SCRITTORI D'ITALIA
VITTORIO ALFIERI TRAGEDIE A CURA DI NICOLA BRUSCOLI VOLUME TERZO
BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 1947
SOFONISBA
Cosí quest'alta donna a morte venne; che vedendosi giunta in forza altrui, morire innanzi, che servir, sostenne.
PETRARCA, Trionfo d'Amore, cap. II.
PERSONAGGI
SOFONISBA. SIFACE. MASSINISSA. SCIPIONE. Soldati Romani. Soldati Numidi.
Scena, il campo di Scipione in Affrica.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
SIFACE FRA CENTURIONI ROMANI.
Finché rieda Scipione, almen lasciarmi con me stesso potreste.—Il piè, la destra, gravi ha di ferro; al roman campo in mezzo Siface stassi; ogni fuggir gli è tolto: gli sia concesso il non vedervi, almeno.
SCENA SECONDA
SIFACE.
Duro a soffrirsi il soldatesco orgoglio! Se il lor duce in superbia anco gli avanza, come in vero valor… Ma no; mi è noto Scipione: in Cirta, entro mia reggia, io l'ebbi ospite giá: molto era umano, e mite… Stolto Siface! or, che favelli? Allora Scipione a te, per mendicare ajuti, venía; né allor, tuo vincitore egli era.— Ahi, vinto re! preso in battaglia, e tratto ferito in ceppi entro al nemico campo, ancor tu vivi?… Oh Sofonisba! a quali strette mi traggi? Or, che piú omai non debbo, né viver voglio, a tal son io, che morte dar non mi possa?… Ma il fragor di trombe giá mi annunzia Scipione. Eccolo. Oh vista!
SCENA TERZA
SCIPIONE, SIFACE.
SCIP. Resti ogni uomo in disparte. All'infelice re fora insulto ogni corteggio mio.— Siface, ove pur mai duol si potesse allevíar di vinto re, mi udresti parole or muover di pietá: ma nota m'è del tuo cor l'altezza, a cui novella piaga sarebbe ogni pietoso detto. Quind'io non altro omai farò, che trarti con la mia mano stessa i mal portati ferri: sgravar questa tua destra, io 'l deggio. Memore ancor son io, che questa destra, e d'amistade e d'alleanza in pegno, tu mi porgevi in Cirta.—Ma, che veggo? Sdegni il mio ufficio? e torvo immoto il ciglio nel suolo affiggi? Ah! se in battaglia preso Scipion ti avesse, ei d'altri lacci avvinto non ti avria, che de' tuoi, col rimembrarti la tua giurata fede. Or dunque, cedi (ten priego) il ferreo pondo di te indegno; cedilo a me; lo sconsolato viso innalza; e in un, mira Scipione in volto.
SIFACE Scipione in volto? io 'l rimirai da presso, con fermo viso, piú volte in battaglia: arbitra d'ogni cosa or vuol fortuna, ch'io piú mirar non l'osi. In questo campo sol di Siface il morto corpo addursi dai Romani dovea: ma, non è sempre dato ai forti il morire; ed io quí prova trista ne sono; ahi misero!—Dovute quindi a me son queste catene; e quindi son nel limo dannati ora i miei sguardi; ch'io agli occhi mai del vincitor nemico ergerli non potrei.
SCIP. Non è dei vinti Scipion nemico; e benché a lui fortuna solo finor l'aspetto lieto aprisse, non per prosperi eventi ei va superbo, come non mai vil per gli avversi ei fora.— Cortese forza io far ti vo'. Disciolti ecco i tuoi ceppi indegni: a solo a solo, pari con pari, or con Scipion favella.
SIFACE Umano parli, e il sei. Se l'esser vinto soffribil fosse a un re, dall'armi tue esserlo, il fora. Ma, che posso io dirti, che della prisca mia grandezza, e a un tempo della presente mia miseria, degno parer ti possa? E a te, che resta a dirmi, ch'io giá nol sappia?
SCIP. Io? ti dirò, che grande, che magnanimo tanto ancor ti estimo, ch'io non dubito chiedere a te stesso del tuo cangiarti la cagion verace.
SIFACE Fuor che a fedele esperto amico, il cuore non suolsi aprir; ma o radi molto, o nulli, dei tali ai re ne tocca. Indegno io forse di amici veri, abbenché re, non era: e, in prova, aprirti ora il mio core io voglio. A te, nemico generoso, io 'l posso, meglio che a finto amico. Odimi dunque.— Roma è tua culla, ed Affricano io nasco: tu cittadin d'alta cittade sei; di numerosa nazíon possente io giá fui re. Frapposto mare il tuo dal mio terren partiva: io mai non posi in vostra Italia il piede; a mano armata stai nell'Affrica tu. Cartagin pria, poscia l'Affrica intera, è in voi lusinga di soggiogare. A me vicina, e quindi ora a vicenda amica, ora nemica, Cartagin era: e benché abborra anch'ella, al par che Roma, i re; di orgoglio e possa men soverchiante il popol suo, che il vostro, men da me pure era abborrito. Offeso è il cuor d'un re tacitamente sempre da ogni libero popolo; qual ira destar gli de' quel ch'è con lui superbo?— Eccoti piano il tutto: odiarvi a morte, come insolenti predator stranieri, era il mio cor: fede, amistá giurarvi, dopo le ispane alte vittorie vostre, era il mio senno.
SCIP. Ma il valor dell'armi Romane a prova conosciuto avevi; perché tua fede non serbar tu a Roma?
SIFACE —E che dirá Scipion, se il ver gli narro? Scipion, quel grande, il di cui core, albergo d'amistá, di pietá, d'ogni sublime umano affetto, al solo amore ognora impenetrabil fu.—Lusinghe, amore, irresistibil possa di beltade, quí m'han condotto; a te il confesso; e in dirlo, non io nel volto di rossor sfavillo. Te cittadino, amor di gloria sprona a superare i cittadin tuoi pari; quindi all'altro sei sordo: a un re, che in trono eguali a se non ha, tal sprone manca; quindi alla gloria sordo il rende ogni altra sua passíone. A un re infelice il credi; ch'ei verace esser può. Tu, da quel grande che sei, piú ch'odio o spregio, pietá tranne; ch'io da Scipion soltanto non la sdegno.
SCIP. D'amor le fiamme io non provai, ma immensa la sua possa rispetto, e temo anch'io. Spesso il fuggii; che antiveder suoi strali si den, cui tardo ogni rimedio è poscia. Di Sofonisba diffidar dovevi, pria di vederla, tu: di Asdrubal figlia ell'era in somma, entro a Cartagin nata, d'odio imbevuta in un col latte, e d'ira, contro a Roma: e se a noi dall'util tuo eri allacciato allor, ben chiaro il danno, che tornar ten dovea nel darne il tergo, tu preveder potevi.
SIFACE E nulla conti quella, che l'uom sí spesso inganna e regge; la speme? Io l'ebbi, che ad Asdrubal stretto di tai legami, entro a Cartagin nullo piú di me vi potria: veduta poscia di Sofonisba la bellezza, io vinto, io preso, io servo allor, piú che nol sono or nel tuo campo, d'uno errar nell'altro cadendo andai. Per Sofonisba il regno or perdo io, sí; la fama, e di me stesso la stima io perdo: e, il crederesti? in vita pur non mi duol di rimaner brev'ora, fin ch'io lei sappia in securtá. Non temo per lei l'infamia; è d'alto core anch'ella; né viva mai dietro al tuo carro avvinta, piú che Siface, irne potrebbe: or odi, non i sensi di un re, di stolto amante odi or le smanie. Una gelosa rabbia m'arde e consuma, e la mia morte allunga. Nella mia reggia, in Cirta, omai giá forse dalle armi vostre vinta Sofonisba, in preda ell'è del mio mortal nemico, di Massinissa. A lui promessa pria sposa, che a me; forse pur ei ne ardea… A un tal pensiero, inesplicabil sento disperato furor, che in me s'indonna. Morire io brama, e morir deggio; e mille vie del morire, ancor che inerme, io tengo: ma, lasso me! morir non so, né posso, fin ch'io non odo il suo destino. In preda a Massinissa, deh! (se a te pur cale il mio pregar) deh! non conceder mai, ch'ella in preda a lui cada… Oh cielo!… Avvampo d'ira…—Ma fuor del mio regal decoro, dove mi tragge il furor mio?—Null'altro mi resta a dirti. Alla mia tenda intanto soffri ch'io mi ritragga: il duolo indegno nasconder vo'. Fuorché Scipion, non debbe null'uom vedermi entro il romano campo in men che regio conturbato aspetto.
SCENA QUARTA
SCIPIONE.
Misero re! Pari a pietá mi desta maraviglia il suo dir.—Ma, forte duolmi ciò, ch'ei mi accenna. A Massinissa in Cirta, espugnata oramai, per certo occorsa Sofonisba sará: s'ei pur ne' lacci d'amor cadesse? e se in sua fe per Roma ei vacillasse?… O guerrier prode, e caro a me, non men che necessario a Roma, io per te tremo.—Oh quali cure acerbe ti sovrastan, Scipione! Oh! quanto costa a umano cor l'usar la forza ai vinti nemici stessi! E s'io mai deggio un giorno contro l'amico usarla?… Ah! questo, in vero, è il sol dover di capitan, ch'io abborra.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
SOFONISBA, MASSINISSA, SOLDATI NUMIDI.
MASSIN. Donna, deh! quí t'arresta: ecco del duce il padiglione: udito, o visto appena Scipione avrai, che dal tuo cor disgombro ogni sospetto fia.
SOFON. Né ancor sei pago, o Massinissa? alta, terribil prova d'amor ti do, figlia d'Asdrubal io, nel venir teco entro al romano campo: ma, ch'io sostenga l'abborrito aspetto del roman duce?… ah! troppo vuoi…
MASSIN. Ma questo campo ove stiamo, il puoi Numida al pari che Romano appellare. Un forte stuolo de' miei v'ha stanza, ed io di guerra stovvi non inutile arnese. Omai tu figlia piú d'Asdrubal non sei, né di Siface vedova piú, da che promessa sposa di Massinissa sei.
SOFON. Deh! non ti acciechi l'amistá troppa, che a Scipion ti stringe. Qual ch'egli sia costui, Romano è sempre; quindi ei pospone a Roma tutto; e a nullo dei nemici di Roma esser può mite. Non la sua rabbia contro a me fia paga di aver vinto ed ucciso e vilipeso Siface, no: Cirta predata ed arsa, e i Masséssuli tutti al duro giogo tratti, no, sazia in lui non han la sete ambizíosa e cruda. Or, nel vedersi quasi in sue mani Sofonisba, a dritto da lui tenuta, qual io son, nemica implacabil di Roma; or, nel superbo suo cuor, non vuoi che l'oltraggiosa speme nutra ei di trarmi al carro avvinta in Roma? Pur, ciò non temo; ancor che donna…
MASSIN. Oh cielo! Che pensi tu? fin che di sangue stilla mi riman nelle vene, esser ciò puote? Ah! no; nol credo; or l'odio tuo t'inganna; tu Scipion non conosci.
SOFON. Odio, ed amore, or mi acciecan del pari. Io quí venirne mai non dovea: ma pur, securo loco nel mondo omai non rimaneami nullo. Piacque al mio cor di seguitarti, e al solo mio cor credei; ma il mio dover, mio senno, mia fama, in Cirta mi volean sepolta fra le rovine sue.
MASSIN. Ti duol d'avermi seguito? Oimè! dunque il mio viver duolti.
SOFON. Sol mi dorrebbe ora il morir non tua: e a ciò mi esponi. O Massinissa, il sai, ch'io fra le fiamme di mia reggia in Cirta, infra le stragi del mio popol vinto, udir da te parole osai d'amore… Ahi lassa me!… giá da gran tempo, al grido di tua virtú ch'Affrica tutta empiva, io di te presa; io, dai piú teneri anni a te dal padre destinata; a un tempo sposa ed amante a te crescea. Nemico aspro di Roma eri tu allor, com'io: piacque poscia a Cartagine, ed al padre, ch'io di Siface fossi; e a te pur piacque farti ai Romani amico: allor disgiunti c'ebbe il destino…
MASSIN. Ah! riuniti, il giuro, siamo or per sempre. O avrai tu meco regno, o morte io teco.—L'aver io dappresso vista e provata la virtú sovrana del gran Scipione, e il non aver mai vista la tua beltá, fur le cagioni allora, ch'io per Roma pugnassi. Ognor nemico stato m'era Siface; ei del mio trono m'avea spogliato: io di fortuna avversa agli estremi ridotto, amico niuno, fuor che Scipione, al mondo non trovava; e a lui mi strinse indissolubil nodo di gratitudin sacra. Io largamente compri ho di Roma i beneficj poscia, col mio sangue, pugnando in sua difesa: ma i beneficj di Scipion, sua pura alta amistá, coll'amistá soltanto, e coll'omaggio a sue virtú, si ponno pagar da me. Piú di Scipion, te sola amo; te sola or piú di lui; ch'io t'amo piú di me stesso assai.
SOFON. Giurami dunque, per darmen prova che di noi sia degna, giurami or tu, che mai d'Affrica trarre non lascerai me viva.
MASSIN. Inutil fia. Pur, poiché il vuoi, per questo brando io il giuro. T'avrei condotta io quí, se quí in periglio io ti credessi? Infra i Numídi miei potea secura entro il mio regno trarti: ma quí mi chiaman l'armi; io dal tuo fianco me disveller non posso: Affrica e Roma saper pur denno, che tu sei mia sposa: quind'io, nemico d'ogni velo ed arte, tale or mostrarti voglio.
SOFON. Omai secura nel tuo giurare, e nel proposto mio, mi acqueto… Ma, vien gente: infra i Numídi, alle tue tende io mi ritraggo intanto.
MASSIN. Poiché a te piace, il fa. Scipion si avanza; parlargli io vo'. Raggiungerotti in breve.
SCENA SECONDA
SCIPIONE, MASSINISSA.
MASSIN. Scipione, io mai piú lieto non ti abbraccio, che quando io riedo vincitor: piú degno mi pare allor d'esser di te.
SCIP. Gran parte dell'armi nostre, o Massinissa, omai fatto sei tu; di gloria fabro a un tempo a me tu sei: quindi sa il ciel, s'io t'amo; e tu lo sai.—Ma, dimmi: (al roman duce or non favelli; al tuo Scipion favelli) riedi tu, dimmi, vincitor davvero?
MASSIN. Cirta espugnata, e per mia man distrutta; rotto e disperso ogni guerriero avanzo del morto re…
SCIP. Che parli? e ignori ancora, che respira Siface?…
MASSIN. Oh ciel! che ascolto?..
SCIP. Spento in battaglia, è ver, la fama il volle. Ei nella pugna ferito cadea, ma non grave era il colpo; e preso quindi da Lelio, entro al mio campo ei prigioniero…
MASSIN. Vivo è Siface? in questo campo?…
SCIP. Il frutto migliore egli è della vittoria nostra.— Ma, che fia? Tu ten duoli?…
MASSIN. Oh!… che mai… sento!… Dal mio stupor… Ma… tu, perché mi accogli in sí freddo contegno?… Entro il tuo petto che mai rinserri?
SCIP. Ah Massinissa! in petto tu bensí chiudi, e al tuo fedele amico tu, sí, nascondi un grande arcano. In volto, piú che stupor, duolo e furore a prova ti si pingono: or, donde in te potrebbe ciò nascer mai, se ostacolo a tue mire il risorto Siface omai non fosse? Ah Massinissa!—Io tutto so; mel dice il tacer tuo: per te null'altro al mondo io temea. La tua gloria, e in un la mia, oscurata esser può da colei sola, ch'ora in campo traesti. In Cirta al fianco io non ti stava: all'amistá lontana quindi anteposto hai tu d'amar le fiamme. Ma pur, di te non io mi dolgo; ah! prova larga ben or mi dai d'amistá vera, trar non volendo la tua preda altrove, che nel mio campo; e nel voler deporre in cor soltanto al tuo Scipion le fere tempeste del tuo core.
MASSIN. —Inaspettato mi giunge il viver di Siface.—Io sposa Sofonisba sperai: promessa fummi, pria che data a Siface: ei mal la seppe difender contro all'armi nostre; e nulla a un vinto re, preso in battaglia, resta. Pur, benché vinto, è d'alto cor Siface; a lungo omai, son certo, all'onta sua ei non vuol sopravvivere.—Ma, sia di lui che vuole, odi, o Scipion, miei sensi.— Caldo e verace amico a lunga prova tu conosciuto hai Massinissa: or sappi, che al par verace e ancor piú ardente amante, nullo ostacolo ei cura. In cor numida non entra mai tiepida fiamma: o sposo io sarò dell'amata Sofonisba, o con lei spento. Entro al tuo campo io stesso mi affrettai di condurla: era quí solo pago appieno il mio cor; quí ad alta voce gloria, onore, amistá, virtú mi appella; senza tradire l'amor mio, quí spero tutti adempir gl'incarchi miei. Dal duce, e in un dal fido amico, udir vogl'io, come Cartagin debellare affatto si debba omai; come possanza e lustro debba accrescersi a Roma, e gloria a noi; e come, in fin, me far felice io possa.
SCIP. Piú che d'unico figlio, a me (tel giuro) duol del tuo cieco giovenile errore, che travíar ti fa. La gloria nostra, la possanza di Roma, la imminente total rovina di Cartago, e l'alta felicitá tua vera, in noi ciò tutto stava finora; anzi che vinto in Cirta tu soggiacessi a femminile assalto: ma, tutto a te tolto hai tu stesso, e a noi, coll'amar tuo fatale.—Ma no; sordo esser non puoi di tua virtude al grido; esser non puoi contra Siface istesso, ingiusto tu; né mai crudel né ingrato al sol tuo amico esser tu puoi. La vita di Siface or condanna, e rompe, e annulla questo amar tuo: né mai…
MASSIN. Né mai?… Quest'oggi sará mia sposa Sofonisba; io 'l giuro. E se protrar col viver suo Siface vuol la sua infamia, e il dolor mio, me debbe ei stesso quí, di propria man, col suo brando svenarmi; o per mia man svenato ei cader oggi.
SCIP. È prigioniero, è inerme fra noi Siface; e a Massinissa in core vil pensiero non cape.—Or, tu vaneggi; ma certo io son, che se al tuo sguardo occorre quell'infelice re, tu, generoso, dall'insultarlo lungi, ah! sí, tu primo ne sentirai pietá.—Ma, posto ancora che in modo alcun, sia qual si voglia, spento Siface cada, e possessor tranquillo quindi sii tu di Sofonisba; a quale partito allor pensi appigliarti?
MASSIN. —A Roma, e al mio Scipione eternamente avvinto, nulla mi può…
SCIP. Ma, piú di Roma, or dimmi, Sofonisba non ami?
MASSIN. —Io?… Ciò non voglio saper, per ora.
SCIP. Oh sfortunato amico! Io giá 'l so, pria di te. So, che posposto l'util tuo vero, e la ragione, e i sacri di gratitudin, d'amistá, di fede severi nomi, a rio destino in preda precipitar ti vuoi. Non puossi a lungo al fianco aver d'Asdrubale la figlia, e rimaner di Roma amico, e farsi distruttor di Cartagine. Compiango caldamente tua sorte. Ai re nemici di Roma, il sai, qual fera sorte avvenga, o tosto, o tardi. I detti miei non sono minacce, no; deh! tu nol creder: tolga, tolga il cielo, che mai del giusto sdegno di Roma in te, ministro farmi io voglia! Questo mio brando, che a riporti in seggio valse, ah! no mai, col non minor tuo brando, ch'or tante aggiunge alte vittorie a Roma, al paragon, no, non verrá: la punta pria volgeronne al petto mio: ma, dimmi: son Roma io forse? un cittadin privato io son di Roma, il sai; né manca ad essa consiglio, ed armi, e capitani. A queste spiagge altro duce, con ugual fortuna, con maggior senno, e con minor pietade, verrá in mia vece; e rammentar faratti la mal serbata tua fede giurata.
MASSIN. Or, vuoi tu ch'uom, ch'è di Scipion l'amico, al terror di futuro e incerto danno doni ciò, ch'egli all'amistá pur niega? Mal mi conosci.—Io ti domando, in somma, se di Cirta espugnata col mio ferro, co' miei Numidi, e col lor sangue e il mio; se di Cirta appartiene oggi la preda a Roma, o a me: se sposa mia promessa, da me sol Sofonisba or quí, condotta, s'ella è regina quí, s'ella m'è sposa, o s'ella è pur schiava di Roma.
SCIP. —Ell'era, e ancor (pur troppo!) di Siface è moglie.
MASSIN. T'intendo. Oh rabbia!… E speri tu?…
SCIP. La scelta, Massinissa, a te lascio: inerme io sempre mi aggiro quí; da' tuoi Numídi farmi svenar tu puoi; piantarmi in cor tuo brando, tu stesso il puoi; ma, se tu me non sveni, ir non ti lascio a tua rovina. Ov'abbi cor di voler tu la rovina mia, io vi corro per te. Serba tua preda: Roma, il senato, accusator mi udranno di me stesso; dirò, che alla privata amistá nostra e il ben di Roma, e il tuo, sagrificar mi piacque: e in premio avronne dell'amistá ch'ebbi per te non vera, la vera infamia mia.
MASSIN. Scipion; m'è cruda piú mille volte or l'amistá tua troppa, che non lo foran le minacce, e l'armi… Misero me!… mi squarci il cuor.—Ma, trarne nulla può il dardo radicato e saldo, che amor v'infisse. Alla insanabil piaga dittamo e tosco il tuo parlare a un tempo mi porge: ahi! questo è martír nuovo…—O ingrato fammi del tutto, e qual nemico intero trattami; o meco, qual pietoso amico, servi al mio mal… Pianger mi vedi; e il pianto rattener puoi?—Che dico? ahi vil! che ardisco dire al cospetto io di Scipione?—Insano finor mi hai visto, or non piú, no.—Fra breve saprá Scipion, di Roma il duce, a quale immutabil partito al fin si appiglia il re numida Massinissa.
SCIP. Ah! m'odi…
SCENA TERZA
SCIPIONE.
Ei mi s'invola! Il seguirò: lasciarlo a se stesso non vuolsi; a mal suo grado salvar si debbe: è d'alto core; il merta.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
SOFONISBA.
Misera me! che mai sará? qual chiude feroce arcano or Massinissa in petto? Che mai gli disse il reo Scipione? Ah! sempre, sempre il previdi, che fatale a entrambi questo campo sarebbe.—Oh Massinissa!… Or, di pianto pietoso pregni gli occhi, me stai mirando, e favellar non m'osi… Or, con tremanti ed interrotti accenti, tua pur mi chiami: or, disperati e biechi ferocemente asciutti gli occhi torci da me sdegnoso; e su la ignuda terra ti prostendi anelante; e sole invochi con grida orrende le furie infernali… Ah! nel mio petto le tue furie istesse trasfuse hai giá.—Presagio in cor di quanto minaccia a noi questo Scipione, io l'ebbi: tutto antivedo; e in un, di nulla io temo. Or ch'ei, qual debbe, aperto emmi nemico, or io Scipion vo' udire, e far ch'egli oda di Sofonisba i sensi… Ma, chi veggo venir ver me? Fors'io vaneggio?… Oh cielo! Vivo Siface?… in questo campo?… Oh vista!
SCENA SECONDA
SIFACE, SOFONISBA.
SIFACE Alto stupor pinto hai nel volto, o donna, nel rivedermi?—Esser doveva io spento: benigna in ciò la fama ebbi, ma avversa la fortuna, pur troppo!
SOFON. Oh inaspettata terribil vista! Or mi è palese appieno l'orrendo arcano…
SIFACE Infra te stessa parli? A me favella. Or, mirami; son quello, quel tuo consorte io son, che, a te posposto e regno e onor, privo d'entrambi, avvinto infra romani lacci, ancor su l'orlo della bramata tomba il piè rattengo, per saper di tua sorte.
SOFON. Oh detti!… Ahi! dove, dove mi ascondo?…
SIFACE Ah! di vergogna, e a un tratto di morte l'orme (oh cielo) impresse io veggio sul tuo smarrito volto? Assai mi parla il tuo silenzio atro profondo: io leggo dentro al tuo cor la orribile battaglia di affetti mille. Ma, da me rampogna niuna udrai tu: benché oltraggiato, e in ceppi, e da tutti deserto, ancor pur sento di te piú assai, che non di me, pietade. Conosci or, donna, s'io t'amai.—Mi è noto, che il comando del padre, e l'odio acerbo che per Roma hai nel petto, eran tue scorte al mio talamo sole; amor, no mai, tu per me non avevi. Io stesso adduco le tue discolpe, il vedi. Io so, che d'altra non bassa fiamma ardevi tu, giá pria d'essermi sposa. Amor per prova intendo: sua irresistibil forza, il furor suo, tutto conosco: e, mal mio grado, io quindi amai te sempre. A riamarmi astretta tu dalle umane e sacre leggi, amarmi non ti fu pur possibil mai.—Gelosa rabbia mi squarcia a brani a brani il core: vorrei vendetta; e, abbenché vinto e inerme, dell'abborrito mio rival pur farla quí ancor potrei… Ma, tu trionfi, o donna: piú che geloso ancora, amante io vero, col mio morir salva lasciarti or voglio.— Perdonarti, fremendo; a orribil vita esser rimasto, odiandola, e soltanto per rivederti; ardentemente a un tempo lieta con altri desiarti, e spenta; or, come sola de' miei mali infausta fonte, esecrarti; or, come il ben ch'io avessi unico al mondo, piangendo adorarti… Ecco, fra quali agitatrici Erinni, per te strascino gli ultimi momenti del viver lungo e obbrobríoso mio.
SOFON. …Ardirò pur, ma con tremante voce, l'alma mia disvelarti.—A dir, non molto mi avanza: in mio favor, troppo dicesti tu, generoso: a morir sol mi avanza, degnamente, qual moglie di Siface, qual d'Asdrubale figlia.—Al suon, che sparse del tuo morir la fama, è ver, ch'io ardiva la mia destra promettere; ma data non l'ho: tu vivi, e di Siface io sono. Le tue vendette, e in un le mie, null'uomo contra Roma eseguir meglio potea, che Massinissa. Di tal speme io cieca, e presa in un (nol niegherò) del suo chiaro valor, toglierlo a Roma, e farlo di Cartagine scudo ebb'io disegno. Ma, Siface respira? al suo destino, qual ch'ei lo elegga, inseparabil io compagna riedo, e non del tutto indegna.
SIFACE L'alto proposto tuo, grande è sollievo a re infelice, e a non amato sposo; ma ad un amante oltre ogni dire ardente, qual io ti sono, ei fia supplizio estremo. Giá da gran tempo entro al mio core ho fermo il mio destin, cui mai divider meco, no, mai non dei. Preghi e comandi ascolta, donna, or dunque da me… Ma Scipio a noi veggio venirne: a lui soltanto al mondo bramo indrizzar gli ultimi accenti miei.
SCENA TERZA
SCIPIONE, SOFONISBA, SIFACE.
SIFACE Odimi, o Scipio.—Innanzi a te, sparisce il simulare; innanzi a te, di niuna mia debolezza il vergognarmi è dato: tu, benché niuna in tuo gran cor ne alberghi, grande qual sei, tutte in altrui le intendi, e umanamente le compiangi.—È questa, (mirala or ben) la cagion prima è questa d'ogni mio danno; e in lei pur sola io posi ogni mio affetto. Non mi hai visto ancora tremar per me; per altri or scendo ai preghi; a forza io 'l fo…
SOFON. Non per la figlia al certo di Asdrúbal preghi. Al par di te, secura fors'io non sto?—Che puoi Scipion, tu farmi? Nata in Cartagin io, nemica a Roma, e prigioniera entro il romano campo, io pur secura sto…
SCIP. Noi tutti, o donna, pone in duri frangenti or la fatale bizzarra possa della sorte. Io lieto certo non son dei danni vostri: e indarno meco fai pompa tu dell'odio innato tuo contra Roma. Ancor che Annibal crudo da tutta Italia ogni pietá sbandisca, non io perciò contro ai nemici atroce odio racchiudo. Ove con lor mi è forza a battaglia venirne, io, vincitori, gl'invidio e ammiro ognor; vinti, gli ajuto, e li compiango.
SIFACE Ed a te solo io quindi, ciò che a null'uom non avrei detto io mai, dir mi affido…
SOFON. Che dir? Tu, per te nulla certo non chiedi al vincitore; io niego nulla da lui ricever mai; né pure la sua pietá: ch'altro havvi a dire? Innanzi al gran Scipion, chi vile osa mostrarsi? Ma, s'anca vile io fossi, il sol vedermi davanti agli occhi il distruttor de' miei, l'apportator d'ultimi danni all'alta patria mia, ciò sol farmi arder potrebbe or di magnanim'ira. Al par nemica e di Scipione, ancor che umano ei sia, mi professo, e di Roma: a farmen degna, deggio in Scipion piú maraviglia or dunque, che non pietá, destare.
SCIP. Ogni alma eccelsa, ch'abbia avversa la sorte, a me fa quasi abborrir la mia prospera.
SOFON. Funesta gioja, ma gioja pure, in sen mi brilla, or che mi è dato al fine aprir miei sensi al primier dei Romani. Intender tutti i misti affetti, a cui mio core è in preda, tu solo il puoi, che cittadino ed uomo del par sei sommo.—A chi in Cartagin culla ebbe, non men che a chi sul Tebro nacque, la patria sta, sovra ogni cosa al mondo, fitta nell'alma. In me, bench'io pur donna, femminili pensier non ebber loco, se non secondo. Amai chi meglio odiava voi, superbi Romani. Un dí nemico era a voi Massinissa; e al suono allora di sue guerriere giovanili imprese io m'accendea. Siface, allor di Roma era, non so se ligio, o amico.—Or questi son gli ultimi miei detti: a Scipio parlo, e a te Siface: il simular non giova; che il cor dell'uom voi conoscete entrambi.— Dei primi nostri affetti assai profonde in noi rimangon l'orme: udendo io quindi, che l'ucciso Siface intera palma dava ai Romani; e Massinissa a un tempo occorrendomi agli occhi; in mio pensiero disegno io fei (forse il dettava il core) di distorlo da Roma, e di lui scudo a Cartagine fare, e a me. Nemica quí fra l'aquile vostre io dunque or venni: e l'alta speme, che in mio cor s'è fitta di ribellarvi Massinissa, in bando fatto m'ha porre assai riguardi; io 'l sento; e colpevol men taccio; e ad alta ammenda son presta io giá. Forse, con possa ignota, mi strascinava ver voi la mia sorte a dar di me non basso un saggio: ed ecco, campo or mi s'apre a dimostrare a Roma, qual alma ha in sen donna in Cartagin nata.
SIFACE L'inaspettato viver mio, ben veggo, ad ogni mira tua solo e fatale inciampo egli è: ma un'ombra vana, e breve, fia il viver mio. Cessò mia vera vita, dal punto in cui mia libertá cessava: a che restassi, il sai. Sublimi sforzi, da te gli apprendo. Ancor che orrenda piaga sien tuoi detti al mio core, a me soltanto dovevi aprirti; a vendicarmi degna io ti lasciava; e lascio…
SOFON. A vendicarci, non dubitarne, altri rimane. Ogni uomo il suo dover quí compia; il mio si cangia, al rivivere tuo.—Svelato appieno t'ho del mio core i piú nascosi affetti: mi udia Scipion; cui vil nemica io fora, se in altra guisa io favellato avessi.
SCIP. Franco e sublime il tuo parlar, mi è prova, che me nemico non volgare estimi. Deh, pur potessi!…
SOFON. Assai diss'io.—Siface, or ritrarci dobbiamo…
SIFACE In breve, io seguo i passi tuoi…
SOFON. No: dal tuo fianco omai non mi scompagno.
SIFACE E abbandonarmi pure dovrai…
SOFON. Nol voglio; e alla presenza io 'l giuro del gran Scipione.—Or via; deh! meco vieni: alle orribili tante atre tempeste che ci squarciano il core, un breve sfogo vuolsi conceder pure. Il pianto a forza finor rattenni, io donna: al tuo cospetto no, non si piange, o Scipio: ma natura vuol suo tributo al fine. Egli è da forte il sopportar le avversitá; ma fora vil stupidezza il non sentirne il carco.
SIFACE Misero me! deh! perché vissi io tanto?..
SCENA QUARTA
SCIPIONE.
Sublime donna ella è costei: Romana degna sarebbe.—Io 'l pianto a stento affreno.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
MASSINISSA, SOLDATI NUMIDI.
MASSIN. Tutti a' miei cenni, all'annottar, sien presti, co' lor destrieri; e taciti si appiattino dov'io ti dissi, o Bocar.—Tu, mio fido Guludda, intanto ad ogni evento in pronto tieni il fatal mio nappo. È il solo usbergo d'ogni re, che nemico o amico fassi della esecrabil Roma.—Itene; e nulla di ciò traspiri.
SCENA SECONDA
MASSINISSA.
O Massinissa, all'arte scender tu dei, per sostener tuo dritto?… Mai per me nol farei; ma in salvo porre io deggio pur chi nel periglio ho posto, o perir seco.—In questo luogo, e a stento, breve udíenza ottengo?… Oh ciel! cangiata ella è dunque del tutto?… Eccola… Io tremo.
SCENA TERZA
SOFONISBA, MASSINISSA.
SOFON. Io non credei piú rivederti; e in vero piú nol dovea: ma il volle (il crederesti?) Siface istesso…
MASSIN. E fu pietade, o scherno?
SOFON. Grandezza ell'era; e, a ridestare in noi ogni alto senso, è troppa. Ei stesso teco vuolsi abboccar: ma ch'io il preceda impone; e che…
MASSIN. Tal vista io sostener?…
SOFON. Men grande sei tu di lui? Teme ei la tua?
MASSIN. Né posso dirti pria…?
SOFON. Che dirai, che udire io 'l possa?
MASSIN. Nuovo martire invan mi dai: va' dirti, ch'io quí ti trassi, e che sottrarten voglio, ad ogni costo, io stesso.
SOFON. A te mi diedi io stessa, il sai; da te mi tolgo io stessa. Funesto a me il comanda alto dovere: ma, da ogni mal sottrarmi, in me son certa, seguitando Siface. Ad esser forte, dunque apprendi or da me. Di Roma è il campo questo: Scipion vi sta; tu, re, vi stai: ed io vi sto, d'Asdrúbal figlia: or dimmi; vuoi forse tu che amar volgar sia il nostro?
MASSIN. Ah! di ben altra fiamma arde il mio core, che non il tuo… Grandezza e gloria e fama, tutto in te sola io pongo… Esser dei mia; pera il mio regno; intero pera il mondo;… tu mia sarai. Perigli omai, né danni, non conosco, né temo. A tutto io presto, fuor che a perderti, sono; e pria…
SOFON. Ti basti d'aver tu sol tutto il mio core… Indegno non ten mostrar… Ma, che dich'io? la vista, la sola vista di Siface inerme, vinto, e cattivo, eppur sereno e forte, fia bastante a tornarti ora in te stesso.
MASSIN. Misero me!… Se almen potessi io solo!… Ma, di voi non son io men generoso; ben altro amante io sono: e nobil prova darne mi appresto…
SOFON. Ecco Siface.
MASSIN. —Udirmi anch'ei potrá; né di spregiarmi ardire avrete voi.
SCENA QUARTA
SIFACE, SOFONISBA, MASSINISSA.
MASSIN. Siface, al tuo cospetto or si appresenta il tuo mortal nemico; ma in tale stato il vedi, ch'ei non merta nullo tuo sdegno omai.
SIFACE D'un re fra ceppi stolto fora ogni sdegno. A me davanti se appresentato il mio rival si fosse mentr'io brando cingeva, allor mostrargli potuto avrei furor non vano: or altro a me non lascia la crudel mia sorte, che fermo volto e imperturbabil core. Quindi or pacato mi udrai favellarti.
MASSIN. Il disperato mio dolore immenso a te ristoro esser pur dee non lieve: odi or dunque, qual sia.—Mirami: in ceppi, piú inerme assai di te, piú vinto e ignudo di senno io sono, e assai men re. Giá tolto mi avevi il regno tu, ma allor per tanto tu vincitor di me non eri: ardente, instancabil nemico io risorgeva piú fero ognor dalle sconfitte mie; fin che a vicenda io vincitor tornato, il mio riebbi, e a te il tuo regno io tolsi. Ma godi tu, trionfa; intera palma di me ti dá questa sublime donna, ch'or ben due volte a Massinissa hai tolta.
SOFON. E vuoi, ch'io pur del debil tuo coraggio arrossisca…?
MASSIN. Non diedi a voi per anco del mio coraggio prova: ei pur fia pari al dolor mio.—Voi state (io ben lo veggo) securi in voi, per la prefissa morte. Degno è d'ambo il proposto; ed io l'intendo quant'altri; e a voi, ciascun per se, conviensi. Tu, prigioniero re, non vuoi, né il dei, viver piú omai: tu, di Siface moglie, e di Asdrubale figlia, in faccia a Roma pompa vuoi far d'intrepid'alma ed alta; né affetto ascolti, altro che l'odio e l'ira. Ma Siface, che t'ama; ei, che all'intera rovina sua per te, per te soltanto, s'è tratto; ei ch'alto e nobil cor, non meno che infiammato, rinserra; oh ciel! deh!… come, come può udir, che l'amata sua donna abbia a perire?…
SOFON. E potrebb'egli or tormi dal mio dover, s'anco il volesse?
SIFACE E donde noto esser puovvi il pensier mio?
MASSIN. Guidato io da furie ben altre, omai tacerti il mio non posso; né cangiare io 'l voglio, se pria spento non cado. Ad ogni costo salvare io voglio or Sofonisba; e salva ella (il comprendo) esser non vuol, né il puote, se non è salvo anco Siface.—In sella giá i miei Numidi stanno: al sorger primo della vicina notte, ove tu vogli, Siface, un d'essi fingerti, a te giuro d'esserti scorta io stesso, e illeso trarti con Sofonisba tua, fino alle porte di Cartagine vostra. Ivi tu gente, armi, e cavalli adunerai: né vinto egli è un re mai, cui libertá pur resta. Abbandonar queste abborrite insegne di Roma io voglio; e per Cartagin io, e per l'Affrica nostra, e per te forse, d'ora in poi pugnerò. Qualor tu poscia regno e possanza ricovrato avrai, sí che venirne al paragon del brando re potrem noi con re, col brando allora ti chiederò questa adorata donna; ch'or non per altro a te pur rendo io stesso, che per sottrarla a misera immatura orribil morte.
SOFON. Ineseguibil cosa proponi, e invano…
SIFACE Ei d'alto cor fa fede; me non offende: anzi, a propor mi sprona ben altro un mezzo, assai piú certo; e fia piú lieve a lui, men di Siface indegno; e in un…
MASSIN. Voi, domi dalla sorte avversa, ineseguibil ciò che a me fia lieve, stimate or forse; ma, se onor vi sprona, meco ardite e tentate. Ultimo, e sempre certo partito egli è il morir; né tolto ai forti è mai: ma a tutti noi, per ora, necessario ei non è. Scipion deluso, sol coll'alba sorgente il fuggir nostro saprá; fors'egli umano e giusto in core, rispetterá miei dritti: ad ogni guisa, mercé i ratti corsier, sarem coll'alba lontani assai. Ma, se inseguirci pure si attenta alcun, giuro che il brando io pria a Scipio istesso immergerò nel petto, che a lui rendervi mai. Questa mia spada, che me salvò gia tante volte; questa, onde il mio regno e in un l'altrui riebbi, non fia bastante a porvi entro a Cartago in salvo entrambi? Or, deh! per poco cedi; cedi, o Siface, alla fortuna: in sommo puoi ritornare ancor; né cosa al mondo tu mi dovrai. Nemici fummo; e in breve, di bel nuovo il saremo; il sol periglio di cosa amata al par da noi, fa muto l'odio e lo sdegno in noi. Supplice m'odi parlarti; in te la tua salvezza è posta. Ma se pur crudo il tuo nemico abborri piú che non ami la tua donna, intera abbine almen pria di morir vendetta. Ecco ignudo il mio brando; in me il ritorci.— O me uccidi, o me segui.
SIFACE Oh Massinissa!… Infra il bollor della feroce immensa tua passíon, raggio di speme ancora traluce a te; vinto non sei, né inerme, né prigioniero: or tu d'altr'occhio quindi le umane cose miri. Ma, si asconde sotto serena imperturbatil fronte, entro il mio cor, piú strazíato assai del tuo, si asconde tal funesta fiamma, tal dolor, tal furor, cui vengon manco i detti appieno… A riamato amante ignoti sono i miei martirj… Ah! crude tanto or son piú le mie gelose serpi, quanto piú veggio Sofonisba intenta a smentire magnanima gli affetti del piagato suo core. A duro sforzo il suo coraggio indomito mi tragge; ma degno sforzo.—Ambizíon, vendetta, gelosa rabbia, ogni furor mio ceda al solo amore.—Or, piú che a mezzo il nodo è sciolto giá. Donna, mi ascolta. Io t'amo, per te soltanto, e non per me: ti voglio quindi pria sposa ad altri dare io stesso, pria che per me vederti estinta invano.
SOFON. Che ascolto? Oimè!… Ch'osi tu dirmi?…
SIFACE I preghi, spero, udrai tu del tuo consorte: e dove non bastin preghi, gli ultimi comandi n'eseguirai.—Di Massinissa sposa tu quí venisti:… a Massinissa sposa io quí ti rendo.
SOFON. Ah! no…
SIFACE Tu, che salvarla non tua potevi, or che l'ho fatta io tua, meglio il potrai.—Per sempre, addio. Seguirmi nullo ardisca di voi.
SCENA QUINTA
MASSINISSA, SOFONISBA.
SOFON. No, non v'ha forza, che me rattenga or dal seguirti.—Addio,… Massinissa…
SCENA SESTA
MASSINISSA.
Oh dolor!… Ma, breve è il tempo; antivenir voglionsi entrambi… Oh cielo! Io temo sol d'esser di lor men ratto.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
SCIPIONE, CENTURIONI.
SCIP. Giá tutto io so. Nella imminente notte, ciascun di voi delle romane tende a guardia vegli: ma comando espresso vi do, che ostacol nullo, insulto nullo non si faccia ai Numídi. Itene; e queta passi ogni cosa.
SCENA SECONDA
SCIPIONE.
O Massinissa ingrato, il tuo furor contro al mio solo petto sfogar dovrassi; o in me, qual onda a scoglio, infranger si dovrá.—Ma il passo incerto, ecco, ei ver me turbato porta: ei forse sa il destin di Siface… Oh qual mi prende pietá di lui!—Deh! vieni a me; deh! vieni…..
SCENA TERZA
SCIPIONE, MASSINISSA, SOLDATO NUMIDA IN DISPARTE.
MASSIN. Quí mi attendi, o Guludda.—A questo incontro non era io presto.
SCIP. E che? sfuggir mi vuoi? Io son pur sempre il tuo Scipione: indarno cerchi or te stesso altrove; io sol ti posso rendere a te.
MASSIN. Fuor di me stesso io m'era, certo, in quel dí, che di mia vita e onore traffico infame, onde acquistar catene, io fea con voi. Ma, la dovuta ammenda faronne io forse; e fia sublime. Allora vedrai, che appien tornato in me son io.
SCIP. Giá tel dissi; svenarmi, o Massinissa, anco tu puoi: ma, fin ch'io spiro, è forza che tu mi ascolti.
MASSIN. A ciò mi manca or tempo…
SCIP. Breve or tempo hai da ciò.—Ma omai, che speri? Ogni tua trama è a me palese: stanno furtivamente in armi entro lor tende i tuoi Numídi; impreso hai di sottrarre Siface, e in un…
MASSIN. Se tanto sai; se l'arti d'indagator tiranno a tanto hai spinte, ch'anco fra' miei chi mi tradisca hai compro; a compier l'opra anche la forza aggiungi, poiché piú armati hai tu. Presto me vedi a morir, sempre; a mi cangiar, non mai.
SCIP. Scipion tu oltraggi; ei tel perdona. Ah! teco spada adoprar null'altra io vo', che il vero; e col ver vincerotti. La tua stessa Sofonisba, che t'ama, (il crederesti?) ella stessa svelare a me tue trame appieno or dianzi fea…
MASSIN. Che ascolto? oh cielo!…
SCIP. Sí, Massinissa; io te lo giuro. Or dianzi, per espresso comando di Siface, fu dal suo padiglione ella respinta; quindi e rabbia e dolore a tal l'han tratta, ch'ogni disegno tuo scoprir mi fea.— Ma invano io 'l seppi: in tuo poter tuttora sta, se il vuoi, di rapirla. Abbiati pure suo difensor Cartagine; nol vieto: avronne io 'l danno; io, che l'amico e insieme la fama perderò. Ma, il ciel, deh! voglia, che a te maggior poscia non tocchi il danno!
MASSIN. E Sofonisba istessa,… a favor tuo… vuol contra me?.. Creder nol posso. Or donde?..
SCIP. Ella, maggior del suo destino assai, prova d'amor darti or ben altra intende. Necessitá fa forza anco ai piú prodi: al suo gran cor sprone si aggiunge il forte ultimo esempio di Siface.
MASSIN. Or quali ambigui detti?.. Di qual prova parli? Qual di Siface esemplo?…
SCIP. E che? nol sai? Giunto è Siface entro sua tenda appena, qual folgor ratto ecco ei si avventa al brando del centurion, che a guardia stavvi; in terra l'elsa ei ne pianta, ed a furor sovr'esso si precipita tutto…
MASSIN. Oh, mille volte felice lui! dalla esecrabil Roma cosí sottratto…
SCIP. Spirando, egli impone, ch'ivi l'ingresso a Sofonisba a forza vietato venga.
MASSIN. Ed ella?… Ahi! ch'io ben veggo del di lei stato appien l'orror… Ma troppo dal destin di Siface è lunge il mio. Vinto ei da te, di propria man si svena: io, non vinto per anco, esser vo' spento da un roman brando, ma col brando in pugno.
SCIP. Ah! no; perir tu al par di lor non dei. Piú che il morire, assai di te piú degno, sublime sforzo ora il tuo viver fia.
MASSIN. Viver senz'essa?… Ah! non son io da tanto… Ma, ch'io salvarla in nessun modo?… Io voglio vederla ancor, sola una volta.
SCIP. Ah! certo, gli alti tuoi sensi a ridestarti in petto, piú ch'io non vaglio, il suo parlar varratti.— Eccola; starsi alla mia tenda appresso vuol ella omai; d'Affrica intera agli occhi, di Roma agli occhi, ogni dover suo crudo ella compier disegna. Odila; seco Scipion ti lascia: in ambo voi si affida il tuo Scipion; ch'esser di lei men grande, tu nol potresti.
SCENA QUARTA
SOFONISBA, SCIPIONE, MASSINISSA.
SOFON. Ah! ferma il piede. Io vengo a te, Scipione; e tu da me ti togli?
SCIP. Sacro dover vuol che pomposo rogo al morto re si appresti…
SOFON. Almen, quí tosto riedi; ten prego. Mia perpetua stanza fia questa omai: quí d'aspettarti io giuro.
SCENA QUINTA
SOFONISBA, MASSINISSA.
MASSIN. Perfida! ed anco all'inumano orgoglio il tradimento aggiungi?
SOFON. Il tradimento?
MASSIN. Il tradimento, sí: mentr'io mi appresto a voi salvare, a morir io per voi, a Scipio sveli il mio pensier tu stessa?
SOFON. —Siface seco non mi volle estinta.
MASSIN. Meco salva ei ti volle.
SOFON. Ei giá riebbe sua libertá; quella ch'io cerco, e avrommi.— Teco sottrarmi dal romano campo, nol poss'io, se non perdo appien mia fama. Di vero amor troppo mi amasti e m'ami, per salvarmi a tal costo: io, degna troppo. son del tuo amor, per consentirtel mai. Null'altro io dunque, in rivelar tue mire, ho tolto a te, che la funesta possa di tradir la mia fama e l'onor tuo.
MASSIN. Nulla mi hai tolto; assai t'inganni: ancora tutto imprender poss'io: rivi di sangue scorrer farò: versare il mio vo' tutto, pria che schiava lasciarti…
SOFON. E son io schiava? Tal mi reputi or tu?
MASSIN. Di Roma in mano ti stai…
SOFON. Di Roma? Io di me stessa in mano per anco stommi: o in mano tua, se in core regal pietá per me tu ancor rinserri.
MASSIN. Inorridir mi fai… Sovra il tuo aspetto, di risoluta morte alta foriera veggo, una orribil securtá… Ma, trarti…
SOFON. Tutto fia vano: al mio voler, che figlio è del dovere in me, forza non havvi che a resistere vaglia. È la mia morte necessaria, immutabile, vicina; e fia libera, spero; ancor che inerme io sia del tutto; ancor ch'io, stolta, in Cirta l'amico sol dei vinti re lasciassi, il mio fido veleno; ancor che un sacro solenne giuro di sottrarmi a Roma dal labro udissi del mio stesso amante;… giuro, cui sparso ha tosto all'aure il vento. Fra quest'aquile altere ancor regina, figlia ancora d'Asdrubale, secura in me medesma io quí non meno stommi, che se in Cartago, o se in mia reggia io stessi.— Ma, tu non parli?… disperati sguardi pregni di pianto affiggi al suolo?… Ah! credi, che il mio dolor si agguaglia al tuo…
MASSIN. Diverso n'è assai l'effetto: io, di coraggio privo, men che donna rimango; e tu…
SOFON. Diverso lo stato nostro è assai: ma, non l'è il core… Credilo a me: bench'io non pianga, io sento strapparmi il cor: donna son io; né pompa d'alma viril fo teco: ma non resta partito a me nessuno, altro che morte. S'io men ti amassi, entro a Cartagin forse ti avria seguíto, e di mia fama a costo avrei coll'armi tue vendetta breve di Roma avuta: ma per me non volli porti a inutile rischio. È omai maturo il cader di Cartagine: discorde citta corrotta, ah! mal resister puote a Roma intera ed una. Avrei pur troppi giorni vissuto, se la patria mia strugger vedessi; e te con essa andarne, per mia cagione, in precipizio. A Roma fido serbarti, e al gran Scipion (qual dei) amico grato; in gran possanza alzarti; a tua vera virtú dar largo il campo; ciò tutto or puote, e sol mia morte il puote. Piú che il mio ben, mi sforza il tuo…
MASSIN. Mi credi dunque sí vil, ch'io a te sorviver osi?
SOFON. Maggior di me ti voglio: esserlo quindi tu dei, col sopravvivermi: ed in nome della tua fama, a te il comando io prima. Vergogna or fora a te il morir; che solo vi ti trarrebbe amore: a me vergogna il viver fora, a cui potria sforzarme il solo amore. È necessario, il sai, il mio morire: a me il giurasti; e ancora sariami grato di tua man tal dono: ma non puoi tormel tu, per quanto il nieghi. In questo luogo, al campo in faccia, in muto immobil atto, ancor tre giorni interi ch'io aggiunga a questo, in cui né d'acqua un sorso libai, vittoria a me daran di Roma. Vedi s'è in te pietá, cosí lasciarmi a morte lunga, allor che breve e degna giurasti procacciarmela… Ahi me stolta! che in te solo affidandomi, quí venni…
MASSIN. Tu dunque hai fermo il morir nostro…
SOFON. Il mio. Se insano tu, contro a mia voglia espressa, l'arme in te volgi; odi or minaccia fera, e l'affronta, se ardisci; io viva in Roma trarre mi lascio, e di mia infamia a parte il tuo nome porrò… Deh! pria che rieda a noi Scipione, in libertade appieno tornami or tu; se non sei tu spergiuro.
MASSIN. Che chiedi?… oh ciel!… Del brando mio non posso armar tua mano… Incerto il colpo…
SOFON. Il brando vuol mano, è ver, usa a trattarlo. Un nappo di velen ratto al femminil mio ardire meglio confassi. Il tuo fedel Guludda vegg'io non lungi; ei per te stesso il reca sempre con se: chiamalo; il voglio.
MASSIN. —Oh giorno!— Guludda, a me quel nappo.—Or va, mi aspetta alle mie tende.—È questo dunque, è questo il don primier, l'ultimo pegno a un tempo dell'immenso mio amor, che a viva forza tu vuoi da me?.. Pur troppo (io 'l veggo) in vita tu non rimani, a nessun patto; e a lunga morte stentata lasciarti non posso.— Non piangerò,… poiché non piangi: a ciglio asciutto, a te la feral tazza io stesso, ecco, appresento… A patto sol, che in fondo mia parte io n'abbia…
SOFON. E tu l'avrai, qual merti. Or dell'alto amor mio sei degno al fine. Donami dunque il nappo.
MASSIN. Oh ciel! mi trema la mano, il core…
SOFON. A che indugiare? è forza, pria che giunga Scipione…
MASSIN. Eccoti il nappo. Ahi! che feci? me misero!…
SOFON. Consunto ho il licor tutto: e giá Scipion quí riede.
MASSIN. Cosí m'inganni? Un brando ancor mi avanza; e seguirotti.
(Sta per trafiggersi; Scipione robustamente afferrandogli il braccio, lo tien costretto.)
SCENA SESTA
SCIPIONE, MASSINISSA, SOFONISBA.
SCIP. Ah! no; fin ch'io respiro…
MASSIN. Ahi traditor! dentro al tuo petto io dunque della uccisa mia donna avrò vendetta.
SCIP. Eccoti inerme il petto mio: la destra sprigionerotti, affin che me tu sveni; ad altro, invan lo speri.
SOFON. O Massinissa, ti abborrisco se omai…
SCIP. Me sol, me solo uccider puoi; ma fin ch'io vivo, il ferro non torcerai nel petto tuo.
MASSIN. —Rientro al fine in me.—Scipion, tutto mi hai tolto; perfin l'altezza de' miei sensi.
SOFON. Ingrato!… Puoi tu offender Scipione? Ei mi concede, come a Siface giá, libera morte; mentre forse ei vietarcela potea: a viva forza ei ti sottragge all'onta di morte imbelle obbrobriosa: e ardisci, ingrato ahi! tu, Scipio insultar? Deh! cedi, cedi a Scipion; fratello, amico, padre egli è per te.
MASSIN. Lasciami omai: tu invano il furor mio rattieni. Morte,… morte… io pur…
SOFON. Deh! Scipio… ah! nol lasciare: altrove fuor della vista mia traggilo a forza. Ei nato è grande, e il tuo sublime esemplo il tornerá pur grande: a Roma, al mondo sua debolezza ascondi… Io… giá… mi sento gelar le vene, intorpidir la lingua.— A lui non do,… per non strappargli il core,… l'estremo addio.—Deh! va: fuor lo strascina… ten prego;… e me… lascia or morir,… qual debbe d'Asdrubal figlia, entro al… romano campo.
MASSIN. Ah!… Dalla rabbia, dal dolor… mi è tolta… ogni mia possa… Io… respirare… appena,… non che… ferir…
SCIP. Vieni: amichevol forza usarti vo':
(Strascinandolo a forza verso le tende.)
non vo' lasciarti io mai… né mai di vita il tuo dolor trarratti, se il tuo Scipione teco ei non uccide.