CAPITALE E MANO D'OPERA
LE COMMEDIE DI VALENTINO CARRERA
..... Se voeren sti poetta
Ciappottan i passion, moeven el cœur,
Hann de toccann i tast che ne diletta,
Ciapann, come se dis, dove ne dœur;
Senza andà sui baltresch a tirà a man
I coregh e i scuffion gregh e roman!
Carlo Porta.
VOLUME PRIMO
TORINO TIPOGRAFIA L. ROUX E C. 1887
L'editore e l'autore, osservati tutti gli obblighi, intendono di fruire di tutti i diritti della proprietà sia per la riproduzione e la traduzione, che per la rappresentazione.
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INDICE
NOTIZIAATTO PRIMOATTO SECONDOATTO TERZOATTO QUARTO
CAPITALE E MANO D'OPERA
COMMEDIA IN QUATTRO ATTI.
NOTIZIA
Portare sul palco scenico la lotta così altamente drammatica e moderna fra i capitali dell'ingegno e del danaro e la mano d'opera, e trarne per conseguenza, senza danno dell'arte, non il troppo facile eccitamento all'odio ed alle rappresaglie cieche e selvaggie, ma il convincimento dell'inevitabile ed urgente necessità di armonizzare tutti gli interessi senza ferirne alcuno, non era, or sono sedici anni, cosa tanto agevole quanto possa ora supporre il lettore: la era anzi temeraria.
Tutti i comici hanno sempre avuto una dichiarata avversione per ogni lavoro che inspirandosi alla vita contemporanea, metta in iscena personaggi desunti dall'osservazione del popolo, per quanto questo sia l'unica sorgente sempre viva e feconda dell'originalità; e così l'autore della Quaderna di Nanni, fallitogli il tentativo di fondare con Raffaello Landini, uno dei più potenti comici ed intemerati galantuomini ch'egli abbia conosciuto nell'arte, un teatro popolare toscano, come Giovanni Toselli aveva fatto nel dialetto piemontese ed Angelo Morolin nel veneziano, s'era dovuto contentare, per farla battezzare dinanzi alla severa autorità del pubblico fiorentino, d'una compagnia di second'ordine. Buon per lui che la compagnia, per eccezione, era composta di attori volonterosi ed ordinati, e questo per attori italiani equivale sempre al dire capaci d'ogni più bello ed inatteso miracolo.
Per quest'altra, scritta allora appunto che ogni mente era affannosamente rivolta verso la Francia agonizzante in preda al delirio del vizio e della paura, aveva trovato di primo acchito il migliore di quanti capicomici abbia avuto l'Italia dopo Gustavo Modena: Luigi Bellotti-Bon, uomo di iniziativa se mai ce ne fu, sempre vago di novità ardite, largo dispensatore di benefizi e di incoraggiamenti, e grande raccoglitore, da ogni parte, di ingratitudini. Ma nè la sua autorità, nè l'esempio di due valorosi attori, Luigi Biagi ed Enrico Belli-Blanes, valsero a vincere nè la prima attrice ricusante la sua parte alla prima prova, nè altri che aveva chiaramente dimostrato di voler fare altrettanto quando non vi si fossero opposti i suoi obblighi più espliciti..... Erano tutti da compatire; s'era in piena fioritura di declamazioni sonanti e di cincischiature incipriate, e la stampa, meno pochissime eccezioni, non aveva ancora cercato di persuadere attori e pubblico che le scene popolari o rusticane possono senza sfregio di chicchessia passare, quando le anima l'arte, dai teatri minori ai maggiori: lo Zola aspetterà del resto altri dieci anni a muovere la sua campagna contro quel pasticcio di istrionismi e di luoghi comuni che è il teatro quando non rispecchia schiettamente la vita.
È bensì vero che l'Italia, avendo Goldoni, non dovrebbe aver punto bisogno di altri per richiamare la drammatica all'osservazione del vero, che è quanto dire del nostrale; ma Dio buono, che sarebbe di noi se le nostre Alpi — troppo più alte assai dell'orgoglio nazionale — ci impedissero per ventiquattr'ore di scimmiottare i francesi in ogni cosa? A farla corta, la commedia rappresentata (la sera del 3 aprile 1871) colla mosca al naso dinnanzi al pubblico non ostile, ma non avvezzo e non preparato del Niccolini ad un tuffo così improvviso nella vita reale fra il contrasto acerbo e stridente dei principali e degli artefici, il martellare sulle incudini ed il vociare degli scioperanti, cadde. Dopo la caduta il calcio dell'asino, va da sè; e gli asini, con tanto dilettantume a tempo ed ingegno avanzato, molti.
Ma se il mestiere è tale che del teatro fa troppo spesso la casa di Caino, l'arte, la Dio mercè, è tutt'altra cosa! Si capisce: il mestiere campa di puerilità e di vanità e non può aspirare che al trionfo esclusivo e brutale dell'io; mentre l'arte che vive di sentimenti generosi e di pensieri nobili, che cerca la bellezza nella verità, che anela ad alti ideali nel concetto come nella forma, sdegna di farsi l'eco meschina di ogni ciancia vuota e maligna, ed invece di gongolare, sotto la maschera posticcia della critica improvvisata, dell'insuccesso, inspira quattro compagni in cui il cuore è all'altezza del valore. Paolo Fambri, Luigi Suner, Angelo De Gubernatis e Paolo Giacometti di cercare l'autore, e di dire e fare quanto occorre per persuaderlo a ripresentare il lavoro in altre condizioni di ambiente e di interpretazione. Nè basta: trova anche il capocomico per la ripresa, Alessandro Monti, un capitano che dirige la sua compagnia con quella disciplina senza di cui non c'è salvezza nemmeno in arte e che fa miracoli anche sulla porta dell'inferno. E il miracolo succede a Ferrara, e che fior di miracolo! Il rovescio della medaglia addirittura. La commedia comincia subito il suo giro, e il miracolo, qui sta il buono, a provare che il successo di Ferrara non è stato un ripicco, si ripete a Milano, a Torino, a Genova, a Venezia, a Roma, a Bologna, nei teatri più riputati. A Firenze, qui sta il bello, come e meglio che altrove. A Napoli, dove arriva dopo la bellezza di dieci anni, e qui sta il meglio, la stampa la proclama una buona azione. C'è dell'altro a Napoli: finita la stagione, la vogliono ancora sentire, a scopo di beneficenza, in teatro più vasto che non sia il Sannazaro, e per allestire l'atto dell'officina incaricano non il trovarobe e l'attrezzista del S. Carlo, ma lo stabilimento di Pietrarsa, il quale manderà macchine a vapore vere e quaranta operai verissimi... Eh? quando sono d'accordo tutti a dire di sì! Eppure la commedia è la stessa...
L'autore ha voluto che si ricordassero queste peripezie così diverse per sciogliere il suo debito verso Paolo Fambri, Luigi Suner, Angelo De Gubernatis e Paolo Giacometti, veri fratelli d'arte; verso i capicomici Luigi Bellotti-Bon ed Alessandro Monti ed i migliori interpreti che abbia avuto la sua commedia: Luigi Biagi, Enrico Belli-Blanes, Giovanni Ceresa, Giovanni Emanuel, Francesco Ciotti, Gaspare Lavaggi, Salvatore Rosa, Odoardo Sobrio, Cesira Monti, Amalia Casilini, Celestina Jucchi-Bracci e Pia Marchi-Maggi.
Si deve ricordare anche una sconfitta, egli dice, quando è per trarne argomento di lode ai compagni, e si può rammentare anche una vittoria quando è per darne loro il merito principale.
INTERLOCUTORI
CARLO VALORI.
EGISTO VESPUCCI.
AGNESE, moglie di Carlo, e figlia di
ANNA.
FRANCESCO SAVELLI, capo-fabbrica.
MATILDE, sua moglie.
FAUSTINI, industriale.
BOBI operai di varie provincie.
MARTINO
ORESTE
CENCIO
GENNARO
AMBROGIO
BARTOLO
CARLOTTA, serva in casa Valori.
CESARINO, fanciullino, figlio di Valori.
ROSINA, bambina che non parla, figlia di Savelli.
Operai di Valori e di altre officine.
Il primo atto a Firenze, gli altri a Belmonte.
ATTO PRIMO
Salotto in casa Valori. — Tre porte: una nel mezzo in fondo, che è la comune; un'altra, a destra dello spettatore, che mette nel quartiere di Carlo; e l'ultima infine, a sinistra, che dà nelle stanze di Egisto. — Sulla scena: in fondo, a destra, uno stipo antico, sul quale sta un orologio a pendolo in mezzo a due candelabri di bronzo dorato a viticci; a sinistra, parimenti in fondo, un pianoforte. — A filo di sipario due tavolini; uno a destra che serve per la colezione, ed un altro a sinistra con libri, giornali ed oggetti da ricamo. — Una poltrona accanto al tavolino a destra. — Seggiole in fondo ed accosto al tavolino a sinistra. — Appesi alla parete in fondo i ritratti di Franklin e Ghiberti. — È giorno e di primavera.
SCENA I.
All'alzarsi del sipario suona una mezz'ora all'orologio a pendolo, ed entra dal fondo CARLOTTA con alcuni giornali che va a deporre sul tavolino a sinistra. EGISTO fuori di scena.
Carl. — Già le dieci e mezzo! (si leva in fretta lo scialle, lo butta sopra una seggiola in fondo e si pone a spolverare) Con quel giovine, non c'è che dire, il tempo passa presto! Sarà anche lui come gli altri; ma alla peggio ritorno al paese e mi sposo Ciapetto: tanto di servire sono ormai stucca!... Questa è tutt'altro che gente cattiva; ma bisogna stare tutto il giorno in cucina e non si desina mai all'istess'ora! Se non mi ricattassi sulla spesa, davvero li pianterei. Ne ho fatti sette dei padroni in un anno; ne farei otto: alla fin fine ci sono più padroni che servitori ora. Sarà già svegliato il cavaliere? (forte verso la sinistra) Signor cavaliere, sono le undici, sa?
Egisto (fuori di scena a sinistra). — Davvero? Vengo, vengo subito.
Carl. — Benedetto lui che almeno lascia tutti in pace!
SCENA II.
AGNESE dal fondo. Detta.
Agnese. — Carlotta, dove sei stata finora?
Carl. — Gli è un bel pezzo che sono tornata. Non vede che ho già spolverato?
Agnese. — Dove spolverato? Guarda!...
Carl. — Spolverato, io ho spolverato; se poi suo marito, che è sempre carico di polvere e di carbone...
Agnese. — Almeno non cercar pretesti; tu sei giunta proprio ora.
Carl. — Dunque mi crede capace di dire una bugia?
SCENA III.
ANNA dalla destra. Dette.
Agnese. — Una no, molte, e questo mi dispiace assai.
Anna. — Che cosa c'è ora?
Agnese. — C'è che Carlo ha raccomandato di tener pronta la colezione per le dieci e mezzo, e lei arriva in questo momento.
Anna. — Spicciati dunque. (ad Agnese) Mezz'ora prima, mezz'ora dopo per la colezione non monta... Carlo aspetterà; aspetto io!
Carl. — La sente che non c'è tanta furia?
Agnese. — Carlotta! (ad Anna) Vedi, mamma?...
Anna. — (Ha ragione). (a Carlotta) Ciò non toglie che tu pigli ogni pretesto per star fuori di casa delle ore che non finiscono mai. Che alla domenica tu voglia vedere il damo, poichè ormai il damo ci ha da essere, passi...
Carl. — Ma io non ho punto dami...
Anna. — E chi era quel soldato che ti accompagnava al mercato ieri?
Carl. — Ah! quello... è un cugino.
Anna. — Cugino od altro che sia, non tollero che tu stia fuori di casa più del necessario.
Carl. — Ma io non ci sto più del necessario... (Anzi!...)
Anna. — Vuoi tacere una volta? Prima di te la Mea in mezz'ora andava e tornava.
Carl. (avviandosi). — (Bel merito, aveva settant'anni lei!...)
Agnese. — Va, va a preparare la colezione.
Carl. — (Se non mi ricattassi sulla spesa, otto ne farei, otto!) (via dal fondo)
Agnese. — Anche la Giulietta non torna più con Cesarino...
Anna. — È inutile far discorsi. Le serve oggi o non sanno far nulla, o bisogna lasciarle fare a loro modo. (siede)
Agnese. — Vuoi che ti suoni qualche cosa, mamma?
Anna. — Per carità, lascia stare la musica; stamane ho i nervi in convulsione... Dà piuttosto un'occhiata ai giornali.
Agnese. — Guardiamo se c'è qualche novità (siede e legge) «Dimostrazioni..... Risse..... Burrasca alla Camera..... Tumulti... Bollettino meteorologico: calma nelle coste».
Anna. — Meno male che le coste le abbiamo tranquille.
Agnese. — Non c'è proprio nulla. Gli stessi dispacci di ieri sera. I morti, e dopo i morti subito quelli che prendono moglie. (legge) «Appendice: Ulisse Grant, il presidente degli Stati Uniti e la sua famiglia». (breve pausa) Oh senti che dice Grant di sua moglie. (legge) «Io le debbo gran parte della mia fortuna e tutta la mia felicità, perchè essa mi ha recato in dote, oltre ad un raro buon senso, una di quelle educazioni che rendono la donna quasi indipendente dall'uomo, e fanno sì che la moglie possa fare per la famiglia quanto il marito, senza rinunziare alle prerogative che fanno così cara ed amabile la donna». Da noi una donna siffatta sarebbe quasi impossibile. Da noi nella donna non si pretende nè educazione seria, nè carattere: un po' di bellezza, un po' di dote, un po' di virtù... tanti pochi che non riescono a fare un intiero.
Anna. — Oh! avessero altrettanto i mariti!
Agnese. — E quel che è peggio non ci offendiamo del poco o nulla che si richiede da noi.
Anna. — Quand'anche l'avessimo a male, dove sono da noi gli uomini come Grant? Per poco che si valga noi donne, sempre più di loro!
Agnese. — Perchè non si potrebbe anche noi meritare che un uomo onesto ed attivo, ce ne sono anche da noi, dicesse: mia moglie vale quanto me?
Anna. — Ma guarda che idee ti frullano in capo stamane! Una moglie quando tiene una buona condotta, ed ha cura della casa e dei bambini, ha fatto il suo dovere. E per tua regola quando un marito porta ai sette cieli le donne che si occupano d'affari, sta pur sicura che lo fa per questo solo scopo: risparmiare il segretario e bandire la modista.
SCENA IV.
CARLO dal fondo col cappello in mano. Dette.
Carlo. — Oh! Buon giorno a tutti. Non è ancora pronta la colezione?
Agnese. — Corro a sollecitare...
Anna. — Aspetta: non c'è ancor mio fratello; quando sarà pronta si mangerà.
Carlo. — (Oggi mi vuol pigliare colla fame!) Egisto, sono le undici, sai?
Egisto (fuori di scena a sinistra). — Ma se sono bell'e vestito... Se vengo subito subito!
Anna (ad Agnese sottovoce). — Guarda come s'è ridotto: un orrore!
Agnese. — È tanto occupato!
Anna. — Di' piuttosto che tu non sai fare.
Carlo (verso la sinistra). — È l'alba... dei tafani; ma con un po' di coraggio! — Natura felice cui il tempo buttato non pesa! — Dov'è Cesarino che non lo sento?
Agnese. — È ancora al passeggio con Giulietta.
Carlo. — Non è mica venuto il signor Faustini?
Agnese. — No, finora. Carlotta, quando sia in ordine...
SCENA V.
CARLOTTA dal fondo con una carta. Detti.
Carl. — Subito. La sarta ha recato il conto della signora, (accenna ad Anna, e poi ad Agnese) e domanda a lei se non vuol farsi un abito da estate. Dice che ha ricevuto un bellissimo assortimento di stoffe.
Anna. — Dille che passeremo da lei. (Carlotta esce dal fondo)
Agnese. — Sei contento, Carlo, che mi faccia un abito? (seggono al tavolo a destra)
Carlo. — Se ne hai necessità, contentissimo!
Agnese. — Necessità veramente, no; anzi, se ti disturba fare ora questa spesa, non ne parliamo altro.
Carlo. — Più tardi, se non ti rincresce.
Anna. — (L'ho detto io: bandire la modista).
Agnese. — Allora sai che cosa faccio per i bagni, mamma? Un paio di vestiti di tela, eleganti e costano poco...
Anna. — (Zuccona!)
SCENA VI.
CARLOTTA con un grande vassoio su cui sta preparata la colezione, dal fondo. Quindi EGISTO dalla sinistra in veste da camera. Detti.
Carlo. — Agnese, tu mi metti senza volerlo nella condizione di parerti scortese: non so se quest'estate potremo andare ai bagni; ma temo assai di no.
Agnese. — Per qual motivo, Carlo?
Carlo. — Per quel motivo (fa il gesto di contar danaro) che non si dice.
Anna. — Siccome però io non sto senza andare ai bagni, e sopratutto poi non sto senza mia figlia, essa verrà con me.
Agnese. — Ne parleremo. Sicchè vieni, zio?
Egisto (dalla sinistra). — Ma se sono qui!... Buon giorno. sorella... Un bacio, bella nipote... Me lo permetti sempre un bacio a tua moglie?
Carlo. — Si; ma siediti una volta, e bada che la bistecca si raffredda.
Egisto. — Bistecca? Mi pare anche un po' abbrustolita. Carlotta, si vede che tu ci hai il damo!
Carl. — Se lei avesse appetito!
Egisto. — Da mangiare carne no. Ieri sera ho cenato al Club tardissimo.
Anna. — Avrai fatto un'indigestione.
Egisto. — Perchè ho cenato male. Una buona cena si digerisce sempre bene. Più tardi andrò da Doney a prendere la mia granita al caffè colla panna. Se vorrai tenermi compagnia, Carlo...
Carlo. — No, no; io tiro più al sodo. Vedi, mangio anche la tua... Già sono così piccole...
Carl. — Sono come le dànno.
Carlo. — Le dànno come si pagano.
Carl. — Vorrebbe forse dire?
Carlo. — Dire no, vorrei mangiare, che oggi fino alle sei e mezzo non posso venire a desinare.
Anna. — Per me terrai pronto per le sei come al solito.
Agnese. — Via, si vedrà!... Guarda di venire mezz'ora prima. (Carlotta esce dal fondo)
Egisto. — Tu sei sempre sicuro di avere appetito... Come t'invidio!
Carlo. — Senti. Alle sette io era già alla stazione; alle nove a cercare del Faustini al palazzo Belmonte...
Egisto. — In via Larga.
Carlo. — In via Cavour; alle dieci in dogana a porta al Prato, alle dieci e tre quarti in casa.
Egisto. — Se io mi fossi fatto scarrozzare tre ore sarei morto.
Carlo. — Che scarrozzare? A piedi. Ho fatto i miei affari, ho acquistato quest'appetito che ti fa invidia, ed ho risparmiato sei lire, due giornate di un lavorante.
Anna. — (Ed è dei Valori!)
SCENA VII.
CARLOTTA, quindi FAUSTINI dal fondo. Detti.
Carl. — Il signor Faustini...
Anna. — Aspetti, ci lasci far colezione, torni.
Carlo. — No, venga, venga subito, che lo aspetto per un affare di premura. (si alza e butta il tovagliolo sulla spalliera della sedia)
Agnese. — Finisci almeno di far colezione...
Carlo. — Non posso, mi rifarò a pranzo... (a Faustini) Favorisca nel mio studio.
Faust. — Signori... (esce dalla destra seguito da Carlo)
Anna (alzandosi con istizza). — Non potere star tranquilli un momento, non poter mangiare un boccone in pace, che è una vita questa?
Egisto. — Hai mille ragioni: una casa come la nostra per ordine e tranquillità non si trovava in tutta Toscana; e ora!... Ma perchè non ha voluto proseguire la sua carriera di ufficiale di Stato maggiore? Perchè non ha fatto come me, un bel nulla? Ci si abitua così presto!
Agnese. — Carlo non è ricco come sei tu.
Egisto. — O che pregiudizio! Si può far nulla con pochissimo; anzi, ci sono tanti che riescono a far nulla con nulla!
Anna. — Che nulla, che pochissimo! Carlo aveva le sue ottantamila lire; e colla tua dote, vivendo tutti assieme, io col fatto mio, tu colla tua rendita, si stava come tante pasque. Ma no, bisogna che egli sia tale quale suo padre! Suo padre possedeva centomila scudi, nientemeno. Ebbe la disgrazia di inventare una macchina a vapore, e quando tutti i giornali parlarono di lui, quando fu proprio celebre, fece punto, e fu bazza che si salvasse un sesto della sua ricchezza... e non dico il peggio!
Egisto. — Povero Pietro!
Anna. — E il figlio, per profittare della bella lezione, appena tornato dalla sua missione in Germania, mi tira subito fuori di cantina quelle care macchine del babbo, e per non essergli da meno in nulla, m'inventa anche lui non so che metodo di fusione, che semplificazione d'argani!
Egisto. — No, no, se fosse dipeso da me non ci sarebbe la polvere, e me ne tengo. Una sola volta, in un accesso di passione culinaria, ho inventato un fritto di asparagi croccanti; ma mi sono fermato subito lì!
Anna. — Lui invece, invasato come suo padre da una febbre infernale, va ad impiantarmi officina non so dove, spendendovi tutto quanto il fatto suo, tutto quanto trova in imprestito; e noi, questo non me lo perdonerò mai, noi assistiamo stupefatti, intontiti, senza fiatare, allo spettacolo di tanti bei quattrini che presto presto si mutano in cadute d'acqua senza acqua, in macchine a vapore senza vapore, in ruote dentate senza denti... Lui su e giù per la ferrovia carico di modelli e di disegni, coperto di polvere e di carbone; in casa un via vai di faccie proibite, col cappello inchiodato sulla memoria, che bestemmiano, che puzzano di sego, di tabacco e di catrame, e sputano sui tappeti! Ma che meraviglia? Egli è democratico; gli pesa di essere il cavalier Valori; crede alla libertà e vorrebbe educare quella cara roba che è il nostro popolino! Ma perchè, ma a quale scopo tutto quest'inferno? (con solennità ironica) Ve lo dico io: per fare l'Italia! — Va là babbuino, che quando l'avrai fatta avrai fatto una gran bella cosa!
Egisto. — Ma prima di fare l'Italia io al suo posto comincerei a far colezione!
Anna. — Ma ci sono ancora io, vecchia, ma sana, grazie a Dio, di corpo e di mente...
Egisto. — E di polmoni!
Anna. — ... Che conosco tutto il pericolo di cui può esser vittima, e che ad ogni costo lo voglio salvare, e lo salverò!
Egisto. — E lo salveremo, per Bacco Baccone!
Agnese. — Questo pericolo è tutto per il nostro avere?
Anna. — Oh! se non fosse questione che di denari!
Agnese. — E di che altro può essere?
(Voce di Carlo a destra).
Anna. — Zitta! Senti, senti!
Carlo (fuori di scena a destra). — Dica piuttosto che vuole burlarsi di me!
Faust. (come sopra). — La chiama una burla una tale proposta?
Carlo (come sopra). — Sì, perchè non si può fare sul serio...
SCENA VIII.
FAUSTINI e CARLO dalla destra. CARLOTTA dal fondo viene a prendere il vassoio, ed esce. Gli altri si raccolgono presso il pianoforte in contegno di gente occupata a guardare musica.
Carlo. — ... Perchè le cinquantamila lire che mi offre per essere mio socio comproprietario, non sono neanche proporzionate al costo dell'impianto della sola officina senza le macchine.
Faust. — Oh bella; si sa bene che chi impianta non si arricchisce.
Carlo. — Grazie dell'augurio, e tronchiamola. Non glie l'ho offerta la società alla fin fine!
Faust. — No, ma io ho sentito che si trovava in bisogno di un capitale...
Carlo. — Oh! se lei avesse ad offrire la sua società a tutti quelli che hanno bisogno di un capitale!
Faust. — Ebbene, senta: la scadenza delle sue cambiali non è lontana; io le darò ventimila lire in contanti e straccio le cambiali... Pensi che ella potrebbe anche non avere il capitale alla loro scadenza.
Carlo (con uno sguardo ad Egisto). — È quasi trovato, spero, e ad interesse onesto.
Faust. — Come sarebbe a dire, onesto?
Carlo. — Onesto... come disse Dante, per dir cortese.
Faust. — Sia come vuole... ma io credeva...
Carlo. — Di trovarmi senza credito, addirittura disperato, e mi offriva questa sua bella società... Grazie tante! Ma il piano di sopra non l'ho spigionato; distinguo ancora il cuore dal calcolo, per quanto sublime.
Faust. (avviandosi). — Bene! bene! Non le fa? Amici come prima.
Carlo. — Bravo, come prima. (escono dal fondo parlando)
Egisto. — Io sudo freddo! Anche delle cambiali in giro? Come potrà pagarle?
Anna. — Pigliando ad imprestito, tal quale suo padre, di qua per pagar là, e di là per pagar qua; finchè un bel giorno i nodi arrivano al pettine: disperazione, fallimento! E per suo padre fu anche peggio!
Agnese. — Madre mia, tu mi spaventi, e se non sapessi di essere amata, molto amata da te...
Anna. — Non mi crederesti? Ma io amo te e amo anche lui, e perciò voglio che da noi tre si prenda un partito decisivo, immutabile.
Egisto. — E prendiamolo, che si possa una volta stare in pace, dormire fin che si vuole, e mangiare un po' per bene ad un'ora fissa!
Anna. — Dunque attenti, e pensiamo che si tratta dello avvenire della famiglia. Tu, fratello, non hai che a fare una cosa.
Egisto. — Per carità che non sia troppo difficile. Mi chiamo Vespucci, ma sento che l'America non l'avrei neanche saputa battezzare.
Anna. — Carlo sa che tu tieni il patrimonio parte in cartelle dello Stato, e parte disponibile nel tuo portafoglio...
Egisto. — Vorresti forse che io mettessi quest'ultima a sua disposizione?
Anna. — Ma si tratta appunto di negargliela!
Egisto. — Meno male, e questo è facile.
Anna. — Non quanto credi. Tu non sai l'eloquenza che dà il bisogno e l'illusione a quella sorta d'uomini.
Egisto. — Ma se non me ne ha mai parlato!
Anna. — Te ne parlerà. Non hai notato lo sguardo che ti diede parlando col Faustini del capitale ad interesse onesto? Eccolo; entriamo nella tua camera; là vi dirò quanto deve fare ciascuno di noi.
Egisto. — Mi rincresce che troverete tutto in disordine.
Anna. — Si tratta appunto di disordine. (via dalla sinistra)
Egisto. — Coraggio, Agnese, siamo in tre! (le porge il braccio e s'avvia a sinistra)
Agnese. — Eppure, mentre obbedisco a mia madre senza fiatare, sento una voce che mi suggerisce, non di osteggiare il mio povero Carlo, ma di confortarlo.
Egisto. — Ma che ti gira? Se, dopo la mia invenzione, avessi ascoltato le voci, in casa non si mangerebbe altro che asparagi croccanti! Ma se Carlo non può proprio stare senza inventare qualche cosa, m'inventi degli altri figliuoli; saranno sempre più belli delle sue macchine.
SCENA IX.
CARLO dal fondo. Detti.
Carlo. — Egisto, avrei da dirti due parole; lasciaci un momento, Agnese, se ti annoia sentir parlare di affari.
Egisto (sottovoce ad Agnese). — Che sia già il momento della stoccata?
Agnese. — Lascia parlare il tuo cuore! (via dalla sinistra)
Egisto. — (Lo credo io!... risponde picche!) Dunque c'hai proprio un discorsino che non puoi tenere in corpo?
Carlo. — Egisto, tu mi hai mille volte protestato di essermi più che parente, amico.
Egisto. — Se non desideri altro, seguito a protestare io.
Carlo. — Senza scherzo, tu sai che la Casa Richard di Marsiglia mi deve pagare fra tre mesi la somma di oltre sessantamila lire pattuita per gli argani di cui ho incominciato a spedire una parte. Ora, sebbene io sia sicuro di questo pagamento che mi porrà in grado di attendere ad ogni impegno, vorrei tuttavia, per fare il lavoro con quella esattezza che è impossibile col coltello alla gola delle cambiali, che tu m'imprestassi, sopra ipoteca di privilegio, quarantamila lire.
Egisto. — Quelle che tengo nel mio portafoglio... (Sorella profetessa!)
Carlo. — E ciò per quel termine ed a quell'interesse che a te piacerà fissare, poichè fino dal primo del prossimo agosto io ti posso pagare con gli argani.
Egisto. — Abbi pazienza; ma nemmeno cogli argani me li pigli! (Questo è stato facile).
Carlo. — E perchè? Là, francamente, senza riguardi.
Egisto. — (Questo sarà più difficile!) Senti, mi fu detto, non lo dico io, che la tua officina non può reggere un'ipoteca di quarantamila lire.
Carlo. — Tu scherzi: non hai inteso che Faustini finiva or ora per offrirmi sessantamila lire della sola società?
Egisto. — La cosa è ben diversa: Faustini è un industriale, può arrischiare, mentre io... E poi ho quasi deciso di fare un imprestito ad un'opera pia, e di comprare delle cartelle coi premi. Tu non puoi darmi altre guarentigie, e premii poi... Parliamo dunque d'altro.
Carlo. — Senti, Egisto, dacchè sono tornato dall'estero, dacchè mi sono gettato nell'industria, io non ti ho mai parlato dei miei progetti.
Egisto. — Questa giustizia te la rendo volentieri: tu hai subito capito che... io non avrei mai capito, e mi hai sempre risparmiato il racconto... Dunque parliamo d'altro, bravo.
Carlo (ridendo). — Ma oggi non la scappi più!
Egisto. — Oh Dio! E non si può davvero risparmiare questa bella istoria? No? Pazienza! Ma posso almeno sedere? (Carlo gli porge una seggiola) (Sentiamo l'eloquenza del bisogno).
Carlo. — La mia officina mi costa centotrentamila lire; ma un altro non la fabbrica con duecento mila, perchè quella la ho fatta io pietra su pietra, coll'esperienza lasciatami da mio padre, col frutto dei miei studi e dei miei viaggi, e colla sollecitudine di chi spende tutti i suoi risparmi... ho fatto dei risparmi da ufficiale, non dico di più! Ma perchè ho resistito alla indifferenza dei concittadini, alla tepidezza degli amici, alla ostilità di qualche parente? Perchè non mi contento di vegetare coi ferri di vergella, o, per dir meglio, perchè mi sono gettato in questa impresa?
Egisto. — Non l'ho mai capito, e non lo capirò mai, te l'ho detto.
Carlo. — Perchè ho fede nella mia invenzione, fede nell'industria nazionale. Tu forse non hai mai pensato ciò che mi insegnano quei due ritratti di Franklin e di Ghiberti?
Egisto. — Non meravigliartene; penso così di rado io!
Carlo. — Il Franklin m'insegna il lavoro, il risparmio, ed il Ghiberti che per fare le porte del Battistero dovette lavorare ventitrè anni. Egli era un genio, e fece le porte del Paradiso. Se io non sono un genio, la colpa non è mia; ma se dopo la mia morte si dirà che ho fatto il mio dovere come uomo e come cittadino, a me pare che avrò spesa bene tutta la vita.
Egisto. — (Che brav'uomo!) Si può essere d'opinione diversa, ma non si può negare la propria ammirazione per tanto coraggio e per tanta fede. Ne hai per tutti e due tu.
Carlo. — Sì, fede, sopratutto fede, perchè io sono di quegli ottimisti a tutta prova, che credono alla libertà ed al progresso. Dopo pochi anni di lotta, molti si accasciano stanchi e sfiduciati. Lo credo io, non hanno sognato e tentato che per distruggere! A noi invece è cresciuto l'animo, e ci accingiamo, non più alla sterile lotta che demolisce e non rifà, ma alla grande e feconda opera dell'edificare.
Egisto. — Bravo e Dio t'aiuti. Vuoi intanto una presa?
Carlo. — Mi studierò di essere brevissimo.
Egisto. — Benone.
Carlo. — O io non capisco nulla, o i mali più funesti alla nostra industria sono indifferenza nelle classi elevate ed ozio ed ignoranza con tutte le loro conseguenze nel popolo.
Egisto. — Povera gente! Ma che conti adunque di fare?
Carlo. — Provare, io di famiglia patrizia, alla classe elevata che invece di tenere il suo capitale sott'olio in cantina, lo può affidare con vantaggio all'industria...
Egisto. — Bravo!... parla del capitale.
Carlo. — Ma non possiamo avere industria col solo capitale, ci vuole la mano d'opera.
Egisto. — Peccato!
Carlo. — Non basta il principale; ci vuole l'operaio attivo, intelligente, sicuro; e per averlo tale, bisogna sollevare il popolino dalla miseria morale e materiale in cui giace, instillandogli il sentimento della dignità e l'istruzione dei suoi doveri.
Egisto. — Senti; il popolino, anche quello che lavora, è cascato nelle grinfe dei sobbillatori della piazza: anzi, mi pare già di vedere in aria i nuvoloni della tempesta... Scappa!!
Carlo. — Bravi! per vincere la tempesta non trovate nulla di meglio che fuggire od evitare di parlarne! Andarle incontro bisogna, far dieci passi quando lei non ne fa che cinque; guardarla bene in volto, e vedere se l'ignoranza, l'ozio, l'invidia e la torbida ambizione che la guida siano più potenti della scienza e della libertà!
Egisto. — Sì; ma ne sento dir tante degli operai, delle loro pretese senza fine e dei loro disordini!
Carlo. — Bisogna anzitutto separare i lavoratori dagli oziosi e dai loro avvocati, e poi si vedrà che il vero operaio è assai migliore della sua fama. Senti: io il nostro popolo non l'ho studiato nei libri; ma in lui istesso, soldato, agricoltore od artigiano, e perciò posso parlarne con amore come senza adulazione. Degli operai io ne ho di tutte le provincie, e se tutti hanno difetti, hanno tutti belle virtù, e anzitutto un gran buon senso. Il nostro toscano patisce un po' di fiaccona, ma è quieto, sobrio ed accurato. Il veneziano è un po' ciarliero, ma è svelto. I piemontesi ed i lombardi non sono sempre sobrii e quieti, ma sono molto attivi. Il romagnolo è poco disciplinato, ma è tutt'anima. Il napoletano...
Egisto. — Indolente?
Carlo. — Non è vero; il napoletano, quando ha fiducia in chi lo dirige, vale quanto gli altri. Vedi, il nostro paese è tutto migliore di quello che si dice; cioè, intendiamoci, ci sono due Italie distintissime: una piena di rancori, di gelosie, di calunnie, l'Italia dei beceri, dei barabba, dei lazzaroni; la bella Italia in cui per tutto ideale della vita si ha il dolce far niente, per sistema lasciar correre, per patria il campanile; la patria mia e tua, se tralasciamo qualsiasi occasione di dire e di fare che la plebe diventi popolo, e che anche per noi questo sia il primo secolo del lavoro.
Egisto. — È vero; ma ce n'hai forse un'altra Italia?
Carlo. — Per mille racchette se ce n'è un'altra! Bambina, veh! che ama un pochino di chiaccherare; ma a scuola ci va tutti i giorni..... che non è festa. Ma è bambina, e, se pensiamo un momento al suo passato, possiamo ben dire che tutti i giorni la fa il suo miracoletto!... Diamo tempo al tempo, e vedremo che l'avvenire darà ragione agli uomini che credono alla libertà e si affaticano a colmare gli abissi che il passato ci scavò d'intorno. Noi non saremo più; che monta? Ci saranno i nostri figli!
SCENA X.
ANNA ed AGNESE dalla sinistra. Detti.
Egisto. — Carlo, io ti confesso volentieri che non posso rimanere insensibile ad un progetto così nobile e generoso...
Anna. — Egisto, t'ho da parlare.
Carlo. — Un istante, un istante. Dunque mi hai compreso?
Egisto. — Sì, le tue idee sono belle, sono veramente patriottiche, e tu meriti di essere aiutato.
Anna. — Non avete ancora finito? Egisto!
Carlo. — Un momento. Non ti ho detto che, grazie alla mia invenzione di un nuovo metodo di fusione, io posso già lottare sui mercati coi prodotti delle fabbriche estere. Pensa quale sarà il profitto quando sarà avviata la mia officina! Ma ora ho urgente bisogno del tuo aiuto.
Anna. — Egisto, insomma?
Egisto. — Ne riparleremo...
Carlo. — Ma io non posso aspettare!...
Egisto. — Ma, prima di disporre del mio capitale, bisogna che mi consigli colla sorella.
Carlo. — Giustissimo; ma, se anche non ti decidessi ad affidarmelo subito tutto, spero che, alle stesse condizioni, non mi negheresti cinquemila lire che mi sono indispensabili per le paghe degli operai.
Anna (a Carlo). — Tu perdi il fiato: Egisto non può e non vuole incoraggiare un gentiluomo pari tuo a derogare dalle belle e buone usanze dei nostri avi.
Carlo (ad Egisto). — È vero?
Egisto (imbarazzato). — Ecco... Come cittadino puoi aver ragione..... Ma come gentiluomo, abbi pazienza, bisogna che io convenga colla sorella che tu deroghi e di molto!
Carlo. — Ma fammi il piacere di non bestemmiare! Sì, perchè quei nostri avi che ti proponi a modello soltanto nel non far nulla, sortirono tutti dai banchi e dall'industria; e perchè loro non si vergognarono di fare gli industriali, le sete e le lane fiorentine andavano famose e ricercate sui migliori mercati del mondo, e noi s'aveva allora tanti quattrini da imprestarne ai Re di Francia e d'Inghilterra, e ne avanzava per giunta da piantare Santa Maria del Fiore!
Egisto (ad Anna sottovoce). — Hai inteso? Anche Santa Maria del Fiore mi pianta, e io..... e io non so che rispondere! (Se ci metto ancora bocca, che mi caschi la lingua!) (va a sedere sulla poltrona a destra)
Agnese. — Carlo, non inquietarti...
Carlo. — Oh! non m'inquieto più con loro! Ma tu, Agnese, mi faresti uno di quei favori che non si dimenticano mai più?
Egisto. — (Già; da chi li fa!)
Agnese (con premura). — Ma pensa! Che cosa desideri?
Anna (intromettendosi). — Se si tratta di denari, come m'immagino, è inutile far parole; la dote di Agnese, questo si sa, non si tocca; io dei denari non ne ho, e se anche ne avessi, non farebbero certo la strada degli altri.
Carlo (reprimendo un moto di sdegno). — Basta, basta: non domanderò altro a nessuno di voi. — Chi c'è di là?
SCENA XI.
CARLOTTA, poi MARTINO dal fondo. Detti.
Carl. — C'è un operaio della sua fabbrica di Belmonte.
Carlo. — Venga. (moto di dispetto in Anna: Martino dal fondo) Voi qui, Martino?
Mart. (guardando Carlotta, con accento ligure). — (Che bella morettina!) Signor principale, sono venuto a dirle che il capo-fabbrica, con licenza parlando, è malato.
Carlo. — Che sento! Ammalato gravemente?
Mart. — No; si è fatto male ad una mano, e non sarebbe stato nulla, se non l'avesse avuta piena di brignoni... di tignuole, via!
Carlo. — Ma che tignuole, nelle mani?
Egisto. — Nei panni, negli armadi stanno le tignuole.
Mart. — Negli armadi? Sarà; ma al capo-fabbrica questo inverno sono venute nelle mani.
Carlo. — Ah! i geloni! Vuol dire i geloni!
Egisto. — (Che barbari!)
Mart. — Geloni, brignoni e tignuole..... non è questione che di pronunzia... Intanto ha la febbre, e il medico ha detto che per due o tre settimane non potrà dirigere l'officina.
Carlo. — Andate in cucina: Carlotta, dagli da colezione, e poi subito a farmi la valigia; partiamo col primo treno. Guarda se Cesarino è già tornato. Finchè non abbia trovato un altro capo-fabbrica, mi converrà stare a Belmonte. (raccoglie delle carte sul tavolino a sinistra)
Mart. — (Che tocco!) (salutando) Gli auguro! (esce con Carlotta dal fondo)
Egisto. — (Altrettanto!)
Agnese. — Carlo, io vengo con quest'abito. Già lassù si starà in libertà.
Anna. — Adagio! Adagio! Spero che Carlo non avrà la pretesa di portarti lassù in questa stagione.
Carlo. — Con vostra licenza, Agnese è mia moglie!
Anna. — Certo; ma anzi tutto deve obbedire a sua madre. Si partirà quando farà più caldo, quando lo dirò io.
Egisto. — (Ecco che cominciano a bisticciarsi dal bel mattino!)
Carlo (ad Agnese). — Vieni o no, Agnese?
Agnese. — Io verrei subito, ma... Abbi pazienza per qualche giorno... (Che stizza mi fa mia madre!)
Carlo. — Fa come ti pare; ma in questo momento io sperava che tu avessi un pochino più di cuore per me. (chiama) Carlotta! (Carlotta dal fondo) Vuoi venire con me a Belmonte? Qui resterà Giulietta.
Carl. — (E il damo? Oh! me ne farò uno lassù). Scusi, c'è mercato a Belmonte?
Anna (seccamente). — È inutile il saperlo. Partirai quando te lo dirò io che ti ho fissata.
Carlo (contenendosi). — Guarda se è giunta Giulietta, che dia un bacio a Cesarino... (Carlotta esce dalla destra; ad Agnese) se questo almeno mi è ancora permesso, bene inteso!
Agnese. — Carlo!
Carlo. — Mi è permesso? Da tutti? Sia lodato il cielo! (esce dalla destra colle carte)
Agnese. — Senti, Carlo... Madre mia, fin qui non mi hai parlato che del pericolo che corre il nostro avere, e sta bene; ma che per la sola questione del denaro debba non solo ricusare di soccorrerlo colla mia dote...
Anna (con vivacità). — Ma, quand'anche tu lo volessi, la dote non si può toccare.
Agnese. — E sia; ma che io mi separi da lui, che lo lasci mortificare dinanzi ai servitori, e partire solo; che mi debba sentir dire che io, la madre del suo Cesarino, la moglie che ha sempre rispettato ed amato, non ho cuore, oh! chiedimi qualunque sacrifizio, ma questo no, perchè sento che sarebbe al disopra delle mie forze!
Egisto. — Quest'altra ci mancava ora!
Anna. — Quando si ha fede nella sollecitudine della madre, signora figliuola, non si cerca di più, si obbedisce...
Egisto. — E si sta tranquilla!
Agnese. — Ma io debbo pur sapere se faccio bene o male a trattarlo così; e finora, malgrado la fiducia che ho in te, il cuore mi dice che faccio male, e molto male!
Anna. — Senti, fratello, senti come mantiene le sue promesse?
Egisto. — Ma dille tutto una volta, che sia finita: era carità fiorita il tacerlo; ma dal momento che lo vuole, vuota il sacco, sorella!
Agnese. — Sono moglie e madre, e nessuna cosa che riguardi la famiglia mi deve essere ignota.
Anna. — Ebbene, poichè lo vuoi, sappi qual sorte attende gli uomini pari al tuo Carlo; sappi come è finito suo padre, e poi lagnati che io faccia il possibile per svegliare tuo marito da un sogno che finisce in modo tanto crudele! Tu hai sentito dire che nostro cugino Pietro Valori è morto vittima dello scoppio d'una caldaia a vapore della sua officina a Piombino.
Agnese. — So anche che tu lo assistesti pietosamente nei suoi ultimi momenti.
Anna. — Ora ti dirò ciò che non sai. Pietro era il babbo nato dei credenzoni. Per lui tutti galantuomini; e i galantuomini gli vendevano di nascosto il materiale, il carbone, gli utensili; lo screditavano sui mercati, lo minacciavano pei pagamenti, sia che fossero debitori o creditori. Volergli aprire gli occhi? Fiato sprecato. Ma un bel giorno, alla presentazione di alcune cambiali, dopo di aver telegrafato invano alle case di commercio con cui era in maggior relazione, si accorse di aver perduto quasi tutto il suo avere, peggio, di non aver più credito. Che cosa abbia allora sofferto, egli che non credeva al male, lo sa solo Iddio! E suo figlio era all'estero e noi a Livorno! Il disgraziato si senti perduto e solo; andò nell'officina mentre gli operai erano a desinare, e un'ora dopo era raccolto spirante sotto un mucchio di rovine!
Agnese. — Dio! Ma chi può assicurare che egli si sia ucciso?
Anna. — Raccolti i pezzi della caldaia scoppiata, si trovarono chiuse le valvole di sicurezza!
Agnese. — E se fosse stato per sbaglio, per dimenticanza?
Anna. — Tutti lo credettero e lo crede ancora lo stesso tuo marito; ma non io che ho assistito lo sventurato in quella sua eterna agonia!... Che notte orribile! «Non dir nulla a Carlo,» mi susurrava, «forse egli non mi perdonerebbe!» Dopo ventiquattr'ore di strazio, spirò, e tutti lo dissero martire del lavoro, e lo era, ma in ben altro modo! (facendosi forza per non soffocare dal pianto) E tuo marito, che io combatto, ma non disprezzo, anzi in fondo al cuore ammiro, è della stessa razza che sa di monte e di macigno; è di quella stessa gente che muore e non si arrende! Ora che sa tutto, mi dica la signora figliuola se c'è più cuore ad incoraggiarlo nella sua illusione, come vorrebbe far lei, o ad impedire in ogni modo, come faccio io, ch'egli precipiti, come suo padre, nell'abisso del fallimento e della disperazione!
Agnese. — (Carlo corre lo stesso pericolo, ed io l'abbandonerò solo?)
Anna. — Ma non temere, figlia mia; io conosco il mio dovere e vi amo troppo tutti e due per cedere, e non cederò!..
Egisto. — Non cederemo, per Diana!
Anna. — È lui. Silenzio!
Egisto. — Io non parlo, vai sicura... Ma intanto che bella casa è questa, che bella vita! Lui coll'Italia, tu col dovere, lei coll'amore... una galera!
SCENA XII.
CARLO, CESARINO, CARLOTTA e MARTINO con sacche da viaggio, dalla destra. Detti.
Cesar. — Perchè non viene anche la mamma?
Carlo. — Domandalo a lei; ma non so se te lo dirà.
Cesar. — Mamma, perchè non vieni col babbo?
Agnese. — (Ma io qui non potrei vivere neanche un istante con questo terribile pensiero). Sì; vengo anch'io con voi.
Carlo. — Grazie, mia cara Agnese!
Anna (contenuta dalla presenza di Martino). — Agnese!
Egisto. — Auff!
Agnese (ad Anna con fermezza). — Tu mi hai sempre detto di non poterti separare da me perchè mi ami: dunque seguitando a Belmonte mio marito e mio figlio, io non faccio verso di loro che quello che tu fai con me.
Egisto. — Non fa verso di loro... Sorella, non c'è mica nulla a ridire, sai?
Anna (colta da pensiero improvviso). — (Sì, è a Belmonte che la deve finire!) Ha ragione e vado anch'io con loro.
Egisto. — Mi pianti solo?
Cesar. — Brava la mia nonnina bella! (corre ad arrampicarsi sulle ginocchia d'Egisto) Anche te, zio; anche te!
Anna. — Sì, anche te: tutti a Belmonte!
Egisto (alzandosi con Cesarino in braccio). — L'ho bell'e capito; se non ci metto mano io, questa benedetta Italia non si fa!
FINE DELL'ATTO PRIMO.
ATTO SECONDO
Studio di Carlo presso l'officina. — In fondo la comune che dà nel giardino. — A destra le stanze della famiglia, a sinistra l'officina. — Nell'angolo di destra, in fondo, una cassa forte rivolta verso la sinistra. — Sulla scena, pure a destra, uno scrittoio posto di profilo ed isolato, con campanello, grossi registri, libri, disegni, e l'occorrente per iscrivere. — A sinistra in fondo, una libreria ed un tavolo per disegnare, discosto dalla parete quel tanto che è necessario per frapporvi una seggiola. — È giorno.
SCENA I.
MARTINO e CARLOTTA che assettano i mobili.
Mart. (a Carlotta che vorrebbe provarsi con lui a mutare di posto lo scrittoio). — No, no; potreste farvi male, bella figliuola... Aspettiamo che arrivi qualcheduno dei miei compagni, e facciamo intanto quattro chiacchiere fra di noi due...
Carl. — (Sta a vedere che mi faccio un damo anche quassù). Che cosa mi volete dire?
Mart. — Sentite, Carlotta; nè io, nè voi siamo di questo paese... Tutti e due italiani, s'intende; ma nati in diverse nazioni... Ora ditemelo francamente, non vi piglia mai, con licenza parlando, quel certo male che si sente quando si è lontani di casa sua, la nostra... la strono... una parola che finisce in ia... Il capo-fabbrica l'aveva sempre in bocca!
Carl. — Ah! l'astronomia...
Mart. — Giusto l'astronomia.
Carl. — Il padrone ne parlava ieri a Cesarino. Sì, mi piglia qualche volta quando penso ai miei di casa.
Mart. — Ma se qui aveste una persona che senz'essere dei miei, di casa vostra, vi volesse bene...
Carl. — E se questa persona, con licenza parlando, foste voi, volete dire?
Mart. — Già; il male non vi sembrerebbe minore?
Carl. — Insomma, Martino, a farla corta, voi volete fare all'amore con me.
Mart. — Sì, se mi credete per la quale, eccomi qui tutto per voi: sono il più bello dei figliuoli di mia madre.
Carl. — Quanti fratelli avete?
Mart. — Nessuno, sono figlio unico di madre vedova... come lo scudo che ho in tasca.
Carl. — C'è un guaio, Martino.
Mart. — Vi paio troppo brutto forse?
Carl. — Oh ne ho visto dei peggio!
Mart. — Grazie tante... Allora avete paura che la padrona...?
Carl. — Che! Me ne importa assai della padrona! Il guaio si è che Carlotta non fa all'amore che con quello che la vuole sposare.
Mart. — Ed io son bell'e pronto a sposarvi dinanzi a Santa Madre Chiesa anche subito.
Carl. — Che, mi pigliate per una grulla voi? Prima si va al Municipio, e poi in parrocchia.
Mart. — Ma io vado anche dal campanaio se vi piace!
Carl. — Ma come si sta a quattrini? Che cosa avete voi di vostro?
Mart. — Io di vostro... cioè di mio... che sarà anche vostro, ho tutto questo; ma state bene attenta!
Carl. — Sentiamo che meraviglie.
Mart. — Meraviglie? nessuna; ma cinque camicie quasi buone, quattro lenzuola quasi nuove, tre belle lire e mezzo al giorno che piglio quasi sempre, due buone braccia e un cuore pieno d'amore...
Carl. — Adagio col pieno; se foste un pollo ve lo potrei dire... C'è un guaio, ora che ci penso; voi amate troppo il vino!
Mart. — Se amo il vino è tutta colpa dell'astronomia. Ma per far piacere a voi non berrò più!... mai più!... altro che la domenica.
Carl. — Vien gente; acqua in bocca, veh!
Mart. — Oggi no, che è festa. Siamo intesi adunque?
Carl. — Ci penserò, e a rivederci poi. Addio, moro. (via dalla destra)
Mart. — Pensateci subito, bella morettina, e rivediamoci senza il poi! Cara e svelta!... Ma faccio poi bene a prender moglie con tre lire e mezzo?
SCENA II.
ORESTE dalla sinistra e poi voci diverse a sinistra fuori di scena. Detto.
Oreste. — Evviva Martino!
Mart. — Oreste! Dunque si passa presto lavorante, eh?
Oreste. — Fosse pur oggi, che vorrei aver finito di pigliare scappellotti.
Mart. — Oh quanti ne pigli, batoseto?
Oreste. — Cinque o sei al giorno, che moltiplicati per sei dànno dai trenta ai trentasei scappellotti per settimana!
Mart. — Bella paga! Io la metterei tutta alla cassa di risparmio. Ma bisogna pur dire che cogli scappellotti le parole dei maestri restano più impresse. Io ne ho presi di quelli da farmi vedere le stelle in pieno mezzogiorno; ma sono anche capo massellatore.
Oreste. — Quando io faceva il giornalista a Firenze non avrei mai creduto che un mestiere s'imparasse a questo modo. E non c'è che dire, la è dappertutto la stessa canzone. Sul Pistoiese ove mi era avviato a fare l'ebanista, il principale invece di farmi entrare il mestiere nel capo a furia di scappellotti, faceva diversamente lui: a pedate! (va a sedere al tavolo in fondo) Ma è finita!
Voci (a sinistra fuori di scena). — Ohe, si va?
Carlo (come sopra). — Un momento; siamo in pochi.
Mart. — Padrone, son qua io! (corre via dalla sinistra rimboccandosi le maniche)
Carlo (come sopra). — Sotto le spalle tutti, su!
Voci (come sopra). — Su!. Issa!... Issa!... Ah!
SCENA III.
BOBI dal fondo senza vedere ORESTE che s'è messo a disegnare.
Bobi. — E pare che costì si lavori anche di festa, accidenti! e il medesimo toccherà anche a me se vorrò levarmi la fame. Se penso che potrei invece passarmela allegramente a Firenze col mio pan di ramerino bollente! Maledetto quel cavaliere che per quel pomo di mazza che io aveva trovato mi fece mangiare tanto riso e fagiuoli, come se trovare volesse dire restituire!... E ora che mi hanno dato l'aire, mi trovo senza il becco d'un quattrino. Il pomo è bell'e sfumato; già un pomo d'oro si mangia presto; e se stendo la mano dicendo: lo dà un soldino a questo povero disgraziato che esce adesso dall'ospedale? mi rispondono tutti: con quella faccia? va a lavorare, bighellone! Come se all'ospedale vi cambiassero la faccia!
Oreste (che da un pezzo osserva Bobi e lo riconosce, scende inosservato e gli chiude gli occhi con ambe le mani). — O Bobi!
Bobi (spaventato). — (Gente che mi conosce!) Non mi spaventate; esco ora dall'ospedale...
Oreste (lasciandolo). — Dall'ospedale?
Bobi. — Oreste? Ma non eri andato a Pistoia colla famiglia?
Oreste. — Sì, per fare l'ebanista; ma ho visto che la mia vocazione era per la meccanica, per il ferro. Lavorare il ferro è più bello; si sta al fuoco come i soldati, e c'è anche il suo pericolo come alla guerra... E poi che musica! Tan, tan tantantan!... Il maglio come un cannone: pun pun! Le macchine a vapore: rrrrrrrrrr... Invece uno stipettaio: pst... pst... fa pietà!!... (ritorna al suo posto) E ora s'impara il disegno noi!
Bobi. — Ognuno ha i suoi gusti; ma non stare a dir nulla di me... come se tu non m'avessi visto.
Oreste. — Che ho a dir io? Il babbo, quando venne a stare a Pistoia colla famiglia, non voleva neanche sentirvi nominare!
SCENA IV.
Dalla sinistra CENCIO e MARTINO. Detti.
Mart. — Cencio, portiamo più in là quel cancello.
Cencio. — Scrittoio, volete dire...
Mart. — Affare di pronunzia; ma vada pure per scrittoio... Diamine, come pesa! (a Bobi) Una mano, brav'uomo.
Bobi. — Una mano?
Mart. — Volete che vi chieda un piede? Facciamo da noi, Cencio. (portano lo scrittoio un po' più verso la ribalta)
Bobi. — Se voi foste caduti da una montagna, e vi foste rotta la gamba... (si tocca la gamba destra) in due pezzi!
Mart. — Poverino!
Cencio. — La società operaia non vi soccorre?
Mart. — Non ha neanche un bastone, una mazza...
Bobi. — Non voglio più mazze; voglio camminare da me... La società operaia di laggiù, di...
Cencio. — Follonica?
Bobi. — Bravo, di Follonica, ha fallito, e l'ospedale di...
Cencio. — Grosseto?
Bobi. — Giusto, appena fui in grado di reggermi sulle gruccie, alla porta; e sì che mi duole sempre... (si tocca la gamba destra) ma finchè le cose non cangiano, tiriamo di lungo!
Cencio. — Sentite, qui guarirete presto, che l'aria è eccellente.
Mart. — E il vino? Io lo preferisco sempre all'aria.
Cencio. — La paga buona e puntuale, e alla domenica fatta la paga si è in libertà tutto il giorno...
Mart. — Già, per cantare gli stornelli e la tirolese... Sapete? Laralla lallallera...
Bobi (fa la corda). — Tin, tin, tun!
Mart. — Bravo! Il nostro poeta stemperaneo gli è Cencio, che fa versi da farci restare a bocca aperta!
Cencio. — M'ingegno alla meglio.
Bobi. — Mi pare che siate tutti d'accordo...
Mart. — Massime a bere, e sì che fra noi ce n'è d'ogni nazione... Toscani di Livolno, Piemontesi di Biella, Genovesi di Sanpedena, Meridionali di Napoli... Ma per parlare poi, si parla tutti toscano.
Bobi. — (Mamma mia!) E il principale, che omaccio?
Mart. — Omaccio? Un uomo con un cuore così!
Cencio. — E testa? Un principale che se fa bisogno sa come si tiene in mano un martello!
Mart. — Ma vi avverto, poche parole, e al comando: fissi, fissi!
Bobi. — Voi siete stato soldato?
Mart. — No, perchè ho nell'esercito mio fratello più vecchio.
Cencio. — Volete dire vostro fratello maggiore.
Mart. — Che maggiore! è passato adesso caporale. Ohe, c'abbiamo dieci minuti prima della paga: andiamo a berne un bicchiere tutti e tre, Cencio; e voi appoggiatevi senza discrezione.
Bobi. — Ahi! che trafittura! (si tocca la gamba sinistra)
Mart. — Ma non avete detto la gamba destra?
Bobi. — Sicuro, sicuro... ma anche quest'altra se ne risente.
Cencio. — Ha ragione. Io conosceva un vecchio soldato rimasto senza tutte due le gambe, che quando tirava vento si doleva de' calli.
Bobi. — È vero, è vero; lo provo anch'io!
Mart. — Ma voi le avete ancora tutte due le gambe.
Bobi. — Oh gli è come se ne avessi punte punte!
Mart. — Ah! Ah! Senti come le sballa!.. Via, a bere alla vostra salute!
(Bobi, sostenuto da Cencio e da Martino, se ne va dal fondo cantarellando con essi)
Oreste. — Se cominciano ora a cantare ed a bere, questa sera li voglio vedere bellini tutti e tre!
SCENA V.
CARLO e BARTOLO dalla sinistra. Detto.
Carlo. — È inutile, Bartolo, non vi ripiglio. Vi siete fatto cacciare tre volte per la vostra pessima condotta; se vi accettassi ancora, non farei che incoraggiare i pari vostri a dare cattivo esempio. Buono voglio essere, non debole.
Bart. — Eh! lo vedo; altro è predicare che si ha diritto a lavorare, altro poi...
Carlo. — È pigliarsi in casa gente indegna di portare il nome di operaio... Andate in vostra pace... In paese ci sono altre officine...
Bart. — Oggi è festa; non ho un soldo ed ho fame.
Carlo. — Se la vostra è fame e non sete, sete di liquori, andate anche voi a ripulire la caldaia della macchina a vapore, e poi vi farò dar io da mangiare. (va presso Oreste, che si alza subito in piedi)
Bart. — (Lo fa per umiliarmi). (esce dalla sinistra)
Carlo. — Bravo; vedo con piacere che hai buona voglia d'imparare. Appena avrò fatto la spedizione delle macchine a Marsiglia, guarderò se ci sarà per te un posto di limatore.
Oreste. — O maestro, io non so come provarle la mia riconoscenza...
Carlo. — Facendoti onore: ora aria, bambino. (va allo scrittoio)
Oreste. — (Ho finito di pigliare scappellotti!) (via correndo dalla sinistra)
SCENA VI.
MARTINO, FRANCESCO e MATILDE che porta in braccio ROSINA addormentata, dal fondo; quindi BOBI, pure dal fondo, che si pone ad osservare attentamente Francesco, restando in disparte.
Mart. — Signor padrone, è giunto il materiale dalla ferrovia, e qui c'è gente che gli vuol parlare.
Carlo. — Do un'occhiata al materiale e ritorno subito; fateli sedere, Martino. (esce dal fondo)
Franc. (guardando verso la sinistra). — Che bella officina! (E pensare che con tutto il mio studio e il mio ingegno, io non sarò mai altro che un miserabile condannato a stentare la vita!) Vuoi darmi la bambina, Matilde?
Mat. — No, lasciamela; è meglio non svegliarla, (a Martino) È ammalata. Se voleste favorirmi un bicchier d'acqua?...
Mart. — Venite con me in giardino... Ci abbiamo una fontana che non ha altro difetto che di buttar acqua, ma è limpida, fresca e leggera che è proprio un gusto, dicono quelli che ne bevono. (via con Matilde dal fondo)
Franc. — (Povera Tilde! t'ho ridotta a un bel punto!... Un bel premio t'ho dato del tuo amore, dell'avermi voluto sposare a dispetto de' tuoi!)
Bobi. — (Gli è lui!) Compare, (tocca Francesco sopra una spalla) siete venuto anche voi colla carrozza del Gambini?
Franc. — (Maledetto!) Sono venuto come ho voluto. Fate la vostra strada; io non vi conosco, nè ho volontà di conoscervi.
Bobi. — Come, non siamo forse stati tre mesi assieme?
Franc. — Voi sognate... e basta per ora e per sempre.
Bobi. — Sarà. Voi non sarete voi; ma io ho una gran volontà di domandare a vostra moglie dove siete stato quei tre mesi!
Franc. (volgendosi minaccioso). — Una parola a mia moglie, un'allusione, uno sguardo, e vi strappo la lingua, come è vero che mi chiamo Savelli!
Bobi. — Oh! oh! cheto! cheto! Il padrone... Non v'ho visto mai.
SCENA VII.
CARLO dal fondo. Detti.
Carlo. — A noi. Chi è venuto il primo?
Bobi. — Lui, lui.
Franc. — Sono venuto ora io; è stato lui il primo.
Carlo. Dunque a voi: spicciatevi. (apre la cassa)
Bobi. — (Mondo bello, che mucchio di fogli! E c'è anche degli occhi di civetta). Sor cavaliere... (se non lo è, lo faranno!) vorrei che mi desse un impiego nella sua officina.
Carlo. — Sapete massellare, stare al fucinale, alle forbici, limare?
Bobi. — (Se sapessi limare!) Siccome esco ora dall'ospedale di Follonica... cioè di Grosseto...
Carlo. — Avreste bisogno di un lavoro non tanto grave per qualche tempo.
Bobi. — Bravo; che poi io sono di quelli che in un'ora di estro fanno il doppio di un altro.
Carlo. — L'estro, mio caro, si deve avere dieci ore per giornata. (suona)
Bobi. — (Dieci ore! e c'è lo Statuto!)
SCENA VIII.
CENCIO dalla sinistra. Detti.
Carlo. — Appunto voi, Cencio: che lavoro si potrebbe dare ad un convalescente?
Cencio. — Lo metta al mantice, al posto di Bernardo che sta meglio alla trafila.
Carlo. — Sta bene. Paga per ora due lire. Datemi il vostro libretto.
Bobi. — (Non ho che quello dei sogni io!) L'ho dimenticato all'ospedale.
Carlo. — Il vostro nome?
Bobi. — Zanobi Lascifare... Lascifare. (Carlo scrive e poi lo congeda)
Cencio. — Venite. Martino è il capo massellatore, io il capo limatore.
Bobi. — Ed io sarò il capo mantice. (escono dalla sinistra)
Carlo. — (Tutti capi... ameni.) A voi.
Franc. — Ho sentito che ha bisogno di un capo-fabbrica.
Carlo. — Sicuro; ma voi vi sentite?...
Franc. — Perchè non sono bene in arnese non posso essere capace?
Carlo. — Oh giusto io che guardo all'abito! Sarei contentissimo che mi poteste servire, se possiamo intenderci.
Franc. — (Non è antipatico, ma sarà qualche asino arricchito dal caso.) M'interroghi.
Carlo (preso un disegno di macchina dal tavolo di Oreste). — A voi: che cosa è questa macchina?
Franc. (dopo un istante). — Deve essere un argano; anzi è una taglia... da otto a dieci cavalli di forza... e con una semplificazione di congegno che non ho mai veduto.
Carlo. — Ma bene, a meraviglia! È di mia invenzione, sì; e grazie ad un processo di fusione, scoperto anche da me e che mi dà una rilevante economia di carbone, può lottare sui mercati stranieri coi prodotti francesi ed inglesi. Ho una importante commissione di queste macchine per il primo di agosto; eppure, sul meglio del lavoro, ho dovuto licenziare il capo-fabbrica, il quale dimenticava troppo spesso che se l'inventore ed il capitale hanno bisogno della mano d'opera, la mano d'opera non può sussistere senza l'inventore ed il capitale.
Franc. — Il capitale lo ha lei e mi pare inutile parlarne altro.
Carlo. — Pur troppo che non l'ho; ma che l'abbia io o che l'abbiate voi, non muterebbe punto la cosa. Senza capitale non c'è industria, come non c'è industria senza mano d'opera.
Franc. — Dica piuttosto che finchè la società è costituita così, lei comanda ed io sono condannato a lavorare.
Carlo. — Condannato, come se parlaste d'una galera? Ma non sapete che mentre io potrei vivere con una certa agiatezza senza far nulla, mi alzo col sole per lavorare, e quando tramonta vorrei poterlo fermare come Giosuè per fare almeno un terzo di quello che mi sta qui?
Franc. — Padronissimo lei di fermare il sole, io di maledire il lavoro, spero!
Carlo. — Maledire il lavoro, l'unica cosa che faccia lieta la vita, che ripari la fatalità del nascer poveri, l'unica cosa che facendoci superiori alla materia ed al tempo, ci renda quasi eguali a Dio?! Oh no! È impossibile che egli cacciando il primo uomo dai paradiso terrestre, gli abbia detto: va, ti condanno a lavorare!... (mutando tuono, quasi commosso) No, no; ma va, disgraziato, e lavora, perchè col lavoro solo ti potrai consolare; col lavoro solo ti potrai rifare un paradiso!
Franc. — Senta; io sono venuto qui per offrirle il mio lavoro, ma glielo dico subito, non per discutere intorno a cose che non ci possono trovare d'accordo, e tanto meno poi per sentire delle prediche!
Carlo. — Io non predico, ma quando sento certe ragioni...
Franc. — Buone o cattive, non sono qui per venderle.
Carlo. — E chi vi dice che io voglia comprarle?
Franc. — Ma allora lei non capisce...
Carlo. — Non alzate la voce, che capisco, e capisco più di quello che vorrei.
Franc. — Si spieghi, si spieghi.
Carlo. — Sicuro che mi spiego, e dico che voi sapete senza dubbio il vostro mestiere; ma diportandovi in questo modo date luogo a sospettare che il vizio o l'orgoglio abbiano fatto di voi uno di quegli artigiani che invece di cercare il motivo della loro miseria nella propria condotta, trovano più comodo di accusarne l'ordinamento della società.
Franc. — E sia pur così di me; ma lei non sarebbe per caso uno di quei padroni per cui l'operaio dev'essere uno schiavo senza pensiero e senza diritto, uno strumento che frutta tanto al giorno, e che appena non è più capace si butta fuori?
SCENA IX.
MATILDE dal fondo con premura. Detti.
Mat. — Francesco, che avvenne?
Franc. — (Mia moglie!...) Nulla! Si discuteva.
Carlo (allo scrittoio). — (Lo chiama discutere lui!)
Mat. — Sulla meccanica?
Carlo. — Sulla meccanica, proprio sulla meccanica!
Mat. — Ah, se è sulla meccanica!.... Scusi, signore. — Senti, Francesco, anche sulla meccanica non lasciarti trasportare, te ne prego; e quanto alla paga accetta pur che sia, almeno per ora...
Franc. (secco). — Non posso.
Mat. — Non puoi? Ma tu non pensi in quale stato si trova la nostra bambina! Non ti parlo di me. Siamo senza tetto, senza robe, senza denari... E poi dove andremo? Io non posso più camminare.
Franc. — Ma alle sue condizioni è impossibile, ti dico.
Mat. — Ah se tu vedessi che brava gente c'è in questa casa! Hanno dato una buona tazza di brodo a me ed a Rosina, e poi hanno voluto ad ogni modo che io la coricassi in un bel lettino, mentre noi si va a cercare alloggio, e la Rosina si è subito addormentata sorridendo, come se fosse in casa sua!
Franc. — Sorridendo?
Mat. — Come se fosse guarita!
Franc. — Guarita!... Se non fosse del mio amor proprio!...
Mat. — Quando si tratta della tua creatura? Ah! lascia fare a me... (si avvicina a Carlo)
Franc. — Che fai?
Mat. — Mi perdoni, signore, se la disturbo e mi faccio troppo ardita; ma io ringrazio Iddio di avermi fatto trovare una famiglia così generosa come la sua.
Franc. — Matilde?
Mat. — E sopratutto sua moglie... (a Francesco) buona e bella, sai. (a Carlo) E lei finisca l'opera; s'accomodi col mio Francesco... (più sottovoce) lo lasci dire; tutto fuoco; ma un cuore così; lo lasci dire, ha tanto sofferto!
Carlo. — (Poveretta!) Siamo così lontani dall'accordarci...
Mat. — Un passo lo fa mio marito, un altro lo faccia lei... e poi lo provi... lo provi, provare non costa nulla; ma se lo prova non lo manda più via. Ho bene il diritto di dirlo io che so quanto ha studiato, quanto è stimato da chi lo conosce... lo hanno fino mandato all'estero!
Franc. — Matilde!
Mat. — Oh bella! Se parlassi di me... ma vuoi ch'io non dica quello che penso di te a colui che deve essere sicuro della tua abilità come della tua onestà? Dagli il tuo libretto. Ah! sicuro che ci hai anche tu i tuoi difetti come le tue sventure, ma sono più le sventure. Non una gliene è andata bene! Fino nella bambina siamo disgraziati! Per debolezza non può camminare... Si vorrebbe tentare la cura del mare vicino... Dàgli il libretto... Ma se non si combina con lei, mai più avremo questa occasione con poca spesa; e allora, lo dica lei che è padre fortunato, quanto si soffrirà a veder sempre sempre la sua creatura così diversa da tutte le altre! (si asciuga gli occhi) Dàgli il libretto!
Carlo (con un movimento di pensata deliberazione, stende la mano). — Qua il libretto.
Franc. — Mi accetta? Sarò degno della sua fiducia; ne sia pur certo!
Carlo. — Nel mio reggimento vi era un soldato che si era fitto in capo di disertare: lo presi con me. A Custoza per salvarmi si è fatto ammazzare... Voi siete forse di quella razza. (dato uno sguardo nel libretto) Francesco Savelli, per ora avrete centocinquanta lire al mese e il dieci per cento sull'economia del carbone. Queste sono cinquanta lire in acconto, che rifonderete in due mesi. Zitti, e presto da Gigi sulla piazza per il quartiere, e poi qui subito che vi presenti ai lavoranti.
SCENA X.
Dal fondo EGISTO vestito di bianco con ombrellino. Detti.
Franc. — Ma lasci che la ringrazi!
Mat. — Con tutta l'anima!
Carlo. — No, mi ringrazierete col fatto. Andate, figliuoli, andate.
Mat. — Sì, subito, subito. (a Francesco) Il cuore mi dice che qui cominceremo ad essere felici.
Franc. — E anche questo lo dovrò a te! (corrono via dal fondo, urtando leggermente Egisto)
Egisto (guardandosi una manica). — Non sarà fatto a posta, ma se mi passa accanto un magnano, bisogna che senta il bisogno di fregarsi a me!
Carlo. — Egisto, ho da parlarti.
Egisto. — Se è per suggerirmi il mezzo di annoiarmi un po' meno, parla, davvero non ne posso più... E la noia comincia ad influire sul fisico: stamani a colezione non ho potuto finire un quarto di tacchinotto.
Carlo. — Due cose, mio caro, fanno parere il tempo più breve: avere sottoscritto delle cambiali, e lavorare. Non spaventarti, ti propongo il lavoro; ma un lavoro che non ti stancherà, e che forse ti divertirà. Senti. Tu sai che io ho per massima che l'operaio tanto vale quanto sa e mangia.
Egisto. — Oh! per questo anche chi non è operaio. Quando non posso mangiare o mangio male, sento che non valgo un fico secco.
Carlo. — Or bene, m'è venuta un'idea.
Egisto. — Se fosse venuta a me, non lo crederei; ma a te!... Insomma tu vuoi dar da mangiare ai tuoi operai, impiantare una cucina economica e dare a me l'onorevole incarico di assaggiare il brodo, di tastare il lesso, e di metterci l'odore. (con serietà comica) Carlo, questa missione mi onora; sono profondamente commosso, e accetto... Ma, un momento! Se l'ombra veneranda di Amerigo Vespucci alzasse il capo dalla sua tomba per vedere che fa il suo ultimo rampollo, che cosa direbbe, se potesse parlare, trovandolo in cucina con una cazzeruola di stracotto al pomo d'oro?
Carlo (solennemente). — Io credo che l'ombra veneranda, se potesse parlare, ne mangerebbe! Dunque la tua opinione?
Egisto. — Che opinione? Se non ne ho opinioni io! Se me la compro bell'e fatta e stampata tutte le mattine con un par di soldi!
Carlo. — Insomma contento?
Egisto. — Contentone d'ammazzare qualche ora di noia!
Carlo. — Mi basta. Se viene Faustini, fallo attendere; vado un momento nell'officina, faccio le paghe, e poi consacro alla famiglia tutto il giorno. (via dalla sinistra)
Egisto. — Non è questo di fare il cuoco agli operai l'ideale della mia vita; ma dei no gliene ho detti tanti... E poi sarà sempre meglio far saltare dei fritti in padella che il mio capitale nell'industria!
SCENA XI.
ANNA, AGNESE, e FAUSTINI dal fondo. Detto.
Agnese. — Mi perdoni; ma negare a Carlo l'intelligenza!...
Faust. — Non nego l'intelligenza; ma dico che non è tagliato a fare l'industriale. Ci vuole altro stomaco! Le sue saranno delle belle teorie; ma senza la pratica, senza vedere le cose quali sono davvero, sa che si fa? Si mangia il patrimonio e poi la dote alla moglie.
Agnese. — La dote?
Anna. — Vuol dire che se la mangerebbe se lo potesse.
Faust. — E tutto questo perchè? Perchè lui è uno di quelli che si affibbiano una missione e trovano della poesia in una macchina a vapore!
Egisto. — Io non ci trovo che un puzzo maledetto.
Faust. — Oh! signor cavaliere, scusi, non l'avevo veduto.
Egisto. — E sì che non mi pare d'essere molto trasparente!
Faust. — Beato lei che si gode tranquillamente la sua rendita, senza rompersi il capo e fare il guastamestieri!
Egisto. — Per questo stia sicuro; ma non ci ho merito, sa! A che mi farei un nome io che son nato con quello immortale di Vespucci? Dei quattrini? Mi contento. Guardi, la Provvidenza, che non fa mai nulla senza il suo perchè, ha fatto sì che, nascendo, io fossi già cavaliere, affinchè non avessi da desiderare proprio nulla!
Anna. — Pensi che Carlo voleva ad ogni costo ch'egli spendesse nell'officina il capitale che ha disponibile.
Faust. — Misericordia!
Agnese. — Scusi: tutta quest'officina non regge un'ipoteca da quaranta a sessantamila lire?
Faust. — Io non dico nè si, nè no. Sono anch'io un industriale. Ma, se vuole essere sicuro del fatto suo, se vuole prestarlo ad un buon interesse, con ipoteca di privilegio sopra una fattoria di dodici poderi, venga da me e presto.
Egisto. — L'offerta è rispettabile.
Anna. — Rispettabilissima... (suono di campana) Carlo viene a pagare i suoi operai; venga in sala, potrete parlare ed intendervi anche subito.
Egisto. — Veda, il mio capitale lo darei a Carlo; ma io ho paura di questi uomini irrequieti, ho paura di tutto quello che non è pace e tranquillità.
Agnese. — E ti chiami Egisto!
Egisto. — Ah! se Egisto mi fosse somigliato, lasciava in pace Agamennone, contento di fargli le fusa torte; o alla peggio, se Oreste non stava quieto, lo faceva pigliare dai reali carabinieri. (Anna, Faustini ed Egisto escono dalla destra)
Agnese. — Se Faustini ha detto il vero, mia madre m'inganna.
SCENA XII.
CARLO, CENCIO, MARTINO, GENNARO, BOBI, ORESTE, AMBROGIO e BARTOLO seguiti da molti altri operai, dalla sinistra. Quindi FRANCESCO dal fondo. DETTA.
Carlo (ad Agnese). — Appena finito, sono tuo per tutto il giorno.
Agnese. — Ti aspetto; ma intanto non ti affaticare troppo: pensa anche alla tua salute. Buon giorno, buon giorno. (esce dalla destra salutata dagli operai)
Carlo (aperta la cassa). — Ambrogio Carnevali. (Ambrogio va allo scrittoio, Carlo lo paga) Vi siete rimesso?
Ambr. — Olter che rimesso! L'è stato un ciccino d'indigestione, perchè a tucc i solennità me mandeno de cà quai coss de bon da pacciare, e mi, quando me vedi dinanz quela roba, me par d'essere nel mio paeso, e come se dice in buon tuscano, ghe dò dentro!
Mart. — (Anche lui patisce l'astronomia!)
Carlo. — Restate, ho da parlarvi. Cencio Bandettini, eccovi la vostra paga e quella dei vostri limatori. Sapete che l'osservazione fatta da voi sulla bollitura dei fusti è giustissima?
Cencio. — Sono tanti anni che c'ho la mano!
Carlo. — No, Cencio: siete troppo modesto; voi mi provate di quanto soccorso può essere l'esperienza dell'operaio all'inventore, quando l'operaio è, come voi, attento ed intelligente, ed io ve ne ringrazio. — Gennaro Majella. Voi siete un buon operaio, ma prima delle quattro ricordatevi che non si può cantare.
Genn. — Eccellenza, io non canto, sulfeggio.
Carlo. — Canto o solfeggio, aspettate dopo le quattro.
Genn. — Va buono, aspetterò, eccellenza; ma per me sulfeggià è come respirà. Nui se nasce e se more cantanno, cioè sulfeggianno. State buono, eccellenza... vi bacio le mani.
Carlo. — Martino Tavella. Queste sono le paghe dei massellatori: questa la vostra.
Mart. — Scusi... ma, con licenza parlando, mi pare che manchino tre lire e mezzo.
Carlo. — Già: per la giornata di lunedì che avete passato a smaltire la sbornia di domenica; e badate che sia l'ultima.
Mart. — Sissignore; ma che vuole, coi fiaschi non si sa mai quello che si è bevuto finchè non sono finiti!
Carlo. — E lui li finisce! — Oreste, perchè piangevi ieri sera?
Oreste. — Non era nulla. (Se parlo ripicchiano!)
Carlo. — Sarà; ma si ricordi cui tocca che se mettere le mani addosso è sempre brutto, battere chi non può difendersi è da vile. Ora un'ultima parola e vi lascio in libertà. Questo è il nuovo capo-fabbrica, signor Francesco Savelli; ubbiditelo, che lo merita, come ubbidite a me stesso.
SCENA XIII.
EGISTO dalla destra. Detti.
Carlo. — Arrivi a proposito. — Non avete mai inteso parlare di certe cucine economiche per cui in alcune grandi officine l'artigiano è sottratto all'avidità degli speculatori? Ebbene, il mio cugino qui presente ha pensato...
Egisto. — Non ho mai pensato a nulla, non penso mai io.
Carlo. — Insomma, non sareste contenti di avere per lo stesso prezzo di poca frutta cattiva un pezzo di buona carne od una scodella di buon brodo?
Genn. — Eccellenza, se fosse un piatto de' maccheroni a' sughillo, passi; ma a' carne!
Mart. — Per mi se fosse un pittin de fainà...
Ambr. — Ah! s'el fudess l'oss büs!...
Cencio. — O un po' di baccalaretto fritto...
Carlo. — Basta, basta; non se ne parli più. Buona festa a tutti; ma mi raccomando, figliuoli, non dimenticate che la peggiore delle ignoranze è l'imprevidenza... m'avete capito. Savelli, io vi lascio in libertà; a domattina. (chiude cassa e registri)
Franc. — Signori, buon giorno. (esce dal fondo seguito da tutti gli operai)
Egisto. — Buon giorno. — Ricusano la mia cucina, gli ingrati!
Carlo. — Il signor Faustini ha fatto la stessa cosa nella sua officina; ma siccome ciò che vende è caro e cattivo, e se non si va da lui, diventa un'ira di Dio, così i miei operai sospettano forse che colla cucina economica mi voglia anch'io ripigliare le paghe. Vedi che cosa vuol dire un cattivo padrone?
Egisto. — Di' piuttosto che il mio istinto non s'inganna mai. Tu vuoi procacciar loro delle buone digestioni, grullo! Quella gente lì bisogna lasciarla com'è!
Carlo. — Abbi pazienza, Egisto; ma sono uomini tutti come te.
Egisto. — Sarà; ma fatti ad immagine di Dio o io solo o loro soli, che proprio tutti è impossibile!
SCENA XIV.
FAUSTINI dalla destra. Detti.
Faust. — Signor cavaliere, eccomi ai suoi ordini.
Carlo. — (In questo momento! Eppure bisogna aver pazienza!) Rimani, Egisto, rimani; con due parole mi sbrigo. Ella mi perdonerà se l'ho fatto venire da me; ma sono stato due volte alla sua officina...
Faust. — Non dica di più; fra di noi non si fanno complimenti.
Carlo. — Io vorrei pregarla di accordarmi la dilazione di un mese alla scadenza delle cambiali.
Egisto. — (Ora capisco perchè mi ha fatto restare).
Faust. — Se ella non può assolutamente pagarmi all'epoca fissata...
Carlo. — No, la posso pagare; ma con troppo disturbo. Io sono occupatissimo nel mandare a termine la commissione della casa Richard; ma debbo pure prevedere un motivo per cui le macchine non fossero finite o spedite. Mentre il tempo stringe, il caldo soffocante può rallentare il lavoro o togliermi il tempo necessario alla spedizione... Insomma, se mi accorda questa dilazione, mi obbliga assai.
Faust. — (Non sa dove dare il capo!) Io gliela accordo volentieri...
Carlo. — Alle stesse condizioni d'interesse?
Faust. — Alle stesse. Carta, penna e calamaio.
Carlo. — Ecco; s'accomodi. (Respiro!)
Egisto. — (Che l'impresa di Carlo sia migliore di quanto credo?)
Faust. (colla penna in mano). — Ora che ci penso, è curiosa davvero: anch'io voleva chiedere a lei un favore; ma non vorrei la credesse che io voglia dettare delle condizioni.
Carlo. — Sarò anzi lieto di dimostrarle la mia riconoscenza.
Faust. — Allora mi senta. Mi è venuta un'idea.
Egisto. — (A tutti vengono delle idee; a me nessuna).
Faust. — Gli operai, si vede a chiare note, fanno lega contro i principali. Ora io dico: perchè anche noi non la facciamo contro di loro, noi tre, cioè lei, io e Ramaccini?...
Carlo. — Una lega contro gli operai?
Faust. — Accresciamo un pochino l'orario e scemiamo un altro pochino le paghe: due pochini che in fin d'anno voglion fare un bel guadagno. Qualche operaio strillerà, qualche altro se ne andrà; ma quelli che hanno i mezzi di portare via la famiglia sono pochi, e così finiremo per averli tutti quanti a nostra discrezione.
Carlo. — In qualunque altra cosa, ma in questa non posso compiacerla.
Egisto. — (Me lo aspettava, coi suoi principii!)
Faust. — Ma ha compreso bene che non usiamo che d'un diritto di rappresaglia?
Carlo. — Può essere; ma è impossibile che io la approvi.
Faust. — Ah! ricusa e disapprova per giunta? Allora non ne facciamo nulla neanche delle cambiali.
Carlo. — Come?
Faust. — Spero non pretenderà ch'io faccia un favore così grande a chi mi ricusa un favore così da poco!
Carlo. — Ma lei mi ha promesso!...
Faust. — Promesso, promesso, e sia pure, promesso; ebbene? Ora non voglio più. Io me ne rido dei suoi principii e delle sue teorie! Non sono mica un milionario io per avere tante fisime!
Carlo. — Dica piuttosto che lei ha promesso di accordarmi una dilazione dopo di aver indagato in quali ristrettezze io mi trovassi; e quando si è pensato di avermi legato mani e piedi alla sua discrezione, ha creduto di potermi far speculare sulla carne umana, sulla miseria! Ma che cosa ha trovato nella mia vita o sulla mia faccia che possa averlo incoraggiato a farmi una tale proposta?
Faust. — Se poi la piglia su questo tuono, caro lei...
Carlo. — Oh basta con questo caro! Faccio di cappello a tutti, ma non accordo la mia amicizia che alle persone provate che mi stanno pari nei sentimenti.
Faust. — Ed io non sono suo pari? Chi è lei alla fin fine? Oh mi faccia il piacere, il signor cavaliere della democrazia!
Carlo. — Si, democratico con tutti quelli che valgono quanto me, a qualunque classe appartengano; ma con lei che mi propone un atto vergognoso, rammento, non che ci separa la nascita e lo studio, ma quell'abisso che separa gli uomini pari suoi dall'uomo onesto!
Egisto. — Carlo...
Faust. — Così tratta il suo creditore?
Carlo. — Ringrazi che questa è casa mia e se ne vada prima che dica peggio.
Faust. — Casa sua? Ah! ah!
Carlo. — Che cosa vuol dire?
SCENA XV.
AGNESE ed ANNA dalla destra. Detti.
Faust. (sulla soglia della porta in fondo). — Che finchè non mi ha pagato, questa è più casa mia che sua!
Carlo. — Questo è troppo!
Faust. — La rivedrò, signor cavaliere, ma meno orgoglioso!... (esce dal fondo)
Carlo. — Vigliacco! — Ieri operaio, oggi si vale della fortuna per schiacciare i suoi compagni di lavoro!
Anna. — Basta, basta! Se rimanessi ancora un minuto, sarei troppo colpevole. Agnese, preparati subito a partire con me.
Carlo. — Mia moglie? Ah questo poi no!
Anna. — Dopo di averla condannata a fare una vita indegna, la vuoi anche uccidere con cotesto scenate?
Carlo. — Egisto, portala via, portala via!
Egisto. — Ma se ha ragione! Che è una vita questa?
Carlo. — Perchè non vai anche tu? Perchè ci sei venuto?
Egisto. — Perchè speravo che le prime lezioni ti giovassero.
Carlo. — No, che non è così. Tu sei venuto qui con lei per farmi quella guerra muta, continua, implacabile, che è l'ostacolo più doloroso che io abbia incontrato nella mia vita; perchè la vostra cortesia viene dalle labbra e non dal cuore; perchè voi non sentite entusiasmo per nessuna cosa, per quanto possa esser bella e generosa; perchè in te, come in lei, tutto si riassume in una parola: egoismo; ma il peggio degli egoismi, l'egoismo gretto, beffardo, pedante!
Egisto. — Pedante? Andiamo via subito, o mi coglie un accidente!
Anna. — Sicuro che andiamo... Su, Agnese.
Agnese. — Carlo, per nostro figlio, se non per me, cedi!
Carlo. — No, no e no; non cederò che morto!
Anna. — Cederà quando non sarà più in tempo, come suo padre!
Carlo. — E sarò anch'io vittima del lavoro, ma non avrò ceduto!
Anna. — Ma che vittima del lavoro, vittima del fallimento, della disperazione...
Agnese. — Non è vero! non è vero!
Anna (seguitando). — Me lo disse lui spirando!
Carlo. — Mio padre! (cade sopra una sedia singhiozzando)
Agnese. — Crudeli!
Egisto. — Sì, ma lo ha voluto.
Anna (ad Agnese, mentre trae con sè Egisto, sottovoce). — O in questo istante, o mai più.
Egisto. — (Un'altra di queste scene, e altro che pedante... sono addirittura morto!) (esce con Anna dalla destra)
Carlo. — Mio padre! Mio padre!
Agnese. — Non fare così, Carlo, te ne scongiuro!
Carlo. — No, non resisterò a questo colpo! Il modello della mia vita, la memoria più soave ed illibata, ad una sola parola spariscono nell'orrore di un delitto!
Agnese. — Carlo, calmati... Vedi, io temo che il tuo carattere istesso ti faccia ingiusto... Tu non sai per quali strette passò il suo, prima di cedere...
Carlo. — Suicida mio padre!
Agnese. — Perdonami; ma tu non lo devi giudicare, povero vecchio! Non sai se gli ostacoli con cui ha dovuto lottare non erano anche più grandi di quelli che tu combatti!
Carlo. — Ma suicida, lui! Tutto il mio coraggio si sente disarmato: sparito il faro, a che lottare colla tempesta!
Agnese. — Come? Tu che sai dov'è il male, tu che puoi rimediarvi, ti avvilisci e stai per cedere atterrito? Ma ciò sarebbe dar ragione ai pusillanimi ed a quelli che odiano, e torto a quelli che amano! Sarebbe la condanna spietata di tuo padre che amò forse morire, non per viltà di chi fugge, oh no! egli non sarebbe stato tuo padre! ma per lasciare a te, giovine, coraggioso, intelligente, quel còmpito che era divenuto troppo superiore alle forze di un povero vecchio spossato e senza conforti di famiglia... Sai che cosa diceva a mia madre nella sua ora suprema? Non dirlo a Carlo; egli forse non mi comprenderebbe e non avrebbe più fede! E tu saresti ingiusto colla sua memoria?... No, Carlo, non sia mai così! Coraggio! Avanti sempre!
Carlo. — Agnese, tu non mi hai mai parlato in questo modo...
Agnese. — È vero; ma io ti ho visto soffrire ed ho sentito che per me era un dovere ed una consolazione lasciar parlare il cuore, e l'ho lasciato parlare...
Carlo. — Dunque, se io non mi dessi per vinto, tu non mi abbandoneresti?
Agnese. — Abbandonarti? Ma se non mi sono mai sentita tanto felice d'esserti moglie come in questo momento!
Carlo. — Ah! grazie, Agnese, grazie di queste tue parole che ridestano tutto il mio valore! Se Faustini vuole opprimermi, se i parenti mi negano soccorso, ebbene, mi salveranno i miei lavoranti!
SCENA XVI.
EGISTO, da viaggio, con due sacche, e poi subito ANNA, col cappello, dalla destra. Detti.
Egisto. — Pst.. Lo hai deciso?
Agnese. — Sì, è deciso!
Carlo. — Più che mai!
Egisto (ad Anna che entra). — È deciso, sai; partiamo tutti...
Anna. — Finalmente!
Agnese. — Noi due restiamo.
Anna. — Ah!
Egisto (lasciando cadere le sacche). — Domicilio coatto a perpetuità!!
FINE DELL'ATTO SECONDO.
ATTO TERZO
L'interno dell'officina meccanica del Valori, illuminato dall'ampio lucernario a cristalli praticato nel soffitto, sorretto da travatura di ferro. Due porte laterali: una a destra, che scorge al quartiere di Valori, e l'altra a sinistra, che dà sulla via. Più in là, a destra, una grande macchina a vapore verticale con fornello, manovelle per le valvole e congegno di trasmissione di movimento, addossata ad un pilastro con camino in cotto e sostenuta da una base di due scalini di pietra. Di faccia, a sinistra, un trapano ed una grue; dietro il trapano un vasto fucinale rivolto verso il fondo. Fra il fucinale e la grue l'asta col pallino dei mantici. In alto, carrucole, ganci e catene infissi in una trave armata. Lungo la parete, in fondo, i banchi dei limatori colle morse, i limatoi, delle caldaie in rassetto, trafile, argani ed altri congegni meccanici; nel mezzo, un'ampia finestra con inferriata ed invetriata fissa, la quale scorge sopra la piazza. Sulla scena: pezzi di ferro da rifondere e tre incudini coi loro martelli. — Presso il fornello una pala da carbone, ed una stanga da attizzare; presso il fucinale forbici e tanaglie di diversa misura e forma. — Presso la macchina, appesi al pilastro, un termometro ed una lavagna; sopra un palchettino infisso nel pilastro istesso, un bricco di latta a lungo beccuccio per ungere i congegni, del cotone in fiocco, della stoppa e dei cenci. La porta a sinistra si chiude a chiave, e la chiave si appende presso la macchina ad un chiodo piantato nel pilastro, fra il termometro e la lavagna. — È giorno.
SCENA I.
Tutti gli operai di Valori, sotto la direzione di FRANCESCO. — All'alzarsi del sipario il lavoro ferve vigorosamente. — MARTINO, AMBROGIO, GENNARO ed altri sei lavoranti massellano sulle tre incudini le estremità di stanghe di ferro sostenute da apprendisti. — BOBI al mantice, CENCIO al trapano; ORESTE butta del carbone nel fornello della macchina e vi attizza il fuoco; i limatori attendono alla loro opera presso i banchi in fondo, mentre altri operai, scaglionati in catena dal proscenio a sinistra alla seconda quinta a destra, fanno passare rapidamente dall'uno all'altro i pezzi di materiale che scompaiono così dietro la macchina.
Genn. (terminando di cantare una canzone in dialetto napoletano). — Trallalla lallà... la lallera lallà!
Franc. (ai massellatori). — Basta! — Al fucinale per la tempra, Martino. — Oreste, ad attizzare. — E voi, Bobi, soffiate. — Gennaro, quante volte vi ha detto il principale di non cantare prima delle quattro?
Genn. — Caro Franceschiello, ma io non canto.
Franc. — Fatemi il piacere, Gennaro, che v'abbiamo inteso tutti: trallalla lallera lallà!
Genn. — No! Scusate, padrone mio, non va cantata così; ma a questo modo: trallallà, lallà... lallera lallà, e così la canto io che l' aggio imparata all'officina di Pietrarsa.
Franc. — E allora perchè dite che non è vero che cantate?
Genn. — Perchè io non canto, sulfeggio!
Franc. — E non potreste stare senza sulfeggià, benedetto voi?!
Genn. — Sì, ma sarei come un uomo acciso, e lavorerei anche meno; cantanno, cioè sulfeggianno, noi non si sente neanche la fame. Proibire a noi di cantare? Allora bisogna dire che si vuole a' rivoluzione!
Franc. — Basta. (agli operai che hanno trasportato il materiale) Al magazzino... Cencio, date voi una guardata. (scompare dietro la macchina seguito dagli operai già in catena)
Cencio. — Oreste, occhio alla macchina, che ha sete, e bada alle valvole, veh, che con quell'arnese non si scherza: ne va della pelle. — Bobi, animo; altrimenti quella tempra non si fa prima del mezzogiorno. (scompare un momento dietro al fucinale)
Bobi. — Tanto meglio se non si fa!
Oreste. — E il carbone chi lo paga?
Bobi. — Me ne importa assai. Domando io se un uomo veramente libero dovrebbe passare la sua vita a soffiare!
Mart. — Lui l'ha sempre colla politica.
Bobi. — Senti, se tutti i disperati pari miei si mettessero d'accordo una volta, mondo birbone!
Oreste. — Vorresti che non ce ne fossero più dei padroni, eh? (ritorna Cencio)
Bobi. — Già, per farmi servire un pochino anch'io!
Cencio. — Sentite, Bobi, io lavorerei sempre; che se non lavoro m'annoio un buscherìo!
Oreste. — E così Cencio fra quattr'o cinqu'anni sarebbe daccapo più ricco di voi... Fatemi il piacere! Se nessuno potesse lavorare, non vi domando come ci si potrebbe campare, ma chi ci terrebbe aperte le osterie?
Bobi. — Oh bella! Il Municipio.
Mart. — Il torto di Bobi ve lo dico io subito; è quello di non aver girato l'Italia, con licenza parlando. Sapete quello che diceva sempre Cavour? Gira l'Italia.
Genn. — Aveva ragione: vedendo s'impara.
Cencio. — Sicuro, perchè ogni diritto ha il suo rovescio, come ogni paese ha pure il suo bene.
Mart. — Io, con licenza parlando, qui non ho imparato a parlare toscano?
Cencio. — Ah! ah!
Bobi. — Carino quel toscano!
Oreste. — Tittirrittì, tittirrittimì, tittirrittilè! (ridono tutti)
Mart. (un po' piccato, ad Ambrogio). — Pazienza che ridano loro che sono toscani perchè ci sono nati; ma tu?
Ambr. (scherzando). — Cos'iin sti ciaccere? Se mi voglio, parli count ün accento pü se tüscanno de tucc' voi alter!
Genn. (come sopra). — Come sarebbe a dicere di tucci voi alteri? Se io volesse parlà tuscane, sanghe dello ciuccio, saprìa parlà meglio di molti professori, e anche di chilli addottorati... perchè quanno era piccirillo e ghievo a scola, a mamma me diceva sempre: va, figlio mio, e sturea; ca tu tiene una capa, anzi uno capone, da addiventà certo n'alletterate. E però s'io non sono n'alletterate, è sulamente perchè non aggio sturiato!
Gli altri. — Ah! ah! Bravo Gennaro!
SCENA II.
CARLO dalla destra, poi subito FRANCESCO dal fondo a destra. Detti.
Carlo. — Bravissimi! Tutti a fare la burletta, ed il primo di agosto è imminente! Dov'è il capo-fabbrica?
Franc. — Eccomi... eccomi...
Carlo. — È vicino il mezzogiorno e quella tempera non è ancora all'ordine. Questo fusto non è mica stato massellato a dovere, sapete. Siete tutti addormentati? Carbone al fucinale, attizzate; e voi, Bobi, di grazia, un po' meno flemma! Alla fiaccona di questo messere non ci badate mai?
Bobi. — Se non è contento, me ne vado anche adesso io...
Carlo. — Nossignore, adesso; mi siete in debito di cinque giornate. Dopo se ve ne andate, mi fate un piacere.
Bobi. — Mondo ladro, perchè sono stato disgraziato!
Carlo. — Tacete, se non volete che dica io chi siete. Ora, attenti, fabbricatori, al modo di arroventare un fusto per la tempra.
Bobi. — (Me l'hai da pagare!)
Carlo. — Rivoltate il pezzo. — Due spruzzi d'acqua, Oreste, e sollevate un pochino... Spingete un po' più nel fucinale... Una mano, Oreste... sotto!
Oreste. — Non si resiste più...
Carlo. — Resisto io! (butta via l'abito, stando primo alla vampa del fucinale)
Franc. — Che fa, cavaliere?
Carlo. — Ma che cavaliere! Non sono mai stato tanto cavaliere come in questo momento... Attenti! Vedete il colore giusto? Alla pila subito!
(scompare dietro il fucinale coi massellatori. — Tocchi di campana: Carlo, Francesco ed i massellatori ritornano in iscena senza il fusto. — I lavoranti pigliano chi il cappello e chi la giacca riposti in qualche angolo, e si dispongono ad uscire)
Carlo (a Francesco). — Abbiate pazienza, Savelli; ma qui non c'è quella disciplina senza di cui non si fa mai nulla di serio nè fra soldati, nè fra operai.
Franc. — Ne convengo; ma alla fin fine un artigiano non è un soldato.
Carlo. — Chi ve lo dice? Soldato della pace, ma non senza pericolo, combatte anche esso per la grandezza della patria, poichè a farla gloriosa e potente non vogliono essere soltanto spade, ma spade e martelli, ed è coi buoni martelli che si fanno le buone spade.
Franc. — Lei ha ragione... Già, ha sempre ragione!
Carlo (avviandosi alla destra). — Perchè in fondo io amo e stimo il lavoro e il lavorante forse più di voi altri tutti... Buon appetito, figliuoli. (esce dalla destra, mentre gli operai escono dalla sinistra)
Franc. — Sì, tu hai ragione; ma c'è qualche cosa nella tua onestà, nel tuo ingegno che io non posso subire, perchè mi pare che voglia farmi sentire la mia inferiorità... Mi hai confidato ogni tuo segreto... perchè sai che non ti potrei tradire... o meglio perchè non potevi farne a meno... ma sei sempre il principale, ed io il povero capo-fabbrica inchiodato qui dal bisogno! Ecco Matilde... Non vado a fare colezione a casa per guadagnar tempo, e lui... Oh! non sarebbe Faustini che agirebbe così con me!
SCENA III.
MATILDE dalla sinistra con un panierino coperto da un tovagliolo di bucato, coll'occorrente per fare colezione. Detto.
Mat. — Eccomi a te, Francesco. C'è del nuovo, sai, oggi... Hai appetito?
Franc. — Poco; il caldo mi opprime... e poi con quell'uomo incontentabile!... Che non abbia a finire un giorno questo pane così salato?
Mat. — Abbi pazienza, Francesco; tu sai quali impegni abbia il Valori sulle braccia...
Franc. — Io so e non so... Se non faccio per lui, parli chiaro: c'è chi mi cresce la paga e mi dà il titolo di direttore.
Mat. — Vuoi dire il Faustini?
Franc. — Sì... Dammi da bere... Non sono padrone di servire chi mi pare?
Mat. — Certamente. Ma bevi adagio... Francesco, tu sai in quali rapporti si trova il cavaliere Valori col Faustini?
Franc. — Cani e gatti, ma ciò non mi riguarda: la mia opera è per colui che la ricompensa meglio. Metti via che non voglio altro.
Mat. — Tu non ignori però che il Valori deve aver terminato e consegnato le sue macchine per un'epoca fissata, e sai quello che mi ha detto sua moglie.... Quella non si vergogna mica di parlare con me dei suoi guai!
Franc. — Già lo so che ti lasci subito commuovere da quattro chiacchiere; ma son queste le belle novità che mi vuoi dire?
Mat. (con serietà). — Senti, Francesco; tu sai se io ami la mia bambina e ti ricordi che i medici sono tutti d'accordo nel dire che il rimedio veramente sicuro sarebbe per lei quello dei bagni di mare.
Franc. — Sì, e anche per questo sento che mi costerebbe meno piantare il Valori.
Mat. — Ed io credi che non sarei felice di vederla una volta alzarsi da quella seggiola ove sta tutto il giorno senza mai rallegrarmi di un sorriso? Oh se bastasse camminare un giorno intiero coi piedi nudi sulle spine per ottenere la sua guarigione, io affronterei sorridendo il martirio, perchè il giorno in cui potrà correrti incontro quando ritorni dal lavoro, il giorno in cui la sentirò ridere e finirò d'invidiare tutte le altre madri, quel giorno sarà bello, molto più bello di quello in cui ti ho sposato!
Franc. — E tu non vorresti che io mi accordassi col Faustini, il quale ci porge il mezzo di vedere la nostra bambina risanata più presto?
Mat. — Ora guarda... (trae dal seno due biglietti da cento lire) Sono duecento lire...
Franc. — Da tuo padre? No; t'ha dimenticata lui! Dal Faustini adunque?
Mat. — Sì. Quando li ho avuti nelle mani, il primo mio pensiero fu alla bambina, e ho detto: con centocinquanta lire sto a Viareggio un buon mese pei bagni, e le altre cinquanta me le spendo in tanta biancheria.
Franc. — Brava; così saranno spesi bene.
Mat. — No, Francesco, questo denaro io corro a riportarlo a chi me lo ha mandato a titolo di regalo, ma colla condizione sottintesa che io ti consigli ad abbandonare il Valori in questo momento.
Franc. — Matilde, mi viene un'idea. Se io rimanessi col Valori fino alla consegna delle macchine, e poi andassi dal Faustini, che male ci sarebbe?
Mat. — Senti; non ti pare che il Faustini tutto quello che fa per trarti a sè, non sia anche un po' per far dispetto e danno al Valori? E Faustini lo sa che il Valori ti ha rivelato il segreto della sua invenzione?
Franc. — Lo sa; ma ciò non vuol mica dire che io possa tradire il Valori!
Mat. — Lo credo io; ma non ti pare che ne avrebbe un po' l'apparenza?
Franc. — Ma tu spingi troppo la delicatezza!...
Mat. — E sia; ma se tu sacrificassi a questo sentimento il tuo amor proprio, non ti sentiresti contento di poter dire: io avrei potuto guadagnare qualche cosa di più, avrei potuto fare qualche cosa di più per la mia creatura, e invece ho soffocato in me le voci di un giusto orgoglio, il grido del bisogno e della natura, per non disertare nel momento del pericolo la mia bandiera, per non unirmi a gente cattiva che vuole schiacciare l'uomo che ha avuto fede nella mia onestà e mi ha confidato il frutto più prezioso della sua intelligenza?
Franc. — Oh sì, Matilde, sì che ne sarei contento; ma cara te, la povertà mi fa paura!
Mat. — O bella la povertà, quando ci lascia il diritto di stimarci superiori alla nostra sorte! Cara e santa, quando non è l'effetto del vizio e del disonore!! Mio caro Francesco, io ti voglio dire una cosa che non ti ho detto mai. Anch'io ho avuto i miei momenti di sconforto; anch'io ho pensato talvolta alle mie amiche più agiate, più ben vestite di me; ma non ho cessato d'amarti, non ho cessato di essere contenta di te, perchè io sono convinta che sotto il tuo saio c'è un cuore che mi ama, e me lo prova col sentimento dell'onore più geloso, della delicatezza più profonda!
Franc. — Non posso fare che questo per te, e anche questo sei tu che me lo hai insegnato!
Mat. — E a me, Francesco, il pensare che se tu senti e agisci a questo modo, è anche un po' perchè tua moglie non è la donna triviale che si contenta d'esser portata al caffè e all'osteria, mi fa bene, mi fa più contenta che se tu mi potessi regalare vezzi di gioie, ed abiti sgargianti... Or dunque, poichè non ti chiedo nessun'altra cosa per la mia felicità, lasciami questa santa consolazione di saperti generoso e leale che mi compensa ad usura della povertà!
Franc. — Oh sì, Matilde! E per dartene una prova andiamo subito da Faustini a restituirgli i suoi denari.
Mat. — Ah! (con slancio, baciandolo) A te con tutta l'anima! (escono dalla sinistra correndo e tenendosi per mano)
SCENA IV.
MARTINO dalla sinistra, poi CARLOTTA.
Mart. (accennando a Francesco e a Matilde già usciti). — Il matrimonio deve avere qualche cosa di buono... (dà un fischio: entra Carlotta) V'ho da dire una cosa, la mia Carlotta...
Carl. — Che cosa è questa mia?
Mart. — Non lo credete che avete ad esser mia?
Carl. — Non credo neanche all'aceto io; e se non vi si cresce la paga, ve lo dico tondo, potete starmi parecchio lontano dai contorni delle scarpe.
SCENA V.
Dalla destra CARLO inosservato. Detti.
Mart. — Sentite, il signor Faustini ha fatto offrire dieci soldi di più per giornata a me, Cencio, Gennaro ed Ambrogio, e sta attorno al capo-fabbrica per guadagnarselo anche lui. Or bene, se per questi altri dieci soldi, che fanno la bellezza di quattro lirette, vi decidete a sposarmi, io, con gran dispiacere.... per lui... pianto qui su due piedi il cavaliere!
Carlo. — Bravo!
Carl. — (Tonfa!)
Mart. — (Ahi! Ahi!) Ho detto con gran dispiacere.
Carlo. — Già, per me. (a Carlotta) Che fai tu qui?
Carl. — Io cercava... della limatura per far pulito il rame...
Carlo. — Va in casa subito. (Carlotta esce dalla destra. — Suono di campana)
Mart. — (Pagherei dieci soldi per trovarmi lontano un miglio).
Carlo. — Martino, Faustini tenta adunque di prendermi tutti i migliori operai, e voi altri che sapete in quali impegni mi trovo, mi piantereste senza dirmi un'acca!
Mart. — (Ne pagherei venti per trovarmi in cantina).
Carlo. — Questo prova che avete forse una ragione di farmi del male...
Mart. — No, per Diesana!
Carlo. — E allora?
Mart. — E allora, si capisce... l'amore! Ecco la ragionaccia! Ma la ringrazio d'avermi avvisato, e stia sicuro che finchè non abbia terminato i suoi impegni, non mi muovo, neanche se Carlotta, non so se mi spiego, diventasse più bella della Madonna della Guardia!
Carlo. — Basta, Martino... Lo sapevo io: uno per uno di voi se ne fa quello che si vuole. Vi ringrazio e saprò ricompensarvi.
SCENA VI.
FRANCESCO, GENNARO, CENCIO, AMBROGIO, ORESTE, e tutti gli altri lavoranti, dalla sinistra. Detti.
Carlo. — Figliuoli, vi ho a pregare tutti di un favore: perchè le macchine possano esser mandate in tempo al Richard, ci vorrebbe una giornata di più di lavoro, quella giornata appunto che si è perduto per solennizzare non so che festa. Per ricuperare questa giornata bisognerebbe che mi deste un'ora di più al giorno per questa sola settimana.
Tutti. — Sì, sì, volentieri.
Carlo. — Oh bravi! bravi davvero e grazie!... È inutile che vi dica che da lunedì venturo l'orario sarà nuovamente ridotto di quest'ora, per cui riceverete un proporzionato aumento di paga. Ora al lavoro. (a Francesco) Avete sentito, Savelli, che razza di guerra mi fa il Faustini? E temo anche peggio da certe voci!
Franc. — Non abbia timore; i suoi operai gli sono fedeli.
Carlo. — Guai a me se dovessi dubitarne! Ora vediamo il materiale ed il carbone per non esser colti alla sprovvista.
Franc. (agli operai che s'apprestano a lavorare). — Date mano ad imperniare le ruote dentate, limatori; e voi altri massellatori alla tornitura dei fusti. (a Carlo) In queste ore più calde un lavoro meno faticoso profitta di più...
Carlo. — Approvo il vostro consiglio. (escono entrambi dalla destra)
SCENA VII.
BOBI dalla sinistra guardingo. Detti. Quindi BARTOLO pure dalla sinistra.
Bobi. — Amici, gran nuovità; il signor Faustini ha accresciuto l'orario senza crescere la paga, e perciò tutti i suoi operai sono in isciopero.
Cencio. — Che n'importa? Noi abbiamo promesso di lavorare, e lavoriamo anzi un'ora di più, colla differenza però che il nostro principale ce la paga. (a Bartolo) Che vieni a fare tu qui?
Bart. — Sentite, anche la fabbrica Ramaccini fa sciopero, e mi hanno mandato a dirvi che vogliono facciate il medesimo.
Mart. — Vogliono?
Bart. — Sono più di duecento con quelli del Faustini.
Mart. — Duecento, o mille, che importa? Se esco io col martello scappano tutti.
Oreste. — Se mi volete, mi incarico io degli apprendisti.
Cencio. — Insomma abbiamo promesso e lavoriamo.
Bobi. — Io non ho mai promesso di lavorare: e poi gli è tanto di riposo perduto!
Bart. — Badate che potrebbe finir male, ma molto male!
Bobi. — Sicuro; perchè vi volete far rompere la testa, e perdere quest'occasione di far la legge anche un pochino voi altri?
Mart. — Sentite; la testa io l'ho dura, e se si deve far la frittata ci voglio essere anch'io. Dunque pochi discorsi, perchè sappiamo che voi altri avete del rancore contro il Valori. (a Bartolo) E tu cosa fai qui? Gira l'Italia!
SCENA VIII.
FRANCESCO dalla destra. Voci dalla piazza in fondo. Detti.
Bart. — Sia pure; ma avete da cedere tutti quanti.
Franc. — No, che non si cederà! Aria, galantuomo. (Bartolo esce dalla sinistra. — Francesco chiude col catenaccio e colla mandata la porta a sinistra e va ad appendere la chiave presso la macchina a vapore) La porta è solida e si chiude per bene; dall'inferriata della finestra non passano. Lavoriamo tutti come se nulla fosse. (si rompe un vetro della finestra in fondo) Che fate?
Una voce (chiara e vibrata dalla piazza). — Il lavoro deve cessare in tutte le officine finchè non sia diminuito l'orario.
Franc. — E se noi si volesse lavorare?
La voce. — È inutile resistere. Siamo più di duecento noi.
Franc. — Sentite, vi do un consiglio; fate la vostra strada.
Cencio. — E andate a farvi friggere!
La voce. — Poche parole: per l'ultima volta, sì o no?
Tutti. — No! no!
La voce. — Vigliacchi!
Franc. — Ah! venite dentro, se l'osate; venite alla porta!
Tutti. — Venite!
(si armano di martelli e d'aste, meno Bobi che è disceso a destra; intanto una scarica di sassate dalla piazza frantuma quasi tutti i vetri e ferisce Martino)
Mart. — Tirano delle pere loro!
Franc. — Ah! volete proprio far davvero? Ebbene il padrone ha delle armi per difenderci, e noi ci difenderemo. (corre per uscire dalla destra)
Bobi (arrestandolo). — Fermo. (gli operai, senza badare a Bobi, parlano concitati fra di loro)
Franc. — Levati dai piedi, poltrone!
Bobi. — Meno superbia, sor Cecchino, se non vuole che ricordi a sua moglie dove ci siamo conosciuti!
Franc. — A mia moglie! Ebbene, sia; sarà meno peggio che subire le tue minaccie!
Bobi. — Ma non basta, signorino, perchè lei e la sua famiglia sarà fatta segno alla vendetta di tutti i miei compagni, se fa bisogno.
Franc. — La mia famiglia?
Bobi. — La vada a dare un'occhiata là fuori, e poi mi dica se quei musi la risparmierebbero!
Franc. — E io dovrò cedere come un vile?
Bobi. — Che cedere? Non hai che da tacere. (agli altri) Anche il capo-fabbrica è convinto che non si può resistere.
Cencio. — Non è possibile!
Franc. (dominato da Bobi). — Eppure è vero; riconosco, malgrado mio, che bisogna cedere al numero.
Cencio. — E allora è inutile rompersi la testa, compagni.
Gli altri (deponendo gli strumenti). — Quando lo dice il capo-fabbrica!
Franc. (isolato ed assorto nei suoi pensieri). — (O che infamia! che viltà vergognosa! Ma posso io esporre il mio onore ai sospetti di Matilde, e Matilde istessa e la nostra creatura alla vendetta dei ribaldi di cui costui è strumento?)
Bobi (al fondo). — Pace! Pace! Neanche noi non si lavora più: evviva la vera eguaglianza!
Molte voci (di fuori con applausi). — Bravi! Bravi! Evviva!
Una voce. — Prendete e suggelliamo la pace...
(dalla piazza si sporgono agli operai vari fiaschi di vino e qualche bicchiere; comincia a bere qualche lavorante in fondo, e poi poco a poco finiscono per fare lo stesso anche gli altri)
SCENA IX.
AGNESE dalla destra, ed EGISTO in abito di tela bianca. Detti.
Egisto. — Vedrai che tutto è inutile... (rimane sulla soglia a destra)
Agnese. — Dov'è Carlo?... Che fate? Non avete udito la campana del lavoro?
Bobi. — Quella non è la campana del lavoro; è la squilla della li-ber-tà!
Agnese. — Sentite: se non è questione che di denaro, l'accomoderemo meglio fra noi, che Carlo non ne sappia nulla... Egli non spera più che in voi, lo sapete... Via! se egli ha qualche titolo alla vostra benevolenza, se io stessa ho potuto fare qualche cosa per le vostre famiglie, voi ci avrete ricompensati ad usura sdegnando di imitare i lavoranti delle altre officine... Oreste, dà tu il buon esempio: il fornello della macchina è ormai spento; buttaci del carbone.
Oreste. — Subito, signora... (azione)
Bobi. — Fa scoppiare la caldaia, imbecille! E lei, mi faccia la grazia di non seccarci altro.
Franc. — Una parola di più alla signora e ti strappo la lingua!
Agnese. — Signor Savelli, lei aspetta che mi si perda il rispetto per usare la sua autorità? Lei se ne sta colle mani in mano in questo momento?
Franc. — Non posso far nulla!
Agnese. — Dunque il mio Carlo avrà avuto invano fede ed affetto per voi tutti? povero sognatore! (ad Egisto) Aspettami, corro a cercare mio marito che saprà ricondurli al dovere.
Egisto. — Mi lasci solo?
Agnese. — Avresti paura? (via dalla destra)
Egisto. — (Paura io? ho spavento!)
Bobi. — Venga, venga, sor cavaliere! Eh che caldo?
Egisto. — (Sarà bene fare un po' il democratico). Un caldo... un caldo che fa sudare anche i sordi!
Bobi. — To', ha dello spirito lui! Levatevi pure la giacchetta senza complimenti...
Egisto. — Grazie... (Mi dà del voi). Guardate come mi avete conciato!
Bobi. — Ma io vi pulisco subito...
Egisto. — (Con quelle zampe! E Carlo non arriva!) Non v'incomodate, brav'uomo...
Bobi. — Che bella facciona simpatica!.... Voi dovete bere un bicchiere con noi!...
Egisto. — Grazie tante!... Troppo buono! Ma non bevo mai fuori pasto!
Bobi. — Con questo caldo? Ma io i signori li capisco a volo: ricusa perchè non abbiamo un bicchiere pulito; ma ci penso io... (soffia dentro al bicchiere, lo asciuga colla camicia, e vi mesce) Alla nostra salute, se non siete un codino!
Egisto. — No; non son neanche un codino.... non son nulla io!
Bobi. — Giù tutto alla nostra salute!
Egisto. — Alla vostra salute! (Alla mia no certo) (beve) (Che veleno!) Ora che ho fatto a vostro modo, vorreste farmi una grazia?
Bobi. — Parla, anima mia! Vuole offrirci dei sigari di sicuro...
Egisto. — Eccone... ecco tutti quelli che ho in tasca; ma ora, da bravi, al lavoro...
Bobi. — Come? Tu che fai il cavaliere tutto l'anno, ora hai lo stomaco di venirci a predicare il lavoro?
Egisto (intimorito). — No, no, vi faceva la commissione; ma poi per me lavorate, cantate, ballate, torna lo stesso... (Mi dà del tu; come finirà?)
Bobi. — Oh così sta bene! Ma già basta guardarti: con quella bella cera da frate priore, con quella pancia che pare un armadio da osteria, si capisce subito che non puoi aver simpatia per il lavoro! To', simpaticone, non so resistere al desiderio di abbracciarti!
Egisto. — Resistete, ve ne prego, resistete!
Bobi. — Nossignore, voglio levarmi il gusto di ballare una volta con un cavaliere... Musica!
(abbraccia Egisto per costringerlo a ballare: risate e chiasso in piazza, ma è l'affare di un istante)
SCENA X.
CARLO dalla destra. Detti.
Carlo. — Silenzio! (ad Egisto) Vattene. (Egisto esce dalla destra con premura) La campana è suonata da un pezzo, la macchina è accesa: a lavorare.
Bobi (s'avanza sfacciatamente verso Carlo, tenendo a sè dinanzi, come a difesa, or l'uno or l'altro dei compagni). — S'è finito di lavorare!
Carlo. — Voi comandate in casa mia?
Bobi. — Un po' per uno; oggi tocca a me.
Carlo. — Ed io vi caccio all'istante, perchè dei mascalzoni pari vostri non ho che a guardare nelle bettole lungo la strada per trovarne a centinaia.
Bobi. — Dei pari miei a centinaia? La gli gira!
Carlo. — Ma Cencio, Gennaro, Martino, ditemi voi se io sogno, se è vero che voi lasciate bestemmiare così questo avanzo di prigione.
Bobi (respingendo gli altri). — Con me deve aggiustare i conti, con me solo!
Carlo. — Io parlerò a voi lavoratori, perchè, a farlo con lui, lo schifo che ne sento potrebbe rendermi ingiusto. Non vi parlo da padrone, vi parlo da amico. In poche officine si paga il lavoro come da me; in nessuna come da me vi si dà un tanto per cento sugli utili. Quale pretesa potete avere?
Bobi. — Quando ce la saremo intesa coi compagni delle fabbriche Faustini e Ramaccini, la saprà; intanto bisogna crescere la paga e scemare di molto l'orario.
Carlo. — Siete pazzi? Se vi cresco la paga non posso più lottare cogli stranieri che hanno in casa metallo e combustibile! Quanto a scemare l'orario vi ricordo che non è mezz'ora che m'avete promesso di crescere il lavoro!
Bobi. — E ora non si vuole più, oh! Che cosa è alla fin fine il vostro capitale senza di noi?
Carlo. — Nulla.
Voci (ed applausi di fuori). — Bravo!
Carlo. — L'ho detto io e lo ripeto: non è nulla! Ma voi, mano d'opera, ditemi un po', che cosa diverreste se il capitale facesse contro di voi lo sciopero che credete profittevole e giusto per voi soli? E dal momento che non deve essere stimato altro che l'operaio, perchè dovrà solamente contare quello che lavora colla mano e non anche quello che lavora coll'ingegno e lo studio? Forse per creare un nuovo tiranno più cieco e brutale di quelli che ci hanno oppresso?
Bobi. — Tutte parole buttate: a noi la sua aria di professore non può farci nè caldo nè freddo, perchè alla fin fine lavoranti e principali, tutti eguali ora!
Molte voci (dalla piazza con applausi). — Bene! Bravo! Bis!
Carlo. — Poveri figliuoli; vi hanno gonfiato il capo di parolone che non capite, e me le lanciate come una minaccia e una condanna! Siamo tutti eguali dinanzi al diritto di vivere ed alla legge: così è, e così deve essere. Ma dinanzi alla scienza, ma dinanzi al lavoro, quello che tira il mantice sarà eguale a me che so, e invento? Se è così, su, mastro Bobi, venite a mettervi al mio posto nell'officina e allo scrittoio; e se i vostri calcoli e i vostri disegni saranno migliori dei miei, voi sarete il principale ed io l'artigiano. Ah! cieco, che mi vuoi essere uguale in tutto fuorchè nella fatica, te lo mostro io il modo di essermi eguale, il segreto per diventar principale: lavoro, temperanza, risparmio! E tu disgraziato, invece di cercare nella temperanza la forza, nel risparmio l'indipendenza, nel lavoro la vera nobiltà, non desideri che di far nulla, affidando il tuo avvenire agli avvocati del disordine, od al Monte di pietà, al lotto ed all'ospedale! Ma guarda che miseria è la tua: sei miserabile fino nel desiderare!
Bobi. — Tu l'ha a vedere!
Carlo. — Allora fuori dei piedi te ed i poltroni che ti vorranno seguire! (movimento degli operai per uscire)
Genn. — Eccellenza, se non ci date la chiave!...
Carlo (atterrito). — Tutti uscite?... Tutti, quando la vostra diserzione può costarmi l'avvenire? Cencio, Martino, Gennaro, Ambrogio, fuori dalla cerchia dannata! Accusatemi, parlate, dite che cosa vi ho fatto io per essere tradito in questo momento?
Cencio. — Sono più di duecento fuori, ed hanno già ferito Martino.
Mart. — Io sono bell'e guarito, padrone; ma sono più del doppio di noi.
Ambr. — Sor Carlo, non si comprometta... Anche lei è padre di famiglia.
Carlo. — Ah se non è che questo! Savelli? Dov'è Savelli? (scoprendolo) Francesco, se ci attaccano... (fischi ed urli al di fuori) Fischiate; a Custoza ne ho sentiti dei più terribili senza impallidire... (si rompono altri vetri) Buon augurio: è un vetraio che cerca lavoro... Animo, Savelli, venite con me...
Bobi. — Savelli non si muove.
Carlo. — Savelli?
Franc. — Sull'onor mio non si può!
Carlo (smarrito). — Savelli, voi sapete che cosa sarebbe di me se non potessi terminare a tempo il lavoro e pagare le cambiali!
Franc. — Ma non capisce che io non posso far nulla?
Carlo. — (O Dio! Dio!) Ma figliuoli, v'ho da scongiurare in ginocchio?
Operai (che bevono in fondo). — Alla sua salute!
Carlo (indignato). — Ah! Li ha ubbriacati l'infame, e poi li ha comprati! Ebbene io vi discaccio tutti, sì, tutti; e te per il primo, serpente che ho raccolto nel fango e che ora ti schieri coi miei nemici!
Franc. — Ah! non una parola di più!...
Carlo. — Sì, ti ho confidato il mio segreto, la mia invenzione, e tu mi vendi ad un Faustini! Vile traditore, più vile di Giuda!
SCENA XI.
AGNESE, dalla destra, inosservata. Detti.
Franc. (slanciandosi fuori di sè ad armarsi di un martello).
Voci (di fuori). — Dàgli!... ammazzalo!
Carlo. — Ah sì?... (cava di tasca una rivoltella e l'appunta contro Francesco)
Franc. — Ebbene mi ucciderai; ma resteranno cento per strapparti il cuore!
Agnese (che colpita dall'idea di poter salvare Carlo si è intanto slanciata alla macchina ed ha chiuso le valvole di sicurezza, grida con forza:) — Non resterà nessuno perchè scoppierà prima la macchina!
Franc. e tutti gli operai (si buttano smarriti verso la porta a sinistra con un grido di terrore).
Carlo. — Ah! Vedete quando combattete per l'ozio e per l'invidia come la mano di una donna basta per schiacciarvi! Io potrei seppellirvi tutti con me sotto le rovine dell'officina; ma preferisco di lasciare a voi soli il vanto di avermi assassinato!
(getta loro la chiave della porta e riapre le valvole. Mentre un operaio si precipita per pigliare la chiave, e Carlo, sostenendo Agnese che si è abbandonata fra le sue braccia, intima a loro tutti di uscire, cala rapidamente il sipario).
FINE DELL'ATTO TERZO.
ATTO QUARTO
La scena dell'Atto secondo. — È giorno.
SCENA I.
CARLOTTA dal fondo e CARLO dalla destra con premura.
Carlo. — Ebbene? Nulla?
Carl. — L'impiegato telegrafico l'assicura che appena giungerà qualche dispaccio per lei, glielo farà subito recapitare.
Carlo. — Ogni minuto di ritardo è per me un secolo di penosa ansietà..... Manda all'ufficio Menico, qualche contadino.....
Carl. — Oh caro lei! Per paura degli operai, nessuno vuol più metter piede in questa casa... Ma, non dubiti, starò attenta io.
Carlo. — Mi raccomando, Carlotta. (Carlotta esce dal fondo) Paura, paura; ecco il gran segreto della possibilità di tutte le prepotenze! I mille che hanno paura dei cento... dei cento condotti da dieci, se sono tanti! È doloroso a dirsi, ma se a me resta la mia invenzione, se non ho tutto perduto, ho forse da ringraziare questi cittadini? No, perchè essi vogliono la libertà, e poi, quando si tratta di difenderla, o si nascondono, o veggono con gusto chi si ribella alla legge! (va allo scrittoio) E quel dispaccio da Marsiglia non giunge!
SCENA II.
EGISTO dalla destra con ombrello. Detto.
Egisto. — Buon giorno. Vorrei, se me lo permette il popolo sovrano, pigliare un po' d'aria in giardino..... Non hai scritto perchè l'autorità metta ordine e castighi? Tu speri che la dieta guarisca la febbre; ma persuaditi che alle persone per bene sarebbe una gran consolazione vedere nel paese un po' di quei pennacchi..... Di' ciò che ti pare; ma, quando ne vedo, a me pare che il cielo sia più sereno e gli uomini più onesti... (annasa tabacco; Carlo, che non gli dà retta, si mostra agitato e va a guardare verso il giardino) E vedi, per sentirmi rinascere l'appetito, io l'ho bell'e capita, bisognerebbe che ce ne fossero..... non dico molti, no..... ma, almeno, almeno, un paio..... per operaio! (Carlo torna allo scrittoio, Egisto guarda in giardino) Ah! c'è ancora la famiglia? Perchè non me l'hai detto? Se ci sono anche loro, io..... li posso proteggere!
Carlo. — Vuoi la mia rivoltella?
Egisto. — Una pistola nelle mie tasche? Farei portar l'abito da un altro. (È capace d'averla carica lui!) (affettando disinvoltura) E poi un uomo ne vale un altro alla fin fine. (s'incontra in Francesco apparso sulla soglia, ed indietreggia impaurito; quindi, per colorire l'atto poco coraggioso, va a salutare Carlo) (Lui ha la pistola). (esce dal fondo con affettata disinvoltura)
SCENA III.
FRANCESCO dal fondo. Detto.
Carlo. — Voi qui? Questo è troppo!.. Io posso perdonare tutto all'ignoranza, ma a voi... Uscite subito!
Franc. — È da otto giorni che aspetto questo momento, e lei mi ascolterà!
Carlo. — Vedremo se in questa casa non sono più io il padrone!
Franc. — Può anche battermi, ma deve finire per ascoltarmi. Sì; l'ultima parola che lei mi disse fu un atroce insulto, e tanto più atroce, quanto non meritato... Mi lasci dire! Uscii dalla fabbrica cogli altri, cercai di stordirmi, di ubriacarmi — bisogna che le dica tutto — e respinsi per la prima volta dalle mie braccia la mia creatura e maltrattai Matilde! Da quel giorno non so che mi faccia; ma so che nulla può farmi dimenticare quelle sue parole che non lasciano nè pensare ad altro, nè dormire.... Io so bene chi mi sia a petto di lei; so anche meglio che se io le domandassi una soddisfazione, lei si metterebbe a ridere. Eppure io ne avrò una...
Carlo. — Vendicandovi.
Franc. — Già, vendicandomi; ma lo indovina lei come?
Carlo. — Col vendermi, se ancora non mi avete venduto, al Faustini.
Franc. — L'ho sempre detto che lei non mi conosceva e perciò non mi poteva stimare! No, signor cavaliere, benchè io sia senza pane, e lei non me ne possa dare, io non intendo la mia vendetta a questo modo; anzi, le giuro sul mio onore che ad ogni costo la sua invenzione non uscirà di qui.
Carlo. — Possibile?
Franc. — Aspetti, aspetti! Si ricorda che, nel mio libro di benservito, c'è una lacuna di tre mesi che gli dissi di aver passato all'estero? Era una menzogna; li passai in prigione.
Carlo. — Voi?
Franc. — Già... Ero stato insultato e percosso da un compagno che rifiutava di riconoscermi quale capo-fabbrica, e nella rissa ebbi la disgrazia di ferirlo gravemente.... Ma lei vorrebbe dire: una bella guarentigia di onoratezza l'essere stato in prigione! Eppure in fondo la c'è. Matilde non lo sa. Crede ciò che per compassione le ha dato ad intendere il mio principale d'allora, che m'aveva spedito in Francia lui. Lei sa che donna è mia moglie. Per amor mio ha abbandonato la sua famiglia agiata e signorile; per amor mio ha camminato delle giornate intere colla bambina al collo, soffrendo il sole, la sete, la fame; ma senza lagnarsi mai, senza cessare mai d'amarmi e di stimarmi come un uomo superiore alla sua sorte.... Ora mi dica un po' lei se io posso permettere che anima viva dica alla donna che forma l'unica felicità della mia vita: tu t'inganni; quest'uomo a cui hai tutto sacrificato, non è che un miserabile uscito dal carcere dei malfattori e degli assassini!...
Carlo. — Ella ne morrebbe di vergogna e di dolore!
Franc. — Comprenderà dunque come Bobi, mio compagno di prigione, minacciando me di una siffatta rivelazione e la mia famiglia della vendetta dei provocatori dello sciopero, abbia potuto obbligarmi a far causa comune cogli altri; comprenderà come la parola traditore dovesse farmi perdere la testa, come ora io sia ben contento di poterle provare che se nella ricchezza e nel sapere lei mi può essere superiore, nel sentimento dell'onore e della delicatezza, io operaio, posso ben farmi eguale a lei gentiluomo!
Carlo (pigliandolo per le mani). — Francesco! Cattiva testa, qualche volta, ma cuore sempre leale e generoso, che cosa vuoi? Vuoi essere mio amico, o vuoi che non ci ricordiamo che di essere stati entrambi soldati?
Franc. (abbracciandolo). — Ah! ora sì che posso essere suo amico, ora che mi ha fatto suo pari!
SCENA IV.
CARLOTTA dalla destra, quindi FAUSTINI dal fondo. Detti.
Carl. — Signor padrone, c'è il fattorino dell'uffizio telegrafico con un dispaccio.
Carlo. — Ah sono salvo!... Addio per poco, Francesco. (Carlotta esce dalla destra)
Franc. — Coraggio, maestro, e mi aspetti fra poco con tutti gli altri. (Carlo esce dalla destra. Francesco, per uscire dal fondo s'imbatte in Faustini)
Faust. — Lei qui, caro direttore?
Franc. — Perchè no? Io la ringrazio delle offerte che mi ha fatto; ma le ripeto che non abbandono quest'officina.
Faust. — Non l'abbandoni, tanto meglio. Sua moglie deve intanto accettare il regalo che mi ha voluto restituire, poichè d'or innanzi... Ecco il Valori; mi lasci con lui, direttore, ma non s'allontani, le dirò il resto.
Franc. — Ma io non sono punto ai suoi ordini!
Faust. — Via, via, aspetti; quando avrà compreso, sarà contento.
Franc. — Temo di aver già capito troppo! (esce dal fondo)
Faust. — Quanto fumo! E non capisce d'essere nelle mie mani come gli altri tutti! Ma se quel dispaccio annunzia il pagamento delle macchine, il mio progetto è bell'e ito! (si ritira in disparte verso il fondo)
SCENA V.
CARLO dalla destra, pallidissimo, e poi EGISTO dal fondo. Detto.
Carlo (corre sulla soglia del giardino senza vedere Faustini, e ne ritorna subito con Egisto). — Vedi ciò che mi rispondono i Richard!
Egisto (leggendo il dispaccio). — « Il non aver ricevuto vostre macchine ci pone in dolorosa, ma assoluta impossibilità ordinare pagamento, malgrado nostra buona volontà; ad ogni evento, ricordate che vi offriamo posto Direttore nostro grande stabilimento ». Vedi se noi avevamo ragione?
Carlo (supplichevole). — Egisto, te ne prego, non abbandonarmi in questo momento in cui tutto fallisce alle mie previsioni!
Egisto. — Mio caro, a chi lo devi, se non a quegli operai che non rifinivi di portare in palma di mano? E poichè gli operai sono così fatti anche con chi li ama, io sarei un matto se affidassi ai loro capricci una somma tanto ragguardevole.
Carlo. — Ma io ti darei tutte le guarentigie che puoi desiderare, pur di non rimanere vinto per difetto di armi in una battaglia che deve terminare colla mia vittoria!
Egisto. — Già: la solita illusione di tutti gli inventori! Ma che cosa ci posso fare io? Dopo quei disordini, ho quasi disposto del mio capitale, con ipoteca su poderi ed officine...
Carlo. — Al Faustini adunque?
Egisto. — Oh insomma, non voglio e non debbo darti quel denaro... Tutti i giorni la stessa canzone!
Carlo. — Egisto, tu non sai quanto possa costarmi il tuo rifiuto.
Egisto. — Potrebbe anche essere per il tuo meglio.
Carlo. — Ma sai tu di che si tratta?
Egisto. — Sì, sì; del popolo, dell'industria, dell'Italia..... Lo so a memoria: far l'Italia; come se prima di voi altri l'Italia non ci fosse!
Carlo. — Non se ne parli più. Ritorna in giardino...
Egisto. — Che abbia ballato io, passi; ma il capitale? La sorella mi strapperebbe gli occhi! (via dal fondo)
Carlo (smarrito, scendendo lentamente dal fondo). — Ed ora?
Faust. (presentandogli le cambiali). — Domani.
Carlo (una breve pausa). — Voleva essere mio socio..... lo sia.
Faust. — Troppo tardi.
Carlo. — (La vendetta!)
Faust. — Non voglio fare scandali. Mi piglio l'officina, straccio le cambiali e le rifaccio venti mila lire.
Carlo. — Ventimila!
Faust. — È vero che le ho offerto altrettanto per la sola società; ma ora non ho più bisogno della sua invenzione; ne ho una quasi uguale, che dà gli stessi risultati.
Carlo. — Anche la casa si pigli, anche la casa!
Faust. — Tanto meglio; per la casa le do altre venti mila lire, semprechè, s'intende, domani non mi paghi. Posso vedere intanto l'officina?
Carlo. (gli accenna la porta a sinistra).
Faust. — (Eppure non ho osato dirgli quello che voleva) (esce dalla sinistra)
Carlo (porta le mani al collo come un uomo che si senta strangolare; vacilla e finisce per cadere sopra una seggiola). — Come mio padre! Ora comprendo la tua morte! Noi, o si vince, o si muore. La vita ci assolve, la morte ci vendica. Vivere deriso dai maligni o alle spalle della moglie, giammai! (guardando verso la sinistra) Vieni, vieni, mercante di carne umana, a godere il tuo trionfo su queste rovine..... E voi pure che io ho voluto strappare alla miseria, all'ignoranza, che ho amato come figliuoli, venite a leggere scritta col mio sangue su queste rovine la vittoria dell'ozio e della invidia! (trae di tasca la rivoltella, ma ve la ripone subito sentendo venire Cesarino)
SCENA VI.
CESARINO dal giardino che giuoca al volante colla racchetta, ed AGNESE che ricama. Agnese rimane in fondo intenta al suo lavoro.
Cesar. — Babbo! babbo! vieni anche tu a giuocare.
Agnese. — Ancora qui, Carlo?
Carlo (senza guardarli). — Andate in casa, lasciatemi...
Cesar. — Vieni a giuocare un pochino, babbo...
Agnese. — Andiamo via, Cesarino, o ti farai sgridare...
Cesar. — È vero che tu mi sgridi, babbo?
Carlo. — (Che strazio!) No... ma va.
Agnese. — Via, dàgli un bacio, e poi si va via subito.
Carlo. — Ma andate, vi ripeto! (No, che l'ultima parola non sia un comando...) Ve ne prego, lasciatemi solo...
Agnese (scesa presso il marito). — Tu respingi tuo figlio e non mi guardi?
Carlo. — Io... ti guardo...
Agnese (atterrita dall'aspetto di lui e buttando il ricamo sullo scrittoio). — Carlo! Ma che cosa avvenne? Che si fa nell'officina? Faustini? Ah! io lo leggo sul tuo volto; tutto è perduto!
Carlo. — No... faccio anzi un affare eccellente...
Agnese. — E la tua invenzione?
Carlo. — Non ne ha bisogno; ne hanno inventata un'altra quasi eguale... Oggi s'inventa tutti!... Ma l'affare è buono: egli corbella un pochino me ed io moltissimo lui... Che scrupoli! Chi non inganna non guadagna.
Agnese. — Tu mi fai paura: perchè tu possa parlare così dinanzi a tuo figlio, bisogna che una grande sventura ti abbia colpito. Ma se l'hai già venduta, qui non resta a far nulla. Se puoi ancora salvarti, se la mia dote può esserti utile, so che ne posso disporre, ritorniamo subito in città, vieni...
Carlo. — A che?
Agnese. — A che? Ed è un uomo del tuo carattere che me lo chiede?
Carlo. — Non lo sono più... Tutto è finito per me!
Agnese. — Ma questo pensiero è un delitto!
Carlo. — E sarà minor delitto che questa vita!
Agnese (preso Cesarino, glielo butta disperata fra le braccia). — E sei padre?
Cesar. (abbracciandolo). — Babbo! babbo!
Carlo (con uno scoppio di pianto). — Basta, Agnese, basta!
SCENA VII.
EGISTO ed ANNA dal fondo. Detti.
Cesar. (ad Egisto). — Il babbo, che non piange mai, piange!
Agnese. — Sì, il suo cuore scoppia di dolore, non per quello che ha perduto, ma per la malvagità altrui. Ma andiamo, Carlo... (porge il braccio al marito: questi, vacillante, sta per cadere; Agnese lo sostiene, dicendo agli altri accorsi:) Basto io: sono sua moglie. Con me, Cesarino... (esce con Carlo e Cesarino dalla destra, per ritornare a suo tempo)
Anna. — Carlo piange ed Agnese mi dà uno sguardo che mi fa rabbrividire?
Egisto. — Oh Dio buono, sta a vedere che ora ci sono degli altri guai più gravi! (Agnese dalla destra, mettendo in tasca la rivoltella di Carlo. Va subito ad aprire la cassa e ne trae un portafoglio in cui racchiude carte e lettere) Ma che è stato dunque?
Anna. — Si può sapere una volta perchè Carlo piange?
Egisto. — Si può di grazia sapere che cosa abbia perduto?
Agnese. — Che importa a te di Carlo!
Egisto. — Se non per Carlo, per te...
Agnese (reprimendo un movimento). — Ah per me!..... Ma c'è mia madre, e non dirò una parola che possa parerle meno rispettosa.
Anna. — Ed io ti comando anzi di parlare. Sta a me il giudicare se hai ragione di trattarci a questo modo.
Agnese. — Dio sa se io ti rispetti; ma l'essermi madre, ma l'amarmi fino all'idolatria... Ma no; non debbo e non voglio dir altro.
Anna. — Vieni qui per l'appunto, che io voglio saper tutto e subito.
Egisto. — Sicuro, a meno che il nostro affetto ti pesi!
Agnese. — Ebbene, sì, mi pesa perchè si concentra tutto su di me, dimenticando che anch'io ho doveri e diritti verso quelli che mi appartengono.
Anna. — Non è mia figlia che parla così!
Egisto. — A tua madre? A tuo zio?
Agnese. — A te, non parlo che a te, che non staresti un'ora lontano da me senza sentirti strappare le viscere; a te che mi ami tanto, che vorresti che non amassi che te, e per questo ti auguri giorno e notte che Carlo veda cadere in rovina tutto l'edificio dei suoi studii e delle sue imprese, e vorresti per giunta che io assistessi col sorriso sulle labbra al martirio dell'uomo che amo, per l'eccellente ragione che egli non pensa come te! Ma se mio marito fosse un uomo da nulla od un uomo cattivo, io non l'abbandonerei; mi farei anzi più sua per difenderlo o ricondurlo all'amore del bene; pensa adunque se moglie di un uomo intelligente ed onesto come lui, io possa associarmi a te in questa tua guerra non so se più stupida o feroce!
Anna. — Ma sogno o questa è la mia Agnese?
Egisto. — Qui c'è un equivoco evidente, un grosso sbaglio!
Agnese. — Sì, il tuo: sbaglio di date. Tu credi ch'io sia sempre l'Agnese uscita dalla scuola; io invece da anni sono moglie e madre e sviscerata quanto ogni altra; eppure del cuore me ne resta sempre tanto da essere figlia e nipote riconoscente e rispettosa; ma quando mi accorgo che colla riuscita delle tue macchinazioni fai strazio di mio marito, io non maledico il tuo trionfo perchè già nè so, nè posso maledire; ma, per non correre un dì il pericolo di dimenticarmi che sei mio zio, piglio l'unica via che mi resta, e me ne vado.
Egisto. — Se ne va? E dove se ne va? A Firenze?
Anna. — Senza di noi a Firenze?
Agnese. — Non a Firenze; con mio marito a Marsiglia.
Anna. — Dio!
Egisto. — A Marsiglia? Fino a Marsiglia?
Agnese. — Sì, perchè i Richard, che credono all'intelligenza di Carlo, gli offrono una onorevole e lucrosa posizione. Voi non ci credete? Rimanete! Io che ci credo, l'accompagno. (va a ripigliare il portafoglio che lasciò sullo scrittoio, per andarsene)
Anna. — Agnese, questo è troppo!
Egisto. — Mi vuoi vedere a piangere? Dillo che mi vuoi vedere a piangere!
Agnese. — Tu piangi? Ma che cos'è il tuo dolore a petto del suo? Ha perduto l'officina, gli hanno rubato la sua invenzione, e a capo di questa infernale congiura sta quel Faustini cui tu impresti il capitale che avrebbe potuto salvarlo! E lui parla di piangere perchè la sua Agnese, la sua bambola, se ne va, perchè le sue abitudini di ozioso e di egoista stanno per essere troncate, mica per altro!
Egisto. — Agnese! tu bestemmi: vada per ozioso; ma io non ho amore per te? Io sono un egoista?
Agnese. — Se il tuo fosse vero amore, avrebbe sentito la necessità del sacrifizio, e non si contenterebbe di questo tuo pianto puerile e sterile. (via dalla destra)
Egisto. — Puerile a me! E anche sterile!
Anna (piangendo). — Ma è possibile che mia figlia ci calunnii tutti e due a questo modo?
Egisto. — No, sorella, che non ci calunnia!... Ha ragione, sterili tutti e due! E ha ragione anche Carlo, perchè, se lo vogliono gli stranieri, bisogna confessare che noi soli non lo abbiamo saputo stimare, poichè, da buoni italiani, invece di aiutarlo, gli abbiamo fatto la guerra!..... Ma ora come se n'esce?
Anna (fuori di sè dal dolore). — Dividermi da mia figlia, non vederla mai più? Piuttosto mille volte la morte!
Egisto. — Ma neanche una, sorella! Sono più vecchio di te; ma di morire, per quanto ce ne sia l'uso, non ne ho punto voglia..... piuttosto faccio anch'io l'Italia! Andiamo ad impedire che quei matti partano. Finchè si trattava di Belmonte, si era sempre in Toscana..... ma Marsiglia? No; sono dei Vespucci, ma non per scoprire altro... Oh! gli operai adesso! Non ci mancherebbe altro che volessero far ballare anche te... Andiamo subito... ma con dignità... senza dar a vedere che si ha paura... (esce rapidamente dalla destra con Anna al braccio)
SCENA VIII.
MARTINO, ORESTE, CENCIO, GENNARO, AMBROGIO e gli altri operai di Valori, dal fondo.
Oreste. — Nessuna vergogna: siamo qui per ripigliare il lavoro.
Cencio. — E poi mi pare ci sia poco da ragionare: la cassa della società non ha più un cavurrino, il magazzino cooperativo non ha più una libbra di riso a darci, le famiglie quel po' di sparagno, se l'han fatto, se lo sono mangiato, dunque!...
Ambr. — Dunque, maledetto lo sciopero!
Genn. — La colpa è tutta di Bobi..... che possa essere acciso!
SCENA IX.
BOBI dal fondo. Detti.
Bobi. — Se lo diceva io ch'eravate qui tutti. (starnuta) Accidenti!
Mart. — A te!
Bobi. — Ora che non faccio più nulla, sono raffreddato, mondo ladro!
Ambr. — Provati a sudare.
Bobi. — Se non posso!
Oreste. — Se vuoi sudare di sicuro, il modo te lo mostro subito: provati a fare il galantuomo.
Gli altri. — Bravo!
Bobi. — Bada veh! che te ne suono tante!
Mart. — Che tu possa esse massò... Non è buono che a minacciare i ragazzi lui! Provati con me, su!
Bobi. — Zitto là che ho fatto per celia. Dunque ci aggiustiamo una volta col Faustini?
Mart. — Si vede che non hai letto il suo regolamento. Orario di dodici ore e tutti pagati a cottimo!
Bobi. — Questa veramente mi pare una porcheria poco pulita: se non si lavora, non si mangia, perdinderindella!
Genn. — E sulfeggià? Chi sulfeggia, cacciato su due piedi! (a Bobi) Ah managgia a te che c'hai fatto fa a' rivoluzione contro maestro Valori!
Mart. — Sì; abbiamo fatto un bel guadagno a darti retta; miseria in casa e mortificazioni in piazza!
Bobi. — Che mortificazioni! È tutto per noi questo popolo!
Mart. — Già, gli è tanto per noi che dal dì dello sciopero non ha più aperto una bottega.
SCENA X.
FRANCESCO e MATILDE dal fondo. Detti.
Franc. — Oh bravi! Eccoli qui tutti per il cavaliere Valori.
Oreste. — Venga, sor Savelli: tutti quanti per il Valori!
Mart. — Meno Bobi, con licenza parlando!
Bobi. — Sì, perchè non valeva la pena di far lo sciopero se ora si rinunzia a raccogliere dal Faustini quel che si è fatto perdere al Valori.
Mat. — Scusate se ci metto bocca io; ma voi, operaio del Valori, sapevate che lo sciopero poteva rovinarlo?
Bobi. — Valori mi aveva licenziato, e un operaio come me.....
Mart. — Ma che operaio! Tu parli sempre a nome degli operai, ma soltanto per far nulla.
Cencio. — Peggio che nulla: non lascia lavorare!
Oreste. — E neanche imparare.....
Ambr. — Fuori dei piedi ch'egli è meglio per tutti!
Tutti. — Sì, fuori!
Bobi. — Nossignori: da quest'officina non sarete voi che mi caccerete.
Mart. — Ti caccerà il principale, se non ti cacceremo noi.....
Bobi. — Il principale cacciar me? Badate piuttosto voi altri che d'or innanzi non dipendiate da me più di quel che credete tutti quanti; sì, limatori, massellatori e capi-fabbrica... aristocratici!
Gli altri. — Noi? Da te?
Franc. — Zitti! (Ah! se non ci fosse mia moglie!)
Bobi. — Ecco il principale che vi metterà la testa a segno. Venga, sor Faustini, lo aspettiamo!
SCENA XI.
FAUSTINI dalla sinistra. — EGISTO, ANNA, AGNESE e CESARINO in abito da viaggio dalla destra, seguiti da CARLOTTA con due sacche da viaggio. Detti.
Agnese. — Mio zio, giacchè si trova qui anche il tuo socio, eccoti le chiavi...
Egisto. — Ma che socio! Signor Faustini, godo di trovarla qui anche lei... Mi dica un po', quando le ho promesso il capitale, sapeva io che ella volesse acquistare quest'officina e l'invenzione di Carlo?
Agnese. — Ma che acquistare l'invenzione... rubare!
Egisto. — Agnese, calmati e lasciami parlare...
Faust. — Ma la lasci sbraitare, le dirò poi io tutto!
Egisto. — Sbraitare? Badi che lei parla di mia nipote...
Faust. — Ebbene, l'invenzione che userò..... mi è stata venduta da chi l'ha fatta.
Agnese. — Da mio marito dunque?
Faust. — No, dal direttore, dal capo-fabbrica.
Egisto. — Da lui? (a Francesco) Ah lei inventa delle cose grandi, portentose... là... come io un fritto di asparagi croccanti?
Franc. — Ma lei si burla di me: guastato qualche cosa ho guastato, ma inventato poi...
Egisto. — Un corno come me, bravo! (a Faustini) Ora sbraiti lei, sbraiti.
Faust. — Oh! Il signorino è troppo modesto. Non si ricorda di quei tre mesi di viaggio?...
Franc. — (Anche lui!)
Agnese. — Insomma quel segreto o l'ha inventato lui, o lo ha rubato, di qui non se ne esce...
Mat. — Francesco, parla!
Faust. — Non parlerà!
SCENA XII.
CARLO dalla destra, in abito di viaggio, inosservato. Detti.
Franc. — Sì che parlerò, perchè il segreto di Carlo Valori è qui suggellato dalla riconoscenza, e neanche colla paura riuscirete altro a far tacere in me il sentimento dell'onore! (a Matilde) Matilde, guardami in volto; se io arrossisco, è di non avertelo confessato prima, a te che prima di ogni altro mi avresti saputo compatire. Quei tre mesi che tu credi ch'io abbia passato all'estero, per espiare una colpa involontaria li ho invece passati in carcere...
Egisto. — Bravissimo! (Ma che dico ora?)
Franc. — Ora dimmi tu se per nasconderti questa macchia, era meglio vendere a Bobi o al signor Faustini il nostro benefattore!
Matilde. — No, Francesco; te lo dica questo abbraccio!
Egisto. — Benone, e stringa forte..... Ora, signor Faustini, lei capirà che fra me e lei, che ha trovato buono ogni mezzo per rovinare la miglior parte della mia famiglia, non ci può più essere nulla di comune.
Faust. — Ma se io doveva aspettarmelo da lei; un uomo che non capisce un acca d'affari, che non è mai stato buono a nulla!
Egisto. — Io?... Io? (Ma se ha ragione!)
Franc. — Ecco il cavaliere! Evviva il nostro principale!
Tutti gli operai meno Bobi. — Evviva!
Carlo. — Il vostro principale eccolo là: io non ho più nulla.
Franc. — Come? L'officina?...
Carlo. — Perduta!
Franc. — Perduta! La sua invenzione?
Carlo. — Te la dono, Francesco; quel che non ho potuto fare io, lo farai tu. Addio, io vado a dirigere l'officina dei Richard a Marsiglia.
Egisto. — (E a noi ci tocca trottargli dietro, senza andare a diriger nulla!)
Franc. — Un istante, maestro.. Prima di partire, perdoni a me, perdoni a tutti quelli che gli hanno fatto del male senza saperlo, senza volerlo.
Gli operai (commossi). — Sì! Sì!
Carlo (bacia Oreste in fronte). — A te per tutti; a te sulla cui fronte splende l'avvenire.
Egisto (prorompendo, con voce rotta dalla commozione). — Ora si piange! Invece di pensare al modo di riparare al male, si piange! Costa meno, coccodrilli; sì, coccodrilli tutti, per Bacco Baccone... (ed io coccodrillo numero uno!)
Franc. — Sì, ha ragione lui; ma se l'ozio e l'invidia lo hanno rovinato, lo deve salvare il lavoro. Compagni, si lavora tutti per lui a due terzi di paga finchè non abbia adempiuto i suoi impegni?
Tutti gli operai. — Sì! sì!
Carlo. — Ma chi potrà pagarmi le quarantamila lire delle cambiali?!
Egisto (con un grido). — Si possono ancora pagare?
Carlo. — Fino al mezzogiorno di domani.
Egisto (prorompendo in un lungo scroscio di risa dinanzi a Faustini). — Ah! ah! ah! Non sono buono a nulla io? (dinanzi a Carlo) Io sono pedante? (ad Agnese) Io sono sterile?
Anna. — Fratello, sarebbe possibile?
Agnese. — Lascialo dire, lascialo fare!
Egisto (ad Anna). — Hai inteso? Fare, fare, fare! (ad Agnese) Strega, tu hai compreso che farò, che faccio subito, che è l'unica maniera di fare; e così, tanto per cominciare gli affari col mio socio Carlo, io che non ci capisco nulla, le sacche tutte in casa, meno la mia, anzi anche la mia; per fare una corsa a Firenze noi industriali non s'ha bisogno di nulla!
Faust. — Badi che domani l'aspetto a mezzogiorno. (s'avvia al fondo)
Egisto. — Ci conti; ma non mi lasci nulla di suo.
Faust. (a Bobi che vorrebbe seguirlo). — All'inferno! (via dal fondo)
Bobi. — Dove ho d'andare io? Che ho da fare?
Egisto. — Il primo ballerino alla Pergola; ma fuori dei piedi!
Mart. — No; egli che approfittò di tutto per far del male a lei ed a noi, non se ne anderà così; e se non vorrà chiedere scusa qui, gliela faremo chiedere noi fuori, in altro modo...
Tutti gli operai. — Fuori!
Bobi. — No, no, è meglio qui... Avrò torto... ho torto... e sono opinioni politiche!
Mart. — Zitto e non ridere, sai, o ti cambio il muso! Chiedi perdono al padrone; ad Oreste del cattivo esempio; a Cencio per il poco rispetto ai suoi capelli bianchi... Ora guarda quella porta, ringrazia che ci sono le signore, e... gira l'Italia! (Bobi fugge dal fondo impaurito; gli operai vorrebbero seguirlo minacciosi)
Franc. — No, no; portiamo piuttosto il cavaliere Egisto in trionfo!
Egisto (che in questo frattempo è stato abbracciato con effusione di affetto da Agnese e da Carlo). — Siete matti?... Voi mi prendete per un Mecenate, per un uomo che butta i suoi quattrini in un momento di espansione; e io vi dico che vi sbagliate. Io non ho fatto altro che questo: ho capito che se affido il capitale a Carlo che ha l'intelligenza, e voi che siete il lavoro ci date la mano, la nostra industria risorge sicura... Rompete quest'armonia: il capitale scappa, la miseria arriva, e l'intelligenza italiana va ad arricchire lo straniero. La capite la morale?
Franc. (alzando in aria il cappello, con forza agli operai). — Al lavoro!
Egisto, Carlo e tutti gli operai (ad una voce solenne). — Al lavoro!
Fine della commedia.