LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO
(1815-1831)
III.

LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO

(1815-1831)

III.

LETTERE, SCIENZE E ARTI.

Il Romanticismo Enrico Panzacchi.

Alessandro Manzoni Romualdo Bonfadini.

L'Italia di Stendhal Matilde Serao.

Alessandro Volta Giuseppe Colombo.

Musica e Belle Arti Corrado Ricci.

FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI 7, Via del Proconsolo — 1898.

PROPRIETÀ LETTERARIA

RISERVATI TUTTI I DIRITTI.

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firma manoscritta

Firenze, 1898. Tip. Cooperativa, Via Pietrapiana, 46.

INDICE

IL ROMANTICISMO

CONFERENZA DI ENRICO PANZACCHI. Signore!

Il Comitato Direttivo mi ha incaricato di esprimere con poche parole il nostro grande compianto alla memoria dei due dilettissimi che la morte ci ha rapito nello spazio di pochi mesi: Enrico Nencioni e Diego Martelli.

Una gran pena per noi che li amavamo di affetto antico e fraterno, fatto di simpatia e d'ammirazione, e che le loro amicizie eravamo abituati a considerare come una forza e come una consolazione della nostra vita! E certamente una gran pena anche per voi, Signore, che la voce del Nencioni e del Martelli aspettavate qui sempre con tanto desiderio e con tanto diletto ascoltavate; e adesso quelle voci non udirete mai più risuonare nè in questo luogo, nè altrove!... E chi d'ora innanzi vi narrerà, come il nostro buon Diego, le precise vicende e quasi la storia intuitiva delle vecchie scuole pittoriche toscane, con quella probità di analisi che vuol vedere a fondo, con la intraducibile bonarietà di quel suo accento, di quel suo gesto, di quel suo aspetto che gli donavano una eloquenza così personale e così vittoriosa? E chi, come Enrico Nencioni, saprà mai più mettervi dentro ai grandi segreti della poesia italiana e straniera? Chi, al pari di lui, saprà mai più trasportare in alto la vostra anima con una parola alata, evocatrice, vibrante, nella quale pareva di sentir passare i suoni e i colori, le gioie e le lagrime delle cose?

Tutti e due sono morti passato il termine della giovinezza, ma essendo ancora nel pieno della vita; avendo lo spirito vivido, l'ingegno operoso, il cuore giovanile. In molte cose diversificavano fra loro; anzi può dirsi che le due vite fossero diversamente orientate; ma amavano tutti e due d'amore inestinguibile tutto quello che è come lo sfondo luminoso nel quadro della nostra esistenza; e ancor che diversamente l'intendessero, in questo grande amore si sentivano uniti e si amavano. Ed erano uniti in un'altra cosa che dava ad essi un carattere singolare. Voglio alludere a quello spirito d'arte peregrino, vigilante, inquieto, audace. Non erano di quelli che credono che il regno dell'Arte e della Bellezza abbia confini eternamente fissi; e che questi confini debbono essere di continuo vigilati da feroci doganieri, pronti sempre a fulminare ogni tentativo di contrabbando. A me svegliavano l'idea dì quell'amoroso uccello descritto da Dante, che si posa «sull'aperta frasca» prima dell'alba e di lassù con l'occhio fisso spia bramosamente i primi colori della nuova luce. Per questo, Diego Martelli escogitava volentieri nuove e insolite forme di pittura, mostrandosi vago di tutte le novità artistiche e andando volentieri incontro ad esse, sempre avvivato dalla speranza di scuoprire finalmente qualche principio benefico che sprigionasse spiriti nuovi, e nuove giornate di emulazione e di gloria apparecchiasse all'arte moderna, nell'arte italiana in ispecie; per questo Enrico pigliava per mano voi, giovani, pigliava per mano voi, o gentili Signore, e vi conduceva alla contemplazione de' più bei fiori poetici sbocciati in plaghe lontane; e i commenti suoi erano evocazioni più vive di poesia, e le sue traduzioni erano incremento di bellezza.

Per questo loro continuo ardore di ricerche, per questa grande loro libertà di scelta nei diversi giardini della letteratura e dell'arte, per questo loro esotismo sempre sincero anche nell'ottimismo un po' sistematico, i due nostri poveri amici ebbero più volte accuse di poca e tiepida religione per l'arte italiana. Ma l'accusa era tanto ingiusta, o Signore! Essi meritavano d'essere paragonati a quegli arditi navigatori italiani del nostro glorioso Rinascimento, i quali quanto più si lanciavano per mari nuovi e verso continenti ignoti, quanto più s'allontanavano dalla patria e pareva che la scordassero, tanto più vivamente l'avevano scolpita nel cuore, tanto più cercavano di propagare nel mondo il suo nome e d'aumentarne la potenza e la gloria.

Quante utili idee agitò nella sua mente e divulgò col suo schietto e vivo linguaggio il buon Diego Martelli! Che fulgidi orizzonti di poesia dischiuse, che pure e calde correnti di entusiasmi eccitò negli animi vostri Enrico Nencioni! Ripugna alla mente mia il pensare che questi due nobilissimi fasci di vitalità e di pensiero si sieno sciolti e dispersi per sempre. Essi appartenevano al numero di quelle creature buone ed elette, per le quali bisognerebbe proprio che esistessero i prati «verdeggianti d'eterno asfodèlo» sui quali il sole, calda Bellezza giocondatrice, non fosse mai visto tramontare.

Mando un saluto riverente e dolente in nome di tutti, a quelle due carissime anime. E il saluto accompagnato ad un augurio: che la memoria di Enrico Nencioni e di Diego Martelli duri lungamente e piamente custodita nelle anime vostre, o donne gentili!

E adesso io vi parlerò un poco del romanticismo, il quale realmente è il più gran fenomeno artistico e letterario che si presenti sulla soglia del secolo XIX, e quindi a ragione vien messo per primo nella serie delle conferenze di quest'anno. Che cosa sia romanticismo io non pretendo di definire. Il Berni racconta che una tal femmina lombarda, non avendo mai veduto il Papa, s'era formata un'idea stranissima di lui, e lo credeva qualche cosa di simile all'orco e alla bombarda. Similmente potrebbe dirsi delle bizzarre immagini che svegliò questa parola. Alessandro Manzoni nelle sue lettere al marchese Cesare d'Azeglio diceva, scherzando, che nella fantasia dei più degli Italiani dei suoi tempi, alla parola romanticismo si associavano idee di stregoneria, di negromanzia. Fatto è che essa comincio a comparire nel linguaggio scritto verso la metà del secolo passato. Giangiacomo Rousseau, per esempio, in un punto delle sue Confessioni, parlando d'una bruna e bella foresta, dice che è più romantica d'un'altra che avea veduto prima. Qui evidentemente abbiamo più che un mero epiteto pittoresco; ma si accenna a qualche cosa di nuovo, che entra nel mondo dell'arte. Abbiate per regola generale, o Signore, che quando una parola entra e si mantiene nel linguaggio comune più colto, ciò vuol dire che qualche cosa di nuovo è entrato anche nel mondo delle anime. Non è facile mettere d'accordo gli scrittori in uno stesso giudizio finale sul movimento romantico che agitò l'Europa e l'Italia. Qualunque definizione si metta avanti è subito contraddetta. Per esempio, vi è stato chi ha detto che il romanticismo ebbe la virtù e il merito di convergere la nostra letteratura a ufficio civile, a nobiltà di intendimenti politici; e realmente se si pensa a quei poveretti del Conciliatore, che mutarono le pacifiche stanze della redazione del loro giornale nelle carceri di Venezia e dello Spielberg, si dovrebbe credere che ci fosse qualche cosa di vero in ciò: che realmente tra i fini che il romanticismo si propose ci fosse questo: di dare alla letteratura nostra, che aveva avanti poltrito nelle grullerie incivili dell'Arcadia, un intendimento politico più alto e più nazionale. Ma ecco che un uomo di alto valore, il Settembrini, viene avanti e ci dice: «Nossignori! il romanticismo invece contribuì a reprimere e rattenere i movimenti redenzionisti del popolo italiano, perchè ottenebrando il grande ideale classico, e sostituendovi il sentimento, invece di aiutare, ritardò il moto progressivo degli spiriti.»

Un altro appunto e un'altra lode — secondo il punto di vista da cui fu data — è che il romanticismo abbia contribuito a infondere un certo spirito di religiosità nella nostra letteratura; e di questo massimamente si compiace il più grande dei romantici italiani, Alessandro Manzoni. Ma anche a questa lode c'è chi si oppone; e in prima linea il Padre Bresciani della Compagnia di Gesù, il quale dimostrò che fra le tante eresie che hanno afflitto la cristianità bisogna mettere anche il romanticismo, l'ultima di esse, ma non la meno perniciosa; e fra gli argomenti che desume per provare la sua tesi mette innanzi questo: che nei romanzi e in generale nei libri di autori romantici, i frati e i vescovi sono per lo più rappresentati in un aspetto poco reverente!... Qualcheduno anche non ha dubitato di fare del romanticismo una personificazione veramente grottesca e poco meno che paurosa. Io vi citerò i versi di Giovanni Marchetti. Del '29 cantava la celebre Giuditta Pasta. Nella purezza del canto di questa sirena l'elegante e corretto spirito del conte Marchetti, così meritamente lodato nel suo tempo, e non ancora dimenticato oggi, vide come un'antitesi a tutte quelle diavolerie nordiche, onde il romanticismo, secondo il suo giudizio, infestava il puro cielo e le belle contrade italiane. Sentite:

Spinto dall'irto borea,

Scorto da cento larve,

Sovra un corsiero aligero

Ignoto genio apparve,

Orribilmente nero

Cavallo e cavaliero.

Corse il bel cielo italico,

Guida sdegnando e freno;

E di strana caligine

Contaminò il sereno:

Come gran nembo suole,

Spense, passando, il sole. Ma fece di peggio:

Svestì di fronde gli alberi,

D'erbe e di fior la terra,

L'antro spezzò, di turbini

Delle tempeste serra.

Ma fece ancora di peggio:

Volò alle porte eteree

Ove con bel governo

L'un dopo l'altro i secoli

Rientran nell'eterno,

E al secol fiero e tetro

Gridò: Ritorna indietro!

Per l'elegante e classico spirito del conte Giovanni Marchetti il romanticismo dunque rappresentava una specie di reazione tenebrosa contro tutte le forze vive ordinate e armoniche della nostra civiltà. Non è possibile, alla distanza di tanti anni, che noi possiamo continuare ad accogliere questo modo così grottesco di configurazione!

Il tempo, se Dio vuole, non è passato inutilmente; e ora, nella tranquilla prospettiva della storia, il romanticismo può esser da noi considerato con più calma e con minore ingiustizia. Considerato nelle sue sostanze, il romanticismo rappresentò in Europa e in Italia due fatti: primo, l'esaurimento della parte negativa dell'umanesimo, il quale — come voi sapete, — aveva così validamente aiutata la civiltà italiana nel suo risorgere lungo i secoli XIV, XV e XVI. Ma mentre aveva tanto avvalorato il movimento ascensivo del pensiero e del genio italico in quell'epoca classica, l'umanesimo aveva anche messo tra l'arte e la natura dei grandi modelli, e li aveva lumeggiati in modo che a lungo andare la natura doveva essere dimenticata o negletta. Questo fenomeno si dovette evolvere con una legge irrefrenabile. Dalla prima contemplazione dei modelli meravigliosi che l'antichità porgeva a noi, si venne via via degradando e degenerando nella imitazione. Questo procedimento cumulativo si affrettò e peggiorò quando sorse in una sede d'Europa, in Francia, un umanesimo pseudo classico, il quale fiorì, come sapete, nel regno di Luigi XIV in Francia; e come ogni principe d'Europa, a imitazione del re Sole, volle avere una piccola Versailles; così in tutti i centri dell'attività intellettuale e letteraria e artistica d'Europa venne imponendosi, e con esso si impose, questo secondo umanesimo francese, meno legittimo, meno genuino del primo, e quindi più facilmente fertile di effetti deprimenti e negativi. Insomma, un po' per effetto del primo umanesimo italiano, un po' per effetto del secondo umanesimo alla francese, le cose dell'arte e della letteratura in Europa erano venute molto a mal partito. Gli epigoni di Sofocle e di Virgilio si capiscono, ma gli epigoni di Corneille e di Racine si capiscono molto meno. Onde era naturale che una reazione si manifestasse, e si manifestò molto validamente in Germania, dove ad Amburgo, come anche ad Amsterdam, per opera di un gran critico, ch'era nello stesso tempo un artista geniale, di Efraimo Lessing, sorse la reazione contro il gusto francese, e specie contro quei canoni della Poetica francese, che metteva là dei tipi immobili, ai quali bisognava tutti dovessero conformarsi, accettando così una legge di inevitabile decrescimento, di inevitabile degenerazione. E intorno al Lessing voi sapete che si raccolse tutta una pleiade di uomini valorosi, il cui lavoro costante fu di far prevalere, in tutti i rami della cultura e dell'arte, alla imitazione le originalità.

Uno degl'impulsi, una delle forze che contribuirono a far crollare le leggi tiranniche sulle quali si reggeva tutto questo pseudo classicismo alla francese, fu appunto lo studio dell'antichità veduta e ammirata non più attraverso il diaframma nebuloso delle dottrine rettoriche venute dopo, ma per se stessa investigata e guardata a faccia a faccia nei suoi grandi modelli, nei suoi insuperabili esemplari. Ond'è che a buon dritto gli storici tedeschi del romanticismo mettono fra i precursori più validi di esso, fra i precursori cioè di quanto ebbe di positivo e di immortale la riforma romantica, il Winckelmann, lo stesso Lessing, l'Herder, il Wieland, il Goethe e gli altri studiosi e profondi spiriti tedeschi, i quali, realmente liberi, fecero fare un gran passo alla libertà dello spirito, portandolo dall'ammirazione delle opere imitative alla contemplazione pura e genuina dei grandi modelli d'arte, come li aveva dati a noi genuinamente la sacra antichità.

In Francia il movimento romantico (dopo aver dato un gran precursore in Giangiacomo Rousseau) resistè, ritardò un po' più a manifestarsi, e dovette essere in qualche guisa aiutato dalla Germania. Ma in Francia, per agevolarne il cammino e affrettarne il successo, v'era un'altra gran forza, la forza della rivoluzione francese, la quale avendo portato un movimento di ribellione in tutte le facoltà dello spirito e in tutte le umane discipline, anche l'arte e la letteratura non potevano a lungo non risentirsene e rimanersi sotto il giogo della tradizione. La Marsigliese non risuonava solo per le piazze, sui campi di battaglia. Quando lo spirito umano è in moto di ribellione, tutto si ribella; quando è inclinato ad assoggettarsi e a servire, tutto si assoggetta e tutto serve. E questo è il fenomeno che vi spiega come in Francia arrivarono un po' più tardi che in Germania, ma fecero poi molto rapidamente il loro cammino. Gli accenni di modernità, di emancipazione, che già cominciano nelle opere di Diderot e di Bernardino di Saint-Pierre, diventano falange impetuosa e vittoriosa quando il visconte di Châteaubriand e Madama di Staël e qualche altro levano la bandiera della riscossa. Torna di moda in Francia il vecchio grido: Chi ci libererà dai Greci e dai Romani? Il quale grido, spoglio di ogni esagerazione e irriverenza, voleva poi dire, tradotto in lingua giusta e reale: «Chi ci libererà da tutta questa rettorica, da tutto questo bagliore di grecismo e romanesimo convenzionale e posticcio, che dal secolo di Luigi XIV ormai hanno messo dinanzi a noi, come un gran muro di cartapesta che ci toglie la pura visione dei veri capolavori antichi, e la pura contemplazione della santa natura, fonte di ogni arte e di ogni bellezza?» La voce quindi del visconte di Châteaubriand e il libro di Madama di Staël — frutto della sua dimora in Germania, e della sua intimità non sempre totalmente platonica con lo Schlegel — fece sì che il movimento romantico in Francia, se tardò un poco, compensò il ritardo con un rapido movimento verso la mèta.

II.

In Inghilterra, il movimento era molto più preparato. Si può anzi dire che l'Inghilterra fu l'unico paese che per arrivare al movimento romantico non ebbe bisogno di rivoluzione. Qui, come in tutto il resto, valse sopra tutto la tradizione. Tanto è vero, che, a differenza dagli altri popoli, gl'inglesi quando vollero innalzare il vessillo del romanticismo, non fecero che rinfrescare l'ammirazione di alcuni grandi scrittori inglesi, in cima ai quali poi splendeva la gloria di Guglielmo Shakespeare. Il falso Ossian, che rinfrescò l'antica voce poetica dei popoli antichi dell'Irlanda e della Scozia, anche il falso Ossian non avrebbe potuto effondere intorno a sè una influenza di entusiasmo e di imitazione così intensa e così vasta, se gli spiriti non fossero già stati preparati. Per cui, quando arrivano in Inghilterra i moderni romantici, i romantici — direi quasi — nel senso tecnico della parola, come lord Byron, lo Shelley e qualchedun'altro, questi sono sopra tutto dei continuatori e anche degli esageratori della vera tradizione della poesia inglese, la quale non si era mai discostata dallo studio diretto della natura. I nuovi venuti avevano solamente sgombrato quel po' di cipria che col regno degli Stuardi si era sostituito al gran vigore di creazione artistica con cui il regno di Elisabetta aveva riempito d'ammirazione il mondo.

E l'Italia? Anche noi abbiamo avuto un romanticismo — diciamo pure — avanti lettera, un romanticismo prima che fosse inventata e volgarizzata la parola. Fra noi la degenerazione dell'umanesimo era stata grande e aveva dato frutti veramente compassionevoli. Eravamo discesi giù giù fino alle inezie canore dell'Arcadia, fino alle cicalate, fino a tutto un lavoro di produzione sporadica, infeconda, amorfa, inconcludente. La letteratura e l'arte ormai in Italia non rappresentavano più nulla di vivo e di energico, perchè non erano più la significazione d'un aspetto vitale dello spirito del popolo italiano. Ma non per nulla fu detto che l'Italia è e sarà sempre il paese delle grandi eccezioni. Anche quando pare che tutto si oscuri e che tutto discenda fra noi, vi è sempre qualche spirito vigoroso che si sveglia e s'inalza sul livello comune e riscatta, per così dire, la universale mediocrità con qualche grande e luminosa iniziativa. Per non essere ingiusti verso noi stessi, dobbiamo riconoscere che mentre l'Arcadia dilagava, mentre la grullerìa e la nullaggine invadevano sempre da ogni parte, pure, ogni tanto, si faceva sentire in mezzo a noi qualche voce libera e potente. A buon conto, in Italia, diciott'anni prima che nascesse il Lessing, noi abbiamo un italiano, l'abate Antonio Conti, che percorre l'Europa, si affiata con Davide Hume, e messo a parte dei segreti di Isacco Newton, studia il genio letterario, artistico dei diversi popoli e fa suo tutto quello che gli pare buono e utilmente imitabile. Non si contenta di riconoscerlo in teoria, ma lo traduce anche in pratica. Compone tragedie, che — pei tempi — sono un documento singolarissimo di originalità e di audacia. Ammira Shakespeare, le letterature straniere in ciò che hanno di veramente ammirevole, combatte i vizi vieti e insostenibili della vecchia rettorica, combatte l'uso e l'abuso della mitologia; insomma è uno spirito nuovo, che si leva in mezzo alla supina sottomissione di tutti gli spiriti intorno a lui. E col Conti noi vediamo» il Baretti, lo stesso nostro mansueto Pietro Metastasio levare un poco il capo, scandagliare l'orizzonte, discutere questa tradizione classica, di cui non rimanevano ormai che formole vuote e documenti degenerati. Viene formandosi insomma una specie di tradizione, una specie di catena, i cui anelli si possono anche contare e distinguere l'uno dall'altro, e che costituiscono appunto quello che, anche per l'Italia, si potrebbe chiamare il nostro romanticismo avanti lettera. La schiera è più numerosa che di solito non sia avvertito. Il nostro Goldoni, per esempio; ma chi più uomo della natura, chi più libero artista del gran commediografo veneziano? E il nostro Parini che pel primo comincia a darci delle pitture mirabili, dei quadretti scintillanti di luce, freschi d'aria, pieni di verità; il Parini che per primo, in mezzo a tutto il lusso delle reminiscenze mitologiche, per primo nel suo Giorno vi descrive il mattino come ve lo potrebbe descrivere, anzi come ve lo potrebbe dipingere un grande paesista moderno, senza nessuna reminiscenza, senza nessuna maniera, senza nessun ingombro di vane immagini tolte dal prontuario dei vecchi poeti? E lo stesso Vincenzo Monti? Vincenzo Monti noi lo consideriamo come l'ultimo vessillifero dei classici intransigenti; e sotto un rispetto è vero, perchè egli fu l'ultimo che quasi sempre proceda poetando col porre il sentimento dell'animo suo in intimo contatto colle reminiscenze dei grandi poeti antichi. Bisogna anche ricordarsi che, dopo avere un momento vacillato dinanzi alla dottrina nuova che accennava dall'orizzonte, si ricordò il suo dovere di vecchio adoratore dei numi di Parnaso e lanciò il famoso sermone contro l'audacia della scuola boreale, la quale voleva bandire la mitologia e alle vaghe finzioni della Grecia e di Roma sostituire quello che egli disse col celebre verso:

L'arido vero che dei vati è tomba.

Eppure quanta vita, quanta modernità di vita anche nelle poesie di Vincenzo Monti! Egli accolse nei suoi poemi tutto ciò che fremeva, tutto ciò che ferveva intorno a lui. Leggete solamente la Mascheroniana, e voi ci troverete la cronaca contemporanea, viva, tumultuaria, urlante, stridente. Quei demagoghi, quegli arruffapopoli della Cisalpina sono descritti nella Mascheroniana con un accento di verità, diciamo la parola moderna, con una crudezza di realismo, quale non sarebbe stato possibile se anche l'animo goliardico di Vincenzo Monti non si fosse aperto all'alito dei tempi nuovi; se egli non avesse sentito che l'arte doveva lanciarsi verso un nuovo ideale: che troppo si era frivoleggiato, che troppo si era imitato, che la storia d'Europa e d'Italia veniva assumendo un aspetto troppo eloquente, troppo serio, perchè fosse ancora possibile il mantenere tra la storia umana e l'arte tutti quei moduletti di antiche reminiscenze classiche passati attraverso le degenerazioni dell'Arcadia.

Da questo e da altri esempi, che qui ometto per brevità, risulta che anche noi abbiamo avuto, in fatto di romanticismo, la cosa prima del nome, e, che in sostanza, anche da noi molto per tempo venne sentito e riconosciuto col fatto tutto quello che formerà poi la sostanza del movimento romantico.

III.

Ma l'Italia non era disgregata dalle altre nazioni, e anche sull'Italia, massimamente nella parte più animata e più civile, doveva fortemente ripercuotersi l'influsso della agitazione letteraria, che si faceva sempre più gagliarda in Germania, in Francia e in Inghilterra. Ed ecco che anche fra noi si comincia a parlare di romanticismo vero e proprio. I due suoi araldi più prossimi furono Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte. Ugo Foscolo che nell' Jacopo Ortis deriva dalla invenzione di Volfango Goethe una così gagliarda e poetica imitazione, elevandola a creazione vera, là dove fonde la tragica passione d'amore col sentimento doloroso della decadenza d'Italia: Ippolito Pindemonte, che col suo estro mite e gentile comincia a esumare a uno a uno tutti i temi, che diventeranno poi argomento favorito della poesia romantica qualche anno dopo. Egli canta i lari domestici, i viaggi attraverso l'Europa, canta le dorate selve, canta la Malinconia, Ninfa gentile — singolare accoppiamento dove è ancora un baleno della reminiscenza classica, e dove è già l'alito della poesia nuova, che viene dai laghisti inglesi, che viene dalla scuola dei paesisti di Zurigo, che viene dal naturalismo germanico e dalle pagine di Rousseau e di Bernardino di Saint-Pierre. Anche nel buon Ippolito noi sentiamo già gli aliti precursori del nuovo spirito letterario, i primi accenni della nuova intonazione poetica che poi prenderà una così grande accentuazione nella letteratura italiana. Ed è quello stesso Pindemonte, o Signore, che pur rimanendo compreso di grande ammirazione davanti all'evocazione classica di cui tanto abbonda il Foscolo nei suoi Sepolcri, non teme di muovergli un discreto rimprovero, — Ma perchè hai tu voluto pescare nella remotissima antichità mitologica ciò che potresti invece trovare in tempi più vicini a noi, nella vita che viviamo noi, nei dolori di cui soffriamo, nelle speranze di cui l'anima nostra si riempie? Antica sia l'arte onde vibri lo strale, ma non sia antico l'oggetto a cui mira! Al suo poeta, non a quello di Cassandra, Ilio ed Elettra dell'Alpe e del mare, farà plauso l'Italia.

Ad affrettare in Italia il movimento romantico concorse notevolmente la venuta fra noi di alcuni illustri antesignani della scuola: come lo Schlegel, lo Châteaubriand, il Sismondi, Madama di Staël (che molto bene si affiatò con Vincenzo Monti), Giorgio Byron ed altri. Così arriviamo ad avere anche fra noi una scuola che, a viso aperto, si dice romantica; che ha dei seguaci, che ha degli avversari, che entra insomma in campo con tutti gli armamenti di una gran battaglia; e questa battaglia essa la vuol dare, e la vuol vincere, proprio là dove batte più fervido il cuore alla nazione italiana, a Milano, verso il tramonto del primo regno italico. Uno di quelli che parlano più alto, più potente in nome del romanticismo è Giovanni Berchet con la lettera famosa intitolata Lettera semiseria di Crisostomo, nella quale egli accompagna tradotte due ballate di un celebre poeta tedesco. Il cacciatore feroce e l' Eleonora. Esse sono due fantasticherie nordiche, raffiguranti un mondo, che non sarà mai il nostro e che non potrà mai intonarsi bene con la letizia del cielo italiano. A ogni modo il Berchet — infelice nella scelta degli esempi — si vale di queste due forti ballate tedesche per bandire alle turbe italiane il verbo della letteratura nuova. In mezzo a molte parole e idee non sempre esatte e raccomandazioni non del tutto opportune, la Lettera semiseria mette innanzi questa formula semplicissima: La Poesia deve essere l'espressione diretta della vita. Non vi paia poco, o Signore! Per lo addietro un artista, un poeta quando voleva trattare un soggetto, era tratto anzitutto a pensare quali grandi poeti, quali grandi artisti, avessero già trattato cotesto soggetto, e per una specie di orientazione inevitabile si metteva, più o meno, ad imitare. Adesso invece veniva innanzi il buon Crisostomo a dire: «La Poesia è l'espressione diretta della vita.»

Giovanni Berchet era tutt'altro che un dispregiatore della grande e sacra antichità. — Ammiriamo gli antichi, diceva, ma ricordiamoci che il poeta, l'artista deve studiare e sentire la vita, deve mettersi in faccia alla natura, e di lì assumere la viva e costante ispirazione. La Poesia deve essere viva come l'oggetto che esprime: libera come il pensiero che le dà moto, ardita come lo scopo a cui è indirizzata. Le forme che ella assume non costituiscono l'essenza di lei, — notate anche questo — ma contribuiscono occasionalmente a dare effetto alle intenzioni. — Con questa sentenza del poeta è gettato un grande scompiglio in tutta l'antica gerarchia artistica e letteraria; è insomma sostituito ciò che quella buona lana di Pietro Aretino tre secoli prima aveva chiamato il «furor proprio» d'ogni artista e d'ogni poeta, ai canoni dei trattatisti e ai precetti della rettorica invalsa nella scuola.

E l'impulso del Berchet non rimase senza grandi frutti. Alla sua iniziativa personale seguì un'iniziativa più collettiva, più poderosa.

Come nacque Il Conciliatore? Il Conciliatore fu — il vocabolo stesso lo esprime — un tentativo assai naturale e assai lodevole di trovare il termine medio col quale potessero comporsi ragionevolmente i vari contendenti che già venivano ai ferri corti. La battaglia fra romantici e classici, specialmente a Milano e in Lombardia, cominciava a infervorarsi, a prendere un aspetto di accanimento e minacciava di oltrepassare la misura. Dal canto suo, il governo austriaco cominciava ad adombrarsi di tutte queste novità. Troppa politica indovinava dietro quelle questioni letterarie perchè potesse considerarle indifferente e tranquillo. Per quella legge di consenso a cui io vi accennava nel principio del mio discorso, l'astuta Austria di Metternich capì che non vi sono rivoluzioni isolate, e che una volta dato il risveglio allo spirito di un popolo, tutte le energie di rivendicazione sono facilmente tirate in campo. Nessuna meraviglia dunque che l'Austria guardasse con gran diffidenza al moto romantico; nessuna meraviglia che favoreggiasse la Biblioteca italiana, giornale che ebbe molta importanza, perchè vi scrivevano Monti, Giordani, l'Acerbi direttore e altri scrittori di polso, tutto inteso a mantenere sacri e inalterati i canoni dell'arte antica.

Frattanto in casa del buon Luigi Porro Lambertenghi si accoglieva uno stuolo di spiriti giovanili, nobili, volenterosi, che non potevano non guardare con simpatia e con fede verso l'avvenire. Accoglievano tutti le teorie romantiche, se non come un sistema di verità, almeno come qualche cosa di vivo, di giovanile e promettente per la cultura italiana. Romantici adunque, ma temperati e alieni dal proposito di spingere la lotta agli ultimi estremi. Quindi intitolarono il loro giornale Il Conciliatore e vi sovrapposero un motto latino, che voleva dire: «Fra i discordi pareri, quando i disputanti abbiano senno e onestà di volere, balza sempre fuori qualche utile verità.» Tanto era infatti lo spirito di conciliazione che animava questi nuovi romantici, che per un momento pensarono di offrire la direzione del Conciliatore nientemeno che a Vincenzo Monti, ossia all'autore del Sermone, al rappresentante più glorioso e più rigido della tradizione classica, secondo il pensiero dei più. Volevano essere tolleranti fino all'assurdo!

Il Monti — dopo avere un po' tentennato — rifiutò l'ufficio, e rimase fedele alla Biblioteca italiana, che lo pagava molto bene. Allora i giovani scelsero per loro capo un giovane, Silvio Pellico, che si era già reso celebre per dei felici esperimenti di tragedia, in cui alitava uno spirito di grande affettuosità e di gentilezza cavalleresca, che ristorava e riposava gli animi dopo tanta fierezza alfieriana e dopo la magniloquenza cupa dell' Aristodemo. Col direttore giovane, il giornale seguitò le sue pubblicazioni quasi un anno. Ma ecco improvvisamente intervenire l'Austria! Il povero Silvio Pellico è fatto prigioniero, mandato a Venezia, di là allo Spielberg. Segue tutta la triste odissea delle carcerazioni, dalla quale doveva uscire il libretto Le mie prigioni che fu uno dei documenti di sincerità letteraria più ammirevole. Dinanzi a quel libretto, l'espertissimo e classicissimo Pietro Giordani diceva che non si sentiva capace di scriverne. Vero documento sintomatico di quello che voleva essere l'arte nell'avvenire, di quello che dovrebbe essere l'arte di tutti i tempi, cioè la rivelazione dell'animo illuminata da un ideale alto e gentile.

Di tutto questo gruppo, alcuni ebbero sorte simile a quella del Pellico, come il Romagnosi e il Gioia; altri del Conciliatore scomparvero coll'esilio volontario come Giovita Scalvini e il Berchet: altri si ritrassero a vita prudente. In sostanza, dispersione completa; e guardando alle sole apparenze, ormai si sarebbe potuto dire che il romanticismo in Italia era finito. E sarebbe finito poco gloriosamente, in senso letterario.

Ma se il romanticismo non aveva ancora avuto modo di illustrarsi in Italia con grandi opere, aveva però diffuso una teoria nuova e più che una teoria una specie di nuovo istinto, il quale doveva esercitare una grande influenza sopra tutte le produzioni letterarie ed artistiche. Basta volgere uno sguardo ai libri esciti in questo tempo, per convincersi che è passato qualche cosa nell'animo degli scrittori. Una vera e propria novità, la quale attende una potente affermazione: una vera e propria novità, ricca di un grande avvenire. La natura è considerata con un aspetto nuovo, si costituiscono come tanti piccoli centri di immagini, di traslati, di movimenti ritmici. Il sentimento della natura esteriore è mutato; la visione della vita è diversa. Prose e poesie vi danno l'idea di una tastiera che è percorsa da un'altra mano, da una mano più leggiera, la quale cerca di preferenza i toni minori, patetici, insinuanti, toccanti. La nuova arte vuol discendere più a fondo nel cuore umano: e quando contempla la natura e la descrive, vuol istituire una specie di nuova e più intima simpatia fra il cuore umano e la natura. Nel fondo a questo cuore umano essa trova una profonda malinconia.

Il secolo passato era stato un secolo di grandi speranze e promesse; quindi naturalmente era stato il secolo dell'ottimismo. Gli uomini avevano sognato, avevano sorriso all'avvenire. Si era immaginato che mutando le leggi, modificando e migliorando gli istituti pubblici, questo dramma della vita, di triste che era, sarebbe diventato giocondo, trionfale, perfetto. Invece si erano modificate le leggi, erano avvenuti grandi movimenti politici, erano caduti dei troni, delle repubbliche si erano innalzate: ma da tutto questo la nostra civiltà europea occidentale aveva ricavato un'esperienza tutt'altro che lieta. I vecchi mali, non che guariti, parevano moltiplicati e cresciuti! S'avanza il Pessimismo, che avrà poi in Arturo Schopenhauer il suo metafisico. Intanto si estrinseca, si personifica, ha i suoi tipi viventi, che si chiamano il giovane Werter, Jacopo Ortis, Oberman, Renato e via discorrendo. E tutta questa malinconia che il romanticismo cerca nel cuore umano, effonde dal cuore umano, egli la rispecchia volentieri nella natura esteriore. Ed è curioso come a certi motivi prevalenti di paesaggio classico, se ne sostituiscano altri; in ogni cosa vedete il cambiamento. Se si tratta del mondo vegetale, mentre i vecchi poeti vi parlavano così volentieri del pioppo, dell'olmo e del platano; invece i poeti nuovi più volentieri vi parleranno di cipressi e di salici piangenti. Gli arcadi e i neoclassici pare non abbian lingua che per descrivervi le rosee tinte dell'aurora; i romantici invece sono innamorati della sera e del tramonto. Il buon Bertòla, vissuto nell'ultimo del secolo passato, commentando con un lungo commento gli idilli del Gessner, domandava: «Ma perchè gli scrittori italiani parlano sempre dell'aurora e mai della sera? È tanto bella anche la sera, ha delle tinte così vaghe, così insinuanti, infonde nell'animo uno spirito così gentile!» Voi sapete se la meraviglia del Bertòla doveva essere appagata, e se della sera doveva esser parlato anche troppo! Così pure i poeti neo-classici parlan molto del sole e poco della luna: laddove i romantici lascian volentieri da parte il sole, e amano di darsi alla pensosa contemplazione della luna — «luna, romita, aereo — tranquillo astro d'argento». Sono tutti particolari forse singolarmente di non grande valore e sui quali non posso lungamente distendermi; ma essi provano nel loro insieme che in tutti gli strati della letteratura e dell'arte italiana cominciavano a esser compenetrati e permeati da questo spirito nuovo, che corrispondeva alle nuove condizioni psicologiche della civiltà cristiana occidentale.

Quello però che ancora mancava era una poderosa azione artistica individuale: mancava un grande artista. Se ci fossimo fermati al Conciliatore e alla dispersione tragica dei suoi scrittori, il romanticismo in Italia sarebbe stato più che altro un prologo di dramma senza il dramma, sarebbe stato un peristilio senza la casa. Per fortuna l'Italia ebbe un grande artista in Alessandro Manzoni. Il quale diventò il capo naturale del romanticismo italiano, ma senza averlo voluto, somigliante in questo — ed è somiglianza di grande significato — al suo grande confratello Volfango Goethe. Voi sapete che mentre i romantici tedeschi si affollavano intorno al Goethe e lo pregavano di mettersi alla loro testa, l'olimpico uomo molto volentieri li disdegnava, chiamandoli una scuola morbosa.

Or bene: quella funzione che questi compì, quasi non volendo, verso i romantici tedeschi, la compì il nostro Alessandro Manzoni, anche egli a malincuore, verso i romantici italiani. Ed esso sulle prime non voleva saperne; e non lo vedete mai comparire fra i compilatori del Conciliatore. Egli si tiene volentieri in disparte; ma l'animo suo è tratto alle file dei giovani combattenti, verso il movimento nuovo; ond'è che, quasi senza accorgersene, diventa egli il capo vero e visibile del romanticismo in Italia. Paga un tributo di gran rispetto al classicismo personificato in Vincenzo Monti e lo saluta con quattro versi melodiosi, quasi per sdebitarsi con la sua grande ombra; e poi sereno e tranquillo, come comportava l'indole sua, si mette a capo dei romantici italiani.

Questo fatto decise della fortuna storica del romanticismo in Italia; perchè (mi piace di ripeterlo) se noi non avessimo avuto che dei Berchet e dei Pellico, dei Romagnosi, dei Borsieri, dei Visconti e dei Giovanni di Brême, e tutti quei romanzieri e poeti minori, con le loro perpetue romanze alla luna e ai salici piangenti, il romanticismo italiano sarebbe stato cosa effimera e la storia non ne parlerebbe, se non come d'un episodio inconcludente o almeno di poca importanza nell'evoluzione dell'arte e della letteratura nazionale. Il Manzoni mette questo grande suggello nel romanticismo italiano, perchè fa del romanticismo qualche cosa che sostanzialmente diversifica da tutti gli altri moti letterari contemporanei. Quando entra in campo il gran lombardo cogl'Inni, colle Tragedie, con la Morale Cattolica e soprattutto col Romanzo, il Manzoni, mentre consente nel concetto fondamentale del movimento europeo, sa creare in esso qualche cosa di distinto e di staccato, qualche cosa di propriamente nostro e di omogeneo al genio italico. Così vien fuori la grande serenità naturalistica dei Promessi Sposi, e ne esce il ritmo calmo e solenne degl'Inni, ne esce quello zampillo, sia pure scorretto in qualche parte, ma luminoso e meraviglioso di lirica che è il Cinque Maggio.

Ne volete una prova? Quando entra in campo il Manzoni, il romanticismo italiano, da prima titubante e poco considerato, diventa presto una scuola conquistatrice e vittoriosa, e a poco a poco tutte le resistenze cedono, tutte le fronti più o meno piegano. Ne avete un esempio nei vostri due più grandi scrittori toscani della prima metà di questo secolo, Guerrazzi e Niccolini, i quali per indole, per tradizione, per ideali politici e religiosi di tanto si disformavano dall'andamento e dagli intendimenti manzoniani. Eppure, anch'essi sono attratti a poco a poco in questa grande orbita di innovamento. E Giambattista Niccolini, che muove dalle ravvivate forme all'antico colla Polissena e sulle prime guarda con diffidenza e talvolta con fastidio ingiurioso allo influsso lombardo, finisce coll' Arnaldo da Brescia, ossia, cioè, coll'allargare il suo modulo drammatico al di là di quegli stessi confini che lo stesso Manzoni aveva determinati. Il Manzoni non domandava tanto, ma l'impulso era dato: il grido del risveglio risonava ovunque; tutti erano trascinati in questa viva corrente che andava verso l'avvenire.

Così, o Signore, — non permettendomi il tempo di estendermi più oltre — a me basta di aver affermato un concetto, che in altra occasione potrebbe venire l'opportunità di svolgere: voglio dire che il romanticismo italiano si differenziò da tutti gli altri romanticismi europei, che si manifestò conforme alla nostra indole e tradizione latina per opera di Alessandro Manzoni. Fu principalmente suo merito se il romanticismo, entrato nella grande orbita della latinità, vi si svolge in modo armonico ai caratteri essenziali dello spirito del popolo italiano. Non dico in modo perfetto, perchè difetti ce ne sono dappertutto e perchè il romanticismo, se è movimento legittimo quando lo consideriamo come una generica aspirazione degli animi, diventa una cosa imperfettissima quando vuol essere una sintesi, un sistema di legislazione estetica che rinserri, comprenda e disciplini tutti gli elementi, tutte le forze, tutti i confini di questo moto.

Mercè massimamente l'opera del Manzoni, noi avemmo una fase del gran movimento letterario mondiale da potere, non solo senza vergogna, ma con legittimo orgoglio, contrapporre alle fasi che ha assunto il romanticismo in Germania, in Francia e in Inghilterra.

ALESSANDRO MANZONI

CONFERENZA DI ROMUALDO BONFADINI.

È quesito sempre discusso, e che forse non sarà mai risoluto, se giovi più l'ambiente a formare un uomo o l'uomo a disciplinare un ambiente.

Le due cose sono fra loro congiunte da vincoli così stretti e così numerosi, che il discernere quali siano necessari e quali superflui sembra soverchiare l'acutezza dell'ingegno umano, per quanto esso si senta forzato dalla sua dignità a non abbandonare l'esame dell'argomento.

Uno studio di questa indole, nel periodo storico a cui quest'anno avete rivolta la vostra attenzione, potrebb'essere utilmente condotto principalmente intorno a due uomini, Gino Capponi ed Alessandro Manzoni.

Dal 1815 al 1831 si cercherebbero invano in Italia due personalità più complete, più progressive, più dominanti nella regione del pensiero e dell'intelletto.

La società italiana, fatta paurosa dagli sgomenti e dai disastri del ventennio antecedente, andava cercando animosamente delle influenze a cui ubbidire, dei programmi in cui poter riposarsi.

Queste influenze non le voleva dai governi, screditati tutti dall'eccesso degli egoismi e dalle persecuzioni; questi programmi non li accettava da consorterie politiche, venute in uggia dopo le tremende delusioni dei fatti. Era bensì disposta a subire la disciplina di uomini indipendenti e intelligenti, che non avessero goccia di sangue sulle loro mani o rimorso d'inganni sulle loro coscienze. Voleva direttori che avessero nobiltà di studj, perchè troppo lungo era stato il dominio degli uomini volgari; che avessero nobiltà di prosapia, perchè le corruzioni giacobine avevano reso impopolare la democrazia.

A questo complesso di esigenze dello spirito pubblico rispondevano perfettamente due uomini come Gino Capponi ed Alessandro Manzoni; sicchè non è meraviglia se la loro influenza personale grandeggiò a misura che rimpiccioliva il credito degli organismi di Stato, e se dall'ambiente in cui erano cresciuti, la loro disciplina intellettuale e morale s'allargò ben presto al vasto ambiente nazionale, che vide con gioia rivivere in essi due diverse e potenti fisonomie dell'antico e schietto genio italiano.

Usciti entrambi giovanissimi dall'infocata atmosfera in cui si svolse la Rivoluzione francese; avversi entrambi, per dignità di spirito equilibrato, così agli eccessi della demagogia come alle reazioni del diritto divino; amici del Foscolo e del Confalonieri; virtuosi per indole e studiosi per abitudine; non temprati, nè l'uno ne l'altro, a vigore di lotte personali, ma avvezzi, e l'uno e l'altro, ad opporre energie tenacissime di bene a qualunque tentativo, a qualunque sopraffazione di male, vi sono tra il Capponi e il Manzoni altrettante analogie di carattere e di azione morale, quante vi sono differenze nell'indole dell'ingegno e nei casi della vita.

Del primo vi parlerà, presto o poi, qualcuno che abbia avuto col gran cieco toscano quella domestichezza che a me non fu consentita. Permettete ch'io cerchi oggi di tracciarvi qualche contorno della vita e delle attitudini del gran vecchio lombardo.

S'era ai primi giorni dopo la battaglia di Marengo, e ad una brillante serata nel maggior teatro di Milano assisteva, nell'interezza del suo prestigio, il Primo Console trionfatore. Gli odj di parte duravano ancora fierissimi in Lombardia; e il generale Bonaparte, dinanzi a cui piegavano tutti gli Stati, ma non tutti gli uomini, nè tutte le donne, lanciava sguardi irritati verso un palco di casa Somaglia, dov'era apparsa una sua costante avversaria politica, la moglie del conte Cicognara, repubblicano intransigente del triennio cisalpino. In quel palco, raggomitolato dietro i merletti della contessa Cicognara, stava un giovinetto quindicenne, a cui quegli sguardi non uscirono più dalla memoria e che li chiamò più tardi in una lirica imperitura «i rai fulminei».

Fu quella forse la prima grande impressione politica di Alessandro Manzoni? Certo è, che da quella corrente di passione, sprigionatasi fra due palchi in una serata di canto, dovette essere singolarmente percossa l'indole già pensosa del futuro scrittore del Cinque Maggio. Il genio della guerra, maturo nell'azione, si rivelava con uno scatto umano al genio della pace in elaborazione di pensiero. Chi può dire quali mistiche influenze, quale virtù diuturna di meditazione abbia esercitato un genio sull'altro? Non erano scorsi altri quindici anni, e il genio della guerra, dopo avere stancato il mondo, spariva dall'ambiente politico, inchiodato, come Prometeo, alle asperità d'uno scoglio; mentre il genio della pace stampava già robuste le sue orme in quel regno della letteratura e della morale, in cui sarebbe stato monarca, e da cui nessuno lo avrebbe cacciato più.

Sono contrasti, di cui il mondo è pieno, e a cui la folla degli scrittori non usa, di solito, l'onore dell'attenzione. Pure, le verità nuove, così nell'ordine morale come nell'ordine fisico, escono piuttosto da fenomeni di contrasto che da fenomeni di armonia. Senza gli urti e senza le scosse, il pensiero si lascierebbe intorpidire, la scienza non avrebbe stimolo a scoprire nuove forze per vincere le difficoltà. Non è quando l'aria è cheta e l'onda morbida che il navigante è tratto ad acuire tutti i suoi sforzi per la lotta tra l'uomo e l'Oceano. E soltanto da una lunga esperienza di contrasti e di mutazioni può l'uomo grande trarre intera la coscienza del suo valore ed apparire dinanzi ai contemporanei ed ai posteri nelle vere proporzioni della sua statura intellettuale o politica.

Quando nacque il Manzoni, era morta da pochi anni Maria Teresa. Ed oggi vivono tuttora dozzine d'individui che del Manzoni sono stati negli ultimi anni corrispondenti od amici. Vuol dire dunque che durante questa vita d'uomo si è mutato il mondo; la sola frase adatta ad esprimere le differenze fra l'epoca di Maria Teresa e la nostra. Il Manzoni è nato quando lo spirito di libertà tentava i suoi primi sforzi sul continente europeo, ed è morto allorchè questi sforzi avevano già ottenuto forse il maggiore dei trionfi, l'abolizione del potere temporale. Ha visto la Rivoluzione francese e l'Unità italiana; nove governi in Lombardia e dodici in Francia; ha visto sorgere, brillare e sparire due dinastie napoleoniche; ha visto spegnersi la Polonia, crearsi la Grecia, il Belgio e la Germania; ha visto la civiltà piccina e la scienza gigante; ha acceso il fuoco da fanciullo coll'esca e colla pietra focaja, — vecchio, ha potuto apprezzare i portenti della meccanica, della chimica, dell'elettricità.

E da tutto questo frastuono di casi, da tutta questa vertigine di mutamenti, il Manzoni non è rimasto nè spaurito, nè soffocato; anzi le sue qualità hanno attinto ad ognuna di quelle evoluzioni del pensiero e del fatto agilità e robustezza maggiori; il suo spirito, temprato ad ogni ideale, s'è innalzato man mano che il mondo s'innalzava intorno a lui. Cosicchè oggi che la storia è cominciata per quel secolo formidabile, oggi che la generazione uscita da quelle terribili vicende

Si volge all'onda perigliosa, e guata,

oggi la figura di Alessandro Manzoni ci appare alta come il suo tempo; e dobbiamo riconoscere che se alcune glorie furono più clamorose della sua, nessuna fu più feconda e più pura.

Questo giudizio parrà forse strano, avventato a quelli che sono avvezzi a misurare la gloria dal numero o dall'entità degli sconvolgimenti che può cagionare. Certo il Manzoni non è stato mai uno di quelli che soglionsi chiamare i grandi del mondo; non ha regnato, non ha vinto battaglie, non ha ucciso nemici, non ha conquistato città, non è stato neanche.... ministro della pubblica istruzione. S'è limitato a scrivere pochi libri e pochi versi. Ma quanta rivoluzione intellettuale in quei versi e in quei libri? quanto soffio di cose nuove, che si sono imposte al suo paese, senz'armi e senza conquiste!

Perocchè, se è facile l'accorgersi di quei mutamenti che una violenza crea ed un'altra distrugge, altrettanto è difficile avvertire e apprezzare di primo acchito quelli che, uscendo dal crogiuolo dell'ingegno e delle idee, s'impadroniscono degli animi nostri e vi svegliano attitudini e sentimenti che poi l'indole assorbe e tenacemente mantiene. I primi passano sopra di noi e difficilmente lasciano traccia, fuorchè di rovine; i secondi si stampano indelebili nel nostro organismo e possono governare un'epoca intera, modificare una serie di generazioni.

È questa gloria che spetta intera al Manzoni; poichè la sua influenza, l'influenza della sua dottrina e del suo metodo, ha lasciato in Italia profonde orme in tre discipline, che sono fondamentali per ogni nazione: la letteratura, la politica, i costumi.

Permettetemi di svolgere brevemente questa triplice affermazione.

* * *

Quando il Manzoni cominciò a scrivere, la letteratura italiana cercava confusamente, ma non trovava un nuovo indirizzo. Potenti ingegni vi si erano consacrati, ma nessuno aveva osato uscire dal solco in cui l'avevano posta i maestri di molti secoli prima; nessuno aveva osato rompere certe barriere convenzionali, oltre cui pareva che il genio e l'arte fossero impotenti a slanciarsi.

Gli affetti veri, le passioni moderne, le società quali sono, erano escluse dagli onori dell'interpretazione letteraria. La poesia si moveva in un ambiente tutto classico, tutto artificiale, dove soltanto i Greci e i Romani parevano nati per essere cittadini o sapienti od eroi. L'ultra cattolico Metastasio aveva foggiato i suoi cento melodrammi sull'unico tipo delle Semiramidi e delle Didoni. Il Monti saccheggiava l'Olimpo per trovare ogni giorno una deità pagana da bruciare sull'ara del suo Napoleone. Il Foscolo non usciva di Grecia, sia traducendo Omero, sia scrivendo l'Ajace, sia celebrando la chioma di Berenice, sia sostenendo, a proposito di sepolcri moderni, una teoria retriva, dissimulata sotto una splendida mitologia. Gli stessi due poeti che avevano tentato novità maggiori, l'Alfieri e il Parini, avevano troppo sacrificato al pregiudizio antico. Il primo s'era bensì accostato, in alcuna delle sue tragedie, ad argomenti moderni e a passioni più vere; ma s'era fermato nelle reggie e nei palazzi, fuori di cui pareva che non potesse esistere elemento drammatico. Il secondo aveva divinato il concetto civile della poesia educatrice; ma se l'idea era moderna, il verso era rimasto antico; e non sapeva parlare della cipria o della seggiola o del letto o del cibo, senza invocare Giove, Pallade, Marte, Apollo o Citerea.

Tutto ciò staccava i poeti dal popolo; che li udiva e non li comprendeva, li ammirava e non li amava. Il popolo offriva, nelle sue ingenue sensazioni, una folla di argomenti poetici che nessuno trattava. I suoi bisogni, le sue sofferenze, le sue aspirazioni non trovavano nessuna eco nella letteratura nazionale, impastojata fra la cotidiana ammirazione dei principi e dei guerrieri. E il popolo a sua volta non traeva nessuna moralità e nessuna virtù nuova da un linguaggio poetico, irto di miti e di simboli, ma di cui nessuno rispondeva neanche da lungi ai miti ed ai simboli suoi.

Questo contrasto fra la civiltà e la poesia, questo bisogno di raccostare più logicamente la seconda alla prima, preoccupava fin dai primi anni del secolo i più perspicaci intelletti.

Già quello spirito gentile di Ippolito Pindemonte aveva risposto ai Sepolcri di Ugo Foscolo:

Perchè tra l'ombre della vecchia etade

Stendi, lunge da noi, voli sì lunghi?

E, concentrando in due versi, con oraziana efficacia, i precetti della nuova scuola che si andava disegnando, gli consigliava:

antica l'arte

Onde vibri il tuo stral, ma non antico

Sia l'oggetto a cui miri.

Caduto il governo napoleonico, la lotta fra i due manipoli letterari cominciò a farsi più viva; ma si limitava a giornali e a giornalisti, e sotto i nomi di classici e di romantici minacciava rifare una di quelle dispute infeconde e iraconde, di cui era piena la tradizione letteraria italiana dei secoli antecedenti. I classici avevano per sè tutti i grandi nomi della poesia, e l'autorità viva e sovrana di Vincenzo Monti. I romantici si appoggiavano piuttosto sulla letteratura tedesca, che per mezzo di Bürger, di Schiller, di Goethe aveva messo in quei giorni

il potente anelito

Della seconda vita.

Questa lotta avrebbe potuto continuare per un tempo indefinito, se la scuola romantica non avesse trovato modo di provare col fatto la superiorità intellettuale a cui pretendeva. Gli scritti del Manzoni, proprio tra il 1815 e il 1830, furono gli eserciti vincitori della decisiva battaglia.

Cogli Inni Sacri, dimostrò come il Dio cristiano, il Dio del popolo nostro fosse inspiratore di ben più alta poesia che gli idoli sciupati e vuoti di senso del paganesimo classico. Colle Tragedie, fece vibrare una corda patriottica che scosse gli animi e li avviò d'un tratto agli squarciati orizzonti delle grandi commozioni moderne. Finalmente, coi Promessi Sposi, segnò il culmine, non ancora raggiunto, della nuova letteratura, e trasse dalla vita popolare, da personaggi popolari, da una meravigliosa intuizione dei segreti storici e giuridici di un secolo buio, gli elementi di una grand'opera d'arte, a cui la prosa modesta non toglie di essere l'epopea più viva, più vera e più vasta che sia comparsa in Italia, dopo la Divina Commedia.

* * *

Ed ecco la prima grande influenza che ottenne il Manzoni sul tempo suo. Discusso, come sempre, dalla critica appassionata, i suoi scritti s'imposero però all'opinione letteraria con tanta forza, che nessuno osò più adoperare, scrivendo, quel classico cicaleccio, da cui tanto era giovata la povertà dei pensieri. La lotta finì subitamente. Nel solco aperto da Alessandro Manzoni dovettero, per amore o per forza, incamminarsi tutti quelli che bramarono avere dei lettori; sicchè parve un vaticinio la frase, che, al comparire dell' Urania aveva detto il Monti, apostolo del passato, «costui comincia dove io avrei voluto finire.»

Vero è che la nostra generazione ha udito muoversi al Manzoni due obbiezioni, quasi due accuse. Il grand'uomo ha sorriso della prima, e forse non è giunto in tempo a sorridere, o meglio a ridere della seconda. Certo l'una e l'altra sono ormai scivolate sul bronzo della sua fama, e il vanto di risollevarle non frutterebbe riputazione. È proprio del genio trovare i pedanti contro di sè. Il Tasso ebbe fieramente avversi alcuni accademici della Crusca; l'Ariosto s'udì rimproverare di avere scritte tante corbellerie; il Parini fu da un bizzarro ingegno berteggiato come un versiscioltaio; e Carlo Porta fu ad un pelo di spezzare la sua penna per le critiche virulenti di un parrucchiere. Chi si ricorda ora il nome degli avversari del Tasso o di quelli del Porta?

Fu dunque accusata la letteratura del Manzoni di essere nel senso patriottico fiacca; di consigliare la rassegnazione piuttosto che la resistenza alle ingiustizie ed alle oppressioni; di stillare nei cuori popolari le idealità del cielo quasi per deviare la loro attenzione dalle brutalità della terra.

Or bene, ditelo voi, giovani del 31, del 48 e del 59, che siete corsi alle armi, dopo avere per anni balbettato ad ogni Natale, sulle ginocchia materne, Qual masso che dal vertice; dopo avere per anni recitato dinanzi ai vostri professori a memoria i cori dell' Adelchi e del Carmagnola; ditelo voi se la letteratura manzoniana vi sia stata feconda di fiacchezze e di rassegnazioni! Ma un'educazione letteraria si deve giudicare dagli effetti che produce, dagli allievi che crea. Ora, non erano manzoniane le due generazioni di uomini che negli ultimi settant'anni hanno consacrato ogni minuto della loro esistenza a fare la patria? non erano manzoniani, nella loro vigoria e nel loro sentimento cristiano, i giovani eroi delle barricate milanesi e romane, i Dandolo, i Morosini, i Manara? non fu manzoniano quel Massimo d'Azeglio che apparve il cavaliere senza macchia e senza paura della rivoluzione italiana? e non si vantarono e non si vantano anche oggi d'essere ammiratori del Manzoni quegli uomini di lettere d'ogni gradazione politica, che si mescolarono a tutte le battaglie nazionali, della penna, della spada o della tribuna, da Cesare Correnti a Giovan Battista Giorgini, da Goffredo Mameli a Felice Cavallotti?

Signori, può darsi che vi sia chi confonda l'energia dei pensieri colla violenza delle parole, la profondità dei sentimenti col delirio delle immaginazioni.

Ma quale fra gli scrittori italiani ha lanciato più roventi accuse contro la rea progenie di quegli oppressori:

Cui fu prodezza il numero,

Cui fu ragion l'offesa,

E dritto il sangue, e gloria

Il non aver pietà?

Chi ha destato maggiori simpatie intorno alle vittime dei pregiudizi o delle ingiustizie o delle prepotenze feudali e monacali della dominazione straniera? chi ha flagellato più a sangue i caratteri fiacchi, come quelli di Don Abbondio, o la giustizia fiacca, come quella che emanava le gride e tollerava i bravi?

Era proposito di rassegnazione che dettava al Manzoni quei caldi versi del 1821, da lui dedicati a Teodoro Körner, il poeta dell'indipendenza germanica?

E non è chiaro il suo desiderio di vedere la giustizia regnare sulla terra anche prima che in cielo, quando ci fa assistere alla morte di Don Rodrigo, cadavere lurido fra i cenci degli appestati, mentre la coppia ch'egli avrebbe voluto far vittima delle sue passioni s'incammina, religiosa e tranquilla, alla gioia lungamente negata?

Un poeta vivente, o signori, Giosuè Carducci, ha chiamato un giorno vile l'Italia, perchè gli pareva che non rispondesse abbastanza a' suoi ideali. L'epiteto ebbe fortuna, e parve che desse fama di energico al colto ingegno che l'aveva lanciato. Ebbene, Giosuè Carducci non è che un plagiario di Alessandro Manzoni, il quale aveva scritto dell'Italia, quarant'anni prima:

O risorta per voi la vedremo

Al convito dei popoli assisa,

O più serva, più vil, più derisa,

Sotto l'orrida verga starà.

* * *

D'altra parte, era sorta ad osteggiare il Manzoni la nuova scuola verista.

Voi lo sapete, o signori; vi fu una scuola, forse già tramontata, che s'illuse di avere inventato recentemente il vero nell'arte. Prima di essa, pare che tutti siano stati nel falso. Omero, Virgilio, Esopo, Anacreonte, Orazio, Lucrezio, Geremia non hanno saputo nulla dei dolori, dei sentimenti e delle debolezze umane; i cavalli di Fidia e di Prassitele non sono veri: le teste di Raffaello sono false; Molière e Goldoni hanno prodotto sulle scene tipi che non esistono; Dante non seppe congegnare un verso che fosse naturalista, neanche quando fece dire a Francesca:

La bocca mi baciò tutto tremante.

Confondere ogni vero col bello parrebbe lo sforzo di questi sacerdoti dell'arte nuova; il cui cardine fondamentale — se almeno si può afferrarlo fra le nebulose onde ancora si circonda la sua dottrina — è che nulla è vero se non quanto cade sotto i sensi. Invano si obbietta che l'uomo è composto di spirito e di materia; che in esso si aggruppano quindi verità fisiche e verità morali. L'arte nuova, se anche non nega lo spirito, non lo vede; ogni fatto è per essa un risultato di forze esterne, un'aggregazione di molecole. E siccome soltanto il fatto è vero, solamente la molecola è degna di poesia.

Pigliamo, per esempio, le due evoluzioni più importanti nell'organismo umano; le due cose che il povero Leopardi trovava belle nel mondo: l'amore e la morte.

Due giovani si amano; si sentono attratti l'uno verso l'altro dall'istinto dei cuori, dal fàscino degli sguardi, dalla comunanza dei pensieri e delle simpatie. Questo amore è un fatto, che determina intero lo svolgimento di due personalità; che può essere nascosto alle osservazioni di tutto il mondo, ma che sostituisce tutto il mondo nella verità delle loro sensazioni. Viene il giorno, in cui questi giovani, dopo essersi lungamente amati, trovano l'occasione di dirselo, di giurarsi fede, di abbracciarsi. Ecco il fatto, grida il seguace dell'odierno verismo. Tutto il vero di prima non esiste per lui. L'efficacia delle sensazioni intime, che hanno preparata, elaborata, determinata la manifestazione esterna, egli non l'ha vista e non vuole quindi occuparsene. L'importante è per lui l'effetto e non la causa, la conseguenza e non la premessa. Sicchè tutto il dramma dell'anima, che è stato la verità calda ed esclusiva di tanti anni, sparisce dinanzi ad un momento plastico, di cui egli descriverà fino alla nausea i più fuggevoli particolari.... nei quali soltanto comincia e rimane il suo vero.

Allorchè la morte viene, è ancor peggio. Questo fatto è per sè un duplice poema, in cui l'acerbità del dolor fisico si mescola alla crudele coscienza dei propri errori o al mesto ricordo delle proprie illusioni; dove la tenacia con cui il passato avvince ha un riscontro nel dubbio con cui assale il futuro; un poema, in cui le verità appaiono tutte, e giganti, e irresistibili, nella gran lotta fra l'anima che resiste e il corpo che soccombe.

Orbene, che cosa vede ordinariamente il verista in questa catastrofe materiale e morale? null'altro che la brutalità degli ultimi fatti esterni: la tosse che lacera il petto del morente: l'odore mefitico onde l'atmosfera s'impregna: la secrezione putrida a cui soggiace il cadavere. A che indagare, nell'interesse delle verità morali, se l'infelice muore disperato o rassegnato, se in lui prevale la passione o il dolore o lo scetticismo, se lo governa l'impressione d'un amore antico o d'un odio recente? tutte queste sono idealità non abbastanza vere, secondo la nuova scuola; l'importante è di constatare la cera che sgocciola e i vermi che sbucano.

Quanta gloria ridonda al Manzoni dal non avere seguìto, nemmeno per un istante, un indirizzo letterario così umiliante per l'umana personalità! come è prova del suo ingegno l'avere bene distinte le verità di un quarto d'ora dalle verità eterne, e l'aver sempre tenuto alta e retta la figura dell'uomo verso l'avvenire e verso Dio!

Nè crediate che l'arte fosse impotente nel Manzoni a ritrarre e a scolpire anche i turpi veri che affliggono l'umanità. Quando ha creduto che potesse trarne vantaggio la causa morale, ha ben provato come sapesse precorrere i veristi d'oggi, e superarli nella potente espressione dei fatti d'indole materiale. Vi ricordate del povero Renzo nell'osteria della Luna Piena e di quel meraviglioso crescendo d'ubbriachezza che lo intontisce? vi ricordate di quelle vittime della carestia, che avevano in bocca l'erba mezzo rosicchiata? di quelle vittime della pestilenza che lasciavano spenzolare a dondoloni dal carro funebre le gambe e le braccia, intanto che i monatti, assisi sui loro dorsi, bevevano e cantavano canzoni oscene? vi pare che siano state scritte altrove pagine più efficaci nell'ordine dei fenomeni odiosi e.... naturalisti?

Guardate l'episodio della monaca di Monza. Lì il Manzoni doveva dir tutto, e ha detto tutto, ma con che garbo! L'analisi psicologica dell'animo di Geltrude, la via fatale per cui è spinta all'abisso, sono del dominio dei fatti morali, e nessuno disputa al Manzoni la padronanza di siffatti argomenti. Ma si giunge all'episodio di Egidio, e la caduta di Geltrude diventa un fatto d'indole materiale. Non dirlo, rende incompleto il dramma e inverosimili le conseguenze. Dirlo, mette a repentaglio quella casta severità di pensiero che fa dei Promessi Sposi un libro così altamente educativo dei giovani.

Un verista odierno si sarebbe gettato avidamente su quell'episodio. Non avrebbe risparmiato al lettore nessuno dei consueti particolari di una situazione conosciuta. Avrebbe descritto ad esuberanza le lettere profumate, e i rossori del volto, e il fàscino del tentatore, e il fruscìo delle vesti, e le rapide carezze, e l'oblìo d'un istante, e il postumo pianto.... e l'abitudine della colpa. Il Manzoni nulla di tutto ciò. Gli basta aver detto che Egidio aveva scritta una lettera; poi riassume e chiude il dramma con tre sole parole: « La sventurata rispose. »

Quanta evidenza in così grande sobrietà? V'è qualcuno che possa non avere capito o che possa offendersi di avere capito? La tentazione, la resistenza, la debolezza, il delitto, il rimorso, tutti gli elementi e gli svolgimenti della pietosa catastrofe escono, con verità casta ed energica, da quella semplice frase che la scuola nuova invidierà per molto tempo all'antica.

* * *

La seconda influenza che esercitò Alessandro Manzoni fu sul programma della politica nazionale.

Nè bisogna meravigliarsi, che, non essendo stato mai uomo politico nel senso attivo della parola, abbia però avuto sull'andamento delle cose politiche un'azione decisa.

Ai poeti spettò in ogni tempo una singolare ingerenza sugli avvenimenti dei loro paesi. Tengono, per la loro inspirazione, per la popolarità da cui sono generalmente circondati, un posto che rasenta da vicino quello dei profeti e delle sibille nelle età bibliche o eroiche. I bardi e i trovatori davano l'intonazione all'ingenua politica delle schiatte cavalleresche europee. Il Petrarca dovette alla sua grande riputazione poetica le missioni politiche a cui si trovò mescolato. Milton e Goethe crearono in Inghilterra e in Germania ambienti politici. E ognuno sa che larga parte abbiano avuto nella politica nazionale francese le liriche del Béranger.

Il concetto di Manzoni circa l'ordinamento italiano fu radicale e immutabile. Credette possibile l'unità della patria, e la cantò e la sostenne con tutta quella fede ch'egli poneva negli ideali. Forse perchè aveva veduto ed appoggiato il forte organismo del primo Regno d'Italia, si disgustò facilmente di quegli Staterelli fiacchi e pusilli, che sono dall'indole loro condannati sempre a roteare intorno ad un pianeta. A chi gli diceva che l'unità politica era un'utopia, rispondeva col suo bonario e fino sorriso: «È per lo meno un'utopia bella, mentre la Confederazione è un'utopia brutta».

Già fin dagli anni giovanili aveva scritto, con un verso più felice di pensiero che di forma:

Liberi non sarem se non siam uni.

Ma quando gli amici suoi, che nella setta dei Federati traevano dal loro nome il loro programma, innalzarono la bandiera costituzionale del 1821, egli li incoraggiò ad allargare le loro aspirazioni, a pensare che l'Italia era

Una d'arme, di lingua, d'altare.

E si augurò che il risultato della loro azione fosse:

Non fia loco ove sorgan barriere

Tra l'Italia e l'Italia mai più.

Sicchè, quando il Mazzini gli fece visita nel 1848, e gli disse: «Solamente io e Lei, don Alessandro, abbiamo serbato fede al culto dell'unità» avrebbe potuto dir con maggiore esattezza: «Lei ed io» poichè il Manzoni era già poeta unitario, quando il Mazzini non era uscito ancora dagli anni della fanciullezza.

E non è a dirsi che avesse piccola efficacia l'opinione di un ingegno così largo, di un pensatore così profondo, che si staccava risolutamente dai programmi politici di tutti gli uomini di Stato, per patrocinare una soluzione di altissima idealità. La fede di quell'uomo penetrava a poco a poco nell'ambiente intellettuale di cui egli era l'oracolo, e di lì usciva, rivestita di un'autorità che non era facile sostituire, ad infiltrarsi negli strati sociali ansiosi di novità e di moto. Quel programma rivoluzionario, accettato con tanta sicurezza dall'uomo tranquillo e severo che aveva scritto la Morale Cattolica, pigliava tono e garbo di soluzione moderata. Vi si accostavano quasi involontariamente i pensatori delle alte classi, attratti dalla gran riverenza per l'uomo che se ne mostrava entusiasta. Sicchè, quando più tardi entrò in lizza il Mazzini, e percosse dal canto suo l'immaginazione delle classi popolari coll'ardente audacia della sua parola, la preparazione degli animi divenne completa, e il passaggio dalla teoria alla pratica non fu più che una questione di tempo.... e di occasione.

Quanto sia stato grande il servigio reso in questo terreno dal Manzoni alla patria, noi soli siamo ora in grado di apprezzare giustamente. E lo possiamo fare, paragonando il sangue e il tempo che ad altre nazioni è costato questo sforzo dell'unità colla mirabile rapidità e concordia con cui s'è compiuto fra noi. Ciò che altrove ha cagionato lotte ostinate fra i partiti conservatori, da noi fu appunto considerato come una base d'accordi e di conciliazioni. Fortunata politica, che ci ha lasciato raggiungere e ci lascia sperare durevole l'assetto della patria, perchè con esso si sono diminuite, non si sono allargate le differenze fra i partiti che l'amano. E gran parte di questo mirabile risultato si deve all'onesta ed acuta divinazione del Manzoni: che attraendo a sè le classi conservatrici italiane ed affezionandole per tempo al pensiero che dal suo genio scattava, contribuì a rendere nazionale una soluzione politica, che altrove, rimasta rivoluzionaria o dispotica, è stata causa di guerre intestine e di implacabili ostilità.

Ma non fu soltanto al programma unitario che l'influenza politica di Alessandro Manzoni si volse con intiero successo. In quell'altra spinosa e delicata questione dei rapporti fra il Papato e l'Italia, l'istinto suo lo guidò meravigliosamente a segnare la via sicura. Era una via che contrastava con tutto il nostro passato di rivoluzioni e di reazioni; una via che a moltissimi pareva troppo ardita, a molti altri troppo timida, ma che soprattutto a nessuno pareva praticamente possibile. In Italia, infatti, soltanto pochi lustri fa, non v'erano che ghibellini, intenti a combattere il Papato, e guelfi a difenderlo. Il Manzoni sentì, forse prima di tutti, che il sentimento religioso e il sentimento nazionale potevano adagiarsi in una soluzione nuova, che non fosse nè guelfa, nè ghibellina. La sua fede robusta nel cattolicismo e nella patria gli fece intravedere possibile quello che ad altri pareva assurdo, la permanenza nella stessa capitale del Re e del Papa, il potere temporale abolito e la religione fatta più pura dalla sua perdita.

È il programma che l'Italia ha adottato e che da ventisei anni fa le sue prove. Certo, non a tutti ancora la soluzione par chiara, e gli spiriti ardenti — guelfi o ghibellini — si ostinano a condannarla. È nell'indole delle cose che hanno avuto una grande esistenza il ribellarsi contro ogni ipotesi di mutazioni. Ma è nell'indole altresì degli uomini savj il rassegnarsi a quelle che lasciano intatto lo spirito, se non le forme, delle istituzioni morali. Il Manzoni, che in ogni argomento preferiva lo spirito alla forma, si avvide presto che il potere temporale era morto nell'efficacia sua, ben prima che gli avvenimenti politici s'incaricassero di seppellirlo. La sua anima religiosa non si smarrì, nè il saldo cattolicismo suo temette fare sfregio a sè stesso, patrocinando, come cittadino autorevole, e votando, come senatore del Regno, il nuovo ordinamento che rendeva a Cesare quanto era di Cesare e a Dio quanto era di Dio.

Certo, l'esempio del Manzoni fu d'immensa efficacia nell'ottenere a siffatta soluzione i larghi consensi del partito che vuol essere liberale senza cessare di essere religioso.

Infatti, chi più cattolico del Manzoni? chi morto più tranquillo di lui nella sicurezza della sua fede e della sua coscienza? Forse oggi duole a qualcuno che un così grande cattolico sia stato anche un così grande amico della libertà onesta e dell'indipendenza completa. Ma l'alta religiosità del Manzoni è affidata a monumenti troppo durevoli, perchè il fanatismo li rompa; e nel medesimo tempo gli Italiani si ricorderanno sempre con gratitudine del giorno in cui, sereno e deciso, il venerando vecchio andò a Torino per affermare il suo voto favorevole alla proclamazione del Regno unitario d'Italia.

Fu anzi in quella occasione che si produsse il noto incidente, memorabile nella sua semplicità, ma interamente caratteristico degli uomini e dei tempi.

Il Manzoni usciva tranquillamente dal palazzo senatorio, appoggiato al braccio del conte Camillo di Cavour. La folla si apriva riverente dinanzi ai due grandi cittadini, e scoppiava in applausi forse quel giorno più clamorosi e più ripetuti del solito. Il Cavour, che a quegli applausi era avvezzo, disse cordialmente al Manzoni: «Questi sono per lei, don Alessandro». — «Tutt'altro» rispose il Manzoni «veda che sono per lei». E staccandosi dal braccio del Conte, gli si pose di rimpetto, battendogli egli pure le mani e gridando: «viva Cavour»! Si può immaginare l'urlo d'applausi che quell'atto sollevò tra la folla, all'indirizzo d'entrambi.

* * *

V'è finalmente una terza influenza, meno apparente, ma non meno benefica, che noi dobbiamo tutti riconoscere, e di cui dobbiamo esser tutti grati ad Alessandro Manzoni. È l'influenza che esce dall'austera semplicità della vita, dal modesto riserbo, dalla dignità tranquilla e costante dei pensieri e dei modi. Siffatte qualità, a cui non venne meno il Manzoni in nessuna epoca della sua lunga carriera, hanno rialzato in Italia la riputazione di un'intera classe d'uomini, sui quali è ordinariamente più fiso lo sguardo dei nazionali e degli esteri, la classe dei letterati.

Pur troppo in Italia questa riputazione aveva bisogno d'ajuti. Le tradizioni dei secoli antecedenti pesavano dolorosamente sovr'essa. In troppi casi il letterato italiano aveva accettato di essere, per amor di gaudio e di lucro, lo stipendiato dei grandi, o aveva cercato, nello sciupío della vita e nell'affettazione delle originalità romorose, un po' di fama che le lettere sole non dessero.

Nel cinquecento e nel seicento, i letterati della prima maniera erano i più. Uno scrittore che si rispettasse non poteva essere che un commensale dei Medici o degli Estensi. E tra un giullare ed un poeta, l'etichetta di quelle Corti non permetteva grandissima differenza.

Nel settecento, il letterato italiano s'emancipò alquanto dai grandi.... forse perchè i grandi si occupavano piuttosto di eserciti che di libri. Ma lo spirito torbido, la smania delle avventure cominciarono ad essere un'altra caratteristica degli uomini di lettere. Comparvero il Gorani, il Casanova, l'eccentrico ed irrequieto Baretti. Vittorio Alfieri, austero nel patriottismo, fece assistere l'Europa allo spettacolo delle sue bizzarre iracondie, de' suoi amori principeschi, de' suoi cavalli inglesi. Ugo Foscolo balzò dalle armi alla cattedra, dalla cattedra al giornalismo, insultando gli avversari, bisticciandosi cogli amici, cospirando, emigrando, giuocando, pronto sempre a pagare di persona, e meno di borsa. Pareva che il privilegio dell'ingegno non potesse allearsi colla dignità della vita.

Il Manzoni ruppe in viso ad entrambe queste biasimevoli tradizioni. Dai grandi non volle accettar nulla, pur riservandosi anche il diritto di dirne bene; le eccentricità romorose schivò accuratamente, chiudendosi nella famiglia o nella biblioteca. Parve quasi voler dimostrare che si può essere un grand'uomo, coricandosi ogni sera nel proprio letto.

Certo, il Manzoni non ebbe questa condotta per un proposito spiccato di pedagogia nazionale. L'ebbe perchè rispondeva all'indole sua; perchè non avrebbe potuto, senza un grande sforzo, fare diversamente. Ma il servigio che vi rende un uomo non è meno grande per ciò che l'uomo ignora perfino di avervelo reso.

Noi italiani avevamo bisogno di questo tipo intellettualmente e moralmente completo. Avevamo bisogno di un letterato che non fosse nè un abate, nè un precettore, nè un accademico, nè un bibliotecario di principi; di un letterato, che respingesse decorazioni, che non facesse duelli, che pagasse i debiti, che non fuggisse colle ballerine, che passeggiasse a piedi, non potendo mantenere carrozza. Irrequieti necessariamente in politica, perchè da secoli ci era negata quella giustizia organica onde gli altri popoli erano provveduti, avevamo bisogno che gli stranieri vedessero in noi, al di fuori della politica, l'attitudine a quella serietà di vita che è l'igiene dell'anima. D'ingegno, tutto il mondo ne riconosceva dovizia all'organismo italiano; era la virtù ed il carattere che ci venivano spesse volte negati. Ora, l'efficacia di una letteratura è quasi sempre in ragione della stima che si guadagnano i suoi sacerdoti; ed era veramente necessario che al Metastasio cortigiano, all'Aretino corrotto e al Tasso nevrotico l'Italia moderna contrapponesse un ingegno maggiore di quelli, e nel tempo stesso educato al più alto equilibrio di tutte le qualità rispettabili.

E non è a dirsi che quest'indole sobria e modesta uscisse nel Manzoni da una mansuetudine disadatta a risoluzioni virili. Se l'opportunità veniva a chiedergli il coraggio nel tranquillo asilo della sua famiglia, ve lo trovava, semplice e vero, come tutte le altre virtù. E quando, per esempio, l'arciduca Massimiliano, principe equo e colto, condannato dalla sorte a missioni impossibili, fece esprimere al Manzoni il desiderio di visitarlo, l'uomo venerando trovò nella coscienza della propria situazione personale e della propria influenza politica l'obbligo di declinare questo atto clamoroso di omaggio; che accettò invece pochi anni dopo dal patriota illustre, tanto benemerito del suo programma unitario, il generale Garibaldi.

Forse che il Manzoni osava poco, opponendo questo rifiuto? Nessuno potrebbe dirlo. L'Austria d'allora era sempre l'Austria, cioè un governo straniero fatalmente costretto a reprimere colla forza ogni parvenza di ribellione politica. Per assai meno di così, Gian Domenico Romagnosi era stato incarcerato; e la sorte di Silvio Pellico dimostra che contro le ragioni di Stato neanche la sovranità dell'ingegno diventava titolo di privilegio.

* * *

Tale fu l'uomo; indagatore acuto dell'età che non vide, educatore austero dell'età che fu sua. Letterariamente, deriva da quel nucleo brillante del Rinascimento lombardo, che dai Verri, dal Beccaria, dal Parini traeva il desiderio e il sentimento del nuovo. Ben presto però si lasciò addietro la nobile schiera e si lanciò d'un balzo agli estremi confini intellettuali del secolo successivo. Politicamente, è un precursore, che nel più fitto dei pregiudizj religiosi e sociali, ha fatto balenare il raggio di luce che doveva illuminare la patria mezzo secolo dopo. Moralmente, è solo artefice di sè stesso, poichè non ha tratto da nessuno dei predecessori suoi quegli elevati criterj della vita, che poi ha diffuso largamente intorno a sè.

Nelle varie e importanti evoluzioni dello spirito suo, il Manzoni non subì mai influenze di fatti o di uomini; le indovinò e le precorse. Cresciuto nei primi anni in un ambiente pedagogico saturo di incredulità religiosa, non tardò a rigettare le dottrine degli enciclopedisti; e proprio a Parigi, dove tanti perdevano la fede, egli la riacquistò. La riacquistò intera e fervente, senza cadere in quegli eccessi di zelo che ai neofiti si sogliono rimproverare. Tracciò a se stesso, e luminosamente, i confini dell'obbligo religioso. S'inchinava al dogma nella Morale Cattolica e ne rigettava le false applicazioni, contrarie alla libertà civile e politica del suo paese.

Aveva cominciato, giovanissimo, a scrivere versi di sapore mitologico e classico. Gli elogi del Foscolo e del Monti non ebbero però efficacia a trattenerlo su quella via. A così grandi autorità poetiche oppose lo schietto e vigoroso istinto che gli additava i progressi dell'arte e le vie dell'avvenire. Si staccò dai maestri senza aver cercato discepoli, e soltanto quando i discepoli gli si affollarono intorno, s'accorse d'essere diventato un maestro.

La stessa indipendenza d'animo lo sorreggeva nelle questioni politiche. Avverso, per dottrina e per esperienza, a dominazioni straniere, aveva firmato nel 1814 la petizione contro il principe Eugenio e firmava nel 1848, durante la fiera mischia delle cinque giornate, la petizione a Carlo Alberto. Ma tre mesi dopo ricusava di sottoscrivere la domanda di fusione colla monarchia piemontese, perchè temeva di recar pregiudizio con essa al suo programma unitario. Nè valsero a rimuoverlo dalla negativa le istanze affettuose del conte Cesare Balbo.

Fu questo complesso di qualità, questo fulgore d'ingegno, questa dignità di carattere che fecero del Manzoni, dopo il 1815, il beniamino di due generazioni. La sua fama aveva presto passate le Alpi. Gl' Inni Sacri erano subito piaciuti al Goethe, che nel 1821 tradusse il Cinque Maggio e ne mandò la versione all'autore. Quando le indiscrezioni degli amici rivelarono che il Manzoni stava occupandosi di un romanzo storico, Victor Cousin ne scrisse in Francia e in Germania, destando intorno al lavoro grande aspettazione. La quale poi fu superata dall'effetto della pubblicazione dei Promessi Sposi nel 1825. Il Giordani, il Leopardi, il Niccolini, il Giusti, il Rosmini ne furono entusiasti. Il Goethe scriveva ad un suo amico: «Manzoni non si mostrò tutto intero che nel romanzo; in esso vi si leva tant'alto, che difficilmente si può trovare opera ed autore che gli stia a pari». L'illustre autore dell' Ivanhoe si recava a Milano appositamente per conoscere l'autore dei Promessi Sposi. E «come il Manzoni modestamente schermivasi dagli elogi, dichiarando non avere fatto col suo romanzo che imitare i capolavori del romanziere inglese, Walter Scott, gli rispose sorridendo: «Vuol dire che i Promessi Sposi sono il mio più bel romanzo».

In mezzo a queste ammirazioni e all'affetto riverente della sua città, passò il Manzoni gli ultimi anni della sua vita, studiando molto, pubblicando poco, non uscendo quasi mai dalla sua villa di Brusuglio o dal suo salotto di Milano. In questo salotto, a cui accorrevano illustrazioni d'ogni maniera, pareva ch'egli solo non fosse un uomo grande, tanta era la sua cordialità, la sua modestia, la timidezza, quasi, colla quale, richiesto, esponeva opinioni sue. Si animava più sovente, parlando dei Longobardi o della lingua italiana o della Rivoluzione francese. Di questa conosceva le più riposte cagioni e i fatti più intimi, rivelatigli dal Sergent, che dimorò lungamente a Milano ed era stato segretario del Robespierre. Dei vantati corifei di quel dramma sanguinoso aveva pochissima stima. Chiestogli un giorno, forse troppo audacemente, quale fosse stato il sentimento più diffuso in Francia durante la Rivoluzione, mi rispose senza esitare: «la paura». Poche pagine di alto valore figurano, su questo argomento, nei suoi scritti postumi. Se non gli fosse mancata, cogli anni, la lena, probabilmente avrebbe dato in Italia agli studj critici su quel movimento, la stessa intonazione che vi diede in Francia Ippolito Taine.

Sventure famigliari funestarono la sua tarda vecchiezza, ma gli furono risparmiate le amarezze dell'ingratitudine e dell'oblio. Pochi uomini anzi scomparvero dalla vita, così largamente e lungamente compianti. I suoi funebri furono solenni pel lutto vero e profondo, di cui volle essere vessillifero un illustre Principe di Savoja. Parve che colla morte di Alessandro Manzoni si lacerasse un titolo di nobiltà per l'Italia. Egli però certamente avrebbe potuto dire di sè: « non omnis moriar ». Lasciava in retaggio al suo paese un patrimonio di virtù, di carattere, d'ingegno, che si traduceva in un beneficio durevole di fede nazionale. Poichè i popoli che, ad intervalli di secoli, producono uomini come Dante, come Galileo, come Manzoni, possono essere alteri della propria costituzione organica e lasciar passare, sicuri dell'avvenire, anche periodi amareggiati dallo scetticismo e dalla volgarità.

L'ITALIA DI STENDHAL

CONFERENZA DI MATILDE SERAO.

Enrico Beyle, detto de Stendhal, nelle sue tre o quattro autobiografie, dice, varie volte, che i suoi sentimenti, legati nelle bianche pagine dei volumi stampati e nelle molte carte dei manoscritti, saranno letti e intesi, saranno, forse, ammirati e amati, questi pensieri e questi sentimenti, dai lettori che vivranno fra il 1880 e il 1900: anzi, nella sua Vie d'Henri Brulard, curiosamente e non senza malinconia, egli cerca immaginare l'anima di questo ignoto e amico lettore, neppure nato, forse, quando egli finiva di scrivere e moriva. E giammai, io credo, vi fu spirito di scrittore così matematicamente profetico: durante la sua vita, non breve, i suoi libri non gli procurarono nè gloria, nè onori, nè pane: la metà, quasi, delle sue opere, è stata stampata molto dopo la sua morte: e la gente di Francia, d'Italia, d'ogni paese ove siano intelletti colti e cuori avidi di sensibilità, non ricerca i suoi volumi che da quindici o venti anni, cioè da quel fatidico 1880, che gli apparve come una promessa di spiritual comprensione. Noi siamo, dunque, i suoi lettori, le intelligenze a cui egli raccomandava i suoi ideali di artista e di critico, gli spiriti a cui egli legava le sue idee di filosofia, le anime a cui egli affidava le sue confessioni di cuore appassionato: e questo testamento, così profondo e così personale, così vario e intanto così assoluto, così austero e così umano, ecco, ha trovato, in tutte le sue parti, migliaia di eredi scossi e commossi. E noi, in ispecie, noi italiani, siamo, dobbiamo essere i suoi lettori più attenti e più devoti: poichè de Stendhal non solo ha preferito di vivere in Italia, ma qui ha preferito di vivere e di amare, non solo ha qui amato e sofferto, ma qui ha studiato, ha pensato, ha scritto: non solo egli ha qui avuto tutte le sue manifestazioni di uomo e di scrittore, ma solo l'arte italiana e la vita italiana sono state materia, forma, sostanza, spirito, idealità della sua opera. Questo paese fu da lui così intensamente ed esclusivamente amato, così illustrato e celebrato anche sovra il suo, anche contro il suo, fu così la fonte di tutte le sue lacrime di entusiasmo come di quelle di dolore, che, egli stesso, lasciò scritte le parole, che desiderava si incidessero sulla sua lapide, al cimitero. Dicono, queste parole: Arrigo Beyle, milanese — Visse, scrisse, amò. Io ho, nel popolare cimitero di Montmartre, or sono pochi mesi, al rond point de la croix, sotto il ponte di ferro, cercata questa lapide, ma non l'ho trovata. Dicono, sia sparita nel 1887. Ma essa vi fu, per molti anni: ma è stampata nei libri. Volle Enrico Beyle, dopo la morte, dichiararsi italiano, ancora, sempre!

* * *

Natura complessa e bizzarra, che raccoglieva in sè le qualità più alte e i difetti più singolari, de Stendhal non poteva che patire moltissimo, nelle sue non lunghe dimore a Parigi, poichè il suo tempo, gli uomini e le donne che lo circondavano, i casi della politica e dell'arte, quando egli fu forzato a vivere colà, erano in aperta e dolorosa contradizione con ogni sua tendenza. Impressionabile e freddo nella apparenza, molto audace nei propositi e timido innanzi alla più piccola difficoltà sociale, appassionato e diffidente al massimo grado di sè e della propria passione, innamorato ardente dell'arte in tutte le sue espressioni e fingendo, per posa, di consacrarsi tutto alla filosofia, brutto e pure dotato di un'anima fulgida come un gioiello, quasi sempre mal vestito, spesso goffo, quasi sempre senza denaro, troppo grasso, troppo piccolo, sempre inceppato in compagnia di donne, nella società francese gli erano riserbate una serie di delusioni amare, di punture acute e nascoste, di umiliazioni che egli divorava, spesso, piangendo, nella sua stanza povera e fredda, dove non aveva, in gioventù, neppure un po' di legna da gittare nel caminetto. Gli uomini di talento a cui egli si accostava, non lo intendevano, giacchè egli non osava parlare, quasi, nella loro presenza, giacchè egli non sapeva o non poteva neppure esprimer loro la sua ammirazione: ed erano, anche, scienziati gravi e pedanti, a cui le sue idee originali avrebbero fatto orrore, erano degli storici zeppi di pregiudizii a cui i criterii già larghi del giovane Beyle, sarebbero parsi una follia pericolosa, erano giuristi e legislatori e filosofi che aborrivano dall'arte, poichè, nel 1800, l'arte in Francia non aveva avuto ancora tempo di risorgere, dalla grande crisi del 1789. Gli sciocchi, poi, a cui egli diceva irritato delle misteriose impertinenze, lo guardavano con sospetto e con disprezzo, incapaci di misurarne il valore che, del resto, egli non si curava di manifestare; e la sua collera gli faceva imporre agli imbecilli solo le stranezze del suo temperamento e della sua vita, per cui, spesso, fu colpito dalle più odiose calunnie. Ma quelle che maggiormente lo trascuravano, lo burlavano, lo disprezzavano, erano le donne francesi, grandi signore e attrici, aristocratiche del secondo stato o aristocratiche del terzo stato; le donne, proprio le donne, che egli, fino dall'adolescenza non aveva potuto incontrare senza turbarsi, non aveva potuto guardare senza commuoversi, con cui non aveva mai potuto scambiare dieci parole, senza sentirsi preso e innamorato: le donne, proprio le donne, che erano per lui il segreto della felicità, il fàscino della vita, la finalità di ogni passione, dopo esserne stata la sorgente: le donne, proprio quelle donne a cui egli dedicava o cercava dedicare tutti i più puri fiori della sua sensibilità, a cui egli offriva o cercava di offrire i saporosi frutti della sua intelligenza: le donne per cui gli sarebbe piaciuto di esser bello, nobile, ricco, glorioso, per vivere con esse in comunione sensuale e sentimentale. E invece dalle sue memorie, dalle sue lettere, dal suo giornale, dai suoi ricordi, appare un seguito di piccole e grandi lotte con queste creature belle e civettuole, aggraziate e frivole, seducenti e mendaci, capaci di sentire una simpatia ma incapaci di abbandonarsi al vortice di una passione, che non lo comprendevano, non lo apprezzavano e, spesso, gli preferivano apertamente uno stupido meglio vestito di lui, un vecchio ricco che comperava loro dei gioielli, il loro maestro di spinetta o, peggio, il loro sarto. Quante ansie perdute, quante aspettative deluse, quante violente iniziative inani, quante figure ridicole, sì, proprio ridicole, come egli lo confessa, gli hanno procurato, i suoi amori, nel bel paese di Francia! Come quelle gentili e irresistibili donnine si giuocavano di lui, lo tenevano sospeso fra la speranza e la collera, come gli facevano sospirare, per giorni, per settimane, per mesi, le più piccole soddisfazioni della tenerezza, dell'amore! Egli era l'uomo che, nel silenzio della sua cameretta, meditava l'esplosione della sua passione ardente, la quale frantumasse le resistenze di quelle creature: ma giunto innanzi alla porta della bella, innanzi a un sorriso beffardo, tutto il suo mirabile coraggio cadeva, il suo cuore si ghiacciava ed egli appariva taciturno, imbarazzato, spesso grottesco. Tesori di amore erano nascosti in quella grande anima di appassionato: ma egli non sapeva versarli nelle parole e nell'espressione, nè quelle donne sapeano ritrovarli, da loro, mai. De Stendhal abborriva da ogni querimonia, egli non si è mai confidato con un amico sui suoi amori e sui suoi dolori, ma, ogni tanto, fra la vivacità ironica dei suoi ricordi, scritti per l'amico lettore di cinquant'anni dopo, sorge questo grido doloroso: Que je souffre, de n'être pas deviné!

Così in una società come quella francese del principio del secolo, in cui tutte le tradizioni artistiche erano spezzate, quasi morte, de Stendhal dovea sanguinare nel suo profondo entusiasmo per la beltà delle arti: in una società che ancora non ritrovava il suo assetto scientifico, dopo lo sforzo immane dei filosofi dell'Enciclopedia, e che guardava con sgomento qualunque spirito libero che oltrepassasse il suo tempo, le idee avanzate di Stendhal lo dovevano indicare come un mostro, sono le sue parole: in una società di salone dove, respirando di sollievo per la fine del tragico sogno dell'ottantanove, non si chiedeva che il brio esteriore, che lo spirito di botta e risposta, che la grazia tutta formale della conversazione, il povero Enrico Beyle dovea subire le più amare mortificazioni, poichè egli era infelicissimo nel comunicare le sue idee, poichè mancava dello spirito di salone, poichè aveva troppo talento per saper conversare bene. Egli segna come un giorno glorioso, forse, un sol giorno, in cui, in società, indossando un bel vestito, possedendo del denaro in tasca, avendo ben pranzato, egli ha potuto esser brillante in conversazione, dicendo, almeno una parte, delle idee che tumultuavano in lui, in una forma comprensibile ed elegante! Il grande Stendhal, quest'uomo di genio, come lo chiama Onorato di Balzac, costretto dalla società in cui viveva, a mendicare la rarità di un successo di salone!

Ebbene, come non doveva quest'anima così singolare di uomo e di scrittore, non delirare di gioia, toccando il sacro suolo dell'Italia e come non doveva egli, per sempre, adorare questo paese, coi termini di dilezione più amorosi che sgorgarono mai dalla bocca di un innamorato? Che trovò egli, in Italia, Enrico Beyle, nelle tre volte che vi si recò e vi rimase per anni e anni, dal 1800 al 1835? Anzitutto, egli vi ritrovò quella immutabile e indicibile beltà delle cose che incanta e trasporta tutte le immaginazioni esuberanti come quella di Enrico Beyle, giacchè nella sua apparente durezza scientifica, nella sua freddezza di stile, egli nasconde e male nasconde una ricchezza di fantasia sempre vibrante: egli ritrovò quella Terra della Beltà, che a traverso tutti i secoli, a traverso tutti i fatti umani, prenderà e non lascierà più i suoi sorpresi visitatori: e il povero giovanotto che aveva passato l'infanzia in uno dei più brutti paesi di Francia, come Grenoble, che aveva trascorso l'adolescenza e la prima giovinezza tra il fango di Parigi dove trascinava le sue scarpe rotte, sotto la pioggia, al freddo, in una soffitta gelida, in vista dei centomila fumaiuoli neri parigini, sentì, per la prima volta e indimenticabilmente, la dolcezza di un paese pieno di azzurro e pieno di sole. Egli trovò, ancora, un paese dove nessun uomo, nessun caso, nessuna rivoluzione e nessuna tirannia, eran giunte a vincere il trasporto della folla per l'arte, tanto che lo straniero il quale era andato, nella mattinata, ad ammirare le nobili divine figure di Raffaello, potea, la sera, fremere di dolcezza e di gioia per la musica, in un bel teatro, dove si cantava con magistero e con sentimento. In fondo, nei primi trent'anni del secolo nostro, molti e tumultuosi avvenimenti aveano sconquassati gli stati italiani: e rivoluzioni, e repubbliche, e carceri, e tiranni, e vittime, si erano alternate o moltiplicate, dappertutto, in lunghe convulsioni, spesso tragicamente risolute, nella oscurità di una fortezza, sul palco del patibolo. Ma, in mezzo a questo, resisteva il gusto indomabile degli italiani per i ritrovi di arte, per i teatri, per gli spettacoli, per i giuochi: ma le signore milanesi, fra Napoleone e l'Austria, fra i fatti del principe Eugenio e il carcere duro di Josephstadt, non mancavano mai di andare alla Scala, di applaudire Paër e Rossini, di sorbire un gelato, chiacchierando vivacemente e amoreggiando; ma a Napoli e a Firenze, a Roma e a Bologna, nelle più irose vicende e nelle più placide, fra i complotti e le restaurazioni, una nuova statua, un nuovo quadro, una nuova musica, un nuovo artista, rappresentavano sempre un avvenimento eccezionale, a cui si appassionavano anche i più accaniti congiurati o i più freddi tiranni. L'anima di Enrico Beyle, in un paese così bello, dove un semplice piacere estetico degli occhi o dell'udito valea una vincita alla borsa e, magari, la vincita di una battaglia, in questo paese, quell'anima calda di poeta e di artista, dovette provare una dilatazione così felice, dovette godere così profondamente, da non potere più concepire di esser felice, altrove. Un duetto di Cimarosa o una preghiera di Rossini, una statua di Canova o una espressione di Giuditta Pasta imprimevano tale esultazione gioconda al suo spirito che egli giunge, nelle sue pagine, pur così serrate, così concise, così marmoree di stile, a versare fiumi di tenera eloquenza. I quattro volumi, Histoire de la peinture en Italie; Rome, Naples et Florence; Promenades dans Rome e la Vie de Rossini contengono tutta la spiegazione della magia ineluttabile che l'arte italiana, quella degli antichi e quella dei contemporanei di Stendhal, esercitò sovra una mente così aperta a tutte le nobili forme del Bello. Chi legge quelle pagine può riscontrarvi, forse, qualche errore in fatto di storia d'arte, ma egli non era, Dio mercè, un arido ricercatore di antichità: può ritrovarvi, è vero, qualche errore di gusto, ma dovuto alla sua eccessiva ammirazione: può trovarvi qualche giudizio bislacco, ma vi troverà sempre il più costante entusiasmo!

E, in ultimo, quella che legò a sè, con tutti i vincoli dell'affetto, il cuore di de Stendhal, fu la vita italiana, fu l'insieme dei suoi costumi e delle sue consuetudini, in quel tempo. Che importava, infine, a un uomo che detestava la politica e che, nella sua vita, avea ammirato solo Napoleone primo, che potea importare quella faccia penosa e triste della medaglia, che era la vita politica d'Italia, allora? Egli ne vedeva e ne godeva solo la faccia migliore: cioè la facilità dell'esistenza, cioè la bonomia cordiale degli uomini e la grazia languida delle donne, cioè il modo di viver bene, con pochi denari, con qualche relazione, con qualche amicizia, con un'innamorata italiana, che italianamente amasse. Questo fu l'ultimo tratto che sedusse il cuore di uomo di Enrico Beyle, questo affare dell'amore italiano, che era proprio la grande occupazione, il grande affare, la grande affaire degli uomini e delle donne, allora! Ciò che egli avea sempre pensato e sentito, dell'amore, che giammai avrebbe osato di dire in Francia, questa ricerca di un amore-passione che occupasse i sensi e lo spirito, che trasformasse i caratteri e facesse trionfare il temperamento amoroso, che dominasse non solo gli uomini e le donne, ma il loro destino, questa passione che gli scettici francesi e le beffarde francesi avrebbero chiamato pazzia, deridendola, gli parve, come era, il sostrato delle relazioni sociali in Italia. Le curiosità gentili dei primi incontri, le ansie delle prime speranze, le emozioni dei primi favori; le lacrime e i furori della gelosia, i trasporti profondi delle anime che già si erano intese, i contrasti che frappone la società, tutti i grandi abbandoni e insieme tutti i grandi errori, tutti i peccati e, persino tutti i delitti e tutte le espiazioni, de Stendhal li ritrovò nell'anima amorosa italiana, dovunque lo portasse il suo pellegrinaggio. Questa passione che, partendo talvolta dal capriccio sale sino alla tragedia, egli la lesse negli occhi delle donne italiane e la sentì tremare di commozione, nella voce degli uomini italiani: questa passione che colora di vivo le esistenze più scialbe, che dà forza e ardore anche ai non più giovani, che ridà il senso della vita persino al prigioniero sepolto in fondo a una cittadella, che passa dal bacio al pugnale, che ispira divinamente la più ignorante creta femminile e che redime la più nera anima maschile, questa passione che fa dimenticare tutto, anche la oppressione di un principe tiranno, anche l'esilio in un castello deserto, anche la miseria in un borgo selvaggio, anche la perdita degli onori e degli averi, questa passione egli la scoverse nel cuore italiano, più vivida, più tenace, tanto più ostinata, quanto più i fati della politica erano avversi! Il passionale uomo che non aveva mai versato una lacrima innanzi a una donna francese, senza vederla ridere, ha potuto amare tre anni Matilde, a Milano e a Firenze, essendone amato, e non possedendola mai, e perdonandole il suo diniego, poichè ella gli aveva dato tutta la sua anima, e avea sofferto con lui, e aveva saputo amare, soffrire, morire di ciò, così, come una creatura di passione muore! Questo tenerissimo uomo, abituato a celare accuratamente tutte le sue tenerezze, nel suo paese, ha potuto trovare in Italia delle amiche tenere e compassionevoli, delle protettrici amabili e affettuose, delle donne, infine, non tutte belle, non tutte giovani, non tutte perfette di carattere, ma tutte accessibili ai sentimenti più dolci che legano i cuori, ma niuna dura e niuna crudele! Così, se il suo intelletto di scrittore sentì il soffio del genio italiano nelle lettere, se la sua fantasia potè appagarsi nelle lusinghe dell'arte antica e moderna, la sua anima chiusa sotto i sette suggelli del mistero, potè fiorire, liberamente, al calore dell'anima italiana; e dalla sua penna escì quella Chartreuse de Parme dove è scritta la storia mirabile di queste due anime, quella di un genio e quella di un paese.

* * *

Le pochissime persone che lessero, in quel tempo, quel magnifico romanzo che è La Chartreuse de Parme, sostennero che le tre figure principali di questo libro, il duca di Parma, la duchessa di Sanseverino e il conte Mosca della Rovere, fossero tre ritratti. Nella dolce e superba donna che è Gina Pietranera, nella nobiltà intellettuale della sua natura e nella varietà delle sue avventure, nei suoi successi amorosi e nelle sue sconfitte, fu indicato il nome di quella principessa Cristina di Belgioioso che raccolse tanti suffragi di ammirazione dai letterati francesi per la sua bellezza, la sua grazia e il suo spirito. Nel duca di Parma parve adombrato il duca di Modena, con le sue crudeltà e con le sue grandezze, con le sue ambizioni di diventare il re dell'Italia settentrionale e la sua paura dei liberali, col suo senso ereditario del regno assoluto e col suo vago desiderio di più libere riforme politiche, con la sua smania d'imitare Luigi XIV e le grettezze di uno spirito chiuso nella sua capitaletta di provincia. Nel fine e focoso conte Mosca della Rovere, si disse, allora, che fosse data la fisonomia morale del principe di Metternich, di quel diplomatico che resse la politica europea con una forza e una ostinazione fredda velante un temperamento caldo e impetuoso.

Chi lo sa, se Enrico Beyle ha avuto questa intenzione, scrivendo il suo libro! Chi lo sa! Spesso, bene spesso, un romanziere di grido, in un romanzo che solleva la curiosità, è accusato di aver copiato perfettamente dal vero un uomo, un caso, un ambiente: e il romanziere si difende sì e no, da quest'accusa che, talvolta lo sorprende, talvolta lo lusinga. Il romanziere si meraviglia, perchè, spesso, egli fu incosciente in questa rassomiglianza, e il pubblico che gliel'addita gli rivela qualche cosa che egli non sa, della sua opera: se ne lusinga, poichè l'accostarsi al vero, è un grande elogio per tutti gli adoratori della verità. Ma egli stesso, diciamolo, non è mai certo di quel che ha fatto; egli stesso si rammenta, di esser partito, forse, da un personaggio noto, da un fatto avvenuto, ma sa di aver quasi sempre deviato, nel suo lavoro, ma riconosce di essere giunto a un fine ben lontano dal principio. Il romanziere ha potuto vedere un'anima e un volto, nel mondo, da cui la sua arte ha potuto trarre espressione e senso: ma dopo il primo accenno di realtà, il fantasma si fa artistico, il fantasma vive, ama, soffre, muore, in una esistenza tutta sua, tutta personale, il fantasma è già un'altra persona e un'altra cosa. Ah diciamolo con cuore umile e contrito, tutti coloro che narrano le storie umane, non possono che narrarne quanto maggiormente si può, di verità, ma tutta la verità, mai! Tutti coloro che dipingono il cuore di un uomo, l'anima di una donna, fosse quella della persona con cui più vissero e che più fu loro nota, fosse la loro anima e fosse il loro cuore medesimo, potranno dire la verità sino ad un certo punto; più in là, no, mai. Ogni individuo, il più semplice, porta in sè un segreto, un segreto qualunque, che niuno conoscerà, giammai: ognuno di noi nasconde a sè stesso, nelle latebre dello spirito, un segreto latente, un segreto di cui sente il peso, ma di cui non afferrerà giammai la fisonomia e l'entità. Che pensiamo noi, dunque, di verità assoluta, nell'arte e nella vita? Perchè ne abbiamo parlato, orgogliosamente? Perchè abbiamo insultato i fantastici, i sognatori, gl'irreali? In che differiamo noi da loro, se non per una linea? Il patrimonio della verità, in fatto di anima umana, di quanto, mai, si è aumentato, per noi? Di poco: e anche di poco, nel tempo, più tardi, esso si verrà aumentando, per altri sacerdoti, come noi coscienziosi, ma come noi impotenti innanzi al mistero dello spirito, sterili nello sforzo: e quando ogni memoria più lontana di noi e de' nostri nepoti sarà scomparsa, quando milioni di giri, ancora, avrà fatto la Terra intorno al Sole, il segreto dell'anima umana sarà ancora vivo e oscuro, forte e inviolabile!

Al protagonista giovane della Chartreuse de Parme, a quel simpatico e bizzarro Fabrizio del Dongo, è stato attribuito di essere il ritratto di Enrico Beyle: difatti, qua e là, i casi di quel patrizio lombardo, che assiste così ingenuamente alla battaglia di Waterloo, che ha per maestro un canonico astrologo, che ama chi non lo corrisponde e non corrisponde a chi l'ama, rassomigliano vagamente all'avventurata vita di de Stendhal, ma poco! Niente più di un poco: anche sotto la penna di uno degli scrittori più sinceri e più leali, più estremi ed eccessivi, nella sincerità e nella lealtà! Ma sia come si voglia! Abbia voluto il Beyle, in parte, dipingere Cristina di Belgioioso, il duca di Modena, il principe di Metternich e sè stesso nella Chartreuse de Parme, o non vi abbia neppur pensato, ciò poco importa. Il protagonista vero di questo romanzo è la vita italiana, non solo quella privata, ma la vita pubblica mescolata con quella privata, non solo la istoria degli amori di Gina Pietranera, contessa di Sanseverino col conte Mosca, non solo la istoria degli amori di Fabrizio del Drago con Clelia Conti, ma, in questi amori, tutta la esistenza di una corte italiana di quel tempo, tutti i costumi della nobiltà e del popolo, tutte le idee e tutti i sentimenti che agitavano i cervelli e i cuori in quel tempo. Volle Enrico Beyle narrare una storia di passione, solamente, forse, ma nella potenza geniale della sua mente il quadro si allargò, prese le proporzioni di un grande affresco, pieno di figure, pieno di movimento, pieno di significazione. Tutto ciò che è sparso, per altri libri suoi e non suoi, tutto ciò che egli aveva già detto, altrove, in volumi di arte e di critica, d'impressioni e di ricordi, tutto ciò che altri autori diffusero con la loro opera, e che il lettore dovrebbe ricercare in cento libri diversi, si è raccolto e chiuso nella Chartreuse de Parme. Il genio di Stendhal ha riassunto, nelle quattrocento pagine di questo romanzo, tutta l'Italia dal 1815 al 1830, in una narrazione così evidente, così efficace, così colorita e salda che il titolo di romanzo è troppo modesto, per tale sintesi profonda e sagace, per tale potenzialità di espressione. Onorato de Balzac dice che, nel duca di Parma, gli è sembrato di vedere riapparire Il Principe di Niccolò Machiavelli: ma se tale giudizio può parere troppo esagerato, certo è che Ranuccio Ernesto quarto, è il simbolo di quel che furono i signori degli Stati Italiani di allora, un simbolo senza velo, tanto la virtù e i vizii di quei padroni del nostro paese, vi sono chiari e palesi. Basterebbe questo personaggio, solamente, per dire a noi che fosse la politica di quello strano periodo, dove già fremevano sordamente le rivolte degli spiriti innamorati della libertà, dove i principi impiccavano, ogni tanto, qualche liberale, ma lo ammiravano, in segreto e in segreto, forse, lo invidiavano, dove Palla Ferrante, l'apostolo della democrazia nella Chartreuse de Parme, espone la sua vita per una donna e per un'idea, ma dove la storia ci narra che persino un principe volle essere un carbonaro, un cospiratore. Basterebbero le relazioni bizzarre di Ranuccio, duca di Parma, col suo primo ministro Mosca della Rovere, per dirci tutto il potere che esercitavano e non solo nel settentrione d'Italia, questi ministri, questi diplomatici sui loro sovrani: e i capolavori di talento, di finezza, di furberia che essi mettevano al servizio della loro fortuna e di quella del loro piccolo Stato. Ora, la diplomazia è diventata un vano nome, in questo mediocre tempo moderno: ma la diplomazia italiana della prima metà del secolo, che annoverò i più illustri uomini del nostro paese, che fu una lotta perpetua dell'ingegno e della genialità politica, a Napoli, a Torino, a Modena, a Firenze, questa diplomazia che, celebrò nella realtà il genio di Machiavelli, ha trovato il suo pittore in Enrico Beyle e la sua maggior figura in Mosca della Rovere. Basterebbero le figure della principessa di Parma e del principe ereditario, della favorita del principe e della marchesa Roversi, capo del partito di opposizione, basterebbero quelle subitanee disposizioni e quegli improvvisi favori, basterebbero quegli intrighi, quei raggiri, quelle vendette oscure, quelle mène, quei lavori sotterranei dell'ambizione, della vanità, della cupidigia, che balzano, vive, dalle pagine del romanzo di Stendhal per dirci quello che in ogni corte italiana formasse il sostrato umano della politica.

Basta, certo, basta, il carattere di Fabrizio del Dongo per dirci lo stato miserrimo della gioventù italiana, in quel tempo, in cui tramontato il grande sogno di eroismo, con Napoleone, non restava nulla da fare ai pigri e ai deboli, salvo che essere un bellimbusto nei caffè e nei saloni, avere un cavallo inglese e un'amante con un bel titolo: anche ai forti e ai volenterosi, tutto era chiuso, ogni via di celebrità e di grandezza era tolta; salvo, che nel clero. Ai giovani italiani, ai giovani nobili restava scegliere fra il servire dei governi che aveano ucciso Napoleone Bonaparte, o esiliarsi in America, dove non vi erano nè arte, nè beltà, nè amore per essi, dove avrebbero dovuto servire la democrazia invece che la tirannia; e solo la Chiesa in Italia, per iscampo, apriva loro le braccia, solo la potenza ecclesiastica li poteva trarre da queste abbiezioni. È un cattivo prete, monsignor Fabrizio del Dongo, innamorato di Clelia Conti, ma meglio questo che rovinarsi al giuoco, che far la spia all'Austria o riverire il dio Dollaro americano. In Francia, Alfredo de Musset, dirà tutto il dolore della gioventù francese, ridotta a darsi al vizio, dopo Napoleone, per la morte di tutti i più alti ideali, nella sua Confession d'un enfant du siècle: la miseria morale, la tristezza sentimentale della gioventù italiana la dirà, con de Stendhal, Fabrizio del Dongo, costretto a entrare nella prelatura, per salvarsi dalla corruzione e per non derogare dal suo grado.

E basterebbe, infine, per dire che fosse la donna italiana di quei tempi, Gina Pietranera contessa di Sanseverino. Deliziosa creatura! In lei tutto è impulso naturale, tutto è forza di intelligenza, di spirito, di finezza che si manifestano in tutta la sua tumultuaria esistenza: ella è la figliuola di sè stessa, cioè del suo temperamento focoso e dolce, del suo carattere generoso e spontaneo, del suo istinto, che l'allontana da quanto è volgare e da quanto è basso. Ma non è un angelo, è una donna: talvolta ella va sino a essere un demonio, ma rimane sempre così alta e così dignitosa, da stupire persino i suoi accusatori. Ella è una feudataria nel suo castello, una dama nel suo salone, una donna nella sua alcova, una femmina, giammai: ella può abbandonarsi all'amore, alla gelosia, al dolore, al delitto, ella è una signora, sempre, e vi è della grandezza, in lei, persino nei suoi atti più civettuolamente muliebri. Ella è la trionfatrice alla corte di Parma, poichè niuna donna vi è più di lei bella, graziosa, spiritosa, fiera e indipendente: ella ha ai suoi piedi il principe e il primo ministro, il governo e l'opposizione, le dame e il popolo, nulla manca alla sua gloria. Ma.... ella è donna, ella ama suo nipote Fabrizio del Dongo, di un affetto estremo che, forse, è amore: ma suo nipote appare, suo nipote che è il suo debole, suo nipote che è il difetto della sua corazza. È allora che le qualità morali di questa splendida donna arrivano all'apogeo della loro forza: è allora che tutto, in lei, serve a salvare suo nipote e a collocarlo nella braccia misericordi della Chiesa: è allora che ella combatte le sue più grandi battaglie, prima con sè stessa, poi col conte Mosca suo amante, poi con tutto il Ducato di Parma, dal principe all'ultimo servo. Ella fa della politica, ma perchè ama: ella fa della diplomazia, ma per amore: ella giunge ad uccidere, ma per amore! Una divina ragione è nella sua esistenza: per essa, ella sarà buona e cattiva, leale e falsa, civettuola e altera, fredda e furibonda, giovane e vecchia, nobile e plebea, coraggiosa come una leonessa e feroce come una pantèra, tutte queste cose insieme, in un tumulto dei sensi e del cuore che solo la sua volontà può dominare. Che le importano il nome, la fortuna, il potere? Ella non è una donna vanitosa, ma una donna innamorata: ella non cerca nulla per sè, anzi, tutto vuol dare, perchè ama. Giammai la passione, non confessata neppure a sè stessa, non corrisposta mai, ebbe simile potenza, e slanciò l'anima femminile ad altezze tanto inaccesse, come in Gina Sanseverino: giammai la passione di amore, in un cuore di donna trovò un artista che ne rendesse la fiamma divoratrice, così! Badate, ella non è una pazza, non è una forsennata: nei maggiori impeti ella conserva la sua lucidità di mente, la sua finezza, la sua energia. Come tutte le donne di nobile temperamento, ella si fa più grande nel pericolo: e più grande di sè, anche, e più grande del vero, anche, ma non importa, poichè è un divino raggio di poesia quello che la trasforma e la illumina, creatura dell'arte e dell'amore, fatta sublime dalla mano innamorata di un artista passionale, di un poeta!

* * *

Ed è, certo, in un'aureola di poesia che l'Italia ci appare nei libri di Enrico Beyle, anche quelli che vogliono parere i più matematici, i più assiomatici; è in un nimbo d'oro che il bel paese ci sorride, da quei libri: come egli lo ha visto, come lo ha sentito, come lo ha adorato, così esso vive e c'interessa e ci commuove, da quelle pagine. Noi, forse, ce ne meravigliamo un poco: non vogliamo dirlo, ma egli ci sembra eccessivo, nella sua adorazione. Ah come siamo stanchi, noi, di avere intorno troppo belle cose, come ci hanno esausti, questi cieli azzurri, come ci hanno sfinito e nauseato queste carezze dell'aria! Ah noi non abbiamo più occhi per vedere le immortali linee e i colori che ci lasciarono i nostri antichi e le nobilissime espressioni dei volti umani e divini; noi non abbiamo più orecchie per deliziarci dei suoni di una lingua soavissima, fatta per la poesia e per l'amore; noi siamo ciechi e sordi e ottusi, e gli entusiasmi di Stendhal ci stupiscono segretamente. Poveri, poveri noi, se non vediamo il paese nostro come egli lo ha visto, in mezzo alle vicende amare del principio del secolo, ma bello, ma giovane, ma lieto, ma amoroso, ma capace di vivere per un puro sogno e di morire per un nobile sogno: poveri noi, se l'Italia idolatrata da Stendhal, non è anche la nostra Italia! Vorrebbe dire che ogni vivo zampillo di poesia è inaridito in noi, che ogni trasporto del sentimento lascia inerte il nostro cuore, che ogni slancio della nostra fantasia è spento, nel torpore ultimo: vorrebbe dire che non meriteremmo più nè di vivere, nè di amare, nè di morire, qui: vorrebbe dire, che la nostra patria dobbiamo lasciarla adorare agli stranieri. L'Italia di Stendhal? Io ho detto male: dovevo dire l'Italia di tutti gli uomini di genio, di tutti gli artisti, di tutti i poeti, di tutti i sognatori, di tutti gli amanti! L'Italia di Stendhal? Doveva dire quella di Wolfango Goethe che, perseguitato dal fantasma sanguinante del giovane Werther, sotto l'incubo del suicidio, venne in Roma a guarirsi di quell'atroce malattia che è l'amore della Morte e ritornò più sereno, più forte, più olimpico al suo Weimar; dovrei dire quella di Giorgio Byron che fuggì il pallido suo paese nordico e i gelidi amori di Britannia, venendo in Italia a cercare fiamma al suo genio e alla sua passione; dovrei dire l'Italia di Percy Shelley che qui volle vivere, sulla spiaggia del Tirreno, sparendovi quale un antico Iddio, perendo sul rogo come un antico eroe; dovrei dire l'Italia del povero usignuolo ferito che fu Alfredo de Musset, che non potea sentir il nome del nostro paese, non potea pronunziarlo, senza che sgorgasse come un grido, la lirica dal suo cuore! Sempre, sempre, nel secolo scorso e in questo secolo, in tempo di tirannide e in tempo di libertà, nelle ore buie e nelle ore gioconde, questa Italia sarà amata così dagli uomini che hanno qualche cosa dietro la fronte, qualche cosa nel cuore. Questi pellegrini della tristezza o della felicità scenderanno sempre tra noi, ora, più tardi, molto più tardi, a cercare sollievo, beatitudine, estasi in questo paese nostro; e il loro pensiero si farà più alato nei cieli spirituali, e la loro anima proverà le ebbrezze supreme. Finchè vi sarà al mondo un poeta, egli verrà qui e i suoi occhi mortali vedranno il mirabile spettacolo come de Stendhal lo vide; finchè vi sarà al mondo un'anima innamorata, come la povera fanciulla di Wilhelm Meister, per amare e per morire; finchè le squisite gioie dello spirito e le alte vampe della passione alimenteranno e consumeranno l'anima umana!

VOLTA E LE SCOPERTE SCIENTIFICHE

CONFERENZA DI GIUSEPPE COLOMBO.

L'alba del secolo XIX è stata segnalata da due avvenimenti che dovevano produrre nelle condizioni economiche e sociali del mondo civile la più grande rivoluzione che la storia abbia registrato finora: questi avvenimenti furono l'invenzione della macchina a vapore e la scoperta della pila.

Il giorno in cui un uomo di genio, rimasto sconosciuto, in un'età remota, alla quale non si può assegnare una data precisa, pensò di utilizzare la forza dell'acqua, e sostituendo per la prima volta una forza naturale a quella dell'uomo, costruì la prima mola da molino, nacque, si può dire, in germe l'industria moderna. Fu quindi con una chiara divinazione dell'avvenire che il poeta Antiparo, con quella geniale fantasia greca che popolava di divinità il cielo, le acque e le foreste, si rallegrava che Cerere avesse incaricato le Najadi di risparmiare il lavoro alle giovani schiave: «invano il gallo annuncierà l'alba; voi, fanciulle, non interrompete i vostri sonni. Cerere ha incaricato le Najadi di lavorare per voi. Vedete come folleggiano, come danzano agili e brillanti sulla ruota che gira.»

Pure, l'invenzione cantata da Antiparo, non ha risparmiato a Plauto il duro lavoro di girare la macina, per quanto fosse autore di commedie celebrate; poichè l'industria antica poco o nulla si valse di quell'invenzione e poco se ne valse anche quella dei secoli che vennero dopo. La forza dell'acqua, infatti, non è disponibile che in determinati luoghi, lungo le alte valli, spesso poco accessibili e lontane dai centri abitati; e non è suscettibile di essere trasportata a grande distanza per supplire alle necessità industriali delle grandi agglomerazioni umane. Molto meno quindi essa avrebbe potuto bastare al colossale organismo della manifattura moderna.

Per questo ci voleva un motore universale che potesse funzionare dovunque, in un opificio, o in mezzo ai campi, a bordo di una nave, o in testa a un convoglio, come la macchina a vapore; oppure una nuova forma di energia, che fosse capace di essere trasportata a grandi distanze, come l'energia elettrica. Or bene: e l'una e l'altra si annunciano precisamente al principio del secolo.

Veramente i primi studi di Watt sulla macchina a vapore datano dal 1765; ma ci vollero quasi 35 anni di tempo e dodici processi prima che i suoi brevetti fossero riconosciuti; si vede che la burocrazia d'allora non aveva nulla da invidiare a quella d'oggi. Fu dunque solo nel 1799 che egli e il suo socio Foulton furono messi nel legale possesso dell'invenzione, e fu nel 1800 che essi consegnarono ai loro figli la prima fabbrica di macchine a vapore. Ed è nel 20 marzo dello stesso anno che Volta scriveva da Como la sua celebre lettera a sir Joseph Banks, presidente della Royal Society di Londra, nella quale per la prima volta è descritta la pila; e il 6 novembre egli stesso presenta la sua pila a Parigi all'Istituto nazionale di Francia e la fa funzionare sotto gli occhi del primo Console.

La macchina a vapore era preconizzata da un secolo; ma l'invenzione della pila fu un avvenimento inatteso, che scompigliò tutte le idee accettate sino a quell'epoca nel mondo scientifico. E se la macchina a vapore può darsi il vanto di aver creato l'industria del secolo XIX, la pila di Volta rimarrà pur sempre, fra tutte le invenzioni di quel tempo e anche fra quelle che vennero poi, le più feconda e la più universale per la sfera quasi illimitata delle sue applicazioni.

Nessuno studio anteriore, neppur le celebri esperienze di Galvani, potevano far presagire la pila: ma l'ambiente scientifico era preparato, gli spiriti erano eccitati e quasi in attesa di una grande scoperta. Giammai, forse, la storia della scienza ha offerto un periodo così ricco di studii, di esperimenti e di scoperte, in cui fosse così ardente la ricerca del vero, come quello col quale si chiude il secolo XVIII.

In quel periodo nasce la chimica moderna con Priestley, che scopre l'ossigeno, e con Lavoisier, che spiega il fenomeno della combinazione dell'ossigeno cogli altri corpi della natura. Mongolfier tenta il dominio dell'aria e Tiberio Cavallo, proponendo l'idrogeno invece dell'aria scaldata delle mongolfiere, preconizza l'aeronautica moderna; il cavaliere Andreani a Milano fa il primo viaggio aereo in Italia, e l'italiano Lunardi fa a Londra la prima ascensione in Inghilterra. Volta col suo elettroforo desta la meraviglia ovunque lo porta, a Losanna, a Magonza, a Berlino, a Parigi; i dotti ne sono entusiasti, i principi lo applaudono. Franklin, mentre validamente coopera all'indipendenza dei nuovi Stati Uniti e corre da Filadelfia a Parigi, studia l'elettricità atmosferica e inventa il parafulmine, ispirando a Turgot il famoso verso:

Eripuit cœlo fulmen, sceptrumque tyrannis.

Il padre Beccaria di Torino corrisponde con lui e dà coi suoi esperimenti una base solida alla teoria dell'elettricità atmosferica, mentre Volta ne rintraccia la causa nell'evaporazione dell'acqua con esperienze fatte da lui a Parigi coi suoi apparecchi, presenti Lavoisier e Laplace.

Agli studi di Priestley sull'ossigeno seguono quelli di Volta sul gas delle paludi e sull'idrogeno, o come allora dicevasi, l'aria infiammabile. Il padre Campi lo aveva invitato a esaminare le fontane ardenti a Velleia e in altri posti dell'Appennino. Volta percorre i luoghi e sui risultati delle sue ricerche scrive al padre Campi sette lettere interessantissime nelle quali agli astrusi concetti della scienza alterna citazioni di Plinio, di Virgilio e di Lucrezio, e parlando del colle di San Colombano non sa trattenersi dal citare il Redi che lo vanta come un luogo famoso pei suoi vini:

Ove le viti in lascivetti intrichi

Sposate sono invece d'olmi ai fichi.

Eran tempi felici, nei quali gli spiriti più elevati si compiacevano di temperare la scienza colla letteratura: ma allora non si spegneva l'immaginazione nei giovinetti con studi scientifici prematuri. Si insegnavano i classici, e questi non impedivano a Volta di scoprire la pila; come l'aver scritto in gioventù un carme in onore della prima ascensione di Saussure al Monte Bianco non gli impediva d'inventare l'eudiometro, proclamato da Humboldt e da Gay-Lussac il migliore apparecchio d'analisi dell'aria, nè di precorrere di nove anni Dalton e Gay-Lussac scoprendo, con un apparecchio che tuttora si può vedere fra i suoi cimelii a Milano, la legge di dilatazione dell'aria pel calore, che ingiustamente porta il loro nome.

Nei cervelli degli scienziati di quella fine di secolo si elaboravano già, quasi inconsci presagi, le vaste sintesi e le grandi scoperte che dovevano illustrare il secolo attuale. Udite come Volta presenta l'invenzione della telegrafia elettrica, sessant'anni prima che Morse ne facesse il primo esperimento a Filadelfia: «Quante belle idee, scrive egli al prof. Barletti nel 1777, mi van ribollendo in testa, eseguibili con questo strattagemma di mandar la scintilla elettrica a far lo sparo della mia pistola a qualunque distanza. Sentite. Io non so a quante miglia un fil di ferro tirato sul suolo, che si ripiegasse indietro, o incontrasse un canale d'acqua di ritorno, condurrebbe la scintilla commovente. Preveggo che la terra bagnata devierebbe il corso del fuoco elettrico; ma se il filo fosse sostenuto da pali, per es. da Como a Milano, e venisse indietro al mio lago di Como pel naviglio, non credo impossibile di far lo sparo della pistola a Milano con una boccia di Leida scaricata a Como.»

Sostituite un tasto alla bottiglia di Leida e avrete il telegrafo di Morse. Se a quell'epoca non si fosse coltivata la scienza per la scienza senza preoccupazioni di interessi materiali, se allora avesse dominato l'utilitarismo moderno, credete voi che l'idea non avrebbe fatto strada, e non si sarebbe creata una specie di telegrafia sessant'anni prima?

Mentre studia il gas infiammabile, Volta presagisce pure il processo dell'illuminazione a gas: «Ho talvolta pensato, scrive al padre Campi, se vi fossero mezzi di fare un uso economico dell'aria infiammabile (l'idrogeno) sostituendolo all'olio. Basterebbe distillare o abbruciare in vasi chiusi i corpi che, venendo bruciati all'aperto, possono ardere con fiamma; e raccogliere in boccie piene d'acqua le emanazioni che se ne sprigionano.»

Si potrebbe descrivere più chiaramente il processo della fabbricazione del gas illuminante?

Nel campo delle astrazioni, egli accenna un istante ad uscire dalla teoria degli imponderabili e della emissione allora dominante.

Udite, infatti, come nella sua seconda memoria sul galvanismo, nel 1792, egli spiega l'azione dell'elettricità sui nervi della rana di Galvani: «Un fenomeno simile, che può servire d'esempio, lo abbiamo nella luce, la quale, benchè non abbia un momento meccanico bastevole a produrre la minima impulsione e muovere per es. una piuma, pure eccita vivamente il nervo ottico.... Or dunque non fia meraviglia che una piccola e debole corrente di quest'altro fluido etereo sottilissimo, analogo si può dire, alla luce, qual è il fluido elettrico, investendo altri nervi forse del pari sensibili relativamente a lui, li stimoli ed ecciti, e che da questo eccitamento dei nervi ne provengano le contrazioni dei muscoli da quelli dipendenti.»

Non si potevano divinare più chiaramente le teorie moderne e quelle affinità fra elettricità e luce che avrò l'onore d'indicarvi più tardi. Anzi, elevandosi con un'audacia straordinaria per l'epoca sua, al grande concetto dell'identità delle forze fisiche, egli esprime già, sin dal 1769, l'idea che tutte le energie della natura derivino dallo stesso principio e non possano altrimenti consistere che in un incessante lavoro molecolare.

Ma veniamo alla pila.

Alla fine del secolo XVIII tutte le cognizioni sull'elettricità erano confinate nel ristretto campo dell'elettrostatica, d'onde non sarebbero mai più uscite senza l'invenzione della pila.

Dall'epoca in cui Talete, 600 anni prima di Cristo, segnalò il fenomeno dell'attrazione esercitata sui corpi leggeri dall'ambra, che i greci chiamavano electron e che diede così il nome alla scienza nuova, sino ai tempi di Volta, la scienza elettrica non era riuscita ad andare più in là della macchina elettrica e della bottiglia di Leida. Volta stesso non vi aveva contribuito, nei primi anni, che coll'elettroforo e col condensatore, apparecchi importanti senza dubbio, ma sempre nel dominio dell'elettrostatica. Nessuna applicazione seria era stata fatta, fuorchè nel campo dell'elettricità atmosferica coll'invenzione del parafulmine.

L'elettricità non era più che il tema di studi amabili, sempre in cerca di esperienze curiose. L'abate Nollet, che pure ne era un forte cultore, non trovava nulla di meglio che di servirsene per offrire a Luigi XV e alle dame della Corte di Francia lo spettacolo di 240 guardie francesi messe in fila nel cortile del palazzo di Versailles e fatte saltare tutte insieme colla scossa elettrica. Qualche giorno dopo erano i certosini di un convento che si prestavano alla loro volta a dare lo stesso spettacolo. Per Mesmer e Cagliostro l'elettricità era un aiuto prezioso per ciurmare il pubblico. Gli stessi fisici più illustri erano persuasi dell'inutilità delle loro ricerche: «Si l'on me demande, diceva Watson, quelle peut être l'utilité des effets électriques, je ne puis repondre autre chose sinon que nous ne sommes pas encore avancés au point de les rendre utiles au genre humain.» E lo stesso Franklin, prima di inventare il parafulmine, mortificato, come egli dice, di non aver potuto produr nulla in vantaggio della umanità, propone ai suoi amici una partita di piacere scientifica nella quale egli dice: «on tuera un dindon pour notre dîner par le choc électrique, et on le fera rôtir à la broche électrique, devant un feu allumé par une bouteille électrisée.»

Ma tutto cambia coll'invenzione della pila. Alla elettricità statica succede l'elettricità dinamica; una nuova sorgente di energia viene creata ad un tratto, stupisce il mondo coi suoi effetti, e schiude alla scienza orizzonti imprevisti e alla pratica un campo di applicazioni indefinito. La telegrafia e la telefonia, la galvanoplastica, l'illuminazione elettrica, la trasmissione della forza a distanza non si sarebbero neppur potute concepire senza la pila. E, cosa rara nella storia delle invenzioni, quella di Volta non è dovuta al caso, ma è la logica conseguenza d'una discussione scientifica, durata dieci anni, suscitata dalle esperienze di Galvani sulle rane.

Voi conoscete, o Signori, l'esperienza di Galvani. Fu un caso che condusse il celebre medico di Bologna alla sua altrettanto celebre esperienza. Nel 1780 Galvani stava occupandosi nel suo laboratorio di esperimenti sull'irritabilità nervosa delle rane e ne teneva preparata una sul tavolino di una macchina elettrica. Al contatto accidentale d'un bisturi, le coscie della rana si contrassero vivamente; ma la moglie di Galvani osservò che la contrazione non aveva luogo se non nell'istante in cui si cavava una scintilla dalla macchina elettrica. Le esperienze furono ripetute e variate e non fu che sei anni più tardi che un nuovo caso mostrò che le contrazioni si manifestavano anche senza la macchina elettrica e col solo contatto di un arco metallico. Di là Galvani dedusse l'esistenza di uno spirito vitale, di un fluido elettrico proprio degli animali.

Cominciò allora la storica controversia fra Galvani e Volta, alla quale presero parte, in Italia e all'estero, numerosi e illustri scienziati, alla cui testa si trovavano i due fratelli Aldini, nipoti di Galvani.

Volta non ammetteva il fluido animale, nè un'elettricità animale diversa dall'ordinaria. Le sue ragioni sono raccolte in una serie di lettere che vanno dal 1792 al 1800, dirette al Baronio, al Vassalli, al Giovanni Aldini, a Tiberio Cavallo a Londra e al prof. Gren di Halle, che sono un modello di logica e di metodo sperimentale.

Volta aveva preso le mosse dal fatto che due metalli diversi a contatto, per esempio stagno e argento, messi contemporaneamente sulla lingua, danno l'impressione di un sapore speciale che separatamente non danno. Egli stava ripetendo gli esperimenti di Galvani, quando gli venne in mente di tentare questa esperienza: «Heureusement, egli scriveva a Tiberio Cavallo a Londra, il me vînt dans le tête que nous avons dans la langue un muscle nu assez humide et très-mobile. Voilà donc, me disais-je, toutes les conditions requises pour pouvoir y exciter des mouvements.» Invece dei movimenti, egli trovò, colla stagnuola e un cucchiaio d'argento, un sapore acido inatteso; ma sulle lingue, tagliate di fresco, di diversi animali, egli osservò anche le contrazioni.

Queste esperienze, variate da lui in mille modi, anche con metalli eguali, purchè in condizioni diverse per struttura o per altre qualità, e ripetute pure con carbone e con altri conduttori, e lo stesso studio dell'elettricità delle torpedini, gli sembravano dare la più evidente spiegazione dei fenomeni osservati da Galvani, senza la necessità di ricorrere all'ipotesi degli spiriti animali. E da tutta la massa di fatti che andò raccogliendo con incessanti esperienze per tutto quel periodo d'anni, ne induceva che il combaciamento di corpi conduttori comunque dissimili, fra loro e con altri conduttori umidi, eccitano e mettono in moto il fluido elettrico. «Non mi domandate, scriveva al prof. Gren, come ciò segua: basti al presente che sia un fatto, e un fatto generale. Ed ecco, concludeva, in che consiste tutto il segreto, tutta la magia del galvanismo: è un'elettricità mossa dal contatto di conduttori diversi.»

Fu quella la teoria del contatto che Volta sostenne per anni con una vivacità singolare, ribattendo uno a uno gli argomenti che gli avversarii andavano opponendogli ad ogni sua nuova lettera: teoria che il celebre Mascheroni, matematico valente e ad un tempo gentile poeta, il cui nome fu reso popolare dalla Mascheroniana del Monti, illustrò nel poemetto l' Invito a Lesbia con questi versi:

. . . . In preda allo stupor ti parve

Chiaro veder quella virtù che cieca

Passa per interposti umidi tratti

Dal vile stagno al ricco argento, e torna

Da questo a quello con perenne giro.

La lotta con Galvani e colla sua scuola durava ancora accanita, quando venne, come un colpo di folgore, la scoperta della pila che mise fine a un tratto alla discussione. Fu uno dei trionfi scientifici più clamorosi di cui gli annali della scienza conservino la memoria.

Così i fatti veduti da Galvani, benchè assai significanti per sè stessi dal punto di vista della fisiologia, hanno giovato alla scienza elettrica se non in quanto Volta prese da loro il punto di partenza per arrivare alla pila; cosicchè di Galvani si potè dire, non del tutto giustamente per altro, ch'ei fece

come quei che va di notte,

Che porta il lume dietro e a sè non giova,

Ma dopo sè fa le persone dotte.

Dal fatto della produzione di elettricità per effetto del contatto fra due dischetti di metalli diversi con un conduttore umido intermedio, alla scoperta della pila, non correva più che un breve passo. E il passo fu compiuto da Volta nel 1799, non per caso, ma col proposito ben determinato di moltiplicare, sovrapponendo parecchie coppie di dischi di metalli diversi, separati da un cartone umido, gli effetti ottenuti con una coppia sola. Fu nel tranquillo asilo del suo laboratorio di Como che egli compose la pila; e non appena l'ebbe composta, straordinariamente colpito egli stesso dall'intensità dei fenomeni elettrici ottenuti con essa, comprese l'immensa importanza della sua scoperta. «È come una batteria elettrica che agisca e si rinnovi continuamente da sè, senza bisogno di caricarla,» così egli si esprime nella sua lettera a Sir Joseph Banks del 20 marzo 1800.

La lettera non era ancora letta ufficialmente in seno alla Società reale, che già Carlisle e Nicholson, ai quali era stata comunicata col vincolo del segreto, riuscirono a decomporre l'acqua con una pila formata con monete d'argento da mezza corona alternate con dischi di zinco; qualche mese dopo Cruishank scopre colla pila il principio della galvanoplastica; contemporaneamente Vassalli-Eandi a Torino, e i fratelli Aldini a Bologna e a Londra esperimentano l'azione della pila sui cadaveri freschi dei giustiziati nella speranza di tornarli alla vita. Furono esperienze spaventevoli. Le contrazioni provocate dalla corrente, riproducendo i movimenti della vita, incutevano raccapriccio e terrore. Si chiamavano per nome le teste dei ghigliottinati, sotto l'azione della corrente, nell'attesa che rispondessero.

Volta presenta la sua pila, quella stessa che ancora oggi si conserva a Milano presso l'Istituto lombardo di scienze e lettere, insieme ad altri cimelii, all'Istituto di Francia che gli decreta una medaglia. Napoleone lo crea conte e senatore, ravvisa in lui solo il tipo del genio, non ha occhi che per lui quando interviene alle sedute dell'Istituto, non vuole che si ritiri dall'insegnamento: «Faccia, dice, anche una sola lezione all'anno; ma l'Università di Pavia sarebbe colpita al cuore se permettessi che si ritirasse; del resto, soggiunge, un bon général doit mourir au champ d'honneur

L'ammirazione per questa scoperta di Volta fu immediata, senza contestazioni. «Vous avez étonné le monde» gli scrisse Humboldt.

Galvani era già morto da due anni quando fu conosciuta la pila; ma la controversia durò ancora qualche tempo, specialmente per opera dei fratelli Aldini, finchè la spiegazione chimica degli effetti della pila, intravvista pel primo dal fiorentino Fabroni, spense l'ultima eco del dibattito, abbattendo pel momento le due teorie del fluido animale e del contatto. Ma il Matteucci da una parte ridonava più tardi nuova vita al galvanismo, mettendo in rilievo lo stato elettrico dei nervi e dei muscoli: dall'altra Peltier dapprima, poi Thompson e Helmholtz rimettono in onore la teoria del contatto, confermando i principii affermati da Volta.

Così la teoria voltiana dell'elettromozione, dopo una serie di vicende, ora trionfante, ora soccombente, eccita ed ispira gli studi dei più grandi elettricisti, ed esercita un'influenza decisiva sullo sviluppo e il progresso scientifico di tutto il secolo.

Mai il genio italiano rifulse nelle scienze fisiche come in quel principio di secolo che la scoperta della pila aveva inaugurato. Sventuratamente il movimento scientifico era tale in tutta Europa, che riesce difficile di attribuire ai loro veri autori le scoperte che continuamente si succedevano. Così il principio dell'elettro-magnetismo, per cui andarono celebri nel 1820 Oersted, Ampère e Arago, era già stato avvertito nel 1805 dal conte Morozzo, brigadiere dell'armata d'Italia e presidente dell'Accademia di Torino, quando notò che degli spilli d'acciaio, messi a galleggiare sull'acqua, prendevano, sotto l'azione della pila, la direzione del meridiano magnetico. Fu un nipote di Volta, il professore Alessandro Volta juniore, che rilevò pel primo questo fatto.

Zamboni di Verona inventa nel 1810, contemporaneamente al francese De-Luc, la pila a secco che diede per un istante l'illusione di aver trovato il moto perpetuo. Marianini di Venezia enuncia pel primo nel 1823 la legge fondamentale delle correnti elettriche che passa sotto il nome di Ohm. La stessa esperienza dell'arco voltaico che sorprese il mondo quando Davy riuscì ad eseguirla nel 1813 colla colossale pila di 2000 coppie regalatagli per sottoscrizione nazionale, era stata fatta già da Volta, insieme a Paradisi e Breislak, cogli scarsi mezzi dei quali poteva disporre.

Ma nulla avrebbe potuto più degnamente coronare quel glorioso periodo scientifico, quanto le splendide scoperte di Melloni sull'identità del calore e della luce.

Il grande principio dell'unità delle forze fisiche che ha preoccupato anche i fisici italiani da Nobili al Padre Secchi, è un faro verso cui la scienza tiene continuamente fissi gli occhi. Dapprima appariva a così remota distanza che pochi eletti appena lo discernevano, pur non disperando di raggiungerlo; ma a poco a poco quel faro divenne più luminoso e più vicino, sicchè oggi esso diffonde la sua luce su tutte le scienze fisiche, e non basterebbe neppure esser cieco per non esserne abbagliati. L'antica teoria degli imponderabili, sulla quale si imperniava la scienza del secolo passato, era un ostacolo che la teoria moderna delle ondulazioni ha rimosso; alle analogie di Melloni fra luce e calore sono succedute quelle di Hertz fra elettricità e luce; così ormai nessuno più dubita della completa dimostrazione d'un principio, il quale, insieme a quello della conservazione dell'energia, proclama l'unità e l'indistruttibilità dell'universo, o almeno di quell'universo che noi, abitanti impercettibili della terra, che è un atomo del mondo visibile, vediamo e crediamo di conoscere.

Voi sapete che Macedonio Melloni, valendosi di quello squisito rivelatore del calore che è la pila termo-elettrica, della quale Nobili aveva moltiplicato gli effetti, dimostrò che il calore oscuro si comporta esattamente come la luce. Quando noi scaldiamo un corpo, per esempio, un pezzo di ferro, le sue particelle, già in moto, vibrano più intensamente, tanto più quanto più è caldo: anzi l'azione stessa dello scaldare altro non vorrebbe dire che comunicare alle particelle un moto sempre più intenso. Quelle vibrazioni, trasmesse ad altri corpi, li scaldano pure; trasmesse al nostro senso del tatto, ci danno l'impressione del calore; e l'intermediario per trasmetterle si suppone che sia un fluido sottile chiamato etere, del quale si immaginano riempiti gli spazi intermolecolari e tutto l'universo.

Finchè il riscaldamento non è accompagnato da fenomeni luminosi, si tratta soltanto di quel calore che si chiama oscuro; ma se il corpo è suscettibile di arroventarsi, come, per esempio, il pezzo di ferro da me supposto, allora, continuando a scaldarlo, cioè continuando a eccitare un movimento sempre più vivo delle sue molecole, esso comincia a diventar rovente, emettendo una luce, prima rossa, poi aranciata, poi bianca abbagliante. Allora non è più il solo senso del tatto che percepisce le vibrazioni irradiate dal corpo, ma anche il senso della vista; e le percepisce, perchè quelle lente vibrazioni del calore oscuro hanno eccitato altre vibrazioni più rapide, cui l'occhio solo è sensibile. E colla luce altre vibrazioni ancora si irradiano dal corpo, che neppure l'occhio può percepire, ma a cui sono sensibili certe sostanze, come i preparati fotografici e le materie fluorescenti.

Ora tutte queste diverse radiazioni si propagano, si riflettono sulle superfici polite e si rifrangono attraverso certi corpi, opachi per talune radiazioni e trasparenti per altre, esattamente nello stesso modo, come Melloni dimostrò pel primo, dimostrando così nello stesso tempo l'identità loro. E siccome scaldare un oggetto col calore radiante, eccitare i nervi dell'occhio che percepiscono la luce, modificare lo stato della pellicola sensibile di una lastra fotografica in guisa da lasciarvi un'immagine, non sarebbero altro che comunicazioni di un moto dell'originario pezzo di ferro irradiante, così tutti questi fenomeni calorifici, luminosi e chimici non sarebbero che forme diverse di movimento. L'energia dei movimenti originarii si sarebbe trasformata, ma non diminuita, nè estinta: che è il principio della conservazione dell'energia.

Or bene: quel primo passo verso la dimostrazione dell'unità delle forze fisiche che faceva verso il primo terzo del secolo il fisico italiano, è stato seguìto da un altro quasi sessant'anni dopo, con esperienze che rimarranno celebri come quelle di Melloni.

Hertz ha provato che le oscillazioni elettromagnetiche si propagano nell'aria e nel vuoto come la luce, con velocità eguale a quella della luce, e come la luce si riflettono e si rifrangono; dunque onde elettriche e onde luminose sono probabilmente movimenti dello stesso medium, di quell'etere cosmico, cui domandiamo la spiegazione dei fenomeni che andiamo osservando, che, circondando le molecole di tutti i corpi, trasmetterebbe loro il moto ricevuto da altri corpi anche a distanze incommensurabili. Si ha anzi ragione di credere che le stesse vibrazioni luminose non sieno altro che oscillazioni elettro-magnetiche di un'enorme rapidità di alternazioni: e in questa supposizione concordano la teoria di Maxwell e gli esperimenti di Hertz e di Tesla.

Forze a distanza, come si supponevano una volta, non ce ne sono. Tutto il gran movimento della natura è l'effetto di una comunicazione di energia fra atomi contigui. E quando vediamo i fili telegrafici e telefonici trasmettere il pensiero e la parola, e altri fili portare a enormi distanze la luce, il calore e la forza, non è una volgare corrente quella che, come noi ci immaginiamo, percorre i fili: è una trasmissione di movimento da atomo ad atomo. E i fili stessi non conducono nulla dentro di sè, ma non fanno che offrire una più facile direzione a quella propagazione di moto. Tanto che si concepisce già la speranza di far senza dei fili per trasmettere l'energia elettrica sotto qualunque forma. Non avete udito parlare di quell'italiano Marconi che a Londra avrebbe trovato il modo di telegrafare senza fili?

Già il dalmata Nicola Tesla, studiando in America le correnti alternate ad altissima tensione e a enorme rapidità di oscillazioni, è venuto a risultati che hanno destato un profondo stupore. Correnti di tensione 10 o 20 volte maggiore di quelle capaci di ammazzare un uomo, diventano innocue, quando le alternazioni della corrente diventano centinaia di migliaia e anche di milioni, al minuto secondo. E con queste correnti Tesla è riuscito a creare dei veri ambienti elettrici, nei quali si può non solo accendere una lampada, ma produrre delle zone e dei fasci luminosi senza un vero circuito di fili.

Le vibrazioni luminose così prodotte non sono dunque che il risultato diretto di quelle rapidissime oscillazioni elettriche delle quali fu riempito l'ambiente.

Ma allora, se le analogie fra elettricità e luce sono così vere come quelle scoperte da Melloni fra calore e luce, e se vibrazioni luminose e oscillazioni elettriche sono la stessa cosa, perchè non si trasmetterebbe l'elettricità come il calore e la luce? Archimede ha potuto incendiare i vascelli nemici convergendovi il calore con uno specchio; anche la luce si trasmette a distanza con specchi e con lenti, come si fa nella telegrafia ottica e nei fari; perchè dunque non si porterebbe pure a distanza l'elettricità con specchi e con lenti?

Questo sarebbe forse, se così è lecito interpretare certi indizi, il segreto di Marconi.

Questi problemi entrano ora in un nuovo campo che prima era affatto inesplorato. Come arriviamo noi a produrre la luce? Noi portiamo un corpo all'incandescenza, sia facendolo combinare coll'ossigeno dell'aria, ossia bruciandolo, come facciamo colla cera, coll'olio o col gas, sia arroventandolo nell'aria o nel vuoto come si fa coi carboni delle lampade ad arco, e coi filamenti di carbone delle lampade elettriche a incandescenza. Il corpo, così, emette contemporaneamente radiazioni calorifiche e radiazioni luminose; ma per ciò la parte di energia che si manifesta come luce è la sola che si utilizza, e l'altra è perduta; e questa parte utilizzata è ben piccola, qualche volta neppure un cinque per cento dell'energia totale consumata.

Ben più economica è la natura: le lucciole sono piccoli fari, abbastanza potenti se si considerano in relazione alle loro proporzioni: or bene, la luce di questi fari è assolutamente fredda; qui non v'è nulla di sprecato.

L'ideale sarebbe dunque di produrre la luce senza essere contemporaneamente obbligati a produrre calore; cioè di produrre la luce a freddo, come quella delle lucciole.

Ora è appunto questo che si spera di ottenere coll'impiego delle correnti di alta tensione e di grande frequenza di alternazioni.

In un ambiente percorso da queste correnti vi ho già detto come si sia riuscito a produrre la luce negli esperimenti di Tesla. È ancora una luce pallida e debole come quella dei tubi di Geissler o delle lontane aurore boreali colle quali il fenomeno ha forse una stretta analogia; ma non c'è ragione di credere che non si possa ottenere una luce più viva con correnti più potenti e più rapide. E nessuno nemmeno può dire che attuando in altra forma una delle bizzarre previsioni del noto romanzo di Bellamy sulla società del secolo prossimo, l'audace schiatta umana non riesca un giorno a coprire intere regioni con strati d'aria elettrizzata nelle zone superiori dell'atmosfera, donde piova di notte una luce diffusa come la luce di un'aurora boreale o come quella che il sole ci manda in una giornata nebbiosa. E allora, colle notti illuminate a giorno, riscaldandoci col calore terrestre attinto nei più profondi strati del suolo, secondo la fantasia di Berthelot, nutrendoci di cibi chimici, composti con sostanze minerali, che sostituirebbero i cereali e gli altri alimenti e permetterebbero di coltivare a fiori e convertire in giardini i campi già destinati alla nostra nutrizione, cos'altro potrebbe desiderare la razza umana? Nulla; fuorchè la felicità che ci sfuggirà sempre, allora come adesso.

Quest'energia calorifera che complica e assorbe una così gran parte dell'energia che noi consumiamo per produrre la luce, complica e dà pure una gran perdita quando si tratta di produrre dell'energia elettrica in genere. Quando noi bruciamo del carbone per animare una macchina a vapore, e colla macchina a vapore mettiamo in moto una macchina dinamo-elettrica, e con questa produciamo una corrente che mandiamo nei fili, sia per illuminare le case e le vie, sia per muovere le carrozze di una tramvia, noi facciamo una serie di trasformazioni inutili, anzi dannose; prima di calore in forza, poi di forza in energia elettrica. Perchè non si salterebbero via caldaia, macchina a vapore e dinamo, e non si produrrebbe direttamente l'energia elettrica, o la corrente, col carbone, bruciandolo, per così dire, senza calore? Anche questo si sta tentando, e gli ultimi risultati, ottenuti soprattutto dall'americano Case con pile a carbone, sembrano legittimare le speranze concepite all'annuncio dei primi tentativi. Così, dopo un secolo si tornerebbe puramente e semplicemente alla pila di Volta, scartando tutte le macchine intermedie, convertendo direttamente in energia elettrica l'energia ritraibile dalla combinazione del carbone della pila coll'ossigeno, per mezzo di una vera combustione senza calore. E l'apparecchio di Volta, il quale, dopo aver creato l'elettrotecnica moderna, aveva dovuto cedere il campo alla dinamo, riprenderebbe, in altra forma, l'antico dominio, diventando la migliore e più economica sorgente dell'energia elettrica.

Ma il carbone stesso, sarà esso sempre a disposizione dell'uomo come è ora? Non si esauriranno un giorno gli immensi tesori di combustibile che i cataclismi terrestri hanno nascosto sotto terra, seppellendo le antiche foreste e quelle

. . . . . . . . superbe

Tribù di felci che coprian le fredde

Pomici colle foglie arabescate

E d'altezza vincean le nasciture

Quercie . . . . . .

cantate dall'Aleardi?

Noi distruggiamo spensieratamente le foreste, e altrettanto spensieratamente sfruttiamo le miniere di carbon fossile. Ormai se ne estrae per quasi mezzo miliardo di tonnellate all'anno. Forster-Brown osservava nel 1891 che fra 50 anni i migliori giacimenti conosciuti saranno sfruttati, e il carbone comincerà a scarseggiare e a rincarire. Rimangono, è vero, i giacimenti della China e di altri paesi ancora sconosciuti; ma un giorno anche queste risorse cominceranno a mancare.

Quando ho cominciato questa conferenza, che temo troverete ormai eccezionalmente lunga e noiosa, non a caso ho citato insieme i nomi di Volta e di Watt e lo sconosciuto inventore della prima ruota idraulica.

Esaurito il carbone, la macchina a vapore di Watt avrà compiuto il suo ciclo e sarà diventata un arnese inutile. Quale sarà dunque la sorgente di energia dell'avvenire?

Può darsi che l'avvenire ci riservi delle sorprese che ora non potremmo neppur concepire; ma oggigiorno l'unica sorgente di energia sulla quale possiamo contare è la forza dell'acqua; e lo potremo sempre, perchè quando il sole cesserà di mandare sulla terra energia sufficiente a sollevar l'acqua del mare in vapore, immagazzinarla nelle nubi, e precipitarla in pioggia e neve per farla tornare al mare, anche la vita, o almeno la vita come la vediamo e la comprendiamo noi ora, sarà cessata. E l'unico modo che ora conosciamo, di raccogliere e distribuire a distanza questa forza dell'acqua e di servirsene per tutti gli usi della vita moderna è la trasformazione sua in quella forma d'energia la cui esistenza Volta ha svelato pel primo 97 anni sono.

Dappertutto, fuorchè nelle steppe e nei deserti, la natura ci offre gratuitamente questa forza, e non è più un sogno la possibilità di portarla a distanza, trasformandola in energia elettrica. Il Niagara travolge, al posto della celebre cascata, una forza di sei milioni di cavalli, e già ora se ne sta utilizzando una piccola parte, che sarà, a progetto compiuto, di 150 mila cavalli, cioè da una metà a un terzo di tutta la forza idraulica utilizzata presentemente in Italia; e mentre vi parlo, una parte di questa forza è mandata a Buffalo, a 45 chilometri di distanza.

Dappertutto, in America come in Europa e nell'Africa stessa, si vanno progettando e compiendo opere colossali per raccogliere la forza delle cadute, trasformarla in energia elettrica e portarla sui luoghi di consumo, ove si riconverte in luce, calore e forza, secondo il bisogno. In questa gara l'Italia si è affrettata a prender posto; l'impianto fatto a Tivoli presso Roma e quello che si sta facendo a Paderno presso Milano, sono fra i più grandi che si sieno concepiti finora.

Circondata in gran parte dal mare che contiene la materia prima della forza, cioè l'acqua, con quei grandi condensatori per precipitarne i vapori, che sono le Alpi e l'Appennino, l'Italia è uno dei paesi del mondo più ricchi di questa energia fornita dalla natura. I nostri fiumi travolgono una forza di circa 45 milioni di cavalli fra i monti e i mari Adriatico e Tirreno; e, se anche se ne utilizzasse soltanto la decima parte, si avrà sempre una forza rappresentante un valore, al prezzo odierno del carbone, di 600 a 800 milioni, e più che doppia di quella che presentemente si impiega in Italia per le industrie tutte, per le ferrovie e per la marina. Il giorno in cui l'avessimo utilizzata, si inaugurerebbe in Italia un'èra di prosperità e di primato industriale e politico del quale non potremmo neppure farci un'idea.

Vedete dunque, o Signori, quale avvenire ha preparato al nostro paese quel semplice apparecchio che Volta congegnava nell'anno 1800 nel tranquillo asilo del suo laboratorio di Como. E a questo avvenire avranno contribuito più che tutti, dopo di lui, due altri italiani, il cui nome è scritto a caratteri d'oro nella storia delle scienze fisiche: Pacinotti, il quale costrusse a Pisa nel 1860 la prima macchina dinamo-elettrica, e non presago della straordinaria importanza della sua invenzione, si limitò a pubblicarne una descrizione nel 1867, tre anni prima che Gramme lanciasse nell'industria la macchina stessa che ora porta il suo nome; e Galileo Ferraris, che nel 1885 scopre il principio del campo magnetico rotante e ne pubblica la descrizione nel 1888, mentre Tesla, pochi mesi dopo, costruisce il primo motore elettrico fondato sullo stesso principio. Pacinotti è scomparso dal campo della scienza militante e Ferraris è scomparso immaturamente dalla scena del mondo, e sulla sua tomba, schiusa da meno di due mesi, l'Italia e la scienza piangono ancora; ma permettete, o Signori, che in questo giorno in cui ho avuto l'onore di parlarvi di Volta, chiuda la mia disadorna conferenza, rendendo omaggio a questi sommi che si sono dimostrati non indegni successori dell'inventore della pila.

MUSICA E BELLE ARTI

CONFERENZA DI CORRADO RICCI.

Gli anni 1815 e 1831 (il primo con la caduta dell'impero napoleonico e l'ordinamento degli Stati italiani, e il secondo con la rivoluzione che, dalle Romagne, si estese per le Marche e per l'Umbria sino alle mura di Roma) possono in Italia considerarsi come limiti di un periodo politico, ma non di un periodo artistico. Certamente verso la fine di esso cominciano l'innovazione romantica e il preraffaellismo, e si svolge la prima grande fase del melodramma italiano; ma nè il '15 nè il '31 segnano certo l'esordio o la decadenza di nessun tipo speciale. Mentre infatti la ribellione contro il barocco e lo sviluppo del cosiddetto classicismo risalgono allo scorcio del secolo precedente, il romanticismo si produce per assai tempo ancora, sino, cioè, ad oltre la metà di questo secolo.

Quando dunque giunse il '15, l'arte si plasmava sulle formule classiche, calma, sicura, padrona del campo. Il periodo eroico della lotta era finito, può dirsi, dal giorno della morte di Gian Battista Tiepolo, l'ultimo dei grandi barocchi. Finch'ei visse, la vittoria agli apostoli del «ritorno all'antico» fu contesa. È noto che Raffaello Mengs, il primo forse e più animoso incitatore all'ammirazione dell'arte greca, nella Corte di Madrid, datosi a lavorare in concorrenza del celebre decoratore veneziano, n'ebbe la peggio e se ne sdegnò così, che i suoi sdegni furono creduti effetto di gelosia. Ma è chiaro che, convinto delle sue rigorose e corrette affermazioni estetiche, non poteva se non ribellarsi alle splendide bizzarrie e alle sfrenatezze del rivale, e legittimamente seccarsi di vederle ancora preferite alle serie e gravi sue prove, per riattaccarsi alle grandi tradizioni dell'arte antica.

Finito il Tiepolo, e slombate e decomposte nei deboli imitatori le strane ma luminose e popolose sue visioni, la falange dei classicisti, con la critica del Winckelmann, con l'arte del Batoni, del David, dell'Appiani e d'Antonio Canova, divenne esercito poderoso, dinanzi al quale i vecchi artisti fuggirono come sgominati, gettando le armi. Pochi anni dopo, i dipinti dello stesso Tiepolo erano trascurati come quelli di un pazzo, tantochè, mentre si levavano dalle chiese infiniti quadri d'ogni tempo e d'ogni scuola, per trasportarli in Francia, i suoi erano scartati senza misericordia, con palese dileggio.

* * *

Dunque alla caduta dell'impero di Napoleone le arti procedevano sulle formule del Canova, del David e dell'Appiani; ma questi tre campioni dello stile neo-classico non lavoravano oramai più. L'Appiani anzi moriva nel 1817, e il Canova appena cinque anni dopo. Il David, è vero, sopravvisse loro, sino alla fine del 1825, ma dagli avvenimenti politici sbalestrato lungi dal suo studio e dalla Francia, e già presso ai settant'anni, non ebbe più l'animo di darsi a nuove grandi opere, nè potè compierne alcune delle cominciate.

Parecchi degli artisti, che succedono immediatamente, non mancano di pregi e di fama; ma nessuno più presenta tali tratti e tali novità da costituire bell'argomento di uno studio sintetico, nel quale si possa, all'esame del genio innovatore, unir quello dei capolavori e di tutta la scuola e dello speciale tipo artistico, così come si può facilmente e brillantemente fare per Giotto, per Masaccio, per Leonardo, per Raffaello, per Michelangelo e per tanti altri.

Il fuoco vivo dell'arte si era ovunque oramai tramutato nella tiepida cenere dell'accademia. Non v'erano più giovani entusiasti che corressero a scaldarsi ed aprire la mente al calore d'un qualche artista potente, come già nel Rinascimento; ma folle, che dovevano seguire una massima, un corso, un insegnamento rigidamente prestabilito, perocchè le stesse accademie dei Caracci e le altre, sorte e fiorite fino ad oltre la metà del secolo XVIII, furono ben diverse da quelle fondate poi, come ogni altra scuola o seminario, sotto la tutela degli Stati, con norme burocratiche rigorose e con sistemi estetici definiti. I Caracci, ad esempio, allontanavano dalla loro accademia, come già i vecchi maestri dalle loro botteghe, quelli che non mostrassero una promettente tendenza artistica. I buoni, poi, divenuti esperti nel disegno, si spargevano nelle botteghe di quei maestri che loro maggiormente garbavano. Chi seguiva perciò la cupa ed energica arte del Guercino, chi la luminosa e delicata di Guido, chi la sobria e corretta del Domenichino.

Nelle accademie del periodo pseudo-classico, come purtroppo ancora nelle odierne, la scelta, da parte degli artisti e degli scolari, fu senz'altro esclusa. I maestri dovevano iniziare all'arte quei giovani, buoni o cattivi, che lo Stato ammetteva alla scuola, mentre gli scolari, per ottenere i diplomi, dovevano seguire inevitabilmente l'insegnamento di quei maestri, buoni o cattivi, che lo Stato dava loro.

Io non dirò quale e quanto numerosa schiera di mediocrità e di anime fredde pullulasse allora nel campo della pittura e della scultura. Fatti i primi studi nelle piccole accademie patrie, su modelli di teste o piedi o mani convenzionali punteggiate a matita con noiosa pazienza sino a che la sfumatura paresse dileguare con la gradazione dell'alito; copiate tondeggianti e levigate composizioni classiche da esemplari all'acquerello, dove ogni traccia del pennello doveva esser dissimulata, concorrevano con qualche mediocre lavoro ad una pensione, ed ottenutala si recavano dove fiorivano scuole migliori, come a Firenze e a Roma. V'erano, là, discreti artisti, e soprattutto v'erano le maraviglie dell'arte passata, lo splendore della natura e il fàscino di leggende e di storie immortali. Ebbene, che mandavano per saggio i pensionati? Forse qualche dipinto, in cui, dietro a una figura umanamente sentita, si vedesse un lembo delle colline o dei monumenti fiorentini, o la grandiosa solitudine della campagna romana o qualche lacero avanzo d'un tempio o d'un acquedotto? Nemmeno per sogno!

I magazzini di molte gallerie e di molti istituti di Belle Arti rigurgitano di quei saggi. Sono tutte composizioni senza spirito e senza colore, di figure solennemente atteggiate come i tragici di scuola vecchia, con fondi di monumenti disegnati o dipinti di maniera, e non variano mai dai soliti temi della Morte di Virginia o di Socrate, di Edipo cieco, del sacrificio di Polissena, di Filottete nell'isola di Nasso, di Lucio Albino che raccoglie le fuggenti vestali e simili. Per la figura, si direbbe che non un'anima di quei giovani ha letto nel pensiero di Giotto, nella gentilezza di Sandro Botticelli o del Perugino, nella forza di Luca da Cortona o di Michelangelo; pel paesaggio, si direbbe che non un occhio ha contemplato il Tevere e l'Arno, tra il declivio dei colli, e le rovine di Roma e le torri gloriose e le chiese e i palazzi.

Begl'ingegni allora non difettarono, nè difettò loro l'occasione di manifestarsi in grandi lavori, ma lo stile in voga e i preconcetti, che il bello emanasse più che dal vero, dai modelli classici, li incepparono. Riattaccatisi senz'altro a forme antiche, già concrete, già sfruttate, furono vecchi senz'essere stati giovani; cosicchè mancando dinanzi a loro uno di quei lunghi e nobili periodi di ricerca, di sforzi, di preparazione, mancò inevitabilmente tra di essi uno di quegli artisti che sembrano radunare tutti gli elementi concordi sviluppatisi pel corso di talora più secoli e pel lavorìo di molte anime e di fonderli insieme come fecero Raffaello e Leonardo rispetto all'arte umbra e toscana; Tiziano e il Correggio rispetto all'arte veneziana ed emiliana.

* * *

A Roma, dove per lo studio delle statue antiche e per la fama della scuola, ma anche, e più forse, per abitudine, traevano molti, fiorivano allora Luigi Agricola, Gioacchino Serrangeli, Giovanni Silvagni, Luigi Rubbio e molti altri. Portava però il vanto su tutti Vincenzo Camuccini, natovi nel 1775. Egli come concetto non si distaccò dal David: ma curò anche lo studio dei maestri italiani del cinquecento e specialmente di Raffaello, con poco vantaggio del suo colorito. La fama straordinaria ch'ebbe a' suoi tempi è quasi del tutto dileguata: la facilità grande del disegno e dell'esecuzione non valse a mascherare la povertà dell'ispirazione e la poca originalità dei pensieri. Per questo, forse, i ritratti di lui sono da taluno apprezzati più delle grandi composizioni esprimenti episodi della storia romana ( Orazio Coclite, Romolo e Remo, Partenza di Regolo per Cartagine, Morte di Virginia ec.) o del periodo eroico del cristianesimo. In queste si servì d'infinite reminiscenze, tolte a marmi classici ed a pittori della Rinascenza, male assimilate, e perciò anche male dissimulate, tanto che Pierre Guérin diceva di lui: «S'è nutrito di Raffaello e degli antichi, ma non li ha digeriti.»

Questi teneva lo scettro della pittura là dove concorrevano quasi tutti i giovani d'Italia e molti dall'estero! La scultura aveva però migliori rappresentanti, che se anche si ripeteva freddamente elegante, tornita e levigata con Carlo Finelli, che poi passò a Firenze, con Cincinnato Baruzzi, che presto se ne andò a Bologna, con Pompeo Marchesi e con Gaetano Monti, che poi si trasferirono a Milano, e con altri scolari del Canova, si sollevava però dall'ordinario per opera di Alberto Thorwaldsen e di Pietro Tenerani suo scolaro.

È però inutile ch'io dica che in tutti perdurava il concetto della bellezza antica, perchè se anche si ponevano talora dinanzi al vero, essi o lo correggevano o lo vedevano e trasformavano sotto l'influenza della scultura classica e quasi con un sistema geometrico. Questo fenomeno che può sulle prime sembrare assai strano, appare invece naturalissimo, quando si consideri che in tutti i secoli lo stesso vero tradotto in arte si è sempre diversamente atteggiato a seconda, dirò così, dei temperamenti o dei sentimenti del tempo. Le cifre singolari dei trecentisti non si trasformavano di fronte a un ritratto, come non si trasformavano quelle dei barocchi, i quali, anche quando erano costretti a copiare monumenti bizantini od ogivali, incurvando un po' una linea, ingrossando lievemente una modanatura, movendo con maggiore larghezza le foglie d'un capitello, finivano per fare una specie di parafrasi barocca.

I temi d'altra parte cambiavano di poco. Il Finelli si compiaceva di scolpire un Discobolo, una Venere, le Grazie, e se il Marchesi talora lasciava interrotta un' Urania, una Tersicore, per lavorare di scalpello intorno alle statue di Carlo Emanuele, del Beccaria, del Bellini, guardava come meglio si potesse ingentilire il vero e talora non resisteva a cingere d'un classico paludamento uomini moderni, come fece appunto ritraendo Wolfango Goethe.

Alberto Thorwaldsen danese venuto a Roma, di ventisei anni nel 1796, finì per rimanervi più di quarant'anni. Nessuno era allora più di lui fanatico sostenitore delle teorie del Mengs, del Winckelmann e del David. Gli pareva anzi che fosse perfettamente inutile e ad un tempo pericoloso cercare nella realtà le leggi e i principii dell'arte, quando già si erano concretati nella statuaria greca dalla quale conveniva derivarli. — Come mai con tali idee gli riuscì d'avvantaggiarsi sui contemporanei?

Procedendo nella riflessione e nello studio s'accorse che le forme classiche passate per lo spirito dei canoviani erano divenute fiacche, meschine, si erano immiserite nella pretesa di una leggiadria ottenuta a tutto scapito della gravità. Questa sola giusta preoccupazione valse a migliorare la sua scultura. In conclusione, avendo fatta bene la diagnosi, gli fu abbastanza agevole di procedere alla cura e di restituire all'ammalata una certa salute.

D'allora, anche modellando figure come Amore e Psiche, Ganimede, Adone, Ebe, seppe evitare l'effeminatezza e la mollezza, e dare alla gioventù una più vigorosa e valida espressione. Col Giasone e col grande bassorilievo del Trionfo d'Alessandro potè ottenere una maggiore larghezza, come potè evitare ogni oscurità e ogni esagerazione simbolica ed allegorica nella Notte che porta sulle braccia la Morte e il Sonno in sembianza di due bambini. Un eminente francese scrisse di lui: «Egli ha subìto nella concezione della bellezza l'influenza del Winckelmann, al pari del Canova che rivestì pure d'una grazia tutta moderna la forma antica che effeminò.... Thorwaldsen ha studiato profondamente l'antico, se n'è imbevuto, ha veduto la natura con gli occhi d'uno scolaro di Fidia: semplificandola, spogliandola dei particolari inutili, conducendola verso un bello ideale. Come un greco del buon tempo antico, egli evita i gesti violenti, le espressioni sforzate, tutto ciò che può danneggiare l'armoniosa severità della linea. Il suo Mercurio che si prepara ad uccidere Argo è un capolavoro che può sopportare il confronto delle più belle statue greche. Nella sua Venere c'è in qualche modo presentita la nobile e vittoriosa bellezza della Venere di Milo. Thorwaldsen era un classico puro, e non si potrà mai trovare in lui il romantico. Eccelleva nel bassorilievo, che richiedeva tanto equilibrio di ponderazione e di sapienti sacrifici. Il suo fregio trionfale d'Alessandro è una delle più belle cose che la scultura abbia prodotto dai secoli di Pericle, e potrebbe incastrarsi nel frontone d'un tempio greco. La Notte che regge la Morte e il Sonno è una composizione che non si cessa mai d'ammirare. Le tre Grazie hanno un'ingenuità pudica, cui gli antichi avrebbero applaudito.» Così Teofilo Gauthier, il quale, senza dubbio, oggi di fronte ai nuovi e più gravi problemi imposti all'arte, sarebbe più temperato nella lode. Questo è certo però che il Thorwaldsen è il solo artista del periodo neo-classico che possa competere col Canova, col Canova, bene inteso, ligio alla tradizione antica, poichè nei pochi momenti in ch'egli ardì di chiedere ispirazione e forma al vero, assurse ad un'altezza difficilmente raggiungibile, come nella statua di papa Rezzonico.

Il Gauthier si limita con ragione a ricordare le opere del Thorwaldsen ancora giovine. I successi e le ordinazioni gli fecero perdere più tardi la prima serenità. Non scegliendo più spontaneamente i temi, ma eseguendo quelli che gli erano commessi, cessò dal trattare quanto conveniva meglio al suo sentimento, al suo genio. Inoltre, operando in fretta, abbandonò lavori d'un'esecuzione molto superficiale pur di riempire di statue, di busti, di rilievi, mezza Europa.

Molti giovani, specialmente in quel periodo in cui, per corrispondere a tutte le ricerche, aveva bisogno di aiuto, appresero sotto di lui; ma non emerse veramente che Pietro Tenerani, al quale, il Thorwaldsen, partendo da Roma, lasciò un indiscutibile primato sugli altri scultori. Il Tenerani ingegnoso, accurato nelle forme, e devoto pur sempre agl'insegnamenti de' suoi grandi maestri (aveva studiato un poco anche sotto il Canova) ebbe una certa versatilità, rispetto agli argomenti, che gli valse di poter mantenersi in un posto considerevole anche quando l'arte accennò a prendere un'altra strada. Dalle Psichi, dalle Veneri, dai Cupidi seppe alzarsi a un certo sentimento col suo Crocifisso e con la Deposizione e ad una certa solennità nei monumenti del Conte Orloff e di Ferdinando II in Napoli e di Ferdinando III in Pisa.

Dirò infine che si fermarono in Roma Giuseppe Fabris, che acquistò rinomanza col Milone da Crotone assalito dal leone, e Camillo Pacetti, che, per consiglio del Canova, fu poi chiamato a dirigere la scuola di scultura a Milano.

* * *

Nella scuola pittorica fiorentina, allora in fama d'una grande correzione di disegno, primeggiavano (sopra una notevole schiera di minori) Pietro Benvenuti e Luigi Sabatelli; il primo nato ad Arezzo nel 1769 e il secondo, tre anni dopo, a Firenze.

Il Benvenuti abile, coscienzioso, corretto disegnatore e talvolta efficace coloritore, fu, fino da' suoi tempi, giudicato un artista freddo, ossia di poco sentimento. Certo anche agl'intendenti d'allora l'individualità sua, si palesava più pel metodo e per la tecnica, che per l'anima. I suoi nudi hanno forme distinte, ma sistematicamente tracciate e squadrate. Le sue composizioni sono abbondanti e chiare ad un tempo, ma poco originali. Lavorò moltissimo, dipinse ritratti, grandi quadri d'altare e vasti affreschi, questi ultimi con una speciale compiacenza, come ne fanno fede quelli della Sala d'Ercole nel Palazzo Pitti e la cupola della Cappella Medicea in San Lorenzo, dove, operando per sette anni continui, espresse otto soggetti dei due Testamenti.

Molti perciò lo dissero il maggiore fra i pittori toscani del suo tempo, ma molti ancora gli tolsero tale vanto per darlo al Sabatelli. «Abbiamo la ferma convinzione — scriveva il Rovani — avvalorata dal giudizio de' più esperti e dei più appassionati, ch'egli più di tutti i nominati abbia sortito originale e potente l'ingegno dell'arte.» Era infatti, il Sabatelli, una natura focosa, rivelatasi con un entusiasmo non comune a Roma, dove, giovanissimo ancora, sbalordiva per la rapidità onde produceva popolosi disegni. Di là passò a Venezia spintovi dal suo benefattore Pier Roberto Capponi, intimorito che l'influenza della plastica di Roma spegnesse in lui l'ardimento del colore. Tornato in Toscana, fu tosto sopraccaricato di lavoro e, com'è naturale, messo a confronto del Benvenuti. Nel Duomo d'Arezzo, alla grande Giuditta di quest'ultimo s'oppose la sua Abigaille che cerca di stornare l'ira di Davide dall'improvvido Naballo, e parve ad alcuni che «risultasse quanto fosse più spontanea la facoltà inventiva del Sabatelli e più energico il disegno e più vera l'espressione e meno convenzionale la composizione geniale del quadro; laddove il quadro del Benvenuti, di gran lunga meno fecondo, riuscisse, più che una composizione di getto, una combinazione compassata ed artificiale di figure prese da ogni dove e costrette poi dall'artista a rendere un'espressione diversa da quella a cui erano state atteggiate dagli artefici che le avevano primamente trovate.» Forse in queste parole del critico lombardo è l'esagerazione che inevitabilmente accompagna la polemica. Per quanto il Sabatelli s'avvantaggiasse per ispontaneità sul Benvenuti, non riuscì nullameno a svincolarsi dal convenzionale, e n'è testimonio il grande affresco dell' Olimpo che orna una vòlta del Palazzo Pitti, in cui il manierismo si palesa, su per giù, come negli altri lavori dei contemporanei. Questo è sicuro però, che la ricca fantasia e la perizia di disegnatore, gli valsero d'essere ammirato e lodato anche quando l'arte, indirizzata diversamente, rese malvisi i pittori pseudo-classici.

Il Sabatelli visse pure a lungo in Milano e v'insegnò nell'Accademia di Brera. Ma là, col Rossi, con lo Zanoia, col Palagi, col Pacetti l'arte pittorica non batteva diversa strada, come non la batteva a Venezia col Matteini, col Fabris, col Lipparini; a Torino col vecchio Biscarra; con Gaspare Landi a Piacenza; col Martini e col Borghesi a Parma; con lo Zatti a Modena; col Calvi e coi Basoli in Bologna, una delle città allora più decadute di tutta Italia: nè (è ovvio dire) procedevano diversamente gli scultori, tenaci a ripetere senz'altro e a indebolire e a rendere sempre più glaciali le formule del Canova.

Migliore indirizzo tenevano soltanto le scuole d'incisione con Giuseppe Longhi a Milano, con Paolo Toschi a Parma, col Rosaspina a Bologna, col Morghen a Firenze; ma per essere costrette a riprodurre, oltre che opere del periodo neo-classico, anche i capolavori delle nostre Gallerie, si trattenevano spesso nella contemplazione di pitture e sculture del Rinascimento, dalle quali potevano attingere ad ora ad ora energia e vitalità, virtù in genere mancanti all'architettura, che da parte sua si svolse parimenti nell'imitazione delle forme e delle proporzioni greche e romane. Ad ogni modo, seppero pure da quell'imitazione trarre lavori corretti ed eleganti il Vanvitelli, il Carasale, il Paternò-Castello, l'Antolini, il Calderari, il Visentini, il Temanza e diversi altri. Ma, perchè il lungo tema mi spinge,

Io non posso ritrar di tutti appieno.

* * *

La buona tranquillità di tanti artisti, sostenuti da un pubblico che nulla di nuovo pareva più esigere, e delle accademie, intese a dar forma allo spirito dei giovani, dentro lo stampo di idee fissate e pietrificate, non tardò ad esser turbata. Qua e là s'intravvedevano e spuntavano i germi di nuove vegetazioni, non tutte egualmente belle, ma che non avrebbero tardato a togliere alimento alle vecchie piante.

Il primo grido di guerra, riguardo alla scultura, che turbò le anime timorate, in Firenze, fu lanciato da Lorenzo Bartolini.

A lui nato in un piccolo paese, figlio d'un fabbro-ferraio, cresciuto in conflitto col padre brutale, consacratosi all'arte per indomabile passione, nullostante le più feroci ostilità de' suoi e del caso, spintosi arditamente fino a Parigi, quando v'imperava il David, a lui che presto sapeva affrancarsi dallo stile del maestro, a lui tenace per temperamento ed afforzato dalle avversità, spettava d'ingaggiar battaglia.

Tornato in Italia dopo il rovescio della fortuna di Napoleone, e stabilitosi a Carrara, vi sollevò tali ire con la sua rude fermezza, e si mise in così aperto conflitto con gli altri artisti, i quali per lui si vedevano abbandonati dai giovani discepoli, che non s'attese più che un pretesto d'indole politica, perchè gli s'insorgesse e gli si eccitasse contro la plebaglia. Scampato per miracolo, riparò e si stabilì a Firenze. Altre umiliazioni inevitabilmente l'attendevano ivi, prima fra le quali, per un carattere come il suo, l'indifferenza, spinta a tanto che per vivere dovette rimettersi a lavorare in alabastro, egli che a Parigi aveva fatto per la colonna Vendôme il bassorilievo della battaglia di Austerlitz!

Non era il Bartolini l'uomo, nè l'arte sua tale da perire nell'oblìo. Ben presto, infatti, al silenzio geloso degli scultori che lo temevano, si oppose la palese ammirazione degli spregiudicati, dei liberi, e la numerosa fede dei giovani. Le commissioni s'accrebbero, e s'accrebbe quindi il numero e l'importanza delle opere, cui, per lo spazio, non posso nemmeno accennare.

Questo basti dire: ch'egli dal culto delle formule classiche passò a quella della realtà e, coi lavori, e anche, e più forse, con l'ardore polemico insegnò una nuova strada agli artisti italiani. Morto Stefano Ricci, altro freddo canoviano, il Bartolini gli successe nell'insegnamento all'Accademia di Belle Arti. Fu allora che, sovreccitato dalle critiche degli avversari, diede per tema agli scolari Esopo meditante le favole ed introdusse nella scuola, per modello, un gobbo. L'insulto parve soverchio, e gli accademici, più legati al convenzionalismo e alla tradizione, levarono il campo a rumore. Forse egli eccedette «per impeto di reazione»; ma per rizzare una pianta curva da una parte conviene torcerla dall'opposta, e si difese rispondendo per le stampe e lanciando l'ardito assioma: «In natura ogni cosa ha le sue bellezze, relativamente al soggetto che devesi trattare; chiunque è capace d'imitare completamente la natura, sa tutto quello che un artista deve sapere.»

Ribelle al titolo di professore e soddisfatto a quello di maestro, insegnante nell'Accademia allo scopo di abbattere gli accademici, non ebbe rispetto nè pei colleghi nè per gli amici. Un altro insigne artista, Giovanni Duprè, ne lasciò questo ritratto: «Era uomo sdegnoso e spregiudicato, chiamava le cose col suo vero nome e dava dell'asino a chi gli pareva tale, fosse anche stato un senatore o un ministro. Sapeva di essere un grande scultore, e amava che si credesse da tutti; motteggiava sovente, e al frizzo sacrificava non rare volte fin la decenza; liberale e caritatevole, geloso del decoro e dell'educazione della sua famiglia.... Come scultore fu grandissimo; più del precetto giovò il suo esempio; ristorò la scuola ritornandola ai suoi principii del vero; ebbe nemici molti e assiduamente molesti, che non si curava di placare; stuzzicato volgeasi a dritta e a sinistra, sferzando spietatamente e ridendo.»

Mentre poi il rumore delle discussioni, sollevate dal Bartolini intorno alla scultura, si diffondeva per tutta Italia; contro la pittura classica che a sua volta, cominciava a stancare, sorgeva il romanticismo. Dapprima si manifestò modestamente alterando qualche profilo o infrangendo qualche regola secondaria. Poi s'estese al tipo fisionomico, poi alla composizione e quindi agli argomenti, al costume, al colorito, al sentimento. Quegli però che in Italia sembrò segnare la divisione fu l'Hayez. Poco avanti il Cornelius e l'Overbeck, in Roma, avevano cominciato ad eccitare i giovani all'ammirazione dei pittori preraffaelleschi, il primo consigliando l'arte tedesca e specialmente quella del Dürer; l'altro la pittura italiana. Ambedue si accordavano però a lottare contro la pittura pseudo-classica delle Accademie. Ma perchè il moto iniziato dai due illustri pittori tedeschi e dall'Hayez ha il suo vero sviluppo dopo il 1825, così diventa argomento di studio per chi tratti la storia dell'arte nel secondo trentennio di questo secolo.

Certo è questo: che quando il '31 apparve, anche la pittura accennava già a trasformarsi completamente.

* * *

Ma se nessun reciso limite di forma s'ebbe tra l'aprirsi e il chiudersi del periodo, un fatto nullameno grande nella storia dell'arte nostra, un avvenimento dei più ridenti, dei più felici dobbiamo registrare al 1815, la restituzione, in seguito al trattato di quell'anno, di quasi tutti i capolavori che i Francesi in due riprese, nel 1796 e nel 1803, avevano trasferito a Parigi per arricchirne i loro grandi musei. Quanto il patto nel suo complesso è noto, altrettanto è sconosciuto ne' suoi curiosi particolari: perchè nessuno ancora ne raccolse la singolare cronaca.

Non si sa l'avvilimento delle città, che si vedevano spogliate dei loro tesori, del loro orgoglio, della loro gloria; ma si conoscono le voci d'angoscia degli artisti, le adunanze, le proteste dei magistrati; lo sdegno onde si guardarono persone italiane aiutare, come traditori, gli stranieri nella scelta e nel trasporto delle infinite casse. Abbiamo trovate lettere di artisti, così piene di dolore, da commovere ancora. Il povero Rosaspina scriveva all'abate Mazza: «Pur troppo m'ero sentito minacciare la fatalissima perdita. Io mi trovo a tal segno smarrito, che non trovo nè il sonno, nè la volontà di mangiare.... Che rovina per me, che rovescia il corso preparato alla mia vita.»

Ma se l'angoscia e il rimpianto esteriori, sembrano poco più tardi assopirsi nella vicenda dei grandi avvenimenti europei, nulla dalle anime si tolse, come ricordo, come speranza. E, caduto Napoleone, chi primo pensò a rivendicare all'Italia la restituzione di tanti capolavori, fu Antonio Canova, compiendo un'opera patriottica, non inferiore alla grande sua opera artistica.

Il ritorno dei dipinti è d'una poetica giocondità. Temendosi che altre vicende potessero inframettersi, furono ridati verso la fine stessa del 1815, al declinare dell'autunno. Le città dell'Emilia non si rassegnarono ad attendere la primavera, e mandarono artisti ed operai a riscattare il proprio, alcune fino a Parigi, altre fino a Milano. I fatti incalzavano e si temevano sempre nuove sorprese.

Nè s'indugiò là. Sui primi di gennaio una lunga fila di carri, tirati da buoi, partiva da Milano verso Bologna, sollecitando quant'era possibile il cammino. Solo quando raggiunsero la larga via romana di Marco Emilio Lepido, si credettero sicuri. Le campane di Piacenza salutarono il ritorno, e i sacerdoti trassero a benedire, non preoccupati se insieme alle Madonne, alle Maddalene, ai Santi tornavano anche le superbe nudità delle Veneri e degli Adoni. L'arrivo era troppo felice, perchè si potesse lesinar negli osanna! Ma una nube sembrò a un tratto velare la lietezza del popolo piacentino.

Come le madri, che veggono tornare dalla guerra i figli d'altre donne, ma non più i loro propri, si rattristano colpite da nuova ambascia, così i Piacentini sospirarono pensando alla Madonna di San Sisto, la più bella di Raffaello, la più soave del mondo, venduta dai monaci all'Elettore di Sassonia. Essa non tornava più!

I carri intanto procedono. Lungo la strada, i contadini escono dai casolari. Le donne, come sanno che il carico è di imagini sacre, s'inginocchiano lungo la via.

Presso Borgo San Donnino comincia a nevicare. Gli operai, i facchini, i contadini stendono sui carri i loro mantelli, perchè l'umidità e il freddo non scendano a irrigidire le belle membra delle divine creature.

Anche a Parma tutte le campane suonano a distesa e salutano i capolavori del Correggio, reduci dal lungo esilio. L'emozione, allo scoprimento delle casse, stringe l'anima; ma ad un tratto scoppiano voci di meraviglia. A Pietro de Lama sembra che gli angeli ridano più lietamente, e che la divina Maddalena, nella gioia del ritorno, splenda di maggiore bellezza.

Ma il viaggio non è compiuto per tutti i quadri. Uguali successi, uguale tripudio si hanno a Reggio, a Modena, dove punge il ricordo dei cento dipinti ceduti per danaro da Francesco III Estense ad Augusto di Sassonia.

Giunsero infine a Bologna, dove i cultori d'arte e i letterati s'affaccendano nervosi nell'attesa. Molte opere si aspettano, ma il cuore di tutti palpita per la Santa Cecilia di Raffaello. All'arrivo il giubilo suggerisce le arguzie. La Santa si scopre: alcuni, commossi, mostrano gli occhi ridenti nelle lagrime: altri motteggiano compiacendosi che non abbia perduto nella lunga via le canne dell'organo che le pende di mano.

Così anche altrove. Solo la Romagna, nella torbida politica dei Legati e dei cospiratori, non s'occupa dei lavori perduti e li abbandona a Milano, dove anc'oggi si trovano. Non è nelle anime agitate dall'intrigo che germoglia il fiore dell'arte!

* * *

Ed ora un cenno fugace intorno alla musica e al fortunato e brillante melodramma italiano, sórto proprio allora.

Nella seconda metà del secolo XVIII, mentre gl'Italiani procedevano adagio adagio, se pure procedevano, con mille musicisti, la Germania con soli due uomini, il Gluck e il Mozart, ci fu innanzi. Un passo ancora, e il Beethoven, movendo appunto dal Mozart, raggiungerà la cima dell'Olimpo musicale.

Dapprima però anche il Mozart seguì la scuola napoletana, ma con la scorta del Bach, dell'Händel, del Gluck e dell'Haydn s'avanzò rapidamente per correre il proprio cammino col Matrimonio di Figaro, col Don Giovanni e col Flauto Magico. Egli quindi modificò sostanzialmente il melodramma italiano e contribuì col Gluck a ristorare il tedesco.

Il Weber pure muove dal Mozart, la musica del quale induce all'imitazione anche il Paër, che ne dà segni indubbi nei lavori che compie per Praga e per Dresda.

Il Paër resta però ultimo della vecchia scuola a spadroneggiare nel campo presso che deserto, essendo il Cimarosa già morto e il Paisiello già vecchio.

Fu allora che apparve sulla scena italiana un'opera intitolata Tancredi, d'un giovine di ventun anni che si chiamava Gioacchino Rossini, rinfrancatosi a sua volta nella musica del Mozart, del Mayer, poi in quella del Beethoven.

Con lui s'inizia e si fonda la grande scuola melodrammatica italiana, che sollevò Vincenzo Bellini e il Donizetti sopra la falange dei minori come Mercadante, Pacini, Lauro Rossi, Luigi Ricci, Pietro Raimondi, ec.

A molto di ciò che il Mayer aveva accennato riguardo alla decadenza della musica a' suoi tempi, ossia alla trivialità o monotonia delle cantilene, alla seccaggine delle cadenze, alle sonate di gola, alla profusione inconcludente dei gorgheggi che distruggono ogni nobiltà melodica, ogni idea di ritmo, allo strazio della prosodia, il Rossini non riuscì certo a porre totalmente argine, ma col Guglielmo Tell affermò e fermò un glorioso risveglio, che ingenuamente si vorrebbe da taluni attribuire al mediocre Zingarelli.

Il Guglielmo Tell è stato chiamato benissimo un capolavoro di pace e di serenità, come Il Barbier di Siviglia lo è di arguzia e di vita. Nel Guglielmo Tell sono solenni gli uomini e le cose. «Per l'elevatezza e la grandiosità — così il Bellaigue — questa musica è ben quella delle montagne; quella dei laghi per la freschezza e la purezza. I misteri delle foreste sono in essa, splendente come il giorno, dolce come la notte. Gli eroi che ha cantato sono morti, l'erba del Ruth non ha conservate le tracce dei loro passi, nè le acque il solco dei loro remi; ma la natura che ha cantato e che rimane, non cesserà mai d'unire alla sua eterna bellezza, la bellezza del capolavoro dove si specchia e si riconosce.»

Nel Rossini trionfò ciò che appunto mancava agli scultori e ai pittori del tempo: la spontaneità, il genio. «Per divenire immortale egli non fece che nascere.» Non è un eroe poderoso e conquistatore nell'indomabile volontà come il Bach, come il Beethoven, come il Wagner; ma una schietta natura, che cantando risponde ad un bisogno innato.

Egli passa, scrivendo musica, da città in città; quando gli mancano tre o quattro mesi alla consegna di un'opera, trascorre in ozio i primi e si riduce all'ultimo, e la compie senza stento. Lavora negli alberghi rumorosi, nelle vetture, durante i lunghi viaggi; di primavera al sole, d'inverno a letto, e se una pagina gli cade a terra, preferisce ricominciarla, che discendere per raccoglierla. Egli non si preoccupa d'evitare l'arte vecchia, come di tentarne una nuova. Canta perchè lo spirito gli canta nel cuore e nella mente.

Vincenzo Bellini, anima melodica per eccellenza, fu spesso assorto nella musa beethoveniana e ne lasciò tracce evidenti nelle sue opere. Egli ebbe più senso di modernità, che non abbiano oggi tanti maestri, nonostante la riforma gloriosa di Riccardo Wagner. Con l'arte sua, parallela quasi allo scoppiettío e allo scintillío rossiniano, si fa strada il romanticismo malinconico e dolente, che aveva già trovata qualche nota nel Paisiello e che nel gentilissimo Bellini doveva pienamente emergere.

Però l'opera del Bellini non è riformatrice come quella del Rossini.

Il Meyerbeer, altro poderoso ingegno teatrale, risentì poi l'influenza del Pesarese. Presso il dispotico Metternich era in favore il melodramma italiano, cosicchè l'opera del maestro di Berlino fu accolta con freddezza. Si dice che il Salieri, pur valutando a dovere i meriti del futuro autore degli Ugonotti, notasse che gli mancava una vera conoscenza della voce umana, e lo consigliasse a venire in Italia. Il Meyerbeer era contrario al melodramma italiano, quale si presentava in Vienna con le opere del Pavesi, del Niccolini e del Broschi. Nullameno decise di visitare la nostra Penisola. A Venezia sentì prima il Tancredi e ne restò ammirato tanto, che sotto la sua influenza scrisse Romilda e Costanza per la Tivaroni. Rimase in seguito molto in Italia e tenne dietro con attenzione ai prodotti rossiniani. Il Weber non gradì molto questo apparente traviamento del Meyerbeer, cui invece provenne l'utile di fondere buone qualità italiane e germaniche.

Ai trionfi teatrali di questi tre grandi, s'unirono presto quelli del Donizetti, il quale, a sua volta, ebbe due maniere: la prima basata sul tipo rossiniano, la seconda dominata dalla stessa sua indole sommamente melodica. La parte istrumentale delle sue opere non fu però originale; non riuscì quasi mai a levarsi dalla fisonomia peculiare alle orchestre del Rossini e del Bellini.

Il Rossini, compiuto nel 1829 il Guglielmo Tell, depose risolutamente la penna d'operista senza che altre lusinghe di gloria e di ricchezza (delle quali già abbondava) più lo rimovessero dal suo proposito. Due anni dopo, e precisamente nel '31, si rappresentarono, per la prima volta, La Sonnambula e la Norma, le due più soavi produzioni del genio italiano. Ma il Bellini moriva il 24 settembre del 1835, e il giorno preciso del primo anniversario dalla sua morte, a soli ventott'anni, si spegneva la divina Maria Felicita Malibran, maggiore interprete di quei lavori. Il cielo dunque

Silenzio pose a quelle dolci lire,

E fece quïetar le sante corde.

Ma proprio negli stessi anni tentava i primi passi la ricca musa verdiana e, a Lipsia, un giovane compositore scriveva le prime pagine di una musica, animata dal fuoco della rivoluzione, che nel campo dell'arte non sarebbe stata da meno della rivoluzione politica nella vita del paese.

INDICE

E. Panzacchi. — Il Romanticismo Pag. 5

R. Bonfadini. — Alessandro Manzoni 37

M. Serao. — L'Italia di Stendhal 73

G. Colombo. — Volta e le scoperte scientifiche 101

C. Ricci. — Musica e Belle Arti 133