UMBERTO FRACCHIA

Il perduto amore

ROMANZO

5.º MIGLIAIO

CASA EDITRICE VITAGLIANO — MILANO

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi compresi i regni di Svezia, Norvegia e Olanda

Copyright by. C. E. Vitagliano Marzo 1921

28-3-21-3

Tip.-Lit. A. GORLINI Milano.

A Bibiche

PARTE PRIMA Daria.

I.

Le stelle di cui il cielo ora è pieno, appunto perchè splendono perennemente sono un indizio certo della nostra morte. Ma io che le contemplo mentre compaiono e scompaiono, a volta a volta fra le rade nuvole naviganti l'azzurro, in aggruppamenti inaspettati e nuovi, sento scendere sui miei occhi non so qual liquido filtro che mi rende oblioso così della morte come della vita. Distrattamente ascolto i rumori e le musiche del bosco, il canto dei rosignoli nell'ombra, il fruscìo dei giunchi (di seta), le voci umane giù per i campi e nell'isolata casa del mulinaio, e sento che queste cose non sono fatte per me. Troppo semplici, troppo serene. Se, vinto, con un lieve sforzo, molto lieve, mi decidessi ad uscire dalla mia solitudine per partecipare alla festa di questa chiara notte autunnale, sarei come un orfano il quale conducesse la propria inconsolabile tristezza, abiti, volto, silenzio, in una comitiva di gente allegra e felice.

No, certo: non sono fatto per questo. Io vivo l'imperfetta vita delle ombre. Sono, come le pallide larve, distaccato dal mondo, libero di muovermi e di vagare dove mi piace, presente in ogni luogo, ed assente da ogni realtà. Eppure la mia libertà non è che un'illusione di chi giudica dalle apparenze, e non sa che sono invece inchiodato, incatenato, prigioniero della mia vita, nel momento stesso in cui essa si è fermata per sempre. Se preferisco uscire di notte, o mostrarmi là dove il bosco è più folto, dove il fiume scorre tra le più alte rupi, la ragione è che io soffro il sole, la luce mi dà un acuto dolore, e temo sempre di contravvenire ai comandi della natura, di violare una legge assoluta. La mia stessa voce, quando raramente parlo, è la voce flebile delle ombre, che sembra giungere da misteriose lontananze, fioco lamento di sotterraneo o di tomba, confusa voce attraverso soffi di vento, scrosci di correnti d'acqua, stormire di notturne boscaglie. L'aria è sempre piena per me, come le desolate lande della tragedia, di una triste lontana e invisibile musica. Ebbene: un uomo mi ha ucciso impedendomi di morire quando sarebbe stato facile per me uscire da questo viottolo angusto e spaziare nell'infinita felicità; quando la morte sarebbe stata ebrezza e gioia; e tempo, spazio, memoria, più nulla...

II.

Quest'uomo, Carlo Clauss, venne per la prima volta in casa nostra quando io avevo appena vent'anni. Di lui avevo udito parlare come di un'anima perduta. Si sa che cosa intendono gli uomini timorati quando dicono: costui è un'anima perduta. A lunghi intervalli, dunque, se per caso nelle conversazioni famigliari il discorso cadeva sopra un parente morto o lontano, e mia madre prendeva il vecchio album di fotografie e cominciava a sfogliarlo, la sua mano invariabilmente si fermava sopra il ritratto di un giovane vestito di nero, con una grande cravatta pure nera e un'altissima tuba in capo, il cui volto ovale, circondato da una rada barba bruna e illuminato da due occhi stranamente dilatati e fissi, pareva la faccia di un ammalato o di un convalescente, o quella di un uomo bruciato dalla fiamma di una logorante passione. Allora il vecchio album passava di mano in mano, faceva il giro della tavola, e il nome di Carlo Clauss era ripetuto sottovoce, e seguito da misteriosi silenzi o da poche vaghe parole di commiserazione per quella «giovinezza irrequieta e avventurosa».

Ma un giorno, quando nessuno se l'aspettava, una lettera munita d'un francobollo molto grande, su cui era disegnato un paesaggio montuoso con alberi e animali inverosimili, ci portò la notizia del suo ritorno. Egli scriveva a mio padre da una città il cui nome parve nuovo a tutti noi, dicendo che «il desiderio di morire in patria» lo spingeva ad abbandonare il paese dove aveva vissuto fino allora felice. Parlava di una lunga malattia, dei molti giorni di mare che lo dividevano da noi, e, in fine, di mia madre, che egli chiamava, con un diminutivo infantile, la Minni. Quella lettera fu letta forte prima della cena e suscitò in tutti un vivo stupore. Mia madre pianse. Fu una triste sera in cui non si fece che rievocare avvenimenti dolorosi. Io seppi allora che Carlo Clauss era nostro parente e che a ventiquattro anni era scomparso dalla propria casa, era fuggito, solo, senza lasciar traccia di sè.

Due mesi dopo egli arrivò con la corriera del mattino, giacchè in quel tempo la ferrovia non passava ancora per queste valli e lungo il mare, e non se ne udiva neppure il fischio lontano. Noi, che stavamo sull'uscio in attesa, lo vedemmo scendere dalla diligenza seguito da un servo creolo, bruno e canuto, che portava i bagagli. La sua rassomiglianza con la nostra fotografia era ancor grande. Alto, diritto, con la barba e i capelli appena brizzolati, egli non rivelava nè stanchezza nè dolore. Il suo volto pallidissimo, di un pallore olivastro ed uguale, bruciava ancora di quella fiamma interna che gli splendeva negli occhi scuri, profondi e lucidi. Era bello. Anche la sua voce, il suo modo di gestire, la sua pronuncia un po' lenta e faticosa, mi parvero, al primo incontro, attraenti; pieni di quella grazia virile, così rara negli uomini non più giovani, che è fatta di serenità, di forza e di rattenuto ardore.

Seduto dinnanzi al tavolo, fra mio padre e mia madre, Carlo Clauss fece racconti meravigliosi. Io vedevo contro il paesaggio montuoso che, dietro piante frastagliate e grasse, si delineava sul francobollo della sua lettera, ingigantito dalla mia immaginazione, passare, come contro lo scenario di un teatro, carovane dietro carovane, cacce di elefanti e di tigri, pellegrinaggi, eserciti di bruni guerrieri con nuvoli di bandiere e sterminati campi di lance luccicanti, cortei nuziali d'asinelle candide, lettighe e tamburi; e battaglie, risse, mercati, pestilenze, rivolte, drammi da impazzire, e catastrofi spettacolose. Poi taceva per qualche minuto e rideva dello stupore che vedeva dipinto sui nostri visi.

— Eppure sono tornato! — esclamava. — Vi pare il caso, ora, di spaventarvi? Siamo passati attraverso il fuoco... Tutto è uguale per me.

Mia madre era quella che lo ascoltava con minor meraviglia. Il suo pensiero non era con noi.

— Quante cose sono cambiate... — diceva. — E chi le poteva prevedere?

— Certo... — rispondeva sorridendo Clauss. — Ma ora tutto è uguale per me...

Si volgeva poi a mio padre e lo guardava attentamente per dirgli:

— Tu no, tu non sei cambiato.

E mio padre si palpava il mento e le gote, e rispondeva seriamente:

— Ti sembra, ma non è così. Eravamo ragazzi allora, quando dici tu, ed ora ho un figlio grande. Non lo vedi laggiù? Sembra un querciolo...

Ma Clauss badava poco a lui e poco a me. Tutta la sua attenzione pareva concentrata sopra le mani di mia madre, ch'ella teneva posate sulle ginocchia stringendo un fazzoletto. Brillava l'anello sull'anulare. Raramente i suoi occhi si posavano anche su mia sorella Silvina.

— Eppure bisogna vivere ancora! — disse egli una volta, nel silenzio di tutti. E mi sembrò che parlasse soltanto a sè stesso, dimenticando noi altri.

Da mezz'ora l'aria s'era fatta scura, e pioveva. Ma, dopo poco, un tuono secco schiantò il silenzio e scompaginò le nuvole. Un po' di sole entrò nella stanza. Io che ero rimasto senza parlare, in un angolo, mi alzai per guardar fuori. Anche Clauss si alzò e si avvicinò alla finestra.

— Se volete, disse mia madre, potete andare sulla terrazza. Non piove più.

Salimmo dunque, noi due, sulla terrazza. L'arcobaleno era molto pallido. Il sole, già mezzo nascosto dietro il monte, dardeggiava sulla pianura un gran fascio di luce. Clauss girò intorno gli occhi, si soffermò un istante a guardare i fianchi delle montagne rigati di cascatelle candide; poi si volse a me e bruscamente mi domandò:

— E tu, ragazzo, che fai?

Per la prima volta i suoi occhi si posarono attentamente sulla mia persona. Io li sentii che mi penetravano dentro, nell'anima. Era uno sguardo impudico, un contatto quasi carnale che mi riempì di vergogna.

— Nulla... — balbettai.

Egli rise.

— Come è possibile, nulla? — soggiunse, distraendo da me le pupille, come uno che stacca le labbra da una tazza dopo aver bevuto abbastanza. — Ho avuto anch'io vent'anni. Non ridere! A vent'anni io, per esempio, non desideravo che una sola cosa: morire. Ma volevo morire eroicamente. Immagina: uno compie un'azione nobile, un atto memorando. La gente dice: — Questo ragazzo è stato capace di tanto. — Un ragazzo? Veramente un ragazzo? — Sì, un ragazzo... Aveva appena vent'anni. — Questa è la gloria. Ora sono quasi vecchio, e quel sogno mi sembra ancor più bello di allora. Morire senza aver provato nulla della vita, se sia buona o cattiva; non l'amore di una donna: senza avere nè amato, nè odiato, nè goduto, nè sofferto; ignorando che cosa valga tutto ciò... Non credi che sarebbe una pazzia degna di te?

Rise di nuovo guardandomi. Anch'io cercai di sorridere.

Clauss si volse dove il sole era scomparso. Grandi nitide nuvole scavalcavano le montagne e le prime stelle, due o tre, brillavano nel cielo che s'andava rasserenando. Ma io non avevo occhi per quelle lontane apparizioni. Avevo ascoltato Clauss senza quasi comprenderlo, tanto la sua stravagante eloquenza mi riusciva nuova e mi turbava profondamente. Vivere e morire? Amare? Odiare?

— È dunque necessario amare o odiare qualcuno? — balbettai ad un tratto senza pensare.

Stavamo entrambi appoggiati alla ringhiera. Eravamo vicinissimi. Ora, rievocando quella scena, lo rivedo mentre s'accarezzava la barba con un gesto languido delle mani; riodo la sua voce, pacata, come una musica sopra una nota, stanca.

— Ti racconterò una storia, — disse, — e tu stesso giudicherai. Io avevo, a Karsan, un servo giovane. Era un meticcio, un essere semplice e sano, una creatura riccamente dotata. Lo avevo raccolto fanciullo in una strada. Era cresciuto con me, mi era fedelissimo. Un giorno lo sorpresi in un angolo del cortile mentre si flagellava con un grosso staffile di cuoio, uno staffile da schiavi. — Sarkis! — grido afferrandolo per un braccio. — Sei pazzo? — Egli mi guarda con gli occhi di un cane e, arrossendo, mormora: — Behela... Behela era una fanciulla della fattoria vicina. La conoscevo. Sembrava un bell'animale, con lunghi capelli neri e grandi occhi violacei. Sarkis era stato preso da una così violenta passione per lei, che ogni giorno, dopo averla veduta, dopo averla spiata da lungi e da presso, si flagellava, parendogli di non essere degno di lei, di non poter meritare il suo amore. Un altro servo mi narrò queste cose, più tardi. Alfine essi si sposarono. — Sei felice? — chiesi a Sarkis dopo le sue nozze. — Vorrei esser morto! — rispose. Scese la notte sulla loro capanna di giunchi. All'alba Behela uscì dal letto ancor caldo per andare alla sorgente. Egli la seguì da lontano, la spiò lungo tutto il sentiero. Si nascose poi tra le canne e attese che ritornasse. Behela riapparve, camminando lentamente. Teneva gli occhi chiusi e sorrideva come in sogno. — Behela! — chiamò lo sposo nascosto. Ella si arrestò. — Questa è la tua voce! — disse dolcemente. — La riconosco... — E questo è il mio coltello! — gridò l'altro saltando fuori. L'abbracciò stretta e le piantò la lama nel cuore. Quando mi fu condotto dinnanzi per essere giudicato, perchè io ero il padrone, egli cantava come un forsennato. — Sarkis... — esclamai afferrandolo per i capelli: — sai tu di avere ucciso la tua sposa? Egli ammutolì, mi guardò con occhi che non esprimevano nè stupore, nè vergogna, nè tristezza. — Vorrei esser morto... — mormorò, e ricominciò a cantare.

Clauss sollevò il capo. Il suo volto si animò: balenò nei suoi occhi quella strana luce.

— Questa, — disse, — non è una storia straordinaria. Questa è la storia dell'amore, una storia d'amore, cioè una delle innumerevoli storie che si possono raccontare. È necessario amare qualcuno? Era necessario uccidere Behela, sacrificare quel fiore meraviglioso, distruggere quella felicità? Immagina che cosa mi avrebbe risposto quell'uomo se io gli avessi rivolto, una dopo l'altra, tali domande! Noi lo legammo in mezzo alla corte. Ma, di notte, prima di coricarmi, andai, tagliai le corde, e gli ordinai di fuggire.

— Tu! — esclamai stupefatto. — Tu lo hai liberato?

— Io, disse, io stesso.

Mi guardò sorridendo.

— E non potevo forse uccidere anch'io come lui, — mormorò, — quel giorno o il giorno dopo, con quell'arma o con un'altra simile?

— Ah! non è così facile! — esclamai, nascondendo il viso fra le mani. — Non è così semplice uccidere! Non tutti uccidono...

— Infatti, — disse Clauss per consolarmi, — non è per tutti egualmente facile.

III.

Clauss restò soltanto tre giorni in casa nostra. Durante quei tre giorni io cercai di sfuggirlo, e infatti non accadde più che noi ci trovassimo soli insieme. Il terzo giorno se ne partì improvvisamente, senza aver neppure sfatto le sue valige, per andarsene in città, dove disse che voleva comprare una casa. Confesserò, senza vergogna, che Clauss mi aveva profondamente toccato. Quasi mi faceva paura. Talora, non visto, mentre egli leggeva o parlava con altri, io lo spiavo a lungo, fantasticando. La sua partenza fu per me cagione di gioia: ma non ritrovai per questo la mia antica pace. Ben presto anzi mi accorsi che io non potevo più vivere senza di lui. Di giorno e di notte pensavo alle sue parole; Behela frequentava i miei sogni; e se socchiudevo le palpebre, lo rivedevo, non come era in realtà, ma come era, da giovane, nella vecchia fotografia dell'album, con quei due immobili e smisurati occhi. Quell'immagine era impressa in me fin dall'infanzia. Non mi abbandonò più.

Vivevo dunque come trasognato. In quella grande casa semideserta dove mia madre diffondeva la malinconia del suo sorriso senza nè inquietudini nè desideri, che mio padre dominava dalla cantina al granaio con la sua allegria d'uomo sano e soddisfatto, io cominciai a sentire il peso della solitudine e il mal sottile della malinconia che prima non conoscevo. Fino a quel tempo, per molti anni, m'ero accontentato della mia casa, del mio giardino, del villaggio e dei campi, nel limite della cerchia alpina. Ora non più. Clauss aveva lasciato cadere in me il suo seme diabolico, e quel seme aveva rapidamente germogliato. Ogni istante scoprivo un desiderio nuovo. E quantunque le mie brame fossero innumerevoli, si potevano tutte riassumere in una sola parola: amare. Avevo lunghe e confuse allucinazioni: visioni di una realtà inverosimile.

La mia salute fu tanto scossa da questi disordini spirituali, che mio padre, rammaricandosi di aver scoperto troppo tardi che io non gli somigliavo affatto, si decise a mandarmi in città perchè imparassi a mie spese ad apprezzare la famiglia e la casa.

— Ma non si vive di solo pane — dissi a mio padre; e in poche ore fui pronto per partire.

Ricordo il penoso distacco da mia madre. Io non le ero stato mai lontano neppure un giorno. Quando mi abbracciò piangendo e sentii il suo esile corpo tremare contro il mio petto, il suo cuore battere, le sue labbra cercare ansiosamente la mia fronte, ebbi come in un lampo il pensiero di rinunciare a tutti i miei pazzi propositi, per rimanere accanto a lei, in quella pace, in quella intimità semplice e solitaria che già allora, dalla soglia, mi pareva superiore ad ogni altra possibile felicità. Ma poco dopo, quando mi volsi per guardare da lontano il campanile roseo tra le piante, ebbi onta di quel momento di debolezza e me ne pentii. La strada costeggiava un fiume e i cavalli trottavano per la discesa. I miei compagni di viaggio erano gente rozza, due contadini e un mercante di porci. Uno dei contadini diceva:

— No, Obertello: quel giovane finisce male.

Il mercante, che era tutto lardo dentro e fuori, si dimenava sul sedile brontolando:

— Non è colpa sua. È colpa di Lisa Lama, di quella maledetta...

Ascoltavo, e vedevo Lisa Lama col suo muccetto di capelli tinti, seduta contro la porta verde della sua casa, come l'avevo veduta mille volte. Pensavo: — Per un pezzo non la vedrò più. In un paese c'era una fiera. Suonavano le campane. Un razzo matto rigò di giallo il cielo cinerognolo. Due preti neri trotterellavano per un sentiero attraverso le vigne, sopra due mule grige. Una processione di donne e di chierici, con una croce e lanterne e torce, fendeva lentamente e in disordine la folla pigiata contro le porte di una chiesa. Quella chiesa era bianca e pareva che le sue mura si gonfiassero a tratti per la troppa gente che vi si stipava dentro.

Io mi sentivo straordinariamente ilare; assaporavo con gioia la mia prima libertà. Ho un piacevole ricordo di quelle ore di viaggio. Il fiume andava tranquillamente per la sua strada, e le zucche maturavano secondo la stagione; gli asini onestamente giravano la stanga delle cisterne, la fiera in quel paese si svolgeva nel massimo ordine; la gente era allegra, gli uomini contenti, gli animali soddisfatti, il cielo senza troppo sole e senza troppe nuvole. Il mondo intero era calmo, ilare e soddisfatto: la vita non faceva paura.

Con la vicinanza del mare, che apparve poco dopo, l'aria divenne più densa e odorosa. Ogni tanto si intravvedeva, in fondo ad un vicolo, fra i muri, un po' di mare chiaro, vivace, una vela. Muri bianchi, muri grigi, cancelli verdi, facce sconosciute per la via, occhi curiosi alle finestre, tende svolazzanti, imbianchini appesi a un tetto, cocomeri rossi sopra un banco, bambini che mangiavano, una donna in camicia, grandi gabbie di canarini, un orto. I cavalli trottavano e io pensavo a Clauss. La mia ilarità a poco a poco si spegneva. Come viveva quell'uomo? Che avrebbe fatto di me, vedendomi?

Verso sera, la città apparve lontana, in fondo al golfo. I giardini, gli orti erano finiti. Si vedeva il porto; s'incontravano carri carichi di botti; le osterie erano piene; si cantava, si ballava sotto i pergolati di canne, intorno ai tavoli gremiti. Finalmente, prima del crepuscolo, passammo la porta. Mio padre aveva già provveduto al mio alloggio. Discesi dunque dinnanzi alla casa del notaio Sterpoli, che era un vecchietto smilzo, pelato e cerimonioso. Egli mi aspettava sull'uscio, vestito d'una palandrana color tabacco; mi guidò su per una scala semibuia e mi assegnò una camera al secondo piano. Le suppellettili fruste e polverose, i dagherrotipi appesi ai muri, le facce estatiche di due santi sconosciuti, il letto di ferro, tutto mi dispiacque fra quelle quattro pareti. L'unica finestra si apriva sopra un cortile. A mala pena, oltre una interminabile fila di tetti, si scorgeva un filo di mare.

La malinconia di quell'ora mi è rimasta per molti giorni nell'anima. Anche la cena, servita da una bambina zoppicante, in compagnia del notaio e di suo figlio, Paolo Sterpoli, fu lunga magra e uggiosa. Eravamo in tre, intorno a una tavola da refettorio, immensa, sotto un lume lamentoso. La bambina girava facendo con i suoi piedi disuguali una bizzarra musica sull'impiantito. Dopo cena il notaio, con molte carezze, ( — Ti ho portato sulle mie braccia. Si può dire che ti abbia allattato io — ripeteva ogni tanto), se ne andò a letto e noi rimanemmo ancora a fumare. Quello Sterpoli figlio era un giovanotto di forse ventiquattro anni, di pel rosso, con il naso tozzo e la bocca tonda e un paio di mostaccini arricciati con cura. Egli aveva fumato due sigarette placidamente, leggiucchiando il giornale; ora aveva acceso la terza, ma pareva che la sua calma fosse d'un tratto svanita, perchè s'era alzato in piedi e se n'andava da un capo all'altro della stanza, gettando sguardi inquieti all'orologio, alla finestra e a me che me ne stavo seduto. Finalmente si fermò a due passi dallo specchio e disse:

— Insomma, perchè fingere? Bisogna che io me ne vada. È tardi. Non siamo amici? Se vuoi venire con me, troveremo certamente Clauss, che ci aspetta...

— Davvero? — esclamai. — E dove?

— Dove? E dove vuoi trovarlo? Te lo dirò.

Mi infilai il soprabito e chetamente uscimmo.

— Sai che cos'è un caffè concerto? — mi domandò Paolo quando fummo per strada. — Ora andiamo. Oh! non c'è niente di male; non è un luogo di perdizione. Clauss ci va ogni sera. È innamorato. Ti stupisce? Innamorato di una donna (si sa), di una donna che si chiama Daria.

La sua mano strinse forte il mio braccio.

— Vuoi credere che tutti sono innamorati di lei? — soggiunse Paolo con voce più sommessa. — Ella canta. Canta e balla. Ebbene: perchè tutti debbono essere innamorati di lei? E chi può spiegare questo mistero? Tu stesso vedrai fra poco...

— È bella? — domandai esitando.

— Ah, ah! se è bella? C'è una canzone che dice (mi pare): Je ne sais pas de quel côté, sa clarté me pourra conduire... Au loin une étoile je vois — qui me darde des étincelles... Non importa. Sì, è molto bella.

— E Clauss?

Entrammo in una sala piena di luce, di fumo, di rumore, di gente. In fondo c'era un piccolo palcoscenico su cui erano dipinti alcuni pavoni su una pagoda. Gli spettatori, intorno, gridavano e bevevano. Un vecchio vestito di nero diceva:

— Sì, signori: le gambe di quella donna sono le corna del diavolo!

Sterpoli mi guardò e disse:

— Siamo arrivati troppo tardi. Ha già finito di ballare...

Un'orchestrina cominciò a miagolare una polka, il velario si schiuse e comparvero tra fischi e urli due fakiri indiani. La platea tumultuò. Giovani o vecchi: una strana umanità imberbe o canuta si agitava in quello spazio angusto. Alcune donne, in abiti rossi e gialli, con bizzarri pennacchini e grandi ventagli di piume, se ne andavano intorno precedute da sorrisi incantevoli e da sguardi striscianti come bisce. Incendi. Ed io pensavo per quale miracolo quelle donne potessero avere carni così bianche, e occhi così lustri, e bocche così rosse e attraenti; essere tanto angeliche e tanto peccaminose; e per quale miracolo di continenza gli uomini si accontentassero di guardarle senza strappare violentemente dai loro corpi quei pochi abiti rossi e gialli che ancora le ricoprivano. — Le belle incendiarie! — pensavo io stupefatto. E quelle donne mi sorridevano senza guardarmi, e senza toccarmi mi accarezzavano.

Salimmo una scaletta a chiocciola ed entrammo in una piccola stanza azzurra. Clauss stava seduto sopra un divano. C'erano altri quattro con lui.

— Ti conduco un nuovo discepolo! — gridò Sterpoli sbatacchiando la porta dietro le mie spalle e inchinandosi fino a terra.

Clauss mi guardò.

— Sei tu? — disse senza muoversi e senza sorridere. — Avanti! C'è posto per tutti.

Mi avvicinai ed egli mi baciò. Poi ordinò che portassero bottiglie e bicchieri.

IV.

Noi, dunque, bevemmo, e Sterpoli per brindare urlò: — Questa sera voglio ridere!

S'era seduto sul tavolo e brandiva il bicchiere come una clava, il bicchiere che era vuoto.

Carlo Clauss stava fermo. Con voce pacata disse:

— Tu Sterpoli sei giovane. Hai buon tempo.

— Ahi! Ah! — sghignazzò Sterpoli. — Io sono giovane? Io sono pazzo. Mio buon maestro, tutte le malattie sono contagiose. Ti sembra strano? Un granello di sabbia basta, un granello di polvere è anche troppo... Ho veduto Daria ballare... Qualcuno ha detto: — Le gambe di quella donna sono le corna del diavolo! Che te ne pare? Il diavolo non è dunque così brutto come si dipinge?

Io m'ero seduto in un angolo e stavo a guardare Sterpoli che pareva davvero impazzito. Si era arruffati i capelli, e quei suoi riccioli rossi gli davano l'aspetto tragico e buffo di una furia. Clauss levava ogni tanto su lui gli occhi senza sorridere. Sterpoli anche lo guardava di sottecchi quando taceva, e trangugiava bicchieri d'un fiato. Gli altri non gli badavano, come se non ci fosse.

— Io non capisco — diceva con tono grave uno di quei giovani, rivolto a Clauss — come possano durare pregiudizi di specie così volgare. Tizio è gravemente afflitto perchè non sa che cosa pensare dell'al di là, e cerca di passare qualche ora piacevole con Eunica, che ha le poppe forti. Caio soffre per una delusione amorosa, e invita gli amici a bere un suo vecchio vino d'uva. Eumolpo è stato fischiato a teatro o ha perduto in Borsa, e va a prendere un bagno profumato. Sempronio ha sepolto suo padre, e si regala una eccezionale pietanza di tartufi a cena. Ma, in somma, signori! Per i dolori dell'anima si deve dunque consolare il corpo? E c'è ancora chi crede sul serio che anima e corpo siano due cose distinte!

— Ahimè! — esclamò un altro. — Che c'importa dell'anima e del corpo? Che siano due o uno? Quando tu baci Clarissa, la baci con l'anima o col corpo? L'importante non è di baciare Clarissa?

Clauss rise.

— Infatti, — disse, — è Clarissa che importa.

Improvvisamente, d'un colpo, la porta si spalancò e tutti ammutolirono. Una donna, avvolta in un ampio mantello scuro che ella teneva stretto alla cintura e al collo con ambo le mani, apparve sulla soglia. Volse intorno gli occhi, dardeggiando sopra gli astanti sguardi obliqui, si avanzò di due passi e si fermò in mezzo alla stanza.

— Clauss! — disse con voce così profonda e velata che mi dette i brividi. — È la seconda volta che mi insultate in pubblico, tu e il tuo seguito di servitori. Io non posso più sopportare.... Io sono stanca.... Io ti odio....

Come se queste parole le avessero tolto ogni forza, ella si appoggiò con una mano all'orlo del tavolo per non cadere. Il mantello, aprendosi, lasciò scoperto il suo collo, su cui brillava un grosso smeraldo. Tutti, intorno a me, sembravano pietrificati. Sterpoli era sceso dal tavolo e guardava dinnanzi a sè, bocca e occhi aperti da ebete. Soltanto Clauss pareva calmo. Egli si era alzato e si era fermato di fronte a lei. Le sue pupille diritte fissavano senza tremare il volto della donna; senza tremare sostenevano il suo sguardo torvo e minaccioso.

— Daria, — soggiunse alfine inchinandosi, — che dite mai? Chi vi ha offesa? Chi vi ha insultata?

I suoi occhi si volsero un poco verso Sterpoli, che lentamente si era avvicinato a lui ed ora gli stava a fianco. Il volto del giovane di rosso s'era fatto cinereo. Aveva la fronte imperlata di sudore e a stento tratteneva il respiro. Pareva che volesse parlare, poichè ogni tanto moveva le labbra; ma senza fiato. A un tratto avanzò ancora di un passo, tese la mano, che gli tremava, fino a sfiorare il braccio della donna, e con un filo di voce mormorò:

— Andiamo... Andiamo via... Perchè sei venuta? Perchè?

Clauss non si mosse. Nemmeno Daria si mosse, ma un sorriso pieno di disprezzo inarcò le sue belle labbra lunghe, e illuminò il suo viso.

Paolo attendeva, con la mano sollevata, tremante.

— Infine! — esclamò Clauss con un gesto d'impazienza. — Io non so di che cosa mi possiate accusare... Sono vostro amico... Ho tentato ogni via per piacervi... Che debbo fare ancora per voi?

Daria abbassò il capo, respinse con un moto violento della mano la mano sempre tesa di Sterpoli e si abbattè piangendo sopra una sedia.

Un profondo silenzio seguì quell'avvenimento inaspettato.

— Piange? — mormorò una voce alla mie spalle. — È mai possibile? È anche capace di piangere?

Il volto di Sterpoli esprimeva una vera costernazione. Anch'io ero sconvolto e guardavo ora la donna che piangeva con piccoli singhiozzi simili al tubare delle colombe, ora Clauss immobile, e ora Sterpoli che tremava.

— Che accade? — pensavo. — Chi è questa donna? E perchè piange?

Mi curvai un poco e le dissi:

— Non piangete... Non è il caso di piangere!

Ebbi paura del silenzio che accolse la mia voce. Daria infatti sollevò il capo.

— Chi è costui? — domandò dopo un istante. — Che cosa vuole da me?

— Nulla, — balbettai, — nessuno...

S'era fatto un gran vuoto nel mio cervello. Ma la vampa che m'affocò il viso m'avvertì che m'ero coperto di ridicolo.

— Nulla... — ripetei senza comprendere il senso delle mie parole. Dico che non si deve piangere... Come potete piangere dinnanzi a tanti uomini?

Poi mi ritrassi in un angolo e nascosi il viso fra le mani per coprire il mio rossore. Con gli occhi chiusi non udivo più nulla. La donna non piangeva più; aveva cessato di piangere, di tubare, e nessuno parlava. Di lontano, confuse, giungevano fino a noi le cadenze d'una danza turca, e un ronzìo di voci umane mescolate al rullar persistente di un tamburo. — Che accade? — pensavo senza trovare il coraggio di muovermi. Pareva che tutti fossero morti intorno a me o che tutti se ne fossero andati. Improvvisamente Clauss esclamò:

— Daria! Daria, ti amo!

Udii un grido, apersi gli occhi e vidi Daria alzarsi in piedi sconvolta. Con un gesto rapido, violento, strappò dal suo collo la collana con lo smeraldo e la scagliò dinnanzi a sè gridando: — E io ti odio! Poi si volse e fuggì.

Sterpoli ricevette il colpo sugli occhi come una frustata, restò un istante fermo con la mano distesa sulla fronte e le palpebre chiuse. Balbettò: — Non era per me! Era per te, per te Clauss, per te solo! — e brancolando uscì dalla stanza.

— Daria! Daria!

Il suo richiamo si ripetè due volte e poi si spense. La porta sbatacchiò. Parve, quando la porta fu chiusa, che sopra di noi si fosse dissipato un temporale.

— Sono dolentissimo, amici, — disse con dolcezza Clauss, — di quanto è accaduto. Veramente non c'è nemico peggiore di una donna...

— Come è possibile? — domandò con grande vivacità quel giovine che poco prima parlava dell'anima. — Ha pianto! Questo è straordinario!

— È una donna, — soggiunse Clauss sorridendo.

— Ma perchè è venuta? — domandò un altro.

— Per mentire... — rispose Clauss.

Poi mormorò: — Me ne vado.

Ce ne andammo: io solo lo seguii. Il teatro era ormai semivuoto. Un vecchio in marsina era caduto rotoloni giù per le scale e un servo cercava di tirarlo su per le falde. Fuori la notte, alta, serena e molto stellata ci sorrise, ed io la contemplai con gioia tra le due fila di case, lungo tutta la strada, da un lato e dall'altro. Lentamente c'incamminammo. Clauss mi teneva per mano. La sua mano era fredda.

— Vedi, — mi disse dopo un lungo silenzio appoggiandosi al mio braccio, — senza volere tu hai umiliato quella donna... Con molta semplicità (troppa semplicità) l'hai toccata nella sua piaga...

— Come? — mormorai. — Io l'ho umiliata?

— Sì. Se tu le avessi detto: — Orsù, Daria, non vi vergognate di piangere? — non l'avresti maggiormente umiliata ed offesa. Così l'hai ferita nel suo orgoglio. Infatti che cosa diventa l'orgoglio di una donna che piange? In un momento simile?

— È vero, è vero... — mormorai. — Io non sapevo... Ah! Clauss! Io non so niente!

— Ora, — soggiunse Clauss con dolcezza, — son certo che ella non odia nessuno tra noi quanto te. Tu solo sei stato pietoso. Tu e Sterpoli. Ma Sterpoli non conta.

Eravamo giunti dinnanzi al cancello della sua casa. Egli si fermò e mi disse:

— Ritorna domani. Ho bisogno di te. Addio!

Mi strinse la mano. Poi mi baciò sulla gota e soggiunse:

— Spero che non crederai davvero che io sia innamorato di Daria. Io non ho mai amato nessuno...

E mi lasciò solo.

V.

Solo, nella mia camera, alla luce di un povero lume, ripensai lungamente alla strana avventura di cui ero stato spettatore. Ero ancora pieno d'onta per quella voce che aveva detto: — Chi è costui? Che cosa vuole da me? — con tanto disprezzo; e della mia voce che aveva risposto: — Nulla... nessuno. Lo stesso rossore mi avvampava il viso, ed io vedevo lei, Daria, seduta, in quell'atteggiamento aggressivo; vedevo la curva sprezzante della sua bocca, sentivo la sferza dei suoi sguardi ardenti su me, mentre diceva: — Chi è costui? Che cosa vuole da me? Certamente l'avevo offesa; volendo consolarla, l'avevo umiliata. Ella mi odiava, ora, per la mia sciocca pietà, per quelle mortificanti parole che non avevo saputo trattenere. Ma se per poco dimenticavo me stesso, un'altra sua immagine si delineava dinnanzi ai miei occhi, balzando viva dalla confusione dei miei ricordi. Vedevo la porta aprirsi e apparir lei con il mantello avvolto; e poi appoggiarsi al tavolo, senza forze, e abbandonare con le mani il mantello che si apriva scoprendo il suo collo niveo, la sua nitida gola, su cui la pietra, verde, oscillando, splendeva. — Io non posso più sopportare!... — aveva esclamato. — Io ti odio! E la sua voce era come uno specchio velato, l'eco di un'altra voce. E Clauss, calmo, senza scomporsi, aveva risposto: — Non è vero! Una terza immagine s'illuminò: Behela.

Le stelle nel quadro della finestra, immobilmente accese, segnavano nel profondo azzurro mete irraggiungibili. Di quando in quando gli occhi, smarrendosi in quell'infinito, deviavano i miei pensieri dal loro angusto viottolo; schiudevano orizzonti verso i quali essi, come uccelli prigionieri, si lanciavano a volo per ricadere, subito, esausti, cagionandomi ogni volta un acuto dolore. Chiusi le imposte. Tutto in me acquistò maggior chiarezza, contorni precisi, una consistenza quasi materiale.

Daria, Daria, era bella. Non avevo pensato ancora alla sua straordinaria bellezza. Ora, sì. — È bella! ripetevo fra me. I suoi occhi, la sua bocca, la sua gola candida, si delineavano nella ombra delle mie palpebre chiuse. — È bella! È bella! Questo pensiero mi turbava. Cominciai a passeggiare irrequieto per la stanza. Nemmeno allora sapevo spiegarmi perchè mi fossi inchinato per dirle: — Non piangete. Non è il caso di piangere. Ella piangeva. Il suo sdegno, la sua forza l'avevano abbandonata. Piangeva con singhiozzi brevi, disperati. Ed io non cercavo di spiegare perchè mi fossi inchinato e avessi parlato. Immaginavo di udire un passo celere su per le scale, un colpo leggiero contro l'uscio della mia camera, una voce, un nome. L'uscio si spalancava. Una donna velata compariva tutta avvolta in un mantello scuro che teneva chiuso con ambo le mani.

— Salvatemi! — ella gridava cadendo ai miei piedi, abbracciandomi i fianchi (io sentivo contro le mie ginocchia il suo corpo molle, il tepore dei suoi abiti). — Nessuno mi difende! — diceva. — Sono sola! Sono perduta!

— Non avete quello Sterpoli? Quello che vi balbettava di fuggire? Il mio ospite, insomma? — domandavo trepidando.

— Sterpoli? un buffone! Non serve! Non serve!

Ed io la sollevavo, la tenevo stretta contro il mio petto, la baciavo teneramente.

— Amor mio, sono pronto! Occorre morire? Uccidere?

La mia persona, apparendomi improvvisamente nello specchio, mi richiamò alla realtà. Sentii una vacuità dolorosa in me, una disperazione insensata. Mi pareva che Clauss fosse a spiarmi dietro una tenda, da un foro della parete, da una fessura dell'uscio; il suo riso vitreo mi feriva l'orecchio ed io avevo vergogna. In quello specchio, con i miei abiti goffi e il mio volto infantile, fra quelle cose meschine che mi stavano intorno e si beffavano di me con la loro miseria, ero davvero una persona molto compassionevole e buffa. Quale donna avrebbe potuto guardarmi senza dire: — Chi è costui? Che cosa vuole da me? Sì, certo, io ero ridicolo. Facevo pietà e pena a me stesso. Ripensavo ai compagni di Clauss; mi ricordavo che uno aveva calze di seta porporina, e un altro un braccialetto d'oro smaltato al polso, e un altro una cravatta meravigliosa di fili intrecciati argentei e violetti, e una gardenia all'occhiello. — Che cosa sono io? — pensavo. — Tutti si befferanno di me.

Questo eccitamento durò fino a tarda notte. Verso l'alba la stanchezza s'impadronì dei miei sensi e li calmò. Allora udii un passo lento e pesante lungo il corridoio e Sterpoli entrò barcollando nella mia camera. Era impolverato da capo a piedi. Aveva gli abiti in disordine, la camicia lacera. Si sedette sul mio letto, mi guardò e si mise a ridere.

— Hai udito? Hai veduto? — esclamò. — Tu puoi testimoniare. Mi ha schiaffeggiato! Sì! Mi ha colpito sul viso...

Il riso si spense sulla sua bocca. Si strofinò la faccia con un fazzoletto, si versò un po' d'acqua e bevve.

— Tutti hanno udito, — continuò, — tutti hanno veduto, tutti possono testimoniare. Mi ha colpito sul viso. Ma non era per me. È stato un errore. Appena ella è fuggita, io mi sono precipitato giù per le scale e l'ho raggiunta in istrada, mentre stava per montare in carrozza. — Daria Daria, mia colomba, mia nemica, — le ho detto — tu mi hai acciecato! Non posso più vederti! — e ho cercato di montare sul predellino della sua carrozza. Macchè! Mi ha respinto con una mano e, credo, anche con la punta del piede. — Va via! — ha detto. — Va via! — Come! — esclamo, — mi colpisci, mi acciechi, e poi mi compensi così? Mi scacci via? Come un cane? Io sono il tuo Lippi! Non ti ricordi di questo nome? — Di nuovo cerco di salire. Di nuovo sento qualche cosa di duro, di molto duro, contro il mio petto, che mi respinge. Ella dice con astio: — Peggio, peggio di un cane! Fa sferzare il cavallo e la carrozza parte al galoppo. Io la rincorro per un buon tratto; poi inciampo e cado. Un tale si avvicina e mi rialza. È Pietro Trema: un mezzano, un galantuomo. — Non vale la pena, signore! — dice mentre mi spolvera. — Quella donna è pazza. È pazza. Andiamo a bere un sorso! — Andiamo, — rispondo. — Ma che ella sia pazza, no, non lo dire a nessuno. Entrammo non so dove, bevemmo e pagai. Gli dissi: — Ora hai bevuto. Ora, lasciami stare. — È impossibile, — pensavo, — è impossibile che mi abbia respinto, scacciato come un cane. Io non sono di quelli che si scacciano con la punta del piede, di quelli ai quali si dice: — Come un cane! Peggio di un cane! Dunque presi un ronzino e mi feci condurre. Tutto era silenzioso in casa sua: le finestre chiuse, la porta chiusa. Suono il campanello e aspetto. Nessuno risponde. Suono di nuovo, più forte, a lungo; strappo il cordone. La vecchia si affaccia al mezzanino e dice: — Non c'è. Non è ritornata. Forse non ritornerà. — Il malanno! — urlo. — Non è vero! C'è. È ritornata. E mi metto a calciare la porta. Ora s'ode un'altra voce che dice: — Lippi, Lippi mio, vattene. Sii buono. Domani sarà giorno. Ritorna domani. Io mi scosto dall'uscio e mi faccio in mezzo alla strada. Dico: — Ti debbo parlare.... subito... Tu mi hai quasi acciecato. Domani sarà troppo tardi. — Perdonami! — risponde. — Non volevo farti male... Ora non è possibile. Domani... — Non t'importa dunque nulla di me? — grido io. Non hai pietà, non hai cuore? Ella ride: — Domani, Lippi! Buona notte, buona notte. E richiude le imposte e tutto ritorna silenzioso e buio. E io dico a me stesso: — Dopo tutto non è in collera... Era per quell'altro, per Clauss. Capisci? Ah! tu non capisci niente!

Rotolò giù dal letto. Si reggeva male in gambe, eppure trovò modo di abbracciarmi e di baciarmi.

— Che hai? — mormorò al mio orecchio. — Non parli? Sei addormentato? Sta allegro! Domani tutto sarà chiarito. Ah! eppure questo mi dispiace. Io preferisco la notte. Di giorno sono come un bambino; la luce mi intimidisce e arrossisco di nulla. Di notte invece no. Sono padrone di me stesso. Sono un altr'uomo.

Io sentivo contro il mio viso il suo alito di ubriaco. Si avvicinò ancora più a me fino quasi a gravarmi con tutto il peso della sua persona, e sussurrò con voce ancora più bassa:

— Anche lei, di notte, è più bella... Che dico? Ah! Dico troppo, eppure è più bella. Sì. Perchè nasconderlo? Perchè mentire con te? Tu mi piaci, perchè tu solo hai avuto pietà di lei. Tu ti sei curvato e le hai detto una parola buona. Non mi ricordo bene, ma le hai detto qualche cosa che volevo dirle io. Ti prometto di parlarle di te domani. Le dirò: — Quelle parole le avevo io sulla punta della lingua, ma egli me le ha tolte di bocca. Eppure temo che mi manchi il coraggio di dirle nulla, perchè domani sarà giorno. Di notte è un'altra cosa, sebbene sia anche più temibile. I suoi occhi sono come quelli dei gatti. La sua carne muta colore, come l'opale, o la madreperla, la madreperla levigata e cangiante. La sua carne.... Ah! Io non direi queste cose a nessuno... È un gran segreto!

Tacque e si avvicinò allo specchio.

— Non ti pare, — domandò guardandosi, — non ti pare che io sia bellissimo?

Si inchinò e mi disse addio.

Io chiusi la porta dietro le sue spalle e mi gettai, esausto, sul letto.

VI.

Quando, a mezzogiorno, fui pronto per uscire, decisi di andare lungo la spiaggia dove erano tirate a secco alcune flottiglie di barche e distese al sole lunghissime reti. Il meriggio era tiepido e sereno: calmo, il mare, appena ondeggiava. Vagai per qualche tempo qua e là, a caso, raccogliendo conchiglie e facendo disegni sulla sabbia, finchè vidi, sopra la punta di una penisoletta, la casa di Clauss, poco lontana, fra un giardino di palme che l'onda lambiva da tre lati. Ad essa si saliva per un viottolo disselciato, fiancheggiato da muri e da siepi di oleandri. Clauss in persona s'affacciò alla veranda, mentre io bussavo al cancello. Discese ad aprirmi, e tutti e due ci sedemmo sotto un tiglio, fra due aiuole fiorite.

— Ebbene? — mi domandò.

Non gli avevo mai veduto un viso così buono.

— Ebbene, — risposi, — ieri sera eravamo tutti pazzi.

Clauss aveva l'aspetto di un ragazzo pentito, tanto i suoi occhi erano miti e il suo atteggiamento umile. In quel momento, con quel volto stanco, con quel sorriso che appena gli sfiorava la bocca, somigliava veramente poco a sè stesso.

— Sì, — disse, — eravamo tutti pazzi, chi più chi meno. Anche tu, un poco. Anch'io. È strano. Cioè, non è strano. Hai veduto Daria? Tu la vedevi per la prima volta. È fatta così. È come una bambina capricciosa. Una bambina cattiva e viziata. E quel povero Sterpoli, che ha smarrito la ragione per lei, ha avuto ieri sera un gran colpo...

— Davvero... — mormorai. — L'ho veduto dopo, a casa. Aveva un livido sulla faccia.

Clauss di nuovo sorrise. Poi mi prese le mani e mi chiese:

— Mi vuoi bene?

— Certo... — mormorai esitando. — Perchè non dovrei volerti bene?

— Grazie, — soggiunse, — ciò mi conforta assai. Chi può dire perchè si desidera e si cerca, alla mia età, l'affetto e la dimestichezza dei giovani? Sono tristi, molto tristi, amico mio, queste basse forme, queste forme senili d'egoismo. Ma tu devi considerarmi come un moribondo al quale ogni cosa può servir di conforto.

— Che dici mai! — proruppi ridendo. — Ora tu vuoi burlarti di me...

— No, no, non mi burlo nè di te nè di me stesso, — rispose Clauss con la medesima voce sommessa, senza tralasciare di tenermi le mani e di guardarmi teneramente. — Io sono nato matematico. Tutta la mia vita, in apparenza tanto disordinata, fu sempre regolata sopra un calcolo esatto, secondo la nozione precisa e minuta delle mie forze. Quando scaglio una pietra, non so forse dove la pietra deve cadere? Ciò dipende unicamente dall'impulso che io le darò. Così per tutto il resto...

S'interruppe e guardò una farfalla sopra una rosa, un'ape sopra un fiore.

— Tu non mi hai mai domandato, — soggiunse, — perchè dunque liberassi l'uccisore di Behela. Io infatti tagliai la sua corda, vicino al nodo. Ma con quella stessa corda, come prevedevo, l'omicida s'impiccò il giorno dopo a un albero della foresta.

Io tenevo gli occhi fermi su lui, mentre parlava. Può darsi che egli non mi leggesse negli occhi altro che un ingenuo stupore; ma in realtà ero ben sveglio, e cercavo di capire, guardandolo attentamente in viso, che cosa ci fosse di tanto strano e di nuovo nella sua persona: se la voce, lo sguardo, o l'abito, che era bianco. Quanto a lui, pareva veramente turbato da non so quale nascosta preoccupazione, come inquieto, incerto, non così sicuro di sè come sempre.

— Paris, — disse ad un tratto, — ti sembrerà ch'io sia capriccioso come un ragazzo. Non so che cosa tu possa pensare di me: pure voglio che tu mi aiuti a uscire da questo equivoco che mi ripugna e mi addolora. Daria... — (e quel nome risuonò al mio orecchio come un richiamo, come un allarme) — Daria...

— Ebbene? Daria? — domandai con un palpito.

— Daria è una donna. Bisogna essere pietosi con lei e perdonarla.

Rimanemmo un momento muti. Io aspettavo che egli continuasse, ed egli non parlava.

— Perchè, — mormorai alfine, — perchè, allora, ieri sera, non sei stato pietoso con lei, quando si è messa a piangere?

Silenzio.

— Perchè, — continuai con gli occhi bassi, le gote che mi cominciavano a bruciare, — perchè mi hai rimproverato d'aver tentato, io, io solo, di consolarla quando piangeva?

Clauss m'accarezzò con dolcezza la mano e disse:

— Hai ragione... Appunto per ciò ora sento che debbo io fare qualche cosa per lei. Dunque (questo appunto volevo dirti) tu andrai a casa sua e la pregherai di venire qui, a cena con noi, stasera...

— Con noi?

— Ti dispiace forse?

— No, no, — balbettai, — no, Clauss, non andrò da lei... No, non pensarlo seriamente neppure un minuto che io possa andare da lei, presentarmi, parlarle... sostenere quello sguardo... riudire quella voce cattiva... No, no, Clauss, non è possibile!

— E di che hai dunque paura, stupido? — domandò Clauss bruscamente.

Ecco: davvero avevo paura, un'indicibile, una pazza paura. Se mi fossi imbattuto in Daria, per caso, all'angolo di una strada, sentivo che avrei preferito, a quell'incontro, di inabissarmi in una buca profonda mille metri, e non uscirne mai più. Avrei preferito qualunque supplizio, o vergogna, o castigo, al pensiero di dovermi trovare solo di fronte a lei, costretto a guardarla, a parlarle, anche semplicemente a inchinarmi senza pronunciare una parola, o muovere un gesto, o battere palpebra. Ma ero anche così sciocco, che a udire quella parola — «stupido» — la paura svanì d'un tratto, e mi sentii disarmato e pronto tuttavia a superare ogni prova con un coraggio disperato.

— Non è che io abbia paura, — mormorai. — Penso soltanto che riconoscendomi per quello di ieri sera non voglia neppure ascoltarmi. Un altro forse riuscirebbe meglio di me.

— Al contrario! — esclamò Clauss alzandosi. — Quando ti avrà riconosciuto non dubiterà d'un inganno. Basta che tu le dica che io non l'amo, che io non l'odio, che io non voglio essere per lei se non un amico sincero e fedele. E che noi tre insieme desideriamo questa sera concludere solennemente la pace.

Mi condusse presso il cancello. Camminando pensai ancora:

— Ora gli dirò che cerchi un altro. Io non andrò a nessun costo....

Ma quando mi strinse la mano per accomiatarmi non seppi che dirgli:

— Arrivederci.

Così attraversai la città e andai dove Clauss mi mandava. Alla porta di quella casa non c'era un campanello. Bussai, una vecchia mi venne ad aprire ed entrai in un salotto alle cui finestre pendevano pesanti cortine di velluto. La casa, dentro, aveva piuttosto l'aspetto di una bottega; tutto era gualcito e in disordine. In un angolo stava un pianoforte aperto con un quaderno di musica sul leggio. Da una stanza vicina giungeva il parlottare di più persone. Io udivo distintamente le loro voci, che erano di due donne e d'un uomo, e vedevo chiaramente, malgrado la penombra, le cose che mi stavano intorno. Non mi sentivo affatto turbato: anzi avevo una grande lucidità di sensi e un'assoluta padronanza di me stesso. Provai a muovermi; andai verso le finestre, dischiusi un poco le tende, vidi altre finestre, di fronte, e due teste di fanciulli che sporgevano da un davanzale, e una portava una maschera da arlecchino. Poi mi avvicinai al pianoforte, sfogliai il quaderno di musica, lessi due o tre parole tedesche e una frase italiana — lento, con passione — e rimisi ogni cosa al suo posto. Poi, ancora, m'avventurai in un angolo per guardar da vicino il ritratto di una donna giovane, molto giovane e bionda, che mi sorrise. Contento e soddisfatto di tante prodezze, ritornai in mezzo al salotto ed attesi. Finalmente il chiacchierìo nella stanza vicina tacque, la porta si aprì e Daria entrò.

— Daria! — esclamai subito inchinandomi, senza pensare che quel nome non conveniva nè a me nè a lei, in quel momento. — È Carlo Clauss che mi manda... Egli vorrebbe...

M'arrestai confuso. Daria era rimasta ferma nel vano dell'uscio e mi guardava. Quello sguardo mi sgomentò.

— Clauss? — sibilò ridendo ironicamente. — Avrà sempre dei servitori ai suoi ordini, questo signore? E anche voi siete del numero?

Si volse, sporse il capo nell'altra stanza e chiamò:

— Kate! Ave! Ave!

S'udì, in quello spaventoso silenzio, il rumore di un paio di ciabatte e di due tacchi di legno. Una vecchia strega e una ragazzina di quindici anni, tutta vestita di rosso, con i polpacci e le ginocchia scoperte e un gran nastro rosso nei riccioli, bocca rossa, occhi bianchissimi e immensi, s'affacciarono dietro le sue spalle e mi guardarono. La vecchia guardò piuttosto il soffitto, rovesciando le pupille che erano velate di bianco, mentre tutto il suo viso color di cera e orribilmente liscio si torceva nello sforzo di attrarre un po' di luce in quei due poveri lumi spenti.

— Soave! Guardalo! — esclamò Daria: — è uno di quelli di ieri sera! Kate, cerca di vederlo, perchè ne vale la pena! È uno dei tanti sguatteri di Clauss. Bella gente! Eccoli come son fatti! Che grandissimi signori! Guarda che portamento, che chic, che cravattino, che pettinatura, che profumo, che faccia da moccioso! Questi sono i padroni dell'Alhambra, i conquistatori di donne!

Mi danzava quasi intorno, con tanti inchini, e smorfie, e sorrisi beffardi, mentre con gli occhi pareva mi volesse divorare e graffiarmi con le sue piccole unghie rosse. Poi come un turbine si precipitò sulla porta, la chiuse sulle facce attonite della vecchia e della bambina, e mi domandò:

— Che cosa può volere ancora da me il signor Clauss? Vuole che io cada si suoi piedi, trafitta? Perchè non può vivere senza di me? Forse perchè se non l'amo si uccide?

— No, no! — gridai. — Clauss non vi ama e non chiede nulla di simile.

Ella allora uscì dal vano dell'uscio, ridendo ancora, ma più umanamente, e venne fino a me, mi porse la mano, come se con quel gesto intendesse cancellare tutto il passato, ed ambedue ci sedemmo l'uno di fronte all'altra in un angolo.

— Se è così, — mi disse, — eccomi pronta ad ascoltarvi. Ma come sapete voi che Clauss non mi ama? Lui stesso ve lo ha detto?

— Sì, — risposi, — lui stesso...

— Ed è questa la vostra ambasciata? Soltanto questa?

Ella sembrava divenuta umile, docile, mansueta; ancora un poco ironica, ma piena di dolcezza. Parlava senza levar gli occhi da terra, e la sua voce aveva una soave musicalità: era calda e modulata, come un flauto. Vedendola così diversa, così mite e benevola, io mi sentivo a poco a poco mancare la baldanza di cui m'ero compiaciuto tanto con me stesso. Già incominciavo ad avere idee confuse e un tremito nervoso dentro, non so dove. Anch'io abbassai gli occhi. Ella, ora, taceva, certo in attesa che io parlassi. Ebbi il pensiero di alzarmi e di fuggire. Ma non mi mossi e cercai invece, faticosamente, qualche parola insignificante che mi salvasse. Stando così, a capo chino, vedevo soltanto il lembo della sua veste che era azzurra, di velo, un pizzo candido, molto lavorato (mi ricordo, questa immagine è molto precisa) e la punta dei suoi scarpini, che erano ricamati d'argento. Poi i miei occhi si smarrivano sul tappeto, disegnato a grandi rose porpuree. Finalmente, dopo molto cercare dissi:

— No, signora, non è tutto...

Il suono della mia voce mi stupì. Io non sapevo di avere una voce così sottile, sottile e stonata; una voce così ridicola.

— Che c'è dunque ancora? — domandò Daria.

Sollevai il capo. Ella mi guardava, ora, con occhi un po' inquieti. Pure continuava a sorridere, e la sua bocca rossa, molto molto rossa, sorridendo si curvava ad arco. Sembrava che volesse dirmi con quello sguardo e quel sorriso:

— Che può esserci ancora? Vedo bene che sei un buon ragazzo. Soltanto hai una cravatta orrenda, veramente brutta e volgare.

— Ecco, — soggiunsi: — Clauss desidera che voi veniate a cena da lui questa sera. Egli si pente di avervi offesa. Forse non lo credete? Eppure parlandomi di voi, oggi, e di quanto è accaduto, Clauss piangeva... Vi giuro, — esclamai con maggior forza, senza sapere nemmeno di mentire, — vi giuro che piangeva dirottamente!...

— Ah! — continuai con l'impeto di un insensato, — voi non potete immaginare quanto egli soffra, e come sia degno della vostra pietà. Bisogna conoscerlo, e amarlo (sì, amarlo, anche, un poco, un poco almeno), per comprendere ciò che si cela sotto l'impassibilità del suo volto... Non si giudicano gli uomini dalla faccia, non si possono giudicare. Quell'impassibilità è una maschera, signora, niente altro che una maschera, una tristissima maschera. Chi indovinerebbe in lui un uomo che deve morire?

— Ah! Ah! Tutti dobbiamo morire, — interruppe Daria. — Non è un'eccezione!

— No! Non tutti. V'ingannate. Non tutti dobbiamo morire! — M'arrestai spaventato delle mie parole e mi sforzai di ridere.

— Dico, voglio dire, perdonatemi, che non tutti hanno i giorni contati, — continuai. — Abbiamo forse tutti i nostri giorni contati? Ebbene: Clauss ha i giorni contati. Niente può salvarlo. Oh! signora, è triste vedere un uomo morire, ascoltarlo mentre rassegnato, eppure accorato, vi dice: — Fra poco morirò, me ne andrò per sempre. Immaginate una realtà più angosciosa, un addio più commovente? Che differenza esiste fra lui, Carlo Clauss, e un uomo condannato a salire il patibolo, all'alba di un giorno stabilito, in quell'ora precisa, allo scoccare di quel minuto, non un istante prima, non un istante più tardi? Mi è stato detto che un uomo, sul punto di essere giustiziato, chiedesse in grazia che gli fosse portato un fiore, un fiore rustico, una di quelle piccole violacciocche che hanno un po' il profumo del reseda. Ebbene, quando alfine gli fu portata, nella cella della sua prigione, ed egli l'ebbe odorata a lungo, più volte, la sua faccia si illuminò di beatitudine, e disse: — Ora sbrigatevi. Ora sono felice. È una morte storica, un esempio! Sì, signora, si legge in un'antologia. Così Clauss...

— Basta, basta, per carità! — esclamò Daria posando una mano sulla mia bocca. — Mi farete morire di crepacuore!

Quella mano tepida, molle, molle e carezzevole, posava sulla mia bocca. Io sentivo che era tepida e profumata, e che indugiava sulle mie labbra. Ebbi come un principio di vertigine, sollevai la mano fino a toccar quella mano; poi la ritrassi e chiusi gli occhi. E la mano se ne andò, strisciando, carezzandomi il mento, leggiera, lenta, ed io rimasi con il profumo di quella carne sulla bocca.

— Ebbene? — domandò quella voce. — Che cosa volevate dire? Che io sia per lui come un fiore? Come una violaciocca, un piccolo fiore di campo?

Io volevo rispondere: — No, no! Non dovete andare. Non voglio!

Ma ero come assonnato. Udivo, vedevo, comprendevo, ma non potevo nè muovermi, nè parlare.

— Che io vada? — mormorò (ed era nella sua voce qualche cosa di più commovente che il pianto, di più tenero che una carezza, di più dolce che una parola d'amore), — che io vada? Perchè egli dica di me, domani, come ieri: — Quella donna è doppia come un serpente? — oppure: — Ella è venuta ad offrirsi ma io non l'ho voluta?

— No! — esclamai, — Clauss non dirà questo. Io sarò presente. Noi ceneremo insieme sulla veranda, ed egli non potrà insultarvi...

— Ah! tu non lo conosci! — (ella disse così: tu non lo conosci). — Clauss è capace di tutto.

La sua voce era tanto ferma che ne rimasi sconcertato. No, non ero ancora perfettamente lucido. Avevo un folle desiderio di piangere. Pensavo: — Se non viene questa sera forse non la vedrò più, mai più. E mi pareva di perdere un gran bene, una gran gioia, non potendole stare accanto per qualche ora, di notte, alla luce delle candele, sulla veranda, nell'intimità di una piccola tavola imbandita.

— Ma che v'importa di lui? — gridai. — È una grazia che vi chiedo per me, per me solo!

Caddi in ginocchio, le presi le mani, vi posai sopra le labbra e rimasi così, curvo, attonito. E stando così, curvo, sentii un contatto caldo, una calda carezza sui miei capelli, (io tenevo strette le sue mani contro la mia bocca), una carezza assai lunga e calda sui miei capelli.

— Anche tu sei moribondo? — chiese la sua voce, vicinissima.

— Daria, Daria, — mormorai, — non mi disprezzate? Non vi ricordate di ieri? Delle mie parole?

— No, — disse, — non mi ricordo. Non voglio ricordarmi.

— Mi perdonate?

— Sì, — disse, — ti perdono. E soggiunse, dopo una pausa, parlando ancora più sommessa: — Verrò, verrò questa sera...

Allora il mio fervore cadde. Mi sollevai e, senza guardarla in viso, ancora una volta le baciai le mani, e me ne andai.

Uscendo sulla strada soleggiata, provai l'impressione di destarmi da un sogno. I colori, la forma delle case, le persone che stavano affacciate alle finestre e sugli usci o che passavano accanto a me; le loro voci; un pappagallo sul trampolo; l'insegna d'un'osteria, un fanciullo che saltava dinnanzi ad una porta rossa; tutto quel rimescolio di gente, quella varietà di colori, l'intensità della luce, mi stupirono come se avessi lasciato il mondo buio, muto e deserto, e lo ritrovassi ora illuminato, sonoro e popoloso. Da quegli uomini e quelle donne (essi ridevano forte, parlavano, si salutavano, si chiamavano da lontano, si rincorrevano), da quel frastuono di grida, di risa, di canti, di rumori, di musiche (il rotolare saltellante delle carrozze, lo schioccar delle fruste, i carri, lo sbatacchiar degli usci), si comunicò a me un desiderio infantile di correre, di ridere, di cantare, di partecipare, anima e corpo, a quella vita che si manifestava tutta alla superficie, come la spuma di un vino leggiero e inebbriante. Guardai il mio orologio: era ancora molto presto. Camminando celeramente, mi sembrava di esser portato dal vento, tanto mi sentivo felice.

VII.

Non so perchè gli angioli che si vedono negli antichi pittori e quelli che si librano sulle loro grandi ali variopinte, le pieghe dei camici piene di vento, sotto le grandi cupole delle chiese, abbiano tutti sembianze femminee, lunghi riccioli bene inanellati, e negli occhi un'amorosa luce. Noi le contempliamo da fanciulli, con vergine maraviglia, quelle incantevoli immagini, e ci insegnano ad adorarle, perchè sono la bellezza, la purità, l'amorosa musica del cielo. La nostra infantile fantasia, dipingendo poi di sogni la terra, scopre nel viso di nostra madre, in quel volto giovine e bello che si curva sopra di noi ogni sera a chiuderci con un bacio le palpebre al sonno, che ci veglia amoroso quando l'incubo ci desta improvvisamente in piena notte e il buio e la solitudine sono come un baratro che ci riempie di spavento, o quando, malati, la febbre suscita sinistri fantasmi da ogni angolo della stanza, la nostra fantasia scopre tratti di somiglianza con quelle soavi immagini di paradiso, lo stesso candore, una grazia uguale, una dolcezza altrettanto soave e serena per cui quel caro volto altro non è che angelico. Così la bellezza, il candore, la pietà, l'amore sono e rimangono per noi definitivamente tanti attributi della femminilità, che fanno di ogni donna, ai nostri occhi, una creatura celeste.

M'ero seduto in un angolo dei giardini pubblici, dove un piccolo specchio d'acqua offriva il suo grembo translucido a un ponticello di ciliegio, nella pia ombra di quattro enormi salici. Quell'angolo era deserto, e soltanto oltre alcune aiuole, dietro bei ventagli di palme, passeggiava la solita gente oziosa. Così, indisturbato, richiamavo alla mia memoria ad una ad una le fugaci impressioni di poco prima, e potevo tenerle ferme sospese dentro di me, analizzarle a lungo con calma, godendone finchè ne ero sazio. Scomponevo in mille parti la figura di Daria, per ricomporla poi tutt'intera in quell'immagine unica che mi era rimasta fissa negli occhi fin dalla sera prima. Ed erano ogni volta meraviglie e palpiti, come se mi fosse apparsa viva soltanto allora da un sogno incerto e intricato.

— Hai veduto come sotto la sua pelle diafana corrono le vene azzurrine? domandavo a me stesso. Che fragilità hanno le sue tempie, i suoi polsi! Come il suo cuore è indifeso! Le mani... le dita affusolate, le palme rosee e concave come i grandi petali del loto... Le muove lentamente quasi le sostenesse e le portasse l'aria: senza peso. Strana, strana cosa! Hai veduto? Chi ti ha detto che i suoi occhi sono neri? Come hai potuto sbagliarti? Sono azzurri e verdi... Ma la pupilla è enorme e le ciglia sono violette. Forse è nero lo sguardo, non gli occhi! E che grazia! Quando inchina la fronte e il suo viso s'adombra, sembra che si nasconda sotto i riccioli pesanti e cupi. Allora ti guarda dal basso, come una colomba innamorata, col capo un poco piegato sulla spalla, e sempre sempre sorride...

Tra due ventagli di palma, vidi d'un tratto veramente un volto ombrato che mi sorrideva, uno strizzar d'occhi e due labbra scarlatte che mi facevano: pss pss... E poi un ventaglio si abbassò e apparve un gran cappello di paglia, e poi un braccio, e poi una gamba sottile e lunga, e poi un gonnellino rosso che si gonfiò in un salto e si posò accanto a me sul sedile.

— Non mi riconosci? — domandò una voce acuta come un allegro campanellino d'argento.

M'inchinai sorridendo, senza parlare.

— Com'eri buffo! — continuò quella voce. — Che ridere ho fatto, che ridere! E non dicevi niente! Nemmeno un fiato! Eri buffo da morire!...

— Capisco! — dissi. — Lei, signorina, deve essersi divertita moltissimo... Ma io...

— Ma tu? Ma tu dovevi ridere più di me, ragazzo mio! — esclamò con tono grave di rimprovero. — Non la conosci dunque? La prima volta è così con tutti...

— Ecco, — dissi: — a lei forse sembrerà facile... Ma per me è diverso. Io sono un uomo.

— Un uomo!

Allargò le braccia sulla spalliera del sedile, stese le gambe, puntò in terra i tacchi alti delle sue scarpette e rovesciando indietro il capo disse con semplicità:

— Dammi pure del tu... Tutti quelli che danno del tu a Daria possano dare del tu anche a me...

La guardai stupefatto. Ella rispose calma a quello sguardo:

— È inutile che tu ti meravigli... Sono Soave.... sua sorella.

Strana creatura! Il suo corpo aveva quindici anni: era infantile, ancora magro; magre le gambe che dal ginocchio in giù uscivano dal gonnellino fatto di tutte piccole pieghe; magre le braccia, nude dalla spalla, alla cui estremità pesavano due grosse mani arrossate, che parevano prese in prestito a qualche gran donna e attaccate con un grosso chiodo ai suoi polsi. E il suo viso era invece senza età, e somigliava a quello di Daria come la copia mal riuscita d'un'opera d'arte, esatta in ogni sua parte, sbagliata nel suo insieme. I suoi occhi erano tutto bianco, appena adombrati da rade ciglia, e parevano sempre dilatati in uno stato ipnotico. L'ovale del volto terminava in un mento aguzzo, che cominciava quasi sotto le orecchie, ed era tagliato a metà da una bocca carnosa e sanguigna, inutilmente arrotondata da due piccoli punti di rossetto. Solo i capelli, che in lunghi riccioli le rotolavano sulle spalle, erano gli stessi capelli di Daria, neri e azzurri, e pesanti come il ferro.

— Ah! io capisco tutto! — esclamò dopo un breve silenzio, guardando fissamente i rami del salice che ci piovevano sul capo. — Perchè non dovrei capire? Perchè sembro ancora una bambina? Ma non sono più una bambina... È un pezzo che non lo sono più... I vecchi le capiscono queste cose! Quel signore che venne a trovarci sabato scorso, credo che sia un senatore, un conte, che ha quelle belle basette arricciate (lo avrai incontrato mille volte) ah! ah! mi dette subito ragione. E mica solo con me! Anche a Daria lo disse: — Lascia andare, amica mia... Soave non è più tanto bambina... — Ma voi giovani queste cose non le volete capire. Ebbene io so tutto, come te, e come Daria... Tutto, tutto...

— Ma io, veramente, — dissi impacciato, — io non so niente...

— Povero piccolo! — esclamò la signorina Soave. — E allora io ti posso insegnare... È da ieri che sto con l'orecchio attaccato agli usci! È da ieri che Kate mi racconta tutte le storie che sa, da quando è nata... Ma si ostinano tutti a tirarmi per le trecce e a guardarmi ridendo le sottane corte! Piacerebbe anche a me avere la coda lunga un metro, e le scarpine di raso d'oro, e un bel diadema con un paradiso in testa... E che cosa sono questi cappelloni di paglia con le ciliege che mi fanno portare?

Con un gesto sgraziato si strappò di testa il grande cappello di paglia di Firenze, tutto coronato di ciliege rosse, e lo gualcì, lo pestò con i pugni chiusi, e me lo riaprì sotto il naso. Poi mi si buttò con tutto il suo peso contro la spalla e guardandomi sorridente mi confidò:

— Vuoi sapere come mi piacerebbe un cappellino? Come quello che ho veduto ieri in una vetrina del Corso... Era di paglia blu rossa e nera, lucida lucida tutta arricciata, tutta tutta arricciata la tesa, e poi un nastro di seta scozzese con un gran fiocco da un lato, e la cupola invece liscia e intrecciata, che faceva un disegno di tanti piccoli quadrati neri rossi e blu. E di sotto al fiocco usciva un uccellino piccino ma con una coda lunga e sottile, terminata da piccole pagliuzze d'argento che sembravano goccioline di rugiada. Quella era una bella cuffietta! Coi capelli neri, i colori vivaci mi stanno che è un amore.

— E perchè non dice a Daria che le regali questo cappello?

— Ah! — sospirò. — Se io dovrò aspettare Daria non ne avrò mai di cappelli come quello!

Rimase silenziosa qualche minuto, giocò con i riccioli, poi domandò:

— Quanto immagini che possa costare? Chissà che somma esagerata pensi tu...

Io scossi il capo ed ella soggiunse:

— Venticinque lire...

Mi guardò come aspettando da me qualche gran segno di stupore. Poi disse malinconica:

— A tutti piace Daria. Eppure è molto sciupata... Anche a te piace molto?

— Molto? Non so... — risposi.

Poi domandò ancora:

— Quanti anni hai tu?

— Vent'anni, — risposi.

— E io ne ho quindici, quasi sedici...

Ancora una volta mi guardò, ma quel suo sguardo non mi disse nulla. Mi ero già distratto e già ripensavo che la sera era prossima, e che avrei riveduto Daria fra poco, e forse quel nuovo incontro sarebbe stato decisivo. Forse avrei potuto rimanere solo un istante con lei, forse baciarle la mano, certamente stringergliela fugacemente, nell'ombra discreta o sotto la tovaglia. Ella avrebbe avuto al collo qualche gioiello maraviglioso e la sua gola mi sarebbe sembrata più candida e la sua bocca più rossa. E vidi senza allontanarmi dalla mia cara immagine la piccola irrequieta, la piccola ciarliera, Soave, alzarsi dal mio fianco, la sua testa ricciuta scomparire di nuovo sotto le grandi tese spioventi del cappello, e le sue grosse mani spianare in fretta in fretta le pieghe gualcite della sottana. A un tratto mi si buttò sulla bocca, mi dette un morso, e fuggì via gridando: — Arrivederci quando sarai sveglio!

Ed io non capii allora che era un bacio.

VIII.

Prima di andare da Clauss, passai da un mercante e comprai una cravatta, una bella cravatta azzurra con certe macchie d'oro che sembravano stelle in un cielo da presepio. Fra cento e più cravatte, io vidi quella, in fondo a una scatola e la riconobbi. Questo fortunato incontro mi rallegrò, e confortò le mie speranze che, allora, erano in fiore. Poi me ne andai a casa e lo specchio s'ebbe la mia immagine come non l'aveva avuta mai, e vide che le mie mani sapevano, all'occorrenza, fare miracoli. Agghindato, e con un profumino tenue tenue nei capelli, e con quella meravigliosa cravatta, passai l'uscio. Sull'uscio incontrai Sterpoli carico d'involti, con un gran mazzo di fiori in mano, che rincasava.

— Ohè! — gli dissi. — Hai più veduto nessuno? Com'è finita? Bene o male?

— Bene, — rispose; — ogni cosa per la sua strada.

— Ma Daria? Che mi dici di lei?

Egli levò su me uno sguardo sospettoso e brontolò:

— Non scherzare. Non parlar così forte.

Entrò in casa ed io me ne andai.

Poco dopo noi eravamo, tutti e tre, seduti intorno a un piccolo tavolo, sulla veranda, avendo per unico lume la luna. L'aria era così azzurra, trasparente ed immota che ci pareva di essere immersi nella profondità di un lago; di vivere la beata vita dei pesci. Daria portava un abito verde e un nastro pure verde fra i capelli. Dinnanzi a noi fumavano delicate vivande: una moltitudine di gamberetti galleggiava in una salsa verde, fra ciuffi di erbe aromatiche. C'erano, sulla tavola, molti bicchieri, e due anfore di vino chiaro, e molte cose luccicanti. Le mani di Daria si posavano come farfalle, come farfalle, su quelle cose fragili.

— Un po' di vino, — diceva di quando in quando. — Un grano di sale... Una presa di pepe... Un zinzino di pepe, poco, poco...

Seduto di fronte a me, Carlo Clauss la serviva con gesti rapidi, chiedendo ogni momento:

— Così? Ancora? Poco? Basta?

Tre gigli candidi (noi tre!) stavano in un vaso, al centro, tre grandi e candidi gigli, in un vaso, candidi e immobili, d'un'immobilità rara nelle cose della natura. Daria spesso si curvava per odorarli.

— Ecco ciò che basta alla nostra felicità, — diceva Clauss. — Non vi pare? Ah! se sapessimo accontentarci!

— O gioia di vivere! — pensavo io, esaltandomi. Quella cravatta nuova (veramente splendida) mi dava un po' di noia intorno al collo e cercavo di dimenticarla.

— Sì, cara, — continuava Clauss con voce misurata, con sorrisi brevi e volubili, — è così. Dove ci conduce talvolta il nostro insensato desiderio di godere? Eh! eh! Un sorso, un sorso solo, una goccia Daria! No? Non credete che il segreto della felicità sia semplice? Cesare rientra nella propria casa dopo il trionfo, e incontra Calpurnia, o Poppea, (non ricordo bene) sulla porta del triclinio. — Calpurnia, dice, il tuo abito è poco casto per la moglie di Cesare! I suoi occhi cadono sul servo, che la segue agitando i ventagli, e pensa: — Tu sei troppo bello per il marito di Calpurnia. E la sua grande felicità, il suo smisurato orgoglio, annegano in questi due pensieri, in due pensieri tanto volgari. Valeva la pena di soggiogare le Gallie? Soltanto bisognava capire prima che la felicità era nelle belle mani di Calpurnia e non ai confini dell'Impero.

— Sei straordinario! — esclamai. — Bevo alla tua salute e a quella di Cesare!

Daria mi guardava raramente. I nostri ginocchi si sfioravano sotto la tavola. Io guardavo Clauss, pensavo: — T'inganni! Non è venuta per te! E cercavo di cogliere sul volto di Daria un sorriso intelligente, uno di quei sorrisi che sono come fili tesi fra due bocche, fili di ragno, invisibili; un bacio invisibile, un bacio rubato ad occhi che fingono di non voler nulla donare.

— Sono straordinario? — domandò Clauss. — In che cosa, se è lecito?

— Dico che inventi a meraviglia, — risposi. — Questa storiella di Cesare, di Cesare e di Calpurnia, mi sembra nuova. E a voi, Daria?

Sempre in attesa di quel sorriso, volevo che ella si volgesse verso di me. Ma Daria succhiava la coda di un gambero, rosso fra le sue dita bianche, e non si mosse.

— È frutto dell'esperienza, — disse Clauss. — S'impara a inventare. È come dire che sono vecchio.

— Povero Clauss! — mormorò Daria. — È veeecchio!

— Perchè ridete? — domandò Clauss. — Non è poi una cosa tanto ridicola. La vecchiezza ha, per un uomo, il suo lato interessante. E poi, non tutti invecchiano allo stesso modo. Per una donna no; ma per un uomo incomincia una età quasi beata. I desideri possono finalmente conciliarsi con l'impossibilità di soddisfarli; la quale, se non erro, è di tutte le età. E vi sembra una cosa da nulla? Accontentarsi delle gioie possibili? Non scartarne neppure una piccolissima parte? Ah! che scienza difficile!

— Ecco, — continuò dopo un minuto di pausa, rivolto a Daria: — poichè a questo ragazzo piacciono le favole, se permettete, vorrei raccontargliene una brevissima a questo proposito. Non vi annoio? No? Dunque, dimmi: ti sei mai domandato, tu (si rivolse a me, con queste parole), come mai Platone non si sia curato di tramandarci la propria opinione sul sacrificio di Fedone? Se cioè lo stimasse piccolo o grande? In fondo, Fedone era un bello e stupido ragazzo, il quale non possedeva se non quei riccioli biondi che, per onorare Socrate, si tagliò. Quella chioma era senza dubbio tutto il suo orgoglio e la sua massima felicità. Eppure senza esitare un istante si pelò, come un altro si sarebbe ucciso. Ma egli invece continuò a vivere e a mostrarsi in Atene con quella testa pelata. Ebbene: fece malissimo. Io dico che non si sacrificano tanto leggermente riccioli così belli, quando non si ha con che cosa sostituirli.

— Scusate, — mormorò Daria con candore, — chi è Fedone? E non gli sono più ricresciuti i capelli?

Si aspettava un dolce, un pasticcio di frutta. Quelle parole di Daria mi esilararono. Mi agitai, le versai da bere; ma neppure allora mi riuscì di annodare quel filo invisibile, quel sorriso intelligente tra le sue e le mie labbra. Daria parlava poco e non si volgeva quasi mai a guardarmi. Le sue ginocchia, sotto la tavola, rimanevano inerti. — Come mai? — pensavo. — Finge? O si è dimenticata? Spesso la sua mano si posava sulla mano di Clauss, quando gli domandava: — Per favore, un sorso di vino... un pizzico di caviale... una presa di sale... E, intanto, la luna continuava a crescere e ci guardava dall'alto, ed era paffuta e beffarda come la vedono i fanciulli. Il mare, la brezza leggiera e variabile, la notte dolcissima cantavano intorno a noi; un rosignolo solitario intonava nell'ombra i suoi minuetti da bambole, le sue «ute» giapponesi. Fu portato un pasticcio di mele; portarono anche due nuove anfore di vino.

— Pare davvero impossibile che noi siamo insieme a cena! — disse Clauss.

— Perchè? — domandò Daria.

Accostandosi al suo orecchio, Clauss mormorò:

— Volete sapere la verità? Siete una bimba maliziosa!

— Io? — domandò Daria, curvandosi verso di lui.

— E chi dunque?

— Ah! questo Clauss! — esclamò Daria, guardandomi finalmente. — Si burla sempre di me!

Ora io mangiavo in silenzio, a capo chino, trangugiando un boccone dopo l'altro. Che cosa significavano quei sorrisi ambigui e quelle parole confidenziali dette a mezza voce? Quegli sguardi interrogativi e quelle moine da scimmia? Non mi ricordavo bene, ma mi pareva di ricordare di aver letto, non so dove, forse nella Bibbia, alcune parole, una frase, un pensiero sulle donne. Qualcuno aveva scritto o detto: — Quando guardo le donne mi sembrano scimmie bianche. Infatti io guardavo Daria e pensavo: — È vero, sembrano scimmie bianche, scimmie bianche e pelate. E sentivo nascere in me una viva antipatia, un senso sgradevole, qualche cosa che mi ripugnava dentro. Eppure pensavo: — Non è niente. Sembrano scimmie bianche, ma sono donne. Pensavo: — Non sarà niente. Ella finge. È necessario. Guardavo la luna che sembrava un'enorme maschera bernoccoluta e dicevo a me stesso: — Dopo tutto, chi non finge? Bisogna portare una maschera. Per questo fu inventato lo specchio.

— Non ti pare, Clauss, — domandai a un tratto, — non ti pare che si finga molto? Dico, che si portino molte maschere?

— A che proposito?

— Ecco, — soggiunsi, — non so a che proposito. Dico che nella vita si è costretti a fingere. E che, talvolta, non se ne può fare a meno, e allora si porta una maschera.

— È purtroppo vero, — rispose, — si portano molte maschere.

Ed io pensavo: — Che bestia! Non si accorge che mi burlo di lui. Ma Clauss non badava a me, ed io volevo chiedere a Daria: — Ditemi! Non è vero che, dopo tutto, è molto facile fingere? Temevo che ella scoppiasse a ridere e che Clauss si avvedesse dello scherzo. Daria infatti rideva. Rideva e mi guardava. E anche Clauss mi guardava, sorridendo ambiguamente. Alfine mi toccò una mano e mi disse:

— A proposito di maschere: non potresti andare un minuto in salotto a prendere quella mascherina giapponese che è sul tavolo, con quei baffi e quegli occhi terribili?

Mi alzai e andai a prendere la maschera giapponese. Ma quando fui nel salotto mi pentii d'essermi mosso e ritornai correndo sulla veranda.

— Ecco, — disse Clauss a Daria: — tenete questa maschera di babau per ricordo di quell'altro me stesso che abbiamo seppellito stasera.

Clauss parlava con intenzione. Sì: vidi subito che quel sorriso non era naturale, che non era come tutti gli altri; e quelle parole, in apparenza così semplici, quelle parole mentivano. Mi sembrava che Clauss si fosse avvicinato a Daria durante la mia assenza e che i loro gomiti si toccassero continuamente. Le mie mani erano impacciate nei loro gesti come se gli oggetti, sul tavolo, fossero stati mossi, ed io stentassi, ora, a ritrovarli o a schivarli. — Che cosa c'è che non va? — pensavo perplesso, e cercavo di nascondere il mio turbamento portando spesso il bicchiere alle labbra per bere un sorso.

— No, no! — disse piano Daria ad un tratto. — Ci guarda. Non è possibile!

— Che importa? — sussurrò Clauss, e si accostò ancora più a lei.

Essi erano così vicini che i loro capelli si toccavano. Allora, improvvisamente, una gran luce si fece in me e mi alzai di scatto con un grido soffocato. Sotto l'urto delle mie ginocchia la tavola si rovesciò con fracasso immenso di stoviglie e di vetri. Agitai le braccia, inciampai nella tovaglia e caddi anch'io con tutto il resto. Ma mi sollevai subito, e udii che qualcuno rideva vicino a me, molto vicino a me, quasi al mio orecchio. E poi udii il rumore di un bacio, di due baci, molto chiaro. In un angolo, immobili, stretti l'uno contro l'altra, Clauss e Daria mi guardavano. Quantunque la ombra fosse fitta ed io avessi un velo opaco, un velo caldo e opaco dinnanzi agli occhi, vidi i loro volti gota contro gota, e le loro quattro pupille che mi fissavano sfavillando. E vidi anche come le loro mani si cercassero sotto gli abiti, e la donna avesse i capelli sciolti e la gola più nuda, e un che di candido, di molto bianco sul fianco...

IX.

Quella macchia bianca mi rimase negli occhi. Quella macchia bianca, senza nè forma nè sostanza, molto vaga e mobilissima, correva innanzi a me mentre andavo strisciando contro i muri, per vie buie e strette, senza veder nulla se non quella macchia bianca che saltava nell'ombra. Dovunque volgessi lo sguardo, la ritrovavo; sul marciapiede, sulle case, vicina e lontana, sempre egualmente mobile e bianca. Chiudevo gli occhi ed essa si rifugiava tra le pupille e le palpebre; e non potevo in nessun modo liberarmene. A un tratto urtai contro un corpo duro e provai un acuto dolore alla fronte. Toccai, e la mia mano si sporcò di sangue; sentii una goccia calda scendermi dalla fronte sul viso. Col fazzoletto premetti la ferita e continuai a camminare. Mi pareva di udire un suono di banda lontano ma molto distinto, una fanfara marziale, con prevalenza di trombe, di tamburi e di piatti, al cui ritmo cercavo di misurare il mio passo. Non sapevo dove andare. La testa mi doleva, e pensavo: — Questa cravatta, questa maledetta cravatta mi soffoca... Finalmente, dietro un arco, vidi una luce scialba nel buio, una porta illuminata. Dall'osteria non usciva nessuna voce, nessun rumore. Spinsi la porta ed entrai. L'oste stava seduto in fondo, dietro il banco, tra le bottiglie e i caratelli. Mi guardò (era guercio) e non si mosse. Io mi sedetti a un tavolo, battei il pugno due o tre volte, e gridai che mi portasse da bere. Egli si alzò, mi portò il boccale e il gotto, e rimase appoggiato all'altra sponda del tavolo, a guardarmi. Mi sembrava che il suo viso giallo e gonfio fosse liscio come una zucca, e che quell'unico occhio, umidiccio e peloso come un ombelico, gli si aprisse in mezzo alla fronte. Quell'occhio mi stizzì a tal punto che, per non vederlo, gli voltai le spalle. Poi inzuppai nel boccale il fazzoletto e incominciai a inumidire la mia ferita.

— Se mai un po' d'aceto, signore, — disse l'oste. — Il vino non serve...

Aveva la voce di una chitarra, di una chitarra fessa.

— Va bene! — gridai inviperito. — Che te ne importa?

Egli se ne tornò dietro il banco, a rintanarsi fra le botti. Il mio dolore cresceva. Se per poco cercavo di dirigere la mia attenzione sopra una qualunque delle cose che avevo intorno, subito rivedevo quella macchia bianca, bianca e inafferrabile, e il mio tormento cresceva tanto da non poterlo più sopportare.

— Ho la faccia sporca di sangue, — pensavo, — ma che importa? Non è questo che mi tormenta. Anche i Ciclopi avevano sangue rosso (rosso o azzurro?) e un occhio in mezzo alla fronte. Erano come scimmie bianche, gigantesche scimmie pelate, i Ciclopi. Ma che importano ora i Ciclopi?

Improvvisamente un colpo di vento sparpagliò questi pensieri sconnessi, mi ricordai e scoppiai in singhiozzi. Piangevo, e tutto ciò che non volevo ricordare mi ritornò alla memoria, e vidi ogni cosa come era avvenuta. — Daria! Daria! — urlavo in me stesso, e pareva che avessi una voce tonante e assordante, una voce immensa. — Daria! — e non sapevo trovare se non questa parola unica, questa parola fatata, e ripeterla in me stesso fino a stordirmi, fino al punto di non comprenderla più. Non sentivo ormai nessun male alla fronte. Il male era tutto dentro, una piaga dolorante e spasimante al posto del cuore, un coltello che mi colpiva, senza tregua, sempre al cuore. In tanta angoscia a volte pareva che la mia vita intera si arrestasse, e l'anima rimaneva sospesa, come sul punto di abbandonarmi.

Infine l'oste si mosse e mi battè sulla spalla.

— Ora basta, — disse. — Ora si chiude e andiamo via.

— Andiamo via? — balbettai. — Ma dove, dove andiamo?

Egli sogghignò. S'era messo un berrettone nero in capo e una sciarpa intorno al collo.

— Queste disperazioni io le conosco! — disse mentre mi alzavo. — Per pochi soldi qualcuna te le farà passare.

Mi sbattè la porta dietro le spalle ed io ricominciai a camminare a caso. Con un certo sforzo compresi che di fronte a me stava il mare e che quella striscia d'argento, interminabile, era la luna sull'acqua, e che quel rumore fastidioso era appunto il rumore dell'onda. La luna fendeva le nuvole grige di perla. — Bum! bum! scioc scioc! cu cu! bau bau! — e di scoglio in scoglio mille grida confuse, lugubri, beffarde, si propagavano con lunghi echi.

— Mi ucciderò! — dissi. — Perchè non uccidersi? È molto semplice, molto facile...

Il desiderio di morire era così forte che già mi pareva d'esser morto e di vedere ogni cosa da lungi, dall'alto di un monte, di una montagna altissima tra le nuvole. Giunsi fino all'estremo limite della spiaggia; poi mi volsi e rapidamente me ne tornai a casa.

Nella mia stanza c'era qualcuno che russava. Era buia, ma nella penombra scorsi una forma umana sul letto: un uomo vestito che russava. Accesi un lume. Sterpoli stava placidamente disteso e addormentato sul mio letto.

— Sterpoli! — gridai afferrandolo per un braccio.

Egli scosse il capo, sospirò, si volse sopra un fianco, senza aprire gli occhi.

— Sterpoli! — gli urlai in un orecchio. — Svegliati!

Allora egli tentò di rizzarsi su un gomito. Ma ricadde subito e cominciò a mugolare:

— No, non voglio... Per amor di Dio... Bambola... Un po' d'acqua. M'è rimasta una lisca in gola...

— Che lisca! — esclamai. — Sono io!

Sterpoli schiuse finalmente gli occhi e si guardò intorno stupidamente. Si toccò la fronte e poi rise, d'un riso idiota idiota, da ubriaco.

— Ah! ah! sei tu? — disse. — Sì, sì, mi ricordo. Ma lei dov'è andata? Mi scappa sempre, quel demonio! Non sta ferma un minuto.

Si mise a sedere sulla sponda del letto e mi fissò attentamente, a lungo, perplesso.

— Scusa, — disse poi, — non ti avevo riconosciuto. Ora ti vedo... Sei tu.

Tese la mano verso di me e ammiccando soggiunse:

— Anche tu hai bevuto. Ti si vede il vino rosso, sulla faccia. E che vuol dire? Si beve. Ma perchè si beve? È chiaro. Si beve perchè si ha sete, molta sete, sempre sete. Tu le dici: — Su via, amore, sii buona. Dammi un bacio, un bel bacio... Porgi la bocca e senti che non c'è niente; non trovi mai niente con la bocca. Dici: — Perchè dunque non vuoi darmi nemmeno un bacio? Sii ragionevole, trottola. Tutti abbiamo diritto di vivere. Non è vero? Ora, che c'è di male se certi uomini hanno un cuor tenero, un cuore di burro? E che c'è di male in un bacio? E lei ride e ti risponde: — Va là, allontanati. Non mi voglio sporcare. Allora è quando si cerca la bottiglia e si beve. Sì, fratello mio: questo ci consola...

Io l'ascoltavo. M'ero seduto accanto a lui, sul letto, rassegnato ad ascoltarlo.

— Fratello, fratello mio... — continuò prendendomi una mano e stringendola fra le sue, — io ti volevo domandare qualche cosa di molto importante. Sono venuto proprio per rivolgerti una domanda. Ho detto fra me: — Quel ragazzo m'ha l'aria di uno che può illuminarmi con un consiglio leale. — E ti ho aspettato. Ora ti domando: — Perchè noi ci consoliamo così presto? Un po' di vino basta dunque davvero? Ah! quanto mi addolora! Tu non sai quanto mi affligga questo pensiero sciocco che un po' di ebbrezza basti per consolarci. Vogliamo forse essere consolati dal vino? No! No, noi non chiediamo queste consolazioni. Tu dici: — No, Sterpoli, ciò ci lascia indifferenti. Ed io ti rispondo che è vero, e che noi non vogliamo consolarci. Noi vogliamo godere. Noi vogliamo amare. Noi vogliamo che quando le diciamo, supplichevoli: — Su, amor mio, mia vita, dammi un bacio! — ella risponda con un bacio. E che questo bacio non mentisca; che ella non pensi, mentre tu senti che in realtà un bacio s'è posato sulla tua bocca, un bacio tepido come una colomba, non pensi: — Contentiamo questa bestia, questo animale cornuto. Noi vogliamo essere amati, fratello, teneramente, appassionatamente, come fanciulli, come malati, come moribondi. Godere dell'amore. Che cosa importa tutto il resto? Che cosa può darci il vino? Il nostro cuore è frollo, delicato, sensibile, dolce come lo zucchero. Perchè esse ce lo rendono duro e amaro, duro e malvagio? E anche questo volevo sapere: perchè amiamo? E che cosa si aspetta da queste femminucce color di cera, da questi piccoli serpenti dorati?

Egli parlava e mi guardava teneramente con occhi semispenti, ma pieni di lacrime.

— È vero... — sospirai, — hai ragione. Non sai quello che dici, ma Dio in persona ti suggerisce.

— Quale Dio? — domandò Sterpoli, aggrottando le sopracciglia. — No, non può essere.

Tacque e scosse il capo. Strinse più forte la mia mano e mormorò:

— Ora ti dirò tutto. Non spaventarti. Non mi insultare. Abbi pietà di me. Sento qualcosa qui, nel petto, che gira. Non è il cuore. Sento anche il cuore. È un'altra cosa. Ora, io non posso sopportare... Questo peso, questo enorme peso, non posso reggerlo tutto da solo. Ascolta. Mi aveva detto: — Da questa sera sarò tua. Sarò per te. Non amo che te. Tu non lo sai, ma io ti ho sempre amato, così, in segreto. Lippi! Non ti pare un nome dolce, un nome amorevole? Un nome da innamorato, da amante? Ebbene: da questa sera sarò tua. Tutto il male sarà compensato. Tu sarai felice. Mi ha detto così ed io l'ho aspettata un'ora, due ore, quattro ore. Pensavo: — Verrà. Fra poco, prima che io abbia contato fino a cinquanta, fino a cento, sarà qui. Avevo preparato un piatto di dolci, un mazzo di fiori, una bottiglia di vino leggiero. Non per consolarmi, ma per goderlo con lei, tutti e due insieme. E, a sera inoltrata, quando attendevo e speravo ancora, quella vecchia maledetta è venuta e mi ha detto: — È inutile che tu aspetti. — Come? esclamo. Non viene? — No, dice, non viene. Non verrà. — Ma dove, dove è andata? La vecchia sogghigna e risponde: — Non so. Certo non è andata lontano. — Per la tua vita! grido torcendomi le mani. O mi dici dov'è, o ti uccido! Allora impaurita balbetta: — Da Clauss... È andata da Clauss! — Basta! Io son cieco d'ira e afferro tutto ciò che mi capita fra le mani e tutto riduco in frantumi.

Sterpoli si arrestò ansante.

— Comprendi? — mi domandò.

— Comprendo, — mormorai. — È vero. Erano insieme. Si sono baciati. Li ho veduti con i miei occhi...

— Tu! — esclamò Sterpoli. — Anche tu?

— Anch'io...

X.

L'uscio si mosse come se un soffio di vento o una mano leggiera lo sospingesse. Dallo spiraglio spuntarono quattro dita. Poi l'uscio non si mosse più, e quelle quattro dita rimasero così, immobili, nella fessura. Dietro l'uscio qualcuno ora stava spiando nella stanza o attendeva di essere invitato ad entrare. Sterpoli era ricaduto bocconi sul letto, le braccia incrociate sul capo, la faccia schiacciata contro le coltri. Mi alzai lentamente, e, cercando di vincere il tremito dei miei ginocchi, in punta di piedi mi avvicinai all'uscio e feci l'atto di aprirlo. Subito quella mano intrusa scomparve. Ma io trassi bruscamente a me l'imposta e vidi contro il muro, nell'oscurità fonda del corridoio, una ombra confusa di cui non discernevo chiaramente che il bianco degli occhi. Riconobbi subito Soave. Ella fece un passo verso di me. Prima che io avessi il tempo di parlare, mi prese con forza per la mano e mi tirò fuori dell'uscio, che rapida ella stessa richiuse alle mie spalle senza rumore. Quando fummo tutti e due nel buio, non staccò la sua mano dalla mia, anzi la strinse più forte e se la premette sul seno, mentre con tutto il corpo aderì al mio corpo, tanto che sentivo il suo cuore battere contro il mio.

— Pazza, pazza, — dissi con voce soffocata, — che cosa vieni a fare qui a quest'ora? Questa non è casa mia. E come hai potuto entrare?

Dai suoi capelli, con la densità di un fumo di incenso, vaporava contro il mio viso un odore acuto di gelsomino che io penavo a respirare. Il suo cuore batteva sempre più forte. E non parlava.

— Rispondi! — esclamai con forza. — Rispondi e vattene, vattene subito...

Ma per tutta risposta Soave mi trascinò verso il fondo del corridoio e si fermò soltanto sulle scale, dinnanzi alla grande finestra illuminata dalla luna. Allora, guardandomi fissamente con i suoi immensi spiritati occhi, mi bisbigliò:

— Dov'è Daria?

I suoi occhi erano veramente pieni di spavento e di follia. Le sue labbra, il suo mento tremavano, e le sue mani non cessavano un istante di aggrapparsi alle mie, convulsamente, come se avesse voluto spezzarmele. I suoi capelli erano arruffati e le piovevano in tanti radi ciuffi sulla fronte e sulle gote. Il suo povero corpo scompariva nelle pieghe di uno scialle di lana nera.

— Dov'è Daria? — ripetè con l'accento della disperazione. — Dov'è? Dov'è?

Io mi sentivo morire. Nuovamente il mio cervello si riempiva di confuse e plumbee nuvole, e dinnanzi ai miei occhi tutto ricominciava a rotare. Per non cadere chiusi le palpebre. Risposi con un filo di voce:

— Non so... Da Clauss. L'ho lasciata laggiù.

— Ah! — esclamò Soave. — Dunque non mi ero ingannata! Non era lei nella tua stanza!

— No, — dissi, — non era lei. E mi salì alla gola un rantolo di riso.

— E chi era nella tua stanza? — domandò Soave, con tono imperioso.

— Non ti riguarda, — risposi. — Del resto, se vuoi saperlo, era Sterpoli, quello che conosci.

— Lui! lui! — gridò Soave, e fece un moto improvviso come se avesse voluto fuggire. Ma io soffocai le sue grida chiudendole la bocca con una mano, e afferrandole un braccio la costrinsi a rimanere.

— Non gridare, idiota! — le ordinai infuriato. — Vuoi destare tutta la casa?

Soave si lasciò cadere sopra un gradino, e come svenuta si abbandonò contro il muro. Poi riaprì gli occhi, e levandoli umilmente su me, sussurrò:

— Non sai dunque nulla? Kate era appena rientrata in casa, ed io mi stavo spogliando. Era già tardi. Kate piangeva e non riuscivo a farla parlare. — Ma parla, dunque, per l'amore di Dio! supplicavo. Che cosa è accaduto? E lei singhiozzava e non riusciva a spiccicare una nota. Improvvisamente si ode un tonfo alla porta, uno schianto, e lo sbatacchiare delle due imposte contro il muro, un tumulto di passi su per le scale, e un mugolio sordo che sembra di belva. Sterpoli, lui, proprio lui, si sente correre per le stanze gridando: — Dove siete, maledette ruffiane! Fuori! Fuori, ch'io vi scanni! Tutta la credenza della stanza da pranzo precipita con un fracasso enorme, tutto va in pezzi, sembra che crolli la casa, e sento Kate che grida: mamma mia! Io non mi muovo: ero fredda come il marmo. Si direbbe che tutti siano morti. Non odo più nulla. E poi la voce di Sterpoli grida: — E ora scanno quell'altra! — e si butta giù per le scale. I suoi passi si allontanano per la strada, ed io con il cuore in bocca mi affaccio sull'uscio, e vedo Kate lunga distesa fra uno sterminio di bicchieri, le sottane rovesciate, come morta. Ma non era morta. Apre gli occhi e dice: — Madonna mia perdonatemi... E si mette in ginocchio e prega. Mi avvicino a lei, e quando vede che sono io: — Brutta bastarda, — dice, — ti fosse cascata la lingua per il troppo gridare! E si mette a piangere e a battersi il petto: — Maria Vergine, perdonatemi voi... Io penso a Daria e a Sterpoli che è impazzito, e prendo questo scialle, e mi butto anch'io per le scale, e corro corro a casa di Clauss, e, arrivata dinnanzi al cancello, vedo Sterpoli che ne esce. Il vicolo è stretto e non posso più fuggire. Mi faccio piccina contro il muro. Sterpoli cammina adagio, si ferma a ogni passo come un ubriaco, parla a voce alta, e ride. Mi passa dinnanzi senza vedermi. Ma, non so come, a un tratto si volta, e allora i suoi occhi si fissano dalla mia parte, e torna indietro. Io mi nascondo il viso nello scialle e non vedo più nulla. Lo sento che è a un passo da me, la terra che sgrigliola sotto i suoi piedi, lui che dice: — Sii buona, rondinella. E mi pare che mi stia addosso e che voglia abbracciarmi. Allora spicco un salto e mi butto giù per la scesa come una pazza, mi nascondo in una pianta di oleandro e non mi sono mossa più. Mi parve un secolo. Finalmente Sterpoli passò e disparve. Allora sono uscita, sono tornata su, il cancello era aperto, una finestra era illuminata, sono entrata in giardino, ho chiamato, nessuno ha risposto... Ho avuto paura che qualcuno dalle ville vicine mi udisse. Ho aspettato. Poi ho pensato a te e sono venuta a cercarti.

Tacque e incominciò a singhiozzare.

— Bene! — dissi io. — E dopo tutta questa storia perchè Daria dovrebbe essere qui con me? Che cosa sono io? Che cosa è Daria? Finitela con questa commedia! Non temere. Sterpoli non ha scannato nessuno.

— Sì, ma allora, dimmi, dove sarà?

— E che importa a me di saperlo? — risposi. — Vuoi che io vada a cercarla nel letto di Clauss per farti contenta? E dove vuoi che sia? Vuoi che ti porti io per mano dietro la porta della loro camera, e che contiamo insieme i baci che si danno, e gli abbracci, e il resto? Vuoi che io faccia, io, quello che Sterpoli non ha fatto, perchè lui è ubriaco e io sono sveglio? — Ah! sono sveglio, ora, ben sveglio, bambina mia! — esclamai, trascinato da una specie di esaltazione ironica. — Sveglio! Non mica addormentato come oggi! Così avessi veduto sempre tanto chiaro! Non sono più un ragazzo ingenuo, non credo più a nulla. Se tu non fossi tu, ma Daria in persona, e non stessi lì a piangere, ma a supplicarmi, ma ad adorarmi in ginocchio, ma a baciare la terra dove posano i miei piedi, non ti crederei, non ti crederei, e scoppierei dalle risa. Altro che carezze sulla bocca, altro che bisbigli di parole tenere nell'orecchio, altro che sguardi caritatevoli voglio io! E io stesso ti porterei per mano da Clauss e gli direi: Eccola questa sgualdrina! Te l'ho portata. Prenditela...

Sudavo freddo, la testa mi doleva. Nelle orecchie avevo il tumulto di una burrasca. Non ci vedevo più.

— E ora vattene! — dissi. — Vattene via...

La urtai più volte con la punta del piede, ma sopratutto il mio ridere a scatti, a sussulti, dovette spaventarla. Senza altre parole, singhiozzando, Soave scese le scale e scomparve. Mentre, barcollando, disfatto, esausto, ripercorrevo il corridoio per rientrare nella mia stanza, la voce di Sterpoli echeggiò dietro l'uscio socchiuso, chiamandomi per nome.

Entrai. Stava seduto sul letto, voltato verso l'uscio, con la faccia dipinta di paura.

— Ah! — disse, — sei tu...

Abbassò il capo, si passò un fazzoletto sulla fronte e domandò:

— Dove sei stato?

XI.

Il silenzio che seguì fu lungo e penoso. Nessun rumore nella casa o nella strada. Una solitudine sconfinata. E in quel gran vuoto, in quello spazio senza limite, noi due seduti sul letto, noi due vicini, noi due soli, sperduti in quel mondo vasto e vacuo come un abisso! Ah! come tutto era ridicolo in noi e intorno a noi: i nostri abiti, le nostre tube nere e lucide sui cuscini; i nostri volti attoniti e quel dolore che affratellava improvvisamente due creature estranee, che ci sospingeva l'un verso l'altro, lui e me, con un trasporto pieno di timore e di speranza; di speranza e di tenerezza; di molta tenerezza e di molto amore. Quanto era accaduto un momento prima, quell'eccitazione crudele, quel barlume di coscienza ironica, tutto era svanito. Rimaneva il peso inerte di un doloroso ricordo già lontano. Una commozione insensata. Uno smarrimento cupo e angoscioso. La prima brezza mattutina entrò con un lieve soffio nella stanza e mi accarezzò la faccia. Finalmente Sterpoli, forse scosso da quella stessa carezza di frescura, mormorò:

— Che fare? Che fare? Ormai è finita per sempre. Ah! non si può tornare indietro: non si può ricominciare da capo. Ognuno ha la sua propria sorte, un destino infame. Non c'è scampo. Non c'è modo di fuggire, d'indietreggiare, di resistere! Una voce è sempre presente, una voce imperiosa che dice: — Ubbidisci! E tu curvi le spalle e ubbidisci, umilmente ti sottometti al tuo destino di schiavo. Che fare? Come potevo io resistere o fuggire? Mi aveva detto: — Sarò tua. Tutto il male sarà compensato. Tu sarai felice! — ed io ero come un prigioniero al quale si dice: — Sta lieto! Domani ti apriremo le porte. Il mondo sarà tuo. Promettere la felicità? Io ero già pazzo di gioia al pensiero che sarei stato felice, che ella sarebbe stata mia. Mia! Perchè questa parola è magica? Quale ebbrezza! Ma d'un colpo, in un attimo, questo sogno rovinava. Con frastuono immenso, con scompiglio spaventoso, questo sogno rovinò sul mio capo, su me, e mi seppellì vivo sotto le sue rovine. — Che fare? — urlavo disperatamente. — È possibile? È vero? — e tutto ciò che toccavo, riducevo in frantumi, in briciole, in polvere! L'idea della morte mi balenò subito nel cervello. Subito la sua figura, schifosa e orrenda, m'apparve e si mise al mio fianco, e mi avvolse con il suo sguardo buio, beffarda e amorevole, spaventosa e attraente. — Che vuoi da me, civetta? — urlavo, ed ella mi additava con gesto servile la sua ghirlanduccia intorno al cranio vuoto, intorno al cranio nudo e risonante, per indicarmi che non tutti i fiori che fioriscono sono di questa terra, di questa terra fangosa e verminosa, di questi giardini che noi irroriamo di lacrime e di sangue! — Morire! dicevo a me stesso. Anche questa è una salvezza, un rifugio, uno scampo. Si può morire. E mi pareva di udire una soave musica di trombe angeliche, lontano e meraviglioso concerto. Di essere libero e insensibile, leggiero e felice. Mi vedevo disteso sopra un letto abbrunato, con questo vestito e questa tuba, e intorno a me s'affollavano uomini e donne che dicevano singhiozzando: — Mi pento di averlo offeso! Mi pento di non averlo amato! Poi ad un tratto tutti si traevano da un lato e Daria si avanzava lentamente, tenendo una rosa rossa fra le dita; s'avvicinava e mi appuntava quella rosa sullo sparato. — Mi pento, diceva guardandomi come una madre guarda il suo bimbo morto. Poi si curvava per posare un bacio sulla mia bocca. Ah! io non sentivo quel bacio! La mia bocca era insensibile. Io non potevo muovermi, alzarmi, abbracciarla, stringerla e tenerla contro di me, e dirle — Vedi? per te mi sono ucciso. Ora mi ami? No: non potevo nè muovermi nè parlare. Allora un uomo si faceva largo fra gli altri, la prendeva per le spalle e la spingeva via. Ed io avrei voluto saltare dalla mia bara (ero disteso in una lunga bara), aggredirlo, insultarlo, percuoterlo su quella faccia impassibile, su quella bocca sempre vittoriosa, urlare: — Lasciala! L'ho pagata col mio sangue! È mia! Ma rimanevo inchiodato tra quei quattro assi ed egli se ne andava con lei, tranquillamente. A che giovava dunque morire? Perchè morire? Perchè uccidersi? E il mio furore cresceva, cresceva la mia disperazione. Improvvisamente mi accorsi di correre lungo una strada buia, sulla quale ogni tanto s'aprivano rare stazioni illuminate, e dietro di me con rumor di zoccoli e di scope, con fracasso di forche e di molle, correva saltando una torma di folletti e di streghe, di spiriti neri e indemoniati. Così giunsi correndo dinnanzi alla casa di Clauss. Mi fermai. Improvvisamente tutti quei folletti svanirono, ed io mi ritrovai solo, sotto una luna livida che sbavava su me la sua luce da cimitero. Il cancello era socchiuso. Guardandomi intorno come un ladro, adagio lo spinsi ed entrai. La casa era buia, silenziosa, deserta: tutte le finestre chiuse e spente. Cauto salii le scale. Qualche cosa che era in una delle mie tasche mi punse la coscia. Trattenni a stento un grido di dolore e continuai a salire. Buio. Silenzio. Odor di fiori, di gigli, di rose. Più mi avanzo e più intorno a me le tenebre s'infittiscono. Mi sembra di essere in un castello fatato e di salire sopra una torre. Ad un tratto scopro uno spiraglio, uno spiraglio sottile sottile di luce: scorgo una fessura illuminata, una piccola striscia gialla e lunga al mio fianco. Quella lingua di luce mi punge, mi spaventa. Vorrei indietreggiare e fuggire. Ma le mie gambe vacillano, la mia testa gira come una banderuola, e sono pietrificato. Le orecchie ronzano e sembra che un frastuono immenso di campanelli riempia la casa. E in quel ronzìo, in quel tintinnìo assordante, odo una voce, la sua voce, e poi uno scoppio di risa dietro la porta. Un passo, sì, un passo si avvicina. La mia anima si sprofonda in un imbuto, mi appiattisco in un angolo, divento piccolo, piccolo e trasparente, invisibile. La porta si apre e un'ombra appare illuminata da tergo, si muove, si avvicina. Ora è a due passi da me, e ora a un passo, e ora mi sfiora, quasi mi tocca. — Chi è? domanda imperiosamente quella voce. So bene che dovrei tacere. Ma non posso. — Sono io! dico come in un soffio. L'ombra si arresta. — Chi è? ripete quella voce. — Sono io, Clauss, sono io! — rispondo. Poi alzo il braccio, lo alzo appena e lo abbasso lentamente, lentamente. Una voce rantolante sospira: — Daria! Aiuto!... E odo un tonfo e qualche cosa di molto pesante cade di schianto ai miei piedi. — Sono io, — ripeto ancora. E poi più nulla...

Sterpoli si alzò. Un'ombra spaventosa era nei suoi occhi. Egli si curvò per baciarmi; ma io liberai le mie mani dalle sue, lo respinsi; inorridito lo respinsi e gridai:

— Vattene! Vattene! Assassino!

Egli fece un mezzo giro su sè stesso e si abbattè ai piedi del letto, come morto.

La candela si spense. Allora un gran panico mi invase, e corsi qua e là per la stanza. Rovesciai una sedia e quel rumore mi gelò il sangue. Mi pareva d'udire passi su per le scale e colpi sordi contro l'uscio, voci rauche, grida arrabbiate. Chiusi la finestra, chiusi l'uscio a doppio giro di chiave, e mi rifugiai in un angolo. Mi raggomitolai in un angolo e attesi. Il buio era opprimente. Soffocavo. Vedevo nelle tenebre, comparire e scomparire, accendersi e spegnersi, strane luci bianche. Qualcuno si muoveva, si avanzava strisciando. Sentivo il suo alito gelido sulle mie mani, e con uno sforzo penoso, sempre più penoso, balbettavo: — Indietro! Non mi toccare! Va via! Va via!

XII.

A traverso le tende semichiuse filtrava una luce scolorata e falsa: era come una mano fredda che mi sfiorasse le palpebre. Stavo disteso sul letto, con gli occhi socchiusi, senza muovermi. Quella luce non mi cagionava nessuna maraviglia, nè il fatto di esser disteso sul letto, vestito, nè il fatto di esser desto, nè le rose gialle e spampanate sulle pareti con certi lor gambi intrecciati e irti di spine, nè gli abiti appesi in un angolo come impiccati. Bensì cercavo di spiegarmi che cosa fosse una macchia nera che vedevo a piè del letto, un groviglio nero da cui uscivano, non si sa come, due, due mani... Sì... Vedevo che erano due mani, due mani lunghe e pelose, con strani luccichii sulle dita; e la loro positura era così stravagante che ora pareva chiedessero un'elemosina e ora offrissero un'invisibile offerta, e ora non offrissero e non chiedessero nulla, ma fossero là, abbandonate e senza vita, estranee a qualunque corpo di uomo di donna. Immobilità. Ed io non riuscivo a comprendere. In quel viluppo nero, vicino a quelle mani, si scorgeva anche una macchia rossiccia, come un involto di carta rossa: la testa fulva di Sterpoli. Ma proprio non riuscivo a trovare un cominciamento in quel garbuglio di cose, non una fine, e nemmeno un ordine qualsiasi che me ne spiegasse la natura. Sapevo che avrei potuto alzarmi e toccare, frugare, trovare ciò che cercavo. Ma mi pareva di non potermi muovere senza turbare la gran pace che, coricato, riposava con me. E poi c'era qualche cosa, non so quale, che continuamente mi distraeva e mi svagava, deviando i miei sensi mal desti. Ora erano gli abiti appesi al muro, quelle gambe e quelle braccia vuote e pendule, quelle ridicole membra di stracci; ora una rosa purpurea che vedevo sul mio petto e che pareva una bella macchia di sangue. Che cos'era quella rosa? Chi me l'aveva appuntata sul petto? O meglio: chi mi aveva fatto quella bella ferita? Ecco: io non riuscivo a comprendere, e di nuovo i miei occhi si posavano su quel mucchio di cose immobili a piè del letto, su quella macchia fulva, e su quelle mani, su quelle due mani abbandonate. Una voce interna mi diceva: — Tu devi esser felice. Ed io, con la stessa voce, rispondevo: — Sono, sono felice. E ancora: — Tu volevi morire. Ed io: — Sì, è vero, volevo morire. E c'era un nodo stretto nel mio cervello, che non si voleva sciogliere; c'era un fiore chiuso che non si voleva aprire; intorno al quale i miei pensieri vaghi, incerti, s'aggiravano come farfalle...

Così vissi. A lungo, a lungo, nere farfalle si aggirarono intorno a quel fiore chiuso.

PARTE SECONDA Come finì la collana.

Se io non avessi scritto soltanto per alleggerire il peso dell'anima mia la pietosa storia di Daria, ma mi fossi lasciato andare a pubblicarla sotto forma di racconto, come tanti fanno oggidì, che invitano nella loro intimità il maggior numero di persone ad udire i piccoli casi della loro vita, più di un lettore si sarebbe domandato dove mai fosse andata a finire quella collana, adorna di uno smeraldo, che Daria gettò in viso a Sterpoli quando affrontò Clauss all'Alhambra, la sera prima della sua morte. Capisco anche che a molti altri l'omissione di questo particolare sarebbe passata inosservata; tanto più che oggi la moda vuole che l'arte del romanzo e della novella sia trattata sinteticamente, a grandi linee, tutta stretta intorno alle cose essenziali e necessarie, senza quel cumulo di descrizioni minute e di inutili particolarità che usavano i romanzieri d'un tempo, quando gli uomini non avevano la fretta che hanno adesso e l'arte narrativa non aveva dato ancora tanti grandi scrittori. Ma per me, la fine di quella collana dallo smeraldo ha un'importanza grandissima, e non posso assolutamente passare sotto silenzio la sua breve storia.

* * *

Quando Daria si strappò dal collo quella collana e la scagliò con ira contro Clauss, colpendo invece Sterpoli in pieno viso, la collana cadde ai piedi di Sterpoli tra molti cuscini disseminati sopra il tappeto, e là rimase, dimenticata da tutti. Chi volete che pensasse a quel gioiello, per quanto esso fosse prezioso, quando ora sappiamo fino a che punto tutti noi, presenti a quella scena, fossimo intimamente sconvolti, e più di ogni altro Clauss, il quale pure all'apparenza sembrava conservare intera la padronanza di sè medesimo? Sterpoli certo non si curvò a raccoglierlo, mezzo acciecato com'era, e poi non ne ebbe il tempo, perchè se ne fuggì ad inseguire Daria, come abbiamo veduto. Clauss non lo raccolse egualmente, perchè egli avrebbe dato uno smeraldo mille volte più grosso e luminoso di quello per un bacio di Daria, e certo non importava nulla a lui di sapere chi lo avrebbe raccolto e chi se ne sarebbe impadronito. Io non lo raccolsi, perchè dimenticai subito che la collana fosse caduta fra quei cuscini, mentre più d'ogni altro l'avevo ammirata sul candore niveo della gola di Daria. Poi Clauss ed io ce ne eravamo andati, lasciando gli altri ancora seduti sui divani, e gli avvenimenti che seguirono la notte e il giorno dopo ci condussero pur troppo lontani dal ricordo di quel disgraziato gioiello. Quelli che rimasero dopo la nostra partenza avrebbero ben potuto ricordarsene, non solo perchè dovevano essere molto più calmi di noi, ma perchè, discorrendo ancora a lungo tra loro della scena che s'era svolta sotto i loro occhi, avrebbero dovuto anche soltanto incidentalmente parlare della collana e quindi pensare di raccoglierla. Sta di fatto che assai tardi, a notte molto inoltrata, quei giovani chiesero i loro pastrani e le loro tube al guardarobiere, e se ne andarono facendo pronostici sulle possibili conseguenze dell'avvenimento che s'era prodotto quella sera. E la collana rimase fra i cuscini, là dove era caduta.

* * *

È vero che quella notte, fantasticando di Daria, la sua immagine non m'apparve mai disgiunta dallo splendore magico dello smeraldo che avevo veduto brillare sulla nudità del suo collo. Quella pietra preziosa era per me quasi un attributo della sua bellezza, come i suoi occhi oltremarini, come le vene azzurre delle sue tempie, come il rosso crudo di cui ardevano le sue labbra. Anche più tardi, quando il delirio che per intere settimane mi tenne sospeso tra vita e morte finalmente si placò, l'immagine di Daria mi riapparve nella precisione lucida del primo ricordo con quello smeraldo verdissimo sospeso alla gola. Nel delirio non l'aveva mai abbandonata. Vedevo colori meravigliosi, e sopratutto il sangue, di cui tutte le cose mi apparivano macchiate e grondanti, era d'un rosso paragonabile soltanto al fuoco e ai tramonti d'estate. Ma il verde di quella gemma vinceva in splendore, in violenza, in bellezza ogni altro colore, nelle mille strane forme che assumeva nell'incubo. Ora era un lago verde, nella cui trasparenza guizzavano pesci di madreperla, di ambra e di corallo, dal cui fondo sorgevano ondeggiando foreste d'alghe e di piante d'ogni varietà di verde; e su quelle piante sbocciavano fiori enormi, bianchi e neri, che poi si distaccavano dai rami e salivano a galleggiare sull'acqua come meduse. Ora invece era una verde pupilla che s'apriva improvvisa in un cielo buio, e da essa scendeva un raggio verde diritto come dalla pupilla di un dio, fluido, abbagliante, che dove si posava divampavano altissimi incendi, serpeggiavano guizzando fiamme verdi, e intere città con torri e castelli erano avvolte da un alone livido fosforescente, e subito incenerite. Le loro rovine formavano poi alte montagne di verdi tizzi ardenti.

Ma la collana di Daria, chiusa nella buia mano di un miserabile rigattiere, non mandava più alcuno splendore. Un ragazzo, la mattina che seguì quella notte memoranda, spazzando, l'aveva trovata là dove era stata abbandonata da tutti, e senza neppure il tempo di fiatare, se l'era cacciata nella più nascosta tasca dei suoi calzoni, tutti rattoppati davanti e di dietro. Anzi quella tasca segreta altro non era che una delle tante toppe dei suoi calzoni, nella quale il furbo ragazzo aveva fatto un buco. Quel ragazzo si chiamava Bombita, e suo padre era un facchino. All'Alhambra esercitava il nobile mestiere di sguattero, in attesa di vestire una livrea gallonata e di essere promosso ruffiano. Quella mattina Bombita, che era d'umor taciturno e usava di solito accompagnare l'andirivieni della sua scopa con dispettosi grugniti, l'udirono invece cantare, con una bella voce di mezzo soprano, una delle tante canzoni che là dentro sapevano anche i muri. — Guarda, disse il maestro di casa che in maniche di camicia lustrava le maniglie alle porte, nella testa di Bombita è nato un gallo! Nella testa di Bombita poteva essere nato non soltanto un gallo, ma financo un asino, perchè era non solo rotonda come un uovo, ma grossa come una zucca. Quel ragazzo era rachitico, si può dire che fosse tutta testa; sulla testa cresceva poi un arruffio di capelli gialli come la stoppa, e il suo viso era tutto macchiato di lentiggini. I suoi occhi piccini piccini sembravano anch'essi due macchie un poco più rosse delle altre, e non c'era caso che ti guardassero in faccia. Ma non era nato, no, un gallo nella testa di Bombita. Lo sapeva bene lui, che cosa gli fosse nato sotto i piedi, quella mattina, per cantare così.

* * *

A mezzodì Bombita si slacciò il grembiule e lo buttò in un angolo. Ma i calzoni se li tenne addosso, e, senza voltarsi indietro, infilò l'uscio e se ne andò dove era atteso a quell'ora, e cioè al mercato dei pesci, sulla banchina nuova del porto. Come ogni giorno, ad ogni angolo di strada incontrava un amico, tutti in giro allo scoccare di mezzodì per importanti affari d'appetito. Ma Bombita camminava con la testa alta, i capelli al vento, le mani in tasca, a passi da granatiere, e non si degnava di guardare in faccia nessuno di quanti incontrava lungo la via. Il mercato era semi deserto, perchè a quell'ora chi aveva voglia di pesce lo andava a cercare nelle casseruole piene di salse profumate, o nelle padelle dove stava guizzando più che vivo tra gli scoppi e i sibili dell'olio bollente, anzichè nelle ceste umide e algose dei pescivendoli, a pesarlo morto sulle loro puzzolenti bilance. Le navi ormeggiate alla banchina dondolavano i loro alti alberi alla brezza lieve di levante, e sul ponte fumavano i fornelli dei marinai, che, sdraiati sui sacchi e per i mucchi di gomene arrotolate, guardavano sonnecchiando la poca gente passare in fretta lungo il molo. I cani randagi facevano allora le pulizie del mercato, pronti a cedere la più bella collana di smeraldi per una lisca di triglia. Ma Bombita non li guardò neppure, quei suoi modesti colleghi, e tirò via verso una barca tirata a secco dietro il casotto dei doganieri, dove era aspettato da Egle. Egle, la figlia del pescatore, aveva tredici anni, mentre Bombita non ne aveva che dodici. Era una bambina rotonda come una palla, due gote rosse come due mele, e un par d'occhi che parevan fatti con due scaglie di vetro nero. I suoi capelli erano crespi come la lana e opachi, corti e arruffati, e legati dietro in una treccia così grossa e sgraziata che somigliava la coda mozza di un cane.

Egle stava seduta sotto la barca e sgranocchiava tranquillamente una crosta di pane, quando Bombita le si parò dinnanzi con quell'aria fiera che si conviene ad un vero conquistatore. Egli si lasciò andare di peso a sedere accanto a lei, e ridendo silenziosamente le dette una gomitata nel fianco.

— Stupido! — disse Egle. — Non sai fare altro che dar gomitate tu! Guarda Andromaco piuttosto come fa con Rosina. Guarda che bel nastro d'oro porta alla cintola! Quello glielo ha regalato Andromaco.

Bombita strizzava gli occhi, e, guardando Egle, rideva silenziosamente, e batteva il pugno sul ginocchio dove sentiva il duro dello smeraldo. Lo zuccone che soffriva terribilmente di gelosia, e sempre, solo a nominargli Andromaco o Ninotto, copriva Egle di sputi, questa volta si contentò di darle tre pizzicotti nella schiena a denti stretti e schizzando gli occhi dalle orbite. Ma stette muto, e poi ricominciò a sorridere. Egle fece la faccia da lacrime, cercò di tastarsi la schiena dove i pizzicotti le bruciavano, poi mostrò un palmo di lingua all'amico e con disprezzo disse:

— Se non la finisci, me ne vado e non mi vedi mai più...

Buttò in mare quell'avanzo di crosta di pane che teneva in mano, voltò le spalle a Bombita, e, puntati i gomiti sulle ginocchia e il mento sui pugni chiusi, guardò verso le barche che si dondolavano sull'acqua.

— Sei come tuo padre, tale e quale, disse con voce agra, senza nè muoversi nè voltarsi, come se parlasse al vento, che tutti dicono che altro che di bastonate non ha mai nutrito nè te nè tua madre. Almeno mi dicessi dov'è quell'anello che mi avevi promesso, e ne parlavi sempre, quando facevo all'amore con Tristano, e non ne volevo sapere di piantarlo per fare all'amore con te. Se lo saranno mangiato i pesci!

E mentre Egle parlava voltandogli la schiena, Bombita, ficcato il dito nel buco della sua toppa, ne aveva tirato fuori a poco a poco la collana, finchè era venuto alla luce lo smeraldo che il sole d'un tratto riempì di scintille abbaglianti. Poi, curvandosi appena, l'aveva con due dita tenuta sospesa sul capo di Egle, e a poco a poco, abbassando il braccio, gliela calò sul naso, finchè Egle la vide e ammutolì. Vide bene, Egle, che era una bella collana con una bella pietra verde tutta piena di verdi sfavillii; ma non la toccò, e, abbassato il capo, stette silenziosa e imbronciata a raspare con le unghie la terra tra i selci. Poi, vedendo con la coda dell'occhio che quella collana continuava a ciondolare all'altezza della sua fronte, con un gesto improvviso la strappò dalla mano di Bombita e se la nascose in grembo.

Bombita non parlò, non cercò che Egle si voltasse a guardarlo e a sorridergli, non aspettò nemmeno che lo ringraziasse, considerando quanto egli fosse più generoso e grande di Andromaco ed ella più fortunata di Rosina. Aveva appetito. Si alzò, e se ne andò di corsa, sicuro che Egle lo avrebbe aspettato anche un anno intiero là, seduta sotto la barca. Ma, mangiata alla svelta la zuppa, sarebbe ritornato fra un'ora.

* * *

Egle, rimasta sola, allargò le ginocchia e guardò la collana dallo smeraldo che le stava ammucchiata in grembo. Non ebbe neppure un piccolo pensiero di gratitudine per Bombita, e poichè certamente una collana così bella costava più di sette soldi, forse dieci e anche venti, ella giudicò che Bombita doveva averla vinta ai giardini pubblici, giocando al giuoco della campana con qualche ragazzo signore ancora più stupido di lui. La prese fra le dita e incominciò a intrecciarla in mille modi, e spesso, allontanando da sè la mano e tenendola aperta contro il sole, guardava le belle luci di quella pietra verde che splendeva di mille luci diverse. Certo che cosa era il nastro dorato di Rosina in confronto di quella bella collana? Chi sa quanto tutte le sue rivali l'avrebbero invidiata, vedendola apparire nella corte con quello splendore al collo, e come si sarebbero consumate di rabbia perchè non ne avevano una che potesse valere quanto quella! Rosina avrebbe picchiato Andromaco, e forse Andromaco, stanco di buscarne da quella brutta civetta, si sarebbe deciso a fare all'amore con lei. Egle aveva posato lo smeraldo dinnanzi a sè sopra un sasso, perchè il sole lo illuminasse in pieno. Ella guardava l'acqua verde che ondeggiava sotto i fianchi delle navi e pensava che la pietra della collana era proprio verde come una goccia di quell'acqua.

Anche Porfirio guardava, appoggiato a una mezza botte, certi pescatori che risciacquavano le loro reti tutte piene d'erbe marine, e, vedendole gocciolare contro il sole d'oro, pensava quanto egli sarebbe stato ricco e felice se avesse conosciuto il segreto per trasformare quelle gocciole iridescenti in tante belle pietre preziose. Ma nel suo sacco, che stava posato floscio ai suoi piedi, non c'erano che stracci e un vecchio orologio a pendolo che da un pezzo aveva cessato di segnare il tempo. Anche Porfirio era vecchio come quell'orologio, e il suo cuore aveva da un pezzo cessato di battere al semplice richiamo delle illusioni. Era stato giovane come tutti gli uomini, e anche lui aveva avuto i suoi sogni. Ma quanto quei giorni felici erano ormai lontani! C'è chi sogna una donna amata, c'è chi sogna la gloria, c'è chi sogna la ricchezza, tesori nascosti, colpi di fortuna, eredità favolose, affari indovinati. Il sogno costante di Porfirio, durante tutta la sua vita, finchè la vecchiaia non aveva steso un velo opaco sulla sua immaginazione, era stato quello di trovare a un angolo di strada, camminando camminando, come faceva lui, da mattina a sera, di porta in porta, con il suo sacco in spalla e gli occhi bassi, qualche cosa di molto prezioso, che non gli costasse assolutamente nulla, perchè era roba trovata, e che, rivendendola, egli potesse ricavarne tutto guadagno.

Fra sè, il vecchio meditava sulla sua sfortuna, mentre quei pescatori, risciacquando le loro reti, pescavano le false gemme del mare. Il suo tubino calato sulla fronte, il naso arcigno, la pipa corta spenta fra i denti, la barba bianchiccia che gli pioveva giù dal mento sulla vecchia palandrana verde, stava fermo come una statua, incantato dalle magiche luci che saltavano sull'acqua. Ma quando alfine si riscosse, come se improvvisamente al vecchio orologio chiuso nel suo sacco fosse scoccata l'ora fatale, i suoi occhi furono attratti da ben altra visione. Accanto a lui era posata a secco una barca, mezzo rovesciata, con larghi squarci nel ventre e tutta spalmata di nero catrame. Ma di sotto quella barca spuntavano due piccole mani di bambina che giocavano con una pietra verde, simile a una di quelle scheggie di vetro verde, levigate dal mare, che si raccolgono lungo le spiagge. Senonchè quella pietra sprigionava lampi meravigliosi, come avrebbe fatto un vero smeraldo, tanto che al confronto l'acqua verde del mare pareva pallida e opaca. — Vecchia sgualdrina, pensò Porfirio indirizzandosi alla fortuna, quando finirai di tentarmi con i tuoi falsi miraggi? E, dato di piglio al sacco, sputò e fece due passi per andarsene lontano da quel luogo pieno di supplizi.

* * *

Ma, fatti due passi, Porfirio si voltò. Egli non sapeva distaccarsi di là nel dubbio che quel falso smeraldo potesse essere invece uno smeraldo vero. Quanti non tradirono così la fortuna, proprio per averla disprezzata quell'unica volta ch'essa era realmente a portata della loro mano! E Porfirio, perplesso, non sapeva distogliere gli occhi da quella pietra verde che ora, posata sopra un sasso, splendeva ferma al sole; e avrebbe pagato non si sa quanto per sapere con certezza se era un pezzo di vetro verde oppure un vero smeraldo.

Egle intanto era già stanca di quella collana; già non le piaceva più. Poichè certo quella collana, con quella pietra così verde, era una bella collana; ma il nastro d'oro di Rosina era pure un bel nastro; e, come nastro, era senza dubbio tanto bello quanto la sua collana. Egle sarebbe stata mille volte più felice se invece della collana avesse potuto mostrare a Rosina un nastro dorato che fosse più bello del suo. Allora certamente Rosina sarebbe stata umiliata e non avrebbe più portato il nastro di Andromaco come se fosse il più bel nastro dell'universo.

Quando Porfirio, apparendo improvvisamente di dietro la barca, si fermò dinnanzi a lei, e le domandò: — Bambina, che cos'è quella pietra verde che ci giuochi? Egle lo guardò senza paura e rispose: — È una collana, non la vedi? E quando Porfirio, con la voce più buona del mondo e sorridendo amorevole, le disse: — Ah! come faccio a vederla se sono mezzo cieco? Dammela un momento che guardo che razza di vetro è quello... — Egle gliela porse tranquillamente, e si mise a grattar la terra con un sasso.

Porfirio accostò gli occhi allo smeraldo e lo scrutò per ogni verso, lo palpò col polpastrello di ogni dito, lo pesò sul palmo della mano e si mise a ridere. — Scommetto, disse, che l'hai pagato più di quattro soldi. Egle lo guardò con disprezzo e rispose pronta: — Quattro soldi? Più di venti, ne costa... — Per Dio! esclamò Porfirio, più di venti soldi? Se erano soltanto quindici, te lo ricompravo io.

Egle abbassò il capo. Quindici soldi! Forse con quindici soldi, forse anche soltanto con dieci, avrebbe potuto comprare un bel pezzo di nastro d'oro, più bello, più largo, più ricco del nastro che Andromaco aveva regalato a Rosina. Nella vetrina d'una bottega di merciaio, ne aveva veduti dei gomitoli immensi, tutti d'oro, oppure d'oro e argento intrecciati, che erano nastri non mai veduti altrove. Quindici soldi valevano forse quindici volte più di quella collana, che non aveva di bello se non quella pietra verde!

Porfirio sentiva il suo vecchio cuore scoppiare, e di sotto il tubino nero gli gocciolava sulla fronte un sudor freddo. Quello era proprio un vero smeraldo. Ma come la fortuna gli si mostrava fino all'ultimo avara! Quella stupida bambina lo aveva certamente trovato per via, e mentiva quando diceva d'averlo pagato più di venti soldi. Ma lui, Porfirio, nella migliore ipotesi, per averlo, avrebbe ora dovuto pagare almeno quindici soldi, anche se la bambina non ne avesse pretesi ad ogni costo venti. E così la sua gioia non sarebbe stata neppure quella volta piena ed intera.

Allora Porfirio afferrò il suo sacco per il collo, lo squassò e lo sbatacchiò per terra. Il vecchio orologio, risvegliato da quell'imprevisto sconquasso, digrignò i denti di tutte le sue ruote arrugginite e incominciò a battere come un tamburo. E Porfirio, spalancando gli occhi e soffiandosi furiosamente nella barba, disse con voce cupa:

— Bambina, lo vedi questo sacco? Lo senti questo tamburo che suona là in fondo? Questo è il sacco nero dove sta chiuso l'uomo nero, e questo tamburo è la pancia dell'uomo nero che ha fame di bambine vanitose e cattive che portano collane con una pietra verde. Ora guardalo che salta fuori e ti si mangia tutta in un boccone!

Quando Porfirio ebbe pronunciate queste spaventose parole, l'orologio nel sacco, stanco, si era già riaddormentato. Ma Egle coi capelli ritti fuggiva ancora gridando: — Mamma, mamma! e Porfirio non la rivide mai più.

* * *

Porfirio aveva la sua bottega in un vicolo triste dove non risplendeva mai raggio di sole. Era una stanzina umida piena di luridi stracci, di vecchi orologi, di scarpe sfondate, di ferramenta rugginose e di bottiglie vuote. Una bilancia stava appesa a un chiodo. In fondo, tra gli altri stracci, c'erano quelli che gli servivano da letto. Quando Porfirio si fu chiuso nella sua bottega e, acceso un moccolo di candela, aprì finalmente le dita che stringevano la bella collana di Daria, sembrò al vecchio che quelle nere pareti, tutte coperte di ragnatele, si illuminassero di una luce stupenda, come se per il tetto scoperchiato vi fosse piovuta dentro la luna in una notte serena. Ora egli poteva godere liberamente di quello splendore magico, inebbriarsene, e magari piangere di contentezza al pensiero che quello smeraldo era suo, assolutamente suo, e che non gli costava nemmeno un soldo. Sentiva, Porfirio, di non aver vissuto invano tanti anni ingrati a vuotare i guardarobe dei poveri, a frugare nelle immondezze, a raccogliere i rifiuti dei morti, se poi, in fondo a tanta miseria, doveva splendere per lui quello smeraldo meraviglioso che vinceva in fulgore la luce stessa del sole. Dio l'aveva infine premiato!

Porfirio non volle mostrarsi da meno del suo sublime benefattore, e quando il pensiero della Divina Provvidenza balenò alla sua mente eccitata, subito egli cadde in ginocchio; e senza staccare gli occhi dallo smeraldo che la fiamma tremula della candela illuminava in tutto il suo splendore, egli pregò a lungo, umilmente e in silenzio. Chi lo avesse veduto allora avrebbe pensato ciò che tutti falsamente pensano degli avari, e cioè che egli adorasse in ginocchio quello smeraldo. In realtà nello smeraldo di Daria Porfirio adorava unicamente Iddio. Poi si levò, e volle che una giornata tanto memoranda non avesse altro seguito. Se fosse stato un nume, avrebbe comandato al sole di anticipare il tramonto. Non essendo che un povero rigattiere, fece la notte per conto proprio, spense il moccolo, e stringendosi al cuore quella collana tanto amata, si coricò, per dormire, nel suo lettuccio di stracci. Ma il sonno non fu così ubbidiente come egli avrebbe voluto. I suoi occhi non potevano addormentarsi, come accade quando, in estate, coricati sotto un verde albero, un raggio di sole, attraverso il folto fogliame, cade a piombo sulle vostre palpebre chiuse. Quella luce che feriva gli occhi chiusi di Porfirio era un raggio verde smeraldo.

Alfine, senza accorgersene, egli si addormentò, e sognò tutta la notte, ma di quei sogni non conservò, al ridestarsi, alcun preciso ricordo. Appena riaperti gli occhi, egli si sentì felice. Ma prima di afferrare la ragione di quella felicità gli abbisognò di ricercarla a fatica per più d'un minuto. Quando l'ebbe afferrata, se ne rallegrò vivamente. Ma avendo già pagato il suo tributo d'entusiasmo alla propizia fortuna, tenne spenti i fuochi di fantasia e chiamò invece a raccolta le idee pratiche. Il grande affare di Porfirio in quel giorno e per molti giorni successivi, fu di cercare per le cantonate se qualcuno avesse perduta una collana con uno smeraldo e facesse appello all'onestà di chi l'aveva trovata per ricuperarla con la promessa di un premio. Porfirio si sentiva sicuramente superiore a un'onestà che per manifestarsi aveva bisogno di così fatte lusinghe. Ma avrebbe volentieri letto un manifesto concernente lo smarrimento di quella collana poichè quella collana poteva esser stata smarrita, ma poteva anche essere stata rubata; e Porfirio aveva fretta di risolvere con certezza questo dubbio grave, per sapere in che modo comportarsi nel commercio che pensava di farne.

Ma nessuno fece ricerche della collana di Daria. I muri delle case non suggerirono nulla a Porfirio, e Porfirio dovette affidarsi alla propria prudenza, che era in tutto degna di un savio suo pari. Egli dunque continuò a commerciare in stracci e in bottiglie usate, girovagando di porta in porta con il suo vecchio sacco sulle spalle, il tubino unto calato sugli occhi, e in tutti i suoi atti la solita modestia e semplicità. Il suo tesoro lo portava annodato in un fazzoletto e sepolto in una tasca misteriosa che s'apriva nella fodera della sua palandrana. Come tutti gli eroi, egli aspettava pazientemente la sua ora. Quando vedeva una bambina con un vestito scozzese, senza affrettare il passo imbucava la prima porta che gli si parava dinnanzi o voltava l'angolo della prima strada. Con un gesto naturalissimo si calava ancora più sul naso le falde del cappello, e così procedeva fiducioso che la sorte non avrebbe disfatto ciò che aveva fatto una volta. Ma una mattina, mentre avrebbe dovuto svegliarsi con il pensiero deciso di affrontare finalmente l'inevitabile quanto sospirata conclusione di quella strana avventura, il vecchio Porfirio non si svegliò. Un rigattiere suo concorrente gli chiuse gli occhi, che pur senza svegliarsi si erano aperti. Ed è importante sapere che egli fu seppellito nudo in una cassa d'abete.

* * *

L'autunno era trascorso: incominciò il grigio inverno. Io allora mi aggiravo per la mia casa, pallido come un morto, appoggiandomi ad un bastone, cercando a poco a poco di riconoscere le cose alle quali avevo già detto addio quando credevo che non le avrei più rivedute. La mia febbre era durata molte settimane, e quando alfine mi ridestai dal suo sonno malefico, tutti mi dissero che io, più d'una volta, avevo varcata d'un passo la soglia dell'al di là. Ma sempre il peso vivo dei miei vent'anni m'aveva tirato indietro, ed ero infine rimasto con quanti ad ogni costo volevano che non me ne andassi da quello che, per ironia, si chiama il banchetto della vita.

La stagione era triste, grigia, piovosa. Io non potevo arrischiarmi nè al vento, nè alla pioggia, nè all'aria gelida di novembre. Dalla finestra dietro la quale rimanevo per lunghe ore seduto, vedevo le colline deserte e squallide, i campi grigi, il bosco tutto giallo e nudo. Se dal cielo sempre nuvoloso un povero raggio di sole per un momento appena illuminava quel paesaggio invernale, si accendeva qua e là, sorridente, qualche raro cespuglio ancor verde, come una speranza subito soffocata di primavera. Il cielo non aveva più luna, non più stelle. Perciò quella stagione era senza notti. Era tuttavia piena di tenebre, che calavano assai presto e duravano a lungo, e costringevano tutte le cose ad una dolorosa cecità. Allora io mi rifugiavo accanto al fuoco, e l'immagine di Daria, quella di Clauss, quella di Sterpoli, disgraziato, mi visitavano, e si sedevano al mio fianco, rimanendo là mute ed immobili finchè io con uno sforzo non le mandavo via. Ma non appena se ne erano andate, bastava che distrattamente rivolgessi loro un pensiero, per vederle subito riapparire dall'ombra in cui erano scomparse, come se il loro compito fosse di tenersi sempre pronte a comparirmi dinnanzi ad ogni mio richiamo. La mia sola speranza era, prima di addormentarmi, di vedere la mattina dopo la neve candida e silenziosa posarsi sulle colline, sui campi, sui boschi.

Una di quelle sere si festeggiava il compleanno di Silvina. Eravamo tutti seduti intorno alla tavola imbandita. Mia madre, guardandomi più teneramente che mai, mi supplicava con gli occhi di sorridere un poco, e Silvina, vestita con un bellissimo abito nuovo di seta cangiante, non staccava mai le pupille da un anello di platino con un piccolo fiore di smalto azzurro che portava all'anulare destro, ed era il dono che le avevano fatto le sorelle insieme. Mio padre era stato in città tutto il giorno, e la diligenza era arrivata allora allora dinnanzi alla nostra porta, e s'udivano i cavalli nitrire, scalpitare e scuotere le loro squillanti sonagliere. Non aspettavamo che lui per incominciare il pranzo. Ed egli entrò ridendo, abbracciò la mamma, baciò tutti noi, e si fermò dietro a Silvina. Si frugò in tasca, e guardandoci uno per uno con occhi che esprimevano una gran meraviglia, ne trasse una collana adorna d'uno stupendo smeraldo. A quell'improvvisa apparizione io mi sentii tutto gelare il sangue e chiusi gli occhi per non vedere quello smeraldo; li chiusi per non vedere l'immagine alta e diritta di Daria che era apparsa al fianco di mio padre quando la luce verde dello smeraldo aveva brillato fra le sue dita. E quando li riaprii, Silvina aveva al collo quella collana, e la pietra verde splendeva sulla sua esile gola.

Mio padre disse onestamente:

— Deve essere roba rubata, perchè l'ho presa quasi per nulla.

Poi baciò in fronte Silvina e soggiunse:

— Neppure tua madre, un gioiello di questa bellezza, non l'ha avuto mai!

Si sedette soddisfatto e spezzò il suo pane.

PARTE TERZA Silvina.

I.

Delle mie tre sorelle, Silvina, la minore, è oggi una principessa. Porta vestiti sfarzosi che il principe paga per lei, grossi brillanti alle dita, ed esce per la città adagiata in una grande carrozza a due cavalli, con cocchiere e lacchè. Lungo la strada semina occhiate come elemosine. I suoi occhi, che erano un tempo semplicemente chiari, come quelli di mia madre, sono ora grandi il doppio e cerchiati di una spessa ombra. Ciglia e sopracciglia, che erano bionde, sono diventate nere; e somigliano al velluto. Attraverso questo negrore notturno i suoi occhi scuri mandano luci fredde e pallide come scintille.

Se non sapessi che è veramente Silvina, io stesso non la riconoscerei. Soltanto i suoi capelli sono rimasti quelli che erano; se mai con riflessi dorati qua e là più vivaci, specie dove a ondate si riempiono di bagliori. Si ricorderà mai, la piccola, dei giorni in cui mia madre glieli pettinava, quei suoi capelli meravigliosi, lei seduta dinnanzi allo specchio, mia madre in piedi dietro le sue spalle a dipanarli come oro filato? La mano di mamma si posava ogni tanto sul suo capo e vi si indugiava un poco, come si posa la mano sul capo di un bimbo sperduto e gli si dice: — Ti protegga Iddio, poverino, così bisognoso d'aiuto! — E anche continuando a passare il pettine nelle sue chiome disciolte, e poi a spartirgliele e ad annodarle, per tutto il tempo mia madre la guardava attentamente nello specchio, come se cercasse qualche cosa di molto nascosto in quell'immagine che lo specchio racchiudeva nella sua cornice.

Allora Silvina era appena fanciulla; aveva sì e no sedici anni. Le piaceva vestir bene. Nella nostra casa si avevano abitudini signorili, ma da gente di campagna, semplici. Mia madre vestiva e si pettinava all'antica. Era bellissima, ma come le donne potevano piacere un tempo. Così appunto era piaciuta a mio padre. Silvina invece voleva abiti di seta, tagliati con uno stile che doveva essere nuovo. In realtà ella inventava i suoi abiti, ricercando, per lunghe ore e spesso per interi giorni, fra pieghe di stoffe di solito cupe come il suo carattere, fogge capricciose come i suoi pensieri, che erano d'una volubilità straordinaria e più stravaganti delle nuvole. Il suo segreto, credo, consisteva nel comporre intorno alla sua persona, che era mingherlina, esile e di statura poco più che infantile, dei larghi e ariosi fiori, un fiore unico anzi, come un gran giglio o una gran rosa rovesciata, entro cui, senza scomparire del tutto, il suo corpo piccolo stava come un gambo. Così vestita pareva che il suo abito la portasse, e che volasse come una farfalla.

Mio padre era un uomo ruvido, e per ciò gli piaceva quella piccola creatura delicata e difficile. Egli la seguiva sempre con occhi pieni di allegrezza, quando la vedeva passare per il giardino o muoversi per la casa spaziosa e nuda. Credo che la paragonasse anch'egli a una farfalla o a un fiore, e che fosse felice e teneramente innamorato di lei. Gli piacevano i suoi capricci, la stranezza e la novità dei suoi modi, il suo carattere scontroso e indipendente, e quella grazia, come dire? isolata, che ella non dedicava a nessuno, ma soltanto a sè stessa. Silvina infatti non viveva che per sè sola. Non aveva per la mamma nè tenerezze nè confidenze nè abbandoni. Per mio padre non dimostrava nessun sentimento cordiale, ma semplicemente rispetto. Con le sorelle non era legata da nessuna intimità. Quanto a me, si degnava appena, e raramente, di farmi sentire fino a che punto mi disprezzasse. Rimaneva lunghe ore chiusa nella sua camera. Si cambiava più volte d'abito, per l'unica gioia di vedersi nello specchio. Faceva e disfaceva la sua pettinatura per il solo gusto di stabilire in quanti modi avrebbe potuto trasformarsi, rimanendo sempre bella abbastanza per essere contenta di sè.

Debbo confessare che la spiavo spesso in questa sua bizzarra vita, perchè anch'io, come mio padre, come tutti noi, ero teneramente innamorato di lei. Ella esercitava su me un fascino che allora non sapevo spiegarmi, ma che ora spiego, e posso anche analizzare. Silvina somigliava a un mio ricordo; somigliava a qualcuno di cui ero stato perdutamente innamorato. Non potevo guardarla senza avere la precisa e viva percezione di tutto il male di cui la sentivo capace, quella creatura così delicata e graziosa, con quelle piccole mani bianche e affilate. Ma aveva nel profondo del mio pensiero un nome che non oso ripetere, e che non era: Silvina. Io la vedevo poi in procinto di partire da quel medesimo punto al quale ero appena arrivato per miracolo ancora vivo, e avevo paura per lei di ciò che avrebbe potuto compiere inconsapevolmente a danno di chiunque si fosse incontrato con uno suo capriccio. Non aveva mai conosciuto, Silvina, l'ingenuità fiduciosa dei miei vent'anni. Ignorava che cosa volesse dire essere buoni, cioè considerare con benevolenza tutte le cose, andare incontro alla vita sorridendo, disarmati, a braccia tese, con quella beata cecità che conduce al precipizi. Ella era armata di un tremendo egoismo; e credo che la sua piccola testa fosse tutta piena di calcoli.

II.

Forse, se la nostra casa non fosse stata prossima alla strada maestra, Silvina, già così pallida allora, sarebbe a poco a poco sfiorita in questa specie di semplice e riposante clausura in cui si vive qui forzatamente, fra usanze antiche, e da molti anni sempre uguali. Sarebbe oggi o fra poco una zitella taciturna ed arcigna, come se ne incontrano di domenica in questi dintorni, brutte più di anima che di corpo, con cuffie strette e begli abiti passati di moda nei quali ancora per dispetto si pavoneggiano. Ma la nostra casa, i vecchi, la costruirono sulla strada, con giardino ed orto alle spalle, anzichè tutto intorno, e per di più con una grande e bassa terrazza che si affaccia sul via vai, alle cui ringhiere s'intrecciò poi il glicine, che ora fiorisce e la ricopre. Molti bussano alla nostra porta. Molti che passano, molti mendicanti, molti curiosi, non possono fare a meno di fermarsi e di bussare, di guardare in su alle finestre e di scambiare parole con la gente di casa. Anche noi apparteniamo alla strada. Io capisco benissimo che è una tentazione troppo forte questa casa signorile a portata di tutti gli occhi e di tutte le mani, dinnanzi alla quale si passa impolverati, stanchi dopo ore ed ore di strada attraverso colline brulle e campagne in gran parte desolate, prima di arrivare al paese. Anch'io forse farei come tutti gli altri, se fossi dalla loro parte.

Vi sono ancora oggi dei giovani romantici, molte idee romantiche nel mondo. Si subisce la seduzione delle vecchie idee, unicamente perchè se ne stanno silenziose e sconosciute dentro di noi, che le crediamo lontane e morte, e a nostra insaputa generano idee e fatti che a noi paiono nuovi. Dico questo perchè mi riesce estremamente difficile procedere diritto nel mio racconto. Io sono stato senza dubbio del numero: anch'io un romantico. Zotico, campagnolo, con la mia faccia plebea, i miei capelli disordinati, i miei abiti modesti e senza eleganza, io non ho mai somigliato per nulla a quei bellissimi giovani del decimonono secolo che si vedono nei dagherrotipi. Ma colui di cui voglio parlare, ricordava in tutto uno di quelli. Era alto della persona e bruno, con lunghi capelli, grandi occhi, un viso ovale e malinconico, labbra appena segnate e languide, lunghe mani bianche, abiti molto attillati e scuri, e di taglio che imitava la moda antica. Io non ho mai capito che cosa sia l'amore di una fanciulla, come nasca, e che cosa le faccia innamorare. Ma credo che egli fosse appunto uno di quei giovani per i quali le fanciulle, guardandoli mentre passano per la via, piangono, di sera, sole, nei vani delle finestre, e sospirando pensano di morire. Lo vedevo qualche volta venire dalla parte della città, cavalcando un bel cavallo irlandese, e, subito dopo la nostra casa, uscire dalla strada maestra e piegare per i prati verso il greto del fiume. Lo seguivo mentre caracollava fra gli alberi fino alla grande siepe d'ontani, e dietro quella poi scompariva. Al ritorno, verso sera, si metteva di passo lungo il fossato, come uno che non ha gran fretta di camminare. Eravamo allora al principio dell'estate. Le notti erano luminose, anche quando mancava la luna; e cadevano molte stelle. Io trascorrevo lunghe ore alla finestra, a respirare l'aria profumata dai fieni appena tagliati, ad ascoltare i grilli e tutte le indefinibili musiche che l'ombra stellata delle sere estive suscita per i campi e disperde poi nell'infinito. Quel giovane, passando, stendeva la mano e strappava al nostro glicine, che già era sfiorito, una delle sue foglie. Anche Silvina stava a quell'ora dietro le persiane socchiuse della sua finestra a guardare. Ma io non pensavo che ella guardasse quel giovane. Pensavo che stesse là, come me, a fantasticare i suoi strani sogni, e che semplicemente lo vedesse passare.

Per un giorno solo, in tutto l'anno, questo tratto di strada che corre dalla nostra casa al paese, si riempie di popolo; non pare più di stare in campagna, ma nel sobborgo di una città; i mercanti girovaghi di tutta la provincia vi si fermano con i loro carretti, legano i cavalli magri e i loro ciuchi pelati agli alberi, piantano i loro banchi riparati da tende d'ogni colore, e si mettono a vendere come in tante botteghe. Vengono pasticcieri che filano zucchero bianco verde e rosa, e tagliano le caramelle con le forbici, e giocattolai che vendono giocattoli di legno e di latta, bambole di cartapesta in camicia, e sopratutto trombette e quegli strumenti a fiato che solo i contadini suonano e si chiamano «organini»; sotto ripari di frasche verdi, che poi ingialliscono al sole, si aprono spacci di vino, e in un campo si pianta un ballo pubblico, dove i bei giovani del paese e di tutti i dintorni, che portano fazzoletti di seta sgargianti intorno al collo e grandi ciuffi arricciati sulla fronte, intrecciano senza donne, fra loro, interminabili e sudate danze al suono di un violino o di un flauto.

Ora, eravamo alla vigilia di quel giorno, e, all'imbrunire, si stava tutti dinnanzi alla porta, a guardare gli operai che con lunghe scale appendevano lampioncini colorati a certi fili tesi attraverso la strada, quando s'udì la voce di mia madre, che dall'alto di una delle nostre finestre, esclamava soffocata:

— Ma che cos'è? Che cosa è stato?

Alzammo il capo e la vedemmo affacciata al davanzale, pallida, che guardava lontano, verso il fiume, dove noi non potevamo vedere nulla perchè la siepe ce lo impediva.

— Mio Dio! gridò mia madre. Poi si ritrasse dalla finestra, poi si riaffacciò, e mi disse, agitando le mani: — Corri, Paris! Silvina, Silvina è caduta...

Mi buttai attraverso la siepe e, correndo per il viottolo lungo il fosso, vidi finalmente Silvina che mi correva incontro, con le mani strette sul cuore, così pallida che mi fece paura. Ci incontrammo ed ella mi cadde fra le braccia, tremando, con gli occhi chiusi, il respiro soffocato, incapace di parlare. Il suo piccolo cuore batteva nella mia mano come se fosse nudo; i capelli, nella corsa, le si erano sciolti, e le cadevano sulle spalle come serpi d'oro. Con uno sforzo riaprì gli occhi e sospirò:

— Laggiù... Sull'argine... è caduto...

Allora guardai verso il fiume, vidi un cavallo libero che galoppava attraverso i prati, e subito lo riconobbi.

— Lasciami sedere sull'erba, mormorò Silvina.

La posai sull'erba e ripresi la mia corsa verso il fiume. Mio padre, seguito da altri uomini, apparve al di qua della siepe. Egli si fermò accanto a Silvina, e gli altri continuarono a correre dietro di me. Giunto in fondo al sentiero, là dove esso sale lungo l'argine, vidi quel giovane disteso immobile sulle pietre bianche del greto. Giaceva supino, le braccia aperte, la bella fronte macchiata di sangue rivolta al cielo che tutta l'illuminava.

— Presto! Presto! gridai spaventato. Portiamolo via di qui!

Lo prendemmo in quattro, lo sollevammo e incominciammo a portarlo. Non un gemito uscì dalle sue labbra. Il suo corpo era inanimato, e pesante della pesantezza che ha la morte. Quando giungemmo sulla strada, Silvina rientrava allora in casa, sostenuta da mio padre. Nemmeno si voltò.

Appena adagiato sul letto il ferito riaprì gli occhi, e li posò su mia madre, che con le mani gli teneva distesa sulla fronte una benda inzuppata d'aceto. A lungo le sue pupille estatiche, vaghe, stettero ferme su lei, che pure lo guardava con amore. Poi, richiuse le palpebre, si assopì. Mia madre annodò la benda intorno al suo capo, gli aggiustò i riccioli sulle tempie e dietro le orecchie, e ordinò a tutti di camminare in punta di piedi.

Fummo chiamati per il pranzo, ma il posto di Silvina rimase vuoto. Ella si era chiusa nella sua camera e non voleva mangiare. Uno per uno andammo a pregarla attraverso l'uscio, ma non rispose a nessuno. Quando mio padre l'aveva raccolta sull'erba, dove io l'avevo lasciata, Silvina piangeva. Il cavallo s'era imbizzarrito proprio passando accanto a lei, mentre ritornava per il sentiero a casa, dopo essere stata a cogliere fiori sull'argine. Il cavaliere era stato sbalzato di sella, s'era disteso senza un grido, e Silvina l'aveva creduto morto. Poi aveva temuto che il cavallo, galoppando per il sentiero, la travolgesse, si era messa a fuggire disperatamente, ed era anche caduta una volta, inciampando in un sasso. Allora l'aveva veduta mia madre dalla finestra, e fortunatamente noi avevamo potuto accorrere subito, soccorrere lei e il ferito. Ma Silvina, che nessuno aveva più veduto piangere da un pezzo, era stata presa da una crisi di singhiozzi, tanto era stato in lei lo spavento per quel tragico accidente. Mio padre era convinto di ciò che diceva, parlandone a tavola a noi tutti che lo ascoltavamo in silenzio.

Intanto fuori, lungo tutta la strada, avevano accesi i lampioncini di vetro bianco rosso e verde. E mentre la gente, andando da un mercante all'altro, incominciava appena ad alzare il tono della voce, e i ragazzi provavano le prime timide trombette e ridevano ai sibili ancora incerti delle lingue di Menelicche, le campane della chiesa maggiore, spalancando d'un tratto le loro gole sonore, soffocarono in un sol frastuono confuso e ondeggiante quei rumori, quelle voci, quei suoni ancora distinti e isolati. Allora chi volle salvarsi da quella sommersione dovette moltiplicare la voce. La strada si mise così in gara col campanile, e quando infine, stanco, il campanile tacque, la strada rimase piena di grida, di strombettii, di fischi assordanti, che da quel momento non si placarono se non a tarda notte.

III.

Io ritornai a sedermi dinnanzi alla porta, sotto il glicine, ma il mio pensiero non poteva distaccarsi da quel giovane che ora riposava sotto il mio tetto, dopo essere scampato miracolosamente alla morte. Lo rivedevo, con un brivido, disteso sulle pietre nude del fiume, mentre il suo irlandese impazzito caracollava solo per la campagna. La sua fronte macchiata di sangue riappariva continuamente, rossa, dinnanzi ai miei occhi. Allora non c'era stata ancora la guerra, e nessuno di noi aveva imparato a considerare con rassegnazione prima, poi con indifferenza le più crudeli immagini della morte, a pesare il dolore sul palmo della mano, come fa Amleto con il teschio di Yorik. Io ragionavo fra me della sorte che ci incombe, e come essa colpisca sempre con rapidità fulminea: improvvisa e inevitabile. Poi ragionavo anche del fatto che la morte sarebbe poca cosa, e forse per nulla orribile, se ad essa sopravvivessero le passioni dell'uomo; le sue speranze, i suoi sogni, cioè il suo spirito, il suo pensiero, la sua volontà, e tutto ciò fosse sensibile ancora e vitale dopo la morte.

Poi rivedevo Silvina, e veramente un'immagine fino allora sconosciuta di Silvina, allorchè s'era abbattuta fra le mie braccia tremante, pallida, e avevo sentito quanto fosse lieve il peso del suo corpicino, quanto fosse fragile la sua volontà che per la prima volta l'abbandonava, quel dominio di sè medesima che io non le avevo mai veduto smarrire, neppure per un istante, prima d'allora. Ma in quel momento il suo orgoglio l'aveva abbandonata d'un tratto. Aveva parlato con voce supplichevole, guardato me con tenerezza, atterrita per quel poco sangue che aveva rigato di rosso la fronte d'uno sconosciuto. Mentre correva tenendo le mani premute sul cuore, in quell'atteggiamento così doloroso e appassionato, il suo bell'abito scuro si agitava leggiero intorno alle sue gambe. Eppure ella aveva perduta ogni leggerezza, e quella corsa non somigliava affatto ad un volo.

Quest'immagine nuova di Silvina io l'accarezzavo struggendomi di tenerezza per lei, abbandonandomi a un senso vago di felicità, come se mi si fossero aperte improvvisamente le porte del suo cuore, che erano prima chiuse per me come per tutti gli altri. Ma nello stesso tempo io pensavo con tristezza che, purtroppo, se soltanto avessi tentato allora di avvicinarmi a lei con una carezza, chiedendole, in nome di quel momento di debolezza, di accogliermi nella sua intimità con amore, con confidenza di sorella, ella, ormai ridivenuta la Silvina d'ogni giorno, certamente mi avrebbe respinto con un sorriso ironico, forse anche con parole umilianti. E forse, adirata contro sè stessa per quello smarrimento d'un attimo, se ne sarebbe vendicata con crudeltà sopra di me, innocente.

Mi stupivano gli occhi delle ragazze che, passandomi dinnanzi a gruppi nella strada affollata, mi guardavano sorridendo. Mi stupivano i ragazzi che, vedendomi assorto, mi saettavano nelle orecchie le loro lingue sibilanti di carta, e poichè nè mi muovevo, nè mi mostravo adirato, nè li guardavo, non la finivano più, eccitati dalla mia indifferenza. Come la vita doveva essere facile per tutti, in quella sera di festa! Forse Silvina stessa, nascosta come sempre dietro le persiane della sua finestra, guardava curiosamente la gente passare, obliosa ormai delle lacrime di poco fa.

Presi la mia sedia e rientrai in casa. Senza salutare nessuno, posando appena un bacio silenzioso sulla fronte di mia madre, salii le scale, e, affacciatomi un momento alla stanza dove il ferito riposava, vidi al lume giallo di una veilleuse il suo respiro calmo nel sonno. Appunto nel corridoio, tra la sua stanza e la mia, raccolsi quel foglietto di carta ripiegato nel quale lessi la seguente lettera:

«Piccola prigioniera,

«io non sono che uno sconosciuto per voi: ho un nome oscuro e nessun potere in questo mondo, fuorchè quello della mia libertà. Questa libertà è tuttavia un potere estremamente incerto; ed io stesso non so come esercitarlo.

«Voi mi vedete passare ogni sera dinnanzi alla vostra casa ed io guardo su, dove siete quasi sempre affacciata. Avrete notato che spesso, per indugiare un istante sotto le vostre finestre, strappo un fiore o una foglia ai festoni di glicine che ricadono dalla veranda. Allora, mentre i miei occhi possono posarsi un poco più a lungo sulla vostra persona, penso che forse per voi la libertà è un sogno, e che a chi ve la offrisse in dono, la libertà, forse sapreste insegnare in che modo goderne.

«Vorrei chiedervi: c'è qualche cosa che veramente vi seduce oltre il limite della vostra vita presente? Chi fosse pronto a condurvi lontano, nel vasto mondo, lo accettereste voi per compagno? E sapreste trovare per questo compagno di libertà tanta luce per guardarlo con amore? Curiose domande, lo so bene, con le quali rischio di perdervi per sempre, voi che già mi siete più cara della vita! Ma se le mie parole non vi sembrano vane, abbiate la bontà di portare un fiore rosso alla cintura, ritornando domani in quello stesso luogo dove il caso vorrà che io possa lasciar cadere ai vostri piedi questa mia prima lettera.

Silvio ».

Questa lettera non portava data alcuna. Io m'era chiuso in camera mia, e, lette le ultime parole, caddi in uno stato di meditazione fantastica dalla quale non mi riebbi che molto tempo dopo. — E ora, pensai ripiegando quel foglio, che cosa debbo fare? Chi ha smarrito questa lettera? Silvio o Silvina? E pensai: — Oggi non le ho veduto nessun fiore rosso alla cintura.

Procedevo senza logica, con ragionamenti saltuari, perchè la commozione era così grande in me che io non sapevo dare un ordine ai miei pensieri. Se mi fossi abbandonato al mio cuore avrei pianto dirottamente. — Innamorata, pensavo, lei, Silvina! Uno che passa potrà dunque portarsela via, lei così debole, piccola creatura capricciosa che si crede tanto forte! Uno qualunque, soltanto perchè veste con eleganza, e cavalca un bel cavallo irlandese, e ha un viso pallido e riccioli neri, potrà portarsela chi sa dove lontano di qui. E lei che non guarda con amore nessuno, nemmeno la mamma, nemmeno me che l'adoro, nemmeno suo padre che si farebbe uccidere per lei, guarderà con amore lui solo, questo sconosciuto, questo vagheggino che non è nulla per nessuno, che non sarà mai nulla per noi! Gualcii rabbiosamente la lettera che tenevo ripiegata fra le mani e gridai: — Stupida lettera, piena soltanto di sciocche frasi, di lusinghe ridicole! Maledetta! Dovevo proprio io raccoglierti! Dovevi cadere nelle mie mani! Poi pensavo che forse il caso non era stato tanto infame, perchè meglio nelle mie mani, quella lettera, che nelle mani di mia madre, o nelle mani di mio padre, o di qualunque delle mie sorelle. Infine mi fermai su questa vaga speranza: che essa fosse caduta dagli abiti di Silvio mentre lo trasportavano e che Silvina non ne sapesse assolutamente nulla.

Allora considerai con più benevolenza quel giovane e anche con una leggera punta d'ironia, perchè pensai: — Eccoci tutti uguali, noi di questa maledetta generazione, capaci di suscitare gigantesche illusioni dalle minime cose! Che cosa spera costui da Silvina? Si offre come un salvatore, ma chiede aiuto. A chi? A Silvina. E perchè? Perchè lo ha guardato con quei suoi occhi gelidi, con cui guarda tutte le cose. Il mondo non gli sembrava abbastanza vasto per i suoi sogni ambiziosi, e d'un tratto ha scoperto che questo mondo immenso e piccolissimo è tutto in suo potere, di lei quando si degnerà di sorridere. Stupido ragazzo! Se tu avessi sofferto come me, e sperimentato come me il sorriso d'una donna, che specie di felicità s'irradi da due occhi che ti guardano con amore, altro che fidarti nell'aiuto di Silvina! Povera piccola! Così stupida, in fondo, anche lei! Silvina! In fondo, nemmeno una donna...

IV.

Queste e molte altre cose io dovetti fantasticare e a lungo, poichè la strada era ritornata silenziosa. Soltanto pochi lumi superstiti davano ormai gli ultimi loro guizzi rossi bianchi o verdi, ed io me ne stavo ancora là con quella lettera tra le mani, senza aver nulla deciso. Da un pezzo avevo udito mio padre dare il catenaccio alla porta, poi salire le scale col suo passo pesante e cadenzato; la sua voce aveva risonato nel corridoio e poi s'era allontanata a poco a poco verso l'altra estremità della casa. Mia madre anche s'era ritirata nella sua camera, dove di quando in quando l'udivo ancora muoversi, aprire e chiudere mobili: segno che aveva allora finito di riepilogare con Marta, la nostra vecchia serva, i conti della giornata, e ora si preparava a coricarsi. Marta, con i suoi zoccoli di legno, che destavano echi sordi per tutta la casa, aveva sceso e salito due o tre volte la scala, riempito d'acqua le brocche, raccolte tutte le scarpe dinnanzi agli usci, e poi se ne era andata a dormire. A vegliare il ferito avevano lasciato Battista, perchè a lunghi intervalli lo sentivo tossire nella stanza vicina. Mi riscossi e m'affacciai un momento alla finestra. La finestra di Silvina era buia e chiusa. Poi spensi il lume e la luce bianca della luna inondò la mia stanza.

Aperto adagio adagio l'uscio, mi bastò di fare un passo nel corridoio per vedere il raggio di luce che spartiva l'uscio socchiuso della stanza dove riposava Silvio, e Battista vegliava. Ma occorse un minuto di più perchè i miei occhi, non ancora abituati al buio, scoprissero contro quella fessura illuminata il contorno appena distinto di un'ombra. L'imposta lentamente lentamente s'apriva, e quindi lo spiraglio illuminato s'andava allargando a poco a poco, ed anche la striscia di luce gialla sul pavimento s'allargava e s'allungava nel buio. E quando fu larga quanto una mano, allora, nella penombra pallidissima che si diffuse intorno a quella striscia di luce, senza stupore, come se avessi saputo di trovarla là in quel momento, riconobbi Silvina. Silvina! Era scalza, ma vestita e pettinata come in pieno giorno. Con il viso appoggiato contro il battente, ella guardava nella stanza illuminata, e fra lei e il letto doveva levarsi qualche ostacolo opaco, perchè, per vedere, ella doveva allungare il collo ed alzarsi sulla punta dei piedi. Finalmente sospirò e rimase un buon tratto senza muoversi. Poi si staccò un poco dall'uscio, si piegò sulle ginocchia e incominciò a cercare qualche cosa per terra, aguzzando gli occhi e spazzando il pavimento con le mani. Fu allora che, nel voltarsi, ella vide la mia ombra nel buio. Vide la mia ombra e si alzò in piedi di scatto.

— Ah, sei tu? mormorò con accento irato. Che cosa vuoi da me? Perchè mi spii?

Non si muoveva Silvina. Non cercava di fuggire. Poichè volgeva le spalle alla poca luce della fessura, il suo viso era completamente buio. Ma io sentivo su di me i suoi occhi pieni d'odio, che mi guardavano dall'ombra.

— Andiamo! dissi. Non facciamo troppo chiasso qui. Vieni nella mia stanza. Ti debbo parlare...

La presi per un braccio e la trascinai. Chiusi la porta, e la costrinsi a sedere sul mio letto. Poi, rimanendo in piedi dinnanzi a lei e guardandola fissamente:

— Silvina! Silvina! esclamai, quale pazzia è la tua? Non pensi al babbo, non pensi alla mamma, che avrebbero potuto sorprenderti? Non pensi che Battista, un servitore, avrebbe potuto uscire improvvisamente da quella stanza e trovarti là, scalza, dietro la porta, a spiare? Che cosa avrebbe pensato di te? Ah! tu sei una bambina, una vera bambina! Rispondimi: che cosa facevi là a quest'ora, mentre tutti dormono? Che cosa cercavi per terra, dietro quell'uscio?

— Tutti dormono! rispose Silvina. Ma tu no, tu non dormi!...

E sorrise maligna, guardandomi con disprezzo.

— Ah! se tu sapessi, esclamai, se tu sapessi perchè non dormo! Non sorridere così, Silvina! Non guardarmi con questi occhi cattivi! Che cosa sono io per te? Nulla? Assolutamente nulla? Non sono forse Paris, tuo fratello?

— Mio fratello! disse Silvina. Questa sera, questa sera per la prima volta, ti ricordi d'essere mio fratello! Ma poi, soggiunse dopo una breve pausa e alzandosi in piedi d'un tratto, che importa a me che tu sia mio fratello? Lasciami andare via di qui. Io non debbo a te nessuna spiegazione: nessuna!

Fece un passo verso l'uscio. Ma io mi posi fra lei e l'uscio, e la supplicai:

— Silvina, Silvina, ascoltami! Ti parlo così perchè debbo parlarti così. Non sei che una bambina, eppure non hai fiducia che in te sola. Dimmi, per carità: chi è questo Silvio? Chi è questo Silvio per te?

— Silvio? domandò Silvina con voce piena di stupore. Quale Silvio?

— Ma Silvio, Silvio! esclamai, quel giovane che è di là ferito! Silvio! Di chi vuoi che parli, se non di quel giovane?

— Credo che tu sia pazzo! disse Silvina con accento compassionevole. Come vuoi che sappia che si chiama Silvio? E che ho da fare io con quel giovane?

— E allora che cosa stavi cercando per terra dinnanzi a quell'uscio, continuai, — e parlando accesi il lume, — che cosa stavi cercando? Non cercavi forse questa lettera — e le mostrai la lettera agitandola per ogni verso sotto il suo viso — questa lettera che tu hai perduto, oggi, rientrando in casa, quando eri mezzo svenuta?

Il viso di Silvina si dipinse di meraviglia. Ella guardò la lettera, guardò me, poi di nuovo la lettera, poi levò gli occhi al cielo, e, giungendo le mani, esclamò con un profondo sospiro:

— Credo davvero davvero che tu sia impazzito!

E allora mi guardò con ironia e si mise a ridere, e incominciò a dar segni di viva impazienza.

— Dunque, domandai, dunque questa lettera tu non l'hai mai veduta? Non sai che cosa ci sia scritto qui! Non ne sai assolutamente nulla!

Silvina si strinse nelle spalle e scrollò il capo.

— Allora, esclamai, quando è così, prendila e leggi!

Silvina esitò un momento, poi con un gesto molto indifferente, anzi pieno di degnazione per me, prese la lettera che le porgevo e incominciò a scorrerla. Arrivò presto in fondo, e il suo viso non si scompose, non ebbe il più lieve moto nè di stupore, nè di contrarietà. Soltanto, quando ebbe finito, inarcò le labbra con disprezzo e mi restituì la lettera senza parlare.

— E ora, le domandai, neppure ora hai nulla da dire?

— Sì, rispose, ora ho qualche cosa da dire. Dico che siete tutti idioti allo stesso modo, voi uomini!

Abbassai il capo e mossi qualche passo per la stanza. Incominciai a dubitare allora che Silvina non avesse davvero mai veduta quella lettera e che Silvio le fosse del tutto indifferente. Forse non era andata se non spinta da un'innocente curiosità, chi sa per quale capriccio, a spiare all'uscio della stanza di Silvio; ma Silvio non le aveva ispirato nessun sentimento di simpatia, ed ella ignorava persino che fosse innamorato di lei. Chi può scrutare nel cuore d'una fanciulla? Chi può indovinare fino a che punto arrivi l'ingenuità di una fanciulla, che dovrebbe essere tutto candore, tutta innocenza, e fino a che punto una fanciulla possa mentire, fino a che punto sappia fingere?

— Silvina, le dissi con dolcezza, tu non sai, non hai mai voluto sapere il bene che io ti voglio. Ma credimi: tu non hai e non avrai nella vita un amico più sincero, più fedele di me. Io ti amo teneramente, perchè sei la mia piccola sorella, perchè sei Silvina nostra; sei la più piccina, la più giovane. Se tu fossi in pericolo, io mi ucciderei per salvarti. Ora, ti supplico, sii sincera con me: non mi nascondi nulla? Non c'è assolutamente nulla fra te e quel giovane? Se sapessi a che cosa ci conducono talvolta i nostri sentimenti! Tutto ci sembra bello, buono, desiderabile, innocente. Ci lasciamo andare. Le illusioni ci trasportano. La prima mano che ci viene tesa, noi siamo sempre pronti a stringerla con effusione, a riconoscere una mano amica, una mano fraterna. Poi le illusioni crollano, e la realtà è ben triste. Tu potresti anche amare Silvio. Dopo tutto è un bel ragazzo, punto volgare; i sentimenti che egli esprime in questa lettera sono nobili, sebbene piuttosto vaghi, e romantici; a vederlo sembra un ragazzo di buona condizione, un signore, e potrebbe anche offrire ad una ragazza come te una vita agiata e felice. Ma che cosa ne sappiamo noi? Chi è, chi sarà poi questo Silvio?

Silvina, mentre io parlavo, era tutta intenta a intrecciare il nodo della sua cintura. Lo faceva e rifaceva continuamente, e sembrava, più che indifferente, estranea, alle mie parole.

— Tutte le tue supposizioni, disse poi tranquillamente, senza interrompere il lavoro delle sue dita, senza alzare gli occhi su me, sono inutili. Sia chi vuole. A me non importa.

Il fiocco della cintura era ben fatto, ed ella si alzò, e andò dinnanzi allo specchio a rimirarsi. Con piccoli tocchi delle dita, leggieri, aggraziati, precisi, ne volle perfezionare ancora la forma che era già abbastanza perfetta. Si specchiò di fronte, di fianco, di schiena, e specchiandosi disse:

— Io vi trovo semplicemente ridicoli, tutti e due: tu con i tuoi dubbi, lui con le sue dichiarazioni. Non ho bisogno di nessuno, io; nè di protettori, nè di innamorati. L'uomo che deve piacere a me non è forse nato ancora. Se dovessi innamorarmi di tutti quelli che mi guardano, ah! ah! Paris, credimi: dovrei esser morta già mille volte trafitta da mille occhiate!

Pronunciate queste parole Silvina si staccò dallo specchio, e senza neppure voltarsi a guardarmi, uscì dalla mia camera e si rinchiuse nella sua con due giri di chiave. Io rimasi un momento perplesso a guardare l'uscio per il quale se ne era andata, silenziosa a piedi scalzi; poi feci la lettera in mille pezzi e li gettai dalla finestra. Che infinito silenzio! Che infinito spazio! Poveri noi, piccoli uomini, fratelli, sorelle, amanti, gelosie, litigi, contrarietà, delusioni, attaccamento alle cose d'ogni giorno, limitazioni, divieti, paura della vita! Silvina nel vano della sua finestra, alla luce della luna, stava sciogliendo le sue trecce bionde, che a quel lume pallido eran d'oro pallido.

— Silvina, dissi sottovoce, ma abbastanza forte per essere udito da lei, guarda che meravigliosa notte, quale divina gioia sarebbe morire! Ma tu vivi, vivi felice, Silvina! Sii altrimenti felice!

Silvina ripiegò indietro il capo e i capelli le caddero sulle spalle; scrollò il capo e i capelli sciolti si agitarono e si sparpagliarono sulle sue spalle, circondandole il viso d'un nembo d'oro.

— Silvina! Silvina! esclamai, difendi la tua giovinezza, salva la tua innocenza! Perduti questi beni, notti simili a questa non se ne godono più con gioia...

Silvina chiuse le persiane, e scomparve. Fui riscosso dal passo di Battista nella stanza dell'ammalato. Lasciai la finestra e andai a vedere che cosa faceva Battista. Egli era curvo sul capezzale di Silvio, e versava dell'acqua in un bicchiere.

— Non si agiti così, diceva, le farà male. Beva piuttosto un sorso d'acqua, e cerchi di riposare ancora.

Ma egli non vedeva che Silvio, quantunque avesse gli occhi aperti, non era sveglio, e non comprendeva le sue parole, e forse nemmeno le udiva. I suoi occhi erano dilatati nel delirio; parole rotte e sconnesse uscivano dalla sua bocca. Erano:

— Amore... giuro sulla vita... vi ucciderò... fuggite fuggite...

Ad un tratto udii, udii distintamente che, come in un sospiro, disse:

— Silvina....

V.

Tre giorni dopo Silvio lasciò il letto e prese commiato da noi. Silvina uscì dalla sua camera proprio nel momento in cui Silvio baciava la mano a mia madre, e si mostrò per un attimo appena nell'arco della scala. Ma quell'attimo bastò a me ed a Silvio per vedere che ella portava una bella rosa rossa alla cintura. Io ne ebbi il cuore trafitto e, nella mia sconfinata stupidità, arrossii per lei di quel gesto. La notte seguente Silvina, mentre tutti dormivano, fece un piccolo involto delle cose sue più care, attraversò il frutteto e, per la piccola porta dell'orto dove Silvio la stava aspettando, se ne fuggì. La mattina mia madre andò come sempre a bussare all'uscio della sua camera. Entrò, trovò la camera vuota, il letto intatto. Io ritornavo allora dalla mia caccia d'insetti; avevo raccolto alcune «monachelle» verdi lungo la roggia: avevo visitato il mio formicaio. Ero lontano mille miglia dalla mia vita, la testa piena di strane idee sulla potenza della natura che governa l'universo intero con una legge sola, e fece l'insetto e l'uomo allo stesso modo, Daria e la mantide assolutamente simili; l'una dotata di occhi dolcissimi, di una bocca soave, d'una carne diafana e profumata, d'una intelligenza sottile per sedurre i maschi della sua specie; l'altra tutta colorata del più tenero verde, con ali meravigliosamente trasparenti ed iridate, e d'aspetto così pio da ingannare non soltanto gli insetti, ma gli uomini, che la chiamano «monachella» anzichè chiamarla «pantera». Prega, prega sempre la «monachella» con le braccia congiunte, il collo torto, i grandi occhi ipocriti levati al cielo. Sembra che non faccia che sospirare avemarie. Verso la fine di agosto, quando cadono più stelle dal cielo che dal susino susine mature, e il ciuffolotto per la selva vede con gioia arrossire i corbezzoli, ecco un giovine mantide innamorato dell'amore che, dopo aver molto girovagato qua e là per le insalate, vede alfine all'ombra d'una foglia di zucca, sul bordo del ruscello, la creatura dei suoi sogni lungamente desiderata, sospirata con spasimo. Divina creatura! Una Beatrice. Assorta nella mistica visione del paradiso, ella è l'immagine viva della sorella-amante, la purissima, la pietosa, la consolatrice. Ed ecco, per attrarre sopra di sè misero i suoi sguardi sublimi, il mantide apre le ali variopinte e le agita, le fa vibrare di delicate armonie, finchè gli sembra che gli occhi di lei ora confondano in un unico sguardo l'immagine lontanissima di Dio e la sua persona presente. Legge un invito amoroso in quell'affascinante sguardo, e, tremando, le si avvicina e l'abbraccia sospirando: — Mia! Finalmente mia! Questo innamorato è un bel maschio agile, vigoroso, ardente. Passano ore lente d'ebbrezza. Beatrice lo tiene stretto come in una dolce catena; egli si abbandona felice. Poi Beatrice lo prega languida: — Dammi la tua nuca che io la divori di baci! Egli le offre la nuca, e Beatrice gliela morde, ed egli le sospira: — Uccidimi! Uccidimi! Non vorrebbe veramente morire. Vorrebbe poter desiderare così la morte per tutta la vita, stretto in quel delirante abbraccio. Ma la pia «monachella» lo ha già morso, e prima che egli abbia potuto ripetere: — Deh! Uccidimi! — è già morto, e ora Beatrice, incominciando dal collo, giù giù tutto se lo divora, finchè non rimarranno che le ali, le belle ali con le quali egli s'illuse di conquistarla, le belle ali che scoloriranno al sole come petali caduti ad un fiore.

Pensavo appunto che gli uomini avevano dovuto circondare l'amore di molte idealità per non vedere l'istinto crudele che lo produce e lo domina, quando m'incontrai con mia madre che scendeva le scale in gran fretta, pallida, gli occhi pieni di lacrime, chiamando con voce angosciata Adalgisa, Marta, Battista, Maria.

— Oh, Paris, Paris, esclamò abbracciandomi. Dov'è Silvina? Dove, dove è andata? Paris, Paris non mi lasciare anche tu...

Ogni ricerca fu vana. A forza d'interrogare quanti passavano dinnanzi alla nostra casa, si seppe di uno che l'aveva veduta uscire a notte dalla porticina del frutteto, di un altro che si era imbattuto, sulla via maestra, in una carrozza a due cavalli dove stava Silvina in compagnia di un giovane dalla fronte bendata. Allora dovetti raccontare a mia madre e a mio padre quanto sapevo di quella fuga, la storia della lettera trovata nel corridoio e il mio dialogo con Silvina. Mio padre montò in furore e minacciò di spianare il mondo. Ma si ridusse a piangere come un bambino e da quel giorno non fu più l'uomo sereno e gioviale di un tempo. Mia madre anche pianse, e pregò molto devotamente, come se Silvina fosse morta ed ella volesse raccomandarla alla clemenza di Dio. Poi incominciò a sbiancarsi, a spegnersi a poco a poco sotto i nostri occhi, consumata da quel dolore.

Silvio portò Silvina a vivere in città. Egli non aveva più nè cavalli nè carrozze nè denari per comprarsi dei begli abiti di non comune eleganza. Aveva fatto anche lui alla svelta un piccolo fagotto delle cose sue più care, e aveva lasciato padre e madre tristi e soli ad aspettare che la vita gli insegnasse a rinsavire. Era tutto felice di aver sacrificato ogni cosa all'amore per Silvina, come se il fatto di aver sposato con tanto slancio la povertà, fosse il degno complemento del fatto principale: d'avere cioè sposato Silvina a modo suo, rubandola alla sua propria casa contro tutte le regole che inceppano ancora in questo secolo la libertà dell'amore. Silvio era molto giovane; non aveva che ventitre anni. Egli condusse Silvina ad abitare al settimo piano di una casa di operai, in una piccola stanza illuminata da un abbaino, che aveva come giardino un bellissimo vaso di garofani rossi e una scatola di legno con una pianticella di salvia. Affacciandosi a quell'abbaino, si poteva dire di avere l'intera città ai propri piedi, perchè non c'era tetto che lo superasse, e, per uno spazio immenso, era tutto un mare rotto e fumoso di tegole, di antenne, di comignoli, disteso da ogni lato. Silvio celebrava molto la bellezza di quell'abbaino, e, il suo primo pensiero, quando al mattino apriva gli occhi svegliato dal sole, era quello di precipitarsi a spalancarne le imposte, gridando: — Libertà, libertà, che è sì cara!

Silvina che dormiva ancora, si destava a quel grido, e allora Silvio correva ad abbracciarla; poi rovesciava il lenzuolo e così, solo coperta dalla sua camicina, la conduceva dinnanzi all'abbaino, e mostrandole la distesa dei tetti che non finivano mai, le cupole alte delle chiese, le cupole basse dei teatri, i comignoli fumanti delle officine, tutta la città immersa nel sole alto d'agosto:

— Silvina, Silvina, le diceva, amor mio, vedi, tutto ciò ci appartiene! Chi è più ricco di noi?

E Silvina guardava con gli occhi abbarbagliati dalla gran luce il vasto dominio di Silvio, e posando il capo sulla sua spalla:

— Silvio, diceva, come erano belli quei fazzoletti di seta colorata di tanti colori che vedemmo l'altrieri! Brutto cattivo! Non ti ricordi che uno, uno almeno, me lo avevi promesso?

E Silvio rispondeva: — Oh, è vero! Che smemorato! Oggi, oggi certamente me ne ricorderò.

Silvio correva la città tutto il giorno, sotto il sole torrido, offrendo a chi volesse comprarla, anche per poco, la sua divina libertà. — Sono libero, diceva, sono libero come l'aria. Pochi uomini sono liberi come me. Io non ho falsi orgogli da difendere, scrupoli da osservare. Sono giovane, sono intelligente, pieno di volontà. Prendetemi, utilizzatemi, fatemi fare ciò che volete. Non c'è lavoro che non sia buono e onorevole per me. Dove troverete un altro che possa dirvi altrettanto? E tutti lo abbracciavano, gli battevano benevolmente la mano sulle spalle, e dicevano di lui: — Che bravo, che caro ragazzo! Silvio si sedeva sul bordo d'una fontana all'ombra di un tiglio, e contava i pochi soldi che gli rimanevano. Il gruzzolo scemava ogni giorno, ma c'era ancora posto per una mezza dozzina di fazzoletti di seta. Del resto poteva Silvina rimanere senza fazzoletti di seta? Avrebbe egli voluto vedere Silvina asciugarsi le labbra con fazzoletti che non fossero di seta morbida e profumata? Le delicate labbra di Silvina, ch'egli sciupava con i suoi baci ardenti, dalle quali beveva a lunghi sorsi la felicità, che, sorridendo, lo incantavano, e quand'erano tristi lo riempivano di paura? Ed egli si decideva finalmente al gran passo, sceglieva sei colorati e leggieri fazzoletti di seta, e, rientrando in casa, baciava Silvina sulla bocca, le mordeva il labbruzzo, e poichè ella diceva: Ahi! egli con uno di quei fazzoletti nuovi, morbidi e profumati, le medicava il dolore, ridendo felice.

— Ecco, ecco, la medicina! esclamava. Vedi che oggi non me ne sono dimenticato!

Silvina guardava attentamente uno per uno i sei fazzoletti e li contava.

— Mi darai un bacio, ora?

Ed ella gli dava un bacino sulla gota, e diceva: — Peccato! Sei fazzoletti non dureranno molto...

Silvio l'attirava a sè, le copriva il viso di baci, e raccontava ciò che aveva fatto, veduto, e detto in città.

— Ah! esclamava, tutti mi vogliono un gran bene. Vedi che cosa significa essere poveri, essere veramente liberi? Non c'è uno che ti consideri come un nemico, o che pensi di attraversarti la via, o che diffidi di te. Al contrario tutti sono pronti ad aiutarti, a darti una mano perché tu possa riuscire....

Guardava intorno le miserabili suppellettili della loro stanza, e soggiungeva:

— Certo questa stanza è troppo misera, troppo nuda. Se non avesse quell'abbaino dal quale si domina tutta quanta la città, sarebbe troppo triste vivere qui. Ma noi potremo cambiare questi mobili, sostituirli con altri meno rovinati e sudici, oppure cercare un'altra stanza, con una veduta anche più bella di questa. Quanto a me, purchè tu mi voglia bene, sarò in ogni modo felice!

Silvina si alzava senza parlare, posava i fazzoletti sul cassettone, e si buttava supina sul letto. Là, con le mani annodate sul capo, contemplava i travi del soffitto imbiancati di calce, seguendo il paziente lavoro che i ragni facevano tra l'uno e l'altro. Allora Silvio andava a sedersi accanto a lei, le prendeva il viso tra le mani e guardandola teneramente:

— Silvina, amor mio, sussurrava, mi vuoi bene? Non sei mica stanca già di me? Non sei mica annoiata? Se tu sapessi come ti amo, come ti adoro! Tutte le altre donne non esistono più per me; è come se non esistessi che tu sola.

Silvina staccava gli occhi dal soffitto, li fissava su lui, lo guardava a lungo, in silenzio.

— Che cosa mi dici con quei tuoi occhi di cielo? le domandava Silvio allora baciandoglieli lievemente. Occhi tutta trasparenza, tutto azzurro! Se non ci intendessimo tra noi, miei cari occhi, questa Silvina cattiva non direbbe mai di amarmi! Ma voi dite: — Ti amiamo, povero Silvio, ti amiamo tanto! — e io sono felice. Non è vero che parlano così i tuoi occhi?

E Silvina assentiva con una piccola mossa del capo, e riattaccava i suoi occhi al soffitto.

Allora Silvio si distendeva accanto a lei, posava la testa sul guanciale, avvicinava la gota alla sua gota, e rimaneva in silenzio a respirare il profumo dei capelli d'oro di Silvina, della sua pelle bianca e liscia, dei suoi abiti che ancora odoravano dello spigo che la mamma distribuiva ogni anno nei guardarobe. E così, preso da una vaga malinconia, egli meditava ad una ad una le sue illusioni, l'amore di Silvina, la gioia della povertà, la benevolenza degli uomini, l'avvenire radioso che lo avrebbe compensato ad usura della fede coraggiosa ed ardente con la quale aveva affrontato un destino incerto, e sopportava ora le difficoltà di quell'avviamento alla vita. L'aria imbruniva, e le pianticelle del garofano e della salvia nel vano dell'abbaino diventavano due neri bizzarri arabeschi contro il cielo viola; le rondini in frotte passavano e ripassavano nel rettangolo pallido, salutando con lunghi squilli il sole morente, e le voci lontanissime che salivano dalla strada parevano anch'esse attutite da quell'ombra morbida che circondava ogni cosa. Allora con il cuore traboccante di tristezza Silvio stringeva a sè Silvina, e, impadronendosi della sua bocca, con voce singhiozzante mormorava: Mia! Mia! e non se ne distaccava più, finchè non la sentiva morire fra le sue braccia.

VI.

Io ho spesso orrore di questa crudele passione che mi trascina a risuscitare dal mio passato tante immagini dolorose, e rimescolare tanta tristezza, tanto fango, tanta miseria di cui la sorte volle contaminare le cose più pure, le più sante, le più care della mia vita. Io credo d'essere malato, un poco toccato forse, perchè il piacere che mi dà questo fantasticare so bene che non è cosa naturale, ma è il prodotto di un vizioso pervertimento della ragione, un male che confina con la pazzia. Infatti chi può godere a riaprire con le proprie mani una ferita già chiusa, e a spargerla poi d'aceto perchè il dolore straziante mai non si plachi un momento? Io non ho nessuna colpa da espiare, non posso desiderare la tortura per rigenerarmi, e questa mia crudeltà se si rivolge contro me stesso è ingiusta e vana, ed è triste se si rivolge contro coloro di cui parlo. No: le creature che più ho amato, in cui più confidavo, non hanno saputo darmi alcun bene. Erano per me la personificazione della gioia, della purità, della bellezza, e hanno creato dolore, vergogna, bruttura. Pure esse hanno seguito il loro destino, che era infame così come era disgraziato il mio.

Mia sorella Silvina (è di lei che parlo, di lei piccola sorella mia, triste immagine di mia madre, triste immagine di me stesso) passava la massima parte delle sue giornate nell'inerzia più vuota ad aspettare Silvio. Amava Silvio, Silvina? Voglio credere che lo amasse. Ella si lasciava accarezzare da lui. Era timida, sottomessa, paziente. Come avrebbe potuto essere così docile, così mite, se non lo avesse amato? Silvina amava Silvio, perchè Silvio in ogni suo pensiero, in ogni sua parola, poneva Silvina ad una grande altezza sopra tutte le cose, incominciando da sè stesso, che non si stancava mai di umiliare dinnanzi a lei.

— Il mio posto, le diceva, è ai tuoi piedi. Ti vedo come sopra un trono, tu regina, io tuo schiavo. E le diceva: — Come sei bella, Silvina! Che capelli morbidi, fluidi, dorati! E sono miei, soltanto miei! Io solo li tocco, io solo vi affondo le mani, li sento scorrere tra le mie dita, li accarezzo, li bacio! E le diceva anche: — Come ammiro, Silvina, la forza del tuo carattere, il tuo coraggio, la tua volontà, la chiarezza dei tuoi pensieri! Non sai quanto le altre donne siano deboli, timorose, volubili, sciocche? E infine le diceva: — Tu mi guiderai ed io ti seguirò, sarò la tua forza materiale, quella che manca alla grazia del tuo corpo, alla fragilità del tuo sesso....

E Silvina lo stimava un uomo debole, ma dotato d'una intelligenza superiore. Lo trovava bello, pieno di delicate premure, modesto, e cieco d'amore per lei. Ma le ore erano lente a passare, e Silvina aspettava con impazienza il giorno in cui avrebbe potuto lasciare quella miserabile stanza, in quella miserabile casa, la compagnia insoffribile di quelle masserizie troppo usate, troppo umili, quella grigia uggiosa veduta di coperchi di case, quella distesa di tetti tutti uguali che Silvio invano cercava di abbellire con la sua fervida immaginazione. Ella non osava affrettare questo giorno tanto desiderato, perchè voleva potersi vantare poi di aver fermamente sopportato, per amore, giorni tristi, ore difficili e lamentevoli, il pericolo d'una esistenza scolorita, tutta solitudine, malinconia, rinunzie, privazioni, e persino lo spettro sinistro della miseria e della fame. Bisognava essere un'eroina per affrontare simili eventi, e Silvina se ne vantava già in cuor suo, e pensava che Silvio poteva bene gloriarsi di lei, perchè non tutte le donne sarebbero state capaci di tanto. Per consolarsi, per consolarsi un poco, e anche per piacergli sempre più, per non perdere nulla del suo fascino, ella si pettinava con cura; si incipriava bene bene, si cambiava sempre quei due abiti che aveva portati con sè e si metteva al collo la collana con lo smeraldo che Silvio trovava bellissima. Così, come faceva in casa nostra, anche lassù al settimo piano di quella casa, Silvina passava lunghe ore allo specchio, e sognava gioielli e vesti splendide, con scollature e strascichi, ventagli di piume magnifiche, e nei capelli un diadema.

Il padre e la madre di Silvio erano molto ricchi e non avevano altro figlio che lui. Essi possedevano una grande villa con un grandissimo parco alle porte della città; avevano carrozze, cavalli, servitori in gran numero, ed erano anche molto vecchi. Silvio avrebbe cercato di lavorare, poi si sarebbe stancato. Si sarebbe stancato di quella vita miserabile, di abitare al settimo piano d'una brutta casa, di mangiare poco e mai cose ghiotte, di addormentarsi al lume di una candela, di andare in giro con abiti consumati, e infine di sciupare così la bellezza di Silvina sua, senza che potesse risplendere in alcun modo. Allora le sue manie di libertà, d'indipendenza, sarebbero svanite, ed egli avrebbe pensato di riavvicinarsi alla sua famiglia, avrebbe scritto una lunga lettera al suo signor padre, nella quale gli avrebbe chiesto perdono e si sarebbe esteso assai nel celebrare la grazia, la beltà, la fine educazione, il nobile animo e l'amore di Silvina, pregandolo in ultimo di accoglierla come figlia in casa sua e di benedire la loro felice unione. Poi pensava, Silvina, che Silvio le aveva dipinto suo padre come un uomo di vecchio stampo, rigido nei suoi principi, autoritario e violento... Allora la sua fantasia prendeva il volo per cieli meno sereni, e con freddo cinismo immaginava che, essendo tanto vecchi, il padre e la madre di Silvio avrebbero potuto presto morire, forse erano già morti; la loro carrozza avrebbe potuto rovesciarsi nel fiume mentre facevano la loro passeggiata la sera, o dei ladri, aggredendoli nel parco, avrebbero potuto ucciderli; e così, ogni ostacolo sarebbe scomparso d'un tratto, ed ella, con Silvio, sarebbero andati ad abitare in quella bella villa, avrebbero avuto quelle belle carrozze e quei bei cavalli, tutti quei servitori, e di tutto quanto la padrona era lei.

Ma Silvio, per mezzo di una vecchia nutrice, aveva potuto sottrarre da casa sua alcuni oggetti preziosi suoi personali che nella fretta di fuggire non era riuscito a portare con sè. Rimpinguò così il suo tesoro, che già era esausto, e riprese coraggio nella fiducia incrollabile che l'aiuto da tutti promesso con tanto slancio sarebbe infine venuto a rischiarargli durevolmente la via. Erano già tre mesi che Silvio e Silvina vivevano insieme. Egli s'era fatti alcuni amici, non si sa dove pescati, poichè veramente Silvio non frequentava nessuna speciale categoria di persone, ma tutta gente che incontrava per caso nel suo continuo peregrinare in cerca di lavoro. Egli passava la maggior parte del suo tempo, quando non era con Silvina, da un caffè all'altro, e con pretesti d'ogni genere cercava di entrare in discorso con i suoi vicini di tavolino, interloquiva non richiesto della sua opinione nelle dispute più disparate; sempre nell'intento di dichiarare l'esser suo, di richiamare sopra di sè l'attenzione della fortuna, che può presentarsi sotto l'aspetto di una bella matrona con gli occhi bendati e in equilibrio sopra una ruota, ma può anche assumere le meno classiche sembianze di un commesso viaggiatore, di un diplomatico a riposo, di un vecchio signore vestito a lutto o di un avvocato molto versato in politica. E a tutti diceva alla fine, conducendo abilmente ogni conversazione a quel punto ch'egli non perdeva mai di vista:

— Eccomi qua: io non chiedo di meglio che lavorare. Io non ho falsi pudori, idee preconcette. Sono libero ecc. ecc. E poichè vestiva decentemente e non chiedeva mai un soldo in prestito, si comportava con educazione e riservatezza, era ottimista, di buon umore, simpatico, alla mano e parlava bene, tutti finivano per dire di lui: — Che bravo, che caro ragazzo! — e lo accettavano volentieri come compagno di ozi.

Appunto in uno dei tanti caffè di cui era cliente assiduo e noto, Silvio aveva conosciuto il principe Stroztki. Era un polacco, un diplomatico, dalla figura ridicola ma piena di razza. Aveva quarant'anni, vestiva con ricercatezza, gli piacevano le belle donne e componeva anche dei versi. Il principe portava sempre le mani inguantate di splendidi guanti bianchi e un cappello grigio chiaro di feltro finissimo. Sotto il cappello, divisa in due da una irreprensibile riga, brillava di profumati cosmetici una parrucca nerissima, purtroppo così falsa che, nascondendo la calvizie del cranio, rendeva più che mai evidente la calvizie, per così dire, del viso, che era gialliccio e senza l'ombra di un pelo in tutta la sua superficie.

— Ah, Silvio, disse un giorno il principe con accento di dolce rimprovero, io sono molto in collera con voi. Sì, molto molto in collera. Voi avete una graziosa amica, un'amica molto graziosa, mi dicono, e la tenete nascosta?

— Oh, principe, balbettò Silvio confuso, chi vi ha detto una cosa simile?

— Amico mio, rispose il principe, la violetta è un fiore che facilmente passa inosservato finchè non si colga. Ma quando si è colto e si porta all'occhiello?

— Voi volete burlarvi di me, signor principe, disse Silvio arrossendo. Io non ho nessuna viola all'occhiello.

— E se io stesso vi avessi veduto, invece, con una bellissima viola? ribattè il principe con malizia. Ditemi dunque, caro Silvio: non eravate mica voi, ieri sera, all'Alhambra, in compagnia di una donnina bionda, molto carina, molto elegante, con un bell'abito proprio viola e uno smeraldo al collo?

— Sì, sì, confessò Silvio sorridendo, ero io. Ma la signora che accompagnavo non era una piccola amica.

— Capisco, soggiunse il principe, è un segreto...

Silvio si fece coraggio e disse:

— Era mia moglie.

Il principe lo guardò per un attimo stupito, incredulo. Poi sorridendo, disse con galanteria:

— Ve ne faccio i miei complimenti... È una deliziosa creatura.

Silvio s'inchinò e rimase muto. Si sentiva intimamente orgoglioso di quella lode, che gli veniva da un così raffinato intenditore. Per una volta che aveva condotto Silvina in un luogo frequentato da gente elegante, illuminato sfarzosamente, adatto per far brillare la sua grazia, la sua leggiadria, la sua candida bellezza, subito era stata ammirata, per quanto non mancassero là dentro le donne avvenenti, giovani, belle, i ricchi abiti, le acconciature sfarzose.

— Non sarete mica geloso, caro Silvio, disse il principe, vedendolo silenzioso ed assorto.

— Oh, principe! esclamò Silvio con candore. Noi ci amiamo teneramente.

Rientrando in casa, Silvio si sentiva ebbro di gioia. Volava leggiero su per le scale, come se lo portasse il vento. Entrò d'impeto nella stanza e trovò Silvina che aveva colto un garofano rosso nel suo giardino e, civettando dinnanzi allo specchio, se lo stava allora appuntando tra i capelli. L'abbracciò, la coprì di baci, gridando:

— Amore, amore mio! Poi indietreggiò di due passi ed esclamò:

— È vero, è vero! Ed io sciocco che non ci avevo mai pensato! C'era una piccola viola nascosta: io l'ho colta. Ora come potrebbe più nascondersi? Il principe, l'amico mio, ha ragione!

— Tu conosci un principe? domandò Silvina senza distrarsi dallo specchio.

— Sicuro! esclamò Silvio. Stroztki: un vero principe.

— E chi è questa viola mammola? domandò Silvina con una punta d'ironia.

— Ma tu stessa! esclamò Silvio.

— Bella! disse Silvina. E dove mi ha veduta?

— Ieri sera, all'Alhambra! rispose Silvio. Mi ha domandato: — Chi era quella graziosa donnina così e così, biondina, vestita di viola, molto graziosa, molto elegante? Gli ho risposto: — Mia moglie!

— Mio Dio! disse Silvina, come ha potuto trovarmi elegante? Con questo vestitino viola, così sciupato?...

Silvio rise allegramente e le chiuse la bocca con un bacio.

— Ah, non sai! le sussurrò all'orecchio, non sai che già muoio di gelosia?

Fu quello uno degli ultimi baci che Silvio dette a Silvina.

Finì l'estate. In uno dei primi giorni di novembre Silvio incominciò a tossire e si ammalò con una febbre altissima. Il medico chiamato in gran fretta stimò che convenisse trasportarlo all'ospedale, dove, curato energicamente, avrebbe potuto in pochi giorni guarire. Egli sopportò con rassegnazione questa dura prova, e, consegnato a Silvina il suo magro tesoro, l'abbracciò piangendo e si lasciò trasportare.

Nei nostri paesi l'autunno è brevissimo. L'inverno succede all'estate quasi senza intervallo, in pochi giorni gli alberi si spogliano, una settimana di piogge torrenziali lava la terra e la prepara pulita ad accogliere il candido mantello che subito la ricopre. Così per lunghi mesi, fino ai primi germogli di primavera, essa rimane immobile come morta sotto un cielo anch'esso immobilmente grigio. Soltanto i passeri (chi non lo ha notato)? conservano nell'universale tristezza il loro buon umore salterino e ciarliero. Chi vive in campagna può ancora trovare un conforto ai sensi mortificati, poichè se l'inverno non ha i colori vividi e festosi della primavera, nè il tepore oppiato dei grandi meriggi estivi, nè lo splendore delle belle notti d'autunno, offre almeno all'immaginazione scheletri nudi e immensi spazi candidi che essa può rivestire e dipingere delle più consolanti e promettenti visioni. Ma nelle città gli uomini infreddoliti si sentono abbandonati da Dio nello squallore delle loro opere di fango e di pietra; senza l'oro del sole, senza l'azzurro del cielo, senza il verde dei giardini, vedono quanto siano pesanti e lugubri le loro più ammirevoli architetture, e, curvando il capo sfiduciati sotto il peso della solitudine e della malinconia, non sanno concepire se non dolorosi pensieri.

Rimasta sola e triste, poichè ebbero portato via Silvio con la barella, Silvina non aveva per difendersi dal freddo se non quei due vestiti di seta leggera. Non c'era nè stufa nè camino dove accendere il fuoco. Affacciarsi all'abbaino era da piangere, a veder le nuvole gonfie rotolare sui tetti neri e paurosamente deserti. Per l'appunto pioveva. Le gronde facevano una musica funebre gocciolando gocciolando con esasperante monotonia, sempre lo stesso suono e la stessa pausa, senza sostare un momento. Nel ronzio continuo della pioggia sul tetto, i più piccoli rumori, i più lontani, diventavano sordi tonfi, cupi boati, stridori infernali, e pareva che nel corridoio buio e deserto, nei solai disabitati, si muovessero catene e rimbombassero martelli, e passassero in fuga torme di animali infuriati. Le vecchie suppellettili scricchiolavano tutte con lunghi gemiti, come se spiriti imprigionati nelle loro membra di legno tarlato e inchiodato si torcessero spasimando per liberarsene. Alla porta poi era un ininterrotto bussare, un bisbiglio di voci soffocate, un avvicinarsi e allontanarsi di passi cauti, un provare e riprovare chiavi alla serratura, un lavorio affaccendato di mani ladre lungo i battenti, intorno ai cardini, che non finiva mai. E Silvina se ne stava raccolta in un angolo, con tutti e due i suoi vestiti addosso, le mani inguantate, lo smeraldo al collo, parata e immobile come una madonna di cera. A denti stretti ella cercava di vincere il tremito convulso del freddo e tener sveglia la ragione che tanti brutti pensieri cercavano di ottenebrare. Credo che rivedesse allora il nostro gran focolare, dove tutti noi, raccolti in cerchio dinnanzi ai bei ciocchi ardenti, le sere d'inverno facevamo scoppiar le castagne spingendole con le molle bene in mezzo alla brace; e poi, quando erano scoppiate, e la polpa bianca incominciava a rosolarsi, le pescavamo dalla cenere, facendole saltar sulle dita e soffiando a gote piene, finchè non erano intiepidite. Allora, sbucciate e fattene tante piccole focacce, ce le imboccavamo l'un l'altro ridendo con buffi oremus, laudamus e deo gratias. Certo rivedeva mia madre quando, posando sulla sua fronte il bacio della buona notte, le rimboccava calde calde intorno al collo le morbide coltri del suo buon lettuccio, dove era cresciuta e aveva dormito tanti bei sonni tranquilli. Ma quando al di là dell'abbaino la luce scialba invernale incominciò a scemare e dagli angoli si diffusero nella stanza le ombre nere di quella prima sera di solitudine, Silvina si alzò, aprì l'uscio, attraversò il corridoio, scese correndo tre capi di scale, e senza esitare bussò alla prima porta che le si parò dinnanzi.

VII.

Madama Humbert abitava appunto al terzo piano di quella casa con le sue sette nipoti e con Loreto Re del Portogal. Ogni volta che Silvina scendeva o saliva le scale, la trovava sull'uscio del suo appartamento e doveva rispondere con un inchino al suo saluto. Non s'eran mai scambiate altre parole che: — Buon giorno! Buona sera! — Ma i sorrisi di madama Humbert erano affettuosi inviti ad un'intimità più profonda. Madama Humbert era una distinta signora, che vestiva sempre di nero. Intorno al suo collo portava sempre annodata una trina nera, e il suo aspetto era quello di un'onesta vedova che offrisse alla memoria ormai lontana del suo sposo il tributo modesto sì ma spontaneo di quegli abiti sempre sempre neri. Dalla cintola in su ella era di una magrezza quasi deforme; e il suo collo lungo e sottile pareva dovesse da un momento all'altro piegarsi stanco sotto il peso del capo, che era rotondo e piatto, con un viso tutto naso e bocca, dove gli occhi, privi di sopracciglia, sembravano due forellini neri. I suoi capelli erano di un grigio rossastro e radi, e tutti tirati a formare sul cucuzzolo un ciuffo di peli arsicci, tenuto fermo da un pettine. Sotto la cintola poi il suo corpo s'arrotondava in un ventre enorme, ch'era una specie di mostruosa montagna su cui ella teneva sempre incrociate le mani.

Aveva da poco finito di cenare e, sdraiata sulla poltrona, dove le piaceva riposare dopo i pasti, madama Humbert guardava amorosamente Loreto che si stava appisolando. E vedendo le sue palpebre leggiere come un velo di seta cadere e rialzarsi sulle indecise pupille annebbiate dal sonno, pensava con tenerezza come Loreto rassomigliasse tutto a un cristiano. Le sette nipoti di madama Humbert, tutte fiorenti e giovani, erano mollemente sdraiate sui tre divani intorno intorno al salotto. Ai colpi che improvvisamente risuonarono contro la porta, chi pisolava si svegliò, chi sbadigliava stirò le belle membra elastiche con un miagolio di gatto, e chi guardava distrattamente le rose del soffitto voltò gli occhi dalla parte dell'uscio e aspettò. Soltanto Loreto, cavato il capo di sotto l'ala dove l'aveva allora riposto, e purgatosi in fretta, disse con un sospiro:

— Lo zio, lo zio, lo zio!

Madama Humbert si alzò e a piccoli passi si diresse verso la porta, che poi aprì lentamente.

Allora nella penombra della scala apparve, bianca, Silvina. Ella piegò seria la fronte, passando dinnanzi a madama Humbert che s'era fatta da parte per lasciarla entrare, e poi le domandò guardandola fissamente negli occhi:

— Non la disturbo, signora?

Madama Humbert ridendo e scrollando il capo la prese per le mani e la condusse in salotto, e, mentre le sue sette nipoti s'alzavano in piedi, ella la fece sedere nella sua poltrona, le spinse sotto i piedi un cuscino e accarezzandola con occhiate amorose:

— Signora, le disse, cara, cara! A che si dovrà quest'onore?

Poi, senza attendere una risposta, presentò le sette ragazze che s'inchinarono graziosamente una per una, e Silvina udì dei nomi come Odette, Frufrù, Mimì, Manon, Lulù.

Quindi, levati gli occhi su Loreto, madama Humbert disse con tenerezza:

— E questo, questo cocco di Dio, è Loreto mio bello...

Loreto squadrò con disprezzo Silvina, si gonfiò di disgusto, torse sdegnoso il capo per non vederla. Ma madama Humbert si sedette di fronte a lei e, riposte le mani sulla prominenza del ventre, la contemplò beata, e disse:

— Chi avrebbe potuto sperare nel piacere di una sua visita, cara signora? Aspettavamo lo zio Stanislao. Ma è tanto tempo che desideravo conoscerla... Tanto! Tanto!

— Lei, soggiunse Silvina, è stata così buona con Silvio... Era mio dovere ringraziarla di quanto ha fatto per lui.

— Oh! cara! esclamò madama Humbert abbassando gli occhi modestamente. Vuol parlare della coperta di lana? Ma i malati di febbre bisogna coprirli bene, bisogna farli sudare! Io immaginavo che una grossa coperta imbottita potesse esserle utile. Lei, signora, non avrebbe fatto altrettanto per me? Ma io la chiamo sempre: signora! Mi sembra così strano. È tanto giovane, tanto piccina... Non è che una bambina, lei!

Toccò a Silvina questa volta abbassare il capo modestamente. E lo abbassò sorridendo, perchè temeva di arrossire. Ma già madama Humbert aveva composto il viso nella più profonda mestizia e diceva con sospiro:

— E ora come la compiango, poverina, che è rimasta così sola, senza il suo Silvio! Chi sa come le sembrerà triste non averlo più vicino! Anche una meno giovane di lei, si sentirebbe perduta, poichè per noi, povere donne, tutto è l'abitudine. Lei poi immagino quanto ne soffrirà...

— Certo mi dà un po' di pena, disse Silvina esitando, come se questa confessione le costasse assai cara. E soggiunse con un sorriso: — Passerà... Non mi perdo d'animo...

Silvina gettava qua e là sguardi discreti, ma penetranti, su quello strano parentado di madama Humbert. Nessuna di quelle ragazze somigliava all'altra, e se Lulù era bruna e snella, Manon era grassa, piccola e bionda. Fosse Mimì fosse Odette, una ce n'era che aveva passati almeno i trent'anni, di taglio maschile, muscolosa, quadrata. Frufrù invece aveva l'aspetto di una bambina esile, magra, con i capelli ancora giù per le spalle, occhi chiari, bocca innocente, mentre Fanny era fulva e maliziosa come una volpe. Chi vestiva di verde, chi di rosso, chi di giallo, abiti delle fogge più disparate. Una delle due più giovani mostrava dal sottanino corto lunghe calze di seta nera. Odette invece aveva i polpacci nudi e ai piedi portava calzettini bianchi e scarpette bianche, di raso. Manon aveva i capelli tutti ondulati, con un gran fiocco di nastro sulla tempia. Dalle trecce lisce e attorcigliate di Mimì ciondolava invece una rosa. Soltanto l'orrore del caldo era a tutte comune, quantunque la stufa non diffondesse che un discreto tepore; poichè chi non aveva le braccia nude e la gola scoperta, portava abiti tanto leggieri che parevano di velo.

— Così, concluse madama Humbert un suo lungo discorso che Silvina aveva ascoltato appena, quando il mio terzo marito mi lasciò per salire nella grazia di Dio, io mi ridussi a vivere qui con queste mie ragazze. Noi non riceviamo visite se non di persone di conoscenza, intime e fedeli, perchè il mondo oggi è pieno di villani e di ladri.

Madama Humbert era giunta a questa amara conclusione, quando di nuovo alcuni colpi furon bussati alla porta. Allora di nuovo ella si alzò, andò ad aprire, e, salutato dai festosi strombettii di Loreto, entrò finalmente l'atteso zio Stanislao. Questo signore mi sembra che lo abbiamo già conosciuto, per quanto nessuno di noi conosca propriamente uno zio Stanislao. È un uomo di circa quaranta anni, tutto sbarbato, con un bel parrucchino nero diviso in due da una perfetta scriminatura, vestito con eleganza, e di modi garbati.

Egli ha molto da fare a baciare una per una, chi sul collo chi sulla gota, le sue sette nipoti; ma alla fine si inchina dinnanzi a Silvina, posa con galanteria le labbra sulla sua mano, e attentamente la scruta. Sembra che cerchi qualche somiglianza nella sua memoria, qualche ricordo che per il momento gli sfugge. Quindi con un gesto vago allontana questo pensiero, come per dire: — Verrà più tardi da sè. E mollemente si adagia sul divano, fra la matura Odette e Manon, la più acerba, come fra due cuscini. Ma i suoi occhi si riposano su Silvina.

— Ne ero sicuro! esclama ad un tratto, battendosi la mano sulla fronte. All'Alhambra, qualche sera fa, mi ricordo perfettamente d'averla veduta! Non era lei, domanda premuroso a Silvina, alcune sere fa all'Alhambra, in compagnia di un giovane di nome Silvio? E come Silvina accennava di sì col capo, soggiunse: — Non riuscivo a ricordarmi, ma quello smeraldo che ella porta al collo m'ha messo sulla buona strada...

— Anche la mia povera sorella, disse malinconicamente una delle ragazze, aveva una collana con uno smeraldo simile a quello...

— E che ne è di Silvio? domandò lo zio Stanislao.

— Poverino, rispose pronta madama Humbert, lo hanno portato oggi all'ospedale.

Lo zio Stanislao ha un moto di doloroso stupore e guarda attentamente Silvina. Sembra che voglia ora rivolgerle una domanda indiscreta, e infatti pensa fra sè:

— Questa donnina non può essere la moglie di quel ragazzo. Che moglie volete che sia? Ha tutta l'aria di un passerino sperduto, che Silvio ha raccolto chi sa dove.

E Silvina pensa a sua volta:

— Tutti mi hanno ammirata quella sera all'Alhambra. Non soltanto il principe, ma anche quest'altro amico di Silvio.

Silvina sostiene per un attimo con fermezza lo sguardo languido che lo zio Stanislao posa su lei, poi abbassa gli occhi, per lasciarsi liberamente guardare.

— Povero Silvio! dice alfine lo zio. Come mai all'ospedale?

— Con una gran febbre, soggiunge pronta madama Humbert. Povera signora! È rimasta sola...

E segue un lungo silenzio.

Lo zio Stanislao avrebbe voluto compiangere Silvina per l'ingrata sorte di Silvio, ma Odette s'era alzata, e, presolo per le mani, lo tirò su dal divano, e lo trascinò impetuosamente fuori del salotto. Poco dopo, nella stanza vicina, s'udirono due o tre accordi di pianoforte, e la voce di Odette incominciò a cantare:

Vous dansez, Marquise,

d'un pied sì leger....

Era un'innocente gavotte. Madama Humbert si curvò verso Silvina e le sussurrò:

— Lo zio Stanislao le insegna un po' di musica ogni sera... Odette ha tanta inclinazione!

Poi si raccolse in ascolto, e non si mosse più.

Silvina rimase silenziosa. Ora c'era una ragione di tacere, e se ne rallegrò in cuor suo.

La fleur est sans grace

certes auprès de vous....

Delle sei ragazze rimaste nel salotto una se n'era alzata dal divano dove stava sdraiata, per andarsi a sedere accanto a Silvina, sopra uno sgabello. Silvina non sapeva se fosse Manon o Lulù, o proprio quella il cui nome le era sfuggito. Ma spesso, volgendo il capo, ella incontrava i suoi occhi che la guardavano e la sua bocca che le sorrideva. E lo strano era che mentre le sue labbra le sorridevano dolcemente, i suoi occhi continuavano a fissarla immobili, inespressivi. Erano occhi grandissimi e belli, ma senza splendore, e distratti finchè vagavano qua e là in cerca di un punto dove posarsi. Poi, quando finalmente si eran posati, una fissità meravigliata li dilatava, e rimanevano così, fermi, senz'anima. Il suo viso giovane terminava in un mento aguzzo che ne sciupava l'ovale, e tradiva più che mai la larghezza della bocca leggermente tumida, tinta di un rosso scarlatto. Soltanto i suoi capelli erano veramente belli, ammassati in grosse trecce pesanti nerissime, con tanti riflessi azzurri.

La voce di Odette era una bella voce squillante. Ma Silvina non amava la musica. I suoi occhi si posarono un poco più a lungo sulla sua vicina. Allora quella accostò ancora più a lei il suo sgabello, e sottovoce le disse:

— La mia povera sorella aveva una collana proprio come la tua, con uno smeraldo tale e quale. Ma un giorno la smarrì e non fu mai più ritrovata...

Tacque un momento, sorrise a Silvina che l'ascoltava benevolmente, e continuò:

— La mia povera sorella aveva tante gioie, che furono tutte vendute dopo la sua morte. È morta giovane, mia sorella. Si è uccisa. Aveva tante altre collane con zaffiri e brillanti, diademi di perle, anelli e braccialetti d'oro. Era molto bella e tutti le facevano regali. Ma noi, qui! Non ci regala niente nessuno...

Esitò un momento. Poi le domandò:

— Tu non hai sorelle?

Silvina rispose:

— No, nessuna.

La gavotta in quel punto diceva:

Voyez comme on danse

la main dans la main.

Allons en cadence

Jousqu' au doux hymen!

La voce dello zio Stanislao, un po' rauca e stonata, s'era unita d'un tratto alla voce d'Odette. Gli ultimi due versi della strofe furono cantati con impeto, e il ritornello finale fu suonato di galoppo, senza accompagnamento di voci. Poi regnò nella stanza vicina un silenzio profondo, che nessun percettibile rumore turbò per un pezzo.

Madama Humbert domandò a Silvina:

— Non avrà paura, signora, a passare sola la notte lassù?

Silvina sorrise. Veramente non si sentiva punto coraggio. Avrebbe preferito rimanere tutta la notte seduta in quella poltrona, anzichè coricarsi nel suo letto sola, lassù, in quella stanza isolata sotto i solai. Ma come fare? Quella debolezza la riempiva di vergogna. Non avrebbe osato confessarla a nessuno. Disse:

— Cercherò di farmi coraggio...

Incontrò nuovamente gli occhi della ragazza seduta accanto a lei, e le parvero, nella loro immobilità, pietosi. Ripetè:

— Mi farò coraggio...

E si alzò per andarsene. Ma allora anche quella si alzò, e, presale una mano, gliela accarezzò.

— Perchè non rimani a dormire con me? chiese timidamente. Anch'io a dormir sola ho sempre tanta paura.

Silvina rifiutò con un cenno del capo. Ma poi anche madama Humbert la pregò tanto, che alfine non seppe più negare a sè stessa la gioia di sottrarsi alla solitudine dolorosa di quella notte.

Disse:

— Per questa notte soltanto...

E, fatto un inchino a madama, si lasciò condurre per mano.

VIII.

Non fu per quella sola notte. Fu per molte notti di seguito, finchè Silvio non ritornò bianco e smagrito dall'ospedale per riprendere il suo posto fra i vivi. Ma quella prima notte influì per sempre sull'avvenire di Silvina; fu in quella prima notte che il suo istinto si decise ad agire indipendentemente dalla ragione e dalla coscienza, e dalle circostanze che fino allora avevano dominato la sua vita; in quella prima sciagurata notte, abbandonata a sè stessa, Silvina rinnegò per l'ultima volta, irreparabilmente, padre e madre, tutto il suo passato, e oserei dire anche sè stessa, o almeno quella Silvina che noi tutti avevamo amata con tanta indulgenza. Io penso che la gente superstiziosa si raffiguri giustamente come spettri notturni i maligni spiriti, e li veda sempre intanati nel buio, in agguato sotto gli antri oscuri, nelle cave rovine dove non penetra mai luce di sole, e specialmente senta la loro presenza invisibile nelle notti d'uragano, quando il mondo intero è alla mercè delle tenebre. In quella sciagurata notte, uno di me meno scettico penserebbe che un maligno spirito s'insinuò nel cuore di Silvina e vi stabilì il suo dominio.

Colei che s'era offerta come sua compagna di solitudine l'aveva condotta in una camera foderata di rosso, piena d'un profumo morbido e triste, male illuminata. Non c'era che un gran letto, poche sedie, uno specchio stretto e lungo in un angolo, con a fianco un piccolo tavolo coperto di tela bianca. Due bauli stavano semiaperti nel vano della finestra, e c'erano abiti e pezzi di biancheria sudicia sparsi in disordine qua e là, sulle sedie, in fondo al letto, appesi ai muri, come se chi abitava quella stanza fosse sul punto di raccogliere le cose sue e di andarsene via. Silvina si sentì subito triste, quando ne ebbe varcata la soglia. Ma la sua compagna le disse per confortarla:

— Si sta tanto bene qui. Siamo lontane da tutti. Per ciò anch'io la notte ho un po' di paura quando sono sola. Ma in due?

E la spinse dolcemente sul letto e l'abbracciò.

— Mi piaci tanto! disse poi sorridendo e fissando su lei quei grandi occhi senza dolcezza. E le domandò: — Non ti dispiace se ti parlo con confidenza? Mi sembra di conoscerti da tanto tempo. Come ti chiami?

— Silvina.

— Silvina, soggiunse. E sai come mi chiamo io? Mi chiamo Soave. E quanti anni hai?

— Diciotto anni, rispose Silvina.

— Poco meno di me, disse Soave. Anche tu sei giovane. E sei sola?

Silvina non comprese. La guardò perplessa, senza rispondere.

— Sei orfana? domandò Soave.

— No, disse allora Silvina, non sono orfana...

— Come ti invidio! sospirò Soave. Io non ho avuto mai nè padre nè madre....

Soave curvò il capo e rimase così assorta per qualche minuto. Poi chiese:

— Da quanto tempo stai con quel giovane?

Silvina avrebbe voluto tacere, spegnere il lume, coricarsi in quel letto, non muoversi più per tutta la notte. Ma facendo uno sforzo rispose:

— Da quattro mesi...

— E sei fuggita con lui da casa tua?

— Sì, rispose Silvina.

— E ti vuol bene?

— Sì, rispose ancora Silvina.

— E ti dà molto denaro?

Silvina abbassò la fronte e non rispose.

Soave si alzò, andò dinnanzi allo specchio, si sciolse i capelli, prese un lapis rosso e incominciò a ritoccarsi le labbra.

— Ah! bambina mia, esclamò, sono passata anch'io per la tua strada... Sembra che a tutto debba bastare l'amore, la prima volta. Ma poi, quando si vede che gli uomini sono tutti uguali, si dice: — Volete godere? E allora pagate...

Le sue labbra erano ora perfettamente rosse. S'incipriò il collo e ritornò a sedere sul letto accanto a Silvina. Allora l'abbracciò, e posando il capo sulla sua spalla, le disse:

— Non essere sciocca anche tu, come sono stata io. Non aspettare che lui si stanchi di te. Scegline un altro, di quelli che ti desiderano di più, e preferisci il più ricco. Non ti curare che sia bello. Noi, noi sì, anche quando sembriamo brutte, noi siamo belle. Ma gli uomini! Tutti schifosi a un modo! Ti piacciono a te, forse, gli uomini?

Silvina ebbe un sorriso sdegnoso. Soave la strinse ancora più teneramente a sè e la baciò sulla bocca. Silvina ebbe un piccolo moto di disgusto e si pulì istintivamente le labbra. Soave la guardò stupita, e poi scoppiò a ridere, battendo allegramente le mani.

— Non ti piace il rossetto? le domandò. Eppure è dolce come il miele. Perchè non ti tingi le labbra? Saresti mille volte più bella. La tua bocca è un poco pallida: così non piace agli uomini. E anche le tue ciglia sono troppo chiare: i tuoi occhi ci si perdono. Perchè non ti tingi gli occhi di nero?

— Vedo, disse poi con un'intenzione di malizia, che non ti ha insegnato nessuno... Ora ti insegno io...

E Soave corse a prendere il lapis nero, e il lapis rosso, il vasetto della pomata e lo scatolino della cipria, e, tutta ilare, costretta Silvina a voltarsi con il viso al lume, incominciò a dipingerla. Prima furono gli occhi. I chiari occhi di Silvina, i chiari occhi che mia madre baciava con tanto amore, che erano freddi ma casti, brillarono d'una strana luce nel cerchio nero che li chiuse intorno intorno alle ciglia. Da quel momento essi perdettero ogni pudore; non furono più gli occhi di una fanciulla. Poi fu la volta delle labbra, delle labbra che mia madre baciava con tanta purità, che erano cattive ma caste nel loro pallore malato, e divennero rosse, sbocciarono in una rosa purpurea e sensuale. La sua bocca divenne da quel momento impura; non fu più la bocca d'una fanciulla. Poi le dita leggiere di Soave spalmarono il viso di Silvina, il caro viso che mia madre accarezzava con tanta tenerezza, d'una pomata bianchiccia che rese la pelle liscia e lucida come seta, illuminando il suo pallore di strani riflessi di madreperla. Quindi sulla fronte, sulle gote, sul mento, sulla gola passò il piumino e vi posò un velo di cipria rosea, e la madreperla si annebbiò d'una opacità calda e vellutata, come l'alito caldo fa sullo specchio.

Così fu distrutta Silvina nostra. Ella fu da quel momento un'altra Silvina.

— Irriconoscibile! esclamava Soave, guardandola raggiante. Che meraviglia! Guàrdati! Guàrdati!

E la trascinò dinnanzi allo specchio perchè anch'ella potesse ammirare l'opera delle sue mani, vedere quanto fosse mutata. E vi dico che Silvina non torse vergognosa gli occhi da quella sua triste immagine, non si rivoltò rabbiosa contro Soave per insultarla, non disfece inorridita quella turpe maschera che le deformava il volto, non si gettò in terra singhiozzando umiliata, ma sorrise con compiacenza alla Silvina che senza pudore le sorrideva dallo specchio e inchinò il capo da ogni lato per ammirare quanto giovasse al suo profilo la bocca così fortemente segnata.

— È vero, disse, con una voce che non era la sua solita voce, una voce che vibrava tutta di commozione, è vero! Come sono diversa!...

— E più bella! esclamò Soave.

— Sì, disse Silvina, quasi più bella...

Allora Soave le sciolse i capelli, affondando in quella seta morbida le sue mani come aveva fatto prima mia madre, come aveva poi fatto Silvio, e diceva:

— Cara, cara... I tuoi capelli come sono dorati! Questi non occorre tingerli: sembrano raggi di sole, spighe di grano... Come sono fini! Quanti sono! Come pesano!

Glieli accarezzò a lungo, mentre il suo viso si imporporava, chiudendo gli occhi per il piacere che le veniva dall'accarezzare quei capelli così morbidi e densi. E Silvina, ad occhi chiusi, si lasciava accarezzare. Si lasciò accarezzare, e, quando Soave le disse: — Lascia ch'io ti spogli! — lasciò che Soave le slacciasse l'abito viola e poi l'abito azzurro, disse semplicemente: — Avevo tanto freddo! — lasciò che cadessero ai suoi piedi la sottoveste bianca, i calzoncini orlati di pizzo, la camicina ch'era trattenuta appena da un nastro rosa annodato sulla spalla. Rimase così nuda nuda dinnanzi allo specchio, e soltanto quando, aperti ad un tratto gli occhi, si vide così nuda nello specchio, e vide Soave che la guardava estatica, con un piccolo grido si rifugiò nel letto perdendo nel salto le sue scarpette che volarono chissà dove. Ma Soave spense il lume e la raggiunse sotto le coltri, l'abbracciò stretta stretta e le disse:

— Senti, senti, se la mia pelle non è più liscia della pelle di Silvio...

Poi le disse:

— Ora le mie labbra non ti faranno ribrezzo, perchè anche le tue sono dipinte. Senti se il rossetto non è dolce come il miele....

E la baciò sulla bocca. Poi appoggiò la sua testa sulla spalla nuda di Silvina, e dolcemente si addormentò: perchè Soave, Soave era innocente. Ma Silvina non si addormentò subito. Il cuore le batteva forte. Ella pensava con gioia, con una specie di dolorosa, di amara, di cattiva voluttà, che quel corpo tiepido, che era così strettamente allacciato al suo, non era il corpo di Silvio. Ed ella godeva d'un piacere ignorato, al pensiero che il suo letto di fanciulla era tanto lontano, che non si sarebbe mai più coricata in quel deserto candore. Pensava che anche il letto di Silvio era lassù, freddo e vuoto, sotto il solaio, in quella stanza tenebrosa su cui la pioggia piangeva le sue fredde e lamentose lagrime, e che ella, Silvina, non sarebbe mai più stata sola, perchè il suo pudore l'aveva abbandonata, quella specie d'impedimento fisico che la rendeva straniera a tutte le cose che non le appartenessero da lungo tempo. Da quel momento ella era perfettamente libera, tutto le apparteneva, tutto poteva prendere, fare suo. Non esistevano più ostacoli alla sua volontà, non più limiti, non più divieti. Buono era quel letto in cui stava coricata per la prima volta; e come un giorno aveva potuto addormentarsi senza il bacio di sua madre, così ora, tra poco, si sarebbe addormentata senza il bacio di Silvio.

Quando fu giorno, Soave con una carezza svegliò Silvina. Il sonno era stato per entrambe un sereno riposo. Esse si guardarono sorridendo, e videro con gioia che un raggio di sole pallido filtrava attraverso le tende della finestra. Il nuovo giorno non era così triste come l'altro. Silvina si vestì in fretta, si pettinò, e quando fu vestita e pettinata Soave le mise in capo uno dei suoi cappellini di feltro, le attorcigliò intorno al collo una volpe azzurra, e Silvina uscì nel mattino tutto ridente di solicello per andare all'ospedale. L'ospedale era un gran palazzo di pietra grigia. Le strade su cui si affacciavano le file interminabili delle sue finestre puzzavano tutte di cloro. La pioggia non aveva spazzato via quel tanfo nauseabondo, non aveva lavato le sue mura sudicie. Nell'andito una vera moltitudine di miserabili si pigiava in silenzio, e Silvina dovette attraversare quella folla prima di arrivare alla porta. Un corridoio nudo e lunghissimo, attraversato di quando in quando da qualche suora di carità, si presentò dinnanzi a lei, ed ella dovette percorrerlo in tutta la sua lunghezza, e vedere, attraverso le sue cento porte aperte, file e file di letti bianchi, popolati di bianchi fantasmi, per entrare infine in una corsia squallida come tutte le altre. Chiese timidamente di Silvio. Fu portata dinnanzi a uno di quei volti mostruosi, e riconobbe Silvio con un senso di repulsione invincibile, come se non lo avesse mai veduto prima di allora, come se fosse un altro uomo. E Silvio la guardò con le sue ardenti pupille, e non la riconobbe. Ella potè così fermarsi soltanto un istante dinnanzi a quel letto, udire appena il rantolo che usciva dalla gola strozzata dell'infermo, e senza rivolgergli una parola, senza sfiorargli la fronte con una carezza, senza compiere nessuno di questi pietosi doveri, potè fuggirsene via, e sottrarsi al pensiero che quelle labbra gonfie e violacee ella le aveva baciate, e quelle gote, trasudate livide irsute, le aveva carezzate, aveva toccati quei capelli aridi, sorriso a quegli occhi insensati. La giornata invernale era povera povera di sole. L'azzurro del cielo sembrava un'illusione di sereno. Ma a Silvina, quando uscita dall'ospedale si sentì presa in quel solicello, sotto quel cielo timido, sembrò di camminare per le vie di un paradiso primaverile, tutto luce, serenità, gaudio.

IX.

Ad un angolo di strada, in un giardino tutto di palme incappucciate, Silvina vide una serra piena di fiori, e comprò un gran mazzo di rose rosse, che sembravano sbocciate allora nel più tepido sole di maggio. Stringendosi al seno quelle rose, tutta così stupendamente fiorita, attraversò mezza città, salì le scale della sua casa, ed entrò in quella stanza dalla quale la sera innanzi era uscita tremando. Quantunque per l'abbaino piovesse un po' di sole, quella stanza non le sembrò meno squallida. Ma il color vivo delle rose riscaldò con i vaghi riflessi di una aurora il candore nudo di quei muri.

Poco dopo la porta lentamente si socchiuse, e Silvina, sorpresa e intimidita, vide apparire fra i due battenti la faccia gialliccia dello zio Stanislao. Senza attendere un suo invito, egli si fece avanti a piccoli passi di danza, e, baciandole umilmente la mano, le domandò:

— Mi perdonate, signora?

Il tono della sua voce era così dimesso, i suoi modi così modesti, che Silvina non potè fare a meno di perdonarlo con un breve sorriso. Gli indicò una sedia, ed egli subito pronto a quel gesto si sedette, mentre Silvina, sedutasi dinnanzi a lui, lo contemplava con uno sguardo pieno di studiata indifferenza, così freddo ed estraneo che il poveretto si sentì d'un tratto mancare la voce.

— Signora, disse alfine, balbettando, vi chiedo scusa se ho osato salire quassù senza il vostro permesso. Ma Silvio non vi parlò mai del principe Stroztki, suo amico?

S'interruppe, e poichè Silvina ebbe assentito con un lieve cenno del capo, s'inchinò e soggiunse:

— Il principe Stroztki sono io...

Pronunciate queste parole, egli abbassò gli occhi modestamente ed attese. Silvina ricordava benissimo quel nome, e ciò che Silvio le aveva detto di lui, e cioè che, avendola ammirata all'Alhambra, l'aveva paragonata ad una viola mammola. Ma dovette compiere uno sforzo per scartare l'immagine dello zio Stanislao, che fino a quell'istante ella aveva considerato con un senso di invincibile ironia, e sostituirla con l'immagine ben altrimenti rispettabile e interessante di un principe. Silvina aveva scoperto allora allora il trucco del parrucchino nero che stava leggiadramente posato sulla fronte di Stanislao, e pensava di vedere la sua testa brillare d'un tratto denudata da un colpo di vento; la sua testa tutta pelata, che doveva essere tonda gialla e liscia come il suo viso. Non s'era mai incontrata con un uomo simile, che non avesse un pelo in faccia, così irrimediabilmente calvo, nonostante quella perfetta parrucca, e così giallo da non parer fatto di carne, ma impastato di una carta pesta ingiallita. Poteva avere qualunque età, fra i trenta e i sessanta anni; eppure, piuttosto che d'un vecchio, aveva l'aspetto di un uomo non finito, d'un burattino al quale, passata sul viso una prima mano di vernice e incollata in fretta sul tondo della zucca una parrucchetta di peli neri, senza appiccicargli nè sopracciglia, nè ciglia, nè baffi, nè barba, e dare alle sue labbra e ai suoi pomelli una spennellata di rosso carnicino, fosse stato mandato per il mondo, a vivere in compagnia d'altri burattini tutti rifiniti per bene. Il sarto, sì, aveva compiuto perfettamente l'opera sua, vestendolo con abiti di un taglio, come si dice, irreprensibile e secondo l'ultimo figurino; alti colletti a pizzi rotondi, cravatta di seta colorata, biancheria finissima immacolata di seta, tutto tirato a lucido, e infine scarpine con tomaie di pelle di un delicato color tortora, che stringevano il suo piede sottile e lungo come in un guanto. Ma una volta scoperto che quel burattino era un principe, bisognava riconoscere che non sarebbe sembrato un vero principe se non avesse avuto quell'aspetto di burattino. Gli antichi videro metamorfosi ben più stupefacenti di questa. E se Mirra potè mutarsi in pianta, e Nictimene in gufo, e Niobe in roccia, a maggior ragione potè lo zio Stanislao, agli occhi di Silvina, mutarsi in un principe, la cui calvizie altro non fosse se non un indizio dell'antichità della razza, stanca ormai di produrre tanti principi polacchi tutti adorni delle più sontuose zazzere d'Europa.

Mentre in Silvina avveniva una così ardua revisione della sua persona ridicola, il principe Stanislao pensò che fosse inutile procrastinare di qualche minuto ancora il momento in cui, divenuto insostenibile quel silenzio che durava già troppo tempo, egli avrebbe dovuto in ogni modo parlare, confessando a Silvina la segreta ragione di quella visita. Egli dunque chiamò a raccolta tutti i suoi spiriti coraggiosi, e composto il gesto in una specie di ieratica immobilità, abbassò il capo per non vedere come Silvina avrebbe accolto le sue parole. Quindi con voce velata di commozione disse:

— Silvina, sono venuto per confidarvi un segreto: un segreto così grave, che da esso dipende tutta la mia vita. Se sentiste, Silvina, (e si premette una mano sul cuore) come il mio cuore batte in questo istante, sono certo che credereste subito a quanto sto per dirvi, senza dubitare mai mai che io possa fingere o mentire. Così come mi vedete, non più giovinetto, ho ancora l'anima semplice d'un fanciullo. Sì, ho anch'io vissuto intensamente, ho amato e sono stato amato, ho viaggiato molto, e, frequentando uomini e donne d'ogni razza, posso dire d'avere più d'ogni altro un'esperienza assai estesa del mondo. Ma io vengo da un paese freddo, dove l'ingenuità è degli uomini oltre che dei fanciulli, e perciò ancora oggi soffro di una ingenuità quasi infantile. La mia prima giovinezza trascorse tutta tra severe regole, nell'isolamento assoluto di un vecchio e tetro castello lituano. La solitudine di quegli anni influisce ancora su molti lati del mio carattere. In ogni caso io sono incapace di mentire, così come sono incapace di nascondere i palpiti del mio cuore; e quando il mio cuore parla, sono incapace di tacere. Mi promettete almeno, Silvina, di ascoltarmi con benevolenza, e di giudicare poi non tanto le mie parole, quanto le mie intenzioni? Sì, Silvina, soggiunse con un tono di voce più bassa, ciò che io sto per dirvi è molto grave. Tutto dipende da voi...

Silvina, senza distrarsi dallo studio accurato della persona del principe, lo ascoltava con un vago senso di noia. Ma a quel mutamento di voce, che egli fece improvvisamente, ebbe un breve palpito di paura e domandò:

— È di Silvio che volete parlare?

Il principe scosse il capo negando e sorrise con malinconia.

— No, Silvina, soggiunse, io non debbo darvi nessuna grave notizia di Silvio. Spero che Silvio non corra nessun pericolo, ma non senza dolore vedo ora come voi lo amiate. Forse sarebbe più prudente per me che io rinunciassi senz'altro a parlarvi... Forse commetto una pazzia, giuoco disperatamente la mia felicità. Ma come potrei ora andarmene, senza sembrare ai vostri occhi il più ridicolo degli uomini? Ascoltatemi, dunque, e siate buona con me. Dovete sapere, Silvina, che da quella sera, in cui vi vidi per la prima volta all'Alhambra, la vostra immagine non mi ha più abbandonato. Considerate fino a che punto la nostra felicità sia alla mercè del caso! Chi può non credere alla fatalità? Mille volte, incontrando una donna non mai veduta prima in nessun luogo, ho esclamato: — È lei, è lei quella che ho sempre sognato d'amare! La sola che potrebbe rendermi felice! Ma, dopo averla ammirata per tutta una sera, dopo aver costruito progetti su progetti, fantasticando di tutto il mio avvenire, quella donna, com'era apparsa improvvisamente sul mio cammino, così improvvisamente scompariva, e per quanto cercassi, non riuscivo più a rintracciarla. Sempre, sempre, tutte sono scomparse, come se il destino, dopo avermele spinte incontro per tentarmi con la loro presenza, poi subito se le riprendesse, riportandole via, lontano da me, per modo che io non potessi mai più rivederle. Debbo dirvi, Silvina, che ho temuto anche per voi la stessa sorte? Quando interrogai Silvio ed egli mi disse: — È mia moglie... — sentii che la sua gelosia avrebbe provveduto a tenermi lontano da voi forse anche più di quanto non avesse fatto il destino per tutte le altre; e rassegnato rinunciai ad ogni mia speranza. Ma, ieri sera, incontrandovi inaspettatamente una seconda volta, pensai (debbo confessarlo, Silvina?), che io avevo disperato del destino forse nel momento stesso in cui era pronto a soccorrermi...

Il principe parlava con voce uguale, commossa. Silvina pensava: — Come è lungo! E per quanto non tradisse alcun pensiero, era impaziente e curiosa di giungere alla conclusione.

— Mi ascoltate, Silvina? domandò il principe ad un tratto.

Ella accennò di sì, e il principe continuò:

— Da principio credetti di essermi ingannato. Come potevate essere voi, proprio voi, in quella casa? Quelle ragazze mi chiamano lo zio Stanislao, perchè io le tratto con confidenza, come un vecchio amico. Ma non giudicatemi male, Silvina. Io sono un uomo debole, ma non un libertino. Cerco di sfuggire allo spleen unendomi a qualche allegra compagnia, senza per questo abbandonarmi al vizio. Del resto ognuno prende un'ora di spensierato oblio, un attimo di piacere, là dove li trova. Da questo lato la casa di madama Humbert è migliore di tante altre. Ma voi? Eppure, passato il primo momento di dubbio, ebbi la certezza di non avervi confusa con nessun'altra donna. No. Eravate voi, proprio voi, seduta in quella poltrona rossa, in compagnia di Odette e di Manon, di Mimì, di Soave. E Silvio? Ammalato. E voi? Sola. Lo credete? Rimasi così profondamente turbato da questo incontro che quando Odette volle trascinarmi nell'altra stanza perchè l'accompagnassi al piano, non ebbi la forza di rifiutarmi. Così, mentre non avrei mai più voluto allontanarmi da voi, fui costretto a rimanervi tutta la sera lontano. Ma quali sofferenze, dopo! Una voce interna mi diceva: — Meglio così, Stanislao, meglio averla sfuggita! E un'altra voce diceva: — Vile, vile! Odette ha potuto separarti da lei ancora una volta. Tu perderai anche questa, e poi incolperai il destino di non averti aiutato. Vergognati, Stanislao! E allora io riconobbi in questa seconda voce la vera voce del mio cuore, la voce dell'anima mia...

Giunto a questo punto critico del suo discorso, egli si arrestò impaurito dal pensiero che oramai non era più possibile divagare ancora. Levando per un attimo gli occhi su Silvina, la vide, rannuvolata, posare su di lui uno sguardo freddo ed ironico. Il suo silenzio e la sua immobilità lo spaventarono, ma pensò che gli era ormai impossibile indietreggiare. Allora, come uno che, dopo essersi tenuto per lungo tempo con inauditi sforzi in equilibrio sull'orlo di un precipizio, d'un tratto disperatamente si abbandona, il principe chiuse gli occhi e disse:

— Per aver ubbidito a quella voce, Silvina, io mi trovo ora qui, dinnanzi a voi. Credete che non veda come la mia situazione sia piena di pericoli, nello stesso tempo dolorosa e ridicola? Ebbene, ora vi domando: — Silvina, siete veramente la moglie di Silvio? Siete almeno la sua fidanzata? E se non siete nè moglie nè fidanzata, è vero che amate Silvio teneramente? E se neppure lo amate con passione, lo amate almeno per capriccio? E se questo capriccio fosse finito, permettereste ad un altr'uomo di occupare un posto nel vostro cuore? Pensate, Silvina, pensate quanto questa vita sia indegna di voi! (e con un gesto egli abbracciò la miseria di quella stanza). La vostra bellezza esige ben altra cornice. Voi potete avere tutto ciò che desiderate da un uomo che vi adora...

Pronunciando con forza queste parole, il principe Stanislao cadde in ginocchio ai piedi di Silvina. Ma prima che egli avesse toccato terra, Silvina s'era alzata, e saettava sulla sua testa prona i fulmini di uno sdegno che le riempiva gli occhi di lampi. Egli udì la sua voce sarcastica che diceva:

— Perchè Silvio non è qui per rispondervi?

Poi udì il suono di un riso beffardo, e la voce di Silvina che diceva:

— Alzatevi! Siete un principe, voi?

Ma quand'egli infine si decise a sollevare il capo per alzarsi in piedi, vide che Silvina non rideva più.

— Ciò che mi proponete è infame! — esclamò Silvina con voce rotta dall'affanno. E balbettando: — Uscite! uscite! si abbattè sulla sedia e, nascosto il viso, scoppiò in un tumulto di lacrime.

Il principe Stanislao scosse desolato il capo.

— Silvina, Silvina, sospirò, voi non mi avete compreso...

Poi, tesa timidamente la mano, le sfiorò il capo con una lieve carezza.

— Addio, disse. Ricordatevi... in ogni circostanza della vita... potete contare... su me...

E in punta di piedi, senza più voltarsi indietro, se ne andò.

Non appena egli ebbe varcata la soglia dell'uscio, Silvina raddrizzò il capo, e rise da sola, a lungo. Il suo viso non aveva traccia di lacrime. Le sue ciglia erano perfettamente asciutte. Quindi si alzò, andò a vedere nello specchio se quella scena di finta disperazione, che ella aveva recitata come nei vecchi drammi, le avesse sciupato il contorno rosso delle labbra, il contorno nero degli occhi. Ma, la sera, prima di addormentarsi col capo dolcemente posato sul suo seno, Soave le disse:

— Come sei fortunata tu, Silvina. C'è Odette che aspetta da un anno che lo zio Stanislao la prenda con sè. Non sai quanto è ricco? Avresti carrozza, cavalli, servitori, una bellissima casa con tutti i mobili nuovi, dove potresti dare dei gran pranzi... Vestiti, pellicce, gioielli, quanti tu ne volessi... E poi chi ti impedirebbe di sceglierti un bel ragazzo, magari di tenerti Silvio, se preferisci per forza un uomo alla tua piccola Soave? Lo zio Stanislao è brutto, ma il mondo è pieno di bei giovani, anche più belli di Silvio. E tu hai rifiutato? Soltanto Odette può ringraziarti. Povera Odette! Ha già più di trent'anni...

X.

Silvio, caduta che fu la febbre, passò dieci giorni disperati. Qualcuno gli disse che una mattina, quand'ancora aveva il delirio, una ragazza era venuta a visitarlo, si era trattenuta pochi minuti accanto al suo letto e poi se ne era andata via. Ma da quel giorno nessuno si era più presentato in corsia a cercare di lui, nè quella ragazza, nè altri. Silvio avrebbe voluto lasciar subito l'ospedale, ma i medici glielo vietarono. Pregò, pianse, si dichiarò guarito, ma tutto fu inutile. Dovettero passare dieci lunghi giorni prima che l'infermiere gli restituisse i suoi abiti, dicendogli che, volendo, se ne poteva andare. Veramente egli si reggeva a stento in piedi, era pallido come un morto, e doveva ogni momento chiudere gli occhi per non cadere di peso in terra colpito dalle vertigini. Pure a denti stretti si tenne su, inghiottendo amaro per soffocare la nausea, pronto a morire piuttosto che prolungare anche di un istante quell'angoscia morale, peggiore d'ogni male fisico, nella quale viveva disperato da tanti giorni. Appoggiandosi, dall'una all'altra, alle spalliere dei letti, rispondendo con dei fiochi addii ai saluti che raccoglieva da ogni ammalato, potè raggiungere il corridoio, e poi scendere le scale e uscire nell'atrio.

Era l'ora dell'imbrunire. Trovò fuori un discreto crepuscolo che non ferì i suoi sensi malcerti, un'aria umida che non gelò la sua carne già fredda. Ringraziò Iddio che, creando la luce, aveva creato l'ombra, nella quale ora egli avrebbe potuto passare inosservato, senza che tutti gli stranieri nei quali si sarebbe incontrato fossero costretti a considerar pietosamente il suo stato, il suo viso bianco e scarno, i suoi occhi sparuti, lo stento con cui muoveva i passi, il tremito delle sue membra addolorate sotto quei panni miseri, l'affanno che gli toglieva il respiro. Egli riconosceva a mala pena i luoghi che attraversava, e gli pareva che quelle case, quei crocicchi, quelle piazze, quei giardini, fossero gli stessi che egli aveva veduto prima e per tanto tempo, ma che in quei venti giorni, che era rimasto assente, fossero stati spostati da un luogo ad un altro, e mutate le loro dimensioni, certe case rialzate di alcuni piani ed altre invece ridotte a metà; i monumenti gli parevano ingranditi, con piedistalli più alti e quadrati, e le figure delle statue atteggiate bizzarramente in gesti che non erano i soliti; la gente, i veicoli, la disposizione delle botteghe illuminate, tutto sembrava denotare nei cittadini abitudini nuove nel modo di frequentare le strade, di raggrupparsi in questo o quel punto, di occupare i marciapiedi e le cantonate, di regolarsi nei riguardi della città. Per esempio la casa dove egli abitava, dove Silvina forse lo stava aspettando, dove forse Silvina era ammalata, dove forse anche Silvina non lo aspettava più, gli era sempre sembrata molto vicina all'ospedale, tanto da potervi giungere in pochi passi. Invece non faceva che svoltare cantoni, attraversare piazze, e la sua casa era sempre lontana. Finalmente la vide in fondo al largo d'una strada, con la sua facciata rossastra, quadrata, enorme, tutta bucata di finestre nere o gialle.

Poi che fu entrato nel portone, gli rimanevano da salire sette faticosi capi di scale. Passando dinnanzi allo sgabuzzino illuminato del portinaio, attraverso i vetri vide il buon Fortunato curvo sopra una vecchia ciabatta su cui picchiava a gran forza con un martello; bussò contro i vetri con la punta di un dito e lo salutò. Quello rimase col martello aizzato a mezz'aria, a guardarlo meravigliato, poi rise allegramente e gli gridò: — Ben tornato, signor Silvio! è guarito bene? ho piacere, ho piacere! — E Silvio s'incamminò per le scale con il cuore che gli pesava addolorato, perchè se Silvina fosse stata ammalata costui non avrebbe riso allegramente a quel modo, ma si sarebbe alzato con un viso malinconico, per dirgli: — Sa, signor Silvio, la signorina è stata malata, ma quello che abbiamo potuto fare lo abbiamo fatto per lei... Silvina, invece, non era malata, e nulla di nuovo le era accaduto in quei giorni maledetti, e perciò, se lo aveva abbandonato solo nel suo letto di ospedale, senza portargli nè il conforto di un sorriso, nè il balsamo di una carezza, abbandonato come un cane, dimenticato come uno straniero, non doveva temere per lei, ma soltanto commiserare sè stesso, riconoscendo crudelmente ch'ella lo aveva abbandonato e dimenticato soltanto perchè non le importava nulla di lui, che vivesse o morisse, che potesse consolarsi o disperarsi nel sentirsi solo e abbandonato in quel ricovero di derelitti. Egli era stato sul punto di morire, e non solo se ne sarebbe andato senza rivedere nè sua madre nè suo padre, che ne sarebbero certamente morti di dolore, ma senza che Silvina neppure sapesse che egli moriva, che la loro vita stava per essere troncata d'un tratto, tutti i loro sogni distrutti, il loro amore finito per sempre. Un giorno forse, dopo chi sa quanto tempo, non vedendolo mai più ritornare, Silvina si sarebbe presentata alla porta dell'Ospedale, e avrebbe chiesto che cosa fosse accaduto di un ammalato di nome Silvio, al quale corrispondeva il tale numero di letto. Avrebbero sfogliato sotto i suoi occhi un gran registro con tante cancellature e croci, e fermando l'indice sopra un nome le avrebbero detto: — È morto. Poi le avrebbero chiesto se era lei la sorella o la moglie, perchè in tal caso le avrebbero consegnato i suoi abiti. E Silvina, nè moglie nè sorella sua, ma più che moglie e sorella, la creatura tanto amata, se ne sarebbe andata senza un sospiro, senza una lacrima, e certo sulla sua tomba non avrebbe portato neppure un fiore.

Come ebbe salite le lunghe scale, con uno sforzo accelerò il passo e il ballatoio lo fece quasi correndo. Con il cuore che gli mancava, posò la mano sull'uscio e l'aprì. La stanza era semibuia e deserta. Egli cercò febbrilmente una candela, l'accese, ed esausto cadde disteso sul letto. Rimase così alquanto tempo, immobile, senza pensiero. Non vedeva, non udiva nulla. La fiammella della candela era fioca e agitata. Faceva tante ombre agitate sulle pareti. Quando finalmente risollevò il capo e si guardò intorno, Silvio vide innanzi tutto gli abiti di Silvina appesi in un angolo, e ne ebbe un palpito di gioia. Il suo cuore fu così alleggerito del peso che più lo opprimeva, poichè il pensiero che lo aveva tormentato fino a quell'istante con maggior pena, quantunque egli cercasse sempre sempre di tenerlo lontano, di soffocarlo, di rinnegarlo, era che Silvina fosse fuggita, chi sa dove, ritornata a casa sua, innamorata di un altro, stanca, incapace di sopportare la solitudine e la miseria di quella vita. Allora veramente, quando quel pensiero si insinuava fra le mille altre idee dolorose che si agitavano in lui, egli si sentiva perduto, come se fosse per mancargli l'ultimo spiraglio di luce in un mondo che già gli appariva tutto paurosamente fosco. Ma poichè i suoi abiti erano là ancora appesi nel solito angolo, e non soltanto gli abiti, ma sul tavolo, in un secchiello di legno, c'era un mazzo di gigli ancora freschi, e sopra ogni mobile le piccole cose sue e di Silvina come le aveva lasciate, Silvina non era certamente fuggita, ed egli fra poco, subito forse, avrebbe udito il suo passo nel corridoio avvicinarsi leggiero come sempre, e poi l'avrebbe riveduta, lei, lei, Silvina, non quell'immagine di lei, quel crudele fantasma che lo visitava in sogno da tante notti, inafferabile ed ostile, ma proprio lei viva, come l'aveva posseduta un giorno. E non potendo reggere all'impeto della commozione che suscitò in lui questa certezza, egli pianse con il viso affondato nei cuscini, dirottamente, a lungo, versando in lacrime tutta la amarezza di quei giorni e di quelle notti di disperazione.

Solo quando ebbe ritrovato un po' di calma, Silvio pensò come quell'incontro imminente e tanto desiderato sarebbe stato penoso, quanto egli avrebbe forse dovuto ancora soffrire, e come invece sarebbe stato felice se fosse rientrato in quella stanza con lei, appoggiato al suo braccio, dopo aver fatta insieme la lunga strada dell'ospedale. E arrivati lassù, ritrovandosi finalmente soli, si sarebbero abbracciati con tenerezza infinita, e il bacio che allora avrebbe unito le loro labbra sarebbe stato dolce come il primo bacio d'amore. Ora invece era là, solo, senza sapere nemmeno quale Silvina gli si sarebbe mostrata fra poco, se la sua cara Silvina d'una volta oppure un'altra Silvina, disamorata, indifferente. Avrebbe dovuto interrogarla, mostrarsi sconfortato, addolorato, deluso, dubitare delle sue parole, se ella, provando pietà e rimorso nel vederlo così fisicamente disfatto, così triste e sconvolto, avesse cercato di giustificarsi, di rassicurarlo, di confortarlo anche; e quanto più ella si sarebbe mostrata espansiva, tenera, premurosa, afflitta, pentita, più egli avrebbe dovuto pensare che Silvina, sentendosi colpevole, cercava ora di riabilitarsi ai suoi occhi mentendo, trovando scuse di cui egli avrebbe indovinato subito la falsità e l'inconsistenza. Ma forse ella non avrebbe nemmeno cercato di giustificarsi, di mentire, per ottenere il suo perdono. Forse Silvina gli avrebbe confessato crudelmente la verità, e cioè che, non amandolo più, le riusciva affatto indifferente che egli l'accusasse ora d'averlo trattato come un estraneo, d'essere stata cattiva ed ingrata verso di lui.

Ma Silvio potè mutare cento volte pensiero, distruggere una dopo l'altra tutte le sue supposizioni e trovarne sempre delle nuove, poichè Silvina non rientrò che assai tardi. Udì, prima del rumore dei suoi passi, la sua voce lontana, nel corridoio, che fresca ed ilare diceva a qualcuno, la cui presenza non era manifesta se non per via di quelle parole: — Arrivederci a domani! addio! addio! — e poi la udì avvicinarsi saltellando, e finalmente l'uscio si aprì. Alla luce fioca della candela Silvio vide che ella aveva le spalle fasciate da una pelliccetta grigia, un cappellino grigio sul capo, un mazzo di garofani in braccio. Poi vide il suo viso tutto colorito, e la sua bocca rossa, e i suoi occhi grandi e neri, e pensò subito di avere la febbre, se il viso di Silvina gli appariva così esageratamente acceso, la sua bocca così rossa, i suoi occhi così profondi e ingranditi. Silvina ebbe un piccolo grido di paura scorgendo inaspettatamente l'ombra sua nera distesa sul letto, poi non potè vincere un moto di stupore e di contrarietà, e, corrugate le ciglia, rimase ferma dinnanzi alla porta, a guardarlo. Silvio s'era sollevato sulla sponda del letto, e si sentiva ora la gola stretta da un nodo, e in tutta la persona era scosso da un tremato convulso che non riusciva a dominare. Non ritrovava nella sua mente confusa un solo pensiero, una sola parola per Silvina. Non sapeva che cosa sarebbe accaduto di lui qualora avesse tentato di muoversi o di parlarle. Ma finalmente Silvina si scostò dalla porta e si fece in mezzo alla stanza. Posò sul tavolo i fiori, si tolse la pelliccia e il cappello, si aggiustò i riccioli sulla fronte e sulla nuca, quindi si rivolse a lui e freddamente gli disse:

— Credevo che tu fossi morto...

Silvio si sentì prima agghiacciare tutto, poi avvampare d'una fiamma che gli serpeggiò con un brivido caldo da capo a piedi, e gli dette improvvisamente una forza meravigliosa. Si alzò d'impeto, mosse due passi verso Silvina, le prese una mano e con voce soffocata le gridò:

— Morto! Morto! Credevi ch'io fossi morto! Speravi ch'io fossi morto! Credevi di esserti liberata per sempre di me! Ebbene no! Non sono morto! Come mi vedi sono vivo, e presente, vivo, vivo, vivo!... Perchè non sei venuta a convincertene prima, che io non ero morto? Oh sì, certamente, potevo anche morire! Sono stato per giorni e giorni sospeso a un filo di vita. A quest'ora potrei anche essere sotterrato. Ma per te, che cosa poteva importare?

Silvio respinse con violenza la mano di Silvina, mentre Silvina cercava di scioglierla dalla stretta delle sue mani.

— Sei pazzo! sei pazzo! gemette con un filo di voce, mentre indietreggiava guardandolo spaventata.

— Pazzo? domandò Silvio ridendo convulsamente. Vuoi farmi credere che deliro, che sragiono? Ah! sì, potrei anche esserle impazzito, soggiunse poi amaramente, poichè non mi hanno lasciato morire! Ma dimmi: se ti ricordo che sono stato per venti giorni e venti notti abbandonato come un cane in un letto di ospedale, solo, senza una tua parola di conforto, senza un tuo pietoso aiuto, solo, solo, a struggermi di angoscia, se ti ricordo questi venti giorni di martirio, mi dirai ancora che sono pazzo? Tu sei bene Silvina. Io sono pure Silvio. Per quanto la follia mi abbia rovesciato il cervello, non crederò di essere insensato a tal punto da scambiare un'altra donna con te, e un altr'uomo con me stesso. Dunque io sarò forse impazzito, ma la verità rimane quella che è, come se io fossi perfettamente lucido e sano!

Si sentì mancare il respiro, vacillò, cadde riverso sul letto e rimase immobile, respirando affannosamente. Durò un lungo silenzio, in cui non si udì che il suo rantolo soffocato. Poi Silvina gli si avvicinò e gli domandò sommessamente:

— Silvio, Silvio, di che cosa sono dunque tanto colpevole? Non ricordi d'avermi tu stesso ordinato, quando venni a visitarti e deliravi, di non ritornare mai più all'ospedale, finchè tu non fossi guarito?

L'anima abbuiata di Silvio si illuminò a quelle parole di un'improvvisa luce. Sollevò il capo e rimase per qualche minuto attonito, con lo sguardo fisso a terra. Quindi lentamente lo levò su Silvina e, incontrati i suoi occhi pieni di umiltà e di dolcezza, le domandò:

— Io? Io te l'avevo ordinato?

Silvina assentì col capo ed egli era troppo confuso, troppo agitato per vedere come gli occhi di lei, nel momento in cui il capo si piegava por assentire, stornassero da lui le pupille per sfuggire alla fissità del suo sguardo. A Silvio bastò quel breve cenno per sentirsi disarmato e felice. Egli non ricordava nulla dei giorni del suo delirio; ma quella spiegazione, la sola alla quale nel suo lungo fantasticare non avesse pensato, corrispondeva indubbiamente alla verità.

— Ma come? Quando? domandò a Silvina con il viso illuminato da un sorriso di gioia.

E allora Silvina, compiacente, gli si sedette accanto sulla sponda del tetto, e, abbandonandogli le mani che egli incominciò a coprire di baci, gli raccontò:

— La mattina del secondo giorno io venni a vederti. Si penò molto prima di trovare il tuo letto, e mi fecero attraversare tante corsìe e mi mostrarono tanti di quei disgraziati, chiedendomi sempre se eri tu, che io cercavo. Finalmente ti trovammo. Povero piccolo! Eri quasi irriconoscibile. Il male ti aveva deformato il viso come una maschera. Deliravi e sembrava che nemmeno ti accorgessi della mia presenza. Io ti chiamavo, e tu non rispondevi. Soltanto per un momento mi guardasti sorridendo e presa la mia mano, mi dicesti: — Non ritornare più, mai più. Questo luogo è orrendo. Non voglio che tu mi veda così. Quando starò meglio ti manderò a chiamare. Poi chiudesti gli occhi, e ricominciasti a vaneggiare. Allora io me ne sono andata. Avrei voluto disubbidirti, e ritornare. Ma poi pensavo che ti sarebbe dispiaciuto, e speravo che da un giorno all'altro mi avresti mandato a chiamare. Come ti ho aspettato, Silvio mio! E tu? Credermi capace di dimenticare il mio Silvio? È questo tutto il bene che mi vuoi?

Silvio se la tirò stretta stretta sul cuore e mormorò supplichevole:

— Perdonami, Silvina, perdonami... Non mi ricordavo di nulla...

E allora Silvina, continuò:

— Tu sì, mi hai abbandonata qui, sola, senza nessuno, senza danari, senza un aiuto... Il tuo piccolo gruzzolo è finito presto. Non bastò per tre giorni. Non hai mai pensato, tu, che io potevo morire di fame? Credimi, Silvio, non hai sofferto tu solo. È stata una grama vita la mia di questi giorni, e non so che cosa sarebbe avvenuto di me, se dei vicini pietosi non mi avessero aiutato. E anche la nostra vita di tutti questi mesi è stata una grama vita, Silvio mio! Perchè dovrei nascondertelo? Bisogna che tu pensi ora seriamente a cambiare questo stato di cose tanto penoso. Così, non potremo mai essere felici.

— Sì, sì, piccola santa, mormorò Silvio umiliato, questa miseria deve finire.

Era disfatto. Si spogliò lentamente, ripetendo ogni tanto: — Deve finire, deve finire... — e si coricò, pregando Silvina di rimboccargli bene bene le coperte intorno al corpo, perchè lo riprendeva un gran freddo. Tutti i dubbi, tutte l'angosce di poco fa erano svanite, ma non si sentiva perciò meno inquieto e infelice. Ora un altro pensiero lo tormentava, un pensiero anch'esso doloroso e assillante, ed era quello dell'indomani, del modo come avrebbe risolto il problema della loro esistenza quotidiana, perchè Silvina era stanca stanca di patire quella miserabile vita, ed egli non vedeva come avrebbe potuto mutarla. Bisognava trovare del denaro, prima ancora di pensare di trovare una qualsiasi occupazione remunerativa. Egli stesso aveva bisogno di abiti invernali, per evitare che, ai rigori dell'inverno, il suo corpo ora così debole ricadesse ammalato. Silvina poi era una donna, e non poteva rinunciare a tutti i piaceri della vita, ad ogni eleganza, ad ogni svago; ed egli invece non era in condizione di offrirle neppure il necessario per vivere senza soffrire mortificazioni e rinunce continue. E Silvio, fingendo di dormire, ad occhi chiusi, cercava cercava inutilmente una via di salvezza. Sperare in suo padre era assurdo. Sua madre, se pure lo avesse osato, avrebbe potuto dargli ben poco aiuto. Su vere amicizie non poteva contare. Ed egli non vedeva nulla e nessuno su cui fermarsi sia pure con una vaga speranza. Dopo un poco udì Silvina che si spogliava, senti il fruscio dei suoi abiti che le cadevano di dosso, il rumore dei suoi pettini che ella posava sul cassettone, e poi un rumore più secco e duro, che gli ricordò la collana dallo smeraldo che ella portava sempre al collo. Un'idea strana e pericolosa si affacciò alla sua mente, che scartò subito con indignazione. Sentì che Silvina soffiava sulla candela, e infatti quel po' di luce debole debole, che filtrava attraverso le sue ciglia chiuse, si spense. Sentì poi Silvina coricarsi al suo fianco, all'altra estremità del letto, e non osò muoversi per avvicinarsi a lei e abbracciarla. Allora quell'idea bizzarra, che gli era nata un momento prima, ritornò a tentarlo, ed egli nuovamente la ricacciò lontano. Cercò di distrarsi, e pensò che davvero gli fosse tornata un po' di febbre, non solo perchè aveva le gambe gelate e il viso in fiamme, ma per quei colori esageratamente vivaci che aveva creduto di vedere sul volto di Silvina, quasi ella avesse gli occhi e la bocca dipinti. Su questa immagine di Silvina la sua ragione si ottenebrò, ed egli cadde, stanco, in un profondo sonno.

La mattina dopo si svegliò che doveva essere appena spuntato il sole. Silvina dormiva ancora tutta rannicchiata in un angolo del letto. Silvio la guardò muto e commosso per qualche istante, poi adagio adagio allontanò da sè le coltri, s'infilò gli abiti, si avvicinò al cassettone, e contemplò la collana dallo smeraldo che vi era posata sopra. Prima di decidersi Silvio si voltò ancora una volta a guardare Silvina addormentata, come fa il ladro il quale sa che tutto dipende dall'attimo in cui la sua mano si muoverà per rubare. Il calmo respiro di Silvina era come l'onda di un mare buono sotto il più costante dei cieli. Allora Silvio aprì cautamente l'uscio e in gran fretta si allontanò.

XI.

Quando Silvina si destò, e il giorno era già alto, vide curvo sopra di sè il viso sorridente di Silvio che la guardava con amore fra un gran fascio di rose bianche.

— La felicità ti accompagni sempre! le disse Silvio, poichè la vide aprire gli occhi; e, posando accanto a lei le rose, la baciò sulla fronte.

— Sono per me? domandò Silvina ancora mezzo assonnata.

— Per te! per te!

Silvina le odorò e, sollevandosi sul gomito, ormai completamente sveglia guardò Silvio stupefatta. Egli indossava un soprabito di lana verde, con colletto di pelle di lupo e risvolti di velluto nero, e in capo aveva un berretto di lontra, nero e lucido, che gli copriva anche le orecchie. Alle mani portava un paio di grossi guanti di lana grigia, e tutti quegli indumenti avevano un odore di nuovo, come tutte le cose appena uscite di bottega.

— Ti piace? le domandò Silvio, girando sui talloni perchè ella potesse ammirare da ogni parte il suo pastrano. Quindi lo sbottonò e, rovesciandolo, le mostrò la fodera morbida e spessa di flanella scozzese.

— Sarà bene, disse Silvio con la più grande naturalezza, che noi cerchiamo oggi anche per te un mantello o un soprabito caldo caldo come questo. L'inverno di quest'anno è veramente troppo freddo, e le malattie sono un'orrenda sciagura.

— Ma come hai potuto spendere tanto denaro? domandò Silvina meravigliata.

Silvio le voltò le spalle e, andando verso il fondo della stanza, rispose:

— Mi hanno pagato un debito, che un tale aveva con me.

Silvina era uscita dal letto. Silvio si levò presto di pastrano e glielo infilò, avvolgendola tutta, che tremava seminuda, in quella lana tepida e pesante.

— Ci stai bene? le domandò sorridendo.

E Silvina, per tutta risposta, cercò d'allungare le braccia che si perdevano nelle immense maniche del pastrano e gliele gettò al collo, giuliva.

— Come poco basterebbe per essere felici! esclamò tenendosi appesa al suo collo e accarezzandolo con uno sguardo pieno di candida malizia. Mi giuri che non mi farai più soffrire?

E Silvio glielo giurò, con un bacio. Ma mentre, scherzando, la faceva saltare qua e là per la stanza tenendola sollevata fra le braccia come una bambina piccina, pensava in cuor suo con tristezza che veramente di poco si potrebbe esser felici; ma è appunto quel poco che manca sempre alla felicità di tutti, compresi i più fortunati e i meno esigenti. Così, senza volere, egli trascinò Silvina in prossimità del tavolo, e vedendo quei fiori che stavano in fresco entro il secchiello di legno, pensò che al loro posto si potevamo mettere le sue rose. Ma a metà di questo pensiero, così semplice e naturale, un altro ne sorse che lo colpì.

— E questi fiori, domandò a Silvina, questi fiori dove li hai presi?

Silvina aveva affondato il capo nel colletto di pelo di lupo, in modo che non ne spuntava che un occhio. Con quell'occhio lo guardò, e rispose inchinandosi:

— Me li ha offerti un amico...

— Un amico? chiese Silvio, corrugando la fronte. Quale amico?

— Un tuo amico, rispose Silvina, con un grande inchino, un tuo intimo amico. Il signor principe Stanislao Stroztki!

— Stroztki? domandò ancora Silvio, questa volta senza punto corruccio. E dove lo hai pescato?

— Veramente, rispose Silvina con voce insinuante, è il signor principe che ha pescato me...

Silvio mosse due o tre passi per la stanza e rise allegramente. — Il principe Stroztki, pensava, quel distinto imbecille! Guarda che strano caso!

— Ti avrà incontrata per via! esclamò poi sicuro d'indovinare.

— No, disse Silvina, è venuto qui a cercarmi...

— E perchè? domandò Silvio.

Silvina si tuffò nuovamente nel pelo di lupo e di laggiù rispose:

— Perchè, Silvio, ti vuol tanto bene!

Allora Silvio s'intenerì. Caro amico! Forse non lo aveva apprezzato abbastanza, in quei superficiali incontri da caffè. Ed è pur vero che spesso gli uomini più ridicoli nascondono i cuori più generosi.

— Ah, povero principe! esclamò Silvio convinto; lo ringrazierò con tutta l'anima mia.

Ma mentre formulava questa solenne promessa, i suoi occhi caddero sulla mantellina di talpa grigia che stava appesa a un piolo, e ricordandosi di averla veduta la sera innanzi sulle spalle di Silvina, si stupì di essersela poi fino a quel momento dimenticata.

— E questa mantellina? domandò con una vaga inquietudine nella voce. È di talpa... Dove l'hai presa?

— Oh! rispose Silvina dal vano dell'abbaino, senza staccare il viso dai vetri, è una piccola cosa... Me l'ha prestata un'amica.

— La principessa Stroztki? — domandò Silvio con ironia.

— No, caro, rispose Silvina immobile, nessuna principessa. Un'amica mia d'infanzia, ritrovata in questi giorni per caso.

Silvio scosse il capo e mormorò:

— Quanta gente, quanta gente nuova nella tua vita...

Allora Silvina si volse e, fissando sopra di lui uno sguardo acuto acuto, come uno spillo, gli si avvicinò di due passi, si tolse il pastrano e lo gettò ai suoi piedi con sgarbo.

— Ricordati, gli disse, scandendo una per una le sillabe, che senza tutta questa gente nuova non sarei ancora qui a sopportare le tue stupide inquisizioni. Nuove o vecchie, io sono libera di scegliere le mie amicizie, di ricevere i fiori che m'offrono, e di portare i vestiti, le pellicce, i cappelli che mi piacciono, e di fare e disfare il mondo intero a modo mio... Ed ora vattene, perchè sono annoiata di te.

A viso alto, sdegnata, ella si avviò verso il cassettone. Silvio in gran fretta, come se le parole di Silvina avessero suscitato in lui una viva collera, s'infilò il soprabito ed uscì.

Rimasta sola Silvina indossò il migliore dei suoi vestiti, e tranquillamente incominciò a pettinarsi. Da qualche giorno portava i capelli annodati alti sul capo, con solo due brevi riccioli che le ricadevano sulle tempie. Quella pettinatura le allungava graziosamente il viso e la faceva più alta di tutta la persona. Poi si incipriò le mani, le braccia, il collo, le gote; si tinse di nero gli occhi, di rosso le labbra e si contemplò soddisfatta. In quel medesimo istante alcuni colpi affrettati risonarono contro l'uscio e Soave entrò correndo.

— Silvina, disse concitata, non ne possiamo più! Tutta la notte non ha fatto che piangere, che smaniare. Credo che impazzirà, se tu non vieni a calmarlo...

— Ma non lo sapete dunque, gridò Silvina, non lo sapete che Silvio è tornato?

— Lo sappiamo, lo sappiamo, rispose Soave, e per questo appunto si dispera così.

— E perchè si dispera? domandò Silvina. Non sapeva anche lui che quando fosse ritornato Silvio tutto doveva finire tra noi?

Furono bussati altri colpi contro l'uscio, ed entrò correndo Odette:

— Per carità! disse ansando, non indugiate un minuto di più! Lo abbiamo ripreso per miracolo a metà delle scale. Veniva qui correndo come un indemoniato, e ora in quattro non riusciamo a tenerlo disteso sul letto.

— Silvina! supplicò Soave, giungendo le mani.

Allora Silvina prese una subita risoluzione, si buttò sulle spalle la mantellina e si precipitò nel corridoio.

Soave e Odette la seguirono. Scese di corsa le scale, esse trovarono madama Humbert sulla porta, tutta stralunata, col viso tutto in lacrime.

— Dov'è? chiese seccamente Silvina.

Madama Humbert la guidò correndo in fondo alla casa. Là, in una stanza semibuia, disteso bocconi sul letto, con le gambe e le braccia buttate una qua e una là, stava il principe Stroztki. Egli mordeva furiosamente il cuscino e ruggiva come un leone. Il parrucchino gli era volato chi sa dove, e nella penombra la sua testa tutta pelata sprigionava lampi gialli.

— Ebbene? gridò Silvina, scuotendolo violentemente per una spalla. Che cosa sono queste scene? Volete che io chiami Silvio, perchè veda in che modo vi riducete voi, quando amate una donna?

— Dov'è? dov'è? rantolò il principe, sollevandosi sul letto, guardando minaccioso tutto intorno.

Ma i suoi occhi s'incontrarono con gli occhi di Silvina, sfavillanti di sdegno e d'ira, e subito ammutolì.

— Scende le scale, rispose Silvina, ed ora sarà qui. Se vi piace d'esser ridicolo potete continuare a smaniare.

— Silvina, gemette il principe, mostrandole con un gesto disperato la sua persona, vedete fino a che punto? Non sono più un uomo. Sono un povero straccio. Silvina non mi ama più!

— Questo è delirio, disse Silvina. Silvina non vi ha mai amato.

— Ah! Silvina, gemette il principe, se lui non fosse mai ritornato, voi sareste stata sempre mia, non m'avreste trattato così. Fino a ieri siete stata buona con me, amorevole, piena di promesse. Mi diceste, proprio ieri, prima di lasciarmi: — Se sarete degno di me, sarò vostra per sempre!

— Ma oggi, disse solennemente Silvina, così come vi vedo, mi sembrate mille volte indegno di qualunque donna.

— Silvina, Silvina, gemette il principe, come siete crudele! Perchè indegno? Chi mi ha ridotto così? Basta una vostra parola, perchè io ritorni quello stesso di ieri.

Silvina non parlò.

— Una piccola elemosina di speranza, supplicò il principe. Che io possa almeno vedervi, parlarvi, adorarvi in silenzio, e attendere umilmente che il destino vi riconduca a me...

— Se voi foste savio! esclamò Silvina. Ma insensato a questo modo?

— Savio, savio! balbettò il principe illuminandosi d'un sorriso. E in furia si alzò, cercò di ricomporre i suoi abiti disordinati, si precipitò allo specchio, vide la sua testa pelata, cercò affannosamente la parrucca sopra e sotto il letto, se la calzò con destrezza dalla nuca alla fronte, riannodò la cravatta, e così, in sembianze più umane, si rivolse a Silvina e attese in silenzio una parola di perdono. Silvina lo guardò dalla testa ai piedi e disse:

— Così, Stanislao, potete sperare qualche cosa da me, e non piangendo come un bambino....

Egli le si avvicinò timido, le prese la punta di una mano e gliela baciò.

— Grazie, disse con un sospiro, voi mi ridate la vita.

Silvina gli volse le spalle ed uscì. Ritornata nella sua stanza, si guardò nello specchio, e rifece alcuni degli atteggiamenti corrucciati e minacciosi che avevano atterrito il principe Stanislao. Soddisfatta rise, e vedendo che al suo collo mancava la collana, andò a prenderla sul cassettone dove l'aveva posata la sera innanzi, prima di coricarsi. La cercò tra i fazzoletti e le bottiglie di profumi, sotto il cuscinetto appuntaspilli, dietro lo specchio, nel primo, nel secondo cassetto, ma con sua gran meraviglia non la trovò. Forse era caduta per terra. Ed ella scostò delle sedie, rimosse un paio di vecchie pantofole, s'inginocchiò, la cercò sotto i mobili. Ma la collana non c'era. Allora pensò con sgomento, che, essendosela appuntata in fretta prima di uscire dalla stanza, doveva averla perduta nel corridoio, o per le scale, o in casa di madama Humbert, durante quella scena col principe. A precipizio aprì l'uscio e mosse qualche passo nel corridoio. Ma il corridoio era troppo buio perchè ella potesse vedere la collana, se proprio l'aveva perduta in quel tratto. Allora rientrò in camera, accese la candela, e, curva, esaminò a palmo a palmo il corridoio in tutta la sua estensione. Ma la collana non c'era. Già presa da un principio di orgasmo, Silvina posò la candela in un angolo e fece le scale arrestandosi ad ogni scalino, scostando col piede i pezzi di carta che incontrava qua e là, senza nulla trovare. Bussò con forza alla porta di madama Humbert, dichiarò alla signora, che la guardò esterrefatta, la ragione di quell'improvviso ritorno, e madama Humbert chiamò a gran voce Soave e Odette che accorsero, e accorse anche il principe, e tutti in silenzio, mentre Loreto, sul poggiolo strombettava la sua canzone:

Loreto, lo reee!

Chi l'è che passa?

Lo re che va alla cacciaaaa...

Tacca trombetta!

Trrrr...

si misero a cercare la collana per tutte le stanze attraverso le quali era passata Silvina per giungere a quell'ultima stanza dove il principe Stanislao era stato rinchiuso. Furono sollevati tappeti, spostati mobili, rovesciate sedie; il letto in quella stanza fu tutto sfatto, e le lenzuola sbattute per ogni verso, e il principe, ginocchioni, frugò sotto tutti i mobili. Ma la collana non venne fuori.

Allora Silvina s'attaccò ad una speranza, e cioè che la collana fosse proprio là dove l'aveva posata la sera innanzi. Risalì a salti le scale, e preso il candeliere, che aveva posato sull'ultimo gradino, rifece il corridoio passo passo, e mentre se ne andava così curva, scrutando il pavimento, fu raggiunta da Silvio che rientrava in casa.

— Sai, gli disse Silvina con voce accorata, credo di aver perduta la mia bella collana...

— La collana dello smeraldo? domandò stupito Silvio.

— La collana, la collana! ripetè Silvina irritata. Quale vuoi che sia? Non ne ho centomila...

Il corridoio era finito. Silvina spense la candela, entrò nella stanza, e corse nuovamente al cassettone, e ricominciò a cercare. Vana speranza! Non c'era.

— Ma dove l'hai perduta? domandò Silvio.

— Se lo sapessi, sibilò Silvina, non farei tanta fatica a cercarla...

Di nuovo si mise in ginocchio a frugare sotto i mobili, e Silvio, inginocchiatosi accanto a lei, la seguiva in ogni movimento, in base al principio che quattro occhi vedono meglio di due. Poi il campo delle ricerche si estese, e dal cassettone si passò all'armadio, tutti i vestiti, che fortunatamente erano pochi, furono spiccati dagli attaccapanni e agitati come bandiere. E mentre Silvio diceva: — Vedrai che te l'hanno rubata! — Silvina rovesciò il letto, buttò all'aria lenzuola, coperte, cuscini e materasse, e poichè ormai non c'era più dove cercare, si lasciò cadere di traverso sul mucchio delle coltri disfatte e ruppe in un pianto disperato. Allora Silvio, smettendo anche lui l'inutile ricerca, andò, per consolarla, ad accarezzarle i capelli, e, affondata una mano in una delle ampie tasche del suo pastrano nuovo, ne trasse un cartoccio tutto fiorito e ricamato, e legato da un bel nastro rosa; e prendendo con due dita il mento di Silvina cercò ch'ella sollevasse il capo. E quando, dopo molte riluttanze, ella lo ebbe sollevato, Silvio le offrì quel cartoccio profumato, dicendole:

— Ti regalerò una collana più bella di quella, con uno zaffiro meraviglioso. Che serve ormai disperarsi? Vieni, piccina. Addolcisciti la bocca, dopo tante lacrime amare.

Silvina, lacrimando, prese quel cartoccio e lo aprì. Vide tanti bei canditi verdi, rossi e gialli, brillanti come pietre preziose. Allora sollevò gli occhi su Silvio, e avrebbe voluto frugargli nell'anima. Ma l'anima semplice di Silvio, incapace più di nascondersi, affiorò sul suo viso in un rossore di minuto in minuto più intenso, tanto che Silvina ebbe come in un lampo la rivelazione della verità.

— Tu! tu me l'hai presa! gridò soffocando d'ira. Tu sei stato, tu, tu, tu...

E gettato lungi da sè il cartoccio dei canditi, che rotolarono qua e là come tante pallottole colorate di vetro, si scagliò su di lui e lo tempestò rabbiosamente di pugni.

XII.

Proprio in quel momento io avevo bussato all'uscio di quella stanza. La voce irata di Silvina domandò: — Chi è? — e ne seguì un rumore di sedie rovesciate, e poi un silenzio assoluto. Senza che avessi udito nessun passo avvicinarsi alla porta, la molla della serratura scattò improvvisa in quel silenzio. Mi trovai di fronte a Silvina. Dal giorno in cui era fuggita, e mi pareva un'eternità, non l'avevo più riveduta. Rivedendola allora, il mio povero cuore ebbe una trafitta dolorosa, come se in quell'attimo io rivivessi tutte le pene che ella aveva fatto soffrire a noi duramente cinque lunghi mesi. Se non fossi stato preparato alla più triste realtà, il suo viso tanto mutato mi avrebbe allora detto brutalmente fino a che punto ella si fosse allontanata da noi in quello spazio di tempo. Ma io non coltivavo più nessuna illusione, e perciò potei guardare Silvina senza avere orrore di quell'immagine che, sotto le sue sembianze, vedevo dinnanzi a me per la prima volta. E mentre Silvina, sorpresa dalla mia inaspettata apparizione, mi guardava senza fiatare, io le parlai calmamente così:

— Silvina, non temere nulla da me. Non mi vedresti qui senza una grave ragione... La mamma muore, Silvina, la nostra cara, la nostra buona, adorata mamma!

— La mamma? mormorò Silvina, abbassando triste il capo.

— Sì, Silvina, soggiunsi, la mamma ti ha perdonato. Devi venire con me...

La porta era aperta a metà, e Silvina l'aprì del tutto, e io vidi quella misera stanza in disordine, Silvio che mi volgeva le spalle abbandonato sopra una sedia, le rose bianche nel secchiello sul tavolo, i canditi sparsi per terra. Ma non entrai.

— Subito? domandò Silvina.

— Subito.

Silvina si ritrasse a capo chino, andò nell'angolo dove stava l'armadio, si gettò sulle spalle la mantellina, si mise in capo una cuffietta di lana, e ritornando verso me, mormorò:

— Andiamo.

Sulla soglia si arrestò un attimo indecisa, poi si voltò a Silvio, che non s'era mosso, e duramente gli disse:

— Non aspettarmi... Non tornerò mai più...

La nostra vecchia carrozza, guidata da Battista, ci aspettava all'angolo della strada. Incominciò quel triste viaggio di tre lunghe ore. Silvina, seduta al mio fianco, tenendo gli occhi fissi dinnanzi a sè, non parlava. Avvolto nel mio mantello, il cappello calcato sulla fronte, me ne stavo anch'io muto, cercando di non guardarla, e il mio pensiero non si allontanava un istante da mia madre, da lei che non viveva più ormai se non per quella ultima consolazione che io le portavo. Subito dopo la fuga di Silvina, mia madre aveva incominciato a deperire, e di giorno in giorno il suo viso si faceva più affilato e più bianco, come se a goccia a goccia le venisse meno il sangue nelle vene e un freddo fuoco consumasse la sua povera carne. Verso la metà di settembre, una mattina, la trovammo svenuta in giardino, dove scendeva sempre appena fatto giorno per pregare dinnanzi a una madonnina di marmo, un'Assunta in cielo, che era stata messa là, in una nicchia d'edera, il giorno in cui era nata Silvina. Trasportata nel suo letto, riaprì gli occhi, ma non erano più i suoi soavi occhi di prima. Una tristezza infinita vi aveva distesa per sempre la sua ombra, e da quel giorno furono due imploranti occhi che invocavano da Dio la fine di una vita ormai divenuta insoffribile. Alla fine di ottobre ella non era già più che un'ombra, un'ombra dal viso diafano, che si muoveva per la nostra casa a passi silenziosi e incerti, come desiderosa di uscirne, d'involarsi, e ancora trattenuta da non so quale peso e costretta ad aggirarsi inquieta per quelle stanze. Una mattina volle come sempre alzarsi per scendere e pregare in giardino, ma le forze le mancarono. Da quel giorno non lasciò più il suo letto. Ella teneva accanto a sè un ritratto di Silvina, una miniatura di lei bambina di dieci anni, quando ancora portava i capelli sciolti per le spalle, che pareva la dolce immagine d'un angelo. Allorchè la lasciavano sola, la mamma fissava gli occhi su quell'immagine e non se ne distaccava se non quando qualcuno, entrando nella stanza, veniva ad interrompere con la sua presenza quella specie d'ipnosi. Dopo due settimane il suo stato era disperato. I medici avevano rinunciato a ogni cura poichè il male che consumava mia madre non apparteneva ad alcuna delle categorie iscritte nella loro scienza. Era un male assurdo. Non era propriamente un male. Come un lume stanco ella si spegneva a poco a poco. Questa similitudine tranquillizzò presto la coscienza dei medici, che rassegnati rimisero i loro poteri nelle mani di Dio. Neppure sul tempo che poteva occorrere a quel fioco lume per spegnersi interamente, essi seppero fare previsioni. Poteva durare soltanto poche ore, poteva durare ancora settimane e mesi. E noi, a cuore stretto, ci preparammo ad aspettare che il destino irreparabile si compiesse secondo la sua misteriosa legge. Ma era venuto un giorno in cui mia madre, con i suoi occhi già fissi in un miraggio lontano, aveva veduto l'Invisibile trasvolare come un vento gelido per quella landa dove lei sola l'aspettava paziente da tanto tempo; aveva sentito il soffio della sua ala avvolgerla come in un freddo abbraccio. Quando ella ci chiamò era sera inoltrata, e ognuno di noi, in cuor suo, aveva già chiuso quel giorno, mettendolo nel numero di quelli che, per grazia di Dio, non si sarebbero mai più rivissuti, e stava preparandosi con accorata malinconia al giorno che doveva cominciare domani. Volle che tutti fossimo intorno al suo letto, e quando ci vide tutti presenti, si rivolse a mio padre, che la guardava attonito, e prendendogli le mani e accarezzandogliele dolcemente:

— Tu sei stato sempre buono con me, disse, non mi negherai ora questa grazia. Vada qualcuno a cercare Silvina... Che io possa darle ancora almeno un bacio...

Mio padre rimase muto, tossì, si coprì gli occhi con la mano, e per qualche minuto non si mosse. Poi, come se avesse preso una penosa risoluzione, chiudendo le palpebre per nascondere le lacrime, si curvò su mia madre, la baciò in fronte, e mormorò:

— Sia fatta la tua volontà.

Pronunciate queste parole, mio padre uscì precipitosamente dalla stanza come per dare degli ordini. Udii il suo singhiozzo soffocato. Mia madre levò i suoi occhi su noi, che le eravamo rimasti vicini, e ci sorrise.

— Voletele sempre bene, disse con un filo di voce. È la vostra piccola sorellina...

Quando, poco dopo, uscii dalla stanza, trovai mio padre seduto, al buio, nell'anticamera, che da solo smaniava con parole rotte e minacciose.

— Prima uccidete me, diceva, prima che ella rimetta il piede in questa casa!

Si alzò d'impeto, chiamò Marta, chiamò Battista, che accorsero atterriti a quella voce.

— Nessuno si muova, senza mio ordine, gridò mio padre. Nessuno entri in questa casa, senza il mio permesso. Intendetemi bene: nessuno!

E andò di persona a sprangare l'uscio.

Passai una notte angosciosa. Vidi l'alba grigia di novembre diffondere la sua luce spettrale sulla campagna tutta triste, deserta, immobile; vidi i veli labili delle nebbie sciogliersi dai rami stecchiti degli alberi, svanire come lieve fumo; udii i galli cantare dai chiusi pollai, poi li vidi sbandarsi sull'aia, e udii le prime voci umane, i primi passi nelle case dei contadini; vidi i paperi incamminarsi in fila lungo la roggia ghiacciata, come galleggiando nell'aria sporca di inchiostro, più bianchi della brina che faceva candida l'erba; quindi nel silenzio soltanto rotto da quei lievi rumori, udii lontano lo squillare delle sonagliere, e poi il rotolio delle ruote sulla via maestra, e lo schioccar della frusta, della prima carrozza di posta, che dal paese si muoveva per andare in città. Allora ebbi la sensazione che quel nuovo giorno, che allora incominciava, non c'era più speranza di poterlo rimandare ad un altro giorno; di poterlo sopprimere, di poterlo comunque evitare, sostituendolo con un altro giorno, preso lontano, fra quelli passati o fra quelli futuri, che non fosse dominato da una così imperiosa necessità di fare, e di vedere, e di patire ciò che in quel giorno doveva essere fatalmente fatto, veduto e patito. Ma io solo, fra tutti gli uomini, non potevo certo spostare il corso del tempo. E poichè tutti accettavano quel giorno come ogni altro giorno dell'eternità, e già incominciavano a viverlo, a muoversi, a riscaldarsi del suo debole sole, a consumare la sua poca luce, a riempirlo dei loro dolori e delle loro gioie, a convalidarlo con le loro parole ed azioni, io non potevo in alcun modo sottrarmi alla legge comune, ovvero in un modo solo, uccidendomi. Allora scesi le scale ed entrai nella stalla. Battista, in maniche di camicia, stava strigliando Casacca, la nostra vecchia cavalla bolsa, e mentre la strigliava, in quella loro affettuosa intimità che durava ormai da tanti anni, egli parlava alla bestia, confidandole tutti i malanni della propria vecchiaia e commiserando la sua.

— Sarìa tempo, vecia Casacca, pora bestiacca, diceva Battista, che ne mettessero tutti due addosso una bella coperta de tera alta e nera com' l'orinal del re de Fransa. Dalla tua tomba nasserebbe poscia un fiore dinominato Casacca, con la spuzza dei tuoi porci petti, brutta porca vecchia stramaledetta bestia, in omnia saecula saeculorum.

Ed egli tirò alla bestia un'amorosa pedata e mi disse: — Buon dì!

Ma quando lo chiamai sulla porta, prima ancora che avessi incominciato a parlare, aveva già capito, Battista, che cosa volevo da lui. Egli, che m'aveva veduto nascere, mi strinse le mani in silenzio con le sue dita nodose come radici, e con quella stretta volle baciarmi e abbracciarmi, e dirmi che era pronto a morire per assecondarmi in quell'impresa. Casacca, da vecchia porca stramaledetta che era, fu accarezzata da lui con i nomi più dolci, mentre in fretta quanto più poteva, le infilava i vecchi finimenti, e la cavezza tutta rattoppata. Cocottina, signorina, Brigidina, angiol del paradiso, santa bestia, tutti i nomignoli più delicati uscirono dalla sua bocca, mentre la sospingeva rinculoni tra le due stanghe della nostra sgangherata carrozza, e attaccava i tiranti al bilancino e le ficcava il morso tra le ganasce sdentate, finchè in un fiat fu pronta. Ed egli salito in cassetta, io rannicchiato sotto il mantice, s'era presa di gran trotto la via maestra alla volta della città.

Quanto m'era sembrata miracolosamente breve la strada nell'andare, tanto ora mi sembrava lunga al ritorno. Allora Casacca zoppicando zoppicando trottava di buona lena, fresca del lungo riposo, la pancia ben rimpinzata d'avena, e bastava l'ombra della frusta a farle drizzare le orecchie e supplire con la buona volontà al difetto d'una gamba. Ma ora quella gamba anchilosata imbrogliava maledettamente le altre tre, ed era un continuo inciampare e scapicollarsi, che non bastavano le redini tese di Battista a tenerla su. Ad ogni minaccia di frusta era un sobbalzo spaventato che trascinava la carrozza fuori di carreggiata a traverso della strada, e nella pancia vuota della bestia l'acqua bevuta alla fontana risciacquava con un rumor cupo di botte. Era passato da più di due ore il mezzodì e anch'io avevo fame. Silvina, digiuna come me, pallida, rincantucciata al mio fianco, gli occhi chiusi e le mani abbandonate in grembo, si lasciava sballottolare. Questa tortura durò quattro interminabili ore. Finalmente dopo l'ultima salita, sotto il monte rosso, ci apparve il campanile tutto annuvolato di olivi, che crescevan fitti sulla collina. Prima di giungere alla nostra casa si passa dinnanzi al cimitero, che è sopra un poggio erboso, recinto da un muro di pietre nude, grigio grigio, tra un ippocastano altissimo e aperto come un pino, e una fila di cipressi neri che si affacciano sulla via maestra. In quel punto fermai Battista. E mentre egli riconduceva la carrozza vuota a casa, noi altri due prendemmo di traverso i campi, e cercando di camminare nascosti dietro le canne delle viti e i tronchi fitti dei gelsi, raggiungemmo la porticina del frutteto che era, come sempre, socchiusa. Da quella stessa porta era fuggita Silvina cinque mesi innanzi. Entro il recinto del frutteto, addossata al muro, c'era allora una capannuccia di paglia, che aveva fatto Battista per appostare i merli. La mostrai a Silvina e le dissi:

— Aspettami qui nascosta.

XIII.

Mia madre era assopita. Accanto a lei, ai due lati del letto, come i due angioli oranti ai lati della culla del bambino Gesù in certe oleografie che si vedono in queste case di contadini, Adalgisa e Maria vegliavano raccolte il riposo dell'inferma. Esse mi guardarono, interrogandomi con gli occhi, non osando parlare. Soltanto dopo un poco Adalgisa mi disse sommessamente: — Tutto il giorno ha chiesto di te prima di assopirsi!

Incontrai mio padre nel corridoio. Egli mi si fermò un istante dinnanzi, e temetti che volesse interrogarmi. Ma abbassò il capo, e, accigliato, in silenzio passò oltre. Mi avvicinai a una finestra che s'apriva sull'aia, e vidi un po' di luce nella stalla, dove certamente Battista stava rigovernando il letto di Casacca dopo averle versata l'avena nella mangiatoia. Incominciava a imbrunire. I rami spogli del frutteto erano così fitti e intricati che non potevo vedere la capannuccia di paglia, laggiù in fondo, dove Silvina aspettava. Pensai che ella dovesse sentirsi morire di fame e di freddo, e le mandai Marta con una tazza di latte caldo, del pane e una coperta di lana.

Più tardi mia madre si svegliò, e noi ci trovammo di nuovo raccolti intorno al suo letto, come sempre a quell'ora prima di separarci per andare a dormire. Di solito ella voleva che Maria leggesse forte le preghiere della sera, e che tutti noi l'ascoltassimo in silenzio, e si recitasse un pater e un ave insieme con lei, che ella incominciava con la sua voce velata: Ave Maria gratia plena... Poi invitava mio padre ad andarsi a coricare, poichè sapeva che si sarebbe alzato all'una di notte, per assisterla fino all'alba, come faceva ormai da tre settimane. Anche quella sera ella recitò il pater e l' ave, e poi disse a mio padre di andare a riposare. Ma i suoi occhi lo guardarono fissamente, con uno sguardo interrogativo, come se attendesse da lui qualche cosa. Mio padre la baciò in fronte e se ne andò.

Io uscii poco dopo nel corridoio e in punta di piedi cercai di spiare alla porta della sua stanza. Era buia e non s'udiva nessun rumore. Egli doveva essersi già coricato. Allora scesi in fretta le scale e, passando per la dispensa, attraversai il frutteto e trovai laggiù Silvina rannicchiata in fondo alla capannuccia di paglia, e sentii che era tutta ghiaccia, e batteva i denti dal freddo. Era buio buio. Inciampavamo nelle radici degli alberi, affondavamo il piede nei solchi freschi. Silvina si lasciava trascinare: dovetti più volte sostenerla perchè non cadesse. Finalmente entrammo in casa, e, rallentando il passo e camminando in punta di piedi, raggiungemmo la mia camera dove ci chiudemmo a chiave.

Acceso il lume, Silvina si abbandonò sfinita sul letto, disfatta, e tremava. Occorse un po' di tempo prima che incominciasse a riaversi e i suoi occhi semispenti si ravvivassero. Allora, quando vidi che non tremava più e che avrebbe potuto sostenersi, le dissi:

— Preparati, Silvina. Tra poco ti condurrò da lei...

Uscii per andare ad assicurarmi che nulla di nuovo fosse accaduto in quel frattempo, e per dare cautamente a mia madre, forse già rassegnata in cuor suo a non vedere appagato il suo ultimo desiderio, l'annuncio dell'imminente visita di Silvina. Marta era allora accanto a lei, e pareva che mia madre la supplicasse, e che la vecchia, curva sul letto, cercasse amorosamente di confortarla. Quando io entrai, mia madre tentò di sollevare il capo dal guanciale, e, guardandomi con tenerezza, sospirò:

— Paris, Paris, conducila subito... Per pietà, non fatemi soffrire così....

— Sì, le dissi accarezzandola, ora verrà... Ora subito te la conduco...

Rientrato in fretta nella mia camera, con uno stupore angoscioso trovai Silvina che, seduta dinnanzi allo specchio, stava attorcigliandosi la treccia intorno al capo e arricciandosi i capelli sopra le tempie. Si era tolto il cappellino, e, accanto a una borsetta aperta, aveva posato due o tre scatoline, e un tubetto rosso. Nello specchio vidi inorridito le sue labbra rosse, appena tinte, i suoi occhi con le ciglia brune e lucide, le palpebre ombrate di viola.

— Silvina, Silvina, gridai precipitandomi su di lei e pensando che ora l'avrei uccisa, che hai fatto? Non ti vergogni?

E la scossi violentemente, e avrei voluto schiaffeggiarla, metterla sotto i miei piedi e stroncarla; ma per volontà di Dio il pensiero di mia madre non mi abbandonò, e presa una spugna inzuppata d'acqua gliela strofinai con furia sul viso, e afferrati i suoi capelli glieli scompigliai.

— Rifatti la pettinatura d'una volta! Non mostrare le tue vergogne! Nasconditi quella faccia spudorata! le gridai pieno d'odio, incapace di dominarmi.

Ed ella impaurita dall'espressione del mio viso che doveva essere atroce, impaurita da quei gesti con i quali la minacciavo, io sempre così mite, così debole, in fretta in fretta si asciugò il volto, e nervosa sfece del tutto le sue trecce, e se le ricompose come un tempo, divisi i capelli sulla fronte, raccolti poi sulla nuca; e quando ebbe finito si alzò per seguirmi.

Mia madre stava con gli occhi fissi sull'uscio. Quando entrai con Silvina, ella aprì le braccia e senza parlare, con gli occhi pieni di lacrime, la chiamò a sè. E quando l'ebbe abbracciata, con tutte le sue forze se la strinse sul petto e non si distaccò più da lei. Marta piangeva in un angolo. Io triste, in disparte, contemplavo quella pietosa scena, con l'orecchio teso sempre all'uscio, timoroso che mio padre, destato da qualche rumore insolito, potesse allora sorprenderci.

Mia madre e Silvina stettero a lungo così strette l'una all'altra, senza un movimento, senza una parola. Poi mia madre sciolse il suo abbraccio, e guardando Silvina che si era sollevata, cercò ansiosamente sul suo viso non so quale segno che ella sola conosceva, e mormorò:

— Sei sempre la stessa... la mia piccola Silvina....

Silvina abbassò gli occhi: non osò più guardare in viso sua madre. Vidi la vergogna che quelle innocenti parole produssero in lei e forse capì, allora, perchè io l'avessi trattata tanto brutalmente poco prima; l'avessi picchiata e insultata. Mia madre volle che si sedesse sul letto accanto a lei, ed io leggevo nei suoi occhi una sofferenza penosa, perchè avrebbe voluto parlarle e non poteva più. Le ultime parole che ella disse furono appunto quelle: — Sei sempre la stessa, la mia piccola Silvina... I suoi occhi vedevano ancora lucidamente, la sua intelligenza era ancora viva, ma non poteva più parlare. Tentava di quando in quando qualche gesto vago, stringeva le mani di Silvina, e poi con l'indice teso le faceva cenno di no. Voleva dire: — Non andartene più... non ritornare via... non mi abbandonare... non abbandonare tuo padre... E Silvina, osando appena sfiorarla con lo sguardo quando uno di questi gesti la costringeva ad alzare gli occhi, rispondeva di no col capo, ma non osava parlare.

Io pensavo quanto quella scena penosa si sarebbe prolungata ancora, allorchè mi parve di udire nel corridoio uno stropiccio di passi cauti, e persino il respiro affannoso di un uomo. Mi avvicinai lentamente all'uscio, lo socchiusi, e guardai da un lato e dall'altro. Ma il corridoio era perfettamente buio e non vidi nessuno. Quando mi volsi, mia madre mi chiamò, e presami con fatica una mano la unì alle mani di Silvina. Voleva dire: — Te l'affido... non lasciarla partire... proteggila tu. Allora, soltanto allora, mi ricordai che Silvina prima di lasciare Silvio gli aveva detto: — Non mi aspettare. Non tornerò mai più! — e pensai che forse Silvina, sebbene non avesse osato chiedermelo, desiderasse veramente di rimanere con noi, di non ritornare mai più a quella vita irregolare che doveva averle procurato più delusioni che gioie, più umiliazioni che piaceri, forse pentita, quantunque il suo maledetto carattere le impedisse di confessarlo, d'essersi abbandonata a quel capriccio, di aver cagionato a sè stessa e a noi tanto male. Forse la paura di mio padre, il timore di esser trattata duramente da noi, di esser punita con troppa severità, la rendeva ancora esitante. Forse orgogliosa com'era, aspettava che qualcuno le parlasse e la pregasse di rimanere. Davvero avrebbe dovuto lei pregare, inginocchiarsi dinnanzi a mio padre, invocare il suo perdono. Avrebbe dovuto mortificarsi ed espiare, almeno con un atto di umiltà, tutto il male che aveva fatto. Ma mia madre era morente, e mi sembrò che negarle l'ultima gioia, allontanare anche soltanto da lei di un attimo la possibilità di veder compiuto il suo ardente desiderio, sarebbe stata una colpa di cui avrei sentito eternamente il rimorso.

Allora chiamai Marta, e mentre lei, povera donna, cercava di nascondere le lacrime che dagli occhi colavano sulla sua faccia terrosa:

— Marta, le dissi, va a preparare il letto di Silvina, riordina presto la sua camera. Silvina rimane con noi.

Poi domandai a mia madre:

— Così, mamma?

Ed ella mi accennò di sì, e portò la mia mano alle labbra che erano appena appena tepide, la baciò, e con un profondo sospiro chiuse gli occhi per meglio contemplare quella felicità radiosa in cui si sentiva rapire.

All'orologio della chiesa suonarono i tre quarti. Tra un quarto d'ora nostro padre si sarebbe alzato, sarebbe venuto a prendere il suo posto accanto al letto, dove Marta aveva già silenziosamente preparato la sua poltrona con i due cuscini, e messo lo scaldino. Allora presi Silvina per la mano, e, senza che mia madre, assopita, se ne accorgesse, la condussi via. Passando dinnanzi alla camera di mio padre, in punta di piedi per non destarlo prima del tempo, vidi le fessure illuminate e lo sentii singhiozzare.

Mio padre non s'era coricato quella notte. Egli sapeva che Silvina era venuta. Egli era stato a spiare dietro l'uscio quando avevo introdotto Silvina nella camera della mamma, e quello stropiccìo, quel respiro affannoso che m'era parso di udire, era lui che si muoveva guardingo, lui che cercava di soffocare il suo pianto. Ah! perchè non entrò con noi, perchè non volle vedere Silvina, perchè l'orgoglio vinse, anche in quella notte, il suo dolore, ed egli preferì reprimere la sua pietà anzichè obbedire al suo cuore, si lasciò vincere dalla paura di mostrarsi debole, anzichè seguire l'impulso generoso che lo spingeva a perdonare? Forse Silvina sarebbe stata salva, e il male di quei mesi avrebbe potuto essere in qualche modo riparato, e la sventura si sarebbe allontanata per sempre dalla nostra casa. Ma mio padre non uscì dalla sua stanza se non quando udì che tutto era ritornato in silenzio, che noi ce n'eravamo andati, ed ogni pericolo d'incontrarsi con Silvina era, almeno per quella notte, scongiurato.

Silvina non volle neppure entrare nella camera che Marta aveva preparato per lei. Volle rimanere, vestita com'era, in camera mia, e a stento potei indurla ad adagiarsi sul mio letto e ad appoggiare il capo sul mio cuscino. Seduto accanto a lei, con il cuore pieno d'angoscia, le domandavo di quando in quando:

— Rimarrai, Silvina?

Ed ella rispondeva di no col capo, e non mi guardava, non diceva una sola parola. Gli occhi non le si chiusero mai, neppure per un istante, finchè la luce di un altro giorno diradò lentamente le tenebre, fece impallidire la luce della nostra lampada, e allora Silvina si alzò, si strinse sulle spalle la mantellina, raccolse le sue piccole scatole di pomata, di belletto, di cipria, abbandonate accanto allo specchio, e nascose i capelli nella sua cuffiettina di lana. Come la mattina innanzi, quando ero partito per andarla a cercare in città, il silenzio notturno fu rotto dalle prime voci umane che risuonavano stranamente nell'aia, i cani della scuderia abbaiarono, le campane della chiesa si sciolsero in uno scampanìo lungo e triste.

— Silvina! supplicai ancora, con un singhiozzo.

Silvina varcò la soglia senza neppure voltarsi, e scomparve. Poco dopo udii la vettura di posta tutta squillante di sonagli avvicinarsi per la via maestra, l'udii passare al trotto e allontanarsi...

XIV.

Udii la vettura allontanarsi; e poco è mancato che io scrivessi: per sempre. No, non per sempre. Con i suoi tre cavalli essa ha da allora consumato molta altra strada. La vita, anche semplicemente quella d'una corriera, non finisce, non s'interrompe, neppure se uno di noi muore. In questo senso ha molto maggiore importanza la morte o la caduta di un cavallo, una frana che precipiti attraverso la via, la rottura di una ruota o di un asse. Ma Silvina, sì, se ne andò per sempre. Come mia madre. Nemmeno Silvio la rivide mai più.

PARTE QUARTA Come finì poi la collana.

Ancora una volta ho dimenticato la collana. Questo sinistro gioiello apportatore di sventura lo smarrisco sempre per via. Scompare dai miei racconti, mi scivola quasi dalla memoria, con la stessa improvvisa fatalità con cui ho veduto realmente apparire e scomparire e riapparire il suo freddo splendore nelle circostanze più dolorose che ho attraversato fino al momento in cui scrivo.

Se fossi un romanziere di grido non mi sentirei molto mortificato per una distrazione di questo genere, perchè, specialmente in altri tempi, quando si scrivevano romanzi di intreccio e di immaginazione con molti personaggi e avventurose vicende (contrariamente a quanto avviene nei romanzi d'oggi che sono soltanto pieni di belle immagini e di rari fantocci meditativi e sedentari), accadeva spesso agli scrittori anche più provetti di perdere per via, non dico una collana, ma addirittura uno e spesso anche due o più personaggi, che, per ritrovarli, era poi necessario ricondurre il lettore a fare alquanti passi indietro. Ma se non voglio, a nessun costo, tralasciare di dire quale sia stata l'ultima fine della collana di Daria, che fu poi di Silvina, non si creda che io abbia la pretesa di completare un racconto il quale, d'altronde, non interessa altri che me, o che stimi la storia di questa collana indispensabile alla comprensione esatta delle cose narrate fin qui. Al contrario penso che la storia di Silvina, se dovesse essere pubblicata, sembrerebbe a tutti abbastanza chiara, nel suo intreccio molto comune e verosimile oltre che perfettamente vero, anche senza conoscere la fine fatta da quella sciagurata collana. In questo senso noi ignoriamo fatti ben più importanti, come sarebbe quello, per esempio, della fine che potrà fare Silvina allorchè si sarà stancata del principe Stroztki o il principe Stroztki di lei, e la falsa vita di principessa ch'ella conduce, tra festini, gioielli ed amorosi capricci, non le offrirà più alcuno svago. Ma la fine di Silvina, che sarà senza dubbio triste, appartiene all'avvenire, mentre quella della sua collana si può dire che appartenga ormai al passato.

Raccontano che vi siano state gemme altrettanto malefiche quanto quella, e anche più, le quali rovinarono con la loro sinistra influenza regni e repubbliche, spensero nel sangue intere dinastie, scatenando guerre e pestilenze, e, precipitate poi nelle profondità dei mari, furono dopo secoli ripescate, e ricominciarono a seminare sulla loro strada delitti e sciagure. Ma, per conto mio, spero di non vedere quello smeraldo rivarcare mai più le soglie di questo mondo, dal quale ora il caso lo ha allontanato. E fra alcuni secoli, quando ritornerà il suo turno di maleficio, non sarò certo più io quello che il destino condurrà ad urtargli contro. Il nostro solo conforto può essere di pensare che una volta si nasce uomo, e una volta, forse, smeraldo.

* * *

Quando Silvio, vedendo quale prova d'amore Silvina esigesse da lui, si decise a trafugare la collana di cui Silvina era tanto ambiziosa, non pensava certo che con quell'atto di leggerezza avrebbe distrutto per sempre la propria felicità, già molto pericolante. Più gli era sembrata opprimente la città la sera innanzi uscendo dall'ospedale, più allora gli sembrava ospitale, allegra, piacevole. Si sentiva ancora un po' stordito, ma quello stordimento non era punto doloroso.

A quell'ora le strade erano semideserte, e non s'incontravano se non ragazzi col naso rosso che correvano a scuola, operai neri e pelosi che andavano alle officine con le pipe accese e i berettoni di pelo calati sugli occhi, servette dalle anche rotonde e dai polpacci sodi che, tenendo le mani avvoltolate nei grembiuli e le sporte vuote appese al braccio, svolazzavano pei marciapiedi alla volta del mercato. Faceva una bizzarra impressione vedere tutte le narici, fossero d'uomo, di donna o di bimbo, fumare come le froge dei cavalli dei fiaccherai che, trascinandosi addormentati a passo morto lungo le strade, sfiatavano ad ogni tratto nuvolette di vapore leggiero e bianco; nè più leggiero nè meno candido di quello che si sprigionava di sotto i coperchi delle pentole dove bollivano e pipavano le castagne. È divertente, camminando a quell'ora per la città, osservare le facciate delle case, con tutte le loro finestre ancora chiuse, e vedere in che modo una qua e una là se ne spalanchi di botto, con che viso stupefatto ogni uomo, appena sveglio, guardi il mondo dal suo davanzale come se fosse nuovo, e quanta paura abbia dell'aria libera della strada, e quanta fretta di rinchiudersi un'altra volta nel suo piccolo guscio. No, il sole d'inverno non è ben visto da nessuno.

Un poco più tardi le strade si animano veramente, quando i carretti degli erbivendoli e dei merciai aprono il loro commercio, e i portinai, ramazzato il loro tratto di marciapiede, si dispongono a tener cattedra di pubblica istruzione, e i commessi di negozio con mazzi di chiavi e paletti e strani ordegni, come bande di svaligiatori, danno l'assalto alle botteghe, ne alzano le saracinesche, ne spalancano gli sportelli, e mettono sulla strada le mercanzie come se fosse roba rubata. Allora la città perde ogni carattere, tutto è confusione, disordine, tumulto, e per spiccare su quella marea rumorosa e agitata di gente che invade le strade, corre, grida, si urta, e più cerca di sopraffarsi più si perde e si confonde nel caos, non basta più la modesta personalità di ciascuno, fatta di un certo modo di camminare o di portare il cappello, di un naso troppo lungo o di un abito bizzarramente tagliato, ma bisognerebbe essere il Re in persona, in una berlina dorata con sedici pariglie candide, staffieri in gala, e trombettieri che non si stancassero mai di soffiare a gote piene nei loro corni d'argento.

Ma Silvio non la pensava così quando, alleggerito del peso della collana, uscì dal gioielliere e s'incamminò verso un mercante di pellicce, dove si proponeva di comprare quel pastrano verde con colletto di lupo e quel berretto di lontra che Silvina gli vide addosso nell'aprire gli occhi. Silvio credeva che tutti riconoscessero in lui un uomo straordinariamente ricco e felice; e avrebbe voluto chiedere a ognuno che passava se la città intera fosse da vendere. Così, ciecamente beato, a passo di bersagliere, la fronte alta, gli occhi ridenti, se ne andò, Silvio, incontro alla propria rovina.

* * *

Due giorni dopo Silvina era fra le braccia del principe Stanislao e con garbo gli carezzava i riccioli neri della parrucca, senza pensare che da quelle carezze non gliene poteva venire alcun brivido. — E oltre tutto, concludeva Silvina, m'ha lasciata anche senza la mia bella collana!... — Povera Silvina! esclamò il principe, quella collana vi era dunque tanto cara? — Era il solo ricordo che avessi di mio padre! E poi dove trovare uno smeraldo altrettanto bello e perfetto? Povero papà mio! Se lo sapesse! — Infine, Silvina cara, disse il principe, non vi disperate così. Se non sarà una collana con uno smeraldo altrettanto perfetto e fulgido, sarà un'altra collana non meno preziosa di quella.

Silvina si consolò. Quel giorno stesso il principe la mise in una bella carrozza tirata da due focosi cavalli e la condusse di galoppo dal primo gioielliere della città. Le vetrine di quel gioielliere eran mille volte più risplendenti della famosa caverna di Alì Babà, perchè vi si vedevano radunate, in molli conchiglie di velluto violetto, gemme d'ogni grandezza e colore, dalle quali si sprigionavano, come da un firmamento di fuochi artificiali, raggi sottili, acuti e tremoli che, attraversando la strada, s'andavano a rifrangere in variopinte luci sulle facciate delle case incontro. Erano gioielli finemente lavorati, zaffiri, rubini e brillanti sposati con opali diafani, perle rosee, cupe ametiste, trasparenti acque marine, e tutti racchiusi in preziose legature. Alcuni di essi uscivano per la prima volta dalle mani dell'orafo, tutti fiammanti e lucidi; altri avevano appartenuto ai Raià delle Indie Inglesi, all'Imperatrice della Cina o al Sultano dei Turchi, e dalla loro profondità traspariva, come in certi begli occhi stanchi, una luce che parea consumata. La folla che passava dinnanzi a quella bottega tuffava per un attimo le pupille avide e meravigliate nel chiarore abbagliante dell'oro e delle pietre preziose, e poi s'allontanava maledicendo il diavolo tentatore che per trascinare gli uomini in perdizione si serve anche di piccoli pezzi di vetro colorato.

Silvina e il principe avevano chiesto di vedere qualche bella collana. Erano seduti dinnanzi ad un tavolo, e il gioielliere, inforcati certi occhiali azzurri dietro i quali era scomparso il suo sguardo, aveva incominciato a trarre da uno scrigno di ferro massiccio collane dopo collane, e veniva ora allineandole sotto i loro occhi, in silenzio. Prima fu una collana di perle e diamanti neri con qualche rara lacrima d'opale; poi una collana di perle candide alternate con ametiste e zaffiri di una profondità notturna; poi ancora una collana tutta di rubini quadrati ed una di onici e di brillanti. Silvina guardava estatica quei vezzi degni di una regina e non sapeva dire quale le piacesse di più; quando, con sua gran meraviglia, vide le mani magre e tremanti del gioielliere porgerle sopra un piccolo scudo nero una collana d'oro semplice al cui centro splendeva un superbo smeraldo. Il suo cuore palpitò. Era quella proprio la sua collana! Il principe Stroztki disse vedendola: — Non mi sbaglio? Questa, Silvina, sembra tutta la vostra collana. — Il gioielliere commentò lentamente: — È la meno preziosa. Ma, per me, la luce di questo smeraldo vale tutte le altre. — Silvina non sapeva staccare gli occhi da quella pietra verde che col suo splendore la teneva incantata. Ma chiuse le palpebre e disse: — No, Stanislao, non è certamente la mia collana. — Ella scelse invece quella tutta composta di rubini, e volle che subito il principe gliela allacciasse al collo. Così Silvina rinnegò per l'ultima volta il suo passato, e la collana di Daria fu nuovamente rinchiusa nello scrigno del gioielliere.

* * *

Poco tempo dopo in città scoppiò una sommossa. In una chiara notte di maggio alcune navi nel porto improvvisamente s'incendiarono e, fumando come vulcani, vomitavano cenere calda e scintille che il vento faceva roteare sui tetti come frecce arroventate. Da per tutto si sparse un puzzo asfissiante di catrame e di pece, e sembrò che la luna, che era bianca e limpida in cielo, sbavasse sulle facciate delle case e sulle strade deserte la luce rossa di un sole equatoriale. A quel pauroso allarme la folla si riversò per le vie e venne gridando sul molo. Ma quando vide dai silos accorrere un'altra folla urlante che recava fiaccole accese e scale altissime, indietreggiò terrorizzata, e di nuovo le strade si vuotarono. Come se un ciclone si fosse improvvisamente abbattuto sulla città, e per le vie e le piazze corressero fiumi vorticosi di libeccio, era tutto uno sbatacchiar d'imposte e di finestre e di porte, che via via si chiudevano con cupi tonfi, soffocando nelle case e negli anditi bui le voci spaventate delle donne e dei fanciulli, le rauche bestemmie degli uomini.

Dal porto i rivoltosi salivano a ondate di migliaia, correndo compatti dietro i portatori di torce. Attraversato il mercato, si precipitavano in mezzo alle case per vie diverse, gli uni passando per il quartiere dei cotonifici, gli altri in direzione della cattedrale, altri ancora verso il quartiere degli armatori e dei banchieri, e tutti andavano poi a convergere verso il centro della città. Le torce delle prime colonne erano già consumate e spente, quando ancora le ultime ondate con le loro fiaccole accese non avevano attraversato il mercato. Dove queste s'incontrarono con quelle nacquero mischie spaventose. I portatori di fiaccole, trovandosi improvvisamente di fronte a colonne che tumultuavano al buio, credettero d'essere caduti in un agguato. In breve una battaglia furibonda s'impegnò fra le due parti, finchè anche le ultime torce consumate si spensero e la moltitudine continuò a combattere furiosamente al buio. Ciascuno credeva di avere di fronte un esercito di soldati. Da ogni parte si drizzavano barricate. E dietro le barricate, incuranti di quella inutile strage, i ladri che senza nè fiaccole nè lanterne nè clamori, alla spicciolata, erano accorsi dai quartieri più eccentrici al primo odore di tempesta, svaligiavano tranquillamente le botteghe, caricavano i carretti che s'eran trascinati dietro correndo, e curvi sotto montagne di fagotti se ne andavano pacifici per i fatti loro.

Alla prima luce dell'alba gli amici si riconobbero da una barricata all'altra. Dapprima non credettero ai loro propri occhi, poi si guardarono in faccia meravigliati, e allibirono. Il primo impulso fu, nei capitani, di rifarsi una reputazione continuando a combattere fra di loro. Ma i gregari s'affrettarono a sventolare bandiere e fazzoletti rossi, e qualcuno certo maledisse il sole il quale impediva che quelle fiaccole di cenci si spegnessero come s'erano spente nella notte le torce di resina. Su quella pace presto fatta da nemici che eran partiti all'assalto sotto la stessa bandiera, spuntarono lampeggiando alla luce dell'aurora le lance fitte della cavalleria.

* * *

In una certa grotta scavata nella scogliera, al di là del faro, Perdifiato, seduto in faccia al mare, aspettava pazientemente che spuntasse la alba. Il mare era livido e agitato, e vomitava contro lo scoglio ondate tutte bavose che si rompevano mugghiando sui suoi fianchi scoscesi. Poi con fischi e singhiozzi assordanti se le risucchiava in tanti mulinelli vorticosi, e, rigonfiandosi tutto, le risputava infuriato contro l'alta scogliera. Non si distingueva ancora la luce di levante, dove il sole insinuava tra cielo e mare la punta d'un raggio pallido pallido, dalla luce di ponente, dove la mezza luna, ancora tutta fuori dell'orizzonte quantunque già coricata, guardava di traverso le ombre a poco a poco sfumare sulla terra. E già i gabbiani, usciti dai loro nidi, assalivano il vento a testa bassa remando affannati con le ali tutte distese. Perdifiato, cercando di allontanare dagli occhi i ciuffi di capelli spioventi che gli impedivano di vedere, malediceva in cuor suo il boia destino che invece di dargli due ali possenti come quelle dei gabbiani, gli aveva anche tolta una gamba, per cui egli doveva tutto fare con una gamba sola, cercando di aiutarsi alla meglio con una stampella di legno. Almeno la gobba, che il destino, previdente di ciò che gli sarebbe mancato poi, gli aveva appioppata sul groppone fin dalla nascita, e di cui egli non sapeva che farsi, avesse potuto cambiarla con un'altra gamba! Ma no! La gamba se ne era andata sotto un carro, e la gobba gli era invece rimasta. E lo chiamavano Perdifiato appunto perchè, camminando con quella stampella e quel fagotto sempre appeso alle spalle, pareva a tutti che per la gran fatica dovesse mancargli da un momento all'altro il fiato.

Se avesse avuto tutte e due le gambe come una volta, anche la gobba gli sarebbe sembrata più leggiera. Ma certo egli non le avrebbe impiegate, come quegli stupidi gabbiani impiegavano le loro ali, a lottare contro il vento senza nessuna speranza di poterlo attraversare. Se mai si sarebbe messo a gareggiare con lui, per fare a chi correva più veloce, e tanto meglio se il vento, prendendolo in poppa, lo avesse anche aiutato. Allora non gli sarebbero occorse due ore per arrivare da quella grotta maledetta al centro della città, e poi altre due ore per mettersi in salvo prima dell'alba. Ma così conciato, che avrebbe potuto fare di più? Appena aveva visto fiammeggiare l'incendio nel porto s'era messo a correre, e, rischiando ad ogni passo di schiantarsi anche quell'unica gamba che gli rimaneva, aveva fatto salti da cavalletta su per la scogliera e poi lungo il molo tutto ingombro di travi, di corde, di àncore, di botti. L'anima agitata gli avrebbe messo le ali ai piedi, se ne avesse avuti due. Ma a una gruccia, a un povero pezzo di legno, come poteva mettere un'ala? Sicchè tutto sfiatato, era giunto appena in tempo a intrufolarsi in una certa bottega che aveva la porta sfondata, giusto per spigolare quello che gli altri più fortunati, cioè più veloci di lui, vi avessero per caso dimenticato. Con un moccoletto s'era messo a frugare, e per quanto quella fosse la bottega di un gioielliere, non aveva trovato se non un paio di vecchie scarpe, in un angolo, in un altro una valigia usata, sopra un tavolo una lente d'ingrandimento e un poco più in là una bilancia di precisione. Nel fondo di uno scrigno di ferro, che doveva aver dato molto da fare per aprirlo c'era un mucchio di cartoccini di carta velina che certo erano stati pieni una volta ma ora parevano tutti vuoti, mezzi strappati e sfatti. Perdifiato, affondando scrupoloso la mano nel mucchio, credette di sentirne uno ancor pieno. Allora, per non perdere tempo, aperta la valigia, vi rovesciò dentro tutta quella carta, e, confidando nella fortuna, così carico di quel magro bottino prese la via dell'uscita.

Ma il ritorno non era andato così liscio come si poteva sperare. Sotto un arco buio aveva fatto un incontro che per poco non gli era costato la pelle; perchè, mentre se ne andava tutto saltellante per la via più breve, due ombre si eran staccate da un angolo e gli avevano sbarrato il cammino.

— Olà! diceva una voce rauca, d'uomo, tu prendilo per il collo e tiello fermo...

E un'altra voce, che pareva di ragazzo, diceva:

— Sbattilo al muro e io lo frugo.

Perdifiato si sentì veramente mancare tutto il fiato che dopo tanto correre ancora gli rimaneva, e balbettò:

— State boni ragazzi! Per chi mi prendete?

Ma due mani possenti lo afferrarono per le spalle, e altre due mani gli abbrancarono il ginocchio, e Perdifiato, barcollando, sentì che quello che lo stringeva alla gamba cercava nell'ombra l'altro ginocchio, per agguantarlo, e non lo trovava. Intanto quello che lo teneva abbracciato per le spalle diceva:

— Maggiolino, cavagli questo fagotto che ha sulla schiena!

Allora sentì la stretta del ginocchio mollare, e due mani gli si infilarono sotto il corpetto e incominciarono a palpargli la gobba.

— Non viene niente! gridò indispettito il ragazzo, che era quello che lo frugava.

Allora l'altro prese Perdifiato per i capelli e lo scrollò con tanta forza, che, perdendo l'equilibrio, egli cadde lungo disteso per terra.

— Lasciatemi andare! gemette. Sono un poveraccio anch'io!

In quel mentre s'udì uno scalpiccio di gente che si avvicinava correndo, e allora quello che gli stava sopra gli assestò un pugno nelle costole, e se ne fuggì a precipizio seguito dal ragazzo che dileguò subito con lui nel buio.

Perdifiato rimase qualche minuto immobile, senza respiro, per l'acuto dolore che sentiva alle costole. Poi, quando non udì più alcun rumore, cercò di sollevarsi, e palpandosi il fianco sentì che versava sangue.

— Maledetti! gemette. M'hanno bucato!

E premendosi con una mano la ferita, e con l'altra aggrappandosi al muro, si alzò in piedi, ritrovò la gruccia, la valigia e le scarpe che, sfuggendogli di mano quando era caduto, erano rotolate poco lontano, e ansando disperatamente raggiunse la grotta dove Prisca ed Accolito dormivano ancora ignari di tutto.

* * *

Ora gli premeva di sapere due cose, e perciò aspettava la luce del giorno: prima di tutto se in quei cartocci che stavano nella valigia ci fosse qualche cosa di buono; poi se la ferita che lo faceva soffrire, e non voleva stagnarsi, fosse grande o piccina, soltanto un graffio oppure un buco profondo. Finalmente un po' di chiarore si fece nell'aria, e Perdifiato, rovesciata la valigia in una specie di buca fatta nello scoglio, incominciò a passare uno dopo l'altro gli involti di carta velina, e non c'era piega ch'egli lasciasse inesplorata. Con sua infinita gioia in uno trovò una pietruzza che al tasto e al colore, alla rotondità, riconobbe per una perla. Era una bella perla bianca, grossa come un cece. Poi trovò, in un altro cartoccino rimasto intatto, quattro o cinque pietre giallognole, trasparenti, lavorate come il brillante, ed erano quattro o cinque topazi. Infine trovò, proprio quando aveva perduta ogni altra speranza e non rimanevano nella buca se non pochi straccetti di carta, una collanina d'oro da cui pendeva uno smeraldo ovale. Perdifiato stava guardando quello smeraldo contro luce per vedere quanto fosse limpido e trasparente, quando un dolore acuto gli attraversò improvvisamente il fianco ferito e gli strappò un lamento. Si rovesciò allora il corpetto, e si vide tutto sporco di sangue. Sotto le costole gli si apriva un taglio di coltello largo due dita che doveva essere profondo assai. Perdifiato si arruffò disperato i capelli sulla fronte e capì che di quel colpo poteva morire. Infatti si sentiva a poco a poco mancare le forze, e già gli occhi gli si annebbiavano. Chiamò con tutta la sua voce: — Prisca! Accolito! — e cominciò a tirar sassi nella grotta per svegliarli.

Prisca dormiva profondamente nel suo letto fatto di stracci e di foglie secche, e sognava di esser presa in mezzo da quattro o cinque giovani che portavano tutti un garofano in bocca e la volevano ad ogni costo spogliare. Ella teneva un braccio disteso e la sua bella testa, bruna e crespa, posata su quel braccio. Si agitava tutta nel sogno e dalle sue belle labbra sorridenti uscivano di quando in quando piccoli gridi lamentosi, come se realmente ella si trovasse alle prese con una muta di innamorati. Uno dei sassi che Perdifiato tirava nella grotta la colpì alla spalla e la destò spaventata. Ed ella, rizzandosi con un salto a sedere sul letto, subito con la mano si nascose i piccoli seni tondi e rosei nella camicia, e si guardò intorno con occhi torvi, come se contasse di non vedere che nemici. Ma non vide nessuno, se non Accolito che, coricato al suo fianco, ronfava con le labbruzze aperte e gli occhi rovesciati, che mostravano fra le palpebre brune un filo di bianco, e parevano due castagne tagliate. Ma subito dopo udì la voce di Perdifiato che la chiamava, e curvandosi sopra un fianco, vide anche lui, nell'arco chiaro della grotta, che si stringeva la faccia con le mani e si torceva come se avesse le doglie. Ella saltò su in piedi, e infilatosi alla svelta un gonnellino, scalza andò a vedere che cosa avesse il suo caro marito per lamentarsi e dimenarsi così.

— Crepa! esclamò poi strofinandosi gli occhi cisposi. Chi ti ha pregato di andare? Manco se avessi tre gambe invece di una, e un paio di ali invece di quella gobba dannata!

— Andiamo, disse Perdifiato che non ne poteva più dal dolore, mettimi a letto e fammi un impiastro...

Prisca lo prese per le spalle e lo trascinò sul letto dal quale s'era alzata allora. Poi ritornò fuori, e raccolta la perla e la collana con lo smeraldo e i topazi che erano posati sulla pietra, li mostrò a Perdifiato e gli chiese:

— Questi cosa sono?

Perdifiato glieli tolse di mano con violenza e senza rispondere li annodò stretti stretti in un angolo della coperta. Prisca si avvicinò a un fornello piantato in un angolo fra quattro sassi, su cui stava una pentola di coccio, e nella pentola c'era un po' di pancotto che galleggiava in un brodo nero. Prisca prese un cencio e se lo distese sulle ginocchia. Poi prese un po' di quel pane spappolato e ne fece una specie di focaccia larga come una mano. Lo involtò bene bene nel cencio e, sollevato il corpetto di Perdifiato, gli appiccicò l'impiastro sulla ferita.

— Non aver paura! disse con sarcasmo. L'anima tua da questo buco non ci passa!

* * *

Quel giorno trascorse così. Perdifiato si lamentava tutto rattrappito sul letto. Dopo qualche ora si strappò dal fianco il corpetto, l'impiastro di pancotto, la cintola dei calzoni, e tutto scaraventò lontano da sè con ira. Si sentiva bruciare dentro, le viscere, come se avesse inghiottito e digerito una pietra infernale. I suoi occhi bovini, tondi e neri, pareva che per il gran dolore gli dovessero schizzar dalla testa, e che egli picchiasse la testa nel muro appunto per farli rientrare nelle orbite.

Era giorno di domenica. Prisca prese Accolito e lo portò ad una pozzanghera d'acqua salata che il mare aveva lasciato nel cavo d'uno scoglio, e senza pietà gli lavò il viso, le orecchie e le mani, che dopo quella lustrata brillarono al sole più nere che mai, perchè erano nere di natura. Anche Prisca era nera. La sua pelle aveva il colore del bronzo: era bruna e dorata, e lucida più del metallo. Asciugò Accolito nella sua sottana e poi gli infilò certe brachette di velluto nero e un camiciottino bianco ricamato. Sulla fronte gli spazzolò bene il ciuffo. Quindi, preso lo specchio, ch'era un pezzo di specchio tutto scheggiato, lo appoggiò ad un sasso, e, accoccolata, incominciò con il pettine, che aveva sì o no quattro denti, a districarsi i capelli, fitti e increspati come la lana. Ma non riuscì che a strappar qualche nodo e a sciogliere qualche ricciolo, e il resto le rimase tutto raggomitolato intorno al capo, che sembrava appunto un gran gomitolo di lana. Un nastro giallo se lo passò sotto la nuca e se lo annodò in due bei cornetti dritti nel mezzo della fronte. Poi, senza vergognarsi del mare che la guardava con i suoi mille occhi sfavillanti di sole, si spogliò nuda nuda, e in breve si rivestì degli abiti di festa, ch'erano certe calze di seta azzurra, un corsettino di lana rossa e una gonnella nera di panno. Alla cintola si annodò un altro nastro verde e i piedi li calzò con due belle scarpette. Così, tutta vestita bene, si accostò al letto dove Perdifiato non la finiva più di gemere e di agitarsi. Egli stava rivoltato con la faccia contro la parete e teneva le braccia intorno al capo. La coperta era tutta ammonticchiata in fondo al letto. Prisca si curvò e cercò quel nodo che Perdifiato aveva fatto in un angolo della coperta per racchiudervi la collana e le altre pietre preziose, lo sciolse, e, presa la catenina d'oro con lo smeraldo, svelta si allontanò senza essere nè veduta nè udita.

Nonostante i disordini della notte tutti erano per le strade in quel giorno di festa, e Prisca, tirando per la mano Accolito, non faceva minor figura delle altre donne giovani e belle che, a braccetto dei loro innamorati, tutte accese in viso per il sole che incominciava a scottare, con vestiti e nastri sgargianti, collane e braccialetti d'oro, se ne andavano dondolando da un marciapiede all'altro. Prisca era giovane, fresca, diritta, e Accolito non si sarebbe detto suo figlio. Ma a lei, tutte le altre domeniche, toccava di trascinarsi al fianco di Perdifiato, che non si staccava un minuto; e camminare tra la folla con quella gruccia e quella gobba era un tormento. Egli poi non stava zitto mai, e bastava che uno guardasse la sua donna, ch'egli si metteva a chiamarla per nome, perchè tutti sapessero subito che quel fiore gli apparteneva. Perciò quel giorno Prisca andava trionfante e libera, e tutti potevano guardarla quanto volevano, e averne da lei in compenso certi bei sorrisi bianchissimi. Ma il meglio sarebbe accaduto in Borgo S. Angelo, ch'era il quartiere dei ladri, dove Perdifiato l'aveva presa ragazza.

* * *

Perdifiato intanto si disperava, solo, nella grotta che già incominciava a riempirsi di ombra. Egli vedeva l'inferno aperto ai piedi del suo letto e tutti i diavoli rossi, con le corna e le forche, che ballavano nelle fiamme. Chiamava Prisca, chiamava Accolito, ma non gli rispondeva se non la propria voce fatta cavernosa. Aveva sete, e beveva ogni tanto un sorso d'acqua da un vaso di coccio che aveva accanto al letto. Ma quell'acqua, che era fredda finchè la teneva in bocca, appena passato il gargarozzo diventava bollente e pareva piombo liquefatto che gli colasse nelle viscere. Si sentiva morire. Si abbrancava con le mani alle pareti scabrose, ma certo sarebbe finito nell'inferno che lo aspettava laggiù spalancato. Sua moglie e suo figlio l'avevano abbandonato. Forse Prisca, tanto coraggiosa, avrebbe potuto scacciare quei diavoli rossi, chiudere quella buca arroventata con delle palate di sabbia! Disperato, egli invocò la Madonna del Parto, che aveva già salvato Prisca quando aveva dato alla luce Accolito; e benchè non sperasse più nulla, con sua gran meraviglia la vide d'un tratto apparire in una nuvoletta candida. Allora le offrì col cuore tutte le sue ricchezze. La Madonna gli disse: — Perdifiato, mi darai la collana d'oro con quello smeraldo ovale. La nuvoletta svanì, e Perdifiato afferrò la coperta e sfece il nodo. Ma non trovò la collana.

E tutti, vedendo passare Prisca con Accolito, le andavano incontro allegri, e, guardandola con ammirato stupore, le dicevano: — Oh! fiorita come una rosa di maggio, la nostra bella Prisca! E il gobbo se l'è bevuto il mare? Come siamo sgargianti! E questa bella collana, con questo bello smeraldo, chi ve l'ha regalata? Dalla gobba dello sposo è uscita? E ridevano, e Prisca rideva più di loro. E gli uni le dicevano, additando Accolito: — Il fagotto più grosso, manco male, l'hai lasciato a casa. Ma anche questo fagottello qui, perchè non lo butti in mare? Accolito si metteva a piangere, e allora Prisca gli dava due sculacciate e gli gridava: — Stupido come tuo padre! Non vedi che te lo fanno apposta? Ed altri diceva strizzando l'occhio: — Eh! Eh! la nostra bella Prisca, che collana ha messo su! Le donne, specie le ragazze da marito, che vedevano come tutti i giovani le corressero dietro a farle mille grazie, bisbigliavano arricciando il naso: — Ohibò! Dove l'avrà tolta quella collana? L'avrà mica rubata?

Perdifiato vedeva la buca dell'inferno ai piedi del suo letto allargarsi sempre più, e gli pareva che le fiamme che ne uscivano fossero lunghe fino al soffitto. Tutto per quella collana che la Madonna gli aveva chiesto, e ch'egli non le poteva dare! Eppure l'aveva annodata nell'angolo della coperta con le altre pietre preziose. Ma ora non c'era più. Disperato si gettò colla faccia contro il letto e rimase così irrigidito nello spasimo che gli lacerava il fianco, finchè non gli parve di vedere, nell'ombra che ormai riempiva la grotta, splendere una fioca luce. Allora alzò il capo e vide Prisca che, tenendo in mano un moccolo di candela, stava curva a guardarlo. Ma subito vide anche pendere dal suo collo lo smeraldo che oscillava come una stella verde, e con un grido furioso glielo strappò, e, stringendolo nel pugno chiuso, si rovesciò svenuto sul letto.

* * *

Quando Perdifiato fu guarito e potè alzarsi dal suo giaciglio, prese la gruccia e se ne andò in città. Là, in cima a una gradinata altissima, sorgeva una vecchia chiesa sul cui frontone era scritto a grandi caratteri: Virgo tua gloria partus, dove Perdifiato entrò segnandosi. La Madonna, che gli era apparsa in sogno vestita di rosa e d'azzurro, stava ora seduta in una nicchia fra due colonne, tutta coperta di cuori d'argento, e non aveva quel vestito celeste, ma era tutta di marmo bianco, salvo il piede che era d'oro. Tante lampade pendevano intorno intorno alla nicchia e in ognuna brillava tremando una fiammellina. Contuttociò la nicchia era piena d'ombra. La Vergine aveva in capo una mitra d'oro altissima, e il Bambino, che ella teneva in piedi sulle ginocchia, aveva pure una mitra d'oro, ma un poco più piccola. Ma mentre il pargolo era tutto nudo, la mamma portava sul vestito di marmo una specie di corazza tutta scintillante d'oro e di gemme, e intorno al collo dieci file di perle d'ogni grandezza, e alle dita anelli che splendevano come fari. Perdifiato, prono dinnanzi a quell'immagine, la contemplava estatico, e si domandava perchè mai la Madonna, che aveva già tutti quei gioielli meravigliosi, avesse chiesto a lui, povero ladro di poca fortuna, la sola collana che in vita sua gli fosse riuscito rubare. Egli cercava una risposta a questa domanda e non la trovava. Finchè i suoi occhi non si posarono sopra quelle file di perle che cingevano il collo della Vergine, e allora credette di averla trovata, perchè veramente eran tutte collane di perle, e non ce n'era nemmeno una che avesse uno smeraldo. Allora Perdifiato si alzò lentamente, e senza staccare gli occhi dal volto della Madonna, la quale pareva seguire ogni suo atto con quelle sue pupille bianche, andò verso un frate che, pregando a testa bassa, teneva sulle ginocchia un piatto d'argento. Con un gesto umile, quasi vergognoso, egli trasse di tasca la collana dallo smeraldo, e, sospirando, la lasciò cadere tra le monete di rame di cui quel piatto era pieno. Il frate senza interrompere le sue preghiere assentì gravemente col capo, e disse con un po' più di voce: Ave Maria gratia plena, domin... tec... benedi... E il resto si perdè in un bisbiglio.

* * *

Là, un giorno vuoto, ho riveduto io, per caso, la collana di Daria, la collana di Silvina. Essa ora appartiene al cielo: è di Dio. Sospesa al collo della Vergine, sembra risplendere d'una luce dolce e serena, senza sinistri riflessi. Nessun maligno fascino si sprigiona più dal suo verde lume. Ed io pensai, riconoscendola dalle sue maglie smaltate e dal colore della sua trasparenza, che anche Daria, se è morta come disse Soave, e Silvina che vive ancora, potranno forse un giorno purificarsi.

PARTE QUINTA Luisa.

I.

Ho trentacinque anni. Sono invecchiato e stanco. Non ho più voglia di vivere. Se rileggo i miei scartafacci scritti dieci, quindici anni fa, e vedo come la vita mi sembrasse già allora disperata, e come poi abbia potuto vivere ancora altri dieci, quindici anni, ho un desiderio pazzo di aprire la finestra e di precipitarmi giù nella strada, per schiacciare questa mia testa contro il selciato e impedirle per sempre di ragionare. Io mi rivolto, con un'irascibilità nella quale riconosco pur troppo i segni della mia malattia e della mia precoce senilità, mi rivolto contro me stesso, perchè m'è intollerabile pensare, come risulta dalle pagine scritte per Daria e per Silvina, che io abbia potuto per lunghi anni considerarmi una vittima del destino e circondare di pietà gli atti più stolti della mia vita, e di tutte le cose avere un'opinione falsa e sbagliata, senza che la verità mi balenasse mai per un istante alla mente, quantunque pretendessi di penetrare il segreto delle cose e a tutte dare un significato. Se mi affaccio alla finestra, solo che abbassi gli occhi sul fondo della strada buia che s'inabissa fra le case, con quei lumicini, laggiù, languidi e opachi e quelle formiche nere che silenziosamente corrono sbucando dall'ombra per rintanarsi in altra ombra, la vertigine mi prende alla nuca e mi tira giù a precipizio nel vuoto. Basterebbe che mi abbandonassi. Ma invece, vile, e in perfetta contraddizione con quanto ho ideato poco fa, mi abbranco con tutte e due le mani alla ringhiera, e chiudo gli occhi per non vedere, e mi ritraggo spaurito, e ripiombo qui, dinnanzi a questo tavolo, dove m'attende e m'inchioda quel pensiero che vorrei uccidere per sempre in me.

Il piccolo Isacco se ne è andato or ora. Mi ha lasciato qui, accanto, un modulo stampato che debbo riempire. Povero ragazzo! Non dimentica nulla, lui. Ora lo sento nella stanza vicina che si toglie le scarpe e le sbatte contro la porta. Sempre così, ogni sera. Luisa non poteva soffrire questi rumori che Isacco fa spogliandosi nella sua camera, e la sottigliezza della parete, che divide questa stanza dalla sua, fu sempre per lei cagione di grandi preoccupazioni, di profonda infelicità. Veramente sembra che Isacco sia ancora qui, accanto a me, e che si spogli in mia presenza, come se nulla ci dividesse, togliendoci l'uno alla vista dell'altro. Ora sento perfettamente che sospira, e dallo scricchiolio della sedia su cui è seduto (la sedia è accanto al letto) capisco che si sta sfilando le calzette di lana bianca, e forse il sospiro è dovuto ad un buco, che, nel cavarsi le scarpe, ha scoperto sulla punta o nel tallone. Durante la notte, lo sento che si rivolta nel letto, e poi percepisco il suo respiro pesante e calmo, quando si è addormentato. Spesso sogna, e allora chiama con voce lamentosa e lontana i nomi più strani, e fa lunghi dialoghi con qualche invisibile e misteriosa ombra.

Faceva così anche prima quando c'era Luisa, e non esisteva nessuna intimità tra noi. E Luisa mi diceva: — Se noi sentiamo tutto, persino quando inghiottisce lo sputo, sente tutto anche lui. Che tormento! E non parlava che sottovoce, e non camminava che in punta di piedi. Oh! lo sapevo benissimo anch'io quanto lei. Quella stanza dove ora sta Isacco è stata prima la mia stanza. E Luisa abitava appunto questa stanza, quando io abitavo quella. Non l'avevo ancora mai veduta, e già, Luisa, la conoscevo intimamente. Che strano caso! La sua vita non aveva più segreti per il mio udito, quando ancora i miei occhi non si erano posati neppure una volta su lei. Tutto è proprio nato dalla trasparenza di questa maledetta parete.

Mi ricordo come fosse ieri quando la vecchia Savina mi fece salire fino al sesto piano di questa casa immensa, e m'introdusse in quella stanza. Veramente non è una stanza. È il fondo di un corridoio, al quale la sua finestra dava luce prima che vi alzassero contro un tramezzo di legno e un uscio. Poi il corridoio rimase buio e Savina ebbe una stanza di più da appigionare. Ci sta appena appena il letto, che è di ferro sottile e nero, e a due passi, di lato, è appoggiato, contro l'altra parete, il cassettone, con sopra una specchiera rotta in più parti. Sotto la finestra si trova il lavabo pure di ferro, con un catino, una brocca e un secchio. In tutto non c'è che una sedia. Io sorrido se penso al senso di repulsione e di tristezza che ebbi, quindici anni or sono, entrando in quella povera camera di casa Sterpoli, che mi parve tanto inospitale, squallida e fredda, non appena v'ebbi posato il piede, da sentirmene il cuore piccino. Venivo da casa mia, dove tutte erano cose amiche, tutto era tepido e accostante, tutto bello e buono! Eppure quella, al confronto di questa, poteva considerarsi una reggia.

Ma quando entrai per la prima volta dove Isacco dorme e russa, or sono sei mesi o poco più, non venivo da casa mia, non lasciavo nè il letto caldo e soffice, con le sue belle lenzuola profumate di spigonardo, che la mia buona mamma faceva ogni mattina con le sue mani, nè la grande poltrona imbottita sulla quale passavo ore ed ore rovesciato a sognare stupide e meravigliose fantasie. Come la mia buona casa era già lontana, perduta, dimenticata! Come tutto era finito molto prima d'allora! Dal giorno in cui, morta mia madre, Marta la seguì per quel cammino così silenzioso che neppure sotto i suoi grossi zoccoli levò un rumore (anche la sua vita tanto semplice finì misteriosamente come tutte le altre), e mia sorella Adalgisa si sposò con un giovane di Pra che se la portò piangente di là dai monti, e mia sorella Maria volle entrare in convento, sono passati pochi anni, ma eterni. Quale esperienza della vita, in questi anni! Poco dopo anche mio padre morì, ed io, venduta la casa, la cascina e il podere, me ne fuggii per non ritornare indietro mai più. Lo stambugio che allora Savina m'offriva per pochi soldi, gli ultimi, finiti i quali non ne avrei posseduti più, mi sembrò quanto di meglio il caso potesse offrire a un disgraziato mio pari.

Nevicava. Con una voluttà disperata andai a schiacciare il viso contro i vetri della finestra, ficcai gli occhi in quella notte buia tutta punteggiata di bianco. Finalmente c'era qualche cosa fra me e il gelo dell'inverno, fra me e quelle tenebre odiose, fra il mio viso e il vento che turbinava veemente spazzando le strade tutte deserte e bianche! Io volevo volevo morire. Ma per quel ridicolo senso di pietà, per quell'assurdo amor di noi stessi che neppure l'idea della morte sopprime, come se importasse qualche cosa ciò che potrà accadere quando tutto sarà finito per noi, mi faceva orrore il pensiero di essere sepolto dalla neve ad un angolo di strada, e poi calpestato, e poi urtato e forse ferito dalle pale degli uomini che all'alba raschiano la neve dai marciapiedi per ammucchiarla in mezzo alla via, e forse anche morso e divorato dai cani. Tutta l'estate avevo passato le mie notti all'aperto, disteso ora su questa ora su quella banchina del parco. Le notti erano serene e tepide, e faceva quasi piacere passarle coricati all'aria libera, nella dolce frescura. Ma poi, sopravvenuto l'autunno, avevo dovuto cercare una casa, e tutte erano troppo ricche per me, che non avevo se non il mio modesto salario d'amanuense, appena appena per mangiare, e non più: non per avere anche una casa. E così era passato anche l'autunno. M'avevano ricoverato le arcate dei portici, certi anditi fetidi nel quartiere basso della città. Ormai da molte e molte notti non conoscevo un letto, non potevo distendermi e riscaldarmi sotto una coperta di lana, posare il capo sopra qualche cosa di soffice. Quel letto su cui Isacco ora sogna e sospira, io lo palpai come un innamorato tocca voluttuosamente la sua donna la prima volta che la può stringere nuda fra le braccia. Mi gettai lungo e disteso sul suo duro materasso di crine, e mi sembrò di affondare in una nuvola di bambage e di essere trasportato lontano, in alto, da un vento silenzioso e dolcissimo.

II.

Non ricordo se allora mi assopii, o se soltanto mi abbandonai a quella voluttà da povero diavolo, smarrendo in essa ogni altra sensazione esteriore, ogni mio pensiero. La notte doveva essere inoltrata molto, anzi non doveva essere molto lontana l'alba, quando mi parve di udire proprio al mio fianco, dietro il mio capo, un singhiozzo soffocato, come uno scoppio di pianto subitamente represso. Mi levai a sedere sul letto, annaspando nell'ombra. Trattenni il respiro per non turbare il silenzio che mi circondava da ogni lato, prossimo ed infinito. La stanza era buia, ma un pallido chiarore traspariva dalla finestra, tanto che vedevo i fiocchi di neve cader lenti lenti sparpagliandosi sul davanzale, e mi pareva ancora di salire, di salire in alto, non più rapito entro una nuvola, ma come se tutta quanta la casa volasse assunta in cielo. Non c'era nessuno nè accanto a me, nè dietro di me, tra il letto e la parete, tra la porta e il letto. Ma un altr'uomo stava nella stanza attigua, cioè in questa stanza, accanto a questo letto dove ogni notte ora mi corico disperatamente solo, e come me tratteneva il respiro aguzzando l'orecchio, cercando me nel silenzio, come io cercavo lui, e lo aspettavo in agguato. Ah! la pazienza gli venne meno troppo presto. Fu egli il primo a stancarsi.

— Non piangere, disse quella voce irosa di uomo. Scoppia, se vuoi, ma non piangere... Qualcuno è venuto ad abitare di là... Te l'ho detto! Non piangere...

Parlava di me.

— Taci, taci, diceva sempre più cupa, sempre più minacciosa, quella voce; è un certo Paris. Mi conosce. Lo conosco. L'ho intravveduto quando era là con Savina. Ti dico che si metterà a urlare, se ti sente piangere. Vuoi che si desti tutta la casa? Vuoi che per farti tacere io ti strangoli?

Queste parole furono pronunciate ancora con maggior violenza. Ma chi le pronunciò ebbe paura di aver forzata troppo la voce, e tacque. Chi era? Mi conosceva per nome? Aveva detto: Paris? Il suo accento mi riusciva nuovo. Certo, di giorno, con altra gente, quell'uomo doveva avere un'altra voce, un ben diverso accento. Intanto, nel silenzio, percepivo un singhiozzare fioco fioco, lontano, che pareva d'un fanciullo o d'una donna che piangesse con il capo avvolto in una coperta di lana o sepolto sotto un cuscino. Dopo questa breve pausa egli ricominciò a parlare sommessamente.

— Tu devi persuaderti, disse, ed è inutile piangere. Se non ti persuaderai, una di queste notti avrai finito di piangere per sempre. Vedi tua madre? Lei non piange più...

— Ma io non posso, te lo giuro, non posso, è più forte di me! gemette quella voce fioca, che era certamente d'una donna e d'una donna giovane (era la voce di Luisa).

Allora il maschio si raddolcì.

— Sciocca! E non vedi che piangere ti fa male, che diventi ogni giorno più brutta? disse in tono quasi pietoso, come per consolarla. Perchè? Perchè sprecarsi così? A che giova? Povera piccola, su, su, sii ragionevole... Questa vita non è poi mica una gran gioia neppure per te. Fra poco sarai vecchia... E allora?...

Si interruppe.

— Ma cosa vuoi fartene, le gridò improvvisamente ridivenuto rabbioso, scuotendola, (il letto scricchiolò tutto sotto le sue mani), di queste tue quattro ossa schifose? Di questa tua stupida verginità? Peuh! A chi vuoi darla? Chi vuoi che se la prenda? Che cosa credi di avere, tu, qui?

Rovesciò una sedia.

— Lasciami uscire! gridò a voce spiegata. Non ne posso più!

La porta della stanza vicina sbatacchiò, dei passi attraversarono il corridoio in gran fretta, precipitarono giù per le scale e si spensero.

Rimasta sola, la donna si alzò dal letto, corse all'uscio, lo chiuse a chiave. Poi mi parve che si gettasse nuovamente distesa contro i cuscini, e singhiozzando senza più freno implorò: — Mamma, mamma...

Doveva esserci anche un cane, chiuso con lei in quella stanza, perchè alla sua invocazione rispose una specie di brontolio cupo, inarticolato, appunto come il brontolio di un cane. Era sua madre, la madre di Luisa. Era lei, la stessa che ora, se alzo gli occhi dal foglio su cui scrivo, vedo laggiù nell'angolo buio della stanza, affondata nella sua poltrona, dove sta sempre con il capo piegato sul petto come se fosse staccato dal corpo e pendesse appena trattenuto da un filo; e sgrana, fra le mani scheletrite, il rosario che sarà consumato prima della sua vita che non si consuma mai! Ma, allora, questo rantolo sommesso che esce senza posa dalle sue labbra morte, mi parve il brontolìo di un cane. Poi tutto ripiombò nel più profondo silenzio.

Mi ricordo che poco dopo mi riassopii, richiudendo le palpebre sul biancore livido di quell'alba invernale, e che quando mi ridestai era giorno fatto, in piena mattina. Non nevicava più. Anzi c'era nel cielo grigio plumbeo una trasparenza diffusa, pallida e lontana, di luce gialla, solare. Quella luce poteva bene illuminare di speranze nuove un cuore meno distrutto del mio, meno buio. Ma io la contemplai senza provarne alcuna gioia, e neppure mi mossi per avvicinarmi a lei, alla finestra. Così, supino, stavo senza pensiero. Non mi sarei mosso più. Perchè avrei dovuto alzarmi? Non volevo più vedere nessuno, non parlare più. Non avevo più nulla da dire a nessuno. Non aspettavo, non desideravo più nulla. Mi sarei sentito meno solo in un deserto africano, in una landa artica. E sarei anche stato infinitamente felice. Ma un rumore nella stanza attigua, cioè in questa stanza, introdusse nel mio deserto, nella mia landa spopolata, almeno una persona viva alla quale non potei fare a meno di pensare. Chi era costei? Quella stessa che, nella notte, avevo udito singhiozzare e disperarsi, o un'altra? Una voce femminile, che non riconobbi, che mi parve di non aver udito mai, si mise a bisbigliare. Non distinguevo le parole, ma mi pareva che fosse una preghiera. Allora mi levai a sedere sul letto, e appoggiai l'orecchio alla parete. Poi non seppi resistere e bussai tre colpi. La voce tacque.

Io domandai sommessamente:

— Chi siete?

Non rispose.

— Chi era, domandai ancora, a voce ancora più bassa, questa notte, qui, che piangeva?

E soggiunsi:

— Eravate voi?

Ma neppure allora rispose, ed io mi lasciai ricadere sul letto.

Da quel momento, appunto, Luisa incominciò a camminare in punta di piedi: abitudine che non abbandonò più, da allora in poi. Se non avessi udito il fruscio delle sue sottane, lo stropiccìo dei suoi abiti contro i mobili, mi sarebbe sembrato che ella non si movesse più, o che la stanza fosse vuota. Faceva meno rumore d'uno che cammini sopra il più morbido dei tappeti, anzichè sopra un orribile impiantito di mattoni rotti e sconnessi come questi: e pareva scalza, o un'ombra che trasvolasse sospesa da terra. Allora mi ricordai, per una strana coincidenza di idee, delle pantofole che Pietro Suavis portava sempre in ufficio per potersi avvicinare silenziosamente ad ognuno di noi e sorprenderci in ogni momento del nostro lavoro. Egli si alzava dal suo banco, che era nascosto da un paravento a destra dell'uscio, e, attraversata a piccoli passi l'ampia stanza, si veniva a mettere pian piano dietro le spalle ora dell'uno ora dell'altro. E quando, vedendo con la coda dell'occhio la sua ombra lunga e nera apparire da un lato, ci buttavamo giù col naso sui registri, egli con un colpo di tosse rivelava la sua presenza e a piccoli passi silenziosi si allontanava.

Che cosa gli poteva importare, in fin dei conti, se qualcuno interrompeva il proprio lavoro per dare un'occhiata al giornale o per scrivere una lettera di condoglianze alla vedova d'un amico? Ci pagava forse lui, di tasca propria, il magro stipendio d'ogni mese, grazie al quale nessuno di noi poteva, come invece avrebbe desiderato, morire liberamente di fame? L'anima triste di tutte le amministrazioni era racchiusa in quelle sue maledette pantofole.

Improvvisamente mi rovesciai di dosso le coperte e mi buttai con un salto dal letto. Quel giorno era appunto l'8 dicembre. Me ne ero dimenticato, come se quel giorno non dovesse più esistere nel calendario. Ma invece, eccolo: era proprio lui. Io avevo un impegno d'onore per quel giorno, e me ne ero dimenticato. No. Non poteva assolutamente scegliere l'8 dicembre per dire addio al mondo, per rompere ogni mio rapporto con il prossimo. Come spesso una cosa da niente muta il corso d'un'intera esistenza! Più che in fretta tuffai il viso nel catino di acqua ghiaccia, m'asciugai in un lembo del lenzuolo e, infilato il mio vecchio soprabito, mi lanciai di corsa giù per le scale. Urtai alcuni signori vestiti di nero e in tuba che salivano lentamente, uno dietro l'altro. Nemmeno mi scusai. Anche per la strada continuai a correre, perchè tutti gli orologi che incontravo ogni tanto sui cantoni mi dicevano quanto fossi in ritardo. Infatti Esposito mi aspettava camminando nervosamente su e giù nel cortile, e quando mi vide giungere trafelato, ansimante, mi venne incontro a braccia aperte e mi strinse a sè come se temesse che gli potessi sfuggire.

— Incominciavo a disperare, amico mio! mi disse tutto d'un fiato. Ma, Dio grazia, sei venuto! Tutto è in ordine. Tutti i registri pronti sul mio tavolo. Non hai da fare altro che sederti al mio posto. Addio, addio! Ora debbo scappare! Certamente Lisa m'aspetta... (Alvisa? Adalgisa? il nome che egli pronunziò mi sfuggì proprio in quel momento). Ti ho detto tutto? La chiave del cassetto di destra è nel cassetto di sinistra. Per il resto rivolgiti a Pròchipo...

Si staccò da me ed infilò l'androne. Prima di svoltare, mi gridò:

— Non temere: dopodomani sarò puntuale come un orologio!

Salii lentamente i primi gradini. Sudavo per la corsa che avevo fatto, e dovetti più volte asciugarmi la fronte con la manica del soprabito. Pensavo: — Come un orologio! Come se tutti gli orologi fossero puntuali! Veramente quella grande scalea, a gradini larghi e bassi di mattoni consumati sui bordi, tutti buche e frane, sembrava che salisse lungo il dosso d'un monte, e che per quella via fossero passate moltitudini innumerabili, moltitudini di piote umane. Forse per ciò lo chiamavano Monte di Pietà, poichè quello era il monte e la pietà ce la portavano con le loro miserie tutti i poveri diavoli che da infinite generazioni salivano quella scala. Quando entrai negli uffici, vi fu un movimento di stupore tra i miei colleghi. La sera innanzi avevo detto addio a tutti.

— Vi lascio: da domani non verrò più. Ho deciso di abbandonare l'impiego e di ritirarmi a vivere per conto mio. Vivere? Che vita sarà poi la mia? Ma non importa. Meglio morire di fame che vivere a questi lavori forzati.

— Beato te, avevano risposto. Ma che morire di fame! Avrai trovato di meglio. Già lo sapevamo che qui non saresti rimasto. Hai dei poderi, tu. Te ne ritorni in campagna...

— Oh! oh! i poderi! avevo soggiunto. Bei poderi davvero! Finì il tempo dei poderi. Ma me ne vado lo stesso. Fortuna a voi, amici cari. Buone cose.

Allora dissi a mia giustificazione:

— Debbo sostituire ancora Esposito per due giorni. Me ne ero dimenticato.

III.

Mi sedetti al tavolo di Esposito. C'erano sopra tanti registri aperti l'uno sull'altro, con tante polizze appuntate con uno spillo al bordo d'ogni pagina. Ma non osavo toccare quei registri, non potevo toccarli. Avevo detto addio a tutte quelle orribili e stupide cose, e a ritrovarmele dinnanzi ne soffrivo come d'una nausea. Occupavo la sedia di Esposito. Questo era il mio stretto dovere: provare, sedendo a quel posto, che Esposito era presente. Certamente se avessi voluto aprire il cassetto di destra avrei dovuto cercarne la chiave nel cassetto di sinistra. Ma non sentivo nessuna necessità di aprire il cassetto di destra. Anzi non avrei adoperata mai quella chiave. Credevo d'essermi liberato per sempre da quella lurida stanza, di avere risoluto definitivamente il problema, da vent'anni sospeso, della mia esistenza sbagliata. Ora invece mi toccava riannodare quel filo: provvisoriamente, ma dovevo riannodarlo per forza. Eppure non potevo rimanere così immobile senza far nulla. Bisognava fingere di lavorare. Ma in che modo ingannare il tempo? Come occupare la lentezza e la noia di tante ore inutili? Già incominciavo a sbadigliare. Intorno a me non c'era nulla di nuovo. Allora, quasi involontariamente, aprii il cassetto di sinistra della scrivania di Esposito, e vidi subito, posata da un lato, la chiave del cassetto di destra. Il cassetto di destra era chiuso. Ma quella chiave era fatta appunto per aprirlo. All'infuori di quella chiave, quel cassetto non mostrava alcuna particolarità interessante. Era mezzo vuoto, e non vi si vedeva che un mucchietto di carta bianca, un asciugamani ed uno specchio. Forse l'altro, quello di destra, avrebbe offerto alla mia oziosa curiosità pretesti di svago meno limitati e soliti. All'uomo la tentazione d'Eva si presenta a volte sotto forma di serpente o di pomo, tal altra sotto forma di demonio, e può persino, sè vuole, assumere il modesto aspetto di un cassetto chiuso. In certi casi si chiama «sete della conoscenza», in altri semplicemente curiosità. Ma la causa in ogni circostanza, fu sempre la stessa per tutti: ozio e noia da illudere in qualche modo, sia che si tratti di aspettare la fine di un orario d'ufficio, sia che si tratti addirittura di aspettare la morte. Io dunque aprii il cassetto di destra. Sollevati tre o quattro libri di contabilità, con mia grande soddisfazione lo trovai pieno fino all'orlo di carte manoscritte, lettere dalle buste d'ogni colore, e sopra tutto posata una fotografia.

Era, naturalmente, una fotografia di donna: una donna giovane che guardava con profonda malinconia l'orologio appeso in mezzo alla parete, sopra gli scaffali. L'orologio (lo guardai anch'io istintivamente) segnava le 11. Senza dubbio mi trovavo dinnanzi alla donna di cui mi aveva parlato Esposito nel dirmi addio, forse la causa unica e sola del sacrificio che io stavo appunto compiendo, seduto a quel tavolo. Come in tutte le fotografie, così anche in quella lo sguardo era d'una stranezza ridicola e nello stesso tempo sconcertante. Ce ne sono che non vi tolgono mai le pupille di dosso, e comunque le rivoltiate, vi fissano con un'insistenza così sfacciata e odiosa che vi vien voglia di forare i loro occhi con uno spillo. Altre, non si sa per quale legge misteriosa, guardano nel medesimo tempo chi sta loro dinnanzi, e tutte le altre cose o persone che stanno intorno, siano esse vicine o distanti. Queste si ha voglia di schiaffeggiarle, per indurle a fermare sopra un punto solo la loro attenzione. La fotografia di quella signora, o signorina, guardava l'orologio. Era senza dubbio una stranezza come tutte le altre, dovuta al caso. Ma a me venne fatto di pensare che ella attendesse con una certa apprensione lo scoccare di quell'ora in cui Esposito le aveva promesso che sarebbe corso da lei, la mattina di quel, per me, malaugurato giorno. — Datti, datti pace, le dissi allora con acida ironia; se non è arrivato ancora, arriverà fra poco. Eccomi qua: io ne so qualche cosa... E, veramente, avrei voluto per dispetto farla in quattro pezzi. Ma pensai con raccapriccio che, divisi l'uno dall'altro, uno qua e l'altro là, quei suoi occhi avrebbero continuato ognuno per proprio conto a guardare l'orologio. Così accade delle code delle lucertole, che tagliate dal corpo, continuano ad attorcigliarsi come se nulla fosse accaduto. E poi, per l'appunto, quella signora non aveva di bello che gli occhi. Erano due grandi e malinconici occhi neri, in un viso piccino piccino, patito e aguzzo, con un nasino appena disegnato e una bocca dalle labbra sottili sottili, una bocca insignificante. Neppure i suoi capelli, la sua pettinatura, l'espressione del suo volto avevano nulla di straordinario, e nemmeno nulla di notevole. Erano tutte cose comuni. La prima impressione che la contemplazione di quell'immagine poteva suscitare in un uomo era un senso di indifferenza. Subito dopo, un senso di pietà. Somigliava proprio in tutto a quei ritratti che si vedono stampati sui giornali, nelle cronache dei delitti più tristi ed oscuri, sotto cui è scritto sempre e semplicemente: La vittima; e basta un'occhiata per pensare: — Poverina! Aveva il suo destino scritto in fronte! Così era lei, la donna di Esposito. Innamorata, fidanzata, amante? Chi poteva dirlo? Forse le lettere accumulate in quel cassetto, sulle cui buste si leggeva il nome di Esposito ripetuto infinite volte, in una minuta calligrafia femminile tutta uguale. Ne sfoderai alcune. Tutte erano firmate: Armida, fuorchè una, della stessa persona, che era firmata Adì. Era lei! Mi parve che nella sua confusione di parole, al momento di lasciarmi, Esposito avesse pronunciato proprio quel nome.

Le lettere di Armida ad Esposito erano cinquanta o sessanta in tutto, ordinate cronologicamente. Ne trovai di quattro, di otto, di dodici e alcune perfino di ventiquattro pagine fitte. Le ore della mattina mi bastarono appena per leggerne meno della metà. Ma quando le ebbi lette, ed anche prima di arrivare in fondo, sapevo perfettamente che cosa pensare di Armida, molto più che se l'avessi conosciuta da vent'anni. Il ritratto di Armida che dall'insieme delle sue lettere ad Esposito balzava fuori intiero e vivo, non corrispondeva affatto a quello che m'ero figurato poche ore prima nel contemplare la sua immagine. In verità se fra i due c'era una vittima, per quanto vittima fortunata, questa andava identificata in Esposito. Armida doveva essere una creatura ardente e appassionata, una di quelle donne che, amando un uomo sino alla follia, lo distruggono. E il suo viso che non esprimeva che malinconia, dolcezza e rassegnazione! Si erano incontrati alcune settimane prima, ai giardini pubblici. Esposito si era impadronito dell'anima sua con un solo sguardo. «Tu mi hai affascinata come il serpente. Avevi quel giorno negli occhi una luce diabolica. Mi seguivi senza parlare, e mi pareva che strisciassi ai miei piedi. Pensavo: — Ecco, ora mi avvolgerà in una spirale di fuoco. Sarò sua, sarò sua! E tu, con il fiore all'occhiello, che forse un'altra donna ti aveva dato, ti pavoneggiavi specchiandoti in tutti i vetri delle botteghe, e cercavi, con lo stesso sguardo infiammato, di affascinare tutte le altre. Da quel primo istante ho giurato a me stessa: — Sarà mio, ma soltanto mio! Non sarà di nessuna altra, all'infuori di me! Mi avrà, ma a prezzo della sua vita! Non dimenticarti questo giuramento, Esposito, non lo scordare giammai!» Armida aveva un marito. Era descritto così: «L'ho amato veramente un giorno, quando gli feci dono della mia innocenza di fanciulla, e lasciai che cogliesse con le sue mani il fiore dei fiori? Ah! Esposito: se oggi le guardo, quelle sue mani tutte coperte di peli neri ed ispidi, (e vedo invece con gli occhi dell'anima le tue piccole mani affusolate, le tue mani bianche e morbide che m'accarezzano con tanta dolcezza, e sono le mani di un vero signore ), e dalle sue mani risalgo alla sua faccia, in cui non c'è neppure un tratto che non sia volgare, col doppio mento, gli occhi stanchi e lividi, la fronte calva, e poi abbraccio con un solo sguardo la sua persona goffa, i suoi abiti trascurati, le sue cravatte di pessimo gusto, debbo confessare a me stessa che mi sono ingannata, e che non ho mai amato quest'uomo! Eppure, perchè nascondertelo, mio caro Esposito? Per tanti anni ho creduto di amarlo. Mi sono data a lui ciecamente. È la vera parola, poichè lo vedo ora per la prima volta nella sua ripugnante realtà». Ed io pensavo alla delusione di quella sciagurata Armida il giorno in cui avrebbe finalmente veduto in tutta la sua realtà anche Esposito. Ma Esposito doveva conoscere, in modo che io stesso non avrei mai sospettato in lui, l'arte di conquistare il cuore di una donna e di tenerlo soggiogato, in perenne stato febbrile. «Da due giorni sei mutato con me, Esposito, diceva un'altra lettera: non sei più lo stesso. Usi strani modi, rimani per lungo tempo distratto e taciturno, quando, risvegliati i sensi nei tuoi abbracci che mi spremono dalle vene più nascoste fin l'ultima goccia di sangue, più che mai avrei sete di te. Tu ami un'altra, Esposito! Sei già stanco della tua Armida! Mostra a costei il segno che i miei denti ti hanno lasciato sulla gota. Dille che quello è il marchio di Armida. Mostrale quella ciocca bruna che porti nella doppia scatola del tuo orologio, e dille: — Questi li ho colti nei giardini di Armida!» Ella trovava una sublime felicità in questo convulso e sanguinoso amore. «Sono felice! Più ti vedo debole, affranto, più m'inorgoglisco, più godo, più ti amo, Esposito! Dico a me stessa: — L'amor mio lo ha vinto così. Tutto ciò che in lui sfiorisce, fiorisce in me. Tutto ciò che vien meno alla sua vita, si trasfonde nella mia. Il mio corpo racchiude la miglior parte del suo!»

Nel pomeriggio continuai la mia lettura. Che cos'è di spaventoso l'intimità di due amanti! Io domandavo ad ogni passo: — Dio mio, dove andranno a finire? E mi pareva di vedere un incendio divampare e crescere sempre più intorno a quei due, e i loro corpi arroventati dibattersi come in un rogo. Infine, secondo le mie previsioni, scoppiò la catastrofe. Una lettera in data 4 dicembre, scritta con una calligrafia disordinata, a stento riconoscibile, diceva testualmente così: «Amore, è finita, è finita! Egli sa tutto. Ha trovato tue lettere. Minaccia di uccidermi. Come sarei felice, amore, di morire per te! Ma invece di uccidermi, ti cerca da ieri in lungo e in largo per la città. Nasconditi e attendi notizie. Tua per la vita». Questa lettera era firmata Adì. Due giorni dopo Esposito riceveva un ultimo biglietto scritto a lapis, sopra una pagina strappata a un quaderno: «Amor mio, diceva quel biglietto, non mi è più possibile sopportare questa pena. Egli mi impone di partire con lui, per strapparmi per sempre al mio amore. Esposito, Esposito! Sento la tua voce che m'invoca. Senti tu la mia? È scoccata l'ora tanto sospirata, in cui una bella morte ci strapperà alle angustie di questa vita per trasportarci in un eterno nirvana... Dopo domani, alle nove in punto, ti aspetterò all'angolo della cattedrale. Porta con te molti fiori... Tua oltre la vita. Armida». Quando lessi queste parole definitive erano le sette di sera. Ahimè! Le nove di quello sciagurato giorno erano passate da un pezzo! Rimasi come inebetito a guardare l'ultima lettera che, tremando, stringevo fra le mani. Avrei voluto alzarmi, chiamare i miei compagni, farli partecipi della mia macabra scoperta. Ma mi sentii incapace di muovere un gesto, di pronunziare una sola parola. E quando il sudor freddo e il tremito di quei primi momenti di commozione furono passati, mormorai con un profondo sospiro: Consumatum est. Senza avere neppure il coraggio di posare un ultimo sguardo sul ritratto della povera Armida, richiusi in fretta le lettere nel cassetto dal quale le avevo tolte. Che fare? Era tardi ormai. Troppo tardi. Immaginavo quella creatura così esile, delicata, fragile, che sotto apparenze tanto insignificanti racchiudeva invece così violenti umori, un'anima di leonessa, una natura felina, giacere immobile accanto ad Esposito, stretta a lui in un supremo amplesso. Ora la vedevo coricata sopra un letto, con i capelli sciolti, il suo corpo mingherlino appena velato dalla camicia, la mano nella mano di Esposito, che era invece vestito da capo a piedi, e sempre con il suo colletto lucido, inamidato. Pareva che l'uno e l'altra dormissero un soave sonno. Ora invece m'appariva rovesciata in un lago di sangue, ai piedi dei bastioni, il viso nella polvere, i polpacci scoperti con calze di grosso filo nero, e Esposito bocconi accanto a lei, con le braccia distese verso il suo corpo, come in un disperato desiderio di abbraccio. Un pensiero che mi fece sorridere fu questo: che Esposito si fosse preoccupato, in simili circostanze, di lasciare a me la consegna del suo lavoro d'ufficio. Nobile anima di burocrate, austero senso del dovere, che non avevo mai sospettato in lui! Eppure, infine, egli avrebbe potuto dire d'essere stato amato, veramente, perdutamente amato; d'un amore che aveva qualche cosa di anormale, di crudele, di inumano; una vera follia d'amore, un vortice, un vulcano d'amore; ma amore, amore e morte, come nelle più sublimi leggende. Forse era stato felice più di qualsiasi altro uomo, ed ora certamente era il più felice di tutti. Più felice di me, che non vedevo ormai altra felicità se non in quel nulla nel quale egli si era inabissato. Ma non solo! Non disperatamente solo, come me! Con Armida sua! Con la sua terrestre, umana, inebbriante felicità d'amore...

Riposi nel cassetto di sinistra la chiave con la quale avevo aperto quello di destra e, a capo chino, senza salutare nessuno, mi allontanai.

IV.

Ormai non sarei più tornato indietro. Veramente mi sarebbe riuscito impossibile sostituire, ora, Esposito. Avrei dovuto sostituirlo per tutta la vita. La mia presenza a quel tavolo, dinnanzi a quei registri, diveniva ormai superflua. Ero nuovamente libero e padrone di me. Appena giunto all'angolo della strada, comprai un giornale, e cercai nella pagina della cronaca il ritratto di Esposito. Non c'era. C'era però, sotto un titolo molto tragico, la notizia che cercavo. Per quanto vi fossi preparato, non potei leggerla senza un brivido di terrore. Nel fiume, che era in piena, la barca degli asfittici aveva pescato due cadaveri d'una donna e d'un uomo, ancora giovani. Essi erano allacciati l'uno all'altra da una lunga sciarpa di seta, i loro due corpi legati in un abbraccio che neppure la morte e la corrente vorticosa avevano potuto sciogliere. Così avevano voluto insieme abbandonare la vita, e uniti lasciarsi trasportare nel buio! Nessuno dei due aveva addosso nulla che potesse servire ad identificarlo. Ma i loro connotati corrispondevano perfettamente a quelli di Esposito e di Armida, secondo la fotografia di lei che io conoscevo. Mi stupì molto di non aver pensato al fiume, forse perchè quei fiori, che Armida invocava nell'ultima sua lettera ad Esposito, avevano suscitato dinnanzi ai miei occhi l'immagine di altre morti. Non avevo pensato che Armida potesse morire come Ofelia, tra fiori galleggianti sull'acqua. Ma infine quella era una morte come tutte le altre. Con un sospiro ripiegai tristemente il giornale che avevo letto alla luce d'una bottega di parrucchiere, e ripresi lento il mio cammino. Veramente tutto era finito. Forse qualcuno, alla morgue, aveva già riconosciuto in quei due annegati d'amore Esposito e Armida. All'indomani sarebbero andati a frugare nei cassetti di quel tavolo, e il mistero del loro suicidio non sarebbe stato più un mistero per nessuno.

Assorto in questi pensieri non m'accorsi neppure d'entrare nell'androne semibuio di casa mia e di salire le scale che dovevano condurmi al mio sgabuzzino. Ma mentre stavo per mettere il piede sull'ultimo ballatoio, un uomo sbucò in gran fretta dall'ombra e mi urtò con tanta violetta che per poco non mi fece cadere.

— Signore! gridai voltandomi. E mi fermai meravigliato. Dinnanzi a me stava ritto Esposito. Era lui, non c'era dubbio: lui in carne ed ossa, non il suo fantasma. Le ombre hanno volti sereni, impietriti, di statue indifferenti e impassibili. Il volto di Esposito era invece sconvolto e trasudato: esprimeva una profonda e dolorosa ansia.

— Lasciami andare! esclamò soffocato, allontanando la mano con la quale istintivamente gli avevo afferrato il braccio. Tu non immagini nemmeno! Mia sorella Luisa... Capisci? Scomparsa!... Non si trova più!

— Tua sorella? domandai. Tua sorella? (e pensavo: — Ha dunque una sorella, Esposito?) E in che modo? In che modo è scomparsa?

— Ah! gemette Esposito, stringendosi la fronte con le mani, storia lunga, caro mio! Sembrò subitamente preso da un profondo sconforto, si appoggiò alla ringhiera, abbandonò le braccia, piegò il capo sul petto. — Tutto era pronto, cominciò a raccontare vagando qua e là con lo sguardo smarrito, gli invitati erano tutti qui, chi nel corridoio, chi sulle scale, alcuni aspettavano giù, in cortile, e persino nelle carrozze, sulla strada. Mia madre, lo sai, è ebete... Poverina! Ma Luisa era già vestita, tutto era in ordine. Me lo hanno detto. Io... io giunsi tardi... Ah! Ah! esclamò guardandomi improvvisamente con odio e stendendo il pugno contro di me, tu sei la causa di tutto! Se non ti fossi fatto tanto aspettare, io sarei stato qui in tempo, stamane, per scongiurare questa maledizione! Ma tu, tu, che importa a te tutto questo? Arriva lo sposo, con i suoi amici, si degna di salire tutte le scale, fin quassù, quantunque soffra gravemente di cuore. Domanda di Luisa. Gli dicono: — È con sua madre, in camera, già pronta... Chiamate la sposa! dicono. Esse, mia madre e mia sorella, abitano qui. Io ho un'altra casa per conto mio. Ma sono io che pago anche questa. Bussano. Nessuno risponde. Aprono. C'è mia madre seduta nella sua poltrona. Luisa non c'è più. Dove sarà? La chiamano, la cercano, interrogano mia madre che non sa, non vede, non sente nulla; corrono da tutti i vicini... Luisa non si trova. È scomparsa! Quando sono arrivato io, lo sposo se ne era già andato... Molti se ne erano andati... Allora anch'io mi sono messo a cercarla, e l'ho cercata tutto il giorno, ma non l'ho trovata...

Esposito si raddrizzò, alzò gli occhi al cielo, si torse le mani disperatamente. — Dove sarà? gridò furioso. Dove sarà? E si precipitò giù per le scale di corsa, prima che io avessi il tempo di pronunciare una parola.

Lo seguii con lo sguardo, affacciandomi alla tromba delle scale, finchè non lo vidi scomparire. Poi guardai perplesso in me stesso. Infinita ridicolaggine della vita! Quello era Esposito. Era quel medesimo, identico Esposito che avevo creduto morto, e ripescato dal fiume, e coricato sul freddo tavolo di marmo della morgue accanto ad Armida. Forse neppure Armida era mai esistita, e quell'epistolario era tutto falso, tutta un'invenzione di Esposito. Forse erano lettere che scriveva lui a sè stesso! Dove non ci conducono le disillusioni? Io non dovevo credere più a nulla, nemmeno all'evidenza dei miei poveri occhi di idiota! Maledissi Esposito e me stesso, e, saliti gli ultimi gradini, entrai nel mio sgabuzzino e mi rinchiusi a doppio giro di chiave.

Finalmente c'ero: nulla mi avrebbe più smosso di là. Finalmente ero solo, isolato, difeso da quei muri e da quella porta. Anche quella stupida giornata era passata per sempre. Non avevo altro da fare che riprendere la mia vita dal punto in cui l'avevo lasciata la mattina, quando il ricordo della promessa fatta ad Esposito m'aveva stupidamente strappato al mio dolce nulla verso il quale già stavo scivolando dolcemente beato. Il letto era là, ancora sfatto, come quando la mattina m'ero alzato rovesciandone le coperte. Pareva che m'aspettasse. Bastava infilarsi di nuovo là sotto, e richiudere le coltri, come se nulla fosse avvenuto. Mi spogliai lento, ripensando alle stranezze del caso. Esposito... La sorella di Esposito, Luisa, e sua madre, che abitavano sotto lo stesso mio tetto, allo stesso piano di casa, forse proprio in quella stanza attigua alla mia... Ed io non ne sapevo nulla, io che stavo tutto il giorno con lui: nè che Esposito avesse una madre e una sorella, nè che il caso mi avesse condotto ad abitare proprio accanto a loro! Forse quella voce che durante la notte avevo udito lamentarsi e piangere era la voce di Luisa... E la voce di quell'uomo, ah! sì, ora la riconoscevo, quella voce aspra, minacciosa, era la sua voce, la voce di Esposito! Ora vedevo tutto chiaro. Luisa si rifiutava di sposare quel signore che le avevano scelto per marito... Ed Esposito la minacciava. Volevano disfarsi di lei, costringendola a quel matrimonio che le ripugnava... Forse la volevano vendere. Per ciò era fuggita... Era fuggita... Dove? Dove era fuggita? Dove poteva fuggire una povera ragazza sola, in quella città così grande? Forse il fiume in piena, nel quale nè Esposito nè Armida avevano mai pensato di gettarsi, portava ora il fragile corpo di Luisa verso un nascondiglio dove nessuno l'avrebbe più ritrovato. Luisa... E Armida? Che cosa era avvenuto di lei?

Ah! Eppure è bello non soffrire più per nessuna ragione, per nessuno. Stendersi in un letto, riposare le ossa indolenzite, pensare al sonno che verrà, al tepore che a poco a poco ti avvolgerà tutto come in una nuvola, e considerare tutte le cose come se fossero infinitamente lontane, e indifferenti, ed estranee. Dire: che importa a me? Se piove, se tuona, se crollano le montagne intere, se bruciano centinaia di case, se gli uomini si scannano sotto le mie finestre, che importa a me di tutte queste catastrofi? Sono qui coricato, dove nessuno mi vede, dove nessuno mi sente, tutto rattrappito sotto le mie coperte che a poco a poco si scaldano e fra poco mi scalderanno, e sappiate voi tutti, e voi, tutte le cose, sappiate che mi sono separato per sempre da voi, siete tutti morti, tutte morte per me, o tutte vive, poichè infine m'è uguale che siate vive o morte; la vostra prosperità o la vostra disgrazia, il vostro bene o il vostro male, mi sono uguali, ed io non vi voglio in verità nè male nè bene. Io solo esisto. Padrone di non esistere più quando me ne sia stancato. E basta.

Così mi stringevo intorno al corpo infreddolito le coperte ancora fredde, e non avevo alcun pensiero dell'avvenire. La fine sarebbe venuta da sè. Non avrei avuto che da aspettarla. Mi faceva piacere di essere così coricato, solo e senza preoccupazioni o doveri, con quel freddo di coperte intorno alla carne che mi dava più vivo il senso d'essere disteso in un letto, solo, senza una necessità al mondo di vivere altrimenti che così, coricato, immobile, abbandonato al mio peso... E a poco a poco le palpebre mi si chiusero sul fioco e instabile lume della candela, e mi trovai trasportato in quella soffice nube che dolcemente si cullava al soffio di un vento di paradiso. Allora, quando chiusi gli occhi, ebbi la prima sensazione del silenzio, sentii il silenzio che mi circondava, e fu appunto il soffio di un respiro umano, un rumore appena percettibile, che me lo fece sentire. Era, quel respiro, come un filo di luce, un'incrinatura di luce, in una tenebra profonda, smisurata, immobile. Sembrava che qualcuno fosse coricato al mio fianco, con il capo appoggiato accanto al mio sul guanciale, e che con le labbra semichiuse respirasse lento e uguale nel mio orecchio. Certamente era ancora quella maledetta parete che turbava la mia solitudine e m'imponeva la presenza di altra gente, introducendola nella mia stanza dove mi credevo bene isolato, ben chiuso.

Cacciai la testa sotto le coltri, già nuovamente distolto dalla mia felicità, dal mio abbandono: già costretto di nuovo a pensare, a ragionare, ad agire. Come era dunque possibile? Una parete che non teneva lontano nemmeno il respiro degli altri? Di che cosa era fatta quella maledetta parete? Di carta? Di un velo? Mi alzai a sedere, rovesciai le coperte, mi guardai intorno smarrito. Ma abbassando gli occhi vidi d'un tratto qualche cosa di nero luccicare per terra, che sbucava di sotto il letto, e non aveva alcuna forma precisa. Allungai una mano e toccai una cosa dura che mi sembrò la punta d'uno scarpino. Mi buttai col capo in giù, e vidi che sotto il mio letto, tutta raggomitolata, c'era una donna.

Allora mi rivestii, sospirando, e m'inginocchiai, e le parlai dolcemente, le dissi:

— Che cosa volete fare? Passare tutta la vostra vita sotto il mio letto? Andiamo: via! Siate ragionevole... Esposito non tornerà subito. Non avete un amico nel mondo, al quale chiedere aiuto e ospitalità per questa notte? Se volete, vi accompagno... Vi conduco io... Se incontriamo Esposito, io vi nascondo, io vi difenderò... Ormai il peggio è passato, Luisa... Vedete? Conosco anche il vostro nome. Ma intanto non piangete, Luisa... E fatevi almeno vedere...

Stesi una mano sotto il letto e trovai una sua mano. La strinsi e cercai di trarla a me con forza. Ella resistette un poco, poi si lasciò trascinare. Sbucò prima il braccio, poi la spalla, poi la testa con i capelli tutti arruffati che le coprivano il viso, poi tutto il resto. E rimase così accasciata accanto a me, con la faccia nascosta fra le mani.

— Dunque, soggiunsi, ditemi: che cosa debbo fare per voi, ora, Luisa?...

Luisa rimase qualche minuto immobile. Soltanto quando le toccai bruscamente una spalla per indurla a parlare, incominciò a sciogliere adagio adagio il nodo delle mani che s'era stretto sul viso. Sollevò il capo, agitandolo in un segno di sconsolato diniego, come per dire: — Che so, che so, io? — e allora vidi improvvisamente con infinito stupore dinnanzi a me il volto stralunato di Armida. Mi alzai di scatto. Non c'era dubbio! Quella era Armida. Quantunque la sua faccia fosse gonfia di pianto, inselvatichita da quell'arruffamento di capelli, la sua somiglianza con la fotografia che avevo tante volte contemplato quel giorno era indubitabile.

— E voi? gridai non appena mi riebbi dallo stupore, che fate voi qui, disgraziata? Sotto il mio letto? Che cosa c'entro io con i vostri drammi d'amore? Signora, signora Armida, esclamai esasperato, uscite subito di qui! Tutto il giorno, non mi avete dato altro che brividi ed ansie!... Basta! Basta! Se volete vendicarvi di un amante spergiuro, fatelo fuori di casa mia! A me poco importa di Esposito e dell'epilogo che finirete per dare alla vostra goffa tragedia...

Così dicendo girai la chiave nella toppa e spalancai la porta. Ma Armida non si mosse e ruppe in un pianto ancora più disperato. In quel punto s'udirono dei passi frettolosi nel corridoio e sulla soglia della mia stanza apparve Esposito.

— Bene! gridai, affrontandolo con le braccia levate al cielo. Poichè sei venuto, ecco qui quel che ci vuole per te!... Prenditela, e andate... Andate lontano, tu e la tua Armida! E scegliete la morte che più vi conviene, purchè vi decidiate una buona volta a morire!

Ma Esposito mi allontanò con un urto della mano e, afferrata la donna per le spalle, la squassò come se avesse voluto stroncarla.

— Maledetta! gridò. Ti ho trovata finalmente! Qui, qui, eri! Ora penso io a tutti e due!

Si raddrizzò e mi venne incontro minaccioso.

— Che dici tu di Armida? domandò con voce cupa. Che cosa ti importa di Armida? Di Luisa, di lei dobbiamo parlare! Tu l'hai nascosta qui... Tu lo sapevi... Ecco perchè hai tardato tanto stamani! Tu l'hai nascosta, e hai rovinato me, e tutti noi, per sempre. Per tua colpa le nozze non si sono fatte e non si faranno mai più... Infine, l'hai disonorata... Poichè Luisa è una fanciulla, e tu sei un uomo, e questa è la tua casa... Sai tu che cos'è l'onore di una fanciulla? Di una fidanzata? Ebbene: ora che l'hai disonorata, ora la sposi, tu!

Egli fece per afferrarmi le mani. Io lo respinsi violento. Mi sembrò d'essere divenuto cieco d'un tratto. Mi mossi, e mi piantai fra lui e Luisa, fra Luisa e la porta.

— Ebbene, sì, gli risposi con ira senza rendermi conto di ciò che dicevo. Non fu mai la fidanzata di nessuno, tua sorella, Luisa, se non mia... Mia fidanzata! Io l'ho nascosta, io l'ho salvata da te, dai tuoi intrighi infami... Domani, se ricapitasse, la nasconderei, la salverei ancora. Perchè, infine, sappilo, Luisa, tua sorella, io l'amo... Noi, noi ci amiamo! E da quest'istante è mia sposa!

Poi, curvatomi su Luisa, la presi per le mani e la sollevai. Ed ella si lasciò sollevare, e si lasciò stringere fra le mie braccia, si lasciò baciare sulle gote, sulla fronte, sulla bocca, inerte, abbandonata, muta, tremando in tutto il suo povero corpo, che io soverchiavo col mio. Mi rivolsi quindi nuovamente contro Esposito, che mi guardava stupito.

— Vattene! gli gridai. E non tenere l'immagine di tua sorella fra le lettere delle tue sgualdrine!

Lo sospinsi di viva forza fuori dell'uscio, chiusi con fracasso l'imposta e sfinito, smarrito, mi lasciai cadere sul letto.

V.

Sposai Luisa. La sposai. Presi per moglie Luisa. Io che volevo lasciarmi morire, che certo avrei finito per uccidermi, fui costretto a riprendere la mia vita come prima. Per lei: per lei sola. Perchè la sposai? Perchè non mi misi a ridere come un pazzo, quando Esposito mi accusò d'aver disonorata sua sorella, anzichè rispondere, come un pazzo, di volerla sposare? Pazzia per pazzia, sarebbe stato meglio che mi fossi messo a ridere senza fermarmi più, finchè non fossero venuti a prendermi con la camicia di forza. Ma Luisa, quando rimase sola con me, quella sera, dopo le mie parole insensate, mi prese le mani e incominciò a baciarmele piangendo e a bagnarmele delle sue lacrime. Io stavo seduto sul letto, con gli occhi fissi su lei, come un idiota. Ma Luisa di quando in quando levava su me il suo sguardo di bambina spaurita, come per domandarmi: Dunque è vero? È proprio vero ciò che ho udito? Tu mi sposi? Tu mi liberi?

Luisa non credette veramente che la sposassi se non quando fummo benedetti dinnanzi all'altare del prete che ci unì. Soltanto allora non dubitò più di essere vittima di un perfido sogno e di doversi ridestare d'un tratto nella consueta realtà della sua vita. Esposito non assistette alle nostre nozze. Dopo quella sera non lo vidi più. Io venni ad abitare qui con Luisa. Divisi con lei, diventata mia moglie, il suo piccolo letto di fanciulla, e la nostra prima notte fu senza amore. Non rispettai la sua verginità, dopo averla sottratta al commercio che voleva farne Esposito, suo fratello; ma rispettai il rantolo di sua madre che riposava in un altro letto, separata da noi appena da una tenda. Luisa mi teneva le mani strette nelle sue e posate all'altezza del cuore, sotto il suo piccolo seno molle, tepido e nudo. Così passò quella notte. Luisa aveva trent'anni, ma ne dimostrava sedici. Veramente non so se la magrezza e la povertà del suo corpo fossero indizio di una giovinezza precocemente sfiorita o che ancora dovesse sbocciare. Era giovane e vecchia. Non aveva età. Io non potei fare a meno di pensare con ironia al caso che dopo avermi negata ogni felicità d'amore aveva voluto infine regalarmi quella gran donna per moglie. Finalmente qualche cosa potevo godere anch'io nella vita! Una donna! E non dico solo una donna, poichè certo ne avrei trovata una ad ogni angolo di strada che si sarebbe lasciata prendere e godere da me per una notte, ma una donna mia, interamente mia, e mia per tutta la vita. Il sogno di tanti anni alfine lo avevo realizzato. Oh! potevo ben considerarmi più fortunato di tanti altri, i cui sogni non si realizzano mai. Avevo una donna mia, coricata nuda accanto a me, in mio assoluto potere. No: non era Daria. Non era propriamente neppure una donna. Io non l'amavo, non la desideravo: non l'avrei nè amata nè desiderata mai. Eppure era mia moglie. Avrei piuttosto voluto alzarmi pian piano, in silenzio, cautamente, da quel letto di sposo, e lasciarla al suo sonno innocente e beato, e andarmene come ero venuto, lontano, e non rivederla mai più: essere generoso con lei come il destino era stato generoso con me. Avrei voluto anche domandarle: — Luisa, se hai sposato me, perchè non hai sposato quell'altro? Se hai sposato me senza amore, e senza amore mi stai ora nuda fra le braccia, non potevi senza amore sposare lui in mia vece, e coricarti al suo fianco? Far contento Esposito ed evitare a me questo atto pietoso? Non sono mica io quello che tu vorresti avere ora vicino e dargli tutta te stessa! E chi sarà dunque mai?

Così venne l'alba, e incominciò la nostra vita in comune. Io non ebbi il coraggio di rivolgermi a Pietro Suavis per chiedergli di essere riammesso al mio impiego. Oltre tutto la presenza di Esposito mi sarebbe stata intollerabile. Rimasi alcuni giorni senza lavoro. Infine fui assunto nella redazione di un piccolo giornale settimanale, che era una specie di bollettino dei mercati e delle fiere della città. Avevo il mio ufficio nell'angolo più buio di una piccola tipografia. Il mio guadagno non sarebbe bastato a sfamare me, Luisa e sua madre se non avessi trovato da racimolare qualche altro soldo come correttore di bozze. Luisa cominciò col cucirmi una camicia, poichè quella che portavo era tutta rammendi e brandelli. Ma la nostra miseria era tale ch'ella dovette rassegnarsi a vedermi addosso quest'abito logoro ed unto, che oggi non è più che uno straccio. Quando rientravo a casa la sera, tardi, con le pupille addolorate per la penosa fatica degli occhi, Luisa mi veniva incontro con il suo mesto sorriso, mi toglieva il cappello dal capo, mi sollevava sulla fronte i capelli disordinati, e, guardandomi pietosa, mi domandava: — Sei stanco? Sei molto stanco anche oggi? E siccome io scrollavo il capo sconfortato senza rispondere, ritraeva la mano già alzata per accarezzarmi e se ne andava a capo chino presso il fornello, dove c'era la pentola della minestra a bollire. Io mi lasciavo cadere di peso sopra una sedia accanto al tavolo e guardavo sua madre, che mi fissava muta tentennando il capo, con quei suoi occhi senza pensiero che parevano intenti a decifrare i tratti del mio viso, come per indovinare chi fossi io, quell'intruso dai capelli arruffati, dalla barba incolta, che ogni sera entrava silenzioso e si sedeva da padrone a quel tavolo. Ed io, esasperato dalla fatica della mia giornata, dallo spettacolo di quella tristezza e di quella miseria che mi vedevo d'intorno, da quella ripugnante immagine del dolore e dell'idiozia che mi fissava tremando, avrei voluto afferrarla per le spalle, e, facendole sbatacchiare la testa come ad un fantoccio di stoppa, avrei voluto rispondere: — Chi sono? Ora te lo dico chi sono. Sono uno che era sull'orlo della felicità, di quella felicità dalla quale tu mi guardi con il tuo ghigno di ebete. Ed ora se ne è allontanato per sempre, per sostentare il tuo corpo di bestia e quello tisico di tua figlia! Per sfamare voi due, io vivo e fatico e mi accieco dalla mattina alla sera. Per pietà di voi due io mi sono rassegnato ad essere il più ridicolo e il più infelice degli uomini... Ma perchè ci ostiniamo tutti e tre a vivere? Su via, madre nostra: dacci l'esempio... E le avrei tirato il collo come ad una vecchia gallina. Ma Luisa con la scodella fumante e colma, camminando in punta di piedi, trattenendo il respiro per paura di versarne una goccia, mi veniva accanto, e quando mi aveva posato il piatto dinnanzi, allora soddisfatta mi sorrideva del suo sorriso buono e innocente di bambina intristita.

— Mangia, povero piccolo, mi diceva posandomi una mano leggiera leggiera sopra una spalla. È buona, vedrai... Ti farà bene.

Ed io, distratto improvvisamente dai miei lugubri pensieri, sentivo nascere dentro di me un'ilarità cattiva, che avrebbe voluto prorompere in un riso sguaiato, rovesciarsi brutalmente su tutta quella tristezza.

— Piccolo, a me, a me, piccolo! pensavo con una smorfia beffarda. Io, qui, vecchio e sfiancato, brutto e sporco come un cesso, io qui un rifiuto d'uomo, con una faccia da ergastolano, con tutto il mio dolore, e la mia pena, e la mia stanchezza scritta sulla fronte, io, io, mi si chiama così, come un bambino: povero piccolo, povero piccolo! Chi ti crede, bella mia? Chi vuoi che la beva? Non mi vedi mica tu quanto sono brutto e sporco, miserabile, e vecchio, e stracco; quanto sono ripugnante ed odioso; come sono irritato e cattivo!... Niente affatto piccolo. Povero: povero sì. Ma povero diavolo, povero cane, povero idiota... Ecco i miei veri nomi. E tu li sai, via, cara Luisa: li sai meglio ancora di me!...

Mi curvavo sulla minestra e mi mettevo a mangiare in silenzio. Luisa con una mezza scodellina allora mi sedeva di fronte, e v'intingeva appena la punta del cucchiaio, e non mangiava che con la punta delle labbra. Bastava ch'io levassi gli occhi dal piatto e facessi un gesto vago, indeciso, un gesto qualunque, il più insignificante, il più indeterminato, per vederla saltare in piedi e sentirla domandare premurosa:

— Che cosa vuoi, dimmelo, caro? Il pane? Ah! Il sale...

E correva a prendere un cartoccino di sale pestato e me lo scartocciava dinnanzi. Io non volevo il sale. Non volevo nulla.

— Grazie, le dicevo, secco, irritato da quell'esagerato zelo, non voglio sale... Ce n'è anche troppo...

Luisa s'alzava per tempo la mattina: prima di me. Sgusciava dal nostro lettuccio stretto senza che io la sentissi, e per prima cosa accendeva il fornello e riscaldava il caffè. Poi lustrava le mie vecchie scarpe, e con infinita pazienza smacchiava il bavero, le maniche e i calzoni del mio abito tutto unto e sdrucito. Poi, vestita sua madre, le lavava il viso e le mani con una pezzuola inzuppata, e la conduceva a sedere sulla poltrona. Tutto questo in punta di piedi e scalza, quantunque si fosse d'inverno, per non destarmi. Mi destava quando tutto era in ordine, il caffè caldo. Mi toccava leggermente una spalla e mi sospirava quasi sul viso un: — Dèstati, Paris... Paris, ti svegli?... Io, la mattina, avevo il sonno stanco e pesante. Ella temeva di sentirmi gridare, di vedermi adirato. Aspettava qualche minuto, zitta, immobile, per conoscere l'effetto del suo primo richiamo. Io non l'avevo udito nemmeno, non mi muovevo, continuavo a respirare profondo e grave, addormentato. Allora la sua mano mi si posava sul capo e un poco più forte la sua voce diceva: — Paris, è tardi... Ti svegli, Paris? Finalmente mi svegliavo, e la prima cosa che vedevo svegliandomi era quel sorriso malinconico e pietoso sul visuccio di Luisa.

VI.

Era una santa? L'avrebbero beatificata un giorno? Ci sarebbe stata una Beata Luisa di Paris? Ah! Ah! Una buona, una devota serva: secondo la mia opinione d'allora questo era Luisa, mia moglie.

Tutto il giorno io lo passavo fuori. A mezzodì la mia colezione consisteva in un pezzo di pane inzuppato in un po' di vino. Nessuno degli operai che lavoravano in quella tipografia era miserabile quanto me: un borghese. Luisa, quando aveva ripulito tutta la casa, si metteva in capo il suo cappellino spennacchiato, al collo una sciarpetta di lana, e andava a misurar camicie ai suoi clienti. Il suo mestiere era infatti di tagliare e cucire camicie da uomo. Questo lavoro non le rendeva quasi nulla, ed io veramente ho sempre pensato che le servisse più che altro da pretesto per uscire e rimanere lunghe ore fuori di casa. Ma non ero geloso. Non me ne importava nulla di lei. Io non la consideravo neppure una moglie. Era una cosa, niente altro che una cosa, per me. Ma anche Luisa aveva le sue piccole vanità. Quando si vestiva per uscire, il suo povero cappellino se lo appuntava con civetteria sulla fronte, e non si staccava dallo specchio senza prima essersi assicurata che i due ricciolini, sulle orecchie, fossero bene inanellati. Il suo modo di camminare per la strada era franco e disinvolto, mentre in casa aveva sempre l'atteggiamento d'una persona timida ed impacciata. Era donna, in fine, Luisa, come tutte le altre.

Un giorno di domenica, la mattina ero ancora a letto, e Luisa si vestiva per uscire. Quando fu vestita, come sempre si sedette dinnanzi allo specchio e incominciò ad arricciarsi con la punta delle dita i capelli corti delle tempie. Non erano nè i capelli neri di Daria, nè i capelli biondi di Silvina. Erano castano-grigi i capelli di Luisa. Erano dei brutti capelli. Mentre facevo fra me questa considerazione, ella vide nello specchio che la guardavo. Arrossì tutta, d'un tratto, e confusa si volse verso di me.

— Perchè mi guardi così? mi domandò cercando di sorridere, timida.

— Niente, risposi anch'io confuso. Non ti guardo più.

— Ti dispiace? mi domandò allora Luisa senza più sorridere.

— Che cosa? Che cosa mi dispiace?

Luisa esitò un istante.

— Credevo, soggiunse abbassando gli occhi, credevo che ti dispiacesse di vedermi allo specchio. Sono così brutta, Paris...

Poi nascose il viso sempre coperto di porpora e mormorò:

— Vorrei essere bella... bella... bella...

Io mi misi a ridere. Luisa, piegatasi sul tavolo, ruppe in singhiozzi. Il mio primo impulso fu di alzarmi per picchiarla. Ma mi girai sopra un fianco e le voltai la schiena.

— Che cosa sono queste scene? gridai. Che cos'è questo piangere? Spetta forse a me di consolarti? Per me sei bella: bellissima. Per me sei anche troppo bella... Finiscila, Luisa! Ci sono mali peggiori... Se si deve piangere, piangiamo per qualche altra ragione.

Luisa cessò di piangere. Forse continuò a piangere, ma pianse in silenzio.

— Guarda, adesso, che storie! pensavo. Lo racconta a me, che non è bella. Le ho mai chiesto di essere bella, io? L'ho forse mai rimproverata di non essere bella abbastanza?

— Come siete curiose voi donne! dissi forte. Non avete il più piccolo senso dell'opportunità.

Dopo un poco Luisa si alzò, si avvolse la sciarpa di lana due volte intorno al collo e si incamminò verso l'uscio. Con la mano posata sulla maniglia, rimase un momento a guardarmi.

— Mi devi credere ben sciocca, tu, Paris, mormorò.

Non mi mossi. Allora ella si avvicinò a me e mi disse umilmente:

— Paris... Mi perdoni?

— Sì, sì, risposi, ti perdono. Di che? Ti perdono, ti perdono...

— Non così, ti prego, Paris... Lo so: sono tanto sciocca... Ma tu devi compatirmi.

— Sì, cara, sì, sì, risposi questa volta con voce dolce, da ipocrita. Non ci pensare più... Ti ho già perdonato.

Luisa uscì ed io rimasi a ridere di me stesso. — Ma se non le chiedo nulla! pensavo. Che cosa vuole ancora da me? Se lei non è bella, che cosa sono io, al suo confronto? Non sarò certo il suo tipo. Ogni donna, infatti, ha un tipo suo d'uomo. E quantunque il più delle volte le donne finiscano per amare proprio un uomo che non è il loro tipo, io veramente non potevo essere il tipo di nessuna, nemmeno quello di Luisa. Ciò che m'irritava contro di lei era appunto quel suo continuo mascherare la gratitudine, che certamente nutriva per me, che la rendeva così docile, così sottomessa, così affettuosa, così premurosa in ogni suo atto e pensiero, era proprio questo volerla mascherare da amore, mentre amore non poteva essere, che mi irritava contro di lei. E anche la sua gratitudine in fondo mi irritava. Avrei voluto diventare ricco d'un colpo, o soltanto ricuperare la mia agiatezza d'un tempo, per far sì ch'ella non si sentisse più in obbligo di lavorare per me, di alleggerirmi del peso dell'esistenza sua e di sua madre, adattandosi alle fatiche più umili e mortificanti per pagarmi il suo debito di riconoscenza. Ma, infine, perchè dunque mi affaticavo tanto per una cosa di così poco conto? A me bastava di vedere chiaramente quale fosse la mia vera situazione di fronte a Luisa, senza lasciarmi ingannare dalle apparenze. Sopratutto mi bastava di vivere andando alla deriva, sottoponendo il mio corpo a tutte le pene necessarie, costringendo i miei occhi a consumarsi sulle bozze nella falsa luce della tipografia, il mio stomaco a sopportare l'appetito come una regola di perfetta igiene, i miei poveri piedi a guazzare nell'umidità del fango che mi riempiva le scarpe tutte buchi e strappi, a subire le punture gelide della tramontana invernale le carni mal difese da quella ragnatela di vestito; ma lasciando inerte e addormentato il mio pensiero, il cervello arrugginito, l'anima lontana, ignara, assente. Così, soltanto così, mi sentivo ancora la forza di vivere.

Luisa rientrò poco dopo con un mazzolino di viole mammole, che si affrettò a mettere in un bicchiere. Il bicchiere lo posò poi in mezzo al tavolo, e mi guardò come perchè le dicessi:

— Oh! un po' di fiori... Brava piccola! Hai fatto bene a comprare questo mazzolino di viole.

Ma non dissi nulla e pensai:

— Tutte trovano chi regala un mazzolino di fiori. Povera piccola! Anche tu hai diritto alle tue illusioni...

— Non ti piacciono? mi domandò Luisa, vedendo che continuavo a tacere.

Prese di nuovo in mano quelle poche viole e le odorò, e avvicinatasi a me disse:

— Senti che profumo di primavera...

Me le porgeva perchè le odorassi. Vi accostai appena il naso. Dissi semplicemente:

— Buono...

Allora Luisa disse:

— Le ho comperate per te. Credevo che ti piacessero i fiori. Ce ne erano tante. Costano appena tre soldi...

— Tre soldi, tre soldi, brontolai io. Ci vuol poco, giusto, a sudarli, tre soldi!

Luisa disillusa abbassò la fronte.

— E anche per lei, soggiunse poi, a voce bassa, indicando sua madre. È la sola cosa che la faccia ancora sorridere.

Si voltò e si avvicinò alla poltrona dove era seduta sua madre, nel vano della finestra.

— Mammuzza, le disse, senti come sono profumate...

E le accostò il mazzolino alla bocca.

La vecchia perdeva un filo di bava dall'angolo delle labbra e tentennava la testa facendo no no no, sempre no, e tutte le cose no, a tutte le parole no, sempre sempre quel no no no che non potevo sopportare senza un senso di irritazione profonda, quasi non fosse il moto involontario di un'idiota, ma una sua negazione cosciente e beffarda di tutto ciò che vedeva e udiva e le passava dinnanzi. Ma quando ebbe le viole mammole sotto il naso, il suo viso di mummia io lo vidi subitamente illuminarsi di un sorriso macabro, come quello di un teschio in un grottesco di Goya; e la sua testa cessò di oscillare. Allora notai, che così, disteso da quel sorriso, il viso della madre somigliava al viso della figlia come ogni caricatura somiglia all'originale. Era proprio Luisa, ottantenne ed idiota, che sorrideva in quel viso odioso! Ella sarebbe stata così un giorno... Così: ed io avrei dovuto farle odorare dei fiori per provare se qualche cosa della sua anima vivesse ancora... Anche costei era stata giovane come Luisa ed era stata amata. Anche lei era uscita le domeniche vestita a festa, e aveva ricevuto in dono un mazzolino di viole mammole da qualche spasimante accorato... Anche lei aveva preteso di allietare con il suo amore la vita di un uomo, e forse di due o tre uomini nello stesso tempo; ed essi l'avevano considerata come un ornamento della loro vita, come un bene desiderabile e degno di essere conquistato, goduto e difeso. Si sarebbero uccisi per lei... L'avrebbero uccisa... Forse avevano sofferto e pianto, s'erano disperati per lei... Questo era l'amore che avrei dovuto chiedere a Luisa, che ella sembrava volesse offrirmi con quelle prime viole d'inverno...

Allora mi rivoltai e le dissi:

— Luisa, siamo marito e moglie: dovremo vivere forse lungamente insieme. Ebbene: sappi che non amo nessuna di queste cose che quasi tutti gli altri amano. I fiori, i dolci, i sorrisi, le tenerezze, non mi piacciono. Queste cose mi commovevano un tempo. Ora non le sento più, Luisa... Non le posso più sopportare... La vita ha distrutto in me tutto ciò che sapeva di poesia: tutto. E ricordati che se ti ho sposato, ti ho sposato per me, per me solo, perchè mi faceva piacere sposarti e per nessuna altra ragione...

Così le parlai dolce e cattivo. Luisa non fiatò, ma da quel giorno fu un'altra donna con me.

VII.

Era questo il nostro stato d'animo quando Isacco venne ad occupare lo sgabuzzino che io occupavo prima di sposare Luisa: quella cameretta dove ora dorme tranquillo. La nostra vita era come l'ho descritta: una vita grigia, senza gioia, senza pace. Isacco è di natura ciarliero come un merlo. Egli si mise subito a chiacchierare con noi attraverso questo paravento di parete che divide la mia dalla sua stanza. Era accaduto qualche cosa di insolito in città, e, tardi, verso mezzanotte, fummo destati da uno scoppio cupo e lungo come un tuono. Luisa, spaventata, non potè fare a meno di gridare: — Paris, che sarà, che sarà? E Isacco si credette in obbligo di rassicurarla. Doveva essere scoppiato il gazometro. Infatti da dieci giorni gli operai delle officine minacciavano di farlo saltare. Senza dubbio la città sarebbe ora rimasta al buio per intere settimane, poichè le officine elettriche, che erano adiacenti al gazometro, dovevano aver subito gravi danni a causa dell'esplosione. In molti punti della città, in previsione di quella catastrofe, fino dalla sera innanzi i soldati del genio avevano piazzato dei riflettori. E Isacco descrisse a vivi colori l'aspetto delle vie e delle case illuminate da quei fasci di luce bianchissima. — Sembrava tutto un altro mondo, disse. Ogni cosa ha un aspetto diverso da quello che noi vediamo abitualmente... Vatti a fidare ora della realtà!... E se anche quella che chiamiamo realtà non fosse altro che un'opinione? Vi stupirebbe?

— Poco importa!.. dissi io. E per conchiudere, soggiunsi: — Buona notte...

— Buona notte, signora, rispose Isacco, e tacque.

Dopo un momento di silenzio, durante il quale, indifferente all'annuncio di quei cataclismi sociali, io mi stavo riaddormentando, la vocina di Isacco ricominciò:

— Non vi sembra di udire come un crepitìo di fucilate?

Riaprii gli occhi e stetti un momento in ascolto.

— Non mi sembra, risposi. E ripetei: — Buona notte...

— Buona notte, disse Isacco.

Passarono ancora pochi minuti, durante i quali mi rannicchiai tutto nel mio angolo di letto, con le coperte sul capo. Poi la voce di Isacco domandò:

— Domani mattina si potrà attraversare il ponte? O saremo tagliati fuori dai quartieri del centro?

— Speriamo di no, dissi. E ancora una volta ripetei: — Buona notte...

— Buona notte, disse Isacco.

M'ero quasi riaddormentato, quando la voce di Isacco più sveglia che mai esclamò:

— Questi sono fucili!...

Ma io, fingendo di russare, non gli risposi più nulla.

La mattina dopo veramente tutti i ponti erano sbarrati da cordoni di soldati. Il nostro quartiere era isolato dal centro della città. Tentai invano di passare, spiegando a un sergente come la tipografia nella quale lavoravo fosse proprio subito al di là del ponte. La consegna era rigorosa. Ritornai perciò lentamente verso casa mia, percorrendo un tratto del viale lungo il fiume. Incominciò a nevicare attraverso i rami nudi degli alberi. Il fiume era gonfio. Sempre così silenzioso, si levava allora dalla corrente tutta mulinelli e spume un cupo e lungo boato. Le due rive erano semideserte. Soltanto alle due estremità di ogni ponte c'era radunata una folla che si guardava silenziosa, con buffa curiosità, come se da una parte e dall'altra non fossero stati gli stessi che fino alla sera prima si erano trovati a camminare insieme su quei ponti che allora li dividevano. Già stavo per affrettare il passo sotto la neve che cadeva sempre più fitta, quando qualcuno mi si mise al fianco e mi salutò. Era uno che non avevo mai veduto. Ma subito si fece conoscere.

— Sono il vostro nuovo vicino, mi dichiarò sorridendo. Ve lo dicevo, iersera, che i ponti sarebbero stati sbarrati?

Lo guardai. Era un piccolo uomo più basso di statura molto di me: mi arrivava appena alla spalla. Andava un po' curvo, a passi brevi e ineguali, stretto in un mantellino color cioccolato, con il cappuccio tirato sopra una berretta di panno verde, tonda come una papalina. Doveva avere poco meno di trent'anni. La sua faccia era olivastra pallida, con una rada barba corta e increspata e tutti i tratti propri della sua razza: gli occhi grandi e neri, le labbra leggermente tumide. Sentii che da quel momento avrei dovuto subirlo come una mosca. Infatti, con quelle parole mi si accompagnò, salì con me le scale, entrò con me nella nostra camera. E poi che si fu sgrullata la neve dal mantellino ed ebbe abbassato il cappuccio, si tolse il berretto, e, rivolto a Luisa, le domandò con il tono più naturale del mondo, come se l'avesse conosciuta da vent'anni:

— Che ne dice lei, signora Luisa?

Così Isacco si introdusse nella nostra intimità: senza cerimonie, divenne uno di casa. Isacco era commesso in una botteghina di libri usati situata all'angolo dell'Università, molto frequentata dagli studenti poveri. Si credeva, e ancora si crede, un sapiente. Sa a memoria i titoli di centinaia di libri. Conosce la storia dei loro autori, l'anno in cui furono stampati. Ben presto manifestò per me una simpatia esagerata, un attaccamento quasi morboso. Ogni sera veniva ad aspettarmi quando uscivo dalla tipografia e mi riaccompagnava a casa. Se mi vedeva con un viso più buio del solito:

— Capisco, mi diceva, che questa sera non vi va di parlare...

E, facendo uno sforzo che doveva costargli molta fatica, camminava al mio fianco in silenzio, misurando il suo passo sul mio, le mani affondate in tasca, il capo insaccato tra le spalle. Me se per poco avevo il viso sereno, allora incominciava a raccontarmi mille storie diverse e non si stancava di domandarmi che cosa io ne pensassi. Io non pensavo mai nulla di nulla, ma Isacco non si arrendeva facilmente alla mia indifferenza. Spesso non ritornavo subito a casa, ma mi perdevo in lunghi giri per le vie più deserte della città. Senza mostrare nè impazienza nè stanchezza, mi seguiva nei miei vagabondaggi, anche sotto la pioggia o nella neve, come se non avesse altro desiderio che di camminare senza uno scopo in quelle fredde sere d'inverno. Giunti all'angolo della nostra casa, Isacco si separava da me per andare a mangiare in una bettola poco lontana, mentre io salivo quassù dove m'aspettava la mia magra cena. Ma prima di allontanarsi mi diceva:

— Fra poco vi rivedo... Voglio augurare la buona notte alla signora Luisa...

Così bussava discreto alla porta, metteva fra i battenti la sua faccia pallida tutta annerita dai peli e dagli occhi, e domandava dolce:

— Si può?

Io levavo il capo dalla tavola e lo guardavo senza simpatia. Mi era odioso. Non lo potevo soffrire. Lo giudicavo il più grande importuno che fosse mai nato sulla terra e consideravo la sua compagnia come l'ultima delle mie sventure. Ma Isacco, incoraggiato da un mezzo sorriso di Luisa, entrava facendo un profondo inchino alla vecchia che lo guardava dalla poltrona con quei suoi occhi di stupore, e si veniva a sedere fra noi due, accanto al lume.

Io lo trattavo rudemente, quasi con villania, sperando, che, offeso, se ne andasse per non ritornare mai più. Ma Isacco, la sera, non vedeva che Luisa; non si occupava che di lei. Le ripeteva tutte le storie che aveva già raccontato a me durante la strada, e sempre chiedeva che cosa ne pensasse la signora Luisa. Luisa si credeva in obbligo di rispondere, e ne nascevano conversazioni interminabili. A un certo punto, senza parlare, io mi alzavo in piedi e mi avvicinavo lento lento al letto. Incominciavo in silenzio a sbottonarmi la camicia; mi sfilavo la giacca e l'appendevo al piolo. Allora Isacco diceva:

— Lasciamolo che si corichi... Stasera, signor Paris, avete più sonno del solito...

Rimetteva la sedia al suo posto e Luisa lo accompagnava nel corridoio, e là rimanevano ancora a chiacchierare. Io mi spogliavo tutto e mi stendevo tra le lenzuola. Quando finalmente Isacco le dava la buona notte, Luisa rientrava e io le dicevo:

— Basta, basta, per carità! Non la finirete più di parlare... Costui s'attacca come la rogna...

— Piano piano, supplicava Luisa. Lo sai che si sente tutto, di là...

— E che importa a me, se si sente? replicavo. Dico che basta. È peggio della rogna.

Passarono così alcune settimane. A un certo punto Isacco inventò di avere uno zio ricco, che possedeva anche un giardino, e mi capitò davanti una sera con un mazzo di rose.

— Che m'avete detto ieri, passando dinnanzi al fioraio? mi domandò.

— Che cosa?

— Oh! oh! esclamò Isacco ridendo. Non avete detto: «Che belle rose? Un tempo erano la mia delizia, le rose. Chi si ricorda più di quel tempo?»

Era vero. Avevo veduto delle rose carnicine, d'un colore chiaro e vivo come la gota di un bimbo, nella vetrina d'un fioraio, e m'ero lasciato sfuggire quelle parole. Dissi:

— Ebbene?

Isacco mi porse il mazzo.

— Ho pensato a voi, rispose. Le ho colte nel giardino di mio zio.

Presi quelle rose, che erano delicate e profumate, fresche ancora di goccioline d'argento, e vi affondai il viso per odorarle.

— Che soavità, dissi. E le porsi a Luisa.

Luisa le mise in una brocca, posò la brocca in mezzo alla tavola, e mi guardò sorridendo.

— Ah! esclamai senza pensare alle conseguenze che le parole che stavo per pronunciare potevano avere per me, queste sono le vere gioie del ricco! La vita è grama per tutti: per tutti ha un fondo di dolore... Ma alla superficie almeno si hanno delle piccole gioie che versano una goccia di oblio sui più tristi pensieri. Un fiore... Queste rose... E tutto si dimentica per un istante.

— Sì, continuai dopo una pausa, tu per esempio hai freddo: ecco un dolore fisico atroce, una sofferenza che dà la disperazione. Il povero la conosce. Il ricco accende una bella stufa o si avvolge nella sua pelliccia e dimentica che c'è un inverno tetro, la neve, il vento, una desolata stagione...

Isacco che mi udiva per la prima volta parlare, mi guardava meravigliato e non faceva che assentire col capo.

— E tutto forse finisce qui? domandai. Ora, dissi, io ho mangiato, tutti abbiamo mangiato. Possiamo dire di aver fame? Sete? No, certo: non abbiamo nè fame nè sete. Eppure se ci fosse qui, in mezzo alla tavola, una pasta sfoglia, un pasticciotto di crema, e un po' di rosolio, o un bicchiere di vino dolce, non ci sentiremmo forse men tristi? Meno stanchi della nostra giornata? Meno desiderosi di coricarci e di dormire, per non pensare più all'oggi e al domani, alla nostra povera vita di sempre?

— Così è, caro Isacco! soggiunsi battendogli una mano sulla spalla. Io lo so per esperienza. Ma ciò che si è voluto perdere, è inutile che si rimpianga. Allora si finge di credere di non amare più nessuna delle piccole cose che ci davano gioia e piacere un tempo. Addirittura si rinnegano, si disprezzano. Che cosa sono, in fondo, dei fiori? Sono degli stupidi balocchi della natura, una delle tante cose superflue che essa crea, a scapito di tante altre cose necessarie, di cui invece è avara. E a che servono? Quando li hai ben bene tenuti in fresco due giorni, appassiscono e muoiono, e bisogna buttarli via. E i dolci? Siamo forse dei bambini golosi? Vogliamo credere davvero che uno zuccherino ci farebbe contenti? Dobbiamo dichiararci schiavi di una debolezza infantile? Via! Via! Il male è, caro Isacco, che così, a poco a poco, l'uomo discende al bruto. Si riduce, Isacco, alla nostra feroce miseria, alla nostra universale negazione del bene. Con le cose frivole si distruggono anche le cose sublimi, e la nostra vita si riduce arida come un deserto...

Isacco soggiunse:

— È vero, è vero...

Io dissi:

— Ma questa, Isacco, è la nostra vita, ormai...

VIII.

Quando quelle prime rose furono sfiorite, Isacco ritornò a mietere nel giardino dello zio ricco, e mi portò degli anemoni. Poi scese nella cantina di quello zio misterioso e fantastico, e ne rubò uno, due, tre fiaschi di buon vino chiaretto che venne a bere con noi dopo cena. Come se non bastasse, alcuni giorni dopo Isacco si fece amico del cuoco di suo zio. Allora, ogni domenica, ci portò dei pasticcini di pasta sfoglia, o delle frittelle dolci inzuccherate che, di nascosto, quello impastava e friggeva per lui. Ogni qual volta lo vedeva comparire sull'uscio con uno di quegli involti ghiottissimi, il viso di Luisa s'irradiava di gioia. Lo notai la seconda volta, e poi sempre in seguito; ne ebbi piacere per lei. Anch'io bevevo di quel vino, mangiavo di quei dolciumi. Per molto tempo, in principio, mi abbandonai senza sospetti alla modesta gioia che quei fiori, quel vino, quei bocconi prelibati mettevano in alcuni momenti delle mie grige giornate. Senza confessare ad alcuno il piacere che mi veniva da quelle piccole cose, ne godevo segretamente come un bambino. La miseria, le sofferenze, è verissimo che avviliscono l'uomo, e lo rendono debole e incapace di dominarsi. Io ne avevo ancora una prova. Come apportatore di fiori, di fiaschi, di dolci, Isacco non mi pareva più così spregevole e fastidioso come prima, quando si presentava a mani vuote, e solo carico di parole. La sua compagnia incominciava a piacermi. Giunsi persino a pensare che fosse una vera fortuna per noi d'avere un vicino come lui, con uno zio così ricco, con quel bel giardino, quella cantina, quel cuoco tanto sapiente e servizievole. Quando, seduti intorno alla tavola la sera, si sorseggiava quel vinello chiaro, spillandolo giù dal fiasco che gorgogliava contento, in verità mi sembrava che il gelo, che m'ero portato nell'ossa su dalla strada tutta neve e vento, a poco a poco s'intiepidisse, quasi mi si sciogliesse dentro in un liquido vaporoso e caldo che lentamente, sottilmente, s'insinuava poi in ogni vena. Allora la giornata passata sotto il lume, nell'odore nauseabondo della tipografia, mi si presentava al ricordo meno penosa e squallida. La mattina, poi, quando svegliandomi aprivo gli occhi, la prima cosa che vedevo non era più quel sorriso malinconico malinconico nel visuccio di Luisa, ma erano quei fiori con le loro piccole teste variopinte reclinate sull'orlo della brocca, che dal centro della tavola su cui erano posati colorivano di rosa, di viola, di azzurro, di giallo il grigio sporco di queste pareti, la sudicia monotonia di queste quattro carcasse di mobili.

Proprio in quei giorni, certo in conseguenza di quei fiori, di quelle piccole consolazioni che Isacco aveva portato nello squallore della mia vita, pensai per la prima volta, senza ironia, a mia moglie Luisa. La guardavo mentre cuciva cuciva, e non provavo più nessuna irritazione vedendola penare così, mattina e sera, sul bianco accecante delle sue camicie, ma piuttosto incominciavo veramente ad avere soltanto pietà di lei, che così delicata, doveva logorarsi la salute in quel lavoro ancora meno retribuito del mio. Mi pareva anzi che da qualche tempo ella avesse raddoppiata la sua fatica, poichè non si coricava più nemmeno con me, ma rimaneva alzata molto tempo dopo. E se, per non far rumore, non lavorava alla macchina in quelle ore, zitta zitta imbastiva, o tagliava, o cuciva asole a punti fitti e piccini, con gli occhi sull'ago.

— Non affaticarti così, le dicevo ogni tanto. Perchè? In fondo che cosa ne ricavi, da tanto lavoro? Poveri siamo, poveri saremmo se lavorassi anche meno. Purtroppo questo non basta a cambiare il nostro stato... Vieni, vieni a dormire, Luisa. Domani sarai ancora in tempo.....

La vecchia, sempre sveglia, brontolava dietro la tenda che nascondeva il suo letto. Ed io, guardando fra le ciglia semichiuse Luisa tutta infreddolita che si spogliava, consideravo mestamente l'avarizia del suo piccolo corpo di eterna vergine, i suoi senini magri e distanti, le anche su cui la pelle pareva tesa come gomma elastica appena appena rosea, il suo ventre piccino e piatto, ombrato da una strisciolina di peluzzi biondi. E quantunque mi sembrasse una cosina malata e fredda a toccarsi, pure non ne avevo più quel senso di repulsione che fino a pochi giorni prima mi costringeva a chiudere gli occhi per non vederla. E quando m'entrava nel letto rabbrividendo, con la sua camiciola non profumata di bucato o di essenza di rose, ma solo odorosa dell'odore della sua carne che è il profumo del povero, e mi si stringeva contro il fianco per riscaldarsi, io non m'irrigidivo più da capo a piedi, come uno di quei cristi primitivi o di quei morti che si vedono scolpiti nei sarcofagi; ma le posavo (è la parola) le posavo un abbraccio inerte attraverso il fianco, e così cercavo di addormentarmi. Ma prima che il sonno fermasse il moto dei miei pensieri come avrebbe fatto una manata di polvere gettata in un orologio, fingendo di dormire per non muovermi, per non parlare più, chiedevo a me stesso:

— Perchè, perchè non c'è un po' di vero amore in lei? Perchè il suo cuore è così silenzioso, così tepido? Forse se lei volesse, se lei sapesse, un po' di oblio, un po' di gioia potrei anche trovarla in un suo bacio, in una sua carezza, in quello che comunemente si chiama, tutti chiamano: amore. Piccola Luisa... Perchè non sai, perchè non senti nulla? Perchè non indovini? Perchè non tenti? Perchè sei così innocente ed insipida? Piccola Luisa, perchè non mi ami?

Sentivo il suo respiro. Un sibilo sottile sottile le usciva dalla gola. Era quello che la faceva sempre tossire durante il giorno? Povera piccola! E avrei voluto posarle un bacio sulla bocca, un lungo bacio, un bacio d'amore. Ah! se fosse stata un'altra donna! Come quei fiori che mi davano tanta gioia e tanto conforto, così anche lei avrebbe potuto consolarmi un poco delle delusioni passate. Passate da tanto tempo.... Quasi dimenticate... Avrei amato lei sola, per sè stessa, non per il rimpianto o il ricordo di quei lontani giorni.... Non avrei amato nessun'altra in lei... Ormai ero un altr'uomo. Quello d'una volta non esisteva più.

Ma ben presto mi riebbi da quella specie di abbandono all'illusione d'una vita che non poteva essere, che non era la mia. Il piacere di quelle piccole cose godute senza altro pensiero che di goderne si mutò subito in amarezza. Perchè Isacco ci regalava quei fiori? Perchè ci elargiva con generosità tanto metodica il vino delle cantine di suo zio, i dolci della sua cucina? E quei doni erano per me o per Luisa? Quando questo dubbio mi assalì la prima volta, stavo mangiando uno spicchio di torta, tutta ricamata di crema, profumata di vainiglia e soffice come la lana. Mi fermai con il boccone in gola, guardai Luisa, guardai Isacco, e posai il pezzo che ancora tenevo in mano sul tavolo. Luisa anche lei aveva uno spicchio di torta delicatamente stretto fra due dita, e la bocca piena. Ma guardava Isacco, e non potendogli sorridere con le labbra, gli sorrideva con gli occhi. Ah! che luce, che vivacità, che ilarità insolite erano negli occhi di Luisa, quella sera! Parevano due carboncini accesi. La luce della lampada vi brillava dentro. E Isacco dove aveva preso, lui, quegli occhi? Grandi e neri, ma di solito sempre appannati e smorti, anche gli occhi di Isacco brillavano d'una luce insolita, vivi, sorridendo a Luisa. Inghiottii quel boccone che mi era rimasto in gola, e per quella sera non toccai più di quel dolce. Isacco se ne andò. E quando Luisa venne a letto, non la sfiorai nemmeno con la punta delle dita. Sentii tutto il gelo che ella portava con sè nella sua carne anemica, cercai di scostarmi da lei voltandomi con la faccia contro il muro. Così, cercando di non sentire il suo respiro sulla mia nuca, il suo odore di fieno nelle narici, incominciai a frugare in tutti gli angoli del mio cervello divenuto terribilmente lucido, e credetti di indovinare, di scoprire la verità. Mi ricordai che ogni mattina, da molto tempo ormai, quando mi alzavo, trovavo Luisa già vestita e pronta ad uscire. E mentre mi vestivo seduto sulla sponda del letto, ecco due tre colpi discreti bussati qui, sulla parete, fra questa stanza e quella di Isacco. Luisa mi si avvicina, mi dice: — Non hai bisogno di nulla? Dunque vado. Prende il suo involto di camicie, ed esce, salutandomi con la mano. Ha un cappellino nuovo, con una penna rossa. L'abito è sempre lo stesso, ma sembra un altro. Quando nel corridoio passa dinnanzi alla porta di Isacco, la porta si apre, Isacco esce: — Buon giorno, signora Luisa, dice. Ed io so che prende il fagotto delle camicie dalle mani di Luisa, e glielo porta per un buon tratto di strada. Tutte le mattine se ne vanno così, insieme. Ed io lo so. Lo so perchè Isacco e Luisa me lo hanno detto, che per lui portare quel fagotto a Luisa è un piacere da nulla, che non gli costa nessuna fatica. Mentre per lei è un piacere immenso non doverlo portare. La strada è ogni mattina la stessa per tutti e due. Tutti e due vanno verso il centro della città. Io poi esco per conto mio, la mia tipografia è subito passato il fiume, mi chiudo, mi seppellisco in quella spelonca buia come un antro, e mi si rivede la sera.

Questa fu la mia grande scoperta di quella notte. La mattina, appena alzato, ebbi la tentazione di prendere il mazzo di fiori dalla brocca posata sul tavolo e di buttarlo dalla finestra. A mezzogiorno Isacco mi si presentò con un paio di scarpe nuove incartate in un giornale. Disse di averle vinte ad una lotteria. E per l'appunto aveva il piede piccino! Infilate ai miei piedi, quelle scarpe calzarono invece come guanti.

IX.

Eccole qua, quelle scarpe: le porto ancora ai piedi. Hanno preso già tanto fango e tant'acqua che non sembrano più le stesse. Eppure sono quelle, proprio quelle scarpe. Chi avrebbe potuto dire a Luisa, a me, a Isacco, per quale strada m'avrebbero condotto queste scarpe? Lasciamo andare: c'è una fatalità in tutte le cose, anche nelle più infime, nelle più banali. Pur accettando quelle (queste) scarpe che Isacco mi offriva, volli ad ogni costo pagarle. Isacco che me le guardava compiaciuto mentre muovevo qualche passo per la stanza battendo il piede per sentire se spianava comodo, dette alla mia proposta in un'esclamazione di stupore offeso. Disse, mi pare: — Ohibò! e se ne fuggì correndo. Era sopravvenuta Luisa. S'era tolto il cappellino, e anch'essa mi guardava quelle scarpe nuove con un viso soddisfatto e contento.

— Eh! sì, dissi, sono buone. Ma non ti pare, Luisa, che gliele debba pagare? Posso non pagargliele, queste scarpe?

Luisa alzò una spalla e mi fece l'occhietto.

— Non pensarci, disse sottovoce, come per paura che Isacco l'udisse dall'altra stanza. Perchè gliele vuoi pagare? Le avesse comprate... Ma le ha vinte alla lotteria. Eh! Se non ti chiede nulla, che bisogno c'è di pagargliele?

Poi soggiunse:

— È una vera fortuna... Ne avevi proprio bisogno, tu, d'un paio di scarpe nuove.

— Sì, dissi io, ne avevo bisogno. Ne ho bisogno grandissimo. Non le vedi là, quelle vecchie? Si possono più chiamare scarpe? Ma, insomma, qui tutto ormai viene da Isacco... Fiori, vino, dolci, ed ora anche le scarpe! Ti pare possibile?

— No, no, esclamai con convinzione, o gliele pago, o gliele rendo...

Così tenni queste scarpe e cominciai ad usarle. Ma non riuscivo a capire come mai Luisa osasse suggerirmi di non pagarle. Doveva credermi molto stupido... Forse cieco. Ormai non nutrivo più dubbi di sorta. Un intrigo c'era fra lei ed Isacco. Ed io avrei dovuto fare da una parte la figura della vittima, dall'altra quella del beneficato. Mi conoscevano male, tanto l'una che l'altro! Quantunque fingessi di non vedere, di non capire, vedevo e capivo ogni cosa. Vedevo in che modo Isacco guardava Luisa, quando c'ero anch'io, la sera, e non avrebbe dovuto guardarla così. Era uno sguardo tutto tenerezza, che sarebbe stato innocente solo negli occhi di un fratello. Ma Isacco non era fratello di Luisa. Ed Esposito, oh! Esposito, suo fratello, certo non l'aveva mai guardata a quel modo. Quando Isacco se ne andava e Luisa l'accompagnava fino all'uscio, e si fermavano ancora a chiacchierare sulla soglia, poi Isacco, nel salutarla, le prendeva una mano e gliela stringeva, e indugiavano sempre qualche minuto così, con la mano nella mano. Due amiche, due amici avrebbero potuto salutarsi con quelle lunghe strette di mano. Ma una donna e un uomo, che non fossero due fidanzati, due amanti? No, certo: non era un modo naturale di salutarsi. Tuttavia non andavo così lontano, con le mie supposizioni. La gelosia non m'aveva ancora completamente acciecato, come poi mi acciecò. Solo pensavo che Isacco fosse innamorato di lei e che Luisa si lasciasse a poco a poco circuire. Io cercavo sempre di persuadermi che se anche questo intrigo fosse realmente esistito, e nelle sue ultime conseguenze, quelle che nemmeno l'uomo più pio subisce e tollera senza rivolta, a me, a me marito di Luisa, a me solo forse fra tutti i mariti, non avrebbe dovuto nulla importare. Cercavo di rafforzare sempre più in me stesso il convincimento che io non fossi un marito come tutti gli altri, e Luisa una moglie come tutte le altre; ma io una finzione di marito e lei una finzione di moglie. Non mi pareva concepibile la gelosia, là dove non c'era l'amore. Ogni sentimento di gelosia, nel caso nostro, mi sarebbe sembrato mostruoso e ridicolo. Geloso poi di Isacco? Era forse un uomo, Isacco? No, non era un uomo. Non era niente, Isacco. Eppure proprio qualche cosa di mostruoso, di mostruosamente ridicolo, cominciava a nascere in me, al pensiero di Isacco e di Luisa, uniti insieme in un solo pensiero. Era una specie di istintiva repulsione per tutto ciò che s'associava a quel pensiero, e m'impediva ormai di provare la più piccola gioia nel guardare i fiori che ornavano la nostra povera tavola, di bere un bicchiere di quel vino buono, d'inghiottire un boccone di quelle torte, di quei pasticci, che Isacco continuava ad offrirci ogni tanto. Mi versavano il bicchiere colmo, ed io vi intingevo appena appena il labbro. Il bicchiere rimaneva pieno. Mi dicevano: — Perchè non bevi, Paris? Rispondevo: — Questo vino non è come l'altro. Non mi va. Non mi piace. Allora m'alzavo, m'avvicinavo alla poltrona della vecchia, che aveva la sete negli occhi, e, sollevatole il mento, le versavo lentamente il vino del mio bicchiere nella bocca aperta, come dentro un imbuto.

Ben presto riuscii insopportabile a me stesso. Gli altri sembrava che non si accorgessero neppure di me. Non potevo più dubitarne: ero veramente geloso! Ero geloso di Isacco, senza amare Luisa. Il sentimento della gelosia è per sè stesso atroce. Ma quando c'è l'amore, penso che l'amore trasformi in una specie di frenetica voluttà questa dolorosa follia dello spirito. Deve essere come l'incontro di due fuochi che generano fuoco. E nell'ardore che divampa, il bene e il male, dolore e gioia, si confondono come la vita e la morte nel delirio d'un agonizzante. Poichè l'amore distrugge incessantemente ciò che la gelosia ha creato, e la passione incenerisce con un soffio i castelli incrollabili che la ragione crede di costruire sulla realtà. Ma nel caso mio non esistevano che tristezze e dolori. La mia gelosia era un sentimento freddo, isolato, arido, un sentimento cattivo ed immobile, che mi trovava sempre completamente lucido, e sempre sempre solo. In ogni momento ero pronto al suo richiamo, pronto a lasciarmi prendere nel giro dei suoi capziosi sofismi, dai quali nulla veniva a liberarmi mai. Orribile vita! Rimanere lontano da Luisa m'era penoso. Durante il giorno, mille volte ero assalito dalla tentazione di lasciare a metà il mio lavoro, afferrare il cappello e il bastone, correre a casa, sorprendere impensatamente Luisa in un momento qualunque della sua vita. Quella vita che io in fondo ignoravo. Che mi sfuggiva. Che non potevo controllare. Ma quando ero vicino a Luisa, la mia pena, il mio tormento, improvvisamente svanivano, e al loro posto subentrava una specie di deserta e dolorosa stanchezza, come un rilassamento dello spirito che mi piombava in una profonda malinconia. Quand'ero lontano da lei, mi sembrava che Luisa avesse un altro viso, un altro corpo, un'altra figura fisica, e che tutto questo mi appartenesse di diritto, fosse cosa mia che non potevo cedere ad altri pacificamente. Quando le ero vicino tutto mi sembrava insignificante in lei, e indifferente che appartenesse a me o ad altri.

Per uscire da questo stato veramente penoso, ordinai a Luisa di non vedere più Isacco, nelle ore in cui ero fuori di casa. Le proibii di uscire con lui la mattina, di riaccompagnarlo la sera nel corridoio e di fermarsi a chiacchierare con lui. Dissi anche che quei fiori non volevo più vederli nella brocca sul tavolo; che da allora in poi, per evitare le visite di Isacco, di bere, di mangiare con lui, ci saremmo coricati subito dopo cena. Luisa accolse senza una parola, senza una domanda, queste mie imposizioni. Ma vidi che ne fu profondamente toccata. Il suo silenzio mi confermò nei miei sospetti. Per non incontrarmi con Isacco, alla fine del mio lavoro, presi l'abitudine di uscire da una porticina secondaria della tipografia, che s'apriva sopra un cortile. Isacco m'aspettò più di un'ora per alcune sere di seguito dinnanzi all'ingresso principale. Poi tralasciò di venire. La nostra vita era così ritornata quella di prima: prima che Isacco fosse venuto a turbarla. Chiesi un anticipo ai miei padroni: feci un debito. Gli lasciai in una busta, dal portinaio, il prezzo delle mie scarpe. Così avrei voluto far alzare qui, al posto di questa parete, un muro maestro, che mi impedisse persino di sentire ciò che faceva Isacco, rincasando la notte, o alzandosi la mattina, nella sua stanza. Mi misi a cercare nel quartiere opposto della città un'altra casa, dove abitare. Non trovai nulla. Quasi non rivolgevo più la parola a Luisa, nelle lunghe ore che ormai passavamo soli insieme. Luisa cuciva, cuciva. Dopo qualche tempo credetti di essermi liberato per sempre dell'incubo della gelosia, e infatti incominciai a poco a poco a rasserenarmi.

X.

Tutti ricordano come è stata rigida la fine dell'inverno. Alla metà d'aprile c'era ancora la neve alta per le strade. La mattina tutto gelava. Pareva che il tempo ci portasse verso una più cruda stagione, anzichè verso la sospirata primavera. Una notte ero così pieno di freddo in tutto il corpo che non riuscivo ad addormentarmi. Luisa, Luisa, invece, respirava tranquilla nel sonno, con quel sibilo nella gola, e pareva che il gelo del letto lo avesse lasciato tutto a me. Improvvisamente accadde qualche cosa d'insolito nella stanza di Isacco. Udii il passo zoppo di Savina, la nostra vecchia padrona di casa, avvicinarsi nel corridoio, e un altro passo meno pesante che s'alternava col suo. Una voce d'uomo disse: — Ah! è qui... Ed essi aprirono la porta di Isacco ed entrarono nella sua stanza. Allora mi ricordai che veramente, quella sera, non aveva udito Isacco rincasare come il solito, all'ora sua, poco dopo le nove. Comunemente arrivava alla svelta, cantarellando (quel canto mi stizziva: lo consideravo una provocazione, un insulto, sia che cantasse per Luisa, sia che cantasse per me), con un rumore secco ficcava la chiave nella serratura e l'apriva, e prima di richiuderla accendeva il lume. Poi, con un colpo, sbatacchiava l'uscio e dava il paletto di dentro. Subito incominciava a gargarizzarsi. Tossiva, sputava, versava l'acqua nel catino, si lavava le mani. Quindi si sedeva sulla sedia o sul letto, e in fretta si spogliava, gettando scarpe ed abiti uno qua ed uno là, con fracasso. Quando s'era coricato, prima che si addormentasse, il suo letto non faceva che stridere e cigolare. Ma quella sera niente di tutto questo era accaduto; come se Isacco non fosse esistito mai. Ora, quando quei due furono entrati nella stanza, il letto d'Isacco stridette e cigolò. La voce di Savina disse: — Non vuol bere, non vuol mangiare. Non si lamenta. Non si muove mai. E quando si parla, non risponde. La voce dell'uomo soggiunse: — È molto grave... Poi il letto cigolò e stridette di nuovo, e infine la voce dell'uomo disse: — Non c'è niente da fare... Vedremo domani. Riaprirono la porta ed uscirono. Li udii scendere, parlando, le scale. Tutto ritornò in silenzio.

Isacco doveva essere ammalato. Il medico aveva detto: — Grave. Isacco era dunque gravemente ammalato. Ora mi spiegavo come mai non lo avessi udito rincasare come ogni sera. Quella mattina certo non s'era neppure alzato e tutto il giorno era rimasto coricato lassù. Forse, senza che io ne sapessi nulla, la sua malattia durava già da tempo. Forse da due, da tre giorni. E che malattia era quella? Savina avrebbe potuto informarmi. Avrei potuto chiedere a lei. Domani mattina, uscendo, le chiederò di che male sia malato Isacco. Non che mi stia molto a cuore saperlo. Ma così, per una semplice curiosità. Mi sta tanto poco a cuore la malattia di Isacco, che proprio non ne provo alcuna pietà. Anzi... Debbo esser sincero? Pensare ch'egli sia malato mi fa quasi piacere. Forse dire: piacere, non è dire cosa esattissima. No: veramente non mi fa proprio piacere, ma penso che, infine, il male che avrebbe voluto fare a me, con quella sua aria di malizioso sventato, in qualche modo ricade sopra il suo capo. Un castigo, qualunque sia, gli sta bene. Imparerà che il dolore è giustamente distribuito in questo mondo, e che ciascuno ne ha la sua parte. Non ho nessun sentimento caritatevole per lui. Non penso nemmeno quanto egli sia solo e abbandonato in quella mezza soffitta, alla mercè di Savina. Non mi si affaccia nemmeno per un attimo l'idea che egli possa aver bisogno di aiuto, durante la notte, così solo com'è. Tutto mi perdo dietro altri sentimenti, altri pensieri. Il male, la solitudine in cui Isacco si trova abbandonato, persino il pensiero della sua morte, non mi toccano affatto. Seguo ora una fantasia che mi conduce molto lontano di qui, in anni tanto tanto lontani, quand'ero bambino, e mi ammalai di tifo. Mi ricordo che mia madre mi vegliava le intere notti con una cuffietta bianca e rossa in capo, con un nastrino rosso annodato sotto il mento. Questo ricordo, sì, e specialmente il ricordo di quella cuffiettina rossa e bianca, mi tocca e mi commuove. Quando si è ammalati tutto è molto confuso. Ma quasi sempre, in tanta confusione di impressioni e di idee, un particolare insignificante, un particolare da nulla, sempre emerge, con una chiarezza meravigliosa, e si ficca nella memoria per non uscirne mai più.

Mentre così sognavo ad occhi aperti, sentii Luisa muoversi leggermente al mio fianco. Credevo che dormisse. Ma ella non si muoveva come ci si muove nel sonno. Pareva che cercasse di allontanarsi da me a poco a poco, preoccupandosi di non fare movimenti bruschi, ai quali il letto avrebbe scricchiolato. Strisciava fra le lenzuola, ed io sentivo benissimo, rimanendo immobile come se fossi addormentato profondamente; che Luisa aveva già piegato le gambe sulla sponda e che fra poco sarebbe uscita tutta dal letto. Un minuto dopo era in piedi. E nella penombra della stanza vedevo, attraverso le ciglia socchiuse, l'ombra bianca della sua camicia, diritta, che lentamente si muoveva. Il viso lo teneva sempre rivolto verso di me (la vedevo contro la finestra grigia illuminata) come se, mentre cercava qualche cosa annaspando con le mani nel buio, sorvegliasse il mio sonno per timore d'essere sorpresa in quell'atto. Così s'avvicinò alla sedia su cui erano posati i suoi abiti, e s'infilò una sottana e un giubbettino di lana. Poi si curvò, e credetti di sentire che raccoglieva le sue scarpe. Io non mi muovevo, ma, dentro, il cuore incominciava a martellare dandomi una pena enorme. Che cosa faceva Luisa? Quando ebbe le scarpe in mano, si curvò sul letto per meglio assicurarsi che io sempre dormivo tranquillo. Nulla m'aveva destato. Poteva andare sicura. Allora, camminando sulla punta dei piedi, scalza, si accostò all'uscio e posò una mano sulla gruccia. Qui incominciava il difficile. Quella porta aveva i gangheri arrugginiti. Sempre, quando si apriva o si chiudeva, dava in un miagolio che terminava con un rantolo quand'era tutta spalancata. In silenzio non concedeva che un'apertura d'un palmo, tanto da passarci un cane o un gatto. Luisa rimase qualche minuto immobile, preoccupata del rumore che quella porta avrebbe fatto nell'aprirsi. Poi si decise, girò la maniglia e trasse a sè adagio adagio l'imposta. Che fortuna esser magri, piccini, in talune circostanze della vita! Certo Luisa allora benedisse d'esser così sottile, perchè dove ci sarebbe appena passato un cane o un gatto, anche lei ci passò. Senza chiudere, riaccostò l'uscio. Dopo, per quanto non udissi nulla, capii che, appoggiandosi col fianco alla parete, si infilò le scarpe. Il suo passo lungo il corridoio lo percepii appena. Al rumore che fece la chiave della porta di Isacco girando nella serratura fu leggiero come il rosichìo del topo. La porta s'aprì con un soffio, con un soffio si richiuse, e Luisa fu nella stanza di Isacco.

M'ero sollevato sul gomito. Non ne potevo più di quell'immobilità in cui ero rimasto fino allora. Non tossivo mai, ma proprio in quel momento un prurito tormentoso mi salì alla gola, e mi mise addosso una specie di frenesia, un bisogno invincibile di tossire. Doveva essere una conseguenza della soffocazione che mi dava il cuore in tumulto, con il suo battere precipitato e ineguale. Credevo di scoppiare. Stando così, vedevo come se questa maledetta parete tanto sottile fosse divenuta anche trasparente, di vetro, vedevo Luisa curva sul letto di Isacco, con il viso vicino vicino al suo. Aveva strofinato uno zolfanello, una candela s'era accesa. Al lume di quella candela Luisa contemplava Isacco che sembrava addormentato. Il suo viso non era più grigio pallido come sempre. Era rosso, infiammato dalla febbre. Ed ella non si contentava di guardarlo, ma lo accarezzava dolcemente con una mano, sulla fronte, sulle gote, sul collo. Poi si curvava ancora di più, e posava la sua gota sulla sua bocca, come per sentire se le sue labbra bruciassero. Bruciavano. Oh! certo: bruciavano le labbra di Isacco, arse dalla febbre. Ma Luisa non staccava la gota da quella bocca, non prendeva un bicchiere d'acqua e v'immergeva un dito per inumidirgliela, ma, voltando appena il capo, posava la sua bocca sulla bocca di Isacco. Teneva gli occhi chiusi, e dai suoi occhi gocciolavano due lacrime. — Amore, povero amore, bisbigliava, sono qui, sono venuta... Sentimi, guardami... Non sei più solo. Luisa tua è con te... Non me ne vado più... No, amore, mai più, mai più.

Nelle orecchie avevo un ronzio confuso, come il rumore di un risucchio lontano. Come non vedevo nulla, così pure non udivo nulla. Ma mi sembrava di udire. Luisa non si muoveva, non dava un sospiro, una voce. Ma mi sembrava che bisbigliasse non so quali parole oltre quelle che ho scritte. Luisa? Luisa? E anch'io, cauto come un ladro, leggiero come un'ombra, rovesciai le coperte, silenziosamente scesi dal letto, mi avvicinai alla porta, girai lento lento la gruccia, chiusi il battente, detti il paletto. Era fatto. Luisa non sarebbe rientrata più, quella notte, in casa mia. Quando, dopo poco, uscì dalla stanza d'Isacco e, sfilate nuovamente le scarpe, posò una mano contro la porta e sentì che non cedeva alla pressione della sua mano, Luisa non volle credere subito che la porta fosse chiusa. Si ostinò, prima con molta prudenza, poi con orgasmo, a tormentare la maniglia, a graffiare con le unghie il battente. Quindi sentendosi perduta, incominciò a bussare pian piano, poi più forte, finchè disperata si decise a chiamarmi per nome.

— Paris, sei sveglio? Paris, aprimi, Paris, Paris!

Allora mi sentii vendicato dal mio silenzio, mi sentii grande nel silenzio che ebbi la forza, dovrei dire la crudeltà, di opporre ai suoi richiami. Tacevo. Non risposi una sillaba alle preghiere di Luisa. Mi sentivo grande e potente, invincibile, mi sentivo immenso, contro la debolezza, la vergogna, il pianto di quella creatura debole, umiliata, implorante pietà e perdono. Mi sarei mostrato nel centro d'un'apoteosi, con una mitra d'oro in testa, un mantello d'ermellino, ritto sopra una piramide, perchè tutti potessero ammirare la mia potenza, la mia grandezza. La potenza e la grandezza d'un uomo che aveva ridotta in disperazione così, con un semplice giro di chiave, una povera donna, della forza d'un bimbo o d'un uccellino. Io ve lo dico: guardatevi da chi ha troppo sofferto, da quelli ai quali la fortuna ha sempre voltato le spalle, da chi ha subìto affronti e persecuzioni, da chi è stato offeso, insultato, tradito, calpestato, deluso in tutte le sue speranze, deriso, privato d'ogni felicità! Sono i peggiori nemici, i più crudeli, i più pericolosi nemici del bene. Non troverete nè carità, nè tolleranza, nè perdono il giorno in cui cadrete in loro potere. Io ero uno di questi! Io lasciai, senza batter ciglio, che Luisa si disperasse in lacrime contro quell'uscio chiuso. Non ebbi neppure per un attimo l'impulso di aprirle. Non ebbi alcuna pietà di lei. Invece mi rallegrai quando l'udii che s'allontanava singhiozzando, e poi l'udiii, singhiozzando, rientrare nella stanza di Isacco, e abbandonarsi perduta sul suo letto. Era quasi giorno. Incominciava a sbiancarsi l'ombra. Mi vestii in gran fretta, e in punta di piedi m'avvicinai alla porta. Volevo uscire senza essere udito. Ma, fatti due passi, con un brivido di terrore, sentii due mani ossute, dure, che mi si posarono sulle spalle e, voltandomi, vidi contro il mio viso il viso spaventoso dell'idiota. Sua madre, sua madre, mi stava di fronte! Era anche lei uscita dal letto in camicia. Quella camicia era ampia e lunga, e giù per la scollatura si vedeva il suo corpo schifoso di vecchia, la sua orrenda nudità. Il suo capo tremava vertiginosamente, i suoi occhi mi fissavano morti. Non c'era di vivo in lei che quel gesto delle mani ossute lunghe che mi stringevano per le spalle. Allora, freddamente, le afferrai i polsi e a rinculoni la sospinsi verso la sua poltrona e ve la piegai; ve la costrinsi per forza, e la lasciai là seduta, in camicia, a tremare e a gemere. Poi a passi lunghi, senza distogliere gli occhi da lei, attraversai la stanza, aprii l'uscio e lo richiusi d'un colpo dietro di me.

XI.

Luisa rientrò in questa stanza, si gettò piangendo sulle ginocchia di sua madre. Sua madre l'afferrò per i capelli e glieli tirò con furia rabbiosa come una scimmia: le piantò le unghie nella fronte, e gliela fece sanguinare. Luisa pensò che sua madre era in camicia. Con molta pena la vestì. Poi con le mani sugli occhi si avvicinò allo specchio, e osò guardarsi. Vide il suo volto disfatto, la sua fronte che era tuttavia macchiata di rosso come se l'avesse stretta una corona di spine; si sentì distrutta, annientata, non più ben viva, e tuttavia incapace di continuare a vivere così. La vista di quel sangue che le arrossava le tempie le dette un tremito febbrile in tutte le membra, e le suggerì forse un'idea che non le era mai balenata prima d'allora: una cosa alla quale non aveva mai pensato.

Tutta la notte aveva pianto. Era stanca, sfinita. Il cuore le doleva tanto, il respiro le pesava, tutto il corpo lo sentiva spezzato in ogni giuntura, come se l'avessero bastonata. Il letto era là sfatto, come io l'avevo lasciato. Luisa si trascinò accanto al letto e per spogliarsi non ebbe che da lasciar cadere la sottana e il giubbettino, infilati sulla camicia. Si coricò, si abbandonò Luisa sul letto, si coprì con le lenzuola ancora tepide del mio calore. Distese le braccia lungo i fianchi, chiuse gli occhi. Incominciava allora il giorno. Luisa avrebbe voluto che fosse ancora notte profonda, e che nessun pallore di luce le attraversasse le palpebre. In una mano stringeva, Luisa, un coltellino d'argento, un coltellino che le apparteneva, credo, da quando era bambina, e che si vedeva sempre in giro, ora qua ora là, sopra questo o quel mobile, non si sa come, e per che uso, come tante altre piccole cose inutili. Lo aveva ripreso sul cassettone, se lo era portato a letto con sè. Ora lo stringeva in una mano, e sapeva benissimo che era quel suo coltellino d'argento che teneva stretto fra le dita, ma non voleva confessare a sè stessa di sapere che era proprio quel coltellino. No. Non ne sapeva nulla, Luisa, di quella piccola cosa fredda che teneva chiusa nel pugno, nè perchè l'avesse presa sul cassettone, nè perchè l'avesse portata a letto con sè. Luisa non pensava più; era addormentata. Voleva persuadere sè stessa d'essersi addormentata, di non pensare più, di non ricordare, di non sentire più nulla. Come se anche ella fosse divenuta una cosa, una piccola cosa anche lei, posata su quel letto da qualche immenso gigante che l'avesse presa nel palmo della mano, e l'avesse coricata là nel suo letto per farle fare la nanna.

In me il ricordo di quella giornata è terribilmente lucido e angoscioso, come se al solo parlarne la rivivessi intera in ogni suo minuto. Fu una giornata di una brevità assurda. Subito la sera cadde su quelle poche grige ore di luce. M'ero presentato al mattino nella tipografia con una faccia stralunata, da folle. Bastava che uno mi rivolgesse la parola perchè io mi mettessi a ridere. Su ogni bozza di stampa che mi portavano perchè la correggessi, facevo lunghi discorsi: la leggevo ad alta voce, declamando, a rovescio, risalendo dall'ultima parola alla prima. Poi gridavo: — Eccellente! Magnifico! Superlativo! Va tutto bene. Non ci manca nemmeno una virgola! Il proto mi battè amichevolmente sulla spalla e mi disse: — Perchè non vai a prendere una boccata d'aria? — Giusto, risposi: vado subito. Mi calcai il cappello sulle orecchie, e me ne uscii per la strada. Cominciai a girare qua e là. Mi parve molto strano ch'io portassi il soprabito come tutti quanti gli altri uomini che camminavano con me per la via. Stetti più d'un'ora a guardarmi in uno specchio. Poi, battendomi un pugno sulla fronte, mi sfilai il soprabito, e me lo rinfilai alla rovescia. La fodera era a scacchi bianchi e neri, con grosse righe gialle. Le maniche erano nere. Molto soddisfatto dell'aspetto che avevo con quei colori da arlecchino sulla schiena, mi parve che in generale la gente mi desse troppo poca importanza. Allora incominciai a fare grandi inchini a tutti quelli che passavano in carrozza, e toccavo terra con la falda del mio cappello. Ma poco dopo mi stancai, e ripresi a camminare tranquillamente, avviandomi verso il fiume. Molte ore rimasi così, in un tratto semi deserto della sponda, a guardare alcuni barcaioli che scaricavano della legna sulla banchina e un uomo che pescava con la bilancia. Mi pareva di aspettare qualcuno, che dovesse approdare a quella riva con una barca a vapore, e intanto mi domandavo perchè mai in quel punto del fiume non avessero costruito un gran porto. Sarebbe stato facilissimo allargare le due sponde e costruirvi un molo, anzi tutto un sistema di docks, su cui poi avrei pensato io a piantare alcune gigantesche gru. Il problema era semplicissimo. A ognuno che passava domandavo, toccandomi l'ala del cappello: — Scusi, perchè non si costruisce un porto qui? Non le pare che ci starebbe bene? Mi guardavano sorridendo, e scrollando il capo si allontanavano. Nessuno si era posto un problema così semplice, eppure così importante per il commercio della città! Ma incominciò ad imbrunire, scese la nebbia, il pescatore si caricò la rete sulle spalle, e non passò più nessuno per quel tratto di viale. E allora io mi staccai dalla balaustra del muraglione e macchinalmente m'incamminai verso casa mia.

Ero come il cavallo che, quando si sente le briglie abbandonate sul collo, prende la via della stalla. Poichè non pensavo affatto che quella fosse la strada per cui ogni sera passavo uscendo dalla tipografia per ritornarmene a casa. Non potrei giurarlo, ma mi sembra che durante tutte quelle ore, durante tutta quella giornata, il pensiero di Luisa non abbia mai attraversato, neppure per un attimo, la mia mente sconvolta. Quando la casa dove avevo fino allora abitato mi si parò dinnanzi nera, con tutte le sue finestre, le sue botteghe, la sua grande porta quadrata, non mi stupì affatto di trovarmi in quel luogo, nè di vedere Savina, sull'ingresso, fare grandi gesti con le mani levate in alto, e zoppicando corrermi incontro affannata, afferrarmi per il soprabito, gridare:

— Signore, signore... Che cosa è stato! La signora Luisa... Corra dunque! La signora Luisa è morta...

— Morta? Morta? domandai calmo, guardando gravemente Savina.

— Morta le dico! gridò Savina, battendo le mani esterrefatta, come per dire: — Ma capisce lei che cosa vuol dire morta?

Ed io soggiunsi: — Va bene, va bene. E attraversata la strada a passi lenti e solenni, infilai la porta, salii le scale e m'affacciai qui a questa stanza.

Ricordo che questa stanza era insolitamente illuminata. Dappertutto c'erano candele accese. Sul letto non vidi nulla che non fosse bianco, fuorchè gli occhi e i capelli e le mani di Luisa. Il viso di Luisa, le sue labbra, erano d'un biancore di neve. Le sue mani, le sue mani erano rosse! Io non ricordo che il rosso di quelle mani che mi ferì le pupille come un lampo. C'è poi una lacuna, un buio assoluto nella mia memoria, e non so che cosa accadde di me in quel momento. Mi ritrovai inginocchiato accanto al letto dove Luisa giaceva immobile nel suo pallore di morte, con quelle sue mani rosse, pesanti, inerti nelle mie, che urlavo:

— Si è uccisa? Si è uccisa? Perchè si è uccisa?

Intorno a me non vedevo che volti pallidi e muti. Anche Isacco era là, avvolto in un lungo pastrano nero, dal cui bavero non uscivano che i suoi occhi enormemente dilatati dalla febbre.

— Tu! tu! lo supplicavo, perchè si è uccisa? Perchè si è uccisa?

Ma Isacco non mi rispondeva, e continuava a fissare su me quei suoi occhi spiritati. Allora mi rivoltavo verso costei, verso sua madre, verso quest'idiota sorda e muta, e le chiedevo:

— Maledetta fra tutte! Dimmi! Perchè si è uccisa?

Ma la vecchia scuoteva il capo facendo dondolare il filo sottile di bava che le pendeva dal mento, e sorda ai miei richiami, muta alle mie domande, fissava un punto lontano, chissà quanto lontano da me, con le sue morte pupille. Allora, disperato, mi piegavo su Luisa, le prendevo fra le mani, fra le mani tutte macchiate del suo sangue, il viso bianco, freddo e duro, e le domandavo singhiozzando:

— Perchè, perchè ti sei uccisa? Luisa perchè hai voluto morire?

Non ero più ora agitato da nessuna strana follia. Ero nuovamente io, in tutta la mia lucidità e pienezza di comprensione. Ora capivo perfettamente che cosa era accaduto la notte prima di quella, e la mattina, e il giorno, fino al momento in cui ero entrato in quella camera con tutte quelle candele accese, e quell'odore di medicine, e quella gente attonita, impietrita, muta, e Luisa con il suo viso bianco, di cera, e le sue mani rosse, di sangue. Quella era Luisa, morta. Io ero Paris, vivo. Ah! sapevo anche che si era uccisa per me, Luisa, per mia colpa, per me, per me solo! Ma non mi bastava. Volevo sapere, sapere, sapere perchè si fosse uccisa Luisa.

Passarono così ore di spasimo, di pianto, di disperazione convulsa. Non so quando, come, la stanza si vuotò. Non so che ora fosse di quella notte, allorchè, sollevato il viso dalle coltri tutte umide dalle mie lagrime, vidi la camera ridivenuta semibuia, dove solo due o tre candele ancora bruciavano languide e tremole, e in quella luce, seduta laggiù, la paralitica con il suo viso di scimmia, qui Isacco con la sua faccia pallida e trasudata. Su Isacco fermai il mio sguardo a lungo. Non so perchè lo guardassi così. Non so che cosa gli dicessero i miei occhi con quello sguardo. So che dopo un lungo silenzio, scuotendo desolatamente il capo:

— Lo vedi, mormorai, lo vedi Isacco? È morta, Luisa. Perchè? Perchè?

Allora Isacco schiuse le labbra gonfie e livide, e disse con un filo di voce:

— Per te... Per amor tuo...

— Per amor mio? gli domandai.

— Per amore, bisbigliò Isacco. Per quell'amore che tu non hai mai veduto...

— Luisa? gli domandai.

— Ah! esclamò Isacco. Nessuna donna ti amerà mai così, fino a morirne...

— Isacco! Isacco! lo supplicai. Ella è ancora qui che ti ascolta!

— Ne sarà felice, soggiunse Isacco. Tutto eri tu per lei. Quei fiori, quei dolci, quel vino che tu bevevi, quelle scarpe che porti ai piedi, tutto veniva da lei... Lavorava giorno e notte per te... E aveva paura che tu lo sapessi! Per quei fiori... Per quelle piccole cose, Paris...

— Tutto? domandai. Quei fiori? Queste scarpe? Tutto, tutto?

— Tutto, tutto, mormorò Isacco, perchè tu l'amassi un poco... E tu l'hai uccisa!

Isacco chiuse gli occhi. Il suo viso spettrale si rigò di due lunghe lacrime...

XII.

Ora, chi sono io? Che sarà di me? Ora che ho perduto l'amore di Luisa, ora che ho perduto il solo amore della mia vita, che sarà, che sarà di me? Non quello di Daria! Non quello di Silvina! Questo, questo era il mio amore...

Costei mi tiene ancor vivo. Io la guardo e la vedo vivere. Debbo vivere anch'io per lei. Sono qui, in attesa. Ogni ora che passa la conto. Ne ho già contate migliaia. Anch'io come Robinson ho un bastone, su cui incido un segno per ogni ora che passa...

Sono qui, in quest'isola deserta, io solo, e lei, due naufraghi, perduti nel tempo. Il tempo è infinito come il mare. Noi lo attraverseremo un giorno insieme, per navigare verso il nulla da cui approdammo per caso a quest'isola abbandonata.

FINE.

ERRATA CORRIGE

Pag. 7 — linea 23 — del mondo per dal mondo.

» 137 — »   13 — quelli mi guardano per quelli che mi guardano.

» 154 — »     8 — brilava per brillava.

» 159 — »   13 — madanna per madonna.

» 165 — »     2 — abiti di veli leggieri per abiti tanto leggieri.

» 168 — »     4 — «certe» per «certes».

» 173 — »   13 — l'intera linea va soppressa .

» 182 — »     4 — gli aveva per le aveva.

» 207 — »   26 — glielo lo giurò per glielo giurò.

» 210 — »   27 — li ricadevano per le ricadevano.

» 254 — »     7 — cartoncino per cartoccino.

» 285 — »   14 — nascondeterlo per nascondertelo.

» 291 — »   25 — cinciò per minciò.

» 307 — »     4 — Poi vestita per Poi, vestita.

» 309 — »   14 — cappelli per capelli.

» 321 — »     1 — E lo trattavo per Io lo trattavo.

» 326 — »   17 — tavoa per tavola.

» 328 — »   17 — per lei per in lei.