UN AVVOCATO DELL'AVVENIRE
LE COMMEDIE DI VALENTINO CARRERA
..... Se voeren sti poetta
Ciappottan i passion, moeven el cœur,
Hann de toccann i tast che ne diletta,
Ciapann, come se dis, dove ne dœur;
Senza andà sui baltresch a tirà a man
I coregh e i scuffion gregh e roman!
Carlo Porta.
VOLUME PRIMO
TORINO TIPOGRAFIA L. ROUX E C. 1887
L'editore e l'autore, osservati tutti gli obblighi, intendono di fruire di tutti i diritti della proprietà sia per la riproduzione e la traduzione, che per la rappresentazione.
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INDICE
NOTIZIAATTO PRIMOATTO SECONDO
UN AVVOCATO DELL'AVVENIRE
COMMEDIA IN DUE ATTI.
NOTIZIA
In quest'epoca così sinceramente democratica, come sa il lettore, nella quale non c'è calzolaio che non arrossisca dell'antica insegna ciabattinesca del padre suo, appena Mastro Andrea, a furia di lavoro e di privazioni, è riuscito ad avviare benino la bottega, od ha messo assieme un poderello, c'è da scommettere che invece di fare del figliuolo un valente artigiano od un buon agricoltore, lo manderà a farsi avvocato in una delle troppe e troppo inutili Università. Una volta cotesti spostati li facevano preti e riuscivano quello che riuscivano, meno che di decoro e di lustro al clero: ora li fanno avvocati; vedremo con quale risultato.
Il ragazzaccio fin dall'infanzia mal avvezzo e senza esempio e consiglio, pretensioso e villano a faccia fresca per natura, nove su dieci riesce una forca. La bella e fragrante campagna in cui è cresciuto e il trionfo dei colli ubertosi non gli hanno messo addosso un solo brivido di febbre poetica, e così, a diciotto anni, non trasuderebbe una stilla di entusiasmo per qualsiasi cosa più bella o generosa, neanco a pigiarlo sotto lo strettoio. Nessuna meraviglia quindi ch'egli non abbia che un ideale ed uno scopo, se stesso.
Al primo arrivare nella grande città, sebbene abituato a sentirne motteggiare le usanze come è costume nei borghicciattoli fuori d'ogni movimento e d'ogni istoria, prova una sensazione di scoramento, quasi una mortificazione. Si sente piccino quanto è a corto di quattrini. Ma poi sono tanti i compagni ed è tanta la tacita tolleranza per gli scolari pari suoi, che si rincora presto e in meno di otto giorni ricomincia a vociare e ad impacciare in iscuola e fuori, come se stesse ancora per le strade del villaggio cogli altri monelli o nelle aie coi vaccari ed i carrettieri. Non ha che una scusa: ed è che nelle Università manca tuttora la più indispensabile delle cattedre, quella che insegnerebbe a vivere. Il suo è un turbine di parole e di gesti più che meridionali, nel quale si trovano, quand'è possibile tenerci dietro, sciocchezze marchiane ma clamorose, paradossi scuciti ma sfavillanti, un pochino di logica borghese, e in compenso molte assurdità. Sugo? Presunzione a tutto spiano e rispetto di nulla. Poverino! La mamma lo ha sempre tenuto per un genio e glie lo diceva, e il babbo, sentendo che sono avvocati il deputato, il prefetto e il sindaco, sogna in lui ad occhi aperti qualche cosa di grosso.
Nella grande città, di cui non piglia come i compagni modesti e garbati i modi e la misura, ma soltanto il vizio più a buon mercato, non c'è chiasso o prosopopea che basti a levarci dal basso, bisogna pur sentirsi inferiore a molti in nascita, in influenza ed in coltura; ma questo sentimento che nelle anime semplici e forti si fa emulazione ed ambizione feconda, in lui non suscita che una stizza, un dispetto che Dio sa che itterizia gli darebbero, se la grande creditrice, la società, non gli permettesse qualsiasi sfogo contro di lei, che pure da lui non sarà mai pagata. Egli si rivolta adunque contro la società, che non se ne dà per intesa, e per fare tutto un fascio ed un conto anche contro la natura e gli Dei, che proprio non c'entrano per nulla, sopratutto nella magrissima pensione cui lo danna lo scarso assegno della famiglia, e che ha tanta parte nella segreta ragione di sì fiera ribellione.
Questa ribellione sistematica, e perciò ridicola, ha tuttavia questo di buono per lui che gli conquista l'apparenza d'un giovane d'ingegno: adesso non costa di più. Ma per quanto questo battesimo, in un paese come il nostro, dove l'ingegnaccio saltella e corre e diguazza anche fra i vicoletti più miserabili e poltigliosi, abbia tutta l'aria di un battesimo d'acqua senza sale, per quanto studente possa ancora valere il fusinatesco giovane che non studia niente, c'è tuttavia nell'ambiente delle Università più chiassose, nella fama dei professori più discussi, nelle vaste sale delle biblioteche più polverose, un non so che di misterioso, di imponderabile, ma di indiscutibile che avverte i più ribelli che colla sola scintillaccia e senza un lungo durissimo travaglio non s'arriva davvero in nessuna onesta maniera a conquistare la lode di tutti i buoni e di tutti i valenti, a conquistare l'austera matrona inflessibile, la gloria, quella dagli occhiali che leggono attraverso ai panni quanto si sente, si sa, si può e si vuole.
Allora, non sentendosi il coraggio di buttarsi eroicamente a capofitto nella voragine senza fondo dello studio per rifarsi del perduto e precorrere a perdivista gli altri, trova che è assai più comodo dir corna della scienza come ha fatto della società: quanto a lui, sarà studente giusto quel tanto che occorre per essere laureato — oh la strana parola sopra siffatto cerebro! — e quanto alla gloria, poichè è tanto difficile essere corrisposto dalla matrona, ebbene, ci si contenterà della sgualdrinella che ha un sorriso ed un bacio per tutti, la nomèa. E per costei recita, scrive, pianta giornaletti politici e letterari, dice lui, si batte in duello, si picchia colle guardie e chissà dove domine arriverebbe in questa correntina per la scesa delle puerilità, se non arrivasse il momento di raccomandarsi alla pappagallesca memoria perchè non lo tradisca nella prova suprema e questa non muti la laurea nel ponte dell'asino. È laureato come tanti e troppi altri, e il suo nome, non importa come, venne già stampato più volte su per le gazzette: per uno studente come lui sono due belli scalini!
Ma che farà ora? Degli avvocati ogni anno, grazie a Dio, le Università ne scodellano su per giù un migliaio: pochi sono i vocati proprio sul serio, anche meno quelli chiamati per la magistratura. Il resto, dopo di essersi pattullato un pochino colle cieche lusinghe della famiglia, si dissemina lungo le interminabili mangiatoie della burocrazia, ben lieto che il titolo poco sudato gli renda più facile la conquista della cavezza.
Il meglio sarebbe ritornare a casa per soccorrere il babbo colle braccia potenti, per ritemprarsi nella vita onesta e proficua dei campi; ma e la nomèa? e tutto quello che gli bolle nel cervello? e i destini del mondo? Ci deve pur essere un'avvocatura che gli dia il mezzo di spendere tanta esuberanza di forze, che gli permetta di gittare dalla tribuna quel grido dell'anima che raccoglie tutti gli odj, tutte le smanie di vendetta degli oppressi..... cominciando da lui, tanto oppresso dalla vanità?
Sicuro che c'è: è l'avvocatura delle cause perse, come la chiamano in Tribunale; quella che non costa dottrina ed ha per arringo il patrocinio di ogni cosa che solletichi la curiosità oziosa e plebea, dagli scandali di alcova alle mattate tragicomiche della piazza; quella che può conservare le emozioni istrioniche del dilettante, e trasformarlo ora in mitingaio ed ora in tribuno improvvisato.
Ma non è facile esordire bene neanche in questa palestra. E poi fra i nuovi colleghi ed i magistrati le sue alzate d'ingegno non trovano mica più l'eco compiacente del caffè; e neanche i bisticci e gli epigrammi con cui saettava i professori, e i chiapparelli e le fole inventate lì per lì a canzonare i compagni, destano la risata d'una volta: anzi c'è chi risponde al paradosso provando che ha la barba più lunga di Mosè, e altri dimostra come l'utopia non abbia gasse nè ali per alzarsi da terra quanto un tacchino, neanche aiutata dalle supposizioni più indulgenti e dalle ipotesi più iperboliche. Queste piccole disillusioni nuovissime e frequenti gli mandano sossopra fiele e nervi, e così nasce in lui il disprezzo più cordiale per gli altri avvocati e l'odio più intenso per i magistrati, i quali pigliano così, come di dovere, nel suo cuore il posto lasciato vuoto, ma ancora caldo, dai poveri professori.
Eppure questo atleta che vuole scendere nel circo con armi sì meschine, che ha più debiti che idee, più invidia che emulazione, che non ha che la stoffa d'un comico di second'ordine, che è appunto l'ordine di chi non ne ha, deve pure riescire qualche cosa in quell'aristocrazia di farabutti, fra avvocati ingrassantisi di veleni, affaristi e cortigiane, al cui benefizio più d'un pessimista afferma, speriamo bestemmiando, avere l'aristocrazia dell'ingegno, del valore e della virtù fatto l'Italia; e riescirà per tre ragioni una peggiore dell'altra: prima perchè il governo rappresentativo è fatto apposta per gli avvocati, ma più per i pessimi che per i buoni; poi perchè per valersi di tutti gli equivoci e le contraddizioni che corrono fra l'uso e l'abuso della libertà è proprio necessario un frutto bacato come gli è lui; perchè infine egli che non ha studiato nè nelle scuole nè dopo, che consuma più vino che olio di lucerna e quale lettore assiduo di giornali e di romanzi non può che abborrire da ogni serietà di studio e di meditazione, ha però osservato e studiato con attenzione il suo tempo e i suoi concittadini.
Egli si è accorto anzitutto che l'istrionismo lascia i comici per dilagare nella società, penetrando poco a poco nei costumi, nella conversazione, nelle lettere e peggio che mai nella politica, sia perchè il popolo è incorreggibilmente vago di saltimbanchi, sia perchè la politica meno che il ridicolo può scusare ogni più buffa e rea azionaccia. Cyrano De Bergerac asseriva or sono più di due secoli, gli italiani nascere tutti comici; e alle volte pare veramente che noi rappresentiamo in ogni sfaccettatura della vita un complesso di così squisita e perfetta commedia, da spiegare in quale guisa il nostro teatro non sia all'altezza della nostra gloria letteraria ed artistica, poichè una tale eccellenza di simulazioni deve necessariamente togliere ogni speranza al commediografo di arrivare ad emularla..... Comunquesiasi, l'avvocatino ha intanto notato che l'istrionismo preferisce alle espressioni schiette e semplici le studiate e sonanti, alla passione sentita e forte la sfuriata declamatoria, ai caratteri fieri la gente superficiale e poltrona e bracona, al fare cose grandi e feconde le comode e fugaci fiammate d'un breve entusiasmo. E ha pure notato che la coscienza latina è cosifatta che mentre non mostra che un po' di stima platonica per i galantuomini, sente invece la più viva simpatia e sollecitudine per le canaglie matricolate.
Finalmente ha osservato che la mediocrità scettica, ignorante e superba che si è quasi infeudato ogni movimento della vita italiana, ed ha riempito, per quanto le è stato possibile, ogni Consiglio di omiciattoli che non si sa capire come riescano a star ritti, tanto è il vuoto del loro cervello, ci ha in tal modo intontiti e resi indifferenti sopra ogni riguardo, che la sfacciataggine diventa ogni giorno più l'arte sicura di arrivare dovechessia, e dieci pagliacci potrebbero di leggieri imporsi a centomila cittadini. Alle volte si direbbe, scorati, che i cittadini che sentono la libertà essere la giustizia, non abbiano poi attitudine alcuna ad unirsi per difenderla, o che disperino di far giungere ad una vera emancipazione le classi che ancora guaste dalla servitù sono già corrotte dalla licenza.... Ma questa indifferenza spiega ad ogni modo l'insanabile furore di avvilimento e di disprezzo che c'invade, e rivela all'osservatore la noia, il castigo delle generazioni senza ideali, e, per sua conseguenza, la disposizione morbosa ad accogliere meglio il disordine che non l'appello sempre più uggioso del dovere.
L'avvocatino fa tesoro, gongolando, di queste brutte rivelazioni; ride degli antichi gloriosi patriarchi della giurisprudenza italiana, ride dell'avvocatura così bella nel suo esercizio e così nobile nel suo fine, e si prepara alla battaglia: tre o quattro volumi fra alienisti, socialisti e pessimisti bastano per fornire le armi; non importa come traditi. Nè importa che la sua sia giusto la caricatura della scuola positivista, la quale non ha mai inteso sparare che il delitto sia sempre un'aberrazione o l'effetto di una provocazione, la ribellione il solo mezzo di risolvere le questioni più intricate, e che corruzione, doppiezza ed ogni altra più trista vergogna non siano imputabili che al clima e ad altre cause non volitive.
Noi non seguiremo, come ha fatto l'autore della commedia, l'avvocatino in tribunale, nè ci meraviglieremo che quella sua furia insolente e vertiginosa abbia colpito la platea sucida e feroce della Corte e meglio ancora il branco pecorino e sbadigliante dei Giurati, nè che quelle schidionate di menzogne e di vituperj possano essere gabellate quali saggi di nuovissima eloquenza: se ciascuno avesse, non diciamo una convinzione, ma almeno un'opinione, il pallone pieno di vento schiatterebbe sotto le risate più clamorose; ma l'opinione, dai più, si preferisce di comprarsela bell'e fatta, purchessia, pur che non costi, s'intende, più di un soldo.
Inutile dire che il bel metodo riesce anche meglio quando l'avvocatino si fodera del mitingajo o del saltimbanco per le campagne elettorali.
La farsa finisce come deve finire con tanti personaggi da farsa nei clienti delle dimostrazioni e dei comizj, negli elettori e nei contribuenti: l'avvocatino arriva dove arrivano tanti altri liberali del denaro altrui, a parer persona, ai Consigli del Comune, meglio ai Consigli d'Amministrazione, e, peggio per lui, al Parlamento.
Perchè peggio per lui? Perchè il Parlamento è il magno strizzatore di questi limoni senza sugo!
La favola necessariamente lieve in cui l'autore aveva incarnato questo tipo, portava dapprima per titolo: LA NUOVA SCUOLA DEGLI AVVOCATI. Rappresentata per la prima volta in Torino, al teatro Gerbino, la sera del 24 maggio 1874, destò un indescrivibile tumulto nel pubblico affollatissimo. La maggioranza, gradita la satira, rideva ed applaudiva con tanto maggior calore quant'era evidente in un certo numero di spettatori l'intenzione di troncare la recita fin dalle prime scene: finì per trionfare la prima, ma non senza molto contrasto. Il Bellotti-Bon, malgrado le risate frequenti e gli applausi e le chiamate, era vivamente indispettito; nè valeva che l'autore gli dicesse che senza quel contrasto probabilmente il suo lavoro non avrebbe ottenuto tanti applausi.
— Sì, sì, quegli rispondeva; puoi anche aggiungere che il contrasto prova che la satira ha toccato, forse un po' troppo, ma giusto. Ma non basta. I comici non vivono affatto della vita sociale e non possono capire, apprezzare e difendere la portata di un lavoro studiato sul vero: e perciò non hanno nulla del gladiatorio. Recitano tutto l'anno un repertorio, per lo più straniero, quasi tutto accettato ad occhi chiusi! I contrasti li paralizzano sempre; nè vale il dire che la fischiata è soltanto diretta all'autore, e che l'autore si dovrebbe fischiare, se questo gusto si confà coll'educazione, in fin d'atto; che la fischiata ad ogni modo è sempre un atto in cui con molta sciocchezza entra un po' di vigliaccheria: alla stretta dei conti la fischiata impedisce all'attore di essere vero, piacevole, potente, artista. E io, come i miei comici, mi domando se non c'è un rimedio per evitare nelle repliche ogni contrasto, ed assicurare, per quanto è possibile, l'unanimità del successo.
— Sì che c'è, e l'ho bell'e trovato io! gridò un signore irrompendo nel camerino del capocomico, colla disinvoltura di chi recitando ogni giorno la commedia, conosce tutti i settemila segreti dell'arte. Il Bellotti-Bon, volgendosi, presentò al signore i tre o quattro attori che lo avevano seguito nel camerino, ma non l'autore rimasto inosservato in un angolo fra il portacatino e l'attaccapanni, e poi nominò lodando cortese il signore, uno dei più noti e facondi avvocati del foro italiano. Se il fiero castellano di Brolio aveva detto agli italiani: siamo onesti, Giuseppe Peracchi, l'elegante e gentile attore, raccomandava ai comici di essere almeno garbati; ma Bellotti-Bon era sempre onesto e cortese con tutti.
— Dunque sentiamo il rimedio. Già, aggiunse con quel suo sorriso fine fine fra la bonarietà e la canzonatura, già si sa che sei abituato a trovare il modo di sciogliere ben altre difficoltà in Tribunale, in Parlamento e nei Consigli del Comune...
— E della Provincia, ripicchiò l'altro. Anzitutto pigliatela pure col pubblico, se pubblico abbiamo, che vorrebbe lavori italiani, dice, e poi appena accennano ad uscire dall'andazzo, li stronca, pollice verso, senza pietà: te lo dico subito perchè so che è tuo privilegio non abbandonare in nessuna congiuntura lo scrittore. Ma cotesto pubblico è qual'è, e tocca a te ricordarlo. Ma che ti gira, venire a far battezzare una Nuova scuola degli avvocati a Torino che ha la invidiabile fortuna di averne la bellezza di ottocento? Come si fa a sognare d'avere a questi lumi di luna un pubblico così civile quale era l'Ateniese che accoglieva a suon di risate le staffilate con cui Aristofane lacerava le spalle al suo Cleone ed ai demagoghi «sempre cari alle taverne ed ai lupanari?» Questa è per te e per l'autore. E uno e l'altro, ma tu più dell'altro, dovreste conoscere i vostri polli. E i polli di coteste stie, che dovrei forse chiamare capponaie, sono da un bel pezzo abituati a non trovare nella drammatica che lo sfogo di ogni stizza più o meno ragionevole contro la legge e le autorità. Sarà sciocco; ma il teatro è giusto il luogo, non dico come dovrei il sito, dove si dicono più sciocchezze in prosa ed in versi e più in versi che in prosa. Finezze? Non arrivano. Tirate? Tutte. Gli è, caro Gigi, che da noi è l'elemento giovane che guida il pubblico in teatro: quindi è il sentimento non la riflessione che giudica; quindi il poeta ha tanto maggior sicurezza di riescire quanto più sono calde le botte e le apostrofi, non importa se contro il senso comune. Io, se facessi il capocomico, non accetterei oggi un lavoro che non fosse di scrittore anarchico, o almeno socialista, o, alla peggio, repubblicano. E il solenne granciporro del tuo autore sta tutto in questo, che invece di dirigere la satira contro il Pubblico Ministero, dipingendolo assetato di condanne ad ogni costo, e contro il Presidente del Tribunale, colorendolo quale un vecchio odioso, inaccessibile ad ogni pietà, o magari parodiaco per sordità od ebetismo, l'ha diretta contro l'avvocato della difesa. Sicuro, s'egli meglio consigliato faceva proprio il rovescio, la sua commedia andava alle stelle dritto dritto: informi il Brid'Oison, del Matrimonio di Figaro, si licet parva componere magnis! Sì, il Brid'Oison, per quanto caricatura plateale, rispondeva allora fino ad un punto agli obblighi d'una certa verosimiglianza; ma che deve importare ora al commediografo se anche l'invertimento che gli propongo fosse artisticamente una volgare riproduzione e moralmente un assurdo, un vero crimine di lesa verità? Crede forse il tuo autore che il pubblico sappia discernere un lavoro osservato e studiato dal vero da quello che è il frutto di compilazioni, o di assimilazioni, quando non lo è di falsificazioni? Allora mi sta fresco! Gli è giusto il contrario. Se il carro di Tespi corre sopra una strada battuta, le cose vanno liscie. Ma per vie inusate?
Ah! ah! che bel matto! Ma io ho bell'e capito, soggiunse ironico, gli è anche lui di quelli punti dalla tarantola del nuovo: non gliene importa un fico secco dei facili entusiasmi delle nostre platee; brama invece ardentemente le acri battaglie contro la vecchia macchinaccia tarlata del convenzionalismo, e non avrà pace se non quando poggerà vittorioso sulle rovine del tempio antico, sui frantumi dell'ara e del Dio falso e bugiardo! Bellino tanto! Fagli i miei rallegramenti! Ma se vuole invece dar retta a me, faccia ridicolo non il suo avvocato della difesa, ma il Procuratore del Re e il Presidente, e vedrà! Alle stelle! Addio, Gigi; signori, buona notte... Diglielo, alle stelle!!
E come era arrivato, quale una folata di vento, svanì.
Bellotti-Bon, che aveva in orrore i periodi lunghi, respirò a pieni polmoni, guardò i suoi comici con un'alzata di sopracciglia che equivaleva ad un: Caspiterina, che talento! Il suo rimedio è proprio infallibile! E poi, fra 'l serio ed il faceto, il più arguto e giocondo brillante che abbia avuto il nostro teatro dopo il Vergnano, disse all'autore, tirandolo fuori per un bavero:
— Senti. La tua commedia è una solenne birbonata, s'intende, e quell'avvocato in fatto di drammatica è un genio, lo si vede al bujo. Ma se dai retta a me, non mutare che il titolo perchè non serva di civetta al paretaio. E sai perchè?
Qui cominciò a sbottonarsi l'abito, quasi a far intendere che era venuto il momento di levarglisi d'intorno...
— Perchè, aggiunse, se lo scopo dell'avvocato nello studiare le passioni e le ridicolezze umane è di sfruttarle, quello dello scrittore di commedie, meno profittevole ma più bello, è di dipingerle quant'è possibile vere e vive....
Quanto alla commedia, è ben giusto dire che se è rimasta in repertorio, lo deve anzitutto al valore di Giovanni Emanuel, l'attore così proteiforme, coscienzioso e potente.
INTERLOCUTORI
- TULLIO SAVELLI, avvocato, nipote del commend.
- GIUSEPPE SAVELLI, avvocato, padre di LUIGIA.
- PROSPERA, donna di governo del commendatore.
- ADRIANO SILVESTRI, sostituto Procuratore del Re.
- MARCO MARCOLINI.
- CARLO VALORI, industriale.
- PETRONIO BARBARICCIA, avv. e giornalista.
- GEREMIA GEREMEI, giurato.
- BOBI LASCIFARE.
- Il presidente della Corte d'Assise.
- I giudici.
- I giurati.
- Il cancelliere.
- L'usciere.
- Carabinieri.
- Spettatori del processo.
- Un servo del commendatore.
La scena nel primo atto è nella villa del commendatore Savelli, e nel secondo nella Corte d'Assise di una piccola città capoluogo di provincia, in Italia, ai nostri giorni.
ATTO PRIMO
Galleria a vetrate con tre porte: quella nel mezzo in fondo mette nel giardino; quella a destra dello spettatore scorge al quartiere del commendatore Savelli, e l'altra a sinistra alle stanze di Luigia e Prospera ed al resto della villa. Statue, vasi di fiori; un tavolo con giornali, campanello e l'occorrente per iscrivere, a destra; un canapè a sinistra; seggiole e poltrone. È giorno, di primavera.
SCENA I.
LUIGIA e PROSPERA dal giardino.
Luig. (entrando in iscena con un fiore in mano). — Non temi che messo nei capelli questo fiore dia un po' troppo nell'occhio?
Prosp. — A chi? Tanto già non sarà il fiore che il cugino guarderà di più. (mette il fiore nei capelli di Luigia)
Luig. — Non ho fatto un po' di toeletta soltanto per il cugino.
Prosp. — Brava, che dei partiti come te non ce n'è mica molti, mentre di migliori del cugino...
Luig. — Zitta che potrebbe arrivare mio padre. È vero che egli non bada alla ricchezza...
Prosp. — E se non bada alla ricchezza, perchè non ti accorda in isposa all'avvocato Silvestri, giovane bravo e bello quanto un altro, e per di più già sostituto Procuratore del Re?
Luig. — Per un semplicissimo motivo: perchè il Silvestri non ha mai pensato a domandare la mia mano!
Prosp. — Un momento! Non ha mai pensato è una cosa che non sa che Domineddio, e quanto al domandare, si può far presto, veh! E tuo cugino l'ha forse domandata la tua mano? No. È tuo padre che s'è ficcato in capo di fare questo bel matrimonio. Tuo cugino ti sposerà, bel merito, colla tua dote! ma non potrà mai dire di aver dimostrato di volerti bene: sono de' begli anni che non s'è degnato di lasciarsi vedere! Scommetto che non lo riconosceresti neanche.
Luig. — Lo vedrò oggi; se mi piacerà la sua persona ed il suo contegno e se mio padre lo vorrà, lo sposerò; altrimenti aspetterò che se ne presenti un altro migliore.
Prosp. — Allora l'avvocato Silvestri?
Luig. — Fin che non ho veduto e studiato un pochino il cugino, non mi dichiaro per nessuno.
Prosp. — Ma il Silvestri non ti dispiace?
Luig. — No; sono anzi convinta che è un giovane ammodo...
Prosp. — To' un bacio! Anzi due!
Luig. — Perchè?
Prosp. — Perchè sarà un ghiribizzo, ma io sarei tanto consolata di vederti sua moglie, tanto persuasa che saresti maritata bene, che non ti dico che questo: se fossi ancora giovane come te, brutta non lo era neanch'io, me lo piglierei io subito subito!
SCENA II.
GIUSEPPE dal giardino in abito da uscire. Dette.
Gius. — Brava la mia Luigia: già tutta in gala!
Luig. — Per far onore ai tuoi invitati ed al cugino. E dimmi, come sta l'Alessandri?
Gius. — Pur troppo non c'è più nulla da sperare.
Prosp. — Oh! finchè c'è fiato c'è vita.
Gius. — Il guaio è che è giusto il fiato che comincia a mancare al nostro deputato. È tutto in ordine, Prospera?
Prosp. — Tutto. Vedrà la tavola. Fiori a bizzeffe. Nel bel mezzo, fra i posti d'onore, il gran trionfo d'argento.
Gius. — A proposito dei posti d'onore, ti sei ricordata che il nostro vecchio Vicario va matto per lo stufato al Madèra?
Prosp. — Si figuri! Per assicurarmi ho voluto assaggiare il Madèra che ha fatto venire di città: eccellente!
Gius. — Speriamo che non ti sia ingannata.
Prosp. — No, perchè anche il cuoco ed il cocchiere l'hanno trovato meraviglioso.
Gius. — L'hanno assaggiato anche loro? E non l'ha assaggiato nessun altro?
Prosp. — Si, un ditino la cameriera che l'ha trovato sublime.
Gius. — Allora non c'è più da sperare che una cosa: che lo possa assaggiare un pochino anche lo stufato. — Ma avete pensato a quelli che non pranzano mai e desinano di rado?
Prosp. — C'ha pensato lei e basta! Già se lei è rispettato e benedetto da tutti lo deve a questa sua figliuola così cara, bella e buona!
Luig. — Quando la smetti?
Prosp. — Che ho forse da benedire il giorno in cui qualche omaccio ti porterà via dai piedi?
Gius. — Nessuno me l'ha da portar via la mia Luigia: sposare, oh questo sì, se la si merita; ma in casa, sempre con me!
Luig. — Quanto sei buono! (lo abbraccia) Bada, Prospera, che laggiù al cancello c'è un signore e non c'è nessuno ad aprirgli.
Prosp. — Corro io subito. Ma che faccia proibita! Che sia uno degli amici dell'avvocatino Tullio?
Gius. — Possibile che in tanti anni non ti sia svezzata dal metter fuori quanto ti viene in bocca? Davvero che faresti dubitare della perfettibilità dell'uomo!
Prosp. — Scusi, commendatore; ma s'io fossi perfetta sarei troppo noiosa, e poi con sua licenza io non sono un uomo, no davvero! (corre via dal fondo)
Gius. — (E neanche una donna alla tua età: un essere neutro!) Oh! mentre siamo soli, dimmi un po', sei contenta di rivederlo questo cugino che con te forma ora la mia famiglia?
Luig. — Contentissima, e spero che egli sia degno dell'interesse che gli porti.
Gius. — Lo deve essere degno, e lo sarà, se il suo cuore è all'altezza del suo ingegno. Ma il tuo cuore è sempre libero?
Luig. — Liberissimo, te l'ho già detto.
Gius. — Sì; ma da un giorno all'altro voi altre ragazze...
Luig. — Sarà; ma io non preferisco nessuno, neanche fra i giovani ammessi in casa. Non c'ho gran merito, veh! poichè nessuno di loro, fuori dei soliti complimenti, dimostrò mai di voler aspirare alla mia mano... E l'avvocato Silvestri non fa neanche i complimenti!
Gius. — Sfido io: un sostituto Procuratore del Re! Ma è un giovane proprio di proposito, che ha un alto ideale della vita...
Luig. — Davvero?
Gius. — Certo. Ho visto più d'una volta che mentre può accendersi per un'impresa generosa, il sentimento del dovere parla in lui sempre più forte dell'entusiasmo... Noi abbiamo molto bisogno di giovani cosiffatti... Anzi, se non ci fosse... (Ma che dico?) Parliamo di Tullio... Vedi, io sarei proprio contento che ti piacesse, e che fosse degno di te, perchè col dono della tua mano riparerei senza farti torto alle ingiustizie della sorte che bersagliò il mio povero fratello.
Luig. — Tu giudicherai se egli mi convenga; quanto al piacermi o no, non dubitare che te lo dirò presto, sinceramente e senza leggerezza.
Gius. — Oh brava la mia Luigia, e sta pur sicura che se non ti piace non l'hai da sposare.
SCENA III.
BOBI dal fondo con PROSPERA. Detti.
Prosp. (a Bobi). — Ecco il signor avvocato Savelli.
Bobi. — Lui?
Luig. — Vado ad aspettarti in giardino. Prospera. Signore... (esce dal fondo)
Prosp. — Vengo subito. (a Bobi porgendogli una sedia) S'accomodi.
Bobi. — Ma è proprio lei l'avvocato Savelli di cui parla il giornale? Me lo davano per uomo di prima gioventù, e lei...
Gius. — Si figuri che io sia della seconda, di quella che non finisce più. Con chi ho il piacere di parlare?
Bobi. — Con me e faccio l'accollatario.
Gius. — Badi che ho smesso giusto ora di fare l'avvocato.
Bobi. — Possibile? Ma se si trattasse d'un affare che le darebbe onore e quattrini?
Gius. — Quanto a quattrini mi contento di quelli che ho guadagnato in quarant'anni di lavoro assiduo; per l'onore, se n'avessi bisogno, sarebbe un po' tardi.
SCENA IV.
SILVESTRI dal fondo. Detti.
Prosp. — L'avvocato Silvestri. Venga, venga!
Gius. — Benvenuto, signor Silvestri. (a Bobi) Ma se io non posso avere il piacere di servirla e le basta un consiglio, ecco un avvocato che conosce la legge appuntino e che è cortese quanto bravo.
Silv. — Troppo onore, signor commendatore. (a Bobi) Dica liberamente.
Bobi. — (Commendatore? Ma allora non è lui). Ecco, le dirò: io ho avuto una commissione curiosa. Sa lei del processo Valori che si sta per fare?
Silv. — Nessuno lo conosce meglio di me. Farà molto rumore, sebbene non mi sia riescito di mettere le mani addosso al reo.
Bobi (sbalordito). — Lei?
Silv. — Sostituto Procuratore del Re ai suoi comandi.
Bobi. — Obbligato!... Non s'incomodi!... Mi rincresce di essermi dato tanto disturbo... Cioè!... Basta.
Silv. — Come le piace. (si riavvicina a Giuseppe)
Prosp. (a Giuseppe). — Mi dimenticavo di dirle che il cocchiere domanda se ha da andare alla stazione ad aspettare il cavalier Valori.
Bobi. — Valori?!
Silv. — L'industriale di Belmonte, quello che poco mancò non fosse per ogni verso vittima dell'imputato...
Gius. — Se approfitta del mio legno per recarsi alla stazione, lo vede.
Bobi. — Grazie tante! Non voglio far altre conoscenze io! E poi mi fa meglio andare a piedi... Ma lei non ha un figliuolo che s'è messo soltanto or ora a far l'avvocato?
Gius. — Il nipote, Tullio Savelli.
Bobi. — Ecco quello che io cerco, quello di cui parla il giornale, Tullio!
Gius. — Se ritorna fra un'oretta, o va alla stazione lo vede.
Bobi. — Vado alla stazione. (Ma non vorrei imbattermi nel Valori...) (a Prospera) Non c'è altra strada per andare alla stazione?
Prosp. — Sicuro che c'è; il sentiero per i campi in faccia alla porta del giardino, giù dritto fino in fondo alla scesa. Laggiù troverà una bella casa con tanto d'arme sulla porta, la infili sicuro come in chiesa, attraversi l'orto e darà subito del naso nella stazione.
Bobi. — Gli è il fatto mio... Ma che cos'è quella bella casa coll'arme sulla porta in cui devo entrare?
Prosp. — La caserma dei carabinieri.
Bobi. — La caserma dei carabinieri?! (esce rapidamente dal fondo seguito da Prospera sino alla soglia)
Prosp. — Ma non di li! Per il sentiero! — Gli dico di qua e lui va di là! (gli scompare dietro)
Silv. — Mi permette, signor commendatore, che io approfitti di questo momento in cui siamo soli per dirle due parole?
Gius. — Volentieri. S'accomodi. (Che mi vorrà dire? Forse del processo...)
Silv. — Comprendo che abuso forse della sua bontà; ma non posso differire la preghiera che sto per farle.
Gius. — Lei non abusa di nulla, ed io sarò lietissimo di provarle quanta stima ho per lei. Dica adunque liberamente.
Silv. — Ebbene, sappia che io non ho potuto frequentare la sua casa senza rimanere vivamente colpito dalle grazie dello spirito e della persona della sua signorina.
Gius. — Come? Come? E aspetta a venirmelo a dire adesso che sta per arrivare quel nipote che desidero dare in sposo a mia figlia?
Silv. — Sì, perchè non l'ho saputo che stamane.
Gius. — E lei, appena saputo che io desidero questo matrimonio, invece di dire: pazienza, dovevo venir prima, sono arrivato troppo tardi, viene a confessarmi il suo amore giusto quando sta per arrivare l'altro! Eh! non c'è che dire, questo si chiama proprio scegliere il momento buono! Ma sa che se io non la conoscessi per giovane educato e modesto, m'avrebbe l'aria di dirmi: non la dia al nipote la sua Luigia, che non la merita, la dia a me che la merito il doppio!
Silv. — Mi perdoni; ma io non posso esser venuto a domandarle la mano della sua figliuola.
Gius. — E a quale scopo mi viene allora a fare la sua confessione? Dal momento che sa che la ragazza è destinata ad altri, mi pare che l'incidente sia bell'e esaurito! Io l'ho invitata alla piccola festa che faccio in casa per l'inscrizione del nipote nel collegio degli avvocati: se rimane mi fa un piacere; ma se teme di non potersi contenere, io la lascio in libertà, e amici come prima.
Silv. — Mi farò forte, e poi il rispetto che ho per lei basterebbe a ricordarmi il mio dovere.
Gius. — (Povero giovane!) Ma un momento: Luigia non sa nulla di tutto questo?
Silv. — Oh, senza il suo consenso!
Gius. — Bravo! Bravo davvero! (Lo fa apposta a condursi così bene!) Mi duole, sa, che m'abbia fatto questa sua confessione, mi duole davvero e tanto più quanto è grande la stima e la simpatia che ho per lei... Si, e non esito a dirle chiaramente che se non avessi il nipote, se il nipote non convenisse, sarei ben contento di avere per genero un giovane come lei. (si alza)
Silv. (con calore, alzandosi). — Dice davvero?
Gius. — Ho sempre detto quello che penso in casa, in tribunale, in Parlamento.
Silv. — Allora io la ringrazio di gran cuore di concedermi quanto sono venuto a domandarle, una speranza.
Gius. — Ma che speranza dal momento che la dò al nipote?
Silv. — Perdoni; ma lei ha detto che se il nipote per qualche verso non convenisse...
Gius. — Sì che l'ho detto; ma perchè non ha da convenire? Crede forse che Tullio sia brutto come uno scarabocchio e scipito come una testa di rapa?
Silv. — No; ma se per caso non piacesse alla signorina o non contentasse lei...
Gius. — Piacerà! Contenterà!
Silv. — Può essere, ma io non rinunzio alla speranza che possa non piacere e non contentare...
Gius. — Ma guarda che chiodo s'è fitto in capo! Quasi quasi darei subito subito la figlia al nipote senza condizione!
Silv. (ridendo). — Di questo non ho punto timore.
Gius. — Oh sta a vedere che mi mette in puntiglio! E chi le dice che io non sia capace di farlo?
Silv. — Tutto quanto il suo passato.
Gius. — Ha ragione.
Silv. — E poi me l'ha già permesso di sperare!
Gius. — Ebbene speri, speri pure; ma mi lasci dire che se non ha altri moccoli, dovrà andare a letto al buio... e solo!
Silv. — Solo, no... colla mia speranza!
Gius. — Padrone! Padronissimo!
Silv. — E io la ringrazio nuovamente di questo altro permesso.
Gius. — To', ora gliel'ho già permesso due volte! Ma ad ogni modo rimane fra di noi due, eh?
Silv. — Sul mio onore.
Gius. (porgendogli la destra). — Bravo! Io al suo posto dispererei; ma dal momento che a lei fa piacere sperare, che gli ho da dire? Tutti i gusti sono gusti!
SCENA V.
PROSPERA e GEREMIA GEREMEI dal fondo. Detti.
Prosp. — C'è questo signore che desidera un consiglio, signor Giuseppe.
Gius. — Veramente non farei più l'avvocato; ma poichè s'è disturbato a venire quassù, e non si tratta che di un consiglio...
Silv. — Mi permette di accompagnare la signora Prospera in giardino?
Gius. — Non mi lasci, pigli un giornale. (È vero che si contenta di sperare; ma non vorrei che sperassero in due).
Prosp. — Allora sarà per un'altra volta. (esce dal fondo)
Gius. — Con chi ho il piacere di parlare?
Ger. — Geremia Geremei, fabbricante di antichità e di decorazioni a scelta... Solamente a guardarmi lei capisce subito che non ho ammazzato nessuno, e che non vengo a disturbarla per cercare il modo di farla liscia colla giustizia. Amo anch'io la libertà, sebbene sotto certi aspetti si stesse meglio prima, e non c'è nessuno che mi valga nel far la guerra ai preti e nel sostenere i fondi pubblici... Ah! non ho superstizioni io: mangio salame e prosciutto tutti i venerdì...
Gius. — Un bel coraggio.
Ger. — Non lo dico per imbottirmi, sono un buon patriotta; e quando c'era la guardia nazionale buon'anima sua, non ero di quelli che pagavano cinque lire per sottrarsi al servizio! Piuttosto l'avrei fatto io per gli altri, se non mi avessero creduto degno del grado di caporale...
Gius. — Favorisca di venire al concreto.
Ger. — Subito. Il concreto è che m'hanno ficcato nei Giurati.
Gius. — Poichè è così buon patriotta...
Ger. — Sicuro; ma c'è un ma! Anzi ce ne sono parecchi dei ma! Prima di tutto sono abituato a fare tre piccoli pasti al giorno e non posso in coscienza espormi a farne uno solo, in un ambiente troppo caldo, col pericolo di essere preso dal sonno dinnanzi alla Corte mentre un tal peso gravita sul mio stomaco e sulla mia responsabilità. E poi come potrei espormi a firmare una sentenza di morte, io che ho letto Le ventiquattr'ore di Vittor Ugo condannato a morte? Mandare in prigione un disgraziato, io che so a memoria Le sue prigioni di Silvio Pellico? Non è possibile, sulla fede ch'io giuro! E per tutto l'oro del mondo... o almeno per una bella somma, non voglio espormi al pericolo di una vendetta per punire un uomo che a me non mi ha fatto proprio nulla. Ah! per difendere la società? Bellina la società! Ognuno per sè e Dio per tutti, dico io. E poi c'è dell'altro. Io ho preso moglie da poco.... Chi non fa la sua corbelleria? E mia moglie, non faccio per dire, è giovane e belloccia; lo sa e non le dispiace che glielo dicano. Ora lei mi capisce, colla bottega aperta al primo cavaliere venuto, con tutti i mosconi che ronzano attorno alla donna degli altri, lei converrà con me che non posso occuparmi delle birbonate fatte agli altri, mentre sono sicuro che tirano di farne una a me delle più solenni! Le decorazioni, venderle, questo sì... ma lasciare che gli altri decorino me, no! E poi, e poi che Giurati d'Egitto! Facciano i magistrati, li paghiamo per questo! E che dibattimento, dal momento che hanno potuto coglierli! Che reclusione, che galera! Costa troppo! E se non scappano dura così poco ora anche la galera a vita! Quattro palle nello stomaco ai ladri, dico io, e gli omicida, se non li vogliono impiccare, via, lontano lontano, in un'isola sotto la canicola e che sia tutta tutta ben circondata dal mare!
Gius. (che durante lo sproloquio di Geremia ha scambiato qualche sguardo col Silvestri). — Lo sono anch'io Giurato nel prossimo processo per l'affare Valori. Conosco poi le condizioni che possono esimere da quest'obbligo, che una volta parve il diritto più solenne e prezioso che ci abbia conferito la libertà!...
Ger. — Eh! già, me lo immagino; ma ora le sono quarantottate.
Gius. — Non le domando se sia elettore politico...
Ger. — Credo; ma non ho tempo da perdere.
Gius. — Se abbia compiuto i trent'anni e sappia leggere...
Ger. — Basta che non sia dinnanzi a molta gente.
Gius. — Se abbia subito delle condanne...
Ger. — Un po' di prigione per la guardia nazionale, prima dello scioglimento; nient'altro (ridendo) finora!
Gius. — Se non sia stato Segretario, Direttore o Ministro...
Ger. — Prima d'essere padrone, ero ministro, lo dico senza rossore.
Gius. — Questo sentimento lo onora; ma io parlo di Ministri di Stato.
Ger. — Eh! allora non le venderei le decorazioni!
Gius. — (Le porterebbe tutte lui!) E la salute è eccellente, mi pare?
Ger. — Per uno sposo non c'è male, mi contento.
Gius. — Allora bisogna rassegnarsi a fare il suo dovere, altrimenti incorre in una multa da lire trecento a mille con sentenza della Corte d'Assise, la quale porta con sè il rifacimento di ogni danno e spesa al tribunale, all'imputato ed ai testimoni che nel processo Valori sono oltre al centinaio.
Ger. (scattando in piedi). — E questa si chiama libertà? Alla fin fine non l'ho domandato io di fare il Giurato, e se anche ci fossi stato obbligato, mai per farlo per forza!
Gius. — Signor Geremia, non ho altro consiglio da darle.
Ger. (simulando di essere in collera). — E dal momento che con cinque lire si faceva montar la guardia da un altro, perchè non si può incaricarlo anche di fare il Giurato?
Gius. — Signor Geremei, se desidera anche la mia opinione su questo, le dirò gratuitamente che pretendere una patria senza leggi ed una libertà senza doveri equivale ad essere indegni della patria e della libertà.
Ger. — Avvocato, lei mi manca di rispetto!
Gius. — Sa, con me quest'artifizio non serve: sono venticinque lire che la invito a pagare il mio disturbo.
Ger. (mutando subito tono). — Venticinque lire un semplice consiglio, caro signore?
Gius. — Quando non è cento.
Ger. — Ma per un padre di famiglia?
Gius. — Se non ha preso moglie che ora!
Ger. — Sì; ma nella mia parentela siamo un po' come i conigli... Mettiamo quindici lire, via!
Gius. — Non mercanteggio. (suona il campanello)
Ger. (colla borsa in mano). — Gli affari vanno così male... Eccole un bel biglietto da venti lire, bell'e nuovo...
SCENA VI.
Un SERVO dalla destra. Detti.
Ger. — Neanche venti lire? (aspro) Bene, tenga, tenga le sue venticinque lire... Ma io sono molto più discreto nei miei affari.
Gius. — Piglia quel denaro, Bernardo; lo darai al Vicario per i poveri a nome di questo signore.
Ger. (furioso). — Non ci mancherebbe altro che si sapesse che regalo cinque scudi ai loro preti! (al servo) Dite che è lui il donatore e vi crederà: il Vicario sa probabilmente come il signore fa presto a guadagnarli. (via dal fondo senza salutare, col cappello in capo)
Gius. — Ha sentito?
Silv. — Valeva proprio la pena che tanta brava gente consumasse la vita nell'esilio e sui campi di battaglia per avere di cotesti cittadini!
SCENA VII.
PROSPERA e MARCOLINI dal fondo. Detti.
Marc. (parola spedita e volubile, interrotta da frequenti risatine). — Mille grazie, signora, ma non mi sono ignote le nobilissime sembianze dell'illustre avvocato commendatore Savelli. (a Giuseppe) Mi scusi, mi perdoni se premendomi di vedere suo nipote mi sono fatto lecito di accettare l'invito fatto senza distinzione agli amici di Tullio, prima di avere l'alto onore di esserle presentato.
Gius. — Non dica di più e s'accomodi. L'avvocato Silvestri, sostituto Procuratore del Re.
Marc. — L'ho già visto in tribunale; visto, sentito ed ammirato. (s'inchina a Silvestri e a Prospera, la quale lo ricambia e poi esce dal fondo) Dopo lei... Dopo lei, se non disturbo. (siede) Ma se per caso disturbo... (si rialza)
Gius. — Ma la prego... (Che sia già un cliente di Tullio?) Ella conosce adunque mio nipote?
Marc. — Moltissimo, illustre signor avvocato commendatore!
Gius. — Mi chiami semplicemente come desidero, signor Giuseppe.
Marc. — Modestia antica! Virtù perduta! Non per nulla lei è onore e decoro d'Astrea, degno rivale del Bastiani, il maestro di suo nipote, valoroso criminalista, ma meno di lei forte nel civile quanto nel criminale!
Gius. — Lei mi confonde... (Deve essere un pezzo grosso). E lei che ne dice di mio nipote, signor commendatore?
Marc. (si alza, s'inchina e risiede). — Grazie, ma non lo sono ancora. Di suo nipote non dico che una cosa, un pensiero, una frase: tutto dimostra in lui che è nato esclusivamente per il foro!
Gius. (a Silvestri). — Sente?
Silv. — Non mi fa meraviglia; è suo nipote.
Gius. — E dica, dica, signor cavaliere...
Marc. (come sopra, alzandosi, ecc.). — Grazie, ma non lo sono ancora.
Gius. — Possibile?
Silv. — Qualche eccezione a cercar bene c'è ancora.
Gius. — Ma scomparirà, scomparirà presto!
Marc. (come sopra). — Troppo gentile. Suo nipote farà una riescita splendida, fenomenale, direi quasi piramidale, così che eclisserà tutti quanti gli avvocati, e sa perchè? Perchè è nato avvocato come altri nasce poeta, vate, profeta.
SCENA VIII.
LUIGIA con un mazzo di fiori slegati che depone sul tavolo, dal fondo. Detti.
Silv. — A meraviglia! Ma lei ha una ricchezza di sinonimi e di aggettivi che sbalordisce.
Marc. — Eh! se toglie l'aggettivo alla letteratura e all'arte oratoria, che cosa resta? E poi due, tre martellate conficcano meglio un chiodo che una sola!
Silv. (scherzando). — È vero che lei piglia così il nostro cervello per un pezzo di legno, ma la spiegazione è evidente.
Gius. — Senti, Luigia, che cosa dice il signore di Tullio. (a Marcolini alzatosi) Mia figlia, stia commodo, signor..... professore.
Marc. — Non sono professore, grazie. Dicevo che Tullio è avvocato nato. Ma quale meraviglia se il destino lo faceva nascere di famiglia già famosa nell'arte oratoria? Quale meraviglia se sua madre, quasi presàga del futuro, bene vi auspicava battezzandolo col nome del più grande oratore romano, sebbene non fosse veramente un romano de Roma ma Arpinate, l'immortale più che divino Marco Tullio Cicerone?
Gius. — (Dev'essere un giudice di tribunale). È vero, signor magistrato, è vero.
Marc. — Grazie, non sono magistrato. La sua è adunque una vera consacrazione naturale, originale, direi fatale, sopratutto per le grandi cause criminali, perchè egli ha il segreto del nuovo e dell'impreveduto che intontisce il pubblico; il torrente di filippiche e il fuoco d'artifizio che annichila il Pubblico Ministero...
Silv. — Mille grazie dell'avvertimento.
Marc. (con un inchino). — Era un dovere per me. (seguitando) E infine l'arte superlativa, indispensabile per vincere; l'ineffabile arte di toccar le corde ai Giurati! — La parola essendo un fatto — for faris parlare ed agire — chi disse che il silenzio è d'oro non era certo un avvocato: la parola è un suono, è un'idea, ma forse più giova suono che idea, ed è perciò che Tullio ha una voce e due polmoni che possono lavorare tre, quattro ore come tutto il giorno, vale a dire finchè la parte avversaria non sia rimasta senza fiato. Che armonia in tanta forza! Che varietà di gamme dalle basse per parlare ai giudici, alle medie per i Giurati, alle acutissime per trafiggere il Pubblico Ministero! E a sentirlo vi par sempre che sia uno specialista, lo specialista del soggetto che tratta... (con sdegno) Il mio Tullio un miserabile specialista? Ma allora il concertista meraviglioso non saprebbe suonare che un pezzo, il comico potente non saprebbe recitar bene che una commedia! Tullio invece è tutta un'orchestra, tutta una compagnia di comici impareggiabili!
Gius. — Senza dubbio, il signore è un artista?
Marc. — Sarebbe troppo onore; ma a lei pare forse che paragonando Tullio ad un attore, gli faccia torto. No, illustre signore, perchè comico ed avvocato sono, in fondo, una cosa sola!
Gius. e Silv. — Oh via!
Marc. — E glie lo provo subito. Un avvocato non è forse tanto più bravo, quanto più fa valere la parte che si è assunto di rappresentare in Tribunale?
Gli altri. — Senza dubbio.
Marc. — E che cosa è un comico, se non l'avvocato che tanto s'immedesima nella sua parte, da farla parere parte sua, causa sua, passione sua? Dunque avvocati e comici professano in fondo una poco dissimile arte magnifica e fuggitiva, colla sola diversità che il comico non recita che in teatro, e non dà mai ad intendere di recitare la parte del patriotta per il bene del popolo e della nazione!
Gli altri. — Bravo, signor avvocato, bravo!
Marc. — Mille sentitissime grazie; ma non sono neanche avvocato.
Gius. — (Chi diavolo può essere?) Sono ben lieto che Tullio abbia tante disposizioni; ma al mio tempo non si conosceva l'avvocato concertista, attore e che so io!
Marc. — Lo credo io! allora non c'erano i Giurati, e toccar le corde ai magistrati, eh! eh! era tutto un altro par di maniche.
Silv. — Mi scusi; ma dove le ha trattate il signor avvocato Tullio tutte le cause che hanno rivelato il suo straordinario ingegno?
Marc. — Nel suo studio, fra me e l'avvocato Petronio Barbariccia. Io faccio da Giurato e Barbariccia da delinquente. A proposito, eccolo in persona.
SCENA IX.
PROSPERA e l'avvocato PETRONIO BARBARICCIA dal fondo. Detti.
Prosp. — (ironica) Un amico intimo del sor Tullio!
Gius. — Favorisca, signor avvocato.
Petr. — Sono amico di suo nipote, anzi compagno di università. Ciao Marcolini. Tullio mi ha dato appuntamento qui, ed io ci sono venuto senza géna.
Gius. (a Luigia). — Deve essere un francese. — S'accomodi.
Petr. — Dopo due ore di tram? Basta.
Gius. — Padrone. Fa anche lei l'avvocato?
Petr. — A che? Noi si bada ai principii e non ad arrangiarci. So quello che mi dico.
Gius. — (È più fortunato di me).
Marc. — Di' loro subito che dirigi un giornale.
Petr. — La Torpedine, al loro servizio.
Gius. — Alla larga! Ma il signore propugna forse la difesa delle nostre coste?
Petr. — Io non difendo nulla, al contrario. La Torpedine sociale.
Gius. — Allora la rottura! Ma, mi perdoni, non l'ho mai intesa nominare.
Petr. — Non mi meraviglio. So di quali idee lei è imbibito...
Gius. — Finora non capisco di quali sia imbibito lei; ma, ad ogni modo, sappia che le mie non hanno mai escluso nessuna opinione onesta e sincera.
Petr. — Il signor Silvestri potrà dirle quali sono le mie idee.
Silv. — Mi scuserà se in conversazione non ricordo mai quanto ho saputo o detto in correzionale.
Petr. — Tanto meglio; ma vorrà almeno aggiungere in processo di stampa.
Silv. — Se crede che debba dire così, sia.
Luig. — (Che amici curiosi ha Tullio!)
SCENA X.
VALORI dal fondo. Detti.
Val. (fuori di scena). — Grazie, sora Prospera; ma lei lo sa, in casa Savelli non ho bisogno di essere annunziato. (in iscena dal fondo) Mio egregio amico... Gentile signorina... Signori...
Gius. — Caro il mio Valori! — Il cavalier Valori, gentiluomo benemerito della nostra industria. — L'avvocato Silvestri, l'avvocato Barbariccia, direttore della Torpedine sociale, se ti fa commodo, e il signor...
Marc. — Marco Marcolini, ai suoi comandi.
Luig. — Cavaliere, io la ringrazio tanto e tanto delle bellissime giunchiglie che ha avuto la gentilezza di mandarmi; ma in compenso le farò vedere la bella stufa che il babbo mi ha fatto fare presso il mio salottino.
Gius. — Mi ha quasi finito i quattrini. Ma li ama tanto quei benedetti fiori!
Luig. (porgendo a ciascuno un fiore). — E chi non li ama?
Petr. — Io.
Luig. — Dice sul serio?
Petr. — Noi non faceziamo mai.
Gius. — (Loro si trincerano).
Petr. — Noi odiamo le arti come tutto quello che rompe l'eguaglianza, e così combattiamo i fiori, che sono l'aristocrazia della natura.
Luig. — Sa che il loro coraggio mi fa paura?
Gius. — Loro come filosofi umanitari vorrebbero che la natura matrigna, invece di pensare alla poesia dei fiori, si fosse occupata solamente delle frutta, del frumento...
Petr. — Dica pure senza genarsi dei pomi di terra.
Gius. — Bravissimo! Ma giacchè non ci si deve genare, chiamiamoli addirittura patate; è vero che ha la disgrazia di essere italiano, ma si capisce meglio. Luigia, non fai servire del vermouth a questi signori?
Luig. — Sicuro, nel mio salottino; così ci daranno il loro parere intorno alla stufa. (ad un suo cenno si avviano tutti alla sinistra)
Silv. — Volentieri, se un avvocato può parlare di questi lavori.
Marc. — Ma un avvocato parla di tutto, siccome quello che può trasformarsi a suo piacere in tutto quello che vuole, in un giornalista come in un amministratore, in un uomo di Stato come in un banchiere. Pigli invece un medico. Pigliamo anzi un teologo... (scompare cogli altri dalla sinistra)
Petr. (ultimo ad uscire). — Ma che teologo! A quest'ora piglierei qualche cosa di più sostanziale. (via)
SCENA XI.
TULLIO, in elegante abito da mattino, seguito da un SERVO che porta una sacchettina da viaggio, dal fondo.
Tullio. — Zitto, zitto, che preferisco di fare loro una sorpresa!
Servo. — La stanza destinata a lei è di qua, nel quartiere del signor Commendatore. (esce dalla destra)
Tullio. — Non ho bisogno di nulla per ora. Mi tolgo questi guanti, ne infilo un paio di nuovi, e la mia toeletta è bell'e fatta... Che sorpresa per Luigia! (si guarda attorno) Ma la sua sorpresa non sarà certo maggiore della mia: che fattoria è quella dello zio, che villa, che giardino, che mobili! E come ogni cosa mi sorride! I contadini su per la salita mi salutano, i cani, invece di abbaiarmi, dimenano la coda, e tanto i buoi che gli asini mi danno delle occhiate fraterne... Ci sono delle piante che mi stendono con un fremito d'amore i loro rami fronzuti sul capo, per difendermi dal sole... E quelle poltrone lì non mi stendono forse i loro bracciuoli con un amabile s'accomodi? Grazie tante, più tardi, dopo desinare! Ma io capisco il segreto di così bell'accoglienza! Contadini e asini, cani e servitori, mobili e piante, presentite tutti (abbassando la voce) che il vero padrone qui sono io! (il servo dalla destra saluta con un profondo inchino Tullio, ed esce dalla sinistra) Che cosa dicevo? E se quello lì non è un imbecille, mi manda subito la mia Luigia... Se si fosse fatta più bella, se fosse per giunta allegra e spiritosa, allora io non avrei più nulla a desiderare! Ma perchè tante immeritate grazie di Dio? Perchè io ho la fortuna di essere nipote di uno zio che vale tutti gli zii di America!
SCENA XII.
LUIGIA dalla sinistra. Detto.
Luig. — Tullio?
Tullio (aprendo le braccia). — Luigia?
Luig. (stendendogli la destra). — Con quanto piacere ti rivedo!
Tullio. — E io! Ma non mi dai che una stretta di mano, cuginetta sempre più bella, cara ed elegante?
Luig. — Zitto, zitto, e basti anche per l'avvenire.
Tullio. — Tu vuoi far star zitto un avvocato e un avvocato che ti vuol bene? Ma non sai che quando pensavo a te non c'era più verso di studiare?
Luig. — Dimmi, pensavi spesso a me?
Tullio. — Ma ogni ora, ogni momento!
Luig. — E allora devi aver studiato benino.
Tullio. — Ma che studiare: avvocato si nasce.
Luig. — E tu sei di quelli nati apposta?
Tullio. — Mi lusingo che sì; ma non c'è merito, come a nascer sani, belli e spiritosi..... Parlo degli uomini che lo sono!
Luig. — Ho capito, si nasce avvocati come si nasce modesti. Ma lascia che avverta lo zio del tuo arrivo, e faccia servire il vermouth agli amici tuoi e suoi.
Tullio. — Senti: non ho il piacere di conoscere gli amici di tuo padre; ma se, in fatto d'appetito, somigliano ai miei, ti assicuro che non hanno bisogno di stuzzicanti per farsi onore. Siccome poi tuo padre mi rimanda in città, lascia che io approfitti di questo momento per assicurarti che nessuna delle tante cose belle e preziose che possiede m'è più cara del tuo affetto.
Luig. — Del mio affetto? Ma tu parli di cosa che ancora non hai.
Tullio (stupito). — Tu non mi vuoi più bene?
Luig. — Come cugino, sempre. Ma, come aspirante alla mia mano...
Tullio. — Poco?
Luig. — Nulla.
Tullio. — È meno che poco... Oh! Anche tuo padre mi ha detto che tocca a me a conquistarti; ebbene, io ti farò vicino e lontano una corte così assidua ed insistente, che se anche tu avessi il cuore freddo e duro... come quello d'un Pubblico Ministero, bisogna tuttavia che tu venga a quelle conclusioni che debbono formare la felicità della mia vita.
Luig. — Ed io ti dico subito che ho tanta stima di mio padre, che, senza rinunziare al diritto di dire la mia opinione, lascio fin d'ora al suo criterio il giudizio definitivo.
Tullio. — Ho capito. Egli farà da tribunale, e senza appello; qualcheduno si incaricherà certo di contrastarmi la vittoria, e questo farà da Procuratore del Re...
Luig. — Può essere!
Tullio. — Ma tu sola sei la Giurìa! E io so come si fa coi Giurati. Io ho la mano leggera, delicata e svelta che fa bisogno per toccare i tasti più commoventi!
Luig. — Tu parli della Giurìa come d'un pianoforte?
Tullio. — Già, mentre non è che un piano debole! Mi sentirai; sono così sicuro di me, che ti dico subito che la sinfonia che io suonerò ha tre parti: prima, la parte seria, andante maestoso, per persuaderti che sono un giovane ammodo, serio quando occorre, con qualche cosa qui in mezzo alle ciglia; parte seconda, mi bemol minore, violini colle sordine, clarini e viole d'amore, indirizzata al cuore... prepara molte pezzuole; parte terza, (con un gesto) la stretta finale, con un prestissimo e una corona, per te sola, invocata da tutti e due!
Luig. — Ebbene, io sentirò la sinfonia, e, se mi commoverà, se mi convincerà che tu sei veramente l'uomo che corrisponde al mio ideale, lo dirò al babbo.
Tullio. — (Ha un ideale!)
SCENA XIII.
GIUSEPPE, VALORI, PETRONIO, MARCOLINI e SILVESTRI dalla sinistra. Detti.
Gius. — Ma Luigia, quel vermouth? Tullio?! Qua! (aprendogli le braccia) «Dignus es intrare!» (agli altri) Mio nipote Tullio. (a Tullio) L'avvocato Silvestri, sostituito Procuratore del Re...
Tullio. — (Mi è già antipatico). Fortunatissimo della sua conoscenza.
Gius. — Due tuoi amici, l'avvocato Barbariccia e il signor Marcolini...
Tullio (con una stretta di mano a ciascuno). — La fenice dei giovani di studio, il mio fido consigliere! — Bravo Petronio, sei stato di parola. (a Giuseppe) Penna scultoria e indipendenza a tutta prova...
Gius. — (Dalla grammatica...) L'ho sentito.
Tullio. — Un po' amico dei paradossi, ma profondo.
Petr. — Grazie di questa giustizia.
Gius. — (Allora profondo quanto modesto).
Tullio (a Gius.). — Il Marcolini colla sua esperienza mi insegnerà le scorciatoie e lui col giornale mi farà un po' di strombettatura: non potrei essere più fortunato.
Gius. — Scorciatoie? Strombettature sui giornali? Ma io ho fatto la mia carriera senza tutta questa roba!
Tullio. — Lo credo io! La scuola classica italiana, la scuola antica, severa, dignitosa, aristocratica. Ma allora eravate in pochi, e si capisce, chi mi vuole, mi meriti. Ma ora che gli avvocati sono numerosi quanto i tram, i tabaccai ed i liquoristi; adesso che per ogni birba ci sono almeno due avvocati, non sono più i clienti che debbono cercare umilmente gli avvocati, ma sono gli avvocati che debbono dar la caccia ai clienti, battere la gran cassa per attirare l'attenzione sopra di sè, ed arrivare a chiappare qualche merlotto!
Gius. — Non pigliamo le cose così alla leggera, caro Tullio. Ci sono dei principii intorno a cui giova intenderci e subito...
Tullio. — Sicuro, perchè dopo desinare i principii non sanno più di nulla.
Gius. — Tu hai troppo spirito, quando non dici delle freddure, per credere che in te mi basti l'essere nipote ed avvocato.
Tullio. — Oh! Farei torto a lei, a Luigia ed a me stesso.
Gius. — Bravo; ma senti e ricorda queste poche parole che io credo di poterti dire dinnanzi ai tuoi amici, ai nostri amici, perchè sono sicuro che qualunque sia la loro opinione, le approveranno tutti. Noi, poveri vecchi della generazione passata, tramontiamo in uno splendido periodo di luce; ma non è che l'aurora di un giorno più fecondo e senza tramonto per la gloria della patria, se voi altri giovani, invece di atteggiarvi ad esprits forts, che, senza aver fatto nulla, trattano di rettorica le virtù ed i fatti che hanno giovato a fare l'Italia, avrete ereditato anche i nostri entusiasmi per ogni cosa che ci faccia veramente civili, onorati e forti; se voi altri, invece di addormentarvi su glorie non vostre, saprete preparare un avvenire, se non più glorioso, più virtuoso e sapiente. A te che porti il mio nome, io non domando quale scuola seguirai, ma carattere; non fortuna, ma costanza, e sopra ogni cosa quella che nel nostro paese è ancora tenuta in pregio più dell'ingegno e della fortuna, l'onestà: ora a te il convincermi del valore e della virtù dell'avvocato, anche ad una prima causa, a te il meritare colla mia la stima e l'affetto della mia Luigia! (lo abbraccia)
Gli altri (meno Luigia). — Bene! Bravo!
SCENA XIV.
PROSPERA dal fondo. Detti.
Val. — Le sue parole le vorrei scritte sulle pareti delle scuole, delle officine, delle caserme, come sui muri delle piazze!
Gius. — Tu sei un adulatore!
Prosp. — Scusi se interrompo, quel signore che è venuto stamattina, quello che cercava di suo nipote, vorrebbe dire una parola all'avvocato Barbariccia.
Petr. — Eccomi. (esce con Prospera dal fondo)
Gius. (a Tullio). — Riparo ad una dimenticanza grave: il signore, uno dei miei migliori amici, è il cavaliere Valori, un soldato valoroso ed un industriale modello...
Val. — Ora sei tu l'adulatore!
Tullio. — Lo zio ha ragione: mi ricordo quanto dissero di lei i giornali allora che fu ad un pelo di essere ucciso, dopo di essere derubato, senza contare il pericolo di bruciare colla sua officina! Che birbone, che fior di canaglia quel mascalzone che s'era preso fra i suoi lavoranti!
Val. — La ringrazio del suo interesse; ma a che questo processo, dal momento che l'imputato si è reso contumace?
Tullio. — Contumace? (O che bell'asino!)
Val. — Mi darà un grave disturbo, nient'altro. E se anche il reo sedesse sul banco degli accusati, non mi meraviglierei di essere fatto segno a qualche pubblica insolenza, visto lo abuso del diritto di difesa che si fa da qualche avvocato.
SCENA XV.
Un SERVO dalla sinistra. Detti.
Il Servo. — Se vogliono intanto restare serviti del vermouth, è preparato in sala, dove ho fatto accomodare gli altri invitati. Fra dieci minuti si darà in tavola.
Gius. — Signori... Tullio, porgi il braccio a Luigia... A proposito, l'abuso della difesa spero non apparterrà alla scuola dell'avvenire?
Tullio. — Oh! Scuola vecchia o scuola nuova, se l'avvocato non s'inspira alla coscienza...
Silv. — Può magari servire tutte le ambizioni, diventare deputato e ministro...
Tullio. — (fissando Silvestri) Sicuro; ma la sua eloquenza non sarà che la civetteria della menzogna...
Silv. — Il trionfo della ciarla.
Tullio. — Bravo e grazie di questo compimento delle mie idee... (Quanto mi è antipatico!)
SCENA XVI.
PROSPERA, PETRONIO e BOBI dal fondo. Detti.
Petr. — Un momento, Tullio, un minuto solo per un affare urgentissimo.
Tullio. — Ma non si potrebbe differire dopo pranzo?
Petr. — No; si tratta probabilissimamente di un cliente coi fiocchi.
Silv. — Posso offrire il mio braccio alla signorina?
Gius. — Certamente... (a Tullio) Ma spicciati... (agli altri, avviandosi) Mi duole che non possa essere fra noi anche il nostro bravo deputato Alessandri, e che pur troppo non ci sia oramai più speranza..... (a Tullio) Non perder tempo..... (esce con Valori, dopo Silvestri e Luigia, dalla sinistra).
Prosp. — Il deputato Alessandri, ma non lo dicano a tavola, è morto in questo momento. (si avvia verso la sinistra)
Tullio. — Allora questo collegio è vacante!
Prosp. (volgendosi agli altri). — Per poco! Per poco!
Petr. — Lei sa chi vi si porterà?
Prosp. — Altro che lo so! Lo si dice da tutti: dall'avvocato Silvestri, un giovane proprio per la quale, a cui tutti vogliono un bene dell'anima!
Tullio (ridendo). — Pensiamo: il sostituto Procuratore del Re!!
Prosp. — E con questo? Se mai ci fosse qualcheduno che volesse farsi sotto, gli dicano che perderà il tempo e le spese, perchè l'avvocatino piace agli uomini e alle donne; e quando si piace anche alle donne, significa che s'ha dalla sua tanto i santi lassù... che i diavoli laggiù. (esce dalla sinistra ridendo)
Tullio. — Io temo di capire!
Petr. — E io ho bell'e capito. Il Silvestri si farà facilmente un onorone nel processo Valori, e sarà eletto.
Tullio. — Ma se io contassi sull'influenza di mio zio?...
Petr. — Per approfittarne bisognerebbe passare armi e bagaglio nel suo campo, che è il campo conservatore, il campo del Silvestri; ma allora io ti pianto e ti combatto, e ad ogni modo la tua carriera è bell'e suonata. Se tu invece potessi stargli a fronte nel débat Valori, debutteresti clamorosamente, ed io ti sosterrei, tanto attaccando ogni giorno il Silvestri, quanto facendo la tua apologia, e così il nostro rivale, sia in tribunale, quanto in collegio elettorale, finirebbe per essere completamente ecrasato!
Tullio. — Ma che ecrasato, se l'imputato è contumace e sarà difeso di ufficio! E sai che cosa temo io dopo le parole di quella donna? Che il Silvestri aspiri anche lui alla mano di mia cugina, sì; e così io corro il pericolo di perdere, non solo l'elezione a deputato, ma anche la mano di Luigia, colla eredità dello zio... E l'imputato è contumace! Oh il malfattore volgare! Oh lo stupido brigante cretino!!
Petr. — O la triplice quintessenza d'imbecille che perde l'occasione di scapolarsela con una miseria di condanna!
Bobi (facendosi in mezzo a loro, guardingo, sottovoce). — E se andasse invece a costituirsi?
Tullio. e Petr. (sbalorditi). — Lei lo conosce?
Bobi. — Un momento. Sanno che ha fatto Bobi Lascifare?
Tullio. — È imputato di incendio, furto e tentato omicidio: una stupenda causa.
Bobi. — E se non si presenta al divertimento, sarebbe condannato?
Tullio. — Con tutto il rigore della legge, tanto che se scampa alla pena di morte, non scampa certo alla reclusione a vita.
Bobi. — Mondo... bello! Il gioco è grosso...
Petr. — Ma se si presenta, assistito da un avvocato come lui, una miseria, seppure non è l'assoluzione, il trionfo della innocenza!
Bobi. — Innocenza? Troppo lusso! E costa troppo!
Tullio. — Che costare d'Egitto! Ma neanche un soldo! Non ha capito che, a premio della mia vittoria, ci sarebbe la mano d'una ricca e bella fanciulla, l'elezione a deputato, e una pingue eredità? Ma che cosa vuole che io faccia di qualche centinaio di lire?
Petr. — Fa meglio: se egli conosce Bobi, sa dove pigliarlo e lo induce a costituirsi senza perder tempo, fagli un bel regalo.
Tullio. — Giusto: io darò a lei quanto avrei domandato a Bobi se la sua sorte non fosse legata alla mia ambizione ed alla mia felicità.
Bobi. — Allora qui, due parole all'ufficiale dei carabinieri quassotto, per raccomandare... che mi trattino bene.
Tullio. e Petr. — È lei?!
Bobi. — Si dice!
Petr. — Scrivi!
Tullio. — Subito! (scrive)
Bobi. — E rimane inteso, in tribunale negherò tutto.
Tullio. — No; confessa tutto, o sei perduto! Ma ti rivedrò in prigione domani... Ecco la lettera... Un momento... Quando mi vedrai trarre di tasca la pezzuola per soffiarmi il naso, secondami in tutto e per tutto!
Bobi. — Inteso. Vado giù... al fresco. Mi piace quella caserma... È ariosa e allegra... E poi per pochi giorni!... Mi figurerò di essere all'ospedale.
Tullio (sentendo venir gente). — Via subito!
Bobi. — (Saluta, si mette il cappello sulle ventiquattro..... finta uscita) Scusino, che c'hanno dei sigari loro?
Tullio. — Ecco i miei, eccoli tutti.
Petr. — Ed ecco anche la scatoletta dei zolfini.
Tullio. — Non ti occorre altro?
Bobi. — Quello che m'ha promesso, il trionfo, niente altro.
Tullio. — Nient 'altro!.. Ma non perder tempo.
Bobi. — Vado! (acceso il sigaro, li saluta confidenzialmente, e s'avvia al fondo colle mani in tasca, come se andasse a festa — e poi, dal fondo, rivolgendosi) — Oh! Che parleranno di me i giornali?
Tullio. — Tutti!
Petr. — Ti farò fare anche il ritratto!
Bobi. — Allora bisogna dire che l'ho proprio trovato il mio avvocato, mondo cane! (esce dal fondo zufolando)
Tullio. — Bada che, se non corri, ti morde!
Petr. — Tullio?
Tullio. — Petronio?
Petr. e Tullio (fuori di sè dalla gioia, abbracciandosi, con uno scoppio di sonore risate). — Ah! Ah!
SCENA XVII.
GIUSEPPE, MARCOLINI, VALORI, SILVESTRI, LUIGIA e PROSPERA dalla sinistra. Detti.
Gius. — Quel signore è forse un cliente?
Tullio. — Sì, un cliente che debbo all'amico, il migliore dei clienti: quello che mi aprirà ad un tempo il tribunale, il Parlamento (con galanteria a Luigia, pigliandola a braccetto) e il paradiso!
Gius., Marc., Val. — Bene! Bravi!
(Suono di campana dalla sinistra: si avviano tutti a sinistra per uscire)
Prosp. — A tavola! A tavola! (cala il sipario)
Fine del primo atto.
ATTO SECONDO
Gran sala della Corte d'Assise, di aspetto maestoso ed imponente, con galleria accessibile al pubblico, a destra. In fondo il banco dei giudici, alquanto più elevato del banco dei giurati che sta a sinistra. — A filo di sipario: a sinistra il banco del Pubblico Ministero: a destra, di faccia al Pubblico Ministero, quello della difesa; pure a destra, ma più verso il proscenio e accosto alla prima quinta, siede l'accusato. A sinistra, dietro la difesa, seggiole per Valori, Prospera e Luigia. — Sui banchi l'occorrente per iscrivere, bottiglie d'acqua e bicchieri. — Un campanello e alcuni libri su quello del Presidente. — È giorno.
SCENA I.
Il PRESIDENTE, QUATTRO GIUDICI, ed il CANCELLIERE al banco di prospetto, l' USCIERE fra i Magistrati e la galleria; i GIURATI fra cui GIUSEPPE e GEREMIA al loro posto; PROSPERA e LUIGIA sedute fra i Giurati e il Pubblico Ministero; SILVESTRI al suo posto; VALORI seduto fra Silvestri ed il centro della scena alla ribalta; TULLIO al suo posto di avvocato della difesa; BOBI sulla scranna dell'accusato fra due CARABINIERI; MARCOLINI e PETRONIO nella galleria affollata di curiosi.
Silv. (in piedi, continuando il discorso). — Signori Giurati, la concorde unanimità delle testimonianze rende breve e facile il mio compito. — La sorte ha dato all'accusato quanto è necessario per rendere la vita felice ed onorata, poichè egli ebbe dalla famiglia quell'educazione del buon esempio che possono dare ricchi e poveri, dalla società tutti gli agi d'istruirsi che la civiltà diffonde ora nelle classi meno agiate, e dalla natura infine quella robustezza che dopo la volontà del lavoro è il più prezioso tesoro del popolo. Dalle informazioni raccolte dalla Sezione d'accusa noi vediamo invece che l'obbligo della coscrizione lo trova a vent'anni nemico della casa, della scuola, del lavoro. Ma la scuola del soldato potrebbe forse avere qualche effetto sopra un essere che il vizio e la beffa triviale di ogni cosa rese insensibile ai sentimenti della famiglia e della patria? Non c'è quindi da fare le meraviglie se la sua vita militare passa quasi tutta fra l'ospedale e la sala di disciplina; se appena congedato egli cerca subito in uno dei cento mestieri senza fatica con cui si maschera presso di noi la mendicità, un pretesto al suo beato non far nulla. Vivere in istrada equivale ad avviarsi al banco di un tribunale, e noi ve lo abbiamo già trovato sotto l'accusa di essersi appropriato un oggetto prezioso.
Bobi. — L'aveva trovato!
Pres. — Aspettate a parlare che siate interrogato.
Silv. (continuando, mentre Tullio piglia di quando in quando un appunto). — Liberato dal carcere per mancanza di prove sufficienti, egli muta aria, non vita, e chiede l'elemosina fingendosi vittima del lavoro. Il cavaliere Valori ne ha compassione, e ne fa un operaio. Ma il lavoro non migliora, anzi irrita e rattrista l'accusato, il quale alla prima parola di rimprovero si ribella al suo benefattore, lo minaccia e coglie l'occasione d'uno sciopero provocato da un industriale perfido ed invidioso, per spingere i compagni ad un delitto. Cacciato invece dall'officina, voi avete sentito come egli approfitti di quei momenti di disordine per penetrare di notte tempo dal magazzino dei legnami nello studio del principale con iscalata ed effrazione di una finestra, per rubarvi la cospicua somma di lire settemila, che questi aveva a sua saputa ricevuto nella giornata dallo zio cavaliere Egisto Vespucci; come sorpreso dal principale istesso, in luogo di fuggire, chiudendo a catenaccio la porta, egli lo aspetti al varco per colpirlo con una sbarra di ferro coll'evidente intenzione di ucciderlo; e infine come egli dia il fuoco al magazzino dei legnami sia per compiere la sua infernale vendetta, sia per nascondere sotto le rovine dell'officina i suoi delitti. Ma al subitaneo divampare delle fiamme accorrono gli operai, i quali non giungono ad arrestare l'accusato, ma lo riconoscono tutti. — Signori Giurati! Poichè le informazioni della Sezione di accusa e le concordi deposizioni di tutti i testimoni non lasciano dubbio sulla sua reità, io concludo. La disciplina civile, malgrado la diffusione del sapere, è scossa nelle sue fondamenta, e mentre i più reputano che la libertà sia licenza, un'indulgenza malintesa minaccia di far smarrire il criterio del bene e del male. Solo argine resta, o signori Giurati, la legge, sicura guardiana di quell'ordine che è la libertà di tutti; e perciò io faccio appello alla vostra coscienza ripetendo coi Romani della repubblica: lex, suprema lex, e coi democratici dell'antica repubblica fiorentina: Chi rompe, paghi! (siede)
Marc. (sottovoce agli altri spettatori). — Debole, debole...
Pres. — Accusato, alzatevi. Avete da dire qualche cosa in vostra difesa?
Bobi (in piedi). — L'ha da sapere come qualmente io sia sempre stato uno de' più benemeriti giuocatori di lotto. E lo faceva, come è vero... me, per vantaggiare il governo, e quei denari con cui piantai il banco dopo che mi licenziai dalla fabbrica, erano giusto la vincita d'un terno... N'ebbi dispiacere davvero per il governo; ma d'altronde a non riscuoterli poteva averselo a male.
Pres. — Così avete detto nell'istruttoria; ma c'è un guaio, ed è che s'è riscontrato che quel terno non fu estratto da diciassett'anni.
Bobi. — Sarà stato un ambo.
Pres. — Colla vincita d'un ambo non si mette banco, o per dire come va detto, non si fa lo strozzino.
Bobi. — Mi meraviglio, signor Presidente; cogli impiegati, e qualcheduno di loro lo sa...
Pres. — Tirate via.
Bobi (continuando). — ... mi contentava del tre per cento.
Pres. — Al mese.
Bobi. — Che doveva pretenderli al giorno?
Pres. — Basta su ciò. Dunque negate i vostri delitti? (Tullio si soffia il naso)
Bobi. — Le dirò... sono innocente... in fondo. (Tullio si soffia il naso più forte) Ma si capisce, nei giorni di rivoluzione può capitare a tutti di aprire una finestra credendo di entrare in casa sua... Nella confusione si butta via uno zolfino acceso senza badare dove ti va a cascare... Nei cambiamenti di padroni non si sa più quello che è il suo, e si dà al Valori quello che era diretto al Faustini; quello che ci fece fare lo sciopero e poi ci piantò, figlio d'un cane, senza salvare il babbo!
Pres. — Badate come parlate e dove vi trovate!
Bobi. — Mi scusi; m'ha messo di malumore lo stare tante ore su questa panca... (che venga il bene a chi l'ha fabbricata!) Dunque l'ha visto che la colpa, con rispetto parlando, è del governo che ha lasciato fare quella rivoluzione.
Pres. — Ma come potete avere scambiato il Valori se nell'atto di assalirlo vi scappò di dire: ah! ti colgo finalmente cavaliere! Ciò che fa anche premeditato il vostro delitto...
Bobi (con vivacità). — Per premeditato no davvero, perchè fin dal primo dì dello sciopero glielo dissi sul muso che me l'aveva da pagare! (sensazione nel pubblico e nei Giurati)
Val. — È vero!
Bobi (guardando Valori). — Oh, scusi, non l'aveva visto... Mi pare andato un pochino a male, sa?
Pres. (a Bobi). — Volete tacere?
Bobi. — Gli era il mio principale, gua'!
Pres. — Il Pubblico Ministero crede di dovere aggiungere qualche parola all'esplicita dichiarazione dell'accusato?
Silv. (si alza). — Poichè l'accusato conferma da se stesso l'accusa e le testimonianze, non solo crederei inutile ogni altra mia considerazione, ma altamente offensiva al senno dei signori Giurati, i quali non hanno più alcun motivo di esitazione nel giudizio de' fatti. (siede)
Pres. — La parola è ora all'onorevole avvocato della difesa. (Petronio e Marcolini zittiscono per far silenzio)
Tullio (in piedi). — Signori Magistrati! Signori Giurati!
Petr. — Che bel timbro!
Tullio. — Non è senza una viva emozione che io faccio sentire per la prima volta la mia voce in questo sacrario della giustizia. La prima volta che un uomo trovò in sè tanta eloquenza da salvare il diritto impotente ed oppresso, quell'uomo si chiamò avvocato. La troverò io per difendere un imputato che è anche confesso? Sì, onorevoli signori; ma a condizione che voi sappiate spogliarvi di ogni preconcetto sociale, non restando altro che uomini di cuore. — Il Pubblico Ministero non poteva fare che il suo mestiere, ed ogni sua parola, siccome convenzionale, non può essere che un pretto non senso, per non chiamarla menzogna.
Silv. (al Presidente). — Io la prego di richiamarlo all'ordine.
Tullio. — Ma non l'ho chiamata menzogna, non la chiamo; e se incomincia coll'interrompermi...
Pres. — All'ordine... all'ordine.
Tullio. — Chiarissimi signori Giurati, non occupiamoci adunque che del ben più interessante individuo che vi sta dinanzi. Guardiamolo coll'occhio della scienza. Il nostro celebre alienista ha dichiarato che è un individuo degenerato: si capisce, è nato da padre bevitore e stravagante. Aveva uno zio idiota ed un fratello morto probabilmente di epilessia. C'è gente che assicura abbia avuto un cugino pazzo. Ad ogni modo guardatelo: ha il cranio carenato cogli zigomi come i giapponesi e un'assenza assoluta di ogni gibbosità frontale e parietale. Un vero idiota microcefalo. Ama Valori e lo ferisce: amnesìa: pigrizia, primo carattere dei delinquenti nati; mancanza di affetti, secondo; pensa ai giornali, vanità delittuosa! Quest'uomo agisce adunque secondo l'istinto naturale, e per lui non può esistere nè il bene nè il male. — E la prova della mia asserzione, la prova della scienza sapete chi ve la favorisce? Non par vero, lo stesso Pubblico Ministero! Difatti egli ci assicura che fin da bambino Bobi sfugge la scuola, e adulto passa la notte in giro. Ma perchè non ha voglia d'andare a scuola? Perchè intuisce che nella scuola non si può imparar nulla, mentre ognuno può imparare dal sole che la vita è luce e non ombra, e dalla natura che l'uomo vuol essere libero e felice. Ah! sicuro, il Pubblico Ministero, nella ristretta cerchia delle sue idee da pedagogo, preferirebbe ch'egli alla sera frequentasse le scuole serali! Ma quale insegnamento possono esse dare che sia superiore allo spettacolo delle armonie sideree, dalla stella che fila alla nebulosa che svanisce? Nessuno, e perciò egli va coraggiosamente a spasso, impiantando così le prime fondamenta al principio: libero scolare in libera ignoranza!
Pres. — Un momento, signor avvocato. Mi duole di doverla avvertire che se per caso volesse avviarsi a fare l'apologia della colpa, mi vedrei obbligato a toglierle subito subito la parola.
Tullio. — Oh! Dio me ne guardi, illustrissimo signor Presidente! Io mi contento di schiarire colla scienza e colla filosofia i misteriosi e fatali traviamenti dell'uomo, di far rilevare tutt'al più le aberrazioni della legge. Così io domando al suo rappresentante: perchè avete strappato ai suoi trasporti di vergine poeta il simpatico adolescente ribelle? Per farne un soldato, per difendere la libertà e la patria, mi risponde la legge! Ecco la sua logica; per difendere la libertà gli toglie la libertà, ed a quest'uomo che ha per patria il mondo intero, impone la sola Italia! E quando dal crepacuore di fare il soldato ammala, lo mette in prigione, e quando ha ricuperato la sua libertà, chiama vagabondaggio le inconscie divagazioni del corpo e della mente; e quando oppresso dalla persecuzione china a terra la fronte e raccatta macchinalmente ciò che la spensieratezza ha perduto o buttato, subito lo accusa di essersi appropriato..... che mai?... la corona di Carlomagno?
Bobi. — Un pomodoro!
Silv. — Un pomo d'oro!
Tullio. — Bella differenza! Un pomo d'oro! Come se chi fa i pomi d'oro potesse mai riuscire a fare un pomodoro! Ma non vi basta calunniarlo, tenerlo prigione senza prove, voi gli impedite di approfittare della pubblica carità, per ridurlo così sfinito e disperato che gli paia unica salvezza buttarsi a capofitto in quella negra bolgia che è l'officina!
Petr. e Marc. — Bene! Bravo!
Usciere. — Silenzio!
Tullio. — Egregi signori Giurati, credete forse che la società, che la legge sia soddisfatta? Mai più! Non avete sentito che l'accusato aveva poca voglia di lavorare? Come se ognuno di noi tutti, eccettuato il Pubblico Ministero, tutte le volte che ha da mettersi al lavoro non sentisse dal profondo dell'istinto una voce potente che lo avverte che l'uomo non è proprio fatto per sgobbare, ma per godere, per andare a spasso!
Bobi. — È vero, perdinderindella!
Pres. — Zitto!
Tullio. — Eppure la bontà della sua indole è tanta che si piegava senza fiatare a sproporzionate fatiche...
Val. — Tirava il mantice, mi faccia il piacere!..
Tullio. — ... e colla maestria della sua opera porgeva al suo principale il mezzo di scialarla nelle orgie e nei tripudii.
Val. (scattando con impeto). — Io protesto!..
Pres. — Non interrompa, di grazia, parlerà a suo tempo. (Valori siede)
Tullio. — Il Pubblico Ministero ha detto che l'innocenza è una chimera...
Silv. — Non è vero!
Tullio (continuando senza badargli ). — ed io gli rispondo che è il delitto una chimera!
Pres. — Ma avvocato!
Tullio. — Io mi difendo dagli attacchi del Pubblico Ministero; dice che io nego i fatti!
Silv. — Non è vero, non ho mai detto questo!
Tullio. — Ma stava per dirlo, mentre io dai fatti istessi traggo argomento a negare il delitto.
Pres. — Ma se ha confessato!
Tullio. — E sia pure: quest'infelice si è appropriato qualche cosa...
Val. — Qualche cosa, settemila lire!
Pres. — Ah! mi vedrò obbligato a sospendere la seduta, signori! (suona il campanello)
Tullio. — Settemila lire, sì; ma si sarebbe contentato di meno assai; ma era allo scuro, la somma in biglietti... che potevano non essere tutti buoni. Ma perchè ha rubato? Vede, signor Presidente, che io non faccio l'apologia della colpa; potrei dire sottratto, distratto, distolto, radiato, e dico rubato! Per compensare la perdita del pane che il padrone gli fa subire cacciandolo dall'officina... (moto di Valori ) Un momento egli ha rubato di notte, obbietta il Pubblico Ministero...
Silv. — Se non obbietto nulla!
Tullio. — Ma vuole obbiettare, glielo si legge in viso che vuole obbiettare... ed io gli rispondo subito che la circostanza della notte prova che l'accusato arrossiva per la società di dovere essere costretto a fare allo scuro il suo atto di riparazione! Ma è entrato per la finestra, riobbietta la legge, ma egli ha dato la scalata, ma egli ha rotto! Altre tre bellissime scoperte! Gli si fa una colpa d'essere entrato per la finestra, un'altra perchè la finestra è chiusa, ed una terza perchè la finestra non era a livello del pavimento! Non era meglio, chiarissimi signori Giurati, dire che egli non sarebbe passato per la finestra se la diffidenza sociale non avesse chiusa la porta; non avrebbe lasciato cadere uno zolfino acceso per fare scomparire le tracce della riparazione, se non ci fosse ancora il pregiudizio della proprietà; non avrebbe strapazzato il suo principale se questi non l'avesse provocato colla pretesa del lavoro, della famiglia, dell'ordine e di ogni altro castigo ed inciampo sociale?
Petr. — Bene!
Marc. — Bravo!
Val. — Protesto!
Bobi. — Bravissimo! (vivi applausi dalla galleria)
Usciere. — Silenzio! silenzio!
Pres. (agitando violentemente il campanello). — Silenzio, faccio sgombrare le gallerie senz'altro! (a Tullio) Mi duole doverle dire che viene meno alle sue promesse, e se crede di poter continuare su questo tono, s'inganna a gran partito...
Tullio. — Illustrissimo...
Pres. (troncandogli la parola). — Lasci parlare il cavaliere Valori! E lei, mi raccomando, nessuna discussione!
Val. (si alza: con calore e risentimento). — Non sono avvocato io; e mi basta dire al signore che il suo protetto non fu cacciato da me, ma da' suoi compagni, solennemente, siccome indegno del nome di operaio; che io non ho mai obbligato nessuno a lavorare, e che la gran maggioranza dei nostri operai trova la propria felicità, non il castigo, nel lavoro e nella famiglia. Le mie orgie ed i miei tripudi li metto in conto della sua facile retorica; quanto a quello che posseggo sappia che mi è caro perchè è il premio della mia attività, e che lo difenderei come difenderei il mio onore e la mia famiglia, come ho difeso il mio paese. (siede)
Pres. (a Silvestri). — La parola è al Pubblico Ministero.
Silv. (in piedi). — L'onorevole signor avvocato della difesa mi attribuisce un monte di cose che non ho mai sognato di dire.
Tullio. — Mi dà forse del mentitore? Lo richiami all'ordine!
Pres. — Vuole compiacersi una volta di non interrompere?
Silv. — Non mi arresterò quindi, o signori Giurati, a soffiare sopra un castello di carte che va giù da sè...
Tullio (al Presidente). — Sente? sente?
Pres. (a Tullio). — Ma vuol lasciar parlare un pochino anche gli altri?
Tullio. — Allora dica che la difesa deve tacere.
Pres. — Sicuro, quando ho dato ad altri la parola! E mi meraviglio che la prima volta che si fa sentire in tribunale si voglia arrogare il diritto di regolare la discussione.
Tullio. — Mi perdoni, ma le faccio osservare...
Pres. (a Silvestri). — Ma che fa lei, aspetta forse che lui stia zitto?
Silv. (che è sempre rimasto in piedi). — Tutte le divagazioni della difesa, io diceva...
Tullio (al Presidente). — Vede? vede?
Pres. (a Silvestri). — Tiri via per carità o non si finisce più!
Silv. (continuando). — Non possono mutare i fatti. Qui ci sono due uomini: uno che ha fatto molto male, ed uno che ha fatto molto bene. Si può assolvere il primo senza ferire la giustizia e scoraggiare quanti fanno il bene? Tutta la questione è qui! C'è qualche cosa di più semplice? Ebbene, nossignori, non è così; anzi colla nostra felice razza latina è tutto l'opposto. Cerchiamo cento persone oneste, intelligenti e tanto coraggiose da difendere, anche con pericolo della vita, la proprietà del loro orologio, e mettiamole assieme per giudicare un ladro, un falsario, un assassino; ebbene, appena debbono far rispettata la legge che pure tutela anche il loro orologio, queste brave persone, così terribili nel loro caso particolare, mi diventano subito subito miti, misericordiose, indulgenti sino all'assoluzione di ogni più atroce delitto; e così un cantore di canzonaccie da trivio può passare per il vergine poeta, un poltrone vigliacco per un fiero campione di libertà; e la vittima non è più chi ha toccato il danno e le busse, la vittima non è più il morto od il ferito — quello diventa il provocatore — la vittima è il grassatore, è il povero assassino!
Tullio. — Non insulti alla sventura!
Silv. — Gli è appunto perciò che non vorrei che s'insultasse neanche la gente onesta e laboriosa che arricchisce la patria e la difende sui campi di battaglia, lieta ed orgogliosa dei suoi sacrifizi, per mettere invece sul candeliere gli eroi del trivio, i martiri del vizio! Ah! sarebbe davvero una cosa da ridere questo travolgimento di criteri, se non accennasse a mancanza di convinzioni, se non avessimo vicino l'esempio di ciò che ha fruttato ad una nazione gloriosa e potente la derisione di ogni fede e disciplina!
Gius, e Val. (ad un tempo). — Bene! Bene!
Marc. e Petr. — (zittiscono)
Silv. — Signori Giurati, io non posso adunque concludere che rammentando a voi come il reo abbia confessato i suoi delitti, e domandando ai signori Magistrati la sua condanna a venticinque anni di lavori forzati. (siede)
Tullio (scattando con impeto ). — Venticinque anni in questi tempi in cui tutto dura così poco?
Pres. (ironico). — La parola è alla difesa.
Tullio (siede e si rialza). — Nell'epoca del vapore e del telegrafo, in cui tutto va e corre, condannerete un uomo a restare venticinque anni inchiodato in un bagno, per un momento, per tre momenti di aberrazione, per cause morbose, per tre momenti di pazzia ragionante?
Marc. — Udite! Udite!
Tullio. — Dei pazzi ce n'è di due sorta, a farla corta: pazzi da ospedale, e pazzi, o preclarissimi signori Giurati, rimasti a mezzo. Ma anche a noi savi — modestia a parte — occorre il momento in cui il cervello va a spasso. Difatti chi di noi non è stato pazzo per un momento della sua vita, di quella pazzia che non esclude la consapevolezza dei suoi atti, ma ci trascina irresistibilmente ad azioni contrarie al patto sociale? E se in quel momento fatale noi non abbiamo commesso un delitto, chi può dire se sia per difetto di occasione o d'intenzione? — Ma consentite, egregi signori, che io vi parli senza alcun velo, come se parlassi dinanzi al tribunale della mia coscienza. Ora io m'interrogo se non ho mai bramato di appropriarmi, senza licenza dei superiori, qualche cosa altrui, da un libro curioso ad un prezioso gioiello, dalla donna seducente alla gloria più inebbriante..... Ebbene, che non lo senta neanche l'aria, sì, ne ho bramata parecchia della roba altrui..... ne bramo ogni giorno..... ogni ora..... ad ogni sguardo! Lasciamo stare i libri e le donne che, senza furto, possono ormai appartenere a due..... ed anche a tre!.... Parliamo di altre cose..... di gioielli, parliamo di diamanti. Nessuno di noi quanti siamo può negare che tutte le volte che si ferma la sera dinanzi all'abbagliante vetrina di un noto gioielliere, non subisca l'irresistibile fascino di quel gran brillante che gli proietta addosso i mille raggi delle sfaccettature, quasi per tentarlo, anzi appunto per tentarlo. Colendissimi signori Giurati, perchè non si va per i fatti nostri e si resta lì piantati collo sguardo fisso, quasi senza respiro, per paura che l'alito veli la visione? Si ammira... si ammira... e poi, senza accorgersene, si comincia a desiderare! Ora supponete che, proprio al punto in cui dal desiderio platonico si passa alla brama irrefrenabile, al punto in cui si è assaliti da un accesso di quella pazzia che non impedisce di ragionare, una potenza magica faccia scomparire il cristallo della vetrina, la gente dalla via ed i garzoni dalla bottega: ditemi un po', la mano che abbiamo stesa macchinalmente verso quel grosso brillante che si vorrebbe mettere in dito alla dama dei nostri pensieri, che cosa farebbe questa mano quando non trovasse più il cristallo della vetrina e si fosse certi di non essere visti da anima nata? (azione di chi, assicuratosi che nessuno lo guardi, prende ed intasca rapidamente un oggetto) Alto là! (afferrando la destra colla sinistra) in nome della legge vi arresto..... m'arresto..... ci arrestiamo tutti! Ah! Ah! Vedete che è impossibile fare la requisitoria di noi istessi!
Petr. e Marc. — Nuovo! Ardito! Sublime!
Silv. — Ma in ogni caso la nostra mano si ferma al cristallo della vetrina e non lo rompe come l'accusato ha fatto della finestra!
Tullio. — Bel merito, quando la vostra mente vi avverte che ciò costituisce un delitto, quando voi sapete che dei diamanti non ce ne possono essere per tutti! Invece questo infelice che sa della legge? Che cosa capisce? Non basta guardarlo per convincersi che non ha coscienza? Sarebbe egli così fresco e rubicondo, se sentisse il rimorso dei suoi delitti? Non ha rimorsi, e questa è la più bella delle circostanze attenuanti, perchè egli è l'uomo tipo della natura discendente in linea retta dalla scimmia, senza coscienza del bene e del male, e se io mi sbaglio, egli è ad ogni modo un cretino.
Bobi. — (Cretino?)
Tullio. — Ora che colpa ha lui se per la cattiva nutrizione che gli fornisce la società, il suo cervello manca di fosforo, di materia grigia? Chi sa se nutrito di filetti ai tartufi questo cretino non sarebbe un genio?
Bobi. — (Se vogliono provare, io ci sto!)
Pres. — Non divaghi dalla questione, e non dimentichi sopratutto che l'accusato ha sempre goduto di tutte le facoltà dell'intelletto, ma non se n'è mai servito che per fare il male!
Tullio. — E allora condannatelo, (controscena di Bobi sino al fine del dibattimento) consacratelo vittima espiatoria agli Dei spietati della giustizia inflessibile! Egli è ribelle alla società, e voi, per riconciliarvelo, legatelo come una belva! Una fiera tempesta ne agita il cuore e la mente, e voi, a calmarla, non gli spettacoli della natura e le arti divine che rasserenano la vita invocate, ma le tenebre e la solitudine! Egli non sente dignità, e voi, perchè la senta, vestitelo di sargia! Egli non apprezza la vita degli altri, e voi avvelenate la sua! Sta bene: è vostro diritto: via dalla società questo membro infetto!... tagliatelo!... buttatelo!... — Ma badate, o Giurati egregi, di cancellarlo anche dalla memoria! Badate che forse non potrete dimenticare mai più che, per volontà vostra, mentre amate, giuocate, ridete, dormite, c'è un uomo che non ama, che non ride, che non dorme più! Voi vorrete cacciare questo pensiero importuno col pensiero più caro, con quello della famiglia; ed ecco che la sua imagine vi appare come per una fantasmagoria sul volto degli amici, dei figli, della sposa istessa! Ah, è troppo! E voi chiudete gli occhi per troncare l'orrenda visione..... e allora sentirete fra le voci altrui... nell'aria... fra i suoni più discordi... una nota persistente, lamentevole, come un sospiro represso, un grido, un singhiozzo lontano... la nota (accenno di Tullio a Bobi) della disperazione! Basta! esclamerete, basta! mi sono sbagliato! sono stato troppo severo! non è colpevole! è innocente! Ma, orribile a pensarsi, la legge vi risponderà: è tardi! Dunque questo supplizio senza nome e senza riscontro nelle bolgie Dantesche, il supplizio del Giurato che condanna durerà quanto il suo martirio? Si! Venticinque anni, lo avete voluto voi! E finiti questi, quando credete di poter respirare, chi vi assicura che la prima volta che uscirete di casa non lo vedrete venire verso di voi... pallido... vacillante... come uno spettro sfuggito al regno della morte? Voi vi arrestate... voi vorreste pigliare un'altra strada, sparire, nascondervi... ma non siete più in tempo!... Vi ha già visto, e il suo sguardo, acuto come una spada, v'inchioda immobile al vostro posto; peggio, vi obbliga a guardarlo, vi obbliga a mirare su quella fronte il marchio dell'infamia che avete stampato voi, in quel terribile sogghigno la fatale necessità di essere ora peggiore di prima a cui l'avete condannato voi! E voi, atterrito, gli balbetterete: che vuoi? E lui, pensando che non ha più la gioventù, e che l'avvenire è più orribile del passato, vi risponderà con uno sguardo, con un gesto disperato: morte! — No, disgraziato! aspetta! voi griderete commosso: rimedierò io a tutto... provvederò io al tuo avvenire... sarò per te un amico... un fratello! Ma lui, con quella sua voce fioca fioca che passa l'anima: Ora è tardi... allora ci dovevi pensare... venticinque anni fa... Ora è tardi!... (volgendosi con impeto ai Giurati) No, che non è tardi: è ancora lì..... ma condannatelo ancora, se ne avete il cuore, condannatelo!!
(Si asciuga il volto colla pezzuola e si abbandona sul banco sfinito. — Applausi prolungati e caldissimi dalla galleria malgrado i gesti dell'usciere — Bobi simula di piangere).
Pres. (interrogato con un cenno il Silvestri che nega di voler aggiungere altro, suona il campanello, e fatto silenzio) — Il dibattimento è chiuso. Signori Giurati; (i giurati si alzano in piedi) ricordandovi ancora una volta che l'imputato è reo confesso, domando alla vostra coscienza il giudizio del fatto per mezzo di questi tre quesiti: l'incolpato è colpevole di furto con iscalata ed effrazione? è colpevole di tentato omicidio? è colpevole d'incendio? (a Geremia) — Spetta a lei, capo dei Giurati, raccogliere i verdetti e presentarli alla Corte.
Ger. — Sarà mio dovere: ma permetta intanto che la ringrazii dell'onore che mi ha fatto.
Pres. — Tiri via: è stato estratto a sorte. (i Giurati escono dalla sinistra) Signor avvocato della difesa, io mi vedo in obbligo, qualunque sia il verdetto dei Giurati, di rimpiangere che lei abbia esordito spendendo così male il suo ingegno ed offendendo le nobili e gloriose tradizioni di questa magistratura. Possano almeno le mie parole essere ricordate in avvenire da lei e da quelli che fossero tentati d'imitarlo!
SCENA II.
Dalla sinistra GIUSEPPE, GEREMIA e gli altri GIURATI. Detti.
Ger. — Sul mio onore e sulla mia coscienza il nostro verdetto è di un voto affermativo per tutti e tre i quesiti, e di undici negativi parimenti per tutti e tre.
(Consegna le schede al Presidente che le riscontra e ritorna al suo posto).
Pres. (a Bobi). — Alzatevi. Voi avete confessato i vostri delitti, ma i Giurati non vi prestano fede e vi mandano assolto e libero.
(Esce dalla sinistra colla Corte, meno Silvestri e Tullio, che levano la toga).
Petr., Marc. e Spettatori (con vivissimi applausi dalla galleria). — Bene! Bravo!
(Tutti gli spettatori della galleria escono rapidamente dalla destra)
Voci (dalla destra fuori di scena, con lunghi e fragorosi applausi). — Fuori l'avvocato! Viva il nostro deputato!
Bobi (sbalordito, visti partire i carabinieri, risedendo). — No, non è possibile, addirittura assolto!
SCENA III.
MARCOLINI e PETRONIO, dalla destra con premura, mentre Tullio si leva la toga e Giuseppe, Silvestri, Valori, Luigia e Prospera formano un gruppo animato a sinistra. Detti.
Marc. — Presto fuori, avvocato, che l'aspetta una gran dimostrazione!
Tullio. — Un momento che abbracci prima lo zio e la cugina...
Petr. — Dopo! Dopo! Non lasciamo raffreddare! (lo solleva con Marcolini per portarlo via dalla destra) Su!
Tullio (contentissimo). — Ma che cosa fate?
Marc. — In trionfo! In trionfo! Evviva l'avvocato!
Petr. (guardando Silvestri). — Evviva il nostro deputato!
Tullio (a Giuseppe). — E lo vogliono..... andiamo in trionfo! Ma ritorno subito. (via con Petronio e Marcolini)
Voci e applausi (fuori di scena). — Viva! Viva il nostro deputato!
Gius. (concitato). — No... no... dopo tanto sproloquio, so io ciò che può essere più eloquente in questo momento... Valori, non sarà mai detto che un Savelli ti abbia fatto perdere un soldo... Avvocato Silvestri, porga il suo braccio alla mia figliuola e speri subito, lo voglio!
Silv. — Non ho mai cessato!
Luig. (a Silvestri). — Si figuri che chiama la famiglia un inciampo!
Prosp. — Ah! ci ho gusto! ci ho gusto davvero!
Gius. — Zitta, bracona! Eccolo qui. Zitti tutti, e via di qua... (accennando a sinistra) ma che abbia tempo a vedere ed a capire. (s'avviano)
Bobi. — Se ne vanno tutti... Ma allora sono proprio assolto e libero?
SCENA IV ED ULTIMA.
TULLIO con premura dalla destra. Detti.
Tullio (entrando e chiudendo a chiave la porta a destra). — Ma sì! sarò il vostro deputato, sarò tutto quello che volete; ma ora ciò che mi preme di più è lo zio, è la cugina... (volgendosi) Che vedo?
Gius. — Ah! Ah! la scuola dell'avvenire! Bravissimo; ma noi preferiamo la scuola antica tutti e quattro! (via dalla sinistra)
Prosp. — Tutti e cinque! (gli fa una riverenza ironica e segue gli altri)
Tullio. — Zio! Luigia! Ah! (cadendo svenuto sulla seggiola di Bobi) Ho tutto perduto!
Bobi. — E la mia riconoscenza, avvocato? (gli fa aria col suo cappello) Mondo bello che catena e che orologio! (gli toglie l'orologio) Non posso resistere gua'! (intasca l'orologio ed esce guardingo dalla destra) Gli è la pazzia ragionante! (cala il sipario)
Fine.