro

Strascinar per le chiome e trucidarlo;

Ma di Rasperto riman poscia il crudo

Nipote Euger, che in sua balia rinchiusa

Tien nella torre Sigismonda e il sangue

Versar della infelice orfana puote.

Pria che vendetta dell'estinto or vuolsi

Dell'oppressa innocenza oprar lo scampo.

Cauto osservar gli spiriti, una tela,

Se arride il tempo, ir preparando, e il cenno

Di Valafrido attendere—tal era

Lo spettante ad Adello inteso incarco.

Ma più lune trascorsero, e l'eroe

Di Lamagna non torna, e orrende nozze

(Onde gli ambiziosi emuli tronche

Sien le speranze) intimansi alla figlia

Di Berengario coll'infame Eugero.

Repente sulle piazze alla sommossa

Chiamar la turba? Ed a qual pro? Non altri

Tentaron questa via? Tosto immolati.

Dalla viltà del volgo,—od a ritrarsi

Costretti si vedeano, onde il tiranno

Non estinguesse del lor re la figlia.

Dar l'assalto alla torre? e con quai brandi?

Ah, in molti petti è l'ira, il desio in tutti

Della vendetta, la virtù—in nessuno!

O almeno Adel non la scoverse.—Un fido

Servo, che collattaneo era del vecchio

Padre d'Adello, e indivisibil sempre,

Fin dal natal del giovin sir gli stette,

De' suoi segreti è il sol custode: oh, gli anni

La destra aggravan d'Almadeo; compagno

Fora mal certo nel ferir!

«Buon padre,

Urge il tempo, ho deciso: ad ogni rischio

Sol rimango io, ma Sigismonda è salva.»

«Che dici o mio signor?»

«Sotto l'ammanto

D'altra grave cagion, rapido cocchio

E destrieri apparecchiansi: al tramonto

Portator de' messaggi io di Rasperlo

Al re m'invio—ciò crederassi—il cocchio

Tu guiderai; più prezïoso un pegno

In mio loco ivi fia. Non della corte

D'Ugo il cammin, ma di Vinegia prendi:

Sino al mar non ristarti: un agil legno

Senza indugio v'accolga, ed al suo illustre

Proscritto zio la vergine conduci.»

«Deh, l'arcano mi spiega!

«Odi: tu sai

Che alla prigion della regal donzella,

Fuorch'a entrambi i tiranni e alle lor guardie,

Ad uom recarsi non è dato. Appena

Due antiche ancelle—e l'una a Sigismonda

Nutrice fu—ponno ogni dì all'afflitta

Di compianto e amistà porger ristoro.

Ad esse favellai. Della nutrice

Le spoglie io vesto, all'altra m'accompagno,

In carcer resto, e assuntesi le spoglie

Della nutrice, Sigismonda fugge.

Ir non può in fallo il colpo: occhio severo

Su queste donne non s'estende. Inferma

Da lungo è quella onde la voce io tolgo:

Muta sol ivi penetrar, ravvolta

In ampio velo: al scender della torre

Al lor umile tetto uom non le segue.

Buje or sono le notti: al destro lato

Del vicin tempio le fuggiasche trovi.

Salgano il carro immantinente: sferza

Senza posa i cavalli.»

«O signor mio,

Che fai? tua vita perdi: a' genitori

Pensa.»

«Agli esempii lor penso: la vita

Posposer sempre al maggior ben—l'onore!»

«Del tinto personaggio a me la cura

Dona, all'illustre zio tu stesso adduci

La salvata donzella.»

«Oh, ben da tanto

M'estimo io sì! nè a tue virtù, la gloria

Di morir per sì giusto atto, minore

Certo sarìa! Ma di soverchia mole

È, Almadeo, tua presenza: in guisa niuna

Dal travestir s'illuderian gli sgherri:

Me affida inoltre il valor mio: l'acciaro

Del padre d'Eloisa io sotto ai lini

Donneschi porto, e allor che s'avvedranno

(Dopo molte ore, deh, ciò sia!) le guardie

Dell'inganno sofferto, io d'atterrarle

E scampar non dispero; e piena l'opra

Forse eseguir che il morto re domanda.»

Resistenza e preghiere e ammonimenti

Ripetè invan l'antico.—I fatti egregi

Pensa anche il vil talvolta: il sol gagliardo

Li pensa e compie—e tra il pensiero e il fatto

È una ferrea catena, e niuna scossa

Quella catena fa ondeggiar.

Le donne

Alla torre presentansi. Il guardiano—

«Dio ti ridoni la salute o inferma!»

E la sana risponde: «Oggi l'affanno

Più dell'usato la meschina opprime,

Nè a veglia quindi appo la dama a lungo

Starci forse potremo.» E ciò dicendo,

Al saluto venal porgea cortese

Qualche mercede.

Inesplorate i neri

Avvolgimenti della torre ascendono,

E lor la trista cella si disserra

Di Sigismonda; indi il guardian sen parte.

Tutto in breve ode la fanciulla. Invasa

Da sorpresa e rossor, confusi, incerti

Detti favella. Il giovin cavaliero

E la vecchia fedel con premurose

Istanze le fan forza. Ah, d'involarsi

Dall'infame imeneo trattasi, i dubbi

Stolti, funesta ogni esitanza fora!

Della nutrice a Sigismonda i veli

S'appongono.—L'inferma appo la dama

Lunga dimora far non può: al suo letto

Già si ritira. In fondo era alla cella

Adel quando il guardian chiuse, e le donne

Fuor della torre addusse; ed osservato

Perciò non venne.

Poich'è sol, del manto

Che il cingea si discioglie, e il suo guerriero

Aspetto ripigliando, avido tende

E inquïeto l'orecchio. Ei di sventura

Trema—non già per sè: sull'elsa ha il pugno:

I perigli ricorda in cui quel brando

Conquistò a Giorgio la vittoria: stretta

Si tien sul cor la zona d'Eloisa—

E sovrumana forza alla sua destra

Tal s'infonde, che intrepido i suoi giorni

Venderia e cari a folta schiera innanzi,

Ma alla fuggiasca pensa e per lei trema.

«Che direbbero Italia e Valafrido,

E i miei parenti e un dì Eloisa, ov'io

Con improvvida audacia a morte spinta

Avessi Sigismonda? Eppur la scelta

Di più partiti io non avea, e il peggiore

Era l'indugio. Strepito non odo:

Oh cielo, arriso avresti? Ale ai corsieri

Presta, lor tracce agli inseguenti ascondi!

Propizii sovra il mar spira i tuoi venti!

In porto adduci l'innocente afflitta,

E ch'io pera, se il vuoi, ma inglorioso

Non sia il mio fato!»

Secoli son l'ore,

Ma pur segue una l'altra, ed ogni istante

Reca in Adel nova speranza e gioja.

Verso il mattin—prostratto era ei davanti

A un crocefisso, e per la patria orava,

E per tutti i mortali, e più pei cuori

Che sono al suo più strettamente avvinti—

Quando un suono di passi e di parole

Pei rimbombanti angusti anditi giunge

Al prigioniero. Stridono le chiavi

E gli orrendi cancelli. In piedi ei balza:

Ascolta—e i ghigni scellerati scerne

Dell'impudente Euger. Venìa il malvagio

Ad annunciar, che irrevocabil cenno

Dell'empio sir, ferme ha in quel dì le nozze.

Ma la porta dischiudesi—oh sorpresa

Spaventevole al reo, d'imbelle donna

In loco all'affacciarglisi improvviso

Incalzante guerrier! Pongon la mano

Alle spade i satelliti e il lor duce,

Urla mettono orrende, orrendi colpi

Metton, ma invan: già steso è al suolo Eugero,

Già spiccia il sangue da più petti: in cerca

D'aita e in fuga altri si volge: umana

Opra questa non credon, ma prodigio

Invincibil del cielo. Adel si slancia

Con volo irrefrenabile atterrando

Tutti gl'inciampi, e della torre è uscito.

Al popol corre, con possente voce

Incita a compier l'alta impresa: ei narra

Dell'involata all'esecrande nozze

Figlia di Berengario.

«Avventuriero,

Qual credeste, io non son, d'estrania terra!

De' Saluzzesi monti, italo io sono,

Figlio del sire Adel, che antico servo

Fu dell'ucciso imperador! Vendetta

L'adirata onoranda ombra a me chiese,

A voi tutti la chiede. Oggi la taccia

Si lavi che (già omai volge il terz'anno)

Vi disonora e dican la fraterne

Ed emule città—
Giacea nel fango

Per rio destin, non per viltà, Verona!
»

Il suo apparir maraviglioso, i caldi

Accenti del guerrier, la reverenza

E la pietà che spiran le ferite

Onde il volto gronda—e par ch'ei solo

Conscio non siane—un inatteso effetto

Producon nella turba. Al denso stuolo

Delle feroci mercenarie lance,

Che con Rasperto irrompono, non cede

Come altre volte il volgo: aspra battaglia

Le vie e le piazze insanguina: le opposte

Ire in eroi trasmuta anco i più vili.

Adel s'azzuffa col tiranno. Ivi era,

Ivi a mirarsi spaventevol cosa

Il furor de' gagliardi, il mortal odio,

E di disperazion l'ultima prova!

Lunga è la lotta, dubbia è la vittoria:

Si soffermano il popolo e i guerrieri,

E alterno è il plauso ed il terror. Ma alfine

Precipita il tiranno: a quella vista

Sgomentati si sperdono gli sgherri:

Grida di gioja il popolo manda—e Adello

Trionfator, ma semivivo, cade

De' suoi compagni d'arme infra le braccia.

Dio quella vita ad altre angosce ed altre

Glorie serbava: ma all'esauste vene

Del campion di Verona a grave stento

Riedè salute.

Un dì, al suo letto ei vede

Inoltrarsi due duci. Uno ei ravvisa:

È Valafrido. Di Lamagna i prenci

Questi trovato avea sì nelle interne

Discordie avvolti, che niun d'essi cura

Prender potea dell'itale fortune.

Oh come Valafrido i dolci amplessi

Rende al ferito eroe! come gentile

Dal labbro suo suona la lode al forte

Fatto d'Adel! Nè men commosso e onesto

Favellando applaudìa l'altro guerriero.

Il magnanimo zio di Sigismonda

Quegli è che ad onorar venne l'ignoto

Della nipote redentor:—Più giorni

Con delicata indagine il vegliardo

Spiò se in cor d'Adel fiamma d'amore,

Eccitatrice d'alte gesta, ardesse

Per l'augusta donzella, e dagli accorti

E amici detti un raggio tralucea,

Qual di desio che Adello osi a tai nozze

Elevar sue speranze.

Il perspicace

Garzon di quel linguaggio i sensi intende:

Ma cortesìa vuol che li ignori, e aperto

Scansi rifiuto. Quindi uopo tingendo

D'amichevol conforto e di fidanza

A sollevar del mesto animo il pondo,

Con fil e candor narra al buon vecchio

L'umile istoria de' suoi giovani anni,

E il foco inestinguibile che inceso

Le virtù d'Eloisa e la bellezza

Han nel suo petto, e tutto dice—tranne

Che riamato ei sia.—Ben gli era nota

La sfolgorante venustà e la dolce

Alma di Sigismonda, e come i prenci

Si contendan sua destra e quella destra

Porti forse venture alte di regno;

Ma più che ogni tesoro e più che i troni

È a lui la sua Eloisa—oh doloroso

Sovvenir d'un bel sogno! inutil culto!

Inutil no, giacchè sublima il core!

III.

Nell'arduo calle della gloria i primi

Cantai passi d'Adello: or trasvolando

Sull'ali rapidissime del tempo,

Additerò sol come lampi i lunghi

Patimenti e le gesta onde l'eroe

Gli anni suoi segnalava.

Ugo, insultando

Delle città, de' vescovi e de' forti

Itali castellani a' privilegi

E schernendo i trattati ed impunita

La libidin lasciando e la rapacia

De' suoi baroni, acceso avea nel regno

Di civil guerra la esecranda face.

Dal furor della plebe i regii messi

Lacerati venian: le inesorate

Lance del sire offeso alla vendetta

Trucemente scagliavansi. Ammucchiati

I cadaveri ingombrano le strade,

Nè v'ha chi li sotterri: il pellegrino

Riede al natio villaggio, e indizio appena

Del loco ov'ei sorgea songli i mezz'arsi

Rottami delle pietre e pochi teschi—Forse

del padre e dei fratelli i teschi!

Tal de' Lombardi era lo stato. Adello

De' depredati borghi e monasteri

In difesa accorrea: di lui, nemico

Più formidabil non avea il tiranno.

Ma in breve queste guerre han tratto all'imo

D'ogni miseria la contrada: il mese

Della messe venia, ma il sol versata

La sua virtù feconda avea ne' semi

Dell'ortica e del cardo; e da lontano

Il fuggiasco villan piangea sul brando

Che a' dì più lieti gli falciava i campi.

Ride Burgundia. «Or tempo è di riporre

I nostri ferri agl'Itali divisi!»

E già possente esercito calava

A sicura vittoria. Allora Adello

Vede la gran rovina: ad impedirla

Non v'è che la concordia, e alla concordia

Città rivali stringer sol può un scettro.

Del nome suo l'autorità sopisce

Gli odii: ei radduce le cosparse insegne

Appo la regia insegna. Or la salute

Dell'itala corona oprisi, e il guardo

Sulle colpe ond'è tinta uom non sollevi.

L'impulso dell'eroe quasi un novello

Spirto ne' pria diversi animi ha infuso.

Ugo, con maraviglia, in sua difesa

Color vede morir cui dianzi ha raso

Le castella o i tugurii: il crudo petto

A forza inteneriasi: ambir la gloria

Parve di scancellar co' benefizii

E con la giusta signoria le cieche

Ire sue prime. Adello, e altri guerrieri

D'onesta fama, sedi ebbero somme

Nel consiglio del re—ma quando piena

Fu de' Burgundi la sconfitta e saldo

Novellamente il trono, ecco, al tiranno

Ombra fa il nome del suo prode, e al dritto

Favellar suo magnanimo la taccia

Dassi ben tosto di ribelle orgoglio.

Dicon vetuste cantiche il giudizio

Scellerato ch'espulso ha dalla patria

Chi la patria avea salva.

Andò il ramingo

Del veneto leone agli stendardi

E lor sacrò la spada sua.—I superbi

Isolani, già tempo, avean le spiagge

Di Dalmazia predate e con la frode

Tolto di là tal venerando oggetto

Che da secoli e secoli a fraterno

Pellegrinaggio i Dalmati adunava

E fea d'un ricco monister la gloria:

Era la lancia d'un antico eroe

Che dal giogo pagano in molte pugne

Sottratto avea le natie valli. Il grido

Degli eccelsi miracoli, operati

Dalla reliquia di quel santo, al furto

I mal devoti veneti sospinse.

Ma intanto rotte più fiate, e sempre

Rinascenti nell'ira e più tremende,

Di padre in figlio le tribù selvagge

Con giuramento avvinconsi al racquisto

Dell'onorata lancia o a eterna guerra.

Un feroce lor capo, Adeoniro,

Col manto di pio zelo, infesta il mare

D'incessanti, audacissime, inaudite

Piraterie. Sui piccioli sui legni,

Di ladroni invincibili una turba

Ei radunò che d'uom, fuorchè l'aspetto

Null'altro serban; fama appo i lontani

Sparse ch'uomin non erano, ma mostri

Prodotti dai nefandi abbracciamenti

Delle dalmate streghe e de' demoni.

Niuna legge li stringe altra che un voto—

Pronunciato col rito abbominando

Di libare in un calice una stilla

Di caldo ancor veneto sangue—e il voto

È d'assalir qualsiasi veleggiante

Pin di San Marco, o scompagnato corra

O a torme, o debol sembri o poderoso,

E dalla pugna non ristar ch'o estinti

O vincitori. A queste anime atroci

Ogni pietà verso i nemici è ignota,

Ma tra loro mirabile è una gara

D'assistenza e giustizia e comunanza

Di beni e mali. Adeonir divide

Il bottin, nè maggior parte a sè dona

Che al più abbietto compagno. In gozzoviglie

E in limosine sprecan, non curanti

Tutti del pari, ogni tesor soverchio,

Quand'armi e barche e attrezzi hanno, ed ai figli

E alle donne e a' feriti han provveduto.

Tal delle imprese loro è la ventura,

E con tali atti di barbarie han tinto

Di stragi l'onde, che il nocchier più ardito

Nell'adriaca laguna inoperose

Tien le sue sarte, e unanime la voce

Dell'atterrito popolo s'innalza

Perchè il furto s'espii ch'a furor tratto

Ha de' Dalmati il santo, e a' loro altari

Con doni la fatale asta si renda.

Il senato assentì: ma col ritorno

Della reliquia, pur mutar natura

Non potè l'indomato avido spirto

De' bugiardi pirati: e con più angoscia

Pianse Vinegia le nuove onte, e mosse

Con alte navi e prodi capitani

Ad estirpar di que' malnati il seme.

Ahimè, che de' suoi prodi il morir forte

Non giovò alla repubblica! In tai giorni

Di lutto universale, uno straniero

Sorge e il linguaggio degli eroi parlando,

Radduce nelle curve alme il coraggio.

Quello stranier pugnato avea sui pini

Della sconfitta armata, e al valor suo

De' pochi avanzi si dovea lo scampo.

Era Adello! Il magnanimo senato

Plaude all'ardir del cavaliero; un novo

Armamento decreta: Adel le prore

Capitanando, alla vittoria corre,

E sepolcro i pirati ebber nell'onde.

Favorita canzon del marinaro

Divenne questa istoria, e tutti i liti

D'Italia l'impararono, e ne' gioghi

Più segregati d'Apennino—allora

Che un sir bandisce all'ospite il festino—

Dice al suo vate: cantaci il bel nome

Del vincitor de' dalmati pirati.

Memoria non restò delle sciagure

O degli affronti perchè Adel partissi

Dalle bandiere del leone. Amalfi

Diede ospizio e onoranza al capitano,

E per lui prosperò; la terra e l'acque,

Più d'una volta, del suo sangue intrise,

Ma invitto il vider sempre e più tremendo.

Tacerò quelle pugne e dirò il giorno

Che—tempo era di pace e vincolato

D'Amalfi all'armi il brando ei non tenea—

Adel coll'oro suo recossi ai Mori

Che in Tunisi avean sede, e quanti schiavi

Potè redense. Il sacrificio ei compie

D'ogni suo aver, perocchè morti entrambi

Son gli adorati genitori, e il pio

Figlio all'anime lor schiudere il cielo

Spera con opre che al Signor sien grate.

Un dì, secondi egli aspettava i venti

Per la reddìta, ed ecco entra nel porto

Con festive urla un predator; parecchie

Sbarca gementi vittime, e fra quelle—Oh

sorpresa! oh sciagura! Adel ravvisa

Un cavalier troppo a lui noto, è desso,

D'Eloisa lo sposo!

Ai primi amplessi

(Ed oh quanti dolori in quegli amplessi

Squarcian d'Adello il nobil cor! qual misto

D'antica gelosia, di riverenza

Per le virtù del sir, di generosa

Compassïon, d'affanno immaginando

Le pene d'Eloisa in udir preda

Ai scellerati masnadier lo sposo!)

Ai primi sfoghi di pietà, succede

L'interrogar sollecito dell'uno

E il racconto dell'altro.

«Oh Adel compiuta

È la sventura mia! Tu vedi il figlio

Del felice Usignan, già di castella

Sì ricco e d'armi, cui possenti trame

Di perfidi congiunti han da sei lune

Rapito ogni dominio. I figli miei

E lor misera madre (ah, poich'al duolo

Il tuo signore e mio, Giorgio soggiacque!)

In salvo a Nizza appo mia suora addussi.

Ivi una notte una masnada irrompe

Di Saracini. Io d'Eloisa, e quanti

Dolci pegni m'avanzano, la fuga

Combattendo proteggo: oh, almen per loro

M'arrise il ciel! Ma cinto, disarmato,

Carco di ferri io vengo. Anzi il mattino

Salpan le collegate arabe navi:

Quai di Spagna eran, quai del Sardo e quali

Di quest'africo lito; a me la somma

Lontananza toccò!»

Frenava Arnaldo

Con viril forza il pianto: Adel, compreso

Da tanta folla d'infelici e cari

Pensieri, il volto si copria e lasciava

Alle lagrime sue libero sfogo.

«E anche il mio antico sire è nel sepolcro!

Sì lunghi anni di gloria, e poi nel lutto

Morir miseramente! ecco, empia terra,

Il guiderdon che alla virtù largisci!—

Ma no, delle onorate opre la meta

Non è il sorrider di mortal fortuna:

Amaro a' giusti è il vivere, e beato

Solo quel dì che al mondo vil ti toglie!»

Così esclamava Adel, sazio de' giorni

Glorïosi, ma sterili di gioja

Ch'ei tratto avea, da quando allontanato

Erasi da Eloisa. E or par che tutta

Da mal estinte ceneri risorga

La giovenil sua fiamma: i detti, il volto

D'Arnaldo lo riportano ai remoti

Tempi del suo delirio. Ei vede i colli

Della Sonna fioriti—il santuario

Ove la pia fanciulla iva sovente

A lagrimar sulla materna tomba—

L'inghirlandata barca ove ella, assisa

Sulle ginocchia di suo padre, al canto

Talor sciogliea la voce; e talor l'inno

Era d'Adello; e allor della donzella

Più timido era il canto e più pietoso!

Che pensa, Adel, tua nobil alma? I campi

E le rocche d'Arnaldo andrai col brando

A racquistar pe' figli suoi? ma in ceppi

Ei qui rimansi: squallido, languente

È il suo sembiante: il duol forse e la dura

Servitù in breve troncheranno il filo

Di quella vita... Libera Eloisa?

Oh pensiero infernal! Ma nella mente

Anche de' giusti sfolgora i suoi foschi

Lampi l'inferno—e più son giusti appunto

Perchè talvolta eguali a' rei son quasi,

Ed allor non soccombono, e con arduo

Sforzo sopra il mortal fango s'innalzano.

D'altri schiavi al riscatto ogni tesoro

Già avea consunto Adello: al predatore

D'Arnaldo in cambio, egli offresi. Accettato

Venne il partito, perocch'egro il primo

Schiavo parea, e salute e forza spira

Del novel la persona. Il sir francese

Queste mosse ignorava, e i suoi voraci

Crucci addoppiava l'esser conscio, ahi troppo

Degli affetti d'Adello. Alta è la stima

Che la virtù dell'Italo gli desta;

Ma pur già scorge nel futuro, accanto

Alla donna (e ancor bella era Eloisa)

Il rival cavaliere, e quella stessa

Virtù che in esso ammira è il suo spavento.

Ma oh come in sè medesmo ei si vergogna

Di sì bassi concetti, allor che tolte

Vede a sè le catene, ed alle braccia

Poste d'Adel!

«Che fia? Non mai! Sublime

Insania, Adel, ma insania è questa! infermi

Giorni redimer di chi tutte ha tronche

Le vie di rimertarti e così all'imo

Cadde che d'ogni grande atto la speme

Da fortuna gli è tolta—e invece i giorni

Preziosi immolar di chi seconde

Tutte ha le sorti e per la gloria vive!»

«Arnaldo, i pregi tuoi taccio che sommo

Ti fer sempre a' miei guardi; or sol rammento

Quanta importanza i giorni han di chi i sacri

Titoli vesta di marito e padre:

Appo tal, nulla è la deserta vita

Di chi solingo passeggia la terra

(E tal son io), di chi, s'allegri o gema,

Niun bea il suo riso e niun piange al suo pianto.»

Volea soggiunger l'altro. Adel temendo

D'aver con triste voci intenerito

Il suo rivale e forse appalesato

Della stanca dolente alma il segreto,

Apre un gentil sorriso—Va', gli dice,

A consolar la tua dolce famiglia;

Cura nostra primiera esser de' questa:

Indi per me non t'affannar: lontane

Non son l'itale sponde, e ivi sì egregi

Cuori mi fean di loro amistà dono,

Che in me certezza è la lor gara al pronto

Riscatto mio.

«So, generoso Adello,

Che in sue nuove tempeste Ugo invocava

Il braccio tuo; so che anelò Vinegia

Di ritorti ad Amalfi, e che in ciascuna

Itala signoria ferve la brama

Di possederti a suo campion: ma esporti

Di fortuna a' capricci, ah no, non posso!

Sol crederei, se in mia balìa fosse indi

Il tuo pronto riscatto: oh, ma ti dissi

La mia piena miseria!»

Uopo ad Arnaldo

Il ceder fu. Partì sulla primiera

Cristiana prora: agl'Itali l'annunzio

Esso, con altri dall'eroe redenti,

Portar di questo fatto. Onor parea

Stringer più d'una terra alla salvezza

Del guerriero in catene: il sir francese

Non osò dubitarne; Adello stesso,

Benchè scevro d'orgoglio, aver sul grato

Animo altrui credea qualche dritto—

Tutti obbliaro il misero! quattr'anni

Le afriche solitudini l'han visto,

Con abbietti compagni ad opre abbiette

Sotto varii tiranni i suoi sudori

Spargere oscuramente—ed eroe ancora

Esser per gl'infelici, o alleviando,

Con gravarne sè stesso, i lor dolori,

O al rassegnato suo religïoso

Senso le svigorite alme estollendo.

Chi ai Saracini il tardo inaspettato

Prezzo portò del cavaliero? Un messo

Che dalle rocche vien d'Arnaldo. Il sire

Fedeli colleganze e alto valore

Ricondotto hanno a' suoi dominii e a tutta

La paterna sua gloria.

Adello è asceso

Sull'ospital naviglio: al marsigliese

Porto ei veleggia. Oh come dir la gioja,

La gratitudin che il bel cuore inonda?

Come i diversi palpiti, approdando?

Poi, sul corsier veloce alle castella

Del suo benefattore e d'Eloisa

Senza posa traendo?

«Ei giunge: incontro

Moveangli il sire ed Eloisa e i figli

(Figli di quell'imen; pur cari all'alma

Gentil d'Adello!) Mutui i commoventi

Detti suonano e i teneri singhiozzi

E la sincera nobil lode. Un riso

Del ciel parea per que' mortali eletti

Aver portato sulla terra il gaudio

Che dal suo trono Iddìo raggia ai beati!

Ma quel foco di vita che nel ciglio

Brillava ad Eloisa, insolito era.

Da lungo tempo in essa è illanguidito

Il fior della salute. Adel s'accorse

Ch'ella reggeasi con fatica; e intende

Che nella notte in che da Nizza a fuga

Ella errava co' figli, un dardo colse

Leggermente un di questi: ahi, velenato

Fors'era il dardo! Il bambinel da orrenda

Crescente piaga si struggea: la madre

Quella piaga lambendo al figliuol suo

Crede render la vita e, ohimè, s'illuse!

Sotterra è il pargoletto, e da quel tempo

A stento l'arte di Salerno e i voti

Appesi sugli altari e i benedetti

Maravigliosi farmachi al dolente

Sen dell'eroica madre addur novello

Sembran vigor.

Ben tosto Adel conobbe

Che sol gli affetti subitanei un breve

Ponean rossor su quelle guance. Il dolce

Soggiorno alcuni mesi ei protraèa

Appo gli ospiti amati, e con Arnaldo

Il timore alternava e la speranza

Per l'egra donna—Ahi lasso! inferocisce

Rapidamente il morbo!—Adel sul letto

Di morte la mirò. Tutta obblïava

Ei sua virtù: chiedea ragione al cielo

Dei mali onde a gran fiotti il mondo inonda

Ch'egli ha creato, e in quegli orrendi fiotti

Indistinto sobbissa e il buono e il reo.

«Oh Adel (rispose la morente—e furo

Questi gli ultimi accenti) oh Adel, ritraggi

La insensata parola! È il duol cimento

Ove Dio prova degli umani il core.

Te a egregi fatti i lunghi sacrifici

Portaron: nè t'incresca! e parver lunghi;

Ma, come stral per l'aer, fugge quest'ombra

Ch'uom vita appella e salda cosa estima!

Nè infelice è chi muor, ma chi morendo

Guarda gli anni volati ed alcun'orma

Da lui lasciata di virtù non trova!»

Voce a Eloisa allor mancò: sorrise,

Strinse al seno i figliuoli, all'onorato

Sposo si volse—e dir parea «Co' figli,

Adel ti raccomando»—e più non era.

Così passò la santa.

Incerte storie

Narrano d'un Adel ch'appo i Toscani,

Dopo quel tempo gli Ungari sconfisse:

Fors'era il nostro eroe; forse in più gesta

Ancor brillò la gloria sua. Ma il vate

Che del sepolcro suo cantò, non dice

Se non che vecchio Adel morì e mendico,

Perdonando agl'ingrati, e ripetendo

Que' detti d'Eloisa: «È il duol cimento

Ove Dio prova degli umani il core;

Nè infelice è chi muor, ma chi morendo

Guarda gli anni volati ed alcun'orma

Da lui lasciata di virtù non trova!»

NOTE.

.... Sui colli

Della Sonna fioriti e sulla Rocca

Invisa dominava.

V'è presso Lione, sulle rive della Saône, una rupe che ritiene il nome di Pierre-Encise.

In chi di giusti nacque è onnipossente....

Tutta la cantica sembra avere per iscopo morale queste verità:—che uno de' più grandi stimoli alla virtù si è l'esempio di parenti irreprensibili, e quindi il desiderio di consolare con bei fatti la loro vecchiaja—che nelle passioni in lotta col dovere, quanto più il sacrificarle a questo è doloroso, tanto più l'uomo che compie questo sacrificio ha luogo in appresso di congratularsene, trovandosi nobilitato ai proprii sguardi e più capace di grandi azioni—che finalmente se sulla terra il premio della virtù è spesso l'ingratitudine degli uomini e la sventura, al giusto sono abbondante compenso la sua fama, il testimonio della buona coscienza, e la pace e le speranze con cui egli solo può scendere nella tomba.

.... Io la grand'ombra

Di Berengario a vendicar mi reco.

Berengario I, dopo gli infelici successi della sua guerra con Rudolfo, fu assassinato a Verona da alcuni congiurati, capo de' quali era Flamberto. Tre giorni dopo Milone guerriero fedele all'infelice imperatore ne fece la vendetta, vincendo i colpevoli e condannandoli al supplizio: così le cronache. Ma secondo questa cantica uno d'essi congiurati, Rasperto, riacquistò potere in Verona, ed ebbe in seguito il favore del re Ugo, che gli lasciò il governo di quella città.

Che al novo italo sire, Ugo....

Rudolfo tenne poco tempo il regno d'Italia: ei dovette cederlo ad Ugo, duca di Provenza, che segnalò il suo dominio con le crudeltà e la perfidia.

.... La grande alma d'Otone....

Pare che debba essere Ottone di Sassonia, il quale circa 14 anni dopo quest'epoca conquistò l'Italia.

Tolto di là tal venerando oggetto.

Leggasi la storia de' bassi tempi e si vedrà quanto fossero frequenti i furti delle reliquie. Un popolo credeva d'appropriarsi la prosperità dell'altro, togliendogli o il corpo o qualsiasi altra reliquia del santo protettore del luogo.

.... Che il nocchier più ardito

Nell'adriatica laguna inoperose

Tien le sue sarte.

Che un piccol numero di pirati sparga tanto spavento parrebbe un'esagerazione, se la storia non dicesse come nel secolo XVII i filibustieri, ammasso di pochi audacissimi ladroni, divennero il terrore dei navigatori europei, a segno dì tener talvolta interrotta la comunicazione della Spagna colle colonie americane.

A stento l'arte di Salerno...,

Nel secolo X Salerno era già famosa per la sua scuola di medicina. (V. il Tiraboschi.)

EBELINO

CANTICA.

L'idea di questa cantica non è tutta mia. Il tema vennemi fornito da un romanzo storico tedesco, ch'io lessi già tempo, e di cui ignoro l'autore. Il merito letterario di quel libro mi pareva debole, ma il personaggio d'Ebelino vi spiccava con tratti forti, e mi rimase vivamente impresso nella fantasia, come nobile modello di pazienza ne' dolori. Ivi narravasi d'Ebelino, non so con qual fondamento, ch'ei fosse un povero cavaliero scacciato nell'adolescenza con atroci minaccie di morte da sette disumani fratelli, e divenuto uno de' liberatori della regina Adelaide. Questo giovane prode passato in Germania coll'illustre vedova di Lotario, allorch'ella sposò in seconde nozze Ottone I, dipingevasi dal mio autore quale un nuovo Giuseppe alla corte d'Egitto, potentissimo e sapientissimo; e a fine di meglio somigliare al vicerè di Faraone, Ebelino scopriva anche i suoi fratelli, venuti d'Italia a Bamberga senza che immaginassero chi egli fosse, e perdonava loro. Conservata alcun tempo la sua alta fortuna sotto Ottone II, cadeva poscia vittima d'un traditore collegato a molti invidi rivali; ma il traditore stesso, agitato da visioni spaventevoli, confessava indi a poco l'innocenza dell'immolato Ebelino.

EBELINO.

Si bona suscepimus de manu Dei, mala quare non suscipiamus!

JOB. 2, 10.

Inno d'amore e di compianto al giusto,

Al giusto denigrato! Ebelin, fido

Campion del magno Ottone e consigliero,

Colui che al generoso Imperadore

Verità generose favellava,

E i biasimati torti indi con mente

Pronta e amorevol correggea e sagace;

Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio,

Spesso invece del sir ponea la destra

Al timon dell'impero, e lo volgea

Del sir con tanta gloria e securanza,

Che questi, anco in cimento arduo serrando

Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea:

«Vigila or tu, che il signor tuo riposa;»

Quell'Ebelin, che, lagrimato il sacro

Cener del magno Otton, d'Otton novello

Fu parimente lunghi anni sostegno

Di giustizia nel calle, e guida e sprone;

Sì che a nessun parea che dilettoso

Ne' poveri tuguri e nelle sale

Fervesse crocchio, ove lodato il nome

Non fosse d'Ebelin,—quell'Ebelino

Morì esecrato, ed era giusto! Amore

E compianto agli oppressi!

Un dì l'Eterno,

Come a' giorni di Giobbe, al suo cospetto

Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse:

—Onde vieni?

E il maligno:—Ho circuita

Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.

Ed il Signore:—O di calunnie padre,

Non vedestù l'amico mio Ebelino,

Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo

Tanta in prosperi dì serba innocenza?

E l'angiol di menzogna ambe le labbra

Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso

Disse:—Ebelin? Dov'è il suo pregio? Ei t'ama

Perchè di beni è colmo. Il braccio or alza,

Percuotilo, e vedrai s'ei non t'imprechi.

Ed il Signor:—Giorni di prova a' retti

Forse non io so stabilir? Va; pongo

Entro a tue mani dispietate or quanto

Agli occhi della terra Ebelin porta,

Fuorchè la vita.

L'avversario allora

Avventossi precipite dal grembo

Della nembosa nube, onde i mortali

Atterria lampeggiando; ed in un punto

Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante

Si soffermò, e da questo lato i campi

Della lieta penisola mirando,

E dall'altro le selve popolose

De' boreali, l'una all'altra palma

Battè plaudendo al sovrastante lutto

D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!

La più squisita voluttà del male

Pensò un momento qual si fosse, e al giusto

Fermò ignominia cagionar per mano...

Di chi?—D'amico traditore! Il colpo

Più doloroso e a dementar più adatto

Chi molto amando irreprensibil visse!

—Un Giuda voglio! Il dèmone ruggia

Giù dall'alpe scagliandosi e correndo

Pe' teutonici boschi, e visitando

Con infernal, veloce accorgimento

Città e castella.

Iva ei cercando l'uomo,

In cui scernesse il dolce volto, e i dolci

Atti, e l'irrequïeto occhio geloso

Del venditor di Cristo; e non volgare

Mente si fosse, ma gentil, ma calda

Di lodevoli brame, ed inscia quasi

Di sè si pervertisse, e vaneggiasse

D'amor per tutte le virtù, e seguirle

Tutte paresse, e infedel fosse a tutte.

Tale, od un vero giusto esser dovea

Chi affascinasse d'Ebelino il core;

E Sàtan nol trovava, e con dispregio

Maledicea la lealtà nativa

De' figli del Trïon, popol rapace

Nelle battaglie, e in sue pareti onesto.

Ma quando già il crudel quasi dispera,

Ecco s'incontra in uomo onde il sembiante

Tosto il colpisce; e fra sè dice:—«È desso!»

Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta.

Quel benedetto dall'orribil genio

Era un prode straniero, e fama tace

Di qual progenie, e nome avea Guelardo.

Sul suo destrier peregrinava, e ladri

Or assaliva, degli oppressi a scampo,

Or dispogliava ei stesso i passeggeri,

Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio

Pur quelli avrìa, se a povertà costretto

Non l'avesse un fratel, che del paterno

Retaggio spossessollo.

A che di bosco

In bosco errasse, ei non sapea. Sperava

Dal caso alte venture, e perchè tarde

Erano al suo desìo, volgea frequente

Il pensier di distruggersi; e più volte

Dall'altissime balze misurava

Coll'occhio i precipizi, e mestamente

Rideagli il core, e si sarìa slanciato

Nelle cupe voragini, se voce,

O aspetto di mortali, o speranze altre

Non l'avesser ritratto.

—O cavaliere,

Salve.

—Scòstati, scòstati, o romito;

Oro non tengo.

—Ed oro a te non chieggo;

Ben d'acquistarne santa via t'accenno.

Vile è il mestier cui t'adducea sciagura,

Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti

Occulta sapïenza ha rivelate:

Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra:

Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai

A' clementi occhi del regnante istesso.

Così Satan, e sparve.

Incerto è quegli

Se fu delirio o visïone. Al cielo

Volge supplice il viso: in cor gl'irrompe

De' suoi misfatti alta vergogna; aspira

A cancellarli, e quindi in poi di tutte

Virtù di cavaliere andare ornato.

In quel fervor del pentimento, incontra

Un mendico, e su lui getta il mantello,

E sen compiace, e dice:—Uom non m'avanza

In carità e giustizia.

E Sàtan rise,

E non veduto gli baciò la fronte.

Alla real Bamberga andò Guelardo,

Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino

Supplice presentossi, e pïamente

Da quella bella e grande alma si vide

Ascoltato, compianto, e di non tarda

Aïta lieto. Un fascino infernale

Sovra la fronte di Guelardo imposto

Ha del demone il bacio. Allo straniero

Conglutinossi d'Ebelino il core

In breve tempo; e nella reggia e in campo

Quei Gionata parea, questi Davidde.

Mirabile brillava ad ogni ciglio

Quella forte amistà: Saran fremeva

Ch'ella durasse, e il volgersi degli anni

Affrettar non potea. Nè ratto varco

Sperabil era tra i pensieri onesti

Che Guelardo nodriva e la sua infamia,

Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce

Nella virtù emularlo, e il desiderio

Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo

Angiol si confortava misurando

L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi

Secoli, breve istante eran poch'anni.

Ed intanto ci godeva, a quell'imago

Che tigre, sebben avida di sangue,

Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo

Tragge di quella contemplando i moti

E l'amabil fidanza, ed assapora

Più lentamente la decreta strage.

Dopo tanto aspettar, s'appressa il giorno

Sospirato dall'invido. Al novello

Otton contrarie qua e là in Italia

Eran le menti di non pochi, e speme

Vivea secreta ch'italo Ebelino

Secretamente lor plaudesse. Il core

Di molti era per esso, e nelle ardite

Congrèghe entro a' castelli, ed appo il volgo

Susurravan, più splendido rinomo

Non avervi del suo; null'uom più voti

A suo pro riunir; doversi acciaro

Dittatorio offerirgli, o regio scettro.

L'augusto sir dalla germana sede

Contezza ebbe di fremiti e lamenti

Nell'alme de' Lombardi esasperate,

Ed a sedarle con prudenza invìa

Ebelino e Guelardo.

Alla venuta

Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido

Che fama addoppia de' lor alti pregi,

E più de' pregi di colui, che sembra

D'onnipotenza quasi insignorito,

Ferve ognor più l'insana speme, e tutta

In congressi pacifici prorompe,

Ove i duo messi imperïali invano

Senno indiceano e obbedïenza.

—O prodi!

Così Ebelin risponde al temerario

De' corrucciosi invito; io condottiero

Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto

Gli son da conoscente animo e onore,

E il portai fra mie braccia. E quando insieme

Del moribondo padre suo le coltri

Inondavam di pianto, il sacro vecchio

Nostre mani congiunse, e disse:—Un figlio,

O Ebelino, ti lascio;—ed a te lascio,

O figlio, un padre in Ebelino!—Ed era

In tai detti spirato. Allora il figlio

Gettommi al collo ambe le braccia, e molto

Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi,

E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti

Violati con voi fosse il mio sire,

Biasmo sincer da mie labbra paterne

Avriane, sì; retti n'avrìa consigli,

Ma non odio, non guerra, non perfidia!

—Deh! taccïano, Ebelin, privati affetti,

Ov'è causa di popoli. Ed ignota

Mal tu presumi essere a noi l'ingrata

Alma d'Ottone anco ver te, che dritti

Tanti acquistasti a guiderdone e lode.

Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti

Finge, ma stolta è finzione omai

Ond'ogni cor magnanimo s'adira.

Possente sei, ma più non sei quel desso

Che ne' duo regni un dì tutto volvea.

Tëofanìa il governa, e da Bisanzio

Sul germanico seggio ov'ei l'assunse

Recò le greche astuzie, e lo circonda

Di greci consiglieri. Essi con lei

Van macchinando contro te ogni giorno;

Che se finor cadute anco non sono

Le podestà che a te largì il monarca,

Della tua rinomanza egli è prodigio,

E nel tiranno è di pudor reliquia.

Bada a' perigli, a tua salvezza bada:

D'Otton l'iniquità rotto ha i legami

D'ogni giusto con esso.

Un de' maggiori

Così parlò fra gli adunati audaci.

Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa

La parola di sdegno e di sospetto

Circa l'imperadrice e i cortegiani

Ch'ella a sue nozze addotti avea di Grecia.

Ma la candida e ferma alma del pio

Ebelin s'adirò. L'imperadrice

E Otton con nobil gagliardìa difese,

E de' Greci sorrise. Ei sì facondo

Favellava, e amichevole e verace,

Che i più irati l'udìan con reverenza:

Con tenerezza quasi, ancor che invitti

Nel feroce astio e nell'ardente brama.

Di Guelardo lo spirto a quel congresso

Funestamente s'esaltò. Il diletto

Ebelino ei vedea, nella commossa

Fantasia, re, suscitator di gloria

Ad un popol redento. Il vedea bello

Giganteggiare in immortali istorie,

Com'un di que' supremi, onde la terra

Lunghi secoli è priva; e sè medesmo

Socio vedea di quel supremo, e a lui

Successor forse, e... Che non sogna audace

Ambizïon, se raggio ha di speranza?

Quand'ei fu sol con Ebelin, ridisse

Le voci insieme intese, e commentolle

Coll'insistenza del favore; e aggiunse

Maligno esame de' pensier, degli atti

D'Ottone, e della Greca in trono assisa,

E degli astuti amici ond'ella è cinta.

Quasi certezza accolse i più irritanti

Dubbi e i minimi indizi di periglio,

E gridò ingratitudine, e diritto

Alla rivolta. E a grado a grado questa

Ei necessaria osò chiamare, e il pio

Ebelin concitarvi. Lo interruppe

Finalmente Ebelin; duplice tela

Come già svolto aveva agli adunati,

Svolse di novo al tentatore amico:

Qua la turpezza del tradir, là i vani

Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata

È nazïon da lunghi odii fraterni.

Negli aneliti suoi s'ostinò il core

Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia

A ridir con sofistica, inesausta

Facondia per più dì l'empie sue brame;

Sì che non poche volte il generoso

Ebelino in resistergli, dal mite

Considerare e dai soavi detti

Passò a dogliosa maraviglia e sdegno.

Turbossene colui, ma il turbamento

Ascose e il disamore, e da quel tempo

Crescente invidia in sen covò tremenda.

Novi succedon fortunati eventi,

Ch'ognuno attesta glorïosi al senno

Dell'ottimo Ebelin; ma più Guelardo,

Come negli anni primi, or della gloria

Del suo benefattor non va giocondo.

Ei con geloso sospettante ciglio

Mira la sua grandezza, e superarla

Vorria e non puote; e detestando, sogna

Dall'amico esser detestate; e pargli,

Laddove pria si belle in Ebelino

Virtù vedea, più non veder che scaltra

Ipocrisia. De' pervertiti è proprio

Non credere a virtù; d'ogni più certo

Generoso atto dubitar motivi

Turpi, ed asseverarli: in ogni etade

Così abborriti fur dal mondo i santi.

Da quello stato di rancor, di mente

Ognor proclive a gettar fango ascoso

Sovra l'opre del giusto, è breve il passo

Ad assoluto di giustizia scherno.

In Lamagna Guelardo ad altri uffizi

Di grande onor da Ottone è richiamato,

Mentre Ebelin nell'itale contrade

Resta moderator. L'ingrato amico

Sospetta ch'Ebelino abbia con arte

Tal partenza promosso, a fin di trarsi

Uom dal cospetto che in secreto esècri.

Del congedo gli amplessi ei rende a quello,

Ma senza avvicendar come altre volte

Palpiti dolci di desìo e di pena.

Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento

Del più sincero degli umani, e parte

Coi fremiti dell'odio, e maturando

Di non avute offese alta vendetta.

—Cieco tanto io sarò che vero estimi

Suo rifiuto ai ribelli? Or che si vaste

Son le congiure? Or che da lunghe e infauste

Guerre è stanco l'impero? Or che d'illustre

Nome a capitanarla, e di null'altro,

La penisola ha d'uopo? Or che oltraggiata

Dalla superba, greca, invida nuora

È quell'antica d'Ebelin fautrice,

La vantata Adelaide, che alle umìli

Ombre de' chiostri dalla reggia mosse?

Or che Tëofania palesemente

Lacci a lui tende e sua rovina agogna?

Il menzogner di me diffida: i vili

Diffidan sempre! Allontanarmi volle

Non senza mira ostil: me di qui toglie

Per regnar sol, per non aver chi forse

Sua sapïenza e sue prodezze oscuri.

All'amico ei rinuncia; ei nelle schiere

Del suo tradito Imperador mi brama,

Nelle schiere d'Otton, contro a cui l'asta

Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui,

Che nè lo sdegno mio, nè la sagacia

Non teme, nè il valor! Perfido! io mai

Stato non fora a tua amicizia ingrato;

Alla mia ingrato ardisci farti: trema!

Valor non manca al vilipeso e senno

Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio

Ne fur bastantemente il sire, i grandi,

Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso!

Così nel suo vaneggiamento infame

S'agita l'infelice, e non s'accorge

Che il re d'abisso più e più il possede;

Così travolve le apparenze ogn'uomo

Che a livor s'abbandoni:

Ecco Guelardo

Giunto ai reali di Bamberga ostelli;

Eccolo assaporante i nuovi onori,

Ma com'egro che, misto ad ogni cibo,

Sente l'amaro della propria bile.

Più sovra il labbro di Guelardo il nome,

Come già tempo, d'Ebelin non suona,

O su quel labbro se talvolta suona,

Laude non l'accompagna, e il favellante

Impallidisce, e torvamente abbassa

La pensosa pupilla irrequïeta,

E la rïalza sfavillando; e ognuno

Scerne che di compressa ira sfavilla.

Del mutamento avvedasi esultando

Tëofania, s'avvedono i suoi fidi,

E al convito di lei con gran decoro

Visto sovente è quel Guelardo assiso,

Ch'ella tanto agli scorsi anni abborria.

Ordiscono essi alcuna trama insieme

Contro al lontano giusto? o la perfidia

Tutta covossi di Guelardo in petto?

Un dì da quel convito esce il fellone,

E quasi esterrefatto si presenta

Agli occhi del monarca, e a lui si prostra,

Ed esclama:—Ebelino è traditore!

Le rivolte fomenta; alla corona

D'Italia aspira: sciolta è l'amistade

Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta!

E false carte adduce in prova, e adduce

Di vili già ribelli, or prigionieri,

Menzogne tai, che faccia avean di vero.

Ed il monarca trabalzò, fu vinto

Dalle inique apparenze. Esitò ancora,

Dubitar volle novamente; a novo

Esame ripiegò la scrupolosa

Afflitta anima sua; ma le apparenze

Trionfaron più orrende e più secure.

Indi egli irato invìa turba di sgherri

All'italo paese, onde sia tratto

Carico di catene il formidato

Duce a Bamberga.

L'innocente duce

Stanza a que' giorni avea in Milan. Posava

Una notte, ed in sogno a lui s'affaccia

Lo stuol de' cari, in varia guerra estinti,

Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre

«Fuggi, gridava, sei tradito!» E gli altri

Con affanno e singhiozzi ad una voce

Ripetean: «Fuggi, fuggi!»

Ei si risveglia,

E per quell'alme prega, e s'addormenta

Un'altra volta. E in sogno ecco apparirgli

Il magno Otton primiero ed Adelaide,

Non cinta ancor di monacali bende,

Ma il serto imperial sopra la fronte.

Meste eran lor sembianze, ed a lui: «Fuggi

Fuggi, dicean, del figlio nostro l'ira!

Ira per te sarìa mortal!»

Si desta

Il nobil duce, e per quell'alme prega,

E s'addormenta un'altra volta. E vede

Il tempo antico e la città solenne

Ove sorge il Calvario, e là pur vede

Di Getsèmani l'orto, ed appressarsi

Una frotta d'armati, e Iscarïote

Dare il bacio alla vittima!... Ed oh vista!

Iscarïote era Guelardo!

Balza

Spaventato destandosi Ebelino,

E que' tre sogni avvertimento estima

Dell'angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove?

Ma perchè? Fugge l'innocente mai?

Pochi istanti anelò fra que' pensieri

Di stupor, di tristezza, e piena d'armi

Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino

Che dal suo Imperador venìan que' ferri,

E il cenno di seguirli: ai manigoldi

Cesse con muto fremito la spada,

E porse ai ceppi gli onorati pugni.

Quasi ladro il trascinano, e Milano

E tutta Lombardia mira quel crollo

Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri

Soffre inauditi; e non sarìagli pena

Dagli sgherri soffrirli: itale voci

Lo irridon per la via, maledicenti

Al passato suo lustro. E quale esclama:

—Va, di rivolte eccitator maligno!

Va, scellerata causa, onde su noi

Cesare versa il suo tremendo sdegno!—

Qual:—Va, codardo degli Otton mancipio,

Che d'Italia campion far ti negasti!

Ben or ti sta de' tuoi servigi il premio!—

Qual più schietto prorompe:—Erami noia

Udir chiamarti
il giusto
; alfin delitti

Potrem di te sapere ed abborrirti!

Quant'è lunga la via sino a' confini

Delle italiche valli, Ebelin tacque

Degli spregi sofferti. Allor che in cima

Dell'alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando

Le incatenate braccia,—Oh maledetta

Troppo da' vizi tuoi, misera patria,

Sclamò, non io ti maledico! Il cielo

Figli ti dia che s'amino fra loro,

Ed amin te com'io t'amava e t'amo,

E più di me felici acquistin gloria

Senza espïarla con dolori e insulti!

—Maledicila! gridagli all'orecchio

Una voce infernal.

—Ti benedico

L'ultima volta! ripres'egli.

E pianse

Siccome pio figliuol sulla ignominia

D'una madre infelice; e gli sovvenne

Quanto già quella madre avea prefulso

In virtù fra le genti, e a depravarla

Quante cagioni eran concorse! E grande

Su lei di Dio misericordia chiese;

E dal dolce aer suo, dalle ridenti

Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti

Ciglia diveller, nè il pensier poteva!

Satan che indarno occultamente spinto

Avealo ad imprecar la patria terra,

Urlò di rabbia le sue preci udendo;

E di Lamagna per alture e piani

Corse con questo grido:

—È alfin caduto

L'italo malïardo, il seduttore

De' nostri augusti, il protettor di quanti

Di Lombardia traeano ad impinguarsi

Sul germanico suol, genìa predace

Onde la tanta povertà cresciuta

In quest'anni da noi! Tutti Ebelino

Nostri tesori al lido suo recava,

E colà un trono alzar voleasi, allora

Che ad atterrar le ribellanti spade

Inetto fosse per miseria Ottone?

—Ebelin mora! Universal risposta

Fu del tedesco volgo. Ed obblïato

Da migliaia di cuori in un dì venne

Quanto a lodarlo aveali invece astretti

La sua mansüetudine, il modesto

Non curar le ricchezze, il riversarle

Sulle infelici plebi, il non mostrarsi,

Benchè pio verso gl'Itali, men pio

Ver gli stranieri. Quella dianzi nota

Serie di virtù splendide cotanto,

Un incantesimo vil parve ad un tratto,

Una menzogna. Convenìa disdirla:

Riconoscenza è grave pondo ai bassi.

Esultan se pretesto a lor si porga

Di rigettarla, e attaccaticci morbi

Son odio, ingratitudine e calunnia.

Conscio de' benefizi innumerati

Ch'egli avea sparso, avea creduto ognora

L'irreprensibil cavalier che stretti,

A lui fosser d'amor cuori infiniti.

Le ripetute indegne contumelie

Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta

Pravità de' mortali meditando,

Arrossì d'esser uomo, e innanzi a Dio

Umilïossi. E vanamente ancora

Stette Satan mirandolo e aspettando

Il desìo di vendetta e le bestemmie.

Chiama l'Onnipossente al suo cospetto

Tutti i ministri spirti, e a Satan dice:

—Onde vieni?

E il maligno:—Ho circüita

Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.

Ed il Signore:—O di calunnie padre,

Non vedestù l'amico mio Ebelino,

Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo,

Tanta nel suo dolor serba innocenza?

E l'angiol di menzogna ambe le labbra

Si morse, e disse:—Ov'è il suo pregio? Ei t'ama,

Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata

In breve spera sua innocenza. Il braccio

Estendi, e più percuotilo, e vedrai

Se non t'impreca.

Ed il Signor:—Non forse

Giorni di prova assegno a' retti? Vanne:

Ebelino è in tua mano; anco sua vita,

Anco la fama sua, perchè maggiore

Torni suo vanto e tua immortal vergogna.

L'avversario precipite avventossi

Dal grembo della nube, onde i mortali

Atterrìa lampeggiando, ed in un punto

Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante

Si soffermò, e da questo lato i campi

Della lieta penisola mirando,

E dall'altro le selve popolose

De' boreali, l'una e l'altra palma

Battè plaudendo al sovrastante lutto

D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!

Di là scagliossi alla città del trono

E de' cento felici incliti alberghi,

E delle orrende mura ove trascina

Sua catena Ebelin. Desta il demonio

Ne' giudici, che Ottone a indagin chiama

Dell'alta causa, aneliti vigliacchi.

Temon, se reo non trovan l'accusato,

L'ira d'Otton, l'ira d'Augusta, l'ira

Di quel Guelardo che per essi or regna;

E dove il trovin reo, speran più pingui

Gli onorati salarii, e maggior lustro.

Chi primiero è fra' giudici? Oh impudenza

Guelardo stesso!

Oh come il core all'empio

Nondimen trema, udendo che s'appressa

L'irreprensibil catenato! E questi

Entra con umil, sì, ma non prostrato

Animo, e reca sulla smorta fronte

Quell'alterezza ch'a innocenza spetta.

Cela Guelardo il suo tremore, e prende

Così ad interrogar:

—Qual è il tuo nome,

O sciagurato reo?

—Sono Ebelino

Da Villanova, amico tuo.

—Rigetto

L'amistà d'un fello: giudice seggo.

Che macchinasti co' Lombardi?

In viso

L'accusato guardollo, e non rispose.

E Guelardo:—A lor trame eri secreto

Eccitator; t'offrìan lo scettro, e pronta

Stava tua destra ad accettarlo in giorno

Ch'ansio esitavi a stabilire, in giorno

Che, la mercè di Dio, non è spuntato.

V'ha fra i complici tuoi chi tua perfidia

Al tribunale attesta.

E poichè muto

Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno

Que' testimoni nella sala addotti.

Eran duo di que' truci esclamatori

Di libertà, di civiche vendette,

Di patrio amor, che ne' consessi audaci

Della rivolta più fervean, più scherno

Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti,

E più capaci d'affrontar qualunque

Parean supplizio, anzi che mai parola

Di codardia pel proprio scampo sciorre.

Questi eroi da macelli, questi atroci

Ostentatori d'invicibil rabbia,

Come fur tolti a lor gioconde cene,

E gravato di ferri ebbero il pugno,

E il patibolo vider,—tremebondi

Quasi cinèdi, le arroganti grida

Volsero in turpi lagrime e in più turpi

Esibimenti di riscatto infame,

Altre teste al carnefice segnando.

Ad Ebelino in riveder coloro

Isfuggì un atto di stupor:—Voi dunque?

Voi?... Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto

Io sempre le feroci alme ho spregiato,

E ben diceami il cor quali voi foste!

Ed appunto perchè troppe vid'io

Alme siffatte là nelle congrèghe

Ove il mio plauso si cercava indarno,

E pochi vidi eccelsi petti, avversi

Ad insolenza e a stragi, io mestamente

Presentii di mia patria obbrobri e pianto,

S'ella sorda restava a' preghi miei,

E alle minacce mie, quando insensata

Io vostr'impresa nominava e iniqua.

I testimoni balbettaro, e fisi

Gli occhi loro in Guelardo, il concertato

Calunnïar sostennero. Ebelino

Più non degnolli di risposta, e chiese

D'esser condotto anzi ad Ottone a cui

Parlar volea.

Respinge inutilmente

Guelardo quest'inchiesta, e così forte

La ripete Ebelin, ch'un de' seduti

A giudicarlo generoso alzossi,

Sclamando:—La tua brama, o il più infelice

Fra gli accusati, porteranno al trono

Le labbra mie.

Null'uom potè di quella

Anima schietta rattenere i passi:

Move all'Imperador, franco gli parla,

E il pio monarca inducesi al colloquio.

Mentre dunque l'afflitto incoronato

Nelle regali, splendide pareti

Aspettava che a lui tratto venisse

Il già caro Ebelin, nella memoria

Gli ritornavan gli alti e numerosi

Servigi di quel prode, e l'amicizia

Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto;

E commoveasi ripensando quante

Volte quell'Ebelin con tenerezza

Lui prence fanciulletto infra le braccia

Portato avea, quante paterne cure

Prese per lui, quanti affrontati in guerra

Per sua difesa ardui perigli,—e il core

Gli si volgea a clemenza.

Ode sonanti

Nelle vicine sale i trascinati

Ferri del prigioniero, e gli si gela

Di pietà il sangue. E quand'entrare il vede

Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio,

E magnanimo pianto a stento cela.

Ebelin pur commosso era, calcando

Con vincolato piede oggi i tappeti,

Che tante volte avea con dominante

Passo calcati, e intorno a sè veggendo

Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi

S'inchinavan temendo, ovver felici

Andavan s'egli a lor stringea la destra,

E ch'or s'atteggian contegnosi, e quali

A sterile pietà, quali ad insulto.

Giunto Ebelino alla presenza augusta,

Piegasi reverente, e aspetta il cenno:

—Favella, sciagurato: uom con più caldo

Fervor non brama tue discolpe.

—Sire,

La mia innocenza esser dovriati scritta

Ne' lunghi intemerati anni ch'io vissi

Di tua casa al servizio e dell'onore.

In inganno te volto han miei nemici,

E me calunnia opprime.

—A tue parole

Aggiungi prova, e riputato il sommo

De' tuoi servigi questo fia da Ottone.

—Se a te prova non son gli atti che oprai

Alla luce del sol, l'abborrimento

Sperimentato mio contra ogni fraude,

Contr'ogni ingiusta ambizïon; se nulla

A te non dicon queste mie sembianze

Imperturbate in così ria sventura,

Preclusa è a me di scampo ogni fiducia;

Anzi alle leggi mia supposta colpa

È attestata abbastanza. Altro non posso

Se non gli estremi del mio zelo sforzi

In quest'istante consecrarti, o sire,

Tai verità parlandoti, che forse

Più non udresti, se da me non le odi.

—T'ascolto, disse il rege.

Ed Ebelino

La propria causa obblïar parve, e diessi

A svolgere di stato alti consigli,

I bisogni quai fossero additando

Delle schiere, del popol, dell'altare,

De' tribunali, e della reggia stessa:

Quali i provvedimenti unici, rotti

Ed efficaci ad impedir l'ebbrezza

Delle rivolte, a raffermar lo impero:

Quali de' prischi imperadori, e quali

Del magno Otton le più laudabili opre,

E quai le insane; e come arduo ognor sia

Seguir le prime e non errare; e come

Gli egregi prenci a errar tragge talvolta

Adulante caterva. Accennò alcuni

Del sir lusingatori, accennò il vile

Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo

Su lor suoi detti, e non degnò que' nomi

D'anime basse proferir neppure.

Ma que' rapidi detti eran gagliardi,

Siccome piglio di paterno braccio,

Che sovra l'orlo d'un dirupo afferra

Perigliante figliuolo.

Otton si scuote.

Da verità sì energiche, da senno

Sì giusto e luminoso ed esaltante

Non era stato mai colpito. In altri

Colloqui a' dì felici il buon ministro

Parlava il ver, ma forse in più gradita

Guisa, sparmiante del suo re l'orgoglio.

Ora è il parlar solenne, il grido urgente

D'uom, che vicino a morte anco un tributo

Di fedeltà solve al monarca e al dritto,

Tutto dicendo che giovar del pari

Sembrigli al trono e alle regnate genti.

Alla beltà del vero e del coraggio,

E di quel dignitoso intenerirsi

Che da alterezza vien compresso, e pure

Nella voce si sente e ne' benigni

Sguardi si vede, unìasi in Ebelino

Da natura sortita un'armonìa

Di nobili sembianze e di contegno,

Talchè valor più prepotente dava

A sua favella, ed escludea il supposto

D'ogni viltà, d'ogni codarda astuzia,

E facea forza a Otton. Perocchè Ottone

Stranier non era a simpatia per cuori

Di grandissima tempra. E fu vicino

A cedere, a gettare ambe le braccia

Del prigioniero al collo, al gridar:—Falsa

Tengo ogni accusa contro al mio fedele!

Ma Sàtan vide quell'istante, e spinse

Tëofania d'Augusto in cerca.

Bella

Era la greca donna e di vivaci

Grazie adorna, e scaltrissima e pungente

Ne' suoi sarcasmi, ed irridea talvolta

La bonaria alemanna indol con motti

Quasi di spregio; e di quei motti spesso

Arrossia Ottone. E perocch'egli amava,

L'affascinante sposa, ambìa piacerle

E far pompa d'accorta alma inconcussa,

E a tal cagion solea de' generosi

Sensi in cor frenar gl'impeti al suo fianco.

Salutata dall'armi, il passo inoltra

Fra le colonne di que' regii lochi

La incoronata, e stabilisce e freme

In vedere Ebelino; e sovra Ottone

Lancia quel guardo che dir sembra:—Stolto!

Sedur ti lasci?

Tanto, oimè, bastava

A confondere il sire! Eccol a un tratto

Con più severa maestà atteggiarsi

Verso il captivo, e dir:—Riedi: a me il vero

Tutto paleserassi; e tu, innocente,

Gloria n'avrai; prevaricato, morte.

Torna Ebelino al carcere, e già scerne

Che inevitata è per lui morte. Oh come

Lenti di nuovo i dì, lente le notti

Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi

D'una all'altr'ora, e la perpetua veglia,

Ed il perpetuo tenebrore—e i cibi

Immondi e scarsi—e l'aspreggiante voce

Di questo o quello sgherro—e il frequent'urlo

D'altri prigioni disperati, in cupe

Vicine volte seppelliti—e il suono

De' ceppi loro, e quel de' propri—e il canto

Osceno del ladron che, bestemmiando,

La forca aspetta—e i gemiti dell'egro

Forse non reo che sulla paglia spira—

E il sollecito passo delle guardie

Che dicono: «È spirato!»—e questo detto

Che l'echeggiante corridoio in guisa

Ripete orrenda—e il pianto d'un amico

Che, udendo il nome dell'estinto, grida

Dal fondo d'un covile: «Ahi! gli sorvivo!»—

E per dispregio di quel pianto il ghigno

Od il sibilo infame di coloro

Che trascinano il morto—e, con siffatta

Serie d'inenarrabili vicende

Di castel, che i perenni affigurava

Dell'abisso tormenti, il ricordarsi

De' dì sereni che svanìr, de' plausi,

Delle liete speranze, e, più di tutto,

De' dolci affetti—ah! quella è tale immensa

Congerie di dolori e di spaventi,

Che dissennar minaccia ogni più forte

E sdegnoso intelletto! E se si ponno

Da intelletto simil serbar talvolta

Contro all'empia fortuna altero scherno,

O pensieri di pace e di perdono,

E di fede nel cielo, ahi! pur quell'ora

Amarissima vien che ineluttata

Mestizia il cor miseramente serra,

E non v'è chi consoli! Ed altre pari

A quell'ora succedono, e d'angoscia

In angoscia si cade! Ed un'ardente

Smania investe il cervello, ed impazzato

Esser si teme o brama! E il generoso

Petto chiuder non puossi all'irrüente

Piena dell'odio che in lui versan mille

Della viltà degli uomini memorie!

E feroce si resta, e di sè stesso

S'inorridisce e sclamasi:—«Son io,

Benchè non conscio di mie colpe, un empio?»

E chiedesi all'Eterno, e lungamente

Chiedesi invan, d'amore una scintilla!

Quelle angosce conobbe anco Ebelino,

Ed allora invisibile al suo fianco

Sàtan sedeva, e gli pingea coll'arte,

Ch'è propria a lui, tutto che meglio ad ira

E a disperazïon trarlo potesse.

Ed Ebelin pur resistea, e pensava,

In mezzo alle sue smanie, all'Uomo-Iddio,

Che sublimò i dolori, e fu ludibrio

D'ingrati e di crudeli: e quel pensiero,

Che insensatezza all'occhio è de' felici,

Insensatezza non pareagli, ed alta

Storia pareagli che gli oppressi in tutti

Lor martirii nobilita; e volgendo

Quella storia ammiranda, a poco a poco

Ammansava gli sdegni e perdonava.

Ma la parte del cor, che più dolente

Sanguinava, era quella ove scolpite

Stavan due care fronti. Una è la fronte

Della madre decrepita che in pace,

All'ombra degli altar, da parecchi anni

Viveasi in Quedlimburgo, e l'altra è quella

Della madre d'Augusto. Ambe le antiche

Serrava il chiostro istesso, e raramente

Alla reggia venìan; che ad Adelaide

Odïosa la reggia erasi fatta

Per l'imperar della superba nuora.

—Qual sarà stato di mia madre, e quale

Dell'onoranda Imperadrice il core,

Allorchè udir la mia sventura? Iniquo

Esse, no, non mi tengono! Esse almeno,

Mentre a tutti i mortali il nome mio

In abbominio fia; caro l'avranno!

Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto

La madre alfine ha di vederlo, e scende

Alla prigion del figlio. Oh inenarrati

Di quel colloquio i sacri detti e i sacri

Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre

Che riscattar col sangue suo non puote

Di sue viscere il frutto! ed il più amante

Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto

Deplorar dee la lunga vita!

Il giorno

Che dalla inconsolabil genitrice

Fu Ebelin visitato, oh da qual notte

Seguito fu! L'espandersi de' cuori

Nella sventura, è de' sollievi il sommo;

Ma dopo tal sollievo, allor che mesto

Il prigionier dalle pietose braccia

Di persona carissima è staccato,

E solingo riman, quanto più dura

Gli è solitudin! Quanto più affannoso

Il desiderio de' bei tempi in cui

Fra gli amati vivea! Quanto più viva,

Più lacerante la pietà ch'ei sente

Di sè stesso e d'altrui!

Me a tal dolore

Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti,

O decennio del carcere, infiniti

Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse

Quand'io, abbracciato il genitor, partirsi

Da me il vedea; quand'io, calde le labbra,

Del bacio suo, dicea:—Questo è l'estremo!

Non un decennio, ma più lune ancora

Durar gli allarmi d'Ebelino. Ei forse

Nel
giudizio di Dio
gli accusatori

Sperava iniqui col possente acciaro

Düellando atterrar. Chi d'Ebelino

Avea la forza e la destrezza? E quanta

Forza o destrezza in düellar non dona

Senso d'intemerata anima offesa!

Ma tai
giudizi
Iddio forse abborrendo,

Non volle che sancito il reo costume

Per Ebelin venisse; o del demonio

Opra fu l'impedirlo. Il pestilente

Aere del carcer nell'oppresso infonde

Maligni influssi, ed eccolo abbattuto

Da insanabili febbri. Il derelitto

Pur talvolta illudeasi, immaginando

Che alcun de' tanti, su cui sparsi avea

Suoi benefizi, or con repente mossa

D'onore e gratitudin s'offerisse

A combatter per esso:—attese indarno.

Spunta il dì della morte, ed Ebelino

Vien tratto innanzi a' giudici; e Guelardo

La sentenza gli legge! Il condannato

Udì, chinò la fronte, e rese grazie

Tacitamente a Dio che al sacrificio

Termine alfin ponesse; e bramò ancora

Una volta veder la genitrice.

Venne l'antica, e insiem si consolaro

Con nobil forza alterna, e con alterne

Religïose cure. Ella ed un pio

Ministro del Signor soli eran consci

Dell'innocenza d'Ebelin. Veloce

Scorre quel sacro tempo, e omai gl'istanti

Sovrastan del patibolo. Umilmente

Prostrasi ancora innanzi al sacerdote

Il giusto cavalier; quindi si prostra

Anzi alla madre, ed ella il benedice,

E si dividon sorridendo, e in cielo

Riabbracciarsi in breve speran.

Move

Per le vie tra i carnefici, agguagliato

Al più vil masnadiero, e contro a lui

Insane urla di scherno alzan le turbe.

Di quegl'inverecondi ultimi segni

Dell'odio altrui stupìa, ma per le turbe

Egli pregava. Ed arrivato al palco,

Con fermo passo ascese, e parlar volle;

Ma sue parole non s'udir, sì orrendi

Vituperi sonavano. Ed allora

Accennò egli medesimo al percussore,

E siede sullo scanno, e tosto il collo

Mise sul ceppo—e la mannaia cadde!

L'angiol della calunnia, abbenchè indurre

Non avesse potuto alla bestemmia

Il retto cavaliere, e or si rodesse

Invido i pugni, l'alta anima a Dio

Salir veggendo—audacemente «Ho vinto!»

Volea sclamar. Ma pria che la menzogna

Intera uscisse dell'infame petto,

Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo

Spirto ravvolser negli eterni abissi.

Ov'è il Giuda novel?—Perchè perduto

Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza

Della voce e del guardo?—E perchè al riso

Che da Tëofania volto gli è spesso

Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato

Mira a destra e sinistra?—E perchè a sera,

Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede

A illuminata parte, e ansante giunge

Quasi inseguito fosse?—E perchè cerca

Talor per via i mendici, e su lor versa

A piene mani l'oro, e di lor preci

L'aiuto invoca, e inefficaci poscia

Di quei le preci ei furibondo chiama?—

E perchè ne' festini alcune volte

Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta

Contro a tutte paure, e quando a letto

Va nell'ebbrezza, trema ed urla, e al fido

Servo chiede il cilicio e se lo cinge?

Pentimento ei bramava, e scellerata

L'alma era fredda, e a pentimento chiusa.

Un dì, colui con altri sommi duci

Passò a fianco d'Otton sovra la piazza,

Ove ancor d'Ebelino ad alto palo

Vedeasi infisso il teschio. Il traditore

Volea finger letizia, e le pupille

Miseramente stralunava, e insieme

Forte i denti batteangli. Ottone il guarda,

E vacillar sovra l'arcione il vede,

E a sostenerlo accorre.

—Oh! che ti turba?

Oh! che ti turba? Gli ripete.

—È desso!

Sclama Guelardo, il mio tradito amico!

Chi dal giusto immolato mi sottragge?

E prepotenza di rimorso invitta,

Ma non pia, lo costringe. Ei maledice

E terra e ciel, ma l'alto arcano svela.

Folto drappello d'ottimati, e folta

Moltitudin di volgo al confessante

Fa cerchio, e inorridisce a sue parole,

Tutta imparando la esecrata istoria.

Da tanti petti universal s'innalza

Un lamento:—Oh sventura! oh atroce colpa!

Il caduto Ebelino era innocente!

Ed Otton più che gli altri inconsolato

Raccapricciando grida:—Oh me infelice!

Era innocente, e trarre a morte il feci!

Il traditor nel suo sangue stramazza.

Qual mano il colpo diè primier? Mal puote

Fama saperlo. I più disser che ratto

Un ferro in cor si configgesse il tristo,

Altri che Otton percosselo. Il tumulto

Ferve con rabbia orrenda. In cento brani

Ecco lacero, pesto, annichilato

Il cadavere infame. E s'inchinaro

D'Ebelino anzi il teschio e imperadore

Ed ottimati e popolo, e nel tempio

Dato fu loco alla reliquia santa.

Alto clamor di giubilo e di rabbia

Rimbombò nell'inferno, al piombar quivi

Il traditor, ma sol menonne festa

L'abbietta e sciocca de' demonii plebe:

Il lor superbo re, poste con ira

Su Guelardo le luci e le calcagna,

Urlò:—Che gloria alma sì vil mi reca!

ILDEGARDE

CANTICA.

Anche l' Ildegarde è una di quelle cantiche ch'io aveva in lontani anni disegnate, e già era questa eseguita in gran parte, ed onorata degli amichevoli suffragi del nostro Monti e di Byron. Spariti quegli abbozzi con altre carte da me in dolorosa vicenda perdute, ho tentato dodici anni dappoi di ricomporre la stessa produzione, quantunque non ignaro che difficilmente in età provetta si ritrovano le felici ispirazioni della gioventù.

ILDEGARDE.

Pars bona mulier bona.

( Eccle. c. 26, 3.)

—Perchè alle torri del superbo Irnando

Sempre drizzi lo sguardo, o mio Camillo?

—Sposa, io molto l'amava; e in questi giorni

Di nevose bufère, ognor la dolce

Nostra infanzia mi torna alla memoria,

Quando, arridenti il padre suo ed il mio,

O di soppiatto noi dalle castella

Usciti, incontravamci appo la riva

Congelata del Pellice, e lung'ora

Qua e là sdrucciolon ci vibravamo

Ridendo e punzecchiandoci e luttando,

E sul ghiaccio cadendo, e (bozzoluta

Indi spesso la fronte o insanguinata)

Tornando a casa lieti e tracotanti.

Allora il padre suo, se all'un di noi

Vedea della caduta in fronte il segno,

Chiedevagli: «Hai tu pianto?» Ed il ferito

Gridava: «No.» Ed a tal risposta il vecchio

Lo prendea fra le braccia e lo baciava,

L'amor lodando de' perigli e il gaio

Scherno d'un mal, che sol le carni impiaga,

E nulla può sull'anima del forte.

Un dì, com'or, fioccava a larghe falde

Di dicembre la neve, ed ambo agli occhi

De' parenti sottrattici e de' servi

Discendemmo ciascun nostra pendice,

E ai cari ghiacci convenimmo. Assai

Sdrucciolammo e ruzzammo, e le condense

Pallottole durissime a diversa

Meta lontana, in alto o pe' dirupi,

Scagliammo a gara, acute urla di gioia

Ripercosse da acuti echi levando.

Men da stanchezza mossi che da fame

Ci abbracciamo, e ciascun monta i suoi greppi

Anelante alla cena. A quando a quando

Ci volgevam guardandoci, ed allora

Che, già molto remoti, un veder l'altro

Più non potea, salutavamci ancora

Con prolungati affettüosi strilli;

E questi udìansi dalle due castella,

E mia madre s'alzava, e tremebonda

Al balcon della torre s'affacciava,

Incerta se di gioco o di dolore

Voci eran quelle. Ah! in voci di dolore

Odo mutarsi quella sera infatti

Le grida dell'amico: «Al lupo! al lupo!»

Ripeteva egli disperato. Io sudo

Di spavento, ciò udito, e immaginando

Di quel caro il periglio. I clivi scendo

Novamente precipite: il ghiacciato

Pellice varco, e per gli opposti greppi

Affannato m'arrampico ed appello:

«Irnando mio! Irnando mio!» Salito

Egli era sovra un olmo. Eccol veloce

Scendere a me. Ma il lupo allontanato

Ritorce il passo, e verso noi s'avventa.

Ambo ascendiam sull'arbore, e costrettï

Lunghissim'ora ivi restiam; chè intorno

Incessante giravasi la fiera.

Oh come su quell'olmo il dolce amico

Teneramente mi stringea al suo seno,

Il mio ardir rampognandomi! Ei dicea

Aver alto gridato «Al lupo! al lupo!»

Per la speranza ch'io vieppiù fuggissi,

E tristo incontro pari al suo scansassi.

«E tu invece, oh insensato! ei ripetea

Vanamente arrischiasti i cari giorni

Per aïtar l'amico, o coll'amico

Preda morir di quelle orrende zanne!»

Ciò dicendo ei piangeva, ed io piangeva

Suoi cari lacrimosi occhi baciando,

E tal commozïone era profonda,

Delizïosa per entrambe! oh come

Sentivamo d'amarci! oh quanto vere

Sonavan le proteste, asseverando

Che l'un per l'altro volontier la vita

Donata avrìa!—Dall'olmo alfin veggiamo

Scender di qua e di là dalle pendici

Fiaccole ardenti. Eran d'Irnando il padre

Ed il mio che venìan, co' loro servi,

Degli smarriti figliuoletti in cerca.

Sgombrava il lupo a quella vista; e noi

Dall'arbore ospital lieti calammo,

E saltellanti sulla neve, incontro

Movemmo ai genitor, con infinito

Cinguettìo raccontando, io la paura

Ch'ebbi di perder l'adorato amico,

Egli la mia temerità e la prova

Che in questa aveavi di gagliardo amore.

Oh qual sera di gaudio! oh quanta lode

Al fratellevol nostro affetto i duo

Parenti davan! Come altero Irnando

Mostravasi di me! Com'io di lui!—

Di nostra püerizia i dolci giorni

Da mille vicenduole ivan cosparsi,

Che all'uno e all'altro certa fean la mutua

E generosa fede! E così stretto

Vincol di due schiettissim'alme... il tempo

Dovea spezzarlo!

In questa guisa geme

Il cavalier Camillo. Ed Ildegarde

Dalle corvine chiome e dalla svelta,

Maestosa statura:—O sposo amato,

Perdona, prego, al mio pensier; non colpa

Fu in te forse d'orgoglio! Hai tu alcun passo

Nobilmente tentato al benedetto

Dagli Angioli e da Dio pacificarvi?

—Di nostre nozze intera anco non volge

La luna, o mia diletta, e mal conosci

Del tuo Camillo il cor. Non di rossore

Perciò si tinga il tuo bel volto, o donna:

Garrir, no, non ti voglio: imparerai

Col tempo qual possanza in questo core

Abbian gli affetti. Se tentai? Se dieci

Volte l'orgoglio mio non s'immolava

Per racquistarmi quell'amico? Indarno

Ei più non è quello di pria: uno spirto

Di maligna superbia il signoreggia:

Ei (tu vedi s'io fremo a questo detto!)

Ei mi dispregia!—

L'arrossita dianzi

Ildegarde a tai detti impallidiva,

Mostrüoso sembrandole il destarsi

Dispregio in chi che sia verso un mortale

Sì per cavallereschi atti famoso,

Qual era il pio Camillo. E l'abbracciava

Vibrando sguardi or con gentil disdegno

Alla torre d'Irnando, or con desìo

Passïonato al caro sposo. E sguardi

Tai gli dicean: «S'altri spregiarti ardisce,

La stima ten compensi in ch'io ti tengo.»

Qual della inimistà la cagion fosse

De' duo generosissimi, in diversi

Inni diversamente i trovadori

Cantan d'Italia. Applaudon gli uni a Irnando,

Che, ito in Lamagna giovinetto, ad uno

De' contendenti re sacrò il suo ferro;

Altri a Camillo applaudon, che s'accese

Pel secondo aspirante al real trono,

Ma aspirante illegittimo. Speraro

Camillo e Irnando un l'altro süadersi

All'abbracciata parte. E l'un de' duo,

Non si sa qual, trascorse a villanìa.

Furor di fazïon trasse dapprima

Questo e quello davvero a stimar vile

Il già sì caro amico. Assai palese

Delle avversarie crude ire sembrava

L'iniquità ad Irnando: ei non potea

Creder che onesto intento in alcun fosse,

Il qual per esse parteggiasse. Al pari

A Camillo parea dell'altra causa

Evidente l'infamia essere al mondo.

In qualunque dei duo fallisse primo

La carità di confratello, e germe

Altro o no di rancor vi si aggiungesse,

Furon veduti inferocir nel campo

Come leoni. Ma l'atroce guerra

E l'alterna fortuna delle insegne

Loco porgean a esercitar da entrambe

Parti eccelse virtù. Cento fïate

Camillo e Irnando, ad ammirarsi astretti,

Dicean ciascun tra sè: «L'amico mio,

Sebben malvagio, egli è un eroe pur

sempre!»

Già quegli anni di sangue or son passati;

Già molte spente sono illusïoni

Nelle agitate lor menti guerriere,

Benchè in età ancor verde. Eppur concordia

Lor generose palme, ahi! non rinserra.

Beato d'una sposa era anche Irnando,

E questa il dolce avea nome d'Elina,

E di più figli era già madre. Il cielo

Dato le ha cor fervente, ed intelletto

Gentil, ma entusïastico. Natìe

Le pedemontanine aure in che vive

A lei non son; romano è sangue; e il padre

D'Elina, de' ribelli ognor nemico,

Morì con gloria in campo. Ella supporre

Non potria mai che Irnando ingiustamente

Odio porti a Camillo. A lei Camillo

Noto non è, ma sel figura indegno,

Irreconcilïabile, covante

Sempre perfidie. E motto mai non dice

Per calmare il marito allor che l'ode

Fremer contra il vicin.

Folli stranezze

Del core umano! Irnando, ancorchè fiero

Più di Camillo, e a malignar proclive,

Più bei momenti non avea di quelli,

In che, pensando alla sua dolce infanzia,

Questo o quel nobil detto o nobil atto

Del caro, oggi abborrito, ei ricordava.

In quei momenti (e rivenian di spesso)

L'alma gli sorrideva, immaginando

Quando ad entrambo tornerìa dolcezza

Esser amici ancor: ma appena accorto

Di questo desiderio, ei ripigliava

A esacerbarsi, a biasimar sè stesso

Di soverchia indulgenza, ed intimarsi

Perseveranza d'astio e di disprezzo.

Vedute in tanti cavalieri avea

Mutazïoni di principii abbiette!

Gli uni servi al buon prence, indi congiunti

Perfidamente all'avversario suo;

Gli altri farsi un Iddio del tracotante

Contenditore al trono, e poi, caduta

La sua potenza, irriderlo. E di tali

Apostasie si repetea sovente

La turpe inverecondia. E le più altere

Alme se ne sdegnavano, e temendo

Apostate parer, persistean truci

Ne' giurati decreti, ove decreti

Sconsigliati pur fossero. Ogni volta

Che Irnando dalle sue balze rimira

Il castel di Camillo, e rivolgendo

Va quanto spesso col diletto amico

In quelle sale, a quel verron, su quelle

Mura, per quel pendìo, sovra quell'erto

Ciglione, in quella valle, avea di santi

Affanni e santi gaudii conversato,

Di repente corrucciasi, e la fronte

Colla palma fregando, a sè ridice:

«Via quelle stolte rimembranze! obbrobrio

L'onorar d'un sospiro i dì bugiardi,

Che amabil tanto mi pingean quel tristo!»

Men concitato da alterigia, avea

Camillo a dame ed a baroni ufficio

Pacifero richiesto. E quelle e questi

Sordo trovaro a lor parole Irnando.

Ma alla dolce Ildegarde or molto incresce

Questa fera discordia; ognor paventa

Che i fremebondi prorompano a guerra.

—Freddi interceditori, o sposo mio,

Forse fur quelle dame e que' baroni

Di cui mi narri. Di te degno oh come

Stato sarebbe il presentar te stesso

Con amabil fidanza e quell'iroso!

—Che parli, o donna? Io, non colpevol, io

Codardamente supplice a' suoi piedi!

—Codardìa consigliarti, o mio diletto,

Potrebbe mai la sposa tua? Dinanzi

A lui, supplice no, ma con onesta

Securtà mosso io ti vorrei. Da quanto

Pinger mi suoli di quel prode offeso,

Incapace ci sarìa di fare ingiuria

A chi chiedesse entro sue torri ospizio.—

Se il pio consiglio accolga, esita alcuni

Giorni Camillo; indi alla sposa:—O amica,

A tanto, no, non posso umilïarmi;

Ma non perciò mi ristarò da speme

Di pacificamento. Un messaggero

Mai non mandai direttamente ancora

Con parole d'onore all'orgoglioso.

Forse gli estranei intercessori sdegna,

Ma vedendo a sè innanzi un mio scudiero,

E amici detti per mia parte udendo,

Commoverassi, e non vorrà esser meno

Generoso di me.—

Compie Camillo

La divisata prova. Indi attendea

Il ritorno del messo, e d'una sala

Passava in altra irrequïeto, e indugio

Soverchio gli sembrava.

—Il furibondo

Sdegnasse dare all'invïato ascolto?

O frodoloso intento, o vil lusinga

D'animo impaurito ei sospettasse,

E rispondesse coll'atroce insulto

Di vïolar con carcere o con morte

La sacra testa dell'araldo mio?

Fellon! Guai se ciò fosse! A molta scese

Mansuëtudin questo cor; ma un cenno,

E rïascender lo vedresti ad odio

Maggior del tuo, più spaventoso, eterno!

Che dico? Bassa villania in quell'alma

Inebbrïata da gigante orgoglio

Non può capir. Abbietto spirto io sono

Che immaginar sì turpe fatto ardisco.

Intenerito si sarà; lung'ora

Colmerà di dolcissime domande

E d'onoranza il mio scudier; seguirlo

Qui vorrà forse, o rattenuto or fia

Da momentanee cure. A mezzo solo

Esser seppi magnanimo. Io medesmo,

Come la donna mia mi consigliava

Io, non un messo, a lui mover dovea.

Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certo

Stato non foran più parole; in braccio

Gettato a me sariasi, e senza vane

Spiegazïoni, e dolorose, entrambo

Rïappellati ci saremmo amici.

Così tra sè il bramoso. Ed evitava,

Per nasconderle il suo perturbamento,

Della diletta sposa il dolce incontro.

Ei cammina a gran passi; o nella sedia

Breve momento s'agita, e risorge

Tosto con ansia ad amor mista e ad ira,

Or all'una effacciandosi, or all'altra

Delle fenestre, or fuor della ferrata

Negra sua porta uscendo, e non badando

Al can che gli si appressa, e rispettoso

Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e spera

Dalla man signorile esser palpato.

Dai merli del terrazzo alfin gli sembra

Lo scudier ravvisare. È desso, è desso.

Al cavalier rimescolasi il sangue,

E contener non puossi. Il ponte varca,

Discende in fretta la pendice; incontro

Al vegnente lo stimola sfrenata

Smania d'udir.

—Perchè sì tardo movi?

Gridagli.—

I passi addoppia il fido, e parla:

—Signor del tuo nemico entro la soglia

Appena addotto io fui...

Camillo udendo

Suo nemico nomarlo, impallidisce:

E l'altro segue:

—Appena addotto io fui,

I sensi tuoi gli esposi.

—In quali accenti?

—Quali a me li dettasti.
Oh cavaliero!

Dissigli,
il signor mio, dopo ondeggiante

Con sè stesso luttar, cede al bisogno

Di ricordarti sua amistà, di sciorre,

Per quanto è in lui, quel gel, che rie vicende

Frapposto aveano fra il suo core e il tuo.

Io proseguir volea. Rise il superbo

Amaramente, ed esclamò:
Non gelo,

Ma orrendo sangue è fra i due cor frapposto!

Proseguii nondimen, tuoi decorosi

Sensi esponendo. A' primi istanti vinto

Da prepotente anelito parea,

Sebbene al riso s'atteggiasse ognora,

Ed ostentasse di vibrarmi i guardi

Della minaccia e del dispregio. Ei detti

Di maggiore umiltà dal labbro mio

Certo aspettava. Non trascesi: umìle,

Ma dignitosa serbai fronte e voce;

Ed ei sognò ch'io lo schernissi.
Audaci

Son tue pupille, o giovine!
proruppe;

Abbassale!—Non già! Timor non sente
,

Risposi,
di Camillo un messaggero.

—Mandotti il temerario ad insultarmi
?

Riprese urlando,
a far vigliacca prova

Della mia pazïenza? A tentar s'io

Contaminar vo' mia illibata fama,

Tua vil pelle col mio ferro toccando,

O alle fruste segnandola? Va, stolto

Incettator di vituperi e busse;

Riporta al signor tuo, ch'uom che si pente

De' tradimenti suoi, ch'uom che desìa

L'amistà racquistar d'un generoso,

Con ambagi non parla, e schiettamente

Dice: Il cammin ch'io tenni era turpezza.

A sì indegne parole arsi di sdegno

Per l'onor tuo.
Via di turpezza mai

Non calcherà, mai non calcò il mio sire!

Gridai. Ruppe il mio grido, e con un fiume

Di fulminea infrenabile eloquenza,

Tutta rammemorò la sciagurata

Storia del trono combattuto. E questa

Fu una trama, al dir suo, d'illustri iniqui

Striscianti a piè del volgo, e lordamente

Convenuti d'illuderlo e spogliarlo.

E tu.... fremo in ridirlo.

—Io? Segui.

—Un vile

Patteggiator di condivisa infamia,

E condivisi lucri.

—Ei ciò non disse!

Ei ciò non disse!

—Il giuro.

—E non troncasti

La scellerata voce entro sua gola?

—La troncai svergognandolo. E costretto

Fu ad arrossire e replicar:
Non dico

Ch'ei fosse, ma parea di condivisi

Lucri patteggiatore, e per lavarsi

Di macchia tal non bastano le ambagi.

Solennemente si ricreda, e provi

Che insensato, ma mondo era il suo core;

Provi ch'egli esecrato ha le perfidie

De' nemici del re; ch'egli esecrato

Ha l'opre inique ond'or l'impero è afflitto!

Viltà sembrato mi sarìa modesti

Accenti opporre ad arroganza tanta.

Tel confesso, signor: ciò che gli dissi

Appena il so. Non l'insultai, ma cose

Di foco, certo, mi piovean dal labbro

Contro a' denigratori; e di te laude

Tal gli tessei, che fu colpito e plause.

Va, buon servo
, mi disse;
amo il tuo ardire,

ma non del tuo signor la ipocrisia
.

—Oh ciel! diss'egli ipocrisia? Ingannato

Non t'han le orecchie tue?

Disselo, il giuro.—

A queste voci il cavalier si torse

Rabbïoso le mani, e con un misto

Di voluttà e di fremito, in più pezzi

Franse un anel, che dono era d'Irnando,

Ed a' caduti pezzi impallidendo

Il piede impose, e li calcò nel fango.

—È finito! proruppe.—Ed iracondo

Lagrimava, nè udia del messaggero

Parola più, nè rispondeagli.

A guerra

Precipitato contra Irnando ei fora;

Ma nol permise il ciel. D'una sorella

Alla difesa mover dee Camillo,

La qual di Monferrato all'erme balze

Co' pargoletti suoi vedova geme,

Da illustri masnadieri assedïata.

Solinga intanto ecco Ildegarde. E voti

Per la salute dello sposo alzando,

E per la sua vittoria, e pel ritorno,

Pur trema che allorquando ei dalle pugne

Rieda di Monferrato, incontro al sire

Del vicino castel rompa la guerra.

Un dì mirando quel castel, le cade

Nell'animo un pensiero;—E s'io medesma

Colà traessi, e mia nobil fidanza

Vincesse il cor della romana altera

E del truce baron?—

V'ha certi miti

Senni, e tal era d'Ildegarde il senno,

Che pur sono arditissimi, e formato

Gentil proposto, se pur arduo ei paia,

Tentennan poco, ed oprano. Tranquilla

Il seguente mattin, poichè alla messa

Nel delubro domestico ha innalzato

Il femminil suo spirto appo lo Spirto

Che regge i mondi e agli atomi dà forza,

Ildegarde s'avvia sovra il suo bianco

Palafreno seduta. A lei corteggio

Sono una damigella e due famigli.

Quand'ella giunse a' piè dell'alte mura

Del castello d'Irnando, un momentaneo

Palpitamento presela, e memoria

Di perfidie tornolle, ahi troppo allora

Frequenti fra baroni! e pensò quale

Disperato dolor fora a Camillo,

Se il visitato sire oggi smentisse,

Brïaco d'odio, il vanto invïolato

Che di leal s'ebbe sinora! Il guardo

Volse alla damigella; e impallidita

Era al par d'essa. Il guardo volse ai duo

Famigli, e impalliditi erano, e osaro

Interroganti dir:—Retrocediamo?

—Stolti! diss'ella; e rise, ed innoltrossi.

Intanto del castello in ampia sala

La romana bellissima traea

Dalla ricca di gemme ed indorata

Conocchia il molle lino, e fra le punte

Di due candide dita lo umidiva;

Indi con grazia angelica all'eburneo

Fuso il pizzico dava, e con accento,

Che a labbra subalpine il ciel ricusa,

Cavalleresche melodie cantava.

Belli come la madre accanto a Elina

Sedeano un bimbo ed una bimba, a lei

Innamoratamente le pupille,

Da negre e lunghe palpebre ombreggiate,

Alzando vispe, e ogni ultima parola

Della strofa materna ripetendo

Con cantilena armonïosa d'eco.

Ed a quest'eco s'aggiungea la grave

Voce del padre lor, che per la caccia

Un arco preparava, e spesso l'arco

Ponea in obblìo, l'affascinante donna

Mirando e i figli, ed i lor canti udendo.

Portavan l'aure il suon del fervid'inno

D'Ildegarde all'orecchio. Ella scendea

Dell'arcione, ed a' paggi sorridente,

Ma con trepido cor, dicea il suo nome.

Qual fu d'Irnando la sorpresa! Ascolto

E onore a dama diniegò egli mai?

Qual pur siasi Ildegarde, ei le va incontro

Con reverente cortesìa, e l'adduce

Innanzi a Elina. Alzasi questa, e posa

L'aurea conocchia, e di seder le accenna.

—Vicina mia gentil (prende Ildegarde

Così a parlar), da lungo tempo agogno

Veder tuo dolce volto, e palesarti

Un mio desìo.

—Qual? le dimanda Elina.

—D'ottener tua amistà, di consolarmi

Teco de' miei dolori.

—E che? Infelice

Sei tu? Come?...

E nel troppo accelerato

Immaginar, già Elina e il cavaliero

Presumon ch'ella fugga il ritornante

Camillo forse, ch'a lor occhi un mostro

Verso tant'altri, un mostro esser dee pure

Verso la sciagurata a lui consorte.

Ad Ildegarde appressansi amendue,

Ed Irnando le dice:—Il ferro mio

Non fallirà, s'hai di mestier difesa.

Ma oh stupor! La soave, in altro modo

Che non credean, prosegue:

—Il sol non vede

Donna di me più dal suo sposo amata,

O buona Elina, e anch'io, quando al castello

È il mio signore, ed io filo cantando,

Spesso il miro al mio fianco, ed accompagna

La mia colla sua voce; e molte volte

Abbaian nel cortile i guinzagliati

Cani pronti alla caccia, ed alla caccia

Propizio è l'aer di levi nubi sparso,

Ed ei pur meco stassi, ed al cignale

Fino al seguente dì tregua consente.

Ignoto ad ambo è il tedio, o se noi colse

Alcuna volta, mai non fu quand'uno

All'altro amato cor battea vicino.

Ed oh a qual segno in esso, in me, di nostra

Solinga vila crescerà l'incanto,

Allor che a noi (se il ciel pietoso arrida

Alla dolce speranza!) uno o più figli,

Siccome questi, fioriranno a lato!

S'interrompe Ildegarde, e per gentile

Impeto d'amorosa alma commossa,

O per arte gentile, o per un misto

D'impeto ed arte, i due bambin si prende,

Uno a destra uno a manca, e li accarezza

Con baci alterni e voluttà di madre,

Sì che la madre vera e il genitore

Inteneriti esultano, e amicati

Tanto per lei vieppiù si senton, quanto

A' pargoletti lor vieppiù è cortese.

—Oh come a te in bellezza, o mia vicina,

Questa bimba somiglia!

E ciò Ildegarde

Dicendo, preme lungamente il labbro

Sovra la rosea guancia paffutella

Della cara angioletta, e la baciucchia.

Poscia gitta la mano amabilmente

Sulle ricciute chiome del fanciullo,

E qua e là le palpa, indi pel ciuffo

A sè lo trae, e, baciatolo, gli dice:

—Sai tu che appunto sei, qual mi fu pinto

Da fedel dipintore, il padre tuo

Ne' suoi giorni d'infanzia? Inanellato

Il fulvo crin, larga la fronte, arditi

E amorevoli gli occhi...

E questi detti

Pronunciando Ildegarde, involontaria

O accorta, alzava paventoso un guardo

Sul cavaliero. Ed ei si perturbava

Ricordando Camillo. Allor la pia

Ambagi più non volve; e con candore

Dice quanta cagion siale di tristo

Rincrescimento il dissentir d'Irnando

E di Camillo.

—O degna Elina! ov'anco

D'uno dei duo per indomato orgoglio

Quella discordia non cessasse, amiche

Esser non possiam noi? Commiserarci

Non possiam noi di questa ria fortuna,

Ed amar nostri sposi, e niun furore

Lor condivider che sia oltraggio al dritto?

Dall'anima d'Elina un «sì!» prorompe,

E si stringono al seno.

Irnando balza

Rapito a quella vista, a quegli accenti,

E vorrìa discolparsi; ad Ildegarde

Vorrìa provar nessuna esso aver colpa

Nell'odio sorto fra Camillo e lui.

Strano mortal! mentr'ei d'inenarrati

Spregi e d'ingratitudine a Camillo

Accusa vibra, il corruccioso lagno

Con cui ne parla, non par quel dell'odio,

Ma d'un amor geloso. Ei non perdona

All'uom ch'ei tanto amava, essersi fatto

Un idol d'altra gente! aver potuto

Per nemici obblïar sì sviscerato

Fratel, qual gli era dall'infanzia Irnando.

Ciò non isfugge all'ospite avveduta,

E con lenta eloquenza insinüante,

Che più e più le udenti anime scuote,

Pinge in Camillo a que' trascorsi tempi

Un fautor generoso (errante forse,

Ma generoso) d'abbagliante insegna,

E che a virtù immolar tutto credea,

Fin le dolcezze d'amistà più care.

E come pur tal amistà in Camillo

Vivesse, ella soggiugne, e come i giorni

Sospirass'egli della pace, in cui,

Placato Irnando, il rïamasse ancora.

Dice inoltre com'ei, reduce all'onde

Del Pellice natìo, concilïarsi

Con Irnando agognava, e si valea

D'intercessori invan; come ad Irnando

Mandò il proprio scudiero, e fu respinto.

Dice gli sguardi mesti e affascinati

Di Camillo al castel del primo amico,

E a quell'arbore e a questa, e a quel vallone

Ed a quel poggio, e del torrente ai flutti

Ove insieme natavano, ed ai ghiacci

Ove lungh'ore sdrucciolon vibravansi,

Ridendo e punzecchiandosi e luttando,

E sui ghiacci cadendo, e (bozzoluta

Indi spesso la fronte o insanguinata)

Tornando a casa lieti e tracotanti.

—Oh che facesti, sposo mio? prorompe

La fervida Romana; un altro, un altro

T'eri foggiato e l'abborrivi. Io pure,

Qual lo foggiavi, l'abborrìa; ma il mostro

Che innanzi agli alterati occhi ci stava,

No, non era quel pio, cui sì dilette

Son dell'infanzia le memorie tutte,

Cui tu sempre sei caro, e che sì caro

Ad Ildegarde non sarìa, se iniquo.

—Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglio

Gli si rïempie di söave pianto.

Ei m'amerebbe ancora? Ei non per beffe

A me mandò que' freddi intercessori

Che sì mal peroravano, e quel troppo

Zelante messagger che m'inaspriva

Col suo ardimento? E ch'altro volli io mai

Ch'esser amato da colui ch'io amava?

D'odiarlo io giurava, e non potea!

Ma e se la tua benignità, Ildegarde,

Ti traesse in error! S'ei mentre alcuna

Rammemoranza di me pia conserva,

E quasi m'ama nel passato ancora,

Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmi

Collegato di vili anco s'ardisse?

Se sconsigliati egli dicesse i passi

Che al mio castello hai mossi, e dall'irato

Cor prorompesse: «Amar non posso, Irnando!

Amarlo più non posso!»

I dolorosi

Dubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri,

Col ricordar sull'amicizia antica

Questo o quel detto di Camillo.

—Io dunque

Era il superbo! esclama il cavaliero:

Espïar debbo mia ingiustizia. In guerra

Lunge da me l'amico mio periglia;

Ad aïtarlo di mie lance io volo.

E i suoi fidi raguna, ed abbracciate

La palpitante Elina ed Ildegarde

E i pargoletti, in sella monta e parte.

Per molti dì le due vicine a gara

Si consolavan, si pascean di speme,

E alterne visitavansi, aspettando

De' baroni il ritorno, o messaggero

Che di lor favellasse. Ascondon ambe

Il lor perturbamento, e sol ciascuna,

Quando al proprio castel siede romita,

Numera i giorni ed angosciata piange.

Quella dicendo: «Oh non avess'io mai

Conosciuto Ildegarde! Ella funesta

Forse è cagion che il mio signore è spento!»

L'altra a Dio ripetendo: «Il mio Camillo

Salva, e s'a me rapirlo è tuo decreto,

Deh ch'io presto lo segua, e per mia causa

Vedova Elina ed orfani i suoi figli

Ah no, non restin!»

Cede alla possanza

Del suo rammarco alfin l'inconsolata

Moglie d'Irnando, ed una sera asceso

Il solito cíglion con Ildegarde,

Donde vedeasi per più lunga tratta

La polverosa via, nè comparendo

I cavalieri, o messo alcun, prorompe

Abbracciando i figliuoli in disperato

Pianto, e respinge dell'amica il bacio.

—Va, sciagurata, lasciami; a' miei figli

Rapisti il genitore! A me rapisti

Colui che tutto era al cor mio! Colui,

Pel qual degli avi miei la dolce terra

Senza cordoglio abbandonata avea!

Viver senz'esso non poss'io: qual sorte

A queste derelitte creature

Verrà serbata, dacchè al padre i ferri

Tolgon la vita, ed alla madre il lutto?

Voler, voler del cielo era d'Irnando

L'inimistà pel tuo fatal consorte!

Maledetto l'istante in che, ispirata

Da infernal consiglier, lieta movevi

A mia ruina! Maledetto il nome

Di suora che ti diedi!—

Al furibondo

Grido geme Ildegarde, e invan desìa

Trovar parole per placar l'afflitta;

Invan gli amplessi iterar tenta. Ognora

Più duramente rigettata e carca

Di rimbrotti amarissimi, il cordoglio

Rispetta dell'amica, e ridiscende

Dietro a lei mestamente la collina,

D'ancella a guisa che garrita piange,

E risponder non osa. A quando a quando

Si sofferma Ildegarde, e confidata

Tende l'orecchio e nella valle mira,

Che voci udir le sembra; e quelle voci,

Ahi! manda il villanel, che dagli arati

Campi co' buoi ritorna, ed a lui cara

Son compagnia l'antica madre, curva

Sotto il fascio dell'erbe, e la robusta

Moglie, peso maggior di rudi sterpi

Con elegante alacrità portando.

Ne' dì seguenti, al consüeto poggio

Le due donne riedean, ma fremebonda

Sempre era Elina, e, tramontato il sole,

Moveva a casa delirante d'ira

E di dolore; ognor vituperata

Ma affettüosa la seguìa Ildegarde.

Odon lontane grida, e nella valle,

Come all'usato i guardi avidamente

Con palpiti d'amor gettano entrambe

E di speranza e di paura. Il cane

Drizza i villosi orecchi, ed un acuto

Insolito latrato alza, e si scaglia

Giù per la praterìa precipitoso,

Folte siepi saltando ed ardui fossi

E scoscesi macigni. E ad intervalli

Sparisce e ricompare, e tace, e abbaia,

Nè mai s'arresta.

—E sarà ver? Son dessi,

Son dessi certo! Esclamano a vicenda

Con ebbrezza febbril le desïose.

Ma se alle lance reduci or mancasse

Uno de' capitani, od ambo forse?

Oh spaventoso dubbio! Oh sventurate!

Chi ne assecura?

Sì dicendo, il passo

Raddoppiano affannate. Al piano giunte,

Odon le scalpitanti ugne veloci

D'uno o duo corridori: ah fosser duo!

Fosser de' duo baroni i corridori!

Scerner gli oggetti mal lasciava un denso

Nembo di polve. Ah sì! Lor lance appunto

Camillo e Irnando precedean, con ansia

Di riveder le dolci spose. Oh gioia!

Oh certezza felice! Il lor saluto

Suona per l'aer, ben son lor voci queste.

Eccoli; balzan dall'arcione. Oh amplessi!

Oh istante indescrittibile! E il consorte,

Poichè ciascuna ha stretto al seno, e assai

L'ha coperto di lagrime e di baci,

Ciascuna dell'amica infra le braccia

Gittasi giubilando.

—Il dolor mio

Aspra mi fea: perdonami Ildegarde.

E Ildegarde alla suora il detto tronca,

Ponendo bocca sovra bocca, ed ambe

Pur di lagrime bagnansi. I fanciulli

Preso frattanto ha fra le braccia Irnando,

E accarezzato li accarezza, e gode

Porgendoli a Camillo, e di Camillo

La nova tenerezza rimirando.

Mentre ascendono il colle, evvi un bisbiglio,

Un esclamar, un alternarsi accenti

Di cortesìa e d'amore, un romper folle

In pianto e in riso, un mescolar dimande

E risposte e racconti, e i cominciati

Detti obblïar per detti altri frapporre,

Che niun di lor cosa veruna intende.

Nel castello d'Irnando entrano. E assisi

Nella gran sala—e da donzelle e fanti

Portate l'ampie coppe—e zampillato

Fuor de' fiaschi ospitali il ribollente

Dal roseo spumeggiar bel nibbïolo—

E del giocondo brindisi i sonanti

Tocchi osservati—e roborato il core—

Allor le maschie voci alzano a gara

I baroni, e ripigliano il racconto

In più seguìta, intelligibil foggia:

—Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde,

Te in così tempestiva ora spingendo

A rannodar fra Irnando e me l'amato

Vincol che stoltamente io franto avea!—

Così Camillo, e l'interrompe l'altro:

Io lo stolto! Io il feroce!—

E quei la mano

Sovra il labbro gli pon rïassumendo:

—Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde!

Perduto er'io, se redentrice possa

D'amistà non venìa. L'assedïante

Ladron dapprima sbaragliai, ma il tristo

Novella frotta ragunò. Me chiuso

Nel castel della suora, egli ogni giorno

Schernìa e sfidava. Io sul fellone indarno

Prorompeva ogni giorno: ahimè! gli sforzi

Del valor mio nulla potean su tanto

Nover crescente di nemici. A noi

Già le biade fallìan, già fallìan l'armi,

E già il cessar d'ogni speranza e il cruccio

Rabido della fame a' guerrier nostri

Consigliavan rivolta ed abbandono.

Universal divenne voce alfine:

«Arrendiamci! arrendiamci!» Il masnadiero

Promettea vita a ognun fuorchè a mia suora

E a' suoi figliuoli e a me. Tra minaccioso

E supplicante, io i perfidi arringava,

Che della rocca aprir volean le porte:

—«Sino a dimane il tradimento, o iniqui,

Sino a dimane sospendete!» Un resto

Di pietà e di rispetto, al grido mio,

Rïentrò in cor de' più. «Sino a dimane!

Sclamarono, e se Dio pria dell'aurora

Portenti oprato non avrà a tuo scampo,

Lo scampo nostro procacciar n'è forza.»

Oh spaventosa notte! Oh fugaci ore!

Oh come orrenda cosa eraci il suono

Del bronzo che segnavale! Oh angosciato

Appressarsi dell'alba! Oh sbigottiti

Muti sembianti della mia sorella

E de' suoi pargoletti! Oh contrastante

Dignità di parole in prepararci

A' vicini supplizi! Ed oh com'io

Tra me dicea: «Deh! che non seppi amico

Tutta la vita conservarmi Irnando?—

Improvviso frastuono udiam levarsi

Fuor delle mura. Che sarà? Oh prodigio!

Una pugna! E con chi?—«La man di Dio!

La man di Dio!» gridan mie turbe: a terra

Mi si prostran pentite, il giuramento

Di fedeltà rinnovano; a gagliarda

Sortita le süado, ed infinito

Macel lung'ora de' nemici è fatto.

Qui il narrar di Camillo Irnando tronca:

—Ah! s'impeto cotanto, e se cotanta

Prodezza ad ammirar non m'astringevi,

Me gli assaliti sconfiggeano! In fuga

Eran molti de' miei, già in fuga io stesso

Omai volgeami disperato: i colpi

Tuoi scomposer l'esercito inimico,

E di salvezza io debitor t'andai!—

S'avvicendan la lode i cavalieri,

L'uno dell'altro memorando i fatti.

Alfine Elina sclama:—Ad Ildegarde

Spettan tutte le lodi! Innanzi a lei

Prostratevi, e la sua destra baciate.—

E i cavalieri prostratisi, e la destra

Baciano d'Ildegarde, e penitenza

Le chieggon del furente odio passato;

Ed ella in penitenza un'annua festa

Intima in questo e in quel castel, che festa

Dell'amistà si chiami, e dove uficio

De' vati sia cantar quanti sospetti

Calunnïosi partorisce l'ira,

E quanto l'ira accrescano le ambagi

De' falsi intercessori, e quanto egregia

Sappia interceditrice esser la donna.

—E da me, per mia ingiusta ira, qual vuoi

Penitenza? soggiugne in umil atto

Palma a palma accostando, ed il ginocchio

Piegando Elina.—

Ed Ildegarde:—Il primo

Figlio, o diletta, che ti nasca, il nome

Porti del mio Camillo; e mi sia dato,

Se figli avrò, chiamarli Irnando o Elina.

AROLDO E CLARA

CANTICA.

Questa cantica nacque in giorni di somma sventura, ne' quali io, sentendomi troppo inclinato a sentimenti di sdegno, procacciava di vincerli col ragionare fra me stesso sulla bellezza della mansuetudine. Era in me indelebile un consiglio del buon Alessandro Volta, il quale un dì m'aveva detto queste parole, distogliendomi dallo scrivere satire:—«La poesia arrabbiata non migliora nessuno; e se v'avviene di sentirvi iracondo e propenso a spargere la bile in versi, paventate di diventar maligno. Vorrei anzi che allora cercaste di raddolcirvi, poetando sopra qualche nobile esempio di carità e d'indulgenza.»

AROLDO E CLARA.

Sed si esurierit inimicus tuus, ciba illum; si sitit, potum da illi.

(Ep. ad Rom. 12.)

I.

Piangi, o la più gentil fra le convalli

Dello spumante Pellice, ove un giorno

Alle sale d'Aroldo i Saluzzesi

Cavalieri affluìano ad alte feste.

Più non vedrai delle sue torri a sera

Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo,

Caramente appoggiando un braccio e l'altro

Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto

Ciglio volgendo con amor, ma indarno,

Ai dolci rai del tramontante sole.

Que' figli suoi nascean gemelli, e santa

Tenerezza li univa. Or sola e mesta

Clara accompagna il cieco padre a sera

Fuor della torre, perocchè il gagliardo

Fratel devote ha l'armi alla difesa

Del pio Tommaso suo ramingo prence

Contro i nemici della patria terra.

Rosseggiava bellissimo un tramonto

Sulle nevi lontane, e stupefatto

Pareva il sol che dal romito albergo

A salutarlo non venisse il vecchio.

Ahimè, quell'era di sventura un novo

Spaventevole dì! Schiudesi alfine

La porta del castello, e con veloci

Passi agitatamente escono Aroldo,

Clara e più servi; nè il canuto ciglio

Ai soavi del sole ultimi rai

Volger si cura. Che avvenia?—Dal campo

Infausto messo è giunto. Il pro' Ioffrido

Contro l'usurpator del saluzzese

Seggio osando tropp'oltre avventurarsi

Nel calor della pugna, il circondaro

L'empie straniere spade, e prigion cadde.

Speme di riscattar sì cara vita

Nutre il barone antico; e vuole ei stesso

Trar supplichevol senza indugio al truce

Fortunato invasor, che se talora

Immolar gode i miseri captivi,

Talor si placa a ricca d'oro offerta,

Molto dovendo da sua iniqua sede

Oro il tiranno effonder sulle bande

Dell'alleato provenzal monarca.

Giunto al margin vicino ove al tragitto

Nel rigonfiato Pellice è apprestata

La navicella, Aroldo porge il bacio

Del congedo alla figlia. Allora al collo

Gli s'avvinghia la pia.—Sola a mie stanze

Non riederò, buon genitor; pupilla

Esser della tua fronte a chi s'aspetta

Se non a me? Forse pietà maggiore

Assalirà dello sdegnato sire

Il cor, s'umano ha cor, prona a' suoi piedi

La veneranda tua canizie e gli anni

Giovenili di vergine scorgendo,

Che colla vita del fratel la vita

Chiede del padre.

Vuole opporsi Aroldo,

Ma mentre in barca ei scende, ella d'un balzo

Già vel precede, e al consentir paterno

Fa cogli amplessi vïolenza, e l'onde

Perigliose attraversano. Ma ov'era

L'Angiol del vecchio afflitto e l'Angiol tuo,

Generosa innocente? A voi non velo

Fecer colle tutrici ale a celarvi

Alla vista de' prossimi ladroni

Che irrompono co' brandi alla rapina.

Voler divino ai nembi di sfortuna

Lascia possanza sovra i giusti un tempo;

Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana

Nei patimenti una virtù Dio pose

Ch'anco i giusti migliora e a sè li innalza.

Sbandato di predoni era un drappello,

Che della guerra col favor raccolto

S'era d'Itale spiagge e di straniere

A rubamenti ed omicidii, altero

Linguaggio alzando di zelanti eroi,

Campioni della patria e di Manfredo.

S'azzuffan del baron coi fidi servi,

E nell'orrenda mischia ad uno ad uno

Dal soverchiante numero feriti

Vengon que' servi, e de' vincenti in mano

Son le ricchezze che a comprar la vita

Destinava del figlio il cieco sire.

Intero un dì per boschi e per dirupi

Ei trascinato colla figlia venne,

Ma il manto della notte ai duo infelici

Prestò propizie tenebre, e dal mezzo

Del brïaco drappel de' masnadieri

Quetamente si trassero alla valle.

Come lontani fur dall'empia frotta,

E ardiron favellare, il cieco strinse

La figlia al seno, e grazie alte le rese

D'averlo addotto a salvamento, e lei

Per l'accorto suo senno e per la dolce

Filial carità ribenedisse.

—Or dove, o padre, senza aïta alcuna

Ci avvïeremo?

—O Clara mia, remoti

Siam dal nostro castello, e a ritornarvi

Il tempo mancheria; son prezïosi

Tutti gl'istanti; acceleriamo il passo

Verso il campo nemico, appo le triste

Di Saluzzo rovine. O senza doni

Compariremo anzi al tremendo sire,

Ma sincere promesse il piegherranno

A moti di clemenza. Inoltre ho fede

In mia canizie e in queste spente occhiaie

E nel pianto che versano, e ben anco,

Figlia, nel tuo.

Pensava Aroldo ospizio

Prender non lunge, ove la figlia al raggio

Della luna scorgea l'amica torre

D'un consanguineo sir. Ma là giugnendo,

Odon che il giorno pria furibonda oste

Era quivi passata e avea deserta

La rocca e trucidato il castellano,

E devastato a' villici i tugurii.

Il negro pan de' villici dispersi

Piangendo rompe colla figlia Aroldo,

E beono alle lor tazze. Indi sen vanno

Per tutti i casolari, invan cercando

Palafreno o giumento: avean le schiere

De' nemici avidissime votata

In que' lochi ogni stalla.

—Ahi, dilungati

Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre!

Or dove andrem?

—Pedon la via si segua

Sino al mattin: buio non è, dicesti.

Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo

D'altri ladron te, mia dovizia or sola,

Te il ciel pietoso asconderà.

Sì disse,

E di padre l'affetto e di sorella

Lena lor porge insino all'alba. Il campo

Mostrossi allora al pauroso orecchio

Della fanciulla pria che agli occhi.

—O padre,

Odi tu, disse, odi tu roco un suono

Simile al suon della bufèra o a quello

Di molte acque correnti?

Il vecchio capo

Ei soffermò, ed immemore un istante

Delle sue angosce, alzò la barba e rise.

—Oh di qual gioia quel fragor m'empiea

Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia!

Noto è ad orecchio di guerrier quel suono,

Come voce di sposa al suo diletto.

Un dì così fremente io il bellicoso

Aere appena sentia, sovra il mio scudo

Battea forte l'acciaro, e dai precordii

Metteva un grido che atterrìa da lunge

Del nemico le scolte. E i miei congiunti

Dicean: «Voce è d'Aroldo, oggi si pugni,

Chè dove è Aroldo, è la vittoria.» Or fiacca

È questa voce, e più la destra, e al breve

Giubilo del guerrier tosto succede

In me a quel suono il trepidar del padre.

Proseguiro alcun tempo, e quindi Clara,

Che sino allor söavemente a' detti

Del genitore avea frammisti i suoi,

Incominciò a interrompersi, e risposte

Dar che, non conscio l'intelletto, un moto

Parean sol delle labbra. A poco spazio

Vedea della distante oste per l'aure

Quasi di nave altissimi duo pini

Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi

Come al suolo confitti. E secondata

Venìa quell'opra da un clamor che il primo

Clamor non era, ma or fischiante or rotto

Da infami ghigni o da cupo silenzio.

A' sensi suoi creder dovea? Le cime

Parean gravate de' duo legni, e il pondo

Che le gravava non scerneasi. Udito

Spesso Clara ha di barbari supplizi,

Ove ad appesa vittima lo strale

Drizzano i bersaglieri, ed ottïen palma.

Quei che divide dalle ciglia il teschio.

Di tai supplizi un questo fora? Oh dubbio

Peggior di morte! E chi alla sbigottita

Dice s'uno colà de' morïenti

L'amato suo fratello ora non sia?

Chi le dice se il passo al genitore

Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa!

E se il padre trattien, non di Ioffrido,

Che forse ancor sull'albero non pende,

Cagionerà la morte?... Ad ogni costo

Vadasi al fatal loco!

Il piè, tremando

In ciò pensare, affretta. In man la mano

Della meschina Aroldo tien.—Di gelo,

Fra sè diceva, è questa man, siccome

Quella ch'io strinsi di sua madre al letto

Ove s'estinse.

Indi il vegliardo scuote

Il capo, quasi scuotere volesse

Un malaugurio, e non potea.—Di morte,

Figlia, i negri m'inseguon pensamenti.

Abbi pietà di mia vecchiaia, e i cari

Detti mi porgi che tue labbra sciorre

Uniche san, quando scorato è il padre.

Nata ne' giorni di sventura, e in erma

Torre cresciuta, ove sorelle e madre

Vide spirar, sollecita a sinistri

Presentimenti schiuder l'alma, è fatto

In lei religïon. Si raccapriccia

In udir che s'affaccin alla mente

Del genitore e in quest'istante i negri

Pensamenti di morte. A lui si volge,

Apre le labbra—e i consolanti detti

Ch'uniche sciorre un dì sapean, non trova:

Non trova, ed ahi! la prima volta è questa

Che inobbedito di suo padre è il cenno.

—Più de' pensier miei tristi or malaugurio

M'è il tuo silenzio, ei dice.

E lo spavento

In lei crescendo, e a' rai primi del sole

Splender veggendo le volanti frecce,

Improvviso s'arresta.—Oh genitore!

Non c'inoltriam: non odi tu le strida

Degli assassini?

—Il figlio, il figlio mio

Forse a morte strascinano: affrettiamci.

—Deh, padre, ferma! a' piedi tuoi ten prego.

Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido

In vita è ancor, di novo al fianco tuo

Tosto mi rendo, ma te... O ciel! raddurre

Te vivo a casa allor io posso almeno!

—Sciagurata, che parli? Orrende cose

Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero

Fra quelle voci che il mio antico orecchio

Non distinte percuotono, tu scerni

Voci di morte e del fratello il nome.

Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio

Porta il tumultüoso aere d'atroce?

—Nulla, o buon padre. Ma t'arresta; pensa

Che se tu, giunto appo i nemici, udissi

L'orribil caso... tu m'intendi... allora

Orfana forse rimarrei nel campo.

—Me perder temi, e non t'avvedi, insana,

Che scellerata è tua pietà? Egli muore,

E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra,

Tel comando, obbedisci.

All'inusata

Ira paterna impaurissi Clara;

S'alzò. Con passi rapidi il cammino

Misura il cieco, e strascinata quasi

La giovinetta il segue. Erasi spersa

La turba intanto che cingea i duo pini,

E presso a questi il padre e la sorella

Arrivan di Ioffrido. Ella più volte

Erse il ciglio tremando, e insanguinate

Scorse due salme, e incontanente a terra

Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr'esse

Fiso tenerlo ad indagar; chè franta

Han la coppa del cranio, e dal mozzato

Lor sembiante piovea cèrebro e sangue.

Ma quell'orrida vista e lo spavento

Forza a' ginocchi tolgonle ed al core:

—Padre! dic'ella, padre!... E qui stramazza

A' piè d'Aroldo.

E mentre brancolando

Col caro pegno tra le braccia fugge

D'in mezzo della via, però che udito

Brigata di cavalli ha scalpitante

Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro

Ad un de' lati fermasi, ove un tronco

D'albero sente; innanzi a lui lo stuolo

Giunge de' cavalieri. Era Manfredo,

Che di baroni provenzali cinto

Per intenti di guerra iva il terreno

Intorno visitando. Una fanciulla

Scorge egli tramortita ed un vegliardo;

E voltosi ad Aroldo, acerbamente

Così gli grida:—O discortese e stolto,

Perchè nel sangue d'un fellone e sotto

Il patibolo tratta hai quell'afflitta,

Cui toglie i sensi il raccapriccio?

—Oh sire,

Oh novo sire di Saluzzo! esclama

L'antico cavalier, cui non intera

L'aspra parola del crudel pungea,

Nota è ad Aroldo ancor la voce tua:

Aroldo io son dalle romite torri

Che si specchian nel Pellice. E l'illustre

Tuo genitor te adolescente spesso

Adduceva a mie sale, e co' miei figli

In un calice sol beevi a mensa.

Ah per memoria del tuo estinto padre

Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio

Ch'unico maschio avanza a mia vecchiaia,

E cadde tuo prigion, deh non rapirmi!

Io non leggeri doni a te in riscatto

Dal mio castel portato avea, ma iniqui

Predatori per via m'hanno assalito.

Alle mie braccia il caro figlio rendi,

E qual tributo m'imporrai ti solvo,

Pareggiasse anco de' miei campi aviti

L'intero pregio.

—O sciagurato Aroldo,

Di qual osi tributo or favellarmi,

Se finor tutto mi negasti? È tardi.

—Tardi, o sire, non è. Seguita, è vero,

Fu da bollente figlio mio l'insegna

De' prischi Saluzzesi e di Tommaso,

E la vittoria a tua prodezza arride.

Ma tu il fervido oprar del giovinetto

Dona pietosamente al supplicante

Suo genitor che in venti pugne il sangue

Versò pel nobil padre tuo, quand'esso

Con tanta gloria signorìa qui tenne.

—È tardi, o vecchio, e duolmene. In te accogli

Tutta la forza ond'è capace il core

D'un cavalier. Sovra quel legno pende

Un trafitto cui grazia altra non posso

Conceder più che di ritorlo ai corvi,

E consentirgli de' suoi cari il pianto.

Disse, e accennando che una guardia il morto

Dalla croce calasse e all'infelice

Lo rimettesse, cogli sproni un tocco

Dïede al cavallo e col suo stuol disparve.

Clara i sensi racquista, e oh di dolore

Qual novo orrendo palpito! Era dunque

Il fratel suo quel miserando ucciso!

Eccolo tolto dal funesto legno;

Ed ella il raffigura a cicatrici

Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio

E l'angosciata giovin su quel corpo

S'abbandonan piangendo! Ella in lino

L'infranta testa pïamente avvolge,

E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce

Carità si commove una famiglia

Di Saluzzesi agricoltori, e dato

Viene un carro con bovi, onde al lontano

Castello il morto cavalier si tragga.

II.

Or da quel giorno d'ineffabil lutto

Rivolgiamo la mente oltre a sei lune,

E la mesta mia cantica, i solinghi

Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia

Commiserando, svolga altra vicenda.

Era una sera: alle vetuste mura

Del baron s'appresenta un fuggitivo,

A cui ferite e febbril sete esausta

Miseramente avean la voce. Aroldo

Piena di vino gli mandò una coppa

Con questi detti: Al focolar t'accosta

Sin che apprestata sia la cena, e al sire

Perdona del castel s'ei di sue stanze

Non uscirà, dove cordoglio il tiene.

Clara portò que' detti, e il fuggitivo

Che al maestoso inceder cavaliero

Parea e mendìco a' finti panni, il volto

Pria si coverse, indi con pronti passi

Balzar tentò fuor della soglia, a guisa

Di mortal che, caduto in impensato

Orribile periglio, aneli scampo.

Ma nella mossa impetuosa a lui

Manca il fievole spirto, e piomba a terra.

Clara il soccorre, il mira, ed alla negra

Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa.

Chi era? Chi!... Manfredo! il già possente

Desolator della sua patria! il ladro

Che alla corona del nepote osava

Stender la man sacrilega, e sul capo

Inverecondo imporsela, e i diritti

Calpestar più sanciti, e di Saluzzo

Dirsi benefattor, serva a stranieri

Brandi facendo la natìa contrada!

Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco

Da compiuta sconfitta è l'empio sire,

E per sottrarsi agl'inseguenti ferri

Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote

Calcò deserte rupi. Indi pel sangue

Nella pugna perduto e per la rabbia

Gli s'era da brev'ora intorbidato

Sì fattamente il lume del pensiero,

Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto

Era ai campi d'Aroldo altra credendo

Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo

D'adolescenza riportate mai

Non avea l'orme, ed alberi e tugurii

Mutato avean l'aspetto della terra.

Sol quand'ei vide Clara, appien le soglie

Raffigurò d'Aroldo, e se bastata

A lui fosse la possa, ei rifuggìa.

Manfredo! e senza guardie! e semivivo,

Sotto il tetto dell'uom cui trucidato

Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio!

Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti

I famigli richiamano, ella corre

Alle stanze del padre, e già già quasi

A lui così sclamava:—Esci, un prodigio

Ad ammirar del Dio delle vendette:

Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene

Il suo assassin!

Ma in quell'istante gli occhi

Della donzella alzaronsi a parete,

Onde pendea dell'Uomo-Dio morente

Effigie veneranda, e a quella vista

L'irrompente parola in cor rattenne.

Religïoso fremito la invase

Dinanzi a quell'effigie.

—Oh mio Signore!

Quai voci arcane alla tua ancella parli?

Tu irreprensibil fosti e sì infelice!

E a quei che l'uccidean pur perdonavi!

Or chi sa? Forse il dolce mio fratello

Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia,

In carcer sotterraneo, o d'inquieti

Elementi per l'alte aure ludibrio

Sta ancor penando, e a liberarlo vane

Fervon le preci, e in loco d'esse un atto

Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio!

Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma

È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando

Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo

Come a noi perdonato ha il Redentore!

Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa

Delle forze d'un padre il dare aïta

D'un caro figlio all'uccisor. La lancia

Ei no giammai non bagnerìa nel sangue

D'uom che toccò la mensa sua... Ma pure

Chi può segnar dove talor trascorra

Nella foga dell'ira un core offeso?

Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo!

Disse, e prona curvossi, e lungamente

Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio

Esser tentata; innanzi a Dio temea

Calunnïar la santa alma del padre.

Ma nella mente repentino un raggio

Di fidanza pienissima le splende,

E ratta sorge e dice:—Ah sì, fratello!

Questo è il momento in che del ciel la porta

A tue brame si schiude: io di tua gioia

Sento il reflesso, e quella gioia è Dio!

Un servo entrava:—Damigella, o carco

D'inaudite peccata, o fuor di senno

È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio

Parla tra sè com'uom cui prema occulto

Di vendette terribili spavento,

E di qui vuol fuggir.

—Tosto bardata

Per lui sia mia cavalla.

Il servo parte

Maravigliato, ed obbedisce. Intanto

Antico armadio la fanciulla schiude,

Ed indi tratto un de' paterni manti,

Al leve suo tesor poscia s'affretta

D'auree monete, e in una borsa il pone.

Così ver l'agitato ospite mosse,

E que' doni offerendogli—D'Aroldo

Questa, gli disse, è la vendetta, o sire.

Fremea la generosa in lui mirando

L'uccisor di Ioffrido e il formidato

Di Saluzzo oppressor, ma pïamente

Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte

Del castello accennando, a lui soggiunse:

—Ecco a' tuoi cenni un corridor: se lena

Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo!

Clara sparve, ciò detto. E l'infelice

Tiranno—Angiol! gridò.—Poi diè dal core

Uno scroscio di pianto. Ed allor forse

Pentimento verace a lui fu strazio,

Le proprie atroci colpe rammentando,

E rammentando il giovine Ioffrido,

E quel misero cieco che appoggiato

Ad un alber credeasi, e gli grondava

Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue!

Frettoloso Manfredo i doni tolse;

L'inaudita pietà benedicendo,

D'Aroldo cinse su le spalle il manto,

E quindi a pochi tratti il vide Clara

Dalla fenestra, che, al cortil venuto,

Con sembiante commosso intorno intorno

Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo

In atto di preghiera ergea le mani,

Poi le briglie toccava ed era in sella.

Fermato ivi un istante, ad alta voce

Mise queste parole:—Aroldo! Aroldo!

Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto

Seggio e de' vituperi onde vo sazio,

Consolarmi potrò; non potrò mai

Consolarmi d'aver tua nobil alma

Col più truce rigore insanguinata.

Udì il vecchio baron quel forte grido,

E balzò dalla seggiola esclamando:

—Figlia! il nemico nostro! il maledetto

Uccisor di Ioffrido!

E sul rugoso

Pallido volto del canuto il foco

S'accese del furore. A' piedi suoi

Clara gettasi allora, e gli palesa

Ciò che d'oprar le ispirò Iddio.

—No, Iddio

Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo;

Manfredo è un empio! ei di dominio sete

Portò infernal su queste invase terre,

Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse!

Infame della patria e del suo prence

Manfredo è traditor. Per sollevarsi

Sulla sede non sua, trasse alleati

E Provenzali e Càlabri e venduti

Guelfi di tutta Italia allo sterminio

De' nostri feudi e delle nostre plebi,

E incenerì Saluzzo!... e il figlio mio,

Il figlio mio su scellerata croce

A' carnefici suoi diede bersaglio!

Lunga e tremenda di rammarco e d'ira

Fu l'eloquenza dell'antico. A lui

Clara abbracciava le ginocchia, e santi

Detti porgea con supplice dolcezza:

—Le iniquità punir sol puote Iddio;

Noi non possiam sul misero fuggiasco

Punirle coll'acciar: solo a punirle

Una guisa n'è data, ed è il perdono.

Càlmati, o genitor; pensa che o degno

Per penitenza diverrà Manfredo,

O, rimanendo iniquo, a lui carboni

Saranno inestinguibili sul core,

Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi

E fra l'alme perverse il danno eterno.

A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore,

E il benefico palpito e l'eccesso

Della pietà non sol sugl'innocenti,

Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo

Del perdono di Dio morendo avremo!

—Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo,

Ti benedico; santamente oprasti!

L'alza, al petto la stringe, e lagrimando

Mercè le rende che alla prova il senno

D'esacerbato padre ella non mise.

Un dì alle torri del baron fu visto

Giungere di Manfredo un messaggero

Da lontana contrada, e apportatore

Venìa di ricchi doni. Eran tre lune

Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto

Era il castello, ed in vicino chiostro

Cinta di sacre lane, i dolci salmi

L'orfana, per la cara alma del padre

E del fratel, tutte le notti ergea.

POESIE LIRICHE.

LA MIA GIOVENTÙ.

Cor mundum crea in me, Deus.

( Ps. 50. )

Lamento sui fuggiti anni primieri,

Che fecondi di speme Iddio mi dava,

E di ricchi d'amore alti pensieri!

Tra giubili ed affanni io m'agitava,

Ed incessanti studi, e bramosia

Di sollevarmi dalla turba ignava;

E spesso dentro al cor parola udìa

Che diceami dell'uom sublimi cose,

Tali che d'esser uomo insuperbìa.

Pupille aver credea sì generose

Il mio intelletto, che dovesser tutte

Schiudersi a lui le verità nascose;

E di ragion nelle più forti lutte

Io mi scagliava indomito; sognante

Che sempre indagin lumi eccelsi frutte.

Quella vita arditissima ed amante

Di scienza e di gloria e di giustizia

Alzarmi imprometteva a gioie sante.

Nè sol fremeva dell'altrui nequizia,

Ma quando reo me stesso io discopriva,

L'ore mi s'avvolgean d'onta e mestizia.

Poi dal perturbamento io risaliva

A proposti elevati ed a preghiere,

Me concitando a carità più viva.

Perocchè m'avvedea ch'uom possedere

Stima non può di se medesmo e pace,

S'ei non calca del Bel le vie sincere.

Ma allor che fulger più parea la face

Di mia virtù, vi si mescea repente

D'innato orgoglio il luccicar fallace.

E allor Dio si scostava da mia mente,

E a gravi rischi mi traea baldanza,

Ed infelice er'io novellamente.

Se così vissi in lunga titubanza,

Ond'or vergogno, ah! tu pur sai, mio Dio,

Che tremenda cingeami ostil possanza!

Sfavillante d'ingegno il secol mio,

Ma da irreligiose ire insanito,

Parlava audace, ed ascoltaval'io.

E perocchè tra' suoi sofismi ordito

Pur tralucea qualche pregevol lampo,

Spesso da quelli io mi sentìa irretito.

Egli imprecando ogni maligno inciampo

Sciogliea della ragion laudi stupende,

Ma insiem menava di bestemmie vampo.

Ed io, come colui che intento pende

Da labbra eloquentissime e divine,

E ogni lor detto all'alma gli s'apprende;

Meditando del secol le dottrine,

Inclinava i miei sensi alcuna volta

Di servil riverenza entro il confine.

Tardi vid'io ch'a indegne colpe avvolta

Era sua sapïenza, e vidi tardi

Ch'ei debaccava per superbia stolta.

Trasvolaron frattanto i dì gagliardi

Della mia giovinezza, e sovra mille

Splendide larve io posto avea gli sguardi;

E nulla oprai che d'alta luce brille!

E si sprecar fra inani desideri

Dell'alma mia bollente le faville!

Lamento sui fuggiti anni primieri

Che d'eccelse speranze ebbi fecondi,

E di ricchi d'amore alti pensieri!

Ma sien grazie al Signor che, ne' profondi

Delirii miei, pur non sorrisi io mai

Agl'inimici suoi più furibondi:

Sempre attraverso tutte nebbie, i rai

Del Vangel mi venian racconsolando;

Sempre la Croce occultamente amai.

Ed il maggior mio gaudio era allorquando

In una chiesa io stava, i dì beati

Di mia credente infanzia rammentando:

Que' dì pieni di fede, in che insegnati

Dal caro mi venian labbro materno

I portenti onde al ciel siamo appellati!

Di nuovo fean di me poscia governo

La incostanza, gli esempi, ed il timore

Dell'altrui vile e tracotante scherno;

E l'ira tua mertai per tanto errore:

Ma gl'indelebili anni che passaro

Ritesser non m'è dato, o mio Signore!

Presentarti non posso altro riparo

Che duolo e preci e fè nel divo sangue,

Di cui non fosti sulla terra avaro

Per chiunque a' tuoi piè pentito langue.

I PARENTI.

Deus enim honoravit patrem in filiis.

( Eccli. c. 3, v. 3.)

Inno di gratitudine e d'amore

Al Creator de' nostri cuori amanti,

Di tutte meraviglie al Creatore!

Dacchè pel fallo prisco doloranti

Alla luce veniam, qual dolce aïta

Nè' genitori è data a' nostri pianti!

In ogni coppia umana, onde la vita

D'altri umani si svolge, ecco una diva

Pe' figliuoletti carità infinita.

Vedi la vergin titubante e priva

D'ogni ardimento, simile a cervetta

Che intorno guata, e de' perigli è schiva.

Chi nella fievol, timida animetta

Opra mutazïone inaspettata,

Quand'è fra il coro delle madri eletta?

Di progenie d'Adamo al ciel chiamata,

Grave è il sen della dianzi paventosa,

E il pondo regge da dolor cruciata.

Ed il porta con forza generosa!

E dopo un figlio compro a tanto prezzo

D'orrende angosce, altri portar pur osa!

Oh di strazii mirabile disprezzo

In creatura sì gentil, che solo

Parea nata de' fiori al molle olezzo,

Onde bëasse a lei d'intorno il suolo

E le dolci aure col suo bel sorriso,

E morisse alla prima ombra di duolo

Per destarsi felice in Paradiso!
Vedi la donna col suo piccol nato,

Che suggendole il seno a lei sorride

Sebben abbiale tanto egli costato,

La madre da lui mai non si divide.

Insazïata il guarda, insazïato

È il provveder ch'ei non s'affanni e gride:

Animo lieto o da timore oppresso

Nella veglia o nel sonno ha ognor per esso.

Lo sposo benchè a lei caro cotanto,

È più caro perch'ei pur ride al figlio;

Sovente, favellando a lei d'accanto,

S'avvede ch'ella e core e mente e ciglio

Tien sovra il pargol con sì forte incanto,

Che non ha udito il marital consiglio:

Allora ei tace e mira, e con dolcezza

Il lattante e la madre egli accarezza.

Oh tristo il giorno, oh trista l'ora, quando

Giace nella sua cuna egro il bambino,

E la giovine madre sospirando

Ad ogn'istante riede a lui vicino,

E invan teneri detti prodigando

Tien sulle amate labbra il petto chino,

Ma l'offerta mammella ei bacia appena,

E non la sugge, ed a vagir si sfrena!

Oh con qual lutto miserando allora

La spaventata si rivolge a Dio!

Oh come al dubbio che il figliuol le mora

Trema se in lei fu reo qualche desìo,

E perdono dimanda, e s'infervora,

Promettendo al Signor viver più pio!

I soli Angioli ponno anzi all'Eterno

Sì ardente prego alzar, qual è il materno.

Giorno di liete voci, ora felice,

Quando seman del pargolo i vagiti!

Quand'ei cerca la dolce genitrice

Con isguardi dal riso ingentiliti!

Quand'ei di novo il caro latte elice,

E scherzoso riprende i suoi garriti!

Tai porge allor la madre inni d'amore,

Quai mandar può de' Serafini il core!

Ov'alti rischi fervono,

Vieppiù la madre ardita

Pel frutto di sue viscere

Pronta è a donar la vita.

Ella, se fera scoppïa

Divoratrice vampa,

Verso la cuna avventasi,

E il pargoletto scampa.

Se il picciol piede illusero

Di cupo rio le sponde,

La madre piomba rapida,

E il tragge, o muor nell'onde.

Ella, se il figlio palpita

Tra infetto aere tremendo,

Tenta i suoi dì redimere,

Le piaghe a lui lambendo.

Se patria e tetto invadono

Empie, omicide squadre,

Stringe i suoi figli, e impavida

Pugna per lor la madre.

Tal è la nobil donna ingigantita

Dalla materna celestial possanza,

Che a tutte generose opre la invita.

Ma un sacrifizio v'è che ogni altro avanza,

Ed è in lei quell'assidua ed operosa

Sulla cara progenie vigilanza.

Alma di buona madre più non posa

Finchè non ha ne' figli suoi destata

Di virtù la favilla glorïosa.

Nè puote alma di figlio esser pacata

Fra inique gioie, se ha una madre anco

Che i vestigi di lui tremando guata,

E occultamente prega, e s'addolora.
Negli anni primieri

Del forte maschietto,

V'è mente selvaggia,

V'è indocile affetto;

Par ch'indi s'annunci

Futur masnadier.

La picciola belva

Se alcun la minaccia,

Vieppiù baldanzosa

Innalza la faccia;

Di colpi, di rischi

Non prende pensier.

Qual è quello sguardo,

Qual è quella voce

Che frena l'audacia

Del picciol feroce,

Incanto sì dolce

La donna sol ha.

Ed ella ripete,

Ripete l'incanto,

Frammesce sorriso,

Disdegno, compianto,

E amore gl'infonde,

Gl'infonde pietà.

Non bada la saggia

Se petti inumani

Diran che a domarlo

Suoi studi son vani;

In cor d'una madre

Speranza non muor.

E quei che parea

Futur masnadiero,

S'infiamma del bello,

S'infiamma del vero,

Divien della patria

Gentile decor.

. . . . . . . .

LE PASSIONI.

Gustate et videte quoniam suavis est Dominus.

( Ps. 39, 9.)

Dov'è mia gioventù? Dove i bëati

Anni d'amor, del Rodano appo l'onde?

Dove il ritorno a' miei dolci penati,

E mia stanza alle Insùbri aure gioconde?

Dove in Milano i glorïosi vati

Che mi cingean dell'apollinea fronde?

Dove mia gloria alle applaudite scene?

E poi dove il decennio infra catene?

Io di carcere usciva egro, e piangendo

Il mio buon Federico e gli altri cari,

Cui dato ancor da quel recinto orrendo

Rieder non era ai desïati lari:

Poscia esultava, Italia rivedendo,

Ed alfin temperando i giorni amari

Fra gli amplessi de' mei sacri canuti,

Per me sì lungamente in duol vissuti.

E omai da un lustro tutto ciò trascorse!

E nuovi plausi a me la patria diede,

E di nuovi Aristarchi ira mi morse,

E di nuovi propizi ebbe la fede,

E nuova infanzia a me d'intorno sorse,

E di morte vid'io novelle prede,

E «Vana cosa è questo mondo!» esclamo,

E separarmen voglio—ed ancor l'amo!

L'amo perch'alme vi trovai fraterne,

Che all'alma mia s'avvinser dolcemente,

E diviser mie gioie, e nell'alterne

Pene collacrimàr sinceramente:

E v'ha tali amistà che fièno eterne,

Benchè tessute in questa ombra fuggente,

Benchè tessute ov'ogni nobil core

S'apre appena a virtù, lampeggia e muore.

Degg'io, poss'io da tutte cose amate

Divellere una volta il mio pensiero?

Io, le cui sorti furono esaltate

Da tanto lutto e tanto gaudio vero!

Io, le cui rimembranze innamorate

Han su mia fantasia cotanto impero!

Io, cui balzar fa sin talora il petto

Vista di leve, inanimato oggetto!

Reduce a lidi miei, dopo che giacqui

Sepolto vivo per sì cupe notti,

Agli affetti più teneri compiacqui

Che la sventura non avea interrotti;

Nè agli estinti carissimi pur tacqui

Culto di preci e di sospir dirotti;

Indi a rivisitar presi le antiche

Pagine ch'ebbi a dolce veglia amiche.

E sovente su libri polverosi

La man vo riponendo tremebonda,

Ed apro, e parmi a' giorni studïosi

Tornar di giovinezza, e il pianto gronda!

E trovo i segni che ne' libri io posi,

Ove con mente mi fermai profonda,

Ove ad alti pensier d'amato autore

Commento fei di verità o d'errore.

Pur con sensi diversi or vi rimiro;

O libri tanto amati a' dì primieri:

Vate son io, ma spento è in me il desiro

Di prostrarmi idolatra anzi agli Omeri.

Se volgendo lor carte ancor sospiro,

Magia non è de' grandi lor pensieri:

Più d'un libro m'è caro, e pure in esso

Di rado cerco lui; cerco me stesso.

E non sol me vi cerco: alla memoria

Del me passato aggiugnesi indivisa

Di palpiti d'amor söave istoria,

Quando un'egregia m'infiammava in guisa,

Ch'io per lei sola ambìa pietate e gloria,

Ch'io sempre in lei tenea l'anima fisa,

Che d'un sorriso suo per farmi degno,

Sempre agognava ingentilir lo ingegno!

E se pio talor fui, pregio egli è stato

Di quella generosa animatrice:

Era ad essa straniero il forsennato

Foco d'amor che mi rendea infelice;

Ma compatìa mie pene, ed elevato

Volea il mio spirto, e lo volea felice,

Ed allor che più insano io le parea,

S'affannava, e garrivami, e piangea.

Quella donna, onde il bel, nobile viso

Polvere è da molt'anni, e l'alma in Dio,

Non disamai, benchè da lei diviso,

E onorerolla tutto il viver mio:

Ma nuovi poscia affetti han me conquiso,

E quel primiero ardor s'intiepidìo:

Quel ch'era in me un incendio, è una favilla

Che come lampa ad un sepolcro brilla.

Senza obblïar la già cotanto amata,

Altra ammirai ch'or dispartita è anch'essa;

E in me virtù credendo io sublimata

Per averla a sì bello angiol commessa,

L'anima mia da orgoglio inebbrïata

Vana si fea di lungo ben promessa:

Giorni d'alto dolor mi mosser guerra,

E a lei pur venni tolto, ed è sotterra!

Sete d'amor, sete di studi, e sete

D'innalzar sopra il volgo il nome mio,

Gran tempo mi rapìan sonno e quiete,

Nè scerno se ammendato oggi son io:

Tu che del cor le latebre secrete

Solo ravvisi e mondar puoi, gran Dio,

Pietà di me che tanto sempre amai,

E sino a te l'amor non sollevai!

Tante cose sfumarono al mio sguardo,

E tutto giorno sfumar altre io miro!

Valga d'esperïenza il raggio tardo,

In che sforzatamente oggi m'aggiro,

Ad oprar alfin sì che più gagliardo

A tua bellezza s'erga il mio desiro,

E nulla tanto da' mortali io brami,

Quanto ch'ognun tuoi pregi scorga ed ami!

La legge tua non è d'irto rigore,

Sol le idolatre passïoni abborri:

Lunge che a te dispaccia amante cuore,

Ad un cuor fatto gel più non accorri.

Tu vuoi che a' miei fratelli io con ardore

Così soccorra, come a me soccorri:

Tu vuoi che in forte guisa il bello io senta,

Tu vuoi che al giusto il plauso mio consenta.

Tu doni a' figli tuoi mente e parola,

Non perchè il dono tuo venga sepolto;

Tu non imprechi investigante scuola

Su non vietato ver fra l'ombre avvolto:

In odio a te l'indagin empia è sola

Che contra il cenno tuo l'ardire ha volto:

Tu gl'ignari del mal chiami felici,

Ma il veggente non reo pur benedici.

Tu che sei tutto amor, la sacra stampa

Della natura tua nell'uomo imprimi:

Gagliardo sprone e inestinguibil lampa

Tu sei di tutti aneliti sublimi.

Tu godi quindi se il mio spirto avvampa

Per que' tuoi fidi che in virtù son primi:

Tu godi se fra lor taluni eleggo,

E nel lor santo oprar meglio ti veggo.

A me tu dato hai queste fiamme ardenti,

Con cui desìo de' petti amici il bene,

E con cui studïando i tuoi portenti

Traggo esultanza, e di capirti ho spene:

Così caldo sentir più non diventi

Esca giammai di vanità terrene:

Mie passïoni in guisa tal governa,

Che lode sièno a tua saggezza eterna.

Sempre le temo, e sempre sento ancora

Che in amar altre cose io troppo m'amo:

Cieca errò mia bollente alma sinora,

E presa fu di sua superbia all'amo.

Distruggi il suo sentire, o lei migliora;

O vil torpore, od amor santo io bramo;

Ah no, non vil torpor, dammi amor santo,

Tu che le tue fatture ami cotanto!

SALUZZO.

Et sit splendor Domini Dei nostri super nos.

( Ps. 89, 17.)

Oh di Saluzzo antiche, amate mura!

Oh città, dove a riso apersi io prima

Il coro e a lutto e a speme ed a paura!

Oh dolci colli! Oh maëstosa cima

Del monte Viso, cui da lunge ammira

La subalpina, immensa valle opima!

Oh come nuovamente or su te gira

Lieti sguardi, Saluzzo, il ciglio mio,

E sacri affetti l'aër tuo m'ispira!

Nelle sembianze del terren natìo

V'è un potere indicibil che raccende

Ogni ricordo, ogni desir più pio.

So che spiagge, quai siansi, inclite rende

Più d'un merto soave a chi vi nacque,

E bella è patria pur fra balze orrende;

Ma nessuna di grazia armonìa tacque,

O Saluzzo, in tue rocce e in tue colline,

E ne' tuoi campi e in tue purissim'acque.

Ogni spirto gentil che peregrine

A piè di queste nostre Alpi si sente

Letizïar da fantasie divine.

Sovra il tuo Carlo, e il dotto suo parente
[3]
,

Che pii vergaron le memorie avite,

Spanda grazia immortal l'Onnipossente!

Dolce è saper che di non pigre vite

Progenie siamo, e qui tenzone e regno

Fu d'alme da amor patrio ingentilite.

Più d'un estero suol di canti degno

Porse a mie luci attonite dolcezza,

E alti pensieri mi parlò all'ingegno:

Ma tu mi parli al cor con tenerezza,

Qual madre che portommi in fra sue braccia

E sul cui sen dormito ho in fanciullezza.

Ben è ver che stampata ho breve traccia

Teco, o Saluzzo, e il dì ch'io ti lasciai

A noi già lontanissimo s'affaccia.

Pargoletto ancor m'era, e mi strappai

Non senza ambascia da tue dolci sponde,

E, diviso da te, più t'apprezzai.

Perocchè più la lontananza asconde

D'amata cosa i men leggiadri aspetti,

E più forte magìa sul bello infonde.

Felice terra a me parea d'eletti

La terra di mio Padre, e mi parea

Altrove meno amanti essere i petti.

E mi sovvien ch'io mai non m'assidea

Sui ginocchi paterni così pago,

Come quando tuoi vanti ei mi dicea.

In me ingrandiasi ogni tua bella imago;

Del nome saluzzese io insuperbiva;

Di portarlo con laude io crescea vago.

E degl'illustri ingegni tuoi gioiva,

E numerarli mi piacea, pensando

Che in me d'onor tu non andresti priva.

Vennemi quel pensiero accompagnando

Oltre i giorni infantili, allor che trassi

Al di là delle care Alpi angosciando.

Nè t'obblïai, Saluzzo, allor che i passi

All'Itale contrade io riportava,

Benchè in tue mura il capo io non posassi.

Chè il bacio de' parenti m'aspettava

Nella città ch'è in Lombardia regina,

E colà con anelito io volava.

E colà vissi, e colsi la divina

Fronde al suon di quel plauso generoso,

Che premia, e inebbria, e suscita, e strascina.

Oh Saluzzo! al mio giubilo orgoglioso

Pe' coronati miei tragici versi,

Tua memoria aggiungea gaudio nascoso.

Oh quante volte allor che in me conversi

Fulser gli occhi indulgenti del Lombardo,

E spirti egregi ad onorarmi fersi,

Ridissi a me con palpito gagliardo

La saluzzese cuna, e mi ridissi

Che grata a me rivolto avresti il guardo!

E poi che in ogni Itala riva udissi

Mentovar la mia scena innamorata,

Ed ai mesti Aristarchi io sopravvissi,

L'aura vana, che fama era nomata,

Pareami gran tesor, ma vieppiù bello

Perchè a te gioia ne sarìa tornata.

Mie mille ardenti vanità un flagello

Orribile di Dio ratto deluse,

E negra carcer mi divenne ostello.

Non più sorriso d'immortali Muse!

Non più suono di plausi! e tutte vie

A crescente rinomo indi precluse!

Ma conforti reconditi alle mie

Tristezze pur il Ciel mescolar volle,

E il cor balzommi a rimembranze pie.

Del captivo l'afflitta alma s'estolle

A vita di pensier, che in qualche guisa

Il compensa di quanto uomo gli tolle.

E quella vita di pensier, divisa

Fra le non molte più dilette cose,

Ora è tormento ed ora imparadisa.

Io fra tai mura tetre e dolorose

Pregava, e amava, e sentìa desto il raggio

Del poëtar, che il cielo entro me pose.

Miei carmi erano amor, prece e coraggio;

E fra le brame ch'esprimeano, v'era

Ch'essi alla cuna mia fossero omaggio.

Io alla rozza, ma buona alma straniera

Del carcerier pingea miei patrii monti,

E allor sua faccia apparìa men severa.

E m'esultava il sen, quando con pronti

Impeti d'amistà quel torvo sgherro

Commosso si mostrava a' miei racconti.

Pace allo spirto suo, che in mezzo al ferro

Umanità serbava! A lui di certo

Debbo s'io vivo, e a' lidi miei m'atterro.

Morto o insanito io fora in quel deserto,

Se confortato non m'avesse un core

Nato di donna, e a caritade aperto.

Scevra quasi or mia vita è di dolore,

Ad Italia renduto e a' natii poggi,

Ov'alte m'attendean prove d'amore.

Benedetti color, che dolci appoggi

Mi fur nell'infortunio, e benedetti

Color, che mia letizia addoppian oggi!

E benedetta l'ora in che sedetti,

Saluzzo mia, di novo entro tue sale,

E strinsi a me concittadini petti!

Non vana mai su te protenda l'ale

Quell'Angiol, cui tuo scampo Iddio commise,

Sì che nobil sia cosa in te il mortale!

L'alme de' figli tuoi non sien divise

Da fraterna discordia, e mai le pene

Dell'infelice qui non sien derise!

Le città circondanti ergan serene

Lor pupille su te, siccome a suora

Ch'orme incolpate a lor dinanzi tiene.

E le lontane madri amin che nuora

Vergin ne venga di Saluzzo, e questa

Abbia figliuola reverente ognora;

E la straniera vergin, che fu chiesta

Da garzon saluzzese, in cor sorrida

Come a lampo di grazia manifesta!

Pera ogni spirto vil, se in te s'annida!

Vi regni indol pietosa ed elegante,

E magnanimo ardire, e amistà fida!

Mai non cessino in te fantasìe sante,

Che in dottrina gareggino, e sien luce

A chi del bello, a chi del vero è amante;

E del saver tra' figli tuoi sia duce

Non maligna arroganza, invereconda;

Ma quella fè che ad ogni bene induce;

Quella fede che agli uomini feconda

Le mentali potenze, a lor dicendo,

Ch'uom non solo è dappiù di belva immonda,

Ma può farsi divin, virtù seguendo!

Ma dee farsi divino, o di viltate

L'involve eterno sentimento orrendo!

Tai son le preci che per te innalzate

Da me son oggi, e sempre, o suol nativo:

Breve soggiorno or fo in tue mura amate,

Ma, dovunque io m'aggiri, appo te vivo!

[3]

Carlo Muletti e Delfino suo padre, storici di Saluzzo.—Io m'onoro dell'amicizia di Carlo, e parimente di quella del maggiore Felice, suo fratello.

LA BENEFICENZA.

Esurivi enim, et dedistis mihi manducare.

( Matth. 26, 35. )

Mentre tanti di nome e d'or potenti

Volgono a vanitate e nome ed oro,

Nè a taluni più bastano i contenti

Che sulla terra Iddio concede loro,

Mentre a meglio goder cercan furenti

La propria gioia nell'altrui disdoro,

Simili a falsi Dei d'età lontane

Che a' lor piedi volean vittime umane;

E mentre mirando

Que' ricchi malvagi

Il volgo fremente

Che invidia lor agi,

Esagera, infuria,

Invoca dal Ciel

Su tutti i felici

Sanguigno flagel;

Que' flagelli rattiene il ricco pio

Che riparar gli altrui misfatti agogna,

E oprando assai per gli uomini e per Dio,

Anco d'essere inutil si rampogna:

Degl'innocenti aiuta il buon desìo,

Gli erranti tragge a salutar vergogna;

Onora l'arti ed anima l'artiero,

E chiamar vorrìa tutti al bello, al vero.

Il volgo commosso

Ripensa, si calma,

Capisce che il ricco

Può aver nobil alma;

Insegna a' suoi figli,

Che pace e lavor

Del povero sono

Salute e decor.

Salve, o di carità sacra fiammella

Che accendi il cor del pio dovizioso!

Se a noi mortali fulgi or così bella,

Qual fulgi tu dell'anime allo Sposo?

A lui che, tutte mentre a sè le appella,

Le appella a mutuo affetto generoso!

A lui che quando cinse umano velo,

Ci palesò che tutto amore è il Cielo!

Amore santifica

Tesori e palagi,

Amore santifica

Tuguri e disagi;

Amor sulla terra

Può tutto abbellir,

L'impero, il servire,

La vita, il morir.

Amato molto, amato sia il Signore

Ch'è modello de' ricchi impietositi!

Amato molto, amato sia il Signore,

Modello ai cuori da sventura attriti!

Amato molto, amato sia il Signore

Che noi vuol tutti alla sua mensa uniti!

Amato molto, amato sia il Signore

Che per l'anime umane arde d'amore!

Oscuro o potente,

Di Dio tu sei figlio,

Fratello degli Angioli,

Ancor che in esiglio!

Gran fallo ci avvolse

Nel fango e nel duol:

Amiam! ci fia reso

Degli Angioli il vol!

LE SALE DI RICOVERO.

Qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo, me suscipit.

( Matth. 18, 5.)

«Son pargoletto e povero e ammalato;

Abbi pietà di me, Gesù bambino,

Tu che sei Dio, ma in povertà sei nato!

Me qui lascia la mamma ogni mattino

Nel solingo tugurio, ed esce mesta

Il nostro a procacciar vitto meschino.

Ancella move a quella casa e questa,

Ed acqua attinge e lava e assai si stanca,

E vive appena, ed indigente resta.

Qui soletto io mi volgo a destra, a manca,

Senza dolcezza di parole amate,

E fame ho spesse volte, e il pan mi manca.

Le melanconich'ore prolungate

M'empion l'alma di pianto e di paure,

E mi sfogo in ismanie sconsolate.

Amor la madre assai mi porta, e pure

Quando al tugurio torna e pianger m'ode,

Spesso le voci sue prorompon dure;

Talor mi batte, e duolo indi mi rode,

Sì che allor quasi affetto io più non sento,

E in maligni pensieri il cor mi gode.

Povera madre! il viver nello stento

Estingue nel suo spirto ogni sorriso,

Ed anch'io più cruccioso ognor divento.

Gesù, prendimi teco in Paradiso,

O tempra la tristezza che m'irrita,

E rasserena di mia madre il viso:

Fa ch'ella trovi ad allevarmi aïta,

Fa che deserto io non mi strugga tanto

Fa che un po' d'allegrezza orni mia vita.

Se ad altri bimbi io respirassi accanto,

E non sempre gemessi, e qualche mano

Söavemente m'asciugasse il pianto,

Crescerei più benevolo e più sano

E più caro a la madre io mi vedrìa:

Lassa! altrimenti ella fu madre invano!

Ella al mio fianco in pace invecchierìa,

E per essa con gioia adoprerei

A laudevol sudor mia vigorìa.

Le poche forze ai patimenti rei

Soggiaceranno in breve, e, fuorchè pena,

Nulla i miei giorni avran fruttato a lei.

Ovver, se presto a morte non mi mena

Tanta miseria, crescerò doglioso,

Me coll'afflitta madre amando appena.

Ed ella pur mi dice che odïoso

Il povero alla terra e al ciel rimane,

Quando alle brame sue non dà riposo,

Quando coll'ira in cor mangia il suo pane.»
Ed ecco del bimbo

La mamma ritorna:

È stanca, ma un raggio

Di gioia l'adorna;

S'asside a lui presso,

Lo stringe al suo sen,

«Oh quanto sinora

Mi dolse, o figliuolo,

Lasciarti ogni giorno

Sì tristo, sì solo!

T'allegra: celeste

Soccorso a noi vien.

«Nell'ore ch'ai figli

Non ponno dar cura

Le madri, cui preme

Fatica e sventura,

Da provvide menti

Ricovro s'aprì.

Alquanto risana,

E là tu verrai:

Son piene due sale

Di pargoli omai:

Giocando, imparando,

Vi passano il dì.

«Al santo pensiero

Che aprì quel ricetto,

Ministre si fanno

Con tenero affetto

Più vergini umìli,

Sacrate al Signor:

Null'altro che amarti,

Il sai, potev'io,

Ma quelle söavi

Ancelle di Dio

Più dolce, più giusto

Faranno il tuo cor.

«Io, conscia che al figlio

Non manca un'aïta,

Trarrò senza pianto

Mia povera vita,

L'usato lavoro

Stimando leggèr.

Al tetto materno

Verrai verso sera,

E sempre alzeremo

Concorde preghiera

Per l'alme pietose

Che asilo ti dier.»

Quel fanciulletto già infermiccio e tristo,

Indi a non molto, in sì benigna scuola,

Rosee le guance e lieti i rai fu visto.

Oh d'amorose labbra la parola

Quanto a' cuori avviliti, e più a' bambini,

Addolcisce le doglie e li consola!

D'entrambo i sessi i pargoli tapini

Ivi sottratti vanno a rio squallore,

Ed a costumi stolidi e ferini.

Che invan vorria la madre o il genitore

Occhio assiduo tener sui cari pegni,

Qua e là faticando per lungh'ore.

Abbandonati a sè, crescere indegni

Veggionsi quindi d'assai plebe i figli,

Egre le membra ed egri più gl'ingegni.

Per cadute e per cento altri perigli

Vedi qual di storpiati e di languenti

Esce turba da' poveri covigli!

Quanti avrian le persone alte e ridenti

Ch'essi strascinan luride e contorte,

Perchè guaste d'infanzia agli elementi!

Oh benedetti voi che sulla sorte

Della schiatta plebea v'intenerite,

E pensate a scemarle e vizi e morte!

In voi sì belle le grandezze avite

Non son, quant'è il magnanimo disìo,

Onde a tanti innocenti asilo aprite.

Memori siete di quell'Uomo-Iddio

Che, cinto da drappel di bambinelli,

Li confortava col suo sguardo pio,

Ed imponea d'assomigliare a quelli.
E voi benedette,

Donzelle pietose,

Che al Dio de' bambini

Facendovi spose,

Di madri assumete

Le pene e l'amor.

Per voi dalla terra

Piacer non alligna:

Fors'anco taluno

Vi guarda e sogghigna,

Vi chiama delire

Da stolto fervor.

Ma voi non curanti

Di plauso o di scherno,

I poveri amando

Amate l'Eterno,

Ai bimbi servendo

Servite a Gesù.

Il mondo che ignora

Del core i misteri,

Non sa che più dolce

Di tutti i piaceri

È l'umil conflitto

D'arcana virtù.

La vergine sacra

Al Dio degl'infanti

Sublima sue pene

Con palpiti santi;

È abbietta ai mortali,

Ma l'anima ha in ciel.

Con Dio nella mente

Le cure più gravi,

Le cure più vili

Diventan söavi:

Bassezza non tange

Un'alma fedel.

La vergine sacra

Al Dio de' bambini

Vagheggia in Maria

Affetti divini,

Le impronte cercando

Di lei seguitar.

Non volgono ai bimbi

Tirannico ciglio

Color, che mirando

Maria col suo Figlio,

Li veggon dal cielo

Sui bimbi vegliar.

Ah! sì, benedette

Voi tutte, o bell'alme,

Che ai miseri infanti

Porgete le palme,

Di padri e di madri

Vestendo l'amor!

Pensier non vi preme

Di plauso o di scherno:

I poveri amando

Amate l'Eterno:

Ai bimbi servendo

Servite al Signor.

FINE.